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Full text of "Lo cunto de li cunti (Il Pentamerone): Testo conforme alla prima stampa del MDCXXXIV - VI;"

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/I^ 


BIBLIOTECA  NAPOLETANA 

DI 

STORIA  E  LETTERATURA 

EDITA  DA  Benedetto  Croce 


IL 


LO   CUNTO  DE  LI  CUNTI 
I. 


ì 


LO  CUNTO  DE  LI  CUNTI 

(IL  PENTAMERONE) 

DI 

GIAMBATTISTA  BASILE 

TESTO    CONFORME   ALLA    PRIMA   STAMPA 
DEL   MDC XXXIV- VI 

CON    INTRODUZIONE    E    NOTE 
d: 

BENEDETTO   CROCE 

VOL.  L 


NAPOLI 

MOCCCXCI 


Trani,  poi  tipi  dol  Cav.  V.  Vccch  i. 


•>(• 


A  Bartolommeo  Capasso. 


«  E  a  te  cresca  lo  Cielo 

«  La  sanetate  e  l'anne; 

«  Ga  n'ommo  accessi  buono, 

«  N'ommo  accossi  saccente, 

«  Deve  stare  a  lo  munno  eternamente  !  » 

G.  B.  BASILE,  Muse  NapoL,  Egl.  VI. 


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AVVISO. 

Per  impreveduti  ritardi  tipografici,  non  è  ancora  com- 
piuta la  stampa  de  Le  rime  del  Charìteo,  a  cura  del 
Dott.  Erasmo  Pèrcopo,  che  doveva  formare  il  primo  vo- 
lume della  presente  collezione.  Mando  innanzi  questo, 
clie  era  annunziato  in  secondo  luogo,  al  quale  conservo 
il  n.  II,  perchè  fra  poco  il  volume,  curato  dal  Pèrcopo, 
verrà  a  prendere  il  posto,  che  prima  gli  era  stato  asse- 
gnato. 

Napoli,  aprile,  1891.  ^,„.^ 


gftLIST.\UG2 


Bexeietto  Croce. 


INTRODUZIONE 


^^ 


Il  Cavalier  Basile  fu  un  letterato  napoletano  del  prin- 
cipio del  secolo  XVII,  del  periodo  letterario  appunto, 
nel  quale  riluce,  astro  maggiore,  Giambattista  Marino.  E 
fu  uno  dei  satelliti  di  quell'astro;  e  gli  altri  si  chiama- 
vano allora  a  Napoli  Giulio  Cesare  Capaccio,  Giambatti- 
sta Manso,  Gian  Francesco  Maia  Materdona,  Ettore  Pi- 
gnatelli,  Orazio  Comite,  Francesco  de  Petris,  Andrea 
Santamaria,  Aniello  Palomba,  Tommaso  Carafa,  Gio.  Vin- 
cenzo Imperiale,  Antonio  Basso,  ecc.  ecc.  :  tutti  canori 
cigni,  che,  con  luminosi  inchiostri,  facevano  guerra  alla 
morte,  nelle  Accademie  degli  Oziosi  o  degli  Incauti.  E, 
con  tutti  questi  suoi  compagni  di  gloria  passata,  sarebbe 
sepolto  nell'oblio,  nonostanti  le  sue  Ode,  e  Madrigali,  e 
Favole  marittime,  e  Poemi  heroici,  che  piacevano  tanto 
ai  suoi  contemporanei,  se  non  lo  salvassero  alcuni  liber- 
coli di  opere  giocose,  che  egli  non  fece  a  tempo,  o  forse, 
non  curò  di  pubblicare.  In  queste  opere  giocose  il  gusto 
pili  largo  e  vario   dei  nostri  tempi,  ha  trovato  nuovi  e 


X  INTRODUZIONE 

originali  e  felici  motivi  artistici;  e,  nella  principale  di 
esse,  la  nuova  scienza  filologica,  Lia  riconosciuto  un  pre- 
zioso documento  pei  suoi  studii.  Cosi  gli  uomini,  e  spe- 
cialmente gli  artisti,  valgono,  non  per  quello  che  vogliono 
valere,  ma  per  quel  valore,  che  la  natura  ha  posto  nel 
loro  ingegno  e  nel  loro  carattere,  e  del  quale  essi,  spesso, 
sono  inconscii.  E  così,  per  un  altro  verso,  le  opere  umane 
acquistano  talora  importanza  per  effetto  di  qualche  for- 
tunata combinazione.  Entrambi  questi  furono  i  casi  del 
Basile;  il  quale  è  ammirato  da  noi  per  ragioni  artistiche, 
cui  egli  certo  non  pensava;  come  molto  meno  poteva 
pensare  che,  pigliando  a  raccontare  fiabe  popolari  nel  sei- 
cento, avrebbe  fatto  una  raccolta  di  documenti  novelli- 
tici  da  porsi  accanto  ai  Kinder  und  Ilaitsmàrchen  dei 
fratelli  Grimm. 


Vita  del  Basile.  —  Opere  italiane. 

È  incerto  l'anno  della  nascita  del  Basile;  meno  incerto, 
quantunque  anche  controverso,  il  luogo,  dove  nacque.  Ma 
le  più  probabili  congetture  menano  a  concbiudere  cbe 
egli  dovè  nascere  a  Napoli,  e  forse  nel  villaggio  di  Po- 
silipo,  intorno  al  1575,  poco  più,  poco  meno^ 

È  ignoto  il  nome  di  suo  padre;  sua  madre  si  chiamava 
Cornelia  Daniele,  Egli  ebbe  varii  fratelli  e  sorelle.  I  fra- 
telli si  chiamarono  Lelio,  Francesco,  e  un  altro,  forse, 
Giuseppe;  le  sorelle,  Vittoria,  Margherita,  e  la  famosa 
Adriana,  la  bella  Adriana.  Del  suo  parentado  sappiamo 
anche  che  era  suo  cugino,  per  parte  di  madre,  il  padre 
Alfonso  Daniele,  dell'ordine  agostiniano-. 

Poco  sappiamo  della  sua  fanciullezza.  Sembra  che  fosse 
compagno  di  scuola  di  Giulio  Cesare  Cortese;  perchè 
questi,  in  un  luogo  di  un  suo  poema,  lo  nomina,  dicendolo  : 

chillo, 
Che  la  fortuna  amico  me  facette 
Da  che  jeva  a  la  scola,  peccerillo^! 


1  Vedi  appendici  Aq  B,  sulla  patria,  e  la  data  di  nascita  del  Basile. 

2  V.  append.   C,  sulla  famiglia  del  Basile. 

3  Viaggio  eli  Parnaso,  IV,  40.  Delle  opere   del  Cortese  cito  l'ediz. 
del  1621,  per  la  quale  v.  più  oltre  cap.  IT,  di  questa  Introd. 


Xn  INTRODUZIONE 

Il  Basile,  poi,  in  una  sua  favola  marittima,  fa  dire  a 
un  marinaro  Nifeo,  che  adombra  senza  dubbio  lui  stesso  : 

Né  tanto  i  miei  primi  anni 

Spesi  in  apprender  l'arti 

Di  sagace  nocchiere,  e  come  e  quando 

Debbian  le  navi  altere  uscir  dal  porto, 

O  star  legate  in  più  sicuro  lido, 

Quando  (sic),  poi  ch'io  fui  giunto 

Nel  mezzo  del  camin  di  nostra  vita, 

Nuovo  spirto  m'accese 

A  miglior  studio;  e,  benché  augel  palustre 

Io  mi  conobbi,  pur  tentai  di  pormi 

Coi  più  bei  cigni  al  paro *. 

Certo,  a  nessuno  verrà  in  mente  di  pensare  che  il  Ba- 
sile, da  giovanetto,  avesse  studiato  l'arte  marinaresca.  La 
prima  parte  di  questo  brano  è  da  riferirsi  evidentemente 
al  personaggio  di  Nifeo.  Resta  la  seconda:  gli  studi  di 
poesia,  e  le  alte  speranze,  che,  giovane,  gli  riempivano 
il  petto. 

Ma  il  Basile,  povero  di  fortuna,  non  era  in  grado  di 
coltivar  tranquillamente  gli  studi  prediletti.  Per  lui  la 
Musa  era,  si,  la  Dea  celeste  dei  poeti,  ma  doveva  essere 
anche  la  brava  vacca  da  provvederlo  di  burro,  secondo 
il  noto  epigramma  dolio  Schiller! 

Dello  lotte,  ch'ebbe  a  sostenere  nella  sua  giovinezza, 
ci  resta  il  documento,  se  non  la  notizia  precisa,  in  varii 
luoghi  delle  sue  opere: 


»  Le  avventurose  disavventure,  A.  ni,  s.  V.  Gito  dalla  3.»  ediz.  Man- 
tova, per  gli  Osanni,  1613,  che  ha  molte  varianti  sulle  precedenti. 


INTRODUZIONE  XIII 

Ma,  quando  io  pii'i  credea 

Ch'avvalorarmi  in  conquistar  gli  allori 

Dovesse  la  mia  patria,  io  vidi  allora 

Chi  più  amarmi  dovea  pormi  in  non  cale: 

Dura  condizion  di  nostra  etade, 

Che  di  suoi  figli  stessi 

L'alte  virtù  la  propia  madre  abborre^! 

E  altrove  parla  «  delle  tempeste,  clie  nei  primi  anni 
della  sua  giovinezza  gli  mosse  ingiuriosa  fortuna  »  ^. 

La  patria  non  proteggeva,  anzi  perseguitava  colle  armi 
dell'invidia,  i  figli,  che  le  avrebbero  fatto  onore;  e  il 
giovane  Basile  lasciò  Napoli: 

Ond'io  fuggir  disposi 

L'ingrate  rive,  e  gir  cercando  altrove 

La  mia  fortuna  3. 

S'era  sulla  fine  del  secolo.  Una  delle  sorelle  del  Ba- 
sile, l'Andriana  o  Adriana,  aveva  sposato  da  poco  un 
gentiluomo  calabrese,  chiamato  Muzio  Barone;  e  la  sua 
fama  di  grande  cantatrice  era  ancóra  latente.  Le  altre 
due  sorelle  erano  ancora  quasi  fanciulle.  Di  uno  dei  suoi 
fratelli  sappiamo  cbe  era  dottore  in  legge  *.  L'amico  Giu- 
lio Cesare  Cortese  nel  1600  andava  a  riempire  a  Trani 
l'ufficio  di  assessore,  concessogli  dal  Conte  di  Lemos  ^. 


i  Le  avventurose  disavventure,  1.  e. 

2  Ode,  Napoli,  1627,  p.  36. 

3  Le  avventurose  disavventure,  l.  e. 

*  Ademollo,  La  bella  Adriana  e  le  altre  virtuose  del  suo  tempo 
alla  Corte  di  Mantova,  Città  di  Castello,  Lapi,  188S;  p.  117. 
5  V.  più  innanzi  cap.  II. 


XIV  nfTRODUZIONE 

n  Basile,  dunque,  parti;  e  saranno  stati  forse  senti- 
menti studiati  dal  vero,  sulla  sua  propria  esperienza, 
quelli  ch'egli  mette  in  bocca  a  un  personaggio  di  un  suo 
cunto,  costretto,  come  lui,  a  lasciar  Napoli.  Cienzo  sale 
sul  suo  cavallo,  s'avvia  fuori  la  città,  e,  passata  Porta 
Capuana,  si  volge  indietro,  malinconico,  dicendo  :  «  Tie- 
nete,  ca  te  lasso,  bello  Napole  mio!  Chi  sa  se  v' aggio 
da  vedere  chiù,  mautune  de  zuccaro  e  mura  de  pasta 
reale?,  dove  le  prete  so  de  manna  ncuorpo,  li  trave  de 
cannamele,  le  porte  e  finestre  de  pizze  sfogliate!  » 

E  la  sua  fantasia  passa  a  rassegna  i  luoghi  più  ricchi 
e  deliziosi  e  voluttuosi  di  Napoli,  e  Porto,  e  Pendino,  e 
Piazza  Larga,  e  Piazza  dell'Olmo,  e  la  Loggia  di  Ge- 
nova, e  i  Lanzieri,  e  Porcella,  e  la  regione  dei  Colsi,  e  il 
Pertuso,  e  il  Lavinaro,  e  il  Mercato,  e  la  bella  Chiaia*! 

Lasciata  Napoli,  andò  girando  per  quasi  tutte  le  città 
d'Italia: 

Quante  cittadi  gloriose  e  belle 

Sembran  nel  ciel  d'Esperia  ardenti  stelle 2! 


*■  Lo   Cunto  de  II  cunti,  J.  I,  T.  VII. 

*  Non  sappiamo  se  fu  in  questo  viaggio  che  capitò  a  Vicenza:  tra 
le  sue  poesie  troviamo  un  madrigale  per  V Armida,  tragedia  del  vi- 
centino Ludovico  AleardL,  e  un  altro  «  per  l'illustrissimi  signori  Ac- 
cademici Olimpici  »,  che  paiono  accennare  a  una  dimora  in  quella 
città,  prima  del  1609,  nel  quale  anno  si  trovano  stampati  (nell'  ed,  del 
1609,  che  si  cita  più  oltre).  V Armida  dell'Aleardi  fu  stampata  poi  a 
Vicenza,  il  161 1  (Quadrio,  Storia  e  ragione  d'ogni  poesia,  ITI,  I,  79). 
Oli  Olimpici  di  Vicenza  era  un'accademia  sorta  circa  il  1590  {Ivi, 
I,  112) 


INTRODUZIONE  XV 

Ma,  in  che  qualità  facesse  questi  viaggi,  non  è  chiaro. 
Finalmente,  capitò  a  Venezia: 

La  Reina  del  mar,  Vergine  invitta, 
Di  cui  cantò  talhor  mia  rozza  cetra. 

Della  quale,  infatti,  cantò  più  volte  enfaticamente  le 
lodi,  e  nel  Cunto  de  li  cunti,  nominandola  per  incidente, 
si  accalora,  e  la  dice  :  «  Schiecco  de  la  Talia,  recietto  de 
vertoluse,  livro  maggiore  de  le  maraveglie  dell'arte  e 
de  la  natura  !  »  ^. 

In  Venezia  si  dovette  arrolar  soldato.  Egli  stesso  ci 
ha  desci'itto  l'arrolamento,  e  la  vita  militare  di  quel 
tempo.  S'inalbera  un'insegna,  batte  il  tamburo;  gli  arro- 
latori  mettono  in  mostra,  sparse  sopra  un  bancherottolo, 
un  pugno  di  lampanti  monete  d'oro.  E  il  povero  illuso 
va  di  corsa  ad  iscriversi: 

Tirato  pe  la  canna 
Da  quatto  jettarielle. 
Spase  ncoppa  na  banca! 

Ed  ecco  si  veste  di  nuovo,  si  mette  la  spada  a  lato, 
sguazza  per  le  taverne  e  pei  postriboli.  Un  amico  gli  do- 
manda: Dove  si  va?  Ed  egli  risponde  allegro:  Alla  guerra, 
alla  guerra^! 

Arrolatosi  soldato  ai  servigi  della  Serenissima,  Giam- 
battista passò  nell'  isola  di  Candia,  o  di  Creta  che  voglia 
dirsi.   Questa   andata   a   Candia  è  il  primo  lieto  ricordo 


1  J.  IV,  T.  IX. 

2  Egl.  La  Coppella,  alla  fine  della  J.  I. 


XVI  INTRODUZIONE 

della  sua  vita.  «  Quivi,  —  dic'egli,  parlando  di  se  stesso 
— ,  quasi  in  tranquillo  porto  ricoverossi  »  '■. 

Candia  era  allora  il  posto  avanzato  di  Venezia  contro 
i  Turchi:  V antemurale  della  cristianità.  Contava  circa 
176,000  abitanti,  ed  era  divisa  nelle  quattro  provinole 
di  Candia,  Sitia,  Retimo  e  Canea.  Ne  aveva  riordinata 
l'amministrazione  nel  1574  Jacopo  Foscarini,  che  vi  era 
stato  mandato  con  poteri  straordinari!.  La  milizia  era 
fornita,  parte  dai  signori  feudali,  e  parte  dalle  leve  tra 
paesani;  nella  città  di  Candia,  che  era  stata  fortificata 
con  grandi  spese,  i  Veneziani  mantenevano  da  2000  uo- 
mini di  presidio,  con  un  governatore,  che  non  era  ve- 
neziano, «  ma  persona  straniera,  ed  esperimentato  sol- 
dato ». 

Vi  era  nell'  ìsola  una  florida  colonia  di  Veneziani  delle 
migliori  famiglie,  venutevi,  in  varii  tempi,  della  Domi- 
nante ^. 

E  il  Basile  fu  accolto  benignamente  dalle  principali 
di  questo  famiglie,  dai  signori  Malipieri,  Mocenigo,  Mo- 
rosini,  Pisani,  Sagredi,  e  specialmente  dai  Cornaro,  che 
era  allora  la  più  ragguardevole  di  tutte  in  Candia^.  Il 
suo  umor  bellicoso  non  era,  a  quanto  sembra,  grandissi- 
mo, e,  con  tuono  lamentoso,  egli  racconta  che  in  Candia  : 


t  Ode,  p.  36. 

*  S.  ROMANiN,  storia  documentata  di  Venezia,  T.  VI,  Venezia,  1857, 
pp.  498-9;  T.  Vir,  1858,  pp.  355  sgj.  E  V.  anche  Luca  da  Linda,  Le 
descrizioni  universali  et  lìartlcolari  del  mondo  e  delle  repubbliche, 
In  Venclia,  MDCLX,  pp.  493-6. 

3  Ode,  p.  36.  Per  costoro  scrisse  l'ode  :  A  Venezia,  pp.  37-8. 


INTEODUZIONE  XVH 

di  canne  invece  e  di  tridenti 
Oprai  di  Marte  il  ferro;  ed  io,  ch'avezzo 
Era  a  viver  ne  l'acque, 
Vissi  lunga  st'gion  tra  fiamme  e  foco 
Di  folgori  terrestri. 

Ma  saranno  stati  esercizi  militari  e  non  battaglie;  per- 
chè allora,  —  fra  gli  ultimi  anni  del  cinquecento  e  i  primi 
del  seicento  — ,  Venezia  non  ebbe  altra  guerra  combattuta 
se  non  que''a  contr"^  <^li  Uscocchi,  che  aveva  il  suo  campo 
d'azione  lungi  da  Candia.  A  ogni  modo  quei  disagi^  — 
continua  il  Basile: 

Dolci  mi  feo  parer  imo  de'piii  chiari 
Lumi,  c'ornar  giamai  di  Greta  il  lido. 
De  la  virtù  cadente  e  fuggitiva 
Dolce  asilo  e  sostegno,  ond'io  per  sempre 
Devoto  gli  sa:'rai  l'opre  e  la  vita! 

Intende  Andrea  Cornaro,  ch'era  letteru,co  e  poeta,  e 
tale  da  far  buona  lega  col  nostro  povero  poeta,  diven- 
tato soldato  di  ventura.  Il  Cornaro  aveva  istituito  in 
Candia  un'accademia  detta  degli  Stravaganti:  la  quale 
aveva  per  impresa  un  cane  fuor  di  strada,  col  motto:  Et 
jjer  invia!  Il  Basile  ne  fece  parte  col  nome  del  Pigro 
Stravagante^. 


1  Questo  nome  apparisce  in  fronte  a  molte  sue  opere.  Sull'accade- 
mia degli  Stravaganti,  v.  Quadrio,  o.  c,  I,  p.  6i.  L'Imbriani  fa  men- 
zione di  vna  raccolta  di  orazioni  del  Cornaro,  che  è  tra  1  codd.  della 
Marciana,  N.  XX,  Gì.  Vili;  fra  le  quali  ce  n'ha  ima:  XeUa  fonda- 
zione deW accademia  degli  Stravaganti  in  Candia  (Imbriani,  Il  Gran 
Basile,  in  Giorn,  yax>ol.  fil.  e  lettere.  A.  1875,  I,  46-8). 


XVIII  INTRODUZIONE 

E,  dal  grande  animo  del  Cornaro  «  riconobbe non 

men  vivi  i  segni  di  generoso  affetto,  che  chiari  essempi 
d' immortai  valore  ».  E  in  un'ode  volle  lodare  «  sì  glo- 
riosa radunanza  di  felicissimi  ingegni»,  cioè  l'accademia 
degli  Stravaganti: 

Fuor  del  comun  sentiero, 

Emuli  de  le  Muse,  eccelsi  spirti, 

Pogjian  sovra  più  altero 

Permesso,  adombro  di  bei  lauri  e  mirti, 

E  danno  al  Ditteo  lido 

Famoso  il  nome  e  glorioso  il  lido^. 

E,  in  una  madrigale,  loda  anche  la  Historia  Candeana, 
del  Cornaro,  e,  in  un  altro,  il  fratello  di  lui,  Vincenzo, 
accademico  Stravagante^.  E  chiaramente  indicava  il  ge- 
nere di  protezione,  col  quale  il  Cornaro  incoraggiava  i 
poeti,  in  questi  versi  del  Teagene: 

Un  Cornar  fia  di  Greta  al  nobil  regno 
Novello  Giove,  a  giovar  solo  intento; 
Per  doti  di  natura  ed  alto  ingegno 
Di  quanto  gira  il  sol  chiaro  ornamento; 
Sarà  di  mille  cigni  alto  sostegno 
Mentre  di  cigno  formerà  il  concento; 
E  n'un  medesmo  tempo  avran  da  lui 
Gloria  i  suoi  carmi,  ed  oro  i  versi  altrui  ^. 


1  Ode,  pp.  39-40. 

2  Delti  Madriatl  et  ode,  Napoli,  1609.  Gito  dalla  ristampa  di  Man- 
tova per  gli  Osanni,  MDGXIir,  p.  53. 

3  Teagene,  Roma,  1637,  G.  v,  45. 


INTRODUZIONE  XIX. 

Un  altro  dei  suoi  ricordi  cretesi  c'è  conservato  in  un  suo 
madrigale.  Conobbe  in  Candia  «  una  bellissima  Hebrea  ». 
Ed  a  costei,  che,  certamente,  gli  toccò  il  cuore,  egli  si 
volgeva  con  sentimento  al  tempo  stesso  di  amore  e  di 
pietà  cristiana,  esortandola  a  farsi  battezzare  : 

Entra  nel  sacro  Fonte, 

Leggiadra  Donna,  ed  uscirai  più  bella, 

Come  sorge  dal  mar  lucida  stella; 

Così  fia  l'alma  eguale 

A  la  beltà  del  viso, 

E  gareggiar  potrai  col  Paradiso  ^I 

Il  Basile  era  certo  in  Candia  dopo  il  1604;  e  di  qui 
si  comincia  a  poter  stabilire  qualche  data  sicura  nella 
sua  vita.  Tra  le  sue  odi  c'è  n'ha  una,  da  lui  composta 
per  gratitudine  dei  molti  favori,  che  aveva  ricevuti  dal- 
l'arcivescovo di  Candia,  Luigi  Grimani^.  Ora  il  Grimani 
non  fu  eletto  arcivescovo  di  Candia  se  non  nel  1604^. 

Ed  era  certo  anche  in  Candia  il  1607.  Sulla  fine  del 
1606,   per   la   famosa  lotta  tra  Paolo   V  e  i  Veneziani, 


1  Belli  Madriali  et  Ode,  ed.  cit.,  I,  p.  45. 

2  Ode,  pp.  47-8. 

3  In  quell'anno  morì  a  Roma  il  suo  predecessore  Tommaso  Con. 
tareno,  e  Clemente  Vili,  sulla  quaterna  proposta  dalla  Serenissima, 
scelse  il  Grimani.  Cfr.  A.  Morosini,  Istorie  veneziane  latinamente 
scritte  (nella  collezione:  Begli  Historici  veneziani,  i  quali  hanno 
scritto  per  pubblico  decreto),  T.  Ili  (VID,  Venezia,  MDCCXX,  appresso 
il  Lovisa,  p.  303.  Il  Gams,  al  solito  erroneamente,  pone  l'inizio  del- 
l'arcivescovato del  Grimani  al  1610  {Serìes  episcoporuni  eccl.  cathol., 
Ratisbouae,  1873,  p.  401). 


XX  INTRODUZIONE 

tutto  pareva  minacciar  guerra.  Filippo  III  dava  ordine 
al  Conte  di  Fuentes  di  raccogliere  un  esercito  ai  confini, 
per  tenerlo  pronto  all'invasione,  se  Venezia  non  cedeva. 
Ma  la  Repubblica  cominciò  gli  armamenti.  Si  raccolse 
una  gran  flotta,  e,  di  questa,  il  14  gennaio  1607,  fu  fatto 
generalo  Giovanni  Bembo,  Procuratore  di  S.  Marco,  che, 
sulla  metà  di  febbraio,  entrò  in  ufficio  ^ 

Enrico  IV  si  adoprava,  intanto,  a  mettere  pace  tra  il 
papa  e  i  Veneziani,  desideroso  che  questi  rivolgessero 
le  loro  armi  contro  gli  Spagnuoli. 

Il  Basile  si  trovava  nel  bel  mezzo  di  queste  minacce 
di  guerre:  «  Era  sossopra  l'Italia,  —  egli  scrive  — ,  né 
d'altro  che  d'ira  e  di  morte  si  ragionava,  mentre  l'in- 
trepido Leone  empioa  di  tremendi  rugiti  l' Adria  e  il 
Tirreno  ».  Ed  egli,  «  dentro  alle  tempeste  dell'armi,  dal- 
l'Impetuosa Fortuna  sospinto,  si  ritrovava  ».  E,  «  pre- 
mendoli nel  vivo  del  cuore,  che  tante  armate  schiere  la 
tranquillità  dell'Europa  rendessero  torbida  ed  inquieta  », 
il  nostro  guerriero  poeta,  e  più  poeta  che  guerriero, 
scrive  un'ode  per  persuadere  l'una  e  l'altra  parte  «  a  so- 
spendere l'ire  »: 

Sian  dolci  Paci  l'Ire, 

Gli  Odi  Pieti\  celeste  Ardor  gli  Sdegni, 

Puro  affetto  l'ordire, 

Ed  humilt;\  ne  l'alterezza  regni! 

Sian  l'armi  caducei,  Plettri  le  squille, 

E  ne  r  horror  di  Morie  Amor  sfaville^. 


*  MoivOSiNi,  Istorie  cit.,  Ili  (VII).  367-9,  371-2. 

*  Odi'.,   nn    AT-1 


*  Ode,  pp.  41-3 


IKTRODUZIONE  XXI 

Ma,  nonostanti  queste  efficaci  esortazioni,  Giovanni 
Bembo  seguitava  nei  suoi  apparecchi  militari.  E,  sulla 
fine  dell'aprile,  si  recò  a  Corfù,  dove  voleva  raccogliere 
il  nerbo  della  sua  flotta.  A  Corfù  gli  giunsero  venti  navi 
da  Candia,  delle  quali  quattordici  armate  a  spese  dei 
nobili  Veneti  e  Candioti  ^ 

Su  queste  navi  dovette  essere  imbarcato  anche  il  no- 
stro Basile.  La  flotta  riunita  navigò  lungo  le  coste  del- 
l'Epiro, percorse  il  mar  Jonio  per  varii  meài,  e  rese  si- 
cura tutta  quella  zona  ai  sudditi  della  Repubblica^. 

Il  Basile  scrive:  «  Meraviglioso  fu  egli  a  vedere  con 
qual  alto  avvedimento  e  somma  prudenza  l'Eccellentissi- 
mo signor  Giovanni  Bembo,  sovrano  Argonauta  e  Genera- 
lissimo della  veneta  Armata,  guidò  amplia  classe  di  ma- 
ritimi legni;  sicché  non  fu  alcuno  in  essi  che  non  si  re- 
casse a  siugolar  ventura  l'essere  al  sommo  impero  sotto- 
posto di  si  glorioso  duce  ».  Egli  stesso  sperimentò  più 
volte  da  lui  un  «  incomparabile  dimostramento  di  beni- 
gnità »  ;  e,  per  gratitudine,  —  magro  ricambio  !  — ,  gli 
consacrò  una  delle  solite  odi^. 

Ma  sopravvenne  l'autunno;  gli  Spagnuoli  e  i  Turchi 
pigliavano  i  quartieri  d'inverno,  e  Giovanni  Bembo  tornò 
a  Venezia.  Il  Senato  rese  grazie  ai  comandanti  candioti 
dell'opera  egregiamente  prestata,  e  dell'amore  mostrato 
verso  la  Repubblica'*. 


i   MOROSINI,   Ist.    Cit.,   p.   393.  2   MOROSINI,   0.   C,   pp.   4OI-2. 

3  Ode,  pp.  44-6. 

*  «  Cretensibusqiie  trierarchis  quod  egregiam  operam  Reipublicae 
praestitisseut,  quodque  praeclarum  in  eam  studium  patefecissent, 
gratiae  a  Seuatu  aclae  ».  Morosini,  o.  c,  pp.  401-2. 


XXri  INTRODUZIONE 

Non  sappiamo  se  il  Basile,  dopo  aver  preso  parte  a 
questa  dimostrazione  guerresca,  tornasse  a  Creta.  Certo, 
se  vi  tornò,  non  vi  rimase: 

Dopo  avermi,  dico, 
Avezzato  a  soffrir  l'aspre  fatiche 
De  l'armi  in  sen  de  la  nodrice  amata 
Del  Regnator  dOlimpo, 
Per  cercar  miglior  sorte, 

ne  scorsi 

Mille  famose  rive. 

E,  risalendo  verso  l' Italia,  prima  di  tutto,  andò  a  Sparta  : 

Onde  la  bella  Greca 

Portò  l'incendio  a  le  troiane  mura. 

E  poi,  girò    pel   promontorio    Tenaro  (capo  Matapan): 

onde  discese 
Al  cieco  abisso  il  domator  dei  mostri. 

E  poi,  nella  Messenia: 

Al  lido,  onde  si  parte 
L'innamorato  Alfeo,  seguendo  l'ormG 
De  l'amata  Aretusa. 

E  poi,  nell'Arcadia  e  nell' Elide: 

Ove  ne  corre  il  fiume,  onde  s'accrebbe 
A  la  Copia  tesor,  glorie  ad  Alcide. 

E  poi  ad  Itaca,  la  reggia 

Del  saggio  ingannator  de  le  Sirene. 


INTKODUZIONE  XXIU 

E  a  Corfù,  à^ Alcinoo  gli  orti.  E  ancora: 

mill'altre  i'  vidi  illustri  rive, 
E  per  ciascuna  fei  gran  tempo  albergo, 
Cangiar  credendo  stato, 
Né  mai  cangiai  fortuna  *. 

Finalmente,  nel  1608  era  di  ritorno  a  Napoli, 

così  vecchio,  infermo. 
Là  'ndi  già  mossi  più  robusto  il  piede  2! 

Parole,  che  non  bisogna  prendere  alla  lettera,  pel  tuono 
d'esagerazione  lamentosa,  che  ha  tutto  questo  brano  auto- 
biografico : 

chi  provato  ha  gli  affanni 

Di  lungo  navigar,  di  lunghi  errori, 

Più  si  può  dir  felice 

Quando  ei  può  riposar  nel  patrio  lido^! 


i  Così,  sempre  nelle  Avvenlurose  disavventure,  1.  e.  Come  poi  po- 
tesse fare  tutti  questi  viaggi,  e  dimorare  gran  tempo  in  ciascun  luogo 
nel  breve  spazio  tra  l'autunno  del  1607,  che  stette  nelle  galee  del 
Bembo,  e  il  1608,  nel  quale  anno  certo  stava  a  Napoli,  è  uno.  dei 
misteri  della  biografia  del  Nostro.  E  dire  che  da  un'altra  allusione 
si  dovrebbe  ricavare  che  egli  fu  anche  nelle  Fiandre!  Infatti,  in  una 
di  quelle  lettere  napoletane,  stampate  in  coda  alla  Vajasseide  del 
Cortese,  e  che,  come  si  dirà  più  innanzi,  son  opera  sua,  si  legge  : 
«  Io,  che  so  sapatino  ed  ecciacuervo,  e  saccio  quanta  para  fanno  tre 
buoje,  cìi'aggio  fatto  sti  quatto  pile  a  la  guerra  de  Shiannena,  co  no 
stratagemma  meletare  le  voze  fare  na  nvoscata  »,  Ma  questa  può  darsi 
che  sia  un'affermazione  scherzosa, 

2  Sembra  che  tornasse  per  mare:  «  Torsi  il  camin  di  miovo  al 
mar  Tirrheno  »,  dice  nelle  Avventurose  disavventure,  1,  e, 

3  Le  avventurose  disavventure,  1.  e. 


XXIV  INTRODUZIONE 

A  Napoli  il  nostro   Giambattista  tornò   quasi  come  un 

forestiero: 

Né  mernviglia  fu  se  conosciuto 
Per  citladiii  non  son,  mentre  mi  rende 
Lungo  perejj'rinar  tanto  diverso 
Dhabilo  e  di  costumi 

Dopo  sì  lunga  assenza,  egli  trovò  molte  coso  cangiate, 
molte  cose  nuove.  Nella  sua  famiglia,  era  sorta  una  ce- 
lebrità: sua  sorella,  l'Adriana,  s'ei'a  rivelata  eccellente 
cantal  rice,  e  aveva  acquistato  gran  fama,  ed  era  attor- 
niata da  una  schiera  d'ammiratori,  che  ne  lodavano  l'arte 
del  canto,  la  bellezza,  la  somma  onestà^. 

I  coniugi  Barone  erano  ai  servigi  del  Principe  di  Sti- 
gliano, D.  Luigi  Carafa^.  E  la  sorella  illustre  diventò  la 
protettrice  del  povero  ed  oscuro  poeta:  la  cantante  stese 
le  sue  ali  sul  poeta.  —  Nel  1608  il  Basile  pubblicava  a 
Napoli  la  prima  sua  opera,  che  si  trovi  alle  stampe:  Il 
pianto  della  Vergine,  breve  componimento  in  tre  canti, 
sul  genere  delle  Lagrime  di  8.  Pietro  del  Tansillo^  E, 


*  Vedi  A  DEMOLLO,  La  bell'Adriana,  Cip.  I. 

*  Intorno  a  costui  che  fu  il  quarto  principe  di  StigUano,  Duca  di 
Mondragone,  ecc ,  v.  B.  ALDiMARr,  Faviiglia  Carata,  Nap.,  1691,  II, 
391-6. 

3  II  Chlorcarc'lli  cita:  2<ap.,  160S  (L'è  illiistribits  scriiHorlbus,  T.  I, 
Neap,,  MDCGI.XXX:  pp.  303-5).  Il  D'Afflitto:  Nap.^  Per  Tarqninio 
I.ongo,  1608  {Mem.  degli  sor.  del  regno  di  Nap.,  ìi&p.,  1794,  II,  68 
sgg.).  Il  Basile  lo  ri^ampò  a  Mantova,  per  gli  Osanni^  1613,  seconda 
impressione,  e  gli  editori  dicono  che  fu  «  quasi  nella  fanciullezza 
la  prima  volta  mandata  in  lue?  ».  Cfr.  append.  D.  Nell'ediz.  di  Man- 
tova è  accompagnato  da  altre  poche  rime  spirituali, 


INTRODUZIOITE  XXV 

innanzi  al'  volumetto,  era  elogiato  a  gara  da  Andrea  e 
Vincenzo  Cornare,  da  un  Giovanni  Aquila,  da  Giulio  Ce- 
sare Cortese,  accademico  della  Crusca,  detto  il  Pastor 
Sebeto,  da  suo  cognato  Muzio  Bainone,  detto  il  Partenio 
Ardente,  e  da  varii  altri  ^  E,  in  quello  stesso  anno,  pub- 
blicandosi il  Tempio  Eremitano  di  Ambrogio  Staibano, 
egli,  a  sua  volta,  vi  poneva  innanzi  un  sonetto  elogiativo  ^. 
Il  i8  ottobre  1608  si  celebravano  a  Firenze  le  nozze 
di  Cosimo  dei  Medici  con  Maria  Maddalena  d'Austria.  Il 
Cortese,  del  quale  son  note  la  servitù  e  le  buone  rela- 
zioni colla  corte  di  Toscana,  e  che  allora,  come  sembra, 
era  a  Firenze,  invitò  il  suo  amico  a  scrivere  nella  rac- 
colta, che  si  fece  per  l'occasione.  E  il  Basile  scrisse  l'ode, 
che  comincia: 

Nel  sen  d'Esperia,  Amore 
Inesta  a  Serenissima  Beltade 
Alto  Real  Valore  3.  — 

Deve  mettersi  forse  intorno  questo  tempo  un  viaggio, 
che  fece  in  Calabria,  «  trasportato  dal  desiderio  di  ve- 
der le  pellegrine  vestigia  della  Magna  Grecia,  come  le 
meravigliose  ruine  dell'altra  veduto  avea  »  *. 

E  si  recò  certo  a  Cariati,  dove  assistette  all'ingresso, 
che  fece  il  Principe  di  Cariati,  Don   Carlo   Spinelli,  con 


1  V.  le  rime  che  precedono  Tediz.  di  Mantova,  1613. 

2  AMBROGIO  Staibano,  Tempio  Eremitano,  Xap.,  1608. 

3  Ode,  pp.  57-9.  —  V.  Descrizione  delle  feste  fatte  nelle  reali  nozze 
dei  Serenissim,i  Principi  di  Toscana  D.  Cosimo  dei  Medici,  e  Maria 
Maddalena  Arciduchessa  d'Austria,  in  Firenze,  appi'esso  i  Giunti, 
1608.        •*  Ode,  p.  49. 


XXVI  INTRODUZIONE 

sua  moglie,  D.^  Giovanna  di  Capua.  Dal  qual  principe  fu 
benignamente  accolto,  ed  egli  ne  cantò  le  lodi,  unendosi 
alla  generale  letizia  dei  sudditi: 

'1  suo  Popol  diletto 
O  quanti  archi  drizzò,  quanti  trofei, 
Per  cui  passar  gli  eccelsi  semidei  *! 

Qualche  tempo  dopo,  D.*  Giovanna  partorì  un  figliuolo, 
e,  per  questa  occasione,  egli  scrisse  un'altra  ode^.  — 

Checché  si  pensi  della  data  di  questo  viaggio,  certo,  ai 
principii  dell'  anno  seguente,  1609,  egli  era  di  nuovo  a 
Napoli,  dove  pubblicava  un  volumetto  di  Madriali  et  Ode, 
raccogliendovi  quanto  era  venuto  sparsamente  scrivendo  e 
stampando  fin  allora^.  Il  volumetto  è  dedicato  alla  so- 
rella Adriana,  ed  è  curioso  il  tuono  della  dedica:  «  Ecco, 
sorella  amatissima,  ch'io  paleso  al  mondo  sotto  il  vostro 
celebro  nome  questi  miei  poveri  componimenti,  i  quali, 


1  Ode,  pp.  50-3. 

*  ivi,  pp.  54-6.  Don  Carlo  Spinelli  morì  giovane  di  35  anni,  il  17 
gennaio  1614,  lasciando  un  figliuolo,  di  nome  Scipione,  e  una  figliuola, 
Isabella.  È  sepolto  in  S.  Caterina  a  Fonnello,  e  l'iscrizione  della 
tomba  è  riportata  dal  Celano,  Noi.  del  hello,  curioso  ecc.  della  città 
di  Napoli.,  ed,  Chiarini,  Nap.,  1855-60,  II,  457.  Le  odi,  alle  quali  mi 
riferisco,  sono  stampate  per  la  prima  volta  nell'ediz.  nap.  del  1609. 
Ora  il  Basile  nel  1607  era  ancora  a  Candia,  sul  finire  nel  160S  lo 
troviamo  a  Napoli.  Il  viaggio  (se  pure  non  fu  fatto  prima  del  ritorno 
a  Napoli)  deve  porsi  tra  il  1608,  e  il  1609,  che  stampò  il  suo  libro. 

3  Dei  Madriali  et  Ode,  Napoli,  per  il  Roncaglielo,  1609  (GnioccA- 
HELLi,  l.  e.  Toppi,  Blbl.  Nap.,  p.  130).  Forma  la  prima  parte  della 
ristampa  mantovana  di  Madriali  et  Ode,  Mantova,  1613. 


INTRODUZIONE  XXVII 

nati  fra  l'inquiete  turbolenze  della  professione  militare, 
hanno  ben  di  mestiere  cbe  sien  dal  vostro  favore  rasse- 
renati.... ». 

E,  con  due  odi,  anch'egli  si  va  a  confondere  tra  la 
turba  degli  ammiratori  della  sorella,  adoprando  le  stesse 
frasi  laudative  degli  altri,  proprio  come  se  fosse  un 
estraneo  : 

Di  Sebeto  a  le  sponde 

Siede  Ninfa  canora,  le  cui  note 

Rendon  tranquille  l'onde, 

Dan  moto  ai  sassi,  e  fan  le  fei'e  immote 


Con  questo  volumetto,  che  raccoglie  tutta  la  produ- 
zione letteraria  della  sua  giovinezza,  si  chiude  la  prima 
parte  della  sua  vita  letteraria;  che  non  fu  veramente 
troppo  gloriosa.  Il  contenuto  di  tutte  queste  poesie  è, 
quasi  soltanto,  l'adulazione,  quella  cieca,  stupida  adula- 
zione del  tempo  !  E  la  forma  è  delle  peggiori  :  sono  sten- 
tati madrigali,  ovvero  odi  in  monotoni  versi  settenari!  e 
endecasillabi  variamente  aggruppati  \  tutti  contesti  della 
brutta  fraseologia  allora  corrente,  e  dei  più  sfatati  luo- 
ghi comuui^.  Tuttavia,  queste  odi  e  madrigali  piacquero 


1  Per  es.  :  due  settenarii  e  due  endecasillabi  alternati,  e  due  en- 
decasillabi; ovvero:  quattro  settenarii  e  due  endecasillabi;  ovvero: 
tre  settenarii  e  tre  endecasillabi  alternati;  ecc.  Più  raramente,  la 
strofe  è  di  sette,  otto  o  dieci  versi.  Lo  schema  delle  rime:  abbacc, 
ovvero:  ababcc;  e,  talora;  ababbcc;  e:  ababcoddee 

2  Oltre  le  poesie  già  accennate,  vi  sono  in  questo  volumetto  le 
seguenti  altre  d'indole  storica:  Tre  odi;  l'una  per  Giuseppe  d'Acunto, 
giureconsulto,  e  dilettante  scultore;  l'altra,  per  Gio.  Berardino  Azzo- 


XXVIII  INTRODUZIONE 

e  lo  misero  in  mostra;  e  quella  fama,  clie,  giovane,  non 
aveva  potuto  ottenere,  l'ottenne,  ora,  quasi  d'un  subito. 
Intanto,  sua  sorella  Adriana,  seguendo  i  suoi  alti  de- 
stini, era  chiamata  alla  corte  di  Mantova.  È  ormai  nota 
la  passione  musicale  del  Duca  di  Mantova,  Vincenzo  Gon- 
zaga, e  la  storia  di  tutte  le  sue  smanie,  e  del  suo  ar- 
meggio per  avere  presso  di  sé  l'Adriana^.  Le  trattative 
cominciarono  sul  principio  del  1610.  Nel  far  le  sue  con- 
dizioni, l'Adriana,  dopo  aver  messa  in  prima  linea,  quella 
che,  per  suo  decoro,  doveva  essere  chiamata  alla  corte 
di  Mantova  con  lettera  della  Duchessa  Eleonora  ;  soggiun- 
geva, in  secondo  luogo,  questa:  che  il  duca  «  occupi  in 
sua  casa  tanto  Mutio  Barone  suo  marito,  quanto  Giambat- 
tista, suo  fratello,  li  quali  sono  2}Grsoìie  dell' hahililh  che 
detto  signor  Paolo  {Vagente  che  menava  le  trattative)  farà 
relazione  a  S.  A.  e  che  procureranno  per  le  persone  loro 
di  esser  degni  creati  delli  creati  di  S.  A.  »  ^.  E,  dopo  vari 
ritardi  e  peripezie,  nel  maggio  16 io,  si  mise  in  via  verso 


lino,  pittore  e  scultore;  la  terza,  per  lo  scultore  Giulio  Grazia.  Sul- 
l'Azzolino,  efr.  il  De  Dominici  {Vite  del  pittori,  scultori,  ecc..  Nap., 
1843,  II,  263  sgg.),  che  lo  fa  nascere  in  Genova  il  1510!  Per  una  pit- 
tura dell'Azzolino,  ce  anche  un  madrigale.  Un'ode  è  in  morte  di  Don 
Fernando  di  Castro,  Conte  di  Scelves;  e  alcuni  madrigali  in  vita  di 
D.  Fernando  d'Avalos.  Il  quale,  difatti,  fu  marito  di  D.»  Margherita 
d'Aragona,  e  morì  il  1609,  quando  appunto  si  stampava  il  volume. 
Inoltre,  un  madrigale  per  Giambattista  della  Porla  e  un  altro  pel 
dottor  Ilorazio  Calanco,  accademico  Intronato. 

1  Vedine  il  racconto  vivo  e  minuto  nell'ADEMOLLO,  La  bell'Adria- 
na, G.  III  e  IV. 

2  Doc.  pubbl.  dall'ADBMOLLO,  0.  e,  pp.  8990. 


INTRODUZIONE  XXIX 

Mantova  un'intera  carovana:  «  la  signora  Adriana  con  una 
sorella  et  cognata,  e  un  suo  figliuoletto,  che  sono  quattro; 
il  marito,  con  un  fratello  di  lei  et  un  creato  che  in  tutto 
sono  sette  ;  viene  ancora  per  accompagnarla  sino  a  Man- 
tova, e  poi  passarsene  in  Spagna,  un  altro  suo  fratello 
dottore  con  un  creato  »  ^. 

I  due  fratelli  accennati  erano  Lelio  e  Francesco,  e  la 
sorella  Vittoria  o  Tolla.  —  Partirono  con  pianto  di  molti, 
—  come  dice  l'Agente  ducale  — ,  «  e  veramente  io  spero 
che  S.  A.  resterà  gustata,  perchè  tutti  questi  .che  ven- 
gono sono  persone  virtuose  e  buono,  da  guadagnarsi  il 
pane,  che  mangeranno  »  ^. 

Giambattista,  per  allora,  restò  a  Napoli.  E  fece  eco  ai 
molti,  che  s'erano  adoperati  a  impedire  la  partenza  del- 
l'Adriana, e  ai  quali  ora  non  restava  se  non  piangere 
quella  conquista,  che  Mantova  prendeva  su  Napoli!  Un 
suo  epigramma,  intitolato:  Rapimento  di  Virgilio  vendi- 
cato, dice: 

Tolse  al  Mincio  il  Sebeto 

Candido  Augel  Canoro, 

Per  cui  crebbe  a  le  stelle  il  verde  alloro; 

Toglie  al  Sebeto  il  Mincio 

Leggiadra  Cantatrice, 

Ond'era  il  lido  suo  chiaro  e  felice  : 

Gloriosa  vendetta  al  mondo  sola, 

Se  perde  un  Cigno,  una  Sirena  invola  3! 


i  Lettera  del  Gentili,  12  maggio  1610  —  Ademollo,  La  ieW Adria- 
na, p.  117.        2  Ademollo,  0.  e,  p.  117. 
3  II  Teatro  delle  glorie,  p.  131. 


XXX  INTRODUZIONE 

Egli  si  trovava  allora  ai  servigi  dal  Principe  di  Sti- 
gliano, come,  fin'allora,  sua  sorella  e  suo  cognato.  E, 
avendo  avuto  l'agio  di  scrivere  una  favola  marittima,  in- 
titolata: Le  avventurose  disavventure^,  nel  luglio  1610, 
la  dedicava  al  Principe  di  Stigliano,  per  gratitudine  de- 
gli «  infiniti  beneficii  riconosciuti  dalla  sua  libéralissima 
e  generosa  mano  »,  ribadendo  in  versi  le  lodi: 

Tu  sol  fai  che  germogli 

Già  secco  il  Lauro  a  le  Gastalie  rive; 

Tu  sol  pietoso  accogli 

Le  neglette  dal  mondo  Aonie  dive; 

E  sorgi  (tal  virtute  in  te  s'infuse!), 

ÌNOvello  Febo,  a  ristorar  le  Muse  2. 

Nell'avvertenza  dice  lo  stampatore:  «  Spero,  graziosi 
lettori,  darvi  per  l'avvenire  maggior  diletto  con  l'opre  di 
(questo  autore,  il  quale  quanto  giornalmente  si  avanzi  nella 


*  Le  avventurose  disavventure  Favola  mariiima  di  Gio.  Battista 
Basile  il  Pigro  Accademico  Stravagante  di  Creta.  In  Napoli,  presso 
0.  B.  Gargano  e  Lorenzo  Nucci,  161 1  (Chioccarelli,  l.  e).  La  2.»  ediz. 
è  di  Venezia,  MDCXII,  appresso  Sebastiano  Cambi.  La  3.%  è  di 
Mantova,  presso  gli  Osanni,  1613.  —  Gfr.  anche  Imbriani,  //  Gran 
Basile,  1.  e,  II,  pp.  197-205. 

*  Si  noti  anche  che  «  la  scena  si  finge  in  Sirena,  luogo  delizioso 
di  Posilipo  ».  Ora  la  Sirena  era  il  nome  dell'antico  palazzo  Bonifacio, 
comprato  dal  secondo  Principe  di  Stigliano,  Luigi,  a  Posilipo,  edifi- 
cato su  di  uno  scoglio  in  mezzo  alle  acque  (Aldimari,  o.  c,  11,383; 
Celano,  0.  e,  V,  632).  Fu  poi  rifatto  e  abbellito  dal  Duca  di  Medina 
Las  Torres,  marito  di  D.«  Anna  Garafa,  Principessa  di  Stigliano,  ed 
è  il  palazzo  detto  di  Dognanna,  del  quale  è  celebre  la  storia  e  an- 
coro avanzano  le  pittoresche  ruinc. 


INTRODUZIONE  XXXI 

Poesia,  ben  il  potete  conoscere  con  paragonare  questi  ad 
alcuni  altri  suoi  primi  parti,  che,  stampati  forse  contro 
sua  voglia,  si  può  dir  nella  fanciullezza,  devono  solo  co- 
me presagio  di  questi,  che  hora  vedete,  essere  riguar- 
dati, da  quegli  occhi  però,  che  non  sono  da  ignorantia 
né  da  maligna  invidia  macchiati,  e  biecamente  l'altrui  fa- 
tiche non  rimirano  ». 

E  lo  stampatore,  e  l'autore  per  esso,  ha  ragione.  — 
Le  avventurose  disavventure  sono,  a  dir  vero,  una  delle 
solite  favole  marittime  del  tempo,  colle  solite  situazioni 
e  il  solito  svolgimento:  un  rapimento  dei  Turchi,  che 
serve  a  imbrogliare  e  confondere  lo  stato  civile  dei  per- 
sonaggi; degli  innamoramenti,  che,  quasi  tutti,  han  sba- 
gliato il  loro  segno;  una  donna,  che  va  pel  mondo,  vestita 
da  uomo  ;  e  una  serie  di  riconoscimenti  finali  e  di  matri- 
monii.  E  non  vi  mancano  i  soliti  luoghi  comuni  :  il  pa- 
store 0  il  pescatore  che  non  ama,  tutto  intento  alla  cac- 
cia 0  alle  reti;  le  lodi  dell'età  dell'oro;  i  lamenti  contro 
i  capricci  e  l'ingiustizia  della  fortuna;  ecc.  Ma,  tuttavia, 
la  favola  è  composta  con  una  relativa  semplicità  e  molta 
facilità;  ed  è  scritta  in  versi  fluidi  e  armoniosissimi :  il 
che,  in  mancanza  d'altro,  è  sempre  qualcosa. 

Ecco,  come  saggio,  questo  lamento  della  Ninfa  Tir- 
rhena : 

Voi,  che  sembianza  avete 

De  l'Idol  mio  crudele, 

Che  sì  gelato  ha  il  core, 

Che  non  sente  giammai  fiamma  d'amore; 

Ruscelletti  di  neve, 

Che  non  date  rimedio  al  mio  ffran  foco  ? 


XXXII  INTEODUZIONE 

Ma  voi,  come  il  mio  Glauco, 

Sordi  correte,  e  ne  portate  insieme 

I  miei  lamenti  e  le  vostre  onde  al  mare! 

Deh!  riditeli  almeno,  acque  amorose, 

I  fonti  dei  miei  limii, 

Onde  crescete  e  vi  cangiate  in  fiumi! 

Deh!  riditeli  almeno,  aure  pietose, 

I  miei  sospiri  ardenti. 

Onde  crescete  e  vi  cangiate  in  venti  ^  ! 

Giulio  Cesare  Cortese,  il  Pastor  Sebeto,  diventato  acca- 
demico della  Crusca,  mise  un  suo  epigramma  innanzi 
all'opera  dell'amico.  E,  coi  due  epigrammi  che  scrisse  per 
l'Adriana,  furono  queste  delle  poche  volte,  nelle  quali  la 
sua  Musa  italiana  si  fece  viva^.  Altro  amico,  e  lodatore 
del  Basile,  era  Orazio  Cernite,  poeta  allora  in  buona 
fama^. 

Nel  1611  Giambattista  Manso,  Marchese  di  Villa  (l'a- 
mico di  Torquato  Tasso),  istituiva  nel  chiostro  di  S.*  Ma- 
ria delle  Grazie,  presso  S.  Agnello,  l'accademia  degli 
Oziosi.  Tra  i  primi  accademici,  riuniti,  il  giorno  della 
inaugurazione,  che  fu  il  3  maggio,  era  il  Viceré,  Conte 
di  Lemos,  il  Porta,  il  Capaccio,  il  De  Pietri,  il  Zazzera, 
il  P.  Tomaso  Carafa,  e  molti  gran  signori,  come  il  Prin- 
cipe di  Stigliano,  il  Principe  della  Riccia,  il  Princijjo  di 
Cariati,  il  Principe  di  Tarsia,  il  Duca  di  Nocera,  il  Duca 
d'Acerenza,  il  Duca  di  Bovino.   Tra  i  primi  socii,  eletti 


*■  Atto  II,  Se.  I. 

*  Il  Teatro  delle  glorie,  pp.  131-2. 

3  vi  premise  anch'esso  un  epigramma. 


INTRODUZIONE  XXXIII 

da  questi  fondatori,  fu  Giambattista  Basile,  il  Pigro  Stra- 
vagante *-. 

Nel  febbraio  seguente,  1612,  celebrandosi  nel  Duomo 
l'esequie  di  Margherita  d'Austria,  Kegina  di  Spagna, 
«  comparve  nel  mezzo  del  Duomo  il  ricchissimo  Mausoleo 
adorno  di  dottissime  composizioni  dell'Accademia  degli 
Oziosi  »  ^.  11  Basile  contribuì  con  tre  sonetti,  due  ana- 
grammi, e  un  madrigale^. 

Compose  anche  per  questa  occasione  un'egloga  lugicbre. 
E,  anzi,  di  Egloghe  amorose  e  lugubri  pubblicò  a  Napoli 
nel  161 2  una  raccoltina,  dedicandola  a  D.  Marcello  Filo- 
marino  ^, 

Allo  stesso  D.  Marcello  Filomarino,  lo  stesso  anno,  de- 
dicò un  drammetto  in  cinque  atti,  la  Venere  addolorata, 
uno  dei  primi  componimenti,  se  non  il  primo,  scritto  a 
Napoli,  per  musica;  che,  tuttavia,  non  si  sa  se  fosse  mai 
messo  in  musica  e  recitato^. 


1  G.  MiNiERi  Riccio,  Cenno  storico  delle  accademie  fiorite  in  Na- 
poli in  Ardi.  Stor,  Nap.,  V,  148  sgg. 

'  Tommaso  Costo,  Memoriale  delle  cose  più  notabili  accadute  nel 
Regno  di  Napoli  daW incarn.  di  Cristo  per  tutto  Vanno  MDCXVII, 
con  la  giunta  del  Mormile,  in  Napoli,  per  Scipione  Bonino,  1618,  e 
ristamp.  per  il  Gafifaro,  1639,  p.  86. 

3  Relazione  della  pompa  funerale  in  morte  di  Margherita  dW.ustria 
di  Ottavio  Caputo,  Nap.,  1612  (cit.  dal  Minieri  Riccio,  Not.  biogr.  e 
bibliogr,,  degli  scrittori  napol.  fior,  nel  s.  XVII,  i  cui  nomi  comin- 
ciano  con  la  leti.  B-,  Nap.,  1877,  p.  13. 

■*  Napoli,  presso  Gio.  Domenico  Roncagliolo,  1612  (Chioccarelli, 
l.  e). 

5  Nap.,  per  il  Roncagliolo,  1612  (D'Afflitto,  l,  e);  ristamp.  a  Manto- 
va, i6i3.  Cfr.  Croce,  Tteatri  di  Napoli  (s.  XV-XYIII),  Nap.,  1891,  p.  116. 


XXXIV  INTRODUZIONE 

Le  sue  opere  sono  la  fonte  più  abbondante  di  notizie 
sulla  sua  vita;  e  da  esse  ricaviamo  quali  fossero  le  sue 
varie  relazioni  ed  amicizie.  Cosi  possiamo  supporlo  amico 
di  Giovan  Battista  della  Porta,  pel  quale  scrisse  un'ode, 
a  proposito  della  tragedia  il  San  Giorgio^. 

Scrisse  altre  odi  pel  matrimonio  di  D.  Giorgio  de  Men- 
doza  con  D.^  Livia  Sanseverino  ;  pel  nuovo  Viceré  Conte 
di  Lemos.  Ed  epigrammi  o  madrigali  per  dame  e  signori 
e  letterati  napoletani,  come  D.  Tiberio  Carafa,  D.*  Lu- 
crezia de  Vera,  Aniello  Palomba,  Ettore  Pignatelli,  Fer- 
rante Rovito,  Ascanio  di  Colellis,  i  poeti  spagnuoli  Ai-- 
gensola,  ecc. 

E  anche  da   Napoli,  prendeva  parte  agli  avvenimenti 
lieti   0   tristi,    che  succedevano   alla   Corte   di  Mantova 
presso  la  quale  erano  quasi  tutti  i  suoi.  Era  le  sue  poesie 
ci  sono  madrigali  per  D.  Silvio  Gonzaga,  Marchese  di  Ca.- 
vriana,  figlio  naturale  del  Duca  Vincenzo,  morto  in  quel 
l'anno  1612^;  per  Vincenzo,  altro  figlio  del  Duca;  un'ode 
pel  matrimonio  di  Cesare  Gonzaga,  figlio  terzogenito   di 
Eerrante,  Conte   e  poi   Duca    di   Guastalla,  con   Isabella 
Orsina,  figlia    di   Paolo   Giordano,  Duca    di    Bracciano^; 
finalmente,  un'egloga   e  un  madrigale  per    la  morte  del 
Duca  Vincenzo,  accaduta,  come    è    noto,  il    18    febbraio 
161 2,  e  un'egloga  per  quella  di  Leonora  Medici  Gonzaga  \ 


*  Su  qiiesta  tragedia,  v.  art.  di  F.  Fiorentino,  sul  Giornale  Napole- 
tano di  fllos.  e  leu,  il.,  A.  1880;  e  cfr.  Croce,  /  teatri  di  Napoli,  p.  82. 

•  Cfr.  LiTTA,   Famiglia  Gonzaga,  Tav.  VI;  e  ademollo,  0.  e,  pp. 
168-9.        3  cfr.  LiTTA,  0.  e,  Tav.  IX. 

^  Odi  e  madrigali,  che  furono  raccolti  la  prima  volla  nella  seconda 


INTRODUZIONE  XXXV 

E  sulla  fine  del  1612,  Giambattista  Basile  lasciava  an- 
cli'egli  Napoli  per  Mantova. 

I  suoi  parenti,  alla  corte  dei  Gonzaga,  godevano  di 
una  straordinaria  fortuna.  Sua  sorella  Adriana,  oltre  molti 
altri  doni  e  stipendi  e  onorificenze,  aveva  avuto  il  titolo 
di  Baronessa,  col  feudo  di  Piancerreto  nel  Monferrato  ^ 
Il  figliuolo  di  costei,  il  giovinetto  Camillo,  era  stato  in- 
signito della  croce  di  S.  Maurizio  e  Lazzaro,  onorificenza 
che  il  Duca  di  Mantova  gì' impetrò  da  quel  di  Savoia. 
Lelio  Basile  fu  «  per  lunga  serie  d'anni  ai  principali  go- 
verni nello  Stato  di  Mantova  da  quell'Altezze  impiegato  ». 
Francesco  fu  poi  Senatore^. 

Quando  giunse  Giambattista,  era  moribondo,  0  era  morto 
da  poco,  il  nuovo  Duca,  Francesco,  figliuolo  e  successore 
di  Vincenzo,  che,  dopo  pochi  mesi  di  principato,  si  spense, 
a  26  anni,  il  23  dicembre  1612.  Successe  il  fratello  di  lui, 
il  Cardinal  Ferdinando. 

Giambattista  si  recò  a  visitare  la  sorella  nel  suo  feudo 
del  Piancerreto.  E  racconta  che  qui  vide,  tra  l'altro,  «  un 


parte  dell'ed.  di  Mantova,  1613.  Il  Miaieri  Riccio  cita  ancora  del  Ba- 
sile: Relatione  delle  pompe  e  solennità  fatte  per  le  nozze  del  Cristia- 
nissimo Luigi  XIII  Re  di  Francia  etc.  tradotta  da  Francese  in  Ispor 
gnuolo  e  da  Spagnuolo  in  Italiano,  Nap.,  1612.  Inoltre,  alcuni  versi 
nel  libro  Albero  e  genealogia  della  famiglia  Scorza,  Nap.,  161 1,  in 
fol.  (MiNiERi  Riccio,  Not.  biogr.  e  bibliogr.,  pp.  12-3). 

1  Ora  circondario  di  Gasale,  frazione  di  Montalero. 

2  Ded.  di  Domizio  Bombarda  al  Teatro  delle  glorie,  pp.  5-6.  —  H 
fratello  Giuseppe,  poi,  «  nella  Fiandra  per  le  molte  virtù  che  l'ador- 
nano da  quell'Altezza  d'Austria  in  grande  stima  tenuto  ».  E  cfr.  Adb- 
MOLLO,  La  bell'Ariana,  passim. 


XXXVI  INTRODUZIONE 

piccolo  sì,  ma  dilettevole  giardino ,  in  cui  tra  le  fre- 
sche ombre  e  le  tenere  erbette,  sorgeva  di  limpid'acque 
marmoreo  fonte,  che  faceva  umido  specchio  ad  un  va- 
ghissimo simulacro  dell'ingannato  Narciso,  vestigio  del 
raro  ingegno  dell' immortai  Buonarroti  e  memoria  della 
singolare  liberalità  del  serenissimo  signor  Duca  di  Man- 
tova verso  di  lei  dimostrata  »  ^  Egli  trovò  presso  la  so- 
rella una  nipotina,  che  non  conosceva,  una  bambina  nata 
l'anno  prima  a  Mantova,  che  doveva  essere  la  continua- 
trice  della  gloria  dell'Adriana  e  chiamarsi  poi  col  nome 
celebre  di  Leonora  Baroni^. 

Il  nuovo  Duca,  Ferdinando,  mostrò  subito  il  suo  favore  al 
nostro  poeta.  Il  25  marzo  16 13  ordinava  che  fosse  annove- 
rato «  tra  gli  gentiluomini,  famigliari  et  curiali  nostri  »  ^. 

E  il  6  aprile  dello  stosso  anno,  facendo  uso  del  diritto, 
ch'era  stato  concesso  dall'Imperatore  Massimiliano  II  al 
Duca  suo  padre  e  suoi  successori;  considerato  quanto  il 
Basile  valesse  «  in  humanarum  litterarum,  philosophicis 
et  Musarum  studiis  »,  lo  nominava:  «  militem,  sive  equi- 

tnm  auratum   ac   sacri  Lateranensis  Palatii,  aulaeque 

ac  Imperialis    Concistorii  Comitem;  aliorumque    equi- 

tum  auratorum  et  comitum  Palatinorum  numero  et  con- 
sortio  ascribimus  et  aggregamus  »  *. 


*  Ode,  p.  113.  Di  questa  scultura  di  Michelangelo  non  pare  s'abbia 
altra  notizia. 

2  Era  nata  nel  Die.  161 1.  Gfr.  Adkmollo,  La  bell'Adriana,  pp.  191-2. 

^  Il  dee.  è  pubbl.  dall' Ademollo,  o.  c,  pp.  199-200.  Il  decreto  fu 
pubblicalo  dal  Bebtolotti  nel  Giornale  araldico  diplomatioo  genea- 
logico dell'agosto  1884,  n.  2,  pp.  31-2. 

*  Si  soggiunge  la  facoltà  di  crear  notai  e  giudici  ordinarli  in  lutto 


INTRODUZIONE  XXXVII 

Il  Cortese  pare  che  allora  avesse  per  le  mani  il  suo 
poema  napoletano  :  Viaggio  di  Parnaso.  E,  in  questo  poe- 
ma, consacra  l'onorificenza  ricevuta  dall'amico;  perchè 
immagina  che,  là,  sul  Parnaso,  a  un  punto,  egli  si  addor- 
menti, e  sogni: 

Na  femmena  chiù  lustra  de  l'argiento, 
Che  portava  l'ascelle  e  no  trommone, 
Decenno:  Chi  fo  maje  da  Satiro  a  Tile 
Famuso  chiù  del  Cavalier  Bastie  ì 

Da  chisso  ha  schiacce  matto  ogne  scrittore 
O  sia  toscano,  o  grieco,  o  sia  latino; 
Chisto  ha  no  stile  che  l'ha  fatto  nore, 
Quanto  lo  sole  fa  luongo  cammino: 
Isso  se  fa  la  via  co  lo  valore 
A  la  grolla,  e  ne  schiatta  lo  destino; 
Ga  mo  è  d'Apollo,  commo  frate,  caro, 
E  le  vo  bene  de  le  Muse  apparo  ^  ! 

E  si  sveglia,  ed  ha  notizia  dell'arrivo  d'un  ambascia- 
tore da  Mantova,  che  porta  a  Febo  la  novella,  che  la 
virtù  del  Basile: 

Co  granne  nore  suo  l'ha  fatto  avere 
Lo  titolo  de  Conte  e  Cavaliere. 


il  Romano  Impero,  et  v.liiUbet  terrarum.  —  Arch.  di  Mantova,  1613, 
6  aprile,  Liber    decret.,  n.  54.  p.  30  t."  —  Debbo  questo    documento 
all'amico  Conte  E.  Rogadeo,  che  a  sua  volta  l'ha  ottenuto  dal  signor 
S.  Davari,  la  cui  cortesia  è  ben  nota  agli  studiosi, 
i  Viaggio  di  Parnaso,  IV,  3S-39 


XXXVin  INTRODUZIONE 

E  seguono  grandi  feste  per  la  lieta  novellai  Ed  è  cu- 
riosa questa  ottava  sopra  un  ritratto  del  Duca  Ferdinando, 
che  si  vedeva  in  una  stanza  di  Parnaso: 

Chisso  nc'era  dépinto  cossi  bivo, 

Che  quase  lo  vedive  freccecare; 

Tenea  la  vorza  fatta  commo  a  crivo, 

Che  no  nce  potè  rejere  denare! 

Da  lo  quale  piglia  oje  sostiento  e  civo 

La  Terlute,  che  stea  già  pe  crepare; 

Le  vide  appiede  mille  vertuluse, 

Che  le  puoje  nnuosso  appennere  le  fuse. 

Ed  isso  a  chi  dà  sfuorge,  a  chi  tornise, 
E  tutte  fa  partire  conzolate; 
Ora  cammina  mo  s'autre  paise, 
Se  truove  tanta  liberalitate  2! 

H  Basile  fece  a  Mantova  una  specie  d'edizione  com- 
pleta delle  varie  sue  opere,  il  cui  titolo  complessivo  è: 
Le  Opere  Poetiche  di  Giov.  Battista  Basile  il  Pigro,  cioì 
Madriali,  et  Ode,  prima  e  seconda  parte,  Venere  Addo- 
lorata, favola  tragica,  Egloghe  amorose  e  lugubri.  Av- 
venturose disavventure,  favola  maritima,  Pianto  della 
Vergine^  poema  sacro  In  Mantova,  per  Aurelio  e  Ludo- 
vico Osanni,  fratelli  stampatori  ducali,  MDCXIII. 

Di  questa  raccolta  la  sola  cosa  nuova  è  la  seconda 
parte  dei  Madriali  et  Ode,  nella  quale  sono  raccolte  le 
varie  piccole  poesie,  che  abbiamo  accennato,  fatte  dopo 
il  1609,  E  questa  seconda  parte  è  dedicata  al  Cardinal 
Ferdinando  Gonzaga. 


*  hi,  C.  V  e  VI,        2   Viaggio  di  Parnaso,  V,  lo-i. 


INTRODUZIONE  XXXIX 

Qualche  mese  dopo,  tornò  a  Napoli.  E,  appena  tor- 
nato, scoppiava  la  guerra  tra  Mantova  e  il  Piemonte,  per 
le  quistioni  della  successione  dei  Gonzaga.  Carlo  Emma- 
nuele,  non  avendo  potuto  ottenere  la  tutela  di  Maria, 
unica  figliuola  lasciata  dal  defunto  Duca  Francesco,  in- 
vadeva il  Monferrato.  E  Giambattista  Basile,  da  Napoli, 
scriveva  al  Duca  Ferdinando,  sospiroso  di  non  poter  pren- 
der parte  alla  guerra: 

Serenissimo  Sig.re. 

Già  viene  Lelio  mio  fratello  a  servire  V,  A.  Ser.ma  come  l'impose. 
Io  l'invidio  et  incolpo  la  mia  indispositione  che  nell'oportunità  della 
presente  guerra  mi  toglie  sì  largo  campo  di  sodisfare  in  parte  a 
quel  ch'io  debbo,  e  di  mostrar  a  pieno  quanto  io  sia  desideroso  di 
spargere  il  proprio  sangue  in  servigio  della  sua  Ser.ma  Gasa,  non  è 
per  ciò  ch'io  viva  in  pace,  perchè  da  vari  pensieri  asseggiato  son 
continuamente  saettato  dallo  sdegno  e  dall'ira  in  veggendo  quanto 
ingiustamente  sia  turbata  la  tranquillità  de  suoi  Popoli;  e  la  devo- 
lione  et  osservanza  ch'io  porto  al  suo  S.mo  nome  fa  ch'io  riceva  i 
suoi  propi  danni  e  con  maggior  affetto  per  non  essere  in  me  quella 
virtù  sì  Eroica  di  far  poca  stima  degli  avversi  colpi  della  fortuna 
qual'è  propia  di  V.  A.  Ella  vince  se  stessa,  io  rimango  oppresso  e 
vinto  dal  dolore,  né  altro  va  mitigando  il  mio  dispiacere  fuorché  il 
vedere  le  genti  tutte  pendere  da  felici  avvenimenti  di  V,  A,  essendo 
ciascuno  inclinato  a  desiderarle  vittoria,  ciascuno  ad  augurarle  ac- 
crescimento di  stato,  come  allo  'ncontro  tutti' biasimano  l'ingratitu- 
dine del  nemico,  l'hospitio  contaminato  e  la  rotta  fede.  Non  è  luogo 
dove  non  si  rimproveri  le  barbariche  attioni,  le  tante  spezie  di  cru- 
deltà el  dispregio  delle  cose  sacre  del  contrario  ;  laonde  viene  mag- 
giormente a  risplendere  l'humanità,  la  bontà  e  la  religione  di  V.  A. 
la  quale  quasi  chiaro  Polo  tiene  converse  le  calamite  degli  animi  a 
mirar  et  ad  ammirarla.  Io  dall'una  parte  ciò  vedendomi  glorio  d'es- 


XL  INTRODUZIONE 

sermi  dedicato  a  sì  gran  Principe,  dall'altra  mi  rodo  che  altri  sola- 
mente spinto  dalla  gloria  del  suo  nome  scopra  si  gran  desiderio  di 
vederla  superiore  delle  nemiche  forze  e  vorrebbono  esservi  presenti, 
et  io  che  l'opere  gloriosissime  di  V.  A.  non  scio  per  fama  che  per 
veduta  etiandio  ho  ammirate,  anzi  in  larga  parte  gli  efletti  della  sua 
grandezza  e  generosità  d'animo  in  me  provate,  me  ne  stia  otioso  e 
non  corra  e  non  voli  a  spender  la  propia  vita,  ch'ella  sarebbe  assai 
ben  impiegata  in  servitù  de  V.  A.,  ma  non  essendomi  ciò  conceduto 
per  non  trovarmi  intiera  salute,  supplico  V.  A.  ad  appagarsi  almeno 
di  questa  mia  buona  volontà  degnandosi  credere  che  io  sarei  non 
men  pronto  in  adoperar  la  spada  in  offesa  di  suoi  nemici,  come 
sono  apparecchiato  in  celebrar  le  sue  Palme,  e  le  sue  Vittorie  con 
la  penna.  E  col  fine  priego  N.  S.  Iddio  conceda  a  V.  Alt.»  poi  d' ba- 
vere abbassalo  l'orgoglio  nemico  eterna  pace.  Di  Napoli  primo  di 
giugno  1613. 

Di  V.  A.  S.ma  e  R.ma  HumUiss.  Ser.'" 

GlO.  BATTISTA  BASILE  *. 

E,  qualche  mese  dopo,  ringraziando  pei  nuovi  favori 
fatti  dal  Duca  a  sua  sorella  Vittoria,  finiva:  «  Priego  N. 
S.  Iddio  che  questa  generosità  grande  alla  nostra  Vit- 
toria dimostrata  sia  felicissimo  augurio  delle  sue  future 
vittorie  »  ^. 

Alla  Vittoria  si  accompagnò  l'altra  sorella  di  Giam- 
battista, la  Margherita  Basile,  anche  virtuosa  di  musica, 
che  il  Duca,  nel  1615,  ebbe  desiderio  di  avere  alla  sua 


1  Ai'ch.  di  Mantova.  Debbo  questa  e  le  altre  lettere  del  Basile  al- 
l'amico Prof.  N.  F.  Faraglia,  che  lo  ha  anche  ottenute  dal  Davari. 

2  Lettera  da  Napoli,  20  Dicembre  1613.  V.  append.  D.  L'Imbriani 
suppone  oh6  il  Basile  fosse  a  Roma  il  1614,  perchè  tra  i  suoi  ma- 
drigali ce  n'ha  uno:  IMr  la  colonna  drizzata  nel  colle  EsquUlno  per 
la  santità  di  Papa  Paolo  V,  appunto  nel  1614  ({.  e,  I,  51). 


/ 


IKTRODUZIONE  XU 

Corte.  E  ne  scriveva  al  fratello;  e  la  Margherita  andò 
difatti,  e,  dopo  due  mesi,  fu  dal  Duca  dotata  e  maritata  K 
Honny  soit  qui  mal  y  j^^'i^se! 

Giambattista,  nello  stesso  anno,  era  al  governo  della 
città  di  Montemarano,  brutto  paesello,  poco  lungi  da  Be- 
nevento, in  provincia  d'Avellino  ^.  Montemarano,  nei  se- 
coli XV  e  XVI,  era  appartenuto  ai  secoli  Della  Marra; 
ma  nel  1610  era  stato  venduto  dai  creditori  di  Giovanni 
Della  Marra  a  un  Maurizio  Tortello,  e  nel  161 5  appunto, 
messo  di  nuovo  in  vendita  e  comprato  da  Fabrizio  Guin- 
daccio  ^. 

Nel  luglio  16 15,  morì  a  Napoli,  nel  convento  di  S.  Do- 
menico, Fra  Tomaso  Carafa,  figlio  del  Marchese  d'Ansi, 
gran  predicatore  e  valente  letterato,  una  delle  colonne 
dell'Accademia  degli  Oziosi.  Il  Basile  concorse  alle  splen- 
dide onoranze  funebri,  che  gli  si  fecero,  con  un'ode"*. 

E,  nei  due  0  tre  anni  seguenti,  egli  fu  occupato,  non, 
fortunatamente,  in  composizioni  poetiche,  ma  in  lavori 
grammaticali  e  in  fatiche  d'editore.  A  lui  si  deve  un'edi- 
zione delle  Eime  del  Bembo  (1616-7),  e  del  Casa  (1617), 


i  ADEMOLLO,  La  bell'Adriana,  pp,  210-11,  e  passim. 

2  Sua  lettera  da  Montemarano,  14  Marzo  1615,  al  Duca  di  Man- 
tova. —  V.  Append.  D. 

3  Arch.  di  Stato.  SpofjUo  dei  Cedolarii:  Principato  iiUra^  i600; 
ff.  239-40.  Gfr,  Ottavio  Beltrano,  Descr'.  del  Regno  di  Nap.,  Nap., 
1640,  p.  106;  G.  B.  Pacichelli,  n  Regno  di  Nap.  in  prospettiva,  Nap., 
1703,  I,  1241. 

^  Costo,  3Iemoriale,  p.  88;  Ode,  pp.  140  sgg.  Sul  Carafa,  cfr.  an- 
che Ghilini,  Teatro  d'huom,  letterati,  Milano,  s.  a.,  pp.  414-5. 


XLII  INTRODUZIONE 

e  un  volume  di  Osservazioni  intorno  alle  Mime  del  Bembo 
e  del  Casa^. 

Le  Osservazioni  non  sono  altro  clie  una  sorta  di  vo- 
cabolario delle  voci  e  frasi  usate  dal  Bembo  e  dal  Casa, 
ognuna  delle  quali  è  largamente  esemplificata.  —  Ma 
prodotto  più  importante  di  queste  fatiche  critiche  del 
Basile  furono  le  Rime  di  Galeazzo  di  Tarsia,  poeta  tanto 
notevole,  e  tanto  poco  fortunato,  che  egli  fu  il  primo  a 
divulgare  per  le  stampe  ^.  Benché,  a  dire  il  vero,  al  me- 


i  Eime  di  M,  Pietro  Bembo  degli  errori  di  tutte  le  altre  impres 
sioni  purgate  aggiuntevi  Vosservationi,  le  varietà  del  lesti  e  la  ta- 
vola di  tutte  le  desinenze  delle  Rime  del  Cavalier  Gio.  Battista  Ba- 
sile nell' Accadem,ia  degli  Stravaganti  di  Creti  e  degli  Ottosi  di  Na- 
poli il  Pigro,  In  Napoli,  per  Constantino  Vitale,  MDGXVI.  La  Tavola 
delle  desinenze  ha  un  frontespizio  particolare,  colla  data  del  1617.  In 
tutto,  pp.  260. 

Rime  di  M.  Giovanni  della  Casa  riscontrate  coi  migliori  origi- 
nali e  ricorrette  dal  Cavalier  Gio.  Battista  Basile,  In  Nap.,  per  Con- 
stantino Vitale,  MDCXVII.  pp.  102. 

Osservationi  intorno  alle  rime  del  Bembo  e  del  Casa  con  la  tavola 
delle  desinenze  delle  Rime  e  con  la  varietà  dei  testi  nelle  rime  del 
Bembo  di  Gio.  Ballista  Basile,  Cavaliero,  Conte  Palatino  et  gentiluo- 
mo dell'Altezza  di  Mantova  nell'accademia  degli  Stravaganti  di  Creti 
et  degli  Otiosl  di  Napoli  il  Pigro,  In  Nap.,  nella  stamperia  di  Con- 
stantino Vitale,  MDCXVIII,  di  pp.  512  numm.  Queste  ultime  sono  de- 
dicate a  Marco  Scitico  Alteiups,  arcivescovo  e  principe  di  Salspurg, 
al  quale  l'A.  si  professa  grato  «  per  li  favori  ch'Ella  si  è  degnata 
di  fare  a  mia  casa,  nella  persona  di  mio  fratello  ». 

2  Rim.e  di  Galeazzo  di  Tarsia  nobile  Cosentino  raccolte  dal  Ca- 
valier Basile  dell'Accademia  degli  Otiosi,  detto  il  Pigro,  Napoli,  ap- 
presso Constantino  Vitale,  1617.  Fu  ristampata  materialmente  il  1694, 
1698,  e  1716,  e,  con  cura  critica,  il  1738,  1750, 1752.  Su  di  un  nuovo 


INTRODUZIONE  XLIII 

rito  dell'intenzione  e  al  beneficio  fatto  alla  fama  del 
poeta,  non  corrisponda  il  valore  dell'edizione,  eh'  è  scor- 
rettissima, e  senza  punto  critica  ^ 

Il  libro  è  dedicato  da  Zuncoli,  colla  data  del  i  gen- 
naio 1617,  a  Cecco  di  Loffredo,  Marchese  di  Trevico,  e 
Capitano  d'uomini  d'armi  in  regno.  —  Znncoli  è  una  pic- 
cola terra  in  Principato  Ultra,  della  quale  erano  appunto 
signori  feudali  i  Loffredo.  Il  Basile  si  trovava,  dunque,  in 
Zuncoli  il  1617,  al  seguito  del  LofìVedo. 

Al  quale  Loffredo,  suo  nuovo  padrone,  dedicava  anche 
la  terza  parte  dei  suoi  Madriali  et  Ode,  che  fu  stampata 
a  Napoli  il  1617^. 

Ma  dal  Loffredo  passò  subito  ad  altro  padrone,  al  nuovo 
Principe  d'Avellino,  Marino  Caracciolo  ^.  —  Tale  fu  la  sua 
vita,  e  tale  la  vita  di  tanti  altri  letterati  d'allora:  un  pas- 
saggio di  protettore  in  protettore,  di  padrone  in  padrone. 


codice,  ristampò  le  Rinie  del  Tarsia  lo  Spiriti:  In  Nap.,  MDCCLVIIl, 
nella  stamp.  Simoniana.  Ora  se   ne   ha   l'edizione  del  Bartelli:  Ga- 
leazzo DI  Tarsia,  n  Canzoniere,  Cosenza,  1888. 
i  Cfr.  ed.  cit.  del  Bartelli,  pp.  XIV  sgg. 

2  De'  Madriali  et  delle  Ode  del  Cavalier  Gio.  Battista  Basile,  Conte 
Palatino,  et  Gentiluoìno  delt Altezza  di  Mantova,  Parte  Terza,  In 
Napoli,  per  Constantino  Vitale^  1617.  —  Ded.  in  data  20  Febbraio  1617. 
Contiene,  tra  l'altro,  odi  pei  pittori  Stanzioni  e  Caracciolo,  e  una 
per  l'esilio  del  Duca  di  Nocera  (cfr.  Arch.  Stor.  Hai.,  IX,  227).  L'Iin- 
briani,  da  un  luogo  del  Teagene  (Vili,  48),  cava  che  il  Basile  do- 
vesse visitare  anche  altri  luoghi  del  Principato;  certo,  le  ferriere 
dell'Atrlpalda  {Il  Gran  Basile,  1.  e,  I,  53). 

3  Suo  padre,  generale  della  cavalleria  del  Regno,  era  morto  in 
Lombardia  nel  Dicembre  1617.  —  Costo,  Memoriale,  p.  94. 


XLIV  INTRODUZIONE 

E  cosi  anche  si  spiegano,  e  appaiono  non  puramente  con- 
venzionali le  tante  declamazioni  contro  le  corti,  che  si  leg- 
gono nelle  sue  opere.  Sventurato!,  —  dic'egli  — ,  chi: 

pe  na  pezza  vecchia 
E  per  sorchiare  vroda  a  no  teniello 
Co  na  panella  sedeticcia  e  tosta, 
Venne  la  libertà,  che  tanto  costa! 

Non  c'è  vita  più  misera  e  più  carca  d'affanni: 

Mo  se  vede  tenuto 

Mparma  de  mano  e  mo  puosto  nzeffunno, 

Mo  caro  a  lo  patrone,  e  mo  nzavuorrio; 

Mo  pezzente,  mo  ricco; 

Mo  grasso  e  luongo,  mo  arronchiato  e  siccol 

Stenta  e  fatica  quanto  vuoi;  ed  ecco  ti  passa  innanzi: 

No  boffone,  na  spia,  no  Ganemede, 

No  cuojero  cotecone, 

O  puro,  uno,  che  facce 

Casa  a  dei  porte,  o  n'ommo  co  doi  facce*! 

Tuttavia,  il  Principe  d'Avellino,  gran  Cancelliero  del 
Regno,  e  «  il  più  gran  signore  che  fusse  in  Regno  »,  era 
«  virtuoso  et  amatore  dei  virtuosi,  a  segno  tale  che  sino 
il  8U0  barbiere,  Gio.  Battista  Bergazzano,  fu  poeta!  » 
Aveva  per  moglie  una  D'Avalos,  figliuola  del  Marchese 
di  Pescara*. 


»  Egl.  La  Coppella.  Cfr.  anche  III,  7,  9,  ecc. 

*  Curr.A,  Aggiunta  al  Giornali  di  Scipioìie  Guerra,  Ms.  Bibl.  Naz., 
segn.  X.  B.  66.  —  sub  4  Nov.  1630. 


rNTRODITZIOKE  XLV 

Il  Basile  ci  ha  lasciato  memoria  della  lieta  società, 
che,  nelle  serate  d'inverno,  s'accoglieva  in  casa  Avellino. 
«  Passava  l'Ecc.mo  signor  Principe  d'Avellino  in  dilet- 
tevoli trattenimenti  le  notti  del  verno  tra  in  liete  gio- 
stre e  in  sontuosi  tornei  e  in  vaghe  mascherate  et  in 
gioconde  commedie  et  in  piacevoli  veglie,  e  in  festosi 
halli  ».  E  «  una  sera,  fra  l'altre,  che  in  quella  nobilissima 
corte,  —  delle  più  illustri  d'Italia  sovrana  emolatrice  — , 
v'erano  gran  numero  dei  cavalieri  e  di  Dame  ragunate, 
mentre  la  più  graziosa  di  quelle,  secondo  un  proposto 
giuoco,  era  al  tempio  dell'  Eternità,  qui  drizzato,  condotta 
con  si  peregrine  maniere  e  con  si  artificiosi  modi  formò 
l'imposto  ballo,  che,  dopo  averla  a  scorno  del  tempo  in 
quella  immortai  magione  collocata,  quasi  votiva  tabella.... 
devotamente  vi  sospese  »....  due  odi  del  Basilea 

Fra  l'altro,  il  Principe  d'Avellino,  in  questo  periodo 
del  massimo  fiorire  della  sua  casa,  pensò  di  crearsi  ad- 
dirittura una  corte,  a  somiglianza  delle  sovrane.  E  si 
legge  in  una  cronaca,  ai  principi!  di  maggio  1618:  «  Si 
dice  che  il  nuovo  Principe  di  Avellino  abbia  fatto  li  ca- 
valieri della  chiave  d'oro,  con  provvisione  di  cinquanta- 
due ducati  il  mese.  11  capo  di  quelli  è  il  Cavalier  Basile, 
con  li  Alabardieri  »  -. 

Nel  1619  il  Principe  lo  mandava  come  governatore 
feudale  alla  sua  terra  d'Avellino^. 


i  Ode,  pp.  11-5. 

2  Zazzera,  Giornali,  ms.  Bibl.  Soc.  Stor.   f.  175   t.  Ed.  a  stampa 
(Arch.  Stor.  Hai,,  IX),  p.  534. 

3  Ode,  p.  216.  A  Montefusco,  poco  lungi  da  Avellino,  «  dovendosi 
da  peregrini  ingegni,  rappresentar il  pietoso  strazio  per  amor  di 


XLVI  INTRODUZIONE 

E,  da  Avellino,  dedicava  al  Principe  il  suo  idillio:  Are- 
tusa  *,  eh'  è  una  delle  migliori  cose,  forse  la  migliore,  che 
gli  uscisse  dalla  penna,  composta  in  un  momento  felice, 
un  bel  pezzo  di  stoi'ia  mitologica,  raccontato  secondo  gli 
ideali  di  un  letterato  seicentista,  con  tutti  i  ghirigori  ba- 
rocchi del  tempo,  ma  con  molta  vena,  molto  brio,  e  fa- 
cilità e  melodia  di  verso.  Fa  pensare  a  certi  bei  dipinti 
mitologici  della  scuola  bolognese,  dei  Caracci,  o  di  Guido 
0  del  Domenichino.  Eccone,  come  saggio,  l'ultima  parte, 
dove  si  descrive  l'inseguimento,  che  fa  Alfeo,  dell'amata 
Aretusa  : 

Alfeo,  per  quello  stesso 

Precipizio  mortai,  sospinse  l'acqua, 

E,  per  l'interne  viscere  ed  occulte 

De  la  Terra,  e  per  sotto  il  mar  spumante. 

La  segue  ovunque  vada! 

Né  già  potea,  per  tante 

Caligini  d'orrori, 

Smarrir  di  lei  la  sospirosa  luce!; 

Né  già  potea  per  tante  humide  vie 

Sentir  men  calde  l'amorose  flammei; 

Che  mal  può  l'Oceano 

D'impetuoso  Amor  spegner  l'arsura! 

Alfin,  la  sbigottita, 

Entro  al  più  cupo  seno 


Christo  sofferto  dalla  Vergine  e  Martire   santa   Cristina  »,  egli,  pre- 
gato, compose  alcuni  versi  per  quell'occasione. 

i  È  sconosciuta  a  tutti  i, bibliografi:  L' Aretusa  Idillio  di  Gio.  Batr 
Usta  Bastie  Cavaliero  Conte  Palatino  et  OentiChuomo  dell'Altezza  di 
Mantova,  s.  a.  1.  (pp.  31  numm.,  e  a  p.  32,  errata  corrige).  La  ded.  é 
firmata:  «  Nella  sua  città  d'Avellino,  a  primo  Gennaio  1619  ». 


INTEODUZIONE  XLVII 

Della  terra,  s'accorge 

D'un'occulta  apertura,  che  penetra 

Sin  dove  siede  la  città  del  foco, 

Per  cui,  ratio  scendendo, 

S'invola  agli  oocbi  del  sagace  amante! 

O  di  cieco  timor  ferza  inaudita!: 

Non  mira,  per  fuggir,  ch'ella  già  rompe 

Del  liquido  elemento 

Le  innate  leggi  eterne, 

Che  il  suo  contrario  aborra; 

E  va  nel  cerchio  ardente  a  portar  l'onde 

De  l'infernal  Gocito  ! 

La  famiglia  d'Inferno 

Stupida  a  mirar  prende 

Il  non  più  visto  fonte, 

E  fa  '1  nuovo  portento 

Sospender  fra  quell'alme  ogni  tormento! 

Non  si  pascon  gli  augelli. 

Non  si  Tolgon  le  ruote, 

Non  si  conduce  il  sasso  a  l'alto  monte 

Ne  col  cribo  si  trae  l'acqua  dal  fonte! 

Il  regnator  de  la  penosa  Dite, 

Da  torvi  rai  spirando  arida  luce, 

Intende  d'Aretusa 

Che  l'abbia  spinto  al  tenebroso  regno. 

E,  di  suoi  gravi  affanni 

Pietoso,  forse  avria  dato  a  quell'acque 

Incendioso  albergo; 

Ma,  per  non  porre  al  suo  cocente  nido 

Ospite  sì  nemica, 

L'insegna,  ov"ella  il  varco 

Trovi,  onde  sorga  a  riveder  le  stelle. 


XLVIII  mXKODUZIONE 

Ove  Peloro  scovre  il  mar  Tirreno, 

Mille  aperture  ha  la  Trinacria  riva, 

Per  cui  respira  il  foco,  ond'arde  il  centro. 

Una  di  queste  addita 

Il  signor  d'Acheronte  ad  Arelusa, 

Per  cui  risorge  ove  non  tace  il  vento; 

E  fa  di  nuovo  humor  bagnate  e  molli 

Di  Sicania  le  piagge, 

Di  tema  ancor  gelante,  ancor  tremante! 

Qui  ferma  il  corso,  e  qui  piange  in  eterno. 

Mai  sempre  humido  il  ciglio, 

D'Ismen  la  morte,  e  '1  suo  perpetuo  esigilo! 

L'anno  dopo,  era  tornato  a  Napoli,  e  dedicava  un  al- 
tro idillio:  Il  guerriero  amante,  a  D.  Domizio  Caracciolo, 
Marchese  della  Bella,  cadetto  di  Casa  Avellino  ^  È  la 
storia  di  un  guerriero  napoletano,  che,  andato  alla  guerra 
di  Lombardia,  in  una  tregua  guerresca,  s'innamora,  e, 
non  corrisposto  nel  suo  amore,  disperato,  si  uccide.  E  la 
donna  crudele,  punta  da  rimorso  e  da  tardivo  amore,  si 
uccide  sul  morto  amante: 

Così,  dove  non  valse 
Prieghi  o  sospir  del  doloroso  amante, 
È  '1  suo  morir  possente  a  far  pietate 
Nel  duro  sen  dell'orgogliosa  Ninfa. 

Cosi  morte  congiunse 

Quei,  ch'unir  non  poteo  forza  d'amore! 

Così  due  somiglianti  agli  alti  Dei, 
Fero  destin  sospinse  a  morte  acerba! 


*  Jji  ded.  è  dulala:  Napoli,  i  di  Maggio  1620, 


INTRODUZIONE  XLIX 

Un  sol  ferro  l'ancise, 

Uà  sol  marmo  l'accolse, 

Ove  pia  man  gli  chiuse, 

E  v'intagliò  queste  dolenti  note: 

Tardo  pentir,  sollecito  dolore 

Empier  qv.esfurna^  e  fer  ben  duro  scempio 

D'un' anima  crudel,  d'un  fero  core; 

Tu,  che  amata  disami,  or  tranne  esempio  ! 

Adriana  Basile  da  Mantova  fece  una  scorsa  a  Napoli, 
e  vi  si  trattenne  durante  l'inverno  1619-20,  festeggiata 
da  tutta  la  buona  società  napoletana,  porgendole  ghir- 
lande di  versi  Giambattista  Manso,  Domizio  Caracciolo,  il 
Marchese  di  Trevico,  Andrea  Santamaria,  Antonio  Basso, 
Orazio  Cernite,  ecc.  ^ 

Nel  162 1  si  fondava  a  Napoli  l'accademia  degli  In- 
cauti, e  il  Basile  vi  appartenne*.  Intanto,  pigliava  sem- 
pre parte  all'accademia  degli  Oziosi,  e  per  la  solennità, 
che  si  soleva  celebrare  nel  giorno  di  S.  Giacomo  in  quel- 
l'accademia scrisse,  una  volta,  un'ode^. 

Nel  162 1-2  fu  dal  Viceré  Cardinal  Zapata  nominato 
per  un  anno  governatore  della  terra  di  Lagulibero,  ossia 
Lagonegro  in  Basilicata''. 


1  A  DEMOLLO,  La  bell'Adriana,  p.  244  sgg. 

2  MiNiERi  Riccio,  Cenno  delle  accademie,  IV,  527-S. 

3  Ode,  pp.  199-202. 

*  Provvis.  18  Giugno  1621.  —  Arch.  di  Stato,   Collaterale  Offìcior., 
voi.  14  (1610-22),  fol.  12S  t."  —  V.  Append.  E. 


L  INTEODUZIONE 

Nel  1623,  s'incontra  il  suo  nome  alle  stampe,  come 
autore  degli  argomenti  in  ottave  aW Eracleide,  Poema  di 
Grabriele  Zinano*. 

Nel  1624,  quantunque  stesse  sempre  a  Napoli,  pubbli- 
cava a  Mantova  le  Imagini  delle  più  belle  dame  napole- 
tane ritratte  da  lor  propri  nomi  in  tanti  anagrammi^^ 
dedicandole  al  Signor  Tomaso  Francesco  Spinello,  Mar- 
chese di  Fuscaldo.  Sono  71  nomi  di  dame  napoletane, 
cucinati  in  88  anagrammi  ed  epigrammi.  Segue  un'altra 
serie  di  simili  componimenti  per  varii. 

Il  volumetto,  nella  sua  scioccheria,  è  di  quelli,  che  fa 
pensare  a  molte  cose.  E  fa  pensare,  anzitutto,  alla  deca- 
denza del  carattere  umano,  in  quei  tempi,  e  alla  conse- 
guente vacuità  di  sentimento  e  pensiero,  che  conduceva 
gente,  come  il  nostro  Basile,  a  perdere  il  suo  tempo  in 
lavori  cosi  indegni.  —  Che  cosa  sono  queste  Imagini  delle 
più  belle  dame  ?  Ecco  qui.  —  11  Basile  prendeva  il  nome 
di  una  dama  napoletana,  che,  per  suo  interesse,  0  per  va- 
ghezza, gli  convenisse  adulare.  Per  es.,  quello  di  D.*  Do- 
rotea  di  Capua,  Marchesa  di  Campolattaro,  una  signora,  — 
sia  detto  fra  parentesi  — ,  molto  nota  a  quei  giorni,  e  che 
era  stata  una  delle  amanti  del  Duca  d'Ossuna^.  Dunque: 


1  V Eracleidc  di  Gabriele  Zinano,  all'invittissimo  et  gloriosissimo 
signor  II  Cattolico  Don  Filippo  IIII  d'Austria,  Re  di  Spagna  e  del 
mondo  Nuovo  universale  Monarca,  Per  il  Deuchino,  con  lic.  e  priv., 
In  Venezia,  MDGXXIII.  Gfr.  Imbriani,  Il  Gran  Basile,  1.  e,  II,  213-4. 
II  Basile,  nel  Teagene  (V,  59),  dice  del  Zinano:  «  D'Eraclio  canterà 
l'eccelse  imprese  Zinan,  rlie  trarre  i  monti  a  sé  ben  puote  ». 

2  In  Mantova,  1624.  Ded.  da  Nap.,  i  Maggio  1624  (di  pp.  94-49). 

3  Ved.  Croce,  /  teatri  di  .\apoU,  pp.  loo-ioi. 


IKTRODTJZIONE  LI 

Marchesa  di  Campolattaro.  E,  rivolgendo  le  lettere  di 
questo  nome,  e  provando  e  riprovando,  ne  cavava  una 
frase  per  anagramma,  questa:  Hai  d'amor  scettro  e  pal- 
ma! E  poi,  su  questa  frase,  costruiva  il  seguente  ma- 
drigale : 

Nulla  beltà  risplende, 

Ove  tu  pompa  altera 

Fai  de  la  tua  bellezza,  alma  guerriera!, 

Né  già  di  te  più  degna 

Ne  l'amoroso  ciel  trionfa  e  regna!; 

Che  tu  sol,  chiara  et  alma, 

Hai  d'amor  scettro  e  palma'. 

E  aveva  il  coraggio  di  far  questo  per  settantuno  nomi 
di  dame,  e  poi  per  un  manipolo  di  altri  trentacinque;  e 
di  questi  lavori,  ingegnosi  si,  ma  stupidi,  disseminava  le 
raccolte  e  i  libri  dei  suoi  amici.  E  come  ne  dava,  cosi 
ne  riceveva!,  e  una  gran  parte  del  tempo  dei  letterati 
italiani,  per  un  secolo  intero,  fu  occupato  nel  fare  ana- 
grammi. H  rebìis  e  la  sciarada,  insomma,  elevati  agli 
onori  altissimi  nel  mondo  letterario! 

Nel  frontespizio  di  questo  libercolo,  comparisce  per  la 
prima  volta,  accanto  al  suo  nome,  il  titolo  di  Conte  di 
Tarane.  Torone  è  uno  dei  sei  villaggi,  cbe  compongono 
Morrone,  in  Terra  di  Lavoro,  diocesi  di  Caserta  ^  Va- 
lendosi  del   titolo,   che  gli  era  stato  concesso,    egli  vi 


i  Morrone,  ai  principii  del  v.  XVII,  apparteneva  a  Matteo  di  Gapua, 
Principe  di  Conca.  Nel  1621  G.  C  di  Gapua  lo  vendette  a  G,  G.  Pi- 
sano (Arch.  di  Stato,  Spoglio  dei  cedol.:  Terra  di  Lavoro:  i600,  fol. 
73.  —  Cfr.  Giustiniani,  o.  c,  VI,  165. 


LII  INTRODUZIONE 

aveva  aggiunto  il  nome  di  questa  terra,  che  forse  aveva 
comprato.  Nel  1626,  in  una  sua  lettera,  si  trova  detto 
Conte  di  CastelrampaK  Ma  poi  torna  al  titolo  di  Conte 
di  Torone,  col  quale  si  fregia  nei  frontespizi  di  tutte  le 
ultime  sue  opere. 


Nel  1624  tornò  a  Napoli  l'Adriana,  che,  sul  principio, 
fu  restia  essa  a  ripigliare  la  via  di  Mantova;  poi,  non  fu 
più  voluta  da  quella  Corte;  e,  malgrado  1  suoi  tentativi, 
fini  col  restare  a  Napoli,  fino  intorno  al  1633,  quando 
andò  a  stabilirsi  a  Roma^. 

Veniva  anche  a  Napoli  lo  stesso  anno  Giambattista 
Marino,  e  questo  ritorno  fu,  con  quello  dell'Adriana,  tra 
gli  avvenimenti  più  notevoli  dell'anno.  Il  Basile  lo  salu- 
tava con  una  sua  ode,  «  tra  per  concorrere,  —  com'egli 
dice  — ,  coll'universale  applauso  delle  sue  meritate  lodi, 
e  per  obligatione  di  portare  i  pregi  sino  al  Cielo  di  lui, 
che  portato  ha  le  glorie  della  sua  Patria  sovra  le  stelle 
e  per  rendersi  eziandio  grato  con  pochi  versi  a  chi  con 
tanti  parti  del  suo  divino  ingegno  ha  la  sua  propria  so- 
rella altamente  celebrata  »•'.  Anche  nel  Teagene,  che  a- 
veva  per  le  mani  in  questo  tempo,  gli  consacrava  un'ottava: 

Ma  chi  dirà  di  te,  Marin,  gli  honori, 
Cui  Permesso  apparecchia  eterni  allori? 


*  Napoli,  34  novembre  1626;  v.  Append.  D, 

2  ADEMOLLO,  La  bclV Adriana,  pp.  289-323. 

3  Ode,  pp.  147-150. 


INTRODUZIONE  LUI 

Qviante  d'inchiostro  versarai  tu  stille, 
Tante  fien  di  dolcezza  ampi  torrenti!; 
Ogni  solco  di  penna  a  mille  a  mille 
Fior  di  gloria  aprirà  lieti  e  ridenti  !  ; 
Una  de  le  amorose  alme  faville, 
Sparse  in  tue  carte,  le  più  voglie  algenti 
Potrà  inQammar;  da  le  tue  note  altere 
Apprenderan  nuove  armonie  le  sfere  ^! 

Nel  1626  il  Basile  aveva  uno  dei  soliti  incarichi  di 
governo.  Il  Viceré,  Duca  d'Alba,  lo  nominava  Capitano, 
ossia  governatore  regio,  di  Aversa,  prò  uno  anno  integro 
et  deinde  in  antea  ad  beneplacitum^.  Circa  questo  tempo, 
lo  si  trova  anche  detto  :  «  Capitano  di  fanteria  nel  regno 
di  Napoli  »  ^. 

Nel  1627  rimanipolava  alcuni  suoi  volumi  precedenti, 
formandone  uno  di  cinquanta  odi,  che  dedicava  al  Duca 
d'Alba,  D.  Antonio  Alvarez,  suo  protettore''.  Questo  vo- 


i  Teagene,  V,  66-7. 

2  La  nomina  è  in  data  del  28  dicembre  1626  {Officior.,  Colla!.,  voi.  22, 
1625-8,  fol.  86  t.").  È  strano  però  che  nel  volume  delle  Ode,  stamp.  a 
Nap.,  1627,  e  colla  dedica  in  data  i  gennaio  1627,  ci  sia  un'ode  a 
S.  Francesco,  scritta  quand'egli  era  governatore  d'Aversa,  ad  istiga- 
zione del  P.  M.  Andrea  Torres  Garmelita,  che  predicò  ivi  l'intera 
quaresima.  Dunque,  0  la  dedica  è  antidatata  rispetto  alla  stampa  del 
volume,  0  il  Basile  fu  anche  un'altra  volta,  antecedentemente,  go- 
vernatore d'Aversa.  V.  append.  E. 

3  Così  Dom.  Bombarda  nella  dedica  in  data  i  aprile  1628,  al  Tea- 
tro delle  glorie,  ristampato  in  Napoli  il  1628. 

*  Ode  del  Cavalier  Gio.  Battista  Basile,  Conte  di  Torone  e  Genti- 
luomo dell'Altezza  di  Mantova,  all'Illustrissimo  ecc.  Duca  d'xVlba  ecc., 
In  Napoli,  per  Gio.  Dom.  Roncagliolo,  1627,  di  pp.  224. 


LIV  INTRODUZIONE 

lume  contiene  tutte  le  odi  già  stampate,  e  le  nuove  sono 
degne  delle  prime*. 

Le  odi  e  i  madrigali  furono  il  genere  da  lui  prediletto; 
ma  compose  anche,  una  volta  e  un'altra,  dei  sonetti;  una 
ventina  dei  quali  si  trovano  raccolti  in  un  raro  libro,  pub- 
blicato dopo  la  sua  morte  -.  Un  sonetto  amoroso,  ha  que- 
sto strano  argomento:  Di  donna  estinta  in  sogno  s'inva- 
ghisce  : 

Dovrà,  lasso!,  languir  sempre  il  cor  mio 

In  si  strana  d'Amor  spietata  guerra, 

Per  un  lume,  eh' è  già  spento  e  sotterra, 

Ch'esca  fé' breve  sonno  al  mio  desio? 
Parta,  deh  parta,  ornai  sì  folle  e  rio 

Pensier,  ch'entro  al  mio  cor  si  nutre  ed  erra!; 

Non  cerchi  invan,  chi  non  trovar  può  in  terra, 

E  cada  in  Lete,  se  di  Lete  uscio! 
Mortai  fu  il  dono;  e  che  donar  può  mai 

Fallace  sonno,  imagin  de  la  morte. 

Bugiardo  amor,  clie  il  cor  di  vita  sgombra? 
Ove  s'intese  mai  più  acerba  sorte? 

Un  falso  imaginar  mi  tragge  in  guai. 

Parlo  d'un  sogno,  ed  amator  d'un' ombra! 

1  Tra  quelle  finora  non  notate,  ce  n'ha  pel  Cardinal  Borghese, 
per  Nicola  Barlìarigo  e  Marco  Trevisano,  per  D.  Alvaro  de  Torres, 
per  Muzio  Barone,  pel  P.  Alfonso  Daniele,  ecc. 

2  liime  d'illustri  ingegni  napolitani,  raccolte  dal  Dottor  Gio.  Do- 
menico Agresta,  insieme  con  le  sue  rime,  et  coll'argomenti  d'un 
verso,  in  fronte  di  ciaschedun  componimento,  date  in  luce  dal  si- 
gnor D.  Giuseppe  Macrino,  In  Venezia,  per  il  Ciera,  1633.  —  Contiene 
rime  dell'Agresta,  di  Gio.  Doni,  del  Gaudio,  di  Aniello  Palomba,  di 
Nunzio  Morone,  di  Fabrizio  Marotta,  e,  da  pp.  117  a  136,  diciannove 
sonetti  del  Basile. 


INTRODUZIONE  LV 

Compose  anche  tre  commedie,  intitolate  il  Fileno,  VEii- 
genio,  e  gV  Innocenti  assoluti,  che  non  furono  mai  stam- 
pate *. 

Com'  è  noto,  ogni  anno  si  faceva  dal  Popolo  napoletano 
una  gran  festa,  o  Apparato,  pel  S.  Giovanni  Battista,  or- 
nando di  pitture,  e  statue,  e  iscrizioni,  e  versi,  molte  vie 
della  regione  di  Pendino  e  di  Porto.  Il  Basile,  come  gli 
altri  letterati  napoletani,  non  poteva  mancare  di  pren- 
dervi parte,  con  qualche  sua  composizione.  E  neW Apparato 
del  1626,  contribuì  con  un  anagramma,  una  poesia  spa- 
gnuola,  e  un  epigramma  latino*.  —  Nel  1628,  alla  via  dei 
Lanzieri  c'era  il  ritratto  del  Viceré  con  un'ode  del  Ba- 
sile; a  San  Pietro  Martire  un  suo  sonetto;  e  alla  Spe- 
ziarla vecchia  un  «  ingegnosissimo  e  leggiadrissimo  ma- 
drigale ».  E,  nell'opuscolo  descrittivo  della  festa,  che  si 
pubblicò  allora,  il  Basile  appare  in  una  qualità  per  noi 
nuova,  nella  qualità  di  censore^. 


i  Chioccarelli  (De  ilh'.str,  script.):  «  edidit  quoque  com oedias  ìta.- 
lice,  nondum  excussas  ».  Per  altre  bazzecole,  scritte  dal  Basile,  poesie 
laudative,  anagrammi,  ecc.,  rimando  all'elenco  fattone  dal  Minieri 
Riccio,  JVot.  biogr,  e  bibliogr.  cit.,  pp.  12-3.  Il  Mazzuchelli  cita  inoltre: 
Sacri  sospiri,  madrigali,  Mantova,  Osanna,  MDGXXX:  che  l'Imbriani 
suppone  non  esser  altro  se  non  i  Madrigali  Spirituali,  che  si  leg- 
gono dopo,  il  Pianto  della  Vo-gine  (Il  Gran  Basile,  1.  e,  II,  215). 

2  Gfr.  MiNiERi  Riccio,  Not.  biogr,  e  bibliogr.,  1.  e. 

3  Descriltione  deW Apparato  di  S.  Giovanni  fatto  dal  Fedelissimo 
Popolo  Napolitano,  aU'IU.mo  ecc.  Duca  d'Alba,  1628,  di  Giov.  Berar- 
dino  Giuliani,  Segretario  dell' istesso  Fedelissimo  Popolo,  In  Napoli, 
per  Domenico  Maccarano,  1628.  V.  lett.  del  Basile,  al  Duca,  13  set- 
tembre 1628,  in  fine. 


LVI  INTRODUZIONE 

Anche  negli  altri  Apparati,  per  esempio  in  quello  del 
1631,  egli  contribuì  coi  suoi  versi  ^ 

Nel  1630  venne  a  Napoli,  per  passare  in  Austria,  la  re- 
gina Maria,  sorella  di  Filippo  IV,  che  andava  sposa  al- 
l'arciduca Ferdinando.  Tra  le  tante  feste,  che  si  fecero 
in  quell'occasione,  il  17  ottobre  1630  i  Cavalieri  napole- 
tani disposero  di  rappresentare  in  Palazzo  una  sorta  di 
spettacolo  di  ballo  e  musica,  in  sua  lode.  Le  parole  le 
compose  appunto  il  Basile.  Quello  spettacolo  è  importante 
come  uno  dei  primi  saggi  di  drammi  in  musica,  rappre- 
sentati a  Napoli  -.  E  ne  durò  la  memoria  per  un  pezzo.  Il 
Capaccio  dice  :  «  E  credo  che  dovette  essere  mirabilmente 
sodisfatta  (Maria  d'Austria)  in  quella  maschera,  che  di 
volontà  ferono  tanti  segnalati  Cavalieri,  e  d'invenzione  del 
Cavaliere  Grio.  Battista  Basile,  dove  non  so  qual  maggior 
cosa  potesse  comparire  per  vaghezza,  per  splendore,  per 
diletto,  per  varietà,  di  ciò  che  si  ritrova  nel  tesoro  della 
poesia  »  ^.  I  versi  del  Basile  erano  abbastanza  brutti,  e 
così  parvero  anche  ad  un  contemporaneo,  al  cronista  Fer- 


*  Cfr.  PADiOLiovE,  La  Biblloteoa  del  Mimeo  nazion.  di  S.  Martino, 
Nap.,  Giannini,  1876,  pp.  LXXV-l,XXXr.  L'Apparato  del  1629  usci  dal 
solito,  perchè  fu  diviso  secondo  i  segni  dello  Zodiaco,  ciascun  segno 
rappresentando  una  virtù  del  Duca  d'Alba,  che  era  lungamente  svolta 
ed  illustrala.  Ved.  Francesco  Scacciavento,  Il  Zodiaco,  Nap.,  1630. 

*  Monte  di  Parnaso  Mascherata  da  Cavalieri  Napoletani  alla  M.  Se- 
ì'enlsslma  di  D.  Maria  d'Austria,  Reina  d'Ungheria,  rappresentata. 
In  Nap.,  1630.  Cfr.  Alessandro  Fellecchia,  viaggio  della  Maestà 
della  Regina  di  Bohemia  e  d' Ungheria,  Nap.,  Roncagliolo,  1630,  p.  56; 
e  Croce,  /  teatri  di  Napoli,  pp.  107  sgg. 

"  Gai-accio,  Il  Forastiero ,  Nnp.,  1634,  p.  959. 


INTRODUZIONE  LVII 

rante  Bucca^  Perla  stessa  occasione,  il  Basile  compose: 
Epitalamio  alla  M.  Serenissima  di  D.  Maria  d'Austria'. 
11  mese  dopo,  moriva  in  Napoli  il  Principe  d'Avellino, 
protettore  del  Basile.  Il  quale  ne  pianse  la  morte  con 
un  sonetto^. 


Giungiamo  agli  ultimi  anni  della  vita  del  Basile.  — 
Protettore  suo,  in  questi  ultimi  anni,  fu  D.  Galeazzo  Pi- 
nelli,  Duca  dell' Acerenza:  nobile  signore,  e  letterato  egli 
stesso,  ed  accademico  Ozioso^. 

Già  nel  1627,  il  Basile,  dedicandogli  un'ode,  parla  dei 
«  continui  favori,  che  in  lui  largamente  ha  sparsi  »  ^.  Ma 
i  favori  si  mutarono  poi  in  un'assidua  servitù  del  Basile, 
che  divenne  intimo  e  famigliare  del  Duca. 

Egli  lavorava  allora,  come  sappiamo,  ad  un  gran  poe- 
ma, che  era  intitolato  il  Teagene.  Il  Teagene  era  un  versi- 
ficamento  della  Storia  Etiopica  di  Eliodoro,  romanzo  greco 
del  IV  secolo,  che  fu  stampato  la  prima  volta  il  1534, 


i  «  Non  scrivo  i  propri  versi,  .  .  .  . ,  sì  per  non  esserno  molto 
degni  di  memoria,  come  anche  per  esserno  stampati  da  Gio.  Battista 
Basile,  componitore  della  poesia,  e  da  Iacinto  Lombando,  posti  in 
musica  ».  BuccA,  Aggiunta,  ms.  cit.,  sub  17  ott.  1630. 

2  Nap.,  1630. 

3  Rime  d'illustri  ingegni  napoL,  p.  131.  Il  Principe  d'Avellino  la- 
sciava solo  una  figliuola;  postumo  nacque  un  maschio,  erede  della 
casa  e  del  titolo  (BuccA,  Aggiunta  cit.,  sub  4  Nov.  1630. 

4  V.  sue  rime  nel  Teatro  delle  glorie,  p.  189;  e  anche  in  alcune 
carte  dell'Accad.  degli  Oziosi,  ms.  Bibl.  Xaz,,  XIII,  B,  77. 

5  Ode,  pp.  127-131. 


LVlir  INTRODUZIONE 

6  del  quale  fin  dal  1556  c'era  una  traduzione  italiana, 
fatta  da  Leonardo  Glinci  ^  Sono  le  traversie  di  una  cop- 
pia di  amanti,  che,  dopo  lunghi  travagli,  finiscono  collo 
sposarsi  in  tutta  regola. 

Questo  romanzo  ebbe  molta  popolarità  sul  principio 
del  secolo  XVII ^  A  Napoli  stessa,  nel  1627,  s'era  pub- 
plicata  la  Carichia,  tragedia  di  Ettore  Pignatelli,  acca- 
demico Ozioso,    che   drammatizzava  la  Storia  Etiopica^. 

H  Basile,  nella  sua  composizione,  seguiva  strettamente 
il  romanzo  d'Eliodoro,  anzi  la  traduzione  del  Glinci*.  Ma, 
naturalmente,  riduceva  il  racconto  in  quella  forma  con- 
venzionale, nella  quale  s' era  allora  fissato,  la  poesia  epica, 
il  poema  heroico.  Cominciava: 


1  Ne  ho  sott'occhio  l'edizione:  Historle  di  Heliodoro  delle  cose  ethio- 
pichc,  ecc.  ecc.,  nuovamente  tradotta  dalla  Lingua  Greca  nella  Tho- 
scana  da  Messer  Leonardo  Glinci,  In  Vinegia,  MDGXI,  presso  An- 
drea Babà. 

2  Di  ciò  discorre  a  lungo  e  bene  l'Imbriani,  Il  Gran  Basile,  1.  e,  II, 
416-23.  Qui  ancora,  notizia  sulle  varie  traduzioni  e  rifiicimenti.  Noto, 
però,  elle  il  Teagene  e  Cariclea  del  Montalbano,  da  lui  menzionato, 
non  è  un  dramma  italiano,  ma  è  il  Teagenes  y  Clariquea  {Ics  hijos 
de  la  fortxna)  del  poeta  spagnuolo  Juan  Perez  de  Montalvan  (1602- 
38),  Cfr.  BARRER.\  y  Leirado,  Calai,  bibllogr.  y  biogr.  del  teatro  an- 
tigno  espanol,  Madrid,  I860;  p.  267. 

3  Del  Pignatelli,  il  Basile  dice  nel  Teagene  (V,  68): 

Un  Ettore,  splendor  de  la  Sirena, 
Tra  mill'opre,  onde  avrà  fama  immortale, 
Cariclea  min,  pompa  d'illustre  scena 
Farà  fuor  de  l'oblio  fosco  e  letale. 

*  L'Imbriani  dà  un  saggio  del  modo  come  il  Basile  verseggia  la 
l)rosa  del  Glinci. 


IXTRODUZIOKE  LO. 

Canto  Theroe,  d'Achille  inclito  germe, 
E  '1  seme  di  Perseo,  l'alta  Donzella, 
Che  trasse  errando  in  parti  ignote  et  erme 
Fortuna,  a  lor  lunga  stagion  ribella; 
Alme  in  valor  non  vide  il  Ciel  più  ferme, 
Coppia  non  ebbe  Amor  più  fida  e  bella; 
Molti  affanni  soffrirò;  in  Meroe  alfine 
Ginser  di  bianche  bende  il  nobil  crine. 

Questa  prima  ottava  non  promette  molto,  e  il  resto,  di- 
fatti, risponde  al  principio.  Il  servile  versificamento  non 
è  rallegrato  se  non  dai  soliti  luoghi  comuni  dei  poemi 
heroici;  la  forma  è  piena  zeppa  d'improprietà;  i  veri?i, 
disarmonici  e  stentati.  Il  brutto  poema  doveva  essere  de- 
dicato a  D.  Antonio  Barberino. 

Nel  Canto  V,  il  Basile  introduceva,  con  un  artifizio,  le 
lodi  dei  poeti  del  suo  tempo.  Calasiri  descriveva  il  tem- 
pio d'Apollo  in  Delfo,  dove  erano,  tra  l'altro,  l'effigie  di 
tutti  i  mecenati  e  poeti,  passati  e  futuri.  Tra  i  mecenati, 
nominava  il  suo  presente  signore,  il  Duca  dell' Acerenza: 

Un  Galeazzo  ancor,  prodigo  altrui 
Quanto  largo  di  pregio  a  lui  fu  il  cielo, 
Non  vedrà  mai  nei  fatti  incliti  sui 
Giunger  del  Tempo  o  della  Morte  il  telo! 
O  mille  volte  fortunato,  a  cui 
Dato  in  sorte  a  vestir  terreno  velo 
Sarà  in  quei  lieti  e  fortunati  giorni, 
Quando  un  si  vivo  lume  il  mondo  adorni i! 

E,  di  poeti,  una  tale  valanga  d'immortali  poetucoli  e 
poetastri,  da  fare  spavento! 


^  Teagene,  C.  V,  49. 


LX  IKTRODUZIONE 

D.  Galeazzo  Pinelli  era  anche  signore  di  Giugliano, 
paesello  della  Campania  (ora  prov.  di  Napoli,  circ.  di 
Casoria),  sulla  via  tra  Napoli  e  Nola^  E  di  Giugliano  il 
Pinelli  nominò  governatore  Giambattista  Basile,  a  quanto 
pare  intorno  al  1631. 

Un  bruttissimo  inverno  fu  quello  del  163 1-2.  Cominciò 
male,  colla  terribile  eruzione  del  16  dicembre  1631,  colla 
quale  il  Vesuvio  yi  svegliò  dal  suo  sonno  secolare.  L'eru- 
zione del  1631  produsse  un'intera  letteratura  scientifica 
e  poetica'-.  Anche  il  nostro  Basile  contribuì  a  questa  let- 
teraria manifestazione  di  spavento  con  tre  sonetti,  uno 
dei  quali  è  un  bello,  anzi  un  brutto  saggio  del  più  puro 
seicentismo  : 

Con  vomero  di  foco,  alto  stupore. 
Mostruoso  arator  solca  il  terreno, 
E  il  seme  degl'incendii  accolto  al  seno 
Vi  sparge,  e  '1  riga  di  fervente  umore. 

E,  quindi,  a  fecondarlo,  in  rapid'hore, 
Di  cenere  ben  ampio,  il  rende  pieno; 
Onde,  quanto  circonda  il  mar  Tirreno, 
Messe  raccoglie  di  profondo  horrore. 

Ma,  se  danno  produce  a  noi  mortali 
Cotanto  aspro  Vesevo;  ond'ogni  loco 
Arde,  né  scampo  ei  trova  in  mezzo  al  verno; 


*  Giugliano  era  stato  venduto  il  1536  da  Gio.  Berardino  Carbone 
ai  Pinelli.  Galeazzo,  appunto,  lo  vendette  poi  il  1639  a  Cesare  d'A- 
quino, Principe  di  Pietralcina.  Negli  ultimi  tempi,  fu  posseduto  dai 
Colonna,  Principi  di  Stigliano.  Ved.  Agostino  Basile,  Memorie  sto- 
riche di  Giugliano,  Nap.,  1800,  pp.  125  sgg. 

*  Ved.  L.  Riccio,  Bibliografia  della  eruzione  vesuviana  delC  anno 
iC3l  in  Arcìx.  Sior.  Naiìol,  XIV,  537-55. 


INTRODUZIONE  LXI 

Pur  raccoglier  ne  giova  in  tanti  mali 
Dal  cener  sparso,  e  dal  versato  foco, 
Membranza  de  la  Morte,  e  dell'Inferno  ^1 

Ma  «  erano  appena  terminati  i  flagelli  dell'incendio, 
—  dice  un  cronista  — ,  quando  il  giusto  Dio,  scorgendo, 
che  non  erano  ancora  emendati,  volle  darli  altra  sorte  di 
gastigo,  poiché  insorse  un  male  di  canna  cosi  crudele  e 
contagioso,  che  parve  peste,  del  quale  in  pochi  di  mor- 
sero infinite  genti!  »^.  Morirono  anche  moltissimi  dell'ari- 
stocrazia; e  «  tuttavia  ne  van  morendo  di  per  di,  —  se- 
guita il  ©ronista  — ,  e  ne  sono  morti  di  subito  D.  Giovanni 
d'Aquino,  Principe  di  Pietrapulcina,  e  Giovan  Battista 
Basile,  dei  primi  poeti  di  questo  tempo,  e  Gio.  Girolamo 
di  Tomaso,  medico  assai  celebre   »^. 

Infatti,  il  Basile  mori  improvvisamente  a  Giugliano,  dove 
si  ritrovava  al  governo,  il  23  febbraio  1632,  sine  sacra  men- 
tis et  sine  electione  sepulturae^.  Fu  sepolto,  cum  magna 
pompa  funerali,  nella  chiesa  di  S.  Sofia,  dove,  fino  a  qual- 
che tempo  fa,  sotto  il  pergamo,  si  vedeva  la  sua  tomba. 


i  Due  di  questi  sonetti  furono  stampati  nella  Scelta  di  poesie  nel- 
l'incendio del  Vesuvio  fatta  dal  Sig.  Urbano  Giorgi,  Segretario  del- 
l'Ecc.mo  Conte  di  Conversano  ;  ded.ta  al  Cardinal  Antonio  Barberini 
(in  fine:  Roma,  MDGXXXII),  pp.  41-2.  Tutti  e  tre  nelle  Rime  di  illustri 
ingegni  nap.,  pp.  133,  135-6,  Debbo  l'aver  potuto  vedere  questi  rari 
volumetti,  conservati  nella  Bibl.  del  Club  Alpino,  alla  cortesia  del 
Cav.  Luigi  Riccio. 

2  BuccA,  Aggiunta,  ms.  e,  sub  Febbr.  J632. 

3  BuccA,  ivi. 

^  V.  append.  E,  F. 


LXII  INTRODUZIONE 

Sua  sorella,  Adriana,  che  andò  a  stabilirsi  a  Roma, 
prese  cura  di  pubblicare,  in  una  bella  edizione,  a  Roma 
il  1637  *  l'ultimo  parto  dell'ingegno  di  suo  fratello  », 
il  Teagene,  dedicandolo,  secondo  le  intenzioni  di  lui,  al 
Card.  Antonio  Barberini^.  Un  manipolo  di  poeti  loda,  al 
solito,  il  poema,  l'autore,  la  sorella  dell'autore,  le  figlie 
di  questa  e,  specialmente,  la  bellezza  e  il  canto  di  Leo- 
nora Barone.  Caterina  Barone,  altra  nipote  dell'autore, 
scrive  in  un  sonetto: 

Deh  potess'io  col  tuo  pregiato  stile 
Scriver,  e  coi  tuoi  lauri  ornarmi  il  crine, 
Del  mio  materno  sangue  alma  gentile! 

E,  innanzi  al  poema,  c'è  il  ritratto  del  Basile,  buona 
incisione  di  Nicola  Perrey,  da  una  pittura  0  disegno  di 
Giambattista  Caracciolo^.  Una  simpatica  e  maschia  figura 


1  Teagene  Poema  del  Cavalier  Gio.  Battista  Basile  Napoletano  Conte 
di  Torone,  All'Eminent.mo  et  Riv.mo  Sig.re  il  Sig.re  Card.  Antonio 
Barberino,  In  Roma,  appresso  Pietro  Antonio  Facciotli,  Con  lic.  dei 
Sup.,  L'anno  MDCXXXVII.  —  La  ded.  dell'Adriana  è  in  data  di  Ro- 
ma, IO  marzo  1637;  il  permesso  di  stampa,  16  aprile  1635, 

2  Su  Giambattista  Caracciolo,  v.  ciò  che  dice  il  de  Dominici,  0.  e, 
IH,  37-64:  il  quale  ne  pone  la  morte  al  1647.  Il  Basile  ne  cantò  le 
lodi  in  un'ode  (Ode^  pp.  160-3).  Questo  ritratto  fu  riprodotto  ne  Le 
glorie  degli  Incogniti  (Venezia,  1647);  dove  è  accompagnato  da  una 
biografia  del  N.,  che  non  ho  avuto  occasione  di  citare,  perchè  non 
dice  nulla.  E  l'originale  e  la  riproduzione  (!)  furono  riprodotti  nel 
Glambatllsta  Basile,  Archivio  di  letteratura  popolare,  HI,  i,  3.  Dal 
ritratto  anzidetto  derivano  un  ritratto,  eh' è  inserito  nella  Biografia 
degli  uomini  illustri   del   regno  di  Napoli,  edita   da  Nicola  Gervasi 


INTRODUZIONE  LXIII 

in  abito  militare,  che  ci  presenta  in  tutta  la  sua  dignità 
il  Cavalier  Giovan  Battista  Basile,  Conte  di  Torone,  e 
Gentil' huomo  di  S.  A.  di  Mantova,  uno  dei  felici  ingegni 
del  secolo. 


(1813-20),  accompagnato  da  una  biografia  di  Giuseppe  Boccanera  di 
Macerata;  e  un  altro,  che  fu  riprodotto  nel  n.  58,  A.  I,  del  giornale 
napol.  La  ncicnia  e  lo  martiello  (1868),  insieme  con  quello  di  un  pre- 
teso descendente  del  Basile,  che  viveva  una  ventina  d'anni  fa,  e  scri- 
veva un'infinità  di  libercoli  enciclopedici,  invidiando  la  fama  di  un 
Ingarrica  o  di  un  Fenicia. 


;< 


II. 

Letteratura  in  dialetto  napoletano  —  Opere  dialettali  del  Basile. 

Questa,  fu,  letterariamente,  la  vita  pubblica  del  Ba- 
sile. Ma  un'altra  parte  della  sua  vita,  un'altra  faccia  del 
suo  carattere,  restò  come  ignota  ai  suoi  contemporanei. 
Il  Basile,  infatti,  smetteva,  talora,  la  sua  qualità,  e  gra- 
vità, di  poeta  toscano;  s'adattava  un  altro  nome,  come 
una  maschera,  quello  di  Gian  Alesio  Abbattutis;  e,  in- 
vece di  ode  e  madrigali,  scriveva  bizzarrie  in  dialetto. 
E  Gian  Alesio  Abbattutis,  scrittore  dialettale,  aveva  quei 
lampi,  quella  scintilla  geniale,  clie  mancavano  assoluta- 
{      mente  al  suo  collega,  poeta  toscano! 

La  letteratura   del    dialetto  napoletano   può   dirsi  clie 

non  nacque  se  non,  appunto,  ai  principii  del  secolo  XVII. 

Non  già  che  non  vi  siano  monumenti   dialettali,  innanzi 

a  quel  tempo.  Fin  dal  secolo  XIV,  il  dialetto  napoletano 

fu  messo  in  iscritto,  in  tutta  la  sua  schiettezza,  dal  Boc- 

1      caccio;  se  è  autentica,  come  sembra,  la  lettera  napole- 

\     tana,  diretta  a  Francesco  dei  Bardi,  che  va  sotto  il  no- 

\    me  di  lannetto  de  Parise  (Giovanni  Boccaccio).  E  nel  dia- 

i   letto  napoletano,  benché,  veramente,  in  quello  delle  per- 

■  sone  colte,  «  imbevuto  da  una  parte  del  latino  curiale, 

!  dall'altra  del   toscano  »  ^,  furono   scritti   i   poemetti  del 


*  E.  PÈRCOPO,  I  Bagni  di  Pozzuoli,  Nap.,  Furchheim,  1887,  pp.  40-3, 
(estr.  dall'Arca.  Slor.  Nap.,  A.  1886). 


INTEODUZIONE  LXV 

Regimen  sanitaiis,  dei  Bagni  di  Pozzuoli,  del  Libro  di 
Caio,  ecc.,  e  la  Cronaca  di  Partenope,  e  i  Bicordi  di 
Loyse  de  Rosa,  e,  via  via,  gli  atti  pubblici  della  Corte 
aragonese,  e  della  città  di  Napoli,  fino  alla  metà  del  se- 
colo XVI.  Nello  stesso  dialetto  ibrido,  furono  scritte  quasi 
tutte  le  opere  letterarie  del  tempo  aragonese,  poemi,  cro- 
nache, trattati  d'ogni  genere,  tranne  quelle  poche,  che 
rappresentano  il  rifiorire  del  "toscanesimo. 

Ma  c'è  un  gran  divario  tra  l'uso  spontaneo  e  naturale 
del  dialetto,  e  l'uso  di  esso,  intenzionale,  voluto,  artistico. 
Intorno  alla  metà  del  secolo  XVI,  il  dialetto  napoletano, 
com'era  già  caduto  dall'uso  degli  scrittori  letterati,  cosi 
spari  dagli  atti  pubblici,  nei  quali  ancora  si  adoperava  ^ 
E  il  dialetto  restò  alla  sola  letteratura  popolare,  ai  canti 
del  popolo,  e  alle  famose  villanelle  napoletane'. 

Qualcuno  dei  poeti  popolari,  oltre  i  canti  che  diven- 
tavano patrimonio  del  popolo,  scrisse  qualche  poesia,  di 
genere  non  istrettamente  popolare,  in  dialetto.  Velardi- 
niello,  per  es.,  o  chi  si  cela  sotto  questo  nome,  fu  autore, 
tra  l'altro,  di  quelle  belle  ottave,  che  rimpiangono  il  buon 
tempo  antico,  e  finiscono  col  grido,  del  quale  si  sente  la 
sincerità  : 

Sai  quanto  fuste,  Napole,  corona? 
Quanno  regnava  casa  d'Aragona  3  ! 


i  GALiAxr,  Bel  dialetto  napoletano,  ed.  seconda,  Nap.,  Porcelli,  1789, 
pp.  119-20. 

2  Gfr.  Gapasso,  Sulta  poesia  popolare  napoletana,  (in  Arch,  Star. 
Nap.,  Vllf,  1883). 

3  Le  ottave,  che  cominciano:  Cient'anno  arreto  oliera  viva  vava. 


LXVI  INTRODUZIONE 

Ed  è  questo  dei  pochi  sicuri  monumenti  dialettali  del 
secolo  XVI.  Sulla  fine  del  secolo,  cominciò  ad  adoprarsi 
nelle  commedie  il  dialetto  napoletano,  sia  dai  comici  del- 
l'arte nelle  commedie  improvvisate,  sia  nelle  commedie 
premeditate  ^  Ma,  nel  teatro,  l'uso  del  dialetto  lia  ragioni 
tutte  speciali. 

Si  scriveva,  dunque,  il  dialetto  napoletano  già  da  varii 
secoli,  ma,  fino  allora,  o  non  era  stato  adoprato  con  in- 
tenzione artistica,  o  di  un  uso  siffatto  non  c'erano  se  non 
casi  isolati  e  timidi  tentativi. 

Ma,  sul  principio  del  secolo  XVII,  la  letteratura  dia- 
lettale, intenzionale  e  artistica,  prende  un  grande  slancio. 
Le  ragioni  di  questo  fatto  furono  parecchie,  e  di  varia 
natura.  Ma  la  principale  è  forse  da  riporsi  in  quella  ri- 
cerca assidua  di  novità,  eh' è   il   vero  spirito  motore   di 


furono  pubblicate  la  prima  volta  nella  Collezione  di  tulli  i  lìoemi  in 
lingua  napoletana  del  Porcelli,  T.  XXIV  (1789).  Di  Velardiniello  di- 
scorse il  Gapasso  (?.  e,  pp.  319-21),  il  quale  ne  pubblicò  anche  al- 
cuni versi  inediti  del  Giambattista  Basile  (IH,  i).  Per  la  Farza  dei 
Massari,  a  lui  attribuita,  cfr.  Napoli  Sionorelli,  Vicende  della  col- 
tura, Nap.,  1784-6,  V,  357-8,  e  Grocp,  /  teatri  di  Naiìoli,  p.  28  n. 

*■  Nalla  Vedova  di  G.  B.  Cini  (Firenze,  1569),  tra  i  varii  dialetti 
appare  anche  il  napoletano  (cfr.  Quadrio,  0.  e,  III,  II,  pp.  71-218). 
Senza  parlare  dei  personaggi  buffi  napoletani  della  commedia  del- 
tarte  {Coviello,  Pascariello,  Pulcinella,  ecc.),  nelle  commedie  scritte 
s'incontra  un  personaggio  goffo,  detto  il  Napoletano,  che  nasce  ne- 
gli ultimi  anni  del  cinquecento,  e  del  quale  si  seguono  le  trasfor- 
mazioni. Ano  alle  commedie  del  Cerlone  (flne  s.  XVIII).  Così  negli 
Intrighi  d'amore,  attrib.  al  Tasso,  naWAnchora  del  Torelli,  nelle 
Sprezzale  Durezze  del  Glorizio,  e  nel  Moro  e  nella  Tabernaria  del 
Porta.  Cfr.  Croce,  o.  c,  pp.  75-80  e  2)assirn. 


INTRODUZIONE  LXVII 

quel  periodo  letterario,  che  si  chiama  il  seicento.  Certo, 
s'ingannerebbe  chi  credesse  che  i  letterati  d'allora  si  vol- 
gessero al  popolo  e  al  dialetto,  per  quel  desiderio  del 
semplice  e  del  vero,  ch'è,  in  certo  modo,  la  ragione  del 
presente  rifiorire  della  letteratura  dialettale.  Veramente, 
del  semplice  e  del  vero  essi  avevano  bisogno  !  Ma  quel 
volgersi  al  dialetto  non  era  la  medicina  della  loro  ma- 
lattia, ma,  anzi,  una  manifestazione  di  questa  loro  malat- 
tia. Il  Ji^letto,xa^.pr.^aejQdti9'yii*jiè?..iì^  il  nuovo, 
il  bizzarro,  l'ingegriosp^  lo  spiritoso  !__E  cosi  si  .spiega  an- 
che come  la  letteratura. dialettale  napoletana  non  fosse 
letteratura  seria,  ma  letteratura  burlesca. 

Tuttavia,  appunto  perchè  letteratura  burlesca,  essa  ebbe 
alcune  doti  di  semplicità  e  di  freschezza,  che  non  aveva 
la  contemporanea  produzione  in  lingua  italiana.  La  dispo- 
sizione giocosa  del  loro  spirito  liberò  quegli  scrittori  da 
molti  difetti  e  stranezze  del  gusto  del  tempo.  E,  oltre  a 
ciò,  non  bisogna  disconoscere  che  non  si  avvicinarono 
impunemente  alle  fresche  e  dolci  acque  dell'ingegno  po- 
polare. 

Ho  detto  che  le  ragioni  della  fioritura  furono  parec- 
chie. Un'altra,  anche  importante,  è  d'indole,  per  cosi  dire, 
locale,  anzi  municipale.  La  produzione  letterai'ia  italiana, 
a  Napoli,  come  in  molte  parti  d'Italia,  aveva  un  carat- 
tere esotico,  e  sembrava  quasi  imposta  di  fuori.  Per  par- 
tecipare alla  vita  letteraria  d'Italia,  bisognava  rinnegare 
la  lingua  inconsciamente  appresa  da  fanciulli,  e  imparare, 
quasi  come  lingua  straniera,  sui  libri  e  nelle  scuole,  il 
toscano.  E  naturale  che,  di  tanto  in  tanto,  nascesse  in 
alcuni  amatori   della  lingua   e  delle   costumanze  paesane 


LXVIII  INTRODUZIONE 

una  reazione  e  una  ribellione  contro  il  toscanismo  :  rea- 
zione e  ribellione  rappresentate  praticanaente  da  un  ri- 
torno alla  produzione  dialettale. 

E  questo  ultimo  motivo  è  specialmente  evidente  in  co- 
lui, che  fu  il  padre  della  nuova  letteratura  dialettale,  in 
Giulio  Cesare  Cortese. 

Una  lunga  e  tenera  amicizia  legò,  durante  tutta  la  vita, 
il  Cortese  col  Basile.  Ed  è  bello,  è  quasi  commovente  il 
veder  cosi  fedeli  e  stretti  l'uno  all'altro  questi  due  mas- 
simi poeti  del  dialetto  napoletano  !  Il  Cortese  cantava 
in  un  suo  poema,  a  proposito  delle  onorificenze,  che  aveva 
avuto  il  Basile  dal  Duca  di  Mantova: 

Dire  non  saperria  quanto  senliette 
Piacere,  audenno  nommenare  a  chillo, 
Glie  ];i  fortuna  amico  me  facetle, 
Da  clie  jeva  a  la  scola,  peccerilloi.' 

E  il  Basile,  nell'  introduzione  a  una  delle  sue  odi  :  «  Il 
più  caro,  il  più  honorato  amico  dell'autore,  che  le  sacre 
e  sante  leggi  dell'amicizia  serbar  sapesse,  fu  Giulio  Ce- 
sare Cortese ,  il  quale,  con  maraviglia  di  chi  '1  conobbe, 

mostrò  la  grandezza  dell'ingegno  nella  picciolezza  del 
corpo,  la  ricchezza  della  virtù  nella  povertà  della  fortuna, 
e  l'immortalità   del  merito   nella  brevità  della   vita  » -. 


*    Viaggio  di  Parnaso,  IV,  ott.  ult. 
2  Ode,  p.  57.  Nel  Teagene  (V,  63): 


Il  Cortese,  a  cui  /la  scarsa  Fortuna, 
Quanto  prodigo  havrà  Febo  e  le  Muse. 


INTRODUZIONE  LXIX 

La  sua  vita  fu  randagia,  e  avventurosa,  e  stentata, 
come  quella  del  Basile.  —  In  uno  dei  punti,  che  a  me 
sembrano  più  poetici  del  suo  Viaggio  di  Parnaso,  il  Cor- 
tese immagina  di  aver  ricevuto  dapprima  da  Apollo  un 
tovagliuolo  fatato,  che  bastava  che  e'  lo  spiegasse,  perchè 
si  trovasse  innanzi  ogni  ben  di  Dio: 

No  piezzodi  vetella  sottestato, 
E  no  pegnato  propio  a  boglia  mia, 
Maccarune,  pasticce,  e  caso  e  pane, 
E  grieco,  e  manciaguerra,  e  mazzacane  ^l 

Ed  era  sicuro  di  non  aver  a  patir  fame.  Ma  ecco  egli 
incontra  un  tale,  che  aveva  un  dono  di  tutt'altra  natura, 
un  coltello  fatato,  che,  ficcandolo  in  terra,  faceva  sorgere 
mirabili  palazzi  incantati.  E  lui,  invaghito  del  coltello, 
si  affretta  ad  acquistarlo,  scambiandolo  col  più  prosaico, 
ma  più  utile  tovagliuolo.  E  tardi  si  accorge  del  danno, 
che  s'è  fatto;  gira  il  mondo,  povero,  affamato,  col  suo 
coltello  fatato,  senza  poter  mai  trovare  il  posto  da  edi- 
ficare il  mirabile  palazzo  della  sua  fantasia! 

Dovonca  vao,  tento  la  scorte  mia 
Pe  fare  a  quarche  parte  sto  castiello; 
Ma  chesta  tene  ognuno  eh' è  pazzia, 
E  dice:  a  lo  spetale,  o  poveriello^! 

E  torna  a  Napoli,  e  questo  pensiero  lo  fa  quasi  venir 
matto,  e  giorno  e  notte  non  fantastica,  se  non  del  suo 
castello  : 


i  Viaggio  di  Parnaso,  VII,  6.        2  jij^  vu^  36. 


LXX  INTRODUZIONE 

Macaro  me  potesse  cenzoare 
Quarcosa  nmiero  de  Cipo  de  monte! 
Oh  che  bello  castiello  vorria  fare, 
A  dove  se  trasesse  pe  no  ponte! 
Tutto  de  ntuorno  lo  vorria  murare, 
E  pò  starence  dintro  commo  a  Conte! 

—  Che  magne  pò!  —  Lo  venno!  —  E  a  che  palazzo 
Po'staje?  —  Ne  facc'o  n'autro Ohimè,  so  pazzo! 

Sto  penziero  m'allarga  da  la  Musa, 
Ghisto  scire  me  fa  de  cellevriello, 
E  chisto  pe  frenetico  m'accusa 
A  tutte  ore  penzanno  a  sto  castiello  1 
Ad  ogni  bene  m'è  la  porta  chiusa: 
Mannaggia  chi  me  deze  sto  cortiello! 

—  Cossi  va  chi  è  catarchio  ed  è  pacchiano, 
E  cerca  meglio  pane  che  de  grano  ^  I 

La  vita  del  Cortese  è  pochissimo  nota,  ed  io  ne  darò 
qui,  pel  primo,  qualche  notizia  un  po' circonstanziata.  Egli 
nacque  in  Napoli  intorno  al  1575^.  Nel  1597  si  laureò 
dottore  in  legge  ^.  Sulla  fine  del  1599,  risulta  da  un  do- 
cumento che  ho  trovato,  ch'egli  ottenne  dal  Viceré  Conte 
di  Lemos  per  un  anno  l'ufficio  di  assessore  in  Trani  ;  uf- 
ficio, ch'egli  non  potè  occupare  immediatamente,  e  chiese 
la  grazia,  che  la  durata  ne  cominciasse  dal  13  gennaio 
1600*.  Pare  che  poi  andasse  in  Ispagna,  e  indi  in  To- 
scana^. Il  cementatore  di  un  suo  poema,  il  Zito,  dice: 
«  Ne  lo  chiù  bello  de  la  gioventù,  pe  pascere  majore- 
mente  l'animo  sujo  de  cose  grannissime,  se  pose  ncorte  de 


1  Ivi,  VII,  40-1.        2  V.  Append.  B.        3  y.  Append.  B. 
*  V.  Append.  G.        •■»   Viaogio  di  Parnaso,  VII,  36. 


INTRODUZIONE  LXXI 

lo  Serenissimo  Granduca  Ferdinanclo,  signore  assoluto  de 
tutto  lo  pajese  de  la  Toscanetate;  cossi,  venenno  nchella 
corte,  era  non  sulo  amato  da  tutte,  ma  grannemente  ste- 
mato  da  lo  patrono  sujo,  e  chesto  pe  le  bone  qualetate 
e  vertolose  azione  soje,  de  muodo  che  lo  chiammavano 
lo  cuccopinto  de  la  Corte  »  ^  Fu  anche  accademico  della 
Crusca-.  Ma,  —  sempre  secondo  il  Zito  — ,  un  amore 
concepito  per  una  dama,  di  condizione  molto  alla  sua  su- 
periore, fu  cagione  ch'egli  si  risolvesse  ad  abbandonar 
Firenze. 

E,  giacché  il  Zito  dice  che,  tornato  a  Napoli,  per  isfogo 
di  quell'amore  fiorentino  sfortunato  scrisse  e  stampò  la 
Vajasseide,  la  cui  prima  edizione  sarebbe  stata  del  1604, 
bisognerebbe  conchiuderne  che,  nel  1604,  era  già  tornato 
a  Napoli^.  Tuttavia,  nella  ragione  della  partenza  da  Fi- 
renze a  me  par  di  fiutare  un'invenzione  del  Zito;  e  la 
stessa  data  del  1604,  come  quella  della  px'ima  edizione 
nella  Vajasseide^  non  va  esente  da  dubbii  ^.  Certo,  nel 
1606  il  Cortese  era  a  Napoli  ed  ebbe  per  un  anno  dal 
Viceré  Conte  di  Benavente,  l'ufficio  di  governatore  di 
Lagolibero  0  Lagonero,  terra  destinata,  a  quanto  sembra, 
ad  esser  governata  da  poeti,  perché,  come  s' è  visto, 
qualche  anno  dopo  ne   era  governatore   il   Basile^.  Nel 


i  Coli.  Porcelli,  T.  Ili;  pp.  195-6. 

2  Con  questo  titolo  apparisce  innanzi  al  Pianto  della  Vergine  del 
Basile,  e  innanzi  al  Temiìio  eremilano,  dello  Staibano  (Xap.,  1608). 

3  0.  e,  pp.  195-7,  e  239. 

*  L'ediz.  più  antica,  che  se  ne  conosca,  è  quella  del  1615. 
5  V.  App.  G.  E  cfr.  sopra,  Gap.  I. 


LXXir  INTRODUZIONE 

1608  pare  che  fosse  a  Firenze,  perchè  invitava  (di  11?)  il 
Basile  a  concorrere  con  qualche  componimento  alla  rac- 
colta da  farsi  per  le  nozze  di  Cosimo  dei  Medici  con 
Maria  Maddalena  d'Austria^.  Nel  16 io,  0  poco  dopo,  era 
di  nuovo  a  Napoli,  protetto  dal  secondo  Conte  di  Lemos, 
e  poi  dal  fratello  di  lui,  che  restò  Luogotenente  del  re- 
gno^. Appartenne  all'accademia  dei  Sileni,  fondata  intorno 
al  1612,  nel  chiostro  di  S.  Pietro  a  Maiella^.  Scrisse  mol- 
tissime opere  in  dialetto,  delle  quali  solo  alcune  pubblicò 
per  le  stampe.  E  mori  tra  il  1621  e  il  1627*.  Né  saprei 
aggiungere  altro  particolare  se  non  questo,  che  riguarda 
il  suo  aspetto  fisico:  che  era  uomo  di  piccolissima  sta- 
tura ^. 

Il  Cortese,  —  il  Pastor  sebeto,  come  gli  piaceva  inti- 
tolarsi — ,  si  vantava  d'essere  poeta  napoletano.  «  Non 
è  possebele,  —  egli  dice  — ,  che  quarche  travo  rutto  non 
strida,  e  che  quarche  strenga  rotta  non  se  metta  ndozzaua, 
decenno  :  Da  quanno  niccà  le  povere  Muscie  so  deventate 
de  lo  Lavinaro?,  da  quanno  niccà  la  fontana  de   Puorto 


*  V.  sopra,  Gap.  I. 

2  Viaggio  di  Parnaso,  VII,  39. 

3  Cfr.  Linieri  Riccio,  Cenno  delle  accad.,  il.  e,  p.  5931.  Erronea- 
raenle,  il  Minieri  Riccio  mette  tra  gli  Svegliati  (accademia,  che  fiorì 
intorno  al  1586)  Giulio  Cesare  Cortese  detto  VAttonito  (0.  e,  p.  605); 
e  doveva  dire  Giulio  Cortese,  letterato  napoletano,  che  visse  nella 
generazione  antecedente  a  quella  di  Giulio  Cesare,  e  pubblicò,  tra 
le  altre  opere,  un  volume  di  Rime  e  prose  (Nap.,  1592). 

■1  II  Basile  parla  del  Cortese  come  già  morto  nelle  Ode  (Nap.,  1627), 

P.  57. 
5  BASILE,  l.  c;  Cortese,  Viaggio  di  Parnaso,  r,  20,  25. 


INTEODUZIONE  LXXIII 

è  Hipocrene?  »  *.  Ma  a  costoro  egli  rispondeva,  come 
in  Parnaso  ai  poeti  che  si  meravigliavano  che  tra  loro 
fosse  venuto  ri'ommo  de  Puorto: 

Le  Muse  vanno  dove  so  chiammate, 
Ca  no  stanno  co  buje  co  lo  strommiento, 
E  quanta  vote  a  me  se  so  nzeccate, 
Cose  hanno  fatto  lustre  coramo  argiento! 

Con  voi  altri,  ne  nce  aggio  che  spartire  !  Io  scrivo  come 

parlo  ! 

siano  tutte  li  vuostre,  e  quinci,  e  v.nquanco, 
E  vostro,  e  V Astro,  e  cotlllo,  e  Catella. 
Ch'io  pe  me  tanto  no  ne  voglio  manco 
De  tante  isce  bellezze  na  stizzella! 
Tanta  patacche  avesse  ad  ogne  banco. 
Quanta  aggia  io  vuce  a  Napole  mia  bella: 
Vuce  chiantute,  de  la  maglia  vecchia, 
C' hanno  gran  forza,  ed  enchieno  l'aurecchia! 

E  qualcuno,  spassionato  e  libero,  dei  poeti  toscani, 
come  il  Berni,  interveniva  per  dire:  Egli  ha  ragion  que- 
st'uomicino  ^  ! 

Contro  i  toscaneggianti  affettati  non  cessa  di  combat- 
tere. Nello  stesso  Viaggio  di  Parnaso,  fingendosi  la  re- 
cita di  una  commedia,  un  Pulcinella  fa  il  prologo,  met- 
tendo in  beffa  le  ridicole  frasi  toscane  : 

Pollicinella,  singhe  beneditto! 
Tu  sì,  nmeretarrisse  ciento  scute! 

esclama  Apollo^. 


i  Pref.  al   Viaggio  di  Parnaso.        2  viaggio  di  Parnaso,  I,  22-5. 
3  C.  V,  21-9.  Cfr.  anche   Vajass,,  I,  8-9  SuH'eccellenza  della  lingua 


LXXIV  INTRODUZIONE 

La  Vajasseide  è  il  primo  parto  della  musa  napoletana 
del  Cortese.  È  un  poemetto  in  cinque  canti,  in  ottava 
rima,  che  descrive  alcuni  costumi  di  amori,  gelosie,  feste, 
matrimonii  del  popolino  napoletano.  La  composizione,  co- 
me in  quasi  tutte  le  opere  del  Cortese,  è  piuttosto  scu- 
cita, e  tutta  episodica.  La  forma  è  semplice,  i  versi 
buoni,  le  descrizioni,  per  lo  più,  vivacissime.  Segui  il 
Micco  Passavo  (1619),  del  quale  è  eroe  un  guappo,  0 
smargiasso,  come  allora  si  diceva.  La  vita  dei  guappi 
napoletani,  e  delle  loro  innamorate,  s'inquadra  nel  rac- 
conto di  un'impresa  contro  i  fuorusciti  d'Abruzzo,  che, 
storicamente,  trova  riscontro  nella  spedizione  di  Carlo 
Spinelli  contro  le  bande  di  Marco  Sciarra,  avvenuta  ai 
tempi  della  prima  giovinezza  del  Cortese.  Pubblicò  poi 
un  romanzetto  in  prosa:  li  Travagliuse  Amure  de  Ciullo 
e  Perna,  che,  appartenendo  al  genere  serio,  manca  di 
quelle  qualità,  che  hanno  le  due  opere  precedenti  ^ 

E  manca  egualmente  di  queste  qualità  una  delle  sue 
opere  più  celebrate,  la  favola  posellecJiesca,  intitolata  La 
Posa.  Il  Cortese,  per  solito  cosi  semplice,  cosi  vivo, 
quando  tratta  di  cose  burlesche,  nella  Posa  ha  i  peggiori 
difetti  dei  seicentisti:  i  pensieri,  i  sentimenti  dei  perso- 
naggi sono  continuamente  tradotti  in  quella  forma,  tutta 


napoletana,  v.  anche  il    Tardaclno  (B.  Zito),  Com.  alla  Vajass.  cit., 
pp.  236  sgg.,  e  contro  il  toscanesimo,  ivi,  p.  58. 

*  Delle  opere  del  Cortese  discorse  acconciamente  Giuseppe  Ferrari, 
in  certi  suoi  articoli:  De  la  litterature  populaire  en  Italie,  inseriti 
nella  Revue  des  deu.v  mondcs,  anni  1839  e  1840.  Sul  Cortese,  v.  T. 
XXI  (1840),  pp.  509-11. 


INTRODUZIONE  LXXV 

arguzie  e  fioriture,  che  piaceva  al  seicento;  niente  v'ha 
di  schietto,  d'immediato. 

Ma,  invece,  il  suo  quarto  poema,  il  Viaggio  di  Parnaso, 
è  tra  le  cose  sue  meglio  riuscite.  Consiste  in  una  serie, 
al  solito  un  po'  confusa  e  sconnessa,  di  confessioni  auto- 
biografiche, di  sfoghi  di  opinioni  e  sentimenti  suoi,  e  di 
bizzarre  fantasie:  e  contiene  pezzi  molto  belli. 

Questi  poemi,  messi  alle  stampe  dal  Cortese,  e  la 
ricca  produzione  di  lui,  che  girava  manoscritta,  fecero 
sorgere  il  gusto  per  le  composizioni  in  dialetto.  Nel  162 1, 
uno  dei  primi  editori  delle  opere  del  Cortese  dice  in 
una  prefazioncella:  «  Perchè  le  opere  del  signor  Giulio 
Cesare  Cortese,  a  giuditio  di  tutti  gli  intendenti,  nel  ge- 
nere loro  sono  le  più  rare  che  sino  a  questo  tempo  siano 
vedute;  ho  posto  insieme  tutte  queste  che  da  sua  si- 
gnoria mi  sono  state  concedute;  se  potrò  bavere  alcuna 
delle  sottoscritte,  che  sono  a  penna  le  stamperò  a  com- 
mune  diletto,  delle  signorie  vostre  ».  E,  nientemeno,  le 
opere  inedite  sarebbero  state  quattordici;  cioè: 

1.  Lo  colascione; 

2.  Lo  regno  de  la  huscia; 

3.  Posilepo  roffiano; 

4.  La  sirena  npazzuta; 

5.  Partenope  shiaccata; 

6.  La  rota  delli  cauce; 

7.  La  Repubreca  de  cuccagna; 

8.  Lo  molino  a  Mento; 

9.  La  Ciarantola; 

10.  L'Arcadia  sconquassata  ; 

11.  L'ospetale  de  li  Pazze; 


LXXVI  INTRODUZIONE 

12.  Lo  Cerrìglio  ricantato; 

13.  Lo  nove  f allieto; 

14.  Lo  murino  ammascarato^. 

Di  queste  quattordici,  solo  Lo  Cerrìglio  ncantato,  me- 
diocre poema,  fu  stampato  qualche  anno  dopo^.  Le  altro 
sono  tutte  perdute.  Ma  i  loro  titoli  bastano  ad  iattestare 
la  foga  della  produzione  dialettale  del  Cortese. 


Intorno  al  quale  s' aggruppano  varii  imitatori  e  seguaci. 
L'impulso  era  dato,  e  l'esempio  fu  presto  seguito.  Il 
Cortese  l'intitolava  il  Pastor  Seheto.  Questo  non  pare 
che  fosse  titolo  accademico;  ma,  a  ogni  modo,  tutto  fa 
supporre  che  si  formasse  a  quel  tempo  come  un'accade- 
mia di  cultori  del  patrio  dialetto. 

Il  Basile  cominciò  anch'esso  a  provarsi  nello  scrivere 
il  dialetto.  E  fu  allora  che  assunse  il  nome  di  Gian 
Alesio  Ahhattutis.  Certamente,  l'esempio  e  le  esortazioni 
del  suo  amico  Cortese,  contribuirono  a  spingerlo  in  que- 
sta via.  E  le  prime  cose  napoletane  di  lui,  che  si  tro- 
vino  alle   stampe,  sono  una  dedica  burlesca  A  lo  re  de 


*  opere  turlesclie  in  Lingua  napoletana  di  Giulio  Cesare  Cortese, 
cioè  la  Vaiasselde,  Li  travagliuse  ammure.  Micco  Passaro  narnmo- 
rato,  Viaggio  de  Parnaso,  La  Rosa  favola  dramalica,  In  Napoli,  per 
Domenico  di  Ferrante  Maccarano,  1621,  ad  ist.  di  Fabritio  de  Fusco. 
La  ded.  è  del  De  Fusco  al  signor  G.  B.  Velli,  15  settembre  1621.  Que- 
st'edizione, e  le  notizie  surriferite,  sono  rimaste  ignote  a  tutti  quei, 
che  hanno  scritto  del  dialetto  napoletano  e  del  Cortese, 

*  Il  Marlorana  ne  cita  un'edizione  del  1628  (Xotizie  biogr.  e  bibllogr. 
degli  scrittori  del  dial.  nap.,  Nap,,  Chiurazzi,  1874,  p.  156). 


INTRODUZIONE  LXXVII 

li  vienti,  promessa  airedizione  elei  1615,  per  Tarqulnio 
Longo,  della  Vajasseide,  e  gli  argomenti  a  questo  poema, 
e  alcune  lettere,  che  gli  fanno  coda. 

Sul  frontespizio  dell'edizione  è  detto:  «  con  gli  argo- 
menti, e  alcune  jìrose  di  Gian  Alesio  Ahhattutis  ».  Que- 
ste prose,  0  meglio,  lettere  in  prosa  e  verso,  sono  state 
attribuite  da  alcuni  al  Cortese  stesso^;  ma  erroneamente. 
Il  Basile  stesso  ne  rivendica  la  paternità,  avendo  lasciato 
scritto,  in  una  prefazioncella,  preposta  alle  Muse  Napo- 
litane:  «  comme  ne  facette  lo  medesemo  autore  n' antro 
scampolo  a  chelle  lettere,  che  fecero  cammarata  co  la 
Vajasseide,  dalle  quale,  come  robha  propria,  se  n'ha  pi- 
gliato l'accoppatura  »^. 

Nella  prima  di  queste  lettere,  eh'  è  in  versi  sdruccioli, 
Gian  Alesio  risponde  a  una  lettera  napoletana,  direttagli 
da  un  notar  Cola  Maria  Zara,  e  lo  ringrazia  della  de- 
dica, che  gli  voleva  fare,  di  un'opera.  La  lettera  ha  là 
data  del  dicembre  1614.  Nella  seconda,  anche  in  versi, 
risponde  «  a  lo  muto  lostrissimo  e  magnifico  Comm'  a 
frate  carnale  Messer  Uneco  »,  che  voleva  pigliar  moglie, 
e  Gian  Alesio  gli  consiglia  Cecca, 

Cecca,  che  de  Xapole 
È  lo  shiore,  lo  spanto  e  lo  martorio, 

e  della  quale  gli  descrive  le  bellezze,  cioè  a  dire,  le 
bruttezze.  La  lettera  è  firmata  col  nome  Lo  Chiafeo,  ed 


i  Galiani,  Del  dialetto  napol.,  p.  126;  MArtorana,  0.  e.  pp.  153  sgg. 
Come  del  Basile  le  riconobbero  I'Imbriant,  o.  c,  38-40,  e  il  Rocco 
nel  GiamhaUista  Basile,  vr,  2.        2  lq  Muse  Napolitane,  Introd. 


LXXVni  INTEODUZIONE 

ha  per  data:  mille  e  seiciento  e  zero  co  iìo  chilleto,  cioè 
1601  a  interpetrare  rigorosamente,  ma  forse  1610,  vo- 
lendo ravvicinarla  alle  date  delle  altre.  La  terza  è  una 
lettera  in  prosa,  colla  data  del  1614,  diretta  a  un  tale, 
che  chiama:  «  frate  mio  »,  e  che  sembra  lo  stesso  di 
Messer  Uneco  ^  La  quarta,  anche  in  prosa  e  colla  stessa 
data,  è  diretta:  «  All' Uneco  shiammeggiante,  che  pò 
rompere  no  bicchier©  co  le  muse  »,  ed  è  firmata  Lo 
Smorfia.  La  quinta,  firmata  Lo  Chiafeo,  e  colla  stessa 
data,  è  diretta:  «  A  lo  settemo  geneto  de  Messere,  zoè 
fratemo  carnale,  lochiù  stritto  parente,  che  stace  a  Co- 
senza ».  cui  manda  un  sonetto  in  lode  di  Cecca,  della 
quale  si  professa  innamorato,  e  racconta  un  sogno,  e  la 
buona  speranza,  che  ne  tiae  per  questo  amore. 

11  Basile,  scrittore  dialettale,  ci  si  presenta  in  queste 
lettere  con  un  carattere  spiccatamente  diverso  da  quello 
del  Cortese^.  Il  suo  ingegno  si  manifesta  esagej*atore  e 
paradossale.  Il  dialetto  è  veramente  per  lui  un  istrumento 
da  sfoggiare  la  bizzarria  delle  sue  ricerche,  e  la  ricchezza 
della  strana  terminologia  dialettale,  che  ha  saputo  rac- 
cogliere. Per  ogni  qualifica  egli  trova  venti  aggettivi; 
per  ogni  oggetto,  che  nomina,  venti  varietà.  Egli  dovè 
porro  uno  studio  particolare  nell'andare  notando  tutte  le 
espressioni  e  le  frasi  dell'infima  plebe:  il  suo  fondamento 
artistico  è  un  ricco  vocabolario. 


1  Cfr.  princ.  G.  IV,  e  anche  G.  II. 

2  Tanto  diverso,  che  il  Galiani,  clip,  come  s'è  dello,  le  alliibui- 
sce  al  Cortese,  non  può  non  notar  che  ih  esse  «  intieramente  imitò 
il  Basile  •  (0.  e,  p.  126). 


INTRODUZIONE  I.XXIX 

Le  Lettere  sono  come  i  frammenti  superstiti  di  un'  in- 
tera serie  di  composizioni  burlesche,  che  dovevano  scam- 
biarsi tra  loro  i  varii  cultori  del  dialetto  in  quel  tempo. 
Le  allusioni,  che  son  molte,  a  cose  e  persone,  provano 
quest'asserzione. 

E,  specialmente,  alcune  allusioni  gettano  una  luce  — , 
scialba,  se  si  vuole,  ed  incerta  — ,  su  uno  dei  libri  più 
belli  ed  importanti  del  dialetto  napoletano.  —  Per  quanto 
mi  dolga  di  dovermi  indugiare  su  tante  questioni  inci- 
dentali, non  posso  farne  di  meno,  perchè,  da  una  parte, 
la  storia  della  letteratura  dialettale  non  è  stata  ancora 
fatta,  e  dall'altra,  io  non  posso  procedere  nella  mia  espo- 
sizione, senza  stabilire  alcuni  punti  sicuri,  da  orientarci 
in  quest'oscura  regione  della  storia  letteraria;  e,  non  tro- 
vando fatta  la  ricerca,  sono  costretta  a  farla  io. 

Nel  1646  lo  stampatore  Camillo  Cavallo,  che  stampò 
anche  le  opere  del  Cortese  e  del  Basile,  pubblicava,  ad 
instanza  di  Tomaso  Morello,  un  libretto  intitolato  :  De  la 
tiorba  a  taccone  de  Felijjpo  Sgruttendio  de  Scafato^.  Il 
Morello  dedicava  l'opera  a  Gennaro  Moscettola,  dicen- 
dola: «  parto  di  un  ingegno,  che,  fra'  primi,  nelle  de- 
lizie di  Pindo,  campeggia  ».  Dunque,  par  certo  che  l'au- 
tore, a  quel  tempo,  fosse  ancor  vivo.  Quel,  che  non  è 
certo,  è  che  questa  edizione  sia  la  prima  ^. 


i  Per  Camillo  Cavallo,  MDGXLVI. 

~  I  bibliografi  non  ne  citano  altra  antecedente;  ma  ciò  non  vuol 
dir  nulla.  Ragioni  di  non  crederla  edizione  originale,  addusse  l'Im- 
briani,  nelle  illustrazioni  alla  Posilecheata  del  Sarnelli  (Xap.,  1885, 
p.  222). 


LXXX  INTEODUZIONE 

Ma,  anche  sia  la  prima,  la  composizione  del  libro,  eh'  è 
una  serie  di  sonetti  napoletani  amorosi,  in  vita  e  in  morte 
di  una  Laura  volgare,  che  il  poeta  chiama  Cecca,  non 
potè  esser  fatta  se  non  molti  anni  prima  del  1646.  Le 
allusioni  di  quei  sonetti,  le  persone  e  le  costumanze,  cui 
essi  accennano,  ci  trasportano  al  tempo  stesso  della  com- 
posizione dei  poemi  del  Cortese,  intorno,  cioè,  al  1620^. 

E  di  Cecca  e  dei  canti  in  sua  lode,  usando  le  stesse 
frasi  dello  Sgruttendio,  si  parla  nelle  lettere  citate  del 
Basile  : 

E  chisse  te  faranno  pò  na  mnseca, 
(Ga  portano  a  taccone  na  teorbia). 
Da  fare  ashevolire  meza  Napole! 

Certo,  potrebbe  supporsi  che  dalle  frasi  del  Basile  a- 
vesse  preso  le  mosse  lo  Sgruttendio  pel  suo  canzoniere. 
Ma  la  contemporaneità,  che  a  me  sembra  evidente,  dello 
Sgruttendio  e  del  Basile,  farebbe  piuttosto  pensare  ad 
un  argomento  burlesco,  reso  famoso  dallo  Sgruttendio, 
tra  i  cultori  del  dialetto,  e  al  quale  accenni  il  Basile. 

Ma  chi  è  lo  Sgruttendio?  Chi  è  questo  poeta,  che,  col 
Basile  e  col  Cortese,  forma  la  triade  dei  primi  e  sommi 
poeti  dialettali  napoletani?  —  Su  questo  punto,  mistero! 


1  Non  è  possil)ile  provare  qui  mimitamente  quest'asserzione.  Si 
noti  per  es.,  ciò  che  vi  si  dice  del  Dottor  Ghiajese,  una  celebrità  po- 
polare dei  tempi  del  Duca  di  Ossuna  (Gfr.  Groce,  /  teatri  di  Napoli, 
pp.  99-100),  e  eh' è  messo  in  azione  nel  Micco  Passare  (IV,  19  sgg.; 
V,  I  sgg.)  e  nel  Viaggio  di  Parnaso  (IV,  26  sgg.).  Gosi  Pezillo,  Gompi 
Junno,  ecc.  ecc. 


INTRODUZIONE  LXXXI 

Il  nome:  Filippo  Sgruttendio  da  Scafato,  è,  certo,  un 
pseudonimo.  Se  non  bastasse  a  provarlo  la  sua  stranezza, 
lo  proverebbe  indubitabilmente  la  ricerca  fatta  dal  Mi- 
nieri  Riccio,  e  da  me  ripetuta,  nei  fuochi  o  censimenti, 
di  Scafati:  nei  quali  non  s'incontra  nessuna  famiglia  di 
cognome  Sgruttendio.  È  un  pseudonimo:  ma  chi  cela 
esso?  Messa  da  parte  la  sciocca  ipotesi,  che  celi  Fran- 
cesco Balzano^,  un'altra  mi  si  era  affacciata  alla  mente, 
che  cioè  l'autore  non  fosse  altri  che  il  Cortese.  Ed  era 
spinto  a  questa  ipotesi,  sia  dal  non  trovare  altro  dei  noti 
scrittori  di  quel  tempo,  al  quale  attribuire  un  cosi  bel 
canzoniere;  sia  dal  sembrarmi  che  le  lettere  del  Basile, 
dove  si  parla  di  Cecca,  fossero  dirette  al  Cortese;  sia, 
infine,  dal  notare,  (cosa  non  avvertita  da  altri),  che  il 
Cortese,  tra  le  molte  opere  inedite,  ne  lasciò  una  intito- 
lata lo  Colascione:  eh' è  quasi  lo  stesso  titolo  del  canzo- 
niere dello  Sgruttendio.  Ma  se,  come  parrebbe  dalla  de- 
dica dell'editore  del  1646,  allora,  l'autore  della  Tiorba 
era  ancora  vivo,  non  può  essere  il  Cortese,  morto  una 
ventina  d'anni  prima.  E  cosi  si  torna  al  mistero  di  prima  ^. 

Comunque  sia,  pel  nostro  scopo  basta  notare  che  nella 
fioritura  dialettale,  eccitata  dal  Cortese,  fu  prodotta  que- 


i  V.  Pietro  balzano,  Ragionamento  letto  all'Accad,  Pontaniana, 
il  1855.  Lo  combatte  ragionevolmente,  ma  con  immeritata  minuzia 
e  serietà,  il  Martorana,  0.  e,  pp.  380  sgg. 

2  Nel  libro  del  Gelano,  Degli  avanzi  delle  Poste,  P.  Il,  Nap.,  per 
Antonio  Bulifon,  MDGLXXXI,  pp.  45-6,  accennandosi  ai  varii  poeti 
napoletani,  si  nominano  il  Cortese,  il  Basile,  il  Quaranta,  il  Taren- 
tino,  napoletani, 


LXXXII  mTEODUZIONE 

sta  Tiorba:  un  canzoniere,  eh' è  una  parodia  dei  canzo- 
nieri italiani  del  seicento.  Tutte  le  trovate  allora  solite, 
i  paragoni,  le  immagini,  le  movenze  dei  periodi,  le  frasi, 
sono  contraffatti  in  questi  sonetti,  che  appartengono  al 
genere  di  quello,  famoso,  del  Berni  :  Chiome  d'argento,  fi- 
ne, irte,  ed  attorte!  —  i^priamo  a  caso  uno  dei  canzonieri 
del  seicento.  Siano,  per  es.,  le  Poesie  di  Marcello  Gio- 
vanetti, compartite  in  affettuose,  boschereccie,  ecc.  ecc. 
(In  Roma,  mdcxxvi).  E,  scorrendo  il  libro,  ecco  venirci 
innanzi  sonetti,  con  titoH  come  questi:  Bella  Donna  con 
macchie  rosse  nel  volto;  Bella  Donna  con  veste  rossa,  o 
nera  ricamata  a  stelle  d'oro,  o  azzurra;  Bella  Guercia; 
Bella  Serva;  Bella  Ninfa  dagli  occhi  bianchi;  ecc.  ecc. 
E  lo  Sgruttendio  scrive:  A  la  bella  Tricchetraccara ; 
A  la  bella  Guattara;  A  la  bella  Trippajola;  A  la  bella 
Tavernara;  A  la  bella  Jettacantare  ;  A  la  bella  Pedoc- 
chiosa;  A  la  bella  Shiaccata;  ecc.  ecc.!  — E  ogni  cono- 
scitore della  letteratura  seicentistica  apprezzerà  la  finezza 
di  parodie,  come  questa,  intitolata: 

Paraggio  fra  isso, 
e  lo  sorece  ncappato  a  lo  mastrillo  de  Cecca. 

La  sciorta  mia  e  toja,  o  sorecillo, 
Tutt'è  na  cosa,  e  simmo  duje  pacchiane! 
Tu  ghist'a  cheli' addore  de  casillo, 
Io  a  Cecca,  che  de  st'armo  è  caso  e  pane; 

Tu  faje  zio-zio,  ed  io  sospiro  e  strillo, 
Tu  muzzeche  ssi  flerre,  ed  io  sti  mane; 
Tu  zumpe,  io  sauto,  comm'a  gatta  o  cane; 
Io  senza  libertà,  tu  a  sso  mastrillo! 


INTRODUZIONE  LXXXin 


A  te  sbatte  lo  piatto,  a  me  lo  core, 
Tu  morte  aspiette,  ed  io  no  spero  vita, 
Tu  chino  de  paura,  io  de  dolore! 

Nchesto  sgarrammo,  ed  è,  ca  tu  avarraje 
Una  morte  da  Cecca  saporita, 
Io  n' aggio  ciento,  e  non  se  sazia  maje^! 


Il  Cortese,  il  Basile,  e  il  misterioso  Sgruttendio,  pro- 
ducevano le  opere,  che  abbiamo  visto,  o  vedremo.  Ma 
anche  altre  opere  dialettali  si  venivano  stampando.  Nel 
1628,  un  Domenico  Basile,  pubblicava  una  traduzione  na- 
poletana di  quel  Pastor  fido^  allora  tanto  prediletto,  che, 
come  dice  Salvator  Rosa,  serviva  da  ufficialo  nelle  chiese. 
E  annunziava  di  aver  pronti  per  le  stampe  altri  lavori 
intitolati:  Lo  Dottore  a  lo  sproposeto^  lo  Spitale  de  li 
pazze,  la  Casa  de  V  Jgnoranzia,  la  Defenzione  de  li  Poete 
napolitane  contro  Boccalini  e  Giulio  Cesare  Capaccio 
nnanze  ad  Ajjollo^.  E,  nello  stesso  1628,  Bartolommeo 
Zito,  detto  il  Tardacino,  accademico  Risoluto^,  scriveva 
un  lungo  cemento  napoletano  alla  Vajasseide  e  una  Difesa 
di  essa  contro  le  censure  degli  Accademici  Scatenati.  E, 
senza  citare  le  altre  opericciuole  in  dialetto  allora  stam- 
pate'*, basti  ancora  accennare  alla  traduzione  in  ottava 
rima  del  libro  quarto  dell'Eneide,  fatta  da  Francesco 
Bernaudo^:  e  che  ci  resta  qualche  verso  napoletano  del- 


*■   Tiorba,  G.  I,  50.        ~  0.  e,  pp.  23-4. 

3  Gfr.,  intorno  a  lui,  Croce,  /  teatri  di  Napoli,  pp.  65-7. 

^  Per  le  quali  v.  passim  il  Martorana,  o.  c. 

5  Nap.,  1640,  per  Secondino  Roncaglielo. 


LXXXIV  ISTRODUZIOXE 

l'amico  del  Basile,    Orazio  Cataneo,    e  di  Giulio  Cesare 
Capaccio,  ch'era  amico  e  ammiratore  del  Cortese*. 

Nella  Tiorba  dello  Sgruttendio,  per  imitare  anche 
quella  parte,  costante  nei  canzonieri  del  seicento,  che  è 
formata  da  uno  scambio  di  sonetti  tra  l'autore  e  i  suoi 
amici  e  ammiratori,  ci  sono  delle  proposte  e  risposte,  tra 
lo  Sgruttendio,  e  una  quindicina  di  poeti,  che  si  dicono  : 
lo  Smenchìa  Accademico  Cestone^  lo  S^nchiechia  Accade- 
mico Sciaurato,  lo  Catarchio  Accademico  Sparnoccliia,  lo 
Sbozza  Accademico  Marfuso,  ecc.  ecc.  Il  Minieri  Riccio 
costruì  con  questi  nomi  un'accademia  reale,  di  storica  esi- 
stenza, e  suppose  sotto  ciascuno  d'essi  una  persona  reale-. 
Ma  che  gli  accademici  sieno  immaginarii,  e  quel  carteggio 
poetico  uno  scherzo,  è  cosa  che  a  me  sembra,  a  lettura 
di  libro,  evidente^.  E  si  noti  che,  se  fossero  nomi  reali 
di  accademici,  bisognerebbe  supporre  che  ciascuno  d'essi 
appartenesse  a  un'accademia   differente,  e  quindici  acca- 


i  Del  Cataneo,  un  lungo  sonetto  caudato  in  dialetto,  intit.:  «Gon- 
tra  uno  di  casa  Affatalo  (suo  nemico)  »,  è  nel  ms.  X,  XXI,  della 
Bibl.  dei  Gerolomini;  e  m'è  stato  indicato  dall'amico  Angelo  Borzelli. 
Del  Capaccio  è,  di  certo,  il  sonetto  diretto  al  Cortese,  che  si  trova 
stampato  nel  quinto  volumetto  della  prima  ediz.  del  Cunlo  de  li 
Cuntl,  con  una  risposta  del  Cortese.  L'autore  scrive  da  Pesaro,  e, 
com'è  noto,  il  Capaccio  fu  ai  servigi  dei  Della  Rovere,  signori  di 
Urbino  e  Pesaro. 

2  Cenno  sxdlc  accad.,  1.  e,  pp.  585-6. 

3  Anche  innanzi  alla  Vajass.  del  Cortese  vi  sono  poesie  dello 
Smorfia  Accademmeco  Pacchiano,  dello  Sguessa  Accadem/meco  Sma- 
tricolato, de  lo  Catammaro  Accademmeco  Chiafeo.  E  le  lettere  del 
Basile  sono  firmate,  ora  lo  Smorfia,  ed  ora  Lo  Chiafeo. 


INTRODUZIONE  LXXXV 

demie  per  quindici  nomi.  Infatti,  se,  per  es.,  lo  Smenchia 
è  il  nome  particolare  dell'accademico,  Cestone  richiame- 
rebbe l'accademia  dei  Cestoni;  tSciaurato,  quella  degli 
Sciaurati,  e  cosi  via! 

Ma,  se  non  un'accademia  costituita  in  tutte  le  forme, 
un'  attiva  produzione,  ed  omogenea,  vi  era.  Il  Basile,  o 
Giaìi  Alesio  Ahhattutis,  in  sua  vita,  oltre  le  lettere  che 
abbiamo  visto,  non  stampò  altro  in  dialetto  ^  Tuttavia, 
scriveva  molto;  ma  forse  serbava  le  sue  opere  per  gli 
amici,  0  vi  lavorava  nei  suoi  ozii,  per  pubblicarle  poi 
quando  cbe  fosse. 


E,  quando,  il  23  febbraio  1632,  il  Cavalier  Basile  mo- 
riva a  Giugliano,  il  suo  portafogli  era  carico  di  opere 
manoscritte.  Sua  sorella,  Adriana,  ne  tolse  il  Teagene, 
come  si  è  visto.  Ma  un  altro  ne  traeva  due  manoscritti, 
per  istamparli,  uno,  molto  grosso,  intitolato  :  Lo  Cunto 
de  li  Canti  overo  lo  trattenemiento  de'  Peccerille  de  Gian 
Alesio  Ahhattutis,  e  un  altro,  più  piccolo,  intitolato:  Le 
Muse  Napolitane,  Egloghe  di  Gian  Alesio  Ahhattutis. 

Un  Salvatore  Scarano  s'affrettò  a  mandare  in  istampa 
il  Cunto  de  li  Cunti.  Chi  fosse  questo  Salvatore  Scarano, 
non  si  conosce.  Ma  si  conosce  la  persona,  alla  quale  pensò 


i  Si  noti  che  nella  Lett.  IV  allude  a  certi  sonetti  (napoletani?), 
che  avrebbe  scritto:  «  Non  saccio  s'aje  lejuto  li  soniette  compueste 
contra  chillo  scirpio.  smeuzillo,  sautam'adduosso,  piuzillo,  regnola, 
ecc.  ecc.,  scazzamauriello  d'Ammore,  che  m'aveva  pigliato  a  fru- 
sciare, ecc.  ». 


LXXXVI  INTRODUZIONE 

di  dedicarlo:  ch'era  quel  Duca  d'Acerenza,  Galeazzo  Pì- 
nelli,  protettore  di  Giambattista,  ai  cui  servigi  questi 
era  morto. 

E,  nel  1634,  pubblicava  appresso  Ottavio  Beltrano,  la 
prima  giornata  del  Cunto  de  li  Curiti,  dedicandola  :  «  Al- 
l'Illustriss,  et  Eccellentiss.  Sig.  il  Signor  Galeazzo  Fran- 
cesco Pinello,  Duca  dell'Acerenza,  Marchese  di  Galatone, 
Sig.  di  Copertino,  Veglie,  Liverano,  et  Giuliano,  mio  pa- 
trone osservandissimo  »  ^ 

Lo  Scarano  dice  nella  prefazione  (tralascio  le  solite 
ciance  del  tempo):  «  Vengo  a  comparire  avanti  di  V.  E. 
ed  a  dedicarle  per  hora  la  prima  giornata  del  Pentame- 
rone  overo  Conto  de'  Conti  del  signor  Cavaliere  Gio.  Bat- 
tista Basile  in  lingua  napoletana,  in  cui  si  scorgerà  la 
grandezza  d'un  ingegno  cosi  pellegrino  com'  era  il  suo, 
in  ordinar  quello  favole  con  tanti  scherzi,  con  tante  sen- 
tenze, e  con  tanti  stravaganti  modi,  che  son  certo  che 
deveranno  arrecare  grandissimo  diletto  ed  allegrezza  a 
coloro,  che  le  leggeranno,  e  fama  e  gloria  a  lui  che  l'ha 
composte  ». 

Il  Cunto  de  li  Cunti  è  qui  chiamato  per  la  prima 
volta  Pentamerone.  Il  qual  titolo  non  appare  sul  fronte- 
spizio, e  non  sappiamo  se  provenga  dal  Basile,  0  non  sia 


*  Lo  Cu/nto  I  de  li  Cuna  \  overo  \  Lo  trattenemiento  de'  \  Feccerille  \ 
de  Oian  Alessio  (sic!)  Abballutls  |  In  Napoli,  Appresso  Ottavio  \  Bel- 
trano, 1634  I  Con  licenza  de'  superiori;  —  di  pp.  160  num.,  e  8  inn. 
a  princ.  —  Quest'edizione  è  sconosciuta  ai  bibliografi,  che  han  trat- 
tato delle  opere  del  Basile;  e  l'unico  esemplare,  che  io  ne  conosca,  è 
conservato  nella  Biblioteca  Nazionale  di  Torino. 


INTRODUZIONE  LXXXVII 

stato  piuttosto  foggiato  dal  suo  editore  nella  dedica.  Ma 
più  tardi  il  titolo:  Pentamerone,  più  breve,  più  comodo, 
prevalse. 

Lo  Scarano  continua  ancora  coll'assicurare  il  Pinelli 
«  che  non  è  mica  (intendi  :  non  è  poco)  faticoso  il  com- 
porre simili  cose,  e  che  habbiano  da  dilettare  e  piacere; 
appagandomi  sommamente  quella  sentenza,  che  nelle  sue 
epistole  riferisce  Pico,  quel  grand' huomo  Mirandolano, 
dicendo  che:  jocularia  et  fabellas  describere  erudite,  acrio- 
ris  ingenii  est  quam  de  gravissimis  rebus  vel  ornate  dis- 
serere.  Operiosus  enim  est  ex  limo,  quam  ex  aere  vel  auro 
decoram  effingere  statuam  ». 

Passa  poi  a  dire  il  perchè  della  dedica  a  lui:  «  Si  de- 
vono indirizzare  a  V.  E.  l'opere  del  detto  signor  Cava- 
liere, il  quale,  mentre  visse,  era  suo  fedelissimo  amico,  e 
credo  certo  che,  s'egli  fosse  sopravi vuto  fin'  hoggi,  quello 
e' ho  fatto  io,  avrebbe  fatto  egli  ».  E  conchiude  che 
«  forse,  prendendo  animo,  manderà  appresso  in  luce  l'al- 
tre giornate  che  seguono  »  ^. 

L'opera,  venuta  cosi  a  luce  postuma,  non  era  ancora 
del  tutto  pronta  per  la  stampa:  le  negligenze  di  forma 
che  vi  si  ritrovano,  e  alcune  strane  inavvertenze  sono  di 
ciò  bastevole  indizio^. 


i  Ded.  di  Napoli  li  3  di  gennaio  1634.  — -j 

2  Basti  osservare,  fra  l'altro,  che  il  T.  Il  della  G.  II  è  intitolato  \ 
Verde  ìYato,  senza  che  di  questo  nome  si  dia  ragione  nel  corso  della  | 
narrazione;  che  il  Pippo  del  T.  IV  della  G.  II  è  a  un  bel  punto  chia-  | 
mato  e  continuato  a  chiamare  Co.gliicso;  e  che  l'eroe  del  T.  VII  è  \ 
chiamato,  nella  stessa  novella,  ora  Nardeaniello ,  ora  Antoniello,  ora  . 

Mase  AnieUo.  E  molli  altri  simili  esempii. 


Lxxxvnr  introduzione 

Qualche  mese  dopo,  pubblicò  la  Jornata  seconna,  dedi- 
candola allo  stesso  Pinelli,  e  stampandola  sempre  dal 
Beltrano  ^ 

E  nello  stesso  anno,  senza  dedica  e  pei  tipi  di  Lazzaro 
Scoriggio,  usci  la  Terza  Giornata^.  E  tra  il  1634  e  il  1635 
la  Quarta  Giornata,  che  è  dedicata  al  signor  Giuseppe  de 
Rossi  e  Bavosa  Barone  di  Castelnuovo,  da  Gio.  Antonio 
Farina  ^. 

Nel  1635  furono  messe  a  stampa  le  Muse  Napolitane, 
che,  —  mirabile  dictu!  — ,  non  sono  precedute  da  nessuna 
dedica  di  nessun  editore"*. 


i  ut  supra.  —  lornaia  seconna.  In  Napoli,  apiìresso  Ottavio  Bel- 
trano, iG31,  con  licenza  dei  Superiori,  di  pp.  106  num.,  e  6  inn. 
Ded.  20  di  aprile  1634.  Dice,  tra  l'altro  :  «  Egli  ben  si  conviene  che, 
dovendo  comparire  alla  luce  questa  seconda  giornata  del  Pentame- 
rone  del  signor  Gavalliero  Gio.  Battista  Basile,  ch'esca  ancor  ella 
sotto  i  felici  auspici  di  V.  E.  sotto  la  cui  tutela  uscì  altresì  la  pri- 
ma. Ella  viene  alla  luce  2)osthu7natus  pater,  e  come  V.  E.  sa  per  di- 
sposizione di  ragione  a  Posthumi  si  concede  il  tutore,  perchè  habbia 
chi  difende  lo  sue  ragioni  ». 

2  Ut  supra.  —  lornata  terza.  In  Napoli,  per  Lazzaro  Scoriggio, 
1631,  con  Ite.  del  Sup.,  di  pp.  126  num. 

3  ut  supra.  —  lornata  quarta.  In  Napoli,  per  Lazzaro  Scoriggio, 
i63t,  di  pp.  152.  Ma  i  varii  esemplari  da  me  visti,  anche  quello  da 
me  posseduto,  sono  preceduti  da  8  pp.  inn.,  che  contengono  un  altro 
frontespizio  colla  data  del  1635,  e  la  dedica  anzidetta  in  data  del 
20  di  luglio. 

*  Le  Miise  Napolitane,  Egloghe  di  Gian  Alesio  Abbatiutis,  In  Na- 
poli, per  Domenico  Maccarano,  con  licenza  del  Svp.,  1635,  di  pp. 
132  e  IO  a  prlnc.  inn.  Nella   maggior  parte  degli  esemplari,  che  ne 


IKTEODUZIONE  LXXXIX 

Ma,  viceversa,  c'è  una  prefazione  e  un'avvertenza  del- 
l'autore, che  forse  il  Basile  dovè  lasciare  preparate  per 
la  stampa.  Nella  prima  si  giustificano,  con  arzigogoli,  i 
titoli  delle  egloghe,  presi  dai  nomi  delle  Muse.  Nell'al- 
tra, si  accenna  alla  morte  del  Cortese  e  si  dice  ai  lettori 

che  «  lo  sole pe  levareve  lo  nsavuorrio,  che  v'hanno 

causate  certe  freddure  napoletane  scinte  dapò  la  morte 
de  lo  Cortese  a  la  stampa,  se  contenta  che  da  oje  nnante 
esca  quacche  lampetiello  de  la  luce  soja  a  scompetare  la 
perdeta  fatta,  e,  pe  primmo  relanzo,  ve  refunne  st'  ecro- 
che, nelle  quale  sotto  varie  azzediente  stregue  nsiemme 
tutte  le  forme  de  lo  parlare  napoletano,  che  servarà  pe 
conserva  de  la  bella  antichetà  de  Napole;  comme  ne  fa- 
cette  lo  medesemo  autore  n'autro  scampolo  a  chelle  let- 
tere, che  fecero  cammarata  co  la  Vajasseide,  dalle  quale, 
comme  robba  propria,  se  n'ha  pigliato  l'accoppatura.  Lei- 
tele,  adonca,  gustatele,  e  pregate  lo  cielo  pe  Gian  Ale- 
sio,  mentre  isso  ve  prega  da  chi  pò  buono  appetito  e 
male  da  magnare,  ch'è  sanetate  de  cuorpo  !  » 

Le  3Iuse  Napolitane  sono  nove  egloghe,  ciascuna  delle 
quali,  oltre  il  titolo  proprio  del  contenuto,  porta  il  nome 


avanzano,  il  3  del  1635  non  si  vede;  tanto  che  l' Imbriani  nella  sua 
bibliografla  mette:  16-5.  Ma  in  un  esemplare,  conservato  nella  Bibl. 
Naz.  di  Torino,  si  legge  chiaramente:  1635.  C'è  un'edizione  antece- 
dente a  questa,  delle  Muse  Xapolitane  ?  Non  la  conosco,  e  nessuno 
la  cita  o  vi  accenna.  Ad  ogni  modo  non  oserei  affermare  recisa- 
mente che  questa  del  1635  sia  la  prima,  anzi,  neanche  credo  asso- 
lutamente fuor  di  dubbio  che  le  Muse  Napolitane  fossero  pubblicate 
postume. 


XC  '  DSTEODUZIONE 

di  una  Musa.  La  prima  è  Clio^  overo  li  Smargiasse,  che 
mette  in  iscena  due  che  litigano,  minacciano,  si  sfidano,  e 
poi,  per  r  intromissione  di  un  terzo,  si  rappaciano.  La  se- 
conda, Euterpe,  overo  la  Cortisciana,  dove  si  rappresenta 
un  giovane,  scortator,  che  un  vecchio  cerca  invano  di  di- 
stogliere da  quella  razza  di  donne,  dipingendogliene  al 
vivo  i  costumi.  La  terza,  Talia,  overo  lo  Cerriglio,  nella 
quale  un  tale  descrive  ad  un  inesperto  le  meraviglie  della 
taverna  del  Cerriglio,  quella  stessa  taverna  tanto  famosa, 
che  dette  argomento  al  poema,  che  abbiamo  menzionato, 
del  Cortese.  La  quarta.  Melpomene,  overo  le  Fonnachere, 
che  mette  in  iscena  due  donne  del  popolo,  due  demonii, 
che  vengono  alle  beffe,  ai  danni,  all'onte,  con  grande  co- 
pia di  fantasia  e  di  linguaggio  insultatore.  La  quinta,  Ter- 
sicore, overo  la  Zita,  che  descrive  i  preparativi  di  un  ma- 
trimonio popolare.  La  sesta.  Erato,  overo  lo  giovane  nzo- 
raturo,  che  è  una  serie  di  consigli,  che  un  savio  vecchio 
dà  ad  un  giovane  sulla  scelta  della  moglie.  La  settima, 
PoUnnia,  overo  lo  viecchio  nnammorato,  che  è  in  beffa 
di  un  vecchio,  innamorato  di  una  fanciulla  e  in  procinto 
di  sposarla.  L'ottava,  Urania,  overo  lo  Sfuorgio,  che  de- 
scrive come  un  tale,  col  mutar  vestito,  acquisti  la  stima 
e  l'adulazione  della  gente,  con  relative  considerazioni 
morali.  La  nona.  Calliope,  overo  la  Museca,  che  ricorda 
la  musica  e  le  canzoni  del  bel  tempo,  antico. 

Tali  gli  argomenti  di  questi  dialoghi,  impropriamente 
chiamati  Egloghe.  —  Hanno  tutte  un  concetto  morale  e  di- 
dascalico, ma  questo  concetto  è  svolto  e  illustrato  da  una 
serie  di  svariate  scenette  di  costumi  popolari  napoletani. 
La  ricchezza  dei  particolari  e  la  esattezza  e  la  copia  del- 


INTRODUZIONE  XCI 

l'osservazione  dei  fatti,  sono  straordinarie  ^  Ma  l'elo- 
quenza dei  dialoganti  è  l'eloquenza  seicentistica  dello 
scrittore.  Si  ha  cosi  la  vita  popolare  napoletana  del  tem- 
po, passata  attraverso  i  gusti  dello  scrittore  seicentista. 
Ma,  fortunatamente,  tali  gusti  non  sono,  in  questo  caso, 
le  solite  freddure  mitologiche,  o  i  giuochetti  di  anagram- 
mi, dei  quali  si  compiaceva  lo  scrittore  italiano. 

Sono  tutt' altri.  Sono  le  lunghe  enumerazioni,  con  le 
quali  un  oggetto,  un  fatto,  è  presentato  sotto  molteplici 
e  svariatissimi  aspetti.  Ovvero,  quella  che  l' Imbriani  chia- 
ma bene  sinonimia  scherzosa  ~,  per  la  quale  uno  stesso 
pensiero,  una  stessa  cosa,  è  detta  con  una  lunga  filza  di 
parole,  e  frasi,  e  circonlocuzioni.  Il  Basile  ne  aveva  già 
dato  esempio  nelle  Lettere,  che  abbiamo  visto;  ma,  nelle 
Lettere,  questa  sinonimia  era  poco  più  dell'opera  di  un 
vocabolarista;  nelle  Egloghe,  diventa  un  mezzo  artistico, 

E  sotto  queste  esagerazioni  e  queste  bizzarrie  palpita  la 
vita.  Ecco,  per  esempio,  come  nell'Egl.  V  sono  descritte 
le  carezze,  e  i  vezzi,  e  i  discorsi  amorosi  dei  ziti  (sposi)  : 


E,  datole  no  vaso  a  pezzechillo, 

Secoteja,  e  le  dice: 

«  Tu  sì  lo  capo  mostro 

«  De  le  piantate  cose! 


^  Cosicché,  queste  egloghe  hanno  anche  un  valore  storico  non 
piccolo.  Di  moltissime  costumanze  napoletane  si  conserva  in  esse 
l'unico  documento.  —  Ma  qui  non  è  il  luogo  d'illustrarle,  sotto  que- 
sto rispetto. 

2  Imbriani,  ?.  e,  ir,  455.6. 


XCII  INTEODUZIONE 

«  Tu  si  quatto  dell'arte 

«  De  le  cianciose  e  belle! 

«  Tu  sì  l'accoppatura 

«  De  li  frutte  amoruse! 

«  Tu  sì  lo  primnio  taglio 

«  De  le  carne  d'Ammore! 

«  Famme  luce,  lanterna  de  lo  sole! 

«  Damme  mpumma,  fontana  de  docezza! 

«  Votame  ss'uecchie,  parlarne,  canazza, 

«  Gacciacore,  nennella! 

«  Vide  pacione  tujo, 

«  Ca  zo  muerto  pe  tene! 

«  Scètate,  peccerella, 

«  lo  zo  ro  tata,  e  tu  ra  mammarella .'  » 
Lei.    Ed  essa,  che  le  dice? 
Mas.  Fa  de  la  contegnosa, 

Torce  lo  musso,  e  vota  la  faccella, 

La  facce  rossolella 

Justo  comm'a  doi  spalle  di  vattente, 

E  co  certe  squasille 

E  gnuognole,  da  farete  morire, 

E  co  na  voce  cianciosella,  dice  : 

«  iMzzame  zzare,  ca  ro  dico  a  mamma, 

«  Che  puezz'ezzere,  lazzame,  te  dico  ! 

«  Uh!  com,me  si  sfrontato,  tiene  mente, 

«  iN'on  fare  ze  vr egogne  nanze  a  gente!  » 

Ed  isso  leprecheja: 

«  Renzolla,  bene  mio,  non  me  vuoi  bene?  » 

«  Voglio  »,  —  essa  dice  — .  Isso  responne:  «  Quanto?  » 

Essa:  «  Fi  ncoppa  a  l'astraco!  » 

E,  nchesso,  siente  l'una  vocca  e  l'autra 

Fare  comm'a  dui  mafare  ndegeste; 

(Né  dico  paparacchie: 

Ga  non  sai  se  so  sische  o  so  vernacchie!) 


mTEODUZIONE  XCIII 

E  ho  riferito  anche  quest'ultimi  versi  goffi  e  sporchi, 
perchè  si  vegga  un  difetto  del  Basile,  eh'  è  comune  quasi 
a  tutti  i  nostri  scrittori  dialettali,  i  quali,  movendo  dal 
pensiero,  che  il  popolo  sia  grossolano  (cosa  vera  in  certi 
limiti  e  in  certi  casi),  gli  mettono  in  bocca  sconcezze,  an- 
che in  situazioni,  nelle  quali  il  sentimento  popolare  sa 
essere  fine  e  delicato,  quanto  quello  di  qualunque  poeta  ! 
Ma,  da  parte  i  difetti,  che  verità  d'osservazione,  che 
brio,  che  fertilità  d'immaginazione!  Con  questo  fervore 
d'ingegno,  e  copia  e  vivacità  di  lingua,  sono  descritte 
tutte  le  varie  scene  delle  nove  egloghe. 


L'anno  dopo  si  compieva  la  stampa  del  Cunio  de  li 
Curiti.  Il  Farina  pubblicava  la  Quinta  Giornata,  pei  tipi 
del  Beltrano,  dedicandola  a  «  Don  Felice  Di  Gennaro, 
nella  sacra  Theologia  maestro  e  del  santo  Ufficio  consul- 
tore »  ^. 

L' operetta  piacque  moltissimo,  e  l'edizione  andò  a  ruba. 
Queste  novelle,  —  dice  l'editore  — ,  furono  «  con  tanto 
appluaso  ricevute  dal  mondo  per  le  maniere  dei  lumi  e 
degli  artifici  poetici,  e  per  lo  nuovo  genere,  che  saranno, 
si  come  io  credo,    immortali!  »  E,  trovandosi    esauriti  i 


*■  ut  supra.  —  Jornata  quinta.  In  Napoli,  appresso  Ottavio  Bel- 
trano, 1636,  con  lic.  dei  sup,,  di  pp.  96  numm.  La  ded.  ha  la  data 
del  20  luglio  1636.  In  alcuni  esempi,  di  questo  volumetto  sono  inse- 
riti dopo  la  dedica  due  sonetti  napoletani  (v.  s.  p.  LXXXIV)  e  una 
canzone  di  Giulio  Cesare  Cortese:  Conziglio  dato  da  lo  Chiajese,  della 
cxuale  si  discorrerà  più  olti'e. 


XCIV  INTRODUZIONE 

due  i^rimi  volumetti,  pubblicati  nel  1634,  il  Beltrano  li 
ristampò  nel  1637.  I^  primo,  il  solito  Farina  lo  dedicò 
al  «  Padre  Baccelliere  F.  Alfonso  Danielle  Napoletano 
dell'ordine  di  Santo  Agostino  »,  ch'era,  come  sappiamo, 
cugino  del  Basilea  II  secondo,  lo  stesso,  al  «  Signor 
Fulvio  Casaburo  »,  anche  amico  del  Basile'. 


1  In  Napoli,  per  Ottavio  lieltrano,  MDCXXXVIT,  con  lic.  dei  sup. 
di  pp.  167  numna.  Ded.  2  genn.  1637. 
*  m  supra.  —  Di  pp.  108  numm.  e  8  innumm.  Ded.  1  luglio  1637. 


m. 


Il  Cunto  de  li  Cimti  come  opera  letteraria. 

Il  Cunto  de  li  Cunti  è  un  libro  di  fiabe.  E  le  fiabe,  — 
non  occorre  quasi  il  dirlo  — ,  sono  racconti  popolari  tra- 
dizionali di  avventure,  alle  quali  pigliano  parte  esseri 
umani,  ed  esseri  sovraumani  od  estraumani  della  mitolo- 
gia popolare,  come  fate,  orchi,  ammali  parlanti,  ecc.  Que- 
sto complesso  di  racconti  tradizionali,  la  cui  origine  è 
incerta  e  discussa  e  risale  senza  dubbio  a  una  remota 
antichità,  viene  ora  considerato  dalla  moderna  filologia 
come  un  gruppo  di  documenti  importanti  per  la  storia 
del  genere  umano  e  per  la  psicologia  popolare.  Ma,  per 
molti  secoli,  essi  non  furono  se  non  un  oggetto  di  diletto 
e  di  trattenimento  pel  popolo  ingenuo  e  pei  fanciulli,  che 
avidamente  li  ascoltavano  :  lo  scienziato  disdegnava  d'ap- 
pressarvisi,  e  solo,  di  rado,  vi  si  appressò  l'artista. 

E  uno  dei  primi  artisti,  anzi  il  primo,  che  vi  si  ap- 
pressasse, fu  appunto  il  nostro  Giambattista  Basile.  Non 
già  che,  prima  di  lui,  la  materia  delle  fiabe  non  fosse 
passata  sotto  le  penne  dei  letterati.  Varie  fiabe  contiene 
i\  Pecorone  di  ser  Giovanni  Fiorentino^;  varie  altre,  per 
esempio,  se  ne  ritrovano   nel   Mambrìano   del   Cieco    di 


^  Gfr.  Imbruni,  o.  c,  II,  pp.  437-45. 


XCVI  INTRODUZIONE 

Ferrara,  e  sono  state  recentemente  studiate^;  e  molte 
altre  ancora  sarebbe  agevole  scavarne  nella  gran  conge- 
rie dei  nostri  libri  di  novelle.  E,  finalmente,  nel  secolo 
decimosesto,  ci  fu  uno  scrittore,  Giovan  Francesco  Stra- 
parola  da  Caravaggio,  cbe,  nelle  sue  Piacevoli  Notti  (pri- 
ma ediz.,  1550,  1553),  di  molte  sue  novelle  tolse  la  ma- 
teria da  fiabe  e  facezie  popolari^;  tanto  che,  per  questo 
rispetto,  può  riguardarsi  come  il  precursore  del  Basile. 
Ma,  negli  scritti  di  costoro,  le  fiabe  sono  modificate, 
regolarizzate,  svisate.  Essi  le  atteggiano  a  novelle  citta- 
dine, le  spogliano,  per  quanto  possono,  del  meraviglioso 
messovi  dalla  fantasia  popolare,  e,  infine,  le  raccontano 
sempre  col  rigido  vecchio  stile  dei  novellieri  italiani. 
Dello  Straparola  dissero  giustamente  i  Grimm:  «  Si  sforzò 
di  narrare  secondo  il  modo  solito  e  prestabilito,  e  non 
seppe  far  risuonare  una  nuova  corda  »  ^.  E  si  può  dire 
che,  con  essi,  le  fiabe  entrarono  bensì  nel  campo  della 
letteratura,  ma  vi  entrarono  di  nascosto,  inosservate,  ca- 
muffato delle  consunte  vesti  degli  epigoni  Boccacceschi. 
Invece,  col  Canto  de  li  Cunti  fecero  un  ingresso  aperto, 


1  Cfr.  G.  RUA,  Vovelle  del  Mambriano  del  Cieco  da  Ferrara,  espo- 
ste ed  iHì'.strate,  Torino,  Loescher,  1888. 

2  Sullo  Straparola,  basti  citare  l' importantissimo  studio  del  RuA, 
Intorno  alle  Placex'oU  Notti  dello  Straparola  (in  Gior.  stor.  leti,  ital., 
XV,  111-151,  XVI,  218-283). 

3  «  ...,nach  der  gewòhnlichen  ausgebildeten  Erzàhlungsart  strebte, 
uud  eiuc  neue  Saite  anzuscblagen  nicht  verstand  »  (Kinder-und 
Jlausmurchen,  gesammelt  durch  die  Briider  Grimm,  3,"  ed.,  Gòttin- 
gen,  1856,  Iir,  291).  Cfr.  anche  Imbriani,  l.  e,  II,  446. 


INTRODUZIONE  XCVH 

trionfale,  nel  campo  dell'arte,  abbigliate  di  tutta  la  pompa 
e  le  bizzarre  e  strane  fogge  della  fantasia  popolare. 

Il  Basile  racconta  le  fiabe  come  fiabe.  —  Ma  quale 
interesse  poteva  egli  prenderci,  qual  significato  poteva 
darci,  perchè  ripeteva  e  rifaceva  queste  fiabe,  che  aveva 
raccolto  dal  popolo?  Qual' era,  insomma,  V intuizione,  che 
aveva,  di  questa  sua  materia?  —  Bisogna  determinare 
questo  punto,  per  determinare  la. natura  dell'opera. 

Le  fiabe,  considerate  come  materia  grezza,  possono 
servire,  naturalmente,  a  scopi  svariati,  scientifici,  morali, 
artistici.  E,  tralasciando  gli  scopi  scientifici  e  morali, 
quanto  ad  arte  possono  dar  luogo,  per  esempio,  al  conte 
pliilosophiqne,  col  quale  la  fantasia  vede  in  esse  quasi 
simboli  d'idee;  possono  dar  luogo  ad  una  sorta  di  poe- 
tica rievocazione  del  passato  fanciullesco  ed  ingenuo. 
«  Ah!  »,  —  diceva,  pieno  di  Sehnsucht,  Errico  Heine, 
quando,  attraversando  il  Tirolo,  vedeva  lungi  sui  monti 
le  piccole  casette  tirolesi,  dipinte  in  verde  e  in  bianco, 
tutte  fiori  e  immagini  di  santi  e  visi  di  fanciulle  — , 
«  vi  si  deve  star  pur  bene  e  intimamente  li  dentro,  e 
la  vecchia  nonna  deve  raccontare  le  più  recondite  sto- 
rie! »  ^.  Questo  poetico  sentimento,  o  sentimentalismo,  è 
appunto  espresso  nei  versi  famosi  del  La  Eontaine  :  «  Si 
Peau  d'àne  m'était  conte,  J'y  prendrais  un  plaisir  extrè- 
me!  »  ;  e  di  esso  ebbe  un  sentore  nel  secolo  scorso,  in 
Italia,  Carlo  Grozzi'. 


i  Beisebilder  {Italien),  I,  Kap.  XII. 

2  «  Io  confesso,  —  scriveva  il  Gozzi,  nel  fare  l'esposizione  del  suo 
Amore  delle  tre  Melarance  — ,  che  rideva  di  me  medesimo,  sentendo 


XCVIII  INTEODUZIONE 

Ma  il  Basile  non  era  né  l'uomo  del  secolo  xviir,  ne 
il  romantico  del  secolo  xix,  e  il  conte  phìlosophiqKe,  o 
la  fiaba  rivissuta,  non  entravano  nel  suo  campo  spirituale. 
L'abbiamo  già  detto:  il  Basile  era  un  letterato  seicen- 
tista,  e  alle  cose  del  popolo  prendeva  quell'interesse  che 
solo  poteva  prenderci  un  letterato  seicentista.  Lo  attira- 
vano lo  strano,  il  goffo,  l'assurdo,  motivi  per  lui  di  co- 
mico spiritoso!  E,  per  bizzarria,  porse  orecchio  attento 
a  questi  cunti,  che  soleno  dire  le  vecchie  pe  trattenemiento 
de  peccerille;  e,  per  bizzarria,  prese  poi  a  ripeterli,  a 
volta  facendo  mostra  di  obliarvisi  e  interessarvisi,  cosic- 
ché per  la  sua  bocca  parla  il  popolo  in  tutta  la  serietà 
del  suo  sentimento,  a  volte  tornando  sopra  se  stesso,  e 
scherzando  e  facendone  la  caricatura. 

Per  quanto  questi  sentimenti  paiano,  a  prima  vista, 
contraddittorii,  per  tanto  essi  sono  sinceri  e  reali.  Il  sen- 
timento ha  di  queste  stranezze  e  di  questi  ondeggiamenti; 
ed  è  naturale  che  l'opera  d'arte,  —  ritraendo  non  la  ve- 
rità logica,  ma,  semplicemente,  la  verità  psicologica  — , 
li  rispecchi  fedelmente.  Il  Basile  non  ripete  commosso  e 
ingenuo  le  fiabe  dell'infanzia,  e  neanche  le  fa  oggetto  di 
uno  scherzo  e  di  una  parodia,  che  sarebbero  davvero  sine 
ictu.  Egli  rappresenta,  e,  talvolta,  scherza.  E  nei  tratte- 
nemienti  del  Cunto  de  li  Cunti,  par  di  vedere,  a  volta  a 
volta,  ora  la  faccia  grinzosa  di  una  delle  vecchie  novella- 
trici;  ora  il  volto   arguto  e  ridento  del  Cavalier  Basile. 


fantino  a  forza  umiliato  a  godere  di  quelle  immagini  fancltdlesche, 
che  mi  rimettevano  nel  tempo  della  mia  infanzia  »  {Le  Fiabe  di  C. 
a.,  ediz.  Masi,  Boi.,  1885,  I,  27). 


INTRODUZIONE  XCIX 

Cosi  si  spiega  come,  pur  non  essendo  egli  im  racco- 
glitore 0  uno  scrittore  di  fiabe  alla  moderna,  nella  sua 
opera  le  fiabe  si  ritrovino  schiette  e  senza  alterazioni. 
Egli  comincia  col  serbar  alla  fiaba  tutta  la  sua  realtà  po- 
polare: non  vuol  sollevarla  a  più  alto  stile,  ma  anzi  vuol 
restare  in  tutta  la  bassezza  e  la  volgarità  della  sua  ma- 
teria. E,  con  queste  disposizioni  d'animo,  è  naturale  che, 
nella  sua  opera,  viva  moltissima  parte  dell'intonazione 
e  del  sentimento  popolare. 


Ma,  a   questa  rappresentazione  esatta  e   realistica,  si 
mescolano,    come   si   è    detto,   molti   elementi    burleschi     ' 
e  individuali.  —  E  il  primo   elemento   burlesco,    che  il    ! 
Basile  introduce   nella  sua  raccolta  di  fiabe,    è  appunto    / 
quella  specie   di  macchinario  epico,  —  Pentamerone  — ,  / 
che  costruisce  con  esse  :  le  cinquanta   fiabe   delle  cinque 
giornate  sono  tutte  collegate  tra  loro,  e  racchiuse  in  una 
cornice  generale,  che  ravvicina   questo  libro   di  fiabe  ai 
più  classici  libri  italiani  di  novelle,   ai  Decameron,   alle 
Cene,  ai  Diporti,  alle  Piacevoli  Notti,  ecc. 

C'era  una^jvolta  .un  Re,  ^^-ave^i^- una  figliuola,  chia- 
mata Zoza,  che,  per  una  certa  strana  malinconia,  non  si 
vedeva  mai  ridere.  Indarno  il  padre  aveva  tentato  più 
sorte  di  nmèdii:  finché,  un  giorno,  ordina  che  si  faccia 
una  fontana  d'olio  innanzi  al  palazzo  reale,  sperando  che 
ne  nascerebbe  tale  fuga  e  confusione  nella  gente  che 
passava,  che  darebbe  luogo  a  qualche  spettacolo  ridicolo, 
da  scuotere  finalmente  la  malinconia  della  figliuola.  Alla 
fontana  viene  una  vecchierella,  che,  con  una  spugna,  si 


e  INTRODUZIONE 

mette  a  riempire  d'olio  un  orciuolo,  che  aveva  portato. 
E,  mentre  era  quasi  a  capo  della  sua  fatica,  un  ragaz- 
zetto, paggio  della  corte,  tira  un  sassolino  all' orciuolo, 
e  lo  rompe.  La  vecchia  esce  in  un  profluvio  d'iraprope- 
rii;  il  ragazzo  risponde  per  le  rime;  la  vecchia,  fuor  di 
sé  per  la  rabbia,  fa  un  atto  sconcio,  alzandosi  la  veste; 
e  la  principessa,  ch'era  alla  finestra,  scoppia  in  una 
grande  risata.  Alla  risata  si  rivolge  quella,  inviperita, 
e  le  dà  la  maledizione:  che  non  possa  trovar  requie  se 
non  sposa  il  Principe  di  Camporotondo  !  E  Zoza,  spinta 
dalla  forza  della  maledizione,  si  mette  in  viaggio  verso 
Camporotondo.  Il  Principe  di  Camporotondo,  anche  per 
una  maledizione,  giace  addormentato  in  una  tomba,  sulla 
quale  è  posta  un'anfora,  con  un'iscrizione  che  dice:  che 
la  donna  che  riempirà  di  lagrime  quell'anfora,  lo  farà 
risuscitare  e  lo  prenderà  per  marito.  Zoza  si  mette  all'o- 
pera, e,  piangendo,  ha  quasi  ripiena  tutta  l'anfora  ;  quan- 
do, colta  dal  sonno,  s'addormenta.  Una  schiava,  ch'era 
stata  a  spiare,  coglie  quel  momento,  vien  fuori,  si  reca 
in  mano  l'anfora,  finisce  di  colmarla,  e  subito  il  Principe 
si  sveglia,  e  l'abbraccia,  e  la  fa  sua  sposa  con  grandi 
feste.  La  povera  Zoza,  disperata,  ricorre  all'uso  di  tre 
oggetti  fatati,  datile  da  tre  fate  nel  suo  viaggio:  l'ulti- 
mo dei  quali  è  una  bambola,  alla  quale  ordina,  che,  ve- 
nuta in  possesso  della  schiava,  debba  metterle  in  seno 
un  gran  desiderio  di  sentire  cunti.  Cosi  succede,  e  il 
Principe,  per  contentare  la  moglie,  fa  venire  dieci  vec- 
chie, delle  migliori  novellatrici  del  suo  regno,  a  raccon- 
tare fiabe.  E  queste  vecchie,  per  cinque  giorni  di  segui- 
to, raccontano  ciascuna  im  cicnto.    Nell'ultima  giornata 


INTRODUZIONE  CI 

Zoza,  clie  ha  preso  il  posto  di  una  delle  veccliie,  che  s' e 
ammalata,  racconta  la  sua  storia,  e  scopre  al  Principe 
l'inganno  della  schiava.  La  quale  ha  la  punizione  che 
merita,  e  il  Principe  sposa  Zoza. 

Ciascuna  giornata  comincia  colla  descrizione  di  varii 
giuochi  e  trattenimenti,  coi  quali  la  compagnia  si  diverte 
nelle  prime  ore  del  mattino.  Ciascun  c^tnto  è  preceduto 
da  un'introduzione  morale;  e  si  chiude  con  un  proverbio. 
Dopo  i  dieci  cunti,  escono  due  persone  della  corte  del 
Principe,  e  recitano  un'egloga,  che  tiene  il  posto  delle 
canzoni,  che  si  cantano  alla  fine  di  ciascuna  giornata  del 
Decameron.  Queste  egloghe  sono  quattro:  la  Copjìella, 
la  Tenta,  la  Stufa  e  la  Vorpara;  e  formano  quattro  sa- 
tire morali  in  dialogo,  che,  colla  solita  ricca  fraseologia, 
ritraggono  l'infelicità  delle  varie  condizioni  umane  (messe 
alla  cojypella),  la  maldicenza  che  calunnia  i  buoni,  e  la 
finzione,  ch'esalta  i  cattivi  {la  tenta,  o  sia  la  tintura), 
l'avidità  del  guadagno  {la  vorpara,  l'uncino,  la  noia  che 
danno  alla  fine  tutti  i  piaceri  umani   {la  stufa,  la  noia). 

A  questo  primo  elemento  burlesco  se  ne  aggiugono 
varii  altri.  Nello  scherzo  riappare,  come  s'è  detto,  nel 
Basile  il  letterato  seicentista,  con  tutti  gli  strani  gusti, 
dei  quali  s' è  dato  un  saggio,  discorrendo  delle  sue  opere 
italiane.  Anche  nelle  fiabe  del  Perrault  e'  è  una  parte 
non  ingenua  e  non  popolare,  che  è  frutto  dell'individua- 
lità del  francese  e  del  letterato  del  secolo  di  Luigi  XIV. 
E  il  Sainte  Beuve  dice  che  quella  è  la  data  dell'opera^. 
Cosi  gli  scherzi  del  Basile  sono  la  data  della  sua  opera. 


*  Causeries  cLu  Lundi,  Paris,  Garnier,  V,  pp.  272-3.  In  un  artic. 


Cn  INTRODUZIONE 

E  consistono  principalmente  nelle  frange  e  ricami,  dei 
quali  sono  capricciosamente  ornati  i  cunti  messi  in  bocca 
alle  dieci  veccliie:  una  serie  di  giuochi  di  forza,  nei  quali 
il  letterato  seicentista  dà  prova  di  tutto  ciò  eh'  è  capace 
di  escogitare,  quando  ei  ci  si  metta  di  proposito  !  Le  meta- 
fore più  strane,  le  frasi  equivoche,  le  allusioni,  le  enu- 
merazioni, le  sinonimie  scherzose,  si  succedono  e  intrec- 
ciano le  une  colle  altre.  I  suoi  personaggi,  le  sue  fate, 
i  suoi  ordii,  i  suoi  Ee,  i  suoi  Principi,  le  sue  Zezollc, 
Vastolle,  EenzoUe,  Petrosinelle,  i  suoi  Cienzo,  Nardaniello, 
Milluccio,  Canneloro,  hanno  fatto  tutti  un  corso  di  lette- 
ratura seicentistica:  hanno  letto  V Adone,  e  amano  molto 
le  Ode  del  nostro  Basile  !  «  Chi  sa,  marito  mio,  »  —  dice 
Ceccuzza  al  marito,  che  le  ha  riferito  tutto  spaventato, 
che  una  gran  lucertola  fatata  vuole  presso  di  sé  una  delle 
loro  figliuole  — ,  «  chi  sa,  marito  mio,  si  sta  lacerta  sarrà 
a  doje  code  pe  la  casa  nostra?  Chi  sa  se  sta  lacerta  è 
la  certa  fino  de  le  miserie  nostre?  »  ^  —  «  Già  sapite 
ca  la  luna  de  lo  nore  mio  ha  fatto  le  corna!  »  — ,  dice 
ai  suoi  consiglieri  il  Re,  che  ha  trovato  la  figlia  gravi- 
da —  ;  «  già  sapite  ca,  pò  far  scrivere  croneche,  ovver 
corneche,  delle  vergogne  meje  m'ha  provisto  figliama  de 
materia  de  calamaro;  già  sapite  ca,  pe  carrecareme  la 
fronte,  s'ha  fatto  carrecare  lo  ventre;  perzò,  deciteme, 
consigliateme!   Io   sarria   de  pensiero   da  farele  figliare 


recente   della   lìevue   des   deiix   mondes  (i  die.  1890),  A.  Rnrine  ha 
cercalo  di   mettere  in  rilievo   la  parte   storica,  che   si   trova   nelle 
fiabe  del  Perrault. 
1  G.  I,  8 


mTEODUZIONE  CHI 

l'arma  primma  de  partorire  na  mala  razza  ;  io  sarria  d'o- 
more  de  farele  sentire  primma  le  doglie  de  la  morto, 
che  li  dolure  de  lo  partoro;  io  sarria  de  crapriccio,  che 
primma  sporchiasse  da  sto  munno,  che  facesse  sporchia 
e  semmenta!  »^  E,  quando  nel  T.  X  della  Gr.  I,  l'orrida 
e  decrepita  vecchia  mostra  al  Re  per  un  buco  il  suo 
dito,  che  ha  reso  bello  e  liscio  col  continuo  succhiarlo: 
«  Non  fu  dito,  —  dice  la  novellatrice  — ,  «  ma  spruoc- 
colo  appontuto,  che  le  smafaraje  lo  core!  Non  fu  spruoc- 
colo,  ma  saglioccola,  che  le  ntonaje  lo  caruso  !  Ma  che 
dico  spruoccolo  e  saglioccola^  Fu  zurfariello  allommato, 
pe  l'esca  de  le  voglie  soje;  fu  miccio  infocato  pe  la  mo- 
nezione  de  li  desiderio  suoje.  Ma,  che  dico  spruoccolo, 
sagliocca,  zorfariello,  e  miccio  f  Fu  spina  sotto  la  coda 
de  li  pensiero  suoje;  anze  cura  de  fico  jejetelle,  che  le 
cacciaje  fora  lo  frate  de  l'affetto  amoruso  co  no  sfonne- 
rio  de  sospiro!  «  E,  alla  vecchia  che  gli  aveva  mostrato 
il  dito,  il  Re  si  rivolge  con  questo  profluvio  d'invoca- 
zioni ed  esortazioni: 

0  arcuccio  de  le  docezze,  o  repertorio  de  le  gioje,  o  registro  de 
li  privelegie  d'ammore!,  pe  la  quale  cosa  so  deventato  funnaco  d'af- 
fanno, magazzeno  d'angosce,  doana  de  tormiento!,  è  possitele,  che 
vuoglie  niostrarete  cossi  ncotenuta  e  tosta,  che  non  t'aggie  da  mo- 
vere a  li  lamiente  mieje?  Deh,  core  mio  bello,  s'hai  mostrato  pe  lo 
pertuso  la  coda,  stienne  mo  sso  musso,  e  faciramo  na  jelatina  de 
contientel,  s'hai  mostrato  lo  cannolicchio,  o  maro  de  bellezza,  mo- 
strarne ancora  le  carnumme,  scuopreme  ss'uocchie  de  farcone  pelle- 
grino, e  lassale  pascei-e  de  sto  core!  Chi  sequestra  lo  tresoro  de  sta 

1  G.  I,  3. 


CIV  INTEODTJZIONE 

bella  facce  drinto  no  cacature?,  cbi  fa  fare  la  quarantana  a  ssa 
bella  mercanzia  drinto  a  no  cafuorchio?,  chi  tene  presone  la  po- 
tenzia d'ammore  drinto  a  sso  mantruUo?  Levate  da  sso  fuosso;  sca- 
pola da  ssa  stalla;  jesce  da  sso  pertuso;  santa,  maruzza,  e  dà  la  mano 
a  Gola,  e  spienneme  pe  quanto  vaglio!  Sai  puro  ca  songo  re,  é  non 
so  quarche  cetruUo,  e  pozzo  fare  e  sfare!  Ma  chillo  cecato  fauzo,  fi- 
glio de  no  sciancato  e  na  squallrina,  lo  quale  ha  libera  autoretale 
sopra  li  sciettre,  vole  che  io  te  sia  suggeco,  e  che  te  cerca  pe  gra- 
zia chello  che  porria  scervecchiarene  pe  propio  arbitrio;  e  saccio 
ancora,  comme  disse  chillo,  ca  co  li  carizze,  non  co  le  sbraviate,  se 
ndorca  Venere! 

E  una  curiosità  del  libro  sono  le  cento  metafore  di- 
verse, colle  quali  si  trovano  parafrasate  le  indicazioni 
delle  ore  del  giorno,  dell'albeggiare,  dell'annottare.  Scor- 
rendo le  sole  prime  pagine,  si  troverà,  per  dire  il  far 
del  giorno: 

la  matina,  quanno  la  notte  fa  jettare  lo  hanno  dall'Aucielle 

a  chi  avesse  visto  na  morra  d'ombre  negre  sperdute,  che  se  le  farrà 
no  buono  veveraggio  {Ntroduzz.). 

appunto  quanno  lo  sole  ha  puosto  sella  pe  correre  le  solite 

poste,  scetato  da  le  cornette  de  li  galli (ivi). 

a  lo  spuntare  de  la  stella  Diana,  che  sceta  l'arba  ad  aparare 

le  strate,  pe  dove  ha  da  spassiare  lo  sole (ivi). 

la  matina,  quanno  esce   l'aurora  a  jettare  l'aurinale  de  lo 

viecchio  sujo,  tutto  arenella  rossa,  a  la  fenestra  d'oriente (I,  i). 

nnanze  che  lo  sole  scesse  comme  a  Protamiedeco  a  fare  la 

visita  de  li  shiure  che  stanno  malate  e  languede. ...  (I,  2). 

la  mattina,  quanno  l'ombre  de  la  notte,  secotate  da  li  sbirre 

de  lo  sole,  sfrattano  lo  pajese (I,  4). 

subeto  che  l'aucielle  gridaro;  viva  lo  sole! (I,  5). 


INTRODUZIONE  ,CV 

Ovvero,  per  esprimere  il  far  della  notte: 

sommiero  le  24  ore,  quanno  comenzavano  pe   le  poteche  de 

Cinzia  ad  allommarese  le  locernelle (I,  i). 

essenno  già  l'ora  che  la  luna  voleva  jocare  co  lo  sole  a  ghi- 

ste  e  veniste,  e  lo  luoco  te  perdiste (I,  3). 


Quando  lessi  per  la  prima  volta  il  Cunto  de  li  C'unti, 
fui  colpito  dalla  parentela  artistica,  clie  c'è  tra  questo 
libro  e  il  gran  libro  del  Pantagruel.  In  seguito,  ho  tro- 
vato notato  la  stessa  somiglianza  in  una  nota,  messa  dal 
Liebrecht,  alla  traduzione  tedesca,  da  lui  fatta,  dell'opera 
dell'inglese  Dunlop:  Geschichte  der  Prosadichtungen^.  E 
noto  l'indipendenza  della  mia  osservazione,  perchè  mi 
sembra  che,  in  questa  indipendenza,  sia  una  prova  di 
più  dell'esattezza  di  essa. 

Anche  il  Rabelais  ebbe,  come  materia  della  sua  opera, 
una  tradizione  popolare,  e  la  raccontò  con  intonazione 
semipopolare,  ma  mescolandovi  continuamente  giuochi,  e 
riflessioni,  e  digressioni,  e  allusioni  d'ogni  genere.  A  leg- 
gerlo, io  ho  avuto  sempre  in  mente  la  dedica  ai  beuvers 
trés  illustres,  colla  quale  s'apre  il  libro.  E  non  ho  potuto 
difendermi  dal  concepire  lo  scrittore  del  Pantagruel,  nella 
condizione  intellettuale  e  nella  condizione  psicologica  di 
un  uomo  di  grandi  doti  intellettuali,  che  abbia  largamente 
bevuto,  e  che  abbandoni  le  redini  a  tutte  le  sue  facoltà, 
le  quali  si  agitano  scompostamente,  ma  possentemente! 


1  Berlin,  1851,  pp.  517-8. 


evi  INTRODUZIONE 

E  quante  cose  svariate  produce  questo  agitamento  di 
tutte  le  sue  facoltà,  dell'intelletto,  della  fantasia,  della 
memoria  !  Osservazioni  ed  erudizioni  serie  ;  giuochi  di  pa- 
role e  tours  de  force;  descrizioni  artistiche  minute  e  finis- 
sime, novellette  e  invenzioni  satiriche,  racconti  mostruosi, 
di  quelli  che  interessano  le  menti  fanciullesche,  ecc.  ecc.; 
tutto  ciò  entra  a  comporre  quel  guazzabuglio  del  Pan- 
tagruel,  che  spesso  fa  girar  la  testa,  ma  non  annoia  mai, 
perchè  è  opera  d'ingegno,  scomposto,  ma  gagliardo. 

Il  Basile  è,  naturalmente,  tanto  meno  ricco  di  conte- 
nuto intellettuale  rispetto  al  Rabelais,  di  quanto  dista  un 
letterato  italiano  del  seicento  da  un  dotto  europeo  del 
rinascimento.  Ma  il  genere  e  i  procedimenti  artistici  d'en- 
trambi hanno  molta  conformità.  Il  ricamo  del  tema  po- 
polare è,  in  molti  punti,  in  entrambi  gli  scrittori,  fatto 
allo  stesso  modo.  Le  lunghe  enumerazioni  del  Basile 
trovano  riscontro  nelle  lunghe  enumerazioni  del  Rabelais, 
e  gli  sforzi  d'ingegno  dei  due  scrittori  sono,  in  molte 
parti,  simili,  come  sono  simili  i  risultati. 

—  Ma,  oltre  questa  conformità  di  fantasia,  questa  con- 
nessione naturale  tra  due  ingegni  simili,  il  Basile  ha  col 
Rabelais  un'altra  connessione,  una  connessione  storica? 
Le  somiglianze  col  Rabelais  sono  prodotti  simili  di  due 
attività  simili,  o  le  une  procedono  dallo  altre,  e  il  Basile 
ha  imitato  il  Rabelais?  — 

Ora,  il  Liebrecht  sostiene  appunto  che  il  Basile  abbia 
avuto  sott'occhio  e  imitato  il  Rabelais.  Traduco  la  nota, 
che  ho  già  citato:  / 

I^eggendo  ripetutamente  il  Rabelais,  io  sono  venuto  nella  per- 
suasione che  il  Basile  abbia  imitato  nel  modo  più  esatto  lo  stile  e 


INTRODUZIONE  CVII 

il  modo  di  esprimersi  di   quello  scrittore;  cosicché   l'ipotesi  da  me 
fatta  nella  mia  traduzione  di  un'imitazione  del  Basile  di  un  parti- 
colare d'una  fiaba  (V,  i)  da  un  luogo  del  Rabelais,  acquista  anche 
maggiore  probabilità.  Io    fondo  la  mia  affermazione  sulla  sorpren- 
dente conformità  tra  i  due  autori  per  ciò  che  concerne  lo  stile  e 
l'espressione,  che  non  può  essere, del  tutto  casuale;  e,  giacché  una 
lunga  dimostrazione  prenderebbe  troppo  spazio,  accennerò   solo  ad 
alcuni  punti.  Il  Rabelais,  per   esempio,  si  compiace  ad   enumerare 
l'uno  accanto  all'altro  svariati  oggetti  di  una  stessa  specie;  cosi  uc- 
celli (I,  37),  ed  egualmente  il  Basile  (II,  5,  IV,  8);  piante  (I,  13),  e  il 
Basile  (II,  5);  utensili  (I,  51),  e  il  Basile  (II,  5);  parole  ingiuriose  (I, 
25),  e  il  Basile  {Xtroduzz.,  I,  i,  3):  giuochi  (I,  22),  e  il  Basile  (princ. 
G.  II  e  IV);  vesti  (I,  56),  e  il  Basile  (III,  io).  Inoltre:  sinonimi:  il  Ra- 
belais (I,  22)  :  «  aprés  avoir  bien  joué,  sassé,  passe,  et  beluté  temps, 
ecc.  »,  e  il  Basile  (II,  io)  :  «  che,  comm'a  sacco  scosuto,  se  norcava, 
cannariava,  ciancolava,  ngorfeva,  gliotteva,  devacava,  scervecchiava, 
piuziava,   arravogliava,   scrofoniava,   schianava,   pettenava,   sbatteva, 
smorfeva  ed  arresidiava  ».  Il  Rabelais,  L.  IV,  nuovo  prologo:  «  Sera 
beline,  corbiné,  trompé  et  aSìné  »,  e  il  Basile  (I,  i):  «  stimmanno 
facile  cosa  de  cecare,  nzavorrare,  ngannare,  mbrogliare,  e  dare  a  ve- 
dere ceste  pe  lanterne,  a  no  majalone,  marrone,  maccarone,  verve- 
cone,  nsemprecone,  ecc.  ».  Inoltre,  rime  incidentali:  Rabelais,  L.  IV, 
nuovo  prologo:  «  Au  soir  un  chascun  d'eux  eut  les  mules  au  talon, 
le  petit  cancre    an  menton,  la  male  toux  au  poulmon,  le  catarrhe 
au  gavion,  le  gros  fronde  au  cropion,  ecc.  »,  e  così  I,  52.  E  il  Basile 
(I,  6):  «  spampanate,  sterliccate,  mpallaccate,  tutte  zagarelle,  campa- 
nelle e  scartapelle,  tutte  shiure,  adure,  cose  e  rose,  ecc.  ».  —  Di  questi 
esempii,  come  ho  detto,  io  non  posso  recarne  se  non  pochi,  ma  che 
si  possono  aumentare  di  molto,  specie  tenendo  presente  l'abbondanza 
di  proverbi!,  comune  a  entrambi.  E,  se  qualcuno  poi  voglia  convin- 
cersi dell'imitazione  che  il  Basile  ha  fatto  del  Rabelais,  confronti  il 
nono  capitolo  del  quarto  libro  del  Rabelais,  con  l'introduzione  alla 
quinta  giornata  del  Basile;  e  ciò  risulterà  nel  modo  più  chiaro^. 

1  DUNLOP,  L  e. 


CVm  INTBODUZIONE 

Ora  si  noti  che  la  maggior  parte  di  questi  riscontri 
riguardano  somiglianze  di  procedimenti  e  di  metodi.  Met- 
tiamo un  momento  da  banda  queste  somiglianze,  perchè 
il  venire  intorno  ad  esse  ad  una  conclusione,  richiede 
un  discorso  più  lungo.  —  A  due  sole  imitazioni  concrete, 
e  flagranti,  accenna  il  Liebrecht. 

La  prima  è  abbastanza  curiosa.  Nel  T.  I  della  G.  I, 
si  racconta  come:  «  Lilla  e  Leila  accattar©  na  papara  a 
lo  mercato,  che  cacava  denaro;  l'è  cercata  mpriesto  da 
na  commare,  e,  trovanno  lo  contrario,  ne  l'accide  e  la 
jetta  pe  na  fenestra;  s'attacca  a  lo  tafanario  de  no  Pren- 
cepe,  mentre  faceva  de  lo  cuorpo  ;  ecc.  ».  Su  quest'ultimo 
particolare,  per  quanto  poco  pulito,  ci  conviene  fermarci. 
—  Il  Basile  dice  nella  novella  che  il  Principe:  «trasette 
a  chillo  vicuozzolo  a  scarricare  lo  ventre,  e,  fatto  c'appe 
lo  servizio,  non  trovannose  carta  a  la  saccocciola  pe 
stojarese,  vista  chella  papara,  accisa  de  frisco,  se  ne  ser- 
vette pe  pezza  ». 

La  stessa  novella  era  stata  già  raccontata  dallo  Stra- 
parla ;  nel  quale  però,  anziché  di  una  papara,  si  tratta 
di  una  poavola  (bambola)  ^  E,  a  quel  tal  punto,  lo  Stra- 
parla scrive  cosi:  «  Il  servente,  andatosene  al  letamare, 
e  ricercando  por  dentro  se  potesse  trovare  cosa  che  fosse 
al  proposito,  trovò  per  avventura  la  poavola,  e,  presala, 
in  mano,  la  portò  al  Re,  il  quale  senz' alcun  sospetto, 
tolse  la  poavola,  e  postasela  dietro  alle  natiche,  per  net- 
tare messer  lo  perdoneme,    trasse  il  maggior  grido  che 

'  Straparola,  PiacecoU  notti,  V,  2.  cfr.  RUA,  l.  e,  XVI,  243. 


ESTEODUZIONE  CIX 

mai  si  sentisse,  perciocliè  la  poavola,  con  i  denti,  gli  aveva 
preso  una  natica,   ecc.  ». 

Potrebbe  dubitarsi  che  lo  scambio  della  papara  colla 
bambola  fosse  un'alterazione  fatta  dallo  Straparola  alla 
tradizione  popolare.  Ma  no:  una  fiaba  siciliana,  raccolta 
dal  Pitrè,  prova  cbe  nella  tradizione  c'era  difatti  la 
bambola.  La  versione  del  Pitrè  è  intitolata:  La  Fupidda, 
ed  è  in  tutta  simile  a  quella  del  Basile,  e  solo  al  punto 
in  questione,  dice:  che  il  Re  «  vidi  da  'n  terra  la  pu- 
pidda  cu  ddu  folareddu  biancu  pulitu  e  la  pigghia  pri 
stujàrisi.  Chi  fa  la  pupidda?  Sàuta  e  si  nfila  'nculu  a  lu 
Re  »^ 

Come  mai  il  Basile  ha,  dunque,  sostituito  alla  bambola, 
della  versione  popolare  e  dello  Straparola,  la  papara  f 
Il  Grimm  aveva  osservato  (poco  verisimilmente,  a  me 
sembra),  che  la  somiglianza  delle  parole  napoletane  /jì- 
pata  (bambola)  e  papara,  doveva  forse  aver  prodotto  lo 
scambio  ^. 

Ma  il  Liebrecht,  invece,  pensa  che  lo  scambio  sia  av- 
venuto per  effetto  del  famoso  capitolo  XIII  del  Gar- 
gantua,  nel  quale  si  espone:  Comment  Grandgousier  co- 
gneut  l'esprit  merveilleux  de  Gargantua  à  l' invention 
d'un  torchecul,  e  si  viene  alla  conclusione:  «  qu'il  n'y  a 
tei  torchecul  que  d' un  oison  bien  dumeté,  pourveu  qu'on 
lui  tienne  sa  tète  entre  les  jambes,  ecc.  ecc.  »^. 


i  Pitrè,  Fiabe,  Novelle,  ecc.,  IV,  {Bibl.,  VII),  n.  CGLXXXVIII,  pp. 
242-7.  Cfr.  anche  I  {Bibl.,  IV),  n.  XXV,  pp.  221-26. 

2  Kinder  und  Hausmàrclien,  III,  291. 

3  Trad.  ted.  cit,  II,  260;  cfr.  Dunlop,  l.  e. 


ex  INTRODUZIONE 

CJerto,  la  somiglianza,  è  curiosa;  ma  l'imitazione  tut- 
t'altro  che  fuor  di  dubbio.  Niente  nel  luogo  del  Basile, 
nessuno  accenno,  nessuno  aggettivo,  ricorda  la  lunga  dis- 
sertazione laudativa  dello  scrittore  francese  su  quel  punto; 
e  tutto  il  riscontro  si  riduce  all'uso  che,  incidentalmente, 
si  fa  di  una  papara  morta  nel  cunto  del  Basile,  eh' è 
quello  che  il  Rabelais  esalta  come  ottimo,  fatto  di  un 
uccello  qualunque  vivo  e  caldo. 

L'altra   imitazione   è   anche   meno   sicura.  «  Chi   vuol 
persuadersi,  —  dice  il  Liebrecht  — ,  confronti  il  principio 
della  G.  V  del  Cunto  de  li  Curiti  col  nono   capitolo  del 
rV"  libro  del  Pantagriiel  ».  Ma,  se  si  fa  il  confronto,  nel 
Basile  si  troverà  la  descrizione  di  un  divertimento,  che 
consisteva  nel  proporre  a  ciascuna  delle  donne  un  giuoco: 
«  la  quale,  senza  pensarence,   m'ha  da  dicere  subeto  ca 
no  le  piace,  e  la  causa  perchè  non  le  daco  a  l'omore  ». 
E  nel  Rabelais,   invece,   la  descrizione    «    des  etranges 
alliances  »  dell'isola  Ennaisin,   dove  giunge  Pantagruel, 
e  una  lunghissima   serie  di  scambii    di   risposte   tra   gli 
abitanti  del  paese;  per  esempio:  «  En  pareille  alliance, 
Tun  appelloit  une  sienne  mon  homelaicte,  elle  le  nommoit 
mon  oeuf;  et  estoient  alliés  comme  une  omelaicte  d'oeufz. 
De  mesmes  un  antro  appelloit  une  sienne  ma  trippe,  elle 
l'appelloit  son   fagof,   ecc.  ecc.  ».  Ed  io   non  veggo,  tra 
questi  due  brani,  altra  relazione  se  non  una  certa  somi- 
glianza nell'andamento   del  dialogo,  che,  nell'uno  e  nel- 
l'altro, è  composto  di  una  serie  di  botte  e  risposte. 

Di  queste  due  imitazioni  particolari,  accennate  dal  Lie- 
brecht, una,  dunque,  a  me  sembra  molto  incerta,  e  l'altra 
addirittura  inesistente.  Ma  io  credo  d'essere  in  grado  di 


INTEODUZIONE  CXI 

sostituire  a  questi  indizi,  che  metto  in  dubbio,  un  altro 
più  valido. 

Perchè  una  delle  maggiori  difficoltà,  che  presenterebbe 
la  supposizione  di  un'imitazione  del  Rabelais  da  parte 
del  Basile,  sarebbe  la  pochissima  notorietà  del  Rabelais 
in  Italia,  nel  cinquecento,  e  nei  secoli  seguenti,  fino  ai 
tempi  nostri. 

Il  Guerrini  non  giunse  a  trovare  se  non  un  sol  accenno 
all'opera  del  Rabelais  in  libri  italiani,  e,  propriamente, 
uno,  fugacissimo,  nelle  Facezie  del  Della  Torre ^.  Qual- 
cun'altro  ne  pescò  il  Martinozzi,  che,  tuttavia,  riafferma, 
per  questa  parte,  le  conclusioni  del  Guerrini".  Ma  a  me 
è  capitato  di  scoprire,  o  m'inganno,  un'imitazione  lam- 
pante del  Rabelais  in  uno  scrittore  napoletano,  amico  e 
commilitone  del  Basile,  in  Giulio  Cesare  Cortese. 

In  qualche  esemplare  del  quinto  volumetto  della  prima 
edizione  del  Cunto  de  li  Curiti^  stampato  il  1636,  si  trova, 
dopo  la  dedica,  un  curioso  componimento  del  Cortese, 
eh' è  ignoto  a  tutti,  e  può  dirsi  inedito.  Questo  compo- 
nimento è  intitolato  :  Canzone  de  lo  Segnore  Giulio  Cesare 
Cortese:  Conziglio  dato  da  lo  Chiajese  ad  tma  persona 
che  Vaddemannaje  qual  fosse  meglio  nzorarese  o  stare 
senza  mogliere.  Il  Dottor  Chiajese  era  una  celebrità  po- 
polare di  quei  tempi,    che,  per  pochi   soldi,  dava  il  suo 


1  0.  Guerrini,    Rabelais  in  Italia,   in  Brandelli,  Roma,  Somma- 
ruga,  1883,  Serie  terza,  pp.  153  sgg. 

2  Giuseppe  Martinozzi,  Il  Pantagruel  eli  Francesco  Rabelais,  Citlà 
di  Castello,  S.  Lapi,  1S85,  pp,  29  sgg. 


CXII  INTRODTJZIONE 

bizzarro  parere  sulle  quistioni,  che  gli  si  sottoponevanoj 
e  che  il  Cortese  aveva  già  tirato  in  ballo  nei  suoi  poemi  ^. 
Ora  ecco  il  componimento  del  Cortese,  che  merita  d'esser 
tratto  dall'oblio: 

Decelte  a  lo  Chiajese, 

tìh'eje  omino  saputo,  e  letterato: 

«  'xèccote  no  tornese, 

«  E  dimme:  è  buono  l'essere  nzorato?  » 

«  Benissimo  »,  —  diss'isso  —  «  a  la  hon'ora, 

«  Si  tu  non  sì  nzorato,  e  tu  te  nzora!  » 

«  Aggio  na  gran  paura  »,  — 

Io  le  decette  — ,  «  non  desse  de  pietto 

«  A  na  mala  ventura; 

«  Ed  àUzate,  se  puoje,  pò,  da  sso  nietto; 

«  E  dì  eh' è  pezza,  che  se  pò  stracciare!  » 

Ed  isso  disse:  «  E  tu  non  te  nzorare!  » 

«  Se  vao  pe  ssi  pentune, 

«  N'auzarraggio,  —  diss'io  — ,  na  spertftazzola, 

«  0  farraggio  a  costiune, 

«  E  puosto  ne  sarraggio  a  na  gajola, 

«  E  nce  vo  bona  agresta  a  scire  fora  ». 

Ed  isso  me  decette:  «  E  tu  te  nzora!  » 

«  Vorrà  ire  sforgiosa  », 

—  Diss'io  —,  «  che  nge  vorrà  tutta  la  dota, 

«  Sarrà  na  schifenzosa 

«  Che  scariglia  farrà  chiù  de  na  vota; 

«  Io  me  ntorzo  e  non  pozzo  comportare...  » 

Responnette  isso:  «  E  tu  non  te  nzorare!  » 


*  V.  cap.  preced. 


mTRODUZIONE  CXIU 

«  Starraggio  sempre  sulo  », 

—  Io  le  decotte  — ,  «  e  puosto  a  no  pentone, 
«  Justo  conun'a  cuculo, 

«  Ghiagnenno  de  menestra  no  voccone, 
«  Ga  na  mogliere  te  n'abbotta  ogn'ora!  » 
«  Diss'isso:  «  Frate,  adonca,  e  tu  te  nzora!  » 

«  Me  farrà  tanta  figlie  », 

—  Io  disse  — ,  «  che  jarranno  pe  la  casa, 
«  Justo  comme  a  coniglie; 

«  Starraggio'  sempre  maje  drinto  la  vrasa, 
«  Penzanno  comme  l'aggio  da  campare!  » 
Ed  isso  leprecaje:  «  No  te  nzorare!  » 

«  Ma,  se  cado  ammalato, 

«  Cbi  me  fa  na  panata  o  no  cristiero!  », 

—  Diss'io  — ,  «  e  abbannonato 

«  So  dall'ammice,  comme  a  no  sommiero. 

«  N'è  meglio  tanno,  arrassosia,  ch'io  mora?  »  — 

«  S'è  chesso,  —  me  respose  — ,  «  e  tu  te  nzora!  » 

«  N'aggio  granne  appetito  », 

—  Diss'io  — ,  «  ma,  s'ave  male  cellevriello, 
«  E  me  manna  a  Gomito 

«  Ghella  che  piglio,  patre  de  l'agniello, 
«  E  pò  torno  a  Forcella  ad  abetare...  » 
«  Scumpe!  »,  —  diss'isso  — ,  «  e  tu  no  te  nzorare!  » 

«  Voglio  propio  sapere  », 

—  Diss'io  — ,  «  da  te  co  hai  lietto  lo  Sonato, 
«  Dove  m'aggio  a  tenere: 

«  Aggiome  da  nzorare,  o  star  squitato? 
«  Ga,  comme  me  resuorve,  a  la  stess'ora, 
«  Me  proveo  de  mogliere  o  de  signora  ». 


ex  IV  INTRODUZIONE 

Disse  Chajese  tanno: 

«  O  ca  piglie  l'ammica,  o  ca  te  nzure, 

«  Sempre  aje  quarche  malanno, 

«  Ed  aje  causa  de  chianto  e  de  dolure; 

«  E  sto  conziglio  avere  a  mente  puoje: 

«  Tutte  so  guaje,  e  piglia  quale  vuojel  » 

SCOMPETURA. 

Apriamo  ora  il  Pantagruel,  e  cerch'iamo  il  capitolo  IX 
del  L.  Ili:  Comment  Panurge  se  conseille  à  Pantagruel, 
pour  scavoir  s'il  se  doiht  marier  : 

Mais,  dist  Panurge,  si  vous  cognoissiez  qne  mon  meilleur 

fust  tei  que  je  suis  demeurer,  sans  entreprendre  cas  de  nouvelleté, 
j'aimerois  mieulx  ne  me  marier  poinct.  —  Poinct  donc  ne  vous  ma- 
riez,  respondit  Pantagruel.  —  Voire  mais,  dist  Panurge,  voudriez 
vous  qu'ainsi  seulet  je  demeurasse  toule  ma  vie,  sans  compagnie  con- 
iugale? Vous  scavez  qu'il  est  escrit:  Vae  soli!  L'homme  seule  n'a 
jamais  tei  soulas  qu'an  volt  entre  gens  mariès.  —  Mariez  vous  donc, 
de  par  Dieu,  respondit  Pantagruel. 

Mais  si,  dist  Panurge,  ma  femme  me  faisoit  coqu,  comme  vous 
s?avez  qu'il  en  est  grande  année,  ce  seroit  assez  pour  me  faire  tres- 
passer  hors  les  gonds  de  patience.  J'aime  bien  le  coquz,  et  me  sem- 
blent  gens  de  bien,  et  les  hante  voluntiers;  mais,  pour  mourir,  je 
ne  le  vouldrois  estre.  C'est  un  poinct  qui  trop  me  poingt.  —  Poinct 
donc  ne  vous  mariez,  respondit  Pantagruel 

Voire  mais,  puisque  de  femme  ne  me  peux  passer  en  plus  qu'  un 
aveugle  de  baston  (car  il  fault  que  le  virolet  trott«,  auUrement  vivre 
ne  s^aurois),  n'est  ce  le  mieulx  que  je  m'associe  quelque  honneste 
et  prende  femme  qu'ainsi  changer  de  jour  en  jour,  avec  continuel 
dangier  de  quelque  coup  de  baston,  ou  de  la  verole  pour  le  pire? 
Car  femme  de  bien  onque  ne  me  fut  rien,  et  n'en  deplaise  à  leurs 
mariz.  —  Mariez  vous  donc  de  j^cir  Dieu,  respondit  Pantagruel ^ 


*  Cito  dall'ediz.:  Francois  Rabelais,    Tout  ce  qui  existe  de  ses 
oeuvres,  curata  da  L.  Moland,  Paris,  Garnier,  s.  a.:  pp.  231-2. 


INTRODUZIONE  CXV 

E  cosi  continua  ancora  per  un  pezzo,  confrontandosi  di 
tutto  punto  colla  poesia  del  Cortese.  E  l'imitazione  a 
me  sembra,  come  dicevo,  lampante  ^. 


Se  non  che,  ne  gl'indizii  accennati  dal  Liebrecht,  né 
questa  imitazione  del  Cortese,  —  la  quale  indicherebbe 
che  il  Rabelais  era  noto  in  Napoli  nel  principio  del  sei- 
cento in  quel   gruppo  letterario,    donde   appunto   usci  il 


1  Ho  avuto  la  fortuna  di  trovare,  nella  Bibl.  di  S.  Martino,  un  ra- 
rissimo opuscoletto  del  seicento,  intit:  Istoria  \  Ridicolosissima  Na- 
politana  del  \  Dottor  Pugliese  |  Dove  si  indendono  (sic)  gli  avverti- 
onenti  che  \  dà  il  detto  Dottore  ad  un  Giovane,  \  che  desiderava  pi- 
gliar moglie  |  In  Napoli  \  Con  licenza  de'  Superiori;  di  dodici  fac- 
ciate, con  una  rozza  vignetta  sul  frontespizio,  arieggiante  ai  soliti 
libercoli  popolari.  Contiene  un  poemetto  di  44  ottave,  che  non  è  se 
non  una  parafrasi  e  trasformazione  della  bella  poesia  del  Cortese. 
Basti  dire  che  comincia: 

Parlaje  no  juorno  a  lo  Dottor  Pugliese, 
Che  utriusque  juris  è  dottorato; 
Per  cortea  me  cercaje  no  tornese, 
Ca  canoscette  ca  stea  nnamorato; 
Ed  io  li  disse:  Te  faccio  le  spese, 
Dimme  si  è  buono  ad  essere  nzorato. 
Me  respose,  decenno:  A  la  buon'ora. 
Si  tu  non  sì  nzorato,  e  tu  te  nzora! 

Questo  poemetto,  per  quanto  ne  so  io,  non  s'è  perpetuato,  come 
tanti  altri  simili,  nella  biblioteca  del  popolo,  e  non  si  ristampa  più. 
Ma  porge  egualmente  un  bell'esempio  del  modo,  nel  quale,  passando 
per  varii  tramiti,  l'invenzione  di  uno  scrittore  straniero  possa  di- 
vulgarsi presso  la  plebe  di  un  altro  popolo.  Dal  Rabelais  al  Cortese, 
dal  Cortese  all'anonimo  versificatore,  e  da  questi  al  patrimonio  po- 
polare, ai  canti,  ai  proverbii,  alle  facezie,  ecc. 


CXVI  INTRODUZIONE 

Basile  — ,  mi  par  che  provino  sicuramente  la  continua 
imitazione  del  Rabelais,  che  il  Liebrecht  ha  creduto  di 
vedere  nel  Cunto  de  li  Cunti. 

L'imitazione  sarebbe,  a  ogni  modo,  di  ^jwri  procedi- 
menti artistici.  Ora  tali  imitazioni  generiche  sono  cose 
proprie  di  tempi  più  recenti;  a  quei  tempi,  le  imitazioni 
solevano  essere  concrete  e  particolari.  Investirsi  dello 
spirito  di  un  autore,  cosicché  tu  lo  senta  in  ogni  parte, 
ma,  quando  vai  ad  abbracciarlo,  torni  colle  braccia  vuote 
al  petto,  non  era  il  metodo  dei  nostri  imitatori  cinque- 
centisti e  seicentisti.  Essi  imitavano  la  situazione,  il  pen- 
siero, l'immagine:  ricalcavano,  non  s'assimilavano  i  loro 
modelli. 

Né  lo  stile  del  Basile,  è  un'apparizione  cosi  strana 
che,  per  ispiegarselo,  bisogni  uscire  fuori  del  suo  tem- 
po e  del  suo  paese.  Quello  stile  bizzarro  é  frutto  del 
seicento  letterario  e  dell'ingegno  napoletano.  Anche  per 
Giordano  Bruno,  —  compaesano  e  quasi  contemporaneo 
del  Basile  — ,  il  Mounier  fece  l'ipotesi  che  conoscesse 
il  Rabelais  e  se  ne  appropriasse  lo  stile.  E,  —  lasciando 
stare  che  sia  piuttosto  ardito  il  concepire  lo  stile  di 
Giordano  Bruno  come  qualcosa  di  esterno  al  suo  carat- 
tere e  al  suo  pensiero  — ,  chi  non  vede  che  il  ripe- 
tersi dello  stesso  caso  per  scrittori  dello  stesso  tempo  e 
dello  stesso  paese,  é  un'altra  prova  della  poca  verisimi- 
glianza  di  un'  imitazione,  fatta,  e  fatta  misteriosamente,  su 
cosi  larga  scala!  —  Il  Basile  applicava  alle  fiabe  del 
Cunto  de  li  Cunti  i  gusti  comici  suoi  e  del  suo  tempo. 
E  a  chi  legge  prima  le  sue  Lettere  napoletane,  e  poi  le 
sue  Muse,   o  poi  il  Cunto  de  li  Cunti,  par  di  assistere 


INTfiODUZIONE  CXVII 

allo  svolgersi  spontaneo  d'un  ingegno,  che  cerca  la  sua 
via,  e  tenta,  e  progredisce,  e,  finalmente,  cammina  sicuro. 
Il  Liebrecht  nota  giustamente  che  il  Basile  avrebbe 
imitato  nel  modo  più  felice,  auf  das  GlucJdichste,  i  pro- 
cedimenti artistici  del  Eabelais.  Tutta  questa  felicità  si 
spiegherebbe  agevolmente,  ammettendo  la  mancanza  ap- 
punto d'imitazione,  cioè  l'originalità  del  Basile.  —  Il  che, 
beninteso,  non  esclude  che  potesse  aver  letto  il  Rabelais. 
Ma  aver  letto  uno  scrittore  non  vuol  dire  procedere  da 
esso,  e,  molto  meno,  imitarlo. 


Il  Cunto  de  li  Curdi  ha,  dunque,  due  facce,  una  seria 
ed  una  burlesca:  una  eh' è  rappresentazione  serena  ed 
ingenua;  l'altra,  eh' è  invasione  burlesca  dell'individualità 
dello  scrittore  nell'opera.  Un'opera  d'arte,  cosi  complessa, 
richiedeva  per  esser  compresa  e  analizzata  tutta  la  lar- 
ghezza della  critica  moderna;  di  quella  critica  gloriosa- 
mente inaugurata  in  Italia  da  Francesco  de  Sancfcis.  Nei 
tempi  andati  i  lettori  lo  sentivano  e  lo  gustavano  :  le 
molte  edizioni,  e  traduzioni,  e  imitazioni  lo  provano  ;  ma 
i  critici  non  riuscivano  a  capirlo  e  a  spiegarlo. 

Non  lo  capi  Ferdinando  Galiani,  il  quale,  nella  sua  ce- 
lebre opericciuola:  Del  dialetto  napoletano,  considerando 
il  Basile  come  scrittore  serio,  e  il  Cunto  de  li  denti 
come  un  libro  di  novelle  ad  instar  del  Decamerone, 
scriveva:  «  A  costui  {cioè  al  Basile),  disgraziatamente 
per  noi,  venne  il  capriccio  di  contraffare  l'incomparabile 
Decamerone  di  Giovanni  Boccaccio,  e  compose  un  Pen- 
tamerone nel   dialetto   napoletano,  e   cosi   divenire   il 


CXVni  INTRODUZIONE 

Boccaccio,  0  sia  il  testo  di  esso.  A  tanta  impresa  man- 
cavangli  interamente  i  talenti  per  eseguirla.  Privo  in 
tutto  e  di  genio  elevato,  e  di  filosofia,  e  di  felicità  d'in- 
venzione, e  di  ricchezza  di  cognizioni,  a  poter  immagi- 
nare 0  adornare  novelle  graziose  o  interessanti,  o  tragi- 
che, o  lepide,  o  morali,  altro  non  seppe  pensare  che 
d'accozzare  racconti  delle  Fate  e  dell'Orco  così  insipidi, 
mostruosi,  e  sconci,  che  gli  stessi  Arabi,  fondatori  di 
questo  depravatissimo  gusto,  si  sarebbero  arrossiti  d'aver- 
gli immaginati  »  ^ 

Come  bene  notò  l'Imbriani,  il  Galiani  cercava  nel 
Cunio  de  li  Cunti  la  filosofia  dei  Contes  philosophiques 
del  Voltaire^;  ed  era  naturale  la  sua  delusione!  Egli  non 
vide  tutto  ciò  che  c'è  di  intimamente  scherzoso  nel  modo 
di  narrare  del  Basile,  e  il  libro  gli  apparve,  come  do- 
veva apparirgli,  un  mostruoso  accozzamento  di  cose  senza 
significato  !  —  Alla  parte  burlesca  e  satirica  dette  invece 
troppa  importanza  quell'arguto  avversario  del  Galiani, 
che  fu  Luigi  Serio.  Il  Serio  fece  del  Cunio  de  li  Cunti 
addirittura  un  libro  di  satira  letteraria.  Se  il  Basile  nel 
Cunio  de  li  Cunti  fu  un  seicentista  sfacciato,  nce  sia  lo 
pperchè  — ,  diceva  il  Serio. 

Il  Basile  fu  un  letterato  di  valore,  che  scrisse  molte 
opere  italiane,  oltre  quelle  in  dialetto;  e  curò,  tra  l'altro, 
le  edizioni  del  Bembo  e  del  Casa  e  del  Tarsia,  che  prova 
che  era  uomo  di  buon  gusto.  E  lui  ed  il  Cortese,  vista 
l'invasione  del  cattivo  gusto  ai  loro  tempi,  vollero  coi 
loro   scritti  napoletani  mettere  in  derisione   le  bizzan-e 


1  Del  Dialetto  napoL,  pp.  121-2.        2  imbruni,  /.  e,  II,  435. 


INTRODUZIONE  CXIX 

metafore,  allora  correnti.  E  questo  sarebbe  lo  scopo  del 
Cunto  de  li  Curiti  ^  ! 

Ora,  chi  ha  letto  le  opere  italiane  del  Basile  sa  che 
il  seicentismo  il  Basile  lo  metteva  in  pratica  sul  serio, 
come  sul  serio  lo  mise  in  pratica  il  Cortese  nella  sua 
Rosa.  Egli,  nel  Cunto  de  li  Curiti,  scherzava  si,  ma 
scherzava' colle  sue  armi:  con  quelle  armi,  che  adoprava 
ordinariamente  nella  sua  vita  di  scrittore. 

Del  Basile  scrisse  anche  in  alcuni  buoni  articoli  Giu- 
seppe Terrari,  nella  Revue  des  deiix  mondes  del  1840. 
«  Ses  personnages,  —  egli  scrive  — ,  paraissent  et  s'éva- 
nouissent  comme  des  réves;  mais  quelle-que-soit  la  bizar- 
rerie  des  aventures  où  ils  s'engagent,  ils  gardent  con- 
stamment  cette  simplicité,  ils  entrainent  avec  cette  force, 
qui  n'appartient  qu'aux  traditions  populaires.  C'est  le 
peuple  qui  est  le  grand  magicien  et  le  premier  createur 
de  cette  fantasmagorie  ;  Basile,  en  la  transportant  nai- 
vement  dans  ses  contes,  s' est  assuré  un  titre  durable  h 
la  mémoire  de  son  pays  ».  E  nota  che  il  Cunto  de  li 
Curiti,  piuttosto  che  al  Decamerone,  deve  paragonarsi 
alle  Mille  e  una  notte  :  «  Et  encore  cette  ressemblance 
ne  repose  que  sur  des  traces  presque  méconnaissables. 
Les  contes  orientaux  étaient  absolument  inconnus  à  Ba- 
sile ;  ils  n'arrivaient  à  lui  que  défigurés  par  l' imagination 
populaire.  Les  épisodes  des  Mille  et  une  nuits,  qu'on 
rencontre  chez  Basile,  sont  toujours  réduits  a  des  pro- 
portions  triviales,  et  altérés  par  je  ne  sais  quelle  atmo- 
sphére  de  cuisine  et  de  ménage;  la  fantaisie  napolitaine, 


i  Lo  Vernacchio,  resposta  a  lo  dialetto  napoletano,  Nap.,  1780,  cap.  IV, 


CXX  INTRODUZIONE 

au  lieu  d'embellir,  d'idealiser  l'univers,  l'a  enlaidi  à  des- 
sein;  pour  en  développer  la  vitalité,  elle  l'a  peuplé  de 
monstres  »  ^. 

Giudizio  anche  più  giusto  e  sicuro  ne  dette  Iacopo 
Grimm,  prima  nel  terzo  volume  dei  Kinder  und  Haus- 
marchen,  e  poi  nella  prefazione  alla  traduzione  tedesca 
del  Pentamerone,  fatta  dal  Liebrecht.  «  Il  Basile,  —  egli 
scrive  — ,  ha  raccontato  secondo  il  gusto  di  un  popolo  vi- 
vace, spiritoso,  e  scherzoso,  con  continue  allusioni  ad  usi  e 
costumi,  ed  anche  alla  storia  antica  e  alla  mitologia,  la 
cui  conoscenza  è,  specialmente  tra  gli  Italiani,  abbastanza 
diffusa;  sicché  il  suo  stile  e  proprio  l'antitesi  di  quello 
calmo  e  semplice  delle  fiabe  tedesche.  Egli  è  straordina- 
riamente ricco  di  espressioni  metaforiche  e  proverbiali  e 
di  espressioni  spiritose,  delle  quali  ha  una  gran  provvi- 
sta, e  che,  per  lo  più,  sono  calzantissime  :  non  raramente 
anche  l'espressione,  secondo  il  costume  del  paese,  è  li- 
bera, sfacciata,  senza  veli,  e  perciò  spiacevole  alla  nostra 

moderna  delicatezza ;  tuttavia,   non  si  può   mai   dire 

del  Basile,  come  dello  Straparola,  che  egli  sia  immorale. 
Naturalmente,  ha  anche  una  certa  sovrabbondanza  e  una 
certa  piena  del  discorso ;  ma  si  tratta  del  gusto  pro- 
prio dei  popoli  meridionali,  di  cercare  sempre  nuove  e- 
spressioni,  e  d'insistere  col  discorso  sopra  un  oggetto; 
non  già  di  povertà  della  cosa  stessa,  che  si  cerchi  coprire. 
E,  giacché  la  folla  dei  paragoni  per  lo  più  é  esagerata 
per  arguzia  e  scherzo,  anche  i  più  strani  e  ridicoli  di  essi 


1  J.  Ferrari,  art.  e,  nella  Revue  des  deux  mondes,   1840,   XXI, 
pp.  507-8. 


INTEODUZIONE  CXXI 

non  sembrano  punto  assurdi »  ^  E,  nella  prefazione  alla 

traduzione  del  Liebrecht,  stampata  il  1846,  dopo  averne 
riconosciuta  la  superiorità  sullo  Straparola,  soggiunge: 
«  Quando  vi  si  acquisti  una  certa  famigliarità,  l'esposi- 
zione veramente  attraente  di  queste  fiabe  reca  un  gran 
diletto.  Come  sono  inesauribili,  per  esempio,  le  svariate 
espressioni,  colle  quali  si  dipinge  ogni  volta  il  far  del- 
l'alba e  il  tramontar  del  sole  !  Si  possono  trovare  queste 
espressioni  spesso  fuor  di  luogo;  ma,  quasi  sempre,  ap- 
pariranno ingegnose,  e,  in  sé  stesse,  esatte.  Nelle  graziose 
e  svariate  immagini  si  ritrae  il  rumoreggiare  e  il  mor- 
morare dei  ruscelli,  la  profonda  oscurità  delle  selve,  e  il 
cantare  degli  uccelli;  nel  mezzo  della  pompa  orientale,  si 
percepiscono  le  più  lievi  voci  della  natura.  Il  discorso 
scorre  ricco  di  paragoni,  giuochi  di  parole,  proverbi!,  ri- 
me..., ed  anche  qui,  come  nelle  schiette  fiabe  di  tutti  i 
luoghi,  quando  la  narrazione  giunge  ai  punti  importanti 
e  decisivi,  ricompariscono  semplici,  ma  inimitabili  rime, 
che  fermano  l'attenzione  del  narratore,  e,  nel  tempo  stesso, 
dell'uditore.  Cosi  in  Peruonto: 

Damme  passe  e  fico, 
Si  vuoi  che  te  lo  dico  ! 

e  nella  Schìavottella  ; 

Chiave  ncinto, 
E  Martino  drinto  ! 

e  nella  Cenerentola: 

Spoglia  a  me, 
E  Vieste  a  te!  2 


i  Kinder  xmd  Ha".smctrchenj  III,  291-2.        -  Trad.  cit ,  I,  VlI-VIII. 


CXXII  '  INTRODUZIONE 

Il  giudizio  è  pieno  di  acume  e  di  giisto  ;  ma,  come 
suol  capitare  ai  critici  stranieri,  alquanto  unilaterale  ed 
esagerato.  Troppa  parte  vi  si  fa  al  popolo  napoletano,  e 
poca  al  carattere  individuale  dell'ingegno  del  Basile,  e 
ai  tempi  nei  quali  visse.  —  Chi,  invece  pel  primo  diede 
un  giudizio  equilibrato,  nel  quale  si  coglie  il  punto  essen- 
ziale dell'opera  e  se  ne  vedono  tutti  i  lati,  fu  Vittorio 
Imbriani,  nel  suo  studio  II  Gran  Basile,  pubblicato  il  1875 
sul  Giornale  Napoletano.  Poche  persone  erano,  per  verità, 
più  di  lui  fatte  per  intendere  il  Cunto  de  li  denti;  la 
qualità  d'ingegno  artistico,  della  quale  la  natura  l'aveva 
provvisto,  aveva  una  notevole  somiglianza  con  quello  del 
Basilea  E,  nel  rifare  il  processo  psicologico  del  Basile, 
trovava  in  se  stesso  gli  elementi  necessarii  per  capirlo. 
«  Nel  Basile,  —  egli  scrive  — ,  tutto  è  indovinato:  ha  sa- 
puto dare  la  forma  adatta  a  questi  racconti  impersonali 
e  nel  contempo  imprimere  a  questa  forma  il  suggello 
della  personalità  propria.  Chiunque  ha  studiato  per  poco 
la  letteratura  popolare,  comprenderà  quanto  sia  difficile 
ad  eseguire  una  tal  cosa.  L'incanto  particolare  di  tutto 
ciò  eh'  è  popolare,  è  quel  non  so  che  d'epico,  che  lo  per- 
vade, e  di  tipico:  la  mancanza  d'individuazione;  e  quel- 
l'incanto appunto  sparisce  appena  uno  di  noi  vuol   porsi 

a  ritoccare  quelle  fantasie Ebbene,  il  Basilo  ha  saputo 

conciliare  due  cose,  che  parrebbe  impossibile  il  conciliare, 


'  chi  ha  avuto  la  /orliina  di  leggere  qualcuna  delle  lìabe,  che  egli 
stampava  a  pochi  esemplari,  e  regalava  agli  amici,  m'intende  age- 
volmente. Vedere,  per  es.,  il  Mnstr' Impicca,  fiaba  (estr.  dal  giorn. 
n  Calabro,  A.  IX). 


INTRODUZIONE  CXXriI 

soprattutto  nello  stile  :  personalità  spiccata,  ed  impersona- 
lità popolare.  C'è  la  voce  del  popolo  nel  suo  libro,  e  e' è 
il  letterato  seicentista  con  tutti  i  suoi  pregi  e  i  suoi  di- 
fetti, dei  quali  ultimi  sembra  farsi  beffe  egli  stesso.  Ed, 
a  far  questo,  gli  giovò  moltissimo  e  l'aver  vissuto  nel 
seicento,  e  l'aver  adoperato  il  dialetto  napoletano.  Quel 
dialetto  gli  dà  un  non  so  che  d' ingenuo  e  di  beffardo  ad 
un  tempo;  e  sembra  contenere  ironia  implicita »  *. 


Varii  appunti  sono  stati  mossi  allo  stile  del  Basile.  Il 
Galiani  pretende  che  il  Basile  abbia  voluto  imitare,  anche 
nello  stile,  il  Boccaccio;  il  che  non  è  esatto.  Ma  non  si 
può  negare  che  il  Basile,  dal  lato  della  forma  esteriore, 
scriva  piuttosto  male.  Non  già  che  si  debba  pretendere, 
che  egli,  scrivendo  nel  seicento,  avesse  dovuto  pensare 
a  stenografare  il  dettato  popolare  delle  fiabe,  come  ha 
fatto  Vittorio  Imbriani,  «  ritraendo  esattamente  la  ma- 
niera, con  cui  fraseggia  e  concatena  il  pensiero  il  volgo  »  ^. 
E  neanche  che  avesse  dovuto  cercare  di  rappresentarlo 
artisticamente,  come  ha  tentato  qualche  artista  moderno. 
Ciò,  del  resto,  era  escluso  dalla  posizione  stessa,  da  lui  as- 


i  Imbriani,  o.  c,  446-8.  V.  anche  ia  questo  luogo  quel  che  dice 
contro  il  Galiani  e  il  Gantù.  E  di  quest'ultimo,  che  egli  chiama  il 
più  fecondo  se  non  il  pia  facondo,  il  più  voluminoso  se  non  il  più 
luminoso,  degli  storici  italiani,  riportato  e  criticato  il  giudizio,  con- 
clude spiritosamente:  «  Il  Basile,  se  vivesse,  sclamerebbe,  bisticciando 
al  solito  suo:  0  can  tu'.  » 

2  V.  Imbriani,  La  Xovellaia  fiorentina,  Livorno,  F.  Vigo,  1877,  ded. 
e  pref. 


CXXIV  INTRODUZIONE 

sunta  verso  la  sua  materia  ;  posizione  che  ci  siamo  sforzati 
finora  di  determinare.  Il  Basile  riorganizzava,  e  rifaceva 
l'esposizione  popolare,  secondo  gli  ideali  di  una  prosa  più 
riflessa;  come  poi  adoprò  anche  il  suo  imitatore,  Pompeo 
Sarnelli.  Ma  il  Sarnelli,  scrivendo  a  modo  non  perfetta- 
mente popolare,  ha  un  suo  periodare  regolare  e  logico; 
laddove  il  Basile  affastella  le  frasi  popolari  in  lunghi 
periodi,  poco  connessi  come  pensiero,  e  poco  piacevoli 
come  armonia.  Il  Liebrecht  ha  notato  che  lo  stile  del 
Basile  ha  una  sovrabbondanza  stucchevole  di  costruzioni 
partecipiali  ;  che  le  sue  proposizioni  sono  piuttosto  ap- 
piccicate che  connesse  ;  che  cominciano  spesso  colla  stessa 
parola,  per  lo  più  ma;  cosicché  lo  stile  spesso  manca  di 
rotondità  e  di  varietà  ^  Ed  ha  ragione.  L'esposizione  dei 
suoi  curiti  soffre  anche  d'una  certa  mancanza  di  rilievo 
e  di  distacco.  In  un  sol  periodo,  talvolta,  s'iniziano  e 
svolgono  e  compiono  lunghe  azioni.  E  si  va  innanzi  senza 
quei  riposi,  che  la  fantasia  vede  tra  le  varie  azioni,  e 
che  vuol  sentire  nell'andamento  dello  stile. 

Vittorio  Imbriani  diceva  che  i  difetti  dello  stile  del 
Basile  in  massima  parte  sparirebbero  con  una  buona  in- 
terpunzione, sostituita  a  quella,  orrida,  delle  antiche  edi- 
zioni. In  questa  nuova  edizione,  la  punteggiatura  è  tutta 
rifatta;  ma  i  difetti  dello  stile  del  Basile  non  sono  spa- 
riti se  non  in  piccola  parte,  perchè  sono  difetti  intrinseci, 
della  costruzione  del  periodo.  E  giustizia,  invece  ricor- 
dare che  l'opera  del  Basile  fu  pubblicata  postuma,  o  che 
l'autore  non  v'aveva  dato  l'ultima  mano^. 


1  Trad.  cit.,  II,  322-3.      '^  V.  cap.  preced. 


f 


INTRODUZIONE  CXXV 


Altri  appunti,  i  più  giusti  di  tutti,  furono  mossi  dal 
Galiani  alla  lingua  del  Basile.  Ma,  già  un  mezzo  secolo 
prima  del  Galiani,  varii  di  quei  difetti  erano  stati  rico- 
nosciuti da  uno  scrittore  napoletano,  autore  rinomato  di 
libretti  buffi,  Francesco  Oliva,  in  una  sua  incompleta  ed 
importante  Grammatica  della  lingua  napoletana,  che  si 
trova  manoscritta  alla  Biblioteca  Nazionale  ^  Il  Galiani 
comincia  col  dire  che  il  Basile  aveva  «  la  più  incredi- 
bile e  minuta  contezza  di  tutte  le  voci,  dei  proverbii, 
de'  modi  di  dire,  e  delle  espressioni  strane  e  bizzarre, 
usate  dal  volgo  ».  Ma,  per  isfoggiare  questa  ricchezza, 
accimula  le_.paxaLa.e  Jé  fra^^^  ,«.  onde,  avviene  che, .spes- 
sissimo, collochi  fuor  di  luogo  parole  e  frasi,  che  non 
hann_o_quel_s.ensQ^  in.  cui  .egli.lo  impiega  ».  Infatti,  «  è 
grande  il  numero  delle  parole  toscane  che  egli  ha  for- 
zate e  contorte  alla  pronunzia  nostra,  quantunque  da  noi 
non  mai  adoperate.  Incredibile  è  poi  a  vedere  lo  studio 
e  la  fatica  che  fa  a  non  usar  mai  quelle  voci,  pure  ita- 
liane, che  in  gran  copia  abbiamo,  ed  usualmente  adope- 
riamo, e  sostituirci  o  le  più  rancide  o  le  più  laide  del- 
l'infima plebe,  solo  perchè  si  scostano  dalla  lingua  gene- 
rale italiana  »  ^. 

E,  delle  tre  classi  principali  d'errori  di  lingua,  che  di- 
stingue nella  sua  grammatica,  il  Basile  fornirebbe  larga- 
mente gli  esempii;    perchè,   infatti,  è  reo,  sia  di  parole 


i  Ms.  Bibl.  Naz..  XIII,  H,  56.  —  V.  spec,  p.  44- 
2  0.  e,  pp.  123-4. 


i 


CXXVI  IKTIIODUZIOXE 

che  son  comuni  all'italiano  e  al  napoletano,  da  lui,  inutil- 
mente, storpiate  in  forma  napoletana;  sia  di  parole  tutto 
italiane,  da  lui,  invano,  napoletanizzate;  sia  di  parole  na- 
poletane, adoperate  in  senso  e  costruzione  che  non  hanno  ^ 
Certo,  basta  svolger  le  prime  pagine   del  Canto  de  li 

ì  Curiti  per  trovare   esempi  di   questa   continua  invasione 

I 

!   creatrice   sul  dialetto  popolare.  E  troverete  stascionato, 

cauzare,   voze,  deze,  jonze,  ecc.;  e  infinite   altre   voci  si- 
,  l  mili,  che  il  popolo  non  ha  mai  usato.  Il  Basile  aveva  la 
I  curiosa  preoccupazione  di  fare  il  dialetto  napoletano  più 
i  napoletano,   più   esclusivamente  napoletano,   di  quel   che 
è  difatti.  E  cosi  ha  bandito  gran  numero  di  vocaboli  e  for- 
me, che  nel   dialetto   sono  lievemente  diversi   dai  corri- 
spondenti italiani,  e  molti  strani  vocaboli  con  desinenze 
dialettali  ha  usato. 

Le  improprietà  poi  si  spiegano  in  altro  modo.  La  con- 
tinua ricerca  dell'effetto  comico,  eh'  ò  nel  suo  stilo,  il 
considerare  il  dialetto  come  un  mezzo  di  comico  grotte- 
sco, han  fatto  si  ch'egli  è  andato  scegliendo  tutte  le  frasi 
goffe  del  popolo,  adoperandole  continuamente,  come  se 
nel  dialetto  non  ce  ne  fossero  altre  per  esprimere  quei 
concetti,  quando  si  parla  sul  serio.  Per  esempio,  Tadeo 
dirà  alle  vecchie,  nell'introduzione:  «  Pe  la  quale  cosa 
deve  scusare  moglierema  se  &'  ha  schiaffato  ncapo  st'o- 
more  malenconeco  de  sentire  cunte;  e,  perzò,  se  ve  piace 
de  dare  mbrocca  a  lo  sfiolo  de  la  Prencepessa  mia,  e  de 
cogliere  miezo  alle  voglie  meje,  sarrite  contente,  pe  sti 
quatto  0  ciuco  jorne  che    starrà  a  scarrecare    la  2^o.nza, 

1  o.  e,  p.  25. 


INTRODUZIONE  CXXVII 

ecc.  ecc.  ».  Ora,  tutte  le  frasi  sottolineate  esistono  in 
dialetto,  ma  si  dicono  solo  in  alcuni  casi  particolari,  o 
dispregiativamente  o  goffamente  parlando.  Il  Basile,  in- 
vece, ne  usa  a  tutto  pasto. 

Eppure,  il  Basile,  malgrado  la  sua  buona  voglia  di 
scrivere  un  dialetto  napoletano  in  tutta  la  sua  goffaggine, 
conservò  e  contribuì  a  stabilire  l'uso  di  alcune  forme 
auliche  nel  dialetto,  clae  non  si  spiegano  se  non  come 
eredità  del  tempo,  nel  quale  il  dialetto  s'adoperava  come 
lingua,  e  si  cercava  di  sollevarlo  verso  il  toscano.  Di 
queste  forme  atiliche,  le  più  notevoli  consistono  negli 
articoli  definiti  lo,  la,  li,  le,  che  vi  si  adoperano,  laddove, 
nel  dialetto  schietto,  gli  articoli  sono  o  (u),  a,  i*-. 

Si  noti  ancora  che  i  bisogni  del  suo  stile  e  delle  sue 
caricature  hanno  richiesto  l'uso  di  molti  vocaboli,  special- 
mente astratti,  che  il  popolo  non  ha,  perchè  non  sente 
il  bisogno   d'indicare   i  pensieri,  che  vi  corrispondono. 

Tutte  queste  varie  alterazioni  hanno  per  effetto  che 
per  chi  legga  ora  il  Cunto  de  li  Curiti,  avendo  riguardo 
al  dialetto  vivente,  —  che  non  può  poi  essere  di  molto  di- 
verso da  quello  vivente  di  due  secoli  fa  — ,  il  dialetto 
.  del  Basile  sembra,  più  che  una  lingua  realmente  parlata, 
una  di  quelle  lingue  arbitrarie,  create  dai  letterati  per 
fini  letterarii,  come  la  lingua  maccheronica,  o  la  lingua 
pedantesca. 


^  Di  qui  uno  dei  punti  principali  della  disputa  tra  i  sostenitori 
del  dialetto  letterario  e  del  dialetto  parlato:  i  primi  dei  quali  vor- 
l'ebbero  che  si  scrivesse,  per  os.:  lo  pane,  la  sora,  e  gli  altri,  giu- 
stamente: ti  ppane,  a  sora. 


IV. 


Forili na  del  Cioito  de  li  Cunti.  —  Traduzioni  e  imitazioni. 

Alle  prime,  che  si  son  viste,  seguirono  subito  altre 
edizioni  del  Cunto  de  li  Cunti.  Varie  ne  fece  lo  stam- 
patore Camillo  Cavallo;  una,  tra  le  alti-e  del  1644,  de- 
dicata al  signor  Felice  Basile*;  im'altra  del  1645,  dedi- 
cata di  nuovo  al  P.  Alfonso  Daniele*. 

Nel  1674  l'editore  Antonio  Bulifon,  un  francese  stabi- 
lito a  Napoli,  «  vedendo,  —  com'egli  stesso  dice  — ,  che 
veniva  sommamente  desiderato  questo,  altrettanto  arguto 
quanto  giocoso,  Pentamerone  del  vivace  e  bizzarro  inge- 
gno del  Cavalier  Giovan  Battista  Basile  »,  fece  si  che, 
«  ridotto  alla  vera  lettione,  per  mezzo  delle  stampe  ei 
rinascesse  ».  Chi  lo  ridusse  alla  «  vera  lettione  »  fu  un 
abate  pugliese,   Pompeo  Sarnelli,  poi  vescovo  di  Bisce- 


1  rer  Cernitilo  Cavallo  MDCXLTV,  ad  istanza  di  Salvatore  Rispolo, 
un  voi.  di  pp.  654  (PASSANO,  Novell,  ital.  in  prosa,  Boi.,  1868.  I,  43-8). 
Ma  la  ded.  ha  la  firma  del  2  febbraio  1654.  Sbaglia  il  frontespizio, 
o  la  dedica?  Da  ima  parte,  parrebbe,  il  frontespizio,  essendo  molti 
gli  esempi  di  questi  sbagli  di  decine  d'anni  in  numeri  scritti  in  ci- 
fre romane.  Ma  in  questo  caso  credo  che  vi  sia  sbaglio  nella  data 
della  dedica,  perchè  ho  visto  un'edizione  delle  Mtcse  napoltlane,  del 
1643,  anche  pel  Cavallo,  fatta  anche  ad  istanza  del  Rispolo. 

2  In  Napoli,  Per  Ca/niillo  Cavallo,  MDCXLV,  ad  istanza  di  Gio. 
Antonio  Farina.  La  ded.  è  in  data  30  ottobre  1645.  Il  Cavallo  dice 
che  l'opera  del  Basile  «  è  si  fattamente  stata  gradita  dall'universo, 
che  sono  forzato  a  darla  in  luce  in  questa  terza  impressione  ». 


INTR0DUZIO2SE  CXXIX 

glie,  appassionato  cultore  del  dialetto  napoletano,  che  al- 
lora serviva,  a  quanto  sembra,  da  correttore  nella  stam- 
peria del  Bulifon^ 

Il  Ctinto  de  li  Cunii  fu,  in  quest'edizione,  intitolato, 
per  la  prima  volta,  sul  frontespizio:  Il  Pentamerone :  ti- 
tolo più  breve,  che  ricorda  illustri  precedenti,  e  che  per- 
ciò prevalse^.  Ed,  anche  sul  frontespizio,  è  detto  «  co 
tutte  le  zeremonie  corrietto  »  ;  e,  certo,  il  Sarnelli  vi 
spese  intorno  molte  cure.  Ma  queste  cure  non  ebbero  un 
risultato  degno  di  lode.  Il  Sarnelli  era  uno  di  quei  buoni 
editori  all'antica,  che  credevano  loro  obbligo  il  far  da 
collaboratori  cogli  autori,  che  ristampavano.  Egli  comin- 
cia col  lamentarsi,  giustamente,  delle  iiltime  ristampe, 
che  s'eran  fatte  del  Cunto  de  li  Cunti:  «  l'angresta  de 
l'utema  stampa  l'havea  fatto  na  magriata  de  manera  che 
manco  lo  Patre  (che  lo  cielo  l'accoglia  ngrolia  !),  se  fosse 
vivo,  l'haveria  canosciuto  pe  figlio  sujo  ».  E,  riguardo  al- 
l'ortografia, ebbe  un  eccellente  criterio:  «  M'è  parzeto 
cosa  conveniente,  —  egli  dice  — ,  lassarelo  stare  sto  po- 
vero popillo  co  chella  artocrafia,  che   l'aveva  lassato   lo 


^  Nel  Celano  {Avanzi  delle  looste^  pp.  318  sgg.)  c'è  un  dialogo,  nel 
quale  apparisce  il  Sarnelli,  che  andava  «  alla  stampa  del  Bulifon  »' 
a  correggere  i  fogli  di  un  poema,  che  pubblicava  un  tal  De  Notariis. 

2  II  Pentamerone  del  Cavaller  Giovan  Battista  Basile,  overo  lo 
Cunto  de  li  Cunte,  Trattenimiento  de  li  FecceìHlle  di  Gian  Alesio  Ab- 
battutis  Nova/mente  ristampato  e  co  tutte  le  zeremonie  corrietto.  Al- 
l'Illustriss.  ecc.  Pietro  Emilio  Guaschi,  Dottor  delle  leggi  e  degnis- 
simo Eletto  del  Popolo  della  fedelissima  Città  di  Napoli,  In  Napoli, 
ad  istanza  di  Antonio  Bulifon,  Librare,  all'insegna  della  Sirena, 
MDGLXXIV,  di  pp.  653  num.,  più  12  inn.  al  princ.  e  3  alla  fine. 


CXXX  INTEODTJZIONE 

patre,  azzoè,  comme  l'haggio  trovato  allo  primmo  livro, 
che  fu  stampato  da  deverze  stampature  a  ghiornata  a 
ghiornata,  secunno  che  ghievano  ascenno  »  ^ 

Ma,  pel  l'esto,  non  fu  egualmente  felice.  Il  Sarnelli 
corresse  una  grande  quantità  di  forme,  che  a  lui  pare- 
vano non  ischiettamente  napoletane.  Talvolta,  colse  nel 
segno;  tal'altra,  fece  una  correzione  superflua,  perchè,  in 
realtà,  in  napoletano  esistono  ambe  le  forme,  quella  del 
Basile,  e  l'altra  sostituita  da  lui;  tal'altra  ancora,  errò 
del  tutto.  Egli,  non  napoletano,  era  buon  conoscitore  del 
dialetto  napoletano;  ma  la  sua  conoscenza,  formata  collo 
studio,  non  poteva  esser  mai  piena  e  sicura,  e  pareggiar 
quella  di  chi  abbia  appreso  la  lingua  dalla  balia.  Talvolta, 
benché  non  frequentemente,  egli  sostituì  parole  e  frasi 
sue  a  quelle  del  Basile.  Non  aggiunse,  però,  né  tolse 
nulla  di  sostanziale  nel  testo,  ed  io,  nel  riscontro  che  ho 
fatto,  non  ho  trovato  se  non  ima  sola,  e  curiosa,  e  scher- 
zosa interpolazione,  passata  poi  in  tutte  le  edizioni  se- 
guenti. Ed  è  questa,  che  si  trova  nel  trattenimento  V 
della  Gr.  HI,  dove  il  Basile  dice  :  «  arrevato  all'acqua  de 
Sarno  »;  e  il  Sarnelli  aggiunge:  «  cMllo  hello  shiumvio, 
e' ha  dato  nomme  a  la  famiglia  antica   de  li  Sarnelli  »! 

Uno  sguardo,  che  si  dia  alle  prime  cinque  o  sei  pagine 
dell'edizione  del  Sarnelli.  confrontandola  coll'edizione  ori- 
ginale, basta  a  fornire  gli  esempi  dei  varii  generi  di 
correzioni  arbitrarie,  che  ho  enumerati.  Il  Sarnelli  ha  ra- 
gione ,  quando  crede  forme  più  napoletane  Zoroasto  e  Ara- 


*  Di  questo  punto  una  severa  critica  fa  l'Oliva  nella  sua  cit.  Gramm. 
ms.  Ma  di  ciò  più  avanti. 


mTEODUZIOlirE  CXXXI 

crcto,  die  Zoroastro  e  Eracleto;  masto,  che  mastro; 
cossi,  clie  così;  ajetate,  che  etate;  rommenanno^  che  ro- 
menanno;  farrà,  che  farìx;  canosciuta,  che  conosciuta; 
cammenaio,  che  cambiato;  solete,  che  solite;  e  simili.  Ma 
ha  meno  ragione  di  sostituire  ueglio,  con  zioglio;  viento, 
votato,  con  Mento  e  botato;  sebetura,  con  sepetura;  hu- 
mane,  con  homane;  recevute,  con  recepute  ;  ecc.  E  sbaglia 
del  tutto,  quando  in  luogo  di:  se  scoppasse  a  ridere, 
scrive:  ?e  scoppasse  a  ridere;  o  quando  muta  corzete  in 
corzere;  tanto  composta  che  2^'^^^va  acito  in  ^anto  com- 
posto ;  vtisciola,  con  bisciola;  racecotena  a  la  catarozzola, 
in  a  la  cecotena,  a  la  catarozzola;  morrannose,  essenno 
stracqua,  in  morrandose,  essendo  str acqua;  ecc.  Queste, 
ed  altre  osservazioni,  si  possono  fare  nelle  prime  cinque 
0  sei  pagine  dell'edizione  del  Sarnelli  e  continuarle  per 
tutte  le  cinquanta  novelle^. 

Tuttavia,  questa  fatica,  fatta  dal  Sarnelli  sul  testo  del  ì 
Basile,  se   fu   dannosa   come   lavoro    di   editore,   ha  una  ; 
certa  importanza  filologica,  e,  per  chi  studierà  il  dialetto  \ 
napoletano,  sarà    utile  l'interrogare    questa   lunga   serie  \ 
di  osservazioni  (che  tali  sono),  fatte  dal  Sarnelli,  sul  te- 
sto del  Basile  ^.  Peccato  che  il  sistema  di  correzione  non 
sia  costante  e  rigoroso,  e  che  la  scorrettezza  della  stampa 
abbia  ancor  peggioi'ato  questo  difetto! 


1  V.  App.  7/,  nella  quale  ho  fallo  il  confronto  delle  varianti  delle 
due  edizioni,  per  \in' intera  novella,  la  X  della  G.  I. 

2  Un  vocabolarista  napoletano  potrebbe  forse  citare  come  due 
opere  distinte  il  Cunto  de  li  Cuna  del  Basile  e  il  B^ntamerone  se- 
condo la  lezione  del  Sarnelli, 


.^ 


CXXXII  INTRODUZIONE 

Il  Pentamerone  dell'edizione  del  Bulifon  fu  dedicato 
all'Eletto  del  Popolo,  Pietro  Emilio  Guaschi. 

Cinque  anni  dopo,  se  ne  ebbe  un'altra  ristampa  a 
Roma,  il  1679,  per  Bartolomeo  Lupardi^  E,  a  Napoli,  lo 
ristampava  il  1697,  Michele  Luigi  Muzio  ^. 

Anche  le  3Iuse  napoletane  ebbero  varie  ristampe  du- 
rante il  seicento;  cioè  nel  1643^,  nel  1647',  ^^1  1669^, 
nel  1678'^,  nel  1693". 


Queste  molteplici  edizioni,  ed  altre  probabilmente  ora 
ignote,  provano  che  il  Cunto  de  li  Cunti  era  in  quel 
tempo  letto  e  piaceva.  «  Galantissimo  ed  amenissimo  li- 
bretto, il  quale  è  per  le  mani  di  tutti  »,  scriveva  il  1683 


i  n  Fentanieì'one  ecc.  (come  nell'ed.  1674),  all' Illustrissimo  Sig.  e 
Patron.  Coli,  il  signor  Giuseppe  Spada,  in  Roma  MDGLXXIX,  nella 
stamperia  di  Bartolomeo  Liipardi,  stampatore  Camerale  (pp.  633  num., 
e  IO  inn.  a  princ,  e  3  in  fine). 

2  PASSANO,  l.  e,  che  dice  esservi  un  esemplare  di  quest'edizione 
nella  Biblioteca  Comunale  di  Bergamo. 

3  Le  Muse  Napoletane,  Egloghe  di  Gian  Alesio  Abbatutis,  In  Na- 
poli, per  Camillo  Cavallo,  1643,  ad  instanza  di  Salvatore  Rispolo  allo 
Spitaletto;  pp.  141  num. 

''  Martorana,  iVot.  cit.,  p.  13. 

^  In  Napoli,  per  Glo.  Francesco  Paci,  1669.  Ad  istanza  di  Fran- 
cesco Massari  e  Domenico  Antonio  Parrino  Librari  (pp.  143  num). 
È  ded.  a  Pappo  Monto,  «  miedeco  azzellentissimo,  e  Poeta  famosis- 
simo ». 

"  In  Nap.  ad  istanza  di  Francesco  Massaro,  i67S.  Ded.  al  signor 
Ciccio  Montecorvino  (pp.  136  num.,  più  8  inn.  a  princ). 

''  1^1  Mollo,  169S.  Ved.  Martorana,  o.  c,  p.  23. 


INTRODUZIONE  CXXXIII 

il  Nicodemi  nelle  sue  Addizioni  alla  Biblioteca  Napole- 
tana del  Toppi  ^  E,  colle  ristampe  e  colle  letture,  vanno 
di  pari  passo  le  imitazioni:  che  non  mancano  mai  alle 
opere,  che  hanno  un'impronta  nuova  e  originale,  come  è 
appunto  questa  del  Basile. 

Tra  i  lettori  e  gli  ammiratori  del  Basile,  c'era  quel 
napoletano  spirito  bizzarro  di  Salvator  Rosa.  Ed  è  notis- 
simo, che,  quando  Lorenzo  Lippi  prese  a  scrivere  il 
Malmantile  riacquistato,  «  grandissimi  furono  ancora  gli 
stimoli,  che  ebbe  a  ciò  fare  da  Salvator  Rosa,  non  men 
rinomato  pittore  che  ingegnoso  poeta.  Da  questo  ebbe 
poi  il  libro,  intitolato  Lo  Cunto  de  li  Cunti  overo  Trat- 
tenimiento  de  li  Peccerille,  composto  al  modo  di  parlar 
napolitano,  dal  quale  trasse  alcune  bellissime  novelle,  e, 
mé'ssele  in  rima,  ne  adornò  vagamente  il  suo  poema  »  -. 

Il  Malmantile  fu  pubblicato,  postumo,  il  1676^.  Il  Lippi 
aveva  avuto,  tra  gli  altri  scopi,  uno  simile  a  quello  del 
nostro  Basile:  come  questi  del  napoletano,  egli  voleva 
mostrare  la  ricchezza  del  parlar  volgare  fiorentino.  Ma 
quanto  è  inferiore,  nel  resto,  la  sua  opera  al  Cunto  de 
li  Cunti!  Opera  fredda,  insignificante,  che  pareva  scritta 
pel  solo  scopo  d'essere  aggravata,  come  fu  poi,  dalle 
note  linguistiche  di  Paolo  Minucci''. 


^  Nicodemi,  Addizioni   copiosissime,  ecc.,  In   Napoli,    1683,  p.  iii. 

2  F.  BALDiNUCcr,  Vita  di  Lorenzo  Liì)pi  (a  capo  dell'ediz.  napol. 
del  Malmantile  riacquistato,  a  cura  di  Gabriele  de  Stefano,  Napoli 
presso  Gabriele  Sarracino,  1854). 

3  II  Lippi  era  morto  nel  1664, 

^  L'edizione  colle  note  del  Minucci  fu  pubblicata  il  1688. 


CXXXIV  INTRODUZIONE 

Parrà  strano  che  il  Lippi  avesse  bisogno  di  ricorrere 
al  C'unto  de  li  Cunti  per  cavarne  la  materia  delle  fiabe 
popolari,  che  introdusse  nel  suo  poema.  Le  fiabe,  che 
racconta  il  Basile,  —  si  dirà  giustamente  — ,  sono  una 
ricchezza  comune  a  tutti,  un  patrimonio  d'ogni  popolo,  e 
che  nel  seicento  vivevano  certo  a  Firenze,  come  a  Na- 
poli. Ma  il  Basile  col  suo  libro  rivolse  l'attenzione  del 
pubblico,  distratta  in  altro,  su  quelle  fiabe,  e  dette,  a 
molte  di  esse,  una  forma  definita  ed  artistica.  Cosicché, 
parvero  una  novità,  ed  erano  certo  una  rivelazione. 

Nessuno  ha  indicato  finora  precisamente  e  completa- 
mente le  imitazioni  del  Lippi  dal  C'unto  de  li  Cunti.  Esse 
si  riducono  a  tre  punti.  Il  secondo  cantare  del  Malman- 
aie  è  una  versificazione  esattissima  del  T.  IX  della  G.  I 
del  Cunto  de  li  Cunti.  In  questo  Trattenimiento  si  rac- 
conta come,  non  potendo  una  regina  aver  figli,  un  sa- 
pientone indicasse  al  re  un  rimedio  per  produrre  la  gra- 
vidanza; che  era  di  far  mangiare  alla  regina  un  cuore 
di  dragone,  cucinato  da  una  donzella.  La  regina  s' ingra- 
vida, ed  anche  la  donzella,  e  hanno  due  figli,  similissimi, 
ai  quali  mettono  nome  Ponzo  e  Canneloro.  L'odio  della 
regina  costringe  Canneloro  a  spatriare;  ma,  nel  partire, 
egli  indica,  al  suo  quasi  gemello,  il  modo  di  venire  a  co- 
noscere se  egli  stesse  bene,  o  se  incontrasse  perigli,  o 
se,  addirittura,  fosse  morto.  Canneloro  va;  vince  una  gio- 
stra, alla  quale  era  posto  per  premio  la  mano  della  fi- 
gliuola del  re;  e  sposa  costei.  Ma,  andando  a  caccia, 
prende  a  seguitare  una  cerva  fatata,  ch'era  viceversa  un 
orco;  che  lo  tira  dietro  sé,  e  lo  rapisce.  Fonzo  ha  noti- 
zia del  pericolo   di  Canneloro;  si  mette  in  viaggio;  in- 


INTRODUZIONE  CXXXV 

ganna  ed  uccide  l'orco,  e  libera  l'amico.  —  Come  saggio 
del  modo,  nel  quale  il  Lippi  mette  in  versi  la  prosa  del 
Cunto  de  li  Cicnti,  indico  il  luogo,  nel  quale  il  Basile, 
descrivendo  i  meravigliosi  effetti  del  cuore  di  drago,  dice  : 

«  lo  re lo   dette   a  cocinare   a  na  bella  dammecella. 

La  quale,  serratose  a  na  cammara,  non  cossi  priesto  mese 
a  lo  fuoco  lo  core,  e  scotte  lo  fummo  de  lo  vullo,  che 
non  sulo  sta  bella  coca  deventaje  prena,  che  tutte  li  mo- 
bele  de  la  casa  ntorzaro.  E,  ncapo  de  poche  juorne,  fi- 
gliattero,  tanto  che  la  travacca  fece  no  lettecciulo,  lo 
forziere  fece  no  scrignetiello,  le  seggio  facettero  seg- 
giolelle,  la  tavola  no  tavolino,  e  lo  cantaro  fece  no  can- 
tariello  mpetenato,  accessi  bello,  ch'era  no  sapore  !  »  E 
il  Lippi  verseggia  cosi  questa  bizzarra  fantasia  del  Basile  : 

Kd  egli,  preso  il  prelibalo  cuore, 

Lo  diede  al  cuoco;  al  qual,  mentre  lo  cosse, 

Si  fece  una  trippaccia,  la  maggiore, 

Che  ai  di  dei  nati  mai  veduto  fosse. 

Le  rohe  e  masserizie,  a  quell'odore, 

Anch'elle  diventaron  tutte  grosse, 

E  in  poco  tempo  a  un'otta  tutte  quante 

Fecer  d'accordo  11  pargoletto  infante. 

Allor  vedesti  partorire  il  letto 

Un  tenero  e  vezzoso  lettuccino; 

Di  qua  l'armadio  fece  uno  stipetto; 

La  seggiola  di  là  un  seggiolino; 

La  tavola  figliò  un  bel  buffetto; 

La  cassa  un  vago  e  picciol  cassettino; 

E  il  destro  un  canterello  mandò  fuore, 

Che  una  bocchina  avea  tutto  sapore  !  ^ 


i  Malmantile,  II,  16-17. 


CXXXVI  INTRODUZIONE 

Tatto  composto  di  riminiscenze  del  Cunto  de  li  Cunti 
è  il  racconto,  che  fa  nel  IV  cantare  Psiche,  venuta  a 
cercar  lo  sposo  in  Malmantile.  Il  principio  d'esso  è  for- 
mato da  un  pezzo  del  T.  V  della  G.  IL  Nella  parte  di 
mezzo,  c'è  qualche  riscontro  coli' introduzione,  col  T.  V 
della  Gr.  Ili,  e  anche  col  T.  I,  Gr.  IV.  La  conclusione, 
infine,  è  tolta  di  peso  dall'introduzione  del  Cunto  de  li 
Cunti  ^. 

La  novella  di  Nardino  e  Brunetto,  nel  VII  cantare^, 
è  una  contaminazione  delle  novelle  del  Basile  Lo  Cuorvo 
(IV,  9),  e  Le  tre  cetre  (V,  9),  non  senza  mescolanza  di 
alcuni  nuovi  particolari. 

Come  poi  il  Lippi  imiti  il  fare  del  Basile,  lo  provi 
questa  descrizione  deWuom  selvatico  Magorto,  eco  delle 
tante  felicissime  grottesche  descrizioni  di  orchi,  che  si 
trovano  nel  Cunto  de  li  Cunti: 

Ma  io  ti  vuò  dar  adesso  un'abbozzata, 

Qui,  presto  presto,  della  sua  figura. 

Ei  nacque  d'un  Folletto  e  d'una  Fata, 

A  Fiesol,  'n  una  buca  delle  mura: 

Ed  è  sì  brutto  poi  che  la  brigala. 

Solo  al  suo  nome,  crepa  di  paura.  ^ 

Ob  questo  è  il  caso  a  por  fra  i  Nocentini 

A  far  mangiar  la  pajìpa  a  quei  bambini! 


1  Malma/ntlle,  IV,  2982. 

2  Malmantile,  VII,  27-105.  Quantunque  erroneamente  citando,  a  que- 
sta imitazione  credo  che  alluda  il  Passano,  quando  dice  che  la  nov. 
9,  IV,  e  9,  V  del  Cunto  furono  imitate  nel  C.  Ili  del  Malmantile 
(cfr.  ;.  e). 


INTRODUZIONE  CXXXVII 

Oltre  ch'ei  pule  come  una  carogna, 
Ed  è  più  nero  della  mezzanotte, 
Ha  il  ceffo  d'orso  e  il  collo  di  cicogna, 
Ed  una  pancia,  come  una  gran  botte: 
Va  sui  balestri,  ed  ha  bocca  di  fogna, 
Da  dar  ripiego  a  un  tin  di  mele  cotte: 
Zanne  ha  di  porco,  e  naso  di  civetta, 
Che  piscia  in  bocca,  e  del  continuo  getta. 

Gli  copron  gli  ossi  i  peli  delle  ciglia. 

Ed  ha  cert'ugna  lunghe  mezzo  braccio: 

Gli  uomini  mangia,  e,  quando  alcun  ne  piglia, 

Per  lui  si  fa  quel  giorno  un  Berlingaccio, 

Con  ogni  pappalecco  e  gozzoviglia; 

Gh'ei  fa  prima  col  sangue  il  suo  migliaccio, 

La  carne  assetta  in  varii  e  buon  bocconi, 

E  della  pelle  ne  fa  maccheroni!  ^ 

Queste  imitazioni  sono,  a  dir  vero,  abbastanza  infelici, 
e  ne  conservano  l'intonazione  dell'originale,  né  lo  variano 
con  una  nota  nuova  e  sentita. 


Ma  l'efl&cacia  che  ebbe  il  Basile  a  Napoli,  sugli  scrit- 
tori napoletani,  fu  anche  maggiore.  Egli  fu,  come  a  dire, 
il  Dante  del  nostro  dialetto  :  e  fissò  la  varia  e  ricca  lin- 
gua napoletana;  cosicché  gli  scrittori  posteriori,  —  come 
capita  spesso  di  riconoscere  — ,  mostrano  aver  studiato 
piuttosto  le  sue  opere  che  il  vivo  linguaggio  del  popolo  '-. 


1  Maini.,  VII,  53-5. 

2  Ciò  osservava  anche  l'Oliva  nella  sua  Grammatica  rns.:  «  Non 
essendovi  altri  più  accreditati  e  migliori  scrittori,  che  gli  avvisati 


CXXXVIir  INTRODUZIONE 

Un  solo  però,  tra  gli  scrittori,  imitò  propriamente  il 
genere  dell'opera  del  Basile  ;  e,  dopo  lui,  si  mise  a  nar- 
rare dei  cunti.  E  fu  questi  il  suo  editore  del  1674,  Pom- 
peo Sarnelli,  che,  dieci  anni  dopo,  pubblicava  un  volu- 
metto, intitolato:  La  Posilecheata  de  Masillo  Reppone  de 
Gnanopoli  *. 

«  Se  be  millanta  valenthuommene  hanno  scritto,  dapò 
lo  Cortese,  vierze  napoletane,  nesciuno,  dopo  Giannalesio 
Abbattuto,  ha  scritto  cunte!  »,  egli  dice.  E  si  mise  lui 
all'opera,  e  mandò  innanzi  il  libriccino,  coli' intenzione, 
se  piacevano,  di  farne  no  libro  gruosso.  La  cornice  della 
PosilecJieata  è,  come  dal  titolo,  una  scampagnata  a  Po- 
silipo,  Masillo  Reppone,  invitato  dal  suo  amico  Petruccio, 
va  a  passare  con  lui  una  giornata,  in  una  villa  di  Posi- 


Gortese  e  Basile,  sono  essi  in  cotanta  riputazione  giunti,  che  a  ta- 
luno sembra  temerità  dare  un  passo  fuori  le  di  loro  pedale  in  isce- 
gliere  il  soggetto  delti  componimenti  e  servirsi  della  lingua;  perchè 
stimano  errore  l'allontanarsi  dalle  persone,  azzioni,  e  parole  plebee, 
né  approvano  cosa,  che  in  quelli  non  sia;  quasi  che  tutta  la  lingua 
fosse  nei  di  loro  libri,  che  sono  due,  pur  troppo  piccoli  rispetto  alla 
vastità  di  quella,  e  non  veggono  0  veder  non  vogliono  che  una  me- 
noma parte  delle  voci  e  delle  maniere  non  contengono  del  parlare 

di  quella »  {ms,  e,  p.  12). 

1  Ded.  ad  Ignazio  de  Vives.  —  In  Napoli  presso  Giuseppe  Roseli i, 
1684,  a  spese  di  Antonio  Bulifon.  —  Ristampò  quest'edizione  Vitto- 
rio Imbriani  (Nap,,  Morano,  1885),  corredandola  di  larghissime  illu- 
strazioni. Fatica  da  lui  fatta  tra  le  fiere  sofferenze  della  sua  ultima 
malattia;  ed  è  forse  appunto  per  questo  che  vi  si  trovano  esagerate 
alcune  bizzarrie  del  suo  ingegno.  Tuttavia,  l'edizione  è  importante, 
il  testo  correttissimo;  e,  nelle  illustrazioni,  è  raccolto  molto  prezioso 
materiale  folk-loristico. 


INTRODUZIONE  CXXXIX 

lipo.  E  con  lui  fa  un  gran  pranzo,  rallegrato  dalla  com- 
pagnia e  dalla  cooperazione  del  Dottor  Marchionno,  ghiot- 
tone e  buongustaio  di  prima  forza,  che  divora  da  solo 
tre  quarti  del  pranzo,  e  chiacchiera  sempre  lui,  indiavo- 
latamente, senza  arrestarsi  un  istante;  e,  ad  ogni  cibo 
che  gli  si  presenta,  ha  il  suo  proverbio  pronto,  il  suo 
motto,  la  sua  erudizione;  e  chiede  ora  questo,  ora  quello, 
con  la  massima  franchezza,  o  sfacciataggine  che  si  voglia, 
nella  certezza  di  far  cosa  grata  all'amico,  e  nell'alta  co- 
scienza alla  sua  riputazione  di  ghiottone  da  mantenere  ! 
Dopo  il  pranzo,  vengono  cinque  donne  del  popolo,  e  cia- 
scuna d'esse  racconta  una  novella. 

Le  cinque  novelle  del  Sarnelli,  quanto  all'argomento, 
non  trovano  riscontro  in  quelle  del  Basilea  E  hanno 
questa  novità,  che,  nel  loro  insieme,  costituiscono  una 
specie  di  mitologia  di  alcuni  più  famosi  monumenti  di 
Napoli:  del  Gigante  di  Palazzo,  del  Nettuno  di  Fontana 
Medina,  della  cosi  detta  Capa  de  Napole,  dei  Quattro 
del  Molo,  ecc.,  giacché,  neanche  novellando,  il  Sarnelli 
obliava  del  tutto  d'  esser  lui  1'  autore  della  buona  e  no- 
tissima Guida  dì  Napoli^. 

Nel  resto,  il  Sarnelli  imita,  e  imita  bene,  il  fare  del 
Basile;  del  quale  piglia  il  metodo  del  racconto,  le  intro- 


1  II  Kohler  e  l'Imbrianì  indicarono  i  riscontri  di  queste  novelle, 
nell'Illustrazioni  XXXI,  XLI,  LI,  LXX,  LXXI,  della  ed.  cit. 

2  Della  vanità  e  dell'impopolarità  di  questi  tentativi  individuali 
d'invenzioni  mitologiche,  discorre  molto  bene  l'Imbriani,  conchiu- 
dendo: «  Nella  formazione  dei  miti  ben  poco  o  nulla  può  l'impeto 
sacrilego  di  una  fantasia  individuale  ».  Cfr.  una  mia  recensione  del- 
l'ed.  dell' Imbriani,  in  Rassegna  Pugliese,  II  (1885),  n.  18. 


CXL  IXTEODUZIONE 

duzioni,  i  movimenti  delle  narrazioni,  gli  scherzi  e  i  gio- 
chetti, e  solo  deve  riconoscersi  che  in  certo  modo  lo 
avanza  nella  facilità  del  dire  e  nella  correttezza  della 
forma.  È  un'imitazione  intelligente  ed  elegante. 


Anche  nel  secolo  XVIII  il  Ctinto  de  li  Cunti  ehbe 
non  poche  edizioni.  Il  monopolio  di  queste  ristampo  fu, 
per  la  prima  metà  del  secolo,  degli  stampatori  Muzio,  che 
ne  fecero  tm  buon  numero.  E  Michele  Luigi  Muzio  lo 
ristampava  il  1714  e  1722,  e  Gennaro  Muzio  il  1728.  Poi, 
la  Stamperia  Muziana  il  1749  ^  In  tutte  queste  edizioni 
continuò  la  correzione  arbitraria  del  testo,  iniziata  da 
quella  del  Sarnelli. 

Le  Muse  NapoUtane  ebbero  ristampe  il  1703  e  il  1719', 
e  poi  di  nuovo  nel  1745'. 

E,  nella  prima  metà  del  secolo,  si  faceva  del  Cvnto 
de  li  Cunti  la  prima  traduzione,  che  fu  di  dialetto  in 
dialetto,  cioè  dal  napoletano  nel  bolognese.  Furono  le 
traduttrici   le  illustri  donne  Maddalena  e   Teresa  Man- 


1  Queste  edizioni  (che  io  ho  sott'occhio),  sono  descritte  dal  Moli- 
NARO  DEL  CniARO,  art.  cit.,  e  dal  Passano,  l.  e.  Un  amico  m"  indica 
un  suo  appunto  di  un'altra  ed.  del  Muzio  del  1708  (?).  Il  Passano 
cita  anche  una  edizione  stampata  nel  1747,  e  un'altra  Nap.,  s.  a.,  in 
8."  (?). 

*  Nap.,  pei'  Giacinto  Musitano,  —  Martorana,  0.  e,  p.  23. 

^  U  Mmusc  napoletane  ecc.  Ded.  a  D.  Giovanni  Columbo,  A  Na- 
poli, MDCCXLV,  Per  Dommineco  Langiano  e  Donimineco  Vivenzio 
compagne  (pp.  131  num.,  e  io  inn.  a  princ.). 


INTRODUZIONE  CXT.I 

fredi,  sorelle  di  Eustachio,  e  Teresa  e  Angiola  Zanotti, 
sorelle  di  Giampietro  e  di  Francesco  ^  La  loro  tradu- 
zione è  intitolata:  La  Chiaqlira  dia  Banzola  o  per  dir 
mii  fot  dìvers  Tradott  dal  parlar  napulitan  in  leingua 
hulgneisa;  e  fu  stampata  la  prima  volta  a  Bologna  il  1713  ^. 

In  questa  traduzione  sono  tolte  le  divisioni  in  cinque 
giornate,  le  introduzioni  alle  giornate  e  ai  singoli  conti, 
le  quattro  egloghe.  L'introduzione  è  anche  abbreviata,  e 
seguono  poi,  senz'altro  legature,  le  cinquanta  novelle,  0 
meglio  le  49,  perchè  la  50.^  serve  da  conchiusione. 

Le  traduttrici  hanno  fatto  anche  cadere  molti  dei  fron- 
zoli, coi  quali  il  Basile  capricciosamente  le  adornava: 
cosi  le  descrizioni  dell'alba,  del  tramonto,  della  notte,  ecc., 
cosi  le  lunghe  parlate,  e,  in  generale,  la  loro  traduzione 
è  più  compendiosa  dell'originale.  «  An  poss  negar,  — 
dicono  nell'avvertenza  — ,  eh'  1'  gli  avvn  pers  purassà  d' 
quel  grazi,  eh'  gli  an  in  tla  so  lingua  naturai;  e  se  ben 
oh  la  sostanza  dia  fola  è  l' istessa,  an'  i  è  però  una  som- 
ma fedeltà  in  tla  traduzion,  part  pr  n'aver  catta  di  pru- 
verbi  in  bulgnes,  ch'avvn  l'istess  significat  di  napolitan, 
e  pò  mi  i  n  ho  miss  di  nusti,  eh  fors  ben  n  vran  brisa 
dir  quel,  ch'dseva  qui;  part  anch  pr  assri  multissm  cos, 
eh'  mi  n'  intendeva,  e  eh'  ai  ho  pò  cumpost  alla  piz,  e 
quest  ara  cavsà,  eh'  1'  sinn  armas,  in  za  e  in  là,  più  sec- 


i  Gfr.  Quadrio,  0.  e,  I,  210.  Che  la  traduzione  del  Cunto  de  li 
Cunti  sia  delle  donne  Manfredi  e  Zanotti,  afferma  il  FAntuzzi,  No- 
tizie degli  scritt.  bologn.,  (Boi.,  1781-9),  V,  201-2. 

2  PASSANO,  0.  e,  pp.  46-7.  La  prima  edizione,  che  cita  il  Fantuzzi, 
è  qiiella  del  1742. 


CXLII  INTRODUZIONE 

chi.  Chi  lizrà  1'  Napolitan',  vdrà  anch,  ch'ai  è  dia  rohba, 
oh'  n'è  tradutta  brisa,  e  quest,  perchè  gli  in  digression 
ch'ai  ho  stima,  cb'  s'  possn  tralassar  seoza  eh'  s'  guasta 
la  sostanza  dia  fola  »  ^ 

Certo,  a  questo  modo,  le  novelle  hanno  perduto  un 
po'  l'impronta  originale.  Ma,  cosi  abbreviate  e  sfrondate, 
esse  sono  anche  belle,  e,  se  han  perduto  da  una  parte, 
hanno  acquistato,  dall'altra,  qualità,  che  prima  non  ave- 
vano. Le  traduttrici  raccontano  con  vivacità  e  garbo,  e 
con  semplicità,  e  con  intonazione  tutta  popolare. 

E  la  loro  opera  fu  fortunata,  perchè  ebbe  ristampe  del 
1742,  1777,  1813,  1839^  e  1872.  Essa  «  fissò  le  regole 
e  l'ortografia  del  dialetto,  e  divenne  il  codice  del  bel 
parlare  bolognese,  e  si  ristampa  ancora,  e,  per  quanto 
conti  un  secolo  e  più  di  età,  non  mostra  di  essere  invec- 
chiato, nemmeno  nelle  forme  esteriori  ed  ortografiche  del 
dialetto  »  ^. 

Cosi  si  potessero  fare  le  stesse  lodi  a  un  traduttore 
italiano,  che  ebbe  il  Basile,  il  1754!  Un'artistica   tradu- 


1  Cito  dall'ed.  Dulogna^  MDCCCXIII,  i'e>'  Gasper  de'  Franceschi 
alla  Clomba. 

2  Quella  del  1839  è  intitolata:  Al  Pentameròn  d' Zvan\iléssl  (sic) 
Jìasile,  osia  ztnquanta  fol  delle  da  dis  donn  in  zeinqu  giornat;  ed 
Ila  molte  varietà  sulle  precedenti,  perchè  riveduta  sull'originale  na- 
poletano, le  novelle  divise  in  cinque  giornate,  e  fattevi  molte  ag- 
giunte  di  passi  tralasciati,  come  anche  delle  quattro  egloghe,  che  vi 
sono  esposte  in  prosa.  L'ed.  del  1872,  presso  Priori,  è  cit.  dal  Pitrè 
(Fiabe  popolari  sic,  Palermo,  1875.  I,  p.  LUI  n.). 

3  O.  GUERRiNi,  La  vita  e  le  opere  di  Giulio  Cesare  Croce,  Mono- 
grafia, In  Bologna,  presso  N'icola  Zanichelli,  1879;  pp.  134-5. 


INTRODUZIONE  CXLIII 

zione  italiana  sarebbe  stata  pel  Canto  de  li  Cunii  una 
nuova  vita.  Ma  non  era  fatica  da  poterla  fare  uno  scrit- 
tore del  secolo  XVIII  colla  sua  ammiserita  lingua  ita- 
liana! Del  resto,  questa  traduzione  italiana  è  tanto  cat- 
tiva, che  non  è  il  caso  di  dar  di  essa  nessuna  colpa  al 
secolo  XVIII;  la  colpa  va  tutta  intera  al  pessimo  anoni- 
mo traduttore. 

Il  quale,  anche,  tolse  via  le  egloghe,  e,  inoltre,  intere 
novelle  \  e  abbreviò  e  sfrondò  le  altre,  e  si  dette  finan- 
che il  gusto  di  mutare  infelicemente  i  nomi  dei  perso- 
naggi, ed  altre  circostanze.  Ma,  lasciando  stare  i  grossi 
spropositi  che  vi  sono  -,  con  quale  goffaggine  sia  fatta  la 
traduzione,  lo  dice  quest'esempio,  eli' è  tolto  dal  principio 
della  prima  novella: 

Bravi  nella  Città  di  Biserta  una  dama  dabbene  chiamata  Drusilla, 
la  quale,  oltre  a  sei  figlie  femmine,  avea  un  figlio  maschio  ianto 
sciocco  e  scimonito,  che  la  povera  madre  perciò  ne  stava  sconten- 
tissima; né  v'era  giorno  che  non  l'avvertiva,  ora  correggendolo  dol- 
cemente, ed  ora  al  dolce  delle  correzioni,  vi  mescolava  l'asprezza 
delle  invettive,  od  anche,  se  v'era  di  bisogno,  delle  bastonate;  con 
tutto  ciò  non  furono  queste  cose  bastanti  a  far  si  che  Rodomonte 
si  fosse  riavuto  dalla  sua  dapocaggine;  per  la  qual  cosa,  A'edendo 
Drusilla  non  esservi  speranza,  che  suo  figlio  ravveduto  si  fosse  dalla 
sua  sciocchezza  (quasiché  il  difetto  di  natura  fosse  stato  in  lui  ca- 
gionato per  colpa  sua),  un  giorno  fra  gli  altri  con  un  bastone  lo  batté 
di  maniera,  che  poco  vi  mancò  a  non  romperle  tutte  le  ossa,  ecc. 


i  Mancano  i  racconti:  T,  9;  II,  3;  V,  4,  5,  6,  7,  8,  9. 

2  uorco,  per  es.,  è  tradotto  sempre  in  Orca,  cosicché  il  Re  dà  in 
isposa  la  figlia  all'Orca.'  La  Gatta  Cennerentola  è  tradotto:  Il  gatto , 
benché  si  tratti  di  una  femmina!,  ecc. 


CXLIV  INTRODUZIONE 

Questa  tx*aduzione  fu  ristampata  il  1769,  il  1784  e  il 
1863  '. 

Circa  lo  stesso  tempo,  il  Cunto  de  li  Cunti,  servi  da 
fonte  a  Carlo  Grozzi  per  alcuna  delle  sue  fiabe,  rinno- 
vandosi cosi  il  caso  dì  Lorenzo  Lippi. 

Anzi,  proprio  le  due  prime  fiabe  del  Gozzi  furono  tolte 
dal  libro  del  Basile.  Ju  Amore  delle  tre  melarance  fu,  co- 
me è  noto,  recitata  la  prima  volta  il  25  gennaio  1761  ; 
e  ce  ne  avanza  una  sorta  di  scenario,  disteso  dallo  stesso 
autore.  Il  terzo  atto  è  tolto  di  peso  dalle  Tre  cetre  (V,  2) 
del  Basile.  Noi  primo  atto,  si  trova  un'altra  reminiscenza 
del  Cunto  de  li  Cunti  nell'espediente,  al  quale  ricorre 
Truffaldino  per  indurre  al  riso  il  principe  Tartaglia. 

E  anche  di  peso  è  tolta  dal  Cunto  de  li  Cunti  la  se- 
conda fiaba  del  Gozzi:  Il  Corvo,  che  fu  rappresentato 
prima  a  Milano,  poi   a  Venezia,  nell'autunno   del  1761-. 

Oltre  a  queste,  il  Gozzi  non  fece  altre  imitazioni  del 
Cunto  de  li  Cunti^.  Il  Gozzi,  tra  gli  elaboratori  artistici 


i  II  Passano  cila  l'edizione;  Il  Conto  del  Conti,  trattenimento  de' 
fanciulli.  Trasportato  dalla  napoletana  alV  italiana  favella,  ed  ador- 
nato di  bellissime  figure,  In  Napoli,  si  vendono  (sic)  tiella  libreria 
di  Cristoforo  Mi'jUaccio,  1754,  in  12."  (pp.  264,  oltre  l'antip.  e  il  front.). 
Secondo  I'Imbriani  {XII  Conti  pomigl.,  Nap.  1876,  p.  24),  questa  deve 
essere  una  seconda  edizione.  Per  quella  del  1769,  v.  Pitrè,  l.  e.  Per 
quella  del  1784,  v.  Molinaro,  art.  cit.  Per  quella  del  1863,  (che  ho 
sott'occhio),  anche  Passano,  l,  e. 

2  Le  Fiabe  di  Carlo  Gozzi,  ed.  cit.  del  Masi;  I,  Pref.,  pp.  LXXVII, 
e  sgg. 

3  Ne  fece,  bensì  dalla  Posilecheata  del  Sarnelli,  a  sua  conlessione; 


INTRODUZIONE  CXLV 

delle  fiabe,  è  uno  dei  più  notevoli.  Anch'egli,  come  il 
Basile,  non  espose  le  fiabe,  con  la  sola  intenzione  arti- 
stica di  riprodurre  in  forma  conscia  l'inconscia  produ- 
zione popolare.  Che,  anzi,  le  fece  servire  a  tutto  un  com- 
plesso di  teorie  e  polemiche  letterarie.  Ma  ancb' egli,  co- 
me il  Basile,  pure  profanando,  e  in  misura  molto  mag- 
giore, la  creazione  popolare,  non  la  corresse,  e  non  la 
svisò,  e  il  sentimento  popolare  sopravvive  in  quelle  ela- 
borazioni teatrali,  ragione  del  fascino,  che  hanno  eserci- 
tato su  molti  critici  di  questo  secolo.  I  fini  letterarii  che 
si  propose  il  Gozzi,  furono,  —  come  disse  stupendamente 
Francesco  de  Sanctis  — ,  fini  transitorii,  «  i  quali  pote- 
rono interessare  i  contemporanei,  dargli  vinta  la  causa 
nella  polemica  e  nel  teatro,  e  che  oggi  sono  la  parte 
morta  del  suo  lavoro  ».  Ma  la  parte  viva  della  sua  opera 
è  «  il  concetto  della-  commedia  popolare  in  opposizione 
alla  commedia  borghese Il  contenuto  è  il  mondo  poe- 
tico, com'è  concepito  dal  popolo,  avido  del  meraviglioso 
e  del  misterioso,  impressionabile,  facile  al  riso  e  al 
pianto  »  ^. 

Nella  Bibliothéque  des  romans  furono  dati  alcuni  e- 
stratti  del  Ciinto  de  li  Cunti  del  Basile.  E,  da  questi 
estratti,  il  Wieland,  nel  1778,  desunse  la  materia  di  un 


VAugel  Belverde,  infatti,  è  tratto  dalla  Ngannalrice  ngannata  (e.  Ili 
della  l'osiL),  cosa  non  notata  né  dal  Magrini  (1  tempi,  la  vita  e  gli 
scìHtti  di  Carlo  Gozzi,  Nap.,  1SS7,  p.  221),  né  dal  MASI  (l.  e);  e  che 
veggo  ora  notato  dal  RUA,  Intorno  alle  Piac.  notti,  1.  e,  XVI,  238. 
1  F.  DE  Saxctis,  Storia  della  letter.  ital.,  Nap.,  1879,  II,  391. 


CXLVI  mTRODUZIONE 

SUO  racconto  in  versi,  intitolato:  Peruonte  (sic)  oder  die 
Wiinsche,  che  corrisponde  al  Peruonto,  T.  Ili  della  G.  I 
del  Cunto  de  li  Cunti  *. 

H  racconto  del  Wieland,  nelle  due  prime  parti,  segue 
a  passo  a  passo  l'esposizione  del  Basile,  solo  adornandola 
di  nuovi  particolari  e  svolgendo  le  varie  situazioni.  L'in- 
tonazione è  scherzosa,  ma  non  vi  manca  la  punta  di  un 
significato  morale.  C'era  un  re  di  Salerno,  che  aveva  una 
bellissima  figliuola,  chiamata  Vastola  (sic),  ammirata,  cor- 
teggiata, che,  tuttavia,  non  pensava  a  maritarsi: 

Blieb  mitten  in  den  Flamraen, 

Nach  wahrer  Salauianderart, 

Stets  unversengt,  eiskalt,  und  felsenart! 

Intanto,  un  giovanotto,  chiamato  Peruonto,  brutto  e 
sciocco  e  sgraziato,  mandato  dalla  madre  al  bosco  a  far 
legna,  trova  tre  fate,  che  dormono  al  sole,  e  le  ricopre, 
formando  sopra  i  loro  corpi  una  pergola  ombrosa.  Le  tre 
fate  si  svegliano,  e,  per  gratitudine,  gli  danno  la  fata- 
zione,  che  ogni  desiderio,  ch'egli  formi,  diventi  subito 
realtà.  Peruonto,  fatto  il  suo  fascio  di  legna,  pensa  tra 
sé:  —  0  se  questo  fascio,  invece  di  farsi  portare,  mi 
portasse  a  casa!  —  Ed  ecco  il  fascio  si  mette  in  movi- 
mento come  un  cavallo.  E  Peruonto,  via!  E,  seguito  dalla 
gente  che  rideva  e  schiamazzava,  va  cosi  verso  casa,  e 
passa  innanzi  al  palazzo  del  Re,  dove  Vastolla,  ch'era 
alla  finestra,  esclama: 


*  WielAnd's   Werke,  hg^'.  von   H.  Kurz,  Leipzig,  s.  a  ,  FAnleitxmg, 
p.  xxm. 


INTRODUZIONE  CXLVII 

Das  lohnt  sich  auch  der  Mùh,  dass  cine  ganze  Stadt 

Um  einen  solchen  Bàrenhauter 

So  narrisch  thut! 

Sein  Pferd  ist  schlecht,  und,  dodi,  fiir  solchen  Reiter, 

Ben  Wechselbalg,  den  Unhold,  noch  zu  gut! 

Peruonto,  irritato,  le  augura  che  possa  esser  gravida 
di  lui  e  partorire  due  gemelli.  —  Cosi  avviene,  e  segue, 
come  nel  Basile,  il  racconto  dell'ira  del  Re  al  veder 
gravida  la  figlia,  il  parto,  i  conviti,  e  le  feste  fatte  per 
iscoprire  tra  i  convitati  il  padre  dei  bambini.  E,  in  tal 
modo,  si  scopre  Peruonto.  Il  Re,  fatta  la  vergognosa 
scoperta,  subito  lo  fa  mettere  con  Vastolla  e  i  bambini 
in  una  botte  e  gittare  a  mare.  E  li,  nella  botte,  alla 
mercè  delle  onde,  comincia  un  dialogo  tra  loro,  dal  quale 
Vastolla  viene  finalmente  a  sapere  del  mirabile  dono,  che 
Peruonto  aveva  ricevuto  dalle  fate,  e  dell'augurio,  che 
le  aveva  fatto.  Peruonto,  indettato  da  Vastolla,  si  augura 
che  la  botte  diventi  una  bella  barca,  e  cosi  sono  salvi. 
E,  subito  dopo,  si  augura  di  approdare  in  un  luogo  de- 
lizioso, di  avere  un  grandioso  castello,  e  poi  di  diventare 
bello;  finalmente,  di  essere  dotato  di  quell'intelletto,  che 
non  aveva.  Colmi  di  tutti  questi  doni, 

Prinzessin,  —  spricht  Peruonto  — ,  wir  haben 

Der  Wùnsche  nun  genug.  Der  Feen  Gùtigkeit 

Ist  gross;  doch  inimer  neue  Gaben 

Expressen,  wàre  Geize  und  Unbescheidenheit! 

Niclits  ist  nunmehr  uns  Noth  als  die  Begniigsainkeit  ; 

Allein  mit  dieser  muss  der  Mensch  sich  selbst  begaben. 

Lass  durch  Genuss  uns  nun  verdienen,  was  wir  haben! 

Uns  lieben,  Vastola,  und  Alles  um  uns  her 

Mit  unserm  Gliick  erfreuen  und  beleben, 

Sei  unser  Loos!  Was  kònnten  wir  noch  mehr 

Uns  w'iinschen,  oder  was  die  Feen  mehr  ims  geben? 


CXLVIII  INTRODUZIONE 

A  questo  punto  il  Wleland  cessa  di  seguire  il  Basile, 
il  quale  concliiude  coU'andata  del  Re,  padre  di  Vastolla, 
al  castello  degli  sposi,  e  col  riconoscimento  tra  di  loro 
0  colla  pace  e  la  felicità  di  tutti.  La  terza  parte  del  rac- 
conto del  Wieland  narra,  invece,  come,  dopo  qualche 
settimana,  quella  vita  di  piena  e  tranquilla  felicità  co- 
minciasse ad  annoiare  Vastolla.  E,  facendo  fare  a  Pe- 
ruonto  un  continuo  uso  del  dono  delle  fate,  ora  vanno  al 
festino  del  Re  a  Salerno,  ora  corrono  a  Napoli  a  menare 
gran  pompa  di  vita,  ora  si  trovano  a  Venezia  per  la  fe- 
sta del  Bucintoro,  ora  invitano  una  gran  società  al  loro 
castello,  tra  la  quale  Vastolla  lia  occasione  d'innamorarsi 
d'uno  degl'intervenuti,  e  procurarsi  un  amante.  Final- 
mente, Vastolla  domanda  a  Peruonto  di  poter  fare  da 
sola  un  viaggio  a  Sorrento,  e  gli  chiede  una  borsa  di  de- 
naro, che  non  s'esaurisca  mai.  Peruonto  acconsente;  ma, 
appena  restato  solo,  si  volge  alle  fate,  supplicandole  di 
riprendere  il  dono,  che  gli  avevano  fatto: 

Hort  mich,  ihr  gute  Feen, 
An  denen  icli,  trotz  meinem  bessern  Sinn, 
So  oft  durch  Wùnscben  mich  vergangen, 
Hòrt  meinen  letzen  W'unsch!  Nehmt  Alles  wieder  liin 
Was  ich  von  euer  Hiild  empfangen, 
Und  jetzt  in  diesem  Augenblick 
Mich,  in  den  Stand,  worin  ich  war,  zuriick, 
Ala  ich  zu  wiinschen  angefangen! 

Le  fate  acconsentono,  e  tutto  sparisce,  e  Vastolla  si 
ritrova  alla  Corte  del  padre,  come  se  niente  fosse,  e  Pe- 
ruonto di  nuovo  colla  vecchia  madre,  solo  restandogli,  di 
tutto  ciò  che  aveva  ottenuto,  l'intelletto. 


INTRODUZIONE  CXLIX 

H  Wieland,  —  dice  un  suo  critico  — ,  volle  in  questo 
racconto  ■•  adombrare  il  concetto  espresso  dallo  Schiller 
nei  versi: 

Was  kein  Verstand  der  Veslandigén  sieht 
Das  ubet  in  Einfalt  ein  kindlich  Gemùht! 

Ma,  forse,  sbagliò  nel  rappresentare  dapprima  il  suo 
eroe,  non  come  uomo  d'animo  semplice,  ma  come  persona 
rozza  e  goffa.  È  felicissima,  invece,  la  mescolanza  della 
più  profonda  serietà  colla  più  furbesca  malizia,  e  l'ese- 
cuzione mostra  la  maestria  del  poeta  nell'esporre  le  sin- 
gole situazioni  ^ 


Si  è  vista  la  polemica,  alla  quale  il  Cunto  de  li  Curiti 
dava  luogo  nel  1779-80  fra  il  Galiani  e  il  Serio.  E,  pochi 
anni  dopo,  lo  stampatore  Porcelli,  nel  pubblicare  la  sua 
Collezione  dei  poemi  in  lingua  napoletana,  nei  volumi 
XX  e  XXI  ristampò,  il  1788,  le  opere  napoletane  del 
Basile,  cioè  il  Cunto  de  li  Cunti  e  le  Muse;  e  questa  è 
stata  l'ultima  edizione,  che  se  ne  sia  fatta  nel  dialetto 
originale.  In  essa  il  testo  del  Basile,  già  segno  di  tante 
arbitrarie  correzioni,  è  rovinato  nel  peggior  modo,  spe- 
cialmente per  ciò  che  riguarda  l'ortografia.  Questa  edi- 
zione è  la  più  facile  a  trovarsi^. 


i  KuRz,  Einleitung,  cit.,  p.  xxm. 

2  II  PiTRÈ  (J.  e.)  menziona  anche  un'ediz.  di  Roma,  1797.  Ma  credo 
si  tratti  d'un  equivoco. 


CL  INTRODUZIONE 

Il  Graliani,  cogli  stretti  ideali  del  secolo  XVIII,  disco- 
nobbe, come  abbiamo  visto,  l' importanza  artistica  del 
Basile.  E,  quantunque  fosse  iniziato  a  tutti  i  progressi 
dello  spirito  scientifico  del  secolo  XVIII,  non  presenti 
l'importanza  scientifica,  che  il  nostro  secolo  avrebbe  tro- 
vato in  quell'opera.  Ma  gli  studi  filologici  e  mitografici 
sono  di  quelli,  che  è  tutta  gloria  del  nostro  secolo  l'avere 
incominciati,  e  portati  a  tanta  altezza. 

Fu  Jacopo  Grimm,  il  padre  della  nuova  filologia  e  della 
nuova  mitografia,  quegli  che  doveva  scoprire  nel  Cunto 
de  li  Cunti,  semplice  libro  di  diletto  per  un  paio  di  se- 
coli, un  nuovo  importantissimo  aspetto. 


Il  Cunto  de  li  Cxinti,  e  la  novellistica  comparata. 

È  stata  fatta  tante  volte  la  storia  del  sorgere  e  del 
progredire  degli  studii  di  novellistica  popolare,  che,  dav- 
vero, non  è  il  caso  di  rifarla.  È,  ormai,  cosa  notissima, 
come  dalle  raccolte  di  fiabe,  fatte  in  varii  tempi  e  in 
varii  luoghi,  per  iscopo  artistico  o  educativo  ^,  si  passasse, 
nel  1812,  alla  prima  raccolta  scientifica  coi  Kinder  und 
Hausmiirchen  dei  fratelli  Grrimm.  E,  da  quel  tempo  in 
poi,  studiosi  di  tutti  i  paesi,  —  ed  è  forse  difficile  tro- 
vare in  altro  campo  di  studii  tanta  fratellanza!  — ,  hanno 
messo  in  luce  e  studiato  un  immenso  materiale,  raccolto 
dal  popolo,  e  si  sono  adoprati  a  trarne  conclusioni  gene- 
rali per  gli  studii  di  psicologia,  di  storia,  di  etnologia, 
di  filologia^. 

Ora,  nell'opera  fondamentale  dei  fratelli  Grimm,  nel 
terzo  volume,  pubblicato  la  prima  volta  il  1822,  facen- 
dosi una  specie  di  rassegna  di  tutta  la  letteratura  delle 
fiabe,  il  primo  luogo,   per  importanza,    era   assegnato    al 


1  Da  scrittori  italiani,  portoghesi,  francesi,  tedeschi:  lo  Straparola, 
il  Basile,  il  Troncoso,  il  Perrault,  la  D'Aulnoy,  il  Musaus,  il  Gùnther, 
il  Vulpius,  ecc. 

2  Eccellenti  esposizioni  della  storia  degli  studii  di  novellistica  po- 
polare sono,  —  per  dir  di  libri  italiani  — ,  in  Pitrè,  Fiabe,  novelle 
e  racconti  popol.  siciL,  I,  pp.  XLIII-LVI;  e  Xovelle  popol.  toscane, 
Fir.,  1885,  introd. 


OLII  INTRODUZIONE 

Cunto  de  li  Canti  del  Basile.  «  Questa  raccolta  di  fiabe, 
—  essi  dicevano  — ,  tra  quante  ne  furono  state  fatte 
presso  qualunque  popolo,  fu,  per  un  pezzo,  la  migliore 
e  la  più  ricca.  Non  solo  la  tradizione  allora  era  per  se 
stessa  ancor  più  completa,  ma  l'autore  possedeva  anche, 
con  l'esatta  conoscenza  del  dialetto,  un'abilità  tutta  sua 
nel  raccoglierle  ed  entrar  nello  spirito  di  esse.  Il  conte- 
nuto è  quasi  senza  lagune,  e  il  tuono,  almeno  pei  napo- 
letani, perfettamente  indovinato;  il  che  gli  dà  un  van- 
taggio sullo  Straparola Si  può,  dunque,  considerare 

questa  raccolta  di  fiabe,  pel  suo  ricco  contenuto,  come 
fondamento  delle  altre  ;  perchè,  quantunque  nel  fatto  non 
sia  cosi,  ed  anzi  non  fosse  nota  fuori  del  suo  paese,  e 
nemmeno  tradotta  in  francese,  tuttavia,  nel  complesso 
della  letteratura  popolare,  può  rappresentare  questa  parte. 
Due  terzi  delle  fiabe,  ch'essa  contiene,  si  ritrovano,  nei 
loro  tratti  essenziali,  in  tedesco,  e  ancora  viventi.  Il  Ba- 
sile non  ha  fatto  nessun  cangiamento;  raramente  si  è 
permesso  un'aggiunta  di  qualche  importanza;  il  che  dà, 
anche  da  questo  lato,  alla  sua  opera  un  valore  singo- 
lare »  ^ 

Con  queste  parole,  l'opera  del  Basile  fu  indicata  agli 
studiosi  di  tutto  il  mondo,  e  usci  dalla  mezza  luce,  nella 
quale  era  stata  tenuta,  come  opera  scritta  in  dialetto,  e 
in  un  dialetto  dell'Italia  meridionale.  Varie  novelle  fu- 
rono anche  tradotte  in  tedesco^. 


1  Kinder  und  Hausmàrcherì ,  ni,  290-1. 

2  Alcune  ne  tradussero  gli  stessi  Grimin  nei  Kinder  und  Hausmàr- 
chen,  voi.  III.  Nel    1816,  nel   Taschenbuoh  fiir  Freunde   altdeutscher 


INTRODUZIONE  CLIII 


Ma  nel  1846  Felice  Liebrecht,  teste  defunto,  nome 
caro  ai  cultori  di  questi  studii,  seguendo  lo  stimolo,  che 
era  venuto  agli  studiosi  dalle  parole  dei  Grimm,  presen- 
tava al  pubblico  una  traduzione  tedesca  completa  del 
Cunto  de  li  Cunti.  Usci,  in  due  volumi,  a  Breslau,  con 
questo  titolo:  Der  Pentamerone,  oder  das  Mcirchen  alter 
Mdrchen  von  Giambattista  Basile,  atis  dem  NeapoUtani- 
schen  iibertragen  von  Felix  Liebrecht,  mit  einer  Vorrede 
von  Jacob  Grimm^. 

Il  Grimm  coglieva  l'occasione  di  quella  prefazione,  per 
metter  sempre  in  maggior  luce  l'importanza  artistica  e 
filologica  del  Cunto  de  li  Cunti.  E,  accennando  all'opera 
del  traduttore,  diceva:  «  Tradurre  in  tedesco  il  Penta- 
merone, cbe  esprime  tutta  la  singolarità  del  dialetto  na- 
poletano tanto  diverso  dal  comune  italiano,  non  è  cosa 
facile.  Se  è  già  una  faccenda  seria  il  solo  intender  bene 
tutte  quelle  immagini,  comparazioni,  giuochetti  di  parole, 


Zea  una  Eiinst,  I.  Grimm  tradusse  Lo  Serpe  (II,  5).  O.  L.  B.  Wolff, 
nella  Kelghlleij  s  Mi/thologie  der  Feen  und  Elfen  (Weimar,  1828)  tra- 
dusse Cagliuso  (II,  4),  Lo  Dragone  (rv,  5),  La  facce  de  crapa  (I,  8). 
Nel  libro  del  von  der  HAgen,  Erzahlungen  und  Mdrchen  (Prenzlau, 
1825)  si  trovano  tradotti  Cagliuso,  Li  tre  Ri  Anemale  (IV,  3),  e  Pe- 
ruonto  (I,  3).  Uu  buon  numero,  ma  piuttosto  esposte  che  tradotte, 
nell'opera  Mdrchensaal,  Mdrchen  alter  Vólker  fior  Jung  und  Ali, 
gesammelt  ubersetzt  und  hgg.  von  II.  Kletke  (Beri.,  1845).  Tolgo  que- 
ste notizie  dall'opera  del  Liebrecht,  II,  326-7. 

1  Breslau,  in  Verlage   bei  Josef  Max  und  Komp.,  1846,  2  voli.;  il 
primo  di  pp.  XXVIII-412,  e  il  secondo  di  pp.  340. 


CLIV  INTRODUZIONE 

espressioni  d'amore,  rimproveri,  maledizioni,  caldi  e  vivi 
come  produzione  orientale;  ima  difficoltà  molto  maggioro 
s'incontra,  quando  si  vuol  trasportarli  in  una  lingua,  clie 
non  ha  bastante  pieghevolezza,  da  render  questo  stile 
ampolloso  in  tutti  i  suoi  naturali  ghirigori  e  le  sue  gra- 
zie. Il  nostro  moderno  tedesco,  e  i  tempi  nostri  sono 
troppo  composti  e  serii  da  assumere  simili  imprese!  Un 
Fischart,  col  vocabolario  e  i  costumi  del  secolo  XVI,  se 
un  simile  libro  gli  fosse  venuto  tra  mano,  avrebbe  potuto 
lasciar  libero  giuoco  alla  lingua,  e  colle  indomate  parole 
ed  espressioni  d'allora,  che  accanto  all'onesto  dicono, 
senza  rispetto  alcuno,  anche  il  disonesto,  accanto  al  pu- 
lito, anche  il  poco  pulito,  avrebbe  potuto  raggiungere, 
anzi  superare,  il  quadro  originale.  Io  avevo  consigliato 
al  traduttore  (della  cui  fondamentale  intelligenza  del  te- 
sto originale  nessuno  vorrà  dubitare),  di  sopprimere  tutto 
ciò,  che  urterebbe  il  lettore  moderno;  e  comprendo  che 
gli  dovesse  sembrar  arrischiato  il  rompere  la  fedeltà  e 
la  completezza  deUa  sua  opera.  Ma  le  parole  e  le  frasi, 
che  a  noi  ora  sembrano  basse  e  triviali,  quando  anche 
esse  rispondano  alla  lettera  del  testo,  sono  diventate  più 
rozze  e  più  dure  per  noi,  perchè,  noi  moderni,  abbiamo 
tutt'altri  concetti  della  decenza,  e  un  Tratfeniinìento  de 
j)eccerille,  innocuo,  a  Napoli,  nel  seicento,  non  potrebbe 
darsi  in  mano  alle  nostre  donne  e  ai  nostri  fanciulli  »  *. 


1  Trad.  cit.,  I,  pp.  VI-VII.  Il  Liebrecht,  però,  osserva  giustamente, 
che,  quantunque  il  Cunto  de  II  Cuna  sia  intitolato:  Trattenimtento 
de  pecccrllle  «  tuttavia  non  è  opera  né  per  questi,  e  neanche  pel 
basso  popolo  »  (o.  e,  II,  324). 


INTRODUZIONE  CLV 

Il  Liebrecht  osò  affrontare  pel  primo  tutte  le  difficoltà 
del  testo  del  Basile,  veramente  enormi  per  uno  stratiero. 
Ed  erano  anche  maggiori  allora,  nel  1846,  di  quel  che 
sono  ora,  0  saranno  fra  breve.  Senza  un  buon  vocabola- 
rio napoletano  \  senz'aiuto  di  studii  e  commenti  fatti  da 
scrittori  italiani  sull'argomento,  il  Liebrecht  dovè,  per  in- 
tendere il  suo  testo  in  tutti  i  suoi  particolari,  ricorrere 
agli  aiuti  della  scienza  filologica  e  allo  studio  diretto 
degli  altri  scrittori  napoletani,  e,  specialmente,  dei  con- 
temporanei del  Basile.  E,  col  suo  acume,  e  colla  sua  di- 
ligenza, giunse  ad  acquistare  un'  intelligenza,  quasi  in  ogni 
particolare,  completa  del  testo,  che  veramente  è  mirabile. 
In  pochissimi  punti  errò,  quasi  sempre  per  colpa  delle 
scorrette  edizioni,  che  fu  costretto  ad  avere  sott'occhio, 
giacché  egli  potè  solo  confrontare  l'edizione  del  Sarnelli 
del  1674,  che  gli  parve,  ed  è  difatti,  la  migliore,  rispetto 
alle  seguenti,  e  specie  a  quella  del  Porcelli. 

Né  è  minore  il  merito  letterario  dell'opera:  con  grande 
facilità  e  felicità,  alle  espressioni  e  alle  immagini  del  Ba- 
sile, il  Liebrecht  seppe  trovare  le  equivalenti  nella  lin- 
gua tedesca.  E  l'ingegno  artistico  di  Gian  Alessio  Ab- 
battutis  vive  e  palpita,  in  questa  traduzione,  in  tutto  il 
suo  bizzarro  e  originale  carattere. 


*■  Nel  1846  non  c'era  se  non  il  Vocabolario  delle  parole  del  diO' 
letto  napol.  che  più  si  scostano  dal  dialetto  toscano,  Nap.,  Porcelli, 
1789;  del  quale  è  nota  la  povertà  e  la  mediocrità;  di  buono  non  vi 
si  trovano  se  non  alcuni  articoletti  del  Galiani.  Il  vocabolario  del 
De  Ritis  fu  cominciato  a  pubblicare  il  1845,  e,  com'è  noto,  inter- 
rotto alla  parola:  tnagnare. 


CLVI  INTEODUZIONE 

Poche  note  aggiunse  il  Liebrecht,  varie  delle  quali 
preziose;  ma,  nelle  note,  volle  essere  molto  sobrio \  e 
non  volle  entrare  nel  ginepraio  dei  confronti  novellisticì, 
contentandosi  dei  pochi  cenni  dati,  su  alcune  delle  no- 
velle, dal  Grimm,  nella  prefazione.  La  mancanza,  a  quei 
tempi,  di  raccolte  italiane  di  fiabe  rendeva,  del  resto, 
necessaria  quest'astensione. 

V'aggiunse  ancora  un  lavoro  sul  dialetto  e  la  lettera- 
tura dialettale  napoletana^,  eh' è  fatto  con  molto  garbo, 
ma  ha  un  valore,  più  che  altro,  didascalico,  pel  pùbblico 
tedesco.  Si  trovano  in  esso  le  acute  osservazioni,  delle 
quali  s'è  tenuto  conto,  sulla  forma  e  sullo  stile  artistico 
del  Basile. 


Dopo  questa  fortuna  avuta,  il  Cunto  de  li  C'unti  entrò 
a  far  parte  di  tutte  le  biblioteche  dei  folkloristi,  più 
spesso  nella  traduzione,  che  nelle  rare  edizioni  dell'ori- 
ginale napoletano,  e,  col  nome  del  Basile  o  del  Liebrecht, 
è  stato  ed  è  continuamente  citato. 

Due  anni  dopo,  se  ne  pubblicava  anche  una  traduzione 
inglese  con  questo  titolo:  The  Pentamerone,  or  The  story 
of  stories,  Fun  far  the  little  Ones,  hy  Giambattista  Ba- 
sile, translated  from  the  Neapoliian  hy  John  Eduard 
Taylor,  with  illustrations  hy  George  Cruikshank.  Tradu- 


1  Cita  a  questo  proposito  la  massima  del  Johnson;  Notes  are  often 
necessari/,  but  they  are  necessari/  evits  (o.  e,  II,  537). 

2  Kinlge  Bemerhungen  ilOer  den  neapolitanischen  Dlalcht  und  iles- 
sen  Literàtur,  so  ivie  ùber  Basile  insbesonders  (0.  e,  II,  280-338). 


INTRODUZIONE  CLVII 

zione  eccellente,  a  giudizio  del  Liebrecht,  che  però  non 
contiene  se  non  trentuna  fiabe,  perchè  le  altre  19  furono 
tralasciate  come  non  adatte  ai  fanciulli,  ai  quali  il  libro 
principalmente  si  dirige ^ 

Lo  stesso  Liebrecht,  nel  1851,  pubblicando  una  tradu- 
zione tedesca  dell'opera  già  citata  del  Dunlop,  e  anno- 
tandola largamente,  ne  prendeva  occasione  per  aggiun- 
gere, nelle  note,  una  serie  di  osservazioni  e  correzioni 
a  varii  punti  della  sua  traduzione  del  Canto  de  li  Cunti  ~. 

E,  in  Italia,  chi  ravvivò  la  fama  del  Basile  presso 
noi,  guardandolo  sotto  il  nuovo  aspetto,  fu  Vittorio  Im- 
briani,  il  quale  fu  anche  dei  primi  che  iniziasse  presso 
di  noi  gli  studii  di  letteratura  popolare.  Nel  1875,  nel 
Giornale  najjoletano  di  filosofia  e  lettere,  V  Imbriani  pub- 
blicava lo  studio  col  titolo:  Il  Gran  Basile.  Ma  l' Im- 
briani, veramente,  studiò  nel  Basile  piuttosto  l'artista 
che  il  folkloiHsfa,  0,  com'egli  avrebbe  voluto  che  si  di- 
cesse, il  demopsicologo. 

La  traduzione  bolognese  si  è  seguitata  a  ristampare 
ai  nostri  tempi,  ed  una  ristampa  ha  avuto  anche  l'orrida 
traduzione  italiana^;  e,  recentemente,  se  n'è  fatta  una 
nuova  scelta  e  traduzione,  0  meglio,  riduzione,  per  fan- 
ciulli, di  solo  diciotto  fiabe,  tratte  dalle  due  prime  gior- 
nate, per  cura  di  Giustino  Ferri*. 


*   DUNLOP-LlEBRECHT,   0.   0.,   p.   515. 

2  0.  c,  pp.  515-518.      3  V,  s.  p.  cxLri-iv. 

<  Gian  Alesio  Abbattutis  (Giambattista  Basile),  Fate  benefiche, 
racconti  per  i  bambini,  libera  versione  di  G.  L.  Ferri,  con  illustra- 
zioni di  E.  Mazzanti,  Firenze,  Paggi,  1889.  —  di  pp.  178. 


CLVIII  INTRODUZIONE 

Il  Basile  raccolse  le  sue  fiabe  direttamente  dal  popolo. 
La  freschezza  dei  suoi  racconti  manifesta  la  loro  diretta 
origine  popolare.  E,  poi,  quali  sarebbero  le  sue  fonti  let- 
terarie? Collo  Straparola,  egli  ha  comuni  solo  alcune 
fiabe.  Il  T.  Ili  della  G.  I  (Peruonto)  si  riscontra  con  la 
novella  I  della  III  notte  dello  Straparola.  Il  T.  IV  della 
G.  II  (Cagliuso)  con  quella  I  della  XI.  Il  T.  I  della 
G.  V  {Lilla  e  Leila)  Con  la  II  della  V.  Il  T.  VH  della 
G.  V  {Li  Cinco  Figlie)  con  la  V  della  VII.  Questi  riscon- 
tri notò  il  Grimm^;  ma  altre  ve  ne  sarebbero  da  ag- 
giungere. Cosi  nello  Straparola  (X,  3),  Cesarino  di  Berni 
che  '  libera  una  principessa  destinata  ad  esser  parto  d'un 
dragone;  e,  ucciso  il  mostro,  gli  spicca  la  lingua,  di  cui 
si  vale  in  seguito  contro  un  impudente  contadino,  che  si 
vantava  presso  il  re  di  essere  l'uccisore  del  drago  », 
di  tal  che  sposa  poi  la  principessa;  si  riscontra,  per  tutta 
questa  parte,  col  Cienzo  del  T.  VII,  G.  I,  del  Cunto  de 
li  Cnnti.  E  somiglianze  di  particolari  ìnotivi  non  mancano. 

Ma,  con  tutto  ciò,  la  conchiasione  del  Grimm  che: 
«  fa 'io  il  confronto,  si  vede  chiaro  che  il  Basile  scriveva 
indipendentemente  dallo  Straparola  »,  resta,  a  me  sem- 
bra, indubitata  e  indubitabile^. 

Alcuni  altri  riscontri  si  potrebbero  trovare  dì  fiabe  del 


1  Kinder  und  Hausmarchen,  III,  291.  Si  noti  però  che  dove  il 
Grimm  dice  X,  i,  bisogna  leggere  XI,  i,  e  il  risco'ntro  dello  Strapa- 
rola (VII,  5)  con  la  nov.  45,  del  Biisile,  cioè  5  della  V  giornata,  bi- 
sogna correggerlo:  nov.  47,  cioè  7  della  V  giornata. 

-  Kinder, und  Hausmarchen,  III,  291. 


INTEODUZIONE  f'hJX 

Basile  con  altre,  antecedentemente  messe  in  iscritto.  Cosi 
la  prima  parte  del  Vardiello  (I,  4)  è  precisamente  la  nO' 
velia  XLIX  del  Merlino:  De  maire,  quae  filium  custO' 
ditum  reliqidt^.  Ma  un  racconto  tanto  popolare,  come 
pensare  che  il  Basile  lo  desumesse  dal  Merlino  ?  E  come 
avrebbe  fatto  ad  atteggiarlo,  nell'espressione  e  nel  dia- 
logo, a  quel  modo  tutto  popolare,  se  non  era  il  popolo 
stesso  olle  glielo  dettava? 

Il  soggetto  del  T.  II,  Gr.  II  (Verde  prato),  è  questo: 
«  Nella  è  amata  da  no  prencepe,  lo  quale,  pe  no  connutto 
de  crestallo,  va  spesse  vote  a  godere  cod  essa.  Ma,  rutto 
lo  passo  da  le  midiose  de  le  sere,  se  taccareja  tutto,  e 
sta  nfine  de  morte.  Nella,  pe  strana  fortuna,  ntenne  lo 
remmedio,  che  se  pò  fare,  l'applecaalo  malato,  lo  sana, 
e  se  lo  piglia  pe  marito  ».  E  si  riscontra  di  tutto  ;)unto 
con  una  novella,  contenuta  neWAngitia  Cortigiana  de  na- 
tura del  cortigiano  (Roma,  MDCL),  di  M.  A.  Biondo,  e 
eh' è  riassunta  dal  Passano  a  questo  modo:  «  Narrasi 
come  un  gentiluomo,  chiamato  Pennaverde,  per  andare 
a  ritrovare  l'amata,  passasse  attraverso  un  tubo  di  cri- 
stallo; il  quale*  rotto  ad  arte  dalla  sorella  della  ganza, 
gli  lacerava  le  carni,  in  modo  da  condurlo  in  fin  di  vita, 
ed  in  qual  maniera  fosse  salvato  dall'amante  »  ^.  Ma  an- 
che questo  è  un  racconto  molto  popolare,  e  se  ne  cono- 
scono  numerose  versioni. 


1  H.  MoRLiNi,   Novellae,    Fabiilae,    Comoedia,  Parisiis,  MDGCGLV, 

PP.  94-5. 

2  PASSANO,  0.  c,  Torino,  1878  (erron.,   nel   cap.  prec,  Boi.,  1868), 
I,  50. 


CLX  INTRODUZIONE 

Un  riscontro,  che  dà  più  da  pensare,  è  quello  notato 
dal  Rua  tra  il  T.  IX  della  Gr.  Ili,  Rosella^  e  la  novella 
di  Filenia,  inserita  nel  C.  XXI  del  Mambriano,  Il  ri- 
scontro è  perfettissimo  in  ogni  particolare  (salvo  un  solo, 
di  poca  importanza),  e  l' ipotesi  dell'  imitazione,  fatta  dal 
Basile,  acquista  più  probabilità,  «  quando  si  osservi  che 
la  mancanza  nella  novella  del  Cieco,  e  anche  in  quella 
del  Basile,  di  alcuni  tratti  popolarissimi  e  comuni  a  tutte 
le  versioni,  fa  pensare  ad  un  rimaneggiamento  operato 
dal  poeta  nella  fiaba  popolare  »  ^  Checche  si  pensi  di 
ciò  (e,  in  verità,  anch'io  inclino  alla  conclusione  del 
Rua),  si  può  sempre  affermare  con  sicurezza  che  nel 
Ciinto  de  li  Curiti  la  corrente  letteraria,  se  non  fu  nulla, 
fu  tanto  piccola,  da  non  doverne  quasi  tener  conto, 

Circa  poi  alle  variazioni,  che  il  Basile  abbia  potuto  intro- 
durre nella  tradizione  popolare,  esse  consistono  quasi  sol- 
tanto in  ricami  formali,  e  appena,  qua  e  là,  si  sorprende 
qualche  particolare  di  sua  invenzione,  come  l'originalissima 
pittura  della  Casa  del  Tempo  nel  T.  VIII  della  G.  IV*. 


^  Rua,  Novelle  del  Mamhriano,  pp.  88-9. 

2  «  Nooppa  la  ciniina  de  chella  montagna  Irovarrai  no  scassone  de 
casa,  che  non  s'allecorda  da  quanuo  fu  fravecata:  le  mura  songo  se- 
sete,  le  pedaniente  fracete,  le  porte  carolate,  li  niobele  stantive,  e, 
nsomma.  ogni  cosa  conzoraata  e  destrutta.  Daccà  vide  colonne  rotte, 
dalla  statue  spezzate,  non  essennoce  autro  sano,  che  n'arma  sopra 
la  porta  quartiata,  dove  nce  vedarrai  no  serpe,  che  se  mozzeca  la 
coda,  no  ciervo,  no  cuorvo  e  na  fenice.  Gomme  si  trasuta  drinlo, 
vedarrai  pe  terra  lime  sorde,  serre,  fauce  e  potature,  e  ciento  e 
ciento  caudarellc  di  cennere,  co  li  nomme  scritte  corame  arvarelle 
de  ppoziiile;  dove  se  leggeno;  Corinto,  Sagunlo,  Cartagene,  Troja,  è 


INTRODUZIONE  CLXI 


La  ricca  messe  di  tradizioni  popolari,  raccolte  dal  Ba- 
sile, rientra  quasi  tutta  in  quel  genere  della  produzione 
novellistica  popolare,  che  più  propriamente  si  chiamano 
fiabe.  Di  certo,  classificazioni  logiche  e  profonde,  nel 
campo  della  novellistica,  non  sono  ancora  possibili;  ma 
la  distinzione  delle  fiabe  dalle  leggende  storiche  o  reli- 
giose, dagli  apologhi,  dalle  facezie,  e  anche,  dalle  semplici 
novelle,  è  cosa,  che  basta  enunciarla,  perchè  s'intenda. 

Di  trattenemienti,  che  non  sieno  fiabe,  nel  Cnnto  de  li 
Cunti  ve  ne  son  pochi.  Vi  è,  prima  di  tutto,  qualche 
novella  semplicemente  faceta.  Tal' è  quella,  intitolata  lo 
Compare  (II,  io),  nella  quale  si  racconta  come  «  Cola 
Jacovo  Aggrancato  ha  no  compare  alivento,  che  se  lo 
zuca  tutto,  né  potenno  co  arteficie  e  stratagemme  scra- 
staresillo  da  cucilo,  caccia  la  capo  da  lo  sacco,  e,  co 
male  parole,  lo  caccia  da  la  casa  ». 

n  T.  II  della  G.  IV  (Li  dui  fratielle)  è,  —  come 
disse  il  Grimm  — ,  piuttosto  una  novella  morale  {sieht 
eher  einem  Lehrgedicht  àhnlich).  Vi  si  narra  come  :  «  Mar- 
cuccio  e  Parmiero,  fratielle,  uno  ricco  e  viziuso,  n'autro 
vertoluso  e  pezzente,  se  vedono,  dapò  varie  fortune,  lo 
povero  scacciato  da  lo  ricco  deventato  barone,  e  lo  ricco, 
caduto  nmeseria,  connutto  vicino  la  forca.  Ma,  canosciuto 
nocente,  è  da  lo  frate  recevuto  a  parte  de  le  ricchezze 
soje  ». 


mille  autre  città  jute  all'acito;  le  quale  conserva  pe  memoria  de  le 
inprese  soje ». 


CLXn  INTRODUZIONE 

Qualche  altra  si  avvicina  piuttosto  alla  novella,  perche 
non  vi  è  mescolanza  di  persone  e  cose  meravigliose.  Cosi 
quella  di  Vardiello  (I,  4),  che,  «  essenno  bestiale,  dapò 
ciento  male  servizio  fatte  a  la  mamma,  le  perde  no  tuocco 
de  tela,  e,  volenno  scioccamente  recuperarela  da  na  sta- 
tola, deventa  ricco  ».  Cosi  l'altra,  la  Serva  cV agile  (III,  6), 
nella  quale  si  narra  di  Belluccia,  che,  travestita  da  uomo, 
va  a  trattenersi  in  casa  di  un  amico  di  suo  padre;  ed, 
essendosi  il  figlio  di  quest'ultimo  innamorato  di  Belluccia, 
cerca  di  scovrirla  per  donna,  quale  egli  tiene  per  l'ermo  che 
sia,  e,  dopo  varii  tentativi,  ci  riesce,  e  la  sposa.  Cosi 
la  Soperìjìa  castecata  (IV,  io),  che  racconta  come  un  re, 
disprezzato  da  Cinziella,  figlia  di  re,  giungesse  a  vendi- 
carsene, a  possederla,  a  ridurla  a  vita  miserabile,  finché, 
dopo  averla  abbassata  e  punita,  la  rialza  e  la  sposa.  Cosi 
la  Sapia  (V,  6),  che  narra  come:  «  Sapia,  figlia  de  na 
gran  baronessa,  fa  deventare  ommo  accuorto  CenzuUo, 
ch'era  figlio  de  lo  re,  che  non  poteva  capere  lettere.  Lo 
quale  pe  no  boflfettone  che  le  dette  Sapia,  volennose 
vennecare,  se  la  pegliajo  pe  mogliere,  e,  dapò  mille  stra- 
zio, avutone,  senza  sapere  cosa  nesciuua,  tre  figlie,  s'ac- 
cordano nsieme  ». 

Ma,  tutte  le  altre,  appartengono  al  regno  delle  fate  e 
degli  orchi.  Sono  strane  avventure,  con  la  cooperazione 
di  esseri  soprannaturali,  che  non  si  riattaccano  alle  cre- 
denze cristiane  del  popolo  che  le  racconta:  misteriose 
tradizioni,  che,  pel  popolo  stesso,  hanno  un  valore  tutto 
fantastico.  Una  parte  del  contenuto  di  esse  sono  passioni, 
avventure,  casi,  che  accadono,  più  0  meno  comunemente, 
nella  vita;  ma  le  relazioni  di  questi  fatti  vengono  tutte 


INTRODUZIONE  CLXIII 

alterate  dall'intrusione  di  quegli  esseri  meravigliosi,  e 
dal  concepire  il  meraviglioso  e  lo  strano  come  una  con- 
dizione normale  delle  cose. 

Passando  a  discorrere  degli  esseri  soprannaturali,  «  per 
quanto,  —  dice  il  Grimm  — ,  sia  grande  la  ricchezza  e  la 
varietà  di  queste  fiabe,  cosiccliè  ve  ne  sono  pochissime 
simili,  e  vi  si  vede  una  provvista  veramente  inesauribile 
degli  elementi  costitutivi;  tuttavia,  tutte  le  altre  leve 
mitiche  si  possono  metter  da  parte,  non  operando  in  esse 
se  non  due  sole  categorie  di  essei'i  soprannaturali.  Cioè, 
i  buoni  e  favorevoli,  che  sono  sempre  femminili,  e  i  cat- 
tivi e  sfavorevoli,  che  si  dividono  per  contrario  nei  due 
sessi,  e  quelli  si  chiamano  fate,  e  questi  ora  iierco,  ora 
orca.  La  fata  corrisponde  alla  gufe  o  weìse  Frati  e  Vuorco 
al  loilder  Mann  o  Riese  della  mitologia  tedesca E  no- 
tevole l'assenza  da  queste  fiabe  d'ogni  figura  cristiana: 
ne  Maria,  madre  del  Signore,  né  gli  angeli,  né  il  demo- 
nio v'hanno  una  parte,  o  c'entrano  in  alcun  modo,  lad- 
dove nelle  fiabe  tedesche  appaiono  spesso.  Evidente- 
mente, fata  e  uerco  hanno  origine  latina,  cioè  romana, 
e  sarebbe  stolto  attribuirne  loro  una  celtica  »  ^. 

Il  demonio  e  altri  esseri  maligni,  sono  nominati,  qua  e  là, 
in  modo  vago,  ma  non  compariscono  mai  con  personalità 
spiccata^.  Oltre  le  fate  e  gli  orchi,  s'incontrano  in  queste 


i  G.  Grimm,  Vorreda  cit.,  I,  X-XI.  —  Sulle  fate  e  gli  orchi,  cfr.  an- 
che Grimm,  Deutsche  Mythologie,  IV  ed.,  Berlin,  1875-8,  I,  capp.  XVI 
e  XVII,  e  spec,  pp.  340-3,  e  402. 

2  Cosi  III,  9,  la  Gran  Turchessa  muore  e  va  a  pagare  la  norma 
a  lo  mastro  che  l'aveva  mezzato  l'arte,  e  il  Gran  Turco  va  a  casa 
cauda  (inferno),  e  Rosella  si  fa  aHstiana,  ecc.  ecc. 


CLXIV  INTRODUZIONE 

fiabe,  alcune  personificazioni,  come  il  tempo,  i  mesi  (IV,  8, 
V,  2);  uomini  dotati  di  facoltà  meravigliose  (I,  5;  III,  8); 
animali  fatati,  come  un  asino  cacaure  (I,  i),  un  dragone 
(■f)  7)»  g^tti  (II,  4,  III,  io),  uno  scarafaggio,  un  topo  e  un 
grillo  (III,  5),  un  uccello  fatato  (IV,  5",  ecc.;  fate,  prin- 
cipi, orchi,  per  capriccio  o  per  destino,  sotto  spoglia  di 
un  animale,  0  anche  in  una  piantai  come  una  vioriella, 
ch'è  una  fata  (I,  2),  una  lucertola  (I,  8),  una  cerva  (I,  9), 
un  serpe  (II,  5),  colombi  (IV,  5);  oggetti  dotati  di  mira- 
bili qualità  :  come  un'erba  che  fa  risuscitare  i  morti  (I,  7), 
un  cuore  d'animale,  0  una  foglia  di  rosa,  che  fanno  in- 
gravidare (I,  9  ;  n,  8),  ghiande,  tovagliuoli,  bastoni,  a- 
uelli,  datteri  (II,  i;  I,  i;  III,  4;  IV,  i;  I,  6),  il  grasso 
della  volpe  0  di  un  orco  impiegati  come  rimedii  per  ma- 
lattie mortali  (II,  5;  II,  2);  finalmente,  maledizioni  di 
effetto  sicuro,  dalle  quali  è  diffìcile   redimersi  {Ntr.;  II, 

7;  in.  9). 

L'elemento  morale  è  il  solito  delle  fiabe,  coli' infalli- 
bilità distributiva  dei  premi  e  delle  pene,  secondo  le 
virtù  e  i  vizii,  non  senza  qualche  ferocia  di  procedimenti 
0  qualche  mancanza  di  scrupoli,  che  sono  caratteristici 
ricoi'di  di  un  mondo  passato. 


Ma  i  curiti  del  Basile  non  sono  proprietà  particolare 
del  volgo  napoletano,  dal  quale  egli  li  raccolse.  Le  varie 
raccolte  di  fiabe,  dei  varii  paesi  d'Europa,  e  non  solo 
d'Europa,  che  si  vennero  pubblicando,  rivelarono,  prima 
di  tutto,  questo  fatto:  la  comunanza  della  tradizione  no- 
vellistica tra  varii  e  lontani  paesi. 


INTRODUZIONE  CLXV 

E,  da  circa  un  secolo,  gli  studiosi  si  adoprano  a  notare 
queste  somiglianze,  a  raccogliere  e  classificare  i  varii 
racconti  e  i  varii  elementi  costitutivi  di  essi,  riunendoli 
in  famiglie  novellistiche,  e,  finalmente,  a  cercar  di  spie- 
garsi il  modo  dell'origine  e  la  ragione  della   comunanza. 

Ogni  raccolta  porge  nuovi  elementi  ad  arricchire  e  il- 
lustrar meglio  la  storia  dei  singoli  gruppi;  il  clie  è  la 
preparazione  necessaria,  per  risolvere  le  quistioni  più 
importanti,  della  natura  e  dell'origine. 

Il  Cunto  de  li  Canti  conserva  versioni  importanti  e, 
relativamente,  più  antiche,  di  molte  novelle  tipiche.  Ac- 
cenniamo rapidamente  ad  alcune  delle  principali  di  esse, 
e  alle  loro  relazioni  con  lo  altre  versioni,  come  un  saggio 
delle  osservazioni,  cui  può  dar  luogo  il  libro  del  Basile. 

E  noi  troveremo,  anzitutto,  che  varii  trattenemienti  ap- 
partengono al  gruppo  di  quella,  ch'è  la  fiaba  più  famosa  e 
più  ricca  di  storia,  la  fiaba  di  Psiche.  —  Cosi  il  nono  della 
G.  II,  nella  quale  si  racconta  di  Luciella,  che,  andando  ad 
attinger  acqua  a  una  fontana,  trova  uno  schiavo,  che  la 
invita  a  seguirlo,  promettendole  tante  belle  cose.  Luciella 
lo  segue,  per  una  grotta,  in  un  bellissimo  palazzo  sotto 
terra;  dove  è  riccamente  trattata  e  servita.  E  la  sera  si 
corica  a  un  letto,  tutto  racamato  de  perne  e  d'oro,  nel 
quale,  a  lume  spento,  le  si  viene  a  coricare  allato  un 
essere  sconosciuto.  Alcuni  giorni  dopo,  essa  ha  voglia  di 
rivedere  la  famiglia  e  le  sue  due  sorelle;  le  quali,  in- 
vidiose, le  mettono  in  mente  il  pensiero  di  scoprire  chi 
dorma  al  suo  lato.  E  le  consigliano  di  gettar  via,  la 
sera,  fingendo  di  berla,  la  bevanda,  o  sonnifero,  che  le 
porge  lo  schiavo,  e  vedere   cosi  il   marito   dormente,  e 


CLXVI  INTRODUZIONE 

le  danno  anche  un  catenaccio,  ch'essa  deve  aprire  per 
metter  fine  all'incanto.  Cosi  fa  Lnciella,  e  si  vede  ac- 
canto un  bellissimo  giovane.  Essa  apre  il  catenaccio, 
e  le  sfilano  davanti  varie  donne,  che  portavano  in  te- 
sta del  filato:  ad  una  delle  quali  cade  a  terra  una  ma- 
tassa. Luciella  le  grida  che  la  raccolga;  ed,  a  quella 
voce,  il  giovane  si  sveglia,  s'adira  dell'essere  stato  sco- 
perto, fa  rivestire  Luciella  dei  suoi  cenci,  e  la  manda  via. 
E  la  povera  Luciella  torna  a  casa  sua,  ed  è  scacciata 
dalle  sorelle,  e  va  girando  pel  mondo  finche,  dopo  lungo 
errare,  capita  al  palagio  di  un  re.  Qui  è  accolta  per  com- 
passione da  una  damigella  di  corte,  e  partorisce  im  bel- 
lissimo bambino.  Ma  la  notte,  mentre  tutti  dormono,  entra 
un  giovane,  che  dice  rivolto  a  quel  bambino  alcune  strane 
pai'ole.  La  damigella  ne  dà  avviso  alla  regina,  che  lo 
sorprende,  lo  riconosce  pel  suo  figlio,  l'abbraccia;  e,  con 
questo,  cessato  l'effetto  della  maledizione  avuta  da  un'orca, 
lo  riacquista;  e  il  principe  sposa  Luciella. 

Nel  T.  IV  della  G.  V,  Parmetella,  cercando  di  sradi- 
care no  tnrzo  d'oro  in  un  bosco,  ha  la  stessa  fortuna: 
un'abitazione  meravigliosa,  con  un  marito  misterioso, 
ch'essa  perde  per  la  curiosità  del  volerlo  vedere  di  notte. 
E  lo  riacquista,  dopo  grandi  tormenti  e  grandi  prove. 

Altri  particolari  della  stessa  fiaba  si  trovano  più  volte 
ripetuti:  l'invidia  delle  due  sorelle  ^11,  2,  3);  il  giovane, 
che,  scoverto,  fugge,  abbandonando  la  sua  sposa  (II,  5);  ecc. 

Come  si  sa,  le  versioni  di  questa  fiaba  sono  moltissime, 
e,  oltre  le  numerose  elaborazioni  letterarie*,  so  ne  cono- 


*  Cfr.    Psiche,   Poemetto,   e  l'Ozio  sepolto  e   V Olimpia,  Drammi  di 


INTRODUZIONE  CT.XVII 

scono  versioni  raccolte  recentemente  in  ogni  parte  d'Ita- 
lia, e  in  molti  altri  paesi  d'Europa. 

La  non  meno  celebre  fiaba  della  Cenerentola  è  rappre- 
sentata nel  Cunto  de  li  Canti  dalla  Zezolla  del  T.  VI 
della  G.  I.  La  quale,  dopo  avere,  ad  istigazione  di  una 
sua  maestra,  uccisa  la  madrigna,  e  persuaso  il  padre  a 
sposar  colei,  è  maltrattata  e  spregiata  dalla  nuova  ma- 
drigna e  dalle  figliuole,  cbe  porta  in  casa.  Ma  una  fata, 
ch.6  le  era  diventata  amica  e  protettrice,  le  manda  in 
dono  una  pianticella  fatata,  che  le  rende  possibile  di  tra- 
sformarsi come  vuole.  E  si  trasforma,  e,  splendidamente 
abbigliata,  va  alle  feste,  dove  vanno  le  sorelle,  e  inna- 
mora di  sé  un  principe;  il  quale,  finalmente,  giunto  a 
conoscerla,  per  mezzo  di  un  chianiello,  che  le  era  ca- 
duto nel  tornare  precipitosamente  a  casa,  la  fa  sua  sposa. 

Ed,  anche  di  questa,  le  versioni  sono  abbondantissime, 
e  basti  citare  la  famosa  Cendrillon  del  Perrault,  elabora- 
zione artistica,  che  dette  alle  fiabe  una  seconda  popolarità. 

Molti  altri  trattenemicnti  fanno  parte  di  quel  ciclo  dello 
sciocco  fortunato,  eh' è  uno  dei  più  ampii.  E  Antuono,  che 
ha  da  un  orco  tre  oggetti  fatati,  i  quali  perde  e  poi 
riacquista  (I,  i);  è  Peruonto,  che  riceve  la  fatazione  che 
ogni  suo  desiderio  sia  subito  recato  ad  effetto  (I,  3);  è 
Vardiello,  che  vende  la  tela  della  madre  ad  una  statua 
(I,  4)  ;  è  Nardiello,  che,  mandato  tre  volte  a  mercatare 
dal  padre,  compra  una  volta  un  topo,   un'altra   uno   sca- 


Francesco  Bracciolini  dell'Api,  con  prefazione  e  con  saggio  sull'ori- 
gine delle  novelle  popolari  di  Mario  Menghini,  Bologna,  Romagnoli, 
1889  {Scelta,  Disp.  CCXXXIV)  —  pp.  XCriI-CXXI. 


CLXVIII  INTRODUZIONE 

rafaggio  e  la  terza  un  grillo,  che  sono  poi  causa  della 
sua  fortuna  (III,  5);  è  il/oscjone,  che,  mandato  via  dal 
padre,  incontra  quattro  persone  diversamente  virtuoso, 
che  gli  fanno  acquistare  grandi  ricchezze  (III,  8).  —  La 
novella  dello  sciocco  si  racconta  in  India  come  in  Eus- 
sia,  in  Germania  come  in  Italia;  e  presso  di  noi  il  De 
Gubernatis  l' ha  fatta,  recentemente,  oggetto  di  un  suo 
studio  ^ 


Una  delle  fiabe  più  notevoli  della  raccolta  pareva  al 
Grimm  la  V  della  G.  V:  Sole,  Luna  e  Talia.  In  Ger- 
mania ò  questa  la  fiaba  di  Dornroschen:  «  Nasce  una 
figlia  a  un  re,  e  dodici  fate  sono  invitate  al  festino,  in- 
nanzi a  ciascuna  delle  quali  è  posto  un  piatto  d'oro. 
Quando  undici  di  esse  hanno  pronunciato  le  loro  fata- 
zioni,  entra  una  tredicesima,  non  invitata,  per  la  quale 
manca  il  piatto  d'oro.  E  questa  allora,  irritata,  annuncia 
che  la  bambina,  divenata  giovinetta,  si  pungerebbe  a 
morte  per  mezzo  di  un  fuso.  Ma  la  dodicesima  fata,  che 
non  aveva  ancora  parlato,  mitiga  la  maledizione,  dicendo 
che  la  giovinetta  sarebbe  solo  caduta  in  un  sonno  da 
durare  cento  anni.  Il  Re  fa  togliere  tutti  i  fusi  dal  suo 
reame;  ma,  quando  la  fanciulla  ha  raggiunto  i  quindici 
anni,  giunge  un  giorno  a  una  torre  cadente,  dove  una 
vecchia  fila;  la  curiosa  fanciulla  stende  la  mano  al  fuso; 
ma,  subito,  si  punge  0  cade  in  un  profondo  sonno.  Tutte 


•   *■  V.  storia  delle  novelline  ìwpolai'l,  Milano,  Iloepli,  1883,  pp.  61- 
87,  e  cfr.  Florilegio  delle  nov.  pop.,  pp.  139-156. 


INTRODUZIONE  CLXIX 

le  genti,  tutti  gli  animali  nel  castello,  financo  il  fuoco 
nella  cucina,  cominciano  a  dormire.  E,  intorno  al  castello, 
cresce  uno  spineto  cosi  folto,  che  nessuno  può  penetrarvi. 
Dopo  molti  anni  giunge  un  liberatore  ».  L'attinenza  di 
questa  fiaba,  —  dice  il  Grimm  — ,  col  mito  di  Brunilde 
è  evidente.  «  Lo  stesso  nome:  Dornroschen,  riconduce 
alla  spina,  colla  quale  Odino  punge  la  valchiria  Brunilde, 
e  la  immerge  in  un  profondo  sonno.  Chiusa  nell'elmo,  e 
nella  corazza,  dorme  la  valchiria,  in  una  stanza  inacces- 
sibile e  circondata  di  fiamme,  sul  monte  Hindar.  Era  ri- 
serbato a  Sigurd  di  rompere  i  suoi  legami,  cioè  di  trarre 
fuori  la  spina;  dopo  di  che,  la  sposa.  Ed  è  da  notare  che, 
se  essa  è  chiamata  Horgfn,  lini  datrix,  ciò  si  potrebbe 
intendere  qui  piuttosto  nel  senso  di  filatrix,  perchè  tutte 
le  valchirie  e  le  parche  filano  ». 

In  Francia,  è  la  fiaba  della  Belle  au  bois  dormant. 
Anche  la  fiaba  francese  comincia  colla  scena  del  batte- 
simo, cui  intervengono  le  fate,  e  continua  come  nel  Dorn- 
roschen; solo  che  le  genti  e  gli  animali  si  addormentano 
non  da  sé  stessi,  ma  al  tocco  della  bacchetta  della  fata. 
Dopo  cento  anni,  giunge  un  figlio  di  re  ;  gli  alberi  gli 
fanno  largo;  va  alla  bella,  s'inchina,  e  la  sveglia.  Passa 
due  anni  con  lei,  che  gli  partorisce  una  figlia,  Atirore,  e 
un  figlio,  Jour,  e  la  fine  della  fiaba  racconta  la  perse- 
cuzione della  vecchia  regina  contro  questi  due  bambini, 
e  come  vengano  salvati. 

Nel  ciinto  del  Basile,  manca  la  scena  dell'invito  delle 
fate  e  dell'ira  di  una  di  esse:  vengono  solo  i  succienti 
e  nevine^  e  predicono  la  morte  per  mezzo  di  un'  aresta 
de  lino.  Quest'introduzione  si   trova  invece  in   un   altro 


CLXX  INTKODUZIONE 

cunto:  neirVIII  della  G.  II,  dove  si  racconta  che  Leila 
fa  una  figlia:  «  a  la  quale  puosto  nomme  Lisa,  la  man- 
naje  a  le  fate;  la  quale  ognuna  le  dette  la  fatazione 
soja  ;  ma  l'utema  de  clielle,  volenno  correre  a  vedere  sta 
peccerella,  sbotatose  desastrosamente  lo  pede,  pe  lo  do- 
lore la  jastemmaje  :  che  a  le  sette  anne,  pettenannole  la 
mamma,  se  le  scordasse  lo  pettene  drinto  a  li  capille 
mpizzato  a  la  capo,  de  la  quale  cosa  moresse  ».  E  la 
fiaba  ha  altri  punti  di  somiglianza  con  quella  di  Sole, 
Ltina  e  Talia. 

Il  re  padre  prende  ogni  sorta  di  precauzione,  perchè  non 
ci  sia  una  sola  conocchia  nel  castello.  Ma  un  giorno,  Talia 
vede  passare  una  vecchia  che  fila,  vuol  vedere  la  conoc- 
chia, si  punge  e  muore.  Il  padre  la  fa  collocare  su  di 
un  trono,  e  abbandona  il  palazzo.  Ma,  qualche  tempo  dopo, 
a  un  re,  che  va  a  caccia,  per  quei  luoghi,  sfugge  un  fal- 
cone, che  vola  a  posarsi  su  una  delle  finestre  del  castello 
abbandonato.  Il  re  batte  alla  porta:  nessuno  risponde.  En- 
tra, e  trova  Talia  addormentata.  E,  invaghito  della  sua 
bellezza,  cosi,  addormentata,  egli  la  gode,  e  se  ne  ri- 
parte. Dopo  nove  mesi,  Talia,  sempre  addormeùtata,  par- 
torisce due  figli,  che  due  fate  le  pongono  al  petto.  Ma 
una  volta  che  i  bambini  non  riescono  a  trovare  il  petto 
materno,  le  prendono  il  dito,  e  succhiano,  e  le  traggono 
Varesla,  ed  ecco,  Talia  si  sveglia.  Il  Re  torna  qualche 
tempo  dopo;  trova  i  due  bambini.  Sole  e  Luna,  e  pro- 
mette di  venire  a  ripigliarli.  Ma  la  Regina  penetra  la 
cosa;  e  cerca  (come  nella  fiaba  francese)  di  fare  ammaz- 
zare e  cucinare  i  due  bambini:  il  che  le  riesce  vano. 

«  Ciò   che   mi   sembra   più  notevole,  —  conchiude    il 


INTRODUZIONE  CTAXI 

Grimm  — ,  è  il  falcone,  che  volando  indica  il  castello  ; 
perchè  egualmente  nel  Vdlsiingara,  cap.  24,  quando  Si- 
gurdo  si  avvicina  a  Brunilde,  fugge  il  suo  sparviere 
nella  torre,  e  si  pone  alla  finestra,  e  Sigurdo  lo  perse- 
guita, e  trova  la  valchiria  dormente:  qui  i  due  racconti, 
nel  resto  differenti,  sono  simili  -  in  modo  sorprendente. 
Anche  la  gelosia  della  regina  per  Talia  indica  una  rela- 
zione simile  a  quella  tra  Gudrun  e  Brunilde,  e  il  sonno  di 
Talia  nel  castello,  è,  di  tutto  punto,  il  sonno  della  val- 
chiria. È  bello  il  tratto  che  i  due  fanciulli  poppanti  le 
traggano  dal  dito  Varesta  col  succhiare  :  i  nomi  dei  fan- 
ciulli presi  dai  giorni  e  dagli  astri  sembrano  tradire  es- 
seri divini  del  paganesimo  »  *. 


Un  altro  riscontro  nelle  tradizioni  mitologiche  germa- 
niche, ritrovano  i  Grimm  nel  T.  V  della  G.  IV.  Ivi  si 
racconta  di  un  re  di  Anta  Marina,  che  aveva  fatto  forza 
a  una  giovane,  e  poi  l'aveva  fatta  murare  in  uno  stretto 
carcere.  La  giovane  è  protetta  da  un  uccello,  eh' è  una 
fata  :  la  quale  la  nutrisce,  e  ne  piglia  cura.  E,  quando  si 
sgrava  di  un  bambino,  l'uccello  fa  in  maniera  che  il  bam- 
bino esca  dal  carcere,  capiti  nelle  cucine  del  re,  e  sia 
poi  chiamato  in  corte.  Il  re  gli  mette  amore,  ma  la  re- 
gina non  può  soffrirlo,  e  persuade  il  re  a  chiedergli  va- 
rie cose  impossibili,  e  a  mandarlo  a  varii  pericoli,  dai  quali 


i  I.  Grimm,  Torrede,  1.  e,  I,  pp.  XII-XVI.  Per  questa  e  per  le  due 
novelle  seguenti,  ho  esposto,  e  qua  e  là  tradotto  alla  lettera,  ciò  che 
ne  scrissero  i  Grimm. 


CLXXII  INTRODUZIONE 

riesce  sempre  incolume,  e  con  onoi*e,  per  l'aiuto  dell'uc- 
cello. Gli  chiede  tre  castelli  in  aria,  e  l'uccello  li  fa  fare 
di  cartone,  e  trasportare  in  aria  da  tre  grifi.  Gli  chiede 
che  vada  ad  accecare  una  maga,  che  s'era  impadronita 
del  suo  regno,  e  l'uccello  fa  compiei-e  l'opera  da  una 
rondine.  Gli  chiede,  infine,  che  vada  ad  uccidere  un  gran 
dragone,  fratello  della  regina;  e  Miuccio,  con  un'erba  da- 
tagli dall'uccello,  addormenta  il  dragone,  e  poi  l'ammazza. 
Con  la  morte  del  dragone  muore  la  regina,  la  cui  vita 
era  collegata  alla  vita  di  quello,  e  dovrebbe  essere  ba- 
gnata nel  sangue  del  dragone  per  risuscitare.  Ma,  in 
questo,  Miuccio  riconosce  sua  madre,  e  il  re  la  piglia 
moglie,  e  l'uccello  si  muta  in  una  bellissima  giovane, 
che  sposa  Miuccio,  e  la  regina  morta  resta  morta. 

Le  somiglianze  di  questa  fiaba  con  la  leggenda  di  Sieg- 
fried, —  dicono  i  Grimm  — ,  sono  evidenti.  «  La  nascita 
segreta  del  bambino,  il  basso  servigio  presso  il  cuoco,  ri- 
cordano la  fanciullezza  di  Siegfried.  Poi  la  vediamo  aiu- 
tato da  un  uccello,  che  ci  ricorda  quegli  uccelli,  la  cui 
lingua  Siegfried  conosce,  e  dai  quali  riceve  ed  accetta 
consigli.  La  regina  adirata  si  riscontra  con  Brunilde,  e 
nel  tempo  stesso  con  Reigen,  ch'è  quello  che  spinge 
Siegfried  alla  lotta  col  dragone.  Il  dragone  è  anche  qui 
fratello  della  regina,  e  la  vita  dell'uno  legata  a  quella 
dell'altro.  Essa  vuol  essere  bagnata  nel  suo  sangue,  come 
Reigen  chiede  il  sangue  del  cuore  di  Fafner  »  ^ 


'  Grimm,  Kinder  und  Hausmarchen,  IH,  292-3. 


INTRODUZIONE  CLXXIII 


La  fiaba  del  Cìiat  Botte,  —  una  delle  fiabe  più  antiche 
j  e  fondamentali,  Jdice  il  Grimm  — ,  è  rappresentata  nel 
Cunto  dell'i  Ctin'ti  da  Cagliuso  (II,  4).  Gli  stivali  appaiono 
nella  versione  francese,  e  :sono  un  tratto  molto  grazioso, 
ma  non  essenziale.  La  versione  più  antica  è  quella  dello 
Straparola  (XI,  i).  Una  donna,  madre  di  tre  figliuoli,  ve- 
nendo a  morte,  lascia  al  primo  dei  figli  un  alhurlo,  al 
secondo  una  panara,  e  al  terzo  una  gatta  soriana.  I  due 
primi,  col  prestare  i  due  oggetti,  trovano  il  modo  di  ti- 
rare innanzi  la  vita;  non  cosi  il  terzo,  Costantino,  colla 
sua  povera  gatta.  Ma  la  gatta  era  fatata,  e  prende  a 
proteggere  Costantino.  Uccide,  per  esempio,  una  lepre 
e  la  porta  al  re,  come  dono  del  suo  padrone  :  il  re  le  fa 
assai  accoglienze,  le  dà  da  mangiare  e  da  bere;  ed  essa 
riempie  la  sua  bisaccia  ed  approvvigiona  Costantino.  Poi, 
un  giorno,  lo  fa  gittare  nel  fiume,  presso  il  palazzo  reale, 
e  grida  all'aiuto  :  il  Re  manda  gente  ad  aiutarlo,  e  la 
gatta,  con  una  vera  simulazione  di  reato,  racconta  che 
era  stato  assalito  da  alcuni  ladroni  e  spogliato  delle  sue 
gioie.  Costantino  è  fatto  rivestire,  ed  è  riccamente  re- 
galato. E  il  re,  nella  credenza  che  colui  fosse  un  gran 
signore,  gli  dà  la  figliuola  per  moglie.  Partono  gli  sposi, 
e  la  gatta  li  precede,  e,  con  un  suo  stratagemma,  fa 
dire  a  tutta  la  gente  dei  luoghi,  pei  quali  passa  la  co- 
mitiva, che  quelle  sono  terre  di  Messer  Costantino.  Fi- 
nalmente, lo  conduce  a  un  bel  castello,  del  quale,  per  lo 
stesso  stratagemma,  lo  dice  signore.  Ed,  essendo  morto. 


CLXXIV  INTRODUZIONE 

per  avventura,  il  vero  padrone  del  castello,  Costantino 
vi  resta  colla  figlia  del  re  felicemente.  Muore  poi  anche 
il  re,  e  Costantino  gli  succede  sul  trono. 

Nel  Cagliuso  del  Basile  ci  è  qualche  differenza:  manca 
l'incidente  della  caduta  nel  fiume,  ch'è  sostituito  da  un 
invito  del  re,  e  da  un'  andata  al  palazzo  reale.  E  il  fi- 
nale è  diverso  :  Cagliuso  promette  alla  gati^a,  che,  alla 
sua  morte,  la  farebbe  imbalsamare,  e  la  metterebbe  in 
una  gabbia  d'oro,  e  la  terrebbe  sempre  nella  sua  stanza. 
La  gatta,  qualche  giorno  dopo,  si  getta  a  terra,  e  si 
finge  morta;  ma  l'ingrato  Cagliuso,  quando  ha  notizia  di 
quella  morte,  dice:  «  Pigliala  pe  no  pede,  e  jettala  pe 
la  fenestra!  »  Onde  la  gatta,  fattogli  un  gran  rimpro- 
vero, gli  volta  le  spalle  e  lo  abbandona! 

Molte  versioni,  raccolte  recentemente,  s'avvicinano  a 
questa;  cosi  alcune  toscane,  livornesi,  siciliane,  abbruz- 
zesi  ^  Nel  Ee  Messémiglihecca- I-fumo,  nella  Novellala  fio- 
rentina dell' Imbriani,.  è  solo  mutato  il  finale,  nel  quale 
il  beneficato  dalla  gatta  paga  la  pena  della  sua  ingrati- 
tudine, e,  sparito  il  castello,  si  ritrova  nella  sua  cantina 
colla  sposa  accanto,  e  senza  aver  da  mangiare,  né  nulla. 

Nei  Contes  del  Perrault,  il  gatto  richiede  un  paio  di 
stivali  al  suo  padroncino,  calzato  dei  quali  compie  le  sue 
imprese,  e  finisce  coU'acquistargli  il  castello  di  un  Orco, 
che  aveva  persuaso  a  trasformarsi  in  un  topo,  e,  subito, 
divorato. 

Il  Grimm  riferisco  anche  una  fiaba  norvegese,  nella 
quale  si  riscontrano  entrambe  lo  parti,  dei  regali  portati 


*  V.  cit.  in  PiTRÈ,  Novelle  pop.  toso.,  n.  XII,  La  Golpe. 


INTRODUZIONE  CLXXV 

al  re  in  nome  del  suo  padrone,  e  del  viaggio  attraverso 
terre  altrui,  che  la  gatta  fa  passare  per  terre  di  lui.  An- 
che in  questa  poi,  la  gatta  s'introduce  nel  castello  di 
di  un  Troll;  e,  quando  il  Troll  sopraggiunge,  lo  tiene  a 
bada  con  discorsi  fuori  la  porta,  finché  apparisce  il  sole, 
e  il  Troll  scoppia.  Infine,  la  gatta  chiede  al  suo  padron- 
cino che  le  tagli  la  testa.  —  Non  sia  mai  !  — ,  dice  que- 
sti. —  Tagliami  la  testa,  se  no,  ti  cavo  gli  occhi!  — 
Malvolentieri  le  taglia  la  testa.  E  la  gatta  diviene  una 
bellissima  Principessa,  ch'egli  prende  per  moglie  ^ 


Al  gruppo  della  novellina  della  Fanciulla  dalle  mani 
tronche  si  riconnettono  due  cunti.  La  Penta  Manomozza 
(III,  2)  racconta  di  un  re  che,  rimasto  vedovo,  vuol  pren- 
dere per  moglie  sua  sorella,  Penta.  Anche  nel  T.  VI  della 
G.  Il  si  ha  l'amore  incestuoso  di  un  re  vedovo,  al  quale 
la  moglie  morente  aveva  fatto  promettere  di  non  pren- 
dere per  moglie  se  non  una  donna  bella  come  lei  :  il  Re 
non  trova  di  pari  bellezza  se  non  la  propria  figlia,  e  vuole 
sposarla;  ma  questa,  per  un  legnetto  fatato  che  ha  da 
una  vecchia,  si  trasforma  in  un'orsa,  e  gli  sfugge.  Ma,  tor- 
nando a  Penta,  essa,  sapendo  che  il  fratello  s'era  spe- 
cialmente invaghito  delle  sue  mani,  se  le  fa  tagliare  e 
gliele  manda  in  un  bacile.  Il  re,  adirato,  la  fa  mettere 
in  una  cassa  impeciata  e  gittare  a  mare.  La  cassa  è  ti- 
rata a  riva  da  certi  marinai,  ma  la  moglie  d'uno  di  que- 


1  I.  Grimm,   Vù-rrede,  1.  e,  pp.  XVI-XXII. 


CLXXVI  DìTEODUZIONE 

Bti,  per  gelosia,  rinchiude  di  nuovo  Penta  nella  cassa  e  la 
gitta  a  mare.  La  raccoglie  il  re  di  Terraverde,  che  conduce 
Penta  alla  sua  corte  ;  e,  venuta  poi  a  morte  la  regina,  la 
sposa.  Parte  il  re  per  un  viaggio  :  Penta,  intanto,  partori- 
sce un  bel  bambino.  11  messaggiero,  che  portava  la  notizia 
al  re,  capita  a  quella  stessa  riva,  e  in  casa  di  quella  stessa 
femmina,  che  aveva  gittate  Penta  a  mare  la  seconda  volta. 
La  malvagia  donna  scambia  la  lettera,  in  modo  che  giunga 
alla  corte  un  falso  ordine  del  re,  che  si  bruci  la  madre 
e  il  bambino.  Invece,  per  compassione,  i  consiglieri  la 
cacciano  soltanto,  e  Penta  va  raminga.  Finalmente,  capita 
alla  casa  di  un  mago,  che  la  piglia  a  proteggere.  E  ban- 
disce che  chi  venisse  a  lui  e  potesse  raccontare  la  più 
grande  sventura,  avrebbe  avuto  una  corona  e  uno  scettro. 
Il  re  fratello  di  Penta,  e  il  re  marito,  il  quale  aveva 
scoperto,  frattanto,  tutto  l'inganno,  vengono  insieme  e 
raccontano  le  loro  storie  innanzi  al  mago.  E  Penta  è  ri- 
conosciuta, e  si  concilia  col  fratello,  ed  è  ripresa  dal 
marito. 

È  noto  che  questa  novellina  fa  parte  di  un  intero  ciclo, 
ch'è  stato  studiato  principalmente  dal  D'Ancona,  dal  Wes- 
selofsky,  dal  Puymaigre.  E  se  ne  sono  passate  a  rassegna 
le  varianti  e  i  riscontri  che  se  ne  hanno  nel  romanzo  fran- 
cese del  secolo  XIIT,  la  Manekine,  nell'italiana  Rappre- 
sentazione di  S.  Uliva,  nella  Storia  della  figlia  del  Re 
di  Dacia,  nel  Victorial  di  Dias  de  Games,  ecc.  ecc.  Que- 
sto ciclo  ha  tre  diramazioni.  Le  versioni  della  prima  con- 
tengono il  racconto  dell'amore  incestuoso  del  padre,  delle 
mani  tagliate,  del  gittamonto  a  maro,  e  del  matrimonio 
di  Penta;  e  continuano  con  le  persecuzioni  di  questa  per 


INTRODUZIONE  CLXXVII 

opera  della  madrigna,  o  di  altra  donna.  Le  versioni  dellg, 
seconda  contengono  solo  la  storia  di  queste  persecuzioni, 
frangiate  di  molte  varianti.  Le  versioni  della  terza  non 
contengono  più  la  storia  dell'amore  incestuoso,  e  l'ampu- 
tazione delle  mani  ha  in  esse  cause  diverse  ^ 


In  questi  gruppi  internazionali,  è  facile  fare  rientrare 
lo  fiabe  del  Basile.  Ma,  formati  questi  gruppi,  sorge  la 
domanda:  Qual'è  l'origine  della  tale  o  tal'altra  novellina 
tipica?  Anzi,  qual'è  l'origine  delle  novelline  popolari  in 
generale?  E  come  si  spiega  la  comunanza  di  esse  tra 
varii  popoli? 

Nel  cercar  di  rispondere  a  queste  domande  si  assom- 
mano tutti  gli  sforzi  della  novellistica  comparata,  E  le 
risposte,  date  finora,  sono  state  varie  ipotesi,  più  o  meno 
confortate  da  un  certo  numero  di  fatti.  E  sono  note  le 
varie  scuole,  che  ora  disputano  in  questo  campo:  la  scuola 
mitica,  fondata  dai  Grimm,  che  conta  fra  i  suoi  sosteni- 
tori il  Max  Mùller,  la  quale  vuole  che  le  fiabe  sieno  puri 
miti,  frammenti  dell'antica  mitologia  aria,  personifica- 
zioni di  fenomeni  naturali,  specie  del  sole  e  dell'alba, 
patrimonio  recato  con  sé  dai  popoli  arii  in  Europa;  la 
scuola  storica,  che  ha  per  capi  il  Benfey  e  il  Koehler, 
la  quale  nega  alle  fiabe  un  senso  mitico  e  vuole  che  sieno 
pervenute  dall'Asia  in  Europa  per  varii   canali  letterarii 


^  Db  Puvmaigre,  Folklore,  Paris,  Perrin,  1885,  pp.  253-775  l^<^  fitte 
aux  raains  cottpées.  Gfr.  i  lavori  del  D'Ancona  e  del  Wesselofsky, 
dai  quali  prende  le  mosse  il  De  Puymaigre. 


CL  XXVIII  INTRODUZIONE 

e  popolari,  durante  il  medioevo;  e  la  recente  scuola  an- 
tropologica  di  Andrew  Lang  e  suoi  seguaci,  che,  consi- 
derando le  fiabe  come  sopravvivenze  dell'antico  stato 
selvaggio  del  genere  umano,  ne  sostiene  il  poligenismo. 
E  non  mancano  tentativi  eclettici,  di  conciliazione,  fra  le 
varie  scuole. 

Si  potrebbero  mostrare  queste  varie  scuole  alle  prese, 
in  particolari  esempii,  come  per  la  novellina  di  Psiche, 
0  per  la  Cenerentola,  o  per  la  Fancixdla  dalle  mani  tron- 
che. In  Psiche  clii  vuol  riconoscere  un  mito  solare,  come 
ha  fatto  il  nostro  De  Gubernatis^,  chi  una  semplice  tra- 
smissione di  una  novella  popolare  indiana,  come  ha  fatto 
il  Cosquin,  seguace  della  scuola  storica,  e  chi  il  ricordo 
di  un  antico  rito,  caduto  in  disuso,  secondo  il  quale  alla 
donna  non  era  permesso  di  veder  nudo  suo  marito  '^.  —  An- 
che nella  Cenerentola,  il  De  Gubernatis,  rappresentante  ita- 
liano (alquanto  avventato,  mi  sembra),  della  scuola  mi- 
tica, scopre  un  mito  solare:  l'ombra  della  notte,  che  co- 
pro colla  cenere  del  suo  colore  il  fuoco  del  solo^.  Ma 
altri  ne  ricerca  la  provenienza  storica;  il  Coote,  dopo 
avere  affermata  la  trasmissione  di  essa  dall'Italia  agli 
altri  paesi  d'Europa,  crede,  tuttavia,  che  l'Italia  la  to- 
gliesse dalla  Grecia  ;  il  Kestner  trova  traccia  della  Cene- 
rentola in  una  leggenda  che  riferisce  Eliano  (II  s.  d.  C.) 
intorno  a  Rodope,  e  mette  innanzi  l' ipotesi  che  alla  Grecia 
potesse  essere  venuta  dall'  Egitto  '.  —  La  Fanciulla  dalle 


1  storia  delle  Novelline  pop.,  pp.  254-82. 

2  MENOiiiNf,  0.  e,  pref.        ^  0.  e,  pp.  9-34. 

'*  Arch.  si.  trad.  j^opol.,  I,  (1882),  pp.  265-7,  Hknry  GiiArliìs  Coote, 


INTRODUZIONE  CLXXIX 

mani  tronche  è  spiegata  dal  Wesselofsky  col  sistema  mi- 
tico: «  la  regina  che  muore  è  la  dea  dell'estate,  che  fi- 
nisce; la  figliuola,  è  l'anno  futuro;  il  padre,  il  Dio  Wuo- 
tan;  il  cacciatore,  che  scopre  la  fuggitiva,  l'inverno;  le 
mani  tronche  sono  le  foglie  che  cadono  dagli  alberi,  che 
rinascono  appena  tocche  dalle  acque  vivificatrici,  ecc.  ». 
Ma  altri  osserverà:  «  J'avoue  que  je  ne  crois  pas  du  toufc 
à  ce  mythe  »  e  tenterà  un'altra  spiegazione  ^. 

La  controversia  diventa  più  viva  e  più  grave,  quando 
dai  singoli  casi  si  passa  ad  indagare  l'origine  e  la  natura 
di  tutto  l'insieme  delle  novelline  popolari.  Anche  qui,  co- 
me in  tutti  i  rami  degli  studii,  le  ultime  conclusioni,  pro- 
prio quelle  che  più  importano,  sono,  e  saranno  abbando- 
nate chi  sa  per  quanto  !,  a  una  continua  disputa. 


Origine  della  Cenerentola;  II,  (1883),  pp.  345-52,  Hermann  Kestner, 
La  Cenerentola,  studii  di  letteratura  comparata. 
^  Dk  Puymaigre,  0.  e,  p.  274, 


VI. 

ni  questa  edizione. 

Il  Olinto  de  li  Ciinti  non  è  stato  ristampato,  da  più  Ai 
un  secolo,  nel  dialetto  napoletano  (dall'edizione  del  Por- 
celli in  poi),  e  da  due  secoli  e  mezzo  nello  schietto  testo 
originale.  È  evidente  che,  volendo  ristamparlo,  bisogni 
tornare  alla  prima  edizione  del  1634-6,  eh' è  quella,  dalla 
quale  derivano,  per  una  serie  di  correzioni  arbitrarie, 
tutte  le  altre  ^ 

Gli  è  ciò  appunto,  che,  come  abbiamo  visto,  professò 
di  voler  fare,  ma  solo  parzialmente,  per  ciò  che  riguar- 
dava l'ortografia,  il  Sarnelli.  L'Oliva,  combattendo  que- 
sto criterio  del  Sarnelli,  faceva  alcune  obiezioni,  che  si 
potrebbero  ripetere  anche  ora,  dopo  più  di  due  secoli, 
alla  nostra  edizione:  «  Com'egli  sa  che  tale  fosse  l'orto- 
grafia del  Basile,  se  poi,  spiegandosi,  si  contraddice? 
Mentre  soggiunge:  azzoè  comme  Veggio  trovato  allo privi- 
mo  livro  che  fu  stampato  a  ghiornata  a  ghiornata  se- 
cunno  che  ghievano  ascenno.  S'egli  s'è  regolato  dal  pri- 
mo libro,  stampato  a  staccio  da  diversi  stampatori,  come 
dice  essere  l'ortografia  dell'autore?  Ognuno  ben  sa  quanto 


*  Ne  ho  avuto  solf  occhio,  come  ho  detto  sopra,  l'esemplare  (il 
solo  ch'io  ne  conosca),  esistente  nella  nibl.  Naz.  di  Torino,  segn. 
F.  Vili,  14;  del  quale  trovai  l'indicazione  nell'o.  e.  del  Rua,  Novelle 
del  Manibriano,  p.  29,  n. 


INTRODUZIONT-:  CLXXXI 

sieno  scorretti  quei  libri,  clie  in  tal  guisa,  ed  a  furia,  per 
l'ingordigia  del  guadagno,  s'imprimono  dagli  stampatori, 
e  specialmente  diversi.  S'egli  l'avesse  corretto  secondo 
l'originale  dell'autore,  o  secondo  quel  libro  corretto  dal- 
l'autore, potrebbe  dire  d'averlo  lasciato  nella  di  lui  orto- 
grafia. Ma,  non  avendolo  fatto,  come  l'alliga  in  testo?  » 
Se  il  Basile  avesse  scritto  cosi,  non  avrebbe  scritto  bene  ; 
e,  se  non  aveva  scritto  bene,  l'obbligo  del  suo  editore 
non  era  di  ristamparlo  materialmente,  ma  di  correggerlo, 
«  non  dico  già  nelle  parole  e  senso,  ma  nell'ortografia, 
dove  manifesta  ragione  lo  ricercava;  essendo  tale  l'ob- 
bligo dei  revisori  delle  stampe,  né  ciò  ragionevolmente 
deve  spiacere  agli  autori,  quando  altri  con  modestia  ri- 
forma ciocché  per  inavvertenza  o  poca  osservanza  nel 
principio  delle  cose  si  tralascia  »  K 

Ma  l'edizione,  fatta  da  diversi  stampatori  del  1634-6, 
se  non  fu  ricorretta  dal  Basile,  fu  certo  eseguita  sui  suoi 
manoscritti  autografi;  né  apparisce  che  l'editore  abbia 
fatto  dei  cangiamenti;  né  la  stampa,  in  verità,  può  dirsi 
troppo  scorretta.  E,  se  anche  non  fosse  cosi,  e'  è  poco  da 
scegliere.  Più  corretti,  e,  specialmente,  più  uniformi,  sono 
i  due  volumetti  colla  data  del  1637,  ma  non  contengono 
se  non  le  due  sole  prime  giornate,  e  si  resta  incerti  sulla 
giustificazione  delle  correzioni  fatte,  quantunque  qualcuna 
di  esse,  (che  abbiamo  adottata),  sembri  accennare  a  un 
riscontro  del  manoscritto  originale^.  Cosicché,  quella  del 


i  Fr.  Oliva,  Gramm.,  Ms.  e,  p.  46. 
2  Cfr.  pp.  5,  198,  218,  di  questo  volume. 


CLXXXII  INTRODUZIONE 

1634-6,  se  non  rappresenta  il  massimo  bene,  rappresenta, 
certo,  il  minor  male;  e  bisogna  necessariamente  pren- 
derla a  base  della  nuova  edizione. 

Quanto  alle  negligenze,  che  potevano  esservi  nel  ma- 
noscritto del  Basile,  e  che  l'Oliva  credeva  obbligo  dello 
editore  ricorrBggere,  conviene  andar  piano.  Di  questi  er- 
rori, o  negligenze,  possono  farsi  due  categorie:  quelli, 
che  sono  praticati  costantemente,  e  quelli,  che  consistono 
in  discrepanze  e  varietà  di  forme  0  di  ortografia.  I  primi, 
per  quanto  si  sia  convinti  che  sieno  errori  di  lingua  0 
di  ortografia,  non  si  possono  toccare,  perchè  fanno  parte 
integrante  dell'individualità  dello  scrittore ^  I  secondi 
meriterebbero  un  diverso  trattamento.  Ma  (questo  è  il 
punto!),  si  può  esser  sicuri  che  sieno  un  puro  effetto  di 
negligenza?  E,  dato  questo,  si  può  procedere  con  certezza 
nel  rimettere  le  cose  a  loro  posto?  Il  Basile,  come  il 
Cortese,  non  scrivevano  un  dialetto  già  letterariamente 
formato  e  definito,  ma  un  dialetto,  ch'essi  andavano  crean- 
do come  lingua  letteraria,  nella  sua  grammatica  0  nella 
sua  ortografia.  E,  nello  opere  del  Cortese,  stampate  lui 
vivente  e  da  lui  rivedute,  l'Oliva  stesso  ritrovava  varietà 
e  discrepanza,  che  destavano  la  sua  meraviglia'"^.  Inoltre, 


1  Per  es.:  il  Basile  e  il  Cortese  usano  molto  di  rado  la  lettera 
doppia  in  principio  di  parola,  tralasciandola  in  moltissimi  casi,  nei 
quali  il  dialetto  la  richiede.  Sarà  un  errore,  ma  non  è  il  caso  di 
correggerlo  nelle  loro  opere.  Lo  corresse  il  Porcelli  nella  sua  edi- 
zione, e  lo  corresse  male;  cosicché  quell'edizione  né  è  dialettalmente 
esatta,  né  ha  il  merito  di  esser  fedele  agli  originali,  che  ristampa. 

2  Ms.  e,  p.  44. 


INTRODUZIONE  CLXXXIH 

ciò  che  pare  errore,  non  è  invece,  spesso  una  semplice 
nostra  ignoranza?  In  questi  dubbii,  il  meglio  è  di  non 
altei'are  nulla,  fornendo  al  lettore  ed  allo  studioso  tutti 
gli  elementi  necessarii  pel  suo  giudizio.  Qualche  erroruc- 
cio,  che  si  poteva  correggere,  è  un  piccolo  male,  in  con- 
fronto del  male  che,  forse,  si  farebbe  col  sopprimei-e 
forme,  che  potrebbero  importare  al  filologo,  per  la  storia 
del  dialetto,  o  per  lo  studio  della  parola.  Alle  negligenze 
del  testo  lasciate  intatte  può  rimediare  facilmente  da  sé  il 
lettore  intelligente;  ma  per  restituire  il  testo  vero,  alte- 
rato dalla  smania  del  correggere,  bisognerebbe  procurarsi 
l'edizione  originale,  ch'è  cosa  tutt'altro  che  facile. 


Per  queste  ragioni,  io  ho  seguito  l'edizione  del  1634-6, 
senza  alterare  0  correggere  nulla,  tranne  qualche  evidente 
errore  di  stampa,  e  accettando,  qua  e  là,  come  con'e- 
zione,  qualche  variante  tratta  dall'edizione  parziale  del 
1637,  0  dalle  correzioni  del  Sarnelli,  come  ho  sempre  no- 
tato. Ho  conservato  finanche  le  anomalie  e  le  varietà  or- 
tografiche; cosicché  si  troverà,  per  es.,  a  lo,  e  allo,  ctiorpo 
e  cuerpo,  uorco  ed  ricreo,  dinto,  drinto  e  dintro,  Giar- 
dino e  giardino,  doi,  dui  e  dite,  ecc.  ecc.,  per  quanto 
alcune  di  queste  varietà  propenda  anch'io  a  crederle  ef- 
fetto della  negligenza  dello  autore  o  del  correttore. 

I  soli  cangiamenti,  fatti  da  me,  sono  i  seguenti:  ho 
tolto  gli  h  inutili;  ho  diviso  i  nessi  alo,  delo,  al'  in  a 
lo,  de  loj  a  V,  ecc;  ho  cangiato  il  nesso  ti  in  zi,  quando 
si  pronuncia  come  tale  ;  ho  conservato  l'uso  tipografico 
dell'j  tra   due  vocali,  solito  in  tutte  lo  edizioni  del  Ba- 


CLXXXIV  INTRODUZIONE 

sile  da  quella  del  Muzio  in  poi,  e  negli  scrittori  dialettali; 
ho  riformato  a  mio  modo  l'uso  delle  lettere  minuscole  e 
maiuscole,  usando  il  meno  possibile  di  queste,  laddove 
nel  testo  ce  n'era  un  subisso. 

Ho  rispettato  il  sh,  che  si  trova  nel  Cortese  e  nel  Ba- 
sile per  indicare  il  suono  sibilante  dello  se  seguito  da  vo- 
cale, come  in  shioshiare.  —  Viceversa,  ho  abolito  gli  apo- 
strofi, indicanti  aferesi,  che  talvolta  il  Basile  adopera  a 
principio  di  parola.  Questo  sistema,  che  muove  dal  concetto 
di  considerare  molti  vocaboli  dialettali  come  manchevoli 
0  corrotti,  rispetto  a  quelli  della  lingua  italiana,  è  stato 
seguito  anche,  applicandolo  con  molto  rigore,  dai  recenti 
scrittori  e  trascrittori  del  nostro  dialetto,  capo  dei  quali 
Vittorio  Imbriani.  Ora  la  convinzione,  nella  quale  io  sono 
venuto,  è  che  questo  sia  un  sistema  sbagliato  ^  Tuttavia, 
malgrado  questa  mia  convinzione,  io  avrei  conservato  gli 
apostrofi  indicanti  aferesi  a  principio  di  parola,  se  nel 
tosto  del  Basile  l'uso  di  essi  fosse  stato  costante  '^.  Il  che 
non  è;  l'uso  di  essi  vi  è,  anzi,  raro,  saltuario,  illogico. 
E,  se  da  una  parte,  conservare  questo  capriccio  ora  una 
vera  superstizione,  dall'altra,  non  potevo  estendere  e  ap- 


1  Cfr.  G,  Capone,  TJ ortografia  del  dialetto  napol.^  in  Giamh.  Bo- 
xile,' Ardi,  di  Icttcr.  poxiol.,  A.  II  (1884),  n.  5;  al  quale  mi  sottoscrivo. 

*  Il  Sarnelli  disconobbe  del  liiUo  la  ragione  di  questi  apostrofi,  e 
quando  mostrò  di  credere  che  il  Basile  «  scagno  de  le  doje  inni, 
doje  nn,..,  a  chelle  parole  però  che  non  l'hanno  pe  natura  loro,  nce 
ave  puosto  no  cierto  segno,  che  no  grieco  lo  chiammarria  spireto, 
azzò  che  nce  dassero  chella  bottecella,  che  chissà  nce  vonno  dare  co 
tanta  mm,  e  tanta  nn  •  (Avv.  di  Masillo  Reppone,  all'ed.  1674).  Una 
critica  vigorosa  fa  su  questo  punto  l'Oliva,  tris,  e,  pp.  44-56. 


INTRODUZIONE  CLXXXV 

plicare  regolarmente  un  sistema,  che  a  me  sembra  erro- 
neo e  di  malsicura  applicazione.  Ho  creduto  bene,  dun- 
que, sopprimere  tutti  gli  apostrofi,  che  dovrebbero  indi- 
care troncamenti  del  genere  anzidetto.  Quindi,  non  'ncop- 
pa,  ma  ncoppa;  non  'nc'era,  ma  nc'era^. 

Finalmente,  ho  rifatto  tutta  la  punteggiatura,  che  nelle 
edizioni  antiche  del  Cunto  de  li  Cunti  era,  come  s'è  già 
detto,  orribile.  E  non  solo  l'ho  rifatta  nell'interno  del 
periodo,  ma  ho  anche,  spessissimo,  messo  punti  fermi,  di- 
videndo i  periodi,  dove  l'edizioni  antiche  avevano,  sem- 
plicemente, punti  e  virgole,  o,  anche,  virgole. 


Passiamo  alle  note.  Di  note,  io  ne  ho  messe  di  due 
generi:  storiche  e  filologiche.  Le  prime  servono  a  spie- 
gare le  allusioni  a  cose  e  costumi  popolari,  o  napoletani, 
di  quel  tempo,  che  son  molte,  e  formano  una  delle  dif- 
ficoltà dell'intelligenza  di  quel  testo.  Le  altre  sono  di- 
rette a  diradare  le  molte  oscurità  linguistiche  di  un'opera 
scritta  in  dialetto,  e,  specialmente,  in  un  dialetto  come 
questo  del  Basile,  dov'  è  continua  la  ricerca  di  parole 
strane  e  l'intenzione  di  sfoggiare  la  ricchezza  della  ter- 
minologia dialettale,  e  eh' è,  di  più,  abbastanza  antico  e 
svecchiato.  Anche  un  napoletano,  che  conosca  bene  il 
parlare  del  volgo  napoletano,  moltissime  volte  non  intende 
il  Cunto  de  li  Cunti.  D'altra  parte,  di  buoni  vocabolarii 
napoletani  finora  non  ce  ne  sono,  perchè  quello,  eccellente. 


*  Ecco  un  caso,  per  esempio,  nel  quale  l'apostrofo  innanzi  a  ^nc'era, 
è  erroneo,  o,  almeno,  molto  dubbio. 


CLXXXVI  INTRODUZIONE 

del  Rocco  è  appena  ai  primi  fascicoli^;  e,  inoltre,  non 
è  facile  averne  uno  a  propria  disposizione,  nò  è  comodo 
svolgerlo  a  ogni  pie  sospinto.  Per  tutte  queste  ragioni, 
ho  voluto  spiegare  tutte  le  parole  o  forme  napoletane, 
che  un  italiano  colto  non  intenderebbe  facilmente.  E  ho 
tenuto  questo  modo:  di  spiegare  la  parola  o  la  forma 
napoletana,  una  sola  volta,  la  prima  che  capiti,  suppo- 
nendo, come  dovevo,  che  il  lettore  legga  da  principio,  e 
impari  man  mano  i  significati  dei  vocaboli,  che  ignora. 
Tuttavia,  per  ricordo  o  per  chi  voglia  leggere  di  per 
mezzo,  ho  riimito  tutti  i  vocaboli  spiegati,  in  fine  del  se- 
condo volume,  in  forma  di  glossarietto.  —  Soggiungo  che 
non  mi  è  parso  che  questo  fosse  il  luogo  di  entrare  in 
discussioni  etimologiche  o  morfologiche,  restringendomi, 
nelle  note,  al  puro  accertamento  del  significato. 


Tra  le  illustrazioni,  che  richiedeva  il  Cunto  de  li  Curiti, 
molti  penseranno  che  la  principale  dovesse  essere  l'indi- 
care i  riscontri  delle  novelle,  in  esso  contenute.  Ora,  su 
questo  punto,  io  ho  ragionato  cosi.  I  cinquanta  curiti  del 
libro  sono  tutti,  o  quasi  tutti,  di  genere  fiabesco,  e  la 
fonte  dalla  quale  sono  tratti  è  una  sola:  la  tradizione  po- 
polare. E,  presso  la  tradizione  popolare  si  ritrovano  an- 
cora vivi  ;  e  quasi  tutti  io  ricordo  d'averli  sentiti  raccon- 


1  ottimo  anche  è  quello  dell'Anclreoli,  ma  è  vocabolario  dell'uso 
vivente,  non  storico,  e  serve  più  per  uq  napoletano,  elio  voglia  scri- 
vere bene  l' italiano,  anziché  per  un  lettore,  che  voglia  intendere  un 
tfisto-  napoletano  antico. 


INTRODUZIONE  CLXXXVII 

tare  da  bambino,  e  chi  ha  una  qualche  pratica  delle  mol- 
tissime raccolte  di  fiabe,  pubblicate  in  questi  ultimi  de- 
cennii  in  Italia  e  fuori,  vede  a  primo  tratto  che  vi  si 
ritrovano  sparsi  tutti,  o  integralmente,  o  nei  loro  elementi. 
E,  anche  quando  non  se  ne  ripescassero  i  riscontri,  nes- 
suno potrebbe  mai  dubitare  della  loro  indole  e  origine 
popolare.  H  provarne,  dunque,  la  popolarità  coi  riscontri 
sarebbe,  a  dir  vero,  una  dimostrazione  superflua. 

Certo,  oltre  questa  prova  generica  della  popolarità,  i 
riscontri  dovrebbero  menare  a  un  altro  risultato;  allo  stu- 
dio, cioè,  dei  singoli  gruppi  fiabeschi,  e,  quello  che  im- 
porta anche  più,  della  loro  origine,  mitologica  o  storica 
o  antropologica,  che  sia.  Ma  questo  studio  non  può  farsi 
per  incidente,  a  proposito  del  Cunto  de  li  Cunti.  Questo 
libro  è  uno  dei  documenti  da  consultarsi,  uno  dei  tanti, 
quantunque  uno  dei  più  importanti.  Lo  studioso  di  novel- 
listica interrogherà  questa  testimonianza,  e  le  tante  altre, 
e  tirerà  le  conclusioni,  che  potrà,  rispetto  all'origine  e 
alla  diffusione  delle  novelline  popolari:  studio  importan- 
tissimo, ma  che  oltrepassa  il  libro  del  Basile,  e  sarebbe 
strano  il  fare  a  proposito  di  esso. 

Resta,  dunque,  una  sola  ragione  a  giustificare  l'uso  del 
notare,  caso  per  caso,  libro  per  libro,  i  riscontri  delle 
novelle  :  l'agevolezza,  che  ne  viene  allo  studioso,  col  met- 
tergli sott'occhio  buona  parte  della  letteratura  di  ciascun 
tema,  e  coli' indicargli  un  buon  numero  delle  relazioni, 
che  deve  tener  presenti  per  le  sue  conclusioni. 

Sotto  questo  rispetto,  penso  anch'io  che,  i  riscontri 
non  siano  del  tutto  inutili;  ed  ho  aggiunto  perciò,  in  fine 
a  ciascun  volume,  una  Tavola  di  riscontri,  fatta  per  som- 


CLXXXVIII  INTRODUZIONE 

mi  capi,  dei  cnnti  del  Basile  in  esso  contenuti,  con  le 
novelle  popolari  pubblicate  in  altre  raccolte  italiane;  e, 
in  questo,  ho  adottato  il  criterio  stabilito  dall'illustre  Pi- 
trè^  Solo,  ho  aggiunto,  di  versioni  straniere,  i  riscontri 
coi  Contes  del  Perrault,  e  tutti  quelli  con  le  fiabe  tede- 
sche, ch'erano  stati  già  ricacciati  dai  Grimm,  Si  noti 
anche  che  non  ho  voluto  dare  l'indicazione  delle  varie 
versioni  di  ciascuna  fiaba,  ma  semplicemente  indicare  i 
libri,  nei  quali  le  notizie  di  queste  varie  versioni  sono 
raccolte:  salvo  qualche  piccola  aggiunta,  che  ho  fatta 
esplicitamente. 


Conchiudendo:  i  lavori  moderni  sul  Cunto  de  li  Cunti 
consistevano  nella  bella  traduzione  tedesca  del  Liebrecht, 
e  nell'acuto  e  arguto  studio  di  Vittorio  Imbriani.  Dopo 
aver  letto  questi  due  lavori,  a  me  parve  che  restassero 
da  fare  le  seguenti  cose:  a)  ristampare  il  testo  genuino 
del  Basile;  h)  annotarlo,  spiegando  le  allusioni  storiche 
e  il  non  facile  dialetto;  e)  rifare  con  nuove  ricerche  la 
vita  del  Basile,  della  quale  pochissimo  dissero  gli  anti- 
chi biografi,  e  poco  raccolse  l' Imbriani  nel  suo  studio; 
<ì)  mettere  le  opere  napoletane  del  Basilo  in  relazione 
colle  altre  opere  scritte  in  quel  tempo  in  dialetto  napo- 
letano, e  ricercare  la  natura  del  fiorire  della  letteratura 
dialettale  a  principio  del  secolo  XVII. 

Circa  allo  studio  letterario  o  estetico,  ora  quella  la 
parte  meglio   riuscita   e  più  salda   dello   scritto  dell' Im- 


*  Fiabe  sic,  I,  p.  XXXV. 


INTRODUZIONE  CLXXXIX 

briani  ;  e,  senza  rifare  il  già  fatto,  era  solo  necessario 
compierlo  di  alcune  parti,  alle  quali  egli  non  aveva  ri- 
volto la  sua  attenzione.  Circa  allo  studio  novellistico, 
lio  detto  quale  sia  la  mia  opinione,  e  perciò  dovevo  li- 
mitarmi a  raccogliere  nella  prefazione  alcuni  accenni  del 
Grimm  e  di  altri  mitografi,  al  solo  scopo  di  servire  di 
orientazione  al  lettore,  e  a  dare  una  tavola  di  riscontri 
che  mettesse  in  relazione  i  cunti  del  Basile  colle  novelle 
delle  altre  principali  raccolte. 

Questi  mi  son  parsi   i  miei  doveri   d'editore,  e   questi 
ho  cercato  d'adempiere,  come  meglio  ho  potuto  ^ 

Napoli,  dicembre  1890. 

Benedetto  Croce. 


i  Manifesto  tutta  la  mia  gratitudine  al  eh.  Prof.  Rocco,  che  m'ha 
aiutato  a  spiegare  non  poche  parole  e  frasi  difficili  del  N.,  comuni- 
candomi, secondo  la  mia  richiesta,  ciò  che  ne  aveva  scritto  in  quella 
parte  del  suo  prezioso  Vocabolario,  che  non  è  ancora  stampata. 


ILLUSTRAZIONI  E  DOCUMENTI. 


A. 
PATRIA. 

Il  Basile  in  un  brano  autobiografico  delle  Avventwose  disavven- 
ture (III,  i),  la  cui  scena  è  Posilipo,  dice: 

Saprai,  dunque,  che  in  prima  io  gli  occhi  apersi 
In  questa  lìvopria  riva  al  chiaro  giorno. 

Affermazione  molto  chiara  ed  esplicita.  Ma  il  1715  un  Fulvio  Se- 
bastiano Santoro  della  terra  di  Giugliano,  in  un  certo  suo  libro, 
dava  per  fatto  che  il  Basile  fosse  nato  a  Giugliano,  paesello  a  cin- 
que miglia  da  Napoli  sulla  via  d'Aversa^.  E,  tra  gli  uomini  illustri 
di  Giugliano,  lo  annoverava  Agostino  Basile  nelle  sue  Memorie  sto- 
riche della  terra  di  Giugliano^;  seguito  poi  da  varii  altri. 

Ma  Vittorio  Imbriani  gettò  il  dubbio  su  quest'affermazione,  e  fa- 
ceva notare  che  il  Basile,  che  pure  mette  le  scene  dei  suoi  racconti 
in  non  so  quanti  paesucoli  dei  contorni  di  Napoli,  non  nomina  mai 
Giugliano,  come  pur  sarebbe  naturale,  se  fosse  quella  la  sua  patria 3. 

L'affermazione  della  nascita  a  Giugliano  è  sorta,  secondo  me,  per 
un  equivoco.  Il  Basile  morì  e  fu  sepolto  a  Giugliano.  Ora  il  Santoro, 
che  fu  il  primo  a  mettere  innanzi  quell'affermazione-,  suppose  che 
fosse  nativo  di  Giugliano  dal  fatto  ch'ivi  era  sepolto.  Le  sue  parole 


i  Scola  di  canto  fermo,  ecc.  Nap,,  MDCGXV,  p.  92  —  cit.  da  L.  Mo- 
LiNARO  DEL  Chiaro,  Giambattista  Basile,  nel  Gia/inb.  Basile,  Ardi. 
di  lett.  pop.,  A,  n  n.  3  (15  marzo  1884). 

2  Nap.,  MDCCG  -  p.  151.        3  0.  e.  I,  40-3. 


CXCII  INTEODUZIONE 

sono:  «  I  principali  di  questa  terra  amano  dopo  morte  farvi  seppel- 
lire i  di  loro  corpi,  che,  per  non  fastidirvi  nel  nominare  le  persone 

più  illustri,  dirò  solamente che  Giovan  Battista  Basile....  giace  sotto 

il  pulpito  del  medesimo  tempio  sepolto  ».  Ma  il  Santoro  non  aveva 
letto  la  nota  del  libro  dei  defunti,  dalla  quale  appare  che  il  Basile 
morì  a  Giugliano,  mentre  era  nel  suo  ufficio  di  governatore,  e  morì 
sine  electlone  sepvUurae. 

Agostino  Basile  poi  aveva  presente,  probabilmente,  il  Santoro,  o  fa- 
ceva lo  stesso  ragionamento.  E  l'uno  e  l'altro  furono  forse  confer- 
mati nel  loro  errore  dal  vedersi  intorno  in  Giugliano  tante  famiglie 
di  cognome  Basile. 

Ma  nell'Archivio  di  Slato  si  conservano  i  fuochi,  ossia  censimenti, 
di  Giugliano,  del  1545,  1561,  1595,  1642-3,  ecc.;  che  io  ho  allenta- 
raente  riscontrati.  Nessuna  delle  moltissime  famiglie  Basile,  ivi  no- 
tate, si  confronta  con  quella  che  doveva  essere  la  famiglia  del  no- 
stro Giambattista.  Nel  1595  (n.  415,  438),  c'è  anche  un  Giovan  Bat- 
tista Basile,  di  anni  15;  ma  padre,  madre,  fratelli,  sorelle,  sono  di- 
versi. E,  se  questo  non  bastasse,  si  consideri  anche  che  il  Basile, 
se  fu  governatore  di  Giugliano,  non  poteva  essere  nativo  di  quel 
luogo:  perchè  i  governatori,  com'è  nolo,  non  potevano  essere  pae- 
sani. Legge,  che,  veramente,  soffriva  qualche  violazione;  ma  che 
non  per  questo  non  pesa  come  un  indizio  di  più  contro  la  nascita 
giuglianesca  del  Basile. 

Che  cosa  resta,  dunque?  —  Resta  il  verso: 

In  questa  propria  riva  al  chiaro  giorno  : 

e  se  il  Basile  non  mentiva  (del  che  per  verità  non  veggo  la  ragio- 
ne); e  se  conosceva  il  valore  delle  parole,  possiamo  affermare,  sulla 
sua  affermazione,  ch'egli  nacque  a  Posilipo,  o,  se  si  vuole,  a  Napoli  *. 


1  Nella  G.  Ili,  8,  parlando  dello  Zefiro,  il  Basile  ricorda:  «  Shio- 
shiaje  mprimmo  soave  soave,  che  pareva  lo  viento,  che  spira  a  Po- 
sileco  vierzo  la  sera  ». 


INTRODUZIONE  CXCIII 

B. 

DATA    Dt   NASCITA. 

Non  si  ha  nessuna  notizia  esplicita  sulla  data  della  nascita  del 
Basile.  Io  l'ho  perseguitato  nei  varii  luoghi,  dove  lo  sbalestrò  la  sua 
vita  avventurosa,  colla  speranza  di  vederne  riportata  una  volta  l'età. 
E  ho  riscontrato  i  fuochi  di  Zuncoli,  Cariati,  Lagoaegro,  Aversa;  ma 
invano;  perchè  questi  censimenti  non  caddero  mai  negli  anni,  nei 
(juali  il  Basile  si  trovava  in  quei  luoghi. 

E,  anche  a  fare  congetture,  ci  troviamo  imbrogliati;  perchè  i  passi 
delle  opere  del  Basile,  sui  quali  potremmo  fondarci,  si  contradicono. 
Nel  brano  autobiografico,  già  citato,  delle  Avventurose  disavventure, 
egli  racconta  che 

Nel  mezzo  del  camin  di  nostra  vita 

si  dette  agli  studii  di  poesia;  ma,  provata  avversa  la  sorte  in  Napoli, 
ne  uscì,  e  andò  peregrinando  per  l'Italia,  si  recò  a  Venezia,  e,  fi- 
nalmente, a  Cnndia,  come  militare;  finché  tornò  poi,  vecchio  infermo, 

La  'ndi  giù  mossi  più  robusto  il  piede  *. 

Il  mezzo  del  cammino  della  vita,  secondo  la  comune  accettazione, 
sono  i  35  anni.  E  in  questo  tempo,  sarebbe  dovuto  partire  da  Na- 
poli. E,  giacché  nel  1607  stava  ancora  a  Gandia,  e  nel  1608  era  tor- 
nato a  Napoli,  supponendo  a  dir  poco,  cinque  anni  di  peregrinazioni, 
dovremmo  dedurne  che  nel  1608  avesse  intorno  ai  qiiaranta  anni, 
e  che  fosse  nato  tra  il  1568  e  1570. 

Ma  ecco  che,  in  un  punto  d'un  altro  suo  libro,  egli,  parlando  del 
tempo  che  giunse  in  Candia,  accenna  «■  alle  tempeste  che  nei  primi 
anni  della  sua  giovinezza  gli  mosse  ingiuriosa  fortuna  »  2.  Ora,  come 
conciliare  i  primi  anni  della  sua  giovinezza,  coi  35  anni,  che  avrebbe 
dovuto  avere,  quando  lasciò  Napoli? 


1  Avvent.  disavvent.,  1.  e.        -  Ode,  p.  36. 


CXCIV  INTRODUZIONE 

E  non  basta.  Nel  1608  egli  stampò  a  Napoli  \m  poemetto,  intitolato 
Jl  Pianto  della  Vergine.  Di  questo  poemetto  fece  una  seconda  e*di- 
zione  a  Mantova  nel  1613;  e  lo  stampatore  diceva  che  questo  poe- 
metto fu  mandato  alla  luce  la  prima  volta  «  quasi  nella  fanciullezza 
dell'autore  ».  E  colle  stesse  frasi,  l'editore  napoletano  delle  Avven- 
turose disavventure,  nel  161 1,  accennava  alle  opere  antecedenti  del 
Basile,  stampate  nel  1608  e  1609.  —  Ora  come,  se  intorno  a  quel 
tempo  doveva  avere,  a  dir  poco,  quaranta  anni,  poteva  essere  negli 
anni  della  fanciullezza? 

Per  questa  via,  dunque,  non  si  giunge  a  nulla.  Ma  forse  può  con- 
chiudersi qualche  cosa  per  un'altra  via. 

Il  Cortese  dice  in  un  suo  poema  d'essere  stato  amico  del  Basile 
fin  da  fanciullo: 

Che  la  fortuna  amico  me  facette. 
Da  che  jcva  a  la  scola,  peccerillo  1. 

Amico,  dunque,  e,  parrebbe,  compagno  di  scuola.  Ora  queste  ami- 
cizie non  nascono  se  non  fra  coetanei.  Determinato  l'anno  di  nascita 
del  Cortese,  si  verrebbe  a  determinare,  approssimativamente,  quello 
del  Basile. 

Ma  il  guaio  è  che  anche  la  data  di  nascita  del  Cortese  è  tutfaltro 
che  sicura.  Se  non  che,  il  suo  nome  è  sui  registri  dei  laureati  del- 
l'Università di  Napoli  all'anno  1597^.  La  laurea  in  legge  si  doveva 
prendere  a  21  anni,  e  diffìcilmente  si  prendeva  più  tardi,  0  di  poco. 
Il  Cortese  sarebbe,  dunque,  nato  intorno  al  1576.  E,  intorno  allo  stesso 
tempo,  il  nostro  Basile. 

A  questa  età  ci  riconduco  anche  ciò  che  sappiamo  della  data  della 
nascita  di  sua  sorella,  Adriana.  La  quale  nel  1615  trattava  un  raa- 
Iriraonio  per  un  suo  figlio,  e,  nel  1619,  questo  giovane  sposava  una 


*   Viaggio  di  Parnaso,  IV,  40. 

2  L.  Settembrini,  Le  carte  della  scuola  di  Salerno  e  gli  autografi 
d' Ulustri  napoletani  laureali  nell'Università  di  Napoli,  Nuova  An- 
tologia, 1874,  voi.  xxri,  pp.  951-2. 


INTRODUZIONE  CXCV 

ragazza  della  casa  baronale  dei  Bonifali*.  Dal  che  parrebbe  che  l'A- 
driana non  potesse  nascere  molto  tempo  dopo  il  1580.  Ma  neanche 
molto  prima,  perchè  nel  1625  sappiamo  che  faceva  ancora  dei  figli*. 
Dunque,  intorno  al  1580. 


Famiglia  del  Basile. 

L'Imbriani  scrive:  «  Una  sua  bisnonna  {del  Basile),  la  nonna  di  suo 
zio,  si  chiamava  Chiarella  Usciolo,  perchè  dice  nel  Pentamerone:  le 
cose  che  soleva  contareme  chella  bona  arma  de  zia  Chiarella  Vu- 
sciolo,  vava  de  ziemo,  che  Dio  Vhaggia  ngrolia!  »  (II,  i)3. 

Ora  queste  parole  sono  messe  in  bocca  a  Zeza,  una  delle  vecchie 
novellatrici,  e  Chiarella  Vusciolo  è,  evidentemente,  un  nome  fanta- 
stico. Cosi  nella  G.  I,  Tr.  IX,  Ciommetella  racconta  una  novella,  «  che 
me  soleva  contare  vava  Semmonella,  ch'haggia  recola!  ».  E  tanto  è 
vero  questo  che  lo  Sgruttendio,  nella  Tiorba  a  taccone,  comincia 
una  sua  poesia: 

Me  deceva  chelVarma  benedetta 

De  Zia  Chiarella  Vusciolo  la  sera, 

Quanno  a  la  cemmenera 

Stèvamo  attuorno  tutte  quante  nchietta....  ■* 

Bisogna,  dunque,  prima  di  tutto,  cancellare  questi  Usciolo  dalla 
parentela  dei  Basile. 

Delle  sorelle  del  Basile,  Adriana,  Vittoria  e  Margherita,  come  an- 
che dei  fratelli,  Lelio  e  Francesco,  abbondano  le  notizie,  specialmente 
nei  documenti,  raccolti  dall'AdemoUo.  È  curioso  che  Domizio  Bom- 
barda, nel  Teatro  delle  glorie,  scriva  che  Francesco  Basile  era  cu- 
gino  dell'Adriana  e  Giambattista  =  :   il  che  è  apertamente   smentito 


^  Ademollo,  0.  e,  pp.  207,  246.        2  ademollo,  0.  e,  p.  291. 
3  iMBRiANi,  l.  c,  I,  38-9.        ■*  Ed.  Porcelli.  —  p.  199. 
5  Nap.,  1628,  p.  6. 


CXCVI  INTRODUZIONE 

dalle  tesUraonianze  dei  tanti  docuinenli.  Lo  slesso  Bombarda  accenna 
all'altro  fratello,  Giuseppe,  «  nella  Fiandra,  per  le  molte  virtù  che 
l'adornano,  da  quell'Altezza  d'Austria  in  grande  stima  tenuto  ».  K 
Giambattista,  dedicando  nel  1618  le  Osservationi  intorno  alle  rime 
del  Bembo  e  del  Casa  a  Marco  Scitico  Altemps,  Arcivescovo  e  Prin- 
cipe di  Salzburg,  parlava  dei  «  favori,  ch'ella  s'è  degnata  fare  alla 
mia  casa  nella  persona  di  mio  fratello  ».  Era  un  altro,  0  il  fratello 
Giuseppe*? 

Infine,  dev'essere  incorso  in  errore  a  un  punto  dell'opera  dell'Ade- 
mollo,  dove  si  parla  di  un  Daniele  Basile,  come  padre  di  Giambattista. 
Daniele  era,  invece,  il  cognome  della  madre 2.  il  Basile,  nell'introdu- 
zione d'una  delle  sue  odi,  parla  del  P.  Alfonso  Daniele,  «  per  vincolo 
di  sangue  all'autor  congiunto  »3.  E  l'editore  della  seconda  edizione 
del  Cunto  de  li  Cunti  dedica  al  P.  Daniele  l'opera  del  Basile,  «  cu- 
gino di  V.  0.  »  *. 


Lettere  inedite  del  Basile. 

-V  quella,  riportata  per  esleso  a  suo  luogo  (v,  p.  XXXIX-XL),  biso- 
gna aggiungere  le  seguenti  tre,  che  ho  semplicemente  citate  (pp.  XL, 
XLI,  LII).  Come  ho  già  avvertito,  sono  tratte  dall'Archivio  di  Man- 
tova, e  dirette  le  due  prime  al  Duca  Ferdinando  Gonzaga,  e  la  terza 
al  Duca  Vincenzo: 


1  Da  una  delle  lettere  napoletane  del  Basile,  eh' è  dedicala  a  lo 
sellemo  geneto  de  Messere,  zoè  fraterno  carnale,  lo  chiù  strillo  pa- 
rente, che  stace  a  Cosenza,  parrebbe  che  il  Basile  avesse  un  set- 
limo  fratello,  che  stava  a  Cosenza.  Ma  quelle  lettere  sono  così  enim- 
matiche  ed  oscure  in  tanti  punti,  ch'io  non  saprei  che  fondamento 
farci.        2  ademollo,  0.  e,  p.  4,  0  cfr.  pp.  209-10.         3  Oda,  p.  203. 

'  G.  A.  Farina,  2  Gen.  1637,  Nap.,  per  Ottavio  Belto-ano,  MDGXXXVIL 


INTRODUZIONE  CXCVII 


Ser.nio  Sig.re, 

Son  così  grandi  e  singolari  i  favori,  clie  mia  casa  di  giorno  in 
giorno  riceve  dalia  generosissima  mano  di  V,  A.  ch'io  neanche  mi 
confido  d'agguagliar  quelli  con  le  parole,  per  ciò  che  quanto  ella  va 
maggiormente  aprendo  la  strada  alla  sua  magnanimità,  meno  so  io 
trovare  il  sentiero  da  poternela  a  pieno  ringratiare.  Molte  erano 
le  obligationi  con  le  quali  m'havea  V.  A.  legato  per  tanti  favori  ad 
Andreana  mia  sorella  già  fatti,  molto  era  il  debito  ch'io  particolar- 
mente me  le  conosceva  d' bavere  per  quegli,  che  nella  persona  mia 
stessa  ella  si  degnò  d'impiegare.  Ora  s'è  cotanto,  e  l'obligatione  e  '1 
debito  avanzato  per  cosi  signalato  beneficio,  che  l'altra  mia  so- 
rella Vittoria  dalla  Real  magnificenza  della  sua  mano  Ser.ma  ha  ri- 
cevuto, che  mi  sono  accresciute  nuove  e  più  salde  catene  alla  ser- 
vitù ch'io  tengo  con  l'Altezza  di  lei.   Per  lo  che ^  l'ardente 

desiderio  ch'io  notrisco  de  spargere  ad  ogni  suo  minimo  cenno  il 
sangue  e  la  vita  qual  ella  si  sia.  Priego  N.  S.  Iddio  che  questa  gene- 
rosità grande  alla  nostra  Vittoria  dimostrata  sia  felicissimo  augurio 
delle  sue  future  vittorie,  cosi  come  più  che  felici  a  V.  A.  le  auguro 
con  l'opportunità  delle  prossime  feste  di  Natale,  le  quali  conceda  il 
cielo  a  V.  A.  piene  d'altre  tanta  e  di  maggior  consolatione  di  quella 
che  ha  fatto  sentire  a  nostra  casa,  con  che  fine  fo  a  V.  A.  hum.ma 
riverenza. 

Da  Napoli  20  di  Xbre  1613. 

Di  V.  A.  S.ma  Hum.mo  e  perpetuo  Ser.re 

Gio.  Battista  Basile. 


*  «  Non  si  legge  per  essere  sbiadito    l'inchiostro  per  umidità 
(Nota  apposta  alla  copia  dal  sig.  Davari). 


CXCVriI  INTRODUZIONE 


Ser.mo  Sig.re, 


Due  disgusti  ad  un  tempo  istesso  e  gravi  a  sopportare  ho  inteso 
con  la  partita  di  mia  sorella  al  servitio  di  V.  A.  S.ma:  l'uno  perchè 
resto  privo  della  miglior  parte  di  me,  l'altro  perchè  non  mi  è  lecito 
per  l'occupatione  in  che  mi  trovo  per  questo  governo  di  venir  seco 
a  partecipare  di  tal  servigio.  Il  primo  è  temperato  dal  piacere  ch'io 
sento  che  V.  A.  S.ma  si  degni  servirsi  di  noi  e  ch'ella  venga  ad  a- 
dempiere  in  parte  quanto  a  V.  A.  debbiamo,  il  secondo  non  so  come 
possa  mitigarsi  se  non  se  in  quanto  V.  A.  dal  comandarmi  in  tutto 
ciò  ch'io  possa  in  queste  parti  me  faccia  securo  ch'io,  ancorché 
lontano  di  Mantova,  non  sia  escluso  dal  numero  dei  suoi  devotissi- 
mi servidori,  con  che  fine  pregando  a  V.  A.  S.  da  N.  S.  Iddio  ogni 
compiuta  felicità  le  fo  hum.ma  riverenza. 

Della  città  di  Monte  ^larano  14  di  Marzo  1615. 

Di  V.  A.  Ser.ma 

Hu/m.mo  e  DevoLono  Serxe 

GlO.   BATTISTA   BASILE. 
ITI. 

Serenis."  SUj.  mio  e  Padrone  sempre  CoUno. 

Van  del  pari  il  dispiacere  ch'io  sento  della  perdita  del  S.mo  S.r 
Duca  fratello  di  V,  A.,  che  viva  nel  Cielo,  e  '1  giubilo  della  succes- 
sione dello  stato  nella  sua  S.ma  persona,  perciochè,  se  mi  vien  me- 
no un  S.re,  cui  di  tali  e  tanti  benefici  mi  riconosco  debitore,  veggo 
accresciute  le  grandezze  d'un  principe,  che  in  mille  guise  mi  tien 
obligato.  Mi  condoglio  perciò  e  rallegro  insieme  e  col  medesimo  af- 
fetto prego  a  quell'anima  gloriosa  eternità  di  quiete,  come  all'A.  V. 
Immortalità  di  bene,  secondo  il  suo  real  merito,  e  '1  mio  vero  desi- 
derio, nella  cui  infinita  benignità  ho  fondato  il  ristoro  di  tanto  danno. 
E  perchè  nelle  nuove  successioni  è  lecito  a  sudditi  di  chiedere  o 
nuove  gratie  0  conflrmatione  dell'antiche,  prendo  perciò  baldanza 
di  supplicare  l'Alt.  V.  a  confirmarini  la  familiarità,  che  degnò  quella 


INTRODUZIONE  CXCIX 

Altezza  (che  viva  nel  Cielo!)  di  concedermi,  perchè,  si  come  io  possa 
pregiarmi  di  una  continuazione  di  riverenza  verso  la  sua  Ser.ma 
Casa,  così  mi  glorij  di  veder  continuati  in  me  quei  favori  che  mi 
tengono  immortalmente  obligato,  e  col  fine  fo  all'A.  V.  profondis- 
sima riverenza. 
Napoli  24  novembre  1626. 

Di  V.  A.  S.     *  Hwm.mo  et  DevoLmo  Ser.re 

Il  Gay.  Gio.  Battista  Basile 
Conte  di  Castelrampa. 

E. 
Nomine  del  Basile. 

Segretaria  Vicereale.  —  Collaterale:  Offìciorum,  Voi.  14,  1610  a 
1622  —  fol.  128  t." 

Philippus  etc. 

Fuit  provisum  patens  officii  Gapitaneatus  terre  Lagus  liberi  in  per- 
sonam  magnifici  V.  I.  D.  Joannis  Baptiste  Basile  prò  uno  anno  inte- 
gro et  deinde  in  antea  ad  beneplacitum,  qui  etiam  prestitit  jura- 
mentum  in  poss.  M.ci  Julii  Gonstantii  marchionis  Corleti  Regii  Colla- 
teralis  Gonsiliarii  et  Regiae  Garaerae  Regentis  et  cum  aliis  clausu- 
lis  solitis  et  consuetis.  In  forma  R.e  Cancellarie  prout  in  presenti  Re- 
gistro fol.  4.  Datum  Neap.  die  18  Mensis  Juiiii  millesimo  sexcente- 
simo  vigesimo  primo. 

El  Gard.l  Qapata. 
{Seguono  firme). 

Ivi.  —  Collaterale:   Offìciorunì,  Voi.  22,  1625  a  28  —  fol  86  l.» 

Philippus  etc. 

Don  Antonius  Alvarez  de  Toledo  et  Beaumont  Dux  Alve.  Expedita 
fuit  provisio  patens  officii  Gapitaneatus  Givitatis  Averse  in  personam 
m.ci  equitis  Joannis  Baptiste  Basile  prò  uno  anno  integro  et  deinde 
in  antea  ad  beneplacitum,  qui  etiam  praestitit  juramentum  in  poss. 
Ill.mi  Marchionis,  Belmontis,  Regii  Collateralis  Gonsiliarii  et  Regie 


ce  INTRODUZIONE 

Camere  regentis,  cum  aliis  clausulis  solitis  el  consuetis  in  forma  Re- 

giae  Garaerne   prout  in    Offìc.  primo  fol.  8  eiusdem   ecc.mi.   Datum 

Neapoli  die  28  mensis   decembris  millesimo   sexcentesimo  vigesimo 

sexto. 

El  duque  de  alva. 
(Seguono  flnìie). 


Fede  di  morte  e  tomba. 

Il  signor  L.  Molinaro  del  Chiaro,  nell'articolo  già  citato,  pubbli- 
cato sul  Giaììibattista  Basile,  Archivio  di  letteratura  popolare.  A,  H, 
N.  3  (15  marzo  1884),  scrive:  «  Avendo  determinato  (dal  libro  del  San- 
toro) il  luogo  della  sepoltura  del  Basile,  speravo  trovarci  una  lapide, 
con  qualche  iscrizione,  molto  interessante  pel  fatto  nostro.  Mn,  reca- 
tomi, con  ogni  sollecitudine,  nella  chiesa  di  S.  Sofia  di  Giugliano,  fui 
grandemente  maravigliato  e  dispiaciuto  di  non  rinvenire  il  minimo 
indizio  di  tale  sepoltura.  Solo,  giunsi  a  sapere,  dai  più  vecchi  di  quel 
Comune,  essere  stata  essa  collocata  sotto  il  pergamo  (proprio  come 
assicurava  il  Santoro)  e  che,  in  seguito,  nel  1876,  sindaco  il  Cava- 
liere Aniello  Palumbo,  dovendosi  rifare  a  nuovo  il  pavimento  della 
chiesa,  senza  alcuna  discrezione  fu  tolta  la  lapide  e  buttata  alla  rin- 
fusa con  molte  altre  nel  giardino  contiguo  alla  sagrestia;  né  mi  è 
venuto  fatto  di  rinvenirne  i  frantumi  fra  i  moltissimi  che  ivi  stanno. 

«  Pure,  quest'atto  vandalico  non  mi  fé' desistere  da  ulteriori  ricer- 
che; almeno,  ritornato  in  quel  paese  potetti  in  parte  confortarmi 
della  perdita,  rilevando  l'epoca  della  morte  del  nostro  Basile  dal  se- 
guente documento,  che  ora,  per  primo,  vede  la  luce: 

Estratto  dal  libro  primo  dei  defunti  della  Pannocchia  di  S.  Anna 
di  Giugliano  in   Campania  al  foglio  172: 

Anno  Domini  1632,  die  23  Fkbruabii. 

«  Dominus  Ioannes  Baptista  Basilis  (vulgo  il  Cavalier  Basile),  gu- 
bernator  luliani,  vitam  cum  morte  permutavi t  sine  sacramentis,  et 


INTRODUZIONE  CCI 

sine  electione  sepulturae:  tamen  de  licentia  R.  R.  Capituli  Aversani, 
quae  apud  me  servatur,  ejus  corpus  fuit  sepultiun  in  ecclesia  S.  So- 
fiae  loco  depositi  cum  magna  pompa  funerali  ». 


Cr. 

Documenti  concernenti  il  Cortese. 

Li  ho  trovati  nei  volumi  degli  Officiorura  del  Collaterale,  Archi- 
vio di  Stato,  Segretaria  Vicereale. 

Voi.  8,  (1599-1601),  fol.  27  t.» 

Philippus  etc.  Expedita  fuit  provisio  patens  officii  assessoratus  Ci- 
vitatis  Trani  in  personam  magnifici  et  I.  d.  lulii  Gesaris  Cortese  prò 
lino  anno  integro  et  deinde  in  antea  ad  beneplacitum  cum  provi- 
sione, lucris,  gagiis,  et  emolumentis  solitis  et  consuetis.  In  forma 
regie  Cancellarle  qui  prestitit  juramentum  in  poss.  Ill.i  Mar.nis  Mor- 
ioni regii  Collateralis 

Consiliarii  et  regiam  Cancellariam  regentis.  Datum  Neap.  die  ult. 

mensis  Xbris  1599. 

El.  Conde  de  Lemos. 
(Seguono  firme). 

In  margine  è  annotato: 

Il  dottor  Giulio  Cesare  Cortese  fa  intendere  a  V.  E.  come  essendo 
restato  servito  provvederlo  dall'Assessorato  de  Trani  et  fatta  l'espe- 
ditione  sotto  l'ultimo  del  passato  mese  di  Xbre  et  per  l'impedimento 
delle  ferie  della  natività  di  N.  S.  non  se  na  possuto,  spedire  dalle 
firme  né  segnare  né  sigillarsi.  Per  questo  supp.ca  V.  E.  si  degni  or- 
dinare che  l'anno  cominci  il  giorno  delli  13  del  presente  et  l'havrà 
a  gratia  di  V.  E.  ut  Deus. 

Provisum  per  Ill.mum  Dom.  Proregem,  Neap.  die  13  lanuarii  1600, 
Dominicus  Barrilis. 

Ivi.  —  Voi.  II,  (1606-1608),  fol.  4. 

«  Expedita  fuit  provisio  patens  officii  Gapitaneatus  terre  lagus  li- 
beri in  personam  m.ci  V.  I.  D.  lulii  Gesaris  Gortesii  prò  uno  anno 
integro  et  deinde  in  antea  ad   beneplacitum  cum   provisione  lucris, 


CCIl  lIsTRODUZIOXE 

gagiis,  et  einolumentis  solitis  et  consuetis,  qui  prestitit  juramen- 
tum  in  poss.  111.  Fulvii  Gonstantii  Marchionis  Corleti  regii  Goll.ris 
Gonsiliarii  et  regiam  Cancellariam  regentis  ciirn  aliis  clausulis  soli- 
tis et  consuetis  in  forma  Regie  Gan.rie.  Sub  datum  Neap.  die  2."  men- 
sis  lunii  millesimo  sexcentesimo  sexto. 

El  Goxde  de  Venavente. 
(Segìiono  firme). 


H. 

Le  edizioni  del  1634  e  del  1674. 

Ecco  il  l'icaccio  di  tutte  le  varianti  di  un'intera  novella  del  Cunto 
de  li  Cunti  (I,  io)  dell'edizione  del  1634,  confrontata  con  quella  del 
Sarnelli  del  1674.  Le  varianti  di  quest'ultima  sono  stampate  in  cor- 
sivo. 

Nnammora,  nammora  —  nmediosa,  niediosa  —  uerco,  uorco  — 
sejellasse,  seggellasse  —  guastano,  roinano,  ecc.,  guastammo,  roinam- 
mo,  ecc.  —  membre,  m,iembre  —  nanze,  nnanze  —  l'apparecchiano, 
s'apparecchiantio  —  vacantarie,  bacantarie  —  castico,  castigo  —  l'al- 
lucco,  Vallocca  —  raccoret«,  racoute  —  la  fronte  ncrespata  e  vro- 
gnolosa,  lo  fronte  ncrespato  e  brugnuluso  —  uocchie  guize,  nocchie 
vizze  —  non  le  vedesse,  non  le  beclesse  —  drinto,  dinto  (più  volte), 

—  segnore,  signore  (più  volte)  —  mbrosoliavano,  mbrosolejavano  — 
le  pigliava  lo  totano,  se  pigliavano  lo  totano  —  gesommino,  giesem- 
m.ino  —  atnmatontato,  amatontato  —  la  quintascienza,  quintassen- 
zia  —  cenede,  cenere  —  chiù  spedito,  chiù  speduto  —  contante  de 
la  bellezza  de  la  poteca,  contante  de  le  bellezze  de  Vaddorosa  itoteca 

—  ssa  bellezzetudene,  sta  bellezzetudene  —  a  reto,  arreto  —  a  dito 
a  dito,  a  dito  —  le  vecchie,  le  becchie  {più  volte)  —  pe  vedere,  pe 
bedere  —  zucarese,  zocarese  —  sconciurava,  scongiurava  —  liqui- 
dare, lequedare  —  sodesfarese,  sodisfarese  —  Giardino  giardino 
{più  volte),  —  monezione,  inanizione  —  fico  jejetelle,  fico  jedetelle  — 
mbrunetura,  inbroneturo  —  privelegie,  privtlegie  —  magazzeno,  mar 
azzeno  —  ss'uocchie,  sfuocchie  —  squaltrina,  sguallrina  —  lo   dia- 


INTRODUZIONE  CCIII 

scace,  lo  diascance  —  vorpa  mastra,  vorpa  inaestra  —  lo  soperiore, 
supcriore  —  rejale,  riale  {più  volte)  —  voglio,  baglio  —  ntrezziatura, 
nterseiatura  —  aflfrezzione,  affezzione  —  recevuta,  receputa  —  tutto 
pampanianno,  lutto  paparelanno  —  vedde,  hedde  —  atuorno,  attuorno 
—  co  lo  miccio  a  la  serpentina,  coìnme  lo  miccio  a  la  serpentina  — 
adonannose,  addonannose  —  permonara,  pormonara  —  co  na  ga- 
lera shiorentina,  co  galera  —  primmo  suonno,  lirimo  suonno  —  ca- 
muscio,  caìwìnuscio  —  perquisizione,  perquesezione  —  e  magenan- 
nome,  ìnagenannome  —  d'avere,  de  avere  —  drinto  a  lo,  dinto  lo  — 
settenzia,  sentenzia  —  stravolo,  straolo  —  venire,  &e« ire  —  bruodo, 
vruodo  —  de  zippo  e  de  pesole,  de  zeppe  e  de  pesale  —  le  quale,  li 
quale  —  talemente,  e  talemente  —  e  cauzante,  e  cauzature  —  ster- 
liccata,  strellecata  —  sbagliava,  abbagliava  —  li  capelle,  li  captile  — 
lanterne  a  vota,  lanterne  a  bota  —  stentaro,  stantaro  —  appise,  ap- 
pese —  a  spaluorcio,  a  spalurcia  —  tarafonato,  tarrafinata  —  chiup- 
peto,  chioppeia  —  pe  le  scale,  pe  le  grada  —  mbroscinannose,  mbro- 
scenna/nose  —  sentarraje,  senterraje  —  vedarraje,  vederai  —  de 
vrocca,  de  bracca  —  vene,  bene  —  mesericordia,  rtieserecordia  — 
meretevole,  merdevole  —  lo  sprofunno,  lo  siireffunno  —  ped  ajero, 
j)e  Vajero  —  grannissemo,  grandissimo  —  addemannava,  addem^mctr 
nava  —  occorreva,  accorrevo^  —  sbombavano,  sbrammavano  —  fran- 
frelliccbe,  franfellicche  —  la  fortuna  mia,  la  fortuna  —  la  cosa,  la 
cose  —  pe  le  mano,  pe  la  'mano  —  non  sarrai  sola  tu,  non  sarraje 
sola  —  e  levatese  ntanto  le  tavole,  e  levatose  manto  le  tavole  — 
stemannola  pazza,  che  la  stemava  pazza  —  rispose,  respose  —  tu 
non  parie  a  separé,  non  parie  a  separa  —  sì  pazzo  tu,  pazzo  tu 
—  farraggio,  faraggio  —  continovanno,  continuanno. 


LO  CUNTO  DE  LI  GUNTI 


LO  CUNTO  DE  LI  CUNTI 


LO   TRATTENEMIENTO  DE   PECCERILLE 


GIAN   ALESrO    ABBATTUTI8 


AVVERTENZA.  —  Con  (EO)  si  cita  Tedizione  originale  del  Cunto 
de  li  Curiti  del  1634-6;  con  (ES),  quella  del  1674,  curala  dal  Sarnelli; 
con  Liebr.,  la  traduzione  tedesca  fattane  da  Felix  Liebrecht.  —  Dei 
vocabolarii  napoletani,  quello  degli  Accademici  Filopalridi,  si  cita 
con  y^Y;  quello  del  de  Ritis,  con  DR;  quello  del  d'Ambra,  con  DA; 
quello  dell'Andreoli,  con  A;  i  fascicoli,  finora  stampati,  di  quello 
del  Rocco,  con  R.  Gli  scrittori  del  dialetto,  quando  non  è  avvertito 
altrimenti,  s'intendono  citati  (perchè  non  s'è  potuto  farne  di  meno) 
secondo  la  grande,  ma  scorretta  Collezione  di  tutti  i  poemi  in  lin- 
gua napoletana,  edita  dal  Porcelli  (28  voli.,  Nap.,  1783-89),  correg- 
gendoli, quando  m'è  stato  possibile,  col  confronto  di  migliori  edi- 
zioni. Le  Muse  Napolitane  del  Basile,  secondo  l'ediz.  del  1635.  Le 
opere  del  Cortese  (tranne  Lo  Cerriglio  ricantato),  secondo  l'edizione 
del  1621,  —  Con:  Pitré,  Bibl.,  si  cita  la  Biblioteca  delle  tradizioni 
popolari  siciliane  del  Pitré;  con  GBB,  il  Giambattista  Basile,  Archi- 
vio di  letteratura  popolare  (N'ap.,  1883-89).  Tre  opere,  delle  quali  si  fa 
uso  frequente  nelle  note,  occorre  citare  anche  ima  volta  per  sempre. 
È  la  prima  quella  specie  d'enciclopedia,  della  fine  del  s.  XVI,  intit.: 
La  Piazza  Universale  di  tutte  le  professioni  del  onondo  nuovamente 
ristampata  e  posta  in  luce  da  Thomaso  Garzoni  da  Bagnacavallo 
(In  Venetia,  appresso  l'herede  di  Gio.  Battista  Somasco,  1592).  La  se- 
conda, l'opera  di  Giambattista  del  Tufo:  Ritratto  0  modello  delle 
grandezze,  delilic  et  maraviglie  della  Nob.m,a  città  di  Napoli,  che  ha 
la  data  del  1588  (Ms.  della  Bibl.  Nazionale  di  Nap.,  segn.  XIII.  C.  96). 
Finalmente,  l'opera  del  Celano:  Notizie  del  bello,  delVantlco  e  del  cur 
naso  della  città  di  Napoli,  che  si  cita  secondo  l'edizione  curata  dal 
Chiarini  (5  voli,,  Nap.,  1856-60).  Tutte  le  altre  opere,  volta  per  volta, 
secondo  che  capita  l'occasione. 


NTRODUZZIONE 

A   LI  TRATTE2sEi[IEXTE  DE  PECCERILLE 


P  u  proverbejo  stascionato  de  cliille^  de  la  maglia^  an- 
tica che:  «  chi  cerca  chello,  che  non  deve,  trova  chello, 
che  non  vele  ».  E  chiara  cosa  è  che  la  scigna,  pe  cau- 
zare  li  stivale,  restaje  ncappata  pe  lo  pede^.  Come  soc- 
cesse  a  na  schiava^  pezzente,  che,  non  avenno  poi'tato 
maje  scarpe  a  li  piede,  voze  portare  corona  ncapo.  Ma, 
perchè   tutto  lo  stnorto  ne  porta  la  mola^',  e  una  vene, 


i  (EO)  de  clune  stascionato;  ch'è  corretto  nelfed.  del  1637,  e  nelle 
seguenti,  nel  modo  che  ho  adottato. 

2  Dell'antico  conio.  Maglia,  nome  di  antica  moneta. 

3  Allude  a  una  variante  della  nota  favola  della  scimia,  che,  per 
imitare  il  boscaiuolo,  si  mise  a  fendere  un  querciuolo;  ma,  riser- 
randosi questo,  restò  presa  per  l'un  de' piedi;  onde,  accorso  il  bo- 
scaiuolo, l'ammazzò.  Cosi  il  Firenzuola  {Disc,  degli  anim.);  la  favola 
è  già  nel  Pantschatantra  (ed.  Benfey,  Leipzig,  1859,  1.  I,  1). 

'''  Con  questa  parola  s'intendevano  allora,  comunemente,  i  mori 
corsari,  fatti  prigionieri  e  venduti  schiavi. 

5  La  mola  (pietra  d'arrotino)  agguaglia  tutto.  Cfr.  Egl.  La  Vorpara. 
Così  altrove  (J/.V.,  Vili):  «  Tutta  la  raggia  ne  porta  la  mola  ». 


6  LO   CUNTO   DE  LI   CUNTI 

clie  sconta  tutte,  all'utemo,  avennose  pe  mala  strata  osor- 
pato  chello,  che  toccava  ad  autro,  ncappaje  a  la  rota  de 
li  cauce®;  e,  quanto  se  n'era  chiù  sagliuta  mperecuocco- 
lo",  tanto  fu  maggiore  la  vrociolata^;  de  la  manera,  che 
secota. 

Dice,  ch'era  na  vota  lo  re  de  Valle  pelosa,  lo  quale 
aveva  na  figlia,  chiammata  Zoza^,  che,  comme  n' autro 
Zoroastro  o  n'autro  Eracleto,  non  se  vedeva  maje  ridere. 
Pe  la  quale  cosa,  lo  scuro  patre,  che  non  aveva  autro 
spireto  che  st'uneca  figlia,  non  lassava  cosa  da  fare  pe 
lovarelo  la  malenconia,  facenno  venire  a  provocarele  lo 
gusto,  mo  chille,  che  camminano  ncoppa  a  le  mazze*",  mo 
chille  che  passano  dinto  a  lo  chirchio*\  mo  li  mattacine**^, 
mo  mastro  Roggiero*^,  mo  chille  che  fanno  juoche  de  ma- 


fi  Giuoco,  pel  quale  v.  princ,  Giorn.  II.      ''  In  alto. 

^  Ruzzolone,  capitombolo. 

^  Usa  questo  nome  anche  lo  Sgruttendio   (Tiorba,  G.  IX,  p.  245), 

*''  Glie  vanno  sui  trampoli. 

11  Noto  spettacolo  ginnastico. 

*2  Giocolieri  e  saltatori  mascherati.  Il  Caro  accenna  ai  mattaccini, 
che  «  per  far  meglio  ridere,  vanno  con  quella  camicia  pendente,  e 
con  le  calze  aperte,  facendo  delle  berte  »  {Apologia,  in  Opp.,  Fir., 
Le  Monnier,  1864,  p.  201).  Il  Garzoni,  tra  i  balli,  menziona  quello, 
intitolato  il  mattacino  {La  Piazza  universale,  p.  452).  Che  questi 
giuochi  fossero  allora  in  uso  a  Napoli,  è  attestato  da  altri  luoghi 
del  N.  (cfr.  Egl.  La  Stufa),   del   Cortese   {Micco  Passare,  X,  28),  ecc. 

*3  Cantante  popolare  della  fme  del  s.  XVI  e  princ.  s.  XVII.  Vi  ac- 
cenna il  Del  Tufo:  «  Et  al  suon  del  pignato  0  del  tagliero  Cantar 
Mastro  Rogiero,  E  simili  persone,  Col  tamburello  e  con  lo  colascio- 
ne »  (rns.  e,  f.  100).  Il  Cortese  gli  fa  cantare  le  lodi  di  Micco:  «  ...ve- 
netle  Maslo  Roggiero  co  li  sonalure,  E  na  museca  bella  se  facette. 
Gommo  se  face  nante  a  li  segnure  »;  e  cita  una  serie  delle  sue 
canzoni  (?.  e,  I,  37  sgg.).  Lo  Sgruttendio,  discorrendo  del  carne- 
vale: «  Canta  po'masto  Roggiero,  Ch'è  bestuto  da  Ucciali  »  (o.  e, 
C.  IX,  p.  336):  canzone,  che  attribuisce  al  poeta  popolare  SbrufTa- 
pappa  (0.  e,  C.  VII,  p.  195),  e  nella  quale  si  allude  ad  Assan  Cicala 
(cfr.  Capasso  in  Arch.  Star.  Najy.^  Vili,  324). 


NTRODUZZIONE  7 

no**,  mole  forze  d'Ercole*^,  mo  lo  cane  che  adanza*®,  mo 
vracone  che  santa  *^,  mo  l'aseno  che  beve  a  lo  bicchiero, 
mo  Lucia  canazza*^,  e  mo  na  cosa,  e  mo  n'autra.  Ma  tutto 
era  tiempo  perduto;  ca  manco  lo  remmedio  de  mastro 
Grillo*^,  manco  l'erva  sardoneca^*^,  manco  na  stoccata  a  lo 
diaframma,  l'averria  fatto  sgrignare  no  tantillo  la  vocca. 
Tanto  che  lo  povero  patre,  pe  tentare  l'utema  prova,  non 
sapenno  autro  che  fare,  dette   ordene  che  se  facesse  na 


i<  Giuochi  di  destrezza. 

*5  Cosi  anche  il  Cortese  {Vajass.,  TV,  29).  Gfr.  Le  Lettere  di  A. 
Calmo,  ed.  V.  Rossi  (Torino,  1888,  pp.  14-5).  E  forze  si  dissero  fino 
agli  ultimi  tempi  i  giuochi  ginnastici. 

i6  E,  più  innanzi,  l'asino  che  beve  al  bicchiere:  animali  adde- 
strati. 

i''  Vracone  si  trova  nel  Cortese  (Viaggio  di  Pam.,  II,  5),  e  nello 
Sgruttendio:  «  E  parca,  cammenanno  a  sautariello,  Vracone,  quanno 
fa  ntantarantera  »;  e  poi:  «Vracone  de  Moretto  »  (0.  e,  C.  I,  s.  27; 
C,  II,  s.  I,  ecc.).  Ed  era  nome,  a  quanto  sembra,  di  una  sorta  di 
buffone. 

i*  Ballo  popolare  napoletano,  detto  anche  catubba.  Cfr.  Del  Tufo 
(ms.  e,  f.  100)  ;  e  vy  alla  par,  Tubba  catubba.  —  Il  Callot  ritrasse 
il  ballo  della  Lucia  in  una  sua  bella  incisione,  e  lo  Sgruttendio 
lo  mette  in  azione  in  una  delle  sue  più  belle  poesie:  «  O  Lucia,  ah 
Lucia,  —  Lucia,  Lucia  mia,  Stiennete,  accostate,  nzèccate  ccà!  Vide 
sto  core  ca  ride  e  ca  sguazza!  Aiiza  sto  pede,  ca  zompo,  canazzat 
ecc.  »  (0.  e,  G.  IX,  p.  248;  e  anche  pp.  235-6).  Gfr.  prlnc.  G.  Ili,  e  V, 
9,   IO. 

^^  Un  villano,  improvvisato  medico,  che  guarì  la  figliuola  del  Re, 
procurandole,  con  certo  suo  strano  mezzo,  una  gran  risata.  Il  Pas- 
sano cita  molte  edizioni  della:  Opera  nuova  itiacevole  et  da  ridere 
de  un  villano  lavoratore  nomato  Grillo  quale  volse  diventar  medico. 
in  rima  istoriata  (Ven.,  1521,  ecc.).  V.  Novell,  ital.  in  verso  (Boi., 
1868,  pp.  99-100).  Cfr.  anche  Pitrè,  Nov.  popol.  toscane  (Fir.,  1885,  pp, 
283-8,  e  R.  Kòhler,  III.  XIX  alla  Posilecheata  del  Sarnelli,  ed.  Imbriani 
(Nap,,  1885,  pp,  135-9). 

20  Sardoa  herba  (lat.),  da  una  voluta  proprietà  della  quale  deri- 
vava il  riso  sardonico.  Cfr,  Liebr,,  Anm.,  I,  396-7, 


8  LO   CUNTO   DE   LI   CUXTI 

gran  fontana  d'ueglio  nante  la  porta  de  lo  palazzo,  co 
designo  che,  sghizzanno  a  lo  passare  de  la  gente  (che  fa- 
cevano comm'a  formiche  lo  vacaviene  pe  chella  strata), 
pe  non  se  sodognere'^  li  vestite,  averriano  fatte  zampe  ^^ 
de  grillo,  shauze  de  crapejo  e  corzete  de  leparo,  sciu- 
lianno  e  morratinose-^  chisto  e  chillo,  potesse  soccedere 
cosa,  pe  la  quale  se  scoppasse  a  ridere.  Fatto,  adonca,  sta 
fontana,  e  stanno  Zoza  a  la  fenestra,  tanto  composta, 
ch'era  tutta  acito  ^',  venne  a  sciorte  na  vecchia,  la  quale, 
azzopanno  co  na  spegna  l'ueglio,  ne  nchieva  n'agliariel- 
lo^^,  c'aveva  portato.  E,  mentre,  tutta  affacennata,  faceva 
sta  marcancegna'*',  no  cierto  tentillo^''  paggio  de  corte  ti- 
raje  na  vrecciolla^*,  cosi  a  pilo,  che,  cogliuto  l'agliaro,  no 
fec9  frecole'''.  Pe  la  quale  cosa,  la  vecchia,  che  non  aveva 
pilo  a  la  lengua,  né  portava  ngroppa,  votatose  a  lo  paggio, 
commenzaje  a  direle:  «  Ah  zaccaro^",  frasca,  merduso, 
«  piscialietto,  sautariello  de  zimnaafo^^TT'^''^*^"^'"^'^!^^^) 
«  chiappo  de  mjpiso^-*,  mulo  canzirro^M;  ente^^  ca  puro  li  pu- 
«  lece  hanno  la  tosse  ^"^l,  va,  che  te  venga  cionchia^'!,  che 
«  mammata  ne  senta  la  mala  nova  !,  che  non  ce-  vide  lo 


«1  Ungersi.      22  Salti.      23  urtandosi. 

2'  Composta,  nome  collettivo  di  varie  cose  solite  a  conservarsi 
nell'aceto;  di  qui  il  bisticcio. 

25  Dimin.  d'agliaro:  vaso  per  olio,  di  terracotta,  0  di  stagno. 

26  propr.:  astuzia;  qui,  operazione. 

27  Diavolo.        28  Sassolino.        29  Frantumi.        ^'^  Fanciullo. 

31  Propr.:  salterello  di  cembalo.  —  Forse:  vispo,  irrequieto? 

32  petlola,  falda  della  camicia,  che  vien  fuori  dallo  sparato  dei 
calzoncini  dei  bambini. 

33  Cappio  (nodo  scorsoio)  d'impiccato;  come  a  dire:  furcifer. 

3»  Mulo  nato  di  cavallo  e  d'asina;  qui,  bastardo.  Il  Del  Tufo,  par- 
lando dei  bastardi:  «  Quell'altro  (al  nostro  dir)  mulo  canzirro  » 
(ms.  e,  f.  74). 

33  Ecco,  vedi. 

^  Gfr.  Pitrè,  Prov.  naiìol,^  in  Xrch.  2icr  lo  si,  traci,  pop.,  Ili,   289. 

3"  Paralisia. 


NTRODUZZIONE  9 

«  primmo  de  maggio  ^^!,  va,  che  te  sia  data  lanzata  cata- 
<i  lana^-'!  0  che  te  sia  data  stoccata  co  na  fuaa,  che  non 
<i  se  perda  lo  sango  ''*!,  che  te  vengano  mille  malanne,  co 
«  l'avanzo,  o  presa,  e  viento  a  la  vela 'M,  che  se  ne  per- 
«  da  la  semmenta!,  guzzo,  guitto,  figlio  de  ngabellata '-, 
«  mariuolpj  »  Lo  figlialo,  c'aveva  poco  varva  e  manco 
descrezzione,  seutennose  fare  sta  nfroata  de  zuco  '•',  pa- 
ganuola  de  la  stessa  moneta,  le  disse:  «  Non  vuoi  appi- 
«  lare  ssa  chiaveca,  vava'''  de  parasacco  *■',  vommeca  vrac- 
«  ciolle,  affoca  peccerille  '"^,  caca  pezzolle*^,  cierne  veruac- 


38  Giorno  di  festa.  Gfr.  Ili,  8;  V,  9.  Il  Cortese:  «  lo  primmo  de 
Majo,  quanno  a  Napole  ogne  casa  deventa  taverna,  co  lo  frascone 
ncoppa  la  porta.  »  {Ciullo  e  Ferna,  p.  9).  V.  anche  Del  Tufo  {ms. 
e,  f.  115-6).  A  Napoli  si  facevano,  tra  l'altro,  in  quel  giorno,  il  palio, 
la  cuccagna,  ecc.  Gfr.  Fasano,  note  al  Lo  Tasso  napoletano,  zoè  la 
Gierosalemme  libberata  (Nap.,  1689,  G.  Ili,  73).  Esiste  ancora  la  Via 
del  MaJo  di  Porto,  che  ricorda  la  festa  già  dismessa  ai  tempi  del 
Celano  {Notizie,  IV,  292).  Sugli  usi  del  Maggio,  in  Italia  e  fuori,  c'è 
un'intera  letteratura,  che  non  è  il  caso  qui  di  citare. 

39  Così  anche  altrove;  I,  7,  ecc.  Il  Porta:  «  Che  te  sia  data  stoc- 
cata catalana  a  la  zizza  manca.  »  (Tabern.,  I,  i).  È  famosa  la  po- 
tenza micidiale  delle  armi  catalane.  Il  Del  Tufo  accenna  alle  «  buone 
lame  Di  spade  e  di  pugnai  di  Barcellona.  »  (jns.  e,  f.  203). 

'"'  Che  sii  impiccato! 

^^  Metaf.  tolte  dal  navigare, 

•*"-  Meretrici:  che  pagavano  la  gabella  di  due  carlini  al  mese.  C'era 
ancora,  ai  tempi  del  Basile,  un  Tribunale  della  gabella  delle  meretrici; 
che  fu  abolito  alcuni  anni  dopo.  V.  Pramm,  Nov.  1589,  Tit.  GLXXII, 
(De  meretricibusj  6.  Coli.  Giustin.,  T.  VII),  e  N.  Toppi  {De  origine 
omnium  tribunaliu/in.  Nap ,  1655-9,  H?  35)-  Gfr.  il  Tardacino  (Gom. 
alla  Vaiass.,  p.  172),  e  G.  V,  i. 

*3  Forte  rimprovero;  rimprovero  {nfroata)  coi  flocchi  {de  zuco). 

■*'  Avola,  nonna. 

^  Spirito  maligno,  che  le  balie  nominano  come  spaui'acchio  ai 
bambini,  quasi  aprisse  il  sacco  per  cacciarveli  dentro  e  rapirli. 

^  Attributi  di  streghe;  che  si  credeva  aramazzassero  i  bambini 
e  ne  mangiassero  le  membra. 

'"!■  Altrove  {MX.,  IV):  «  semmena  pezzolle.  » 


IO  LO   CUNTO   DE   LI   CIINTI 

«  cljie^*?  ».  La  veccliia,  che  se  sentette  la  nova  de  la 
casa  soja,  venne  ntanta  zirria'',  die,  perdenno  la  vùsciola 
de  la  fremma''''  e  scapolanno  da  la^ stalla  de  la  pacienza, 
auzato  la  tela  de  l'apparato,  fece  vedere  la  scena  vosca- 
reccia,  dove  potea  dire  Sirvio:  Ite  sveglianno  gli  occhi 
col  corno'-'^\  Lo  quale  spettacolo  visto  da  Zoza,  le  venne 
tale  riso,  cli'appe  ad  ashevolir e  •''''.  La  vecchia,  vedennoso 
dare  la  quatra^^,  venne  ntanta  arraggia,  che,  votato  na 
caira^'  da  sorrejere^-'  verzo  de  Zoza,  le  disse:  «  Va,  che 
«  non  puozze  vedere  mai  sporchia^*^  de  marito,  se  non 
«  piglie  lo  prencepe  de  Campo  retunno!  »  Zoza,  che 
sentette  ste  parole,  fece  chiammare  la  vecchia,  o  voze 
sapere  ad  ogne  cunto  so  l'aveva  ngiuriata  o  jastem- 
raata.  E  la  vecchia  respose:  «  Ora  sacce  ca  sto  prence- 
«  pe,  che  faggio  mentovato,  è  na  pentata^^  criatura,  e 
«  chiammato  Tadeo;  lo  quale,  pe  na  jastemma  do  na  fa- 
«  ta,  avenno  dato  l'utema  mano  a  lo  quatro  de  la  vita, 
«  è  stato  puosto  dinto  na  sebetura,  fora  le  mura  de 
«  la  cetate;  dov'è  no  spetaffio  scritto  a  na  preta:  che 
«  qualesevoglia  femmena,  che  nchiarrà^^  de  chianto  ntre 
«  juorne  na  lancella^'^,  che  là  medesemo  stace  appesa  a 
<i  no  crocco,  lo  farà  resorzetare  e  pigliarrà  pe  marito; 
«  e,  perchè  è  mpossibele  che  dui  uocchie  umane  poz- 
«  zane  piscioliare  tanto,  che  facciano  zeppa  na  lancella 
«  cosi  granne,  che  leva  miezo  staro  (si  non  fosse,  com- 
«  me   aggio   ntiso  dicere,  chella  Geria,  che   se  fece,  a 


•1^  Coreggia,  o  rumore  colla  bocca  a  imitazione  della  coreggia,  fatto 
per  dispregio  d'alcuno. 

'5  Stizza.      50  Bussola  della  flemma. 

■''  Nel  Paslor  fido  (I,  I),  dice  Silvio:  «  Ile,  voi  che  chiudeste  L'or- 
ribil  fera,  a  dar  l'usato  segno  Della  futura  caccia:  ite  svegliando  Gli 
occhi  col  corno  ». 

''2  Sdilinquire,  venir  meno.      "•''^  Beffare.      5'  Spagn.:  faccia. 

'•"•  Sbigottire.      ^^  Propr,  gormo;:'ìio.      -^«^  Voga,  leggiadra. 

•"'''  Empirà.      ^^  Anfora. 


NTRODUZZIONE  1 1 

«  Romma,  fontana  de  lagreme ''''),  io,  pe  vedereme  del- 
«  leggiata  e  coffiata"^  da  vui,  v'  aggio  data  sta  jastem- 
«  ma;  la  quale  prego  lo  cielo  che  te  venga  a  colà*'-,  pe 
«  mennetta  de  la  ngiuria,  che  m'è  stata  fatta!  »  Cossi 
dicenno,  sfilaje  pe  le  grade  a  bascio,  pe  paura  de  quar- 
che  ntosa^^.  Ma  Zoza,  a  lo  medesemo  punto,  romenanno 
e  mazzecanno  le  parole  de  la  vecchia,  le  trasette  ra- 
cecotena  a  la  catarozzola''';  e,  votato  no  centimmolo  de 
penziere  e  no  molino  de  dubbie  sopra  sto  fatto,  all'ute- 
mo,  tirata  co  no  straolo"-"  da  chella  passione,  che  ceca  lo 
jodizio  e  ncanta  lo  descurzo  dell' ommo,  pigliatose  na 
mano  de  scute  da  li  scrigne  de  lo  patre,  se  ne  sfilaje 
fora  de  lo  palazzo.  E  tanto  camminaje,  che  arrivaje  a  no 
castiello  de  na  fata;  co  la  quale  spaporanno  lo  core,  essa, 
pe  compassione  de  cossi  bella  giovane,  a  la  quale  erano 
dui  sperane  a  farela  precipitare  e  la  poca  etate  e  l'am- 
more  sopierchio  a  cosa  non  conosciuta,  le  deze  na  lettera 
de  racommannazione  a  na  sere  soja,  puro  fatata.  La  quale, 
fattole  gran  compremiento,  la  matina,  quanno  la  notte 
fa  jettare  lo  hanno  dall'aucielle,  a  chi  avesse  visto  na 
morra  d'ombre  negre  sperdute,  che  se  le  farrà  no  buono 
veveraggio,  le  dette  na  bella  noce,  decenno:  «  Tè,  figlia 
«  mia,  tienela  cara  ;  ma  non  l'aprire  maje,  si  no  a  tiempo 
«  de  granne  abbesuogno  ;  »  e,  co  n'autra  lettera,  l'arreco- 
mannaje  a  n'autra  sore.  Dove,  dapò  luongo  viaggio,  ar- 
rivata,  fu  recevuta    co    la    medesema    amorosanza,  e   la 


^^  È  nota  la  favola  di  Egeria,  la  quale,  morto  Numa,  lo  pianse 
tanto,  che  Diana  la  mutò  in  una  fonte. 

6i  Beffata. 

62  (EO)  a  cola.  —  Sottint.  a  chhonmo  (piombo),  a  pilo^  ecc.,  come 
si  trova  altrove:  riuscire.      ^3  Bastonatura. 

^*  L\ES)  corregge  :  «  a  la  cecotena,  a  la  catarozzola.  »  E  cosi  ver- 
rebbe a  mancare  il  soggetto  della  propos.,  che  è  racecotena,  spirito 
maligno,  diavolo;  e  qui,  metaf.,  prurito.  —  Catarozzola,  capo. 

^■^  Carro. 


12  LO   CUNIX)   DE   LI   CUNTI 

naatina  appe  n'autra  lettera  all'autra  sore,  co  na  casta- 
gna, dannole  lo  stisso  avertemiento,  che  le  fu  dato  co 
la  noce.  E,  dapò  avere  caminato,  jonze  a  lo  castiello 
de  la  fata,  che,  fattole  mille  carizze,  a  lo  partirese,  la 
matina,  le  consignaje  na  nocella  co  la  stessa  protesta; 
che  no  l'apresse  majo,  se  la  necessità  no  la  scannava. 
Aùte  sto  cose  Zoza,  se  mese  le  gamme  ncuollo,  e  tanta 
votaje  paise,  tanta  passaje  vuosche  e  sliiommare,  che,  da- 
pò sett'anne,  appunto  quaùno  lo  sole  ha  puosto  sella  pe 
correre  le  solite  poste,  scetato  da  le  cornette  de  li  galli, 
arrivaje  quase  scodata  a  Campo  retunno.  Dove,  pi'imma 
che  trasire  a  la  cetate,  vedde  na  sebetura  de  marmerò, 
a  pede  na  fontana,  che,  pe  vederese  dinto  no  cremme- 
nale"*^  de  porfeto,  chiagneva  lagreme  de  cristallo.  Da  dove 
levato  la  lancella,  che  nc'era  appesa,  e  postasella  miezo 
a  le  gamme,  commenzaje  a  fare  li  duje  simele*^'  co  la 
fontana,  e  non  auzanno  mai  la  capo  da  lo  voccaglio  ''*  do 
la  lancella;  tanto  che,  manco  termene  de  duje  juorne, 
era  arrivata  doi  deta  sopra  lo  cuoUo,  che  non  ce  manca- 
vano due  autre  deta  ed  era  varrà*'".  Ma,  pe  tanto  trivo- 
liare,  essenno  stracqua,  fu,  non  volenno,  gabbata  da  lo 
snonno;  de  manera  che  fu  costretta  d'alloggiare  no  paro 
d'ore  sotto  la  tenna  de  le  parpetole.  Fra  lo  quale  tiompo, 
na  certa  schiava  gamme  de  grillo,  venenno  spisso  a  nchire 
no  varrilo  a  chella  fontana,  e  sapenno  la  cosa  do  lo  spe- 
taflSo,  che  se  ne  parlava  pe  tutto,  comme  vedde  chia- 
guere  tanto  Zoza,  che  faceva  dui  piscericole  de  chianto, 
stette  facenno  sempre  le  guattarelle  "**,  aspettanno  che  la 
lancella  atesse  a  buon  termene,  pe  guadagnarele  de  mano 
sto  bello  riesto,  e  farela  restare  co  na  vranca  de  mosche 
mmano"'.  E,  comme  la  vedde  addormuta,  servennose  de 


<'<'  Carcere. 

<*"  Allusione  ai  sìniili,  argomento  di  tanlo  comedie. 

•'^  Bocca.      "<*  Colma.      "**  Spiando.      "'  (EO)  mano. 


NTRODUZZIONE  13 

l'accasione,  le  levaje  destramente  la  lancella  da  sotta,  e, 
puostoce  l'uecchio  ncoppa,  nquattro  pizzeclie  la  sopran- 
chiette;  eh"  a  pena  fu  rasa,  che  lo  prencepe,  cornine  si  se 
scetasse  da  no  gran  suonno,  s'auzaje  da  chella  cascia  de 
preta  janca,  e  s'afferra j e  a  chella  massa  de  carne  negra. 
E,  cari'iannola  subito  a  lo  palazzo  sujo,  facenno  feste  e 
lumenarie  de  truono"',  se  la  pigliaje  pe  mogliere.  Ma, 
scetata  che  fu  Zoza,  e  trovanno  jettata  la  lancella  e,  co 
la  lancella,  le  speranze  soje,  e  bisto  la  cascia  aperta,  se 
le  chiuse  lo  core  de  sorte,  che  stette  mpizzo"^  de  sbal- 
lare li  fagotto  de  l'arma  a  la  doana  de  la  morte.  All'u- 
teme,  vedenno  ca  a  lo  male  sujo  non  c'era  remmedio,  e 
che  non  se  poteva  lamentare  d'antro,  che  de  l'uecchie 
suoje,  che  avevano  male  guardato  la  vitella  de  le  spe- 
ranze soje,  s'abbiaje  pede  catapede~^  dinto  la  cetate. 
Dove,  ntiso  le  feste  de  lo  prencepe  e  la  bella  razza  de 
mogliere,  che  aveva  pigliato,  se  maginaje  subetò  comme 
poteva  passare  sto  negozio,  e  disse  sospirando  :  che  doi 
cose  negre  l'avevano  posta  nchiana  terra""',  lo  suonno  e 
na  schiava.  Pure,  pe  tentare  ogne  cosa  possibile  contro 
la  morte  (da  la  quale  se  defenne  quanto  chiù  pò  ogne 
anomale),  pigliaje  na  bella  casa  faccefronte  lo  palazzo 
de  lo  prencepe;  da  dove,  non  potenno  vedere  l'idolo 
de  lo  core  sujo,  contemprava  a  lo  manco  le  mura  de  lo 
tempio,  dove  se  chiudeva  lo  bene,  che  desederava.  Ma, 
essenno  vista  no  juorno  da  Tadeo,  che,  comm'a  spor- 
teglione"^,  volava  sempre  ntuorno  a  chella  negra  notte 
de  la  schiava,  diventaje  n'  aquila  in  tener  mente  fitto 
ne  la  perzona  de  Zoza,  lo  scassone  ""^  de  li  privilegio  de 
la  natura   e  lo  fora-me-ne-chiammo    de  li  termene  de  la 


"-  Grandi,  meravigliose.      ~'^  In  punto. 
''  L'un  piede  dietro  l'altro;  a  passo  a  passo. 
'^  In  piana  terra,  sulla  nuda  terra. 
'<*  Pipistrello.      ''''  Eccesso,  colmo. 


14  LO    CTJNTO   DE   LI   CUNTI 

bellezza'*.  De  la  quale  cosa  addonatose  la  scliiava,  fece 
cose  dell'autro  munno;  ed,  essenno  già  prena  de  Tadeo, 
menacciaje  lo  marito,  decenno:  Se  fenestra  no  levare'^,  mi 
punia  a  ventre  dai'e,  e  Giorgetiello  mazzoccare^^  \  Tadeo, 
elle  stava  cuocolo*'  de  la  razza  soja,  tremanno  comm' a 
junco  de  darele  desgusto,  se  scrastaje  comm'arma  da  lo 
cuorpo  de  la  vista  de  Zoza.  La  quale,  vedennose  levare 
sto  poco  de  sorzico*^  a  la  debolezza  de  le  speranze  soje, 
non  sapenno  cbe  partito  pigliare  a  sto  estremo  abbesuo- 
gno,  le  vennero  a  mente  li  duone  de  le  fate.  Ed,  aprenno 
la  noce,  ne  scotte  no  naimuozzo^^,  quanto  a  no  pipatiel- 
lo^',  lo  chiù  saporito  scarammennisso **',  che  fosse  stato  mai 
visto  a  lo  munno;  lo  quale,  puostose  ncoppa  a  la  fene- 
stra, cantaje  co  tanta  trillo,  gargariseme  e  passavolante, 
che  pareva  no  compà  Junno,  ne  passava  Pezillo  e  se 
lassava  dereto  lo  cecato  de  Potenza  e  lo  Re  de  l'au- 
cielle^'"'.  Lo  quale  visto  e  sentuto  a  caso  da  la  schiava, 
se  ne  mprenaje  do  manera,  che,  chiammato  Tadeo,  lo 


"8  Metaf.,  tolta  da  chi  esce  dalla  barriera:  «  mi  chiamo  fuori.  » 

"^  Questo  parlare  all'infinito  vorrebbe  imitare  il  supposto  parlare 
della  schiava.  Così,  HI,  2,  Penta  parla  allo  schiavo  Ali;  cosi  la  schiava 
della  G.  V.  9. 

*<*  Acciaccare,  schiacciare.      ^^  Tenero.      •''^  Ristoro.      ^3  xanetto. 

8'  Bamboccio;  e,  più  oltre,  pipata,  bambola.  Così  nel  Candelaio 
del  Bruno:  piiìpata  (V.  17).  Ma,  ora,  si  dice  jìvpata. 

"'>  Dingelchen  (cosetta),  traduce  abilmente  il  Liebr. 

815  Nella  G.  IV,  6:  «  le  tre  canlature  princepale  de  Napole,  Gio:  de 
la  Carriola,  Compà  Junno  e  lo  Re  de  la  museca.  »  —  Su  Compà 
Junno  cfr.  il  N.  {MS,  I,  e  egl.  La  Stufa).  Il  Cortese  gli  fa  sonare  il 
colascione  in  concerto  con  Gianleonardo  dell'Arpa  {Viaggio  di  Pam. 
I,  42);  e  nel  Micco  Passavo  accenna  a:  «  Compà  Junno,  Quanno  chiù 
docemente  a  no  rotiello  Canta  le  storie  nanze  a  lo  Castiello.  »  (X,  31). 
Lo  Sgruttendio  lo  chiama  Junno  cecato  (o.  e,  C.  I,  S.  8,  ecc.).  —  Pe- 
zillo er?  «  n'ommo,  Musechiero  de  sfuorgiò.  Che  paro  ad  isso  maje 
no  ne  nasci!  »  Il  disgraziato  per  una  pagnotta,  0  per  un  pezzo  di 
cacio,  0  per  un  «  arravuoglio  De  quaccosa,  cha  tavola  è  remmaso  », 


NTRODUZZIOUfE  15 

disse:  Si  no  avere  chella  piccinossa^''^  che  cantare,  mi 
punia  a  ventre  dare,  e  Giorgetiello  mazzoccare  !  Lo  pren- 
cepe,  che  s'aveva  fatto  mettere  la  varda  a  bernaguallà^*, 
mannaje  subeto  a  Zoza,  se  noe  lo  voleva  vennere.  La 
quale  respose  che  n'era  mercantessa,  ma  che,  se  lo  voleva 
nduono,  se  lo  pigliasse,  ca  ne  le  faceva  no  presiento, 
Tadeo,  che  allancava^''  pe  tenere  contenta  la  mogliere, 
azzò  le  portasse  a  luce  lo  partoro,  azzettaje  l'offerta. 
Ma,  da  Uà  a  quattro  autre  juorne,  Zoza,  aperta  la  casta- 
gna, ne  scette  na  voccola^''  co  dudece  pollecine  d'oro. 
Li  quale  ^^  puoste  ncoppa  la  medesema  fenestra,  e  viste 
da  la  schiava,  ne  le  venne  golio  dall'ossa  pezzelle^-,  e 
chiammato  Tadeo,  e  mostratole  cosi  bella  cosa,  le  disse  : 
Si  chilla  voccola  no  pigliare,  mi  ptcnia^a  ventre  dare  e 
Giorgetiello  mazzoccare.  E  Tadeo,  che  se  lassava  pigliare 
de  fìlatielle^^'  e  joquare  de  coda  da  sta  perra  cana^', 
mannaje  de  nuovo  a  Zoza,  offerennole  quanto  sapesse 
addemannare  pe  priezzo  d'accessi  bella  voccola.  Da  la 
quale  appo  la  stessa  resposta  de  mprimmo,  che  nduono 
se  l'avesse  pigliato,  ca  pe  termene  de  venneta  noe  per- 
deva lo  tiempo.  E  isso,  che  non  poteva  farene  de  mancò; 
fece  dare  dalla  necessetà  mazzafranca^^  alla  descrezzione; 


cantava,  mirabilmente,  le  sue  più  belle  canzoni.  (Sgruttendio.  0.  e, 
G.  VII,  p.  197-8).  Del  Cecalo  de  Potenza  e  del  Re  de  VAucielle  0  de 
la  niuseoa,  non  parlano  altri  scrittori,  fuori  del  N. 

87  (ES)  piscinosa.  —  Storpiatui'a,  forse,  di:  piccina? 

ss  Che  era  uno  degli  epiteti,  che  si  dava  alla  Lucia  del  ballo,  pel 
quale  v.  n.  18,  p.  F.  Bernagualà,  dice  il  Del  Tufo;  iernovallà  è  scritto 
sotto  l'incisione  del  Callot;  pernovallà,  lo  Sgruttendio.  Così,  per  in- 
dicare una  turca  0  una  schiava.  Gfr.  V,  9.      s^  Trafelava. 

!>*  Chioccia.      51  (EO)  la  quale.      ^-  Malleoli.      93  intimorire. 

5'  Ferro  (spagn.),  cane.  In  una  canzone  popolare  del  tempo:  «  Ca- 
nazza  perra,  nata  mBarvaria!  »  {MN.,  IX). 

9^  Allusione  al  giuoco  detto  mazza  e  pinzo,  nel  quale  la  sospen- 
sione del  giocare  si  chiede  colla  parola:  oìiazza franca.  V.  il  Tarda- 
cino  (0.  e,  p.  179-80).  Int.:  I.a  necessità  sospende  la  discrezione. 


l6  LO   CUNTO  DE  LI  CUNTI 

e,  scer  vecchi  annone^''  sto  bello  voccone,  restaje  ammisso" 
dalla  liberalità  de  na  femmena,  essenno  de  natura  tanto 
scarzogne^^,  che  no  le  vastarriano  tutte  le  verghe,  che/ 
veneno  dall' Innia.  Ma,  passanno  autretante  juorne,  Zoza 
aprette   la   nocella,    da    la  quale   scotte   fora  na  pipata, 
che  filava  oro,  cosa  veramente  da  strasecolare;  che  non 
cossi    priesto    fu    posta  a   la  medesima  fenestra,   che  la 
schiava,   datoce   de  naso,   cliiammaje   Tadeo,   decennole: 
Si  pipata  no  accattare,  mi  ptcnia  a  ventre  dare,  e  Gior- 
getiello  mazzoccare!  E  Tadeo,  che  se  faceva  votare  com- 
m'argatella^^  e  tirare  pe  lo  naso   da  la  soperbia  de  la 
mogliere,  dalla  quale  s'aveva  fatto  accavallare,  non  aven- 
no  core  de  mannare   pe  la  pipata  a  Zoza,  nce  voze  ire 
de  perzona,  arrecordannose  de  lo  mutto:  «  non  c'è  me- 
glio misso,  che  te  stisso  »  ;  «  chi  vele  vaga,  e   chi   non 
volo  manna  »,  e  «  chi  pesce  vole  rodere,  la  coda  se  vo 
nfonnere  ».  E,  pregatole  granuemente  a  perdonare  la  mper- 
tenenzia  soja  a  li  sfiole'"''  de  naprena,  Zoza  che  se  ne  jeva 
nsecoloro  co  la  causa  de  li  travaglie  suoje,  facette  forza  a 
se  stessa  de  lassarese  strapregare  pe  trattenere  la  voca, 
e  gaudore  chiù  tiempo   de  la  vista   de  lo  signore   sujo, 
furto  de  na  brutta  schiava.   All'utemo,  dannole  la  pipa- 
ta, comm'avea  fatto   dell'autre  cose,   primma  che  nce  la 
conzignasse,    progaje    chella    cretella*^'   c'avesse   puosto 
ncore  a  la  schiava  de  sentire  cunte.  Tadeo,  che  se  vedde 
la  pipata  umano,  e  senza   sborzare  uno   de   cieijto  vinte 
a  carrino ''^•,  restanno  ammisso  de  tanta  cortesia,  l' offerse 
lo  stato  e  la  vita  ncagno  de  tante  piacire,  e,    tornato   a 
lo  palazzo,  dette  la  pipata  a  la  mogliere;  che  non  cossi 
priesto  se    la  mese    nzino    pe  joquaresenne,    che    parze 


PO  strappando.      ^  Interdetto.      ^*  Avaro.      50  Arcolaio 
100  Voglie,  desiderii.      *"i  Bamboccio. 

los  Cioè  di  un   earliao;   ch'era  composto    di    io   grani,  e  ciascun 
grano  di  12  calli  0  cavalli;  dunque,  120  calli. 


NTBODUZZIOlfE  17 

n'ammore  nforma  d'Ascanio  nzino  a  Dedone*''^,  che  le 
mese  lo  fuoco  mpietto.  Pocca,  le  venne  cossi  caudo  de- 
sederio  de  sentire  cunte,  che  non  potenno  resistere,  e 
dobi tanno  de  toccarese  la  vocca**^*  e  de  fare  no  figlio, 
che  nfettasse  na  nave  de  pezziente  ^''^,  chiammaje  lo  ma- 
ritò e  le  disse:  JSi  no  venire  gente,  e  cunte  contare,  mi 
punia  a  ventre  dare^  e  Giorgeiielló  mazzoccare!  Tadeo, 
pe'Tèvarese  sta  cura  de  marzo  ^'^'^  da  tuorno,  fece  subeto 
jettare  no  hanno  :  che  tutte  le  femmene  de  chillo  paese 
fossero  venute  lo  tale  juomo.  Ne  lo  quale,  a  lo  spuntare 
de  la  stella  Diana,  che  sceta  l'arba  ad  aparare  le  strate, 
pe  dove  ha  da  spassiare  lo  sole,  se  trovaro  tutte  a  lo 
luoco  destinato.  Ma,  non  parenno  a  Tadeo  de  tenere 
tanta  marmaglia  mpeduta  pe  no  gusto  particolare  de  la 
mogliere,  etra  che  l'affocava  de  vedere  tanta  folla,  ne 
scegliette  solamente  dece,  le  meglio  de  la  cetate,  che  le 
parzero  chiù  provecete^^~  e  parlettere,  che  foro:  Zeza 
scioffata,  Cecca  storta,  Meneca  vozzolosa,  Tolla  nasuta, 
Pepa  scartellata,  Antonella  vavosa,  Giulia  mossuta,  Paola 
sgargiata,  Ciommetella  zellosa  e  Jacova  squacquarata^*^^. 


i'>3  Gfr.  Verg.  Aen.  I,  685  sgg.  (Liebr.  Anm.  I,  398). 

i<^'  La  credenza  volgare  vuole  che  le  donne  gravide,  quando  desi- 
derano alcuna  cosa  e  non  possono  averla,  se  per  caso  si  toccano  in 
alcuna  parte  del  corpo,  in  quella  parte  stessa  del  corpo  del  bambino 
verrà  impresso  il  segno  (voglia)  della  cosa  desiderata.  Perciò,  nella 
Vaiass.  del  Cortese,  la  suocera  consiglia  la  nuora:  «  Se  viene  a  scire 
prena,  ed  hai  golio  De  quarche  cosa,  tiene  mente  a  l'ogna,  O  te  tocca 
la  nateca!  »  (I,  29;  e  com.  del  Tardac,  p.  70-1).  Gfr.  Pitrè  {Blbl.,  XV, 
115-20);  e  Liebr.  {Anm.,  I,  397-8). 

105  che  appestasse  una  nave  di  pezzenti.  Temeva,  col  toccarsi  la 
bocca,  di  fare  un  figlio  straordinariamente  chiacchierone  e  noioso. 

1"^  Seccatura,  molestia.  Sul  mese  di  Marzo,  e  i  torti,  che  gli  si  at- 
tribuiscono, cfr.  V,  2.      107  Pronte,  svelte. 

i'J*  Pei  nomi,  s'avverta  che  Zeza  è  Lucrezia;  Cecca,  Francesca;  Me- 
neca, Domenica;  Tolla,  Vittoria;  Popa,  Giuseppa;  Clulla,  Giulia; 
Ciommetella,  Girolama.  Che,  a  quel  tempo,  erano  diminutivi  molto 


l8  LO   CUNTO  DE  LI  CUNTI 

Le  quale  scritte  a  na  carta,  e  lecenziate  l'autre,  s'auzaro 
co  la  schiava  da  sotta  a  lo  bardacchino,  e  s'abbiaro  pa- 
nilo pallilo  ^''^  a  no  giardino  de  lo  palazzo  stisso,  dove  li 
rame  fronnute  erano  cosi  ntricate,  che  non  le  poteva 
spartire  lo  sole  co  la  perteca  de  li  ragge.  E,  sedutese 
sotto  no  paveglione  commegliato  ^^'^  da  na  pergola  d'uva, 
miezzo  a  lo  quale  scorreva  na  gran  fontana,  mastro  de 
scola  de  li  cortesciani,  che  le  mozzava  ogne  juorno  de 
mormorare,  commenzaje  Tadeo  cosi  a  parlare: 

«  Non  è  chiù  cosa  goliosa  a  lo  munno,  magne  fem- 
«  mene  meje,  quanto  lo  sentire  li  fatti  d'autro,  né,  senza 
«  ragione  veduta,  chillo  gran  felosofo^'^  mese  l'utema  fe- 
«  licita  de  l'ommo  in  sentire  cunte  piacevole;  pecca,  au- 
<c  solianno'*-  cose  de  gusto,  se  spapurano  l'afFanne,  se  dà 
«  sfratto  a  li  penziere  fastidiuse  e  s'allonga  la  vita.  Pe 
«  lo  quale  desederio  vide  l'artisciane  lassare  li  funna- 
«  che'^^,  li  mercante  li  trafìche,  li  dotture  le  cause,  li 
«  potecare  le  facenne,  e  vanno  canne  aperte  pe  le  varva- 
«  rie^*'  e  pe  li  rotielle^*^  de  li  chiacchiarune,  sentenuo  no- 
«  velie  fauze^^",  avise^'"  montate  e  gazzette  n'ajero''*. 


usuali,  e  non  esclusivamente  volgari;  come  si  prova  dal  trovarli  ap- 
plicati alle  più  alte  dame.  Per  gli  aggettivi,  che  li  accompagnano, 
s'avverta  che  scio/fata  signif.  curva,  cadente;  vozzolosa,  gozzuta; 
scartellala,  gobba;  vavosa,  bavosa;  mossuta,  col  muso  sporgente; 
sgargiata,  scerpellata;  zellosa,  tignosa;  squacquarata,  sconcia  di 
corpo,  e  quasi  schiacciata. 

i^^  Pian  piano.      ^^^  Coverto.      ''•'  Pare  una  citazione  burlesca. 

112  Ascollando.      "^  Fondaci. 

•"  Botteghe  da  barbiere.  Sui  barbieri  e  slufaioli  napol.  cfr.  Pel 
Tufo  (ms.  e,  f.  78-9).  Il  Garzoni  dice:  «  Dei  poveri  barbieri  non  si 
può  dir  altro  poi,  se  non  che  ciarlano  communemente  come  le  gaze, 
perchè  tutte  le  nuove,  anzi  tutte  le  carette,  corrono  in  barbaria,  e 
bealo  colui  che  le  dice  più  sfondrate!  »  (La  piazza  universale,  p.  856). 

115  Circoli.      116  (ES)  novellanze. 

11*  Così,  com'è  noto,  si  dicevano  lo  informazioni  manoscritto  di 
quei  tempi.      n*  In  gener.,  notizie. 


NTRODUZZIONE  I9 

«  Per  la  quale  cosa,  devo  scusare  moglierema,  se  1'  è  scliiaf- 
«  fato  ncapo  st'omore  malanconoco  de  sentire  cunte.  Però, 
«  se  ve  piace  de  dare  mbrocca  a  lo  sfido  de  la  pren- 
«  cepessa  mia  e  de  cogliere  miezo  a  le  voglie  meje,  sar- 
«  rito  contente  pe  sti  quattro  0  cinque  juorne,  che  starà 
«  a  scarrecare  la  panza,  de  contare  ogne  jornata  no  cunto 
«  peduno  de  chille  appunto,  che  soleno  dire  le  vecchie 
«  pe  trattenemiento  de  peccerille,  trovannove  sempre 
«  a  sto  luoco  stisso.  Dove,  dapò  avere  ngorfuto^^^,  se 
«  darrà  prenzipio  a  chiacchiarare,  termenannose  la  jor- 
«  nata  co  quarche  egroca,  che  se  recetarrà  da  li  mede- 
«  seme  sfrattapanelle^'^'^  nuestre,  pe  passare  allegramente 
«  la  vita,  e  tristo  chi  more!  »  A  ste  parole  azzettaro 
tutte  co  la  capo  lo  commannamiento  de  Tadeo  ;  fra  tanto, 
poste  le  tavole,  e  venuto  lo  mazzecatorio,  se  mesero  a 
magnare;  e,  fornuto  de  gliottere^'^,  fece  lo  prencepe  si- 
gnale  a  Zeza  scioffata,  che  desse  fuoco  a  lo  piezzo  ;  la 
quale,  fatto  na  granne  ncrinata  a  lo  prencepe  e  a  la  mo- 
gliere,  cossi  commenzaje  a  parlare. 


ii9  Trangugiato,  mangiato.       ^-^  Servitori  di  casa.       ^'-^  Ingoiare. 


JORNATA   PRIMMA 


LO  CUNTO  DELL' UERCO 


Teattenemiekto  primmo  de  la  Jornata  peimma. 

Antuono  de  Marigliano  ^,  ped  essere  rarceafanfaro  de  li  catammare  -, 
cacciato  da  la  mamma,  se  mese  a  li  servizie  de  n'uerco;  da  lo 
quale,  volenno  vedere  la  casa  soja,  è  regalato  chiù  vote,  e  sem- 
pre se  fa  corrivare^  da  no  tavernaro;  all'utemo,  le  dà  na  mazza, 
la  quale  castiga  la  gnoranza  soja,  fa  pagare  la  penetenza  all'o- 
ste de  la  furbaria  ed  arricchisce  la  casa  soja. 

v_ihi  disse  ca  la  fortuna  è  cecata,  sa  ciiiù  de  mastro 
Lanza'*  (che  le  passaci);  pocca  fa  cuerpe  veramente  da 
cecato,  auzanno  mperecuoccolo  gente,  che  no  le  cacciar- 


i  Comune  della  provincia  di  Caserta,  circondario  di  Nola;  o,  come 
allora  si  diceva,  terra  in  provincia  di  Terra  di  Lavoro,  diocesi  di 
Nola.  Nel  1648  contava  1049  fuochi;  conta  ora  ab.  11,460.  Gfr.  Giusti- 
niani, Dizion.  geogr.  ragion,  del  Regno  di  Nap.  (Nap.  1802)  t.  V, 
ad  nom.      ^  Sciocconi,  tangheri.      3  Burlare. 

''  Di  costui  tacciono  gli  scrittori  contemporanei,  che  pur  parlano 
di  Mastro  Roggiero,  Mastro  Muccio,  del  Dottor  Chiaiese,  ecc.,  e  di 
tante  altre  celebrità  popolari;  nella  categoria  delle  quali,  probabil- 
mente, andava  compreso  Mastro  Lanza. 

5  Bisticcio  colla  parola  lanza;  che  li  trafigga! 


22  LO  CUNTO  DE  LI  CUNTI 

risse  da  no  campo  de  fave*',  e  schiafifanno  de  cuerpo 
nterra  persone,  clie  so  lo  sliiore  de  l'uommone,  commo 
ve  farraggio  a  sentire. 

Dice,  ch'era  na  vota  a  lo  pajese  de  Marigliano  na  fem- 
mena  da  bene  chiammata  Masella;  la  quale,  etra  a  sei 
squacquare"  zitelle  zite,  comm'a  sei  perteche,  aveva  no 
figlio  mascolo  cossi  vozzacchione*,  caccial'-a-pascere  ^,  che 
no  valeva  pe  lo  juoco  de  la  neve;  tanto  che  ne  steva 
comm'a  scrofa,  che  porta  lo  taccaro^'',  e  non  era  juorno, 
che  no  le  decesse  :  «  Che  nce  fai  a  sta  casa,  pane  mardit- 
«  io?  squaglia,  piezzo  de  catapiezzo^M  sporchia'',  Macca- 
«  beo*^!  sparafonna,  chianta  malanne!  levamette  danante, 
«  scola  vallane"!  ca  me  fuste  cagnato  a  la  connoia *'^,  e, 
«  ncagno  de  no  pipatiello,  pacioniello,  bello  nennillo  ^'^^  me 
«  nce  fu  puosto  no  majalone,  pappalasagne  !  »  Ma,  co 
tutto  chesto,  M^sfìlla  parlava,  e  isso  siscava!  Ma,  vedenno 
che  non  c'era  speranza  che  Antuono  (cossi  se  chiam- 
mava  lo  figlio)  mettesse  capo  a  fare  bene,  no  juorno  fra 
l'autre,  avennole  lavato  bona  la  capo  senza  sapone,  deze^K 
de  mano  a  no  lagauaturo  *",  e  le  commenzaje  a  pigliare 
la  mesura  de  lo  jeppone**.  Antuono,  che,  quanno  manco  se 
credeva,  se  vedde  stecconejare,  pettenare  e  nforrare  *", 
comme  Je^  potte  scappare  da  Ig.  mano,  le  votaje  le  car- 
cagne.  E  tanto  camminaje,  fioche  sommiero^"  le  24  bore 


^  Cfr.  3/iV.,  IX,  ecc.  *  Perchè  servirebbero  di  spauracchio  agli  uc- 
celli »,  interpreta  il  Liebr.,  I,  Zusàtze.  Ma,  piuttosto  :  un  miserabile, 
che  nessuno  caccerebbe  da  un  campo  di  fave,  dove  entrasse  per  isfa- 
marsi.      '  Femmine.      *  Scioccone.      ^  Come  animale  che  era. 

*"  Che  va  al  macello  con  la  spranghetta  in  bocca. 

1'  Pezzo  di  briccone.      *2  sparisci. 

13  Sciocco.  Questo  signi  Acato  deriva,  naturalmente,  dal  semplice 
suono  della  parola.  Neil' /doJo  Cinese  del  Lorenzi  (If,  15):  «  Che  son 
quelli?  —  Maccabbei  d'Italia!  »;  e  intende:  maccheroni. 

*'   vaitene,  succiole.      *^  Culla.      i"  Vezzeggiativi  di:  bambino. 

1"  Matterello      *8  Giubbone.      1^  Foderare.      2"  Verso. 


JOENATA  I.   TEATTENEMIENTO   I.  23 

quanno  comenzavauo  pe  le  poteche  de  Cinzia  ad  allom- 
marese  le  locernelle,  arrivaje  a  la  pedamentina  de  na 
montagna,  cossi  anta,  che  faceva  a  tozza  martino  ^^  co 
le  nuvole.  Dove,  ncoppa  a  no  radecone  de  chiuppo'',  a 
pede  na  grotta  lavorata  de  preta  pommece,  nc'era  se- 
duto n'uerco:  0  mamma  mia,  quanto  era  brutto!  Era 
cbisso  naimuozzo  e  streppono  de  fescena  ^^,  aveva  la 
capo  cbiù  grossa  che  na  cocozza  d'Innia,  la  fronte  vro- 
gnolosa^^,  le  ciglia  jonte,  l'uecchie  strevellate,  lo  naso 
ammaccato  co  doje  forge '^,  che  parevano  doi  chiaveche 
maestre;  na  vocca  quanto  no  parmiento,  da  la  quale  sco- 
vano doi  saune,  che  l'arrivavano  all'ossa  pezzelle;  lo 
pietto  peluso,  le  braccia  de  trapanature''^,  le  gamme  a 
bota  de  lammia"-^  e  li  piede  chiatte  ^^  comm'a  na  papara. 
Nsomma,  pareva  no  racecotena,  no  parasacco,  no  brutto 
pezzente  e  na  mal' ombra  spiccecata '^,  c'averx'ia  fatto 
sorrejere  n'Orlanno,  atterrire  no  Scannarcbecco  ^*',  e  smaga- 
re ^^  no  fauza  pedata^"-.  Ma  Antuono,  che  non  se  moveva 
a  schiasso  de  shionneja^^,  fatto  na  vasciata  de  capo,  le 
disse:  «  A  Dio  messere,  che  se  fa?  comme  staje?  vuoje 
«  niente?  quanto  c'è  da  ccà  a  lo  luoco  dove  aggio  da 
«  ire  ?  »  L' uerco,  che  sentette  sto  trascurso  da  palo 
mperteca,  se  mese  a  ridere,  e,  perchè  le  piacquette  l'o- 
more  de  la  vestia,  le  disse:  «  Vuoi  stare  a  patrone?  »  Ed 
Antuono  leprecaje:  «  Quanto  vuoje  lo  mese?  »  E  l' uerco 


'^  Cozzava  come  iin  caprone.      22  pioppo. 

23  Si  dice  anche:  muzsone  de  fescena,  uomo  di  piccolissima  sta- 
tura. Streppone  è  propr.  gambo  0  stelo;  fescena,  paniere  di  vimini 
terminante  in  punta.      24  Bernoccoluta.      20  Narici.      26  Aspo. 

27  Lamia,  volta.      28  Grassi,  larghi. 

29  Spiriti  maligni,  cfr.  n.  64,  p.  11,  e  n.  45,  p.  9. 

30  L'eroe  albanese  Giorgio  Gastriota,  detto  lo  Scanderberg. 

31  Cadere  in  isvenimento;  spagn,:  desmayar. 

32  Un  bravaccio  ?  O,  come  interpreta-  il  Liebr.,  un  mendicante,  un 
importuno?  (0.  e,  I,  17).      33  a1  girar  d'una  fionda.  Cfr.  MN.,  VI. 


24  LO  CUISTTO  DE  LI  CUNTI 

tornaje  a  dire:  «  Attienne  a  servire  noratamente,  ca  sar- 
«  rimmo  de  convegna,  e  farraje  lo  buono  juorno.  »  Ac- 
cessi, concruso  sto  parentato,  Antuono  restaje  a  servire 
l'uerco;  dove  lo  magnare  se  jettava  pe  facce,  e,  circa 
lo  faticare,  se  steva  da  mandrone^';  e  tanto  che,  nquattro 
juome,  se  fece  Antuono  grasso  comm'  a  Turco,  tunno  com- 
m'a  boje,  ardito  comm' a  gallo,  russo  comm' a  gammaro, 
verde  comm' aglio  e  chiatto  comm' a  ballena^-^,  e  cossi 
ntrecenuto  e  chiantuto^^,  che  non  ce  vedeva.  Ma  non 
passaro  dui  anne,  che,  venutole  nfastidio  lo  grasso,  le 
venne  golio  e  sfiolo  granne  de  dare  na  scorza  a  Pa- 
scarola^",  e,  pensanno  a  la  casarella  soja,  era  quasi  tra- 
suto^^  a  la  primma  spezie.  L'uerco,  che  vedeva  le  ntra- 
gne  ^^  soje  e  lo  canosceva  a  lo  naso  lo  frusciamiento  *"  de 
tafanario",  che  lo  faceva  stare  comm' a  chelleta^^  male 
servuta,  se  lo  chiammaje  da  parte  e  le  disse  :  «  Antuono 
«  mio,  io  saccio  eh'  aje  na  granne  ardenzia  de  vedere 
«  le  camecelle  toje;  perzò,  volennote  bene,  quanto  le  vi- 
<  sciole  '^  Dieje,  me  contento  che  ce  dinghe  na  passata,  e 
«  agge  sto  gusto.  Pigliate,  addonca,  st'aseno,  che  te  le- 
«  varrà  la  fatica  de  lo  viaggio  ;  ma  sta  ncellevriello,  che 
«  no  le  decisse  maje:  Arre,  cacanre!,  ca  te  piente,  pell'ar- 
«  ma  de  vavomo  !  »  Antuono,  pigliatose  lo  ciuccio,  senza 
dire  bon  vespere,  sagliutole  ncoppa,  se  mese  a  trottare. 
Ma  n'avea  dato  ancora  no  centanaro  de  passe,  che,  smon- 
tato da  lo  sommarro,  commenzaje  a  dire:  Arre,  cacaure! 
E  aperze  apena  la  vocca,  che  lo  sardagnuolo  commen- 
zaje a  cacare  perne,  rubine,  smeraude,  zaffire  e  diamante, 


3*  Poltrone.        35  (j/q)  banana.       3C  Tarchiato  e  colla  pelle  tesa. 

3"  Casale  nel  teriitorio  Aversano;  ora  frazione  di  Caivano.  Ma 
sembra  una  svista,  e  che  volesse  dite:  Marigliano.        38  Entrato. 

39  Viscere;  spagn.:  entranas.      *<>  Molestia,  prurito.      ■"  Deretano 

■•*  Cosa,  faccenda.  E  si  adopero,  quando  non  soccorre  la  parola 
precisa.      <3  Pupille, 


JOENATA  I.   TEATTENEMIENTO  I.  25 

quanto  na  noce  l'uno,  Antuono,  co  no  parmo  de  canna  a- 
perta,  teneva  mente  a  le  belle  scinte  de  cuerpo,  a  li  su- 
perbe curze  e  a  li  ricche  vesentierie  **  de  l'aseniello,  e 
co  no  priejo'*-^  granne,  chiena  na  vertola"*^  de  cbeìle 
gioje,  tornaje  a  craaccare,  e  toccanno  de  buon  passo,  fin 
che  arrivaje  a  na  taverna.  Dove  smontato,  la  primma  cosa, 
che  disse  a  lo  tavernaro,  fu:  «  Lega  st'aseno  a  la  man- 
«  ciatora,  dalle  buono  a  manciare;  ma,  vi,  non  dire:  Arre, 
«  cacaure  !,  ca  te  ne  piente,  e  stiparne  ancora  ste  coselle  a 
€  bona  parte.  »  Lo  tavernaro,  ch'era  de  li  quattro  del- 
l'arte^", saraco"*^  de  puerto,  de  lo  quaglio ''^  e  de  copella, 
sentuta  sta  proposta  de  sbauzo,  e  vedute  le  gioje,  che 
valevano  quattrociento^",  venne  ncuriosità  de  vedere,  che 
significavano  ste  parole.  Perzò,  dato  buono  mazzecare  ad 
Antuono,  e  fattolo  shioshiare  ^*^  quanto  chiù  potte,  lo  fece 
ncaforchiare  ^-  fra  no  saccone  e  na  schiavina,  e  non  tanto 
priesto  lo  vedde  appapagnato  ^^  l'uecchie,  e  gronfiare  a 
tutta  passata,  che  corse  a  la  stalla,  e  disse  all'aseno: 
Arre,  cacaure!  Lo  quale,  co  la  medecina  de  ste  parole,  le 
fece  la  soleta  operazione,  spilannosele  lo  cuerpo  a  cacarelle 
d'oro  e  a  scommossete  de  gioje.  Visto  lo  tavernaro  sta 
evacoazione  preziosa,  fece  pensiero  de  scagnare  l'aseno  e 
mpapocchiare  lo  pacchiano^'  d' Antuono,  stimanno  facele 
cosa  de  cecare,  nzavorrare,  nzavagliare  ^^,  ngannare,  mbro- 
gliare,  nfenocchiare,  mettere  miezo  e  dare  a  vedere 
ceste  pe  lanterne  ^°  a  no  majalone,    marrone,  maccarone, 


*'  Dissenteria.      ^^  Gioia.      ^  Bisaccia. 

'1'^  Gfr.  V.  7  «  lo  quarto  dell'arte  delli  inarranchine.  »  Allude  all'an- 
tico reggimento  della  arti,  nelle  quali  c'erano  i  consoli  e  i  quarti 
dell'arte.  E  vuol  dire  che  quel  tavernaro  era  il  più  eccellente,  cioè 
il  più  briccone  dei  tavernari. 

^  Furbo.      49  Caglio.        =0  cfr.  I,  io,  e  princ.  G.  IV. 

51  Bere.        ^^  Ficcare. 

53  Appapagnare,  chiuder  gli  occhi  per  sonno,  appisolarsi. 

5S  villano.      55  Legare.      3G  (gg)  ^essìcìie  pe  lanterne. 


26  LO   CUNTO  DE  LI  CUNTI 

vervecone^",  nsemprecone,  comm'a  chisto,  che  l'era  mat- 
tuto  pe  le  mano.  Perzò,  scetato  che  fu,  la  matina,  quanno 
esce  l'aurora  a  jettare  l' aurinale  de  lo  viecchio  sujo  tutto 
arenella  rossa  a  la  fenestra  d'oriente,  scergate^*  l'uoc- 
chie  co  la  mano,  stennecchiatose  pe  mez'ora,  fatto  na 
sessantina  d'alizze  e  vemacchie  ^^,  nforma  de  dialogo, 
chiammaje  lo  tavernaro,  decenno:  «  Vieni  ccà,  cammarata; 
«  cunte  spisse,  ed  amicizia  longa;  amice  siammo  e  le 
«  burze  commattano '^";  famme  lo  cuuto  e  pagate!  »  E 
così,  fatto  tanto  pe  pane,  tanto  pe  vino,  chesto  de  me- 
nestra,  chello  de  carne,  ciuco  de  stallaggio,  dece  de  lietto 
e  quindece  de  bon  prode  ve  faccia''^  sborzaje  li  frisole*'*, 
e,  pigliatose  l' aseno  fauzario  co  no  sacchetto  de  prete 
pommece  ncagno  de  le  prete  d' aniello,  appalorchiaje^^ 
verzo  lo  casale.  E,  nanze  che  mettesse  pede  a  la  casa, 
commenzaje  a  gridare,  comm'a  cuotto  d'ardiche:  «  Curre 
«  mamma,  curre,  ca  simmo  ricche  !  apara  tovaglie,  stienne 
«  lenzola,  spanne  coperte,  che  vedarraje  tesoro!  »  La 
mamma,  co  na  prejezza  granne,  apierto  no  cascione,  dove 
ora  lo  corriere  de  le  figlie  da  marito,  cacciajo  lenzola 
shioshiale  ca  vola*",  mesale  adoruse   de  colata*'^,  coper- 


"  Pecorone.        ■'*  Stropicciatisi.        so  Sbadigli  e  peti. 

60  cfr.  3/.^',  I. 

6*  Il  Del  Tufo  descrive  così  l'oste  napoletano,  che  fa  il  conto  col- 
r avventore:  «  Alfln  poi  viene  a  rassettare  il  conto  Con  volto  ilare 
e  pronto;  E  dice  a  ciascheduno:  —  Quattro  e  quatlr'otto,  e  tredici 
a  ventuno;  Quattro  di  pane  e  sei  di  vin  fan  diece;  Sei  altri  di  esca- 
pece;  Sette  d'arrosto,  e  tre  d'allesso,  e  sei  Di  frutte  e  cacio,  e  prò 
vature  arroste,  A  la  barba  de  l'oste,  Che  non  guadagna  straccia, 
Con  sanità  de  li  patroni  miei.  Con  due  di  più  de  lo  buon  prò  vi 
faccia;  Giusto,  s'io  non  m'inganno  a  lo  contare,  Otto  carlini  in' avite 
a  pagare.  —  Poi  presa  la  moneta  o  quel  docato,  Dice:  —  Signori 
miei,  siavi  donato.  —  »  («w.,  e.  f.  8i). 

"^  Quattrini.      ^^  parti  di  buon  passo. 

•"  A  soffiare  sarebbero  volate  via;  tanto  eran  finel  Cosi,  lìassim, 
il  N,,  lo  Sgruttendio,  ecc.      <^5  Bucato. 


JORNATA   r.   TRATTENEJriENTO   I.  27 

ture  che  te  sliiongavano  "^  nfacce,  facenno  na  bella  apa- 
rata nterra.  Sopra  li  quali  puostoce  Antuono  l'aseno,  co- 
menzaje  a  ntonare:  Arre,  cacmiref  Ma  arre,  cacaure,  che 
te  vuoje,  ca  l'aseno  faceva  tanto  cunto  de  chelle  parole, 
quanto  fa  de  lo  suono  de  la  lira.  Tuttavia,  tornanno  tre  0 
quattro  vote  a  leprecare  ste  parole,  ma  tutte  jettate  a  lo 
viento,  deze  de  mano  a  no  bello  torceturo  ^'''  e  comenzaje 
a  frusciare^^  la  povera  vestia;  e  tanto  vusciolaje'^^,  refose, 
e  nforraje,  che  lo  povero  anemale  se  lassaje  pe  sotto  e 
fece  na  bella  squacquarata  "''^  gialla  ncoppa  a  li  panne  jan- 
chi.  La  povera  Masella,  che  vedde  sta  spilazione  de  cuor- 
po,  e  dove  faceva  fonnamiento  d'arrecchire  la  povertà 
soja,  appe  no  funnamiento ''^^  cossi  leberale  ad  ammor- 
barele  tutta  la  casa,  pigliaje  no  tutaro"'^,  e  non  danno 
tiempo,  che  potesse  mostrare  le  pomece,  le  fece  na  bona 
sarciuta/^.  Pe  la  quale  cosa,  subeto  affuffaje^*  a  la  vota 
dell' uerco.  Lo  quale,  vedennolo  venire  chiù  de  trotto, 
che  de  passo,  perchè  sapeva  quanto  l' era  succiesso 
ped  essere  fatato,  le  fece  na  nfroata  de  zuco,  ca  s'a- 
vea  lassato  corrivare  da  no  tavernaro  ;  chiammandolo 
Ascadeo"^,  mamma  mia"*',  moccame  chisso'''^,  vozzacchio, 
sciagallo  '^,  Tadeo,  verlascio  ~^,  piezzo  d'anchione  ^•'j  scola 
vallane,  nsemprecone,  catammaro,  e  catarchio,  che  pe  n'  a- 
seno  lubreco  de  tesoro  s'aveva  fatto  dare  na  vestia  vro- 


cs  Avventavano,  saltavano  (pei  loro  vivi  colori?).  Gfr.  il/X,  V,  ecc. 

'^~  Randello.      ^^  Molestare;  battere.      ^9  Bastonò,      '*>  Cacata. 

'^  Ano.      ''2  Bastone.      "^  Cucitura;  bastonatura.     "'  Se  la  svignò. 

"'^  Nome  proprio,  cfr.  I,  5.  Qui:  semplice,  inetto. 

'•''  Attaccato  come  un  bambino  alle  gonne  materne. 

'■^  Che  abbocca  qualunque  cosa  gli  si  dica.      "*  Vile. 

"9  Nome  medievale,  e  poi  volgare,  dell'Anfiteatro  di  Capua.  V.  A.  S. 
Mazochii,  In  mutilum  Campani  Amphitheatrt  titulum  (Neap.,  1727, 
PP-  I35-9)'  Si  diceva  proverbialmente  per  cosa  antichissima;  cfr.  Sgrut- 
tendio  (0.  e,  G.  VII,  p.  190).  Quindi  :  straccione,  mal  ridotto.  Cfr.  3IX.  I. 
«  verlascio,  straccia  vrache.  »        ^'^  Minchione. 


28  LO  CUNTO  DE  LI  CL'NTI 

gale*^  de  mozzarelle*-  arrauciate.  L' Antuono '*^,  gliotten- 
nose  sto  pinolo,  joraie  elio  mai  chiù,  mai  chiù,  s'averria 
lassato  paschiare  e  burlai'e  da  ommo  vivente.  Ma  non 
passaje  n'autro  anno,  che  le  venette  la  stessa  doglia  de 
capo,  morenno  speruto*'  de  vedere  le  genti  soje.  L' aer- 
eo, ch'era  brutto  de  facce  e  bello  de  core,  dannole 
lecienzia,  lo  regalaje  de  chiù  de  no  bello  stojavocca**'', 
decennole:  «  Porta  chisto  a  mammata;  ma  avviorte,  non 
«  avere  de  lo  ciuccio  a  fare  comme  faciste  dell' aseno; 
«  e  fioche  non  arrivo  a  la  casa  toja,  non  dire:  Aprete, 
«  né:  Serrate,  tovagliulo;  perchè,  si  t'accasca  quarche  au- 
«  tra  disgrazia,  lo  danno  è  lo  tujo.  Ora  va  co  l'anno  buo- 
«  no,  e  torna  priesto!  »  Accesi  partette  Antuono;  ma, 
poco  lontano  da  la  grotta,  subeto  puosto  lo  sarvietto 
nterra,  disse:  Aprete,  e  serrate,  tovagliulo.  Lo  quale  apren- 
nose,  lloco  te  vediste  tante  isce^''  bellizze,  tante  sfuorge, 
tante  galantarie,  che  fu  na  cosa  ncredibile  !  Le  quale  co36-4- 
Xvedenno  Antuono,  diss§.^ubeto:  Serrate,  tovagliulo;  e,  ser- 
ratose  ogno  cosa  dintro,  se  la  sdaje*^'  verzo  la  medesema 
taverna.  Dove,  trasenno^  disse  all'  oste  :  «  Té,  stiparne  sto 
«  stojavocca,  e  vi  che  no  decisse:  Aj^rete,  e  serrate,  tu- 
«  vaglinlo.  »  Lo  tavernaro,  ch'era  de  tre  cotte,  disse: 
«  Lassa  fare  a  sto  fusto  »,  e,  datole  buono  pe  canna,  e 
fattolo  pigliare  la  scigna  pe  la  coda**,  lo  mannaje  a  dor- 


8*  Storp.  di:  volgare. 

82  Specie  di  latticinio;  qui,  per  la  forma  degli  escrementi  dell'asino. 

83  Antuono  è  il  nome  di  S.  Antonio  Abate,  Cfr.  Celano  (o.  o,,  V, 
431)  Essere  un  Antuono  vale:  essere  un  balordo.  E  il  protagonista 
della  novella  si  chiamava,  ed  era,  un  Antuono. 

8'  Languendo  di  desiderio.      85  Tovagliuolo. 

8''  Rafforzativo  delle  parole:  bello,  bellezza,  ecc.  Il  Del  Tufo:  «Al 
fanciul,  che  tien  quel  che  gradisce,  Gli  dicon:  isce,  iscC.  »  (»n«.  e, 
f.  129).      87  si  avviò. 

88  ubbriacarsi;  e,  quindi,  vedere  una  cosa  per  un'altra.  Parrebbe 
che  il  \.  credesse  che  uno  dei   caratteri  della  scimmia   sia  di   non 


JORNATA   I.   TRATTENEMIENTO   I.  29 

mire.  E  isso,  pigliato  lo  stojavocca,  disse:  Aprete,  tova- 
gliulo;  e  lo  tovagliuolo,  aprennose,  cacciaje  fora  tante  cose 
de  priezzo,  che  fu  no  stopore  a  Ledere.  Po  la  quale  cosa, 
ashiato  n'autro  sarvietto  simele  a  cliillo,  comme  Antuono 
fu  acetato,  noe  lo  ngarzaje**^.  Lo  quale,  toccanno  buono,  ar- 
rivaje  a  la  casa  de  la  mamma,  dicenno  :  «  Ora  mo  si,  ca 
«  darrimmo  no  caucio  nfacce  a  la  pezzentaria!,  mo  si, 
«  ch'arremediarimmo  a  le  vi'enzole,  petacce  e  peruo- 
«  glie''^!  »  E,  ditto  chesto,  stese  lo  sarvietto  nterra,  e 
comenzaje  a  dicere:  Aprete,  ^of«^Zù<Zo.' Ma  poteva  dicere 
da  oje  ncraje,  ca  ce  perdeva  lo  tiempo,  e  non  ne  faceva 
cria,  né  spagliosca^^  Perzò,  vedendo  ca  lo  negozio  jeva 
centra  pilo,  disse  ala  mamma:  «  Ben'aggia  aguanno,  ca 
«  m'è  stata  ngarzata  n'autra  vota  da  lo  tavernaro  !  ma 
«  va,  ca  io  ed  isso  simmo  duje  !  meglio  non  ce  fosse 
«  schiuso!  meglio  le  fosse  pigliato  rota  de  carro!  io  poz- 
«  za  perdere  lo  meglio  mobele  de  la  casa,  si  quanno 
«  passo  da  chella  taverna  pe  pagareme  de  le  gioje  e 
«  dell' aseno  an'obato,  io  no  le  faccio  frecole  de  li  rova- 
«  gne^'-!  »  La  mamma,  che  ntese  sta  nova  asenetate,  fa- 
cenno  fuoco  fuoco,  le  decotte:  «  Scapizzate,  figlio  sco- 
«  monecato!,  rumpete  la  catena  de  la  spalla!,  levamette 
«  danante!,  ch'io  veo  le  stentine  meje,  né  te  pozzo  chiù 
«  padiare  ^^,  ca  me  ntorza  ^  '  la  guallara  ^^,  e  faccio  la  voz- 
«  za^^,  sempre  che  me  viene  fra  li  piede!,  scumpela  prie- 
«  sto,  e  fa  che  te  para  fuoco  sta  casa!;  ca  de  te  me  ne 
«  scotolo  li  panne,    e    faccio    cunto    de    non  t'avere  ca- 


aver  coda.  O  che  non  conoscesse  altra  scimmia,  se  non  la  bertuccia, 
inuus  ecaudatus  (Cfr.  II,  2;  IV,  4;  V,  3,  4).  Veramente,  nomina  nella 
G.  IV,  8  il  gatto  maimone,  gatto  di  mare,  cercopithecits,  che  ha  la 
coda.  Cfr.  Liebr.,  Anm.,  I,  405.  * 

*5  ygarzare,  propr.  :  commettere  il  legname  a  dente, 

^  Tre  parole  per  indicare  cenci.      ^^  Un  minimo  che. 

92  Frantumi  dei  vasi.      ^  Digerire.      ^^  Gonfia. 

^j  Propr.  :  ernia.      ^^  Gozzo. 


30  LO   CTJNTO  DE  Lì   CrNTI 

«  cato!  »  Lo  scuro  Antuono,  che  vedde  lo  lampo,  non 
voze  aspettare  lo  truono,  e  corame  si  avesse  arrobato 
na  colata  ^^,  vascianno  lo  capo  ed  auzanno  li  tallune,  ap- 
palorciaje  a  la  vota  dell' uerco.  Lo  quale,  vedennolo  ve- 
nire muscio  e  scialappa  scialappa^*,  le  fece  n'autra  re- 
cercata de  zimbaro  ^^,  decenno  :  «  No  saccio  chi  me  tene, 
«  che  no  te  sbozzo  na  lanterna  *"'',  cannarono,  vesseniello, 
«  vocca  pedetara,  canna  fraceta,  culo  de  gallina,  tatana- 
«  ro,  trommetta  de  la  Vecaria,  che  d'ogne  cosa  jette 
«  lo  hanno,  che  vuomraeche  quant'aje  ncuorpo^°*,  e  no 
«  puoie  rèjere  ^'^'  le  cicero  !  Si  tu  stive  zitto  a  la  taverna, 
«  no  te  soccedeva  chello,  che  t' è  socciesso  ;  ma,  pe  fa- 
«  rete  la  lengua  comm'a  taccariello  de  molino  ^''^,  aje 
«  macenato  la  felicetà,  che  t'era  venuta  da  ste  mano!  » 
Lo  nigro  Antuono,  puostose  la  coda  fra  le  coscio,  se  zu- 
caje  sta  museca  ;  e,  stanno  tre  autre  anno  quieto  a  lo 
servitio  dell' uerco,  pensanno  tanto  a  la  casa  soja,  quanto 
pensava  ad  essere  conte,  puro,  dopò  sto  tiempo,  le  tor- 
naje  la  terzana,  venennole  n'autra  vota  ncrapiccio  di  dare 
na  vota  a  la  casa  soja;  e  perzò,  cercaje  lecienzia  all' uerco. 
Lo  quale,  pe  levarese  da  nanze  sto  stimmolo,  se  contenta- 
taje  che  partesse,  dannole  na  bella  mazza  lavorata,  co 
direle:  «  Portate  chesta  mazza  pe  memoria  mia,  ma 
«  guordate  che  no  decisse:  Aìisate,  mazza,  né:  Corcate, 
«  mazza;  ca  io  non  ce  ne  voglio  parte  co  tico  !  »  E  An- 
tuono, pigliannola,  respose  :  «  Va,  c'aggio  puosto  la  mola 


0'  I  panni  d'un  bucato.        ^*  Lento  lento. 

^  Cembalo.  V.  n.  31,  p.  8. 

*'"'  Gfr.,  MX.  I:  «  Chiù  presto  nio  le  sborzo  na  lanterna.  » 

*"•  Sinonimi  di  chiacchierone  :  latanaro,  parola  onomatopeica  della 
tromba;  trommetta  d.  l.   V.,  della  Gran  Corte  della  Vicaria  di  Napoli. 

102  Reggere,  ritenere. 

•"s  i^gnetto,  che,  al  girar  della  tramoggia,  balte  incessantemente 
sulla  mola.  Qui,  raetaf.  E,  dalla  stessa  metafora,  nacque  jtiù  tnnli  il 
nome  del  tipo  comico  dell'A&otó  Taccarella. 


JORNATA   I.   TRATTENEMIENTO  I.  31 

de  lo  sinno  ^''',  e  saccio  quanta  para  fanno  tre  buoje;  no 
«  so  chiù  peccerillo,  ca  chi  vo  gabbare  Antuono  se  vo 
«  vasare  lo  guveto  ^"'^  !  »  A  chesto  respose  l'nerco:  «  L'o- 
«  pera  lauda  lo  mastro;  le  parole  so  femmene,  e  li  fatte 
«  so  mascole;  starrimmo  a  lo  bedere!  Tu  m'aje  ntiso 
«  chiù  de  no  surdo  :  ommo  avvisato  è  miezo  sarvato  !  » 
Mentre  l'uerco  secotejava  a  dire,  Antuono  se  la  sfilaje 
verzo  la  casa:  ma  non  fu  miezo  miglio  descuosto,  che 
disse:  Auzate,  mazza.  Ma  no  fu  parola  chesta,  ma  arte 
de  ncanto,  che  subeto  la  mazza,  comme  se  avesse  au- 
to scazzamaur ielle  ^^'^  dinto  a  lo  medullo,  comenzaje  a 
lavorare  de  tuorno^*^'  ncoppa  le  spalle  de  lo  nigro  An- 
tuono, tanto  che  le  mazzate  chiovevano  a  cielo  apierto, 
ed  uno  cuorpo  n'aspettava  l'autro.  Lo  poverommo,  che  se 
vedde  pisato  e  conciato  ncordovana^'^^,  disse  subbeto:  Cor- 
cate mazza;  e  la  mazza  scacaje^'^^  de  fare  contrapunte  so- 
pra la  cartella  de  la  schena.  Pe  la  quale  cosa,  mozzato  ^^"^ 
a  le  spese  soje,  disse:  «  Zoppo  sia  chi  fuje!;  affé  ca  no 
«  la  lasso  pe  corta!;  ancora  n'è  corcato  chi  ha  d'avere 
«  la  mala  sera!  »  Cossi  dicenno,  arrivaje  a  la  taverna 
soleta,  dove  fu  recevuto  co  la  chiù  granne  accoglienza 
de  lo  munno,  perchè  sapeva  che  zuco  renneva  cotona. 
Subeto  che  Antuono  fu  arrivato,  disse  all'  oste  :  «  Té,  sti- 
«  pame  sta  mazza;  ma  vi,  che  no  decisse:  Avzate,  mazza, 
«  ca  passe  pericolo!  ntienneme  buono,  no  te  lamentare 
«  chiù  d' Antuono,  ca  io  me  ne  protesto,  e  faccio  lo  lietto 
«  nante  !  »  Lo  tavernaro,  tutto  prejato  de  sta  terza  ven- 


io'  Dente  del  senno.      ^^^  Gomito. 

^^'^  Piccolo  demonio,  diavoletto,  piuttosto  benigno.      ^^''  Tornio. 

108  «  Siccome  la  pelle  di  cordovana  per  divenir  più  gentile  nella 
sua  concia,  passa  per  tormenti  maggiori  d'ogni  altra  pelle.  »  Così 
Partenio  Tosco  (L'eccell.  della  lingua  napol.,  p.  266). 

1*^^  Cessò.  Metaf.,  al  solito,  da  cosa  poco  pulita. 

110  Istruito. 


32  LO   CUKTO  DE  LI  CUNTI 

tura,  lo  fece  buono  abbottare*"  de  menestra  e  vedere  lo 
funno  de  l'arciulo;  e,  corame  l'ebbe  scapizzato  ncoppa 
a  no  letticiello,  se  ne  corze  a  pigliare  la  mazza,  e,  chiam- 
manno  la  mogliere  a  sta  bella  festa,  disse:  Aiizate,  mazza! 
La  quale  commenzaje  a  trovare  la  stiva  de  li  tavernare, 
e  tuffete  da  oca,  e  tiffette  da  Uà,  le  fece  na  juta  e  na 
venuta  de  truono,  tale  che,  vodennose  curte  e  male  pa- 
rate, oorzero,  sempre  calo  chiajeto^'-  dereto,  a  scetare  An- 
tuono,  cercanno  mesoricordia.  Lo  quale,  vistose  la  cosa  co- 
lare a  cbiummo"^,  e  lo  maccarone  dinto  a  lo  caso"',  e 
li  vruoccole  dinto  lo  lardo,  disse:  «  No  c'è  remmedio; 
«  vuje  morarrite  crepate  de  mazze,  si  no  me  tornate  le 
«  cose  meje  !  »  Lo  tavernare,  ch'era  buono  ntommacato  "', 
gridaje:  «  Pigliate  quant' aggio,  e  levarne  sto  fruscia- 
«  miento  de  spalle!  »;  e,  pe  chiù  assecurare  la  parte  d'An- 
tuono,  fece  venire  tutto  ohello,  che  l'aveva  zeppolejato"''; 
che,  comme  Tappe  dintro  ale  mano,  disse:  Corcate,  mazza! 
e  chella  s'accosciaje  e  jettaje  da  na  parte.  E,  pigliatose 
lo  sommarro,  e  l'autre  cose,  se  ne  jeze  a  la  casa  de  la  7^ 
mamma;  dove,  fatto  cemiento  rejale  de  lo  tafanario  de 
l'aaeno,  e  prova  secura  de  lo  tovagliulo,  se  mese  buone 
cuoccole  "'  sotto,  e,  maritanno  le  sore,  e  facenno  ricca 
la  mamma,  fece  vero  lo  mutto  : 

A  pazze  e  a  peccerillc  Dio  l'ajuta. 


1*1  Gonfiare.      **'  Propr.:  lite,  affare.      ii3  Riuscire. 

"■i  Ora  si  dice:  il  cacio  sui  maccheroni.  Il  Brano,  nello  Spaccio 
della  bestia  Irionf.  (D.  Ili):  «  Ne  è  cascato,  com'è  proverbio  in  Na- 
poli, il  maccarone  dentro  il  formaggio  ».  Per  altri  prov.  e  frasi  prese 
dai  maccheroni,  cfr.  IH,  9;  IV,  3,  4,  6,  9.      "^  Battuto  ben  bene. 

1'®  Rapilo  di  soppiatto,  arraffato.  *i^  Quattrini. 


LA  MORTELLA 


Teattenemiento  secunno  de  la  Jornata  primma. 

Xa  foretana  de  Miano  ^  partorisce  na  mortella.  Se  ne  nnammora  no 
prencepe,  e  le  resce  na  bellissima  fata.  Va  fora,  e  la  lassa  dintro 
la  mortella,  co  no  campaniello  attaccato.  Traseno  dintro  la  cam- 
mara  de  lo  prencepe  certe  femmene  triste,  gelose  d'isso,  e,  toc- 
canno  la  mortella,  scende  la  fata,  e  l'accidono.  Torna  lo  pren- 
cepe, trova  sto  streverio^,  vo  morire  de  doglia;  ma,  recuperanno 
pe  strana  ventura  la  fata,  fa  morire  le  cortisciane,  e  se  piglia  la 
fata  pe  mogliere. 

i\lon  se  vedde  pipetare  nessuno,  mentre  Zeza  seco- 
tava  lo  ragionamiento  sujo.  Ma,  pò  che  fece  fitta  a  lo  par- 
lare, se  ntese  no  greciglio^  granne,  e  non  poteva  chiu- 
dere vocca  delle  cacate  de  l'aseno  e  de  Ramazza  fatata; 
e  nce  fu  perzona,  che  disse,  ca  si  ce  fosse  na  serva  de 
ste  mazze,  chiù  de  quattro  mariuole  manco  sonarriano 
de  zimmaro*,  e  chiù  de  quattro  autre  mettarriano  chiù 
sinno,  e  non  se  trovarriano  a  lo  tiempo  d'oje  chiù  a- 
sene,  che  sarme  ^.  Ma,  pò  che  s'appe  fatto  quarche  tra- 
scurzo  ntuorno  a  sta  materia,  lo  segnore  dette  ordene  a 
Cecca  che  continovasse  lo  filo  de  li  cunte  ;  la  quale  cossi 
parlaje. 


^  villaggio,  una  volta  casale,  di  Napoli,  a  due  miglia,  verso  setten- 
trione.     2  Ruina,  strage.      3  Mormorio,  chiacchierìo. 

'^  Sonar  di  cembalo,  rubare:  usa  spessissimo  il  N.  Cfr.  anche  Pi- 
trè,  Bibi,  XV,  360,      5  (ES)  farine. 


34  LO  CUNTO  DE  LI  CUNTI 

Quanno  l'ommo  pensasse  quanta  danne,  e  quanta  rui- 
ne,  quanta  scasamiente  succedeno  pe  le  mardette  fem- 
mene  de  lo  munno,  sarria  cliiù  accuorto  a  fuire  le  pedate 
de  na  donna  desonesta,  che  la  vista  de  no  scorzone;  e 
no  consumarria  l'onore  pe  na  feccia  de  vordiello,  la  vita 
pe  no  spetale  de  male,  e  tutte  le  ntrate  pe  na  pubreca, 
la  quale  non  passa  tre  tornise  ^;  pocca  non  te  fa  gliottere 
antro,  che  pinole  agregative  de  desguste  e  d'arraggia; 
comme  senterrite,  che  soccesse  a  no  prencepe,  che  s'era 
dato  umano  a  ste  male  razze. 

Tu  a  lo  casale  de  Miano  no  marito  e  na  mogliere, 
che,  non  avenno  sporchia  de  figlie,  desideravano  co  no 
golio  granne  d'avere  quarche  arede;  e  la  mogliere  so- 
pra tutto  sempre  diceva  :  «  Oh  Dio,  partoresse  quarcosa 
«  a  lo  munno,  e  no  me  curarria  che  fosse  frasca  de 
<  mortella!  »  E  tanto  disse  sta  canzona,  e  tanto  frusciale 
lo  cielo  co  ste  parole,  che,  ngrossatole  la  panza,  se  le 
fece  lo  ventre  tunno,  e,  ncapo  de  nove  mise,  ncagno  de 
partorire  mbraccia  a  la  mammana''  quarche  nennillo  o 
squacquara^,  cacciaje  da  li  campi  elise  de  lo  ventre  na 
bella  frasca  de  mortella.  La  quale,  co  no  gusto  granne  pa- 
stenatola  a.  na  testa  lavorata  co  tante  belle  mascarune^, 
la  mese  a  la  fenestra,  covernannola  co  chiù  diligenzia  ma- 
tino  e  sera,  che  non  fa  lo  parzonaro  ^**  no  quatro  de  ter- 
za ^\  dove  spera  cacciare  lo  pesone  dell' uorto.  Ma,  pas- 
sanno  da  chella  casa  lo  figlio  de  lo  re,  che  jeva  a  caccia, 
se  ncrapicciaje  fora  de  mesura  de  sta  bella  frasca,  e  man- 
naje  a  dicero  a   la  patrona    che    ce   la  vennesse,  ca  l'a- 


''  Giuoco  sul  doppio  spnso  di  pubreca.  donna  pubblica,  e  moneta, 
che  valeva  tre  tornesi. 

'^  Levatrice.     *  Bambino  maschio,  o  femmina.  V.  n.  7,  p.  22. 

9  Testi  da  flori,  come  usano  ancora,  con  mascheroni  in  rilievo. 

**•  Propr.  :  mezzadro  (portlonarh/s)^  e,  in  gen,,  contadino. 

'^  Spartimento  tutto  piantato  di  torse,  broccoli  di  cavolo:  Vrasstca 
olcracca. 


.TORNATA   I.    TRATTENEMIENTO    II.  35 

verria  pagata  n'uocchie.  La  quale,  dopo  mille  negative 
e  contrasto,  all'utemo,  ncannaruta^'  dall' offerte,  ncroc- 
cata*^  da  le  prommesse,  sbagottuta  da  le  menacele,  ven- 
duta da  li  prieglii,  le  deze  la  testa,  pregaunolo  a  tene- 
rela  cara,  pecca  l'amava  chiù  de  na  figlia  e  la  stimava 
quanto  se  fosse  sciuta  da  li  rine  siig^e^  Lo  prencepe,  co 
la  maggiore  prejezza  de  lo  munno,  fatto  portare  la  testa 
a  la  propia  cammai'a  soja,  la  fece  mettere  a  na  loggia, 
e  co  le  propie  mano  la  zappolejava  e  adacquava.  Ora 
mo  accascaje,  che,  corcatose  na  sera  sto  prencepe  a  lo 
lietto,  e  stutato  ^'  le  caunele,  comme  fu  quietato  lo  mun- 
no, e  facevano  tutte  lo  primmo  suonno,  lo  prencipe  sen- 
tette  scarponiare  pe  la  casa,  e  venire  a  l' attentune  verzo 
lo  lietto  na  perzona.  Pe  la  quale  cosa  fece  penziero  o 
che  fosse  quai'che  muzzo  de  cammara  pe  allega rirele  lo 
vorzillo,  0  quarche  monaciello  pe  levarele  le  coperte  da 
cucilo  ^^;  ma,  comm'ommo  arresecato,  che  no  le  metteva 
paura  manco  lo  brutto  zefierno,  fece  la  gatta  morta,  aspet- 
tanno  l'eseto^*^  de  sto  negozio.  Ma,  quanno  se  sentette  ac- 
costare lo  chiajeto,  e,  tastianno,  se  addonaje  dell'opera 
liscia,  e  dove  penzava  de  parpezzare  puche  d'estrece  ^~, 
trovaje  na  cesella  chiù  mellese  *^  e  morbeta  de  lana  var- 
varesca,  chiù  pastosa,  e  cenerà  ^^  de  coda  de  martora,  chiù 
delecata  e  tenera  de  penne  de  cardillo,  se  lanzaje  da 
miezo  a  miezo,  e,  stimannola  na  fata  (comme    era  n'ef- 


i2  Presa  da  .ingordigia.      '^  Tirata  coli' uncino.      ^^  Spente. 

ij  Cfr.  III.  7.  Il  raonaciello ,  spirito  familiare  nella  credenza  del 
volgo  napoletano.  Si  suole  immaginarlo,  ordinariamente,  sotto  forma 
di  un  nano,  vestito  da  prete  con  la  chierica  e  la  scazzettella  (zuc- 
chetto) rossa  in  testa.  I  suoi  scherzi  e  dispetti  (tra  i  quali,  comu- 
nissimo questo  di  tirar  giù  le  coverte  dal  letto  di  chi  dorme),  e  i 
suoi  favori,  sono  argomento  di  curiosi  aneddoti.  V.  L.  Correrà,  U 
munaciello  in  GBB.,  I,  4;  e  F.  Verdinois  in  Fanfulla,  6-7  genn.  1885. 
Cfr.  Pitrè,  Il  Folletto  {Bibl,  XVII,  68-72).      i^  (es)   effetto. 

^'  Pungoli,  spine  d'istrice,      i*  Tenera,  molle.      i^  Morbida. 


36  LO   CUNTO  DE   LI   CUNTI 

fetto),  s'afferraje  comme  purpo,  e,  joquanno  a  la  pas- 
sarà  muta,  facettero  a  preta  nsino  ''\  Ma,  nnanze  clie  lo 
sole  scesse  comme  a  protamiedeco-*  a  fare  la  visita  de 
li  shiure,  che  stanno  malate  e  languede,  se  sosette  lo 
recapeto*-  e  sbignaje,  lassanno  lo  prencepe  chino  de  do- 
cezze,  prieno  de  curiosità,  cari-eco  de  maraveglia.  Ma,  es- 
senno continuato  sto  trafeco  pe  sette  juorne,  se  strudeva 
e  squagliava  de  desiderio  de  sapere  che  bene  era  chi- 
sto,  che  le  chioveva  da  le  stelle,  e  quale  nave,  carreca 
de  le  docezze  d'ammore,  veneva  a  dare  funno  a  lo  lietto 
sujo.  Pe  la  quale  cosa,  na.  notte,  che  la  bella  nonna  fa- 
ceva la  nanna -^,  attaccatose  na  trozza  de  le , ^j^  a  lo 
vraccio,  perchè  non  potesse  sbignare,  chiammaje  no  cam- 
mariero;  e,  fatto  allommare  le  cannele,  vedde  lo  shiore 
de  le  belle,  lo  spanto  de  le  foramene,  lo  schiocco,  lo  cuc- 
copinto*'  de  Venere,  l'isce  bello  d'ammore;  vedde  na 
pipatella,  na  penta  palomma,  na  fata  Morgana,  no  confa- 
lone''^,  na  puca  d'oro-'"';  vedde  no  cacciacore'^,  n'uoc- 
chie  de    farcene,    na    luna    nquintadecema,  no  musso  de 


*o  Due  giuochi  ;  il  primo  dei  quali  è  menzionato  nella  lettera  dei 
N.  aìV  Uneco  sciammeggiante  (cfr.  anche  Cort.,  3/tcco  Pass.,  Ili,  3)  ;  e 
il  secondo  a  princ.  G.  II.  Qui,  metaf,,  in  senso  osceno. 

21  II  Protomedico  a  Napoli,  oltre  al  dar  le  licenze  ai  medici  e 
chirurgi,  non  dottorati  in  Napoli  0  in  Salerno,  «  riconosce  tutte 
le  drogherie  e  droghieri,  et  spetiali  di  medicina,  e  barbieri  e  mam- 
mane per  tutto  il  Regno;  ministra  in  sua  casa  giustizia,  con  l'ap- 
pellationi  al  Consiglio,  esercita  per  tre  anni,  eletto  da  S.  M..  né  può 
essere  d'altre  parti  che  Napolitano  0  del  Regno  »  (Capaccio.  Na- 
poli descritta  nel  2»'inctpii  del  S.  XVII  in  Arch.  Stor,  Nap.  VII,  780). 

*2  La  persona,  delia  quale  si  parla  o  con  la  quale  si  ha  relazio- 
ne; e,  quindi,  concubina,  amica.  V.  più  oltre  in  questo  stesso  Trat- 
ten.,  e  cfr.  3/.V.,  IH. 

23  Nanna;  giuoco  di  parola  con  nenna,  giovinetta.      ^'  Cupido. 

*^  Cfr,  I,  6;  e  l'egl.  La  coppella:  «  Auta  e  desposla  cornine  a  con- 
fatone. »      ^'^  Creatura  tutta  bolla,  quasi  ramoscello  d'oro. 

^  (ES)  Cacciatore!  E  il   Liebr.,  quindi:  cine  IIerzensja.gei'in  (I,  32). 


JORNATA  T.   TRATTENiarrENTO   II.  3" 

piccionciello,  no  muorzo  de  re,  no  giojello  ;  vedde,  final- 
mente, spettacolo  da  strasecolare.  La  quale  cosa,  nairanno, 
disse:  «  Ora  va  te  nforna,  dea  Cocetrigno  ^^  !,  chiavate  na 
«  funa  ncanna-^,  o  Elena!  tornatenne,  o  Criosa  e  Sbiorella^*^!, 
«  ca  le  bellezze  vostre  so  zavaneUe  ^^  a  paragone  de  sta 
«  bellezza  a  doi  sole^-,  bellezza  comprita,  nteregna^^,  sta- 
«  scionata,  massiccia,  cbiantuta,  grazie  de  sisco^',  de  se- 
«  viglia^"^,  de  truono,  de  mascese^*^,  de  mportolanzia  ^'', 
«  dove  non  nce  truove  piecco?^,  non  c'asbie^^  zeta!  0 
«  suonno,  o  doce  suonno,  carreca  papagne'*'^  all' nocchie 
«  de  sta  bella  gioja!,  non  me  scorrompere  sto  gusto  de 
«  mirare,  quanto  io  desidero,  sto  triunfo  de  bellezza!  0 
«  bella  trezza,  che  m'annodeca!,  o  beli' nocchie,  che  me 
«  scaudano  !,  o  belle  lavra,  che  me  recrejano  !,  o  bello  piet- 


as ciprigna.      29  va  t'impicca! 

30  Qui  il  luogo  sembra  corrotto,  e,  forse,  deve  dire  :  «  a  Criosa,  o 
Shiorella.  »  Allude  alla  storia  di  Marco  e  Fiorella,  due  famosi  a- 
manti.  Cfr,  II,  7,  e  il  Cortese  {Giulio  e  Perna,  pag.  6).  Questa  sto- 
ria, tanto  popolare  un  tempo,  non  riuscì  al  Liebr.  (An/n,  I,  398-9), 
né  airimbriani  {Posti.  III.  XV,  pag.  176,  sgg.),  di  ripescarla.  Ne  La 
Necessità  aguzza  lo  Ingegno,  Comedia  dell'Accadi.  Infuriato,  detto  lo 
Impatiente  (Nap.,  1670),  e'  è,  intorno  ad  essa,  un  accenno  un  po'  più 
largo:  «  Ecco  agghiustata  la  trinca:  Marcalo,  Shiorella  e  Buonau- 
rio  »  (I,  5).  D'altra  parte,  trovo  che  Guglielmo  di  Blois  scrisse  in- 
torno al  1160  una  Tragoedia  de  Flaura  et  Marco,  ora  perduta  {Hi- 
stoire  Hit,  XV,  414).  Il  che  accennerebbe  all'antichità  dell'argomento, 
se  il  riscontro  dei  nomi  non  fosse,  come  forse  è,  puramente  casuale. 

31  Cose  da  nulla. 

32  A  doppia  suola.  Erron.  il  Liebr.:  «  mit  zwei  Sonnen.  »  (I,  32). 

33  Intera.      34  propr. :  fischio.  Ma:  de  sisco  vale:  a  meraviglia. 

35  Molte  le  cose  eccellenti  di  Siviglia:  il  tabacco,  la  bellezza  delle 
donne,  ecc.  Nelle  MX,  Vili:  «  na  calza  de  Seviglia.  » 

36  Nell'Egl.  La  Coppella:  «  È  quarcosa  de  bello?  —  A  punto,  e 
de  mascese  ».  E  così  molti  altri  esempii,  in  senso  di  cosa  utile,  ot- 
tima, eccellente. 

3''  Forse:  d'importanza.  Nella  G.  Ili,  3:  «  lo  negozio  è  de  mporto- 
lanzia  ».      38  Difetto.      39  Trovi.       *o  Papaveri, 


38  LO  CTJNTO  DE   LI   CUNTI 

«.  to,  che  conzolame!,  o  bella  mano,  che  me  smafara'^M 
«  Dove,  dove,  a  quale  poteca  de  le  maraveglia  de  la  na- 
«  tura  se  fece  sta  viva  statola  ?  qnal'  Innia  dette  l' oro  da 
«  fare  sii  capille?  qual' Etiopia  l'avolio  da  fravecare  sta 
«  fronte?  quale  maremma  li  carvunchie  de  componere 
<;  st'uocchie?  quale  Tiro  la  porpora  da  magriare*^  sta 
«  facce?  quale  Oriente  le  perne  da  tessere  sti  diente?  e 
«  da  quale  montagne  se  pigliaje  la  neve,  pe  sparpogliare 
«  ncoppa  a  sto  pietto?  Neve  contra  natura,  che  mantene 
«  li  shiure,  e  soauda  li  core  !  »  Cosi  decenno,  le  fece  vite 
de  le  braccia,  pe  conzolare  la  vita.  E,  mentre  isso  le 
strenze  lo  cucilo,  essa  fu  sciòuta  da  lo  suonno,  respon- 
nenno  co  no  graziuso  alizzo  ^'^  a  no  sospiro  de  lo  pi'encepe 
nnammorato.  Lo  quale,  vedennola  scetata,  le  disse:  «  0 
«  bene  mio,  ca  si,  vedenno  senza  cannele  sto  tempio  d'am- 
<f  more,  era  quase  spantecato,  che  sarrà  della  vita  mia, 
«  mo  che  ci  aje  allommato  doi  lampe?  0  bell'uocchie, 
«  che,  co  no  tronfiello  de  luce,  facite  joquare  a  banco  fal- 
«  luto*'  le  stelle,  vui  sulo,  vui  avite  spertosato  sto  co- 
«  re,  vui  sulo  petite  comme  ova  fresche  farele  na  stop- 
«  pata*"'!  E  tu,  bella  medeca  mia,  muovete,  muove  a  pie- 
«  tate    de  no   malato   d'ammore,    che,   pe   avere  mutato 


•'*  Buca,  trafiggo, 

''^  Colorare  di  rosso.  E  si  chiamavano  inagriate,  quelle  tinture  di 
rosso  o  altro  colore,  che  si  facevano  per  insulto  alle  porte  delle 
case;  contro  le  quali  pene   severissime   stabilivano  le  prammatiche. 

''S  sbadiglio.  V.  n.  59,  p.  26. 

^'  Il  Tansillo  nei  CajiUoU  (ed.  S.  Volpicella,  Nap.,  1870,  p.  269)  no- 
mina: «  il  giuoco  del  trionfo  e  di  runfetto  ».  Il  Garzoni,  tra  i  giuochi, 
che  si  fanno  coi  tarocchi:  a  trion fitti,  e  a  banco  fallito  (0.  e,  p.  564). 
Il  Boccalini  discorre  del  trionfetto,  chiamandolo:  «  giuoco  vilissimo 
A-\  sbirri  »  (Ragg.  di  Parnaso.  Ven.,  1680,  II,  2).  Nelle  prammatiche, 
il  giuoco  del  triunfo  è  nominato  tra  quelli  permessi.  Cfr.  Pranun. 
Agosto,  1638,  T.  Xil.  De  aleatorlbus,  14  (Coli.  Giust.,  T.  I). 

*^  «  Si  fa  con  uova,  olio  rosato  e  trementina  con  stoppa,  ponen- 
dosi sulle  ferite  »  (Fasano,  0.  e,  IH,  19). 


JORNATA  I.   TRATTENEMIENTO   IL  39 

«  ajero  da  lo  bruoco""^  de  la  notte  a  lo  lummo  de  ssa 
«  bellezza,  l'è  schiaffata  na  freve!,  mietteme  la  mano  a 
«  sto  pietto,  toccarne  lo  puzo,  ordename  la  rizetta!  Ma 
«  che  cerco  rizetta,  arma  mia?,  jettame  cinco  ventose  a 
«  ste  lavra  co  ssa  bella  vocca;  non  voglio  autra  scerga- 
«  zione''  a  sta  vita,  che  na  maniata  de  sta  manzolla'*^, 
«  ch'io  so  securo  ca,  co  l'acqua  cordeale  de  sta  bella 
«  grazia  e  co  la  radeca  de  sta  lenguavoie^^,  sarraggio  li- 
«  bero  e  sano.  »  A  ste  parole,  fattose  la  bella  fata  ros- 
sa comme  a  vampa  de  fuoco,  respose  :  «  Non  tante  laude, 
«  signore  prencepe,  io  te  so  vajassa^",  e  pe  servire  sta 
«  faccia  de  re,  jettaria  perzi  lo  necessario  ^\  e  stimmo 
«  a  gran  fortuna,  che,  da  rammo  de  mortella  pastenato 
«  a  na  testa  de  creta,  sia  deventato  frascone  de  lauro 
«  mpizzato  a  l' ostarla  de  no  core  de  carne  ^',  e  de  no 
«  core,  dove  è  tanta  grannezza  e  tanta  vertute!  »  Lo 
prencepe,  a  ste  parole,  squagliannose  comme  a  na  can- 
nela  de  sivo,  tornanno  ad  abbracciarela,  e  sigillanno  sta 
lettera  co  no  vaso,  le  deze  la  mano,  dicenno:  «  Eccote 
«  la  fede,  tu  sarrai  la  mogliere  mia,  tu  sarrai  patrona  de 
«  lo  scettro,  tu  averraje  la  chiave  de  sto  core,  cossi 
«  comme  tu  tiene  lo  temmone  de  sta  vita!  »  E,  dapò  che- 
ste  e  ciento  autre  ceremonie  e  trascurze,  auzatose  da  lo 
lietto,  vedettero  se  le  stentina  ereno  sane^^,  e  stettero 
co  lo  stisso    appontamiento   pe   na   mano  de  juorue.  Ma, 


^  Fosco,      '*''  Fregagione.      *^  Manina. 

■*9  Pianta  medicinale;  linguabova,  buglossa.  Altri  corregge  :  lengua 
toja.      50  Serva. 

51  Vaso  immondo.  Allude  all'uso  delle  serve,  che  andavano  allora 
a  gettar  fuor  di  casa  i  vasi  immondi.  Gfr.  IH,  io:  «A  la  marina  de 
Ghiaja  la  sera,  quanno  chelle  magne  femmene  portano  lo  tributo 
a  lo  maro,  d'autro  che  d'adure  d'Arabia  ». 

5-  Le  frasche,  messe  a  insegna  deirosceria. 

53  Mangiarono.  Il  Cortese:  «  Jezemo  nuje  perzine  a  lo  (iniello  A 
bedere  s'è  sano  lo  vodiello  »  {Viaggio  de  Parnaso,  II,  i). 


40  LO    CUNTO   DE   LI   CUNTI 

perchè  la  fortuna,  sconceca  juoco  e  sparte  matrimonio,  è 
sempre  mpiedeco^'  a  li  passe  d'ammore,  è  sempre  cano 
nigro,  che  caca  miezo  a  li  guste  de  chi  vo  bene^^,  oc- 
corze  che  fu  chiammato  lo  prencepe  a  na  caccia  de  no 
gran  puorco  sarvateco,  che  roinava  chillo  paese.  Pe  la 
quale  cosa  fu  costritto  a  lassare  la  mogliere,  anze  a  las- 
sare dui  tierze  de  lo  core.  Ma,  perchè  l'amava  chiù  de 
la  vita,  e  la  vedeva  bella  sopra  tutte  le  bellezzetudene 
cose,  da  st'ammore  e  da  sta  bellezza  squigliaje  chella 
terza  spezie,  che  è  na  tropeja  ^'^  a  lo  mare  de  li  contiente 
amoruse,  na  chioppeta^'  a  la  colata  de  le  gioje  d'am- 
more, na  folinia,  che  casca  dinto  a  lo  pignato  grasso  ■'** 
de  li  guste  de  li  nnammorate,  chella,  dico,  eh'  è  no  serpe, 
che  mozzeca  e  na  carola  ^^  che  reseca,  no  fele,  che  ntos- 
seca,  na  jelata,  che  nteseca*'",  chella,  pe  la  quale  sta  sem- 
pre la  vita  posole,  sempre  la  mente  nstabile,  sempre  lo 
core  suspeca.  Perzò,  chiammata  la  fata,  le  disse:  «  So 
^;  costritto,  core  mio,  di  stare  doi,  o  tre  notte,  fora  de 
<v  casa.  Dio  sa  con  che  dolore  me  scrasto  da  te,  che 
«  si  l'arma  mia!,  lo  Cielo  sa,  se  nante  che  piglia  sto 
«  trotto,  farraggio  lo  tratto  !  Ma,  no  potenno  fare  de  raan- 
<'  co  de  non  ghiro  pe  sodesfazione  de  patremo,  besogna 
<  ch'io  te  lassa.  Perzò  te  prego,  pe  quanto  ammore  me 
«  puorte,  a  trasiretenne  dintro  la  testa,  e  no  scire  fora, 
«  finché  non  torno,   ca  sarrà  quanto   primma.  »   «  Cossi 


5'  Intoppo. 

S5  Così  il  N.  lìosxbn  e  il  Cortese  {Giulio  e  Perna,  p.  25),  ecc. 

5"  Temporale,  tempesta.      '<''  Piofj^ria. 

^■>^  Cfr.  II,  4.  Sorta  di  minestra  napoletana,  fatta  con  cavoli,  pro- 
sciutto, lardo,  ecc.,  che  allora  era  considerata  come  il  capolavoro 
della  cucina  napoletana;  i  maccheroni  non  avevano  l'importanza, 
che  ebbero  poi.  V.  il  Del  Tufo  (nis.  e,  f.  19-20)  e  il  N.  e  il  Cortese 
e  lo  Sgruttendio,  che  non  cessano  di  esaltarla!  Nella  G.  V.,  i:  «  L'a- 
dore  ne  .ieva  pe  tutto  lo  quartiero,  comme  va  de  le  pcynate  mari- 
tate la  domeneca.  »      so  Tarlo.      '•0  Intirizzisce. 


JOENATA  I.   TKATTENEMIENTO  II.  41 

«  farraggio,  —  disse  la  fata,  —  perchè  non  saccio,  non  vo- 
«  glio,  nò  pozzo  leprecare  a  chello,  clie  te  piace!  Perzò, 
«  va  co  la  mamma  de  la  bon'ora,  ca  te  servo  a  la  co- 
«  scia^M  Ma  famme  no  piacere  di  lassare  attaccato  a  la 
«  cimma  de  la  mortella  no  capo  di  seta  co  no  campa- 
«  niello,  e,  quanno  tu  vieni,  tira  lo  filo  e  sona,  ch'io  su- 
«  beto  esco  e  dico  :  veccome  !  »  Cossi  facette  lo  prence- 
pe;  anze,  chiammato  no  cammariero,  le  disse:  «  Vieni  ccà, 
«  vieni  ccà  tu,  apre  l'aurecchie,  sienti  buono:  fa  sempre 
«  sto  lietto  ogne  sera,  comme  ce  avesse  a  dormire  la 
«  perzona  mia,  adacqua  sempre  sta  testa,  e  sta  ncelle- 
«  vriello,  e' aggio  contato  le  frunne;  e,  s'io  ne  trovo  una 
«  manco,  io  te  levo  la  via  de  lo  pane  !  »  Accessi  ditto, 
se  mese  a  cavallo,  e  jette  comm'a  piecoro,  eh' è  portato 
a  scannare,  pe  secotare  no  puorco.  Fra  chisto  miezo,  sette 
femmene  de  mala  vita,  che  se  teneva  lo  prencepe,  visto 
ca  s' era  ntepeduto  e  refreddato  nell'ammore,  e  c'aveva 
nzoperato '^'"  de  lavorare  a  li  terretorie  loro,  trasettero 
nsospetto,  che,  pe  quarche  nuovo  ntrico,  se  fosse  smen- 
tecato  dell'ammecizia  antica.  E  perzò,  desiderose  di  sco- 
prire paese,  chiammaro  no  fi*avecatore,  e  co  buone  do- 
nare, le  fecero  fare  na  cava  pe  sotto  la  casa  loro,  che  ve- 
nette  a  responnere  dinto  la  cammara  de  lo  prencepe. 
Dove  trasute  sto  spitalere*^^  leiestre*^'  pe  vedere  se  nuovo 
recapito,  si  autra  sbriffia'^-'  l'avesse  levato  la  veceta"^'' 
e  ncantato  l'accunto,  no  trovanno  nesciuno,  aperzero.  E, 
visto  sta  bellissima  mortella,  se  ne  pigliare  na  fronna 
ped  uno;  sulo  la  chiù  picciola  se  pigliaje  tutta  la  cimma, 


Si  Nel  miglior  modo.  Metaf.  tolta  dal  beccaio,  clie  taglia  all'avven- 
tore la  carne  della  coscia,  cioè  del  miglior  pezzo. 

<52  Sospeso,  cessato. 

63  Meretrici,  gente  da  ospedale.  Gfr.  MK,  II,  vm.  Lo  Sgruttendio,  di 
lina  donna  infrancesata:  «  e  non  sapeva  Ch'era  sore  carnale  a  lo 
spedale.  »  (0.  e,  II,  12).      6i  Leste.      ^^  Meretrice. 

^  La  vece,  1"  ufficio. 

6 


I 


42  LO  CUNTO  DE  LI   CUNTI 

a  la  quale  era  attaccato  lo  campaniello.  Lo  quale  toccato 
a  pena,  sonaje;  e  la  fata,  credennose  che  fosse  lo  pren- 
cepe,  saette  subeto  fora.  Ma  le  perchie  scalorcie  "'',  corn- 
ine vedettero  sta  pentata  cosa,  le  mesero  le  granfe  ad- 
duosso,  decenno:  «  Tu  si  elicila  che  tiri  a  lo  molino  tujo 
«  l'acqua  de  le  speranze  nostre?,  tu  si  chella  che  ci  hai 
«  guadagnato  pe  mano  lo  bello  riesto  de  la  grazia  de  1  o 
«  prencepe?,  tu  si  chella  magnifeca,  cheite  si  posta  mpos-'^ 
«  sessione  delle  carnecelle  nostre?;  singhe  la  ben  venu- 
fn  ta,  va,  ca  si  arrevata  a  lo  colature!,  oh  che  non  t'a- 
vesse cacato  mammata!,  va  ca  staje  lesta!,  aje  pigliato 
«  vajano*^^!,  nce  si  ntorzata^'-'  sta  vota!,  non  sia  nata 
«  de  nove  mise,  se  tu  ne  la  vaje!  »  Cossi  decenno,  le 
schiafattero  na  saglioccola'"  ncapo,  e,  spartennola  subeto 
nciento  piezze,  ogn'una  se  ne  pigliaje  la  parte  soja:  sulo 
la  chiù  peccerella  non  voze  concorrere  a  sta  crudeletate 
cosa,-e,  mmitata  da  le  sere  a  fare  comme  facevano  lloro, 
non  voze  antro,  che  no  cierro  de  chille  capille  d'oro. 
Fatto  chesto,  se  l' appalorciaro  pe  la  medesema  cava. 
Arrivaje,  fra  tanto,  lo  cammariero  pe  fare  lo  lietto  ed 
adacquare  la  testa,  secunno  l'ordene  de  lo  patrone,  e  tro- 
vato sto  bello  desastro,  appo  a  morire  spantecato!  E  pi- 
gliatose  lo  mano  a  diente,  auzaje  li  residie*'  de  la  carne 
e  de  l'ossa  avanzate,  e,  raso  lo  sango  da  terra,  ne  fece 
tutto  no  montonciello  dinto  la  stessa  testa  ;  la  quale  adac- 
quata, fece  lo  lietto,  serraje,  e  posta  la  chiave  sotto  la 
porta  "^,  se  ne  pigliaje  le  scarpune   fora  de   chella  terra. 


6''  Brutte,  vili.  Cfr.  .V.V.,  II. 

^  Hai  trovato  il  tuo  danno.  «  Detto  usitatissimo  per  dinotare  che  la 
cosa  non  succederà  secondo  l'altrui  desiderio  »  (Fasano,  o.  e,  II,  71). 

^5»  Capitata.      ''''  Mazza.      "'  Resti,  rimasugli. 

'^  Cfr.  n,  IO.  Nota  il  Liebr.:  «  Anche  nelle  nostre  classi  popolari, 
è  cosa  non  rara  il  metter  la  chiave  sotto  la  porta  0  altrove,  nel 
partire,  perchè  altri  poi  ve  la  ritrovi.  »  {Anm.,  I,  399).  Ed  è  usuale 
anche  presso  il  nostro  popolo. 


JORNATA    I.   TEATTENEMIENTO   II.  43 

Ma,  tornato  lo  prencepe  da  la  caccia,  tiraje  lo    capo   de 
seta  e  sonaje  lo  cainpaniello;  ma  sona,  ca  pigile  quaglie^^, 
sona,  ca  passa  lo  piscopo  "',  poteva  sonare  a  martiello,  ca 
la  fata  faceva  de  la  storduta,  Po  la  quale  cosa,  juto  de 
ponta'^  a  la  cammara,  e  non   avenno  fremma  de  chiam- 
maro    lo    cammariero  e   cercare  la  chiave,    date  cauze  a 
la  mascatura,  spaparanza  la  porta,   trase  dintro,  apere  la 
fenestra,  e  vedenno  la  testa  sfronnata,  commenzaje  a  fare 
no  trivolo  vattuto""^,  gridanno,  strillanno,  vocetejanno:  «  0 
«  maro   mene,  o  scuro    mene,    o  negregato  mene  !  ;  e  chi 
«  m'ha  fatto  sta  varva  de  stoppa?  e  chi  m'ha  fatto  sto 
«  triunfo  de  coppa  ~~  ?   o  roinato,  o  terrafinato  "*,  o  scon- 
«  quassato  prencepe!    o  mortella   mia   sfronnata,    o  fata 
«  mia  perduta,  o  vita  mia  negrecata"^,  o  guste  mieje,  jute 
«  nfummo,   piaciri  miei,  jute  a  Tacito!  Che    farrai,  Cola 
«  Marchione    sventurato?   che   farrai   nfelice?  sauta    sto 
«  fuosso;  auzate  da  sto  nietto!;  Si  scaduto  da  ogni  bene, 
«  e  no  te  scanne?  si  alleggeruto  da  ogne  tresoro,  e  non 
«  te  svennigne?  si  scacato  da  la  vita,  e  non  te  dai  vota? 
«  Dove  si,  dove  sì,  mortella  mia?,  e  quale  arma  chiù  de 
«  pipierno   tosta  m'ha  roinato  sta  bella  testa?  0   caccia 
«  mardetta,  che  m'aje  cacciato  da  ogne  contento!;  ohimè, 
«  io  so  speduto,  so  fuso,  so  jato  a  mitto^*^,  aggio  scom- 
«  pute  li  juorne  !  ;  no  è    possibele   che  campa  pe  sprem- 
«  miento  a  sta  vita  senza  la  vita  mia!  Forza  è  ch'io  sten- 
«  na  le  piede,  pecca  senza  lo  bene  mio  me  sarrà  lo  suonno 
«  trivolo,  lo  magnare  tuosseco,  lo  piacere  stitico,  la  vita 
«  pònteca^'  !  »  Chesse  ed  autre  parole,  da  scommovere  le 


'3  Allude  ai  richiami  dei  cacciatori.      '''  Vescovo,      "'^  Difilato. 

~'^  Pianto,  che  si  fa  sui  cadaveri,  con  certe  cadenze  e  battute;  co- 
stume antico  e  diffuso.  Gfr.  Mormile,  note  ai  Sonetti  di  N.  Gapasso 
(Nap.,  1876,  p.  31). 

'^''  Allusione  a  un  giuoco.      ''*  Mandato  in  rovina. 

"5  Sventurata.      S'^  Son  morto.      **  Aspra,  acerba. 


44  LO   CmfTO  DE  LI   C'UNTI 

prete  de  la  via,  deceva  lo  prencepe  ;  e,  dapò  luongo  rie- 
peto^-'  e  ammaro  sciabacco*^,  chino  de  scliiattiglia  e  de 
crepantiglia,  no  chiudenno  maje  uoccliie  pe  dormire,  né 
aprenno  maje  vocca  pe  magnare,  tanto  se  lassale  pigliare 
pede  da  lo  dolore,  che  la  faccia  soja,  ch'era  mprimmo 
di  minio  orientale,  deventaje  d'oro  pimmiento^',  e  lo 
presutto  de  le  lavra  se  fece  nsogna*^  fraceta.  La  fata, 
ch'era  de  chelle  remasuglie  poste  ne  la  testa  tornata 
a  squigliare,  vedenno  lo  sciglio  ^"^  e  lo  sbattere  de  lo  po- 
vero nnammorato,  e  comme  era  tornato  no  pizzeco  co  no 
colore  de  Spagnuolo  malato **■,  de  lacerta  vermenara,  de 
zuco  de  foglia,  de  sodarcato*^,  de  milo  piro,  de  culo  de 
focetola*^  e  de  pideto  de  lupo,  se  mosse  a  compassione  ; 
e,  sciuta  de  relanzo  da  la  testa,  comme  lummo  de  can- 
nela  sciuta  da  lanterna  a  bota^",  dette  all'uocchie  de 
Cola  Marchione,  e,  stregnennolo  co  le  braccia,  le  disse  : 
«  Crisce,  crisce,  prencepe  mio!  no  chiù!  scumpe  sto  tri- 
«  volo,  stojate^^  st' nocchie!  lassa  la  collera,  stienne  sto 
«  musso!  eccome  viva  e  bella  a  dispietto  de  chelle  gua- 
«  guine  "-,  che,  spaccatome  lo  caruso  ^^,  fecero  de  le  carne 


82  Lamento,  piagnisteo.  Sul  rlepeto  v.  Galiani  in  VN.,  e  B.  Capasse 
in  GBB.,  in,  9. 

83  Pianto  dirotto.      **  Orpimento. 

*s  Sugna,  strutto.       8^  Lo  strapparsi  dei  capelli  per  dolore. 

87  Doveva  essere  un  aspetto  speciale  e  proverbiale.  Il  Del  Tufo, 
descrivendo  lo  Spagnuolo,  che  giunge  a  Napoli,  senza  un  soldo  e 
colla  sola  spada  al  fianco,  che  non  può  cavarla  per  la  ruggine: 
«  Misero,  afflitto  e  stanco,  Anzi  dal  troppo  lungo  aspro  digiuno  Vien 

macilento  ognuno,  Lordo,  laido,  meschin,  tutto  stracciato smonta 

poi  di  galera.  Con  quel  volto  suo  afIliUo,  ispida  cera.  »  {tns.  e  f. 
103-4).      88  (ES)  nsolarcato.      89  Beccafico. 

^  Il  Garzoni  parla  di  «  quella  sorta  di  lanternini,  inventati  dai 
Bresciani,  che  chiudono  e  scoprono  il  lume  quando  si  vuole,  benché 
oggi  siano  proibiti  quasi  da  per  tutto  »  io.  e,  p.  460).  Infatti  le  no- 
stre prammatiche  ne  permettevano  l'uso  solo  àgli  sbirri.  Gfr.  DR.^  ad 
verb.      »*  Netta,  tergi.      ^^  ^^le  femmine.      ^3  zucca,  testa. 


.TORNATA   I.   TRATTENEMEENTO  II.  45 

«  meje  cliello  che  fece  Tefone^'  de  lo  povero  frate!  » 
Lo  prencepe,  vedenno  sta  cosa,  quanno  manco  se  lo  cre- 
deva, resorzetaje  da  morte  nvita,  e,  tornaonole  lo  colore 
a  le  masche''^,  lo  caudo  a  lo  sango,  lo  spireto  a  lo  piet- 
tó,  dopblnille  carizze,  vierre,  gnuoccole  e  vraoccole  ^"^j 
che  le  fece,  voze  sapere  da  la  capo  a  lo  pede  tutto  lo 
socciesso.  E,  sentuto  ca  lo  cammariero  non  ce  aveva 
corpa,  lo  fece  chiammare,  e  ordenato  no  gran  banchetto, 
con  buono  consentemiento  de  lo  patre,  se  sposaje  la  fata; 
e  commetato  tutte  li  principale  de  lo  regno,  voze,  che 
sopra  tutto  nce  fossero  presente  le  sette  scirpie^~,  che 
fecero  la  chianca^**  de  chella  vetelluccia  allattante.  E, 
fornuto  che  appero  de  mazzecare,  disse  lo  prencepe  ad 
uno  ped  uno  a  tutte  li  commetate:  «  Che  meritarria  chi 
«  facesse  male  a  chella  bella  fegliola?  »,  mostranno  a 
dito  la  fata;  la  quale  comparze  cossi  bella,  che  sajettava 
li  core  comme  furgolo,  tirava  l'arme  comm' argano  e  stra- 
scinava le  voglie  comm' a  stravolo.  Ora  mo,  tutte  chille, 
che  sedevano  a  la  tavola,  commenzanno  da  lo  re,  dissero, 
uno  ca  meretava  na  forca,  n' antro  ch'era  degna  de  na 
rota,  chi  de  tenaglie,  chi  de  precipizie,  chi  de   na  pena, 


^*  (ES):  Tesone.  Onde  il  Liebr.  annota:  «  Io  non  so  a  che  si  al- 
luda. »  Ma  aggiunge  l'errore  di  tradurre  frate  per  Mónch  (Anm.  I, 
399).  Tifone  (Seth.),  dio  della  mitologia  egiziana,  con  settantadue 
compagni  congiiirò,  secondo  la  favola,  contro  suo  fratello  Osiride, 
e  riuscì,  con  un'astuzia,  a  farlo  entrare  in  una  cassa;  sulla  quale  i 
congiurati  si  precipitarono,  chiudendo  il  coverchio,  conficcandovi 
dei  chiodi,  colandovi  dentro  del  piombo,  e  poi  la  gittarono  a  mare. 
V.  Plutarco,  De  Iside  et  Osiride,  XII. 

3^  Guancie. 

^  Vierre,  carezze.  Gnuoccole,  specie  di  pasta;  vruoceole,  broc- 
coli; e  metaf.,  carezze.  Onde  i  venditori  di  broccoli  a  Napoli  gridano 
equivocamente  :   Vrv.occole,  ca  so  buone  dint'  0  lietto  ! 

'^"  Arpia. 

^  Macello.  Dalle  panche  (chianche),  sulle  quali  si  mettono  in  ven- 
dita le  carn^  macellate. 


46  LO    C'UNTO  DE  LI  CUKTI 

e  chi  de  n'autra.   E,  toccanno  pe  utemo   a  parlare  a  le 
sette  cernie  ^^,  se  be  no  le  ieva  a  tuono  sto  parlamiento, 
e  se  nzonnavano  la  mala  notte,  tuttavia,  perchè  la  verità 
sta  sempre  dove  tresca  lo  vino,  resposero  :  che  chi  avesse 
armo  de  toccare  schitto  sto  saporiello  de  li  guste  d'am- 
more,  sarria  stato  merdevole  d' essere  atterrato  vivo  dinto 
na  chiaveca.  Data  sta  settenza  co  la  propia  vocca,  disse 
lo  prencepe  :    «  Vui   stesse   v'  avite   fatto    la    causa,   vui 
«  stesse  avite  fermato  lo  decreto;  resta  ch'io  faccia  se- 
«  cotare  l' ordene  vuostro;  pocca  vui   site  chelle,  che  co 
«  no  core  de  Nerone  *'"^,  co  na  crudeletate  de  Medea,  fa- 
«  cistevo  na  frittata    de    sta  bella  catarozza,    e   trencia- 
«  stevo  comtn'a    carne   de    sauciccia   ste  belle   membro. 
«  Perzò,  priesto,  ajosa^^S  no  se  perda  tiempo,  che  siano 
«  jettate  mo  proprio  dinto  na  chiaveca  maestra,  dove  fì- 
«  niscano  miseramente  la  vita!  »  La  quale  cosa  posta  su- 
beto  ad  effetto,   lo  prencepe  maritaje   la  sore   chiù   pic- 
ciola  de   ste   squaltrine  co  lo  cammariero,  dannole   bona 
dote.  E,  danno  da  vivere  commodamente  a  la  mamma  e 
a  lo  patre  de  la   mortella,  isso   campaio  allegramente  co 
la  fata,  e  le  figlie  de  lo  zifierno,  scompenno  co  ammaro 
stiento  la  vita,  fecero  vero  lo  proverbio   dell'antiche  sa- 
pute: 

Passa  crapa  zopjìa, 

/S'è  no  trova  chi  la  ntoppa.^^^ 


98  (ES)  Cervie  —  Cernia  (perca  gigas),  sorla  di  pesce  ;  metaf.,  per 
persona  brutta.       *^  (ES):  Nigrone.      *oi  orsù. 

102  eh' è  il  proverbio,  citato  da  Farinata  degli  Uberti.  quando  di- 
fese Fiorenza  a  viso  aperto.  Cfr.  jV.V.,  I. 


PERUONTO 


Trattenemiento  terzo  de  la  Jornata  primma. 


Peruonto,  sciaurato  de  copella,  va  pe  fare  na  sarcena^  a  lo  vosco, 
usa  no  termene  d'amorevolezza  a  tre  che  dormeno  a  lo  sole,  ne 
i-eceve  la  fatazione,  e,  burlato  da  la  figlia  de  lo  re,  le  manna  la 
mardezzione,  che  sia  prena  d' isso,  la  qual  cosa  successe.  E,  sapu- 
tose  essere  isso  lo  patre  de  la  creatura,  lo  re  lo  mette  dinto  na 
votte  co  la  mogliere  e  co  li  figlie,  jettannolo  dintro  mare.  Ma,  pe 
vertute  de  la  fatazione  soja,  se  libera  da  lo  pericolo,  e,  fatto  no 
bello  giovene,  deventa  re. 


iVlostraro  tutte  d'avere  sentuto  no  gusto  granne  pe 
la  consolazione  avuta  da  lo  povero  prencepe  e  pe  lo 
castico  recevuto  da  chella  marvasa  femmena.  Ma,  avenno 
da  secotejare  lo  pai-lamiento  Meneca,  se  deze  fine  a  lo 
vervesiamiento  -  de  l'autre,  ed  essa  commenzaje  a  contare 
lo  socciesso,  che  secota. 

Non  se  perdette  maje  lo  fare  bene:  chi  semmena  cor- 
tesie, mete  beneficio,  e  chi  chianta  amorevolezze,  reco- 
glie amorosanze;  lo  piacere,  che  se  fa  ad  anemo  grato, 
non  fu  maje  sterele,  ma  ncrina  gratetudene  e  figlia  prem- 
mie  ;  se  ne  vedeno  sprementate  ne  li  continue  fatte  del- 
l'uommene,  e  ne  vedarrite  esempio  ne  lo  cunto,  e' aggio 
mpizzo  de  fareve  sentire. 


1  Legna.        -  Chiacchierìo, 


48  LO   GUSTO  DE  U   CUNTI 

Aveva  na  magna  femmena  de  Casoria^,  chiammata 
Ceccarella,  no  figlio  nommenato  Peruonto  ;  lo  quale  era 
lo  chiù  scuro  cuorpo,  lo  chiù  granne  sarchiopio  "*,  e  lo 
chiù  sollenne  sarchiapone ^,  c'avesse  crejato  la  natura. 
Pe  la  quale  cosa  la  scura  mamma  ne  steva  co  lo  core 
chiù  nigro  de  na  mappina''  e  jastemmava  mille  vote  lo 
juorno  chillo  denucchio,  che  spaparanzaje  la  porta  a  sto 
scellavattolo'',  che  no  era  buono  pe  no  quaglio  de  cane*. 
Pecca,  poteva  gridare  la  sfortunata  e  aprire  la  canna,  ca 
lo  mantrone  non  se  moveva  da  cacare  pe  farele  no  mmar- 
ditto  servitio.  All'utemo,  dapò  mille  ntronate  de  celle- 
vriello,  dapò  mille  nfroate  de  zuco,  e  dapò  mille  dicote 
e  dissete,  e  grida  oje,  e  strilla  craje^,  l'arredusse  a  ghire 
a  lo  vosco  pe  na  sarcena,  decennole:  «  Ora  maje  è  ora 
«  de  strafocarece  ^^  co  no  muorzo  ;  curre  pe  ste  legna, 
«  non  te  scordare  pe  la  via  e  vieni  subeto,  ca  volimmo 
«  cucinare  quatto  torza  strascinate*'  pe  strascinare  sta 
«  vita.  »  Partette  lo  mantrone  de  Peruonto,  e  partette 
come  va  chillo,  che  sta  miezo  a  li  confrate  *^;  partette, 
e  camminaje,  comme  se  jesse  pe  coppa  all'ova,  co  lo  passo 
Qe  la  picca,  e  contanno  le  pedate,  abbiannose  chiane 
chiane,  adaso  adaso,  e  palillo  palillo,  facenno  siamma  siam- 


3  Allora  casale  regio  di  Napoli;  ora  comune  della  prov.  di  Napoli, 
capoluogo  di  circondario  con  ab.  9890. 

*  Sciocco;  e,  secondo  il  Gal.,  è  «  una  di  quelle  pochissime  parole, 
intieramente  e  indubitatamente  greche  che   ci  sieno  restate.  »   VN. 

s  Goffo,  villanzone.  In  una  delle  redazioni  della  Nascita  del  Verbo 
Umanato  appare  il  personaggio  buffo  chiamato  Sarchiapone. 

"  Panno  da  cucina. 

'  Un  uccello,  che  sarebbe,  secondo  il  Gusumpaur  {Vocab.  ornltol. 
nap.,  Nap.  1874),  la  balia,  muscicapa  albicollis, 

8  Cosi  altrove,  e  bisogna  intendere  che  non  era  buono  a  nulla, 
perchè  il  caglio  di  cane  non  serve,      ^  Domani.      ^'^  Affogarci. 

"  Broccoli  soffritti  in  olio. 

*2  Che  va  a  morte.  A  Napoli  i  condannati  a  morte  erano  assistiti 
dalla  Compagnia  dei  Bianchi  della  giustizia. 


JOENATA   I.    TBATTENEMIEKTO   lU.  49 

ma'*  a  la  via  de  lo  vosco  pe  fare  la  venuta  de  lo  caor- 
vo**.  E,  comme  fu  miezo  a  na  certa  campagna,  pe  dove 
Correva  no  ahiummo,  vervesianno  e  mormoreanno  de  la 
poca  descrezzione  de  le  petre,  che  le  impedevano  la 
strata,  trovaje  tre  guagnune  ^^,  che  se  avevano  fatto  strap- 
pontino  de  l'erva,  e  capezzale  de  na  preta  selece;  li 
quale,  a  la  calantrella  ^'^  de  lo  sole,  che  le  carfettejava*^ 
a  perpendicolo,  dormevano  comme  a  scannate.  Peruonto, 
che  vedde  ste  poverielle,  ch'erano  fatte  na  fontana  d'ac- 
qua miezo  na  carcara^^  de  fuoco,  avennone  compassione, 
co  la  medesema  accetta,  che  portava,  tagliaje  certe  fra- 
sche de  cercola^^,  e  le  fece  na  bella  nfrascata,  Tra  chi- 
sto  miezo,  scetatose  chille  giovane,  ch'erano  figli  de  na 
fata,  e,  vedenno  la  cortesia  e  morosanza  de  Peruonto,  le 
dezero  na  fatazione  :  che  le  venesse  tutto  chello,  che  sa- 
pesse addemannare.  Peruonto,  avenno  fatto  sta  cosa,  pi- 
gliale la  strata  verzo  lo  vosco,  dove  fece  no  sarcenone 
cossi  spotestato,  che  uce  voleva  no  strado  a  strascina- 
relo.  E,  vedenno  ch'era  chiajeto  scomputo^"  a  poterelo  por- 
tare ncuollo,  se  le  accravaccaje  ncoppa,  decenno  :  «  0  be- 
«  ne  mio,  se  sta  fascina  me  portasse  camminanno  a  ca- 
«  vallo  !  »  Ed  ecco  la  fascina  commenzaje  a  pigliare  lo  por- 
tante, comme  a  cavallo  de  Bisignano*^;  e,  arrivato  nante 
a  lo  palazzo  de  no  re,  fece  rote  e  crovette  da  stordire. 
Le  damicelle,  che  stevano  a  na  fenestra,  vedenno  sta 
maraviglia,  corzero  a  chiamare  Vastolla,  la  figlia  de  lo 
re.  La  quale  affacciatase  a  la  fenestra,  e  puosto  mente  a 


*3  (ES)  shiamma  sMam'/na.  Cfr.  V,  9. 

i'  Int.:  per  non  tornare  o  tornar  tardi.  Cfr.  II,  io. 

i5  Fanciulli,  giovanetti.      ^^  Sferza  del  sole.      ^"i  Batteva. 

18  Fornace  per  la  calce.       i9  Quercia. 

20  propr.:  lite  finita.  Int.:  cosa  impossibile. 

21  Comune  della  prov.  e  circond.  di  Cosenza;  ab.  4460.  Ancora  nel 
secolo  scorso  erano  celebrate  le  sue  razze  di  cavalli.  V.  Giustiniani, 
0.  e,  Voi.  II  (Xap.,  1797),  ad  nom. 


50  LO  CUNTO  DE  LI   CUNTI 

li  repulune'"  de  na  sarcena  ed  a  li  sauté  de  na  fascina, 
sparaje  a  ridere;  dove,  pe  naturale  malenconia,  no  se  ar- 
recordava  maje  e'  avesse  riso.  Auzata  la  capo  Peruonto, 
e  visto  ca  lo  coffiavano,  disse:  «  0  Vastolla,  va,  che 
«  puozze  deventare  prena  de  sto  fusto  !  »  E,  cossi  ditto, 
strenze  na  sbrigliata  de  scarpune  a  la  sarcena,  e  de  ga- 
loppo sarcenisco  arrivaje  subeto  a  la  casa  co  tante  pec- 
cerille  appriesso,  che  le  facevano  l'allucco  e  lo  illajo^^ 
dereto,  che,  se  la  naamma  non  era  lesta  a  serrare  subeto 
la  porta,  l'averriano  accise  a  cuerpe  de  cetrangolate  e 
de  terza.  Ma  Vastolla,  dopò  lo  mpedemiento  dell' orde- 
nario^^,  e  dopò  cierte  sfiole  e  pipoliamiente  de  core''^, 
s'addonaje  e'  aveva  pigliato  la  pasta  ;  nascose,  quanto  fu 
possibele,  sta  prenezza,  ma,  no  potenno  chiù  nasconnere 
la  panza,  ch'era  ntoi'zata*''  quanto  a  no  varratummolo"', 
lo  re  se  ne  addonaje;  e,  facenno  cosa  dell'autro  munno, 
chiammaje  lo  consiglio,  decenno:  «  Già  sapite  ca  la  luna 
«  de  lo  nere  mio  ha  fatto  lo  corna;  già  sapite,  ca  pe  fare 
'<  scrivere  croneche,  overo  corneche,  delle  vergogne  meje, 
<■  m'ha  provisto  figliama  de  materia  de  calamaro;  già 
«  sapite,  ca  pe  carrecareme  la  fronte,  s'ha  fatto  carre- 
«  care  lo  ventre;  perzò,  deciteme,  consigliateme !  Io  sar- 
«  ria  de  pensiero  de  farele  figliare  l'arina  primma  de 
«  partorire  na  mala  razza;  io  sarria  d'omore  de  farele 
«  sentire  primma  le  doglie  de  la  morte,  che  li  dolure 
<•  de  lo  partoro  ;  io  sarria  de  crapriccio,  che,  primma  spor- 
«  chiasso''*  da  sto  munno,  che  facesse  sporchia  e  sem- 
«  menta!  »  Li  conzigliere,  c'avevano  strutto  chiù  uo- 
glio,  che  vino,  dissero:  «  Veramente  mereta  no  gran  ca- 
«  stico;  e  de  lo  cuorno,  che  v'ha  puosto  nfronto,  se  de- 


22  Scossoni.  23  Grida,  urli.        21  Mestruo.        2,';  svenimenti. 

26  Qui:  gonfiata.  27  (es)   vero  tummulo.  —  Un  tomolo  pieno. 

28  Sporchiare,  germogliare,  e,  anche  dileguare,  sparire.  Onde  il 
giuoco  di  parola. 


.TORNATA  I.   TRATTENEMIENTO  III.  51 

«  verna  fare  la  maneca  de  lo  cortiello,  che  le  levasse 
«  la  vita.  Non  perrò,  si  l'accidimmo  mo,  eh'  è  prena,  se 
«  n'escerà  pe  la  maglia  rotta  chillo  temmerario,  che,  pe 
«  ve  mettere  dinto  na  vattaglia  de  disgusto,  v'ave  ar- 
«  mato  lo  cuorno  diritto  e  lo  manco  ;  pe  v'ammezzare  la 
«  politeca  de  Tiberio,  v'ha  puosto  nnante  no  Cornelio 
«  Tacete^";  pe  rapresentareve  no  suonno  vero  d'infam- 
«  mia,  l'ha  fatto  scire  pe  la  porta  de  cuorno.  Aspet- 
«  tammo,  adonca,  ch'esca  a  puorto,  e  sacciammo  quale  fu 
«  la  radeca  de  sto  vituperio,  e  pò  ponzammo  e  resor- 
«  vimmo  co  grano  de  sale  che  cosa  n'averrimmo  da 
«  fare.  »  Ncasciaje  a  lo  re  sto  conziglio,  vedenno  ca  par- 
lavano assestato  ed  a  separo^*',  e  perzò  tenne  la  mano  e 
disse  :  «  Aspettammo  l'eseto  de  lo  negozio.  »  Ma,  comme 
voze  lo  cielo,  jonze  l' ora  de  lo  partoro,  e  co  quattro  do- 
glie leggio  leggio,  a  la  primma  shioshiata  d'agliaro^^,  a 
la  primma  voce  de  la  mammana,  a  la  primma  spremmuta 
de  cuorpo,  jettaje  nzino  a  la  commare  dui  mascoluno, 
comme  a  dui  pomme  d'oro.  Lo  re,  ch'era  prieno  isso  puro 
de  crepantiglia,  chiammaje  li  conzegliere  pe  figliare,  e 
disse;  «  Ecco  è  figliata  figliama,  ma  è  tiempo  d'assecon- 
«  nare  co  na  saglioccola.  »  «  No,  »  dissero  chillo  viec- 
chie  sapute  (e  tutto  era  pe  dare  tiempo  a  lo  tiempo) 
«  aspettammo,  che  se  facciano  granne  li  pacionelle^'^  pe 
«  potere  venire  ncognizione  de  la  fosonomia  de  lo  pa- 
«  tre.  »  Lo  re,  perchè  non  tirava  vierzo  senza  la  fauza- 


29  Giuoco  di  parola  Ira  Cornelio  e  corna. 

30  Saggiamente.  Nella  G.  I,  io:  «  Va,  sore  mia,  ca  notii)arlea  se- 
para. » 

3i  Vaso,  nel  quale  le  partorienti  soffiavano  forte  per  aiutare  le  forze 
nei  dolori  del  parto.  Il  Cortese  :  «  Spriemmete,  figlia,  spriemme,  ca 
non  dura  Troppo  st' ammaro,  e  vennerà  lo  doce;  Spriemmete,  bene 
mio,  sta  ncellevriello;  Aiutate,  tè,  shioshia  sfagliar iello!  *  {Vaiass., 
XI,  2).  Gfr.  Del  Tufo  (ms.  e,  f.  55-7). 

32  Bambini.  V,  n.  16,  p,  22, 


52  LO   CUNTO  DE  LI   CUNTI 

rega  de  lo  consiglio  pe  no  scrivere  stuorto,  se  strenze 
ne  le  spalle,  appe  fremma,  ed  aspettaje  fi  tanto,  che  li 
figliule  furo  de  sette  anne.  Ne  lo  quale  tiempo,  stimmo- 
late  de  nuovo  li  consigliere  a  dare  a  lo  trunco  e  a  dove 
tene,  uno  de  loro  disse:  «  Pocca  non  avite  potuto  scau- 
«  zare  vostra  figlia  e  pigliare  lengua  chi  sia  stato  lo 
«  monetario  fauzo,  eh' a  la  magone  vostra  ave  auterato 
«  la  corona,  mo  ne  cacciarrimmo  la  macchia.  Ordenate, 
«  adonca,  che  s'apparecchia  no  gran  banchetto,  dove  ag- 
«  già  da  venire  ogne  tetolato  e  gentelommo  de  sta 
«  cetate,  e  stammo  all'erta,  e  co  l' nocchie  sopra  lo  ta- 
«  gliero,  dove  li  piccerille  ncrinano  chiù  volentiere  vot- 
«  tate  da  la  natura,  ca  chillo  senz'autro  sarrà  lo  patre, 
«  e  nui  subeto  ne  l'auzammo  comme  cacazza  de  ciaola^'*.  » 
Piacquette  a  lo  re  sto  parere.  Ordenaje  lo  banchetto; 
commetaje  tutte  le  perzune  de  ciappa  e  de  cunto;  e, 
magnato  che  s'appe,  le  fece  mettere  nfilo  e  pasaiare  li 
peccerille.  Ma  ne  fecero  chillo  cunto,  che  faceva  lo  corzo 
d'Alesantro  de  li  coniglie^';  tanto,  che  lo  re  faceva  for- 


33  Gazza. 

3*  Cane  corso,  e,  in  generale,  grosso  cane  feroce.  Si  racconta,  che 
Alessandro  Magno,  durante  la  sua  spedizione  in  India,  ricevesse  in 
dono  un  cane  inusitatae  magnitudinis ;  e  che,  per  metterlo  a  prova, 
vistolo  cosi  grande,  gli  facesse  uscir  innanzi  prima  dei  cignali,  poi 
dei  daini.  Ma  il  cane  non  se  ne  lasciò  muovere:  conlemptu  immo- 
bili jacente  eo.  Cosicché,  sdegnato  della  viltà  dell'animale,  lo  fece 
uccidere.  Il  donatore,  saputo  del  fatto,  gliene  mandò  subito  in  dono 
un  altro,  l'ultimo  che  gliene  restasse  di  quella  razza,  facendo  dire 
ad  Alessandro,  che,  se  volesse  sperimentarlo,  non  gli  mettesse  innanzi 
piccoli  animali,  come  cignali  o  daini,  ma  leoni  ed  elefanti.  Così,  difatti, 
fece  Alessandro,  e  il  cane  lottò  vittoriosamente  contro  un  leone  e 
un  elefante.  V.  Plin.,  yatur.  Histor.,  recogn,  Lud.  lanus.  I.ipsiae,  Teu- 
bner,  1854-57,  Vili,  40,  61.  (R  cfr.  per  lo  stesso  aneddoto  Diod.  Sicul. 
XVII,  Plutarco,  Quinto  Curzio,  ecc.).  A  questo  aneddoto  mi  pare  che 
Alluda  qui  il  N.,  e  par  che  voglia  dire:  se  non  teneva  conto  dei  ci- 
gnali e  dei  daini,  che  conto  avrebbe  fatto  dei  conigli?  E  lo  stesso 
conto  facevano  i  fanciulli  dei  signori  convitati:  cioè,  nessunissimo. 


JORNATA   I.    TRATTENEMIENTO    IH.  53 

tuna,  e  se  mozzecava  le  lavra  ;  e,  benché  non  le  mancas- 
sero cauzature^^,  puro,  perchè  l'era  stretta  sta  scarpa  de 
doglia,  sbatteva  li  piede  nterra.  Ma  li  conzigliere  le  dis- 
sero: «  Chiano,  vostra  Majestà,  faciteve  a  correjere,  ca 
«  craje  facimmo  n'autro  banchetto,  non  chiù  de  gente  de 
«  portata,  ma  de  chiù  vascia  mano.  Fuorse,  perchè  la 
«  femmena  s'attacca  sempre  a  lo  peo,  trovarrimmo  fra 
«  cortellare,  paternostrare  e  mercante  de  piettene  la  sem- 
«  menta  de  la  collera  vostra,  dove  no  l'avimmo  ashiata 
«  fra  cavaliere.  »  Deze  a  lo  vierzo  sta  ragione  a  lo  re, 
e  commannaje  che  se  facesse  lo  seconno  banchetto.  A 
dove,  pe  hanno  iettato,  venettero  tutte  li  chiarie,  ies- 
sole^",  guitte,  guzze,  ragazze,  spolletrune,  ciantielle,  scau- 
zacane,  verrille  ^''^,  spogliampiì^e^*  e  gente  de  mantesino, 
e  zuoccole^^,  ch'erano  a  la  cetate.  Li  quale,  sedute  com- 
m'a  belle  cuonte  a  na  tavola  longa  longa,  commenzaro  a 
cannariare.  Ora  mo,  Ceccarella,  che  sentette  sto  hanno, 
commenzaje  a  spontonare  ^'^  Peruonto,  che  jesse  isso  per- 
zi*^  a  sta  festa;  e,  tanto  fece,  s'abbiaje  a  lo  mazzecatorio, 
dove  arrivato  a  pena,  chille  belle  nennille  se  l'azzecolia- 
reno  a  tuorno,  e  le  facettero  vierre  e  cassesie  ^'■^  fora  de 
li  fora.  Lo  re,  che  vedde  ste  cose,  se  scippaje  tutta  la 
varva,  vedenno  ca  la  fava  de  sta  copeta  *^,  lo  nomme  de 


3^  Calzatoi,  che  sono  a  forma  di  corno.      ^6  (es)   chiaise,  flercole, 

^~  Terminologia  per  indicare  gente  dell'infima  plebe.  Ciantelle  si 
dicono  anche  ora  le  donne  dell'infima  plebe;  ma  il  maschile  è  fuori 
d'uso.  Gfr.  IV,  2. 

■^s  Gfr.  I,  7.  Nelle  MX.^  Introd.:  «  stracce  viecchie  de  spogliampise  ». 
Rivenduglioli,  che  avrebbero  comprato  dal  carnefice  le  spoglie  dei 
giustiziati.  Ed  è  termine  dispregiativo  dei  rivenditori  di  panni  vecchi, 
zafferanari,  0  spogliamorti,  come  anche  si  dicevano  allora;  e,  in 
gen.,  per  indicare  gente  vilissima. 

39  Artigiani:  raantesino,  grembiale.      ^^  Pungere,  eccitare. 

••i  Anch'egli.      ^2  carezze. 

^  «  Confezione  di  nocciuole  e  miele,  in  forma  per  lo  più  di  schiac- 
ciata, guarnita  di  confetti»  A,— Fava,  int.  quel  confetto,  eh' è  nel 


54  LO   CTTNTO  DE  LI   CUNTI 

sta  beneficiata  '  '  era  toccata  a  no  scirpio  bi'utto  fatto,  che 
te  veneva  stomaco  e  nsavuorrio ''"'  a  vederelo  scbitto"; 
lo  quale,  etra  cbe  aveva  la  capo  de  velluto,  l'uoccbie 
de  cefescola'",  lo  naso  de  pappagallo,  la  vocca  de  cer- 
nia, era  scauzo  e  vrenzoluso  '^,  cbe,  senza  leggere  lo  Fio- 
ravante  '^,  potive  pigliarete  na  vista  de  li  secrete.  E,  dapò 
no  cupo  sospiro,  disse:  «  Cbesen'ba  visto  sta  scrofella 
«  de  figliama  a  ncrapicciarese  de  st'uerco  marino?  cbe 
«  se  n'ba  visto  a  daresella  ntallune  co  sto  pede  peluso? 
«  Ab,  nfamma,  cecata  fauza,  cbe  metamorfose  so  cbeste? 
«  deventare  vacca  pe  no  puorco,  azzò  cb'io  tornasse  pie- 
«  coro?  Ma  cbe  s'aspetta?  cbe  te  penzeneia^*^?  aggia  lo 
«  castigo  cbe  mereta;  aggia  la  pena,  cbe  sarrà  jodecata 
«  da  vui,  e  levatemella  da  nante,  ca  no  la  pozzo  pa- 
«  dejare!  »  Fecero,  adonca,  conzierto  li  consigliere,  e 
concrusero,  cbe  tanto  essa,  quanto  lo  malefattore  e  li  fi- 
glie, fossero  scbiaffate  dintro  na  votte  e  jettate  a  maro, 
azzò,  senza  allordarese  le  mano  de  lo  sango  propio,  faces- 


centro,  quasi  ad  ornamento.  Dolce,  ancora  solito  il  giorno  di  S.  Mar- 
lino.      **  Antico  giuoco,  sostituito  poi  da  quello  del  lotto. 

^^  Disgusto.      ^''  Solo.      47  civetta.      ^^  Cencioso. 

^"^  Leonardo  Fioravanti,  bolognese,  fiorì  nella  seconda  del  secolo 
XVl,  dopo  varie  peregrinazioni  a  Palermo,  nell'Africa,  a  Napoli,  a 
Roma,  si  fermò  a  Venezia  (-;-  4  settembre  1588).  Medico  e  ciarlatano, 
scrisse  specialmente  intorno  ai  segreti;  materia  allora  prediletta  an- 
che da  ingegni  non  comuni,  quali  il  Cardano  e  il  Porta.  «  Quel 
glorioso  huomo  dai  miracoli  nuovi  di  Leonardo  Fioravanti,  il  quale, 
per  haver  cattivi  vicini,  ha  commendato  sé  stesso  estremamente  », 
dice  il  Garzoni  (o.c,  p.  467).  L'opera,  alla  quale  si  riferisce  il  N.,  è: 
Il  Compendio  del  segreti  razionali  intorno  alla  Medicina,  Chirur- 
gia e  Alchimia  dello  Ecc.mo  doti,  e  Cavaliere  AL  Leonardo  Flora- 
vanti:  della  quale  conosco  l'ediz.:  Venetia  1675,  appresso  li  Pro- 
dotti. (Il  Liebr.  cita:  Ven.  1564,  Anm,  I,  400).  Scrisse  ancora:  Secreti 
inedicinali  di  M.  L.  F.,  medico  bolognese,  dii^isi  in  tre  libri.  In  Ve- 
netia, oppresso  Ludovico  Aranzo,  MDLXI,  ristamp.  poi  col  titolo;  De 
Capricci  medicinali.        50  (es)  se  penza. 


JORNATA  I.   TRATTENEMIENTO   IH.  55 

sero  punto  finale  a  la  vita.  Non  fu  cossi  priesto  data  la 
settenza,  che  venne  la  votte,  dove  ncaforchiarono  tutte 
quattro.  Ma,  nante  cbe  ntompagnassero  ^\  certe  dami- 
celle  de  Vastolla,  chiagnenno  a  selluzzo,  nce  mesero  dintro 
no  varrile  de  passe  e  fico  secche,  azzò  se  jesse  mante- 
nenno,  pe  quarche  poco  de  tiempo.  Ma,  serrata  la  votte, 
fu  portata  e  jettata  a  maro,  pe  dove  jeva  natanno,  se- 
cunno  la  vottava  lo  viento.  Tra  chisto  miezo,  Vastolla, 
chiagnenno  e  facenno  doje  lave  dell' nocchie,  disse  a  Pe- 
ruonto  :  «  Che  desgrazia  granne  è  la  nostra  ad  avere  pe 
«  sepetura  de  morte  la  connoia  de  Bacco?  Oh  sapesse  a 
«  lo  manco  chi  ha  trafecato  sto  cuorpo  pe  schiaffareme 
«  dinto  a  sta  carraio ^'!  Ohimè,  ch'io  me  trovo  spinolata^^, 
«  senza  sapere  lo  comme  !  Dimme,  dimme,  0  crudele,  e 
«  che  percanto  faciste,  e  con  quale  verga,  pe  chiudereme 
«  dinto  li  chirchie  de  sta  votte?  dimme,  dimme,  chi  dia- 
te scace  te  tentaje  a  mettereme  la  cannella  nvesibile  pe 
«  n'avere  antro  spiracelo  a  la  vista,  che  no  negrecato 
«  mafaro^*?  »  Peruonto,  c'aveva  fatto  no  piezzo  aurec- 
chia  de  mercante,  all'utemo,  respose:  «  Si  vuole  che  te 
«  lo  dico,  tu  damme  passe  e  fico  !  »  Vastolla,  pe  cacciarele 
da  cuorpo  quarche  cosa,  le  mese  ncuorpo  na  brancata  '="'" 
de  l'uno  e  dell'autro.  Lo  quale,  cogja^-^jpe  chiena  la  gor- 
gia, le  contaje  puntualemente  quanto  le  soccedette  co  li 
tre  giuvene,  pò  co  la  sarcena,  utemamente  co  essa  a  la 
fenestra,  che,  pe  trattarelo  da  panza  chiena,  le  fece  nchire 
la  panza.  La  quale  cosa  sentuta  la  povera  signorella,  pi- 
gliaje  core,  e  disse  a  Peruonto  :  «  Frate  mio,  e  vorrimmo 
«  sbottare  la  vita  dinto  sta  votte?  Perchè  no  fai  che  de 
«  sto  vasciello  se  faccia  na  bella  nave,  e  ghiro  pe  scap- 
«  pare  sto  pericolo  a  buono  puorto?  »  E  Peruonto  lepre- 


si  Chiudessero,  col  porvi  l'altro  fondo.        ^'  (ES)  carcere, 

53  propr.:  spillata, 

51  Tappo,  e  anche  buco  della  botte.      53  Manata, 


56  LO   CTTNTO   DE   LI   CUNTI 

caje:  «  Damme  passe  e  fico,  si  vuoje  che  te  lo  dico!  » 
E  Vastolla  subeto,  lesta,  le  ncLiette  la  canna,  perchè 
aperesse  la  canna;  e,  comme  pescatrice  de  carnevale^*, 
co  li  passe  e  fico  secche  le  pescava  le  parole  fresche  da 
cuorpo.  Ed  ecco  che  decenno  Peruonto  chello,  che  deside- 
rava Vastolla,  la  vette  tomaje  navilio,  co  tutte  li  sar- 
ziarame  necessarie  a  navecare  e  co  tutte  li  marinare, 
che  besognavano  per  lo  servizio  de  lo  vasciello.  E  loco 
te  vediate,  chi  tirare  la  scotta,  chi  arravogliare  le  sarte, 
chi  mettere  mano  a  lo  temmone,  ohi  fare  vela,  chi  saglire 
a  la  gaggia,  chi  gridare  ad  orza,  chi  apoggia,  chi  sonare 
na  trommetta,  chi  dare  fuoco  a  li  piezze,  e  chi  fare  na 
cosa,  e  chi  n'autra.  Tanto  che  Vastolla  era  drinto  la  nave, 
e  natava  drinto  no  mare  de  docezza.  Ed,  essenno  già  l'ora 
che  la  luna  voleva  jocare  co  lo  sole  a  ghiste  e  veni- 
ste, e  lo  luoco  te  perdiste^'',  disse  Vastolla  a  Peruonto: 
«  Bello  giovane  mio,  fa  deventare  sta  nave  no  bello  pa- 
<'  lazzo,  ca  starrimmo  chiù  secure.  Saje  che  se  sole  di- 
«  cere?  lauda  lo  maro  e  tienete  a  la  terra!  »  E  Peruonto 
respose:  «  Si  vuoje  che  te  io  dico,  tu  damme  passe  e 
«  fico!  »  Ed  essa  subeto  lo  refose  lo  fatto,  e  Peruonto, 
pigliato  pe  canna,  ademandaje  lo  piacere.  E  subeto  la  nave 
dette  nterra,  e  deventaje  no  bellissimo  palazzo  aparato 
de  tutto  punto,  e  cossi  chino  de  mobele  e  sfuorgie,  che 
non  e'  era  chiù  che  desiderare.  Pe  la  quale  cosa  Vastolla, 
ch'averria  dato  la  vita  pe  tre  cavalle'*,  non  l'averria  mpat- 
tato  co  la  primma  signora  de  sto  munno,  vedennose  rega- 


**  «  Durante  il  Carnevale  e  le  mascherate,  che  si  sogliono  fare,  si 
vedono  spesso  donne  travestite  da  pescatrici,  che  gettano  dolci  cogli 
ami.  >  —  Liebr.,  Anm.,  I,  400. 

•'■'■'  Allude  a  ima  filastrocca  che  dicono  i  fanciulli  in  giuoco,  e,  in 
generale,  quando  uno  occupi  il  posto,  lasciato  vuoto  dall'altro.  Nella 
sua  integrità  è  questa:  «  Te  ne  isti,  e  pizzo  perdisti:  songo  venuto, 
e  pizzo  aggio  avuto  ». 

^  (ES)  chiane.  —  Cavallo  o  callo,  dodicesima  parte  di  un  grano. 


.TORNATA    I.   TRATTENEMIENTO   III.  57 

lata  e  servata  comme  na  regina.  Siilo,  pe  siggillo  de  tutte 
le  bone  fortune  soje,  pregaje  Peruonto  ad  ottenere  gra- 
zia de  deventare  bello  e  polito,  azzò  s'avessero  potuto 
ugaudiare  -'^  nsiemme  ;  che,  se  be  dice  lo  proverbio  :  «  me- 
glio è  marito  sporcillo*"^  cli'ammico  mparatore  »,  tutta 
vota,  si  isso  avesse  cagnato  faccia,  l'averria  tenuto  pe  la 
chiù  gran  fortuna  de  lo  munno.  E  Peruonto  co  lo  mede- 
semo  appontamiento,  respose:  «  Damme  passe  e  fico,  si 
tu  vuoje  che  lo  dico!  »  E  Vastolla  subeto  remmediaje  a 
la  stitichezza  de  le  parole  de  Peruonto  co  le  fico  jeje- 
telle''^;  ch'a  pena  parlato,  tornaje  da  scellavattolo  cardillo, 
da  n'  uerco  Narciso,  da  no  mascarone  pipatiello.  La  quale 
cosa  veduto  Vastolla,  se  ne  jette  nsecoloro  pe  allegrezza; 
e,  strignennolo  dinto  le  braccia,  ne  cacciaje  zuco  de  con- 
tentezza. A  sto  medesemo  tiempo,  lo  re,  che,  da  chillo 
juorno,  che  le  soccese  sto  desastro,  era  stato  sempre 
chino  fi  ncanna  de  lassarne  stare,  fu  da  li  cortisciane  suoje 
portato  pe  recreazione  a  caccia.  Dove,  cogliennole  notte 
e  vedenno  lucere  na  locernella  a  na  fenestra  de  chillo 
palazzo,  mannaje  no  servetore  a  vedere  se  lo  volevano 
alloggiare,  e  le  fu  respuosto  ca  nce  poteva  non  siilo  rom- 
pere no  bicchiere,  ma  spezzarono  cantaro*'-.  Perzò  lo  re 
nce  venne,  e  saglienno  le  scale,  e  scorrenno  le  cammare, 
non  vedde  perzona  vivente,  sarvo,  che  li  duje  fìgliule, 
che  le  jevano  ntuorne,  decenno:  «  Vavo,  vavo^^!  »  Lo  re, 
stoppafatto,  strasecolato  e  attenete,  steva  commo  ncan- 
tato;  e,  sedennose  pe  stracco  vicino  na  tavola,  loco  vedde 


59  Sposare.      ^^  (ES)  porciello. 

''i  Nella  Ct.  I,  io:  «  cura  de  fico  jejetelle,  che  le  cacciaje  fora  lo 
frato  dell'affetto  amoruso  co  no  sfonnerio  de  sospire  ».  Vi  accenna 
anche  il  Del  Tufo,  parlando  delle  voci  dei  venditori:  «  Vi,  tè,  tè,  ca- 
gnatelle  Ste  fico  jedetellel  »  {ìns.  e,  f.  io).  Nella  forma  jecletelle  si  do- 
vrebbe intendere  piccole  e  lunghe,  quanto  un  dito  {jédeta,  dita). 

62  Int.:  non  solo  mangiare,  ma  anche  dormire.  Cfr.  Il,  7. 

^  Nonno,  nonno! 


58  LO  CDNTO  DE  LI  CUNTI 

nvisibilemente  stennere  mesale  de  Shiannena'^',  e  venire 
piatte  chine  de  vaga  e  de  riesto*'-^,  tanto  che  magnaje 
e  veppe  veramente  da  re,  servate  da  chille  belli  figliule, 
non  cessanno  maje,  mentre  stesse  a  tavola,  na  museca  de 
colascione  e  tammorrielle,  che  le  jeze  pe  fi  a  l' ossa  pez- 
zelle.  Magnato  ch'appe,  comparse  no  lietto  tutto  scumma 
d'oro,  dove,  fattose  scauzare  li  stivale,  se  jette  a  corcare; 
comme  fece  ancora  tutta  la  corte  soja,  dapò  avere  buono 
cannariato  a  ciento  autre  tavole  pò  l'autre  cammare  ap- 
parecchiate. Venuta  la  mattina,  e  volenno  partire,  lo  re  se 
voze  portare  co  isso  li  duje  peccerille  ;  ma  comparse  Va- 
stoUa  co  lo  marito,  e,  jettatose  a  li  piede  suoje,  le  cer- 
cale perdonanza,  contaunole  tutte  le  foi'tune  soje.  Lo  re, 
che  vedde  guadagnate  dui  nepute,  ch'orano  doi  gioie,  e 
no  jènnaro,  ch'era  no  fato''",  abbraccianno  l'uno  e  l'au- 
tro,  se  le  portaje  de  posole  a  la  cetate,  facenuo  fare  fe- 
ste granne,  che  durare  mute  juorne  pe  sto  buono  guada- 
gno, confessanno  a  sfastio  de  le  gargie  soje:'''' 

Che,  se  prepone  Vommo,  Dio  dispone. 


^*  Fiandra.  Secondo  il  Capaccio,  in  Napoli  entravano  ogni  anno 
da  200  mila  scudi  di  tele  di  Fiandra  (Il  Forastiero,  Nap.  1634,  p.  840). 

Cj  Sono  termini  di  giuoco,  e,  in  questo  caso,  di  poco  chiaro  uso 
metaforico.  Nella  G.  Ili,  5:  «  de  inanera  che  de  vaga  e  de  r lesto  ne 
aveva  froscialo  la  raetale  de  la  robba  paterna  ». 

<i<5  Maschile  di  fata,  cfr.  II,  5,  9  ecc.  «  Nennillo  de  sto  core,  Far 
tillo  bello  -inio  »,  dice  Annuccia  a  D.  Nicola,  nella  famosa  Canzone 
di  Zeza.      '^'  A  suo  dispetto. 


VARDIELLO 


Trattenemiekto  quarto  de  la  Jornata  primma. 

Vardiello,  essenno  bestiale,  dapò  ciento  male  servizio  fatte  a  la  mam- 
ma, le  perde  no  tuocco  de  tela';  e,  volenno  scioccamente  recu- 
perarela  da  na  statola,  deventa  ricco. 

Jr  enuto  eh'  appe  lo  canto  Meneca,  lo  quale  fu  stimato 
niente  manco  bello  dell'  autre,  ped  essere  nmottonato  ^  de 
curiuse  socciesse,  che  tenne  ii  a  la  coda  pesole  lo  pen- 
siero de  l'auditure,  secotaje,  pe  commandamiento  de  lo 
prencepe,  Tolla;  la  quale,  senza  perdere  tiempo,  decette 
de  sta  manera. 

Se  avesse  dato  la  natura  a  l'anemale  necessetà  de  ve- 
stire e  de  spennerò  pe  lo  vitto,  sarria  senz'  antro  destrutta 
la  jenimma'  quatrupeda.  Perzò,  trovando  lesto  lo  civo, 
senza  ortolano  che  lo  coglia,  compratore  che  l'accatta, 
cuoco  che  l'apparecchia,  scarco  che  lo  trencia,  lo  stisso 
cuojero  lo  defenne  da  lo  chiovere  e  da  la  neve  :  senza 
che  lo  mercante  le  dia  lo  drappo,  lo  cosetore  le  faccia  lo 
vestito  e  lo  guarzoue  le  cerca  lo  veveraggio.  Ma  a  l' om- 
mo,  ch'ave  ngiegno,  non  s'è  curata  de  darele  sta  com- 
modetate;    perchè    sape    da   se   medesimo  procacciarese 


i  Ripieno.      2  Razza. 


6o  LO  CUNTO  DE  LI   CUNTI 

chello,  che  l'abbesogna.  Chesta  è  la  causa,  che  se  vedeno 
orclenariamente  pezziente  li  sapute  e  ricche  le  bestiale; 
comme  da  lo  cunto,  che  ve  dirraggio,  poterrite  raccogliere. 
Fu  Grannonia  d'Aprano^  femmena  de  gran  jodizio,  ma 
aveva  no  figlio,  chiammato  Vardiello,  lo  chiù  sciagorato 
nsemprecone  de  chillo  paese.  Puro,  perchè  l'uocchie  de 
la  mamma  so  affatturate  e  stravedeno,  le  portava  n'am- 
more  svisciolato,  e  se  lo  schiudeva  sempre  e  allisciava, 
comme  se  fosse  la  chiù  bella  creatura  de  lo  munno.  A- 
veva  sta  Grannonia  na  voccola,  che  schiudeva  li  pole- 
cine,  ne  li  quale  aveva  puosto  tutta  la  speranza  da  farene 
na  bella  sporchia''  e  cacciarene  buono  zuco.  Ed,  avenno  da 
ire  pe  no  fatto  necessario,  chiammaje  lo  figlio,  decennole  : 
«  Bello  figliulo  de  mamma  toja,  siente  cà,  aggie  l'uoc- 
«  chie  a  sta  voccola,  e,  si  se  leva  a  pizzolare  ^,  sta  ncel- 
«  levriello  a  farcia  tornare  a  lo  nido;  autamente,  se  re- 
«  freddano  l'ova,  e  pò  non  averrai  ne  cuoche,  né  titillo''  ». 
«  Lassa  fare  a  sto  fusto,  —  disse  Vardiello  — ,  ca  no  l'aje 
«  ditto  a  surdo  ».  «  N'autra  cosa,  —  leprecaje  la  mam- 
«  ma  — ,  vide,  figlio  beneditto,  ca  driuto  a  chillo  stipo 
«  ne' è  na  fesina'  de  certe  mbroglie  ntossecose;  vi  che 
«  non  te  tentasse  lo  brutto  peccato  a  toccarele,  ca  ce 
«  stennerisse  li  piedi!  »  «  Arrasso  sia^!,  — respose  Var- 
«  diello  — ,  tuosseco  non  me  ce  cuoglie  !  ;  e  tu,  sapia  co  la 
«  capo  pazza,  ca  me  l'aje  avisato,  ca  ce  poteva  dare  de 
«  pietto,  e  no  ne' era  né  spina,  né  uosso!  »  Accossi,  scinta 
la  mamma,  restaje  Vardiello;  lo  quale,  pe  no  perdere 
tiempo,  scette  a  l'uorto  a  fare  fossetelle  coperte  de  sproc- 
cola^  e  terreno,  pe  ncai:)pare  li  peccerille;  quanno,  a  lo 
meglio  de  lo  lavoro,  s'addonajo  ca  la  voccola    faceva  lo 


^  Paesello,  un  miglio  e  mezzo  lontano  da  Aversa. 
^  Qui:  covata.      ^  Beccare.      ^  Né  uova,  né  pulcini 
"  Vaso  di  terra  invetriata.      **  Lontano  sia! 
9  Fuscelli.  Int.:  a  tendere  agguati  per  gli  uccelli. 


.TORNATA   I.   TRATTENEMIENTO   IV.  6l 

spassaggio  pò  fora  la  cammara.  Pe  la  quale  cosa  com- 
menzaje  a  elicere:  «  Sciò,  sciò!,  frusta  ccà,  passa  Uà!  » 
Ma  la  voccola  non  se  moveva  da  pede;  e  Vardiello,  ve- 
denno  ca  la  gallina  aveva  de  l' aseno,  appriesso  a  lo  scio, 
scià,  se  mese  a  sbattere  li  piede,  appriesso  a  lo  sbattere 
de  li  piede,  a  tirare  la  coppola  ^<',  appriesso  a  la  coppola, 
le  tiraje  no  lacanaturo,  che,  centola  pe  miezo,  le  fece 
fare  lo  papariello  ^^  e  stenneccliiare  li  piede.  Visto  Var- 
diello sta  mala  desgrazia,  pensaje  de  remmediare  a  lo 
danno.  E,  fatto  de  la  necessetà  vertute,  azzò  non  se  re- 
fredassero  l'ova,  sbracatose  subeto,  se  sedette  ncoppa 
a  lo  nido;  ma,  datoce  de  cuorpo,  ne  fece  na  frittata!  Vi- 
sto ca  l'aveva  fatta  doppia  de  figura ^~,  appe  da  dare  de 
capo  pe  le  mura.  All'utemo,  perchè  ogne  dolore  torna  a 
voccone,  sentennose  pepoliare  lo  stommaco,  se  resorvette 
nnorcarese  ^^  la  voccola.  E  perzò,  spennatola  e  nfilatola  a 
no  bello  spitp,  fece  no  gran  focarone  e  commenzaje  ad 
arrostirela.  Ed,  essenno  adesa^^  cotta,  pe  fare  tutte  le 
cose  a  tiempo,  stese  no  bello  cannavaccio  de  colata  ncop- 
pa no  cascione  vieccbio,  e,  pigliato  n'arciulo,  scese  a  la 
cantina  a  spinolare  no  quartarulo  ^^.  E,  stanno  a  lo  me- 
glio de  lo  mettere  vino,  ntese  no  rommore,  no  fracasso, 
no  streverio  pe  la  casa,  che  parevano  cavalle  armate.  Pe 
la  quale  cosa,  tutto  sorriesseto  ^'^,  votato  l'uocchie,  vedde 
no  gattono,  che,  co  tutto  lo  spito,  se  n'aveva  zeppoliata 
la  voccola,  e  n'autra  l'era  appriesso,  gridanno  pe  la  parte! 
Vardiello,  pe  remmedejare  a  sto  danno,  se  lassaje,  comme 
a  lione  scatenato,  ncuollo  a  la  gatta,  e  pe  la  pressa  las- 
saje spilate  lo  quartarulo.  E,  dapò  avere  fatto  a  secutame 
chisso  pe  tutte  li  pentune  de  la  casa,  recuperaje  la  gal- 


i"  Berretto.      ^^  Morire:  prop.,  affogato  o  impiccato. 

12  Metaf.  da  un  giuoco  di  carte.        ^^  ingoiarsi. 

1-*  Già,  subito.     15  Quarta  parte  d'un  barile  napoletano. 

16   S5hi>nt.fit.n 


62  LO  CtJNTO   DE   LI  CtmTI 

lina,  ma  se  ne  scorze  lo  quartarulo.  Dove,  tornato  Var- 
diello,  e  visto  ca  l'aveva  fatta  de  colata,  spinolaje  isso 
perzi  la  votte  de  l'arma  pe  le  cannelle  dell' nocchie.  Ma, 
perchè  l'ajutava  lo  jodizio,  pe  remmediare  a  sto  danno, 
azzò  la  mamma  no  s'addonasse  de  tanta  mina,  pigliaje 
no  sacco  raso  raso,  varrò  varrò,  chino  chino,  zippo  zippo 
e  a  curmo  a  curmo  de  farina,  e  la  sporpogliaje  pe  ncoppa 
a  lo  nfuso.  Co  tutto  chesto,  facenno  lo  cunto  co  le  deta 
de  li  desastre  socciesse,  e,  pensanno  ch'avenno  fatto  scas- 
sone d'asenetate,  perdeva  lo  juoco  co  la  grazia  de  Gran- 
nonia,  fece  resoluzione  de  core  de  no  farese  ashiare  vivo 
da  la  mamma.  Perzò,  dato  drinto  la  fesina  de  nuce  con- 
ciate, che  la  mamma  le  disse  ch'era  de  tuosseco,  maje 
levaje  mano,  fi  che  no  scoperze  la  petena.  E,  chinose 
buono  la  panza,  se  ncaforchiaje  drinto  a  no  fumo.  Fra 
chisto  miezo,  venne  la  mamma;  e,  tozzolato  no  gran  piez- 
zo,  visto  ca  nesciuno  la  senteva,  dette  no  caucio  a  la 
porta.  E,  trasuta  dinto,  e  chiamanno  a  gran  voce  lo  figlio, 
vedenno  ca  nesciuno  responneva,  se  nzonnaje  lo  male 
juorno,  e,  reforzanno  le  doglie,  auzaje  chiù  forte  li  strille  : 
«  0  Vardiello,  Vardiello,  aje  la  sordia,  che  non  siente?, 
«  aje  le  jorde*"  che  no  curre?,  aje  le  pipitela  ^^,  che  no  re- 
«  spunne?  Dove  si,  faccie  de  mpiso?,  dove  si  squagliato, 
«  mala  razza?  Che  t'avesSe  affocato  nfoce,  quando  te  fice  !  » 
Vardiello,  che  ntcse  sto  grcciglio,  a  l'utemo,  co  na  vocolla 
pietosa  pietosa,  disse:  «  Eccome  cà,  so  drinto  lo  fumo,  e  no 
«  me  voderrite  chiù,  mamma  mia!  »  «  Perchè?  »,  respose 
la  negra  mamma.  «  Perchè  so  ntossecato  »,  leprecaje  lo  fi- 
glio. «  Cime,  —  soggionze  Grannonia  — ,  e  comme  aje 
«  fatto?;  che  causa  aje  avuto  de  fare  sto  mecidio,  e  chi 
«  t'ha  dato  lo  tuosseco?  »  E  Vardiello  le  contaje  una  pod 


*"'  Giarda:  malattia  nelle  giunture  dei  piedi,  propria  del  cavallo. 
**  Pipita:  prop.,  malattia  dei  polli  sulla  punta  della  lingua. 


JORNATA   I.   TRATTENEMIENTO   IV,  63 

una  tutte  lo  belle  prove,  eh'  aveva  fatto  ;  pe  la  quale  cosa 
voleva  morire,  e  non  restare  chiù  pe  spremmiento  a  lo 
munuo.  Sentenno  ste  cose  la  mamma,  negra  se  vedde, 
mara^^  se  vedde,  appe  da  fare  e  che  dire,  pe  levare 
da  capo  a  Vardiello  st'  omore  malenconeco.  E,  perchè  lo 
voleva  no  bene  svisciolato,  co  darele  certe  autre  cose 
sceroppate,  le  levaje  da  chiocca-**  la  cosa  de  le  nuce 
conciate,  ca  non  erano  venino,  ma  conciamiento  de  stom- 
maco.  Accessi,  accordatolo  de  bone  parole,  e  fattole  mille 
carezzielle,  lo  tiraje  da  drinto  lo  fumo.  E  datole  no  bello 
tuocco  de  tela,  disse  che  lo  fosse  juto  a  vennero,  aver- 
tennolo  a  non  trattare  sta  facenna  co  perzune  de  troppo 
parole.  «  Bravo  !,  —  disse  Vardiello  — ,  mo  te  servo  de 
«  musco  ^^,  no  dobetare!  »  E,  pigliatose  la  tela,  jette  gri- 
dunno  pe  la  cetate  de  Napole,  dove  portaje  sta  mercan- 
zia: «  Telo,  telo!  »  Ma  a  quante  le  decevano:  «  Che  tela 
«  è  chesta?  »,  isso  responueva:  «  Non  faje  pe  la  casa  mia, 
«  ch'aje  troppo  parole.  »  E  si  n'autro  le  deceva:  «  Com- 
«  me  la  vinne?  »,  isso  lo  chiammava  cannarono  e  che  l'a- 
veva scellevrellato,  e  rotte  le  chiocche.  All'utemo,  ve- 
duto, drinto  no  cortiglio  de  na  casa  desabetata  pe  lo  mo- 
naciello  -",  na  certa  statola  de  stucco,  lo  poverommo,  spe- 
dato e  stracco  de  ire  tanto  nvota,  se  sedette  ncoppa  a 
no  puojo;  e,  non  vedenno  trafecare  nesciuno  pe  chella 
casa,  che  pareva  casale  sacchejato,  tutto  maravegliato 
disse  a  la  statola:  «  Di,  cammarata,  nce  abita  nullo  a  sta 
«  casa?  »  E,  vedenno  ca  no  responneva,  le  parze  ommo 
de  poco  parole,  e  disse:  «  Vuòite  accattare  sta  tela?,  ca 
«  te  faccio  buon  mercato  ».  E,  vedenno  la  statola  puro 
zitto,  disse:  «  Affé,  aggio  trovato  chello,  che  jeva  cer- 
«  canno  !  Pigliatella,  e  fattela  vedere,  e  dammene  chello 


13  Amara,  triste,  sventurata.      20  Tempie,  capo. 

21  Pi'ofumatamente,  con  ogni  garbo.      22  y.  n.  15,  p.  35. 


64  LO    CUNTO   DE   LI   CtlNTI 

«  che  vuoje;  ca  craje  tome  pe  li  fallasse ^^  ».  Cossi  ditto, 
lassaje  la  tela,  dove  s'era  assettato;  che  lo  primmo  figlio 
de  mamma,  che  nce  trasetto  pò  quarche  servizio  neces- 
sario, trovato  la  sciorta  soja,  se  ne  l'auzaje.  Tornato  Var- 
diello  a  la  mamma  senza  la  tela,  e  contato  lo  fatto  comme 
passava,  Tappe  a  venire  l'antecore*^,  decennole:  «  Quanno 
«  metterai  cellevriello  a  sieste?  Vide  quanta  me  n'aje 
«  fatte,  arrecordatelle!  Ma  io  stessa  me  lo  corpo,  e,  ped 
«•  essere  trop£o_tennera  de  jremmonej  non  faggio  a 
«  la  primma  aggiustato  li  cambio-^,  e  mo  me  n'addono, 
«  ca  mediceo  pietuso  fa  la  chiaja  ncorabele!  Ma  tanta 
«  me  ne  faje,  pe  fi  che  buono  nce  ntorze,  e  farrimmo 
«  cunte  luonghe!  »  Vardiello,  da  l'autra  parte,  diceva: 
«  Zitto,  mamma  mia,  ca  non  sarrà  quanto  se  dice  ;  vuojeaii- 
«  tm,  che  li  tornise  scognate  nuove  nuove  -''  ;  che  te  cri- 
«  de  ca  so  de  lo  Jojo*~,  e  canon  saccio  lo  cunto  mio?;  ha 
«  da  venire  craje !;  da  ccà,  a  bello  vedere^*  non  ne'  ó  tanto, 
«  e  vederraje  si  saccio  mettere  na  maneca  a  na  pala!  » 
Venuta  la  mattina,  quanno  l'ombre  de  la  notte,  socotate 
da  li  sbirre  de  lo  solo,  sfrattano  lo  pajese,  Vardiello  se 
conzegnaje  a  lo  cortiglio,  dove  era  la  statola,  decenno  : 


23  Quattrini.      24  Male  al  ctiore. 

23  Raddrizzato  con  una  buona  bastonatura.  Cfr.  Egl.  La  Coppella. 

2<5  Coniati  or  ora. 

^  Nella  G.  Ili,  2:  «  I-:  dove  slamino?,  a  lo  Jojo?  »  Ne  L'Astuta 
Cortegiana,  commedia  di  Giulio  Cesare  Sorrentino  (In  Nap.,  per  Laz- 
zaro Scoriggio,  MDCXXXI):  «  Non  te  credisse  ca  so  de  Jojo  »  (A.  IV,  i). 
Fantasticamente,  il  DR.  asserisce  che  sia  nome  della  contrada  della 
città,  altrimenti  detta  Pontescuro,  abitata  della  feccia  della  plebe. 
Jojo^  Joi/o,  e  Joij,  (ora  Gioj),  terra  in  Princip.  Ciler.,  diocesi  di  Ca- 
paccio, (comune  della  prov.  di  Salerno,  circond.  di  Vallo  della  Luca- 
nia, con  ab.  1968).  V.  Giustiniani,  o.  e,  V.  (1802),  ad  noni. 

-"*  Accenna  forse  a  qualche  luogo  dei  contorni  di  Napoli,  che  al- 
lora si  chiamava  Belvedere?  La  villa,  detta  di  Belvedere  (dal  Prin- 
cipe di  Belvedere),  sul  villaggio  del  Vomere,  è  del  secolo  scorso. 


JOENATA  I.   TRATTENEMIENTO  VI.  65 

«  Bonni,  messere;  staje  commodo  pe  daremo  cliille  quat- 
«  to  picciole  ?  Ora  busso,  pagarne  la  tela  !  »  Ma,  vedenno 
ca  la  statola  era  muta,  deze  de  mano  a  na  savorra^^,  e 
noe  la  schiaffaje  co  tutta  la  forza  de  ponta  nmiezo  a  l'arca 
de  lo  pietto,  tanto  che  le  roppe  na  vena:  che  fu  la  sane- 
tate  de  la  casa  soja.  Pocca,  scarupate^*^  quattro  mazza- 
cane'*,  scoperze  na  pignata  chiena  de  scute  d'oro,  la 
quale  afferrato  a  doje  mano,  corze  a  scapizzacuollo  a  la 
casa,  gridanno:  «  Mamma,  mamma,  quanta  lupine  russe, 
«  quanta  ne,  quanta  ne!  »  La  mamma,  visto  li  scuti  e 
sapenno  ca  lo  figlio  averria  sprubecato  lo  fatto,  le  disse 
che  fosse  stato  a  pede  la  porta  pe  quanno  passava  lo 
caso  recotta,  ca  le  voleva  accattare  no  tornese  de  latto. 
Vardiello,  ch'era  no  pappone ^"■^,  subeto  se  sedette  nmocca 
la  porta;  e  la  mamma  fece  grannanejare  pe  chiù  de  me- 
z'ora  da  la  fenestra  chiù  de  seje  rotola  de  passe  e  fico 
secche.  Le  quale  Vardiello  adonanno,  strillava:  «  0  mam- 
«  ma,  o  mamma,  caccia  concole,  miette  cavate  ^^,  apara 
«  tinelle^M;  ca,  si  dura  sta  chioppeta,  sarrimmo  ricche!  » 
E,  comme  se  n'appe  chiena  bona  la  panza,  sé  ne  sagliette 
a  dormire.  Occorze  che  no  juorno,  facenno  a  costejune 
dui  lavorante,  esche  de  corte  ^^,  pe  na  pretennenzia  de 
no  scuto  d'oro  trovato  nterra,  ce  arrivaje  Vardiello,  e 
disse:  «  Comme  site  arcasene  a  litechiare  pe  no  lupino 
«  russo  de  chisse,  de  li  quali  io  non  ne  faccio  stimma, 
«  pocca  n' aggio  trovato  na  pignata  chiena  chiena!  »  La 
corte,  nteso  chesto,  aprennoce  tanto  d'uocchie,  lo  nzam- 
menaje^^,  e  disse:  comme,  quanno  e  con  chi  avesse  trovato 


29  Scheggia,  sasso.      30  Rovinati. 

31  Ammasso  di  pietre  da  riempimento 


32  Prop.,  grasso,  paffuto:  scioccone. 

33  Tinozza  più  alta  che  larga.      34  porgi  dei  tini. 

35  Gfr.  Egl.  la  Tenta,  e.  II,  8:  «  esche  de   mazze  ».  Gente  che   ha 
ìmpre  da  fare  coi  tribimali,  o,  anche,  colla  giustizia.      30  Esaminò. 


sempre 


66  LO  CUNTO  DE  LI  CUNTI 

sti  scute  ?  A  lo  quale  respose  Vardiello  :  «  L' aggio  tro- 
«  vato  a  no  palazzo,  drinto  n'ommo  muto,  quanno  cliio- 
«  vettero  passe  e  fico  secche  ».  Lo  jodece,  che  ntese  sto 
sbauzo  de  quinta  nmacaute^^,  adoraje  lo  negozio  e  decre- 
taje,  che  fosse  remisso  a  no  spitale,  comme  a  jodece  com- 
petente sujo.  Cossi  la  gnoranzia  de  lo  figlio  fece  ricca  la 
mamma,  e  lo  jodizio  de  la  mamma  remmedejajo  a  l'ase- 
netate  de  lo  figlio,  pe  la  quale  cosa  se  vedde  chiaro  : 

Che  nave  che  caverna  hxion  jJ&lota, 

È  gran  desgrazia  quanno  tozza  a  scuoglio. 


"  Sbalzo  nel  vuoto. 


LO  POLECE 


TeATTENEMIENTO  QUmTO  DE  LA  JOENATA  PRBIMA. 

No  re,  ch'aveva  poco  pensiero,  cresce  no  polece  granne  quanto  no 
crastato.  Lo  quale  fatto  scortecare,  offere  la  figlia  pe  premmio  a 
chi  conosce  la  pella.  N'uorco  la  sente  a  l'adore  e  se  piglia  la 
prencepessa;  ma  da  sette  figli  de  na  vecchia,  con  autetante  pro- 
ve, è  liberata. 

jLiisero  a  scHattariello  ^  lo  prencepe  e  la  schiava  de 
la  gnoranzia  de  Vardiello,  e  laudare  lo  jodizio  de  la  mam- 
ma, che  seppe  antevedere  e  remmediare  a  le  bestialetate 
soje.  Ed,  essendo  sollecetata  Popa  a  dicere,  comme  tutte 
l'autre  mesero  le  chiave  a  lo  chiacchiarare,  commenzaje 
essa  a  dicere. 

Sempre  le  resoluzione  senza  jodizio  portano  le  roine 
senza  remmedio:  chi  se  coverna  da  pazzo,  da  sapio  se 
dole;  comme  soccesse  a  lo  re  d' Automonte,  che,  pe  no 
spreposeto  a  quatto  sole^,  fece  na  pazzia  ncordoana,  met- 
tenno  a  pericolo  senza  mesura  la  figlia  e  l'onore. 

Essenno  na  vota  lo  re  d' Automonte  mozzecato  da  no 
polece,  pigliatolo  co  na  bella  destrezza,  lo  vedde  cossi 
bello  e  chiantuto,  che  le  parze  coscienzia  de  settenzia- 
relo  ncoppa  lo  talamo^  de  l'ogna.  E,  perzò,  miselo  drinto 


i  A  crepapelle.      2  ^  quattro  suole.  V.  n.  32,  p.  37. 
3  Palco,  patibolo. 


68  LO   CTINTO  DE  LI   CUNTI 

na  carrafa,  e  notrennolo  ogne  juorno  co  lo  sango  de  lo 
proprio  vraccio,  fu  di  cossi  bona  crescenza,  che,  ncapo  de 
sette  mise,  bisognanno  cagnarele  luoco,  deventaje  chiù 
gniosso  de  no  crastato.  La  quale  cosa  vedenno  lo  re,  lo 
fece  scortecare;  e,  conciata  la  pelle,  jettaje  no  banno,  che 
chi  avesse  canosciuto  de  che  anomale  fosse  lo  cuojero, 
l'averria  dato  la  figlia  pe  mogliere.  Dove,  sprubecato  che 
fu  sto  manefesto,  corzero  le  gente  a  morra,  e  vennero  da 
culo  de  lo  munno  pe  trovarese  a  sto  scrutinio,  e  tentare 
la  sciorta  lloro.  E  chi  diceva  ch'era  de  gatto  maimone,  e 
chi  de  lupo  cerviere,  chi  de  cocotriglio,  e  chi  de  n'ane- 
male,  e  chi  de  n'autro.  Ma  tutte  n'erano  ciento  miglia  da 
tasso  ^,  e  nesciuno  coglieva  a  lo  chiuovo.  All'utemo,  jonze 
a  sta  notomia  n'uorco;  lo  quale  era  la  chiù  strasformata 
cosa  de  lo  munno,  che,  nvederelo  schitto,  faceva  venire 
lo  tremmolese,  lo  Elaterio^,  la  vermenara*^  e  lo  jajo'  a 
lo  chiù  arresecato  giovane  de  sto  munno.  Ora,  chisso, 
a  pena  arrivato,  e  moschejanno^  e  annasanno  lapella,  couze 
subeto  da  miezo  a  miezo,  decenno:  «  Chisso  cuojero  è 
«  dell'arcenfanfaro  de  li  pulece!  »  Lo  re,  che  vedde  ca 
l'aveva  nzertata^  a  milo  shiuoccolo  *^,  pe  no  mancare  la 
parola,  fece  chiammare  Porziella,  la  figlia.  La  quale  non 
mostrava  antro  che  latte  e  sango;  bene  mio,  ca  vedive 
no  fusillo**,  e  te  la  schiudive  co  l'uocchie,  tanto  era  bella! 
A  la  quale  disse  lo  re:  «  Figlia  mia,  tu  saje  lo  banno, 
«  ch'aggio  jettato,  e  saje  chi  songo  io.  All'utemo,  no  me 


■•  Discosto. 

5  Paura:  dal  movimento,  che  sente  nelle  viscere  chi  ha  paura. 

"  Febbre  verminosa.       "^  Ghiaccio,  freddo. 

8  Ronzando,  come  mosca.      °  Innestata. 

*"  Sembra  da  identificarsi  con  la  Celtis  auslralis  o  col  Ziziphus  lo- 
tus.  Da  quest'albero,  un  t«mpo  molto  comune,  prendono  anche  nome 
due  luoghi  di  Napoli,  a   Porto  e  a  Materdei.  Gfr.   Rocco,  in  GBB.^ 

V,    12. 

*^  Fusillo,  nome,  che  i  Napoletani  danno  a  più  specie  di  libellula. 


JOENATA  I.   TRATTENEMIENTO   V.  69 

«  pozzo  dare  arreto  de  la  prommessa:  0  re  0  scorza  de 
«  chiuppo!  La  parola  è  data,  besogna  compirela,  anche 
«  me  crepa  lo  core.  Chi  poteva  nmagenarese  ca  sta  be- 
«  neficiata  toccasse  a  n'uerco?  Ma,  pecca  no  se  cotola^^ 
«  fronna  senza  la  volontate  de  lo  cielo,  besogna  credere 
«  che  sto  matremonio  sia  fatto  mprimma  là  ncoppa,  e  pò 
«  cà  bascio!  Aggiete,  adonca,  pacienzia;  e,  se  si  figlia 
«  benedetta,  no  leprecare  a  lo  tata*^  tujo,  ca  me  dice 
«  lo  core,  ca  starrai  contenta,  perchè,  spisso,  drinto  no 
«  ziro^'*  de  preta  rosteca  ce  so  trovate  li  tresore!  »  A 
Porziella,  sentenno  st' ammara  resoluzione,  s'ascoraro  l'uoc- 
chie,  se  ingiallette  la  faccia,  cascare  le  lavre  e  trem- 
maro  le  gamme,  e  fu  mpizzo  mpizzo  pe  dare  vuole  a 
lo  farcene  de  l'arma  dereto  a  la  quaglia  de  lo  dolore. 
AU'utemo,  rompenno  a  chiagnere  e  sparanno  la  voce,  disse 
a  lo  patre  :  «  E  che  male  servizie  aggio  fatto  a  la  casa, 
«  che  me  sia  data  sta  pena?,  che  male  termene  aggio 
«  usato  con  vuje,  che  sia  data  umano  de  sto  paputo  ^^? 
«  0  negrecata  Porziella!,  ed  ecco  volontariamente,  com- 
«  m'a  donnola,  ire  ncanna  de  sto  ruospo  !,  ed  ecco  pecora 
«  sbentorata  essere  furto  de  no  lupo  menare  ^^  !  Chesta 
«  è  l'affezzione,  che  puorte  a  lo  sango  tujo?  Chisto  è 
«  l'ammore,  che  mustre  a  chi  chiammave  popella  dell'ar- 
«  ma  toja?  Cossi  scraste  da  lo  core  chi  è  parte  de  lo 
«  sango  tujo?  Cossi  te  lieve,  da  nanze  l'uocchie,  chi  è 
«  la  viscida  dell'uocchie  tuoje?  0  patre,  0  patre  crodele, 
«  non  si  nato  cierto  de  carne  omana!:  l'orche  marine  te 
«  dezero  lo  sango,  le  gatte  sarvateche  te  dezero  lo  latte. 
«  Ma  che  dico  anemale  de  maro  e  de  terra?  Ogne  ane- 


12  Scuote,  muove.      ^^  padre. 
*^  Vaso  grande,  generalmente  da  tenervi  olio, 
i^  Spirito  maligno,  e  anche  fantasma. 

is  Lupo  mannaro:  sul  quale  è  notissima  la  credenza  popolare.  Cfr., 
tra  gli  altri,  Pitré,  BibL,  XVII,  224-31. 


70  LO  CUNTO  DE  LI  CTJNTI 

«  male  amma  la  razza  soja!  Tu  sulo  aje  contracore  e  nsa- 
«  vuorio  la  semmenta  propria;  tu  schitto  hai  contra  stom- 
«  maco  la  figlia!^'  0  clie  meglio  m'avesse  strafocato 
«  mammama,  che  la  connoia  fosse  stato  lietto  martore,  la 
«  zizza  de  la  notriccia  vessica  de  tuosseco,  le  fasce  chiappe, 
«  e  lo  fiscariello ^*,  che  m'attaccare  ncanna,  fosse  stato 
«  mazara^®  !  ;  pocca  doveva  correre  sta  mala  sciagura  a  ve- 
«  deremo  sto  male  juorno  a  canto,  a  vedereme  accarez- 
«  zata  da  na  mano  d'arpia,  abbracciata  da  doi  stenche 
«  d'urzo,  vasata  da  doi  sanno  de  puorco!  »  Chiù  vo- 
leva dicere,  quanno  lo  re,  nfomatose"^'*  tutto,  le  disse: 
«  Senza  collera,  ca  lo  zuccaro  vale  caro!,  chiane,  ca  li 
«  brocchiere  so  de  chiuppo^M,  appila^*,  ca  esce  feccia!, 
«  zitto  non  pipitare,  ca  si  troppo  mozzecutola,  lengoruta*^, 
«  e  forcelluta!  Chello,  che  faccio  io,  è  ben  fatto:  no  mez- 
«  zare  lo  patre  de  fare  figlie;  scumpela  e  nfìccate  ssa 
«  lengua  dereto  ;  e  non  fare  che  me  saglia  lo  senape,  ca 
«  si  te  mecco  ste  granfe  adduosso,  non  te  lasso  zervola^^ 
«  sana,  e  te  faccio  pigliare  sto  terreno  a  diente!  Vide 
«  fleto  de  lo  culo  mio,  ca  vo  fare  dell'ommo,  e  mettere 
«  legge  a  lo  patre!  Da   quanno  niccà   una,  ch'ancora  le 


"  Il  Liebr.  nota:  «  Questo  luogo  è  un'imitazione  dell'//.  i6,  33 
sgg.;  Aen.  4,  365  sgg.;  cfr.  Gellius,  12,  i,  20  »  (An«i.,  I,  400). 

18  Fischietto.  Ai  bambini  s'attaccava  anche  al  collo  il  campanello 
di  S.  Anluono.  Cfr.  il  Tardacino  (0.  e,  p.  72),  e  De  Bourcard  {Usi  e 
Costumi,  voi.  Il,  Nap.,  1866,  pp.  201-6). 

1'  Pietra,  che  si  legava  al  collo  di  coloro,  che  venivano  annegati. 
Cfr.  IV,  6.  Mazzara  multa,  chiama  N.  Capasso,  qtielle  tre  grosse 
pietre  nere,  come  forme  di  cacio,  che  si  veggono  nella  cappella  dei 
Riccardi,  nella  chiesa  dello  Spirito  Santo,  «  delle  quali,  —  dice  il 
Celano  — ,  si  servivano  gli  antichi  tiranni  a  tormentare  i  seguaci 
del  Croceflsso!  »  (Cfr.  N.  Capasso,  Varie  poesie,  Nap.,  1761,  pp.  103-107, 
e  Gel.,  o.  e,  III,  20). 

20  Adirato.      21  l^  forchette  son  di  legno,  cioè  facili  a  rompersi. 

22  Tura.      23  (ES)  Ungula.      2i  ciocca  di  capelli. 


JOENATA   I.   TRATTENEMIENTO   V,  71 

«  fate  la  vocca  de  latte,  ha  da  leprecare  a  le  voglie 
«  mie?  Priesto,  toccale  la  mano,  a  sta  medesema  pe- 
«  data  tocca  a  la  vota  de  la  casa  soja,  ca  non  voglio  te- 
«  nere  manco  no  quarto  d'ora  nnante  all'uoccliie  sta  faccie 
«  sfrontata,  presentosa!  »  La  negra  Porziella,  che  se 
vedde  a  ste  retaglie,  co  na  facce  de  connannato  a  morte, 
co  n'uocchio  de  spiritato,  co  na  vocca  de  chi  ha  pigliato 
lo  domene  Agostino  -•",  co  no  core  de  chi  sta  fra  la  man- 
nara e  lo  cippo-'',  pigliaje  pe  mano  l'uerco.  Da  lo  quale, 
senza  compagnia,  fu  strascinata  a  no  vosco,  dove  l' arvole 
facevano  palazzo  a  lo  prato,  che  non  fosse  scopierto  da 
lo  sole;  li  shiumme  se  gualiavano ~^,  che,  pe  cammenare  a 
lo  scuro,  tozzavano  pe  le  prete;  e  l'anomale  sarvateche, 
senza  pagare  fida,  gaudevano  no  Beneviento'^  e  jevano  se- 
cure  pe  drinto  chelle  macchie;  dove  non  ci  arrivava  maje 
ommo,  si  non  aveva  sperduto  la  strata.  A  sto  luoco  ni- 
gro  comm'a  cimmenera  appilata,  spaventuso  comme  facce 
de  nfierno,  nc'era  la  casa  dell' uerco,  tutta  tapezzata  e 
aparata  ntuorno  d'ossa  d'uommene,  che  s'aveva  canna- 
riato^''.  Conzidera  mo  chi  è  ci'istiauo  lo  tremmoliccio,  lo 


23  Cioè,  lo  sciroppo  inventato  dal  famoso  Agostino  Nifo,  da  Sessa 
(1462-1538).  Lucio  Sacco  {L'antichissiìna  Sessa  Pometia,  Nap.,  1640) 
scrive:  «  Egli  fu  lo  inventore  di  quel  mirabile  siruppo,  senza  il 
quale  par  che  non  ti  potesse  fare  perfetta  medicina,  il  quale  comu- 
nemente da  medici  e  speziarii  è  chiamato  Syrup.  Domini  Au^ustini  ». 
ìielVAntidotario  Napolitano  di  Francesco  Greco  (Napoli,  1642,  p.  81) 
ve  n'è  la  ricetta^  Gfr.  E.  Rocco,  in  GBB.,  VII,  2. 

26  La  mannaia  cadeva  dall'alto,  e  da  essa  pigliava  il  nome  quella 
sorta  di  ghigliottina,  che  era  in  uso  già  da  molti  secoli  a  Napoli,  e 
in  tutta  Italia.  V.,  sull'argomento,  una  serie  d'articoli  nel  periodico 
La  lega  del  bene  (II,  1887,  nn.  38-43).      27  si  lamentavano. 

28  Gfr.  n,  I.  Il  diritto  di  fida,  0  affidatura,  si  pagava  da  coloro, 
che  menavano  gli  animali  a  pascolo  nelle  terre  regie  e  comunali. 
V.  L.  Bianchini,  Bella  storia  delle  finanze  del  regno  di  Napoli,  Pa- 
lermo, 1839,  pp.  41-2,  e  passim.  —  Benevento  apparteneva,  com'è 
noto,  al  Pontefice,  ed  era  un  vicino  e  sicuro  asilo.      ^  Divorato. 


72  LO  CUNTO  DE  LI   CUNTl 

sorrejemiento,  l'assottigliamiento  de  lo  core,  lo  filatorio, 
lo  spaviento,  la  quatra  de  vierme  e  la  cacavessa,  ch'appe 
la  povera  figliola;  fa  cunto  ca  no  le  restaje  sango  ad- 
duosso!  Ma  cliesto  non  fu  niente,  non  fu  zubba^*^  a  lo 
riesto  de  lo  carrino,  pecca  nnanze  pasto  appe  cicero  e  dopo 
pasto  fave  ngongole^^  Perchè,  juto  a  caccia  l' uerco,  tor- 
nale a  la  casa  tutto  carreco  de  quarte  d'accise,  dicenno: 
«  Mo  non  te  puoje  lammentare,  mogliere,  ca  non  te  co- 
«  verno  !  Eccote  bona  monizione  de  companateco,  piglia 
«  e  sguazza  e  vuoglieme  bene;  ca  pò  cadere  lo  cielo, 
«  ch'io  non  te  faccio  mancare  lo  mazzeco  ».  La  negra 
Porziella,  sputanno  comm'a  femmena  prona,  votaje  la  fac- 
cia da  l'autra  banna.  L' uerco,  che  vedde  sto  motivo, 
disse  :  «  Chesso  è  dare  confiette  a  puorce  !  Ma  no  mporta, 
«  agge  no  poco  de  fremma  fi  ncraje  matino,  ca  so  stato 
«  committato  a  na  caccia  de  puorce  sarvateche,  de  li 
«  quali  te  ne  portarraggio  no  paro,  e  farrimmo  nozze 
«  ncaudariello  co  li  pariente,  pe  conzomare  con  chiù  gu- 
«  sto  lo  parentato  ».  Cossi  ditto,  ammarciajo  pe  drinto  a 
lo  vosco.  Ed,  essa  restata  a  trivoliare  ^-  a  la  fenestra,  pas- 
saje  pe  desgrazia  da  chella  casa  na  vecchiarella,  che,  sen- 
tennose  allancare  de  la  famme^^,  le  cercaje  quarche  re- 
frisco.  A  la  quale  la  negregata  giovane  respose  :  «  0  bona 
«  femmena  mia.  Dio  sapere  core,  ca  sto  npotere  de  no 
«  zifierno^',  che  no  me  porta  a  la  casa  autro,  che  quarte 
«  d'uommene  e  piezze  d'accise:  che  non  saccio,  comm'ag- 
«  gio  stommaco  a  vedere  schitto  ste  schefienzie;  tanto 
«  che  passo  la  chiù  misera  vita,  che  passasse  mai  arma 
«  vattiata  ^'•'  !  E  puro  so  figlia  de  re  ;  e  puro  so  cresciuta 


30  Un  niente. 

3i  Fave  secche,  che  si  cuociono  senza   mondarle   dal    guscio.  Cfr. 
Del  Tufo  {ms.  e,  f.  29). 
32  Piangere.      33  Languir  di  fame.       3i  Demonio. 
3i  Battezzata. 


JORNATA   I.   TBATTENEMIENTO   V.  73 

«  a  pappalardielle  ^^;  e  puro  me  so  vista  drinto  lo  gras- 
«  so!  »  E,  cossi  decenno,  se  mese  a  chiagnere,  comm'a 
peccerella,  clie  se  vede  levare  la  marenna.  Tale  che,  nten- 
neruto  lo  core  de  la  vecchia,  le  disse:  «  Crisce,  bella 
«  figliola  mia;  no  straderò  sta  bellezza  chiagnenno;  ch'aje 
«  trovata  la  sciorta  toja;  so  ccà  ped  ajutarete  a  varda  e 
«  a  sella!  Ora  ntienne:  io  aggio  sette  figlie  mascole,  che 
«  vide  sette  giojelle,  sette  cierre,  sette  giagante:  Mase, 
«  JSTardo,  Cola,  Micco,  Petrullo,  Ascadeo  e  Ceccone,  le  quali 
«  hanno  chiù  vertute  de  la  rosa  marina^'.  E,  particolare- 
«  mente,  Mase,  ogne  vota,  che  mette  l'aurecchia  nterra, 
«  sente  ed  ausoleja  tutto  chello,  che  se  fa  pe  trenta  mi- 
«  glia  da  rasso  ;  Nardo,  ogne  vota,  che  sputa,  fa  no  gran 
«  maro  de  sapone;  Cola,  sempre  che  jetta  no  ferruccio, 
«  fa  no  campo  de  rasole  ammolate;  Micco  tutte  le  vote 
«  che  tira  no  spruoccolo,  fa  no  vosco  ntricato;  Petrullo, 
«  sempre  che  jetta  nterra  na  stizza  d'acqua,  fa  no  shium- 
«  mo  terribile;  Ascadeo  ogne  vota,  che  tira  na  vreccia, 
«  fa  nascere  na  torre  fortissema;  e  Ceccone  ceca  cossi 
«  diritto  ca  na  valestra,  che  tira  no  miglio  da  rasso  a 
«  n'uocchio  de  na  gallina.  Ora  co  l'ajuto  da  chiste,  che 
«  so  tutte  cortise,  tutte  ammoruse,  e  averranno  compas- 
«  sione  de  lo  stato  tujo,  voglio  vedere  de  levarete  dalle 
«  granfe  de  st'uerco;  ca  sso  bello  muorzo  gliutto  non 
«  è  pe  lo  cannarono  de  sto  paputo.  »  «  Maje  a  meglio 
«  tiempo  de  mo,  —  respose  Porziella  — ;  ca  la  mal'om- 
«  bra  de  maritemo  è  sciuto,  pe  non  tornare  sta  sera,  e 
«  averriamo  tiempo  d'allippare^^,  e  fare  lo  filo  ».  «  Non 
«  pò  essere  stasera,  —  leprecaje  la  vecchia  — ;  ca  sto 
«  no  poco    lontano:  vasta,  ca  craje  matino  io  e  li   figlie 


36  Pane  e  lardo,  cibo  per  la  povera  gente  squisito,  dice  il  Gal.  nel 
FA'.  Qui:  cresciuti  nell'abbondanza,  nelfallegria. 

37  Son  note  le  virtù  del  rosmarino.  Gfr.  anche   Pitré  {Bibl.,  XVI, 
251-3).      38  Svignarcela. 


74  LO   CUNTO   DE  LI   CUNTI 

*  mieje  saxrimmo  nsieme  a  levarete  da  travaglio.  »  Cossi 
ditto,  se  partette;  e  Porziella,  fatto  no  core  largo  largo, 
arreposaje  la  notte.  Ma,  subeto  che  raucielle  gridare: 
«  Viva  lo  sole!  »,  eccote  venire  la  veccliia  co  li  sette  figlie  ; 
e,  piiostese  Porziella  nmiezo,  s'abbiaro  a  la  vota  de  la 
cetate.  Ma  no  foro  no  iniezo  miglio  descuosto,  che,  mpiz- 
zanno  Mase  l'aureccliie  nterra,  gridaje:  «  Allerta,  olà,  a 
«  nuje,  eh' è  vorpe!  Già  Tuerco  è  tornato  a  la  casa,  e, 
«  non  avenno  ashiato  sta  figliola,  nio  se  ne  la  vene  co  la 
«  coppola  sotto  titilleco^"  ad  arrivarence!  »  Sentuto  che- 
sto  Nardo  sputaje  nterra  e  fece  no  maro  de  sapone;  dove 
janto  l'uerco,  e  vedenno  sta  nsaponata,  corre  a  la  casa, 
e,  pigliato  no  sacco  de  vrenna  "^,  se  la  mbroscinaje''  tanto 
e  tanto  pe  li  piede,  ch"a  gran  pena,  passaje  sto  ntuppo. 
Ma,  tornato  Mase  a  mettere  l'aurecchia  nterra,  disse  :  «  A 
«  te,  compagno!,  mo  se  ne  la  vene!  »  E  Cola,  jettato  lo 
ferruccio  nterra,  sguigliaje  no  campo  de  rascia.  Ma  l' uerco, 
che  se  vedde  serrato  lo  passo,  corre  n'autra  vota  a  la 
casa  e  se  vestette  da  capo  a  piede  de  fierro;  e,  tornato, 
scavallaje  sto  fuosso.  Ma  Mase,  mpizzato  do  nuovo  l'au- 
recchia nterra,  gridaje:  «  Su  su,  arme  arme!,  ca  mo  te 
«  vide  ccà  l'uerco  co  na  carrera,  che  vola!  »  E  Micco, 
lesto,  co  lo  spnioccolo^  fece  soriere  no  vosco  terribelis- 
simo,  cosa  difficele  a  sperciare.  Ma,  commejonze  l'uerco 
a  sto  male  passo,  caccia  mano  a  na  cortella  carrese '^, 
che  portava  a  lato,  ed  accommenza  a  fare  cadere  da  ccà 
no  chiuppo,  da  Uà  no  cierro,  da  na  parte  a  fare  tommo- 
liare  no  corognale'^\  da  n'autra  no  suorvo  peluso;  tanto, 
che,  nquatto  o  ciuco  cuorpe,  steso  lo  vosco  nterra  o  scotte 
scapolo  da  chisso  ntrico.  Mase,  che  teneva  l'aurecchie  a 
leparo,  tomaje  ad  auzare  la  voce:  «  No  stammo  comme 


39  Ascelle;  col  berretto  sotto  il  braccio.      '"  Crusca.      ''  Strofinò. 
*^  Specie  di  coltellaccio.  Gfr.  IV,  5. 
w  (ES)  coregnano.  —  Corniolo. 


JORKATA   I.   TEATTENEMIENTO   V.  75 

«  nce  radessemo '■',  ca  l'uerco  ha  puosto  l'ascelle''^;  e  mo 
«  te  lo  vide  a  le  spalle  nostre  !  »  Chesto  sentuto  Pe- 
trullo,  pigliaje  da  iia  fontanella,  che  pisciava  a  stizza  a 
stizza  de  na  quaquiglia ^'^  de  preta,  no  surzo  d'acqua;  e, 
sbruffatola  nterra,  lloco  te  vediste  no  gruosso  shiummo. 
L'uerco,  che  vedde  st'autro  mpiedeco,  e  ca  non  tanto 
faceva  pertosa,  quanta  trovavano  appelarelle,  se  spogliaje 
nudo  nudo  e  passaje  a  natune  co  li  vestita  ncapo  da  l'au- 
tra  banna.  Mase,  che  metteva  l'aurecchia  ad  ogne  per- 
tuso,  sentette  lo  fruscio  de  carcagna  dell' uerco,  e  disse: 
«  Sto  negozio  nuostro  ha  pigliato  de  granceto^"^,  e  già 
«  l'uerco  fa  no  vattere  de  tallune,  che  lo  cielo  te  lo 
«  dica  pe  mene.  Perzò,  stammo  ncellevriello,  e  repa- 
«  rammo  a  sta  tempesta;  si  no,  simmo  jute!  »  «  Non  du- 
«  betare,  —  disse  Ascadeo  — ;  ca  mo  chiarisco  sto  brutto 
«  pezzente'^  ».  E,  dicenno  chesto,  tiraje  na  vreccia  e 
fece  apparerò  na  torre,  dove  se  schiaffaro  subeto  drinto, 
varrianno  ^^  la  porta.  Ma,  arrivato  l'uorco  e  visto  ca  s'e- 
rano puoste  nsarvo,  corre  a  la  casa,  e  pigliaje  na  scala 
de  vennegnare  e,  ntorzatasella  ncuollo,  corze  a  la  torre. 
Mase,  che  stava  co  l'aurecchie  pesole,  sentette  da  lon- 
tano la  venuta  dell'  uerco  e  disse  :  «  Mo  simmo  all'ute- 
«  mo  de  la  cannela  de  le  speranze;  a  Ceccone  sta  l'utemo 
«  refugio  de  la  vita  nostra;  ca  l'uorco  mo  torna  e  co 
«  na  furia  granne.  Oimè,  ca  me  sbatte  lo  core,  e  me 
«  nzonno  la  mala  jornata!  »  «  Gomme  si  cacavrache!, — 
«  respose  Ceccone  — ;  lassa  fare  a  Menechiello,  e  vi  si 
«  coglio  mponta  co   le  parrette^**  ».   Cossi    decenno,  ec- 


^*  cioè,  fermi,  saldi.      ^^  Ali.      ^^  Conchiglia.      ^"^  Rancido. 

•*8  V,  n.  29,  p.  23.      -i^  Sbarrando. 

50  Così  erano  dette  le  pallottole,  che  si  scagliavano  dalle  balestre, 
«  quando  non  era  in  tanto  xiso  lo  scoppio  >  (Celano,  o.  e,  III,  919-20). 
E  c'è  ancora,  presso  al  Mercato,  un  Vico  dei  Parretlari  (corrotta- 
mente Barrettari). 


76  LO  CUNTO   DE  LI   CUNTI 

cote  l'uerco  appoja  la  scala,  e  commenza  ad  arrampina- 
rese.  Ma  Ceccone,  pigliatolo  de  mira  e  cacciatole  na  lan- 
terna^', lo  fece  cadere  luongo  luongo  comm'a  piro  nterra; 
e,  scinto  da  la  torre,  co  lo  cortellaccio  stisso  che  portava, 
le  tagliaje  lo  cuollo,  comme  se  fosse  de  casoricotta.  Lo 
quale  portattero  co  n'allegrezza  granne  a  lo  re;  che,  giu- 
belejanno  d'avere  recoperato  la  figlia,  pecca  s'era  ciento 
vote  pentuto  d'averela  data  a  n'uerco,  fra  poche  juorne, 
le  trovaje  no  bello  marito,  facenno  ricche  li  sette  figlie 
e  la  mamma,  che  avevano  spastorato  la  figlia  da  na  vita 
cossi  nfelice,  no  lassanno  de  chiammarese  mille  vote 
corpato  co  Porziella,  che,  pe  no  crapiccio  de  viento,  l'a- 
veva posta  a  tanto  pericolo,  senza  ponzare  quanto  errore 
commette  chi  va  cercanno: 

Ova  (le  lupo  e  2yicttene  de  fjuinncce  ''•. 


^'1  Fattogli  una  ferita,  da  parte  a  parte.  Gir,  n.  loo,  p.  30. 
^*  Gfr.  MX,  I:  «  Lo  meglio  è  de  se  fare  Lo  fatteciello  sujo,  e  non 
cercare  Ove  de  lupo  e  piettene  de  (/ninnece  ». 


LA  GATTA   CENNERENTOLA 


Teatteìiemiekto  sesto  de  la  Jorxata  peimma. 

Zezolla,  nmezzata  da  la  majestra  ad  accidere  la  matreja,  e,  credenuo 
co  farele  avere  lo  patre  pe  marito,  d'essere  tenuta  cara,  è  posta 
a  la  cucina.  Ma,  pe  vertute  de  le  fate,  dapò  varie  fortune,  se  gua- 
dagna no  re  pe  marito. 

JT  arzero  statole  li  ascoltante  a  sentire  lo  cunto  de  lo 
polece  e  facettero  na  dechiaratoria  d'asenetate  a  lo  re 
catammaro^,  che  mese  a  tanto  riseco  lo  nteresse  de  lo 
sango  e  la  soccessione  de  lo  stato  pe  na  cosa  de  vren- 
na.  Ed,  essenno  tutte  appilate^,  Antonella  spilaje  de  la 
manera,  che  secota. 

Sempre  la  nmidia,  ne  lo  maro  de  la  malignitate,  appe 
ncagno  de  vessiche  la  guallara;  e,  dove  crede  de  vedere 
antro  annegato  a  maro,  essa  se  trova  o  sott'acqua  o  toz- 
zato  a  no  scuoglio  ;  comme  de  certe  figliole  nmediose  me 
va  mpenziero  de  ve  contare.  Saperrite,  donca,  che 

Era  na  vota  no  prencepe  vidolo,  lo  quale  aveva  na  fi- 
gliola accessi  cara,  che  non  vedeva  ped  autro  uocchio. 
A  la  quale  teneva  na  majestra  princepale,  che  le  nmez- 
zava  le  catenelle,  lo  punto  n'ajero,  li  sfilatielle  e  l'afreco 


*  Scioccone.  V.  n.  2,  p.  21.      -  A  bocca  chiusa,  in  silenzio. 


78  LO   CUNTO  DE  LI  C'UNTI 

perciato  ^,  monstrannole  tant'  affezione,  che  non  s' abbasta 
a  dicere.  Ma,  essennose  nzorato  '  de  frisco  lo  patre  e  pi- 
gliata na  focoliata,  marvasa  e  miciata  de  lo  diantane'', 
commenzaje  sta  mardetta  femmena  ad  avere  nsavuorrio 
la  figliastra,  facennole  cere  brosche,  facce  storte,  nocchie 
gronnuse,  de  farela  sorrejere.  Tanto  che  la  acura  pecce- 
rella  se  gualiava  sempre  co  la  majestra  de  li  male  trat- 
tamiente,  che  le  faceva  la  matreja,  decennole  :  «  Oh  Dio, 
«  e  non  potisse  essere  tu  la  mammarella  mia,  che  me 
«  fai  tanta  vruoccole  e  cassesie?  »  E  tanto  secotaje  a 
fare  sta  cantelena,  che,  puostole  no  vespone  a  l'aurecchie, 
cecata  da  mazzamauriello '',  le  disse  na  vota:  «  Se  tu 
«  vuoi  fare  a  muodo  de  sta  capo  pazza,  io  te  sarraggio 
«  mamma,  e  tu  me  sarrai  cara  comm'a  le  viscide  '  de 
«  st'uocchie  ».  Voleva  secotiare  a  dicere,  quanno  Zezolla, 
(che  cossi  la  figliola  aveva  nomme),  disse:  «  Perdonarne 
«  si  te  spezzo  parola  nmocca;  io  saccio  ca  me  vuoi  be- 
«  ne;  perzò,  zitto  e  zuffecit*:  nmezzame  l'arte,  ca  vengo 
«  da  fore;  tu  scrive,  io  fìi-mo.  »  «  Ora  susso,  —  lepre- 
«  caje  la  majestra  — ,  siente  buono,  apre  l'aurecchie,  e 
«  te  veneralo  pane  janco  comm'a  li  shiure.  Gomme  esce 
«  patreto,  di'  a  matrèjata  ca  vuoi  no  vestito  de  chille 
«  viecchie,  che  stanno  drinto  lo  cascione  granne  de  lo  re- 
«  trotto^,  pe  sparagnare'"  chisto,  che  puorte  ncuoUo. 
«  Essa,  che  te  vo  vedere  tutta  pezze  e  peruoglie,  aprerà 


3  II  punto  n'ajevo  è  menzionalo  da  V.  Braca,  nella  farsa  A  Maestà 
{Opere  cavatole,  Ms.  Bibl.  Naz.,  segn.  IX,  F.  47,  f.  7).  Afreco  perciato, 
pieghetta,  orlo.  Il  Del  Tufo,  ove  discorre  dell'arte  del  cucire  delle 
donne  napoletane:  «  Sapran  forse  elle  sole  Fare  il  ponto  Spagnuolo? 
O  il  cairello  o  '1  travato,  L'Afreco  tondo,  il  piano  0  quel  perdalo''.  » 
E  «  le  catenelle  insiem  colle  spighette  »  {ms.  e,  It  71-3). 

*  Ammogliato.      5  sobbillata  dal  diavolo. 

^  O  scaz zamaìtriello,  come  sopra;  v.  n.  106,  p.  31. 

"  Viscere  degli  occhi,  pupille.      '^  Latin.:  sufficit. 

^  Stanzetta.  Cfr.  I,  7.       '^  Rispunuiare. 


JOENATA   I.   TEATTENEMIENTO    VI.  79 

«  lo  cascione  e  dirrà:  tiene  lo  copierchio.  E  tu,  tenen- 
«  nolo,  mentre  jarrà  scervecanno  ^^  pe  drinto,  lassalo  ca- 
«  dero  de  botta,  ca  se  romparrà  lo  cuollo.  Fatto  chesto, 
«  tu  sai  ca  patreto  farria  moneta  fauza  pe  contentarete  ; 
«  e  tu,  quanno  te  fa  carizze,  pregalo  a  pigliareme  pe  mo- 
«  gliere,  ca  viata  te!,  tu  sarraje  la  patrona  de  la  vita 
<i  mia!  »  Ntiso  chesto  Zezolla,  le  parze  ogu'ora  mill'an- 
ue,  e  fatto  compritamente  lo  conziglio  de  la  majestra, 
dapò  che  se  fece  lo  lutto  pe  la  desgrazia  de  la  matreja, 
commenzaje  a  toccare  li  taste  a  lo  patre,  che  se  nzorasse 
co  la  majestra.  Da  principio,  lo  prencepe  lo  pigliaje  a 
burla;  ma  la  figliola  tanto  tiraje  de  chiatto,  fi  che  couze 
de  ponta;  che,  all'utemo,  se  chiegaje  a  le  parole  de  Ze- 
zolla. E,  pi^liatase  Carmosina,  ch'era  la  majestra,  pe  mo- 
gliere,  fece  na  festa  granne.  Ora,  mentre  stavano  li  zite  '^ 
ntresca,  affacciatase  Zezolla  a  no  gaifo  ^^  de  la  casa  soja, 
volata  na  palommella  sopra  no  muro,  le  disse  :  «  Quanno 
«  te  vene  golio  de  quarcosa,  mannal' addemannare  a  la 
«  palomba  de  le  fate  a  l'isola  de  Sardegna,  ca  l'averrai 
«  subeto  ».  La  nova  matreja,  pe  cince  0  seje  juorne,  af- 
fummaje  de  carizze  a  Zezolla,  sedennola  a  lo  meglio  luoco 
de  la  tavola,  darmele  lo  meglio  muorzo,  mettennole  li  me- 
glio vestite.  Ma,  passato  a  mala  pena  no  poco  de  tiem- 
po,  mannato  a  monte  e  scordato  affatto  de  lo  servizio  re- 
ceputo  (0  trista  l'arma,  ch'ha  mala  patrona!),  commenzaje 
a  mettere  npericuoccuolo  seje  figlie  soje,  che,  fi  a  tan- 
no^', aveva  tenuto  secreto.  E  tanto  fece  co  lo  marito, 
che,  receputo  ngrazia  le  figliastre,  le  cadette  da  core  la 
figlia  propria.  Tanto  che  scapeta  oje,  manca  craje,  venne 
a  termene,  che  se  redusse  da  la  cammara  a  la  cecina,  e 


11  Rovistando.      i-  Sposi. 

'3  I  r/aìft  erano  «  una  specie  di  terrazzini  pensili,  clie  sporgevano 
dai  primi  piani  delle  case  »  (b.  Capasse  in  Arcìi,  Slot:  ^'a..p.^  XV,  428)- 
1'  Fin  allora. 


So  LO   CUNTO   DE   LI   CUNTI 

da  lo  vardacchino  a  lo  focolare,  da  li  sfuorge  de  seta  e 
d'oro  a  le  mappine,  da  li  scettro  a  li  spite*^.  Né  sulo 
cagnaje  stato,  ma  nomme  perzi,  che,  da  Zezolla,  fu  chiam- 
mata  Gatta  cennerentola.  Soccesse  ch'avenno  lo  prencepe 
da  ire  nSardegna,  pe  cose  necessarie  a  lo  stato  sujo,  do- 
mannaje  una  ped  una  a  Mperia  ^"j  Calamita,  Shiorella,  Dia- 
mante, Colommina,  Pascarella,  ch'erano  le  seje  figliastre, 
che  cosa  volessono  che  le  portasse  a  lo  retuorno.  E  chi 
le  cercaje  vestite  da  sforgiare,  chi  galantarie  pe  la  capo, 
chi  cuonce'^  pe  la  faccia,  chi  jocarlelle  pe  passare  lo 
tiempo,  e  chi  na  cosa  e  chi  n'autra.  Ped  utemo,  quase  pe 
delieggio,  disse  a  la  figlia:  «  E  tu  che  vorrisse?  »  Ed 
essa:  «  Nient'autro,  se  non  che  me  raccommanne  a  la  pa- 
«  lemma  de  le  fate,  decennole  che  me  manneno  quarcosa;  e, 
«  si  te  scuorde,  non  puozze  ire  ne  nanze,  ne  arroto.  Tiene 
«  a  mente  chello,  che  te  dico:  arma  toja,  maneca  toja*^!  » 
Jette  lo  prencepe,  fece  li  fatte  suoje  nSardegna,  accat- 
taje  quanto  l'avevano  cercato  le  figliastre,  e  Zezolla  lo 
Bcie*^  de  mente.  Ma,  nmarcatose  ncoppa  a  no  vasciello 
e  facenno  vela,  non  fu  possibele  mai,  che  la  nave  se  ar- 
rassasse^''  da  lo  puorto,  e  pareva  che  fosse  mpodecata  da 
la  remmora.  Lo  patrone  de  lo  vasciello,  eh'  era  quase  de- 
sporato,  se  poso  pe  stracco  a  dormire  e  vedde  nsuonno 
na  fata,  che  le  disse  :  «  Sai  perchè  non  petite  scazzel- 
«  lare^^  la  nave  da  lo  puorto?  Perchè  lo  prencepe,  che 
«  vene  con  vui,  ha  mancato  do  promessa  a  la  figlia,  alle- 
«  cordannose  de  tutte,  fora  che  de  lo  sango  propio  ». 
Se  scota  lo   patrono,  conta  lo  suonno  a  lo  prencepe;  lo 


*5  Spiedi.      i**  (EO)  Mpera. 

"  Belletti.  Gfr.  Del  Tufo:  belletti  e  conci  delle  donne  in  yapoli 
(ms.  e,  f.  5). 

18  «  Formola,  con  cui  si  esige  una  promessa  o  un'assicurazione, 
e  vale  come  dire:  se  manchi  tal  sia  di  le,  o  peggio  per  le  »  Jì. 

*9  Usci.      20  Scostasse,      2i  staccare, 


JOENATA   I.    TRATTENEMIENTO    VI.  8l 

quale,  confuso  de  lo  mancamiento  ch'aveva  fatto,  jeze  a 
la  grotta  de  le  fate;  e,  arracommannatole  la  figlia,  disse 
che  le  marinassero  quarcosa.  Ed  ecco  scette  fora  da  la 
spelonca  na  bella  giovane,  che  vedive  no  confalone!  La 
quale  le  disse  ca  rengraziava  la  figlia  de  la  bona  memo- 
ria e 'che  se  gaudesse  ped  ammore  sujo.  Cossi  decenno, 
le  dette  no  dattolo,  na  zappa,  no  secchietello  d'  oro  e  na 
tovaglia  de  seta,  dicenno  che  l'uno  era  pe  pastenare  e 
l'autre  pe  coltevare  la  chianta.  Lo  prencepe,  maravigliato 
de  sto  presiento,  se  lecenziaje  da  la  fata  a  la  vota  de  lo 
pajese  sujo,  e,  dato  a  tutte  le  figliastre  quanto  avevano 
desiderato,  deze  finalmente  a  la  figlia  lo  duono,  che  le 
faceva  la  fata.  La  quale,  co  na  prejezza  che  non  capeva 
drinto  la  pella,  pastenaje"  lo  dattolo  a  na  bella  testa,  lo 
zappolejava,  adacquava,  e  co  la  tovaglia  de  seta  matino 
e  sera  l'asciucava.  Tanto  che,  nquatto  juorne,  cresciuto 
quanto  a  la  statura  de  na  femmena,  ne  scette  fora  na 
fata,  dicennole:  «  Che  desidere?  »  Alla  quale  respose 
Zezolla  che  desiderava  quarche  vota  de  scire  fora  de  ca- 
sa, né  voleva  che  le  sore  lo  sapessero.  Leprecaje  la  fata: 
«  Ogne  vota  che  t'è  gusto,  viene  a  la  testa,  e  di: 

Battolo  mio  naurato, 
Co  la  zappetella  d'oro  faggio  zappato, 
Co  lo  seccbietiello  d'oro  faggio  adacquato, 
Co  la  tovaglia  de  seta  faggio  asciuttato; 
Spoglia  a  te,  e  Vieste  a  me! 

«  E,  quanno  vorrai  spogliarete,  cagna  l'utemo  vierzo, 
«  decenno  :  Spoglia  a  me,  e  vieste  a  te  !  »  Ora  mo,  es- 
senno venuta  la  festa  e  scinte  le  figlie  de  la  majestra 
tutte  spampanate,  sterliccate  ^^,  mpallaccate  '^,  tutte  zaga- 


22  Piantò.      23  (ES)  strelleccate.  —  Strigliate. 

24  «  Ca   s'alliscia,  se   nchiacca,   Se   strellicca,   se   nchiastra,  e  se 
mpallacca  ».  Egl.  La  Coppella. 


82  LO    CUNTO  DE   LI   CUNTI 

relle-^,  campanelle  e  scartapelle -''',  tutte  shiure,  adure, 
cose  e  rose  ;  Zezolla  corre  subeto  a  la  testa,  e,  ditto  le 
parole  nfrocicatole  da  la  fata,  fu  posta  n'ordene  comme 
na  regina,  e,  posta  sopra  n'accliinea,  co  dudece  pagge 
linte  e  pinte,  jette  a  dove  jevano  le  sore  ;  che  fecero  la 
spotazzella"  pe  le  bellezze  de  sta  penta  palomma.  Ma, 
comme  voze  la  sciorte,  dette  a  cbillo  luoco  stisso  lo  re  ; 
lo  quale,  visto  la  spotestata  bellezza  de  Zezolla,  ne  re- 
staje  subeto  affattorato,  e  disse  a  no  servetore  chiù  ntrin- 
seco,  che  se  fosse  nformato,  come  potesse  nformare  de 
sta  bellezza  cosa,  e  chi  fosse,  e  dove  steva.  Lo  serve- 
tore, a  la  medesema  pedata,  le  jeze  retomano.  Ma  es- 
sa, addonatose  dell' agguaito,  jettaje  na  mano  de  scute 
riccie-*,  che  s'aveva  fatto  dare  da  lo  dattolo  pe  chesto 
effetto.  Chillo,  allummato  li  sbruonzole  ^^,  se  scordaje  de 
secotare  l'acchinea,  pe  nchirese  le  branche  de  fellusse. 
Ed  essa  se  ficcaje  de  relanzo  a  la  casa,  dove,  spogliata 
che  fu,  comme  le  nmezzaje  la  fata,  arrivare  le  scerpie  de 
le  sore,  le  quale,  pe  darele  cottura,  dissero  tante  cose 
belle,  che  avevano  visto.  Tornaje  fra  sto  miezo  lo  serve- 
tore a  lo  re,  e  disse  lo  fatto  de  li  scute.  Lo  quale,  nzor- 
fatose  co  na  zirria  granne^'',  le  disse  che  pe  quatto  fri- 
sole  cacate  aveva  vennuto  lo  gusto  sujo  e  che  in  ogne  cunto 
avesse  l'autra  festa  procurato  de  sapere  chi  fosse  chella 
bella  giovane,  e  dove  s'ammasonasse^^  sto  bello  auciello. 
Venne  l'autra  festa  e  scinte  le  sore  tutte  aparate  e  ga- 


25  Fettucce,  nastri.        26  (es)  Scarpetelle.  —  Scartapelle,  coserelle. 

2'  Gliene  venne  l'acquolina  in  bocca. 

28  Moneta  d'oro,  battuta  il  1582,  con  l'effigie  di  Filippo  II  nel  di- 
ritto, e  nel  rovescio  l'arma  di  Spagna;  e  l'iscrizione:  PhtUppus,  Rex 
Arayoniae,  utriusque  Siciliac,  Hierusalem.  1582  (Vergara,  Monete 
del  Regno  di  Napoli^  Roma,  MDGGXV,  p.  129).  Il  Del  Tufo:  «  Che 
un  sol  lo  pagherei  tre  sculi  ricci  !  *  (ms.  e,  f.  24).  tieW Astuta  Corta- 
giana  del  Sorrentino:  «  na  vranca  de  scute  riccie  e  doppie  de  Spa- 
gna »  (II,  9).      20  Danari.      3"  Adiratosi.      3*  Annidasse. 


JOBNATA  I.  TRATTENEMIENTO  VI.  83 

lante,  lassare  la  desprezzata  Zezolla  a  lo  focolare.  La 
quale  subeto  corre  a  lo  dattolo  ;  e,  ditto  le  parole  solete, 
ecco  scotterò  na  mano  de  dammecelle,  chi  co  lo  schiecco, 
chi  co  la  carrafella  d' acqua  de  cocozze,  chi  co  lo  fierro 
de  li  ricco,  chi  co  la  pezza  de  russo,  chi  co  lo  pettene, 
chi  co  le  spingole,  chi  co  li  vestite,  chi  co  la  cannacca^^ 
0  collane.  E,  fattala  bella  comme  a  no  sole,  la  mesero 
a  na  carrozza  a  seje  cavalle,  accompagnata  da  staffiere 
e  da  pagge  de  livrera.  E,  jonta  a  lo  medesemo  luoco, 
dove  era  stata  l' autra  festa,  agghionze  maraviglia  a  lo 
core  de  le  sore  e  fuoco  a  lo  pietto  de  lo  re.  Ma,  re- 
partutase  e  jutose  dereto  lo  servetore,  pe  no  farese  ar- 
rivare, jettaje  na  vranca  de  perno  e  de  gioje;  dove  rema- 
sose  chili' ommo  da  bene  a  pizzoliarennelle,  ca  non  era 
cosa  da  perdere  ;  essa  ebbe  tiempo  de  remmox'chiarese  a 
la  casa  e  de  spogliarese  conforme  a  lo  solete.  Tornaje 
lo  servetore  luonge  luongo  a  lo  re;  lo  quale  disse:  «  Pe 
«  l'arma  de  li  muorte  mieje,  ca,  si  tu  non  trueve  eh  essa, 
«  te  faccio  na  ntosa,  e  te  darraggio  tanta  cauce  nculo, 
«  quanto  aje  pile  a  ssa  varva!  »  Venne  l' autra  festa  e 
scinte  le  sore,  essa  tornaje  a  lo  dattolo.  E  centinovanno  la 
canzona  fatata,  fu  vestuta  seperbamente,  e  posta  dinte 
na  carrozza  d' oro  co  tante  serviture  attuorno,  che  pareva 
pottana,  pigliata  a  lo  spassiggio,  ntorniata  de  tammare  ^^. 
E,  juta  a  fare  cannavola^*  a  le  sore,   se  partette;   e  lo 


32  Collana.  «  Na  cannacca  de  vrito  »  MK,  V.;  «  E  cannacche  de 
perne  comm  antrite  »  (Cort.,  Micco  Pass,,  in,  35). 

33  Così,  volgarmente,  gli  sbirri.  Gfr.  n,  4;  IV,  2,6;  l'Egl.  La  Cop- 
pella; lo  Sgruttendio,  (0.  e,  II,  6),  ecc.  Il  Braca,  in  un  capitolo:  «  Che 
mporta  a  me  ch'eo  fosse  sbirro  o  tammaro?  »  {ms.  e,  f.  139).  Le  me- 
retrici non  potevano  andare  in  carrozza,  o  ai  pubblici  passeggi,  né 
in  gondola  per  la  spiaggia  dal  Molo  a  Posillipo.  V.  le  prammatiche 
del  30  novembre  1579,  23  agosto  1607,  13  agosto  1610,  21  agosto  1638, 
10  luglio  1646,  ecc.  (Coli,  cit.,  VII;  Tit.  CLXXII,  De  3Ieretricibi(s,  4,  8, 
9,  ecc.).      34  Gola. 


84  LO   CITATO  DE  LI  CUNTI 

servetore  de  lo  ro  se  cosette  a  filo  duppio  co  la  carrozza. 
Essa,  vedendo  che  sempre  l'era  a  le  coste,  disse:  «  Tocca, 
cocchiero!  »  Ed  ecco  se  mese  la  carrozza  a  correre  de 
tutta  furia,  e  fu  cossi  grarme  la  còrzeta,  che  le  cascaje 
no  chianiello^^:  che  non  se  poteva  vedere  la  chiù  pen- 
tata  cosa!  Lo  servetore,  che  non  potte  jognere  la  car- 
rozza, che  volava,  auzaje  lo  chianiello  da  terra,  e  lo  por- 
taje  a  lo  re,  dicennole  quanto  l'era  socceduto.  Lo  quale, 
pigliatolo  nmano,  disse:  «  Se  lo  pedamiento  è  cossi  bello, 
«  che  sarrà  la  casa?  0  bello  canneliero,  dove  è  stata  la 
«  cannela,  che  me  strudel,  o  trepete  ^'^  de  la  bella  cau- 
«  darà,  dove  volle  la  vita!,  o  belle  suvare^~,  attaccate  a 
«  la  lenza  d'ammore,  co  la  quale  ha  pescato  chest'arma!, 
«  ecco  v'abbraccio  e  ve  stregue,  e,  si  non  pozzo  arre- 
«  vare  a  la  chianta,  adoro  le  radeche  ;  si  non  pozzo  avere 
«  li  capetielle,  vaso  le  vase^^!  Già  fustevo  cippo  de  no 
«  janco  pedo,  mo  site  tagliole  de  no  nigro  core:  pe  vui 
«  era  anta  no  parmo  e  miezo  de  chiù  chi  tiranneja  sta 
«  vita^^,  e  pe  vui  cresce  auto  tanto  do  docezza  sta  vita, 
«  mentre  ve  guardo  e  ve  possedè!  »  Cossi  dicenno,  chiam- 
ma  lo  scrivano,  commanna  lo  trommetta,  e  tu  tu,  fa  jet- 
tare  no  hanno,  che  tutte  le  femmene  de  la  terra  vengano 


35  Pianella.  «  Non  essendovi  (jorima)  donna  napolilana,  che,  senza 
di  queste,  camminato  avesse.  Ora  {sulla  fine  del  seicento)^  fuor  di 
qualche  monaca  claustrale  e  riformata,  sono  da  tutte  le  donne  sban- 
dite o  vanno  in  iscarpetta  ».  Cosi  il  Gelano,  a  pl'op.  del  vico  Piauel- 
lari,  ch'era  presso  S.  Caterina  Spina  Corona  (o.  e,  IV,  127).  Una  can- 
zone popolare  del  tempo,  cit.  da  T.  Costo  nel  Fuggilozio,  e  dal  N, 
(MA',  IX):  «  Songo  tanto  leggiatre  e  tanto  vaghe,  Donna  gentile,  sti 
tuoi  chianelletle!  »  E  un'altra:  «  Vorria,  crudel,  tornare  chianelletto 
ecc.  »  (V.  princ.  G.  IV).      ^c  Treppiede.      37  sugheri       33  (gg)  i^ase. 

39  Nell'egl.  La  Coppella:  «  ca,  si  se  leva  li  chianielle,  Co  tante 
chiastre  e  tante  cioffe  e  tante,  Vederraje  fatto  naimo  no  gigante  ». 
Donde  si  vede  che  le  pianelle  erano  calzature  alte,  o,  forse,  rialzate 
per  mezzo  di  zoccoli. 


JORNATA   I.    TRATTENEMIFNTO   VI.  85 

a  na  festa  vannuta'"^  e  a  no  banclietto,  che  s'ha  puosto 
nchiocca  de  fare.  E,  venuto  lo  juorno  destenato,  oh  bene 
mio,  che  mazzecatorio  e  che  bazzara*^,  che  se  facette! 
Da  dove  vennero  tante  pastiere  e  casatielle'"?,  dove  li 
sottestate ''^  e  le  porpette?,  addò  li  maccarune ''^  e  gra- 
vinole''^?; tanto  che  nce  poteva  magnare  n'asserceto  for- 
mato. Venute  le  femmene  tutte,  e  nobele  e  gnobele,  e 
ricche  e  pezziente,  e  vecchie  e  figliole,  e  belle  e  brutte, 
e  buono  pettenato,  lo  re,  fatto  lo  profittio,  provaje  lo  chia- 
niello  ad  una  ped  una  a  tutte  le  commitate,  pe  vedere  a 
chi  jesse  a  capillo  ed  assestato,  tanto,  che  potesse  cono- 
scere da  la  forma  de  lo  chianiello  chello,   che  jeva  cer- 


^'>  Bandita. 

■**  Il  Cortese:  «....  priesto  si  mettesse  Na  tavola  pe  fare  gran  baz- 
zara  »  {Cerr.  incanì.,  VII,  14). 

'^  Pastiere,  torte  di  Pasqua.  Casatielle,  ciambelle  con  uova  sode, 
non  sgusciate,  anche  solite  a  Pasqua,  Velardiniello  nomina:  «  Li  ca- 
satielle d' Isca  e  le  pastiecle  »  {Ottave,  p.  7).  Degli  uni  e  delle  altre 
discorre  il  Del  Tufo  (ms,  e,  f.  107). 

*^  Il  Del. Tufo  parla  dei:  «  sottestati  D'un  buon  pezzo  di  carne  te- 
nerella,  Con  pruna,  agli  e  pignioli,  Passi,  zuccaro,  amendole,  e  can- 
nella »  (ms.  e,  f.  21). 

4*  I  napoletani  erano  detti  allora  mangiafoglie,  e  non  numgiamac- 
cheroni,  come  più  tardi.  Cfr.  Fasano  (0.  e,  ITI,  20);  Gal.,  VN;  e  Pitrè 
{Bibl,  VII,  392).  —  I  maccheroni  passavano  per  un  cibo  quasi  esotico. 
È  noto  il  luogo  di  O.  Landò  :  «  Giungerai  nella  ricca  isola  di  Sicilia 
et  mangerai  di  quei  maccheroni,  i  quali  hanno  preso  il  nome  dal 
beatificare,  ecc.  »  (cit.  dall' Imbriani,  XII  Conti  pomiglianesi,  Napoli, 
1876,  pp.  234-5).  Il  Cortese:  «  No  piatto  nce  fo  de  maccarune,  Che 
n Cecilia  fo  fatto  a  stanza  a  stanzia  »  {Viaggio  di  Pam.,  V,  7).  Lo 

Sgruttendio:  «  E  vuje  de    Cagliava  Maccarune »  (0.  e,  p.   233). 

Tuttavia,  dei  maccheroni  si  trovano  frequenti  menzioni  anche  in 
iscritture  napoletane  del  S.  XV. 

■*5  che  qui  non  sono  i  raviuoli,  ma  piuttosto  i  rafliiuoli,  specie 
di  pasta  dolce.  G.  Bruno:  «  equa  son  de  gravioli,  targhe  di  zucchero, 
mustacciuoli  di  S.  Bastiano  »  {Candel.,  I,  6).  Il  Del  Tufo:  «  I  lasa- 
gni,  le  pizze,  e  i  gravioli,  Con  la  pasta  gentil  de  mostaccioli  » 
(WS.  e,  f.  23). 


86  LO  CTJNTO  DE  LI  CUNTI 

canno.  Ma,  non  trovanno  pede,  che  noe  jesse  a  siesto, 
s'appe  a  desperare.  Tuttavota,  fatto  stare  zitto  ogn'uno, 
disse:  «  Tornate  craje  a  fare  penetenzia  co  mico;  ma,  se 
«  mi  volito  bene,  non  lasciate  nesciuna  femmena  a  la  ca- 
«  sa,  e  sia  chi  si  voglia!  »  Disse  lo  prencepe:  «  Aggio 
«  na  figlia,  ma  guarda  sempre  lo  focolaro  pedessere  de- 
«  sgraziata  e  da  poco,  che  non  è  merdevole  de  sedere 
«  dove  magnate  vui  ».  Disse  lo  re:  «  Chesta  sia  ncapo 
«  de  lista,  ca  l'aggio  da  caro  ».  Cossi  partettero;  e  lo 
juomo  appriesso  tornaro  tutte,  e,  nsiemme  co  le  figlie  de 
Carmosina,  venne  Zezolla.  La  quale,  subeto  che  fu  vista 
da  lo  re,  l'ebbe  na  nfanzia''^  de  chella,  che  desiderava; 
tutta  vota,  semmolaje.  Ma,  fornuto  de  sbattere,  se  venne 
a  la  prova  de  lo  chianiello:  ma,  non  tanto  priesto  s'acco- 
staje  a  lo  pede  de  Zezolla,  che  se  lanzaje  da  se  stisso  a 
lo  pede  de  chella  cuccopinto  d'ammore,  comme  lo  fierro 
corre  a  la  calamita!  La  quale  cosa  vista  lo  re,  corze  a 
farele  soppressa  de  le  braccia;  e,  fattola  sedere  sotto  lo 
vardacchino,  le  mese  la  corona  ntesta,  commannanno  a 
tutte  che  le  facessero  ncrinate  e  leverenzie,  comme  a 
regina  loro.  Le  sore,  vedenno  chesto,  chiene  de  crepan- 
tiglia,  non  avenno  stommaco  de  vedere  sto  scuoppo  de 
lo  core  lloro,  se  la  sfilare  guatte  guatte  verso  la  casa  de 
la  mamma,  confessanno  a  despietto  loro: 

Ca  pazzo  è  chi  contrasta  co  le  stelle. 


'**>  Fisonomia:  somiglianza. 


LO    MERCANTE 


TbATTENEMIENTO    SETTraO  DE  LA   JORNATA   PEIMMA. 

Cienzo  rompe  la  capo  a.  no  figlio  de  no  re,  fuje  da  la  patria;  e,  libe- 
ralo da  no  dragone  la  nfanta  de  Pierdesinno,  dapò  varie  socciesse, 
le  deventa  mogliere.  Ma,  ncantato  da  na  femmena,  è  liberato  da 
lo  frate;  lo  quale,  pe  gelosia  avennolo  acciso,  scopierto  nozente, 
co  na  certa  erva,  le  torna  la  vita. 

IN  on  vasta  a  magenarese  quanto  toccaje  drinto  all'ossa 
d'ogne  uno  la  bona  sciorte  de  Zezolla.  E,  quanto  laudar© 
assai  la  leberaletate  de  lo  cielo  verzo  sta  figliola,  tanto 
jodecaro  poco  lo  castico  de  le  figlie  de  la  matreja;  non 
essenno  pena,  che  non  merita  la  soperbia,  né  ruina,  che 
no  stia  bene  a  la  nmidia.  Ma,  nfra  tanto  che  se  senteva 
no  vesbiglio  ncapo  de  sto  socciesso,  lo  prencepe  Tadeo, 
puostose  lo  dito  ennece  de  la  mano  deritta  a  travierzo 
de  la  vocca,  fece  signale  che  ammaf arassero.  Li  quale, 
tutto  a  no  tiempo,  ncagUaro,  comme  si  avessero  visto  lo 
lupo  ^,  0  comme  scolaro,  che,  a  lo  meglio  de  lo  mormo- 
riare,  vede  de  mproviso  lo  mastro.  E,  fatto  signo  a  Giulia 
che  arrancasse  lo  sujo,  cossi  decette. 


1  Cfr.  IV,  S.  Il  Marino:  «  In  quella  guisa  che  talhor  veduto  Da  la 
lupa  nel  bosco  il  pastor  suole.  Come  spirito  e  senso  habbia  perduto, 
Gli  muoion  ne  la  lingua  le  parole  »  {Adone,  XII,  75).  Cfr.  anche 
Cortese,  Ciullo  e  Ferna,  p.  23. 


88  LO  CUNTO  DE  LI  CTJNTI 

Songo  lo  chiù  de  le  vote  li  travaglie  all'uommene  scia- 
marre"  e  pale,  che  le  sciiianano  la  strata  a  chella  bona 
fortuna,  che  non  se  magenava.  E  tale  ommo  mardice  la 
chioppeta,  che  le  nfonne  lo  caruso,  e  non  sa  ca  le  porta 
abbonnanzia  da  dare  sfratto  alla  famme  ;  comme  se  vedde 
ne  la  perzona  de  no  giovane,  comme  ve  dirraggio. 

Dice,  ch'era  na  vota  no  mercante  ricco  ricco,  chiam- 
mato  Antoniello;  lo  quale  aveva  dui  figlie,  Cienzo  e 
Meo  ;  eh'  erano  cossi  simele,  che  non  sapive  scegliere 
l'uno  dall' autro.  Occorze  che  Cienzo,  ch'era  lo  primmo- 
geneto,  facenno  a  pretate  all'Arenaccia^  co  lo  figlio  de 
lo  re  de  Napole,  le  roppe  la  chirecoccola"*.  Pe  la  quale 
cosa,  Antoniello,  nzorfato,  le  disse:  «  Bravo,  l'aje  fatta  bo- 
<i  na!,  scrivene  a  lo  pajese  !,  vantate  sacco,  si  non  te  scoso!, 
«  miettela  mperteca!  Va  ch'aje  rutto  chillo,  che  va  soje 
«  rana^!  A  lo  figlio  de  lo  re  aje  sfravecato  lo  caruso? 
«  E  non  avive  la  meza  canna'',  figlio  de  caperrone?  Mo 
«  che  ne  sarrà  de  li  fatte  tuoje?  No  te  preggiaria  tre 
«  caalle,  e' hai  male  cocinato;  che  si  trasisse  dove  si 
«  sciuto,  manco  t'assecuro  da  le  manzolle  de  lo  re;  ca 
«  tu  saje  e' hanno  le  stenche  longhe,  ed  arrivano  pe  tutto. 


2  Picconi. 

3  Contrada  nella  parie  orientale  di  Napoli.  Nei  sec.  XVI  e  XVII  era 
il  campo  dei  sassaiuoU  napoletani  (preh^ejanti,  come  li  chiama  il 
Cortese,  Micco  Pass.,  II,  12);  lun  quartiere  sfidava  l'altro  e  inter- 
venivano talvolta  fino  a  duemila  combattenti.  «  Mi  si  diceva  dai 
vecchi,  —  scrive  il  Celano  — ,  che  ve  n'erano  così  bravi  nel  tirare 
di  fionda,  che,  dove  segnavano  con  l'occhio,  ivi  colpivano  »  (0.  e,  V, 
461).  V.  bando  della  Vicaria  1577,  pramm.  vicer.  1606,  1616,  1622,  ecc. 
Nel  1625  il  Duca  d'Alba  fece  prendere  da  trenta  «  capi  sassaiuoU  » 
e  li  mandò  in  galera  (Cel.,  ivi).  Cosi  quel  mal  costume  cessò,  o,  me- 
glio, diminuì  di  proporzioni;  perchè  le  x>etriate  sono  continuate,  si 
può  dire,  fino  ai  giorni  nostri.  Cfr.  art  Lega  del  Bene,  IV,  1889,  n.  3. 

•*  Cranio.      ^  Grana. 

fi  Per  misurarti.  Mezacanna,  misura  di  quattro  palmi,  molto  usuale. 


JOENATA   I.   TRATTENEÌIIENTO   VH.  89 

«  e  farrà  cose  de  chelle,  che  feteno!  »  Cienzo,  dapò 
ch'appe  ditto  e  ditto  lo  patre,  respose:  «  Messere    mio, 

«  sempre    aggio    ntiso    dicere  ca  è  meglio  la  corte,  che 

<i  lo  miedeco  a  la  casa.  Non  era  peo  s'isso  scocozzava' 

«  a  me?  So  provocato,  simmo  figliule,  lo  caso  è  a  rissa; 

«  è  primmo  delitto;  lo  re  è  ommo  de  ragione;  all'utemo, 

«  che  me  pò  fare,  da  ccà  a  cient'anne?    Chi  non  me  vo 

«  dare  la  mamma,  me  dia  la  figlia;  cheJlo,  che  non  me 

,  «  vole  mannare  cuotto,  me  lo  manna  crudo;  tutto  lo  munno 

«  è  pajese,  e  chi  ha  paura,  se  faccia  sbirro  !  »  «  Che  te 

«  pò  fare?  —  leprecaje  Antoniello  — ;  te  pò  cacciare  da 

«  sto  munno;  farete  ire  a  mutare  ajero.  Te  pò  fare  ma- 

«  Btro  de  scola  co  na  sparmata  de  24    parme  a  fare  ca- 

«  valle  a  li  pisce,  perchè    mparano    de    parlare^.   Te  pò 

«  mannare  co  no  collaro  de    tre    parme    mposemato^  de 

«  sapone  a  nguadiarete  co   la  vedola^'^,  e,  pe   parte    de 

«  toccare  la  mano  a  la  zita,  toccare  li  piedi  a  lo   patri- 

«  no^^.  Perzò,  non  stare   co  lo  cuojero  a  pesone  fra  lo 

«  panno  e  l'azzimmatore;  ma  ammarcia  a  sta  medesema 

«  pedata,  che  non  se  ne  saccia  ne  nova,  né  vecchia  de 

«  lo  fatto  tujo;  azzò  non  nce  rieste  pe   lo   pede.  Meglio 

«  è  auciello  de  campagna,  che  de  gajola^-!  Eccote  denaro, 

«  pigliate   no  cavallo    de  li  dui   fatate,  che    tengo  a  la 

«  stalla  e  na  cana,  eh'  è  pure  fatate,  e  no  aspettare  chiù. 
«  Meglio  è  toccare  de  carcagna,  ch'essere  toccato  de  tal- 
«  lune;  meglio  è  chiavarete  le   gamme   ncuollo,   che  te- 


"^  Rompeva  la  testa. 

8  Tutto  ciò  vuol  dire:  gettare  a  mare.  Le  immagini  sono  prese 
dalla  scuola:  sparmata,  sferza;  cavallo,  punizione  scolaresca,  nella 
quale  uno  scolaro  prendeva  sul  dosso  l'altro,  che  doveva  essere 
sferzato. 

5  Inamidato. 

!<>  Sposar  la  vedova,  cioè  la  forca.  Gergo  ancor  vivo:  in  Francia 
chiamano  la  veuve  la  ghigliottina. 

i^  Int.:  carnefice.       12  Gabbia. 


90  LO   CUNTO   DE   LI   CUNTI 

«  nere  lo  cuollo  sotto  a  doje  gamme  ^^,*  meglio  è  fare 
«  mille  passe  a  la  fine,  che  restare  co  tre  passe  de  funa; 
«  si  non  te  piglie  le  bertele**,  non  t'ajutarrà  né  Baldo, 
«  né  Bartolo*^  ».  Cercannole  la  benedezione,  se  mese  a 
cavallo;  e,  puostose  la  cagnola  mbraccio,  commenzajo  a 
camminare  fora  de  la  cetate.  Ma,  comme  fu  scinto  porta 
Capoana*^,  votatose  capo  dereto,  commenzaje  a  dicere; 
«  Tienete,  ca  te  lasso,  bello  Napole  mio!  Chi  sa  se  v'ag- 
«  gio  da  vedere  chiù,  mautune  de  zuccaro  e  mura  de 
«  pasta  reale?,  dove  le  prete  so  de  manna  ncuorpo,  li 
«  trave  de  cannamele,  le  porte  e  finestre  de  pizze  sfo- 
«  gliate!  Oimè,  che,  spartennome  da  te,  bello  Pennino  *', 
«  me  pare  de  ire  co  lo  pennone  !  ;  scostannome  da  te, 
«  Chiazza  larga *^,  me  se  stregne  lo  spireto!;  allontanan- 
«  nome  da  te.  Chiazza  de  l' Urmo  *^,  me  sento  spartire 
«  l'arma!;  separannome    da    w.je,  Lanziere**,  me    passa 


i3  Int.:  esser  calcato  dai  piedi  del  boia,  che  gli  saliva  sulle  spalle. 
Il  Garzoni,  discorrendo  «  dei  carnefici  et  boli  »,  dice:  «  Ma  sopratutto 
è  commendato  assai,  quando  fa  bene  il  groppo  air  impiccato,  o  che 
taglia  la  testa  netta  all'homicida,  o  che  lesto  come  un  daino,  salta 
ben  sulle  spalle  a  colui  che  è  appeso,  come  fa  mastro  Joseffo  da 
Ravenna  »  (o.  e,  p.  756).      i*  Bisacce.      i^  Famosi  giureconsulti. 

1"  Porta  ad  oriente  di  Napoli,  eretta  da  Ferrante  I  d'Aragona. 

*'  Pendino,  regione,  ora  quartiere,  di  Napoli:  il  pennone  era  un 
grande  stendardo  di  color  rosso,  con  le  armi  del  Re  e  del  Gran  Giu- 
sliziero  del  Regno,  che,  nelle  esecuzioni  di  giustizia,  era  portato  da 
un  ministro  del  Tribunale  a  cavallo  (cfr.  Del  Tufo,  ms.  e,  f.  139). 
Cosi,  tutti  i  nomi  seguenti  di  luoghi  di  Napoli  danno  occasione  a 
bisticci  e  giuochi  di  parole. 

18  Piazza  larga,  poco  lungi  da  S.  Pietro  Martire,  detta  cosi  per- 
chè allargata  a  spese  dei  complatearii  (Gel.,  0.  e,  IV,  250). 

15  Piazza  delColmo,  la  via  detta  poi  di  Porto,  con  grande  e  fre- 
quentatissimo mercato.  Nel  Del  Tufo,  un  napoletano,  lontano  da  Na- 
poli, press' a  poco  come  Cienzo,  «  estimandosi  allor  quasi  infelice  », 
si  fa  a  dire:  «  Chiazza  dell' Ulmo  mio,  chiazza  dell' Urmo,  Che  Uà  ti 
vidi  a  curmo,  ecc.  »  (ms.  e,  f.  15). 

20  Via  egualmente  nel  quartiere  di  Porto.  Un  tempo  c'erano  botr 
teghe  d'armieri;  nel  seicento,  come  finora,  «  molti  ricchi  fondaci  di 


.TORNATA   I.   TRATTENEMIENTO   VII.  9I 

«  lanzata  catalana 'M  ;  scrastannome  da  te,  Forcella'^-,  me 
«  se  scrasta  lo  spireto  de  la  forcella  de  sfarina!  Dove 
«  trovarraggio  n'autro  Puorto'^?,  doce  Puorto  de  tutto  lo 
«  bene  de  lo  munno!  Dove  n'autre  Ceuze'^?,  dove  l'aguo- 
«  lille  ^^  d'ammore  fanno  continue  follerà  de  contentizze! 
«  Dove  n'autro  Pertuso^^,  recietto  de  tutte  l'uommene 
«  vertoluse?    Dove    n'autra   Loggia^",   dove  alloggia   lo 


tele  d'oro,  di  panni  sottili,  di  lana  forastieri,  d'opere  bianche,  di  veli 
e  d'altre  merci  »  (Gel.,  0.  e,  IV,  282).      21  y.  n.  39,  p.  9. 

22  via,  che  prende  il  nome  dall'antichissima  inatea  forcellense. 

23  Regione,  e  poi  quartiere,  di  Napoli. 

2*  Luogo  sopra  Toledo,  che,  fino  ai  principii  del  S.  XVI,  era  tutto 
piantato  di  gelsi,  e  vi  si  allevavano  i  bachi  da  seta.  Vi  si  andava  a 
diporto,  a  bere  e  a  far  l)'aldoria.  Nella  seconda  metà  del  S.  XVI  vi 
si  cominciò  a  fabbricare  e  vi  si  posero  dei  quartieri  di  soldati  spa- 
gnuoli;  il  che  contribuì  a  farne  un  centro  di  prostituzione,  com'è 
ancora  gran  parte  di  quel  tratto,  che  si  dice  «  sopra  i  quartieri  » 
(Gel.,  0.  e,  IV,  635  sgg.).  Nell'ottobre  1616,  si  legge  in  un  croni- 
sta: «  Sabato,  S.  E.  andò  curiosamente  in  seggia  scorrendo  tutte  le 
strade  del  quartiere  sopra  la  strada  di  Toledo,  volgarmente  detto  le 
Gelse;  e,  si  dice,  per  rinserrarlo,  com'è  solito  per  le  altre  città,  che 
vogliono  vivere  onoratamente.  Ma  qui  non  sarà  possibile,  bisognando, 
per  volere  rinchiudere  tutte  le  cortegiane  di  Napoli,  chiudere  più 
della  metà  della  città!  »  (Zazzera  in  Arch.  Stor.  Hai.,  IX,  487).  Nella 
J/X,  II,  dove  si  tratta  delle  cortigiane,  l'uno  degli  interlocutori,  in- 
terrogato dal  compagno,  dichiara:  «  Io  vengo  da  le  Ceuza,  Da  pi- 
gliareme  spasso  ».      25  Bachi  da  seta. 

2C  Di  fronte  la  Chiesa  di  Montesanto  era  la  porta  de  lo  Pertuso, 
una  sorta  di  buco  nella  cinta  delle  mura.  Allargata  e  ornata  nel 
1639  dal  Viceré  Medina  Las  Torres,  prese  il  nome  di  Porta. Medina 
(Gel.,  0.  e,  IV,  800).  È  stata  abbattuta  ai  nostri  giorni.  Il  Liebr.  {Anni., 
I,  401)  ravvicina  questo  Pertuso  al  Malpertiigio,  onde  parla  il  Boccac- 
cio {Decameron,  II,  2).  Ma  questo  era  nella  regione  di  Porto:  il  luogo 
detto  'inalum  pertusuni  si  trova  nominato  nei  Registri  angioini  del 
1329  (n.  278,  f.  77),  come  mi  comunica  il  eh.  Prof.  De  Blasiis.  E  un 
<  vico  rerti'sillo  era  verso  il  Molo,  il  cui  nome  fu  poi  mutato  in  via 
dell' Acquaquilia. 

27  Loggia  di  Genova:  cosi  detta,  perchè  vi  abitavano,  prima,  i  mer- 
canti genovesi.  Ortensio  Landò  ne  fa  menzione,  nel  1548,  cosi:  «  Ve- 


•''^gzy  LO   CUNTO   DE   LI   CUNTI 


«  grasso  e  s'affila  lo  gusto?  Aimè,  ca  no  pozzo  allonta- 
«  nareme  da  te,  Lavinaro  mio^^,  se  non  faccio  na  lava 
«  da  st'uocchie!  Non  te  pozzo  lassare,  o  Mercato^",  senza 
«  ire  mercato  de  doglia!  Xo  pozzo  fare  sparte  casatiello 
«  da  te,  bella  Chiaja^*',  senza  portare  mille  chiaje^^  a 
«  sso  core!  A  dio,  pastenache^^  e  fogliamolle ;  a  dio  zep- 
«  pole^^  e  migliaccie;  a  dio,  vruoccole  e  tarantiello^*; 
«  a  dio,  cajonze  e  ciento  figliole  ^^;  a  dio,  piccatiglie  e 
«  ngrattinate  ^*' ;  adio,  shiore  de  le  cetate,  sfuorgio  de 
«  la  Talia,  cuccopinto  de  l'Auropa,  schiecco  de  lo  Munno; 
«  a  dio,  Napoli,  no  plus  ultra,  dove  ha  puosto  li  termene 
«  la  vertute  e  li  confine  la  grazia!  Me  parto,  pe  staro 
«  sempre  vidolo  de  le  pignatte  maretate^';  io  sfratto 
«  da  sto  bello  casale;  torze  meje^^,  ve  lasso  dereto!  » 
E  cossi  decenno,  e  facenno  no  vierno  de  cbianto  drinto  no 
sole  leone  de  sospire,  tanto  camminaje,  che,  la  primma 
sera,  arrivato  a  no  vosco  da   chella  parte  de  Cascano  ^^, 


drai  in  Napoli  la  loggia,  detta  per  soprannome  del  Genovesi,  piena 
di  tutte  quelle  buone  cose,  che  per  unger  la  gola  desiderar  si  pos- 
sano »  (cit.  da  V.  Imbriaui  in  Natanar  II,  Bologna,  1875,  p,  44). 

28  via,  che  da  Porta  Nolana,  riesce  al  Carmine;  pel  qual  luogo 
scorreva  un  tempo  l'esuberanza  dell'acqua  della  Bolla. 

28  Regione  e  quartiere  nella  parte  meridionale  di  Napoli. 

3<*  La  spiaggia  di  Ghiaia,  dove  allora  erano  già  alcuni  palazzi  si- 
gnorili: i  Viceré  e  la  nobiltà  vi  andavano  a  diporto  in  gondole. 

31  Piaghe.      32  Bietola. 

33  Ciambella  di  pasta  fritta  e  sparsa  di  zucchero. 

3'  Salume  fatto  dal  ventre  del  tonno.  Il  del  Tufo,  discorrendo  «  delle 
cose  salse  che  si  trovano  per  Napoli  »:  «  Tonnina,  tarantello,  ove 
e  sardoni,  ecc.  »  (ras.  e,  f.  22). 

35  Interiora  d'animale.  N.  Capasso,  in  una  sua  poesia  macchero- 
nica: «  Caionzas,  centuraiìellcs  trippasque  »  {Varie  jjoesie,  p.  91). 

3"  «  ....  cuotto  dui  pollastri  aveva,  Uno  arrostuto  e  n'autro  ngrat- 
tinato  •  (Cort.,  Micco  Pass.,  Vili,  20). 

37   V.  n.   58,   p.   40.        38   V.  Vi.   II,   p.  34. 

35  Uno  dei  23  casali  della  città  di  Sessa  in  Terra  di  Lavoro,  due 
miglia  distante  da  Sessa  e  trentadue  da  Napoli. 


JORNATA  I.   TRATTENEMIENTO  VII.  93 

lo  quale  se  faceva  tenere  la  mula  da  lo  sole  fora  li  ter- 
mene  suoje,  mentre  se  gaudeva  co  lo  silenzio  e  co  l'om- 
bre, dov'era  na  casa  vecchia  a  pede  na  torre;  la  quale 
tozzolata,  lo  patrone,  ch'era  sospetto  de  forasciute,  essen- 
uo  già  notte,  non  voze  aperire.  Tale  che  lo  povero  Cienzo 
fu  costritto  di  stare  drinto  chella  casa  scarrupata;  e,  mpa- 
storato  lo  cavallo  miezo  a  no  prato,  se  jettaje  co  la  ca- 
gnola  a  canto  sopra  certa  paglia  che  trovaje  Uà  drinto. 
Ma  non  appe  cossi  priesto  appapagnate  l'uocchie,  che, 
scetato  da  l'abbajare  de  la  cana,  sentette  scarponiare  pe 
chillo  vascio.  Cienzo,  ch'era  anemuso  e  arresecato,  cac- 
ciaje  mano  a  la  scioscella  ^"^  e  commenzaje  a  fare  no  gran 
sbaratto  a  lo  scuro.  Ma,  sentenno  ca  no  coglieva  a  ne- 
sciuno  e  che  tirava  a  lo  viento,  se  tornaje  a  stennec- 
chiare.  Ma,  da  Uà  a  n'autro  poco,  sentutose  tirare  pe  lo 
pede  adaso  adaso,  tornato  a  dare  de  mano  a  la  serrec- 
chia*^,  s'auzaje  n'autra  vota,  decenno:  «  0  là,  tu  me  fru- 
«  sce  troppo,  mo!;  ma  non  serve  a  fare  ste  guattarelle  !, 
«  lassate  vedere  s'aje  buono  stommaco,  e  scrapicciamonce, 
«  ch'aje  trovato  la  forma  de  la  scarpa  toja!  »  A  chesto 
parlare,  sentette  no  riso  a  schiattariello,  e,  pò,  na  voce 
ncupo,  che  disse:  «  Scinne  cà  bascio,  ca  te  dirraggio  chi 
«  songo!  »  Cienzo,  senza  perderese  niente  d'anemo,  re- 
spose: «  Aspetta,  ca  mo  vengo!  »  E  tanto  jeze  a  tentune, 
che  trovaje  na  scala,  che  jeva  a  na  cantina,  dove,  com- 
me  fu  sciso,  trovaje  na  locernella  allommata,  e  tre,  com- 
me  a  papute,  che  facevano  n'ammaro  sciabacco,  decenno  : 
«  Tresoro  mio  bello,  comme  te  perdo!  »  La  quale  cosa 
visto  Cienzo,  se  mese  isso  perzi  a  trivellare  pe  conver- 
sazione ;  e,  dapò  chianto  no  buono  piezzo,  avenno  ora- 
maje  la  luna  dato  nmiezo    con  l'azzettullo*^  de  li  ragge 


40  Propr.:  carruba;  scherz,,  spada.      ^^  Scherz.,  spada. 
42  Gli  accettulU  erano  tra  le  armi  proibite,  nominate  nelle  pramm, 
30  die.  1557,  ecc.  (Coli,  cit.,  II,  Tit.  XXV,  De  armis,  5). 


94  LO   CUNTO  DE  LI   CUNTI 

a  la  zeppola  de  lo  cielo,  le  dissero  cliille  tre,  che   face- 
vano lo  riepeto:  «  Ora  va,  pigliate  sto  tresoro,  eh' è  de- 
«  stenato  a  te  schitto,  e  saccetelo  mantenere!  »  E,  ditto 
chesto,  squagliare,  comme  chillo,  che  maje  pozza  pai'ere  ! 
Isso,  comme    pe    cierto  pertuso    vedde  lo  sole,  voze  sa- 
gliresenne;    ma  non  trovaje    la  scala.  Pe  la   quale  cosa, 
commenzaje  a  gridare  tanto,  che  lo  patrone  de  la  torre, 
ch'era  trasuto  a  pisciare  drinto  a  chillo  scarrupo,  lo  ntese 
e,  demannatolo  che  faceva,  e  sentuto  la  cosa  comme  pas- 
sava, jette  a  pigliare  na  scala;  e,  sciso    abascio,  trovaje 
no  gran  tresoro.  De  lo  quale  volennone  dare  la   parte  a 
Cienzo,  isso  no  ne  voze  niente;    e,  pigliatose  la   cana  e 
puostose  a  cavallo,  se    mese   a  camminare.  Ed,  essenno 
arrevato  a  ne  vosco,  jerremo   e   desierto,  che   te  faceva 
torcere  la  vocca,  tanto  era  scuro;  trovaje  na  fata  a  pede 
a  no  shiummo,  che,  pe  dare  gusto  a  l'ombra,  de  la  quale 
era  nnammorato,  faceva  la  biscia  ne  li  prati  e   corvette 
pe  ncoppa  le  prete,  che  l'erano  ntuorno  na  morra  de  ma- 
lantrine  pe  levatele  lo  nore.  Cienzo,  che  vedde  sto  male 
termene  de  spogliampise,  mettenno   mano  a  la  sferra'*^, 
ne  fece  na  chianca.  La  fata,  che  vedde  sta  prova,  fatta 
pe  causa    soja,  le  fece    na   mano  de  compremiente,  e  lo 
nmitaje  a  no  palazzo  poco  lontano,   ca  l'averria    dato  lo 
contracambio    de  lo  servizio,  che    n'aveva   recevuto.  Ma 
Cienzo,  decennole  :    «  Non    e'  è  de    che,  a  mille    grazie, 
«  n'autra  vota  recevo  lo  faore,  ca  mo  vao  de  pressa,  pe 
«  nsi  che  mporta!  »,  se  lecenziaje.  E,  camminato  n'autro 
buono  piezzo,  trovaje  no  palazzo  de  no  re,   ch'era   tutto 
aparato  de  lutto;    tanto    che  te  faceva   scurare    lo    core 
nvederelo.  E,  demannanno  Cienzo  la  causa  de  sto  viseto, 
lo  fu  respuosto,  ch'a    chella    terra    nc'era    apparzeto    no 
dragone  co  sette    teste,  lo  chiù    terribelo,  che    se    fosse 


*3  Scherz.,  spada. 


JORNATA   I.   TEATTENEMIENTO  VII.  95 

maje  visto  a  lo  munno.  Lo    quale    aveva   le  centre^'  de 
gallo,  la  capo  de  gatto,  l'uocchie  de  fuoco,  le  bocche  de 
cane  corzo,  l'ascelle  de  sportegliene,  le  granfe  d'ui'zo,  la 
coda  de  serpe.  «  Ora,  chisso  se  cannareja   no  cristejano 
«  lo  juorno  ;  ed,  essenno  juta  si  a  lo  juorno  doje  sta  cosa, 
«  pe  sciorte  è  toccata  sta  beneficiata  a  Menechella,  figlia 
«  de  lo  re.  Pe  la  quale  cosa  ne'  è  lo   sciglio   e   lo  sbat- 
«  tetorio  a  la  casa  reale;  pecca  la  cbiù  pentata  creatura 
«  de  sto  pajese  ha  da    essere    nnorcata  e  agliottata    da 
«  no  brutto  anomale  ».  Cienzo,  che    sentette    chesso,  se 
mese  da  parte  e  vedde  venire  Menechella  co  lo  strascino 
de  lutto,  accompagnata  da  le  dammecelle  de  corte  e  da 
tutte  le  femmene  de  la  terra,  che,  sbattenno  le  mano  e 
tirannose    le    zervole   a   cierro   a  cierro,   chiagnevano   la 
mala  sciorta  de  sta  povera  giovane,  dicenno:  «  Chi  nce 
<i  l'avesse  ditto  a  sta  scura  figliola  de  fare  cessione  de 
«  li  bene  de  la  vita  ncuorpo  a  sta  mala  bestia?,  chi  nce 
«  l'avesse  ditto  a  sto  bello  cardillo  d'avere  pe  gajola  lo 
«  ventre  de  no  dragone  ?,  chi  nce  l'avesse  ditto  a  sto  bello 
«  agnelillo  de  lassare  la  semmenta  de   sto    stame  vitale 
«  drinto  a  sto  nigro  fuollaro  ?  »  E,  chesto  decenno,  ecco 
da  drinto  no  caracuoncolo ^-^  scire  lo  dragone;  oh  mamma 
mia,  che  brutta  cera!  Fa  cunto,  ca  lo  sole  se  ncaforchiaje 
pe  paura  drinto  a  le  nuvole;  lo  cielo  se  ntrovolaje"^  e  lo 
core  de  tutte  chelle  gente  deventaje  na  mummia;  e  fu  tale 
lo  tremmoliccio,  che  non  le  sarria  trasuto  pe  ci'estiero  na 
l'està  ■^''  de  puorco.  Cienzo,  che  vedde  chesto,  puosto  mano 
a  la  sferra,  tuffete!,  ne  fece  ire  na    capo  nterra.  Ma    lo 
dragone,  mbroscinato    lo    cuoUo    a    certa  erva  poco  lon- 
tana, lo  nzeccaje  subeto  a  la  capo,  comme  lacerta,  quan- 
no  se   jogne  a  la   coda.    Ma  Cienzo,  vedenno    sta    cosa, 
disse:  «  Chi  non  asseconna,  non  figlia!  »  E,  stregnuto  li 


<<  Creste.      ^5  caverna.      ^^  Si  turbò.      ^^  Pelo. 


96  LO  CUNTO  DE  LI   CUNTI 

diente,  auzaje  no  cuorpo  cossi  spotestato,  che  le  tagliaje 
ntruonco  tutte  sette  le  capo,  che  se  ne  sautaro  da  lo 
cuollo,  comm'a  cecero  da  la  cocchiara.  A  le  quale  levato 
le  lengue,  e  stipatosene,  le  sbelanzaje  no  miglio  da  rasso 
da  lo  cuorpo,  azzò  non  se  fossero  n'autravota  ncrastate 
nsiemme.  E,  pigliatose  na  vrancata  de  chell'erva,  ch'aveva 
ncollato  lo  cuollo  co  la  capo  de  lo  dragone,  mannaje  Me- 
nechella  a  la  casa  de  lo  patre,  ed  isso  se  jette  a  repo- 
eare  a  na  taverna.  Quanno  lo  re  vedde  la  figlia,  non  se 
pò  credere  la  prejezza,  che  ne  fece.  E,  sentuto  lo  muodo, 
comm'era  stata  liberata,  fece  jettare  subeto  no  hanno: 
che  chi  avesse  accise  lo  di-agone,  venesse  a  pigliarese  la 
figlia  pe  mogliere.  Sentuto  chesto  no  villano  maliziuso, 
pigliatose  le  teste  de  lo  dragone,  jette  a  lo  re  e  le  dis- 
se: «  Pe  sto  fusto  è  sarva  Menechella!;  ste  manzolle  hanno 
«  liberata  sta  terra  da  tanta  roina!  Ecco  le  teste,  che  so 
«  testimonio  de  lo  valore  mio!  Perzò,  ogne  promessa  è 
«  debeto!  »  Lo  re,  sentenuo  chesto,  se  levaje  la  corona 
da  capo,  e  la  pose  ncoppa  la  catarozzola  de  lo  villano: 
che  parette  capo  de  forasciuto  ncoppa  a  na  colonna'*^. 
Corze  la  nova  de  sto  fatto  pe  tutta  la  terra,  tanto,  che 
venne  all'  aurecchie  de  Cienzo.  Lo  quale  disse  fra  se  me- 
desemo:  «  Io  veramente  so  no  gran  catarchio!  Appe  la 
«  fortuna  pe  li  capille,  e  me  la  lassaje  scappare  da  mano  ! 
«  Chillo  me  vo  dare  miezo  lo  tresoro,  ed  io  ne  faccio 
«  chillo  cunto,  che  fa  lo    Todisco    de   l'acqua   fresca ''. 


'»8  Giustiziato,  o  altrimenti  ucciso,  un  brigante,  un  bandito,  se  ne 
soleva  esporre  la  lesta  sopra  una  colonna,  o  dentro  lina  gabbia, 
spesso  con  mitera  o  corona  di  carta  in  testa. 

■*9  È  nota  la  fama  d'ubbriaconi,  goduta  dai  Tedeschi:  i  quali,  un 
tempo,  si  può  dire  non  erano  conosciuti  per  altro  presso  di  noi. 
Cfr.  Liebr.  (Anm.,  I,  401-2).  Al  tempo  del  N.:  «  I  Thedeschi,  cosi  su- 
perbi, altieri,  Servon  la  patria  mia  per  panettieri  0  per  alabardieri  », 
dice  il  Del  Tufo  {ms.  e,  f.  203). 


.TORNATA   I.   TRATTENEMIENTO   VII.  97 

«  Chella  me  vo  fare  bene  a  lo  palazzo  sujo,  ed  io  ne 
«  faccio  chillo  cunto,  che  fa  l'aseno  de  la  museca.  E  mo, 
«  so  chiammato  a  la  corona;  ed  io  me  sto  comme  la 
«  mcabria  de  lo  fuso^'^,  comportanno  che  me  metta  pede 
«  nante  no  pede  peluso,  e  che  me  leva  de  mano  sto  bello 
«  trentanove  no  joquatore  vescazzuso  e  de  vantaggio  ^^  ». 
Cossi  decenno,  dà  de  mano  a  no  calamaro,  piglia  la  pen- 
na, stenne  la  carta,  e  commenza  a  scrivere:  «  Alla  bel- 
«  lissema  gioja  de  li  femmene,  Menechella,  nfanta  de 
«  Pierdesinno.  —  Avennote  pe  grazia  de  lo  sole  leone 
«  sarvato  la  vita,  ntenno  ca  autro  se  fa  bello  de  le  fa- 
«  tiche  meje,  ed  autro  se  mette  nante  de  lo  servizio, 
«  ch'aggio  fatto.  Perzò,  tu,  che  foste  presente  a  lo  ntri- 
«  co,  puoje  sacredere  lo  re  de  lo  vero,  e  no  consentire 
«  che  autro  guadagna  sta  chiazza  morta  5-,  dove  io  aggio 
«  vottato  le  mescole  ^^;  ca  sarrà  dovuto  effetto  de  ssa 
«  bella  grazia  de  regina  e  meretato  premmio  de  sta  forte 
«  mano  de  Scannarbecco.  E,  pe  scompetura,  te  vaso  le 
«  delecate  manzolle!  —  Da  l'ostarla  dell' Aurinale;  oje, 
«  dommeneca  ».  Scritta  sta  lettera,  e  sigillata  co  lo  pane 
mazzecato,  la  mese  nmocca  a  la  cagnola,  dicenno:  «  Va, 
«  curre  correnno,  e  portala  a  la  figlia  de  lo  re,  e  non  la 
«  dare  ad  autro,  che  nmano  propria  de  chella  facce  d'ar- 
«  giento  ».  La  cagnola,  quase  volanno,  corze  a  lo  palazzo 
rejale;  e,  sagliuta  a  la  scala,  trovaje  lo  re,  che  faceva  an- 
cora zeremonie  co  lo  zito.  Lo  quale,  vedenno  sta  cagnola 


50  Immobile?      ^^  Allusione  a  un  noto  giuoco  di  carte. 

52  In  ogni  compagnia  di  soldati  spagnuoli  o  italiani  era,  per  isti- 
tuzione di  D.  Pietro  di  Toledo,  un  posto  vuoto,  chiamato  piazza 
morta.  Questo  posto  provvedeva  alla  sussistenza  di  tre  soldati  inva- 
lidi; dandosi  a  l'un  d'essi  V alloggiamento,  e  tra  gli  altri  due  spar- 
tendosi il  soldo.  E,  giacché  ogni  soldato  spagnuolo  riceveva  all'anno 
ducati  73,  e  ogni  italiano  d.  60,  la  piazza  morta,  pei  primi,  era  di 
d.  36  e  mezzo  e  pei  secondi  di  d.  30.  Gfr,,  tra  gli  altri.  Capaccio, 
Forastiero,  pp.  399-401.      53  Mestole.  "    . 


98  LO  CUNTO  DE  LI  CUNTI 

con  la  lettera  nmocca,  ordinaje  che  se  pigliasse.  Ma  nou 
la  V0Z6  dare  a  nesciuno  e,  sautanno  nzino  a  Menechella, 
nce  la  pose   nmano.    La    quale,  auzatose   da  la  seggia  e 
fatta  leverenzia  a  lo  re,  nce  la  deze,  azzò  la  lejesse.  Ed 
isso,  lejutala,  ordinaje  che  se   jesse  dereto  la  cagnola  a 
vedere  dove  trasesse  e  facessero  venire  lo  patrone  sujo 
nante  ad  isso.  Jutole,  donca,  appriesso   duje  cortisciane, 
arrivaro  a  la  taverna,  dove   trovare  Cienzo,  e  fattole  la 
nmasciata  da  parte  de  lo  re,   lo   carriaro   verzo   lo   pa- 
lazzo. Dove,  arrivato  a  la  presenza  reale,  fu  demannato: 
comme  se  vantava  d'avere  acciso  lo  dragone,  se  le  teste 
l'aveva  portato   chili' ommo,  ch'era  coronato  a  canto  ad 
isso?  E  Cienzo  responnette:  «  Sso  villano  meretarria  na 
«  mitria  de  carta  rejale,  chiù  priesto,  che  na  corona;  poc- 
«  ca  è  stato  cossi  sfacciato  de  darete  a  rentennere  ves- 
«  siche  pe  lanterne.  E  che  sia  lo  vero  ch'io  aggio  fatto 
<.<  sta  prova,  e  non   sto  varva    d'annecchia''*,    facite  che 
«  vengano  le  teste    de  lo  drago,  ca   nesciuna  te  pò  ser- 
«  vire  de  testemmonia  ped  essere  senza  lengua.  Le  qua- 
«  li,  pe  ve  saccredere   de  lo  fatto,  l'aggio  portate  njo- 
«  dizio  ».  Cossi  decenno,  mostraje  le  lengue,  che  lo  vil- 
lano restaje    tutto  de  no  piezzo  e  non    sapeva  che  l'era 
socciesso.  Tanto  chiù,  che  Menechella  soggionze:  «  Chisso 
«  è  isso!  Ah,  villano  cane,  ca  me   l'aveva  calata!  »  Lo 
re,  sentenno    chesto,    levaje  la  corona    da   capo  a  chillo 
cuojero  cotecone^'^  e  la  mese  a  Cienzo.  E,  volendolo  man- 
nare ngalera,  Cienzo  le  cercaje  la  grazia,  pe  confonnere  co 
termino  de  cortesia  la  ndescrezzione  soja.  E,  fatt' apparec- 
chiare le  tavole,  fecero  no  magnare  de  signore;  lo  quale 
scomputo,  se  jezero  a  corcare  a  no  bello  lietto  addoruso  de 
colata.  Dove,  Cienzo,  auzando  li  trofei  de  la  vittoria  avuta 
co    lo   dragone,    trasetto    trionfando  a  lo  Campeduoglio 


s'  Annecchla,  giovenca,      ^s  «  austeco,  cotecoue  ».  Egl.  La  Tenta. 


JORNATA   I.   TRATTENEMIENTO   VII.  99 

d'ammore.  Ma,  venuta  la  matina,  quando  lo  sole,  joquan- 
no  lo  spatono  a  doje    mano  de  la  luco  nmiezo  le  stelle, 
grida:  «  Arreto,  canaglia!  »,  Cienzo,  vestennose  nante  na 
fenestra,  vedde  faccefronte  na  bella  giovane;  e,  votatose 
a  Menecliolla,  disse:  «  Che  bella  cosa  è  cbella,  che  staoe 
«  a  derempietto  de  sta  casa?  »   «  Che  ne  vuoi   fare   de 
«  ssi  chiajete?,  —  respose  la  mogliere  — ;  hàince  apierte 
«  l'uocchie?,  te  fosse  venuto  quarche  male  omore?,  0  t'è 
«  stufato  lo  grasso?;  non  te  vasta  la  carne,  ch'aje  a  la 
«  casa?  »  Cienzo,  vascianno   la  capo  comme  gatta,  e' ha 
fatto  dammaggio^*^,  non  disse  niente;  ma,  fatto  nfenta  de 
ire  pe  certo  negozio,  scette  da  lo  palazzo  e  se  ncaforchiaje 
drinto  la  casa  de  chella  giovane.  La  quale  veramente  era 
no   morzillo   regalato;  tu  vedive   na  joncata  tennera,  na 
pasta  de  zuccaro!;  non  votava  maje  li  bottune   dell' uoc- 
chie,  che  non  facesse  no  rettorie"  amoruso  a  li  core;  e 
non  apreva  maje  lo  ncofanaturo ''^  de  le  lavra,   che   non 
facesse  no  scaudatiello  ^^   a  l' arme  ;  non  moveva  chianta 
de  pedo,  che  non  carcasse  bone  le  spalle  a  chi  pendeva 
da  la  corda  de  le  speranze.  Ma,  otra  a  tante  belHzze,  che 
aff attera  vano,  aveva  na  vertute,  che,  sempre  che  voleva, 
ncantava,  legava,  attaccava,  annodecava,  ncatenava  ed  ar- 
ravogliava*^*^    l'uommene   co   li   capille;  comme    fece    de 
Cienzo;  che,  non  tanto  priesto  mese  pede  dove  essa  sta- 
va, che  restaje  mpastorato,  comme  a  pollitro.  Fra  chisto 
miezo.  Meo,  ch'era  lo  fratiello  menerò,  non  avenno  maje 
nova  de  Cienzo,  le   venne  ncrapiccio   de   irelo  cercanno. 
E,  perzò,   cercato  lecienzia  a  lo   patre,   le  dette  n'  antro 
cavallo  e  n'autra  cagnola,   puro   fatata.   Cammenanno,  a- 
donca,  Meo,  ed  arrivato  la  sera  a  chella  torre,   dov'era 


56  Danno. 

^~  Emissario  fatto  nel  corpo  umano  con  vessicante.  Cfr.   VX. 

58  Conca.      5^  Lavanda  con  acqua  calda. 

^^  Ravvolse  va. 


lOO  LO   CUNTO  DE  LI  CUNTI 

stato  Cienzo,  lo  patrone,  credennose  che  fosse  lo  frate, 
le  fece  li  maggiore  carizze  de  lo  munno;  e  pò,  volenno 
darele  denare,  isso  non  ne  voze.  E,  vedennose  fare  tante 
ceremonie,  cadette  npensiero,  che  Uà  fosse  stato  lo  fra- 
te; e,  perzò,  pigliaje  speranza  de  trovarelo.  Gomme  la 
luna,  nemica  de  li  poete,  votaje  le  spalle  a  lo  sole,  se 
mese  ncammino.  Ed,  arrivato  dov'era  la  fata,  la  quale, 
credennose  clie  fosse  Cienzo,  le  fece  na  mano  d'acco- 
glienze, sempre  decenno  :  «  Singlie  lo  benvenuto,  giovane 
«  mio,  che  me  sarvaste  la  vita!  »,  Meo,  rengraziannola 
de  tanta  amorosanza,  disse:  «  Perdoname,  s'io  non  me 
«  trattengo,  ch'aggio  pressa.  A  revederece  a  la  tornata!  » 
E,  rallegrannose  fra  se  stisso,  ca  sempre  trovava  pedate 
de  lo  fratiello,  secotaje  la  strata;  tanto,  ch'arrivaje  a  lo 
palazzo  de  lo  re,  la  matina  a  punto  che  Cienzo  era  stato 
sequestrato  da  li  capille  de  la  fata.  E,  trasuto  drinto,  fu 
recevuto  da  li  serviture  co  granne  onore;  ed,  abbracciato 
da  la  zita  con  granne  affezzione,  le  disse:  «  Ben  venga  la 
«  miamogliere!  »  «  La  matina  va,  la  sera  vene!  Quanno 
«  ogne  auciello  a  pascere,  lo  luccaro*"^  ammasona!  Com- 
«  me  si  stato  tanto,  Cienzo  mio?,  comme  puoje  stare  lon- 
«  tano  da  Menechella?  Tu  m'hai  levato  da  vocca  a  lo  dra- 
«  gene,  e  me  schiaffo  ncanna  a  lo  sospetto,  mentre  non 
«  me  fai  sempre  schiocco  de  st' nocchie  tuoje"'!  »  Meo, 
ch'erano  trincato "^^j  penzaje  subeto,  fra  se  stisso,  ca  chessa 
era  la  mogliere  de  lo  frate  ;  e,  votatose  a  Menechella,  se 
scusaje  de  la  tardanza,  ed,  abbracciatola,  jettoro  a  maz- 
zocare.  Ma,  quanno  la  luna,  comm'  a  voccola,  chiamma  le 
stelle  a  pizzolare  le  rosate,  jezero  a  dormire  ;  e  Meo,  che 


Ci  Gufo. 

02  «  Tutto  questo  brano,  —  noia  il  liehr.  —,  è  nell'originale  mollo 
oscuro,  e  probabilmente  adulterato  »  (A«»i.,  I,  402).  Colla  nuova  pun- 
teggiatura, messa  da  me,  mi  par  che  debba  riuscir  chiaro. 

63  Furbo. 


JOENATA  I.  TRATTElfTEMIENTO  VII.  lOI 

portava  nore  a  lo  frate,  spartette  le  lenzola,  e  se  mesero 
uno  ped  uno,  azzò  non  avesse  accasione  de  toccare  la 
cainata.  La  quale,  vedenno  sta  novetate,  co  na  cera  bro- 
sca  e  co  na  faccia  de  matreja,  le  disse:  «  Bene  mio,  da 
«  quanno  niccà?;  a  clie  juoco  joquammo,  clie  juocarielle 
«  so  chiste?;  e  che  simnio  massaria  de  parzonare  liti- 
«  cante,  che  ce  miette  li  termene?,  che  simmo  asercete 
«  de  nemico,  che  ce  fai  sta  trincera?,  che  simmo  caalle 
«  fuoresteche,  che  ci  attravierze  sto  staccione '^•*  ?  »  Meo, 
«  che  sapeva  contare  fi  a  tridece,  disse:  «  Non  te  la- 
«  mentare  de  me,  bene  mio,  ma  de  lo  miedeco,  che,  vo- 
«  lennome  purgare,  m'ave  ordenato  la  dejeta;  otra  che, 
«  pe  la  stracquezza  de  caccejare,  vengo  scodato  ».  Me- 
nechella,  che  non  sapeva  ntrovolare  l' acqua,  se  gliottette 
sta  paparacchia '^^  e  se  mese  a  dormire.  Ma,  quanno  la 
notte,  ausolejata  da  lo  sole,  le  so  date  li  crepuscolo  de 
tiempo  a  coUegennosarcinole,  vestennose  Meo  a  la  stessa 
fenestra,  dove  s'era  vestuto  lo  frate,  vedde  chella  stessa 
giovane,  che  ncappaje  Cienzo.  E,  piacennole  assaje,  disse 
a  Menechella:  «  Chi  è  chella  sbriffia,  che  stace  a  la  fe- 
«  nestra?  »  Ed  essa,  co  na  zirria  granne,  respose:  «  E 
«  puro  cossi  me  la  tiene?  S'è  cossi,  la  cosa  è  nostra! 
«  Jere  perzi  me  frusciaste  lo  canzone  co  ssa  cernia;  e 
«  aggio  paura,  ca  Uà  va  la  lengua,  dove  lo  dente  dole! 
«  Ma  devei'risse  portareme  respetto,  ca,  all'utemo,  so  fi- 
«  glia  de  re,  ed  ogue  strunzo  ha  lo  fummo  sujo  !  Non  senza 
«  che,  sta  notte  avive  fatto  l'aquila  mperiale^^  spalla  a 
«  spalla!  Non  senza  che  t'eri  ritirato  co  le  ntrate  toje! 
«  T'aggio  ntiso:  la  dieta  de  lo  lietto  mio  èpe  fare  ban- 
«  chetto  a  la  casa  d'antro  !  Ma,  si  chesso  veo,  voglio 
«  fare  cose  da  pazza,  e  che  ne  vajano  Tasche^'''  pe  l'ajero!  » 


^'  steccone.      •'^  BuLola. 

<'6  Allusione  all'aquila  a  due  teste  dello   stemma  imperiale:  «  Fa 
l'aquila  a  doje  teste,  si  se  corca  ».  Egl.  La  Stufa.      ^~  Schegge. 


I02  LO  cuirro  de  li  ctnirTi 

Meo,  ch'aveva  magnato  pane  de  chiù  forne,  accordatala 
co  bone  parole,  le  disse  e  juraje  ca  pe  la  chiù  bella  pot- 
tana  de  lo  munno  non  averria  cagnato  la  casa  soja,  e  ca 
essa  era  la  viscida  de  lo  core  sujo.  Menechella,  tutta 
conzolata  pe  ste  parole,  jette  drinto  no  ritretto  a  farese 
da  lo  dammecelle  passare  lo  vrito  pe  la  fronte***,  a  ntrez- 
zarese  la  capo,  a  tegnorese  le  ciglia,  a  magriareae  la  faccia 
ed  a  ncirecciarese  tutta  pe  parere  chiù  bella  a  chisto,  che 
se  credeva  che  fosse  lo  marito  sujo.  E  Meo,  fra  tanto, 
da  le  parole  de  Menechella  trasuto  nsospetto,  che  non 
fosse  Cienzo  a  la  casa  de  chella  giovane,  se  pigliaje  la 
cana.  E,  scinto  da  lo  palazzo,  trasette  a  la  casa  de  chella, 
dove,  a  pena  arrivato,  essa  disse:  «  Capille  mieje,  legate 
«  chisso!  »  E  Meo,  subeto,  co  lo  negozio  lesto,  respose: 
«  Gagnola  mia,  manciate  chessa  !»  E  la  cana,  de  relanzo, 
ne  la  scese,  comme  a  veluocciolo  d'uovo'^''!  Meo,  trasuto 
drinto,  trovaje  lo  frate  comme  ncantato  ;  ma,  puostole  doi 
pile  de  la  cana  sopra,  parze  che  se  scetasse  da  no  gran 
suonno.  A  lo  quale  contaje  tutto  chello,  che  l'era  socciesso 
pe  lo  viaggio,  ed,  utemamente,  a  lo  palazzo,  e  comme, 
pigliato  scagno  da  Menechella,  avea  dormuto  con  essa. 
Ma  voleva  tanno  secotare  a  dicere  de  le  lenzola  spartute, 
quanno  Cienzo,  tentato  da  parasacco,  cacciaje  mano  a  na 
lopa"*'  vecchia,  e  le  tagliaje  lo  cuollo  comm'a  cctrulo.  A 
sto  remmore  affacciatose  lo  re  co  la  figlia,  e,  vedenno 
Cienzo  ca  aveva  ucciso  n'autro  simele  ad  isso,  l'addeman- 
naro  la  causa.  E  Cienzo  le  disse:  «  Demannalo  a  te  stessa; 


cs  Per  rendersi  liscia  la  fronte  si  usava  un  tempo  dalle  donne 
una  palla  di  vetro.  Nel  liediculuso  contrasto  tra  Annuccia  e  Tolta 
(ed.  presso  Luigi  Russo,  s.  a.)  la  suocera  accusa  la  nuora:  «  Pe  te  fare 
menare  lo  vrito  a  Faustina,  L'auto  juorno  le  diste  la  farina;  E  pe 
lo  ghianco  e  russo,  che  te  portaje  Nanella,  ecc.  ».      ''^  Rosso  d'uovo. 

*'*  Spada:  *  lama  di  spada  detta  della  luim,  quale  sorta  di  lama 
è  perfettissima  »  (Fasano,  o.  e,  II,  93). 


.TORNATA   I.   TBATTENEMIENTO   VII.  103 

«  tu,  cli'ajo  clormuto  co  fraterno,  credenno  d'avere  dor- 
«  muto  co  mico,  e  perzò  ne  l'aggio  missiato"M  »  «  Deh 
«  quanta  ne  so  accise  a  tuorto  !,  —  disse  Menecliella  —  ; 
«  bella  prova  hai  fatto  !  Tu  non  lo  meritave  sto  frate  da 
<-<  bene!,  pocca,  trovannose  a  no  stisso  lietto  co  mico,  co 
«  na  modestia  granne  sj)artenno  le  lenzola,  fece  sarvo  e 
«  sarvo!  »  Cienzo,  che  sentette  sta  cosa,  pentutose  de 
u'arrore  cossi  gruosso,  figlio  de  no  jodizio  temmerario  e 
patre  de  n'asenetate,  se  scippaje'- meza  facce.  Ma,  venu- 
tole a  mente  l'erva  nmezzatole  da  lo  dragone,  la  scergaje 
a  lo  cuollo  de  lo  frate,  che  subeto  nzeccaje,  ed,  appic- 
cecatose  co  la  capo,  tornaje  sano  e  vivo.  Ed,  abbraccia- 
tolo co  n'allegrezza  granne,  e  cercatole  perdonanza  del- 
l'essere curzo  troppo  nfuria  e  male  nformato  a  cacciarelo 
da  lo  munno,  se  ne  jettero  ncocchia  a  lo  palazzo.  Da  dove 
mannattero  a  chiammare  Antoniello  co  tutta  la  casa,  che 
deventaje  caro  a  lo  re,  e  vedde  ne  la  perzona  de  lo  figlio 
vereficato  no  proverbejo: 

A  barca  storta  lo  piiorto  derìtto. 


'^^  Falciato,  ucciso,      '-  Si  strappò,  si  graffiò. 


LA  FACCE  DE  CRAPA 


TratteìNEMiento  ottavo  de  la  Jornata  primma. 


Na  figlia  de  no  villano,  pe  beneficio  de  na  fata,  deventa  mogliere  de 
re.  Ma,  mostrannose  sgrata  a  chi  l'aveva  fatto  tanto  bene,  le  fa 
deventare  la  facce  de  crapa.  Pe  la  quale  cosa,  sprezzata  da  lo 
marito,  receve  mille  male  trattamiente.  Ma,  ped  opera  de  no 
buono  viecchio,  omeliatase,  reciipera  la  primma  facce  e  torna 
ngrazia  de  lo  marito.  ' 


Ocomputo  Giulia  de  contare  lo  cunto  sujo,  che  fu  de 
zuccaro,  Paola,  a  chi  toccava  de  trasire  a  lo  ballo,  ac- 
commenzaje  a  dicere. 

Tutte  li  male,  che  commette  l'ommo,  hamio  quarche 
colore  0  de  sdigno,  che  provoca,  o  de  necessitate,  che 
spegne,  o  d'ammore,  che  ceca,  o  de  furia,  che  scapizza. 
Ma  la  sgratetudene  è  chella,  che  non  ave  ragione,  o  fauza 
0  vera,  dove  se  pozza  attaccare  ;  e,  perzò,  è  tanto  pesse- 
mo  sto  vizio,  che  secca  la  fontana  de  la  meserecordia, 
stuta  lo  fuoco  de  l'ammore,  chiude  la  strata  a  li  benefi- 
cio, e  fa  squigliare  ne  la  perzona  male  recanosciuta  nza- 
vaorrio  e  pentemiento;  comme  vederrite  ne  lo  cunto,  che 
ve  farraggio  sentire. 

Aveva  no  villano  dudece  figlie,  che  l'una  non  poteva 
ncuollo   l' autra  *  ;  pecca,   ogn'  anno,  la  bona  massara  de 


1  Gh'eran  tutte  bambine. 


JOENATA  I.   TEATTENEMIENTO   Vili.  105 

Ceccuzza,  la  mamma,  le  faceva  na  squacquara.  Tanto  che 
lo  poverommo,  pe  campare  noratamente  la  casa,  jeva  ogne 
matina  a  zappare  a  jornata,  che  non  sapive  dicere,  s'era 
chiù  lo  sodore,  che  jettava  nterra,  0  le  spotazze,  che  met- 
teva a  la  mano  '  ;  vasta  ca  co  lo  poco  de  le  fatiche  soje 
manteneva  tanta  cracace  e  peccenaglie  ^,  che  non  mo- 
ressero  de  la  famme.  Ora,  trovannose  chisto  no  juorno 
a  zappare  a  lo  pede  de  na  montagna,  spione  de  l'antro 
munte,  che  metteva  la  capo  sopra  le  nugole  pe  vedere 
che  se  faceva  ne  l'ajero,  dove  era  na  grotta  accessi  futa 
e  broca  ',  che  se  metteva  paura  de  trasirece  lo  sole,  scotte 
da  chella  no  lacertone  verde,  quanto  no  coccotriglio  ;  che 
lo  povero  villano  restaje  cosi  sorriesseto,  che  non  appo 
forza  de  appalorciare,  e  da  n'aperta  de  vocca  de  chillo 
brutto  anomale  aspettava  lo  chiodemiento  de  li  juorne 
Buoje.  Ma,  nzeccatose  lo  lacertone,  le  disse  :  «  Non  avere 
«  paura,  ommo  da  bene  mio,  che  non  songo  ccà  pe  fa- 
«  rete  despiacere  nesciuno;  ma  vengo  sulo  pe  lo  bene 
«  tujo  ».  Chesto  sentenno  Masaniello  (che  cossi  aveva 
nomme  lo  fatecatore),  se  le  ngenocchiaje  da  nante,  decen- 
nole:  «  Signora,  commo  te  chiamme,  io  sto  mpotere  tujo; 
«  fallo  da  perzona  da  bene,  ed  agge  compassejone  de  sto 
«  povero  fusto,  ch'ave  dudece  regnole^  da  campare  ». 
«  Pe  chesto,  —  respose  la  lacerta  — ,  io  me  so  mossa  ad 
«  ajutarete:  perzò,  portame  craje  matino  la  chiù  pecce- 
«  rolla  de  le  figlie  toje,  ca  me  la  voglio  crescere  comme 
«  figlia  e  tenerela  cara  quanto  la  vita  ».  Lo  nigro  patre, 
che  sentette  chesto,  restaje  chiù  confuso  de  no  mariuolo, 
quanno  l'è  trovato  lo  furto  ncuollo;  pocca,  sentennose 
cercare  na  figlia  da  lo  lacertone,  e  la  chiù  tennerella, 
facette  conseqaenzeja  ca  non  era  senza  pile  lo  manto,  e 
la  voleva  pe  no  pinolo  aggregativo  de  vacovare  la  fam- 


-  Int.:  per  maneggiare  la  zappa.     ^  Bambini.      ''  Profonda  e  scura. 
2  Prop.  :  lamento;  e,  metaf.,  bambini. 


I06  LO   CUNTO   DE   LI   CTJNTl 

ma.  E  decette  fra  se  stisso:  «  S'io  le  do  sta  figlia,  le 
«  do  l'arma  mia;  si  nce  la  neo,  se  pigliarrà  sto  cuorpo; 
«  si  1136  la  concedo,  so  spogliato  de  le  bisciole;  si  la 
«  contradico,  se  zuca  sto  sango  ;  si  consento,  me  leva  na 
«  parte  de  me  medesemo;  so  recuso,  se  piglia  lo  tutto. 
«  Che  me  resorvo?,  che  partito  piglio?,  a  che  spediente 
«  m'attacco?  0  che  mala  jornata  aggio  fatta!  Che  de- 
«  sgrazia  m'è  chioppeta  da  lo  cielo!  »  Accessi  dicenno, 
lo  lacertone  disse  :  «  Resuorvete  priesto,  e  fa  chello,  che 
«  faggio  ditto;  si  no,  nce  lasse  le  stracce,  ca  io  cossi  bo- 
«  glio,  e  cossi  sia  latto  !  »  Masaniello,  sentuto  sto  de- 
creto, nò  avenno  a  chi  appellareso,  jette  a  la  casa  tutto 
malenconeco,  cossi  gialliato  de  facce,  che  pareva  nsodarca- 
to,  e  Ceccuzza,  vedennolo  cossi  appagliaruto  ^,  ascelluto  '', 
annozzato  *  e  ngottato  ',  lo  decette  :  «  Che  t' è  soccies- 
«  so,  marito  mio  ?  Aje  fatto  accostiune  co  quarcuno  ?  T' è 
«  stato  speduto  quarche  seco  torio  centra?  0  ne' è  muorto 
^<  l'aseno ?»  «  Niente  de  chesto,  —  respose  Masaniello  —  ; 
«  ma  na  lacerta  cornuta  m'ha  puosto  nmoina;  pecca  m'ave 
v;  amraenacciato,  ca,  si  no  le  porto  la  figliola  nostra  chiù 
«  peccerella,  farrà  cosa  de  chelle,  che  fé  tene;  che  la  capo 
«  me  vota  comme  argatella,  non  saccio  che  pesce  pi- 
«  gliare!  Da  una  parte  me  costregne  ammore,  e  da  l'au- 
'«  tra  lo  pesone  do  la  casa.  Ammo  scorporatamente  Ren- 
«  zolla  mia,  ammo  scorporatamente  la  vita  mia:  si  no  le 
«  do  sta  jonta'"  de  li  rine  mie,  se  piglia  tutto  lo  ruo- 
«  telo**  de  sta  mara  perzona  mia;  perzò,  consegliame, 
«  Ceccuzza  mia:  si  no,  so  fuso!  »  Sentenno  chesto,  la  mo- 
"cliere  le  disse:  <  Chi  sa,  marito  mio,  si  sta  lacerta  sarrà 


6  Come  paglia  s^cca. 

I  Abbattuto;  come  volatile,  che  abbia  perduto  l'ali. 

8  Col  nodo  alla  gola. 

9  (ES)  ngottonato.  —  Che  La  un  dolore  interno.      *"  Giunta. 

II  Rotolo,  peso  di  33  once. 


.TORNATA    I.   TEATTENEMIENTO   Vili.  107 

«  a  doje  code^"  pò  la  casa  nostra?  Chi  sa  se  sta  lacerta 
«  è  la  certa '^  fino  de  le  miserie  nostre?  Vi  ca,  lo  cliiù  de 
«  le  vote,  noe  dammo  nuje  stisse  l'accetta  a  lo  pede,  e 
«  quanno  devarriamo  avere  la  vista  d'aquila  a  canoscere 
«  lo  bene,  che  nce  corre,  avimnio  l'appannatora  all'uoc- 
«  chie  e  lo  franco  a  le  mano  pe  l'agranfare!  Perzò,  va, 
«  portancella,  ca  lo  core  me  parla,  ca  sarrà  quarche  bona 
«  sciorta  pe  sta  povera  peccerella!  »  Quatraro  ste  parole 
a  Masaniello  ;  e  la  matina,  subeto  che  lo  sole  co  lo  scu- 
polo  de  li  ragge  janchejaje  lo  cielo,  ch'era  annegruto  pe 
l'ombre  de  la  notte,  pigliaje  la  peccerella  pe  la  mano  e 
la  portaje  dov'era  la  grotta.  Lo  lacertone,  che  steva  a  la 
veletta,  quanno  venesse  lo  villano,  subbeto  che  lo  sco- 
perze,  scette  fora  da  lo  recconcolo.  E,  pigliatose  la  fi- 
gliola, deze  a  lo  patre  no  sacchetto  de  pataccune^^  de- 
cennole:  «  Va  marita  l'autre  figlie  co  sti  fellusse;  e  sta 
«  allegramente,  ca  Renzolla  ha  trovato  la  mamma  e  lo 
«  patre.  0  viata  essa,  ch'è  nmattuta  a  sta  bona  fortuna  !  » 
Masaniello,  tutto  prejato,  rengraziaje  la  lacerta,  e  se  ne 
jette  zompanno  a  la  mogliere,  contannole  lo  fatto  e  mo- 
strannole  li  frisole,  co  li  quale  maritattero  tutte  l'autre 
figlie,  restannole  puro  agresta^"'  pe  gliottere  co  gusto  li 
travaglie  de  la  vita.  Ma  la  lacerta,  avuta  ch'appe  Ren- 
zolla,  facenno  apparerò  no  bellissemo  palazzo,  nce  la  mese 
drinto,  crescennola  co  tante  sfuorge  e  riale,  all' nocchie 
de  na  regina:  fa  cunto  ca  no  le  mancava  lo  latte  de  la 
formica*^!  Lo  magnai'e  era  de  conte,  lo  vestire  de  pren- 


12  Le  lucertole  a  due  code  sono  stimate  dal  popolo  di  buon  au- 
gurio. V.  Pitrè,  BibL,  XVI,  353. 

^3  Giuoco  tra  lacerta  e  la  certa  fine.      i'  Moneta  di  5  carlini, 

15  «  Salsa  fatta  coU'agresto  per  condire  il  pesce  »,  e,  metaf.,  s'a- 
dopera per  danari  (iJ). 

!<'  Ogni  sorta  di  raflìnatezza.  Nelle  i)/iV,  III,  descrivendo  la  taverna 
del  Gerriglio:  «  E  tu  cerca,  si  vuoi,  De  lo  chiù,  de  lo  manco,  Latte 
della  formica,  Lengua  di  pappagallo,  Penne  de  la  Fenice,  Ga  subeto 
è  portata!  » 


I08  LO   CUNTO  DE  LI   CUNTI 

cepe,  aveva  ciento  zetelle  sollecete  e  provecete,  che  la  ser- 
vevano  ;  co  li  quale  buone  trattamiente,  nquattro  pizzeche, 
se  fece  quanto  na  cercola.  Occorze  che,  jenno  a  caccia  lo 
re  pe  chille  vosche,  se  le  fece  notte  pe  le  mano,  né  sa- 
penno  dove  dare  de  capo,  vedde  lucere  na  cannela  drinto 
a  sto  palazzo.  Pe  la  quale  cosa  mannaje  a  chella  vota 
no  servetore,  azzò  pregasse  lo  patrone  a  darele  recietto. 
Juto  lo  servetore,  se  le  fece  nante  la  lacerta  nforma  de 
na  iDellissema  giovane,  che,  sentuta  la  nmasciata,  disse: 
che  fosse  mille  vote  lo  buono  venuto,  ca  no  nce  sarria 
mancato  pane  e  cortielle.  Sentuto  lo  re  la  resposta,  venne 
e  fu  recevuto  da  cavaliere,  scennole  ciento  pagge  nante 
co  ntorce  allommate,  che  pareva  na  granne  assequia  de 
n'  ommo  ricco  ;  ciento  autre  pagge  portare  le  vevanne  a 
tavola,  che  parevano  tante  guarzune  de  speziale,  che  por- 
tassero li  sauzarielle  '^  a  li  malate  ;  ciento  autre,  co  stro- 
miente  o  stordemiente,  mosechiavano.  Ma,  sopra  tutte, 
Renzolla  servette  a  dare  a  bevere  a  lo  re,  co  tanta  gra- 
zia, che  bevette  chiù  ammore  che  vino.  Ma,  scomputo  lo 
mazzecatorio  e  levate  le  tavole,  se  jette  lo  re  a  corcare 
e  Renzolla  medesema  le  tiraje  le  cauzette  da  li  piede  e 
lo  core  da  lo  pietto  co  tanto  buon  termene,  che  lo  re 
sentie  dall'ossa  pezzelle,  toccate  da  chella  bella  mano, 
saglire  lo  venino  ammoruso  a  nfettarele  l'arma.  Tanto 
che,  pe  remmedejare  a  la  morte  soja,  procuraje  d'avere 
l'orvietano'*  de  chelle  bellezze;  e,  chiamanno  la  fata, 
che  n'aveva  protezione,  nce  la  cercaje  pe  mogliere.  La 
quale,  non  cercanno  antro  che  lo  bene  do  llenzolla,  non 
sulo  nce  la  dette  liberamente,  ma  la  dotaje  ancora  de 
sette  cunte  d'oro  '".  Lo  re,  tutto   giubiliante  de  sta  ven- 


*''  Piattelli,  ove  si  conservano  salse  o  altri  liquori  fla  intingere. 
Cfr.  rartenio  Tosco  (o.  e,  p.  238).  Nelle  MX,  V:  «  due  sauzarielle  de 
manteca  ». 

*s  Celebre  antidoto.      *"  Milioni  d'oro.  Sp. :  Cilento, 


JOENATA  I.   TRATTENEMIENTO   Vili.  I09 

tura,  se  partette  co  Renzolla.  La  quale,  spurceta^*'  e  sca- 
noscente  a  quanto  le  aveva  fatto  la  fata,  se  l'allicciaje^^ 
co  lo  marito,  senza  direle  na  parola  mardetta  de  compre- 
miento.  E  la  maga--,  vedenno  tanta  sgratetutene,  la  mar- 
disse,  che  le  tornasse  la  faccie  a  semeletutene  de  na  crapa. 
E,  ditto  a  pena  ste  parole,  se  le  stese  lo  musso  co  no 
parmo  de  varva,  se  le  strensero  le  maschie,  se  le  ndur- 
zaje  la  pelle,  se  le  mpelaje  la  faccie  e  le  trezze  a  ca- 
nestrelle  tornare  corna  appontute.  La  quale  cosa  visto  lo 
nigro  re,  deventaje  no  pizzeco,  ne  sapeva  che  l'era  soo- 
ciesso;  pocca  na  bellezza  a  doi  sole  s'era  fatta  accessi 
strasformata.  E,  sospiranno  e  chiagnenno  a  tutto  pasto, 
deceva:  «  Dove  so  le  capille,  che  m'annodecavano  ?,  dove 
«  l'uocchie,  che  me  sficcagliavano -^  ?,  dove  la  vocca,  che 
«  fu  tagliola  de  st'arma,  mastrillo'*  de  sti  spirete  e  co- 
«  davattolo-^  de  sto  core?  Ma  che?,  aggio  da  essere 
«  marito  de  na  crapa  ed  acquistarene  titolo  de  capeiTone?, 
«  aggio  da  esser' arredutto  de  sta  foggia  a  fidareme^^  a 
«  Foggia^"?  Non,  no!  Non  voglio  che  sto  core  crepa  pe  na 
«  faccie  de  crapa,  na  crapa,  che  me  portarrà  guerra,  ca- 
«  cann'aulive^*  ».  Cossi  decenno,  arrivato  che  fu  a  lo 
palazzo  sujo,  mese  Eenzolla  co  na  cammarera  drinto  na 
cecina,  danno  a  l'uha  ed  a  l'autra  na  decina  de  lino,  azzò 
la  filassero,  mettennole  termene  de  na  semmana  a  for- 
nire lo  staglio-^.  La  cammarera,  obedenno  lo  re,  com- 
menzaje  a  pettenare  lo  lino,  a  fare  le  corinole^'^,  a  met- 
terele  a  la  conocchia,  a  torcere  lo  fuso,  a  formare  le  ma- 


20  (ES)  Spruceta.  —  Ritrosa.      21  se  ne  andò.      22  (ES)  Fata. 

23  Traforavano.      24  Trappola  da  topi. 

25  (ES)  caravattolo.  —  Trappola  da  uccelli.      2G  y.  n.  28,  p.  71. 

~''  A  Foggia,  centro  del  Tavoliere  di  Puglia,  si  accoglievano  nel- 
l'inverno le  mandre,  che  scendevano  dagli  Abbruzzi;  onde:  esser 
dentro  Foggia,  vale:  esser  cornuto.  Il  Garzoni  adopera:  «  restarono 
essi  castroni  di  Puglia  »  (0.  e,  p.  178). 

28  Forma  dello  sterco  della  capra.       29  compito.        30  Lucignoli. 


no  LO   CUNTO  DE  LI   CUNTI 

tasse  ed  a  fatecare,  cornine  a  cana;  tanto  che  lo  sapato  a 
sera  se  trovaje  scomputo  lo  staglio.  Ma  Renzolla,  cre- 
denuose  d' essere  la  inedesema,  eh'  era  a  la  casa  de  la 
fata,  perchè  non  s' era  merata  a  lo  schiecco,  jettaje  lo 
lino  pe  la  fenestra,  docenno  :  «  Ha  buon  tiempo  lo  re  a 
«  daremo  sti  mpacce!  Si  vo  cammise,  che  se  n'accatte, 
«  e  non  se  creda  avereme  ashiata  a  la  lava^^!  Ma  s'alle- 
«  corde  ca  l'aggio  portato  sotte  cunte  d'oro  a  la  casa  e 
«  ca  le  so  mogliere,  e  non  vajassa;  e  me  pare,  ch'aggia 
«  de  l'aseno  a  trattareme  de  sta  manera!  »  Co  tutto  che- 
sto,  comme  fu  lo  sapato  matino,  vedenno  ca  la  cammarera 
aveva  filato  tutta  la  parte  soja  de  lo  lino,  appe  gran  paura 
de  quarche  cardata  de  lana;  e,  perzò,  abbiatase  a  lo  palazzo 
de  la  fata,  le  contaje  la  desgrazia  soja.  La  quale,  abbrac- 
ciannola  co  grann'amore,  le  dette  no  sacco  chino  de  filato, 
azzò  lo  desse  a  lo  re,  mostranno  d'essere  stata  bona  mas- 
sara  e  femmena  de  casa.  Ma  E,en^olla,'pigliatcse  lo  sacco, 
senza  dire  a  gran  merzi  de  lo  servizio,  se  ne  jette  a  lo 
palazzo  rejale;  tanto  che  la  fata  tirava  prete  de  lo  male 
termene  de  sta  nzamorata'^'-.  Ma,  avuto  lo  re  lo  filato,  deze 
dui  cane,  imo  ad  essa  e  uno  a  la  cammarera,  decenno 
che  l'allevassero  e  crescessero.  La  cammarera  crescette 
lo  sujo  a  mollichelle,  e  lo  trattava  comm'  a  no  figlio.  Ma 
Kenzolla,  decenne:  «  Sto  penziero  me  lassaje  vavomo! 
«  Lloco  so  date  li  Turche  ^'-^P    Aggio   da   pettenare  cane 


31  Tra  le  lave  era  famosa  quella  del  Vergini,  torrente  d'acqua  pio- 
vana, che  dalle  colline  di  Capodimonle,  Miradois,  S.  Eusebio  scen- 
deva per  la  via  dei  Vergini,  facendo  spesso  danni  gravissimi.  Ter- 
ribile fu  la  lava  del  19  novembre  1569,  che  rovinò  in  quel  borgo 
moltissime  case.  (Gel.,  0.  e,  v,  402).  Naturalmente  c'era  della  gente, 
che  andava  frugando  tra  il  fango,  per  trovarvi  qualche  cosa,  che  po- 
tesse servire.  Gfr.  II,  io.  «  Va  trovanno  chiuove  per  le  lave!  » 

32  Senza  amore,  disamorata. 

"3  Sono  in  ischiavitù?  Alludendo  alle  iucureioni  dei  barbareschi, 
che  menavano  vìa  schiavi  e  prede. 


.TORNATA   I.   TEATTENEMIENTO    Vili.  Ili 

«  6  portare  cane  a  cacare  ?  »  ;  e,  cossi  decenno,  sbelan- 
zaje^'  lo  cane  pe  la  finestra,  che  fu  antro  che  sautare 
pe  drinto  lo  chirchio^^.  Ma,  dapò  cierte  mise,  lo  re,  cer- 
cato li  cane,  e  Renzolla  filanno  male,  corze  de  novo  a 
la  fata,  e  trovato  a  la  porta  no  veccliiariello,  ch'era  por- 
tiere, le  disse:  «  Chi  si  tu,  e  che  addommanne?  »  E  Ren- 
zolla,  sentutose  fare  sta  proposta  de  sbauzo,  le  disse  : 
«  No  me  canusce,  varva  de  crapa?  »  «  A  me  co  lo  cortiello  ?, 
«  —  respose  lo  viecchio  — ;  lo  mariuolo  secuta  lo  sbirro!; 
«t  allargate,  ca  me  tigne,  disse  lo  caudararo;  jèttate  nnante 
«  pe  non  cadere!  Io,  varva  de  crapa?  Tu  si  varva  de 
«  crapa  e  mezza;  ca,  pe  la  presenzione  toja,  te  mie- 
«  rete  chesso  e  peo  ;  ed  aspetta  no  poco,  sfacciata  pre- 
«.<  sentosa,  ca  mo  te  chiarisco  e  vedarraje  dove  t' ave  ar- 
«  redutto  lo  fummo  e  la  pretennenzia  toja  ».  Cossi  decen- 
no, corze  drinto  a  no  cammariello,  e,  pigliato  no  schiecco 
lo  mese  nnante  a  Renzolla.  La  quale,  visto  chella  brutta 
caira  pelosa,  appe  a  crepantare  de  spasemo,  che  non  tanto 
sentette  abbasca  Ranaudo,  mirannose  drinto  a  lo  scuto 
ncantato,  straformato  da  chillo  ch'era^*^,  quant'essa  pigliaje 
dolore,  vedennose  cossi  stravisata,  che  non  canosceva 
se  stessa.  A  la  quale  decotte  lo  viecchio:  «  Te  dive  al- 
«  lecordare,  o  Renzolla,  ca  si  figlia  de  no  villano,  e  che 
«  la  fata  t'aveva  arredutto  a  termene,  che  jere  fatta  re- 
«  gina.  Ma  tu,  nzipeta,  tu,  descortese  e  sgrata,  avennole 
«  poco  grazia  de  tante  piacire,  l'aje  tenuta  a  la  cammara 
«  de  miezo,  senza  mostrarele  no  signo  schitto  d'ammore! 
«  Ferzo,  piglia  e  spienne;  scippane  chesto  e  torna  pe  lo 
«  riesto.  Tu  ne  cauze  buono  de  la  costiune^"!  Vide  che 
«  faccia  ne  puorte,  vide  a  che  termene  si  arreddotta  pe 
«  la  sgratetutene  toja,  che,  pe  la  mardezzione  de  la  fata, 


3'  Lanciò,  gettò.      ^5  y.  n.  ii,  p.  6. 

^8  Tasso,  Gerusalemriie  Liberata,  XVI,  2931. 

•*^  T'è  riuscita  bene,  la  cosa! 


112  LO   CUNTO   DE   LI    Cl'NTI 

«  aje  non  sulo  mutato  faccio,  ma  stato  perzi!  Ma,  si  vuoi 
«  fare  a  muodo  de  sta  varva  janca,  trase  a  trovai-e  la 
«  fata,  jèttate  a  li  piede  suoje,  sciccate  sse  zervole,  ra- 
«  scagnate  ssa  faccie,  pisate  sso  pietto,  e  cercale  perdo- 
«  nanza  de  lo  male  termeno,  che  l'aje  mostrato;  ca  essa, 
«  eli' è  de  permone  tenneriello,  se  moverrà  a  compas- 
«  sejone  de  le  male  sciagure  toje  ».  Renzolla,  che  se 
sentette  toccare  li  tasto  e  dare  a  lo  cliiovo,  fece  a  bierzo 
de  lo  viocchio,  E  la  fata,  abbracciannola  e  vasannola,  la 
fece  tornare  a  la  forma  de  mprimma.  E,  puostole  no  ve- 
stito carreco  d'oro  drinto  na  carrozza  spantosa,  accompa- 
gnata da  na  mmorra  de  serveture,  la  pòrtaje  a  lo  re.  Lo 
quale,  vedennola  cossi  bella  e  sforgiosa,  la  pigliaje  a  caro 
quanto  la  vita,  dannose  le  punia  mpietto  de  quanto  stra- 
zio l'aveva  fatto  a  patere,  e  scusannose  ca,  pe  chella  mar- 
detta  faccie  de  crapa,  l'aveva  tenuta  justa  li  bene^**.  Cossi 
Benzolla  stette  contenta,  amanno  lo  marito,  onoranno  la 
fata  e  mostrannose  grata  a  lo  yiecchio,  avenno  canosciuto 
a  propie  spese: 

Ca  jovaje  soiipre  l'essere  cortese. 


38  (EO)  jnstali  bene.  —  Int.:  presso  le  emorroidi,  il  deretano. 


LA  CERVA  FATATA 


Teattenemiento  nono  de  la  Joenata  peimma. 


Nasceno  pe  fatazione  Fonzo  e  Ganneloro.  Ganneloro  è  nmidiato  da 
la  regina,  mamma  de  Fonzo,  e  le  rompe  la  fronte.  Ganneloro 
se  parte,  e,  deventato  re,  passa  no  gran  pericolo.  Funzo,  pe  ver- 
tute de  na  fontana  e  de  na  mortella,  sa  li  travaglie  suoje,  e  vace 
a  liberarlo. 


O tetterò  canna  aperta  a  sentire  lo  bellissemo  cunto 
de  Paola,  e  concrusero  tutte,  ca  l'umele  è  corame  la  palla, 
che,  quanto  chiù  se  sbatte  nterra,  chiù  sauta,  e  comme 
a  lo  caperrone,  che,  quanto  chiù  se  tira  arroto,  chiù  forte 
tozza.  Ma,  fatto  signo  Tadeo  a  Ciommetella  che  secotasse 
la  robrica,  cossi  mettette  la  lengua  nvota. 

E  granne  senza  dubbio  la  forza  de  l'amecizia,  e  ce 
fa  tenere  le  fatiche  e  li  pericolo^  sotto  coscia  pe  servizio 
de  l'ammico:  la  robba  se  stimma  na  pagliosca,  lo  nore 
na  cufece,  la  vita  na  zubba-,  dove  se  pozza  spennerò  pe 
jovare  l'ammico,  comme  ne  sbombano ^  le  favole,  ne  so 
chiene  le  storie,  ed  io,  oje,  ve  ne  darraggio  no  nziem- 
pro,  che  me  soleva  contare  vava  Semmonella  (ch'aggia 
recola!),  si,  pe  daremo  no  poco  d'audienzia,  chiuderrite 
la  vocca  ed  allongarrite  l'aurecchie. 


1  (EO)  gli  pericole. 

2  Pagliosca,  cufece,  zubba,  tre  espressioni  per  dire:  niente. 

3  (ES)  Sbroìnmano. 


114  LO   CUNTO  DE  LI  CIINTI 

Era  na  vota  no  cierto  re  de  Longapergola,  chiammato 
Jannone;  lo  quale,  avenno  gran  desederio  de  avere  figlie, 
faceva   pregare    sempre  li  dei,  che  facessero  ntorzare  la 
panza  a  la  mogliere;  e,  perchè  se  movessero  a  darele  sto 
contiento,   era    tanto    caritativo   de   li  pellegrine,  che  le 
dava  pe  fi  a  le  visole.  Ma,  vedenno,  all'utemo,  che  le  cose 
jevano  a  luongo,  e  non  c'era  termene  de  ncriare  na  spor- 
chia,  serraje  la  porta  a  martiello,  e  tirava  de  valestra  a 
chi  nce  accostava.    Pe  la  quale    cosa,  passanno   no   gran 
varvante  *   da   chella  terra,  e  non  sapenno  la  mutata  de 
registro  de  lo  re,  o  puro  sapennola  e  volennoce  remme- 
diare,  juto  a  trovare  Jannone,  lo  pregaje  a  darele  recietto 
ne  la  casa  soja.  Lo  quale,  co  na  cera  brosca  e  co  na  gronna 
terribele,  le  disse:  «  Si  n'aje  autra  cannela  de  chesta,  te 
«  puoi  corcare  a  la  scura!  Passaje  lo  tiempo,  che  Berta 
«  filava;  mo  hanno  apierto  l'uocchie  li  gattille;  non  c'è 
«  chiù  mamma,  mo  !  »  E,  demannanno  lo  viecchio  la  causa 
(le  sta  motazione,  respose  lo  re:  «  Io,  pe  desiderar  d'a- 
«.<  ver  figlie,  aggio  spiso  e  spaso  co    chi  jeva  e   chi  ve- 
«  neva,  e  jettato  la  robba  mia;    all'utemo,  avenno  visto 
«  ca  nce  perdeva  la  l'asa^,  aggio  levato  mano  ed  auzato 
«  lofierro  ».  «  Si  n'è  ped  autro,  —  leprecajo  chillo  viec- 
«  chio  — ,  quietate;  ca  te  la  faccio  scire  subeto  prena,  a 
«  pena  de  l'aurecchie!  »  «  Si  farraje  chesto,  —  disse  lo 
«  re  — ,  te  do  parola  darete  miezo  lo  regno  ».  E  chillo 
respose:  «  Ora  siente  buono:  si  la  vuoi  nzertare  a  piro, 
«  fa  pigliare  lo  core  de  no  drago  marino  e  fallo  cocinare 
*  «  da  na  zitella  zita;  la  quale,  a  l'adore  schitto  de  chella 
v<  pignata,  deventarrà  essa  perzi  co  la  panza  ntorzata;  e, 
«  cuotto  che  sarrà  sto  core,  dallo  a  manciare  a  la  regina, 
«  che  vedarrai  subbeto  che  scirrà*'  prena,  comme  si  fosso 
«  do  nove  mise  ».  «  Comme  pò  essere  sta  cosa?,  —  ro- 


•*  Sapiente,  dottore. 

5  La  Larba,  rasa  a  posta:  l'apparecchio  fatlo.      *»  Uscirà. 


JOBNATA   I.   TRATTENEMIENTO   IX.  IT5 

«  pigliaje  lo  re  — ;  me  pare,  pe  te  la  dicere,  assaje  dura 
«  a  gliottere!  »  «  No  te  maravigliare,  —  disse  lo  viec- 
«  chio  — ,  ca,   si  lieje  le  favole,  truove,  che  a  Gionone, 
«  passanno  pe  li  campe  olane  sopra  no  shiore,  l'abbottaje 
«  la  panza  e  figliale''».  «  Si  è  cossi,  —  tornaje  a  dicere 
«  lo  re  — ,  che  se  trove  a  sta  medesema  pedata  sto  core 
«  de  dragone!  All'utemo,  no  nce  perdo  niente!  »  E  cossi, 
mannato  ciento  pescature  a  maro,  apararo  tante  spedirne, 
chiusarane,  parangrafe,  buole,  nasse,  lenza  e  felacciune  ^  ; 
e  tanto  se  votaje  e  giraje,  fioche  se  pigliaje  no  dragone  ; 
e,  cacciatole  lo  core,  lo  portare  a  lo  re.  Lo  quale  lo  dette 
a  cocinare  a  na  bella  dammecella.  La  quale,  serratose  a 
na  cammara,  non  cossi  priesto  mese  a  lo  fuoco  lo  core  e 
saette  lo  fummo    de  lo  vullo^,  che    non    sulo    sta    bella 
coca  deventaje  prena,  che  tutte  li  mobele  de  la  casa  ntor- 
zaro.  E,  ncapo  de  poche  juorne,  figliattero;  tanto  che  la 
travacca  ^^   fece  no   lettecciulo,   lo   forziere   fece  no  scri- 
gnetiello,  le  seggio  facettero  seggiolelle,  la  tavola  no  ta- 
volino, e  lo  cantaro  fece  no  cantariello  mpetenato,  accossi 
bello,  ch'era  no  sapore!  Ma,  cuotto  che  fu  lo  core,  e  as- 
saporato a  pena    da   la  regina,  se  sentette    abbottare  la 
panza;  e,  fra    quattro   juorne,  tutto  a  no    tiempo    co    la 
dammecella,  fecero  no  bello  mascolone  ped  una,  cossi  spic- 
cecate    l'uno    all'autro,  che  non   se   canosceva  chisto  da 


'^  «  Quod  petis  Oleniis,  —  inquam  — ,  mihi  missus  ab  arvis  Flos 
dabit.  est  hortis  unicus  ille  meis.  Qui  dabat:  —  Hoc,  —  dixit  — , 
sterilem  quoque  tange  juvencam,  Mater  erit.  —  Tetigi,  nec  mora, 
mater  erit — .  Protinus  haerentem  decerpsì  pollice  florem:  Tangitur, 
et  tacto  concipit  illa  sinu  »  (Ovid.,  Fastorum,  recog.  R.  Merkelii, 
Lipsiae,  MDGGCLXII;  V,  229  e  sgg.).  Gfr,  Liebr.,  Awm.,  I,  402. 

8  (ES)  palangrese.  —  Il  Capaccio  nomina:  «  tanti  instrumenti  da 
pigliar  pesci....  e  reti  e  sciabiche  e  palangrisi  »  (For.,  p.  937).  Il  Del 
Tufo:  «  e  nasse  e  paste  e  reti  I  palancri,  la  sciaveclie  e  spedoni  » 
(■ma.  e,  f.  69),  Suolo  o  vuole,  retata:  efr.  Gal.  in  VJy. 

9  Ebollizione.      ^'^  Padiglione  di  letto. 


Il6  LO   CUNTO  DE  LI   CUNTI 

chillo.  Li  quale  se  crescettero  nziemme  co  tanto  ammore, 
che  non  se  sapevano  spartere  punto  fra  loro  ;  ed  era  cossi 
sbisciolato  lo  bene,  che  se  portavano,  che  la  regina  com- 
menzaje  ad  averene  quarche  nmidia,  pecca  lo  figlio  mostra- 
va chiù  affezzione  a  lo  figlio  de  na  vajassa  soja,  eh' a  se 
stessa,  e  non  sapeva  de  che  muode  levarese  sto  spruoc- 
colo  dall' uocchie.  Ora,  no  juorno,  volenno  lo  prencepe  ire 
a  caccia  co  lo  compagno  sujo,  fece  allommare  fuoco  a  na 
cemmenera  drinto  la  cammara  soja;  e  commenzaje  a  squa- 
gliare lo  chiummo  pe  fare  pallottine.  E,  mancannole  non 
saccio  che  cosa,  jette  de  perzona  a  trovarela.  E,  fra  sto 
miezo,  arrivanno  la  regina  pe  vedere  che  facesse  lo  figlio, 
e  trovatoce  sulo  Canneloro,  lo  figlio  de  la  dammecella, 
penzanno  de  levarelo  da  sto  munno,  le  dette  co  na  pal- 
lottera  nfocata  verzo  la  faccie.  Pe  la  quale  cosa,  vascian- 
nose,  le  cogliette  sopra  no  ciglio,  e  le  fece  no  male  ntacco. 
E  già  voleva  asseconnare  l'autro,  quanno  arrevaje  Fonzo 
lo  figlio.  Ed  essa,  fegnendo  essere  venuta  a  vedere  com- 
me  steva,  dapò  quatto  carizzielle  nsipete,  se  ne  jette. 
E  Canneloro,  carcatose  no  cappiello  nfronte,  non  fece  ad- 
donare  Fonzo  de  lo  chiajeto,  e  stette  saudo  saudo,  si  be 
se  sentette  friere  da  lo  dolore.  E,  comme  appe  fornuto 
de  fare  palle  comm' a  scarafone*',  cercaje  licienza  a  lo 
prencepe  de  ire  fere.  E,  restanno  maravegliato  Fonzo  de 
sta  nova  deliberazione,  le  demannaje  la  causa.  Lo  quale 
respose:  «  Non  cercare  antro,  Fonzo  mio;  vasta  sapere 
«  schitto  ca  so  sforzato  a  partire;  e  lo  cielo  sa,  si,.par- 
«  tenno  da  te,  che  sì  lo  core  mio,  fa  sparte-casatiello  l'ar- 
«  ma  da  sto  pietto,  lo  spireto  fa  sia  voca  da  lo  cuorpo, 
«  e  lo  sango  fa  marco  sfila  *^  da  le  vene.  Ma,  pocca  non 
«  se  pò  fare  antro,  covernamette  ^^,  e  tieneme  a  memo- 


*^  Quelle  pallottole,  che  formano  gli  scarafaggi  in  campagna. 
i2  Fugge.  Sull'origine  della  frase,  v.  un'ipotesi,  che  a  me  sembra 
poco  verisimile,  del  Galiani,  in   yiV,      13  Sta  sano. 


JORNATA  I.   TEATTENEMIENTO   IX.  Il7 

«  ria!  »  Cossi,  abbracciatose  e  trivolianno,  s'abbiaje  Can- 
neloro  a  la  cammara  soja;  dove,  pigliatose  n'armatura  e 
na  spata,  ch'era  figliata  da  n'autra  arma,  a  tiempo,  che 
se  coceva  lo  core,  ed  armatose  tutto,  se  pigliaje  no  ca- 
vallo da  la  stalla.  E  tanno  voleva  mettere  lo  pede  a  la 
staffa,  quanno  l'arrivai  Fonzo  chiagnenno,  dicennole  eh' a 
lo  manco,  pecca  lo  voleva  abbannonare,  le  lassasse  al- 
cuno signale  de  l' ammore  sujo,  azzò  potesse  smesare 
l'affanno  de  l'assenzia  soja.  A  le  quale  parole  Canne- 
loro,  caccianno  mano  a  lo  pognale,  lo  mpizzaje  nterra,  e, 
scintane  na  bella  fontana,  disse  a  lo  prencepe:  «  Che- 
«  sta  è  la  meglio  memoria,  che  te  pozzo  lassare;  pocca, 
«  a  lo  correre  de  sta  fontana,  saperrai  lo  curzo  de  la 
«  vita  mia.  Che,  se  la  vederraje  scorrere  chiara,  sacce 
<-  ca  starraggio  cossi  chiaro  e  tranquillo  de  stato;  se  la 
«  vederraje  trovola,  màgenate  ca  passarraggio  travaglio; 
«  e,  si  la  troverrai  secca  (non  voglia  lo  cielo!),  fa  cunto 
«  ca  sarrà  fomuto  l'uoglio  de  la  cannela  mia,  e  sarrag- 
«  gio  arrivato  a  la  gabbella,  che  tocca  a  la  natura  ».  E, 
ditto  chesto,  mese  mano  a  la  spata,  e,  danno  na  mbroc- 
cata  nterra,  fece  nascere  no  pede  de  mortella,  decenno: 
«  Sempre  che  la  vide  verde,  sacce  ca  sto  verde  comm'a- 
«  glie;  se  la  vide  moscia ^^,  penza  ca  non  vanno  troppo 
«  ncriccate^^  le  fortune  meje;  e,  si  deventarrà  secca  a- 
«  fatto,  puoi  dire  pe  Canneloro  tujo  :  requie,  scarpe  e 
«  zuoccole^'^!  »  E,  ditto  chesto,  abbracciatose  de  nuovo, 
se  partette.  E,  camminato  camminato,  dapò  varie  *"  cose, 
che  l'accadettero,  che  sarria  luongo  a  raccontare,  comme 
contraste  de  vettorine,  mbroglie  de  tavernare,  assassina- 
miente  de  gabellote,  pericole  de  male  passe,  cacavesse*^ 


i-i  Floscia. 

i5  Erette.      ^^  Cioè:  Requiem  aeternam  in  saecula  saeculorum. 

^~  (EO)  varij.      ^^  Paure. 


Il8  LO  CTJNTO  DE  LI  CTJNTI 

de  mari  vuole  ^^,   all'utemo,  arrevaje  a  Longapergola,   a 
tiempo   clie  se  faceva  na  bellissema  josta,  e  se  promet- 
teva la  figlia   de  lo  re  a  lo   mantenetore.   Dove,  presen- 
tantose  Canneloro,  se  portaje    cossi  bravamente,   che  ne 
frusciaje   tutte    li    caaliere,  venute    da    deverze   parte  a 
guadagnarese  nomme.    Pe  la  quale  cosa,  le  fu  data  Fe- 
nizia,  la  figlia  de  lo  re,  pe  mogliere,  e  se  fece  na  festa 
granne.  Ed,  essenno  state  pe  quarche  mese  nsanta  pace, 
venne    n'omore    malenconeco  a  Canneloro   de  ire   a  cac- 
cia.  E,  decenno   sta  cosa  a  lo  re,  le  fu  ditto  :  «  Guarda 
«  la  gamma,  jènnaro  mio!;  vi    che  non  te  cecasse  para- 
«  sacco  ^''I,  sta  ncellevriello!,  apre  l'usce,  messere  ^M;  ca  pe 
«  ssi  vuosche  ne' è  n'uerco  de  lo  diantane;  lo  quale  ogne 
«  juorno    cagna    forma,  mo   comparenno  da  lupo,  mo  da 
«  lione,  mo  da  ciervo,   mo   d'aseno,  e  mo  da  na  cosa,  e 
«  mo  da  n'autra;  e,  co  mille  stratagemme,  carreja  li  po- 
«  verielle,  che  noe  nmatteno,  a  na  grotta,  dove  se  le  can- 
«  nareja.  Perzò  non  mettere,  figlio  mio,  la  sanetate  nco- 
«  stiune,  ca  nce  lasse  li  straccie!  »  Canneloro,  chVveva 
lassato  la  paura  ncuorpo  a  la  mamma,  non  curanno  li  con- 
siglio de  lo  ciuccerò--,  non  cossi  priesto  lo  sole  co  la  scopa 
de  vrusco"  de  li  ragge  annettaje  le  folinie  de  la  notte, 
jette  a  la  caccia.  Ed,  arrivato  a  no  vosco  ^',  dove,  sotto  la 
pennata--'  de  le  fronne,  se  congregavano  l'ombre  a  fare 
monipolio   ed  a  confarfarese   centra  lo   sole,    l'uerco,  ve- 
dendolo venire,  se  trasformaje  a  na  bella  cerva.  La  quale 
Canneloro,  comme  la  vedde,  commenzaje  a  darele  caccia; 
e,  tanto  la  cerva  lo  traccheggiaje,  e  strabbauzaje  da  luoco 
a  luoco,  che  l'arredusse  a  lo  core  de  lo  vosco,  dove  fece 


li>  Tutti  gli  accidenti  ordinarii  dei  viaggi  di  quel  tempo. 
20  V.  n.  45,  p.  9      21  Apri  gli  occhi!       22  (es)  suogro. 
23  (EO)  vtisco  —  Fatto  di  ramoscelli  di  bruscoli.      21  (eO)  rritsco. 
25  Tettoie  sporgenti   in   fuori;  solite   in   quei  tempi  specialmente 
sulle  botteghe,  come  una  specie  di  tende. 


JOENATA   I.   TRATTENEMIENTO   IX.  II9 

venire  tanta  chioppeta  e  tanta  neve,  che  pareva  che  lo 
cielo  cadesse.  E,  trovatose  Canneloro  nante  la  grotta  de 
l'uerco,  trasette  drinto  pe  sarvarese.  Ed,  essenno  aggran- 
oato  de  lo  friddo,  pigliaje  certe  legna,  trovate  là  drinto; 
e,  cacciatose  da  la  saccocciola  lo  focile,  allommaje  no  gran 
focarone.  E,  stannose  a  scarfare  ^"^  e  sciugare  li  panne,  se 
fece  a  la  vocca  de  la  grotta  la  cerva,  e  disse:  «  0  si- 
«  gnore  caaliero,  damme  licienzia,  ch'io  me  pozza  sca- 
«  glientare^"  no  pocorillo,  ca  so  ntesecata^^  de  lo  friddo!  » 
Canneloro,  ch'era  cortese,  disse:  «  Nzèccate^^,  che  sin- 
«  ghe  lo  benvenuto!  »  «  Io  vengo,  —  respose  la  cerva  — , 
«  ma  aggio  paura,  ca  pò  m'accide!  »  «  Non  dubitare,  — 
«  leprecaje  Canneloro  — ,  viene  sopra  la  parola  mia!  » 
«  Si  vuoje  che  benga,  —  tornaje  a  dicere  la  cerva  — , 
«  lega  sti  cane,  che  non  me  facciano  dispiacere,  ed  attacca 
«  sso  cavallo,  che  non  me  dia  de  canee  ».  E  Canneloro 
legaje  li  cane,  mpastoraje  lo  cavallo.  E  la  cerva  disse: 
«;  Sì,  mo  so  meza  assecorata;  ma,  si  non  lighe  la  sferra, 
«  io  non  ce  traso,  pe  l'arma  de  vavo!  »  E  Canneloro, 
eh'  aveva  gusto  addomestecarese  co  la  cerva,  legaje  la 
spata,  comme  a  parzonaro,  quanno  la  porta  drinto  la  ce- 
tate,  pe  paura  de  li  sbirre ^'*.  E  l'uerco,  commo  vedde 
Canneloro  senza  defesa,  pigliaje  la  forma  propia.  E,  da- 
tole de  mano,  lo  calaje  drinto  na  fossa,  ch'era  nfunno  a 
la  grotta,  e  lo  commegliaje^^  co  na  preta,  pe  magnare- 
sillo.  Ma  Eonzo,  che  matina  e  sera  faceva  la  visita  a  la 
mortella  ed  a  la  fontana,  pe  sapere  nova  de  lo  stato  de 


26  Riscaldare.      27  Riscaldare.      -^  Intirizzita.      29  Accostati. 

3f  In  una  pramm.  del  18  maggio  1573  si  ordina  che  quelli,  die 
dalla  campagna  entravano  nella  città,  dovessero  portare  gli  schioppi 
scarichi  (Coli,  cit.,  VII,  tit.  XXV,  De  Armis,  13).  Una  disposizione 
analoga  doveva  esser  quella  qui  accennata  dal  N.  Ma  non  ho  potuto 
trovarne  notizia  precisa  in  quella  novantina  di  prammatiche,  che 
concernono  il  porto  d'armi.      3i  copri. 


I20  LO  CUNTO  DE  LI  CUNTI 

Canneloro,  trovato  l'una  moscia  e  l'autra  trovola,  sub- 
beto  penzaje  che  passava  travaglie  lo  cardascio  sujo^'! 
E,  desederuso  de  darele  soccurzo,  senza  cercare  lecienzia 
a  lo  patre,  né  a  la  mamma,  se  mese  a  cavallo;  ed,  arma- 
tose  buono,  co  duje  cane  fatate,  s'abbiaje  pe  lo  munno, 
E,  tanto  giraje  e  ntorniaje  da  chesta  e  da  chella  parte, 
che  arrivaje  a  Longapergola.  La  quale  trovaje  tutta  apa- 
rata de  lutto  pe  la  creduta  morte  de  Canneloro;  e,  non 
tanto  priesto  fu  arrivato  a  la  corte,  che,  ognuno  credenno 
che  fosse  Canneloro,  pe  la  someglianza  ch'aveva  cod  isso, 
corzero  a  cercare  lo  veveraggio  a  Eenizia;  che,  scapizzan- 
nose  pe  le  scale  a  bascio,  abbracciaje  Ponzo,  dicenno: 
«  Marito  mio,  core  mio,  e  dove  si  stato  tanta  juorne?  » 
Ponzo  de  sta  cosa  trasette  subbeto  a  malizia,  eh' a  sta 
terra  fosse  venuto  Canneloro,  e  se  ne  fosse  partuto,  e 
fece  penziero  d'esammenare  destramente,  pe  pigliare 
nsermone  la  prencepessa,  dove  se  potesse  trovare.  E, 
sentenno  dire  ca,  «  pe  sta  mardetta  caccia,  s'era  puosto  a 
troppo  pericolo,  e  massema  si  lo  trovava  l'uerco,  lo  quale 
è  tanto  crudele  co  l'uommene  »,  fece  subbeto  la  massema, 
che  lloco  fosse  dato  de  pietto  l'ammico  sujo.  E,  semmo- 
lato  sto  negozio,  la  notte  se  jeze  a  corcare.  Ma,  fegnenno 
avere  fatto  vuto  a  Diana  de  non  toccare  la  mogliere  la 
notte,  mese  la  spata  arrancata,  commo  staccione^^,  nmiezo 
ad  isso  ed  a  Penizia,  e  non  vedde  l'ora  la  matina,  che 
scesse  lo  sole  a  dare  li  pinole  naurate^'  a  lo  cielo,  pe 
farele  vacoare  l'ombra.  Perchè,  sosutose  da  lo  lietto,  non 
potennolo  retenere  nò  prieghe  de  Penizia,  né  comman- 
namiento   de   lo  re,  voze  ire  a  caccia.  E,  puostose  a  ca- 


32  Amico  strettissimo,  come  fratello.  Cfr.  riV.      ^^  V.  p.  loi. 

3»  Immagini  farmaceutiche.  Il  Garzoni,  discorrendo  «  de' speciari 
overo  aromatari!  »,  cita  le  «  tante  sorte  di  pillole,  come  di  agarico, 
di  hermodattili,  di  euforbio,  di  eupatorio,  pillole  auree,  pillole  di 
lucis,  ecc.  »  (o.  e,  p.  664), 


JORNATA  I.   TRATTKNEMIENTO  IX.  121 

vallo  CO  li  cane  fatate,  jette  a  lo  vosco;  dove,  soccedutole 
lo  stisso,  ch'era  socciesso  a  Canneloro,  e  trasuto  a  la  grotta, 
vedde  l'arme  de  Canneloro,  li  cane  e  lo  cavallo  legate, 
pe  la  quale  cosa  tenne  pe  cierto,  che  lloco  fosse  ncap- 
pato  l'ammico.  E,  decennole  la  cerva,  che  avesse  legato 
Tarme,  cane  e  cavallo,  isso  nce  l,e  nterretaje^-'  adduosso, 
che  ne  fecero  petaccie.  E,  cercanno  quarche  autra  notizia 
de  l'ammico,  ntese  gualiare  abascio  lo  fuosso;  ed,  au- 
zato  la  preta,  ne  cacciaje  Canneloro  co  tutte  l'autre,  che, 
pe  ngrassare,  tenea  atterrate  vive.  Ed,  abbracciatose  co 
na  festa  granne,  jettero  a  la  casa,  dove  Fenizia,  vedenno 
sti  dui  simele,  non  sapeva  scegliere  fra  lloro  lo  marito 
sujo.  Ma,  auzato  lo  cappiello  de  Canneloro,  vedde  la  fe- 
ruta, e,  canoscennolo,  l' abbracciale.  E,  dapò  essere  stato 
no  mese  Fonzo,  piglianuose  spasso,  a  chillo  pajese,  voze 
l'epatriare  e  tornare  a  lo  nido  sujo.  Pe  miezo  de  lo  quale, 
scrisse  Canneloro  a  la  mamma,  che  venesse  a  partecepiare 
de  le  grannizze  soje,  comme  facette;  e,  dall'ora  nante, 
non  voze  sapere  né  de  cane,  né  de  caccia,  arrecordannose 
de  chella  sentenzia: 

Ammaro  chi  a  soe  spese  se  castica! 


33  Adizzò. 


LA  VECCHIA   SCORTECATA 


Teattestemiento  decemo  de  la  Jornata  primma. 

Lo  re  de  Roccaforte  se  nnamraora  de  la  voce  de  na  veccbia.  E,  gab- 
bato da  no  dito  rezocato^  la  fa  dormire  cod  isso.  Ma,  addonatose 
de  le  rechieppe2,  la  fa  iettare  pe  na  fenestra.  E,  restanno  appesa 
a  n'arvolo,  è  fatata  da  sette  fate,  e,  deventala  na  bellisseiua  gio- 
vane, lo  re  se  la  piglia  pe  mogliere.  Ma  l'autra  sore,  nmediosa  de 
la  fortuna  sojn,  pe  farese  bella,  se  fa  scortecare,  e  more. 

INo  nce  fa  perzona  a  chi  n'avesse  piaciuto  lo  cunto 
fio  Ciommetella,  ed  appero  no  gusto  a  doi  sole,  vedenno 
liberato  Canneloro  e  casticato  l'uerco,  che  faceva  tanto 
streverio  de  li  povere  cacciature.  E,  ntimato  l'ordene  a 
lacova,  che  sejellasse  co  l'arme  soje  sta  lettera  de  trat- 
tenemiento,  essa  cossi  trascorze. 

Lo  marditto  vizio,  ncrastato  co  nui  autre  femmene,  de 
parere  belle,  nce  reduce  a  termene  tale,  che,  pe  nnaurare 
la  cornice  de  la  fronte,  guastano  lo  quatro  de  la  faccie; 
pe  janchejare  le  pellecchie  de  la  carne,  roinano  l'ossa  de 
li  diente;  e,  pe  dare  luce  a  li  membre,  copreno  d'om- 
bre la  vista,  che,  nanze  l'ora  de  dare  tributo  a  lo  tiem- 
po,  l'apparecchiano  scazzimmo^  all' nocchie,  crespe  a  la 
facce  e  defletto  a  le  mole.  Ma,  se  merita  biasemo  na 
giovanella,  che,  troppo  vana,  se  dace  a  sso  vacantarie ', 


1  Succhialo.      2  Grinze.      ^  Cispe.      '  Vanità. 


.TORNATA  T.   TRATTEXEMIEXTO  X.  123 

quanto  è  chiù  degna  de  castico  na  vecchia,  che,  volenno 
competere  co  le  figliole,  se  causa  l'allacco  de  la  gente, 
la  mina  de  se  stessa;  comme  so  pe  contareve,  se  me 
darrite  no  tantillo  d'aurecchie. 

S'erano  raccorete^  drinto  a  no  giardino,  dove  avea  l'af- 
facciata lo  re  de  Roccaforte,  doi  vecchiarelle,  ch'erano 
lo  reassunto  de  le  desgrazie,  lo  protacuollo  de  li  scurce", 
lo  libro  maggiore  de  la  bruttezza.  Le  quale  avevano  le 
zervole  scigliate  e  ngrifate',  la  fronte  ncrespata  e  vro- 
gnolosa,  le  ciglia  storcigliate  e  restolose^,  le  parpetole 
chiantute^  ed  a  pennericolo,  l' nocchie  guize  e  scarcagnate, 
la  faccio  gialloteca  ed  arrappata  ^*^,  la  vocca  squacquarata  '  ^ 
e  storcellata,  e,  usomma,  la  varva^^  d'annecchia,  lo  pietto 
peluso,  le  spalle  co  la  contrapanzetta^^,  le  braccia  arron- 
chiate,  le  gamme  sciancate  e  scioffate^^,  e  li  piede  a 
crocco  ^^.  Pe  la  quale  cosa,  azzò  no  le  vedesse  manco  lo 
sole,  co  chella  brutta  caira,  se  ne  stevano  ncaforchiate 
drinto  no  vascio  ^'^  sotto  le  fenestre  de  chillo  segnore.  Lo 
quale  era  arredutto  a  termene,  che  non  poteva  fare  no 
pideto  senza  dare  a  lo  naso  de  ste  brutte  gliannole^', 
che  d'ogne  poco  cosa  mbrosoliavano  e  le  pigliava  lo  to- 
tano ^^;  mo  decenno  ca  no  gesommino,  cascato  da  coppa, 
l'aveva  mbrognolato  lo  caruso,  mo  ca  na  lettera  strac- 
ciata l'aveva  ntontolato  na  spalla,  mo  ca  no  poco  de  por- 
vere  r  aveva  ammatontato  '■^  na  coscia.  Tanto  che,  sen- 
tenno  sto  scassone  de  dellecatezza,  lo  re  facette  argo- 
miento,  che,  sotto  ad  isso,  fosse  la  quintascienza  de  le 
cose  cenede,  lo  primmo  taglio  de  le  carnumme  mellese 
e  l'accoppatura^'^  de  le   tennerumme.    Pe   la  qualemente 


5  (ES)  racoifte.      ^  Mostruosità.      '  Irte.      8  spinose.      ^  Grosse. 
10  Grinzosa.      ^^  Allargata.      12  (eo)  varvea.      ^3  Gobba. 
1'  Zoppe  e  deboli.      ^5  a  uncino. 

i''  Basso:  abitazione  a  pian  terreno.      ^"^  Glandule;  cancheri. 
18  Parlantina,  brontolìo.      ^^  Contuso.      20  y\ov  fiore. 


124  LO    CUXTO  DE  LI   CUNTI 

cosa,  le  venne  golio  dall'ossa  pezzelle  e  voglia  da  le  ca- 
tamelle"^^  de  l'ossa  de  vedere  sto  spanto  e  chiarirese  de 
sto  fatto,  E  commenzaje  a  jettare  sospiro  da  coppa  a  ba- 
scio,  a  rascare*'^  senza  catarro,  e,  finalemente,  a  parlare 
chiù  spedito  e  fora  de  diente,  decenno:  «  Dove,  dove 
«  te  nascunne,  giojello,  sfuorgio,  isce  bello  de  lo  munno? 
«  Jesce  jesce,  sole,  scaglienta,  mparatore^'M  Scuopre  sse 
«  belle  grazie,  mostra  sse  locernelle  de  la  poteca  d'am- 
«  more,  caccia  ssa  catarozzola,  banco  accorzato^'  de  li  con- 
«  tante  de  la  bellezza!,  non  essere  accessi  scarzogna  de 
«  la  vista  toja!,  apre  le  porte  a  povero  farcene^-'!,  famme 
«  la  nferta,  si  me  la  vuoi  fare^''!,  lassarne  vedere  lo  stro- 
«  miento,  da  dove  esce  ssa  bella  voce  !,  fa  che  vea  la  cam- 
«  pana,  da  la  quale  se  forma  lo  ntinno^"!,  famme  pigliare 
«  na  vista  de  ss'  auciello  !,  non  consentire,  che,  pecora  de 
«  Ponto  *^,  me  pasca  de  nascienzo'^,  co  negareme  lo  mi- 
"  rare  e  contemprare  ssa  bellozzetudene  cosa!  »  Cheste 
ed  autre  parole  deceva  lo  re;  ma  poteva  sonare  a  grolia, 
cà  le  vecchie  avevano  ntompagnato  l'aurecchie;  la  quale 
cosa  refonneva  legne  a  lo  fuoco,  E  lo  re,  che  se  senteva, 


21  Midolle.      22  Spurgarsi. 

23  Canzone,  per  la  quale  v.  prine.  G,  IV,  Il  Serio  dice  che  «  se  canta 
ila  li  peccerille  senza  abballo,  quanno  è  male  tiempo  e  l'aria  sta  ntro- 
volata  »  (Lo  rernacohio,  Nap.,  1780,  pp.  48-9),  Gfr,  Imbriani  e  Casetti. 
Canti  popol.  della  prov.  merid.  (Torino,  1871-2;  II,  194-7), 

2»  Che  ha  molto  concorso.       23  Giuoco,  pel  quale  v.  princ.  G,  II. 

2"  Il  Del  Tufo,  parlando  del  capodanno,  dice  che  in  quella  «  notte 
senti  mille  spassi  e  contenti,  Come  molti  cantare:  Fance  la  nferla 
se  nce  la  vnoi  farei,  Sentendo  a  tutte  l'ore:  Fance.  la  nferta  e  fan- 
la  de  bon  core,  Che  lìozzl  fa  nu  flolio  mperatore!  Gli  altri  puttin 
con  voce  dolce  e  lieta:  Mittete  mano  a  la  vorza  de  seta.  Che  te  ce 
pozza  crescer  la  moneta!  »  {ms.  e,  f.  86).  Cfr.  variante  in  Molinaro 
del  Chiaro  {GBD,  I,  4).      27  Tintinnìo,  rintocco. 

28  «  Absinthi  genera  plura....  Ponticum,  e  Ponto,  ubi  pecora  pin- 
guescunt  ilio,  et  ob  id  sine  felle  reperiuntur  »  (Plin.,  Hist.  nat. 
XXVII,  7).  cfk-,  Liebr.,  Anm.,  I,  403.      29  Assenzio. 


.TORNATA   I.    TRATTENEMIENTO    X.  125 

comm'a  fierro,  scaudare  ala  fornace  de  lo  desederio,  te- 
nere da  le  tenaglie  de  lo  penziero  e  martellare  da  lo 
maglio  de  lo  tormiento  amoruso,  pe  fare  na  chiave,  che 
potesse  aperire  la  cascettella  de  le  gioje,  che  lo  face- 
vano morire  sperato;  ma  non  pe  chesto  se  dette  a  reto 
ma  secotaje  a  mannare  suppreche,  ed  a  renforzare  as- 
saute,  senza  pigliare  mai  abiento  ^'^.  Tanto  che  le  vec- 
chie, che  s'erano  poste  ntuono  e  ngarzapellute  de  l'af- 
ferte  e  mprommesse  de  lo  re,  pigliattero  consiglio  de 
non  se  lassare  perdere  sta  accasione  de  ncappare  st'au- 
ciello,  che,  da  se  stisso,  se  veneva  a  schiaffare  drinto  a 
no  codavattolo.  Accessi,  quanno  no  juorno  lo  re  faceva 
da  coppa  la  fenestra  lo  sparpetuo,  le  dissero  da  la  ser- 
ratura de  la  porta  co  na  vocella  ncupo:  ca  lo  chiù  gran 
favore,  che  le  potevano  fare  fra  otto  juorne,  sarria  stato 
lo  mostrarele  schitto  no  dito  de  la  mano.  Lo  re,  che 
Gomme  sordato  pratteco,  sapeva,  ca  a  parmo  se  guada- 
gnano le  fortezze,  non  recosaje  sto  partito,  speranno  a  dito 
a  dito  de  guadagnare  sta  chiazza  forte,  che  teneva  asse- 
diata; sapenno  ancora  essere  mutto  antico:  «  piglia  ed  ad- 
demanna  ».  Perzò,  azzettato  sto  termene  perentorio  de 
l'ottavo  juorno,  pe  vedere  l'ottavo  miracolo  de  lo  munno, 
le  vecchie,  fra  tanto,  non  fecero  autro  sarzizio,  che,  com- 
m'a  speziale,  che  ha  devacato  lo  sceruppo,  zucarese  le 
deta,  co  proposeto,  che,  junto  lo  termene  dato,  chi  de 
loro  avesse  lo  dito  chiù  liscio,  ne  facesse  mostra  a  lo  re. 
Lo  quale,  fra  chisto  miezo,  steva  a  la  corda,  aspettanno 
l'ora  appontata  pe  spontare  sto  desederio:  contava  li 
juorne,  nomerava  le  notte,  pesava  l' ore,  mesorava  li  mo- 
mento, notava  li  punte,  e  scanagliava^^  l' atome,  che  l'e- 
rano date  pe  staglio  a  l'aspettativa  de  lo  bene  desede- 
rato;  mo  preganno  lo  sole,  che  facesse  quarche  scortatora 
pe  li  campe  celeste,  azzò,  avanzanno  cammino,  arrivasse 


30  Riposo.      3i  Scandagliava. 


126  LO   CUNTO  DE  LI  CUNTI 

primmo  de  l'ora  osata  a  sciogliere  lo  carro  nfocato,  ed 
abbeverare  li  cavalle  stracque  de  tanto  viaggio.  Mo  scon- 
ciurava  la  notte,  che,  sparafonnanno  le  tenebre,  potesse 
vedere  la  luce,  che,  non  vista  ancora,  lo  faceva  stare 
drinto  la  carcarella  de  le  shiamme  d'ammore;  mo  se  la 
pigliava  co  lo  tiempo,  che,  pe  farele  despietto,  s'aveva 
puosto  le  stanfelle^-  e  le  scarpe  de  cbiummo,  azzò  non 
jognesse  priesto  l'ora  de  liquidare  lo  stromionto  a  la 
cosa  amata,  pe  sodesfarese  de  l'obrecanza  stipulata  fra 
loro.  Ma,  comme  voze  lo  sole  lione,  jonze  lo  tiempo,  e, 
juto  de  perzona  a  lo  gìar3Tno7Tdzzoraje  la  porta,  decen- 
no: «  Vienela,  vienela^^!  »  Dove  una  de  le  vecchie,  la 
chiù  carreca  d'anne^  visto  a  la  preta  de  lo  paragone  ca 
lo  dito  sujo  era  de  ^meglio  carata  de  chillo  de  la  sere, 
mpezzannolo  pe  lo  pertuso  de  la  serratura,  lo  mostraje 
a  lo  re.  Lo  quale  non  fu  dito,  ma  spruoccolo  appontuto, 
che  le  smafaraje^lp  cor©;*  .non'^TB''''gf^'5'òcolo,  ma  saglioc- 
cola  che  le  ntonaje  lo  caruso!  Ma,  che  dico  spruoccolo  e 
saglioccola?  Fu  zurfariello^'  allommato  pe  l'esca  de  le 
voglie  soje,  fu  miccio  infocato  pe  la  monezione  de  li  de- 
soderie  suoje.  Ma,  che  dico  spruoccolo,  sagliocca,  zorfa- 
riello  e  miccio?  Fu  spina"soiEtò"Ta~  coda  de  li 'pensiero 
Buoje,  anze  cura  de  fico  jejetèlle^^,  che  le  cacciàje  fora 
lo  irato  de  l'affetto  amoruso,  co  no  sfounerio  de  sospiro! 
E,  tenenno  mano^^  e  vasanno_chillo  dito,  che,  de  raspa ^' 
de  chTanellaro  ^^,  era  deventato  mbrunetura  de  nauratore'*'', 
commenzaje  a  dicere  :  «  0  arcuccio  de  le  docezze,  o  re- 
«  pertorio  de  le  gioje,  o  registro  do  li  privelegio  d'am- 
«  more!,  pe  la  quale  cosa  so  deventato  funnaco  d'affanno, 
«  magazzeno  d'angosce,  doana  de  tormiento!,  è  possibele, 


32  Grucce.      33  Giuoco,  pel  quale  v.  pr.  G.  II.      ^*  Solfanello. 

3^  V.  n.  6i,  p.  57.      36  cioè:  in  mano. 

37  Specie  di  lima.      38  Lavoratore  di  pianelle. 

39  Brunitoio,  che  è  d'acciaio  o  pietra  dura,  ma  sempre  mollo  liscio. 


JOENATA   I.  TEATTENEMIENTO  X.  127 

«  che  vuoglie  mostrarete  cossi  ncotenuta  e  tosta,  che  non 
«  t'aggie  da  movere  a  li  lamiente  mieje?  Deh,  core  mio 
«  bello,  s'hai  mostrato  pe  lo  pertuso  la  coda,  stienne  mo 
«  sso  musso,  e  facimmo  na  jelatina  de  contiente^"!,  s'hai 
«  mostrato  lo  canaolicchio  ",  0  maro  de  bellezza,  mo- 
«  strame  ancora  le  carnumme,  scuopreme  ss'uocchie  de 
«  farcone  pellegrino,  e  lassale  pascere  de  sto  core!  Chi 
«  sequestra  lo  tresoro  de  sta  bella  facce  drinto  no  caca- 
«  turo?,  chi  fa  fare  la  quarantana  a  ssa  bella  mercanzia 
«  drinto  a  no  cafuorchio?,  chi  tene  presone  la  potenzia 
«  d'ammore  drinto  a  sso  mantrullo  *'' ?  Levate  da  sso  fuos- 
«  so;  scapola  da  ssa  stalla;  jesce  da  sso  pertuso;  sauta, 
«  maruzza,  e  dà  la  mano  a  Cola^^,  e  spienneme  pe 
«  quanto  vaglio!  Sai  puro,  ca  songo  re,  e  non  so  quar- 
«  che  cetrullo,  e  pozzo  fare  e  sfare.  Ma  chillo  cecato 
«  fauzo,  figlio  de  no  sciancato  e  na  squaltrina'**,  lo  quale 
«  ha  libera  autoretate  sopra  li  scettre,  vole  che  io  te  sia 
«  suggeco'*^,  e  che  te  cerca  pe  grazia  chello,  che  porrla 
«  scervecchiarene  pe  proprio  arbitrio;  e  saccio  ancora, 
«  comme  disse  chillo,  ca  co  li  carizze,  non  co  le  sbra- 
«  viate,  se  ndorca^*'  Venere!  »  La  vecchia,  che  sapeva 
dove  lo  diascace  teneva  la  coda,  vorpa  mastra,  gattono 
viecchio,  trincata,  arci  va  "  ed  ecciacorvessa''*^,  pensanno 
ca  quanno  lo  soperiore  prega,  tanno  commanna,  e  che  la 
zerronaria^^  de  no  vassallo  move  l'omure  colereche  nolo 
cuorpo  de  lo  patrone,  che  pò  sbottano  a  besentierie  de  mi- 
ne, se  fece  a  correjere;  e,  co  na  vocella  de  gatta  scorte- 
cata,  disse:  «  Signore  mio,  posca  ve  ncrinate  de  sottomet- 


•i^  Bisticcio;  int. :  muso  di  porco,  che  si  prepara  in  gelatina. 

•*^  Sorta  di  pesce;  pesce  cannella.      ^  Carcere. 

*3  Frase  proverbiale.      4*  Amore,  figlio  di  Vulcano  e  Venere. 

*^  Soggetto.      '^^  Adesca.      *^  Astuta. 

■**  Ingannatrice.  Gfr.  Gort.:  «  L' ecciacuorvo  le  fece  n'autro  tratto  » 
(Viaggio  di  Pam.,  Ili,  22);  e  Sgrutt.  (0.  e,  G.  VII,  p.  181).  Spagn.:  echa- 
cuervos.      '9  Ostinazione. 


128  LO  CUNTO  DE  LI   CUNTI 

«  tere  a  chi  ve  stace  sotta,  degnannove  de  scennere  da  lo 
«  scettro  a  la  conocchia,  da  la  sala  rejale  a  na  stalla,  da  li 
<.<  sfuorge  a  le  pettole,  da  la  grannezza  a  le  miserie,  da 
«  l'astraco^'*  a  la  cantina,  e  da  lo  cavallo  all'aseno,  non 
«  pozzo,  non  devo,  né  voglio  leprecare  a  la  volontate 
«  de  no  re  cossi  granne;  perzò,  mentre  volite  fare  sta 
«  lega  de  prencepe  e  de  vajassa,  sta  ntrezziatura  d'a- 
«  volio  e  de  ligno  de  chiuppo,  sto  ncrasto  de  diamante 
«  e  de  vritille,  eccome  pronta  e  parata  a  le  voglie  vo- 
«  stre,  sopprecannove  scbitto  na  grazia  pe  primmo  signo 
«  dell'affrezzione,  che  me  portate  :  eh'  io  sia  recevuta  a  lo 
«  lietto  vuostro  de  notte  e  senza  cannela,  perchè  non 
«  me  sopporta  lo  core  d'essere  vista  nuda!  »  Lo  re,  tutto 
pampanianno  de  priejo,  le  juraje  co  na  mano  ncoppa  al- 
l'autra,  ca  l'avarria  fatto  de  bona  voglia.  Cossi,  tirato  no 
vaso  de  zuccaro  a  na  vocca  d'asa  feteda,  se  partette,  ne 
vedde  l'ora  che  lo  sole,  nsoperato  d'arare  li  campe  de  lo 
cielo,  azzò^^  fossero  semmenate  de  stelle,  pe  semmenare  lo 
campo  dove  aveva  fatto  designo  de  raccogliere  le  gioje  a 
commola  e  li  contiente  a  cantaro.  Ma,  venuta  la  notte,  che, 
vedennose  atuorno  tante  pescature  de  poteche  e  ferrajuo- 
le^-,  aveva  comm'a  seccia  ^^  jettato  lo  nigro,  la  vecchia, 
tiratose  tutte  le  rechieppe  de  la  perzona  e  fattone  no  re- 
chippo  dereto  le  spalle,  legato  stritto  co  no  capo  de  spao, 
se  ne  venne  a  la  scura,  portata  pe  mano  da  no  camma- 
riero,  drinto  la  camraara  de  lo  re.  Dove,  levatose  le  zan- 
draglie"'',  se  schiaffaje  drinto  a  lo  lietto.  Lo  re,  che  steva 
co  lo  miccio  a  la  serpentina,  commo  la  ntese  venire,  e 
corcare,  mbroscinatose  tutto  de  musco  e  zibetto,  e  sbaz- 
zariatose  tutto  d'acqua  d'adore,  se  lanzaje,  comm'a  cane 


50  Terrazza,  superiore  alle  case,      ^i  (eo)  Manca:  azzò 

52  Ladri.  «  Garbuglie  fanno   pe  nuje,  —  disse  cìilUo,  eh' adonava 

ferraiuole  »,  trovo   in   una   commedia  (L'innocenti  Golpati  di  G.  C. 

Sorrentino,  In  Napoli,  1683,  per  ile  Bonis,  I,  4).     53  seppia.      5i  cenci. 


JOENATA   I.   TEATTENEMIKNTO   X.  129 

corso,  drinto  a  lo  lietto.  E  fu  ventura  de  la  vecchia  che 
portasse  lo  re  tanto  sproffummo,  azzò  non  se  sentesse  lo 
shiauro  de  la  vocca  soj[a,  l'afeto  de  le  tetelleche'^  e  la 
mofeta  de  chella  brutta  cosa.  Ma,  non  fu  cosi  priesto  cor- 
cato, clie,  venuto  a  li  tasto,  s'accorze  a  lo  parpezzare  de 
lo  chiajeto  dereto,  adonannose  de  le  cajonze  secche,  e  de 
le  vessiche  mesce,  ch'erano  dereto  la  poteca  de  la  negra 
vecchia.  E,  restanno  tutto  de  no  piezzo,  non  voze,  pe  tan- 
no, dicere  niente,  pe  se  sacredere  meglio  de  lo  fatto.  E, 
sforzanno  la  cosa,  dette  funno  a  no  Mantracchio  ^^,  mentre 
se  credeva  stare  a  la  costa  de  Posileco  ^'',  e  navecaje  co  na 
permonara^*,  penzannose  de  ire  ncurzo  co  na  galera  shio- 
rentina^^.  Ma,  non  cossi  priesto  venne  a  la  vecchia  lo  pri- 
mo suonno,  che  lo  re,  cacciato  da  no  scrittorio  d'ebano 
e  d'argiento  na  vorza  de  cammuscio  co  no  focile  drinto, 
allommaje  na  locernella.  E,  fatto  perquisizione  drinto  a 
le  lenzola,  trovato  n' Arpia  pe  Ninfa,  na  Furia  pe  na 
Grazia,  na  Gorgona  pe  na  Cocetrigna,  venne  ntanta  fu- 
ria, che  voze  tagliare  la  gomena,  eh'  aveva  dato  capo  a 
sta  nave.  E,  sbruffanno  de  zirria,  chiammaje  tutte  le  ser- 
veture,  che,  sentenno  gridare  ad  arme,  fatto  na  ncammi- 
sata^'',  vennero  ncoppa.  A  li  quale,  sbattenno  comm'a 
purpo,  disse  lo  re:  «  Vedite  belFabbuffa-cornacchia^^  m'ha 


55  Fetore  delle  ascelle. 

56  Contrada  del  Molo  piccolo,  lurida  ed  abitata  dall'infima  plebe. 

57  La  deliziosa  collina  e  spiaggia,  all'estremità  occidentale  del 
golfo  di  Napoli.      58  Piccola  barca.  Cfr.  IV,  4. 

59  Le  belle  galee  fiorentine,  che  tante  volte  in  quei  tempi  scor- 
sero il  Mediterraneo,  insieme  colle  napoletane,  contro  i  barbareschi. 

co  Incamiciata;  cioè  scelta  di  soldati,  propriamente  per  assalti  not- 
turni, i  quali,  per  riconoscersi  nel  buio,  mettevano  una  camicia  so- 
pra l'armatura. 

6i  II  Del  Tufo,  tra  le  frasi,  che  enumera,  del  «  parlar  goffo  della 
plebe  napoletana  »,  ha:  «  L'altro,  che  l'onor  suo  non  cerca  macchie: 
Uh  quanta  paparacchiel  Haggiote  cera  d'abl^offa  cornacchie?  »  {ms. 
e,  f.  130). 

>7 


I30  LO  CUNTO   DE  LI   CUNTI 

«  fatto  sta  vava  de  parasacco^',  che,  credennome  de  nor- 
«  care  na  vitelluccia  lattante,  m' aggio  trovato  na  secon- 
«  na'^^  de  vufara*^';  pensannome  d'avere  ncappatona  penta 
«  palomma,  m'aggio  ashiato  mano  sta  coccovaja''^;  ma- 
«  genannome  d'avere  no  morzillo  de  re,  me  trovo  tra  le 
«  granfe  sta  schifienzia,  mazzeca-e-sputa.  Ma  chesto  e  peo 
«  nce  vole  a  chi  accatta  la  gatta  drinto  a  lo  sacco  !  Ma 
«  essa  m'ha  fatto  sto  corrivo '^'^,  ed  essa  ne  cacarrà  la  pe- 
«  netenzia.  Perzò,  pigliatela  priesto  corame  se  trova,  e 
«  sbalanzatela  pe  ssa  fenestra!  »  La  quale  cosa  sentenno 
la  vecchia,  se  commenzaje  a  defennere  a  canee  ed  a 
muorze,  decenno,  che  s'appellava  da  sta  settenzia,  men- 
tre isso  stisso  l'aveva  tirata  co  no  stravolo  a  venire  a  lo 
lietto  sujo,  etra  che  portarria  ciento  dottare  a  defesa  soja, 
e  eopra  tutto  chillo  tiesto:  «  gallina  vecchia  fa  buono 
«  bruodo  »,  e  chill'autro,  che:  «  non  se  deve  lassare  la 
«  via  vecchia  pe  la  nova  ».  Ma,  con  tutto  chesto,  fu  pi- 
gliata de  zippo  e  de  posole  "^^j  e  derropata  a  lo  giar- 
dino. E  fu  la  fortuna  soja,  ca,  restata  appesa  pe  li  ca- 
pille  a  no  rammo  de  fico,  non  se  roppe  la  catena  de  lo 
cuollo.  Ma,  passanno  ben  matino  certe  fate  da  chillo  giar- 
dino, nante  che  lo  sole  pigliasse  possessione  de  le  terre- 
torie,  che  l'aveva  ciesso  la  notte,  le  quale  pe  na  certa 
crepantiglia  non  avevano  mai  parlato,  né  riso,  e  visto 
pennellare  dall'  arvolo  chella  mal'  ombra,  eh'  aveva  fatto 
nante  tiempo  sporchiare  l'ombre,  le  venne  tale  riso  a 
crepafecate,  ch'appero  a  sguallarare  ^®.  E,  mettenno  la 
lengua  nvota,  non  chiusero  pe  no  piezzo  vocca  de  sto 
bello  spettacolo.  Talemente  che,  pe  pagare  sto  spasso  e 


"2  v.  n.  45,  p.  9.      "S  Propr.,  placenta  delle  puerpere.      "'  Bufola. 
•'S  Civelta.  Era  famosa  la  fontana  della  Coccovaia  di  Porto. 
''<'  Burla.      '^"^  Di  peso. 

<^  Prop.:  uscir  l'erma  per  lo  sforzo  del  ridere;  che  tale  è  la  cre- 
denza volgare, 


.TORNATA  I.   TRATTEXE^riElfTO   X.  131 

sto  sfizio,  le  dezero  ogne  una  la  fatazione  soja,  decennole, 
una  ped  una,  che  potesse  deventare  giovane,  bella,  ricca, 
nobele,  vertolosa,  voluta  bene  e  bona  asciortata.  E,  par- 
tutose  le  fate,  la  vecchia  se  trovaje  nterra,  seduta  a  na 


seggia  de  velluto  nquaranta  co  franco  d'oro,  sotta  Farvelo 
stisso,  ch'era  deventato  no  bardacchino  de  velluto  verde 
co  funno  d'oro.  La  facce  soja  era  tornata  de  fegliola  de 
quinnece  anno,  cossi  bella,  che  tutte  l'autre  bellezze  aver- 
riano  parzeto  scarpune  scarcagnate  a  paro  de  na  scarpe- 
tella  attillata  e  cauzante;  a  comparazione  de  sta  grazia 
de  sieggio*^^,  tutte  l'autre  grazie  se  sarriano  stimate  de 
li  Pierre  viecchie  e  de  lo  Laviuaro ''^'^  ;  dove  chesta  joquava 
a  trionfiello  de  ciance  e  de  cassesie,  tutte  l'autre  aver- 
riano  joquato  a  banco  falluto"^  Era  pò  cossi  nciricciata, 
sterliccata  e  sforgiosa,  che  vedive  na  maestà;  l'oro  sba- 
gliava, le  gioje  stralucevano,  li  shiure  te  shiongavano 
nfacce  ;  le  stevano  ntuorno  tante  serveture  e  dammecelle, 
che  pareva  che  nce  fosse  la  perdonanza'^.  Fra  chisto 
tiempo,  lo  re,  puostose  na  coperta  ncuollo  e  no  paro  de 
scarpune  a  li  piede,  s'affacciaje  a  la  fenestra  pe  vedere, 
che  s'era  fatto  de  la  vecchia.  E,  visto  chello,  che  non  se 
magenava  de  vedere,  co  no  parmo  de  canna  aperta,  e 
Gomme  ncantato,  squatraje  pe  no  piezzo  da  la  capo  a  lo 
pede  chillo  bello  piezzo  de  schiantone '^,  mo  miranno  li 
capello,  parte  sparpogliate  ncoppa  le  spalle,  parte  mpa- 
storate  drinto    no    lazzo  d' oro,   che  facevano  midia  a  lo 


69  Sono  noti  i  cinque  seggi  della  nobiltà  napoletana.  Onde  nobiltà 
di  seggio,  che  si  considerava  maggiore  della  nobiltà  fuori  seggio,  ecc. 

70  Ferrivecchi,  via  di  Napoli,  poco  lungi  dalla  Sellarla.  —  Lavi- 
naro,  v.  n.  28,  p.  92.      "^^  V.  n.  41,  p.  38, 

"2  II  Tansillo,  nei  Capitoli:  «  Entrar  ci  vedo  gli  uomini  a  drap- 
pello, Come  si  dice  a  Napoli,  al  perdono  »  (.ed.  cit.,  p.  173).  Cioè,  a 
prender  le  indulgenze. 

"3  Piantone.  «  No  piezzo  de  schiaritone  ».  Egl.  La  Coppella.  Cfr, 
II,  9. 


132  LO   CTJXTO  DE  LI   CUNTI 

sole,  mo  tenenno  mente  a  le  ciglia,  valestre  a  pozone"', 
die  parrettiavano'^  li  core,  mo  guardanno  l'uoccliie,  lan- 
terne a  vota  de  la  guardia  d'Ammore,  mo  contempranno 
la  vocca,  parmiento  amoruso,  dove  le  grazie  pisavano 
contento  e  ne  cacciavano  grieco  dece  e  manciaguerra  de 
gusto"".  Dall' autra  parte,  se  votava  comm'a  stantaro"'', 
e  sciuto  da  sinno  a  li  trincole  e  mingole''*,  che  portava 
appise  ncanna  ed  a  li  ricchi  sfuorgie,  ch'aveva  adduosso. 
E,  parlanno  fra  se  stesso,  deceva:  «  Faccio  lo  primmo 
«  suonno,  o  songo  scetato?,  sto  ncellevriello,  o  sbarejo?, 
«  so  io,  0  non  so  io?  Da  quale  trucco  è  venuto  cossi 
«  bella  palla  a  toccare  sto  re"^  de  manera,  che  so  juto 
«  a  gpaluorcio?  So  fuso,  so  tarafonato,  si  non  me  re- 
«  catto!  Gomme  è  spontato  sto  sole?,  comme  è  sguigliato 
«  sto  shiore?,  comm'è  schiuso  st'auciello  pe  tirare  com- 
«  m'a  vorpara^"  le  voglie  meje?  Quale  varca  l'ha  por- 
«  tato  a  sti  paise?,  quale  nuvola  l'ha  chiuppeto?,  che  lave 
«  de  bellezza  me  ne  portano  drinto  a  no  maro  d'affan- 
«  ne?  »  Cossi  decenno,  se  vrociolaje  pe  le  scale,  e,  cor- 
renno  a  lo  giardino,  jette  nante  a  la  vecchia  renovata; 
e,  mbroscinannose  quase  pe  terra,  le  disse:  «  0  musso 
«  de  peccionciello  mio,  o  pipatella  de  le  grazie,  penta 
«  palomma  de  lo  carro  de  Venere,  strado  trionfale  d'am- 
«  more;  si  hai  puosto  nammudlo  sto  core  a  lo  shiummo 
«  de  Sarno^',  si  no  nce  so  trasute  drinto  l'aurecchie  le 


'■*  A  bolzone.      "^^  Saettavano. 

'*  Sul  mcmglaguerra  d'Angri,  v.  Del  Tufo  (ms.  e,  ff.  21-2),  che  ne 
fa  grandi  lodi  e  ne  enumera  le  qualità.  Cfr.  anche  MN.,  III. 

'''  (EO)  s tentar 0  —  Propr.:  regoli,  che  reggono  le  imposte. 

"'^  Fronzoli,  gingilli.  Il  Del  Tufo:  «  Ma  poi  con  altri  ancor:  Trin- 
gole  e  niingole,  Chi  accatta  lazze  e  spùìgole?  »  {ms.  e,  f.  27). 

"^^  Metaf.  dal  giuoco  del  trucco,      ^o  uncino. 

*i  Al  fiume  Sarno,  (che  bagna  la  provincia  di  Salerno  e  sbocca  nel 
golfo  di  Napoli  tra  Castellammare  e  Torre  Annunziala),  prima  della 
bonifica,  si  soleva  mettere  in  molle  il  canape  (cfr.  Vincenzo  degli 
Uberti,  Sul  fìwne  Sarno,  Discorso  storico  idraulico,  Nap.,  1844). 


JORNATA  I,  TRATTENEMIENTO  X.  133 

«  semenze  de  canna^^,  si  no  ci  è  caduto  nell'  uoccliie  la 
«  merda  de  rennena*^,  io  so  securo  ca  sentarraje,  o  ve- 
«  darraje,  le  pene  e  li  tormiente,  che,  de  vrocca  e  de  re- 
«  lanzo^',  m'hanno  refuso  a  lo  pietto  sse  bellezze  toje; 
«  e,  si  non  cride  a  lo  cennerale^^  de  sta  faccie  la  lesela^", 
«  che  bolle  drinto  a  sto  pietto,  si  non  cride  a  le  shiamme 
«  de  li  sospiri,  la  carcara,  ch'arde  drinto  a  sto  vene;  com- 
«  me  a  comprennoteca,  e  de  jodizio,  puoi  fare  argo- 
«  miento  delli  capille  d' oro,  quale  funa  m' attacca,  da  ssi 
«  nocchie  nigre,  quale  cravune  me  eocene,  e  dall'arche 
«  russe  de  ste  lavre,  quale  frezza  me  smafara!  Perzò, 
«  non  varriare  la  porta  de  la  pietà,  non  auzare  lo  ponte 
«  de  la  mesericordia,  né  appilare  lo  connutto  de  la  com- 
«  passione!  E,  si  no  me  judiche  meretevole  d'avere  nul- 
«  te*'''  da  ssa  bella  facce,  famme  a  lo  manco  na  sarva 
«  guardia  de  bone  parole,  no  guidateco  de  quarche  prom- 
«  messa  e  na  carta  aspettativa  de  bona  speranza;  perchè, 
«  autramente,  io  me  ne  piglio  li  scarpune,  e  tu  pierde  la 
«  forma!  »  Cheste,  e  mille  autre  parole,  le  scettero  da 
lo  sprofunno  de  lo  pietto,  che  toccare  a  lo  bivo  la  vec- 
chia renovata;  la  quale,  all'utemo,  l'azzettaje  pe  marito. 
E,  cossi,  auzatase  da  sedere,  e  pigliatolo  pe  la  mano,  se 
ne  jezero  ncocchia  a  lo  palazzo  rejale.  Dove,  ped  ajero,  fu 
apparecchiato  no  grannissemo  banchetto;  e,  mannato  a 
mitare  tutte  le  gentiledonne  de  lo  pajese,  tra  l' autre, 
voze  la  vecchia  zita,  che  nce  venesse  la  sere.  Ma  nce  fu 
da  fare  e  da  dire,  pe  trovarela  e  carriarela  a  lo  commito  : 


82  Sulla  canna  e  le  sue  qualità  dannose,  cfr.  Pitrè,  BibL,  XVI,  226-7. 

83  sterco  di  rondine.  Cfr.  rV,  5.  Lo  sterco  di  rondine  è  reputato 
molto  scottante:  colui,  al  quale  casca  negli  occhi,  diventa  cieco.  Cfr. 
Liebr.,  Anm.  I,  403.  È  noto  che  Tobia,  dormendo,  fu  accecato  dallo 
sterco  caldo,  che  gli  cadde  sugli  occhi  da  un  nido  di  rondini  {Libro 
di  Tobia,  II,  11).      «*  D'un  subito. 

85  Generacciolo,  panno  che  sostiene  la  cenere  pel  bucato. 

86  Lisciva.      87  Indulto. 


134  I-O   CTJNTO  DE  LI   CTTNTI 

perchè,  pe  la  paura  granne,  s' era  juta  a  ntanare  e  a  nca- 
forchiare,  che  non  se  ne  trovava  pedata.  Ma,  venuta,  com- 
me  Dio  voze,  e  postase  accanto  a  la  sore,  che  nce  voze 
antro  che  baja  pe  la  canoscere,  se  mesero  a  fare  gau- 
deamo.  Ma  la  vecchia  scura  aveva  autra  famme,  che  la 
resecava;  pecca  la  crepava  la  mi  dia  de  vedere  lucere  lo 
pilo  a  la  sore.  Ed,  ogne  poco,  la  tirava  pe  lo  maneco- 
ne,  decenno  :  «  Che  nce  hai  fatto,  sore  mia,  che  nce  hai 
«  fatto?,  viata  te  co  la  catena**!  »  E  la  sore  responneva: 
«  Attienne  a  magnare,  ca  pò  ne  parlammo!  »  E  lo  re 
addemannava,  che  l'occorreva;  e  la  zita,  pe  copierchio,  re- 
sponneva, ca  desiderava  no  poco  de  sauza  verde;  e  lo 
re  subeto  fece  venire  agliata,  mostarda  mpeperata,  e 
mill'autre  saporielle*^  pe  scetare  l'appetito.  Ma  la  vec- 
chia, che  la  sauza  de  mostacciuolo  ^"^  le  pareva  fele  de 
vacca,  tornaje  a  tirare  la  sore,  decenno  lo  stisso:  «  Che 
«  nce  hai  fatto,  sore  mia,  che  nce  hai  fatto?;  ca  te  vo- 
«  glie  fare  na  fico  sotto  a  lo  mantiello^M  »' E  la  sore 
responneva:  «  Zitto,  ch'avimmo  chiù  tiempo,  che  donare; 
«  mancia  mo,  che  te  faccia  fuoco,  e  pò  parlammo!  »  E  lo 
re,  coriuso,  demannava,  che  cosa  volesse;  e  la  zita,  ch'era 
ntricata  comm'a  pollecino  a  la  stoppa,  e  n'averria  voluto  es- 
sere diuna  de  chillo  romperaiento  de  chiocche,  respose,  ca 
voleva  quarcosa  dece.  E  lloco  shioccavano  le  pastetelle"^, 


88  Tra  i  giiioclii  fanciulleschi,  menzionati  dal  N.  nella  lettera  al- 
VUneco  Shlanimcggiante,  c'è  anche:  a  viata  te  co  la  catena:  giuoco 
disusato  ed  ignoto. 

^^  Il  Cortese,  tra  le  cose  che  sanno  fare  le  vajasse,  enumera  :  «  A- 
Uliata,  e  sauze,  e  mille  auto  sopui-e,  Cose  da  cannarute  e  da  segnu- 
re  »  iVaJass.,  I,  15). 

^  Specie  di  dolce,  flitto  con  zucchero,  mandorle,  ecc.  V.  n,  45,  p.  85. 

01  Atto  contro  il  marocchio,  o  jctlalura,  Cfr.  Pilrè,  Bibl.,  XVir,  244-5. 

^■-  Il  Del  Tufo:  «  Ma  di  quell'altra  cosa  rotondetta,  Chiamata  ìjo- 
stidella,  Fatta  con  uova,  zucchero  e  cannella,  Che  ne  dirò  ?  Dirò  che 
son  lontano  Dal  più  dolce  boccon  napolitano  »  (»'«.  e,  f.  23), 


JOENATA  I.    TBATTENEJIIENTO    X.  13  5 

lloco  sbombavono  le  neole^^  e  taralluccie,  lloco  dello- 
viava  lo  janco  manciare '"'^,  lloco  chiovevano  a  cielo  a- 
pierto  le  franfrellicclie  ^^  !  Ma  la  veccbia,  che  l'era  pi- 
gliato lo  totano,  ed  aveva  lo  filatorio  ncuorpo,  tornaje  a 
la  stessa  museca.  Tanto  che  la  zita,  non  potenno  chiù  re- 
sistere, pe  levaresella  da  cuollo,  respose:  «  Me  so  scor- 
«  tecata,  sore  mia!  »  La  quale  cosa  sentenno  la  crepan- 
tosa^'',  disse  sotta  lengua:  «  Va,  ca  no  l'hai  ditto  a  sur- 
«  do!,  voglio  io  perzi  tentare  la  fortuna  mia,  ca  ogne 
«  spireto  ha  lo  stommaco!  E,  si  la  cosa  m'enchie  pe  le 
«  mano,  non  sarrai  tu  sola  a  gaudere,  ca  ne  voglio  io  perzi 
«  la  parte  mia,  pe  il  a  no  fenucchio  !  »  Cossi  decenno,  e 
levatese  ntanto  le  tavole,  essa,  fatto  nfenta  de  ire  pe  na 
cosa  necessaria,  se  ne  corse  de  ponta  a  na  varvaria.  Dove 
trovato  lo  mastro,  e  reteratolo  a  no  retretto,  le  disse: 
«  Eccote  cinquanta  docate,  e  scortecame  da  la  capo  a  lo 
«  pede  !  »  Lo  varviero,  stimannola  pazza,  le  rispose  :  «  Va, 
«  sore  mia;  ca  tu  non  parie  a  separé,  e  securamente  ve- 
«  narrai  accompagnata^'!  »  E  la  vecchia,  co  na  facce  de 
pepierno,  leprecaje:  «  Si  pazzo  tu,  che  non  canusce  la 
«  fortuna  toja!;  perchè,  otra  de  li  cinquanta  docate,  si 
«  na  cosa  me  resce  mparo,  te  farraggio  tenere  lo  vacile 
«  a  la  varva  a  la  fortuna.  Perzò,  miette  mano  a  fierre, 
«  non  perdere  tiempo,  ca  sarrà  la  ventura  toja!  »  Lo 
varviero,   avenno   contrastato,  letechiato  e  protestato  no 


93  cialde.  In  lat.  mediev.,  nebulae.  Cfr.  E.  Rocco  nel    GBB,  IV,  9. 

s*  Così  una  specie  di  crema,  esaltata  dai  nostri  scrittori  come  cosa 
eccellente;  il  Celano  parla  di  im  gran  giardino,  che  avevano  nel  se- 
colo XVI  i  Pignatelli  di  Monteleone  dal  lato,  dove  poi  si  formò  via 
Toledo,  il  qual  giardino  «  per  la  sua  amenità  detto  veniva  lo  Bianco 
mangiare,  che  è  una  dilicatissima  e  regalata  vivanda,  che  si  fa  in 
Napoli,  e  particolarmente  nei  monasteri  »  (0.  e,  rv,  804). 

0^  Zuccherino:  piccolo  pezzo  di  pasta  di  giulebbe  e  miele.  G.  Bruno: 
«  masticava  come  avesse  in  bocca  il  panferlich  »  (Candela  Argom.). 

^^  Invidiosa.      ^'  Come  pazza,  che  sei. 


136  LO    CUNTO   DE  LI   CUNTI 

buono  piezzo,  all'utemo,  tirato  pe  naso,  fece  comm'a  chil- 
lo:  «  lega  l'aseno  dove  vo  lo  jpatrone!  »  E,  fattola  sedere 
a  no  scanniello,  commenzaje  a  fare  la  cLianca  de  chillo 
nigro  scuorzo^*,  che  chiovellecava  e  j)iscioliaya  tutta  san- 
go;  e,  da  tanto  ntanto,  sauda,  cÒimiSe  se  radesse,  deceva: 
«  Uh  chi  bella  vo  parere,  pena  vo  patere!  »  Ma,  chillo, 
continovanno  a  mannarela  a  mitto,  ed  ossa,  secotianno  sto 
mutto,  se  ne  jezero  contrapuntianno  lo  colascione  de  chillo 
cuorpo  fi  a  la  rosa  de  lo  vellicolo  "^  ;  dove,  essennole 
mancato  co  lo  sangue  la  forza,  sparaje  da  sotta  no  tiro 
de  partenza,  provanno  co  riseco  sujo  lo  vierzo  de  Sana- 
zaro: 

La  nmicUa,  figlio  mio,  se  stessa  smafara^^^ì 


^  Corteccia;  pelle  ilura.      ^^  Umbilico. 

^'^  Trad.  napoletana  del  v.:  «  L'invidia,  figliuol  mio,  se  stessa  ma- 
cera »  (Sann.,  Arcadia,  Egl.  VI,  v.  13). 


JOENATA   I.   LA   COPPELLA  137 

Fernette  a  tiempo  sto  cunto,  ch'era  data  n'ora  de  ter- 
mene  a  lo  sole,  che,  comme  stodiante  fastediuso^,  sfrat- 
tasse da  li  quartiere  dell' aj ero;  quanno  lo  prencepe  fece 
chiammare  Fabiello  e  Jacovuccio,  l'uno  guardarobba  e 
l'antro  despenziero  de  la  casa,  che  venessero  a  dare  lo 
sopratavola  a  sta  jornata.  Ed  ecco  se  trovare  leste  com- 
m'a  sorgiente^,  l'uno  vestuto  co  cauze  a  la  martingala^ 
de  friso  nigro,  e  la  casacca  a  campana  co  bottune  quanto 
na  palla  de  cammuscio,  co  na  coppola  chiatta  fi  ncoppa 
l' aurecchie  ;  l'antro,  co  na  barretta  a  tagliere,  casacca  co 
la  panzetta,  e  canza  a  braca  de  tarantola^  janca.  Li  quale, 
scenno  da  drinto  na  spallerà  de  mortella,  comme  se  fosse 
na  scena,  cossi  decettero: 


LA   COPPELLA 

EGEOCA 

Fabìello,  Jacovuccio. 

Fai).  Dove  accessi  de  pressa^?, 

Dove  accessi  de  penta,  o  Jacovuccio? 
Jac.    A  portare  sta  chelleta  a  la  casa! 


1  Allude  alle  frequenti  cacciate  degli  studenti.  I  quali,  anche,  com'è 
noto,  per  grazia  chiesta  dalla  Città  al  Re  Cattolico,  e  concessa  il 
1505,  non  potevano  abitare,  se  non  in  certi  luoghi  determinati.  Sono 
famose  le  lapidi  attaccate  alle  mura  di  varii  monasteri,  nelle  quali 
si  proibiva  di  abitare  nei  contorni  a  «  meretrici,  studenti  et  simili 
persone  dissoneste  ».  Cir.  Ili,  2,  e  Cortese,  Citello  e  Perna,  p.  31. 

2  II  N.  usa  spesso  questa  frase.  Gfr.,  tra  l'altro,  il/iV,  III:  «  Listo 
■  commo  a  sorgente  ». 

3  Ornamento,  che  ricadeva  in  giù  delle  calze. 

^  Sorta  di  tessuto,  piuttosto  ordinario.  Cfr.  3IX,  Vili;  Cortese, 
Rosa,  II,  6;  Vajass.,  Ili,  4.      5  Di  fretta. 


13S  LO  CTJNTO  DE  LI   CUNTI 

Fab.  E  qualcosa  de  bello? 

Jac.    A  punto,  e  de  mascese^.  . 

Fàb.  Ma  puro? 

Jac.  È  na  coppella  "'  ! 

Fab.  A  che  te  serve? 

Jac.    Si  tu  sapisse! 

Fah.  Eia,  sta  ncellevriello, 

E  arràssate  *  da  me  ^  ! 
Jac.  Perchè? 

Fab.  Chi  sape. 

Che  parasacco,  mo,  non  te  cecasse? 

Tu  me  ntienne! 
Jac.  Te  ntenno; 

Ma  tu  ne  si  da  rasso  ciento  miglia! 
Fab.  Che  saccio  io? 

Jac.  Chi  non  sa,  sta  zitto,  e  appila! 

Fab.  Saccio,  ca  non  si  arefece. 

Né  manco  stillatore; 

Fa  tu  la  consequenzia  ! 
Jac.    Tirammongé  da  parte,  0  Eabiello, 

Ca  voglio  che  stordisce  e  che  strasiecole! 
Fab.  Jammo  a  dove  te  piace! 
Jac.    Accostammonge  sotto  a  sta  pennata, 

Ca  te  farraggio  scire  da  li  panne  ! 
Fab.  Frate,  scumpela  priesto, 

Ca  me  faje  stennerire  ! 
Jac.    Adaso,  frate  mio! 

Gomme  si  pressarulo  ^°  ? 


6  V.  «.  36,   p.   ZI- 

"•  eh' è  quel  vasetto  di  cenere,  usato  dagli  orefici,  da  cimentarvi 
oro  o  argento.      8  scostati. 

^  Pensando  che  la  coppella  gli  serva  per  fare  monete  false,  il  de- 
litto allora  più  comune  ed  esecrato:  cosicché  quasi  non  c'era  giorno' 
che  non  s'impiccasse  0  squartasse  qualche  monetario  falso.  \., pas- 
sim, le  cronache  del  Guerra,  del  Zazzera,  del  Bucca.      i*  Frettoloso. 


JORNATA  I.   LA  COPPELLA  139 

Accessi  priesto,  di,  te  fece  mammeta?  — 
Vide  buono  st'ordegna? 
Fab.  Io  lo  veo,  eh' è  roagno, 

Adove  se  porifica  l'argiento. 
Jac.    Tu  nge  aje  dato  a  lo  pizzo  ; 

L'aje  nnevenato  a  primmo! 
Fai).  Commoglia,  che  non  passa  quarche  tamraaro  " 

E  fossemo  portate  a  no  mantrullo  ! 
Jac.    Gomme  si  caca  sotta! 

Tremma  securo,  ca  non  è  de  chelle, 
Dove  se  fa  la  pasta, 
Co  tanta  marcancegne, 
Che  tre  decincó^^  resceno  tre  legne^^! 
Fai).  Ma,  dimme:  a  che  l'aduopre? 
Jac.    Pe  affinare  le  cose  de  sto  munno, 

E  canoscere  l'aglio  da  la  fico! 
Fah.  Aje  pigliato  gran  lino  a  pettenare  ! 
Tu  nvecchiaraje  ben  priesto. 
Ben  priesto  tu  farraje  li  pile  janche  ! 
Jac.    Vi  ca  ne' è  ommo  nterra, 

Che  pagarria  na  visola  e  na  mola^*, 
Ad  avere  no  nciegno,  comm'a  chisto, 
Ch'a  primma  prova  cacciarria  la  macchia 
De  quanto  ha  ncuorpo  ogn'ommo. 
De  quanto  vale  ogn'arte,  ogne  fortuna, 
Perchè  cca  drinto  vide 
S' è  cocozza  vacante,  o  si  ne'  è  sale, 
Se  la  cosa  è  sofisteca  o  riale. 
Fab,  Comm'a  dicere,  mo? 
Jac.  Siente  fi  mponta, 


li  sbirro.  V.  n.  ^2,-,  P-  83. 

12  Tre  cinquine,  ciascuna  delle  quali  era  pari  a  due  grana  e  mezzo. 

13  cioè,  che  con  esse  si  riesca  a  fare  una  forca. 
1*  Un  occhio  e  un  dente  molare. 


140  LO  CUNTO  DE  LI  CÌINTI 

Quanto  ca  me  spalifeco  chiù  meglio: 
Quanto,  a  la  ncornatura^^  e  a  primma   fronte, 
Pare  còsa  de  priezzo. 
Tutto  nganna  la  vista, 
Tutto  ceca  la  gente, 
Tutto  è  schitto  apparenzia. 
Non  ire  summo  summo, 
Non  ire  scorza  scorza. 
Ma  spercia  e  trase  drinto, 
Ca  cM  non  pesca  nfunno, 
E  no  bello  catammaro  a  sto  munno. 
Adopra  sta  coppella,  ca  fai  prova, 
Se  lo  negozio  è  vero,  o  fegneticcio. 
S'è  cepolla  sguigliata,  o  s'è  pasticcio. 
Fob.  È  na  cosa  do  spanto, 
Pre  vita  de  Lanfusa^''! 
K."^^^^^*^         '^^^-    Sienteme  ncLino,  e  spàntate; 
Jammo  chiù  nanze,  e  spireta; 
<soM-lfcV*'**'^  ^^  senterraje  miracolo! 

Ande,  mo:  verbegrazia. 
Tu  criepe  de  la  nmidia, 
Abbutte  e  fai  la  guallara 
De  no  signore  conte,  o  cavaliere, 
Perchè  vaco  ncarrozza; 
Ca  lo  vide  servute  e  accompagnato 
Da  tanta  frattaria,  tanta  marmaglia: 
Chi  lo  sgrigna  da  ccane, 
Chi  lo  ncrina  da  liane, 
Chi  le  caccia  la  coppola. 
Chi  le  dice:  schiavuottolo ! 


15  Fisonomin,  piglio. 

10  Anche  il  Cortese:  «  Bravo,  disse, i)cr  vila  de  Lanfusal  »  (Viaggio 
di  J\irn.,  V.  27).  Lanfiisa  era  la  madre  di  Ferraù,  il  quale  giiirava 
sempre  pel  nome  di  lei. 


JORNATA   L   LA   COPPELLA  141 

Straccia  la  seta,  e  l'oro; 

Quanno  isso  ciancolea^',  le  fanno  viento; 

E  tene  fi  a  lo  cantaro  d'ai'giento. 

Non  te  mprenare  subeto 

De  sti  sfaste  e  apparenzie, 

Non  sospirare,  e  fa  la  spotazzella; 

Miettele  a  sta  coppella, 

Ca  vedarrai  quante  garrise^^,  e  quante 

Stanno  sotto  la  sella„à-Q  Jjeiluto  !  ; 

Truove  quante  scorzune 

Stanno  accovate  tra  li  sliiure  e  l'erve  !  ; 

T'addonerrai,  si  scuopre  la  seggetta 

Co  franco  e  co  racamme 

De  cannottiglie  e  sete, 

Si  lo  negozio  è  de  perfummo,  0  feto  ! 

Ha  lo  vacile  d'oro, 

E  nce  sputa  lo  sango; 

Ave  li  muorze  gliutte, 

E  le  ntorzano  ncanna  ; 

E,  si  buono  mesure  e  meglio  squatre, 

Chillo,  che  stimme  duono  de  fortuna, 

È  pena  de  lo  cielo  ! 

Dà  pane  a  tante  cuorve, 

Che  le  cacciano  l'uoccliie  ; 

Mantene  tante  cane, 

Cbe  l'abbajano  ntuorno  ; 

Dace  salario  a  li  nemmice  suoje, 

Che  lo  metteno  nmiezo, 

Che  lo  zucano  vivo  e  lo  nzavagliano. 

Chi  da  ccà  lo  scorcoglia^^ 

Co  smorfie  e  paparacchie; 

Chi  da  Uà  te  l'abbotta  co  no  manteco; 


"  Mangia,  divora.      I8  Guidaleschi,  ulcere.       ^^  Scrocca,  smunge. 


142  LO   CUNTO   DE  LI  CUNTI 

TJno  se  mostra  culo  de  lemosena  ^''j 

Lupo  sotto  la  pella  de  na  pecora, 

Co  bella  meriana*^  e  brutta  nieuza, 

E  le  fa  fare  aggravio  ed  ingiustizie; 

N'autro  le  tesse  macliene; 

Chillo  le  porta  e  adduce, 

E  le  inette  a  partito 

La  negra  catarozzola; 

E  chisto  lo  tradisce, 

E  manna  a  besentierio; 

Tanto  che  mai  non  dorme  co  arrepuoso, 

Non  magna  mai  co  gusto. 

Né  ride  mai  de  core! 

Li  suono,  s'isso  magna,  lo  scervellano; 

Li  suonne,  s'isso  dorme,  l'atterresceno ; 

L'arbascia^^  lo  tormenta, 

Comm'auciello  de  Tizio  ^^; 

So  le  bagianarie  l'acque  e  li  frutte. 

Che  nce  sta  nmiezo,  e  de  la  famme  allanca 

La  ragione,  nsenziglio^'  de  ragione. 

La  rota  è  d'Issione, 

Che  maje  le  dace  abbiente; 

Li  designo  e  chimere 

So  le  prete,  che  saglie 

Sisefo  a  la  montagna, 

Che,  pò,  tàffete  a  bascio  ! 

Sede  a  la  seggia  d'oro 

Mosiata^^  d'avolio, 


2"  Nella  G.  II,  9:  «  Luciella,  ch'era  cunno  de  lemmoslna  ».  E  così 
altrove  ora:  cttnno,  e  ora:  culo. 

21  Bella  apparenza:  inerlana  per  'ìnl}riana,  la  Fata  Mbriana.  Cfr. 
Cortese,  Micco  Pass.,  VI,  26.      22  Albagia. 

23  È  noto  il  supplizio  di  Tizio,  figlio  di  Giove  e  d'Elara.  —  Se- 
guono gli  altri  mitologici  tormenti  di  Tantalo,  d'Issione  e  di  Sisifo. 

2*  Nuda.      25  Intarsiata. 


JOENATA   I.   LA   COPPELLA  143 

Co  centrelle-^  naurate  ; 
Tene  sotto  a  li  piede 
Coscine  de  mbroccato  e  cataluffo^'', 
E  trappite  torchische  ;  ma  le  pènne 
Na  serrecchia  appontuta 
Ncoppa  la  chiricoccola^^, 
Che  la  mantene  schitto  no  capillo; 
Tanto  che  stace  sempre  ncacavesse. 
Sempre  fila  sottile  ed  ha  lo  jajo, 
Sempre  ha  la  vermenara, 
Sempre  lo  filatorio,  e  sempre  stace 
Sorriesseto,  atterrato  ; 
E,  all'utemo  dell'utemo, 
Ste  sfastie  e  ste  grannezze 
So  tutte  ombre  e  monnezze^^, 
E  no  poco  de  terra, 
Drinto  no  fuosso  stritto, 
Tanto  copre  no  re,  quanto  no  guitto  ! 
Fai).  Hai  ragione,  peli' arma  de  messere!. 

Affé,  ca  è  chiù  de  chello,  che  tu  dice!; 
Ca  li  signure,  quanto  chiù  so  granue, 
Chiù  provano  chiantute  li  malanno. 
E,  nsomma,  disse  buono 
Chill'ommo  de  la  Trecchiena  ^*', 

Che  jqa.  ^vfìnnpinnn   nuce  : 
«  Non  è  tutto  oro,  no,  chello  che  luce  !  » 
Jac.    Siente  st'autra  e  deventa  miloshiuoccolo  ^M 
Ne'  è  chi  lauda  la  guerra, 


26  Chiodetti,  bullette. 

27  Stoflfa  menzionata  anche  III,  io:  «  coperte  de  cataluffo,  g^uarauto 
co  pontine  de  smauto  »;  ed  era  una  sorta  di  taffettà. 

28  Gli  pende  una  spada  sulla  testa,  come  a  Dionisio.    29  immondizie. 

30  Trecchina,  o  Trecchiena,  terra  in  Basilicata,  diocesi  di  Polica- 
stro  (comune  della  prov.  di  Potenza,  circ.  di  Lagonegro,  ab.  2971), 

31  Rosso  come  miloshiuoccolo,  V.  n.  io,  p.  68. 


144  LO  CUNTO  DE  LI  CUNTI 

La  mette  mperecuoccolo, 

E,  comme  vene  l'ora, 

Che  s'arvoleja  na  nzegna, 

Che  sente  taratappa, 

De  corzeta  se  scrive, 

Tirato  pe  la  canna 

Da  quatto  jettarielle '* 

Spase  ncoppa  na  banca! 

PiglÌEk  jtornise_frisch  e , 

Se  veste  a  la  Jodeca^^, 

Se  mette  la  scioscella, 

E  te  pare  na  mula  de  percaccio^', 

Co  lo  pennacchio  e  lo  passacavallo  ! 

Si  n'amico  le  dice:  «  Adove  jammo?  »^ 

Eesponne  allegramente, 

Né  tocca  pedo  nterra: 

«  A  la  guerra,  a  la  guerra!  » 

Sguazza  pe  le  taverne, 

Trionfa  pe  le  Ceuze^^ 

Vace  a  l'aUoggiamiento, 

Recatta  le  cartelle^". 

Fa  remmore  e  fracasso, 

E  no  la  cedarria  manco  a  Gradasso! 

Maro  isso^^,  si  se  fonne  a  sta  coppella! 


32  Monete.  Nella  già  cit.  coram.  :  La  necessità  aguzza  l'ùìgegno,  Pas- 
sero dice  a  un  Capitano:  «  Ste  mprommesse  sordatesche  saccio  come 
so.  Facile  na  bella  spasa  de  doppie  ncopp'a  na  bofTetta.  Li  peccerille 
correno  a  lo  lustro,  e  buje  l'aijgi'afTate,  zufTcte,  dinlro  lo  tarcenale!  » 

(ir,  9)- 

33  Luogo  di  Napoli,  nella  regione  del  Pendino,  dove  una  volta  erano 
gli  Ebrei,  e,  cacciati  questi,  vi  si  sostituirono  i  venditori  di  panni 
vecchi,  continuatori  del  loro  mestiere. 

^*  Procaccio.      35  Luoghi  di  postriboli.  V.  n.  24,  p.  91. 
30  Ordini  di  alloggio.  Allude  ai  soprusi,  ai  quali  servivano  di  pre- 
testo questi  ordini.      37  Amaro  lui,  lui  sventurato! 


.TORNATA   I.  LA   COPPELLA  145 

Ca  tutte  st'allegrezze, 

Sti  sbozze  e  spanfiamiento^^, 

Le  retornano  a  trivole  e  a  tormiente. 

Lo  nteseca  lo  friddo, 

Lo  resorve  lo  caudo, 

Lo  roseca  la  famme, 

La  fatica  lo  scanna, 

L'è  sempre  lo  pericolo  a  li  shianclie, 

E  lo  premio  da  rasso; 

Le  ferite  ncontante, 

E  le  paghe  ncredenza, 

Luonglie  l'affanno  e  le  docezze  corte, 

La  vita  ncerta,  e  secura  la  morte! 

All'utemo,  0,  stracanato 

Da  tante  patemiente,  se  l'affuffa, 

E  con  tre  sante  nmezza. 

Si  lo  cannavo  è  miccio  od  è  capezza  ^°; 

0  ntutto  è  sbennegnato^*^, 

0  resta  stroppiato; 

Ed  antro  non  avanza. 

Che,  0  n'ajuto  de  costa  de  stanfella, 

0  no  trattenemiento  de  na  rogna, 

0,  pe  no  manco  male, 

Tira  na  chiazza  morta  a  no  spetale^M 
Fah.  N'hai  cacciato  lo  fraceto. 

Non  ce  puoi  dire  niente, 

E  vero,  è  chiù  ca  vero! 

Pocca  la  scolatura 

De  no  scuro  sordato, 

E  tornare  0  pezzente,  o  smafarato  ! 
Jac.   Ma  che  dirrai  de  n'ommo  tutto  cuocolo 

Ire  mponta  de  pede?: 


38  Vanterie,    39  è  impiccato.  Cfr,  IV,  9. 

■io  Ammazzato:  da  vennegna,  vendemmia.      ^^  V.  n.  52,  p.  97. 


146  LO  CUNTO  DE  LI  CUNTI 

Tutto  se  pavoneja, 

E  se  mprena  e  se  vanta 

Ca  vene  de  streppegna  e  de  jeniinma*^ 

D'Achillo  0  d'Alesantro. 

Tutto  lo  juorno  fa  designe  d'arvolo*^, 

E  tira  da  no  cippo  de  castagna 

No  rammo  de  lecina''*; 

Tutto  lo  juorno  scrive 

Storie,  e  cierne  Lucie ''^ 

De  patre,  che  non  apporo  mai  figlie^'''; 

Vo,  che  n'ommo,  che  venne  l'uoglio  a  quarte, 

Sia  nobele  de  quarte  •*'^; 

Aggiusta  privilegie  ncarta  pecora. 

Eatte  viecchie  a  lo  fummo, 

Pe  pascere  lo  fummo,  e  l'arbascia; 

S'accatta  sepoture, 

E  nce  mpizza  spetaffie 

Co  mille  filastoccole; 

Pe  acconciare  le  pettole 

Paga  buono  le  zazzare'^; 

Pe  accordare  campane, 

Spenne  a  li  campanile; 

E,  pe  jettare  quarche  fonnamiento 

A  case  scarropate, 

Spenne  n'uocchio  a  le  prete. 


<2  Di  stirpe  e  di  razza.      "  Alberi  genealogici.      ■"  Elee. 

■is  (ES)  Giarnalogie.  —  Cierne  Lucie,  storpiatura  burlesca  di:  ge- 
nealogia. Cfr.  n.  18,  p.  7. 

•'''  Contro  i  falsi  nobili  e  gli  scrittori  stipendiati  di  genealogie. 
Questa  peste  cominciò  a  infierire  appunto  in  quel  tempo  nella  no- 
stra letteratura  storica.  È  noto  che  si  giunse  finanche  ad  alterare 
ed  interpolare  i  documenti  conservati  nei  pubblici  archivi!,  come  se 
ne  osservano  tuttora  le  tracce. 

'*■'  Giuoco  di  parola  tra  il  quarto,  misura,  e  i  quarti,  requisiti  di 
nobiltà.      *8  Altri  corregge:  zaccarc  (fanciulle). 


JOENATA  I.   LA  COPPELLA  147 

Ma,  puosto  a  copellare, 

Chillo,  che  chiù  se  stira, 

Chillo,  che  chiù  pretenne, 

E  la  sfelizza  e  frappa. 

Ancora  ave  li  calle  de  la  zappa! 
Fai).  Tu  tuocche  a  dove  dole, 

Non  se  pò  dire  chiù,  cuoglie  a  lo  chino vo  ! 

M'allecordo  a  preposeto, 

(E  parola  agge  a  mente!), 

Ca  disse  no  saputo  : 

«  Non  e'  è  peo  che  villano  resagliuto  !  » 
Jac.    Vide  mo  no  vaggiano, 

No  cacapozonetto'^  ed  arbasciuso, 

Che  stace  mpretennenzia 

De  casecavallucce  '"^  e  che  se  picca 

Co  gran  prosopopea. 

Che  t'abbotta  pallune, 

Che  sbotta  paparacchie. 

Sputa  parole  tonno  e  squarcioneja, 

Torce  e  sgrigna  lo  musso, 

E  se  zuca  le  lavra,  quanno  parla; 

Mesura  le  pedate; 

Va  tu  nevina  chi  se  pensa  d'essere! 

E  spanfeja  e  se  vanta: 

«  Olà,  venga  la  ferba  0  la  pezzata  ^M 

«  Chiamma  venti  de  miei! 

«  Vedi  se  vuol  venire  alquanto  a  spagio^' 


*9  Millantatore. 

5<^  Piccoli  caciocavalli,  sorta  di  latticinio.  0.  Landò,  parlando  di 
Napoli:  «  Tu  siniazzerai  con  quei  caci  cavallucci,  freschi,  arrostiti 
non  con  lento  fuoco,  ma  prestissimo,  con  sopraveste  di  zucchero  et 
cinnamomo.  Io  mi  struggo  solo  a  pensarvi  »  (Imbr.,  l.  e,  p.  44).  Ag- 
giunto a  pretennenzia,  è  un  dispregiativo. 

51  Int.:  la  giumenta  fulva  e  quella  pomellata. 

52  Spasso.  —  Storpiatura  voluta,  per  indicare  un  parlar  toscano 
spropositato. 


148 


LO   CUNTO  DE  LI   CUNTI 


«  Neputemo,  lo  conte! 

Quanno  l'erario  nuostro 

Mi  recarà  il  carrugio^^? 

Dite  al  mastro  ch'io  voglio  inanti  sera 

La  cauza  a  braca  racamata  d'oro! 

Respunne  a  chella  sdamma, 

Che  spanteca  pe  mene, 

Ca,  fuorze  fuorze,  le  vorraggio  bene  !  » 
Ma,  comm'a  sta  coppella  è  cementato, 
Non  ce  truove  na  maglia; 
Tutto  è  fuoco  de  paglia; 
Quanto  chiù  se  l'allazza,  chiù  fa  alizze^'; 
Parla  sempre  de  doppie,  e  sta  nsenziglio; 
Fa  de  lo  sbozza,  e  niente  ave  a  la  vozza''^; 
Lo  collaro  ha  ncrespato,  e  sta  screspato  ^^; 
Trippa  contenta,  senza  no  contante; 
E,  pe  concrusione, 
Ogne  varva  le  resce  na  garzetta ''''', 
Ogne  perteca  pinzo  •'''^, 
Ogne  mpanata^^  allessa, 
E  la  pommarda  se  resorve  a  vessa  ^''! 
Faò.  Che  te  sia  benedetta  chessa  lengua! 


53  Carrozza,  cfr,  IV,  7.  Quando  l'amministratore  mi  porterà  le  ren- 
dite? 

s*  (EO)  alozze.  —  Giuoco  di  parola  tra  allazza,  allaccia,  e  alizze, 
sbadigli.  E  così,  in  seguito.      ^5  Gorgozzule.      56  a.  borsa  vuota. 

57  Così  di  una  cosa,  che  riesca  contro  l'intenzione.  Garzella,  se- 
condo il  DR.,  sono  «  quei  peli,  che  si  lasciano  lungo  le  mascelle,  e 
con  parola  di  moda  diconsi  favoriti  ».  Cfr.  MX,  V. 

58  Legnetto,  che  s'adopera  nel  giuoco  di  mazza  e  ìììuzo.  V.  princ. 
G.  IV. 

59  Mpanala,  sorta  di  pasticcio  di  carni.  Cfr.  II,  7.  Nunz.  Pagano: 
«  Dapò  lo  fritto  ascelle  na  mpanala.  Che  nfl  a  lo  cielo  l'addore  nne 
.jeva,  De  pulle,  auciello  e  carne  mpasticciata.  Aula  no  parmo,  tanto 
chiena  steva  »  (Le  hhinte  rotola  de  lo  vaiamone,  XVI.  29).  —  Alles- 
sa, lesso.      ^  Peto. 


JORNATA  I.  LA  COPPELLA  T49 

Gomme  l'hai  smedollata, 
E  Gomme  l'hai  squatrata! 
Nsomma,  è  settenzia  antica: 
Ca  lo  vagiano  è  comme  a  la  vessica. 
Jac.    Chi  secata  la  corte, 

Da  chella  brutta  strega  affattorato, 

E  s'abbotta  de  viento, 

E  se  pasce  de  fummo  de  l'arrusto, 

Co  le  vessiche  chiene  de  speranza, 

Ch'aspetta  campanelle 

De  sapone  e  lescia^^, 

Che,  nanze  d'arrivare, 

Crepano  pe  la  via. 

Che  co  la  canna  aperta  resta  ammisso 

Da  tante  sfaorge  e  tante, 

E,  pe  na  pezza  vecchia, 

E  pe  sorchiare  vroda  a  no  teniello. 

Co  na  panella  sedeticcia^^  e  tosta, 

Venne  la  libertà,  che  tanto  costa; 

Chi  dà  lo  cenneraccio  a  sforo  fauzo, 

Vedarrà  laberinte 

De  fraudo  e  trademiente  ; 

Troverrà,  frate,  abbisse 

De  nganne  e  fegnemiente  ; 

Scoprerà  gran  pajese 

De  lengue  mozzecutole  e  marvase. 

Mo  se  vede  tenuto 

Mparma  de  mano,  e  mo  puosto  nzeffunno  ; 

Mo  caro  a  lo  patrone  e  mo  nzavuorrio; 

Mo  pezzente,  mo  ricco  ; 

Mo  grasso  e  luongo,  mo  arronchiato  e  sicco  ! 

Serve,  stenta,  fatica. 

Suda  comme  no  cane, 


6*  Bolle  di  sapone.      62  pane  non  fresco. 


150  LO   CUNTO  DE  LI   CUNTI 

Cammina  cliiù  de  trotto,  che  de  passo, 

E  porta  pe  fi  a  l'acqua  co  l'areccbia. 

Ma  nce  perde  lo  tiempo, 

L'opera  e  la  semmenza; 

Tutto  è  fatto  a  lo  viento, 

Tutto  è  jettato  a  maro; 

Fa  quanto  vuoi,  eh' è  jota; 

Fa  designe  e  modielle 

De  speranze,  de  miereto,  e  de  stiento, 

Ch'ogne  poco  de  viento 

Contr-ario  ogne  fatica  jetta  a  terra. 

A  la  fine,  te  vide  puosto  nante 

No  boifone,  na  spia,  no  Ganemede, 

No  cuojero  cotecone*'^, 

0  puro  uno,  che  facce 

Casa  a  doi  porte,  o  n'ommo  co  doi  facce"'! 
Fai).  Frate,  me  dai  la  vita! 

Cride,  ch'aggio  mezzato 

Chiù  sto  poco  de  tiempo, 

E  chiù  sta  vota  sola 

De  tant'anne,  che  spiso  aggio  a  la  scola. 

Consurta  de  dottore: 

«  Chi  serve  ncorte  a  lo  pagliare  more  ». 
Jac.    Hai  sentuto,  che  sia  no  cortesciano; 

Siente  chi  serve  mo  de  vascia  mano. 

Figlie  no  servetore, 

Bello,  polito  e  nietto. 

Che  sia  de  bona  nfanzia. 

Fa  ciento  leverenzie, 


"3  villanzone,  ingrato. 

''*  Chi  acquista  favore  col  mozzo  di  sua  moglie.  Casa  o  Poteca  a 
dote  ììorte  «  per  indicare,  —  scrive  Partenio  Tosco  — ,  che,  quando 
il  marito  entra  per  una  porta,  l'adultero  se  ne  va  via  per  l'altra  » 
(0.  e,  p.  258). 


JORÌfATA  I.   LA   COPPELLA  151 

T'arresedia*^^  la  casa,  tira  l'acqua, 
Te  mette  a  cocinare, 
Scopetta  li  vestite, 
Striglia  la  mula,  scerga  li  piatte; 
Si  lo  manne  a  la  chiazza, 
Torna  nante  che  secca  na  spotazza. 
Non  sa  mai  stare  co  le  mano  all'anca; 
Non  sa  mai  stare  n'ozio, 
Sciacqua  becchiere  e  jetta  lo  negozio  ^^. 
Ma,  si  tu  ne  fai  prova 
A  cemiento  riale, 

Eetroverrai,  ch'ogne  noviello  è  bielle, 
E  che  la  corza  d'aseno  non  dura; 
Ca,  passato  xre  juorne. 
Tu  lo  scuopre  trafano'^'', 
Potrone  pe  la  vita, 
Rofl&ano  de  trinca, 
Mbroglione,  cannaruto,  joquatore! 
Si  spenne,  fa  lo  granco*^^. 
Si  da  biava  a  la  mula. 
Le  dà  dall'uva  all'aceno; 
Te  mezeja  la  vajassa, 
Te  cerca  le  saccocciole, 
E,  nfine,  pe  refosa^^  de  lo  ruotolo, 
Co  n'arravoglia  cuosemo™: 
Te  fa  netta  paletta  e  se  la  sola: 
Va  legale,  li  puorce,  a  le  cetrola! 
Fab.  Parole  de  sostanzia. 
So  chesse,  tutto  zuco! 


65  Aggiusta,  ordina.      6"  Vaso  immondo. 

6''  Falso,  traditore.      cs  Granchio:  cioè,  ruba.      ^9  Per  giunta. 

"'^  Furto.  Arravoglia  quacsumus:  «  si  finge  essere  unorazione  di 
breviario,  che  cominci  così:  siccome  molte  cominciano  con  una  pa- 
rola e  poi  sussegue  il  quaesumus  ».  Cfr.  VX. 


152  LO   CUNTO  DE  LI  CUNTI 

0  nigro  e  sbentorato 
Chi  matte  a  servetore  meziato! 
Jac.    Eccote  no  smargiasso, 

Lo  protoquanqua  de  li  spartegiaccbe"*. 

Lo  capomastro  de  li  squarciamafaro, 

Lo  majorino  de  li  capoparte, 

Quarto  do  l'arte  de  li  spezzacuoUe  "^, 

L'arcinfanfano  vero  de  li  brave, 

Lo  priore  dell'uommene  valiente! 

Se  picca  e  se  presume 

D'atterrire  la  gente, 

De  te  fare  sorrejere 

Co  na  votata  d'uoccbie; 

Lo  passo  ha  de  la  picca, 

La  cappa  quartiata, 

Carcato  lo  cappiello, 

Ngriccato  lo  crespiello ''^, 

Auzato  lo  mostaccio 

Coll'uoccbie  strovellate, 

Co  na  mano  a  lo  sbianco, 

Sbruffa,  sbatte  li  piede, 

Le  danno  mpaccio  per  fi  a  le  paglioscbe, 

E  se  la  vo  pigliare  co  le  mosche! 

Va  sempre  co  scogliette". 

No  lo  siente  pai'lare 

D'antro  che  sficcagliare: 

Chi  spercia,  chi  spertosa,  chi  sbennegna, 

Chi  smeuza,  chi  smatricola,  chi  screspa, 

Chi  scatamella''^,  sgongola''*'  e  sgarresa", 

Chi  zolla,  chi  stompagna, 


''^  Taglia  giachi.      "^^  V.  n.  47,  p.  25. 

73  Ghiera  all'estremità  della  spada. 

"  Nell'egl.  La  Stufa:  «  Fra  scoglielle  e  vernile  o  leva  o  dace  ». 

75  Smidolla.      '^  Sguscia,  cava  dal  guscio.      77  impiaga. 


JOENATA  I.  LA  COPPELLA  153 

Chi  sbentra,  chi  scocozza,  chi  scervecchia, 

Antro  strippa,  antro  sfocata, 

Antro  abbuffa,  antro  ntomaca. 

Antro  ammacca,  antro  smafara. 

Si  lo  siente  frappare,  terra  tienete! 

Chi  scrive  a  lo  quatierno, 

Chi  leva  da  sto  mnnno, 

Chi  manna  a  li  pariente; 

D'uno  caccia  li  piciole  ^^, 

N'antro  miette  a  lo  sale, 

Chisto  pastena  nterra, 

De  chillo  fa  mesesca'^^, 

Ciento  ne  vetta,  e  ciento  ne  messeja, 

E  sempre  co  streverio  e  co  fracasso, 

Spaccanno  capo  e  sgarrejanno  gambe! 

Ma  la  spata,  pe  quanto 

Mostra  forza  e  valore, 

Zita^**  è  de  sango  e  vedola  de  nore! 
Ma  sta  coppella  te  lo  scopre  a  rammo^^j 
Ca  so  le  sbraviate  de  la  vocca 

Tremmoliccio  de  core; 
Le  cazzeche  dell'nocchie, 
Reterate  de  pede; 

Li  trnone  de  livante, 

Cacavesse  de  jajo; 

Lo  smafarare  nsuonno. 

L'avere  zotte  nveglia; 

Le  tante  liberanze  a  le  nfrnate^^ 

No  sequesto  a  la  sferra. 

La  quale,  comm'a  femmena  uorata. 

Se  vregogna  mosti-arese  a  la  nuda; 


78  Sventrare,  uccidere. 

-9  Carne  tagliata  in  pezzi  e  salata.       §0  Vergine.       «^  Gh'è  rame. 

82  Rimproveri,  minacele. 


154  LO  CUNTO  DE  LI   OUNTI 

Si  pare  male  fele,  ha  sempre  file^^; 

Si  reseca  liune, 

Va  cacanno  coniglie; 

Si  desfida,  è  sarciuto  ed  è  nforrato**; 

Si  menaccia,  è  frusciato  e  1' è  refuso; 

Si  joqua  a  dado  de  smargiassaria, 

Sempre  l'è  fatto  ncuntro; 

Ne  le  parole  è  bravo, 

Ma  ne  l'effetto  è  breve; 

Caccia  mano  a  l'acciaro, 

Ed  assarpa  lo  fierro^^; 

Cerca  arrissa  e  s'arrassa, 

Ed  è  volante  chiù,  che  no  è  valente; 

Tro vanno  chi  l'attoppa  e  lo  chiarisce, 

Trovanno  chi  l'assesta  lo  jeppone, 

Trovanno  chi  lo  sbozza,  e  noe  le  cagna, 

Chi  l'ajusta  li  cammie. 

Chi  le  carda  la  lana. 

Chi  le  dà  pe  le  cegna, 

Chi  le  face  na  ntosa, 

Chi  le  fisca  l'arecchie. 

Chi  le  ntrona  le  mole. 

Chi  le  trova  la  stiva, 

Chi  le  mena  li  ture, 

Chi  lo  scomma  de  sango  ^•', 

0  sborza  na  lanterna, 

0  fa  na  pettenata, 

0  concia  pe  le  feste, 

0  piglia  co  no  usciuolo*', 

0  fruscia  co  no  tutaro, 


83  Giuoco  di  parola  tra  fele,  fiele  e  file,  paura. 
>"  Cucito  e  foderato.      85  Leva  l'ancora  e  fugge. 

86  Ture,  tonsille.  —  Scomma  de  sango,  percuota  a  sangue. 

87  Bastone. 


JORNATA   I.  LA  COPPELLA  155 

0  afferra  a  secozzune, 
0  piglia  a  barvazzale  0  a  sciacquadiente, 
Mascune,  mano  merze,  ntunamente, 
Chechere,  scoppolune,  scarcacoppole, 
Annicchie,  scervecchiune, 
Cauce,  serrapoteclie  e  ntommacune, 
E  le  mette  na  foca  0  pollecara^*. 
Vasta,  ca  piglia  punte,  e  leva  taglie; 
Fa  la  voce  de  l'ommo, 
La  corzeta  de  crapio; 
Semmena  spetezzate, 
E,ecoglie  molegnane^®; 
E,  quanno  tu  te  cride, 
Ca  vo  mestire^'^,  comme  a  caparrone, 
Che  dia  masto  a  n'asserzeto^^ 
E  che  vette  le  mescole; 
Scoppa  di,  fa  buon  juorno. 
Te  resce  no  cavallo  de  retuorno!, 
Affuffa,  alliccia,  assarpa  ed  appalorcia, 
Sporchia,  sfi'atta,  e  se  coglie  le  viole, 
E  squaglia,  e  sfila,  e  sparafonna,  e  spara 
Lo  tiro  de  partenza, 
Se  la  dace  ntallune,  e  sbigua,  e  scorre; 
Se  ne  piglia  le  vertole; 
.  Ajutame  tallone,  ca  te  cauzo  !, 
Le  carcagna  le  toccano  le  spalle. 
Ed  ha  lo  pede  a  leparo,  e  te  joca 
Lo  spatone  a  doi  gamme; 
E,  comme  a  gran  potrone, 
Arranca,  e  fuje;  receve,  e  va  mpresone! 


88  Modi  di  stringer  la  gola  colle  mani.  Per  la  sinonimia  napole- 
tana degli  schiaffi  e  altre  percosse,  cfr.  Partenio  Tosco  (0.  e,  pp.  255-7). 
83  Lividure.      9"  Investire,  cozzare. 
9^  Mandi  in  rovina  un  esercito.  Cfr.  J/.Y.,  Ili,  ecc. 


156  LO  CTJNTO  DE  LI  CUNTI 

Fah.  Retratto  spiccecato 

De  sti  sgarratallune  !  ^ 

0  comm'è  naturale! 

E  di  ca  non  ne  truove 

Chiù  d'uno,  affé!,  de  chisse, 

Che  co  la  lengua  smaglia, 

E  non  vale  pe  cane  de  na  quaglia  ^^I 
Jac.   N'adolatore  mo  te  lauda,  e  sbauza 

Pe  fi  ncoppa  lo  chirchio  de  la  luna; 

Te  vaco  sempre  a  bierzo, 

Te  dà  pasto  e  calomma^^. 

Te  dà  viento  a  la  vela, 

Né  mai  te  contradice; 

Si  si  n'uorco  0  n' Esuopo'', 

Dice  ca  si  Narciso; 

E,  s'aje  nfacce  no  sfriso  ®^, 

Jura,  eh' è  nieo,  e  na  pentata  cosa; 

Si  tu  si  no  potrone. 

Afferma,  ca  si  n' Ercole  0  Sansone; 

Si  de  streppegna  vile, 

Attesta,  eh' è  jenimma  de  no  conte. 

Xsomma,  sempre  t'alliscia  e  te  moseja®*; 

Ma  vi  non  te  legasse  a  le  parole 

De  sti  parabolano  cannarune '' ! 

E  bi  non  nce  facisse  fonnamiento! 

No  le  credere  zubba, 

Ne  le  stimare  nibba^^, 

Non  te  fare  abbiare. 

Ma  fanne  sperienzia  a  sta  coppella; 

'•'^  Int.:  de  cane  joe  no  quaglio.  Trasposizione  scherzosa.  V.  fi.S,  p,  48, 
™  Metaf.  tratta  dal  linguaggio  marinaresco;  calomare,  lasciar  scor- 
rer liberamente  la  gomena  o  altro  cavo. 
^'  Esopo,  del  quale  è  proverbiale  la  bruttezza.        '"'  Sfregio. 
^  Lecca.      ^  Ghiottoni.      ^^  Niente. 


JORNATA   I.    LA   COPPELLA  157 

Ca  tuocche  co  le  mano 

Ca  chisse  hanno  doje  facce, 

Una  facce  da  nante,  una  dereto, 

Ed  hann'autro  a  la  lengua,  antro  a  lo  core; 

So  tutte  lavafacce  e  fegnemiente  ; 

Te  coffeja,  mette  nmiezo"^. 

Dà  la  quatra,  pascheja,  piglia  de  paise  *°°, 

Te  nzavaglia,  te  ngarza,  e  te  nfenocchia, 

E  te  mbroglia,  e  te  ceca,  e  te  mpapocchia 

Quanno  isso  te  asseconna. 

Sacce  ca,  tanno,  tu  curre  tempeste; 

Co  lo  risiilo  mozzeca, 

Te  mbratta  co  l'encomie, 

T'abbotta  lo  pallone, 

E  sbotta  lo  vorzillo; 

Tutto  lo  fine  sujo 

È  da  zeppolejaro  e  scorcogliare, 

E  co  li  vraccbe  de  le  laude  soje, 

E  co  le  filastoccbe  e  paparaccbie. 

Te  caccia  da  lo  core  li  pennacchie^"^; 

Che,  schitto  pe  scroccare 

Quarche  poco  d'argiamma, 

Pe  ire  a  le  pottane  o  le  taverne. 

Te  venne  le  vessiche  pe  lanterne  ! 

Fab.  Che  se  perda  de  chisse  la  semmenta, 
Uommene  ammascarate, 
Che  songo,  pe  schiaffarece  a  no  sacco, 
Fore  Narciso,  e  drinto  parasacco! 

lac.    Siente  mo  de  na  femmena,  che  stace 
A  chi  vene,  a  chi  vace  ^^-  ! 
Vide  na  pipatella, 
N'isce  bello,  no  sfuorgio,  na  palomma, 


99  (EO)  mene  miazo.      i*>0  (es)  de  paiso.      ^^^  Danari. 
^02  Di  una  meretrice. 


158  LO  CUNTO  DE  LI  CUNTI 

No  schiecco,  no  giojello, 

No  cuccopinto,  na  Fata  Morgana, 

Na  luna  quinquagesima  retonna, 

Fatta  co  lo  penniello; 

La  vevarrisse  a  no  becchiero  d'acqua, 

No  muorzo  de  signore, 

Ninnella,  caccia  core! 

Co  le  trozze  t'annodeca, 

Co  r  nocchie  te  smatricola, 

Co  la  voce  te  sbufara! 

Ma,  comme  è  copellata. 

Uh,  quanto  fuoco  vide. 

Quanta  tagliole  e  trapela, 

Quante  mastrille  e  trafeche. 

Quante  matasse  e  gliommare! 

Mille  viscate  aparano, 

Mille  malizie  mentano, 

Mille  trapole  e  machine, 

Moscate  0  stratagemme, 

E  mene  e  contrameno  e  mbroglie  e  sbroglio! 

Tira  comme  a  n'ancino, 

Nsagna^''^  comme  a  barviero, 

Gabba  comme  a  na  zingara**", 


i03  Salassa. 

^oi  Contro  gli  zingari  c'è  una  serie  di  prammatiche,  che  ne  ordi- 
nano la  cacciata  da  Napoli  e  dal  Regno.  V.  pramm.  13  luglio  I559i 
rip.  il  1560,  1569,  1575,  1585,  ecc.  (De  Sariis,  Codice  delle  leggi,  Nap., 
1797,  L,  XII,  T.  LVI).  Il  Del  Tufo  li  menziona  tra  le  nazioni,  ch'erano 
a  Napoli  al  suo  tempo  (1588):  «  I  zingari  ancor  lor,  che  dall'Egitto, 
Popolo  cosi  afflitto,  Vengono  ramingando  »,  trovano  da  vivere,  «  col 
vender  dei  fosilli  e  moscoloni  »  {nis  e,  f.  103).  Nel  seicento,  una  colo- 
nia di  zingari  abitava  in  un  luogo  del  quartiere  degl'Incarnati,  presso 
l'Arenacela:  che  «  fu  assegnato  per  abitazione  a  questa  razza  di  gente, 
per  farla  abitare  fuori  della  città,  e,  quarant'anni  sono  (intorno  al 
1650),  ve  ne  abitavano  più  di  cento  famiglie,  che  avevano  il  di  loro 
capo,  e  qlieslo  chiamato  veniva  Gapitanio  »  (Gel.,  0.  e,  V,  461).  Gfr.  Ili,  3. 


JORNATA   I.  LA   COPPELLA  159 

E  mille  vote  pienze, 

Che  sia  vino,  che  cresca, 

Ed  è  carne,  che  mesca  ^'^^! 

Si  parla,  ntramma,  e,  si  cammina,  ntesse; 

Si  ride,  ntrica,  e,  si  te  tocca,  tegne  ; 

E,  quanno  non  te  manna  a  lo  spitale. 

Si  trattato  d'auciello,  0  d'anemale; 

Che,  co  marditto  stile. 

Te  lassa,  0  senza  penne,  0  senza  pile  ^"^  ! 
Fai).  Si  tu  mettisse  ncarta  quanto  aje  ditto. 

Se  vennarria  seje  pubreche  sta  storia  ^^~; 

Ca  se  ne  caccia  assempio, 

Ca  se  fa  l'ommo  spierto  a  stare  allerta, 

E  non  darese  nmano  a  sse  squartate; 

Perchè  è  moneta  fauza, 

Huina  de  la  carne  e  de  la  sauza! 
Jac,    Si  vide  pe  fortuna  a  na  fenestra 

Una,  che  pare  a  te,  che  sia  na  fata; 

Ha  li  capille  junne. 

Che  pareno  a  bedere 

Catenelle  de  caso  cavalluccio  ^"^  ; 

Lo  fronte,  comme  a  schiocco; 

Ogn'  nocchio,  che  te  parla  e  mire  nfrutto  ; 

Doje  lavra,  comme  a  felle  de  presutto  ; 


i05  Mischia,  è  contagiosa. 

106  II  Braca,  nella  farsa  Sautabanco,  tra  varii  mali  nomina:  «  na 
lìelarella  a  na  ingidnaglia  »  {ms,  e,  f.  31).  Il  Landò:  «  Guardati  di 
rimescolarti  con  cortigiane,  ispezialmente  in  Napoli,  Roma,  Vinegia  ; 
se  non  ne  vuoi  in  premio  riportare  gomme,  piaghe,  doglie,  taruoli, 
pannocchie,  dentanj-ole  e  2?elarelle  »  (cit.  dall' Iml3r.,  l.  e,  p.  100).  Gfr. 
SgTuttendio  (0.  e,  I,  47;  II,  5). 

i07  (EO)  venarria.  —  Storie,  propriamente  quei  libercoli  popolari, 
di  varia  contenenza,  che  si  stampavano,  allora  come  ora,  a  soddi- 
sfare i  bisogni  letterari!  del  popolo. 

i^'S  Trecciuole  di  formaggio,  una  delle  tante  forme  nelle  quali  si 
sogliono  lavorare  i  formaggi,  ancora  in  uso  nelle  nostre  Provincie. 


l6o  LO   CUNTO  DE  LI  CUNTI 

No  piezzo  de  scliiantone, 

Auta  e  desposta,  cornine  a  Gonfalone! 

E  tu,  non  tanto  nce  aje  mpizzato  l'uocchie, 

Che  muore  ashevoluto, 

Che  spantecho  sparuto. 

Catammaro,  catarchio!, 

Saccela  copellare, 

Ca  chello,  che  te  pare 

Na  bellezza  de  sfuorgio, 

Trovarraje,  che  è  no  destro  mpetcnato  ^^''j 

No  muro  ntonacato, 

Mascara  Ferrarese  ^*°, 

Ca  la  zita  ave  spase  li  trappite^^M 

Le  trozze  so  a  posticcio, 

Le  ciglia  songo  tento  a  la  tiella^^-, 

La  facce  rossa  chiù  de  na  scotella 

De  magra,  cauce  vergene  e  bernice; 

Ca  s'alliscia,  se  nchiacca, 

Se  strellicca,  se  nchiastra  e  se  mpallacca 


i09  Vaso  immondo. 

110  II  Folengo,  nel  Baldo,  dice  :  «  Mille  trovai  fogias  in  vestis  pul- 
cra  Ferrara  »  {Macclu,  II,  Ed.  Mantova,  18S2,  i,  93).  Vediamo  ora 
che  cosa  siano  le  tnaschere  Ferraresi.  Il  Garzoni,  discorrendo  dei 
«  mascherari  »,  accenna  all'uso  comunissimo  della  maschera  a  Fer- 
rara, e  poi  dice:  «  Come  si  captivan  meglio  i  giovenetti  inesperti  et 
mal  accorti,  che  sotto  quegli  habiti  di  Ninfe  Ferraresi,  che  portano 
si  garbatamente  attorno  le  donne  meretrici?  »  (0.  e,  p.  649).  Lo 
Sgruttendio   dice:  «  Chella  faccia  janca  e  rossa  De  colure  mpete- 

nata pare Mascarella  Ferrarese  »  (0.  e,  G,  IX).  Nell'opera  dol 

Cantone,  che  citeremo  più  sotto,  c'è  una  «  Tariffa,  overo  annoiamento 
delti  prezzi  per  li  quali  s'haveranno  da  fare  l'estima  per  infrascritto 
robbe  e  mercantie,  tanto  in  la  Regia  Doana  di  Napoli,  quanto  per 
il  Regno  >,  e  in  questa  lista,  a  p.  247,  si  legge:  «  Mascliare  Ferra- 
rese, la  dozzena:  D.  3.  ». 

m  Ha  sfoggiato  le  sue  ricchezze,  ornando  a  festa  la  casa.  V.  più 
oltre:  «  Para  la  casa  soa  comme  la  zita  ».      11*  Padella. 


JORNATA  I.  LA   COPPELLA  l6l 

Tutta  cuonce  ed  agniente, 

Tutta  pezze,  arvarelle, 

Purvere  e  carrafelle, 

Che  pare,  quanno  fa  tanto  apparato, 

Che  boglia  medecare  no  nchiagato  ^^^. 

Quanta  deflette,  e  quanta 

Copreno  le  camorre  ^^^  e  sottanielle! 

Otra,  ca,  si  se  leva  li  chianielli. 

Co  tante  chiastre  e  tante  cioffe  e  tante, 

Vedarraje  fatto  naimo^^^  no  giagante! 
Fab.  Affé,  me  vaje  rescenno  pe  le  mano  !  ; 

Io  devento  na  mummia,  resto  ammisso. 

So  fere  de  me  stisso! 

Ogne  settenzia,  frate,  che  tu  spute, 

Vale  settanta  scute  ; 

Nce  puoje  dare  a  sti  ditte  co  no  maglio, 

Né  te  scazzeche  punto 

Da  chillo  mutto  antico: 

«  La  femmena  è  secunno  la  castagna; 

«  Da  fere  è  bella,  e  drinto  ha  la  magagna  ». 
Jac.    Venimmo  a  lo  mercante, 

Che  fa  cammie  e  recammie, 

Assecura  vascielle  e  trova  accunte; 

Trafeca,  ntrica,  e  mbroglia; 

Tene  parte  a  gabelle, 

Piglia  partite,  e  tira  le  carate^^^; 

Face  vascielle  e  fraveca; 

S'enchie  buono  la  chiaveca; 

Para  la  casa  soa,  comme  la  zita; 

Sforgia,  comme  a  no  conte; 

E  fruscia  seta,  e  sfragne, 

Mantene  uommene,  sierve  e  donne  libere, 


113  Impiagato.      ^^  Gammurre, 


"•>  Impiagato.      ^'■■^  trammurre. 

115  Nano,     iii^  Carato,  parte  che  si  ha  da  un'impresa  commerciale. 


l62  LO   CUXTO  DE  LI   CUNTI 

Ch'  ogn'  uno  n'  ave  midia  ! 
Nigro,  si  se  copella!, 
Ch'è  na  recchezza  n'ajero, 
È  na  fortuna  nfummo, 
Fortuna  vitriola, 
Soggetta  a  mille  viente. 
A  riseco  de  l'onne! 
E  bella  apparescenzia, 
Ma  te  gabba  a  la  vista; 
E,  quanno  chiù  le  vide 
Eellusse  a  furia,  e  a  pietto  de  cavallo, 
Perde  tutto  lo  juoco  pe  no  fallo  ! 
Fah.  De  cbisse  te  ne  conto  le  migliara, 
Ch'hanno  scasate  case, 
E  la  ricchezza  loro 
Se  ne  va  mvesebilio  :  ca  me  vide, 
Ca  no  me  vide!;  e  fecero  a  sto  munno, 
A  barva  de  lo  tierzo  o  de  lo  quarto, 
Scarze  de  sentemiento. 
Buono  pignato,  e  tristo  testamiento! 
Jac.    Ecco  :  lo  nammorato 
Stimma  felice  l' ore. 

Che  spenne,  e  spanne,  nservizio  d'ammore; 
Tene  dece  le  shiamme  e  le  catene, 
Tene  cara  la  frezza. 
Che  lo  spertosa  pe  na  gran  bellezza; 
Confessa,  eh' è  restato 
Co  morire  allancato. 
Co  vivere  stentato; 
Chiamma  gioja  lo  pene. 
Spasso  li  sbotacapo  e  le  cotture; 
Gusto  le  crepantiglie  e  le  martielle; 
Non  fa  pasto,  che  jova; 
Non  fa  suonno,  che  vaglia; 
Suonne  smesate,  e  pasto  senza  voglia; 


JORNATA  I.   LA   COPPELLA  163 

Senza  tirare  paga,  fa  la  renna 

Ntuorno  a  le  porte  amate; 

Senz'essere  archetetto,  fa  designe, 

E  fa  castielle  n'  ajero  ; 

E,  senz'essere  boja, 

Fa  sempre  strazio  de  la  vita  soja! 

Co  tutto  cliesto,  pampaneja  e  ngrassa, 

E  fa  tanto  de  lardo, 

Quanto  cliiù  pogne,  e  smafara  lo  dardo. 

Tanto  fa  festa  e  juoco, 

Quanto  coce  lo  fuoco; 

E  stimma  felicissima  fortuna, 

L'essere  annodecato  co  na  funa! 

Ma,  si  tu  lo  copielle, 

T'adduone,  eh' è  no  rammo  de  pazzia, 

Na  specia  d'ettecia, 

No  stare  sempre  nfuorze 

Tra  paure  e  speranze, 

No  stare  sempre  mpiso, 

Ti'a  dubbie  e  tra  sospette; 

No  stare  sempre  male, 

Gomme  la  gatta  de  Messe  Vasile^^'^, 

Che  mo  chiagne,  e  mo  ride  ; 

No  cammenare  stentato  e  sbanuto, 

No  parlare  a  repieneto  e  nterrutto, 

No  mannare  a  tutte  ore 

Lo  cellevriello  a  pascere; 

E  avere  sempre  mai 

Lo  core  de  mappina. 

La  facce  de  colata, 

Caudo  lo  pietto,  e  l'arma  ntesecata! 

E,  si  pure  a  la  fine 

Scarfa  lo  jaccio  e  scantoneja  la  preta 


i"  Allude  a  sé  stesso,  e  a  un  gatto,  che  pare  prediligesse. 


104  LO  CTJNTO  DE  LI  CUNTI 

De  chella  cosa,  cli'amma, 

Che  quanto  arrasso  è  cliiù,  tanto  è  chiù  arrente, 

Prova  appena  lo  doce,  die  se  pente! 
Fah.  0  tristo  chi  nce  matte 

A  ste  rotola  scarze*^*! 

Nigro  chi  mette  pede  a  sta  tagliola!, 

Ca  sto  cecato  manna 

Li  gnste  a  deta,  e  li  tormiente  a  canna! 
lac.    E  lo  scuro  poeta 

Delluvia  ottave,  e  sbufara  soniette, 

Strude  carta  ed  angresta^^^, 

Secca  lo  cellevriello, 

E  conzumma  le  goveta^^^  e  lo  tiempo, 

Sulo  perchè  la  gente 

Lo  tenga  pe  n'  oracolo  a  lo  munno  ; 

Va  comme  a  spiretato. 

Stentato  e  nsallanuto  ^^\ 

Pensanno  a  li  conciette. 

Che  mpasta  nfantasia, 

E  va  parlanno  sulo  pe  la  via, 

Trovanno  vuce  nove,  a  mille  a  mille  : 

«  Torreggi  an ti  pupille, 

«  Liquido  sormontar  di  fiori  e  fronde, 

«  Funebri  e  stridule  onde, 

«  Animati  piropi 

«  Di  lubrica  speranza, 

«  0  che  dismisurata  oltracotanza  !  » 

Ma,  s'isso  è  copellato. 

Se  ne  va  tutto  nfummo! 

0  che  bolla  composta!  — ,  e  loco  resta! 

Che  matricale!  — ,  e  spienne! 

E,  fatto  lo  scannaglio, 

Quanto  fai  vierze  chiù,  manco  ne' è  taglio! 


"8  Disgrazie.      ii»  Incliioslro.      120  Gomiti,      i^i  Trasognato. 


.TORNATA  I.   LA  COPPELLA  165 

Lauda  chi  lo  desprezza, 

Essauta  chi  l'affanna, 

Stipa  mammona  eterna 

De  chi  se  scorda  d'isso, 

Dà  le  fatiche  soje 

A  chi  mai  le  dà  zubba: 

Cossi  la  vita  sfragne: 

Canta  pe  gloria,  e  pe  miseria  chiagne. 
Fah.  Con  effetto,  passare 

Chille  sante  Martine^'--,  che  portato 

Era  chianta  de  mano  ogne  poeta; 

Ch'a  chesta  negra  etate, 

Li  Mecenate  songo  macenate; 

E  a  Napole,  fra  l'autre, 

(Ch'io  ne  schiatto  de  doglia!). 

Lo  lauro  è  puosto  arreto  da  la  foglia*'-^! 
Jac.    Lo  astroloco,  isso  puro, 

Ave  da  ciento  hanno 

Tante  e  tante  addemmanne: 

Chi  vo  sapere  si  fa  figlio  mascolo. 

Chi  s'ha  lo  tiempo  prospero^-*, 


i-2  Int.:  quei  lieti  giorni.  La  festa  «  del  sacrosanto  di  di  S.  Mar- 
tino, Così  tenuto  in  stima,  Quando  s'assagia  il  vino,  Che  fa  tornare 
ogni  trista  alma  lieta  »,  è  lungamente  descritta,  tra  gli  altri,  dal  Del 
Tufo  {ms.  e,  ff.  134-5).  Velardiniello,  parlando  del  bel  tempo  antico, 
ricorda:  «  cliille  Capodanno  e  Samìnartino  »  (ed.  Porcelli,  p.  8). 

i23  si  è  già  accennato  alla  passione  proverbiale  dei  napoletani  per 
la  foglia,  erbe  ortensi.  V.  n.  58,  p.  40,  e  «.  44,  p.  85.  Nel  libro  For- 
cianae  quaesUones  (Xeap.,  MD XXXVI,  f.  6),  eh' è  del  Landò,  si  legge: 

«  Neapolitanos caulibus  libentissime  vesci  ».  V.,  passim,   il  Del 

Tufo  {ms.  e).  Il  Capaccio  dice:  «  Mangiano  d' herbe  hortensi  trenta- 
milia  e  più  scudi  al  mese  »  (Fon,  p.  847).  Del  Cortese,  tra  1  moltis- 
simi luoghi,  che  si  potrebbero  recare,  citerò  :  «  Napole  mio,  dico  chi 
voglia,  Non  sì  Napole  chiù,  si  non  hai  fogliai  »  {.Micco  Pass.,  m,  23). 

^24  (ED)  die  s'ha  lo  tiempo  prospeto. 


l66  LO  CUNTO  DE  LI  CUNTI 

Chi  se  vence  lo  cliiajeto  *^^, 
Chi  s'ha  sciorte  contraria; 
L'uno,  si  la  segnerà  penza  ad  isso, 
L' antro,  si  ha  da  tronare,  o  fa  l' agrisso '^"j 
E  loco  dà  pastocchie. 
Che  nce  vorria  na  varrà  ^", 
E  meza  ne  nevina  e  dento  sgarra! 
Ma,  drinto  a  sta  coppella, 
Puoi  vedere  s'è  porvere  o  farina; 
Ca,  si  forma  quatrate. 
Se  trova  luongo  e  granne, 
E,  si  desegna  case^^^, 
Non  ha  casa,  né  fuoco; 
Mostra  figure,  e  scopre  brutte  storie  ; 
Saglie  ncoppa  a  le  stelle, 
E  dà  de  culo  nterra; 
All'utemo,  stracciato  e  sbrenzoluso  *^", 
Tutto  lenze  e  peruoglie, 
Le  cascano  le  brache, 
E  loco  miri  astrologia  chiù  vera, 
Ca  mostra  l'astrolabio  co  la  sfera! 
Fah.  Me  fai  ridere,  frate, 

Sibè  non  n' aggio  voglia! 
Ma  chiù  me  vene  riso  a  schiattaricllo, 
De  chi  crede  a  sta  gente; 
Pocca  pretenne  nevinare  ad  autro, 
E  non  nevina,  che  le  vene  aduosso: 
Mira  le  stelle,  e  vrociola  a  no  fuosso  ^^"  ! 
Jac,   N' autro  se  tene  d'essere  patrasso, 
E  se  stira  la  cauza^^^ 


12j  Qui,  nel  senso  proprio:  lite.      i^c  Ecclissi.      ^^  Bastone. 
12*  (EO)  cafet.      129  (Eo)  sbrenzolutn. 

130  Come  Talete,  secondo  il  nolo  aneddoto. 

131  si  mette  in  superbia. 


JOENATA   1.   LA   COPPELLA  *  167 

E  squatra  le  parole,  e  sputa  tunno, 
E  se  stimma  lo  meglio  de  lo  munno! 
Si  tratte  poesia, 

Ne  passa  a  piede  chiuppe  lo  Petracca; 
Si  de  filosofia, 

Te  dà  quianece  e  fallo,  ad  Arestotele; 
D'abaco  no  la  mpatta  a  lo  Cantone  ^^^; 
D'arte  de  guerra  è  sfritto  Cornazzaro^^^; 
D'architettura,  tornatenne  Eucride!; 
De  museca,  dà  piecco  a  lo  Venosa  ^^^; 
De  legge,  è  juto  a  mitto  Farinaccio  ^^^  ; 
E  de  lengua  ne  ncaca  lo  Voccaccio^^^! 
Nfila  settenze,  e  smafara  conziglie, 


132  Di  Oberto  Cantone,  genovese,  è  a  stampa  «  Vuso  pr attico  del- 
Varitmetica  di  Oberto  Cantone  da  Genova,  Professor  delle  discipline 
matematiche.  Nel  quale  con  nuova  inventione  s'insegna  in  inateria 
di  conti  l'uso  tanto  della  Regia  Camera  della  Sommaria  quanto  di 
Negotianti,  ricreanti  et  Artegiani  e  coms  Napoli  cambij  et  recambij 
in  ciascuna  piazza.  In  Napoli,  appresso  Tarquinio  Longo,  MDIG.  Si 
vendono  dal  medesimo  autore  a  Banchi  nuovi  »;  di  pp.  292.  DebUo 
al  eh.  Prof.  L.  T.  Belgrano,  dell'Università  di  Genova,  la  curiosa  no- 
tizia che  questa  frase  del  N.  sia  ancora  viva  nel  popolo  genovese,  il 
quale,  a  significare  una  persona  molto  dotta,  e  non  solo  in  aritme- 
tica, ma  in  qualsiasi  altra  materia,  usa  sbrigarsi  col  dire:  ò  ne  sa 
Giù  de  m,eistro  Cantoni 

133  Gorr.:  Cornazzano.  —  Antonio  Cornazzano,  di  Piacenza,  che 
fiorì  nella  seconda  metà  del  S.  XV.  Scrisse,  tra  l'altro,  in  terza  rima, 
l'opera  Be  Re  Militari. 

134  Carlo  Gesualdo,  Principe  di  Venosa  ( -1614),  il  maggior  ma- 
drigalista italiano.  V.  intorno  a  lui  il  Florimo,  La  sctoola  m,usic.  di 
Napoli,  Nap.,  1881,  I,  74-6. 

135  Prospero  Farinaccio,  romano,  uno  dei  maggiori  giureconsulti 
di  quel  tempo  (1544-1618).  Alla  sua  fama  presso  i  posteri  contribuì 
non  poco  l'essere  stato  il  difensore  di  Beatrice  Cenci.  V.  intorno  a 
lui,  tra  gli  altri,  il  Ghilini.  Teatro  d'huom.  letterati  (Milano,  s.  a., 
p.  386),  e  A.  Bertolotti,  Francesco  Cenci  e  la  sua  famiglia,  1879, 
pp.  203-21,      136  Boccaccio. 


l68  LO  CmfTO  DE  LI  CUNTI 

E  non  vale  a  lo  juoco  de  li  sbriglie  ^^^. 

Ma,  si  vene  a  la  prova, 

Se  trova  ncrosione 

Fra  no  stipo  de  libre  no  cestone  ^^^  ! 
Fai).  0  quanto  è  bestiale 

Lo  presumere  troppo; 

Solea  dire  no  bravo  studianto: 

«  Chi  cbiù  pensa  sapere,  è  chiù  guorante 
Jac.    Dove  lasso  l'archimmia  e  l'arcliemista? 

Già  se  tene  contento. 

Già  se  stimma  felice, 

E,  fra  vinte  o  trenta  anne, 

Prommette  cose  granne. 

Conta  cose  stopenne, 

C'ha  trovato  stillanno  a  lo  lambicco, 

Che  spera  essere  ricco. 

Ila,  comme  se  copella. 

Resta  magnato  tutto, 

E  vede  si  sofistica  è  chella  arte; 

Vede  quanto  è  cecato, 

Sedunto  e  affommecato, 

Ch'a  puosto  le  colonne  de  speranza 

Ncoppa  vaso  di  vrito; 

C'ha  puosto  li  penziere  e  li  designe 

Tutte  miezo  a  lo  fummo; 

Che,  mentre  co  lo  manteco 

Va  le  vanno  le  shiamme, 

Co  le  parole  ntanto, 

Pasce  lo  desederio  de  chi  aspetta 

Chello,  che  mai  non  vene. 

Va  a  caccia  de  secreto, 


i3'7  Birilli.  V.  pr.  G.  IV. 

i38  Giuoco  di  parole  Ira  stipo,  armadio,  e  cestone,  grossa  cest  ■,  4 
anche  sciocco. 


JORNATA   I.   LA   COPPELLA  169 

E  se  va^^^  spobrecanno  pe  no  pazzo; 

Pe  retrovare  la  materia  prima, 

Perde  la  propria  forma; 

Crede  moltiprecare 

L'oro,  e  desmenuisce  chello,  ch'ave; 

Se  magena  sanare 

Li  metallo  malate, 

Ed  isso  se  ne  coi-re  a  lo  spetale; 

E,  ncagno  de  quagliare 

L'argiento  vivo,  azzò  se  spenna  e  vaglia, 

La  stessa  vita,  faticanno,  squaglia. 

E,  mentre  trasmotare 

Se  pensa  nnoro  fino  ogne  metallo. 

Se  trasmuta  da  n'ommo  no  cavallo! 
Fah,  Senza  dubbio  è  pazzia 

A  pigliare  sta  mpresa:  io  n' aggio  visto 

Ciento  case  scasate,  e  poste  nfunno! 

Nullo  ne  luce  maje. 

Ma,  pe  granne  speranza  desperato, 

Ne  va  sempre  affommato,  ed  affammato  !  . 
Jac.    Ma  dimme;  vuonne  chiù  pe  tre  caalle? 
Fah.  Io  stongo  canna  aperta  pe  scortare. 
Jac.    Ed  io  me  ne  jarria  per  fi  a  la  rosa! 
Fah.  Secuta  puro  mo,  che  stai  de  vena! 
Jac.    Si,  quanno  l'arma  non  me  stesse  mpizzo, 

Pocca  passata  è  l'ora  de  lo  mazzeco! 

Perzò,  sfilammonnella, 

E  viene,  si  te  piace, 

A  la  poteca  mia, 

Ca  menarrimmo  nsiemme  li  morfiente  ^■^^  : 

Non  manca  tozze  a  casa  de  pezziente! 


139  /EO)  se  ne  va.      '■^'^  Denti;  e  propr.,  gl'incisivi  e  i  canini. 


Ijo  LO   CUNTO  DE  LI   CUNTI 

Foro  le  parole  de  st'egroca  accompagnate  da  cossi 
graziasi  jeste,  e  co  smorfie  cossi  belle,  che  potive  cac- 
ciare li  diente  da  quante  le  ntesero.  E,  perchè  li  grille 
cbiammavano  la  gente  a  retirarese,  lo  prencepe  lecen- 
ziaje  le  femmene;  con  che  fossero  venute  la  matina  ap- 
priesso  a  secotare  la  mpresa;  ed  isso,  co  la  schiava,  se 
reteraje  a  le  cammare  soje. 


Scompetiira  de  la  Jornaia  primma. 


JORNATA   SECONNA 


H/ra  scinta  l'arba  ad  ognere  le  rote  de  lo  carro  de 
lo  sole,  e,  pe  la  fatica  de  lo  bottare  l'erva  co  la  mazza 
drinto  la  semmoja^  s'aera  __fatta  rossa  comme  a.  m?^  milo 
diece^;  quanno,  levatose  Tadeo  da  lo  lietto,  dapò  na  granne 
stennecchiata,  chiammaje  la  schiava.  E,  bestutose  nquatto 
pizzecbe,  scesero  a  lo  giardino,  dove  trovare  arrevate  le 
dece  femmeue.  Glie,  dapò  fatto  cogliere  quatto  fico  fresche 
ped  uno,  che,  co  la  spoglia  de  pezzente,  co  lo  cuollo  de 
mpiso  e  co  le  lagreme  de  pottana^,  facevano  cannavola  a 
la  gente,  commenzaro  mille  juoche  pe  gabbare  lo  tiempo  fi 
all'ora  de  lo  mazzecare^:  non  lassandoce  ne  Anca  Nicola'^, 


^  Mozzo,  parte  centrale  della  ruota. 

2  Mela  verraigliona.  Il  Cort.  :  «  Ch'avea  na  facce  rossa,  janca  e  bella, 
Gommo  no  mito  dece  slralucente  »  {Micco  Pass.,  Il,  20). 

3  Che  sono  i  tre  requisiti  del  fico,  secondo  il  prov.  napol.  Cosi 
anche  il  Del  Tufo  (ms.  e,  f.  io). 

*  Seguono  31  giuochi  popolari.  Altri  14  ne  accenna  il  X.,  princ. 
G.  IV.  E  quasi  tutti  questi,  e  non  pochi  altri,  enumera  nella  lettera 
alVUneco  shiammeggiante.  —  M.  A.  Perillo,  nella  sua  favola  dram- 
matica La  Pescatrice  (Nap.,  1630),  ha  anche  una  lista  di  giuochi  (I,  7). 

3  Cfr.  Ili,  3,  I.ett.  cit.,  Perillo,  l.  e.  Nel  Patrò  Calienno  de  la  Costa, 
comedia  buffa  (1709),  che  va  col  nome  di  Agasippo  Mercotellis,  c'è 
questa  canzonetta:  «  Anga  Nicola,  Sì  bella  e  sì  bona,  Sì  bella  mmare- 
tata.  Quanta  corna  tiene  ncapo  ?  —  Quattro.  —  E  si  ciuco  avisse  ditto, 
A  cavallo  fusse  scritto,  A  cavallo  de  na  crapa,  Quanta  corna  tiene  nca- 
po? —  Sette  ».  V.  Scherillo,  I  canti  pojìol.  nelV opera  ì>uffa  (in  GBB, 


172  LO   CUNTO  DE  LI   CUNTl 

né  Rota  de  li  cauce'^,  né  Guarda  mogliere'',  né  Covalera^, 
né  Compagno  mio,  feruta  so^,  né  Barino  e  coìnìuannamien- 


I,  i).  Giuoco  ancor  vivo.  Un  fanciullo  nasconde  la  testa  in  seno  a 
Tino  dei  compagni.  Questi  vi  pone  su  le  mani,  con  una  o  più  dita 
aperte,  e  domanda:  «  Quanta  corna  tiene  ncapo?  »  Se  chi  sta  sotto 
indovina,  il  suo  posto  è  preso  da  chi  fa  il  giuoco;  se  no,  si  conti- 
nua, finché  non  indovini.  Cfr.  Pitrè",  Giuochi  fanciidlescht,  N.  87,  A 
càncara  e  bella  (BibL.  Xiri,  pp.  169-75).  A  un  giuoco  a  Anca  Nicola, 
diverso  da  questo  che  ho  descritto,  accenna  il  Rocco,  che  dice:  «  Con- 
siste nel  giungere  ad  una  meta  su  di  un  solo  piede,  ma  senza  saltare, 
e  quindi  strisciando  il  piede  in  modo  che  avanzi  or  la  punta  ora  il 
tallone.  Si  accompagna  il  giuoco  con  questa  cantilena:  Anca  Nicola, 
Sì  bella  e  sì  bona,  Sì  bona  e  si  bella,  Comm'a  culo  de  biella  »  (R). 

8  Cfr.  Ktroduzz.,  e  Leti.  cit.  Accenna  questo  giuoco  anche  il  Del 
Tufo:  «  Chi  poi  dietro  un  cantone,  A  la  rota  di  calci  0  a  lo  vespone  » 
(nw.  e,  f.  loi).  Che  non  ha  a  che  fare  col  giuoco  :  A  la  rota,  a  la  ro- 
ta, descr.  dal  Cortese  (Ciullo  e  Ferna,  p.  13),  né  coli' altro:  Rota, 
rota,  menz.  dal  Serio  {Vern.,  p.  49-50).  Si  suol  fare,  invece  da  una 
compagnia  di  fanciulli,  che  girano  tenendosi  per  mano,  e  respin- 
gendo coi  movimenti  dei  piedi  uno  di  loro,  che  sta  di  fuori  e  deve 
•sforzarsi  di  entrare  nel  circolo.  Chi  lo  lascia  entrare,  va  di  fuori. 

■^  Cfr.  Lett.  Il  Pitrè,  n.  168,  descrive  il  giuoco:  A  vardamv.gghteri 
(/.  e,  290-1);  che,  almeno  nel  nome,  si  riscontra  con  questo. 

*  Cfr.  Lelt.\  Del  Tufo;  Perillo;  Velardiniello  {l.  e,  p.  8);  Cortese 
(  Vajasx.,  I,  25).  B.  Zito  lo  descrive  cosi:  «  Lo  juoco  de  covalera  l'ausano 
a  Napole  li  fegliule  grannecielle  e  se  face  de  chisto  muodo:  s'acchiet- 
tano  otto  o  dece  fegliule,  li  quale  mprimma  jocano  a  lo  tuocco,  a  chi 
de  Uoro  deve  attoccare  a  covare;  ed  a  chillo  che  attocca,  se  le  fa 
fare  juramiento  de  non  vedere  addove  se  vanno  ad  accovare;  e  cosi, 
accovate  che  so,  guidano  nmezzo  chillo  che  cova  e  le  diceno:  Vlenela, 
rienc\  Allora,  chillo  che  cova,  se  parte  da  lo  luoco  addove  steva,  e  va 
cercanno  chille,  che  stanno  accovate,  e  s'abbene  che  nne  trova  quar- 
cuno,  subbeto  l'abbraccia  stritlo,  e  dice:  Aiiciello,  auclello;  e  ntanno, 
chillo  ch'è  pegliato,  l'attocca  a  covare  ad  isso  »  (0.  e,  p.  68).  Ag- 
giungo che  a  quello,  che  è  volto  contro  il  muro,  si  suole  accostare 
uno  dei  giuocatori,  e,  battendogli  sul  dorso,  gli  dice:  «  Cova  cova- 
lera. Chi  ncappa  e  chi  leva....  Spim^'ola  ccà,  spingola  Uà,  Santa  Lucia 
te  fa  ceca!  » 

0  Cfr.  Lett.  e  III,  3.  Il  Garzoni,  in  una  sua  lunga  lista  di  giuochi 
fanciulleschi,  menziona:  A  buon  compagno  son  sta  ferito  (0.  e,  pp. 


JOENATA  II.   TEATTENEMIENTO   I.  I73 

io^°,  né  Ben  venga  lo  Mastro^^,  nèEentinola,  mia  rentinola^^, 
né  Scarreca  la  votta^^^  né  Santa parmo^*,  né  Preta  nzino^', 


563-4).  Il  Serio:  Compagno  mio  feruto  sotto  (0.  e,  50).  Ed  è  forse  lo 
stesso  del  giuoco  siciliano:  A  cumpagnu  sei  flrutu,  descritto  dal 
Pitrè  {l.  e,  n.  no,  pp.  200-1). 

10  Gfr.  Leu.  Nella  G.  IH,  3.  Renza,  abbandonata  dall'amante,  dice: 
«  Vedéreme  fatto  lo  juoco  de  li  peccérille:  Banno  e  eommanna- 
miento  da  parto  de  3Tastro  lommiento,  mentre  me  magenava  de  jo- 
quare  ad  Anca  Nicola  co  tico  !  »  Gfr.  anche  II,  6.  Un  giuoco,  nel  quale 
le  parole  rituali  dovevano  modellarsi  sulle  formole  dei  bandi,  che, 
difatti,  cominciavano,  per  es.:  «  Bando  e  comandamento  da  parte  della 
Gran  Corte  della  Vicaria,  per  lo  quale  si  notifica,  ecc.  ». 

il  Gfr.  IV,  8,  e  Leu., 

i'2  Gfr.  Leu.  —  Rentinola,  rondine.  C'è  un  giuoco,  nel  quale  una 
fanciulla  si  mette  in  ginocchio,  le  altre  le  stendono  le  mani  in  testa, 
e  una  di  loro  gira  intorno,  cantando  :  «  Rondine,  mia,  rondine,  Sus- 
siteve  a  balla.  —  Che  m' aggi  a  sosa  a  fa?  —  Ve  vote  lu  vostro  pa- 
dre. Che  ve  vote  mmarità  ecc.  ».  Così  in  una  versione  beneventana. 
Una  versione  napol.,  invece,  comincia:  «  Tanninola,  tonninola,  Jesce 
a  balla  ».  Finita  la  canzone,  prende  una  delle  fanciulle,  e  ricomin- 
cia il  canto,  finché  non  sieno  prese  tutte,  meno  quella  che  sta  in 
ginocchio.  (F.  Gorazzini,  I  compon,  minori  della  letter.  pop.  Hai.,  Be- 
nevento, 1877,  pp.  108-9). 

i3  Gfr.  Ili,  3.  Il  Serio  ne  riferisce  le  parole:  «  Piripirotta,  Scarreca 
la  votta,  Piriperino,  Scarreca  lo  vino  »  (0.  e,  p.  50).  V.  anche  De 
Bourcard,  (  Usi  e  cost.,  I,  303,  sgg.),  e  L.  Molinaro  del  Chiaro,  in  GBB., 
in,  6),  il  quale  lo  annovera  tra  i  giuochi  infantili,  e  dice  che  si  fa, 
«  ponendo  il  fanciullo  a  cavalcione  siiUe  ginocchia  e  agitandolo  in 
guisa  del  trotto  dei  cavalli...  Nel  ripeter  l'ultimo  verso  si  allargano 
le  cosce  così  da  farvi  cadere  in  mezzo  il  bambino  ».  Gfr.  Pitrè:  A 
scarica  canali  (0.  e,  n.  118,  pp.  212-5). 

1*  Lo  descrive  lo  Sgruttendio  in  un  suo  sonetto:  «  Le  disse:  Cecca, 
va  a  lo  fenestriello,  E  a  sauta  parrìie  videce  jocare  ».  Chiamati  va- 
rii  compagni,  incominciano  a  saltare.  Ma,  al  poeta,  nel  saltare,  si 
rompe  la  cinghia  dei  calzoni,  e  Cecca  esclama:  «  Chisso  n'è  sauta 
parme,  è  zitabona!  »  (0.  e,  I,  37).  Gfr.  il  Serio:  zompa,parm,o  (0.  e, 
P.  50). 

1^  Gfr.  Leti,  e  Del  Tufo  {JL.  e);  Velardiniello:  «  Le  donne:  a  preta 
nsino,  a  covalera,  Tutto  lo  juorno  sino  a  notte  nera  »  (0.  e,  p.  8). 
Potrebbe  esser  qualche  cosa  di  simile  al  giuoco  più  conosciuto  col 


174  LO   CUNTO  DE  LI   CL'NTI 

né  Pesce  marino  ncagnalo^'^,  né  Anola  tranoia,  pizza  foìifa- 
nola^~,  né  Re  mazziero^^,  né  Gatta  cecata  ^^,  né  A  la  lampa  a 
la  lampa^^,  né  Stienne  mia  cortina^^,  né  Taf  aro  e  tamhiirró^^, 


nome  dell'anello.  Un  giuocalore,  con  un  oggetto  (un  sassolino,  o 
anello  che  sia)  chiuso  tra  le  palme,  va  in  giro  per  gli  altri  e  fa  a 
ciascuno  l'atto  di  lasciarglielo  in  mano  o  nel  grembo.  Poi  domanda 
a  uno  di  loro  a  chi  l'abbia  lasciato  realmente.  In  Sicilia  questo 
giuoco  si  dice  anche:  a  la  pitnidda  (Pitrè,  o.  e,  n.  40,  pp.  978). 

i*»  (ES)  né  Agitelo.  E  crea  cosi  un  altro  giuoco,  che  dà  luogo  a 
un'erronea  congettura  del  Liebr.  {A)Wi.,  I,  404).  Cfr.  Leti.,  dove  si  ag- 
giunge: «  Piglia  la  preta  e  shiaccalo  ». 

*^  Cfr.  Leu.,  e  V.  3,  dov'è  una  delle  frasi  fatate  di  Betta, 

18  cfr.  Leu.,  Perillo.  Il  mazziere  è  un  «  serviente  di  magistrato, 
così  detto  dalla  mazza,  che  porta  avanti,  come  i  littori  dei  Romani; 
ed  è  anche  sorta  di  carica  nelle  processioni  delle  nostre  congrega- 
zioni per  lo  stesso  motivo  »  (VM. 

15  Cfr.  Leu.;  Del  Tufo.  Anche  giuoco  comunissimo,  pel  quale  vedi, 
tra  gli  altri,  Corazzini  (0.  e,  pp.  101-2),  e  Pitrè  (0.  e,  n.  100,  pp.  191-4). 

20  cfr.  Leu.  I  giuocatori  mettono  il  loro  indice  sotto  la  palma 
della  mano  d'uno  di  loro,  e  cantano:  «  A  la  lamiìa,  a  la  lamim, 
Chi  ce  more  e  chi  ce  campa;  A  Parrocchia  u  Salvatore,  Chi  ce  re- 
sta va  im  prigione  ».  E  chiudendosi  a  \\n  tratto  la  mano,  chi  resta 
preso  «  va  sotto  ».  Corazzini  (0.  e,  pp.  108  9);  e  cfr.  Imbriani,  Le  can- 
zonette in/ant.  pomiglian.,  Boi.,  1877,  pp.  8,  27.  Si  suol  fare,  general- 
mente, non  come  giuoco  da  sé,  ma  come  principio  di  giuochi. 

21  Cfr.  Leu.;  Velardiniello;  Del  Tufo;  G.  Il,  3.  Corrottamente  anche: 
Stienne,  stienne  matutina  o  MasV Austino.  Ecco  come  lo  descrive  il 
Rocco  nel  GBB,  VII,  i:  «  Più  fanciulli  si  mettono  in  fila  di  lato, 
tenendosi  l'un  l'altro  per  mano;  e,  mentre  il  c^po  del  giuoco  dice: 
f^tienne,  stienne,  mia  cortina,  i  fanciulli  distendono  le  braccia,  il 
più  che  sia  possibile,  e  rispondono:  Aggio  stennuto.  Indi  alla  voce: 
Pance  no  nudeco,  tutta  la  fila  intera  passa  per  sotto  le  braccia  del 
primo  e  del  secondo,  rispondendo:  nce  V aggio  fallo;  e  cosi  il  se- 
condo rimane  colle  braccia  incrocicchiate  sul  petto.  E,  seguitando  a 
dirsi:  Fancenne  n'autro,  questo  passaggio  si  ripete,  finché  tutti  ri- 
mangono in  simile  attitudine  conglomerati.  Ordinariamente,  il  giuoco 
termina  col  ruzzolare  di  tutti  per  terra  ». 

22  Cfr.  L^tt.  e  Del  Tufo:  «  Altri  in  dolce  susurro  Stanno  giocando 
a  taffara  e  tamburro  »  {J.  e).  —   Tafaro,  il  sedere.  —  Cfr.  Pitrè:  A 


JORNATA  II.   TEATTENEMIENTO   I.  175 

né  Travo  luongo^^,  né  le  Gallinelle'^,  né  Lo  viecchio  no 
è  vemcto'^^,  né  Scarreca  varrile-'^,  né  Mammara  a  nocel- 
la-'^, né  Sagliepengola  ^*,  né  Li  forasciute  ^^,  né  Scar- 
rìglia  3Iastrodatto  ^°,  né  "  Vienela  vienela  ^^,  né  Che  tiene 
nmanof,  Vaco  e  lo  filo^',  né  Auciello  auciello,  maneca  de 


tafara  e  lafaruni  (0.  e,  n,  109,  p.  200).  Nella  G.  V,  3,  è  un'altra  delle 
frasi  fatate  di  Betta,  coU'aggiunta:  «  pizze  ngongole  e  cemmino  ». 

23  cfr.  Del  Tufo:  A  cavallo  luongo  {l.  e).  È  una  specie  di  altalena; 
una  lunga  trave,  posta  su  di  una  pietra,  e  ai  due  capi  seggono  due 
fanciulli.  Non  ha  relazione  col  giuoco:  A  travu  longu,  descr.  dal 
Pitrè  (0.  e,  n.  128,  pp.  231-2). 

2*  Cfr.  Lett.^  Perillo,  e  il  Serio  (0.  e,  p.  50). 

25  Cfr.  Leu. 

26  Cfr.  Ze«.,  Velardiniello,  Del  Tufo,  Perillo.  V.  s.  n.  13,  p.  173. 

27  Cfr.  Del  Tufo.  Il  Zito  lo  descrive  cosi:  «  Se  pigliano  duje  pe 
tutte  doje  le  mmano  lloro,  e  s'allargano  le  braccia  de  muodo  che 
veneno  a  fare  no  garbo  commo  se  fosse  na  seggia,  pegliannose  pe 
le  mmano,  comme  se  fosse  lo  darese  la  fede,  ed  allora  uno  se  sede, 
e  li  duje  lo  portano  pesole  pe  la  casa,  e,  cantanno,  diceno  :  A  «lam- 
tnara  e  nocella.  No  sacco  de  pedetella;  Tanta  ne  fece  mammata.  Che 
roppe  la  caudara  »  (o.  e,  p.  85).  V.  anche  un  grazioso  luogo  della 
Rosa  del  Cortese  (A.  I,  s.  i).  Il  giuoco  è  vivo  e  comunissimo.  Cfr. 
Pitrè  (0.  e,  n.  241,  pp.  358-9). 

28  Cfr.  Lett.^  Velardiniello:  «  Io  penso  a  chelle  state,  e  ben  com- 
prendola,  Quanno  era  tanto  bene  e  tanto  accummolo,  Co  chillo  juoco 
de  la  sanni-pendola.  Ed  a  lo  fossetiello  co  lo  strxmimolo  ».  Il  Del 
Tufo:  «  Come  anco  a  dui  tra  lor  la  saglipendola  ».  Cfr.  Cortese 
Ciullo  e  'Perna,  p.  31).  Mi  par  facile  identificarlo  con  una  sorta  di 
altalena. 

29  Forse  qualche  giuoco  simile  a  quello  dei  Turchi  e  Cristiani, 
che  è  messo  in  azione  in  una  comedia  bufi"a  di  F.  Oliva:  Lo  Castiello 
sacchejato  (1722).  O  come  quello  dei  soldati  e  briganti,  ecc.,  in  uso 
ai  giorni  nostri.  Cfr.  Pitrè  (0.  e,  nn.  192-7,  pp,  312-8). 

Sf*  Lo  nomina  anche  "Velardiniello  (?.  e).  Nell'egl.  La  Tenta,  si  trova: 
fare  searriglia,  attaccar  briga,  entrare  in  rissa.  Il  mastrodatto  era 
un  uflSziale  di  tribunale,  ordinatore  dei  processi. 

31  Cfr.  Lett.,  che  aggiunge  «  cuccipannella  ».  È  una  variante  del 
giuoco  a  covalera.  Cfr.  Rocco  in  GBB,  IV,  i. 

32  Non  ne  ho  nessun  riscontro. 


176  LO   CnNTO   DE  LI   CUNTI 

fierro^^,  ne  Grieco  o  acito^\  uè  Aprite  le  porte  a  povero 
f arcane  ^■\ 

Ma,  venuta  l' ora  de  nchire  lo  Stefano,  se  mesero  a  ta- 
vola, e,  magnato  che  appero,  lo  prencepe  disse  a  Zeza, 
che  se  fosse  portata  da  valente  femmena  ad  accommen- 
zare  lo  cunto  sujo.  Essa,  che  ne  aveva  tanta  ncapo  ^^,  che 
jevano  pe  fora,  chiammannole  tutte  a  capitolo,  sceuze  pe 
lo  meglio  chisto,  che  ve  dirraggio. 


33  Cfr.  sopra  n.  8,  p.  172.  Lo  Sgruttendio  riporta  le  parole  più 
compiutamente:  «  Auciello,  auciello,  maneca  de  ficrro,  Fierro  fer- 
rato  mo,  che  si  ncappato  »  (0.  e,  I,  5). 

31  Non  ne  ho  nessun  riscontro. 

3s  Cfr.  Leu.  e  G.  I,  io.  II  Galiani:  «  Questa  canzone  si  canta  an- 
cor'oggi,  facendo  un  giuoco,  in  cui  tutti  si  tengono  per  mano,  gi- 
rando in  cerchio  e  lasciando  uno  in  mezzo,  il  quale  deve  tentare 
di  scappare,  passando  sotto  le  braccia  di  lahma  di  quelle  coppie. 
Dopo  cantati  i  sopradetti  versi  da  colui,  che  sta  in  mezzo,  il  coro 
alza  quanto  più  può  le  braccia,  ma  senza  disgiungere  le  mani,  e  re- 
, plica:  Le  2)orte  stanno  aperte,  si  faraone  vale  entrare.  Se,  in  quel 
momento,  a  chi  sta  in  mezzo  riesce  fuggire  per  uno  di  quei  varchi 
prima  che  lo  arrestino  le  braccia  congiunte,  che  prontamente  si  ab- 
bassano ad  attraversarglielo,  vince;  altrimenti,  torna  dentro  e  si  con- 
tinua il  gioco.  Ci  pare  giuoco  antichissimo.  Il  nome  di  Falcone  si 
dà  a  quel  di  mezzo,  come  se  stesse  rinchiuso  in  una  gabbia  »  {Del 
(Hai.  Napol„  p.  118).  È  descritto,  con  molti  particolari,  in  P.  J.  Reh- 
fues,  Gemàhlde  von  Neapel,  Zurich,  1808,  II,  86-90.  Cfr.  F.  Novali, 
Madonna  Pollatola  (in  Arch.  stud.  trad.  popol.,  IV,  1885,  pp.  3-21). 

3*  (EO)  cfie  aveva  tanC ncapo. 


PETROSINELLA 


TRATTENEMIENTO   PEIMMO  de  la  J0Ii:JfATA  SEC0N3JfA. 


•  Na  femmena  prena  se  magna  li  petrosine^  de  l'uorto  de  n'orca,  e, 
couta  nfallo,  le  prommette  la  razza,  che  aveva  da  fare.  Figlia 
Petrosinella;  l'orca  se  la  piglia,  e  la  ncbiude  a  na  tori'e.  Xo 
prencepe  ne  la  fuje,  e,  nvirtù  de  tre  gliantre^,  gavitano^  lo  pe- 
ricolo dell'orca;  e,  portata  a  la  casa  de  lo  nnammorato,  deventa 
prencepessa. 

Hi  cossi  granne  lo  desiderio  mio  de  mantenere  alle- 
gra la  prencipessa,  che  tutta  sta  notte  passata,  dove  an- 
tro non  se  sente  ne  da  capo,  né  da  pede,  n'aggio  fatto 
antro,  che  revotare  le  casce  vecchie  de  lo  cellevriello, 
e  cercare  tutte  li  scaracuoncole  ■*  de  la  mammona,  scie- 
gliendo  fra  le  cose,  che  soleva  contare  chella  bona  arma 
de  madamma  Chiarella  Vusciolo^,  vava  de  ziemo,  (che 
Dio  raggia  ngrolia,  nsanetate  vostra!),  chille  cunte,  che 
me  so  parzete  chiù  a  proposeto  de  ve  sborzare  uno  lo 
juorno.  De  li  quale,  s'io  non  m' aggio  cauzato  l' nocchie 
a  lamerza^,  me  mageno  che  averrite  sfazione.  E,  si  non 
serveranno  pe  squatre  armate  da  sbaragliare  li  fastidio 
de  l'anemo  vuostro,  saranno  a  lo  manco  trommette  da 
scetare  sto   compagne  meje  a  scire  ncampagna  co   chiù 


i  Prezzemolo.      ~  Ghiande.      3  Evitano.       ^  Cavità,  ripostigli. 
5  V.  Introd.      G  Al  rovescio. 


lyS  LO   CUNTO  DE   LI   CUNTI 

potenzia  de  le  povere  forze  meje,  pe  sopprire  co  l'ab- 
bonnanzia  de  lo  ngiegno  loro  a  lo  defletto  de  le  parole 
meje. 

Era  na  vota  na  femmena  prena,  chiammata  Pascadozia; 
la  quale,  affacciatose  a  na  fenestra,  che  sboccava  a  no 
giardino  de  n'orca,  vedde  no  bello  quatro  de  petrosine. 
De  lo  quale  le  venne  tanto  golio,  che  se  senleva  asbie- 
volire.  Tanto  che,  non  potenuo  resistere,  abistato"  quanno 
scette  l'orca,  ne  cogliette  na  vraucata.  Ma,  tornata  l'orca 
a  la  casa,  e  volenno  fare  la  sauza,  s'addonaje,  ca  nc'era 
menata  la  fauce,  e  disse:  «  Me  se  pozza  scatenare  lo 
«  caollo,  si  nce  matto  sto  maneco  d'ancino  *,  e  non  ne  lo 
«  faccio  pentire,  azzò  se  mpara  ogne  une  a  magnare  a 
«  lo  tagliere  sujo,  e  no  scocchiariare  pe  le  pignate  d'au- 
«  tre!  »  Ma,  continovanno  la  povera  prena  a  rescennere^ 
all'uorto,  nce  fu  na  matina  mattuta  da  l'orca.  La  quale, 
tutta  arraggiata  e  nfelata,  le  disse:  «  Aggiotence  ncap- 
«  pata,  latra,  mariola!  E  clie  ne  paglie  lo  pesotie  de 
«  st'uorto,  die  viene,  co  tanta  poca  descreziono,  a  zep- 
«  poliarene  l'erve  meje?  Affé,  ca  non  te  mannarraggio 
«  a  Roma  pe  peuetenzia!  »  Pascadozia,  negvecata,  com- 
menzaje  a  scusarese,  decenno,  ca  non  pe  cannarizia  *",  o 
lopa^^  ch'avesse  ncuorpo,  l'aveva  cecato  lo  diascance  a  fare 
st'arrore  ;  ma  ped  essere  prena,  e  dubetava,  che  la  facce  de 
la  criatura  non  nascesse  semmenata  de  petrosine  *^  ;  anze, 
deveva  averele  grazia,  che  no  l'avesse  mannato  quarche 
agliarulo".  «  Parole  vo  la  zita,  —  resposo  l'orca  — ;  no 


'  Adocchialo.      >*  M'imlialto  nel  ladro      ^  (EO)  rcscedere. 

1"  Golosità.      1^  Fama  grande,  da  lupo. 

'2  Allude  alla  credenza  popolare  sulle  voglie  delle  incinte.  Cfr.,  tra 
gli  altri,  Pilrè  (o.  e,  XV,  115-29). 

13  Secondo  l'accennata  credenza,  chi  non  soddisfi  alla  voglia  di 
un'incinta,  ne  ha  per  punizione  il  male,  detto  orzaiuolo,  che  con- 
siste nel  gonfiore  ed  arrossimento  della  palpebra. 


JOENATA  ir,   TRATTENEMIENTO  I.  179 

«  me  noe  piscile  co  sse  cluaccliiare  !  Tu  hai  scomputo  lo 
«  staglio  de  la  vita,  si  non  prommiette  de  daremo  la  cria- 
«  tura,  che  farrai,  0  mascolo  0  femmena,  che  se  sia  ». 
La  negra  Pascadozia,  pe  scappare  lo  pericolo,  dove  se 
trovava,  ne  joraje  co  na  mano  ncoppa  all'autra;  e  cossi 
l'orca  la  lassaje  scapola.  Ma,  venuto  lo  tiempo  de  parto- 
rirò, fece  na  figliola  cossi  bella,  ch'era  na  gioja,  che,  pe 
avere  na  bella  cimma  de  petrosino  mpietto,  la  chiammaje 
Petrosinella.  La  quale,  ogne  juorno  crescenno  no  parmo, 
comme  fu  de  sette  anne,  la  mannaje  a  la  majestra.  La 
quale  sempre  che  jeva  pe  la  strata,  e  se  scontrava  col- 
l'orca,  le  deceva:  «  Di  a  mammata,  che  s'allecorde  de 
«  la  mprommessa!  »  E,  tanta  vote  fece  sso  taluerno^^, 
che  la  scura  mamma,  non  avenno  chiù  cellevrièllo  de  sen- 
tire sta  museca,  le  disse  na  vota:  «  Si  te  scuntre  co  la 
«  solita  vecchia,  e  te  cercarrà  sta  mardetta  prommessa, 
«  e  tu  le  respunue:  pigliatella!  »  Petrosinella,  che  non 
sapeva  de  cola^"',  trovanno  l'orca,  e  facennole  la  stessa 
proposta,  le  respose  nocentemente,  comme  l'aveva  ditto 
la  mamma.  E  l'orca,  afferratala  pe  li  capille,  se  ne  la 
portaje  a  no  vosco,  dove  non  trasevano  mai  li  cavalle 
de  lo  sole,  pe  n'essere  affedate  a  li  pascolo  de  chell'om- 
bre,  mettennola  drinto  a  na  torre,  che  fece  nascere  ped 
arte,  senza  porte,  né  scale,  sulo  co  no  fenestriello.  Pe 
la  quale,  pe  li  capille  de  Petrosinella,  ch'erano  luonghe 
luonghe,  saglieva  e  scenneva,  comme  sóle  batto  ^*^  de 
nave  pe  le  nsarte  dell' arvolo.  Ora  soccesse,  eh'  essenno 
fora  de  chella  torre  l'oi'ca,  Petrosinella,  cacciato  la  capo 
fora  de  chillo  pertuso,  e  spase  le  trezze  a  lo  sole  ^",  pas- 


i^  Molestia,  insistenza.      ^^  Che  era  semplice,  senza  furberia. 

16  (ES)  bratto.  —  Mozzo  di  bastimento. 

i~  Cfr.  G.  Ili,  I.  Le  donne,  com'è  noto,  usavano  allora,  secondo  la 
moda,  imbiondire  i  capelli;  onde,  dopo  averli  intrisi  di  una  speciale 
mistura,  si  esponevano,  la  mattina,  per  lunghe  ore,  al  sole,  coi  capelli 


l8o  LO   CTJNTO  DE  LI  CUNTI 

saje  lo  figlio  de  no  prencipe.  Lo  quale,  vedenno  doje 
bannere  d'oro,  che  chiammavano  l'arme  ad  assentarese  *^ 
.a  lo  rollo  d'ammore  ^^,  e  miranno  drinto  a  chelle  onne  pre- 
ziose na  facce  de  serena,  che  ncantava  li  core,  se  ncra- 
picciaje  fora  de  mesura  de  tanta  bellezze.  E,  mannatole 
no  memmoriale  de  sospiri,  fu  decretato,  che  se  l'assen- 
tasse la  chiazza  a  la  grazia  soja,  e  la  mercanzia  resci 
de  manera,  cho  lo  prencepe  appo  calate  de  capo  a"** 
vasate  de  mano,  nocchie  a  zennariello^^  a  leverenzie, 
rengraziamiente  ad  afferte,  speranze  a  prommesse,  e  bone 
parole  a  liccasalemme--.  La  quale  cosa  continuata  pe 
chiù  juorne,  s'addomestecaro  de  manera,  che  vennero  ad 
appontamiento  de  trovarese  nsiemme.  La  quale  cosa  do- 
veva essere  la  notte,  quanno  la  luna  joqua  a  passara 
muta"^  co  le  stelle,  ch'essa  averria  dato  l'addormio-*  a 
l'orca,  e  ne  l'averria  aisato  co  li  capille.  E,  cossi  restate 
de  commegna,  venne  l'ora  appontata;  e  lo  prencepe 
se  consignaje  a  la  torre.  Dove,  fatto  calare  a  sisco  le 
trezze  de  Petrosinella,  ed  aiferratose  a  doi  mano,  disse: 
«  Aisa^^!  »;  e,  tirato  ncoppa,  schiaifatose  pe  lo  fene- 
striello  drinto  la  cammara,  se  fece  no  pasto  de  chillo  pe- 
trosino^de  la  sauza  d'ammore.  E,  nante  che  lo  sole  moz- 
zasse li  cavalle  suoje  a  sautare  pe  lo  chirchio^"  de  lo 
zodiaco,  se  ne  calaje  pe  la  medesema  scala  d'oro  a  fare 
li  fatto  suoje.  La  quale   cosa  continuanno  spesse  vote  a 


sparsi  e  la  fronte  circondata  dalle  larghe  falde  di  un  cappello  di 
paglia.  V.:  Les  femmes  blondes  selon  les  pei7itres  de  V école  de  Venise 
2ìar  deux  Venctiens  (cioè  A.  Baschet  e  Feuillet  de  Conches),  Paris., 
A.  Aiibry,  MDCCCLXV,      i8  Iscriversi. 

i3  Nella  cit.  comm.:  La  necessità  aguzza  t Ingegno:  «  Eh  comme 
steva  lesto  pe  me  scrivere  a  lo  rollo!  »  (II,  9). 

20  (EO)  e,  e  così  più  avanti,  e  zennarlello.  Ma  crron. 

21  Occhiolino,  sbizzala  d'occhio.      22  Lusinghe,  moine. 

23  V.  n.  20,  p.  36,      24  (ES)  adduobbio.      25  Alza,  tira  su. 
26  Gfr.  n.  II,  p.  6. 


4 

.TORNATA   ir.   TRATTENEMIENTO  I.  l8l 

fare,  se  n'addonaje  na  commare  dell'orca;  la  quale,  pi- 
gliannose  lo  mpaccio  de  lo  Russo-",  voze  mettere  lo 
musso  a  la  merda,  e  disse  all'orca,  che  stesse  ncelle- 
vriello,  ca  Petrosinella  faceva  l'ammore  co  no  cierto  gio- 
vene,  e  sospettava,  che  non  fossero  passate  chiù  nante 
le  cose;  perchè  vedeva  lo  moschito^*,  e  lo  trafeco,  che 
se  faceva;  e  dobetava,  che,  fatto  no  leva  ejo^^,  non  fos- 
sero sfrattate  nante  Majo^*^  da  chella  casa.  L'orca  ren- 
graziaje  la  commare  de  lo  buono  avertemiento,  e  disse, 
ca  sarria  stato  penziero  sujo  de  mpedire  la  strata  a  Pe- 
trosinella, otra  che  non  era  possibile,  che  fosse  potuta 
foire  ped  averele  fatto  no  ncanto,  che,  si  n'  aveva  mano 
tre  gliantre,  nascose  drinto  a  no  trave  de  la  cecina,  era 
opera  perza,  che  potesse  sfilarennella.  Ma,  mentre  erano  a 
sti  ragionamiente^^  Petrosinella,  che  steva  co  l'aurecchie 
appezzute  ^'-,  ed  aveva  quarche  sospetto  de  la  commare, 
ntese  tutto  lo  trascurzo.  E,  comme  la  notte  spase  li  ve- 
stite nigre,  perchè  se  conservassero  da  le  carole,  venuto 
a  lo  solito  lo  prencepe,  lo  fece  saglire  ncoppa  li  trave.  E, 
trovate  le  gliantre,  le  quale  sapenno  comme  se  l'avevano 
da  adoperare,  ped  essere  stata  fatata  dall'orca,  fatta  na 


^'^  Gfr.  IV,  I.  La  frase  s'incontra  spesso  negli  scrittori  dialettali. 
Partenio  Tosco  la  crede  tutta  napoletana,  e  ne  illustra  l'origine:  lo 
Russo  era  un  tale,  che,  andando  a  giustiziarsi,  «  si  prendeva  pensiero 
che  il  pollo  nello  spiede  non  si  bruciasse  »  (o.  e,  p.  284).  Ma,  in- 
vece, la  frase  è  pretta  fiorentina.  V.  il  Cecchi.  Dichiar.  di  molti  prov. 
detti  e  parole  della  nostra  lingua  (ristamp.  con  V Assiuolo,  Commedia, 
Milano,  Daelli,  1863,  p.  72).      28  u  ronzar  come  mosca. 

29  Tolto  tutto  ciò  che  era  in  casa. 
'  30  Don  Pietro  Fernando  de  Castro,  Conte  di  Lemos,  secondo  viceré 
di  Napoli  di  questo  nome  (1610-1616),  mandò  fuori  una  prammatica: 
«  Che  la  mutazione  delle  case  a  pigione,  ordinata  farsi  al  primo  di 
maggio,  si  fosse  fatta  ai  quattro  del  medesimo  mese,  ed,  essendo 
festa  di  precetto,  si  facesse  il  giorno  seguente  »  (Parrino,  Teatro  dei 
viceré,  Nap.,  1692;  II,  84).  Gfr.  anche  De  BoTircard  (0.  e,  I,  185-201). 

31  (EO)  ragunamiente      32  Tese, 


l82  LO   CTJKTO   DE   LI   CUNTI 

scala  de  fonecella,  se  ne  scesero  tutte  duje  a  bascio,  e 
commenzaro^^  a  toccare  de  carcagne  verzo  la  cetate.  Ma, 
essenno  viste  a  lo  scire  da  la  commare ^',  commenzaje  a 
strillare,  chiammanno  l'orca;  e  tanto  fa  lo  strillatorio, 
che  se  scetaje.  E,  sentenno  ca  Petrosinella  se  n'era  fojuta, 
se  ne  scese  pe  la  medesima  scala,  ch'era  legata  a  lo  fe- 
nestriello,  e  commenzaje  a  correre  dereto  li  nnamorate. 
Li  quale,  comme  la  veddcro  venire,  chiù  de  no  cavallo 
scapolo,  a  la  vota  lloro,  se  tennero  perdute.  Ma,  lecor- 
dannose  Petrosinella  de  le  gliantre,  ne  jettaje  saboto 
una  nterra.  Ed  eccote  sguigliare  no  cane  corzo,  cossi  ter- 
ribile, ch'o  mamma  mia!  Lo  quale,  co  tanto  de  canna  a- 
perta,  abbajanno,  jeze  ncontra  all'orca  pe  se  ne  fare  no 
voccone.  Ma  chella,  ch'era  chiù  maliziosa  de  parasacco, 
puostose  mano  a  la  saccocciola,  ne  cacciaje  na  panella; 
e,  datola  a  lo  cane,  le  fece  cadere  la  coda,  ed  ammosciare 
la  furia.  E,  tornato  a  correre  dereto  chille,  che  fojevano, 
Petrosinella,  vistola  avvecenare,  jettaje  la  seconna  glian- 
tra.  Ed  ecco  scire  no  feroce  lione,  che,  sbattenno  la  coda 
nterra,  e  scotolanno  li  crine,  co  dui  parme  de  cannai'one 
spaparanzato,  s'era  puosto  all'ordene  de  fare  scafacelo ^^ 
dell'orca.  E  l'orca,  tornanno  arroto,  scortecaje  n'aseno, 
che  pasceva  miezo  a  no  prato  ;  e,  puostose  la  pella  ncoppa, 
corze  de  nuovo  ncontra  a  chillo  lione.  Lo  quale,  creden- 
nose  che  fosse  no  ciuccio,  appo  tanta  paura,  ch'ancora 
fuje.  Pe  la  quale  cosa,  sautato  sto  secunno  fuosso,  l'orca 
tornaje  a  secotare  chille  povere  giuvane,  che,  sentenno 
lo  scarponejare,  e  vedenno  la  nuvola  de  la  porvere,  che 
s'auzava  a  lo  cielo,  conjetturaro  ca  l'orca  se  ne  veueva 
de  nuovo.  La  quale,  avenno  sempre  sospetto,  che  no  la 
secotasse  lo  lione,  non  se  avea  levato  la  pelle  dell'aseno. 
Ed,  avonno  Petrosinella  jettato  la   terza  gallozza^",   ne 


33  (EO)  commenzaje.      3i  (eq)  da  le  cammare. 
35  Propr,:  schiacciare.      30  ohiandn. 


JORNATA    II,   TRATTENEMIENTO   I.  183 

scette  no  lupo.  Lo  quale,  senza  dare  tiempo  all'orca  de 
pigliare  nuovo  partito,  se  la  norcaje  comm'a  n'aseno,  e 
li  nammorate,  scenno  de  mpaccio,  se  ne  jettero  cliiano 
chiano  a  lo  regno  de  lo  prencepe.  Dove,  co  bona  lecen- 
zia  de  lo  patre,  se  la  pigliaje  pe  mogliere,  e  provaro, 
dapò  tante  tempeste  de  travaglie  : 

Che  n'ora  di  buon  puorto 

Fa  scordare  cient'anne  de  fortuna! 


VERDE  PRATO 


TkATTENEMIENTO  SECUSNO  de  la  JoENATA  SECO]!mA. 

Nella  è  amata  da  no  prencepe,  lo  quale,  pe  no  connutto  de  cristallo, 
va  spesse  vote  a  gaudere  cod  essa.  Ma,  rutto  lo  passo  da  le  mi- 
diose  de  le  sore,  se  taccareja^  tutto,  e  sta  nflne  de  morte.  Nella, 
pe  strana  fortuna,  ntenne  lo  remmedio,  clie  se  pò  fare,  l'appleca 
a  lo  malato,  lo  sana,  e  lo  piglia  pe  marito. 

v_/  bene  mio,  e  co  quanto  gusto  sentettero  fi  mponta 
lo  cunto^  de  Zeza;  tanto,  che,  si  avesse  durato  n'au- 
tr'ora,  le  sarria  parzeto  no  momento!  Ed,  avenno  da  fai'e 
la  veceta  soja  Cecca,  essa  cossi  secotai  lo  parlare. 

È  na  gran  cosa  da  vero,  quanno  facimmo  buono  lo 
cunto,  che  da  lo  stisso  ligno  rescano  statole  d'idolo  e 
travierze  de  forche  ;  seggo  de  mperature,  e  copierchie  de 
cantari;  commo  ancora  strana  cosa  è,  che  da  na  pezza 
stessa  se  faccia  carta,  che,  scrittoce  lettere  ammorose, 
aggia  vasate  de  bella  femmena  e  stojate'*  de  brutto  ma- 
faro^:  cosa  che    farria    perdere    lo   jodizio   a  lo  meglio 


i  II  Liebr.  nota:  «  Questo  titolo  non  ha  nessuna  relazione  colla 
fiaba  »  {Anni.,  I,  405).  Ma  ho  altrove  avvertito  (v.  Introd.  e  Tav.  di 
riscontri)  che  questa  fiaba  popolare  ebbe  una  redazione  scritta,  pri- 
ma di  questa  del  N.  {neWAngitia  di  M.  A.  Biondo,  Roma,  154°)»  nella 
quale  il  principe  si  chiama  IMnna  verde.  Il  che  mi  fa  pensare  che 
Verde  jìrato  dovesse  essere  il  nome  del  principe:  cosa  non  detta  dal 
N.  per  trascuraggine. 

2  Si  taglia.      3  (Eo)  gìtsto.      ■»  Forbiture,      &  Deretano. 


JORNATA  II.   TRATTEOTEinENTO  II,  185 

astrolaco  de  lo  munno.  Tanto  se  pò  dire  medesemamente 
de  na  stessa  mamma,  da  la  quale  nasce  na  figlia  bona  e 
n'autra  ruina'';  na  petosa'''  e  na  massara;  na  bella  e  na 
brutta;  na  mediosa  e  n'ammorevole;  na  casta  Diana  e  na 
Catarina  Papara^;  na  sfortunata  e  na  bona  asciortata; 
che,  pe  ragione,  essenno  tutte  de  na  streppegna,  dever- 
riano  essere  tutte  de  na  natura.  Ma  lassammo  sto  de- 
scurzo  a  chi  chiù  ne  sape:  ve  portarraggio  schitto  l'as- 
sempio  de  chesto,  cbe  v'aggio  azzennato,  co  tre  figlie  de 
na  mamma,  dove  vedarrite  le  deverzefcate  de  costumme, 
che  portaje  le  marvase  drinto  no  fuosso,  e  la  figliola  da 
bene  ncoppa  la  rota  de  la  fortuna. 

Era  na  vota  na  mamma,  ch'aveva  tre  figlie,  doi  de  le 
quale  erano  accessi  sbentorate,  che  mai  le  veneva  na 
cosa  mparo;  tutte  li  designo  le  rescevano  travierze,  tutte 
le  speranze  le  rescevano  a  brenna^.  Ma  la  chiù  picciola, 
cb'era  Nella,  portaje  da  lo  ventre  de  la  mamma  la  bona 
ventura;  e  creo,  ca,  quanno  essa  nascette,  se  conzertaro 
tutte  le  cose  a  darele  lo  meglio  meglio,  che  potettero: 
lo  cielo  le  deze  l'accoppatura  de  la  luce  soja;  Vennero, 
lo  primmo  taglio  de  la  bellezza;  Ammore,  lo  primmo 
vullo  de  la  forza  soja;  natura,  lo  shiore  shiore  de  li  co- 
stumme. Non  faceva  servizio,  che  no  le  colasse  a  chium- 
mo;  non  se  metteva  a  mpresa,  che  no  le  venesse  a  pilo; 
non  se  moveva  a  ballo,  che  no  ne  scesse  a  nore.  Pe  la 
quale  cosa,  non  tanto  era  da  le  guallarose  ^"^  de  le  sere 
midiata,  quanto  era  da  tutte  l'autre  amata  e  voluta  bene; 


6  Rovina  della  casa.      "^  (ES)  patrona.  —  Pigra,  scioperata. 

s  Fu,  probabilmente,  qualche  donna  famosa  in  quel  tempo  per  dis- 
solutezza 0  delitti.  A  proposito  del  cognome  Papara,  è  nota  Luisa 
Papara,  figlia  d'Aurelio,  che,  sulla  fine  del  S.  XVI,  fu  una  delle  fon- 
datrici del  Collegio  della  Scorziata,  e  fondò  poi  un  altro  conserva- 
torio nel  vico,  che  ancora  porta  il  suo  nome,  di  vico  Paparelle  (Gfr. 
Gel.,  o.  e,  ITI,  208,  781).      9  Crusca:  cioè,  a  niente. 

10  Metaf.:  invidiose. 


l86  LO   CUNTO   DE   LI    CUNTI 

non  tanto  le  sore  l'averriano  voluta  mettere  sotta  terra, 
quanto  l'antro  gente  la  portavano  mparma  de  mano.  Ed 
essenno  a  chella  terra  no  prencepe  fatato,  lo  quale  jeva 
pe  maro  de  la  bellezza  soja,  tanto  jettai  l' amo  de  la 
servetute  ammorosa  a  sta  bella  aurata'",  pe  fi  che  la 
ncroccaje  pe  le  garge  de  l'affetto,  e  la  fece  soja.  E,  per- 
dio potessero,  senza  sospetto  de  la  mamma,  ch'ex\a  na 
mala  feruscola^',  gauderese  nsiemme,  lo  prencepe  le  dette 
na  certa  porvere,  e  fece  no  canale  de  cristallo,  che  re- 
sponneva  da  lo  palazzo  riale  fì  sotta  a  lo  lietto  de  Nella, 
ancora  che  stesse  otto  miglia  lontano,  decennole  :  «  Ogne 
«  bota,  che  tu  me  vuoi  covare,  comme  a  passare,  de 
«  ssa  bella  grazia,  e  tu  miette  no  poco  de  ssa  porvere  a 
«  lo  fuoco,  ca  io,  subbeto,  pe  drinto  a  lo  canale,  me  ne 
«  vengo  a  ciammiello '^,  correnno  pe  na  strata  de  cri- 
«  stallo  a  gaudere  ssa  faccio  d'argiento  ».  E,  cosi  ap- 
puntato, non  c'era  notte,  che  non  facesse  lo  prencepe  lo 
trase-ed-jesce,  e  lo  va-ca-viene  *^,  pe  chillo  connutto.  Tanto 
che  le  sore,  che  stavano  spianno  li  fatte  de  Nella,  addo- 
uatose  de  lo  fatte  feste*',  fecero  conziglio  de  nzoccarele '-' 
sto  buono  muorzo.  E,  pe  sgarrare  lo  filato  de  sti  amure 
loro,  jettero  a  rompere  de  parto  mparte  lo  canale.  Tanto 
che,  jettanno  chella  negrecata  fegliole  la  porvere  a  lo  fuo- 
co, pe  dare  signo  a  lo  nammorato,  che  se  ne  venesse,  chillo, 
che  soleva  venire  nudo  correnno  a  furia,  se  couciajo  de 
manera  pe  chelle  rotture  de  cristallo,  che  fu  na  compas- 
sione a  vedere.  E,  non  potenno  passare  chiù  nanze,  tor- 
naje  a  reto   follato   tutto,   comm'a   bracone   Todisco*",  e 


^^  Orata.  Lo  nomina  il  Del  Tufo  Ira  i  pesci  rli  Gliiaia  (ms.  e,  IL  7-8). 

11  Ch'era  un  cattivo  arnese. 

12  zimbello:  uccello  attaccalo  a  un  filo  per  richiamo. 

13  Entra  ed  esci,  e  va  e  vieni.      1*  Successo,  fatto  compiuto, 
is  (ED)  nzorcarelCé  —  Propr.:  spezzare,  interrompere. 

18  Per  intender  l'allusione,  bisogna  ricordare  che  i  signori  Tede- 
schi: «  costumano  portare  alcuni  braconi  con  tagli  lunghi  fino  al 


.TORXATA  II.   TRATTENEMIENTO  II.  187 

se  pose  a  lietto,  faceuaoco  venire  tutte  li  miedece  de  la 
citate.  Ma,  perchè  lo  cristallo  era  ncantato,  le  ferite  foro 
cossi  mortale,  che  non  ce  jovava  remmedio  ornano.  Pe 
la  quale  cosa,  vedenno  lo  re  desperato  lo  caso  de  lo  fi- 
glio, fece  jettare  no  hanno:  che  qualonca  perzona  avesse 
arremmediato  a  lo  male  de  lo  prencepe,  s'era  femmena, 
nce  l'averria  dato  pe  mainto,  e,  s'era  mascolo,  Taverna 
dato  miezo  lo  regno.  Sentuto  sta  cosa  Nella,  che  span- 
tecava  pe  lo  prencepe,  tentase  la  faccia,  e  stravestutase 
tutta,  de  nascuso  de  le  sore,  se  partette  da  la  casa  pe 
irelo  a  vedere  nanze  la  morte  soja.  Ma,  perchè  oramai 
le  palle  naurate  da  lo  sole,  co  le  quale  joqua  pe  li  campo 
de  lo  cielo,  pigliavano  la  renza^'''  verzo  l'occaso,  se  le 
fece  notte  a  no  vosco,  vicino  la  casa  de  no  uerco.  Dove, 
pe  foire  quarche  pericolo,  se  ne  sagliette  ncoppa  a  n'ar- 
volo.  Ed,  essenno  l'uerco  co  la  mogliere  a  tavola,  e  te- 
nenno  le  fenestre  aperte  pe  magnare  a  lo  frisco,  com- 
m'appero  fornuto  de  devacare  arciola  e  stutare  lampe  ^^, 
commenzaro  a  chiacchiarare  de  lo  chiù  e  de  lo  manco; 
che,  pe  la  vicinitate  de  lo  luoco,  ch'era  da  lo  naso  a  la 
vocca,  sentette  Nella  ogne  cosa.  E,  fra  l'autre,'  deceva 
l'orca  a  lo  marito:  «  Bello  peluso  mio,  che  se  ntenne?, 
«  che  se  dice  pe  sso  munno?  »  E  chillo  responneva: 
«  Fa  cunto,  ca  non  c'è  no  parmo  de  nietto,  e  tutte  le 
«  cose  vanno  a  capoculo,  ed  a  le  sterzo  ».  «  Ma  pure,  che 


ginocchio,  di  velluto  fatto  ad  opera,  ricamati  tutti  d'oro,  overo  di 
argento  in  tutte  le  liste,  e  sono  foderate  di  ermesino  verde,  con  cal- 
zette di  seta  fatte  all'aco,  le  quali  portano  molto  ben  tirate  sopra 
le  gambe  ».  Gfr.  Cesare  Vecellio,  Degli  liabiti  antichi,  et  moderili  di 
diverse  parti  del  mondo,  Ven.,  1590;  f.  299,  con  flg. 

i"  Quella  corsa,  un  po'  inclinata  da  un  lato,  che  fanno  le  palle,  pel 
peso  {renza)  di  piombo,  od  altro,  che  si  suol  mettere  in  un  punto 
d'esse. 

1**  Lampa,  misura  di  vino  di  due  caraffe,  ch'era  usata  in  alcuni 
luoghi  del  regno.  Onde,  scherz.:  spegnere  lampadt.  per  bere. 


l88  LO  CUNTO  DE  LI  CTIRTI 

«  ne' è?  »,  leprecaje  la  mogliere.  E  l'aereo:  «  Nce  sar- 
«  ria  assai  che  dicere  de  le  mbroglie,  che  correno,  pecca 
«  se  senteno  cose  da  scire  da  li  panne!  Boffune  rega- 
«  late,  forfante  stimate,  poltrune  norate,  assassine  spal- 
«  Hate,  zannettarie  ^^  defenzate,  ed  uommene  da  bene 
«  poco  prezzate  e  stimate.  Ma,  perchè  so  cose  da  cre- 
«  pare,  te  dirraggio  schitto  chello,  eh'  è  socciesso  a  lo 
«  figlio  de  lo  re.  Lo  quale,  avennose  fravecato  na  strata 
«  de  cristallo,  dove  passava  nudo  a  gauderese  na  bella 
«  guagnastra -'^,  non  saccio  comm'è  stato  rutto  lo  cam- 
«  mino;  ed,  a  lo  passare,  che  ha  voluto  fare,  s'è  tren- 
«  ciato  de  manera,  che,  nanze  che  appila  tanta  pertosa, 
«  se  le  spilarrà  ntutto  lo  tufolo^^  de  la  vita.  E,  si  be 
«  lo  re  ha  fatto  jettaro  hanno  co  prommesse  granne  a 
«  chi  lo  sana,  è  spesa  perza,  ca  se  ne  pò  spizzolare  li 
«  diente;  e  lo  meglio,  che  pò  fare,  è  tenere  leste  li  lutto, 
«  ed  apparecchiare  l'assequia  ».  Nella,  sentenno  la  causa 
de  lo  male  de  lo  prencepe,  chiagnenno  a  selluzzo,  disse 
fra  se  medesima:  «  Chi  è  stata  st'arma  mardetta,  e' ha 
«  spezzato  lo  canale,  pe  dove  passava  lo  pinto   auciello 


10  Le  zannette  erano  lo  monete  tosate  di  mezzo  carlino,  le  quali 
fu  disposto  nel  1609  che  avessero  corso  pel  loro  valor  nominale.  Il 
dissesto,  che  venne  da  ciò  al  pubblico  commercio,  fu  gravissimo.  Il 
Card.  Zapata  le  abolì,  ma  il  danno  non  fu  ristorato  interamente  se 
non  col  governo  del  Duca  d'Alba  (v.  Parrino,  Teatro  eroico  e  politico 
del  Viceré,  Nap.,  1730,  II,  42,  147  ?-Q^.).  «  La  confusione  e  danno  in- 
credibile, che  tuttavia  si  va  argomentando  in  questa  città  e  in  tutto 
il  regno  per  cagione  di  queste  zannette  da  cinque  grani  infamissime 
e  vituperose  non  si  può  esprimere;  basta  solo  a  dire  eh' ó  diflìcilis- 
simo  il  poter  trovar  da  vivere  con  questa  sorla  di  monete,  ecc.  ». 
Così  scriveva  l'Agente  del  Duca  d'Urbino,  4  febbraio  1622,  da  Napoli; 
il  quale  anche  racconta  che,  in  un  tumulto  successo  nell'aprile,  la 
gente  attorniò  il  Card.  Viceré  Zapaln,  chiamandolo:  zannettario  cor- 
mtto!  (v.  Arch.  Slor.  Jlal.,IX,  237  sgg.,  240).  Gfr.  anche,  per  quei  tu- 
multi, Capaccio  {For.,  pp.  538-42.) 

2'*  Ragazza.        21  Tubo.  —  Si  sturerà  il  tubo  della  vita. 


JOENATA  II.   TEATTETSEMIENTO  II.  189 

«  mio,  azzò  s'aggia  a  spezzare  lo  connutto,  pe  dove  pas- 
«  sano  li  spirete  mieje?  »  Ma,  secotanno  a  parlare  l'orca, 
stette  zitto  e  mutto  ad  ausoliare.  La  quale  deceva:  «  Ed 
«  è  possibele,  clie  è  perduto  lo  munno  pe  sto  povero 
«  signore?,  e  clie  non  s'aggia  da  asciare  lo  remmedio 
«  a  lo  male  sujo?  Di  a  la  medicina,  che  se  nforna!;  di  a 
«  li  miedeco,  che  se  chiavano  na  capezza  ncanna!;  di  a 
«  Galeno  e  Mesoè--,  che  torneno  li  denare  a  lo  mastro, 
«  mentre  non  sanno  trovare  recette  a  proposeto  pe  la 
«  salute  de  sto  prencepe!  »  «  Siente,  vavosella  mia ''^, — 
«  respose  l'uerco  — ,  non  so  obrecate  li  miedece  a  trovare 
«  remmedie,  che  passeno  li  confine  de  la  natura.  Chessa 
«  non  è  coleca  passara'^,  che  noe  jova  no  vagno  d'uo- 
«  glio;  non  è  frate  ^^,  che  se  cacce  co  sepposte  de  fico 
»  jejetelle-"',  e  cacazze  de  surece -''',•  non  freve,  che  se  ne 
«  vaga  pe  medecine  e  diete;  né  manco  so  ferute  orde- 
«  narie,  che  nce  voglia  stoppata  0  uoglio  de  pereconna^^. 
«  Perchè  lo  percanto^^,  ch'era  a  lo  vrito  rutto,  fa  chillo 
«  effetto  stisso.  che  fa  lo  zuco  de  le  cepolle  a  lo  fierro 
«  de  la  frezza^*^,  pe  la  quale  se  fa  la  chiaga  ncurabole. 


22  (ES)  3Iesiiè.  Gfr.  V,  i.  «  Ci  sono  stati  due  famosi  medici  di  que- 
sto nome:  il  più  antico,  medico  del  Califfo  Harun  al  Raschid,  morì 
a  Bagdad  intorno  alla  metà  del  IX  sec;  l'altro,  invece,  viveva  nel 
s.  XI  a  Gahira.  Tutti  due  hanno  lasciato  varie  opere  di  medicina, 
in  lingua  araba  »  (Liebr.,  Anm.,  I,  405).  Ma  credo  clie  si  tratti  del 
primo,  le  cui  opere  furono  tradotte  in  latino  e  in  italiano,  e  stampate 
fin  dagli  ultimi  anni  del  s.  XV.  Il  Garzoni  nomina,  tra  i  varii  rime- 
dii  in  uso  :  «  Telettuario  di  Mesuè  ».  E,  altrove,  dice  dei  cattivi  me- 
dici: «  non  capendo  neanche  il  Mesuè  in  volgare  »  (o.  e,  pp.  14-5,  159). 

23  Vezz.:  bambina  mia.  Vavosella  è,  propr,:  quel  pannolino,  che  si 
lega  al  collo  dei  bambini.      24  (gg)  colecapassa.  —  Colica. 

23  (EO)  stalo.      26  V.  n.  61,  p.  57. 

27  Allude  a  un  rimedio  farmaceutico,  ora  ignoto. 

28  Ippericon  {liijppericum  perforatuni\  pianta  medicinale,  che  pos- 
siede proprietà  astringenti.    29,   incantesimo, 

30  È  nota  la  virtù  irritante  della  cipolla:  cfr.  Pitrè,  Bibl,  XVI,  232. 


igo  LO   CUNTO  DE  LI  CUNTI 

«  Una  cosa  sarria  schitto  bona  a  sarvarele  la  vita;  ma 
«  non  me  lo  fare  dicere,  ch'ò  cosa,  die  mporta!  »  «  Dim- 
«  mello,  sannuto  mio,  —  leprecaje  l'orca  — ;  dimmello, 
«  non  me  vighe  morta!  »  E  l'uerco:  «  Io  te  lo  dirraggio, 
«  puro  che  me  mprommiette  de  non  confidarelo  a  per- 
«  zona  vevente:  perchè  sarria  la  scasazione^^  de  la  casa 
«  nostra  e  la  mina  de  la  vita  ».  «  Non  dubetare,  mari- 
«  tuoccolo  bello  bello,  —  respose  l'orca  — ;  perchè  chiù 
«  priesto  se  vederranno  li  puorce  co  le  corna,  le  scigne 
«  co  le  code^^,  le  tarpe  coll'iiocchie,  che  me  ne  scappa 
«  mai  na  parola  da  vocca!  »  E,  joratone  co  na  mano 
ncoppa  all'autra,  l'uerco  le  disse:  «  Ora  sacce  ca  no  è 
«  cosa  sotta  lo  cielo,  e  ncoppa  la  terra,  che  potesse  sar- 
«  vare  lo  prencepe  da  li  tammare^^  de  la  morte,  fere  che 
«  lo  grasso  nuestro  ;  co  lo  quale  ontannose  le  chiaghe,  se 
«  farria  no  sequestro  a  chell'arma,  che  vo  sfrattare  da 
«  la  casa  de  lo  cuorpo  sujo  ».  Nella,  che  sentette  sso 
chiajeto,  dette  tiempo  a  lo  tiempo,  che  scompessero  de 
ciancoliare.  E,  scesa  dall'arvolo,  facenno  buon'arme,  toz- 
zolaje  la  porta  dell'uerco,  gridanno:  «  Deh,  signure  mieje 
«  orchisseme,  na  carità,  na  lemmosena,  no  signo  de  com- 
«  passione,  no  poco  de  meserecordia  a  na  povera  me- 
«  schina,  tapina,  che,  zarafinata^'  da  la  fortuna,  lontano  da 
«  la  patria,  spogliata  d'ogni  ajuto  umano,  l'è  cogliuto 
«  notte  a  sti  vuosche,  e  se  more  de  famme!  »  E  tuppote 
tuppete!  —  L'orca,  che  sentette  sto  frusciamiento  de  chioc- 
che,  le  voze  tirare  meza  panella,  e  mannarennella.  Ma 
l'uerco,  ch'era  chiù  cannaruto  de  carne  de  cristiano,  che 
non  è  la  lecora  de  la  noce  '■^^,  l'urzo  de  lo  mèle,  la  gatta 


31  Rovina,  disgrazia.      ^-  V.  n.  88,  pp.  2S-29. 
33  Birri:  v.  n.  32ì  P>  ^3- 
^*  (ES)  tarrafinato.  —  Subissata,  rovinata. 

3j  Lecoi'a,  lucherino.  V,,  a  questo  propos.,  il  grazioso  racconto  di 
Popa  in  Cortese,  Micco  Pass.,  HI,  19  sgg. 


JORNATA  II.   TRATTENEMIENTO  II.  191 

do  li  poscetielle,  la  pecora  de  lo  sale,  e  l'aseno  della 
vi'ennata^*^,  disse  a  la  mogliere:  «  Lassala  trasire  la  po- 
«  vere! la,  che,  se  dorme  ncampagna,  porrla  essere  gua- 
«  stata  da  quarche  lupo!  »  E  tanto  disse,  che  la  mo- 
gliere l'aperze  la  porta,  ed  isso,  co  sta  carità  pelosa, 
fece  designo  de  faresenne  quattro  voccune.  Ma  no  cunto 
fa  lo  gliutto,  e  n'autro  lo  tavei'naro!  Pei'chè,  essennose 
buono  mbriacato,  e  puostose  a  dormire,  Nella,  pigliato 
no  cortiello  da  coppa  no  repuosto,  ne  fece  na  cliianca; 
e,  puosto  tutto  lo  grasso  a  n'arvariello^^,  s'abbejaje  a  la 
vota  de  la  corte.  Dove,  presentannose  nanze  a  lo  re,  s'of- 
ferze  de  sanare  lo  prencepe.  Lo  re,  co  n'allegrezza  gran- 
ne,  la  fece  trasire  a  la  cammara  de  lo  figlio.  Dove,  fat- 
tole na  bona  ontata  de  cbillo  grasso,  nditto  nfatto^^,  com- 
m'avesse  jettato  l'acqua  ncoppa  lo  fuoco,  subeto  se  cbiu- 
dettoro  le  ferute,  e  deventaje  sano,  comme  no  pesce.  La 
qualmente  cosa  vedenno  lo  re,  disse  a  lo  figlio:  «  Cbe- 
«  sta  bona  femmena  meretarria  la  remonerazione  prom- 
«  messa  pe  lo  banno  »,  e  che  se  la  pigliasse  pe  mogliere. 
Lo  prencepe,  sentenno  chesto,  respose:  «  Da  mo  se  pò 
«  pigliare  lo  palicco^^!,  ca  non  aggio  ncuorpo  quarcbe 
«  despenza  de  core,  che  ne  pozza  dare  a  tante;  già  lo 
«  mio  è  ncaparrato,  ed  autra  femmena  n'è  patrona!  » 
Nella,  che  sentette  chesto,  respose:  «  Non  te  deverisse 
«  allecordare  de  chella,  ch'è  stata  causa  de  tutto  lo  male 
«  tujo  ».  «  Lo  male  me  l'hanno  fatto  le  sere,  —  lepre- 
«  caje  lo  prencepe  — ,  ed  esse  ne  deveno^*^  cacare  la  pe- 
«  netenzia!  »  «  Tanto  che  le  vuoi  propio  bene?  »,  — 
tornaje  a  dicere  Nella.  E  lo  prencepe  respose  :  «  Chiù  de 
«  ste  viscide  ».  «  S'è  cossi ^\  —  repigliaje  Nella  — ,  ab- 
«  bracciame,  strigneme,  ca  io  so  lo  fuoco  de  sso  core!  » 


36  Intriso  di  crusca  ed  acqua,  che  si  dà  per  cibo  ai  cavalli  o  agli 
asini.      37  Vasetto,  alberello.      ss  Detto  fatto.      30  stuzzicadenti. 
^0  (EO)  deveva.        ^^  (EO)  e  cossi 


192  LO  CUNTO  DE  LI  CFNTI 

Ma  lo  prencepe,  vedennola  cossi  tenta  la  faccie,  respose  : 
«  Chiù  priesto  sarrai  lo  carvone,  che  lo  fuoco:  perzò,  ar- 
«  ràssate,  che  non  me  tigne!  »  Ma  Nella,  vedenno  ca  no 
la  conosceva,  fattose  venire  no  vacile  d'acqua  fresca,  se 
lavai  la  facce,  e  levatose  chella  nuvola  de  foliuia,  se 
mostrai  lo  sole  :  che,  canosciuta  da  lo  prencepe,  la  strenze 
comme  a  purpo.  E,  pigliatosella  pe  mogliere,  fece  frave- 
care  drinto  no  focolaro  le  sore;  perchè  portassero,  com- 
me a  sangozuca,  drinto  le  cenere  lo  saugo'-  corrutto  de 
la  midia,  facenno  vero  lo  mutto: 

Nullo  male  fu  mai  senza  castico. 


*^  È  noto  che  si  sogliono  mettere  nella  cenere  le  sanguisughe, 
staccate  dal  corpo  umano,  perchè  rigettino  il  sangue,  che  han  suc- 
chiato. 


VIOLA 


Teattenemiento  terzo  de  la  Jornata  seconna. 

viola,  midiata  da  le   sore,   dapò   assai   burle  fatte  e  recevute  da  no 
prencepe,  a  despietto  loro,  le  deventa  mogliere. 

1  rasette  drinto  all'  ossa  pezzelle  sto  ctinto  a  quante 
lo  sentettero,  e  benedecevano  mille  vote  lo  prencepe, 
ch'avea  pigliato  la  mesura  de  lo  jeppone^  a  le  sore  de 
Nella,  e  portare  lo  nomme  pe  fi  a  le  stelle  de  l'ammore 
sbisciolato  de  la  giovene,  che  seppe  co  tanta  stiente  me- 
ritare l'ammore  de  lo  prencepe.  Ma,  fatto  signo  da  Ta- 
deo,  che  stessero  tutte  zitto,  commannaje  a  Meneca,  che 
facesse  la  parte  soja;  la  quale  de  sta  manera  pagaje  lo 
debeto. 

E  la  midia  no  viento,  che  shioshia  co  tanta  forza,  che 
fa  cadere  le  pontelle  de  la  grolla  de  l'uommene  da  be- 
ne, e  jetta  pe  terra  lo  semmenato  de  le  bone  fortune. 
Ma,  spisso  spisso,  pe  castico  de  lo  cielo,  quanno  sto  viento 
se  crede  jettare  de  facce  nterra  na  perzona,  la  vetta  chiù 
prieste  a  fardo  arrivare  nanze  tiempo  a  la  felicitate,  che 
l'aspetta;  comme  senterrite  ne  lo  cunto,  che  voglio  di- 
reve. 

Era  na  vota  no  buono  ommo  da  bene,  chiammato  Col'A- 
niello,  lo  quale  aveva  tre  figlie  femmene,  Rosa,  Garofano^ 
e  Viola.   Ma  l'utema  de    cheste  era  tanto  bella,  che  fa- 


1  Giubbone.      -  (EO)  Garofaro. 

2i 


194  1^0   CUNTO  DE  LI   CUNTI 

ceva  sceruppe  solutive   do    desiderio  pe  purgare  li  core 
d'ogne  tormiento.  Pe  la  quale  cosa  ne  jeva  cuotto  ed  arzo 
Ciullone,  figlio  de  lo  re,  che  ogne  vota   che   passava  pe 
nante  no  vasaio  ^,  dove  lavoravano  ste  tre  sore,  cacciatoso 
la  coppola,  deceva:  «  Bonni,  bonni,  Viola!  »  Ed  essa  re- 
sponneva:  «  Bonni,  figlio  de  lo  re:  io  saccio  chiù  de  te!  » 
De  le  quale  parole   abbottavano  e  mormoriavano  l'autre 
sore,  decenno:  «  Tu  si  male  criata,  e  farrai  scorrucciare 
«  lo  prencepe  de  mala  manera!  »  E  Viola,  semenannoso 
pe  dereto  le  parole  de  le  sore,  le  fu  fatto   da  chelle  pe 
despietto  male  afQzio  co  lo  patre,  decennole:  ca  era  trop- 
po   sfacciata  e  presentosa,   e  che    responneva   senza  re- 
spetto a  lo  prencepe,  comme  si  fossero  tutto  uno,  e  quar- 
che  juorno  nce  sarria  ntorzato,  e  ne  paterrà  lo  justo  pe 
lo  peccatore!  Col' Aniello,  ch'era  ommo  de  jodizio,  pe  le- 
vare   l'accasione,  mannaje  Viola*  a  stare  co  na   zia  soja 
chiammata  Cucevannella,  azzò  mozzasse  de  lavorare.  Ma 
lo  prencepe,  che,  passanno  pe  chella  casa,  non  vedeva  chiù 
lo  verzaglio  de  li  desiderio  suoje,  fece  na  mano  do  juorno 
comme  rescegnuolo,  che  non  trova  li  figlie  a  lo  nido,  che 
va  de  fronna   nfronna,  ntornianno  e  lamentannose  do  lo 
danno  sujo.  E  tanto  mese  l'aurecchio  pe  lo  pertose,  che, 
venuto  a  sentore  de  la  casa  adove  stava,  jette  a  trova- 
re la  zia,  decennole:  «  Madamma  mia,  tu  sai  chi  io  son- 
«  go,  e  s'io    pozzo  0  vaglio!    Però,  da  me  a  te,  zitto  e 
«  mutto^!  Famme  no  piacere,  e,  pò,  spiennemo  pe  la  mo- 
«  nota,  che  vuoje  !  »   «  Cosa  che  pozzo,  —  respose  la  vec- 
«  chia — ,  so  tutta  sana  a  lo  commanno  vuestro  ».  E  lo 
prencepe:  «  Non  voglio  autro  da  te,  che  me  facce  vasare 
«  Viola,  e  pigliato  ste  visole  meje  ».  E  la  vecchia  lepre- 
caje:  «  Io,  pe  servirevo,  non  pozzo  fare  autro  che  tenero 
«  li  panne  a  chi  vace  a  natare  !  Ma  non  voglio  che  essa 


3  (EO)  vosco.      ^  (EO)  Nora.     5  Questo  che  ti  dico,  resti  tra  noi! 


JOENATA  ir.   TRATTEN'EMIENTO   III.  195 

«  trasa  a  malizia,  elio  faccia  la  maneca  a  sta  lancella, 
«  e  eh' aggia  tenuto  mano  a  ste  larutte  vregogne,  e  n'au- 
«  zasse,  a  la  scompetura  de  li  juorne  mieje,  no  titolo  do 
«  garzone  do  ferrare,  che  mena  li  manteco"!  Però,  chello 
«  che  pozzo  fare  pe  darete  gusto  è,  che  ve  jate  a  na- 
«  sconnere  drinto  la  cammara  terrena  doll'uerto,  dove,  co 
«  quarche  scusa,  io  te  mannarraggio  Viola.  E,  comme  tu 
«  averrai  lo  panno  e  le  fuorfece  mano,  e  non  te  saperrai 
«  servire,  la  corpa  sarrà  latoja!  »  Lo  proncepe,  sentnto 
chesto,  rengraziatola  de  lo  buono  affetto,  senza  perderò 
tiempo,  se  ncaforchiaje  a  la  cammai^a.  E  la  vecchia,  co 
scusa  de  volere  tagliare  non  saccio  che  tela,  disse  a  la 
nepote  :  «  Viola,  va,  si  me  vuoi  bene,  a  lo  vascio,  e  pi- 
«  gliame  la  meza  canna  ».  E  Viola,  trasenno  a  la  cam- 
mara pe  servire  la  zia,  s'addonaje  de  l'agguajeto;  e,  pi- 
gliato la  meza  canna,  destra  commo  a  gatta,  zompaje"  fora 
do  la  cammara,  lassauno  lo  prencepe  cresciuto  de  naso 
pe  vregogna,  e  ntorzato  do  crepantiglia.  E  la  vecchia, 
che  la  vedde  venire  cossi  a  l' ancorrenno,  se  sospettajo 
ca  l'astuzia  do  lo  prencepe  no  avea  pigliato  fuoco;  e, 
da  Uà  n' antro  poco,  disse  a  la  figliola:  «  Va,  nepote  mia, 
«  a  la  cammara  de  vascio,  e  pigliamo  lo  gliuommaro  de 
«  filo  brescianiello  ^,  da  coppa  chillo  stipo  ».  E  Viola,  cor- 
ranno e  piglianno  lo  filo,  sciuliaje,  comme  anguilla,  da 
mano  de  lo  prencepe.  Ma  poco  stette,  che  la  vecchia  le 
tornajo  a  dicero:  «  Viola  mia,  se  no  me  piglio  la  fuor- 
«  foco  a  bascio,  io  so  consumata!  »  E  Viola,  scesa  a  bascio 
appo  lo  terzo  assauto  ;  ma,  fatto  forza  do  cane,  scappajo 
da  la  tagliola.  E,  sagliuta  ad  àuto,  tagliaje  co  la  fuorfece 
stessa  l'arecchie  de  la  zia,  decennole  :  «  Tienete  sso  buono 
«  voveragg io  de  la  sansaria  !  :  ogni  fatica  cex'ca  premio  :  a 


^  Cioè,  ne  acquistassi  nome  di  ruffiana.      ^  Saltò. 

8  Refe,  filo:  detto  bresciano,  perchè  si  fabbricava  a  Brescia. 


196  LO   CUNTO  DE  LI   CUNTI 

«  sfrisate ^  de  nore,  sgarrate  d'aurecchie;  e,  s'io  non  te 
«  taglio  lo  naso  perzi,  è  perchè  puozze  sentire  lo  male 
«  adoro  de  la  fama  toja:  roffiana,  accorda-messere,  porta- 
«  pollastre,  mancia-mancia,  mezeja-peccerille^"!  »  Cossi 
decenno,  se  ne  jeze  ntre  zumpe  a  la  casa  soja,  lassanno 
la  zia  scarza  d'aurecchie,  e  lo  prencepe  chino  de  lassame- 
stare.  Ma,  tomanno  a  passare  pe  la  casa  de  lo  patre,  e 
vedennola  a  lo  stesso  luoco,  dove  soleva  stare,  toi'naje  a 
la  soleta  museca:  «  Bonni,  bonni,  Viola!  »  Ed  essa,  su- 
beto,  da  buono  jacono^*:  «  Bonni,  figlio  de  lo  re;  io  saccio 
chiù  de  te  !  »  Ma  le  sore,  non  potenno  chiù  comportare  sta 
miette-nante,  fecero  confarfa^^  tra  loro  de  messiarennella. 
E,  cossi,  avenno  na  fenesta,  che  responneva  a  no  giar- 
dino de  n'uerco,  se  proposero  pe  chesta  via  de  caccia- 
rene  li  picciolo.  E,  fattose  cadere  na  matassella  de  filo, 
co  la  quale  lavoravano  no  portiere*^  de  la  regina,  decet- 
tero:  «  0  mare  nuje,  ca  simmo  ari'oinate,  e  non  potimmo 
«  fornire  lo  lavoro  a  tiempo,  si  Viola,  eh' è  la  chiù  pec- 
«  corolla  e  chiù  loggia  *'  de  nuje,  non  se  lassa  calare  co  na 
«  funa  a  pigliarence  lo  filo  caduto  !  »  E  Viola,  pe  no  le 
vedere  cossi  affritte,  s'offerse  subeto  de  scennere;  e,  le- 
gatola a  na  funa,  la  calare  a  bascio;  e,  calatola,  lassare 
ire  la  funa.  A  lo  stesso  tiempo,  trasette  l'uerco  pe  pi- 
gliarese  na  vista  de  lo  giardino;  e,  avenno  pigliato  gran- 
ne  omedetà  de  lo  terreno,  so  lassaje  scappai'o  no  vernac- 
chio,  cossi  spotestato,  e  co  tanto  remmore  e  strepete, 
che  Viola,  pe  la  paura,  strillava:  «  0  mamma  mia,  aju- 
«  tame!  »  E,  votatose  l'uerco,  e  vistose  dereto  stabella 
figliola,   allecordatose    d'avere    ntiso    na    vota    da   certe 


8  (ES)  Sfilata.  —  Sfrisate,  sfregi,  tngli  sul  viso. 
**>  Varii  sinonimi  di  ruffiana.  —  Mezeja-peccerille,  che  istruisce, 
ammalizia  i  fanciulli. 
*i  Diacono,  e  int.:  che  risponde  alla  messa.      **  Concerto. 
*3  Portiera,  tenda,      *'  Leggiera. 


JORNATA   II.   TEATTENEilIENTO  HI.  197 

stodiante,  che  le  cavalle  de  Spagna  se  mprenano  co  lo 
viento  ^^,  se  ponzaje  clie  lo  corzo  ^'^  de  lo  pideto  avesse 
ngravedato  quarche  arvolo,  e  ne  fosse  scinta  sta  pintata 
criatura^".  E  perzò,  abbracciatola  co  grann' amore,  decet- 
te  :  «  Figlia,  figlia  mia,  parte  de  sto  cuorpo,  sbiato  de  lo 
«  spireto  mio,  e  chi  me  l'avesse  ditto  mai,  che  co  na 
«  ventositate  avesse  dato  forma  a  ssa  bella  facce?,  chi 
«  me  l'avesse  ditto,  ca  n'eiTetto  de  fredezza  avesse  gne- 
«  netato  sto  fuoco  d'ammore?  »  E,  decenno  chesse  ed 
autre  parole  tennere  e  sbisciolate,  la  consignaje  a  tre 
fate,  che  n'avessero  pensiero  e  la  crescessero  a  cera- 
selle^^. Ma  lo  prencepe,  che  non  vedeva  chiù  Viola,  e 
non  sapenno  nova,  né  vecchia,  n'appe  tanto  desgusto,  che 
l'uocchie  se  le  fecero  a  guallarella  ^^,  la  facce  deventaje 
morticcia,  le  lavre  de  cennerale,  e  non  pigliava  muorzo, 
che  le  facesse  carne,  0  suonno,  che  le  desse  quiete.  E, 
facenno  diligenzia,  e  promettenno  veveragge,  tanto  jette 
spianno,  ch'appe  notizia  adove  steva.  E,  fattose  chiam- 
mare  l'uerco,  le  disse:  che,  trovannose  malato,  comme 
poteva  vedere,  l'avesse  fatto  piacere  de  contentarese, 
che  potesse  stare  no  juorno  sulo  e  na  notte  a  lo  giar- 
dino sujo,  ca  le  vastava  na  cammara  schitto  pe  recria- 
rese  lo  spireto.  L'uerco,  comme  vassallo  de  lo  pati'e,  non 
potennole    negare  sto  piacere  de  poco   cosa,  l'offerze,  si 


15  plin.,  Hìsl.  Xat,  S,  42  (67):  «  Constai  in  Lusitania  circa  Olisi- 
ponem  oppidum  et  Tagum  amnem  equas  favonio  flante  obversas  ani- 
male concipere  spiritum,  idque  partuca  fieri  et  gigni  pernicissimum 
ita,  sed  triennium  vitae  non  excedere  »  (Cfr.  Liebr,  Anm.,  I,  405).  An- 
che il  Cortese  :  «  Aveva  no  cavallo  gioveniello  Gli'  era  de  viento  a 
Spagna  gnenetato  »  {Cerr.  ncant.,  Il,  4). 

i*»  Nell'ed.  1637,  e  nelle  seguenti:  sMauro. 

*^^  Cfr.  F.  Liebrecht,  Der  Wind  in  der  Dichtung  und  aucli  anders- 
ICO  (nella  Germania,  Wien,  A.  Vili,  1884,  n.  2). 

1*  Ceraselle,  ciliege.  —  Crescere  a  ceraselle,  crescere  nella  bam- 
bagia, allevare  con  ogni  cura.      ^^  Con  le  borse. 


igS  LO  CUNTO  DE  LT  CUNTI 

non  vastava  nna,  tutte  le  caulinare  soje.  e  la  vita  stessa. 
Lo  prencepe,  rengraziatolo,   se   fece    consignare  na  cam- 
mara,  che,  pe  bona  fortuna  soja,  steva  vicino- a  chella  del- 
l'uerco;  lo  quale  clormeva  a  no  lietto  stisso  co  Viola.  E, 
comme  scotte  la  notte   a  joquaro  a  stienne    mia  cortina 
co  le  stelle'*',  lo  prencepe,   trovanno  la  porta  dell'uerco 
aperta,  che,  ped  essere  state,  ed  a  luoco  securo,  le  pia- 
ceva de  pigliare  frisco,  trasette   chiano  chiano,  ed,  atta- 
stato  la  tanna  de  Viola,  le  deze  dui  pizzeche.  La  quale, 
scetannose,  commenzaje   a   dicere:  «  0  tata,  quanta  pu- 
lece!  »  E  l'uerco  fece  subeto  passare  la  figliola  a  n'au- 
tro  lietto.  E  lo  prencepe   tornanno  a  fare  lo  medesemo, 
e  Viola  gridanno  de  la  stessa  manera,  e  l'uerco  tornanno 
a  farele  cagnare  mo  matarazzo,  e  nio  lenzola,  se  ne  scorze 
tutta   la   notte  co  sto  trafeco,  fioche,  portato  nova  l' au- 
rora, ca  lo  sole  s'era  trovato  vivo,  s'erano  levate  li  panne 
de  lutto  da  tuorno  a  lo   cielo.    Ma,  subeto  che   fu   fatto 
juorno,  lo  prencepe,  passejanno*^  pe  chella  casa,  e  visto  la 
figliola  a  pedo  la  porta,  le  disse,  comme  soleva:  «  Bonni, 
«  bonni.  Viola!  »    E,  responnenno  Viola:    «  Bonni,  figlio 
«  de  lo  re,  io  saccio  chiù  de  te!  »,  leprccaje  lo  prence- 
pe: «  0  tata,  quanta  pulece!  »    Viola,  che  sentette  sto 
tiro,  trasette    subeto  a  malizia,  che   lo   frusciamiento  de 
la  notte    fosse    stato    corrivo   de  lo  prencepe.    E,  juta  a 
trovare  le  fate,  le   contaje    sto  fatto.    «  Si   è  chesso,  — 
«  dissero  le  fate  — ,  e  nui  facimmola  da  corzaro  a  cor- 
«  zaro,  e  da  marinaro  agalioto;  e,  si  t'ha  mozzecato  sto 
«  cane,  vedimmo    d'averene   lo   pilo;    isso  te  n'ha  fatta 
«  una,  e  nui   facimmocenne   una  e  meza  ad  isso!   Eatte, 
«  adonca,    fare    da  l'uerco   no  paro   de   chianielle,  tutte 
«  chine  de  camiianelle,  e,  pò,  lassa  fare  a  nuje;  ca  lo  vo- 


20  v.  princ.  G.  II.:  n.  21,  p,  174, 

**  Neir(EO)  mancano  le  parole:  lo  prencepe passejanno :  che  si  tro- 
vano nell'ed.  1637. 


JOENATA   II.  TRATTENEMIENTO  III.  199 

«  limmo  pagare  de  bona  moneta  !  »  Viola,  desiderosa  de 
la  vennetta,  se  fece  fare  subeto  subeto  li  cbianielle  dal- 
l'uerco.  Ed,  aspettato  che  lo  cielo  comm'a  femmena  Ge- 
novesa--,  se  mettesse  lo  taffettà  nigro  ntuorno  la  facce, 
se  ne  jezero  tutte  quatto  de  conserva  a  la  casa  de  lo 
prencope.  Dove  le  fate  co  Viola,  senz'essere  viste,  tra- 
settero  drinto  la  cammara  soja;  e,  comme  lo  prencepe  ac- 
commenzaje  ad  appapagnare  l'uoccliie,  le  fate  fecero  no 
gran  parapiglia,  e  Viola ^^  se  mese  a  sbattere  tanto  li  pie- 
de, eh' a  lo  remmore  dele  carcagna,  e  a  lo  fruscio  de  li 
campanelle,  scetatose  co  no  sorrejemiento  granne  lo  pren- 
cepe, gridaje:  «  0  mamma,  mamma,  ajutame!  »  La  quale 
cosa  fatto  doje  0  tre  vote,  se  la  sfilare  a  la  casa  loro. 
Lo  prencepe,  dapò  avere  pigliato  la  matina  agro  de  citro 
e  sementella*'  pe  la  paura,  dette  na  passiata  pe  drinto 
lo  giardino,  non  potenno  stare  no  momento  senza  la  vi- 
sta de  chella  Viola,  ch'era  ntellegenza  a  li  garuofane 
suoje^^.  E,  vedennola  a  bocca  la  porta,  le  disse:  «  Bonni, 
«  bonni,  Viola!  »  E  Viola:  «  Bonni,  figlio  de  lo  re,  io 
«  saccio  chiù  de  te!  »  E  lo  prencepe:  «  0  tata,  quanta 
«  pulece!  »  Ed  essa:  «  0  mamma,  mamma,  ajutame!  » 
La  quale  cosa  sentenno  lo  prencepe,  disse:  «  Me  l'hai 
«  fatta,  me  l'hai  calata!,  io  te  cedo  ed  hai  vinto!  E,  ca- 


22  Non  è  facile  spiegar  quest'accenno  a  un  particolare,  che  do- 
vrebbe esser  quasi  proverbiale,  deirabbigliamento  delle  donne  ge- 
novesi. Delle  quali  sono,  invece,  note  e  proverbiali  le  ricche  vesti, 
dai  colori  smaglianti.  V.,  su  questo  punto,  Cesare  Vecellio  :  0.  e,  flf. 
2058.  E,  similmente,  nell'opera  di  Luca  da  Linda  [Le  descriltiont  xmi- 
zersali  et  particolari  del  mondo  et  delle  Repubbliche,  in  Venetia, 
1660,  p.  431)  si  legge:  «  Gli  habiti  et  gli  ornamenti  delle  donne  (ge- 
novesi) anche  in  casa  privatamente  sono  attillate,  non  punto  contente 
dell'uso  commune,  portano  filze  di  perle  et  di  pietre  pretiose;  le  no- 
bili amano  le  vesti  intessute  d'oro  e  di  varii  colori  adorne  ». 

23  (EO)  Xora. 

2*  Semenzina,  o  seme  santo,  erba  che  si  dà  ai  bambini  per  rime- 
dio contro  i  vermi.      25  Sembra  un'allusione  oscena. 


200  LO   CTOfTO  DE  LI   OUNTI 

«  noscenuo  veramente,  ca  sai  chiù  de  me,  io  te  voglio 
«  senz'antro  pe  mogliere  ».  Cosi  chiamato  l'uerco,  e  cer- 
catoncella'*',  ca  non  voze  mettere  mano  a  le  gregne^' 
d'antro,  avenno  saputo  la  matina  stessa,  ca  era  figlio  de 
Col' Aniello,  e  che  s'era  ngannato  l' nocchio  de  dereto  a 
pensare,  che  sta  vista  adorosa  fosse  parto  de  no  zesero 
fetente;  e,  perzò,  dato  na  voce  a  lo  patre,  e  fattole  sa- 
pere la  bona  fortuna,  ch'era  apparecchiata  pe  la  figlia, 
co  granne  allegrezza  se  fece  la  festa-,  facenuo  rescire  vera 
chella  settenza  : 

Che  bella  zita  nchiazza"^  sejriaxUa^^f 


*«  (EO)  cevatocella.      ^  Covone,  manipolo  di  spighe. 
2«  In  piazza.      29  così  anche  MN.,  V. 


CAGLIUSO  ' 


Trattenemiejtto  quarto  de  la  Joexata  secoxna. 

Cagliuso,  pe  nustria  de  na  gatta  lassatole  da  lo  patre,  deventa  signore; 
ma,  mostrannosele  sgrato,  l'è  renfacciata  la  sgratetudene  soja. 

IN  on  se  pò  dire  lo  gusto  granne,  cli'appero  tutte,  de 
la  bona  fortuna  de  Viola,  che,  co  lo  nciegno  sujo,  se  seppe 
fravecare  cossi  bona  sciorte,  a  sfastio  de  le  garge  de  le 
sere,  die,  nemiche  de  lo  propio  sango,  le  facevano  tante 
cavallette*  pe  farele  rompere  lo  cuollo.  Ma,  essenno  tiem- 
po  che  Tolla  pagasse  lo  cienzo,  che  doveva,  sborzauno  da 
la  vocca  le  monete  d'oro  de  le  belle  parole,  cossi  a  lo 
debeto  sujo  sodesfece. 

La  ngratetudene,  segnure,  è  chiuovo  arroggiuto^,  che, 
mpezzato  all'arvolo  de  la  cortesia,  lo  fa  seccare;  è  chia- 
veca  rotta,  che  spegna"*  li  fonnamiente  de  la  affrezzione  ; 
è  folinea,  che,  cascanno  drinto  lo  pignato  de  l'amecizia, 
le  leva  l'adoro  e  lo  sapore^;  comme  se  vede  e  prova 
formalemente  e  ne  vedarrite  no  designo  abbozzato  ne  lo 
cunto,  che  ve  diraggio. 

Era  na  vota  a  la  cettà  de  Napole  mio  no  viecchio 
pezzente   pezzente;    lo  quale  era   cossi  nzenziglio,   sbri- 


*■  Neir(EO)  si  trova:  Cagliuso,  e  solo  due  volte:  Gagliuso. 

2  yare  cavallette,  dare  il  gambetto.  Metaf.,  brutti  tiri. 

3  irruginito.       ■*  Immolla,  corrode  bagnando.       ^  y.  ^j.  58,  p.  40. 

26 


202  LO   CUNTO   DE   LI   CUNTl, 

scio^,  grimmo',  granne^,  lieggio,  e  senza  na  crespa  ncri- 
spo  a  lo  crespano,  che  jeva  nudo  comme  a  lo  peducchio. 
Lo  quale,  essenno  a  lo  scotolare  de  li  sacche  de  la  vita, 
chiammaje  Oraziello  e  Pippo,  figlie  suoje,  decennole: 
«  Già  so  stato  zitato  sopra  lo  tenore  de  lo  stromiento 
<i  pe  lo  debeto,  ch'aggio  co  la  natura,  e  creditemo,  se 
•i  site  cristiane  ch'io  senterria  no  gusto  granne  de  scira 
«  da  sto  mantracchio  ^  d'afifanne,  da  sto  mantrullo  de  tra- 
«  vaglie,  si  non  fosse  ca  ve  lasso  scadute,  granne  com- 
«  me  a  S.  Chiara^*',  a  le  cinco  vie  de  Melito*^,  e  senza 
«  na  maglia'^,  niette  comm'a  bacile  de  varviero*^,  liste 
«  comm'a  sorgente^',  asciutto  comm'uosso  de  pruno,  che 
«  n'avite  quanto  porta  mpede  na  mosca,  e  si  corrite 
«  ciento  miglia,  non  ve  cade  no  picciolo  *■'.  Pocca  la  sciorte 
«  mia  m'ave  arredutto,  dove  li  tre  cane  cacano*'',  che 
«  n'aggio  la  vita,  e  comme  me  vide,  cossi  me  scrive  *'', 
«  che   sempre,   comme  sapite,  aggio   fatto   alizze  e  cru- 


8  Nudo.      '  Nell'egl.  La  Tenta:  «  Grimmo,  aggrancato  ». 

8  Sull'uso  di  granne  per:  povero,  cfr,  E.  Rocco  in  GBB.^  IV,  6. 

9  V.  n.  56,  p.  129. 

10  Convento  e  chiesa  di  Santa  Chiara  in  Napoli,  fondato  da  Roberto 
d'Angiò. 

il  A  Melito,  paesello  sulla  via  di  Napoli  ad  Aversa,  «  vi  è  una  con- 
trada detta  la  etneo  vie,  presso  alla  quale,  in  un  luogo  detto  Fasce- 
naro,  vi  è  sempre  affluenza  d'accattoni  »  (E.  Rocco,  l.  e). 

12  V.  n.  2,  p.  5. 

13  Nei  Giorn.  mss.  del  Bucca,  sub  27  giugno  1631,  parlandosi  di 
un  D.  Michele  Bianco,  si  dice:  «  cavaliere,  bel  giovane,  però  senza 
un  carlino,  e  che  stava  liscio  come  bacile  di  barbiero,  come  si  dice 
per  proverbio  »  (Ms.  Bibl.  Naz.,  segn.  X,  B,  66). 

"  V.  n.  2,  p.  137, 

15  cfr.  n.  102,  p.  16.  Nel  Dunlop-Liebrecht  {Geschlchte  der  Prosa- 
dichtung,  p.  517),  si  ricorda  lo  spagn.:  «  poder  dar  dlez  saltos  sin 
que  se  le  caya  à  uno  una  bianca  ». 

1*  cfr.  MX,  Vili,  e  v.  lì.  55,  p.  40:  in  condizione  miserrima. 

17  Non  ho  altro  che  la  mia  persona. 


JORNATA   II.   TRATTENEMIENTO  IV.  2  03 

«  celle  *^,  e  me  so  corcato  senza  cannela*^;  co  tutto  chesto, 
«  voglio  puro  a  la  morte  mia  lassareve  quarche  signo 
«  d'ammore.  Perzò,  tu,  Oraziello,  che  si  lo  primmoge- 
«  neto  mio,  pigliate  chillo  crivo  ^'^,  che  stace  appiso  a  lo 
«  muro,  co  lo  quale  te  puoi  guadagnare  lo  pane;  e  tu, 
«  che  si  lo  cacanitolo  ^^,  pigliate  la  gatta,  ed  allecordateve 
«  de  lo  tata  vuostro!  »  Cossi  decenno,  scappajo  a  chia- 
gnere,  e,  poco  dapò,  decette:  «  A  dio,  ca  è  notte!  »  Ora- 
ziello, fatto  atterrare  pe  lemosina  lo  patre,  pigliatose  lo 
crivo,  jette  ceruenno^"^  da  oca  e  da  Uà,  pe  abboscare  la 
vita;  tanto  che,  quanto  chiù  cerneva,  chiù  guadagnava. 
E  Pippo,  pigliata  la  gatta,  disse:  «  Gravide,  che  negra 
«  redetà  m' ha  lassata  patremo  !,  che  n'aggio  da  campare 
«  pe  mene,  e  mo  averraggio  da  fare  le  spese  a  dui  !  Che 
«  se  n'ha  visto  de  sto  scuro  lasseto?  Che  meglio  se  ne 
«  fosse  stato  ^^!  »  Ma  la  gatta,  che  sentette  sto  taluerno, 
le  disse:  «  Tu  te  lamiente  de  lo  sopierchio,  ed  hai  chiù 
«  sciorto,  che  sinno!  Ma  non  canusce  la  sciorte  toja,  ca 
«  io  so  bona  a  farete  ricco,  si  me  nce  metto!  »  Pippo, 
che  sentette  sta  cosa,  rengraziaje  la  gattaria  soja;  e,  fa- 
cennole  tre  0  quatto  allesciate  sopra  la  schena,  se  le  rac- 
commannaje  caudamente.  Tanto  che  la  gatta,  compassio- 


18  sbadigli,  e  crocelle;  perchè  lo  sbadiglio  «  si  accompagna  con 
un  gesto  di  aprir  la  bocca  e  farvi  la  croce  sopra  ».  La  ragione  di 
ciò  era  nella  credenza  che  gli  spiriti  maligni  potessero  cogliere  quel 
momento  per  entrare  nel  corpo  umano;  onde  s'impediva  il  passo  con 
una  croce  (cfr.  VN.  e  Pitrè,  0.  e,  XVII,  40).  Il  Tassoni  {Secchia  rapita, 
IV,  48):  «  Cerca  di  qua,  cerca  di  là,  né  trova  Cosa  da  farvi  il  minimo 
disegno,  Sbadiglian  tutti  e  fan  crocette  a  prova,  E  l'appetito  lor  cre- 
sce lo  sdegno  ».  Nel  Dunlop-Liebrecht  (0.  e,  p.  515):  «  È  anche  co- 
stume in  Irlanda:  cfr.  Taylor,  p.  119  ». 

i9  «  Andare  a  letto  senza  candela:  questa  frase  è  spesso  adoperata 
dal  N.,  come  segno  di  gran  povertà  »  (Liebr.,  Anm.,  I,  405-6). 

20  Vaglio.      21  Casalingo. 

22  ^EO)  correnno.      23  jsje  avesse  fatto  di  meno. 


204  LO   CTJNTO  DE  LI   CTJNTI 

nevole  de  lo  negrecato  Cagliuso  '^,  ogne  matina,  clie  lo 
sole  co  l'esca  de  la  luce,  posta  co  l'ammo  d'oro,  ne  pe- 
sca l'ombre  de  la  notte,  se_coiiiùgnaya_o^a_la  marinjt-iie 
Chiaja^^^a  la  Preta  de  lo  pesce*";  ed,  abbistanno  quar- 
che  cefaro  gruosso,  o  na  bona  aurata,  ne  la  zeppoliava,  e 
portava  a  lo  re,  decenno  :  «  Lo  segnore  Cagliuso,  schiavo 
«  de  Vostra  Autezza,  fi  ncoppa  all' astraco '",  ve  manna 
«  sto  pesce  co  leverenzia,  o  dice:  a  gran  segnore,  pic- 
«  colo  presiento!  »  Lo  re,  co  na  facce  allegra,  comm'è 
solito  de  fare  a  chi  porta  robba,  respose  a  la  gatta  :  «  Di 
«  a  sto  segnore,  che  non  canosco,  ca  lo  rengrazio,  a  gran 
«  merzè!  »  Quarc'autra  vota,  correva  sta  gatta,  dove  se 
cacciava  a  le  Padule  o  a  l'Astrune  ^*  ;  e,  corame  li  caccia- 
ture  avevano  fatto  cadere  o  gelano  ^^,  o  parrella^'\  o  capo- 


ni Qui  Pippo  cambia  nome  e  diventa  Cagliuso,  com'è  poi  chiamato 
sempre.      25  y.  n.  30,  p,  92. 

28  Luogo  sulla  via  della  marina,  dove  si  raccoglie  la  pesca  fatta 
per  conto  del  negozianti  in  grosso,  caplj)aranza.  che  la  dislrilnii- 
scono  poi  ai  pescivendoli.  Vi  è  accanto  la  chiesetta  di  Santa  Maria 
della  Pietra  del  Pesce,  eretta  nel  1526  dalla  comunità  dei  pesciven- 
doli (Gel.,  o.  e,  IV,  247  sgg.).  Tuttavia,  si  noti  che  ai  tempi  del  N. 
un'altra  Pietra  del  pesce  era  a  Ghiaia,  press' a  poco  al  posto  dove 
poi  sorse  il  Palazzo  Satriano,  e  un'altra  a  S.  Lucia;  cosicché  non  è 
chiaro  quale  di  questi  tre  luoghi  avesse  in  mente. 

^  Gfr.  II.  6,  V,  6:  «  Le  voleva  bene  n(ì  ncoppa  a  l'astreco,  ecc.  ». 
—  Astreco,  terrazza,  eh' è  sopra  alle  case. 

*8  Luoghi  di  caccia  presso  Napoli:  le  paludi  dal  lato  orientale,  e 
gli  Aslroni  poco  lontano  dal  Lago  d"Agnano,  con  laghetti  e  selve, 
caccia  reale  riservata.  Nel  Forasi,  del  Gipaccio  (p.  608):  *  For.  Il  vo- 
stro Re....  tiene  in  Napoli  loco  parlicolare  di  cacciai —  CU.  Signorsì. 
Loco  assai  celebre,  poco  discosto  dalla  cita,  che  dimandano  Aslruni, 
con  un  piano  circondato  da  colline,  col  giro  di  più  di  tre  miglia, 
pienissimo  di  arbori  e  di  tutti  animali....  Mi  dole  ch'essendo  Viceré 
il  Conte  di  Benevento  (sic),  si  tagliarono  tutti  i  legnami,  e  il  loco 
restò  squalido  ». 

2*  O  volano,  eh' è  il  rigogolo,  oriolus  galbula.         3»  Cinciallegra. 


.TORXATA   II.   TRATTEXEMIENTO   IV.  205 

fuscolo^^  ne  l'auzava,  e  lo  presentava  a  lo  re  co  la  me- 
desema  masciata.  E  tanto   usaje  st'arteficio,  fioche  lo  re, 
na  matina,  le  disse:  «  Io  me  sento  cossi  obrecato  a  sso 
«  segnore  Cagliuso,  che  lo  desidero  canoscere  pe  le  ren- 
«  nere  la  pariglia  de  sta  morosanza,  che  m'ha  mostrato  ». 
A  lo  quale  respose  la  gatta  :  «  Lo  desiderio  de  lo  segnore 
«  Cagliuso,    è    mettere  la  vita  e  lo   sango   pe  la  corona 
«  soja,  e  crai   matino,  senz'antro,  quanno  lo  sole   averrà 
«  dato  fuoco  a  le  restocchie^-  de  li  campo  dell'ajero,  ve- 
«  nerrà  a  fareve  leverenzia  ».    Cossi,  venuto   la  matina, 
la  gatta  se  ne  jette  da  lo  re,  decennole  :  «  Segnore  mio, 
«  lo  segnore  Cagliuso  se  manna  a  scusare   si  non  vene, 
«  perchè  sta  notte  se  ne  so  fojute  cierte  cammariere,  e 
«  no  l'hanno  lassato  manco    la    cammisa!  »    Lo  re,  sen- 
tenno  chesto,  subeto  fece  pigliare  da  la  guardarobba  soja 
na  mano  de  vestite  e  de  biancarie,  e  le   mannaje  a  Ca- 
gliuso. E    no    passare    doi    ore,  ch'isso  venne  mpalazzo, 
guidato  da  la  gatta;  dove  appe   da  lo   re  mille  compre- 
miente, e,  fattolo  sedere  a  canto  ad  isso,  le  fece  no  ban- 
chetto da  strasecolare.  Ma,  ntanto   che  se  magnava,  Ca- 
gliuso a  bota  a  bota    se    votava  a  la  gatta,    dicendole: 
«  Mesce  ^^    mia,    sianote   arrecommannate    chelle    quatto 
«  peruoglie,  che  non  vagano   a   mala  via!  »   E   la  gatta 
responneva:  «  Sta  zitto,  appila,  non  parlare  de  ste  pez- 
«  zentarie!  »  E  lo  re,  volenno  sapere  che  l'accorreva,  la 
gatta   responneva,   ca   l'era   venuto   golio   de    no  lemon- 
ciello  piccolo.    E  lo   re  mannaje  subeto   a   lo  giardino  a 
pigliarene  no  canestriello.  E  Cagliuso  tornaje  a  la  stessa 
museca  de  le  zandraglie  e  pettole    soje;  e  la    gatta  tor- 
naje a  dicere,  ch'ammafarasse   la  vocca;  e  lo  re  doman- 
naje  de  nuovo,   che    l'accorresse;  e  la    gatta   co  n'autra 
scusa  pronta,  pe    remmediare  a  la  viltate    de   Cagliuso  ! 
All'utemo,  manciate  e  chiacchiarato  no  piezzo  de  chesto 
e  de  chell'autro,  Cagliuso  cercaje  lecenzia.  E  la  gatta  re- 


3i  Capinera.      ^2  Ristoppie.      33  Micia. 


206  LO   CUXTO  DE  LI  CTJXTI 

staje  co  lo  re,  descrevenno  lo  valore,  lo  nciegno,  lo  jo- 
dizio  de  Caglinso,  e,  sopra  tutto,  la  reccliezza  granne, 
che  se  trovava  pe  le  campagne  de  Romma  e  de  Lom- 
mardia:  pe  la  quale  cosa,  meretava  d'apparentare  co  no 
re  de  corona.  E,  demannanno  lo  re,  che  se  poteva  tro- 
vare, respose  la  gatta:  canon  se  poteva  tenere  cunto  de 
li  mobele,  stabele  e  soppellettole  de  sto  riccone,  che  non 
sapeva  chello  che  aveva;  e,  si  lo  re  se  ne  volesse  nfor- 
naare,  avesse  mannate  gente  cod  isso  fore  lo  regno,  ca 
l'averia  fatto  canoscere  a  la  prova,  ca  non  c'era  rec- 
chezza  a  lo  munno  comme  la  soja.  Lo  re,  chiammato 
certe  fedate  suoje,  le  commannaje,  che  se  fossero  nfor- 
mate  menutamente  de  sto  fatto;  li  quale  jettero  pe  le 
pedate  de  la  gatta.  La  quale,  co  scusa  de  farele  trovare 
refrisco  pe  la  strata  de  passo  npasso,  comme  fu  scinta 
li  confine  de  lo  regno,  correva  nante,  e  quante  morre  de 
pecore,  mantre  de  vacche,  razze  de  cavalle  e  vranche  de 
puorce  trovava,  deceva  a  li  pasture  e  guardiane  :  «  Olà, 
«  state  ncellevriello,  ca  na  mano  de  vannite^*  vonno  sac- 
«  chiare  quanto  se  trova  a  sta  campagna;  però,  si  volite 
«  scappare  sta  furia,  e  che  sia  portato  respetto  a  le  cose 
«  vostre,  decite,  ca  so  robbe  de  lo  segnerà  Cagliuso,  ca 
«  non  ve  sarrà  toccato  no  pilo!  »  Lo  simile  deceva  pe 
le  massarie,  che  trovava  pe  lo  cammino;  tale  che,  do- 
vonca  arrivavano  la  gente  de  lo  re,  trovavano  na  zam- 
pogna accordata,  che  tutte  le  cose,  che  scontravano,  l'era 
ditto,  ch'erano  de  lo  segnoro  Cagliuso.  Tanto,  ch'essenno 
stracque  d'addemmannare  chiù,  so  ne  tornare  a  lo  re, 
decenno  mare  e  munte  de  la  reccliezza  de  lo  segnore 
Cagliuso.  La  quale  cosa  sentenno  lo  re,  promese  no  buo- 
no veveraggio  a  la  gatta,  s'/  trattava  sto  matremmonio. 
E  la  gatta,   fatto  la  navcttola^^  da  cà  o  da  Uà,  all'utc- 


3*  Banditi. 

3^  Spola  di  tessitore.  Gfr.  Cortese  (Micco  Pass.,  Vili,  22).  Int.;  tergi- 
versato un  pezzo. 


JORXATA  ir.   TRATTENEMIENTO   IV.  207 

mo,  concruse  lo  parentato.  E,  venuto  Cagliuso,  e  con- 
signatole  lo  re  na  grossa  dote  e  la  figlia,  dapò  no  mese 
de  feste,  disse,  ca  ne  voleva  portare  la  zita  a  le  terre 
soje.  Ed,  accompagnate  da  lo  re  fi  a  li  confine,  se  ne  jette 
a  Lommardia.  Dove,  pe  conziglio  de  la  gatta,  comperaje 
na  mano  de  territorio  e  de  terre,  che  se  fece  barone. 
Ora  mo,  Cagliuso,  vedennose  ricco  a  funno,  rengraziaje 
la  gatta,  che  non  se  pò  dicere  chiù,  decenno,  ca  da  essa 
reconosceva  la  vita  e  la  grannezza  soja,  da  li  buone  af- 
ficie  suoje,  che  l'aveva  fatto  chiù  bene  l'arteficio  de  na 
gatta,  che  lo  nciegno  de  lo  patre.  E  però,  poteva  fare  e 
sfare  de  la  robba  e  de  la  vita  soja,  comme  le  pareva  e 
piaceva;  dannole  parola,  che,  comme  fosse  morta,  da  Uà  a 
ciento  anne!,  l'averria  latto  mbauzamare  e  mettere  drinto 
a  na  gajola  d'oro,  drinto  la  stessa  cammara  soja,  pe  tenere 
sempre  nanze  all' nocchie  la  mammoria  soja!  La  gatta, 
che  sentette  sta  spanfiata^*^,  non  passaro  tre  juorne,  che, 
fegnennose  morta,  se  stese  longa  longa  drinto  lo  giardino. 
La  quale  cosa  vedenno  la  mogliere  de  Cagliuso,  gridaje  : 
«  Oh,  marito  mio,  e  che  desgrazia  granne!,  la  gatta  è 
«  morta!  »  «  Ogne  male  vaga  appriesso  ad  essa!,  —  re- 
«  spose  Caglinso — ,  meglio  ad  essa,  ch'a  nuje!  »  «  Che 
«  ne  farrimmo?  »,  replecaje  la  mogliere.  Ed  isso:  «  Pi- 
«  gliala  pe  no  pede,  e  jettala  pe  na  fenestra^''!  »  La  gatta, 
che  sentette  sto  buono  miereto,  quanno  manco  se  l'averria 
màgenato,  commenzaje  a  dicere  :  «  Chesta  è  la  gran  mer- 
«  zè  de  li  peducchie,  che  faggio  levato  da  cucilo?,  che- 
«  sta  è  l' a-mille-grazie  de  le  petacco^^,  che  faggio  fatto 
«  jettare,  che  nce  potive  appennere  le  fusa^''?,  chesto  è 
«  lo  cammio  d'averete  puosto  nforma  de  ragno;  ed  ave- 


36  Vanteria. 

37  II  Liebr.  nota  che,  se  il  gatto  stava  nel  giardino,  era  difficile 
gettarlo  dalla  finestra  (Anw.,  I,  406).      33  cenci. 

39  Che  si  potevano  lavorar  col  fuso,  filare. 


208  LO    CUKTO   DE  LI   CUNTI 

«  rete  sbrammato,  dove  avive  l'allanca^*^,  pezzente,  strac- 
«  cia-vrache!,  che  jere  no  sbrenzolato,  sdellenzato,  spe- 
«  tacciato,  perogliuso,  spogliampise!  Cossi  va  chi  lava  la 
«  capo  all'aseno!  Va,  che  te  sia  marditto  quanto  faggio 
«  fatto,  ca  non  mierete,  che  te  sia  sputato  ncanna!  Bella 
«  gajola  d'oro,  che  m' avive  apparecchiata!,  bella  sepe- 
«  tura,  che  m' avive  consignata!  Va,  siervo  tu,  stenta, 
«  fatica,  suda,  ped  avere  sto  bello  premio!  Oh  negre- 
«  cato  chi  inette  lo  pignato  a  speranza  d'autro!  Disse 
€  buono  chillo  felosofo:  chi  aseno  se  cprca,  aseno  se 
«  trova!  Nsomma,  chi  chiù  fa,  manco  aspetta!  Ma:  bone 
«  parole  e  triste  fatte,  ngannano  li  savie  e  li  matte!  » 
Cossi  decenno  e  capezzianno^^,  se  pigliaje  la  via  de  fere; 
e,  pe  quanto  Cagliuso,  co  lo  permone*^  de  l'omelità,  cer- 
caje  alliccarela,  non  co  fu  remmedio,  che  tornasse  arreto. 
Ma,  correnno  sempre,  senza  votare  mai  capo  dereto,  de- 
ceva: 

^Dio  te  guarda  de  ricco  mpoveriito, 

\E  de  pezzente,  quanno  è  resagliuto*^!    ' 


<o  Fame  canina.      *^  Scuotendo  la  testa. 

■12  eh' è  il  cibo  dei  gatti.  E  a  Napoli  si  dicono:  polmonari  i  ven- 
ditori ambulanti,  che  vanno  distribuendo  per  le  case  questa  cibo. 
Un  nostro  scrittore  di  cinquanl'anni  fa  descriveva  il  iJolmonaro 
*  che  trascorre  a  passo  lento  la  strada  con  una  mazza  a  bilan- 
ciere sulle  spalle,  dalle  due  estremità  della  quale  pendono  due 
enormi  polmoni  di  buoi  leggermente  cotti...  E  (i  gatti)  lo  conoscono, 
lo  prevedono  anzi,  lo  profetizzano,  e  ne  sentono  l'appi'ossimarsi  an- 
cora molto  da  lontano,  si  che  cominciano  a  miagolare  e  rimenarsi 
inquiete.  E  non  appena  lo  veggono  che  gli  strisciano  attorno  le  gambe 
nude,  lo  battono  con  la  coda,  e  rombano  con  quel  suono  interno  e 
profondo,  tal  che  sembrano  ventriloque.  Ed  egli  sorride  loro  da  pri- 
ma, dice  qualche  parola  gentile  o  adulatrice,  prende  conto  della  loro 
Ralut<>,  del  loro  appetito,  dei  loro  alTari,  e  finisce  per  assegnare  una 
porzione  di  cibo  equivalente  al  bisogno  o  al  merito  di  ciascheduna.  » 
{Napoli  in  miniatura,  ovvero  il  popolo  di  Napoli  ed  i  suol  costumi, 
Opera  di  patrii  autori,  pubbl.  per  cura  di  M.  Lombardi,  Nap.,  1847, 
pp.  230-2,  con  flg.).      *3  Salito  in  fortuna. 


LO    SERPE 


Trattenemiento  questo  de  la  Jorxata  seconda. 


Lo  re  de  Starzalonga^  marita  la  figlia  co  no  serpe,  e,  scopierto 
ch'era  no  Lello  giovane,  Tardette  la  spoglia.  Isso,  volenno  rom- 
pere na  vilriala  pe  foire,  se  roppe  la  capo,  né  trovanno  remme- 
dio,  la  figlia  de  lo  re  lassa  la  casa  de  lo  patre.  E,  ntiso  da  na 
vorpe  lo  secreto  da  sanare  lo  nammorato,  accide  maliziosamente 
la  vorpe,  e,  de  lo  grasso  sujo  e  de  varie  aucielle  ontanno  lo  gio- 
vane feruto,  ch'era  figlio  de  no  prencepe,  le  deventa  marito. 

Jr  u  compatuta  fora  de  muodo  la  scura  gatta  pe  ve- 
detela cossi  male  remunerata;  si  be  nco  fu  perzona,  che 
disse,  ca  se  poteva  couzolare  co  l'avanzo  e  presa,  non 
essenno  sola;  ca,  ogge,  la  sgratetudene  è  fatto  male  do- 
mesteco,  comme  a  lo  male  franzese  e  lo  crastone^;  es- 
sennoce  dell'autre,  e' hanno  fatto  e  sfatto,  conzomato  la 
robba,  roinata  la  vita  pe  servire  sta  razza  de  sgrate,  e, 
quanno  se  tenevano  mano  antro,  che  gajole  d'oro,  se  de- 
stinano na  sepetura  a  l'ospitale.  Tra  chisto  miezo,  ve- 
denno  apparecchiata  Popa  pe  parlare,  facettero  selenzio, 
mentre  essa  disse. 


i  star  za  signif.:  vasto  podere,  fattoria. 

2  Mal  castrone  si  chiamò  la  febbre  catarrale  epidemica;  della  quale 
si  ebbe  a  Napoli  e  in  tutta  Italia  una  terribile  epidemia  il  1580  (Cfr. 
A.  Corradi,  Influenza,  ovvero  febbre  catarrale  epidemica  dell'a.  1580 
in  Italia  negli  Ann.  univ.  di  medie,  voli.  197-8,  e  il  Fanf,  d.  Dom., 
XII  (1890),  3,  4,  5). 


2 IO  LO   CmjTO   DE   LI   CUNTI 

Sempre  se  dette  l'ascia  a  lo  pede  clii  cercaje  troppo 
coriuso  de  sapere  li  fatte  d'autro,  comme  ne  pò  fare  te- 
stemonio  lo  re  de  Starzalonga,  che,  pe  mettere  lo  musso 
a  la  chelleta,  sgarraje  lo  filato  de  la  figlia,  e  roiuaje  lo 
nigro  jennero,  che,  dove  era  venuto  a  sfracassare  co  la 
capo,  restaje  co  la  capo  sfracassata. 

Ora  dice,  ch'era  na  vota  na  foretana,  che  desiderava 
chiù  d'avere  no  figlio,  che  non  desidera  lo  liticante  la 
sottenza  nfavore,  lo  malato  V  acqua  fresca,  e  lo  tavernaro 
la  passata  de  lo  percaccio  ^.  Ma,  pe  quanto  lo  marito 
zappava  a  jornata,  mai  arrevava  a  vedere  la  ferteletate, 
che  desederava.  Ma,  essenno  juto  no  juorno  lo  poverom- 
mo  a  fare  na  fascina  a  la  montagna,  e  sciaravogliannola'' 
a  la  casa,  nce  trovaje  no  hello  serpetiello  driuto  a  le  fra- 
sche. La  quale  cosa  vedenno  Sapatella  (che  cossi  se  chiam- 
mava  la  foretana),  jettato  no  gran  sospiro,  disse:  «  Ecco 
«  ca  pe  fi  a  li  sierpe  fanno  li  serpunchiole,  e  io  nasciette 
«  sbentorata  a  sto  munno,  co  no  guallaruso^  de  marito, 
«  che  con  tutto  che  sia  ortolano,  non  è  da  tanto  de  fare 
«  no  nzierto*^!  »  A  le  quale  parole  rispose  lo  serpe:  «  Pocca 
«  non  pnoje  avere  figlie,  e  tu  pigliate  a  me,  ca  sarrà  no 
«  buono  appiello',  e  te  vorraggio  bene  chiù  de  mamma  ». 
Sapatella,  che  ntese  parlare  a  no  serpo,  appe  a  spire  tare; 
ma,  fatto  armo,  le  disse  :  «  Quanno  mai  ped  autro,  pe 
«  ssa  amorevolezza  toja  io  me  contento  d'azzettarete  com- 
«  me  si  fusse  sciuto  da  lo  denucchio  mio  ».  E  cossi,  con- 
signatole  no  pertuso  de  la  casa  pe  connoia,  le  deva  a 
magnare  do  chello,  che  aveva,  co  la  chiù  granne  affez- 
zione  de  lo  munno.  E,  creacenno  de  juorno  njuorno,  com- 
me fu  fatto  granneciollo,  disse  a  Cola  Matteo,  lo  foretano, 
che  teneva  pe  messere  :  «  0  tata,  io  me  voglio  nzorare  !  » 
«  De  grazia,  —  disse  Cola  Matteo  — ,  trovanimmo  n'au- 


3  Dei  via 
^  Ernioso, 


iggiatori,  che  viaggiano  col  procaccio.      ■*  Svolgendola. 
0.      6  Innesto.      "^  Che  sarà  una  buona  scelta. 


JORNATA  II.   TEATTENEMIENTO   V.  211 

«  tra  serpe,  comm'  a   tene,  e  farrimmo   sta   lega  de   po- 
«  teca  ».  «  Che  serpe?,  —  respose  lo  serpetiello  — ,  era- 
«  me  fatte  tutte  uuo  co  le  vipere  e  li  scorzune  !  Ben  se 
«  pare  ca  si  n'Antuono^,  e  fai  d'ogne  erva  fascio!  Io  vo- 
«  glio  la  figlia  de  lo  re;  e,  perzò,  vattenne  a  sta  mede- 
«  sema  pedata,  e  cerca  a  lo  re  la  figlia,  e  di  ca  la  volo 
«  no   serpe  ».    Gola  Matteo,    che   jeva  a  la  bona,  né  se 
ntenneva   troppo    de    sti    vottavarrile^,   jette    semprece- 
mente  a  lo  re,  e  le  facette  la  masciata,  decenne  :  «  Ma- 
«  sciatore  non  porta  pena:  si  no,  mazze  quanto  la  rena! 
«  Ora  sacce,  ca  no  serpe  vole  figliata  pe  mogliere;  per- 
«  zò,  vengo  comme  ortolano  a  vedere  si  potesse  fare  no 
«  nsierto   de  no  serpe  co  na  palommella  ».   Lo  re,   che 
canoscette  a  lo  naso  ch'era  no  vozzacchione,  pe   levare- 
sillo    da  cuollo,  disse:  «  Va,  di  a  sto  serpe,  che,   si  me 
«  farrà  li  fx'utte  de  sto  parco  tutte  d'oro,  io  le  darraggio 
«  figliama  ».  E,  fattose_  na  gran  risata,  le  dette  lecienzia. 
Ma,  dato  Cola  Matteo  la  resposta  a  lo  serpe,  isso  le  disse: 
«  Va  crai  matino^'',  e  aduna    tutte  l'ossa  de  frutte,    che 
«  truove   pe   la   cetate,  e  ne  semmena  lo  parco,   ca   ve- 
«  derrai  perne  nfilate  a  lo  junco  ».  Cola  Matteo,  ch'era 
fatto  a  la  sterza ^^,   ne  sapeva    leprecare,  ne  contradire, 
comme  lo  sole  co  le  jenestre  ^'  d'oro  scopaje  le  monnezze 
de  l'ombre  de  li  campe  adacquate  da  l'arba,  nfilatose  na 
sporta  a  lo  vraccio,  jette  de  chiazza  nchiazza   adonanno 
tutta   l'ossa,  che    trovaje    de  perzeca,   de  gresommola^^, 
d'albergo  ^^,  de  visciole,  e  de  quante  nevinole^^  ed  arille^" 
trovaje  pe    le  strate.  E,  juto  a  lo  parco,  le    semmenaje, 


8  V.  n.  $s^  p.  28.      9  Par  che  voglia  dire:  cerimonie,  e  simili. 

10  Domattina.     ^^  Stortamente,  grossolanamente.      ^~  (EO)  fenestre. 

i3  Albicocca. 

1*  Varietà  di  pesca:  ijrunus  armeniaca  v.  Alexandrina  praecox. 

i5  II  de  sembra  superfluo:  nevinoìe^  semi,  0  simili. 

i6  Vinacciuoli,  e,  in  gen.,  semi. 


212  LO    CUNTO   DE   LI   CUNTI 

comme  aveva  ditto  lo  serpe,  che,  nditto  nfatto,  sguigliaro, 
0  fecero  li  troncane  de  le  cbiante,  le  frunne,  li  shiure, 
e  li  frutte  tutte  d'oro  lampante,  che  lo  re,  vedenno  tale 
cosa,  jette  n'estrece  ^^  de  stopore,  e  pampaniaje  de  prejez- 
za**.  Ma,  essenno  mannato  Cola  Matteo  da  lo  serpe  a 
cercare  a  lo  re  la  promessa:  «  Adaso  li  cuorpe!,  —  disse 
«  lo  re  — ,  ca  voglio  n'autra  cosa,  si  vole  figliama!  Ed 
«  è,  che  faccia  tutte  le  mura,  e  lo  suolo  de  lo  parco  de 
«  prete  preziose  ».  E,  referuto  sta  cosa  da  lo  parzonaro 
a  lo  serpo,  isso  le  respose  :  «  Va  crai  matino,  ed,  ado- 
«  nanne  tutto  le  graste*',  che  truove  pò  la  terra,  jettale 
«  pe  lo  strato  e  pe  le  mura  de  lo  parco,  ca  volimmo 
«  arrevare  sto  zuoppo!  »  E  Cola  Matteo,  comme  la  notte, 
ped  avere  fatto  spalla  a  li  mariuole,  ave  l'ausilio ^^  e  va 
raccoglienno  le  sarcinole  de  li  crepuscolo  da  lo  cielo,  pi- 
gliatose  no  cuofano^^  sotta  tetilleco,  commenzaje  a  ire 
adunanno  graste  d'arciulo,  piezze  de  tieste  e  do  coper- 
chiole,  funne  de  pignate  e  de  tiane^^,  urie  de  scafarejo^^, 
maneche  de  lancelle,  lavre  de  cantaro,  arresediannone 
quanto  locernelle  rotte,  graste  spezzate,  fesine  sesete^', 
0  quante  frantumme  de  roagne  trovaje  pe  la  via.  E,  fat- 
tone chello,  che  aveva  ditto  lo  serpe,  se  vedde  lo  parco 
mautonato  de  smeraude  e  caucedonie,  ntonacato  de  robino 
e  carvunchie,  che  lo  lostrore  sequestrava  la  vista  drinto 
li  magazzeno  dell'uocchie,  e  chiantava  la  maraveglia  drinto 
a  li  territorio  de  li  core.  A  lo  quale  spettacolo  restajo 
lo  ro  tutto  de  no  piezzo,  e  non  sapeva,  che  l'era  socciesso  ! 
Ma,  fattole  dire  n'autra  vota  lo  serpe,  che  l'attennesse 
la  parola,   lo  re  respose:  «  Quanto  s'è  fatto,  è  zubba,  si 


"  In  estasi.      18  Allegrezza.      io  Cocci.      20  Esilio. 
"  Corbello.      22  Tegami. 

23  Vasi  di  terracolfa  per  lavarvi  stoviglie  o  erbaggi,  ecc. 
2'  Vasetti  spezzati.  Cfr.  Egl.  La  Stufa:   «  stracco  de  pede  e  slselo 
de  testa  ». 


JORNATA  II.   TRATTENKMIENTO  V.  21 S 

«  non  me  fa  deventare  sto  palazzo  tutto  d'oro  ».  E  Cola 
Matteo,  referuto  st' antro  capriccio  de  lo  re  a  lo  serpe, 
lo  serpe  le  disse:  «  Va,  e  piglia  no  fascio  d'erve  deverze, 
«  e  ugnene  le  pedamente  de  lo  palazzo,  ca  vedarrimmo 
«  de  contentare  sta  regnola^^  ».  Cola  Matteo,  a  lo  stisso 
punto,  se  fece  na  grossa  mappata  de  foglia  molle,  de  ra- 
pestelle,  d'aitille,  de  porcliiacclie,  d'arucole  e  de  cerefuo- 
glie-'^;  e,  fattone  n'onzione  a  lo  pede  de  lo  palazzo,  se 
vedde  subeto  tutto  stralucere  comme  a  pinolo  naurato  ^'', 
da  fare  vacuare  le  povertà  a  ciento  case,  stetecute  ^^  da 
la  fortuna.  E,  tornato  lo  foretano  a  nomme  de  lo  serpe 
a  l'are  stanzia  pe  la  mogliere,  lo  re,  vedennose  stagliate 
li  passe,  chiammaje  la  figlia,  e  le  disse:  «  Grannonia  mia, 
«  io,  pe  delleggiare  no  marito,  che  te  voleva,  aggio  cer- 
«  cato  patte,  che  me  pareva  mpossibele,  che  se  potes- 
«  sero  comprire.  Ma,  vedennome  arrivato  ed  obrecato,  non 
«  saccip  comme,  te  prego,  si  si  figlia  benedetta,  che  me 
«  facce  mantenere  la  fede,  e  che  te  contiente  de  chello, 
«  che  vele  lo  cielo,  ed  io  so  costritto  de  fare!  »  «  Ea 
«  chello,  che  te  piace,  tata  gnore  mio,  —  respose  Gran- 
«  nenia  — ,  ca  no  sciaraggio  na  jota  da  lo  volere  tnjo  ». 
Ntiso  chesto,  lo  re  disse  a  Cola  Matteo,  che  facesse  ve- 
nire lo  serpe.  Lo  quale,  sentuto  la  chiammata,  ncoppa  a 
no  carro  tutto  d'oro,  tirato  da  quatto  lefante  d'oro,  se 
ne  venne  a  la  corte.  Ma,  dovonca  passava,  sfrattavano 
atterrute  le  gente,  vedenno  no  serpe  accessi  gruosso  e 
spaventuso  fare  lo  spassiggio  pe  la  cetate.  Ed,  arrivato 
mpalazzo,  tremmaro  comme  a  junco,  ed  ammarciaro  tutte 
li  cortesciane,  che  non  ce  restairo  manco  li  guattare.  E 
lo  re,  e  la  regina  se  ncaforchiaro  pe  lo  jajo  drinto  a  na 
cammara;  sulo  Grannonia  stette  sauda  sauda!  E,  benché 


23  Propr.,  lamento;  qui:  persona  noiosa. 

26  Cioè:  «  un  gran  fagotto  di  bietola,  ramolaccio,  aglietti,  erba  por- 
cellana, ruca,  cerfoglio  ».       ^7  y.  n,  34,  p.  120.       28  Rese  stiticlie. 


214  LO   CUNTO  DE  LI  CTJNTI 

lo  patro  e  la  mamma  gridasse:  «  I^wje,  sbigna,  Gran- 
«  nonia!,  sàrvate,  Rienzo!  »,  essa  non  se  voze  scazzecare 
mollica,  decenno:  «  Perchè  voglio  foire  da  lo  marito, 
«  che  m'avite  dato?  »  Ma,  trasuto  lo  serpe  a  la  cammara, 
afterraje  pe  miezo  co  la  coda  a  Grannonia,  e  le  dette 
na  vranca  de  vase,  che  lo  re  ne  fece  na  quatra  de  vier- 
me,  e,  si  lo  nsagnave^^,  non  ne  sceva  sango.  E,  portato- 
sella  drinto  n'autra  cammara,  fece  serrare  la  porta;  e, 
scotolanno  lo  cuojero  nterra,  deventaje  no  bellissemo  gio- 
vane, ch'aveva  na  capo  tutta  ricco  d'oro,  e  coll'uocchie 
te  affattorava!  Lo  quale,  abbracciato  la  zita,  couze  li  prim- 
me  frutte  de  l'ammore  sujo.  Lo  re,  che  vedde  ncafor- 
chiare  lo  serpe  co  la  figlia,  e  chiudere  la  porta,  disse  a 
la  mogliere:  «  Lo  cielo  faccia  pace  a  chella  bon'arma 
«  de  figliama,  ca  è  juta  senz'antro,  e  chillo  marditto 
«  serpe  ne  l'averrà  scesa,  comme  a  veluocciolo  d'uovo!  » 
E,  mettenno  l'uocchie  pe  lo  pertnso  de  la  chiavatura, 
voze  vedere,  che  cosa  n'era  fatto.  Ma,  visto  la  stremata 
grazia  de  chillo  giovane,  e  la  spoglia  de  serpe,  ch'aveva 
lassato  nterra,  dato  no  canee  a  la  porta,  trasettero  drinto. 
E,  pigliato  chella  pella,'  la  jettaro  a  lo  fuoco,  facennola 
abrosciare.  La  quale  cosa,  vedenno  chillo  giovane,  gri- 
daje  :  «  Ah  cane  renegate,  me  l'avite  fatta  !  »  E,  strafor- 
matose  a  na  palomma,  e  trovato  pe  foire  le  vitriate  a 
le  fenestre,  tanto  nce  tozzaje  co  la  capo,  pe  fi  che  le 
roppe;  ma  ne  scotte  conciato  de  manera,  che  no  le  re- 
staje  parte  do  la  catarozzola  sana.  Gi'annonia,  che  So 
vedde  a  no  punto  contenta  o  negra,  felice  e  sbentorata, 
ricca  e  pezzente,  sciccannose  la  facce,  se  lamentaje  co 
lo  patre  e  co  la  mamma  de  sta  ntro volata ^"^  de  gusto,  de 
sta  ntossecata  de  docezza,  e  do  sta  sgarx'ata  de  sciorte. 
Li  quale  se  scusattero,  che   non  pensare   de   fare   male. 


**  Se  lo  salassavi,      3o  Turbamento, 


JORNATA  II.   TRATTENEMIENTO  V.  21 5 

Ma  essa,  gualiannose,  fioche  scette'  la  notte  ad  allommare 
lo  catafarco^^  de  locielo  pe  le  pompe  fonerale  de  lo  sole, 
Gomme  vedde  corcate  tutte,  pigliatose  tutte  le  gioje,  che 
teneva  a  no  scrittorio,  se  ne  scette  pò  na  porta  fauza, 
co  penziero  do  cercare  tanto,  fi  che  trovasse  lo  bene, 
che  aveva  perduto.  E,  soluta  foro  de  la  cetate,  guidata 
da  lo  raggio  de  la  luna,  trovaje  na  vorpe,  la  quale  le  disse 
se  voleva  compagnia.  E  G-rannonia  le  respose:  «  Me  ne 
«  fai  piacere,  commare  mia,  ca  non  so  troppo  pratteca 
«  de  lo  paese  ».  E,  cossi,  camminanno,  arrivar©  a  no 
vosco,  dove  l'arvole,  joquanno  comm'a  peccerille,  face- 
vano casarelle  pe  nce-accovare  l'ombre^-.  Ed,  essenno  ora- 
maje  stracque  de  lo  cammino,  volennose  arreposare,  se 
retiraro  a  lo  copierto  de  le  frunne;  dove  na  fontana  jo- 
quava  a  carnevale  co  l'erva  fresca,  scarrecannole  aduosso 
l'acqvia  a  lancelle^^.  E,  corcatose  ncoppa  no  matarazzo 
d'erva  tennerella,  pagaro  lo  dazio  de  repuoso,  che  dove- 
vano a  la  natura,  pe  la  mercanzia  de  la  vita;  né  se  sce- 
taro  mai,  fioche  lo  sole  non  dette  signo  co  lo  solito 
fuoco  a  marinare  ed  a  corriere,  che  potevano  secotare  lo 
cammino  loro.  E,scetate  che  foro,  se  fermare  ancorano 
buono  piezzo  a  sentire  lo  cantare  de  varie  aucielle,  mo- 
stranno  Grannonia  no  gusto  granne  de  sentire  lo  verno- 
liare^*,  che  facevano.  La  quale  cosa  visto  la  vorpe,  le 
disse:  «  Antro  tanto  piacere  senterrisse,  ntennenno  chello, 
«  che  diceno,  comme  lo  ntenno  io  ».  A  ste  parole  Gran- 
nonia, perchè  le  femmene   hanno   cossi  pe  natura  la  cu- 


3^  I  catafalchi  pei  funerali  si  solevano  fare  magnifici,  in  quel  se- 
colo pomposo,  come  si  può  vedere  dalle  molte  descrizioni  di  fune- 
rali e  catafalchi,  che  restano  a  stampa. 

32  Allus.  al  giuoco  a  rimptattino. 

33  Tra  gli  altri  usi  carnevaleschi  c'era  quello  d' inafflar  la  gente, 
con  acque  odorose,  o  altrimenti.  Il  Del  Tufo,  discorrendo  del  Car- 
nevale: «  Quel  trar  degli  uovi  coloriti  e  belli,  Pien  d'anisi,  confetti 
0  forticelli.  Altri  iV  acque  e  profumi.  Conforme  a  lor  costumi  »  {ms, 
e,  f.  88).  Cfr.  IV,  4.        34  Cinguettare. 


2l6  LO   C'UNTO   DE   LI   CUNTI 

riositate,  comme  le  chiacchiare,  pregaje  la  vorpe  a  dì- 
relè  chello,  che  aveva  sentuto  a  lo  lengiiaggio  dell'auciello. 
Ed  essa,  dapò  fattose  pregare  no  buono  piezzo,  pe  gua- 
dagnare maggiore  curiosità  a  chello,  che  doveva  contare, 
disse  che  chille  aucielle  trascorrevano  fra  loro  de  na  de- 
sgrazia  soccessa  a  lo  figlio  de  lo  re;  lo  quale,  essenno 
bello  comme  a  no  fato,  pe  non  avere  voluto  dare  sfa- 
zione a  le  sfrenate  voglie  de  n'orca  mardetta,  l'era  stata 
data  na  mardezzione,  che  fosse  transformato  nserpe  pe 
sette  anne;  e  che  già  era  vicino  a  fornire  lo  tiempo, 
quanno,  nammoratose  de.  na  figlia  de  re,  se  ne  steva  co 
la  zita  drinto  na  cammara,  ed  aveva  lassato  lo  cuojero 
nterra;  ma  lo  patre  e  la  mamma  de  la  zita  troppo  co- 
riuse,  l'aveano  abbrusciato  la  spoglia.  Lo  quale,  fojenno 
nforma  de  na  colomma,  a  lo  rompere  na  vitriata,  pe  sciro 
da  na  fenestra,  s'era  sfracassato  de  manera,  ch'era  de- 
sperato da  miedece.  Grannonia,  che  sentette  parlare  dò 
Taglie  suoje^^,  demannaje,  la  priraraa  cosa,  di  chi  era  figlio 
sto  prencepe,  e  si  nc'era  speranza  de  remmedio  a  lo  male 
sujo.  E  la  vorpe  respose,  ca  chille  aucielle  avevano  ditto 
ch'era  lo  patre  sujo  lo  re  de  Vallonogruosso,  e  che  non 
c'era  antro  secreto  pe  appilare  le  pertose  de  la  capo  soja, 
azzò  non  so  ne  scesse  l'arma,  che  ontare  le  ferite  co  lo 
sango  de  l'aucielle  stisse,  ch'avevano  contato  sto  fatto. 
Grannonia,  a  ste  parole,  se  ngenocchiaje  nante  la  vorpe, 
pregannola  a  farele  st'utele  de  pigliarele  chill'auciello, 
pe  cacciarene  lo  sango,  che  averriano  spartuto  da  buon 
compagne  lo  guadagno.  «  Chiane  !,  —  disse  la  vorpe  — , 
«  aspettammo  la  notte;  e,  comme  l'aucielle  s'ammaso- 
«  nano,  lassa  fare  a  mammata,  ca  saglio  ncoppa  a  l'ar- 
«  volo,  e  ne  le  scervecchio  uno  ped  uno  ».  Cossi,  passato 
tutto  lo  juorno,  mo   parlanno   do  la  bellezza  do  lo  gio- 


35  Dei  {jxiii^  dei  guai  suoi. 


JORNATA   II.   TRATTENEMIENTO   V.  217 

vane,  mo  de  l'arrore  de  lo  patre  de  la  zita,  mo  de  la 
desgrazia  soccessa,  trascorrenno  trascorrenno,  passaje  lo 
juorno,  e  la  terra  spase  no  gran  cartone  nigro  pe  racco- 
gliere la  cera  da  le  ntorcie  de  la  notte  ^°.  La  vorpe, 
comme  vedde  appapagnate  l'aucielle  ncoppa  a  li  ramme, 
se  ne  sagliette  guatto  guatto,  e,  ad  uno  ad  uno,  ne  piu- 
zaje^^  quante  gelane ^^,  cardille,  reille^^,  froncille '*'*,  galli- 
ne arcere^^,  coccovaje,  papesco "^^j  marvizze^^,  lecere,  co- 
starelle" e  pappamosche  erano  ncoppa  all'arvole.  Ed, 
accisole,  mesero  lo  sango  drinto  a  no  fiaschetiello,  che 
portava  la  vorpe  pe  ref'rescarese  pe  la  via.  Grannonia, 
pe  lo  priejo,  non  toccava  pedo  nterra;  ma  la  vorpe  le 
disse:  «  Oh  che  allegrezza  nsuonno,  figlia  mia!  Tu  non 
«  aje  fatto  niente,  si  non  aje  ancora  lo  sango  mio  pe 
«  fare  crapiata'*-'  co  chillo  de  l'aucielle!  »  E,  ditto  che- 
sto,  se  mese  a  foire.  Grannonia,  che  vedde  derropato  le 
speranze  soje,  recorse  a  l'arte  de  le  femmene,  eh' è  l'a- 
stuzia e  la  losegna,  decennole:  «  Commare  vorpe,  aver- 
«  risse  ragione  de  sarvarete  la  pella,  quanno  io  non  te 
«  fosse  tanto  obrecata,  e  quanno  non  se  trovassero  autre 
«  vurpe  a  lo  munno;  però,  mentre  saje  quanto  te  devo, 
«  e  sai  ancora  ca  non  mancano  pare  toje  pe  sse  campa- 
le gne,  te  puoje  assecurare  de  la  fede  mia,  e  non  fare 
«  comme  la  vacca,  co  dare  de  pedo  a  la  tina,  mo  che 
«  l'aje  chiena  de  latte  :  hai  fatto  e  fatto,  e  mo  te  pierde 
«  a  lo  meglio!  Fermate,  crideme,  ed  accompagname  a  la 
«  cetate  de  sto  re,  ca  me  accatto  pe  schiava  ».  La  vorpe, 
che  non  se  credeva  mai,  che  se  trovasse  quinta  essenza 


36  «  Allusione  all'uso  della  povera  gente,  che  nelle  pubbliche  feste, 
e  specialmente  nei  funerali,  nelle  chiese,  ecc.,  raccoglie  con  un  pezzo 
di  cartone  la  cera,  che  scorre  dalle  candele  »  (Liebr.,  Anm.,  I,  406). 

'^"^  Propr.  :  beccò.      38  y.  ^7,  29,  p.  204. 

39  Reatini,  scriccioli  d'Europa.      ^^  Fringuelli.      ^^  Beccacce. 

«  Upupe.      ^3  Tordi.      ^^  Strigi,      ^5  Miscela. 

28 


2lS  LO   CUXTO   DE   LI   CirSTl 

vorpina,  se  trovaje  vorpinata  da  na  femmena.  Perchè, 
accordatoso**'  a  camminare  co  Grannonia,  non  appero  date 
cinquanta  passe,  ch'essa  le  nzertaje  na  mazzata  co  lo  va- 
stone,  che  portava,  e  le  dette  a  la  chiricoccola  de  mane- 
ra,  che  subeto  stese  li  piede.  E,  scannatola,  subeto'"  ne 
pigliaje  lo  sango,  refonnennolo  a  lo  fìaschetiello.  E,  com- 
menzato  a  toccare  de  pede,  arrivaje  a  Vallonegruosso; 
dove,  abbiatose  verzo  lo  palazzo  riale,  fece  ntennere  a 
lo  re,  ch'era  venuta  pe  sanare  lo  prencepe.  Lo  re,  fattola 
venire  a  la  presenzia  soja,  se  maravigliaje  de  vedere  na 
figliola  prommettere  chello,  che  n'avevano  potuto  fare  li 
meglio  miedece  de  lo  regno  siijo;  puro,  perchè  lo  ten- 
tare non  noce,  disse  ch'era  de  gusto  granne  vederene  la 
pperienzia.  Ma  Grannonia  leprecaje:  «  S'io  ve  faccio  ve- 
«  dere  l'^ifetto,  che  desiderate,  voglio,  che  me  prommet- 
«  tite  de  daremillo  pe  marito  ».  Lo  re,  che  teneva  lo 
figlio  pe  muorto,  le  respose:  «  Quanno  tu  me  lo  darrai 
«  libero  e  sano,  io  te  lo  darraggio  sano  e  libero,  che  n'è 
«  gran  cosa  dare  no  marito  a  chi  me  dace  no  figlio  ». 
E,  cossi,  juto  a  la  cammara  de  lo  prencepe,  non  cossi 
priesto  Tappo  ontato  co  chillo  sango,  che  ae  trovaje  com- 
me  n'avesse  avuto  mai  male.  E  Grannonia,  comme  ve- 
dette lo  prencepe  forte  e  gagliardo,  disse  a  lo  re,  che 
l'attennesse  la  parola.  E  lo  re,  votatose  a  lo  figlio,  disse: 
«  Figlio  mio,  già  te  sì  visto  muorto,  ed  io  te  vogo  vivo, 
«  e  manco  lo  creo!  Però,  avenno  prommisso  a  sta  gio- 
«  vane,  si  te  sanava,  che  tu  lo  fusse  marito,  già  che  lo 
«  cielo  t'ha  fatto  la  grazia,  famme  comprire  sta  mprom- 
«  messa,  pe  quanto  aramore  me  puorte;  pecca  è  necessità 
«  de  gratetudene  pagare  sto  debeto  ».  A  ste  parole  re- 
spose lo  prencepe:  «  Signore  mio,  vorria  avere  tanta  li- 


*^  (EO)  accostatose. 

*''  Mancano  neH'CEO)  le  parole:   subeto  stese  li  piede  e  scannatola, 
che  si  trovano  nell'ediz.  del  1637. 


JORXATA   IL   TRATTEl^EMIEXTO  V.  219 

«  bertate  alle  boglie  meje,  pe  dareve  sfazione,  quanto 
«  ammore  ve  porto;  ma,  trovannome  mpegnato  de  pa- 
«  rola  ad  autra  femmena,  ne  vui  conzenterrite,  che  io 
«  rompa  la  fede;  né  sta  giovane  me  conzigliarrà,  che  io 
«  faccia  sto  tuorto  a  chi  voglio  bene,  né  io  pozzo  mu- 
«  tare  penziero  ».  Grannonia,  sentuto  chesto,  appe  no 
gusto  ntrinseco,  che  non  se  porrla  dicere,  vedennose  viva 
drinto  a  la  mammoria  de  lo  prencepe.  E,  fatto  na  tenta 
de  carmosino  a  la  facce,  disse:  «  Quanno  io  facesse  con-  » 
«  tentare  sta  giovane  amata  da  vui,  che  me  cedesse  sta 
«  partita,  non  te  chiegarrisse  a  le  boglie  meje?  »  «  Non 
«  sarrà  mai,  —  respose  lo  prencepe  — ,  ch'io  scache  la 
«  bella  raagene  de  l'amanza  mia  da  chisto  pietto  !  0  che 
«  me  faccia  conserva  de  l'ammore  sujo,  0  che  me  dia  cas- 
«  sia  tratta'*^,  sempre  sarraggio  de  na  stessa  voglia,  de 
«  no  stisso  penziero,  e  me  porrla  vedere  mpericolo  de 
«  perdere  lo  luoco  a  la  tavola  de  la  vita,  che  io  non 
«  farraggio  mai  ne  sto  cavalletto,  né  sto  trucco^''  ». 
Grannonia,  non  potenno  chiù  stare  drinto  le  pastore  de 
lo  fegnemiento,  se  le  scoperze  chella,  che  era;  pecca  la 
cammara,  serrata  tutta,  pe  le  ferite  de  la  capo,  e  lo  ve- 
derela  stravestuta,  non  ce  l'aveva  fatta  canoscere.  E  lo 
prencepe  recanosciatola,  saboto  l'abbracciaje  co  no  giu- 
belo  da  stordire,  decenno  a  lo  patre  la  perzona,  che  era, 
e  chello,  ch'aveva  patuto,  e  fatto  ped  essa.  E,  mannanno 
a  chiammare  lo  re  e  la  regina  de  Starzalonga  de  bona 
commegaa  fecero  lo  matremmonio  pigliannose  sopra  tutto 
graonissemo  sfizio  ^"^  de  lo  corrivo  de  la  vorpe,  concro- 
denno  all'utemo  dell'utemo: 

Ch'a  li  gusle  d'ammore 

Fu  semi^re  connemiento  lo  dolore. 


■**  Cassia  cavata  dalle  canne:  e,  qiii,  metaf. 

''9  Né  questo  inganno,  né  questo  cambio,      ^o  Gusto. 


L'ORZA 


Trattenemeento  sesto  de  la  Jornata  seconda. 

Lo  re  de  Roccaspra  vo  pigliare  la  figlia  pe  mogliere;  chella,  pe  a- 
stuzia  de  na  vecchia,  se  cagna  nforma  d'orza,  e  fuje  a  le  serve; 
e,  venendo  mmano  de  no  prencepe,  la  vede  nell'aspetto  propio 
drinto  no  giardino,  dove  se  faceva  la  testa ',  e  se  ne  nammora; 
dapò  varie  succiesse,  scoperta  pe  femmena,  le  deventa  mogliere. 

1  utto  lo  cunto,  che  disse  Popa,  fece  ridere  a  schiat- 
tariello  le  fammene;  ma,  dove  se  trattaje  de  la  malizia 
lloro,  bastante  a  coffiare  na  vorpe,  lloco  avettero  a  cre- 
pare pe  li  fianche  de  lo  riso!  E,  veramente,  la  femmena 
ha  le  malizie  comm'a  granatelle  nfilate  a  ciento  p'ogne 
capillo  de  la  capo  :  la  fraudo  l' è  mamma,  la  buscia  nu- 
triccia,  la  losenga  maestra,  lo  fignemiento  conziglio,  e 
lo  nganno  compagno,  che  bota  e  revota  l'ommo  comme 
le  piace.  Ma,  tornanno  ad  Antonella,  che  s'ora  ngarza- 
pelluta-  pe  parlare,  la  quale,  stata  no  poco  sopra  do  se, 
comme  se  pigliasse  mostra  de  li  penziere,  cossi  dicette. 
Disse  buono  chillo  sapio,  ca  non  se  pò  a  commanna- 
miento  de  fele  obedire  de  zuccaro.  Deve  l'ommo  com- 
mannare cose  jaste  de  mosura,  pe  trovare  obedienzia  ag- 
ghiustata  de  piso:  dall'urdene,  che  non  commeneno,  na- 
scono le  resistenze,  che  non  s'agghiustano  ;  comm' appunto 


*  si  pettinava.       2  Ringalluzzita,  e  qui,  atteggiata,  apparecchiata. 


JOBNATA  II.   TRATTENEMIENTO   VI.  221 

soccesse  a  lo  re  de  E/Occaspra,  che,  pe  cercare  na  cosa 
ndebeta  a  la  figlia,  le  deze  causa  de  fuiresenne,  a  riseco 
de  perdere  lo  nore  e  la  vita. 

Ora  dice,  ch'era  na  vota  lo  re  de  Roccaspra,  che  a- 
veva  pe  mogliere  la  mamma  de  la  stessa  bellezza;  la 
quale,  a  la  meglio  carrera  de  l'anne,  cascaje  da  lo  ca- 
vallo de  la  sanetate,  e  se  roppe  la  vita.  Ma,  nnante  che 
se  stotasse  la  cannela  de  la  vita  a  lo  ricanto  dell'anno^, 
se  chiammaje  lo  marito,  e  le  disse:  «  Io  saccio  ca  sem- 
«  pre  m'aje  amato  svisciolatamente  ;  perzò,  mostrame  a 
«  la  fonnareglia*  de  l'anne  mieje,  l'accoppatura  de  l'am- 
«  more  tujo,  promettennome  de  non  te  nzorare  maje,  se 
«  non  truove  n'auta  femmena  bella  comme  so  stata  io; 
«  autramente,  te  lasso  na  mardezzione  a  zizze  sprem- 
«  mute^,  e  te  ne  portarraggio  odio  pe  nfi  a  l'auto  munno  !  » 
Lo  re,  che  le  voleva  bene  nfi  ncoppa  l'astraco,  sentenno 
st'utema  volontà,  scappai  a  chiagnere,  e,  pe  no  piezzo, 
non  potte  responnere  na  parola  mardetta.  AU'utemo, 
scomputo  de  trevoliare,  le  disse:  «  Ch'io  voglia  sapere 
«  chiù  de  mogliere,  nanze  me  schiaffa  gotta  ^,  nanze  me 
«  sia  data  lanzata  catalana''',  nanze  sia  fatto  comm'a  Sta- 
«  racemi  Bene   mio,    scordatello,   non  credere   a  suonne, 


3  Metaf.  dai  pubblici  incanii.  Il  Liebr.  {Anm.,  I,  406)  dice  che  l'uso 
della  candela  nei  pubblici  incanti  vigeva  anche  in  Ispagna:  onde  la 
frare:  acabarse  la  candela.  E  nel  Dunlop-Liebrecht  (0.  e,  p.  515)  che: 
«  vigeva  una  volta  anche  in  Inghilterra:  Taylor,  p.  168  »,  e  che,  pro- 
babilmente a  quest'uso  allude  un  luogo  dei  Gesta  Eomanorv.m,  96,  98. 

■*  Feccia,  e  quindi  al  fondo,  alla  fine.  In  relaz.  con  accoppatura, 
fior  flore.      5  Maledizione  terribile,  fatta  con  tutte  le  forze. 

6  Muoia  d'apoplessia.      ''  V.  n.  39,  p.  9. 

*  Giovan  Vincenzo  Starace  (o  meglio  Storace,  perchè  così  si  trova 
la  firma  in  documenti  dell'Archivio  Municipale),  fu  Eletto  del  popolo. 
—  Kel  1585,  per  essersi  mandato  molto  grano  in  Ispagna,  cominciò  a 
sentirsene  carestia  in  ìS'apoli.  Nel  maggio,  gli  Eletti,  riunitisi  in 
S.  Lorenzo,  riconobbero  la  necessità  o  di  diminuire  il  peso  0  di  rial- 
zare il  prezzo  del  pane.  Il  solo  Starace,  per  mezzo  di  due  suoi  con- 


2  22  LO   CUNTO  DE  LT  CTJXTI 

«  ch'io  pozza  mettere  ammore  ad  autra  femmena.  Tu 
«  faste  la  ncignatura^  de  l'affezzione  mia,  tu  te  ne  por- 
«  tarraje  le  stracce  de  lo  boglie  meje!  »  Mentre  isso  di- 
ceva ste  parole,  la  povera  giovane,  che  faceva  lo  racano  ^'^, 
strevellaje  *^  l'uocchie,  e  stennecchiaje  li  piede.  Lo  re, 
che  vedde  spilata  Patria*^,  spilaje  le  cannelle  dell'uocchie, 
e  fece  no  sbattetorio,  e  no  strillatorio  che  nce  corze  tutta 
la  corte,  chiammanno  lo  norame  do  chella  bon'arma,  ja- 
stemmanno  la  fortuna,   che  nce   l'aveva  levata;  e,  tiran- 


sultori,  s'oppose  a  questa  deliberazione.  Ma  si  sparse  invece  la  voce, 
cbe  avesse  consigliato  gli  odiosi  espedienti;  e  il  popolo  cominciò  ad 
agitarsi.  Invano  lo  Starace  tenne  riunione  in  S.  Agostino  che  a  stento 
potè  parlare  e  non  persuase  o  non  fu  capito.  Pure,  si  concluse  di  ra- 
dunarsi il  giorno  dopo  a  Santa  Maria  la  Nuova,  per  andare  dal  Viceré. 
Ma  il  giorno  dopo  (9  maggio)  fu  levato  a  furia  di  popolo  da  Santa 
Maria  la  Nuova,  tra  insulti  e  percosse  menato  a  S.  Agostino;  e  qui, 
prima  ferito,  poi  trafitto  con  una  stoccata,  e  gittate  semivivo  in  una 
fossa:  donde  cavato  fuori  di  nuovo,  negatogli  di  confessarsi,  fu  per- 
cosso e  straziato  e  spogliato  nudo,  e  trascinato  per  le  strade  verso  la 
Rellarin,  dove  morì.  Ma,  anche  morto,  per  più  di  sei  ore  seguitarono 
a  trascinarlo,  a  bruttarlo,  a  insultarlo,  a  tagliuzzarlo,  cavandogli  il 
cuore,  strappandogli  le  viscere,  troncandogli  le  gambe,  ofi"rendo  quelle 
membra  a  chi  volesse  mangiarne;  poi  la  plebaglia  si  divise,  e  una 
parte  andò  a  bruciare  la  casa  dello  Starace,  un'altra  parte  seguitò  a 
divertirsi  col  cadavere;  lasciandone  solo  sul  tardi  pochi  bi-ani  san- 
guinosi a  una  cappelluccia,  ch'era  sulla  via.  Gfr.  Suramonle.  Hist.  di 
Nap.,  L.  Xir,  G.  Iir,  e  Arch.  Stor.  Nap.,  I,  131  sgg.  Quell'orribile  ec- 
cidio restò  proverbiale,  e  se  ne  formò  anche  il  verbo:  slaracejarc, 
int.  al  quale  v.  E.  Rocco  nel  GBD.,  IV,  6. 

^  L'assaggio,  il  principio.  —  Scignare,  cominciare  a  servirsi  d'una 
cosa.      *<>  Rantolo  dell'agonia.      ^^  Torse. 

**  Patria,  la  Lltcrna  palns.  Gfr.  Cort,  {Viaggio  di  Pann,,  IV,  21). 
Sec.  il  Galiani,  «  viene  quest'espressione  da  un  regolamento,  che  an- 
cora si  osserva,  rispetto  alla  caccia  delle  folaghe,  ed  altri  uccelli 
acquatici.  Finché  la  foce  è  chiusa,  che  noi  diciamo  a2}i)ilata,  non  è 
lecito  entrar  nel  lago  a  far  la  caccia.  SìJilata,  o  sia  aperta  la  foce 
(il  che  segue  nel  mese  di  novembre),  allora  cessando  la  riserva,  tutti 
possono  andarvi,  e  perciò  vi  corrono  a  furia  »  (  7^V). 


JORNATA  II.    TEATTEXEMIENTO    VI.  223 

nose  la  varva,  no  ncacava  le  stelle,  che  l'avevano  man- 
nato  sta  (lesgrazia!  Ma,  perchè  voze  fare  comm'a  chillo  : 
«  Doglia  do  guveto  e  de  mogliere^^,  assaje  dole,  e  poco 
«  tene  »:  «  doje,  una  a  la  fossa,  e  n'autra  a  la  cossa.^^  », 
non  era  ancora  soluta  la  notte  a  la  chiazza  d'arme  de  lo 
cielo  a  pigliare  mostra  de  li  sportegliune*^,  quanno  ac- 
commenzaje  a  fare  li  cunte  co  .le  deta:  «  Ecco  morta  mo- 
«  glierema  pe  mene,  ed  io  resto  vidolo  e  negrecato, 
«  senza  autra  speranza  de  vedere*'^  si  no  sta  negra  figlia, 
«  che  m'ha  lassato!  Perzò,  sarrà  necessario  procurare  de 
«  trovare  cosa  a  proposito  pe  farence  no  figlio  mascolo. 
«  Ma  dove  dongo  de  pizzo?,  dove  ashio  na  femmena 
«  spiccicata^'''  a  le  bellezze  de  moglierema,  si  ogni  autra 
«  pare  na  scerpia  a  fronte  ad  essa?  Ora  lloco  te  voglio! 
«  Dove  ne  truove  n'autra  co  lo  spruoccolo  ^^,  dove  ne 
«  cirche  n'autra  co  lo  campaniello,  si  natura  fece  Nar- 
«  della  (che  sia  ngrolia!),  e,  pò,  roppe  la  stampa?  Ohimè!, 
«  a  che  laberinto  m'ha  puosto,  a  che  fiscole  ^^  la  prom- 
«  messa,  che  l'aggio  fatta!  Ma  che?  Io  ancora  non  aggio 
«  visto  lo  lupo,  e  f  ujo  :  cercammo,  vedimmo,  e  ntennimmo  ! 
«  E  possibele,  che  non  ce  vele  essere  autr'asena  a  la 
«  stalla  de  Nardella?,  è  possibele,  che  voglia  essere  per- 
«  duto  lo  munno  pe  mene  ?,  nce  sarrà  fuorze  la  scajenza  ^'^, 
«  la  sporchia^^  de  le  femmene?,  0  se  ne  sarrà  perduta 
«  la  semmenta?  »  Cossi  dicenno,  fa  subeto  jettare  no 
hanno  e  commannamiento  da  parte  de  mastro  Jom- 
miento^^,  che  tutte  le  femmene  belle   de  lo  munno   ve- 


i3  Dolor  di  gomito  e  di  perdita  di  moglie. 

i^  Una  nella  tomba  e  l'altra  nel  letto. 

i5  A  far  la  rivista  dei  pipistrelli.     ^^  Forse  deve  correggersi:  arede. 

^'  Tal  quale,  bella  come  mia  moglie.      ^8  a  cercarla  col  fuscello. 

i3  Gabbie:  che  s"adoprano  nello  strettoio  per  l'olio.  A  che  strette. 

2*^  Mancanza,  scarsezza.      21  quì  nel  senso  di:  mancanza. 

22  V,  n.  IO,  p.  173. 


224  1^0   CUNTO   DE   LI   CITSTI 

Dessero  a  la  preta  paragone  de  la  bellezza,  ca  se  voleva 
pigliare  la  chiù  bella  pe  mogliere,  e  dotarela  de  no  re- 
gno. La  quale  cosa  essennose  sparza  pe  tutto,  non  ce  fu 
femmena  a  l'univerzo,  che  non  venesse  a  tentare  la  sciorte 
soja;  non  ce  restaje  scerpia  pe  scorciata,  che  fosse,  cbe 
non  se  mettesse  ndozzana^^;  perchè,  comme  se  tocca 
sto  tasto  de  la  bellezza,  non  c'è  gliannola,  che  se  dia 
venta,  non  c'è  orca  marina,  che  ceda:  ogneuna  se  picca, 
ogneiina  ne  vo  la  meglio;  e,  si  lo  sciecco  le  dice  lo  vero, 
ncorpa  lo  vrito,  che  non  fa  naturale,  e  l'argiento  vivo, 
eh'  è  puosto  a  la  sterza.  Ora  mo,  essenno  chiena  la  terra 
de  femmene,  lo  re  facennole  mettere  a  filo  se  mese  a 
passiare,  comme  fa  lo  gran  Turco,  quanno  trase  a  lo  ser- 
raglio, pe  scegliere  la  meglio  preta  do  Genoa*'  pe  af- 
filare lo  cortiello  damaschino.  E,  jenno  e  venenno,  da 
coppa  a  bascio,  comm'a  scigna,  che  mai  abbenta,  e  schiu- 
denno  e  squatranno  chesta  e  chella,  una  le  pareva  storta 
de  fronte,  una  longa  de  naso,  chi  larga  de  vocca,  chi 
grossa  de  lavra,  chesta  longa  ciavana*^,  chella  corta  male 
cavata,  chi  troppo  mbofonuta*",  chi  sopierchio  spepo- 
liata*':  la  Spagnola  no  le  piaceva  pe  lo  colore  crepato  ^^; 
la  Napoletana  no  le  deva  a  lo  more  pe  le  stanfelle  co 
le  quale  cammina*';  la  Tedesca  le   pareva  fredda  e  je- 

23  Scorciata,  scontraffatta.  —  Ndozzana,  nella  dozzina,  alla  pari 
colle  altre. 

21  Così  II,  7:  «  preta  de  Genova  per  dare  lo  taglio  a  lo  cortiello  »; 
e  IV,  8:  «  pigliaje  na  jìreta  de  Genova  e,  onlatala  d'uoglio,  accom- 
menzaje  ad  aflilare  le  zanne  ». 

25  Ciavano  segue  lungo,  ed  è  rinforzativo  di  lunghezza. 

26  Grassa,  gonfio.      27  Magra,  smunta. 

23  Colore  sbiadito,  smaccato:  spagn.:  color  quebrado. 

29  stanfelle,  grucce.  —  Allude  forse  all'uso,  al  quale  accenna  anche 
il  Vecellio,  discorrendo  delle  baronesse  napolUane:  «  Procedono  con 
gratia  et  gravità,  ritenendo  la  riinaaztona  nel  camlnar  appoggiate 
sopra  le  serve,  o  paggi,  quando  vanno  alle  chiese  »?  (0.  e,  f.  248).  O 
a  qualche  difetto  proverbiale  del  modo  di  camminare  delle  dorme 
napoletane? 


JORNATA  II.  TRATTENEMIENTO  VI.  225 

lata;  la  Franzeae,  troppo  cellevriello  sbentato^°;  la  Ve- 
neziana, na  conocchia  de  lino,  co  li  capille  cossi  jancacce^M 
All'utemo  dell' utemo,  chi  pe  na  cosa,  e  chi  pò  n'autra, 
ne  le  mannaje  tutte  co  na  mano  nante  e  n'autra  dereto. 
E,  vedenno  ca  tante  belle  facce  erano  resciute  a  gar- 
zetta^-,  resoluto  de  strafocarese,  deze  de  pietto  a  la 
propia  figlia,  decenno  :  «  Che  vao  cercanno  Maria  pe 
«  Ravenna,  si  Preziosa,  fìgliama,  è  fatta  a  na  medesema 
«  stampa  co  la  mamma?  Aggio  sta  bella  facce  drinto  la 
«  casa,  e  la  vao  cercanno  nculo  a  lo  munno  !  »  E,  fatto 
ntennere  sto  penziero  a  la  figlia,  n'appe  na  nfruata  e 
na  lengoriata^^,  che  lo  cielo  te  lo  dica  pe  mene!  Lo  re, 
tutto  nfuriato,  le  dicette  :  «  Vascia^^  ssa  voce,  e  schiaffate 


30  Qualità  proverbiali  delle  donne  tedesche  e  francesi.  Delle  quali 
iiltime,  del  resto,  mette  conto  notare  che,  fin  d'allora,  non  ne  erano 
ignote  le  solide  qualità.  Così  Stefano  Guazzo  accenna  all'istruzione 
pratica  delle  donne  francesi,  capaci  di  «  sollecitare  processi  e  fre- 
quentare le  case  dei  giudici  e  degli  avvocati  e  regolar  di  lor  mano 
i  libri  dei  crediti  e  debiti,  ecc.  »  {La  civil  conversatione,  in  Vinegia, 
1616,  p.  118). 

3i  Cioè,  biondicci.  —  Che  bianchiccio  (Jancacce)  stia  per  biondic- 
cio si  prova  con  altri  esempi.  Così  in  una  delle  solite  enumerazioni 
delle  bellezze  delle  donne,  si  legge:  che  deve  awere  ire  cose  bianche. • 
capelli,  denti,  carni  (cfr.  Facezie  e  motti  dei  sec.  XV  e  XVI,  pubbl. 
dal  Papanti.  Bologna,  Romagnoli,  1874,  p,  66j:  il  che  non  vuol  dire: 
capelli  incipriati,  come  suppone  l'ed.  (cfr.  Imbriani,  PosiL,  p.  124). 
E  il  tuono  del  biondo,  prodotto  dalla  toilette  d'allora,  andava  spesso 
al  bianco:  onde  il  Vecellio  (0.  e,  f.  255),  discorrendo  delle  donne 
di  grado  napolitane,  dice:  «  Costumano  anchora  di  farsi  i  capelli 
biondi  a  forza  d'acqua  artificiosa,  fatta  a  tal  effetto,  che  fanno  par 
vere  i  capelli  di  argento  ».  Più  tardi,  le  donne  veneziane  comincia- 
rono ad  avere  i  capelli  bianchi  per  cipria.  «  Le  donne,  —  dice  uno 
scrittore  del  1660  — ,  solevano  tinger  li  capelli  al  biondo:  bora  li 
aspergono  di  polve  bianca,  onde  par  che  chiamino  le  canitie  ad  far 
lega  con  la  gioventù  »  (Luca  de  Linda,  o.  e,  con  le  agg.  del  Bisac- 
cioni,  p.  461). 

32  Riuscite  male.  V.  n.  57,  p.  148.        ^3  un  gran  rimprovero. 

3*  (EO)  va  via. 

29 


226  LO  CIJXTO  DE  LI  CUXTI 

ssa  lengua  dereto,  resorvennote  stasera  de  fare  sto  nu- 
«  deco  matremoiiiale  ;  autramente,  lo  manco  piezzo  sarrà 
«  l'areccbia!  »  Preziosa,  sentuta  sta  resoluzione,  se  reti- 
raje  drinto  la  cammara  soja;  e,  trivolanno  sta  mala  sciorte, 
non  se  lassaje  zervola  sana.  E,  stanno  a  fare  sto  nigro 
viseto,  venne  arri  vanno  na  vecchia,  che  la  soleva  servire 
d'argentata^^.  La  quale,  trovannola  chiù  da  chillo  munno, 
che  da  chisto,  e  sentuto  la  causa  de  lo  dolore  sujo,  le 
disse:  «  Sta  de  buon'arme,  figlia  mia,  non  te  desperare, 
«  -ca  ad  ogne  male  ne'  è  remmedio,  fore  eh'  a  la  morte  ! 
«  Orasiente:  comme  patreto,  stasera,  avenno  dell'aseno, 
«  vo  servire  pe  stallone,  e  tu  miettete  sto  spruoccolo 
«  mecca,  perchè,  subeto,  deventarrai  n'orza,  e  tu  sfratta, 
«  ca  isso,  pe  la  paura,  te  lassarrà  foire,  e  vattenne  de- 
«  ritto  a  lo  vosco,  dove  lo  cielo  t'ha  sarvata  la  ventura 
«  toja.  E,  quanno  vuoi  parere  femmena,  comme  si,  e  sar- 
«  rai  sempre,  e  tu  levate  lo  spruoccolo  da  vocca,  ca  tor- 
«  narrai  a  la  forma  de  mprimma  ».  Preziosa,  abbrac- 
ciata la  vecchia,  e  fattole  dare  no  buono  mantesinato  ^^ 
de  farina  e  doi  felle  de  presutto  e  de  lardo,  ne  la  man- 
naie. E,  commenzanno  lo  sole,  comm'a  pottana  falluta,  a 
cagnare  quartiere '^^,  lo  re  fece  venire  li  vottafuoche^*,  e, 
commitanno  tutte  li  signure  vassallo,  fece  na  festa  gran- 
ne.  E,  comme  appero  fatto  cinco  o  sei  ora  de  catubba  ^^, 
se   mesero  a  tavola.   E,  mazzecato    fore    de    misura,    se 


35  Specie  di  belletto.  Gfr.  Cortese  (Micco  Pass.,  I,  i8).  «  A  la  cam- 
mara soja  na  vecchia  ntrava,  Che  d'argentata  la  solea  servire  ».  Il 
Vecellio,  sempre  a  prop.  delle  donne  napoletane,  dice:  «  Usano  pa- 
rimenti lisciarsi  la  faccia  con  diversi  alunii  e  misture,  ed  è  cosa 
commune  fra  loro,  che  in  vero  parerla,  che  una  donna,  se  non  si 
lisciasse,  fosse  beffata  e  derisa  »  (o.  e,  f.  255).     S"  Grembiale  pieno. 

37  Meretrice,  che,  non  facendo  più  guadagni  in  un  posto,  trasfe- 
risce altrove  la  sua  abitazione. 

38  Istrumento  musicale,  pel  quale  v.  principio  G.  IV. 
3»  V.  71.  18,  p.  7. 


JORNATA   II.   TRATTENTIMIENTO   VI.  227 

jeze  a  corcare;  e,  chiamanno  la  zita  a  portare  lo  qna- 
tierno  pe  saudare  li  cunte  amornse,  essa,  puostose  lo 
spruoccolo  mocca,  pigliaje  la  figura  de  n'urzo  terribele, 
e  le  jeze  ncontra.  Lo  quale,  atterruto  de  sta  maraveglia, 
s'arravogliaje  drinto  a  li  matarazze,  da  dove  manco  pe 
la  matina  cacciaje  la  catarozzola.  Tratanto,  Preziosa  se 
ne  scette  fora,  e  toccajo  a  la  vota  de  no  vosco,  dove  fa- 
cevano monopolio  l'ombre  comme  potessero  a  le  24  ore 
fare  quarcbe  aggravio'*''  a  lo  sole.  Dove  se  stetto  co  la 
dece  converzazione  dell' autre  aniriiale,  ficcbè  venne  a 
caccia  a  cbille  paiso  lo  figlio  de  lo  re  de  Acquacorrente. 
Lo  quale,  vedenno  sforza,  appo  a  morire  ciesso*^;  ma, 
adonatose  ca  st'animale,  tutto  coccioliannose'*-,  e  menanno 
la  coda  comm'a  cacciottella''^,  le  jeva  ntuorno,  pigliaje' 
armo.  E,  facennole  carizze,  decennole:  «  Cucce  cucce,  mi- 
«  sce  misce,  ti  ti,  rucche  l'uccbe,  cicco  palù,  ense  ense^M  », 
se  lo  portaje  a  la  casa,  ordenanno  che  lo  covornassero 
comme  la  perzona  propia,  facennola  mettere  drinto  a  no 
giardino  a  canto  lo  palazzo  riale,  pe  poterela  vedere, 
sempre  cbe  voleva,  da  na  fenestra.  Ora,  essenno  scinte 
tutte  le  gente  de  la  casa,  e  restato  sulo  lo  prencepe, 
s'affacciaje  pe  vedere  l'orza.  E  vedde  che  Preziosa,  pe 
covernarese  li  capille,  levatose  lo  spruoccolo  da  la  vocca, 
se  pettenava  le  trezze  d'oro.  Pe  la  quale  cosa  vedenno 
sta  bellezza  fore  de  li  fore,  appe  a  strasecolare  de  lo 
stopore.  E,  derropatose  pe  le  scale,  corze  a  lo  giardino. 
Ma  Preziosa,  addonatase  de  Tagguaito,  se  schiaflfaje  lo 
spruoccolo  mocca,  e  tornaje  comm'era.  Lo  prencepe,  sciso 
a  bascio,  e  non  trovanno  chello,  che  aveva  visto  da  coppa, 
restaje  cossi  ammisso  pe  lo  corrivo,  che,  puostose  a  na 
granne  malanconia,  nquatto  juorne  scapezzaje  malato,  de- 


■*"  Offesa.      ^^  Morir  di  colpo,  all'improvviso. 

^  Accucciolarsi,  farsi  carezzevole.      ^3  Cngaolina. 

•*^  Voci,  da  chiamare  e  attirare  varie  sorti  d"aDimali. 


2  28  LO   CUNTO  DE  LI  CUNTI 

cenno  sempre:  «  Orza  mia,  orza  mia!  »  La  mamma,  che 
sentie  sto  taluorno,  se  magenaje,  che  l'orza  l'avesse  l'atto 
quarche  malo  trattamiento,  e  dette  ordene,  che  fosse  ac- 
cisa. Ma  li  serveture,  ch'erano  nnammorate  de  la  dome- 
stechezza  de  l'orza,  che  se  faceva  amare  da  le  prete  de 
la  via,  avenno  compassione  de  farene  na  chianca,  la  por- 
taro  a  lo  vosco,  referenno  a  la  regina  ca  n'avevano  cac- 
ciate li  picciolo.  La  quale  cosa  venuto  a  l'arecchie  de  lo 
prencepe,  fece  cose  da  non  se  credere.  Ed,  auzatose,  ma- 
lato e  buono ''^j  da  lo  lietto,  voze  fare  mesesca  de  li  ser- 
veture. Da  li  quale  sentuto  comme  passava  lo  negozio, 
se  mese  pe  muorto  a  cavallo;  e  tanto  cercaje  e  giraje, 
che,  trovato  l'orza,  la  carriaje  de  nuovo  a  la  casa.  E,  po- 
stola drinto  a  na  cammara,  le  disse:  «  0  bello  muorzo 
«  de  re,  che  stajo  ncaforchiato  drinto  sta  pellai,  o  can- 
«  noia  d'ammore,  che  staje  nchiusa  drinto  sta  lanterna 
«  pelosa!;  a  che  fine  faremo  sti  gattefelippe ^^'j  pe  ve- 
«  doreme  sparpatiare  e  iremenno  de  pilo  mpilo  '"?  Io  moro 
«  allancato,  sperato,  ed  allocignato  pe  ssa  bellezza,  e  tu 
«  ne  vide  li  testemonie  apparente,  ca  io  so  arredutto 
«  ntierzo  comm'a  vino  cuotto '^,  ca  n' aggio  si  no  l'uosso 
«  e  la  polla,  ca  la  freve  me  s'è  cosata  a  filo  duppio  co 
«  ste  vene!  Perzò,  auza  la  tela  de  sso  cuojero  setuso,  e 
«  famme  vedere  l'apparato  de  sse  bellizze!;  leva,  leva 
«  le  frunne  da  coppa  sso  sportone,  e  famme  pigliare  na 
«  vista  de  ssi  belle  frutte  !  ;  auza  sso  portiere,  e  fa  tra- 
«  sire  st'aocchie  a  bedere  la  pompa  de  le  meraviglie! 
«  Chi  ha  puosto  a  na  carcere,  tessuta  de  pile,  n'  opera 
«  cossi  liscia?,  chi  ha  serrato  drinto  no  scrigno  de  cuojero 
«  cossi  bello  tesoro?  Eamme  vedere  sso  mostro  de  gra- 
«  zie,  e  pigliate  rapagamiento  tutte  le  voglie  meje;  bene 


•*5  Sfatica  nell'CEol      *<^  Civetterie.      '*'  Morir  di  consunzione. 
**  vin  cotto,  che  discende  a  un  terzo  della  quantità  di  vino,  che 
si  pone  al  fuoco. 


JORNATA   IT,    TRATTENEMIENTO  VI.  229 

«  mio,  ca  lo  grasso  de  sforza  pò  sdutto  remmediare  a 
«  l'attrazziono  de  niervo,  ch'io  tengo!  »  Ma,  dapò  ditto 
0  ditto,  visto  ca  jettava  mpierdeto  le  parole,  tornaje  e 
schiaffarese  drinto  a  lo  lietto,  e  le  venne  accessi  spote- 
stato azzedente,  clie  li  miedece  fecero  male  pronosteco 
de  li  fatte  suoje.  La  mamma,  clie  n'aveva  antro  bene  a 
lo  munno,  sedutase  a  no  lato  de  lo  lietto,  le  disse:  «  Fi- 
«  glie  mio,  dove  nasce  tanta  crepantiglia?,  che  omore 
«  malanconeco  t'è  pigliato?  Ta  si  giovane,  tu  sì  amato, 
«  tu  si  granne,  tu  si  ricco:  che  te  manca,  figlio  mio? 
«  Parla:  pezzente  vregognuso  porta  la  tasca  vacante.  Si 
«  vuoi  mogliere,  tu  sciglie,  ed  io  ncaparro  ;  tu  piglia,  io 
«  pago.  Non  vide  tu,  ca  lo  male  tujo  è  male  mio  ?  A  te 
«  sbatte  lo  puzo,  a  me  lo  core^^;  tu  co  la  freve  a  lo  sango, 
«  io  co  l'azzedente  a  lo  cellevriello  ;  n'avenno  autra  pon- 
«  tella  de  la  vecchiezza  mia,  eh'  a  tene  !  Perzò,  stamme 
«  allegramente,  ped  allegrare  sto  core,  e  non  vedere  ne- 
«  grecato  sto  regno,  terrafinata  sta  casa,  e  carosa^''  sta 
«  mamma!  »  Lo  prencepe,  sentuto  ste  parole,  disse:  «  Ne- 
«  sciuna  cosa  me  pò  conzolare,  si  no  la  vista  dell'orza; 
«  perzò,  si  me  volite  vedere  sano,  Tacitela  stare  a  sta 
«  cammara;  né  voglio,  che  antro  me  coverna,  e  faccia  lo 
«  lietto,  e  me  cecina,  se  no  essa  medesema,  che,  senz'au- 
«  tro,  co  sto  gusto,  sarraggio  sano  nquatto  pizzeche  ». 
La  mamma,  si  be  le  parze  no  spreposeto,  che  l'orza  a- 
vesse  da  fare  lo  cuoco  e  lo  cammariero,  e  dubetaje,  che 
lo  figlio  frenetecasse,  puro,  pe  contentarelo,  la  fece  ve- 


^^  Questo  verso  si  ritrova  in  un  son.  dello  Sgruttendio  :  «  A  te  sbatte 
lo  pietto,  a  me  lo  core  »  {Tiorba,  e.  I,  50). 

5"  Gfr.  Iir,  6,  Propr.,  tosata;  in  segno  di  vedovanza  0,  in  gen.,  di 
lutto.  «  Alla  perdita  del  marito,  —  dice  il  vy.  — ,  nei  tempi  andati  si 
tosavano  le  donne  i  capelli,  e,  legati  alle  mani  del  defunto,  li  man- 
davano a  conseppellire,  né  si  rimaritavano,  se  prima  non  fossero 
cresciuti  come  i  già  tosati;  e  questo  costume  dura  ancora  in  certi 
luoghi  del  Regno  ». 


230  LO   CUNTO  DE  LI    CUKTI 

nire.  La  quale  arrivato  a  lo  lietto  de  lo  prencepe,  auzaje 
la  granfa,  e  toccaje  lo  puzo  de  lo  malato,  che  fece  sor- 
rejere  la  regina,  penzanno  ad  ora  ad  ora,  che  l'avesse  a 
sciccare  lo  naso.  Ma,  lo  prencepe  decenno  all'orca:  «  Chiap- 
«  pino^'  mio,  non  me  vuoje  cocinare  e  dare  a  magnare, 
«  e  Governare?  »,  essa  vasciai  la  capo,  mostranno  d'az- 
zettare  lo  partito.  Pe  la  quale  cosa,  la  mamma  fece  ve- 
nire na  mano  de  galline,  ed  allommare  lo  fuoco  a  no  fo- 
colaro  drinto  a  la  stessa  cammara,  e  mettere  acqua  a 
bollere.  E  l'orza,  dato  de  mano  a  na  gallina,  scaudatola, 
la  spennaje  destramente,  e,  sbentratola,  parto  ne  mpiz- 
zaje  a  no  spito,  e  parte  ne  fece  no  bello  ngrattinato  ^'^, 
che  lo  prencepe,  che  non  ne  poteva  scennere  lo  zuccaro, 
se  ne  leccaje  le  dcjeta^^.  E,  comme  appe  fornuto  de  can- 
nariare,  le  deze  a  bevere  co  tanta  grazia,  che  la  regina  la 
vozo  vasare  nfronte.  Fatto  chesso,  e  sciso  lo  prencepe  a 
fare  la  preta  paragone  de  lo  jodizio  de  li  miedece,  l'orza 
fece  subeto  lo  lietto  ;  e,  corzo  a  lo  giardino,  cogliette  na 
bona  mappata  de  rose  e  shiure  de  cetrangolo^',  e  nce  le 
aparpogliaje  pe  coppa.  Tanto  che  la  regina  disse  che 
sforza  valeva  no  tresoro,  e  ch'aveva  no  cantaro  de  ragione 
lo  figlio  de  volerele  bene.  Ma  lo  prencepe,  vedenno  sti 
belle  servizio,  jonze  esca  a  lo  fuoco,  e,  se,  primma,  se 
conzomava  a  dramme,  mo  se  strodeva  a  rotola;  e  disse 
a  la  regina:  «  Mamma  gnora  mia,  si  non  dongo  no  vaso 
«  a  sforza,  m'esce  lo  shiato!  »  La  regina,  che  lo  vedeva 
ashevolire,  disse:  «  Vasaio,  vasa,  bell'anemale  mio,  non 
«  me  lo  vedere  speruto  sto  povero  figlio!  »  Ed,  accosta- 
tase  l'orza,  lo  prencepe,  pigliatola  a  pezzechille^^,  non 


SI  Nome,  che  si  dà  agli  orsi.  È  nota  la  commedia  del  Porta  inti- 
tolata la  Chlappinaria.      ^2  y.  n.  36,  p.  92.      53  Dita. 

5'  Cedrangola,  arancia  forte. 

Sj  Bacio  in  bocca  e  sulle  due  gote,  strette  tra  il  pollice  e  l'indice 
delle  due  mani. 


JOENATA  II.  teatte]st:miento  vi.  231 

se  saziava  de  vasarela.  E,  mentre  stevano  musso  a  musso, 
non  saccio  comme,  scappaje  lo  spruoccolo  da  vocca  a  Pre- 
ziosa, e  restaje  fra  le  braccia  de  lo  prencepe  la  chiù 
bella  cosa  de  lo  munno.  Lo  quale,  stregnennola  co  le  te- 
naglie ammorose  de  le  braccia,  le  disse:  «  Ncappaste, 
«  shiurolo^''!;  non  me  scappe  chiù  senza  ragione  veduta!  » 
Preziosa,  refonnenno  lo  colore  de  la  vregogna  a  lo  qua- 
tro  de  la  bellezza  natorale,  le  disse:  «  Già  songo  a  le 
«  mano  toje:  siate  arrecommanato  lo  nore  mio,  e  spacca 
«  e  pesa,  e  botame  dove  vuoje  ».  E,  demannato  da  la 
regina,  chi  fosse  sta  bella  giovane,  e  che  cosa  l'avesse 
arredotta  a  sta  vita  sarvateca;  essa  contaje  pe  lo  filo 
tutta  la  storia  de  le  desgrazie  soje.  Pe  la  quale  cosa  la 
regina,  laudannola  de  bona  e  norata  fegliola,  disse  a  lo 
tìglio,  che  se  contentava,  che  le  fosse  stata  mogliere.  E 
lo  prencepe,  che  non  desederava  autra  cosa  a  sta  vita, 
le  dette  subeto  la  fede.  Ed  essa,  benedecennole  ncocchia, 
fece  sto  bello  ncrasto  co  feste  e  lommenarie  granne.  E 
Preziosa  faceva  scannaglio  a  la  valanza  de  lo  jodizio 
emano  : 

Che  chi  fa  bene,  semjjre  bene  aspetta. 


56  Verdone:  latin,  fringilla  chloris. 


LA  PALOMMA 


Teattenemiexto  settimo  de  la  Jornata  seconna. 


No  prencepe,  pe  na  jastemraa  datole  da  na  vecchia,  corze  gran  tra- 
vaglio, lo  quale  se  fece  chiù  peo  pe  la  mardezzione  de  n'orca; 
a  la  fine,  pe  nuslria  de  la  figlia  de  l'orca,  passa  tutte  li  pericole, 
e  se  accasano  usiemme. 

Arrivato  a  lo  rurame  e  busse  ^  sto  cunto  de  Antonel- 
la, che  fu  a  viva  voce  laudato  pe  bello  e  graziiiso,  o  de 
granne  assempio  pe  na  figlia  norata,  Giulia,  a  chi  veneva 
la  beneficiata  d'asseconnare,  cossi  decette. 

Chi  nasce  da  prencepe,  non  deve  fare  cose  de  vernilo  : 
l'ommo  granne  non  deve  dare  male  essempio  a  li  chiù, 
basco  :  che  dall'  aseno  chiù  gruosso  mpara  de  manciare  la 
paglia  lo  picciolo;  che  non  è  maraveglia,  pò,  se  lo  cielo 
le  manna  li  travaglie  a  tommola;  comme  soccesse  a  no 
prencepe,  ch'appe  li  cruosche^,  danno  desgusto  a  na  po- 
verella, che   ne  fu  vecino  a  perdere  malamente  la  vita. 


1  Alla  fine.  —  Rummc,  il  renne,  cioè  la  cifra  li.,  che  si  soleva 
mettere  con  altre  abbreviature  alla  fine  degli  antichi  alfabeti:  busse, 
aggiunta  scherzosa,  che,  nelle  scuole  di  un  tempo,  non  era  del  tutto 
senza  senso.  Cfr.  Egl.  La  Tenta,  e  Iir,  3. 

2  Tarme:  «  vermi,  che  si  generano  nell'intestino  dei  cavalli,  e  dan 
loro  tormento  e  ventosità  ».  Met.:  non  aver  requie,  essere  in  perpe- 
tua agitazione.  Cfr.   l'.v. 


\  JORNATA   II.   TRATTENEMIENTO   VII.  233 

Era  na  vota  lontano  otto  miglia  da  Napole,  verso  l'A- 
strane^, no  vosco  de  fico  e  de  chiuppe,  dove  mborzavano^ 
le  saette  de  lo  sole,  che  non  lo  potevano  sperciare.  Drinto 
a  lo  quale,  nc'era  na  casarella  meza  scarropata,  che  nce 
abetava  na  vecchia;  la  quale  era  tanto  sbriscia  de  diente^, 
quanto  carreca  d'anne,  cossi  àuta  de  scartiello,  comme 
vascia  de  fortuna.  Aveva  ciento  crespe  a  la  faccio,  ma 
era  totalemente  screspata  ^;  che,  si  be  aveva  la  capo  car- 
reca d'argiento,  non  se  trovava  uno  de  ciento  vinte  a 
carrino'^  pò  sorzetarese  lo  spireto.  Tanto  che  jeva  cer- 
canno  pe  le  pagliara  do  lo  contuorno  quarche  lemmosena 
pe  mantenere  la  vita.  Ma,  perchè  a  lo  tiempo  d'oje  se 
darria  chiù  priesto  na  vorza  de  tornise  a  no  spione  ma- 
gna-magna,  che  no  trecaalle  a  no  povero  abbesognuso, 
stentaje  tutta  na  scogna^  pe  avere  na  cocinata  de  fasule, 
a  tiempo  che  nce  n'era  tanta  grassa  a  chille  paise,  che 
poco  case  non  se  ne  chiudono  le  tommola.  Ma,  perchè: 
«  caudaro  viecchio,  vruognolo^  0  pertuso  »,  e  «  a  cavallo 
«  magro  Dio  le  manna  mosche  »,  ed  «  ad  arvolo  caduto, 
«  accetta  accetta  »,  scinta  la  negra  vecchia,  ed  annottate 
li  fasule,  e  schiaffatole  drinto  a  na  pignata,  la  mese 
foro  la  fenestra,  ed  essa  jette  ad  abuscare  quatto  sproc- 
cola  a  lo  vosco  pe  se  le  cocenare.  Ma,  fra  sto  tiempo,  che 
jette  e  venette,  passaje  da  chelle  case  Nardo  Aniello ^°, 
lo  figlio  de  lo  re,  che  jeva  a  caccia.  Lo  quale,  visto  la 
pignata  a  lo  fenestriello,  le  venne  golio  de  fare  no  bello 
cuorpo  ^',  e  facette  nguaggio  ^-  co  li  serveture  suoje,  a  chi, 
cecanno^^  chiù  deritto,  le  cogliesse  miezo  co  na  savorra. 


3  V.  n.  28,  p.  204.      *  Davan  dentro,  restando  come  in  una  borsa. 
5  Priva  di  denti.      ^  Senza  quattrini.      "^  Un  carlino.  V.  n.  102,  p.  16. 
8  Tutto  il  tempo  della  trebbiatura.      *>  Ammaccature. 
^<*  Costui  è  chiamato  più  innanzi  Antoniello  e  Maso  Aniello;  scam- 
bii  di  nomi,  frequenti  nel  N.      11  Colpo.      ^^  Scommessa. 
i3  Mirando. 


234  ^0   CUNTO  DE  LI    CUNTI 

E,  commenzanno  a  bei'zagliare  chella  pignata  nnocente, 
a  le  tre  o  quattro  pantosclie^',  lo  prencepe,  nzertanno  a 
pilo,  ne  fece  la  festa.  Jonze  la  vecchia  a  tiempo,  che 
s'erano  partute,  e,  trovato  st'ammaro  desastro,  commen- 
zaje  a  fare  cose  mardette,  gridauuo  :  «  Di  che  se  stira 
«  lo  vraccio,  e  che  se  ne  vaga  vantanno,  lo  caperrone  de 
«  Foggia*^,  ch'ave  tozzato  co  ssa  pignata!,  lo  figlio  de 
«  vava,  e' ha  rotta  la  fossa  de  le  carne  soje!,  lo  villano 
«  cotecone,  ,  e' ha  semmenato  contra  stagione  li  fasule 
«  mieje!  E  puro,  si  non  ave  avuto  na  stizza  de  compas- 
«  sione  de  le  miserie  meje,  doveva  avere  quarche  re- 
1  spetto  a  lo  nteresse  propio,  e  non  jettare  pe  terra  l'ar- 
ac me  de  la  casata  soja,  nò  fare  ire  pe  li  piede  le  cose, 
«  che  se  teneno  ncoppa  la  capo*"^!  Ma  va,  che  preo  lo 
«  cielo  a  denocchie  scoperte,  e  co  le  visciole  de  lo  core, 
«  che  se  pozza  nnammorare  de  la  figlia  de  quarche  orca, 
«  che  lo  faccia  voliere  e  male  cocere;  la  sogra  noe  ne 
«  dia  tanta  pe  lo  cagne  ^''',  che  se  vea  vivo  e  se  chiagna 
«  muorto,  e  che,  trovandose  mpastorato  e  da  lo  bellezze 
«  de  la  figlia,  e  da  li  percante  de  la  mamma,  non  se  ne 
«  pozza  cogliere  maje  le  bertele  ^^,  ma  stia,  anche  ne  cre- 
«  pa,  soggetto  a  li  strazio  de  chella  brutta  arpia;  la  quale 
«  l'aggia  da  commannare  li  servizio  a  bacchetta,  le  dia 
«  lo  pane  co  la  valestra,  tanto,  che,  chiù  de  quatto  vote, 
«  venga  a  sosperare  li  fasule,  che  m'ha  jettato!  »  Mese- 
ro  lo  mardezziune  de  sta  vecchia  l'ascelle*^,  che  sagliet- 
tero  subeto  ncielo;  tanto,  che,  se  be  so  sole  dicere  pe 
proverbio:  «  jastemme  de  femmena  pe  culo  te  le  sem- 
«  mena  »,  ed  «  a  cavallo  jastemmato  luce  lo  pilo  »,  tutta 
vota,  deze  a  lo  naso  de  lo  prencepe,  che  noe  appo  a  las- 


1*  Zolle:  qui,  colpi  di  pietra.       *5  V.  n,  27,  p.   109. 
^^  Allude  al  proverbio,  che  cita  più  oltre:  «  Chi  semmena  fasule, 
le  nasceuo  corna  ».      *'  Per  le  cinte,  percuotere:  tormentare. 
18  Far  le  bisacce,  e  partire.      ^^  Miser  le  ali. 


JOENATA    II.   TEATTENEMIENTO   VII.  235 

sare  lo  cnojero.  Che,  non  passaro  dei  ora,  che,  stanno 
drinto  a  lo  vosco  sperduto  da  le  gente  soje,  scontraje  na 
bellissima  figliola,  che  jeva  coglienno  maruzze^",  e,  pi- 
gliannose  gusto,  deceva: 

«  Jesce  jesce,  corna, 
«  Ca  mammata  te  scorna, 
«  Te  scorna  ncoppa  l'astraco, 
«  Che  fa  lo  figlio  mascolo^i!  » 

Lo  prencepe,  che  se  vedde  comparere  nante  sto  scrit- 
torio  de  le  cose  chiù  preziose  de  la  natura,  sto  banco 
de  li  chiù  ricche  deposete  de  lo  cielo,  st'arzenale  de  le 
chiù  spotestate  forze  d' ammore,  non  sapeva  che  l' era 
socciesso  ;  e,  da  chella  facce  tonua  de  cristallo  trapas- 
sanno  li  ragge  dell'uocchie  all'esca  de  lo  core  sujo,  al- 
lommaje  tutto,  de  manera  che  deventaje  na  carcara, 
dove  se  cocevano  le  prete  de  li  designo  pe  fravecare 
la  casa  de  le  speranze.  Filadoro  (che  cossi  se  chiam- 
mava  la  giovane),  non  monnava  nespole  ^^,  che,  ped  es- 
sere lo  prencepe  bravo  mostaccio  da  giovane,  lo  sper- 
ciaje  subeto  da  parte  a  parte  lo  core;  tanto  che  l'uno 
all'autro  cercava  meserecordia  coll'uocchie,  e,  dove  le 
lenguo  lloro  avevano  la  pepitela,  li  sguardi  erano  trom- 
mette  de  la  Vicaria  ^^,  che  spobrecavano  lo  secreto  del- 
l'arma. E,  stato  no  buono  piezzo  l'uno  e  l'autro  co  l'are- 
nella  a  lo  cannarone,  che  non  potevano  sghizzare  na  parola 


20  Chiocciole. 

21  Una  filastrocca,  che  ancor  si  dice  dai  fanciulli,  per  eccitare 
una  chiocciola  a  cacciar  le  cosiddette  corna.  E,  con  poca  varietà, 
anche  in  altre  parti  d'Italia,  e  in  Francia,  Spagna,  ecc.  Gfr.,  tra  gli 
altri,  V.  Imbriani  (Le  Canzoni  infan,  Pomigl,  p.  8,  28),  L.  Molinaro 
del  Chiaro  (  Canti  del  pop.  nap.,  p.  27  sgg.  e  in  GJ55.,  Ili,  5)  e  Pitrè 
(0.  e,  XVI,  309-10).  Gfr.  anche  Dunlop-Liebrecht,  0.  e,  p.  515. 

22  Non  perdeva  tempo.      23  y.  n.  loi,  p.  30. 


236  LO   CUNTO   DE   LI   CITATI 

mardetta,  all'utemo,  lo  prencepe,  spilato  lo  connutto  de 
la  voce,  cossi  le  disse  :  «  Da  quale  prato  è  sguigliato  sto 
«  stiore  de  bellezza?,  da  quale  cielo  è  chioppeta  sta  rosa- 
«  ta  de  grazia?,  da  quale  menerà  è  venuto  sto  tesoro  de 
«  bellezzetudene  cose?  0  serve  felice,  o  vuosche  fortu- 
«  nate,  abitate  da  sto  sfuorgio,  allustrate  da  sta  lomme- 
«  naria  de  le  feste  d'ammore,  0  vuosche  e  serve,  dove 
«  non  se  tagliano  mazze  de  scopa,  travierze  de  forca,  né 
«  copierchie  de  cantaro,  ma  porte  de  lo  tempio  de  la 
«  bellezza,  trave  de  la  casa  de  le  grazie,  ed  aste  da  fare 
«  le  f rezze  d'ammore!  »  «  Vascia  sse  mano,  cavaliere 
«  mio!,  —  respose  Filadoro  — ,  non  tanto  de  grazia!,  ca 
«  so  le  vertù  veste,  no  li  mierete  mieje,  sto  spettaffio  de 
«  laude,  che  m' avite  dato;  ca  io  so  femmena,  che  me 
«  mesuro,  né  voglio  ch'antro  me  serva  de  mezacanna! 
«  Ma,  tale  quale  songo,  0  bella  0  brutta,  0  nizzola'^  0 
«  janca,  0  sfrisata  0  chiantuta,  0  pueceta  0  petosa^^,  0 
«  cernia  o  fata,  0  pipatella  0  votracone  ^"j  io  songo  tutta 
«  a  lo  commanno  vuostro  ;  pecca  sso  bello  taglio  d'ommo 
«  m'ha  follato  lo  core,  ssa  bella  cera  de  conte  m'ha  pas- 
«  sato  dall'uno  all'antro  canto,  e  me  te  do  pe  schiavot- 
«  tela  ncatenata,  da  mo  pe  sempre!  »  Non  foro  parole 
cheste,  ma  sonata  de  trommetta,  che  chiammaje  lo  pren- 
cepe tutte  a  tavola  ^^  de  li  contiente  amoruse,  anze  lo  sce- 
taje  co  no  tutte  a  cavallo^*  a  la  vattaglia  d'ammore.  E, 
vedennose  dato  no  dito  d'amorosanza,  se  pigliaje  la  ma- 
no,  vasanno   la   vorpara   d'avolio,  che   l'aveva  ncroccato 


2*  Nlzzolo,  nero;  e,  anche,  mézzo.  23  (eo)  peloso,  —  O  svelta  0 
pigra. 

**  Il  Bruno,  nel  Candelaio:  «  Tenetelo  appeso  al  fumo  come  le 
salciclie  et  come  mesesca  di  botracone  in  ìnujla  »,  cioè  in  Puglia 
(A.,  I,  s.  16).  Per  la  mesesca  v.  ri.  79,  p.  153.  Votracove  par  clic  in- 
dichi una  grossa  pecora,  o  un  castralo,  0  simile:  in  contrapposizione 
di  pipatella,  persona  piccola,  leggiadra.      "  (eo)  tntte  a  vola, 

**  Tutte  a  tavola,  tutte  a  cavallo:  termini  di  giuoco. 


JORNATA   II.   TRATTENEMIENTO   VII.  237 

lo  core.  Filadoro,  a  sta  zeremonia  de  prencepe,  fece  na 
facce  de  marchesa ^^,  anze  fece  na  facce  de  tavolozza  de 
pettore;  dove  se  vedde  na  mesca  de  minio  de  vregogna, 
de  ceraso  de  paura,  de  verderame  de  speranze,  de  cena- 
brio  de  desiderio.  Ma,  tanno  voleva  Nardo  Aniello  as- 
seconnare,  quanno  le  fu  nzoccato  lo  dire,  perchè  a  sta 
negra  vita  non  c'è  vino  de  sfazione  senza  feccia  de  des- 
gusto,  non  e'  è  bruodo  grasso  de  contento  senza  scumma 
de  desgrazia.  Che,  mentre  steva  a  lo  meglio,  eccote  de 
vrocca^*^  la  mamma  de  Mladoro;  la  quale  era  n'orca  ac- 
cessi brutta,  che  la  fece  la  natura  pe  lo  modiello  de  li 
scurce.  Aveva  li  capille  comme  a  na  scopa  de  vrusco, 
non  già  ped  annottare  le  case  de  folinie  e  ragnatele,  ma 
pe  annegrecare  ed  affommare  li  core;  la  fronte  era  de 
preta  de  Genova  ^^,  pe  dare  lo  taglio  a  lo  cortiello  de  la 
paura,  che  sbennegnava  lipiette;  l'uocchie  erano  comete, 
che  predecevano  tremmolicce  de  gamme,  vermenare  de 
core,  jajo  de  spirete,  filatorie  d'arme,  e  cacarelle  de  cuor- 
po;  pecca  portava  lo  terrore  ne  la  facce,  lo  spaviento  ne 
l'occhiatura,  lo  schianto  ne  li  passe,  la  cacavessa  ne  le  pa- 
role; era  la  vocca  sannuta  com'a  puorco,  granne  comm'a 
scorfano^-,  steva  comm'a  chi  paté  de  descenzo^^,  vavosa 
comm'a  mula;  nsomma,  da  la  capo  a  lo  pede  vedive  no 
destellato  de  bruttezza,  no  spetale  de  struppie!  Tanto 
che  lo  prencepe  doveva  cierto  portare  quarche  storia  de 
Marco  e  Shiorella^^  cosute  a  lo  jeppone^^,  che  no  spire- 
taje  a  sta  vista.  La  quale,  dato  de  mano  a  lo  corzetto  de 
Nardo  Aniello,  disse:  «  Auza  la  corte,  auciello,  auciello. 


23  Giuoco  di  parola  con:  prencepe.  Marcìiese,  mestruo.  «  Ga  bella, 
mente    da  lo  primmo  mese  Se  rebellaje  da   lo    Segnò   Marchese  » 
(Gort.,  Micco  Pass.,  II,  19).      3"  D'un  tratto.      ^i  y.  n.  24,  p.  224, 
■    32  Pesce:  scrofano,      33  Eclamsia,  sorta  d'epilessia. 

31  (EO)  Schiorella. 

35  Dovevano  essere  veramente  due  fedeli  amanti.  V.  n.  ^y,  p.  30. 


238  LO   CUNTO  DE  LI  CL'NTI 

«  maneca  de  fieiTo^*^!  »  «  Testemmonia  vosta^'''!,  —  re- 
«  spose  lo  prencepe  — ;  arreto  canaglia!  »;  e  voze  met- 
tere mano  a  la  spata,  ch'era  na  lopa  vecchia^*.  Ma  restaje 
comm'a  na  pecora,  quanno  ha  visto  lo  lapo,  che  non  se 
potte  movere,  né  pipitare;  de  manera  che  fu  carnato, 
coram'aseno  pe  capezza,  a  la  casa  dell'orca.  La  quale,  sub- 
beto  che  fu  arrevata,  le  disse  :  «  Attienne  buono  a  fati- 
«  care,  comm'a  no  cane,  si  non  vuoje  morire  comm'a  no 
«  puorco!  E,  pe  lo  primmo  servizio,  fa  che,  pe  tutt'oje, 
«  sia  zappato  e  semmenato  sto  muojo^^  de  terreno  nchiano 
«  de  sta  cammera;  e  sta  ncellovriello,  ca,  si  torno  sta 
«  sera,  e  non  trovo  fornuto  lo  lavoro,  io  me  te  gliotto  !  » 
E,  ditto  a  la  figlia,  che  attennesse  a  la  casa,  se  ne  jette 
a  scommerzione  co  l'autre  orche  drinto  a  lo  vosco.  Nardo 
Aniello,  che  se  vedde  arreddutto  a  sto  male  termene, 
commenzaje  ad  allavaniarese*"  lo  pietto  de  chianto,  mar- 
decenno  la  fortuna  soja,  che  l' aveva  strascinato  a  sto 
male  passo  !  Filadoro,  dall' autra  parte,  lo  consolava,  de- 
cennole,  che  stesse  de  buono  armo,  ca  essa  noe  averria 
puosto  lo  propio  sango  pe  l'ajutare,  e  che  non  deverà 
chiammare  marvasa  la  sciorte,  che  l'aveva  connutto  a 
chella  casa,  dove  era  cossi  sbisciolatamente  da  essa  a- 
mato,  e  che    mostrava   poco    scagno ''^  a  l'ammore    sujo, 

3"  Anza  la  Corte:  «  formola,  con  cui  la  forza  e  l'autorità  pubblica 
intima  che  nessuno  si  muova  »  (R).  Per  la  seconda  parte  della  frase, 
V.  n.  33,  p.  176. 

37  Frase  per  invocare  la  testimonianza  degli  astanti  sull'ingiuria, 
che  si  riceve.  Il  Cortese,  a  colui  che  gli  domanda  se  sia  forasciuto: 
*  Testemmonia  vostra!  —  io  le  respose  — ,  Arrassosia,  che  dice,  o 
cammarata?  »  {Viaggio  di  Parn.^  VII,  io).  Cfr.  Ili,  7,  e  il/.V.,  L 

38  V.  n.  70,  p.  102:  e  cfr.  ;i/.V.,  L  II  Tassoni  (Secchia  rapita,  VI,  37) 
ha:  «  Non  ferma  qui  la  furibonda  spada,  Ch'era  una  lama  de  la  lupa 
antica  »;  e  la  nota  spiega:  «  In  Ispagna,  saranno  in  circa  due  secoli, 
si  fabbricavano  bellissime  lame  da  spada,  e  molto  buone:  si  vede  in 
esse  l'impronta  d'una  lupa  ». 

30  Moggio.      '•o  Allagare.      ■"  Ricambio. 


JORNATA   II.    TEATTKtfEMIENTO    VII.  239 

mentre  stava  accessi  desperato  de  sto  socciesso.  A  la 
quale  respondette  lo  prencepe:  «  No  me  spiace  l'essere 
«  sciso  da  lo  cavallo  all'aseno,  né  l'avere  cagnato  lo  pa- 
«  lazzo  riale  co  sto  cafuorchio,  li  banchotte  vannute  co 
«  no  tuozzo  de  pane,  lo  cortiggio  de  serveture  co  ser- 
«  vire  a  staglio,  lo  scettro  co  na  zappa,  lo  fare  atterrire 
«  l'asserzete,  co  vedereme  atterrato  da  na  brutta  cajor- 
«  da''^;  perchè  tutte  le  desgrazie  meje  stimarria  a  ven- 
«  tura  co  starece  tu'^  presente,  e  schiuderete  co  st'oc- 
«  chie.  Ma  chello,  che  me  spercia  lo  core,  è  che  aggio 
«  da  zappare,  e  sputareme  ciento  vote  le  mano,  dove 
«  sdegnava  de  sputareme  na  petinia'*^,  e,  cot-pejo^^,  ag- 
«  gio  da  fare  tanto,  che  non  ce  vastarria  tutto  no  juorno 
«  no  paro  de  vuoje;  e,  si  no  scompo  sta  sera  lo  fatte 
«  festa,  sarraggio  cannariato  da  mammata;  ed  io  non 
«  tanto  averraggio  tormiento  de  scrastareme  da  sto  ni- 
«  grò  cuorpo,  quanto  de  scantoniareme  da  ssa  bella  per- 
«  zona!  »  Cossi  dicendo,  jettava  li  selluzze  a  cuofano,  e 
le  lagreme  a  botta  fascio.  Ma  Filadoro,  asciucannole  l'uoc- 
chie,  le  disse:  «  Non  credere,  vita  mia,  ch'aggo  da  la- 
«  vorare  antro  territorio,  che  l'uorto  d'ammore,  né  do- 
«  botare  che  mammama  te  tocche  no  pilo  schitto  de  ssa 
«  persona!  Agge  Eiladoro,  e  non  dubitare;  ca,  si  no  lo 
«  saje,  io  so  fatata,  e  pozzo  quagliare^''  l'acqua,  e  scu- 
«  rare  lo  sole.  Vasta  e  suffece!;  perzò,  stamme  allegra- 
«  mente,  ca  sta  sera  se  trovarrà  zappato  e  semmenato 
«  lo  terreno,  senza  che  nce  dinghe  no  cuorpo  !  »  Sentenno 
chesto  Nardo  Aniello,  disse:  «  Si  tu  si  fatata,  comme 
«  dice,  0  bellezza  de  lo  munno,  perchè  non  ce  ne  sfrat- 
«  tammo  da  sto  pajese,  ca  te  voglio  tenere  comme  na 
«  regina  a  la  casa  de  patremo?   »    E   Filadoro  respose: 


*2  Donna  xiìe,  abbietta.  Gfr.  .V.Y„  V.       «  (EO)  manca  tu. 
4' Impetigine.      ^  Latin.:  qicod  peiics.      ■^^  Coagulare. 


240  LO  CUNTO  DE  LI   CUXTI 

€  Na  certa  chelleta  de  stelle  sconceca'"  sto  juoco;  ma  pas- 
«  serra  fra  poco  sto  nfruscio  *^,  e  starrimmo  felice  ».  Tra 
chiste  0  mille  autre  duce  ragionamiente,  passaje  lo  juor- 
no;  e,  venenno  l'orca  de  fora,  cbiammaje  da  la  strata  la 
figlia,  decenno:  «  Filadoro,  cala  sti  capille!  »;  perchè, 
essoDDO  senza  scala  la  casa,  sempre  se  ne  saglieva  pe 
le  trezze  de  la  figlia.  E  Filadoro,  sentuto  la  voce  de  la 
mamma,  guastannose  la  capo*^,  calaje  li  capille,  facenno 
scala  d'oro  ano  core  de  fierro;  che,  subeto  sagliuta  ncop- 
pa,  corze  all'uorto,  e,  trovatolo  covernato,  restajo  fora  de 
li  panne,  parennole  mpossibele,  che  no  giovane  dellecato 
avesse  fatto  sta  fatica  de  cane.  Ma  non  fa  cossi  priesto 
l'autra  matina  scinto  lo  sole  a  sciauriarese  ^'^  pe  l'umeto 
pigliato  a  lo  shiummo  dell' Innia,  che  la  vecchia  tornaje 
a  scenneresenne,  lassanno  ditto  ad  Antoniello,  che  le  fa- 
cesse trovare  la  sera  spaccate  sei  canne  de  legna  a 
quatto  pe  piezzo,  ch'erano  drinto  a  no  cammarone;  si  no, 
l'averria  adacciato^^  comm'a  lardo,  e  fattone  no  piccati- 
glio^^  pe  collazione  la  sera.  Lo  nigro  prencepe,  sentuto 
sta  ntimazione  de  decreto,  appe  a  morire  spantecato;  e 
Filadoro,  vedennolo  muorto  e  spalleto,  le  disse:  «  Gomme 
«  sì  cacasotta!,  ben  aggia  aguanno^^,  tu  te  cacarrisse  de 
€  l'ombra  toja!  »  «  E  che  te  pare  cosa  de  no  lippolo^', 
«  —  respose  Antoniello  — ,  spaccare  sei  canne  de  legna, 
«  a  quatto  pe  piezzo,  da  ccà  a  sta  sera?  Ohimè!,  ca 
«  nanze  sarraggio  spaccato  da  miezo  a  miezo,  pe  nchire 
«  lo  cannarono  de  sta  negra  vecchia!  »  «  Non  dubetare, 
«  —  leprecaje  Filadoro  — ,  ca  senza  pigliarete  fatica,  le 


*''  Guasta,  impedisce.      *^  Influsso.      *^  Disfacendo  la  pettinatura. 

50  Asciugarsi,  mandar  fuori  rumidit;\. 

51  Adacciare,  battere  con  la  coltella. 

52  Spagn.:  picadillo:  carne  tagliata   in   piccoli  pezzi,  cotta  e  con- 
dita con  spezie  e  uova  battute. 

53  propr.:  quest'anno  abbia  bene!;  che  sii  benedetto! 


JOENATA  II.   TRATTENEMIEKTO  VII.  241 

«  legna  se  trovarranno  spaccate  e  bone  !  Ma,  fra  sto  mie- 
«  zo,  stamme  de  bona  voglia,  e  no  me  spaccare  st'arma 
«  co  tante  lamiente!  »  Ma,  comme  lo  sole  chiuse  la  po- 
teca  de  li  ragge  pe  non  vennero  luce  all'ombre,  eccote 
tornare  la  vecchia;  e,  fatto  calare  la  soleta  scala,  se  ne 
sagliette.  E,  trovato  spaccate  le  legna,  trasette  nsospetto 
de  la  figlia,  che  non  le  desse  sto  schiacce  matto.  E  lo 
terzo  juorno,  pe  non  fare  la  terza  prova,  le  disse,  che 
l'avesse  annottato  na  cesterna  de  mille  vutte  d'acqua: 
perchè  la  voleva  nchire  de  nuovo,  e  fosse  fatto  pe  la  se- 
ra; autramente,  n'averria  fatto  scapece  o  mesesca=^.  Par- 
tuta  la  vecchia,  Nardo  Aniello  commenzaje  de  nuovo  a 
fare  lo  trivolo;  e  Filadoro,  vedenno  ca  le  doglie  jevano 
ncauzanno,  e  che  la  vecchia  aveva  dell'  aseno  a  carré- 
care  lo  pover'ommo  de  tante  guaje  e  catalaje^'',  le  disse: 
«  Sta  zitto,  ch'essenno  passato  lo  punto,  che  sequestrava 
«  l'arte  mia,  nante  che  lo  sole  dica:  m'arrequaqaiglio ^''', 
«  nui  volimmo  dire  a  sta  casa:  covernamette ^^ !  Vasta 
«  ca  sta  sera  mammama  trovarrà  sfrattato  lo  pajese;  ed 
«  io  voglio  veniremenne  co  tico,  0  viva  0  morta!  »  Lo 
prencepe,  sentenno  sta  nova,  spaporaje^^,  ch'era  addesa 
crepato;  e,  abbraccianno  Filadoro,  le  disse:  «  Tu  si  la 
«  trammontana  de  sta  travagliata  varca,  arma  mia  !,  tu 
«  si  la  pontella  de  le  speranze  meje!  »  Ora,  essenno 
verso  la  sera,  fatto  Filadoro  no  pertuso  pe  sotta  l'uorto, 
dov'era  no  gran  connutto,  se  ne  scettero  fere,  toccanno 
a  la  vota  de  Napole.  Ma,  comme  foro  arrivate  a  la  grotta 
de    Pozzulo''*',  disse    Nardo  Aniello   a  Filadoro:  «  Bene 


^i  Filo,  filaccia. 

55  spagn.:  escabecUe;  maniera  di  condimento  di  pesci  e  ortaggi 
prima  cotti.  Mesesca:  v.  n.  79,  p.  153.      56  ouai^  e  poi  altri  guai. 

S''  Propr.:  rientro  nella  conchiglia.      ss  Governati:  sta  bene. 

59  Respirò. 

<''*  La  grotta  aperta  attraverso  la  collina  di  Posillipo,  per  la  quale 
passava  la  nuova  via  puteolana,  fatta  al  tempo  d'Augusto  dall'archi- 


242  LO   CUXTO  DE  LI  CUNTI 

«  mio,  non  convene  lo  farete  venire  a  lo  palazzo  mio  a 
«  pedo  e  vestuta  de  sta  manera.  Perzò,  aspetta  a  sta 
«  taverna,  ca  torno  subeto  co  cavalle,  carrozze,  gente  e 
«  vestite,  ed  autre  fruscolo *'^  ».  Cossi,  restanno  Filadoro, 
isso  s'abbiaje  a  la  vota  de  la  cetate.  E,  tornanno  fra  sto 
miezo  l'orca  da  fore,  né  responnenno  Filadoro  a  le  solete 
cbiammate,  trasuta  nsospetto,  corze  a  lo  vosco.  E,  fatto 
no  gran  pertecone,  l'appojaje  a  la  fenestra,  ed,  arrampi- 
natose  comra'a  gatta,  sagliette  a  la  casa.  La  quale  cer- 
cato tutta  drinto  e  fore,  ncoppa  ed  abbascio^^,  nò  trovato 
nesciuno,  s'addonaje  de  lo  pertuso,  e,  visto  che  jova  a 
sboccare  a  la  chiazza,  non  se  lassaje  zervola  sana,  jastem- 
manno  la  figlia  e  lo  prencepe,  e  -preganno  lo  cielo,  che- 
lo  primmo  vaso,  che  recevesse  lo  nammorato  sujo,  se 
scordasse  d'essa.  Ma  lassammo  la  vecchia  dire  paternuo- 
stre  sarvateche'^^,  e  tornammo  a  lo  prencepe;  che,  arrivato 
a  lo  palazzo,  dove  se  teneva  pe  muorto,  mese  a  remmore 
la  casa  tutta,  coiTcnnole  ncontra,  e  decennole:  «  A  la 
«  bon'ora!,  singhe  lo  buono  arrivato!  Eccolo  a  sarva- 
«  miento!  Gomme  ce  pare  bello  a  sti  paise!  »,  e  mille 
autre  parole  d'ammore.  Ma,  sagliuto  ad  àuto,  e  scontra- 
tolo a  meza  scala  la  mamma,  l'abbracciaje  e  basaje,  de- 
cennole: «  Figlio  mio,  giojello  mio,  popella  dell' nocchie 
«  mieje,  e  dove  si  stato,  comm'aje  tardato  tanto  pe  fa- 
«  rece  tutte  stennerire*"?  »  Lo  prencepe  non  sapeva  che 
so  responnere,  perchè  averria  contato  le  desgrazie  soje, 
ma  non  tanto  priesto  co  le  lavra  de  papagne  Tappe  vasato 
la  mamma,  che,  pe    la  jastemma  dell'orca,  le  scotte  de 


tetto  Cocceio.  Nel  medio  evo,  era  Ira  le  opere,  che  la  leggenda  attri- 
buiva a  Virgilio.  Fu  allargata  e  restaurata  da  Alfonso  d'Aragona  e 
poi  da  D.  Pietro  di  Toledo.  Gfr.,  tra  gli  altri,  E.  Cocchia,  La  Tomba 
(Il  Virgilio  (in  Arch.  Slor.  Ifap.,  XIII,  631  sgg.). 

61  Goserelle.      62  su  e  giù. 

63  Paternostri  selvatici,  cioè:  imprecazioni  e  maledizioni. 

6*  Palpitare, 


.TORNATA   II.   TRATTENEMIEXTO   VII.  243 

mammona  quanto  avea  passato.  Ma  leprecanno  la  regi- 
na, che,  pe  levatele  st'accasione  de  ire  a  caccia,  e  con- 
zomare  la  vita  pe  li  vuosche,  l'averria  nzorato:  «  Sia  co 
«  la  bonora!,  —  le  respose  lo  prencepe  — ;  eccome  prunto 
«  e  parato  a  fare  tutto  chello,  che  vole  mamma  gnora 
«  mia!  »  «  Cossi  fanno  li  figlie  beneditte!  »,  —  lepre- 
caje  la  regina.  E,  cossi,  appontaro  fra  quattro  juorne  de 
portarene  la  zita  a  la  casa,  la  quale  era  na  signora  de 
ciappa,  che  da  le  parto  de  Shiannena  era  capetata  a  chella 
cetate.  Ordenaro,  adonca,  gran  festa  e  banchetto;  ma, 
fra  sto  miezo,  vedenno  Filadoro  ca  lo  marito  tricava  *'•' 
troppo,  e  fìscannole,  non  saccio  comme,  l'aurecchie  de  sta 
festa,  che  se  jeva  spobrecanno  pe  tutto,  abbistanno  lo 
garzone  de  lo  tavernaro,  che  s'era  corcato  la  sera,  le  le- 
vaje  li  vestite  da  capo  lo  saccone.  E,  lassato  l'abete  suoje, 
stravestutose  da  ommo,  se  ne  venne  a  la  corte  de  lo  re  ; 
dove  li  cuoche,  pe  tanto  ch'avevano  da  fare,  besognan- 
nole  ajuto,  lo  pigliare  pe  guattaro.  E,  venuto  la  matina 
de  l'appontamiento,  quanno  lo  sole  sopra  lo  banco  de  lo 
cielo  mostra  li  privilegio  fattele  de  la  natura"^,  sigillate 
de  luce,  e  venne  secreto  de  schiarire  la  vista,  venne  la 
zita  a  suono  de  ciaramelle ^^  e  cornette.  Ed,  apparecchiato 
le  tavole,  e  puostose  a  sedere,  mentre  shioccavano  le  ve- 
vanne,  tagliato  lo  scarco  na  grossa  mpanata  ngrese^*, 
ch'aveva  fatto  de  mano  soja  Eiladoro,  ne  scotte  na  palom- 
ma  accessi  bella,  che  li  commitate,  scordannose  de  maz- 
zecare,  se  mesero  spantecate  a  mirare  sta  bellezza  cosa. 
La  quale,  co  na  voce  pietosa  pietosa,  le  disse:  «  Aje  ma- 


^^  Tardava,  indugiava. 

S6  Metaf.  presa  dai  saltimbanchi,  che  mostravano  ptHvilegi,  come 
ora  cerllftcali.      <>'  Cennamelle. 

"8  V.  n.  59.  p.  148.  Nella  cit.  com.  L'Astuta  Cortegiana:  «  Et  io  vor- 
rei ritrovarmi  nel  Gerriglio  a  fronte  di  una  ben  ripiena  mensa  di 
turte  lombarde,  imjìanate  all' Inglesa,  ecc.  »  (III,  io). 


244  LO   CUNTO   DE  LI    CUNTI 

«  gnato  cellevriello  de  gatta  ^^,  o  prencepe,  che  te  si  scor- 
«  dato,  nditto  nfatto,  T'affrezzione  de  Filadoro?  Cossi  t'è 
«  sciato  de  mammoria  li  servizio  recevute,  o  scanoscente? 
»  Cossi  paghe  li  beneficio,  che  t'ha  fatto,  o  sgrato?,  l'ave- 
«  rete  levato  da  le  granfe  dell'orca,  l'averete  dato  la 
«  vita,  e  se  stessa?  E  chesta  è  la  gran  merzè,  che  daje 
«  a  chella  sfortunata  figliola  de  lo  sbisciolato  ammore, 
«  che  t'ha  mostrato?  Di  che  se  dia  na  vota,  e  levase; 
«  di  che  sponteche"^  st'uosso,  fi  che  vene  l'arrusto!  0 
«  negra  chella  femmena,  che  troppo  sempre  na  de  parole 
«  d'uommene,  che  portano  sempre  co  le  parole  la  sgra- 
dì tetudene,  co  li  beneficie  la  scanoscenza,  e  co  li  debete 
«  lo  scordamiento  !  Ecco  la  scura  se  magenava  de  fare  la 
«  pizza  driuto  a  lo  Donato"^  co  tico,  e  mo  se  vede  paz- 
«  ziare  a  sparte  casatiello'-;  credeva  de  fare  co  tico 
«  serra  serra,  e  mo  tu  faje  sarva  sarva''^;  ponzava  de 
«  potere  rompere  no  becchiero  co  tico,  e  mo  ha  rutto  lo 
«  cantaro  ''  !  Va,  non  te  curare,  facce  de  nega-debeto,  ca 
«  te  coglieno  pe  deritto  le  jastemme  de  tutto  core,  che 
«  te  manna  chella  nogrecata!  Tu  t'addonarraje  quanto 
«  mporta  mpapocchiare  na  peccerella,  coflSare  na  figliola, 
«  nzavagliare  na  povera  nocente,  facennole  sto  bello  trucco 
«  mucco"-',  portannola  folio  a  tergo,  mentre  te  portava 


''9  Aver  mangiato  cervello  di  gatta,  esser  diventato  smemorato. 
Nella  G.  IV,  8:  «  E  e' hai  magnato  cellevriello  de  gatta,  o  sore  mia, 
che  te  hai  fatto  scire  de  mente  l'aviso  nuostro?  »;  e  V,  7:  «  É  no 
gran  cellevriello  de  gatta  chi  cova  la  cennere  ».  —  Il  Braca,  in  una 
canzone,  dice  delle  ttova  del  gatto:  «  L'ova  da  gatta  cierte  Manducate 
haggio  spisso,  Pocca  mi  volo  o  chiericuocco  ogni  hora  »  [nis.  e, 
f.  137).      ">  Spolpi,  roda. 

'^  Deve  alludere  a  qualche  uso  scolaresco:  «  fare  la  schiacciata 
nel  Donato  »,  cioè  nel  famoso  libro  di  grammatica  di  Elio  Donalo. 

^*  Scherzare,  giuocare:  a  dividere  il  casatiello  (cfr.  n.  42,  p.  85). 

"'^  Serra,  serra  e  sarva,  sarva,  grida  di  tumulto.     '*  V.  n.  62,  p.  57. 

■'s  Metaf.  tolta  del  giuoco  del  bigliardo.  Trucco  raucco,  è  un  colpo 


JOENATA   ir.   TRATTENEMIENTO   VII.  245 

«  intus  vero"*^;  mettennola  sotta  a  la  cedola,  mentre  te 
«  metteva  sopra  la  capo  ;  e,  mentre  essa  te  faceva  tanta 
«  servetù,  tenerela  dove  se  faceno  li  serviziale!  Ma,  si 
«  lo  cielo  non  s'ha  posta  la  pezza  all' uocchie,  si  li  dei 
«  non  s' hanno  chiavato  lo  mafaro'"  all' aurecchie,  vede- 
«  ranno  lo  tuorto,  che  l'hai  fatto,  e,  quanno  manco  te 
«  cride,  te  venarrà  la  vigilia  e  la  festa,  lo  lampo  e  lo 
«  truono,  la  freve  e  la  cacarella  !  Vasta,  attienne  buono  a 
«  magnare,  datte  spasso  a  boglia  toja,  sguazza  e  trionfa 
«  co  la  zita  novella;  ca  la  scura  Tiladoro,  filanno  sottile, 
«  romparrà  lo  filo  de  la  vita,  e  te  lassarà  campo  franco 
«  da  gauderete  la  nova  mogliere!  »  Dette  ste  parole, 
sparaje  a  belare  fora  de  le  fenestre,  che  se  la  pigliaje 
lo  viento!  Lo  prencepe,  sentuto  sta  mbrosoliata"^  colom- 
mesca,  restaje  pe  no  piezzo  attassato"^.  All'utemo,  de- 
mannato  da  dove  era  venuta  la  mpanata,  e  sentuto  da  lo 
scarco,  ca  l'aveva  lavorata  no  guattaro  de  cocina,  pigliato 
pe  sto  abbesuogno,  lo  prencepe  lo  fece  venire  nanze  ad 
isso.  La  quale,  jettatose  a  li  piede  de  Mase  Aniello,  e 
facenno  na  lava  de  chianto,  autro  non  diceva,  si  no  :  «  Che 
«  faggio  fatto  io,  canazzo?,  che  faggio  fatto  io?  »  Lo 
prencepe,  che  pe  la  forza  de  la  bellezza  de  Filadoro,  ó 
pe  la  vertute  de  la  fatazione,  che  aveva,  se  venne  ad  al- 
lecordare  l'obrecanza,  ch'aveva  stipolata  nfacce  soja  a  la 
curia  d'Ammore,  subeto  la  facette  auzare  e  sedere  a 
canto  ad  isso;  contanno  a  la  mamma  l'obreco  granne, 
ch'aveva  a  sta  bella  giovane,  e  quanto  aveva  fatto  ped 
isso,  e  la  parola  datole,  che  era  necessario,  che  l'avesse 
compruta.  La  mamma,  che  n'aveva  autro  bene,  che  sto 
figlio,  le  disse:  «  Fa  chello,  che  te  piace;  puro  che  noe 


dato  in  modo  che  la  propria  palla  resti  nel  luogo,  donde  si  scaccia 
quella  dell'avversario.      ""^  Metaf.  tolte  dalle  citazioni  dei  libri. 

■''  Qui,  nel  senso  proprio:  cocchiume.      "^  Moi'morio. 

"9  Interdetto. 


246  LO    CUNTO   DE   LI   CTJ^TI 

«  sia  lo  nore  e  lo  gusto  de  sta  signorella,  che  t'aje  pi- 
«  gliato  pe  mogliere.  »  «  No  ve  pigliate  sti  fastidio,  — 
«  respose  la  zita — ,  ca  io,  pe  ve  la  dicere  comme  sta, 
«  restava  de  mala  voglia  a  sto  pajese.  Ma,  pecca  lo  cielo 
«.  me  l'ha  marinata  bona,  io,  co  vostra  bona  lecienzia,  me 
«  ne  voglio  tornai-e  a  la  vota  do  Shiannena  mia,  a  tro- 
«  vare  li  vave  de  li  becchiere,  che  s'usano  a  Xapole^"; 
«  dove,  mpenzanno  d'allommare  na  lampa^^  pe  diritto, 
«  s'era  quase  stutata  la  lucerna  de  sta  vita  ».  Lo  pre'n- 
cepe,  co  n'allegrezza  granne,  l'offerse  vasciello  e  compa- 
gnia. E,  fatto  vestire  da  prencepessa  a  Filadoro,  levate 
che  foro  le  tavole,  vennero  li  vetta  fuoche^",  e  s'accom- 
menzaje  lo  ballo,  che  duraje  pe  li  a  la  sera.  Ma,  essonno 
la  terra  coperta  de  lutto  pe  l'assequia  de  lo  sole,  venet- 
tero  le  ntorcie.  Ed  ecco  pe  le  scalo  so  ntese  no  gran  fra- 
casso de  campanelle;  pò  la  quale  cosa,  lo  prencepe  de- 
cotte a  la  mamma:  «  Chesta  sarà  quarche  bella  masca- 
«  rata^^  pe  norare  sta  festa!;  affò,  ca  li  cavaliere  napo- 
«  litane  so  comprite  assajo,  e,  dove  abbesogua,  ne  fru- 
«  sciano  lo  cuotto  e  lo  crudo  !  »  Ma,  ntanto  che  facevano 


*•>  Cioè,  interpreta  il  Liebr.:  «  bicchieri  mollo  grandi,  come  dicia- 
mo anche  noi  ».  E  aggiunge  che  pel  Basile  la  Fiandra  era  una  parte 
della  Germania;  e  perciò  la  dama,  della  quale  si  parla,  aveva  tanta 
sete!  (Anm.,  I,  407):  cfr.  n.  49.  p.  96.  —  La  spiegazione  mi  par  giu- 
sta; e  non  credo  possa  pensarsi  ad  un'allusione  alla  foggia  dei  bic- 
chieri. Della  Germania  e  della  Fiandra  era  nolo,  invece,  il  poco  uso 
che  vi  si  faceva  di  bicchieri  propriamente  detti.  M.  Bino,  nel  capi- 
tolo in  lode  del  bicchiere,  dice:  «  La  vostra  Magna  0  Fiandra  e  tutta 
quella  Parte,  die  beve  in  slagno  0  in  argento,  ecc.  »  {Il  secondo  libro 
dell'opere  burlesche  del  Berni,  ecc.,  Usecht  al  Reno,  1771,  p.  213). 
81  Bere  una  l)ottiglia.  V.  n.  18,  p.  187.  82  y.  princ.  G.  IV.  • 
83  Di  mascherato  di  cavalieri  ne  descrivono  molte  le  cronache  con- 
temporanee. Per  una  delle  più  famose,  per  quella  fatta  a  Palazzo 
lloale  il  17  ottobre  1630,  nell'occasione  della  venuta  della  Regina 
Maria,  che  andava  sposa  all'Arciduca  Ferdinando  d'Austria,  il  N.  ap- 
punto scrisse  una  specie  di  dramma  per  musica.  V.  Inlrod. 


JORNATA   II.   TRATTENEMIEKTO   VII.  247 

sto  jodizio,  compare  miezo  la  sala  no  brutto  mascarone, 
die  non  passava  tre  parme  d'autezza,  ma  era  grossa  chiù 
de  na  vette.  La  quale,  arrivata  nante  lo  prencepe,  disse  : 
«  Sacce,  Nard' Aniello,  ca  li  vierre®'  e  lo  male  procedere 
«  tujo  t' bave  arredutto  a  tante  desgrazie,  eh'  aje  pas- 
«  sato.  Io  so  l'ombra  de  chella  vecchia,  a  la  quale  rom- 
«  piste  lo  pignato,  che,  pe  la  famme,  so  morta  cessa!  Te 
«  jastemmaje  che  fusse  ncappato  a  li  strazio  de  n'orca, 
«  e  furo  saudute  li  prieghe  mieje!  Ma,  pe  la  forza  de 
«  chesta  bella  fata,  scappaste  da  chelle  rotola  scarze.  Ed 
«  aviste  n'autra  mardezzione  dall'orca:  ch'alio  primmo 
K  vaso,  che  te  fosse  dato,  te  scordasse  de  Filadoro;  te 
«  vasaje  mammata,  ed  essa  te  scette  da  mente.  Ma,  pe 
«  l'arte  de  la  medesema,  te  la  truove  a  canto!  Ma,  mo, 
«  te  torno  a  mardire:  che,  pe  memoria  de  lo  danno  che 
«  me  faciste,  te  puozze  trovare  sempi-e  nante  li  fasule, 
«  che  me  jettaste,  e  se  faccia  vero  lo  proverbio  :  chi  sem- 
«  mena  fasule  le  nascono  corna!  »  E,  ditto  chesto,  squa- 
gliaje  comm'argiento  vivo,  che  non  se  ne  vedde  fummo. 
La  fata,  che  vedde  lo  prencepe  spalleduto  a  ste  parole, 
le  dette  armo,  decennole:  «  Non  dubetare,  marito  mio; 
«  sciatola  e  matola,  s'è  fattura  non  vaglia^^;  ca  io  te 
«  caccio  da  lo  fuoco!  »  E,  cossi  decenno,  e  scomputa  la 
festa,  jettero  a  corcarese;  e,  pe  confermare  lo  stromiento 
fatto  de  la  nova  fede  promessa,  nce  fece  fermare  dui  te- 
stemonie^^,  e  li  travaglie  passate  fecero  chiù  saporite  li 
gusto  presente,  vedennose  a  la  coppella  de  li  socciesse 
de  lo  munno,  che: 

Chi  ntroppeca,  e  non  cade, 
Avanza  de  cammino. 


8i  Capricci.      ^"'  Formiila  per  scongiurare  una  fattura. 
^^  Equivoco  osceno. 


LA  SCHIAVOTTELLA 


Teattenemiento  ottavo  de  la  Joenata  seconna. 


Lisa  nasce  da  la  fronna  de  na  rosa,  e,  pe  jasterama  de  na  fata,  more; 
è  posta  da  la  mamma  a  na  cammara,  lassanno  ditto  a  lo  frate, 
che  no  l'apera.  Ma  la  mogliere,  gelosa,  volenno  vedere  che  nc'eje, 
nce  trova  Lisa  viva;  e,  vestutala  da  schiava,  le  fa  mille  strazie; 
recanosciuta,  all'utemo,  da  lo  zio,  caccia  la  mogliere,  e  marita 
ricca  ricca  la  nepote. 

«  V  eramente,  —  disse  lo  prencepe  — ,  ogne  ommo 
«  deve  fare  l'arte  soja:  lo  signore  da  signore,  lo  staffiere 
«  da  staffiero,  e  lo  sbirro  da  sbirro;  che,  sicome  lo  ra- 
«  gazzo,  volenno  fare  da  prencepe,  deventa  ridicolo,  cossi 
«  lo  prencepe,  facenno  da  ragazzo,  scapeta  de  repota- 
«  zione  ».  Cosi  decenno,  votatose  a  Paola,  le  disse,  die 
se  lassasse  correre.  La  quale,  fattose  mprimmo  na  bona 
zucata*  de  lavra,  e  na  grattata  de  capo,  cossi  commen- 
zaje. 

È  na  pessema  feruscola,  si  vale  a  dicere  lo  vero,  la 
gelosia,  vertigine,  che  fa  votare  la  capo,  freve,  che  scauda 
le  vene,  accidente,  che  refredda  li  mi  ombre,  vesentierio, 
che  scommove  lo  cuorpo,  malo,  finalemente,  che  leva  lo 
suonno,  amareja  lo   civo,   ntrovola  la   quiete  e  smesa  la 

1  Succhiata. 


.TORNATA    li.    TEATTENEMIENTO   Vili.  249 

vita;  essenno  serpe,  che  mosizeca,  carola,  che  reseca,  fele, 
che  ntosseca,  neve,  che  nteseca,  chiuovo,  che  smafara, 
sparte-matremmonio  de  li  guste  cl'ammore,  scazzella-cane^ 
de  li  contente  amoruse,  e  continua  tropeja  ne  lo  mare 
de  li  piacire  de  Venere  ;  la  quale  mai  sguigliaje  cosa  de 
bene,  come  confessarrite  co  la  lengua  vostra,  sentenno  lo 
cuiito,  che  secota. 

Era  na  vota  lo  barone  de  Servascura,  che,  avenno  na 
sore  zita,  la  quale  sempre  jeva  coll'autre  giuvane  de 
l'età  soja  a  sautariare  pe  no  giardino,  e  trovanno  fra 
l'autre  vote  na  bella  rosa  spampanata,  facettero  nguag- 
gio,  che  chi  la  sautasse  netta,  senza  toccarele  na  fronna, 
guadagnasse  no  tanto.  E,  sautannoce  na  mano  de  fem- 
mene  cavallune  pe  coppa,  tutte  ce  morravano,  e  nesciuna 
la  scarvaccava  netta.  Ma,  toccanno  a  Lilla,  ch'era  la  sore 
de  lo  barone,  pigliato  no  poco  de  vantaggio  arreto,  dette 
na  tale  corzeto,  che  sautaje  de  posole  pe  coppa  la  rosa. 
Ma,  facennone  cadere  na  fronna,  fu  cossi  accorta  e  de- 
stra, che,  pigliannola  fra  lumme  e  lustro^  da  terra,  se  la 
gliottette*,  guadagnanno  lo  nguaggio.  Ma  non  passaro  tre 
juorne,  che  se  sentette  prona;  de  la  quale  cosa  appo  a 
morire  de  dolore,  sapenno  cierto  de  n'avere  fatto  mbro- 
glie,  né  vescazzie^,  né  le  poteva  cadere  mente,  comme 
le  fosso  ntorzata  la  panza.  Pe  la  quale  cosa,  corze  a 
certe  fate  ammiche  soje,  le  quale  le  dissero,  che  non  do- 
betasse,  ca  era  stata  la  fronna  de  rosa,  che  s'aveva  gliot- 
tuta.  Lilla,  sentuto  chesto,  attese  a  nasconnere  quanto 
potte  la  panza,  e,  venuta  l'ora  de  scarrecare  lo  pisemo, 
figliaje  secretamente  na  bella  fegliola.  A  la  quale  puosto 
nomme  Lisa,  la  mannaje  a  le  fate.  La  quale,  ogn'una 
le  dette  la  fatazione  soja;  ma  l'utema  de  chello,  volenno 
correre  a  vedere  sta  peccerella,  sbotatose  desastrosamente 


2  Propr.:  chi  molesta  i  cani,  che  amoreggiano  per  le  vie. 

3  Senza  esser  vista.      ^  Inghiottì.      5  Disonestà. 


32 


250  LO   CUXTO   DE   LI    CUNTI 

lo  pede,  pe  lo  dolore  la  jastemmaje:  che,  a  li  sette  anno, 
pettenannole  la  mamma,  se  le  scordasse  lo  pettene  drinto 
a  li  capille  mpizzato  **  a  la  capo,  de  la  quale  cosa  moresse. 
E,  arrivato  lo  tiempo,  e  socciesso  la  cosa,  la  negra  mam- 
ma, desperata  pe  sta  desgrazia,  dapò   avere   fatto  n'am- 
maro trivolo,  la  chiuse  drinto  a  sette  casce  de  cristallo, 
una  nserrata  drinto  all'autra,  mettennola  all'utema  cam- 
mara  de  lo  palazzo,  tenennosenne  la  chiave.  Ma,  essenno 
pe  lo  dolore  de  sto   socciesso   redotta  alla  scolatura  de 
la  vita,  chiammaje   lo  frate,   decennole:  «  Frate  mio,  io 
«  me   sento  a  poco  a  poco    tirare    da   la    vorpara  de  la 
«  morte.  Però,  te  lasso  tutte  le  scartapelle  meje,  che  ne 
«  singhe  signore  e  patrone;  sulo,   m'aje   da  dare  parola 
«  de  n'aprire  mai  chell'utema  cammara  de  sta  casa,  sti- 
«  pannote  sta  chiave  drinto  a  lo  scrittorio  ».   Lo  frate, 
che   l'amava   sbisciolatamente,  nce    ne    deze  la  fede;  ed 
essa,  a  lo  stisso  tiempo,  disse:  «  A  dio,   ca  le    fave   so 
«  chiene''!  »  Ma,  ncapo  dell'anno,  essennose  sto  signore 
nzorato,   ed  esseuno   mitato   a  na   caccia,    racommannaje 
la  casa  a  la  mogliere,  pregannola,  sopra  tutto,  a  n'aprire 
chella  cammara,  de  la  quale  teneva  la  chiave  drinto  a 
lo  scrittorio.    Ma  n'appe  cossi  priesto   votato  le  spalle, 
ch'essa,  tirata   da  lo    sospetto,  voltata   da   la  gelosia,  e 
scannata  da  la  curiosetate,  ch'è  primma  dote  de  la  fem- 
mena,  pigliata  la  chiave,  aperze  la  cammara.  Ed,  aperto 
le  casce,  pe  dove   vedeva  stralucere   la  figliola,   trovaje 
cosa,  che  pareva  che  dormesse.  La   quale   era   cresciuta 
quanto  ogne  autra  femmena  nsieme  co  le  casce,  che  s'e- 
rano   ngrannuto,    secunno   jeva    crescenno.    La  femmena 
gelosa,  visto  sta  bella  orlatura,  dicette  saboto  :  «  Bravo, 
«  per  vita  mia!;  chiave  ncinto,  e  martino  drinto*!  Chesta 
«  era  la  deligenzia,  che  non  s'aperesse  la  cammara,  azzò, 

^  Confitto.      "^  È  tempo  di  raccogliere:  la  mia  vita  è  Anita. 

8  Martino,  cornuto.  Propr.  :  che,  mentre  alcuno  sta  sicuro  fuor  di 


JORNATA  ir.   TRATTENEMIENTO   Vili.  25 1 

«  non  se  vedesse  lo  Maumetto^,  che  adorava  drinto  a 
«  le  casce!  »  Cossi  decenno,  la  pigliaje  pe  li  capillo,  ti- 
rannola  fore;  pe  la  quale  cosa,  cascannole  nterra  lo  pet- 
tene,  se  venne  a  resentire,  gridanno:  «  Mamma  mia, 
«  mamma  mia!  »  «  Va  ca  te  voglio  dare  mamma  e  tata!  », 
respose  la  baronessa;  e,  nfelata  comm'a  schiava,  arrag- 
giata,  comm'a  cane  figliata,  ntossecosa,  comm'a  serpe,  le 
tagliaje  subeto  li  capille,  e,  facennole  na  ntosa  de  zuco^°, 
le  mese  no  vestito  stracciato,  ed  ogne  juorno  le  carré- 
cava  vrognole  a  lo  caruso,  molegnane  all' nocchie,  mier- 
che^^  nfacce,  facennole  la  vocca  comm' avesse  mandato 
pecciune  crude  ^^.  Ma,  tornato  lo  marito  da  fore,  e  ve- 
denno  sta  figliola  cossi  male  trattata,  addemannaje  chi 
fosse.  Ed  essa  le  responnette,  ch'era  na  schiava,  che  l'a- 
veva mannato  la  zia,  la  quale  era  n'esca  de  mazze ^^,  e 
besognava  martoriarela  sempre.  E,  venenno  accasione  a 
lo  signore  de  ire  a  na  fera,  disse  a  tutte  le  gente  de  la 
casa,  pe  fi  a  li  gatte,  che  cosa  volevano  che  l'accattasse. 
E,  cercato  chi  na  cosa,  e  chi  n'autra,  all'  utemo,  venne 
alla  schiavottella.  Ma  la  mogliere  non  fece  cosa  da  cri- 
stiano, decenno  :  «  Miette  puro  ndozzana**  sta  schiava  mos- 
«  suta^^,  e  facimmo  tutte  pe  na  regola,  tutte  vorrimmo 
«  pisciare  a  l'aurinale  !  Lassala  stare,  mal'ora,  e  non  dam- 
«  mo  tanta  presenzione  a  na  brutta  siamma^^  ».  Lo  signo- 
re, ch'era  cortese,  voze,  nn'ogne  cunto,  che  la  schiavot- 
tella cercasse  quarcosa.  La  quale  decette:  «  Io  non  voglio 
«  antro,  che  na  pipata,  no  cortiello,  e  na  preta  pommece; 


casa,  colla  chiave  in  tasca,  la  moglie,  in  casa,  trova  il  modo  di  farlo 
cornuto.      ^  Maometto:  idolo.      i'*  Una  buona  bastonatura. 

ii  Mierche,  impronte  di  ferite.      12  cioè:  tutta  bagnata  di  sangue, 

13  Persona,  che  strappava  le  bastonate. 

^^  Metti  pure  a  paro  delle  altre. 

*^  Colle  grosse  labbra  di  un  moro. 

16  (ES)  fiamma.  —  Siamma,  denominazione,  che,  probabilmente, 
una  volta  si  dava  agli  schiavi. 


252  LO   CUNTO   DK  LT   C.X^Tl 

«  e,  si  te  ne  scuorde,  non  puozze  maje  passare  lo  prim- 
«  mo  shiummo,  che  truove  pe  strata!  »  E,  comprato  lo 
barone  tutte  le  cose,  fere  che  chelle,  che  l'aveva  cercato 
la  nepote,  a  lo  passare  de  no  shiummo,  che  carriava 
prete  ed  arvole  da  la  montagna  a  la  marina,  pe  jettare 
fonnamiente  de  paure,  ed  auzare  mura  de  maraviglia, 
non  fu  possibele  che  sto  segnore  potesse  passare.  Pe  la 
quale  cosa,  allecordatose  de  le  jastemme  de  la  schiavot- 
tella,  tornaje  arreto,  ed  accattaje  pontoalmente  ogne 
cosa.  E,  tornato  a  la  casa,  spartette,  una  ped  una,  le 
cose,  che  aveva  accattate.  Ed  avuto  Lisa  ste  coselle,  se 
ne  trasette  a  la  cecina,  e,  puostose  nante  la  pipata,  se 
mese  a  chiagnere  e  trevoliare,  contanno  a  chillo  arravuo- 
glio*"  de  pezze  tutta  la  storia  de  li  travaglie  suoje, 
corame  se  parlasse  co  na  perzona  viva.  E,  vedenno,  che 
no  le  responneva,  pigliava  lo  cortiello,  ed,  affilannolo  co 
la  pommece,  deceva:  «  Vi,  ca,  si  non  me  respunue,  mo 
«  me  npizzo,  e  scompimmo  la  festa!  »  E  la  pipata,  ab- 
bottannose  a  poco  a  poco,  corame  otra  de  zampogna, 
quanno  l'è  dato  lo  shiato,  all'utemo,  responneva:  «  Si, 
«  ca  t' aggio  ntiso  chiù  de  no  surdo  !  »  Ora,  duranno  sta 
museca  pe  na  mano  de  juorne,  lo  barone,  ch'aveva  no 
retretto  sujo  muro  a  muro  co  la  cecina,  sentenno  na  vota 
sto  medeserao  taluorno,  e  mpizzato  l'uocchie  pe  la  chia- 
vatura  de  la  porta,  vedde  Lisa,  che  contava  a  la  pipata 
lo  sautare  de  la  mamma  ncoppa  la  rosa,  lo  magnarese 
la  fronna,  lo  figliare,  la  fatazione  datale,  la  jastemma  de 
la  fata,  la  restata  de  pettene  ncapo,  la  morte,  la  nchiusa 
a  sette  casce,  la  stipata  drinto  la  cammara,  la  morte  de 
la  mamma,  la  lassata  de  chiave  a  lo  frate,  la  juta  a  cac- 
cia, la  gelosia  do  la  mogliere,  la  trasuta  drinto,  dove 
stava  centra  l'ordene  de  lo  frate,  la  tagliata  de  li  capille, 
lo  trattamiento  de  schiava,  co  tante  e  tante  strazio,  che 


i'  Fagotto,  involto:  bambola  falla  di  pezze. 


JORNATA  II.   TRATTENEMIENTO   Vili.  253 

l'aveva  fatto.  E,  cossi  clecenno,  e  cliiagnenno,  deceva: 
«  Respunneme,  pipata,  sino,  m'accido  co  sto  cortiello!  » 
Ed,  affilannolo  a  la  preta  pommece,  se  voleva  spertosare; 
quanno  lo  barone,  date  de  cauce  a  la  porta,  le  levaje  lo 
cortiello  da  mano.  E,  sentuto  meglio  la  storia,  ed  abbrac- 
ciannola  comme  a  nepote,  la  portaje  fora  de  casa,  dan- 
nola  a  na  certa  parente  soja  a  refarese  no  poco,  ch'era 
deventata  meza  ^^,  pe  li  male  trattamiente  de  chillo  core 
de  Medea.  E,  ncapo  de  poche  mise,  essennose  fatta  com- 
me na  dea,  la  fece  venire  a  la  casa  soja,  decenno  essere 
na  nepote  soja^^.  E,  dapò  fatto  no  gran  banchetto,  e  le- 
vato le  tavole,  fatto  contare  da  sta  Lisa  la  storia  de 
tutte  l'affanno  passate,  e  la  crodeletate  de  la  mogliere, 
che  fece  chiagaere  a  tutte  le  commitate,  cacciaje  la  mo- 
gliere, mannannola  a  la  casa  de  li  pariente,  e  dette  no 
bello  marito  a  la  nepote,  secunno  lo  core  sujo.  La  quale 
toccaje  a  le  vi  elio: 

Ca,  quanno  Vommo  manco  se  Io  penza,    \ 
Le  grazie  soje  chiovelleca  lo  cielo.  j 


^8  Ridotta  alla  metà,  smagrita.      ^^  (EO)  manca  soja. 


LO  CATENACCIO 


Teattenemiento  nono  de  la  Tornata  seconna. 

Lucia  va  ped  acqua  a  na  fontana,  e  trova  no  schiavo,  che  la  mette 
a  no  bellissimo  palazzo,  dove  è  trattata  da  regina.  Ma,  da  le  sore 
midiose  consigliata  a  vedere  co  chi  dormesse  la  notte,  trovatolo 
no  bello  giovene,  ne  perde  la  grazia,  ed  è  cacciata.  Ma,  dapò  es- 
sere juta  sperta  e  demerta^,  grossa  prena,  na  maniata  d'anne^,  ar- 
riva ncasa  de  lo  nararaorato;  dove,  fatto  no  figlio  mascolo,  dapò 
varie  socciesse,  fatto  pace,  le  deventa  mogliere. 

IVJoppe^  a  gran  compassione  lo  core  de  tutte  le  de- 
sgrazie  passate  da  la  poverella  de  Lisa,  e  chiù  de  quatto 
fecero  l'uocchie  russe  co  le  lagreme  mponta,  che  non  è 
cosa,  che  chiù  tetelleca"*  la  piatate,  quanto  lo  vedere 
chi  patisce  nnozentemente.  Ma,  toccanno  a  Ciommetella 
de  votare  sto  filatorio,  cossi  decotte. 

Li  consiglio  de  la  midia  sempre  foro  patre  de  le  de- 
sgrazie,  perchè,  sotto  la  mascara  de  lo  bene,  chiudono 
la  facce  de  le  ruine,  e  la  perzoua,  che  se  vede  la  mano 
a  li  capille  de  la  fortuna,  deve  magenarese  d'avere  a 
tutt'ore  ciento,  che  le  mettono  le  fonecelle  tirate  nanze 


^  Sperduta  e  sprezzata. 

*  Un  certo  numero.  «  Vedete  un  po'  la  negligenza  del  Basile,  — 
dice  il  Liebr.  — ,  che  fa  andare  Lucia  girando  per  varii  anni  grossa 
gravida  I  Purché  ciò  non  sia  fatto  intenzionalmente  e  per  ischerzo.  » 
{Anm.,  I,  407).      3  Mosse.      ■*  Solletica. 


JORNATA   II.   TEATTENEMIENTO  IX.  255 

li  piede,  pe  farelo  tommoliare  ^  ;  comme  soccesse  a  na 
povera  figliola,  che  pe  lo  male  consiglio  de  le  sore,  ca- 
dette da  coppa  la  scala  de  la  felicità,  e  fu  meserecordia 
de  lo  cielo,  che  non  se  roppe  lo  cucilo. 

Era  na  vota  na  mamma,  ch'aveva  tre  figlie,  che,  pe  la 
pezzentaria  granne,  ch'aveva  pigliato  pede  a  la  casa  soja, 
la  quale  era  chiaveca,  dove  correvano  le  lave  de  le  de- 
sgrazie,  le  mannava  pezzonno  pe  mantenere  la  vita.  Ed 
avenno  na  matina  abboscato  certe  fronne  de  caole,  jet- 
tate  da  no  cuoco  de  no  palazzo,  e  volennole  cocinare, 
disse,  una  ped  una,  a  le  figlie,  che  jessero  pe  no  poco 
d'acqua  a  la  fontana.  Ma  l'una  co  l'autra  se  la  pallot- 
tiava®,  e  la  gatta  commannava  la  coda''';  tanto  che  la  po- 
vera mamma  disse  :  «  Commanna,  e  fa  tu  stisso  !  »  ;  e, 
pigliata  la  lanoella,  voleva  ire  essa  pe  sto  servizio,  an- 
cora che  pe  la  gran  vechiezza  non  poteva  strascinare 
le  gamme.  Ma  Luciella,  ch'era  la  chiù  picciola,  disse: 
«  Dà  ccà,  mamma  mia,  ca,  si  be  n'aggio  tanta  forza,  quanto 
«  me  vasta,  puro  te  voglio  levare  sto  travaglio  ».  E,  pi- 
gliatase  la  lancella,  jette  fora  la  cetate,  dove  steva  na 
fontana,  cha,  pe  vedere  li  sbiure  smajate^  pe  la  paura  de 
la  notte,  le  jettava  acqua  nfacce.  Dove  trovaje  no  bello 
schiavo,  che  le  disse:  «  Bella  fegliola  mia,  se  vuoi  ve- 
«  nire  co  mico  a  na  grotta  poco  lontana,  te  voglio  dare 
«  tante  belle  coselle  ».  Luciella,  che  steva  sempre  spe- 
ruta  do  na  grazia,  le  respose:  «  Lassarne  portare  sto  poco 
«  d'acqua  a  mammama,  che  m'aspetta,  ca  subeto  torno  ». 
E,  portata  la  lancella  a  la  casa,  co  scusa  de  ire  cercanno 
quarche  tacca ^,  tornaje  a  la  fontana.  Dove  trovato  lo  me- 


3  Capitombolare,  inciampare. 
^  Se  la  rimandavano  dall'una  all'altra. 

'''  (EO)  code.  —  Modo  proverb.  :  la  gatta,  che   dà  ordini  alla  sua 
coda;  per  indicare  persona,  che  non  vuol  fare  una  data  cosa. 
8  Svenuti:  e,  per  farli  rinvenire,  li  spruzzava  d'acqua. 
»  Scheggia,  pezzo  di  legno. 


256  LO   CUNTO  DE  LI  CUtsTI 

desemo  schiavo,  se  l'abbiaje  appriesso;  e  fu  portata  pe 
drinto  na  grotte  de  tufo,  aparata  de  capille  vienere  ^^,  e 
d'ellera,  drinto  a  no  bellissimo  palazzo  sotto  terra,  ch'era 
lutto  lampante  d'oro.  Dove  le  fu  subeto  apparecchiata 
na  bellissima  tavola;  e,  fra  tanto,  scettero  doje  belle 
schiantune  de  vajasse  a  spogliarela  chille  poche  straccio, 
che  portava,  ed  a  vestirela  de  tutto  punto,  faceunola 
corcare  la  sera  a  no  lietto  tutto  recamato  de  perno  ed 
oro.  Dove,  comme  furo  stutate  le  cannele,  se  venne  a 
corcare  uno.  La  quale  cosa  durata  na  mano  de  juorne, 
all'utemo,  venne  golio  a  sta  figliola  de  vedere  la  mamma, 
0  lo  disse  a  lo  schiavo.  Lo  quale,  trasuto  a  na  camraara, 
parlato  non  saccio  co  chi,  tornaje  fora,  dannole  no  gran 
vorzone  de  scute,  e  decennole,  che  le  desse  a  la  mamma, 
allecordannole  a  no  scordarese  pe  la  via,  ma  che  tor- 
nasse priesto,  senza  diro  da  dove  veneva,  né  dove  stesse. 
Ora,  juta  la  fegliola,  0  vedennola  le  sere  cossi  bella 
vestuta,  e  cossi  bona  trattata,  n'appero  na  midia  da  cre- 
pare. E,  volennosenne  tornare  Luciella,  la  mamma  e  le 
sere  la  vozero  accompagnare.  Ma  essa,  refutanno  la  com- 
pagnia, se  ne  tornaje  a  lo  medesemo  palazzo  pe  la  stessa 
grotta.  E,  stanno  n'autra  mano  de  mise  quieta,  all'utemo, 
le  venne  lo  stisso  sfigolo,  e  fu,  co  lo  stisso  protiesto  e  co 
li  stisse  donativo,  mannata  a  la  mamma.  E,  dapò  essere 
socciesso  sto  chiajeto  tre  0  quatto  vote,  co  rofonnere 
sempre  sceroccate  de  midia  a  la  guallara^^  de  le  sore  ; 
all'utemo,  tanto  scervecaro  ste  brutte  arpie,  che,  pe  via 
de  n'orca,  sapettero  tutto  lo  fatto  corame  passava.  E, 
venuta  n'autra  vota  da  loro  Luciella,  le  dissero  :  «  Si  be 
«  non  co  hai  voluto  dicore  niente  de  li  gusto  tuoje,  agge 
«  da  sapere,  ca  nui  sapimmo  ogne  cosa,  e  ca  ogne  notte, 
«  essennote  dato  l'addebbio,  non  te  puoi  addonare,  ca 
«  dorme   co  tico    no  bellissomo  giovane.   Ma  tu   starrai 


iO  Capelvenere,        11  Eccitando  sem])re  più  1"  invidia  delle  sorelle. 


JOENATA   II.    TRATTENEMIENTO   IX.  257 

«  sempre  co  st'allegrezza  a  repieneto,  si  non  te  resuorve 
«  de  fare  lo  consiglio  de  clii  te  vo  bene.  All'utemo,  sì 
«  sango  nuostro,  e  desiderammo  Tutele  e  lo  gusto  tujo  ! 
«  Però,  quanno  la  sera  te  vaje  a  corcare,  e  vene  lo 
«  scliiavo  co  lo  sciacquadente  '■',  e  tu,  decennole  che  te  pi- 
<.<  glia  na  tovaglia  pe  te  stojare  lo  musso,  jetta  destra- 
«  mente  lo  vino  da  lo  becchiero,  azzò  puozze  stare  sce- 
«  tata  la  notte.  E,  comme  vedarrai  mariteto  addormuto, 
«  apre  sto  catenaccio,  ca,  a  despietto  sujo,  besogna  che  se 
«  sfaccia  sto  ncanto,  e  tu  restarrai  la  cbiù  felice  femmena 
«  de  lo  munno  ».  La  povera  Luciella^^,  che  non  sapeva, 
ca  sotto  sta  sella  de  velluto  nc'era  lo  garrese,  drinto  sti 
shiure  nc'era  lo  serpe,  e  drinto  sto  vacile  d'oro  nc'era  lo 
tuosseco,  credette  a  le  parole  de  le  sore.  E,  tornata  a 
la  grotta,  e  venuta  la  notte,  fece  comme  le  dissero  chelle 
mielate  ^^  Ed,  essenno  tutte  le  cose  zitto  e  mutto,  allom- 
maje  co  lo  focile  na  cannela,  e  se  vedde  a  canto  no  shiore 
de  bellezza,  no  giovane,  che  non  vedive  autro,  che  giglio 
0  rose.  Essa,  vedenno  tanta  bellezzetudene  cosa,  disse  : 
<  Affé,  cane  me  scappe  chiù  da  le  granfe!  »  E,  pigliato 
lo  catenaccio,  l'aperze.  E  vedde  na  mano  de  femmene, 
che  portavano  ncapo  tanto  bello  filato;  a  una  de  le  quale 
cascata  na  matassa,  Luciella,  ch'era  cunno  de  lemmo- 
sena*^,  non  recordannose  dove  steva,  auzaje  na  voce,  de- 
cenno :  «  Auza,  madamma,  lo  filato  !»  A  lo  quale  strillo 
scetatose  lo  giovane,  sentette  tanto  desgusto  d'essere 
stato  scopierto  da  Luciella,  che  a  la  medesema  pedata 
chiammato  lo  schiavo,  e  fattole  mettere  le  primme  strac- 
cie ncuollo,  ne  la  mannaje;  che,  co  no  colore  de  scinto 
da  lo  spitale,  tornaje  a  le  sore,  da  le  quale  fu  co  triste 
parole,  e  peo  fatte,  cacciata.  Pe  la  quale  cosa,  se  mese  a 
pezzire^®  pe  lo  munno,  tanto  che,  dapò  mille  stiente,  es- 

12  propr.:  sciacquabocca;  qui:  bicchiere.      ^^  (eo)  Luccia. 
^^  Malvage  donne.      ^5  y.  n.  20,  p.  142.      16  Limosinare. 


25S  LO    CUNTO   DE   LI   CUKTI 

senno  la  negrecata  grossa  prona,  arrivaje  a  la  cetate  de 
Torrelonga.  E,  juta  a  lo  palazzo  riale,  cercaje  quarche 
poco  de  recietto  ncoppa  a  la  paglia;  dove  na  dammecella 
de  corte,  ch'era  na  bona  porzona,  la  raccouze.  Ed,  es- 
senno l'ora  de  scarrecare  la  panza,  fece  no  figlialo  a- 
cossi  bello,  ch'era  na  puca  d'oro!  Ma  la  primma  notte, 
che  nascette,  mentre  tutte  l'autre  dormevano,  trasette  no 
bello  giovane  a  chella    cammara,  decenno: 

«  O  bello  figlio  mio, 
Se  lo  sapesse  mamma  mia, 
Nconca  d'oro  te  lavarria, 
Nfasce  d'oro  te  nfasciarria; 
E,  si  maje  gallo  cantasse, 
Mai  da  te  me  parlarria!  » 

Cossi  decenno,  a  la  primma  cantata  de  gallo,  squagliaje, 
comm'argiento  vivo.  De  la  quale  cosa  essennose  addo- 
uata  la  dammecella,  e  visto,  ch'ogne  notte  veneva  lo 
stisso  a  fare  la  stessa  museca,  lo  disse  a  la  regina.  La 
quale,  subeto  che  lo  sole,  comm'a  miedeco,  lecenziaje  da 
lo  spitale  de  lo  cielo  tutte  le  stelle,  fece  no  hanno  cru- 
delissimo, che  s'accedessero  tutte  li  galle  de  chella  ce- 
tate, faconno  tutto  a  no  tiempo  vedole  e  carose*'  quante 
galline  nc'erano.  E,  tornanno  la  sera  chillo  medesemo 
giovane,  la  regina,  che  steva  sopra  lo  fierro'*,  e  no  sco- 
glieva nemmiccole*^,  recanoscette  ch'era  lo  figlio,  e  l'ab- 
bracciaje  strettamente.  E,  perchè  la  raardezzione  data  da 
n'orca  a  sto  prencepe  era,  che  sempre  jesse  spierto,  lon- 
tano da  la  casa  soja,  fi  che  la  mamma  no  l'avesse  ab- 
bracciato, e  lo  gallo  no  avesse  cantato,  tanto  che  subeto 
che  fu  tra  le  braccia  de  la  mamma  se  desfece  lo  per- 
canto,  e  scompette  lo  tristo  nfruscio.  Cossi  la  mamma  se 


i"'  V.  n.  50,  p.  229.      1''  Slava  attenta,  apparecchiata. 
*"  Lenticchie:  non  stava  occupala  in  altra  faccenda. 


.TORIATA   II.    TRATTEXEMIENTO   IX.  259 

trovaje  avere  acquistato  no  nepote,  comme  na  gioja;  Lu- 
ciella  trovaje  no  marito,  comme  no  fato;  e  le  sore,  avuto 
nova  de  le  grannezze  soje,  se  ne  venettero  co  na  facce 
(le  pepierno  a  trovarela.  Ma  le  fu  resa  pizza  pe  tortane  ''', 
e  foro  pagate  de  la  stessa  moneta,  e  co  gran  crepanti- 
glia  d'arma  canoscettero  : 

Ca  figlio  de  la  midia  e  l'anfecore. 


20  Schiacciata  per  pane.  Tortane,  pane  a  ciambella. 


LO  COMPARE 


Trattexemiento  decemo  de  la  Jorxata  seconna. 

Gola  Jacovo  Aggrancato*  ha  no  compare  alivento*,  che  se  lo  zuca 
tutto;  né  potenno  co  arteflcie  o  stratagemme  scrastaresillo  da 
cuollo,  caccia  la  capo  da  lo  sacco,  e,  co  male  parole,  lo  caccia 
da  la  casa. 

Jr  u  bello,  veramente,  lo  cunto  ditto  co  grazia,  e  sen- 
tuto  co  attenzione;  de  manera,  che  concorzero  mille  cose 
a  datele  zuco,  perchè  piacesse.  Ma,  perchè  ogno  picca^ 
de  tiempo,  che  se  metteva  miezo,  da  cunto  a  cunto*,  te- 
neva la  schiava  a  la  corda,  e  li  deva  li  butte ^;  però,  se 
sollecetaje  Jacova  de  ire  a  lo  tuorno".  La  quale  mese 
mano  a  la  vette  de  lo  fìlastoccole,  pe  refrescare  lo  desi- 
derio dell'audeture,  de  chesta  manera. 

La  poca  descrezzione,  signure,  fa  cadere  la  mezacanna 
da  mano  a  lo  mercante  de  lo  jodizio,  e  sgarrare  lo  com- 
passo all'architetto  de  la  crianza,  e  perdere  la  vusciola 
a  lo  marinaro  de  la  ragione.  La  quale   piglianno  radeca 


*  Aggranchiato:  avaro.  Gfr.  Egl.  La  Tenta.  Qui  sta  come  un  cogno- 
me, ma  è  tratto  dalle  qualità  morali  di  Gola  Jacovo;  e  l'Irabriani 
(XII  canti  pomigl.,  p.  IX)  lo  tenne,  con  troppa  sicurezza,  per  un  ca- 
sato realmente  esistente  in  Pomigliano  d'Arco,  a  quei  tempi. 

*  Scroccone,  truffatore.      3  Ogni  pocolin  di  tempo. 
■*  (EO)  e  le  seguenti:  da  canto  a  canto. 

6  Urloni.  Immag.  tolta  dalla  tortura  della  corda. 
^  A  raccontare  alla  sua  volta. 


JORXATA  II.    TRATTENEMIENTO    X.  26 1 

U6  lo  terreno  de  la  gnoranzia,  non  procede  antro  frutto, 
che  de  vergogna  e  de  scuorno;  comme  se  vede  soccedere 
ogne  juorno;  particolarmente  accorse  a  no  cierto  facce- 
tosta  de  compare,  comme  dirraggio. 

Era  no  cierto  Cola  Jacovo  Aggrancato  de  Pomigliano  ', 
marito  de  Masella  Cerneccliia  de  Resina^,  ommo  ricco 
comme  a  lo  maro,  che  non  sapeva  chello,  che  se  trovava, 
tanto  eh'  aveva  nchiuso  li  puorce,  e  teneva  paglia  fi  a 
ghiuorno.  Co  tutto  chesso,  si  be  n'aveva  né  figlie,  ne  fit- 
tiglie^,  e  mesurava  li  de  quibus^*^  a  tommola,  se  correva 
ciento  miglia,  non  le  scappava  uno  de  ciento  vinte  a  car- 
rino*\  e,  facennose  male  a  patere,  faceva  na  vita  sten- 
tata da  cane  pe  mettere  da  simmeto,  e  fare  stipa  ^''.  Tutta 
vota,  sempre  che  se  metteva  a  tavola  pe  mantenere  la 
vita,  nce  arrevava  pe  ruotolo  scarzo^^  no  malejuorno  de 
compare,  che  non  lo  lassava  pedata,  e,  comme  si  avesse 
l'alluorgio  ncuorpo,  e  la  mpolletta^^  a  li  diente,  sempre 
si  consignava  all'ora  de  lo  mazzeco,  pe  remescarese  co 
loro.  E,  co  na  fronte  de  pesature  ^^,  se  l'azzeccoliava  de 
manera  ntuorno,  che  no  ne  ^^  lo  poteva  cacciare  co  li  pe- 
cune^~.  E  tanto  lo  contava  li  muorze  ncanna,  e  tanto  de- 
ceva mottetto,  e  jettava  mazze^^,  .fi  che  l'era  ditto:  «  Se 
«  te  piacesse!  »  Dove,  senza  farese  troppo  pregare, 
schiaffannose  da  miezo  a  miezo  fra  lo  marito  e  la  mo- 
gliere,  e  comme  si  fosse  abbrammato,  allancato,  ammo- 
lato  a  rasulo  ^^,  assajato"'',  comme  cane  de  presa,   e  co  la 


'  Pomigliano  d'Arco,  paesello  sulla  via  da  Napoli  a  Nola.  C'è  an- 
che Pomigliano  d'Atella. 

8  Resina,  presso  Portici,  famosa  poi  per  gli  scavi  d' Ercolano  :  com. 
della  prov.  e  circ.  di  Nap.,  ora  con  ab.  15,652. 

9  Molestie  date  dai  bambini.    '  ^o  Quattrini, 
11  V.  n.  102,  p.  16,  e  n.  15,  p.  202. 

^-  Metter  da  parte,  e  conservare.      ^3  per  disgrazia. 

1^  Clessidra,  orologio  a  polvere.      ^5  pestello.      ^^  (EO)  nne  lo. 

^'^  Coi  picconi.      i8  Tanti  detti  scherzevoli  diceva. 

^^  Affilato  come  rasoio,      20  Aizzato,  incitato. 


262  I-O   CUNTO   DE   LI   CUNTI 

lopa  ncuorpo,  co  na  carrera,  che  bolava,  —  da  dove  ve- 
ne? da  lo  molino  ^^  — ;  menava  le  mano  comme  a  sonatore 
de  pifaro,  votava  l' nocchie  comme  a  gatta  forastera,  ed 
operava  li  diente  comme  a  preta  de  macena;  e,  gliottenno 
sano,  0  l'uno  voccone  non  aspettanno  l'antro,  corame  s'a- 
veva buono  chino  li  vuoffole*-,  carrecato  lo  Stefano,  e 
fattone  na  panza  comme  a  tammurro;  dapò  visto  la  pe- 
tena  de  li  piatte,  e  scopato  lo  paese,  senza  dicere  :  cover- 
namette;  date  de  mano  a  n'arciulo,  e  shioshiatolo,  zorla- 
tolo,  devacatolo,  trincatolo,  e  scolatolo  tutto  a  no  shiato^^, 
fi  che  ne  vedeva  lo  funno,  se  ne  pigliava  la  strata  a  fare 
li  fatte  suoje,  lassanno  Cola  Jacovo  e  Masella  co  no  pai'- 
mo  de  naso!  Li  quale,  vedenno  la  poca  descrezzione  de 
lo  compare,  che,  comme  a  sacco  scosuto,  se  norcava,  can- 
nariava,  ciancolava,  ngorfeva,  gliotteva,  devacava,  scervec- 
chiava,  piuzziava,  arravogliava,  scrofoniava,  schianava*', 
pettenava,  sbatteva,  smorfeva,  ed  arresediava '^  quanto 
ne' era  a  la  tavola,  non  sapevano  che  fare,  pe  scrastarese 
da  tuorno  sta  sangozuca,  sta  pittema  cordiale,  sto  nfetta- 
miento  de  vrache,  sta  cura  d'agusto,  sta  mosca  ntista^*^, 
sta  zecca  fresa  ^''',  sta  susta -^,  sto  sopra-uosso,  sto  pesone, 
sto  cienzo  perpetuo,  sto  purpo,  sta  sasina  ^"j  sto  pisemo, 
sta  doglia  de  capo  !  E  no  vedevano  mai  cheli'  ora,  na 
vota,  magnare  sciamprate  '^^,  senza  st'ajuto  de  costa,  senza 
sta  grassa  de  suvero^M  Tanto  che  na  mattina,  avenno  sa- 
puto ca  lo  compare  era  juto  pe  spalla^*  de  no  commis- 
sario fora  la  terra.  Cola  Jacovo  disse:  «  0  che  sia  lau- 


21  Cfr.  MN.,  I.      22  Piene  le  mascelle.      23  sinonimia  del  bere. 
2'  (EO)  schiavava.       2^  sinonimia  del  mangiare.       2C  importuna. 

27  II  Porta  nella  Tabernai'ia  :  «  Oh  Dio,  che  zecca  freda  è  chisto  !  » 
(ni,  7). 

28  Propr.,  legaccia  elastica,  e,  metaf.,  molestia,  importunità. 
2»  Propr.:  feritoia.  Cfr.  IV,  a.      30  Da  soli. 

31  Grascia,  abbondanza   di  viveri;  suvaro,  sughero.   Ch'è  come  a 
dire:  grascia  di  magro,  abbondanza  di  consumo.      ^2  Aiutante. 


.TORNATA   II.    TRATTENEMIENTO   X.  263 

«  dato  lo  solo  lione,  ca  na  vota,  ncapo  de  ciento  anne, 
«  ne'  è  toccato  de  menare  le  masche,  de  dare  lo  portante 
«  a  le  ganasse,  e  de  mettere  sotta  lo  naso,  senza  tanto 
«  frusciamiento  de  tafanario;  perzò,  la  corte  me  vo  sfa- 
«  re,  io  sfare  me  voglio  !  Da  sto  munno  de  merda,  tanto 
«  n'hai,  quanto  scippe  co  li  diente ^^!  Priesto,  allumma 
«  lo  fuoco,  che  mo,  che  avimmo  mazza  franca^'  da  fa- 
«  rece  na  bona  pettenata,  nce  volimmo  sgoliare^^  de  quar- 
«  che  cosa  de  gusto,  e  de  quarche  muorzo  gliutto  !  »  Cossi 
decenno,  corze  ad  accattare  na  bona  anguilla  de  pantano, 
no  ruotolo  de  farina  ashiorata  ^^,  e  no  buono  fiasco  de  man- 
giaguerra  ^'''.  E,  tornato  a  la  casa,  mentre  lamogliere,  tutta 
affacennata,  fece  na  bella  pizza,  isso  frejette  l'anguilla. 
Ed,  essenno  ogne  cosa  all'ordene,  se  sedettero  a  tavola; 
ma  non  foro  accessi  priesto  sedute,  che  veccote  lo  pa- 
scono de  lo  compare  a  tozzolare  la  porta.  Ed,  afiaccia- 
tose  Masella,  e  visto  lo  sconcecajuoco  de  li  contiente  loro, 
disse  a  lo  marito  :  «  Cola  Jacovo  mio,  mai  s' appe  ruo- 
«  tuolo  de  carne  a  la  chianca  de  li  guste  umane,  che 
«  non  ce  fosse  la  jonta  dell'uosso  de  lo  dispiacerei^;  mai 
«  se  dormette  a  lenzola  janche  de  sfazione,  senza  quar- 
«  che  cemmece  de  travaglio  ;  maje  se  fece  colata  de  gu- 
«  sto,  se  non  ce  mattesse  chioppeta  de  mala  sfazione! 
«  Eccote  nzoccato  st'  amaro  muorzo,  eccote  annozzato 
«  ncanna  sto  magnare  cacato!  »  A  la  quale  Cola  Jacovo 
respose:  «  Stipa  ste  cose,  che  stanno  ntavola,  squagliale, 
«  sporchiale,  ncaforchiale,  che  non  parano,  e,  pò,  apre  la 
«  porta,  ca,  trovanno  sacchejato  lo  casale,  fuorze  averrà 
«  descrezzione  de  partirese  priesto,  e  nce  darrà  luoco  da 
«  strafocarence  co  sto  poco  de  tuosseco  !  »  Masella,  men- 
tre lo  compare  sonava  ad  arme,  e  scampaniava  a  grolla, 


33  Ne  strappi  coi  denti.      ^^  V.  n.  95,  p.  15.       35  cavar  la  voglia. 

36  Fior  di  farina.      37  y.  n.  76,  p.  132. 

38  Metaf.  tolte  dal  comprar  carne  dal  macellaio. 


264  I>0    CUNTO   DE   LI   CUNTI 

mpizzaje^^  l'anguilla  dereto  a  no  repuosto,  lo  fiasco  sotta 
lo  lietto,  e  la  pizza  fra  li  matarazze.  E  Cola  Jacovo  se 
schiaffaje  sotta  la  tavola,  tenenno  mente  pe  no  pertuso 
de  lo  trappito^**,  che  pennoliava  fi  nterra.  Lo  compare, 
pe  la  chiavatura  de  la  porta,  vedde  tutto  sto  trafeco; 
comme  fu  apierto,  co  na  bella  rasa"'^,  tutto  sbagottuto  e 
sorriesseto,  trasette  drinto  ;  e,  demannato  da  Masella,  che 
l'era  socciesso,  disse:  «  Mentre  m'hai  fatto  stennerire  co 
«  tanto  spromiento  e  penzeniamiento  '-  fore  la  porta,  aspet- 
«  tanno  lo  stimolo,  e  la  venuta  de  lo  cuorvo,  che  avisse 
«  apierto,  m'è  venuto  pe  li  piede  no  serpe;  uh  mamma 
«  mia,  che  cosa  spotestata  e  brutta!  Fa  cunto,  ch'ei'a 
«  quanto  l'anguilla,  e' hai  posta  drinto  a  lo  stipo!  Io,  che 
«  me  vediette  curto  e  male  parato,  tremmanno  comm'a 
«  junco,  avenno  lo  filatorio  ncuorpo  pe  lo  jajo,  la  verme- 
«  nara  pe  la  paura,  lo  tremoliccio  pe  lo  schianto,  auzo  na 
«  preta  da  terra  quanto  lo  fiasco,  eh'  è  sotta  lo  lietto,  e 
«  tuffete  ncapo,  ne  faccio  na  pizza,  comme  chella,  eh' è 
«  fra  li  matarazze  !  E,  mentre  moreva  e  sparpatejava, 
«  vedeva,  ca  me  teneva  mente,  comme  fa  lo  compare  da 
«  sotta  la  tavola.  Non  m'è  restato  sango  aduosso,  tanto 
«  sto  schiantuso ''^  ed  atterruto!  »  A  ste  parole,  non  po- 
tenno  chiù  stare  saudo  Cola  Jacovo,  che  non  ne  poteva 
scennere  lo  zuccaro,  cacciato  la  capo  fora  de  lo  trappito 
comme  a  Trastullo'",  che  s'affaccia  a  la  scena,  le  disse ''^: 
«  S'è  accossi,  è  pasticcio!,  mo  si  ch'avimmo  chino  lo  fu- 
«  so,  vi!,  mo  avimmo  fatto  lo  pane,  vi!,  mo  avimmo  vinto 
«  lo  chiaito,  vi!  Se 'te  devimmo  dare,  accusace  a  la  Va- 


39  Cacciò.      ■""  Tnpiìeto,  coperta.      ^i  Faccia.  V.  n.  5,  p.  114. 

•**  Indugio.      '*3  Sbattuto,  palpitante  di  paura. 

■*'  Personaggio  della  Commedia  dell'arte.  Nella  G.  Ili,  7:  «  dove 
fanno  sempre  mascare,  la  mormorazione  da  Trastullo,  ecc.  ».  Lo  cita 
il  Del  Tufo:  *  Trast^dll  e  Pantaloni  *  (ras.  e,  f.  100).  Nei  Balli  di 
Sfessania  del  Callot  è  rappresentalo  in  coppia  con  la  signora  Lucia, 
alla  quale  fa  una  dichiarazione.      ^5  (i^o)  e  disse. 


.TORNATA   II.   TRATTENEMIENTO   X.  265 

«  gliva'^;  si  te  avimmo  fatto  despiacere,  fance  na  qua- 
«  rera'*''  a  la  Zecca  ^^;  se  te  siente  affiso,  legame  a  curto''^; 
«  si  hai  quarche  crapiccio,  fance  na  cura  co  lo  motillo^"; 
«  se  pretienne  quarcosa,  fance  na  secotata  co  na  coda  de 
«  vorpa^'^,  0  schiaffance  sso  naso  a  Napole^^!  Che  terme- 


46  Nel  Tribunale  della  Bagliva  si  trattavano  le  cause  dei  danni 
fatti  ai  territorii,  e  tutte  le  cause  da  tre  ducati  in  sotto.  La  sua  giu- 
risdizione si  estendeva  a  Napoli  e  casali.  L'appello  era  ai  maestri  ra- 
zionali della  Zecca.  Era  posseduto  dalla  famiglia  Costanzo,  aveva  sei 
giudici  nobili,  due  di  Montagna  e  quattro  degli  altri  seggi:  oltre  gli 
uffiziali  subalterni.  Ai  tempi  del  N.,  era  già  riunito,  cogli  altri  tri- 
bunali, in  Castel  Capuano  (Cap.,  For.,  p.  634,  e  Cel.,  0,  e.  II,  376). 

■"  Querela. 

48  II  Tribunale  della  Zecca  era  prima  presso  S.  Agostino,  e  passò 
poi  anche  a  Castel  Capuano.  Giudicava  delle  cause  concernenti  mo- 
nete, pesi  e  misure,  e  delle  frodi  commesse  nel  comprare  e  vendere; 
ed  era  ristretto  a  Napoli  e  Gasali.  Da  esso  s'appellava  al  Sacro  Re- 
gio Consiglio  (Toppi,  0.  e,  P.  II,  32-3,  e  Cel.,  l.  e,  276). 

49  Legami  stretto,  in  modo  che  non  possa  scrollarmi. 

50  Piccolo  imbuto;  cura  co  lo  motillo,  clistere,  lavativo. 

5i  Probab.,'  come  fanno  talora  i  fanciulli,  perseguitando  un  gatto, 
0  altro  animale,  per  la  casa.  —  li  Liebr.  {Anm.,  I,  407)  dice:  «  Io 
non  so  a  che  costume  alluda:  forse,  una  volta  i  fanciulli  correvano 
dietro  ai  cattivi  debitori,  ecc.,  con  una  coda  di  volpe,  ecc.  Almeno, 
simili  costumi  vigevano  presso  altri  popoli;  così,  presso  gli  Etru- 
schi »;  e  cita  Heracl.  Pontic,  Fragm.,  16,  che  scrive:  «  OTav  02  Ti; 
ò(p£iXwv  )^pio;  [A'/i  à— oScSò),  7;apy./,oXo'j3'0'jG'.v  01  -TralSs;, 
zyjov-:z;  xìvóv  3-uXà'/,'-0V  si;  Supto— txv  ».  Gfr.  anche  Dunlop-Lieb- 
recht,  0.  e,  515. 

52  si  dice  Napoli  (e  talvolta:  Pozzuoli)  per  non  dire  un'altra  pa- 
rola. Gfr.  VN.  Il  Del  Tufo,  discorrendo  del  parlar  goffo  della  plebe 
napol.:  «  Hora  mo  sì,  ca  sì  fastidiuso.  Te,  chiavance  so  naso  a  sto 
pertuso!  »  (ms.  e,  f.  131).  È  noto  l'antico  rito  giudiziario,  pel  quale 
i  debitori  decotti  dovevano  denudarsi  il  sedere  e  dar  tre  volte  con 
esso  su  una  pietra,  0  una  colonnina  che  fosse,  posta  nel  pubblico 
tribunale.  La  colonnina,  ch'era  a  Napoli  innanzi  a  Castel  Capuano, 
si  vede  ora  al  Museo  di  S.  Martino.  Schia/Tame  so  naso  a  Napole 
vale,  dunque:  puoi  vedermi  il  sedere,  ma  non  hai  da  togliermi  niente! 
Gfr.  Pi  tré,.  BiM.,  XV,  372-4. 

34 


266  LO   CUNTO   DE  LI   CUNTI 

«  ne,  che  muodo  de  procedere  è  lo  tujo?  Pare  che  sin- 
«  ghe  sordato  a  descrezzione  ^-^  e  che  vuoglie  la  robba 
«  nostra  pe  filatiello  !  Te  deveva  vastare  lo  dito,  e  non 
«  pigliarete  tutta  la  mano,  ch'oramaje  nce  vuoje  cacciare 
«  de  sta  casa  co  tanto  ammoinamiento^M  Chi  ha  poca 
«  descrezzione,  tutto  lo  munno  è  lo  sujo;  ma  chi  non  se 
«  mesura  è  mesurato,  e,  se  tu  non  hai  mezacanna,  nui 
«  avimmo  trapanature  e  laganature.  All'utemo,  sai  ca  se 
«  dice:  a  buono  fronte  buono  pisaturo?  Perzò:  Ogne 
«  riccio  a  suo  pagliariccio  ;  lassannoce  co  li  malanno  nuo- 
«  stre.  Se  cride,  d'oje  nante,  continuare  sta  museca,  nce 
<i  pierde  le  pedate,  e  non  ne  faje  spagliocca!,  nce  pierde 
«  la  paratura,  canon  te  rasce  a  pilo!;  se  te  maggine  de 
«  corcarete  sempre  a  sto  muollo,  hai  tiempo,  va  ca  l'hai!, 
«  marzo  te  n'ha  raso^-^,  e  te  ne  puoi  pigliare  lo  palicco! 
«  Se  pienze  ca  chesta  è  taverna  aperta  a  ssa  canna  fra- 
«  ceta,  quanto  curro  e  mpizze^*'!  Scordatenne,  levatello 
«  da  chiocca,  è  opera  perza,  è  cosa  de  viento,  e  non  c'è 
«  chiù  esca,  né  taglio  pe  tene!  Avive  abbestato  li  cor- 
«  rive  e  li  pecciune;  avive  allommato  li  pupille^',  avive 
«  scanagliato  l'asine,  avive  trovato  la  coccagna!  Ora  va, 
«  tornatcnne,  ca  non  te  vene  chiù  fatta,  e  a  sta  casa 
«  puoi  mettere  nome  penna,  ca  non  lieve  chiù  acqua  co 
«  lo  fatto  mio;  e  si  si  no  spia-pranzo,  no  sfratta-panelle, 
«  no  arresedia-tavole,  no  scopa-cocine,  no  licca-pignata, 
«  no  annetta-scotelle,  no  cannarono,  no  canna-de-chiaveca, 


!^3  Allude,  come  altrove,  alle  vessazioni  degli  alloggiamenti  mili- 
tari. V.  n.  36,  p.  144. 

5*  Affaccendamento,  armeggìo. 

55  Non  hai  più  che  farci!  Cfr.  Del  Tufo,  ms.  e,  f.  130.  Una  cervel- 
lotica nota  etimologica,  in  VX 

^  Metaf.,  dal  giuoco  deìVanello,  0  de  la  sorlija,  come  si  diceva  alla 
spagnuola.  Il  giuoco,  com'è  nolo,  consisteva  nell'infllzare  un  anello, 
correndo:  il  che  sembrava,  alla  prima,  cosa  facile;  ma  non  era. 

57  Adocchiato  i  pupilli,  i  minorenni,  da  imbrogliare. 


.TORNATA  II.   TRATTENEMrENTO    X.  267 

«  s'hai  lo  ciancolo^*',  la  lopa,  lo  delluvio  e  lo  sfonnerio 
«  ncuorpo,  che  darrisse  masto  a  n'aseno^^,  fanno  a  uà  na- 
«  ve,  che  te  norcarrisse  l'urzo  de  lo  prencepe''*',  ne  fru- 
«  sciarrisse  lo  sangradale  ^',  né  te  vastarria  lo  Tevere, 
*«  né  l'Angravio*'^,  e  te  magnarisse  le  brache  de  Mariac- 
«  ciò"'*:  va  pe  ss'autre  accresie'^*,  va  a  tirare  la  scia- 
«  vaca,  va  adonanno  pezze  pe  li  monnezzare^',  va  tro- 
«  vanno  chiuove  pe  le  lave^'',  va  abboscanno  cera  pe 
«  l'assequie®',  va  spilanno  connutte  de  latrine  pe  nchire 
«  ssa  Vozza;  e  sta  casa  te  para  fuoco!:  ch'ogne  uno  ha  li 
«  guai  suoje,  ogn'una  sa,  che  porta  sotto,  ogn'uno  sa, 
«  che  le  va  pe  lo  stommaco:  ca  n'avimmo  abbesuogno 
«  de  ste  ditte  spallate  ^^,  né  d'accunte  fallate,  e  de  ste 
«  lanze  spezzate!  Chi  se  pò  sarvare,  se  sarva;  besogna 
«  smammarete   da  sta    zizzenella*^"!   Auciello   pierde-jor- 


58  Fame  insaziabile,      59  Divoreresti  un  asino. 

60  A  che  alluda  con  questo:  orso  del  principe,  è  ignoto. 

6^  È  una  storpiatura  del  Saint-Graal,  la  coppa,  nella  quale,  se- 
condo i  romanzieri  del  ciclo  brettone,  Giuseppe  d'Arimatea  aveva 
raccolto  il  sangue  di  Cristo.  Oggetto  preziosissimo,  che  una  stirpe 
privilegiata  lo  aveva  in  custodia;  la  queste  du  SI,  Graal  era  l'opera 
del  Re  Artù  e  dei  suoi  cavalieri.  Il  romanzo  più  celebre  del  ciclo 
è  il  Perceval  di  Grestien  de  Troyés.  V.  indie,  bibliograf.  sull'argo- 
mento in  G.  Nyrop.,  Storia  dell'epopea  francese  nel  Medio  evo  (trad. 
it.,  Firenze,  1888,  pp.  442-4).  Gfr.  R.  Guiscardi,  Sominibus  bonae  vo- 
luntatis,  colla  data  di  Venezia,  1886,  pp.  4-5. 

62  Cosi  anche  nelle  Lett.:  «  VAngravio  e  lo  Danubio  »  E  il  22. 
suppone  che  sia  corruzione  di  langravio,  i  possedimenti  del  Lan- 
gravio (?):  il  Tevere  per  bere,  e  i  prodotti  di  quei  possedimenti  per 
mangiare.  Ma  che  VAngravio  debba  essere  un  fiume,  è  evidente: 
benché  quale  sia,  non  m'è  riuscito  di  accertare,  per  ricerche  che  ab- 
bia fatto. 

63  Anche:  le  brache  de  Mariaccio,  è  una  frase  d'allusione  ignota. 
6*  chiese.      65  Spazzaturai.      6G  y.  n.  31,  p.  110. 

67  Gfr.  n.  36,  p.  217;  e  G.  Ili,  i.  A  coloro,  che  accompagnano  coi 
ceri  le  esequie,  si  suol  rilasciare  ciò  che  resta  dei  ceri,  a  funzione 
finita.      68  Ditte  (commerciali)  fallite. 

69  Spopparti,  staccarti  da  questa  mammella. 


268  LO   CUNTO   DE   LI   CUNTI 

«  nata,  dessutele,  mantrone,  fatica,  fatica!,  miettete  a 
«  l'arte,  trovate  patrone  !  »  Lo  negrecato  compare,  sen- 
tennose  fare  sta  parlata  fore  de  li  diente,  sta  sbottata 
de  postemma,  sta  cardata  senza  pettenarulo;  tutto  friddo 
e  jelato,  comme  a  mariuolo  trovato  nfragante,  comme  a 
pellegrino,  ch'ha  sperduto  la  strata,  comme  a  marinaro, 
rotta  la  varca,  comme  a  pottana,  eh' a  perduto  Taccunte, 
comme  a  peccerella,  ch'ave  allordato  lo  lietto,  co  la  len- 
gua  nfra  li  diente,  la  capo  vascia,  la  varva  mpizzata 
mpietto"'*,  r  nocchie  a  pisciarielle,  lo  naso  peruto'\  li 
diente  jelate,  lo  mano  vacante,  lo  core  assottigliato,  la 
coda  fra  le  coscio,  cuoto  cuoto'^,  zitto  e  mutto,  se  ne 
pigliaje  le  zaravottole '^,  senza  votarese  mai  capo  dereto, 
venennole  a  sieste  chella  norata  settenza: 

Cane  no  mitato  a  nozze 
Non  ce  vaa,  ca  coglie  zotte"'*. 


'"  Fitta  nel  petto.      "^^  Muffito.      "^  Mogio  mogio,  chiotto  chiotto. 
'3  Nelle  3/.V.,  I:  «  Figlie  le  zaravaUole  »  —  Spulezzò, 
'*  Scudisciate. 


JORNATA   II.    LA   TENTA  269 

Risero  tanto  de  lo  scuorno  de  lo  sbregognato  compare, 
che  non  s'adonavano  ca  lo  sole,  ped  essere  stato  troppo 
prodeco  de  luce,  era  falluto  lo  banco  ;  e,  puosto  le  chiave 
d'oro  sotto  la  porta ^,  s'era  misso  nsarvo.  Ma  Cola  Am- 
bruoso  e  Marchionno,  scinte  co  cosciale  de  cammuscio  e 
casacche  de  saja  frappata,  a  fare  lo  secunno  motivo,  sce- 
tarono  l'aurecchie  tutte  a  sentire  lo  spetaffio  de  st'egro- 
groga,  che  secota. 


LA   TENTAI 

EGEOCA 

Cola  Ambruoso  e  Marchionno. 

Col.   Fra  tutte  quante  l'arte,  0  Marchionno, 
A  la  tenta  se  deve,  comme  disse  ^, 
Non  saccio  si  fu  guattaro,  0  si  cuoco. 
Dare  lo  primmo  vanto,  e  primmo  luoco  ! 

Mar.  Io  nego  consequenza*,  0  Cola  Ambruoso, 
Perchè  chessa  arte  lorda, 
Ca  vai  co  le  manzolle 
Sempre  de  galla,  vi  tri  vuole  e  alumma^, 
Comm'a  petena  justo  de  cargiumma". 


i  V.  n.  72,  p.  42.      2  Tenta  (con  Ve  chiusa),  l'arte  del  tintore. 
3  (EO)  desse.      ^  Negò  conseguentiam,  come  si  diceva  nelle  scuole. 

5  II  Garzoni,  discorrendo  dei  tintori  e  del  modo  di  far  nero  un 
panno:  «  la  prima  cosa  che  fanno  alle  pannine  le  ingallano  con  gal- 
late; di  poi  le  fanno  bollire  con  vitrtolo,  ecc.  *  (0.  e,  p.  525). 

6  Come  la  pelle  di  un  moro. 


270  LO  CUKTO  DE  LI  CUNTI 

Col.    Anze,  è  la  chiù  polita 

Fra  tutte  l'esercizie; 

Cosa  de  n'ommo  appunto, 

Che  vo  parere  nietto,  ed  è  sedunto''. 
Mar.  Me  darrai  a  rentennero, 

Che  sia  de  sprofformiero, 

0  de  ragammatore*? 

Va,  tornatenne,  va,  ch'hai  fatto  arrore! 
Col.    Io  te  voglio  provare, 

E  mantenere  drinto  de  no  furno^, 

Ca  l'arte  de  tentore 

È  cosa  de  segnore. 

Chesta,  a  lo  juorno  d'oje,  s'usa  fra  tutte, 

Co  chesta  l'ommo  campa. 

Ed  è  tenuto  ncunto; 

Aggia  mbroglie  a  lo  cuorpo, 

Aggia  vizie  a  lo  pietto, 

Ca  co  la  tenta  copre  ogne  defletto. 
Mar.  Comme  ne' entra  lo  vizio  de  la  vita, 

Co  la  tenta  de  lana  e  capisciola*"? 
Col.    Comme  se  vede  ca  non  sai  de  cola'M 

Tu  te  cride  ca  parlo 

De  tegnere  cauzette  o  pezze  vecchie! 

La  tenta,  che  dico  io, 

E  d'autra  cosa,  ch'inneco  o  verzino: 

Tenta,  che  fa  parere  a  le  perzone 

Lo  colore  moriello*-  ncarnascione  *^. 
Mar.  Io  sto  drinto  a  no  sacco. 


''  Unto,      8  Profumiere  e  ricarantore.      8  Anche  dentro  un  forno. 

^^  Seta  di  seconda  qualità;  e,  propr.,  «  è  il  capo  del  lavoro  dol  verme 
della  seta  per  fabbricarsi  la  stanza  più  dura  e  soda  »  (Parlenio  To- 
sco, o.  e,  p.  234).       ^'  Che  non  s.ii  di  niente. 

**  (EO)  mortella;  e  vorrebbe  dire  allora:  colore  verdognolo. 

*'  Incarnato. 


JORNATA   II.   LA   TENTA  27 1 

Non  te  ntenno  spagliosca, 
Ca  sto  parlare  tujo  mpapocchia  e  nfosca! 
Col.    Vi,  ca,  si  tu  me  ntienne, 
Te  mezzarai  tentore, 
0  pure  de  canoscere  chi  tegne; 
Ed  averrai  gran  gusto 
Mparare  st'arte  nova,  arte,  clie  corre 
Fra  le  gente  chiù  scautra; 
Arte,  che  piglia  a  patto 
No  scarafone,  che  te  para  gatto  ! 
Siente,  sarà  na  forca  de  tre  cotte  ^*, 
Che  scopa  quanto  matte,  e  quanto  allumma'^, 
Che  n'auza  quanto  vede, 
Ch'azzimma,  quanto  trova. 
Ora  chi  sa  sta  tenta, 
No  le*°  dà  nomme  nfamme 
De  latro  marivuolo. 
De  furbo  marranchino  ^'', 
Ma  dirrà,  ca  se  serve 
De  lo  jodizio,  e  caccia  li  donare 
Da  sotta  terra,  abbusca,  e  saria  buono 
A  campare  fi  drinto  de  no  vosco; 
Che  s' approveccia,  ed  è  no  buono  fante, 
Saraco,  tartarone  e  percacciuolo, 
Corzaro  de  copella. 

Che  non  perde  la  coppola  a  la  folla  ^^; 
E,  nsomma,  co  ssa  tenta 
Cossi  bella  e  galante. 
Piglia  nomme  d'accuorto  no  forfante! 


i^  (EO)  corte.        ^^  Scopa,  ruba  ciò,  che  incontra  e  che  adocchia. 
16  (EO)  vole. 

1^  Mariuolo,  ladroncello:  adopera  anche  il  Bruno  {Candel.^  V,  5). 
is  Cioè  a  dire:  è  uomo  attento,   e  accorto,  che  in  ima  folla  non 
perderebbe  il  cappello. 


272  LO   CUNTO   DE   LI   CTINTI 

Mar.  Aglie*^,  tu  me  vai  nchienno  pe  le  mano! 
Chesta  è  n'arte  de  spanto, 
Ma  n'arte,  che  non  rasce  a  poverielle, 
Si  non  a  cierte  masaute-'', 
A  li  quale  è  conciesso  de  chiammare 
Venenno  da  lontano  asciutte  asciutte, 
Agie  li  grancie-*  suoi,  li  furto  frutte! 
Col.    Nce  sarà  no  potrone,  vota-facce, 
No  jodio-',  caca-vrache,  na  gallina, 
No  poveriello  d'armo, 
Core  de  pollecino, 
Sorriesseto,  atterruto, 
Agghiajato,  scliiantuso, 
Che  tremma  comm'a  junco, 
Sempre  fila  sottile, 
Sempre  ha  la  vermenara, 
Lo  filatorio  ncuorpo, 
E  le  face  paura  l'ombra  soja; 
S'uno  lo  mira  stuorto, 
Fa  na  quatra  de  vierme; 
Si  n' antro  l' ammenaccia,  tu  lo  vide 
Comm'  a  quaglia  pelata  ; 
Deventa  muorto  e  spalleto. 
Le  manca  la  parola, 
E  subeto  le  veneno  li  curze; 
Si  chillo  caccia  mano,  assarpa,  e  sbigna! 
Ma  co  sta  tenta  nobele 
Lo  teneno  le  gente 
Pe  perzona  prodente, 


*'  Capperi! 

*o  Sec.  il  Galiani  (VX):  corruzione  dallo  spagn.  mas  alto:  e,  quindi, 
persona  distinta,  principale;  e,  ironie,  furbo,  birbone.     21  Ruberie. 

2*  Ebreo  pauroso;  come  per  le  persecuzioni  secolari  e  l'odio  ge- 
nerale erano  divenuti  gli  ebrei.  Nelle  MS.,  I:  «  Iodio  quaglia  pelata, 
Core  de  polecioo  ». 


JOENATA  II.  LA  TENTA  273 

Posata,  ommo  da  bene, 

Che  vace  co  lo  chiummo  e  lo  compasso, 

Né  piglia  strunze  mbuolo^^, 

Ne  a  donare  contante 

Compra  le  costiune; 

Non  eje  esca  de  corte, 

Se  fa  lo  fatto  snjo, 

E  quieto  e  cagliato'^; 

De  sta  manera,  0  figlio, 

E  tenuto  pe  vorpe  no  coniglio  ! 
Mar.  Me  pare,  clie  la  ntenne 

Chi  se  sarva  la  pelle, 

Ca  na  vota  lejette 

A  na  storia,  non  saccio 

Si  fatta  a  mano,  0  a  stampa: 

Ch'un  bel  fuir  tutta  la  vita  scampa  ^^! 
Col.    Ma,  pò,  dall'autra  parte. 

Vide  n'ommo  de  punto. 

Un  ommo  arresecato,  ommo  de  core, 

Che  non  cede  mollica  a  Rodomonte, 

Che  sta  da  toccia  a  toccia'^  co  n'  Orlanno, 

Che  sta  da  tuzzo  a  tuzzo  co  n'Attorre, 

Che  non  se  fa  passare 

La  mosca  pe  lo  naso,  ed  ha  li  fatte 

Nante,  che  le  parole. 

Che  fa  stare  a  stichetto,  e  fa  che  metta 

Dui  piede  into  na  scarpa 

Ogne  taglia  cantone  e  capo  parte; 


23  «  Giocoso  nostro  detto  popolore;  e  vale:  alto  là'.  »  {VN.)  E  si 
dice  da  chi  entra  in  naezzo  per  dividere  una  contesa.  Gfr.  Cortese, 
Micco  Pass.,  r,  31.      24  silenzioso.  —  Spagn.:  cattar. 

25  Parodia  del  verso:  «  Un  bel  morir  tutta  la  vita  onora  »  (Pe- 
trarca, P.  I,  canz.  XVI,  str.  5,  v.  13). 

26  A  petto,  a  paro  di  un  Orlando. 


274  LO   CUNTO   DE  LI  CTJNTI 

Votta  buono  le  mescole, 
Ave  armo  de  leone, 
S'accide  co  la  morte  ^'', 
Né  dà  maje  passo  arreto,  e  sempre  meste 
Comm'a  no  caperrone. 
Ma,  s'è  misso  a  sta  tenta, 
È  tenuto  da  tutte 
Pe  no  scapizzacuollo  mpertenente, 
Temerario,  nsolente, 
No  toccuso^*,  no  pazzo,  vetrejuolo. 
No  tentillo,  no  fuoco  scasa-case. 
Che  te  mette  lo  pede  ad  ogne  preta, 
Che  te  cerca  l'arrisse^''  co  lo  spruoccolo, 
N'ommo  senza  ragione, 
Una  perzona  rotta  e  senza  vriglia, 
Che  non  è  juomo,  che  non  fa  scarriglia  ^**  ; 
Che  fa  stare  nquiete  li  vecine. 
Che  provoca  le  prete  de  la  via; 
Nsomma,  è  stimato  n'ommo,  che  vedimmo 
Degno  de  rimme,  degno  de  no  rimmo^M 
Mar.  Zitto,  ch'hanno  ragione. 

Perchè  perzona  sapia  ed  aggiustata 
E  chi  se  fa  stimare  senza  spata. 
Col.    Ecco  ne'  è  no  spizeca, 
Uno  muorto  de  famme. 
Uno  stritto  ncentura. 
Una  vorza  picosa^^,  una  tenaglia 
De  caudararo,  cacasicco  e  stiteco, 
Uno  roseca-chiuove, 


"  Lotta,  combatte  ad  ultimo  sangue.       28  Bizzarro,  impertinente. 
*9  Litigi.      30  Braveria. 

31  Giuoco  di  parola:  rlmme,  rime,  e  il  remo  dei  condannati  alle 
galere.      3*  Propr.:  catarrosa:  borsa  stretta. 


JORNATA  II.   LA  TENTA  275 

No  cavallo  senese  ^^, 
No  cetrangolo  asciutto, 
No  suvaro  suino,  uosso  de  pruno, 
Na  formica  de  suorvo,  no  speluorcio, 
Mamma  de  la  meseria,  poveriello. 
Che,  comme  a  no  cavallo  caucetaro^*, 
Nante  darrà  no  paro  de  panello. 
Che  no  pilo  de  coda; 
No  grimmo  ed  aggrancato, 
Che  corre  ciento  miglia, 
Né  le  scappa  no  picciolo  ^^, 
Che  darrà  ciento  muorze  a  no  fasulo. 
Che  farrà  ciento  nodeca 
A  na  meza  decinco^", 
E  che  non  caca  mai  pe  no  magnare  ! 
Ma  se  remedia  subeto  a  sta  tenta, 
E  se  dice,  eh' è  n'ommo  de  sparagno. 
Che  non  jetta  0  sbaraglia  chello,  ch'ave. 
Che  non  face  la  robba 
Ire  pe  l'acqua  abascio, 
Ch'  è  buon'ommo  de  casa, 
E  ire  non  ne  fa  mollica  nterra; 
All'utemo,  è  chiammato 
(Ma  da  certe  canaglia) 
Ommo,  eh' è  no  compasso,  ed  è  tenaglia! 
Mar.  0  che  sporchia  sta  razza 

C  hanno  lo  core  drinto  a  li  tornise, 
Fa  diete  non  dette  da  lo  miedeco, 
Porta  ciento  pezzolle, 


33  Cosi,  per  indicare  un  taccagno. 

31  «  N'aseno  caucetaro....  Glie  le  dà  pe  resposta  doje  panelle  ».  Cort., 
Micco  Pass.,  I,  25.      35  V,  n.  102,  p.  16,  e  n.  15,  p.  202. 

36  La  deduco,  cinquina,  due  grani  e  mezzo:  ineza  decinco,  un 
grano  e  quarto. 


276  LO  CUKTO  DE  TI  CTJNTI 

Sempre  lo  vide  affritto 
Se  tratta  da  Guidone^''  e  da  Vajasso^*, 
E  more  sicco  miezo  de  lo  grasso! 
Col.   Ma  lo  revierzo,  pò,  de  la  medaglia 
È  di  chi  spanne  e  spenna; 
Darria  funno  a  na  nave, 
Darria  masto  a  na  zecca, 
Sacco  scosuto,  jetta  quanto  tene, 
Che  non  fa  cunte  de  la  robba,  ch'ave. 
Le  vide  ciento  attuomo 
Scorcogliune^^,  alivente. 
Senza  nulla  vertute, 
Ed  isso  a  bottafascio  le  refonne! 
Sfragne'"'  senza  jodizio. 
Vetta  senza  ragione, 
Dace  a  cane  ed  a  puorce, 


^  Guidoni  si  dicevano  in  quel  tempo  i  pezzenti  scrocconi.  Il  Gar- 
zoni ha  un  discorso:  «  Dei  Guidoni  0  furfanti  o  calchi  »:  «  Si  tro- 
vano alcuni,  che  non  tanto  da  inopia  o  da  miseria  tratti,  quanto  da 
una  pigritia  mera,  abbandonate  Tarti  e  le  scienze,  si  danno  a  una 
vita  talmente  oziosa  e  negligente  che  la  maggior  quiete  o  felicità 
non  istimano  che  con  una  pazza  furfanteria  mendicar  del  continuo 
il  cibo  et  il  vitto,  reputando  questa  vita  per  la  più  dolce  e  più  beata 
al  mondo  ch'esser  possa.  E  lo  sbatter  dei  denti  per  il  freddo,  il  gri- 
dar per  le  contrade  come  cani  arrabbiati,  il  tremar  dal  gielo,  il  mo- 
rir per  l'eccessivo  caldo,  il  camminar  con  le  ferie  per  il  viaggio,  l'an- 
dar con  le  ginocchia  per  terra,  il  portar  le  natiche  per  il  fango,  lo 
star  sepolto  dentro  a  una  barella,  è  reputato  da  loro  più  tolerabile 
che  esercitarsi  in  un'arte  o  fare  un  mestiere  come  i  galani' h'wjmini 
fanno:  i  professori  della  qual  vita  son  dimandati  dal  volgo  comune- 
mente Guidoni,  Furfantoni,  e  Calchi  ».  E  segue  una  serie  di  aneddoti 
e  di  curiosi  particolari  di  costumi  (0.  e,  pp.  580-84).  Cfr,  anche  Jl  Va- 
gabondo overo  la  sferza  dei  Diantl  e  Vagabondi.  Opera  nuova  ecc. 
data  in  luce  per  avvertimento  dei  semplici  da  RaffaeUe  Frlanoro  (In 
Ven.  e  in  Bassano,  s.  a.). 

38  Vajasso,  maschile  di  vajassa,  serva,  anzi  servaccia. 

3"  Scrocconi.      *^  Frange:  consuma. 


JORNATA  II.  LA  TENTA  277 

E  se  ne  vace  nfummo. 

Ma  co  sta  tenta  acquista  openione  ^ 

De  n'armo  liberale, 

De  cortese,  magnanemo  e  jentile,  • 

Che  te  darria  le  visole, 

Ammico  de  l'ammice, 

Puzza  de  re,  mai  nega  a  chi  le  cerca. 

E,  co  sta  bella  rasa, 

Sfratta  le  casce,  e  sfonnola  la  casa! 
Mar.  Ne  mente  pe  la  canna 

Chi  chiamma  liberale  uno  de  chisse! 

Liberale  è  chi  dace  a  tiempo  e  luoco, 

Né  jetta  pataccune^^ 

A  gente  senza  nere  ed  a  boffune. 

Ma  refonne  li  scute, 

A  povero  norato,  e  e' ha  vertute. 
Col.    Vide  no  magna-magna 

Pignato  chino,  piecoro  lanuto, 

Martino,  cervenara,  sauta  e  tozza. 

Una  casa  a  doi  porte,  cauzature, 

Che  vene  da  Gomito, 

Ed  ha  casa  a  Porcella; 

Un  accorda  messere,  uno  tauriello, 

Ch'  è  quatro  oregenale 

De  la  nfamia,  e  retratto  de  la  copia *^,- 


*^  V.  n.  14.  p.  107. 

■*2  Tutte  queste  frasi  per  dir:  cornuto.  Intorno  a  varie  d'esse,  cfr. 
Partenio  Tosco  (0.  e,  pp.  258-9).  Magna  magna:  «  perchè  vive  di  reali, 
e  però  disse  graziosamente  uno  spagnuolo:  los  cuernos  son  corno 
los  dientes,  que  al  salir  dan  dolor,  y  despues  sirven  para  corner  », 
—  Pignato  chino:  «  perchè  non  ha  bisogno  di  portare  il  vitto  in 
casa,  trovandolo  nella  pentola  a  spese  del  proprio  onore  ».  Casa  a 
doi  porte:  v.  n.  64,  p.  150.  Cauzature:  v.  n.  35,  p.  53.  Martino,  cer- 
venara, sauta  e  tozza:  caprone,  che  salta  e  cozza:  cornuto:  cfr.  n.  8, 
p.  250.  —  Cornilo,  Gorneto  —  Forcella,  v.  n.  22,  p.  91.  Il  nome  dà 
l'equivoco. 


78  LO   CTJNTO  DE  LI   CUNTI 

E,  tinto  isso  perzine, 

Lo  cliiammano  quieto,  ommo  da  bene, 

Galant'ommo,  che  fa  lo  fatto  sujo, 

E  se  la  fa  co  tutte, 

E  co  tutte  cortese. 

Tene  la  casa  aperta  pe  l'ammice, 

Non  va  co  zeremonie,  né  co  punte, 

Buono  com'a  lo  pane, 

Doce  com'a  lo  mele, 

Ne  fai  chello,  che  vuoje, 

E,  ntanto,  senza  fare 

Niente  la  facce  rossa, 

Ea  mercato  de  carne,  e  sarva  l'ossa. 
Mar.  Chisse  oje  campano  a  grassa. 

Uno  de  chisse  schitto 

Vede,  se  va  de  notte  a  la  taverna, 

Pocca  pe  l'ossa  luce  la  lanterna''^. 
Col.   N'ommo  sta  reterato, 

Né  pratteca  co  guitte  e  co  vernile, 

Euje  le  scommerziune. 

Non  vo  doglie  de  capo. 

Non  volo  dare  cunto 

A  lo  tierzo,  a  lo  quarto. 

Vive  sempre  quieto. 

Patrone  de  se  stisso. 

Non  ave  chi  lo  sceta,  quanno  dorme, 

Né  le  conta  li  muorze,  quanno  magna; 

Puro,  ne' è  chi  lo  togne, 

E  lo  chiamma  foriesteco  e  sarvaggio, 

Na  merda  de  sprovioro". 


■*3  (EO)  pò  ca,  e  le  altre  poca:  che  non  dA  nessun  senso.  Ilo  corretto 
pocca  (poiché,  perchè),  e  vorrebbe  dire:  che  non  ha  bisogno  di  lume 
nell'andnr  di  notte  alla  taverna,  tanto  è  grasso  e  gli  luco  il  pelo. 

**  Gli  escrementi  dello  sparviero,  che  sono  inodori;  e,  metaf.,  di 
un  uomo  che  non  è  nò  buono,  né  cattivo. 


JORNATA  II.   LA  TENTA  279 

Che  n'adora,  ne  fete, 

No  spurceto,  no  nsipeto, 

Rusteco,  cotecone, 

N'ommo  senza  sapore,  e  senz'ammore, 

Sciaurato,  bestiale, 

Catarchio,  maccarone  senza  sale! 
Mar.  0  felice  chi  stace  a  no  desierto, 

Ca  non  vede,  né  abbotta; 

Dica  chi  vele,  io  trovo 

No  mutto  assai  provato  : 

Meglio  sulo,  che  male  accompagnato. 
Col.    Ma,  pò,  dall'autra  banna. 

Trova  no  commerzevole. 

Che  se  fa  carne  ed  ogna  co  l'ammice  : 

No  buon  compagno  aifabele, 

Che  tratta  a  la  carlona; 

E,  co  sta  tenta,  chi  lo  crederria?. 

Trova  chi  lo  retaglia,  e  forfecheja"*^, 

Cose  e  scose,  e  lavora  a  pilo  mierzo, 

E  le  face  la  causa  da  dereto; 

Chiammannolo  sfrontato,  miette  nante, 

Pideto  mbraca'*^,  fronte  a  pontarulo, 

Strenga  rotta  ndozzana^'^, 

Sfacciato,  petrosino  d'ogne  sauza, 

Che  vo  mettere  sale  a  quanto  vede, 

Che  vo  dare  de  naso  a  quanto  sente, 

Ntrammettiero,  arrogante,  mpacciariello; 

Auzate  chesso,  e  spienne,  0  poveriello'*^! 
Mar.  Noe  vole  chesto  e  peo; 


*>  Taglia  colle  forbici. 

^  Impertinente,  come  una  correggia,   che  vuole  uscire  inopportu- 
namente. 
•*'''  Cinghia  rotta,  messa  insieme  colle  altre  buone  nella  dozzina. 
^  Prendi  questo,  e  spendi:  piglia  questi  complimenti! 


28o  LO  CTJNTO  DE  LI  CUNTI 

Lo  Spagniuolo  la  ntese, 

Che  disse,  ha  no  gran  piazzo: 

La  tnuccia  cTiella  es  causa  de  despriesso*^! 

Col.    Si  n'ommo  pe  ventura 

Parla  sperlito,  chiacchiara  e  trascorre, 

E  fa  pompa  de  nciegno  e  de  loquela, 

E  dovonca  lo  tuocche  o  lo  revuote 

Lo  truove  spierto;  e  te  responne  a  siesto; 

Sta  tenta  l'arreduce  de  manera, 

Che  n'auza  no  cappiello 

De  no  parabolano  cannarono  ^°, 

De  na  canna  de  chiaveca, 

D'uno,  che  darria  masto  a  le  cecale^^, 

C'ha  chiù  parole,  che  non  ha  na  pica, 

Che  te  ntrona  lo  capo,  e  te  scervelleca, 

Co  tante  paparacchie  e  filastoccole. 

Tanta  cunte  dell'uerco^-, 

E  co  tanta  taluorne  e  visse-visse, 

Che,  quanno  mette  chella  lengua  nvota, 

Co  na  vocca  de  culo  de  gallina 

Te  nfetta,  te  stordisce,  e  t'ammoina! 

Mar.  A  sta  età  de  sommarre, 

Ea  quanto  vuoje,  ca  sempre  tu  le  sgarro! 

Cui.   Ma,  s'un  antro  te  stace  zitto  e  mutto. 
Caglia,  appila  ed  ammafara, 
E  se  stipa  la  vocca  pe  le  fico^^, 


<9  In  ispagn.:  «  La  mucha  cliella  es  causa  de  desprecio  ».  Chella 
s'adopera  in  nap.  come  cìielleta,  per  indicare,  vagamente,  una  cosa, 
per  la  quale  non  sovviene  la  parola  precisa.  Gfr.  Cortese  {Micco  Pass,^ 
I,  5;  ir,  20;  Vlir,  27,  ecc.).  Qui:  virtù. 

^'^  Piglia  il  cappello,  la  laurea. 

5'  Che  la  vincerebbe  sulle  cicale. 

52  Cunte  dell'uerco,  fiabe,  fandonie. 

53  Cosi  anche  il  Del  Tufo,  nel  parlar  goffo,  ecc.  (ms.  e,  f.  130). 


JORNATA    II.   LA   TENTA  28 1 

Né  lo  siente  na  vota  pipitare, 

Sta  tenta  te  lo  muta  de  colore, 

Ca  n'è  cliiammato  Antuono  babione  ^*, 

Muscio^',  piezzo  d'ancbione,  mammalucco, 

Comm'a  cippo  de  nfierno, 

Sempre  friddo  e  jelato, 
.  Gomme  la  zita,  cbe  male  nce  venne  •'''^; 

Tanto  cbe  pe  sto  gorfo 

Trammontana  io  non  veo; 

Si  parie  tristo,  e  si  non  parie,  è  peo! 
Mar,  Veramente,  oje  lo  juorno 

Non  sai  comme  trattare. 

Non  sai  comme  pescare. 

Non  c'è  strata  vattuta  a  cbi  cammina; 

Viato  cbi  a  sto  munno  la  nevina '''''! 
Col.    Ma  cbi  porria  mai  dire  fi  a  lo  rummo^^. 

L'affette  de  sta  tenta? 

Ca  nce  vorria  mill'  arme  senza  fallo. 

Né  vastarria  na  lengua  de  metallo! 

Facciase,  cbe  se  voglia. 

Tratta  comme  te  piace,  ad  ogne  muodo. 

Se  le  cagna  colore,  ed  é  cbiammato 

Lo  boffone  faceto, 

Cbe  dà  trattenemiento  ; 

Lo  spione,  cbe  sape  lo  costrutte 

D'Agebilebo  munno  ^^; 

Lo  forfante,  ncegnuso  e  saracene; 

Lo  pigro,  ommo  fiemmateco  ; 


5i  V.  n.  83,  p.  28.      S5  Tardo.       56  w\q^  quale  venne  un  malanno. 

57  Indovina.      ^8  y.  n.  i,  p.  232. 

59  II  ie.,  che  è  il  solo  che  registri  questa  frase,  dice:  «  Par  che 
sia  nome  di  qualche  celebre  spia  ».  Ma  mi  pare  che  il  giro  della 
frase  voglia  invece  che  si  accenni  a  qualche  cosa  di  onesto  e  ono- 
revole. 

}6 


282  LO    CUNTO  DE  LT   CTJNTI 

Lo  cannaruto,  ommo  de  bona  vita; 
L'adulatore,  bravo  cortesciano, 
Che  canosce  l'omore 
De  lo  patrone,  e  che  le  vace  a  biorzo; 
La  pottana,  cortese  e  de  buon  tratto; 
Lo  gnorante,  eh' è  sempreco  e  da  bene'^'*. 
(Jossi,  de  mano  mano. 
Va  descorrenno,  e  sutfecit! 
Perzò  n'è  maraveglia  s'a  la  corte  *'^ 
Lo  tristo  pampaneja 
Lo  buono  so  gualeja, 
Perchè  so  li  signure 
Gabbate  da  sta  tenta  a  li  colure, 
E  fanno  cagno  e  scagno, 
Gomme  sempre  s'è  visto, 
Lassanno  l'ommo  buono  pò  lo  tristo! 
Mar.  Negrecato  chi  serve! 

0  che  meglio  la  mamma 
L'avesse  fatto  muorto: 
Corre  borrasca,  e  mai  no  spera  puorto! 
C(A.    La  corte  è  fatta  sulo 
Pe  gente  viziosa. 

Che  ne  tene  lo  buono  sempre  arrasso, 
E  lo  leva  de  pede,  e  botta  e  sbauza. 
Ma,  lassammo  sti  cunte, 
Ca  mentre  me  se  raspa*^'  a  dove  prode. 
No  scomparria"^  pò  craje,  né  pe  pescrigno' 
Perzò,  facimmo  punto,  e  nsoperammo, 
Mo  che  lo  solo  joqua  a  covalera**^, 
Che  farrimmo  lo  riosto  n'autra  sera! 


60  (KO)  da  abene.      61  (eq)  corra.      C2  Grolla.      63  Finirei. 
6<  Domani,  né  doman  l'ai  Irò.      65  y.  n.  8,  p.  172. 


.TORNATA   II.   LA   TENTA  283 

Chiuse,  tutte  a  no  stisso  tiempo,  la  vocca  Colambruo- 
so,  e  lo  juorno  lo  sole;  pe  la  quale  cosa,  appontato  de 
tornare  la  matina  appriesso  co  nova  monizione  de  cunte, 
se  ne  jettero  a  le  case  loro,  sazie  de  parole  e  carreche 
d' appetito. 


Scompetura  de  la  Jornata  seconna. 


TAVOLA   DI    EISCONTRI 

DEI  CUNTI  DELLE  Gg.   I.   E  11.^ 


//     INTROD.  —  Il   principio  è  comune   a  moltissime   fiabe  popolari 
I  i  (figlie  di  re,  o  fate,  che  non  ridono,  vedine  anche  in  G.  I,  3,  io.  III,  5, 

!'I  ecc.).  Per  l'avventura  della  vecchierella,  cfr.  spec.  Pitrè,  Fiabe 
'  I  sic,  XIII,  LXVT,  e  Imbriani,  KovelL,  XXIV,  Le  tre  rtielarance,  ecc., 
con  relativi  riscontri.  Anche  comunissimo  il  particolare  dei  tre  og- 
getti dati  dalle  fate  per  attirare  l'attenzione  del  perduto  amante  (cfr. 
y,  3;  Imbriani,  Novell.,  XII,  Il  Re  Porco,  e  la  fiaba  milanese,  El  Cor- 
latin,  pp.  176  sgg.,  ecc.  ecc.).  Ma,  veramente,  i  tre  oggetti  nelle  fiabe 
popol.  (come  in  V,  3),  servono  tutti  e  tre,  progressivamente,  a  rag- 
giunger lo  scopo  ;  nella  narrazione  del  Basile,  restano  inutili  e  senza 
scopo,  e  solo  il  terzo  serve,  sforzatamente,  per  dar  occasione  alla 
narrazione  dei  Cunti.  Per  l'intervento  della  schiava,  cfr.  anche  V,  9. 

I,  I.  —  Cfr.  PiTRè,  Kov.  tose,  G.  I,  n.  XXIX,  La  fava,  e  le  altre 
versioni,  che  indica,  toscane,  piemontesi,  siciliane,  veneziane,  tiro- 
lesi. Riscontri  più  lontani  in  Imbriani,  KovelL,  n.  XXVII,  Il  figliuolo 


i  Con  Pitrè,  Fiabe  sic.,  s'intendono  i  4  voli.  (rv-VII)  della  Bibl. 
delle  trad.pop.  sic,  int.  Fiabe  e  novelle  e  racconti  pop.  sic;  con  Pi- 
trè, Fiabe  sic.  agg.,  il  v.  XVUI  della  stessa  Bibl.,  eh' è  int.:  Fiabe  e 
leggende  pop.  sicil.  ;  con  Pitrè,  Kov,  tose,  le  Novelle  popol.  tose  (Fir., 
Barbera,  1885);  con  Imrriani,  Navell.  la  Novellaja  Fiorentina  (2."  ed., 
Livorno,  1877)  ;  con  Imbriani,  XII  Conti,  i  XII  Conti  Pomiglianesi 
(Nap.,  Detken,  1876);  con  De  Gubernatis,  Fior.,  il  Florilegio  delle 
novelline  popol.  (Mil.,  Hoepli,  1883).  Con  Grimm,  si  riferiscono  i  ri- 
scontri con  le  fiabe  tedesche,  già  notati  dai  Grimm,  nei  Kinder  und 
Havismdrclien  (Gottingen,  1856,  voi.  III).  Altre  citazioni,  via  via. 


286  TAVOLA   DI  RISCONTRI 

del  pecoraio;  e  XH  Conti,  III,  'E  corna.  Cfr.  anche  De  GobernAtis, 
Flor.^  vn,  La  Novellina  di  Piccolino.  Cfr.  Grimm,  n.  36,  Tischchen 
deck  dich. 

I,  2,  —  È  la  Mela  (Pitrè,  Nov.  tose,  VI)  e  la  Rosamarina  (Pitrè, 
Fiabe  sic,  XXXVII):  nella  prima  delle  quali  la  parte  nemica  è  rap- 
presentata dalle  som  del  Re,  e  nella  seconda  dalla  matrigna:  le 
femìnene  de  mala  vita  della  versione  del  Basile  non  mi  sembrano 
un  particolare  d'indole  popolare.  Cfr,  Grimm,  n,  76,  Die  Nelhe. 

I,  3.  —  Cfr.  Str.vparola,  Piacevoli  notti,  III,  i;  e  i  riscontri  che 
raccoglie  il  RuA  (in  Giorn.  Stor.  leti,  ital.,  XVI,  pp.  229-30).  Ai  quali 
si  aggiungano  quelli  del  Pitrè,  .Voi',  tose,  XXX,  La  favola  del  Fai- 
chetto;  e  Fiabe  sic,  CLXXXVIir,  Lu  loccu  di  li  passuli  e  ftcìf.  Per  l'e- 
laborazione  letteraria   del  Wieland,  v.   Inirod,  pp.  CXLVIX. 

T,  4.  —  Cfr.  H.  MORLiNi,  Xovellae,  fabulae,  comoedia  (Par.,  1855, 
n.  XLIX);  e  anche  il  BeìHoldino  di  Giulio  Cesare  Croce  (v.  O.  Guerrini, 
La  vita  e  le  opere  di  G.  C.  C,  Boi.,  1879,  p.  201.  Delle  versioni  vi- 
venti, Pitrè,  Fiabe  sic.,  GXG,  Giufà;  e  Nov.  tose,  XXXII,  Giucca.  Una 
versione  napoletana  nel  GlìB.,  I,  2,  Ucunto  'e  Peruoszolo.  Cfr.  Grimm, 
n.  59,  F^Ueder  und  Catherliesehen. 

I,  5.  —  Cfr.  per  la  prima  parte  Lu  latru,  in  Pitrè,  Fiabe  sic.  agg., 
n.  II:  per  la  seconda,  Fiabe  sic,  XXI,  e  Nov.  tose,  X,  Il  Negromante; 
e  i  molti  riscontri  indicati  in  questi  tre  luoghi.  V.  .anche  V,  7. 
Cfr.  Grimm,  n.  71,  Sechsc  durch  die  Wclt;  Framm.  II,  Die  Laus. 

I,  6.  —  tó  la  notissima  fiaba  delia  Cenerentola,  per  la  quale  v.  Im- 
URI  ani,  Novell.,  XI,  XXI;  Pitrè,  Fiabe  sic,  XLII,  sgg.,  LVI,  e  De  Gu- 
nERNATis,  Fior.,  I,  La  Novellina  della  Cenerentola.  Pel  particolare 
dell' arremoramento  della  nave,  cfr.  'A  fata  Orlanna,  conto  napol., 
in  Imrriani,  Novell.,  pp.  333  Bgg.  V.  anche  G.  Il,  8.  I  versi,  che  dice 
Zezolla,  si  ritrovano  nella  versione  raccolta  dalla  Pioorini  Beri,  nel 
contado  di  Camerino  (in  De  Gurernatis,  Fior.,  p.  36).  Cfr.  Grimm, 
n.  21,  Ascìienputtel. 


TAVOLA   DI   RISCONTRI  287 

I,  7.  —  Il  principio,  cioè  la  motivazione  della  partenza  di  Gienzo, 
sembra  un'aggiunta  del  Basile.  Per  la  lolla  col  dragone  dalle  sette 
teste,  lo  sposalizio  colla  principessa,  e  l'inganno  del  villano,  cfr.  Stra- 
PAROLA,  Piac.  notti,  X,  3  (RuA,  l.  e,  pp.  269-70);  e  Imbriani,  Novell., 
XXVIII,  Il  mago  dalle  sette  teste.  La  seconda  parte  di  cxuesta  versione 
fiorentina  è  alquanto  diversa  :  il  giovane  (  Ciemo\  scambio  di  vedere, 
appena  levato  di  letto,  la  bella  incantatrice  alla  finestra,  vede  una 
selva,  nella  quale  va  a  caccia,  ed  è  trasmutato  in  una  statua  da  una 
vecchierella  maga.  Il  particolare  dei  capelli  iUapllle  mici,  legate  a 
cJiisso!)  ricomparisce  in  una  versione  milanese,  presso  lo  stesso  Im- 
briani (?.  e,  pp.  387-9).  La  chiusa  si  riscontra  esattamente.  V.  anche 
PiTRÈ,  Nov.  tose.,  I,  II,  III;  e  cfr.  G.  I,  9.  Cfr.  Grimm,  n.  60,  Die 
zwei  Bruder, 

I,  8.  —  Una  variante  di  questa  è  in  Gomparetti,  Novelline  ìwpo- 
lari  italiane,  Torino,  Loescher,  1875;  n.  Ili,  La  Barbuta.  In  questa 
del  N.  è  più  spiccata  l'intenzione  morale.  Cfr.  Grimm,  n.  3,  Marien- 
kind. 

I,  9.  —  Un  perfetto  riscontro  (anche  nel  nome)  è  Cannelora,  in 
Gomparetti,  0.  e,  n.  XLVI,  fiaba  raccolta  in  Basilicata  da  R.  Bonari. 
Solo,  dopo  la  partenza  di  Canneloro  da  casa,  sono  intercalate  due 
avventure  che  ricordano  invece  il  T.  VII,  G.  I:  la  cerva  è  sostituita 
da  una  serpe  dalle  corna  d'oro,  e  la  principessa,  sposa  di  Canneloro, 
è  invece  la  fata  da  lui  liberata  (cfr.  I,  7).  Nel  Mago  dalle  sette  teste 
(Imbriani,  Novell.,  XXVIII),  tre  fratelli  simili  nascono  da  una  donna, 
una  cavalla  e  una  cagna,  che  avevano  mangiato  lo  stesso  pesce  fa- 
tato :  la  'mortella  è  surrogata  da  ima  boccetta  piena  d'acqua  chia- 
ra; in  luogo  della  cerva  fatata,  eh' è  un  orco,  c'è  nella  selva  una 
vecchierella  maga.  Per  l'elaborazione  letteraria  del  Lippi,  v.  Introd, 
Cfr.  Grimm,  n.  60,  Die  zioei  Bruder. 

I,  IO.  —  Gfr.  PiTRÈ,  Fiabe  sic.  agg.,  VI,  Donna  Peppa  e  Donna 
Tura;  dove  si  citano  riscontri  siciliani,  veneziani,  abbruzzesi  e  ti- 
rolesi. «  Uh  chi  bella  vo  parere,  pena  vo  patere!  »,  dice  la  vecchia, 
nel  cunto  del  Basile.  E  nella  fiaba  siciliana:  «  Gu' bedda  vo  pariri, 
Duluri  vo'  sintiri!  ». 


288  TAVOLA  DI  RISCONTRI 

II,  I.  —  Cfr.  PiTRK,  Fiaie  sic,  XX,  La  vecchia  di  Vortu;  ImbriA- 
Nr,  Xovell.,  XVI,  La  Prezzemolina,  e  la  fiaba  milanese,  Itrii  naranz, 
e  J  tre  tosann  del  Re  (o.  e,  pp.  415-19);  id.,  XIl  Conti,  IV,  Pstrusi- 
nella;  e  tutti  i  riscontri  ivi  raccolti.  Cfr.  Grimm,  u.  12,  Rapunzel. 

ir,  2.  —  Un  riscontro  perfetto,  nQ\V Angitia  del  Biondo  (Roma, 
MDXL"  ;  intorno  alla  quale,  v.  Introd.,  p.  GLIX.  Versioni  popolari  in 
l'iTRÈ  Fiabe  sic,  XXXVIII,  Li  palli  magichi;  riscontro  più  lontano, 
Fiabe  sic  agg.,  VII,  La  bedda  picciotla,  e  anche,  spec.  per  la  chiusa, 
yov.  tose,  IV,  La  Coscia  di  Monaca;  v.  anche  Imbriani,  yovell.,  la 
fiaba  milanese,  El  Fegorcc  (pp.  599  sgg.).  Ter  la  chiusa,  cfr.  anche 
11,5. 

Il,  3,  —  Cfr.  riTRÈ,  Fiabe  sic,  V,  La  Grasta  di  lu  basilico;  Nov. 
tose,  XIII,  La  Maestra;  Imbruni,  Novell.,  la  fiaba  milanese  La  stella 
Diana  (pp.  42-7);  id.,  XII  Conti,  II,  Viola;  Amalfi.  '0  cunto  d'  'a  bella 
Viola,  in  GBB.,  U,  12;  Comparetti,  0.  e,  XLVIII,  Oh  la  Viola! 

II,  4.  —  Cfr.  Introd.,  pp.  CLXXIII-V:  Straparola,  XI,  i  (RuA,  l.  e. 
pp.  271-2);  per  le  versioni  popol.,  cfr.  I'itrè,  iS'or.  tose,  XII,  La  Golpe. 
Cfr.  anche  Das  Màrchen  vom  gestiefelten  Kater  in  den  Bearbeitun- 
geti  von  Straparola,  Basile,  Perrault,  und  Ludwig  Tieck,  mit  Ziviilf 
liadierungen  von  Otto  Spechter,  Leipzig,  F.  a.  Brockhaus,  1844. 

II,  5.  —  Cfr.,  pel  principio,  I,  2,  e  per  la  fine,  II,  2;  la  fiaba  del 
Re  serpente,  in  Purè,  Fiabe  sic,  LVI,  Lu  serpenti,  con  copiosi  raf- 
fronti. Cfr.  anche  Rua,  l.  e,  224-5.  Cfr.  Grimm,  n.  108,  Hans  m€in 
Iffcl. 

II,  6.  —  K  la  fiaba  di  Peau  d'àne.  Cfr.  I'itrì,  Fiabe  sic,  XLIU,  Pi- 
lusedda,  con  relativi  riscontri;  e  GuArnerio,  Nov.  pop.  sarde,  I,  Ma- 
ria intaulata  (in  Arch,  st.  trad.  2iop.i  I,  21  sgg.  Cfr.  GRiMsr,  n.  65. 
Allcrlei-Rauh. 

II,  7.  —  Pel  principio,  cfr.  Ntroduz:.,  e  Pitrk,  Fiabe  sic,  XIII, 
Blancorcomu^nivi,  epe;  e  pel  seguilo,  id.  ivi,  XVir,  Marvizla.  Per 
l'ultima  parte,  cfr.  la  fiaba  toscana,  Prezzemolina,  in  Imuriani,  XII 
Conti,  IV  ter.  Cfr.  Grimm,  n.  56,  Ber  licbstc  Roland. 


TAVOLA   DI   RISCONTRI  289 

II,  8.  —  Il  principio  è  una  delle  solite  fatazioni;  cfr.  anche  V,  5 
e  rise,  per  le  fatazioni,  R,  Kòhler,  nella  Posil.^  ed.  Imbriani,  pp.  167-8. 
Per  una  regina  chiusa  in  una  cassa  di  cristallo,  cfr.  la  fiaba  napol. 
'O  cunto  cV  'a  cascia  'e  cristallo  (in  GBB.  I,  6).  Cfr.  anche  parzial- 
mente V,  5.  Cfr.  CtRimm,  n.  53,  Sneetritchen. 

II,  9.  —  Appartiene  al  gruppo  delle  novelline  di  Psiche;  la  ver- 
sione più  prossima  è  quella  napol.:  '0  Cunto  d"a  cappuecia  (in  GBB., 
I,  II),  dove  le  parole  del  figlio  del  re  sono:  «  Fa  la  nonna,  figlio 
mio,  Fa  la  nonna,  gioja  'e  papà;  Ca  si  vava  lu  sapesse,  Connoia 
cf  oro  te  vucarria.  Fascia  d'oro  te  nfasciarria,  Ca  si  gallo  mm  can- 
tasse, E  si  campana  non  zunasse.  Tutta  'a  notte  starna  accossì  ». 
E  con  questa  napol.,  la  sicil.  in  Pitrè,  Fialie  sic,  XXXII,  Lu  Re 
d'Animmulu  (cfr.  anche  IV,  424-6),  e  la  milan.,  L'Ombrion  in  Im- 
bruni, Novell.,  pp.  327-31.  cfr.  anche  Pitrè,  0.  e,  XVIII,  Lu  Re  d'A- 
muri,  ecc..  e  Gomparetti,  0.  e,  XLVIII,  Oh  la  Violai  Cfr.  Grimm, 
n.  88,  Lòwenecherchen. 

II,  IO.  —  Facezia  ancor  viva;  ma  non  saprei  indicarne  nessun 
riscontro  in  libri  italiani.  Cfr.  Grimm,  n.  61,  Das  Biirle,  e  riscontri 
relativi. 


FmE   DEL   VOL.   I. 


AGGIUNTE  E  COPIREZIONI. 


Testo. 

Lasciando  al  lettore  la  facile  coi-rezione  di  qualche  incertezza  di 
punteggiatura,  e  tralasciando  di  notare  qualche  piccola  difformità 
ortografica,  o  qualche  scambio  di  forme,  usate  indifferentemente  dal 
N.  o  dai  suoi  editori;  il  che  non  fa  nessun  danno  nel  generale  on- 
deggiamento formale  di  questo  testo;  si  correggano  i  seguenti  errori, 
occorsi,  come  gli  altri,  nei  soli  primi  fogli  del  testo: 

p.  II,  3:  grade,  scale  —  p.  12,  31  (e  n.  relat):  mmano,  nmano  — 
p.  25,  8:  vi  (erron.  stamp.  in  corsivo)  —  p.  26,  i:  mattuto,  nmattulo 

—  P-  29,  5:  toccanno  buono,  toccanno  buono  de  pede  —  p.  30,  7: 
sbozzo,  sborzo  —  p.  30,  24:  guordote,  guardate  —  p.  34,  2:  succe- 
deno,  succedono  —  p.  s7ì  2:  la  quale  cosa,  le  quale  cose  —  p.  39, 
24:  ereno  (così  erron.  nell'EO),  erano  —  p.  40,  22:  ghire,  ire  —  p.  43, 
6:  cauze,  cauce  —  p.  45,  15:  chella  bella,  sta  bella  —  p.  47,  20: 
ncrina  (così  nell'EO,  ma  erron.),  noria  —  p.  51,  25:  pacionelle,  pa- 
cionielle  —  p.  53,  20-1:  azzeccoliareno,  azzeccoliarono  —  p.  56,  15: 
ghiste,  iste  —  p.  57,  4:  ngaudiare,  ingaudiare  —  p.  62,  7:  sporpo- 
gliaje,  sparpoghaje  —  p.  69,  12:  ingiallette,  ngiallette —  p.  72,  16 '. 
committato,  coìnmitato  —  p.  73,  18:  terribile,  terribele  —  p.  75,  8:  ve- 
stita, vestite  —  p.  76,  2:  sesto,  siesta  —  p.  79,  28:  receputo,  recevuto 

—  p.  89,  16:  nguadiarete,  ngaudiarete  —  p.  94,  27:  nsì,  cosa  —  p.  97i 
2:  cunto,  caso  —  p,  97,  4;  mcabria,  mbriaca. 

Note. 

p.  15,  n.  88,  nella  citaz.,  dov'è  segnato  F  leggi  7. 

p.  19,  n.  120,  si  aggiunga,  a  spiegazione  della  denominazione  sfrat- 
ta-panelle,  ciò  che  dice  il  Gal.  nel  VN.,  alla  parola  settepanelle  : 
«  Fino  a  che  la  scoperta  delle  Indie  non  moltiplicasse  i  metalli  pre- 


292  AGGIUNTE  E   CORREZIONI 

ziosi  tra  noi,  durò  l'uso  antico  dei  Romani  di  dare  ai  servitori,  suc- 
ceduti agli  antichi  servi,  piccolo  salario  in  danaro  e  somministrar 
loro;  insiememente  il  pane,  e  talvolta  anche  il  vino  e  il  companatico. 
Così  ancora  usasi  nelle  Provincie.  Il  pane  faceasi  una  sola  volta  la 
settimana,  cioè  il  Sabato.  La  mattina  della  Domenica  consegnavansi 
sette  pagnotte  a  ciascun  servitore  da  dovergli  bastare  tutta  la  setti- 
mana ». 

P-  35)  *^-  i5'  Il  Liebr.  ricorda,  a  propos.  del  monaciello,  il  moine 
bottru  dei  Francesi,  e  il  frayle  degli  Spagnuoli:  e  come  il  Delrio 
nelle  sue  Disqu.  iniag.  parli  del  folletto  Snebergius,  nigro  cuculio 
vestitus  (Dunlop-Liebrecht,  o.  e,  p.  515). 

p.  49,  n,  21,  a  proposito  dei  cavalli  di  Bisignano,  aggiungi  che  il 
Tassoni  nella  Secchia  (II,  31)  ha:  «  Pallade,  sdegnosetta  e  fiera  in 
volto,  Venia  su  una  chinea  di  Bisignano  »;  ed  annota:  «  Bisignano, 
ove  nascono  ottimi  cavalli,  e  in  gran  credito  sono  quelli  del  Prin- 
cipe di  Bisignano  ». 

p.  59,  Vardiello.  Il  Taylor  deriva  il  nome  Vardiello  da  bardus 
(latin.),  stupido  (Dunlop-Liebrecht,  0.  e,  515). 

p.  64,  n.  28.  Varii  luoghi  presso  Napoli  si  chiamavano  a  quel  tempo 
Belvedere:  tra  gli  altri,  il  Castello  del  Belvedere,  nel  gualclo  Aver- 
sano,  già  dinaora  di  caccia  dei  re  angioini,  cha  si  trova  segnato  tra 
i  luoghi  notevoli  dei  contorni  di  Napoli  nella  caria  del  1616,  Cam- 
pwniae  felicis  Ti/pus,  nell'opera  del  Barrionuevo  {Panegyricus ,  Nap., 
MDCXVI). 

p.  71,  n,  28.  A  propos.  di  Benevento,  aggiungi  la  citazione  della 
G.  IV,  8,  dove  sono  queste  parole:  «  La  camara  loro  era  fatto  lo  Be- 
neviento  de  le  nemiche  soje  ». 

p.  90,  n.  13.  Il  Liebr.  aggiunge  una  citazione  dalla  Tancia  del 
Buonarroti  (I,  i):  «  Cecco,  i' mi  muoio,  e  vonne  a  maravalle,  l'ho  '1 
nodo  al  collo  e  'i  boia  sulle  spalle  »  (Dunlop-Liebrecht,  0.  e,  515). 

P-  93)  *^i  42.  Aggiungi  che  qui  si  allude  a  un  giuoco,  del  quale 
discorre  cosi  il  DA  nel  suo  vocabolario:  «  Questo  giuoco  era  tra 
due,  ed  importava  j)artire  la  zeppola  in  due  pezzi  eguali,  perchè  dei 
(lue  giuocatorl,  alternativamente,  l'uno  dava  il  colpo,  e  l'altro  aveva 
il  diritto  di  scegliere  tra  le  due  parti  divise  ». 


AGGIUNTE  E  CORREZIONI  293 

p.  97,  1.  19.  «  Da  l'osteria  de  l'Aurinale  ».  Nella  bellissima  carta: 
Topografia  dell'Agro  Napoletano  del  Rizzi  Zannoni,  1793,  è  segnata 
sulla  via  tra  Mugnano  e  Piscinola  una  Taverna  del  Piscialoro. 

p.  127,  n.  43.  Salita  maruzza,  e  dà  la  mano  a  Cola,  non  è  solo 
una  frase  proverbiale,  ma  è  il  principio  di  una  canzone,  per  la  quale 
V.  Galiani,  Bel  dial.  napoL,  p.  118. 

p.  171  sgg.  Ai  giuochi  fanciulleschi,  che  ho  accennati  come  men- 
zionati nel  tempo  stesso  dal  Basile  e  dal  Perillo,  si  aggiimgano  questi 
altri  :  A  la  rota  de  caucie,  Ben  venga  lo  mastro,  A  reminola,  A  scar- 
reca  la  botta,  A  santa  parma,  A  preta  nzino,  A  Re  'inmazziere,  A  la 
gatta  cecata,  A  la  lampa  a  la  la/mpa,  A  stienne  m,ia  cortina,  A  ta- 
faro  e  tamburo,  A  travo  luongo.  Lo  vieochio  no  è  benuto,  A  li  frog- 
yiudecate,  A  bienola  vienola,  Ad  apere  le  porte  che  Faraone  vo  ntrare. 
I  quali  si  trovano  tutti  nel  luogo  citato  a  p.  171,  n.  4. 

p.  237,  n.  35,  Si  spieghi  più  chiaramente  che  la  frase  allude  all'uso 
popolare  del  portar  cucite  negli  abiti  immagini  di  santi,  0  cartellini 
d'orazioni,  per  devozione. 

p,  278,  n.  43.  Si  noti  che  pò  ca  per  2J0i  che,  usa  il  N.  nelle  3IX., 
passim;  onde,  se  la  spiegazione  da  me  data  è  giusta,  la  correzione 
in  pucca  è  superflua. 


Indice  del  Volume  Prlmo 


Introduzione • .    .    .  Pag.  ix 

I,  Vita  del  Basile  —  Opei'e  italiane »  xi 

y.  II,  Letteratiura  napoletana  in  dialetto  —  Opere  napo- 
letane del  Basile-  ■..'.' »  lxiv 

'X  iir,  Il  Cunto  de  li  Cunti  come  opera  letteraria   .    .      »  xcv 
*é.  rv,  Fortuna  letteraria  del  Cunto  de  li  Cunti      .    .      »  cxxviii 
V,  Il  Cunto  de   li  Cunti,  e  la   novellistica   compa- 
rata      »  GLI 

VI,  Di  questa  edizione »  clxxx 

Illustrazioni  e  documenti »  cxc 

A.  Patria »  ivi 

B.  Data  di  nascita »  cxciii 

C.  Famiglia  del  Basile »  cxcv 

D.  Lettere  inedite  del  Basile »  cxcvi 

E.  Nomine  del  Basile »  cxcix 

F.  Fede  di  morte,  e  tomba »  ce 

G.  Documenti  concernenti  il  Basile »  ccr 

S^   H.  Le  edizioni  del  1634  e  del  1674 »  ccii 

Lo  Cunto  de  li  Cunti 

Avvertenza Pag.        4 

Ntroduzzione »          5 

Jornata  primma,  Tr.  I,  Lo  Cunto  de  l'Uerco »        21 

Tr.      II,  La  Mortella »         33 

Tr.     III,  Peruonto »        47 

Tr.     IV,  Vardiello      »        59 

Tr.      V,  Lo  Polece >        67 

Tr.     VI,  La  Gatta  cennerentola »        77 

Tr.    VII,  Lo  mercante »        87 

Tr.  VIII,  La,  facce  de  crapa »       104 

Tr.     IX,  La  cerva  fatata »      113 

Tr.      X,  La  vecchia  scortecata »       122 

La  Coppella,  Egroca »      137 


296  INDICE 

Jornata  seconna Pag.  171 

Tr.       I,  Petrosinella »  177 

Tr.      II,   Verde  Prato »  184 

Tr.     Ili,  Viola »  193 

Tr.     VI.  Gagliuso »  201 

Tr.      V,  Lo  Serpe »  208 

Tr.     VI,  L'Orza »  220 

Tr.    VII,  La  Palomma »  232 

Tr.  Vili,  La  Schiavottella »  248 

Tr,     IX,  Lo  Catenaccio »  254 

Tr.      X,  Lo  Compare »  260 

La  Tenta,  Egroca »  269 

tavola  di  riscontri  delle  go.  i  k  ii »  285 

Aggiunte »  291 


Deposito  di  questa  Collezione 


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presso  la  sede  della  Società  Napoletana  di 
Storia  Patria,  piazza  Dante,  93,  Napoli 
—  Librerie  Luigi  Pierro,  piazza  Dante, 
76,  Napoli  —  Ermanno  Loesclier,  Corso. 
307,  Roma. 


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