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Full text of "L'Utopia: ovvero, La repubblica introvabile"

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^IBEiIOTECilL RARA 

PUBBLICATA DA G. DAELLl 

VOL. XI. 

MORO e GAMrANELLA 



-• 




■ri)(F-llASO MORO. 



L'UTOPIA 

14 KEFDBBIIGA INTROVAtllE 

TOMMASO ^RO "- 

LA CITTÀ DEL SOLE 

di , 

TOMMASO aMPANELLA 
veniinni italiane nantamenle rivediile e eorrelie 

LA STOHIA DEL HBIME DEGLI ORJl 

GASPARE GOZZI. 




'^MILANO 

tì. DA.ELr.1 e COMP. K D I T O R l 



H DCCG uni. 



It«.l(.3a:Mi 



l'IP. REDAELLt. 



ProprteiA. letteraria g. dabllt. e e. 



ItccK. "5 0.1,11 



l'IP. REDAELLt. 



I 

ProprteiA. letteraria g. dabllt. e e. 




TOMMASO CAMPANEI.I.A 



PREJAZ;10NE 



Tra i segni più espressi delP altezza dell'in* 
gegno e della grandezza delP animo si è la fede 
nelPumanità, nel suo progresso, nel suo migliore 
destino^ quando ì passaggieri rappresentanti di 
que"* suoi gruppi che si chiamano Stati o culti 
rispondono agli aneliti, alle speranze del bene 
con le prigionie, coi tormenti, co' roghi. Il Con- 
dorcet che rifuggendo nella morte dalle persecu-^ 
zioni di quella repubblica ch'egli s'era augurata 
e avea datp mano a edificare, scrive il libro delle 
profezie dell'umana perfetti vi tà , è ammirabile 
come Campanella, che tra ineffabili strazj e noa 
mica nei giardini di Àcademp come Platone, sogna 
la Città del sole; Tommaso Moro, morendo per 
la sua fede , non rinnegò 1' Utopia ,- mostrò anzi 
la sua ferma credenza esservi un luogo , al ciii 
esempio dovea venirsi mano mano formando quello 
ch'ei non trovava ancora in terra. Il più sublime 
ideale è quello della perfezione umana. La diversa 
posizione di quest'ideale non fa caso. Se alcunij 
credono che 

Lo $eeol j^mo q;uanV oro fu bell^ 



X PREFAZIONE. 

ed altri che T aurea età c^^è in cospetto, se in 
alcuni è un rimpianto, in altri una speranza^,, 
non fa caso. È sempre un ideale acquistabile o 
racquistabiip-, i grandi spiriti che raflTermano col 
martirio delP intelligenza, o col sagriflcio della 
vita, sono i veri precursori della redenzione so- 
ciale. 

Noi diamo qui insieme il Moro e il Campanella; 
il riformista un po'* fantastico, e il comunista 
strettamente logico. Aggiungiamo uno scherzo del 
Gozzi, che mostra come anche ai più scapati ba- 
leni Tidea del perfezionamento degli ordini e 
della vita sociale; eterno fantasma, che ricompare 
come il padre di Amleto, narrandovi del veleno 
stillatogli neir orecchio, ma che uccidendolo non 
gli tolse né la vita spirituale, né il modo di ve- 
dere le sue vendette. 

VUlopia uscì a Lovanìo nel 1516 Tanno in- 
nanzi airinsorgere di Lutero contro Roma, e un 
cinque anni innanzi alPapparire degli Anabattisti. 
VUtopia era una specolazione filosofica, ma le 
teorie sociali escon dai libri e s** approntano a 
battaglia. Cosi ai dì nostri i sistemi di Fourier, 
di Cabet, di filane combatterono le giornate di 
Giugno. Non vogliara dire che gli Anabattisti pro- 
cedessero dal Moro, ma che procedevano da quel- 
Tordine dMdee di rinnovazione sociale, eccitate 
dai disordini ed abusi del tempo, e fomentate 
dalla rinnovazione religiosa, ordine d'idee, onde 
il Moro fu il precursore e 1 oracolo. 

Utopia^ dice il Sudre, che in parte seguiamo 
nel nostro giudizio, pare vocabolo formato da due 
parole ou-topos, letteralmente non luogo^ in nes- 
suna parie. — LMsola d^Uto^ia significa dun(]^ue 



PRSFAZIOITK. XI 

risola che non è in nessuna parte^ il paese im* 
maginario. I riformatori seguenti presero da que- 
sto libro il nome, ed in buon dato le idoe^ le 
censure deirordine sociale, le declamazioni con- 
tro la proprietà, le pitture delle miserie dei pro- 
letari, gli encomj della vita in comune, i mezzi 
d'organizzazione. 

li Sudre nota che il concetto delP Utopia si 
parte a quattro fini : alla censura dello stato del- 
ringhilterra e della politica dei principi contem- 
poranei^ alla censura del principio della proprietà 
individuale-^ al disegno d'Anna società fondata sul 
principio della comunanza-, alPesposìzione di un 
sistema di politica esterna, applicabile airinghil- 
terra indicata sotto al nome trasparente di Uto- 
pia. Diverso da Platone il Moro abolisce la pro<* 
prietà, non la famiglia. 

Allo schema generale sMntrecciano molte ri^ 
flessioni e quasi divinazioni bellissime. Egli im-* 
pugna Tabuso della pena di morte prodigata ai 
ladri, ed aaticipaado gli Enciclopedisti francesi 
e il Beccaria mostra V inefficacia delf atrocità 
dei supplizj. Predica la tolleranza religiosa, sfata 
la nobiltà del sangue e deride Tastrologia giudi- 
ciaria. Eurico VII! non sMmpermall ielVUlopia^ 
lo mandò poi a morte per altro \ ma gP Inglesi 
lasciarono volentieri il campo libero al pensiero 
filosofico nelle riforme sociali, sapendo che il 
paese non se ne appropria e assimila il meglio 
che a poco a poco e come per un processo fisio- 
logico-, essendo più o meno sicuri dei migliora- 
menti ideati, a suo tempo, quando siano effettua- 
bili. Non consentono pari libertà al pensiero filo- 
soUco, neUe cose di religione, essendoché per uà 



tn l^fiBFAZIONB. 

instìntivo timore sentono che la discussione pò* 
trebbe far crollare la Chiesa. 

Dando ad Utopia il senso corrente, parrà. che 
questo vocabolo si aggiusti meglio alla Città del 
Sole^ che al libro del Moro. È un fatto che Ti- 
deale trae ì suoi fili e colorì dalP ambiente in 
cui si sogna*, e pertanto T ideale politico del Cam- 
panella esce dai chiostri, e quello del Moro dalla 
vita inglese. La libertà britannica è il portato dei 
secoli, e non s'^è svolta rapidamente e pienamente 
che da Guglielmo III ai nostri giorni; ma i germi 
erano grandi e fecondi anche sotto gli arbitrj di 
Enrico Vili, e soprattutto sussisteva T energica 
e indipendente natura inglese^ onde il Moro è si 
possente germoglio. Pertanto egli ha un telaio 
quasi rettorico e un contenuto filosofico; mentre 
il Campanella ha un telaio filosofico e un conte- 
nuto quasi rettorico. Del cancelliere inglese molte 
idee son passate nella vita politica; del frate ca- 
labrese non sappiamo che sopravviva nel pregressa 
civile, sebben molto sopravviva nel movimento 
della vita filosofica. 

Quando Enrico Vili, ribellatosi al Papa, si penti 
d^ averlo difeso con un libro contro Lutero, vo- 
leva girare al Moro quel suo rimorso; ma il 
zelante cattolico dichiarò non avervi fatto al- 
tro che dargli ordine, disapprovando anzi IMn- 
definita ed assoluta superiorità che si dava al 
pontefice nelle cose del regno. Egli restringua 
questa superiorità alla religione; ma in tal punto 
il suo ferver naturale, lo stomaco delle libi- 
dini di Enrico, i perìcoli delP eresia, che già 
si mostrava, quale col lungo andar del tempo 
divenne;} rivoluzione sociale ; le picche e gli urt,i 



PRBFAZIONB XHI • 

della contraddizione, io trassero in teoria ai fu- 
rori àel De Haistre^ e a giudicar dalle sue pa- 
role non si sarebbe astenuto dal sangue degli ere- 
tici — Molti uomini discreti e imparziali lo misero 
pertanto, sulla sua fede, in voce di persecutore; 
senonchè il Nisard , con una bella e fondata di- 
scussione, lo purga dalle accuse e prova con le 
parole stesse del Moro, non viste forse dagli ac- 
cusatori n che egli non fece quel passo , si facile 
ai fanatici, dalla penna alla scure. Nel fine della 
sua apologia egli disse : E di tutti quelli che mi 
vennero mai a mano per delitto W eresia , nes- 
sunOy e ne chiamo Dio in testimonio ^ ha da me 
ricevuto altro male che esser rinchiuso in luogo 
sicuro — né tuttavia si sicuro che Giorgio Co- 
stantino singolarmente , non sia riuscito a fug- 
girne; — se ne levi ciò, io non ho dato a nes- 
suno né flagellazioni^ né battiture^ e neppure un 
buffetto in fronte, a Else had iteuer ant of 

THEH AUT STRIPE OR STROKE GIVE THEM, SO 
MUCHE AS A FYLIPPE OIT THE FOREHEAD. »'E 

più innanzi — In quanto agli eretici , io detesto 
le loro eresie^ e non le loro persone, e vorrei con 
tutto il cuore che Fune fossero distrutte e le altre 
salve. Confessione credibile ad un uomo, che af- 
frontò la morte di si gran cuore e si buon umore, 
e che fu veramente il rovescio di quei cattolici, 
che presero poi a difendere la Chiesa daiP ere- 
sie col sangue e le falsità. 

Il Moro fu non senza ragione comparato a So- 
crate per la sua ironia nella vita e nella morte 
Notevole è che egli era un uomo timidissimo e 
un buffetto in fronte gli facea paura *, e tuttavia 
scherzò nel salir lo scaleo del patibolo, ed ezian- 

MoBO e Camp. ** 



XIV fhkfahons. 

dio nel por la testa sul ceppo. Com^ egli apparec- 
chiò i suoi air ultima sventura, con isgomenti, 
direna cosi graduali^ e repentini avvisi di rovina 
imminente, facendo in mezzo ai desinare piccliìar 
alle porte e dire che la giustizia il voleva, cosi 
certo apparecctìiò sé stesso meditando e facen- 
dosi famigliare la morte. V^ha un tempo in cai 
dall' un Iato imperversa la ferità del sangue^ e 
dair altro sorge un coraggio indomito e faceto 
contro r atrocità de"^ carnefici , che finirebbero a 
smettere, non per sazietà né per ìstanchezza, ma 
per non essere più burlati. -^ In questa parte di 
costanza, di coraggio, di lepore il Moro é un 
esempio immortale, e non v^^ha supplizio, che più 
del suo , renda odioso Enrico Vili , tiranno si 
odioso per quel misto di crudeltà e liissuria, ch'^è 
il colmo delia perversione umana. 

Gli ultra-cattolici non riuscirono a guastarci 
Tommaso Moro: é tutto dire. I nuovi farisei pren- 
dono tutti i gran personaggi della storia, e SjB nei 
tempi di fede, furon ferventi cattolici, te gli stem- 
perano nelle loro amplificazioni e declamazioni 
per farne onore alla Chiesa. Quello, per atto 
d"" esempio , che in Colombo fu genio , siffatta- 
mente conscio, e invasato di divinità, che ne 
spandeva fuori P ardore, fiammante quasi come 
t estasi di santa Teresa, si converte per loro in 
una stupida ossequenza di monaco. Così il cordone 
di S. Francesco, che forse cinse Dante ne'' suoi 
ultimi giorni , equivarrebbe alla disciplina dei 
primo contadino che porti cocolla. Quello che in 
Tommaso Moro fu sentimento di rettitudine ìnr 
domato, di fede sincera, si volge da loro alle fa-* 
stidiosaggini del pinzochere odierno , che lascia^ i 



PKBFAZIONB. SY 

fili della sua coscienza o della sua vita a mano 
deir avido confessore. Tommaso Moro fu grande 
non perchè si avvolse pei dnmeti delle controversie 
e pratiche religiose^ supplizio assai vicino a 
quello di Regolo, ma perchè ebbe, oltre il sapere^ 
la fede del diritto, del progresso umano, e restò 
invitto a quelle transazioni di coscienza^ onde t 
moderni farisei sgarano gli antichi casisti. 

Curioso è che i cattolici lo vollero d^ origine, 
italiano. 11 P. Domenico Regi , che nel 1681 n^ 
stampò in Bologna una vita , scritta secondo il 
gusto di quella età, assevera tanto più volentieri 
aver preso questa fatica in quanto che m afferma, 
egli dice, personaggio di eminente grado e di rara 
erudizione, aver certezza ne^ suoi copiosi scritti^, 
che soggetto degno di Casa Moro, già per suoi affari 
da Venezia solcò a Londra e presavi consorte vi 
propagò la sua nobii famiglia ^ quindi in Venezia 
si ha il nostro Moro per origine sua patrizio e 
nepote del duce Cristoforo Moro, che nelPanno 
1464^ con armata poderosa condottosi ad Ancona, 
insieme col pontefice Pio II si accinse a debellare 
la superbia ottomana, quando vi fosse concorso il 
divino volere, e forse di qua siegue che in Inghil- 
terra non si reputò molto antica la famiglia Moro. ^ 
Di questo lavoro curioso e rappresentativo de'^tempi 
caviamo alcuni tratti della leggenda del Moro e 
prima de** prognostici di sua futura grandezza. 

Riposando la madre di esso gli sembrò di rimirare nei sno 
anello sposalìzio^ due figli, eli' era per generare, il primo a^s.ii* 
oscuro, e fa un aborto, e T altro a guisa di stellai che spiccali* 
dosi dairalto, se ben minuta sembrava, avvicinandosi poscia cosi 
Tasta, e risplendente appariva, che non solo la casa nativa, e la 
patria, ma gran parte dell' universo illustrava. Oltre di ciò con- 
segnato alla nutrice il bambino« mentre sopra d*un destriero in. 
una prossima villa si conduceva , al passar d* un torrente^ 



XVi PRBFAZIONB. 

cho per la pioggia caduta era oltre del solito enfiato , si trovò 
quella col caro pegno in evidente pericolo di sommergersi; quindi 
dubbiosa nel suo spavento, prese audace partito di avventare dal- 
r altro margine il tenero fanciullo ; e sviluppata poi correndo 
a ritrovarlo, quando si pensa mirarlo mal concio per la percossa 
si avvide, che come daiPangelo tutelare riservato sopra de^sterpi 
giaceva in atto d* invitarla di bel nuovo ad arrecarselo in seno. 
Ottime sono le acque, disse Pindaro, ma più sempre furono tali 
in favor degli eroi! Mosò bambino dal Nilo, e liomolo dalle acque 
del Tebro furono a miglior sorte salvati; Il tenero Abide, al con- 
tar dì Giustino, preservato dalle acque , in cui fu il bambino 
quasi sommerso, venne riservato al dominio del regno paterno 
Ài Spagna. 

Vediamo come il Regi ne narri la decollazione. 

Venuto pertanto il giorno di mercoledì, circondato da ministri 
della corte, venne avvisato esser V ora di condursi ad effetto 
la sentenza. Si amici , rispose il Moro, ubbidisco di buona voglia, 
andiamo col nome di Dio; e prendendo nelle mani T imagine 
del Salvatore crocifìsso, disse: essendo voi Signore con me, di 
che cosa io devo temere? ed aggiungendo uno degli astanti, che 
doveva farsi animo, proferi quel detto: Causa bona est^ bonits 
Domtnus, bona Crux^ bona spes est, et eur non animo me iuvat 
esse bono f condotto nella gran piazza della Rocca di Londra, 
prossimo air elevato palco, a cui si ascendeva per molti gradi, 
a causa della sua debolezza, difildandosi di condurvisi , disse, 
pregando un giovane che air aspetto impallidito, e lacrimoso, lo 
credeva di benigno genio: Vi prego figliuolo a farmi per carità 
un poco d*appoggio, finché colà su io arrivi, che circa poi al di'» 
scendere, altri se ne prenderà la cura; cosi allegro, confidato 
nella sua buona coscienza, scherzava, e direbbe il morale: lO" 
4:abatur miseriis^ in quibus ioeari debuisse quis neseit? potuisse 
quis credit? Pervenutovi, salutò con volto sereno il molto po- 
polo presente , che con silenzio e mestizia, a lui parimente in- 
chinandosi, diede segno del dispiacere che sentiva, vedendo 
«osi maltrattata V innocenza. Alzò poscia il Moro la voce intre- 
pida. Signori, alti ed impenetrabili sono i divini giudizj ; nece»- 
.sanamente uno deve essere il termine di noi mortali, quale e 
come si sia non importa; purché sortisca in grazia di Dio; per 
pietà pregatelo che riceva in pace quest' anima, ed io dalPaltra 
parte lo supplico a render sempre felice il re nostro e tutti voi. 
Voltatosi al ministro di giustizia, che al solito gli chiedeva perdono 
prontamente gli donò un angelotto d^oro, ad imitazione dMllu- 
strissimi martiri, come che volesse rimunerare il benefizio, che 
ne attendeva. Impetrato un poco di tempo, si diede a recitare 
^genuflesso alcune delle suo solite preghiere, ed alzando un poco 
gpijji la voce, poi disse; Suscipe Christe Jesu mimam confiten- 



PRBFA2I0IIK. XV a 

Um tibin et pauperU iui ne oblivUcarit in finem: PomfiM fMn 
etmfundar, fuoniam invocavi te : ed inchinatosi sotto del duro 
ceppo, fa separata quella preziosa testa dal busto. Cosi parti da 
questa valle di miserie P anima benedetta; né solo da tale spet- 
tacolo partirono sconsolati gli astanti, ma In ogni parte di quella 
dttà, del regno, altro non si udiva che doglianze per tanta per- 
dita. Ti è chi ha scritto, che 1* istesso Enrico Ottavo non si rat- 
tenue dalle lacrime, e che voltato alla mal nata Bolena : per tuo 
riguardo, disse, sono astretto a lordarmi col sangue più degno 
ebe avesse il mondo : e eh* ella sorridendo , rispondesse , di tal 
carato al certo non era quello del Moro ; e portatisi nella Gal- 
leria dove si conservavano i ritratti degli antichi e moderni 
uomini segnalati; mirandovi fra quelli r effigie del Moro, mae- 
strevolmente colorita da (ìiovanni Olbein fiammingo, inclito ar- 
tefice; ohimè, disse la crudele, par tuttavia ancor vivo costui 
aopra codesta tavola, ed ordinando ehe si levasse dal posto, per- 
chè se ne andasse in pezzi, l'avventò dagli alti balconi del re- 
gio palazza Ma ancorché alquanto malconcio cadesse quel degno 
e vivo ritratto, per divina provvidenza ad ogni modo fu con- 
servato, ed ora qual prezioso tesoro si custodisce in Roma nella 
nobile ed antica casa de' signori Grescenzj , disponendo il Cielo 
che nella città capo del mondo sia riverito V aspetto di quel 
Prode, che per la fede della santa romana chiesa cosi nobil- 
mente sacrificò la sua vita. 

La commossa e divota famiglia del Moro, era stata tutto quel 
giorno in sante orazioni, pregando felice transito al suo buon 
Padre, e T intrepida Margherita, scorrendo per le chiese, fiiceva 
elemosine anche per II medesimo intenta Certificata poi essere 
già il tutto eseguito, mentre si trovava assai lungi dalla sua 
casa, si rammaricava di non aver sopra danari f per comprare la 
tela da involger le membra del suo morto genitore, e sottrarla 
cosi quanto prima ai strapazzi, ai quali per molti giorni era stato 
sottoposto il sacro corpo del venerabile Fisherio: ma animata 
dalla matrona, che l'accompagnava, che ben avrebbe avuto cre- 
dito a doverla pagar poi; entrava in una bottega, ed avendola 
scelta, mentre si accingeva a scusarsi, per non aver la moneta, 
ehe si richiedeva per il prezzo, a caso movendo la tasca senti 
che risonava, e mirandovi dentro, trovò esservi per appunto 
tanta quantità di denaro, quanto che si era pattuito, e da questa 
evento assicurata con pia arditezza asceso il paleo, e baciato' il 
petto detP estinto padre, aiutata da altri ve l'involse, e condusse 
con ogni sicurezza, senza che vi fosse chi contraddicesse, a dari^l 
sepolcro. 

Ci piace poi troppo {^esaltare il nome italiano^ 
oyecchè il troviamo risplendere tra gli stranieri ^ 
perchè non tragghiamo dal Regi la lettera che 
prima di morire il Moro scriveva al Bonvisi Ine- 



XVIII PBBFAZIONB. 

chéàe^ si gloriosamente benevolo e soccorrevole 
al martire insigne. 

Seppe poi il Moro che i suoi ^eni non solo erano andati in se- 
quesiro, ma incorporati al regio erario, onde la sua famiglia con 
molto incomodo penariavai ma ebbe anche notizia, che sopra di 
quella caderono benigni effetti della provvidenza divina, mentre, 
che yeniva provveduta dalla liberalità di un caro amico fedele d^ 
molti anni e nostro Italiano. Fu questo Antonio Bonvisi, nobile 
di Lucca, che come dovizioso e di grande ingegno, possedeva ri- 
levante ragione di negozj in Inghilterra, e particolarmente in 
Londra, e per le conformità de^ costumi, e dei studj eleganti, 
mantenne in ogni fortuna scambievole amicizia col Moro, quin- 
di con profusa cortesia dava mano a soccorrere la di lui famiglia 
ed a forza di donativi, faceva penetrar nelle carceri preziosi rin- 
freschi al caro amico. A cosi buon cavaliere s* ingegnò al meglio 
che gli fu concesso render grazie con lettere, e poco avanti deila 
sua morte di questo tenore gli scrisse. 

Sopra ogni altro meritamente amico mio carissimo. 

Già chs r animo mi predice (benché possa abbagliarsi, chi è 
solito d^ indoviuare) che poco più mi sarà permesso di potervi 
salutare, scrivendo; ho risoluto per tanto, essendovi Toccasi one 
di farlo con questa mia. 

Quaato confurto io riceva in questa totale rivolta e desola- 
zione delle mie cose, dalla lieta considerazione della vostra co- 
stante amicizia, mentre che essendo in mio riguardo^ tolta ogni 
via di poter rendere la pariglia: voi ad ogni modo, al concul- 
cato in un cantone, al carcerato ed afflitto vostro Moro conti- 
nuate a portare ogni più sviscerato affetto, e favore: lo, signor 
Antonio, sopra ogni altro mortale a me carissimo, mentre che 
altro non posso, umilmente supplico Dio ottimo massimo, che 
cosi cortese vi dispose al mio aiuto, e ad obbligare a tal segno 
un debitore, che non sarà giammai abile a soddisfarvi, per co- 
desta vostra profusissima munificenza, a concedervi ogni più 
durevole felicità; ed a riceverci, dopo di questo miserabile, e pro- 
celloso secolo, nel suo beato riposo : dove non vi sarà più uopo 
di scriver lettere, né saremo rattenuti dalle mura, nò flano più 
j nostri dolci discorsi impediti dal carceriere : ma col divino 
Padre increato, e colTunigenito di lui signor nostro Gesù Cristo, 
e con lo Spirito Santo, che d*ambìdue procede, pienamente go- 
deremo le sempiterne allegrezze del paradiso, per il cui deside- 
rio disponga T onnipotente Dio, che a voi, a me, e a tutti gli 
uomini ugni dovizia di questo mondo ed ogni più vana pompa, 
anzi questa vita fugace sia in totale disprezzo. degli amici 
il più ledele, e come per mio pregio dir soglio, dolce pupilla degli 
occhi miei, vivete con lieta salute; e la famiglia vostra che 



PftBFAZI01«B. SBC 

parimente sopra dì me autorità signorile, proseguisca por sempre 
di l)ene in meglio. 

Tommaso Moro, sia superfloo aggiungere, vostro, essendone voi 
più che certo, avendomi comprato con tanti beneflzj; e poi son 
di tal condizione, oggimai che poco o nulla rileva notare di chi 
mi sia, ecc. i 

Ed al certo cosi pio signore, quale fa il Bonvìsi, per la libe- 
ralità nsata col Moro e con gli altri perseguitati cattolici, non 
solo nella sna persona ebbe gran rimunerazioni da Dio; ma per- 
ciò benedetta la sua nobile prosapia venne a risplendere con le 
sacre mitre, e con degnissime porpore vaticane, cne tuttavia pur 
durano con decoro. 

Pietro Giordani^ uomo letteratissimo e di gasto 
sicuro, disotterrò questa versione delP Utopia 
e VinceDzo Ferrarlo la pubblicò in Milano nel 
i821. Noi diamo la sua lettera-, non diamo il sunto 
della vita del Moro, che ei consigliò, sebbene 
fosse compilato da Giuseppe Montani, scrittore 
di gran giudizio e valore. E la ragione si è che 
non ha nessun pregio singolare di pensiero o 
di stile , e le notizie che contiene si posson tro* 
vare da per tutto ^ anzi assai vantaggiate dalle 
ricerche ed elaborazioni moderne. Lasciamo anche 
la dedicazione del Doni a Gerolamo Fava^ nou 
contenendo che frasi di complimento al dedicata-^ 
rio al libro, assai comuni ed insignifìcanti. 

Rispetto air Utopia seguimmo V edizione del 
Ferrarlo, riscontrandola al bisogno col testo latino. 
Quanto alla Città del Sole e alle Questioni del- 
l'* ottima repubblica, la seconda edizione di Lu- 
gano (tipografia della Svìzzera Italiana, 1850) ^ 
tenendo anche sott** occhio la materiale ristampa 
del Pomba, Torino 1854. Se non che, ne'' nostri 
dubbj ricorrendo al testo latino della Città del 
Sole^ ci vennero corretti parecchi luoghi, che non 
{staremo ad accennare, perchè ai lettori comuni 
non importerebbe, e i periti vedranno da sé che 



ICS PaBFAZIOnB. 

se ci manca Tingegno, ci abbonda il buon rolere; 
«enza però far remore o sfarzo di quello ch'^è de- 
bito d'^ogDi editore. 

Dicemmo esser al tutto materiale la ristampa 
torinese di questi due opuscoli-, ma toon perciò 
pretendiamo scemar pregio alle fatiche delP edi- 
tore sig. Alessandro D'^Ancona, che esordi giova- 
iietto con un lavoro ampio di studj e dMnteoti, 
e fu presagio di quel credito eh'' egli ora con eru- 
dite e fine elucubrazioni va confermandosi e am- 
pliandosi ogni di tra i letterati. 

La Storia del reame degli orsi del Gozzi Tab- 
i)iamo ricopiata dalla ristampa veneta delPAIvi- 
sopoli del 1830, tratta da una gazzetta settima- 
fiale intitolata II Sognatore italiano pubblicatasi 
in Venezia in soli 18 numeri dal di il maggio 
^1 di 17 settembre 1768 per le stampe del Co- 
lomba ni. 

Della vita e deW opere è il titolo ambizioso 
<lhe si suol preporre alle ristampe da coloro 

Ch€ eùm$ il fanioUn corre alla mamfna 

si attaccano alla veste de*^ grandi per esser visti 
in lor compagnia *, tìtolo che servi di frasca a vino 
^i allungato o corrotto che molti saltano a pie 
pari il discorso e ricorrono altrove. — Nuova 
ciarlataneria e sofisticazione letteraria. — Un 
povero erudito raccoglie testi, li discute, gli 
ordina^ gli spiega-, ed ecco che uno digiuno 
di studj e affamato di lodi , sotto pretesto che 
l"" erudito non è leggibile, lo spolpa , e ne fa un 
ammorsellato pei lettori mondani, i quali tuttavia 
troverebbero più digeribile e gustoso il primo 
lavoro, che la racconciatura o sconciatura del- 



paSFAZIONS. XXI 

f eloquente ladro. È quasi il supplizio di Crasso. 
Ci cacciano giù in gola del piombo fuso e poi ci 
chiedono schernendo 

IHed^ ehe'l sai, di che sapore è V oro. 

Altri dal libro stesso cavano materia a lunghi 
scilomi^ ma rivolgendo i noti versi^ si potrebbe 
dire 

Che diavolo hanno in corpo questi brueM 

che sempre mangiano cose delicatissime e filano 
noia ? 

Se i lodati annoiano, gli oscuri darebbero una 
noia che si potrebbe appareggiare alPasfissia. Or 
noi non ammasseremo il carbone per questo mi- 
sfatto, che tornerebbe poi ad un suicidio. Dicem- 
mo buonamente le ragioni del nostro lavoro, e ci 
scuserà il non aver potuto farne di meno. Se poi in 
cambio della penna delPagnolo Gabriello trovano 
dei carboni (eccoci di nuovo al carbone) non fa- 
remo uno sproloquio come quel frate trincato per 
esaltarli , né ci faremo pagare i crocioni che in- 
sudiciano per amuleti che salvano. 



Carlo Téoli, 



XXlì PRBFAEIORB. 



Latterà di Pietro CKordanS a IHnoeiuio Ferrftrio. 

Voi Iranno passato ristampaste un* operetta di Erasmo« la 
qnaie fu veramente necessaria ne^suoi tempi, e tuttavia si man- 
tiene in credito per la fama dell* autore ; ma poveri noi se non 
fossimo andati tanto innanzi da avere per inutile oggidì quel- 
la £to{)rto della follia. Non prendereste a ristampare un'operetta 
egualmente antica, molto più elegante, utilissima allieta nostra 
e scritta da un ingegno non minore di Erasmo, amicissimo a» 
lui per tutta ia vita, e più di lui pratico nelle cose del mondo 
e faceto non meno di lui; un'operetta di un gran ministro di 
stato, e di un martire ? Io vi propongo e vi consiglio di ristam- 
pare l'antica traduzione italiana deli* Utopia di Tommaso Moro 
gran cancelliere d* Ingliilterra. A me pare che sìa onor di Mi- 
lano eh* ella fosse qui stampata latina nel 1620 dal Bidelli, e 
dedicata a don Giulio Arese presidente del Senato. Mi pare che 
sia onor d* Italia che noi la traducessimo prima che i Francesi; 
i quali per verità più volte poi ia tradussero. Il volgarizzaoiento 
itahano che io conosco è stampato in Venezia nel 1548: e mi ap- 
parisce, a molti modi del favellare, opera di un veneziano, ben- 
ché pubblicato da Antonfrancesco Doni fiorentino. E perciò con- 
verrebbe che nel riprodurre quell* antica stampa, si avesse in- 
nanzi l'originale, per renderla più esatta e conforme. 

Certo i dotti italiani conoscono le gloriose fatiche e la fine 
immatura e gloriosa di Tommaso Moro: ma perchè un tant'uomo 
sia più noto anche agl'italiani meno letterati, mi piacerebbe 
che innanzi a questo suo libretto faceste andare una notizia ca- 
vata da quelle memorie che nei 1808 si pubblicarono in Londra 
con altre opere di lui : di che diede sette estratti la Biblioteca 
Britannica di Ginevra del 1809. Sono in quegli estratti molte 
cose, che si possono benissimo tralasciare: ma tanto se ne pu& 
prendere da formarne buon ritratto di quel grande e celebre 
uomo. Noi chiamerò infelice; poiché egli pur senza lamenti si 
lasciò togliere dai tiranno la vita : e la coscienza delle insigni 
virtù, e la speranza de* premj eterni lo tennero contento e lieto 
vivendo;, e la fama che gli mantiene gloriosamente viyp dopo 
tre secoli il nome, gli compensa quell'avanzo d*anni senili, che 
la tirannia gli rapì. 

Credo che pochi oggidì leggano V Utopia'; e vorrei che la leg- 
gessero molti. Vorrei che si considerasse come siano antichi certi 
concetti, che oggi alcuni esaltano, ed altri disprezzano , come 
nuovi. Vorrei che fosse notato con quanta amabile disinvoltura 
una mente profonda sappia trattare le materie più gravi; e con 



PRBFAZIONK, XXlIl 

poche parolei quasi da scherzo, persuadere molti documenii uti- 
lissimi. Vorrei che si vergostoassero, o almeno fossero svergo- 
gnati e si con fondessero, quegli odiosi, che de* mali pubblici 
non pur vivono ma trionfano; e poi insultano alle querele del- 
r universale e a* sospiri dei buoni , deridendo come pazzia di 
teste debolit e malinconiche, e inesperte del mondo, e incapaci 
della politica, il desiderare che i popoli possano vivere con tali 
fatiche e sventure che sieno inevitabili e tollerabili alla natura 
umana, e non debbano invocare come unico rimedio il morire. 
Un Tommaso Moro, già esercitato in molte ambascerie, poi innal- 
zato airaminiDìstrazione di un gran regno, non credette indecente 
a un ministro il filosofare; non credette ridicolo in un uomo di 
Stato, il riprendere pubblicamente come abusi alcune usanze, le 
quali con danno di moltissimi profittano a pochi; il mostrare 
necessarie e non difficili alcune riforme che sarebbero utili a 
tutti. Quando il gran cancelliere nel 1506 proponeva nella aua 
graziosa Utopia il modello di un virtuoso e felice Stato, era si 
può dir barbara l* Inghilterra : e fra quella tanta ferocia fa stu- 
pore la saviezza e la gentilezza del Moro. Ora dopo trecento 
anni ninna parte di Europa è tanto proceduta nel viver civile 
che non possa riconoscerne quasi nuovi e tuttavia assai lontani 
gli elementi in quel libretto. E pur troppo si rimarrà (chi sa 
ancora per quanti anni o secoli) nella estimazione di un romanzo. 
Ha in tanta importunità di romanzi di vani amori, e di strane 
e di sciocche avventure, che tuttodì si stampano e si leggono, 
speriamo che tra glMtaliani non debbano mancar lettori ad un 
antico romanzo di pubblica felicità. Slate sano; e stampate più 
ebe potete de* buoni libri; e il men che potete de*cattivi. 



DBL 

PARLAMENTO 

DI 

RAFFAELLO ITLODEO 

DELLO STATO 
DI DH' OTTIMA REPUBBLICA 

SCRITTO DA 

TOMMASO MORO. 



MoìO. 



UTOPIA 



TOMMASO MORO A PIETRO EGIDIO 



SALUTE. 



Mi arrosùsco di vergogna , Pietro carissimo, a man- 
darti quasi un anno dopo questo Uhretto dell' isola Uto- 
pia, il quale mi rendo certo che tu aspettavi in un mese 
e mezzo : come queUo, che sapevi moUo bene , che non 
aveva da affaticarmi nel rinnovare la materia, neanco ad 
ordinarla, avendola io con esso teco udita narrare da 
Raffaello. Per il che non mi occorreva di affannarmi nel- 
l'esprimerla con parlari esquisiti, quando non potè il 
dir suo esser molto eloquente, come quello che fu all'im- 
provviso, e di uomo non cosi dotto nella lingua latina 
come nella greca: e tanto più s'avvicinerebbe il mio alla 
verità, qtianto più alla trascurata semplicità di queUo si 
rassomigliasse. Confessoti, o Pietro mio, essermi per una 
tale considerazione scemala assai la fatica, perchè altri» 
menti avrebbe ricercato alquanto di tempo e di studio da 
ingegno dico ancora non ignorante né stupido. Se però- 
mi fosse stato richiesto che tal materia venisse scritta 
con stile eloquente, senza scostarsi dal vero, dirò vera- 
mente ch'io con niuna lunghezza di tempo >o di studio 
l*avrei potuto fare. Ora levaii via tali pensieri, nei qu^H 



4 

faceva mestieri sudare d'atmarUaggio , tutto agevolmente 
jìotevasi scrivere, siccome era stato udito : benché le mie 
altre imprese m'hanno lasciato pochissimo tempo a for- 
nire cosi leggiera cosa, trattando, udetìdo, determinando 
e giudicando io assiduamente le cause del foro , visi- 
tando or questo per benevolenza o mio debito, or quello 
fer eseguire le faccende importanti. Mentre però dispenso 
fuori quasi tutto il giorno, ed il rimanente per le mie 
cose famigliari, non resta a me, cioè alle lettere, tempo 
alcuno. Perchè ritornato che sono a casa, mi bisogna ra- 
gionare con la moglie, gridare coi figliuoli, parlare coi 
ministri. Tutte le quali cose io annovero in vero tra le 
più necessarie non volendo essere nella casa propria come 
forestiere. Perchè dobbiamo esser benigni verso coloro, 
che per natura, o a caso, o per nostra elezione ci sono 
slati dati compagni nel vivere, purché con la troppa be- 
nignità non si corrompa la disciplina, e i servi non di- 
ventino padroni. Tra questi travagli pckssa il giorno, il 
mese e l'anno. A qual tempo adunque scrivo? Non ho 
parlato di quello che si consuma nel mangiare e nel dor- 
mire, che occupa quasi la metà della vita. Io acquisto 
solamente quel tempo, che mi rubo dal sonno e dal man- 
giare. Ma perchè è poco ho proceduto lentamente ; tut- 
tavia con esso ho fornito, e alfln ti mando, o Pietro mio, 
V Utopia, perchè la legga, e mi ammonisca, ove mi fossi 
scordato qualche cosa. Quantunque non molto mi temo 
di questo. Cosi valessi io per dottrina ed ingegno, come 
non manco di memoria! Tuttavia non tanto in quella 
mi fido, che non perni potermi esser caduto qualche par- 
ticella di mente. Perché Giovanni Clemente mio figliuolo, 
che era presente , poiché non mai lo lascio scostare da 
alcun parlamento utile, sperando che qu£st'erba, la quale 
ha cominciato a verdeggiare , delle greche e latine let- 
tere, debba quando che sia produrre frutto copioso , mi 
pose in gran dubbio. Perchè , a mio ricordare , Itlodeo 
narrò che il ponte amaurotico sopra il fiume Anidro è 
lungo 500 passe. Giovanni mio dice che è solamente 300. 
Pregoti che vi pensi, perchè se affermerai il medesimo 



8 

con lui, penserò di avermi scordato qttesto : ma se non 
te lo ricordi, scriverò come ho detto, e sludierò di nar- 
rare il vero, e nei duibhj gitarderommi a mio potere da 
menzogna; stilando esser tenuto piuttosto uomo dab' 
bene che prudente. Potrai tuttavia intendere di questo o 
alla presenza o con lettere dallo stesso Raffaello , ed ù 
necessario che lo intendi ancora per un altro dubbio oc- 
corso, non so se per mia colpa o tua, ovvero di Ra/faelU 
medesimo. Perchè non ci venne in mente di chiedere da 
esso in guai mare era posta quest'isola, né in qual parte 
di quel mondo nuovo. Vorrei con alquanto del mio ri- 
comperare questa cognizione, perchè mi vergogno non 
sapere in qual mare ella sia, dovendone ragionare cosi 
a lungo, ed ancora perchè due de'nostri uomini, ma uno 
specialmente pio e teologo, brama di andare in Utopia, 
non già per curiosità di veder cose nuove, ma per au- 
mentare la cristiana religione, ivi cominciata. Ed ha 
disposto di farsi creare dal pontefice vescovo di Utopia, 
giudicando che sia fruttuoso il ricercare tale officio, non 
mirando all'onore né al guadagno, ma alla pietà. Pre* 
goti adunque, o Pietro, che alla presenza o con lettere 
vagli tanto intendere circa quest' isola da ItMeo , che 
non vi sia alcuna falsità, né vi manchi verità alcuna. 
E per mio avviso sarebbe comodo mostrargli questo libro, 
quando che ninno potrà megHo correggervi gli errori, e 
con pilb acconcio lo farà, avendo in mano questo mio 
scritto. Potrai ancora intendere quando gli piaccia ch'io 
mandi in pubblico quest* opera. Perchè s' egli avesse di' 
sposto di scrivere le sue fatiche, forse avrà a male ch'io 
le scriva, ed io altresì mi rimarrò di preoccupargli que* 
sto nuovo fiore di pubblicare la repubblica Utopiense : 
quantunque non ho determinato ancora s'io voglia pub* 
bucarla. Perchè sono tanto vari i gusti degli uomini , 
tanto difficili gli ingegni, tanto ingrati gli animi, e sconci 
i giudizi , che maglio riesce appo loro chi si dà buo^i 
tempo, che chi si affigge a comporre qualche opera, che 
possa giovare o dilettare. Molti non hanno lettere, e 
molti le sprezzano. Chi è barbaro giudica duro lo stile; 






6 

chi non è barbaro , quei che si tengono savi, sprezzano 
il parlare non copioso di parole antiche e già invec' 
chiate. Ad alcuni piacciono solamente le cose antiche, 
altri commendano solamente le loro proprie. Alcuni non 
si dilettano di motti: altri senza giudizio alcuno di 
niente si compiacciono ; alcuni per Vistabile ingegno non 
sanno fermare il giudizio. Altri, sedendo nelle taverne, 
tra il vino giudicano degli ingegni, dannando ciò che 
loro spiace, quantunque non abbiano egUno pelo alcuno 
di uomo dabbene, per il quale li possi pigliare. Sono ap- 
presso tanto sconoscenti, che quantunque loro piacciano 
sommamente le opere, tuttavolta odiano l'autóre, come 
usano di fare gl'inumani forestieri, i quali saziati lar- 
gamente nel convito, si partono senza render grazia al- 
cuna all' albergatore. Or fa un convito a tue spese ad 
uorfUni di cosi dilicato e vario gusto, e d'animo cosi ri- 
cordevole e grato. Tuttavia, o Pietro mio , fa quanto ho 
detto con Itlodeo , e potremo di nuovo consultare sopra 
di questo. E poiché già ho fornito la fatica di scriverlo, 
resta che non sia questo contra la sua volontà. Circa 
il darlo in pubblico, seguirò il consiglio degli amici, e 
specialmente il tìM. Sta sano, o dolcissimo Pietro Egidio 
con la ottima moglie tua, ed amami come sei solito, poi- 
ché io amo te più che mai. 



LIBRO PRIMO 



Giovanni Clemente, Itlodeo, Tommaso Horo, 
Pietro Egidio. 



Arendo Enrico Vili, invittissimo re d* Inghilterra, ed 
omatissimo d'ogni virtù che sì ricerchi in principe 
egregio, certa controversia con Carlo, serenissimo prin- 
cipe di Castella (1), mi mandò ambasciatore in Fiandra 
in compagnia di Cutberto Tunstallo, creato da esso re 
poco avanti tesoriere con comune allegrezza di tutti, 
delle cui lodi non ragionerò ; non già che io tema che 
l'amicizia, la quale tengo con esso renda meno fedele 
il mio testimonio di lui, ma perchè la sua virtù e dot- 
trina supera ogni mio sforzo di poterla magnificare, ed 
é tanto nota e illustre, che il mio volerla far più chiara, 
sarebbe con piccola luce far lume al sole. Ci vennero 
contro a Brugi (cosi era ordinato) quei che trattavano 
li bisogni del principe, uomini egregi ; ed era di quest'am- 
basceria capo il prefetto di Brugi , uomo magnifico , 
avendo seco quel veridico Giorgio Temsicio preposto 

(I) Poi Carlo y imperatore* 



S tnroMÀ. 

Gasseletano, non solo per arte, ma eziandio per natnra 
eloquente ; oltre che è nelle leggi peritissimo , e per 
lungo uso artefice esperto a trattare quest'imprese. 
Avendo una e due fiate parlato insieme, né essendo 
d' accordo in alcune cose , essi andarono a Brusselles 
per intendere la mente del loro principe. Io, come por- 
tavano i casi miei, andai in Anversa, ove fui visitato 
da molti, e spesso da Pietro Egidio, anversano, e tra 
suoi nobilissimo, giovane non meno dotto che costu- 
mato, e verso gli amici tanto |pronto con amore, fede 
e sihcero affetto, che a fatica Troverei uno che lo rag- 
guagliasse nell'essere in ogni atto d' amicizia singolare. 
Egli è dì rara modestia senza finzione alcuna, e di sin- 
golare semplicità. Il suo parlare è tanto piacevole e 
senz'altrui offendere giocondo, che il desiderio mio dì 
rivedere la patria, la moglie ed i figliuoli miei, i quali 
già più di quattro mesi non avea veduto, meno mi afflìg- 
geva, godendo la sua dolce conversazione e gratissimo 
parlamento. Essendo io un giorno a messa nella ma- 
gnifica chiesa di santa Maria, molto dal popolo frequen- 
tata, e già stando per ritornarmi all'albergo, io veggo 
a caso Pietro ragionare con un forestiero che già co- 
minciava ad invecchiare, con faccia adusta, lunga barba 
ed il mantello che gli pendeva dalla spalli, come colui 
che di ciò poca cura si pigliava: e nel volto e nell'a- 
bito lo giudicai un nocchiero. Pietro, vedutomi, venne 
a salutarmi, e, trattomi da parte, mi disse: vedi tu co- 
stui? (e mostrommi quello col quale l'aveva veduto 
parlare) già mi affrettava di condurlo a te. Egli, diss'io, 
mi sarebbe stato per tua causa gratissimo. Anzi, rispose 
Pietro, l'avresti avuto caro per sé stesso, perchè non 
vive ora uomo alcuno, che tanta storia di uomini e 
paesi non conosciuti ti possa narrare , del che so che 
sei sommamente bramoso. Risposi io : non mi ha ingan- 
nato il giudizio, perchè nel primo aspetto mi parve un 
nocchiero. Tu pigli errore, disse Pietro; perciocché egli 
ha navigato non già come Palinuro, ma come Ulisse o 
Platone. Costui si chiama Raffaello e per cognome Itio- 



LIBBO PBIMO. 9 

deo (i) , non ignorante della iingna latina , ma della 
greca peritissimo, in cui egli s' è più esercì tato, perchè 
datosi tutto alla filosofia, nella quale però non ha letta 
in latino cosa di momento, se non alcuna di Seneca e 
di Cicerone. Costui è di Portogallo, e lasciato a' suoi 
fratelli il patrimonio, per desio di veder del mondo ^ 
si accostò ad Americo Vespucio, e nelle tre ultime di 
quelle quattro sue navigazioni tanto famose gli fu di 
continuo compagno; se non che nell'ultima non ritornò 
con lui. Anzi quasi con violenza da esso ottenne di 
essere tra quei ventiquattro, che nel fine del navigare 
si lasciavano nel Castello. Cosi fu lasciato per piacere, 
essendo egli più curioso di j[)eregrinare, che di fabbricarsi 
un sepolcro; ed è solito di dire: e Viene coperto dal 
cielo chi non ha sepoltura {%), e da ogni luogo è tanta 
via al cielo come dall'altro. » Il qual discorso gli sa- 
rebbe costato caro, se Dio per sua benignità non lo 
avesse aiutato. Partito Yespucio, egli andò con cinque ca- 
stellani a veder molti paesi, e con buona sorte afferrò 
a Taprobana ed indi pervenne a Calicuta (3), ove trovate le 
navi de' Portogallesi, tornò contra ogni suo sperare nella 
patria. Udito questo, gli rendei grazie della sua umanità, 
che si avesse pigliato cura di farmi ragionare con uomo, 
il cui parlamento sapeva essermi gratissimo : e salutato 
Raffaello, dopo quelle comuni parole d'amendue, che 
con forastieri si sogliono usare nel primo incontrarsi, 
andammo alla casa mia. E sedendo nell'orto sopra uno 
scranno di cespugli , egli ci narrò come partito Ye- 
spucio, esso e i compagni lasciati nel Castello conìin- 



(1) Che sonerebbe per noi contastorie t se mai a tal nome può 
darsi greca derivazione. 

(2) Lucano, FarsagHa^ lib. XI, ver. 819. 

(3) Cosi il testo: L^Editor milanese lo corresse ponendo senza 
più : pervenne a Taprobana {Ceylan) ed annotò: Era opinion gene*- 
rale dlquoUempi, che rAmerica comunicasse, per terra, coirin-* 
dia, di cui sapponevasi formare la parte occidentale. 

Nella Gaiana collocavasi il famoso paese di Eldorado ^ di cui 
vedasi nella relazione di sir Walter Raleigb con quanta creda- 
UU i viaggiatori andassero in cerca. 



io UTOPU. 

ciarono con benignftà a praticare con le genti del paese 
e indi a poco tempo trovarsi tra loro famigliarmente ; 
per esser giunti ad an principe di quella regione , il 
nome del quale non si ricordava, il quale benignamente 
provvide a lui ed ai cinque compagni la spesa per lo 
viaggio, con una fedelissima guida, con zattere per acqua 
e in carro per terra , da cui erano condotti ad altri 
principi con la diligente raccomandazione di questo. Mi 
narrava egli di aver veduto molte terre, città e repub- 
bliche bene ordinate. E che sotto la linea equinoziale, 
d'amendue le parti, quanto è largo il cerchio del sole, 
erano gran solitudini dal continuo caldo arsicciale e 
squallide, abitate da fiere e da serpi, ovvero da uomini poco 
men che le bestie feroci e nocivi. Ma che passando as- 
sai più avami, ogni cosa vi si trova domestica. L'aria 
meno aspra , il terreno con più grata verdura , e gli 
animali più benigni. Finalmente si scoprirono popoli, 
città e terre che fanno mercato tra loro, e con paesi 
lontani e vicini. Indi egli potè di qua e di là andare a 
vedere molti paesi, perchè ninna nave si apparecchiava 
a viaggio, nella quale esso ed i compagni non fossero 
benignamente accettati. Le navi da lui vedute nelle 
prime regioni aveano la sentina piana , le vele di pa- 
piro o di vimine, ed altrove di cuoio. Trovarono poi 
navi con la sentina acuta e le vele di canape: nel ri- 
manente del tutto alle nostre simili, ed i nocchieri 
esperti del mare e dell* aria. E dice che fece cosa gra- 
tissima a quelli mostrando loro l'uso della calamita, il 
quale non sapevano ancora. Laonde poco navigavano 
nel verno. Ed ora, fidandosi di quella pietra, navigano 
ancor nel verno tenendosi sicuri ; quantunque potrebbe 
tal sicurezza per r imprudenza causare loro molti mali. 
Sarebbe lungo narrare particolarmente ogni cosa da lui 
veduta in qualunque luogo ; ma forse ne ragionerò al- 
trove : specialmente di quelle cose , la cui cognizione 
può giovare, come gli ordini di ben vivere da lui con- 
siderati nelle repubbliche : perchè noi di queste cose a 
preferenza l'interrogavamo, delle quali esso volentieri 



LIBRO PRIMO. il 

ragionaTa, tacendo de' vari mostri tanto frequenti che 
non sono tenuti per cose nuove. Trovavansi quasi in 
ogni luogo scille , arpie rapaci e lestrigoni , che man- 
giano carne umana. Molti nuovi popoli malamente in 
alcune cose ordinati^ ed ancora altri esempj de' buoni 
istituti^ con i quali si, potrebbono correggere; questi 
furono da lui notati, dei quali altrove parleremo. Ora 
ho determinato di narrare solamente quanto egli disse 
dei costumi ed ordini degli Utopiensi; premettendo 
un parlare, mediante il quale perveniamo a ragio- 
nare di questa repubblica. Avendo Raffaello pruden- 
tissimamente narrato molti errori qua e là veduti, 
e molti buoni istituti cosi appo noi come appo loro 
ordinati, ed avendo in memoria la forma del vivere di 
quei popoli , non meno che se avesse passato tutta la 
sua vita in ogni terra, ove si era trovato ; Pietro, ma- 
ravigliandosi di lui, disse: io stupiscono Raffaello, che non 
ti accosti a qualche re, al quale veramente saresti ca- 
rissimo; quando che con tale dottrina e perizia dei 
luoghi e degli uomini non solo potresti dargli diletto, 
ma eziandio ammaestrarlo con esempj , e con consigli 
alutarlo ; e parimente provvedere a' casi tuoi ed al co- 
modo de' tuoi parenti ed amici. Rispose^i : non mi pi- 
glio molta cura coi miei, verso i quali parmi di aver 
già fatto il debito mio , avendo nella mia gioventù , e 
trovandomi sano , distribuito tra amici e parenti quei 
beni, che gli altri nella vecchiaia e vicini a morte mal 
volentieri lasciano; e penso che debbano starsi con- 
tenti di questa mia benignità , senza aspettare che per 
loro causa io mi faccia servo dei re. Io, disse Pietro ^ 
non chiamo questa servitù ^ ma giudico esser via ac- 
concia non solamente di giovare agli altri in pubblico 
e privatamente, ma eziandio a fare lo stato tuo più fe- 
lice. Come lo farei, disse Raffaello, più felice con quella 
via dalia quale tanto l'animo mio abborrisce? Ora io 
vivo a mia voglia, il che per mio avviso avviene a po- 
chi cortigiani. Assai sono quelli che bramano l'ami- 
cisia di uomini potenti; laonde Ila poco danno se que- 



12 UTOPIA. 

sti mancheranno di me, o d'un altro a me simile. Al- 
lora, diss' io, è noto, o Raffaello, che tu non brami ric- 
chezze né potenza, ed onori più un uomo del tuo pa- 
rere^ che ogni re o principe. Ma farai impresa degna dì 
te, e di quest'animo generoso e veramente filosofo, se 
con qualche tuo particolare disconcio accomoderai que- 
sto tuo ingegno ed industria a giovare al pubblico: il 
che non puoi fare con maggior frutto, che essendo con- 
sigliere di qualche principe, persuadendolo ad opere 
giuste ed oneste, come certo mi credo che farai. Per- 
'Ciocchè un fiume di tutti i beni e mali deriva dal prin- 
cipe , come da una fonte, nel popolo. E in te è tanta 
dottrina^ che senza r esperienza di cose grandi, e tanta 
perizia di molte cose, che senza dottrina potresti essere ad 
ogni re egregio consigliere. Ti pigli errore in due modi, o 
Moro mio, rispose Raffaello, prima in me, e poi nella cosa 
I stessa : perchè non è in me la facoltà che mi assegni^ 
e posto che vi fosse , io turbando la mia quiete , non 
gioverei punto alla repubblica. Primieramente i prin- 
cipi si occupano piuttosto negli studj della guerra, della 
quale io sono inesperto, che in arti di pace ; e più stu- 
diano ad acquistare nuovi regni, che a ben governare 
gli acquistati. Oltre di questo ninno de' consiglieri dei 
re è tanto savio che non abbia bisogno, o tanto si tiene 
savio, che non condescenda a confermare l'altrui con- 
siglio, come che sia sconvenevole ; e non vada a verso 
a coloro, che veggono essere più grati al principe. 
Siamo tali per natura che ognuno si compiace de' suoi 
trovamenti. Cosi piacciono al corvo i suoi polli ed alla 
scimia i propri fighuoli. Se alcuno in quella compagnia 
d'invidiosi, e che prepongono le proprie cose alle al- 
trui, narrerà qualche cosa letta da lui, che sia stata 
fatta per altri tempi o veduta in altri luoghi ; quei che 
odono si pensano che ogni loro reputazione di sapienza 
sia giudicata vana, ed essi per pazzi tenuti, non sapendo 
che riprendere negli altrui trovamenti. E mancando loro 
ogni via, ricorrono al dire : tali cose piacquero ai nostri 
maggiori, la cui prudenza piacesse a Dio che potessimo 



LIBRO PRIMO. i3 

ragguagliare : e ^ come avessero al tutto Tìnto ^ si ac- 
chetano. Quasi fosse uno strano pericolo il ritrovare al- 
cuno più prudente dei nostri maggiori^ ì cui buoni con- 
sigli lasciamo però da parte, e trovato qualche miglior 
consiglio di subito lo teniamo strettamente. Ed io so- 
vente mi sono abbattuto altrove^ ed una fiata in Inghil- 
terra, in questi superbi, sciocchi e diflBcili giudizj. Sei 
stato, diss'io, appo noi? Vi fui, rispose Raffaello, non 
molto dopo quella misera sconfitta, quando la guerra 
civile degli Inglesi occidentali contro il re fu con loro 
miserabil strage finita. In quel tempo molto ebbi da rende- 
re grazie a Giovanni Mortono , arcivescovo cantuariense 
e cardinale, e dell'Inghilterra in quel tempo cancelliere; uo- 
mo, o Pietro mio (non dico a Moro che lo conobbe), non 
meno per sua prudenza venerabile, che per virtù. Era egli 
di statura mediocre, e robusto nella molta età ; la faccia 
piuttosto da esser riverita che temuta ; nel parlare affa- 
bile ma con gravità. Dilettavasi.di parlare con qualche 
asprezza ai supplicanti, senza però offender quelli. Cer- 
cava di spiare che ingegno, che ardire avesse ciascuno, 
e trovandovi la virtù alla sua somigliante, se ne ser- 
viva nelle imprese. Era nel parlare elegante ed efficace : 
perito nelle leggi civili, di mirabile ingegno e prodigiosa 
memoria. A tanta altezza lo condusse l'egregia natura 
col suo esercitarsi nel parlare e nel bene operare. Pa- 
revami che il re molto credesse a' suoi consigli , e si 
fermasse in. lui la repubblica, come in quello che dalla 
sua gioventù fu dalla scuola spinto nella corte; ed a 
sua età aveva praticato in alte imprese, e con vari 
travagli di fortuna era stato continuamente conquas- 
sato ; ed avea imparato la prudenza delle cose tra grandi 
pericoli, la quale cosi appresa non facilmente si perde. 
Trovandomi alla sua tavola , un laico perito delle vo- 
stre leggi, presa non so quale occasione, cominciò a 
commendare quella rigida giustizia contra i ladri, la 
quale ivi allora esercitavasi , e che tal fiata ne erano 
stati appesi venti ad una forca : laonde si maravigliava 
donde avveniva che si trovassero tanti ladri, quando che 



14 UTOPU. 

cosi pochi scampavano dal supplicio. Allora io^ avendo 
ardire, alla presenza del cardinale gli risposi: non ti 
maravigliare di questo ; perciocché tal supplicio è fuori di 
giustizia, né giova al pubblico, essendo troppo atroce a pu- 
nire i furti, né bastante a raffrenarli. Certamente il semplice 
furto non é tanto peccato che si debba con morte punire. 
Né alcuna pena, per grande ch'ella sia, può raffrenare 
dai latrocini quei che non hanno imparato arte alcuna 
di acquistarsi il vivere. In questo non voi soli, ma 
buona parte del mondo imita i cattivi precettori, i quali 
battono più volentieri gli scolari che insegnare a quelli. 
Si determinano contra i ladri gravi supplici , quando 
piuttosto era da provvedere che avessero onde guada- 
gnarsi il vivere, perchè non venissero a cosi strana 
necessità di rubare, e poi perdervi la vita. È loro prov- 
visto copiosamente, rispose colui : sonovi le arti mec- 
caniche e l'agricoltura: con queste si potrebbono prov- 
vedere, quando non volessero spontaneamente esser 
cattivi. Non vale questa ragione, diss'io. Tacciamo pri- 
mieramente di coloro che dalle guerre esterne o civili 
tornano a casa troncati dei membri, come poco fa av- 
venne appo voi dalla guerra cornubiense , e non già 
gran tempo dalla francese, i quali per la repubblica o 
per difendere il re hanno perduto i membri: questi 
non possono per la debolezza esercitare le solite arti , 
né per Tetà impararne d'altre : tacciamo dico di questi, 
quando le guerre succedono l'una all'altra. Consideriamo 
quelle cose che ogni di avvengono. Tanto è il numero 
dei nobili, i quali come api inutili, stanno in ozio , e 
radono fin sul vivo i loro lavoratori per accrescere le 
proprie entrate. Perché non sanno questi dissipatori 
altra via di acquistare, e si menano dietro un gregge 
di servitori che non hanno imparato arte alcuna. Que- 
sti , morto il padrone , ovvero infermandosi , vengono 
cacciati di casa: perchè li nodriscono più volentieri 
oziosi che infermi : e spesse volte l'erede del morto non 
può nodrire tanta famiglia cosi di subito : laonde essi 
sono dalla fame assaliti fieramente, se non sono a ru- 



LIBRO PROIO. 15 

bare valorosi. E che altro possono fare? Quando che se 
vanno alquanto tempo errando^ consumano le vesti e 
infermano : laonde essendo poi squallidi per Tinfermità 
e vestiti di grossi panni , non si degnano i nobili di 
riceverli, e i contadini temono di accettarli, sapendo 
che l'uomo nodrito nell'ozio in delizie , ed avvezzo di 
andare con la spada e fiero viso sprezzando la vici- 
nanza, non è atto con la zappa e la marra di guada- 
gnarsi il parco vivere e servire ad un povero fedel- 
mente. Rispose colui : dobbiamo noi mantenere simili 
uomini, che sono di più generoso spirito che gli arte- 
fici e i contadini. Questi sono i nervi dell'esercito. Con 
la stessa ragione, diss'io, manterremo i ladri, de' quali 
non mancherete, sin che avrete tali uomini. Sono gli 
assassini buoni soldati, e i soldati gagliardi assassini : 
tanto queste arti si rassomigliano insieme. Questo vizio 
però è quasi comune a tutte le nazioni. In Francia è 
una peggiore pestilenza : tutta la patria è piena di sol- 
dati stipendiar] quando è pace, se però quella si può 
chiamar pace, con quest' i stessa persuasione, che sia 
bene avere uomini esercitati alla guerra, ]a quale si 
debba quasi cercare, acciocché, come dice Sallustio, la 
mano e l'animo non comincin per ozio ad intiepidirsi. 
Ma quanto sia pernicioso nodrire queste bestie, la Fran- 
cia con suo danno se ne è avveduta, e gli esempi dei 
Romani, Cartaginesi e Soriani lo manifestarono : quando 
che tali uomini non solo rovinarono l'imperio di quelli, 
ma le città ancora ed i campi. Mostrasi ancora che 
questo non vi sia necessario, che i soldati francesi dalla 
puerizia nelle armi esercitati sono stati vinti dal vo- 
stro esercito raccolto allora : non dirò più, per non es- 
ser tenuto assentatore. Quei vostri artefici e contadini 
non sogliono temere di questi spadaccini, i quali tenuti 
deliziosamente diventano di animo vile ed effemminato. 
Finalmente non mi pare che giovi questo per stare ap- 
parecchiati alla guerra, la quale non avete se non quando 
vi piace. Avvi poi un'altra necessità di rubare, a voi 
particolare. Quale è questa? disse il cardinale; ed io 



16 UTOPIA. 

risposi: le vostre pecore, le quali per addietro furono 
tanto mansuete e parche nel mangiare, ed ora sono 
tanto feroci e divoratrici, che consumano gli uomini, 
i campi, le case e le città. Perchè ove nel regno nasce 
lana più sottile e di maggior prezzo, ivi i nobili ed al- 
quanti abati santi uomini, non contenti delle entrate 
annuali che sogliono pigliare dei loro larghi poderi, né 
bastando loro di vivere delicatamente, senza giovare 
alla repubblica, anzi noiandola, rovinano le case, ab* 
battono le terre per lasciare alle pecore più larghi pa- 
schi. Come se occupassero poco terreno le selve e i 
vivai, quei buoni uomini fanno dei luoghi abitati e col- 
tivati un deserto. Così, perchè un insaziabile divora- 
tore rinchiuda infiniti campi, sono cacciati i lavora- 
tori, e con inganni privati dei loro beni, o con ingiu- 
rie contìnue astretti a venderli. Cosi pur sono i miseri 
forzati a partirsi, maschi e femmine , moglie e mariti, 
orfani e vedove, padri con i piccioli figliuoli , e fami- 
glia piuttosto numerosa che ricca. Sì partono, dico, dai 
soliti luoghi senz'aver dove ridursi; le povere masse- 
rizie sono vendute a vii prezzo : il quale poiché hanno 
in breve tempo consumato errando qua e là, che altro 
possono fare che rubare ed essere appiccati (vedete voi 
con qual giustizia) ovvero mendicare? benché allora 
sono imprigionati come poltroni che non vogliono la- 
vorare; e quantunque essi più che volentieri lavore- 
rebbero, essendo condotti al lavoro. Ma non lavoran- 
dosi il terreno, che è Tarte loro, altro non sanno che 
si fare : quando che un pecoraro ed un bifolco bastano 
a coltivare quel terreno, il quale prima aveva bisogno 
di molte mani. Perciò la vittovaglia in molti luoghi è 
cara. Il prezzo delle lane tanto è cresciuto, che i po- 
veri, usati di fare i panni appo voi , non ne possono 
comperare, e perciò molti stanno in ozio. Ed aumen- 
tati i pascoli, una pestilenza, per divina vendetta, ha 
ucciso infinite pecore, là quale più giustamente doveva 
uccìdere gli avari padroni ; tuttavia quantunque cresca 
il numero delle pecore, non iscema il prezzo delle lane. 



LIBRO PHlMO. il 

Perchè sono in mano di pochi e ricchi, i quali le ven- 
tlono quanto loro piace, perchè non sono astretti di 
venderle. Sono cari eziandio gli altri animali , perchè 
rovinate le ville non v'è più chi abbia cura di alle- 
varne. E i ricchi non cosi pigliano cura di allevare altri 
animali, come le pecore; anzi comperandoli altrove 
magri , poiché sono ingrassati nei loro pascoli , li ri- 
vendono a gran prezzo. Questo incomodo non ancora 
si comprende al tutto. Ma poiché saranno esausti quei 
luoghi ove si comprano, quivi ne patirete estrema ca- 
restia; dalla quale specialmente era libera quest'isola. 
Causa questa penuria, che i padri di famiglia man- 
dano via di casa quanti possono: e dove? Se non a 
mendicare, ovvero a rubare, al che s'ono piuttosto per- 
suasi gli animi generosi. A questa misera povertà si 
aggiunge il vivere lussurioso e dilicato, perchè i fami- 
gliari dei nobili, gli artigiani e i contadini vestono troppo 
sontuosamente, ed usano cibi troppo delicati. Nei po- 
striboli, nelle taverne, nei vari giuochi impoveriscono, 
laonde poi sono astretti di andar a rubare. Cacciate 
queste perniciose pesti, ordinate che rifacciano le ville 
e le terre coloro che le hanno rovinate, o che le la- 
scino da altri riedificare. Raffrenate le compre di que- 
sti nobili, rimettete in assetto Tagri coltura ed il lavo- 
rio di lana ; acciocché si possano occupare questi ladri 
per povertà, e i mendichi, ovvero gli oziosi ministri. 
Se non provvedete a questi mali, invano si commenda 
la severa giustizia contra i ladri', piuttosto bella, che 
onesta ed utile. Perchè allevarli pessimamente in cor- 
rotti costumi, e volerli punire quando sono cresciuti 
nel vizio, altro non è che farli ladri per appiccarli. 
Erasi quel giureconsulto apprestato di usare il costume 
de*disputanti, i quali meglio replicano le cose dette, che 
rispondono; e disse: Tu, essendo qui forestiero , otti- 
mamente hai parlato, come io ti mostrerò, replicando 
le tue ragioni, ed a quelle rispondendo. Cominciando 
dai primo, parmi che quattro cose .... Taci, gli disse 
il cardinale, perchè vuoi esser troppo lungo nel rispon- 

Uoro, ? 



18 . UTOPIA* 

dere: ma ti riservo per il seguente giorno, se non oc- 
corre altro impedimento. E volto a me disse^ vorrei, o 
Raffaello, da te sapere, con qual fondamento gindichi 
che non si punisca il furto con morte, e qual pena tu 
assegneresti ai ladri, che fosse alla repubblica più utile, 
quando che non tu ancora pensi che si debba tollerare 
il furto? E se la morte ora non ispaventa ì ladri, se 
fossero della vita sicuri, qual forza lì raffrenerebbe? 
Farmi, risposalo, iniquità tórre la vita all' uomo , per 
aver egli tolto i danari; perchè niun bene umano si 
può con la vita ragguagliare. Se diremo che si appen- 
dono per aver violato la giustizia e le leggi ; non chia- 
meremo noi quella somma giustizia, una somma ingiu- 
ria? Né si commendano le leggi tanto imperiose, che 
per minimo errore stringano la spada, né tanto stoiche 
che giudichino i peccati essere eguali, come uccidere 
l'uomo e rubare denari. Dio vietò l'uccisione, e nói 
cosi prontamente uccidiamo per picciolo furto? Se dirà 
alcuno l'omicidio esser vietato, quando non è dalla 
legge umana ordinato, potrà questa legge ancora ordi- 
nare che si adulteri o spergiuri. Avendo Iddio ordinato 
che Tuomo non uccida altri, neanco sé stesso ; se pos- 
sono gli uomini ordinare che si uccida alcuno senza 
la divina autorità, valerà il divino precetto quanto le 
umane leggi consentono : ed ordineranno gli uomini in 
ogni cosa in che guisa si hanno da osservare i divini 
precetti. La legge mosaica, benché aspra, punì il furto 
con danari, non con morte. Non pensiamo già che Dio 
nella nuova legge di clemenza ci abbia concessa mag- 
gior licenza di crudeltà. Così volendo noi punire egual» 
mente i ladri e i micidiali , facciamo i ladri micidiali, 
i quali aspettando V istesso supplicio , uccidono spesse 
fiate colui che rubano, per assicurarsi che sia il furto 
nascosto. Circa la punizione che sia convenevole di 
dare ai ladri, ninna è più comoda di quella, che tanto 
piacque ai Romani , nel maneggio della repubblica pe- 
ritissimi. Essi dannavano a cavare metalli e pietre co- 
loro che erano convinti di gravi colpe. Quantunque io 



LIBRO PRIMO. 19 

più commendi l'istituto che vidi pellegrinando in Persia 
tra i Polileriti, popoli òttimamente istituiti, e Uberi nel- 
l'oso della loro legge, pagando solamente un tributo al 
re di Persia. Ma perchè sono dal mare lontani e da 
monti circondati, stanno contenti dei frutti che na- 
scono nei loro campi assai ben fertili, laonde vanno di 
raro ad altri popoli, e pochi vanno a loro. E per co- 
stame antico non istudiano di ampliare i loro confini, 
i qaai sono con i monti da esterna ingiuria difesi. Cosi 
vivono felici, e pagando il loro tributo, sono da ogni 
altra gravezza esenti, e perciò solamente dai vicini po- 
poli conosciuti. Chi è convinto di furto, lo rende al 
padrone di quello; non al principe, come si fa altrove, 
parendo loro che tanta ragione abbia il principe nella 
cosa rubata, quanta vi ha il ladro. Non trovandosi il 
furto, pagasi de*beni del ladro, ed assegnato il rimanente 
alla moglie ed al figliuoli di lui, egli è dannato a la- 
vorare : e se non ha commesso qualche gran furto, non 
è imprigionato , né porta i ceppi , ma libero e sciolto 
si esercita nelle opere pubbliche. Quei che non vo- 
gliono sottostare a questa pena, sono piuttosto battuti 
che imprigionati ; quelli che si affaticano gagliardamente 
non patiscono ingiuria alcuna. La notte chiamati per 
nome, vengono rinchiusi in certe camere, né altro in- 
comodo sostengono che r affaticarsi di continuo. Sono 
cibati comodamente del pubblico. Raccogliesi in alcun 
luogo il loro vivere per elemosina, la quale per la pietà 
di quel popolo basta d'avvantaggio a nodrirli. Altrove 
si deputano a ciò entrate del pubblico. In alcun luogo 
ognuno contribuisce a nodrire questi tali. Ed in altri 
non lavorano in opere pubbliche; ma ciascuno, come 
gli fa mestieri, li conduce a lavorare a giornata , con 
mercede alquanto minore di quella che si dà ad uomo 
libero ; ed è lecito castigare la dappocaggine dei servi con 
battiture: cosi stanno sempre in esercizio, ed oltre il 
vivere loro, ogni di danno qualche cosa nell'erario. Ve- 
stono essi soli d'uno stesso colore, con i capelli ta- 
gliati sopra le orecchie , una delle quali lor tagliano i 



20 UTOPU. 

Possono i loro amici dar loro mangiare e bere, ed abiti 
del lor colore ; ma v'è pena la tes(a a chi dà loro da- 
nari, e ad essi che li ricevono. Non è pericolo minore 
ad uno libero che ricevesse danari da un servo (cosi 
chiamano essi i dannati), e parimente ai servi che toc- 
cassero arme. Ogni regione fa un segno particolare ai 
suoi, ed è pena la vita levarselo via, siccome ancora 
uscire de'suoi confini, e parlare con servo di altra re- 
gione. L' aver disposto di fuggire è pena la testa ; il 
servo consapevole di questa fuga vi lascia la vita, e 
il libero cade in servitù. Il libero che avvisa di que- 
sto fuggire ne riceve danari, ed il servo libertà, ed è 
loro perdonato di aver partecipato in questo consiglio. 
Questo è rordine di quel paese circa i ladri , la cui 
umanità e comodo facihnente si vede, quandoché pu- 
nisce il vizio e castigalo, trattandoli in tal guisa, che 
sono astretti ad esser buoni. £ tanto è indubitato che 
non tornano ai passati costumi , che i viandanti si ten- 
gono sicurissimi, avendo per guida uno di questi servi : 
perchè sono senz'arme, con tanto pericolo se loro fos- 
sero trovati danari, e senza speranza di fuggire, avendo 
abito differente dagli altri , onde noi potriano se non 
ignudi, ma l'orecchia tagliata li farebbe conoscere. Non 
possono ancora disporsi a fuggire, poiché tanto peri- 
colo portano i consapevoli di questa fuga, ed un tal 
premio chi la manifesta j né possono parlare con i serri 
delie altre regioni. E tutti sperano portandosi bene di 
acquistare la libertà ; perchè ogni anno se ne francano 
alcuni, veduta dai magistrati la loro pazienza. Avendo 
io narrato questo, ed aggiuntovi, che introducendo in 
Inghilterra simil costume, ne riuscirebbe maggior frutto 
che di quella giustizia, tanto da quel giureconsulto com- 
mendata ; egli rispose : non si potrebbe stabilire que- 
st'ordine in Inghilterra che non venisse la republtiica 
in gran pericolo ; e, torta la bocca, tacque, confermando 
tutti il parere di quello. Allora il cardinale disse : tu 
sei molto pronto ad indovinare prima che se ne vegga 
la prova. Ma potrebbe il principe sentenziare a morte 



LnSRO PRIMO. 21 

i colpevoli, e non eseguendo la sentenza, aspettare il 
successo di questa benignità sua, vietando intanto che 
non si possano ridurre in luogo di franchigia , e non 
riuscendo in bene, eseguire la giustizia ; né potrebbe di 
questo nascere pericolo alcuno. Si potrebbe trattare pa- 
rimente i mendichi, contro i quali sono fatte invano tante 
leggi. Detto questo dal cardinale tutti confermarono il 
mio parere, ma sommamente commendarono quello che 
aveva detto il cardinale dei mendichi. Seguirono poi cose 
ridicolose, le quali narrerò pure, da che non son triste. 
Eravi certo parassito, il quale facendo il matto rideva di 
lui, e talora confermava i detti suoi. Dicendo uno, ch'io 
aveva acconciamente provveduto ai ladri, ed il cardi- 
nale ai mendichi, ma che restava di provvedere a quei 
poveri, che per infermità o vecchiaia sono impoveriti : 
Io, rispose il parassito, provvedere a questi ; perchè già 
sono fastidito dai loro pianti e miserabili domande , 
colle quali tuttavia non mi hanno potuto cavare di 
mano un danaro. Perciò quando passo non più mi ri- 
cercano di elemosina , non sperando da me cosa al- 
cuna , come s' io fossi sacerdote ; ma io con una legge 
ho provvisto che sieno distribuiti pei monasteri he- 
nedetlini, i maschi come del terz' ordine, eie femmine 
come pinzochere. Il cardinale con un riso commendò 
il suo parere. Un frate teologo si mostrò molto lieto 
contra i sacerdoti e i monaci , e disse : neani;o in tal 
guisa ti espedirai dai mendichi, non provvedendo a noi 
frati. A questo è provveduto , disse il buflfone, perchè 
avendo provveduto il cardinale ai mendichi vagabondi, 
a voi ancora è provveduto , che siete medesimamente 
vagabondi mendichi. Mosse questo matto tutti a riso, 
vedendo che se ne prese giuoco il cardinale; ma il 
frate non già, il quale, spruzzato di tale aceto, si sde- 
gnò in guisa, che svillaneggiando il buffone lo chiamò 
detrattore, figliuolo della perdizione , minacciando con 
sentenze delia sacra scrittura. Allora il buffone da do- 
vero buffoneggiando disse : non ti sdegnare o frate : 
perchè gli 6 scritto : t jNella pazienza vostra possedè- 



28 ^ UTOPIA. 

rete le anime vostre » . Non mi sdegno, rispose il frate, 
ladrone, e non pecco, dicendo il salmista : < Sdegna- 
tevi, e non vogliate peccare » . Ed essendo dal cardi- 
nale benignamente ammonito , cbe si temperasse , egli 
rispose : Io parlo , signor mio , solamente per buono 
zelo , come fecero i santi uomini , laonde è scrit- 
to : «Lo zelo della casa tua mi mangiò. > Coloro 
che schernirono Eliseo sentirono quanto poteva lo 
zelo del calvo ; come sentirà forse questo ribaldo beffa- 
tore. Forse ti muovi, disse il cardinale, a buon zelo; 
ma faresti da prudente a non ti fare con un buffone 
schernire. Non farei, signor mio, rispose egli, più sa- 
viamente a tacere, dicendo il savio Salomone : « Ri- 
spondi al pazzo secondo la sua pazzia > : e se furon i 
puniti molti per ischernire un calvo ^ che seguirà a 
questo beffatore dei molti frati, tra i quali sono assai 
calvi, ed abbiamo privilegio papale che chi ci beffeg- 
gia sia scomunicato. Il cardinale vedendo costui non 
far fine accennò al buffone che si partisse, e mutato 
acconciamente il parlare, poco appresso diedesi ad udire 
le cause de' suoi clienti, e ci mandò via. Ecco, o Moro, 
quanto ho ragionato a lungo, vedendo che ti piaceva 
udire a punto il tutto: ed era necessario ch'io lo nar- 
rassi per farti vedere il giudizio di quelli che aveano 
sprezzato il mio parlare, e poi come parassiti lo con- 
fermarono, vedutolo confermare dal cardinale; laonde 
puoi comprendere quanto stimerebbono i miei consi- 
gli i cortigiani. Io gli risposi : il tuo prudente e sol- 
lazzevole parlare, o Raffaello , mi è sommamente pia- 
ciuto ; e mi è paruto, non solo trovarmi nella patria^ 
ma eziandio ringiovenire con la gioconda memoria di 
quel cardinale, nella cui corte fui da fanciullo nodrito ; 
ed amoti assai più, vedendoti alla memoria di tant'uomo 
affezionato. Tuttavolta sono pur del medesimo parere, 
che non ti spiacendo tanto, vegli entrare nella corte 
di un principe, dicendo il tuo Platone : saranno felici 
le repubbliche che si reggeranno dai fllosofl, ovvero 
se i re si daranno alla filosofia. Quanto si alloata- 



LIBBO PRIMO. ^ 

nera la felicità , se non vorranno i filosofi fare par- 
tecipi i re de' consigli lorot Anzi lo farebbero vo- 
lentieri^ e lo banno già fatto 'coi loro scritti , quando 
che volessero i principi ubbidire ai buoni avvisi. Ma 
ben previde Platone, che non filosofando i re, essi : ma- 
lamente istrutti dalla fanciullezza, sprezzerebbero i con- 
sigli dei filosofi , com* egli vedeva per prova appo Dio- 
nisio. S'io proporrò ad un re sani decreti, rigettando 
i cattivi semi, sarò da lui cacciato o schernito. Po- 
niamo ch'io fossi nel consiglio del re di Francia, e che 
tra buon numero di uomini prudentissimi si trattasse con 
quali arti si dovesse tener Milano , pigliare Napoli, 
andar centra i Veneziani , ed occupare i paesi vicini , 
confederarsi con i principi , e partecipare con quelli 
del bottino. Consigliano alcuni che si conducano Ale- 
manni, altri che si plachino con danari gli Svizzeri , 
altri che si diano danari all'imperatore, altri che si 
faccia accordo col re d'Aragona, lasciandogli il regno 
di Navarra. Ad altri piace che si faccia speranza al 
principe di Castella di qualche parentado, che si cor- 
rompano con danari alquanti nobili della sua corte. 
Circa l'Inghilterra dicono che più importa, che si fac- 
cia con essa finta amicizia, tenendo tuttora in punto 
gli Scoti, i quali ad ogni movimento degl'Inglesi en- 
trino nel paese loro nemicamente : e che di secreto si 
favorisca a qualche nobile bandito , il quale pretenda 
di aver ragione in quel regno, e cosi terrà sempre il 
re in sospetto. Se io uomicciuoìo , fra tanti uomini 
egregi , che consigliano a guerreggiare, mi levassi con- 
sigliando che si lasciasse stare l'Italia, essendo la Fran- 
cia tanto grande , che a fatica può essere da un solo 
governata, onde non dovesse pensare il re di più au- 
mentare il suo dominio : se io gli proponessi i decreti 
degli Ancorii (1), popoli opposti all'isola degli Utopiensi 
vicino all'Euronoto, i quali avendo guerreggiato per 
ottenere un regno al re loro, che secondo lai gli t9- 

(i) Probabilmente: u%za hMffo^imM (arra. 



H VTOFU. 

niva per eredità ; e presolo, vedendo che non meno tra- 
vaglio sostenevano a mantenerlo, per le civili ribel- 
lioni e correrie esterne , né mai poter lasciare l'eser- 
cito, ed esser rubati e spargere il sangue per Taltrui 
gloria, la pace non esser sicura, corrompersi i loro co- 
stumi, molti bramar pigliare l'altrui ed uccidere, e le 
leggi essere sprezzate (perchè il re distratto al governo 
di due regni , meno attendeva a questo ed a quello ) 
non vedendo fine a tariti mali^ fatto consiglio, propo- 
sero benignamente al re, che tenesse uno di quei due 
regni, perchè eran eglino tanti che non potevano es- 
sere governati da mezzo un re , come non patirebbe 
alcuno di aver un mulattiero con un altro comune ; 
onde quel buon re tenutosi Tantico regno , diede il 
nuovo ad oin suo amico, il quale tosto ne fu cacciato : 
se io gli mostrassi ancora che tanto sforzo di guerra, 
consumati ì tesori e rovinati i popoli , gli riuscirebbe 
in sinistro, sicché attendesse ad ornare il regno, dai 
suoi avoli sino a lui conservato, amasse 1 suoi, per 
esser da quelli amato, vivesse con loro, usando beni- 
gnità nel comandare , e lasciasse gli altrui regni poi- 
ché il suo è ampio e capace; questo parlare come 
pensi, Moro, che sarebbe grato? Ma seguiamo. Si 
tratta tra il re e i consiglieri di ammassare tesori , 
consigliando uno che si aumenti il prezzo delle mo- 
nete , dovendone dispensare , e che si abbassi poi nel 
riceverle; persuade altri che finga di far guerra, e 
raccolti i danari faccia con solenni cerimonie la pace , 
mostrando come pietoso principe di aver pietà del- 
l'umano sangue. Alcuno revoca a memoria certe an- 
tiche leggi, contro le quali ognuno (perchè non erano 
in uso) ha contraffatto, e asserisce che riscotendo le 
condannagioni di quelle, ne piglierebbe una buona 
somma, e parimente si mostrerebbe giusto prìncipe. 
L'ammoniscono gli altri , che sotto gravi pene faccia 
nuovi statuti in cose che giovino al pòpolo, e poi di- 
spensi con danari quei contra i quali va l'interdetto : 
cosi [Righerà doppio frutto, e da quei che contravver- 



LIBRO PRIMO. 25 

ranno, e Tendendo ad altri molto cari i privilegi. Gli 
persuade alcuno che stringa i giudici a dispensare in 
ogni cosa a favore del dominio regale, e facciali ve- 
nire a litigare innanzi a sé, perchè così non vi sarà 
alcuno tanto stupido, che per aggradirsi al re non 
trovi qualche via di calunniare. Contendendo dunque 
i giudici in cosa chiarissima, si viene in dubbio della 
verità, e può il re a suo comodo interpretare la legge ; 
gli altri o per vergogna o per timore staranno addie- 
tro , e cosi darassi arditamente Ija sentenza , quando 
che basta al re potersi mostrar giusto torcendo le 
leggi, ove gli pare, e ciò che più importa, vogliono i 
religiosi giudici che non si disputi la causa regale. 
Consentendo tutti nel detto di Cassio : che non ba- 
sta ogni gran tesoro a quel principe che debba man- 
tenere un esercito; e che non può il re far cosa in- 
giusta , ancorché ne fosse bramoso , perch' egli è pa- 
drone del tutto, e tanto è proprio di ciascuno, quanto 
la sua benignità non gli leva; e che importa assai al 
prìncipe , al quale appartiensi di difendere il popolo , 
studiare che quello non sia per delizie e libertà mor- 
bido; le quali cose lo fanno ardito a non sopportare 
i duri e giusti imperj , ma la povertà lo fa paziente, e 
priva i nobili di ardire di ribellarsi. Or pensa ch'io 
leyandomi persuada, che questi consigli sono al re di- 
sonesti e perniciosi, il cui onore o sicurezza consiste 
piuttosto nelle forze del popolo che nelle sue, e mostri 
gli nomini eleggere il re, acciocché con istudio e fa- 
tica di quello essi stiano comodamente e siano da in- 
giurie sicuri, perchè è ufficio di principe portarsi verso 
i sudditi da pastore, il quale pasce le pecore, non sé 
stesso. Le contenzioni poi regnano più nei poveri, i 
quali specialmente studiano a cose nuove , e con spe- 
ranza di guadagno sono arditi ad ogni impresa. Se fosse 
un re tanto da poco ed odiato dai suoi, che non po- 
tesse tenerli soggetti senza far loro ingiuria o impove- 
rirli, fia meglio ch'egli rinunzi il regno, che tenerlo 
con tali arti, con le quali tiene la signoria, ma perdQ 



26 UTOPIA. • 

la maestà, e conviensi alia regal dignità, esercitar piut- 
tosto la signoria negli uomini potenti, che sopra i po- 
veri, come volle inferire Fabrizio dicendo, che voleva 
piuttosto signoreggiare ai ricchi che esser ricco. Ed in 
vero chiameremo piuttosto guardiano di prigione uno 
che voglia esser solo ricco ed impoverire gli altri, e fa 
come l'imperito medico, che non sa cacciare una ma- 
lattia, senza introdurvene un'altra. Confessi di non sa- 
pere signoreggiare ad uomini liberi, o cacci da sé la 
dappocaggine e la superbia, le quali cose fanno sprez- 
zare, ovvero odiare il principe. Viva egli del suo, mi- 
suri la spesa con le rendite, raffreni i mali, e prevenga 
con buoni ordini che non si commettano, rinnovi le 
leggi antiquate, non pigli per alcuna colpa quello che 
non lascerebbe pigliare ad alcuno giudice. Io propor- 
rei quivi la legge dei Macarensi (1) , non lontani dal- 
l'Utopia, il cui re nella sua creazione giura di non 
aver mai nell'erario più di mille libbre d'oro e d'ar- 
gento alla valuta di quell'oro. Dicono che un re , il 
quale amò più il comodo della patria che il proprio, 
fece questa legge : parendogli che tanta somma potesse 
bastare al re per raffrenare i ribelli , o ribattere i ne- 
mici con arme, non dargli animo di assaltare gli altrui 
regni. Per questo specialmente si fece quella legge, e 
perchè Aon mancassero danari da cambiare ai citta- 
dini, e da dispensarsi dal re quando fosse necessario. 
Tal re era temuto dai cattivi, e dai buoni amato. Ma 
come narrerei tali cose ai sordi? Ai sordissimi, anzi, 
soggiuns'io; né giudico, per dire il vero, che si diano 
tai consigli ove non sono accettati. Come potrà en- 
trare nell'animo loro un parlare tanto insolito, es- 
sendo del contrario persuasi? Questa scolastica filo- 
sofia può esser grata in un famigliare parlamento tra 
gli amici , ma nei consigli dei principi , ove si trat- 
tano gran cose con grande autorità , giuste cose non 
hanno luogo. Perciò, disse Raffaello, non ha luogQ 

(I) Che nel greco liDgaaggìo è quanto dire fella. 



LIBRO PRIMO. 27 

appo i principi la filosofia. Non diss' io questa filo- 
sofia scolastica, cbe si crede potersi accomodare ad 
ogni cosa ; ma y' è nn' altra filosofia più civile , la 
qaale secondo le cause e i tempi difende acconcia- 
mente la ragion sua con riputazione. Questa bisogna 
cbe tu usi. Altrimenti rappresentandosi là commedia 
di Plauto, ove i servi gareggiano insieme, se tu ve- 
stito da filosofo, entrassi in scena, e narrassi qualche 
sentenza della Ottavia (l)jOve Seneca disputa con Ne- 
rone, non sarebbe meglio cbe avessi taciuto, cbe re- 
citando cose aliene, aver fatto una tragi- commedia ? 
Avresti corrotto la presente favola, mescolandovi cose 
diverse, ancorché fossero migliori. In quella favola cbe 
ritrovi , portati meglio cbe puoi ; né ti devi porre., a 
turbar quella, quantunque ti venga a memoria di un'al- 
tra cbe sia più piacevole. Cosi é nella repubblica e 
nei consigli dei principi. Se non puoi al tutto estirpare 
le sinistre opinioni, né provvedere ai vizii già posti in 
uso, non però si debbe abbandonare la repubblica, sic- 
come neanche la nave agitata dalla fortuna, quantun- 
que tu non potessi raffrenare il furor dei venti. Non 
si debbe ancora replicare un parlar insolito, sapendo 
come non fia ricevuto negli animi che sono del con- 
trario persuasi ; ma bisogna andare per lungo circuito, 
e sforzarsi di condurre a buon porto quello che si 
tratta. Né potendo ridurre le cose a bene , studia al- 
meno cbe sieno men cattive, perché non possono es- 
ser le cose al tutto buone, se non sono tutti buoni, 
e questo io non aspetto fin a molti anni. Con que- 
st'arte, rispose egli, altro non farei, cbe, volendo me- 
dicare l'altrui furore, co^ gli altri impazzirei. Perchè 
volendo ragionare il vero, sono astretto a ragionare 
di queste cose in tal guisa. Non so se si appartenga al 
filosofo di ragionare il falso , ma a me certo non ap- 
partiene; benché quel mio parlare, come cbe fosse a 
quelli forse men grato, tuttavìa non mi penso che si 

(i) Una deUe tragedie attriboilu a Seneca. 



28 UTOPIA. 

debba giadicare al tutto insolente ed inetto. Ma s'io 
narrassi quello che finge Platone nella sua repubblica, 
ovvero gì' istituti che fanno da dovero gli Utopiensi 
nella loro ; quantunque fossero, come sono in vero, mi- 
gliori , tuttavolta potrebbero parere alieni da questi 
costumi, perchè qui sono le possessioni divise tra pri- 
vati , ed ivi comuni. Ma non potrebbe il mio parlare 
esser ingrato se non a coloro , che avessero seco di- 
sposto di andare a rovina, perchè dimostra i pericoli, 
e ci ritrae da quelli; altrimenti qual cosa vi fu che 
non sia da dire convenevolmente ove ti piace? Se si 
debbono tralasciare tutte le cose sconcie, e le intro- 
dotte da rei costumi degli uomini : bisogna che noi cri- 
stiani dissimuliamo assai cose, le quali Cristo non vuole 
che siano dissimulate, anzi comandò che fossero pre* 
dicate in pubblico. E grandissima parte di queste è piti 
aliena dai presenti costumi, che non è stato il mio 
parlare. Ma gli accorti predicatori , vedendo che ma- 
lagevolmente gli uomini accomodavano i costumi loro 
alla legge di Cristo, acconciarono ai costumi la legge , 
come se fosse una squadra di piombo, affinchè si unis- 
sero in qualche guisa ; ma per mio avviso hanno ope- 
rato che più sia loro lecito esser cattivi. E tanto fa- 
rei io a dar consiglio ai principi: per(;hè ovvero sarò 
di parer diverso, ovvero, come dice Terenzio, aumen- 
terò la loro pazzia (l). Quel modo di circuire nel par- 
lare, e portarmi in guisa, che non potendo ridurre le 
cose a perfezione, almeno studii che riescano men cat- 
tive, non vedo che mi possa succedere. Perchè non è 
lecito in quei parlamenti dissimulare né chiuder gli 
occhi, anzi bisogna apertamente confermare i pessimi 
consigli^ e sottoscrivere ai pestiferi decreti. Sarà come 
una spia e quasi traditore colui che loderà maligna- 
mente i rei consigli. Né mi soccorre cosa alcuna, con 
la quale possa giovare chi entra fra quei consiglieri , 
i quali più agevolmente corromperebbono un uomo 

CI) Adelfiy atto I» scena 2. 



LIBRO PRIMO. d9 

dabbene, che essi si emendassero. Perchè sono nella 
maligna usanza corrotti e guasti , laonde sei astretto 
con la tua innocenza colorire l'altrui pazzia, senza 
però che ti riesca di poterli ridurre che si mutino in 
meglio. Perciò Platone con bellissima similitudine rende 
ragione perchè s'astengano i savi dal maneggiar la re- 
pubblica ; perchè vedendo il popolo per la piazza sparso 
esser dalla pioggia bagnato , né potendo a quello per- 
suadere che si ritiri al coperto ; e giudicando vana im- 
presa uscire allo scoperto e bagnarsi , ricorrono essi 
al coperto, riputandosi aver fatto assai, di essersi ri- 
tratti in luogo sicuro, poiché non possono sanare l'al- 
trul pazzia. Quantunque, o Moro, per dire circa quello 
eh' io sento la verità, ove sono le possessioni dei pri- 
vati, ove il tutto si misura coi danari , ivi a fatica, per 
mio avviso, è possibile che si maneggi con giustizia 
una repubblica e con prospero successo. £ tienti per 
certo, che non si fa cosa alcuna giustamente ove le 
cose ottime vengono in mano di pessimi : ovvero che 
sìa felicità ove il tutto si divide tra pochi ; i quali non 
però Btanno molto comodamente, essendo gli altri nelle 
miserie. Perciò volgendomi per la mente gli ottimi, pru^ 
dentissimi e santissinrii istituti degli Utopiensi, i quali 
con si poche leggi governano le cose loro tanto ac- 
conciamente, che la virtù ha il suo premio ; e tuttavia, 
fatte le cose uguali, tutti ne hanno in copia: parago- 
nando ^ loro costumi quelli delle altre nazioni, che 
sempre ordinano nuove leggi, né mai ne hanno fatto 
abbastanza, nelle quali nazioni ognuno chiama suo 
quello che può avere , né si possono ordinare tante 
legg>9 che siano sufficienti per acquistare, conservare 
o conoscere il suo dall'altrui; il che manifestano le 
infinite liti, che non mai hanno Une: considerando io 
meco stesso queste cose , non mi maraviglio che Pla- 
tone non si degnasse di far legge a coloro , che non 
accettavano quelle, con le quali ogni cosa si fa co- 
mune. Previde quell'uomo prudentissimo quella esser 
unica e sola via alla salute, che si faccia un'ugualità 



30 UTOPIA. 

de- beni esterni, la quale come si può conservare ove 
ciascuno ha di proprio ? Perchè traendo ciascuno a sé 
guanto può , dividendosi i pochi ogni gran tesoro , e 
lasciando agli altri la p*© verta, avviene che una j)arte 
sembri dell'altra più degna, la qual però è rapace, mal- 
vagia e inutile ; ed opprime gii uomini modesti e sem- 
plici, i quali con industria cotidiana sono più benigni 
verso la repubblica, che verso loro stessi. Io mi rendo 
certo che non si possano trattare le cose dei mortali, 
né distribuire con giusta ragione e con felicità , ove 
non sia al tutto levata via la proprietà. E che durando 
quella, buona parte e la/migliore degli uomini non 
possa schivare la povertà e rìnfelicissima miseria, la 
quale io confesso che si può alleggerire, ma non al 
tutto annullare. Se fosse ordinato che ninno avesse 
più che certo numero di campi, e una tal determinata 
somma di danari, e se vi fossero leggi che il principe 
non fosse troppo ricco, né il popolo insolente ; che non 
si cercassero i magistrati, né si vendessero, né fosse 
di necessità maneggiarli con spesa, onde poi si dà oc- 
casione di ricuperare i danari con frodi e rapine, o è 
forza preporre i ricchi a quegli ufl&cii a cui non do- 
vrìano preporsi che ì saggi, tai leggi variano come le 
medicine , che possono porger ristoro al corpo , già 
guasto per infermità, ma non sanarlo, riducendolo al 
suo primo stato. Né vi è di questo speranza alcuna, 
mentre che ognuno possiede di proprio; anzi polendo 
sanare una parte farai incrudelire la ferita dall'altra, 
perché una s'inferma con la sanità dell'altra, non po- 
tendosi aggiugnere all' una , che all'altra non si levi. 
A me, diss' io, pare il contrario, che non si possa vi- 
vere comodamente, ove son tutte le cose comuni. Come 
avranno tutti abbastanza i bisogni loro, quando cia- 
scuno si ritragga dalla fatica non essendovi dalla ne* 
cessità astretto? E il fidarsi dell'altrui industria fa 
l'uomo negligente. Ma essendo gli uomini dalia povertà 
stimolati, né potendo tenere per proprio ciò che gua- 
dagnano con industria e sudori, non seguono di ne* 



LIBRO PBUtfO. 31 

eessità uccisioni e sedizioni tra loro; levata via spe- 
cialmeate l'autorità del magistrato , la quale non può 
aver luogo appo tali uomini, cbe non sono in cosa al- 
cuna differenti. Non mi maraviglio, Raffaello rispose, 
cbe a te cosi ne paia, il quale non ne hai veduto pur 
un'immagine falsa. Ma se fossi stato meco in Utopia, 
ed avessi dì presenza veduto i loro costumi, come feci 
io , che vi sono vissuto più di cinque anni , né mai 
avrei voluto partirmene, se non era per manifestare 
di qua sì nuovo mondo ; confesseresti veramente non 
aver veduto altrove che in quel luogo un popolo bene 
istituito. Certamente a fatica mi darai a credere, sog- 
giunse Pietro Egidio, che si trovi in quel nuovo mondo 
un popolo meglio istituito che in questo da noi conosciu- 
to, nel quale non sono gl'ingegni peggiori ; e penso che 
siano qui più antiche le repubbliche, e più comodi tro- 
vati dal lungo uso, per tacere di alcune cose fortuita- 
mente scoperte, che non si potrebbero trovare da alcun 
ingegno. Circa l'antichità, rispose Raffaello, diresti altri- 
menti , quando avessi letto le storie loro delle cose 
pubbliche , alle quali se dobbiamo dar fede , furono 
prima le città appo loro che appo noi; ed ha potuto 
esser cosi qua come là ogni cosa a caso o per inge- 
gno trovata. E per mio avviso , ancorché fossimo più 
acuti d'ingegno che quelli , certamente per studiosa in- 
dustria loro siamo di gran lunga inferiori. Perché nar- 
rano le ^ro storie, che innanzi al venir nostro , non 
aveano inteso cosa alcuna di noi, come ci chiamano, 
oltrequinoziali, se non che, già mille e dugento anni, 
una nave che si ruppe appo l'Utopia, ivi portata per 
fortuna, ebbe sopra alquanti Romani ed Egizii, i quali 
condotti al lido non più si partirono di quel paese. 
Vedi come fu loro tale occasione comoda per loro in- 
dustria. Non era arte appo il romano imperio, che fosse 
acconcia ai fatti loro, la quale essi non imparassero 
da que' forestieri, o con acute indagini quindi non ri- 
trovassero. Eccoti quanto bene riusci loro da pochi 
nomini portati là da questo nostro mondo. E se per 



32 UTOPIAi 

Simile fortana alcano di loro è stato spinto a noi^ qae- 
sto si è cosi scordato , come si scorderanno i discen- 
denti loro, ch'io abbia abitato in quel luogo. E sic- 
come essi ad un incontrarsi con noi hanno fatto pro- 
pria ogni nostra industriosa invenzione; cosi penso 
che andrà lungo tempo, prima che pigliamo il migliore 
loro istituto. E penso altresì che una sola cosa sia 
cagione, che non essendo noi né per ingegno, né per 
forze inferiori, tuttavia le cose loro sono più felice- 
mente amministrate, e con maggior felicità fioriscono. 
Pregoti di grazia, diss' io, o Raffaello , che ci vogli de- 
scrivere quest'isola,^ non già in brevità, ma che ci di- 
mostri con ordine i campi, i fiumi, le città, gli uomini, 
i costumi, gl'istituti, le leggi, od ogni cosa che ti parrà 
noi voler conoscere; cioè tutto quello che non sap- 
piamo. Lo farò, disse Raffaello, molto volentieri, spe- 
cialmente che tengo il tutto in memoria : ma bisogna 
aver tempo. Andiamo adunque a desinare, e poi pigile- 
remo il tempo a tua voglia. Cosi facciamo, rispose 
egli. Ed entrati desinammo, e poi tornammo nel me- 
desimo luogo, e comandando ai famigliari che non ci 
turbassero , io e Pietro Egidio confortammo Raffaello 
che ci attenesse la promessa. Egli adunque, vedendoci 
attenti e bramosi di udire, stato alquanto tacito a se- 
dere pensando, cominciò a parlare in questa guisa» 



LIBRO SECONDO 



L'isola degli Utopii,» larghissima nel suo mezzo, si 
stende dugentomila passi, e per lungo tratto non si 
stringe molto, ma vèr la fine d'amendue i capi si va 
assottigliando : i quali, piegati in cerchio di cinquecen- 
tomila passi, fanno l'isola in forma 'della nuova luna. 
Questi suoi comi, dal mare combattuti, sono distanti 
ano dall'altro circa undici miglia , ed il mare, tra essi 
dai venti difeso , fa come un piacevol lago e comodo 
porto ; di onde l'isola per suo bisogno manda le navi 
agli altri paesi : la bocca da una parte con guadi e sec- 
che, dall'altra con aspri sassi, mette spavento a chi 
pensasse d'entrarvi come nemico. Quasi nel mezzo di 
questo spazio è un'alta rupe, quale perciò non è peri- 
colosa, sopra di cui in una torre da loro fabbricata 
gli Utopiensi tengono il presidio: molte altre rupi vi 
sono nascoste e perigliose. Essi solamente hanno co- 
gnizione dei canali : indi avviene di raro che alcun 
esterno, che non sia da uno di Utopia guidato, vi possa 
entrare: quandoché essi a fatica v'entrano senza peri- 
M(fro. t 



34 UTOPIA. 

colo, non si reggendo a certi segni posti nel lido, i 
quali, essendo mossi dai luoghi soliti, guiderebbono 
ogni grande armata nimica in precipizio. Dall'altra 
parte è un porto assai frequentato , e dove si scende , 
fortificato dalla natura e con arte in tal guisa, che po- 
chi uomini Io possono difendere da copioso esercito. 
Ma come si narra, ed anco la qualità del luogo ne dà 
indizio, quella terra anticamente non era dal mare cir- 
condata. Utopo, che le diede il nome, perchè prima si 
nomava Àbraxa, e ridusse coloro che l'abitavano da 
una vita rozza e villesca a questa foggia di vivere 
umano e civile, nel quale vincono quasi tutte le ge- 
nerazioni degli uomini ; preso in un tratto il luogo , 
tagliò quindicimila passi di terreno col quale era la 
Utopia continuata a terra ferma, e la fece ìsola. Ed 
avendo astretto a tale opera non solamente quelli del- 
l'isola, ma i soldati suoi ancora , con tanto numero di 
uomini, in brevissimo tempo forni tale impresa, la- 
sciando stupiti i vicini popoli, i quali di questo prima 
ridevano. Sono nell'isola cinquantaquattro città grandi 
e magnifiche di medesima favella , istituti e lee^gi , e 
quasi all'istesso modo situate, quanto il luogo ha per- 
messo. Le più vicine sono scostate una dall'altra mi- 
glia ventiquattro ; ma ninna è tanto lontana dall'altra, 
che non vi possa andare un pedone in un giorno. Tre 
vecchi cittadini e prudenti di ciascuna città ogni anno 
concorrono in Amauroto (1), la quale per esser nel 
mezzo dell'isola, e a tutti comoda, è tenuta la prin- 
cipale, ed ivi trattano delle comuni bisogne dell'isola. 
Ogni città non ha meno di ventimila passi di terreno 
d'ogni intorno : ed alcune più, come sono più scostate 
una dall'altra. Ninna brama di ampliare i suoi confini, 
riputandosi %\\ abitanti piuttosto lavoratori dei campì 
che tengono, che padroni. Hanno per le ville accon- 
ciamente le case, di ogni instrumento campestre for- 

(I) E' varrebbe città mal Hoto od oscura , stando alla grecasi- 
goiflcazione. 



LIBRO SECONDO. 35 

aite : in queste vanno ad abitare i cittadini a vicenda. 
Ninna famiglia rusticana ha meno di quaranta persone^ 
oltre due villani. Ad essa è preposto un padre ed una 
madre di famiglia per età e costumi ragguardevoli, e 
ad ogni trenta famiglie dassi un capo. Tornano nella 
città ogni anno venti di ciascuna famiglia, i quali sono 
stati in villa due anni. In luogo di questi vengono 
altri venti dalla città ^ perchè siano nelle opere ville- 
sche ammaestrati da quelli, che per esservi stati un 
anno, sono di tali opere più esperti ; e Tanno vegnente 
ammaestrino gli altri , a fine che non si trovino tutti 
del lavorare i campi ignoranti, e nel raccogliere la vet- 
tovaglia non commettano errore. Benché questa foggia 
di rinnovare gli agricoltori sia solenne, acciocché ninno 
sia astretto di continuare la vita rusticana più lunga- 
mente; nondimeno molti, dilettandosi delTagricoltura, 
impetrano di starvi più anni. Gli agricoltori coltivano 
il terreno , nodriscono gli animali , apparecchiano le 
legne, e le portano alla città per terra o per mare, 
come viene loro più in acconcio , fanno nascere con 
mirabile artificio un' infinità di polli, senza che covino 
le galline, ma con un caldo proporzionato, e come ma- 
dri gli accompagnano e governano. Nodriscono pochi 
eavalli, e feroci, dei quali si servono solamente per la 
imprese che si fanno a cavallo ; perchè ogni fatica di 
coltivare e condurre le cose loro fanno con opera dei 
buoi, i quali benché siano più lenti che i cavalli, tut- 
tavia sono alla fatica più pazienti, e meno soggetti ali6 
infermità : oltre che riescono di minore spesa, e quando 
più non vagliono alla fatica , si possono mangiare. 
Usano di seminare solamente il frumento, bevono vino 
di uva, di pomi o di pera , ovvero Tacqua pura , che 
talvolta cuociono con miele o liquirizia , della quale 
hanno copia. £ quantunque sappiano quanta vettova- 
glia si consuma nella città e nei contado, nondimeno 
seminano di più^ per darne ai vicini. Ogni istromento 
richiesto all'agricoltura si piglia nella città dai magi- 
strati, senza costo alcuno : e molti là concorrono ogni 



36 UTOPIA. 

mese alle feste soleani. Quando è tempo di tagliar il 
frumento, i preposti dei lavoratori avvisano i magi- 
strati quanto numero di cittadini si debba mandare, e 
concorrendovi tutti a tempo, in un giorno sereno quasi 
tagliano tutto il frumento. 

Delle città e specialmente di Amauroto. 

Gbi ha veduto una di quelle città, le ba vedute tutte, 
tanto sono una airaltrsi simili, ove la natura del luogo 
Io consente. Ne dipingerò adunque una ; e benché non 
importi descrivere più questa che quella, nondimeno 
ragionerò di Amauroto come più degna. La quale, per 
avervi il senato, è da tutte le altre onorata ; ed io ho 
di quella maggior cognizione , perchè vi sono stato 
circa anni cinque. Amauroto è situata in una costa 
di monte^ ed è quasi quadrata, perchè la sua larghezza 
comincia poco di sotto dalla cima del colle, e per due- 
mila passi si stende al fiume Anidro (i), lungo la ripa 
del quale alquanto più si stende. Anidro sorge da pic- 
ciol fonte ottanta miglia sopra Amauroto ; ma dal con- 
corso d'altri fiumi accresciuto, passa avanti Amau- 
roto largo cinquecento passi , ed indi poi slargan- 
dosi a seicento^ mette nell'Oceano. In questo spazio di 
alquante miglia , tra il mare e la città , l'acqua va e 
torna con molta fretta ogni sei ore. 

. Il mare, quando v'entra, occupa il letto del fiume per 
trenta miglia, e caccia indietro le acque di quello : e 
alle fiate le corrompe col salso. Ma tornando poi ad- 
dietro , il fiume air usato corre con dolci acque irri- 
ganti la città: ed un ponte non di travi o legnami, ma 
di pietra egregiamente lavorata, serve per passarlo a 
quella parte, che è più dal mare lontana, acciocché le 
navi possano trascorrere innanzi a quel luogo della 
città senza pericolo. Hanno ancora un altro fiume, non 
già grande, ma tranquillo e piacevole: il quale sorgendo 

U) Sembra cosi detto per antitesi, poìehé sigoiAeff ienz'oe^lha* 



LIBRO SECONDO. 37 

del monte ove la città è fabbricata, passa per mezzo 
di quella, e mette nell'Anidro. Gli Amaurotani hanno 
tolto dentro nella città la fonte di questo fiume, cbe 
non era molto lontana, e fortificatola, acciocché non 
potessero i nimici divertire l'acqua o corromperla. Indi 
con cannoni di pietra cotta derivano l'acqua alle più 
basse parti: ed ove per il luogo non si può condurla, 
fanno cisterne, nelle quali si raccoglie la pioggia, e ne 
pigliano i popoli il medesimo comodo. Il muro largo 
ed alto cinge la città con torri e rivellini : la fossa 
secca, ma larga e profonda, e con spine e siepi, da 
tre bande circuisce le mura; e dalla quarta il fiume 
serve per fossa. Le piazze sono fatte acconciamente e 
per condurvi le cose necessarie, e perchè siano sicure 
dai venti : gli edificj non vili e tirati al dritto, quanto 
è lungo ogni borgo, con le case a rimpetto una dell'al- 
tra : le fronti dei borghi hanno tra loro una via larga 
venti piedi. Dietro le case, quanto è largo il borgo, è 
l'orlo largo e rinchiuso dalle muraglie di dietro dei 
borghi: ogni casa ha la porta di dietro e davanti, la 
quale si apre agevolmente in due partii e si chiude da 
sé stessa: ognuno vi può entrare. Tanto hanno ogni 
lor cosa comune, che ancora mutano le case ogni dieci 
anni. Fanno gran stima degli orti, nei quali piantano 
viti, frutti, erbe e fiori con grande ordine e vaghezza. 
Gareggiano i borghi uno con r altro di aver orti più 
belli : né hanno cosa, dalla quale piglino più diletto e 
comodo, che di questi; dei quali pare che avesse più 
cura il loro autore, che di qualunque altra cosa. Per- 
chè dicono Utopo da principio aver descritto questa 
forma della città, lasciando poi la cura dì ornarla ai 
discendenti. Nelle loro istorie da quel tempo che fu 
presa l'isola, che comprende anni mille settecento e ses- 
santa, le quali conservano molto diligentemente, leg- 
gesi cbe le case erano basse come tugurj, fatt& di ogni 
sorta di legnami che potevano avere: le pareti lutate» 
e la coperta di strami levata nel mezzo. Ma ora le case 
haoiio tre palchi^ i muri di selice o mattoni con calce 



S8 UTOPIA. 

incrostati, e npieni di rottami. I tetti piani e rassodati 
in guisa, clie non portano pericolo del fuoco, sono co- 
perti di piombo per tollerar le pioggie. Le finestre di 
vetro, che hanno bellissimo, li difendono dai venti ; 
usano ancora a questo tele sottili unte d' olio lucidis- 
simo di ambra ; e indi hanno più chiara luce, e sono 
dal vento meglio difesi. 

Dei magistrati. 

Ogni trenta famiglie si eleggono ogni anno un magi- 
strato, detto da loro anticamente Sifogranto, ed ora Fi- 
ìarco. Quello, che è preposto a dieci Sifogranti con le 
loro famiglie, si nomava Traniboro, ed ora Protofilarco. 
l Filarchi, che sono dugento, giurano di eleggere prin- 
cipe quello che giudicheranno di comune utilità, e cosi 
danno voti segreti per uno dei quattro che sono pro- 
posti dal popolo, e si pigliano dalle quattro parti della 
città, uno di ciascuna. Questo magistrato dura in vita, 
purché non venga in sospicione di voler tirannizzare. 
I Tranibori si eleggono ogni anno, ma non li mutano 
senza causa. Tutti gli altri magistrati sono annuali. I 
Tranibori ogni terzo di, e talvolta più spesso, vengono 
a consigHo col principe circa le cose della repubblica, 
e se v'è pure qualche controversia l'acchetano. Chia- 
mano ogni di in senato due Sifogranti per ordine: ed 
hanno per legge che niuno statuto sia di valore , del 
quale non sia prima stato trattato tre di nel consiglio. 
Gli è pena la testa a trattare di cose pubbliche fuori 
del senato, acciocché non potesse il principe ovvero i 
Tranibori ordire una congiura, ed opprimere il popolo 
con tirannia, e mutare lo stato della repubblica^ Per- 
ciò ogni cosa importante va al consiglio de* Sifogranti, 
i quali ragionatone con le loro famiglie, ne consigliano 
tra loro, e del loro parere avvisano il senato. Talvolta 
nel consiglio trattasi di tutta l'isola. Usano i magistrati 
di non ragionare sopra cosa alcuna quel giorno, che 
essa viene proposta, ma la differiscono nel seguente: 



LIBRO SECONDO. 39 

a fine che pensandovi sopra, deliberino quello che sia 
alla repubblica profittevole, e non si abbiano a pentire 
della loro risoluzione, come poco considerata. 

Degli arteficL 

L'agricoltura è comune arte a' maschi e femmine, e 
ninno è di quella inesperto. Tutti dalla fanciullezza 
r imparano; parte in iscuola, ove se ne danno i pre- 
cetti ; parte nei campi alla città più vicini , ove sono 
condotti quasi a giuocare, acciocché non solamente veg- 
gano rarte, ma piglino occasione di esercitare il corpo. 
Oltre l'agricoltura, a tutti, come dicemmo, comune^ cia- 
scuno impara un'arte, o di muratore, o di magnano, o 
di legnaiuolo, o lavorare di lana o di lino, perchè non 
è appo loro altro artificio, nel quale si occupino, molte 
persone. Le vesti sono di una forma, eccetto che va- 
riano quanto basta a discernere il sesso, ed i maritati 
dai non maritati. Questa usano per ogni età ; ed è vaga 
da vedere, e comoda all'estate ed al verno. Ogni fami- 
glia fa le sue vesti, ed ognuno impara alcuna di quelle 
arti ; non solo i maschi, ma le femmine ancora, le quali 
perchè sono men robuste, si danno alla lana e al lino, 
lasciando ai maschi le arti faticose. La maggior parte 
impara l'arte del padre : tuttavia se alcuno ad altra arte 
s'inchina, egli impara Tarte della famiglia, nella quale 
viene adottato; il che si fa per opera del magistrato 
insieme col padre di quella. Se uno, imparata un'arte, 
brama d'impararne un!altra, parimente se gli concede : 
e poi esercita qual più gli aggrada, se la città non ha 
più bisogno di una che dell'altra. L'ufficio de'Sifogranti 
è specialmente di provvedere, che ninno stia ozioso, 
ma eserciti con sollecitudine l'arte sua ; non però dalla 
mattina per tempo sino alla sera, che è miseria estrema, 
ed usasi in ogni paese , eccetto che appo gli Utopi. 1 
quali di ventiquattr'ore tra il di e la notte sei ne as- 
segnano al lavoro; tre avanti desinare, dopo il quale 
riposano due ore, ed indi tre altre^ appresso alle quali 



40 UTOPU. 

cenano. Annoverando la prima ora dopo il desinare, 
verso l'ottava vanno a dormire , e dormono otto ore. 
Il tempo, cbe avanza tra le opere e il desinare, ognuno 
lo dispensa a suo modo, pure in opere virtuose: e 
molti si occupano in lettere. Leggesi ogni di innanzi 
giorno^ e vi vanno specialmente coloro, che sono eletti 
allo studio. Ma vi concorrono assai altri maschi e fem- 
mine, come è il desio loro. Se alcuno , a cui non ag- 
grada io studio, vuole in questo tempo esercitarsi nel- 
l'arte sua, ninno lo vieta ; anzi viene lodato, come per- 
sona utile alla repubblica. Dopo cena stanno a diporto 
un'ora^ la state nei giardini, e Tinverno nelle sale, ove 
mangiano. Ivi cantano ovvero ragionano. Non sanno 
giuochi di fortuna e perniciosi. Ma usano due giuochi, 
non dissimili a quello degli scacchi : uno è il contrasto 
dei denari, nei quale un numero vince Taltro numero : 
neiraltro le virtù combattono coi vizj. In questo giuoco 
accortamente si può vedere la discordia tra essi vizj, 
e la loro concordia contra le virtù ; quali vizj a quali 
virtù si oppongano; con quali forze combattano aper- 
tamente; con quali macchine da traverso resìstano; 
con quali aiuti le virtù vincano le forze de' vizi ; con 
quali arti ribattano ogni loro sforzo, e con quali modi 
una parte resti vittoriosa. Ma perchè non pigliate quivi 
errore, bisogna considerarvi attentamente. Potreste pen- 
sare cbe essi lavorando solamente sei ore , patissero 
disagio delle cose necessarie, il che non avviene ; anzi 
lavorando appena quel tempo, guadagnano quanto fa loro 
bisogno ad ogni comodo , ed anche di più ; e questo 
potrete comprendere, considerando quante persone appo 
le altre nazioni stiano oziose. Primieramente quasi tutte 
le femmine, che sono la metà del popolo : ed ove le 
femmine si affaticano , ivi gli uomini si danno al ri- 
poso. Quanta turba di preti e religiosi? I ricchi e no- 
bili con le copiose famiglie dei servi, spadaccini e pa- 
rassiti. Aggiugnivi i furfanti che si fìngono infermi, per 
dappocaggine, e troverai che picciol numero apparecchia 
quello^ che da tutti gli uomini si consuma. Considera 



LIBRO SKGONDO. 41 

in questi quante arti non necessarie si fanno per ser* 
yire alia vita lussuriosa, dalie quali si piglia gran gua* 
dagno. Se i pochi , che lavorano , fossero divisi nelle 
poche arti al vivere umano più comode, la vettovaglia 
sarebbe a si vii prezzo^ che gli uomini avanzerebbono 
assai oltre il Ibr vivere. Se consideri quei che eserci- 
tano arti inutili, e che stanno oziosi^ vivendo delle al- 
trui fatiche > comprenderai quanto poco tempo baste- 
rebbe per guadagnare quanto fosse opportuno non solo 
al vivere, ma eziandio alle voluttà con avvantaggio an- 
cora, il che si vede manifestamente nell'Utopia. In tutta 
la capitale e nel contado non sono cinquecento tra uo- 
mini e donne, che stiano in ozio, e siano gagliardi. I 
Sifogranti istessi, benché siano per le leggi dal lavoro 
esenti, tuttavia affaticano, per invitare col loro esempio 
gli altri a far lo stesso. Sono pure esenti coloro, i qaali^ 
commendati dai sacerdoti al popolo^ vengono per se- 
greta ballottazione dei Sifogranti applicati agli studi. 
Quelli che in essi non riescono, sono rimandati ad im- 
parare alcun'arte ; ma awien {movente airincontro, che 
qualche meccanico, a quelle ore che non lavora, fa 
tanto profitto in lettere, che viene levato dall'arte e 
posto nell'ordine dei letterati. Di quest'ordine de'le Ite- 
rati si eleggono i sacerdoti, i Tranibori ed anco il prin- 
cipe, nomato anticamente Barzane, ed era Ademo. L'al- 
tra moltitudine, non oziosa, né occupata in esercizi 
inutili, fa in poche ore grandi opere ; tanto più ch'essa 
ha d'uopo in molte arti necessarie di minor fatica che 
le altre genti. Perchè altrove il figliuolo, non curando 
di mantenere quello che ha fabbricato suo padre, lascia 
venire gli ediflcj a tale , che il suo erede è astretto a 
rifare con gran spesa quello^ che si poteva prima con 
poco ristorare. E alcuni sontuosi, non contentandosi 
della casa fabbricata da un altro, ne edificano una 
naova, e lasciano andare quella in rovina. Ma nella 
repubblica Utopiense, così bene ordinata, di raro si edi- 
fica di nuovO; aivEi si prorveJe ad ogni mancamento, 
che possa avvenir nelle case, prima che avvenga. Cosi 



4^ UTOPIA. 

durano lungamente gli edificj con poca fatica; laonde 
non hanno i muratori molte volte che fare , se non 
squadrano legaami e lavorano le pietre^ per aver la 
materia ad ordine di fabbricare quando fa mestieri. 
Vedi quanto poca fatica usano neli' apprestarsi il ve- 
stire. Quando sono al lavoro, usano vesti di cuoio o 
di pelle^ e queste durano anni sette ; quando vanno in 
pubblico, si mettono sopravvesti, che coprono quelle 
si rozze, e le usano tutte di un colore nativo nell'isola. 
Cosi i panni di lana meno costano appo loro, che presso 
le altre nazioni. Il lino poi, che meno vale, è più la 
uso; e si considera in esso solamente la candidezza^ 
come nella lana la mondizia ; né si apprezza più il filò» 
perchè sia più sottile. Cosi ognuno si contenta di una 
veste quasi per due anni, quandoché altrove non hanno 
abbastanza gli uomini di quattro, di cinque, e neanco 
di dieci di seta e di lana. Ma gli Utopiensi, avendo 
abito che li difende dal freddo, non sono astretti desi- 
derarne più ; quando che ivi ninno é dell'altro più or- 
nato. Pertanto esercitandosi in vili arti, avviene che 
in poche ore guadagnano assai; e quanto avanza loro 
dal vivere dispensano a ristorare le opere pubbliche. 
E quando non [a bisogno di questo, per pubblico editto 
lavorano ancora njeno. Non vogliono i magistrati oc- 
cupare i loro cittadini alla fatica contra lor voglia; 
quandoché l'istituzione della loro repubblica a questo 
mira specialmente, che quanto per le pubbliche neces- 
sità è lecito, si diano alle occupazioni intellettuali, in 
cui pensano che consista la vera felicità. 

Del commercio tra i cittadim. 

É ragionevole che si dichiari in che guisa i cittadini 
hanno commercio insieme, e trattano le loro bisogne. 
Essendo la città composta di famiglie, essi le fanno 
grandi col maritar le figliuole. Perché vanno le giovani 
maritate in casa dei mariti; ma i figliuoii maschi e i 
discendenti rimangono nella famiglia ed ubbidiscon o al 



LIBRO SECONDO. 43 

più vecchio, al quale sì sostituisce un altro per et^ 
prossimo, se egli mancasse di giudizio. Ma perchè la 
città non venga meno di cittadini, né cresca oltre modo, 
vietasi che niuna famiglia (perchè in ogni città ne sono 
seimila, non contando il senato) abbia meno di dieci 
o più che sedici fanciulli , poiché negli adulti non si 
può tener misura. E fassi questo agevolmente , dando 
nelle famiglie più rare quei figliuoli, che nascono nelle 
più copiose; e quando crescono oltre modo, mandan- 
doli nelle altre città meno popolose. Quando poi mol- 
tiplicano per tutta l'isola, inviano colonie ai luoghi 
vicini, ove siano larghi terreni non coltivati dagli abi- 
tatori ; cui pigliano in compagnia a vivere con le loro 
leggi, se si contentano. £ se ne contentano facilmente, 
perchè i coloni coi loro buoni istituti rendono fertile 
il terreno, il quale forse era giudicato sterile e maligno. 
Ma se non vogliono abitare con loro, li cacciano da 
quei confini, che sì prendono. E credono aver causa giu- 
stissima di guerreggiare e trattar da nemici coloro, i quali 
non lasciano lavorare ad altri quel terreno, che ad essi 
avanza , e di cui si possono nodrire molti. Se alcune 
città loro tanto si scemano di uomini, rhe non vi si 
possa supplire dalle altre (il che a memoria loro è ac- 
caduto solamente due fiate per la pestilenza) richiamano 
i cittadini dalle colonie, per fare r isola loro popolosa ; 
volendo piuttosto disfare le une , che lasciar venir 
meno le altre. Ma torno alla foggia del viver loro. 
11 più vecchio è preposto alla famiglia, le mogli ser- 
vono ai mariti, e i figliuoli ai padri, ed universalmente 
i minori ai maggiori. Ogni città si divide in quattro parti 
eguali, e nel mezzo di ciascuna è una piazza, ove ogni 
famiglia porta i suoi lavori, e li dispone per ordine in 
certi granai. Ogni padre di famiglia piglia di qui ciò 
che fa bisogno ai fatti suoi, senza prezzo alcuno ; quando 
che hanno copia di ogni cosa, né alcuno teme che gli 
manchi, e si contenta solamente di quanto gli fa me- 
stieri. Essendo manifesto che dove non è il timore di 
dover mancare delle cose necessarie, né superbia di vq- 



44 UTOPU. 

ìenì aumentare di riccbezze soverchie (le qaali cose 
fanno l'uomo avido e rapace; il che non avviene agli 
Utopi), ivi è un vìvere tranquillo. Evvi il mercato dei 
cibi, ove si portano erbe > frutti, pane, pesci, carne di 
ogni animale, e questo fuori della città vicino al fiume, 
ove si possono lavare le immondizie. Gli animali sono 
uccisi e lavati per mano di famigli, onde non si con- 
taminino i cittadini, parendo loro che la umanità e cle- 
menza air uomo naturale, con tali uccisioni a poco a 
poco venga meno. Né lasciano introdurre nella citlà 
cosa alcuna sporca o fracida, acciocché non si corrompa 
r aria, e indi nasca pestilenza. Ogni borgo ha certe spa- 
ziose sale, distanti ugualmente una dall'altra, e con i 
loro propri nomi. In queste abitano i Sifogranti : e le 
trenta famiglie a loro commesse, quindici da un lato e 
q^indici dall'altro della loro dimora: ivi hanno a ve- 
nire a mangiare in comune. Quelli, a cui spetta di ap- 
parecchiare i cibi per ciascuna sala, vengono in piazza 
a cbiedere i cibi per quante persone si trovano avere. 
Hanno special cura degli infermi, i quali sono gover- 
nati in pubblici alberghi. Perché mantengono fuori della 
città quattro stanze tanto capaci, che paiano quattro 
picciole città, onde vi stiano molti infermi acconcia- 
mente , e i contagiosi possano tenersi dagli altri lon- 
tani. Sono queste stanze ad ogni comodo degli infermi 
artificiosamente fabbricate , e tanta diligenza vi si usa 
e assidua cura di medici, che ognuno, infermando, si 
contenta piuttosto di esser governato in tal luoghi, che 
nella casa propria: ma ninno vi si manda contra sua 
voglia. I cibi, secondo l'ordine dei medici, sono asse- 
gnati ai dispensieri, che li dividono tra quelli di cia- 
scuna sala. Se non che si ha riguardo al principe, al 
pontefice , ai tranibori , agli ambasciatori e agli stra- 
nieri, 1 quali per altro vi si veggono di raro, e a cui si 
provvede altresì dì certe stanze a sufficienza fornite. 
Concorrono ad ora dì mangiare a suono di tromba di 
metallo tutte le famiglie raccomandate ad un Sifogrante, 
eccetto gr infermi che giacciono negli alberghi o nelle 



LIBRO SKCSONDO. 4d 

proprie case. Benehè soddisfatto alle sale, non si nega 
il cibo della piazza a chi lo chiede, sapendosi di certo 
che questo non faccia senza causa ragionevole. Perché 
quantunque non sia vietato ad alcuno il mangiare in 
casa, tuttavia ninno vi sta volentieri, non essendo te- 
nuta per cosa onesta, anzi sembrando pazzia pigliar la 
fatica dì apprestare un magro desinare, potendo tro* 
vario delicato nella sala. Ivi i servi ministrano in quelle 
dose, che sono di fatica o di qualche sporchezza; e le 
femmine cuociono ì cibi ed apparecchiano il convitto. 
Mangiano le famiglie a tre tavole o più, come porta ri 
numero loro, i maschi colla schiena al muro, e le femmine 
di fnori; acciocché volendosi levare p^ qualche disconcio, 
come suole avvenire alle gravide, non turbino gli ordini ; 
ed anco possano andare a rivedere le balie, che stanno in 
una stanza sempre col fuoco e l'acqua monda, per go* 
vernare i bambini a voglia loro. Ognuna latta i suoi 
figliuoli, se non é impedita da infermità; e quando av- 
viene questo, le mogli dei Sifogranti agevolmente pro- 
veggono di balia. Perché quell» che sono atte a far que- 
sto, si offeriscono spontaneamente ; massime che tutti 
le commendano di clemenza , e queUi che da alcuua é 
lattato la riconosce per madre. Nella stanza delle balie 
stanno i fanciulli da cinque anni in giù. Gli altri sin- 
ché sono all'età di maritarsi, e maschi e femmine ser- 
vono alle tavole, e chi non può servire sta presente 
con sommo silenzio. Mangiano quello che loro viene 
sporto da quei che seggono, senza avere ora alcuna 
assegnata al loro desinare. Nel mezzo é la prima tavola 
a traverso del cenacolo, dalla quale si mirano tutte le 
tavole. A quella seggono il Sifogrante e la moglie, e due 
de* più vecchi. Seggono a quattro a quattro per tutte 
le tavole. Se in quella sifogranzia é tempio alcuno , il 
sacerdote e la moglie di quello seggono a tavola col 
Sifogrante. Si pongono d'amendue le parti i più gio- 
vani , di poi i vecchi , di maniera che si trovano in- 
sieme di età dissimili, acciocché; la gravità e riverenza 
dei vecchi raffreni i giovani da ogni sconvenevole atto 



46 UTOPIA. 

parlare. Le vivande più delicate sono portate primie- 
ramente ai più vecchi, i luoghi dei quali sono ragguar- 
devoli: di poi si serve agli altri ugualmente. I vecchi 
dispensano a chi loro piace quei delicati cibi^ dei quali 
non era tanta copia ^ che se ne potesse dare a tutti. 
Cosi vengono onorati i vecchi, e nondimeno il comodo 
a tutti perviene. In ogni desinare e cena si legge bre- 
vemente qualche cosa, che vaglia a formare i costumi. 
Da questa lezione i vecchi pigliano occasione di onesti 
parlamenti^ ma sollazzevoli e grati. Non però tanto sono 
prolissi nel parlare che non vogliano udire ragionare ì 
giovani; anzi a studio li provocano^ per comprendere 
nella libertà del convito la prontezza e disposizione di 
ciascuno. Il desinare è di corto tempo, perchè si va al 
lavoro; ma la cena tengono più lunga, perchè segue 
poi il dormire, che giudicano molto efficace per il di- 
gerire. Non cenano senza canti, e copia di frutti o con- 
Jfezioni ; fanno profumi odoriferi ; spargono unguenti, e 
non risparmiano cosa alcuna, che possa rallegrare il 
convito: non parendo loro che sia vietata alcuna vo- 
luttà, purché non ne riesca qualche incomodo. In que- 
sta guisa vivono nella città : ma in villa, ove sono le 
famiglie una dall'altra lontane, tutte mangiano a casa 
propria, uè manca loro cosa alcuna, perchè viene ad 
esse portato di quello che si mangia dagli altri nella 
città. 

Pellegrinaggi degli Utopiensi. 

Se alcuno brama di vedere qualche suo amico che 
stia in altra città, oppure la città stessa, ottiene facil- 
mente licenza di andarvi dai suoi Sifogranti e Trani- 
bori : purché non sia qualche bisogno deli' opera sta. 
Mandasi alcun nunzio con un'epistola, che significa 
aver egli licenza di andarvi, e gli assegnano il giorao 
pel ritornare. Se gli dà un carro con un servo pubblico, 
che guidi e governi i buoi. Se non ha femmine in com- 
pagnia, rimanda il carro> per non aver seco tate ixnpe- 



LIBRO SECONDO. 47 

dimento. Quantunque nulla porti con sé, alcuna cosa, 
tuttavia non gli manca per viaggio^ perchè ovunque si 
trova^ è in casa sua. Stando in un luogo più che un di, 
ciascuno ivi esercita l'arte sua, ed è trattato umana- 
mente dagli artefici a lui simili. Se alcuno da sé stesso^ 
senza licenza in iscritto del principe, è trovato andare 
fuori dei suoi confluii e viene pigliato, è come fuggitivo 
ridotto nella città, ove si vede gravemente punire. Se 
di nuovo commette tale errore , è punito con servitù. 
Nondimeno ognuno può andar diportandosi per i campi 
delia sua regione, avendone licenza dal padre, e con- 
sentendolo la moglie. Ma in qualunque villa perviene, 
non gli è dato mangiare, se prima non fa quant' opera 
è tenuto innanzi desinare o innanzi cena. Con questa 
legge può ciascuno andare per i campi tra i suoi con- 
fini ; perciocché tanto gioverà alla città, quanto se fosse 
io quella. Vedete già quanto sia loro vietato lo stare 
in olio, senza niun colore di darsi alla dappocaggine. Non 
hanno magazzini da vini né di cervogia, né luogo pub- 
blico da meretrici , niun luogo da nascondersi , niun 
ridotto di viz] ; anzi la presenza di tanti occhi fa la 
fatica onesta parer necessaria. Al costume di questo po- 
polo segue di necessità r abbondanza, la quale tra tutti 
si divide, e cosi non può essere tra loro alcun bisogno. 
Nel senato amaurotico ove, come dicemmo, ogni anno 
concorrono tre di ogni città , essendo manifesto che 
una città abbia copia di qualche rendita , della quale 
un'altra sia bisognosa, si provvede che la copia di una 
supplisca alla povertà dell'altra senza prezzo alcuno. 
Anzi la città che dalla sua copia avrà aiutato l'altra, 
senza pigliar da quella cosa alcuna, ricorre ad una terza 
per qualche oggetto, di che ella ha bisogno : quantun- 
que non le abbia dato il minimo che. Così tutta l'i- 
sola é come una sola grande famiglia. Poiché è prov- 
veduto agli interni bisogni , il che non giudicano aver 
fatto , se non si assicurano per due anni, essendo in- 
certa la raccolta del seguente, quanto avanza, cioè gran 
copia di frumento, miele, lana, lino, zafferano, porpore. 



48 UTOPIA. 

veii^ cera^ sevo e cuoio, ed anco animali, portano ad altre 
regioni, alle quali donano del tutto la settima parte, in 
prò degli indigenti, ed il rimanente vendono per me- 
diocre prezzo. Dì questo commercio riportano a casa 
non solamente le merci, delle quali hanno bisogno nel- 
r isola , che è per lo più il ferro , ma eziandio buona 
somma d' argento o di oro. £ da tale continua consue- 
tudine sono di tali cose mirabilmente copiosi. Perciò 
non hanno dififerenza dal dare in credenza a toccare il 
danaro, anzi fanno il più in crediti. Benché fanno pub- 
blici istromenti, e vogliono che vi concorra l'autorità 
dei luoghi, ove danno in credenza, e questa riscotendo 
a tempo i danari dei debitori, li mette neir erario e ne 
cava la usura fin a che gli Utopiensi li dimandano ; i 
quali non mai riscuotono di quelli la maggior parte ^ 
non parendo loro cosa giusta pigliare dagli altri quello, 
di che essi non si accomodano, e i debitori pigliano 
frutto. Quando avviene che vogliano prestare ad altra 
città danari, li pigliano da quella che è loro debitrice ; 
ciò pur fanno accadendo guerreggiare, al che riservano 
tutto quel tesoro, che tengono neir erario per servir- 
sene negli estremi • pericoli e subiti casi (specialmente 
quando soldano con grossi stipendi soldati esterni, i 
quali più volentieri mettono in pericolo che i loro cit- 
tadini) perchè sanno di certo che gì' inimici ancora si 
sogliono comperare con danari. A quest' effetto conser- 
vano un tesoro inestimabile, non già come tesoro ; ma 
mi vergogno narrare in che modo lo tengono, temendo 
che non mi sia creduto, specialmente che io non lo 
crederei a me stesso, se cogli occhi propri non l'avessi 
veduto. Ed è necessario che ogni cosa sia meno cre- 
dibile, quanto ella è dai costumi di chi la sta ad udire 
lontana ; benché l' uomo prudente forse meno si mera- 
viglierà, vedendo i loro istituti tanto dai nostri dissi- 
mili, se ancora l' uso dell' oro e dell' argento più si ac- 
comoda ai loro costumi che ai nostri. Certamente non 
usando ossi il danaro, ma tenendolo per quei casi che 
forse nolS avvengono mai, l'oro e l'argento non è più 



LIBRO SBCONDO. 49 

Stimato di quanto merita per sua natura, cioè a giudi- 
zio di tutti è inferiore del ferro, il quale a noi è tanto 
necessario, quanto il fuoco e r acqua. E già veggiamo 
r oro e l' argento non aver dalla natura virtù alcuna , 
della quale non possiamo mancare ; se non che la scioc- 
chezza umana r ha tenuto in prezzo^ perchè si trova di 
raro. Anzi la natura come pia madre ha posto negli oc- 
chi di tutti quelle cose^ che sono ottime , come V aria, 
r acqua e la terra, ed ha nascosto quelle che poco gio- 
vano. Se essi rinchiudessero questi metalli in una torre, 
potrebbe il popolo sospettare che il principe od il se- 
nato ne pigliasse qualche comodo, ingannando in qual- 
che guisa il popolo. Se poi ne facessero vasi, quando 
venisse occasione di volerne far moneta per pagare 1 
soldati. Corse spiacerebbe a molti privarsi di quei vasi 
che usato avessero ai loro comodi. Essi per provvedere 
a tali cose, hanno siccome nelle altre cose, trovato una 
via molto simile ai loro istituti, e dai nostri dissimile^ 
la quale non sarà facilmente creduta, se non dagli uo- 
mini esperti. Essi bevono in vasi di terra e di vetro 
bellissimi, e fanno vasi da immondizie e da orinare 
d' oro e d' argento, ed anche catene e ceppi. A quelli che 
sono infami pongono in dito, e attaccano alle orecchie, 
anelli, o catene d'oro al collo, e con oro cingono ad 
essi il capo. Così pongono ogni loro studio che l'oro 
e r argento appo i loro popoli sia vilipeso. Cosi avviene 
che questi metalli tanto grati alle altre nazioni, sono 
tanto vili appo gli Utopiensi, che perdendoli tutti, non 
parrebbe loro di aver perduto un danaro. Raccolgono 
nei lidi perle, e nelle rupi diamanti e pìropi, i quali 
non vanno cercando, ma avendoli trovati, li puliscono. 
Con questi ornano i fanciulli, i quali si gloriano di tali 
ornamenti, e ne divengono arroganti ; ma poiché sono 
cresciuti, e veggono che solamente i fanciulli usano di 
simili inezie, senza essere dai padri ammoniti, per ver- 
gogna le lasciano, siccome inostri, poiché sono gran- 
dicelli, gittano le noci, i giocherelli e simili inezie. 
Quanti diversi effetti partoriscono negli uomini questi 



1^0 tJTOPU» 

diversi istituti, non mai mi è parato vedere tanto ma- 
nifestamente ^ quanto negli ambasciatori degli Ànemo- 
Ij (i). Qujesti erano giunti ad Amauroto, mentre ch'io 
mi vi trovava : e perchè venivano a trattare di gran cose, 
tre cittadini di ogni città aveano precorso il loro ar- 
rivo; e parimente gli ambasciatori delle genti vicine^ 
venuti prima. I quali sapendo i costumi degli Utopiensi, 
che non onorano gli abiti sontuosi, e poco apprezzano 
l'oro, anzi è tra loro biasimato, usavano presentarsi in 
vesti quanto meno potevano sontuose. Ma gli Anemolj^ 
eh' erano poco lontani, e aveano poco commercio cogli 
Utopiensi, intendendo come tutti vestivano rozzamente, 
si diedero a credere, che facessero questo per povertà, 
onde più arroganti che savi determinarono di mostrarsi 
come Dei cogli abiti ornati, e muovere i miseri Utopiensi 
a meraviglia. Cosi entrarono nella città tre ambascia- 
tori con cento in compagnia vestiti a vari colori, e 
molti di seta. Gli ambasciatori , che erano nobili nel 
paese loro, aveano manti e collane d'oro, anelli d'oro 
pendenti dalle orecchie, ed altre collane pendenti dai ca- 
pelli, con gioie e perle lampeggianti : ed in somma erano 
ornati di quelle cose, che sono appo gli Utopiensi o 
supplici de' servi, o biasimi d'uomini infami, ovvero ine- 
zie di fanciulli. Era un giuoco mirare come si mostra- 
vano arroganti, quando faceano comparazione dal loro 
ornamento al vestire degU Utopiensi, perchè tutto il po- 
polo si era ridotto in piazza. Considerate ora quanto 
si trovarono ingannati della loro speranza, e lontani 
da quello che immaginavano di ottenere. Questo loro 
ornamento fu giudicato cosa vergognosa dagli Utopiensi, 
eccetto da. pochi, i quali per giuste cause erano stati a 
vedere alif e nazione ; per il che salutando per signori 
ogni minimo servo di quelli, pensarono che gli amba- 
sciatori fossero servi e non gii onorarono punto. Avresti 
veduto i fanciulli che avevano gettato le perle e le 
gioie, quando le videro pendere dai capelli degli am* 

(1) Pa6 interpretarsi nasion vano, popolo frivolo. 



LIBRO SBCONDO. 51 

basciatori^ mostrargli alle madri dicendo : Eccoti ©ma- 
dre quello sciocco^ che usa perle e gioie come se fosse 
un bambino. La madre da dovero diceva: taci figliuo- 
lo^ perchè forse colui è un buffone degli ambascia- 
tori. Altri biasimavano quelle catene d'oro con dire che 
erano tanto sottili^ che un servo le potrebbe rompere , 
e tanto larghe , che se le potrebbe levare- dal collo e 
fuggire. Gli ambasciatori stati ivi due giorni^ e vedendo 
quanto a vile vi era tenuto Toro^ anzi più biasimato 
Appo gli Utopiensi , che non era appo loro in prezzo : 
e mirando le catene e i ceppi di un servo fuggitivo , 
nei quali era più oro ed argento, che non valeva ogni 
ornamento di tutti tre, deposero ogni lor vago porta- 
mento, del quale prima andavano arroganti. Poiché par- 
larono cogli Utopiensi, compresero come si maraviglia- 
vano che un uomo potesse mirare una gioia lampeg- 
giante, al quale fosse lecito di mirare le stelle e il sole : 
e che alcuno si riputasse più nobile per il filo di lana 
più sottile^ quando che quello pure è stato portato da 
una pecora, la quale perciò non è più che pecora. Si 
meravigliano ancora che V oro di sua natura cosi inu- 
tile tanto venga stimato dalle altre genti, che l'uomo, 
per causa del quale V oro è in pregio, sia meno stimato 
che l'oro, in tanto che alcuno rozzo e stupido tenga 
in servitù molti uomini dabbene e savi, solamente per- 
chè possedè molti danari. I quali se per fortuna o per 
qualche sottilità delle leggi fossero condotti in mano 
dei peggior servo di quello, sarà egli astretto farsi servo 
del suo servo, solamente per questo mutamento di pos- 
seder danari. Mi maraviglio ed abbomino quelli che danno 
ai ricchi quasi gli onori divini, non perchè loro siano 
obbligati, né debitori , ma solamente perchè sono ric- 
chi, benché non sperino, vivendo quelli, aver pur un 
danaro de' tanti che possedono, conoscendoli mìseri ed 
avari. Queste e simili opinioni hanno bevuto gli Uto- 
piensi parte col latte nella fanciullezza, parte negli isti- 
tuti della repubblica, i quali da ogni inezia sono molto 
alieni» e parte dalla dottrina. E benché non molti sono 



Ss tTTOPiA. 

in ciascuna città esenti dalle fatiche ed applicati alia 
lettere, cioè quelli soli cbe dalla fanciullezza mostrano 
acuto ingegno, e r animo inchinato alle buone arti, tut- 
tavia tutti i fanciulli vengono ammaestrati nelle lettere 
e buona parte del popolo, maschi e femmine, occupano 
in istudj quelle ore che avanzano loro da lavorare. Im- 
parano le scienze nella loro favella, la quale è copiosa 
di parole, soave ad udire e innanzi ogni altra fedelis- 
sima interprete dell'animo. Questa ìstessa, ^enchè in 
molti luoghi corrotta e diversa, in ogni parte di quel 
clima è in uso. Prima che vi andassi, non avevano pur 
udito il nome dì quei filosofi, che sono di qua illustri ; 
nondimeno essi hanno trovato in musica, logica, arit- 
metica e matematica quasi le istesse cose, che trova- 
rono i nostri antichi. Ma siccome ragguagliano quasi 
in ogni cosa gli antichi, cosi colle nuove invenzioni 
di logica sono molto inferiori : perchè non hanno niuna 
regola delle restrizioni, amplificazioni e supposizioni 
trovate acutamente nella logica, che tra noi da fanciulli 
s' impara. Le seconde intenzioni tanto sono dal loro di- 
scorso lontane, che non possono comprendere Tuomo 
in comune ed universale, quantunque noi l'abbiamo fatto 
grande come un gigante e quasi lo mostriamo a dito. 
Ma nel corso delle stelle e movimento dei cieli sono pe- 
ritissimi ; ed hanno trovato stromenti di figure diverse, 
colle quali comprendono a pieno i movimenti del sole, 
della luna e delle stelle, che sono nel loro orizzonte. Non 
sanno cosa alcuna deir amicizia ed inimicizia delle stelle, 
né dell'astrologia indovinatrice, anzi ingannatrice. Co- 
noscono molto avanti le pioggie, i venti e le tempeste 
per certi lor segni. Ma circa le cause di tutte le cose, 
del corso e salso dei mare, ed in somma deir origine e 
natura del cielo e del mondo, dicono parte come i no- 
stri filosofi; parte son come quelli di vario parere. Circa 
la filosofia morale, disputano delle stesse cose corno 
noi. Ragionano dei beni dell'anima, del corpo e degli 
esterni ; se tutti si possono chiamar beni, o solamente 
quelli dell' animo. Disputano della virili e della voluttii. 



LIBRO SECONDO. ^3 

ma la principale controversia tra di loro è in quai cosa 
consista la vera felicità dell' uomo, ovvero se consista 
in più cose. Ma inchinano più del giusto a credere che 
nella voluttà consista il viver felice. E si servono a que- 
sto delia religione, la quale però appresso di loro è 
grave e severa: né mai disputano delia felicità, che 
non uniscano insieme alcuni principi tolti dalla reli- 
gione e dalla filosofia. Senza i quali pensano che la ra- 
gione umana sia tronca e debole ad investigare la vera 
felicità. Quei priucip] sono tali; che l'anima è immor- 
tale, nata per benignità di Dio alla felicità; che alle virtù 
e buone opere nostre sono assegnati i premia ed alle 
scelleraggini i supplici . Benché tali principi vengano 
dalla religione, tuttavia pensano che siano con ra- 
gioni e fondamenti umani condotti a crederli^ ed a con- 
cederli, e levati vìa questi^ confermano arditamente, che 
ciascuno quantunque stupido é astretto di cercare la 
voluttà a dritto e a torto: e solamente ha da mirare 
ebe un minor diletto non impedisca il maggiore, onde 
ne segua qualche affanno, che annulli Tavuto sollazzo. 
Perchè il seguire la virtù, cosi aspra e malagevole^ e 
non solamente cacciar da sé il vivere soave, ma soffe- 
rire ancora spontaneamente i dolori , non porta frutto 
alcuno , se dopo morte non ne segue alcun premio , 
avendo passato la vita miseramente : e questo giudicano 
estrema pazzia. Tuttavia non pongono la felicità in 
ogni voluttà^ ma solamente neir onestà , perché la na- 
tura é tratta a quella, come ad un sommo bene dalla 
virtù, nella quale sola la parte avversa mette la fehcità. 
Questi dicono che la virtù è un viver secondo la na- 
tura^ e che siamo creati a questo disposti. E che segue 
la natura, colui il quale nel bramare e fuggire le cose 
ubbidisce alla ragione ^ la quale primieramente muove 
%\\ animi umani ad onorare la divina maestà^ alla 
quale siamo tenuti dell'essere, e per cui siamo ca- 
paci delia felicità ; secondariamente ci ammonisce e de- 
sta^ che cerchiamo di vivere lietamente con minore 
aasietà che si [iuò, e che aiutiamo gli altri ad ottenere 



S4 UTOWA. 

qaesto bene, per la naturale compagnia che è tra noi. 
Niuno mai ha seguito tanto rigidamente la virtù, né 
dato si è tanto ostinatamente alle fatiche e vigilie , 
ch'egli non sia stato pronto ad, alleggerire le altrui 
miserie, ed a commendare per cosa umana che Tuomo 
stadi a giovare air uomo e mitigando i travagli di quello, 
ricondurlo dalle miserie a vita tranquilla e sollazzevole. 
E perchè non debbe la natura istigarci che facciamo 
lo stesso ufficio verso noi stessi? Perciocché o la vita 
sollazzevole e gioconda è cattiva, e non solamente non 
devi porgere aiuto ad alcuno di ottenerla, anzi quanto 
puoi devi privarne ciascuno, come di cosa perniciosa 
e mortifera : o è buona, e tanto più devi procurarla a 
te stesso, a cui non meno sei tenuto di provvedere che 
agli altri. Dicono adunque : la natura ci assegna la vita 
gioconda, cioè la voluttà, come un fine di tutte le 
opere nostre ; e vogliono che il viver secondo la natura 
sia il vivere virtuoso. Ma invitandoci la natura ad aiu- 
tarci r un r altro (il che fa ella meritamente , quando 
che niuno è di tanta dignità, che la natura si pigli cura 
di lui solo, perchè essa porge il seno a tutti quelli, ai 
quali ha dato una forma comune) essa stessa veramente 
ti ammonisce, che non procuri i tuoi comodi con l' al* 
trui incomodo. Vogliono adunque che si osservino le 
convenzioni fatte tra privati uomini, ed anche le pub- 
bliche leggi fatte da buon principe , o da un popolo 
che non sia oppresso da tirannia, le quali assegnano il 
modo a comunicare i comodi e godere le voluttà. Gli 
è poi gran prudenza se , non offendendo queste leggi , 
si cerca il proprio comodo , ed è singolare pietà stu- 
diare al comodo universale. Ma egli è strana e spiace- 
vole ingiuria volersi pigliare sollazzo con altrui dispia- 
cere : ed è singolare benignità spogliare sé medesimo 
di qualche sollazzo per accomodarne altri; il che tut- 
tavia riporta comodo uguale al danno che se ne sente; 
perchè viene con benefìci ricompensato ; e la coscienza 
dell' opera buona, con la memoria della carità e bene- 
volenza di coloro ^1 c^uaU bài Catto beneficio, (orta at- 



LIBRO SECONDO. S5 

l'animo più diletto che non avrebbe dato quella vo- 
luttà corporale, dalla quale ti sei astenuto. Finalmente (co- 
me la religione v'ersiiade air animo umano) Iddio con per- 
petua allegrezza ricompensa una breve voluttà. Cosi 
vogliono cbe si considerino le operazioni nostre e 
tra queste le virtù, mirando finalmente alle voluttà 
cbe sono dalla felicità il fine. Chiamano essi voluttà 
ofi^ni movimento o fermezza di animò e di corpo , nel 
quale l'uomo della natura guidato si diletta trovarsi. 
Né senza causa vi aggiungono l'appetito della natura. 
Perchè siccome non solamente il sentimento, ma la 
dritta ragione segue ogni cosa , che è per natura gio- 
conda, alla quale non si vada con ingiuria altrui, né 
perdendo maggior sollazzo, o incontrando fatica; così 
quelle cose reputano inutili alla felicità, che sono da- 
gli uomini contra l'ordine di natura reputate dolci : 
anzi le tengono per nocive , quando che avendo una 
fiata occupato l'uomo, tanto io adescano con falso di- 
letto^ che non lo lasciano pigliar piacere dei veri sol- 
lazzi. Sono veramente assai cose, che di loro natura 
non hanno alcuna soavità, anzi non poca amaritudine ; 
ma per il diletto dei tristi piaceri non solamente sono 
annoverate tra le più gioconde voluttà , ma eziandio 
tra le principali cause della vita nostra. Tra queste 
sorta di falsa voluttà annoverano la soddìsfazion di 
coloro, i quali per esser meglio vestiti, si reputano mi- 
gliori; nel che pigliano doppio errore, riputando mi- 
gliore la loro veste, che l'altrui, e sé medesimi degli 
altri più degni. Qual maggior dignità ha il filo di lana 
più sottile che il grosso, considerando Taso della ve- 
ste? Tuttavia molti si tengono da più, per esser più 
pomposamente vestiti , e si sdegnano , quando non si 
veggono stimare più che gli altri, il che è una scioc- 
chezza considerando quanto sia vano l'onore dagli abiti 
causato. Che naturai diletto porge, che alcuno si cavi 
la berretta, o pieghi le ginocchia ad onorarti ? Ti gio- 
verà forse questo a levarti il dolore del capò o dei 
ginocchi t Quanto soavemente impazziscono in q^uesta 



56 UTOPIA. 

falsa imniagine di volattà coloro j che si tengon no» 
bili, per esser nati da progenie, la quale per molte età 
sia stata ricca, quando che non conoscono altra no- 
biltà: benché non si tengono men nobili^ quantunque 
non sia lasciata loro da' maggiori alcuna facoltà , ov- 
vero essi rabbiano consumata. A questi si aggiungono 
coloro che si dilettano di gioie , e si reputano Dei , 
quando avviene che ne abbiano qualcuna di gran prez- 
zo , e molto stimata a sua età. Non la. comprano le- 
gata in oro, anzi la vogliono nuda^ e con sicurtà che 
sia buona j tanto temono di essere ingannati. Nondi- 
meno all'occhio umano tanto diletta una gioia fina 
quanto una finta, non discernendo una dall'altra. Do- 
vrebbe tanto valere la gioia fina come la finta appresso 
di te, che non sei in questo giudizio differente da un 
cieco. Che diremo noi di coloro che conservano so- 
verchie ricchezze solamente per mirarle a lor sollazzo ? 
Godono essi la vera felicità^ oppure si trovano ingan- 
nati da falsi diletti? Ma quei che nascondono il tesoro, 
il quale forse non più vedranno^ stando in pensiero di 
non perderlo, lo perdono. Mettendolo sotterra , ove né 
a te né agli altri può servire, nondimeno tu ti ralle- 
gri poiché hai nascosto il tesoro: e stai con Tanlmo 
sicuro. Se alcuno però te lo rubasse dieci anni prima 
che tu morissi, ove tu ignori un tal furto, che noce- 
rebbe esso per tutto questo spazio alla tua felicità? 
Fra gli amatori di vane allegrezze annoverano gli uto- 
piensi i giocatori di dadi o di carte , i quai giuochi 
solamente per nome conoscono , e parimenti i caccia- 
tori e gli uccellatori, e dicono : Che sollazzo é gettare 
i dadi , poiché gettandoli spesso Tuomo dovrebbe sa- 
ziarsi ? non è piuttosto un fastidio udir abbaiare i cani ? 
che maggior diletto è veder un cane seguire la lepre , 
che un cane Taltro cane? perché veramente si vede 
la velocità del correre a questo ed a quel modo. Se ti 
diletta veder straziare ed uccidere quell'animaletto, do- 
vresti piuttosto muoverti a pietà mirando la lepre im- 
^otente« fuggitiva^ timida ed innpcente esaer stracciata 



LIBRO SECONDO. 57 

dal cane gagliardo, feroce e crudele. Così gli Utopiens^ 
hanno rifiutato al tutto quest'esercizio del cacciare; 
come arte conveniente ai beccaj, la quale hanno com- 
messa ai servi. Anzi giudicano che il cacciare sia di 
nella la più infima parte ^ stimando le altre più utili 
ed oneste, quando si ammazzano gli animali per la ne- 
cessità del vivere umano, laddove 11 cacciatore sola- 
mente si piglia piacere della morte del misero animale. 
11 qaal desiderio pensano essi che nasca da un animo 
alla crudeltà disposto. Queste ed altre cose innumera- 
bili , delle quali gli uomini altrove pigliano diletto , 
sono appo gli Utopiensi sprezzate, come di ninna soa- 
vità; e benché piacciano al volgo, il quale pervertendo 
la natura^ reputa dolci le cose amare : siccome le fem- 
mine gravide, le quali tengono la pece ed il sevo per 
più dolce che il miele, perchè hanno corrotto il gusto; 
il quale però non può mutare la natura di ninna cosa, 
e specialmente della voluttà. Fanno diverse specie di 
voluttà ; alcune assegnano al corpo , alcune airanima. 
All'anima danno l'intelletto e quella dolcezza che na- 
sce dal contemplare la verità. Vi si aggiunge la gio- 
conda memoria di aver vissuto bene. La voluttà del 
corpo dividono in due forme, e la prima secondo essi, 
è quella che diletta.il sentimento e ristora le parti 
che sono in noi da calor naturale consumate , il che 
si fa col cibo e col bere : perchè evacuandosi il corpo 
nel mandar fuori le cose soverchie scaricando il ven- 
tre, o generando, o levando il prurito in qualche parte 
è di mestieri che sia riempiuto. Evvi un'altra voluttà, 
che non dona ai sentimenti nostri cosa alcuna da loro 
bramata, né di alcuna li priva, ma solamente con oc- 
culta forza porge loro diletto : come è la musica. Met- 
tono un'altra forma di corporal voluttà, la quale con- 
siste nel quieto e tranquillo stato del corpo: e nomasi 
ia tutti sanità. Questa, non essendo da qualche dolore 
afflitta per sé stessa, diletta senz'altro sollazza este- 
riore. E quantunque essa non si mostri così manife- 
stamente ai sentimenti j» come la voluttà del mangiara 



S8 UTOPU, 

e del bere , tuttavia tatti Thanno per grandissima vo- 
luttà ^ e gli Utopìensi la tengono per fondamento di 
ogni sollazzo, senza il quale ogni voluttà è nulla. Per- 
chè mancare di dolore senza sanità, è piuttosto uno 
stupore che un sollazzo. Quella opinione che dice la sa- 
nità non essere voluttà, perchè non si sente , se non 
con qualche esterno movimento, è da loro al tutto ri- 
fiatata. Anzi tutti concordevolmente affermano la sa- 
nità essere una speciale e primaria dilettazione. £ di- 
cono : se nella infermità è il dolore , mortai nemico 
della voluttà , perchè non sarà nella quiete della sa- 
nità una giocondezza singolare? Non fanno differenza 
che si dica Tinfermità istessa esser dolore, ovvero il 
dolore esser l'infermità, perchè ne riesce la medesima 
sentenza. Ma se la sanità è la voluttà istessa , ovvero 
necessariamente partorisce voluttà, come il fuoco pro- 
duce caldo, veramente ad ogni modo segue, che la 
ferma sanità riesca una vita gioconda. Oltre di questo 
dicono, quando mangiano ristorarsi col cibo la sanità, 
la quale per la fame cominciava ad indebolirsi ; e quando 
è tornata al solito vigore , sentiamo là giocondità del 
mangiare, tanto maggiormente, quanto la sanità è più 
robusta. Cosi appare esser falso quello che taluni as« 
seriscono, che la sanità non si sente. Il che non può 
avvenire in uomo che non sia stupido , e per conse- 
guente non sano. Abbracciano adunque primieramante 
quelle voluttà deiranimo (che sono appo loro le prin- 
cipali) le quali sanno che nascono da virtù e dalla 
buona coscienza. Ma pongon la sanità innanzi ad ogni 
altro corporeo diletto. Né vogliono che si brami il man- 
giare ed il bere o altra voluttà, se non per conservare 
la sanità. Perchè non sono tali cose da loro istesse 
gioconde , ma in quanto mantengono la sanità. Però 
debbo il savio piuttosto cercare di non essere occupato 
dall'infermità, che bramare la medicina ; di tener lungi 
i dolori, che d'aver bisogno di voluttà, le quali si con- 
viene temperare. Se alcuno per esse si tiene beato, 
egli è astretto di confessare che allora sarà ieUcisslmo,, 



LIBRO SXGONDO. 59 

quando da fame , sete , pizzicore sarà travagliato , le 
qaali cose veggiamo manifestamente esser sozze e mi- 
sere. Queste adunque sono le meno sincere voluttà, le 
quali ci avvengono solamente per medicare ai contrari 
dolori ; perchè col diletto di mangiare si accompa- 
gna la fame^ e con legge non uguale. Perchè il dolore 
tanto è più lungo, quanto è maggiore ; e nascendo in- 
nanzi al piacere, non si estinerue se non insieme col 
piacere. Stimano essi poco queste voluttà , se non 
quando la necessità li stringe di usarle. Nondimeno 
godono queste ancora, e ne ringraziano la natura ma- 
dre, la quale adesca con soavità i suoi figliuoli a quello 
che era necessità che si facesse. Con quanto fastidio 
vivremmo, se avessimo a cacciar la fame e la sete con 
pozioni e veleni, siccome cacciamo le altre infermità? 
Ma abbracciano lietamente la bellezza, le forze e la 
destrezza , come doni giocondi e propri della natura. 
Gli altri sollazzi che per le orecchie, per gli occhi e per 
le nari passano all'anima , i quali sono propri del- 
l'uomo (perchè ninno animale considera la bellezza del 
mondo, né sente gli odori, se non quanto fa mestieri 
per discernere il cibo , né si diletta della varietà dei 
suoni) questi dico volentieri accettano. In tutti però 
tengono tale misura che il maggior sollazzo non sia 
dal minore impedito. Ma sprezzare la bellezza , dimi- 
nuire le forze , mutare la destrezza in pigrizia , este- 
nuare con digiuni il corpo, fare ingiuria alla sanità, e 
rifiutare gii altri sollazzi dalla natura a noi concessi , 
se non fosse per giovare alla repubblica, reputano una 
sciocchezza, e che questo nasca da un animo crudele 
e ingrato alia natura , i cui benefici rifiuta, come sde- 
gnandosi di essergliene debitore, e specialmente facen- 
dosi questo per una vana ombra di virtù, ovvero per 
sopportare con minor dispiacere le avversità, le quali 
forse non mai verranno. Questo è il loro parere circa 
la virtù e la voluttà; e se Dio non ne inspira ad essi 
un migliore, credono che non se ne trovi altro più 
saggio. (loa mi occuperò a disputare della verità della 



60 UTOPIA. 

loro opinione, perchè non lo concede il tempo ; ed lo 
mi sono posto a narrare gristituti degli Utopiensi^ non 
a difenderli. E siano questi decreti quali si vogliano ^ 
io tengo di certo che non si trovi più degno popolo , 
né repubblica più felice. Sono di corpo agile e vigo- 
roso, e di maggior forze che non promette la loro sta- 
tura, la quale però non è picciola. E quantunque il 
loro terreno sia mal fertile , e Tarla poco sana, tutta- 
via con temperato vivere si mantengono contro l'aria, 
e con l'industria vincono la terra di maniera , che in 
niun luogo vengono più copiosi ricolti, né animali me- 

. glio nodriti, ed i corpi umani più vivaci e meno alle 
infermità soggetti. Perciò non vedrai solamente fare da 
loro quelle opere , che fanno i lavoratori altrove per 
vincere la malignità del terreno. Anzi ivi si vede una 
selva cavata dalle radici ed un'altra piantata altrove; 
nel che non si è considerata la fertilità del terreno ^ 
ma il comodo di condurre i frutti, le legne o altre 
cose al mare o al fiume, ovvero alle città. Sono gli 
Utopiensi gente benigna e piacevole, che^ ama il riposo: 
e, quando fa mestieri, paziente della fatica, specialmente 

, negli studj che ornano l'animo. Essi avendo da me 
inteso delle lettere e dottrina de* Greci , perchè delle 
cose latine altro npn commendano, che le storie ed i 
poeti, sì mostrarono molto bramosi ch'io di quelle let- 
tere gli ammaestrassi. Cosi io cominciai a legger loro, 
piuttosto, acciò non credessero eh' io schivassi la fa- 
tica, che io ne sperassi frutto alcuno. Ma avendo letto 
alquanti giorni, la loro diligenza mi diede ardire che 
non sarebbe vana la mia sollecitudine. Perchè comin- 
ciarono a scrivere le lettere, pronunciare le parole , e 
mandarle con tanta prestezza a memoria, che mi parve 
cosa miracolosa: e molti per ordine del senato furono 
destinati a questo studio, cioè quelli del numero degli 
studenti, che erano di più acuto ingegno e di matura 
età. Cosi in tre anni leggevano speditamente ogni au- 
tore greco, purché non fosse corrotto il libro. Ed essi, 
per mio avviso, taato agevolmente impararono q^ueile 



tlBRO SBCOIIDO. 6Ì 

lettere, perch' io credo che derivassero dai Greci ; quan- 
doché nella loro favella, che è persiana, sono molte 
parole greche, specialmente nel nominare le città ed i 
magistrati. Io la quarta fiata che navigai alla volta loro, 
mi posi nella nave buon numero di libri in luogo di 
mercanzie; avendo meco disposto di non tornar mai, 
piuttosto che tornar presto. Cosi lasciai a quelli molte 
opere di Platone e di Aristotile, e Teofrasto delle piante, 
ma troncato in più luoghi. Perchè essendo tenuto con 
poca cura nella nave, una scimìa ne cavò fuori al- 
quante carte, e stracciatele giuocando, le avea sparse 
qua e là. Hanno in grammatica Costantino Lascari; non 
avea portato meco Teodoro Gaza , né altro dizionario 
che Esichio e Dioscoride. Tengono carissimi i libretti 
dì Plutarco, e si dilettano delle piacevolezze di Luciano. 
Dei poeti hanno Aristofane, Omero, Euripide e Sofocle 
in forma piccola di Aldo. Degli storici, Tucidide, Ero-' 
doto ed Erodiano. In medicina, Tricio Arpino mio com- 
pagno, avea portato alcune opere d'Ippocrate, e il Mi- 
crotecne di Galeno, i quai libri tengono in gran pregio. 
E quantunque meno sono bisognosi della medicina che 
qualunque altra nazione, tuttavia è presso di loro ono- 
rata più che in altro paese, perché l'annoverano tra 
le parti principali ed utilissime delia filosofia; ed inve- 
stigando le cose di natura con Taìuto di questa , si 
danno a credere non solamente di prendere gran di- 
letto, ma eziandio di aggradirsi sommamente all'autore 
e artefice di quella. Pensando eh' egli, come fanno gli 
altri artefici, abbia posto innanzi agli occhi dell'uomo, 
il qual solo ha fatto di tal cognizione capace , questa 
macchina, acciocché la consideri : e che più gli sia caro 
Tuomo, che considera con ammirazione le degnissime 
opere sue, che colui, il quale, come animale senza in- 
telletto e stupido, non si cura di contemplare questo 
mirabile spettacolo. Cosi gl'ingegni degli Utopiensi nelle 
lettere esercitati vagliono mirabilmente a trovare le 
arti utili ai comodi della vita. Ma sono a noi debitori 
di due, cioè d'imprimere libri e fare la carta bamba- 



62 UTOPIA. 

gina ; benché in buona parte da loro stessi ne vennero 
a perfetta cognizione. Perchè mostrando loro le let- 
tere di Aldo impresse in tale carta^ e ragionando dello 
stampare Hbri^ intesero assai più oltre di quello^ che 
dicevamo, ninno di noi essendo molto esperto né dei- 
Tana né dell'altra. Essi di subito fecero congettura 
come si potessero fare colali arti : e perché scrivevano 
per addietro in pelli^ in scorza ed in papiro, tentarono 
subito di fare là carta e stampare. Né riuscendo bene 
a principio^ fecero tante fiate l'esperienza, che appre- 
sero alfine ciò che desideravano; e se non mancas- 
sero loro copie, avrebbero già stampato assai libri greci. 
Ma non hanno altri libri che i sopraddetti, e di questi 
hanno stampato gran numero. Ognuno che sia di sin- 
golare ingegno, ovvero che abbia veduto buona parte 
del mondo , il quale pervenga a loro per mirarne gli 
istituti, è accolto benignamente , perché odono volen- 
tieri ciò che si fa negli altri paesi. Pochi mercanti vi 
vanno. Che altro vi possono portare, che ferro ? e che 
vorrebbero portar via altro che oro? Ma essi vogliono 
in persona condurre altrove le cose loro, per aver co- 
gnizione degli altri paesi, e non si scordare la peri- 
zia del navigare. 

Dei servi. 

Non tengono per servi quelli che sono presi in guerra, 
ancorché fosse (atta da loro, né i figliuoli dei servi, né 
alcuno che serva appo altre nazioni, i quali possono com- 
perare ; ma quelli che per qualche mancamento sono da 
loro dannati alla servitù, ovvero altri di esterne nazioni, 
che sono lor dati a tale supplicio, per qualche delitto ; 
il che avviene sovente, e molti ne hanno per vilissimo 
prezzo. Tengono questi servi in continua fatica, ed in 
catene, ma trattano i loro propri più duramente, giudi- 
cando che siano incorreggibili e degni di più grave sup- 
plicio, poiché essendo tanto egregiamente nudriti alla 



LIBRO SSGORDO. 03 

virtù , non si hanno potuto raffrenare dal vizio. Evvi 
un'altra sorte di servi, quando alcuno di altra na* 
zione> avvezzo alla fatica , povero e di bassa condi- 
zione elegge di servir loro. Questi ( eccetto cbe danno 
ad essi alquanto più fatica) trattano benignamente, e 
li tengono poco meno cbe per loro cittadini. Se al- 
cuno vuol*f partirsi, il cbe di rado avviene , non lo 
tengono contra sua voglia , né lo mandano via senza 
doni. Grinfermi, come dicemmo, trattano con gran cari- 
tà, non tralasciando cosa alcuna circa le medicine ed il 
governo del vivere, cbe vaglia a rendere a quelli la sa- 
nità. Se alcuno è incurabile, tenendogli compagnia, par- 
lando con lui^ e servendolo, alleggeriscono la sua cala- 
mità. Che se rinfermità sua è di perpetuo dolore, i sa- 
cerdoti ed il magistrato lo confortano, che essendo già 
inetto agli ufficj della vita, molesto agli altri e grave 
a 8ò stesso, non voglia sopravvivere alla propria morte, 
e nodrire seco la pestifera infermità : e cbe essendogli 
la vita un tormento, non dubiti di morire: anzi cbe, 
avendo buona speranza, liberi sé stesso da si acerbo 
carcere, o si lasci dagli altri liberare; e che farà 
opera da prudente, quando cbe le calamità saranno da 
lui lasciate morendo, non i comodi : oltre cbe seguendo 
il consiglio dei sacerdoti interpreti degli Dei, farà opera 
santa e pia. Coloro cbe sono a questo persuasi, ovvero 
con astinenza finiscono la vita, ovvero dormendo sono 
uccisi. Ma non ne fanno morire alcuno contra sua vo- 
glia, né mancano di servirlo nell'infermità parendo loro 
cbe questa sta onorata cosa. Ma se alcuno si uccide 
senza il consentimento dei sacerdoti e del magistrato, 
egli senza esser sepolto viene gettato in una palude. 
Le femmine non si maritano imiaiizi degli anni dodici, 
ed i maschi dei sedici. Se il maschio o la femmina sono 
trovati a lussuriare innanzi al matrimonio, vengono 
puniti gravemente, e privati in perpetuo dei matrimo- 
nio medesimo, ove il principe non si muova a pietà 
di perdonar loro tal fallo. Il padre e la madre di fa- 
miglia, sotto il governo dei quali avviene tal manca- 



64 UTOPIA. 

mento, sono infamati come poco attenti al dover loro. 
E il motivo di tanto severa punizione è il prevedere 
che pochi si mariterebbero volentieri, per non vivere 
tutti gli anni con una sola, e non tollerar le molestie 
del matrimonio, quando fossero avvezzi a liberi pia- 
ceri. Nell'eleggere le mogli tengono un modo a mio pa- 
rere ridicoloso, ma riputato da loro prndentissimo. Una 
onesta matrona mostra la vergine^ o vedova che sia, 
nuda allo sposo ; e parimente un uomo di gravità mo- 
stra il giovane nudo alla giovinetta. E biasimando io 
questo costume come inetto^ essi all'incontro risposero 
che si meravigliavano assai della pazzia delle altre gentil 
le quali nel comperare un cavallo, ove si tratta di po- 
chi danari, vanno tanto cautamente che lo vogliono ve- 
dere senza sella, acciocché sotto quella non avesse qual- 
che piaga, e in elegger la moglie, la quale, può dare o 
sollazzo dispiacere mentre che dura la vita, sono 
tanto negligenti che si contentano di veder la donna 
quasi tutta coperta^ anzi di non vederne che il volto: 
e tuttavia potrebbe essa nascondere qualche difetto , 
pel quale non mai si vorrebbe averla presa. Né tutti 
sono di tanta sapienza, che mirino solamente ai co- 
stumi; anzi nei matrimoni dei savi uomini, le doti del 
corpo fanno più grati i doni dell'animo. E veramente 
tale bruttura potrebbe nascondersi sotto gli abiti , che 
la moglie sempre fosse odiosa a! marito ; ed a questo 
si debbe provvedere con leggi, prima che segua l'in- 
ganno, quando che essi soli di tutte quelle nazioni sono 
Contenti di una sola moglie, né si scioglie il matrimo- 
nio se non per l'adulterio, o per altra intollerabile mo- 
lestia. In tali casi il senato concede all'innocente di 
rimaritarsi, ed il colpevole resta infame e privo in per- 
petuo del matrimonio. Non vogliono che la moglie non 
colpevole sia ripudiata contra sua voglia, ancorché ca- 
desse in qualche calamita del corpo ; parendo loro una 
crudeltà che si abbandoni la persona, quando ha mag- 
gior bisogno di consolazione; perché la vecchiezza, che 
porta con sé infermità, ed é l'infermità stessa, sarebbe 



LIBRO SBGONOO. 65 

dalia compagnia abbandonata. Avvieae alle fiale, che 
coniugi non si confacendo dei costami, e trovando 
amendue con chi sperano di vivere più soavemente, 
si separano, e rimaritansi, con Tautorità però del se- 
nato, il quale non ammette il divorzio, se prima non 
ne conosce e non ne fa dalle proprie donne investigare 
Je cause. Ed anco si rende difficile a questo, accioc- 
ché non si speri di mutar facilmente il matrimonio. Gli 
adulteri si puniscono con durissima servitù : e se alcun 
di essi non era celibe, si -concede che i coniugi offesi, 
ripudiati gli adulteri, si maritino insieme, ovvero con 
altri. Ma se quello ctie è offeso, tanto ama l'olTensore 
che non voglia fare divorzio, non gli è vietato di man- 
tenere il matrimonio, purché voglia seguire nell'opera 
il dannato. E sovente è avvenuto, che la sollecita pa- 
zienza deir innocente ha ottenuto la libertà al colpe- 
vole. Ma chi adultera dopo questo perdono, è punito 
nella testa. Alle altre colpe non si assegna determinato 
suppiicio, ma secondo il mancamento segue il supplicio 
più o men grave come pare al senato. I mariti casti- 
gano le mogU, i padri i figliuoli, se non fosse qualche 
enorme mancamento, che si dovesse punire pubblica- 
mente. Ma quasi tutte le gravi colpe sono punite con 
servitù, il che non meno splace agli scellerati , ed è 
più comodo alla repubblica che ucciderli, perchè gio- 
vano più con la fatica che con la morte, e con l'esem- 
pio continuo ammoniscono gii altri a guardarsi da si- 
mili colpe. Se in tale stato sono perversi ed inobbe- 
dienti, allora come bestie indomite gli uccidono, l pa- 
zienti non sono fuori di speranza, che tollerando i tra- 
vagli e le fatiche, e mostrando che più loro spiaccia il 
peccato che la penitenza, non siano francati o venga 
loro mitigata la servitù per autorità dei principe o suf- 
fragi dei popolo. Non meno puniscono chi ha provo- 
cato alcuna persona a lussuria, che se avesse commesso 
l'errore: parendo loro che la volontà determinata a pec- 
care, ancorché non possa venire ad effetto, sia degna 
dello stesso supplicio. Si pigliano piacere de'buffòui, ma 

Moro» 5 



66 UTOPIA. 

non è lecito far loro ingiuda. Né gli danno in governo 
a cbi non si diletta delle loro facezie, temendo che 
non siano ben trattati. Non si concede il farsi beffa 
d'alcuno, che sia tronco o sciancato, parendo sconve- 
nevole schernire quel vizio , cbe è venuto neir uomo 
senza sua colpa. Siccome tengono per da poco cbi non 
ha cura di conservarsi la bellezza naturale, cosi biasi- 
mano quelli che con belletti studiano di aumentarla; 
avendo per certo che la bontà dei costumi assai più 
vale a render grata la moglie al marito, che alcuna 
bellezza corporale. Non solamente si rimangono dalle 
scelleraggini per tema dei supplici, ma sono invitati alle 
virtù con egregi onori. Rizzano nella piazza statue agli 
uomini, che per la repubblica hanno fatto qualche de- 
gna impresa , acciocché si conservi la memoria d^le 
opere illustri, ed i loro discendenti siano alla virtù in- 
citati. Ohi cérca di avere alcun magistrato ne viene 
privato al tutto. Vivono assieme amichevolmente, per* 
che i magistrati non sono terribili ; si chkimano padri, 
e si portano da padri ; ed i popoli gli onorano spenta^ 
neamente. Il principe non é dagli altri conosciuto per 
diadema o corona, ma per un manipolo di frumento , 
che gli viene portato innanzi, ed il pontefice per un 
torchio. Hanno poche leggi, e biasimano gli altri popoli, 
che empiono di leggi e d'interpreti smisurati volumi. 
Parendo loro che sia iniquità obbligare a tante leggi 
l'uomo, che non si possano leggere, e taiito oscure, 
cbe non siano intese. Non ammettono avvocati, anzi 
vogliono che ognuno in giudìzio dica la sua ragione, 
perchè in tal guisa si disputa meno, e meglio si cava 
la verità senza ornamento di parole* Il giudice solleci- 
tamente spedisce ogni causa, e favorisce agli ingegni 
semplici contro i malvagi ed accorti : il che a fatica si 
può osservare appo le altre nazioni tra tante dubbiose 
leggi. Appo loro ciascuno è giureconsulto, perchè hanno 
pochissime leggi, e commendano sommamente la più 
semplice interpretazione, che loro si dia. Perchè la sot- 
tile interpretazione non può esser da tutti intesa; il 



LIBRO SBC<MDO. 67 

che è contra la intenzione delle leggi, le quali si danno, 
aeelocehè siano a tatti manifeste. I popoli vicini , cbe 
sono liberi, ma dei quali molti banno sofferto la ti- 
rannia, mossi da qneste virtù , dimandano dagli uto^ 
piMisi i magistrati per un anno, ed anco per cinque ; 
e quando hanno fornito il loro ufficio > li rimandano 
onorevolmente e ne conducono degli altri. Ed in vero 
questi popoli ottimamente provveggono alla loro re- 
puU^lica, la eoi salute o rovina dipende dai costumi 
dei magistrati, né potevano fare miglior elezione ; quan- 
doché sono gU Utopiensi di una tale costanza, che non 
si piegane a pieEao alcuno, ed avendo dà ritornare alla 
patria, non hanno occasione di far ingiustizia, massi- 
mamente che non conoscendo quei cittadini, non pos- 
sono da alcuno agevolmente esser persuasi di contrav- 
venire al giusto. Questi due mali, amore ed avarizia, 
quando hanno potere nei giudizj, pervertono ogni giu- 
sti^, ed indeboliscono ogni nervo della repubblica. 
GH Utopiani chiamano compagni quei popoli , ai quali 
daano magistrati, ed amici quelli a chi hanno fatto 
beBeflcj. Essi non fanno con altre genti confederazioni, 
le quali tanto sovente appo altri popoli sono fatte e 
rhmoTate. Perchè si hanno da fare, dicono essi , con- 
fèderamoni alcune, bastando ad amicarsi l'uomo la co- 
mune natura, la quale non giovando, cbe potranno più 
valere le parole ? Sono in questo parere, perché le con- 
vensionl e patti tra principi in quei paesi, poco fedel- 
mente si osservano. Ma in Europa e specialmente dove 
regna la fede di Cristo, si conservano inviolabilmente 
le coniéderazionl, parte per giustizia e liontà dei prin- 
cipi , parte per riverenza e timore dei sommi ponto« 
fici; I quali, siccome non commettono cosa alcuna, 
che contravvenga alla religione, cosi comandano che 
gli altri principi mantengano le loro promesse, e con 
scomuniche severissime sforzano i contumaci a ser« 
bare la loro fede. £ meritamente in vero tengono per 
biasimo vituperevole, che non si osservi fede nelle con« 
federaiioni da coloro, che ^eialmente si nominano 



,6S UTOMA. 

fedeli (1). Ma in quel nuovo mondo tanto dal nostro 
distante, quanto sono ancora i costumi dissimili, non 
si fidiano di confederazioni, quando che non si possono 
fare con tante cerimonie e sagramenti, cbe non si trovi 
nelle parole qualche calunnia postavi a studio, e non 
vi si occulti un uncino da eluderle. Ed è singoiar cosa 
che se trovano simili accortezze o inganni nei contraili 
degli uomini privati, li dannano come sacrileghi e de- 
gni di morte quegli stessi consiglieri de'principi, i quali 
si gloriano d'essere stati autori delle fraudolente con- 
federazioni, acciocché si potessero rompere. Indi av- 
viene, che non vi sia altra giustizia, se non l'umile e 
plebea, e molto inferiore dalla regale maestà; come se 
vi fossero due giustizie, una del volgo umile e bassa, 
la quale avvinta con molti nodi , non ardisca levarsi, 
l'altra dei principi alta e magnifica, alia quale tanto 
sia lecito quanto loro piace. Io credo che gli Utopiensi 
non facciano alcuna confederazione perchè i prini^ipi 
di quel paese tanto sono a contravvenire ad ogni loro 
promessa disposti: tuttavia, se vivessero in queste 
parti, muterebbero proposito. Benché essi giudicano; 
ancorché fossero osservate le confederazioni ottima- 
mente, cbe non sia bene il farle ; perché si potrebbero 
tenere per nemici quei popoli, che sono divisi con un 
rivo con un colle, non avendo tra loro tal segni di 
patti, ed indi guerreggiare insieme. Anzi fatte le con- 
federazioni, non si stringe però r amicizia; e resta la 
licenza di saccheggiare,, non avendosi per imprudenza 
potuto porre nella confederazione ogni cautela suffi- 
ciente a ribattere l'ingiuria. Ma essi all'incontro giudi* 
cane cbe non si tenga alcuno per nemico, dal quale 
non si abbia ricevuto ingiuria. E che basti la compa- 
gnia naturale in luogo di confederazione: perchè gli 
uomini più volentieri e con maggior fermezza si uni- 
scono cogli animi, che per confederazioni o parole. 

(1) Sa ognuno quanto a qaeste parole del buon Raffaello sia 
conforme la storia specialmente de^ tempi suoi. L'America gli 
avea bea fatta dimenticare rSuropa. 



LARO SBCOIIDO. 69 

Della guerra. 

Gli Utopiensi hanno sommamente in abbominazione la 
gnerra, come cosa d'animali, di cui però ninno cosi lun- 
gamente guerreggia, come Tuomo : né tengono altra cosa 
più biasimevole^ che la gloria acquistata coir armi. E 
quantunque si esercitino nella milizia non solamente i 
maschi, ma le femmine ancora a certi giorni^ per noQ 
essere al combàttere inetti, quando fosse il bisogno; 
tuttavolta non si mettono a guerreggiare inconsidera- 
tamente, ma solo per difendere i loro confini, o per li- 
berare dalla tirannia e servitù qualche misero popolo. 
Benché talvolta porgono aiuto agli amici, non solamente 
perché si difendano, ma eziandio perché ricompensino 
le avute ingiurie. Questo però fanno, essendosene di- 
mandato loro consiglio^ prima che si venga alle armi, 
ed ove sia provata la causa per giusta; cioè quando 
grinimici di quelli, facendo correrie^ abbiano condotto 
via il bottino, e, ridomandato, non l'abbiano voluto ren- 
dere. Ma guerra più atroce intraprendono, quando 1 
loro mercanti sono maltrattati o calunniati ingiusta- 
mente appo le altre nazioni. Tale fa quella che fecero, 
poco avanti la nostra memoria, pei Nefelogiti (i) con- 
tra gli Alaopoliti (2), i quali avendo maltrattato i mer- 
canti dei Nefelogiti sotto colore di osservare le loro 
leggi, furono con la guerra, sanguinosa però d'ambe le 
parti, di maniera afflitti, che moltiplicando le calamità, 
caddero in servitù de' Nefelogiti medesimi ; perché gli 
Utopiensi combatterono per questi , e non per proprio 
interesse. Cosi gli Utopiensi prendono atroce vendetta 
delle ingiurie fatte agli amici anco nei danari, ma non 
tanto fieramente vendicano le proprie ; perché se gli 
nomini loro per qualche inganno perdono i beni, [tur- 
che non sia lor fatto violenza nei corpi, si contea timo 

(I) Porse da Nc^eXoYsvii^, o varrebbe nubi^eni. 
CS) Nomadif girovaghi, o fuorusciti. 



70 UTOPÌA. 

che si soddisfaecia al danno e più non tengono com- 
mercio con quella gente cbe gli offese. Non che meno 
curino i loro cittadini che i loro confederati, ma per- 
chè i mercanti di questi, essendo ingannati, perdono 
del proprio avere, laonde sentono maggior danno; e i 
cittadini Utopiensi altro non possono perdere che dei 
beni della repubblica, i quali si mandano ad altri paesi, 
quando avanzano loro, ed indi quasi niuho ne prova 
disagio. Perciò reputano che sia una crudeltà voler pu- 
nire con morte di molti quel danno, dal quale ninno 
sente incomodo nel vivere o nella vita. Ma se alcuno 
dei loro cittadini viene ferito o morto ingiuriosamente, 
sia per consiglio pubblico o privato, mandano amba- 
sciatori a dimandare i colpevoli, e, non essendo loro 
dati, movono guerra centra quel popolo a cui appar- 
tengono. I colpevoli, che sono lor consegnati, ovvero 
uccidono , p tengono per servi. Si vergognano e pen- 
tono della vittòria sanguinosa, parendo loro di aver 
comperato troppo caro le metc^miè, ancorché fossero 
di gran prezzo. Si gloriano di aver vinto i nemici con 
arte o cod inganno ; di questo trionfano pomposamente 
e ne rizzano un trofeo: ed allora si vantano ardita- 
mente quando hanno vinto con quelFindustria, con la 
quale l'uomo solamente può vincere, cioè con le forze 
deiringegno , Il che reputano un*egregia virtù. Dicono 
essi : i leoni , gli orsi , i lupi , I cinghiali , i cani e le 
altre bestie combattono con le forze del corpo ; ma sic- 
come assai di quelle ci vincono per valore e ferocità 
corporale, cosi noi le superiamo tutte con Tingegno e 
con la ragione. Nel loro guerreggiare mirano di ottenere 
quella cosa, per cagion delia quale hanno mosso guerra; 
e se alcuno ad essi resiste, ne fanno cosi atroce ven- 
detta, che gli altri per l'avvenire non ardiscono con- 
trapporsi. Propostosi uno scopo, in breve ne vengono 
ali*effetto, avendo però rocchio principalmente piutto- 
sto a schivare il pericolo, che a farsi gloriosi. Perciò, 
intimata la guerra, fanno porre SégréUlmièlite molti scritti 
col bollo pubblico nel luoghi più frequenti dei nemici. 



LIBRO SECONDO. 71 

dando a sperare gran premio a cbi ammazza il prin- 
clpe> e minore in proporzione per la. testa degli altri, 
che proscrivono, cioè i consiglieri, i quali, dopo il prin- 
cipe, sono aittori delle ostilità. Ma danno doppia ricom- 
pensa a cbi li presenta vivi, ed anco invitano con 
larghe promesse gli stessi proscritti ad andare contra 
i loro popoli, e perdonano a quelli ogni passato fallo. 
Cosi gl'inimici in breve tempo hanno sospetto di tutti 
gli uomini i né si fidano tra loro medesimi , laonde si 
trorano in gran pericolo e timore. Ed è più volte av- 
veauto» che in buona parte di essi, e tra questi il prin- 
cipe» siano slati traditi da coloro, nei quali aveano 
maggiore speranza. Tanto facilmente vengono spìnti ad 
ogni scelieragginc gli uomini coi doni , i quali sono 
dati dagli Utopiensl in questi casi senza misura alcuna, 
perchè considerando a quanto pericolo il confortano, 
studiano di ricompensameli con la copia dei beneflcj. 
Perciò ^omettono, ed attendono poi con effetto, non 
solamente gran somma d'oro, ma eziandio grandi ren- 
dite in luoghi sicuri appo gli amici. Questa foggia di 
apprezzare e mercare il nemico, biasimato appo le altre 
nazioni, e riputato di animo vile e crudele, appo loro 
è tenuta per gloriosa impresa. Poiché si credono in 
questo prudenti, che forniscono guerre grandissime senza 
venire a conflitto, e pietosi, perchè con la morte di po- 
chi salvano la vita di molti, che morirebbero nei fatti 
d'arme, parte dei cittadini, parte dei nemici^ dei quali 
hanno quasi tanta pietà come dei loro propri, sapendo 
che non vengono alla guerra spontaneamente, ma spìnti 
dal furore dei loro principi. Se loro ciò non riesce, se- 
minano e nodriscono discordie tra nemici, dando spe- 
ranza di ottenere il regno al fratello del principe, o a 
qaalcimo che vi possa aspirare. Quando non valgono 
queste sedizioni, eccitano i popoli vicini a guerreggiare 
contra i nemici con mostrare loro qualche ragione, che 
abbiano nel paese di quelli, e promettendo di favorirli 
danno ad essi danari oopiosamente. Ma di rado vi man- 
dane i loro cittadini, 1 quali tengono tanto cari , che 



J 



72 UTOPIA. 

non ne cangerebbero uno còl principe della parife ne- 
mica. Danno Toro e l'argento più facilmente; perché 
lo conservano a questo effetto, né vivrebbero meno co- 
modamente ancorché lo dispensassero tatto. Ed anco, 
oltre le ricchezze che tengono in casa, hanno infinito 
tesoro, che loro debbono molte nazioni. Mandano però 
alla guerra soldati di alcuna di quelle, e specialmente 
dei Zapoleti (1). Questo popolo è lontano dall'Utopia cin- 
quanta miglia , verso oriente , orrido , rusticano e fe- 
roce , il quale abita le selve , dove ancora è nodrito. 
Gente dura, atta a patire il freddo, il caldo e la fatica, 
senza alcuna delicatezza, non si dà all'agricoltura ; né 
studia come si vesta o fabbrichi; solamente governa 
gli animali, e vive di cacciagione e di rapina. Nata al 
combattere, brama la guerra studiosamente, offerendosi 
per vii prezzo a chi la ricerca. Non ha per sostenta- 
mento della vita che questa sola arte, con la quale si 
cerca la morte ; ma serve fedelissimamente e virilmente 
a chi l'assolda, obbligandosi sino ad un certo giorno, 
con patto che passato quello possa andare al soldo 
del nemico : tuttavia ritorna per poco maggior prezzo. 
Si fanno poche guerre che non vi sia di questo popolo 
d* amendue le parti. Così avviene che i parenti e gli 
amici, soldati da questa e da quella parte, concorrano 
insieme a mortale uccisione, scordandosi dell'amicizia 
e del parentado, solamente mossi dal ricevuto sti- 
pendio, al quale sì avidamente mirano, che potendo 
aver un danaro di più al giorno, passano alla parte 
nemica. Tanto sono Immersi nell'avarìzia I la quale però 
non giova punto ad essi, perchè consumano a vivere 
lussuriosamente in breve tempo quanto Iranno acqui- 
stato col sangue. Questo popolo serve nella guerra agli 
Utopiensi contra chiunque essi vogliano, perchè gli 
danno maggior stipendio, che altri possano dargli. Sic- 
come gli Utopiensi cercano gli uomini dabbene per ac- 
ci) Probabilmente Invece di Zoepoleti , cioè venditori della 
vita. 



LIBRO SECONDO. 1^ 

cduiodarseae ; cosi pigliano gli uomini malvagi, per ser« 
virsene alla guerra, e quando fa mestieri, con gran pro- 
messe gli spingono a grandi pericoli ; laonde spesse volte 
una gran parte di loro non torna a dimandarne Tese* 
gui mento. Gli Utopiensi però le attendono fedelmente a 
quelli, che rimangono vivi, per accenderli a simiH im- 
prese. Né si pigliano cura se ne muoiono gran numero, 
parendo loro di giovare alla natura umana, ove potes- 
sero purgare il mondo della feccia ^'un popolo tanto 
scellerato e malvagio. Dopo questa mandano le squadre 
di quei popoli, pei quali combattono , e dietro ad essi 
la gente degli amici, che porge loro aiuto. Finalmente 
vi aggiungono i loro cittadini, dei quali uno , che sia 
per virtù illustre, fanno di tutto Tesercito capitano. A 
costui sostituiscono due, i quali, vivendo egli prospe** 
ramente, siano uomini privati, ma morto lui, o rima^- 
nendo prigione, uno di loro gli succede come per ere- 
dità. Così secondo il caso aggiungono un terzo, ac- 
ciocché pericolando il capitano ('Come avviene nella 
guerra) non si turbi tutto Tesercito» Di ogni città si 
ammaestrano i soldati , che spontaneamente vogliono 
militare ; perchè ninno è mandato fuori alla guerra mal 
suo grado; avendo per cosa certa, che Tuprao timido, 
oltre che non. si porterà virilmente, darà timore agli 
altri. Movendosi però guerra contro la patria, . mettono 
nelle navi quelli, che sono timidi, purché siano di corpo 
gagliardi e li mescolano con uomini arditi e valorosi, 
ovvero li collocano sulla muraglia, in guisa che non 
possano fuggire. Cosi la vergogna dei suoi, l'aver Tini- 
mico a fronte, ed il non poter fuggire, fa che vincono 
il timore: e Testrema necessità spesse volte si muta 
in virtù. E siccome ninno é tratto a guerra estrema 
contra sua voglia, cosi confortano e con lodi incitano 
le mogli a seguire i mariti, e nel conflitto le pongono 
vicino ad essi, e d'intorno i figliuoli ed altri loro 
prossimi , i quali sono mossi dalla natura a porgersi 
aiuto insieme. Il marito che torna senza la moglie é 
biasimato ; cosi il flghuolo perduto il padre : indi av- 



fi tftÙPÌA. 

Viene cbe itó il aemlco non fa^ge> si combatte fino allo 
Btèhùihiè. Percfiè, siccome schivano quanto possono 
di venir a fatto d'arme , e conducono a qtiest' effetto 
sòidstl forastieri ; cosi quando sono astretti di combat- 
tere vi córrono tanto arditamente , quanto prima stu • 
diosamente lo hanno schivato. Non s'infuriano da prin- 
cipio , ma a poco a poco pigliano vigore, con animo 
fermo di morire piuttosto che dare le spalle. Quella 
sicurezza delle cose al vivere necessarie, senza l'af- 
fanno dei loro discendenti (il che in ogni luogo inde- 
bolisce gli spiriti generosi) fa gli Utopiensi di animo 
altiero, e che si sdegna di esser vinto. Si fidano an« 
Cora nelià perizia che hanno nella guerra, ed anco le 
dritte opinioni e i buoni istituti della repubblica che 
hanno imjp^àrHti dalla fanciullezza, aumentano in essi la 
virtù , con la quale non tanto sprezzano la vita , che 
la gettino , Ixè tanto l'hanno cara , che , richiedendo 
onesta causa di espprla alla morte, se la vogliano ava- 
ramente e 6on biasimo conservare. Quando più fiera 
Ih ogni parte arde la pugna, alquanti giovani congiu- 
rati mirano ad uccidere il prin'cipe nemico, ora a fac- 
cia aperta, ora con inganno, di lontano e d'appresso 
con lunga e continuata squadra, sostituendovi ognora 
i più freschi agli stanchi. E di rado avviene, se non 
fugge, che non rimanga morto o prigione. Se sono vit- 
toriosi, non attendono ad uccidere inimici che fuggono, 
ma piuttosto li pigliano. Né mai tanto li perseguitano 
che non tengano sempre una Squadra in ordinanza > e 
piuttosto li lasciano fuggire che guastare i propri loro 
ordini, atendo memoria che molte fiate essendo rotto 
il campo avverso, i vittoriosi spargendosi qua e là , e . 
lasciando pochi per retroguardia, hanno dato occasione 
ai nemico di farsi di vinto vittorioso. Non Salerei nar- 
rare se siano più astuti a disporre le insidie o più ac- 
corti a schivarle. Alle volte penserai che fuggano, 
(fùando sono più ostinati di non fuggire, de si può a 
segno alcuno indovinare quando da doyero si dispon- 
gono di l^lo. Perchò sehtendosi in disvantaggio nel 



UBfto 4B0&KDO. n 

nilmei^tl, o {lèi* sito éèl liioecf, 91 levxiftd di: notle fael- 
tamérìte o Ai^gònò ^liatebe astuzia» d^tétò di giorno si 
^ftonb , ina con tal ordine , che iioa è tcMùté ^th 
c^fd issaliirli quando se ne vanno, che ^tisibiilo stanno 
fiftM. Fortificano i loro alloggiamenti con larga epro- 
tMHa fossa , né si servono in questo dei vili servi ; 
anzi i soldati di lor mano là cavano, gettando la tefra 
dentro, eccetto quelli che per ogni subito cago stannò 
armati alla guardia. Còsi, adoperandovisi tanto' numero, 
fortificano gran campo in pochissimo tempo. Usano 
arme a pigliare i colpi ferme, e non inette da portar# 
e muovere , intanto che non gì' impacciano nuotando. 
Perché tra gli ammaestramenti della milizia ^ àvvez- 
sano à nuotare armati. Per arme di lontano usftno le 
saette ; e sono a lanciar quelle ove disegnano gagliardi 
ed esperii, non solamente i pedoni , ina eziandio i ca* 
valieri. Dappresso non usano spade , ma accette , che 
tagliano e pungono acutissimamente, e col peso ancora 
sono mortali. Fanno certe macchine, le quali tengono 
nascoste finché fa mestieri dh usarle, onde non siano 
piuttosto di TÀdibrio che di vantaggio ; e mirano a farle 
tali che agevolmente si possano condurre e girare, come 
porta il bisogno. Osservano le tregue tanto santamente, 
che essendo ancora ingiuriati non le violano. Non sac- 
cheggiano il paese nemico, né ardono le l^ade; anzi a 
loro potere non le lasciano calpestare dai pedoni, né 
da cavalieri, facendo presuf^posto che crescano per loro. 
Non uccidono alcuno disarmato^ se non è qualche spia. 
Difendono le città che loro si rendono, e non deva- 
stano quelle che pigliano a forisa, ma uccidono sola- 
mente coloro, che non lasciavano ch« si arrendessero, 
e gli altri, che le difendeano, fanno servi. Ma non of- 
fendono la turba inetta a guerreggiare. Danno parte 
dei beni del dannati a coloro, che persuadevano che 
la città si rendesse ; ed il rimanente, che si vende, do- 
nano ai compagni venuti loro in aiuto. Niuno di loro 
piglia cosa alcuna del bottino. Finita la guerra, non < 
prendono dagli amici quello, che vi lunno speso, ma 



70 OtOfU. 

da quelli che »quo vinti : per questa causa parte ri- 
scuotono danari, parte si appropriano alcuni terreni , 
dei quali i popoli vinti pagano loro ogni anno cert^ 
rendite, che fra tutte ben montano a più di settecen- 
tomila ducati. Mandano in que' luoghi alcuni lor citta» 
dini per camerUnghi, acciocché vivano magniflcameftt^ 
e vi stiano come nobili, tuttavia ne riportano buone 
somme nell'erario , ovvero le prestano a' popoli vinti , 
né le riscuotono, se non quando lo ricerca il bisogno: 
e di raro tutte intere. Di tali campi assegnano parte 
^ quelli, che fanno per loro qualche pericolosa impresa, 
com'è sopra detto. Se alcun prìncipe si apparecchia 
di assalire con armi il loro paese, con grande esercito 
gli vanno subito contra fuori dei loro confini, per non 
guerreggiare nel proprio paese : né mai vengono a tanta 
necessità , che accettino nelllsola aiuto alcuno dagli 
amici. 

Delle religioni degli UtopiensL 

Sono varie le religioni, non solo per risola, ma per 
le città ancora. Altri onorano il sole, altri la luna/al- 
tri alcuna delle stelle erranti. Alcuni venerano per 
«ommo Dio qualche uonìo, che sia stato egregio per 
virtù. Ma la maggior parte , i più prudenti dico , non 
adora alcuna di queste cose, ma pensa che vi sia una 
occulta, eterna, immensa ed inesplicabile divinità so- 
pra ogni capacità umana, la quale con la virtù non 
con la grandezza si stenda per questo mondo, e tal Dio 
chiamano Padre. Da lui riconoscono l'origine, Taumen- 
to , i mutamenti ed il fine di tutte le cose , ed a lui 
solo danno i divini onori. Gli altri tutti, benché ado- 
rino cose diverse , in questo' parere concorrono , che 
vi sia un sommo Dio, il quale abbia creato il tutto, e 
con sua prudenza lo conservi, e chiamdnlo in loro lin- 
guaggio Mythra (1). Ma discordano in ciò, che uno 

(4) Secondo Erodoto altro non era fra i Persi antichissimi che 



LIBRO SECONDO. 77. 

afferma che questo sommo Dio sia una cosa , ed al« 
cano un'altra. Affermano però che quel sommo, il quale 
tengono per Dio, ha il governo dei tutto. Ma tutti a 
poco a .poco si scostano dalla varietà delle supersti- 
zioni , e concorrono in quella religione, che con più 
ragioni ed evidenze si prova. E già sarebbero tutti di 
una religione; se non che ogni disgrazia che loro ac- 
cade nel mutare , si pensano che ad essi sia mandata 
dal cielo per castigo, e che quei Dio, il. quale vogliono 
abbandonare , si vendichi di questa loro empia inten- 
zione. Ma poich' io predicai loro il nome di Cristo , la 
dottrina di quello , i miracoli e la costanza di tanti 
santi martiri , che spontaneamente vollero spargere il 
sangue: e come tante nazioni si sono a lui convertite, 
mirabilmente vi s'inchinarono, ovvero per divina inspi- 
razione, ovvero che parve loro tal via molto simile 
alla loro religione. E valse questo assai , perchè ave- 
vano compreso che la foggia del loro vivere piaceva 
a Cristo^ e. che i veri cristiani avevano monasteri, molto 
simili ai loro istituti. Sia però avvenuto per qual caso 
si voglia, molti si convertirono alla fede cristiana, e 
vollero essere battezzati. Ma poiché di noi quattro, che 
ivi eravamo, gli altri due essendo morti, ninno era sa- 
cerdote , quei popoli ancora desiderano avere sagra- 
menti, cui s'appartien di ministrare solamente ai sa- 
cerdoti, e disputano sovente se sia lecito , senza com- 
missione del pontefice, eleggere sacerdote uno di loro : 
e già stavano per eleggerlo, ma non ancora ravevano 
fatt«, quando io mi partii. Quelli che ancora non hanno 
appreso la fede cristiana, non biasimano chi la crede. 
Se non che uno di nuovo battezzato, cominciò arden- 
temente, quantunque io rammoniva che tacesse, a com- 
mendare il culto di Cristo, e dannare ogni altra setta, 
chiamando empi coloro, che adoravano altro che la 

l'amore, principio delle generasionl e della fecondità, che per- 
petua e ringiovanisce il mondo. Da' Greci e da' Romani fu con- 
foso col solei risguardato come <il ministro mag{,Mor della na- 
tura. > 



78 trotu. 

ss. Trinità» e degni del fuooo elenio. Costai fa presoi non 
già come Tiolatore delia religione» ma come colai, clie 
avcTa levato nel popolo tumulto : allegando gli anti* 
chisiimi loro istltati, cbe ognano posaa tenere qaai 
religione più gli piaee. Gli (Jtopiensi ayendo inteso i 
primi abitatori dell'isola essere stati circa la religioiie 
di pareri diversi , e considerando che le varie sette » 
combattendo tra loro» aveano dato ad essi occasione 
di vincerli tatti, fecero un editto che ognano potesse 
tenere qaal religione più gli aggradiva all'animo ; e se 
alcuno bramava di tirare FaHro nella soa^ con mode>- 
stia e ragioni stadiare a persuaderlo, ma non asaro 
in questo alcuna violenza o ingiuria : e ehi conten- 
deva di ciò importunamente, era punito con esilio o- 
con servitù. Fecero gii Utopiensi tale statuto, non so- 
lamente per conservare la pace , la quale con la con- 
tensione , e con l'odio si estingue , ma esiandio pen- 
sando che piacesse a Dio il culto vario e diverso , e 
che perciò ispirasse vari riti a questo ed a quello. Giu- 
dicarono quindi che non fosse convenevole voler con 
forza e minacce costringere alcuno a credere quello » 
che tu eredi per vero, fi quantunque una fra le diffe- 
renti lor religioni fosse vera, tuttavia vollero che t 
cittadini venissero a quella persuasi con modestia, spe- 
rando che la verità , quando che sia , debba rimaner 
vittoriosa. Laddove, contendendosi' con arme , gli uo- 
mini ostinati potrebbono con le loro vane superstizioni 
opprimere la vera religione, come avviene che i frutti 
vengono affogati dalle spine. Mossi da tali ragioni la- 
sciarono libero ad ognuno di epedere quello , che più 
gli piaceva. Solamente vietarono che ninno affermasse 
le anime morire coi corpi, e che il mondo fosse go- 
vernato a caso, senza previdenza divina, tenendo anzi 
per fermo che, dopo quesu vita, fossero puniti i vizj, 
e premiate le virtù. Chi nega, quindi , tali cose , è te- 
nuto peggio ohe bestia , volendo rassomigliare l'anima 
umana alle pecore ; né lo reputano loro cittadino, come 
colui, il quale, non essendo da timore raffrenato, spres* 



Limo sCG0imo. 79 

sera ogni buon costvmQ ed UtUuto. &d 6 4» credere 
ch'egli contraffaccia di nascosto alle leggW o stadi di 
aunnllarley per servire al suo appetito, non avendole in 
riverenza f né sperando o temendo cosa alcuna dopo 
questa vita. A cbi tiene tale opiniiiiie non danno onore 
alcuno, né magistratura; cosi p lasciato da parte» come 
uomo inetto e da poco. Non però viene ignito, giudi- 
candosi che non sia in potere di alcuno credere quello» 
che gli piace: e neppure ò forsi^to con minacce a te* 
ner segreto il suo parere, fingendp di credere come gU 
altri. Gli vietano però Ù disputare di queUa sua opif 
nione , specialmente appo il volgo. Ma confortano gtt 
ì|omini di gravità , ed i sacerdol^ che ne n^gipnino» 
sperando che tale pazzia debba essere vinta dalla r^" 
gione. Altri in gran numero tengono che le anime an- 
cora delle bestie siano immortali, ma delle nostre men 
degne e non nate ad egoale felicità, Tanto sono per* 
suasi dell'immensa felicità delle anime nostre, che pian- 
gono gl'infermi e non i morti, se non quelli, che veggono 
mal volentieri lasciare questa vita. E questo hanno per 
cattivo augurio, come se l'anima senya speranza di bene 
alcuno, spaventata dalla propria coscienza, temesse il 
supplicio. E pensano che non piaccia a Dio l'andare 
di colui, il quale non corre volentieri quando è chia- 
mato, ma sta ritroso. Se veggono alcuno morire in que- 
sta guisa, se ne smarr4scono, e lo portano a seppeUire 
tacitamente , e pregano Dio che perdoni alla sua dap- 
pocaggine, liiuno piange quelli, che muoiono lietamente, 
e con buona speranza ; anzi seguendone le esequie can- 
tando, raccomandano affettuosamente le loro anime a 
Dio, e ne ardono i corpi con riverenza piuttosto che 
con rammarico. Rizzano una colonna, ove sono spoi- 
pite le lodi del defunto, e tornati a casa , ricontano i 
costumi e la vita di quello , e specialmente commen- 
dano la sua morte. Tengofto che tale commemorazione 
di bontà sia ai vivi uno stimolo alla virtù, e gratis- 
simo culto ai defunti, dandosi a credere che questi in^ 
visibilmente si trovino presenti ^ simiti parlari. Ferohè 



80 UTOPIA. 

non sarebbero felici, quando non potessero andare ove 
piace loro, e sarebbero ingrati, se non bramassero di 
rivedere i loro amici, a cui erano uniti con rispondente 
carità, la quale, essendo uomini dabbene, piuttosto debbo 
essere accresciuta, che scemata. Credono adunque che 
i morti pratichino tra* vivi , mirando quanto si fa e 
dice. Perciò si mettono ^arditamente alle imprese, fidan- 
dosi di tali aiuti; e portando onore alia presenza dei 
loro maggiori, si guardano dal commettere cosa diso- 
nesta anche segretamente. Sprezzano gli augurj e le al- 
tre superstizioni d'indovinare, le quali sono appo le 
altre nazioni tanto riputate. Onorano quei miracoli, che 
vengono senza aiuto alcuno di natura, come testimoni 
della divina presenza; e nelle grandi cose con pubbli- 
che supplicazioni studiano a placare Dio. Pensano che 
contemplare le cose di natura sia un culto a Dio gra- 
tissimo. Molti ancora mossi da religione sprezzano le 
lettere, non si danno a contemplare cosa alcuna, ma 
solamente pensano di acquistare la felicità perpetua con 
buone operazioni. Così altri servono agi' infermi , altri 
riconciano le vie, altri purgano le fosse , altri rifanno 
i ponti, cavano sabbia e pietre, conducono nelle città 
legne e frutta , altri tagliano alberi e li segano : e, come 
fossero servi , si pongono volentieri ad ogni imprésa 
difficile, strana o sozza, la quale dagli altri per la fa- 
tica pei fastidio è lasciata Travagliano continuamen- 
te, perchè gli altri riposino , non biasimando però al- 
cuno che viva altrimenti. Questi quanto più si portano 
da servi, tanto vengono dagli altri più onorati. Ma sono 
di due sorta. Alcuni vivono casti, non mangiano carni 
dì animale alcuno, e lasciano da parte ogni diletto con 
speranza della vita futura, e non pertanto sono sani e 
prosperosi. Altri dati parimente alle fatiche, si maritano 
per eseguir l'opera della natiya, e generar figliuoli alla 
repubblica. Non fuggono quei sollazzi che non li riti- 
rano dalle necessarie occupazioni. Mangiano carni d'a- 
nimali di quattro piedi, dandosi a credere , che con 
quel cibo si mantengano più robusti al lavoro. Gii Uto • 



LIBRO SECONDO. 81 

piani tengono questi per più prudenti, e quelli per più 
santi. Ma quando più apprezzano il celibato che il ma- 
trimonio, e la vita austera che la deliziosa, li beffano : 
nondimeno, dicendo che sono mossi a questo da reli- 
gione, gli onorano ; perchè si guardano sommamente di 
non dannare la religione di alcuno. Essi chiamano que- 
sti tali Butreschìy che appo noi significa religiosi. Hanno 
sacerdoti di vita santissima, ma solamente tredici per 
ogni città, secondo il numero dei templi. Quando vanno 
alla guerra ne conducono seco sette , e ne creano al- 
tri sette in luogo loro, finché si torna ; e allora gli ul- 
timi accompagnano il pontefice, sinché per morte .dei 
primi succedono al sacerdozio. Sono eletti dal popolo , 
come i magistrati, segretamente, acciocché non nascano 
odj tra loro ; e dal loro collegio vengono sagrati. Que- 
sti sono preposti ai divini misteri. Hanno cura delle 
religioni, sono giudici dei ckstumi, ed è biasimato co- 
lui, che sia da essi ripreso. Siccome è loro ufficio am- 
monire i malfattori, così ai magistrati conviensi di ca- 
stigarli. Solamente scomunicano gli ostinati , il che é 
appo loro sommamente biasimevole, e tenuto per grave 
sapplicio. Perchè temono l'infamia e la religione: ol- 
tre che non sono sicuri del corpo , perché se tardano 
a pentirsi , e soddisfare ai sacerdoti , sono puniti dai 
magistrati. Questi sacerdoti ammaestrano i fanciulli, . 
avendo egual cura a formarli nelle lettere , che nei 
buoni costumi. E pongono ogni studio che imparino 
buone opinioni , e piglino desiderio di esser utili alla 
repubblica, acciocché gli animi giovanili in questo for- 
mati, nell'età virile siano disposti a mantenere Io stato 
comune, il quale solamente vien meno pei vizj che na- 
scono da sinistre opinioni. Danno ai sacerdoti elettis- 
sime mogli del popolo loro : fanno sacerdotesse ancora 
le femmine, ma di rado, se non sono vedove, o di età 
matura. Sono più onorati i sacerdoti appo gli Utopiensi, 
che qualunque magistrato , e se commettono qualche 
rea opera , non vengono puniti da alcuno , ma lasciati 
al divino giudizio ed alla propria coscienza. Perche non 

Moro. 6 



82 utóPlA. 

par loro giusta cosa di toccare con mano mortale co- 
lui che è a Dio sagro. Questo costume possono osser- 
vare agevolmente, perchè eleggono sacerdoti quelli, che 
sono di ottima vita. I quali di rado cadono nei vizj , 
vedendosi con tanto favore eletti, perchè osservino la 
virtù. E se pure avviene che pecchino, come accade 
nell'umana natura, tuttavia perchè sono pochi, e senza 
potestà alcuna, non si teme che possano a modo alcuno 
infestare la repubblica. E ne fanno pochi, acciocché sia 
tale diignità più ragguardevole: e perchè tengono che 
si% difficil cosa trovare gran numero di buoni, che pos- 
sano esserne degni. Questi e dai loro popoli e dagli 
stranieri sono molto onorati , il che per mio avviso è 
cagionato da ciò, che facendosi alcun fatto d'arme, essi 
separati dagli altri stanno in ginocchione vestiti coi 
sagri abiti, e con le mani al cielo levate; pregano 
prima per la pace , e poi per la vittoria al loro po- 
polo, senza spargimento di sangue d'amendue le parti. 
Vincendo la propria, corrono nelle squadre , vietando 
l'uccisione degli sconfitti, e ciò basìa a salvarli ; anzi 
tanta è la riverenza verso di essi , che il solo tocco 
delle ondeggianti lor vesti difende le persone e le cose 
da ogni bellica ingiuria. Perciò sono in tanta venera- 
zione appo le estere nazioni , che molte fiate hanno 
salvato non meno i nemici dalle mani dei propri citta- 
dini, che questi dalle mani de' nemici. Alle volte è av- 
venuto ch'essendo sconfitto il campo loro, e m:tt3ndosi 
i nemici a saccheggiare, sopravvenendo i sacerdoti, è 
stata raffrenata T uccisione , e fatta la pace con oneslì 
partiti. Non mai si trovò gente alcuna tanto feroce e 
cruda, la quale non a'^bia onorato il corpo di quelli, 
come sagrosanto ed inviolabile. Celebrano gli Utopj 
solennemente il primo e l'ultimo del mese, e parimente 
dell' anno, il quale dividono secondo il corso della luna. 
I primi giorni chiamano Cinemerni, e gli u'timi Trape- 
memi, cioè prime feste, ultime feste. Hanno egregi tempi 
non molto lavorali, ma, com'era necessario nel loro pic- 
clol numero, capaci di uno assai maggiore. Sono questi 



LIBRO SECONDO. 83 

alquanto scurì, per consiglio dei sacerdoti » perchè la 
molta luce distrae i pensieri nostri, e la mediocre li 
raccoglie, e fa l'uomo alla religione più dedito. Benché 
siano di varie forme, nondimeno tutti sono alla reli- 
gione accomodati quasi ad una comune foggia. I sagri- 
ficj particolari di ciascuna setta sono celebrati nelle 
case particolari. I pubblici poi si fanno con tal ordine, 
che nulla derogano ai privati. Cosi non tengono nei 
tempj alcuna immagine degli Dei, acciocché possa ognu- 
no liberameate immaginarsi Dio in qual forma più 
gli piace. Chiamano Dio solamente per questo nome 
Mythra: e tutti per questa voce intendono la natura 
della divina maestà. Non si fanno orazioni, le quali 
non si possano pronunciare senza offendere le altre 
sette. Concorrono al tempio nelle ultime feste al vespro 
e digiuni, per rendere grazie a Dio di aver passato 
quel mese prosperamente. Il giorno appresso, che è 
la prima festa, concórronvi la mattina a supplicare 
felice saccesso per il mese che segue. Nelle ultime fe- 
ste, prima che si vada al tempio, le mogli innanM ai 
mariti, i figliuoli ai padri si mettono in ginocchione, 
chiedendo perdono di ogni mancamento : cosi ogni odio 
nascosto o dispiacere nato tra loro si estingue, e si 
trovano ai sagrificj con animo candido e puro. Perche 
temono d'intervenirvi, non avendo l'animo da ogni 
odio ed ira purgato. I maschi vanno alla destra parte 
del tempio , e le femmine alla sinistra , ed ogni padre 
e madre di famiglia si mette innanzi a tutti i suoi, per 
vedere i gesti di coloro che hanno in governo , e po« 
terli correggere da ogni errore che commettessero. At- 
tendono che i giovani stiano vicici ai vecchi, accioc- 
ché non si diano a cose puerili se stanno tra fanciulli 
garzoni ; parendo loro che in quel tempo debbano , 
col levare la mente a Dio , essere incitati alla virtù. 
Non sagrificano animali, dandosi a credere, che la di- 
vina clemenza non si plachi con sangue od uccisione, 
avendo quella dato la vita agli esseri perchè vivano. 
Ardono incenso ed altre cose odorifere, e portano as- 



84 UtoptA* 

sai torcbj. Non già che non sappiano come tali cose 
niente vagliono a placare la divina natura : neanco le 
orazioni degli uomini : ma piace loro questo culto seiiza 
nocumento alcuno ; e con tali odori e lumi si sentono 
muovere a divozione verso Dio, e diventare più pronti 
ad onorarlo. Il popolo nel tempio si veste di bianco, 
ed 1 sacerdoti di vari colori , ma non di preziosa ma- 
teria ; perchè sono le lor vesti quasi ricamate non di 
pietre preziose , ma di varie penne di uccelli , in tal 
modo disposte, che l'opera oltre ogni stima più assai 
vale, che la materia. Dicono ancora che in quel variare 
di penne sono compresi alcuni segreti misteri , l'inter- 
pretazione dei quali imparata dai sacerdoti che dili- 
gentemente l'insegnano, fa loro comprendere i divini 
benefic] , che ricevono , e quale pietà debbano usare 
verso Dio ed il prossimo. Quando il sacerdote ornato 
esce del santuario, tutti si piegano con la faccia in 
terra, con tanto silenzio, che muove agli animi timore, 
come se Dio fosse presente. Poiché sono stati alquanto 
in terra, ad un segno del sacerdote medesimo si levano, 
e cantano a Dio laude con musicali strumenti, di forma 
assai differenti da quelli, che si veggono appo noi, ma 
nel suono alcuni più, alcuni meno, soavi che i nostri. 
Ci vincono però di gran lunga in questo, che ogni lor 
musica , con organi , o con voce umana, imita ed 
esprime gli affetti naturali, e si accomoda alla materia, 
sia orazione supplicatoria, lieta, placabile, turbata , lu- 
gubre sdegnata, e rappresenta in tal guisa il senti- 
mento, che gii animi di tutti sono a quello disposti ed 
accesi. In fine dei sagriflz) tutti ad una voce dicono 
certe parole col sacerdote, le quali benché siano pro- 
nunziate in comune, ognuno può applicare a sé mede- 
simo. In queste riconoscono Iddio autore della crea- 
zione e del governo, e di tutti gli altri beni, e di tanti 
benefici gli rendono grazie , ma ' particolarmente clie 
siano nati in repubblica felicissima , ed abbiano reli- 
gione , a loro parere , d'ogni altra più vera. E se pi- 
gliano errore in questo, pregan Dio che inspiri loro 



LIBRO SECONDO. 85 

la miglior via, offerendosi pronti a seguirla, ina se la 
repubblica loro è ottima, e la religione verissima, dia 
ai medesimi costanza a perseverare in quella, • con- 
duca tutti gli ucHnini alla medesima foggia di ben vi- 
vere, e nello stesso parere circa la religione, se però 
non si diletta più di tanta varietà per la sua inscru- 
tabile sapienza. Supplicano poi che li riceva a sé dopo 
la morte, e che questa non sia crudele, ne strana. Fatta 
quest'orazione, di nuovo si piegano in terra, e poco 
appresso levati vanno a mangiare: il rimanente del 
giorno consumano in giuochi ed esercizi militari. Vi 
descrissi, quanto più veracemente mi è stato possibile, 
la forma di quella. repubblica, la quale non solamente 
giudico ottima^ ma eziandìo sola, che possa con ragione 
esser chiamata repubblica. Perchè altrove si ragiona 
veramente del pubblico comodo, ma si attende al par- 
ticolare. In questa da deverò si mira ai ben pubblico, 
lasciando al tutto da parte ogni proprio utile. Chi è nelle 
altre repubbliche, ancorché siano fiorite e prospere, il 
quale non teme di morirsi per fame, se non procura piut- 
tosto i suoi privati comodi, che il pubblico bene? Ed 
anco la necessità nelle altre repubbliche strigne l'uomo 
--rt-far questo. Nella Utopiense, ove ogni cosa è comu- 
ne, ninno teme di patire^ purché sieno pieni i granaj 
pubblici. Perché ivi non si distribuisce con malvagità, 
né vi è alcuno povero, e quantunque ninno posseda in 
particolare^ tutti sono nel pubblico ricchi. Perché ve- 
ramente , non avendo pensieri circa r acquistare par* 
ticolarmentej menano lieta vita con tranquillo animo. 
Non istanno in pena del loro vivere, non sono con do- 
majaàe continue dalle mogli travagliati, non temono che 
i figliuoli impoveriscano, né di dotare la figliuola 
stanno in pensiero. Anzi sono sicuri dei vivere felice 
dei figliuoli, nipoti e d'ogni lor discendente, ed anco 
di sé stessi, perché primieramente si provvede a chi non 
può lavorare, come a quelli che lavorano. Ardirà al- 
cuno di comparare l'equità di altre genti > le quali a 
mio parere non ne tengono ombra alcuna, con r equità 



86 UTOPU. 

di questa repubblica? Che equità è quella che un no- 
bile ovvero orefice od usuraio, oppure qualunque altro 
che non opera cosa alcuna , ovvero ogni cui fatto è 
poco necessario alla repubblica, si acquisti il vivere de- 
licato e splendido : quando che un servo , un lavora- 
ta >rtj de* campi, un fabbro, un carrettiere, con tanta fa- 
tica diurna e notturna che non la patirebbero i buoi, 
si guadagna parcamente il vivere, quasi peggiore che 
quello degli animali? Perocché questi non lavorano 
tanto assiduamente, né stanno in timore delle cose av- 
venire ; ma gli altri sono afflitti dalla poco fruttuosa, 
fatica, e pensando alla povertà, che aspettano in vec- 
chiezza, restano vinti dal dolore. Poiché vedendo di 
non poter tanto guadagnare, che basti loro di giorno 
in '''orno, perdono ogni speranza di riporre cosa al- 
cuna pel futuro. Non è ingiusta quella repubblica ed 
ingrata , la quale dà liberamente tanti doni ai nobili , 
agli oziosi, agli artefici de' vani diletti, agli adulatori , 
e non provvede ai lavoratori di terreno, ai carbonaj, 
ai servi, ai carrettieri ed ai fabbri, senza i quali non 
può stare alcuna civil società? anzi essendosi delle 
loro fatiche servita, mentre che erano giovani, poiché 
invecchiano, li lascia di disagio morire in estrema po- 
vertà. Che dirò come i ricchi pigliano ancora del sa- 
lario diurno dei poveri, non solamente con violenza o 
frode, ma con pubbliche leggi? Considerando adunque 
tutte le repubbliche , che ora fioriscono , cosi mi ami 
Dio, che non veggo altro, che una congiura di ricchi, 
la quale tratta dei propri comodi. Sotto nome di re- 
pubblica ricercano essi ogni modo od arte, con la quale 
possano fare grandi acquisti, e tenerseli senza timore ; 
di poi come con piccioli salari aver le fatiche dei po- 
veri, e servirsene a loro voglia. Quelli trovamenti dei 
ricchi sotto colore di repubblica diventano leggi. Tut- 
tavia que' pessimi uomini , poiché hanno con insazia- 
bile appetito diviso tra loro ciò, che a tutti dovea ba- 
stare , sono degli Utopiensi inferiori, quanto alla felicità 
della repul!?lica loro; dalla quale essendo levata via 



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LIBRO SECONDO. 87 

la cu^digia del danaro, ogni molestia e scelleraggine è 
insiem rimossa. Chi non sa quante frodi, rapine^ risse, 
tumulti, contestazioni, sedizioni, uccisioni, tradimenti, 
incantesimi, puniti piuttosto che raffrenati coi supplicj, 
colio sprezzare i danari se ne vanno, e con ciò la sol- 
lecitudine, i pensieri, le fatiche, le vigilie, ed anco la 
povertà, la qual sola pare che di danari sia bisognosa ? 
E per meglio chiarirti, pensa di qualche anno sterile , 
nel quale siano morti per fame gli uomini a migliaia , 
e troverai che nel fine di quella carestia era tanto fru- 
mento nei grana] dei ricchi, che avrebbe nodrito quelli, 
che morirono di fame^ né alcuno avrebbe sentito la ste- 
rilità di quel tempo. Cosi facilmenìe si acquisterebbe il 
vivere se il desio di accumulare danari, non impove- 
risse gli altri. I ricchi stessi, non ne dubito, ciò com- 
prendono e sentono che sarebbe miglior partito non 
mancare di cose necessarie, che abbondare di tante so- 
verchie. Ed io ten<yo certo , che ovvero il rispetto del 
comodo, ovvero l' autorità del salvator Cristo, il quale 
per sua sapienza e bontà seppe e potè consigliare quello 
che era meglio, avrebbe già ridotto il mondo tutto sotto 
migliori leggi, se non si contrapponesse la superbia, 
la quale si tiene felice, non pei propri comodi, ma 
per gl'incomodi altrui, dilettandosi col suo pompeg- 
^'are di affliggere i poveri. Questa serpe infernale ri- 
tarda gli uomini dalla vera via. Ed essendo essa og- 
gìmai radicata negli umani petti, mi rallegro che tei^- 
gano gli Utopiensì , almeno , queir ottima forma di re- 
pubblica felicissima, e, quanto può l'umana cognizione 
prevedere, ancora perpetua. Perchè essendo tra loro 
estirpati i vizi dell'ambizione, e le radici delle sette, 
non vi è pericolo di discordia, la qual sola basta a ro- 
vinare le ben fortificate città. Ma vivendo in concordia 
con salutiferi istituti, non potrà V invidia de' vicini prin- 
cipi, già più volle ribattuti, crollarne l'imperio. 

Poiché Raffaello ebbe così detto, quantunque mi pare- 
vano esservi molte sconvenevolezze nei costumi e leggi 
loro, non solo circa il guerreggiare, ma ancora nella reli- 



88 UTOPIA. 

gione, e specialmente quel vivere in comune senza dana 
ri, il qual pare che estingua la nobiltà, la magnificenza 
e lo splendore, che sono per comune opinione i veri or- 
namenti dello Stato, tuttavia vedendolo già stanco e te- 
mendo di non offenderlo nel riprendere una repubblica 
tanto affettuosamente da lui commendata, lodai il suo 
parlare ; e presolo per mano, lo menai a cena, dicendo 
che ad altro tempo potremmo delle stesse cose pensare 
e ragionare, il che piaccia a Dio che avvenga. 



FiNE JDSLL'UTOPU. 



*k 



G 



LA 



CITTÀ DEL SOLE 



DI 



TOMMASO CAMPANELLA 



LA CITTÀ DEL SOLE 



INTERLOCUTORI. 

Il GRAN MAESTRO degli Ospitalieri, 
ed un AMMIRAGLIO genovese ospite di lui, 

G. M. Sa via, ten prego, racconta fiaalmente quanto 
ti avvenne durante questa navigazione. 

Amm. Già ti ho esposto in qual modo io abbia com- 
pito il giro intorno alla terra, e come in ullimo giunto 
nella Taprobana sia stato costretto a prendervi terra, 
e pel timore degli abitanti ricovratomi in una selva non 
ne sia uscito che dopo lungo tempo per arrestarmi in 
estesa pianura direttamente sotto l'equatore. 

G. M. E qui che mai t'occorse? 

Ammir. Subitamente c'imbattemmo in numerosa schiera 
d'uomini e di donne portanti armi si gli uni come le al- 
tre, ed alcuni conoscendo la lingua da noi parlata to- 
sto ci fecero compagnia per guidarci ella città del Soie. 

G. M. piacciati dirmi come sia fabbricata questa città, 
e qual forma di governo ell'abbia. 

Amm. Un aito colie s'innalza nel mezzo di vastis- 
sima pianura, e sopra «questo giace la maggior parte 



92 . LA CITTA' DBL 80LB. 

della città; le sue molteplici circonferenze però si 
estendono per lunga tratta oltre le falde della collina, 
talmente che il diametro della città occupa due e più 
miglia, e sette l'intero recinto. Ma trovandosi sopra un 
dosso presenta una capacità ben maggiore che non se 
giacesse in una non interrotta pianura. Essa è divisa 
in sette giri, e recinti particolarmente distinti col nome 
di ciascuno dei sette pianeti ; e l'uno mette neir altro 
per quattro differenti cammini, i quali sono terminati 
da quattro porte rivolte ognuna ai quattro punti car- 
dinali della terra. Questa città poi venne costruita sif- 
fattamente, che se alcunb combattendo guadagnasse il 
primo recinto, gli occorrerebbero doppie forze per supe- 
rare il secondo, triplici per il terzo, e cosi un continuo 
moltiplicare di sforzi e di travagli pei seguenti. Laonde 
a chi prendesse talento d'espugnarla farebbe mestieri 
ricominciare sette volte l'impresa. Ma io tengo opinione 
essere umanamente impossibile farsi padrone soltanto 
del primo recinto ; tanto è largo, munito di terrapieni, 
e guarnito di difese d'ogni sorta, come di torri, di fosse, 
e di macchine guerresche. Entrato dunque per la porta 
riguardante a settentrione (che tutta coperta di ferro 
è fabbricata in modo che puossi innalzare ed abbas- 
sare, e con tutta facilità e piena sicurezza chiudere, 
scorrendo con arte maravigliosa i suoi congegnamenti 
per entro alle incavature di robusti stìpiti), mi si of- 
ferse primamente allo sguardo un intervallo formante 
una pianura larga settanta passi, e giacente fra le prime 
e le seconde mura. Di là affacciansi i grandiosi palazzi 
cosi serrati gli uni cogli altri lunghesso il muro del 
secondo giro, che gli diresti un edifìzio. A mezza al- 
tezza di questi palazzi scorgesi sorgere all' infuori per 
Finterò giro non interrotta serie di arcate con supe- 
riori gallerie, e quelle sorrette da colonne eleganti lar- 
ghe alla base, e quasi del tutto circondanti il sottopor- 
tico alla maniera dei peristili, o dei chiostri de' Reli- 
giosi. Nel basso i>oi non sono ingressi» che nella 
parte concava delle mura, • si penetra nelle staiize ia* 



U CITTA' hZl SOLE. 93 

feriori caniminando in piano, mentre per giungere ali» 
superiori si salgono scale di marmo, che mettono nelle 
gallerie interne, e da queste s'arriva alle parti più alte 
degli edìflzj clie mostransi belle, e ricevono luce per 
finestre esistenti tanto nel concavo, che nel convesso 
delle mura, stupende per la loro sottigliezza. Ogni 
muro convesso, cioè la parte esterna, presenta uno 
spessore di circa otto palmi , di tre soli il conca- 
vo, ossia la parte ^interna, e le tramezze non ne hanno 
Ohe uno o poco più. Oltrepassata la prima pianura giun- 
gasi alla seconda più ristretta di circa tre passi, e qui l'oc* 
chio scopre il primo muro del secondo giro guarnito 
pure di palazzi, i quali a somiglianza di quei del primo 
giro hanno gallerie sì al basso come all'alto, e verso la 
parte interna vi ha un altro muro interiore, che cir- 
conda i palazzi medesimi, ed inferiormente ha pogginoli 
e peristili sostenuti da colonna: nella parte superiore 
poi presenta pregiati dipinti là dove riescono le porte 
delle case superiori ; e cosi per somiglianti giri, e doppi 
muri che racchiudono palazzi, ciascuno de' quali è or 
nato di gallerie sorrette da colonne, si perviene airui 
tima parte della città sempre camminando in piano 
solamente quando s'entra per le porte dei vari circuiti 
che sono doppie, cioè una nel muro interno, l'altra nel 
l'esterno, si sale per gradini talmente costrutti che ap 
pena sensibile è l'ascesa, essendo collocati obliqua 
mente, e gli uni pochissimo elevati dagli altri. Alla 
sommità del monte s'incontra una spaziosa pianura 
nel cui mezzo sorge un tempio ùi meravigliosa costru- 
zione. 

G. M. Prosiegui, ora, te ne scongiuro, prosiegui. 

Amm. 11 tempio è perfettamente rotonda non rin- 
chiuso fra mura, ma appoggiato a massiccie ed eleganti 
colonne. La vòlta principale , opera ammirabile, occu- 
pante il centro, o il polo del tempio, ne capisce un'al- 
tra più elevata, e di minore dimensione, la quale pre- 
senta nel suo mezzo uno spiraglio, direttamente guar- 
dante sopra l'altare, ch'è unico, situato nel mezzo del. 



94 LA citta' DSL SOLE. 

tempio, e tutto attorniato da colonne. La capacità del 
tempio supera trecentocinquanta passi. — All' infuori 
dei capitelli delle colonne , e sovra essi appoggiate, sì 
innalzano altre arcate sporgenti circa otto passi, e so- 
stenute dalla parte esterna da altre colonne, alle quali 
nel basso aderisce un grosso muro alto tre passi ; cosi 
che le colonne del tempio, e quelle sorreggenti l'arcata 
esterna, formano nel loro interspazio le gallerie infe- 
riori che hanno magnifico pavimento. L'interno poi del 
piccolo muro è interrotto da frequenti porte, e qua e 
là veggonsi sedili immobili, sebbene frammezzo alle co- 
lonne interne sorreggenti il tempio siano numerosi 
ed eleganti sedili portatili. Sopra l'altare non v'ha che 
due globi, dei ;qualì il più grande porta dipinto 
tutto il cielo, il secondo la terra. Nell'area poi della 
volta principale stanno dipinte le stelle del cielo, dalla 
prima alla sesta grandezza, segnata ciascuna col pro- 
prio nome; e tre sottoposti versetti appalesano quale 
influenza ogni stella eserciti su le vicende terrestri. I 
poli ed 1 cerchj maggiori e minori secondo il ragionato 
loro orizzonte trovansi indicai, non finiti nel tempio, 
mancando al basso il muro, ma sembra ch'esistano nella 
loro interezza atteso il rapporto coi globi collocati so- 
pra l'altare. Il pavimento è fregiato di pietre preziose, 
e sette lampade d'oro chiamate col nome dei sette pia- 
neti ardono cont'nuaiiente. La piccola vòlta al vertice 
del tempio è circondata da ristrette, ma elegante, celle, 
e dopo quello spazio piano esistente sopra le arcate 
delle colonne interne ed esterne, vi ha altre spa- 
ziose e ben addobbate celle , abitate da quarantanove 
sacerdoti e religiosi. Una bandiera mobile ind'cante la 
direzione dei venti (dei quali ne dlstn^uono sino al 
numero di trentasei) sormonta l'estremo punto della 
vòlta minore, e con c'ò conoscono quale annata appor- 
teranno i venti, quai mutamenti avverranno *in terra, 
e sul mare, ma unicamente sotto il clima proprio. Sotto 
la medesima bandiera poi osservasi un quadrante scritto 
a lettere d'oro. 



Là Cmk' DEL SOLl£. 98 

Ci. Il- Uomo generoso, spiegami il modo di reggi- 
mento di cotesta gente ; io con impazienza t'aspettava 
a questo punto. . 

Amm. Sommo reggitore di questa città è un Sacer- 
dote nel linguaggio degli abitanti nominato Hoh, Noi 
lo chiameremmo Metafisico. Questi gode#*una autorità 
assoluta; a lui è sottoposto il temporale e lo spiri- 
tuale, e dopo il suo giudizio deve cessare ogni contro- 
versia. Egli viene incessantemente assist'to da tre al- 
fri cap", detti Pon, Sin e Mor, nomi che appresso noi 
equivalgono a Potenza, Sapienza eA Amore, 

La Potenza ha il governo di quanto spetta alla pace 
ed alla guerra, come altvesi airintero dell'arte militare. 
Questo triu nviro non riconosce superiori neirazienda 
militare, eccetto Hoh. Egli presiede ai magistrati mili- 
tari, aircoercito ; a lui appartiene sorvegliare le mu- 
niziona, le lortificazioni , le costruzioni , quanto in- 
somnr:a concerne slmile genere di cose. 

Alla Sapienza incoir')e la direzione dell'arti liberali, 
meccaniche e di tutte le scienze, ed anche quella dei ri- 
spett'vi magistrata d'esse, dei dottori e delle scuole d'i- 
stru^'otie. A Ir* quandi obbediscono tanti magistrati 
quante sono le scienze. V'ha un magistrato che si chiama 
Ast *ologo, altri Cosmo'^rafo, Aritmetco, Geometra, Isto- 
riografo. Poeta, Log'co, Retore, Grammatico, Medico, Fi- 
siologo, Polit'co, Morale, e per questi esiste un unico 
libro detto Sapere, nel quale con meravigliosa conci- 
sione e chiarezza stanno inscritte tutte le scienze. Que- 
sto viene da essi letto al popolo secondo 4 metodo dei 
Pita^oric . 

La Sapienza poi con ordine ammirabile fece ador- 
nare tutte le mura esler.ie ed interne, superiori ed in- 
feriori, di pregiatissimi dipinti rappresentanti tulte le 
scienze. Su le esterne del tempio, e sopra le cortine, 
che s'abbassano qucndo il Sacerdote tene conclone, 
perchè non vada dispersa la voce,vej^onsi pinte le stelle 
eoa le loro virtù, grandezze e movimene' , ed il tutto 
spiegato da tre appositi versetti. 



96 LA CITTA* DEL SOL», 

Sulla parete interna del primo giro furono dipinte 
tutte le figure matematiche, ben più numerose di quelle 
ritrovate da Archimede ed Euclide. Esse compaiono 
grandi secondo le proporzioni delle pareti, ed un breve 
concetto, contenuto in un verso, fa conoscere il signi- 
ficato di ciafltiina. Sono definizioni, proposizioni, ecc. 

Sulla parete esterna del medesimo giro scopresi pri- 
mieramente una compita ed estesa descrizione di tutta 
la terra; seguono quindi le tavole particolari delle 
Provincie, delle quali vengono con brevità chiarite le 
cerimonie, le costumanze, le leggi, le origini e le forze 
degli abitanti. Gli alfabeti poi delle diverse nazioni 
leggonsi là dove si trova l'alfabeto della Città del Sole. 

Neir interno del secondo giro , ossia delle seconde 
case, stanno tutti i generi di pietre preziose e comuni, 
dei minerali e dei metalli, non solo mostrati dalle pit- 
ture, ma eziandio offerti da pezzi reali, e ciascuno colla 
speciale spiegazione di due versi. Neil' esterno di que- 
sto giro vengono indicati tutti 1 mari, i fiumi , i laghi 
e le sorgenti delia terra; come pure i vini, gli oli, 
i liquori colla loro provenienza, qualità e proprietà. 
Sopra le arcate sono varie ampolle connesse al muro, 
riempite di differenti liquidi , esistenti già da cento ai 
trecento anni , e serbati siccome rimedj a diverse 
malattie. Inoltre particolari figure , e versetti appor- 
tano istruzioni sulla grandine, la neve , sui tuoni ed 
intorno a tutto quanto si forma nell'atmosfera : ed i 
cittadini solari conoscono anche l'arte con cui pos-. 
sonsi riprodurre entro una stanza tutti i fenomeni me- 
teorologici, i venti, le pioggie, il tuono, l'iride, ecc. 

Nell'interno del giro terzo ritrovansi le dipinture di 
tutti i generi delle piante e dell'erbe, alcune delle quali 
però sono viventi entro vasi collocati sopra le arcate 
della parete esterna. Le dichiarazioni annessevi inse- 
gnano il luogo deiU prima scoperta, le forze , le pro- 
prietà e i rapporti loro eolle cose celesti , colle diffe- 
renli parti dell'organismo umano, colle produzioni me- 
talliche e marine , ed unclie l'uso particolare di eia- 



ìA GtVTA'' DBL 80UE* ^7 

BCimaia medicina, ecc. Nell'esterno veggonsi i pesci d'o- 
gni specie, di fiomi, di laghi e di mari, le loro abitudini, 
qualità, modi di generazione, di vita e di educazione , 
l'uso a cui il móndo e noi gli facciamo servire ; infine le 
relazioni loro colle cose celesti e terrestri, prodotte 
dalla natura e dall'arte ; cosi , leggiera in me non fu 
la meraviglia scoprendo il pesce Vescovo, Catena, Co- 
razza , Chiodo , Stella ed altri , perfette immagini di 
cose appresso noi esistenti. Si osservano i ricci , le 
conchiglie, le ostriche, ecc. Finalmente in questo giro 
una pittura ed una scrittura veramente ammirabili istrui- 
scono intorno a quanto il mondo acqueo racchiude de- 
gno d'attenzione. 

Nell'interno del quarto giro verniero dipinte tutte le 
specie degli uccelli, la qualità, la grandezza , l'indole , 
i costumi, i colori e la vita loro , e quello che desta 
maggior stupore è lo scoprirvi la vera Fenice. L'ester- 
no poi presenta tutti i generi degli animali rettili, i 
serpenti, i draghi, i vermi , gli insetti , le mosche , le 
zanzare, i tafani, gli scarabei, ecc., colle particolari pro- 
prietà, distinzioni ed usi, ed in un'abbondanza appena 
credibile. 

Nell'interno del quinto giro vengono mostrati tutti ì 
generi degli animali terrestri più perfetti, ed in nu* 
mero portentoso. Noi non ne conosciamo la millesima 
parte, ed essendo anche grandissimi, non pochi furono 
dipinti sull'esterno del. medesimo giro. Ed ora quante 
cose potrei esporre f Quante specie di cavalli t Quanta 
bellezza di figure. 

Neirintemo del sesto giro trovansi dipinte tutte l'arti 
meccaniche e i loro istrumenti, e come ne usino le diverse 
nazioni, e ciascuna fu ordinata e spiegata giusta il pro- 
prio valore, e porta anco il nome del suo inventore. 
Nell'esterno poi i dipinti rappresentano tutti i sommi 
uomini nelle scienze, nell'armi e nella legislazione. Ho 
veduto Mosè, Osiride, Giove, Mei^urio, Licurgo, Pompi- 
lio, Pitagora , Zamolhim , Solone , Caronda , Foroneo e 
moltissimi altri. Che più t Hanno dipinto lo stesso Mao- 



98 LA citta' DKL sole. 

metto , clic però reputano fallace ed iaoaesto legisla- 
tore. Ma vidi rimmaglne di Gesù Cristo essere stata 
collocata in un posto eminenti ssimo , insieme a quelle 
dei dodici Apostoli da essi altamente venerati , e cre- 
duti siccome superiori agli uomini. Sotto i portici esterni 
^ osservai dipinti Cesare, Alessandro. Pirro, Annibale ed 
( altri sommi, la maggior parte cittadini romani , chiari 
I in pace ed in guerra : ed avendo con meraviglia chie- 
sto come essi conoscessero le nostre istorie, risposero ; 
coltivarsi fra loro tutte le lingue , ed essere soliti in- 
viare esploratori e ambasciatori per ogni parte delia 
terra onde apprendano costumi, forze, governo, istorie, 
beni e mali di tutte le nazioni , ed essere moltg desi- 
dei'osi gli abitanti solari di simile istruzione. Ho sa- 
puto avere i Chinesi prima di noi scoperto la polvere 
da cannone e la stampa. V ha maestri che spiegano 
questi dipinti, ed avvezzano i fanciulli ad imparare senza 
fatica, e quasi a modo di divertimento^ tutte le scienze, 
però con metodo istorìco, avanti il decimo anno. 

Il terzo dei triumviri è TAmore, ed uffizio primiero 
a lui spetta quanto riguarda la generazione. Principale 
suo scopo è dunque che l'unione amorosa accada fra 
individui talmente organizzati , che possano produrre 
un'eccellente prole, e si fanno beffe di noi, che affati- 
raufloci pel miglioramento delle razze dei cani e dei ca- 
valli , totalmente trasandiamo quella degli uomini. Ai 
governo di lui è sottoposta l'educazione dei fanciulli , 
l'arte della farmacia, come pure la seminazione e la rac- 
colta delle biade e dei frutti, l'agricoltura, la pastorizia, 
l'apparecchio delle mense e àm cibi. Infine l'Amore re- 
gola tutto quanto si riferisce al vitto, al vestilo ed alla 
generazione, come anche i molti maestri e iuaestre ad- 
dette a ciascuno di questi ministeri. 

Questi tre trattano le anzidette cose unitamente al 
Metafisico , senza del quale non fassi nulla ; e cosi la 
republica viene governata da quattro, ma generalmcnle 
dove propende il volere del Metafisico acconsente pure 
quello degii altri. 



£A CITTA' DEL SOLE. 99 

G. M. Ma dimmi, amico, ì magistrati, gli affizj , le ca- 
riche, Teducazione, tutto il modo di vivere è proprio 
d'una vera repubblica, ovvero d*una monarchia o d'una 
aristocrazia ? 

Aific. Questo popolo si ricovrò quivi venendo dal- 
rindia, abbandonata da lui per scampare alle inuma- 
nità dei magi , dei ladroni e dei tiranni , cbe tormen- 
tavano quel paese, e tutti d'accordo determinarono d'in- 
cominciare una vita filosofica ponendo ogni cosa in 
comune; e quantunque nel loro paese nativo non sia 
in costume la comunità, delle donne, essi pure Tadot- 
tarooo unicamente pel principio stabilito, che tutto 
dovea essere comune, e che solo la decisione del ma- 
gistrato, doveva regolarne Tequa distribuzione. Le 
scienze quindi, le dignità ed i piaceri sono comuni in 
modo che alcuno non può appropriarsene la parte clic 
spetta agii altri. 

£ssi dicono, cbe ogni sorta di proprietà trae origine 
e forza dal separato ed individuale possesso di case , 
di figli, di mogli. Questo poi produce l'amor proprio, 
e ciascuno ama arricchire, ed ingrandire l'erede; e 
quindi , .se potente e temuto , defrauda la cosa pu- 
blica; se debole, di nascita oscura e mancanle di ric- 
cbezze, diviene avaro, intrigante ed ipocrita,. Al con- 
trario perduto l'amore proprio, rimane sempre Tumore 
della comunità. 

G. M. Adunque nessuna avrà voglia di iavoraro . 
stando in aspettazione che gli altri lavorino per suo 
sostentamento; obbiezione da Aristotile mossi a Pia- 
tone. . 

Amm. lo non seppi che ciò desse occasione :id cil- 
terchi, ma ti dico essere appena credibile riiìunensiti 
dell'amore che quel popolo nutre per la patria , ed in 
ciò sono superiori agli antichi Romani die spoiiiauea- 
inente si davano in olocausto per la comune s.\lvc/.7a ; 
cosi doveva essere, perchè l'amore alla cosa pubblica 
aumenta secondo che più o meno si è fatto rinuazia 
all'interesse particolare. Credo anzi, che se i monaci ed 



100 LA GITXA^ DSL SOLE. 

i ehierici appresso noi uon fossero viziati da ann so- 
verchia benevolenza verso i congiunti, gli amici, o 
meno rosi dall'ambizione di sempre più elevati onori, 
avrebbero con una minore affezione alla proprietà acqui* 
stata lode di più bella santità , e simili agli Apostoli , 
ed a molti de' tempi presenti, sarebbero comparsi al 
mondo esempj d'ogni più sublime carità. 

G. M. Questo fu già detto da S. Agostino; ma di gra- 
zia dimmi : gli abitanti solari, non potendo scambiarsi 
benefizi » non conosceranno dunque l'amicizia? 

Ahk. Anzi è grandemente sentita. Imperocché, seb- 
bene nessuno possa ricevere particolari favori, avendo 
tutti il necessario dalla comunità, e vegliando i magi- 
strati perchè nessuno ottenga più di quanto meriti (il ne- 
cessario però non viene giammai negato), Tamicizia 
pure ha campo di mostrarsi in caso di guerra o di 
malattie, ì)vvero prestandosi mutua opera nello stadio 
delle scienze, e talvolta anco scambiandosi lodi , fun- 
zioni, od il necessario. Tutti i coetanei poi si chia- 
mano fratelli ; acquistano il nome di padre oltrepassata 
l'età di ventidue anni, avanti al compimento di questi 
si dicono figli, ed una delle primarie funzioni dei magi* 
strati è l'impedire ogni offesa fra i confratelli. 

G. M. E come mai viene ciò conseguito? 

Ahk. In queste città il numero e i nomi dei ma- 
gistrati corrispondono alle virtù appresso noi cono- 
sciute. Havvi chi è chiamato Magnanimità, e chi For- 
tezza, Castità, Liberalità, Giustizia criminale e civile. 
Diligenza, Verità, Beneficenza, Gratitudine, Ilarità, Eser- 
cìzio, Sobrietà, ecc.; e colili, che dall'infanzia si co- 
nobbe nelle scuole più propenso fkll'esercizio di qual- 
cuna delle anzidette virtù, questi - ne viene nominato 
magistrato. Quindi non essendo possibili fra loro i la- 
trocini, gli assassini, i tradimenti, gli stupri, gl'incesti, 
gli adulteri e altri misfatti di cui incessantemente noi 
ci lamentiamo, essi vengono dichiarati colpevoli d'in- 
gratitudine, di malignità (quando alcuno nega una de- 
bita so^sfazione), di pigrizia, A tristizia, di collera, 



u carrV cbl sout. Mi 

di bas8dz£a, di maldicenza e di menzogna» delitto colà 
detestato più che la peste. E le pene più usitate sono 
la privazione della mensa comune, la proibizione delle 
donne e degli altri onori per tutto quel tempo che 
viene dal Giudice creduto necessario perchè ne segua la 
correzione. 

G. M. Potresti ora spiegarmi qual sistema venga se- 
gaito nella elezione de' magistrati? 

Amc. Se prima non ti espongo il loro metodo di 
vita 9 è impossibile ch'io soddisfaccia pienamente alla 
tua domanda. Sappi dunque, che uomini e donne por- 
tano abiti egualmente foggiati, idonei alia guerra, col- 
l'unica differenza che alle donne la toga copre le gi- 
nocchia 9 mentre gli uomini le hanno scoperte. Tutti 
assieme senza distinzione vengono educati in tutte le 
arti. Trascorso il primo anno, ed avanti il terzo, i fan- 
ciulli imparano la lingua e l'alfabeto passeggiando nelle 
sale; essi sono distinti in quattro drappelli, ai quali 
presiedono vecchi dignitosi, che guide e maestri sono, 
d'una probità superiore ad ogni prova. 

Dopo alcun tempo incominciano gli esercizi della 
lotta, del corso , del disco e d'altri giuochi ginnastici 
tutti aventi a scopo di rinvigorire adeguatamente 1 
corpi: sempre però a piedi nudi, ed a capo scoperto 
sino all'anno settimo. Distinti in drappelli vengono an- 
che condotti alle differenti officine dell'arti ; a quelle 
dei calzolai, dei cucinieri, dei fabbri , de' pittori , ecc. 
Perchè venga chiarita la tendenza speciale di ciascun 
ingegno, dopo l'anno settimo , acquistate già le no- 
zioni matematiche mediante i dipinti delle mura, sono 
applicati allo studio delle scienze naturali. Le lezioni 
vengono recitate a ciascun drappello da quattro diffe- 
renti maestri , i quali poscia danno termine ad oprni 
altra parte dell'istruzione in quattro ore. Quindi alcuni 
esercitano i corpi, mentre altri attendono alle public ae 
funzioni, o s'applicano alle lezioni. Dopo comincia lo 
studio delle materie più difficili, delle matematiche su- 
blimi, della medicina e d'altre scienze, e continuamente 



lOà LA CITTA* DEL SOLtì. 

passano fra loro esercìzj di dispute scientifiche; col 
progresso del tempo poi quelli, che più si segnalarono 
in una scienza , od in un' arte meccanica, ne vengono 
eletti a magistrati. L'agricoltura e la pastorizia sono 
insegnate mediante l'osservazione, e tutti sotto la scorta 
del proprio capo e giudice escono nei campi ad esa- 
minare ed apprenderne i modi dfi lavorò , e stimano 
primo e più grande chi ha conoscenza di maggior 
numero d'arti , e tutte sa jsrofessarle con senno. 
Ed io non posso esprimerti quanto disprezzo facciano 
di noi che chiamiamo ignobili gli artefici, e nobili quell! 
che, non sapendo fare cosa alcuna, vivono nell'ozio, e 
sacrificano tanti uomini, che, chiamali servi, sono islru- 
menti d'ogni pigrizia e lussuria. Dicono quindi non 
doversi fare meraviglia se da queste case , scuole di 
ogni bruttura, escano caterve di intriganti e malfat- 
tori^ con infinito danno della cosa pubblica. 

Gli altri funzionari sono eletti dai quattro primati 
Heh, Pon, Sir e Mor, unitamente ai magistrati di quel- 
l'arte a cui debbono corisecrarsi. Obbligo poi dei quat- 
tro Sommi è conoscere perfettamente quale idoneità, 
per una data arte o virtù , possegga quello che deve 
divenirne il reggitore. Quando occorre un'elezione , gli 
i do] lei vengono proposti in un'adunanza dai magistrati, 
e non ò permesso ad alcuno presentarsi sotto forma di 
candidato ad addimandare cosa alcuna, ma tutti pos- 
sono esporre quanto sanno di contrario o di favore- 
vole agli eligendi. Nessuno però aspira alla dignità di 
Hoh se profondamente non conosce le istorie di tutte 
le genti, i riti , i sagrifizj , le leggi delle repubbliche e 
delle monarchie; gli inventori delle leggi, delle arti, 
i fenomeni, e le vicende terrestri e celesti. A ciò s'ag- 
giunga la cognizione di tutte le jirti meccaniche (im- 
pala ndnne essi una quasi nello spazio di tre giorni , 
ancorché non riescano perfetti nell'esecuzione, la quale 
però òt facilitata dall'esercizio e dalle pitture). Inoltre 
ò mestieri essere versatissimo nelle scienze fisiche ed 
astrologiche; la medesima importanza però non viene 



LA CITf a' OEL sole. 103 

assegnata alla cognizione delle lingue» avendo essi quan* 
lità d'interpreti, nella repubblica chiamati grammatici. 
Ma d'assoluta necessità è il possedere nella loro in* 
terezza le scienze metaAsiche e teologlcbe. Debbonsi 
quindi conoscere le radici , i fondamenti , le prove di 
tutte le arti e scienze, i rapporti di convenienza e di 
disconvenienza delle cose , la necessità , li fato , Tar- 
moTiia del mondo, la potenza, la sapienza e l'amore 
delle cose di Dio, le gradazioni degli Enti^ i loro sim- 
boli colle cose celesti, terrestri e marine, e colle ideali 
in Dio per quanto è concesso a mente umana. Final- 
mente è d'uopo avere con lunghi studj approfondate le 
profezie e l'astrologia. Per il che il futuro Hoh viene 
riconosciuto molto tempo avanti l'elezione. Esso non 
può occupare si eminente dignità se non dopo il com- 
pimento del settimo lustro. La carica n' è perpetua , 
qualora non si scopra altro più sapiente e. meglio 
adatto a governare la repubblica. 

G. M. Ma qual uomo può possedere tanta dottrina? 
Anzi uno scienziato non è forse il meno idoneo al re- 
gime della cosa pubblica? 

Amv. Questa obbiezione venne pure da me mossa , 
e per risposta ebbi: Tanto noi siamo certi potere un 
sapiente possedere attitudine al buon governo d'una 
repubblica , quanto voi, che anteponete uomini igno- 
ranti, e stimati abili perchè discendenti da principi , 
od eletti dalla prepotenza d'un partito. Ma il nostro 
Hoh, supposto anche inespertissimo in ogni forma di 
governo, non diverrà giammai crudele, scellerato o ti- 
ranno, e solo perche possiede un'immensa sapienza. 
Bensì questa obbiezione può avere forza appresso voi, 
che chiamate sapiente l'uomo che lesse in maggior nu- 
mero grammatiche o logiche d'Aristotile od altri au- 
tori, e quindi volendo comporre un sapiente de* vostri 
paesi si addom.inda unicamente un' ostinata fatica ed 
un ser\'ile travaglio di memoria che abituano l'uomo 
all'inerzia , perchè non stimolato ad addentrarsi nelle 
cognizioni delle cose, e contento dt possedere un am- 



104 LA. citta' I»L soia. 

masso di parole, avvilisce Tanima, afViaticandoU sopift. 
morti segni. E siffatti sapienti ignorano come vengano 
dalla causa prima governati tutti gli esseri , e quali 
siano le regole e l'abitudini della natura e delle na- 
zioni. Questo non accade al nostro Hoh , giacché per 
apprendere tanto numero d'arti e scienze, è necessario 
avere sortito vastissimo ingegno al tutto idoneo; abi- 
lissimo dunque ancbe al politico governo. Inoltre noi 
sappiamo non conoscere alcuna scienza chi soltanto fu 
istrutto in una , ed .avere ingegno tardo e pregevole 
quei che, atto ad unica scienza, tolse pur questa ad impre- 
stito dai libri. Simile giudizio non può portarsi sul no- 
stro Hoh. I tre primati poi che lo assistono, debbono 
essere profondi conoscitori, specialmente dell'arti che 
hanno immediata attinenza colla propria loro carica, e 
basta che solo istoricamente siano istrutti dell'arti co- 
muni. Cosi la Potenza è peritissima nell'arte equestre, 
in quella di coordinare un esercito , di preparare gli 
accampamenti , o fabbricare le armi , ed in ogni fae- 
' eenda militare come in stratagemmi, in macehine, ecc. 
Ma al conseguimento di questo scopo è mestieri che 
la Potenza abbia nozioni di filosofia, di storia, di po- 
litica , di fisica , ecc. Lo stesso dicasi degli altri due 
triumviri. 

Ora , tornando a parlarti del loro metodo di vita , e 
dell'eccellenza dei mezzi d'istruzione, devi sapere, che 
in quella città le scienze vengono apprese si facilmente, 
che i fanciulli v'imparano in un anno solo quanto ap- 
presso noi s'acquista ordinariamente dopo dieci o quin- 
dici anni di studio. Essendo io stato chiesto d'interro- 
gare alcuno degli allievi, non so esprìmerti il mio stu- 
pore udendo risposte piene di prontezza, verità e sa- 
pienza da alcuni che parlavano correntemente la nostra 
lingua. Imperocché é stabilito che tre d'ogni drappello 
imparino il nostro idioma, altri tre l'arabo, e tre il po- 
lacco, e tre altre speciali lingue. 

Prima che diventino dottori non viene giammai loro 
concesso alcun riposo^ poiché dopo lo studio eseona 



LA cntA' OBI» SOLI. tcyi 

•Ila eMBpagaa» ore s'esercitano alla corsa» airareo« alla 
lancia , all' archibugio , alla caccia , ovvero nella bota- 
nica, nella mineralogia, neiragricoUora, o nella pasto- 
rizia. 

G. M. Desidererei ch'esponessi e classificassi le pub- 
bliche funzioni, e primamente che mi parlassi partita- 
mente della educazione. 

. Amm. Essi hanno in comune le case, i dormito!, i 
letti, tutte le cose necessarie. Ma dopo sei mesi i mae- 
stri scelgono quelli che debbono dormire in questo od 
in quel luogo, chi nella prima -stanza, chi nella seconda, 
e ciò Tiene indicato dagli zìtaLbe^ esistenti sopra l'alto 
degli ingressi. Maschi e femmine s'applicano in comune 
a tutte le arti meccaniche e speculative, colla differenza 
che le arti richiedenti fatica e cammino sono esercitate 
dai maschi, come arave, seminare, raccogliere frutta, 
travagliare sull'aia, far vendemmia, ecc., e le femmine 
vengono applicate a mungere gli armenti , a formare 
cacio, ed anche si spediscono negli orti vicini alle mura 
della città a coltivare ed a raccogliere erbe. Tutte le 
arti poi che si praticano rimanendo assisi o fermi in 
piedi spettano pure alle donne, come tessere, filare, cu- 
eire, tagliare capelli e barba, preparare farmaci, e tutte 
sorte di vesti. Sono però esenti dal lavorare legno 
e ferro. Ma se qualcuna mostra attitudine alla pittura, 
vienle concesso esercitarvisi. La musica invece è per- 
messa ad esse sole, e qualche volta anche ai fanciulli 
perchè suscettibili d'apportare maggior diletto, escluso 
però l'uso delle trombe e dei timpani. Le donne prepa- 
rano anche i cibi, e distendono le tovaglie, ma ò ob- 
bligo dei fanciulli il servizio delle mense, come pure 
delle fanciulle che non compirono l' anno ventesimo. 
Ognuno dei giri ha particolari cucine e cellieri, ed anche 
l'apparecchio degli utensili necessari al mangiare ed al 
bere ed a ciascuna officina presiede un vecchio ed 
una vecchia che d'accordo comandano ai ministranti, 
a possono battere od ordinare che vengano battuti i 
negligenti, i ritrosi, 1 4i^bbedienti, ed osservano e ten- 



106 LA CITTA* DEL SOLE. 

gono conto dei genere d'ufRcio in e li maggiormente uii' 
fanciullo od una fanciulla si segnalò. La gioventù serre 
a quelli che hanno oltrepassato i quarant'annì, ed è do- " 
vere dei maestri e delle maestre sorvegliare alla sera 
quando vanno al riposo, ed al mattino per mettere in 
funzione quelli a cui spetta per ordine di successione, 
scegliendone uno o due per ciascuna stanza. I giovani 
poi servonsi vicendevolmente. Guai ai renitenti ! V'ha • 
le prime e le seconde mense, ognuna delle quali ha ri- 
spettivi sedili. S'assidono prima le donne, poscia gli uo- 
mini, ed all'usanza dei monaci non è permesso alcun 
rumore. Durante la mensa un giovane legge da alta ' 
tribuna a distinta e sonora voce alcun libro, e sovente 
i magistrati interrompono la lettura facendo osserva- 
zioni sui pàssi più importanti. Bellissima a vedersi' è 
questa gioventù succintamente vestita prestare ai suoi 
maggiori, con ogni opportunità, tutle specie di servigi, " 
e torna pure a grandissimo conforto l'osservare convi- 
venti in una perfetta armonia , con estrema modestia , 
decoro ed amore, tanti amici, fratelli, figli, padri e ma- 
dri. A ciascuno viene distribuito un tovagliuolo , un 
piatto ed una porzione di cibo. Incombe ai medici istruire 
i cuochi del giorno e della qualità degli alimenti da 
prepararsi, ed assegnare quali convengano ai vecchi , 
quali ai giovani, quali agli ammalati. Ogni magistrato 
riceve una porzione alquanto maggiore e più scelta., ed 
essi durante la mensa ne distribuiscono una parte a 
quei fanciulli che nel mattino più si segnalarono nelle 
scienze o nelle armi. Questo favore poi è ambito sic- 
come uno dei più preclari. Ne'giorni festivi durante il 
pranzo vi ha canto con musica, ma di poche, ed anche 
d'una voce soltanto, accompagnata da una cetra, ecc., e 
siccome l'opera dell'apparecchio venne prestata da molti 
e con diligenza, giammai non s'ascolta lamento per cosa 
che manchi. Vecchi dignitosi presiedono al regolare an- 
damento della cucina, ed ai preparatori degli alimenti , 
come pure alla mondezza dei letti, delle stanze, dei vasi, 
delle vesti, delle officine e degli inr'i;}ssi, ed a ciò at- 
tribuiscono somma importanza. 



tA citta' bel sole. 107 

Riguardo al vestito essi portano sulle carni una ca- 
micia bianca, alla quale siegue la veste, che serve an- 
che per farsetto e per calzoni, senza increspature , la- 
teralmente aperta in alto e al basso delle gambe, e nel 
mezzo dall'ombelico alle natiche fra r estremità delle 
coscie; gli orli delle fessure anteriori vengono chiusi 
da bottoni sporgenti airinfuori, ed ai lati da lacci; gli 
stivaletti aderiscono ai calzoni , e discendono sino ai 
talloni ; coprono quindi i piedi con sottocalze di lana 
aventi foggia di semicoturni , ed assicurati con fibbie ; 
a queste soprappongono le scarpe, e finalmente, come 
già dissi, indossano la toga, e tanto ben fatte sono que- 
ste vesti, che levando la toga tu discerni chiaramente 
e senza timore d'ingannarti le ben proporzionate parti 
di tutta la persona. 

Cambiano quattro differenti vesti air anno , e ciò 
quando il sole entra neirArìete, nel Cancro, nella Lib- 
bra e nel Capricorno ; e la qualità e la necessità viene 
decisa dal medico, mentre la distribuzione è dovere di 
chi ha rincarico del vestiario in ciascun giro, e certa- 
mente ti recherebbe meraviglia il numero straordinario 
di tante vesti pesanti, o leggieri , secondochè è voluto 
dalla differenza delle stagioni. Tutti le portano ben im- 
biancate, ed una volta al mese le lavano col ranno e 
col sapone. Tutte le officine d'una certa specie d' arti 
come cucine, dispense, granai, magazzeni, arsenali, la- 
vacri, trovansi nelle parti Inferiori delle case ; sebbene 
anche sotto ai peristili sieno state costruite conche 
pei bagni, da cui l'acqua* esce per canali terminanti in 
cloache. In ogni piazza dei sette giri v'hanno respettive 
fontane, le quali gettano acqua sollevata dalle fajde del 
monte col semplice movimento d' un ingegnoso manu- 
brio. In generale le acque alcune sono primitive, altre 
raccolte in cisterne alle quali sono portate da acque- 
dotti arenosi, allorché dopo una pioggia discendono dai 
tetti delle case. Le prescrizioni del medico e del magi- 
strato regolano le lavature delle persone. Le arti mec- 
caniche si esercitano sotto i peristili, nelle gallerie su- 



108 il otta' obl aoUL 

perioiii le speealaCire sui pogginoli doT« seopronsi i 
più pregiati dipinti; qnanto poi s'attiene alle cose 
divine Tiene insegnato nel tempio. Gli orologi solari , 
ed altre macchine indicanti V ore ed i Tenti, ritrovanai 
sotto gli atrj , sopra i ponti più eminenti di ciascun 
giro. 

G. M. Di grazia parlami ora della generazione. 

AvM. Àlcona donna prima del decimonono anno non 
può consacrarsi a questo ministerio, e gli uomini deb« 
bono aTere passato il Tentesimo primo, ed anche più 
se gracili di complessione. Prima di questa età Tiene 
permessa ad alcuni la donna, ma sterile o graTida; 
onde spinti da soverchia concupiscenza non s'abbando- 
nino ad eccessi non naturali, ed appartiene alle mae- 
stre matrone, ed ai vecchi più attempati, provvedere la 
venere a quelli che sopra loro segreta domanda, ov- 
vero nelle pubbliche palestre, conobbero soffrire più 
potenti stimoli ; salvo però sempre la licenza del Gran 
Magistrato della generazione , ossia Gran Dottore della 
medicina, il quale non riconosce altri superiori che il 
triumviro Amore. Sorpresi una prima volta in sodo- 
mia sono svergognati, obbligandoli a portare per due 
giorni i calzari legati al collo, punizione indicante avere 
essi invertito V ordine naturale delle cose, e messo il 
piede sopra il capo. Continuando l'iniquità, s'aumenta 
la pena, e talvolta può giungere anche alla capitale. 
Ma coloro che si mantennero illibati sino al ventesi- 
mo primo anno, e principalmente quelli che si protras- 
sero tali sino al ventesimosettimo, ricevono in pub- 
blica adunanza onori di feste e canti. Siccome poi essi, 
al costume degli antichi Spartani, tanto maschi che fem* 
minepmostransl nudi negli esercizi ginnastici , cosi I 
precettori hanno mezzo di scoprire non solo quali siano 
abili, e quali inetti alla generazione ; ma eziandio pos- 
sono determinare l'uomo che più conviene ad una data 
donna, secondo le respettive proporzioni corporali. Il 
congiungimento maritale avviene ad ogni terza notte, 
e dopo che i generatori siansi bea lavati. Una donna 



lA «CITTA' Q£Z« 90tS. lOd 

grande • bella ò unita ad un uomo robusto ed appas* 
sionato, una pingue ad un magro^ una magra ad un pin- 
gue, e cosi con sapiente e vantaggioso accozzamento 
Tengono moderati tutti gli eccessi. Al cadere del sole i 
fanciulli salgono nelle stanze ed apparecchiano i ta« 
lami. Dopo entrano i generatori , e secondo è imposto 
dai maestri e dalle maestre si mettono al riposo , né 
giammai possono consacrarsi all'importante ministerio 
se prima non hanno ben digeriti gli alimenti e termi- 
nata la preghiera. Nelle stanze sono eleganti statue di 
uomini ragguardevolissimi, ivi collocate perchè si con- 
templino dalle donne, dipoi affacciandosi ad una fine- 
stra cogli occhi rivolti ài cielo supplicano Iddio che 
conceda diventino madri di perfetta prole. Coricate po- 
scia in separate celle dormono sino all'ora stabilita 
per l'unione, ed allora la maestra levandosi apre al di 
Inori la porta sì degli uomini come delle donne. Questa 
ora è determinatsC dal medico e dall'astrologo, che stu- 
diano cogliere il tempo in cui tutte le costellazioni 
sono favorevoli ai generatori ed ai futuri generati. Cre- 
dono poi essere colpevole chi accostandosi alla gene- 
razione non abbia almeno per tre giorni conservato nella 
sua interezza e purità il seme, o chi avesse commesse 
Invereconde azioni , e chi non si fosse riconciliato e 
ravvicinato a Dio. Coloro invece, che per diletto o ne- 
cessità usano con donne sterili, gravide o difettose, non 
vengono obbligati ad alcuna cerimonia. I magistrati, 
poi che tutti sono sacerdoti, come anche i maestri delle 
scienze, non ponno assumere l'incarico di generatori 
che dopo molte giornate d'astinenza. Imperocché l'im- 
piego delle facoltà intellettuali, indebolendo gli spiriti 
aojmali, lor toglie che possano trasmettere l'energia del 
cerebro, e quindi osservasi sovente essere fiacca di 
corpo e tarda d'ingegno la prole di simile gente. Sa- 
piente è dunque la prescrizione che ordina ad essi d'ac- 
coppiarsi con donne vivaci, forti e belle. Parimente gli 
uomini pronti, ardenti, di temperamento sanguigno, deb- 
bono unirsi a donne pingui e fredde. E dleono che tra* 



110 LA CITTA' DBIi SOLE. 

scurala la generazione non si può dopo colFarte acqui- 
stare l'armonia dei diversi elementi dell'organismo, causa 
di tutte le virtù, e che gli uomini ì quali nascendo 
hanno sortito cattiva organizzazione, operano il bene 
unicamente pel timore della legge e di Dio , cessato il 
quale, od in segreto o pubblicamente, guastano la repub- 
blica. Laonde devesi adoperare ogni diligenza nel mi- 
nisterio della generazione e riflettere ai veri meriti na- 
turali, non alle doti od alle nobiltà fittizie, e di men- 
zognera specie. Se una donna non viene fecondata 
dall' uomo destinatole è confidata ad altri ; se infine 
scopresi sterile diventa comune, ma le si niega l'onore 
di assidersi fra le matrone nell'assemblea della genera- 
zione, nel tempio, ed alla mensa, e questo fanno onde 
a cagione di lussuria non si procaccino coU'arte la ste- 
rilità. Quelle che concepirono , vengono per quindici 
giorni esentate da ogni fatica. Cominciano poscia la- 
vori facili onde fortifichino la prole , ed apranl« i 
meati della nutrizione , e dipoi si rinvigoriscono con 
sempre crescente esercizio. I medici poi non permet- 
tono loro che cibi proficui. Dopo il parto esse mede- 
sime allattano ed assistono il neonato in case comuni, 
a questo uopo appositamente preparate. Per due e più 
anni secondo le prescrizioni del Fisico sono allat- 
tati i bambini. Dipoi se femmina si consegna alie mae- 
stre , ed ai maestri se maschio. £d allora cominciano 
quasi per divertiQiento ad imparare gli alfabeti, a spie- 
gare i dipinti, ad esercitarsi alla corsa, alla lotta, quindi 
a studiare le storie esposte dalle pitture, e le differenti 
lingue, e sino all'anno sesto portano una veste ele- 
gante ed a molti colori. Dopo questa età danno prin- 
cipio allo studio delle scienze naturali , indi ad altro , 
secondo sembra opportuno ai maestri. Per ultime ri- 
serbansi le scienze meccaniche. Ma i fanciulli tardi d'in- 
gegno si spediscono in campagna, e qualora alcuni diano 
prove di aver fatto sufBcienli progressi si riammettono 
nella città. Mala maggior parte d'essi, essendo nati sotto 
la medesima costellazionei riescono consimili a'contem- 



LA citta" del sole. ili 

poranei per virtù, per costumi e per fattezze , e ciò è 
causa d'una durevole concordia, d'un reciproco amore 
e d'una vicendevole sollecitudine di aiutarsi l'un Tallro. 

I nomi non s'impongono a caso , ma pensatamente 
dal Metafisico, secondo le qualità individuali, come era 
costume appresso gli antichi Romani. Uno quindi chia- 
masi -Bello, l'altro Nasone, un terzo Crassipe , ed altri 
Torvo, Magro, ecc. Ma quando acquistano eccellenza in 
qualche arte, o per alcun gran fatto in guerra od in 
pace, al primo, nome s'aggiunge quello dell'arte, come 
Pittore bello, grande, aureo, eccellente, preclaro, o quello 
dell'azione, come Nasone forte, astuto, vincitore, grande, 
grandissimo, ovvero quello del vinto nemico, come Afri- 
cano, Asiatico^ Etrusco , e se superò Manfredo o Tor- 
Iclio , chiamasi Magro Manfredi , Tortello , ecc. Questi 
cognomi s'impon?ono dai magistrati superiori , accom- 
pagnando la funzione il più delle volte col dono d'una 
corona conveniente al fatto o all'arte , e d'una festa 
musicale, poiché essi non fanno stima alcuna dell' oro 
e dell'argento, considerandoli siccome materie per for- 
mare vasi ed ornamenti comuni a tutti. 

G. M. Dimmi di grazia : conoscono essi la gelosia, o 
meglio il dolore, quando alcuno non ottiene una sperala 
magistratura o tutt'altra cosa da lui ambita? 

Amm. No , perchè tutti oltre il necessario , godono 
eziandio di quanto può dilettare la vita. La generazione 
si considera opera religiosa avente a scopo il bene della 
repubblica, non dei privati ; e perciò obbediscono pie- 
namente ai magistrati. Essi poi, contro l' opinione no- 
stra, negano essere naturale all'uomo, perchè educhi con 
vantaggio la prole, il possesso d'una moglie, d' una 
casa, di figli, e dicono con San Tommaso , che scopo 
alla geneiazione ò il mantenimento della specie, e non 
dell'individuo. Essere quindi un diritto pubblico e non 
privato, e i particol iri averne parte , unicamente quai 
membri della repubblica. Soggiungono poi che la prin- 
cipale causa dei mali pubbhci sia nel cattivo modo di 
trattar la generazione e l'educazione, e che quindi esse 




412 tA GltrV DSL SOLK. 

deronai reìigiosamente commettere alla saggezza del naa* 
gistratOy siccome > primi elementi per la felicità di un 
popolo. 

Gl'individui dunque, che per la loro eccellente orga- 
nizzazione hanno diritto d'essere generatori, o genera- 
trici , vengono appaiati secondo gì' insegnamenti della 
filosofia. Platone giudica doversi ciò eseguire mediante 
le sorti, onde gli allontanati dalle donne più belle non 
"^portino odio ai magistrati, ed anzi dice doversi ingan- 
nare gl'immeritevoli di somme bellezze, nell'atto che 
si estraggono le sorti, cosi che ottengano non le più 
desiderate, ma le più convenienti. Ma pienamente inu- 
tiie torna simile inganno agli abitanti solari, non esi- 
stendo fra loro deformità. Inoltre^ venendo le donne 
continuamente applicate a differenti lavori acquistano 
colorito vivace, membra robuste, grandi ed agili, e la 
bellezza viene costituita unicamente dalla elevatezza e 
dal vigore delle persone. Laonde incorrerebbe la pena 
capitale colei che imbellettasse il volto per comparire 
beila, od usasse zoccoli alti per parere più grande , o 
vesti allungate per coprire informi piedi. Ma eziandio 
se taluna avesse talento di fare le anzidette cose non 
lo potrebbe, e chi mai gliene accorderebbe la facoltà T 
Essi poi asseriscono, che simili inganni sono frutti ap- 
presso noi dell'ozio e dell'accidia delle donne, per cui 
deformandosi, impallidendo e diventando deboli e pic- 
cole, abbisognano di colori, di zoccoli, di vesti lunghe, 
ed amando meglio comparire belle per un'inerte deli- 
catezza che per una vigorosa salute, rovinano sé stesse 
e la prole. 

Allorché un individuo viene preso da violenta pas- 
sione per qualche donna, gli sono permessi colloqui , 
scherzi , e reciproci regali di fiori e di poesie. Ma se 
corresse pericolo la generazione, noiV s'accorda mai che 
s'accoppjno, se non quando trovasi già incinta la donna 
di un feto che appartiene ad un altro , ovvero già di- 
chiarata sterile. Del rimanente appena essi conoscono 
Tatoore di sola concupiscenza, bensì l'amidzia. Non sì 



tA CITTA* DEL SOLE. 113 

danno soverchia briga per le eose famigllafi e comme- 
stibili, perchè ognuno ne riceve secondo il proprio bi- 
sogno, toltone quando trattasi d'onorai'e alcuno. Al- 
lora e specialmente nei giorni festivi soglionsi in se- 
gno d'onore distribuire agli eroi ed alle eroine, mentre 
si pranza, differenti regali, come variopinte ghirlande, 
cibi graditi, vesti eleganti, ecc. 

Sebbene durante il giorno, e nella città portino tutti 
vesti bianche, nella notte, e fuori della città, indossano 
abiti rossi di lana o di seta, e abborriscono siccome il più 
spregevole il color nero. Sono quindi avversi ai Giap- ^ 
ponesi che prediligono siffatta tinta. La superbia è giù- ^ 
dicata ìi più esecrando dei vizj , ed ogni azione che 
ne senta viene punita colle più crudeli umiliazioni. 
Nessuno quindi crede abbassarsi servendo a mensa , 
nelle cucine o neirinfermerie, ma chiamano ministerio 
ogni funzione, e dicono che tutte le azioni fatte dalle > 
differenti partì del corpo umano sono egualmente ono- / 
revoli. 

Non hanno la sordida costumanza di mantener servi, ^^ 
ad essi bastando, e molte volte essendo anche sover- 
chia, Tojpera propria. Ma noi con dolore vediamo l'op- 
posto. 

Napoli è popolata di settantamiia persone, e solo dieci 
quindici mila lavorando, prestamente vengono di- 
strutti dalla soverchia fatica; il rimanente è rovinato 
dall'ozio, dalla pigrizia, dall'avarizia, dalle infermità, 
dalla lascivia, dall'usura, ecc., e per sventura anco mag- 
giore, contamina e corrompe un infinito numero d'uo- 
mini assoggettandogli a servire, ad adulare, a parteci- 
pare de' propri vizj a grave nocumento delle funzioni 
pubbliche. I campi, la milizia, le arti o sono neglette 
o pessimamente coltivate con dolorosi sagriflcj d'al- 
cuni pochi : ma nella città del Sole essendo eguale di- 
stribuzione di ministeri, d'arti, d'impieghi , di fatiche , 
ogni individuo non affatica più di quattro ore per gior- 
no» consecrandone il rimanente allo studio, alla let- • 
tura, alle dispute scientifiche, allo scrivere, al conver- 



/ 



114 LA €ITTA' DSL SOLE. 

sare, al passeggiare, infine ad ogni sorta d'eserclzj ag- 
gradevoli ed utili al corpo ed alla mente. Non s'accorda 
licenza di giuoco che richieda ch'altri stia seduto, come 
dadi, scacchi e simili, ma divertonsi alla palla, al pallone, 
alla trottola, alla corsa, alla lotta, all'arco, airarchibu- 
gio, ecc. AlTermano inoltre che la povertà è la princi- 
pale cagione che rende gli uomini vili, furbi, fraudo- 
lenti, ladri, intriganti, vagabondi, bugiardi , falsi testi- 
moni, ecc., e che la ricchezza produce insolenti, su- 
perbi, ignoranti, traditori, presuntuosi, falsari, vanaglo- 
riosi, egoisti, ecc.; ed al contrario la comunità colloca 
gli uomini in una condizione al medesimo tratto ricca e 
povera. Sono ricchi perchè godono d* ogni necessario, 
sono poveri perchè non possedono nulla, e nel tempo 
medesimo non servono alle cose, ma le cose obbediscono 
ad essi, ed in ciò lodano i religiosi della Cristianità e 
specialmente la vita degli Apostoli. 

G. M. lo trovo utile e santa la comunità dei beni , 
ma non posso approvare quella delle donne. San Cle- 
mente romano dice dovere essere le mogli comuni, 
secondo r istituto apostolico , ed encomia Socrate e 
Platone insegnanti eguale dottrina: ma la glossa in- 
tende siffatta comunità riguardare l'ossequio e non il 
letto. £ Tertulliano appoggiando la glossa , scrisse che i 
primi cristiani ebbero tutto in comune, eccettuate le 
donne, le quali però foronlo , come si disse , rispetto 
all'ossequio. 

Amm. Io appena conosco queste cose , ma posso as- 
sicurarti avere veduto nella città del Sole comuni le 
donne rispetto all'ossequio ed al letto, ma non sem- 
pre ed a guisa delle fiere accoppiantisi a qualunque 
incontro di femmina, ma solo, come si disse, per ra- 
gione e per ordine di generazione. Nulla ostante credo 
che possono ingannarsi in questo. Ma essi fansi scudo 
del giudizio di Socrate, di Catone, di Platone, di S. Cle- 
mente, ma come tu osservasti mal inteso. Dicono che 
• S. Agostino approva ogni comunità, ma non quella delle 
donne pel letto , che ò l' eresia dei Nicolaiti , e che la 



LA citta' bel sole. 113 

nostra Chiesa ha permesso la proprietàr dei beni non a 
titolo d'introdurre vantaggi maggiori, ma unicamente 
per evitare peggiori mali. Forse col tempo è possibile 
cbe abbandonino questo costume^ poiché nelle città 
saddite sono comuni i beni, non le donne, se non ri- 
spetto all'ossequio ed all'arti. Ma gli abitanti solari 
attribuiscono ciò air imperfezione delle dette città , 
meno della propria istrutte in filosoQa. Pure continua- 
mente spediscono messi ad esplorare altre nazioni , e 
non ricusano mai d'abbracciare quelle costumanze che 
loro sembrano migliori. L' abitudine pure fa che le donne 
riescano abili alla guerra e ad altri ministeri. Quindi 
dopo che conobbi questa città, convenni pienamente con 
Platone, ^neno col nostro Gajeta e discordai affatto da 
Aristotile. Un costume hanno essi pregevolissimo e 
degno d'imitazione, ed è, che nessun difetto vale a ri- 
tenere gli uomini nell'ozio, salvo un'età decrepita, 
nella quale però prestansi dando consigli. Quindi colui 
cbe zoppica serve nelle vedette impiegando gli occhi 
che ha sani. Chi è cieco scardassa colle mani la lana, 
e prepara piume per empire Ietti, capezzali ; chi è privo 
di occhi e di mani serve la repubblica impiegando l'o- 
recchio e la voce ; Analmente se alcuno non ha che un 
membro solo serve con quello nel miglior modo pos- 
sibile. 

. G. M. Parlami della guerra, che riserberai per innanzi 
le arti, le scienze e la religione. 

Amm. La Potenza , altro dei triumviri , presiede al 
maestro delle armi, come altresì a quelli dell'artiglieria, 
della cavalleria, dell'infanteria, e degli architetti, dei 
stratagemmi , ecc. , ed a ciascuno di questi obbediscono 
altri maestri, e primi funzionari delle rispettive arti. 
Inoltre la Potenza comanda agli atleti che sono espe- 
rimentati e vecchi capitani, precettori dei fanciulli nel- 
rarte militare dopo che hanno compito il duodecimo 
anno, sebbene prima di questa età siano stati esercitati 
tda maestri inferiori alla corsa, alla lotta, a lanciar pie- 
re^ ecc. Gli atleti quindi insegnano a ferire il perni co. 



il6 VA CITTA^ DBL flOLB. 

i catalli, gli elefanti, a maneggFate la spada, la lancia, 
r arco, le flonde, a cavalcare, ad inseguire, a fuggire , 
a restare in ordinanza , a soccorrere il compagno , a 
prevenire con ingegno il nemico, in una parola a vin- 
cere. Anco le donne imparano quest' arte sotto appositi 
maestri e maestre ; onde all'occorrenza possono portare 
soccorso agli uomini trattandosi di guerra non lontana 
dalle città, o di difenderne le mura se mai inaspettata 
invasione tentasse sorprenderle, ed in questo portano 
a cielo le Spartane e le Amazoni. Esse quindi sanno 
scagliare palle infuocate cogli archibugi , formarle col 
piombo, lanciare pietre dall'alto, andare all'ineon* 
tro dell'impeto nemico: cosi dalla frequenza di si- 
mili esercìzi vengono abituate ad affrontare senza al- 
cun timore ogni perìcolo, e se qualcuna mostra eodar* 
dia ne è severamente punita. 

Gli abitanti solari non temono la morte, perchè tutti 
credono all' immortalità delf anima, la quale uscita dal 
corpo s' accompagna agli spiriti buoni o cattivi seconda 
ha meritato nella terrestre vita. Sebbene siano Bramini, 
pure per alcune opinioni s'''accostano ai Pitagorici, dei 
quali non ammettono la metempsicosi dell'anima, ec- 
cetto qualche rara fiata per speciale giustizia di Dio, nò 
s'astengono dal combattere un popolo che si mostri ne- 
mico della repubblica, della religione e dell'umanità. 
Una volta ad ogni due mesi si passa in rivista l' eser- 
cito, e giornaliero è lo studio pratico dell'armi sia in 
campo aperto, sia fra le mura. Continue pure sono le 
lezioni sull'arte militare, e studiano la storia di Mosè. 
di Giosuè, di Davidde, de' Maccabei, di Cesare, di Ales- 
sandro, di Scipione, d'Annibale, ecc. Ciascuno può dire 
il proprio parere : qui operarono il bene , là il male , 
qui con probità, là con utilità, ecc., risponde il mae- 
stro, e sentenzia. 

G. H. Contro quai genti, e per quali ragioni fanno 
essi la guerri^ e quale ne è l'esito? 

Amk. Quand' anche non dovessero mai avere guerre, 
esse si esercitano airart« militare ed alla caccia ond« 



LA qiTTV DHI. 801)8. 417 

QOQ ammoUiscaao , e gli eventi noa li sorprendano 
sprovvisti di difese. Inoltre nell'isola v'jha quattro 
regni, che invidiano grandemente la loro prosperità , 
ed il popolo amando meglio vivere alla maniera degli 
abitanti solari, che obbedire ai reggitori del paese, que- 
sti sovente movono guerra ai Solari adducendo usur- 
pazioni di conOniy empio modo di vivere, mancanza 
d'idoli , odio alle credenze dei Gentili, o degli antichi 
Bramini, ecc. Ed anche gli Indiani^ di cui erano già 
sudditi, si dichiarano contro essi trattandoli da ribelli, 
come altresì i popoli della Taprobana, dai quali ebbero l 
primi soccorsi. Non ostante i Solari n'escono sempre 
vincitori, fissi appena patito un insulto, una calun- 
nia , od una depredazione , ovvero sapute le molestie 
de' propri alleati, od anche chiamati quai liberatori da 
genti tiranneggiate, adunansi tosto in assemblea per 
deliberare. Qui primamente inginocchiansi al cospetto 
di Dio, pregandolo ad ispirare ottimi consigli. Esaminano 
qaindi le cose , e dopo dichiarano la guerra. Subita- 
mente si spedisce un sacerdote chiamato Forense. Que» 
sti domanda ai nemici la restituzione della preda , la 
liberazione degli alleati, o ]^ cessazione della tirannide. 
Se le inchieste non conseguono effetto , egli intima ia 
guerra nel nome del Dio delle vendette, del Dio di Sa- 
bahot, ade&terminio dei sostenitori dell' iniquità. Qua- 
lora poi i nemici chiedano tempo alla risposta, il sa- 
cerdote accorda un'ora se tratta con un re, e tre so 
con una repubblica, e ciò perchè sia impedito ogni in- 
ganno. Per tal modo gli abitanti solari si fanno di- 
fensori del diritto naturale e della religione. Dichiarata 
la guerra, l'intero dell'esecuzione viene affidato al Vi- 
cario della Potenza Questo triumviro poi, a somiglianza 
del dittatore de' Romani , opera pienamente secondo il 
proprio volere, onde siano tolte tutte ragioni di ritardi. 
Ma se somma è r importanza dell' impresa consulta Hoh, 
e la Sapienza e l'Amore. Ma dapprima un oratore espone 
in un'adunanza generale le ragioni della guerra e ia 
0u3ti^a della causa, ed a questa assemblea inicrven- 



118 LA CITTA' DEL SOLE. 

gono i maggiori deir anno ventesimo, e cosi resta pre- 
parato tutto l'occorrente. È duopo che tu sappi , con- 
servare essi in appositi arsenali ogni specie d'armi, 
delle quali sovente usano esercitandosi in finte batta- 
f le. Le pareti interne di ciascun giro sono guarnite di 
i ortai cbe vengono serviti da speciali soldati, ed hanno 
altre macchine di guerra chiamate cannoni, che por- 
tensi alla battaglia dai muli od asini, o sopra carri, ed 
allorché trovansi in aperta campagna rinchiudono nel 
mezzo i convogli , le artiglierie , i carri , le scale e le 
macchine, ed animosamente per lungo tempo si conten- 
dono il terreno. Ciascuno poscia si ritrae intorno alle pro- 
prie bandiere. I nemici credono che fuggano o si pre- 
parino alla fuga , quindi incalzano , ma i Solari divisi 
ri t'tìbi i lati a foggia di corni riprendono fiato e co- 
raggio , e coli' artiglieria scagliano palle infocate , e 
subito dopo ritornano al combattimento contro gli scom- 
pigliati nemici. £ questi ed altri consimili modi di 
guerra sono di frequente usati. Essi superano tutte le 
nazioni nella scienza degli stratagemmi e delle macchine/ 
e seguono il costume degli antichi Romani nella forma- 
zione degli accampamenti .# Alzate le tende , le circon- 
dano di bastioni e fosse con meravigliosa prestezza. 
< ;ii travaglio è assistito dai maestri dei lavori, delle 
1. xchine e delle artiglierie, e tutti i soldati sanno ado- 
perare la scure e la marra. Hanno cinque, otto ed an* 
che dieci capi che provvedono ad ogni affare di guerra, 
che conoscono profondamente la disciplina ed i stra- 
tagèmmi, e sanno dirigere le proprie schiere secondo 
che divisarono fra loro da prima. Sogliono anche con- 
durre alla guerra fanciulli a cavallo , e forniti d'armi 
onde apprendano quest'arte, e s'avvezzino al sangue, 
come i lupi e i leoni usano coi loro figli. I fanciulli, 
u:^ tamente alle donne che pur v'assistono armate, si 
ritirano nell'istante del pericolo, ma dopo la battaglia 
ricompaiono a medicare, a servire ed a confortare con 
carezze e parole 1 combattenti. Immenso vantaggio ap- 
porta la [presenza di queste persone. Non pochi , per 



LA CITTA' DEL SOLE. 119 

far mostra di valore in faccia alle donne ed ai fan- 
ciulli, fanno prodigi, tentano le più rischiose imprese^ 
e quasi sempre l'amore gli fa uscire vittoriosi. Chi nella 
battaglia fu primo a superare i ripari dei nemici riceve 
dopo il conflitto dalle mani delle donne e dei fanciulli 
una corona di gramigna in mezzo agli onori di feste 
militari. Riporta la corona civica chi soccorse V amico^ 
una di quercia chi uccise il tiranno, le cui spoglie 
vengono a perpetua memoria del fatto appese nel tem- 
pio, ed il Metafisico gli sovraimpone il nome dell'a- 
zione. Altri ricevono altre corone. I soldati a cavallo 
portano una lancia e due grosse e robuste pistole so- 
spese alle selle, ed essendo costruite più piccole all'o- 
rifizio che alla base^ hanno forza di trapassare ogni più 
massiccia armatura di ferro. Hanno anche la spada ed il 
pugnale. Altri poi sono armati d' una clava di ferro , e 
diconsi i militi armati alla leggiera. £ per tal mòdo se 
r armatura del nemico resiste alla spada ed alle pistole, 
r assaltano colla clava, siccome Achille fece con Cigno, 
la sconquassano e la rovinano. Attaccate alla clavp. 
pendono due catene di sei palmi, aventi all'estremità 
palle di ferro , cosi che scagliate contro al nemico, gli 
cingono il collo, scuotonlo, strascinanlo ed in fine lo 
rovesciano; per poi con maggiore facilità maneggiare 
la clava, governano le redini del cavallo non colle mani 
ma coi piedi. Imperocché le briglie si scambiano in croce 
sopra gli arcioni della sella, e discendono ad assicu- 
rarsi non ai piedi, ma all'estremità delle staffe. Queste 
poi hanno esteriormente una sfera di ferro, e nel basso 
un triangolo. Per il che raggirando il piede sopra il 
triangolo sono poste in movimento le sfere , queste sti- 
rano le briglie, e così con mirabil prestezza gover- 
nano a piacimento il cavallo, volgendolo col piede 
destro alla parte sinistra e viceversa. Siffatto segreto 
è ignorato dai Tartari stessi, poiché sebbene governino 
le redini coi piedi, non sanno però divergere, ritrarre 
e rallentare il cavallo, non conoscendo l'impiego della 
carrucola alle staffe. I cavalieri armati alla leggiera 



tao LÀ CITTA' DBL SOLB. 

incominciano r attacco con archibugi. Seguono le fa- 
langi colle aste, e poscia i frombolieri moltissimo sti- 
mati ed avvezzi a combattere , alcuni scorrendo quasi 
entro alla tessitura delle file> altri avanzandosi di fronte, 
altri serrandosi a vicenda. Hanno anche squadre che 
assicurano l'esercito colle picche. Finalmente la bat* 
taglia viene decisa dalle spade. 

Terminata la guerra celebrano trionfi militari come 
gli antichi Romani, ed anco meglio. Si rendono grazie 
a Dio con preghiere, ed il sommo duce della spedizione 
entra nel tempio^ dove un poeta od uno storico, ch'as- 
sistè ai fatti, bene o male gli espone. Dopo Hoh depone 
una corona d' alloro sulla testa del duce, e quindi se- 
gue la distribuzione dei regali e degli onori ai soldati 
che più sonosi segnalati, e per molti giorni questi 
vengono dispensati d'ogni fatica, ila gli abitanti solari 
non amando l'ozio, impiegano queste vacanze ai soc- 
corso degli amici. All'opposto que'duci che furono 
vinti, perdettero l'occasione d'una più completa vit- 
toria, per colpa propria sono infamati. Il primo poi fra 
i soldati che prese la fuga, non può sottrarsi alla morte 
se non quando l'esercito intero domanda la grazia della 
sua vita, ed ognuno assume sopra di sé una parte del ca- 
stigo. Ma questa indulgenza avviene raramente, e solo 
quando militino speciali circostanze. È battuto colle ver- 
ghe ehi non soccorse l'amico, e chi si mostrò disobbe- 
diente è rinchiuso in un recinto ad esser divorato dalle 
liere ponendo a lui nelle mani un bastone, e se avrà vinto 
gli orsi ed 1 leoni, che colà custodisconsi, il che è quasi 
impossibile, è nuovamente ammesso nella società. 

Le città soggiogate o sottopostesi di spontanea vo- 
lontà, mettono tosto in comune ogni cosa, accettano 
guarnigioni e magistrati solari , ed a poco a poco abi- 
tuansi ai costumi della città del Sole, maestra di tutte, 
ove spediscono pure i figli, ai quali senza alcuna spesa 
vien data una perfetta istruzione. 

Opera di soverchia lunghezza sarebbe parlare degli 
esploratori, e dei loro maestri, delle sentinelle, de^U or* 



LA CmA* OBL SOL£, ili 

din! e d^li usi dentro e fuori della città, le quali cose fa- 
cilmente tu puoi immaginare, e basti r accennarti cbe 
vengono scelti dalla fanciullezza secondo rinclinazione 
individuale e la costellazione che presiedette alla loro na- 
spita. E quindi operando secondo il proprio naturai talento 
ciascuno con puntualità ed anche piacere esercita il pre- 
fissogli ministerio, perchè in armonia all'indole propria. 
Lo stesso si dica degli stratagemmi ed altre funzioni. 
Le quattro parti della città sono guardate giorno e 
notte da sentinelle, altre delle quali custodiscono l'ul- 
time mura del settimo giro sopra propugnacoli, torri, e 
tra i trincieramenti interni. Durante il giorno anche le 
donne prestansi a questo uffizio, ma solamente gii uo- 
mini nella notte, perchè non impigriscano, e prevengano 
una sorpresa; la durata di ogni veglia è come appresso 
noi di tre ore. A.1 cadere del sole, fra suoni di timpani 
e sinfonie, s'assegnano agli armati i luoghi da guardarsi. 
Amano la caccia siccome una immagine di guerra, ed 
air occorrenza di varie solennità si danno sulle pub- 
bliche piazze divertimenti a cui prendono parte uomini 
a piedi ed a cavallo. In questi non manca giammai la 
musica, ecc. Volentieri perdonano Je offese e gli errori 
ai nemici, e dopo la vittoria sogliono beneficarli. Ha 
qualora per legge di necessità debbano spianare mura 
o troncare teste, il decreto viene messo ad esecuzione 
nel di medesimo della vittoria. Dopo continuano a pro- 
digare ogni sorta di benefizi, e dicono doversi combat- 
tere un nemico non per ispegnerlo, ma perchè di- 
venga migliore. Se fra loro sorge alterco per ingiurie od 
altra causa (poiché essi quasi non conoscono dispute 
se non d'onore), il primate ed i magistrati puniscono 
il colpevole segretamente, se l'azione che costituì l'af- 
fronto fu l'effetto d'un primo impeto di collera: se l'in- 
giuria venne da parole aspettano il di della battaglia , 
dicendo doversi l'ira versare contro il nemico; dopo 
si reputa aver difeso la causa migliore e la verità quello 
dei due disputanti che in guerra fece mostra di maggior 
r^^lor^. L'aUro cede. Ma le pene sono sempre proporzlo- 



122 LÀ eiTTA' niL SOLK. 

nate alla colpa. Non si permette mai la prolungazione de* 
gli sdegni sino al duello , il quale oltre che distrugge 
il potere dei tribunali, è anche ingiusto venendo esposta 
a soccombere la parte della ragione. Cosi nella città 
del Sole, chi si crede immeritevole d'ingiuria e professa 
essere migliore del suo avversario , ha facoltà di mo* 
s trarne le prove nella guerra pubblica. 

G. M. Questo torna a gran vantaggio, perchè impe- 
dendo gli odj particolari s'osta alia formazione dipar- 
titi dannosi alla patria, come pure alle cause di guerre 
civili da cui sovente, come in Atene e Roma, sorge il 
tiranno. Adesso parlami, ten prego, del lavoro. 

Amm. Già ti dissi aver essi comune l'arte militare, 
r agricoltura e la pastorizia. Gorre obbligo a tutti co- 
noscere queste arti giudicate nobilissime, e quindi colui 
che ne esercita un maggior numero è creduto posses- 
sore di maggior nobiltà, e chi arrivò a maggior nobiltà, 
e chi arrivò a maggior perfezione in alcuna d' esse . 
ne viene eletto maestro. Le arti più faticose otten- 
gono la stima più grande, come quella dei fabbro, 
del muratore, ecc. , e nessuno ricusa esercitarle, perchè 
vennervi applicati per la particolare tendenza mo- 
strata nella fanciullezza , ed anche perchè il lavoro 
è distribuito in modo che non possa giammai nuocere 
alla persona, anzi debba renderla e conservarla migliore. 
Le donne esercitano le arti meno gravose. Tutti debbono 
essere abili al nuoto , ed appositi serbatoi d'acqua fu- 
rono preparati non discosto dalia città. La mercatura 
è piuttosto trascurata, sebbene conoscano il valore delle 
monete, e fabbrichino danaro, col quale i legati e gli esplo- 
ratori possano procacciarsi la sussistenza in stranieri 
paesi. Dalle differenti parti del mondo giungono mer- 
canti ai Solari, che comperano il superfluo della città. 
Gli abitanti non ricevono danaro, ma cambiano con 
quelle mercanzie di cui mancano, e sovente anche le 
comperano con monete.^ Ma di tutto cuore ridono {fan- 
ciulli solari veggendo tanta abbondanza di cose lasciate 
per cosi scarso numero d'inezie ; non ridono però i ver- 



LA CITTA* DEL SOLE. 123 

eia. Àffinehè poi la città non venga corrotta dai oattiri 
costumi dei servi e degli stranieri, fanno ogni commer- 
cio nei porti, e vendono i prigionieri di guerra, o li 
spediscono fuori della città a scavare fosse, e ad altri 
lavori faticosi. Alla custodia dei campi vengono conti* 
nuamente spediti insieme ai coltivatori quattro drap- 
pelli di soldati, ognuno dei quali esce per una delle 
quattro porte della città ^ che mettono al mare per 
strade costruite di mattoni , onde le cose ed i fora- 
sti.eri abbiano più agevole l'ingresso nella città. Que- 
sti sono trattati con gentilezza e magnificenza. Vi- 
vono per tre giornate a spese pubbliche, al primo in- 
contro lavano, loro i piedi, gli conducano poscia per la 
città; gli daiina. posto all'assemblea ed alle mense, ove . 
sono assistiti e serviti da apposite personel Qualora vo- 
lessero farsi cittadini solari sono provati per un mese 
ÌB campagna, per un secondo nella città ; si decidono 
quindi, e se avviene l'ammissione, si premettono giura- 
menti e cerimonie. 

Grandemente pregiata è l'agricoltura : ogni palmo di 
terra apporta profitto. Studiati i venti e le stelle, esco- 
no, lasciando pochi alla custodia della città, ad arare, 
seminare, scavare, sarchiellare, mietere, vendemmiare, 
accompagnandogli trombe e timpani, ed in brevissimo 
tempo ogni lavoro è finito, risparmiando coll'arte tempo 
e fatiche. Usano carri sormontati da vele, che servono 
anche spirando vento contrario mediante un mirabile 
congegnamento di ruote , e mancando il vento riesce 
bellissimo a vedere come un unico animale trascini un 
immenso e pesantissimo carro. In questo mezzo 1 
drappelli custodi del territorio vanno scorrendo all'in- 
torno , e sovente alternansi. Non hanno l'usanza dei 
concimi e dei fanghi ad impinguare i campi, credendo 
che questi corrompano le sementi , producano biade 
malsane, onde resta debole o breve la vita, siccome 
donne che belle non per l'esercizio ma pel belletto , 
danno alla luce figli languidi e malconci. Quindi non 
gettano cosa sui terreni , ma li lavorano con assi- 



/ 



124 LA CITTA* DEL SOLE. 

duUà ^ f da un libro chiamato Oeorgica , apprendono 
que' segreti che richiedonsi per la pronta nascita e fe- 
lice moltiplicazione delie sementi. Si lavora solamente 
quella porzione di territorio che basta ai bisogni dei 
cittadini ^ il rimanente è lascialo al pascolo degli ani- 
mali. 

Altissima stima è fatta anche della nobile arte che 
ri sguarda la procreazione e l'allevamento di buoi, ca- 
valli» pecore, ecc. Non inviano al pascolo gli stalloni 
insieme alle cavalle, ma quando occorre gli accoppiano 
nell'atrio delle stalle campestri , e per l'oroscopo os- 
servano il Sagittario in buon aspetto con Marte e Giove. 
Per il genere bovino guardano il Toro, per le pecore 
TAriete , ecc., secondo la dottrina. La famiglia degli 
animali domestici trovasi sotto le Pleiadi. Le donne 
con piacere conducono al pascolo le anitre e le oche 
fuori della città, e là sono luoghi in cui le rin- 
chiudono, ed altri dove possono preparare cacio, burro, 
ed ogni specie di latticini. Nutrono anche abbondante 
numero di capponi , ecc., ed in tutto questo si perfe- 
zionano leggendo un libro detto Buccolica, Abbondano 
d'ogni cosa, desiderando ciascuno mostrarsi primo nel 
lavoro, perchè non faticoso, e sempre utile, e gli 
animi loro sono docili , ed obbediscono volentieri a 
chi è preside dei ministeri, e lo chiamano re. Né que- 
sto nome spiace loro essendo creazione degli abi- 
tanti solari, e non l'intendendo a modo degli igno- 
ranti, e certamente tu meraviglieresti vedendo l'ordine 
con cui uomini e donne indistintamente procedono sotto 
l'obbedienza del re ; e ciò fanno senza rincrescimento 
come appresso noi , stimandolo un padre od un fra- 
tello d'età maggiore. Hanno boschi e foreste abbon- 
danti di fiere ed animali per l'esercizio della caccia. 

L'arte nautica è tenuta in pregio , ed hanno navi , 
alcune delle quali mediante un mirabile artificio viag- 
giano senza vele e remi. Conoscono il corso delle 
stelle, il flusso ed il riflusso del mare. Navigano per 
acquisi^re novelle cognizioni intorno a genti» a pa^si^ 



LA GITtA' DSL S0L8. UH 

a eose. Non offendono alcuno, ma non tollerano ingiu- 
rie ; combattono soltanto assaliti. Dicono dovere il 
mondo giungere a tanta sapienza che tutti gli uomini 
vivranno come essi. Ammirano la religione cristiana, 
ed aspettano in essi e in noi l'avveramento della vita 
degli Apostoli. Strinsero alleanze coi Chinesi, e con 
varie nazioni isolane e continentali , con Siam, Gali- 
cuta. Cocincina , ecc«, e questo facilita Tesplorazioni., 
Fabbricano fuochi artificiali per battaglie di terra e di 
mare e possedono il segreto d'un'infinità di stratagem* 
mi. Quindi escono dalle guerre quasi sempre vinci* 
tori. 

G. M. Cosa gratissima mi faresti parlando dei cibi e 
delle bevande, e come e quanto tempo essi vivono. 

Amm. £ loro dottrina doversi primamente provve* 
dere alla vita del tutto , poi a quella delle rispettive 
parti. Quindi costruendo la città studiarono aver pro- 
pizie le quattro costellazioni di ciascuno de' quattro 
angoli del mondo , le quali come si è già detto si os- 
servano anche nella concezione d'ogni iniividuo, per- 
ché dicono che Iddio ha assegnato cause a tutte le 
cose, e che il saggio deve conoscerle » usarle e non 
abusarne. 

Essi poi nutronsi di carni, di burro, di miele, cacio, 
datteri e legumi di differenti specie. Un tempo non vo- 
levano uccidere gli animali, sembrando azione barbara, 
ma considerando essere pure crudeltà lo spegnere erbe 
che godono d'un senso e d'una vita propria , per non 
morire di fame, conchiusero esser state le cose igno- 
bili prodotte a profitto delle più nobili, ed al presente 
cibansi di tutti gli animali ; ma per quanto è possibile 
risparmiano gli utili, come buoi e cavalli. Fanno distin- 
zione fra cibi sani e nocevoli, e lasciansi nella scelta 
dirigere dal medico. Il cibo è continuamente cambiato 
p<r tre volte. Dapprima mangiano carni, indi pesci, in- 
fine erbaggi. Ricominciano poscia colle carni, onde l'abi- 
tudine non indebolisca le naturali forze. Cibi di facile 
digestione vengono dati a\ vecchi, ohe mangiano tre 



126 LA citta' del SOLfi. 

volte al giorno e parcamente; due volte la comu- 
nità , quattro i fanciulli secondo ordina il medico. 
Sovente vivono cento anni , non pochi anche due- 
cento. Sono d' un'estrema temperanza rispetto alle be- 
vande. 1 giovani prima del diciannovesimo anno non 
bevono vino, se già non lo ricerchino ragioni di 
salute. Dopo questa età lo mischiano coii'acqua; solo 
compito il cinquantesimo anno è permesso berlo puro. 
Le medesime regole valgono per le donne. Gli alimenti 
variano secondo le stagioni, ed in questo seguesi sem- 
pre il consìglio del protomèdico. Credono poi non esservi 
cosà notevole, qualora se ne usi nella stagione in cui 
Iddio la produsse , e non abusandone con soverchia 
quantità. Laonde la estate cibansi di frutta, perchè 
umide, succose, e piuttosto fredde a difesa della sec- 
chezza e del calore della stagione ; r inverno man* 
giano cibi secchi, l'autunno gran copia d'uve , ac- 
cordate dal cielo contro l'atra bile e la melanconia. 
Amano molto l'uso di sostanze odorose. ÀI mattino 
levandosi pettinano il capo , e con acqua fredda si 
lavano mani e volto. SoiTregansi poi i denti , ovvero 
masticano menta, petrosellino, o finocchio ; i vecchi in- 
censo ; quindi rivolgendosi verso Oriente recitano breve 
orazione simile all'insegnata da Gesù Cristo. Dopo 
escono in vari drappelli, e chi si reca al servizio dei 
vecchi, chi alle pubbliche funzioni, ecc. Sieguono le 
lezioni , indi gli esercizi corporali , indi breve riposo 
stando seduti, finalmente il pranzo. 

Scarso è fra loro il numero delle malattie. Non co- 
noscono la podagra , la chiragra, i catarri , le isciati- 
ehe, i dolori colici, renflagioni, le flatulenze^ nascendo 
siffatte infermità dall'ozio, o dall'intemperanza, e scio- 
gliendo essi colla frugalità e coli'esercizio ogni soprab- 
bondanza d'umori : è quindi vergognoso io sputare o 
l'escreare, poiché dicono' questo vizio essere indizio di 
poco esercizio o di riprovevole pigrizia , ovvero con- 
seguenza della crapula o delia ghiottoneria. Sono piut- 
tosto soggetti aillnfiammazioni ed allo spasimo aecco. 



LA QTtx' DBti SOLE. i27 

a cai rimediano con cibi sani e nutritivi. Guariscono 
le tisi con bagni dolci, con latticinio con Tamenità d'abi- 
tazioni campestri, con moderato e piacerole esercìzio. 
La sifilide non può far progressi, perchè lavano spesso 
i corpi con vino, li ungono d'olj aromatici, e sudando 
sciolgono il vapore fetido da cui deriva la corruzione 
del sangue e deiie midolla. Rare poi sono le tisi , non 
soffrendo essi che pochissime volte catarri polmonari, 
ed appena conosciuta è quella specie d'asma, origi- 
nato dalla crassej^za degli umorj. Le febbri infiamma- 
torie sono guarite con bevande d'acqua fredda, le effi- 
mere con odori e densi brodi, o col sonno, colla musica 
e coir allegria. Contro le terzane usansi emissioni di 
sangue, rabarbaro od acqua, entro alla quale furono 
bollite radici d'erbe purgative ed acido. Finalmente sa- 
nano le quartane incutendo improvvise paure, o trat- 
tandole con erbe d'indole opposta alla quartana e con 
altre simili cose, e mi mostrarono vari segreti contro 
esse. Uno studio maggiore pongono a guarire le feb- 
bri continue , da cui più temono , e sforzansi d'arre- 
starle studiando le stelle e le erbe, e levando preghiere 
al cielo. Le febbri quintane, sestane, octane, mancano 
4uasi affatto , perchè non esistono fra loro tempera- 
menti ignavi. La mondezza e la robustezza dei corpi è 
conservata coll'uso dei bagni , d'olj come appresso gii 
antichi Romani, e d'altri opportuni segreti da loro sco- 
perti, le quali cose tutte giovano pure contro il morbo 
sacro da cui sovente vengono molestati. 

G. M. Questa malattia è indizio di non ordinario in- 
gegno ed andaronvi soggetti gli uomini più celebri come 
Ercole, Scoto, Socrate, Callimaco e Maometto. 

Amm. Essi la combattono con nreghiere, indi rin- 
vigorendo il sistema nervoso del capo mediante so- 
stanze acide od eccitanti, come pure con brodi pingui 
condensati dal fiore di farina di frumento. 

Grande è l'abilità loro nei preparare le pietanze. Mi- 
sehianvi noce moscata, miele, burro, e copia di aromi 
corroboranti. Correggono la soverchia pinguedine ap- 



128 LA CITTA* DKL ^OLfi. 

ponendo acidi. Non bevono acqua raffreddata dalla nete, 
od artiflcralmente riscaldata come 1 Ghinesi, ma quando 
occorre favorire il calore naturale contro l'esuberanza 
de^ii umori, usano aglio trito, serpillo, menta, basilico, 
e specialmente esercizi corporali. Sanno infine il segreto 
di rinnovellare la vita ad ogni sette anni senza dolori 
e con mezzi dolci e portentosi. 

G. M. Finora non facesti parola né delle scienze, nò 
dei magistrati. 

Aiof. È verissimo, ma vedendoti cosi curioso, ag- 
giungerò altre cose. Ad ogni novilunio e plenilunio dopo 
il sacrifizio convocano l'assemblea. A questa si ammet- 
tono 1 maggiori dei venti anni, e ciascuno può esporre 
quanto crede mancare alla repubblica, e se i magistrati 
adempiano bene o male le rispettive loro funzioni. Pa- 
rimente una volta ad ogni ottavo di congregansi i ma- 
gistrati, e dapprima Hoh e seco la Potenza, la Sapienza 
e l'Amore, e ciascun triumviro presiedendo a tre ma- 
gistrati, cbe hanno la somma direzione dalle arti im- 
mediatamente dopo essi, contano insieme tredici. A que- 
sta particolare adunanza prendono parte eziandio gli 
istitutori dell'esercito, cioè i decurioni, i centurioni, ecc., 
degli uomini e delle donne , ed unitamente eleggono i 
magistrati, che l'assemblea generale aveva soltanto pro- 
posti, e trattano di tutto quanto occorre alla repubblica. 
Inoltre Hoh ed i tre triumviri giornalmente si consul- 
tano sul da farsi , e correggono e confermano e met- 
tono in esecuzione le decisioni della grande assemblea, 
infine provvedono ad ogni sorta di necessità. Creando 
un magistrato non usano mai le sorti che nei caso di 
dubbio sulla scelta. Tutti i funzionar] possono venire 
cangiati secondo il volere del popolo, eccettuati i primi 
quattro. Questi avuta una consulta fra loro cedono la 
carica a chi conobbero di maggiore ingegno, di costami 
più illibati, e tanto sono docili quecrli animi, ed amano 
si grandemente la repubblica, che senza ombra di rin- 
crescimento cedono, e fansi discepoli al più degno. Ma 
questo rarissime volte avviene^ 



LA eiTTA^ DEL SOLB. 139 

G. M. Che dici dei giudici? 

Amm. Di già pensava a questo argomento. Ogni in- 
dividuo è giudicato dal sommo Maestro dell'arte pro- 
pria. I primi artefici sono dunque tutti giudici, e puni- 
scono coU'esilio , colle battiture , ìcol disonore , colla 
privazione della mensa comune, coU'interdetto al tem- 
pio, colla proibizione delle donne. Ma occorrendo ec- 
cessi gravissimi puniscono anche colla morte. Pagano 
occhio per occhio^ naso per naso, dente per dente giu- 
sta la legge del taglione , se però la colpa fu volonta- 
ria e preceduta da riflessione ; altrimenti la sentenza 
è mitigata non dal giudice, ma dai tre triumviri, che 
portano il ricorso anche ad Hoh non per ragioni di giu- 
stizia^ ma solamente per riportarne grazia, potendo esso 
solo perdonare. Non hanno carceri fuorché una torre 
destinata alla reclusione dei nemici, ribelli, ecc. Non 
scrivesi quel libello , volgarmente chiamato processo ; 
ma si presentano al giudice ed alla Potenza l'accusato 
ed i testimoni. Il primo pronuncia la propria difesa, e 
tosto il giudice o lo condanna o l'assolve; se poi si 
appella al triumviro, la condanna o l'assoluzione esce 
il di seguente. Nel terzo giorno poi Hoh accorda la gra. 
zia firma irrevocabilmente la sentenza; in questo 
caso il colpevole si riconcilia coU'accusatore e coi te- 
stimoni, dando loro un amplesso ed un bacio siccome 
ai medici sanatori della sua malattia. Non volendo con- 
taminare la repubblica fanno senza littori o carnefici, 
ma ogni condannato muore per la mano del popolo 
che l'uccide o lo lapida, primi però sempre l'accusa- 
tore ed i testimoni. Ad alcuni s'accorda di scegliere il 
genere di morte, e quasi sempre amano circondarsi di 
sacchetti di polvere da cannone, ed appiccatovi il fuoco 
muoiono assistiti da persone esortanti a terminare bene : 
tutta la città è in dolore , e prega Dio che plachi la 
sua collera, contristandosi d'esser stati costretti a tron- 
care un membro guasto del corpo della repubblica. Stu- 
diano anche con discorsi di persuadere il colpevole che 
desideri ed accetti la morte. Qualora non possano a 

Uoro. 9 



130 LA CITTA* DEL SOLE. 

ciò indurlo, e non trattisi di colpe contro la libertà 
pubblica contro Iddio od i supremi magistrati, ta sen- 
tenza non ba luoigo, ma senza misericordia viene ese- 
guita se fu condannato per alcuno di questi tre delitti. 
La religione poi permette al morituro d'esporre le 
ragioni per cui non dovrebbe perire, e lo obbliga a pa- 
lesare le colpe d'altri come ancbe i mancamenti dei Ma- 
gistrati, affermando meritare tutti questi più di lui la 
morte, e ciò nel cospetto del popolo, ed ancbe se cosi 
pare alla sua coscienza. Prevalendo le sue ragioni si 
condanna all'esilio, e con preci e sagriflzj si purifica 
la città sen^a però dar molestia ai nominati dal col- 
pevole, ma solo ammonendol'. I peccati di fragilità 
e d* ignoranza sì puliscono col disonore o coli* ob- 
bligo a più severa esistita, ovvero avvertendogli a mo- 
strarsi più diligenti e disciplinati in quella scienza od 
arte contro cui banno peccato. Sappi inoltre , cbe se 
un colpevole prevenendo l'accusa si sco(>re sponta- 
neamente ai magistrati, e chiede il castigo , è liberato 
dalla pena del delitto occulto , la quale viene mutata 
in altra, qualora non fosse stato accusato. Grandissime 
cautele usano ad impedire la calunnia ed ogni ca- 
lunniatore è sottoposto alla pena del taglione. Convi- 
vendo sempre in molto numero, a prova d'un delitto è 
richiesta la testimonianza dì cinque persone, altrimenti 
l'accusato dopo il giuramento è lasciato libero, pre- 
messe però ammonizioni e minacce. Bastano tre testi- 
moni ed anche due per essere doppiamente punito , 
quando è la seconda o la terza volta, che l'accusa viene 
portata al giudice. Le leggi di questo popolo sono po- 
che, brevi, chiare, scritte sopra una tavola di bronzo 
pendente agli interspazi del tempio, cioè fra le colonne, 
sopra le quali vedonsì anche in stile metaflsico e bre- 
vissimo scritte le definizioni dell'essenza delle cose, che 
siano Dio, gli Angeli , il Mondo , le Stelle , l'Uomo , il 
Fato , la Virtù , ecc., e per verità con grande semio. 
V ha pure le definizioni di tutte le virtù , ciascuna 
delle quali ha un gludiVe proprio che s'asside sopra 



LA citta' del sole. 131 

una sedia, detta tribunale, posta sotto la colonna por- 
tante la definizione della Virtù che deve giudicare, e 
rivolto al colpevole gli dice: Figlio, tu peccasti con- 
tro questa santa definizione ; contro la beneficenza, la 
magnanimità, ecc. : Legi>i ... E dopo la discussione ri • 
ceve la pena meritata dal suo malfare. Le condanne 
sono vere e sicure medicine sententi più Tamore che 
il castigo. 

G. M. Ora aggradirei che mi parlassi dei sacer- 
doti, dei sagriflzj , della religione e delle loro cre- 
denze. 

Amm. Tutti i primi magistrati sono sacerdoti ; Hoh 
n* è il supremo. Uffizio loro è purificare le coscienze. 
Tutti i cittadini adunque mediante la confessione auri- 
colare, simile alla nostra, palesano ai magistrati .le pro- 
prie colpe , e questi, mentre purificano le anime> co- 
noscono i vizj più frequenti fra il popolo. Dopo i ma- 
gistrati stessi confessano ai tre Triumviri i propri falli, 
ed espongono anche gli intesi senza fare il nome ad 
alcuna, ma confusamente^ e quelli che più nuocono 
alla repubblica. 

Infine i Triumviri scoprono i propri mancamenti , e 
quelli degli altri allo stesso Hoh , il quale conosciuti 
gli errori che più serpono nella città può apporvi gli 
opportuni rìmedj. Offre dipoi sagriflzj e preghiere a 
Dio, e pubblicamente nel tempio confessa dall'alto del- 
l'altare in faccia all'Onnipotente le colpe di tutto il 
popolo; però solo quando lo crede necessario per l'emen- 
dazione , e sempre tacendo i nomi dei peccatori. Di- 
poi assolve il popolo ammonendolo a guardarsi da 
siffatte colpe, offre un secondo sagrifizio a Dio, e ter- 
mina pregandolo a perdonare, ad illuminare ed a pro- 
teggere la città. Una volta all'anno anche i capi de! le 
città suddite, insieme ai propri , confessano i falli dei 
loro concittadini alla presenza di Hoh, perchè li conosf a 
e rimedi ai mali delle Provincie. 

11 sagrifizio è fatto nel modo seguente. Hoh donian l;i 
al popolo congregato quale fra tanti sia disposto a sa^ 



132 LA citta' del sole. 

griflcarsi pei suoi confratelli, e chi è più perfetto spon- 
taneamente si offre. Allora, premesse le preci e le ce- 
rìinoiiie, viene posto sopra una tavola quadrata alia 
quale mediante fibbie sono attaccate quattro funi, che 
discendono da quattro carrucole, infisse nel muro della 
piccola vòlta, e supplicato il Dio della misericordia 
che degni accettare quel sagrifizio umano e spontaneo, 
non brutale ed involontario come appresso i Gentili , 
Hoh comanda che le funi vengano tirate, e la vittima 
giunge al centro della piccola vòlta, e quivi s'abban- 
dona al più fervente pregare. I sacerdoti che abitano 
airintorno per una finestra gli somministrano il cibo, 
ma scarsamente, finché sia compita la purificazione della 
città, e dopo trenta o quaranta giorni calmato lo sde- 
gno di Dio con preci e con digiuni egli o si fa sacer- 
dote, ovvero, il che rarissime volte avviene, ritorna 
al primo stato, ma discendendo per il cammino esterno 
dei sacerdoti. E in appresso questo uomo gode la stima 
e l'amore universale, perchè non esitò morire pei bene 
della patria. Iddio poi non vuole la morte di chicches- 
sia. I sacerdoti che al numero di ventiquattro abitano 
l'alto del tempio cantano quattro volte al giorno salmi 
a Dio, cioè a mezzanotte, a mezzogiorno, al mattino ed 
alla sera. Principale uffizio spetta ad essi studiare le 
stelle, i loro movimenti cogli astrolabi, ^ rilevarne 
ie inlluenze e le attinenze colle cose umane. Cono- 
scono quindi 1 mutamenti avvenuti , o che debbono 
accadere in una particolare regione, ad un dato tempo, 
e tengono conto delle predizioni sì avverate come fallite 
mediante esploratori inviati ai paesi indicati, onde pos- 
sano dopo ripetute esperienze predire senza timore d'in- 
gannarsi. Essi determinano l'ora della generazione , i 
giorni delia seminagione , della vendemmia , della rac- 
colta, e sono quasi internunzj, intercessori e legami 
ciie uniscono gli uomini a Dio, e la maggior parte de- 
gli Hoh viene presa fra loro. Scrivono inoltre i fatti 
degni di storia od affaticansi al perfezionamento di tutte 
le scienze. Solo pel pranzo e per la cena discendono ; 



tA AlTTA^ DfiL àOLfi. 1^3 

iiàano rarissime volte colle donne, ed unicamente a ti- 
tolo di medicina. Hoh sale a consultargli giornalmente 
intorno a quanto scopersero e studiarono a benefizio 
di tutte le nazioni dell'universo. 

Un uomo del popolo continuamente resta nel tempio 
a pregare innanzi airaltare, e dopo un'ora gli succede 
un altro, come costumiamo noi nella solennità delle 
quarant'ore, e siffatto modo d'orare è detto sagri Azio 
perpetuo. Dopo il cibo ringraziano Iddio con suoni mu- 
sicali, ed anche cantano le gesta degli eroi cristiani , 
ebrei, gentili e di tutte le nazioni, e ciò con immenso 
loro piacere perchè non portano odio ad alcuna gente. 
Cantano pure inni all'amore, alla sapienza ed a tutte 
le virtù. Sotto la direzione del proprio re ciascuno sce- 
glie la donna che più gli va a genio , e tra i peristili 
Rsercitansi ad onesta e gioconda danza. Le donne por- 
tano i capelli lunghi uniti, in modo che formano una 
treccia sola colla quale attorniano il capo , gli uomini 
poi hanno un ciuffo solamente nel mezzo della tèsta, 
e tagliano tutti gli altri capelli all'intorno e portano 
una specie di cappuccio rotondo alquanto più rilevato 
della forma del capo. 

Nella campagna coprono la testa con cappelli , nella 
città con berretti bianchi o rossi, od a vari colori se- 
condo Tarte od il ministerio. l magistrati gli hanno 
più grandi e meglio guarniti. Con grande solennità ce- 
lebrano i giorni festivi, e questi occorrono quando il 
sole entra nei quattro cardini del mondo, nel Cancro, 
nella Libbra, nel Capricorno, nell* Ariete, e rappresen- 
tano azioni istruttive e quasi comiche. È pure giorno 
festivo ogni plenilunio e novilunio, come pure l'anniver- 
sario della fondazione della città, quello d'una vitto- 
ria, ecc., e questi si celebrano con suoni di trombe e 
timpani, e con femminili canti. I poeti cantano le lodi 
dei più illustri guerrieri. Però chi mente, eziandio enco- 
miando, è punito. Non è creduto degno delia nobile arte 
di poetare chi nelle sue invenzioni fa entrare la men- 
zogna, e dicono essere questo abuso una delle somm^ 



U4 LA CITTA* DEL SOLfi. 

pesti del genere umano, togliendo il premio alla virtù 
per porgerlo sovente al vizio, e qui si sempre per ti- 
more, ambizione, adulazione od avarizia. Non s'innal- 
zano statue ad onore d'alcuno se non dopo morto. Però 
chi avesse ritrovato nuove arti, o scoperto segreti uti- 
lissimi, ovvero apportato sommi beneflzj civili o mili- 
tari, ottiene d'essere inscritto anche vivendo sul libro 
degli eroi. Le spoglie dei defunti non si seppelliscono, 
ma si abbruciano, perchè non cagionino pesti, e si con- 
vertano in fuoco, materia nobile e vivente che discende 
dal sole per risalire al sole, ed anche perchè sia impe- 
dita ogni ragione d'idolatria. 

Ogni volta che fanno orazione si rivolgono ai quat- 
tro angoli del mondo; al mattino guardano prima al- 
l'oriente, poi airoccidente , indi al mezzodì. Non reci- 
tano che una sola preghiera con cui domandano sanitfi 
di corpo e di mente^ felicità a sé ed a tutte le genti , 
e terminano: come sembra meglio a Dìo. Ma la pre- 
ghiera pubblica dura lungamente^ e si solleva al cielo. 
L'altare è rotondo, e vi si va per quattro cammini 
clie s'incrociano ad angoli retti. Hoh s'affaccia succes- 
sivamente a ciascuno, dopo si prostra e prega cogli 
occhi rìsguardanti il cielo. Questa cerimonia è stimata 
siccome un gran mistero. Le vestì pontificali per bel- 
lezza e magnificenza assomigliano quelle di Aronne. Imi- 
tano la natura, e rendono meravigliosa l'arte. 

Dividono il tempo secondo l'anno tropico, non secondo 
il sidereo, ma ogni anno notano quanto uno anticipò l'al- 
tro. Credono che il sole continuamente s'avvicini alla 
terra e percorrendo men ampi cerchj giunga nel pre- 
sente anno ai tropici ed agli equinozi più prestamente 
che nel passato. 

I mesi si contano col corso lunare, col solare Tanno, 
non mettongli quindi d' accordo sino al decimonono 
anno in cui anche il capo del drago termina il suo 
corso. E perciò fondarono una nuova astronomia. Lo- 
dano Tolomeo, ammirano Copernico, quantunque ante- 
pongano Aristarco e Filolao, ma dicono, che uno nota 



LA citta' del sole. 13o 

con pielruzze, Taltro con fave, iiessmio secondo il vero ; 
danno quindi moneta ideale e non reale. A questo stu- 
dio dunque pongono la piii seria applicazione. Lo re- 
putano di tutta uecessilà se vuoisi conoscere come sia 
composto e costruito il mondo , se de^a o no iperire 
ed in qiial tempo, e pienamente credono airoracolo di 
Oesù Cripto Intorno all'apparizione futura dei se$;Ai nel 
sole, neUa Juna e nelle Sitelle ; molti stolti nella joro 
ignoranza danno a queste cose il nome di favole , ma 
costoFO saranno sorpresi dall'ultimo giorno del monio 
come dal ladro notturno. Aspettano dunque la rinno- 
vazione del secolo e forse ancbe il termine. 

Dicono regnare moltissima oscuri^ Sruir origine dei 
mondo, se sia stato fjtto dal nuUa, ovvero dalie rovine 
d'aJUri mondi o dal caos, ma giudicano verosiaille, anzi 
certo, cbe fu ritto, e non sia eterno. Sprezzano quindi 
TopiiQÀane d'Aristotile, che chiamano logico , non filo- 
sofo. ]E dall'anomalie astronomiche deducono moltissiflii 
a/gOkHUMiti contro l'eternitò, dell'universo. Essi onorano, 
BOiu adorano il sole, le stelle, siccome cose viventi, sta- 
tue e tempi di Dio ed altari animati del cielo. Prima 
d'ogni cosa creata stimano il sole, ma non ne degnano 
alcuna del culto di Latria, Questo (^ unicamente riser- 
bato a Dio, a lui solo servono onde per la legge del 
taglione non cadano sotto la tirannide e la miseria. Nel 
sole contemplano l'immagine di Dio, e lo nominano ec- 
celso volto dell'Onnipotente, statua viva , fonte d' ogni 
luce, caloce, vita e feliciti d'ogni cosa. L'altare qu'ndi 
Sii. eretto a somiglianza del soie , ed in lui i siccrdoU 
adorano Dio, e raffigurano nel cielo un tempio , nelle 
stelle altari, ed anche case viventi d'angeli buoni, no- 
stri intercessori appresso Dio, che fece principale mo- 
stra di sue bellezze nel cielo, e nel sole suo trofeo e 
statua. 

Negano gli eccentrici e gli epicicli di Tolomeo e di 
Copernico. Asseriscono essere unico il cielo, ed i pia- 
neti muoversi ed elevarsi per forze proprie quando s'av- 
vicinano e si uniscono al sole, e quindi innalzarsi con 



436 LA citta' del sole. 

maggiore lentezza dovendo percorrere un cerchio sem- 
pre più ampio, e professano mille altre opinioni astro- 
nomiche che quasi tutte sono in opposizione a quelle 
che volgarmente si sanno. 

Assegnano due prìncipi fisici alle cose terrestri, cioè 
il sole padre e la terra madre. Dicono essere l'aria una 
porzione impura di cielo, ed il fuoco derivare piena- 
mente da! sole; il mare poi scaturire dal sudore della 
terra ardente e fusa, e costituire un mezzo d'unione 
fra l'aria e la terra, come il sangue ne forma uno fra 
gli spiriti ed i corpi animati. Credono essere il mondo 
un grande animale, e noi vivere nel suo ventre come 
i vermi nel nostro, e perciò che noi non apparte- 
niamo a quella provvidenza che è propria delle stelle , 
del sole e della terra, ma soltanto a quella di Dio, poi- 
ché rispetto ad esse intese ad altro scopo, noi siamo 
unicamente una loro amplificazione, nati e viventi a 
caso, ma rispetto a Dio, di cui quelle cose sono istru- 
menti , noi fummo creati con prescienza ed ordine , e 
destinati ad un gran fine. Noi quindi soltanto a Dio 
dobbiamo gratitudine come ad un padre, e Dio solo 
deve essere da noi riconosciuto qual autore e datore 
d*ogni cosa. 

Credono all'immortalità, dell'anime, ed alla loro asso- 
ciazione dopo la uscita dal corpo cogli angeli buoni o 
cattivi, secondo le azioni della presente vita, e questo 
perchè le cose simili amano i loro simili. Dififerente 
della nostra è la loro opinione intorno ai luoghi delle 
pene e dei premj. Dubitano se esistano altri mondi 
fuori del nostro. Credono mentecatto chi asserisce essere 
il vuoto', poiché dicono che esso non può esistere né 
dentro né fuori dei mondo, e Dio, ente infinito, non tol- 
lerare con sé un vuoto : ricusano però di concepire un 
infinito corporeo. 

Essi ammettono due principi metafisici , l'Ente cioè , 
che è Dio supremo , ed il Niente , che è la mancanza 
d'entità, ed il termine dal quale fisicamente si produce 
qualche cosa, perché non si fa ciò che esiste , dunque 



LA citta' del sole.* i37 

non esisteva ciò che fu fatto. Cosi pure dall'Ente e dal 
Niente prende essenza Tessere finito. Parimente dalla 
tendenza al non essere trae origine il ma e ed il pec- 
cato. Il peccato quindi ha una causa di deficienza e 
non di efficienza. Per causa deficiente intendono la 
mancanza di potenza o di sapienza o di volontà. In 
questa ultima soltanto collocano il peccato, poiché chi 
sa e può beneficare, debbe anche volerlo, nascendo la 
volontà dalle due prime, e non quelle da questa. Essi 
adorano Dio nella trinità , e ciò fa meraviglia , ma di- 
cono che Dio è somma Potenza dalla quale procede la 
Somma Sapienza, che insieme è pure Dio , e da ambe- 
due poi l'Amore^ che è Potenza e Sapienza , quantun- 
que il procedente non abbi^ l'essenza di quello da cui 
procede e non recede. Non hanno però distinte nozioni 
delle tre nominate persone, come i cristiani, non avendo 
essi avuto rivelazione, ma conoscono esservi in Dio 
procedimento e relazione propria a sé, dentro a sé e 
per sé. Tutti gli enti quindi derivano l'essenza dalla 
Potenza, Sapienza ed Amore in quanto hanno Tessere; 
e dall'Impotenza, Ignoranza e Disamore in quanto par- 
tecipano al non essere; e per le prime acquistano me- 
rito, per le seconde peccano, sia con errori naturali ori- 
ginati dalle due prime, sia con offese contro il costume 
e l'arte derivanti da tutte tre, o soltanto dal tejrzo , e 
perciò anche una speciale natura pecca per ignoranza 
ed impotenza quando produce un mostro. 

Del resto tutto questo è preconosciuto ed ordinato 
da Dio, nemico d' ogni nulla e forza potentissima , sa- 
pientissima ed ottima. Ente alcuno non peccando in 
Dio, pecca fuori di Dio; ma fuori di Dio é impossibile 
andare se non da noi, e per riguardo nostro^ non già 
a causa di lai, e per riguardo suo, perchè in noi v'ha 
deficienza, in Dio efficienza. Il peccato adunque è atto 
di Dio in quanto ha non entità, e solo deficienza nella 
quale consiste T essenza del peccato , è dentro noi ed 
opera nostra, i quali tendiamo per una forza di disor- 
dine al non essere. 



I3S LA citta' del sole. 

Ci, M. Capperi, *son ben profondi! 

Amm. Oli ì se mi ricordassi d' ogni cosa, e non mi 
stesse a cuore la partenza, e più se nulla temessi , ti 
direi altro e ben più mirabile, ma perdo la nave se 
non m'affretto a prendere il largo. 

G. M. Ten prego ; rispondi a questa unica domanda : 
Glie dicon essi del peccato d'Adamo? 

Amm. Essi sinceramente confessano esservi molta ini- 
quità neir universo , e non essere gli uomini gover- 
nati da superiori e vere ragioni; vivere intCelici e non 
ascoltati i baoni ; trionfare i perversi , sebbene cliia- 
mino miserabile siffatto trionfo, non avendo nulla di 
pi ILI vano e di più spregevole che il volersi mo&trare 
ciò che in realttà altri non è, a non oienita d' essere , 
come tanti che eh ia man si re, sapienti, gmerrieri o santi. 
Argomentsmo quindi essere stato per ignota causa un 
gran disordine nelle cose umane. £ sulle prime incli- 
navano a credere con Platone aviere negli antichi tempi 
i mondi celesti subita una rivoluzione dal presente 
Occidente verso la parte ora chiamata Omcinte , e di 
poi essersi diretti verso la parte opposta. Soggiun- 
gono essere stato possibile che il g&yeirao di quaggiù 
« sia stato affidato a qualche Nume iAfeari6»ne, « tàò per- 
messo dal Dio Supremo, ma giudicano stolt«»i:a raffer- 
marlo assolutamente : e più stolto Tassorke aiv«re ^ma 
eoa massima eqjiità regnato Saturno, con minore Giove, 
mano mano gli altri pianeti, sebbene confessino venire 
l'età del mondo ordinata giusta la serie dei pianeti , e 
credano che dalle mutazioni degli astri dopo 1,000 o 
1,600 anni possono ricevere grandi mutamenti le cose. 
Dicono che la presente età sembra doversi assegnare a 
Mercurio, quantunque modificata dalle grandi congiun- 
zioni e dai ritorni dell'anomalie che possiedono mn 
forza fatale. Affermano finalmente essere feli<^e t^el 
cristiano che s'accontenta credere avere tanta rivolu- 
zione avuta l'origine dal peccato d'Adamo. Opinano an- 
che i padri trasm^^ttere ai tigli più il male della «pena 
che della colpa , e potere questa riisalire dai Agli ai 



LA CITTA* DEL SOLE. 13') 

padri in quanto neglessero la generazione o la eserci- 
tarono fuori lìi tempo e di luogo, o non s'ebbe riguardo 
alla scelta ed all'educazione dei genitori, che pure ma- 
lamente produssero, peggio istruirono i figli. Ogni at- 
tenzione dunque viene da essi posta alla generazione 
ed alla educazione, e dicono ridondare a danno della 
repubblica sì la colpa dei padri e si la pena dei figli , 
come al presente il provano tutte le città piene dì mi- 
serie e ridotte a tale degradamento che chiamano feli- 
cità gli stessi mali, non avendo giammai conosciuto il 
vero bene , e ciò spingerebbe a credere essere V uni- 
verso governato dal caso. Ma chi studia la costruzione 
dell'universo e l'anatomia dell'uomo (eh* essi sovente 
esercitano sopra i cadaveri dei condannati) , ed i pia- 
neti, come altresì gli animali e Taso delle speciali loro 
parti, deve confessare ad alta voce la sapienza e la 
provvidenza di Dio. E debito dunque dell'uomo conse- 
crarsi interamente alla religione, e continuamente umi- 
liarsi al proprio autore , e questo non è possibile né 
facile se non a chi studia e conosce le opere di lui , 
obbedisce alle sue leggi e mette in atto la sen- 
tenza del filosofo : Non fare agli altri quanto non vuoi 
a te fatto , e quanto vuoi che a te sia fatto , tu lo 
fa agli altri. E quindi noi che pretendiamo dai figli e 
dagli uomini beni ed onori in contraccambio di pochi 
vantaggi che loro apportiamo , dobbiamo dare a Dio 
tutto, perchè tutto abbiamo da lui ricevuto, siamo tutto 
in lui e con lui. Gloria quindi a Dio per tutti i secoli 
de' secoli. 

G. M. In verità siccome questa gente che conosce 
soltanto la legge naturale, s'accosta tanto al Cristia- 
nesimo, il quale non aggiunge alle leggi della na- 
tura che i Sacramenti (conferenti forza a seguire fedel- 
mente quelle), cosi lo deduco un grande argomento a 
favore della religione cristiana, come quella ch'è Tunica 
vera che, tolti gii abusi, dovrà dominare tutto l'uni- 
verso, come insegnano e sperano i più valenti teologi. 
. Ed a questo proposito dicono avere gli Spagnuoli sco- 



4 io LA CITTA^ DEL SOLE. 

perto un nuovo mondo (qaantnnqae la prima gloria si 
debba a Colombo, splendore di Genova), affinchè tutte 
le genti vangano associate sotto la medesima legge. 
Questi filosofi saranno dunque eletti da Dio a testimo- 
nianza della verità. Conosco quindi che noi ignoriamo 
quanto noi stessi facciamo, ma tutti istrumenti di Dio 
serviamo ai suoi fini, ed anche quello che per cupidi- 
gia di ricchezze va in traccia di nuove regioni. Altis- 
simi poi sono i fini di Dio. Il sole tende ad abbruciare 
la terra, non a produrre uomini o piante, ma Dio si 
serve della loro lotta per siffatte produzioni. A lui dun- 
que siano lodi e glorie. 

Amm. Oh se tu sapessi quai cose abbiano imparato 
dall'astrologia ed anch(' dai nostri Profeti intorno al 
secolo venturo ! Essi dicono che a'giorni nostri avven- 
gono più fatti degni di storia in cento anni che nei 
quattromila del mondo anterióre, che maggiore numero 
di libri furono pubblicati in questo ultimo secolo che 
nei cinquanta passati, e non cessano di encomiare Tin- 
venzione della stampa, della polvere da cannone e della 
bussola; segni particolari e istrumenti insieme deirunìo- 
ne di tutti gli abitanti del mondo in un solo ovile. 
Queste meravigliose invenzioni avvennero, aggiungono 
essi, mentre una grande congiunzione avea luogo nel 
triangolo di Cancro nell'abside dì Mercurio e dello Scor- 
pione sotto r influenza della Luna e di Marte , potenti 
in questo triangolo per le nuove scoperte di mare, alle 
nuove armi e ai nuovi regni. Ma quando, e non andr.^ 
guari, l'abside di Saturno entrerà nel Capricorno, quella 
di Mercurio nel Sagittario, quella dì Marte nella Ver- 
gine, dopo le prime e grandi congiunzioni e l'appari- 
zione di una nuova s'o:ia in Cassiopea, sorgerà una 
nuova monarchia, seguirà la piena riforma delle leggi 
e delle arti ; s'intenderanno profeti, e nell'universo pie- 
namente rigenerato la santa nazione verrà ricolma di 
ogni sorta di beni ; ma prima si dovrà abbattere e sra- 
dicare, poi edificare e piantare.... Ma ten prego lasciami 
partire che mi chiamano altrove mille faccende. Solo 



LA città' del sole. i41 

sappi aver essi di già ritrovato l'arte di volare, l'unica 
che sembri mancare al mondo; e credono vicina la 
scoperta di istrumenli ottici con cui scopriransi nuove 
stelle, ed anche quella di istramenti acustici cosi per- 
fetti che con essi s'arriverà ad ascoltare la musica dei 
cieli. 

G. M. Hem! ah, ah, ah.... Tu parli benissimo, ma 
parmi che questa gente astrologizzi troppo. E come 
mai possono le stelle fare e sapere tanto ? Io ti dico 
che quaggiù tutto succede al tempo determinato da Dio. 

Amm. Essi pure mi risposero essere Dio immedia- 
tamente la causa di tutte le cose, ma solo come causa 
universale e non particolare, primitiva e non seconda- 
ria. Poiché Dio non mangia quando Pietro mangia; 
non ruba quando Paolo ruba, sebbene derivi da lui 
l'essenza e la facoltà di potere mangiare e rubare, come 
da causa immediata dalla quale dipende ogni altra più 
particolare che modifica Timmensità dell'azione divina. 

G. M. Oh come ragionano bene I I nostri dottori sco- 
lastici, e principalmente S. Tommaso, dicono lo stesso 
contro i filosofi maomettani , che professano l'opinione 
contraria. 

Amm. Dicono dunque che Dio assegnò cause uni- 
versali e particolari ad ogni effetto, e che le partico- 
lari non possono agire se non agiscono le universali. 
Poiché non fiorisce una pianta, se il sole non la ri- 
scalda davvicino. I tempi poi sono effetti ncI elle cause 
universali , cioè delle celesti. Noi dunque' tutti ope- 
riamo , operando il cielo. Le cause libere si servono 
del tempo a favore proprio e talvolta anche pel bene 
delle altre cose. Poiché l'uomo col fuoco sforza gli al- 
beri a fiorire , colla lampadi rischiara nell'assenza del 
sole la propria casa. Le cause naturali poi agiscono nel 
tempo. In quella maniera dunque ch'alcune cose si 
fanno di giorno , altre di notte ; alcune nell'inverno , 
altre nell'estate e nella primavera o nell'autunno, e ciò 
tanto dalle cause libere che dalle naturali ; cosi altre 
cose si fanno in questo od in un futuro secolo. E sic- 



J42 LÀ citta' D£L sole. 

come la caasa libera non è obbligata a dormire quando 
si fa notte , né alzarsi al venire del mattino , ma agi- 
sce secondo i comodi propri, approfittando deiralterna- 
zioni dei tempi; cosi non è obbligo a scoprire l'archi- 
bugio o la tipografia, quando succedono grandi sinodi 
nel Cancro, nelle monarchie quando in Ariete, ecc. Né 
possono credere aver il Sommo Pontefice ai coltissimi 
cristiani proibito l'astrologia, se non a quelli che ne 
abusano ad indovinare gli atti del libero arbitrio e uli 
eventi soprannaturali , mentre le stelle rispettò alfe 
cose soprannaturali non sono che segni , e rispetto 
alle cose naturali agiscono solo come cause univer- 
sali, sono solamente occasioni , inviti, tendenze. Poi- 
ché il sole al suo sorgere non ci obbliga a toglierci al 
letto, ma c'invita e ce ne porge tutte le comodità ; 
mentre la notte osta con mille incomodi al levarsi, ed 
è comodissima al dormire. Operando digique indiretta- 
mente e a caso sul libero arbitrio nell'atto che agi- 
scono sul corpo e sul senso corporeo affisso ad or- 
gani corporei ; la mente cosi viene eccitata dal senso 
all'amore, all'odio, all'ira ed a tutte le altre passioni , 
ed allora é in facoltà ancora dell'uomo il prestare as- 
senso, e l'opporsi all'eccitata passione. Adunque l'ere- 
sie, le carestie, le guerre preindicate dalle stelle, so- 
vente nella realtà sì verificano, perchè molti uomini 
lasciansi governare non dalla ragione, ma dagli appetiti 
sensuah, onde danno luogo a queste cose che accadono 
contro la ragione, s.»bbene molte volte succedono anche 
per avere obbedito razionalmente ad una passione, come 
quando si alimenta una giusta collera per intraprendere 
una guerra giusta. 

G. M. Tu continui a ragionare rettamente, e nelle 
tue opinioni convengonp il già citato S. Tommaso ed il 
nostro Sommo Pontefice, éhe permettono l' astrologia 
alla Tiiedicina , alla agricoltura ed alla nàutica, come 
anche i pronostici congetturali quando si tratta d* atti 
arbitrari, la quale ultima opinione é ammessa anche 
da tuHi gli scolastici ; ma per l'aumentare della malizia. 



LA CITTA DEL SOLE. 143 

e per gli abusi successi proibiscono non le congetture, 
ina il pronostico congetturale, non perchè riesca sem- 
pre falso , ma perette spesso ed anche sempre perico- 
loso. Imperocché i principi ed i popoli che troppo con- 
cedono all'astrologia, pensano mali e tentano hffaì im- 
possibili, come lo provano Àrbace , Agatocle , Druso , 
Archelao, e noi pure co! tempo vedremo consimili cose 
avvenire ad un duce della Finlandia a ragione del pro- 
nostico di Ticone, e, quel ch'è più da lamentare, molti 
principi ingannati da cerretani, e soverchio creduli a 
siffatte congetture, osano mille iniquità contro i nostri 
Pontefici. 

Amm. l Solari pure dicono doversi proibire quanto 
è falso ovvero pericoloso, potendo essere istrumento 
alla rinnovazione dell'idolatria, alla distruzione delia 
libertà od al sovvertimento dall'ordine politico. Anzi 
ti dico avere di già i Solari ritrovato il modo d'evitare 
razione del Fato Sidereo; poiché ogni arte viene con- 
cessa da Dio unicamente a nostro vantaggio , quando 
dunque è imminente un eccUssi infausto, una malefica 
cometa, ecc., chiudono il minacciato dentro case bian- 
che impregnandone l'ambiente d' odori e d'aceto ro- 
sato, accendono sette torchj composti di cera ed aro- 
mi, e aggiungono allegra musica ed ilari conversazioni, 
e con ciò vengono disciolti i semi pestilenziali ema- 
nati dal cielo. 

G. M. Capperi ! queste cose son tutte eccellenti e 
ben applicate medicine ; il cielo agisce sopra ì corpi ; 
deve dunque la sua azione venire corretta da anti- 
doti corporei; ma non mi garba il numero delle can^ 
dele^ quasi che la virtù sanatrice risiedesse in un dato 
numero^ cosa che sa di superstizione. 

Amm. Certamente essi danno valore ai numeri , e 
s'appoggiano alla filosofia pitagorica, non so se ragio- 
nevolmente; né si fondano unicamente sul numero, ma 
sulla uie'lirin:i accompagnala da numeri. 

Ci. M. Ili ciò non scolgo superstizione , non co- 
nobceudo scrittura nò canone ecclesiastico che con- 



144 LA citta' dbl sole. 

danni la forza dei numeri ; anzi i medici servoasi util- 
mente d'essi nei periodi e nelle crisi delle malattie. 
Inoltre sta scritto : che Iddio fece tutte le cose con peso, 
misura e numero; in sette giorni* creò il mondo, sette 
sono gli angeli sonanti le trombe, sette le tazze, sette 
1 tuoni , sette 1 candelabri, sette i sigilli, sette i sacra-, 
menti, sette i doni dello Spirito, ecc. Onde S. Agostino, 
S. Ilario ed Origene ragionarono lungamente sul valore 
dei numeri, principalmente del settenario e del sena- 
rio. Non io perciò condannerei i Solari da cbe si fanno 
medici secondo i sogni celesti e difensori del libero ar- 
bitrio. Imperoccbè coi sette torcbj imitano i sette pia- 
neti del cielo, come Mosè colle sette lucerne, e Roma 
sentenziò non esservi superstizione se non quando ai 
soli numeri s'attribuisce ogni possanza, non alle cose 
numerate. Ma adesso prosiegui l'interrotto discorso. 

AMM. Dicono poi che i segni femminini apportano 
la fecondità alle regioni a cui presiedono, e quindi an- 
che un governo meno robusto nelle cose inferiori, cau- 
sando e occasionando, ed apportando ad altri comodità 
incomodità, ad altri togliendole. La prova ne è che 
il governo delle donne ha avuto la prevalenza nel no- 
stro secolo : nuove amazzoni sono comparse tra la Nu- 
bia e la Monopotapa, e in Europa noi abbiamo- ve- 
duto regnare Rossolane in Turchia, Buona in Polonia , 
Maria in Ungheria, Elisabetta in Inghilterra, Catterina 
in Francia, Bianca in Toscana , Margherita nel Belgio, 
Maria in Scozia , Isabella , che favori la scoperta del 
nuovo mondo, in Spagna, e un gran poeta nel nostro 
secolo incomincia pure dalle donne il suo canto: 

Le donne, i cavalier, Tarmi, gli amori. 

E i poeti maledici e gli eretici pel triangolo di Marte 
nella casa dominante di Mercurio e per l'influenza di 
Venere e della Luna parlano sempre di cose oscene e 
passionate , e gli uomini si vanno sempre più effemi- 
nando negli atti e nella voce, e si chiamano Vossigno- 
ria. In Africa ove regna l'influenza di Cancro e dello 



La citta* DÉIi SOLE. !4ì> 

scorpione, oltre le amazzoni si velono in Fez ed in 
Marocco dei lupanari di uomini e molte altre cose in- 
fami a cui il clima invita ma non sforza. Ora non per- 
tanto il trigono di Cancro (poiché è al tropico, e al- 
l'apogeo di Giove , del Sole e di Marte forma una tri- 
plicità) com|p d'altra parte la Luna, Marte e Venere ha 
favorito la scoperta di nuovi imperi , la possibilità di 
fare il giro del mondo e il governo delle donne ; e per 
Mercurio e Marte la scoperta della tipografìa e dell'ar- 
chibugio, senza contare che fu causa o piuttosto oc- 
casione agli uomini di gran mutazioni nelle leggi, sem- 
pre sotto la provvidenza di Dio che li invita al bene 
se essi non guastassero queste inclinazioni. I Solari mi 
scoprirono mirabili cose sul consenso delle cose cele- 
sti colle terrestri e colie morali, e della diffusione del 
cristianesimo nel nuovo moado, e delia sua stabilita 
in Italia e nella Spagna, come altresì della sua ruina nella 
Germania settentrionale, neiringhilterra , nella Scandi- 
navia e nella Pannonia. Ma non voglio ripetere que- 
sti pronostici perchè sapientemente il nostro Papa lo 
ha proibito. E nello stesso tempo che Xerifl e Soli 
introducevano mutazioni in Àfrica e in Persia, Viclefo, 
Hass e Lutero assalivano la religione presso di noi, e i 
Minimi e 1 Cappuccini la illustravano ; e mi dissero 
come dello stesso movimento del Cielo altri se ne ser- 
vono in bene, altri in male^ quantunque le eresie siano 
noverate dall'Apostolo tra le opere della carne, e quindi 
sottoposte all' influenze sensibili cagionate da Marte , 
Saturno e dalla Terra per la volontà che spontaneamente 
vi si assogetta. Solo aggiungerò che i Solari hanno tro- 
vata l'arte di volare, ed altre arti sotto la costituzione 
della Luna e di Mercurio col favore dell'abside del 
Sole; polche queste Stelle hanno influenza nell'aria per 
l'arte del volo. E ciò che producono nelle nostre re- 
gioni acquose pel nuoto, lo fanno nelle regioni equa- 
torialt nell'aria pel volo , per la posizione della terra 
e pel luogo più solito. E trovarono pure una nuova 
astronomia, perchè nell'altro emisfero dall'equiUore al* 



146 LA citta' del SOLfi. 

l'austro nella casa del Sole vi è l'Acquario , in quella 
della Luna il Capricorno, ecc., e presero in senso contra- 
rio tutte le influenze e i segni, perchè in quelle regioni 
i segni si oominano altrimenti, e i pianeti altrimenti 
si distribuiscono che nelle nostre e nelle regioni po- 
lari. Non ripeterò quanto appresi da quei sapienti sulle 
mutazioni delle absidi e sulla eccentricità e obliquità 
degli equinozi, dei solstizi e dei poli, e dei segni cele- 
sti e dei loro incrocicchiamenti per cui agiscono nello 
spazio immenso della macchina del mondo, né dei rap- 
porti simbolici delle nostre cose con quelle che sono 
fuori del nostro mondo , né della rivoluzione che av- 
verrà dopo la grande congiunzione nell'Ariete e nella 
Bilancia^ segni equinoziali del ristabilimento delle mo- 
narchie 9 e che succederà con gran stupore dopo la 
gran congiunzione in conferma del decreto di chi ha 
stabilito la mutazione e it rinnovamento della terra. 
Ma tu non trattenermi più a lungo, poiché ho molte 
altre cose a fare , e tu sai quante faccende abbia per 
mano. Per ora ti basti sapere che non, di struggono, ma 
al contrario edificano il sistema del libero arbitrio, e 
dicono che se un sommo filosofo per quaranta ore 
venne crudelmente tormentato da' suoi nemici senza 
mai potergli strappare di bocca una parola su quanto 
essi domandavano, perché nel fondo dell'animo aveva 
determinato di tacere, cosi nemmeno le stelle che mo- 
vonsi in distanza e con lentezza non possono costrin- 
gerci ad azione alcuna contro nostra volontà, né val- 
gono poi meno a governarci o per obbligatorio de- 
creto di Dio perché noi siamo tanto liberi che pos- 
siamo bestemmiare Iddio stesso. Dio non sforza né sé 
né gli altri contro sé. Si può forse dividere Iddio ? Ma 
le stelle operando sui sensi alcune insensibili e legge- 
rissime modificazioni, succede che ne siano affetti prin- 
cipalmente coloro che seguono il senso , più che il 
aggio divino dei la ragione. Imperocché quella mede- 
sima costellazione che trasse fetidi vapori dalle cada- 
rveriche menti degli eretici, valse pure a produrre fra- 



._J 



LA CITTA* DEL SOLK. i4^ 

granii esaiazioai dalle rette intelligenze di quelli che 
fondarono le religioni dei Gesuiti , dei ^Fratelli Minimi 
e dei Cappuccini ; ed avvenne sotto la stessa anche la 
scoperta del nuovo emisfero con cui Colombo e Cor- 
tes apersero novella arena alla propagazione della re- 
ligione cristiana. 

Ora sovrastano al mondo grandissimi eventi^ ma 
ne serbo a migliore opportunità Tesposizione. 

G. M. Rispondi almeno a questa unica domanda: 
Come mal senza vele e remi mettono in movimento le 
navi? 

Amm. Havvì a poppa una gran ruota in forma di 
ventaglio assicurata airestremità d'una pertica, la quale 
venendo dal lato opposto equilibrata da un appesovi 
carico, facilmente un fanciullo può con una sola mano 
innalzarla ed abbassarla. L'intero meccanismo movesi 
sopra un asse sostenuto da due forche. Inoltre alcuni 
navigli vengono messi in movimento da due ruote rag- 
girantisi entro Tacqua in forza di funi che partono da 
una gran ruota posta a prora, e le quali circondano 
incrocicchiandosi le ruote della poppa. Senza difficoltà 
messa in movimento la gran ruota/ questa fa raggirare 
le piccole giacenti nell'acqua , siccome vediamo avve* 
nire nella macchinetta che serve alle donne calabresi 
per attortigliare e filare il lino. 

G. M. Aspetta, aspetta un istante. 

Amm. Non posso, non posso. 



FINE DELLA CITTA* DEL SOLE. 



QUESTIONI S11LL0TTIM4 REPUBBLICi 



OSSIA 



SULLA CITTA DEL SOLE 



^ 



QUESTIONI 



SULL'OTTIMA REPUBBLICA 



ARTICOLO PRIMO. 

Se a ragione e utilmente si sia aggiunta alla dottrina 
politica il dialogo della Città del Sole, 

Più difficoltà militano contro la ragionevolezza e 
l'utilità di una tal repubblica. 

1.^ Di ciò che non esistette mai , né esisterà, né si 
spera che esista , è inutile e vano r occuparsene ; ma 
un simile modo di vivere in comune affatto esente di 
delitti é impossibile, né mai si è veduto, né si vedrà, 
dunque inutilmente ci siamo di esso occupati. Argo- 
mento che Luciano usava contro la repubblica di Platone. 

3.^ Questa repubblica non può sussistere che in una 
sola città, non in un regno, poiché non si possono trovare 
luoghi affatto simili, adunque o sarà corrotta dai popoli 
soggetti, dal commercio, o dalle sedizioni che nasceranno 
contro una maniera di vivere si austera. 



152 QUESTIONI 

*ò,^ Questa repubblica vien immagìaata ottima e che 
duri per sempre; ella prima non potrà durare per sem- 
pre perchè necessariamente essa dovrà corrompersi alla 
fine, essere invasa dalla peste pel lungo domicilio 
non essendo purificata dal vento , dalla guerra , dalla 
fame, dalle bestie feroci, se mai potrà sfuggire alla ti- 
rannia interna, o infine dal troppo numero dei cittadini, 
come diceva Platone della sua repubblica. Secondo, non 
potrà essere ottima poiché necessariamente vi saranno 
dei delitti come dice V^^ostoìo: si discessimus quia pec- 
catiim non habemus , ipsi nos seducimus , e parimenti 
Aristotile prova che la comunanza dei beni utili e delle 
mogli fa viziosa una repubblica contro Platone, e quando 
ci sembra aver sfuggito un male ne incontriamo una 
moltitudine. 

4.^ Quel modo di vivere è più secondo natura che 
è provato dall'uso di tutte le nazioni ; ma il nostro è 
rigettato da tutte, dunque inutilmente e leggermente 
ne abbiam tenuto discorso. 

5.0 Nessuno vorrebbe vivere sotto leggi ed osservanze 
cosi severe e sotto tutela dei pedagoghi e questa re- 
pubblica sarebbe rovesciata dagli stessi cittadini, come 
addivenne a molti ordini religiosi viventi in comunità. 

6.0 È naturale agli uomini lo studiare le opere di 
Dio, il viaggiare pel mondo, cercare dovunque le scienze, 
far esperienza di tutto ; ma gli abitanti di una tal re- 
pubblica sarebbero come i monaci che non studiano 
che sui libri, e quando intendono qualche cosa che in 
essi non si trova si scandalizzano e si conturbano; 
come ora appena credono alle osservazioni di Galileo , 
e anteriormente che Colombo avesse trovato un nuovo 
emisfero, perchè S. Agostino lo nega. 

Ma, rispondendo prima in generale, in nostro favore 
sta l'esempio di Tommaso Moro , martire recente , che 
scrisse la sua repubUca Utopia imaginaria, sul cui esempio 
noi abbiamo trovate le istituzioni dt'Ua nostra ; e Pla- 
tone i>arimeate presentò un' idea della repubblica, che 
sebbene , eome dicono i teologi , ilell*;* iiatuia corrotUi 



sull'ottima repubblica. 153 

non può essere in tutte le parti posta in pratica, pure 
nello stato d' innocenza avrebbe ottimamente potuto 
sussistere, e Cristo appunto ci richiama allo stato 
d'innocenza. Aristotile istituì nello stesso modo la sua 
repubblica e molti altri filosofi. I principi parimente pro- 
mulgano leggi che credono esser ottime ; non perchè 
s'imaginino che nessuno le trasgredirà, ma perchè 
pensano che faranno felice chi le osserva. JE S. Tom- 
maso insegna che i religiosi non sono tenuti sotto pena 
di peccato ad osservare quanto vien prescritto nella 
regola, ma solo le cose più essenziali, quantunque sa- 
rebbero più felici osservandole tutte : devono vivere 
secondo la regola cioè adattare per quanto possono 
comodamente la loro vita alla regola. Mosè promulgò 
leggi date da Dio e istituì un'ottima repubblica, e fin- 
ché gli Ebrei vissero a norma della medesima fiorirono ; 
quando poi non ne osservarono le leggi decaddero. Così 
i retori stabiliscono le ottime regole di un buon discorso 
privo di ogni difetto. Cosi i filosofi imaginano uà poema 
senza pecca , e tuttavia alcun poeta non sfugge ogni 
pecca. Cosi i teologi descrivono la vita dei santi, e nes- 
suno o pochi di loro la imita. Qual nazione poi o qual 
individuo potè imitare la vita di Cristo senza peccato? 
Furono per questo scritti inutilmente gli Evangeli? non 
mai: ma perche facciamo ogni sforzo per accostarci il 
più che possiamo ai medesimi. Cristo stabi4i una re- 
pubblica eccellentissima, priva d'ogni peccato che gii 
apostoli appena osservarono intieramente, poi dal po- 
polo passò al clero, e finalmente ai soli monaci; e in 
questi ora persevera in alcuni, negli altri poi vedi ben 
pochi istituti conservarsi in armonia colia medesima. — 
Noi poi presentiamo la nostra repubblica non come data 
da Dio ma come un trovato filosofico e della ragione 
umana per dimostrare che la verità àe\ Vangelo è con- 
forme alla natura. Che se in alcune cose ci scostiamo 
dal Vangelo , o sembriamo scostarci , ciò non si deve 
ascrivere ad empietà , ma alla debolezza umana che 
priva di rivelazione i)ens:i molle cose essere giuste , 



154 QUESTIONI 

che al lume della medesima non sono tali, come direoM) 
della comunità dei matrimoni; e per questo abbiamo 
supposta la nostra repubblica nel gentilesimo che aspetta 
la rivelazione di una vita migliore, e vivendo secondo 
i dettami della ragione merita di averla. Quindi sono 
come catecumeni della vita cristiana; perciò dice Cirillo 
contro Giuliano: che ai gentili fu data la filosofia come 
catechismo. per la fede cristiana. Noi poi ammaestriamo 
i gentili perchè vivano rettamente se non vogliono es- 
sere abbandonati da Dio, e persuadiamo i cristiani che 
la vita di Cristo è conforme alia natura prendendo da 
questa repubblica l'esempio, come S. Clemente romano 
dalla repubblica socratica, e come fecero e il Crisostomo 
e S. Ambrogio. 

Egli è poi chiaro come con questa maniera di vivere 
vengano tolti tutti i vizi, poiché né i magistrati hanno 
ragioni di ambire i posti, e tutti gli abusi che nascono, 
sia dalla successione, sia dall'elezione, sia dalla sorte, 
stabilendo noi una specie di repubblica come quella delle 
grue e delle api celebrate da S. Ambrogio; cosi pure 
vengono tolte le sedizioni dei sudditi, che nascono sia 
dall' insolenza dei magistrati , sia dalla licenza di que- 
sti, dalla povertà, o dalla troppa abbiezione ed op- 
pressione. 

Cosi tutti i mali che nascono dai due opposti , dalie 
ricchezze e dalla povertà., e che Platone e Salomone con- 
siderano come l'origine dei mali della repubblica: cioè 
r avarizia, l' adulazione, la frode, i furti, la sordidezza 
dalla povertà : la rapina, 1* arroganza, la superbia, l* o- 
stentazione, V oziosità, ecc. , dalle ricchezze, 

Cosi si distruggono 1 vizi che nascono dall'abuso 
dell'amore, come gli adulteri; la fornicazione, la sodo- 
mia, gli aborti, la gelosia, le discordie domestiche, ecc. 

Così i mali che procedono dal troppo amore dei figli 
delle consorti; e la proprietà che tronca, come dice 
Sant'Agostino, le forze della carità, e l'amor proprio 
cagione di tutti i mali, come dice Santa Caterina in un 
dialogo; da qui 1' avarizia, T usura, T illiberalità,, l' odio 



sull'ottima repubblica. i58 

del prossimo , Y invidia verso 1 ricebi e i grandi : noi 
accresciamo l'amore delia comunità e togliamo gli od) 
che nascono dall'avarizia, radice di ogni male, cosi le 
liti, le frodi, le false testimonianze, ecc. 

Cosi tutti i mali del corpo e dell' anima che nascono 
dal troppo lavoro nel povero, o dall' ozio nei ricchi, 
mentre da noi si scompartono le fatiche egualmente. 

Cosi i mali che vengono dall' ozio nelle donne, e che 
corrompono la generazione e la salute del corpo e dello 
spirito, mentre noi le occupiamo di esercizi e delle 
virtù ad esse confacenti. 

Cosi i mali che nascono dall'ignoranza e dalia stol- 
tezza, mentre nella nostra repubblica si vede tanta espe- 
rienza di dottrina in ogni cosa, e nella stessa fabbrica 
della città, ove con imagini e pitture a chi solo vi ri- 
guardi si inseguano tutte le scienze quasi in un modo 
storico. 

Cosi vien provveduto meravigliosamente contro la 
corruzione delle leggi. 

Finalmente siccome abbiamo sfuggito in ogni cosa gli 
estremi e ridotto tutte le cose a giusto mezzo, in cui 
sta la virtù, non può imaginarsi una repubblica più fe- 
lice e più facile. E finalmente tutti i difetti che si sono 
notati nelle repubbliche di Minosse, di Licurgo, di So- 
lone, di Caronda, di Romolo, di Platone, di Aristotile 
e di altri autori, nella nostra repubblica, a chi ben vi 
guarda, non vi si trovano , e felicemente si è provve- 
duto a tutto, poiché essa è dedotta dalla dottrina delle 
primalità metafisiche, colle quali nulla vien negletto od 
ommesso. 

Ora alla prima difficoltà si è risposto che se non si può 
raggiungere esattamente l'idea di una tal repubblica, non 
per questo si è scritto inutilmente, mentre si propone 
un esemplare da imitarsi per quanto si può. Ma che 
essa sia pur possibile lo mostra e la vita dei primi cri- 
stiani in cui la comunanza fu stabilita sotto gli apo- 
stoli secondo testifica S. Luca e S. Clemente. E in Ales- 
sandria si é osservalo V islesso modo di vivere sotto 



ÌS6 QUESTIONI 

s. Marco , come testiflcan Filone e S. Girolamo. Tale 
fu la vita del clero fino ad Urbano I ed anche sotto S. Ago- 
stino ; e tale ora è la vita dei monaci, che S. Grisostomo 
desidera, come possibile, introdotta in tutta la città di 
Costantinopoli, e che io spero doversi »in futuro rea- 
lizzare dopo la ruina dell'Anticristo, come ne* miei pro- 
fetali. Chi poi aristotelìzzando la nega, è però costretto 
ad ammetterla possìbile nello stato di innocenza , seb- 
bene non di presente. Ma i padri la suppongono pra- 
ticabile anche ora , poiché Cristo ci ha ridotti a quel 
primo stato. E mentre Luciano, gentile e ateista, deride 
Platone per aver imaginato una repubblica impossibile, 
S. Clemente, Ambrogio e Grisostomo lo lodano, e que- 
sti per dottrina e per santità sono bene da anteporsi a 
mille Luciani. 

Alla seconda obbiezione. Noi abbiamo per questo at' 
tribuito un tal modo di vivere solo alla capitale. I vil- 
laggi poi imiteranno un tal modo o in parte, o nel tutto, 
quando più di essi si uniranno a formare una provin- 
cia. Luoghi adatti poi si troveranno facilmente, e dove 
manchino varieremo la forma, in modo che nel più alto 
del monte sia il capo della città, nelle appendici semi- 
circolari poi le abitazioni, e al piano il nostro modello 
sarà pur buono , se non vi si oppone il fango , che si 
può schivare selciando le vie e scavando acquedotti. 
Perchè poi gli abitanti non siano corrotti dal commer- 
cio si è provveduto nel testo coi magistrati a ciò de- 
putati, ed a fuggire le sedizioni esterne valgono le roc- 
che ben munite della metropoli e le milizie che per- 
corrono di continuo per la difesa dell* impero, e più 
la probità della città dominante, il servire alla quale è 
una felicità come per gli ignoranti è bene servire al 
sapiente e al probo e più coli* opinione di probità che 
colla forza Roma accrebbe V impero , e sotto Pompilio 
stimarono nefando usare dei mezzi contrari alla virtù 
contra i nemici. 

Alla terza obbiezione. Essa durerà Ano ad uno dei 
periodi generali delle cose umane che dan origina dA 



àULL'OTTIJCA REPUBfeLltA. ìHf 

tìn nuovo secolo. Poiché quanto alla peste, alle Aere , 
alla fame, alla guerra, abbiamo provveduto ottimamente 
per quanto si può colla virtù o almeno assai meglio di 
quel che si soglia fare altrove, poiché i venti per le 
quattro vie maggiori purgano la cittn, e dove sono im- 
pediti dalle case suppliscono le finestre, poste in modo 
da chiudersi alle cattive esalazioni e da aprirsi alle sa- 
lubri. Quanto al numero degli abitanti vedi la metafì- 
sica. Dico questa essefe una via ottima e di cui si deve 
più aver cura che della durata. Certo vi saranno dei 
peccati, ma non gravi, come negli altri Stati o almeno 
non tali che minino la repubblica come risulta dagli or- 
dini stabiliti. Ciò poi che Aristotile obbietta ad una tale 
repubblica verrà sciolto nei susseguenti articoli. 

Alla quarta obbiezione. Dico che tal repubblica, come 
il secolo d' oro, vien jda tutti desiderata e chiesta da 
Dio quando si domanda che la sua volontà sia fatta 
cosi in cielo come in terra. Non vien però praticata per 
la malizia dei principi che a sé non ali' impero della 
somma ragione sottomettono ì popoli. Dall'uso poi e 
dall'esperienza è provato essere possibile quanto ab- 
biam detto; come è più secondo natura il vivere con- 
forme alla ragione che all' affetto sensuale , e virtuo- 
samente di quel che viziosamente, secondo Crisostomo. 
E i monaci sono di ciò una prova, e ora gli anabatisti, 
che vivono in comune, che se ritenessero i veri dogmi 
della fede, più profitterebbero in questo modo di vita ; 
e volesse il cielo che non fossero eretici , e praticas- 
sero la giustizia come noi professiamo : che sarebbero 
un esempio della sua verità; ma non so per qual stol- 
tezza rifiutano il migliore. 

Alla quinta obbiezione. Ella è anzi una somma feli- 
cità il vivere virtuosamente, come dice Crisostomo, e 
dove commettendo errore sei tosto corretto, avanti che 
sopporti gli effetti dell' errore. La licenza é causa dei 
mali, ed è felice qu-rlla necessità che ci sforza al bene. 
Ma, a noi avvezzi al male, sembra duro questo genere 
di vlla^ come ai giuocatori e ai discoli la vita dei buoni 



188 QXJBStlONl 

cittadini : e à questi la vita dei monaci. Ma provate, é 
vedrete i religiosi non mai per la severità della disci- 
plina si rivoltano, ma se avviene è pel commercio dei 
laici, per T ambizione degli onori e l'amore della pro- 
prietà per libidine , ma nella nostra repubblica si è 
provveduto e sfuggito tutte queste cagioni. Dunque non 
prova r esempio di quelli. 

Alla sesta obbiezione. Noi anzi cerchiamo di far te- 
soro per la nostra repubblica dello osservazioni del- 
l' esperienza, della scienza di tutta la terra, e a questo 
fine abbiamo stabilito peregrinazioni, comunicazioni di 
commercio e ambasciate. Né i monaci si privano di que- 
sti beni mutando spesso città e provincia, né r igno- 
ranza dell' «'sperienza si dà a vedere nei migliori mo- 
naci, ma solo nei volgari. Le loro querele poi giovano 
perché meglio si discutono le cose^ e si rischiarano, 
e alla fine si acquietano pure tutti i virtuosi. £ tu non 
troverai che in alcun luogo più si sia fatto per la dot- 
trina e la conservazione delle scienze che negU ordini 
dei monaci e dei frati. £ i monaci antropomorfiti , in- 
sorti contra Origene ad istigazione del maligno Teofilo 
patriarca, non ottennero nulla dopo uh esatto esame. 
Ma é chiaro che tali sedizioni non avverranno nella 
città del Sole. Il monachismo é stato ritrovato per l'au- 
mento della santità e della scienza , non per rendere 
pesante la sudditanza, come pretendono gli ipocriti. 

ARTICOLO SECONDO. 

Se sia più conforme alta natura 5 e più utile alla con- 
servazione e ali* aumento della repubblica e deipartico- 
lari^ la comunanza dei beni esterni come sostengono 
Socrate e Platone ^ oppure la divisione difesa da Ari- 
stotile, 

Prima obbiezione. Contro la comunanza dei beni Ari- 
stotile nel 2.^ libro della Politica argomenta in questo 
modo : o in questa 6omananza> dice, i campi sarebbero 



.« J 



$ULL*OTTlltA REPUBBLICA. 1^9 

propri e i frutti comuni o viceversa, o sì gli uni clie 
gli altri comuni. Nel primo caso chi avesse più suolo 
dovrebbe più lavorare per coltivarlo , e avere egual 
parte di frutti con quelli che non lavorano , e da qui 
nascerebbero discordie e mina. Nel secondo caso nes- 
suno sarebbe stimolalo al lavoro , e i campi sarebbero 
mal coltivati , poiché ognuno pensa più a sé che alle 
cose comuni, e dove v'è una moltitudine di servi il 
servizio è peggiore , mentre ognuno rimette suir altro 
il lavoro che dovrebbe fare. Nel terzo caso avverrebbe 
Io stesso e inoltre un nuovo male, poiché ognuno vor- 
rebbe avere la migliore e la più gran parte nei frutti , 
e la minore nelle fatiche, e quindi invece deli* amicizia, 
non vi sarebbe che discordia e frode. 

Seconda obbiezione. Contro la comunanza dei beni utili 
si obbietta essere necessarie più classi di persone pel 
buon governo della repubblica, come soldati, artefici e 
governatori, secondo Socrate: che se tutte le cose fos- 
sero comuni, ognuno rifiuterebbe le fatiche dell' agri- 
coltore, e vorrebbe esser soldato e in tempo di guerra 
vorrebbe essere agricoltore, e non combatterebbe senza 
stipendio ; o meglio ancora tutti vorrebbero essere ret- 
tori , giudici sacerdoti. Cosi onorando alcuni , si ag- 
graverebbero gli altri, aggravando i primi di minor la- 
voro, e quindi vi sarebbe ancora deir ingiustizia, come 
per lo innanzi; è dunque meglio dividere i beni. 

Terza obbiezione. La comunanza distrugge la libera- 
lità e la facoltà di esercitare r ospitalità, di soccorrere 
i poveri, poiché chi nulla possiede del suo non può 
fare alcuna di queste cose. 

Quarta obbiezione. È un' eresia il negare, la giustizia 
della divisione dei beni, come sostiene S. Agostino con- 
tro quelli che aveano in comune le donne e i beni e 
dicevano di vivere in tal modo alla maniera degli apo- 
stoli. E Soto nel iib. à.e Just, et Jure, dice che il con- 
cilio di Costanza condanna Giovanni Uss che nega po- 
tersi possedere qualche cosa in particolare; e Cristo 
disse '. reddite quce sunt CossarU CcesarL 



Ì6Ò QUESTIOM 

In contrario rispondiamo prima in generale colle j)a- 
role di S. Cleinente papa nell'epist. 4, e che sono ri- 
ferite da Graziano nel can. 2 , quest. I. — Carissirui , 
Taso di tutte Je cose che sono in questo mondo do- 
vea essere comune^ ma per iniquità, V uno disse essere 
sua questa cosa, l'altro quell'altra, ecc., e dice che 
gli apostoli hanno insegnato e vissuto in modo che tutto 
fosse in comune, anche le donne. E cosi insegnano tutti 
i Padri commentando il principio della Genesi, poiché 
Dio non distrihui nulla e lasciò tutto in comune agli 
uomini perchè crescessero, moltiplicassero e riempissero 
la terra. Cosi insegna Isidoro nel capo del ;«« naturale ; 
e che gli apostoli abbiano vissuto in tal modo e tutti 
i cristiani primitivi sì vede da S. Luca , S. Clemente , 
Tertulliano, Grisostomo , Agostino , Ambrogio , Filone , 
Origene ed altri; questa vita fu poi ristretta ai soli 
chierici che viveano in comune come testificano gli 
stessi e S. Girolamo, Prospero e Urbano papa e altri. Ma 
sotto il papa Simplicio, circa Tanno 470, fu fatta dal 
medesimo la divisione dei beni della Chiesa per modo 
che una parte toccasse al vescovo, T altra alla fabbrica, 
r altra al clero, ed una ai poveri. Poscia Gelasio papa 
poco dopo e S. Agostino non volevano ordinar chierici 
se non ponevano tutto in comune. Ma in seguito per 
non fare degli ipocriti che celavano il proprio , lo si 
permise, ma non volentieri. Perciò è un'eresia il con- 
dannare la vita comune, o il dirla contro natura. Anzi 
S. Agostino pensa che il togliere la proprietà è cagione 
di maggior splendore. Quindi si per-la presente che per 
la futura vita è migliore la comunanza dei beni. E 
S. Grisostomo insegna che questo genere di vita passò 
nei monaci ed egli la adotta, la insinua e la predica a 
tutti , e insegna neir omelia al popolo di Antiochia che 
nessuno è padrone de' suoi beni ma solamente è dispen- 
satore, come il vescovo di quelli deli i Chiesa, e quindi 
ogni laico il quale abusa de' suoi beni e non ne coma* 
nica agli altri , esser colpevole. S. Tommaso dice che 
siamo padroni della proprietà, non dell'uso , poi nel- 



SULL'omilA RBPUBBUOA. Ì6I 

r estremo bisogno tutte le cose sono comuni. Perciò^ se 
bene rifletti, una tale proprietà è piuttosto un peso per 
l'obbligazione di render conto della mala distribuzione, 
e ciò vien affermato da S. Basilio nel sermone ai ricebi, 
e da S. Ambrogio nel sermone 8i , e S. Crisostomo lo 
incalca in quasi tutte le sue omelie e particolarmente 
sopra S. Luca al cap. 6 ove si trovano queste parole: 
nemo dieat proprio a Dea pereipimw omnia : mendadi 
verba sunt meum et tuum. Lo stesso afferma Socrate 
nella Repubblica di Platone o del Timeo, lo stesso S. Ago- 
stino nel trattato 8.^ sopra Giovanni e il poeta Cri- 
stiano : 

Si duo de nostris toUas prommina réìfus , 
Praetta eessarent, pax siìie lite foret. 

S Ovidio nelle Metamorfosi I, pone tal vita nel secol 
d'oro. E Ambrogio sopra 11 salmo il8 alla lettera L, 
dice : Dominus noster terram hanc possessionevi omnium 
hominum voluit esse communem : sed avaritia possessionum 
jura distribuit : e nel libro de Virg, dice cbe la violenia, 
la strage e la guerra distribuirono le cose agli ebrei 
carnali, non però ai leviti, cbe figuravano il cristiane- 
simo e il clero. S. Clemente poi afferma che ciò fu per 
r iniquità dei gentili. E lo stesso S. Ambrogio nel lib. 1 
degli Uffizi, cap. 28, prova colla scrittura e coir auto- 
rità degli storici tutte le cose essere comuni , ma per 
usurpazione essere state divise, e lo stesso negli Hexam, 
Y, insegna coir esempio della repubblica civile delle api 
la vita in comune^ tanto dei beni che della generazione, 
e coir esempio delle grue sviluppa la vita comune in 
una repubblica militare. E Gesù Cristo coiresempio de- 
gli uccelli che non hanno nulla di proprio , che non 
seminano né mietono, uè dividono la pastura ; eppure, 
come dice il giurisperito : jus naturale est id quod natura 
omnia animaìia docuit. Per cui egli è certissimo essere 
per diritto naturale tutte le cose comuni. 
Scoto nel 4 delle sentenze i5« risponde che la co- 
Moro. li 



162 ~ QUESTIONI 

munauza è di diritto naturale nello stato di natura, 
ma Adamo avendo peccato fu derogato a tal diritto. Ma 
vana è questa risposta poiché, come dice S. Tommaso, 
il peccato non distrugge i beni di natura, ma solo 
quelli di grazia. Esso offese la natura e la ragione , 
ma non introdusse un nuovo diritto ; quindi se la co- 
munanza fu di diritto, la sola ingiustizia potè intro- 
durre la divisione. Perciò anche la glossa sul testo di 
S. Clemente dice che essa fu ìntroàotìdk: per iniquitatem, 
idest per jus gentium conlrarium juri naiurali. Ma come 
vi può essere diritto se è contrario alla natura, che è 
l'arte divina? Cosi il diritto sarebbe un peccato. Scoto 
risponde che ciò avviene per V iniquità , cioè pel pec- 
cato originale , ma questo commento è vano , poiché 
come spiegherà le parole di S. Ambrogio , che dice la 
divisione introdotta dall'avarizia e dalla violenza? Di 
più S. Clemente dice che gli Apostoli ci hanno ri- 
messi nello stato di jus naturale ; adunque questa che 
fu iniquità lo è pur ora. Gaetano insegna che fu una co- 
munanza naturale negativa, cioè che. la natura non in- 
segnò la divisione: ma non affermativaf come se avesse 
detto di vivere in comune e non altrimenti. E Scoto vi 
aderisce come al solito, ma aggiunge, come mai allora 
la divisione verrebbe dair iniquità e dall'avarizia, come 
insegnano i santi, se la comunanza nello stato di na- 
tura non fu che negativa? Quindi con più ragione S. Tom- 
maso insegna l'uso comune essere di diritto naturale; 
la distribuzione poi e l' acquisto della proprietà essere 
di diritto positivo. E questa divisione non può essere 
contraria alla natura, poiché questa proprietà è nel 
caso di necessità , e in tutto ciò che succede , il ne*- 
cessarlo divien comunità, come insegna parlando del- 
l' elemosine ; poiché tutto ciò che eccede i bisogni della 
persona e della natura, si deve donare, altrimenti non 
sarebbero condannati nel giorno del giudizio quelli che 
non sollevarono i bisognosi. E sebbene questa dottrina 
dì S. Tommaso sembri giustificare in qualche parte la 
divisione, non le accorda però che il diritto di distri- 



SULL'OTtlMA REPUBBLICA. 163 

buire e di sollevare^ e resta, giusta la dottrina di 
S. Crisostomo , Basilio , Ambrogio e Leone papa (ser, 
V, de CoUectis), che i ricebi sono dispensatori non pa- 
droni delle cose; che se poi sono padroni, non lo sono 
che di distribuire e di donare, come i vescovi della parte 
della Chiesa ; la parte poi di cui sono padroni si limita 
al puro vitto e vestito. E questa parte la hanno pure 
i monaci , come loro la attribuisce e prova Giovanni 
papa XXII nelle Extrav, Poiché di diritto e non ingiu- 
stamente mangia il monaco e r apostolo, quindi ha V uso 
di diritto, non di solo fatto, giacché questo ultimo di- 
ritto lo ha il ladro quando mangia le cose altrui. Scoto 
pensa 'che questo papa errasse, ed abbia deciso ciò per 
odio contro i Francescani, poiché Clemente Y e Nicola III, 
pontefici, accordano ai Francescani soltanto l'uso di 
fatto, non di diritto, come un invitato a cena mangia 
solo di fatto non di diritto. Ma Scoto s' inganna , e in- 
giustamente condanna un papa, poiché quei pontefici da 
lui citati non distruggono il diritto di giu$ naturale, 
ma solo il diritto positivo, quindi S. Tommaso pensa 
che nelle cose che si distruggono coir uso non si può 
distinguere Tuso dal dominio, come si vede nel trat- 
tato deir usufrutto delle cose che sì consumano coU'uso 
(lib. 2). Perciò questi pontefici non si contraddicono 
tra di loro, come insegna Giovanni XXII, ma é bensì 
eretico chi nega l'uso di diritto agli Apostoli e a Cri- 
sto ; poiché allora non avrebbero mangiato di diritto, ma 
ingiustamente come il ladro. Il ladro ha il diritto di fatto 
ma nella necessità ha anche il diritto naturale. Da tutto 
questo risulta la solidità della dottrina dei Santi, con- 
tro gli sciocchi che mettono la bocca in cielo. V invi- 
tato mangia di diritto, e il suo titolo é la donazione, 
non minore dei titolo di vendita. Ma, dirai: i ricchi 
sono dunque obbligati alla restituzione del superfluo, a 
a chi? ai poveri o alia repubblica? direi alla repubblica 
e ai poveri, ma perché non vi é luogo a disputa poiché 
questi non hanno acquistato un diritto positivo, dico a 
Dio, a cui dovranno render ragione nel giorno finale, 
come insegnano S. Basilio, Ambrogio e Leone. 



i64 QUB8TI0M1 

Adunque colla nostra repubblica vengono tranquilliz- 
zate le coscienze, tolta Tavarizia, radice di ogni male , 
e le frodi commesse nei contratti, e i furti e le rapine 
e la mollezza e l'oppressione dei poveri, e Tignoranza 
che invade anche gli ingegni meglio disposti, perchè ri- 
fuggono dalla fatica mentre pretendono filosofare, e le 
inutili cure , e le fatiche, e il danaro che mantiene i 
mercadanti , e la illiberalità, e la superbia^ e gli altri 
mali prodotti dalla divisione , e l'amor proprio, e le ini- 
micizie, e le invidie^ e le insidie, come si è mostrato. Di- 
stribuendosi gli onori secondo It^ attitudini naturali si 
tolgono i mali che nascono dalia successione, dall'ele- 
zione e dall'ambizione, come insegna S. Ambrogio par- 
lando della repubblica delle api , e così seguiamo la 
natura che è l'ottima maestra, come nelle api. E l'ele- 
zione di cui noi facciamo uso non è licenziosa, ma na- 
turale, eleggendo quelli che si distinguono per le virtù 
naturali e morali. 

Ora rispondendo in particolare alla prima obbiezione, 
diciamo che Aristotile commette errore spontaneamente 
e di mala fede, poiché anche per Platone e i fondi e i 
frutti e le fattcfcc sono comuni ; e nella nostra repubblica 
vengono distribuite dai magistrati dell' arti le fatiche 
secondo la capacità e la forza, ed eseguite dai capi delle 
arti con tutta la moltitudine , come si vede nel testo ; 
né da alcuno può usurparsi nulla , nutrendosi tutti a 
tavola comune e ricevendo le vesti dal magistrato del 
vestiario, secondo la qualità e le stagioni, e confòrmi 
alla salute ; e ciò pure si vede fare dai monaci e dagli 
apostoli. Quindi Aristotile ciarla inutilmente. Non hai 
che da esaminare nel testo il modo della distribuzione 
dei vestiti secondo le stagioni, le fatiche e le arti e la 
esecuzione , ecc. , né alcuno può far dififtcoltà , poiché 
tutte le cose sono fatte con ragione, anzi ognuno ama 
di fare ciò che è conforme alla sua disposizione na- 
turale, ciò che appunto praticasi nella nostra repub- 
blica, 

Alla seconda obbiezione si risponde , che ciascuno 



àULL*OTTIMA REPUBBLICA. idè 

vien applicato dai Migistrali fin (i.ill'infin^.ia, secondo 
le disposizioni naturali, alle varie arti, e chiunque per 
esperienza e per dottrina riesce ottimo , si prepone al- 
l'arte per cui è idoneo. Sommi magistrati poi non pos- 
sono divenire se non gli eccellenti , secondo V ordine 
notato nel testo. Quindi né il soldato vorrebbe divenir 
capitano , né l' agricoltore sacerdote , dandosi gli inca- 
richi secondo l'esperienza e la dottrina, non per favore 
e per parentele : ma adegu iti alle cognizioni. E ciascuno 
riceve Tufficio nel ramo in cui si distingue. Né i primi 
magistrati possono onorare gli uni e reprimere gli altri, 
non governando arbitrariamente , ma seguenio la na- 
tura, applicano ciascuno airufficio conveniente. E non 
possedendo nulla in proprio per cui possano violare il 
diritto altrui per ingraniire i figliuoli , conviene loro 
agir bene per essere onorati, e considerando tutti come 
fratelli e figli e parenti si mantiene un egual amore per 
tutti senza alcuna distinzione. Nessuno combatte per 
paga , ma per sé , pei figli e pei fratelli , né alcuno ha 
bisogno di stipendio , avendo ognuno da vivere bene , 
ma dell'onore che le azioni valorose ottengono dai fra- 
telli. I Romani fino alla guerra di Terracina combatte- 
rono senza stipendio e gareggiavano a morir per la pa- 
tria ; ma quando invase l'amore della proprietà, mancò 
a poco a poco la virtù. E Sallustio e S. Agostino inse- 
gnano che essi giunsero a tanto impero per l'amore 
defla comunità , e Catone in Sallustio dice : puhhlicoB 
opes et privata paupertas, foris justum imperium, intus 
indicendo animus Hher, neque formidini neque cupiditati 
ohnoxius, rem Romanam auxere. Nella nostra repubblica 
poi queste cose assai migliori si conservano per la co- 
munanza dei beni utili e onesti sotto la guida della 
natura. 

Alla terza obbiezione. Inconsiderajamenle parla Ari- 
stotile, e anche Scoto, per non dire* empiamente. Forse 
che i monaci e gli apostoli non sono liberali perchè 
non posseggono in proprio ? La liberalità non consiste 
nel dare quello che hai usurpato , ma nel porre lutto 



t6é OUBSTÌONI 

in comune , come afferma S. Tommaso. Nel testo poi 
vedrai come dalia repubblica si onorino gli ospiti, e 
come si sovvenga ai miseri per natura, poiché presso di 
noi non vi ha alcun misero per fortuna, essendo tutte 
le cose comuni, e tutti fratelli, e sono indicati i mutui 
uiTìci con cui si mostra la liberalità : e se ne insti dirò : 
che essi hanno mutata la liberalità, in beneflcenza che 
è alla prima superiore. 

Alla quarta obbiezione. Scoto argomenta con punica 
fede, come al solito, poiché lo stesso Agostino al cap. 4 
de hcBres ; e S. Tommaso 2, 2 quest. 66, art. 2, insegna 
essere eretici quelli che dicono non potersi salvare co- 
loro che possedono in proprio qualche cosa , e pari- 
mente quelli che sostengono doversi usare, il vago con- 
cubito delle donne, ma non perchè predicanola comu- 
nità , che anzi è maggior eresia il negar la comunità, 
che gli apostoli e i monaci osservano , di quel che la 
divisione. Concediamo poi che la Chiesa potè accordare 
la divisione piuttosto tollerantemente che positivamente 
e direttamente. Ma , come dice S. Agostino , che pur 
vuole avere piuttosto chierichi zoppi che morti , cioè 
piuttosto proprietari che ipocriti. E lo stesso Scoto poi 
sostiene che la divisione fu introdotta per la negligenza 
con cui son trattate le cose comuni, e la cupidigia del 
proprio interesse, quindi da cattiva radice, e perciò la 
divisione non può esser buona cosa, ma solo permessa, 
non voluta dalla natura. Ora come ardisce poi egli chia- 
mar eretici quelli che seguitano la natura, e lodare 
quelli che predicano con Aristotile la permissione in- 
trodotta dalla corruttela ? Diciamo che la Chiesa può 
accordare la divisione e permetterla, come tolleransi le 
meretrici per minor male, come i zoppi piuttosto che i 
morti , al dire di Agostino. Il modo poi con cui vien 
dalla Chiesa accordata la proprietà si è spiegato che 
non è se non una* procura, non Tuso del superfluo, e 
Alessandro , Alonzo e Tommaso Yalden e Ricardo e il 
Panormita, pensano essere eretico chi asserisce i chia- 
rici essere veri padroni dei beni della Chiesa ^ e non 



sull'ottima repubblica. 167 

accordano ai medesimi che Taso. S. Tommaso non dà. 
loro il dominio che della piccola porzione che consumano 
poiché non sono che usufruttuari dei fondi, né possono 
lasciargli ai figli o agli amici. Cosa poi sia dei laici si 
è detto superiormente. Gli ignoranti sono pronti a chia- 
mar eretico quello che non possono convincere colle 
ragioni. La parola di Cristo : Reddite quoB sunt Cwsaris 
Ccesari, non rende padrone il medesimo se non di di- 
spensare, di nulla, poiché nulla appartiene a Cesare. 
Che cosa ha egli che non abbia ricevuto? Tutte le cose 
adunque sono di Dio e a Cesare solo come ammini- 
nistratore. Vedi nella Monarchia del Messia , ove si è 
scritto di ciò. Lo stesso Cristo dice : reges gentium do- 
minantur eorum , vos autem non sic, sed qui maior est 
fiat minister: Perciò giustamente predica S. Tommaso 
la proprietà di amministrazione e procura la comunità 
dell'uso. E il papa è il servo dei servi di Dio, e l'im- 
peratore il servo della Chiesa. 

ARTICOLO TERZO. 

Se la comunanza delle donne sia più conforme alla 
natura e più utile alla generazione e quindi a tutta la 
repùbblica, oppure la proprietà deUe mogli e dei figli. 

Ad Aristotile sembra più conveniente la proprietà e 
nociva la comunanza a cui oppone : 

Prima obbiezione. Socrate pensa che V amore si ac- 
crescerebbe tra i cittadini da ciò che ognuno conside- 
rerebbe i vecchi come suoi genitori, e questi i giovani 
come figli, e gli eguali come fratelU, ma ciò distrugge- 
rebbe anzi ogni amore. Poiché o si prende quel tutti 
collettivamente ed è vero che tutti i vecchi sono pa- 
dri di tutti i giovani, ma allora l'amore di ciascun vec- 
chio in particolare sarebbe ben piccolo verso quelli , 
come una goccia di miele in molta acqua , e tosto si 
estinguerebbe, perché nessuno conoscerebbe i propri 
figli, né questi il loro padre. 




i#6 QUSSTIOMI 

In vero se si riunisce il diviso in modo che ciascuno 
si consideri padre di ciascuno , ciò accrescerebbe 1' a- 
more, ma è impossibile cbe alcuno abbia*^ più di una 
madre e un padre ; di più ognuno conoscerebbe i pro- 
pri figli dalla flsonomia e quindi avrebbe più affetto per 
questi. 

Seconda obbiezione. Nascerebbero discordie tra le 
donne e spesso tra i padri e i figli incerti. 

Terza obbiezione. Nel vago concubito non si conosce 
la prole ed è pur naturale all'uomo il voler conoscere 
la propria discendenza in cui si perpetua. 

Quarta obbiezione. Nascerebbero adulterìi, fornica* 
zione ed incesti, colle sorelle, le madri e le figlie, e le 
gelosie per le donne, e le contesse per quelle che vor- 
rebbero abbracciare. 

Quinta obbiezione. Scoto obbietta le parole : erunt 
duo in carne una ; adunque non si possono avere più 
mogli senza una dispensa divina. 

Sesta obbiezione. Fu l'eresia dei Nlcolaiti il mettere 
le mogli in comune. 

Rispondiamo prima in generale coll'autorità di S. Cle- 
mente nel citato canone : canjuges secundum Apostolo- 
rum docirinam comunes esse dehere. Ma siccome questo 
sarebbe contro Tonestà cristiana si deve ammettere la 
glossa a questo passo apposta : comunes quo ad obsc' 
quium non qtw ad Ihorum, E a dir vero , come testi- 
fica Tertulliano, cosi vissero i primi cristiani, che tutto 
aveano in comune tranne le donne pel talamo , poiché 
è palese che le donne servivano tutti. Ma i Nlcolaiti 
introdussero la comunità nel talamo , ed io pure con- 
danno questa eresia , ma sostengo la comunanza nelle 
funzioni, non però nel governo politico ; poiché la donna 
non può essere magistrato né insegnare agli uomini , 
ma solo tra le donne e nel ministero della generazione. 
Alle stesse poi son commesse le arti che si eseguiscono 
con poca fatica o anche la guerra nella difesa delle 
mura. E noi leggiamo che le donne spartane difesero la 
patria nell'assenza dei mariti, e le femmine tra gli ani- 



sull'ottuca ripubblica. 169 

mali si battono come i maschi, e le amazzoni un tempo 
neirAsia ed ora nell'Africa fanno la guerra. Ma Gaetano 
liei libro de Pulchro, dice che ciò non è conforme alla 
natura, e perciò esse doveano tagliare la destra mam- 
mella per poter maneggiare la lancia. Ma io dirò forse 
con maggior fondamento con Galeno , che lo facevano 
perchè la forza che serviva a nutrire la destra mam- 
mella passasse a rinforzare il braccio destro. Né la de- 
stra mammella impedisce punto di maneggiare la lan- 
cia, ma solo di appoggiarla al petto. Inoltre vi sono 
più maniere di combattere che convengono alle donne 
come si vede negli Africani. Aristotile poi non potè ri- 
fiatare questo argomento delle amazzoni. E noi pure 
non le mischiamo a tutte le faccende di guerra ma solo 
alla difesa delle mura, ai pronti soccorsi, e non voglia- 
mo di esse formare una repubblica di Amazzoni, e solo 
le rinforziamo perchè servano alla difesa e alla prole. 
Aristotile rigetta l'argomento delle femmine che com- 
battono tra le fiere, perchè queste non hanno cura delle 
cose famigliari come le nostre che sole vi sono desti- 
nate dalla natura, ma s'inganna, poiché le fiere hanno 
cura dei loro piccoli , e procurano ad essi cibo e di- 
fesa , e viceversa molti uomini si occupano delle cose 
famigliari, come particolarmente i monaci; adunque non 
è contro natura come egli insegna. 

Diremo di più che la comunanza delle donne pel 
concubito non è contro il naturale diritto particolar- 
mente come fu stabilita da noi, che anzi vi è gfHHde- 
mente conforme * quindi non è eresia l'insegnarla in tMio 
stato diretto dai puri lumi naturali^ ma bensì dopo 
conosciuto il jm divino ed ecclesiastico positivo : come 
non è eresia il mangiare carni tutti i giorni e l' inse- 
gnare nello stato naturale che ciò è utile, ma dopo la 
promulgazione della legge ecclesiastica«salla proibizione 
dei cibi in certi giorni per l'astinenza cristiana, è 
un' eresia il farne uso e Tinseghare ciò esser lecito. Si 
prova inoltre; ogni peccato contro natura o distrugge 
l'individuo, o la specie, o è diretto a questa distruzione, 
coma insegna S. Tommaso; quindi le uccisioni, il furto , 



170 QUBSTIONI 

la rapina, la fornicazione, l'adulterio, la sodomia, ecc., 
sono contro natura , perchè offendono il prossimo o 
impediscono la generazione o tendono a queste cose ; 
ma la società comune delle donne non distrugge né le 
persone , né impedisce la generazione , dunque non è 
contro Tordine, ma ai contrario giova grandemente al- 
l' individuo , alla generazione e alla repubblica , come 
appare dal testo. 

Si deve poi notare che vi ha tre specie di vago con- 
cubito; l'uno, per cui ciascuno può mischiarsi ad 
ognuno che desidera e come vuole, e questo é contro 
la natura razionale dell' uomo, quantunque sia proprio 
di alcune bestie , come dei cavalli , degli asini , delle 
capre , ecc., e quindi la natura provvide che queste 
bestie solo in certi tempi sentano gli stimoli alla ge- 
nerazione ; gli uomini poi , essendo sempre ed essa 
disposti, se potessero mischiarsi con ciascuna, si inde- 
bolirebbero di continuo, e tutti andrebbero sempre dalle 
più belle , e queste per la confusione dei semi e per 
razione contraria, non concepirebbero, come avviene 
alle meretrici. Le donne brutte; poi eccitate da gelosia e 
da dolore, macchinerebbero ogni male contro le belle. 
Perciò questo vago concubito é un'eresia e un' empietà 
contro natura, e fu appunto quella dei Gnostici e dei 
Nicolaiti, e di alcuni moderni eretici e alcuni religiosi 
della setta di Maometto nell'Africa, che tengon lecito 
l'unirsi a ciascuna, e anche in pubiico» 

L'altro geaere di concubito vago, é quello dopo le 
nozze legali, ragunandosi in certi tempi, e a cui nelle 
tenebre é lecito unirsi a quello che la sorte gli offre: 
come si é scoperto di recente nella Gallia e in Germa- 
nia in certe contrade : onde avvenne che cert' uni , ri- 
cevuto il segno, riconobbero di essersi uniti alle madri, 
e questo modo è«pure un'eresia contro natura, e certo 
contro tal legge divina positiva, poiché non ha per iscopo 
la generazione, ma la sola libidine : e l'unione vaga dell^ 
bestie é ancora migliore , poiché esse generano , nd ^. 
contro natura poiché vien prodotta la prole, ma in qae- 
ate unioni di eretici è solo per accidente se viene la 



sull'ottima rspubblica. 171 

generazione, non avendo per iscopo cbe la lassuria, 
poiché per la generazione bastano bene i mariti a casa. 
Il terzo modo di concubito finalmente è quello da noi 
descritto in una società quasi di natura, nella quale 
cioè non generino se non i più robusti e i migliori, e 
seguendo la direzione dei medici e dei magistrati, nei 
tempi atti alla generazione , secondo l'astrologia , con 
timore e ossequio alla divinità^ e solo dopo |li anni 35 
sino ai 53; alle donne pure abbiamo prescritto un tempo, 
quello cioè in cui sono a ciò atte, e abbiamo distrutte le 
unioni inconvenienti, quelle cioè che si fanno per solo ri- 
guardo delle ricchezze, per cui o la repubblica non ha prole 
dalle medesime, o ne ha una vile, deforme e imbecille , 
come si vede dairesperienza, e fu notato da Pitagora som- 
mo filosofo. Abbiamo impedita egualmente la debolezza 
prodotta dal troppo coito o le malattie da sterilità ; poiché 
se runa non concepisce con questo, può concepire con 
quello, e la natura ci insegna appunto in questo caso a 
mutare. Ciò poi che le nostre leggi hanno stabilito : che 
ciascuno non usi che colla propria moglie ancorché ste- 
rile, non può essere facilmente coi soli lumi naturali 
approvato dal filosofo ; perciò io non sostengo se non 
che gli istitutori di una repubblica colla comunanza delle 
donne non peccano nello stato dei puri lumi naturaK, 
avanti che la rivelazione insegni non doversi cosi pra- 
ticare. Onde Durando ed altri sostengono che nemmeno 
la fornicazione non è contro la legge naturale, e molti 
teologi confessano non essere essa proibita che per 
legge positiva; e la ragione di S. Tommaso che essa è 
contraria alla generazione e all'educazione, non vale 
quando si sappia che la donna è sterile. E tuttavia io 
sono d'accordo in ciò con S. Tommaso che con lunghe 
deduzioni si può ciò provare colla pura ragione , ma 
non però conoscere da tutti. Cosi Socrate non peccò 
bevendo il veleno, costretto dalla legge , quantunque i 
teologi provino essere peccato, polche nessuno può es- 
sere obbligato dalla legge ad agire contro sé stesso. Ma 
queste sottili deduzioni nate dalla luce evangelica non 
potevano essere conosciute dagli antichi filosofi che 



172 QUBSTIOlfl 

anzi provarono essere lecito Taccidersi da sè« ed es- 
sere noi padroni della propria vita , come stimarono 
Catone^ Seneca e Gleomene. In consegaenza io sostengo 
che la comunità delle donne nel modo da noi posta 
non è contro il diritto naturale, o se lo è non può esser 
conosciuto dal filosofo coi soli lumi naturali, poiché 
ciò non si deduce direttamente dal diritto naturale , 
come conAusione immediata, ma solo come lontana 
deduzione, e piuttosto fondata sul diritto positivo, che 
può variare. Le ragioni poi di Aristotele non nascono 
dalla natura della cosa, ma da sola invidia contro Pla- 
. tene ; ed egli stesso ricorda molte nazioni che vissero 
in questo modo. Viene pure a nostro sostegno S. Tom- 
maso che nella 2, 2 quest. 154, art. 9 confessa che nes- 
suna congiunzione è contro natura, tranne quella del 
figlio colla madre, e del padre colla figlia; poiché gli 
stessi cavalli, secondo Aristotile, hanno ciò in orrore. 
Ed io stesso vidi a Montedoro un cavallo che non vo- 
leva unirsi colla madre. E non perchè non ne venga 
la generazione, ma per reverenza naturale. E tuttavia, 
secondo la testimonianza di Tolomeo, fu comune usanza 
tra i Persiani l'unirsi alle madri. E tra gli animali , i 
gallinacei e molti altri praticano lo stesso. Io tuttavia 
nella repubblica ho schivato che le madri si unissero 
ai figli , i padri alle figlie , quantunque quest'ultimo 
caso sia meno contro natura. Gaetano pure prova, ap- 
poggiato allo spirito di S. Tommaso e alia ragione na- 
turale, che l'unione colla sorella o cogli affini e con- 
sanguinei, non ò'icontro il diritto naturale, ma solo con- 
tro il legale ; ed essere un precetto giudiziale, non mo- 
rale, la proibizione degli altri gradi ; poiché i figli di 
Adamo si unirono colle sorelle, e Abramo e Giacobbe 
patriarchi, al primo dei quali Sara era sorella. E S. Tom-, 
maso adduce due ragioiii di queste proibizioni, cioè pel 
rispetto ai parenti , perchè potessero vivere insieme 
senza scrupolo, e perché si moltiplicassero le amicizie 
per mezzo dei. matrimoni , e la libidine non riescisse 
più dolce col proprio sangue. Ragioni che secondo Gae- 
tano decisero pure la legge cristiana. Ma nella repub- 



1 



sull'ottima rxpubbliga. 173 

blica solare non avrebbero luogo, poiché le donne abi- 
tano separatamente e non avviene Tnnlone se non se- 
condo la legge, 1 tempi e i luoghi prefissi. Ciò poi che 
si accorda nella repubblica solare, per fuggire la sodo- 
mia e un mal maggiore, si accorda pure nella religione 
cristiana; poiché il marito può usare senza peccato 
della moglie ancorché gravida , per estinguere la libi- 
dine, e non per la generazione. Io poi provvidi affin- 
ché questo seme non vada perduto^ e diedi tutti i miei 
precetti per la conservazione della repubblica; gli altri 
poi non sono riprovati dagli stessi filosofi secondo il 
diritto naturale^ e Aristotile in grazia della salute rac- 
comanda il coito ai non generanti, come pure Ippocrate 
ed altri per ischivare mali maggiori. 

Ora in particolare rispondo alla printa obbiezione. 
Che quel tutti si può prendere nei due sensi: poi- 
ché tutti fino ad una certa età, determinata nel testo, 
sono padri di tutti collettivamente e separatamente: 
il primo é vero, secondo Tatto naturale, Taitro poi se- 
condo la carità naturale. Né da ciò vien diminuita 
la carità, ma solo la cupidità e l'avarizia; poiché 
l'uomo, regnando la divisione, é disposto ad amare i 
propri figli più che non conviene, e a disprezzare gli 
altrui oltre misura. L'u«mo saggio poi ama più i mi- 
gliori ancorché d'altri, ed ha maggior cura dei cattivi 
per migliorarli : poiché riesce spiacevole il vedere tante 
deformità nel genere umano, e quindi abbiamo orrore 
dei zoppi, dei ciechi , dei miserabili perché ~ sono del 
nostro genere e rappresentano a ciascuno la propria 
infelicità. Per la comunanza poi dei figli , dei fratelli , 
dei padri , delle madri, si provvede in modo da dimi- 
nuire il troppo amor proprio che é la cupidità, e da 
aumentare l'amor comune cioè la carità. Quindi S. Ago- 
stino disse amputano proprietaiis est augmenttim cari- 
tatis e si deve piuttosto credere a S. Agostino che ad 
Aristotele, e col primo sta pure S. Paolo che dice : ca* 
ritas non querit quce sua sunt , cioè antepone le cose 
comuni alle proprie, non le proprie alle comuni. Nel- 
l'unione dei monaci si vede lo stesso, poiché il mobaco 



174 QUESTIONI 

non possedendo nulla in proprio, ama la comunità 
come il piede tatto il corpo; se poi possiede in pro- 
prio è come un membro reciso , o un piede tagliato ^ 
non avendo cura che di ciò che è suo. Lo stesso av- 
venne nella repubblica romana; quando i cittadini erano 
poveri e la repubblica ricca, tutti volevano morire per 
la patria ; quando poi i cittadini furono ricchi, ciascuno 
avrebbe ammazzato la patria pel proprio vantaggio. 
L'Apostolo adduce l'esempio delle membra e del corpo, 
e lo stesso insegnano Ambrogio e Crisostomo. L'amore 
dunque nella comunità non sarebbe come una goccia 
di miele in molt'acqua, ma come un piccol fuoco in 
molta stoppa. Poiché l'amore è una delle primalità , e 
di sua natura diffusivo , come il fuoco , ed esso è fe- 
lice nella società di molti per la fama^ la diffusione 
del nome, la memoria e gli ajuti più numerosi che vi 
riceve. — Separatamente, quantunque ciascuno non sia 
figlio che di un solo, può esser amato da tutti quando 
formano un solo nella carità. Onde lo zio ama i ni- 
poti quantunque da lui non generati^ perchè si considera 
di una stessa famiglia. E il papa e i cardinali chi non 
vede quanto amino i nipoti, e i consanguinei, che pure 
non hanno generati? E noi amiamo gli amici e i figli 
degli amici, e i vecchi nei monasteri amano i novizi ^ 
soprattutto i virtuosi; taccia adunque il nemico della 
carità. — La fisionomia inganna poiché i figli non ras- 
somigliano sempre al padre, ma sovente agli estranei; 
e di poco ostacolo sarebbe quella piccola propensione 
nella nostra repubblica ove tutto è ordinato secondo 
la legge di natura e del merito. Giacobbe pure amò 
più Giuseppe, ed altri altri; ciò non pregiudicherebbe 
alia comunità né alla carità; i figli qui non congiure- 
ranno tra di loro, vivendo tutti sotto la stessa disci- 
plina ; le sante donne dei patriarchi , come Rachele e 
Lia, tenevano come loro propri anche i figli delle an- 
celle, ma Aristotile non conobbe una tal carità. 

Alla seconda obbiezione. Si nega la conseguenza 
quando il tutto è governato secondo le regole e la 
sciena dei medici, delle matrone e dell'astrologia. Dalla 



n 



sull'ottima rbpubbliga. 175 

posizione del cielo nascono e si conoscono le inclina- 
zioni morali , secondo S. Tommaso (PolU. 5, lect. 13). 
E i nostri Solari crederebbero illecito l'unirsi per puro 
piacere e per sanità, nei quai casi si è provveduto al- 
trimenti; quanto alle risse vedi il testo. 

Alla terza obbiezione. Essendo tutti membri di uno 
stesso corpo ^ considerano tutti i giovani minori per 
figli, e sanno di perpetuarsi meglio in quella comunità , 
che nei figli proprj. Inoltre, come tutti insegnano, la 
vita della fama procurataci dalle opere buone è da pre- 
ferirsi a quella che abbiamo nei figli. Cosi i filosofi si 
procurano figli col seme della loro dottrina, non col 
seme carnale. Né i pidocchi quantunque nascano da 
noi son nostri figli. Né i veri figli di Abramo.ora sono 
i giudei, ma i cristiani. L'eternità poi la cerchiamo in 
DiOj e per la repubblica una vita beata, come insegna 
Ambrogio. Né gli animali conoscono i loro figli una 
volta cresciuti ; né questo viene direttamente^ ma solo 
indirettamente da natura. 

Alla quarta obbiezione. Diciamo con Gaetano e S. Tom- 
maso, non essere incesto contro natura che quello com- 
messo colla madre, e noi lo schiviamo nella repubblica ; 
colle sorelle poi e con altre non é che legale, e dove 
non siavi questa legge non vi ha incesto , né alcun 
adulterio. Poiché l'adulterio é o naturale o legale : il 
naturale avviene tra animali di diversa specie , come 
insegna Sant' Ambrogio nel 5 Hex, cap. 3 , come tra 
l'asino e la cavalla : il legale è poi quando alcuno pra- 
tica la donna altrui, proibito dalla legge : ma nella no- 
stra repubblica non esiste questa legge; ma vi sono 
generatori pubblici più utili a questa funzione : non vi 
ha dunque adulterio, come non vi ha prole adulterina^ 
né unione illegale. Cosi tra i monaci non é un furto 
ove tutte le cose sono comuni , se alcuno mangia del 
pane. Poiché l'adulterio non consiste nella libidine, al- 
trimenti il marito che usa della moglie per piacere sa- 
rebbe adultero^ ma da ciò che si usa di donna non 
sua ; ma la legge ora la fa sua , e non farebbe torto 
alla repubblica se non usandone contro la regola ; come 



176 QUBSTIONI 

il monaco ruba dei beni del monastero^ quando usurpa 
le cose comuni senza permesso. Ma, si dirà, S. Tom- 
maso insegna pure cbe tutti i precetti del Decalogo 
sono precetti naturali. Si risponde, posta la divisione: 
poicbè il furto non esiste se non stabilita la divisione 
dei beni. Altri dottori poi sostengono non tutti quei 
precetti essere di diritto naturale. Nella nostra repub- 
blica poi non Ti ba divisione di proprietà , ma solo 
d'uso, e a tempo per mantener l'ingegno e la forza dei 
cittadini. Non si conosce poi cbe la fornicazione sia 
peccato dalla sola natura delle cose, né nella repub- 
blica del Sole vi ba fornicazione, essendovi comunanza. 
Le altre turpitudini , la gelosia e le contese , qui non 
possono aver luogo ove si regolano le cose secondo 
una legge e lina disciplina a tutti gradevole: né ciò 
cbe é proprio delle bestie e di certi eretici qui non 
avviene; vedi il testo. 

Alla quinta obbiezione. Se fosse di diritto naturale 
l'avere una sol donna. Dio stesso non potrebbe dispen- 
sarci, secondo S. Tommaso. Ma Giacobbe prese due so- 
relle, e Davide cinque mogli, e Salomone 700, e quasi 
tutti i patriarchi ebbero più mogli, né si vede in ciò 
alcuna dispensa, quantunque comunemente si creda; 
egli é chiaro cbe la pluralità delle donne non é con- 
tro natura. E tutti gli animali, tranne forse la tortora 
e il colombo, cbe si unisce alla sola sorella , si con- 
giungono con più femmine. E in questa repubblica, cbe 
si governa colle leggi naturali, non colle rivelate , ciò 
non poteva essere conosciuto. Anzi la natura insegna 
a chi non genera con una, di unirsi ad un'altra : e ciò 
anche Sara chiese ad Abramo, come cosa naturale, se 
non vi sia rivelazione contraria, e Lia e Rachele die- 
dero al marito le proprie ancelle. E come questi Solari 
potrebbero sapere essere ciò contro natura quando né 
gli uomini né gli animali possono ciò discoprire ? Inol- 
tre i nostri cittadini non ne hanno né una né molte, 
ma nel tempo prescritto alla generazione ciascuno si 
avvicina a quella che la legge gli destina pel bene della 
repubblica, né generano per loro ma per la repubblica^ 



SUU[.'aiTI]|A RBPDBBUGA. il'ì 

ami Remmen noi poiché il padre tra di noi non ha 
tanto potere sul figlio quanto ia repubblica ; poiché ia 
parte è pei tutto e non il tutto per la parte. Se dun- 
que il tutto ha cura della totalità nella repubblica so- 
lare , né la rimette ai privati , esso opera convenien- 
temente. Il marito unendosi per libidine alla moglie, 
quando gli pare, produce una prole imbecille e dege- 
nere. Noi abbiamo cura di avere un'ottima generazione 
nei nostri cavalli^ non per la nostra specie. Anche per 
Aristotile é un miscuglio contro natura se chi é d'animo 
servile cerca di congiungersi a donjie generose e come 
gli pare ad esse si unisce. £ S. Crisostomo, nel libro 
del sacerdozio, figuratamente riprova il vescovo igno- 
rante che si unisce alla Chiesa generosa. — Il Signore 
disse : erunt duo in carne. una; ciò é vero, e cosi avviene 
pure nella nostra repubbUca, poiché Iddio non insegno 
con ciò che nessuno non debba unirsi se non ad una; 
altrimenti né Giacobbe avrebbe preso simultaneamente 
due mogli, né morta una sarebbe iecito prenderne un'al- 
tra. Dei due si la dunque una carne^ perché dal miscu- 
glio dei due semi ne nasca una prole : e Sant' Ambro- 
gio dice con S. Paolo: non avrei conosciuto questo pec- 
cato se la legge non lo ordinasse. 

Alla sesta obbiezione. L'eresia dei Nicolaiti stava in 
ciò che ammettevano esser lecito ad ognuno di unirsi 
come gli piacesse ad ognuna, e questo ò contrario ai 
diritto naturale e impedisce la generazione, come si è 
già detto ; ma nella repubblica solare l'unione avviene 
sotto le regole della filosofia e dell'astrologia, e sì or- 
dinatamente che la generazione riesca migliore e più 
aumierosa ; essa é dunque coofarme alla natura, e quindi 
non é eresia se non dopo condannata dalla Chiesa. Or- 
tensio ossia Catone, uomo sapientissimo e dottissimo, 
concedette in prestito ia propria moglie a Bruto per 
avere prole da lei, come se quei rigido stoico volesse 
con ciò insegnare che ciò si faceva secondo l'ordine 
naturale. Come dunque gli abitanti solari guidati dai 
puri lumi naturali possono sapere che, tranne la no- 

Moro, , *2 



176 QimSTIOm SÙLL^ÒTTIllA aSMJBBLKiA. 

stra forma di matrimoaio, tatto le altre siano peccato^ 
mentre gli stessi Ebrei e i Romani ammisero il divor- 
zio, e 1 filosofi accordarono la permuta; e Socrate e 
Platone ciò insegnarono? Aristotile non rimprovera 
loro di mancare al diritto naturale, ma perchè non gli 
pare ciò utile; anzi narra cbe alcune nazioni vissero 
in tal modo. Io poi concedo questa essere ora un'ere- 
sia nella Chiesa cristiana, ma che colla sola guida della 
natura non si può conoscere che sia male quando non 
si faccia in modo bestiale o a quello dei Nicolaiti. S. Tom- 
maso afferma essere il matrimonio contro natura quando 
non favorisca la prole e la società, ma nella nostra repub- 
blica Tunione è anzi sommamente favorevole a tutti due. 

Gli argomenti addotti da Aristotile contro la comu- 
nanza : che essa è superflua , come se alcuno volesse 
far versi di un sol piede, e tirar l'armonia da una sol 
corda; sono puerili e contrari alla carità e alla repub- 
blica dei monaci e degli apostoli , che allora conver- 
rebbe condannare, perchè avevano un sol cuore e una 
sol anima e non dicevano alcuna cosa esser propria 
ma tutte le cose aveano tra loro comuni. 

Poiché questa unità non distrugge la pluralità^ ma la 
fortifica per l'unione, non già di un sol uomo , ma di 
tutti gli stati e condizioni; ciò che non ottiene Aristo^ 
tile nella sua repubblica , e non già da una sol corda 
ma da più tiriamo l'armonia. Aristotile non stabilisce 
che la discordia, componendo la sua repubblica di due 
contrari; noi da più abbiamo l'unione e come un carme» 
poiché tutte le cose concordano insieme: Aristotile non 
compone il suo carme che di due piedi contrari, e 
discordi, OAme si è mostrato nell'esame della sua re* 
pubblica 4L. nostra fioi è del tutto apostolica, se sta- 
bilisce la -comunanza non pel piacere , ma per Tosse* 
quio come si vede nel nostro dialogo. 



f^-. VINB DBLLB QUB8TI0NI SULLA CtTf A* DBL S0LA« 



: I 







STORiÀ 



DBL 



REAME DEGLI ORSI 



SCRITTA 



ùk GASPARO GOZZI 






STORIA 

DEL REAME DEGLI ORSI 



Non v'ha cosa più vera della storia , più necessaria, 
più utile. Vera, perchè per lo più chi la scrive, nasce 
cinque o seicent' anni dappoi che i fatti che si vogliono 
trattare sono accaduti, o s'è creduto che siano acca- 
duti; laonde è assai facil cosa rivangare monumenti 
da un capo all' altro del mondo , spogliare archivi che 
più non esistono , e saper le cose de' morti con chia- 
rezza e precisione, quando non sarebbe possibile sapere 
quelle de' vivi. Poiché a dire la verità altro è il Afondo 
volgare, altro è il Politico, altro è il Morale, Spieghia- 
moci a vantaggio degl' ignoranti ed a confusione dei 
dotti; che non sarebbe gran male se molti rimanessero 
confusi, che non s* udirebbero qua e là tante castrone- 
rie che fanno che n'abbia vergogna grande la stessa 
ragione. Se nasce dunque qualche gran novità sopra la 
nostra terra , come di un principe morto prigione , di 
un generale vittori oso in battaglia , di un trattato di 
commercio stabilito fra varie nazioni ; ecco che odonsì 
per le con versazioni , per le botteghe di caffè , per le 
piazze migliaia di politici, che sanno tutto , intendono 
il perchè di tutto, e vi aggiungono del loro il miracolo, 
le camiouatQs il calcdO:, la profezia, secondo la diff^ 



182 8T0RU 

renza de' casi. Chi poi ha riceruto lettere da' suoi amici, 
chi ha parlato con la staffetta, e chi una cosa e chi 
l'altra; tanto che tutti sono più che arcicertissimi di quanto 
fanno grazia di dire. Si raccolgano poi quelle infinite opi- 
nioni^ e saranno appunto infinite quando il fatto è uno solo; 
ed oh mirabile fondamento per trarre da tutto ciò una 
vierità che sia storica 1 Questo ardisco chiamare Mondo 
volgare. Passiamo al PolUico, Quale mezzo può far isco- 
prire ad occhio mortale le ragioni economiche, per le 
quali si muovono le corti , i gabinetti , 1 grandi delia 
terra a stabilire piuttosto un patto di guerra che di 
pace, piuttosto un negoziato che un altro ? In olire, chi 
oserà penetrare nel cuore di coloro eh* entrano nel ma- 
neggio degl'interessi dei re e degl'imperatori con fini 
propri e particolari? Di maniera che spesso a tutt'al- 
tro fine riesce un affare ed altre conseguenze ha da 
quelle in fuori che un parlamento od un principe si 
sono immaginati di ottenere? Di più: che sappiamo 
noi quanta influenza possano avere l'orgoglio, l'invidia, 
la malignità e le altre infinite passioni del cuore umano 
sugli affari di grande importanza? Questi son tutti fili, 
dirò cosi, occulti all'occhio dello storico; e ve ne sono 
degli altri ancora. E qua passiamo alla Morale , per la 
quale molte cose dirette al bene hanno un esito sfor- 
tunato senza saperne il perchè. Le imprese e le azioni 
rilevanti non possono essere eseguite da un solo, men- 
tre occorrono la buona fede, il capo e le mani di molti 
uomini. Chi può assicurare lo scrittore di storia che 
tutti abbiano fatto il loro dovere con rettitudine , con 
onestà , con buona intenzione , senza che niano abbia 
da rimproverarsi in coscienza d' un qualche erroruzzo ? 
Il desiderio del guadagno è grande sul globo terracqueo, 
e l'oro è una gran tentazione per gì' infelici mortali che 
hanno tanti onorati e disonorati desideri sotto al peri- 
cardio. E quando s' ha a dire la verità, chi può giurare 
che le belle e graziose donne non abbiano in ogni tempo 
contribuito nelle ore notturne a fare che il giorno man- 
chino gli uomini al proprio dovere? Se io amasai dav- 



DEL REAME DEGLI ORSI. fg3 

vero un' amabile tiranna non so quello che mi farei per 
vederla contenta. S'arroge che lo storico scrive tal- 
volta alla cieca j e dirà che Dario ebbe la peggio con 
Alessandro, perchè 1 soldati di Alessandro erano vete* 
rani e bravi^ quando sarà accaduto che Dario perdette 
a cagione de* suoi generali che Taveano provveduto di 
seicento soldati in ìscambio di seicento mila , il rima- 
nente di quel denaro che doveva servire per una ben 
corredata truppa avendo essi voluto giuocarsdlo ^' dadi. 
Vedete da che può dipendere l'esito d'una cosai e come 
può indovinarla uno storico ? V ha di più , eh' io ho 
scoperto che tutti gli storici miei colleghi, da' quali ho 
tratto molti lumi per questa maravigliosa storia, hanno 
usato l'utile artifizio di tacere quelle verità che po- 
teano essere di qualche pericolo per essi ; ed anche ho 
rilevato in moltissimi, che senz' accorgersene divengono 
partigiani piuttosto di un'opinione che dell'altra, e 
sono mossi dall' amore di patria a sostenere con stra- 
vaganti ragioni l'onore e la fama del loro pa»)se in 
quelle cose che non è possibile il farlo. Ecco con quanta 
chiarezza e certezza si possono asserire gli storici fatti ; 
ed ecco come la storia diviene la madre della vita, lo 
specchio della verità e la guida della ragione! 

Non è stato mio capriccio il voler fare un'immensa 
fatica di schiena, e studiare tutte le lingue tanto antiche 
che moderne, e fino la cofta in cui si scrive a forza di 
code di lodola, e ci vuole grande studio a rilevare la 
differenza della coda A, dalla coda B, G, ecc., ed in ol- 
tre il leggere tanti manoscritti e quaderni che forme- 
rebbono dbdici buone librerie di Tolomeo ; e copiare 
tanti passi, motti e sentenze quante metafore hanno i 
popoli dell' Oriente , quanti proverbi hanno gli Spa- 
gnuoli, e quanti galimatias hanno quelli della Gallia 
comataf Taccio i sudori di morte che ho sparsi per 
istabilire l'epoche e i punti di cronologia per non ca- 
dere in anacronismi. Ho avuto tanto diletto in queste 
perquisizioni che ho arrischiato di morir etico dieci 
Tolte; ma or» sono dlTeotato il piacere delle conver- 



184 STORIA 

sazioni, divertendo tutti le due o tre ore, parlando di 
calcolo astronomico, di rivoluzioni di popoli, di sbagli 
presi da Tze Tze arabo, e da Isacco Newton. E tatto 
ciò non fec* io per capriccio , ma per V amore grande 
che nutro al genere umano. Era necessaria una com- 
piuta Storia del reame deali Orsi , popoli che domina- 
rono un tempo quasi tutta la terra, e da' quali sono 
uscite tante e si varie nazioni. Molti autori ne hanno 
parlato , ma ninno ha saputo stabilirne V origine, svi- 
lupparne i progressi , e scoprire le ragioni della loro 
ampliazione e decadenza. Io solo ho avuto l'ardire di 
lacerare le nubi dell' antichità , e di scorgere un bar* 
lume di verità nell'oscura fuliggine de' consumati se- 
coli, per poi ridurre tutte le mie nobili e singolari no- 
tìzie a' sistema, e formare piuttosto un trattato politico- 
morale-filosofico che una storia ; nel quale si scoprirà 
per mezzo delle azioni orsacchine quanto sia utile la sem- 
plicità de' costumi, e quella delle leggi che sieno tratte dal 
fondo della natura, della giustizia e della ragione ; si potrà 
quindi comprendere quanto sieno dannosi il lusso e la più 
picciola alterazione de'costumi aborigeni, ed in oltre quan- 
to possa essere di vantaggio o di danno un genio grande 
che nasca in un regno di quando in quando , il quale 
abbia nell'animo o buone o triste inclinazioni. Note- 
ransi ancora le cerimonie del loro culto e le foggie dei 
loro vestiti e adornamenti, poiché dalle più leggere no- 
tìzie si conosce il carattere delle più famose nazioni, 
come da' convulsionari e dal taglio lungo della giubba 
gì' Inglesi , dalla derisione e da' hijotix i Francesi , e 
dall' imitazione or d' una cosa or deli' altra h nostri Ita- 
liani. Si rifletterà in oltre al genere di studj ch'era alla 
moda piuttosto in uno che nell' altro secolo, e ciò pure 
spargerà lume splendidissimo nell'istoria nostra. Ve- 
drassì, come dimostreremo ad evidenza con un diluvio 
di riflessioni politiche e metafisiche, che nel tempo che 
correva il gusto della grammatica tutta la nazione era 
zotica , rozza e villana ; nel tempo della rettorica era 
leggera e puerile ; in quello della teologia era sangui- 



BEL BEAlfS DEGLI OBSI. 181 

narìa e crudele , come pure per un' altra ragione era 
fiera e barbara in quello della giurisprudenza e del 
gius feudale. Saranno inoltre posti in mostra i vantaggi 
grandi della filosofia finché ebbe la bontà di stare at- 
taccata al buon senso, alla semplicità ed alla rettitudine, 
ma poi scoprirannosi i danni grandissimi ed irrepara» 
bill dello spirito srccademico, della rilassatezza delle 
opinioni , e di quello che dicevano i Greci fare d'ogni 
erba fascio. A dire la verità se non m' avessero pregato 
gli amici, supplicato principi e gran soggetti , ed esor- 
tato tutte le accademie di Londra, di Parigi, di Porto- 
gallo e di Spagna (nelle quali quella di Arcadia non 
c'entra), io non avrei dato alle stampe questa grand'o- 
pera; polche per quanto io vaglia a conoscermi, io sono 
il più vergognoso , prudente e modesto di quanti au- 
tori m'abbia mai conosciuto e sia per conóscere. 

Sono discordi d'opinione gli autori di tutte le effe- 
meridi, se fosse in una valle della Scandinavia, o sulla 
vetta d'un monte, che viene dal latino Vertes e dal 
greco cp^pioc, nella Groelandia, oppure se sur un lar- 
ghissimo scoglio nel mare Magellanico ; sono Incerti , 
dico, gli uomini dotti in quale di questi tre siti na- 
scesse e dimorasse la stirpe , il reame ed il governo 
degli Orsi, io però, sapendo che ogni nazione vuol as- 
solutamente aver il piacere d i fondare su principi certi 
la sua origine , non ho voluto defraudare il pubblico 
di questa importante notizia ; e per quanto ho potuto 
rilevare da un vecchio e affumicato volume, che sta 
tra i membranacei della biblioteca del principe Tempo, 
discendente da madama Oscurità e da quel notissimo 
filosofo Obblio, sono di parere che sieno scaturiti dalla 
terra quello stesso giorno che incominciò il zodiaco 
ad essere calpestato da' pianeti, e l'acqua del mare agi» 
tata dal nuoto delle balene e de' capi d'oglio. Questi , 
appena usciti alla luce del giorno dalla parte d'Oriente 
(poiché la prima cosa a cui badarono fu il Sole) si 
trovarono robusti, con orribàli denti ed ugne che met- 
tevau terrore» e con una fame divoratrloe, per la quale 



186 STORIA 

non si facevano carico di coscienza di mangiarsi l'un 
l'altro. E la faccenda sarebbe ita tant'oltre che sareb- 
bonsi distratti affatto da li a quindici giorni se non 
fossero venuti a parlamento tra di loro per vedere di 
riparare a tanto grave disordine. Ragunati dunque in 
una larga campagna, dispiacevole a vedersi per bron« 
cbi e spini e ortiche che vi germogliavano , ivi fu la 
prima volta che s'intese fra essi il nome dì Società, la 
quale , benché alcuni filosofi credano non convenirsi 
agli Orsi, pure in essi era cosa naturalissima , mentre 
erano forzati o a morire o a porre in qualche sistema 
gli affari loro se non voleano perire miseramente. Uno di 
loro , il più debole di fibra , ma quello che avea pen- 
sato più d'ogni altro sulle loro circostanze , poich' era 
il più esposto degli altri al pericolo della vita, cosi 
allora parlò. (E qua noti il benigno lettore che tutti i 
ragionamenti che troveranno sparsi qua e là sono quelli 
stessi che facevano i mìei eroi , e eh' io non vi ag- 
giungo del mio una sillaba, come hanno usato di fare 
Tito Livio , Tacito , Rollino , e gli altri ch*io non ho 
mai saputo chi loro li riferisse). Ma sentiamo che sa- 
pesse dire quell'Orso: Non fa di mestieri, o compagni, 
di lunghi discorsi: la vita è un gran bene, ognuno il 
comprende da sé senza eh' io studi a persuaderpene, Per^ 
che vogliamo togliercela da per noi f possibile che la na- 
tura ci abbia fatti nascere perchè ci distruggiamo f Non 
so dirvi il perchè, ma quest'idea mi fa orrore ; pensiamo 
un poco se v'ha maniera da vivere quanti siamo tran- 
quillamente , e adoperiamo il cervello ed il cuore ptul- 
tosto che le zampe e la bestialità nostra. La moltitu- 
dine applaudi, ed alcuni pochi, che non parevano per- 
suasi , furono scacciati di quel luogo come irragionevoli 
e bestiali, e da quelh poi che allora andarono dispersi 
per la terra discesero certe razze d'Orsi inumani che 
ancora si trovano per le boscaglie , e si veggono deli- 
neati sui libri. Fu cosi possente dunque quel discorso, 
e più l'angustia nella quale si trovavano gli Orsi, che 
subitamente si diedero delle mani in dosso» e non paa- 



DEL REÀMB DEGLI ORSI. 187 

sarono due settimane che, eretto un altissimo tempio, 
11 dedicarono ad una potentissima Dea , eh' essi appel- 
lavano Necessita'. E poi a poco a poco ebbero un re, 
che non era infine che l'economo delle volontà e forze 
comuni, eh' egli andava equilibrando a seconda del bi- 
sogno di tutti in generale e di ognuno in particolare. 
Vìdesi ben presto un'orribile e diserta campagna farsi 
tutta coltivata, e da essa trarre quel felice popolo quanto 
può essere necessario alla vita. Tutto era bene e con- 
solazione , ed il nome di legge non conosceasi poiché 
ninno avea che desiderare d'ingiusto. Ma ben presto 
piombarono quei miserabili in un mare di calamità in- 
soffribili. Alcuni de' più vivaci incominciarono a com- 
binar nuove idee , ed a ragionare : E perchè , diceano , 
lavoreremo la terra, se avendo alcuni popoli nostri vi- 
cini , possiamo colla forza ridurli in ischiavitù, e far 
eh* essi affatichino per noi , ed insieme acquistando le 
terre loro ampliare il dominio vostro f Cosi va bene. E 
qua si videro trattati sparsi per la nazione intorno alla 
giustizia della guerra offensiva che infiammarono gli 
animi di tutti ; e già si diede all'armi. L'esito fu for- 
tunato^ e ne venne che fattisi ricchi e potenti alcuni 
pochi, rimasero poi le migliaja d'Orsi oppressi e deso- 
lati. Allora entrò nel paese Tadulazione, il rufflanesimo, 
e l'insidia per tentar di spogliare i magnati de' loro 
male acquistati averi; l'avarizia si vesti da amore, la 
ingordigia si copri col manto dell'amicizia, e tutte que- 
ste maschere unite furono cagione di tradimenti, di« 
scordie e liti gravissime. Quando tutto era a soqqua- 
dro, i buoni e zelanti cittadini si ricordarono della Dea 
Necessita', ed ebbero ricorso ad essa perchè mettesse 
un qualche riparo alle comuni sventure. Ma ricorrendo 
alla Dea scoprirono un altro disordine. Videro che i sa- 
cerdoti di essa aveano da lungo tempo imparato a farsi 
grassi a spese del popolo : vendeano il chiaro dei sole 
e l'umido della pioggia, l'odoro del marocchino per 
iscacciare le tarme da' panni , li cerotti per le rotture 
di gamba^ le polveri pel buon esito de'partia e tema- 



Ì8S STORU 

ledizioni per i sorci. Ben presto fu riparato a queste 
assurdità. Proseguirono la loro preghiera alla Dea, sup- 
plicandola eh' eiraresse attenzione a' suoi popoli e che 
non volesse abbandonarli quando più abbisognavano 
di lei, e che loro desse tanto lume di ragione da po- 
ter conoscere da quali princìpi pullulavano tante loro 
miserie. Tosto udirono rimbombare la vòlta del cielo 
di soavissima melodia, e raddoppiarsi videro il chiarore 
del giorno; e quindi scoprirsi ad un tratto il di sopra 
del tempio , e comparir loro un gran libro di lamine 
d'argento , formato e scritto in caratteri d'oro , soste- 
nuto per l'aere da quattro mirabili e non più veduti 
animali, che appoggiavan le zampe sur una gran nu- 
vola di diamante. 

Era il primo di que' misteriosi mostri tutto candido 
come latte, ed aveva il petto di cristallo tersissìmo, al 
disotto del quale si vedeano e contavano i colpì del 
cuore tranquilli e ordinati , e ad ogni colpo che dava 
quell'organo vitale, sentiasi cantare da voci sconosciute, 
e volare per il puro etere una lettera dell'alfabeto, che 
arrivate al numero di cinque differenti , tornavano ad 
essere replicate sempre le stesse, e venìano a dire: 
Virtù'. Era poi l'altro d'un colore cangiante, cosicché 
la sua pelle era un prisma, ed avea certe gambe ora 
corte, ora lunghe, ora sottili, ora grosse, con un paio 
d'occhi di fuoco, la pupilla de'quali stringendosi ed al- 
largandosi formava alcune sillabe in questo modo : In- 
dustria. Il terzo parea s cuoia to, e gli si vedea la carne 
viva e fresca come rosa, dalla quale usciva un sudore 
di sangue che gocciolando prendea consistenza prima di 
arrivare in terra, e divenia tante monete d'oro, e poi 
tante verghe dello stesso prezioso metallo, che avvici- 
nandosi r una air altra formavano e descrivevano per 
ogni verso questo miracolo : Sensibilità*. E V ultimo 
avea un collo lungo fino alle nuvole, vestito di squame 
di bronzo, coi piedi di porfido, e con la coda d'un 
tronco d'alloro, le cui foglie sibilando parea che dices- 
sero sotto voce : Et]&r91T4\ Tutti quegli Orsi eraito 



DSL aBAMB DEGLI OASI. Ì8d 

linciti di sentimeato per maraviglia ; pure rinvenuti al- 
cani , e immaginandosi che nel mistico libro stesse 
quella salvezza che tanto aveano chiesto e desiderato, 
tentarono di leggerlo, e videro che cosi stava scritto 
su quelle carte immortali : Orsi, tanto è fatale per voi 
altri una stupida e fiera salvatichezza , quanto una vi' 
ziosa scostumata società, senza limiti di giustizia di mo- 
destia e di buona fede. Pericolosi sono gli effetti della 
forza del corpo, e micidiali sono se vanno congiunti colle 
malizie dello spirito, ProfiMate dei beni dell'una e del- 
l'altro che vedete espressi in questi quattro viventi che 
mi sostengono , e passeranno i secoli senza che vi esca 
dagli occhi una lagrima; altrimenti maledirete la terra 
ch'è madre vostra, e vi si aprirà sotto appiedi come que- 
sta diamantina nube che mi serve di base , poiché fin il 
diamante va in polvere sotto a' colpi bestiali. Appena fi- 
nito il periodo ognuno si guardò in faccia tramortito ; 
e chi spiegava in un modo e chi nell'altro la sopran- 
naturale apparizione; ma tardi ne compresero il senso 
legittimo, poiché la moltitudine, ch'era fuori del tem- 
pio, non era più in istato d'intendere un tanto mistero. 
Laonde andò In breve in rovina quella nobile e famosa 
popolazione. 

Se a questa StoHa del teame degli Orsi mancano ci* 
taisioni e note, diasi la colpa agli uomini di lettere che 
cedono sempre a' tristi consigli de' librai , i quali non 
pensano che ad ingannare il pubblico con frontespizj 
magnifici, e con ricercati prolegomeni, contenti di que^ 
sti per poter prendere alla rete gli uccelli» 



llNÉ DELLA StOÀlA iàh ìkÉAìià DÉGLÌ Ò^Ì, 






INDICE 



Del Parlamento di Raffaello Hlodeo dello siato di 
un'ottima repubblica, scritto da Tommaso Moro, l^ag. i 
La Città del Sole di Tommaso Campanella ...» 89 
Questioni di Tommaso Campanella sull'ottima re* 
pubblica ossia suUa Città del Sole .... » i49 

A) 

^storia del Reame degli Orsi scritta da Gasparo 

Gozii .... » d79 



»- -, 



BIBLIOTECA RARA 

PUBBLICATA DA G. DAELLI 

VOL. XII. 

ANNIBAL CARO 



TIP. LOMBARDI. 



Proprietà letteraria ja. daelli e e. 



(^ ^^r 



GLI STRACCIONI 

COMMEDIA 

COMENTO 

LA NASEA 

LA STATUA «ELLA FOIA 

DICERIE 

DI 

ANNIBAL CARO 




MILANO 

DAELLI e COMP. EDITORI 



' AVVERTENZA DEGLI STAMPATORI 



Questa volta non vai nulla al nostro editore 
r essere stato alla scuola di Pietro Aretino y e 
aver tirato di scherma a tutt' andare sotto tanto 
maestro. Come difendere la ristampa della Fi- 
cheide? Sta bene che quel buon vecchio del Gamba, 
e quel puritano del Romagnoli, gli abbiano dato 
l'esempio; ma l'altrui colpa non lava la sua; 
e a noi vengono i rossori per lui, e ci veliamo 
volgiamo la faccia come faceva Agamennone 
in quel famoso quadro del sagrificio d' Ifigenia. 

Che il Molza, secolare, cantasse i Fichi, quando 
un monsignor della Gasa cantò poi il Forno, non 
è da meravigliare, chi ricordi la licenza de' co- 
stumi al principio del secolo XYI, e precisamente 
innanzi che pigliassero forza le decisioni del Con- 



X AVVERTENZA 

cilio di Trento, che riuscì a mettere la natura 
sotto lo staio nel forziere, come gli amanti del 
Boccaccio. Che il Caro, giovine e futuro segre- 
tario di Pierluigi Farnese; si sbizzarrisse a far un 
Cemento più sconcio del capitolo del Padre Molza, 
se non altro perchè è il Rawlinson di questa 
scrittura cuneiforme, passi; macho nell'anno della 
fruttifera incarnazione del figliuolo di Dio, 1863, 
si rimettano in luce queste sozzure, è cosa in- 
tollerabile , e di noi componendo si potea dire : 
La man va lenta innanzi e l'occhio indietro. 
— Pertanto se è corso qualche errore di stampa 
se ne incolpi la nostra coscienza e non V Edir 
ditore, che vi mise gli occhi e le reni. 

Ma la lingua , ma lo stile! Ma quei puri e 
santi classici di Petronio, Marciale, Boccaccio, e 
Casti ! Scuse magre, anzi perfide e piii ree della 
stessa colpa. Né sappiamo ora perchè i frati Dome- 
nicani abbiano dimenticato l'esempio del loro Sa- 
vonarola, e si contentino d' un Indice, quando do- 
vrebbero nelle pubbliche piazze , ardere i libri 
lascivi; e potendo arricchir il rogo col loro au- 
tori, tanto meglio. 

Con noi consente espressamente Fra Tedaldo 
degli Elisei , convertitore della moglie di Aldo- 
brandino Palermini, secondo attesta il Boccaccio 
nel suo Decamerone; e diciamo altrettanto della 
Diceria di Santa Nafissa. Ma per far almeno , 
che gli empj sappiano come nacque quest'opera 
di demonio, accattiamo alcune parole che tro« 



DEGLI STAMPATORI XI 

viarao nella vita del Caro scritta da Anton Fe- 
derigo Seghezzi. Eccole : 

e: Ma lo studio pia dolce al Caro era quello delle 
buone lettere, e particolarmente della lingua 
toscana , sopra la quale avea principiato ad af- 
faticarsi sin da' primi anni della sua gioventtl : 
vago oltremodo d' apprenderne lor proprietà , e 
di saper perfettamente le piti leggiadre e le piii 
pure forme dello scrivere. Se ciò riuscito gli sia, 
oltre alle Lettere famigliari, che sono una delle 
più pregiate scritture di questo rarissimo spirito, 
ne fanno piena fede le altre sue opere, se non 
con eguale purità di stile dettate, piene cosi di 
gentilissimi tratti e d' una felicissima copia di 
scelte parole, che non solamente e' sembra e nato 
e allevato in Firenze, ma negli antichi scritti 
de' soavi parlari interamente consumato^ Ciò ma- 
nifestamente si pare nel Comento che fece sotto 
il nome di Ser Agresto al Capitolo de' Fichi di 
Francesco Maria Molza, suo grande amico, quivi 
da lui, tolta la denominazione della parola Gre- 
ca (1), chiamato il Padre Siceo. Uscì questo li- 
bro (2) alla luce la prima,volta appresso al Bar- 

(1) £3xov ficas. Di questa derivazione parla anche 
V Autore nel comento alla Ficheide, 

(2) La prima impressione ha questo titolo : Comento 
di Ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima ficata del 
Padre Siceo, In fine: Stampata in Baldacco per Barba • 
grigia da Bengodi, con grazia e privilegio della bizzarris- 
sima Accademia de' Virtuosi; e con espresso protesto 



XII AVVBBTENZA 

bagrigia (1) , cioè, se non erro, presso ad Antonio 
Biado d'Asola, stampatore in Soma; siccome 
io raccolgo dal carattere d* esso libro , che di 
certo è quello stesso con cui il Biado stampò 
molte cose, e dagli Straccioni, commedia del 
GAtto, nella cui prima scena, che è in Boma, 
si fa menziona della bottega del Barbagrigia (2). 
Dopo il Comento si legge V argutissima Di- 
ceria de' Nasi, scritta per Giovan Francesco 
Leoni anconitano, uomo di buone lettere, se- 
gretario del cardinale Alessandro Farnese, e Re 
allora nelV Accademia della Virtù, il quale era 
fornito d'un segnalatissimo naso\ onde con molta 

loto, che tutti quelli che la ristamperanno, o ristampata 
la leggeranno in peggior forma di questa, cosi St9rmpa- 
tori come Lettori, s*ìntendono infami e in disgrazia delle 
puttanissime e infoca tissime lingue e penne loro. Uscita 
fuora co' Fichi alla prima acqua d' agosto 1S39. Eocene 
un* impressione posteriore in 8. senza Itwgo e senza nome 
di stampatore, la quale dal carattere mi pare che si 
possa credere che sia stata fatta in Firenze, Il Castel- 
vetro nella Correzione al Dialogo delle Lingue del Var- 
chi, scrive che il Caro vendè la Ficheide a così caro 
prezzo, e ne trasse gran quantità di danari, che pagò 
le dote per la sorella che poi maritò. Io non credo nulla 
di ciò; perchè il libro è assai picciolo, e non può ap- 
portare così grande utilità ; senzachè trovo che il Caro 
ne dispensò agli amici gran n'amerò in dono ; come quan- 
do a questo effetto ne mandò dugento copie a Firenze 
a Luca Martini. Vedi voi. I, lett. 57. 

(1) In 4.° 

(2) Straccioni, Atto L 



DEGLI STAMPATORI XIII 

bella grazia viene dileggiato da Annibale anche 
in parecchi luoghi delle sue Lettere {IJ. Io credo 
che quel trattato sopra il naso rigoglioso e sper- 
ticato (2) del Leonia sia quelVopera stessa che 
egli alcuna volta chiama Nasca (3) , e non un 
diverso componimento di poesia, siccome dalle 
parole di lui sembra che piuttosto credersi deggia. 
Imperciocché egli narra che trovandosi in Napoli 
con Gandolfo Porrino^ questi lo fece conoscere 
a tutta la città e per poeta, e per autore della 
Nasca; il perchè non poteva passare per la strada 
che non si vedesse additare, o non sentisse dirsi 
dietro : Qi^gli è il poeta del Naso : soggiugnendo 
che chi non sapeva il fatto, cioè ch"egli avesse 
schernito il naso altrui, gli correa innanzi, pen- 
sandosi che avesse il naso grande : e gli facea una 
nasata intorno, che avrebbe voluto piuttosto por- 
far la mi ter a (4). 

Scrisse anche nella sua gioventìi V Orazione 
di Santa Nafissa, mentovata dal Doni nella Se- 
conda Libreria (5) , e da Jacopo Bonfadio in 
in una lettera al conte Fortunato Martinengo , 
pubblicata da Venturino Buffinelli in Mantova 



(1) VoL I, lett 22, 29 e 73. 

(2) Voi. J, hit 22. 

(3) E cosi è veramente. Edit 

(4) Voi. I, leti. 29. 

(5) Doni, Libreria Seconda, delV impressione del Mar- 
colini in 12, a carte 24. 



XIV AVVERTENZA 

neWanno 1547, fra le lettere di diversi autori (1). 
dove si dichiara qual fosse il soggetto d' essa. 
Io la trovo allegata nel Comento al mentovato 
Capitolo de' Fichi, nel qual luogo vien chiamata 
Diceria di Santa Nafissa, e si dice che fu scritta 
dall'autore prima del Comento. 

Anche il Seghezzi, come si vede, gira nel ma- 
nico, e si lasciava rintenerire dal bello stile. — 
Noi facciam punto e non volgiamo più V occhio 
a questo figlio del peccato, perchè potrebbe forse 
rammorbidire anche noi. 

Fra Tedaldo è più benigno agli Straccioni^ 
una delle commedie vive del cinquecento, — L'au- 
tore, dice il Ginguené, s' amusa a mettre sur le 
théatre les balourdises de deux frères pauvres 
et presque imbecilles, qui s'étaient acquis à Home 
une sorte de celebrità dans le genre niais. Mais 
iljoignit à cette peinture grotesque plusieurs au- 
tres ressorts comiques,... Cette comèdie, aussi li- 
brement qu' élégamment écrite, est une des mieux 
conduites.... une de celles oò, les sentiments d'a- 
mour sont exprimés avec le plus de passion et 
de naturel, et en méme temps une des plus ga* 
ics, — Giudizio giustissimo. — È una fotografia, 
ma ben riuscita, e non dei solili lucidamenti dai 
latini, che lucidavano dai Greci , onde V arte co- 
mica italiana era nipote alla greca, e non rifa- 

(1) Lettere di diversi automi. Libro primo in 8°, a 
carie 37. 



DEGLI STAMPATORI XV 

ceva, ma contraffaceva Tavola. Quel marchegiano 
ingegnoso del Caro, si abile a dipingere i ca- 
ratteri, come quello del Capitan Goluzzo, di Leo- 
netto Castravillani , del baro famoso, riusci na- 
turalmente a ritrarre a meravìglia que'due pazzi, 
eh' erano stati il balocco della festiva ed arguta 
Roma. — Dicon che facesse rivedere all'autor 
della Suocera gli Straccioni. Eran tanto amici, 
che può benissimo avergli mandato a ripassar la 
Commedia, come gli mandò V Apologia ; ma la 
lima del Varchi non lavorò gran fatto su quella; 
perchè ha molto ancora del romanesco, il chO; 
senza che si perda flato d' eleganza, dà maggior 
picco e come dicono color locale ad una storia 
romana. 11 Caro veramente convertiva in oro tutto 
quel che toccava ; e, come il Petrarca, seppe co- 
gliere la parte immarcescibile della lingua; onde 
non invecchia mai ; e quando diceva al gran Mae- 
stro di Rodi che V invitava a combattere contro 
gì' infedeli che non avea né occhi da vederli , 
né piedi da inseguirli, né denti da morderli, tra- 
duceva r Eneide, come Rousseau scrivea la No- 
vella Eloisa col catarro e coi piedi nelle pan- 
tófoÌQ di lana. — Lo spirito fu sempre vivace 
e scintillante nel Caro, e pare così giovane ora, 
come quando scrivea il commento di ser Agresto 
alla Ficheide del Molza. 



XVI AVVERTENZA DEGLI STAMPATORI 

Ed eccoci dì nuovo alle Fiche. Il nostro Edi- 
tore pare che dica al lettore : Togli, che a te le 
squadro. — E noi veliamo senz'altro la statua 
del pudore,, che sta tra i busti di re e imperatori 
a insegna e decoro della nostra letteraria oflScina. 



I Saccessori di Barbagiigia. 




GLI STRACCIONI 



COMEDIA. 



PERSONE 
DELLA COMEDIA 



GIULIETTA, figliuola di uno di loro, det^ altramente 

Agata. 
TIND ABO , innamorato di Giulietta , ppr altro nome 

Gisippo. 

DEMETRIO, Buo amico. 

SATIRO, suo servo. 

Madonna ARGENTINA , nipote degli Straccioni. 

H cavaliero GIORDANO, suo marito. 

BARBAGRIGIA, suo compare. 

MARABEO, fattore. 

PILUCCA, servo. 

NUTA, fantesca. 

Messer ROSSELLO, procuratore. 

MIRANDOLA, pazzo. 

GIULIO, ) 

LISPA, [ furbi di Campo di Fiore. 

FULIGATTO, ) 



PROLOGO. 



Spettatori, voi dovete la più parte avere eonomuti gli 
Straccioni; quel Giovanni e quel Battista^ o piuttosto quel 
Giovambattista, fratelli ScioUiy che erano due in uno o 
uno in due: voi m'intendete-^ queW Avino Avolio de'noslri 
tempii con quei palandrani lunghi^ lavorati di toppe soprn 
toppe^ e ricamati di refe riccio sopra riccio : quei %azze* 
rati, con quei naei torti , arcumali e pizzuti : quegli unti 
bisunti, che andavano per Roma sempre insieme, eh^ erano 
di una medesima stampa, che facevano, che dicevano le 
medesime cose ; che parlavano tutti due in una volta , o 
Vum serviva per eco dell'altro. Non guardate che uno 
di essi sia morto, che neaneo per morte si possano <eoffi« 
pugnare. Il vivo è morto in quel di là, e il morto rive 
in questo di qua : cosi talvolta son morti lutti due, e talvolta 
son tutti due vivi; 0, persegnodi ciòf questo percertigiomi non 
si vede ; e oggi vedrete qui Vuno e l'altro di loro. Voi avete m* 
teeo dire di quel Castore e di quel PoUuee quelle belle faccende, 
chefeeerononsochèeomunelladinaseimentOfdi vita edi morte; 
e che diventarono anco immortali; ehi non son morti mai. 
Immaginatevi che questi eiano dessi, perchè fanno delle me* 



6 ' PROLOGO 

desime cose; $ sono anco due bei giovini come erano quelli^ 
salvochè^ a dire il vero, sono un poco più sudici di loro. 
Voi gli avete per poveri e per pazzi; e T Autore ha tolto 
a farli ricchi e savi. La cagion che lo muove è da rìdere, 
e dirolla ancora a voi; ma tenetemi secreto. — - Costoro, 
sapendo che il compositore di questa Comedia è servitore 
antico di Casa Farnese, e credendosi chCy per aver si gran 
padroni, egli sia qualche grande arcifanfano, per guada- 
gnarsi ti suo favore nella causa loro , gli hanno a piena 
bocca fatto un presente di cinquantamila scudi ; di quelli 
però che domandano a^ Grimaldi. Egli y che non ha mai 
provato d* essere ricco se non in sogno, volendosi arric- 
chire di promesse^ n' ha fatto capitale , come di contanti ; 
e a guisa di colui che , pasciuto di fumo d* arrosto, pagò 
di suon di quattrini, in cambio delti cinquantamila rice- 
vuti da essi in parole, farà recuperar loro li trecentomila 
in Cofnedia. Il medesimo fa del senno ; perchè, come è te- 
nuto da loro per grande, cosi vuole che voi abbiale essi 
per savi. Queste due fantasime con tre cose hanno dato il 
nome e il soggetto a questa Comedia ; con una lite che 
fanno con i Grimaldi ; con una figliuola che hanno lasciala 
a Scio; e con una nipote che non sapevano d'avere a Roma. 
Gli scompigli, gV inganni, le gelosie, le quistioni, le paure^ 
che vi nascono; come si scoprono , come si ac^uetano , 
si vedrà nel procedere. Bastivi per ora a sapere , che di 
questi tre semplici principali, si fanno molte varie e quasi 
incredibili mescolanze dì diversi accidtnti di fortuna, di 
diverse nature $ consigli d* uomini: di morti che vivono; 
di vivi che son morti ; di paxzi che son savi ; di vedovi 
maritali ; di mariti che hanno due mogli ; di mogli che 
hanno due mariti. Vi sono spiriti che si veggono ; parenti 
che non si conoscono ; familiari inimici ; prigioni liberi ; 
e altre cose assai, tutte stravaganti e tutte nuove. Questo 
argomento , cosi interzato , moverà forse troppo la colera 
a questi stitichi; perchè scempio o doppio solamente è slato 
usato dagli Antichi nelle lor Comedie. Avvertite che , seb* 



puoLoae 7 

ben non si trova anco divieto che non si possa fare; e 
anco s* è mosso a farlo con qualche ragione. La favola 
pecca di ire sorti umori ; uno argomento non gli muovCj 
due non gli risolvono ; il terzo gli vaca ed è ristorativo, 
perchè è di materia piacevole ; e non è fuor di proposito, 
perchè ciascuno di questi casi fa per sé stesso Comedia^ ed 
ha le sue parti, e tutti tre sono intrecciati per modo che 
V argomento è tiitl^uno. Mancar di vizio e abbondar d'arte^ 
merita lode; ma egli si contenta di non averne biasimo. 
Ntlle altre cose ha seguitato V uso degli Antichi; e se vi 
parrà che in qualche parte V abbia alterato, considerate 
che sono alterati ancora i tempi e i costumi ^ i quali sofì 
quelli che fanno variar le operazioni e le leggi dell'operare. 
Chi vestisse ora di toga e di pretesta, per belli abiti che 
fossero, ci offenderebbe non meno che se portasse la berretta 
a taglieri e le calze a campanelle; perchè gli occhi , gli 
orecchi e il gusto degli uomini sono sempre acconci a quel 
che porta V uso presente. L* autore vorrebbe ch'io vi dicessi 
ancora molte cose a sua giustificazione; ma questo avete a 
saper brevemente: che egli conosce d'aver dura impresa 
alle fTtant, e che per obbedienza s'è messo a farla, non 
per prosunzione. Tutlavolta s'è ingegnato ^ come meglio ha 
saputo, di piacervi. Ma la legge della Comedia non si trova 
in tutto stabilita ; l'esempio è molto vario ; ognuno ha il 
suo capo; ogni capo le sue openioni; eogniopenion le sue 
ragioni. Per questo , piacere a t^tti è difficile ; e in tutte 
le cose, impossibile. Assai gli parrà d' aver bene spesa la 
sua fatica, se in qualche cosa piacerà a qualche parte di 
voi. Ma prestateci grata audienza e gustate bene; che, es- 
sendo il convito di molte vivande, spero che vi sarà pasto 
per ognuno. 



ATTO PRIMO. 



SCENA PRIMA. 
DometriOy Pilaeea^ Barb«srigia. 

Dem. Pilucca, poiché per mare ti sono stata compagno 
nella mala fortuna, non m'abbandonare in terra nella 
buona. Io non sono mai stato a Roma; di grazia, 
fammi il piloto fino a tanto ch'io trovi questo messer 
Tindaro ch'io t'ho detto. 

PiL. Prima che si beva? 

Dem. Oh, tu hai bevuto a Ripa in tanti luoghi. 
"PiL. Oh, oh, e da Ripa in qua? . 

Dem. Insegnaci almeno dove mi posso abbattere a 
vederlo. 

PiL. In Ponte capita ognuno. 

Dem. e dove è Ponte? 

PiL. Dove siamo noi più tosto? che piazza è questa? 
questa strada non c'era ella; né questa. 

Dem. Ancora in terra avemo bisogno della bossola? 

PiL. Dov'è il palazzo di Casa Farnese? 

Dem. Se fosse un magazzin di vino, già V avrebbe tro- 
vato. 

PiL. E forse questo? Oh non era tanto alto. 



10 GLI STRACCIONI 

Dem. Ta sei ben più alto di lai. 

PiL. Mi par par desso. Si, è. E la casa della mia pa- 
drona, doy*è ohe era qai incontro? 

Dem. Di quante botti ha bevato , tante volte gli fa il 
cervello. 

PiL. Era par di qui. 

Dem. Greco. % 

PiL. No, più là. 

Dem. Corso. 

PiL. Da questo altro lato. 

Dem. Mazzacane. 

Pili. Dove è Campodifiore? di qua? o dì qua? 

Dem. Almeno ci riconoscessi tu gli uomini! 

PiL. Oh, ecco qui la bottega del Barbagrigia stam- 
patore. 

Dem. Non è poco. 

PiL. Siate il ben trovato, Barbagrigia. 

Barb. e tu ben venuto. 

PiL. Come va? 

Barb. Grassamente, come tu vedi. 

PiL. Veggo bene che non potete più capir nella mostra; 
oh ve* pancia onnipotente che avete fatta. Dio ve la 
benedica ! 

Barb. Costui mi dice villania- molto familiarmente. « 
Chi sei tu? 

PiL. Son Pilucca. • 

Barb. Pilucca ; e che vuol dir che sei cosi spiluc- 
cato? 

Dem. Botta, risposta. 

Barb. Che abito è questo? Tu balzasti pur in una 
galera?... ah...! 

PiL. Per disgrazia, non per xnaleficio. 

Barb. Ci ritornerai dunque. 

Dem. Vuol dir che ci sarai ri menato da'bim. 

PiL. Là intendeva senza chiosa. 

Barb. E come ci capitasti? 



ATTO PRIMO. — SO. I. 11 

PlL. Voi sapete che il cavalier Giordano , vostro com- 
pare, volse andar in Levante, per valersi di non so che 
eredità della padrona. 

Barb. Ben sai che lo so. 

PiL. £ che, dopo che si parti di qua, non se n'è sa- 
puta più nuova. 

Barb. SoUo. 

PiL. £ che la padrona mi mandò che lo cercassi per 
tutto. 

Barb. Bene. 

PiL. Non ho trovato lui , e quasi che mi son per- 
duto io. 

Barb. Il maggior guadagno che potessimo fare. In 
man de' Mori, eh? 

PiL. Cinque maledetti anni. 

Babb. Il resto mi so io. Un remo di trenta piedu 

PiL. Peggio! 

Barb. Ferri di cinquanta libbre? 

Pili. Peggio! 

Barb. Grisanti a bizeffo? 

PiL. Peggio, dico! 

Barb. E che diavolo è peggio? 

PiL. Acqua e biscotto. 

Barb. Ah, ah...! £ come ne sei scampato? 

PiL. La galera , finalmente , quando il Diavolo volse, 
détte attraverso; e cosi ne siamo usciti, questo galan- 
. tuomo ed io. 

Barb. Tantoché la disgrazia t'è stata ventura. 

PiL. Basta , noi siamo qui. Anzi io non so dove mi 
sia. Mi pareva d'esser fuor di mare y e pur mi va il 
cervello a guazzo. £ mi vergogno a dir, che non 
ritrovo la casa di madonna Argentina, mia pa- 
drona. 

Barb. Ah, ah, ah! 

PiL. Dove diavolo è questa casa? 

Barb. Se l'ha ingoiata il Boccaccio. 



12 GLI STRACCIOKI 

PiL. Chi Boccaccio? 

Barb. Il soprastante della fame; non lo conósci? Il 

locotenente del terremoto: quel che con una verga 

insanguinata e con un filo incantato , che mette 

sopra le case , le sconquassa e le tira tutte per 

terra. 
PiL. Ah, si, sì, quel dagli specchi. E molto amico della 

mia padrona. 
Barb. E però le ha fatto favore di metterle la casa 

in piazza. 
PiL. La casa in piazza? In questa non è. 
Barb Ah, ah, ah...! 
PiL. Oh gran capocchio eh* io sono! Adesso la in« 

tendo. Oh , non poteva, minar più gloriosamente, 

.poiché la sua mina è parte di tanta magnificenza. 
p£M. Oh bel palazzo! Oh! bella piazza! Oh bella 

Boma! 
PiL. Ma io che farò? La casa non c'è. La padrona 

non trovo. Ho una fame che la veggo; e, son tanto 

impaurito dell' acqua, che non mi tengp ancora sicuro' 

finché non sono in cantina della padrona. 
Barb. Costi si che porti pericolo d'affogare. 
PiL. Intanto m'impiccate per la gola a farmi star 

tanto digiuno. Insegnatemi dove sta. 
Barb. Dimmi, dove bai cercato del ca vallerò? 
PiL. Fin quasi nell'altro mondo. 
Bare. Insomma non l'hai trovato? 
PiL. E come? Se è morto! 
Bare. Oh povero mio compare ! E dove , e come è 

morto? 
PiL. E cosa lunga, e son digiuno. 
Barb. Di' brevemente. 
PiL. Mori di subito. Non v' ho lo detto che mi svengo 

dalla fame? Insegnatemi dove abita, se volete. 
Bare. Orsù che t' ho castigato abbastanza. Va' là, che 

voglio venire ancor lo alla comare per intendere 11 

caso e condolermene con lei. 



ATTO PRIMO. — se. I. 13 

Dem. Pilucca , non volemo prima trovar quel mio 

amico ? 
PiL. Chi volete che trovi, se mi sono smarrito? 
Barb. Chi cercate, uomo dabbene? 
Dem. Un mcsser Tindaro Sciotto; il qual però non so 

che sia a Boma; penso nondimeno che non possa 

essere altrove. 
PiL. Questo è come un cercare de'funghi. 
Bare. Io non lo conosco; ma questi dui Straccioni , 

che vengono di qua, sono Sciotti. 
Dem. Guata coppia di compatrìotti 'orrevoli! Andate- 

vene a vostra posta , che io ne voglio domandar 

loro. 
PlL. Or si. A rivederci. 

SCENA SECONDA. 

Batlistay GiOTaniii, Straccioni; Demetrio. 

Giov. Città bella. Città bella. Città brutta. 

Batt. Città arcibrutta, poiché dòma. 

Giov. Poveri e pazzi. 

Batt. SI, pazzi e poveri ci ha fatti noi. 

Giov. Con la grazia degli uomini. 

Dem. Che uccellacci son questi? litiganti o arche- 
misti debbon essere. 

Giov. Da Scio a Genova. 

Batt. Da Genova a Boma. 

Giov. Da Erode a Pilato. 

Batt. D*oggi in domane. 

Dem. Sono Sciotti, vengono da Genova e litigano. Sta 
pur a vedere che saranno i Capali. 

Giov. Non ci mancava altro che il dolore e il vitu- 
perio del paese; se è vero che Giulietta mia figliuola 
sia stata rubata da Tindaro. 

Deh. Pi GiuUett^^ e 4i Tmdaro 4ico^Of Sono ^os^l 



14 . GLI STaACCIOKX 

certo; ma petchè vanno cosi disorti? Sono forse im- 
pazziti a Boma? Non sarebbe gran fatto. Mi voglio 
fare loro innanzi per intendere che stravaganza è 
questa , e per aver nuova di Tindaro, e delle cose 
come son passate tra loro. Ma dubito che non sap- 
pine che io ho tenute le mani con Tindaro alla ra- 
pina di Giulietta. Che più ? a ogni modo non mi cono- 
scono di vista per Demetrio. 

GiOY. Costui mi pare, air abito, del paese. 

Batt. D'onde venite, buon compagno? 

Dem. Di Levante. 

Giov. Di che parte? 

Dem. Di Scio. 

Batt. Sete Sciotto voi? 

Dem. Al vostro comando. E voi? 

Giov. Sciotti. 

Dem. Come sete voi qua? 

Batt. Per faccende. E voi? 

Dem. Per fortuna. Ditemi , se vi piace , non sete voi 
de' Canali? 

Giov. Si, siamQ. 

Dem. e che stracci son questi? 

Batt. I trofei della nostra lite. 

Dem. Un bell'onor vi fate, per dio! 

Giov A* poveri e malcontenti , come noi siamo , non 
si conviene altro abito. 

Batt. E finché non ci vendichiamo della superchieria 
che ci è stata fatta. 

Dem. Da chi? 

Giov. Se sete del paese, lo dovete sapere. 

Dem. Ah, si, si, da Tindaro. 

Batt. Da Tindaro e da Demetrio. 

Dem. Perchè Demetrio? Non è egli vostro parente? 
Ciò che egli avrà fatto, credo che sia stato per ben 
vostro e della vostra figliuola; e ciò che ha fatto 
Tindaro , non si può dir che sia per altro che per 
troppo amore che porta alla Giulietta. 



ATTO PRIMO. — sa n. 15 

Giov. Un gran ben, per dio! 

Batt. e un grande amore è stato il suo. 

Giov. à disonorar lei. 

Batt. E ingiuriar tutto il suo parentado. 

Dem. Lei non hanno disonorata , perchè T amore è 
legittimo, poiché si vuol per moglie; e voi non hanno 
ingiuriati, poiché non si son mossi per vostro dispregio ; 
ma per desiderio d' apparentare con voi. 

Giov. A nostro dispetto. 

Dem. Buona vostra grazia, se volete. 

Batt, La licenza delle massaro da Genova. 

Dem. Gh, se voi non avete mai voluto consentirvi! 

Giov. Per aver detto di no molte volte , non è però 
che non si possa una volta dir di si, come alFultimo 
avemo fatto. 

Dem. Vi ricordo che la pazienza senza speranza negli 
innamorati diventa disperazione. 

Batt. E negli ingiuriati si risolve in vendetta. 

Dem. Se sete savi , vi contenterete di quello che è 
stato ordinato ed eseguito da loro, che, congiunti 
insieme, non possono essere disgiunti da voi; e cosi 
rimedierete ai disordini passati e a quelli da venire. 
E perchè non v'avete voi a contentare, che una vo- 
stra figliuola sia maritata al più nobile, al più ricco 
e al più dabben giovine di Scio?' 

Giov. Quel che meritava per T altre sue qualità, l'ha 
demeritato per la sua insolenza. 

Batt. E se procedeva con la debita modestia , senza 
rapirla era sua. 

Dem. Sua è ella adesso ; e non gliene potendo torre , 
come potrete ancor non dargliene? 

Giov. Non Tara di nostro consenso , perchè non può 
esser con nostro onore. 

Dem. Anzi Tonor. vostro non si può salvar per altra 
via. £ come farete che non sia fatto? 

Batt, E come faranno essi che non sia mal fatto? 



16 GLI STRACClONt 

Dem. Voi non sete per la via. 

Giov. Dovete esser loro amico, al parlare che fate. 

Dem. Sono anco vostro, ancorché non mi conosciate. 

Batt. Chi siete voi? 

Dem. Lo saprete poi , perchè penso d* avervi a ripar- 
lare sopra ciò per beneficio dell* una parte e del- 
l'altra. 

Giov. Non ci accade altro parlamento per questo conto, 
ma volentieri sapremmo da voi quel che sia di 
loro. 

Dem. Li vo cercando, e spero trovarli. 

Batt. In Eoma? 

Dem. Basta ! Ma poiché sete in questa ostinazione , 
non ve ne dirò altro. 

Giov. SI pure, fate che il sappiamo; che per amor di 
quella povera figliuola ascolteremo quel che ne vo- 
lete dire. 

Dem. Colui che va là, mi par Satiro. Addio! 

Giov. Dove andate? 

Dem. Non accade altro. 

Batt. Udite. Come vi domandate? 

Giov. Dove vi troveremo? 

Dem. Non posso più stare. 

Giov. Parlateci, che qualche cosa sarà. 

Dem. In buon' ora ; lassatemi andare adesso. Dove sa- 
rete voi? 

Giov. Andremo a sollecitar la nostra sentenza , e sa- 
remo tosto di qua. 

Dem. Ritornate, che ci parleremo. 

• 

SCENA TERZA. 
Demetrio, Ginippo, Sntiro. 

Dem, Per dio, che questo è Satiro. Oh, se messer Tinda* 

ro ^ qua, le cose ni potrmnQ f^^Umeuto rappattumarOf 



ATTO PRIMO. — sa m. 1? 

£ pur Tindaro davvero. Che ventura è questa mia oggi 

^ ritrovarli tutti in una volta!, 
GisiP. Moglie... moglie... Non me ne parlar più , ee 

tu vuoi. 
Djsm. Sua moglie è Giulietta. Dice forse di lei? Voglio 

un poco stare a sentire. 
Sat. Un gran torto le fate a non renderle il cambio 

di tanto amore che vi porta. 
Gisip. Torto le farei di accettarlo , poiché ho l'animo 

volto tutto a queir altra. 
Debì. Qual altra? Oh questa sarà bella, che non vo« 

glia più la Giulietta , quando V avemo rapita per 

forza, quando siamo condannati, confinati, minati per 

averla. 
Sat. Padrone, ve ne pentirete. 
GisiP. Oh tu mi hai fradicio, a voler saper di me più 

che io medesimo. Basta che io t' ho per amorevole 

assai; ma tanto tanto ha poi del saccente e del fa- 
stidioso. 
Dem. Che cosa sarà questa? Mi voglio scoprile. 
GisiP. Satiro, veggio io il mio messer Demetrio? 
Deh. Demetrio vostro vedete.' 
GiSiP. Oh, messer Demetrio mio caro! 
Sat. Oh, padron mio! 
Dem. Oh Satiro dabbene; oh messer Thidaro , io v'ho 

pur ritrovato una volta! 
Sat. Avvertite che non è più Tindaro. 
Gisip. Dice bene il vero che io non son più desso, 
Dem. Perchè? 

Sat. Si fa chiamar Gisippo. 
Dem. Oh, sì si, mi par ben fatto per ogni rispetto. 
GisiP. Donde venite? e che andate facendo? 
Dem. Vengo, si può dir, del Mondo; in tanti luoghi 

sono stato ; vo' cercando di voi ; e portovi buone 

.nuove. 

Caro, 2 



18 ÒLI STRACCIOKI 

GisiP. Altro di buono non mi potrete portare che la 
vostra presenza. 

Deh. So che quésta v'è cara , ma più caro vi debbo 
essere il compimento di tatti i vostri desideri. 

GisiP. Dite cosa che non può essere. 

Dem. Come non può essere, che la Giulietta è vo- 
stra? 

GisiP. Mia non è ella, e non può più essere. 

Deh. Domine, che voi non la vogliate ora che i suoi 
se ne contentano! Avete a sapere che, tolta che noi 
l'avemmo, giunsero lettere del padre e del zio, di qua 
d' Italia, che vi fosse sposata ; e un giorno di più che 
indugiavamo,, non bisognava rapirla. 

GisiP. Ahi, Fortuna, Fortuna! questi sono de* tuoi 
tratti; delle disgrazie, ohe tu mi mandi, non ne coglie 
una in fallo ; le grazie, o non vengono mai, o non 
arrivano a tempo. 

Deh. La povera madre , ricevute lettere di qua , fu 
molto dolente della vostra partita, e sentendo che vi 
faceva cercare, mi son mosso a cercar di voi per rì- 
condurmi ancor io a correre una medesima fortuna 
con esso voi; perchè, scoperte^ che fu che io tenni lo 
mani alla vostra rapina, la Corte m'ha sempre per- 
seguitato , e la Fortuna maggiormente. All' ultimo ^ 
dopo molte disgrazie, uscito di man di Morì, or' ora 
Bon giunto qui, e mi sono abbattuto appunto nel 
padre e nel zio di Giulietta. Ho ragionato con essi, 
e fra quello che ho ritratto da loro e quel che so 
del paese, v'assecuro che la Giulietta sarà vostra 
con buona grazia d' ognuno. Voi piangete , messer 
Gisippo? 

Gisip. Ohimè! 

Deh. Satiro, che vuol dir questo? 

Gisip. Ohimè! Ohimè! 

3at« Voi non dovete saper dunque , che h OluliettA 
i morta? 



Ai'TO PRIMO. — sa in. 1& 

Dem. Morta? Giulietta? Oh che di*tu, Satiro! 

GisiP. Quando io era in grazia a lei , era nimico dei 
suoi; or che i suoi mi vogliono, non ho più lei. Viva, 
mi si negava; morta, mi si concede. 

Deh. Questa è veramente una gran perdita, e avete 
mille ragioni a dolervene; ma darsi in preda al do- 
lore per cosa che è naturale e necessaria , e senza 
rimedio, non si conviene né alla prudenza né alla co- 
stanza d* un gentiluomo vostro pari. 

GisiF. £ questo é il mio dolore , messer Demetrio , 
eh' ella non é morta quando e come muoiono le altre. 
É stata uccisa fanciulla innocente, per man di cani, 
di morte crudelissima, in cospetto mio ; e peggio, che 
io ne sono stato cagione. — Ahi' Giulietta sven- 
turata! 

Dem. Io mi sento scoppiare il core. Oh , oh , fiero ac- 
cidente é stato questo. 

Sat. Di grazia , non ne ragionate più con lui , che si 
morrebbe d'angoscia. Lasciamolo un poco da parte. 

Dem. Oh Satiro, come é stata questa 'disgrazia? 

Sat. Vi dirò brevemente. — Rapita la Giulietta , na- 
vigavamo alla volta di Corfù. Giunti a vista del 
Zante, fummo assaliti e presi da cinque fuste di 
TurchL Messer Gii^ippo, per la conospenza che aveva 
nell' isola sperando di far ricatto, lasciata la Giulietta, 
la mattina avanti giorno ottenne disfarsi mettere in 
terra solamente con me. Approdati che fummo, tro- 
vammo che appunto vi sopraggiungevano di Cefalonia 
le galere de*VenezianL II capitano era suo caro 
amico*. Si riconobbero; e tra loro risoluti di poter 
conquistare le fuste , ci mettemmo a seguitarle, an- 
corché si fossero allargate. E già ci trovavamo lor 
presso, quando veggiamo che /per fermarci, mettono 
Giuliétta legata in poppa .minacciando d* ucciderla; 
e per questo incalzando noi maggiormente, in un 
tratto I a' nostri occhi veggenti le tagliano U cap0| 
e gittano il corpo in marci 



20 GLI STRÀCCtOKÌ 

Dem. Oli cani traditori I 

Sat. Gisippo, per ripescare il còrpo, fé* Titenere le ga- 
lere; e le faste intanto, pigliando vantaggio, si sal- 
varono. 

Dem. Oh sfortunata giovinetta! Ma , che donna è 
quella di chi gli parlavi dinanzi, che egli dice di 
non la volere? 

Sat. Messer Demetrio, questa è una ventura che 
Dio gli manda in ricompensa di tanta disgrazia. Una 
vedova gentildonna ricchissima; la più gentil creatura 
di Roma (come suole avvenire che i sangui s*affiron- 

. tano) non Tha prima veduto, che s'è innamorata di 
lui e lo vuole per marito e per signore rdi tutta la 
sua roba; e che roba! e che donna arebbe egli! 
Un contado, si puoi dire, e una Dea. Voi sapete lo 
stato nolttro; 6e non vogliamo andare sempre ra- 
minghi, è necessario che lo faccia; io non gli ne posso 
metter in capo; poiché voi ci sief«, vedete di per* 
suadergliene. 

Dem. Orsù, non è tempo ora da toccar questo tasto. 
Veggiamo di tòrio da questo affanno; e quando sarà 
meglio disposto, gli ne parleremo. 

8at. Intanto leviamci di qui , eh' io veggo uno che 
esce dalla vedova; dubito che non mandi a solleci- 
tarmi di questo parentado, e io la voglio trattenere 
fin che non facciamo meglior risoluzione. 

Dem» Messer Gisippo , andiancene a spasso , eh' io 
voglio pur vedere Roma. 

SCENA QUARTA. 

iMIneca, Harabeo, iVala. 

PiL. Questa mia padrona^ mi ha stracco con tante mi- 
nuzie ch'ella mi domanda. Già quattro volte mi ha 
fatto richiamare di cantina, e più di mille ha volato 



J 



ATTO PRIMO *- 80. IV. H 

^ eh' io te replichi che il padrone h morto. Debbe forse 
aver paura che non resusciti; ma io non 'mi' voglio 
morir intanto. E mentre che ragiona con Bàrbagrigia 
sarà bene che me ne vada a bevere un tratto col 
fattore, e a rinnovar la lega con lui di rubi^r la 
padrona. Lo veggo appunto alla finestra che fa 
r amor con un fiasco. Addio, Marabeo, tu incanti la 
nebbia a mezzogiorno. Oh, Marabeo! Si è dimenti- 
cato in su quel bicchi^o questo gaglio£Pò Marabeo. 

Mar. Tondo e frizzante insieme; m'è ito fin in su le 
punte de* piedi, 

PiL. Pensa se gli sarà ito in capo. Marabeo , che ti 
venga il canchero! 

Mar. Chi è là? 

PiL. Non mi conosci, briccone? 

Mar. Non io. Bevo un tratto, e vengo abbasso. 

PiL. Vattene a casa del Diavolo, poiché il fiasco è 
vuoto. Che rombazzo è questo! Sarebbe mai caduto 
giù per le scale? 

Mar. Ohi, ohi, ohimè! 

PiL. £' parla; poiché non ha rotto il collo, è poco 
male. 

Mar. Ohimè, la testa! 

Pili. Che cosa ci hai? Leva la mano; non è niente. 
Il manco male che tu abbi in capo è questo. Oh va, 
bevilo tutto tu. 

Mar. Chi diavolo sei tu che sei venuto oggi a farmi 
rompere il collo. 

p£L. Non mi riconosci ancora? Sono il tuo Pilucca. 

Mar. Da Lucca? 

PiL. Son Pilucca. 

Mar. Oh Pilucca, e chi t'avrebbe riconosciuto cosi 
strutto! Sarebbe mai tornato il padrone? 

PiL. Il padrone è tornato, si. 

Mar. Cosi si che romperò il collo davvero; 

PiL. Odi. Io ho commissione di rivederti i conti. Siamo 
d'accordo insieme; se non che... tu m'int^di. 



Ì% OU STSACOIONI 

ÌHajel e che vuoi contare, che non 8*6 busealo, poi 
che 'tu ti partistii un soldo? 

Vlh* Marabea , tu sai che io ti conosco , e tu conosci 
me. Oltre aU* esser io tristo di natura , ho imparata 
r.arte dfi te, e ultimamente mi sono addottorato in 
galera; sicché risolviti, che io non ci sto forte. Avemo 
fotte tante tristizie insieme, che per ambidue fa di 
star cheti e di tenerci il sacco V un 1* altro. Voglio 
di quel che tu hai rubato la parte mia fino al fi- 
nocchio, o guasteremo qaesta vendenunia ancora a te. 

Mar. Infine , io ho tanta paura e tanto bbogno di 

' un tuo pari, che son forisato a far ciò che tu vuoL 

PxL. Voglio participar dunque del passato e dell'av- 
venire. 

Mar. e cosi sia: Modi vecchi e patti usatL 

PiL. E danari alla mano. 

'Mar. e i conti siano saldi. 

PiL. Si, con i soldi. 

Mar. Basta; ti contenterò. 

PiL. Contanti, dico io; dammeli. 

Mar. Te ne do la fede. 

PiL. Non si spende. 

Mar. Te li do certo. 

PlL. Orsù , mi fido di te. Ma perchè mi fo coscienza 
di sgaglioffarteli , li voglio meritare con darti vera- 
mente la nuova che tu desideri del padrone. 

Mar. Dimmi dunque che non sia tornato. 

Pili. Non è tornato. 

Mar. e che non tornerà più. 

PiL. Non tornerà più. 

Mar. e che sia morto. 

PiL. E morto. 

Mar. Davvero? 

PiL. Come! Si muore da motteggio? 

Mar. Messer Giordano è morto? 

Pili. He^aer 6iord«kno« 



ATTO PBIMO. — se, IV. 23 

Mab. In mare? 

Pili, In mare. 

Mar. Mare viditte e non fuggitte. G-iordano non è 

. converso tetroso; e forse che la Serittora non la 
diceva. 

PiL. Se cosi è, ben gli stette. 

Mab; Or si che. tu meriti li tuoi quattrini , Pilucca ; 
e questa è una buona nuòva; ma .io te ne voglio 
dare una migliore. 

PiL. E che può essere meglio , che il padrone sia 
morto? 

Mar. Tel dirò io; la padrona è innamorata. 

PiL. Buona! e t'intendo. Tu vuoi dire che la mia 
nuova serve per . assicurarci di quello che s* è bu- 
scato fino a ora, e la tua a poter buscar Iper in- 
nanzi» 

Mar. Oh madesi. La padrona air amore » e -noi- alla 
roba ; si , che questa fedeltà e queste coscienss» 
son cose da morirsi di fame e di freddo. Della Toba, 
Pilucca, della roba, se volemo esser galantuomini; 
e se i nostri non ce ne hanno lasciatale costoro non 
hanno tanta discrezióne che ce ne disino, se non ab- 
biamo arte da guadagnarne , se la fatica non ci è 
sana, è cosi gran cosa che ci vagliamo delle nòstre 
mani? A ogni modo manco male è morir di fune che 
di stento; Thai tu intesa, Pilucca? 

PiL. Benissimo ; e mi piace questa dottrina. Di chi è 
ella, deTeripóteci o di Stronzici? 

Mar. Che vuoi fare di questi Alfabécochi? Bisogna- 
altro che i lor sogni a viverci. Ma che vuol dir che 
, la Nuta viene cosi infuriata? 

Nota. Ah traditoraccio poltrone! Perciò non volevi 
tu che io ti entrassi più in casa? Per questo, quando 
avevi le renelle, quando il fianco, e quando il can- 
chero che ti venga! 

Mar» Che cosa è questa, Nuta? 



64 Gl'I STRACCIONI 

NuTA* Ohe cosa? ah, manigoldo! 

Mah. Ohi la barba! ohi, ohi! 

Pili. Ah, ah, ah! 

NuTA. Boba fresca volevi? grimo porco! Ma ti pen- 
tirai, ti so dir... Donne per forza? Ah! 

Mah. Che donne? 

Nota. Si sa ben, si, vecchio lussurioso. 

FiL. Ah, ah, ah! 

Mar. Nuta mia. 

NuTA. Per.. forza? ah! 

Mar. Sta un pochette, Nuta. 

Nuta. Voglio che lo sappia ognuno. 

Mar. Non gridar si forte almanco. 

Nuta. Donne per forza? per forza? 

PiL. T'ha servito, per Dio! 

Nuta. Per for.... 

Mar. Zitto ! 

Nuta. Mi turi la bocca , furfante ! la voglio dire al 
tuo dispetto: una zittella per forza. 

PiL* Se vuoi che taccia, dille che gridi. 

Mar. Nuta mia. 

Nuta. Tua! ah cau puzzolente! 

Mar. Pelami tutto, e non dir niente. 

Nuta. Vecchiaccio di Susanna. 

PiL. Ah, ah, ah! 

Nuta. Ma se non mi bisognasse tornare in casa ... se 
avessi tempo oggi di portar questa sua póliza al Go- 
vernatore... 

Mar. Odi, Nuta, Nuta! — Falla un po' fermare, Pi- 
lucca. 

PiL. Nuta , aspetta , odi una parola, Nuta ! Appunto , 
il diavolo se la porta. 



25 
SCENA QUINTA. 

Blaralieo » Pilueeà. 

Mar. Pilucca, rumato sono. 

Pili. Una buona scarmigliata hai tu tocca. 

Mar. Di peggio ho paura. 

PiL. Che baia è questa? 

Mar. Baia? ah!... Una baia da tirare una capezza, o da 
balzare in una 'galera. 

PiL. Canchero alla falla! 

Mar. Tu burli, ed io son morto fino a ora di paura. 
Tu non sai Terror che io ho fatto, né il pericolo che 
io porto. 

PiL. Che grande errore è questo? 

Mar. Tenere una donna per forza. 

PiL. Ben , ben. Tu fai molto a sicurtà con le forche ; 
che donna è questa? 

Mar. Una fanciulla liberata da' Turchi per opera delle 
galere del Papa. 

PiL. E come lo sai? 

Mar. Ti dirò: questa state passata le galere di No- 
stro Signore andarono verso Levante contra gl'In- 
fedeli. Nel ritorno che fecero, si scontrarono con certo 
fuste di Turchi, che poco innanzi avevano avuta la 
caccia da quelle di Venezia; e combattute e prese 
che le ebbero i Turchi furon posti alla catena , e i 
Cristiani che vi erano su prigioni , giunti a Civita- 
vecchia, si misero in libertà , come è ordine di Sua 
Beatitudine, e decreto perpetuo , che i Cristiani in 
Boma non possono essere schiavi. Fra gli liberati 
fu questa Agata , che cosi si fa chiamare. Ma quel 
capitano che 1* aveva prima nelle mani , la riprese 
secretamente. Io capitai in quel tempo a Civitavec- 
chia, e tenendp amicizia con costui, mi mostrò questa 



A^ OLI STjgLiCSOIONI 

^^eora per sua -^Aliava* Piacqaemi tanto quanto mi 
dispm.^^!^%; tutte le altre donne. Il capitano temea, 
come io so ora , di tenerla ; trovossi bbognoso di 
danari; io gliene fei pala, e promisili, come volse, 
di non condarla a Roma; tanto che la comperai, e 
centra la promessa che gli feci, la menai pur qui, 
sperando di tenerla celata, o di far che si stesse vo- 
lentieri meco, e d' esser ben fornito per lussuria. Ma 
per molta guardia veggo che non 1' ho potuta tener 
secreta; e per molte carezze e minacce e strasj che 
le abbi fatti, mai non V ho potuta - disporre a guar* 
darmi pur una volta di buon occhio. 

PlL. È bella? 

Mar.. Bella e buona e savia a meraviglia , e , quel 
che importa , è cristiana e libera , e mostra d'esser 
nobile. Ondechè , stando per forza , fra la paura di 
tenerla, la disperazione di conquistarla, e il dolor di 
lassarla , stava tutto confuso di pigliarne qualche 
partito da non capitarci male; quand'ecco 8*è pur 
saputo , e non so come. Ora V ovo dell' Ascensione 
non camperebbe me né quel capitano, se il Gover- 
natore lo sa, che non siamo impiccati o messi in ga- 
lera. £ ora conoscerò, Pilucca, se tu mi vuoi bene. 

PiL. Che vuoi eh' io faccia? 

Ma?. Che tu intenda , come questa spiona della Nuta 
l'ha saputo, e se l'ha detto a persona; e che prov- 
vegghi che non lo dica, -se siamo a tempo; e so- 
prattutto che non vada dal Governatore; e poi pen- 
seremo il modo di levarci da questo pericolo. 

PiL. Orsù, fa buon animo. Voglio ire a parlarne con 
la Nuta. 

Mar. e io con l'Àgatina, se ne potessi ritrar qual- 
che cosa. 



87 

ATTO SECONDO 



SCENA PRIMA, 

Barliasrlais, Gisippo) 9aiir«, Demeirlt^ Ifuiil. 

Babb, Oh benedetta sia questa mia comare; almanco 
la dice come la intende ; e intendela benissimo, se- 
condo me. Poiché Pilucca afferma che il marito è 
morto , dice di volerne un altro , e, senza consiglio 

. di parenti , giovine, forestiero e povero , e, alle ra- 
gioni che assegna , mi pare una savia donna ; e un 
gran pazzo mi parrebbe questo Gisippo, eh* ella dice 
d' aver già fatto' tentare , se non la pigliasse. Mi si 
fa mille anni che passi qui da bottega, come suole 
ogni giorno , per fare questa senseria alla comare. 
— Eccolo qua con quel forestiero. Non ha cattivo 
gusto la comare, no; un copertoro appunto da ve- 
dove. — Uomo dabbene, avete trovato quel vostro 
amico ? 

Dek. Ho trovato qui messer Gisippo, che è quel me- 
desimo. 

Babb. Mi piace ; ma, con vostra licenza, gli vorrei dir, 
appartato, parecchie parole. 

Dem. Come vi piace. 

GisiP. Anzi non vi partite. — Dite pur liberamente , 
che questi è uno stesso con me. 

Babb. Messer Gisippo, io so che v* è stato parlato da 
altri di quel che vi voglio dir ora ; e se ci arete ben 
pensato, spero che non mi^partirò da voi senza con- 
chiudere. 

GisiF. Che sarà pur.... moglie? 

Bàbb, Che mog;lie ! moglie pigliano quelli che rom- 



26 GLI STRACCIONI 

pono il collo; ma questa, diche io vi voglio parlare, 
sarà la contentezza, la quiete e la felicità vostra. Voi 
non dovete saper forse chi sia Madonna Argentina. 

Gjsip. Se non avete a parlar d* altro, non] dite più 
oltre. 

Sat. Messer Demetrio, ragionano di quel parentado* 
Ora è tempo di batterlo. 

Barb. Che! non ci avete il capo, o non vi pare il 
partito degno di voi? 

Gisip. Il partito è maggiore che non merita la mia 
condizione. Ho caro d' esser amato e desiderato da 
una gentildonna sua pari ; non son si amico della for- 

' tuna, che non abbi bisogno delle facultà; reputo che 
questa sia la maggior ventura eh* io possi avere; 
conosco che la debbo accettare, e che fo male a 
non farlo; tuttavoltà mi risolvo di non potere. La 
sorte mi mette questo bene innanzi , perchè non lo 
posso usare. 

Barb. Io non intendo questo vostro parlare , e non so 
perchè non possiate , quando vogliate ; e voler do- 
vreste , secondochè voi medesimo dite. Ohimè dio ! 
Bellezza, onestà, ricchezza e amore insieme, e in una 
patria come Boma; e state in dubbio ^ farlo? 

Dem. Acciocché voi sappiate , qui messer Gisippo , per 
dolor di una sua donna morta , e per ricordanza di 
lei, è cosi alieno da questa pratica. 

BarIb. Per una morta dunque volete scontentare tanti 
vivi, e far centra di voi medesimo? 

GisiP. Morta è ella , quanto al mondo ; ma nell' a* 
nìmo .mio sarà sempre viva e immortale. 

Dem. Messer Gisippo , la nebbia delle passioni oscura 
il lume della prudenza ancora ne' savi. Se questo 
non avvenisse ora in voi, non ardirei di consigliarvi 
in -questo caso, sapendo di quanto gran sentimento 
sete in tutte le cose. Ditemi , se ve lo persuade la 
ragione, la quale è uBa perpetua norma delle cose 



ATTO SECONDO. — SC. I. 29 

che s* hanno a fare ; volete voi non consentirvi per 
lo dolore, il quale voi sapete che è una alterazione 
a tempo dell'animo nostro? Il dolore passerà, che 
sarà passata T occasione; e di qui nascerà un altro 
dolore, che sarà il pentimento di non V aver fatto ; 
perchè il procedere del tempo e le necessità della 
vita faranno mutar V animo a voi , e lo sdegno lo 
farà mutar a lei. Cosi voi vorrete a ora che nonpat 
trote e ch'ella non vorrà ; perchè, dispregiata da voi, 
si getterà da qualcun altro. E delle sue simili, se- 
condo che intendo, non arete a vostra posta. 

Barb. Si.... che si trovano forse ad ogni uscio delle 
sue pari? 

Gksip. Per rifiutar le sue nozze, io non dispregio lei, 
ma piuttosto manco a me st^so. Quanto ai bisogni 
della vita , io vi ricordo , che non hanno forza di 
muover quelli che desiderano di morire. Del tempo, 
80 che è medicina di molte passioni; ma non può 
esser del mio dolore, 

Dem. Perchè? 

GisiP. Perchè è infinito. 

Deh. Questo è impossibile; perchè sete finito yoL 

GisiP. Basta che non sia per finire avanti la mia 
fine. • 

Deh. Né questo può essere, perchè non nasce mai sole, 
che non ci rechi qualche mutazione, cosi dell* animo 
come del corpo. 

Barb, Voi parlate in filosofia, e io vi voglio parlare 
in medicina. — Il dolore mi penso io che sia nel- 
r animo, come una ventosità nel corpo. Una pittima 
solamente che vi facciate al core di quel masson 
d'argento della mia cornarozza, isete guarito. ^-^ E 
possibile che voi non aggiate considerata la bellezza 
e la grazia di quella vedovetta ? Quel viso dolce.... 
quegli occhi ladri.... quella persona, di man della na- 
tura ? E come potrete voi stare addolorato a vederla 
solamente innanzi? 



30 OLI StRACClOKi 

GisiP. Ohimè, che la rammemorazione di queste bel- 
lezze mi porta amaritudine ! 

Babb. Oh perchè ? non è bella ?. 

GisiP. E bellissima; e direi denza comparazione, se 
gli occhi miei non avessero veduta Giulietta. 

Barb. Eccoci pure a Giulietta. — Quando vi comin- 
cerà a piacer costei, vi parrà più bella della Giulietta. 

Dem. Dice il vero : Perchè la pratica fa Tamore , e 
l'amore genera il piacere ; e il chiodo si caccia col 
chiodo. 

Gisip. n mio è fitto e ribattuto di sorte, che, se Tasse 
non si rompe, non uscirà mai. 

Barb. Voi sete giovine, figli aol mio. Oh, guardate a 
questa mia barba bianca, e credete quel ch'io vi dico 
cosi alla materiale. «Io ebbi un* altra moglie che, 
quando mi morl^ credetti di non dovermi mai più rac* 
consolare, né che mai più si trovasse un'altra donna, 
che m'andasse cosi a pelo ; ma non passò molto, che, 
quel dolore mi calò nella schena, e per guarirne, an- 
dai alla volta della mia Paolina, la quale ora stimo 
più cento volte che quella morta, e vogliole meglio 
assai. E se oggi mi morisse ancor ella, ne terrei do- 
mane un'altra, e crederei che mi avvenisse il mede- 
simo. 

GiSiP. Io non potrei mai far questo torto a Giulietta. 

Dem. Giulietta , o non sente, o non cura più queste 
vanità ; e se le sentisse e se le curasse, dovremo cre- 
dere che amasse piuttosto Ta quiete e Tutìle e l'onor 
vostro, che il dispiacere e il danno e il biasimo che 
trarrete di questa vostra costanzia. Ma io conosco 
di non soUicitarvi a pena con queste ragioni: im- 
però mi risolvo a pungervi. A voi pare di meritar 
lode,' facendo l'officio del costante innamorato, e non 
vedete di esser degno di riprensione, lassando quello 
del buono aioico. Se voi non vi curate per conto vo< 
8tro, vk di morire nb d'esser povero e disonorato ; 



— H 



ATTO SECOKDO. — SC. I. Si 

non dovreste però volere che morissero, o disonorata- 
mente vivessero gli amici vostri, e per vostra colpa. 
Mi è lecito, in questo caso, a rimproverarvi che la 
mia vita è 4n questo termine di miseria per voi ; poi- 
ché voi non vi curate di cosi lasciarla in abbandono. 
Io ho perduta la patria, gli amici e le facultà mie, 
per satisfare a un contento delFanimo vostro ; e voi, 
per sovvenire al bisogno della mia e al disordine della 
vostra, rifiutate una si gran gentildonna, un si ricco 
stato, e una si nobil patria, quale è Roma. Felice 
non volete esser per me, quando io son misero per 
voi. — Or fete quel che vi pare,. ch'io troverò qual- 
che altro compenso alla mia vita. 

Sat. Oh, questa si che è la inchiodatura ! 

GisiP. Messer Demetrio , non è meraviglia che un di- 
sperato non s'avvegga del bbogno dell'amico ; per- 
chè perde tutti i sentimenti del bene e del male suo 
proprio. Ma ora che voi dite cosi, del mal mio sento 
dolore, e del vostro, dolore e vergogna ; poiché per 
mia colpa v'incontrò. Tuttavolta, come mi posso io 
addurre a far quel che mi dite, se il dolor non mi 
lascia^ se il genio Tabborrisce, so i sogni me ne spa- 
ventano, se rimmagine ài lei mi tien siffattamente 
occupato, ch'io non potrò volgere il pensiero a ve- 
run'altra donna? 

Deh. Io v'ho detto che il dolor passerà via ; il- genio 
vi detterà il contrario, allorachè non sarà corrotto da 
questa passione. I sogni, voi sapete che 'son sogni ; 
e che una immagine si scancella col suggello d'u- 
n'altra immagine. 

618IP. Queste sono parole; ed io so come mi sento. 

Dem. Oh gran cosa , che un vostro pari dica di queste 
seempieEEe t Vi concedo che di presente vi paia cosi ; 
ma che voi solo vogliate torre al tempo e airanimo 
nostro quei privilegi che hanno avuto ttmprei e con 
ognnnoi ò cosft 4^ ridersene* 



32 GLI STRACCIONI 

Gisip. Oh , non sarebbe il maggior tradimento del 
mondo a pigliar una simil gentildonna, che tanto li- 
beramente mi dona Tanimo, la persona, la roba sua; 
e che io non l'amassi poi con tutto il cuore, come 
merita ? 

Dem. Voi ramerete a vostro dispetto. Non udite voi 
che, alla giornata, la conversazione, la bellezza di lei, 
Taffezion che vi porta, le comodità e i piaceri che ne 
caverete, vi trasformeranno tutto nell'amor suo ? 

GrisiP. E credete che m'abbia a dimenticar di Giu- 
lietta ? 

Dem. Se non ve ne dimenticherete , la sua ricordanza 
vi si farà di giorno in giorno meno acerba, e a lungo 
andare non ne sentirete più passione. Or dite di si, 
nella vostra buon'ora, e lasciate il pensier del restante, 
che non senza misterio vi si mette • questa ventura 
per le mani. 

GisiP. Anima mia , tu sei in loco da poter chiara- 
mente vedere la costanza deiranimo, la grandezza del 
mio dolore, e il desiderio di venir dove tu sei. Tu 
senti che il tuo nome ni'è sempre in bocca. Tu vedi 
che la tua immagine mi sta continuamente nel cuore. 
Tu sai che d'altri che tuo. non posso essere, quando 
bene ad altri sia dato. Conosci dall'altra parte le 
tentazioni, gli obblighi, le ragioni, che in parte mi 
muoyono a rompere il mio proponimento. Ma,,8e di mia 
volontà in ninna parte ho mai violate le leggi del- 
l'amore, non ti sdegnare che ora sforzatamente io 
adempia quelle dell'amicizia. Demetrio, cordialissimo 
nostro amico, fedelissimo ministro degli amor nostri, 
mi costrigne a legarmi con un'altra donna ; per que- 
sto io da te non mi discioglio. L'animo mio sarà sem- 
pre tuo ; il corpo, che tuo più non può essere, vendo 
per necessità all'amico. Se non fedele a te, piacciati 
che non sk| ingrato a lui. Ma pochi in questa mi- 
seria saranno i miei giorni : questi pochi contentati 



ATTO SECONDO. — SC. I. 33 

che io gli spenda a beneficio di un tanto nostro amo- 
revole. E perchè io esca dairaffanno ch'io sento a 
non esser teco, o a te mi richiama, o potendo in qual- 
che parte mi consola. — Andate, messer Demetrio, 
e fate di me quel che vi pare, che io son già vinto 
dall'obbligo che vi tengo. 

Dem. Accetto che d'obbligo lo facciate , non potendo 
persuadcrvelo per altra via ; ma io ve ne gravo per 
l'utile e contento vostro, più che per mio. 

GisiP. Altro contento non ci arò mai che la satisfa- 
zion vostra e la speranza di averne presto a morire. 

Dem. a questi rischi di morte vi potessi io mettere 
ogni giorno. 

Barb. Guata rischi che son questi! Costui entra in 
un mar di felicità, e lo chiama andar a morire. Que- 
sta mi par quella del Giucca, che si mangiò un al- 
berello di noci conce per attossicarsi. 

Dem. Or , Barbagrigia , non accade che voi diciate 
questa mala contentezza a madonna Argentina. Egli 
è disposto fino a ora tanto che basta. Andate a darle 
la parola, e donatele questo gioiello da parte sua, e 
questa sera le metteremo l'anello. 

Barb. Altro che anello bisogna metterle. Voglio che 
gli facciamo incarnar questa sera medesima. 

Dem. Fate che la vedova sia a ordine , che gli farò 
fare ogni cosa. 

Barb. Le donne sono a ordine sempire. Or io vi dico 
il prò; e voglio ire a dirlo ancora a lei. 

Sat. Non già prima di me , che la mancia voglio io. 
Io la veggio alla finestra con la serva. 

NuTA. Che c'è, Satiro ? 

Sat. Nozze ! Nozze 1 

XuTA. Vien su, vien su. 



Caro, 3 



34 GLI STRACCIONI 

SCENASECONDA. 
Bf arabeo , JluCa. 

Mar. E' mi par già che il boia mi pesti in sulle 
spalle; perchè io trovo con effetto che TAgatina ha 
p£H:lato con la Nata per un pertugio dietro al forno. 
Mi si fa mille anni di sapere quel che Pilucca ha 
cavato da lei. Ma eccola che esce di casa ; non vo- 
glio che mi vegga. 

NuTA. Tu t'appiatti? ah gaglioffaccio! Marabeo! ^ 
Padrona, non vuol venire... Marabeo ! 

Mar. Oh che il diavolo ti strangoli ! stregacela t 

NuTA. Va*su, che la padrona ti domanda • • . presto ! 
che bisogna provveder per le nozze. 

Mar. Come! Nozze? 

NuTA. Nozze, ! si. 

Mar. Di chi ? 

NuTA. Della padrona. Di chi vuoi che siano ? 

Mar. Che ! la padrona è rimaritata ? 

NuTA. Si, si, rimaritata. 

Mar. Rimaritata la padrona.' Oh, questa sarà T altra! 
— Odi, Nuta, di grazia. 

NuTA. Vieni alla padrona, ti dico. 

Mar. Nuta mia. 

Nuta. Tanto avessi tu fiato I 

Mar. Odi. 

Nuta. Non mi toccare. 

Mar. Uh! serpentosà. Lassati almeno parlare; che nozze 
son queste ? 

Nuta. Della padrona. Non Thai inteso ? 

Mar. Con chi, ben mio? 

Nuta. Col marito, con messer Gisippo; lo sai ora ? 

Mar. Come ! con messer Gisippo che non la voleva ? 

Nuta. Basta che la vuole adesso. Va*su, che ^'banno 
a far le no;5ze questa sera, 



ATTO SECONDO. — 8C. II. 85 

Mah. Come ! questa sera ? 

NuTA. Perchè ? ti sconcia le tue , forse , con V Aga- 
tina? 

Mar. Che Gattina ? 

NuTA. Ancora lo nieghi, fagnonaccio ! non Tho io ve- 
duta ? non le ho parlato ? non ha ella scritto al Go« 
vernatore ogni cosa ? 

Mar. Il Governatore lo sa dunque? 

NuTA. Lo saperà quando gli, darò questa póliza. 

Mar. Nuta mia, tu sarai cagione di farmi mal capitare. 

NuTA. E che cerco *io altro? 

Mar. Vedi, che non faremo più quella piacevolezza 
insieme. 

NuTA. Ohy mi curò assai de*fatti tuoi ! 

Mar. So ben che, poi che Pilucca è tornato , tu non 
istimi più me. 

NuTA. Né te, né lui, né nessuno ; tutti sete d'una buc- 
cia, voi altri uomini. 

Mar. Dunque gli hai tutti provati. Odi, voglio che 
questa notte facciamo nozze ancora noi. 

NuTA. In corte Savella le farai tu^ poltroncione. 

Mar. Ah , Nuta mia ! perché tanto male ? sta a 
udire ; mostrami un poco questa póliza. 

Nuta. Madonna, io vengo, io vengo. 

SCENA TERZA. 
MamlMO, PilneeA. 

Mar. La neve si strugge, e lo stronzolo si scopre. 
Il Governatore saprà la violenza ch'io faccio a co- 
stei ; e la padrona si rimarita. Tra le forche e la 
povertà Bon condotto. — Oh, ecco Pilucca. Ben, che 
facesti con la Nuta? 

PiL. Che vuoi ch'io abbi fatto ? Ci sono altre faccende 
che le tue. Co*poIlaiuoli| co'pasticcierì, co*cupchi bi« 
sogna negoziare. 



36 GLI STRACCIONI 

Mab. Nozze, ab, Pilncca? 

PiL. Banchetta, che importa! Piccioni ,. pavoni... suso 
a spendere. 

Mar. Pilucca, quest'altra ruina non aspettava io che 
-ci venisse addosso dì queste nozze. 

PiL. Guata ruina da riempir la borsa e il corpo per 
parecchi di. 

Mar. Mal prò ci farà, ti so dire. 

PiL. Perchè? 

Mar. Perchè per noi si fa che la padrona sia in- 
namorata e non maritata. Ora che starà col capo a 
bottega, come potremo noi più ruspare? e se il ma- 
rito ha stocco, dove ci troviamo noi del ruspato? 

PiL. Non pensiamo al male prima cbe venga. Godia- 
. moci queste nozze ; dipoi qualche cosa sarà. 

Mar. Innanzi che venga , bisogna pensarci. Questo 
vivere alla carlona, fa per quelli che vanno per la 
via dritta ; perchè a uomo dabbene avanza della metà 
' del suo cervello, ma a un tristo non basta anco tutto. 
Ohimè, mi pareva d'aver serrati tutti i passi a costei 
che non si rimaritasse. Quanti partiti le son venati 
innanzi^ tutti gli ht> guasti. Solo dell'amor di costai 
la teneva accesa, perchè sapevo ch'egli n'era alle- 
nissimo. Ora questa sùbita mutazione, non so dónde 
si proceda. 

PiL. Tant'è ; la cosa è fatta. 

Mar. Fatta ? alla fé, non sarà. 

PiL. Come non sarà, che s' è data la fede? Il marito 
l'ha mandata a presentare, ed io vengo per te , che 
prepari la cena e l'altre cose ; che voglion far nozze 
questa sera medesima. 

Mar. Questa sera : ben, ben ; la mina è condotta al 
fuoco ; alla contrammina. Pilucca. 

PiL. Non c'è tempo. 

Mar. Bisogna supplir con l'ingegno. Attraversiamoci 
In qualche modo ; commettiamo del male ; diciankone 



ATTO SECONDO. — Ì5C. HI. S7 

• 

al marito della moglie^ alla moglie del marito;* fin- 
giamo qualche innamoramento^ qualche adulterio d'uno 
di loro, qualche malfrancese di tutti due. Impediamo^ 
allunghiamo la cosa almeno per questa sera ; dipoi 
qualche diavolo c'entrerà. 

PiL. Guarda che non entri nel catino, Marabeo. 

Mar. Non dubitar, Pilucca, ch*io cerco di sparecchiare 
il letto e non la tavola. 

Piti. Oh COBI , si : facciasi la cena e disfacciasi . ogni 
cosa. 

Mar. Intanto non perdiamo l' occasione. Vedi colà 
qaelli due che volgono il canto? quel maggi<M*e è lo 
sposo. 

PiL. Quello è messer Gisippo? 

Mar. Si, è. 

PiL. Oh, quelFaltro è Demetrio. 

Mar. Chi Demetrio ? 

PiL. E quello con chi sono scampato di galera e ve- 
nuto a Roma. 

Mar. Che cosa ha da far costui con esso ? 

PiL. Che so io ? Sono Levantini , e debbono essere 
amici. 

Mar. e questa conoscenza ci torna a propòsito. Sai 
quello eh' io penso ora ? Che noi facciamo zufolar 
neir orecchio a questo Demetrio , che la vedova è 
pregna. 

PiL. Ed è una bella pensata. 

Mar. Tu sai che in queste cose ogni ombra fa so- 
spetto; ed ogni poco di riscontro che se n'abbia, si 
crede affatto. 

PiL. SI bene. 

Mar. Egli non deve conoscere in Roma altri che te. 

PiL. Nessun altro ; né manco può sapere che io cono- 
sca Gisippo. 

Mar. Tanto meglio. Costui certo se ne viene alla 
volta tua. 



38 GLI STRACCIONI 

PiL. Ed io te lo confetto. 

Mar. Sai chi sarà buono a far credere che sia pregna ? 
Mastro Gerbone. 

'Pile, £ a impregnarla sarà anco buono. 

Mar. Faremo che glie ne dica in un certo modo in 
carità. 

PiL. Messer si; e io gliene confermerò in secreto. Intanto 
non bisogna perder tempo per la provvisione del ban- 
chetto. 

Mar. Facciamo cosi dunque : Io piglierò Tassunto della 
cena ; e tu trova mastro Gerbone e ordina questo 
panione a Demetrio; dipoi civettali tanto d'intorno, 
che vi si cali. 

PiL. E forse, che non lo saprò fare? 

SCENA QUARTA. 
MaralMO, Cinllo, Ittepa, Fali^lto. 

Mar. Oh , ecco qui Giulio a tempo. To* su Ift resta, 

vien meco , chiama due altri furbi che t' aiutino a 

portar della roba. 
GiUL. Lispa, Fuligatto, za, za! 

FuLiG. Oh , Marabeo , vedi colà nel palazzo un che ti 
' domanda. 
Mar. Ghi sarà costui? 
Lis. Vedi che t'accenna. 
Mar. e vestito alla marinaresca. Questo è oggi un 

grande influsso dì galeotti. Mi par cosi il Padrone.... 

diavolo ! che sia desso ? — Aspettatemi voi qui finché 

io torno. 
GiUL, Non partiremo di qua. 



ATTO SECONDO. — SC V. * 39 

SCENA QUINTA. 
Cìullo, FaligAtlo, I^ispa, Mirandola. 

CiUL.« Intanto diamoci piacere alle mani. 

FuLiG. Si, si, a Gilè, Gilè. 

CiuL, Fuora le sfogliate ! La cesta qui nel meezo. Qua, 
Faligatto; qua, Lispa. Alza per chi dee fare. 

Lis. Oh , ecco il Mirandola , che vien qua. Di grazia , 
facciamo una burla prima a lui , per metterlo alle 
mani con gli Straccioni. 

CiUL. Come, cosi? 

Lis. Gli Straccioni piatiscono quelle gioie, che voi sa* 
pete , con i Grimaldi, e questa sera ne aspettano la 
sentenza in favore. I suoi avversarj , per aggirarli , 
m' hanno dato due giulj, perchè facciamo credere al 
Mirandola , che quelle gioie che domandano a loro , 
sono certe che furon rubate a lui. 

CiUL. Si, si, facciamolo. 

FuuG. Facciamolo. 

Lis. Fuligatto, fermati qui tu dunque e mostra di sen- 
tir spiriti di questa cantina. Io andrò giù e fingerò 
d' esser il suo Malariccia. E tu , Ciullo , va, conduci 
il Mirandola in qua. 

CiUL. Mirandola, non senti quanti Mamalucchi sono per 
queste cantine? 

Lis. Oh, Mirandola l 

FuLia. Odi, che ti chiamano. 

Lis. Oh, Mirandola! 

MiEAN. Chi sei tu che mi chiami? 

Li8. Son Malariccia. 

MiRAN. Che vuoi tu? 

Lis. Rivelarti un secreto. 

MiBAK. Che secreto? 

Lis. Non ti ricordi che il Gran Turco ti scrisse una 



40 GLI STRACCIONI 

volta di mandarti una certa quantità di gioie , che 
faron poi tanti vetri? 

MiRAK. Me ne ricordo. 

Lis. Conosci tu gli Straccioni? 

MiRAN. Si, conosco. 

Lis. Oh, essi te le hanno rubate. 

MiRAN. Oh, beccacci, ladri! eccome? 

Lis. Son conciatori di gioie ; e per quésto capitando 
alle lor mani, le contraffecero. Le contraffatte vennero 
a te ; e le buone rimasero a loro. 

MiRAN. E che n' hanno fatto ? 

Lis. L' hanno vendute a San Giorgio di Genova, e però 
domandano ora li trecentomila ducati a' Grimaldi. 

MiRAN. Oh, f urfantoni ; si vogliono rivestir del mio, ah ! 

Lis. Da parte del Gran Turco ti dico che tu staggisca 
questi danari in mano de' Grimaldi , e che ne facci 
tante genti per l'impresa. 

MiRAN. Bisogna prima far genti per cavarli loro delle 
mani. 

Lis. Io son qui per questo, e per dar principio all'im- 
presa. 

MiRAN. Con quante migliaia? 

Lis. Con millantamila. 

MiRAN. Che disegno è il vostro? 

Lis. Metter Monte Mari dentro da Eoma. 

MiRAN. Perchè fare? 

Lis. Per esser a cavaliero a Castel Sant' Angelo. 

MiRAN. Oh , che il canchero vi mangi ! Voi comince- 
rete pur a intenderla. Mettetevi anco di sopra il Co- 
liseo e la Eotouda per gabbioni da piantare arti- 
glierie ; e , per cannoni , conducetevi le colonne di 
Traiano e d' Antonino. 

Lis. E le guglie. 

MiRAN. Di quella di San Pietro fatene un ariete ; e 
dell'altra servitevene per ferri da passatori ; e degli 
archi delle Tenne fate balestre a panca. 



,^-1 



ATTO SBCOKDO. — SC V, 41 

Lis. Farassi. 

MiRAN. £ che aspetta qael poltron del Turco che non 

viene ? 
Lis. Aspetta che noi facciamo questo cavaliero, e che 

i pali s'auzzino. 
MiRAN. Perchè non invia gli giannizzeri intanto ? 
Lis. L'ha fatto; e già n' ha messo una parte. 
MiRAN. E dove sono ? 
Lis. In Cancelleria, per toccare danari. 
MiRAN. £ che s'ha da fare? 
Lis. Incoronarti imperatore. 
MiRAN. Di che? 
Lis. Di Testacelo. 
MiRAK. E della Trebisonda? 
Lis. £ della Trebisonda. 
MiRAK. Che segno me ne dai? 
Lis. Per Testacelo , questa mitra ; e per Trebisonda , 

quest'altre insegne. 
MiRAN. Queste mi paiono scope, a me. 
Lis. No, no; sono quei fasci che usavano i Consoli 

Romani. 
MiRAN. La Piccardia non confina con Testacelo? 
Lis. Si , confina ; ma di questa t' investirà il Conte di 

Baiona. 
MiRAN. Dammene l' insegna. 
Li 8. Eccola. 

MiRAN. Che cosa è questa ? un capestro ! 
Lis. No, 'una collana. 

MiRAK. Oh, non mi deverò più morir di fame. 
Liis. No, se cotesta , collana fa il debito suo. 
MiRAN. Or sollecitate dalla banda di Levante, ch'iodi 

qua sono a ordine. 
Lis. Gli Straccioni averanno la sentenza questa sera ; 

ricordati di sequestrar quei danari. 
MiRAN. Me gli daranno ora profumati. 

CiUL. FuLiG. e Lis. 
Taràntara, Taràntara, tif, taf. 



42 QLI STRACCIONI 

ATTO TERZO 



SCENA PRIMA. 
PiloeeA, Satiro, Demetrio. 

PiL. Marabeo non comparisce ancona con questa prov- 
visione. Saria ben bella , che , per empiere il corpo 
della padrona, mi perdessi l'empitura del mio. Ma 
ecco di qua Demetrio ; lo voglio aspettare, per chia- 
rirmi se il buon Gerbone m' ha servito , di piantarli 
quella carota ; e , se non fosse bene entrata , gliene 
darò una calcatella gentilmente. 

Sat. Cacasevo. Va', piglia moglie a Roma tu. 

PiL. Ma se glier ha piantata.... 

Dem. Vedova già sette anni, e pregna! 

Sat. Fatemi questo latino in volgare. 

Dem. Satiro, io dubito che questo non sia uno strata- 
gemma per distornar questo parentado ; a crederlo senza 
riscontro^ saremmo corrivi ; a riscontrarlo non avemo 
se le nozze non s'indugiano ; indugiarle senza Gisippo 
non possiamo. Se diciamo questa cosà a lui, Taffligemo, 
e lo distogliemo da questa ventura affatto, quando non 
fosse vero. Se è vero, e non gliene diciamo, e le nozze si 
faccino , lo mandiamo al macello, e lo disonoriamo 
per sempre. Che faremo. Satiro ? Noi V avemo messo 
in questo labirinto, e noi ne T avemo a cavare. 

Sat. Non diciamo (se vi pare) a lui della pregnszza ; 
e domandiamo da noi T indugio delle nozze per que- 
sta sera. Dipoi , di cosa nasce cosa. Io andrò tanto 
buscando, che me ne chiarirò ben io. 

Dem. Questo sarebbe il tratto , se ti bastasse V animo 
di ottenerlo. 



ATTO TERZO — SC. I. 43 

Sat. Ci proverò. Dirò, che non siamo a ordine ; fingerò, 

che 8Ì senta male. 
Deh. Intanto ecco qui Pilucca appunto. Va' procura 

tu di ottener l'indugio delle nozze ; ed io vedrò di 

cavai*ne qualchecosa da costui. 
PiL. Buono ; si viene a infilzare da sé stesso. 

SCENA SECONDA. 
Demetrio, Pilueea. 

Deh. Addio, Pilucca. 

PiL. Oh , messer Demetrio , avete trovato quel vostro 

amico ? 
Dem. Non ancora. Che non m' aiuti a cercarlo ? 
PiL. Ho troppo da fare. 
Dem. e che faccende son le tue? 
PiL. Nozze. 

Dem. Che? hai preso moglie? 
PiL. No. La padrona ha preso marito. 
Dem. Sarebbe mai quella che si marita con un certo 
/ greco ? 
PiL. Che ? già la conoscete ? 
Dem. No, ma n'ho inteso parlare qui da certi. 
PiL. Che ne dicevano ? 
Dem. Che è bella. 
PiL. Bellissima. 
Dem. Ricca. 
PiL. Ricchissima. 
Dem. Buona roba. 
PiL. Bonissima. 
Dem. Buona compagna. 
PiL. E tant' oltre ? 
Dem. e anco pregna, che è un altro prieterea, 

PiL. Pregna? 

Dem. Eh, cosi alquanto. 



44 GLI STRACCIONI 

PiL. Capperi ! Questo è por troppo ! £ si dice che è 
pregna ? 

Dem. £ si sa, che è peggio. 

PiL. Oh diavolo ! Le diceva ben ioy che non si lasciasse 
bazzicare intorno quel principe. 

Dem. Principessa , ah ? Oh, se questo suo sposo lo sa, 
come passerà la cosa? 

PiL. Se non lo sa per tutto oggi , è fatto il becco al- 
l' oca. 

Dem. £ come tornerà il conto de* mesi poi? 

PiL. Oh, sta bene in quanto a questo. I figliuoli si fanno 
per r ordinario cosi di sette, come di nove ; e, all'u- 
sanza d*oggi, di più e di meno, secondochè bisogna. 

Dem. Notate verba! 

PlL. Ma vedete messer Demetrio Zoccoli.... 

Dem. Si^ si, brache! 

PiL. State cheto, e basta. 

Dem. £cco messer Gisippo che vien di qua. Addio, Pi- 
lucca. 

PiL. Oh questo è lo sposo. Voi lo conoscete dunque? 

Dem. £h, non importa. 

PiL. Oh che' ho io detto ! Sta pur a veder che sarà 
suo amico. Udite , messer Demetrio ; io burlava con 
voi ; ben sapete. 

Dem. £h ! io lo credo bene. 

PiL. Non è pregna, davvero! 

Dem. Cosi presto ha partorito? 

PiL. Udite. 

Dbm. Basta. Vàtti con Dio. 

PiL. Di grazia.... 

Dem. Taci, ch'io taccio. 



ATTO TERZO. — SC. III. 45 

SCENA TERZA. 
Cttaippo, Demetrio^ GiOTanni e BaUisCa, Straccioni. 

G lov. Insomma, questo giudice ha un capo tanto sodo, 

che la ragione non ci può entrare. 
Batt. e r ostinazione non ne può uscire. 
Giov. Sì, per dio. 
Batt. Orsù, lasciamo che a questo articolo rimedi il 

procuratore. Andiamo a trovar quello da Scio. 
Giov. Certo colui sa qualche cosa, della Giuliétta. 
Batt. Oh, vedetelo là. Chi è colui che è seco ? 
Giov. Non lo conosco. 
Batt. Non diss* egli che sperava di trovar Tindaro in 

Roma ? Sarebbe mai questo ? 
Giov. Non lo potemo conóscer di vista, perchè, quando 

partimmo di là, era molto giovinetto. Ma, pesr dio, che 

mi par che somigli il padre. 
Batt. Madesl che gli somiglia. 
Giov. Oh, io riconosco adesso quel servitore. 
Batt. Oh, quello è Satiro. 
Giov. Quello è Satiro! 
Batt. E Tindaro certo. 
Giov. E Tindaro... oh can traditore ! 
Batt. Aspettate ; chiariamoci prima se Giulietta è in 

Boma. 
Giov. Oh, figliuola mia! 
Batt. Ritiriamoci in questo canto, che qualchecosa ne 

spieremo. 
Dem. Messer Tind... messer Gisippo, cioè; pur mi vien 

detto Tindaro. 
Gisip. Non importa quando semo da noi. 
Dem. Il male è, che, se non me ne distolgo, mi verrà 

detto altrove. 
Giov. Oh, ribaldo ! s' ha mutato il nome. 



46 GLI STRACCIONI 

Batt. a tempo gli è venuto detto. 

Dem. Come sete a ordine per le nozze ? 

GisiP. Come Dio vuole. 

Dem. Udite : considerato ogni cosa, mi son risolato che 
non sia bene a farle questa sera. 

GiSiP. Si potesse non farle mai I 

Dem. Oh , questo no : ma pigliar per moglie una gen- 
tildonna romana , e menarla cosi alla sfuggita , non 
mi par che passi con molto onor nostro ne suo. 

Giov. Moglie una gentildonna romana ! Ohimè, questa 
non può esser Giulietta. 

Batt. Tacete ! 

Dem. Bisogneria che la vedova si contentaSise di dif- 
ferir queste nozze. 

Giov. Una vedova ha preso! 

Dem. Che faremo ? 

GisiP. Voi avete fatto ogni cosa fin qui ; fate anche il 
restante. 

Dem. Governatevi dunque come io vi dirò. Io ho man- 
dato a dire che voi sete indisposto, andatevene in casa, 
e fatene le viste. Del resto lasciatene la cura a me. 

Giov. Oh traditori ! E dove hanno lasciato la Giulietta ? 

Batt. Andiamo or a parlar con essi. 

Pem. Oh fermatevi , messer Gisippo , che ci bisognerà 
render conto della Giulietta. 

Gisip. A chi? 

Dem. Al padre ed al zio. 

Gisip. Dove sono ? 

Dem. Eccoli, e non gli possiamo più fuggire. 

GiSiP. Pazienza. Aspettiamoli dunque, son questi ? 

Dem. Questi. 

GisiP. Ohimè, sono in tanta miseria! 

Dem. Miseri ci avete fatti voi* 

GisiP. Messer Giovanni, io..^ 

Giov. Voi ah! voi avete fatto quel che v*è parso. Dove 
è la mia figliuola? 



\ 



ATTO TERZO. — SO. III. 47 

Batt. Non rispondete ? 

Giov. Dove r avete lasciata ? 

Batt. Che ne avete fatto ? 

Giov. Non lo volete dire? 

GisiP. Messer Demetrio. 

Dem. Orsù y che ne parleremo poi. 

Giov. Come poi l Quando ve ne sarete andati con Dio ? 

Batt. Ditelo, che all' ultimo sarà pur vostra. 

Giov. Come sua ! che n' ha presa un' altra. 

GisiP. Ohimè! 

Dem. Udite. Leviamoci un poco di strada. 

Batt. Che! volete appiattarvi? 

Giov. Dove è Giulietta ? 

GisiP. Oh Giulietta! 

Batt. E morta forse? . 

GiSiP. Ohimè ! ohimè! 

Giov. E morta mia figliuola ! Oh traditore , assassino t 
Non t' è bastato averla rubata , che V hai fatta mo- 
rire per pigliare un' altra moglie. Violenza ! Adulte- 
rio ! Assassinio ! Troverò io giustizia. Giustizia ! 

Dem. Non gridate , messer Giovanni , che messer Tin- 
darò non ha peccato in altro , che in troppo amore 
verso vostra figliuola. 

Giov. E però non ha potuto ripigliare, un' altra moglie. 

Batt. Non istiamo qui a far una uccellaia in sulla 
strada. Andiamo al Governatore. 

GisiP. Oh, dove sono io condotto ! • 

Dem. Messer Gisippo, 'Dio ci aiuterà. Di grazia, anda- 
tevene a casa , eh' io voglio aspettar qui Satiro. 

SCENA QUARTA. 

Demetrio, Bartm^rigia, Pilaeea. 

Dem. Oh, che confusione, oh che disperazione, oh che 
ruina è «questa! Quella moglie eh' egli voleva, è morta* 



48 OLI STRACaOKI 

Quella che vuole ora lui, è pregna. Di quella, so nói 
ce n* andiamo, si terrà per certo che V abbiamo fatta 
mal capitare; se stiamo, n'avemo a render conto con 
altro che con parole. — Di questa è necessario , o 
che il parentato vadia innanzi, o che siamo ammaz- 
zati da* suoi. Dairun canto, infamia e prigionia; dal- 
l'altro inimicizia o corna. Se io dico a Gisippo della 
pregnezza lo metto in fuga e lo ruino; se non lo dico, 
lo tradisco e lo vitupero.... Che partito ho da piglia- 
re ? Ecco qui Barbagrigia. E che si , che la vedova 
non ci vorrà manco dar tempo da pensarvi ! 

PiL. Voglio seguitar Barbagrigia , per ìspiar quel che 
risolve di queste nozze. 

Bàrb. Va', va', furia di donna!... Vedova e innamo- 
rata, è come dire fuoco di salnitro , di carbone e di 
zolfo. Oh, se queste nozze non si fanno questa sera^ 
il mondo ha da ritornare in caos. 

Dem. To', quest' altro ! Le trenta para si sono scate- 

* t enato oggi per noi. 

PiL. E per noi le Jerarchie si sono aperte. 

Barb. Oh t che diavolo di brigate sono queste ! Si so- 
glion dire : Grechi salati ; ma costoro mi paiono a 
me. Vogliono, e non si risolvono; promettono, e si 
disdicono. Gli facciamo signori, e gli abbiamo anche 
a pregare. In fatto , le venture corrono dietro a chi 
le fugge. 

Dem. Chp e' è , Barbagrigia ? 

Barb. Tutto il mal del mondo. Che baie son queste 
che andate facendo ? Dove è lo sposo ? 

Dem. Si sente male. 

Barb. Che male ! Male sta quella gentildonna , eh' è 
disperata e male arrivata per amor suo. Bisogna ca- 
var le mani di queste nozze. 

Dem. Non e' è ordine questa sera. 

Barb. Oh, questo si che sarebbe troppo grande scandolo. 

Dem. Oh, che scandolo ? Volete che un ammalato fac- 
cia nozze ? 



ATTO TERZO. — SC. IV. 49 

Barb. e voi volete vituperar questa gentildonna? 

Dem. Oh , che vituperio a indugiare un altro giorno ? 

Barb. Come un altro giorno ? che s' è fatta la provvi- 
sione ; si sono invitati i parenti ; la fama è ita per 
tutta Eoma ; la casa è piena di donne ; e la festa è 
già cominciata ! 

Dem. Non so io. A me pare, che quel che non si può, 
non s* abbia a volere ; e che uno accidente non si 
debbia ripigliar per ingiuria. 

Barb. In questo bisogna sforzarsi, e dove corre l'onore, 
avete a sapere , che questi romaneschi sono molto 
schizzinosi. Oltreché qui nasce anco sospetto che que- 
sta sia piuttosto una ritirata , che una dilazione. E , 
se questo è, pensatela bene. Io ho impegnata la fede ; 
io ho presentato il gioiello per vostra parte e per vostra 
parte si sono intimate le nozze. Ora, se non si fanno, 
r ingiuria sarà grande ; lo sdegno delle donne è pre- 
cipitoso ; ed ella , come sapete , è potente. Io vi ri- 
cordo che voi abbiate molto ben V occhio air onor 
suo e al debito vostro. 

Dem. Hassi dunque a far criminale questa cosa ? Egl 
sta pur male. 

Barb. Questa sera starà bene. Andiamo, che io voglio 
parlare. 

Dem. Ora si riposa. Andate pur a scusarlo, che io vo per 
il medico. 

Barb. A me non basta più V animo di capitarle in- 
nanzi. Io me n* andrò piuttosto a far certe mie fac- 
cende ; e tra voi ve la spicciate. 

FlL. Oh, che siate benedetti ! non la potreste governar 
meglio. Lo Sparti-matrimonio non arebbe potuto scon* 
ciar questo parentato meglio di voi. 

Dem. Ecco i Canali, che andarono dal Governatore. Noit 
istiamo qui^ che potremmo dare ne* mali spiriti. 



Carot 



50 GLI STRACCIOKI 

SCENA QUINTA. 

Procuratore, Mirandola, Giovanni 
e Battista Straccioni. 

Proc. Madesi, che potete farlo pigliare, a darvi conto 

di vostra figliuola. In Roma si conoscono le cause 

di tutto il mondo. Andiamo dal Governatore, che vi 

fa dare il mandato De capiendo. 
MiRAK. Oh, dalla cioppa ! oh quel dottore ! 
Proc. Che e' è, Mirandola ? 

MiRAN. Non séte voi procuratore di questi Straccioni? 
Proc. Si , sono. 
MiRAN. Avete a sapere , che quelle gioie che litigano 

co' Grimaldi , sono mie. 
Proc. Come tue? 

MiRAN. Mie sono r e V hanno rubate a me. 
Proc. Che ne sai tu? 

MiRAN. Me r ha rivelato lo spirito di Malariccia. 
Proc. Se questo è, l'hai di buon loco; ma parla con loro. 
MiRAN. Ladroni ! truffatori ! 
Batt. a noi , ladroni ! 
Giov. Anzi truffatori ! 
MlRAN. A voi, si ; e rivoglio le mie gioie, o la valuta 

da' Grimaldi. 
Giov. Chi sei tu che fai si gran tagliate ? 
MiRAK. Sono io ; sono il Mirandola oggi ; domani sarò 

un altro ; che vi farò impiccare, disertoni ! 
Batt« Un altro ci par tu adesso a dir di queste baie. 
Giov. Costui mi par pazzo, a me. 
MiRAN. Voi sete tristi e ladri. Non ho io la lettera del 

Gran 'Turco, dove dice di mandar queste gioie a me? 

ed eccola qui, ed ecco V inventario delle gioie. 
Batt. Ed ecco qui V inventario nostro. 
Proc* Oh, si, veggiamo se sono le medesime. Leggete 

tqì il vostrO| ed io leggo (juello del Miraudola. 



1 



ATTO TERZO. — SC. .V* 51 

Batt. Noia delle gioie, che per noi Giovanni e Battista 
d0* Céanali, $i son vendute a San Giorgio di Genova^ per 
ornamento detta statua. 

Pboc. Nota delle gioie , che il Gran Turco manda a do- 
nare al Mirandola per la sua incoronazione» 

Batt. In prima : Un Diamante grande in punta d*an' on- 
cia , accomodato per ferro della sua lancia. 

Proc. Un Diamante in punta d* un' oncia, che fu il cu- 
cuzzolo dell'elmetto del Tamberlano. 

Batt. Due Topazj ciottoli grandi, conci per borchie 
del suo cavallo. 

Proc. Due Topazj ciottoli , eh' erano paternostri del 
morso del Bucifallasso. 

Batt. Sedici Diamanti in punta , per le girelle degli 
sproni. 

Proc. Sédici Diamanti in punta, che furono i bitorzoB 
della mazza del Saladino. 

Batt. Un Balascio di due once commesso nel petto 
dell' armatura. ' « 

Proc. Un Balascio di due once, che fu bottone del 
bracfaiero di Maometto. 

Batt. Un fermaglio di Rubini, Smaraldt, Diamanti e 
Zaffiri, per pendente della Donzella. 

Proc. Ecco anco questo, che fu dell' imperatHce d' 0- 
sbcch. 

Batt. E atte Carbonchj, per gli occhi del Drago. 

Proc. Eccoli,* che faron della testa di Medusa. 

Batt. Evvi la Spinella di settanta carati. 

Proc. E la Spinella di settanta carati. 

BATt. E il manico di Diaspro? 

Proc. E il manico di Diaspro, qnel proprio della sci- 
mitarra. — Oh queste si raffrontano tutte loro. 

MiR(A1I. Vedete y se q^iesti ghiotti me l'haimo fretta! 

Proc Che dite voi qui? 

Giov. Madesl , trovati di Tobia* 

Batt* Non 80 quvUo che si dica ooatuir 



52 GLI STRACCIONI 

MiRAN. Lo saprete innanzi al Governatore. 
Pboc. Andiamo dunqne da lai. 

MiRAN. Se non mi fa ragione, me la farò alF ultimo con 
le mani. Se sapeste quel che bolle in pentola 



ATTO QUARTO 



SCENA PRIMA. 

ai 

Maralieo, Pilaeea. 

Mar. Oh dio ! donde è uscito oggi questo mio padro- 
ne? Dubito, che quel traforello di Pilucca non m'ab- 
bia tradito. Egli sarà venuto seco, e da lui gli sarà 
stato ordinato, che porti la certezza della sua morte, 
per iscoprir V animo forse della sua donna 'e gli al- 
tri umori della casa ; e se questo è, io ho mangiato 
il cacio nella trappola. Ma Pilucca , Pilucca I Pa- 
drone , padrone! io farò tanto male prima ohe ne sia 
fatto a me , che Dio sa quel che sarà. 

PlL. E molto in colera. Non debbe sapere che le cose 
vanno bene. Marabeo, la padrona non ara altramente 
quei marito. 

Mar, N'ara un altro, che sarà peggio per lei e per noi. 

PiL. Qual altro? 

Mar. Me ne domandi, tristizia? Ma, ricordati che 
me n'hai fatta una. 

PlL. Che farnetichi tu? 

Mar. Guata viso , che s' acconcia a negareé Non sei 
tu venuto col padrone? 

PlL. Con qual padrone? 

Mah. Con quale? col cavalier Giordanoi 



ATTO QUARTO. — SO. I. 5^ 

Po.. Che di' tu ? È forse vivo ? 

Mah. Cosi fostù morto ? 

Pili. È venuto? 

Mar. Non lo sai, boia ? 

PiL. Il padrone è venuto ? 

Mar. Il padrone, si. Non sei tu venuto con lui ? 

Pili. Non io. 

Mar. Or basta. Tu hai voluto scoprir le mie macca- 
telle ; ed io so le tue ; a far, a far sia. 

Pili. Marabeo, io non so quello che tu ti gracchi, io. 

Mar. Ah, gaglioffétto ! 

PiL. Pensa ciò che tu vuoi, eh' io non so niente. 

Mar. tu di' le bugie , o la Fortuna fa oggi le ba- 
gatelle con noi. 

Pili. Ogni cosa può esser, salvo ch'io t*abbi ingan- 
nato. 

Mar. Tu hai pur detto che il padrone è morto. 

PiL. Questo si; ma perchè lo credeva, non perchè lo 
sapessi; e per non l'andar più cercando. 

Mar. £ con che speranza di salvarti, tornando, come 
è tornato? 

PiL. Che allora non mi mancassero delle ritortole, 
come ora non me ne mancheranno. Io lo dissi , perchè 
mi fu detto nel tal loco, una tal cosa., da un cotale. 
Va*, trova poi tu chi sia colui. 

Mar. Dunque tu non ne sai niente? 

PiL. Niente. 

Mar. e non sei venuto seco ? 

PiL. Ben ben, quante volte te l' ho io a dire? 

Mar. Io strabilio! oh che cose son queste? Morti ri- 
suscitati ; perduti ritrovati ; ambedue prigioni dei 
Mori , ambtdue vengon di mare , dopo tanti anni in 
un di medesimo; e 1' uno non sa dell' altro. Di qua 
si tura, di là si versa. Che diavolo sarà oggi ! 

PiL. Si che, il padrone è tornato? 

Mar. Tu te n' avvedrai. 



54. GLI Straccioki' 

PiL. Dove è egli? 

Mak. In casa mia. 

PiL. Come cosi? 

Mab. e capitato qui nella piazza Farnese, liberato 
come egli dice, dalle galere della Religione. Non ha 
trovato la sua casa; e non volendo comparir cosi 
diserto come è venuto , ha preso per partito di en- 
trarsene per quell'altra porta iu casa mia, finché si 
rimette in arnese. 

PiL. Il malvenuto sarà egli per ognuno. Sa della pa- 
drona, che sia rimaritata ? 

Mah. Sa questo, e delle altre cose, che io gli ho dette.... 
Ma fidomi io di te, Pilucca ? 

PiL. Ah, Marabeo, tu hai torto. Io ci sto per là pelle; 
. ancor io. 

Mar. Or vien qua. L' avere impedito che la padrona 

non pigli Gisippo , non basta , che , se quegli era il 

. cancaro , questi è la peste. Tu sai che bestiaccia è 

costui. Tu hai portata falsamente la certezza della 

sua morte ; io gli ho menato le mani addosso ; e tu 

non te le tenesti a cintola, avanti che partissi. Si 

, trova scornato della moglie; è pazzo, arrabbiato, 

disperato ... Trista la puttana che ci -fece, se non ce 

. lo leviamo dinanzi. 

PiL. Io filo di paura. 

Mar. e io spirito. . 

PiL. Che faremo dunque ? 

Mar. Due vie ci sono a liberarci da lui: L* una met- 
terlo alle mani con Gisippo ; V altra in discordia* 
con Madonna. Per quella lo potremo far mal capi- 
tare ; per- questa li daremo, per un pezzo, da pensare 
altro che a noi Io ho fino a ora incamminata V una 
. e r altra. Gli ho rappòrto di Madonna , che aveva 
caro che fosse morto; che spasima d'esser moglie di 
qupgtc Gf-^ippo; e che questa sera la doveva sposare. 
Pensa, se il Diavolo gli è entrato addosso, Contva a 



ATTO QUARTO. — SC. I. 55 

Gisippo rho avvertito eh' egli ha ana bellissima occa- 
sione per vendicarsi, essendo egli creduto per morto, 
e non si sapendo da persona che sia tornato. Questo 
farà , come si dice , o che il sabato ammazzerà il 
venerdì, o il venerdì ammazzerà il sabato ; e Tuno 
d' essi resterà morto, e V altro anderà con Dio ; e 
saremo Uberi di nuovo da tutti e due. 

PiL. E volemo commettere tanto gran male? 

Mar. Ruini il mondo , purché stiamo ben noi. Bisogna 
risolversi, o d* esser tristo affatto, o di non impacciar- 
sene. 

PiL. E come gli metteremo alle mani? 

Mar. a questo non mancherà modo ; ma s' ha da far 
prima un altro bèi tratto. E forse, che non sarà bel- 
lo? D'un pericolo della vita, voglio cavare un gua- 
dagno di cento scudi. 

PiL. Di questo minerale non gli caverebbe già uno ar- 
chimista. 

Mar, Odi, come.. Tenendo io questa giovane per forza, 
tu sai quel che me ne va. Il padrone Tha veduta; 
e con tutto che sia sulle furie contro Gisippo , è anco 
in tanto amor di costei, che la vuole a ogni modo, e 
pagarmela. Disegna ammazzar lui, e menar lei. E 
cosi, poiché non n'hp potuto far dell'olio, ne farò 
dell'agresto. 

PiL. Benissimo. 

Mar. Ini auto il Governatore, avendone notizia , man- 
derebbe per lei e per me , che è peggio. Imperò bi- 
sogna stare un poco sfuggiasco, e levar lei di casa. 

PiL E dove la metteremo? 

Mar. Mastro Gerbone è ricovero di tutti i nostri con- 
trabbandi. 

Pi^. Si; si, bonissimo. Ma come faremo che non sia 
veduta ? 

Mar. Stando, come tu sai, qiti dirimpetto, appostere- 
mo il tempo, e la intaneremo in un subito.v 



56 GLI STRACCIONI 

PiL. E cosi faremo. 

Mar. Ohy vedi là quella bestiaccia del padrone, che 
non ba potuto aver pazienza d* aspettare in casa che 
gli appostiamo Gisippo. Io voglio andare a dar ordine di 
trabalzar costei. Va tu da lui; e se Gisippo ci capita, 
^mostragliene, e fa le viste di favorirlo 4;anto che 
lo conducbi alla mazza; e poi lascialo in su le pe- 
ste. 

PiL. Cosi farò ; ma io non m* assecuro d^andarli innan- 
zi. Vedi come si scaglia! 

Mar. Tiragli un motto dell'Agata, che il fermerai. 

SCENA SECONDA. 
Giordano, Pilaeea. 

GiOR. So che queste nozze diventeranno, questa sera, 
un mortorio, io. Perchè non lo veggo io ancora, che 
me gli avventi addosso? Io gli aprirò pur il petto, 
gli mangerò pur il cuore. 

PiL. Mi par d'aver le budella in un catino. 

GiOR. Costui mostra all'abito d'esser de'suoi 

PiL. Signor no, signor no, son de' vostri; non mi date, 
che son Pilucca. 

GiOR. Oh, tu vai da galeotto ? 

PiL. Sono stato in galera per amor vostro e per cercar 
di voi. Oh, padron mio, mi rallegro di... 

GiOH. Va' alle forche; è ora tempo di fare accoglienze? 
Dove è questo sposo? mostramelo presto, ch'io muoio 
di rabbia e di vergogna a pensar che sia vivo. 

PiL. Abbiate pazienza che ci capiti. 

GiOR. Dove è Marabeo ? 

PiL. È ito per trabalzar l'Agatina per voi. 

GiOR. To' là quest' altro affanno. Sono anco innamo- 
rato. 

PiL. Oh, non c'è più un pericolo al mondo. 



ATTO QUARTO, — SC. U. 57 

GiOR. E come è possibile che in un petto pieno di 
rabbia e desideroso di vendetta abbia potuto aver loco 
Tamore ! 

PiL. Comincia a passeiare. Signore. 

GiOR. Gran tiranna degli uomini è questa bellezza. Bella 
soprammodo e costante giovine è costei. 

PiL. Uscito dell'orso, entra nella pecora. 

GiOR. Amor e crudeltà m' han posto assedio. 

PiL. Un versetto per dio ! Oh venga il leùto. Un sos 
spiretta ci manca. 

GiOR. Ahi! 

PiL. Oh benissimo ! Or d che gii daremo in culo a ca- 
struccio! 

GiOR. Che di* tu, Pilucca? 

PiL. Dico , che il nemico vi darà presto nell' ugna ; 
e Tarnica nella brachetta. 

GiOR. Tu te ne fai beffe, poltrone^ ah ? 

PiL. Io dico davvero, io. Ella sta pur a vostra posta. 

GiOR. Tanto stesse a tua posta il pane. 

Pili. È pur in vostra potestà. 

GiOR. SI, del corpo. 

Pili. E che vorreste altro da lei? 

GiOR. L'animo. 

PiL. Oh diavolo, che le vogliate cavare il fiato? Vo- 
letela voi morta? 

GioR. Morta V arci, quando ne avessi solamente il corpo. 

PiL. Eccoci in sull'amor platonico. Pur che ve ne pos- 
siate cavar le vostre voglie, che andate voi più cer- 
cando? 

GiOR. Tu parli ora da bestia, come tu sei. 

PiL. Avetela voi tentata? 

GiOR. Per mille vie. Ho provato di lusingarla, di pre- 
garla, di prometterle, di donarle. Ho pianto ; mi sono 
adirato; Tho minacciata. Che non ho fatto? fino alTar- 
quinio col pugnale in roano. In somma, è dispostissima 
di morire prima che consentirmi* 



58 GLI STRACCIONI 

PiL. Adagio. Col tempo si maturano le nespole. Oh 
Padrone , vedete , vedete messer Gisippo che passa 
oltre per ,via Giulia. 

GiOR. Qual è desso? 

PiL. Delli due, quello a man diritta. Lassate pigliar 
le arme ancora a me, poiché Gisippo è con un altro. 

GiOR. Sia pur con cento , che V ira mia non può sfo- 
garsi solamente con lui. 

PiL. Io vi son dunque d' avanzo. Orsù , non vi darò 
impaccio. Datevi dentro, ch'io andrò di qua per at- 
traversarli innanzi. 

SCENA TERZA. 
Piliiceaj MarafceOj Agfktìna, Proevratere. 

PiL. Va* pur là , che potrebbe toccare a te di spie 
. car le chiare. Oh, ecco Marabeo sulla porta. 

Mar. Pilucca, ben, che facesti? 

PiL. Ho messa la rabbia fra i cani. 

Mar. Oh lasciamo che si straccino la pelle. Aiutami 
ora. a levar costei di casa. 

PiL. Verracci fatto senza strepito? 

Mar. Credo di si ; perchè il padrone le ha dato una 
gran battaglia, ed ella, per paura che non ritorni di 
nuovo a combatterla, per sé medesima, m'ha ricerco 
che la lievi di qua ; promettendomi di venir libera- 
mente. Già nostro mastro Cerbone é là che ci aspetta. 
Tenemola qui dietro all' uscio , e stiamo aspettando 
che non passi brigata. Tu intanto dà una scorribanda 
qui intorno — Vieni, vieni abbasso. 

PiL. Fuori ! che non e' è persona. 

Mar. Or su via! 

PiL. Oh corpo di me, questa é la bella putta ! 

Mar. Tu t' impunti. 

Agat. Como! e che sarà questo? 



ATTO QUARTO. — SC. in. 59 

Mah. Ah, non m'hai promesso di venir volentieri? 
Agat. Si, fin qui, traditoH. Or vegga V aria almeno la 

violenza che m' è fatta. Alla strada, buone persone, 

alla strada ! 
Mar. Dio ci aiuti ! 
Agat. Alla strada ! 
Mar. Imbavagliamola, Pilucca. 
Agat. iTb, Uh, Uh! 

PiL. Mugola a tua posta. In qua, in qua, ti dico. 
Mar. Disfatti siamo. Il Procurator s* è fatto alla finestra 
PtL. Una putta ce Tha caricata. 
P ROC. Olà, che insolenza è questa ? 
Agat. Uh, Uh, Uh ! 
Proo. Dove strascinate voi costei ? 
Mar. Tirala. 
PiL. Spingila. 
Proc. Non udite? no? oh questa è la brutta cosa! — 

Uscite fuori, vicini! Datemi la mia veste... la veste, olà! 
Mar. Che faremo. Pilucca*^? 
PiL. Non lo so io... 

Mar. La lasserò io ; menala tu Pilucca. 
PiL. Si, ch'io voglio esser impiccato per te. 
Mar. Io voglio fuggir via. 
PiL. Ed io, via ! 

SCENA QUARTA. 

A (palina, Procarulore. 

Agat. Oh ,^ che assassinamenti, oh, che* crudeltà soa 
queste ! È possibile che non si trovi né misericor- 
dia né giustizia? In man di Turchi ho salvato l'o- 
nore e la persona mia ; e ora sono sforzata e mar- 
tirizzata da' nostri. — Oh Tindaro mio, dove sei tu? 
Oh sapessi tu almeno dove son io ! 

Proc, Che cosa ò qiiesta, figliuola? 



60 GLI STRACCIONI 

Agat. Ob, signor mio, per 1' amor di Dio, non mi la* 
sciate fare si disonesto torto. 

Piioc. E da chi? 

Agat. Da un Marabeo, can mastino, cbe abita in que- 
sta casa, dove m*ha tenuta tanti mesi per forza , e 
degli strazj cbe ba fatti della mia persona , per espu- 
gnar la mia virginità e per venderla, ne possono in 
parte far fede questi ferri e queste battiture. 

Pkoc. Oh, ghiotto da forche I In questa città , in ana 
piazza cosi celebre, a tempo di questo Principe, que- 
ste soperchierie a una vergine ! Non dubitate, figliuola 
mia, che voi sete salva ; e questo sarà castigato. 

Agat. Oh signore, se è possibile, conducetemi a* piedi 
del Principe, e sentirete gran cose; perchè io sono 
liberata da' Turchi per benefìcio delle sue galere , e 
questo scellerato ha tanto ardimento d'occuparmi la 
libertà che mi viene da si gran Principe, e di tenere, 
insieme col mio corpo, sepolta la gloria sua. 

Proc. Certo si , che questo & caso enorme e compas- 
sionevole. Lassate fare a me , figliuola , che sarete 
consolata. Entrate per ora, in casa di questa gentil- 
donna romana , che sarete come tra i vostri mede 
simi. Io ho data la pòsta a certi miei clióntoli in casa; 
voglio andar prestamente a spedirli, e tornerò subito 
per intender il caso vostro e per aiutarvi. — Va' su 
tu con lei, e prega madonna Argentina, da mia parte, 
che le dia ricetto , e che non la lassi cavar di casa 
finché non le parlo. 

' SCENA QUINTA. 

Proenratore, Mirandola, Oiovanni 
e Battiala Straccioui. 

Proc. Io stupisco dell' audacia de' tristi. Vedete cosa 
che s'arrischiano a fare, si può dire, in su gli occhi 
del Principe, e d' un Principe come questo ! 



ATTO QUARTO. — SC. IV. (>1 

Batt. Oh, ecco di qua il nostro Procuratore. 

Proc. e se non ho procurato oggi per voi, non mi chia- 
mate più di questo nome. Io andava ora per aspet- 
tarvi in casa. 

Batt. Avete pur ottenuto il mandato contro Tindaro? 

Proc. Oh questo s* ebbe , e fu dato al Bargello che 
r eseguisse un pezzo fa. 

Batt. E che altro avete fatto per noi ? 

Proc Che più potete desiderare , che il fine della vo- 
stra lite? 

Giov. Avemo avuto la sentenzia in favore? 

Proc. In favore. 

Giov. Oh , lodato sia Dio ! Oh , messer Rossello va- 
lentuomo 1 

Batt. Oh, messer Rossello nostro, e che voleva dir quel 
sequestro del Mirandola ? 

Proc. Che Mirandola ! Il Mirandola è un pazzo ; e 
quello inventario è stato un arzigogolo degli avversaij 
per intorbidarci il giudicio di questa sera. Ma, con- 
tuttoché abbiamo la sentenza , que<ta bestia non vi 
si spiccherà mai dattorno, se non gli facciamo qual- 
che stratagemma ; e già V ho pensato, poche so che 
l'umor suo pecca in gioie e in spiriti. Vedetelo là 
che viene alla volta vostra tutto infuriato. Avete qual- 
che vetro o qualche petraccia da mostrarli? 

Batt. Ecco qui questo anellaccio. 

Proc. Oh questo è il caso ! Tenete a voi , e lasciate 
dire a me. Voi secondatemi con le parole. 

MiRAN. Che sentenza I che sentenza ! sentenziate a vo- 
stro modo; che le mie gioie voglio. io per me.*«. se 
non , al corpo della cruciata , che vi voglio far met- 
tere tutti duo in uno strettoio e cavarne la quintes* 
senza del sudiciume. 

Proc. Mirandola, vien qua ; voglio che accordiamo que* 
sta cosa. 

MntAN. Datemi le mie gioie. 



02 GLI STKÀCCIOKt 

Pkoc. Oh collie? se non le hanno. 

3I1RÀN. Datemi danari. 

Proc Manco. 

MiRAN. Oh, che accprdo volete voi fare? 

Proc. Darvi in cambio altre gioie , o di* tanto valore 

o di maggior virili. Vuoi tu altro? che ti farò dare 

r Eutropia di Calandrino. 
MiRAX. Che Calandrino ! appena lo farei per V anello 

di Angelica. 
Proc. E questo ancora hanno. 
MiRAN. Quello da u*e invbibile? 
Proc. Quello. 

MiRAK. Oh, io gli veggo pure. 
Proc. Perchè non V hanno in bocca, ben sai. 
MiRAN. Se mi date quedo, son contento. 
Batt. Non ne seme contenti noi. 
Proc. Mostrategliene, di grazia. 
Giov. Eccolo. 

MiRAN. Datemelo un poco in mano. 
Giov. Oh, questo no. 
MiRAN. Perchè? 

Proc. Perchè te lo cacceresti in bocca e spariresti. 
MiRAK. Oh , 8* io lo posso avere I -^ Tenetelo voi e 

mettetemene cosi un poco fra lo labbia. 
Proc. Si, di grazia, facciamo questa sperienza. 
MiRAN. Vedetemi ? 
Proc. Oh gran cosa è questa ! Mezzo Mirandola veg- 

giamo: da questo in qua. 
Miran< Oh, tu mi dai. 
Proc. Faccio per toccare se tu ci sei da questa banda ; 

tu non hai più d'un occhio ; dove è V altro? 
Miran. Oh, tu me lo cavi* 
Proc. A questo modo ti tocco e non ti veggo. 
Mirak. Non vedrò io te, se tu fai cosli 
FroCi Deh, metteteli tutto il dito in bocca \ veggiamo se 

pparisse tutto* Deh si, non dubitate* Oh, eh! noa ti 

veggo niente. 



ATTO QUARTO. — SC. V. (>.'ì 

MlRAN. Uh, Uh! 

Giov. Ah non istringere, Mirandola tu mordi, ohi, ohi ! 

Batt. Te l' ha tolto V 

Giov. Ohimè il dito ! 

Batt. Ohimè 1* anello. 

MiRAN. Vi ci cobi pure, castroni ! 

PROC. Oh, che tradimento é questo, Mirandola ? 

MiRAN. Andate alle birbe ancora voi.. È ventura da 
lassarla andar questa ? 

Batt. Oh Mirandola ! 

Giov. Mirandola. 

MiRAN. Si, venitemi dietro. Or che sono invisibile, tutto 
il mondo è mio. 

Giov. Di qua, di là. 

Batt. Di là, di qua. 

MiRAN. SI cercatemi a vostra posta, 

Proc. Ah, ah, ah, se ne va via! ah, ah; ah, la lite è 
finita. Ci avemo levato questo pazzo dattorno, e a 
lui par d'esser felice. 

Batt. Felicissimi saremo noi, mercè vostra, se, avendo 
vicuperata la roba , non avessimo perdute le carni. 

Proc. Beue^- quanto a vostra figliuola, io non le posso 
render la vita; ma farò ben che questo Gisippo vi 
dia conto della sua morte. Andate voi a sollecitare 
r esecuzione del maudato ; ch'io voglio esser qui da 
madonna Argentina per un caso d' importanza. 



B4 GLI STRACCIONI 

ATTO QUINTO. 



SCENA PRIMA. 
Barbacrigi», Arceaiin». 

Bàub. Io credo che gran tempo fa non sia avvenuto 
la più strana cosa di questa. La povera comare deb- 
b* esser disperata. Voglio ire a consolarla e levarla 
di casa ; che, questa bestia del cavaliero, non le fac- 
cia dispiacere. — Oh velia in su la porta, che debba 
aver licenziate le donne. — Comare , a ogni cosa è 
rimedio. State pure allegra. 

Arg. AUegi'a , ah ! se non mi getto in fiume , non la- 
verò mai questa vergogna che m' ha fatto oggi Gi- 
sippo. 

Barb. Tutto è stato per lo meglio. Se le cose anda- 
vano più avanti , era maggior disordine , poiché il 
compare è tornato. 

Arg. Chi compare? 

Barb. Il compare cavaliero. Non lo sapete ancora! 

Arg. Giordano mìo marito è tornato? 

Barb. Tornato. 

Arg. Ohimè ! ohimè ! non è dunque morto ? . • 

Barb. Morto ah? Un morto che voleva far morir altri. 

Arg. Oh, che mi dite voi! 

Barb. Pur desso ha voluto ammazzare Gisippo. 

Arg. e donde è uscito cosi oggi costui? 

Barb* Questo non gli ho io domandato, perchè ora è 
in su le furie ; ma mentre era alle mani con Gisippo, 
e che Gisippo era per ammazzar lui, è sopraggiunta la 
guardia del papa, che gli ha spartiti^ e non so poi 
dove si siano andati. 



ATTO QUINTO. — 8C. I. 65 

Arg. Oh Dio, in che pericolo e in che vergogna sona 
io! Quanto tempo Tho aspettato, quanto l'ho fatto 
cercare; quanti riscontri ho avuti della sua morte? 
nondimeno sempre sono andata a rilento a rimaritar- 
mL Ed ora, per la certezza che n'ha portata Pilucca, 
non mi sono prima rimaritata, che il marito eh' io ho 
preso non mi vuole, e quel eh' era morto è risuscitato. 
Dianzi era vedova ed ora son maritata a due, e di 
nessun d'essi son moglie. Che nuova e non più udita 
disgrazia è questa mia! 

Babb. Dio v'aiuterà, madonna. Ma, £nchè il Cavaliero 
è in collera , non voglio che voi stiate quL Venite 
meco, che starete il meglio che si può, con la vostra 
Comare. 

Asa. Questo non farò io, ch*io non ho fatto cosa ck*ìd 
debba temer di luL £ in questo caso, mi dà noia più la 
vergogna che la colpa. 

Babb. Se questo è, non dubitate. Bitomatevene in ca- 
sa, ch'io voglio stare a veder quel che segue. 

SCENA SECONDA. 
Hemelrio, BarlMgrici») Cttoippo, 9atir«* 

Deh. Siamo stati a rischio d'essere ammazzati; e ora 
corriamo pericolo d'esser presL Leviamoci di qui^ chà 
i Canali non ci faccino metter le mani addosso. Oh 
ecco qui Barbagrigia. 

Babb. Oh, messer Gisippo, séte voi ferito? 

Gifi^p. Messer no. 

Babb. E voi, messer Demetrio? 

Deh. Manco. 

Babb. Ringraziato sia Dio! Oh questo è un caso che 
non s'udì mai più. 

GisiP. Chi è costui che n'ha voluto ammazzare ? 

Babb. Un morto. 

Caro, 5 



é^ GLI STRACCIONI 

I)EÌt,' Guata morti che s'usano in questo paese! 

Barb. Questi è il marito della vostra moglie. 

Deh:. Buono! marito della moglie d'un altro. 

Barb. n marito della vedova, voglio dire. 

Diari. To' là, vedove maritate! 

Gisti. Mi fate rider che non n'ho voglia. 

Bàr:ó'. Avete ragione, ho detto di gran passerotti, che 
' ndn' me ne sono avveduto. Lo dirò meglio. Questo è 

' il eavaliero Giordano, morto... 

Dmsif Idest vivo. 

Barb. Ch'era marito. 

Deb. Ch'è marito. 

Barb.' Di madonna Argentina, ch'era vedova... 

DsM. Ch'era maritata. 

BaRÌÌ. a voi. 

Dfi». A lui. 

BaRB« £ ora di chi è? sua, vostra, di tutti due, di nes- 
suno... Come va questa cosa? l'nonla so dire, perchè 
non la intendo; e straparlo, perchè straveggo. 

Dem. Basta che t'intendemo. Questo è il suo manto 
che éi teneva per morto, ed è vivo. È tornato, ha 
trovai che Gisippo gli voleva tòr la moglie, ed ha 
voluto tòr la vita a lui. 

Barb. Messer si. In fra tutti V avemo stricata con le 
. parole; ma come lastricaremo coi fatti? 

Dem. Ecco Satiro, che viene tutto spaventato. Debhe 
avere inteso l'assalto che ci ha fatto il Cavaliere. — 
Non dubitar. Satiro, che non avemo male. 

Sat. Oh Dio! che cosa è questa?! morti risuscitano. 

Deh. Che più? Lo faremo morire un'altrfk volta davvero. 

Sat. Chi volete far morire? 

DjpsM. Non di'tu del cavalier Giordano, che è risuscitato? 

Qa±. ^Che cavalier Giordano ! è risuscitata la Giulietta, 
la Giulietta! 

GisiP.' Che Griulietta, bestia ! 

Sat. Oh padrone, che ho io veduto! 



ATTO QmK«rO. — so. II. 67 

GisiP. Che hai, spiritato? 

Sat. Io ho veduta, io ho veduta la Giulietta , e Tho 
veduta con questi occhi. 

GisiP. Qualcuna che le somiglia forse. 

Sat. Lei stessa! 

GisiP. La Giulietta? 

Sat. La Giulietta! 

GisiP. La mia? 

Sat. La vostra! 

GisiP. Viva? 

Sat. Viva! 

Gisip. Dove? 

Sat. In casa di madonna Argentina! 

GisiP. Stai tu in cervello? 

Sat. Io non ho bevuto, io non vaneggio, io non dormo; 
io Thè veduta, io le ho parlato; ella ha parlato a 
me,, e m'ha data questa lettera e questo anello che 
io vi porto. 

Dem. Questo è il giorno delle meraviglie. 

Barb. Dello strabiliare. 

Deh. Oh, che disordine aremo noi fatto oggi, se questo 
fosse! Due mariti d'una moglie, e due mogli d'un ma« 
rito, in una casa medesima. 

Gisip. Oh Dio! questo è l'anello con che la sposai; 
e questa è la sua lettera. 

Dem. Non m'avete voi detto ch'ella è morta? 

GisiP. Ohimè, s'ella è morta? ah! 

Dem. e questo anello? 

GisiP. É suo. 

Deh. e questa lettera? 

GiBiP. È di sua mano. 

Dem. Oh, come può star questo ? Lasciatemela leggere. 

• TindarOf padron mio \ cosi eonvien ch'io vi chiami, poiché 
mi trovo serva dei servitori della vostra moglie; ^li af- 
fanni che io ho sofferti fino a ora grandissimi e infiniti^ 
sono stati passati da me tutti con pazienza, eperando di 



68 e^LX flTBAOOIONI 

rUrwami $ eomolarmi d'avervi per mio eontorU» Ma 
ora, che finalmente v*ko ritrovato, poiché a me tolto vi 
sete, iconiolata e disperata per sempre desidero di 
morire, n 

GisiP. Ohimè, che parole sono queste! Seguitate. 

Dbm. • Ahi, Tindaro, voi vi maritate t or non sete voi 
mio marito f Se non mi sete ancor di letto, e non volete 
essermi per amore, mi sete pur di fede, e mi dovete esser 
per obbligo. Non sono io quella, che, per esser vostra 
moglie non mi sono curata di abbandonar la mia madre, 
né di andar dispersa dalla mia patria, né divenir favola 
del mondo? Ricordatevif che per voi sono stale tante tem- 
peste; per voi sono venuta in preda de^ Corsari, per voi 
si può dire eh* io sia morta, per voi son venduta , per 
voi carcerata, per voi battuta, e, per non venir donna 
d'altr^uomo come voi sete fatto altr'uomo di altra donna, 
in tatUe e si dure fortune sono stata sempre d'animo co- 
stante', e di corpo sono ancor vergine. E voi non for- 
zato, non venduto, non battuto a vostro diletto vi rima- 
ritate. > 

GisiP. £ Giulietta scrive queste cose? 

Dem. • Il dolor ch*io ne sento é tale, che ne dovrò tosto 
morire ; ma solo desidero di non morir serva né vitupe- 
rata. Per f una di queste cose, io disegno di condurmi 
col testimonio della mia verginità a mostrare agli miei, 
che io, per legittimo amore, e non per incontinenza, ho 
consentito a venir con voi; per V altra io vi prego (se 
più di momento alcuno sono i miei preghi presso di voi) 
che procuriate per me, poiché non posso morir donna 
vostra, che io non muoia almeno schiava di altri, ri- 
cuperate con la giustizia, o imp^trfitfi (ialla vQstra sposa 
la mia libertà; che, pft^ener:^ ella cosi gentile, coms 
intendo, ve la dovrà facilmente concedere; e, bisognando, 
promettete il prezzo ch'io sono stata comperata, che io 
prometto a voi di restituirlo, » 

GisiP. Oh, che dolóre è questo! 



ATTO QUINTO. — se. Il, 69 

Dem. « E quando questo non vogliate fare^ mi basterà so- 
lamente di morire. Il che desidero cosi per finire la mia 
miseria, come per non impedir la vostra ventura. E per 

, segno che io non voglio pregifjkdicare alla libertà vostra^ 
vi rimando Vanello del nostro maritaggio. Né per questo 
si scemerà punto delVamor ch'io vi porto. — State sano 
e godete delle nuove nozze. — Di casa dalla vostra mo* 
glie» — Giulietta sfortunata. i> 

GisiP. Vien tu dai morti, Satiro, con queste cose? opput 
qualcuno ci vuol far qualche beffa? 

Sat. Io vi dico, che Giulietta è viva, e che da lei vi 
80n mandate. 

GisiP. è sogno questo ch'io odo, o fu sogno quello 
ch'io vidi. Oh Dio, da quanti diversi accidenti è com» 
battuta in un tempo V anima mia ! Ardo, tremo, mi 
maraviglio, non credo, m'allegro, mi contristo, mi ver- 
gogno. Satiro, noi la vedemmo pur morire; e se mori, 
come è risuscitata? e se non è morta, chi fu quella 
che vedemmo morire? 

Sat. Ella m'ha detto, che a stare in poppa misero lei; 
ma, nell' atto del morire, fu messa un' altra in suo 
scambio; e che quelle fusto furono prese poi dalle 
galere del Papa. Basta che dopo molti accidenti sotto 
nome di Agatina, si trova qui schiava per forza del 
Fattore di madonna Argentina. 

Deh. £ come ha notizia di lui, se si ha mutato il no* 
me ancor esso? 

Sat. Il gioiello che avete mandato a madonna Argen- 
tina ne le ha dato indicio; dipoi ha veduto me, e io 
l'ho chiarita del tutto. 

Gisip. Oh Giulietta mia 

Deh. Dove andate voi? 

Gisip. A vederla. 

Deh. Adagio. Voi non pensate la inimicizia che avemo 
col Cavaliero. 

Gisip. Pensateci voi, che mi ci avete inesso. 



70 GLI STBACCOOHI 

Dbm. Io tì ci ho messo per bene; e il buon consiglio 
non si conosce dairavvenimento , e non ha la mede- 
shna orìgine. A me pare di avervi ben consigliatole 
che voi abbiate mal proposto. Se mi dite che Giu- 
lietta è morta, ho io dunque a pensar che risusciti? 

Gisip. Or questo non importa^ pensate al rimedio; ch*io 
non posso pensare ad altri che a lei. 

Deh. Il rimedio ci ha dato la fortuna per sé medesi- 
ma, per distornare il parentato ; poiché in un medesimo 
tempo s'è ritrovata la vostra Donna e il marito di 
madonna Argentina. E in questa parte la cosa cam- 
minerà co'suoi piedi. Bisogna ora che ci guardiamo 
dalla inimicizia del Cavaliere: e che mandiamo quiBar- 
bagrigia a madonna Argentina, e Satiro a Giulietta. 

£abb. Éche ho io da fare con la comare? 

Dem. Bifèrire quel che avete sentito e veduto, e non 
altro per ora, 

Sat. Ed io con la Giulietta? 

Dem. Portarle la risposta di questa lettera e consolarla, 
che lo farai facilmente , essendo informato del tutto. 
Messer Gisippo, andatevene voi a casa con Satiro: 
ùkte questa risposta e mandatela. 

Gisip. SI... volete eh' io stia tanto a vederla? 

Deh. Ben, ben. 

GisiP. Che volete che le risponda, ch'io non istò in cer- 
vello ! 

Dem. Amor vi detterà la lettera, e Satiro la porterà. Que- 
sto basti. Andatevi con Dio, che i Canali vengono 
di qua per farci pigliare. Lasciate la cura a me con 
loro; e voi, Barbagrigia, fate quel che v'ho detto. 



ATTO (OTNTO. — se. in. , ZI 

SCENA TERZA. 






Slraeeioai, Demeirio, Proeuraiore. 

Giov. Tindaro debbo esser di qua, eh* io veggo 'il"ijj|b 
compagno. " ' * ' 

Batt. e il Bargello potrebbe esser in CampodifiÒ^e; 
voglio andar per esso. 

Dem. Fermatevi| messer Battista, che vi renderemo cótì^ 
della Giulietta senza Bargello. .j 

Batt. Che conto ne volete rendere se è morta? ' ' ! ' 

Dem. La Giulietta si teneva ben per morta, ma non 

era : ed è viva. 

'ili*' 
Giov. Pastura per trattenerci. 

Dem. É cosi come vi dico. 

Giov. Dove è ella? 



t ■ 1 1 » 



. i i 



Dem. Lo saprete poi. 

Batt. Non debb*esser vero. 

Dem.. Io dico ch'ella è viva e sana; cosi fosse ella' con- 
tenta! • } 

Giov. Diche? '"; 

Dbm. Del* suo Tindaro. 

Batt. E come la potremo contentar di Tindaro cli^ ha 
preso un'altra moglie? ' ' . 

Dem. Sua moglie sarà Giulietta, se voi vorrete. . ' 

Giov. E come? vuol essere marito di due? 

Dem. Di lei sola, se ve ne contentate. 

Batt. Come può esser questo? 

Dem. Basta che sarà cosi. 

Giov. Se si può fare ; s' ella non è morta. ' ' 

Dem. Dite che ve ne contentate. . ', 

Giov. Ce ne contentiamo. ' , 

Dem. Ma io vi scopro che son Demetrio, e mi irKlIe^gib 
con voi di questa commune allegrezza. 

Giov. Ah, Demetrio! 



•i 



72 eLI BTRAOClOm 

Batt. Ah, Demetrio, a noi!... 

Deh. Oh non entriamo ora sulle doglienze. Io ho fatto 
quello ch'io ho fatto, per bene; e per bene Tavete 
a ricevere, e ben sarà. 

Giov. Giulietta è viva? 

Deh. É viva. 

Giov. Dove si trova? 

Deh. In Roma. 

Giov. In che loco? 

Deh. In questa casa. 

Batt. Oh ecco il Procurator che n* esce tutto al- 
legro. 

Giov. Che ci è di buono, messer Bossello? 

Pboc Quel che vi mancava per farvi felice : vostra fi- 
gliuola. E io vi ho fatto cosi servizio a farvi ricu- 
perar lei, come la roba. 

Batt. Oh, messer Bossello, è pur vero che sia viva? 

Giov. Oh Giulietta mia! 

Batt. Che sorte è questa , che fu data nelle mani 
a voi! 

Pboc. Sorte ^appunto. Mi sono abbattuto, che questo 
tristo di Marabeo con un altro la trascinava per 
forza^ per tramandarla e darla (come ho ritratto da 
lei) in mano del cavalier Giordano. 

Deh. Del cavalier Giordano!... Guarda scambiamenti 
di mogli che erano questi! 

Giov. Oh Dio, che sento io di mia figliuola! 

Pboc. Basta; io Tho liberata, e Tho depositata in questa 
casa* Dipoi mi tono informato da lei; ho inteso tutti 
i casi suoi; ho trovato che è vostra figliuola , ho proso 
la difensione della sua libertà; e farò che questi ri- 
baldi siano castigati. 

Batt. Oh, signor Procuratore,. noi saremo felici per le 
vostre mani; e voi sarete ricco per le nostre. 

Giov. Oh, figliuola mia! Signore, è forza ch'io vada a 
vederla. 



ATTO QUINTO. — (BC. HI. 73 

pROC. Andatevi ^ che io me n* andrò dal Grovema- 

tote. 
Dem. Ed io me ne verrò con Vostra Signoria, per qnel 

che potesse bisognare Topera mia. 
Pboc. Sarà ben fatto. 

SCENA QUARTA. 

Ds^fETBio, Procuratobe, Giordano* 

Dem. Signor Procuratore , questo è il cavalier Gior- 
dano, che poco fa volse ammazzar messer Gisippo e 
me. Se viene alla volta mia, siatemi testimonio ch'io 
io la tnSÀ difésa. 

pROC. Coigi^ ammazzare e perchè? 

Dem. Questo Gisippo e quel Tindaro, che avete inteso, 
son tutt'uno. La Fortuna ha tramato un giuoco di 
loro e delle lor mogli, che ci ha condotto a questo. 
Ma l'intenderete a bell'agio. Ora gli voglio aver 
rocchio alle mani. 

GiOR. La rabbia mi divora , finché non mi sfogo 
nel suo sangue. Ecco qua quel suo compagno. — Cac* 
eia mano! 

Proc. Che farete, Cavaliero? 

GiOR. Tiratevi da parte, voi. 

Proc. Che inBolen^a è questa vostra! non vedete di 
essere in cospetto del Principe? 

GiOR. Come del Principe! 

Proc. State saldo. — Che avete voi da far con co- 
stui? 

GioR. Che ha da far Gisippo con la mia donna? 

Dem. Pratica solamente di onesto matrimonio. Ma voi, 
perchè gli tenete e gli sforzate la sua? 

GioR. Qual sua? 

Dem. La Giulietta ! 

GxoB. èltf Giulietta? 



74 . GLI 9TRA€0I0HI 

Dm. L*Agatìna ; intendo che la dimam^ate. 

GiOB. Io conosco TAgatina per ischiava di Marabeo, e 
non per donna di Gisippo* 

Deh. £ Gisippo non conosce voi per marito di madonna 
Argentina. 

GiQB. Io sono pure. 

Deh. Se voi siete, non eravate al creder d'ognuno, 
nonché nostro. 

Pboc. Cavaliere, non si vuol esser cosi precipitoso alla 
morte degli uomini. 

-GiOR. Dunque volete voi che un gentiluomo mio pari, 
nella sua patria, nella sua casa, sofferisca di esser 
offeso nell'onore della donna e della persona sua 
stessa da uomini vili e forestieri, come sono questi? 

Deh. Cavalier, parlate onesto. Intendete la cosa a 
sangue freddo; che noi non vi avemo fatta ninna 
delle ingiurie che voi dite. E quanto al tenerci per 
uomini vili, voi ci avete fatta tal superchieria, che, 
per forestieri che siamo , vi mostreremo presto chi 
sono i Coresi e i Canali di Scio, due casate ingiuriate 
da voi. 

GiOB. Oh, questa sarà bella, che ci vogliate t^e i ca* 
sati, come ci volevi tòr la moglie e la robai 

Dem. Perchè? Sete dei Coresi voi? 

GiOB. Si, se voi volete. 

Proc. e dei Canali?... ... 

GiOR. È la donna che noi avevamo tolta. 

Dem. Di chi sete voi figliuolo? 

GiOB. Chet mi volete torre anche mio padre? 

Pboc. Che favola è questa! State a vedere che costoro 
si faranno parenti. Dove è questo messer Gisippo ? 

Deh. In casa. 

Pboo. Di grazia, fatelo venire fin qui. 



Atto. oim^TO. — se. v. fio 

SCENA QUINTA. 



Procuratore, Gisippo, ciordwoo^ 
SlraeeioBi^ Piluee», M a^aV^^o. 

Proc. Cavaliero, se voi fate di questi scherzi a tempo 
di questo Principe, vi sarà tagliato quanto capo avete. 
Troppo grande ardire è questo vostro, di far privato 
carcere questa città*, di sforzar le donne, di ammais- 
zar gli uomini, e di aver si poco rispetto a un Prin- 
cipe come questo. 

GiOR. Io cerco giustamente di vendicarmi; e merito 
piuttosto compassione di non aver potuto, che castigo 
di averlo tentato. 

Proc. Voi pensate una cosa, e sarà forse un'altra. 

GiOR. Ecco qua quel traditor di Gisippo. 

Proc. Cavaliere, non vi movete, che voglio intender io 
questo caso. — Messer Gisippo, venite qua. 

GiOR. Gbippo, Gisippo! 

GisiP. Giordani Giordano! 

Proc. Cheti, e senza colora. Rispondete solamente a 
quel che vi dimando. — Cavaliere , non siete voi 
Romano? 

GiOR. Sono nato a Roma. 

Proc. Vostro padre è vivo? 

GiOR. Signor no. 

Proc. £ il vostro? 

GisiP. Manco. 

Proc. Donde fu il vostro? 

GiOR. Genovese. 

Proc. E il vostro? 

Gisip. Sciotto. 

Proc. Infine a ora sete di una giurisdizione. Erano 
anticamente cU questi lochi? 

GiOR. Il mio diceva esser venuto da Scio. 



76 ^ GLI STBAOCIOHI 

Pboo. Eccoli di una patria. — Di che casato è il 
vostro? 

GiOR. De*Coresi. 

Peoc. e il vostro ? 

GisiP. Dei Coresi. 

Pboc. Saldi! E d'una casa sete. -- Come si chiamava 
il vostro? 

GisiP. Messer. Agabito. 

Proc. e il vostro? 

GiOR. Messer Franco. 

GisiP. Voi figliuolo di messer Franco mio zio? 

GiOB. Voi figliuolo di messer Agabito fratello di mio 
padre ? 

Proc. Piano. 

GiOB. Oh io non intesi mai che avesse figlio che si 
chiamasse Gisippo. 

Gisip. E Tindaro? 

GiOB. Tindaro si. Sete Tindaro voi? 

GisiP. Si sono- 

GiOB. Oh, perchè Gisippo? 

GisiP. Basta ; per buon rispetto. 

GiOR. Ma chiaritemi prima d'un dubbio. Sapevi voi, 
* Gisippo Tindaro che voi siate , che vostro padre 
avesse questo fratello Romano? 

Gisip. Signor no ; ma si bene a Genova. 

Proc. Cavaliero, dunque vostro padre venne di Genova 
a Boma? 

GiOR* Signor si; aperse qui una ragione con i Centu- 
rioni, quattro anni avanti al sacco ; e poco dipoi 
eh' io fui nato^ si mori. 

Pboc. Questa partita è chiara. Voi sete cugini al si- 
curo. Ma fermatevi. Dite voi, Cavaliero, che la vo- 
stra donna è dei Canali ? - 

GiOR. Signor si. 

Pboc. Di chi figliuola? 

GiOB. Di messer Paolo Canali. 



ATTO QUINTO. — SC. V. 77 

ProO. Di. quel che fu protonotarìo ? 

GiOB. Di quello. 

GisiP. Oh, che sent'iol Giulietta mia dunque è cugina 
d' Argentina. 

Pboc. Come cosi? 

Gisip. Questo messer Paolo fii fratello di Giovanni 
Canali, il quale è padre della Giulietta, e ora è qi^i 
con un altro suo fratello. 

Pboc. Che sono gli Straccioni? 

GisiP. Cosi mi par che gli chiamino ; ma sono dei 
Canali. 

GiOB. Questi sono dunque i zii di mia moglie. 

Pboc. Oh, so troppo che è questo. 

GiOB. Essi son qui, e io andava a trovarli in Levante!- 

Pboc. A che fare? 

GiOB. A far partito con loro dei beni di questo mes- 
ser Paolo, che appartengono alla mia donna. 

Pboc. Vi è caduto il cacio nei maccheroni , e forse 
che non avranno ben il modo di darvene qui la va- 
luta. — Tindaro e Giordano , voi state cosi in ca- 
gnesco? Come 9on vi riconoscete voi! vi sete pur 
fratelli. 

GisiP. Cavaliere, io mi sento tutto non so in che modo 
intenerito , e 1' animo mi dice , che voi sete del mio 
sangue, sicché vi perdono la superchieria che mi 
avete fatta, e vogliovi per fratello. 

GiOB. E io vi vorrei poter perdonare quella che avete 
fatta a me; ma le ingiurie delP onore non si pati- 
scono cosi di leggieri. 

GisiP. Neir onore avete offeso voi me j a sforzare la 
mia Giulietta. 

GiOB. Io non V aveva prima n^ per Giulietta né per 
vostra. Dipoi, sebben Tho tentato, noni- ho però fatto 

GiSiP. Ed io non v' ho né fatto né tentato di farvi di<> 
sonore. E se tra madonna Argentina e me si é trat- 
tato di parentado, pon ci conoscendo per parenti, ed 



78 GLI STRACCIONI 

essendo voi tenuto per morto , èra lecito all' uno e 
air altra. Ora voi sete vivo, e il parentado non - è se- 
guito. In che sete offeso da lei o da me? 

GiOR. Dubito d' adulterio. 

Pboc. Ah, Cavaliere ! da madonna Argentina? 

Gisip. Questo non si troverà mai. Di ciò dovere! so- 
spettare io, avendo voi avuta la mìa in poter vostro. 

GiOB. Tindaro, voi vi potete vantar di aver una donna 
di pudicizia e di costanza inespugnabile ; e nelle mie 
mani non è stata violata. 

GisiP. Io lo credo a voi; e voi dovete credere a me, 
poiché vi son fratello, che la vostra^ sia, per mio conto, 
incorrottissima. 

GiOR. Vi voglio credere ; e per vostro detto e per ri- 
scontro della sua vita passata terrò lei per castbsima, 
e accetto voi per cordialissimo cugino. 

Pboc. Vedete, di quanta gran confusione quanta con- 
cordia è nata! per Dio, che questa mi pare una co- 
media. — Oh, ecco gli Straccioni che si sono rivestiti. 

Giov. Straccioni semo noi stati; ma ora semo fuor di 
stracci. 

Batt. Semo ricchi. 

Giov. Semo contenti. 

Batt. Non saremo più pazzi. 

Giov. Avemo guadagnati oggi trecentomila ducati. 

Batt. E ricuperata una figliuola 

GisiP. E acquistato un figliuolo, che vi sono io. 

GiOB. E ritrovata una nipote, che vi è mia moglie. 

Giov. Qual nipote ? Ora che siamo ricchi , i parenti 
fioccano. 

Batt. Nipote da canto dei nostri danari. 

Pboc. Nipote da canto del vostro sangue, figliuola di 
messer Paolo vostro fratello. 

Giov. Di messer Paolo nostro fratello? 

Batt. Di messer Paolo ? 

Pboc. Oh^ eccola che vien di qua ; ed ecco messer De- 



ATTO QUINTO. — ' «C. V. . 79 

meilio, ed ecco la Griolietta. Oh qui ci sftrebbe dftfer 
tutta notte, se volessi aspettar che ognuno facesse la 
sua accoglienza e il suo sermone. Fermatevi tutti. 
Voglio che facciamo un bel ciabaldone d' ogni cosa. 
— Cavalier, madonna Argentina è vostra moglie ed 
è gentildonna Argentina. Le avete a restituire il vo- 
stro amore e la sua fama. Giulietta e Tindaro si sono 
d'accordo moglie e marito, e ve ne dovete contentare. 
Giov. Ce ne semo già contentati; e ora, della lite che 
avemo vinta, ne diamo a lui per sua dote centomila 
ducati. 
pROC. Guata boccone! 
Giov. E a voi , per le vostre fatiche e per la vostra 

amorevolezza, duemila. 
Proc. Per cortesia vostra e gran mercè. — Or notate: 
madonna Argentina , moglie qui del Cavaliere , è fi- 
gliuola di messer Paolo Canale vostro fratello. Cosi 
viene a essere vostra nipote , cugina di Giulietta e 
cognata di Tindaro. Tindaro è cognato d'Argentina 
e cugino di 'Giordano. Giordano è cugino di Tindaro 
e cognato di Giulietta. Giulietta è cognata di Gior- 
dano e cugina d' Argentina. E voi sete padri , zii e 
suoceri di Giulietta , d' Argentina, di Giordano e di 
Tindaro. Ora dove è congiungimento, si stringa ; dove 
non può essere, l* amore diventi carità. Spartitevi per 
ora gli abbracciamenti tra voi, e poi più per agio vi 
farete le belle -parole. 
PiL. Questa è una grande abbracciata ; Marabeo, esci 
fuorì^ che le cose si rappattumeranno anche per noi. 
Mar. Ecci il Bargello ? 
Pili. Non V è , vien pur via. 
Mar. Guardaci bene. 

Proc. Oh, questi son quei ghiotti. — Voi, per far bella 
questa festa, avete a esser impiccati; e ora vo dal 
Governatore per farvi questo servizio. 
GiOR. Signore | per non travagliar me , che sono inte- 



80 ÓU STaACOIOKI 

ressato in questo disordine , e per non interdire una 
allegreasia eome questa , vi domando , di grazia, che 
non ne parliate altramente. 

Proo. Si, ma fate pensiero che le forche ve lì prestina 

PiL. No , no ! Da qui innanzi volemo esset» uomini 
dabbene. 

Proc. Durerete una gran fatica. 

Mar. Fatevi perdonare ancora a madonna Giulietta. 

Proc* Orsù, che non si rivegga nisSuna delle cose pas- 
sate. Su! 

Mar. Né anco i miei conti s* hanno a rivedere? ne 
farei un bel guadagno, per dio? 

PiL Oibò , non hai guadagnato assai che ti Padrone 
sìa tornato? 

Mar. Tu di* il vero? £ per questa allegrezza non vo- 
glio che abbia più briga di conti. Padron, facciamo 
che siano saldi fra noi; e se m' avete a dar qualche 
cosa, di bel patto ve ne fo un presente. 

Proc. Questo si, che mi pare il tempo di CioUo Abate ! 

GiOR. Voi vedete. Or si, che ne sono* contento an- 
ch' io. Su ! 

Proc. Già séte contenti tutti ; e cosi siate sempre. Or 
dinate le nozze, e datevi buon tempo. — « £ voi, Spet 
tatori,' fate sO'gno di allegrezza. 



Fine dbgli Straccioni* 



j 







COMMENTO 

DI SER 

AGRESTO DA FICARVOLO 

SOPRA LA PRIMA FIGATA 

DEL 

PADRE SICEO 



Coro. 



. p- » ■ Il 



COMMENTO 
SOPRA LA PRIMA FICATA. 



AL SIGNOR HOLZA e M. ANNIBAL CARO 

IL BABBAGRiaiA STAMPATORE. 

I Capricci ( come disse il Bernia ) vogliono venire agli 
uomini a lor dispetto. Ed io ho inteso dire al Pazzacone^ 
che fanno di mali scherzi altrui a tenerli in corpo per 
forza : che siccome essi nascono prima di Frinfri, e di Ci' 
tri, e di Griccioli rattenuti; cosi da essiy se non isvapO' 
rana , si vengono facendo di mano in mano Coccole, Fre* 
gole. Struggimenti, e colali altre voglie spasimate, le quali, 
impregnandosi di Ghiribizzi e d' Arzigogoli , partoriscono 
poi Capogiroli, Castelli in aria. Frenesie, Arcolai, Girelle, 
Girandole , e simili, e ptò altre spezie di furori, E se 
queste ancora si trattengono , tutti insieme abbottinandosi 
per uscire a ogni modo, vanno tanto ruzzolando, disguaz» 
zando, e sgominando il cervello, la fantasia, la memoria 
e tutte quelle camerelle, che costoro dicono che noi abbiamo 
sotto la berretta, che ci guastano tutto il capo ; perciocché 
rimescolandolo, come udite, lo ritornano in Caos, e lo danno 
a saccomanno aW umore , il quale poi s* assomiglia con la 
pazzia, che è quasi la materia prima della nostra zucca, 
E da questi due nascono quelli tanti, e di tante sorte, slra» 
volti, furiosi, e sriocchi concetti, che ci fanno correre lutto 



84 DEDICA 

ti ffiofido per nostro. Onde che per non dar nel paxzOf ve- 
nuti che $ono i capricci y non iolamente Miogna lasciargli 
svampare , ma perchè ioti certe bestiuole boriosuzze ed t- 
sventatCj è forza che a nostro dispetto li scriviamo, li re- 
citiamo f ed ultimamente che li stampiamo. Stampati che 
sono , e mandati attorno in cima d* una Canna ( che que- 
sto è quel supremo trionfo, a che essi possono giungere 
nella cittadinanza degli altri pensieri) pongono termine 
aW amHzion loro ; e si contentano di tornare cittadini 
privati, lasciando liberamente il governo del capo al Padre 
Senno, il quale, stando bene con esso loro, siede poi sen- 
z* altro contrasto Gonfaloniere a vita. Ora, %. Molza, 
questi Capricci sono venuti a voi di fare la Ficheìde , e 
a voi Gompar Caro, di commentarla, come vengono agli altri 
delle altre cose. E siccome non potevate riparare, che non 
vi venissero, cosi non potete tenere, che non facciano ora 
il restante del corso loro. Voi gli avete scritti, e reeiiati, 
e avete fatto un gran bene per salvezza del vostro capo. 
Che poi vi siate impuntati a non istamparli, non mandarli 
a processione, a voler tor loro la preminenza della Canna 
oltre che non fate sanamente , non vi dovete maravigliare 
se a vostro dispetto sono sbucati fuora, e se per tutto 
vanno dicendo d' essere usciti di capo a voi, e d' esser vo- 
stri figliuoli, come sono. Perciò che gli hanno per male , 
non tanto che voi gli impediate , quanto che li diserediate, 
e vi vergognate di loro , e che sendo nati di ^ generosi 
Padri, gli abbiate voluti battezzare per del Padre Siceo, 
e di non so chi Ser Agresto. son lascivi , e scorretti ; 
$ si stano! Basta assai, che non sono sporehi, né vita» 
perosi. Benché quanto alle scorrezioni ci si é rimediato; 
che H mio Prete ed io siamo stati lor correttori alla stampa, 
tanto che ora non manca loro né un punto, né una jota. 
Quanto alla lascivia , sebbene io non m* intendo d* altra 
lingua che del Gergo, Messer Lodovico Fabbro da Fano, 
che m' è Turcimanno di queste lingue, e consiglier dell' o- 
Ipsré che io stampò, mi dice, che gli hanno pur tanta di 



DSL BABBAOBIOIA. 85 

gentikxza^ $ H mode$tia, che dove queUi degli aUri uft 
questo genere j tanto de^ Grecia quanto de' Latini , e dei 
Volgari, vanno la più parte ignudi e senza brache, essi vanno 
tuiti vestiti, e con le mutande, E quello^ che più importa^ 
è, che eglino non vi stanno pi:ì in corpo ; che cosi, oltre al 
pericolo detto di sopra di farvi impazzarci polrebbono al- 
meno far divenir lascivi e scorretti voi, quali essi sono: 
tendo quasi forza^ che quello^ che non si dice^ si faccia. La 
eo$a è qua. Essi svolazzano per tutto; si sa che sono vo- 
$tri. Mi seno venuti a dire, che io gli stampi; se non che 
andranno a trovare altri stampatori, con chi hanno di gi^ 
maneggi a Vinegia ed altrove: % quali mi sono opvedulOf 
che som quei medesimi Busbacconi, vituperio delVarte no* 
etra , che a vostro dispetto, Sig, Molza, e a lor perpetua 
infamia hanno avuto ardire di stampare, anzi di stroppiare 
l* altre vostre composizioni. Ma che vostre? che sono una 
cianfrusaglia di più cose di più persone, scorrette da loro, 
baltezzate a rovescio, masticate, peete, e concie in modo^ 
che non ne mangerebbero i Cani, Tanto che per compassione 
di quelli, e per paura che questi poverelli non capitino alle 
mani dei medesimi ( perche sendo vostri figliuoli, ed io Gri' 
ma e babbo come da voi son tenuto, H reputo per miei ntpo- 
tini) ho doluto essere il primo a dar lor ricapito, E gli 
ho spesati, e vestiti del mio , perchè compariscano orrevoli, 
E come da voi sono usciti, cosi a voi li rimando, pregane 
dovi, che per questa volta perdoniate loro^ e non v" adiriate 
meco, perchè io gli ho stampati per onor vostro, e per amor 
ch*io porto loro ; ea dirvi il vero, perchè mi guadagnino 
qualche Cuechio, E chi di voi V ha per male, se lo scinga, 
E se pure vi volete vendicare, fatemi wi' opera contra, ed 
io la stamperò di bando. Smaltitevi per ora questa eollerOf 
e state sani. 



PROEHIO DEL COMMENTATORE 



Poiché questi Padri virtuosi mi sforzano , che ancor 
io dirompa sopra alle madri Fiche, ecco , che mi sono 
abracato a darvi dentro. Ed alla bella prima verrò eon 
esse alle strette. Perchè se volessi aspettare le frega^ 
gioni, e disporre, e spianare, e dividere, e infilzare l'una 
parte dietro Taltra, secondo la legge, e i colpi maestri 
degli altri Commentatori più pratici eh* io non sono y 
terrei troppo a disagio la fantasia, che io ho già dritta 
a compir presto questo lavoro. Il titolo deiropera è la 
Ficheidaj o Ficheide, perchè Prisciano non facci ceffo. 
n soggetto sono i Fichi, o le Fiche; che neirunmodo 
e nell' altro sono chiamati dall* Autore , con tutto che 
i Toscani se ne scandalizzano , perchè vorrebbono i 
Fichi sempre nel genere del maschio. La qual cosa 
(in questo luogo massimamente) non mi dà briga, né 
anco presto lor gran fede; sapendo che s'intendono 
piuttosto dell'altre frutte, che di questa. Oltre che, po- 
trei io mostrar loro, che si trovano Fichi maschi, e Fi- 
che femmine ; ed allegherei da un canto le Fiche lesse, 
le Fiche pazze, dall' altro i Fichi Atteroni, i Fichi delle 
Tribadi, il Fico di Modena, di che altra volta abbiamo 
disputato nella Diceria di santa Nafissa t ed addurrei 
mille altre ragioni, che muovono l'Autore a cosi chia« 



88 PROEMIO 

marie ; le quali mi passerò per non intricarmi fuor di 
proposito nella questione del Valla, che, per dichiarare 
i generi e le Tariazioni dei Fichi, fece anch* e^li ana 
ficata , ed uno scompiglio di grammatica , che non Io 
intenderebbe Vaquatù. Bastivi per ora di sapere che il 
Poeta, non senza misterio, li battezza Ermafroditi, e che 
per tutta l'opera troverete, che hanno confusamente due 
sessi, e due sensi ; e di questi uno è secondo la lettera, 
r altro secondo il misterio , come di sotto vedrete. Le 
lodi dell' Autore andranno insieme col nome , che in 
battaglia è Padre Siceo, Il rimanente dirà la fama: 
che se io togliessi a celebrarlo, sarebbe come dire, che 
Messer Domenedio fosse un uomo dabbene, ed un far 
fede per me solo di quel che sa tutto il Mondo. Oltre 
che in presenza di lui non posso lodarlo senza offesa 
della sua modestia. Ma per mostrare, quanto sia com- 
petente Griudice in questa causa, come dicono i Legisti, 
mi par solamente da dirvi, che egli oltre all'esser gran 
Poeta e grandissimo Filosofo naturale , ha speso più 
tempo a investigare i segreti della natura Ficaie , che 
Endimione a speculare i moti della Luna. E se quelli 
ne fu tenuto dalla Luna per innamorato , questi ne è 
stato chiamato dal Mondo per padre ; come se ognuno 
gli fosse figliuolo. E come Alberto fu detto Magno per 
avere scoperti i segreti delle donne ; esso è cognominato 
Divino e Perfetto per aver rivelati i segreti de* Fichi. 
E con tutto che di sotto confessi di non averne tocco 
ancor fondo, si vede pure che s' è disteso più a dentro, 
che nessun altro ; ed io non potendogli andar di pari, 
né passare innanzi , mi dimenerò quanto potrò per an- 
dar dietro, circoscrivendo destramente di fuora via, o 
quanto più posso disnocciolando dal canto mio quel che 
egli andrà dal suo profondamente trattando. E quanto 
alla lingua io vi protesto, che non voglio esser tenuto 
d'usare né la Bocaccevole, né la Petrarchevole, ma so- 
lamente la pura, e pretta toscana d'oggidì, e della co* 



DEL COMMBKTATOBB 89 

mune quella parte, che ancora da essi Toscani è rice- 
vuta: si perchè tengo, secondo l'antico precetto, che, 
in queste materie massimamente, si debbano spender 
sempre quelle monete che corrono (sendò però di buona 
lega e di buon conio), si ancora, perchè dicendo il Pe- 
trarca, mal si conosce il Fico, vo pensando se a quel 
tempo n'avevano poca notìzia, che io in questo caso mi 
posso ora molto poco valere e dello stile e della dot- 
trina loro. Ma per non J perder più tempo, veniamo al 
Testo. 



Il II ir p^u 



DELLA FI€HEIDE 

DEL PADRE SICEO . 

FI e A T A 



Di lodare il Meilone area peesato ; 
Quando Febo sorrise, -e non fia vero, 
Che U Fieo, disse, resti abbandonato. 



COMMENTO DI SER AGRESTO. 



Per dicbiarazione di questo primo terzetto è da sapere 
che il Poeta si trovava con Apollo, e con le Muse, come 
è solito; perciocché sono sempre insieme, come le chiavi 
e *1 materozzolo. Passavano davanti al giardino della 
Madre Pomona, quando Priapo, sentendoli al suon della 
Lira e pel cantar che facevano, come quello che si di- 
lettò sempre di Poesia, li chiamò dentro a spasso. £ 
sapendo, che il Poeta aveva quella tanta cognizione, 
che di sopra si è detta, per averlo amico, e perchè gli 
facesse un Epigramma nella Priapea, o un Capitolo in 
nome del suo Orto, che allora portava a concorrenza 
di quello del Padre Binuzio, fece che Pomona gli desse 
larghissima licenza: ed egli gli concesse una somma 
potestà di Verga sop^a tutte le frutte, ancora che non 
si sia mai curato di usarla, se non co* Fichi. Erano a 
caso nel giardino Ganimede, ed Hila, e certi altri Gar- 
sonetti, che guardavano le mele per Giove, le cotogne 
per Ercole^ le pesche, le grisomele, ed altre simili frutta. 



92 DELLA FipHBIDB 

per altri Dei, fra li quali era Giacinto, che foceva in- 
cetta di melloni per Apollo; perciocché sopra quelli 
studia ogni mattina Tappamondo, avanti che esca a fsae 
il suo viaggio. Ora dicono che costui mise innanzi al 
Poeta un bel Mellone; e certi affermano, che gliene dette 
una fetta, e che egli, gustata la dolcezza del pomo mise 
mano alla penna per dirompere sopra al Mellone. Quando 
Febo sorrUe. Sotto questo riso intendete, che volle dire: 
Addio, Padre Siceo; ancora a te sa buono il buono. 
Ma non fia vero che 7 Fico, cioè quella tua frutta ùl- 
vorita, e sopra che tu hai tanto filosofato, resti abban- 
donato, cioè, che tu lo lasci per un'altra frutta. E! nota 
qui, che Apollo dette cartaccia, perchè non voleva, che 
si manomettessero i Melloni, i quali, secondo il Fanfa- 
luca, sono l'Ambrosia, che ministravano que'garzonetti 
alla mensa di Giove, e degli altri Dei. E dice, che an- 
ticamente non se ne trovavano, perchè, mentre gli Dei 
gli usarono per cibo, non fa lecito agli Uomini d'averne. 
Ma poiché quella lor Deità mancò, cominciarono a tro- 
varsi, e ad essere concessi ammortali. Ma ora, con tutto 
che Apollo fosse ancor fuoruscito del Cielo, per mantener 
i Melloni in quella prima riputazione, non voleva che 
si manomettessero. Onde che per divertire il Poeta dal- 
l'impresa fece subito comparir le Muse con certi panieri 
di Fiche fresche, e di quelle feeero tutte insieme una 
buona corpacciata. Pòscia cantando di concerto: La 
Vecchia sta in su *l Fico, s' inviarono verso il Ficaio. 
Cosi distolto il Poeta dal Mellone, Apollo di nuovo messo 
in corda lo stromento, e preso l'archetto in mano, disse 
alle Muse che gli facessero contrappuhto, ed al Poeta, 
che era già con la sua penna in ordine, comandò che 
copiasse tutta questa lor serenata. Intanto le signore 
Fiche, a chi la facevano, aperte le finestre, stettero con 
grandissimo piacere a riceverla. Dice il Grullone in 
quella parola Sorrise, che Apollo si portò da compagno 
col Poeta ad ammonirlo solamente col riso ; dove quando 



DEL PADRE SIOBO. 93 

ammoni Virgilio; mostrò d'essergli maestro, perchè gli 
tirò rorecchio, e trattoUo da fanciullo. 

Però 86 di segair brami il sentiero 
Glie '1 Bercia eorse col cantar sno pria» 
Drizzar quivi l' ingegno or fia mesiiero. 

Segue Apollo dicendo. Non essendo dunque ragione* 
vole^ che tu abbandoni il tuo Fico, e volendo poetare 
secondo la via del Bemia, ti conviene operare il tuo 
stile a questa materia delle Fiche. Fu il Bemia un 
certo uomo di messer Domenedio, il quale, con tutto 
che volesse essere Poeta rabbuffato dalle Muse, che 
non s' adattasse a scrivere , secondo che gli dettavano, 
B*abbottinò da loro, e disse tanto male d*esse, e deToeti, 
e della Poesia, che ebbe bando di Parnaso. Ma tosto 
che si avvide, che senza questa pratica era tenuto piut- 
tosto per Giornea che per Bemia, si deliberò di rappat- 
tumarsi con esso loro. Ed appostando un 'giorno, che 
stavano nel medesimo giardino, fece tante moine intomo 
alle Berte, che son fantesche delle Muse, che si fece 
metter dentro per la siepe, e come quello ch*era il più 
dolce zugo del mondo, trovandosi dentro, fece tante 
buffonerie, che le Muse ve lo lasciarono stare. Dipoi 
s'ingegnò tanto, che rubò la chiave del cancello alla 
Madre Poesia lor Portinara ; e misevi dentro una schiera 
d'altri Poeti baioni; che, razzando per l'orto, lo sgomi- 
narono tutto, e secondo che andarono loro a gusto, cosi 
colsero, e celebrarono, chi le Pesche, chi le Fave, chi 
i Citriuoli, chi i Carciofi; e chi d'altre sorti frutte. Fe- 
cero poi sei altre cose da ridere; tolsero le Calze al 
vignaiuolo; fecero il Forno, la Ricotta, le Salsiccie; 
piansero la morte della Civetta; e si belle tresche tro- 
varono, che le Muse, per ricompensarli di tante piace- 
volezze, dettero loro la copia di tutto il registro delle 
Chiacchiera. E perchè di tutte queste cose fu Cagione 



94 !>ELXiA FICtIBnOB' 

il ìStLon Beruia, il Poeta meritevolmente lo nonmia pei 

10 primo, che corresse Y aringo della barlesea * poesia. 

11 Padre Siceo non entrò egli per questa via del Bemia, 
perciocché s'era concio prima con Apollo per iscrivano 
delle faccende del Mastro di casa, e si stava in su la 
gravità con le Muse, perchè s'arrecavano in contegno 
Con esso lui. Ma poiché vennero questi buoni compagni, 
e s'avvide che le Muse ancor elle volevano il giambo, 
si mise in frotta con loro a fare ancor esso delle baie. 
E cosi scrisse dell'Insalata; scomunicò le Scomuniche, 
e voleva dir del Mellone, come avete udito; se nonché 
Apollo gli disse, che attendesse ad altro, perciocché gli 
bisognava driaszare V ingegno alle Fiche. E nota, che 
Apollo disse Driazarej perché secondo lo Sdrucciolino, 
ogni poco che avesse chinata la fantasia dal Fico per 
la vicinanza delle frutte, avrebbe potuto dare, verhi 
grazia, nelle Mele. Ma il Grimaldello vuole, che drizzar 
r ingegno sia metafora presa dai Chiavari, che quando 
la toppa non riscontra bene con la chiave, drizzano gli 
ingegni per aprire; e che sia vero, guardate, dice che 
appresso segue, Taprirò. 

Io sarò teco, e t'aprirò la via, 
Per la qaal veaghi a si lodata impresa, 
Senxa par mescolarvi una bagia. 

Dove gli altri, dice Apollo, hanno per iscorta le Berte, 
ó lodano le cose come sofisti, io che sono lo Dio della 
verità, sarò tua scorta a dir le vere lodi del Pico, senza 
fare argomenti a rovescio. Il Forca gli dà un senso più 
recondito e dice cosi: Perché tu non hai si penetrativo 
ingegno, come si converrebbe a una si profonda mate- 
ria, io, che fo le mie cose con fondamento, ti farò la 
via innanzi, e mostrerotti tutti i colpi maestri senza 
uscir mai del suo dritto ; e vuole, che in questo loco le 
Bugie siano, come dire, punte false. Ma il Giuccari, 



D^L PADIIB StC£Ò. 95 

leggendQ (^[iiMta gran liberalità d'Apollo, (xmiinciò A 
ridere, *e disse: In verità, che gli faceva un gran ser' 
yigio a volargli aprire la via del Fico, come se non 
fosse pur troppo larga. Io gli replicai, che aprir la via 
era metafora. metter fuora, o metter dentro, disse 
egli, non bisognava che pigliasse questo disagio, perchè 
il Poeta era tanto pratico, che sapeva andar da sé. Io 
soggiunsi: Intendi sanamente, Giuccari. Aprir la via vuol 
dire ÙLt lume. Oh! tu sei un balordo, rispose. Non sai 
tu, che vi si entra a chius 'occhi? Ora intendetela come 
voi volete, ch'io non vo'combattere col GiuccarL 

Io, ehe la penna in mano avea gii presa: 
Per me^ dissi, non resli; eliè la mente 
Toita mi sento a darri dentro acoesa. 

Se il Poeta avesse avuto a trar la penna del penna* 
iuolo, e temprarla a gittare, sarebbe stata si lunga ma- 
nifattura, che portava pericolo che Apollo, il quale ha 
un cervello bl^lzano, non gli avesse volta la schiena, e 
ehe le Muse, e le Fiche non se Tavessero levato dinanzi; 
e però egli, che conosceva il furor loro, era stato presto 
a cacciar mano alla penna, e mostrarsi co' suoi ferri a 
ordine, e con la melate volonterosa di scrivere. Ed av- 
vertite che il CaraffuUa grammatico dice sopra questa 
parola mente ^ che l'Autore per non far contrabbando 
ai Toscani ha diminuite il suo diminutivo quanto alla 
lettera, ed ha ing)?andita la cosa quanto al significato 
cioè che ha scorcio mentola d'una sillaba, ed accresciuto, 
a quel che vuol dire, misura per ogni verso. 

Nò fia, che con tal Daca io mi sgomente: 
Dettami por tn, che i segreti Tedi 9 
E qcesto rivo, e qaello, ed ogni gente. 

Diavol è, dice pure il Giuccari, che egli non aveva 
a temere ^ non dar dentro; se un giovinastro capitano^ 



96 DBtLA FICHEIDE 

come Apollo con quel suo arco teso, gli m offeriva di 
investir prima. Perchè doveva ben pensare, che era per 
fare un aprir di schiere ed una spianata di sorte, che 
agevolmente avrebbe potato seguitare ancor esso. Perchè 
dietro a un capitano può bene entrare a largo un fan- 
taccino. Dettami pur. Questa è Tinvocasdone, come dire, 
Musa, mihi causcL» memora. Tu che % segreti vedt^ idest, 
che sai dove può essere V imboscata. E questo rivo , e 
quello, cioè sei pratico per lo paese; che, avendolo fatto 
capitano, bisognava dargli di queste, notizie, che son 
necessarie a'condottierì. E dice il vero, che Apollo vede 
i segreti; per ciò che è un Forabosco, che entra per 
tutto. Vedete, che esso fu quello, che scopei*se l'agguato 
di Marte e di Venere; e che abbia notizia del paese, 
si sa che ogni giorno fo una scorribanda per tutto il 
Mondo. 

Con le man sforierommi, e con li piedi 
Di porvi dentro tolto il aatnraie» 
E farò forse più, che la noa credi* 

Il Giuccari pur rìde, e dice: in fatti questo cristiano 
avea una gran paura di non ppter entrare in questa 
materia ; vuol menar le mani, vuol .appuntar i piedi al 
muro; par che vi si voglia mettere, come si dicCi con 
Tarco dell'osso. Io credo che si dia ad intendere, che 
ci bisognino le forze d'Ercole a questa fEiccenda: che 
Dio gliene perdoni. non sa egli, che dalla natura al 
naturale non è proporzione, e che v'entrerebbe con un 
capo grosso quanto un appamondo, non che con quel 
suo ingegno sottile, e dilicato? Ma il Giuccari, a dire 
il v^o, non la intende; perchè la forza, che vuol fare 
il Poeta, non è perchè dubiti non potervi entrare, ma 
perchè desidera, entrato che vi sarà, di penetrare nel 
midollo della casa. Che se guarda bene, egli si ram- 
marica più tosto dell'ampiezza del soggetto, che della 



DBL FADKR fllCEO. 9T 

strettezza. Dunque il vero senso è questo. Ancorché la 
matexja sìa profondissima, e il mio naturai sia poco, 
mi sforzerò con quel poco andare assai dentro. £ che 
sia vero, che avesse animo di entrare, vedi, ohe brava 
di sentirsi cosi ben disposto, che farebbe più che Apollo 
non credeva: che questo vuol dire, che si stenderebbe 
assai dentro. Benché trovo una chiosa, che vuole, che 
quel più sia quantità discreta, non quantità continuata ; 
cioè che significhi più volte, e non più oltre. 

^Perchè non ho di qaello nn pezio Ula, 
Che far bastasse ad ogni 6ca onore, 
A me pregio divino, ed immortale ? 

Notate in questa affettuosa esclamazione tre cose. La 
modestia del Poeta; la sua affezione verso i Fichi; e 
il frutto, che si spera da loro. La modestia nel primo 
verso, dove par che diffidi del suo naturale, ancorché 
sia' grande ; 1' affezione nel secondo, dove parendogli di 
non averne abbastanza, ne desidera un maggior pezzo, 
per aver lo stile eguale al soggetto ; il frutto d' essi 
nel terzo, dove dice, che spererebbe da loro pregio di- 
vino, ed immortale. Vedete ricompense, che danno i Fi- 
chi ai loro benefattori ! E qui bisogna, eh' io vi dichiari, 
perchè pregio divino» Perchè salire in un fico, e gustar 
di quello è un andar verso il Paradiso. E che sia vero 
domandatene il Sonagli on da Ferrara che conta la sto- 
ria di Tognino dall'oche, la quale è questa. Che To- 
gnino pigliando moglie , ebbe per dote un campicello 
con un bel pièf di fico, e la prima volta che vi sali su 
per gustarne , senti tanta dolcezza , che parendogli di 
veder la gloria de' Santi , avanti che sbasisse , chiamò 
il suo barba , e con gli occhi stralunati , e con certi 
mugoli spasimosi, gli disse : — Mi barba, vi raccomand 
li oche , cha mi vo a vit etema — Ma lasciamo star 
Tognino, che era un sempliciotto^di qiielli^che v#npo 
(Wro, * 7 



\ 



9è DELLA FXCREXDA 

in Pftradiao per non poter fare altro. Il Petrarca per 
lo suo Lauro, qual dice, che e*gli era scala al fattore, 
d* un ramo in un altro, e d' una iu altra sembianza , 
non si levava all' alta cagion prima ? Or che avrebbe 
egli detto y se fosse salito per un Fico, che è da più 
che il Lauro, come si dirà appresso ? £d imfnorlaU 
puossi intendere, quanto alla vita naturale, e quanto 
alla fama, che è la vita seconda. Perciocchò molti uo- 
mini , e molti luoghi hanno avuto da* Fichi nome im- 
mortale : come Sicilia , che trovo nella Ficologia esser 
detta da' Fichi; e cosi le Sicelide verrebboiio a esser 
le Muse Ficarole ; la qual cosa non credo, che sapesse 
il padre Virgilio, perchè le avrebbe invocate piuttosto 
nella Priapea, che nella Bucolica. Siceo, Sicarba, Sici- 
nio, tatti quelli hanno fama dì grand' uomini , perchè 
hanno avuto nome da' Fichi. In Toscana Fighine, Monte 
Ficaie ; nel Pesarese Monte Sicardo ; nella Marca Ca- 
stel Figardo ; nel Ferrarese Figaruolo : in su le Chiane 
Fienile; in Fiorenza la Taverna del Fico , tutti questi 
sono nominati, ed immortalati dalle Fiche; e in questo 
senso pare che voglia dire il Poeta .che se avesse mag- 
gior Naturale , che non ha , spererebbe , che le madri 
Fiche, per li suoi buoni portamenti , gli dessero quel 
nome di Siceo , che gli hanno poi dato , e cosi lo fa- 
cessero immortale. Ma se la vogliamo intendere quanto 
alla vita naturale, dice Fra Stoppino, che il ^Poeta ha 
preso un granchio; perchè non vede, come si possa 
sperare dal Fico immortalità, se per la disubbicUenza 
dè'primi Parenti fu cagione dì farne mortali. Ma l'Abate 
Bruocolo risponde a questo, che il Poeta "dice benissimo, 
perchè sebbene il Fico ne fece mortali, quanto all'eter- 
nità dell'individuo, ne fa immortali quanto all' eternità 
della specie. A questa risposta Fra Stoppino alzò le 
ciglia ed andò più là. Ma perchè in questo testo è 
qualche punto degno d'avvertenza, farò ancora un poco 
d'Asoentio. Perchè dunque non ho ili quello^ di quella 



O09a» 4i quella faccenda, del cotale, che per qa^^inQpf4 
assoluti 8* int^pde per eccellenza sempre il Naturale, 
come a dire il Filosofo, ir Poeta, s'intendono aei^pre 
Aristotele, e Omero, o Virgilio. Un pezso; un fusto, un 
catello, una quantità, che non intendessi pezzo per una 
parte, e credessi, che *1 Poeta non volesse tutto il Na- 
turale intero. Tah^ sfta qui pe^ tale e per tanto, perchè 
significa tanto lungo e tanto grande, in vece di tani^p: 
e per sé stesso vuol dire si animoso, si elevato^ i^\hen 
disposto. Che baatasse, idest, fosse tanto grande, pljie 
soddisfacesse in parte; perchè esser maggiore oegu^l^ 
è impossibile. Ad ogni fica, vuol dire per grande ch^ si 
fosse. OnarCy alzandole col suo stile in altg^. Benché 
Messer Biagio Ceremoniere dice, che il modo d'onorar 
le Fiche è il medesimo che onorar le persone; salvo 
che non si deve inchinare, ma del resto si sta lor dritto 
innanzi, si scappella, si va in q^a e in là, in su e in 
giù, secondo che lor grandezza comanda. 

Por dirò, scorto ornai dal tao favore, 
Che d'assai tìdco il Pico oga'altra froDde* 
PerdoDÌmi il tao Laaro, mio Signore. 

Con tutto ch'io diffidi dei mio Naturale, dice il Padre 
Siceo, poiché Apollo mi favorisce col suo Naturalone, 
non dubiterò di entrare in questo Ficaio. Notate, che 
quest'opera del Fico non si poteva compire $enza la 
fava; il qual Mìsterio vien dichiarato di 8otto|, e però 
dice: Scorto dal Favor d'Apollo; perchè favore, seconda 
il Dabudà, vien da fava. £ immaginatevi in qiieata 
luogo, che Apollo fosse come uno di quei Signori nei 
loro consigli, che per favorir questa impresa qiett^^ 
la sua fava nel bossolo ; perchè quando una oosa va a 
partito, quanto ha più &ve, più è favQrita. Q^e^ti ca« 
poccbi vanno cercando, che voglia ^ donna ^ palliti' 



100 Z>SLIiA FICEEIDB 

Vuol dire una, alla quale ognuno, per farle favore, mette 
la fava nel bossolo. Il Capa&sone è di parere, che quel 
Favore avesse a dir Favone, ma che il Poeta fosse 
forzato dalla rima. Questi Grammatici sono troppo spi- 
golistri ; a me basta che il favore gli venisse dalla fava, 
ed isgrammatichi poi chi vuole. Che d* aasaù Qui co- 
mincia la narrazione. Ogn^ altra fronde. Figura della 
parte per lo tutto, che mette le foglie per le piante ; ed 
avvertite che il Poeta, nella prima mossa, Taccoccaad 
Apollo, ed al suo Lauro, e per riverenza gliene chiede 
perdono, non già che gli paia d' errare, perchè dice il 
vero, e dicelo a un proposito, che bisogna che Apollo, 
«vendo stomaco, se la passi, perchè Dafne si converte 
in quell'arbore per suo dispetto; e solamente per non 
dargli un fico. 

CiDto di Fichi il cria già sa le spoado 
Del Gaoge trioafb par tao Fratello : 
Ta '1 saiy al cai veder nulla s'asconde. 

Poteva Apollo a confusion del Poeta dar nella lira, 
e cantar del suo Lauro 

Arbor vittorìoaa trionfale 
Onor dlmperadori, e di Poeti 

E però innanzi si mette a dire, che il Fieo anch'egli 
fu trionfale, e prima che il Lauro ; e che Bacco trionfò 
neir India Pastinaca coronato di fichi. £ forse ch'egli 
allega uno strano? Dice, che'l trionfale fu suo Fra» 
Ulto , e che 7 sa egli stesso, che vede ogni cosa. Qui 
potrei io mostrare d' esser dotto in quatroque , a dir 
dove, quando e per chi, e qual Bacco trionfò ; a dir del 
Gange j dell' India, di questa lor fratellanza, e sei altre 
eose^ ina perchè son cruscate, di che ogni cova è piena, 



DBL PADBB 0XOBO; fOl 

ve ne rìmettjBrò agli scartafacci del Dottrinalo. 'Basta 
solo, che voi sappiate, che il Fico non solamente è trion- 
fale, ma il nome del Trionfo è venuto da lui se cercate 
la sua etimologia. E solo notate questo, che io trovo 
nelle Cronache di Sileno suo maestro, che il più bello 
trionfar di Fichi che facesse Bacco , fu nell* isola di 
Nasse, dove fu menato dalle Menadi al Fico, sopra che 
Teseo avea trionfato del Minotauro, quando ruppe le 
cento camerelle del suo Labirinto. Ohe per questo Fico 
se n'andarono in cielo, egli inficato da Arianna, e 
Arianna infavata da lui ; che di fave e di ghiande vuole 
che fosse prima ornata quella sua corona, che ora è di 
stelle ; e però dice, che in queir Isola s' adora Bacco 
Sìcite, che vuol dir Ficaio; e che in memoria gli si 
fanno statue di Viti, e di Fico. 

Altro fregio fa questo, e Tfe più bello 
Di quel che '1 Doge di Vioegia adorna 
AHor, ch'ai Buceotoro apre il portello. 

Forse che loda il Poeta questa corona di Fichi so- 
pra quella di Gramigne, o di Quercia, o di Mirto, o del> 
1' altre, che usarono quei poveracci Romani? Dice, che 
era più bella che la berretta del Doge di Vinegia , e 
non di quella della notte, ma del Berrettone, con .che 
siede in BucentorOf* cioè nel primo trono delle sue Mae- 
stà, dove è suso un pieno Oriente di gioie le più pre- 
ziose, che si trovino. Bucentoro è un barcone in sul 
mare , che secondo certi fu copiato dall* Arca di Noè 
e secondo certi altri è V Arca medesima. A questi non 
cred'io, perchè l'Arca dopo il Diluvio rimase in secco. 
Alcuni vogliono , che sia Argo nave di Giasone ; né 
manco a questi presto fede, perchè quella fu riposta 
in Cielo. Altri sono di parere , che sia la barca , che 
condusse Antenore in quel paese ; e questa opinione ha 
del verisimile^ e qaasi V affermerei ; se non ch« il nomt 



'|09 t^iAAA 9*lt!lISÌI>É 

di ^ùcentoro mi fa credere, che sia queUa.nave d'Enei 
che era ctipitanata da Sergesto, della quale fa men- 
zione Virgilio, quìando dice : 

Centauro inyehitur magna. 

Perchè trovo, che B U in composizione significa grande; 
come Bulimia gran fame, Buthisia gran sacrificj ; e 
cosi mezzo alla greca e mezzo air Italiana ( secondo 
che essi Viniziani sono ancora mescolati), Bucentoro 
vuol dire il medesimo, che il gran Centauro di Serge- 
sto. £ cercando come possa essere capitato nel Golfo 
di yinegia , trovo in una Storia smarrita , che quando 
fu r incendio dell' altre navi troiane, questa era stata 
mandata da Enea a Padova ad Antenore per sussidj , 
e munizioni contro i Latini, e cosi scampata dall' ar- 
sione, dopo finita la guerra fu rimandata con le mede- 
sime genti che condusse, e quivi si rimase. A questa guisa 
si trova oggi nell' Arsenale ; e serve per residenza de* 
Magnifici solamente per quando sposano il mare, o rare 
altre volte, quando fanno qualche gran pompa. Ed al- 
lora il Serenissimo a uso di Nettuno con quei suoi 
vecchi marini intorno si reca quivi dentro tutto dritto, 
Ci9me nella maggior sua gloria, con quel Berrettone in 
testa, che si dice Corno, come quello del Papa Regno. 

Talli Brogiolli far, che fra le corna 
Del vinciior degli Indi fiaromeg(*iaro • 
A guisa di piropi in vista adorna. 

Dice, che se nel corno del Doge sono tutte gioie fi- 
nissime, fra le corna di Bacco erano tutti Fichi Bro- 
giotti, che sono Fichi preziosissimi. Qui cred *io che 
il Padre Siceo fosse rapito da una bella meditazion 
poetica, e dalla bellezza di Bacco a far si bei versi, 
Come Boù questi E mi par vlsdere, che b' itiimaginasse 



D£L PADRE SIOEO. 108 

quelle belle foglione di Fichi, come smeraldi; con qnei 
Brogiotti fini, come piropi, con le loro lagrimette rilu- 
centi, come cristalli, fiammoggiare fra quelle cornicine 
di Bacco, come d' agata ; tra que' cerroni lucignolati, 
come d* oro ■, in quella testona bella, come di Dio, al- 
legra, come di vincitore, colorita, come di beritore; con 
quelle guance di rose, con quelle labbra di sciamitini, 
con quegli occhi pieni di spirito di buon vino; e che 
con questar immaginazione in capo partorisse questo 
terzetto. Oh ! e cosi lo vedesse una volta il Padre Ronta- 
non credete voi , che spirasse altramente che deli* An, 
tinoo, o deir Apollo di Belvedere ? Il Padre Gaio vor- 
rebbe sapere perchè il Poeta non adornò la corona di 
Bacco d'altri Fichi, che Brogiotti, invece di piropi; 
avvegnaché vi sarebbon campeggiati bene i Fichi albi, 
per diamanti ; i Bitontoni, per smeraldi ; ì Castagnuoli 
per giacinti ; i Piattoli per zaffiri; e i Lardelli per 
topazj ; e cosi altri Fichi d* altre sorta , per altre sorta 
di gioie ; che cosi 1' avrebbe fatta di più prezzo per la 
valuta delle pietra, e di più vaghezza per la diversità 
dei colori. Gli rispondo secondo il Mirabao, che il dotto 
Poeta sapeva bene, che in quel paese dell' India tutte 
le Fiche sono nere, e che tra le nere non ci poteva 
mettere le più preziose, che i Brogiotti: perchè, come 
le gioie sono più sthnate, che sono più dure, più unite, 
e di meglio colore ; cosi sono i Fichi più cari, che sono 
più sodi, più lisci, e più coloriti ; e di questa sorte sono 
i Brogiotti, ancora che siano mat uri ; dove gli altri 
appena cominciano a maturare che sono vizzi e grinzi, 
e sbiàncidi. E quanto al colore somigliano i Brogiotti 
ai Piropi, perchè sono di una nerezza mischiata di rosso 
con un cangiante, che dà nella fiamma. E però dice 
Fiammeggiar toccando destramente quel Flammaa imi: 
tante Pyropo. Io so in questa terra un pie di Fico d* 
quelli d' India, che di già vi ho fatto un nesto e tro - 
volo una saporita cosa. Ma perchè se certi leccone 



KM DELLA FJCHEIDS 

Ben' avvedessero, non ne resterebbe per me, non mi cur< 
che si sappia per altri. * 

Non so corno qncst* uso poi lasciare 
Quei che veoner di dietro ; ed in lor vece 
II Lanro assai più, che le Fiche amaro. 

Io mi* sono ingegnato d' intendere questa cagione, che 
fece dismetter V usanza di trionfar col fico,, e doman- 
dandone a questo Ser Mirandola, come quello, che trionfo 
già in Banchi degli spiriti folletti ; mi rispose, che Li- 
bicocco gli aveva detto, che per questo le Fiche non si 
usavan più ne' trionfi, perchè già avanti al Diluvio dì 
Deucalione, parendo a Q-iove che gli uomini fossero mali- 
gni ed ambiziosi troppo^ disegnò di soffocarli tutti, e riem- 
pire il mondo dì nuove genti, che vìvessero come usavano 
prima al tempo del Padre , comunemente , liberamente, 
e senza conoscimento d'onore, e di vergogna: Venti 
contrari alla vita serena, E per questo fare^ serbando 
solamente in sul monte Parnaso due sempliciacci, che 
furono Deucalione e Pìrra, mandò il Diluvio, che sof- 
focasse tutto il rimanente della generazione umana, in- 
sieme con tutte le altre cose del mondo, acciocché quelli 
che venissero poi , non avendo occasione di desiderj né 
di riìspettì, non curassero d' altro , che delle cose ne- 
cessarie. Cessate l'acque, per mezzo dell'oracolo di Temi 
ammoni quelli due , che si gettassero sassi dietro alle 
spalle, e cosi riempirebbono il mondo, l'uno d'uomini 
e l'altra di femmine. E volle sassi, perché quelli che 
nascevano fossero rozzi, e puri ; volle che se li gettas- 
sero dietro le spalle, volendo dire, che non li guardas- 
sero, e non insegnassero loro le usanze, né i costumi 
davanti al Diluvio. Nati che furono^ Giove gì pensava, 
che non trovando né vesti, né brache, né delicatezze, né 
maggioranze, dovessero da quindi innanzi andare sbra- 
cati, • vivere alla liberalona , senza curare né d' onori, 



DEL PADRE 0XCEO. 106 

né d' ornamenti: ma essi salendo il monte, tosto che 
videro un pie di Fico, che solo dal diluvio era scam- 
pato, subito (come la natura dettò loro) gli si dettero 
intorno, e delle sue foglie, che a quel tempo erano sem- 
pre verdi, si fecero chi ghirlande, e chi brache, secondo 
che naturalmente o rispettosi o ambiziosi si trovarono; 
e di qui si tiae, che di Fico furono*le prime corone, e 
le prime brache che si usassero ; benché delle brache, 
per un' altra via si tocca con mano, che le prime fu- 
rono di Fichi; ma non istà bene a dirlo in questo luogo. 
Giove, che questo vide, fu chiaro della natura umana 
e da indi innanzi lasciò che gli uomini si governassero 
ad arbitrio degli appetiti loro, . e solamente s* adirò col 
Fico, parendogli, eh' esso solo fosse stato cagione, che 
il suo pensiero restasse vano. £ dove i Fichi prima 
non invecchiavano , e stavano sempre verdi, volle che 
a tempo imbiancassero, e cadessero loro le foglie ; e 
questa è 1' una cagione, perchè non si trionfa più con 
essi. Ma perchè s'è detto, che col Fico trionfò poi il 
Padre Bacco, per accordar questa contraddizione è da 
sapere che le Fiche dell' India sono d' un' altra fatta, 
che queste dell' Europa. £ leggendo Turpino trovo , 
che fa menzione come Astolfo d' Inghilterra tornando dal 
Paradiso terrestre, gli aveva fatto fede d' aver veduto 
il Fico d' Eva, il quale era ancor verde. E che Enoch 
gli aveva detto d' averne dato gran tempo innanzi un 
rampollo a certi Ginnosofisti suoi amici, che abitavano 
alle radici de'Monti di Luna, e che da loro n'erano stati 
trasportati degli altri per tutta Tludia ; sicché di^questi 
fu quello, di che trionfò Bacco. E Libicocco dovette 
dire solamente de' nostri Fichi di qua, che perdono le 
foglie. L'altra cagione, perchè non si trionfa co' Fichi, 
è che quel lor latte è arsivo e appiccaticcio, e dove 
tocca, o incrosta, o scortica, o p^la; e per questo di- 
cono, che Apollo non ne trionfasse. Perciocché morto 
Pitone, volendo trionfar del Fico di Dafne^ ella, che 



conosceva d*es8er nel tempo, che il latte gli avrebbe 
pelata quella bella zazzera d'oro, gli voltò le spalle, ed 
egli le corse dietro; ma poi riconosciuta la sua discre- 
zione, volle, che H suo Fico diventasse Lauro, e che 
sempre fosse verde, perchè altri non portasse pericolo 
a trionfarne d' ogni tempo. Da indi innanzi e gli Im- 
peradori, ed i Poeti, per amor d'Apollo e per paura 
della pelatina, abbandonati i Fichi, si dettero dietro al 
Lauro. Quei che venner di dietro, cioè che si son dilet- 
tati delle frutte moderne, come delle Pesche, delle Gri- 
somele, delle Melangolo, e simili, che sono stati i Pre- 
lati, e i Poeti. Ma perchè l'autore non è di que9ti, però 
soggiunge : 

A me Bacco nel ver pur loddisfeee ; 

E 86 l'amata figlia di Peaeo 

Iq Lauro Giote irasformar già fece; 
Porfirio, Efialte, e 'I bnon Siceo 

Trasformò io Fiche, e talli gli altri insieme 

Orgogliosi fratei di Briareo. 

Comunque si venisse questo costume di trionfar col 
Lauro, e comechè si piaccia altrui, a me, dice il Poeta, 
soddisfece molto l'usanza di Bacco, -di trionfar coi Fi- ' 
chi. Nel vero. Qaasì volendo dire, che sondo Poeta non \ 
si do\Tebbe credere; oppure è cosi. E se l'amata Fi- 
glia ec, se la cagione, perchè si trionfa col Lauro, fosse 
per avventura, perchè ebbe l'origine da una bella Donna, 
del Dico si dovrebbe trionfare, perchè ebbe orìgine da 
grandi uomini, per ciò che venne da Giganti; e Siceo 
fu quello, che trasformato da Giove in questo albero, 
gli dette il nome: ancorché poeticamente faccia, che vi 
si trasformassero degli altri Giganti. Il Buspa Vigna- 
ruolo dice, che il Poeta, per questi quattro principali 
nomi di Giganti, volle significare quattro principali sorti 
di Fichi; e crede, che PorfiHo «ccenni il Fico Bossello, 



1 



DCL PADRE flICEO» iOT 

perchè egli, secondo il nome, fu di pél rosso: Efialte^ 
il Fico di San Piero, perchè, come quello crescendo si 
smisuratamente, si faceva di persona per due volte Gì* 
gante ; cosi questo sendo maggior degli altri, e facendo 
due volte Tanno, serve per due volte Fico:/Stcco, an- 
cora che desse il nome a tutti i Fichi, tiene, che par- 
ticolarmente sia il FicalbOy il quale è grandone, e hian- 
cone, come fu egli; e che gli desse 1* epiteto di huono^ 
perchè si converti nel miglior Fico di tutti, con rive- 
renza del Padre Brogiotto. E che miglior sia, dice, che 
si guardi, che tutti i Ficalbi son beccati dagli uccelli* 
Briareo, vuol che significhi esso Brogiotto, perciocché 
è rigoglioso, e duro a guisa di lui ; e che prima si di- 
cesse dal s]io nome Briarotto, e poi per corrotto voca- 
bolo Brogiotto, Degli altri Giganti, e degli altri Ficami 
di bassa mano non si fa menzione. Il Pintasso mi ha 
detto, che si trovò a queste sere a un trebbio, dove si 
ragionala di questa trasfigurazione di Giganti in Fiche; 
e che cadendo il ragionamento fra le donne, la Pippa 
disse: Non è dunque meraviglia, se le Fiche sono grandi, 
poiché furono prima Giganti. Rispose la Ciampottina: 
Uh! quei Giganti, io ho inteso dire, ch'erano molto 
grandi; e le Fiche, se sono come il mio FtcolJno, sono 
molto piccole. Imperò mi meraviglio, come vi si potes- 
sero rimpiattare si sperticati fusti, com'erano quelli; e 
disseto con una boccuccia piccina piccina. E tu Móna 
Ficalessa, rispose la Fanfalona, perchè non ti meravigU 
tu piuttosto, che i Giganti vi stiano dentro, e che siano 
ancor vuote? Certamente, disse TArgaliffa, che va, e 
va la cosa, e le Fiche non potevano esser meglio em- 
piute, che da Giganti, né i Giganti potevano capire al* 
trove, che nelle Fiche. Soggiunse la ParagrafFa. Questi 
Giganti non vid'io mai che empissero le Fiche, e vorrei 
pure, che a questi tempi se ne trovasse uno per riem- 
pire il mio Fico di bel nuovo ; ma per molto ch'io n'abbi 
eercO) non n*ho mai trovato veruno. E quando ben ne 



108 DELLA FIOHEtDB 

ne trovasse^ disse la 6 èva, io non credo, ehe fosse à 
gi'an Gigante in sul mio Fico, che non paresse un Zac- 
cheo in sul Sicomoro. In somma, conchiuse I' Ardelia, 
questa conversione de' Giganti in Fiche è uno di quei 
latini falsi, che fece Giove in quel tempo, che dispensò 
e cose, che mise le polpe delle gambe dietro^ che do- 
vevano star dinanzi per piumacciunli degli stinchL Cosi 
i Giganti si dovevano trasformare in Baccelli : si amano 
grossi, e lunghi, e paffuti; e non in Fiche, che ai desi- 
derano smilze, e nane, e raccolte. 

E tal ?i pose di dolcezza seme» 

Che sarà sempre il gaudio d*ogDÌ meosa# 

Per compensare il dnol, oad^ancor freme. 
E siccome airallare altri IMoceosa, 

Cosi QQ tempo vi volse ancora il Fico* 

In teslimon della vittoria immensa. 

Erano prima i Giganti certi animalacci superbi, come 
sapete ; e quando vollero pigliare il Cielo, misero tanta 
cacsif retta a tutti gli Dei, che convertiti per paura in certe 
bestiole di varie sorte, Xìosl scamuffati se ne fuggirono in 
Egitto per non capitare alle mani loro. Questa guerra fece 
tanto sudare le tempie a Giove, che quando gli ebbe fulmi- 
nati, perchè mai più non s'avesse a temer de'casi loro, non 
volle trasformarli in cosa che tenesse punto della loro fero- 
cità. Di Sìceo dunque furono fatti i Fichi, che sono tutto 
il rovescio di quegli animali ; perciocché, dove i Giganti 
erano alteri, violenti, spaventevoli, imperiosi, questi sono 
una cosa mansueta, trattabile, soave, che ognuno la de- 
sidera, e da ognuno è facilmente sottomessa. E per ri- 
compensar l'affanno della guerra col piacer della vitto- 
ria, ordinò che per memoria di quel fatto ogni giorno 
gli fosse* presentato il Fico a mensa, come lo incenso 
all'altare ; la quale usanza trovo, che fu nel tempo, che 
Ebe era scudiera, % fu dismessa, perchè una mattina la 



.EDL PADRE 0IOEO. 10^ 

scimunita, portandogliene innanzi coperto, cadette, e ro** 
vesciò il piatto, e mostrò il Fico; di che Giove irato 
tolse l'ufficio a lei, e sostituì Ganimede, che in quello 
scambio gli mettesse innanzi le Mele. Dette dunque 
Giove al Fico il «eme, il principio, 1' origine, il fonte 
della dolcezza. Tale, idest, talmente composto, e di tante 
maniere e cose, che sarà sempre il Gaudio agogni mevsa. 
Perchè tutti gli nomini, di tutti i gusti, d' ogni etade, 
e d'ogni stagione n'ayranno sempre dilettazione, ed ab- 
bondanza. E qui dice il Ghiribizzatore nell'Aquila vo- 
lante, che il Fico, è quel medesimo che era la Manna 
nel Deserto, la quale, a tutti c}ie ne mangiavano, ren- 
deva sapore di quel cibo, che più desideravano. Per- 
ciocché nel Fico si trovano tutti i più importanti ali- 
menti alla vita degli uomini, come Grano, Vino, Carne, 
Olio e Latte ; e lion solamente il vitto , ma il vestito. 
Guardate, dice, che quei granelli dùretti dentro al Fico, 
non sono altro che grano; quelle uvette succose; che 
facciano i granelli, fanno vino; la polpa, a che stanno 
appiccate, è carne; il liquore, che stilla dal fiore è olio; 
e quello che esce per lo picciuolo, è latte. Il vestito è 
quella buccia di sopra alla carne, che si chiama la ca- 
micia; e sopra la camicia, la gonnella, che è quell'ul- 
timo cuoio di fuora. E per questo, che vi son tante cose 
dentro, non per la cagione, che racconta V Arsiccio, dice 
lo Squitti, che il Fico è stato chiamato Natura: ed 
hammi insegnato quel secreto; che forse toccherà il 
Poeta in altra Flcata, cioè, che quelli abbigliamenti che 
pendono dalla gorgiera della dea Natura, che costor 
pensavano, che fossero poppe, sono tutti Fichi : che con 
questi, dove son tante cose dentro, vollero gli antichi 
significare la fertilità della Natura, non con le poppet 
dove non è che latte solo. In somma Fico, e Natura 
sono una cosa medesima. Benché vi sono di quelli 
che vogliono, che Fico e Poppa sieno pur tuttuno ; come 
il Ciacco Compoppista, e Leccardo GrufoU^ni, che non 



no PEIXA F^CH^tD^ 

silimo. mangiar fidbi, che non li poppino. Ma questi bric- 
coni , se io potessi, gì* impiccherei tutti per lo naso ad 
un fico fradicio, pieno di formicoui, e vorrei, che la Fi- 
cardi^ desse loro tante fìcate nel ceffo che gli agro. 
gnasse tutti. Ora lasciamo andar questi gaglioffacci, e 
torniamo a dire, che il Fico si dice Natura, perchè vi 
si trova dentro ogni cosa da fare, e da mantenere gli 
uomini ; a che non erano bastanti le ghiande sole, Tuso 
delle quali fu dismesso, perchè cominciandosi a gustar 
delle Fiche, e trovandovisi dentro una tanta abbondanza 
e larghezza di Natura, quei capocchi, che usavano so- 
lamente le ghiande, come furono gli Arcadi, non si po- 
terono contenere a quelle sole; ma prima le mescola- 
rono, verbigrazia, una ghianda con un mezzo fico ; di- 
poi dando, nelle Fiche a tutto pasto, riposero in tutto 
le ghiande, sicché le Fiche furono quelle, che dettero 
lor la pinta, ed introdussero i baccelli, co -quali fecero 
una lega perpetua, che ancor dura, e durerà sempre. 
Potrei ancor dire, oltre allo sbandimento delle ghiande, 
come tolsero ai Tirinzii le Achirade, agli Indiani i Ca- 
lami, ai Carmani i Palmizj , ai Meoti il Miglio, ai Sau- 
romati ed ai Persiani il Cardamo e il Terminto, delle 
quali cose si cibavano questi popoli, prima che le ma- 
dri Fiche fossero in uso; ma perchè noq mi toma a 
proposito del loco, passerò via. Il Bisunto filòsofo dice, 
che lo Squitti, per dar al Fico' la fertilità degli alimenti 
sopraddetti, prova solamente, che il Fico sia la Tenra, 
e che per provare che sia la Natura, bisognava dargli 
tutti quattro gli Elementi. Onde, che della Terra ri- 
mettendosi alla ragione detta da lui, per provar che tì 
sia l'Acqua, allega i guazzi, le pioggie, e i gocciola- 
menti, che vi sono, ed in somma, che v*è da pescar per 
ognuno. Deir Aria dice, che basta a sapere, ohe è va- 
cuo. Del Fuoco, che dentro ve n'è sempre, e che faora 
svapora, una volta il mese, perciocché ancor egli ha le 
sue caverne, e i suoi 9olfi, e in somma vuole, che sia 



DEL BAI>KB SlCSa 111 

nn altro Pozznolo, e che di <)ui àia nato (fàeX prpver« 
bio, che si dice dar fuoco al cencio. E di più dice che 
sì avvertisca, che nutrisce animali di più fatte, de' quali 
il Poeta farà menzione altrove. Ora torniamo a dire, 
che Giove pose nelle Fiche tutta quella dolcezza che 
si può gustare, per compensare il duolo, il dispiacere, 
che n' avea avuto , quando erano Giganti. Onde ancor 
freme. Dante disse questo concetto in questi versi: 

Gli orribili Giganti, cai miaaccia 
Giove dal cielo ancora quando tuona. 

Che '1 folgor non lo tocchi, noo vi dico, 
Perchè mi penso» che lo sappia ognuno, 
Che voglia pare nn poco essergli amico. 

Segue di far parallelo del Fico col Lauro. fS già si è 
detto, che se '1 Lam*o è trionfale, il Fico fu trionfale, 
e dette nome al trionfo. Se 1 Lauro ehbe origine da 
bella Donna, il Fico Tebbe da grand*uomo. Se *1 Lauro 
sta sempre verde, ci son Fichi, che hanno sempre le 
foglie. Ora dice, che se il Lauro non è fulminato, il Fico 
non è manco tocco dal folgore, e perchè è scritto da 
altri, se ne passa di leggieri, presupponendola per cosa 
nota agli affezionati del Fico. Dicono questi Fisici, che 
la cagione, che il folgore non tocca il Fico , è V ama- 
rezza del legno; perchè tutti i legni amari sono cosi 
privilegiati. Ma io vi dirò il vero. Questi Plinj , e que- 
sti Teofrasti, non mi par che entrino per la via a dispu- 
tare sopra i Fichi, come sopra Taltre cose; imperò non 
mi fido molto di quel che si dicano, e credo al mio Tan- 
fura in questo luogo, il quale fondando la sua opi- 
nione sopra quel verso 

PtotooD ille vocai, qaod dos PiOloenta Geraanon 



118 DELLA FIOHBIDB 

dice, ohe il folgore è quel cotale terrìbile di Griove, con 
che fracassò ogni cosa a quella poveretta di Semele, 
perchè gli domandò, che andasse a lei a non so che 
mal modo. E vuole che il senso del Poeta sia tale. 
Quando Giove drizza questo folgore cosi bestiale alla 
volta del Fico, non lo tocca, cioè non aggiunge con 
esso a percuoterlo in modo che lo dirami , o lo sco- 
scenda, come a Semele, ma passa via da largo. Dice 
poi sopra quel verbo. Toccare, mille belle cosette, e 
conchiude, che sebben toccare è proprio delle frutte 
dure, come di mele e simili, che il Poeta in questo luogo, 
se si considera bene, ha usato questo verbo improprio 
molto propriamente. 

Ma quanto qui di ler scriTo ed adnno, 
È Dalla a paragoa di qael suo latte , 
Che noi) sarò di lodar mai digiano. 

Tutte quelle lodi, dice il Poeta, che io scrivo, cioè 
ora, e tutte quelle che io aduna per iscrivere poi delle 
Fiche, son nulla a petto alle lodi, e alle virtù, che si 
posson dire del lattificio di esse, delle quali, perchè sa- 
rebbe un barbaglio a raccontarle, leggete quello scio- 
perone di Plinio , che non dovette aver da far altro, 
quando le raccolse, e vedretevi dentro tutte le opera- 
zioni d'una spezieria. Ma perchè di sopra s'è detto di 
questo latte, come pela, e facesse altri cattivi effetti, 
per li quali non pare che meriti quelle lodi, di che il 
Poeta lo giudica degno; mi par di dirvi, che dovete 
avvertire, che quantunque sia vero, che faccia di quei 
nocumenti, e de* maggiori, per infìno a metter la rabbia 
ne' cani ; nondimeno questo avviene d' un certo tempoi 
che i fichi, per esser guazzosi, non s' hanno a toccare, 
E per questo , che allora aveva la guazza , Dafne non 
volle, come s'è detto, che Febo toccasse il suo Fico; 
ma p^ l'ordinario (Questo latte è^la ffigliorcosa del 



DEL FÀDBE SICBO* 118 

mondo. £ oliare alle virtù racconto da altri , trovo, che 
serve a far le donne belle ; a rappigliar V altro latte, 
che si ^ mischia seco, d* onde viene la generazione del 
cacio. E buono a rimarginar ferite; a far. tempra per 
Pittori perfetta, tanto che, temperando questo con sugo 
di baccelli, e' è trovato che si fanno le figure vive. In 
somma è salutifero, generativo, e molto necessario alla 
vita umana. Il Pilucca insegna* di che tempo il latte 
è migliore nel fico, ancora quando non è guazza. E cruc- 
ciasi, bestialmente, con quelli indiscreti, che guastano 
le Ficoline novelle, avanti che il latte abbi la sua per- 
fezione; e con quegli ingordi, che lo spremono dalle 
Fiche secche, dove il latte ha già fatto gromma. E dà 
per regola, che la Fica vuol essere, né mongara, né 
seccaticcia, ma in quel mezzo, che é campereccia ; che 
secondo mC; vuol dire, che sia matura, ma non acerba, 
né passa ; che mi par difiicile appostarle tutte cosi sta- 
gionate ; se già non si facesse a uso del corbe, che mi 
contò a queste sere a vegghia quel favolalo d' Ovidio, 
E per raccontare questa favola ancora a voi ; dice, che 
8*era un tratto un certo Corbacchione, che stava in quel 
tempo alle spese di Messer Febo. Fu mandato da lui 
per dell'acqua alla fontana per sagrificare. Era pressa 
alla fontana un bel pie di Fico, che si riserbava per 
la sua poetaggine. Il goloso, veggendolo, vi fece sa 
disegno , e non essendo maturo , non curandosi di 
piantar Febo, stette quivi tanto, che si maturasse» 
e beccatolo se ne tornò con una sua scusa magra 
d' un certo serpente tutto infaccendato. Febo , che 
era forche bene, s'avvide del tratto, e perché mai più 
ne beccasse, che buon gli sapesse, gli forò la gola con 
una freccia, il qual foro apparisce ancora ogni anno 
a tutti i cerbi, e dura loro tanto, che i Fichi siano 
scorci. E di qui vuole il LenciOy che venisse il prover- 
bio, d'aspettare il corbe, ma non dall'Arca di Noè. Non 
voglio mancar di dirvi di mente d'Aristotele, che il- 

Caro* $ 



114 DELLA FICHBIDE 

latte ulivigno è di miglior sostanza, che il troppo bianco. 
E che per questo le Fiche biancastre sono sottosopn 
più scipite, che l'altre. Il Girigoro dice, che nei suo 
paese s'usa d'ingrossar le fave, -con questo lattificio, e 
voievami insegnar la ricetta. Ma perchè si dice, che 
chi non sa fare guasta 1' arte , voglio seminar la mia 
fava piuttosto cosi piccina, che metterla a rischio, che 
mi diventi qualche sti>ana cosa. 



Non too le Fiche, come molli matte , 

Che fondili sopra i fior le lor sperarne» 
Che possono in nn punto esser disfatte. 

E perchè il pregio lor sempre s' avanzo 
Grescon col latte, che M pedal comparte 
Sensa mandarsi altri trombetti innanie. 



Morali, ed artifiziosi terzetti son questi, dove il Poeta 
dà un cavallo a Plinio ed agli altri letterati , che vo- 
gliono, che il Moro sia il più prudente arboro di tutti, 
perchè dubitando del freddo è i' ultimo a fiorire. Se fio- 
risce, dunque è pazzo come gli altri; sectmdo il Poeta; 
Bendo che tutti che fondano le speranze ne' fiori son 
pazzi. £ cosi si trae di qui , che il Moro , non sola- 
ixiente è pazzo, ma poltrone, e che il Fico è savio, ed 
animoso. Savio, perchè dove V altre frutte si fondano 
in su i fiori, che per minimo temporale, che gli incon- 
trino, non tengono ; esso fa il suo fondamento in sé 
stesso, ed in su i grossi, che sono in grammatica quelle 
cose, che in vece di fiori le Fiche mettono innanzi ; e 
pone la sua speranza nel latte del suo pedale. Ani- 
moso , perchè non si tiene a dietro , ma quando è il 
tempo che le frutte sono in succhio, si spingono avanti 
tanto arditamente, che bisogna bene intoppo d' un gran 
temporale a farlo ritirare. Pedale è quel tronco , per 
onde va nelle Fiche quel latte | che le fa generare. 



Z>EL PADRE SICEO. 115 

Senza mandarsi altri trombetti innante, Sono t fiori 
alle frutte, come i trombetti alle genti d* arme. E 8Ìc« 
come un valente capitano preparando una fazione im« 
portante non manda trombetti, che sono gente debole, 
cosi il Fico a rincontro de* temporali non mette i fiorì, 
ma si presenta esso medesimow Volete vedere, dice Ser 
Adatta, se il Fico è savio, e animoso? Guardate alla . 
sua figura , e vedrete che è tutto capo e tutto core. 
Dair altro canto ponete mente a quel capolino bitor* 
zoluto del Moro, e quel solo vi dirà che è un civettino. 
Fra i pronostici de' villani è un motto , che mi fa cre- 
dere, che il Fico non solamente sia savio, ma profeta , 
e che antivegga le cose avvenire ; perciocché predice 
la carestia , e con restare in su V albero ancora dopo 
cadute le foglie , apre la bocca , e grida a ciascuno , 
che si fornisca , perchè il caro ne viene. Donde s* è 
fatto il motto, che dice. Quando il Fico serba il FicOf 
Buon Villan serba il Panico, Trovo in oltre, che il Fico, è 
astrologo , e potetelo veder manifestamente da questo , 
che fa tutte le sue operazioni a punto di Luna; ed è 
stato di tanta autorità nelle cose del tempo, che gli [si 
ponno dare tra noi quelle lodi, che hanno dato gli Egi« 
zj , gli Ebrei^ i G-reci , i Latini , i Cristiani e gli altri 
a Eudosso , a Ipparco, a Talete, a Metone , a Noè , a 
Romolo, ed agli altri, che hanno dato ordine agli Anni, 
a'Jabilei, ali* Olimpiadi, ai Secoli, ai Lustri, ai Calen- 
dari , e simili distinzioni di tempi. Conciossiachè ancor 
egli ha dato il nome a certi anni della vita nostra. Per 
ciò che quando uno è giunto alli xxxvi, si dice esser 
giunto alle Ver dee chic, che sono Ficìie, che hanno dato il 
nome a questo numero d* anni , perchè tante di loro si 
danno per un quattrino. Ma il Tentenna muove un 
dabbio^ perchè se la Fica è si savia zucca, la scrittura 
la chiama fatua , cioè pazza. A questo trovo un espo- 
sitore, che vuole Ficus faiua sia traduzione in latino 
di «Sicomoru^ greco ^ che una medesima cosa signifi- 



116 DELLA TICHÈlllE * 

cano ; e così, che la scrittura intendesse del Sieomoro, 
e non del nostro Fico savio. Se il Sicomoro è Fico, per- 
chè dunque pazzo ? Perchè , secondo il Grirellaio , un 
giorno che Apollo e Branco vennero dove egli era prima 
Fico savio a sfrondar Mori per far V arte della Seta , 
(perciocché Apollo un tempo fu setaiuolo) egli desiderò 
d' esser Moro , per esser parte dell* arte con esso loro. 
E di più volle da Branco il Mellone, che portava sotto 
per Apollo , e dare in quel cambio Fichi a lui. Onde 
Apollo considerata T invidia, e la presunzion sua^ volle, 
che avesse il nome di Moro, acciocché da ognuno fosse 
chiamato per pazzo. E fece che quel desiderio, che aveva 
del Mellone, gli si indurò in corpo. E vedete che i suoi 
frutti hanno una buccia fuora di Fico, e dentro certi 
Melloncini d' osso, di che i Frati, e le Monache fanno 
corone da Paternostri. E cosi il povero Sicomoro per 
voler esser savio contro tempo è tenuto per pazzo, e 
credendo d* infilzare è infilzato. Ma il Tentenna mi strinare 
L panni addosso per un altro verso, e dice. Son con- 
tento che la Scrittura intenda , che Ficus fatua sia il 
Sicomoro ; ma nel mio paese dove son certe Fiche, che 
si chiamano pazze, e non sono Sicomori, ma di queste, 
che tu di che son savie , per qual cagione si dicono 
elleno pazze? Gli rispondo, o che son pazzi quelli del 
suo paese f o sì veramente le chiamano cosi per vezzi , 
come quando diciamo a uno, pazzerello, ghiotterello. £ 
lo Sciarra mi dice , che Fiche pazze son quelle , con 
che si fa delle piacevolezze. Perciocché egli ne fa palla, 
ne fa trottola , ne fa il gioco di dentro , e fuora , e le 
più belle pazziuole del mondo. 

Onesto basta a mostrar in ogni parte ' 

La vera sua legillima natura • 

Senza virtù di privilegi, o carte. 

Sogliono talvolta lo donne per gabbar certi scempi, 



> DEL PADJtE SICSO. %l% 

che hanno una gran voglia di far razza, finger di par-. 
torire , e mettendo un bambino posticcio , lo danno a 
credere per fatto da loro ; come io so , che fece una 
buona femmina, che s' andò di mano in mano impre- 
gnando di cenci, e di fasciatoi, e in capo di nove mesi 
i cenci diventarono un Signorino. Donde io credo, che 
sia venuto quel proverbio, che si dice , far gli uomini 
di pezze. Platone, che stette col capo a bottega , sola- 
mente B* avvide dell* inganno , ma insegnò di scoprirlo 
in questo modo: che se in quel tempo si trova che la 
madre abbia latte, il bambino è suo ; se non si trova^ 
è posticcio. Ora dice il dotto Poeta questa cosa , che 
il Fico venga col latte della madi*e, basta a provare, 
che non è posticcio, né bastardo , ma vero e legittimo 
figliuolo , senza bisognar scritture a provare che sia 
legittimo , primlegj a mostrare che sia bastardo le- 
gittimato. Donde pare che voglia inferire , che le mele, 
le pesche, e simili non siano fratte legittime , perchè 
non vengono col latte. Ma il dottor Pataracchia mi 
inette il cervello a partito con certi suoi schiarimenti 
di leggi, e dice, che le Fiche hanno il legittimo (come 
afferma V autore) dal canto della madre ; ma che da 
canto del padre hanno il naturale, e che il padre del 
Fico è marito, e padre della madre di esso Fico : e di 
qui vuole, che si dica che la madre vuole il padre. 
L' altre frutte dice, che tutte hanno padre, ma non ma- 
dre come le Fiche, e che da esso padre hanno tutte 
il naturale ; e quel legittimo, che non hanno , per non 
aver madre, è legittimato dal padre. Perciocché dice, che 
il padre ha latte ancor egli , che mi pare strana cosa. 
In somma egli fa di latte , di padre , di madre , di le- 
gittimo e di naturale un certo suo miscuglio , che mi 
par bene a non volerlo intendere. Perchè questi Dot- 
tori trovano il pelo49u V uovo ; e metterebbonci in com- 
promesso questa sentenza, che abbiamo già avuta dal 
Poeta. Poi bisognerebbe assottigliar y ingegno , e pas* 



118 DELLA FICHEIDB 

Bar per Filerà a voler entrare in quelle cose, che dice. 
Ed io vorrei piuttosto aver l'ingegno più grosso , che 
non ho^ e poter pescare nelle materie u largo. 



Qainci (rli Antichi ebber mirabil cara 
D'intagliare i Priapi sol nel legno 
Del Fico, e fecer lor ^iasta misara. 

Ogn' altro a tanto onor era men degno, 
Per la ragion, ch'infine a qui v'ho detto, 
E che dirri di quoto ancor m* ingegno. 



Per esser dunque il Fico trionfale privilegiato da 
Giove, savio, lattoso, legittimo con tutte V altre virtù , 
che son dette, e si diranno poi ; e in somma per essere 
essa natura, per questo gli antichi ebber mirabil curay 
prudentissimamente s' avvisarono, e misteriosamente tro- 
varono à' intagliare i Priapi sol nel Fico. Avvertite, 
che io trovo, che alcuni degli antichi hanno intagliato, 
e oggi de* moderni, che intagliano il pesco , il melo, e 
simili ; ma questi sono stati, e sono certi Noddi scar- 
pellinacci ignoranti, o «trascurati della vera arte di far 
figureJ Che i veri scultori e studiosi di scolpir di vivo, 
o antichi, o ali* antica, che si lavorino, hanno usato ed 
usano sempre il Fico; e la ragione è in pronto. Perchè 
il pesco, il melo , e cotai legnami sono tutti materia 
stiantativa, noderosa, e fastidiosa, dove quella del Fico 
è pastosa , liscia , e facilissima a lavorare. L' Aringa 
grammatico dice, che quello intagliare Priapi nel Fico 
è una figura, che vai tanto come intagliar il Fico coi 
Priapi. E veramente, che V Aringa ancorché nell' altre 
sue cose sia troppo secco , in questa ha qualche sugo. 
E fecer lor giusta misura ; cioè li fecero assai grandi ; 
ed è ragionevole che i Priapi del Fico sieno maggiori 
che degli altri ; perchè nel Fico è materia da aliar- 
Iparsi, 6 farli grandi^ ó tutto, o parte, che se ne metta 



DEL PADRE 8ICE0- 119 

in opra* Ogn^ altro a tanto onofe ecc. Per le ragioni 
dette, e per quelle che ho da dire , tatti gli altri le* 
gnami erano meno atti e men degni a tanto onore, di 
ricevere la figura di un tanto Dio, Perciocché tanto 
mistero non poteva stare, se non dentro al suo profon- 
dissimo segreto. Ora se volete intendere che inisterio 
sia questo, aprite bocca, cornacchioni , che questa non 
è imbeccata da passerotti. Dico a voi, filosofi, che v^ an- 
date lambiccando il cervello per trovare , che cosa sia 
materia prima ; e vi sognate certi vostri atomi , certe 
entelechie , certe idee, certi numeri , che non si veg« 
gono , non s* intendono , e peggio , che non sono ; 
e quelle , che sono , che si veggono , e si palpano , vi 
sono oscure, e lontane, e come nonnulla. La materia 
prima, capocchi, non è altro che il Fico, e la Fava, di 
che è piena ogni cosa ; e Fico e Natura , come si è 
detto, è una cosa medesima ; e la Fava, e '1 Naturale, 
e Dio Priapo son pur tuttuno. Che il Fico e la Fava, 
o la Natura e il Naturale insieme facciano poi ogni 
cosa, non è dubbio. Quelli che vogliono , che il mede* 
simo facciano la Fava e le Mele, s' ingannano per una 
certa similitudine d' operazione , che vi trovano dalla 
parte della Fava. Ma le Mele non con«o]rrono già alla 
fomposizione della materia prima con la medesima ope- 
razionC; che il Fico; perciocché delle due cose chev*im 
travvengono, che sono la generazione e la corruzione t 
il Fico con la Fava le ha tutte due ; dove la Fava 
con le Mele non ha che la corruzione sola. Chi sia poi 
il maestro d'accozzar queste due cose insieme, lo di* 
chiara il Burchiello, quando dice 

Amore è un trastullo 
Che metto in campo fesso fava rossa , 
E cava il dolce mei delle dar* ossa. 

Questo filosofico misterio volle scrìvere un altro Poeta 



120 DELLA FICHEIDB 

naturale mio amico , sotto il medesimo yelame , di- 
cendo: 

Se tn vuoi, Cencia mia , questa mia Fava, 

Dammi il tuo Fico fiore; 

Ha fa che sia maturo, e che di faore 

Gocci di pianto, e scoppi delle risa , 

E eh' abbi la gonnella alla divisa. 
Ed io della mia Fava 

Ti farò gran derrata. 

Vuoi del Baccello, o vuoi della Sfavata 

Asciutta, e molle, e 'n concia : 

E se la vuoi menata , 

Meneiemo ; io la Rilla, e tu la Cioncia. 
Ha quando il Fico tuo non sia maturo , 

Ti darò fava soda. 

Hettiam duro con duro , 

E chi ha buon denti roda. 

Facciamo un tratto questa merenduola , 

Fave in Corazza, e Fiche in Gamiciuola. 

Qnesto è quel gran punto, che comprende tutta la 
filosofia ; e questo è quello, che V altìssimo nostro Poeta 
ha voluto dire sotto il velame di questo antico miste- 
rio ; cioè che i Priapi s' intagliavano nel legname di 
Fico. Perciocché fatta una cosa della Natura e del Na- 
turale, si componeva la materia prima. E non guardate, 
che dica componeva , che par centra la Filosofia, che 
vuole, che la materia prima sia semplicissima, e senza 
composizione ; perchè avete veduto ,' che i Filosofi in 
queste materie s* avvolpacchiano. Basta solo, che voi 
aiferriate il punto, che le Fave e le Fiche sono il prin- 
cipio della generazione. £ che sia vero notate, che do- 
vunque troverete il Fico e la Fava insieme, o tal volta 
spartiti (perchè ciascuno comprende il compagno, come 
a dir Castore vi s* intende sempre Polluce) , quivi 



DEL PADRE SICEO. 194 

Sèmpre sarà il principio di qualche cosa. Vedete, che 
il Priapo, e il Fico sì metteva dagli antichi negli or- 
ti, dove nascono tutte le erbe, e tutti i frutti. Il Fico, 
e il serpe fu posto da Moisè nella generazione del 
Mondo. Il Fico ruminale , significa il principio della 
città di Boma. Il Fico, e *1 Baccello fu operato da 
Prometeo nella creazione del suo primo Uomo. Per- 
ciocché la ferola accesa al Carro del Sole non era 
altro, secondo l'Alcorano, che 'i Baccello appressato 
al caldo del Fico. £ Ficcare, che viene da Picare, ag- 
giuntavi una lettera, che vuol dir altro, che attendere 
alla generazione ? Ma che più ? Guardate il Fico alla 
sua figura, la quale (benché dica Ser Adatta di sopra 
che sia capo e core) il Bientina dice, che piuttosto 
Capo e Culo insieme; e che non vuol significare altro, 
se non che egli é principio, e fine d* ogni cosa. 

Cortese ò di Datura ; e dà ricetto 
Ad ogni fratto : e chi Del Fico iooetta^ 
Non perde tempo, e redesi Tefifetto. 

Qual miglior lode potea dare il poeta al Fico di que- 
sta ? £ quale é maggior virtù, che più giovi altrui, che 
più soddisfaccia a sé medesimo, che sia più simile a 
essa Natura della «Cortesia ? £ qual cosa é più cortese, 
più larga, più amorevole del Fico ? Qual uomo é quello 
per grande, per minimo, per mezzano, o di stato, o di 
persona, o d*etatc, che sia, che non restì (non voglio 
dir soddisfatto) ma ripieno, sazio, ristucco della sua li- 
beralità? Egli non pur chiedendo ti si dà, ma per sé 
stesso t'invita, ti si offerisce, ti si porge, ti si apre, ti 
mette dentro in corpo. £ non tanto, che ti mandi poi 
via volentieri, si cruccia, che tu te ne vada, e che non 
ti stii seco in perpetuo. £ forse, che fa questo qualche 
volta, con qualcheduno, o che dà qualche parte di 
sé ? Egli 8i dà tatto a ognuno , e d' ogni tempo. Or 



IM < BELLA FICBEIDE 

pensate, se Natan fosse, non che altri, fosse buon fat- 
torino al nostro Fico ? E perchè chi lo volesse biasi- 
mare, potrebbe dire, che questa tanta larghezza è fuora 
della definizìon« della liberalità, ed e prodigalità strS' 
bocchevole ; rispondo, che questo sarebbe , quando 1& 
roba sua avesse fine, o fondo, e che scemasse, o man- 
casse a£btto. Ma ella è infinita, o quanto più. dà, piò 
ha : e per dirlo in grammatica. 

Del licei assidae , nil tamen lode perit. 

£ per questo, avvegnaché sia più che liberale, non può 
essere mai prodigo. Ed è cosi di Nattira, dice il Poeta, 
cioè che non lo fa per boria, o per altro effetto , per- 
chè gode per sé medesimo a darsi, e nel dar riceve 
sempre^ perchè chi riceve da lui, si dà ancor egli vo- 
lonticri. E questo piacere dell'uno, e dell'altro con tanta 
liberalità, e con tanta amorevolezza fu, secondo il Pan- 
chera, quella bella virtù, che fece già gran tempo il 
mondo d'oro. E dà ricetto ad ogni frutto. E non è me* 
raviglia, che s'innestino facilmente col Fico certe frutte 
proporzionate a lui ; né manco, che ci faccino bene le 
Ghiande, i Maroni, le Fave, i Citriuoli, i Porri, le Ba- 
dici, le Carote, o che in corpo li s'innestino, o che ap- 
presso li si piantino : ma mi meraviglio bene, che vi si 
appiglino certe altre cose stravaganti, come la Zucca 
che v'innestò Mona Concoccia, il Pestello che v'insitò 
la Bettaccia, il Passatempo di vetro che vi mise su la 
Bia; che tutti intendo v'hanno fatta buona pruova: 
ma la ragione è questa, che il Fico è d'ogni tempo in 
succhio, e sempre, ed ogni cosa, che vi si metta, vi si 
appicca. Tuttavolta innesti per questo non si debbono 
fare a caso, perchè certi frutti a certe stagioni, e messi 
a certi modi, e da certi più pratici fanno miglior pruova. 
E quando la Puga^ o la Marza è più giovine, più li- 



DEL PADBE 8ICE0. 123 

scia, più dritta, più rigogliosa, e più grossa, meglio si 
fa. Pur nondimeno dice, che non vi si perde tempo; 
perchè alla fin») ogni insitatore con ogni marza, e quando 
che sia, o bene, o male, che si faccia, fa pur i fatti 
suoi, e non s'affatica indarno, perchè a capo di nove 
mesi in dieci e tal volta di più, e tal volta di meno 
se ne vede il frutto. 



QaesU piaota a raceorre ò sempre presta; 
E perch' è di materia ao po' fungosa 
Ciò che Ti pooij prestamente arresta. 

Èssi detto, che il Fico si dà per sé stesso volentieri, 
ed assegnatosi per ragione la sua natura. Essi detto 
ancora, che riceve volentieri ogni frutto. Ora il poeta, 
che non vuol parlare a caso, rende ragione di questo 
ricevere; dicendo, che il Fico è di materia fungosa, 
cioè porosa, soffice, spugnosa, cavernosa, rimbrencio- 
losa, con molte camerelle, e con molti magazzini den- 
tro, perciocché sendovi del grano, del vino, della carne, 
deirolio, e del latte in abbondanza, come avete udito, 
è necessario, che vi siano granai, cantine, carnai, fat- 
toi , e precuoi , li quali votandosi tutti per la sua. im- 
mensa liberalità, è chiaro, che vi resterebbono molti 
luoghi vani, se non si riempiessero. La qual cosa sa- 
rebbe contro la legge d'essa natura, che non patisce 
in sé vacuo. E questa è la cagione, perché ella è tanto 
capace a tenere, e tanto presta a ricevere. 

ATanza di dolcezza ogn* altra cosa, 
Znccbero, Marsapan, Goofetti, e Miele, 
Ed alile è più assai che oon pomposa. 

Perché mi pareva, che questa si gran lode del Fico, 
che sia dolce sopra ogni dolcesaa, avesse un poco d'as« 



114 DELIBA FICHBIDB 

sentazione, o di tròppa affezione del Poeta verso di lai; 
oggi, standomi fra certi Lombardozzi manuali alla Fab- 
brica, cominciai a domandare , che cosa paresse loro 
più dolce del Zucchero; risposemi subito Petrazzo ; la 
Bava maidè. E del Marzapane, diss* io ? Rispose lo 
Sciacchilò, il Pan unto. E più del Miele ? Il Bituro, 
disse Giannin. E più della Rapa, del Pan unto , del 
Bituro, e d'ogni cosa ? Risposero tutti insieme : la Figa 
maidè ! La qual risposta mi fece cominciar a credere 
al Poeta. Poi discorrendo da me medesimo sopra 
tutte r altre dolcezze , mi risolvei affatto che cosi 
fosse. Perciocché le Zuccherose, e le Melaccbine sono 
tutte sdilinquite, stucchevoli, senza grazia, e senza ca- 
pestreria veruna, e fanno un cotale smalto appiastric- 
ciato per bocca, che non si stende più, che per lo pa- 
lato : dove quella del Fico è mischiata di più sorti 
soavità naturali, che quando t'ungono, quando ti pun- 
gono, quando ti baciano^ quando ti mordono; percioc- 
ché quando morbide, quando frizzanti, or ti riempono 
d'una soverchia dilettazione, or ti danno certi lacchez- 
zini appetitosi , che di nuovo t'eccitano. E con questo 
variare ti vanno ricercando tutta la vita, per infino al- 
l'ultime midolle con tanto piacere, che ti rapiscono a 
te stesso, e ti faimo spasimare, e morire d'una com- 
pita dolcitudine. Ed utile più assai, che non pomposa. 
Sono i Fichi una cosa rimessa, ed umile; e senza pompa 
badano a'casi loro: e non mostrano fuora quello, che 
son dentro ; ma stuzzicandoli, e gustandone , vi si 
trova dentro quelito, dolcezza, che s'è detta, la quale, 
di che utilità sia, sallo il mondo, che senza essi sa- 
rebbe nulla. Ser Pizzicata dice, che sebbene il Poeta 
vuole, che il Fico sia più utile, che pomposo, non è 
però, che non abbia anch'egli la sua pompa. E non 
guardate, dice, che il Fico vada con la camiciuola rotta, 
che quella spezzatura è un'arte di mostrar la disposi- 
zione. £ soggiunge, non è dlla una pomposa mostra un 



DTBL PADSB SICBO. 125 

apparecchio di Fichi freschi, rugiadosi, con certi fioretti 
suoi, con quei labbrettini verniigli un poco rovesciati, 
non aperti affatto, con quel lor guarnelletto in certi 
luoghi sdruscito, non già troppo stracciato, perchè quelli, 
che non vogliono, che mostrino le carni, e quelli che 
le amano troppo cenciose, non se n'intendono ! Lo Sguazza 
è di parere, che il Poeta di cendo, che sono più utili che 
pompose, voglia inferire, che vi si spende poco, e se ne 
gode assai ; perchè dovunque vai col tuo grossetto, ne 
fai una corpacciata, che ne stai bene una settimana. 
£ però la intese quei de'Martini *a Firenze , il quale 
sentendo, che un suo fratello liberale aveva speso una 
sera cinquecento scudi in un banchetto, disse al servi- 
tore ; tien qui due Bianchi ; vattene in Mercato* Vecchio, 
e comprami una stiacciatina, e parecchi Fichi Brogiotti, 
che voglio sguazzare ancor io. Vedete come uno per 
sordido che fosse, mercè deirabbondanza de*Fichi, fece 
con due Bianchi quel medesimo scialacquio , che quel- 
l'altro con cinquecento scudi. 



Non trovo con ragion chi si querela 
Di lei, se non qaalcnn c*ha torto il gasto 
Dietro alle pesche, ovver dietro alle mele. 

Non è cosini di ciò giudice giusto, 
Perchè Paffezion troppo Tingaona» 
E calzar troppo si diletta angusto. 

Cosi come un uomo non può mai esser tanto dabbene 
che non si trovi talvolta chi lo riprenda ; cosi una cosa 
noq può esser tanto perfetta, che non abbia alcuna volta 
chi gli apponga qualche difetto. E però il Poeta, poi- 
ché gli ha gran pezzo lodati i Fichi, dà contra a chi 
li biasima, che sarà qualche sofista di quelli , che si 
dilettano di fare argomenti sempre in contrario alla 
v'era via della natura. Dice dunque, ch'egli non trova 



1^ DELLA PICHEmS 

chi ragionevolmente si quereli del Fico ; volendo dire, 
che chi se ne querela, non ha ragione; e secondo lui 
s'inganna per tre cagioni. Perchè non ha buon gusto; 
perchè ha troppa affezione ali^altre frutte ; e perchè si 
diletta di calzare stretto. Buon gusto non ha , perchè 
non rha diritto, dondechè assaporandolo non ne può 
sentir pienamente tutta quella dolcezza, che Y*è dentro ; 
perchè i gusti voglion essere proporzionati al cibo , e 
sopra tutto dritti, e vogliosi. E questo filosofastro, per- 
chè non rha di questa sorte, non potendo comparir con 
onor suo dinanzi al Fico , lo mette cosi torto , e cosi 
svogliato dietro alle pesche, o dietro alle mele. £ nota 
che dice propriamente dietroy perchè queste fratte non 
hanno il buco dinanzi , come il Fico. L' altra ca- 
gione perchè si gabba, è la troppo affezione. Sopra que- 
sta parola, oltre al suo senso piano, ne trovo uno 
dell'Imbroglia molto stiracchiato, il qual vuole, che af- 
fezione venga da affettare, e che sia il medesimo, che 
far la fetta ; e dice, che per questo le mele e le pesche 
sanno meglio a questo tale, perchè si mangiano a fette, 
ed a spicchi, la qual cosa torna bene a chi ha il gn- 
sto piccino, e sdilinquito. Dove i Fichi, perchè sono un 
boccon solo) e grande, e sdrucciolativo, bisognando in- 
goiarlo tutto in una volta, non fa per quelli, che man- 
giano a miccino. L'ultima è perchè si diletta di calzar 
troppo angusto. E per intender questa parte , immagi- 
natevi cosi grossamente, che il Fico sia come uno sti- 
vai largo, la mela e la pesca un borzacchinetto atti- 
lato, e SI gusto di questo tale sia un cotal piede pic- 
cino. Dice dunque, che perciò non piace il Fico a co- 
stui, perchè è troppo gran stivale al suo pedino. Ed a 
questo parrebbe, che il filosofastro avesse qualche ra- 
gione, se il Poeta- non dicesse troppo ^ quasi volendo 
inferire, che non desidera la strettezza per ragionevole 
comodità, ma per soverchia attillatura; di modo che 
per la troppa strettezza gli stivaletti il più delle volte 
si sdruciono, o si stiantano. 



DEL PADBE SICBO. ttl 

Qualche Fieaeeia forte d'ana spanna, 
Allorché dalla pioggia è sgaogherata, 
L'avrà STOgUato, oad*ei tanto s'affanna. 

Dette le cagioni , che possono muovere quei tali a 
seguire le mele, e le pesche, s'immagina ora quella, 
che lo può avere indotto a fuggire i Fichi , che è 
questa* I Fichi, o che sia pioggia ^ o che sia guazza, 
sono non solamente, come s' è detto, nocivi; ma troppo 
grandi, e troppo stomacosi. Dice adunque, che costui 
ne avrà per avventura gustato di quel tempo , e che 
non è maraviglia, se V hanno svogliato , perchè non 
sono allora più Fiche, ma Ficaccie, Et omnia in accioy 
secondo Maestro Guazzalletto , sunt mala praetet 'pri- 
mitiva, come Laccia , Vernaccia ecc. D'una spanna, 
cioè per lunghezza; che se non fosse più per gli altri 
versi, non se n' avrebbe a dolere , perchè sono quasi 
tutte cosi , dico per V ordinario. Ma il male è, che 
quella sgangheritudine della pioggia, che dice il Poeta, 
serve almeno per un sommesso di più per la medesima 
lunghezza ; perchè scialacquandola, li fa ciondolar giù 
le bucciacchere , li rimbrencioli, e ciò che v* è dentro. 
Poi per larghezza si spalanca più d* altrettanto ; perchè 
la furia della piena rompe tutti gli argini, e quella, 
che trova intoppo, raggirandosi in dentro, fa certi pro- 
fondi, e certi catrafossi, che la matematica vi si smar- 
risce dentro con tutte le misure. Sicché per questi 
Bgangheramenti , e per li nocumenti , che si son detti, 
che fanno i Fichi in questo tempo , non si hanno a 
toccare; e chi ne tocca, come pare, che voglia dire il 
Poeta, non si dee lamentare de' Fichi , che per loro 
stessi sono buoni , ma della sua , o sciocchezza , o in* 
gordigia , che non gli lascia conoscere , o aspettare il 
tempo; che sono migliori. 

A tutte una misura non è data, 
Ma come de* Baccelli ancora atTiene, 
Qaal è rnoXìA, • (piai poe* atoant. fiata. 



12S 0BUiA nCBEIDZ 

Pdr UDa che ti spiaccia, non sta beiia 
Biasimar l'altre cosi latte affatto; 
Qaol che a te naoce, ad altri si cooTÌene. 

Le Fiche, poteva dir questo tale, sono sempre grandi 
ancorché non abbiano né pioggia , né guazza. £d a 
questo risponde il Poeta, che tutte non sono d'ans 
misura , e che ancora i Baccelli sono quando grandi 
quando piccioli ; e che se tu ne trovi una, che ti paia 
troppo grande, non per questo si debbono biasimar 
tutte r altre, perché quella, che non piace, o non istà 
bene a te, piacerà, o sarà buona a un altro. Volendo 
dir per questo, che si deve fare, come quando si va al 
calzolaio ; che se un paio di scarpette sono troppo 
larghe, te ne provi un altro , ed un altro , tanto che 
trovi la scarpa secondo il piede. Ma questi Tattamel- 
lini, che sputano in tondo , le vogliono tanto strette, 
che se non sentono nicchiare i punti, quando menano 
la calzatoia, non par loro di calzare attillato. £ qnesto 
é assai peggio , che calzar troppo largo. Perché a 
questo modo e* è sempre V agio del piede, e la salvezza 
della scarpa, dove a quello le più volte si guasta la 
scarpa , ed ammaccasi il piede. Lo Scaccafava, che è 
uno di quelli, che credono, che le Fiche sieno sempre 
troppo grandi, si cruccia in questo luogo col Poeta, 
che dica, che siano talvolta grandi, e talvolta piccole. 
E dice, che o veramente egli abbaca , .o veramente si 
trova si sconcio naturale, che qualche Fica per grande 
che sia gli par piccina : e giura , eh' egli, che si trova 
gur un buon naturatone, non s' abbatte mai a veruna, 
che non gli paresse troppo grande. Né manco crede, 
che se ne possa trovar per altri, da che fu quella ter- 
ribile sconfitta, che racconta V Arsiccio, dove le Fiche 
piccine, e i Baccelli gi'Ossi furono tanto malmenati dai 
Baccelli piccoli, e dalle Fiche grandi, che tntti furono 



DEL PADRS SXCEO. 129 

o morti,- a mandati in perpetuo esilio. E da quello 
innanzi non si è veduto mai più nò Fica piccola , uè 
Saccello gran(^, salro a questi giorni , clie e' è com- 
parso un certo Giannino con un si sterminato Bac- 
oello, che si crede, che sia uno di quelli, che furon con- 
, finatL £ non so come si sia arrischiato a portar lo 
contrabbando in questi paesi. E Dio voglia non ci 
capiti male , ancoraché vi ' stii sotto salvocondotto del 
Commissario dell* Abbondanza, e sopra a certe vedove, 
cbe gli hanno dato franchigia. In somma questo Scac- 
cafava tiene, che tutte le Fiche siano sempre troppo 
grandi. Ma quando ben questo sia, il Poeta se lo iieva 
dinanzi insieme col Filosofastro cosi dicendPi 

Chi danna Tabbondanca a me par malto; 
Il bnoDO a mio parer fa sempre poco, 
Potessi io sailarmi per nn tratto. 

Costoro scoppiavano , se il Poeta non dava loro del 
matto per il capo. che domine di brigate sono que- 
ste, che desiderano la carestia , e massimamente delle 
cose buone, che a quelli che hanno stocco, non paiono 
mai tante, che bastino? Non V intendeva già cosi Fa- 
lalbacchio, che era savio, il quale diceva, che per di- 
ventar Filosofo avrebbe voluto , che una Fica fosse 
statai maggior d' un Palazzo per entrarvi tutto dentro, 
ed andarvi a spasso, veggendo, e contemplando le eosu 
della natura; perchè gli ci parevano altre meraviglie, 
che non vide Luciano dentro al suo pesce. Se stesse 
a me, io farei Gonfaloniere a vita un cittadino Fio- 
rentino, che sentendo certi disputar sopra le Fiche , e 
dir certe lor opinioni sciocche di volerle , chi picciole, 
chi strette, chi nocchiose, e cotali, disse loro : bestie, 
che voi siete, che non sapete che cosa siano Fiche. Io 
ne vorrei una, che vi potessi entrar dentro in mantello, 
e 'n cappuccio. Che benedetto sia egli, che ben è degno 

Caio. 9 



IdO dIblla fichside 

di quel cappuccio, e bene ha il capo fatto a ciò, secondo 
il bisticcio del CarafuUa. Questi sono i cervelli da go- 
vernar le Repubbliche, che hanno si grand^animo, e vo- 
gliono mantenere il grado della civiltà dovunque vanno; 
e non certi cacastecchi, che s'avviliscono nelle grandezze, 
e non le sanno usare. Poieau'io eco. Vedete il poeta, 
che è di questi magnìfìci ancor egli, nemici della gret- 
titudine. E vuol dir qui, che non tanto gli pare il Fico 
troppo grande, ma gli pare di non potersene pure isfa- 
mare una volta. E nota in queste parole un Pathos mag- 
giore di quei del Burchiano, quando disse : 

fosslo Papa per un mese appunto 
Per saaiarmi un tratto del Pan unto. 

Non posso far, trifoo, che in qaei.to loeo 
Non ti scriva di ciò, che pur i' altr' ieri 
Sa le scale m' aTTenne di San Roco. 

Una Femina v'era, che panieri 
Vendea di Fiche latte elette, e baone, 
Ond* io là corsi pien d' altri pensieri. 

Il vedervi d' intorno assai persone 
Fece che, ratto quivi mi traesse, 
Per mirar, che di ciò fosse cagione. 

Visto eh' anch'io y'avea qualche interesse. 
Ne scelsi di mia man, siccome io soglio^ 
Parecchie^ e d' una stampa lutle impresse. 

Appéna il Poeta s'è distrigato dal Filosofìistro , che 
gli viene addosso un Pedante maledetto, che gli darà 
tanto da fare sopra al Fico, che bisognerà bene, che 
meni a levarlosi d'intorno. E perchè egli si risente cen- 
tra lui non solamente come filosofo, ma come bravo, 
vi dirò in un tempo il tema, che si disputa, e la querela 
che si combatte. Una femmina vende Fichi, il padre Si- 
ceo mercatando le dimanda: qual è la più dolce cosa, 
che si trovi; pensando che gli rispondesse il Fico, e 



DSL fkÙtOi BICÈÒ. . 131 

cbe per provarlo*fossero venuti insieme agli argomenti; che 
questo era l'intento delPAutore; quando il pedante gli 
sfodera dalla Bibbia, Nil dulcius Melle, e con questo 
detto dal canto di dietro gli dà una stoccata. Ora , e 
colubri e con Tarmi in mano bisogna provare A questo 
Castrone, che ne mente, ed è un, traditore, ed un igno- 
rante. Scrive questo caso a Trifone, perchè volendo con- 
siglio, ed aiuto non poteva trovare né il maggior Filo- 
sofo naturale, né il più valente Padrino a condursi in 
campo con questo pedante. E Trifone un uomo perfetto, 
amico del nòstro Poeta, e parente di S. Francesco da 
Scesi; e però pizzica tanto, e nelTandare, e nel vestire 
di quella sua filosofia apostolica, e con tuttoché egli 
non sia Frate , porta sempre sotto il Cordone dell' On- 
dine Maggiore. À tempo di Marziale fu Bibliopola, e 
benché allora guadagnasse assai, secondo che si ritrae 
da quel medesimo, che disse: 

Et faeiet Incram Bibliopola Triphon ; 

ora non si trova però il piìi agiato uomo del mondo. 
Ma ^er la molta pratica, che ebbe in quel tempo dei 
libri, s' é fatto Poeta, ed ha scritto la processione dei 
Magnifici, quando vanno in Bucentoro. Tenne Una volta 
la chiave dei segreti del mondo, quando fu «agristano 
Scr Cecco , quel battezzato da Papa Clemente dottore 
in cifare , e grande arcifanfano de' segretarj , del quale 
io ho paura solamente a ricordarlo; perché mi dette 
una volta certe staffilate, per cagione che non avevo 
servato il decoro in un soprascritto a dire a un Pre- 
lato Monsignor Messere; e con tutto che io allegassi 
Tubo, e Tautorità del Padre Bembo, non potei mai far 
tanto, che non mi mandasse giù le calze. Acquistossi 
Trifone quel nome delizioso, perché solamente a vederlo 
direste, che fosse il passerotto delle Dame, il colombino 
di Veneie, e l'attillatura delie Mase. Della grandezza 



18S DELLA FICHBIDE 

del suo stile leggerete le gran pai^)le, che 1 Poeta ne 
dirà forse in altra Ficata; e vedrete, che non fu. mai 
poeta, che avesse la più onnipotente vena di lui. E 
questo basti a mostrare, ch^ egli è sufficiente Padrino 
in quanto alla parte delle lettere. Quanto a quella del- 
Tarme si sa, che la sua lancia è la più j&anca, che 
portasse mai Cavalier Ficaio. Pensate, che avendo letto, 
che i Francesi vennero a combattere di qaa per le no- 
stre Fiche, egli ha voluto passar di là a combattere 
per le Fiche di Francia; dove intendo, che ha fatto prove 
stupende, benché ultimamente ci abbi lasciato del pelo. 
Per questo dunque, ch'egli è gran Filosofo naturale, e 
perchè è gran Cavaliere Errante, il Poeta se ne vuole 
servir per Padrino a rimpetto di Salomone, che è Pa- 
drino dell'avversario. Il restante del testo, perchè tutto 
piano, lascio che Ascensio, bisognando in qualche luogo, 
ve lo ripassi; e solamente avvertite a quello. D'una 
stampa impresse^ che il Grimo delle Breviose dice^che 
la stampa de' Fichi sono le Fave, e che si maraviglia 
come il Poeta tanto intelligente de' Fichi scegliesse di 
quelli, che erano stampati, sendo li non stampati mi- 
gliori. Ma lasciatelo pure abbacare, che d'una Mtampa 
non vuol dire, che avessero tutti il suggello della Fava, 
ma che erano tutti simili l'un l'altro. Perciocché questa 
Mona Smerla aveva parecchie piante novelle di Fiche 
giovani, che erano tutte figliuole del suo Fico, e per 
questo erano tutte d'una medesima sorta. 

E perchè spesso pur la baia voglio, 

Donna, dissMo, che mi parete esperta, 

E sMo discerno ben, vota d*orgoglio; 
Vorrei saper, che cosa è che più merla 

D*ogni altra il vanto di dolcezza avere, 

E che mi deste nna sentenza certa. 

Ella, che meco forse d'nn parere 
Sarebbe stata, tosto fa interrotta 
Da nn GapoechiOf a cai par molto sapere. 



DBL PADRE StCBO. 183 

Lo qual, senz'esser chiesU)» disse al lolla. 
mi Melkt nella. Bibbia trovo sorilto; ' 
SI 'o quella, rispos'lo^ ch'ò nella botla. 

Io non mi posso tenere, che con due pennellate non 
vi faccia qui un pò* di ritratto del nostro Poeta. Quanto 
al corpo voi vedete quella grazia, quella gravità, quella 
maestà di quel suo viso, e di quel suo abito^ di quel 
suo andare, che vi rappresenta un Marone, un Platone, 
un di quelli omaccioni da Testamento Vecchio. Quanto 
all' animo immaginatevi , che il suo pensiero sia tutto 
prudenza e sapere, le sue opere tutta cortesia e bontà, 
le sue parole tutti precetti e piacevolezze. Pensate poi 
che quando non è in conserto con le Muse, in astratto 
con le intelligenze , in consiglio col Signore, in ufficio 
con gli amici, che tutto il restante del tempo voglia 
stare in su le Jberte e in sui gioliti, e che dovunque si 
trova, si dia bando alla melanconia; e secondo i 
tempi, e secondo le persone, o esso dia spasso altrui, 
o altri lo diano a lui. Non vi maravigliate dunque, se 
vuole ora la htì,m di questa Mona Smerla dalle Fiche. 
Donna, Disopra ha detto, che era una Femmina, ed 
ora parlandole la chiama Donna, per cattar benevo- 
lenza. Esperta, per facilitar la domanda ; perchè se non 
avesse avuto notizia di quel eh* egli chiedea, la richie- 
sta era vana , e la disdetta scusata. VoUi (T orgoglio ; 
buona compagna ; chò se non fosse stata piacevole, non 
sarebbe stato a proposito richiederla di dolcitudine. Vor- 
rei sapere eoe. Forse, che le domanda la quadratura 
del circolo, o il modo di salvar le apparenze, o di que- 
ste cose rematichd? Vuol sapere da lei, che cosa è la 
più dolce, che sia. E che mi desse una sentenza certa. 
Questo le disse, perchè non s' andasse aggirando con 
Zucchero, e con queste novelle, e venisse a prima col 
Fico innanzi, perchè sendo pratica dovea sapere, che 
quella era la vera dolcezza, e sarebbe stata meco : D^un 
parere \ idcbt saremmo stati d* accordo, dice il Poeta; 



IM DELLA FIOHBIDX 

perciocché se ne yemva a dirittura ddla mia fantasia: 
se non che si mise in mezzo, quasi un muro tra la spigs 
e la mano , Un Capocchio , un capo grosso, una tesU 
d' asino. A ctd par di saper molto. Non poteva meglio 
esprimere un compito ignorante, che facendolo appunto 
il rovescio d' un gran savio. Socrate sapeva ogni cosa 
e gli pareva di non saper nulla. Costui non sapea 
nulla, e parevagli di saper ogni cosa. £ questa è k 
propria natura d' un pedante, che oom* è giunto a , Si 
Deus tèi animue, et Beetis as, e«, a; e che può &r 
latinare il Discepolo per li passivi, entrerebbe come A- 
ristotile in circolo. Bispose dunque, Senza esser chiesto 
per richiesto. Vedete come questa sua ignoranza ora 
ben confettata da una fina presunzione. Allottay senza 
metter tempo in mezzo a considerar la risposta, perchè 
chi poco considera, presto parla. Nil Melle, diaselo in 
grammatica per parer letterato, e citò la Bibbia ^ per 
mostrar d' aver studiato in libris. Mi par di vedere 
questa pecora margolla, che quando vide il Padre Siceo 
cominciasse a rugumar cuiussi, e che dicesse, qui bi- 
sogna, che io mostri quanto vaglio. E vennegH ben 
fatto, che lo scorse nella prima giunta per ubbriaco. 
E però gli rispoee che credeva, 'che 1' avesse trovato 
nella Bibbia, non già quella di Mosè, ma in quello 
della Botta, perciocché Bibbia significa ancora il fon* 
diifiQ del vino. 

M' aveva costai già Unto trafitto 
GoD qnesta ana risposta maledetta , 
Ch*io pensai fargli vento d'un mandritto. 

Ma poi veggendo ch'era ana civetta 
In parole , ed in atti an gran pedante, 
Di pigliar men guardai altra vendetta. 

Non pareva al Poeta d' essersi riscòsso interamente 
dair ingiuria ricevuta dal Pedante solamente eon le 
parole , che disegnava valersene coi fatti. Ma poi av- 



vedutosi, che avendo a fare con una beatiuola, vi metr 
leva dell' onore, come generoso se ne rattenne. Trafitto. 
IDa qui si cava, che il colpo del Pedante ( o stoccata 
o imbroccata, che si fosse ) fu di punta, la qual ribat- 
tuta dal valente Poeta (perciocché la medesima per- 
cossa della Bibbia rivolse subito contro di lui^ s' ap< 
parecchia va nel medesimo tempo andar sopra di esso 
con un mandritto. Chi s'intende dell'arte della spada, 
conoscerà qui quanto maestrevolmente, e da buon scher* 
mitore con un medesimo colpo procurasse il riparo della 
stoccata, e V offesa del mandritto. Ma poi considerato, 
eh' era una civetta, un gufo, un allocco, un bavbagiani, 
idest un soggetto uccellabile. In Parole avendolo sen- 
tito a parlare per bua, e per haa. Ed in atti, gli atti 
d' un Pedante sono, parlando prosar le parole, dispu- 
tando alzar le dita, andando dimenarsi, spurgarsi tondo 
guardar se è mirato, compiacersi di quel che dice ; e 
quando gli viene allegato un' autorità di Cantalizio , 
coUeppolarsi tutto d'allegrezza. A questi atti scorse il 
Po»ta la pedantaggine sua , e 1' abito lo dovette poi 
chiarire affatto. Per ciò che me l' ha poi mostro in 
Ponte, che a vederlo solamente avresti detto, che fosse 
r.idea della Pedagogheria. Lasciamo stare, eh' egli sia 
più secco, che quella sua grammatica: porta in testa 
un cappelletto con una banda intorno di velluto di 
trippa: quale intendo, che esso chiama Pétaso. Veste 
una gabbanella di raso cotonato, con un batolo di 
castrone intorno al collo, che per esseve un poco gretta 
dinanzi mostra un paio di cosciali di cuoio, con una 
brachetta in modo sgonfia e sfardellata , che da una 
banda gli ciondola un pellicin di camicia ricamata, 
come di zafferano , e dall' altra un pezzo di brachiere» 
Dal ginocchio in giù ha in gamba un paio di usatti 
ricotti a due suola con buone fibbie, ed in piedi so- 
pr' essi un paio di pantofole a scaccafava. La cioppa 
disopra è di paonazzo sbiadato, con certe belle mostre 



Id6 DELLA FICHEIDB 

dinanzi di raso cbermesl smaltate di sopra di sudieiame 
tanè. Avea allora una mano scalza e V altra con m 
guanto a mezze dita, a uso di potatore, e con questo 
abito andava oltre in contegno dichiarando la lanua 
a un suo Pacchierotto; il quale gli domandò poi, chi 
fosse in Boma che sapesse della lettera assai. £Sd egià 
gli rispose, che dopo lui non conosceva il più yalen- 
tuomo del Probo. Or vedete se il Poeta avea ragione 
a sdegnarsi di pigliarne vendetta. Altra f idest altra- 
mente che con parole, come avea fatto. Fargli veni» 
è parola da bravi, perchè un colpo, quando esce di 
mano d' un bravazzo, con l'impeto travaglia l'aria, e fi 
vento e rumore. 

Qaal Tristan, qnal Galasso, od altro erraoto 
Fa mai si pronto colla spada in mano 
A far gran prore alla sna Donna innante; 

Gom* io in qael punto a dir di qaello iosano 
Che si pensò vituperar le Fiche 
E far V Idolo mio dispetto, e vano? 

Deliberatosi di non procedere contro il Pedante coi 
fatti, pensò di sopraffarlo di parole, e portossi, dice, 
tanto valorosamente, che né Tristano, né Galasso, né 
verun altro Cavalier errante si mostrò mai tanto pronto 
a far con la spada in favor delle lor Donne, quanto 
esso a dir con la lingua contro il Pedante. Fu Tristano 
gran Ca vallerò errante ; ed ancor che fosse nella Ta- 
vola rotonda, fece gran cose per le Fiche, e' n sul Fico 
d' Isotta si mori. Galasso, dicon che fu Cavalier santo, 
e che non s' impacciò mai né di Fichi, né di Donne. 
E però maravigliandomi , che il Poeta lo metta per 
Cavalier Ficaio, ho riveduto questo luogo meglio, e trovo, 
che il testo antico a penna non dice Galasso, ma Grra- 
dasso. Quello che si facesse poi per le Fiche, cercatelo 
da voi, che io non ho ora il capo a' romanzi. E dice 
innante alle lor Donne, perché se si fossero messi lor 



DEL PADRE 8ICE0. tòl 

dietro, non avrebbon elle potuto vedere i fatti loro; e 
poi quel recarsi dietro non è da valentuomo. A dire a 
infuriare, e bravare, perchè è verbo di mezzo, e si può 
intendere in buona ed in mala parte. Di quello insano 
E bene era egli pazzo a voler vituperar le cose buone , 
e lodate da ognuno, e massimamente le Fiche bisogna 
pronunciarle con meraviglia, e con riverenza ; come dire 
quel frutto tanto dolce, tanto abbondante , tanto pre- 
zioso, tanto necessario, tanto lodato, tanto desiderato 
da ognuno; e V Idol mio, cioè tanto adorato da me; 
in mia presenza /ar despetto y cioè disprezzare, e met- 
tere in dispregio altrui. E perchè, quando non è prez- 
zato non è custodito, né coltivato, però dice Vano , cioè 
sterile, perchè se imboschisce diventa Caprifico, e non 
fa più frutto, che venga a perfezione. 

Sempre a* Pedanti faroo poco amiche, 
Glie vanno In'zoccol per t* asciutto sposso^ 
EM frutto perdon delle lor fatiche. 

Non solamente nons' ha da stare al Pedante di questa 
sentenza, perchè è ubbriaco, perchè è ignorante, perchè 
è pazzo, come ha detto di sopra, ma perchè è sospetto 
per la nimieizia, che hanno tutti i Pedanti con le Fi- 
che ; e la cagione è questa, che hanno letto in Plinio 
di quella pioggia, che si dice di sopra, che immollando 
ì piedi fa si gran male, e le fuggono sempre, ancorché 
non piova. £ se pur s'arrischiano d'appressarsi loro, 
con tutto che sia rasciutto , vi vanno in zoccoli, e ne 
colgono dalla banda del sole, dove sanno che non è 
guazza. E per questo più volentieri innestano le mele, 
e le pesche, le quali per non esser cosi in succhio co- 
me le Fiche, non possono avviar V umor naturale della 
marza. E però dice, che i lor nesti sono vani, perdono 
il frutto delle lor fatiche. Dicono ancora un'altra ca- 
gione di questa inimicizia de' Pedanti co' Fichi : perchè 
un pedante fu quello, che toccò di quelle tante Fiche 



199 pKfLA FIOBBIDB 

affiri^teU^te «el viso dai Palafrenieri di un co^l Papa, 
per e&ser venuto imbasciadore della sua Comanità a 
presentare a Sua Santità un pien sacco di Fiche ac- 
concio con la pula galantemente, perchè non s* am- 
maccassero. Il resto dovete sapere/ che disse:, lodato 
Dio, che non furon pesche, come volevan i Massari; e 
che avendogli detto il Papa del presente, mille grates, 
riferì, che il Papa voleva mille graticci per spaccarle; 
ma la vera cagione è la prima, e seguitiamo più oltre. 

E sa da Salomone ii Mei fa messo 

iDDaDzi al FìcOi ooo si dee per questo 

Aver ciò per decreto cosi espresso. 
Ma bisogna redere in fonie il Testo, 

E ritroTare il ver Ano a un pnniino, 

E non dar la sentODxa cosi presto. 

Fermo e sbattuto questo Cuium pecua del pedante , 
col sopravvento delle parole, ndn può con suo onore 
non rispondere con la ragione al detto di Salomone, 
che gli era Padrino, non potendolo rifiutare coii dir 
che non fosse suo pari. E risponde cosi: che sebben 
Salomone fu tanto savio, non è per questo, che non si 
possa appellar dalla sua sentenza, avendo proceduto 
per via di contraddette in contumacia della parte. £ 
in verità credo, cbe gli sia fatto torto, la qual cosa 
mi fa credere un certo lambografo Greco, il quale sa- 
pendo, che io era sollecitatore del Poeta in questa 
causa, sondo lui valente Procuratore, mi venne a tro- 
vare, e la prima cosa mi sfoderò addosso: Sica tu 
Chrisu Chresto. Io gli risposi di no, pensando che vo- 
lesse dire, se Cato crese in Cristo, idest credette: ma 
poi svolgarezzandomelo disse, che voleva dire^ che le 
Fiche erano migliori che Toro, non tanto che fossero 
più dolci che il mele : ,e che egli voleva pigliar sopra 
di sé questa lite centra Salomone, e fare il piato a sue 
spese. Sentendosi dunque il Poeta gravato, offerisce di 



DBL PADBfi Steso. 18D< 

rifar le spese, e domanda d' esser restituito in integro, 
perchè intende provare il contrario, ed esaminar due 
testimoni iu favor suo, che V uno è Omero , e V altro 
Mastro Simone ; tanto più che egli ha un altro giudice, 
che sente tutto il contrario di Salomone, e questo è 
Aristofane. £ se V uno dice : Nil duldus Melle ; Y altro 
dice: Nil duldus Ficubue. £ l'uno si tiene per Baldo, 
e l'altro si reputa per Bartolo: sicché qui bisogna cac- 
ciar mano a paragrafi; e poiché le autorità sono di 
pari, attendere alle ragioni. £ venendo ai meriti della 
causa dice, che bisogna vedere il Teato in fonte, cioè 
ricominciare il registro da capo. Benché il Yerzelli dice, 
che sarebbe stato meglio a procedere in questa causa 
per via di Notomia, che di Legge, per venire alla prova 
della vera dolcezza del Fico; e vuole, che il Poeta in- 
tenda, che il Testo di esso Fico sia quel vaso, e quel 
suo cassero, dove son dentro tante cose, e tanti bugi- 
gattoli, come si é detto , che bisognerebbe mettervi 
dentro un buono anotomista , che ricercasse tutti quei 
luoghi, che vi sono per ritrovare tutta quella dolcezza, 
che v'é riposta. Ma il Verrazzano la intende per via 
di geografia, e tiene che'l Poeta dicendo, vedere in 
fonte, voglia inferire, che il Fic^ sia come il Nilo, dei 
quale non s' è maf trovato il Fonte , ancorché per al- 
cuni si creda, che sia ne' Monti di Luna. Interpreta 
dunque,' che bisogna andare al fonte del Fico, cioè 
dentro via, per fin donde comincia, se tant' oltre si può 
arrivar^. £ ritrovare il vero, la vera dolcezza sua Fino 
a un puntino. Perciocché bisogna ricercar per ogni 
banda tutti quei ridotti, e tutte quelle grotte, d'onde 
sorgono gli zampilli, e le polle della dolcitudine ficaie. 
£ qui pare, che voglia conchiudere, che se Salomone 
non andò tanto a dentro, che arrivasse al fonte, come 
non e' è arrivato mai veruno, non ha potuto aver per- 
fetto giudizio della compita dolcezza del Fico. £ però 
non aveva a dar la sentenza così pre$to, perché in una 



140 DBLLA FICHStDÌS 

cosa tanto profonda non si dee procedere per via som- 
maria, ma in puncto juris, e metter tempo in mezzo , 
provando e riprovando, voltando e rivoltando pia volte 
le carte di sotto e di sopra, avanti che si scocchi k 
sentenza diffinitiva. 

Che ti che qaesto non dirà *l divino 
Ornerò^ che cantò di Troia 1* armi 
Con chiara voce più che Orfeo^ e Lino. 

Il Fico dolce chiama ne* suoi Carmi ; 
li Mei non mai, ma fresco e verde sempre : 
E saper la cagion di ciò ancor parmi. 

Magnis testibtM ista rea agetur. Perciocché Omero, che 
produce prima, è uno di quei testimoni , che a Vinegia 
si chiamano di Velluo ; e domandalo Divino per mo- 
strar, che è degno di fede; domandalo scrittor del- 
l' armi di Troia per mostrar, che era informato; avendo 
scritto le cose seguite per la dolcezza del Pico d' fi- 
lena, di quel di Briseide, e di quel di Nausica. Oltre che 
egli n* aveva gustate' pur assai, che non basterehhe , 
che deponesse d* udita, se non deponesse ancora di 
gusto, e di tatto, perchè di vista, non era egli legittima 
prova. Che se chi ha «un occhio solo, non può esser 
testimonio, tanto meno poteva esser esso, che era cieco 
affatto secondo quelli, che vogliono, che la sua cecità 
stesse negli occhi, e non nel nome. Piò, che Orfeo, e 
Lino: fallo più autentico testimone di loro, perchè non 
venga voglia al giudice di esaminarli ; dubitando non 
gli deponessero centra per la nimicizia, che ebbero coi 
Fichi. Perchè Orfeo fu lapidato, e bastonato a colpì di 
Fichi, e Lino fu mangiato da cani, perchè per natura 
poetica gli aveva a noia. E Fico dolce chiama ne^sitoi 
Carmi, La deposizione d'Omero è, che il Fico sia 
dolce, e '1 Mele sia clorido, cioè , come V Autore inter- 
preta, fresco, e verde, che questi epiteti dà loro sempre 
nelle sue opere per propri a ciascuno d'essi. Ora, che 



I II 1 1 



- 1 



DEL PADRE 8ICB0* 141 

il Mele noQ sia dolce, oltre air autorità d'Omero, lo 
vuol mostrare con la testimonianza, e con la ragione 
di Mastro Simone, il quale è il secondo testimone, 
ch'egli produce; e T esamina sua è questa. 

Il mei, par che maDgiato altrai distempre^ 
E *a collera si volti, a cai V amaro. 
Danno costor, che san tntle le tempre. 

Questo segreto cosi degno e raro, 
Mastro Simon stndiaodo il Porco' grasso 
Scoperse a Brano, che gli fa si caro. 

• 

Or fa tu l' argomento, Babboasso, 
E di' , se U mei in collera si volta, 
Sega' ò che d' amareixa non ò casso. 

II Mele si volta in collera; la collera è amara; dun> 
que il Mele non è più dolce del Fico, che non parter 
cipa in parte alcuna d'amarezza. La maggiore, e la 
minore si provano insieme per la testimonianza di Ma- 
stro Simone da Villa dottor di medicine; del quale 
Paté motto col Boccaccio, che vi raggttaglierà, quanto 
fosse più savio di Salomone. La conseguenza non si 
3UÒ negare, che di sopra s'è provato, che il Fico è 
:utta dolcezza; oltreché non solamente è dolce per sé, 
na addolcisce V amarezza delle altre cose, come si dice 
iella rata, che standogli appresso diventa più dolce , 
i di miglior nutrimento. E perchè non crediate, che 
ilastro Simone si movesse senza fondamento, dice, che" 
' aveva studiato in sul Porco grasso ; e Porco grasso, 
; Vino a cena sono quei due gran satrapi, che fanno 
enire il canchero alle medicine : e perchè è un segreto 
!* importanza, perciò dice, che lo scoperse a Bruno di- 
intore, suo grande amico; che altramente non l' a- 
rebbe detto. £ trovo, che gliele disse, pur ricompensa 
cir orinale, che gli dipinse sopra la porta; e perchè 
brascinasse le parole con Buffalmacco del mogliazzo 
ella Contessa di Civillari, e di farlo Cavalier bagnato. 



142 DELtiA ^ICkBII^ 

Conchittso dunque, é provato, che questa proposizioDe 
di Salomoue è una vanità delle vanità stke ; si rivolge 
al Pedante, e chiamalo Babbuasso, cioè Scimioiìe : p&- 
che Babbuino è4;anto come Sci tniotio : e cosi lo chiama 
perchè come le Scimie fauno quel che veggono fare, 
cosi il Pedante dicea quello, che sentia dirò. E quasi 
volendo inferire, che allegando il detto Salomone, semi 
considerare, che facesse a proposito, parlava per bocca 
d' altri, come gli spiritati ; e per questo gli ordina no 
argomento secondo la ricetta di Mastro Simone; e v(v 
leva, che se lo facesse da sé medesimo: se non che 
Trifone come Padrino ne volle Toner esso, e caceio- 
gliene su di sua mano. L' argomento è stemperato in 
Barocco, e la ricetta è questa, u Recipe il mele è colle- 
rico ; la collera è amara ; ergo tu es àsinus; n A questa 
ultima schizzata, cominciando V argomento a ^e ope- 
razione, il Pedante a brache calate se ne va a gesto: 

e il Poeta corre il campo Ficaie per vincitore. 

• 

Ma ora è di sonar tempo a raccolta,' 
E lasciare il Pedante io saa malora 
Iq questa opioion si vana, e stolta. 

Gbè U QUOTO giorno recherà l' Aurora, 
Anzi che al mezzo delle lodi arrivi 
Di lor, che tanto la mia penna onora. 

Avendo conteso col Pedante sO^ra al Fico, e conw 
soldato, e come dottore, dà a ciascuna impresa la sua 
fine. Onde sonare a raccolta, dice quanto al duello ; e 
lasciar 1* avversario nella sua opinione, quanto aUa di- 
sputa. £ recando la metafora campale al nostro pro- 
posito, sonar a raccolta vuol dir tacere ; perchè secondo 
il nostro Vico, chi parla semina e chi tace raccoglie. 
Ma seeoìido il Burla, sonare a raccolta, vuol dire riti- 
rarsi a salvamento. Perchè è ito avvertendo, che il 
Poeta si mise a questa impresa, prima come cavaliere^ 
cioè ai^ditamente , e con orgoglio; dipoi come dottore ? 



DBIi ^ADRB ÀICEO. 1^ 

coi libri itt ToAìko a guisa di Messer Ricciardo dà Chin- 
zica col Calendario, cioè posatamente, e piuttosto con 
ragione, ohe con appetito. Ora perchè il Poeta al tehso 
affironto portava pericolo di non mettervisi da erbolaro, 
cioè a colpi fitti in terra ; dice^ che non volendosi più 
cimentare, per aver già per due riprese compito all' o- 
nor SUO; si delibera di ritirarsi; e che il Pedante Jpoi, 
che ha quell' argomento in corpo, facci della sua fan- 
tasia a suo modo. Che 7 nuovo giorno recherà V Aurora ; 
idest si farà prima giorno^ perciocché egli era a veg- 
ghia, quando dava in su quésto Fiche. £ sentendosi 
avere assai combattuto sopra di esse, dubitava, che al 
terzo affironto ce 1' avrebbe prima colto il giorno , che 
avesse (compito a mezzo di fare 9 dovere alle Fiche. 
Che tanto la 'ihia penna onora. Il Petrarca avrebbe 
detto, che col vàio stile incarno. 

Infelici color^ che oe son privi ; 
Perocchò dove Fica non si trova , 
Non vi posson dorar gli nomini vivi. 

Comechè il Poeta abbia detto di volersi ritirar dalle 
Fiche, non si sentendo ancor la vena sgonfia, né la 
fantasia sborrata affatto, vi dà su di nuovo. E parmi, 
che abbi fatto come quello spagnuolo, che quando si 
fu confessato di tutti i suoi peccati, ritornò al confes- 
sore a dire, che s* era dimenticato d* uno peccadiglio , 
e questo era di non credere in Dio. Perciocché dopo 
un tanto catalogo delle lodi del Fico, quando pensa- 
vamo, che non avesse più che dire, e che egli dice di 
volersi ritrarre, ce ne scocca in un terzetto due, che a 
petto loro tutte V altre son nulla ; cioè, che le Fiche 
sono la felicità degli uomini, e la vita di essi. Egli 
dice, che quelli, che ne sono privi, sono infelicL Dun- 
que quelli, che non ne son privi, son feliqi. Le Fiche 
dunque sono la nostra felicità. Or vadansi a riporre 
tutti i beni del corpo, dell* animo, della fortuna, quelle 



144 BKLLA FICHEIDE 

indoleniey e quelle tante cacherie, che questi nebbioni 
Filosofi si vanno sognando, poiché il eommo bene è 
tutto dentro nelle Fiche. Che siano la nostra vita, pro- 
valo per questo, che dove non son Fiche, non sono 
uomini, e non vi durano vivi, cioè che si muoiono , e 
non vi rinascono degli altri. E per questo il Padre 
Erodoto volendo mostrare, che un paese era molto de- 
serto, disse, che non v' eran Fiche; come quello, che 
voleva dire, che dove non son Fiche , non vi possono 
esser uomini, e che dove sono uomini, è necessario che 
sianvi Fiche. Il medesimo dice il Fatappio delle Fave; 
e vuole, che di necessità, dove sono uomini, vi siano 
Fiche, e Fave. E cosi per lo contrario. Aggiungendo, 
che quelle hestie delle Amazzoni furon tutte per ca- 
pitar male una volta, che sbandiron le Fave, se non 
s' avvedevano presto di metter a sacco quelle de' vi< 
cini. Fa poi una questione, quali siano più necessarie, 
e quali fossero prima, o le Fiche, o le Fave, la quale 
è stata poi risoluta dal Babbione con quella dell' uovo 
e della gallina, e dell' incudine, e del martello. 

L' udir Ti parrà forse cosa nuova, 
Una sna corta qualità stupenda 
Ma pare è vera^ e vedesi p^r prova. 

Qaaodo la carne è dura sì ehe renda 
Fastidio altroi^ acciocchò intenerisca, 
FalCi ehe al Fico iosto altri V appenda. 

Però se 'i tao padron (nota Licisca) 
Mena talor qualcuno air improvviso 
A cenar seco, fa che ta avverlisca. 

Un pollo, che sia allora allora ucciso^ 
Perchè Infrollisca, correr ti bisogna 
Airarbor, che ne toUe il Paradiso. 

Qui tocca un segreto del Fico con un punto della 
gola, che quel balordo d'Apicio non fu da tanto a 
trovarlo. Che 6e la carne dura, o alida s' appende al 



DSL PADRE SÌCBO. . 145 

Fico, diventa sabito frolla, o. trita, come dicono i To- 
scani ; poiché ci hanno messa la muserola in bocca, e 
che non possiamo parlare, se non a lor modo. Il Coda- 
ritta leggendo questo luogo disse ridendo: alla mia 
carne non avvien già cosi; che solamente che vegga 
il Fico, mi s'intirizza, e mi si rassoda più che mai. 
Avverti, gli risposi io , che il Poeta non dice , quando 
si mostra la carne al Fico^ ma quando vi eC appicca 
suso. Io per me , soggiunse, ho provato d' appiccarvela 
tre volte, una dietro V altra, e alla fine me Tho tro* 
vata pur dura. Seccaggine Codaritta, questa tua carne, 
dissidio, debb* esser qualche nervo di miccio; che se la 
fosse ordinaria, almeno alla seconda volta si dovrebbe 
un poco rammorbidare. In somma io potei ben dire , 
eh' egli alzò sempre il capo, e stette con la sua fan- 
tasia più sodo che mai. Io per intender il colato di 
questa cosa n* ho poi domandata la Palomba ostessa , 
la quale, come pratica, m'ha fatto un bel discorso di 
tutte le sorte carni, e di tutte le sorte gusti^ dicendomi, che 
eravl differenza dalla carne del capretto a quella del 
bue; dal pelato alla selvaticina; da quella con osso a 
quella senz'osso; dalla magra alla grassa; e dall' alida 
alla trita; e secondo queste distinzioni dichiarò, qual 
carne si macerasse piuttosto e quante volte bisognava 
appiccare al Fico ciascuna d' esse. come, diss' io , 
che il Codaritta n'ha fytta 1' esperienza , e non trova , 
che il Fico possa domare la durezza della sua! Se il 
Codaritta, rìspos'ella, l'avesse appiccata al Fico mio, 
l'avrebbe macera pur troppo; che pur ieri sera mica* 
pitò un forestiero a casa, che si portò sotto un lombo 
sodo, riquadrato» costoluto, nervoso, tanto zotico , che 
fu un fastidio a rammorbidarlo ; e con tutto ciò alla 
quinta appiccatura si rawincidi pur un poco, ed alla 
sesta fu frollo affatto. Ma questi, diss'. ella, sono certi 
bocconi strangolati da ingordi, che bisogna appuntare 
i piedi al muro, e biasciare un gran pezzo per ingoiarli. 

Caro, 10 



146 • DVLLA FIOBBO» 

La buona carne vuol essere d* mi buon poUasfrone gio- 
vine, pelato, bianco, liscio, grosso, che abbia più tene- 
rume, cbe osso; e questo sebben per esser fresco e 
duro, in sul Fico diventa pastoso, ed arrenderole, e se 
ne può fare non solamente arrosto, ma lesso, tocchetti, 
guazzetti, intingoli, pastingoli, nanzi pasto, dietro a 
pasto, e tutto pasto ; e cosi concbinse, secondo lei, che 
questo &• il miglior boccone, che si mangL Avrei a dire 
del modo o de' modi, con che s'appende la Carne al 
Fico, che sono assai, e la più bella taccola del mondo: 
ma bisognerebbe mettergli in atto ; a che non ho tem- 
po, né comodità. Imperò ve ne rimetto a quel libro 
d' altro che Sonetti ; e quando pur volete , menatemi 
ad un Fico giovine, e lasciate far a me. lAcisca in- 
tendete che sia la Gigia di Messere. Il Padrone Mes- 
ser suo. Un Pollo. Di qui si trae, che vuol esser gio- 
vine, che altramente direbbe un Gallo. Allora ucciso. 
Credo che '1 dica, perchè se fosse stantio, sarebbe por 
troppo frollo da sé, e non bisognerebbe appiccarlo al 
Fico. All' arbor che ne lolle il Partidtso. Or qui bi- 
sogna spogliarsi in giubberello a difendere il Poeta, 
perchè lo Schizzinoso dice, eh' egli ha fatto come una 
volta il Celatone, quando volle lodare un soldato^ che 
dopo racconto molte sue prodezze disse, che era stato 
il primo a entrare in una ten*a assediata, ma che s' era 
resa a patti. Il Poeta, dice egli, s' ha stillato il cer 
vello a trovar le lodi del Fico, e poi in un ^ tempo gli 
£a uno sberleffo nel viso, dicendo, che n' ha tolto il 
Paradiso. fichemi qua di dietro dunque con tutte le 
tante lor preminenze, poiché ci tolgono il Paradiso. Ma 
l'autore, che s'avvide, che qualcuno sarebbe stato di 
questa fantasia dello Schizzinoso, soggiunse subito: 



Non 80 se fatto gli averò vergogna 
A rimembrar il nostro antico Intto; 
£ fa por Tero, e.'l gran Serittor non 80gna« 



DEL PADRE 8I0B0. 147 

Ben erado, che da qaal si roglia frollo 
Meglio guardato si sarebbe Adamo, 
Allor che dal D'iavol fa sedotto. 

Sono le Ficbei a dir il Teroyiin amo. 
Per torci il Nalaral tropp3 gagliardo, 
S ilio il Mondo, che nn tempo ne fa gramo. 

■ Appresso di me, e della verità, dice egli, quel che io 
ho detto non pregiudica all' onor del Fico ; ma npn so 
se gli avrò fatto vergogna appresso qualche plebeo , 
come questa bestia dello Schizzinoso. A rimembrare il 
nostro antico lutto'^ idest a ricordare i morti a tavola. 
Di che pare, che si voglia scusare con dire, che non 
poteva far di meno, sendo vero, quasi dicaè, sapendosi 
per ognuno, e sondo scritto da si grande Scrittore, co- 
me fu Mosè che non sogna, che non iscrisse dormendo, 
perchè non se gli potesse dire — Quandoque bonus 
dormitat Homerus — donde si cava, che Mosè sta sem- 
pre in cervello, e Omero qualche volta arrocchia: e 
questo basta scusar lui d' averlo ricordato. Per iscusa 
poi del Fico, che fosse cagione della prevaricazione d'A- 
damo, io ho trovato nel Breviario ex Guccio Imbratta, 
cosi un palmo intomo all' Avvento, che se Adamo peccò 
il peccato venne dall' incontinenza, e dalla disubbidienza 
sua, e dalla tentazione del Diavolaccio, non dal Fico. 
Che se le cose buone s' intendessero non buone, per 
esser male usate, la più parte delle buone, e dello 
belle cose, che Dio ha fatte, si potrebono dire , che 
fossero cattive, e mal fatte, perchè gli uomini le con- 
vertono in mal uso. Segue poi di molta ciarpa sopra 
questa materia; ma tutte le lettere non si ponno leg- 
gere, perchè l'untume le ha ricoverte. La somma di 
tutto è questa, che il Fico non ha colpa di questo pec- 
cato per esser buono, e bello ; come neanche il vino ha 
colpa dell' ubbriachezza, per esser buona bevanda ; ed 
io per me non tanto che ne voglia imputare il Fico , 
ma ne scuso quel poveretto d' Adamo, se vi si lasciò 



193 DKiIiA FIOHBIDB 

affifUtelLite nel yìbo dai Palafrenieri di un cotal Papa, 
per e&ser venuto imbasciadore della sua Comunità a 
presentare a Sua Santità un pien sacco di Fiche ac- 
concio con la pula galantemente, perchè non s' am- 
maccassero. Il resto dovete sapere,- che disse:. lodato 
Dio, che non furon pesche, come volevan i Massari; e 
che avendogli detto il Papa del presente, mille grates, 
riferì, che il Papa voleva mille graticci per seccarle; 
ma la vera cagione è la prima, e seguitiamo più oltre. 

E se da Salomone il Mei fa messo 

iDoanzi al Fico, non si dee per questo 

Aver ciò per decreto cosi espresso. 
Ma bisogna federe in fonie il Testo, 

E ritrovare il ver Ano a un pnniino, 

E non dar la tentenxa cosi presto. 

Fermo e sbattuto questo Cuium pecua del pedante , 
col sopravvento delle parole, ndn può con suo onore 
non rispondere con la ragione al detto di Salomone, 
che gli era Padrino, non potendolo rifiutare con dir 
che non fosse suo pad. £ risponde cosi: che sebben 
Salomone fu tanto savio, non è per questo, che non si 
possa appellar dalla sua sentenza, avendo proceduto 
per via di contraddette in contumacia della parte. E 
in verità credo, che gli sia fatto torto, la qual cosa 
mi fa credere un certo lambografo Greco, il quale sa- 
pendo, che io era sollecitatore del Poeta in questa 
causa, sondo lui valente Procuratore, mi venne a tro- 
vare, e la prima cosa mi sfoderò addosso: Sica tu 
Chrisu Chresto. Io gli risposi di no, pensando che vo- 
lesse dire, se Cato crese in Cristo, idest credette: ma 
poi svolgarezzandomelo disse, che voleva dire^ che le 
Fiche erano migliori che Toro, non tanto che fossero 
più dolci che il mele : ,e che egli voleva pigliar sopra 
di sé questa lite centra Salomone, e fare il piato a sue 
spese. Sentendosi dunque il Poeta gravato, ofibrisce di 



DBL PADBfi Steso. 18D: 

icìiar le spese, e domanda d* esser restituito in integro, 
perchè intende provare il contrario, ed esaminar due 
testimoni iu favor suo, che V uno è Omero , e T altro 
Mastro Simone ; tanto più che egli ha un altro giudice, 
che sente tutto il contrario di Salomone, e questo è 
Aristofane. £ se V uno dice : Nil dulcius Melle ; V altro 
dice: Nil dulcius FieubiM, £ l'uno si tiene per Baldo, 
e l'altro si reputa per Bartolo: sicché qui bisogna cac- 
ciar mano a paragrafi; e poiché le autorità sono di 
pari, attendere alle ragioni. £ venendo ai meriti della 
causa dice, che bisogna vedere il Testo in fonte, cioè 
ricominciare il registro da capo. Benché il Yerzelli dice, 
che sarebbe stato meglio a procedere in questa causa 
per via di Notomia, che di Legge, per venire alla prova 
della vera dolcezza del Fico; e vuole, che il Poeta in- 
tenda, che il Testo di esso Fico sia quel vaso, e quel 
suo cassero, dove son dentro tante cose, e tanti bugi- 
gattoli, come si é detto , che bisognerebbe mettervi 
dentro un buono anotomista , che ricercasse tutti quei 
luoghi, che vi sono per ritrovare tutta quella dolcezza, 
che v'è riposta. Ma il Verrazzano la intende per via 
di geografia, e tiene che'l Poeta dicendo, vedere in 
fonte, voglia inferire, che il Fìcq sia come il Nilo, dei 
quale non s' é mai trovato il Fonte , ancorché per al- 
cuni si creda, che sia ne' Monti di Luna. Interpreta 
dunque ,' che bisogna andare al fonte del Fico, cioè 
dentro via, per fin donde comincia, se tant' oltre si può 
arrivar^. £ ritrovare il vero, la vera dolcezza sua Fino 
a un puntino. Perciocché bisogna ricercar per ogni 
banda tutti quei ridotti, e tutte quelle grotte, d' onde 
sorgono gli zampilli, e le polle della dolcitudine ficaie. 
£ qui pare, che voglia conchiudere, che se Salomone 
non andò tanto a dentro, che arrivasse al fonte, come 
non e' é arrivato mai veruno, non ha potuto aver per- 
fetto giudizio della compita dolcezza del Fico. £ però 
non aveva a dar la sentenza cobì presto, perché in una 



ISO DELLA rtCHEIDB 

ignudo : asEÌ importa pure asaaì , dìcé il Bfiru£Fk ^ cfaè 
quando si combatte con la targa ignudo, sì copre me- 
glio', vi BÌ mnniccliia sotto più facilmente , e lo scudo 
BÌ maneggia con più destrezza. Bencliè vi si pa6 et 
battere anche vestito. Io trovo nella Tavola di Cebete, 
che le AwaiEOni fecero già con queste Targhe di Fichi 
molte gran cose , perchè non era si bestiale incontro 
d'un uomo, o di più insieme, che non riceressero con 
esse. Queste dal Padre Vii^ilio son chiamate Pelte lu- 
nate, perciocchÈ erano in garbo d'una mezza luna : donde 
vuole il Pastricciano , che nel sno paese le Fiche si 
chiamassero Lnne, siccome le Mele si dicono Soli. Di 
sopra erano coverte d' una pelle con di peli suoi. E per 
mostrarvi appunto , come le stavano , vi metterò la fi- 
gura d'eaaa, che il Prete dell' Àsino afferma averla ri- 
tratta da qnella, con che Pentasilea fece si gran prove 
nel Campo Troiano ; che si trova oggi in potere d'aoa 
Paladina, che a Orvieto, a tempo del Sacco , fece con 
essa pcodezie incredibili, sino a sostenere in una volta 
l'incontro di xsxu. £ che di Pentasilea fosse, dà per 
segno quel fesso che è nel mezzo, che trova, che fii ^ 
della lancia d' Achille; e sta in questo moda. 




Dm PADBB 8ICE0. 151 

Avvertendovi, che quel colpo non è già rottura, né 
stianftatara (che non credeste, eh' io non istessi in cer- 
vello) ma è una commessura del legname, che quando 
riceve il colpo, s' apre per acconsentire alla furia di 
ehi mena, ed aprendosi non si rompe mai. Il medesimo 
diee, ehe il Gorgone di Minerva fu una rotella di Fico 
e che per esser Vergioe la portava coperta. Il Frasta- 
glia m' ha poi detto di molti belli significati di quel 
viso di Medusa; della* trasfigurazione delle genti in 
mavmo; e che voglian dire quelli suoi capelli di sor» 
penti, e quel sangue venenoso, che fece i coralli ; e 
qaell' occhio, che si prestavano V una e 1^ altra, e certi 
altri bellissimi misteri: ma ha voluto, che gli giuri di 
non dirli,, se non a imo per volta. 

Il Regno per aa Fico fa disperso 

Di Cartagine altera^ che tant' anni 

Il Capo fa' tremar doli' Universo. 
Sicelides Masse, paalo malora canamas ; 

Non omnes arbasta jaraat, hamilesqae 

Myric». 

Avendo il Poeta tanto innalzato lo stile a questi Fi- 
chi, e tanto rigonfio, come vedete ; la mia bassa , e 
smunta fantasia non può arrivar dove egli si stende « 
né supplire alla capacità di quella materia, se le Muse 
non me la drizzano, e non la spirano. £ però con quel 
furor poetico, che m* hanno messo addosso la bravura 
di questi versi, mi ristringo con le Muse sopraddetta, 
e già sento, che si portano bene, perchè V adopero a 
quello, che son buone, e d#ve son pratiche; la qual 
cosa non fece Virgilio, come s'è detto. Da queste Muse 
Ficaruole dunque aiutato a sborrar la fantasia, che mi 
sento piena, ed .elevata a spianare questo altissimo ed 
ampbsimo soggetto, dico, che voi y' immaginate, che il 
Poeta vedesse qui la superbissima, e potentissima città 
di Cartagine, piena di tutti quelli suoi Amilcari, Anni- 



15t DSLLÀ FICHBIDB 

bali, Àsdrabali; Ann'oni, tutti vaìofosi, ingoJesti, S8gsc^ 
fì-odolentì, con quelle armate, e con quelli issercitT già 
tante volte vittoriosi, e tanto al Romano Impero natu- 
ralmente nimici. E dirimpetto a Cartagine gli si rap- 
presentasse la gran città di Roma sua concorrente, aa- 
corcbè vincitrice, tutta pensosa della potenza di queUa 
città ; sospesa della sua fede, guardinga dalle sa^ frodi, 
gelosa del proprio impero^ e quasi attonita della ricor- 
danza di tante fatiche, di tante paure,. di tante stragi, 
che già per due lunghissime , e mortalissime guerre , 
con tanto sangue, con tanto danno, con -tanto spa- 
vento, avea per quella sofferto ; e che stando, in dub- 
bio di romper la terza guerra coli essa, comparisse nel 
Senato il Padre Catone , e con quella sua toga lunga, 
con quel viso santo, con quel capo sodo, con qaeU* an- 
dar grave, con quel suo parlar Ubero, salisse in bi- 
goncia a mostrare a quelli omaccioni la necessità di 
quella guerra; la potenza e la infedeltà de* Cartaginesi 
e il pericolo della Repubblica Romana: la quale sua 
opinione avendo qualche controversia. 

(Però che Scipiava Gonaiglione 

Che si dovesse cariar Gonservagina. ) 

Immaginatevi, che subito, eh' egli scoperse il Pico ve- 
nuto da quelle parti in poche ore, per mostrar loro la 
vicinità de' nemici, per la bontà, e per la dignità di 
quel frutto, si accendessero quegli Scipioni, quei Fabì, 
quei Marcelli, e tutti quei Barbassori al conquisto delle 
Fiche Affricane, come già 1 Francesi delle Fiche d'I- 
talia, e che unitamente acconsentissero al parere del 
vecchio Catone ; la qual deliberazione fu la sicurezza , 
la gloria, e la grandezza della Città di Roma: e -se fa 
lo sterminio di Cartagine, dovete sapere, ch'io trovo 
nelle Storie di Juba, che fra le Fiche, e i Cartaginesi 
erano occulte inimicizie, e che il Fico di Catone era 



I . VEL PADRE ftlCEO. 15S 

venuto per mare in poste Ambasciadore degli altri Fi* 
chi a far lega eoi Romani. La qual lega trovo, che 
durò poi fino al tempo di Scatinio, il quale fece la 
legge contra a quelli, che cominciavano a tener pra- 
tica con le mele ; e però il Fico in questo caso s* ha 
da scusare, se fu cagione della rovina di Cartagine , 
la quale gli era piuttosto nimica^ che patria ; e dal- 
l'* altro canto si dee lodare, che facesse quell'opra , 
e fosse collegato alla Monarchia dell'impero Romano. 

Troppa faeeenda avrei, a troppi affasai 
A. narrar ei6» eh' io n^lio trovato altrove: 
NessQB di qael eh' io passo ai eondanni. 

Gh' io saprei dirvi mille cose nuove ; 
Ma pereliè penso, ehe sia detto assai, 
Sarà ben che al parlar modo ritrove. 

Io non credetti, quando dentro entrai, 
Che dovesse V istoria esser si laoga. 
Onde senza biscotto m' imbarcai. 

Di nuovo gli si rappresenta T ampiezza, e la profon- 
lità di questo soggetto, ed immaginasi; che il Fico sia, 
rerbigrazia, come il Mondo nuovo, che ognuno, che 
ri va, scopre nuovamente qualche cosa; né per que- 
ito s' è ricerco ancor tutto. Dice dunque. Io avrei trop- 
ìa /accenda, idest non compirei mai questo lavoro, se 
o volessi raccontare quel ehe n' ho trovato altrove , 
ioè quei paesi, che v'*hanno scoperti, e quelle cose , 
he n* hanno detto Plinio, Teofrasto, Ateneo, e questi 
Itri gran Piloti, che vi sono navigati ; e però nessuno 
[li condanni di quel eh' lo passo, cioè che non iscrivo 
etto da altri. Che io, cioè per quel che n' ho cerco da 
le stesso, ne saprei dir mille cose nuove, mille cose 
on avvertite da altri, che v' ho trovato dentro. Ma 
erchè mi pare d' aver detto, e cerco assai, e più mi 
Bsta da dire, e da ricercare, sendo questa una Pro- 
incia infinita, ed un mare ampissimo da navigare sarà 



154 DELLA FIOHBIDB 

bene che mi ritorni a dietro, e verso quella parte, dove 
io posso sperare, ch'el mio legno tocchi terra, dove 
che sia ; che a q«^ta navigazione non veggio d' acco- 
starmi al lido da ninna -banda, e sono sfornito di cose 
necessarie. Perchè, quando denaro entrai^ ideai quando 
presi a fare questa navigazione per^ iscoprire, e dar 
notizia di questo nuovo mondo, non pensando, cbe il 
viaggio fosse si lungo, e i paesi tanto grandi, «i»' im- 
barcai senza biscotto^ cioè non portai provvisione ab- 
bastanza; quasi volendo dire come quelli, che vanno a 
Frugnuolo, che gli era mancato Tolio per la strada. 
L'Arfasatto gli dà un altro senso, e dice, che i Navi- 
ganti per andar a lungo viaggio hanno a portar del 
biscotto, cioè del pan duro, che resti sodo per tutta la 
via; ed egli, pensandosi di non avere a fare tante 
miglia, avea' portato del pane ordinario,' il quale subito 
si muffa, e non resiste a lungo viaggio. 

Chi più ne vuol, Trifoo, più ve n' aggianga. 

Io lodo assai^ che nascon sema spine, 

SI eh' altri per toccarle non si punga. 
Un altro loderà le Damaschine, 

Perchè non sono dagli nccelii offese ; 

Chi le Spartane, e chi le Tibartine. 

A me piaccion le nostre del paese, 
Che danno a' Beccafichi da beccare; 
Perchè rendon poi conto delle spese. 

Trovando il Poeta questo mare delle Fiche infinito 
e per questo tornandosene indietro, si rivolge a Trifone 
che era suo timoniero, e stava sopra alla Bussola, di- 
cendogli quel proverbio: Chi pih n' ha, più ne metta; 
che recandolo a suo proposito, pare che voglia dire: 
Io per me mi confondo a tanta larghezza di mare, 
perchè non ci trovo né porto, né spiaggia, né scoglio 
dove approdare, e navigo come perduto. Se a te basta 
r animo d' andar più oltre, va pur da te, eh* io voglio 



DEL PADRB SICEO. 155 

'tornare addietro. Il Forbotta dichiara questo luogo per 
Tin' altra yia^ e dice, che il Poeta salta subito dalla 
metafora del Navigante a quella del Coglitore, e che 
essendo alle mani con un gran pie di Fico, mostra 
averne colto quanto ha potuto aggiungere col suo un- 
cino. Poi voltandosi a Trifone, che si trovava una 
^an pertica in mano, gli dice, eh' egli non può arrivar 
più oltre, ma che a volere scuotere questo Fico affatto, 
gli bisogna aggiungere all'uncino il suo perticone; e 
cosi fatto, di nuovo rimontano sul fico, e cominciano 
pure a ritoccarlo, cosi dicendo ; lo lodo assai^ che na- 
acon senza spine. Se l'altre frutte son buone, son an- 
che quali ronchiose, quali spinose, quali hanno nocciolo, 
quali hanno guscio; in somma, quali un difetto, e quali 
un altro. Ma le Fiche, dice egli, non hanno spine, che 
ti pungano, quando le tocchi, nò veruno di questi altri 
impedimenti, e tutto che siano pur vestite, sono in un 
tempo ignude, ed ancora con la buccia sono tanto mor- 
bidone, e tanto calzanti, che senza alcun ritegno t'en- 
trano. Anzi Papa Giulio. non voleva che si spogliassero, 
usando dire, che pelle che non si vende, non si scor- 
tica. È ben vero, che lo Scalandrone m'ha detto una 
cosa nuova contro queste parole del Poeta, che mi ha 
fatto maravigliare ; e questa è, che pochi' giorni sono 
ha trovato un Fico, che punge, e che salendovi suso 
si senti appuntare al corpo non so che aguzzo, che pa- 
reva, che gliene forasse; sopra che studisuado trovo, 
che le Tribadi in Lesbo erano di questa sorte ; e Sai- 
vestro nostro afferma, che il Fico della Peperina è an- 
cor' esso cosi fatto, e che a questi giorni bucò il corpo 
alla Sandra. Tuttavolta un fior non fa primavera, e 
basta che generalmente non hanno spine, e che se ne 
dice al giuoco di Tirimattare: toccale, son morbide; 
spogliale, son bianche ; aprile, son rosse ; mangiale , 
son dolci. L'è le apponti a quel che l'è. Un altro lo- 
derà le Damaschine. Queste Fiche non so di che sapor 



156 DBLLA PlCfiBIDE 

si siano, perehè non xie ho mai provate. Benché lo Stor- 
nello mi dice, che non si chiamano Damaschine, per- 
chè siano di Damaseò^^ma perchè sono lavorate dì com- 
messo, e di traforo, come T opere Damaschine 3 eperdiè 
queste si trovano per ogni canto, vuole che ne abl» 
gustate ancor io. Ma dicendo il Poeta, che ncm sono 
dagli uccelli offese, questa sua opinione non mi piace, 
e vo pensando^ che siano le medesime, che le Alessan- 
drine , le quali avevano una buccia tanto dora, che se 
non si tagliava loro col ferro, non si maturavano , e 
per questo erano sicure dagli uccelli; ed h opinione 
del BÌ22Ìgorre^ che queste tali Fiche siano quelle, che 
oggi si chiamano coverchiate, che s'usano dì tagliare 
con una moneta d' argento, o d' oro, perchè si vengano 
a maturare: della qual sorte fu il Fico della mia Co- 
mar Cencia. Benché ei sono di quelli, che vogliono, 
che queste Damaschine siano Fiche Pinzochere riser- 
vate dentro a grati di ferro, perchè gli uccellacei, che 
passano, non ne possono beccare: della qual sorte se 
ne trovano per li monasteri, e non se ne gusta per 
altri, che per certi corbacchioni fratacci che talor v* en* 
trano per qualche maglia rotta. Le Spartane* Se que- 
ste son quelle Fiche di Sparta, in una delle quali volle 
quella Donna ricevere il suo Figliuolo, che tornava 
dalla guerra senza scudo, dubito, che non sieno troppo 
grandi. Ma costoro dicono, che sono come le altre Fi- 
che Greche, quali non hanno manco provate. Ebbi vo- 
glia d'assaggiare di quello della Cornar Manetta, ma 
per non morir con quella faccenda intirizzata, non me 
ne sono poi curato: ancorché Fra Rinaldo mi prmnet- 
teva d'assolvermene. Le Tibwhine. Dì queste vi so io 
render conto, che sono una ghiotta cosa, se già non 
mi parvero buone per carestia deir altre. Perciocché ci 
trovammo una volta in Monte Cavallo in guardia di 
peste, da otto o dieci buon compagni, ed una Donna 
dabbene di quel Paese di Tivoli ci fece le spese a 



DSL PADBE SICBO. Ì5T 

tutti col .SUO )i>uon Fico. £ da quello cred*io, che ve- 
lusBe, che non ci appestammo : acciocché non vi mara- 
vigliate^ se il Poeta dirà poi, che le Fiche sono con- 
tra veneno; e se Mitridate le mise in quella sua com- 
posizione per antidoto di esso. A me piaceion le no- 
atre del PA%«e. Sendo tante sorti di Fiche, e tante 
sorti di gusti, non può il Poeta dar sentenza, delle mi- 
gliori di tutte ; ma dice bene, che a lui vanno più a 
gusto quelle del Paese, le quali sono intese da alcuni 
per nostrali, e casalinghe ; e per esser a Roma, per ro- 
manesche, che sono molto saporite. Ma chi. vede sottil- 
mente, si risolverà, che voglia dire delle sue modenesi. 
Perciocché il Pico di Modena è celebrato per tutto il 
mondo, ancorché sia in proverbio : Fiche ferraresi ; 
Mele bolognesi, e Fave mantovane. £d Ogo Bagogo 
vuole, che per questo le rotelle modenesi siano còsi 
buone Fiche. Aristotile nel quarto della Posteriora dice, 
che il Fico da Modena é tanto prezzato , perché 
è maschio , cioè duretto , raccolto^ e rotondo. Per- 
ciocché vuole , che le migliori Fiche siano le sode 7 
come le Mele; e le migliori Mele »ano le morbide, 
come le Fiche. Che danno a* beccaficht da beccare. 
Vuole, che queste Fiche modenesi abbiano una condi- 
zione, che non siano beccate dagli uccelli grandi, per- 
chè sono tanto ingordi, ed hanno si gran becchi, che 
le stracciano, e le cincischiano tutte ; vuol bene di 
quelle, che sono cominciate a beccare, perché è^ segno 
che sono mature^ ma che sono beccate da uccelli pic- 
coli, come Beccafichi, che hanno certi becchetti sottili) 
che appena forano la lor pelle ; talché U di dentro re- 
sta salvo. Perchè rendan poi conto delle spese. Dice 
cosi, perché quando questi uccelletti beccano Fichi, son 
buoni ad esser beccati ancor essi; onde che i ghiotti 
d* oggidì tengono delle Fiche piuttosto per esca, eflper 
zimbello di Beccafichi, che per essi stessi t.cbe per que- 
sta via facendoli dar nella ragna, fanno scontar loro 



158 DRLLA StOflBIDE 

le . beccature de' Fìclii. Percbè in verità si rigolvoi 
tatti, che il Beccafico sia il miglior uccella che si 
alla barba del Padre Marziale, ebe vuol che sia 
glio il Tordo ; come anco de* quattro piedi, che la 
pre sia miglior del Capretto, che dai Dottori della gobi 
non è accettato. Benché quanto a* Beccafichi lo Com- 
mentator lo scusi con dire, che aveya troppo grande 
Bchedione in si 'piccioli uccelli, e che all'infilzare fi 
sferebrava tutti; e però commendava più i Tordi, chei 
sono più appannatotti, e non sono cosi guasti dallo 
schedione. Ma a questo si trova rimedio ; che si pos- 
sono infilzare con tanta maestrìa, che non si guastina 
Cosi poteva far egli, se non fosse stato un balordo, 
che mi risolvo che fosse a ogni modo, quando considerOi 
che si maravigliava, che le Ficedole fossero dette da 
Fichi, e non dalPuve; come quello, che giudicava, 
r uve fossero da tanto, e da più che le Fiche. Ma 
tanto avesse egli fiato, quanto diceva il vero ; e quanto 
s'intendeva de' Fichi, di questi che noi diciamo, cioè 
che de' Fichi di Ciciliano, e de' Ficosi, e delle Fieose^ 
e di queste sporcherìe, se n'intese, ed andò lor dietro 
pur troppo. 

Questo basta a ehi tooI lor fama dar* 
Ancor che al tempo antico già gli Atleti 
Usaitser con le Fiche d' ingrassare. 

Peri in Provenza in qaei Paesi lieti 
n giurar per ma Figa è no sagramento^ 
Gh' nsan le Donne, ond* ogni buon s' acqueti. 

Hovvi già detto, che questa* è una serenata alle Si- 
gnore Fiche, e però interviene al Poeta il medesimo, 
che a uno innamorato, che canta alla finestra della sna 
Signora; che quando ha detto parecchi strambotti, ti 
spicca una partenza per andarsi con Dio; poi il Ma^ 
tello, che lo scanna, lo ferma, e rìcomincia a cantare, 
e rif& r altra partenza ; e con tutto ciò ricanta, e chie* 



DBt PADRE SICJSO. i69 

dendo licenza non se ne va. Il Padre Siceo è ^à un 
pezzo, che volle sonare a raccolta, e cacciossi più in- 
nanzi che prima ; poi domandò licenza, eh' era stracco, 
e come Anteo non prìma toccò terra, che si rizzò più 
gagliardo, che maL Ora dice, che basta quello, che ha 
detto, e por si rappicca a ridire. In somma queste Fi- 
che sono il suo amore. E finché gli si dimena la fan- 
tasia, e le Signore Fiche non chiuggono le finestre, egli 
diromperà sempre a di lungo. Lo Strambottino, che 
dice ora, è, che al tempo antico^ ideai quando quelli 
uomaccioni andavano ignudi, e sbracati, usavano d'in- 
grassar con le Fiche. Della qual cosa il Cafaggea 
molto si maraviglia, e dice, eh* egli ne è smagrato, non 
ingrassato. Ma non vi maravigliate già di lui, aven- 
do uno stomacuzzo di taffetà, ed essendo bacato co- 
m'egli è. Il Poèta dice degli Atleti^ che ne ingras- 
savano ; che erano lottatori usati alla fatica, gagliardi, 
Biienuti, membruti, nerboruti, e non canne vane, smilzi 
e dilombati come esso. Che li complessionati, c<Mne gli 
atleti, ancora a questi tempi ne ingrassano. Ed io ho 
un mio compare, che da che prese moglie, pare che 
sia stato in istia, e domandandogli come*ha fatto a 
ingrassar tanto, m*ha detto, che la Comare Tha im- 
pastato con le Fiche. Peròy particella, che repiloga tutte 
le cose dette di sopra, e conchiude con una loda, che 
è premio di tutte le lode, e di tutte le sopraddette 
virtù delle Fiche. Che cosi come il guiderdone d' un 
uomo buono è diventar santo, cosi esse Fiche per i 
loro buoni portamenti sono state canonizzate per sante 
in Provenza, là tra quelle persone dabbene. Perciocchò 
le Donne in quel Paese, quando vogliono affermare una 
verità, giurano per ma Figa , idest per la Fica mia y 
come per cosa santificata; e quelle buone persone ere* 
dono a questo giuro, come a sacramento infallibile, ed 
inviolabile. 



Ito SELLA rtCHBIDB 

ignudo .■ anzi importa pure assai , dice il Baruffa ; che 
quando si combatte con la targa ignudo, si eopre me- 
glio', vi si rannicchia sotto pia facilmente , e lo scudo 
si maneggia con più destrezza. Benché vi bì può com- 
battere anche vestito. Io trovo nella Tavola di Cebete, 
che lo AmuBBoni fecero già con queste Targhe di Fichi 
molte gran cose , perchè non era ii bestiale incontro 
d'un uomo, o di più insieme, che non riceTeaaero con 
esse. Queste dal Padre Virgilio son chiamate Felfe In- 
nate, perciocché erano in garbo d'una mezza luna : donde 
vuole il Pastricciano , che sei suo paese le Fiche ai 
cfaiamaBsero Lune, siccome le Mele sì dicono Soli. Di 
eopra erano coverte d' una pelle con di peli suoi. E per 
mostrarvi appunto , come le stavano , vi mettere la fi- 
gura d'esse, che il Prete dell' Asmo afferma averla ri- 
tratta da quella, con che Pentasilea fece sì gran prove 
nel Campo Troiano; che si trova oggi in potere d'nna 
Paladina, che a Orvieto, a tempo del Sacco , fece con 
essa prodezoe incredibili, sino a sostenere in una volta 
l'incontro di xxxli. £ che di Pentasilea foase, dà per 
segno quel fesso che è nel mezzo, che trova, che fu già 
. della lancia d' Achille; e età in questo modo. 




DBL PADRB SICBO. 151 

Avvertendovi, che quel colpo non è già rottura, né 
stiaiAatura (che non credeste, eh' io non istessi in cer- 
vello) ma è una commessura del legname, che quando 
riceve il colpo, s* apre per acconsentire alla furia di 
chi mena, ed aprendosi non si rompe mai. Il medesimo 
dice, che il Gorgone di Minerva fu una roteUa di Fico 
e che per esser Yergioe la portava coperta. Il Frasta- 
glia m' ha poi detto di molti belli significati di quel 
viso di Medusa; della* trasfigurazione delle genti iu 
marmo; e che voglian dire quelli suoi capelli di ser* 
penti, e quel sangue venenoso, che fece i coralli ; e 
quell' ocdiio, che si prestavano V una e T altra, e certi 
altri laellissimi misteri: ma ha voluto, che gli giuri di 
non dirli, se non a imo per volta* 

Il RegDo per UQ Fico fa disperso 

Di Gartagioe altera^ che taut' anni 

Il Capo fé' (remar dell' Universo. 
Sicelides Musae, panlo maiora canamas ; 

Non omnes arbnsta jayant, hamilesqne 

Myricas. 

Avendo il Poeta tanto innalzato lo stile a questi Fi- 
clù, e tanto rigonfio, come vedete ; la mia bassa , e 
smunta fantasia non può arrivar dove egli si stende « 
né supplire alla capacità di quella materia, se le Muse 
non me la drizzano, e non la spirano. £ però con quel 
furor poetico, che m' hanno messo addosso la bravura 
di questi versi, mi ristringo con le Muse sopraddette, 
e già sento, che si portano bene, perchè V adopero a 
quello, che son buone, e d#ve son pratiche; la qual 
cosa non fece Virgilio, come s*è detto. Da queste Muse 
Ficaruole dunque aiutato a sborrar la fantasia, che mi 
sento piena, ed .elevata a spianare questo altissimo ed 
ampissimo soggetto, dico, che voi y' immaginate, che il 
Poeta vedesse qui la superbissima, e potentissima città 
di Cartagine, piena di tutti quelli suoi Amilcari, Anni- 



I5f DELLA FICHBIDB 

bali, Asdrubali; Anhoni, tutti valorosi, inaoleati^ 
frodolenti, con quelle annate, e con quelli tssercitT gik 
tante volte vittorioBÌ, e tanto al Bomano Impero nam- 
ralmente nimici. E dirimpetto a Cartagine gli si rap- 
presentasse la gran città di Roma sua concorrente, an- 
corché vincitrice, tutta pensosa della potenza di quella 
città ; sospesa della sua fede, guardinga dalle suq fi-odi, 
gelosa del proprio impero, e quasi attonita della ricor- 
danza di tante fatiche, di tante paure, di tante stragi, 
che già per due lunghissime, e mortalissime guerre, 
con tanto sangue, con tanto danno, con tanto spa- 
vento, avea per quella sofferto ; e che stando, in dub- 
bio di romper la terza guerra coìi essa, comparisse nel 
Senato il Padre Catone, e con quella sua tùgtk lunga, 
con quel viso santo, con quel capo sodo, con queir an- 
dar grave, con quel suo parlar libero, salisse in bi- 
goncia a mostrare a quelli omaccioni la necessità di 
quella guerra^ la potenza e la infedeltà de* Cartaginesi 
e il pericolo della Repubblica Romana: la quale sua 
opinione avendo qualche controversia. 

(Però che Scipiava Gonsiglione 

Che si dovesse cartar Conservagine. ) 

Immaginatevi, che subito, eh' egli scoperse il Pico ve- 
nuto da quelle parti in poche ore, per mostrar loro la 
vicinità de* nemici, per la bontà, e per la dignità di 
quel frutto, si accendessero quegli Scipioni, quei Fabi, 
quei Marcelli, e tutti quei Barbassori al conquisto delle 
Fiche Affricane, come già 1 Francesi delle Fiche d'I- 
talia, e che unitamente acconsentissero al parere del 
vecchio Catone ; la qual deliberazione fu la sicurezza , 
la gloria, e la grandezza della Città di Roma: e ^e fa 
lo sterminio di Cartagine, dovete sapere, eh* io trovo 
nelle Storie di Juba, che fra le Fiche, e 1 Cartaginesi 
erano occulte inimicizie, e che il Fico di Catone era 



LA NASEA 



OVVERO 



DICERIA DE' NASI 



■■', . iMM r-zan 



IL BARBAQRTGTA 



A* LETTORI. 



Stampate le Madri Fiche, mi son venuti a trovare 
i Padri Nasif dicendo y che eglino ancora sono figliuoli 
di Ser Agresto, e che vogliono andare in istampa an- 
cor essi, crucciandosi con esso mecoy che non gli abbi 
messi dinanzi alle Fiche, siccome debbono lor preceder 
per la dignità dell' imperio. A che le Fiche rispondendo, 
che sono tanto da più di loro, quanto la Natura è da 
più, che non sono % Re, e gli Imperadori , essi impe- 
riosamente sbuffando hanno cominciato a grufolare per 
entrar loro innanzi; e queste altre a colpi di buone 
zaffatte ributtandoli, se li hanno pur cacciati dietro. 



166 
E perché so, che questa cosa pule loro, e che ai at- 

tufferanno dell* altre volte ^ per non pregiudicare a ve- 
runa delle parti, gli ho voluti appartare in modoy che 
possano sempre aver quel luogo, che appresso di voi si 
guadagneranno. Voi metteteli o di dietro, o dinanzi, co- 
me meglio vi pare» E vostro sono. 



LA N A S R A 



E] mi pare, S. Maestà, che questo vostro gran Naso 
porgendosi questa sera a ciascuno per materia di ra- 
gionare, sia propriamente, come il Saracino di Piazza, 
che tenendo a tutti tavolaccio, invita a correre ognun 
che lo vede. E come che molti, e tutti valenti armeg- 
giatori vi siano già corsi, non sarà gran fatto, Qhe an- 
cor io corra dietro a loro. Perciocché egli è si grande, 
che per mal chMo porti mia lancia, vi dovrò far colpo 
anch* io ; e se non lo colgo cosi, in pieno, come gli altri, 
sarà perchè tutti insino a ora hanno corso sopra tutta 
la materia nasale; e a me per non fare i medesimi 
colpi che son fatti, convien por la mira lontano a parte 
non tocca da loro. Voglio dire per questo, che dove 
gli altri si sono stesi universalmente a dir di tutti i 
Nasi, io mi ristringerò solamente a ragionar de' Nasi 
imperiali, cioè dei grandi, e specialmente del vostro ; 
il quale io tengo che sia il maggiore, il più orrevole , 
e il più segnalato di quanti io creda, che siano stati 



168 LANASEA 

o che siano, o che possano esser giammai. Ed in somma 
egli è quel Naso, che sendo veramente Re dei Nasi , 
v' ha degnamente fatto Re degli Uomini, come toì 
siete ; e tanto maggior Re, quanto egli è maggior Naso 
e più magnifico, e più onnipotente degli altri. La qual 
cosa procedendo per via di ragione, si può per diversi 
modi provare. Ma primamente la proveremo per V au- 
torità de^ Persi, i quali, dopo la morte di Ciro, che, se- 
condo si scrive, si trovò un bel pezzo di Naso, giudi- 
carono, che nessun uomo potesse esser né bello, né de- 
gno di regnare, che non si trovasse cosi nasuto, come 
fu egli. Nel Libro de' Re trovo una postilla del Maz- 
zagattone con un tratto del Zucca; che Nabuccodo- 
nasor ebbe quel Regno, e quel nome, perchè ebbe gran 
Bocca, e gran Naso. Sopra che si fonda V opinione 
d'un mio compagno, qual è, che Carlo V sia oggi si 
grande Imperadore, perchè si trova si gran Bocca; e 
che Francesco Re di Francia sia si gran Re, perchè 
ha si gran Naso: e che se non fosse che il Nasa dei 
Re contrasta con la Bocca dell' Imperadore, e la Bocca 
dell' Imperadore col Naso del Re, ciascuno d' essi mercè 
di quella Bocca o di quel Naso, sarebbe Signor ditufcto 
il Mondo. Dove per lo pari, o poco differente contrap- 
peso, di pari, poco differentemente contendono della 
somma dell' Imperio. E dicemi, che il Re, non per al- 
tro fu prigione sotto Pavia, se non perchè in quel 
tempo la Maestà del suo Naso si trovava impaniata 
da certi piastrelli per un certo male del suo Paese; e 
che la Bocca dell' Imperadore era sana, e senza impe- 
dimento. Nel passaggio poi di S. M. Cesarea in Pro- 
venza, che il Naso del Re era sano, e la Bocca del- 
l' Imperadore per carestia di vettovaglie si trovò mal 
pasciuta, ognun sa come la bisogna andasse. Ma per 
tornare al Naso, io voglio dire alla Maestà vostra un 
gran segreto, che tutti i Pedanti lo cercano, e non 
l'hanno ancor trovato; che Ovidio Nasone non fa pcar 



DICERIA 1B9 

altro oonfinato, se non perchè Angusto dubitò, che 
quel suo gran Naso non gli togliesse V Impero ; e man- 
dolio in esilio tra quelle nevi, e quei ghiacci della Mo- 
scovia, perchè gli si seccasse il Naso di freddo. L' À- 
quila, perchè credete voi, che siaBegina degli Uccelli, 
se non perchè si trova quel Naso cosi grifagno ? L' E- 
lefante, perchè è egli più ingegnoso degli altri animali, 
se non perchè ha quel grugno cosi lungo? il Rinoce^ 
tonte, per qual cagione è tanto temuto da' viziosi^ se 
non perchè Tha cosi duro? Insomma un Naso straor- 
dinario porta sempre seco straordinaria maggioranza ; 
e nan senza ragione. Imperciocché io ho trovato, che 
il Naso è la sede della Maestà, e dell- Onore dell' Uo- 
mo: e per conseguenza chi maggior V ha più onorato 
debb* essere. Donde si dice, tu mi dai nel Naso, idest 
tu mi tocchi nell'onore. E quel dire, ficcami il Naso 
dietro, è tanto come, io ho 1' onor tuo nel forame. Cosi, 
tu non hai Naso: tu mi meni per lo Naso: tu metti il 
Naso per tutto ; son tutti detti da disonorare altrui. E 
per contrario, dicendosi, non gli si può toccare il Naso : 
gli monta il moscherino al Naso: il Naso gli fuma; si 
vuol significare uno, che si risenta dell' onor suo. Ve- 
dete, che 1' esser senza Naso è uno de' maggiori diso- 
nori; che possono cadert in Uomo. Ed oggi i Siciliani 
dicono, che perduto il Naso si perde l'onore. Dove i 
nostri Bravi portano il guanto di maglia, essi portano 
una spranga di ferro, che pendendo dalla celata, quanto 
è lungo il Naso, lo difende loro insieme col grifo dalle 
scirignate. Ma non solamente quelli, che l' hanno mozzo, 
ma quelli che l'hanno piccolo, o scontraffiatto , appena 
possono comparir fra gli Uomini senza vergogna, e 
fra le Donne senza dispregio. Perciocché dicono , che 
il Naso è correlativo di queir altra parte, con che Dio- 
gene piantava gli Uomini ; che come non si ipuò dir 
Padre, che non s' intenda Figliuolo, cosi non si vede 
mai gran Naso, che non abbi appresso un gran pian- 



170 LA NàSBA 

tatoio: e per questo si scrive, che Eliog&balo Impera- 
dorè volendo piantare il suo Pescaio, cercava de' Pian- 
tatori; che fossero ben Nasuti, e mandava per tutto 
Commissari a condur gran Nasi a Corte; dove trovan- 
doli buon compagni, li riteneva tutti, usando con esso 
loro strettissimamente; tanto che partiva tutto il suo 
con essi, apriva loro tutti i suoi segreti con ampia con- 
cessione, che si .servissero di tutte le sue cose per in- 
sino al Seggio Imperiale. Le donne, ognun sa quanto 
vaghe ne sono, e che quando ne veggono un ben fatto 
passar per la strada, se non ponno far altro, lo va- 
gheggiano ; e tirandosi dentro la gelosia se ne ghignano 
e dicono fra lor.non so che proverbio di testa Baiardi, 
dimandandosi l' una air altra, chi è costui da questo 
bel Naso? £ dove sta egli a casa questo valentuomo? 
Dair altro canto fate V amore con una Signora avendo 
un Nasin gretto, o sgarbato, e menate a vostro modo, 
che vi avrà sempre per .un Zugo. Ed io conosco in 
Boma un Gianni, che per trovarsi un Naso nel vcdto, 
che pare un barbacane in una facciata, una buona fem- 
mina gli ha posto il nome di Gianni d' oro, ancorché 
abbia un viso , che non sia appena a lega di piom- 
bo. Da queste, e da molt' altre cose, che io lascio in- 
dietro, si può raccorrò, che la M. V. debba saper grado 
al suo Naso, d'esser- ubbidito dagli uomini, ed al suo 
corrispondente d' esser amato dalle Donne. Ora in lode 
del NasOy come Naso, non già come grande, si potreb- 
bon dire infinite cose. £ quanto alle operazioni, come 
sia ministro del polmone 9 sergente del cerebro , sopra- 
stante dell' odorato, riformatore dello starnuto^ e pur- 
gator di tutto il capo. Quanto alla composizione, per- 
chè sia cosi garbato, perchè cosi posto; a che ser- 
va quel suo tenerume, a che le narici, a che il moc- 
colo , e r altre sue parti. Poi quanto alla corrispon- 
denza, che tiene con gli affetti dell' anima, come 1' al- 
legrezza si conosce nella sua spiegatura; la malui« 



DICERIA 171 

*; conia apparisce nelle sue grinze; la schifiltà si rap- 
^ presenta nel suo niffolo ; V ira sbuffa per le sue fìroge; 
' il biasimo va in compagnia de' suoi crocchi ; e cosi 
' molte altre sue eccellenze, per le quali mi meraviglio , 
che gli antichi facessero Dio quel briccone di Priapo; 
ed al Naso suo compagno, anzi da che egli acquistò 
la prima sua riputazione, non abbiano voluto dare al- 
tro di sacro, che lo starnuto. Ma queste cose non ae- 
caggiono a dire, si perchè le sono in parte dette da 
altri, si perchè sono comuni a tutti i Nasi ; ed io parlo 
solamente de' Nasi grandi, ed Imperiali. Ed in lode di 
questi non so che più mi possa dire, avendo già detto 
che sono da Re, e da Imperadori. Ma perchè si tro- 
vano de* prosuntuosi, che per avere i Nasi grandi si 
vorrebbono per avventura usurpare il merito dell'Impero ; 
io dico, che si fa differenza da grandi a grandi, e che 
sebbene tutti gl'Imperiali sono grandi, non è già per 
questo, che tutti i grandi siano Imperiali. Perciocché 
si trovano certi Nasoni stiaccati alla Tartaresca ; certi 
. sfirogiati alla Corvat€sca; certi sgrignuti a foggia di 
Montoni ; certi bitorzoluti a guisa di Limoni ; di quelli 
che hanno la pannocchia spugnosa, come quel di Si- 
leno ; di quelli, che hanno la punta rugginosa, come 
quel di Pane. Ve ne sono de' callosi, de' mocciosi, dei 
cancherosi, di quei che crocchiano, di quei che russano ; 
sonvi de' fatti a tromba, a sella, a timone, a crocea ; 
sonvi de' saturnini da scior balle, come disse il Bur* 
chiello: dei paonazzi a uso de' Petronciani, come quel 
di Messer Biagio da Cesena, e di Mastro Giovanni da 
Macerata; li quali tutti, io non dirò mai, che abbiano 
in loro né bellezza, né dignità. Tuttavolta perchè sono 
pur grandi, volendo a ogni modo regnare, e non sendo 
Re naturali, si gittano al Tiranno, e comandano per 
alterigia. Vedete, che quello di Messer Biagio ardisce 
di dar norma per insino al Papa, ed a' Cardinali, e 
con un sol cenno d' un porro, che è suo luogotenente 



112 LA KASBA 

fa lor levare, e porre il Begno, o la Mitra, quando gli 
pare. Li fa sedere, e rizzare; parlare, e tacere a sna 
posta. Quello del Macerata, non potendo altro comanda 
le ricette agli speziali, e la dieta agli ammalati; ed 
bassi usurpata tanta autorità, che sebben comandante 
a rovescio, non ha replica, perchè avendosi preso il 
mero Impero sopra la vita degli uomini, se gli venisse 
per disgrazia morto qualcuno, non ha da starne a sin- 
dacato; e per questa via un gran Naso può avere an- 
cor égli Impero, ancorché non sia della stiatta de* Reali. 
Ma il Beai vero vuol esser grande, ben fatto, liscio, aqui- 
lino, profilato, bianco, sonoro, appunto, come quello 
della M. V., il qual risiede nel suo volto' con tanta mae- 
stà, che par proprio la idea de^Nasi Imperiali. E per- 
chè ciascuno è tenuto non meno a dir le sue lodi, che 
a dargli il suo tributo; io ho preparato il mio dono an- 
cor io, il quale penso gli dovrà esser tanto più grato, 
che gli altri, quanto mi par più necessario alla pres»- 
vazione, ed ornamento di si nobil membro, e conyene- 
, vole alla riputazione, che debbe tenere* Perciocché que- 
sto è un Naso, S. M., che si avrebbe a mostrare, come 
già le Pandette di Fiorenza, col partito della Signorìa, 
ed a certe solennità principali, come dir le Pasque. Per- 
chè, dove non è bene, che d'ogni tempo, ogni plebeo 
lo possa vedere; imperò ho pensato, che la M. V. lo 
tenga coperto come una reliquia, e questo dono, che io 
le fo, sarà il suo reliquiario; il qual vorrei, che vi si 
adattasse al Naso, come una Cataratta, o una Saraci- 
nesca, che solamente si mostrasse nelle maggiori neces- 
sità dell'Impero ; verbigrazìa , come i Romani solevano 
nelle guerre aprire il Tempio di Giano, la M. V. a 
guisa di ponte levatoio alzasse la Cataratta del suo 
Naso, e con un crocchio di quella a uso di Tavolaccio 
buffone^ annunciasse guerra al Mondo; e vorrei, che 
ogni sua operazione si facesse con solennità ; e con or- 
dine di Messer Gian Francesco da Macerata nostro Ce- 



9I0EBI4 173 

rimoniere. Che volendo fiutare si accendeiBero torcbj; 
volendosi spurgare gli andassero Piaggi innanzi con 
nappi d'oro, e d' argento ; che starnutando si sparassero 
artiglierie, e mostrandosi al popolo si sonassero le cam- 
pane, e con esso si desse la benedizione alle donne, che 
non possono ingravidare, E tutto dico per accrescere la 
riputazione e la gloria del vostro Naso. Ora per ciò 
fare, io vi porto. Si M., questo Guardanaso bellissimo 
ed antichissimo, il quale fu già di Nabuccódonosorre, 
ed al suo naso fu fabbricato. Dopo la morte sua stette 
gran tempo nella guardaroba de' suoi successori. Vespa- 
siano Io condusse nel trionfo di Gerusalemme a Roma. 
Belisario lo riportò in Oriente. Poi per diverse mani, 
in diversi tempi venne in podestà di Ussuncassano Re 
della Persia , che secondo 1' usanza di Ciro V usava in 
battaglia, come per istiniero del suo Naso. Ismael suo 
successore, nel conflitto che fece con Selim Sultam, se 
non era questo, restava senza Naso, per una scimitar- 
rata , che gli trasse un Giannizzero : pur cadendogli lo 
perde, e fu portato in Costantinopoli, dove a questi 
tempi era capitato in mano d'Abraim Bassa. Dopo la 
morte di questo, un Habi sapendo che era di Nabucco, 
fece d'averlo, e mandollo alla Sinagoga degli lachodim 
di Roma, dove lo tenevano insieme con la frombola di 
David, e col teschio dell'Asino di Balaam. Ed ultima- 
mente Maestro Vital Medico, quando si trasmutò in 
Paolo , abbottinandosi dal soldo di Moisè, lo rubò loro, 
perchè non gli fosse ammaccato il Naso dagli Scribi , e 
Farisei della legge, che gli avevano fatto congiura 
addosso. Ma perchè nel calzarselo gli riusci un poco 
stretto e corto, perchè gli ha un certo Naso spalancato* 
ed un lambicco, che gli stilla tuttavia in bocca, è etato 



174 LA NASEA 

forzato a venderlo, ed io Tbo compro da lui per do- 
narlo alla M. V. 

Questo dttoquei Signor, nasuto ceffo, 
Ponti al Naso, de' Nasi il Barbassoro^ 
Perchè mai nò sgrugnata, né sberleffo 
Gnasti si bello e si gentil lavoro. 
Né sia, chi per ingiuria^ o per caleffo 
Tocchi la maestà del sno decoro, 
Gh' al tuo Naso real si può ben porre, 
Poi che fu di Nabuccodonosorre. 



Fine della Nasea. 



LETTERA 

« 

A 

GIOYANFRANCeSCO LEONI 

IN FRANGIA 



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LETTERA 



GIOVANFRANCESCO LEONI. 



Nasutissimo Messer I^Giovan Francesco. Dicesi, che 
8* era un tratto un certo Tempione, che si trovava un 
paio di si gran tempiali, che facendo alle pugna con 
chiunque si fosse, né per molto ch*egli si schermisse, né 
per lontano che l'avversario gli tirasse, si poteva mai 
tanto riparare , che ogni pugno non V investisse nelle 
tempie. Di questo mi sono ricordato adesso, che ho pen- 
sato un gran pezzo a quel ch'io vi potessi scrivere, e in 
somma mi vien pur dato nel vostro Naso: perchè la 
grandezza sua mi si rappresenta per tutto, tanto è ri- 
masto nelle menti, nelle lingue, e nelle penne di ognuno* 
Sicché volendovi scrivere , non posso dirvi d' altro ; e 
scrìvervi mi bisogna, poiché voi me ne richiedete, che 
siete stato Re; e di che sorte Be, di Fava forse, o di 
Beibna : Be del Begno delle Virtù , talché non si vide 
mai corona meglio calzata della vostra, né scettro me- 
glio innestato che nelle vostre mani, né seggio meglio 
empiuto che dalle vostre mele, ancorché il Be cuccù* 
lato si trovi più badial culo del vostro. Lasciamo stare 
che non fu mai il più virtuoso Be di Voi. Sannoio 
quelli, che v' hanno veduto recitare fino a un punto il 

Caro, 19 



178 LETTERA 

contenuto di parecchie carte, senz' altramente leggerle. 
Ma queste cose sono un nulla a petto a quel Naso, che 
vi dà quella maggioranza, che avete sopra noi altri. 
Con questo vi fate voi gli Uomini vassalli; per questo 
le donne vi sono soggette. Beato voi, che vi portate in 
faccia la meraviglia, e la consolazione di chiunque vi 
mira. Ognuno strahilia, che lo vede, ognuno stupisce, 
che lo sente. A tutti dà riso, a tutti desiderio. Tutti i 
Poeti ne cantano; tutti i Prosatori ne scrivono; tutti 
coloro, che hanno favella, ne ragionano : e non sarebbe 
gran fìitto, che per infino alle Sibille ne profetizzassero; 
che gli Apelli lo dipingessero, che i Policleti lo inta- 
gliassero; e che Michelagnolo nell'un modo e nell'al- 
tro rimmortalasse. Qui, da poi che voi siete partito, s'è 
fatto più fracasso di questo vostro Naso, che della gita 
del Papa a Nizza, e del passaggio, che prepara il gran 
Turco ; tanto che mi par diventato la trpmba della Fama, 
che da ognuno è sonata, e da ognuno è sentita. £ por 
ieri mi fu detto, che c'era una nuov^ Nasaria in Sonetto, 
che benché dica le cose dette, non è per^ che il vosro 
Naso non sia il bersaglio dell'arco, o dell'azchetto della 
lira d' Apollo , o come un flauto, o una cornetta delle 
Muse; poiché tutti i Poeti vi mettono bcNCca; ed ecci 
opinione, che quest'anno Pasquino non voglia altra me- 
tamorfosi, che del vostro Naso. E farebbe gran senno 
il gaglioffaccio a farlo, volendo ricuperare quel credito 
che s'ha^ già perduto con le Muse, perchè non/cced<^ 
che sia stronzolo in Parnaso» che non si volesse, pr» 
sentare al vostro Naso: Naso perfetto , Naso principale» 
Naso divino. Naso che t>enedetto sia sopra lutti i Nasi; 
e benedetta sia quella mamma, che vi fece cosi iwuto; 
e benedette tutte quelle cose., che voi annasate» Prego 
Iddio, che metta in cuore al Britonio, che vi faccia una 
Naseide più grande che quella sua rotonda; e che ogni 
libro, che s^ compone, sia Nasca in onore della Nasale 
Macjtu Vostra ; e che non sia si forbito Nasino ^ nò sì 



J 



LETTERA A GIOVANFBAKCESOO LEOm. 179 

stringato Nasetto, né si rigoglioso Nasorre, né si sper- 
ticato Nasaccio, che non sia vassallo, e tributario della 
Nasevolissima Nasaggine del Nasutissimo Nason vostro. 
Ora, per la riverenza che io gli porto, non posso man- 
care d'avvertirvi di quanto io conosco, che faccia a glo- 
ria, ed a mantenimento di esso. Sappiate dunque, che 
queste sue gran lodi, che vanno attorno, hanno desta 
un' invidia a eerti altri gran Nasi , che quantunque a 
petto al vostro siano da Barbacheppi, da Caparroni, da 
Marzocchi piuttosto che da Be, per la grandezza loro 
8Ì tengono degni di participare delle prerogative del vo- 
stro. £ sono tanti, che, se state lungo tempo assente, 
mi dubito, non vi troviate corsa questa preminenza Na* 
sale. £ questo è il pericolo, che portate dalle bande di 
qua. Di costà ne correte un altro, che se venite alle Na* 
sate con quel del Be, e non gli togliete la Francia, temo 
che non ne perdiate tanto di nputazione, che non sia 
poi Naseca, che non voglia fare a taccio col vostro Na* 
Bone. Che certo questo affronto sarà come un' opposi- 
sdone di due gran Luminari, dove bisogna, o che voi 
facciate eclisse al suo,ì> che egli la faccia al vostro. 
Sicché andatevi provvisto, e valetevi dell'armatura, ch'io 
vi detti; o si veramente incallitevi, o rigonfiatevi il Naso 
con que' vostri calabroni; che se tornate in qua sna- 
sato, vi soneremo le tabelle dietro. Né altro del Naso. 
Il Begno della virtù é in declinazione; e la Primera, 
se non si rimette gli darà scaccomatto. La Begina Gi- 
già Nasafica é stata per tirar le calze; or'é sana, di 
corpo cioè, che del resto imperversa più che mai. Bac* 
comandatemi a tutti i nostri vurtuosi di Corte ; e resto 
servidore del vostro Naso. 

AUi 10 d' aprUe 1581. 



Fine della Lettera a Gian Francesco Leoni. 



LA 

STATUA DELLA FOIA 

OVVERO 

DI SANTA NAFISSA 

DICBBIA 

AL SESTO RE DELLE VIRTÙ' 



1^-^»-^ Il 



Serenistimo He. 



Quando, pochi giorni sono, la Maestà Vostra non 
aveva di questo Regno ancora altro che il merito , io 
venni con alcuni altri a capitare' per avventura nella 
sua stanza privata , e mi parve da principio d'esser 
entrato- in una bottega di vettine: tanti e si gran vasi 
antichi vi vidi raccolti, fra i quali il suo Mess. Fer- 
rante mi mostrò la brocca, con che Egeria andava 
per l'acqua alla fontana, la tinozza, con là quale Lu- 
crezia romana faceva il bucato, e un barattolo, dove 
Marzia di Catone teneva le noci conce. Dall' altro can- 
to , vedendo un gran monte di teste mozze , di gambe 
fracassate, di braccia rotte, e d'altri memlvi e arnesi 
squarciati, smorsecchiati e cincischiati tutti, mi si rap- 
presentò davanti la spelonca di Polifemo, la notomia 
del Vecelli, e la Sconfitta di Roncisvalle. Ma ravve- 
dendomi, ch'era di pietra, giudicai, che la M. V. fiisse 
un galantuomo, e che si dilettasse d'anticaglie e d'al- 
tre cose rare, si come intesi poi ; e perchè ella mi donò 
nel partire un certo suo Nicchio fantastico, quale ho 
messo fira l'altre mie ricchezze di mare; a rincontro di 



184 JjA statua della foia 

quello (poiché la conosco raga di cose antiche) ho 
pensato di presentarle questa sera^ per conveniente tri- 
buto, una mia Statuetta di marmo: cosa degna , come 
a me pare, della M. V. per essere, com'ella vedrà, d'ar- 
te, di prezzo e di misterio molto notabile. 

Questa figura alle poppe, alle fattezze ed all' abito 
donnesco, senza dubbio è di una donna; e non dì me- 
no ha d*4iomo uno bischero ardito , intirizzato e appannato 
assai bene, e con ambe le mani alzandosi i panni di- 
nanzi per insino al bellico, lo mostra al popolo con un 
paio di granelli sodi e raccolti : in somma è una biz- 
zarra cosa, e ho domandati di bizzari cervelli per sa- 
pere quel eh' ella sia, e quel che significhi ; i quali tutti 
trovo diversi. U Binuzio isterico dice , che '1 suo Orto 
vuole, eh' e' sia il suo Iddio, il che non mi piace, perchè 
quel ribaldone era un cotale legnaccio, abbozzato di 
mano di Noddo, dal mezzo in giù e dal mezzo in su un sa- 
tiraccio,come quel berlingozzo, ch'egli ha fatto di^Àngere 
in testa del suo viale ; dove questa è interamente umana, 
e di mano di perfettissimo maestro, secondo Fra Bastiano, 
il quale dice, oh' e' pizzica del letto di PoHdeto. Miche- 
lagnolo la voleva ritrarre per servirsene in Cappella, 
e io non ho voluto. Il Maroniano, il Corvino e '1 Gan- 
dolfo, i tre chiarissimi Modanesi sono tutti d'una opi- 
nione , e con molte efficaci ragioni vogliono provare, 
eh' è sia il loro Fotta da Modana, il quale, benché fosse 
donna , fu chiamato col nome maschio, perchè fu una 
viragine, cioè una donna maschia di costumi, la quale, 
per quel nome Fotta , vollero che si sapesse , che fa 
femmina di sesso, e per quello articolo di maschio, 
•che ne' fatti si portasse da uomo. E che di queste 
donne si trovino , allegalo Salvestro Battiloro , autore 
delle calze solate, il quale fa menzione d'una donna, 
che faceva quelle tristizie a' fanciulli; e tutte le donne 
di quella sorte domanda Atterrone , perchè atterrano 
gli uomini; delle quali il Fotta fu una ; per questo 



BIC£BIA 185 

vogliono che gli sia attribuito il segni» dell* nomo. 
Ma una cosa mi fa credere , eh' e' non sia quello che 
dicono f perchè, il Fotta non ha di maschio se non 
r articolo, e questo si trova un articolo di maschio , 
che mi paro altro che hie , et haec , et hoc» Claudio 
Folistore afferma- ch'ella sia una di quelle fiche belle, 
ehe furono confinate e distrutte dalle brutte | e dai 
baccelli piccoli: ^ vuole f che quel rilievo , che le 
va su per lo corpo, non sia il baccello, come pare, ma 
quel poggetto della cioncia, che aveano le belle, il 
quale non era, com'è oggi, quella scarsellaccia delle 
brutte, ma ritondetto e duro a uso di pincio, come si 
vede in questa ; e facendoli io istanza, che se ciò fus- 
se, i granelli non vi sarebbero, egli cita l'Arsiccio, il 
qual vuole, che certe donne gli abbino^ e le maschili 
specialmenle: e dice, che trova inTurpino, che Marfisa 
e Bradamante gli ebbono grossi come pallq lesine, e 
che l'Ancroia gli ebbe ancor ella: il che non s'accorda 
con la Trebisonda, la quale dice, chefii Paladina ^ per- 
ch'ebbe una spanna di cioncia più che l'altre donne. 
Ma questa opinione non mi calia ancora affatto, per- 
chè è alquanto diversa di quella dell'Arsiccio. U Padre 
Cuculiato dice, che. questa .è la Dea Natura, la quale, 
essendo universale e creando maschi e femmine e fem- 
mine e maschi insieme, è ragionevole, che abbia la Na- 
tura insieme col Naturale, e' 1 Naturale nella Natura ; 
il quale è un parere molto naturalone, e piacerebbemi, se 
non che non ci veggo se non il Naturale dell'uomo, dovè 
vi deverebbe esser ancora dell'altre bestie, poiché tanto 
è natura per gli uommì, quanto per loro.: e poi si vede 
neli' antico che la Natura si formava con quelle tante 
poppe intorno e non come questa. Il (jralletto ricciuto vuole, 
che questa sia la statua di Venere maschia, la quale 
ebbe il tempio nel Campidoglio ; e che la maschia vi 
fosse lo prova quello emistichio: pollentemque Deum 
Ycnerem ; ed è d' opinione^ che ancor ella fusse Atterrona, 



186 LA STATUA DBLLA FOIA 

« per questo che ella abbia cosi il biscliero. Questa sua 
fantasia dà quasi nel buco;. ma c'è ancor meglio. Baiando 
'Frngi dice^ eh* e' potrebbe essere TAndrogmo di Platone 
perchè quella bozza, che le sta dietro e se '1 mastro l'avesse 
fornita, sarebbe un* altra persona attaccata con essa ; ma 
non può essere, perchè quello aveva tante gambe e tante 
braccia, dove questo non n'ha pur due intere. Di questi 
altri, i più dicono, eh' è l'Ermafrodito, é abbacano, per- 
chè gli Ermafroditi che si veggono per Roma nono 
d'un' altra fatta. L' opinione di maestro Giuseppe Me- 
dico è, eh' ella sia la Dea della Peste , e ehe quella 
maladizioné, che tiene fra le coscio, non sieno i granelli 
uè il manico, ma un gavocciolo di qua, e l'altro di là 
e che quel rilievo di mezzo è un carboncello; e perchè 
ha due gavoccioli, ci tiene tuttedue le mani, dove san 
Rocco non ce ne tiene se non una, perchè aveva un ga- 
vocciolo solo. E peravventura se gli crederebbe da qual- 
cuno, se non che gli è Tedesco, e mostra d'avere poca 
notizia de' Taliani, poiché e'non conosce il Taliano, dal 
gavocciolo, che non hanno altro da far insieme, se nonché 
nono vicini. Ma da questa vicinanza si potrebbe ancora 
provare, che un Tedesco fussi una medesima cosa che 
un barile, e '1 barile che il Tedesco, perchè stanno vo- 
lentieri l'uno a canto dell' altro. 

La opinione mia ^ conforma con quella del nostro 
Leoncidalgo , il quale tiene per fermo , che sia l' ima- 
gine delle Dea Tetigine, la quale egli toscanamente 
chiama Foia. Questa io trovo, che a' tempi di quel vec- 
chione di Saturno non era ancora dea, perciocché an- 
dando gli uomini e le donne ignudi per tutto; e i 
fichi, le mele e i baceegli a discrezione di tutt' uomo, 
non si trovando massimamente né gonne lunghe , né 
questa ribalderia di calze, di brache, e di brachieri; 
l'Abbondanza, la quale era sua mortai nemica, la te- 
neva sotto. Cominciarono poi le buone robe a coprirsi, 
e stare rìachiuse ; donde che Giove, quando aveva mar- 



mcBRiÀ 187 

<tello di Danae , che stava serrata in nna tórre, venne 
una volta tanto in succhio, che gli nacque del filo della 
schiena questa ribaldell)Ei, come gli nacque Pallade del 
capo, e Bacco della coscia ; e tanto lo stuzzicò , che a 
Buo dispetto lo fece C(HTompere in pioggia d'oro, donde 
che irato Giove con esso lei , ancora che fùsse sua fi- 
glia, la dette per fantesca a Venere; ma ella non molto 
vi fu stata. Che le volle essere compagna e sorella , e 
per vendicarsi di certi dispétti, ch'ella le faceva, entrò 
nna volta addosso a un certo Greco^ innamorato d'una 
Bua statua nella città di Guido, e fecelo vituperare ; 
e perchè ogn'uno lo risapesse, volle che le restasse una 
certa macchia fra le mele, che vi durò di continuo, e 
ida ivi innanzi sempre andò a par di lei, e volle ancor 
ella i sacrifisj eie statue, delle quali statue questa è una, e 
fassi con due sessi, perchè a tutti due i sessi signoreggia. 
Partecipa più della donna , perchè le donne parte- 
cipano più di lei ; la fanno vestita , perchè ogn' uno 
cerca di celarla ; la fanno, che si alzi i panni , perchè 
non si può poi tenere coperta ; non ha occhi , perchè 
ella non guarda né a qualità , né a tempo , né a 
sesso di persona ; non ha piedi , perchè dove si 
ficca, quivi si sta volentieri. Ella di certo è gran dea, 
e nell'imperio di Venere è ministra di tutto, e nulla 
faccenda si reca a compimento senza di lei. 

Ora, per quanto io giudico che sia il bisogno di que- 
sto regno,* e' mi parrebbe. Sacra Maestà*, che questa 
dovesse essere la nostra avvocata, nel maneggio però 
delle signore: che non voglio che tocchiamo le cose 
della sagrestia in questi affari. Propongo dunque alla 
M. V. , e a tutti i suoi baroni , che ella si metta a partito, 
ed esorto ogn' uno si rechi la sua fava in mano, poi, vinta 
che sarà, mettasi in uno tabernacolo e quando ne avremo 
di bisogno ce le raccomanderemo. £ perchè e' si po- 
trebbe dire , che questa fosse cosa da Inquisitori , e 
che saremo forse imputati d' Idolatria, io vi voglio dire 



188 LA STATUA DELLA FOIA, DICERIA 

uuiiegreto; che questa è una Santa di quelle che sono 
state canonizzate da* nostri frati ; ed è quella medesima 
che domandano Santa Nafissa : perciocché questa dea, 
conosciuto il bisogno di certi Conventi di frati suoi di- 
voti, per salute di quelli entrò in Nafissa monaca san- 
tissima , la quale per carità li sovvenne tutti , e senza 
risparmio si lasciò fare quella piacevolezza da tutti per 
r amor di Dio ; e cosi in santa Nafissa fu convertita e 
da' frati canonizzata. Farmi dunque , che ella si riceva 
per nostra Madre , e che Santa Nafissa si chiami ; e voi, 
Sagra Corona, siate la prima, a inchinarvele , e ba- 
ciatela ; poi di mano in mano la mandaremo a questi 
vostri baroni, che faccino il medesimo : e queste donne 
e questi giovanetti, che ci sono, vadano con i loro bos- 
soli attorno ; e noi ci metteremo le nostre fave in onore 
di questa Santa, vincendola per dignissimo partito. 
Baciate Santa Nafissa, ecc^ 



Fine del Tolnme. 



■s 



INDICE 



DEGLI SCRITTI CONTENUTI NEL PRESENTE VOLUME 



Avvertenza degli Stampatori Pag. Yii 

Gli Straccioni, commedia ** 1 

Atto primo» • • • i* 9 

Atto secondo n 27 

Atto terzo n 42 

Atto quarto n 52 

Atto quinto d 64 



190 INDICB 

Commento di Ser ÀaRBSTO da ficaruolo aopra 

la prima Ficaia del padre SiCEO • . Pag. 82 
Al Sig» MoLZA e M. Annibal Caro , il 

Barbagrigia, stampatore • . . . n 83 

Proemio del Commentatore » 87 

Della Ficheide del Padre Siceo, Ficaia • 91 

La Naaea, ovvero Diceria dei Nasi . . . . • 163 

Lettera a Gianprancesco Leoni in Francia. » 177 
La Statua della Foia^ ovvero di Santa Nafissa^ 

Diceria al aeito Re delle virtà . « . • n 184 



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