Skip to main content

Full text of "MEMORIALISTI DELL' OTTOCENTO TOMO - II"

See other formats


.V  Ottoce:itu 


city 


ill  of  libr 

lost         and 


of 


LA  LKTTKRATrRA  ITALIANA 
STOK1A  K  TKSTI 


mm  i  tuut 
Murmn  *  HI  no? 

AM  HI  tW   St*JU\I  1  INI 


MBNMIAMSTI  OKU/OTTCX'KNTO 

TOW)  H 


MEMORIALISTI 
DELL'OTTOCENTO 

TOMO  II 


A    CURA 
DI    CARMELO    CAPPUCCIO 


RICCARDO  RICCIARDI  EDITORE 
MILANO  •  NAPOLI 


TUTTI    I    DIRITT1    KISERVATI  •  ALL   RIGHTS   RKSKRVKI) 
PRINTED    IN    ITALY 


MEMORIALISTI  DELL'OTTOCENTO 

TOMO  II 

INTRODUZIONE  IX 

FILIPPO  PANANTI  3 

Avventure  e  osservazioni  sopra  le  coste  di  Barberia  1  1 

GIUSEPPE  PECCHIO  53 

Osservazioni  semi-serie  di  un  esule  sulPInghilterra  63 

LEONETTO  CIPRIANI  12? 

Avventure  della  mia  vita  135 

ANTONIO   GHISLANZONI  255 

Storia  di  Milano  dal  1836  al  1848  259 

GIOVANNI  VISCONTI  VENOSTA  281 

Ricordi  di  gioventti  291 

UGO  PESCI  395 

Fircnzc  capitals  (1865-1870)  401 

I  primi  anni  di  Roma  capitate  (1870-1878)  475 

ETTORE  80CCI  575 

Da  Fircnsse  a  Digione.  Impression!  di  un  reduce  garibaldino  583 

GUGUELMO  MASSAJA  737 

I  miei  trcntacinque  anni  di  missione  nell'alta  Etiopia  749 

CAETANO   CASATI  845 

Dieci  anni  in  Kquatoria  e  ritorno  con  Emin  Fascia  849 

LEOPOLPO  BARBONI  887 

Geni  e  capi  ameni  dell'Ottocento  893 

FERDINANDO  MARTINI  <)55 

NeU'Affrica  italiana  9^5 

Confession!  e  ricordi  (Fircnzc  ^randucale)  1007 

Confession!  e  ricordi  (1859-1892)  1102 


NOTA  AI  TKSTI 
INDICE 


INTRODUZIONE 

Nessuno  dci  secoli  precedent!  vide  cosl  vasta fioritura  di  «memorie » 
quanto  1'Ottocento.  Lo  straordinario  rilievo  assegnato  dal  romanti- 
cismo  all'individuo,  al  personalissimo  mondo  dei  suoi  sentimenti, 
spronava  a  iscrivere,  piu  che  fosse  possibile,  nel  tempo  e  nella  me- 
moria  dei  posteri  il  proprio  nome  e  le  proprie  azioni.  L'intensa 
partecipazione  agli  eventi  risorgimentali,  se  in  parte  scaturiva  da 
questa  ansia  di  perennita,  incitava,  a  sua  volta,  alia  propaganda  e 
alia  difesa  dei  propri  ideali,  delle  imprese  compiute:  testimonianze, 
a  tacer  d'altro,  di  un  dilatarsi  della  vita  individuale  nella  piu  vasta 
sfera  della  societa  nazionale.  Intanto,  uomini  ed  eventi  si  solleva- 
vano,  per  Fardore  delle  passioni,  in  un'atmosfera  leggendaria,  si  che 
era  un  caro  orgoglio  cssere  stati  vicini  a  quegli  eroi,  aver  vissuto 
quei  giorni  di  riscatto,  poterli  narrare.  Del  resto,  lo  stesso  balzare, 
sulla  scena  della  storia,  di  strati  sociali  che  a  lungo  ne  erano  stati 
assenti,  spiega  anch'esso,  per  un  gioco  di  proporzioni,  tanto  infit- 
tirsi  di  pagine  di  memorie. 

Chi  scriveva  le  proprie  memorie  restava  assai  spesso,  anche  per 
1'impegno  civile  da  cui  era  animato,  a  mezza  strada  fra  il  docu- 
mcnto  e  Farte,  tra  1'ansia  di  fissare  la  vcrita  degli  avvenimenti  e 
1* impulse  a  riviverli  liberamente  in  una  trasposizione  fantastica. 
Un  atteggiamento,  questo,  che  alternamente  accentua  della  sua 
duplice  istanza  le  pagine  dei  memorialisti,  e  sul  quale  torneremo 
in  vari  profili,  ma  che,  anzitutto,  giovava  a  sottrarre  gli  autori  dal 
timore  riverenziale  che  sempre  incute  1 'opera  decisamente  e  deli- 
beratamente  artistica;  a  renderli,  perci6,  piu  franchi,  meno  control- 
lati  stilisticamentc;  ad  avvicinarli,  infine,  anche  attraverso  questa 
via,  alle  suggestion!  «popolari»  della  poetica  romantica.  D'altra 
parte,  il  carattere  documentario  delle  memorie,  continuamcnte 
fuso  con  i  sentimenti,  le  convinzioni,  gFideali  dello  scrittore,  questo 
incessante  oscillare  fra  la  letteratura  c  la  cronaca,  tra  il  fatto  e  la  sua 
ricvocazionc  appassionata,  creava  una  forma  narrativa  che  e  un 
tramitc,  assai  piu  che  non  si  pensi,  verso  il  contemporanco  romanzo 
storico  e,  piu  ancora,  verso  la  produzione  successiva  del  verismo, 
Proprio  per  questi  motivi,  ci  sembra  che  i  memorialisti  del  nostro 
Ottocento  premano  sugli  orientamenti  della  nostra  letteratura,  sul 
gusto  e  le  preferenze  del  secolo,  non  meno  di  quanto  abbiano  fatto 


X  INTRODU2IONE 

gli  artisti  maggiori:  dci  quali,  comunque,  divulgano,  su  un  piano 
piu  uinile,  temi  c  ideali,  concezioni  e  scntimenti. 

Esiste,  dunquc,  nclla  produzione  memorialistica  una  evidente 
« nutazionc »  dal  piano  documentario,  cronachistico  o  embrional- 
mentc  storico,  a  qucllo  letterario  e  artistico.  Hntro  questo  ideale 
spazio,  a  volte  Pautore  pone  in  picno  rilievo  gli  event i  di  cui  e  stato 
testimone,  lasciando  nelPomhra  la  sua  persona,  la  cui  presenza  c 
soltanto  implicita  nella  scelta  e>  ancor  piu,  nelle  idee,  nel  eolore, 
nel  sentimento  che  piu  o  meno  circolano  tra  le  pagine  delPopcra: 
una  inclinazione,  percio,  prevalentemente  storiografka.  A  volte, 
invece,  il  centro  delFinteresse  e  autohiografico,  si  che  gli  avveni- 
menti  storici  si  ritirano  nello  sfondo  e  sono  richiamati  solo  in 
quanto  si  intrecciano  aH'esistenza  delPautore,  ne  chiarsscono  k 
opere  e  i  giorni.  Piu  raro  e,  invece,  che  si  incontri  un  inipegno  di 
rklaborazione  fantastica,  su  un  piano  disgiunto  da  ogni  intento 
storiografico.  La  volonta  di  non  tradire  Tesattezza,  mentre  evtta 
ogni  falsijRcazione,  frcna  pero  anche  la  fantasia,  ne  limita  la  liherta. 
Ne  deriva  un  timbro  letterario,  non  artistico:  o  tale  raramente, 
in  moment!  di  Felice  equilibrio,  come  a  volte  succede  in  Ferdinando 
Martini. 

Ma  accanto  a  quegH  scrittori  che  piu  comunemente  si  sogliono 
chiamare  memorialist!,  e  che  traggono  dagli  avvenimenti  naziona- 
li  lo  stimolo  a  scrivere,  ve  ne  sono  altri  in  cui  la  storia  politica 
e  assente,  mentre  e  vivo  e  operoso  il  ricordo  delle  esperienze  e 
battaglie  morali,  delle  correnti  artistiche,  letterarie,  iilosofiehe,  del 
graduate  e  pur  amaro  spegnersi  di  antichi  usi  e  costurni  di  frontc  al 
trionfare  dei  nuovi.  Ne  sorgono  opere  perplesse  fra  im  ithtrra- 
rium  mentis  e  un  itinerarium  cordis:  storiche  anch*esse,  certaniente, 
pcrch6  testimoniano  e  rievocano  la  vita  di  un  tempo:  ma  soprattutto 
letterarie  ed  artistiche,  perch^  assai  spesso  testimonialize  e  rievoca- 
zioni  si  accompagnano,  con  rnaggiore  o  minore  intensita,  alia  com- 
mossa  nostalgia  c  al  rimpianto  di  luoghi  e  di  tempi  e  di  cose  e  di 
uomini  irrevocabilmente  scomparsi:  o,  anche,  ritraggono  situa- 
zioni  immediatamente  presenti,  ma  con  Tansia  e  Tattesa  di  vederlc 
mutare  e  farsi  vicine  a  un  piu  alto  ideate, 

I/Ottocento  ha  avuto  una  ricchissima  abbondanza  di  memorie: 
non  solo  di  quclle  intimamente  legate  al  nostro  risorgere  a  nazione, 
ma  di  quclle  altre  cui  ora  acccnnavamo:  memorie  di  patriotti, 
fra  le  quali  gli  esempi  piu  vivi  sono  dati  dagli  scrittori  garibaidini,  e 


INTRODUZIONE  XI 

memorie  di  ambienti,  come  quelle  del  D'Azeglio  errabondo  pit- 
tore  lungo  la  campagna  romana;  di  usi  e  costumi,  come  e  nella  Cala 
bria  ritratta  dal  Padula;  di  spensierate  esistenze  e  di  pugnaci  batta- 
glie  artistichc,  quali  le  rievoca  Telemaco  Signorini;  di  un  laborioso 
salire  verso  1'arte,  nella  narrazione  del  Dupre;  di  un  cristiano, 
eroico  apostolato,  nclle  fervide  pagine  del  Massaja.  Gli  esempi  po- 
trebbero  essere  numerosissimi,  se  fossero  necessari.  Ma  piu  im- 
porta  aggiungere  che  anche  dalle  memorie  meno  legate  agli  eventi 
risorgimentali  si  delinea  spesso  vivissima,  dinanzi  al  lettore,  Tat- 
mosfera  del  secolo,  il  respiro  e  le  vibrazioni  del  tempo,  di  una  vec- 
ehia  Italia  che  risorge  in  un  suo  alone  favoloso.  £  proprio  questo 
ehe  rende  care  le  tante  memorie  deli'Ottocento:  questa  ricerca 
di  un  tempo  perduto,  Una  ricerca  che  era  gia  nello  scrittore  c  che  si 
rinnova  nel  lettore:  non  gia  rivolta,  come  sara  nel  Novecento,  alle 
proprie  personalissime  e  quasi  incomunicabili  esperienze  di  vita, 
ma  a  quelle  di  un  piu  vasto  mondo,  nei  quale  &  caro  sentirsi  citta- 
dini  cd  attori  e  in  cui  si  iscrivono,  sentendo  che  ne  e  il  naturale 
afondo,  le  proprie  ansie  e  le  proprie  lotte. 

Nella  scelta  di  scritti  per  il  presente  volume,  £  stata  nostra  in- 
tenzione  dare  la  preferenza  a  memorie  legate  alia  storia  politica 
dcirOttocento.  II  volume  successive,  che  e  in  programma,  acco- 
gliera  invece,  in  prevalenza,  memorie  meno  apertamente  ancora- 
te  alle  vicende  del  Risorgimento,  ma  pur  sempre,  come  abbiamo 
detto,  testimonianze  della  vita  del  secolo.  Certo,  ii  confine  tra  le 
une  e  le  altre  resta  assai  incerto,  come  e  sempre  di  cio  che  e  vivo, 
e  non  tollera,  perci6,  schemi  e  classification!.  II  lettore  infatti  non 
trovera,  gia  nel  presente  volume,  una  effettiva  coincidenza  tra  gli 
scrittori  ruccolti  e  il  nostro  intento:  pure,  Tintenzione  vi  e  stata. 

II  Mediterraneo  del  Pananti,  corso  dai  pirati  barbareschi,  ci  e 
sembrato  un  antecedente  significative  dei  risorgimenti  nazionali 
europei,  tutti  animati  da  un  sentimento  di  liberta  e  di  csaltazione 
dei  diritti  deiruomo.  Di  fronte,  1'Inghilterra  vista  e  clescritta  dal 
Pecchio  sembra  contrapporrc  un  escmpio  ideale  di  vivere  civile, 
cui  tante  volte  si  rivolsero  gli  sguardi  degli  Italiani,  e  non  di  essi 
soli.  Su  questo  sfondo  si  svolgono  con  maggior  rilievo  le  memorie  di 
Leonetto  Cipriani,  cosi  animoso  e  irruente,  cosi  inconsapevolmentc 
garibaldino  pur  nella  sua  infatuazione  monarchica:  dalla  presa  di 
Algcri  agli  invisi  contatti  con  i  mazziniani,  dalla  rievocazione  avven- 
turosa  del  '48  all'insurrezione  popolare  di  Livorno,  dalle  esperienze 


XII  INTRODUZIONE 

<T America  alia  sdegnosa  solitudine  dinanzi  a  un'Italia  che  egli  piu 
non  comprendeva:  una  serie  di  quadri  attraverso  i  quali  tornano 
tanti  aspetti  del  Risorgimento,  affettuosamente  o  polemicamente 
rivissuti. 

La  vita  di  Milano  prima  delle  Cinque  giornate  riappare  estro- 
samente  e  bizzarramente  descritta  nelle  pagine,  pur  assai  posterio 
ri,  del  Ghislanzoni:  e  ci  sembra  possano  dar  rilievo,  anche  nella 
loro  anacronistica  collocazione,  alia  Milano  patriottica  ed  eroica 
di  Giovanni  Visconti  Venosta,  piano  e  commosso  narratore  degli 
eroismi  e  della  resistenza  tenace  della  sua  citta.  Firenze  gran- 
ducale,  la  sua  liberazione,  la  fierezza  e  i  disagi  del  suo  divenir  ca- 
pitale,  i  primi  tempi  di  Roma  italiana,  1'impacciato  awiarsi  della 
vita  del  giovane  regno  si  specchiano  nelle  pagine  di  Ugo  Pesci, 
cosi  cronachisticamente  minute,  ma  proprio  per  questo  efficacis- 
sime  nel  ritrarre  ambienti  e  situazioni.  Certo,  Tango lo  visuale  da 
cui  e  guardato  il  Risorgimento,  tanto  nel  Pesci  come  negli  altri 
autori,  e  unilaterale:  un  Risorgimento  totalmente  incarnato  nella 
monarchia  piemontese,  in  cui  le  correnti  mazziniane  sembra- 
no  soltanto  un  impedimento  e  un  danno,  e  i  problemi  sociali, 
che  pure  gia  si  imponevano,  sono  assenti.  Soprattutto  per  que 
sto,  a  tacere  di  particolari  deformazioni,  gli  storici  hanno  trova- 
to  molto  a  ridire  su  queste  rievocazioni  del  nostro  Otto  cento 
politico.  Ma,  comunque,  esse  corrispondono  al  panorama  che 
del  Risorgimento  tracci6  una  non  piccola  parte  della  letteratu- 
ra:  e  perci6  questa  rievocazione  andra  integrata  con  altre  voci, 
ma  non  respinta :  voci  che  sono  gia  in  programma  per  altri  volumi 
di  questa  stessa  collezione.  Pure,  a  correggere  in  parte  il  quadro 
deiritalia  ufficiale  e  monarchica,  concorrono,  anche  nel  presente 
volume,  gli  stessi  insistenti  spunti  polemici  del  Cipriani  e  del  Pesci, 
e  soprattutto  le  pagine  di  Ettore  Socci,  garibaldino  dei  Vosgi  e  fiero 
repubblicano.  Gli  ultimi  due  scrittori,  Barboni  e  Martini,  rappre- 
sentano  gia  un  ripensamento  a  distanza  dell'eta  risorgimentale : 
il  primo  con  un  suo  timbro  retorico  da  celebrazioni  ufficiali,  esem- 
pio  di  infinite  opere  scritte  nella  stessa  chiave;  il  secondo,  nella  sua 
scaltrita  e  aristocratica  compostezza,  con  una  felice  mescolanza 
di  sorridente  ironizzazione  e  di  commosso  rimpianto. 

Stanno,  infine,  a  parte,  anche  se  inseriti  tra  le  memorie  risorgi- 
mentali,  il  Massaja  e  il  Casati,  che  testimoniano,  sotto  due  diversi 
aspetti,  1' opera  svolta  dall'Italia  in  Africa:  e  trovano  un  loro  com- 


INTRODUZIONE  XIII 

pletamento  nella  scelta  che  abbiamo  dato  dal  libro  NelVAffrica 
italiana  del  Martini.  II  Massaja,  fra  Paltro,  pone  in  rilievo  quello 
spirito  di  apostolato  cattolico  che  si  diffuse  dall'Italia  anche  nel- 
rOttocento,  e  sottolinea,  cosi,  un  aspetto  non  secondario  della 
nostra  civilta,  che,  pur  nell'insistente  anticlericalismo  del  Risorgi- 
mento,  indispensabile  a  raggiungere  Tunita  politica,  conserve  sem- 
pre  la  sua  tradizionale  fede  religiosa  e  se  ne  fece  propagatrice.  II 
Casati,  invece,  ricorda  quale  intensa  partecipazione  diedero  gPIta- 
liani  alle  esplorazioni  geografiche  delP  Africa,  alia  creazione  di  con- 
tatti  ed  accordi  con  i  suoi  popoli :  e  con  quante  soff erenze  e  vittime 
pagarono  questa  opera. 

Rivisti  a  distanza,  questi  autori,  pur  nei  loro  diversi  atteggia- 
menti,  hanno  tutti,  se  si  eccettuino,  per  evident!  ragioni,  il  Pa- 
nanti  e  il  Massaja,  un'aria  di  famiglia:  vivono  di  ideali  comuni, 
la  patria,  la  liberta,  1'attesa  di  un  mondo  migliore,  il  culto  del- 
Peroismo,  delle  glorie  passate,  1'entusiastica  offerta  della  propria 
vita  per  questi  ideali.  L'atmosfera  di  un  mondo  che  a  volte  pu6 
sembrare  ingenuo  e  troppo  giovanilmente  fiducioso  e  convinto, 
ma  che  e  fondamentalmente  onesto  e  inconsapevolmente  eroico. 

Questi  nostri  memorialisti  non  hanno  tale  rilievo  da  apparire 
veramente  significativi  nello  svolgimento  della  nostra  letteratura. 
Unica  eccezione,  Ferdinando  Martini,  le  cui  pagine  hanno  un 
taglio  inconfondibile.  Ma  gli  altri,  piu  o  meno,  si  muovono  tutti 
inuna  sfera  modesta:  restano  lontani  da  ogni  diretto  influsso  let- 
terario,  non  curano  ne  sorvegliano  le  loro  espressioni,  adoperano 
la  lingua  comune  al  secolo,  senza  imprimervi  un  suggello  vera 
mente  personale.  Piu  che  dai  libri  di  altri  scrittori,  sembra  che 
abbiano  attinto  le  loro  forme  dal  dialogo  con  i  contemporanei, 
dai  modi  della  lingua  parlata,  assai  piu  che  scritta.  Se  si  pensi  alia 
prosa  di  un  Mazzini,  di  un  Gioberti,  di  un  Nievo,  di  un  Tom- 
maseo,  dello  stesso  Manzoni,  a  quel  loro  scrivere  cosi  ricco  di  in- 
flussi,  scaltrito  e  lavorato  anche  quando  mira  alia  semplicita,  su- 
bito  i  nostri  memorialisti  si  isolano  in  una  sfera  di  elementarita 
stilistica.  II  Pananti,  ad  esempio,  richiama  certo  ad  una  tradizione 
classicheggiante  toscana,  ma  con  innesti  di  certa  agilita  di  origine 
largamente  illuministica,  su  cui  hanno  indubbiamente  influito 
esempi  francesi  ed  inglesi;  e  il  Pecchio  risente  di  esperienze  lom- 
barde,  dal  «  Caffe »  al  « Conciliatore »,  di  moduli  barettiani  e,  piu 
ancora,  di  una  certa  scioltezza  e  incuria  letteraria  venutagli  dalle 


XIV  INTRODUZIONE 

letture  di  economisti.  Ma,  specie  per  il  Pecchio,  si  ha  rimpres- 
sione  che  gli  influssi  letterari  siano  giunti  indirettamente,  attra- 
verso  il  timbro  della  lingua  comunemente  parlata.  Un'osserva- 
zione  che  diviene  ancor  piu  indubbia,  e  decisamente  esemplare, 
quando  si  ripensi  alle  pagine  del  Cipriani,  che  scrive  senza  alcuna 
istituzione  letteraria,  senza  altra  cultura  se  non  quella  venutagli 
dal  vivere  stesso  e  dal  parlare  e  sentir  parlare,  in  giro  per  il  mondo, 
da  toscani,  da  francesi,  da  italiani  d'America,  da  gente  d'ogni  li- 
vello,  in  un  confluire  di  mille  rivoli  imprecisabili.  Certo,  nessuno 
vorrebbe  negare  che  il  Visconti  Venosta  abbia  subito  1'influsso  del 
Manzoni  e  che  di  tale  influsso  sia  traccia  nelle  pagine  del  Pesci, 
e  ancora  ne  risentano  il  Barboni  e  il  Martini,  sebbene  nel  primo 
appaiano  piu  ford,  se  mai,  le  suggestion!  carducciane,  e  nel  se- 
condo  lo  stile  raggiunga  un  suo  timbro  complesso  e  vigoroso. 
Ma  questi  influssi  manzoniani,  in  sostanza,  a  che  si  riducono,  nel 
Visconti  e  nel  Pesci,  se  non  a  uno  scrivere  piano  e  semplice,  cioe, 
in  conclusione,  a  quei  modi  stilisticamente  piu  popolari,  meno  lette- 
rariamente  filtrati,  che  la  poetica  romantica  aveva  caldeggiato  e  dif- 
fuso?  Ne  il  Massaja  ne"  il  Casati,  cosi  evidentemente  lontani  da 
ogni  istituzione  letteraria,  tendono,  nelle  loro  memorie,  ad  altra 
forma  espressiva  che  gli  autori  or  ora  ricordati.  E  percio  il  manzo- 
nismo  di  cui  dicevamo,  si  dissolve,  ad  un'attenta  osservazione,  in  un 
orientamento  comune  al  secolo  e  in  parte  anteriore  alPepoca  del 
Manzoni.  Lo  stesso  Socci,  che  pur  accoglie,  nella  sua  prosa,  into- 
nazioni  stilisticamente  romantiche  accanto  a  modi  gia  simpatica- 
mente  veristici,  si  serve,  in  effetti,  di  una  prosa  che  e  essenzial- 
mente  modellata  su  una  forma  media  di  lingua  parlata. 

Ma  questo  restar  lontani  da  ogni  suggestione  letteraria,  scrivere 
senza  preoccupazioni  ne"  di  lingua  ne  di  stile,  ha,  anzitutto,  un  in- 
teresse  storico  non  trascurabile.  Vogliamo  dire  che  questi  nostri 
memorialisti  rispecchiano  piu  immediatamente,  che  non  gli  scrit- 
tori  letterati  e  gli  artisti,  il  linguaggio  del  loro  tempo,  e  realizzano, 
in  tal  modo,  un  piano  linguistico,  stilistico,  di  origine  meno  dotta, 
ma  tale  da  raccogliere,  in  una  espressione  piu  unitaria  e  piu  facil- 
mente  attingibile,  gli  uomini  di  media  cultura  deU'intera  penisola. 
Una  delle  tante  vie,  perci6,  attraverso  cui  si  accelerava  Tunifica- 
zione  nazionale  e  si  ponevano  le  basi  perche  una  sempre  piu  ampia 
collaborazione  giovasse  al  diffondersi  di  convinzioni  e  ideali  co- 
muni.  A  questo  pregio  storico  si  aggiunge,  per  noi,  anche  Paf- 


INTRODUZIONE  XV 

fettuoso  interesse  con  cui  ci  e  caro  sentir  narrare  dalla  loro  voce  gli 
awenimenti  di  cui  furono  testimoni  ed  attori,  rileggere  fra  quante 
lotte,  speranze,  delusioni,  gioie  e  amarezze  essi  trasformarono  in 
realta  il  loro  limgo  sogno  di  liberta  e  indipendenza:  ripercorrere, 
cioe,  attraverso  le  loro  pagine,  il  duro  lavoro  del  Risorgimento, 
di  cui,  anche  se  a  volte  immemori,  siamo  i  fortunati  eredi. 

Ma  al  di  la  di  questi  motivi  storici  e  nazionali,  e  delle  meditazioni 
e  degli  ammonimenti  che  ne  derivano,  i  nostri  memorialisti  hanno 
un  loro  fascino  poetico.  Contenuto,  lingua,  stile  appaiono  a  volte 
elementi  esteriori,  tali  da  fermare  1'attenzione  solo  in  una  ricerca 
anatomica  delle  loro  pagine:  il  lettore,  invece,  trascura  spesso  questi 
elementi,  trascinato  dalla  vita  che  circola  nei  loro  ricordi,  dalPaf- 
fetto  e  dalla  nostalgia  e  dal  rimpianto  che  li  anima;  specie  quando 
lo  scrittore  dimentica  se  stesso  e  le  sue  intenzioni  patriottiche  e 
politiche  e  si  abbandona  a  un  caro,  disinteressato  rimembrare. 
L'efficacia  e  tanto  maggiore  in  quanto  non  e  cercata  ne  voluta,  nasce 
dalPintimo:  allora  lingua  e  stile,  pur  semplici  e  comuni,  acqui- 
stano  una  loro  nobilta,  che  sempre,  sebbene  per  breve  durata,  sale 
verso  la  sfera  della  poesia.  Come  awiene,  ad  esempio,  in  alcune 
pagine  del  Cipriani  sui  volontari  del  '48,  sulla  sua  missione  a  Li- 
vorno,  sulle  faticose  carovane  che  egli  guida  in  America;  nelle  Cin 
que  giornate  descritte  dal  Visconti  Venosta ;  nei  ricordi  della  vecchia 
Firenze  di  Ugo  Pesci ;  nella  tentata  fuga  del  Socci  dal  porto  di  Li- 
vorno.  Un  fascino  che  diventa  evidente,  quando  si  tratti  del  Mar 
tini,  nelle  nitide  stampe  che  egli  disegna  della  Firenze  granducale, 
nei  suo  commosso,  e  pur  composto,  ricordo  della  morte  del  Maz- 
zini.  In  verita,  la  poesia  mostra  il  suo  caro  viso,  senza  che  lo  scrittore 
lo  sappia  e  lo  voglia,  tutte  le  volte  che  la  vita  spirituale  si  fa  fervida 
e  nobilmente  disinteressata. 

CARMELO  CAPPUCCIO 


Di  quasi  nessuno  degli  scrittori  che  figurano  nella  presente  scelta  era 
stato  mai  eseguito  un  commento.  Nell'annotare  il  testo  abbiamo  perci6 
dovuto,  in  molti  luoghi,  chiarire  accenni  e  dar  notizia  di  uomini  ed  awe 
nimenti  che  appartengono  alia  cronaca,  assai  piii  che  alia  storia  del  Risor 
gimento.  Ci6  valga  a  scusare  eventuali  sviste  e  lacune  che  il  lettore  possa 
trovare  nelle  nostre  note.  Per  alcuni  autori,  inoltre,  e  stato  particolarmente 
difficile  rintracciare  notizie  biografiche  e  materiale  bibliografico  che  vera- 


XVI  INTRODUZIONE 

mente  giovassero  a  stenderne  un  profile  non  poggiato  unicamente  sulla 
loro  produzione.  Anche  questo  valga  a  giustificare  Finsoddisfazione  che 
potra  destare  qualche  parte  del  nostro  lavoro. 

Perch6  il  volume  non  divenisse  troppo  ampio,  abbiamo  limitato  il  com- 
mento  al  minimo  indispensabile,  e  in  genere  abbiamo  evitato  di  ripetere  nel 
corso  dell'opera  le  note  gia  poste  a  brani  precedenti:  ma  si  sono  eseguiti  i 
necessari  rinvii  fin  dove  si  e  potuto.  Le  notizie  bibliografiche  sono  poste 
in  fondo  ad  ogni  Profilo  biografico. 

Dei  testi  adoperati  da  notizia  la  nota  posta  in  fondo  al  volume.  Nel  ri- 
produrli  abbiamo  conservato,  piu  che  fosse  possibile,  la  grafia  in  essi  usata. 
Qualche  discrete  intervento  si  e  invece  talvolta  compiuto  sull'interpunzione. 

Aggiungiamo  infine  che  ci  e  sembrato  opportune  accogliere  in  questo 
secondo  tomo  una  scelta  delle  memorie  di  Ettore  Socci,  sebbene  degli  scrit- 
tori  garibaldini  abbia  gi£  dato  una  felice  antologia  Gaetano  Trombatore 
nel  primo  tomo  dei  MemorialistidelVOttocento.  Le  pagine  degli  scrittori  ga 
ribaldini  piu  noti  si  presentano,  in  genere,  al  lettore,  come  rievocazioni  e 
commemorazioni  di  un'eta  gloriosa  ormai  tramontata,  mentre  il  volume  del 
Socci  nasce  da  una  immediata  contemporaneity  con  1'impresa  dei  Vosgi 
ed  e  dominato  da  una  decisa  polemica  contro  gli  orientamenti  monarchici 
e  conservatori  della  nuova  Italia.  Sottolinea,  perci6,  il  perdurare  del  gari- 
baldinismo  oltre  1'occupazione  di  Roma,  la  sua  attiva  presenza  nella  vita 
italiana,  le  istanze  internazionali  del  suo  credo  democratico:  lieviti  evi- 
denti  della  successiva  storia  d' Italia.  Ne,  d'altra  parte,  le  pagine  del  Socci 
mancano,  anche  letterariamente,  di  qualita  positive. 

Non  dispiacera,  quindi,  al  lettore  la  presenza,  in  questo  secondo  tomo, 
di  un  ultimo  scrittore  garibaldino. 


FILIPPO  PANANTI 


PROFILO  BIOGRAFICO 

FILIPPO  PANANTI  nacque  a  Ronta,  nel  Mugello,  il  19  marzo  del 
1766.  Mortogli  il  padre,  Giuseppe,  quando  era  ancora  fanciullo 
(1768),  si  occup6  della  sua  prima  educazione  lo  zio  materno  Angio- 
lo  Gatti  (morto  nel  1798),  che  fu  medico,  e  professore  di  medicina  a 
Pisa  (1750-1778):  un  uomo  allora  molto  stimato,  che  fece  lunghi 
viaggi  e  fu  vivacissimo  sostenitore  della  inoculazione  del  vaiolo. 
Dal  1777  al  1785  Filippo  stette  in  collegio,  nel  seminario  vescovile 
di  Pistoia,  dove  lo  zio  lo  aveva  posto  con  1'intenzione  di  fame  un 
prete.  Ma  il  giovinetto,  invaghitosi,  se  pur  la  notizia  e  vera,  di  una 
cantante,  si  accorse  in  tempo  di  non  avere  nessuna  vocazione  per  il 
sacerdozio:  lasciato  allora  il  collegio  e  presto  abbandonato  dal- 
Famante,  si  trasferi  a  Pisa,  a  studiarvi  giurisprudenza,  sia  pure  di 
malavoglia,  e  vi  si  laureo  nel  1789. 

Non  si  sa  bene  che  facesse  negli  anni  immediatamente  successivi, 
ma  certo  egli  si  volse  fin  da  allora  alia  poesia,  che  sono  gia  di  quel 
tempo  alcuni  suoi  epigrammi  e  un  poemetto  didascalico,  II  pare- 
taio  (1798),  dove  agli  insegnamenti  del  cacciatore  si  inframezzano 
allusioni  e  motti  salaci,  secondo  una  tendenza  che  gli  fu  poi  sempre 
caratteristica.  Nel  1798  e  nelPanno  successive  fu  spesso  a  Firenze, 
partecip6  a  banchetti  repubblicani,  caldeggio  Pistituzione  della 
guardia  nazionale,  scrisse  articoli  sul  «Monitore  fiorentino  »,  pro- 
nunzio  brindisi  e  discorsi:  si  che,  ritiratisi  momentaneamente  i 
Francesi  nel  '99,  gli  parve  prudente  partire  da  Firenze  (fine  giu- 
gno  o  primi  di  luglio  del  1799)  e  rifugiarsi  in  Francia:  n6  vide  male, 
perche  il  restaurato  governo  del  granduca  gli  confisco  allora  i  beni, 
come  a  giacobino.  Ma  se  furono  gli  eventi  politici  a  costringerlo  a 
esulare,  pure  dettero  1'awio  a  quella  passione  per  i  viaggi  che  egli 
aveva  gia  nell'animo  e  gli  dur6  per  molti  anni.  In  Francia  fu  inse- 
gnante  d'italiano,  dal  1799  al  1802,  nel  collegio  di  Soreze,  allora 
famoso,  ma  interca!6  alle  sue  occupazioni  professorali  un  viaggio 
in  Spagna,  reso  amaro,  pare,  da  un  assalto  di  briganti,  che  lo  spo- 
gliarono  di  tutto,  e  pur  colorito  dallo  spettacolo  dei  Pirenei,  di  cui 
sorpass6  nelPottobre  del  1801  le  piii  alte  cime.  Lasciato  il  collegio 
di  Soreze,  il  Pananti  era  gia  a  Londra  nel  1803  e  vi  rimase  fino  al 
1813.  Un  periodo,  questo,  di  grande  attivita,  nella  sua  vita:  si 
occup6  di  speculazioni  commerciali,  insegn6  la  lingua  italiana  a 


4  FILIPPO    PANANTI 

nobili  giovanetti  e  a  illustri  personaggi,  divenne  poeta  del  Teatro 
regio  italiano,  che  metteva  in  scena  opere  musical!,  fondo  nel 
1813,  con  altri  italiani  di  Londra,  un  giornale  politico  letterario, 
«L'Italico»,  e,  a  quanto  egli  narra,  trasse  da  tutta  questa  attivita 
una  discreta  ricchezza.  Pure,  bisogna  riconoscere  che  sappiamo 
ben  poco  di  preciso  su  questi  anni  di  vita  londinese,  e  special- 
mente  della  sua  attivita  teatrale;  che  accurate  ricerche  e  lunghe 
discussioni  di  studiosi  non  sono  riuscite  a  stabilire  se  egli  abbia 
effettivamente  composto  lavori  per  le  scene,  ne  resta  altra  traccia, 
se  non  il  titolo,  di  una  sua  commedia,  Gli  amanti  rivali,  che  gli 
viene  attribuita,  in  un'antica  biografia,  dal  Ciampolini.  Ma  certa- 
mente  in  quegli  anni  apparvero  per  la  prima  volta  alle  stampe  le 
sue  maggiori  composizioni  poetiche,  da  aggiungere  alle  poche  gia 
pubblicate  negli  anni  precedent!.  Numerosi  gli  epigrammi,  in  gran 
parte  editi  nell'cc  Italico  »,  insieme  con  varie  odi  e  canzoni  e  saggi 
di  vario  argomento ;  ma  soprattutto  notevole,  perche  ad  esso  e  affi- 
data  la  sua  fama,  Pampio  poema  in  sestine,  II  poeta  di  teatro, 
che  apparve  primieramente  a  Londra  nel  1808,  e  al  quale  il  poeta 
rivolse  le  sue  cure,  correggendo  e  mutando,  fmo  agli  ultimi  anni 
della  sua  vita. 

Stanco  forse  della  dimora  a  Londra  e  desideroso  di  impiegare 
in  Italia,  con  Pacquisto  di  terre,  il  denaro  che  in  quegli  anni  fortu- 
nati  era  riuscito  a  raccogliere,  e  anche  con  1'intenzione  di  effettua- 
re  success! vamente  un  viaggio  nelle  region!  oriental!  del  Mediter- 
raneo,  il  Pananti  nel  settembre  del  1813  si  imbarcb  a  Londra  su  un 
brigantino  siciliano,  VEroe,  portando  con  se  molt!  suoi  manoscritti 
e  gran  parte  del  capitale  accumulato  in  Inghilterra.  II  brigantino, 
contro  i  patti  conclusi  col  capitano,  anziche"  appoggiarsi  a  un  convo- 
glio  di  navi  inglesi,  percorse  i  mari  isolate,  con  temeraria  baldanza, 
e  fu  perci6  facile  preda  di  una  nave  corsara,  che  trascind  schiavi  ad 
Algeri  il  Pananti,  i  suoi  compagni  di  viaggio  e  la  ciurma,  depredan- 
doli  di  tutto  il  bagaglio :  ed  era  sventura  allora  frequente  nel  Medi- 
terraneo,  continuamente  battuto  dai  corsari  di  Tunis!  e  di  Algeri, 
staterelli  ferocemente  rival!  fra  loro  ma  ugualmente  dediti  alia  bar- 
bara  attivita  di  pirati.  II  povero  poeta,  perduti  denaro  e  manoscritti, 
giunse  schiavo  atterrito  ad  Algeri,  con  la  prospettiva  di  uno  scia- 
gurato  awenire,  e  fu  soltanto  per  il  generoso  intervento  del  console 
inglese  che  pote  esser  subito  sottratto  alia  sorte  riservata  ai  suoi 
compagni  di  sventura.  Libero,  sembra  che  abbia  potut.o  visitare, 


PROFILO   BIOGRAFICO  5 

almeno  in  parte,  le  terre  delP  Africa  settentrionale,  escluso  1'Egitto, 
che  allora  si  indicavano  col  nome  complessivo  di  Barberia:  cosl 
sembra  dai  suoi  scritti,  se  pure  le  notizie  che  egli  ci  da  non  sono 
ricavate  di  seconda  mano  dai  molti  viaggiatori  che  gia  avevano 
descritto  le  regioni  africane.  Al  principio  del  gennaio  1814  il 
Pananti  approdava  finalmente  in  Sicilia,  senza  piu  denaro  ne 
manoscritti,  ma  tornato  libero  e  padrone  di  se.  Si  trattenne  a  Pa 
lermo  quasi  sei  mesi  e,  a  quel  che  egli  scrive  in  una  lettera  (n.  60, 
delPedizione  Andreani),  vi  fu  «  estensore  della  gazzetta  ministeriale 
del  governo  d'allora».  Subito  dopo  torno  in  Toscana  e  visse  il 
resto  dei  suoi  anni  quasi  sempre  a  Firenze,  se  si  eccettua  un  viaggio 
che  egli  compi  nel  1819  a  Londra  e  in  Germania  e  del  quale  sono 
testimonianza  alcune  sue  lettere.  Mori  a  Firenze  il  14  settem- 
bre  1837  e  fu  sepolto  in  Santa  Croce,  dove  dieci  anni  dopo  gli  fu 
eretto  un  monumento  con  una  iscrizione  di  G.  B.  Niccolini. 

Nel  1828  il  Pananti  aveva  presentato  alia  Crusca,  per  parteci- 
pare  al  concorso  quinquennale  indetto  dalPAccademia,  le  sue  Opere 
in  versi  e  in  prosa,  da  lui  stesso  raccolte  e  stampate  in  Firenze  nel 
1824-1825.  Era  quello  stesso  concorso  cui,  come  e  noto,  parte- 
cip6  il  Leopardi  con  le  Operette  morali,  e  nel  quale  fu  invece 
premiato  Carlo  Botta,  II  relatore,  G.  B.  Zannoni,  nel  «rapporto» 
conclusivo  da  lui  letto  nelPadunanza  del  9  febbraio  1830,  disse 
parole  di  elogio  per  gli  scritti  del  Pananti,  sebbene  non  tacesse  i 
biasimi  e  le  censure  espresse  da  alcuni  degli  accademici,  dei  quali 
peraltro  tacque  i  nomi.  I  volumi  presentati  al  concorso  contenevano, 
in  sostanza,  la  parte  essenziale  della  produzione  che  ci  ha  lasciato 
il  Pananti.  Anzitutto,  una  vasta  scelta  dei  suoi  epigrammi.  Si  puo 
dire  che  egli  e  rimasto  a  lungo  famoso  soprattutto  come  epigram- 
mista,  e  che  era  questa  la  sua  vena  principale :  in  quasi  tutti  i  suoi 
scritti,  anche  nei  poemetti  e  nelle  prose,  spunta  spesso  il  brio, 
il  gioco  verbale,  il  motto  scherzoso,  Taneddoto  arguto:  ed  e  fre- 
quente  anche  Pallusione  licenziosa.  Tra  i  tanti  epigrammi  che  com 
pose,  ve  n'e  infatti  un  buon  numero  di  osceni,  apparsi  in  edizioni 
subito  vietate  e  perseguite  dai  vari  governi,  e  divenute  per  questo 
ormai  quasi  introvabili.  I  molti  comunque  da  lui  stesso  riuniti,  e  che 
hanno  continuato  a  circolare  in  successive  raccolte,  sembrano  meri- 
tare,  accanto  alle  lodi,  anche  le  due  principali  accuse  che  gia  aveva 
espresso  qualche  accademico  della  Crusca,  di  prolissita  e  di  scarsa 
originalita.  Prolissi,  e  perci6  senza  nervo,  sono  certamente  moltis- 


6  FILIPPO   PANANTI 

simi,  ma  non  tutti.  In  quanto  all'accusa  che  egli  abbia  attinto 
da  varie  fonti  i  suoi  scritti,  si  potrebbe  ripetere  quanto  osserv6 
argutamente  il  Pancrazi,  che  «  gli  epigrammi  e  le  facezie  sono  ogni 
volta  di  chi  li  dice  meglio».  E  percio  un  buon  numero  di  quelli 
del  Pananti  avrebbero  ancora  diritto  ad  essere  letti  e  ammirati. 
Accanto  agli  epigrammi,  si  presentavano  al  concorso  due  poemetti 
didascalici  in  sestine,  La  civetta  e  //  paretaio,  che  gia  apparsi  in 
prima  edizione  rispettivamente  nel  1799  e  nel  1803,  ora  il  poeta 
aveva  rielaborato,  piuttosto  che  ristampato.  L'avvio,  in  entrambi,  e 
dato  dalParte  e  dalla  passione  della  caccia,  ma  gli  insegnamenti 
scivolano  continuamente  in  sapide  allusioni  alle  donne  e  alle  reti 
amorose,  dando  luogo  addirittura  a  novellette  galanti,  con  briose 
figurine  da  commedia.  II  che  accade  anche  nelPampia  composi- 
zione  di  centonove  canti  in  sestine,  II  poeta  di  teatro,  che  il  Pa 
nanti  stesso  non  sapeva  se  chiamare  romanzo  o  poema,  tanto  aveva 
«un  po*  dell'uno  e  un  po'  deiraltro)).  Che  II  poeta  di  teatro  con- 
tenga  moltissimi  elementi  autobiografici,  non  vi  e  dubbio:  ma 
quanti  di  essi  siano  stati  romanzescamente  travestiti,  e  fino  a  che 
punto,  non  e  facile  stabilire.  Anche  questo  poema,  che  gli  fu  parti- 
colarmente  caro  e  che,  come  abbiamo  gia  detto,  rielabor6  a  lungo 
durante  tutta  la  vita,  pecca  di  prolissita;  disperde  i  suoi  pregi  in 
sovrabbondanze  verbose:  ma,  come  i  poemetti,  ha  parti  vive,  an 
che  se  non  sapremmo  vedervi  quei  «  quadri  fiamminghi »  di  cui  lo 
elogi6  nella  sua  relazione  lo  Zannoni,  trascrivendo,  peraltro,  il 
«  rapporto »  presentatogli  da  G.  B.  Niccolini,  che  era  uno  degli  ac- 
cademici  della  Crusca.  Comunque,  a  parte  i  pregi  di  briosita  e  le 
figurine  rapidamente  sbozzate,  resta  al  Pananti  un  merito  non 
trascurabile :  di  essere  stato  1'immediato  ed  efficace  predecessore 
della  poesia  giocosa  sorta  in  Toscana  nell'Ottocento,  e  di  averle 
preparato  alcuni  temi  e  atteggiamenti,  anche  se,  ripetiamo  col 
Pancrazi,  «il  meglio  del  Pananti  and6  al  Giusti,  il  peggio  fini  nel 
Guadagnoli ». 

Nei  volumi  presentati  alia  Crusca  figuravano  anche  poesie  varie, 
quasi  tutte  di  scarso  valore,  e  molte  prose,  spesso  su  temi  bizzarri, 
come  //  riso,  II  rossetto,  La  consunzione,  Chi  piii  ama,  Vuomo  o  la 
donna?,  I  valetudinari.  Bizzarri  gli  argomenti,  ma  fiacca  la  tratta- 
zione.  Si  potrebbe  concludere  che  il  Pananti  fu  poco  felice  prosa- 
tore,  e  che  solo  la  sua  poesia  ha  ancora  diritto  alia  nostra  attenzione. 
Ma  tra  le  prose  &  anche  il  suo  Viaggio  in  Algeri:  ed  esso  merita 


PROFILO   BIOGRAFICO  7 

piu  attento  giudizio,  anche  perche  del  Pananti  giocoso  dovrebbe 
dare  una  scelta  il  II  tomo  dei  Poeti  minor i  delV  Ottocento  della  pre- 
sente  collezione,  mentre  tocca  proprio  a  noi  presentare  un  saggio 
del  Viaggio  in  Algeri. 

Tomato  in  patria  nel  1814,  dopo  la  cattura  algerina  e  la  fortu- 
nata  liberazione,  il  Pananti  pubblico  sull'«  Italico  »  (1814)  di  Lon- 
dra  un  articolo  intitolato  /  quattro  piii  orribili  mesi  della  mia  vita; 
quasi  preludio  di  quella  piu  distesa  narrazione  die  apparve  primie- 
ramente  a  Firenze  nel  1817  col  titolo  Avventure  e  osservazioni  sopra 
le  coste  di  Earberia.  L'opera  ebbe  poi  varie  altre  edizioni  e  fu  anche 
tradotta  in  inglese,  in  tedesco  e  in  francese.  Ma  i  rifacimenti  die 
ne  esegui  lo  stesso  Pananti,  per  esempio  nella  gia  ricordata  edi- 
zione  fiorentina  da  lui  presentata  alia  Crusca,  mutarono  profonda- 
mente  la  primitiva  stesura,  tagliando  e  riducendo  proprio  le  parti 
die  erano,  certo,  meno  curate  letterariamente,  ma  assai  piu  vive  e 
immediate.  Tanto  die  a  noi  e  sembrato  preferibile,  senza  dubbio, 
tornare,  sostanzialm&ite,  alia  redazione  originale.  In  essa  Popera  e 
divisa  in  due  parti:  dapprima  vi  e  il  racconto  della  navigazione,  del- 
1'apparizione  dei  corsari,  delParrembaggio,  della  schiavitu  e  della 
liberazione  in  Algeri;  segue  poi  la  descrizione  dei  paesi,  delle  popo- 
lazioni,  dei  costumi,  delle  flore  e  delle  faune  di  tutte  le  coste  di 
Barberia.  Le  pagine  piu  vive  sono  senza  dubbio  nella  prima  parte; 
la  seconda,  invece,  ha  spesso  Faspetto  di  una  compilazione  su  opere 
altrui:  e  di  questo  e  stata  molte  volte  accusata.  Ne,  d'altro  canto,  le 
osservazioni  sulla  regione  hanno  carattere  di  memorie:  bensi  di 
relazione  geografica.  Vi  e  anche  da  aggiungere  die  nelle  prime  edi 
zioni  il  racconto  era  fornito  di  copiosissime  note,  cosl  ricche  di 
sfoghi  autobiografici  e  talmente  diffuse,  da  costituire  esse  stesse 
un  nuovo  libro:  note  che,  invece,  il  Pananti  soppresse  nei  rifaci 
menti  e,  in  particolare,  nella  edizione  presentata  alia  Crusca.  Chi 
legga  per  intero  queste  avventure,  di  cui  abbiamo  dato  solo  alcune 
pagine,  resta  a  volte  sconcertato  dalla  verbosita  dello  scrittore,  dal 
suo  frequente  inerpicarsi  verso  ostentazioni  letterarie,  dal  suo  uso 
eccessivo  di  citazioni  poetiche,  dalFaffollarsi  di  aneddoti,  e  anche 
da  una  certa  incuria  nelPinterpunzione  e  nelPortografia,  che  sara 
stata  in  parte  del  tipografo,  ma  anche  dello  stesso  Pananti.  Pure,  vi 
sono  pagine  efficaci:  il  terrore  dei  passeggeri,  le  balordaggini  del 
capitano,  le  figure  tra  feroci  e  umane  dei  pirati,  il  rais  dei  corsari, 
la  barbaric  algerina,  la  pietosa  situazione  degli  schiavi  spiccano 


8  FILIPPO    PANANTI 

vivissimi  nel  racconto,  rinnovano  dinanzi  agli  occhi  coloritissime 
scene.  Sara  forse  eccessivo  dire,  come  fa  il  Pancrazi,  che  il  racconto 
del  Pananti  «  sta  tra  le  piu  belle  awenture  della  nostra  letteratura  ». 
Abbiamo,  in  tutti  i  secoli,  ben  piu  ammirevoli  pagine  da  preferirgli: 
ma  non  e  neppur  detto  che  le  maggiori  montagne  debbano  far 
dimenticare  le  colline,  che  hanno  anch'esse  una  loro  bellezza  e  un 
proprio  significato.  Ne  credo  abbia  poco  interesse  per  il  lettore  mo- 
derno  il  vivo  qxiadro  che  ci  ha  lasciato  il  Pananti  della  situazione 
dolorosa  in  cui  si  trovava  il  Mediterraneo  un  secolo  fa,  battuto  da 
navi  corsare,  e  della  presenza  sulle  coste  africane,  a  poche  miglia  dal 
rriondo  civile,  di  un'atroce  barbaric  a  cui  gli  Stati  europei  solo  tardi 
si  decisero  a  porre  fine.  Le  Avventure  del  Pananti  si  chiudono  con 
un  caldo  appello  ai  popoli  europei  perche  bandissero  una  crociata 
contro  le  infamie  della  schiavitu:  un  appello  che  si  unisce  ai  tanti 
di  cui  si  onorarono  allora  tutte  le  letterature,  e  che  merita  anch'esso 
il  nostro  ricordo,  per  evident!  ragioni  morali.  Pure,  noi  ci  siamo 
limitati,  nella  nostra  scelta,  alia  prima  parte,  quella  che  veramente 
merita  il  nome  di  Avventure:  anche  perche  essa  e,  letterariamente, 
la  piu  viva. 


Per  le  opere  del  Pananti  citiamo  due  edizioni,  che  possono  considerarsi 
fondamentali :  Opere  in  versi  e  in  prosa,  Firenze,  Piatti,  1824-1825,  in 
3  volumi  (e  1'edizione  presentata  al  concorso  bandito  dalla  Crusca); 
Versi  e  prose,  Firenze,  All'insegna  della  Speranza,  1831-1832,  in  10  tomi. 
Entrambe  le  edizioni  contengono :  //  poeta  di  teatro,  La  civetta,  II  pare- 
taio,  Poesie  varie,  Epigrammi  e  novellette,  Prose  diverse,  ma  presentano  diver- 
genze  dovute  alia  revisione  dell'autore.  Molto  importanti,  fra  le  edizioni 
parziali  piu  recenti,  debbono  considerarsi:  Le  rime  e  prose  di  Filippo  Pa 
nanti,  per  cura  di  P.  Gori,  Firenze,  Salani,  1882,  che  oltre  La  civetta  e 
II  paretaio  contiene  poesie  e  prose  scelte,  e  soprattutto  la  piu  ampia  rac- 
colta  di  epigrammi  e  novellette,  in  numero  di  settecento;  e  gli  Scritti  minori 
inediti  o  sparsi,  con  notizie  della  vita  e  delle  opere  sue,  raccolti  e  pubblicati  da 
L.  An'dreani,  Firenze,  Bemporad,  1897,  che  oltre  una  notevole  quantita  di 
versi  contiene  numerose  lettere  del  Pananti  e  di  suoi  corrispondenti.  Per 
notizie  esaurienti  su  altre  edizioni,  anche  di  scritti  minori  da  noi  non  ricor- 
dati,  restano  fondamentali  le  bibliografie  di  P.  Gori  e  di  L.  Andreani,  che 
figurano,  rispettivamente,  nei  due  volumi  qui  sopra  citati. 

Nessuna  delle  edizioni  suddette  riproduce  le  Avventure  e  osservazioni 
sopra  le  coste  di  Barberia,  fuorche*  Pedizione  Piatti,  in  cui  esse  figurano,  ma 
ridotte  e  rielaborate,  con  il  nuovo  titolo  di  Relazione  di  un  viaggio  in  Algeria. 
In  quanto  all'edizione  fiorentina  del  1831-1832,  giacitata,  appaiono  in  essa 


PROFILO   BIOGRAFICO  9 

solo  pagine  scelte,  totalmente  separate  fra  loro,  della  Relazione.  La  ste- 
sura  completa  delle  Avventure  apparve  per  la  prima  volta  a  Firenze,  nel 
1817,  presso  L.  Ciardetti,  in  2  volumi,  ma  e  consigliabile  tener  pre- 
sente,  come  diremo  nella  Nota  ai  testi,  1'edizione  milanese  di  A.  F.  Stella, 
pubblicata  nello  stesso  anno  1817,  e  attentamente  ricorretta  dall'autore. 
Una  traduzione  in  inglese  apparve  nel  1818;  seguirono  due  in  francese 
(1820  e  1830)  e  una  in  tedesco  (1823),  ma  di  nessuna  mi  e  stato  possibile 
avere  visione. 

Le  piu  esaurienti  notizie  biografiche  sul  Pananti  sono  date  da  L.  An- 
dreani  nell'Introduzione  al  citato  volume  di  Scritti  minori  inediti  o  sparsi, 
dal  quale  e  indispensabile  muovere  per  ulteriori  informazioni.  Meno  utili, 
perche  non  sufficient  emente  controllate,  sono  invece  le  notizie  esposte  da 
P.  Gori  nel  saggio  che  precede  la  sua  citata  edizione  di  Le  rime  e  prose 
di  Filippo  Pananti:  ma  e  ugualrnente  consigliabile  tenerle  present!.  La 
biografia  del  Pananti  lasciataci  da  L.  CIAMPOLINI,  e  della  quale  facciamo 
cenno  nel  nostro  Profilo,  si  trova  in  Biografia  degli  italiani  illustri  nelle 
scienze,  letters  ed  arti  del  secolo  XVIII .  .  .,  a  cura  di  E.  De  Tipaldo,  v, 
Venezia,  Alvisopoli,  1837,  PP-  154-8.  Per  altre  biografie,  rimandiamo  al 
volume  dell'Andreani,  ricchissimo  di  indicazioni. 

Gli  studi  sul  Pananti  non  hanno  compiuto  alcun  progresso  dai  tempi 
di  L.  Andreani,  che  nel  suo  volume  da  un'ampia  bibliografia  di  tutti  gli 
scritti  che  si  erano  gia  occupati  del  Nostro:  e  ad  essi  rimandiamo.  Dei  po- 
chissimi  saggi  successivamente  apparsi,  bastera  qui  ricordare  un  articolo 
di  A.  SIMONETTI,  nel « Giornale  d' Italia »,  26  dicembre  1911,  che  richiama  le 
vicende  africane  del  Pananti,  ma  ha  carattere  occasionale;  lo  studio  di 
E.  DEL  CERRO,  Pananti  giornalista,  in  «Rivista  dj Italia »,  31  dicembre  1915 ; 
il  saggio  Pananti  e  Giusti  di  G.  RABIZZANI,  nel  suo  volume  Sterne  in  Italia, 
Roma,  Formiggini,  1920,  pp.  155-61;  e  infine,  particolarmente  interes- 
sante,  un  articolo  di  P.  PANCRAZI,  //  dimenticato  Pananti,  in  « Corriere  della 
Sera»,  30  dicembre  1937,  sul  quale  e  utile  vedere  un  giudizio  in  «Giorn. 
stor.  d.  lett.  it. »,  cxi  (1938),  p.  170. 


DALLE  «AVVENTURE  E  OSSERVAZIONI 
SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA» 

AMMUTINAMENTO I 

Sarebbe  stata  prudenza  rimanere  alcuni  dl  in  Gibilterra  a  fine 
d'unirci  ai  convogli  inglesi,  dei  -quali  ogni  settimana  qualcuno  solea 
partire  per  le  isole  del  mediterraneo.  Erasi  ricevuto  Pawiso  che 
erano  in  mare  le  squadre  dei  Barbareschi  ;z  e  i  marinari  nostri,  che 
tutti  o  per  trista  fama  o  per  dolorosa  esperienza  conoscean  gli 
orrori  ed  i  patimenti  nei  ferri  di  schiavitu,  protestarono  ad  alta 
voce  che  non  volean  proseguire  il  viaggio  se  il  nostro  legno3  non 
si  poneva  sotto  la  scorta  delle  fregate  che  proteggean  la  navigazione. 
Ma  il  capitano,  che  si  sarebbe  fatto  fare  a  pezzi  piuttosto  che  spender 
quattro  carlini  di  piu  prolungando  la  dimora  in  quel  porto,4  usci 
fuor  dei  gangheri,  chiamo  le  proteste  dei  marinari  insubordina- 
zione,  rivolta,  crimen  lesae  majestatis\  e  giur6  che  arrivato  in  Si- 
cilia,  farebbe  i  conti,  e  tutti  come  ribelli  li  farebbe  mettere  in  una 
camera  ove  non  vedrebber  piu  lume.  Ripeteva  pomposamente  che 
un  capitano  e  un  re  sul  bastimento ;  che  la  sua  volonta  e  la  legge,  e 
che  i  sottoposti  debbon  chinare  il  capo  e  tacere.  lo,  che  mi  trovava 
nella  stessa  barca  e  negli  stessi  pericoli,  pensai  potermi  rivolgere 
al  re  sul  bastimento,  e  parlargli  fuori  dei  denti.  —  Voi  —  gli  dissi  — 
dovete  stare  ai  patti;  diro  quello  che  Seneca  disse  a  Nerone: 
« I  limiti  della  vostra  possanza  finiscono  la  ove  termina  la  giustizia  ».s 
Signor  re  sul  bastimento,  voi  sarete  un  re  di  coppe  e  di  picche; 
arate  diritto  e  non  fate  il  fanfarone,  perche  se  Dio  ci  fa  grazia 
d'arrivare  in  Sicilia,  vedrem  chi  dovra  pianger  e  chi  andera  in 
camera  buia.  —  Ma  i  passeggieri,  in  luogo  di  sostenermi,  mi  tiravan 
pel  vestito,  mi  davano  sulla  voce,  e  ripetean  le  trite  sentenze: 


i.  Questo  brano  corrisponde  alle  pp.  48-50  del  volume  i  dell'edizione  da 
noi  seguita.  2.  Barbareschi:  e  aggettivo  sostantivato,  da  Barberia:  cioe, 
abitanti  delle  regioni  costiere  dell' Africa  del  Nord,  escluso  TEgitto,  che 
avevano  appunto  il  nome  di  Barberia.  3.  il  nostro  legno:  come  gia  abbia- 
mo  detto  a  p.  4,  la  nave  si  chiamava  VEroe.  4. «  Gli  Inglesi  di  Gibilterra  ci 
consigliarono  a  procurarci  una  patente  inglese  per  proteggerci  dai  corsari 
di  Barberia;  ma  il  capitano  non  voile  far  quella  spesa»  (nota  del  Pananti). 
5.  Nel  Pananti  citazioni,  aneddoti,  accenni  eruditi  raramente  provengono 
dai  testi  originali,  ma  sono  piuttosto  ricavati  da  raccolte,  antologie,  repertori 
difficilmente  precisabili. 


12  FILIPPO    PANANTI 

—  Non  bisogna  entrar  nella  folia  a  farsi  pigiare ;  comandi  chi  puo, 
obbedisca  chi  deve;  1'asin  legate  ove  vuole  il  padrone;  nelle  case 
debb'essere  a  comandare  un  pazzo  solo.  —  Erano  tutti  bravissime 
persone,  ma  di  poca  risoluzione.  Quello  che  manca  piu  agli  uo- 
mini  nelle  gran  circostanze  non  e  il  talento  e  il  giudizio,  ma  il 
carattere  e  la  volonta;  e  spesso  piu  danno  viene  dalla  debolezza  e 
dalla  troppa  diffidenza  di  se  medesimo,  che  da  presunzione  e  da 
estrema  vivacita.  Quei  buoni  amici,  confidando  nel  capitano,  ve- 
devan  tutto  color  di  rosa,  e  andavan  lieti  e  felici  come  se  andassero 
a  un  par  di  nozze  e  ad  una  festa  di  ballo.  Cosi  un  certo  uomo  di 
Pisa  in  una  gran  piena  dell'Arno,  avendo  voluto  afferrare  una  trave 
che  giu  veniva  per  la  torbida  onda,  fu  trascinato  egli  stesso  dai  vor- 
tici,  e  andava  a  perdersi  nelle  spelonche  del  mare.  Tutta  Pisa 
affacciata  alle  spallette  del  ponte  gemeva  ed  inorridiva  a  questo 
tristo  spettacolo.  —  Oh  pover'uomo,  —  gridavan  tutti  affannosi  — 
sarete  pasto  dei  pesci;  chi  sa  ove  Pacqua  vi  porta  a  finire;  chi  sa  i 
pianti  che  fara  la  vostra  povera  moglie!  —  .  .  .  E  colui  abbracciata 
la  sua  bella  trave,  alzando  la  fronte  e  il  guardo  sereno,  diceva  alia 
turba  commiserante :  —  lo  per  me  spero  bene. 

LE   NAVI    SOSPETTE1 

Navigavamo  presso  alle  coste  della  Sardegna,  allorche  una  mat- 
tina  dietro  a  certe  isolette  o  grandi  scogli,  appellati  il  Toro  e  la  Vac- 
ca,  scorgemmo  cinque  o  sei  vele  che  ai  maliziosi  lor  movimenti, 
al  mostrarsi  e  nascondersi  che  faceano,  ci  dieron  molte  cagioni  di 
dubitare.  II  capitano  sosteneva  che  era  il  convoglio  inglese,  e  volea 
far  forza  di  vele  per  raggiungerlo ;  ma  noi  gridammo  che  erano  Bar- 
bereschi  belli  e  buoni,  e  che  in  bocca  al  lupo  non  ci  volevamo 
andare;  e  colui  gridava  che  noi  non  avevamo  tutti  i  nostri  giorni,z 
e  volevamo  insegnar  leggere  ai  dottori.  Fortunatamente  il  piloto 
Roberto  Catania,  uomo  probo  e  di  abilita,  assicur6  che  era  la  squa- 
dra  algerina,  e  bisogn6  che  il  capitano  cedesse  al  grido  comune  e 
andasse  a  dar  fondo  nella  vicina  isola  di  san  Pietro : 

ma  cedendo  quelVanima  superba, 

fe'  una  bocca  di  biascia  sorba  acerba; 

i.  Questo  brano  e  i  tredici  seguenti  corrispondono  alle  pp.  72-100  del  vo 
lume  I  dell'edizione  da  noi  seguita.  2.  non  avevamo  ,  .  .  giorni:  eravamo 
scemi  di  cervello. 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA       13 

ed  era  sconcertato  a  si  gran  segno, 

che  pareva  un  Ebreo  che  ha  perso  il  pegno.1 

Arrivato  quindi  al  porto  di  sicurezza,  parlava  del  corso  rischio  come 
una  certa  dama,  che  narrando  d'essersi  trovata  a  solo  a  solo  con  un 
ardito  e  amabile  uffiziale,  e  d'esserne  uscita  salva  per  miracolo,  o 
per  il  rotto  della  cuffia,  come  suol  dirsi,  si  servia  di  questa  espres- 
sione:  —  L'ho  scampata  bella! 

SBARCO   ALLA  PRIMA  TERRA  D'lTALIA 

Non  cosi  lieto  e  sollecito  si  gett6  Giunio  Bruto  a  baciare  Pantica 
madre;2  non  cosi  pronto  al  suolo  si  lancio  Giulio  Cesare,  come 
trasportati  dal  piu  vivo  e  tenero  sentimento  ci  gettammo  noi  sulla 
"spiaggia  di  quella  cara  isoletta.  Delle  lagrime  di  gioia  e  di  tenerezza 
scorsero  dai  nostri  occhi  nel  rivedere,  toccare,  abbracciare,  dopo 
tanti  anni  d'assenza,  le  prime  italiche  rive,  nel  respirar  le  aure  dolci 
che  veniano  dalla  parte  della  nostra  terra  natale.  Qual  diletto  dopo 
un  penoso  viaggio,  dopo  la  vita  solitaria  e  monotona  delle  lunghe 
navigazioni,  dopo  non  aver  visto  per  tanti  giorni  che  cielo  e  acqua, 
e  acqua  e  cielo,  di  rivedere  del  mondo  abitato,  di  poter  premer  la 
terra,  di  correr  sopra  1* arena!  II  mal  di  mare  e  quel  gran  mal  della 
noia,  che  fu  appellata  la  micrania  deH'anima,  subito  si  dileguarono; 
come  Anteo,  toccando  la  terra,  tutte  ci  parve  le  nostre  forze 
riprendere;3  ci  rinfrescammo,  ci  riavemmo  con'buoni  vini,  con 
saporose  frutta,  e  particolarmente  con  una  qualita  d'uva  che  era 
dolce  come  la  manna,  e  i  grappoli  erano  grossi  come  quelli  del 
paese  di  Canaan.  Eravamo  veramente  contenti,  ci  pareva  esser 
giunti  sopra  la  terra  di  Promissione.4  Per  motivo  della  peste  di 

i.  Non  e  state  possibile  scoprire  1'autore  di  questi  versi,  ma  e  legittimo  il 
sospetto  che  siano  dello  stesso  Pananti, '  che  spesso  amava  introdurre  nei 
suoi  brani  di  prosa  alcuni  suoi  versi  occasional!.  2.  si  gettd  .  .  .  madre: 
Lucio  Giunio  Bruto,  figlio  di  una  sorella  di  Tarquinio  il  Superbo,  accompa- 
gnati  i  figli  di  Tarquinio  a  Delfi,  avendo  1'oracolo  detto  che  il  governo  di  Ro 
ma  sarebbe  toccato  a  chi  per  primo  avesse  baciato  la  madre,  comprese  il 
significato  del  response  e  baci6  la  terra,  madre  comune  degli  uomini.  B  una 
delle  leggende  create  intorno  al  personaggio  che  Iiber6  Roma  dal  governo  dei 
re  e  instaur6  la  repubblica.  Vedi  E.  PAIS,  Storia  di  Roma,  i,  Torino,  Clausen, 
1898,  p.  359.  3.  come  Anteo . . .  riprendere:  il  gigante  Anteo,  secondo  la  mi- 
tologia,  riprendeva  le  forze  toccando  la  terra,  che  era  sua  madre.  Perci6 
Ercole  lo  sollev6  in  aria  e  lo  soffoco.  4.  la  terra  di  Promissione:  la  terra 
promessa,  la  Terra  santa,  la  Palestina. 


14  FILIPPO   PANANTI 

Malta  e  della  febbre  gialla  di  Cadice  non  ci  fu  permesso  internarsi 
nelFisola,  ma  ci  fu  assegnato  un  luogo  da  passeggiar  sulla  riva.  I 
signori  del  paese  vennero  a  farci  amichevole  compagnia,  scesero  a 
passeggiar  lungo  il  mare  tutte  le  Belle.  Si  gode  di  conoscer  1'uomo 
«qui  mores  hominum  multorum  vidit  et  urbes));1  si  brama  udire 
le  storie  meravigliose  narrate  dal  pellegrino.  Ognun  di  noi  benedice 
questa  terra  di  salvezza,  di  riposo  e  di  refrigerio,  scorre  col  lieto 
sguardo  tutta  la  bella  isoletta, 

.  .  .  e  intanto  oblia 
la  noia  e  il  mal  della  passata  via.2 


L'ISOLA  DI   SAN   PIETRO 

L'isola  di  San  Pietro  e  piccola  e  poco  ubertosa,  ma  fa  un  esteso 
commercio  con  le  isole  Baleari  e  con  Caglieri.  Vi  si  raccoglie  poco 
grano,  ma  vi  son  molte  vigne;  i  monti  son  pieni  di  selvaggiume,  il 
mare  abbondantissimo  di  pesce ;  la  pesca  del  tonno  e  la  prima  di 
tutto  il  mediterraneo.  Gli  abitanti  sono  della  piu  buona  indole, 
garbati,  cortesi,  sinceri  e  pieni  di  quella  benevolenza  che  e  la  vera 
gentilezza.  Vivono  in  dolcissima  pace,  e  sarebbero  pienamente  fe- 
lici  se  non  dovesser  sempre  tremare  per  le  continue  minacce  dei 
pirati  di  Barberia.  La  squadra  di  Tunisi  quaranta  anni  fa  deso!6 
tutta  1'isola.  Non  sono  piu  di  sette  anni  che,  sopraggiunti  una  notte 
i  ladri  algerini,  sorpreser  quella  infelice  popolazione,  e  la  condussero 
tutta  a  gemere  incatenata  nei  tristi  lidi  dell'Africa.  La  storia  delle 
passate  catastrofi  e  il  quadro  dei  patimenti  sofferti  sono  sempre 
present!  alia  immaginazione  atterrita  di  quegli  isolani,  e  son  da 
loro  dipinti  coi  colori  della  passione  e  del  turbamento.  Dei  mali  non 
ignari,  eran  sensibili  ai  nostri  pericoli.  Ci  awertirono  esser  erranti 
in  quei  mari  le  squadre  d'Algeri  e  di  Tripoli;  ci  narrarono  che  nelle 
scorse  notti  era  stato  fatto  uno  sbarco  in  una  remota  parte  dell'isola, 
e  portato  via  del  bestiame  e  un  ragazzo ;  ci  disser  la  trista  awentura 
del  consiglier  Seratti,  caduto  schiavo  dei  Tunisini;3  ci  pregaron, 

i.  Riecheggia  Orazio,  Epist.,  I,  n,  19-20.  Ma  Orazio  scrive:  «qui  domitor 
Troiae  multorum  providus  urbes  /  et  mores  hominum  inspexit».  2.  Pe- 
trarca,  Rime,  L,  10-1.  Ma  il  Petrarca  scrive:  «  ov'ella  oblia ».  3.  « II  cav.  Se 
ratti,  primo  ministro  in  Toscana,  poi  consigliere  di  Stato  in  Palermo,  .  .  . 
quando  fu  fatto  governator  di  Livorno »  domandd  « al  Granduca  la  libera- 
zione  degli  schiavi  tunisini  ch'erano  stati  condotti  in  quel  porto.  Chi  gli 
avrebbe  detto  che  ne'  suoi  vecchi  anni  sarebbe  ei  stesso  condotto  schiavo  e 


AVVENTURE   SOPRA   LE    COSTE  DI   BARBERIA  IfJ 

ci  scongiurarono  a  rimaner  qualche  giorno  nel  porto,  e  a  non  esporci 
a  si  imminente  pericolo.  L'isola  era  assai  ben  guardata.  Vi  avean 
costruita  una  piccola  fortezza,  e  cinto  d'un  muro  il  borgo.  Pregam- 
mo  il  capitano  a  trattenersi  alcuni  giorni;  il  promise.  Tornammo 
la  sera  sul  bastimento  lieti  del  giorno  passato  e  della  speranza  di 
scendere  il  di  seguente  sopra  1'amica  spiaggia.  Ognuno  ideava  i 
suoi  cari  e  semplici  spassi,  ognuno  sperava  fra  quei  buoni  abitanti 

infino  a  tanto  almen  fame  soggiorno, 
che  agevoli  for  tuna  il  suo  ritorno.1 


IMPRUDENTE  USCITA   DAL   PORTO 

La  natura  ancor  si  copriva  del  suo  ricco  manto  di  stelle,  e  la  Dea 
delle  notti  placidamente  pei  cieli  muoveasi  sul  suo  carro  d'ebano, 
quando  fummo  svegliati  da  un  rumore  confuso,  da  un  general  mo- 
vimento  in  tutta  la  nave.  Ci  alzammo  agitati,  e  con  sorpresa  e 
sdegno  e  dolore  vedemmo  che  il  brigantino  aveva  messo  alia  vela, 
e  ci  trovammo  in  mezzo  al  vasto  e  periglioso  elemento.  Tornava 
intanto  da  terra  con  la  barchetta  lo  scrivano :  avea  gli  occhi  stralu- 
nati,  pallido  il  volto ;  il  capitano  gli  accennava  di  tacere.  Si  sentivan 
colpi  di  cannone  alPoriente  ed  al  mezzogiorno:  erano  segni  di  so- 
spetto  e  d'allarme  che  si  davan  1'isola  di  San  Pietro  e  la  penisola  di 
Sant'Antioco.  —  Ma  to  mate  indietro,  —  diceamo  al  capitano  atter- 
riti  —  non  vi  esponete  a  tanto  cimento.  —  lo  —  rispondea  bru- 
scamente  —  sono  partito  per  la  Sicilia,  ed  in  Sicilia  vado.  —  Ma  i 
patti  sono  di  navigar  col  convoglio.  -  Mostratemi  i  patti.  -  La 
scritta.  -  La  scritta  voi  non  Pavete.  —  Meritato  avrebbe  che  sorges- 
simo  nel  calore  dell'ira  e  della  vendetta,  e  che  qualche  uomo  fer- 
vido  e  risoluto,  come  1'Emilio  di  Rousseau  in  una  pari  occasione,2 
vendicasse  i  suoi  compagni  d'infortunio,  liberando  il  genere  umano 
da  un  traditore,  e  il  mare  da  uno  de'  suoi  mostri:  ma .  .  .  «nolo 
mortem  peccatoris:  convertatur  et  vivat».3 

Eravamo  quasi  giunti  al  termine  del  viaggio,  non  v'eran  piu  che 
tre  o  quattro  giornate  per  arrivare  al  desiato  porto,  e  ci  andavamo  ad 

finirebbe  in  Tunisi  la  travagliata  sua  vita  ? »  (nota  del  Pananti).  i .  Tasso, 
Ger.  lib.,  vn,  14.  2.  come  .  .  .  occasione:  non  si  cornprende  a  quale  episodic 
dell'fimile  possa  riferirsi  il  presente  accenno.  3.  Cfr.  Ezech.,  33,  n,  e  la 
nota  zap.  27. 


l6  FILIPPO    PANANTI 

esporre  a  cosi  gran  naufragio!  Meritavam  sorte  migliore.  I  nostri 
marinari  erano  pieni  di  ansieta  di  rivedere  le  loro  mogli  e  le  dolci 
famigliuole.  Riportavano  tutti  un  piccol  peculio,  frutto  di  loro 
industria  e  risparmio;  il  giorno  che  sarebber  giunti  al  paese,  sa- 
rebbe  stata  una  festa.  Non  si  poteva  trovare  gente  piu  buona.  I 
passeggeri  tutti  eran  persone  di  merito.  II  cavaliere  Giuliano  Rossi 
si  distinguea  per  la  nobilta  deiranimo  e  per  coraggioso  carattere. 
Riportava  dallTnghilterra  utili  notizie,  e  una  sposa,  dama  di  gran 
virtu,  talento  e  perspicacia,  con  due  graziose  bambine,  frutto  di 
loro  tenera  unione.  Un  abile  e  onesto  negoziante  di  Livorno,  il 
sig.  Carlo  Terreni,  recava  merci  di  gran  valore,  e  sperava  il  frutto 
raccogliere  di  giudiziosa  speculazione.  II  sig.  Antonio  Terreni,1 
pittore  di  grandissimo  nome  e  sapere,  andava  a  fare  un  viaggio  pit- 
torico  nella  Sicilia,  sul  modello  di  quello  bellissimo  che  avea  com- 
posto  per  la  Toscana.  Un  Calabrese  che  nella  marina  britannica 
servito  avea  con  onore,  tornava  in  sua  patria  a  goder  del  riposo 
e  delle  comodita  che  si  era  procurate  negH  anni  delPassenza  e  della 
fatica.  Vi  era  una  bella  donna  che  andava  a  ritrovar  suo  marito  che 
ritornava  anch'egli  in  Sicilia  dalle  regioni  d'oriente;  dopo  molte 
strane  vicende  la  sorte  era  vicina  a  riunirli;  come  d'Ulisse  e  Pene 
lope  ha  detto  Omero,  dopo  d'essersi  incantati  d'amore,  si  sareb- 
bero  incantati  del  racconto  di  loro  pene.2  Eravi  infine  una  gioyi- 
netta  bella  come  il  primo  raggio  del  sole,  e  fresca  come  la  rosa  di 
primavera.  Amava  un  virtuoso  giovine,  ed  era  corrisposta  d'un 
pari  amore.  Non  potea  dar  quella  dote  che  ne}  suoi  disegni  ambi- 
ziosi  esigeva  il  padre  del  giovinetto.  La  sua  ricchezza  era  nella  sua 
belta,  tutta  la  nobilta  nel  suo  cuore.  Ma  quel  che  1'amore  ha  stretto, 
difficilmente  umana  forza  pu6  sciorre.  L'amore  alia  bella  giovine 
die  del  coraggio  e  delle  ale.  Fu  a  ritrovare  a  Londra  due  vecchi  e 
ricchi  parenti;  la  bellezza  ha  tanto  potere,  i  pianti  parlan  si  dolce 
linguaggio,  che  i  buoni  vecchi  donarono  molte  centinaia  di  ducati 
alia  giovinetta,  che  lieta  tornava  ad  offrirli  con  la  sua  mano  al- 
Pamico  del  suo  cuore.  Sempre  era  a  ricontarli  per  la  via,  cosicche 

i.  Antonio  Terreni,  di  Livorno,  ha  lasciato  circa  duecento  disegni  della  To 
scana,  i  cui  rami  formano  tre  volumi  con  eleganti  didascalie  di  Domenico 
Fontani.  Una  parte  dei  suoi  lavori  si  trova  nella  Galleria  degli  Uffizi,  a 
Firenze.  2.  come ...  pene:  non  vi  e  traccia  di  simili  sentimenti,  del 
resto  cosi  poco  omerici,  neH'ultimo  libro  d&lVOdissea.  Probabilmente  il 
Pananti  ha  avuto  presente,  nel  ricordo,  qualcuno  degli  infmiti  rifacimenti 
e  divulgazioni  del  poema. 


AVVENTURE   SOPRA   LE    COSTE    DI    BARBERIA  IJ 

noi  la  chiamavamo  per  ischerzo,  1'avara  per  amore.  Contava  an- 
cora  le  ore  e  i  minuti  che  la  separavano  dal  suo  amante,  si  figurava 
vederlo  che  a  braccia  aperte  Pattendeva  sopra  la  riva:  ahi!  1'attendea 
veramente  al  mar  riguardando,  come  Paolo  stava  attendendo  Vir 
ginia:1  ahi!  non  la  rivedra  piu,  e  maggior  disgrazia  la  vergine  avra 
che  di  perir  fra  i  flutti  adirati ;  ella  cadera  schiava  dei  Turchi,  e  come 
Angelica  bella, 

.  .  .  oh  troppo  eccelsa  preda 

per  si  barbare  genti  e  si  villane!2 


I   NERI   PRESENTIMENTI 

Navigammo  tristi,  pensosi  e  pieni  d'atri  presentiment!.  Lo  sguar- 
do  fisso  sul  mare,  non  alzavamo  un  suono,  una  voce:  i  gran  dolori 
son  muti.  II  nostro  legno  bisognoso  di  molti  ripari  si  movea  con 
isforzo  e  difficolta.  Era  imprudenza  con  un  legno  cosi  malconcio 
solcare  i  neri  flutti. 

O  navis  referent  in  mare  te  novi 

fluctus?  oh  quid  agis?  fortiter  occupa 

portum;  nonne  vides  ut 

nudum  remigio  lotus 

antennaeque  gemunt,  ac  sine  funibus 

vix  durare  carinae 

possint?3 

Subitamente  1'albero  di  trinchetto  si  ruppe  e  precipito.  Fu  nella 
sua  caduta  per  fracassar  la  testa  del  capitano.  Una  volta,  mentre 
M.  di  Calonne4  restava  adagiato  nelle  sue  molli  piume,  gli  cadde 
sopra  il  cielo  del  letto,  e  se  dopo  un'ora  non  arrivava  gente,  Pex- 
ministro  rimanea  sofTocato  e  andava  tra  quei  piu.  Un  signore  che 
lo  vide  in  quello  stato,  esclam6:  —  Giusto  Cielo!  —  Non  avrei  vo 
lute  che  il  capitano  pagasse  il  fio  della  sua  imprudenza  ed  ostina- 
zione;  ma  dovea  prender  quello  per  un  awiso  del  cielo  che  gli  dicea 

i.  V attended  .  .  .  Virginia-,  si  allude  all'epilogo  del  famoso  romanzo  Paul 
et  Virginie  (1787)  di  Bernardin  de  Saint-Pierre  (1737-1814).  2.  Ariosto, 
Orl.  fur.,  vin,  62.  3-11  Pananti  cita  qui,  applicandola  forzatamente  alia 
sua  situazione,  un'ode  di  Orazio  (Carm.y  I,  xiv,  1-8)  universalmente  nota; 
ma  salta  il  quinto  verso  dell'ode  e  scrive  gemunt  in  luogo  del  corretto  « ge- 
mant ».  4.  Carlo  Alessandro  di  Calonne  fu  rninistro  per  le  finanze  di  Lui- 
gi  XVI,  dal  2  novembre  1783  al  9  aprile  1787:  e  rimasto  famoso  per  la  sua 
corruzione  e  per  i  danni  della  sua  amministrazione. 


l8  FILIPPO    PANANTI 

di  tornare  indietro,  e  d'andar  di  nuovo  all'isola  di  San  Pietro  oppur 
nel  porto  di  Caglieri.  Resto  pertinace,  e  senz'albero  di  trinchetto 
seguit6  a  far  muovere  il  brigantino  spaventosamente  barcollato  dagli 
schiumanti  flutti  e  dai  venti.  L'aria  intanto  oscuravasi,  si  rattri- 
stava;  un  cupo  muggito  si  facea  intendere  da  lontano;  un  sordo 
tuono  uscia  dalle  nubi  che  s'ammassavano ;  la  nera  notte  scendeva 
sopra  1'oceano. 

L'ORRIDA  APPARIZIONE  DELLA   SQUADRA  ALGERINA 

Passammo  una  notte  agitata  e  trista.  lo  cominciava  a  chiuder  gli 
occhi  un  momento,  quando  il  cavalier  Rossi,  che  si  era  alzato  col 
sole,  venne  a  destarmi,  e  mi  disse  che  si  scoprian  le  vele  medesime 
vedute  gia  1'altro  giorno.  Sbalzo  dal  letto,  salgo  sul  ponte,  e  trovo 
su  tutto  il  vascello  1'angoscia  e  la  confusione.  Interrogo  i  marinari, 
il  piloto,  e  non  rispondon  che  con  tremebonda  voce  e  in  tronche 
e  meste  parole.  Non  appariano  allora  le  sei  vele  che  quasi  impercet- 
tibili  punti  sul  vasto  campo  delle  onde;  ma  erano  spaventose  al 
guardo  e  alia  mente,  e  sembravano  ingrandirsi,  sollevarsi,  avanzarsi 
come  la  piccola  nube  cosl  temuta  dai  naviganti,  che  a  poco  a  poco 
cresce,  s'inalza,  s'agglomera  e  forma  il  burrascoso  tifone,  la  turbi- 
nosa  tromba  delle  tempeste  dei  mari.  Fecero  quelle  navi  un  sinistro 
giro  che  le  loro  ostili  mire  ci  pales6.  I  marinari  nostri  alzarono 
un  grido  di  affanno  e  di  raccapriccio.  Nel  loro  turbamento  si  mes- 
sero  a  correre,  ad  affaticarsi,  a  far  cento  sforzi,  che  nulla  valevano 
per  la  tattica  e  per  la  salvezza;  Pagitazione  non  e  attivita,  e  le  ope- 
razioni  senza  disegno  non  sono  che  confusione  e  sconcerto.  Per 
una  orrenda  fatalita,  il  vento  che  fino  allora  avea  soffiato  con 
violenza,  tutto  ad  un  tratto  cesso,  e  ci  trovammo  inchiodati  in 
mezzo  al  vasto  elemento.  II  capitano  era  mutolo  e  sbalordito,  nulla 
operava;  e  il  peggio  che  possa  farsi,  e  non  far  nulla.  Tentiam,  di- 
ceam  noi,  con  tutte  le  vele;  e  se  non  si  puc-  con  le  vele,  coi  remi  ten- 
tiamo  di  guadagnar  la  costa  dei  Sardi;  e  se  altro  non  si  pu6  fare, 
montiam  sulla  lancia,  salviamo  almen  le  persone ;  ma  il  capitano  ci 
mostrava  col  dito  un  legno  nemico  che  stavaci  sottovento  e  ci  chiu- 
deva  la  ritirata.  Non  so  che  peso  avesser  le  sue  ragioni;  ma  so 
che  nulla  opr6  o  per  difendersi  o  per  fuggire.  I  nemici,  la  prima 
volta  che  li  discoprimmo,  eran  diciotto  miglia  lontani;  la  Sardegna 
non  era  da  noi  discosta  tre  miglia.  Ci  hanno  poi  detto  i  pirati  essere 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA       19 

il  nostro  un  cattivo  Rais;1  che  se  ci  avesser  veduto  fare  un  piccolo 
movimento  verso  la  costa,  non  si  sarebbero  essi  n6  men  rivolti  verso 
di  noi,  ma  che  vedutici  rimanere  immobili,  anzi  moverci  verso  di 
loro,  ci  avean  creduti  incantati,  e,  secondo  la  loro  enfatica  espres- 
sione,  strascinati  dal  nero  spirito  della  nostra  inevitabil  ruina. 

Tutto  fu  sulla  nave  sicula  scoraggiamento  e  abbandono.  Non 
so  qual  gelida  mano  alFapparir  dei  legni  turchi  opprima  il  cuor  dei 
Cristiani;  sembrano  come  impietriti  dal  teschio  orribile  di  Me 
dusa.  Allora  awenne  quello  che  accade  nei  gran  disastri:  in  luogo 
d'incoraggiarsi,  di  sostenersi  mutuamente,  gli  uomini  si  detestano, 
1'ira  divampa  fra  i  compagni  della  sventura,  e  Pintestina  guerra  si 
desta  nella  pubblica  desolazione.  Un  marinaro  che  era  stato  schiavo 
dei  Salettini,2  e  ne  serbava  nelPanimo  la  rimembranza  e  1'orrore, 
presb  da  disperata  doglia,  con  gli  occhi  di  fuoco  ed  un  pugnale 
alia  mano  venne  alia  gola  del  comandante,  e  senza  la  mia  difesa 
gli  facea  versare  il  sangue  e  1'anima.  Un  altro,  irato  come  una 
furia,  avea  preso  un  tizzone  ardente,  e  andava  a  dar  fuoco  alia  Santa 
Barbera.  Chi  voleva  immergersi  un  ferro  nel  seno,  chi  precipitarsi 
nei  vortici  del  mare.  Quindi  in  un  subito,  un  cupo  e  orribil  silenzio. 
I  marinari  ad  uno  ad  uno  disparvero,  e  nel  fondo  della  nave  an- 
darono  a  seppellirsi:  noi  passeggieri  restammo  soli  sul  ponte,  mi- 
rando  a  gradi  a  gradi  giungere  la  nostra  ruina.  II  capitano  che  non 
solea  mai  stare  al  timone,  allor  vi  si  pose,  e  profittando  della  picco- 
lissima  aura  che  alitava,  adagio  adagio  si  awicinava  ai  pirati;  giac- 
ch6  fummo  noi  che  andammo  verso  di  loro,  non  essi  verso  di  noi. 
Sei  ore  restammo  in  quel  tremito,  in  quelPorrenda  perplessita; 
si  bewe  a  sorsi  la  morte.  Quando  furon  prossimi  i  barbari,  si  udi- 
ron  gli  orridi  gridi,  si  vide  apparire  ed  alzarsi  Timmensa  turba  dei 
Mori;  allora  ogni  speranza  abbandon6  ancora  i  men  pavidi;  tutti 
fuggimmo  al  tetro  spettacolo,  ci  andammo  a  rinserrar  nelle  nostre 
piccole  celle,  attendendo  della  gran  tragedia  la  dolorosa  catastrofe. 
Quando  e  inutile  ogni  sforzo,  ogni  tentative,  ogn'ingegno,  si  cade 
in  quello  stupore,  in  quella  fredda  tranquillita  che  e  1'ultimo  grado 
d'un  cupo  ed  eccessivo  dolore.  Cosi  un  selvaggio  del  Canada,  se- 
duto  stando  nella  sua  barca  presso  alia  gran  cascata  di  Niagara, 
vide  da  un  suo  nemico  il  canapo  sciolto  che  tenea  la  barca  alia  riva, 
e  se  strascinato  dall'invincibil  corso  dell'onda.  Fece  ogni  sforzo 

i.  Rais:  voce  araba,  che  equivale  a  « comandante,  capo».  2.  Salettini'.  po- 
polazione  del  Marocco,  che  prendeva  nome  dalla  citt£  di  Saleh. 


20  FILIPPO    PANANTI 

di  remi,  impiego  tutti  i  mezzi  deH'abilita,  del  coraggio,  del  sangue 
freddo  e  della  risoluzione;  ma  vista  inutile  ogni  sua  opera,  e  ve- 
dendosi  e  sentendosi  senza  scampo  sopra  del  gran  precipizio,  pos6 
tranquillamente  il  suo  remo,  si  distese  dentro  il  suo  canot,  si  copri 
gli  occhi  e  la  fronte  e  rovin6  nelPabisso. 

CADUTA  IN  MAN  DEI   PIRATI 

Eccoci  al  grande  istante  arrivati,  eccoci  alia  piu  nera  vicenda  che 
possa  ottenebrar  la  vita  degli  uomini.  Si  odono  gli  alti  gridi  degli 
Africani  vicini,  escono  a  sciami,  a  nuvoli  i  barbari,  e  con  le  scia- 
bole  nude  e  un  truce  aspetto  di  guerra  vengono  alParrembaggio, 
all'assalto.  Si  udi  un  gran  colpo  di  cannone,  che  come  scoppio  di 
fulmine  agli  orecchi  ci  rimbombo.  Credemmo  che  cominciasse 
1'attacco,  che  andasse  il  nostro  legno  a  distruggersi :  era  il  segnale 
di  buona  preda.  Un  secondo  colpo  annunzi6  la  conquista  e  il  pos- 
sesso  del  bastimento.  Saltano  i  Barbereschi  sul  nostro  legno,  ci 
fanno  scintillar  sugli  occhi  e  sul  capo  i  taglienti  cangiar  e  il  roteante 
attagan*  ci  ordinan  di  non  far  resistenza  e  sottometterci.  Che  far 
potevamo  ?  obbedimmo.  Prendendo  un'aria  men  truce,  cominciano 
i  Barbereschi  a  gridare :  —  No  paura,  no  paura ;  —  ci  domandaron 
rum,  ci  chieser  le  chiavi  dei  nostri  bauli,  ci  distribuirono  in  due 
divisioni,  a  porzione  dei  passeggieri  ordinaron  d'uscire  e  di  salir 
sulla  lancia  per  essere  trasportati  sulla  fregata  algerina;  una  parte 
rimase  sul  brigantino,  di  cui  molta  truppa  moresca  aveva  preso  il 
possesso.  lo  fui  tra  quelli  che  uscirono  e  che  dovetter  partire.  Diem- 
mo  un  doloroso  sguardo  al  nostro  bastimento  e  ai  compagni, 
montammo  sulla  lancia  e  partimmo. 

COMPARSA  ALLA  PRESENZA  DEL   RAIS 

Cruda  fatalita!  AlFistante  in  cui  cominci6  a  vogar  la  lancia  che 
ci  trasportava,  il  vento  che  aveamo  tanto  e  si  vanamente  invocato 
nelle  sei  ore  che  dur6  la  nostra  agonia,  e  che  un'ora  avanti  sorgendo, 
forse  ci  avrebbe  tratti  a  salute,  si  Iev6  allora  subitamente  e  comincio 
a  soffiar  con  grand'impeto.  Si  copri  il  cielo  di  nuvole,  1'acqua  ca- 

i.  cangiar  .  .  .  attagan:  nomi  di  sciabole  usate  dagli  Arabi.  Caratteristico  e 
lo  yatagan,  sciabola  corta,  con  lama  a  un  solo  taglio,  ricurva  alle  due  estre- 
mita. 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA       21 

deva  a  torrenti,  n'eravam  tutti  inzuppati.  I  Mori,  con  noi  mescolati 
confusamente  sopra  la  lancia,  parlavano,  ridevano,  gridavano;  re- 
stavam  noi  in  mesto  e  cupo  silenzio. 

Al  giunger  nostro  sulla  fregata  i  barbari  alzarono  il  feroce  grido 
della  vittoria,  e  una  crudele  gioia  baleno  nei  loro  sguardi  sinistri, 
S'apriron  le  strette  file,  e  a  traverse  dei  Turchi  armati  e  dei  Mori 
fummo  condotti  alia  presenza  del  gran  Rais,  supremo  comandante 
delParmamento  algerino.  Stava  seduto  fra  i  comandanti  delle  altre 
quattro  fregate,  che  tutti  a  consiglio  s'eran  ristretti  per  determinar 
le  misure  da  prendersi  sul  nostro  conto,  per  combinare  le  suc 
cessive  opere  di  guerra,  e  per  inebriarsi  dei  fumi  della  loro  orrenda 
celebrita.  Fummo  interrogati  in  brevi  e  altere  parole.  Non  vi  fu 
pero  ne  insulto  ne  contumelia.  Ci  chiese  il  Rais  il  denaro,  gli 
oriuoli,  gli  anelli  e  ogni  altra  preziosa  cosa  che  aveamo  indosso, 
per  custodirla,  dicea,  dalla  rapacita  degli  uomini  del  mar  Nero  che 
formavan  parte  del  suo  equipaggio,  e  che  chiamava  col  proprio 
termine  ladrL  Distribui  le  nostre  respettive  proprieta  in  una  cas- 
setta,  promettendoci  che  tutto  ci  sarebbe  restituito  al  nostro  uscir 
dalla  nave,  e  dicendo:—  Questo  per  ti,  questo  per  ti,  quest'altro 
per  ti  — ;  e  dicea  forse  in  suo  cuore,  «e  tutto  questo  per  mi». 
Ci  fu  detto  di  ritirarci;  fummo  fatti  sedere  sopra  una  stuoia  nel- 
ranticamera,  ove  fummo  abbandonati  al  nostro  dolore. 

LA  PRIMA  NOTTE  FRA  I   BARBARI 

Ci  fu  dato  da  cena.  Consisteva  in  certa  cattiva  pasta  che  dovem- 
mo  mangiare  in  un  gran  tegame,  stesi  sul  pavimento,  senza  tavola, 
senza  sedie,  misti  a  un  branco  di  Mauri  e  di  Neri  che  con  noi  facevan 
vita  comune,  e  che  eran  si  lesti,  si  villani  e  cosi  di  buon  appetito, 
che  non  lasciavan  nulla  a  noi  altri  afflitti,  tremanti,  complimentosi, 
che  ci  accostavamo  al  piatto  come  un  animale  debole,  mentre  che  al- 
tro  piu  forte  mangia.  Poco  dopo  del  tramontar  del  sole  fummo  fatti 
scendere  in  una  buca  che  pareva  un  trabocchetto  o  una  sepoltura. 
Ci  dovemmo  distendere  o  piuttosto  romperci  tutte  le  ossa  sui  cor- 
dami,  le  vele,  le  gomene,  che  facevan  del  nostro  letto  un  vero  letto 
di  spine:  si  affogava  in  quell'aria  riscaldata  dal  fiato  di  venti  per- 
sone;  sembrava  d'essere  in  una  fornace.  I  piu  tristi  pensieri  op- 
pressero  il  nostro  cuore.  Quando  eravamo  vicini  ai  nostri  paterni 
lidi,  dove  anderemo,  chi  sa?  Noi  nati  fra  i  culti  popoli,  noi  si 


22  FILIPPO    PANANTI 

lungamente  awezzi  agli  usi,  alle  leggi,  alia  saggia  liberta  dell'im- 
pero  britannico,  noi  andremo  ad  essere  schiavi  del  piu  vili  schiavi, 
noi  trarremo  i  di  delPaffanno  nelle  barbare  terre  delF  Africa?  I 
poveri  marinari  siculi,  tutti  padri  di  famiglia  e  bonissimi  uomini, 
ma  di  poco  spirito  e  poco  cuore,  pensando  ai  lor  tristi  casi  e  alle 
misere  loro  famiglie  die  perdeano  in  essi  ogni  consolazione,  ogni 
appoggio,  non  si  potevan  salvare  dalla  disperazion  del  dolore. 
Noi  passeggieri  sosteneva  un  poco  di  forza  d'anima  e  di  filosofia; 
ma  chi  pu6  serbarsi  imperterrito  in  una  sorte  si  nuova  e  si  dolorosa  ? 
Non  potemmo  chiudere  un  occhio. 

.  .  .  il  sonno, 
simile  al  guasto  mondo, 
fugge  dagl'infelici,  a  vol  trapassa 
dove  gemere  ascolta,  e  sopra  gli  occhi 
non  bagnati  di  pianto  ei  si  riposa.1 

Che  fantasmi  turbaronci  fra  quelle  ombre!  quali  ore,  oh  dio,  furon 
quelle! 

Que  la  nuit  par  ait  longue  a  la  douleur  qui  veille!2 


IL   SECONDO   GIORNO 

Appena  un  raggio  del  sole  comparve,  uscimmo  fuora  di  quell'or- 
rendo  sepolcro.  Andammo  qua  e  la  girando  sopra  la  nave  algerina, 
ignari  del  vero  stato  di  nostra  sorte,  e  cercando  leggere  il  nostro 
destino  negli  sguardi  e  nelle  voci  dei  barbari:  ma  nulla  poteam 
conchiuder  di  positivo,  e  rimanevamo  in  una  incertezza,  il  peggiore 
di  tutti  i  mali.  Non  e  il  momento  in  cui  cade  il  colpo  della  sventura 
quello  ch'e  il  piu  doloroso:  e  il  momento  che  gli  succede.  Cosi 
sentiam  piu  vivo  il  dolore  della  ferita  quando  cess6  il  calor  della 
zuffa  e  il  gorgogliante  flusso  del  sangue.  Si  rimane  scossi,  storditi 
il  primo  giorno  d'una  funesta  awentura ;  poscia  la  riflessione  arriva, 
e  tutto  scopre  il  grande  abisso  dei  mali.  Si  oppone  in  un  primo 
urto  e  combattimento  il  coraggio  e  la  resistenza;  ma  quando  poi  si 
e  dovuto  succumbere,  hanno  perduta  la  lor  forza  tutte  le  molle 
deiranima. 

i.  Non  mi  e  riuscito  di  trovare  la  fonte  di  questa  citazione.  2.  Piti  esatta- 
mente:  «Qu'une  nuit  parait»  ecc.,  dalla  scena  v  delFatto  v  di  Blanche  et 
Guiscardt  tragedia  di  Bernard  Joseph  Saurin  (1706-1781). 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA      23 

Al  nostro  passar  per  la  nave  s'affollavano  i  Mori  pieni  di  curio- 
sita.  Involti  nei  nostri  pensieri,  niuna  curiosita  aveam  noi  se  non  di 
sapere  quel  che  eravamo  in  quella  nuova  casa,  in  quella  nuova  esi- 
stenza.  —  Che  cosa  piu  vi  sorprende  a  Versailles  ?  —  fu  domandato 
al  doge  di  Genova,  costretto  ad  andare  con  quattro  senatori  a  chie- 
dere  scusa  al  superbo  re  della  Francia.  Rispose :  —  Di  vedermi  qui. 

LA  TEMPESTA 

Ecco  subitamente  il  cielo  imbrunirsi,  solcar  le  nuvole  nere  la  torta 
luce  dei  fulmini,  mugghiare  i  flutti,  e  sopra  i  flutti  il  tuon  rimbom- 
bare.  Monti  ed  abissi  di  acqua,  tenebre,  lampi,  urli,  silenzio,  con- 
fusione  orribile,  tema  di  morte.  I  Barbereschi  perderon  la  testa  e  la 
tramontana,  e  tutti  a  terra  distesi  stavan  gridando  «allah,  allahb. 
Inesperti  delle  nautiche  operazioni,  vili  nei  gran  pericoli  e  poco 
pratici  delle  coste,  diventarono  d'un'ammirabil  mansuetudine;  eb- 
ber  ricorso  ai  nostri  marinari,  ed  al  consiglio  e  all'opra  lor  si  affi- 
darono.  In  mezzo  alia  generale  costernazione  un  non  so  che  di 
gioia  e  di  speme  si  sollevb  nei  mio  cuore,  e  grate  mi  erano  quelle 
tenebre  spaventose  e  la  burrascosa  agitazione  delle  acque.  Piu  che 
la  pazienza,  la  rassegnazione  e  la  stoica  imperturbabilita,  possono 
1'egro  spirito  sollevare  il  concepimento  di  fiero  disegno,  il  desio  di 
giusta  vendetta,  e  la  speranza  di  riuscire  in  forte  e  generosa  intra- 
presa.  Tre  volte  mi  levai  fra  1'ombra  notturna,  e  al  baglior  dei 
lampi  e  dei  fulmini,  brancolando  sopra  il  vascello,  pervenni  in 
mezzo  ai  nostri  uomini,  e  volli  persuaderli  a  profittar  della  propizia 
occasione  per  uscir  dei  loro  dolori.  —  Spingete  —  io  dicea  —  la  nave 
verso  la  costa  della  Sardegna,  impadronitevi  del  timone;  arrivere- 
mo  ad  un  porto,  o  in  un  basso  fondo,  e  oggi  siam  noi  prigionieri, 
domani  i  Turchi  il  saranno;  oggi  siam  dei  viventi  i  piu  miseri, 
sarem  domani  i  piu  lieti.  —  Oh,  —  rispondevano  quelli  —  chi  vede 
in  mezzo  a  queste  ombre  1  questa  e  la  spiaggia  dei  naufragi.  — 
Era  grande,  e  vero,  il  pericolo;  ma  qual  pericolo  piu  grande  che  di 
restare  nei  ferri;  si  puo  esser  cosl  miseri,  e  tanto  amare  la  vita? 

And  there  what  brave  what  noble 

let  do  it  after  the  high  Roman  fashion 

and  make  death  to  take  us.  (Shaksp.)1 

i.  Shakespeare,  Antony  and  Cleopatra,  atto  iv,  scena  xv,  w.  86-8.  La  tra- 
duzione  e  data  dallo  stesso  Pananti  nelle  righe  immediatamente  succes- 


24  FILIPPO    PANANTI 

Facciamo  quello  che  e  nobile  e  coraggioso,  secondo  il  sublime 
operar  del  Romani,  e  che  la  morte  sia  orgogliosa  di  prenderci. 

O  la  fin  d'ogni  male  un  ben  pud  dirsi, 
o  V ultimo  del  mali  e  il  mal  minor  eJ1 

Ma  quegli  uomini  del  siciliano  equipaggio  non  voller  tentare  un  si 
grande  cimento,  non  crederono  al  coraggio  ed  alia  fortuna,  non 
sepper  pensare  che  nelle  grand!  intraprese  e  il  vil  che  perisce, 
1'uom  coraggioso  attra versa  il  nero  sentier  della  morte:  non  videro 
che  il  pericolo,  che  e  la  sola  cosa  che  vedono  i  vili. 

Ritornai  tristamente  in  fondo  alia  nave,  e  non  isperai  piu  che  nei 
vend  e  nel  furor  del  mare.  Ma  1'occasione  appare  un  istante,  e  piu 
non  ritorna.  I  flutti  si  acquetarono,  il  ciel  si  rasseren6.  lo  vidi  con 
duolo  il  ciel  rischiarato,  e  sui  volti  dei  barbari  ritornata  la  gioia  e  la 
sicurta.  II  mare  era  in  calma,  ma  la  tempesta  fremeva  ancor  nel 
mio  cuore. 


BATTAGLIE   MARINE 

Dallo  spavento  a  subitanea  gioia  pass6  la  ciurma  africana;  si 
scoperse  un  bastimento,  ma  cosi  piccolo  e  si  lontano,  che  non  potea 
vederlo  che  Tocchio  linceo  delPavarizia.  Si  spiegan  tutte  le  vele,  si 
puntan  tutti  i  cannoni,  si  promettono  a  quelli  che  morranno  le 
delizie  del  Corckhan?  e  gPineffabili  godimenti  delle  Houris?  E  cos! 
gran  fracasso  i  Barbereschi  fanno  per  un  piccolo  legno  greco  ?  Rasso- 
migliano  a  colui  che  chiedeva  la  clava  ad  Ercole  per  ischiacciare 
un  piccolo  ragno,  e  a  quel  piccolo  diavolo  di  Rabelais  che  mostrava 
la  sua  forza  grandinando  sopra  il  prezzemolo.4  II  legno  greco  fu 
raggiunto;  e  benche  picciolo  e  debole,  pure  mostro  valore  e  fece 
bella  difesa.  Poi,  per  far  men  lieta  la  vittoria  degli  Algerini,  i 
Greci  gettarono  in  mare  quanto  di  ricco  carico  aveano.  Questi 


sive,  ma  i  versi,  oltre  che  incompleti,  sono  trascritti  con  grafia  errata. 
Diamo  il  testo  esatto  e  complete:  « We'll  bury  him;  and  then,  what's 
brave,  what's  noble  /  let's  do  it  after  the  high  Roman  fashion,  /  and 
make  death  proud  to  take  us.  Come,  away».  i.  Vedi  la  nota  i  a  p.  22. 
2.  Corckham:  il  Corano.  3.  gVineffabili  .  .  .  Houris:  le  uri  sono  le  vergini 
del  paradiso  mussulmano,  che  daranno  infinite  delizie  ai  guerrieri  morti 
per  la  loro  fede.  4.  quel .  .  .  prezzemolo:  di  una  siffatta  virtu,  ma  in  modo 
leggermente  diverse  e,  comunque,  incidentale,  si  trova  un  cenno  nel  Pan- 
tagruel,  libro  iv,  cap.  XLV. 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA      25 

quand'ebbero  conquistato  quel  legno,  e  vi  si  gettaron  pieni  di 
avidita,  restaron  burlati  e  neri  come  Gilblas,  quando  sciogliendo  il 
sacchetto  del  Fraticello,  in  luogo  delle  monete  che  si  figurava,  ri- 
trovo  tante  medaglie  e  tanti  agnusdei.1  Per  vendicarsene  caricarono 
d'improperi  e  di  bastonate  i  poveri  Greci;  fecer  come  Arlecchino 
nella  commedia,  che  volendo  rubare  un  pastrano,  e  colui  che  lo 
avea  indosso,  nel  ritenerlo,  avendolo  strappato,  Arlecchino  co- 
mincic-  a  dargli  colpi  da  ciechi,  dicendo:  «Ah  birbante,  mi  strappi 
il  mio  pastrano ».  Mentre  eran  cosi  bastonati,  il  Rais  algerino  an- 
dava  dietro  facendo  loro  una  predica.  —  O  bastonate,  o  predicate; 
ma  non  bastonate  e  predicate  a  un  tempo  medesimo.  —  £  stato 
detto  che  gli  awenimenti  si  succedono  per  Puomo  ordinario, 
s'incatenano  per  Puomo  di  genio.  Si  succedono  e  s'incatenano  le 
disgrazie  e  le  fortune  per  tutti  gli  uomini.  Comparve  una  corvetta 
tunisina.  La  guerra  ardeva  feroce  tra  le  due  reggenze  africane. 
Cominci6  un  ostinato  combattimento.  Un  uffiziale  scriveva  a  un 
suo  amico :  « II  tale  e  il  tal  altro  son  morti,  questi  sono  arTari  loro 
e  non  mi  riguardano;  io  sto  benissimo».  Non  avremmo  potuto 
scrivere  cosi  noi.  Le  palle  non  rispettavano  alcuno,  e  no!  non  eravam 
punto  a  noire  aise.  £  bello  il  combattere  per  la  Fede,  per  la  patria, 
pel  suo  re;  ma  morire  pei  Turchi,  pei  ladri  sarebbe  duro.  Cosi  pro- 
curammo  di  non  essere  ne  attori  ne  spettatori,  e  facemmo  come 
quel  Genovese,  che  mentre  il  vascello  su  cui  era  passeggiero,  batte- 
vasi  con  un  altro,  si  tenne  sempre  sotto  coperta;  e  quando  udi  ces- 
sato  il  suon  del  cannone,  rimesse  la  testa  fuora,  dicendo:  —  Siam 
prenditori,  o  presi  ?  —  II  legno  di  Tunisi,  cedendo  alia  maggior 
forza,  fu  superato.  Allora  si  esercito  in  tutto  il  suo  rigore  la  vendetta 
d'un  nemico  senza  generosita.  I  Tunisini  furono  caricati  di  ferri; 
al  bravo  lor  comandante  fu  troncata  la  testa;  e  posta  sopra  una 
picca,  fu  portata  in  trionfo  per  la  fregata  algerina,  e  poi  fu  esposta 
in  un  eminente  sito,  spettacolo  lurido  e  spaventoso.  Fu  tutto  sulla 
fregata  esultazione  e  trionfo.  II  Rais  dal  piacere  non  entrava  piu 
nei  suoi  panni,  benche  fossero  larghi;  gli  parea  d'aver  fatto  quanto 
Carlo  in  Francia.  Tutti  gli  faceano  applausi  e  congratulazioni ; 
dovemmo  farlo  anco  noi,  benche  quasi  quasi  in  cuore  piuttosto  si 
fosse  presa  passione  pei  Tunisini.  Ma  «gaudete  cum  gaudentibus; 

i.  come  Gilblas  .  .  .  agnusdei:  T episodic  e  appunto  nel  Gil  Bias  de  Santil- 
lane  (libro  I,  cap.  vm),  romanzo  di  ispirazione  picaresca  del  Lesage  (1668- 
1747). 


26  FILIPPO   PANANTI 

flete  cum  flentibus».x  E  bisognava  usar  di  tali  riguardi  per  esser 
trattati  meglio,  oppur  meno  male.  I  grand!  sono  come  quei  mulini 
eretti  sulle  montagne  che  non  danno  della  farina  se  non  si  da  loro 
del  vento. 


RIUNIONE   COI  COMPAGNI  DELL'INFORTUNIO 

La  nostra  piu  grande  inquietudine  non  era  per  noi,  ma  pe'  nostri 
compagni  rimasti  sul  brigantino.  Vedemmo  quel  bastimento  nella 
notte  della  gran  tempesta  qua  e  la  sbalzato  dalle  onde,  scender  lo 
rimirammo  dentro  le  aperte  voragini  e  piu  nol  vedemmo.  Vi  ave- 
vamo  i  compagni  del  viaggio  e  deirinfortunio.  Ma  quattro  giorni 
dopo  il  brigantino  riapparve,  le  navi  si  awicinarono,  e  il  resto  del- 
Pequipaggio  siculo  e  toscano  fu  trasportato  ancor  esso  sulla  fregata 
algerina.  Fu  grandissima  consolazione  il  ritrovarsi,  il  vedersi  in  vita, 
1'essere  insieme  congiunti,  il  poter  correr  tutti  la  sorte  medesima. 
Parve  che  la  sventura  perdesse  di  sua  acerbita.  Cosi  sempre  ac- 
cade  ove  son  molti  insieme  a  faticare  e  soffrire.  La  gaieta  e  fra  gli 
uomini  nei  piu  gran  lavori  della  campagna;  i  soldati  brillan  del 
fuoco  delPardimento  quando  combattono  in  masse;  desolata  e 
Tanima  dell'infelice  abbandonato  nella  solitudine. 

Rivedemmo  ancora  il  capitano,  contro  del  quale  ogni  mattina, 
destandoci,  come  nelle  notturne  tenebre,  s'alzava  il  nostro  lamento. 
Ma  tutto  allor  fu  obliato:  non  rimirammo  piu  Pautore,  ma  il  com- 
pagno  della  nostra  sventura,  e  faceva  veramente  compassione  quel 
re  del  bastimento  caduto  in  tanta  bassezza.  E  il  capitano  parea 
sinceramente  afflitto  e  mortificato,  e  forse  non  avea  errato  che  per 
imprudenza  e  temerita.  La  confessione  del  proprio  fallo  ristabilisce 
in  tutto  il  lume  dell'innocenza,  e  il  pentimento  6  cosi  bello  che  la 
virtu.  Dice  un  bel  passo  delVAnia*  antico  libro  degli  Hindous: 
«  Un  uomo  buono  dee  non  solo  perdonare,  ma  ancora  al  suo  nemico 

i .  « Gioite  con  quelli  che  gioiscono,  piangete  con  quelli  che  piangono ». 
II  precetto  e  in  Rom.,  12,  15,  ma  con  le  forme  «gaudere .  .  .  flere».  2. 
Ania :  non  esiste  un  poema  con  questo  titolo  nell'antica  letteratura  india- 
na.  La  sentenza  si  trova  nella  raccolta  Indische  Spruche.  Sanskrit  und 
Deutsch,  pubblicata  da  Otto  Bohtlingk,  St.  Petersburg  1870-1873,  in 
parte  (1870),  p.  512,  sentenza  7099.  Probabilmente  Tequivoco  e  nato,  nel 
Pananti  (ed  altri  poi  Thanno  ripetuto),  dal  fatto  che  anyad  in  sanscrito  si- 
gnifica  «inoltre»,  ed  e  modo  usato,  come  premessa,  per  introdurre  via  via, 
dopo  la  prima,  successive  sentenze  di  uguale  argomento.  Le  indicazioni 
e  Tipotesi  sono  dovute  alia  cortesia  del  professor  F.  Belloni  Filippi. 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA       27 

desiderate  il  bene.  Simile  e  alFalbero  del  Sandal,  che  nel  memento 
in  cui  e  abbattuto,  copre  di  profumi  la  scure  che  lo  ha  colpito». 
«Apprendi,»  dice  il  poeta  persiano  HanV  «apprendi  dalla  con- 
chiglia  dei  mari  a  riempier  di  perle  la  mano  stesa  per  nuocerti. 
Vedi  tu  quelPalbero  assalito  da  un  nuvolo  di  pietre  ?  Ei  non  lascia 
cadere  su  quei  che  le  lanciano,  che  dei  frutti  deliziosi  e  dei  fieri ». 


LA  DURA  VITA  SULLE   NAVI  DEI   BARBERESCHI 

«  Ah,  )>  diceva  il  povero  pievano  Boschi,  di  cui  lo  spiritoso  e  satiri- 
co  pievano  Landi*  avea  scritta  la  vita  «  ah  la  mia  vita  sara  la  mia  mor- 
te! »  Udite  che  vita  da  morire  era  la  nostra  sulle  fregate  algerine.  Si 
miri  la  compagnia.  Uomini  d'ogni  setta,  d'ogni  razza,  d'ogni  colore; 
dei  banditi  di  Levante,  dei  Mori,  figli  di  quei  cacciati  di  Spagna, 
che  a  udir  nominare  un  Cristiano  si  facevano  di  color  verde;  dei 
Neri  come  1'inchiostro,  appellati  in  Africa  i  Fertit\  degli  uomini 
col  naso  schiacciato  come  le  scimie,  altri  col  capo  lanuto  come  le 
pecore:  credo  vi  fossero  ancora  degli  ourang-outang  e  dei  him- 
panzag.  Si  vedevano  alcuni  di  quegli  esseri  spaventosi  e  bizzarri  ad 
uno  ad  uno  rannicchiarsi  in  certe  buche  Tuna  dall'altra  discoste, 
come  nella  repubblica  dei  castori;3  altri  appollaiarsi  su  certe  travi 
come  Puccello  del  mal  augurio,  e  tutti  poi  venir  fuori  come  esce 
dalla  tana  il  lupo  affamato.  La  schifa  ciurma  era  tutta  coperta  da 
capo  a  piedi  di  lebbra,  d'elefantiasi  e  d'eserciti  d'animali  divora- 
tori.  Ci  teneva  il  cuor  sollevato  il  timor  della  peste  che  ivi  ci  figura- 
vamo  dovere  starci  di  casa;  e  non  facendo  quegli  stupidi  fatalisti 


i.  II  poeta  persiano  Hafiz,  detto  «l'usignuolo  di  Siraz»,  dotto  studioso 
del  Corano,  mori  nel  1389:  di  lui  rimane  una  breve  raccolta  di  versi,  so- 
prattutto  di  tono  anacreontico.  2.  Don  Carlo  Landi,  aretino,  morto  nel 
1794,  maestro  del  Pignotti,  ha  lasciato  un  poemetto  e  altre  poesie  giocose. 
Su  lui,  vedi  N.  VIVIANI,  Curiosita  aretine,  Arezzo  1921,  pp.  239  sgg.  Del 
pievano  Landi  narra  alcuni  aneddoti  lo  stesso  Pananti  in  nota  al  presente 
brano:  « Verso  la  fin  de'  suoi  giorni  egli  stesso  bruti.6  la  maggior  parte 
delle  sue  rime.  Ne  conservaron  per6  alcuni  cittadini  d' Arezzo.  Credo 
che  esistano  ancora  molti  canti  della  Boscheide,  poema  satirico  contro  un 
Boschi  pievano  di  Subbiano,  che  fu  veramente  percid  tribolato.  Essendo 
questi  andato  dal  vescovo  per  pregarlo  di  far  chetare  il  Landi,  e  dicendo 
che  la  vita  di  questo  sarebbe  la  sua  morte,  il  vescovo  prego  il  Landi  a  per- 
donare  al  povero  Boschi,  se  non  voleva  farlo  morire.  II  Landi  rispose:  — 
Nolo  mortem  peccatoris;  convertatur  et  vivat».  3.  repubblica  dei  castori'.  i 
castori  vivono  in  societa,  costruendo  1'una  accanto  alPaltra  le  loro  tane. 


28  FILIPPO    PANANTI 

che  coi  lumi  accesi  e  la  pipa  in  bocca  andare  e  venire  per  quella 
casa  di  legno,  ci  aspettavamo  ad  ogni  istante  d'udir  lo  scoppio  e  di 
saltar  nelle  nuvole.  lo  potrei  star  nella  botte  di  Diogene,  purche 
nessuno  non  mi  parasse  il  sole.  Ma  la  stanza  ove  coi  miei  compagni 
io  stava  sepolto,  come  la  bolgia  delPinferno  di  Dante, 

oscura  era,  profonda,  nebulosa, 

tanto  che,  ancor  ch'io  ficchi  Vocchio  a  fondo, 

non  vi  potea  distinguer  niuna  cosa.1 

Stavamo  stretti  come  le  sardelle,  e  parea  che  si  dovesse  fare  il 
mosto :  era  quello  il  vero  letto  di  Procuste,  o  quello  su  cui  gettavasi 
Sant' Antonio  quando  il  nemico  infernale  veniva  a  tentarlo  sotto 
la  figura  d'una  donzella.  Mangiar  distesi  sul  pavimento  e  seduti 
alia  maniera  dei  Turchi  e  dei  cani ;  tutti  a  un  gran  vaso  correre  come 
le  galline  alia  crusca;  non  aver  che  cucchiai  di  legno  come  i  cap- 
puccini,  e  dovere  aspettare  che  se  ne  fosser  prima  servite  le  belle 
bocche  dei  Negri  e  dei  Mori ;  poi  bever  tutti  in  comune  a  un  gran 
secchione, 

dove  avevano  pria  cento  neri  Jarba 
ficcato  il  naso,  la  bocca  e  la  barba.2 

E  sempre  cuscussit?,  non  altro  che  cuscussii,  e  se  ci  prendea  qualche 
fantasia,  se  si  avea  gola  d'un  aglio,  d'una  cipolla,  si  dovea  far  cento 
prieghi  e  cento  memoriali  a  un  avaro  credenziere,  di  nome  Solyman, 
che  non  dicea  do  ut  des,  ma  «  date  prima,  e  poi  si  dara  » ;  ma  noi  come 
avevamo  a  dare  i  primi  il  nostro  denaro  ?  II  Rais  1'avea  preso  in  de- 
posito,  e  si  avea  dato  il  lardo  a  custodire  alia  gatta;  e  quando  il  de 
naro  certa  gente  1'ha  visto,  non  si  rivede  piu;  cosi  noi  eravamo  ri- 
masti  asciutti  come  1'esca,  e  a  porci  col  capo  all'ingiu  e  a  scuoterci 
e  scuoterci,  non  ne  sarebbe  uscito  un  mezzo  baiocco.  Un  giovine 
uffiziale  chiese  al  suo  principe  un  aumento  di  paga,  dicendo  che 
con  il  poco  che  avea  non  si  potea  sostentare ;  ma  il  principe  riguar- 
dandolo  e  vedendolo  vegeto  e  fresco  con  una  faccia  da  impera- 
tore,  gli  disse  che  a  stentare  non  si  faceva  quella  bella  faccia  che 
schizzava  il  grasso.  L'ufHziale  rispose :  —  Altezza,  non  e  mio  questo 

1.  Dante,  Inf.,  iv,  10-2.   Ma  la  citazione  e  inesatta.   II  Pananti  ha  defor- 
mato  i  versi  di  Dante,  che  scrive:   « Oscura  e  profonda  era  e  nebulosa  / 
tanto  che,  per  ficcar  lo  viso  a  fondo,  /  io  non  vi  discernea  alcuna  cosa ». 

2.  Vedi  la  nota  tap.  13.     3.  cuscussii:  vivanda  araba  di  assai  mescolati 
ingredient!. 


AVVENTURE   SOPRA   LE    COSTE   DI   BARBERIA  29 

bel  viso,  ma  della  ostessa,  che  e  una  buona  donna  e  che  mi  da  da 
mangiare  a  credenza.  —  Ma  con  1'avaro  Solyman  non  si  facevano 
conti  lunghi,  ed  era  scritto  sulla  porta  del  suo  magazzino,  come  su 
quella  d'un'osteria :  «Domani  si  da  da  mangiare  a  credito,  oggi  si 
paga».  Ci  potevamo  paragonare  a  certe  monache  povere  derelitte 
della  citta  d'Arezzo,  alle  quali  il  faceto  pievano  Landi  rega!6 
una  bella  gabbia  con  entro  un  vaghissimo  cardellino.  Era  accompa- 
gnato  il  dono  da  graziosi  versi,  nei  quali  lo  spiritoso  poeta  fa  parlar 
le  monache  che  avevan  con  Puccelletto  grandissima  analogia.  —  Tu 
sei  in  gabbia  rinchiuso,  —  diceano  al  cardellino  le  buone  suore  — 
e  in  gabbia  siamo  noi  pure;  tu  saluti  il  di  coi  tuoi  canti,  e  noi  can- 
tiam  mattutino;  tu  pigoli  sempre  a'  tuoi  ferri,  e  noi  siamo  spesso  a 
pigolare,  e  a  far  pissi  pissi  alia  grata;  ma  piu  di  noi  tu  felice,  tu  vedi 
sempre  di  panico  o  miglio  la  tua  cassetta  ripiena,  e  noi  spesso  a 
tavola  non  viviamo  che  di  sospiri.  —  E  terminava  cosl: 

quanta,  o  vago  augellin,  la  nostra  vita 
della  tua  si  pud  dir  piu  sventurata; 
a  te  non  s'impedisce  che  Vuscita, 
e  not  siam  senza  uscita  e  senza  entrata. 

ADDOLCIMENTO1 

Le  cose  di  questo  mondo  son  fatte  a  faccette.  Presentan  diversi 
aspetti,  e  la  piu  trista  situazione  puo  aver  qualcosa  di  dolce,  o  al- 
meno  assai  raddolcito.  Noi  non  ci  lasciammo  abbattere  dal  dolore: 
e  quando  I'inquietudine  e  Tagitazione  non  farebber  che  piu  awi- 
luppare  Tintralciate  fila  della  nera  sorte,  e  prudenza  il  rassegnarsi 
e  cedere  alia  corrente  delle  inevitabili  vicissitudini.  Si  pu6  esser  se 
non  felici,  almeno  tranquilli  in  ogni  piu  duro  stato.  Un  uomo  di 
spirito  rinchiuso  alia  Bastiglia  confesso  che  non  furon  quelli  i  giorni 
suoi  piu  infelici;  MenzicofT2  sapea  consolarsi  nella  povera  capanna 
in  mezzo  ai  ghiacci  del  polo ;  Robinson  Crusoe  trov6  Toccupazione 
e  il  diletto  nella  sua  deserta  isola ;  Cervantes  cominci6  il  suo  grazioso 
romanzo  nelle  prigioni  d'Agamanzillas.3  Non  mostrammo  nem- 

i.  Questo  brano  corrisponde  alle  pp.  102-6  del  volume  I  dell'edizione  da  noi 
seguita.  2.  Menzicoff:  Alessandro  MentsikorT  (1674-1729)  fu  consigliere  di 
Pietro  il  Grande,  di  Caterina  II,  e  si  impadronl  del  governo  sotto  Pietro  II,  in 
nome  del  quale  esercit6  il  potere.  Potenti  nemici  ne  provocarono  il  crollo 
e  Pesilio  in  Siberia,  dove  mori.  3.  Cervantes  .  .  .  Agamanzillas:  Miguel  de 
Cervantes  (1547-1616),  il  famoso  autore  del  Don  Chisciotte,  fu  catturato  nel 


30  FILIPPO   PANANTI 

meno  alcun'aria  d'abbattimento ;  fummo  quasi  fieri,  quasi  orgo- 
gliosi;  col  capo  alto,  come  Cesare,  minacciato  avremmo  i  corsari.1 
Del  resto  non  era  la  cuccagna,  ma  non  era  poi  la  sperpetua;2  non 
si  viveva  bene,  ma  si  poteva  vivere ;  non  aveamo  un  letto  sprimac- 
ciato,  ma  vi  trovavamo  il  sonno;  sempre  cuscussii,  e  vero,  ma  la 
fame  non  si  pativa;  eravamo  presi  dai  Turchi,  ma  non  eramo  inca- 
tenati;  qualche  fortuna  non  ci  mancava.  Avevam  fra  noi  due 
graziosissime  bimbe,  figlie  del  cavaliere  e  madama  Rossi;  e  il  cielo, 
che  1'innocenza  protegge,  in  lor  riguardo  accordava  protezione  anco 
a  noi.  Non  si  avea  che  a  mandarne  in  giro  la  Luigina,  e  queH'ama- 
bile  creatura  tornava  sempre  col  grembiulino  pieno  di  fichi  secchi, 
d'uva  passa  e  di  datteri,  ed  era  per  noi  altri  poveri  penitenti  quello 
che  fu  la  colomba  pei  santi  anacoreti  della  Tebaide.  Molti  dei 
Turchi  e  dei  Mori  erano  gente  di  bonissima  pasta,  e  la  lor  tenerezza 
pe'  bambini  e  una  prova.  Rammenterem  con  piacere  Mehemet 
figlio  d'un  principe  arabo,  uomo  pieno  di  buon  senso  e  di  virtu, 
il  giovine  Acmet  segretario  del  Rais,  che  avea  viaggiato  nei  porti 
d'Europa  e  parlava  Titaliano  e  il  francese  perfettamente,  e  1'Aga3 
della  milizia  turca  che  era  quello  che  si  chiama  in  Levante  un  Turco 
gentile.  Nessuna  offesa  non  ci  fu  fatta,  e  soprattutto  rispettate  furon 
le  nostre  donne,  e  con  loro  parlando  i  Turchi,  parevan  tanti  no  vizi 
dei  cappuccini.  C'invitava  il  Rais  alle  sue  stanze,  ci  regalava  di 
qualche  novella  araba,  e,  quel  che  valeva  piu  delle  novelle,  ci  dava 
qualche  buona  tazza  di  caffe  dell'Yemen,  e  un  bicchierino  ancor 
del  suo  rum,  cioe  del  nostro  rum  che  ci  avea  tolto  sul  brigantino; 
ma  non  sono  i  piu  cattivi  ladri  quelli  che  pigliano  da  una  mano,  e 
che  poi  rendon  qualcosa  dalPaltra. 

Ma  chi  crederebbe  che  sopra  un  legno  corsaro,  in  mezzo  ai  fieri 
Africani,  avessimo  le  nostre  conversazioni,  le  nostre  accademie,  i 
nostri  rout*  e  quasi  la  nostra  opera  in  musica  ?  Assistevamo  ai  rozzi 
canti  e  alle  goffe  danze  dei  Mauri  e  dei  Neri;  e  pregati  a  cantare, 

1575  dai  pirati  turchi,  e  per  cinque  anni  soffri  la  prigionia  come  schiavo  ad 
Algeri.  La  prima  parte  del  Don  Chisciotte  fu  pubblicata  nel  1605,  la  se- 
conda  nel  1615 :  non  fu  iniziato  in  prigionia.  i.  col  capo  .  .  .  corsari:  Giulio 
Cesare,  mentre  si  recava  a  Rodi,  cadde  in  mano  ai  pirati  (75  a.  C.),  con  i 
quali  rimase  trentotto  giorni,  in  attesa  che  fosse  pagato  il  prezzo  del  riscatto. 
Plutarco  nella  sua  Vita  di  Cesare  (2)  narra  del  disprezzo  con  cui  il  futuro  im- 
peratore  trattava  i  pirati  suoi  carcerieri.  2.  sperpetua:  moite,  rovina.  II 
vocabolo  deriva  da  una  deformazione  popolare  di  luxperpetua,  che  e  espres- 
sione  frequentemente  ripetuta  dai  sacerdote  nell'officio  funebre.  3.  Agd: 
comandante.  4.  rout:  adunanze  serali. 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA       31 

non  volemmo  essere  scompiacenti :  «  Cantabit  vacuus  coram  latrone 
viator)).1  Fummo  tanti  Orfei  sulla  nave  degli  Argonauti,2  e  gli 
African!  parvero  ammansiti  dalla  nostra  voce  soave,  come  il  sicario 
dalla  dolce  musica  di  Stradella,3  e  come  lo  spaventoso  Tlalaba 
dall'aereo  suono  che  partia  dall'arpa  del  re  di  Caradoc.4  Si  vede  che 
in  Africa  e  ancora  fra  i  barbari  bisogna  divertire  per  farsi  amare,  e 
farsi  amare  per  essere  stimati ;  si  trova  tutto  il  merito  in  colui  che  sa 
dilettare,  e  Puomo  amabile  passa  per  I'uomo  abile.  La  natura  pro 
duce  dei  fiori  prima  di  dare  dei  frutti.  Un  giovine  present6  una 
supplica  ad  un  ministro  per  ottenere  un  piccolo  impiego  nelle  do- 
gane,  o  sul  bollo.  II  ministro  rispose  con  quelle  promesse  che  non 
promettono  nulla.  Prima  di  ritirarsi  il  giovine  disse  al  ministro  che 
quella  supplica  1'aveva  messa  anco  in  versi.  II  ministro,  che  avea 
quel  giorno  mangiato  bene  e  bevuto  meglio,  rispose,  ridendo,  che 
era  curioso  di  rimirare  come  una  supplica  sulle  dogane  si  prestasse 
al  ritmo  e  alia  rima.  II  giovine  recito  i  suoi  versi,  e  il  ministro  che 
s'intendeva  di  poesia,  e  in  versi  avea  scritto  qualche  biglietto  ga- 
lante  dove  confessare  che  v'era  gusto  e  facilita.  —  Giacche  Vo- 
stra  Eccellenza  ha  tanta  compiacenza,  —  riprese  il  giovine  postu- 
lante  —  sappia  che  questi  versi  gli  ho  messi  ancora  in  musica.  — 
Oh  questa  e  nuova  di  zecca;  —  disse  il  ministro  —  le  parole  bollo, 
dogane,  frodo,  tariffa,  sbirri  debbono  essere  tenere  e  cantabili.  — 
Ma  il  giovine  si  mise  ad  un  cembalo,  e  canto  come  un  usignuolo. 
—  Bravo,  da  capo  —  disse  Sua  Eccellenza.  II  postulante  animato 
da'  suoi  successi  —  Se  ella  non  si  annoia,  —  disse  al  ministro  — 

i.  Giovenale,  Sat.,  x,  22:  «I1  viandante  povero  potra  cantare,  passare  can- 
tando,  dinanzi  al  ladrone».  2.  Orfei .  .  .  Argonauti:  il  leggendario  poeta 
e  musico  Orfeo  accompagn6  gli  Argonauti  nella  prima  mitica  navigazione 
alia  conquista  del  vello  d'oro.  3.  In  nota  il  Pananti  narra  che  il  cele- 
bre  compositore  Alessandro  Stradella  (1645  circa-  1682)  aveva  sposato 
una  «nobil  donzella  e  con  essa  si  era  fuggito»;  il  padre  di  lei,  irato,  aveva 
inviato  due  sicari  perch6  lo  uccidessero,  ma  essi,  ascoltato  un  concerto 
eseguito  dallo  stesso  Stradella,  furono  cosi  commossi  che  si  gettarono  ai 
suoi  piedi  confessando  la  loro  intenzione  e  chiedendo  perdono.  4.  co 
me  ...  Caradoc:  allusione  a  un  episodic  del  canto  xi  (The  Capture)  di 
Madoc  in  Aztlan,  poema  epico  di  Robert  Southey  (1774-1843).  II  gio- 
vane  re  Caradoc  dorme  sull'alba  in  una  caverna  semi-scoperchiata.  Qui  e 
sorpreso  da  Ocellopan  e  Tlalala  (non  Tlalaba,  come  scrive,  per  evidente 
lapsus  memoriae,  il  Pananti).  Per  due  volte  Tlalala  si  slancia  con  1'asta  pro- 
tesa  contro  il  re  di  Cambria,  e  Tuna  e  Taltra  volta  spaurito  si  ritrae,  come 
dinanzi  al  miracolo  d'una  manifesta  protezione  divina,  perche  la  brezza  del 
mattino  sfiora  Tarpa  invisibile  di  Caradoc  e  ne  deriva  « aerial  music », 
anzi  « so  sweet  a  harmony,  that  sure  /  it  seem'd  no  earthly  tone ». 


32  FILIPPO    PANANTI 

di  questa  supplica  ne  ho  fatto  ancora  un  balletto,  e  I'eseguir6.  — 
Deve  essere  veramente  eroico ;  —  disse  il  ministro  —  ballate,  io 
vi  suoner6.  —  II  giovine  ballo  con  una  sveltezza  ed  una  grazia  am- 
mirabile.  —  Voi  —  disse  il  ministro  —  siete  un  soggetto  da  non 
perdersi  per  lo  Stato;  avete  spirito,  gran  varieta  di  talenti  e  di  cogni- 
zioni,  mi  avete  divertito  moltissimo,  io  faro  la  vostra  fortuna.  — 
E  non  gli  dette  un  piccolo  posto  nelle  dogane,  ma  lo  fece  uno  dei 
primi  suoi  segretari,  lo  porto  di  peso  e  lo  fece  volare;  e  cosi  molti 
gran  posti  si  ottennero  spesso,  non  col  capo,  ma  con  la  gamba. 

LE   SPERANZE1 

Non  si  poteva  conoscere  il  nostro  vero  destino,  non  vi  erano  dati 
certi  da  fissare  il  nostro  giudizio.  I  Barbereschi  non  ci  avevano  in- 
catenati,  non  ci  poneano  ai  lavori,  ma  ci  avean  presi  e  ci  riteneano; 
rispettavan  le  nostre  persone,  ma  della  nostra  roba  si  era  fatto  un 
chiappa  chiappa.  Cosl  non  eravamo  ne"  carne  ne  pesce,  ne  nel  rigo 
ne"  nello  spazio  ;2  e  vedendo  tante  contraddizioni,  avremmo  potuto 
dire  come  il  contadin  della  favola,  cui  era  stato  tolto  Tasino  di 
sotto,  lasciando  il  cavaliere  sulla  sua  sella: 

ma  sono  io  veramente,  o  diventato 
sono  un  altro  uom?  Questa  sarebbe  bella. 
Se  sono  io,  dove  Vasino  e  volato? 
Se  non  io,  per  che  c'e  questa  sella?  3 

Ma  nello  stato  d'incertezza  e  prudente  e  vantaggioso  il  farsi  un 
bel  prospetto  prima  che  crearsi  dei  fantasmi: 

.  .  .  B  follia  dei  mortali 
I'arte  crudel  di  presagirsi  i  mail. 

Sempre  e  maggior  del  vero 
Videa  d'una  sventura 
al  credulo  pensiero 
dipinta  dal  timor. 

Chi  stolto  il  mal  figura, 
accresce  il  proprio  affanno, 
ed  assicura  un  danno 
che  non  e  certo  ancor* 

i.  Questo  brano  e  il  seguente  corrispondono  alle  pp.  108-15  del  volume  I 
dell' edizione  da  noi  seguita.  2.  ne  .  .  .  spazio:  si  allude  al  pentagramma, 
dove  le  note  sono  sul  rigo  o  nello  spazio.  L'espressione  vuol  significare  che 
essi,  come  prigionieri,  non  erano  piu  nulla.  3.  Vedi  la  nota  i  a  p.  13. 
4.  Metastasio,  Attilio  Regoloy  atto  I,  scena  xi. 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA       33 

Cominciammo  dunque  a  farci  animo,  a  rasserenarci,  a  riguardare 
il  nostro  caso  come  una  di  quelle  strane  vicende  a  cui  van  soggetti  i 
viaggiatori,  una  di  quelle  passeggiere  disgrazie  che  si  gode  poi  di 
narrare  nei  giorni  della  calma  e  della  felicita.  I  cavalieri  erranti,  dice 
Sancio  Panza,  sono  sempre  in  procinto  di  divenire  imperatori, 
o  d'essere  fracassati  dalle  legnate.  Ci  abbandonammo  a  dolce  lu- 
singa;  ci  fissammo  in  testa  che  al  nostro  sbarco  in  Algeri  usciremmo 
di  gabbia  e  ci  lascerebber  padroni  d'andare  e  stare  dove  ci  piacesse; 
ci  rallegrammo  quasi  d'aver  potuto  cosi  vedere  i  regni  dell'Africa, 
si  facean  fino  dei  bei  progetti  e  dei  sogni.  II  mercante  Terreni  fa- 
ceva  cento  superbe  speculazioni,  volea  comprare  venti  cassoni  di 
tappeti  di  Barberia;  il  pittore  volea  dipingere  una  sala  del  Dey;1 
le  signore  nostre  si  voleano  abbellir  di  scialli  e  di  boccette  d'acqua 
di  rose:  che  felice  tendenza  degli  animi  a  dissipar  le  nuvole  della 
tristezza  e  a  farsi  dolce  illusione!  A  chi  non  e  accaduto,  dice  mada- 
ma  di  Stael,  in  mezzo  alle  sue  pui  grandi  afflizioni,  di  sentire  in 
fondo  al  suo  cuore  una  forza,  una  confidenza  che  fa  sperar  vicino 
il  termine  de'  suoi  mali,  come  una  celeste  musica  si  facea  intendere 
ai  pii  anacoreti  della  Tebaide  per  annunziare  che  la  fonte  salutare 
andava  a  sgorgar  dal  sen  della  rupe?  La  speranza,  dice  Chateau 
briand,  non  abita  fra  gli  esseri  fortunati,  il  suo  posto  e  in  mezzo 
degli  infelici.  Collocata  presso  deiruomo,  come  una  madre  vicina 
al  letto  del  suo  figlio  malato,  lo  culla  fra  le  sue  braccia,  lo  nutre  d'un 
latte  che  calma  tutti  i  dolori :  ella  veglia  accanto  al  suo  guancial  so- 
litario,  lo  addormenta  con  dei  canti  magici.  —  Voi,  —  diceva  una 
dama  al  suo  vecchio  amico  —  voi  in  quei  giorni  si  lieti  e  si  fortunati 
eravate  bello  come  la  speranza.  —  La  speranza  da  un'ala  al  godi- 
mento,  toglie  una  spina  al  dolore:  e  il  piacere  in  fiori  e  in  foglie. 


i.  Dey:  principe,  governatore.  L' Algeria  e  la  Tunisia  erano  allora  provincie 
delFimpero  ottomano,  che  vi  teneva  appunto  dei  propri  governatori,  di- 
venuti  in  realta  autonomi. 


34  FILIPPO    PANANTI 


IL   RAIS   HAMIDA 

II  Rais,  nelle  cui  mani  avemmo  Tonore  di  cadere,  appellavasi  Ha- 
mida,  Aveva  bruna  faccia  e  truce  fisonomia:  era  pero  d'assai  cortesi 
maniere.  Benche  sia  Puso  e  quasi  la  legge  di  conferire  tutte  le  prime 
cariche  agli  uffiziali  delle  Orte  dei  Giannizzeri?  Hamida  era  per- 
venuto  al  grado  di  grande  ammiraglio,  quantunque  Moro  ed  anco 
della  razza  ignobile  dei  Cubail.2  Dovea  la  sua  fortuna  a  un  merito 
eminente  e  ad  una  brillante  riputazione.  Questi  titoli  lo  aveano 
conservato  in  posto,  a  fronte  della  cabala  turca  che  cercava  tutte  le 
strade  di  abbatterlo:  Hamida  aveva  veramente  abilita,  coraggio,  ed 
era  soprattutto  fecondissimo  in  artifizi,  ai  quali  doveva  i  suoi  piu 
grandi  successi.  Da  giovane  avea  servito  coi  Portughesi,  e  pass6 
per  uno  dei  loro  migliori  uffiziali.  Comandante  d'uno  sciabecco  al- 
gerino,  fece  moltissime  prede  e  diede  prova  di  perspicacia  e  va- 
lore.  Estese  le  sue  crociere  fmo  alle  alture  delFisola  di  Madera  ed 
ai  banchi  di  Terranuova,  e  prese  alcuni  ricchi  legni  d'America. 
Ma  la  piu  grande  impresa  che  rese  il  di  lui  nome  strepitoso  in 
tutte  le  coste  delP Africa,  quanto  quello  di  Sinan  e  di  Dragut,3 
fu  la  conquista  d'una  gran  fregata  di  Portogallo,  che  era  quella 
che  il  Rais  mont6  di  poi,  ed  era  divenuta  come  la  nave  ammira- 
glia  della  Potenza  Algerina.  Dovette  per6  un  tal  successo  alia  sua 
astuzia  ed  alia  inavvertenza  del  capo  squadra  dei  Portughesi.  II 

i.  Orte:  i  reggimenti,  ciascuno,  in  genere,  con  proprio  numero,  ves- 
sillo  e  nome,  che  costituivano  le  tre  classi  in  cui  erano  ripartiti  i  gian- 
nizzeri  (soldati  scelti,  della  guardia  dei  prlncipi).  2.  Cubail:  ovvero  la 
tribu  berbera  dei  Cabili,  abitanti  nell'Atlante  algerino,  una  provincia 
che  da  essi  prese  poi  il  nome  di  Cabilia.  II  Pananti  parla  di  razza  ignobile 
probabilmente  perche"  spesso  in  armi  contro  Arabi  e  Turchi  (come  successi- 
vamente  contro  i  Francesi)  e  per  il  frequente  mercato  delle  donne,  pratica- 
to  dagli  stessi  congiunti  e  capi  delle  tribal  indigene.  3.  Sinan:  generica 
allusione,  per  la  frequenza  del  nome,  a  un  autorevole  personaggio  otto- 
mano  segnalatosi  nella  guerriglia  corsara  del  Cinquecento,  in  ispecie  il 
Sinan  Pascid,  la  cui  flotta  conquistd  Tripoli  nel  1551  e  che  mori  il  24  gen- 
naio  1578,  e,  piu  probabilmente  (dato  il  contesto  del  Pananti),  il  Sinan 
Pascia,  detto  il  Grande,  che  fu  a  capo  della  spedizione  per  la  conquista  di 
Tunisi  nel  1574  e  mori  a  Costantinopoli  nel  1596;  Dragut:  fu  celebre  cor- 
saro  turco,  gia  catturato  nel  giugno  1540  da  Giannettino  Doria,  ma  libe- 
rato  poco  di  poi  e  divenuto  il  maggior  organizzatore  d'incursioni  e  razzie 
nel  Mediterraneo,  nonostante  la  spedizione  collettiva  delle  potenze  cristia- 
ne,  il  1550,  contro  la  sua  base  di  Mehedia.  Al  servizio  del  sultano  Solimano, 
partecip6  alle  imprese  di  Tripoli,  della  Tunisia  e  contro  Malta,  nel  corso 
della  quale  ultima  decedette  il  25  giugno  1565. 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA       35 

legno  di  Portogallo  aveva  incontrata  una  fregata  inglese ;  compar- 
ve  un  momento  dopo  una  fregata  algerina,  che  i  Portughesi  crede- 
rono  la  stessa  inglese  fregata,  e  non  presero  alcuna  saggia  pre- 
cauzione.  II  Rais  barberesco  si  accosto  come  per  volere  parla- 
mentare,  e  spiegando  bandiera  arnica;  e  quando  fu  vicinissimo, 
incrocicchi6  le  ancore  respettive,  fece  subitamente  salire  i  Mori  al- 
1'assalto,  e  si  rese  padrone  del  legno  portughese  senza  che  avesser 
tempo  quegli  ufiiziali  d'armarsi  e  presentare  alcuna  difesa.  Una 
volta  vicino  alPisola  della  Pantelleria  fece  dei  segni1  amichevoli,  e  il 
comandante  dell'isola  venuto  sopra  una  barca  a  sentir  le  domande 
di  colui  che  credeva  un  britannico  Commodor,  fu  perfidamente 
ritenuto  e  posto  in  catene.  II  difetto  del  Rais  Hamida  era  di  credere 
d'aver  molta  virtu.  II  merito  grande  si  vede  in  piccolo,  il  piccolo 
merito  si  vede  in  grande;  gli  occhi  non  ci  furono  dati  per  rimirarcL 
II  Rais  era  anco  ingiusto  con  gli  altri,  ed  a  se  solo  attribuiva  tutti  i 
successi,  si  vantava  d'avere  egli  tutto  fatto  e  dover  fare  ogni  cosa. 
Era  come  quel  colonnello  che  diceva:  —  lo  sono  il  mio  colonnello, 
il  mio  tenente,  il  mio  foriere.  —  E  il  vostro  trombetta  —  gli  fu  ri- 
sposto.  Un  altro  difetto:  non  era  punto  rigoroso  con  i  soldati,  e 
soprattutto  sui  furti  serrava  gli  occhi;  anzi  diceva  che  un  buon 
generale  non  deve  badare  a  queste  bagattelle,  e  che  egli  non  vo- 
lea  far  la  fine  di  due  suoi  predecessori,  che  per  aver  voluto  tener 
troppo  in  freno  i  Giannizzeri,  aveano  ricevuta  una  fucilata  nelle 
spalle,  e  cosi  distesi  morti  sul  cassero.  Non  girava  quasi  mai  sulla 
nave ;  ma  tre  o  quattr'ore  del  giorno  riposando  sopra  una  sedia,  in 
una  parte  eminente  con  le  gambe  incrociate,  fumando  e  lisciandosi 
le  basette,  girava  gli  occhi  e  dava  i  suoi  ordini.  NelPazione  poi, 
benche  mostrasse  intelligenza  e  valore,  faceva  perdere  a  tutti  la 
testa  con  la  sua  impazienza,  i  suoi  urli  e  le  sue  maledizioni.  II 
cardinale  di  Dubois1  bestemmiava  come  un  Turco,  e  diceva  ai  suoi 
segretari  che  non  facevano  nulla,  e  bisognava  che  ne  prendesse  altri 
trenta  per  veder  terminar  qualche  cosa.  Uno  dei  segretari  tranquil- 
lamente  rispose:-—  Prendetene  uno  solo  che  bestemmi  per  voi,  e 
tutto  andra  con  ordine  e  celerita. 


i.  Guglielmo  Dubois,  cardinale  francese,  fu  consigliere  di  stato  e  poi  mi- 
nistro  degli  esteri,  durante  la  reggenza  di  Filippo  d'Orleans  (1715-1723), 
prima  che  salisse  al  trono  Luigi  XV. 


36  FILIPPO    PANANTI 


VISTA  D'ALGERI1 

Uscimmo  dalla  baia  di  Bona,  e  seguitammo  a  costeggiare  le  are- 
nose  piagge  di  Libia,  facendo  lo  stesso  cammino,  mirando  i  me- 
desimi  oggetti  che  quei  cavalieri  della  Croce,  Carlo  ed  Ubaldo, 
quando  andavano  a  torre  il  giovin  guerriero  dal  vil  riposo  in  cui 
dormia  il  suo  valore  e  si  perdea  la  sua  gloria.2 

Si  vide  da  lunge  all'estremita  degli  azzurri  campi  delle  onde 
qualche  cosa  di  biancheggiante :  era  il  gran  centro  della  pirateria, 

nido  Algeri  di  ladri  infame  ed  empio 3 

La  citta  da  lungi  bella  appariva  in  un  vago  e  lucido  semicerchio. 
Mille  case  di  campagna  e  giardini  sopra  un  anfiteatro  di  collinette, 
mille  vigne  e  boschetti  d'olivi,  d'aranci  e  di  giuggioli  presentano 
un  aspetto  campestre  e  pacifico,  poco  analogo  all'indole  truce  e 
alia  feroce  vita  di  quei  tiranni  dell' Africa.  Un  grido  di  gioia  fu  sopra 
le  fregate  algerine,  e  noi  pure  ci  rallegrammo  per  esser  giunti  al  ter- 
mine  del  noioso  viaggio  e  delle  nostre  lunghe  perplessita;  e  quasi 
salutammo  Algeri  con  la  letizia  con  cui  i  cavalieri  della  prima  guerra 
di  Terra  Santa  salutaron  Gerusalemme.  Eramo  come  un  infermo, 
che  non  potendo  piu  sostenere  il  gran  dolore  d'una  piaga,  si  sotto- 
pone  con  lieto  animo  ad  una  penosissima  operazione:  speravamo 
ancora  che  col  fine  del  viaggio  andassero  a  finir  le  nostre  inquietu- 
dini.  L'infelicita,  dice  Bernardin  S.  Pierre,  rassomiglia  alia  mon- 
tagna  Nera  di  Beruber  ai  confini  del  regno  ardente  di  Lahor;4 
finche  si  ascende  non  s'incontran  che  sterili  rupi  e  spaventose  vo- 
ragini;  quando  si  e  giunti  sopra  la  cima,  si  ha  il  ciel  sereno  sopra 
la  testa,  e  a'  piedi  il  bel  reame  di  Cachemir. 


i.  Questo  brano  e  i  sette  seguenti  corrispondono  alle  pp.  135-51  del  volume 
I  dell'edizione  da  noi  seguita.  2.  quei  cavalieri. . .  gloria:  Carlo  ed  Ubaldo 
spno  i  due  guerrieri  che  il  Tasso,  nella  Gerusalemme  liber -ata,  immagina  si 
siano  recati  a  sottrarre  Rinaldo  d'Este  dai  lacci  amorosi  d'Armida.  3.  Vedi 
la  nota  i  a  p.  22.  Una  espressione  simile  aveva  usato  il  Tasso  (Ger.  lib., 
xy,  21) :  «  Trovar  Bugia  ed  Algeri,  infami  nidi  /  di  corsari ».  4.  Lahor :  nome 
di  una  citta  e  di  un  antico  regno  dell' India. 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA      37 


SBARCO  IN  ALGERI 

Per  me  si  va  nella  citta  dolente: 
per  me  si  va  nelVeterno  dolor e: 
per  me  si  va  fra  la  perduta  gente,1 

sembro  dire  il  Rais  Hamida,  ordinandoci  di  seguitarlo.  Fummo 
fatti  montare  sopra  due  lance,  noi  passeggieri  col  Rais,  i  marinari 
siculi  con  PAga.  II  Rais  scese  a  terra,  conducendosi  dietro  i  prigio- 
nieri  italiani,  col  fasto  che  potea  avere  Sesostri2  che  quattro  re  de- 
bellati  avea  avvinti  al  suo  carro,  e  il  feroce  Timur3  che  conducea 
Bajazet  chiuso  dentro  una  gabbia  di  ferro. 

Una  popolazione  immensa  stava  adunata  alia  spiaggia  per  festeg- 
giare  il  trionfante  arrivo  dell'armata  navale.  Non  fummo  pero  spo- 
gliati  e  insultati,  come  si  dice  succedere  ai  Cristiani  schiavi  che 
scendono  in  quelPinospito  lido.  Si  fece  un  lungo  viaggio  per  arri- 
vare  al  palazzo  ove  s'aduna  il  consiglio  per  fare  i  grandi  esami  e 
pronunziar  le  sentenze.  II  Rais  passo  nel  palazzo  della  marina,  e 
noi  restammo  alia  porta.  —  Che  facevate  voi  sotto  quelle  am  pie 
mine  ?  —  fu  domandato  alia  duchessa  di  Popoli  rimasta  tre  giorni 
in  vita  sotto  le  volte  d'un  gran  palazzo  diruto  nei  terremoti  delle 
Calabrie.  Ella  rispose:—  lo  aspettava. 

COMPARSA  AVANTI  AI   CAPI  DEL   GOVERNO  AFRICANO 

S'alzo  una  gran  tenda,  1'atrio  si  apri  della  casa  della  marina,  e  se- 
duti  in  barbara  pompa  e  in  orrida  maesta  ci  comparvero  i  membri 
della  Reggenza,  gli  Ulemas4  della  legge  e  i  primi  Aga  del  Divano.5 
Subito  senza  cirimonie  e  senza  preamboli  si  domandaron  le  nostre 
carte,  e  se  ne  fece  Pesame.  Si  fa  uso  di  tale  apparenza  e  formalita 
per  far  prendere  un'aria  di  giustizia  agliatti  della  violenza  e  della 
rapina.  Furono  presentate  le  nostre  carte  al  console  inglese,6  che 

i.  Dante,  /«/.,  in,  1-3.  2.  Ramsete  II,  re  d'Egitto,  che  i  Greci  chiamarono 
Sesostri  e  cui  dettero  Tappellativo  di  Grande.  Fu  1'oppressore  degli  Ebrei: 
durante  il  suo  regno  nacque  Mose.  3.  Timur  Leng  o  Tamerlane,  re  mon- 
golo,  conquistatore  di  quasi  tutta  1'Asia  ad  est  del  mar  Caspio.  Nel  1402 
vinse  e  fece  prigioniero  ad  Ancira  il  sultano  Bajazet.  Mori  nel  1405. 
4.  Ulemas:  dottori  della  legge.  II  nome  e  d'origine  turca.  5.  Divano:  qui 
significa  tribunale,  ma  piu  spesso  con  questo  vocabolo  si  indico  il  consiglio 
dei  ministri  dell'impero  turco.  6.  console  inglese:  si  chiarnava  Macdonel; 
il  vice-console  aveva  nome  Francovich. 


38  FILIPPO    PANANTI 

era  stato  appellate  per  fame  la  verificazione.  Vide  1'insufficienza  dei 
nostri  fogH;  ma  spinto  dalla  bonta  del  suo  cuore,  e  da  pieta  per 
tanti  infelici,  fece  ogni  generoso  sforzo  per  farci  tutti  uscir  salvi 
da  quel  tremendo  pericolo.  L'appartener  noi  a  paese  unito  alia 
Francia,  non  trattenne  il  console  da  sue  affettuose  cure:  eravam 
sventurati,  e  perci6  sacri  al  cuor  d'un  Inglese.  Ma  il  Rais  Hamida 
sostenne  le  feroci  leggi  della  pirateria,  fece  distinzioni  finissime  fra 
il  domicilio  e  la  nazionalita,  e  si  mostr6  un  giuspubblicista  abilis- 
simo  secondo  il  codice  africano. 

—  Buona  presa,  prigionieri,  schiavi  —  si  udl  suonar  nel  consiglio 
e  mormorar  fra  le  turbe,  che  adunate  sulla  gran  piazza  sembravan 
coi  loro  gridi  domandare  cotal  decisione.  II  console  domand6  allora 
la  dama  inglese,  e  le  sue  due  piccole  figlie:  accordato.  II  cavalier 
Rossi  marito  della  dama  si  avanz6  con  coraggio  e  con  dignita;  fece 
valere  i  suoi  titoli  come  sposato  a  femmina  inglese,  come  padre 
d'inglese  prole,  e  fu  dichiarato  libero  anch'esso,  e  alia  sposa  e  a* 
figli  and6  a  ricongiungersi.  Un  altro  tentative  fu  fatto  dal  console 
per  la  salute  di  tutti.  Fu  inutile.  —  Schiavi,  schiavi  — :  quest'orride 
voci  con  piu  gran  fracasso  sonarono  nella  sala,  furono  ripetute  dalla 
moltitudine.  I  ministri  della  Reggenza  si  alzarono;  il  consiglio  fu 
sciolto;  il  console,  il  vice-console  inglese,  e  con  loro  la  famiglia 
Rossi,  partirono;  e  noi  restammo  immobili,  stupefatti,  come  chi 
udl  dappresso  il  fragore  e  involto  si  ritrovo  nell'alta  vampa  del 
fulmine. 

LA   PRIGIONE  DEGLI   SCHIAVI 

Fummo  fatti  mettere  in  cammino  sotto  la  direzione  del  Grande 
Scrivano  e  del  Guardian  Bachi  degli  schiavi.  Si  attravers6  la  meta 
d'Algeri  tra  un'immensa  folia  di  spettatori.  Era  venerdl,  giorno  di 
riposo  e  di  festa  pei  Mussulmani;  e  grinfedeli  uscendo  dalle  mo- 
schee,  correano  a  godere  dello  spettacolo  degli  oppressi  ed  awiliti 
Cristiani. 

Arrivammo  al  Pascialick,  o  al  palazzo  del  Fascia,  oggi  abitato  dal 
Dey.  II  primo  oggetto  che  colpl  i  nostri  sguardi,  e  ci  fece  raccapric- 
ciare,  furono  sei  recise  e  sanguinolente  teste  distese  intorno  alia 
soglia,  e  bisognava  il  pie  sollevare  per  penetrar  nel  cortile.  Erano  i 
teschi  d'alcuni  torbidi  Aga  che  aveano  mormorato  contro  del  prin- 
cipe.  Le  credemmo  teste  di  Cristiani  esposte  cola  per  atterrire  i 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA      39 

nuovi  ospiti  di  quella  funesta  regione.  Un  cupo  silenzio  regnava 
fra  quelle  mura ;  il  sospetto  errava  per  ogni  dove ;  su  tutti  gli  sguardi 
era  dipinto  il  terrore.  Fummo  fatti  distendere  in  fila  davanti  alle 
finestre  del  Dey  per  dilettar  la  vista  del  despota.  S'affacci6  al  bal- 
cone;  ci  riguardo  con  alterigia  e  disprezzo,  sorrise  d'una  feroce 
gioia.  Fece  un  cenno  con  la  mano,  e  ci  fu  dato  1'ordine  di  partire. 
Facemmo  un  gran  giro  per  le  tortuose  strade  della  citta.  Arrivam- 
mo  a  un  ampio  e  oscuro  casamento,  ove  per  naturale  orrore,  al- 
Pentrare,  il  piede  ricalcitro.  Era  il  gran  Bagno,  o  la  casa  di  reclusion 
degli  schiavi.  La  chiaman  cola  Bafios  os  esclavos,  e  in  Italia,  senza 
tanto  indorar  la  pillola,  si  chiamerebbe  galera.  Le  gambe  ci  vacil- 
larono,  tutto  il  nostro  corpo  trem6,  traversando  1'orrido  limitare. 
Lo  scrivano  grande  ci  disse  per  le  sue  prime  parole :  —  Chi  e  tratto 
in  questo  albergo,  e  schiavo.  —  Pareva  scritto  su  quelle  soglie  fu- 
neste,  come  su  quelle  della  magion  del  dolore, 

uscite  di  speranza,  o  voi  che  entrate.1 

•  Traversammo  il  sordido  e  cupo  cortile  tra  la  moltitudine  degli 
schiavi  e  la  misera  turba  degli  esseri  abbandonati.  Eran  laceri, 
scarni,  sparuti;  la  fronte  bassa,  Pocchio  stralunato,  le  gote  percorse 
dai  lunghi  solchi  della  tristezza,  e  in  cotal  modo,  pei  lunghi  pati- 
menti  e  per  le  amare  sventure,  disseccata  era  la  loro  anima,  e  di- 
strutto  nei  loro  cuori  ogni  dolce  palpito  della  vita,  che  indifferent! 
e  stupidi  ci  rimirarono  senza  darci  veruno  dei  dolci  segni  di  pieta. 
Nel  giorno  in  cui  non  andavano  ai  lavori,  chiusi  restavan  gli  schiavi, 
e  si  aggiravano  come  pallidi  spettri  in  quella  casa  di  tenebre  e  di 
dolore. 

IL   PRIMO   GIORNO  DI   SCHIAVIXtl 

Montammo  le  nere  scale  della  prigion  degli  schiavi,  come  colui 
che  monta  quella  per  cui  si  ascende  al  patibolo.  Ma  come  alPuomo  a 
morte  vicino  si  concede  qualche  soddisfazione,  quel  primo  giorno 
il  guardian  degli  schiavi  ci  trattb  con  dolcezza  e  riguardo:  ci  fece 
passare  nelle  sue  camere,  e  voile  che  dividessimo  il  suo  desinare,  e 
ristabilissimo  il  nostro  stomaco  estenuato  dall'astinenza  del  di  pas- 
sato  e  dalle  agitazioni  tremende  di  quella  gran  mattinata.  Erano 
stati  riuniti  alia  mensa  tre  antichi  schiavi,  persone  di  nascita  ed 

i.  Dante,  Inf.,  in,  9.  Ma  la  lezione  esatta  scrive:  «  Lasciate  ogni»  ecc. 


40  FILIPPO    PANANTI 

educazione,  tra  i  quali  il  signer  Artemate  di  Trieste,  il  cui  spirito 
era  ornato,  e  il  carattere  formato  dalle  lunghe  riflessioni  e  dalla 
sventura.  Ci  port6  le  voci  dell'amicizia  e  della  pieta.  Come  Attilio 
Regolo  ci  ritrovavamo  servi  in  quella  stessa  feroce  Africa.  Felici  se 
poteamo  conservare  la  stessa  intrepida  anima,  e  se  poteam  dire: 

non  perdo  la  calma 
fra  i  ceppi  o  gli  allori, 
non  va  sino  alValma 
la  mia  servitu.1 

I  cibi  vennero  in  tavola.  Benche  di  cibo  estremamente  bisognosi, 
poca  noi  ci  sentivamo  volonta  di  gustarne.  Ma  prevalse  il  bisogno 
di  conservar  1'esistenza: 

peseta  piit  che  '/  dolor  pote  '/  digiuno.2 


L'IMPIEGO 

Tutto  quel  giorno  corrispondemmo  col  consolato  inglese,  coi  no- 
stri  amici  al  di  fuori,  e  con  alcuni  Ebrei  di  grande  influenza  e  ma- 
neggio.  Per  me  particolarmente  prendea  la  cosa  aspetto  men  tristo. 
I  miei  buoni  amici  cavaliere  e  madama  Rossi  avevano  vivamente  in- 
teressato  in  mio  favore  il  console  inglese,  e  quel  ministro  generoso  e 
filantropo  tutto  tentava  per  trarmi  dalla  mia  penosa  situazione.  Si 
diceva  nel  Bagno  che  io  era  stato  formalmente  chiesto  ai  ministri  di 
Sua  Eccellenza  il  Fascia;  ma  che  mi  avevan  quei  ricusato,  e  che 
uno  solo  avrebbe  condisceso  a  liberarmi,  ma  per  cinquemila  pa- 
tache  chiche?  che  formano  tremila  dei  nostri  zecchini  d'oro  so- 
nante :  e  questo  gran  prezzo,  perche  sapeva  il  governo  ch'io  era  un 
gran  poeta  e  ricchissimo.  Poeta  e  ricchissimo  e  strana  associazione 
d'idee.  Io  valere  cinquemila  patache  chiche  ?  Non  si  valuta  tanto  in 
Europa  un  poeta.  Aggiungevasi  poi  che  non  si  curavan  restituirmi, 
perche  era  intenzione  di  Sua  Eccellenza  il  Pascia  di  servirsi  dell'ope- 
ra  mia  in  commissioni  di  grande  importanza.  Che  mai  vorrebbesi 
farmi  ?  Poeta  di  corte,  virtuoso  di  camera  ?  musico  di  Sua  Altezza  ? 
Oh  questo  non  mi  fa  punto  girar  la  testa,  e  le  catene  io  non  amo 
perche  son  d'oro.  Ma  il  guardian  Bachi  mi  prese  sotto  il  braccio,  e 
imprese  meco  grave  sermone.  —  Voi—  mi  disse—  siete  nato  vestito; 

i.  Metastasio,  Attilio  Regolo,  atto  i,  scena  vui,  arietta  finale.     2.  Dante, 
7w/.,  xxxin,  75.     3.  patache  chiche:  nome  deformato  di  una  moneta  araba. 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA       41 

voi  avete  le  fortune  che  vi  piovon  sopra:  venite  schiavo  in  Algeri,  e 
il  giorno  dopo  rischiate  di  salire  a  un  posto  dove  altri  non  arriva  in 
cento  anni.  —  Or'  ora  io  mi  aapettava  che  mi  paragonasse  a  Giu 
seppe  Ebreo :  cominciava  la  fortuna  dai  sogni.  —  Ma  voi  —  seguiva 
il  Bachi  —  dovreste  saltare  dalPallegrezza,  e  state  costi  che  parete 
un  mortorio.  —  Non  ho  —  io  risposi  —  grande  cagion  di  dolermi? 
cosa  puo  sollevar  dal  peso  dei  ferri  ?  —  Errori  della  debole  mente 
umana  —  ei  soggiunse.  —  La  schiavitu  e  il  naturale  stato  degli  uo- 
mini.  Tutti  (ecco  le  sue  precise  parole),  tutti  dipender  dai  principi, 
dai  piu  forti,  dalle  circostanze,  dalla  necessita;  tutti  stare  schiavi 
degli  usi,  delle  convenience,  delle  passioni,  delle  malattie,  della 
morte;  ma  chi  salire  al  potere,  non  star  piu  schiavo:  vedere  anzi 
schiavi  al  suo  piede ;  servire  ad  uno  per  comandare  a  mille :  ti  star 
buona  cavezza  (buona  testa) :  ti  aver  buona  lingua :  star  buono  acqui- 
sto  per  noi;  ti  poter  far  1'interpetre  e  il  segretario  del  Dey,  e  allora 
ti  nuotare  nelPoro,  divenir  lampada  di  sapere,  e  aver  giardini  di 
volutta:  ti  divenir  grande  persona,  e  tutti  fare  salamelek.  —  Troppo 
onore,  troppo  onore :  —  rispondeva —  io  non  credo  di  meritar  tanto. 
Ma  io  non  so  come  Sua  Eccellenza  il  Fascia  abbia  potuto  degnarsi 
di  gettare  un  guardo  sopra  di  me.  —  Rispose:  —  Star  questo  co 
stume  d'aver  segretario  uno  schiavo.  Questo  Dey  avere  avuto  primo 
suo  segretario  un  Cristiano,  e  questo  can  d'Infedele  aver  tradito: 
e  Dey  far  testa  tagliara.  Altro  Cristiano  venuto,  star  questo  un  furbo 
che  portar  lettere  a  consoli  europei,  e  Dey  far  morire  sotto  le  verghe. 
Aver  preso  un  Ebreo  che  non  pensare  che  a  far  denari,  e  Dey 
spogliare  Ebreo  e  poi  far  bruciare.  Dey  aver  preso  un  Arabo  e  un 
Moro;  ma  nulla  saper  fare,  e  Dey  rimandare;  ma  poi  testa  tagliara, 
perche  saper  cose.  Ora  il  Fascia  voler  tornare  a  prender  Cristiano, 
e  saper  che  ti  star  buona  cavezza.  —  Ma  dimmi  per  curiosita,  —  re- 
plicai  —  quanto  hanno  durato  i  due  Cristiani,  PEbreo,  PArabo  e  il 
Moro  ?  tre,  sei,  dieci  mesi  ?  a  un  anno  niuno  arrivo  ?  —  No,  —  mi 
rispose  —  ma  vita  corta  e  buona.  —  Gli  onori  — -  io  dissi  —  sareb- 
bero  grandi,  ma  portano  troppi  oneri.  Oh  grazie  grazie:  i  signori 
Fascia  son  buoni  e  cari,  ma  si  disgustano  facilmente  delle  persone, 
e  vengono  troppo  presto  alle  brutte.  Oh  io  non  sono  come  quel  car- 
dinale  che  diceva: 

.  .  .  vorrei  sentirmi  dire 
segretario  di  Stato,  e  poi  morire.1 

i.  Vedi  la  nota  i  a  p.  13. 


42  FILIPPO    PANANTI 

Signer  marchese,  diceva  al  ministro  della  guerra  Argenson1  un  gio- 
vine  gentiluomo  che  volean  mandare  alia  guerra  a  seguire  le  lumi- 
nose  tracce  degli  avi,  signer  marchese,  vi  chiedo  in  grazia  la  vita, 
piuttosto  che  Pimmortalita.  —  lo  mi  posi  quindi  a  riflettere  a  que- 
sta  bella  fortuna  che  mi  si  presentava.  Se  avessi  io  dovuto  scegliere 
un  posto,  sarebbe  stato  quello  che  ottenne  un  giovine  inglese  della 
contea  di  Sallop.  Costui  si  era  recato  a  Londra  per  domandar 
qualche  posto,  che  sperava  ottenere  per  la  protezione  del  ministro 
d'allora ;  ma  non  si  vedeva  mai  verun  risultato,  e  il  giovine  gettava 
i  passi,  il  denaro,  e  sperando  si  disperava,  Un  di  finalmente  and6 
dal  ministro,  e  gli  disse  che  aveva  ottenuto  un  posto.  —  Ne  godo 
molto,  —  disse  il  ministro—  e  che  posto  e?—  Un  posto  nella  dili- 
genza  di  Shrewsbery,  che  ho  fissato  per  questa  notte;  —  rispose  il 
giovine  postulante  —  perche  sono  stanco  di  piu  gettare  il  mio 
tempo  per  credere  alle  lusinghe  della  fortuna  e  alle  vane  parole  dei 
suoi  favoriti. 

LE   ORE  DEL   RIPOSO 

Mentre  si  andava  cosl  discorrendo  con  il  guardian  Bachi  degli 
schiavi,  e  passeggiavamo  pei  neri  corridori,  ove  sul  nudo  terreno 
o  sopra  strato  di  paglia  giaceano  ramassate2  le  vittime  della  cru- 
del  servitu,  venne  1'ora  per  me  della  cena,  e  quella  poi  del  riposo. 
Un  momento  prima  era  venuto  al  Bagno  il  vice-console  inglese 
che  avevami  raccomandato  alle  attenzioni  dello  scrivano  grande  e 
del  guardiano  Bachi,  e  mi  avea  fatti  sapere  i  passi  che  faceva  il  con 
sole  in  mio  favore,  e  come  a  quella  tarda  e  nera  ora  di  notte  pel 
motive  medesimo  saliva  le  scale  del  palazzo  del  Dey.  Mi  diceva  il 
grande  scrivano  che  la  mia  sorte  allora  si  decideva  per  sempre, 
che  forse  il  credito  e  Peloquenza  del  console  avrebbero  persuaso  il 
Fascia:  ma  che  se  era  data  una  negativa,  mai  piu,  mai  piu,  per  can- 
giar  di  tempo  e  di  pelo,  non  isperassi  riaver  la  liberta  primiera; 
che  detto  una  volta  No,  questo  gran  No  mai  piu  non  si  revocava; 
che  le  stesse  premure  del  console  se  non  eran  felici,  sarebbero 

i.  Marc  Pierre  de  Voyer  conte  d' Argenson  (1696-1764)  fu  ministro  della 
guerra  nel  1743.  A  lui  Diderot  e  D'Alembert  dedicarono  I* Encyclopedic 
(175 1).  2.  ramassate:  ammassate.  II  Pananti  adopera  il  yocabolo  incrocian- 
dolo  con  il  francese  ramasse,  scop  a,  granata.  Usa  invece  pid  esatta  grafia 
a  p.  46. 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA      43 

state  la  piu  gran  disgrazia  per  me.  Fui,  come  si  puo  supporre,  in 
una  terribile  agitazione  una  gran  parte  della  notte.  Lo  scrivano 
grande  mi  avea  ceduta  la  sua  camera  ed  il  suo  letto,  ma  io  non  vi 
trovava  il  mio  sonno.  Pure  le  massime  dei  filosofi  vennero  un  poco 
a  calmarmi,  e  m'insegnarono  a  rendermi  indipendente  dalla  for- 
tuna,  mettendomi  al  di  sopra  di  lei.  Interrogate  il  giovine  Dionisio 
a  che  gli  era  servita  la  filosofia,  rispose:  «A  rimirare  senza  sorpresa 
i  cangiamenti  della  fortuna,  e  a  sopportarli  senza  lamento)).1  Quan- 
do,  dicea  Callistene  a  Lisimaco,  quando  io  sono  in  una  situazione 
che  domanda  del  coraggio  e  della  forza,  mi  sembra  d'essere  al  mio 
posto.  Se  gli  Dei  non  mi  avessero  messo  sopra  la  terra  che  per  me- 
nare  una  vita  di  dolcezza  e  di  volutta,  io  crederei  che  inutilmente  mi 
avessero  dato  un'anima  grande  e  immortale.  Noi  non  possiam  co- 
mandare  alia  fortuna;  no'i  possiam  far  di  piu,  noi  possiam  meritare 
d'essere  stati  felici.a 

I  LAVORI   PUBBLICI 

Non  appariva  ancora  il  primo  raggio  del  giorno,  gli  uomini  e  gli 
animali  stanchi 

sotto  il  silenzio  degli  amid  orrori 
sopiano  i  sensi  e  raddolciano  i  cuori:^ 

ma  non  dorme  la  tirannia,  e  invidia  ai  miseri  il  sonno,  il  solo  bene 
che  loro  rimane.  Siamo  subitamente  svegliati  e  scossi  da  un  rumor 
di  voci  e  colpi,  da  uno  strisciar  di  ferree  catene :  si  togliean  gli  schia- 
vi  alPoblio  delle  pene  per  far  loro  ricominciare  la  loro  penosa  vita. 
II  custode  della  prigione  grido  a  noi  pure :  —  Levatevi  — ;  e  con  noi 
pur  gia  prendeva  il  duro  tuon  del  comando.  «  Vamos  a  trabajo  cor- 
nutos»4  era  1'espressione  villana  con  cui  si  udian  gli  aguzzini  chia- 

i .  Interrogate  .  .  .  lamento :  la  sentenza  e  attribuita  a  Dionisio  il  giovane, 
tiranno  di  Siracusa,  da  Plutarco  nei  suoi  Apoftegmi  di  re  e  capitani  (Mor., 
176  D).  2.  Quando  .  .  .felici:  Callistene  (370  circa  -  327  a.  C.)>  filosofo  e 
storico,  parente  e  discepolo  di  Aristotele,  segui  Alessandro  Magno  nelle 
sue  imprese,  ma  fu  poi  da  lui  condannato  a  morte.  Non  dai  frammenti  dei 
suoi  scritti,  a  noi  pervenuti,  ma  dal  pseudo  Callistene,  vissuto  verso  il 
300  d.  C.  e  autore  di  una  vita  romanzata  di  Alessandro,  deve  aver  tratto 
il  Pananti  la  sua  citazione :  o,  meglio  ancora,  da  qualcuno  dei  numerosi  ri- 
facimenti  e  divulgazioni  che  ne  furono  fatti  dal  Medioevo  in  poi;  Lisi 
maco  (355-282  a.  C.)  fu  generale  di  Alessandro  Magno  e  uno  dei  diadochi. 
3.  Tasso,  Ger.  lib.,  u,  96 ;  ma  il  testo  ha « de'  secreti »  e  « gli  affanni »  in  luogo 
di  degli  amid  e  di  i  sensi.  4.  « Andiamo  al  lavoro,  cornuti. » 


44  FILIPPO    PANANTI 

mar  con  orrido  grido  gli  schiavi,  a  ripetuti  colpi  di  verga  mettendo 
in  moto  i  piu  lenti.  Giunse  nel  carcere  PAga  nero.  Avea  portati  certi 
anelli  di  ferro  che  doveano  porsi  al  nostro  sinistro  piede,  e  la  ri- 
manere  in  perpetuo,  segno  della  nostra  condizione  di  schiavitu. 
Erano  anelli  sottili;  ma  che  orribil  peso  hanno  gli  anelli  di  servitu! 
II  nero  Aga  messe  Panello  ai  miei  compagni,  e  a  me  lo  pose  in  mano, 
dicendomi  che  Sua  Eccellenza  il  Fascia  mi  concedea  la  grazia  di- 
stinta  di  pormelo  al  piede  da  me  medesimo.  Era  simile  alia  distin- 
zione  usata  dal  gran  Padishah  Ottomanno,  quando  a  qualche  Visir 
invia  il  fatal  cordino  con  1'ordine  di  strozzarsi.  Mi  strinsi  al  pie  Por- 
ribile  anello,  come  un  Bassa1  di  Levante  si  stringe  al  collo  il  tefta.2 
Nel  pormi  al  piede  il  segno  di  servitu  e  d'ignominia  un  sudor  freddo 
scorse  sulla  mia  fronte;  il  mio  cuore  per  Pangoscia  si  fece  grosso 
e  nero;  i  miei  occhi  s'aprivano  e  non  vedevano  piu;  la  mia  bocca 
volea  parlare,  e  non  poteva  articolare  alcun  suono:  chinai  la  testa 
e  lo  sguardo,  e  taciturno  e  cupo  cedetti  al  mio  destino  ferreo. 


LIBERAZIONE 

Eravamo  dugento  nuovi  infelici  di  varie  nazioni  presi  dai  Barbe- 
reschi  nelPultima  loro  crociera.  Fummo  posti  in  cammino  con 
guardie  davanti  e  guardie  di  dietro:  una  turba  immensa  ci  segui- 
tava,  e  un  profondo  e  mesto  silenzio  regnava  in  mezzo  di  noi.  Ve- 
devamo  innanzi  passar  le  turbe  degli  antichi  schiavi,  che  i  carnefici 
seguitavano  con  le  verghe  gridando :  —  A  trabajo  cornutos ;  can 
d'infedele  a  trabajo.  —  Arrivammo  ai  forni  della  marina,  e  ci  furon 
gettati  due  neri  pani  di  crusca,  come  si  gettano  ai  cani.  Gli  antichi 
schiavi  gli  afferravano  per  aria,  e  se  li  divoravano  con  una  avidita 
spaventosa.  Giunti  al  grand'atrio  della  marina,  vi  trovammo  assisi 
in  orrida  maesta  e  in  tutto  Papparato  della  possanza  tirannica  i 
membri  del  governo,  gli  Aga  della  milizia,  i  primi  Rais  della  flotta, 
il  grande  Almirante,  il  Cadi,  il  Mufti,3  gli  Ulema  della  legge  e  i 
giudici  secondo  il  Koran.  Siam  posti  in  fila,  numerati,  scelti  e  con- 
siderati,  come  suol  farsi  in  oriente  alia  vendita  degli  Icoglani,4  e 

i.  Bassa:  pascia.  2.  tefta:  sciarpa  di  seta,  dal  persiano  tafteh.  3.  Almi 
rante  .  .  .  Cadi .  .  .  Mufti:  ammiraglio,  giudice,  dottore  delle  leggi.  4.  «  Si 
chiamano  Icoglani  in  oriente  i  giovani  schiavi  posti  in  case  d'educazione  a 
spese  del  Gran  Signore,  e  destinati  ad  uscire  di  la  per  cuoprir  le  cariche 
delPimpero  »  (nota  del  Pananti). 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA       45 

come  era  il  costume  in  America  al  gran  mercato  dei  Neri.  6  fatto 
un  profondo  silenzio :  i  nostri  sguardi  eran  fissi,  i  nostri  cuori  bat- 
tevano.  S'alzo  una  voce,  era  quella  del  ministro  della  marina,  primo 
segretario  di  Stato.  Domanda  un  nome:  era  il  mio.  Son  fatto  avan- 
zare.  Mi  son  fatte  varie  interrogazioni  sul  mio  soggiorno  in  Inghil- 
terra,  su  le  mie  occupazioni,  i  miei  rapporti  cola.  Indi  mi  dice  il 
ministro  queste  maravigliose  parole:  —  Ti  star  franco. —  Si  e 
detto  che  il  piu  bel  suono  alle  orecchie  ed  alPanima  e  quello  della 
meritata  lode;  che  la  piu  grata  voce  e  quella  delPamata  persona. 
No,  la  voce  che  piu  dolcemente  scuote  le  fibre  del  cuore,  e  quella 
che  rende  un  uomo  alia  sua  natia  liberta.  Aver  gia  gli  occhi  bendati, 
la  fatal  bipenne  aver  sul  collo  inalzata,  e  udir  subitamente  voci  di 
grazia  e  di  vita,  possono  essere  un'immagine  di  quel  ch'io  fui,  di 
quel  ch'io  provai  in  una  rivoluzione  si  felice  e  si  subitanea.  II  mio 
caso  era  unico  negli  annali  d'Algeri;  non  v'era  esempio  d'un  uomo 
liberate  senza  riscatto  il  primo  dl  di  sua  prigionia :  i  decreti  di  quei 
barbari  sono  i  decreti  della  tremenda  fatalita.  Fu  ordinato  a  un  sol- 
dato  di  levarmi  dal  piede  Panello  di  ferro.  Quegli  obbedi,  e  mi 
disse  d'andar  a  ringraziare  il  ministro,  che  la  mano  mi  strinse, 
dicendomi  varie  obbliganti  cose,  e  ordino  poi  al  Dragomanno  di 
condurmi  alia  casa  del  console  d'lnghilterra.  La  gioia  avea  inon- 
dato  il  mio  cuore  allorche  libero  e  franco  ho  potuto  muovere  il 
piede;  ma  il  secondo  pensiero  non  fu  per  me,  fu  pe'  miei  infelici 
compagni  che,  dietro  alPesempio  mio,  a  una  soave  lusinga  s'erano 
abbandonati  ancor  essi.  Anch'io  Pavrei  bramato  e  lo  sperava,  e  an- 
dava  con  lentezza  e  mi  soffermava  a  ogni  passo  per  veder  se  anch'es- 
si  mi  seguitavano ;  ma  Pordine  usci  di  trarli  tutti  ai  lavori :  le  diverse 
opere  furono  loro  assegnate,  e  venner  fatti  partire.  Li  vidi  che  col 
capo  basso  e  gli  occhi  gonfi  di  pianto  mettevansi  tristamente  in 
cammino.  Si  volsero  una  volta  indietro,  la  man  mi  strinsero,  addio 
mi  dissero  e  sparvero. 

I   CRISTIANI   SCHIAVI   NEI   REGNI   DI   BARBERIA1 

Chi  non  e  stato  in  Algeri,  chi  non  ha  vista  la  sorte  alia  quale  son 
condannati  i  Cristiani  che  in  quelle  orrende  contrade  cadono  schiavi 
dei  barbari,  non  conosce  quello  che  la  sventura  ha  di  piu  amaro  e 

i.  Questo  brano  corrisponde  alle  pp.  169-75  del  volume  i  delPedizione 
da  noi  seguita. 


46  FILIPPO    PANANTI 

piu  tristo,  e  in  quale  stato  d'affanno  e  d'abbattimento  pu6  cader 
Panima  degl'infelici  figli  degli  uomini.  lo  stesso,  che  il  vidi  e  il 
provai,  non  potrei  coi  detti  dipingere  quel  che  si  sente  e  si  soffre 
quando  si  precipita  in  quelPorrenda  sventura. 

Dacche  un  uomo  e  dichiarato  schiavo,  e  spogliato  dei  suoi  panni, 
coperto  d'una  ruvida  tela,  e  per  lo  piu  lasciato  senza  scarpe,  senza 
calze  e  la  testa  nuda  sotto  la  sferza  del  sole.  Molti  si  lascian  crescere 
orribilmente  la  barba  in  segno  di  desolazione  e  di  lutto,  e  vivono 
in  una  schifezza  che  fa  compassione  e  ribrezzo.  Una  parte  di  quei 
miseri  sono  destinati  a  filar  le  corde  e  a  cucir  le  tele  nelParsenale, 
e  sono  sempre  sotto  lo  sguardo  e  la  verga  degli  aguzzini  che  strana- 
mente  abusano  di  loro  barbara  autorita,  e  ne  tirano  tutto  il  lor 
poco  denaro  per  temperare  il  rigore  delPinflessibil  comando;  altri 
sono  schiavi  del  Dey,  o  a  ricchi  Mori  venduti,  e  servono  a  piu  vili 
usi;  altri  in  fine  come  giumenti  son  condannati  a  trasportar  le  le- 
gna  e  le  pietre,  a  lavorare  alle  opre  piu  dure,  e  strascinan  ferree  ca- 
tene;  e  degli  schiavi  son  questi  i  piu  miseri.  Che  continuazion  di 
terrori,  che  serie  d'angosce,  che  monotonia  di  giorni  dolenti!  Non 
hanno  letto  per  riposarsi,  non  vesti  per  ricoprirsi,  non  cibo  per  so- 
stentarsi.  Due  pani  neri  come  fuliggine  si  gettano  loro  come  si  get- 
tano  ai  cani ;  questo  e  tutto  il  loro  sostentamento :  chiusi  la  sera  nel 
bagno,  come  i  forzati  nella  galera  dei  malfattori,  si  corcano  ram- 
massati  in  corridori  aperti  ai  turbini,  alle  procelle,  a  tutte  le  ingiurie 
dell'aria  e  della  stagione ;  alia  campagna  dormono  a  cielo  scoperto, 
o  rinchiusi  in  buche  profonde,  nelle  quali  si  scende  per  una  scala; 
ed  una  grata  di  ferro  chiude  la  bocca  delPantro.  Son  risvegliati  all'al- 
ba  in  tumulto  con  le  ingiuriose  voci  «a  trabajo  cornutos»;  e  come 
animali  da  soma  sono  spinti  al  lavoro  a  colpi  di  verga  e  suon  di  be- 
stemmie  e  maledizioni.  Molti,  condannati  a  scavare  i  pozzi  ed  a 
votar  le  cloache,  stanno  le  intere  stagioni  con  Pacqua  fino  alia  cin- 
tola,  e  respirano  un'aria  mefitica;  altri,  obbligati  a  scendere  in  pre- 
cipizi  terribili,  la  morte  han  sempre  sul  capo,  la  morte  sotto  dei 
piedi;  altri,  legati  al  carro  coi  muli  insieme  con  gli  asini,  portan 
la  maggior  parte  del  carico,  e  ricevono  la  maggior  copia  di  basto- 
nate;  molti  rimangono  schiacciati  sotto  le  immense  ruine;  molti 
discesi  nelle  oscure  profondita,  piu  non  riveggon  la  luce;  cento, 
dugento  ec.  muoiono  ogni  anno  per  gli  scarsi  cibi,  le  cattive  cure, 
le  percosse,  i  rammarichi,  Pabbattimento  di  spirito  e  la  disperazion 
del  do  lore.  E  guai  se  ardissero  mormorare  e  alzare  un  solo  lamento! 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA       47 

Per  la  piu  piccola  trascuratezza  hanno  fino  a  dugento  colpi  di  verga 
sulla  pianta  del  piedi  e  sulla  spina  dorsale;  per  la  piu  piccola  resi- 
stenza,  la  morte.  Quando  un  povero  schiavo  per  1'eccesso  della  fa- 
tica,  per  la  gravezza  dei  colpi  diventa  inabile  a  proseguire  il  cam- 
mino,  e  abbandonato  in  mezzo  alia  via,  ove  esposto  all'atroce  di- 
sprezzo  dei  Mauri  e  anche  infranto  dai  carri.  Ne  tornan  dalle  mon- 
tagne  tutti  grondanti  di  sangue,  solcato  il  corpo  dai  lividi ;  cadono 
di  stanchezza  e  d'inanizione;  e  non  v'e  un  cuore  pietoso,  non  una 
man  soccorrevole.  Una  volta  sulPimbrunir  della  sera  mi  sono  udito 
appellare  da  una  fioca  voce:  mi  accosto,  e  veggo  un  infelice  a  terra 
disteso,  tutto  pieno  i  labbri  di  spuma,  e  col  sangue  che  gli  uscia 
gorgogliando  dalle  narici  e  dagli  occhi.  Mi  arresto  pieno  di  doglia 
e  di  raccapriccio.  —  Cristiano,  Cristiano,  —  disse  una  mesta  voce  — 
abbi  pieta  del  mio  spasimo,  e  termina  questa  esistenza  ch'io  non  so 
piu  sopportare.  —  Chi  sei,  misero  uomo  ?  —  io  gridai.  —  Sono  uno 
schiavo,  —  ei  rispose  —  sono  bene  infelici  gli  schiavi!  —  Pass6  al- 
1'istante  un  Oldak1  della  milizia,  e  gridando  al  moribondo :  —  Can 
d'infedele,  non  ingombrar  la  strada  allorche  passa  un  Effendi2  — 
dette  un  calcio  al  misero  schiavo,  lo  getto  giu  da  un  dirupo,  e  lo 
fece  piombar  nella  morte.  Un  altro  giorno  un  piu  infelice  schiavo 
di  piu  gran  ribrezzo  mi  riempie,  e  lacero  piu  fortemente  il  mio 
cuore.  Era  seduto  tristamente  al  pie  d'un  antico  muro;  era  ai  suoi 
piedi  un  enorme  peso,  sotto  cui  sembrava  aver  soccombuto:  il  suo 
volto  era  pallido,  macilente;  il  guardo  torbido  e  fisso,  e  sparsa  la 
faccia  dei  solchi  delPafHizione  e  delle  tracce  d'una  prematura  vec- 
chiezza.  Si  agitava  con  violenza,  si  batteva  il  petto  e  la  fronte,  e 
cocenti  sospiri  gli  uscivano  dai  profondo  del  cuore.  —  Che  fai,  — 
gli  dissi  —  o  Cristiano  ?  qual  tua  crudele  sventura  ti  mette  a  questa 
disperazione  ?  —  Poveri  Cristiani,  —  ei  rispose  —  nessun  li  soccorre 
sopra  la  terra,  e  non  si  ascoltano  i  loro  gemiti  in  cielo.  Napoli  e  la 
mia  patria;  ma  che  patria  ho  io?  Niun  mi  soccorre,  nessun  si  ri- 
corda  di  me.  Io  era  ricco,  nobile,  illustre  nel  mio  paese:  vedi  come 
la  miseria  e  la  schiavitu  cangian  la  faccia  dell'uomo.  Sono  undici 
anni  ch'io  soffro,  ch'io  peno,  ch'io  mi  raccomando;  ma  io  piu  non 
gemo,  piu  non  mi  raccomando.  In  che  piu  sperare,  a  che  piu  volgere 
i  voti,  a  che  piu  attaccar  la  mia  fede  ?  Che  ho  io  fatto  per  dover  esser 
si  oppresso,  per  dover  tanto  soffrire?  —  Meglio  ch'io  seppi  gli  con- 

i.  Oldak:  graduate  delle  truppe  mussulmane.  2.  Effendi:  voce  turca,  che 
significa  padrone,  signore,  e  si  da  come  titolo  a  determinati  funzionari. 


48  FILIPPO   PANANTI 

sigliai  la  pazienza,  la  rassegnazione ;  gli  parlai  delle  alte  speranze, 
del  premio  eterno  della  virtu.  Sorrise  d'un  sorriso  amaro,  mi  getto 
un  guardo  pien  di  tristezza  e  mi  prego  di  lasciarlo.  lo  mi  scostai 
dolente  ed  inorridito.  lo  lo  vidi  che  sul  terreno  si  ruotolava  con 
violenza,  e  Pudii  che  gettava  un  ululo  cupo  e  mormorava  acerbe 
parole.  lo  mi  allontanai  col  cuore  serrato,  e  seguitai  ad  udir  da  lunge 
il  fremito  orrendo  e  il  lugubre  mormorio  dello  schiavo. 

Dalla  speranza  d'uscire  di  tante  pene  fossero  almeno  sostenuti 
gli  schiavi :  ma  il  modo  di  liberarsi  quasi  nessuno  non  ha.  Se  otte- 
nendo  d'esercitare  qualch'arte  si  forman  qualche  peculio,  non  con- 
fidin  con  questo  gli  schiavi  la  loro  liberta  ricomprare;  il  Dey  le 
offerte  lor  non  accetta,  perche  di  tutte  le  ricchezze  del  suo  schiavo 
e  Perede,  e  spesso,  per  farsene  piu  presto  signore,  anticipa  sulla 
morte.  Cosi  soffrono  interminabili  pene  i  Cristiani,  e  non  ne  ve- 
dono  il  fine.  E  rassomiglian  quei  miseri  alle  anime  disperate  del- 
Porrenda  magione  del  pianto,  i  quali,1  un  missionario  predicando 
diceva,  sempre  domandan  che  ora  e:  ed  una  terribil  voce  risponde 
sempre:— -L'eternita.—  Gemessero  solo  gli  schiavi  sotto  il  peso  delle 
fatiche  e  delle  percosse;  ma  son  derisi,  vilipesi,  calpestati;  e  questa 
e  la  piu  gran  pena  ai  cuori  ben  fatti.  «  Cornutos  can  senza  fede»  son 
le  ordinarie  espressioni  accompagnate  spesso  da  un  guardo  sprez- 
zante  e  da  una  spinta  villana.  La  compassione  dei  barbari  si  risve- 
gliasse  almeno  quando  le  infermita,  i  patimenti  hanno  abbattuto 
un  povero  schiavo:  ma  senza  la  carita  della  Spagna,  che  fondo  e 
mantiene  un  piccolo  spedaletto,  i  poveri  schiavi  ammalati  sarebber 
lasciati  nudi  sul  suolo,  e  alcuna  assistenza  non  avrebbe  Pumanita 
lagrimosa.  Potessero  almeno  in  pace  morire,  e  nelFatto  di  abban- 
donare  questo  soggiorno  d'affanno  essere  sostenuti  dalle  speranze 
d'un'altra  vita  in  piii  felici  regioni:  ma  la  pieta  religiosa  non  pu6 
liberamente  esercitare  il  suo  zelo;  non  v'e  che  un  solo  prete  cri- 
stiano  che  possa  sollevare  Pinfermo  sul  letto  suo  di  dolore  e  ricevere 
la  sua  anima  fuggitiva.  £  il  sacerdote  attuale  un  altro  Vincenzio  de' 
Paoli;  si  spropria  di  tutto  per  dar  soccorso  ai  languenti;  apparisce 
loro  come  1*  Angelo  della  pace  e  della  consolazione :  ma  che  pu6  un 
unico  prete  per  tremila  Cristiani,  dei  quali  la  piii  gran  parte,  sparsa 
per  le  campagne  e  pei  monti,  non  ha  per  lustri  interi  assistito  a 

I.  i  quali:  la  concordanza  esigerebbe  « le  quali »,  ma  la  forma  maschile  com 
pare  nelle  edizioni  fiorentina  e  milanese  del  1817  e  ritorna  nella  milanese 
del  1829  (vedi  la  Nota  al  testo). 


AVVENTURE  SOPRA  LE  COSTE  DI  BARBERIA       49 

nessuna  delle  nostre  auguste  funzioni,  e  mille  volte  udi  invece 
dagPinfedeli  bestemmiare  il  nome  del  Nazzareno  ?  Non  sono  dieci 
anni  che  non  v'era  riposo  e  sicurta  nel  silenzio  medesimo  della 
tomba;  non  aveano  gli  schiavi  tre  palmi  di  terra  per  riposar  le  lor 
ceneri;  i  loro  nudi  cadaveri  senza  cristiane  preci,  senza  onore  di 
sepoltura,  restavan  sopra  la  terra  orrido  pasto  del  cani;  passava  il 
barbaro,  Tinfedele,  e  insultava  alle  nude  ossa;  faceva  ruotolare  i 
crani  insepolti.  Con  molta  difficolta  Carlo  IV1  re  di  Spagna  ottenne 
un  pezzuolo  di  terra,  che  dovette  pagare  con  tante  piastre  sonanti 
quante  ne  bisognarono  a  ricoprire  l'intero  spazio.  Quello  strato  di 
terra  sulla  aquilonare  spiaggia  del  mare  serve  oggidi  di  cimiterio 
ai  Cristiani;  ma  non  vi  s'alza  una  croce,  non  vi  si  ascolta  una  prece, 
nessun  rispetto  circonda  il  taciturno  campo  dei  morti.  Cosi  dai 
Cristiani  si  vive,  cosl  si  muore  in  Algeri. 


i.  Carlo  IV di  Spagna,  salito  al  trono  ne  liySS,  dove  poi  abdicare,  dapprima 
in  favore  del  figlio  Ferdinando,  e,  subito  dopo,  di  Napoleone  (1808).  Mori 
esule,  a  Roma,  nel  1819. 


GIUSEPPE  PECCHIO 


PROFILO  BIOGRAFICO 


GIUSEPPE  PECCHIO  nacque  a  Milano  il  15  novembre  del  1785. 
Suo  padre,  il  conte  Antonio,  apparteneva  alia  nobilta  milanese. 
Giovinetto,  studi6  nei  collegi  di  Merate  e  di  Bellinzona,  che  erano 
tenuti  dai  frati  somaschi,  ed  ebbe  perci6  a  maestro,  anch'egli  come 
Alessandro  Manzoni,  il  celebre  padre  Francesco  Soave.  Successi- 
vamente,  frequent6  rUniyersitk  di  Pavia,  e  vi  divenne  dottore  in 
giurisprudenza,  ascoltandovi  anche  le  lezioni  di  Vincenzo  Monti, 
delle  quali  egli,  pur  dopo  molti  anni,  conservava  un  commosso, 
entusiastico  ricordo,  come  appare  dal  capitolo  vil  della  sua  Vita  di 
Ugo  Foscolo.  Erano  i  tempi  turbinosi  del  dominio  napoleonico,  in 
cui  si  mescolavano  insieme,  anche  a  Milano,  le  ideologic  illumi- 
nistiche  e  le  imposizioni  del  rinnovato  assolutismo,  mentre  gia  ser- 
peggiavano,  e  preparavano  Fawenire,  le  nuove  concezioni  e  idealita 
romantiche.  II  Pecchio,  per  Tinclinazione  stessa  del  suo  ingegno, 
si  volse  a  quei  problemi  di  economia  e  di  finanza  che  avevano  ca- 
ratterizzato  rilluminismo  milanese  fin  dai  tempi  del  «  CaflFe »  e  de- 
stato  ad  una  fervida  operosita  molti  patrizi,  dai  Verri  al  Beccaria. 
L'ufficio  cui  fu  eletto  il  26  luglio  1810,  e  che  tenne  per  quattro 
anni,  di  assistente  al  Consiglio  di  Stato  «per  le  sessioni  delle  finanze 
e  deirinterno»  del  Regno  Italico,  accentu6  quella  sua  tendenza 
nativa  e  la  fortific6  con  Pesperienza.  Caduto  poi  Napoleone  e  tor- 
nata  T Austria  in  Lombardia,  fu  nominato  (1819)  deputato  della 
congregazione  provinciale  di  Milano,  ma  con  funzioni  puramente 
nominali,  nella  ormai  totale  subordinazione  dei  popoli  al  risorto 
antico  assolutismo.  Del  duro  affermarsi  della  reazione  il  Pecchio 
stesso  ebbe,  del  resto,  una  assai  chiara  prova,  quando  si  vide  vie- 
tata  (1818)  la  stampa  della  sua  prima  opera,  il  Saggio  storico  sulla 
ammnistrazione  finanziera  dett'ex-regno  d' Italia  dal  1802  al  1814, 
di  cui  1'anno  precedente  aveva  inviato  il  manoscritto  alia  censura 
di  Vienna. 

Per  questi  motivi,  appare  naturale  che  egli  si  sia  unito  a  quei  no- 
bili  spiriti  che  piu  vivamente  soffrivano  per  la  dominazione  reazio- 
naria  dell'impero  austriaco  e,  particolarmente  legato  al  Confalo- 
nieri,  abbia  collaborate  al  «  Conciliatore »  e  sia  stato  membro  della 
setta  segreta  dei  Federati.  Scoppiata  la  rivoluzione  in  Spagna,  nel 
gennaio  1820,  e  poco  dopo,  nel  luglio,  a  Napoli,  dovettero  sembrare 


54  GIUSEPPE   PECCHIO 

possibili  e  prossimi,  ai  patriotti  milanesi,  una  liberazione  della 
Lombardia  dair Austria  e  un  suo  rinnovamento  attraverso  le  forme 
costituzionali.  Troppo  pochi  anni,  del  resto,  erano  trascorsl  dalla 
caduta  del  Regno  Italico  perche  i  liberal!  non  scorgessero  nel  pas- 
sato  e  nel  presente  sufficient!  addentellati  per  una  nuova  mutazione. 
II  Pecchio  fu  allora  pieno  di  fiducia  e  di  speranze,  partecipo  ai 
progetti  dei  liberali  suoi  amici,  raggiunse  il  Confalonieri  che  si  era 
recato  a  Firenze  per  incontrarsi  con  spiriti  affini  e  vi  aveva  awicinato 
Gino  Capponi,  divenne  tra  i  piu  ardenti  animatori:  e  anche,  am- 
malatosi  il  Confalonieri,  tocc6  a  lui  di  andare  in  Piemonte  ad  ab- 
boccarsi  con  Carlo  Alberto.  £,  questo,  un  periodo  piuttosto  oscuro 
della  sua  vita.  Dai  verbali  del  processo  Confalonieri  appare  evi- 
dente  che  il  Pecchio  promise  allora  mari  e  monti  sia  ai  Pie- 
montesi  che  ai  Lombardi,  abbagli6  gli  uni  e  gli  altri  con  i  suoi 
ragionamenti  e  con  fantasiose  notizie,  spingendoli  cosi,  su  false 
basi,  ad  una  impresa  che  presentava  pochissime  possibilita  di  riu- 
scita.  Peggio  ancora,  si  mise  in  salvo  a  tempo,  assente  da  Milano 
fin  dal  10  marzo  1821,  lasciando  i  suoi  compagni  esposti  alia  rea- 
zione:  e  oltre  la  propria  persona,  anche  tent6  di  salvare  i  propri 
beni,  con  una  vendita  simulata  a  uno  dei  Federati,  il  barone  Si- 
gismondo  Trechi.  N6  parve  opportuna  e  dignitosa  una  sua  lettera, 
inviata  all'inizio  delPesilio,  e  nella  quale  si  umiliava  a  piatire  in- 
dulgenza  e  perdono  perche"  gli  fosse  concesso  di  tornare  in  patria. 
Prima  ancora  di  essere  arrestato  e  processato,  il  Confalonieri,  scri- 
vendo  a  Gino  Capponi,  il  30  aprile  del  1821,  giudicava  il  Pecchio 
« inetto  del  pari . .  .  al  fare  e  al  sopportare  »  e  ormai  «  coperto  ,  .  .  di 
ludibrio»  (F.  CONFALONIERI,  Memorie  e  lettere,  a  cura  di  G.  Ca- 
sati,  ii,  Milano,  Hoepli,  1890,  p.  109). 

Accuse  non  molto  diverse,  di  imprudenza  e  leggerezza,  furono 
ripetute  allora  da  vari  liberali :  e  anche  nel  nostro  tempo  hanno  dato 
di  lui  un  severo  giudizio  alcuni  studiosi,  il  Prezzolini  e  il  Tommasini 
Mattiucci.  Ma,  in  realta,  di  generosa  imprudenza  peccarono  allora 
quasi  tutti  i  congiurati:  e  tutti  sperarono  e  fantasticarono,  appog- 
giandosi  assai  piu  sui  loro  desideri  che  sulla  effettiva  situazione. 
Anche  perci6  agli  accesi  entusiasmi  seguirono  assai  spesso  pro- 
fonde  delusioni :  cosi  che  avviene  frequentemente  di  incontrare,  nei 
primi  patriotti, « molta  immaginazione,  molta  sensibilita  . .  .  e  un'ir- 
ritabilita  e  inquietudine  in  estremo  grado  »,  come  osserv6  lo  stesso 
Pecchio  (vedi  qui  a  p.  94).  Ne  i  verbali  del  processo  Confalonieri, 


PROFILO   BIOGRAFICO  55 

sia  per  le  finalita  perseguite  dai  giudici,  sia  per  le  esigenze  della 
difesa,  possono  sempre  accettarsi  in  pieno,  senza  qualche  esita- 
zione.  Cio  non  toglie  che  la  condotta  del  Pecchio  sia  stata  ben  poco 
prudente  prima  e  tutt'altro  che  eroica  dopo  il  fallimento  della  ri 
voluzione. 

II  21  gennaio  del  1824  veniva  bandita  pubblicamente  per  le  vie 
di  Milano  la  condanna  a  morte,  in  contumacia,  del  Pecchio  e  di 
altri  fuggiaschi,  mentre  il  Confalonieri  e  i  patfioti  arrestati  con  lui, 
fatta  loro  grazia  della  vita,  si  preparavano  alle  gravi  sofferenze  dello 
Spielberg.  Ma  il  Pecchio  era  allora  gia  in  Inghilterra.  Fallita,  in- 
fatti,  la  rivoluzione  in  Piemonte,  egli  aveva  raggiunto  la  Svizzera, 
e  di  la,  in  compagnia  e  per  invito  del  ministro  spagnolo  Bardaxi, 
si  era  trasferito  in  Spagna.  Sei  mesi  stette  in  Spagna,  fino  ai  primi 
di  febbraio  del  1822;  quattro  mesi  successivamente  in  Portogallo; 
poi  ancora  in  Spagna  nel  giugno,  mentre  ormai  la  rivoluzione  spa- 
gnola  si  awiava  al  suo  epilogo.  Dopo  aver  visto  con  pena,  a  Ca- 
dice,  il  governo  costituzionale  che  vi  si  era  rifugiato,  il  Pecchio, 
crollata  ogni  speranza,  si  imbarc6  per  Lisbona:  e  ne  salp6  poi,  il 
1 6  luglio  del  1823,  alia  volta  della  ospitale  Inghilterra.  Durante  la 
dimora  nella  penisola  iberica  aveva  per6  composto  e  pubblicato  due 
suoi  lavori,  Sei  mesi  in  Ispagna  nel  1821  e  Tre  mesi  in  Portogallo, 
entrambi  in  forma  di  lettere  che  si  immaginano  dirette  a  una  dama, 
Lady  Giannina  Oxford,  e  che  contengono  descrizioni,  ritratti, 
giudizi  sui  luoghi,  sulle  popolazioni,  sui  rivoluzionari,  in  una  into- 
nazione  letteraria  che  ricorda,  pur  con  tanto  minore  pregio  d'arte, 
le  lettere  composte  dal  Baretti  sulla  Spagna  e  sui  Portogallo. 

L'Inghilterra,  come  scrisse  poi  lo  stesso  Pecchio,  era  allora  il 
«rifugio  degli  oppressi»,  e  vi  avevano  trovato  ospitalita  esuli  di 
tutti  gli  Stati  e  non  soltanto  delPEuropa:  ma  vi  vivevano  stentata- 
mente.  II  Pecchio  ebbe,  per6,  presto  fortuna,  che,  dopo  una  breve 
dimora  a  Londra,  si  sposto  a  Nottingham,  a  ricevervi  dal  conte 
Porro  gli  scolari  che  il  Santarosa  gli  aveva  lasciati  partendo  per  la 
Grecia.  Cominci6  cosl,  col  1824,  la  sua  attivita  di  insegnante  di 
lingua  italiana,  e  di  ci6  si  trova  un  simpatico  ricordo  in  alcune 
pagine  delle  sue  Osservazioni  semi-serie  di  un  esule  sulV  Inghilterra. 
A  Nottingham  la  sua  vita  doveva  scorrere  abbastanza  tranquilla, 
ne  egli  aveva  perduto  il  contatto  con  gli  ambienti  liberali,  se  pro- 
prio  nel  1824  pubblic6  a  Londra  una  lettera  da  lui  indirizzata  ad 
Henry  Brougham  e  che  dava  un  quadro  delle  condizioni  dell'Italia 


56  GIUSEPPE   PECCHIO 

dal  1814  al  1822:  e  pote  inoltre  vedere  accolto  nell'«  Edinburgh 
Review))  un  suo  articolo,  Qu'est  que  c'est  VAustrie?,  vera  denun- 
zia  della  tradizionale  awersione  dell'Austria  contro  ogni  aspi- 
razione  dei  popoli  alia  liberta.  Del  resto,  una  evidente  stima  doveva 
riscuotere  il  Pecchio  se,  dopo  poco,  il  Comitato  filellenio  di  Londra 
affido  a  lui  e  ad  un  amico  del  Byron  Pincarico  di  portare  60.000 
sterline  al  governo  degli  insorti  greci.  Partito  dall'Inghilterra  ai  primi 
di  marzo  1825,  egli  giunse  col  suo  compagno  a  Nauplia,  sede  del 
governo,  il  21  aprile,  dove  assolse  la  sua  missione.  Ne  si  trattenne  a 
lungo,  che"  il  10  giugno  gia  si  imbarcava  verso  PInghilterra,  deluso 
e  amareggiato  dallo  spettacolo  di  ccuniversale  disfacimento »  che 
offrivano  gli  insorti.  Frutto  di  questo  viaggio,  pubblico  al  ritorno 
una  Relazione  degli  avvenimenti  della  Grecia  nella  primavera  del 

1825,  ritenuta  allora  interessantissima  e  tradotta  in  varie  lingue,  e 
dalla  quale  emerge  soprattutto  quanto  il  Pecchio  considerasse  im- 
maturi  i  Greci  a  quella  liberta  per  cui  combattevano,  e  come  gli 
apparissero  invece,  nel  contrasto,  veramente  forti  e  radicate  nel 
costume  le  libere  istituzioni  dell'Inghilterra.  Perche,  a  intendere 
certi  atteggiamenti  di  inerzia  e  assenteismo  rimproverati  successi- 
vamente  al  Pecchio  dai  suoi  compagni  di  esilio,  giova  tener  present! 
le  esperienze  delusive  che  egli  venne  facendo  e  lo  scetticismo  suo 
sulle  possibilita  dell' Italia  a  realizzare  1'indipendenza  e  liberi  siste- 
mi  di  governo:  non  tanto  per  la  situazione  generale  dell'Europa, 
ma  per  rimmaturita  del  popolo  italiano,  che  gli  appariva  ancora 
lontano  dal  livello  di  civilta  raggiunto  dall'Inghilterra.  A  creargH 
tale  scetticismo  concorsero  certo  in  lui  vari  fattori:  il  crudo  falli- 
mento  della  sua  giovanile  e  troppo  immaginosa  esperienza  rivolu- 
zionaria,  1'abitudine  che  gliene  era  venuta  di  considerare  molto 
realisticamente  le  situazioni  e  le  forze  in  gioco,  lo  spettacolo  della 
vita  inglese  e,  per  antitesi,  i  ricordi  della  Spagna,  del  Portogallo 
e  quelli  recenti  della  Grecia:  non  ultima,  infme,  la  sua  scarsa  ten- 
denza  all'eroismo  e  al  martirio,  che  non  riusciva  a  comprendere. 

Tornato  a  Nottingham,  all'insegnamento,  gli  si  presento  in  quel- 
Panno  un  interessante  spettacolo,  con  le  elezioni  dei  nuovi  rappre- 
sentanti  della  citta  e  della  relativa  contea:  ed  egli  segul  non  solo  le 
vicende  esteriori  della  lotta,  ma  anche  le  astuzie  e  i  retroscena  che 
Taccompagnarono,  e  narr6  il  tutto  in  un  libretto,  che  intito!6 
Urielezione  di  membri  del  Parlamento  in  Inghilterra,  e  pubblic6  nel 

1826.  Alia  fine  del  1826  Iasci6  Nottingham,  chiamato,  per  interes- 


PROFILO   BIOGRAFICO  57 

samento  di  un  amico,  ad  insegnare  1'italiano  e  il  francese  in  un 
collegio  di  York.  In  questo  tempo  si  iniziarono  le  sue  relazioni  con 
gli  Holland  e  con  queirambiente  intellettuale  che  ne  frequentava 
la  casa,  la  famosa  Holland  House,  dove  fu  presentato  dallo  scrit- 
tore  Sydney  Smith,  uno  dei  fondatori  della  ((Edinburgh  Review)), 
Nel  1827  apparve  a  Lugano  un  suo  saggio  di  indagine  economica, 
Uanno  mille  ottocento  ventisei  delV  Inghilterra,  in  cui  studiava  la 
crisi  che  aveva  scosso  in  quelPanno  le  finanze  inglesi,  e  ne  attri- 
buiva  la  causa  a  un  f enomeno  di  superproduzione  delle  industrie : 
segno,  questo  lavoro,  di  un  suo  graduale  ritorno  a  quegli  studi  eco- 
nomici  con  i  quali  aveva  iniziato  la  sua  attivita. 

Nella  contea  di  York  il  Pecchio  sposo  la  figlia,  Filippa,  di  un 
ricco  inglese,  Beniamino  Brooksbank.  Le  nozze  furono  celebrate 
nel  settembre  1828,  e  gli  sposi  si  stabilirono  in  una  villa  sul  mare, 
vicino  a  Brighton.  Le  condizioni  economiche  della  moglie  libera- 
rono  il  Pecchio  dall'insegnamento,  ed  egli  da  allora  visse  una  vita 
riposata,  tra  i  suoi  studi  e  le  molte  amicizie  che  contrasse  in  quella 
spiaggia  affollata  di  villeggianti  ad  ogni  nuova  estate,  tra  i  quali  gli 
Holland,  il  romanziere  Horace  Smith,  il  poeta  Rogers.  Gioviale, 
brillante  nelle  conversazioni,  sicuro  nelPuso  delFinglese  e  del  fran 
cese,  il  Pecchio  attrasse  facilmente  le  simpatie  degli  amici:  unica 
nube,  la  sua  salute  minata  lentamente  dalla  debolezza  dei  pol- 
moni.  Assalito  infme  da  ripetuti  sbocchi  di  sangue,  nonostante  le 
molte  cure,  mori  a  soli  cinquant'anni  il  4  giugno  del  1835,  nella 
sua  villa  di  Hove,  accanto  a  Brighton. 

Nel  periodo  che  va  dal  suo  matrimonio  alia  morte,  in  varie  oc- 
casioni  il  Pecchio  si  mostr6  assai  tiepido  e  riluttante  di  fronte  alle 
ripetute  pressioni  degli  altri  esuli  italiani  perche  anch'egli  parteci- 
passe  alle  loro  iniziative.  Dalla  sua  condotta  e  dalle  sue  lettere  ap- 
pare  evidente  ch'egli  desiderava  tenersi  lontano  da  loro  e  dai  loro 
programmi.  Scrivendo  ad  Antonio  Panizzi  giudicava  degni  dello 
«  staffile  che  si  da  ai  ragazzi »  gli  ideatori  della  spedizione  di  Savoia, 
incapaci  di  «agire  secondo  le  circostanze  e  non  contro  le  circo- 
stanze»  (vedi  L.  PAGAN,  Lettere  ad  A.  Panizzi,  Firenze,  Barbera, 
1882,  p.  120).  Quando,  divenuto  Luigi  Filippo  re  di  Francia,  si 
riaccesero  le  speranze  degli  esuli  e  molti  di  essi  lo  invitavano  ad 
andare  a  Parigi  neirimminenza  delFazione,  il  Pecchio  in  ripetute 
lettere  li  tacci6  di  visionari,  e  considero  « donchisciottate,  fanciul- 
laggini,  imprudenze»  i  loro  progetti  (ivi,  pp.  87-9).  Si  reco,  infme, 


58  GIUSEPPE   PECCHIO 

cedendo  alle  insistent!  pressioni,  a  Parigi,  con  la  moglie,  ma  visito  la 
citta  piu  che  ascoltare  le  vane  speranze  degli  amici  (ivi,  p.  103):  e 
prestissimo  se  ne  torno  a  Brighton.  In  verita  il  Pecchio,  sia  per 
propria  esperienza,  sia  per  influsso  della  moglie  e  degli  amici  in- 
glesi,  guardava  con  scetticismo  alle  audacie  rivoluzionarie :  era  dive- 
nuto,  nelPanima,  un  riformatore  prudente,  un  moderate  whig  in- 
glese  assai  piu  che  un  acceso  e  romantico  esule  italiano.  Egli  e  un 
esempio  tipico  della  profonda  assimilazione  che  un  nuovo  am- 
biente,  il  rifugio  straniero,  pu6  operare  su  un  esule.  La  redenzione 
dell'Italia  gli  sembrava  lontana,  e  pensava  che  solo  si  potesse  pre- 
pararla  con  gli  scritti,  con  un'opera  di  pensiero,  e  non  con  le  azioni 
frettolose.  Ma  questo  atteggiamento,  se  nasceva  in  parte  da  sincera 
convinzione,  era  anche  dettato  da  un  desiderio  di  godersi  tran- 
quiilamente  la  sua  vita  serena  e  i  suoi  agi. 

Gli  anni  trascorsi  a  Brighton  furono  dedicati  dal  Pecchio  alia 
composizione  di  alcune  nuove  opere:  la  Storia  deW  economia  pub- 
blica  in  Italia  (1829);  la  Vita  di  Vgo  Foscolo  (1830);  il  Catechismo 
italiano  (1830);  le  Osservazioni  semi-serie  di  un  esule  suir  Inghilterra 
(183 1) ;  il  saggio  Sino  a  qualpunto  le  produzioni  scientifiche  e  letter arie 
seguono  le  leggieconomichedellaproduzione  ingenerale  (1832);  i  quat- 
tro  volumi  della  Storia  critica  della  poesia  inglese  (1833-1835),  in- 
terrotta  dalla  morte.  Rimase  appena  iniziato,  in  un  manoscritto, 
un  Dizionario  politico,  di  cui  alcune  voci  indicano  chiaramente  le 
intenzioni  divulgative  e  propagandistiche  cui  1'opera  mirava. 

Alcune  di  queste  opere,  come  il  Catechismo  italiano  e  il  Diziona- 
rio  politico,  intendevano  concorrere  a  quella  formazione  di  un'opi- 
nione  pubblica  che  il  Pecchio  additava  agli  esuli  come  Punica  azio- 
ne  possibile  per  preparare  Pindipendenza  italiana.  Altre  nacquero 
dairinteressamento  del  Pecchio  per  gli  studi  di  economia,  gia  da 
lui  coltivati  in  Italia,  ma  allora  fiorentissimi  soprattutto  in  Inghil- 
terra.  La  Storia  dell9 economia  pubblica  in  Italia  e  una  serie  di  pro- 
fili  di  economist!  italiani,  in  cui  il  Pecchio  condensa  la  vasta  rac- 
colta  dei  «  Classic!  economist!  italiani »  eseguita  da  Pietro  Custodi 
in  cinquanta  volumi,  ma  vi  aggiunge,  oltre  una  notevole  Introdu- 
zione  storica  e  il  profile  di  economist!  posteriori  alia  raccolta  Cu 
stodi,  un  parallelo  tra  gli  scrittori  italiani  e  gli  scrittori  inglesi  che 
si  sono  occupati  di  economia  politica.  Si  tratta,  comunque,  di  un 
lavoro  essenzialmente  di  compilazione,  sebbene  al  suo  apparire 
fosse  molto  lodato  anche  da  economist!  tedeschi.  Piu  interessante 


PROFILO    BIOGRAFICO  59 

il  saggio  Sino  a  qualpunto  ecc.,  se  non  altro  per  la  tesi  paradossale 
che  il  Pecchio  vi  sostiene,  di  una  stretta  subordinazione  dei  pro 
dotti  letterari,  come  quantita,  alle  leggi  economiche  della  domanda 
e  delPofferta,  e,  in  certo  senso,  anche  come  qualita,  per  un  ac- 
crescersi,  con  il  numero,  delle  probabilita  favorevoli  al  nascere  dei 
capolavori:  i  quali,  del  resto,  egli  esamina  quasi  fossero  costituiti 
dalFincontrarsi  di  vari  elementi  componenti.  Incapacita  critica  di 
fronte  alia  letteratura,  di  cui  e  riprova  la  Storia  critica  della  poesia 
inglese,  che  si  arresta  al  Milton  e  al  Dryden,  e  si  svolge  attraverso 
concezioni  e  giudizi  insostenibili  anche  per  i  suoi  tempi. 

II  Pecchio  mancava  di  gusto  e  di  penetrazione  critica  di  fronte 
alle  op  ere  d'arte :  dinanzi  ad  ogni  profondita  spirituale  e  fantastica 
si  trovava  disarmato,  incapace  a  veramente  comprendere.  II  suo 
mondo  era  in  una  sfera  minore,  sotto  questo  aspetto,  e  percio  gli 
riuscivano  piu  accetti  gli  scrittori  mediocri,  le  opere  che  non  lo 
portassero  in  un'atmosfera  per  lui  irrespirabile.  Era  un  economista, 
uno  studioso  del  costume,  non  un  letterato.  Bisogna  tener  present! 
questi  suoi  limiti  per  giudicare  la  Vita  di  Ugo  Foscolo  e  lo  strano 
modo  con  cui  ritrasse  il  suo  compagno  d'esilio,  il  poeta  dei  Se- 
polcri.  Lo  vide  attraverso  una  mentalita  misera,  pettegola,  alia 
quale  si  aggiunse  una  insistente  malignita,  che  deformava  ogni  epi- 
sodio  e  lo  adombrava  di  insinuazioni.  Se  qualche  pagina  della  Vita 
di  Ugo  Foscolo  e  di  grata  lettura,  si  tratta  di  brani  descrittivi  o  di 
divagazioni  politiche,  per  le  quali  il  Foscolo  e  solo  un  pretesto. 

Diverso  giudizio  deve  farsi  delle  Osservazioni  semi-serie,  che  sono 
la  sua  opera  migliore.  Le  compose  nel  1827  e<^  apparvero  prima- 
mente  nel  1831,  a  Lugano,  presso  Peditore  Ruggia,  come  molte 
altre  sue  opere.  In  esse  il  Pecchio  ritrae,  in  una  serie  di  capitoli 
tra  loro  separati,  molteplici  aspetti  della  vita  inglese  delPepoca, 
della  mentalita,  del  costume,  delPeducazione,  delle  istituzioni  che 
aveva  trovato  nelPisola  ospitale.  Si  sente  dovunque  Pammirazione 
che  egli  provava  dinanzi  alia  civilta  inglese,  anche  se  il  timbro  gaio, 
o  gioviale  e  leggermente  ironico  di  certe  pagine,  attenua  Pammira- 
zione  e  le  toglie  ogni  carattere  adulatorio.  II  Pecchio  scrive  con 
semplicita,  in  un  tono,  come  e  stato  detto  (G.  PREZZOLINI,  nella 
Intro duzione  alle  Osservazioni  semiserie  di  un  esule  in  Inghilterra, 
Lanciano,  Carabba,  1913,  p.  32),  da  buon  giornalista.  In  un  suo 
articolo  del  «  Conciliatore »  (vedi  ed.  Firenze,  Le  Monnier,  1948- 
1954, 1,  p.  193)  egli  aveva  sostenuto  che  bisognava  affrancarsi  dalle 


60  GIUSEPPE   PECCHIO 

leggi  della  Crusca  nell'uso  dei  vocaboli :  nelle  Osservazioni  mette  in 
pratica  questa  ribellione,  anche  perche  la  sua  lingua  accoglie  spes- 
so  inglesismi  e  francesismi  e  lombardismi  venutigli  da  una  scarsa 
preparazione  letteraria.  Pure,  le  Osservazioni  si  leggono  con  gusto 
per  la  scioltezza  con  cui  egli  disegna  il  mondo  inglese,  e  per  la  li- 
berta  di  tipo  illuministico,  e  a  volte  barettiano,  con  cui  subordina 
le  parole  allc  cose. 


Le  opere  del  Pecchio  sono  divenute,  in  massima  parte,  inaccessibili,  anche 
perch6  di  molte  si  e  avuta  un'unica  stampa  e  sempre  fuori  d' Italia.  N£ 
esiste  una  ordinata  notizia  dei  suoi  scritti,  la  quale  pu6  solo  ricavarsi 
dalle  sparse  indicazioni  date  dall'Ugoni  nel  suo  volume  piu  sotto  citato. 
Per  questo  riteniamo  utile  dare  notizia  delle  prime  edizioni  non  solo  delle 
Osservazioni  semi-serie,  ma  anche  delle  altre  sue  opere :  Saggio  storico  sulla 
amministrazione  finanziera  delVex-regno  d'ltalia  dal  1802  al  1814,  Lu 
gano,  Ruggia,  1820  (una  seconda  edizione,  con  data  di  Londra,  apparve 
nel  1826);  Sei  mesi  in  Ispagna  nel  1821.  Letter  e  di  Giuseppe  Pecchio  a  Lady 
Giannina  Oxford,  Madrid,  per  D.  Michele  Burgos,  1821  (contiene  dician- 
nove  lettere) ;  Tre  mesi  in  Portogallo.  Lettere  a  Giannina  Oxford,  Lisbona 
1821  (contiene  undici  lettere);  [U Austria  in  Italia}  A  Letter  to  Henry 
Brougham  Esq.  M.  P.  by  Joseph  Pecchio,  London,  Partridge,  1824;  Qu'est 
que  c'est  VAustrie?,  in  «The  Edinburgh  Review »,  LXXX  (luglio  1824), 
pp.  298-316;  Relazione  degli  avvenimenti  della  Grecia  nella  primavera  del 
1825,  Lugano,  Vanelli,  1826  (e  questa  la  stampa  deH'originale  italiano, 
ma  fu  preceduta  dall' edizione  in  inglese  col  titolo  A  Picture  of  Greece  in 
1825,  London  1825,  in  cui  le  si  accompagna  una  relazione  sulla  Grecia 
di  James  Emerson,  e  dalla  traduzione  in  francese  apparsa  a  Parigi  nel 
« Globe »  dell'ottobre-dicembre  1825;  la  Relazione  contiene,  tra  1'altro, 
Pultima  lettera  di  Santorre  di  Santarosa,  che  e  diretta  al  Pecchio) ;  Un'ele- 
zione  di  membri  del  Parlamento  in  Inghilterra,  Lugano,  Vanelli,  1826; 
Vanno  mille  ottocento  ventisei  delV Inghilterra,  con  osservazioni,  Lugano, 
Vanelli  e  C.,  1827;  Storia  delV economia  pubblica  in  Italia,  ossia  Epilogo 
degli  economisti  italiani,  Lugano,  Ruggia,  1829;  Vita  di  Ugo  Foscolo, 
Lugano,  Ruggia,  1830;  Catechismo  italiano,  ad  uso  delle  scuole,  dei  caffe, 
delle  botteghe  ecc.  (ignore  Teditore,  ma  la  data  e  1830);  Sino  a  qual  punto 
le  produzioni  scientifiche  e  letterarie  seguono  le  leggi  economiche  della  produ- 
zione  in  generate,  Lugano,  Ruggia,  1832;  Storia  critica  della  poesia  inglese, 
Lugano  1833-1835,  4  voll.  A  queste  indicazioni  bisogna  aggiungere  i  vari 
articoli  del  Pecchio  nel  «  Conciliatore »  (vedi  « II  Conciliatore »,  a  cura  di 
V.  Branca,  Firenze,  Le  Monnier,  1948-1954,  3  voll.);  una  sua  collaborazio- 
ne,  costituita  da  alcuni  articoli,  alia  « Revue  encyclopedique »  di  Parigi,  cui 
accenna  TUgoni  senza  precisare  (vedi  C.  UGONI,  nell'opera  piu  avanti  citata, 
p.  273);  le  sue  lettere  sparse  in  carteggi,  tra  le  quali  particolarmente  im- 
portanti  quelle  dirette  ad  Antonio  Panizzi  (vedi  L.  FAGAN,  Lettere  ad  An- 


PROFILO  BIOGRAFICO  6l 

tonio  Panizzi,  Firenze,  Barbera,  1882),  a  Ugo  Foscolo  (vediF.  VIGLIONE, 
Ugo  Foscolo  nel  centenario  del  suo  insegnamento  all' Universitd  di  Pavia, 
Pavia,  Mattel,  1910),  e  quelle  di  cui  da  notizia  C.  SEGRE,  in  Relazioni  let 
ter  arie  tra  Italia  e  Inghilterra,  Firenze  1911. 

La  Vita  di  Ugo  Foscolo  oltre  che  dal  Ruggia,  a  Lugano,  nel  1841,  e  stata 
ristampata,  con  introduzione  e  note,  da  P.  Tommasini  Mattiucci,  Citta  di 
Castello,  Lapi,  1915,  Per  1'ampia  introduzione,  anche  sul  Pecchio  in  gene- 
rale,  e  per  le  ricchissime  note  questa  ristampa  e  molto  importante.  Per  le 
Osserv axiom  semi-serie  di  un  esule  sull 'Inghilterra,  che  sono  Top  era  migliore 
del  Pecchio,  si  deve  tener  presente  che  esse  furono  composte  nel  1827  e  che 
la  prima  edizione  apparve  a  Lugano,  nel  1831,  a  cura  dell'editore  Ruggia. 
Nel  1833  lo  stesso  Ruggia  ne  stamp6  una  seconda  edizione.  L' opera  fu 
tradotta  in  varie  lingue  e  si  diffuse  specialmente  in  Inghilterra  e  in  Fran- 
cia.  L? edizione  prii  recente  e  piu  accessibile  e  quella  curata  da  G.  Prezzo- 
lini  per  gli  «Scrittori  nostri»,  Lanciano,  Carabba,  1913. 

Per  la  vita  del  Pecchio,  per  le  sue  vicende  politiche,  per  I'economista  e  lo 
scrittore,  si  rinvia  alle  seguenti  opere:  C.  UGONI,  Vita  e  scritti  di  G.  Pec 
chio,  Parigi,  Baudry,  1836,  che  e  la  maggiore  fonte  di  notizie  sul  Pecchio; 
M.  MAGGIONI,  in  Biografia  degli  italiani  illustri  nelle  scienze,  lettere  edarti 
del  secolo  XVIII. . .,  a  cura  di  E.  DeTipaldo,  iv,  Venezia,  Alvisopoli,  1837, 
pp.  244  sgg. ;  P.  ORANO,  Ilprecursore  di  Carlo  Marx,  Roma,  Voghera,  1899, 
saggio  di  scarso  valore;  M.  LUPO  GENTILE,  G.  Pecchio  nei  moti  del  y2i  e  nel 
suo  esilio,  in  «Rivista  d'Italia»,  agosto  1910,  e  in  Voci  d'esuli,  Milano  1911 ; 
e  le  Introduzioni  alle  due  citate  edizioni  a  cura  di  G.  Prezzolini  e  di  P.  Tom 
masini  Mattiucci.  Vari  errori  del  Pecchio  nella  sua  Storia  dell' amminis  tra- 
zionc  finanziera  ecc.  sono  indicati  e  corretti  da  E.  TARLE,  Le  blocus  conti 
nental  et  le  Royaume  d' Italic,  Paris  1938  e,  in  traduzione  italiana,  Torino, 
Einaudi,  1950.  Un  particolare  della  vita  del  Pecchio  studente  a  Pavia  ha 
comunicato  G.  GALLAVRESI,  in  « Giorn.  stor.  d.  lett.  it. »,  LX  (1912),  p.  268, 
e  di  una  lettera  inedita  di  lui  e  data  notizia  nella  stessa  rivista,  XLVII  (1910), 
pp.  261-2.  Per  le  relazioni  tra  il  Pecchio  e  gli  Holland,  vedi  C.  SEGRE,  II 
salotto  di  Lady  Holland,  in « Nuova  Antologia »,  i  e  1 6  gennaio  19106,  dello 
stesso  autore,  vedi  anche  Relazioni  letterarie  tra  Italia  e  Inghilterra,  cit. 

Per  la  parte  avuta  dal  Pecchio  a  Milano  nella  congiura  dei  Federati  sono 
fondamentali  /  Costituti  di  F.  Confalonieri,  a  cura  di  F.  Salata,  Bologna  1941 , 
3  voll.,  ma  da  essi  e  naturalmente  necessario  risalire  a  un  quadro  comples- 
sivo  delle  agitazioni  e  della  situazione  generale  dell'Italia  del  tempo.  Indi- 
cazioni  in  tal  senso  sarebbero  qui  fuori  luogo,  e  perci6  rinviamo  a  C.  SPEL- 
LANZON,  Storia  del  Risorgimento  e  delVunita  d*  Italia,  I,  Milano,  Rizzoli,  1933  • 
e  alia  relativa  bibliografia,  che  pu6  essere  aggiornata  tenendo  present!  i  saggi 
e  le  note  bibliografiche  del  volume  Questioni  di  storia  del  Risorgimento  e 
delVunita  d' Italia,  a  cura  di  E.  Rota,  Milano,  Marzorati,  1951. 


DALLE  «OSSERVAZIONI  SEMI-SERIE  DI  UN  ESULE 
SULL'INGHILTERRA» 


CASE  DI   LONDRA1 

Oe  il  cielo  e  fosco,  non  men  tetro  e  il  primo  aspetto  di  Londra  per 
chi  vi  entra  dalla  via  di  Douvres.*  II  colore  affumicato  delle  case  le 
da  Taspetto  di  una  citta  incendiata.  Se  poi  vi  si  aggiunge  il  silenzio 
die  regna  in  una  popolazione  di  forse  un  milione  e  quattro  cento 
mila  abitanti,  tutta  in  moto  (sicche  sembra  di  essere  a  teatro  di 
ombre  chinesi),3  e  la  stucchevole  eguaglianza  delle  case,  quasi 
tutte  fabbricate  nello  stesso  stile,  come  fosse  una  citta  di  castori,4 
sara  facile  l'immaginarsi  che  al  primo  entrare  in  questo  oscuro  al- 
veare  il  sorriso  muore  nella  meraviglia.  Questo  era  Tantico  stile 
inglese  che  campeggia  ancora  piu  in  provincia.  Ma  dopo  che  gl'In- 
glesi  hanno  sostituito  al  suicidio  le  blue  pills,5  o  meglio  ancora  un 
viaggio  a  Parigi,  e  invece  delle  Notti  di  Young6  leggono  i  romanzi 
di  Walter  Scott,  hanno  rallegrato  anche  le  loro  case  colPimbian- 
carle,  ed  hanno  ora  fabbricato  la  parte  occidentale  della  capitale 
(West  End)  con  un'architettura  piu  variata  e  piu  gaia.  Non  dico 
per  questo  che  gPInglesi  sieno  divenuti  saltellanti  e  ridenti  al  pari 
di  un  parigino  di  diciott'anni.  Essi  si  dilettano  ancora  di  spettri, 
di  streghe,  di  cimiterii,  e  simili  tetraggini.  Guai  a  chi  scrivesse  un 
romanzo  senza  qualche  apparizione  da  far  arricciare  i  cappelli  in 
testa! 

Le  case  sono  piccine  e  fragili.  La  prima  sera  che  alloggiai  in 
una  casa  d'affitto  mi  sembrava  ancora  d'essere  a  bordo  del  basti- 
mento ;  le  mura  erano  egualmente  sottili,  e  in  gran  parte  di  legno ; 
cameruccie  piccole,  ed  una  scala  che  parea  quella  che  mette  sul 


1.  Questo  brano  corrisponde  alle  pp.  20-31  dell'edizione  da  noi  seguita. 

2.  Douvres:  e  la 'forma  francese  di  Dover,  il  porto  d'approdo  in  Inghilterra 
sullo  stretto  di  Calais.  IlPecchio  vi  sbarco  nel  1823,  venendo  dal  Portogallo. 

3.  teatro  .  .  .  chinesi:  spettacolo  realizzato  proiettando  su  un  telone  Tombra 
di  antichissime  marionette  cinesi,  fatte  di  pelle  d'asino  o  di  pecora,  fme- 
mente  dipinte  e  rese  trasparenti  da  apposita  concia.  Si  rappresentavano 
antiche  leggende  e  storie  popolari  cinesi.     4.  una  citta  di  castori:  vedi  la 
nota  3  a  p.  27.     5.  blue  pills:  pillole  mercuriali,  allora  molto  usate  in  medi- 
cina.     6.  II  poeta  inglese  Edward  Young  (1683-1765),  celebre  per  il  poema 
Night  Thoughts  (1742-1745),  la  cui  sensibilita  influi  su  tutte  le  letterature 
delPeta  romantica. 


64  GIUSEPPE   PECCHIO 

ponte.  Le  mura  per  lo  piu  sono  cosi  sottili  che  lasciano  passare  i 
suoni  intatti.  Gl'inquilini  si  udirebbero  Tun  Paltro,  se  non  avessero 
1'abitudine  di  parlar  sotto  voce.  lo  udiva  il  mormorio  della  conver 
sazione  del  mio  vicino  perpendicolare  al  rnio  capo,  come  il  mio 
zenit,  e  quella  delFaltro  mio  vicino  a  me  sottoposto,  come  Paltro 
punto  nadir.  Sentiva  di  quando  in  quando  le  parole  very  fine 
weather  . . .  indeed  . . .  very  fine  . . .  comfort .  .  .  comfortable  . . .  great 
comfort .  .  /  parole  che  occorrono  si  spesso  ne5  loro  disco rsi  come 
i  punti  e  le  virgole.  In  una  parola,  sono  case  ventriloque.  Come 
poi  dissi,  sono  tutte  eguali.  In  una  casa  di  tre  piani  vi  sono  tre 
camere  da  letto  perpendicolari  una  sopra  Paltra,  e  tre  salette  (par 
lours)  egualmente  Tuna  alPaltra  sovrapposte.  In  guisa  che  la  popo- 
lazione  vi  e  come  immagazzinata,  cioe,  disposta  a  strati  come  merci, 
come  i  formaggi  nei  magazzini  di  Lodi  e  di  Codogno.  GPInglesi 
non  hanno  scelto  a  caso  questa,  dir6  cosi,  architettura  navale. 
Ecco  i  vantaggi  che  ritraggono  dall'abitare  in  case  piccole  e  di  non 
molta  durata.  D'ordinario  una  casa  non  e  fabbricata  che  per  99 
anni.  Se  soprawive  a  questo  termine  rimane  al  padrone  del  suolo 
su  cui  e  edificata.  Accade  dunque  di  rado  che  giungano  a  una  gran 
longevita,  ma  per  lo  contrario  alcune  volte  si  sfasciano  prima  della 
lor  fine  naturale.  GPInglesi  che  sono  migliori  aritmetici  che  ar- 
chitetti  hanno  ritrovato  che  con  questa  labile  architettura  impie- 
gano  un  minor  capitale,  e  quindi  Pannuo  interesse  e  suo  deperi- 
mento  annuo  sono  anche  minori.  Awi  un  altro  vantaggio.  In 
questo  modo  non  si  vincolano  ne  tiranneggiano  i  posteri.  Ogni 
generazione  pu6  scegliere  e  fabbricarsi  la  sua  abitazione  a  proprio 
capriccio,  e  secondo  i  suoi  bisogni.  E  benche  in  gran  parte  com 
post  e  di  legno,  tutte  le  case  sono  come  incombustibili  merce  le  com- 
pagnie  di  assicurazione  che  garantiscono  il  valor  della  casa,  dei 
mobili  e  di  ogni  cosa.  Un  incendio  non  e  una  disgrazia,  ma  soltanto 
un  incomodo  per  Pinquilino,  un  colpo  d'occhio  pel  passaggiere,  e 
un  articolo  di  varieta  pel  giornalista.  Inoltre  la  casa  per  un  inglese 
e  il  suo  Gibilterra.2  Non  solo  vuol  esser  inviolabile,  ma  anche  asso- 
luto3  senza  rumori  e  senza  pettegolezzi.  Preferisce  di  vivere  in  un 
guscio,  come  Postrica,  piuttosto  che  avere  in  un  palazzo  tutte  le 
seccature  d'un  pollaio.  L'aura  vitale  d'un  inglese  e  Pindipendenza. 

i .  «  Molto  bel  tempo  .  .  .  veramente  .  .  .  molto  bello  .  .  .  conforto  .  .  .  con- 
fortevole .  .  .  grande  conforto. »  2.  il  suo  Gibilterra:  la  sua  roccaforte. 
3.  assoluto:  indipendente  da  tutti. 


OSSERVAZIONI    DI    UN   ESULE    SULL'INGHILTERRA  65 

Quindi  tosto  che  un  figlio  si  marita,  esce  di  casa,  e  a  guisa  dei  polipi 
che  tagliati  in  pezzi  diventano  altrettanti  polipi,  va  a  sviluppare 
altrove  un'altra  famiglia.  Le  numerose  e  patriarcali  famiglie  si  ri- 
trovano  presso  i  popoli  agricoli.  Presso  le  nazioni  commerciali 
che  hanno  fattorie  e  colonie  in  tutti  i  punti  del  globo,  ricevuto 
che  abbia  il  figlio  una  conveniente  educazione,  abbandona  il  nido 
paterno,  e  simile  agli  uccelli,  va  altrove  a  fabbricarsene  un  proprio. 

Hail!  Independence,  hail!  Heaven's  next  best  gift 
to  that  of  life  and  an  immortal  soul! 
The  life  of  life!  That  to  the  banquet  high 
and  sober  meal  gives  taste;  to  the  bow'd  roof 
fair-dream' d  repose  and  to  the  cottage  charms. 

«Salve!  Indipendenza,  salve!  Dono  del  cielo,  secondo  solo  a 
quel  della  vita  e  d'un'anima  immortale!  Vita  della  vita!  Che  fai 
saporita  Populenta  e  la  povera  mensa;  riposo  pieno  di  ridenti  sogni 
per  le  arcate  volte,  e  delizie  delle  capanne. » 

L'amor  delPindipendenza,  questa  vita  della  vita,  come  ben  la 
chiama  Thompson1  nel  suo  poema  sulla  liberta,  si  manifesta  per 
sino  nelle  chiese,  dove  ogni  famiglia  inglese  ha  un  banco  proprio  e 
chiuso  alPintorno  da  uno  steccato.  Chi  viaggia  per  1'Inghilterra 
osservi  nei  piu  piccioli  villaggi  come  i  piu  meschini  abituri  sono 
separati  1'uno  dalPaltro  per  mezzo  d'una  siepe,  o  d'un  muricciuolo, 
o  d'uno  steccato.  Non  vi  e  impero  che  abbia  termini  piu  marcati, 
ne  che  apprezzi  con  tanta  gelosia  la  propria  indipendenza. 

Perche  gl'Inglesi  non  sono  esperti  ballerini  ?  Perche  non  si  eser- 
citano :  le  case  sono  tanto  piccole  e  deboli  che  se  uno  spiccasse  una 
capriola  al  terzo  piano,  arrischierebbe  di  sprofondare  come  una 
bomba  sino  in  cucina  che  e  posta  sotto  terra.2  Perche  gPInglesi  ge- 
stiscono  cosl  poco  e  hanno  quasi  sempre  le  braccia  incollate  al 
corpo?  Per  la  stessa  ragione,  io  credo:  le  cameruccie  sono  tanto 
piccole  che  non  vi  si  puo  quasi  gestire  senza  rompere  qualche  og- 
getto,  od  incomodare  qualche  persona. 

i.  James  Thomson,  e  non  Thompson,  poeta  inglese  (1700-1748),  famoso 
soprattutto  come  autore  di  The  Seasons  (Le  stagioni)  e  del  poema  Liberty 
(1736),  da  cui  sono  tratti  i  versi  precedentemente  citati  dal  Pecchio  (parte  v, 
vv.  124-8).  Di  questo  poema  esiste  una  traduzione  italiana:  La  Liberta,  tra- 
duzione  di  A.  Castelfranco,  Trieste  1867.  2.  «Non  e  un'iperbole  mia. 
Ben  sovente  fra  le  condizioni  d'affitto  delle  case  in  Londra  v'e  quella  di 
non  ballare»  (nota  del  Pecchio). 


66  GIUSEPPE   PECCHIO 

Alcuni  sono  stupiti  del  silenzio  che  domina  fra  gli  abitanti  di 
Londra.  Ma  come  potrebbero  un  milione  e  quattro  cento  mila 
abitanti  vivere  insieme  senza  silenzio  ?  II  brulichio  della  gente  e 
dei  carri  e  carrozze  e  cavalli  e  tale  dalla  contrada  di  Strand  alia 
Borsa  di  Londra,  che  si  dice,  che  nelPinverno  vi  sieno  due  gradi  di 
differenza  del  termometro  di  Fareneith  tra  1'atmosfera  di  questa 
lunghissima  strada  e  quella  del  West  End.  Non  1'ho  verificato;  ma 
a  cagione  dei  molti  cammini  che  vi  sono  in  Strand  e  assai  proba- 
bile.  Da  Chering  Cross  alia  Borsa  di  Londra  e  un'enciclopedia 
del  mondo.  Vi  domina  un'apparente  anarchia,  ma  senza  confusione 
e  senza  disordini.  Le  regole  che  il  poeta  Gay  prescrive  per  cammi- 
nare  con  sicurezza  per  questo  tratto  di  quasi  tre  miglia  mi  sem- 
brano  inutili.1  L'abitudine  di  passare  attraverso  di  questo  vortice 
rende  a  ciascuno  il  passaggio  facile,  senza  dispute,  senza  accidenti, 
senza  puntigli,  come  se  non  vi  fossero  imbarazzi  di  sorta.  Sup- 
pongo  che  a  Pekin  dovra  essere  lo  stesso.  II  silenzio  adunque  dei 
passeggieri  e  la  conseguenza  della  gran  farragine  degli  affari.  Non 
lo  dico  per  fare  un  epigramma;  se  mai  Napoli  diventasse  una  po- 
polazione  di  un  milione  e  mezzo,  converrebbe  pure  che  quelle 
trachee  napoletane  si  frenassero  anch'esse.  Non  v'e  che  in  Ispagna 
ove  il  silenzio  sia  compagno  dell'ozio.  £  forse  la  perfezione  delPozio, 
Fozio  spinto  al  suo  apice.  In  Londra  io  mi  sono  piu  volte  alzato  di 
buon  mattino  per  assistere  allo  spettacolo  della  risurrezione  di 
quasi  un  milione  e  mezzo  d'abitanti.  Questo  gran  mostro  di  capi- 
tale,  simile  a  uno  smisurato  gigante  che  si  sveglia,  comincia  a  dar 
segni  di  vita  nelle  sue  estremita.  II  moto  principia  alia  circonferenza, 
e  a  poco  a  poco  va  crescendo  e  incalzando  verso  il  centro  sinche 
alle  died  ore  comincia  il  brulichio  e  va  fervendo  sempreppiu  sino 
alle  quattro  dopo  mezzodi  ch'e  Tora  della  Borsa.  La  popolazione 
pare  che  segua  le  leggi  della  marea.  Sino  a  quest'ora  il  suo  flusso 
va  ingrossando  dalla  periferia  alia  Borsa.  Alle  quattro  e  mezzo, 
ch'e  Pora  in  che  la  Borsa  si  chiude,  succede  il  riflusso,  e  cor- 
renti  di  gente,  carrozze  e  cavalli  retrocedono  dalla  Borsa  alia  pe 
riferia. 

Presso  un  popolo  industrioso,  incessantemente  occupato,  anelan- 

i.  « II  suo  poema  e  intitolato  Trivia,  ossia,  1'arte  di  camminare  per  le  strade 
di  Londra.  In  tre  canti»  (nota  del  Pecchio).  John  Gay,  poeta  inglese  (1685- 
X732),  pubblic6  nel  1716  questo  poema,  che  ha  il  titolo  originale  Trivia,  or 
The  Art  of  Walking  in  the  Streets  of  London. 


OSSERVAZIONI   DI   UN   ESULE   SULL'INGHILTERRA  67 

te  alia  ricchezza,  Puomo,  ossia,  la  forza  fisica  e  un  capitale  prezioso. 
L'uomo  e  caro,  e  se  ne  deve  far  quindi  un'estrema  economia.  Non 
e  come  nei  paesi  dell'indolenza,  ove  1'uomo  e  la  terra  hanno  del 
pari  poco  o  nessun  pregio.  Un  Signore,  un  Effendi1  turco  passeg- 
gia  sempre  con  un  codazzo  di  servi  inutili.  Cosi  un  nobile  polacco, 
un  Grande  di  Spagna  fanno  un  gran  consumo  d'uomini  die  d'al- 
tronde  sono  improduttivi.  Mi  fu  detto  che  il  duca  di  Moedina 
Coeli  in  Ispagna  ha  al  suo  soldo  quattro  cento  persone  di  servizio, 
e  va  al  Prado2  in  una  carrozza  ch'e  peggiore  d'una  patache2  di 
Parigi.  In  Inghilterra  succedeva  lo  stesso  quando  non  v'era  ancora 
commercio  forestiero,  ne  alcuna  bella  manifattura.  Non  sapendo 
come  consumare  il  soverchio  delle  loro  rendite,  gli  antichi  pro- 
prietari  inglesi  mantenevano  un  centinaio,  e  talvolta  un  migliaio 
di  dipendenti.  Ora  le  phi  grandi  case  non  hanno  che  dieci  o  dodici 
servi,  e  lasciando  stare  gli  opulenti  che  sono  sempre  un'eccezione 
presso  ogni  nazione,  e  prendendo  il  massimo  numero,4  si  puo  dire 
che  in  Inghilterra,  e  specialmente  in  Londra,  si  fa  grande  risparmio 
di  tempo  e  di  servi.  Ma  come  si  concilia  questo  cogli  agi  degP  In 
glesi  tanto  vantati?  Ecco  come.  II  latte,  il  pane,  il  butirro,  1'acqua, 
la  birra,  il  pesce,  la  carne,  il  giornale,  le  lettere  tutto  e  recato  alle 
case  ogni  giorno,  alia  stessa  ora,  senza  fallo,  dai  bottegai  e  dagli 
uffiziali  della  posta.  Si  sa  che  tutte  le  porte  delle  case  sono  chiuse 
com'e  il  costume  di  Firenze  e  di  altre  citta  di  Toscana.  Per  non 
turbar  il  vicinato  si  e  convenuto  che  questi  fornitori  dieno  un 
sol  picchio  di  battente  alia  porta,  o  un  sol  tratto  di  campanello 
che  corrisponde  nella  cucina  sotto  terra  dove  stanno  le  fantesche. 
Le  visite  hanno  un  altro  segno  di  convenzione  che  consiste  in 
una  rapida  succession  di  picchi  ch'e  piu  romorosa  e  rimbomban- 
te,  secondo  che  la  persona  e  piu  di  moda,  e  d'un  tuono  imper- 
tinente.  Cosi  Parini  fa  parlare  il  suo  eroe  ad  alta  e  sgangherata 
voce  in  pubblico  perche  ognuno  lo  senta,  e  riverisca  quegli  ac- 
centi  come  fossero  quei  del  Gran  Tonante.5  Anche  in  Londra  i 
magnanimi  eroi  della  moda  si  annunziano  agli  ottusi  sensi  della 

i.  Effendi'.  vedi  la  nota  2  a  p.  47.      2.  Prado:  grande  parco  di  Madrid. 

3.  patache:  vettura  di  poco  pregio,  senza  sospensione,  da  trasporto  piti  che 
da  viaggio.   II  vocabolo,  qui  nella  forma  francese,  si  trova  anche  in  altre 
lingue :  e  di  origine  incerta,  e  indicava  un  tempo  una  piccola  imbarcazione. 

4.  il  massimo  numero:  la  maggioranza.     5.  Gran  Tonante:  Giove.  Per  1'al- 
lusione  al  Parini,  cfr.  //  vespro,  w.  486  sgg. 


68  GIUSEPPE   PECCHIO 

plebe  con  eccheggianti  colpi  simili  a  quei  del  martello  di  Bronte.1 
Quest'uso  esige  esattezza  ne'  servi,  e  la  loro  immancabile  pre- 
senza.  II  prezzo  d'ogni  cosa  e  fisso,  quindi  non  v'e  luogo  a  mercati, 
a  dispute,  a  cicaleggi.  Tutto  questo  andare  e  venire  di  venditori  e 
compratori  non  e  che  una  scena  muta.  Molti  fornai  viaggiano  per 
Londra  in  carri  cosi  rapidi,  elastici,  eleganti,  che  un  damerino 
in  Italia  non  sdegnerebbe  di  comparire  in  essi  al  corso.  I  macellai 
di  frequente  si  vedono  portare  al  gran  trotto  su  baldanzosi  de- 
strieri  la  carne  alle  case  lontane  de'  loro  awentori.  Un  tale  sistema 
richiede  altresl  un  ordine  impreteribile,  una  division  di  tempo 
sempre  eguale.  Percio  vi  sono  orologi  e  pendoli  dappertutto;  su 
ogni  campanile,  talora  su  tutte  quattro  le  facciate  d'un  campanile, 
in  tasca  di  ognuno,  nella  cucina  del  piu  misero  operaio.  £  questa 
una  nazione  operante  a  battute  di  orologio  come  un'orchestra  che 
precede  a  battute  del  direttore,  come  un  reggimento  che  marcia 
a  suon  di  tamburo.  6  ingegnosissima  la  division  del  tempo  che 
gl'Inglesi  hanno  applicato  a  molti  usi.  In  alcune  macchine,  per 
esempio  in  quella  de'  pizzi,  ad  ogni  certo  numero  di  maglie  la  mac- 
china  suona  da  se  stessa  un  campanello  per  awertire  1'operaio.  II 
molino  (Trade-Mill)  introdotto  per  castigo  e  occupazione  nelle 
case  di  correzione  suona  esso  pure  un  campanello  dopo  un  numero 
fisso  di  rivoluzioni.  Nella  manifattura  dei  cardatoi  in  Manchester 
havvi  una  specie  di  orologi  per  verificare  se  il  Watchman*  pagato 
per  invigilare  contro  1'incendio  si  e  tenuto  sveglio  nella  notte.  Se 
ogni  quarto  d'ora  non  tira  una  cordicella  che  pende  dalle  mura  al 
difuori,  1'orologio  al  di  dentro  marca  e  denunzia  le  negligenze  del 
Watchman  nella  mattina. 

Un  bottegaio  quindi  supplisce  in  Londra  per  quaranta  o  cm- 
quanta  servi ;  le  botteghe  possono  essere  lontane,  e  in  luogo  remoto 
senza  alcun  inconveniente ;  i  bottegai  non  rimangono  oziosi ;  invece 
d'uomini  si  possono  impiegare  per  alcuni  uffici  fanciulli  o  giovi- 
netti.  I  giornali  per  due  soldi  Pora  circolano  di  casa  in  casa.  II  latore 
e  un  fanciullo  di  10  o  12  anni,  agile  come  un  folletto,  esatto  come  il 
tempo,  che  li  porta  e  li  riporta  via. 

Con  questo  sistema  i  servi  rimangono  in  casa  senza  distrazioni,  e 

i.  Bronte:  uno  dei  tre  ciclopi  (gli  altri  sono  Sterope  e  Argo)  ricordati  nella 
Teogonia  di  Esiodo  come  figli  di  Gea  e  Urano.  La  tradizione  successiva 
vuole  che  i  ciclopi  fabbricassero  i  fulmini  a  Zeus.  2.  Watchman:  sorve- 
gliante;  ed  e  detto  specialmente  di  guardiano  notturno. 


OSSERVAZIONI   DI   UN   ESULE  SULL'INGHILTERRA          69 

soprattutto  le  fantesche  ben  di  rado  sortono  in  tutto  il  corso  della 
settimana,  finche  non  giunga  la  dornenica  che  le  mette  in  liberta 
per  tre  o  quattro  ore.  Ne  segue  pure  che  le  famiglie  inglesi  non 
hanno  bisogno  di  avere  grandi  prowigioni  in  casa;  in  conseguenza 
meno  impiego  di  spazio  e  di  denaro,  meno  cura,  meno  guasti, 
meno  puzza,  meno  dilapidazioni. 


GIARDINI   DEL  TE1 
(Tea-gardens) 

£j  un  gran  problema  come  passare  la  noiosissima  e  mestissima  do- 
menica  delPInghilterra.  Questo  paese  tutto  moto,  tutto  vita  negli 
altri  giorni,  e  come  colpito  da  un  attacco  di  apoplessia  nella  dome- 
nica.  II  forestiere  per  fuggire  questa  solenne  mestizia  suole  arram- 
picarsi  alle  dieci  del  mattino  su  una  delle  immancabili  vetture  a 
quattro  cavalli  di  Chering- Cross  o  di  Piccadilly,  e  si  fa  trascinare 
fuori  di  Londra.  Va  a  Richemond,2  passeggia  silenzioso  in  quel 
bel  parco,  ammira  il  tortuoso  giro  del  Tamigi,  che  gli  parra  torbido 
od  aureo  secondo  e  di  umor  prosaico  o  poetico,  e  paga  carissimo 
un  pranzo  condito  dagPinchini  di  servi  in  calze  di  seta  e  vestiti  a 
bruno  in  tutto  punto  come  un  awocato  di  Torino.  Owero  va  a 
Greenwich3  ad  ammirare  un  altro  bel  parco,  quell'osservatorio, 


i.  Questo  brano  corrisponde  alle  pp.  32-51  dell'edizione  da  noi  seguita. 
Precedono  il  testo  i  seguenti  versi,  e  la  traduzione,  del  Childe  Harold's  Pil 
grimage  (I,  LXIX)  di  Byron :  «  The  seventh  day  this ;  the  jubilee  of  man,  / 
London!  Right  well  thou  know'st  the  day  of  prayer:  /  then  thy  spruce 
citizen,  wash'd  artizan  /  and  smug  apprentice  gulp  their  weekly  air:  / 
thy  coach  of  Hackney,  whiskey,  one-horse  chair,  /  and  humblest  gig 
through  sundry  suburbs  whirl,  /to  Hampstead,  Bentford  [rectius:  Brent 
ford],  Harrow  make  repair,  /  till  the  tirede  (sic)  jade  the  wheel  forgets 
to  hurl  /  provoking  envious  gibe  from  each  pedestrian  churl »  («6  que- 
sto  il  settimo  giorno,  il  giubileo  delPuomo,  o  Londra:  tu  ben  conosci  il 
giorno  della  preghiera,  in  cui  i  tuoi  attilati  cittadini,  i  tuoi  artigiani  ripu- 
liti,  il  lindo  garzone,  tranguggiano  lieti  la  loro  aura  settimanale:  i  tuoi 
cocchi  da  nolo,  i  rapidi  calessi  a  un  cavallo,  e  Tumile  gig  percorrono  i  molti 
tuoi  sobborghi,  e  fanno  meta  Hampstead,  Bentford  o  Harrow,  finche  lo 
stanco  ronzino  dimentica  di  far  girare  le  ruote,  provocando  le  risa  invi- 
diose  del  pedestre  volgo»).  2.  Richmond:  parco  a  sud-ovest  di  Londra. 
3.  Greenwich:  sobborgo  ad  est  di  Londra,  oggi  incorporato  nella  citta. 
II  suo  osservatorio  e  divenuto  famoso,  perche  il  suo  meridiano  e  stato 
adottato  come  meridiano  iniziale.  L'edificio,  gia  destinato  a  ospedale  dei 
marinai,  e  oggi  una  parte  del  R.  Collegio  Navale. 


70  GIUSEPPE   PECCHIO 

quel  magnifico  ospizio  de'  marinai  invalidi,  e  pranza  alia  vista  del 
veleggianti  vascelli  che  ritornano  dalla  China  e  dalle  Indie.  Se  poi 
ama  di  fare  una  gita  piu  economica  se  ne  va  sbadigliando  sui  bei 
colli  di  Hampstead,1  compiangendo  Londra  avvolta  in  un  nugolone 
di  fumo,  e  quasi  rallegrandosi  d'esserne  scampato  fuori.  Tutti  que- 
sti  sono  buoni  palliativi  contro  la  noia  della  domenica,  ma  non  e  in 
nessuno  di  questi  belli  ma  anch'essi  melanconici  luoghi,  ne  alia 
brillante  e  seria  passeggiata  di  Hyde  Parke2  che  il  forestiere  cono- 
scera  la  nazione.  John  Bull3  non  va  a  pavoneggiarsi  all'Hyde  Parke, 
o  a  Kensington  Garden,  ne  a  pascersi  di  bellezze  poetiche  e  a  fare 
idilli  nella  foresta  di  Windsor.4  Se  volete  vedere  questo  meravi- 
glioso  personaggio  che  fa  stupire  e  ridere  di  se  tutta  1'Europa  da 
piu  di  un  secolo,  che  veste  quasi  tutto  il  mondo,  che  guadagna  bat- 
taglie  per  terra  e  per  mare  senza  molto  vantarsene,  che  lavora  per 
tre  e  mangia  e  beve  per  sei,  ch'e  il  pignoratario  e  1'usuraio  di  tutti  i 
re  e  di  tutte  le  repubbliche,  ed  e  quasi  fallito  in  casa  propria,  e 
qualche  volta  a  guisa  di  Mida  muore  di  fame  in  mezzo  alPoro,5 
voi  dovete  cercarlo  altrove.  NeH'inverno  dovete  scendere  nelle  ta- 
verne  sotto  terra.  Ivi  intorno  a  un  fuoco  di  avvampante  bragia  tro- 
verete  seduti  ben  vestiti  e  ben  calzati  gli  operai  inglesi  fumando,  be- 
vendo,  tacendo  e  leggendo.  Le  scuole  di  mutuo  insegnamento,6 
e  quelle  della  domenica  che  gratuitamente  si  tengono  da  tutti  i 
dissident!7  pei  fanciulli  poveri  della  loro  setta,  hanno  reso  il  popolo 
inglese  istrutto  nel  leggere,  nello  scrivere  e  neiraritmetica.  In 
Iscozia  anche  prima  del  mutuo  insegnamento  v'erano  le  scuole 
parrochiali  in  cui  oltre  al  leggere  e  scrivere,  s'insegnarono  sempre 

i.  Hampstead:  a  nord-ovest  di  Londra.  2.  Hyde  Parke:  Hyde  Park  e  un 
parco  dietro  Westminster,  che  si  prolunga  poi  con  il  Kensington  Garden. 
3.  John  Bull:  soprannome  dato  al  popolo  inglese  in  seguito  a  un  libro  sa- 
tirico  di  John  Arbuthnot,  History  of  John  Bull  (Storia  di  Giovanni  Toro)> 
pubblicato  nel  1712.  4.  foresta  di  Windsor:  grandissimo  parco  a  ovest  di 
Londra.  5,  e  quasi,  .  .  oro:  nel  1826  Plnghilterra  fu  colpita  da  una  grave 
crisi  commerciale  dovuta  a  una  superproduzione  delle  Industrie.  II  Pecchio 
studi6  il  fenomeno  in  un  suo  saggio,  Uanno  mille  ottocento  ventisei  del- 
VInghilterra  (vedi  la  bibliografia).  6.  Le  scuole.  .  .insegnamento:  si  al 
lude  alle  scuole  lancasteriane,  cosi  dette  da  Joseph  Lancaster  (1778-1838), 
pedagogista  inglese,  che  istitul  la  prima  nel  1798.  In  esse  gli  alunni  mi- 
gliori  facevano  da  guide  e  maestri  ai  piu  tardi.  II  Pecchio,  come  il  Confa- 
lonieri,  si  interess6  in  Milano  alia  creazione  di  due  di  queste  scuole,  che 
poi  FAustria  ebbe  in  sospetto  e  soppresse  (vedi  R.  CICCHITTI,  Federico  Con- 
falonieri  e  la  Societdfondatrice  delle  scuole  gratuite  di  mutuo  insegnamento  in 
Milano  ecc.,  in  «La  rassegna  nazionale»,  CLXVII,  16  maggio  e  i°  giugno 
1909).  7.  dissidenti:  non  seguaci  della  Chiesa  anglicana. 


OSSERVAZIONI   DI    UN   ESULE   SULL'INGHILTERRA          71 

i  rudiment!  della  grammatica  latina,  e  il  canto  pel  servizio  della 
chiesa.  6  no  to  che  da  queste  scuole  scozzesi  uscirono  molti  poeti, 
fra  i  quali  James  Beattie1  povero  fittaiuolo,  autore  del  poema  il 
Minstrel,  e  Burns2  pur  esso  nato  misero  fittaiuolo  che  divenne  Pim- 
pareggiabile  Teocrito  de'  secoli  moderni.  Per  questa  classe  di  let- 
tori  si  pubblicano  espressamente  dei  giornali  della  domenica,  i 
quali  contengono  in  nassunto  tutte  le  notizie  e  gli  aneddoti  an- 
nunziati  dagli  altri  giornali  nel  corso  della  settimana.  Cosi  il  ferraio 
e  il  tessitore  sono  al  fatto  delle  vicende  del  mondo  al  pari  dei  piu 
eminenti  oratori  del  parlamento.  Non  e  cio  una  cosa  di  picciol  mo- 
mento.  £  in  queste  taverne,  e  tra  il  fumo  della  pippa  e  la  schiuma 
della  birra  che  nasce  e  si  forma  il  primo  stato  delPopinion  pubblica. 
fe  qui  che  si  pesa  la  condotta  d'ogni  cittadino;  e  questa  la  via  che 
mena  al  Campidoglio,  o  al  Tarpeo  ;3  che  si  prende  amore  alia  patria, 
alia  gloria;  che  si  conoscono  i  servigi  resi  al  pubblico  dai  zelanti 
cittadini;  che  nasce  la  lode  o  il  biasimo;  il  trionfo  di  Burdett4 
quando  usci  dalla  Torre  di  Londra,  o  le  maledizioni  su  Castelreagh5 
quando  discese  nella  tomba;  la  censura  o  Papprovazione  di  una 
legge ;  che  si  preparano  le  ricompense  o  le  reprovazioni  pel  tempo 
delle  elezioni.  La  taverna  e  il  Foro  degPInglesi,  colla  differenza 
che  qui  non  vi  sono  risse  ne  contese.  Sia  il  clima,  sia  Peducazione, 
sia  il  temperamento,  sia  qualsivoglia  la  ragione,  certo  e  che  in  que 
ste  taverne  regna  piu  quiete,  silenzio  e  decenza  che  nelle  nostre 
chiese.  E  questi  uomini  di  stato  dopo  essere  ricolmi  di  liquori  e  di 
birra  invece  di  cercar  brighe,  cadono  assopiti  sul  pavimento  «  come 
corpo  morto  cade».6 

NelPestate  John  Bull  ama  nel  dopo  pranzo  ricrearsi  la  vista  col- 
Paspetto  della  campagna  e  del  verde.  Questo  popolo  ha  un'afezione 
particolare  per  gli  alberi  e  pe'  fiori.  Non  v'e  tugurio  in  Inghilterra 

i.  James  Beattie  (1735-1803),  scozzese,  poeta  e  cultore  di  studi  filosofici. 
II  suo  poema  The  Minstrel  (1771-1774)  gli  diede  molta  fama  tra  i  roman- 
tici.  2.  Robert  Burns  (1759-1796),  poeta  scozzese.  Ammiratissirni  i  suoi 
poemetti,  canzoni,  ballate  in  dialetto  scozzese :  ebbe  vivo  sentimento  della 
natura.  3.  la  via . . .  al  Tarpeo :  la  via  della  gloria  o  dell'infamia.  Dalla  ru- 
pe  Tarpea  si  gettavano  a  Roma  i  traditori.  4.  Sir  Francis  Burdett  (i779~ 
1843),  uomo  politico,  awersario  del  ministro  Pitt  (vedi  la  nota  5  a  p.  84), 
e  difensore  dei  diritti  del  popolo.  Fu  arrestato  due  volte,  nel  1810  e  nel 
1820.  Sostenne  tra  i  primi  il  sufTragio  universale,  ma  con  esclusione  delle 
donne.  5.  Castelreagh:  Robert  Stewart  Castlereagh  (1769-1822),  il  famo- 
so  ministro  inglese,  amico  e  seguace  di  William  Pitt,  combatte  la  Francia 
rivoluzionaria  e  Napoleone,  ed  ebbe  parte  notevole  nella  politica  della  re- 
staurazione.  Fu  assai  mal  visto  perche  reazionario.  6.  Dante,  Inf.,  v,  142. 


72  GIUSEPPE    PECCHIO 

che  non  abbia  dinanzi  un  pezzetto  di  terra  coltivato  a  fiori.  II 
milord  ha  ne'  suoi  parchi  delle  quercie  di  miiranni  intatte  dalla 
scure,  dei  serbatoi  a  stufe  ripieni  di  piante  esotiche,  di  frutti  squi- 
siti,  dei  fiori  i  piu  rari;  e  il  povero  artigiano  lavora  al  suo  telaio  alia 
vista  di  vaselli  di  fiori  posti  contro  I'mvetriata  della  finestra  (con 
animo  non  meno  ospitale  dei  milordi),  acciocche  anche  il  passeg- 
giero  goda  di  quella  vista.  L'amor  de'  fiori  e  un  gran  segnale  di  ci- 
vilizzazione.  Da  tempo  immemorabile  esistono  in  tutta  ITnghil- 
terra  dei  sentieri  per  uso  comune  attraverso  i  campi  dej  privati. 
Da  alcuni  anni  in  qua  i  proprietari,  in  ogni  paese  quasi  sempre  in- 
saziabili,  tentarono  di  chiudere  questi  passaggi,  e  privare  il  pub- 
blico  di  questo  sano  ed  innocente  diporto.  Che  ne  awenne?  In 
tutte  le  contee  si  e  formata  una  societa  in  difesa  dei  diritti  e  della 
ricreazione  del  popolo.  Cio  indica  abbastanza  quanto  questo  po- 
polo  abbia  a  cuore  i  suoi  diritti,  e  quanto  ami  altresi  le  passeggiate 
campestri. 

Nelle  vicinanze  di  Londra  adunque  vi  sono  dei  giardini  con 
grandi  alberi  ombreggianti,  chiamati  Tea-gardens,  dove  gli  operai 
colle  loro  famiglie  vanno  a  prendere  il  te  nel  dopo  pranzo,  o  a  tra- 
cannare  la  nut-brown  ale,  la  birra  del  color  della  noce  bruna.  Uno 
de'  piu  belli  e  quello  di  Cumberland  Garden  vicino  a  Waxhall 
lungo  il  Tamigi.  II  giardino  e  sparso  di  tavolini  tersissimi,  intorno 
ai  quali  vari  gruppi  di  quattro  o  sei  operai,  stanno  fumando  in 
lunghe  e  bianchissime  pippe  di  terraglia  che  1'oste  fornisce  colme 
di  tabacco  per  un  soldo,  riposando,  e  gettando  fuori  col  fumo  di 
quando  in  quando  qualche  tronca  frase,  appunto  come  leggiamo 
nel  Tristram  Sandi1  che  facevano  il  caporale  Trim  e  il  capitano. 
Chi  non  ha  provato  quanto  sia  dolce  il  riposo  dopo  una  fatica  di 
cinque  o  sei  giorni  non  pu6  comprendere  che  tali  uomini  poco 
parlanti,  e  meno  moventisi,  sieno  in  quella  loro  forma  di  statue 
felicissimi.  Non  si  ode  un  istrumento,  non  si  ode  una  sol  nota  mu- 
sicale;  altro  non  si  sente  che  un  bisbilio  di  gente  che  parla  sotto 
voce;  i  battelli  pieni  di  gente  vanno  e  vengono  intanto  pel  Tamigi. 
Sui  nostri  laghi  si  sogliono  udire  stromenti,  cori,  canzoni  villerec- 
cie.  In  ci6  non  ha  colpa  ITnglese  che  ama  appassionatamente  la 

i.  Tristram  Sandi:  Popera  principale  di  Laurence  Sterne  (1713-1768),  il 
cui  titolo  esatto  e  The  Life  and  Opinions  of  Tristram  Shandy.  L'opera, 
rimasta  incompiuta,  fu  ammiratissima  per  il  suo  umorismo.  Toby  e  lo  zio 
paterno  del  piccolo  Tristram,  ed  e  un  ufficiale  (il  capitano)  reso  ormai  in- 
valido  da  una  ferita;  Trim  e  il  suo  fido  cameriere,  anch'egli  invalido. 


OSSERVAZIONI   DI   UN   ESULE    SULL'INGHILTERRA          73 

musica  e  la  poesia;  ma  gia  si  sa  che  la  religione  protestante  non 
ammette  divertimenti  nella  domenica;  la  vuole  consacrata  alia 
contemplazione,  al  raccoglimento,  all'esame  di  se  stesso,  senza  per6 
proibire  il  conforto  della  bottiglia.  In  Iscozia  dove  domina  la  reli 
gione  del  feroce  Calvino  la  domenica  e  ancor  phi  taciturna  e  tetra. 
II  sorriso  e  quasi  riputato  una  profanazione.  In  questo  giorno  di 
assoluta  inazione  si  permette  a  stento  ai  barbieri  di  esercitare  il  loro 
mestiere  sino  alle  nove  ore  del  mattino.  Credo  per  conseguenza  che 
nessuno  si  tagli  le  unghie  in  domenica.  £  noto  a  tutti,  che  un  severo 
calvinista  impicc6  il  lunedl  il  suo  gatto  perche  era  stato  a  caccia 
di  topi  la  domenica.  In  molti  luoghi  il  pedaggio  delle  barriere  (per 
le  carrozze  private)  e  doppio  in  questi  giorni.  Si  parla  molto  sul 
continente  del  bestemmiar  degl'Inglesi,  ossia  del  loro  god . . .  mf 
ed  io  credo  che  un  gondoliere  di  Venezia,  o  un  vetturino  bolognese 
bestemmia  piu  che  mille  Inglesi.  D'altronde  ho  visto  appesa  in 
tutte  le  bettole  la  minaccia  dei  magistrati  di  condannare  alPammen- 
da  colui  che  pronunzia  una  bestemmia. 

Chi  si  e  formato  un'idea  degl'Inglesi  dal  piu  bel  poema  di  Vol 
taire,2  che  non  voglio  nominare  quantunque  ognuno  de'  lettori 
1'abbia  letto,  sarebbe  meravigliato  di  vedere  cangiate  quelle  guan- 
cie  fiorite,  e  quelle  robuste  atletiche  forme  in  pallide  faccie  e  me- 
schine  gambe  che  si  vedono  negli  operai  che  popolano  questi  giar- 
dini.  La  marra  abbellisce  una  popolazione,  e  il  telaio  la  guasta.  Che 
differenza  infatti  tra  un  montanaro  scozzese  (un  Highlander)  e  un 
tessitore  di  Glascow!  II  primo  conserva  ancora  le  ben  tornite  e 
robuste  forme  descritte  nei  guerrieri  di  Ossian;3  le  gambe  somi- 
glianti  alle  marmoree  colonne  del  Lena,4  il  petto  alto  ed  ampio 
a  guisa  di  corazza,  suite  guance  il  color  del  vigore,  in  tutto  il  porta 
mento  il  brio  e  la  baldanza  della  salute,  L'operaio  invece  e  smunto, 


i.  Turpe  bestemmia  inglese.  2.  piu  . , .  Voltaire:  allude  a  La  pucelle  d* Or 
leans  (1755)  di  Voltaire.  3.  Ossian:  leggendario  bardo  ed  eroe  gaelico 
vissuto  presumibilmente  nel  III  secolo  d.  C.  A  lui  vennero  attribuiti  i 
canti  a  carattere  epico  noti  col  nome  di  «ciclo  di  Ossian »  e  difrusi  dai 
bardi  gaelici  d'Irlanda  e  di  Scozia.  II  poeta  scozzese  James  Macpherson 
(1736-1796)  ne  pubblic6,  sulla  base  di  manoscritti  dal  XII  alXVI  secolo, 
delle  sedicenti  traduzioni  (Fragments  of  Ancient  Poetry,  ij6o;Fingal,  1761 ; 
Temora,  1763)  che  risultarono  poi  essere  libere  versioni,  con  parti  di  sua 
invenzione.  4.  marmoree . . .  Lena :  quasi  certamente  si  tratta  delle  famose 
colonne,  dette  stolbi,  del  fiume  Lena:  colossali  pilastri  calcarei,  alti  piu  di 
seicento  metri. 


74  GIUSEPPE   PECCHIO 

invecchiato  prima  del  tempo,  malfatto  nella  persona,  e  mal  reggen- 
tesi.  Che  disparita  tra  un  cocchiere  inglese  e  un  filatore  di  Man 
chester!  II  primo  e  il  vero  ritratto  d'un  turgido  Bacco,  il  secondo 
di  un  prigioniero  in  vita.  II  deterioramento  della  popolazione  e  uno 
svantaggio  degli  stati  manifattori  che  non  si  e  per  anco  considerate 
abbastanza.  Andai  in  traccia  di  statistiche  delle  classi  manifattrici 
onde  conoscere  le  loro  diverse  longevita,  e  malattie,  ma  non  mi 
venne  fatto  di  ritrovarne,  e  credo  che  non  se  ne  sieno  ancora  fatte, 
e  difficile  sia  il  fame,  attesa  la  continua  traslocazione  da  un  luogo 
airaltro  degli  operai.  Alcuni  medici  di  Manchester  hanno  preteso 
far  credere  che  la  longevita  &  maggiore  in  quelle  citta  dove  le  mani- 
fatture  sono  aumentate.  Peccato  che  Moliere  non  viva.  Avrebbe 
qui  avuto  un  soggetto  da  farci  ridere  ancora  a  spese  di  alcuni  empi- 
rici.1  A  questa  loro  asserzione  non  hanno  punto  prestato  fede  que' 
filantropi,  che  persuasi  pur  troppo  del  danno  che  la  vita  sedentaria 
e  rinchiusa  reca  ai  manifattori  si  studiarono  di  ripararvi.  Alcuni 
di  questi,  quali  il  sig.  Brougham  e  il  sig.  Hume,2  hanno  promosso 
delle  scuole  di  ginnastica,  dove  nelle  ore  di  riposo  gli  operai  pos- 
sono  addestrare  le  loro  membra  in  piacevoli  esercizi ;  e  il  piu  per- 
severante  di  tutti,  il  sig.  Owen,3  dopo  avere  introdotto  nella  sua 
stupenda  filatura  di  cotone  in  New  Lenark  tra  Edimburgo  e 
Glascow  persino  la  danza,  ide6  un  nuovo  piano  di  lavoro  alternato 
di  occupazioni  agricole  e  manifattrici,  e  and6  in  America  a  fame 
Pesperimento.  Le  classi  degli  operai  sono  piu  o  meno  brutte  se 
condo  la  qualita  de'  mestieri.  La  popolazione  di  Birmingham  e  di 
Sheffield  impiegata  in  gran  parte  nelle  fucine  e  nelle  manifatture  di 
metalli  e  molto  piu  appariscente  e  robusta  di  quella  di  Manchester 
e  di  Glascow  quasi  tutta  imprigionata  ne'  filatoi. 

i.  Peccato  .  .  .  empirici:  e  noto  che  Moliere  satireggi6  i  medici  in  varie  sue 
commedie.  2.  Henry  Brougham  (1778-1868),  membro  della  Camera  dei 
Comuni,  capo  dell'opposizione,  awerso  al  ministro  Castlereagh,  e  sosteni- 
tore  di  riforme  democratiche.  In  un  discorso  (3  febbraio  1824)  denunci6 
alia  Camera  dei  Comuni  1'oppressione  esercitata  dagli  Austriaci  in  Italia. 
A  lui  e  diretta  la  lettera,  L' Austria  in  Italia,  che  il  Pecchio  pubblic6  a 
Londra  nel  1824  (vedi  la  bibliografia) ;  Joseph  Hume  (1777-1815),  1'uomo 
politico  che  sostenne  alia  Camera  dei  Comuni,  per  amore  della  liberta, 
riforme  democratiche  e  prowedimenti  di  legislazione  sociale.  3.  Ro 
bert  Owen  (1771-1858),  industriale,  ptomotore  di  riforme  sociali,  fu  tra  i 
primi  teorici  inglesi  del  socialismo.  Nella  sua  fabbrica  attu6  riduzioni  di 
orario,  escluse  i  fanciulli  dal  lavoro,  cre6  scuole  laiche,  casse-pensioni, 
elargl  sussidi  ai  disoccupati.  Sogn6  e  tent6  un  socialismo  associazionistico 
di  piccoli  nuclei,  e  ne  fece  esperimento,  ma  senza  frutto,  anche  in  America. 


OSSERVAZIONI    DI   UN   ESULE    SULL'INGHILTERRA          75 

Facendo  io  in  Liverpool  alcune  di  queste  osservazioni  ad  uno 
dei  tanti  intelligent!  e  ben  istrutti  commercianti  di  quella  citta, 
mi  rispose  che  nell'ultima  guerra  contro  la  Francia  i  reggimenti 
reclutati  fra  gli  operai  di  quella  industriosissima  contea  si  distinsero 
fra  gli  altri  per  valore.  Sara  benissimo.  Dacche  piu  non  si  guerreggia 
all'arma  bianca  non  vi  e  piu  ragione  di  credere  che  gli  artefici  sieno 
inetti  soldati,  come  tali  li  reputavano  i  romani,  o  quali  si  mostraron 
i  fiorentini  del  Medio  Evo.  In  Persia  dove  ancora  il  nerbo  dell'ar- 
mata  consiste  in  cavalleria  ch'esige  forza  e  singolare  destrezza,  gli 
abitanti  delle  citta  manifattrici  non  riescono  buoni  soldati.  Ma  la 
guerra  dei  nostri  tempi  si  fa  col  valore  e  colla  disciplina ;  le  armate 
inglesi  che  sono  in  cio  esemplari  sono  per  un  buon  terzo  composte 
di  operai. 

La  division  del  travaglio  tanto  utile  alia  rapidita  e  perfezione 
delle  manifatture,  e  tanto  praticata  in  Inghilterra,  nuoce  alPintel- 
ligenza  ed  allo  sviluppo  delle  facolta  mentali  dell'artigiano ;  anzi 
le  spegne.  Di  che  idee  volete  che  arricchisca  la  sua  mente  quella 
spola,  o  quella  ruota,  quel  fuso  che  gli  passa  dinanzi  agli  occhi 
dodici  ore  per  giorno?  «I1  en  resulte»  dice  il  sig.  Say1  «une  de- 
generescence  dans  1'homme  considere  individuellement.  C'est  un 
triste  temoignage  a  se  rendre  que  de  n' avoir  jamais  fait  que  la  dix- 
huitieme  partie  d'une  epingle».  Se  Toperaio  non  avesse  rincalco- 
labile  vantaggio  della  societa  de'  suoi  compagni  che  nelle  ore  di 
riposo  lo  sveglia,  lo  anima,  lo  elettrizza  insieme  coi  variati  oggetti 
che  presenta  sempre  il  soggiorno  d'una  citta,  diverrebbe  in  capo  ad 
alcuni  anni  un  vero  automa.  Infatti  invece  di  dire  che  un  fabbri- 
cante  impiega  un  tal  numero  di  operai,  comunemente  si  dice  che 
impiega  un  tal  numero  di  hands,  cioe,  di  mani,  quasi  gli  operai 
non  avessero  la  testa.  I  Brougham,  gli  Hume,  i  Burdett,  gli  Allen,2 
infine  i  protettori  e  protetti  da  queste  classi  ben  conobbero  questo 
inconveniente,  e  col  loro  infaticabile  zelo  si  diedero  a  cercarne 
i  rimedii.  Immaginarono  adunque  delle  biblioteche  pei  manifat- 
tori  da  stabilirsi  in  ogni  citta.  Esse  non  sono  aperte  che  due  ore  nel- 
la  sera;  contengono  storie,  viaggi,  disegni  di  macchine.  La  sotto- 

i.  Jean  Baptiste  £#3;  (1767-1832),  economista  francese,  malvisto  da  Na- 
poleone  per  il  suo  liberalismo.  Dopo  il  1814  visse  alcun  tempo  in  Inghil 
terra  per  studiarne  le  condizioni  economiche.  II  passo  citato  e  nel  Traite 
d'economie  politique  (1814),  libro  I,  cap.  vm  (nella  traduzione  italiana,  To 
rino,  Pomba,  1854,  P-  67).  2.  II  filantropo  quacchero  William  Allen  (1770- 
1843). 


76  GIUSEPPE   PECCHIO 

scrizione  per  un  trimestre  non  costa  che  diciotto  soldi  inglesi.  Non 
paghi  di  questo,  istituirono  nelle  citta  piu  popolose  delle  cattedre 
di  chimica  applicata  alle  arti,  e  di  meccanica.  In  Londra  piu  di 
mille  e  cinquecento  operai  contribuiscono  una  ghinea  all'anno  per 
assistervi.  Un  calzolaio  quest'anno  riporto  il  premio  di  dieci  ghinee 
per  uno  scritto  di  geometria.  Alcuni  mesi  sono  si  e  formata  una 
societa  per  la  diffusione  dei  lumi  utili,  che  va  pubblicando  e  distri- 
buendo  ogni  mese  un  gran  numero  di  opuscoli  elementari  su  tutti 
i  rami  del  grand'albero  del  sapere  umano.  I  giornali  della  domenica, 
e  le  frequenti  pubbliche  assemblee  a  cui  concorrono  gli  operai,  e 
dove  le  persone  piu  eloquent!  istruiscono  la  multitudine  negli  af- 
fari  pubblici,  sono  un  alimento  ed  uno  stimolo  alle  menti  loro.  II 
sig.  Hume  nella  seduta  del  13  dicembre  1826  rappresento  che  la 
tassa  del  bollo  sui  giornali  era  troppo  grave  in  Inghilterra.  Negli 
Stati  Uniti,  la  cui  popolazione  eccede  di  poco  la  meta  di  quella 
della  Gran  Brettagna,  vi  sono  590  giornali,  mentre  nella  Gran 
Brettagna  non  ve  ne  sono  pel  peso  delle  tasse  che  484.  Annunzi6  che 
proporrebbe  una  riduzione  almeno  pei  giornali  settimanali  destinati 
per  gli  artigiani.  II  sig.  Brougham,  che  ambisce  di  erigere  al  suo 
nome  un  monumento  nell'istruzione  popolare  da  lui  meravigliosa- 
mente  incoraggiata  colla  sua  solita  eloquenza,  secondo  la  proposta. 
Possa  ella  essere  appro vata!  6  incalcolabile  (lo  ripeter6  un  milion 
di  volte)  P  influenza  che  devono  esercitare  i  giornali  negli  stati  dove 
hawi  liberta  di  stampa.  Oserei  dire  che  ne  debbono  esercitare  piu 
della  religione.  L'opinione  pubblica  scaturisce  da  queste  fonti.  Essa 
sola  basta  a  correggere  tutti  gli  errori  d'una  legislazione,  e  tutti  gli 
abusi  del  potere.  £  una  vera  panacea.  I  giornali  sono  il  pane  quoti- 
diano  della  mattina  e  della  sera  per  ogni  Inglese.  II  pubblico  n'e 
cosl  famelico  che  il  « Times »  non  contento  di  stampare  a  vapore 
mille  e  cento  copie  aH'ora,  perfezion6  la  macchina  a  segno  che  in 
oggi  stampa  quattro  mila  copie  all'ora,  cioe  settanta  copie  al  mi- 
nuto,  pero  da  una  sola  parte. 

Ortes,1  il  nostro  economista  troppo  lodato  e  troppo  censurato, 
pretende  che  il  commercio  non  arricchisca  che  le  classi  superiori, 
ammassando  in  pochi  i  guadagni,  e  lasciando  la  massa  de'  lavoranti 

i.  Giammaria  Ortes  (1713-1790),  economista  veneziano,  fu  accusato  di 
errori  di  metodo  e  di  restare  incerto  fra  vecchie  e  nuove  posizioni  dottri- 
nali.  II  Pecchio  scrisse  di  lui  nella  sua  Storia  delV  economic  pubblica  in 
Italia  (vedi  la  bibliografia). 


OSSERVAZIONI    DI   UN   ESULE    SULL'INGHILTERRA          77 

sempre  nella  stessa  miseria.  I  Tea-gardens,  che  sto  descrivendo, 
sono  di  cio  una  piena  confutazione.  Chi  li  visita  osserva  con  istupore 
tutti  questi  artigiani  bene  sbarbati,  vestiti  di  buon  panno,  calzati 
in  stivali,  con  camiscia  di  bucato,  con  oriuolo  in  tasca,  con  fazzo- 
letti  di  seta  al  collo,  alloggiando  in  polite  case,  dormendo  in  nitidi 
letti,  prendendo  te  due  volte  al  giorno,  mangiando  sempre  pan 
bianco  e  scelta  carne  ogni  di  delPanno.  Erano  essi  nelPeguale  con- 
dizione  quando  il  commercio  delPInghilterra  non  era  ne  cosi  flo- 
rido,  ne  cosi  esteso  ?  Gli  anziani  del  paese,  le  memorie,  le  case  su- 
perstiti,  molti  testimoni  irrefragabili  vi  sono,  che  case,  letti,  mobili, 
vestito,  nutrimento,  tutto  era  di  gran  lunga  inferiore.  La  ragione 
di  questa  differenza  e  evidente.  Quando  il  commercio  e  in  uno 
stato  progressivo,  la  domanda  di  merci  sempre  maggiore  e  favo- 
revole  agli  operai;  essi  possono  sostenere  la  loro  man  d'opera.  Egli 
e  oramai  una  verita  dimostrata  che  lo  stipendio  degli  operai  non  e 
solo  in  ragion  del  prezzo  della  sussistenza,  ma  anche  del  rapporto 
tra  la  domanda  e  Pofferta  del  lavoro.  Oltre  di  cio,  la  division  del 
lavoro,  e  le  macchine  avendo  abbassato  il  prezzo  di  molti  oggetti 
consumati  un  tempo  soltanto  dalle  classi  agiate,  questi  divengono 
di  un  consume  generale.  II  vestiario  attuale  di  un  operaio,  sebbene 
migliore  di  quello  che  usava  di  portare  60  anni  fa,  forse  non  costa 
in  oggi  altrettanto  valore  intrinseco. 

£  per6  vero  che  gia  a  quest'ora  Pintroduzione  delle  macchine  a 
vapore  ha  tolto  ad  alcune  classi  d'operai  il  vantaggio  nella  concor- 
renza,  e  gli  ha  respinti  nello  scarso  necessario  di  molti  anni  addietro. 
Queste  macchine  facendo  il  lavoro  di  phi  milioni  d'operai,  sono 
altrettanti  giganti  rivali  degli  uomini.  Infatti  mentre  le  altre  classi 
di  artigiani,  come  fabbri,  falegnami,  tintori,  vetrai,  ec.  ec.  gua- 
dagnano  dai  trenta  sino  ai  sessanta  e  piu  scellini  la  settimana,  i  fila- 
tori  e  tessitori  lavorando  12  ore  al  giorno  appena  possono  guada- 
gnarne  dai  15  ai  18  nei  tempi  di  commercio  attivo.  Essi  non  sono 
solamente  inferiori  nel  fisico  agli  altri  operai,  ma  sono  esseri  infelici. 
In  un'adunanza  tenuta  nel  gennaio  del  1825  in  Manchester  dai 
filatori  di  cotone  onde  deliberare  sui  mezzi  di  raddolcire  la  loro 
sorte,  uno  di  loro  si  alzo  a  dire  che  nei  primi  tempi  dei  filatoi  di 
cotone,  i  lavoranti  godevano  di  un  maggior  agio  e  d'una  maggior 
liberta,  ma  che  in  questi  ultimi  quindici  anni  i  padroni  per  Pintro 
duzione  delle  macchine  a  vapore  avevano  ammassate  ricchezze,  ac- 
cresciuti  i  loro  agi,  mentre  i  lavoranti  gradatamente  erano  discesi 


78  GIUSEPPE   PECCHIO 

nella  ruota  dej  viventi,1  il  loro  salario  diminuito,  il  lavoro  accre- 
sciuto.  Poscia  dopo  avere  descritta  la  sciagurata  vita  che  menano 
in  una  calda  soffocante  atmosfera,  e  le  varie  malattie  a  cui  sono 
soggetti  esclam6:  —  Guardate  intorno  e  mirate  questi  squallidi 
volti,  e  questi  scheletri  di  corpo.  Guardate  me  stesso  che  ho  appena 
venticinque  anni,  e  sono  gia  piii  vecchio  di  questi  che  mi  sta  qui  a 
lato,  il  quale  e  un  marinaio  di  cinquant'anni.  Vedete  a  che  triste 
condizione  siamo  condannati.  DalPeta  di  sei  anni  la  maggior  parte 
di  noi  e  sepolta  nel  polverio  del  cotone  in  una  soffocante  malsana 
atmosfera;  sofferenti  per  gli  estremi  del  caldo  e  del  freddo,  privati 
del  sonno  per  le  addolorate  nostre  membra  oppresse  da  estrema 
fatica;  ed  a  35  anni  di  eta  noi  tocchiamo  gia  una  misera  vecchiaia. 
I  nostri  figli  appena  possono  crescere,  e  la  nostra  indipendenza 
sostenuta  da  un'onesta  industria  si  riduce  in  alcuni  a  chiedere  la 
limosina  sull'angolo  della  contrada  col  cappello  in  mano  al  piu 
meschino  de'  passeggieri! 

Questo  lamento  (in  cui  v'e  molta  esagerazione,  come  ve  n'ha 
sempre  nelle  arringhe  dei  capi-popolo  antichi  e  moderni)  di  operai 
morenti  di  fame  in  mezzo  a  una  nazione  rigurgitante  di  oro,  mi 
fece  risowenire  quello  dei  nudi  romani  che  per  bocca  di  Gracco 
si  querelavano  di  non  avere,  dopo  tante  provincie  conquistate  alia 
repubblica,  un  palmo  di  terra  ove  seppellire  le  loro  ossa.2 

E  voi,  romani, 

voi  che  carchi  di  ferro  a  dura  morte 
per  la  patria  la  vita  ognor  ponete; 
voi,  signori  del  mondo,  altro  nel  mondo 
non  possedete  (perche  tor  non  puossi) 
che  Varia  e  il  raggio  della  luce.  Erranti 
per  le  campagne  e  di  fame  cadenti, 
pietosa  e  mesta  compagnia  vi  fanno 
le  squallide  consorti  e  i  nudi  figli 
che  domandano  pane. 

MONTI,  Caio  Gracco,  atto  in.3 


i.  nella  ruota  de*  viventi:  nella  graduatoria  sociale.  2.  quello  .  .  .  ossa:  aTi- 
berio  Gracco,  e  non  Caio,  come  parrebbe  dalla  successiva  citazione,  sono 
attribuiti  da  Plutarco  (Tib.  Gr.,  2)  questi  lamenti,  che  il  tribuno  avrebbe 
pronunziato  in  un'orazione  in  difesa  della  legge  agraria  da  lui  proposta 
nel  133  a.  C.  3.  atto  HI:  e  precisamente  i  w.  428-37. 


OSSERVAZIONI    DI   UN   ESULE   SULL'INGHILTERRA          79 

Pare  die  gPimperii  sieno  come  gli  uomini  die  si  somigliano  nelle 
virtu  e  ne'  difetti. 

Alcuni  economist!  inglesi  piu  curanti  della  ricchezza  che  della 
vera  felicita  osservano  a  proposito  di  queste  lagnanze,  che  se  e  vero 
che  questa  parte  di  popolazione  non  vive  in  una  felice  condizione, 
e  altresi  vero  che  senza  le  macchine  a  vapore  non  esisterebbe  nep- 
pure.  Certo  e  che  Arkwright1  coll'mvenzione  delle  macchine  per  la 
filatura  del  cotone  nel  1765,  e  Watt2  colPapplicazione  del  vapore 
alle  macchine  nel  1779  hanno  dato  alia  loro  patria  una  superiorita 
sopra  Pindustria  delle  altre  nazioni,  quantunque  allo  stesso  tempo 
abbiano  deteriorate  la  sorte  di  forse  un  milione  d'operai  e  dato 
causa  a  una  produzione  molte  volte  eccedente  la  domanda.  Senza 
queste  due  meravigliose  scoperte,  forse  PInghilterra  avrebbe  per- 
duto  la  superiorita  ne'  mercati  esteri  a  motivo  delle  alte  mercedi, 
effetto  in  parte  delPalto  prezzo  del  vitto. 

Se  poi  alcuni  lavoranti,  come  gia  dissi,  deteriorano  la  loro  salute 
ne'  filatoi,  alcuni  altri  si  struggono  per  soverchia  brama  di  gua- 
dagno  che  gli  spinge  a  lavorare  piu  che  la  loro  salute  comporterebbe. 
Smith  nella  sua  grand'opera  osservo,  che  dove  le  mercedi  sono 
alte,  si  trovano  sempre  gli  operai  piu  attivi,  diligenti  e  destri,  che 
dove  sono  basse;  in  Inghilterra,  per  esempio,  piu  che  in  Iscozia; 
nella  vicinanza  delle  grandi  citta  piu  che  in  remote  parti  della  cam- 
pagna.3  Alcuni  operai,  per  verita,  quando  possono  guadagnare  in 
quattro  giorni  abbastanza  da  mantenersi  per  tutta  la  settimana, 
amano  di  rimanere  oziosi  per  gli  altri  tre.  Nondimeno  cio  non  av- 
viene  presso  il  maggior  numero.  Per  lo  contrario,  gli  artigiani 
quando  sono  liberalmente  pagati  a  fattura,4  sono  disposti  per  lo 
piu  a  lavorare  eccessivamente,  e  a  rovinar  la  loro  salute  e  costitu- 
zione  in  pochi  anni.  Un  falegname  in  Londra  (dice  Smith)  e  in 
alcuni  altri  luoghi,  si  calcola  che  non  continui  nel  suo  massimo  vi- 


i.  Richard  Arkwright  (1732-1792),  industriale  e  inventore  inglese,  bre- 
vett6  nel  luglio  del  1769  la  sua  prima  macchina  per  filare  il  cotone,  sebbene 
gia  Tavesse  in  uso  dall'anno  precedente,  in  una  fabbrica  da  lui  impiantata. 
Ma  il  suo  brevetto  piu  importante,  dati  i  perfezionamenti  introdotti  nella 
macchina,  e  del  16  dicembre  1775.  2.  James  Watt  (1736-1819),  ingegnere 
scozzese,  noto  inventore  della  macchina  a  vapore.  3.  Smith . . .  campagna: 
Adam  Smith  (1723-1790),  economista  scozzese,  autore  dell3 Inquiry  into  the 
Nature  and  Causes  of  the  Wealth  of  Nations  (1776).  II  passo  citato  dal 
Pecchio  e  nel  libro  I,  cap.  vni  (nella  traduzione  italiana,  Torino,  Pomba, 
1851,  pp.  51-2).  4.  a  fattura:  secondo  la  quantita  di  lavoro  compiuto. 


8o  GIUSEPPE    PECCHIO 

gore  piu  di  otto  anni.  A  un  dipresso  succede  in  alcune  altre  pro- 
fessioni  in  cui  gli  operai  sono  pagati  a  fattura,  ed  anche  nei  lavori 
di  campagna  ogni  ora  che  lo  stipendio  sia  piu  alto  del  solito.1  Ho 
cercato  di  leggere,  ma  non  1'ho  trovato,  il  libro  che  il  medico  ita- 
liano  Ramuzzini  espressamente  scrisse  nel  secolo  scorso  sopra  le 
particolari  malattie  cagionate  dall'eccessiva  applicazione  in  una 
particolare  specie  di  lavoro.2 


PARTITO   DELL'OPPOSIZIONE   NELLA    CAMERA 
DE»    COMUNI3 

Fra  la  Camera  de'  Comuni  in  Inghilterra,  e  quella  delle  altre  rap- 
presentanze  nazionali  di  Europa  che  mi  accadde  di  vedere,  passa 
quella  differenza  che  vi  e  tra  la  casa  di  un  nuovo  ricco  (d'un  par 
venu),  e  quella  di  un  antico  signore.  Nella  prima  tutto  e  nuovo, 
lucente,  di  buon  gusto,  d'ultima  moda.  Nell'altra  ogni  cosa  e  an- 
tica,  ma  solida,  massiccia,  immedesimata  colle  pareti  e  col  secolo 
in  cui  fu  eretta.  Nella  prima  traspare  sempre  1'ostentazione  di  una 
cosa  nuova,  nella  seconda  scorgesi  la  negligenza  della  ricchezza, 
1'abitudine  del  possesso.  La  Camera  de'  Deputati  di  Parigi,  le 
Cortes  di  Spagna,  quelle  di  Lisbona  erano  nuove  al  pari  dell'isti- 
tuzione  stessa.  La  Camera  de'  Comuni  d' Inghilterra  e  vecchia  co 
me  la  liberta  che  vi  abita.  Felice  quel  paese  dove  la  liberta  puo 
vantare  i  secoli  de'  suoi  avi,  ed  abita  da  secoli  e  secoli  in  gotici  edi- 
ficii.  Fosse  pur  la  Camera  de'  Comuni  cosl  antica  come  i  druidi, 
quand'anche  i  membri  del  parlamento  dovessero  abitare  nel  tronco 
delle  quercie  come  quegli  antichi  sacerdoti.  Chi  entra  nella  sala  del 
parlamento  inglese  coll'idea  di  vedere  un  teatro  di  Milano  o  di 
Napoli,  rimane  deluso  nella  sua  aspettazione.  Non  vi  e  coro  o  re- 
fettorio  di  frati  francescani  che  non  sia  tanto  e  forse  piu  elegante  e 
maestoso  di  questa  sala.  Ma  se  vi  entra  al  contrario  coll'idea  che  va 


i.  Un  falegname .  .  .  solito:  vedi  A.  SMITH,  op.  cit.,  p.  56.  2.  il  libro  .  .  . 
lavoro:  sebbene  il  nome  sia  lievemente  alterato,  si  allude  certo  a  Ber 
nardo  Ramazzini  da  Carpi  (1633-1714)  e  alia  sua  opera  De  morbis  arti- 
ficum  (Modena  1701),  ricordata  dallo  Smith  nel  passo  citato  alia  nota  i,  e 
nella  quale  sono  studiate  per  la  prima  volta  le  malattie  professionali  e  le 
esigenze  igieniche  del  lavoro.  3.  Questo  brano  corrisponde  alle  pp.  88- 
101  dell'edizione  da  noi  seguita. 


OSSERVAZIONI    DI    UN   ESULE   SULL'INGHILTERRA          8l 

a  visitare  uno  de'  tempii  piii  antichi  della  liberta,  mirera  ogni  cosa 
con  quella  venerazione  che  si  osservano  le  tozze  colonne  del  tempio 
di  Peste,1  o  le  catacombe  di  Roma. 

La  moda,  il  lusso,  i  piaceri,  il  bello  di  convenzione*  sono  potenti 
anche  in  Inghilterra,  ma  non  trionfanti;  la  ricercatezza  non  ha  per 
anco  guasta  la  naturalezza  ch'e  il  gusto  dominante  della  nazione. 
L'abito,  lo  stile,  i  complimenti,  i  saluti,  le  chiuse  delle  lettere,  tutto 
sente  la  semplicita.  GPInglesi  sono  forse  i  migliori  cavalcatori  del 
mondo,  cioe  i  piu  fermi  in  sella,  e  non  ne  fanno  vista;3  sono  i  piu 
svelti  di  tutti  nella  ginnastica,  quasi  tutti  sono  capaci,  al  pari  de' 
loro  cavalli,  di  saltar  barriera,  e  siepi  e  fossi,  nondimeno  quando 
ballano  appena  alzano  i  piedi  da  terra.  Sono  forse,  ed  anche  senza 
forse,4  i  primi  oratori  del  mondo  all'improvviso,  e  nessuno  studio 
pongono  sia  ne'  gesti,  sia  nella  declamazione.  Tutti  sappiamo  che  i 
romani  studiavano  la  declamazione,  come  noi  studiamo  la  musica, 
e  che  Caio  Gracco  teneva  dietro  di  se  un  suonatore  di  flauto  che 
lo  awertiva  di  modulare  la  voce  a  seconda  del  bisogno.5  I  nostri 
attori  vanno  spesso  a  studiare  nelle  statue  degli  antichi  oratori  le 
attitudini  e  il  panneggiamento.  Cesare  cadendo  trafitto  non  si  di- 
mentico  la  nobilta  della  positura.  Quantunque  gli  Spagnuoli  non 
fossero  abituati  alle  pubbliche  arringhe,  bello  era  il  vedere  Telo- 
quente  Martinez  de  la  Rosa6  nobilmente  gestire,  e  muovere  i  suoi 
grandi  occhi  neri,  e  1'udirlo  cambiar  con  arte  di  tuono  nella  sua 
robusta  sonorissima  voce.  Galiano7  poi,  altro  degli  eloquenti  mem- 


i.  Peste'.  Pesto.  2.  il  bello  di  convenzione:  cio  che  si  considera  bello  in  una 
data  epoca,  per  diffuse  consenso.  3.  vista:  mostra,  ostentazione.  4.  «In 
febbraio  del  1828  il  sig.  Brougham  pronunzi6  nel  parlamento  un  discorso, 
sulle  riforme  della  legislazion  civile  da  farsi  in  Inghilterra,  che  dur6  sei 
ore  e  quattro  minuti.  Pongasi  mente  che  si  calcolano  quattro  colonne  di  un 
giornale  inglese  per  ora.  Non  v'e  esempio  ne  presso  gli  antichi  ne  presso  i 
moderni  d'un  discorso  estemporaneo  di  tale  durata  in  genere  deliberative  » 
(nota  del  Pecchio).  Vedi  la  nota  2  a  p.  74.  5.  Caio  Gracco  .  .  .  bisogno:  e 
notizia  tramandata  da  vari  scrittori  antichi.  Vedi  Plutarco,  C.  Gr.}  22;  Ci 
cerone,  De  orat.j  in,  225;  Quintiliano,  Inst.  orat.,  I,  10,  27.  6.  Francisco 
Martinez  de  la  Rosa  (1787-1862),  uomo  politico,  poeta  lirico  e  drammatur- 
go  spagnolo.  Uomo  di  idee  liberali,  come  si  oppose  all'invasione  napo- 
leonica,  cosi  fu  awerso  aH'assolutismo  di  Ferdinando  VII.  Dopo  1'insur- 
rezione  del  1820,  fece  parte  delle  Cortes ;  restaurato  Ferdinando  VII  dalle 
baionette  francesi,  il  Martinez  fu  esule  in  Francia,  dal  1823  al  1831.  Del 
Martinez  il  Pecchio  traccio  un  ritratto  nel  volume  Sei  mesi  in  Ispagna  nel 
1821  (vedi  labibliografia).  7.  Antonio  Alcala  Galiano  (1789-1865),  orato- 
re,  scrittore,  liberale  spagnolo.  Awerso  al  dispotismo  di  Ferdinando  VII, 


82  GIUSEPPE   PECCHIO 

bri  delle  Cortes,  si  atteggiava  cosi  teatricalmente,1  che  i  suoi  nemici 
dicevano  che  provava  le  sue  arringhe  in  prima  allo  specchio.  E 
perche  no  ?  Cicerone  prendeva  lezione  da  Roscio,2  e  Roscio  pren- 
deva  lezione  dal  suo  specchio  (o  equivalente  di  specchio)  come 
fanno  tutti  i  buoni  attori.  -  Nulla  di  quest'eleganza,  o  di  quest'af- 
fettazione,  come  piu  piace  chiamarla,  negl'Inglesi.  Vestiti  come 
il  caso  lo  porta,  s'alzano,  gestiscono  come  un  molino  a  vento,  o 
non  gestiscono  punto,  quasi  fantasma,  e  per  piu  ore  non  cambiano 
modulazione  di  voce  piu  di  quel  che  faccia  la  piva  scozzese.  II 
ministro  Canning3  nel  calore  dell'arringa  soleva  battere  colla  destra 
su  una  cassetta  di  legno  che  gli  stava  dinanzi  come  un  fabbro  fer- 
raio  farebbe  alzando  e  abbassando  il  martello.  II  suo  emulo  Brou 
gham  alto,  sottile,  convulso  nei  muscoli  del  suo  volto  incrocicchia 
parlando  e  gambe  e  braccia,  non  punto  dissimile  dai  nostri  disossati 
burattini.  Neppure  i  loro  attori,  per  esempio  il  loro  prototipo  Kean,4 
non  impiegano  quelle  architettate  attitudini  che  usano  gli  attori 
delle  altre  nazioni;  il  loro  artificio  consiste  non  gia  nel  seguire  i 
dettami  dell'arte,  ma  quelli  della  natura.  Tuttavia  confesso  che  i 
membri  del  parlamento  dovrebbero  qualche  volta  abbellir  la  na 
tura. 

£  noto  che  nel  parlamento  inglese  1'oratore  non  legge  mai,  ma 
improwisa.  Tutto  cosi  e  spontaneo,  tutto  ritrae  Tuomo,  tutto  ap- 
partiene  all'oratore.  Ma  ci6  che  forse  a  tutti  non  e  noto  si  e,  che  gli 
oratori  non  hanno  la  ridicola  ripugnanza  di  ritrattare  ci6  che  loro 
malgrado  6  sfuggito  nella  furia  del  discorso.  Non  e  una  vergogna 
per  un  inglese  il  disdire  un'ingiuria  che  non  ebbe  Tintenzione  di 
dire.  £  un  atto  di  giustizia  che  lo  onora  in  faccia  agli  amici  ed  ai 
nemici.  L'inglese  non  riguarda  il  duello  che  come  Tultimo  e  dispe- 
rato  rimedio  deH'inesorabile  onore.  Nella  famosa  seduta  del  par 
lamento  del  12  dicembre  1826  intorno  alia  guerra  tra  il  Portogallo 

membro  delle  Cortes  ristabilite  dopo  i  moti  del  1820,  si  rifugid  poi  (1823) 
in  Inghilterra.  II  Pecchio  ne  parla  piu  difTusamente  a  pp.  96-7.  i.  tea 
tricalmente  :  teatralmente.  II  Pecchio  usa  una  forma  di  derivazione  inglese 
(theatrical)  aggiungendovi  il  suffisso  degli  awerbi  italiani.  Tracce  inglesi, 
e  pru  francesi,  sono  frequenti  nel  suo  linguaggio.  2.  Quinto  Roscio  di 
Lanuvio,  celebrate  attore,  fu  amico  e  maestro  di  Cicerone.  3.  George 
Canning  (1770-1827),  uomo  politico  inglese,  seguace  di  William  Pitt  e 
ministro  degli  esteri  nel  1822,  fu  tra  i  principali  sostenitori  del  «non 
intervento»  in  Spagna,  favorl  i  Greci  insorti  contro  il  dominio  turco. 
4.  Edmund  Kean  (1787-1833),  forse  il  maggior  interprete  shakespeariano 
deU'eta  sua. 


OSSERVAZIONI    DI   UN   ESULE   SULL'INGHILTERRA          83 

e  la  Spagna,1  Canning  si  era  lasciato  trasportare  dal  torrente  della 
propria  facondia  oltre  certi  confini;  pochi  giorni  dopo  voile  egli 
stesso  correggere  la  pubblicazione  del  suo  discorso,  ed  omette- 
re  cio  che  a  sangue  freddo  non  avrebbe  per  awentura  proferito. 
Questa  ritrattazione  mi  sorprese  tanto  da  prima,  che  mi  lasciai  sfug- 
gire  dinanzi  ad  un  signore  inglese,  che  io  credeva  che  solo  i  filosofi 
e  gli  ubbriachi  si  ritrattassero.  Quel  signore  colPimperturbabilita 
nazionale  rispose :  —  Dovete  agghmgere  anche  i  membri  del  parla- 
mento.  —  Questi  pentimenti  sono  giusti,  perche  rimprowisatore 
&  in  uno  stato  di  eccitamento  e  di  passione  che  lo  trasportano  spesso 
fuori  di  se. 

Chi  la  prima  volta  arriva  in  Inghilterra  e  va  alle  sedute  del  Parla- 
mento  arrischia  di  farsi  un'idea  poco  giusta  del  partito  delPoppo- 
sizione,  come  a  me  pure  accadde.  Tutte  le  circostanze  apparent! 
cospirano  ad  indurlo  in  errore.  Primieramente  vede  100  o  120 
membri  delPopposizione  contro  400  o  450.  Pare  adunque  che  vi  sia 
una  barriera  aritmetica  insuperabile.  Si  ode  un  bel  discorso,  ma 
nulla  ottiene  se  non  i  sarcasmi  del  partito  contrario.  Deboli  e 
sempre  sopraffatti  dal  numero  contrario,  sono  anche  i  membri  del 
Popposizione  condannati  a  servire  la  nazione  senza  pubblici  onori, 
e  senz'autorita.  II  coro  che  li  deride  &  quello  poi  che  sempre  fa  plau- 
so  ai  ministri.  £  dunque  un  martirio  inutile,  volontario  e  pazzo, 
come  quelli  che  s'infliggono  i  Bonzi.2  A  che  siede  il  partito  delPop- 
posizione,  pel  piacere  di  dire  di  no?  £  una  cattedra  d'eloquenza 
tutt'al  piu.  Ecco  cio  che  ciascuno  dice  a  se  stesso  al  primo  vedere  il 
partito  delPopposizione.  Ma  ben  presto  cangia  opinione,  se  studia 
piu  profondamente  Porganizzazione  sociale  delPInghilterra,  e  s'in- 
terna  nella  storia  del  Parlamento.  Primieramente  egli  si  accorge 
che  se  Popposizione  non  vince,  impedisce  almeno  al  nemico  (qua- 
lunque  egli  sia,  liberate  o  no)  Pabuso  della  vittoria,  o  un'ingiusta 
conquista.  6  simile  alle  dighe  di  un  flume,  le  quali  non  possono 
arrestare  la  corrente,  ma  la  frenano,  e  la  costringono  a  seguire  il  suo 
letto.  II  vantaggio  delPopposizione  non  consiste  tanto  nel  bene 

i.  Nella  famosa  .  .  .  Spagna:  si  allude  alia  decisione  presa  allora  dalP In 
ghilterra  di  intervenire  militarmente  in  Portogallo  a  favore  della  Reggenza 
di  Lisbona,  affidata  al  principe  Michele  dal  fratello  don  Pietro  a  nome  della 
propria  figlia  Maria:  situazione,  questa,  malvista  dalla  Spagna  e  dai  porto- 
ghesi  che  vi  si  erano  rifugiati.  2.  un  martirio  . . .  Bonzi:  allusione  ai  sup- 
plizi  che  si  infliggevano  i  bonzi  sino-giapponesi  ad  espiazione  dei  peccati 
altrui. 


84  GIUSEPPE   PECCHIO 

reale  che  fa,  quanto  nel  male  che  risparmia.  Ella  tiene  desto  il 
patriottismo,  1'attenzione,  la  diffidenza  del  popolo.  Ella  propaga  il 
piii  sovente  le  rette  opinioni;  ella  e  il  protettor  nato  dell'offeso  e 
delPoppresso ;  essa  precorre  a  tutti  i  miglioramenti,  a  tutte  le  li- 
berali  istituzioni.  Supponete  che  per  accidente  Popposizione  sia 
composta  di  persone  ligie  al  potere  assoluto;  per  acquistar  uditori, 
per  avere  il  sostegno  della  moltitudine  saranno  obbligate  a  masche- 
rarsi,  ad  assumere  il  linguaggio  della  giustizia  e  della  liberta.  Simili 
a  quegli  orgogliosi  e  tirannici  patrizii  romani,  come  gli  Appii,  e  gli 
Opimii1  che  per  guadagnare  i  suffragi,  e  divenir  Consoli  si  fram- 
mischiavano  e  adulavano  la  plebe.  Simili  a  Dionisio2  che  quando 
era  sul  trono  calpestava,  e  dissanguava  la  plebe,  e  rovesciato  dal 
trono  buffoneggiava  col  popolaccio,  e  si  ubbriacava  con  lui  alia 
taverna.  -  Ma  Pazione  della  minorita  non  e  immediata.  Non  si 
forma,  non  si  propaga,  non  si  rende  popolare  un'opinione  in  pochi 
mesi,  ne  talvolta  in  pochi  anni.  L'abolizione  del  traffico  degli  schiavi 
cost6  venti  anni  di  fatiche,  di  perseveranza  al  sig.  Wilberforce.3 
Ogni  anno  respinto,  ogni  anno  tornava  airassalto;  stampando  opu- 
scoli,  convocando  assemblee  provincial!  di  filantropi,  raccogliendo 
notizie,  documenti  sulle  barbare  sevizie  usate  a  bordo  dei  vascelli 
trafficanti,  scaldando  cosi  Timmaginazione  e  il  cuore  de'  suoi  con- 
cittadini,  irruppe  alia  fine  colla  folia  nel  tempio  della  giustizia  e 
trionfo.  L'Irlanda  non  poteva  un  tempo  fare  il  commercio  diretto 
colle  colonie  inglesi.  Quanti  e  quanti  inutili  attacchi  ebbero  luogo 
prima  che  Grattan  nel  1779  facesse  abolire  questa  ingiusta  esclu- 
sione?4  La  liberta  del  commercio  che  dal  ministero  si  comincia 
in  oggi  a  seguire,  quante  volte  fu  invano  da  Adam  Smith  in  poi 
patrocinata  dalPopposizione  ?  Cosi  la  riforma  parlamentaria,  pro- 
posta  in  prima  da  Pitt5  fin  dai  primi  anni  della  sua  camera  politica 

i.  gli  Appii,  e  gli  Opimii:  si  allude  ad  Appio  Claudo  il  decemviro  (451- 
450  a.  C.)  e  al  console  L/ucio  Opimio,  awersario  di  Caio  Gracco  e  colpevole 
della  sua  morte  (121  a.  C.).  2-  Dionisio  il  giovane,  tiranno  di  Siracusa. 
Vedi  Plutarco,  TimoL,  i,  4-5;  14,  i  sgg.  3.  William  Wilberforce  (1759- 
I§33)>  uomo  politico  inglese.  Dal  1787  dedic6  la  sua  vita  a  ottenere  Faboli- 
zione  della  schiavitu,  e  ne  vide  finalmente  approvata  la  legge  nel  1807. 
4.  Henry  Grattan  (1746-1820),  uomo  di  Stato  irlandese,  Iott6  a  lungo 
per  ottenere  alia  sua  patria  una  autonomia  di  azione  di  fronte  all'Inghil- 
terra:  ma  nel  1800,  nonostante  la  sua  opposizione,  fu  decretata  1'unione 
fra  le  due  terre.  5.  William  Pitt  il  giovane  (1759-1805),  uomo  politico 
e  oratore,  domin6  a  lungo  in  Inghilterra.  Primo  ministro  subito  dopo  la 
pace  con  gli  Stati  Uniti  ormai  indipendenti  (3  settembre  1783),  man- 


OSSERVAZIONI   DI    UN   ESULE   SULL'INGHILTERRA          85 

quando  trovavasi  tra  le  fila  delPopposizione,  comincia  a  far  pro- 
seliti  nel  parlamento  dopo  averli  fatti  fuori.  Cosi  I'emancipazione 
de'  cattolici  e  forse  sul  punto  d'essere  concessa  in  capo  a  tanti  in- 
fruttuosi  tentativi.1  Cosi  1'abolizione  della  schiavitu  nelle  colonie 
e  un'altra  palma  non  lontana  che  Popposizione  fra  non  molto  co- 
gliera.2  Sotto  questo  aspetto  Popposizione  inglese  (pongasi  ben 
mente  a  cio)  e  un  esempio  a  tutti  i  popoli,  a  tutte  le  sette,  a  tutti  i 
partiti,  a  tutti  i  filosofi,  a  tutti  gli  scrittori,  che  senza  costanza  v'han- 
no  pochi  felici  successi: 

La  constancia  Ella  sola  es  el  escudo 

donde  el  cuchillo  agudo 

la  Adversidad  embota. 

Ella  sola  convierte 

en  deleito  el  dolor,  ruina  en  gloria. 

Ella  fija  el  dudoso  torbellino 

de  la  fortuna  y  manda  la  vitoria. 

«La  Costanza,  Ella  sola  e  lo  scudo  contro  cui  il  pugnale  acuto 
delPAwersita  si  spunta;  Essa  converte  in  diletto  il  dolore,  e  la 
ruina  in  gloria.  Essa  arresta  Pincerto  vortice  della  fortuna  e  da  la 
vittoria»  (Ode  sulla  battaglia  di  Trafalgar  di  QuiNTANA3  poeta  spa- 
gnolo). 

Quando  un  principio,  una  causa  e  giusta,  non  bisogna  mai  di- 
sperare  per  quanto  replicati  sieno  i  rovesci.  Sotto  i  colpi  della  Co- 
stanza  cadde  PAristotelismo  degli  Scolastici,  cadde  la  Tortura, 
cadde  1'Inquisizione  ec.,  e  sotto  gli  stessi  colpi  cadra  il  dispotismo 
dappertutto,  senza  eccezione  alcuna.  Non  e  neppur  vero  che  Pop- 
posizione  rimanga  sempre  senza  premio.  GPIrlandesi  fecero  al  loro 
compatriotta  Grattan  un  presente  di  50  mila  lire  sterline.  Fox4  ebbe 


tenne  1'alta  carica  fino  alia  morte,  salvo  un  breve  periodo,  dal  1801  al 
1804,  in  cui  trionf6  una  politica  di  pacificazione  con  Napoleone  (pace 
di  Amiens,  marzo  1802),  cui  egli  era  decisamente  ostile.  La  riforma 
parlamentare  maturo  lentamente  e  fu  emanata  solo  nel  1832.  i.  « Con 
cessa  nel  1829,  sotto  il  ministro  Wellington  »  (nota  del  Pecchio).  II  me- 
rito  dell3 Emancipation  Act  votato  nel  1829,  per  la  rimozione  delle  in- 
terdizioni  contro  i  cattolici,  fu  opera  in  gran  parte  del  ministro  delTintemo, 
Robert  Peel  (vedi  la  nota  2  a  p.  87).  2.  Vabolizione  .  .  .  coglierd:  Paboli- 
zione  della  schiavitd  nelle  colonie  fu  decretata  daH'Inghilterra  nel  1833. 

3.  Manuel  Jose  Quintana  (1772-1857),  poeta  e  ardente  liberale  madrileno, 
volse  la  sua  poesia  a  fini  politici  e  patriottici,  conobbe  carcere  ed  esilio. 

4.  Charles  James  Fox  (1749-1806),  uomo  politico,   statista,  oratore.  Di 


86  GIUSEPPE    PECCHIO 

statue,  anniversarii,  e  un  partito  che  celebra  ogni  anno  con  lieti 
pranzi  e  brillanti  discorsi  il  giorno  della  sua  nascita.  Quando  il 
general  Wilson1  fu  private  del  grado  di  generale  dal  governo,  il  suo 
partito  lo  indennizzo  con  una  pensione  vitalizia  in  testa  di  suo 
figlio.  Sir  Francis  Burdett2  quando  usci  dalla  torre,  dopo  sei  mesi 
di  prigione,  trovo  preparato  dal  popolo  un  trionfo  molto  piu  invi- 
diabile  di  quello  degli  antichi  romani.  Quando  il  sig.  Wilberforce 
passa  attraverso  la  folia,  il  primo  giorno  delPapertura  del  Parla- 
mento,  ognuno  mira  quest* omicciuolo,  consunto  dall'eta,  e  col 
capo  inclinato  suH'omero,  come  una  reliquia,  come  un  Washington 
deirUmanita.  Ecco  un  premio  degno  di  quest'uomo,  e  ben  supe- 
riore  ai  Tosoni  d'oro,3  e  a  tutti  i  piu  strani  animali  brillantati.  Molte 
volte  poi  (senza  bisogno  di  disertare  come  fece  Burke)4  gli  eventi 
portano  al  potere  i  membri  dell'opposizione.  Quando  si  dovette 
fare  la  pace  cogli  Stati  Uniti  nel  1783,  il  ministero  che  aveva  so- 
stenuta  e  prolungata  la  guerra  dovette  cedere  il  luogo  a  quelli  che 
vi  si  erano  sempremai  opposti.5  Parimenti  alia  pace  di  Amiens  col 
Primo  Console  francese,  Pitt,  il  fortunato  e  fecondissimo  Pitt,  do 
vette  cedere  la  sedia  curule  a'  suoi  oppositori.6  La  resistenza  del- 
Popposizione  non  e  utile  soltanto  alia  nazione,  ma  al  governo  stesso. 


sentimenti  liberali,  fu  il  grande  avversario  di  Pitt:  sostenne,  tra  1'altro,  la 
necessita  di  concedere  la  liberta  alle  colonie  americane  insorte,  e  fu  membro 
del  ministero  che  firm6  con  esse  la  pace  (settembre  1783).  Guardd  con  sim- 
patia  alia  Rivoluzione  francese  e,  divenuto  primo  ministro  alia  morte  di  Pitt, 
avvid  segrete  trattative  con  Napoleone,  interrotte  dalla  sua  fine  immatura. 
i.  Sir  Robert  Thomas  Wilson  (1777-1849),  militare  e  uomo  politico  ingle- 
se,  notissimo  tanto  per  la  sua  attivita  antinapoleonica  quanto  per  il  suo 
appoggio  al  ministero  Canning.  II 14  agosto  1821,  durante  i  funerali  della 
regina  Carolina  Amelia,  moglie  divorziata  di  Giorgio  IV,  egli  comandava 
la  cavalleria:  vi  fu  uno  scontro  sanguinoso  fra  la  truppa  e  la  folia,  senza  che 
egli  riuscisse  a  impedirlo.  In  conseguenza  di  questo  episodio  fu  radiato 
dall'esercito,  e  non  vi  fu  riammesso  fino  al  1830.  2.  Burdett:  vedi  la  nota 
4  a  p.  71.  3.  Tosoni  d'oro:  il  Toson  d'oro  e  la  massima  onorificenza  spa- 
gnola.  4.  Edmund  Burke  (1728-1797)  ebbe  una  notevole  parte  nella  po- 
litica  inglese  del  suo  tempo.  Amico  e  guida  di  Fox,  rappresent6  in  In- 
ghilterra  rindirizzo  liberale:  fu  tra  i  sostenitori  della  liberta  deirAmerica. 
Ma,  scoppiata  la  Rivoluzione  francese,  le  fu  decisamente  awerso,  si  stacc6 
dai  suoi  compagni,  ruppe  col  Fox  (1791):  parve  allora  che  avesse  disertato, 
abbandonando  i  principi  liberali.  5.  Quando  .  .  .  opposti:  caduto  il  mini 
stero  presieduto  da  Lord  Shelburne  (1782),  sali  al  potere  il  gabinetto 
North-Fox,  liberale,  che  firmd  la  pace  con  gli  Stati  Uniti  (3  settembre 
1783).  6.  alia  pace  .  .  .  oppositori:  la  pace  di  Amiens  avvenne  nel  marzo 
1802,  mentre  era  al  governo  Addington:  ma  il  Pitt  si  era  gia  dimesso  nel 
1801. 


OSSERVAZIONI   DI    UN  ESULE   SULL'INGHILTERRA          87 

Senz'essaben  presto  ogni  governo  si  corromperebbe,  degenererebbe 
in  tirannia,  e  la  sua  esistenza  sarebbe  minacciata  o  da  languore,  o 
da  una  violenta  distruzione.  Napoleone,  quando  tutte  le  volonta 
piegavano  dinanzi  alia  sua,  per  fare  scaturire  la  verita  era  costretto 
qualche  volta  nel  suo  consiglio  di  state  a  far  egli  la  parte  delPop- 
posizione  contro  Pawiso  de*  suoi  consiglieri.  Veggasi  la  seduta  del 
1809  intorno  alia  liberta  della  stampa.1  Nel  decembre  1826  quando 
il  sig.  Brougham  informo  il  ministero  che  disegnava  di  proporre 
Pemenda  della  legge  sui  libelli,  il  giornale  del  ministero  (in  allora 
nemico  del  proponente)  se  ne  rallegro  dicendo  che  tra  le  due  opi- 
nioni  contrarie  di  due  egregi  uomini  di  stato,  quali  il  sig.  Brougham 
e  il  ministro  Peel,2  uscirebbe  una  terza  che  concilierebbe  Pinteresse 
della  liberta  della  stampa  con  quello  che  ha  la  Giustizia  di  reprimere 
gli  abusi.  Fin  tanto  che  la  nazione  prospera  coi  principii  del  mi 
nistero,  Popposizione  non  fa  che  impedire  gli  errori  e  i  traviamenti. 
Quando  poi  sofTre  e  decade  sotto  un'amministrazione,  la  nazione 
ritrova  pronti  altri  principii,  e  il  governo  altri  uomini  e  un  altro 
partito  gia  preparato  e  istrutto  a  guidare  la  nave  dello  stato  in  altra 
direzione.  Tutte  le  repubbliche  antiche  e  moderne  furono  sempre 
agitate  quasi  da  due  contrari  yenti,  dal  partito  aristocratico  e  de- 
mocratico ;  quantunque  il  potere  ad  ogni  tratto  passasse  dalle  mani 
di  una  fazione  in  quelle  di  un' altra,  per  piu  secoli  andarono  tutte 
prosperando  nelPoscillazione  di  questi  cambiamenti.  In  un  go 
verno  libero  1'urto  di  due  partiti,  e  Papparente  discordia  non  e 
che  una  gara  per  render  felice  la  patria.  Filangieri  dice  che  questa 
emulazione  non  e  in  fondo  che  Pamor  del  potere,3  sia;  ma  siccome 
questo  potere  non  pu6  ottenersi  ne  conservarsi  che  promovendo  il 
bene  generale,  cosi  non  sara  una  generosa  concessione  il  chiamarla 
patriotismo.  Queste  due  forze  opposte  che  obbligano  i  govern!  li- 
beri  a  percorrere  una  linea  intermedia,  sono  simili  a  quelle  che  re- 
golano  i  corpi  celesti.  L'opposizione  pare  che  produca  gli  stessi 


i .  Veggasi  .  .  .  stampa :  non  ci  e  stato  possibile  chiarire  questo  accenno  del 
Pecchio  a  una  seduta  del  Consiglio  di  Stato  francese  nel  1809.  2.  Sir 
Robert  Peel  (1788-1850),  uomo  politico  inglese,  del  partito  tory,  ma  aperto 
ad  accogliere  e  proporre  riforme  liberali.  La  sua  fama  politica  cominci6 
dal  1 8 10,  ma  egli  si  afferm6  soprattutto  nel  periodo  1840-1850.  3.  Fi 
langieri  ...  potere:  Gaetano  Filangeri  (1752-1788),  rilluminista  napo- 
letano  autore  della  Scienza  della  legislazione.  II  passo  cui  si  allude  e  in 
Delle  leggi  politiche  ed  economiche,  cap.  XV  (dell'ed.  Torino,  Pomba,  1852, 
p.  707). 


GIUSEPPE    PECCHIO 


buoni  effetti  anche  nel  mondo  morale.  Nel  modo  che  i  governi 
degenerano  in  tirannia,  che  sarebbero  le  scienze,  le  arti  senza  la 
critica  ch'e  il  loro  partito  d'opposizione  ?  Noi  saremmo  ancora 
sotto  il  dispotismo  dei  commentator!  di  Aristotile,  cogli  atomi  di 
Epicure  in  fisica,  coi  cieli  di  cristallo  di  Tolomeo  in  astronomia.  Se 
i  Winkelman,  se  i  Mengs,  se  i  Milizia1  non  avessero  frenato  il  cat- 
tivo  gusto,  la  pittura  sarebbe  divenuta  una  caricatura,  1'architet- 
tura  un  complesso  di  arzigogoli.  Senza  i  critici,  primeggerebbero 
ancora  i  Gongora  in  Spagna,  i  Mariveau  in  Francia,  i  Marini  in 
Italia;2  senza  la  frusta  letteraria  di  Baretti  forse  1'arcadia  di  Roma 
sarebbe  ancora  stimata  in  oggi  piii  delFaccademia  di  Francia,  e 
gPItaliani  sarebbero  divenuti  tanti  pastori  arcadi  colla  zampogna  al 
collo.  Senza  la  lotta  tra  il  dovere  e  i  sacrifici  vi  sarebbe  alcuna  virtu 
od  eroismo  nel  mondo?  Cos'e  Tlnghilterra  stessa  riguardo  alPEu- 
ropa,  se  non  il  partito  delPopposizione  che  si  getta  quasi  sempre 
dalla  parte  dell'oppresso  e  del  debole  per  conservare  Tequili- 
brio?3 


i.  Johann  Joachim  Winckelmann  (1717-1768),  il  principe  degli  archeologi, 
vissuto  a  lungo,  dal  1755,  a  Roma,  di  cui  illustr6  magistralmente  i  monu- 
menti  classici;  Anton  Raphael  Mengs  (1728-1779),  boemo,  pittore,  visse  a 
lungo  e  mori  a  Roma.  E  considerate  esponente  della  reazione  al  barocco  e  al 
rococ6,  in  nome  del  neoclassicismo ;  Francesco  Milizia,  scrittore  d'arte, 
nato  a  Oria  (Otranto)  nel  1725,  morto  a  Roma  nel  1798.  Sostenitore  del 
neoclassicismo  contro  1'arte  del  Sei  e  Settecento.  Tra  le  sue  opere  ebbero 
fama  La  vita  dei  piu  celebri  architetti  (1768)  e  Princlpi  di  architettura  civile 
(1781).  2.  Luis  de  Gongora  y  Argote  (1561-1627),  poeta  spagnolo  assai 
noto,  cui  si  attribuisce  di  aver  fatto  trionfare  in  Spagna  quello  stesso 
preziosismo  che  in  Italia  e  rappresentato  dalla  poesia  di  G.  B.  Marino- 
Pierre  Carlet  de  Marivaux  (1688-1763),  il  prezioso  autore  della  Vie  de 
Marianne  e  del  Paysan  parvenu.  3.  per  .  .  .  V equilibria:  il  Pecchio,  da 
ecpnomista,  scorge  nell'atteggiamento  inglese  soprattutto  un  calcolo  po 
litico.  r 


OSSERVAZIONI    DI   UN   ESULE   SULL'INGHILTERRA 


L'INGHILTERRA  RIFUGIO   DEGLI   OPPRESSI1 

In  Londra,  ed  in  quasi  tutte  le  citta  capitali  delle  contee,  hawi  una 
societa  che  ha  per  iscopo  di  procurare  un  alloggio  a  chi  e  senza 
tetto,  agli  houseless.  Che  meraviglia  se  Plnghilterra  stessa  e  Pospizio 
di  tutti  grinfelici  ?  Venezia  ne'  suoi  gloriosi  giorni  era  1'asilo  sacro 
di  tutti  gli  oppressi,  dei  re,  degli  antipapi,  dei  repubblicani,  dei 
papi,  dei  principi,  degli  esuli  d'ogni  sorta.  L'Inghilterra  che  per 
Tampiezza  del  commercio  e  il  dominio  de'  mari  e  la  Venezia  dej 
nostri  tempi,  esercita  la  stessa  ospitalita  con  tutti.  Sia  per  giustizia, 
sia  per  politica,  sia  per  sentimento  di  generosita  e  di  potenza,  ella 
accoglie  sotto  la  sua  grand' egida  il  vinto,  il  naufrago,  qualunque 
egli  sia.  Non  v'e  quasi  nazione  in  Europa  che  non  le  sia  debitrice 
delPospitalita  accordata  a  un  gran  numero  delle  sue  famiglie. 
Quando  il  commercio  decadde  in  Italia,  e  i  principi  usurpatori 
perseguitavano  i  ricchi  negozianti,  molti  di  questi  si  rifugiarono  in 
Inghilterra,  e  nella  citta  di  Londra  hawi  ancora  la  contrada  perci6 
detta  dei  Lombardi,  dov'essi  abitavano.  Dopo  la  revoca  dell'editto 
di  Nantes  (piu  fatale  alia  Francia  che  la  battaglia  di  Blenheim)2 
molte  migliaia  di  Ugonotti  francesi  si  rifugiarono  in  Inghilterra, 
e  vi  portarono  fra  le  altre  manifatture  appena  in  prima  conosciute, 
quella  delle  stoffe  di  seta.3  Chi  non  disdegna  di  studiare  la  storia 
delle  umane  vicende  nei  quartieri  del  sucidume  e  della  poverta 
vada  in  Spitelfield,  e  trovera  ancora  fra  le  famiglie  di  que'  tessitori 
molti  nomi  francesi,  ed  una  contrada  ancora  chiamata  Fleurs  de  Lys 

i.  Questo  brano  corrisponde  alle  pp.  102-21  delPedizione  da  noi  seguita. 
Precedono  il  testo  i  seguenti  versi,  e  la  traduzione,  di  A  Panegiric  to  my 
Lord  Protector  (vv.  25-8)  di  Edmund  Waller:  « Whether  this  portion  of 
the  world  were  rent  /  by  the  rude  ocean  by  [rectius :  from]  the  continent  / 
or  thus  created,  it  was  sure  design'd  /  to  be  the  sacred  refuge  of  mankind  » 
(« O  stata  sia  questa  parte  del  mondo  dal  furioso  oceano  svelta  dal  conti- 
nente,  o  sia  stata  cosi  creata,  certo  e  che  fu  destinata  ad  essere  il  sacro 
rifugio  degli  uomini»).  Edmund  Waller  (1606-1687),  g&  fautore  di  Crom 
well,  in  onor  del  quale  scrisse  nel  1655  il  Panegiric,  non  esit6  peraltro  nel 
1660  ad  acclamare  in  una  sua  poesia  la  restaurazione  di  Carlo  II.  2.  la 
battaglia  di  Blenheim:  e  la  battaglia,  piu  nota  col  nome  di  Hochstadt,  in 
cui  i  Francesi  furono  gravemente  sconfitti  durante  la  guerra  di  successione 
spagnola.  3.  Dopo  . . .  seta:  Veditto  di  Nantes  (1598)  fu  revocato  da  Luigi 
XIV  (1685).  I  calvinisti  francesi  si  rifugiarono  allora  in  Olanda  e  Inghil 
terra  e  vi  portarono  il  primato  nelle  Industrie  da  essi  gia  esercitate  in 
Francia. 


90  GIUSEPPE   PECCHIO 

(Fleurs  de  Lys  ben  spinosi  per  que'  poveri  emigrati).  Nelle  ultime 
tempeste  politiche  della  Francia,  essa  ricovero  quasi  tutta  la  no- 
bilta  francese  co'  suoi  principi;  e  pochi  anni  dopo,  i  seguaci  di 
Napoleone,  o  i  repubblicani,  o  i  costituzionali  perseguitati  a  vi- 
cenda.  E  si  osservi  che  siffatto  asilo  che,  non  per  grazia,  non  per 
capriccio,  ma  per  legge  costante  dagli  stati  liberi,  si  accorda  agli 
oppressi,  e  un  altro  atto  benefico  della  liberta,  la  quale  a  guisa  di 
madre  comune  degli  uomini  asciuga  con  mano  imparziale  a  tutti  i 
suoi  figli  le  lagrime,  e  cosi  rattempra  la  ferocia  umana,  che  colla 
disperazione  diverrebbe  ancor  piu  crudele.  Presso  le  repubbliche 
italiane  del  Medio  Evo  1'ospitalita  era  una  virtu  cosi  comune,  che 
fece  pronunziare  a  Macchiavelli  la  massima  «  che  laddove  gli  esigli 
privano  le  citta  d'uomini,  di  ricchezze  e  d'industria,  uno  stato 
ingrandisce  con  esser  Pasilo  della  gente  cacciata  e  dispersa». 

Nel  1823  Londra  era  popolata  d'esuli  d'ogni  specie  e  d'ogni 
paese;  costituzionali  volenti  una  sola  Camera,  costituzionali  vo- 
lenti  due  Camere,  costituzionali  alia  francese,  altri  alia  spagnuola, 
altri  alPamericana;  generali,  presidenti  dismessi  di  repubbliche, 
presidenti  di  parlamenti  sciolti  a  baionetta  in  canna,  presidenti  di 
cortes  disperse  dalle  bombe;  la  vedova  del  re  negro  Cristoforo 
colle  due  principesse  sue  figlie,1  negre  negrissime  di  legittimo 
sangue  reale;  Iturbide,  imperator  detronizzato  del  Messico,2  e  uno 
sciame  di  giornalisti,  poeti,  e  uomini  di  lettere.  Londra  era  PEliso 
(un  satirico  direbbe  il  Botany-Bay)3  d'uomini  illustri  e  di  eroi 
manquts. 

Per  chi  avesse  veduto  il  parlamento  di  Napoli,  il  salone  delle 
corti  di  Madrid,  le  corti  di  Lisbona,  quale  non  doveva  essere  la 

i.  la  vedova  .  .  .figlie'.  il  negro  Cristoforo  (1767-1820)  fu  animatore  della 
insurrezione  dell'isola  di  Haiti  contro  i  Francesi  (1790),  ed  ebbe,  man  mano, 
il  titolo  di  generale,  presidente  della  repubblica,  imperatore  (1811).  In- 
sorti  i  sudditi  contro  i  suoi  eccessi,  fu  costretto  a  darsi  la  morte  (1820). 
La  vedova  e  la  figlia  si  rifugiarono  in  Inghilterra.  2.  Agustin  de  Iturbide 
(1783-1824),  patriota  messicano,  principale  artefice  dell'indipendenza  del 
Messico  dalla  Spagna,  nel  1821.  II  Congresso  costituente,  da  lui  convocato, 
lo  elesse  imperatore  (maggio  1822),  ma  dopo  poco  (19  marzo  1823)  fu 
costretto  ad  abdicare  dalla  opposizione  repubblicana,  e  and6  esule  in  Ita 
lia,  e  poi  in  Inghilterra.  Tomato  inerme  nel  Messico,  per  ofTrirvi  i  suoi  ser- 
vigi,  fu  imprigionato  e  fucilato  (1824).  3.  Botany-Bay:  e  il  nome  d'una 
baia  dell' Australia,  dove  si  stabill  nel  1788  una  colonia  inglese  guidata  dal 
capitano  Arthur  Philipp;  ma  rappresent6  anche  un  domicilio  coatto  per 
condannati,  alcuni  dei  quali  gia  facevano  parte  della  colonia  guidata  dal 
Philipp. 


OSSERVAZIONI    DI    UN   ESULE    SULL'  INGHILTERRA          91 

sua  sorpresa  di  trovarsi  all*  op  era  italiana  in  Londra  col  generate 
Pepe,  col  generale  Mina,  cogli  oratori  Arguelles  e  Galiano,  col 
presidente  Isturiz,  Moura1  ec.,  urtati  urtare  nella  folia  cogli  am- 
basciadori  de'  loro  govern!  awersi!  Era  per  verita  una  specie  di 
visione  magica  degna  del  gran  Merlino.2  Piu  volte  il  teatro  italiano 
di  Londra  mi  fece  risowenire  in  quell'inverno  del  palazzo  incan- 
tato  delPAriosto,  ove  tanti  paladini  amici  e  nemici  fra  loro  corro- 
no  su  e  giu  per  le  scale  senza  poterne  uscire,  e  senza  poter  com- 
battere.3 

Ne'  primi  momenti  del  loro  arrivo  alcuni  di  questi  cavalieri  er- 
ranti  attrassero  1'attenzione  del  pubblico  inglese.  Tutti  i  popoli 
sono  popoli,  cioe,  allocchi,  badauds.  I  giornalisti  correvano  alle  loro 
case  per  farsi  dare  uno  scorcio  almeno  della  loro  vita  con  qualche 
aneddoto.  Le  societa  amavano  di  mostrare  qualche  nuovo  lion, 
leone.  Cosi  si  chiama  in  Inghilterra  la  persona  di  qualche  celebrita 
ch'e  invitata  a  qualche  serata  in  Londra  per  essere  mostrata  come 


i.  Guglielmo  Pepe  (1783-1855),  dopo  il  fallimento  della  rivoluzione  napo- 
letana  del  1820  e  la  restaurazione  delPassolutismo  borbonico,  si  rifugi6 
in  Inghilterra,  dove  rimase,  salvo  alcune  dimore  a  Parigi,  fino  al  1848; 
Francisco  Mina  y  Espoz  (1781-1836),  generale  spagnolo,  Iott6  con  leg- 
gendario  eroismo  contro  1'invasione  francese  della  Spagna.  Caduto  Na- 
poleone,  non  voile  accettare  I'assolutismo  di  Ferdinando  VII,  e  fuggi 
in  Francia.  Tornato  in  patria  nel  1820,  prese  parte  all'insurrezione  costi- 
tuzionale;  si  rifugi6  poi  in  Inghilterra,  dove  rimase  dalla  fine  del  1823  fino 
al  1830;  Agustin  Arguelles  (1776-1844),  uorno  di  Stato  spagnolo,  uno 
dei  maggiori  compilatori  della  costituzione  del  1812,  oratore  ammiratis- 
simo.  Ferdinando  VII  lo  perseguito  per  le  sue  idee  liberali.  Chiamato  al 
governo  col  ripristino  della  costituzione,  nel  1820,  poco  dopo  si  rifugio 
in  Inghilterra,  donde  torno  in  patria  solo  nel  1834.  In  Inghilterra  fu  bi- 
bliotecario  di  Lord  Holland,  da  cui  riceve*  una  pensione  annua.  II  Pecchio 
aveva  gia  dato  un  ritratto  di  lui  nel  suo  volume  Sei  mesi  in  Ispagna  nel 
1821  (vedi  la  bibliografia) ;  Galiano:  vedi  la  nota  i  a  p.  81;  Francisco 
Javier  de  Isturiz  (1790-1871),  politico  spagnolo.  Spirito  liberale,  come  si 
distinse  nella  guerra  di  indipendenza  contro  i  Francesi,  cosl  fu  awerso  a 
Ferdinando  VII.  In  casa  sua  si  prepare  la  rivolta  del  1820.  Fu  presidente 
delle  Cortes  allora  ristabilite.  Fuggi  poi  in  Inghilterra,  donde  torno  in 
patria  solo  nel  1834;  Moura:  si  tratta  certamente  di  Jose  Joaquin  de 
Mora  (1783-1864),  letterato  e  politico  spagnolo.  Nel  periodo  1820-1823 
fu  tra  i  piii  accesi  liberali  spagnoli.  Ristabilito  Tassolutismo,  fuggi  in 
Inghilterra,  dove  scrisse  in  giornali,  pubblic6  opere,  tradusse  da  varie 
lingue.  Dopo  il  1826  si  reco  in  America  a  lottare  per  la  liberta  dell' Argen 
tina,  il  Cile,  il  Peril,  la  Bolivia.  2.  Merlino:  figura  di  mago  e  profeta,  ori- 
ginaria  del  ciclo  bretone.  3 .  palazzo . . .  combattere :  vedi  Ariosto,  Orl.  fur.f 
xii,  1-33- 


92  GIUSEPPE   PECCHIO 

la  meraviglia  del  giorno  a  duecento  o  trecento  persone,  stivate  in 
una  sala  come  acciughe  in  un  barile,  che  non  possono  ne  moversi 
ne  parlare.  Questo  divertimento  si  chiama  un  rout',1  alcuni  chia- 
mano  queste  conversazioni  « Anatomic  viventi)). 

Ma  ben  presto  la  curiosita  passo,  gli  articoli,  i  leoni,  tutto  fu 
sepolto  nelPobblio.  Non  v'e  tomba  tanto  vasta  come  Londra  che 
ingoi  i  nomi  piu  illustri  per  sempre.  £  un  omnivoro  oceano.  La 
celebrita  d'un  uomo  in  Londra  splende  e  sparisce  come  un  fuoco 
d'artifizio.  Gran  chiasso,  grandi  inviti,  grandi  elogi,  grandi  esage- 
razioni  per  pochi  giorni,  poi  un  silenzio  perpetuo.  De  Paoli,2  Du- 
mourier,3  dopo  avere  alia  prima  comparsa  rumoreggiato  come  il 
tuono,  quando  morirono  non  fecero  piu  romore  d'una  foglia  che 
cade.  II  general  Mina  quando  sbarco  a  Plymouth  fu  portato  in 
trionfo  alPalbergo,  assordito  d'applausi  al  teatro;  in  Londra  per 
un  mese  continuo  fu  piu  celebre  del  Leon  Nemeo.4  Ma  che  ?  Cadde 
ben  tosto  nelPobblio  e  Pavello  si  chiuse  sopra  il  suo  nome.  II  po- 
polo  inglese  e  ghiotto  di  novita;  in  ci6  solo  fanciullo,  non  distingue 
gran  fatto  tra  il  buono  e  il  cattivo,  ma  vuole  il  nuovo.  Egli  paga  e 
paga  bene  la  lanterna  magica,  ma  vuol  sempre  figure  nuove.  Per 
nutrire  questa  balena  insaziabile  che  sta  sempre  a  fauci  aperte 

e  dopo  il  pasto  ha  piu  fame  che  pria5 

lavorano  giornalisti,  incisori,  storici,  viaggiatori,  scienziati,  awo- 
cati,  letterati,  poeti,  i  ministri  coi  progetti  di  legge,  il  re  coi  pro- 
getti  di  fabbriche,  i  liberali  coi  progetti  di  riforma  parlamenta- 
ria,  ec.  ec.  ec. 

Una  lode  che  nessuno  potra  ricusare  agli  esuli  costituzionali6 
si  e  la  poverta  in  cui  si  ritrovavano,  anche  tutti  quej  di  loro  che 
avevano  occupato  cariche  eminenti,  e  maneggiato  il  denaro  pub- 
blico.  II  sig.  Galiano  ch'era  stato  intendente  di  finanza  a  Cordova, 
e  Poratore  del  governo  per  un  anno,  fu  da  me  piu  volte  incontrato 

i.  rout:  vedi  la  nota4  a  p.  30.  2.  De  Paoli:  allude  certamente  a  Pasquale 
Paoli  (1725-1807),  1'eroe  della  Corsica,  esule  in  Inghilterra  dal  1796  e  ivi 
morto  da  parecchi  anni  quando  vi  giunse  il  Pecchio.  3.  Dumourier:  allude 
quasi  certamente  a  Charles-Francis  Dumouriez  (1739-1823),  il  generale 
francese,  vincitore  a  Valmy  contro  i  Prussiani  e  poi  passato  ai  Borboni 
con  improwiso  tradimento  (1793).  Esule  in  Inghilterra,  vi  mori  nel  1823. 

4.  Leon  Nemeo :  il  leone  di  Nemea,  ucciso  da  Ercole  nella  sua  prima  fatica. 

5.  Dante,  In/.,  i,   99.     6.  costituzionali'.  perche  avevano  voluto  introdurre 
nei  loro  paesi  la  costituzione. 


OSSERVAZIONI    DI   UN   ESULE    SULL'INGHILTERRA          93 

in  cammino  che  aveva  fatto  quattro  miglia  per  dare  una  lezione 
di  lingua.  Per  conservare  la  sua  mente  e  il  suo  animo  indipendente 
aveva  avuto  la  fierezza  spagnuola  di  ricusare  la  pensione  offertagli 
dal  ministero  inglese.  Un  amico  mio  sorprese  un  giorno  il  sig. 
Arguelles  nella  sua  camera  che  stava  cucendo  i  suoi  calzoni,  quel- 
1'Arguelles  ch'era  stato  membro  due  volte  delle  corti,  nel  1812, 
e  nel  1823,  niinistro  degli  affari  esteri,  dalle  cui  labbra  divine1  si  puo 
dire  che  pendesse  la  Spagna,  tant'era  la  sua  sapienza  politica  e  la 
sua  scorrevole  facondia.  lo  aveva  veduti  questi  due  rappresentanti 
del  popolo  spagnuolo,  all'uscir  delle  corti  in  Madrid  il  giorno  che 
risposero  alle  minacciose  note  della  santa  alleanza  portati  in  car- 
rozza  sulle  braccia  del  popolo  inebriato  d'ammirazione  e  di  gioia. 

Nella  successiva  primavera  mori  in  Londra  la  vedova  del  general 
Riego2  piu  consunta  dal  dolore  che  dal  clima  inglese  troppo  aspro 
per  la  di  lei  debole  salute.  Tutti  gli  emigrati  furono  invitati  ad  assi- 
stere  al  suo  funerale  ch'ebbe  luogo  nella  chiesa  cattolica  di  Moor- 
field  nella  citta  di  Londra.  Compii  con  un  sentimento  di  pieta 
quest' estremo  ufficio  verso  una  famiglia  con  cui  era  stato  legato  in 
amicizia.  Mi  ricorder6  sempre  con  compiacenza  d'aver  recate  let- 
tere  da  Cadice  a  questa  virtuosa  donna  che  le  scrisse  il  suo  sposo, 
1'eroe  e  il  martire  della  rivoluzione  spagnuola.  Quattro  ministri 
dell'ex-governo  costituzionale  sostenevano  i  nappi  del  drappo  fu- 
nereo!  Fra  tante  centinaia  di  esuli  che  qui  erano,  ben  pochi  si  tro- 
varono  in  grado  di  avere  un  abito  di  lutto  -  in  Inghilterra  dove  i 
piu  pezzenti  del  popolo  hanno  di  che  soddisfare  a  questo  grand'atto 
di  decenza  e  virtu  nazionale!  In  quest' occasione  pero  la  poverta 
degli  astanti,  se  si  mira  alPorigine,  era  il  piu  bello  e  magnifico  treno 
di  queste  eseqiiie. 

Per  operare  una  rivoluzione  si  esiggono  tali  sacrificii,  tali  atti  di 
coraggio,  tale  entusiasmo,  che  le  persone  che  la  intraprendono  de- 
vono  per  lo  piu  essere  dotate  di  un'immaginazione,  o  sensibilita 
non  comune.  Quindi  e  che  in  questi  grandi  awenimenti  che  sono 
come  convulsioni  generali  di  un  popolo,  si  vedono  apparire  tanti 

i.  « Quest'epiteto  gli  fu  dato  dagFinglesi  quando  1'udirono  parlare  nelle 
corti  di  Cadice  nel  i8i2»  (not a  del  Pecchio).  Z.Raphael  de  Riego  y 
Nunez  (1785-1823),  il  generale  spagnolo  iniziatore  della  rivoluzione  del 
1820,  sospettato  poi  dai  rivoltosi  quale  possibile  suscitatore  di  un  regime 
repubblicano,  e  imprigionato.  Caduto  il  Trocadero,  fu  condotto  a  Madrid, 
condannato  a  morte  e  giustiziato.  II  Pecchio  aveva  gia  scritto  di  lui  nel  suo 
volume  Sei  mesi  in  Ispagna  nel  1821  (vedi  la  bibliografia). 


94  GIUSEPPE   PECCHIO 

diversi  e  prominent!  caratteri.  Senza  rivoluzioni  i  lineament!  delle 
grand!  famiglie  che  si  chiamano  nazioni  sarebbero  piu  uniform!  e 
mancanti  d'espressione.  Le  fisionomie  piu  marcate  di  queste  fa 
miglie  appariscono  nelle  grand!  tempeste.  La  rivoluzione  della  ri- 
forma  in  Germania,  quella  del  parlamento  in  Inghilterra,  1'ultima 
di  Francia,  ec.  ec.  hanno  fornito  gallerie  intiere  di  caratteri  affatto 
nuovi,  original!.  lo  ebbi  campo  di  verificare  questa  osservazione 
fra  i  miei  compagni  d'esiglio  che  conobbi.  Piu  o  meno  si  ritrova 
nelle  persone  che  hanno  tentato  una  rivoluzione,  molta  immagina- 
zione,  molta  sensibilita,  molt'ambizione,  vanita  ancor  piu  che  vera 
ambizione,  e  un'irritabilita  e  inquietudine  in  estremo  grado.  Non 
e  dunque  meraviglia  se  dove  tali  element!  sono  in  abbondanza,  si 
vedano  discordie,  querele  e  dispute  senza  fine,  continui  lamenti, 
tratti  d'eroismo,  tratti  di  straordinaria  virtu,  e  delitti  inauditi,  e 
passaggi  repentini  inesplicabili  dalla  virtu  al  tradimento.  -  Ab- 
bozzerb  qui  alcuni  dei  caratteri  piu  singolari  che  ho  conosciuto 
ancor  meglio  nell'avversita  in  Londra  che  mentre  fervevano  le 
passioni. 

II  sig.  Franco  di  Valencia1  e  un  patriota  spagnuolo  che  per  es- 
sere  utile  alia  sua  patria,  e  per  acquistare  sopra  i  suoi  concittadini 
queirinfluenza  che  ne"  la  nascita,  ne  le  ricchezze,  ne  straordinari 
talent!  gli  davano,  consacro  la  sua  vita  alia  virtu  e 

sotto  Vusbergo  del  sentirsi  puro2 

portava  in  trionfo  la  sua  poverta.  Povero  si,  ma  decente  sempre  ne' 
suoi  abiti,  sobrio,  quantunque  spesse  volte  seduto  a  mensa  di  un 
qualche  opulento  amico,  e  quantunque  altrui  commensale,  ardito 
e  inesorabile  giudice.  Sei  anni  d'esiglio  consumati  in  tentativi  e 
stratagemmi  per  preparare  la  mina  che  doveva  nel  1820  rovesciare 
il  governo  assoluto  di  Ferdinando  VII,  furono  rimunerati  dalle  corti 
con  una  pensione  ch'era  il  solo  suo  patrimonio.  Onorato  nelle  sue 
parole,  religiose  ne'  secreti,  scrupoloso  all' estremo  nell'offendere 
1'altrui  riputazione,  era  sovente  citato  come  un  testimonio  autore- 
vole  persino  da'  suoi  nemici,  era  scelto  talvolta  come  arbitro  da 
due  opposte  fazioni ;  e  quando  si  trattava  del  bene  della  patria,  fu- 
rioso  come  un  frate  Savonarola  fulminava  nelle  sue  filippiche  an- 
che  i  suoi  piu  teneri  amici.  Invasato  d'amor  patrio,  egli  arringava 

i.  Franco  di  Valencia:  non  ci  e  state  possibile  trovare  notizie  di  questo 
esule  spagnolo.  2.  Dante,  Inf.,  xxviu,  117.  Ma  Dante  scrive  «pura». 


OSSERVAZIONI    DI   UN   ESULE   SULL'INGHILTERRA          95 

a  pranzo,  in  teatro,  nelle  piazze,  nelle  botteghe,  instancabile,  ine- 
sauribile.  E  siccome  la  passione  della  liberta  era  il  solo  genio  die  lo 
agitava,  scevro  sempre  d'ogni  ambizione,  d'ogni  seconda  mira,  cosi 
i  suoi  discorsi  erano  scintillanti  di  frasi  original!,  pittoresche,  di 
fuoco.  Egli  che  conosceva  la  tenacita  del  principe,  fin  dalla  guerra 
delFindipendenza,  aveva  consigliato  i  suoi  compatriotti  a  offrire 
il  trono  della  Spagna  al  duca  di  Wellington,1  producendo  Tesempio 
della  Svezia  che  nello  stesso  momento  chiamava  sul  suo  trono  un 
maresciallo  di  Francia.2  Per  evitare  Ferdinando  egli  si  rec£>  a 
Roma  ad  offrire  in  nome  de'  suoi  concittadini  a  Carlo  IV3  di  ri- 
prendere  la  corona  di  Spagna  a  rette  condizioni.  Col  suo  spirito 
catonico  solo  egli  era  cosi  pervenuto  a  un'importanza  fra'  suoi 
concittadini,  alia  quale  molti  altri  piii  ambiziosi,  e  con  mezzi  su- 
periori  non  avevano  potuto  arrivare.  -  Dopo  la  caduta  del  sistema 
costituzionale  in  Ispagna  lo  rividi  in  Londra  colla  folia  degli  altri 
emigrati,  non  punto  awilito.  Nulla  lo  colpiva  in  Londra.  La  sua 
anima  pareva  rimasta  in  Ispagna.  Correva  per  le  strade  di  Lon 
dra  come  se  fosse  ancora  nella  Calle  de  la  Montera  di  Madrid. 
Mendico  senza  mendicare,  senza  talvolta  il  denaro  di  pagare  il 
letto  e  una  scodella  di  latte,  quasi  unico  suo  nutrimento,  costretto 
a  giacere  in  letto  nell'inverno,  alcune  volte  per  non  avere  con  che 
pagare  il  fuoco,  questo  virtuoso  tribune  del  popolo  non  credeva 
ancora  finita  la  sua  missione;  arringava  quanto  e  quando  poteva. 
La  sua  eloquenza  era  ancora  piu  colorita  dagli  eventi  e  dalle  sven- 
ture.  Ma  quando  da  questi  sublimi  rapimenti  o  estasi,  rientrava  in 
se,  e  che  ritiratosi  dal  teatro  del  mondo  ove  la  sua  fantasia  ad  ogni 
momento  lo  trasportava,  girava  Pocchio  sopra  il  suo  abito,  alle 
nude  fredde  pareti  della  sua  camera,  ed  era  costretto  a  stendere  la 
mano  al  meschino  sussidio  del  ministero  inglese  per  vivere,  fero- 
cemente  egli  allora  esclamava:  —  Ringrazio  la  religione  che  mi  or- 
dina  ogni  sacrifizio,  e  di  tutto  mi  compensa.  Senz'essa  avrei  gia 
dato  un  calcio  alia  virtu;  ecco  dove  questa  sirena  mi  ha  per  la  se 
conda  volta  condotto  -  naufrago  di  una  rivoluzione,  senza  amici, 
senza  soccorso,  senza  fama  neppure  -  in  mezzo  a  un  popolo  stra- 
niero  rigurgitante  di  ricchezze,  e  solo  apprezzatore  delPopulenza, 

i.  duca  di  Wellington:  il  generale  e  uomo  di  Stato  (1769-1851),  detto  «duca 
di  ferro  »,  che  fu  protagonista  della  battaglia  di  Waterloo.  2.  Vesempio . . . 
Francia:  allude  all'elezione  (1810)  del  maresciallo  francese  Bernadotte 
come  erede  della  corona  di  Svezia.  3.  Carlo  IV:  vedi  la  nota  a  p.  49. 


96  GIUSEPPE    PECCHIO 

e  del  felice  successo.  Senza  la  religione  io  avrel  forse  mille  volte 
vacillate  nel  sentiero  del  dovere.  La  virtu  sola  non  era  una  bussola 
sufficiente  per  dirigere  il  corso  delle  mie  azioni  in  questo  pelago  di 
sozzure. 

Per  maggiormente  interessarsi  per  quest'uomo  singolare  con- 
viene  sapere  che  prima  della  rivoluzione  era  frate.  Era  uscito  dalla 
prigione  del  claustro,  perche  gliene  avevano  aperte  le  porte,  ma 
aveva  conservato  la  fedelta  ai  voti  e  a  Dio.  Viveva  in  mezzo  ai  pro- 
seliti  di  Rousseau  e  di  Voltaire  senz'astio,  senza  diffidenza,  senza 
rimproveri,  ma  non  arrossiva  di  vantare  in  faccia  loro  i  sentimenti 
religiosi  di  cui  sentivasi  penetrate.  Egli  avrebbe  fatto  Pelogio  della 
religione  innanzi  a  Diagora,  a  Spinosa,  a  Diderot.1  Mi  ricordo  di 
un'altra  commovente  riflessione  che  fece  un  di  in  mezzo  alle  an- 
gosce  della  sua  poverta.  —  Bello  —  diceva  —  e  il  patire  su  un  gran 
teatro,  dove  gli  applausi  degli  spettatori,  la  tromba  della  fama  v'in- 
coiraggiscono  a  soffrire.  Ogni  privazione,  ogni  tormento  allora  va 
congiunto  al  conforto  e  alia  ricompensa;  ma  i  veri,  acuti,  purissimi 
patimenti,  non  temperati  da  alcun  sollievo,  non  sono  gia  quelli  de 
gli  eroi  o  dei  martiri  illustri,  ma  bensi  quelli  degli  atomi  oscuri, 
com'io,  che  tanti  crepacuori  soffrono  per  la  liberta,  nelPoscurita 
e  nelPobblio  di  tutti  gli  uomini. 

Quelli  che  sogliono  ammirare  Pimpassibilita  stoica  che  si  lascia 
svenare  senza  gettare  un  sospiro,  ritroveranno  questi  lamenti  scon- 
venevoli  al  decoro  filosofico.  Quelli  invece  che  amano  gli  eroi  di 
Omero,  e  delle  tragedie  greche,  che  or  piangono  come  fanciulli, 
or  combattono  come  Dei,  troveranno  naturali  questi  sfoghi  del- 
Tumana  natura,  e  forse  piu  interessante  chi  in  mezzo  alle  spine  del 
dolore,  grida  si,  ma  trionfante  compie  il  suo  dovere. 

La  prima  volta  che  vidi  in  Madrid  1'aureo-parlante  G  . .  .3  era 
vestito  d'un  camelottino  verde,  con  un  cappello  di  paglia  in  testa, 
con  un  paio  di  scarpette  color  di  polvere,  e  che  so  io  ?  Pareva  che 
avesse  copiato  la  toeletta  di  un  papagallo.  Andai  al  Salon  de  las 
Cortes  a  udirlo,  e  mi  parve  un  Cicerone.  Egli  parla  alPimprowiso 
colla  stessa  eleganza  e  facilita  con  cui  un  membro  dell'accademia 


i.  Diagora. .  .Spinosa. .  .Diderot:  i  tre  filosofi  sono  citati  come  esponenti 
di  un  atteggiamento  antireligioso.  Diagora,  discepolo  di  Democrito,  fu 
chiamato  PAteo.  2.  V aureo-parlante  G.:  nonostante  qualche  difficolta, 
credo  possa  identificarsi  con  Alcala  Galiano,  di  cui  il  Pecchio  ha  gia  detto 
nelle  pagine  precedent!  (vedi  p.  81  e  la  nota  7). 


OSSERVAZIONI   DI    UN   ESULE   SULl/INGHILTERRA          97 

spagnuola  scriverebbe.  L'incontrai  per  la  seconda  volta  al  Prado,1 
Tesaminai,  e  lo  trovai  un  uomo  piccino,  magruzzo,  mal  sulle  gam- 
be,  con  occhi  loschi .  .  .  - le Didble boiteux*  Andai la  sera  a  sentirlo 
dalla  tribuna  popolare,  e  mi  parve  un  gigante  che  colla  tuonante 
sua  eloquenza  avrebbe  potato  scuotere  1'olimpo.  Dopo  due  mesi 
Tincontrai  in  Londra  incorrotto,  inaccessibile  ad  ogni  seduzione, 
invariato,  invariabile;  mi  parve  un  Catone.  Quest'uomo  e  una 
specie  di  Sfinge ;  e  un  misto  di  belle  e  difettose  parti.  Vanaglorioso 
alPestremo,  ma  pronto  sempre  a  fare  il  sacrificio  del  suo  amor  pro- 
prio  per  la  patria.  Dedito  ai  piaceri,  e  pero  libero  di  mente,  e  puro 
d'ogni  delitto.  II  ministero  inglese  accord6  una  pensione  a  tutti 
i  membri  delle  corti;  egli  fu  il  primo  a  ricusarla.  Intanto  onesta- 
mente  vendeva  la  sua  penna  ai  giornali  letterari.  Uno  de'  primi 
corifei  della  Spagna  fu  il  primo  in  Londra  a  sottomettersi  al  giogo 
della  sorte,  e  a  divenire  un  maestro  di  lingua,  piuttosto  che  sotto 
mettersi  al  giogo  degli  uomini.  Vantator  di  se  stesso,  non  Pudii  mai 
vantarsi  di  aver  fatto  alcun  sacrifizio  per  la  sua  patria.  II  darsi  alia 
patria  e  per  lui  un  dovere  e  non  una  virtu.  Non  Pudii  mai  ne  la- 
gnarsi,  ne  sospirare  gli  agi  da  lui  goduti  un  tempo  in  questa 

assai  piu  oscura  vita  che  serena, 
vita  mortal,  tutta  d'invidia  piena.3 

Pare  invulnerabile  dagli  accidenti  e  dagli  uomini. 

Un  altro  esule  con  cui  ebbi  lunga  familiarita  e  il  conte  Santorre 
di  Santa  Rosa.4  II  suo  nome  risuon6  nella  rivoluzione  piemontese, 
ma  la  nazione  che  ammiro  i  pochi  atti  del  suo  ministero  non  ebbe 
tempo  di  apprezzare  le  sue  virtu  come  cittadino,  e  i  suoi  talenti 
come  uomo  di  stato.  Chi  avesse  vissuto  con  lui  sotto  lo  stesso  tetto 
non  poteva  che  divenir  migliore.  Quegli  stessi  giudici  che  pronun- 

i.  Prado:  vedi  la  nota  2  p.  67.  2.  le  Diable  boiteux:  e  il  deforme  prota- 
gonista  del  romanzo  omonimo  di -Alain  Rene  Lesage  (1668-1747).  3.  A- 
riosto,  Orl.  fur.,  iv,  i.  Ma  1'Ariosto  scrive:  «in  questa  assai  piu  oscura  che 
serena  /  vita  mortal,  tutta  d'invidia  piena».  4.  Santorre  di  Santarosa 
(1783-1825)  fu  1'animatore  del  moto  piemontese  del  1821.  Scoppiata  la 
rivoluzione  fu  nominate  ministro  della  guerra,  ma  l'immediato  crollo  d'ogni 
speranza  di  successo  lo  obblig6  ad  andare  in  esilio.  Si  rifugi6  in  Inghil- 
terra  nell'ottobre  1822,  a  Londra  e  a  Nottingham  dove  visse  dando  lezioni 
d'italiano  e  di  francese.  II  5  novembre  1824  parti  per  la  Grecia:  1*8  mag- 
gio  1825  cadde  ucciso,  semplice  soldato,  in  un  piccolo  scontro  nelPisola 
di  Sfacteria,  ne"  il  suo  corpo  fu  piu  ritrovato. 


98  GIUSEPPE   PECCHIO 

ziarono  la  sentenza  di  morte  sul  suo  capo,  se  avessero  conosciuto 
la  santita  del  suo  cuore,  Pavrebbero  rivocata.  Era  uno  di  quegli  uo- 
mini  nati  per  infiammare  tutto  quanto  li  circonda  e  per  fare  de' 
seguaci.  Colto,  eloquente,  educato  nei  primi  suoi  anni  giovanili 
nel  campo  sotto  gli  occhi  del  suo  genitore  colonnello,1  amante  della 
solitudine  per  darsi  allo  studio  e  alia  contemplazione,  riuniva  la 
franchezza  militare  all'entusiasmo  d'un  solitario.  Buon  compagno, 
buon  amico,  ospite  sempre  festivo,  spargeva  egli.piu  allegria  e  ca- 
lore  non  bevendo  che  acqua,  che  gli  altri  colFispirazione  della 
bottiglia.  Sebbene  non  avesse  nell'esercito  che  il  grado  di  tenente 
colonnello,  pur  tutti  avevano  gli  occhi  rivolti  in  lui  come  ad  un  uo- 
mo  che  avrebbe  operate  all'uopo  cose  inaspettate.  La  sua  mente 
era  pura  come  la  sua  vita.  Egli  amava  la  liberta  non  solo  pe*  suoi 
effetti,  ma  anche  come  un  ente  poetico  e  sublime.  Nonpertanto  egli 
amava  nello  stesso  tempo  la  monarchia;  egli  voleva,  per  cosi  dire, 
adorar  la  liberta  in  questo  tempio,  e  voleva  che  un  re  ne  fosse  il 
Gran  Pontefice.  In  Costantinopoli  egli  avrebbe  adorata  la  liberta 
per  se  stessa,  come  in  Filadelfia  avrebbe  fatto  voti  per  un  re. 
Amava  un  re  per  amor  della  liberta  stessa,  perche  lo  credeva  una 
guarentigia  di  un'ordinata  liberta.  Egli  era  innamorato  della  storia 
della  sua  patria,  ed  un  caldo  ammiratore  della  monarchia  militare 
piemontese;  non  gia  che  non  bramasse  di  correggere  i  gotici  di- 
fetti,  ma  la  vagheggiava  come  si  ammira  un'antica  armatura  di 
fino  acciaio,  che  non  e  piu  utile,  ma  abbaglia.  Egli  sentiva  per  la 
ristretta  monarchia  in  cui  era  nato  quell'amore  che  provano  i  citta- 
dini  delle  piccole  repubbliche.  Cosicch6  sebbene  parlasse  1'italiano 
e  il  francese  con  un'eleganza  singolare,  discorreva  volontieri  co' 
suoi  compatriotti  nel  dialetto  piemontese.  Era  il  suo  rants  des  va~ 
ches?  Non  fara  quindi  sorpresa  s'egli  fosse  inclinato  per  una  co- 
stituzione  aristocratica.  Quando  la  prima  volta  avanti  la  rivoluzione 
lo  vidi  in  Torino,  egli  era  in  favore  d'una  rappresentanza  in  due 
camere;  io  gli  dissi:  —  Differiamo  questa  contesa  dopo  il  trionfo; 
intanto  abbiate  per  fermo,  che  senza  il  talismano  della  costituzione 
spagnuola,  la  maggiorita  italiana  non  si  movera.  —  Dopo  una  breve 
pausa  rispose  in  tuono  risoluto:  —  Quand'e  cosi  diflferiamo  que 
st 'importante  quistione  a  miglior  tempo,  e  afferriamo  la  costituzione 

i.  educato  .  .  .  colonnello:  era  alfiere  nel  1796,  a  Mondovi,  a  fianco  del  padre 
colonnello  dell'esercito  piemontese.  2.  rants  des  vachesi  le  arie  che  i  man- 
driani  svizzeri  suonano  sulle  cornamuse. 


OSSERVAZIONI    DI    UN   ESULE   SULL'INGHILTERRA          99 

spagnuola,  solo  come  la  leva  che  dee  sollevare  1' Italia  dalPumiliante 
servaggio  in  cui  e  sprofondata.  —  Pochi  esempi  vi  sono  d'un  sacri- 
fizio  cosi  franco  e  generoso  delle  proprie  opinioni  alPopinione  della 
maggiorita.  L'Inghilterra  era  per  lui  un  campo  inesauribile  d'os- 
servazioni.  Egli  ne  studiava  le  istituzioni  come  gli  antichi  studia- 
vano  le  leggi  di  Greta.  E  le  istituzioni  e  il  governo  tanto  piu  gli 
andavano  a  grado  ch'essendovi  in  esso  potente  1'elemento  aristo- 
cratico,  il  suo  felice  esempio  era  una  splendida  conferma  delle  sue 
opinioni  politiche.  Ne  avrebbe  forse  abbandonato  questa  terra  di 
liberta,  se  quel  fuoco  che  non  muore  mai  nei  cuori  elevati  di  ope- 
rare  per  la  fama,  non  lo  avesse  destato  dalla  vita  tranquilla  che  me- 
nava  in  Nottingham  per  ir  a  combattere  per  la  liberta  della  Grecia. 
II  suo  entusiasmo  per  la  liberta  era  infiammato  anche  da  una  tinta 
d' entusiasmo  religioso.  Egli  ando  in  Grecia  col  coraggio  e  coi  sen- 
timenti  d'un  vero  Crociato.  Se  avesse  saputo  parlar  greco  avrebbe 
trasmesso  il  suo  entusiasmo  a*  suoi  seguaci.  Egli  aveva  una  croce 
sempre  appesa  al  collo,  e  rotando  la  sciabola  con  una  mano,  e 
mostrando  la  croce  colPaltra,  faceva  tradurre  ai  palicari1  con  cui  si 
recava  a  Navarino  il  verso  di  Tasso: 

Per  la  fe,  per  la  patria  il  tutto  lice.21 

Mori  qual  visse  da  valoroso  coH'armi  alia  mano  faccia  a  faccia 
cogli  Egiziani  che  sbarcavano  nell'isola  di  Sfacteria.  Non  poteva 
avere  piu  onorata  morte,  ne  piu  onorata  tomba.  La  strage  dei  Tur- 
chi  e  degli  Egiziani  soprawenuta  di  poi  alia  battaglia  di  Navarino 
del  20  ottobre  1827  fu  un'ecatombe  ch'espio  la  sua  morte,  e  Fin- 
cendio  di  quella  flotta  de*  barbari  e  il  piu  bel  rogo  che  si  potesse 
innalzare  alle  sue  ossa  insepolte. 


i.  palicari:  detti  anche  armatoli.  Guerrieri  della  Grecia  del  nord,  orga- 
nizzati  in  bande,  avevano  da  tempo  costretto  il  governo  turco  a  riconoscerli 
e  affidare  loro  mansion!  di  polizia,  sebbene  fosse  continue  il  tentativo  di 
ridurre  la  loro  potenza.  Nell'insurrezione,  alia  quale  parteciparono,  det- 
tero  un  forte  contribute  di  uomini  e  di  azioni  audaci.  2.  Ger.  lib.,  IV,  26. 


100  GIUSEPPE   PECCHIO 


STRADE1 

In  cento  modi  si  puo  giudicare  della  prosperita  e  civilta  di  una  na- 
zione.  Alcuni  la  misurano  dalla  popolazione;  altri  dalla  quantita 
e  circolazione  del  denaro ;  chi  dallo  stato  della  letteratura,  chi  dalla 
lingua.  David  Hume  diceva  che  dove  si  fa  del  bel  panno  si  sa  bene 
Pastronomia,  e  si  coltivano  le  scienze.  Sterne  dall'iperbole  del  bar- 
biere  che  gli  acconciava  la  parrucca,  e  dai  vezzi  della  guantiera  pa- 
rigina2  desunse  due  qualita  della  nazion  francese,  una  amabile  e 
Faltra  ridicola.  Pangloss3  quando  fece  naufragio  sulle  coste  di  Por- 
togallo  al  vedere  molti  teschi  d'impiccati  congetturo  ch'era  arrivato 
in  un  paese  incivilito  .  . .  Perche  non  si  potra  anche  congetturare  la 
coltura  d'un  paese  dalla  condizione  delle  sue  strade  ?  Dove  non  vi 
sono  strade,  o  poche,  quantunque  magnifiche,  si  puo  dire  che  vi 
sono  pochi  o  nessun  libro,  poche  o  nessuna  manifattura,  molte  e 
cattive  leggi,  e  pochi  o  un  sol  legislatore,  molti  frati  e  pochi  dotti, 
molti  miracoli  e  pochi  denari  ec.  ec.  Chi  ha  viaggiato  in  Europa 
avra  veduto  cogli  occhi  proprii  la  verita  di  questa  asserzione.  La 
Russia,  la  Polonia,  la  Turchia  europea,  la  Grecia,  la  Transilvania, 
TUngheria,  la  Croazia,  la  Buccovinia,  la  Spagna,  il  Portogallo  che 
sono  per  certo  i  paesi  meno  inciviliti,  sono  anche  quelli  che  hanno 
meno  strade.  Nel  Pelopponeso  dove,  quando  si  scrivevano  poemi, 
tragedie  e  storie,  v'erano  tante  strade  e  corse  di  carri,  non  v'ha  piu 
una  strada  carreggiabile,  neppur  in  tutto  il  regno  del  re  dei  re 
Agamennone 

i.  Questo  brano  corrisponde  alle  pp.  122-9  e  136-43  dell'edizione  da  noi 
seguita.  Precedono  il  testo  i  seguenti  versi,  e  la  traduzione,  del  Don  Juan  (X, 
LXXVIII)  di  Byron: « What  a  delightful  thing's  a  turnpike  road!  /  So  smooth, 
so  level,  such  a  mode  of  shaving  /  the  earth,  as  scarce  the  eagle  in  the 
broad  /  air  can  accomplish  with  his  wide  wings  waving:  /  had  such  been 
cut  in  Phaeton's  time  the  god  /  had  told  his  son  to  satisfy  his  craving  / 
with  the  York  mail»  (« Che  deliziosa  cosa  e  una  strada  postale!  Cosi  piano, 
cosi  liscio,  un  certo  modo  di  radere  la  terra,  che  quasi  1'aquila  non  prova 
eguale  colle  sue  larghe  agitanti  ali  attraverso  il  vasto  cielo ;  se  un  tal  cam- 
mino  fosse  stato  aperto  in  tempo  di  Fetonte,  Febo  avrebbe  detto  a  suo  fi- 
glio  di  compiacere  alia  sua  richiesta  colla  diligenza  diYork»).  2.  Sterne 
. .  .parigina:  nel  Viaggio  sentimentale  (cap.  xxxi)  lo  Sterne  (vedi  la  nota  a 
p.  72)  narra  di  un  barbiere  parigino  che  gli  consigli6  di  tuffare  nell'«  ocea- 
no » la  parrucca  per  tenerne  fermo  un  riccio.  Nella  stessa  opera  (capp.  xxxn- 
xxxiv)  narra  di  una  vezzosa  e  gentile  venditrice  di  guanti.  3.  Pangloss ".  la 
figura  satirica  di  un  maestro  immutabilmente  ottimista  che  appare  nel  Candi- 
de  di  Voltaire,  in  cui  per6  non  si  trova  Tosservazione  attribuitagli  dal  Pecchio. 


OSSERVAZIONI    DI    UN    ESULE    SULL'INGHILTERRA        IOI 

.  .  .  di  molte 

vaste  contrade  correttor  supremo 
ottimo  re,  fortissimo  guerriero* 

che  aveva  Automedonte,  il  piu  bravo  cocchiere  di  tutta  la  Grecia. 
Da  Velez-Malaga  a  Granata,  in  quei  gia  ricchi  regni  delle  dinastie 
arabe,  non  v'e  altra  strada  che  un  dirupato  sentiero  pej  muli.  Dalla 
citta  del  Messico  a  Guatimala  non  v'e  quasi  strada.  Per  fare  le 
mille  e  duecento  miglia  che  vi  so  no  di  distanza,  i  deputati  di  Gua 
timala,  quando  questa  repubblica  era  unita  al  Messico,  impiega- 
vano  quattro  mesi  di  disastroso  viaggio.  Da  Omoa  a  Guatimala 
non  v'e  quasi  strada.  Per  percorrere  trecento  cinquanta  miglia,  le 
merci  impiegano  qualche  volta  a  dorso  di  mulo  sei  e  persin  sette 
mesi.  Lo  stesso  era  nelle  altre  antiche  colonie  spagnuole  d' America, 
pochissime  strade  e  moltissima  miseria,  moltissima  ignoranza,  mol- 
tissima  superstizione.  AlPincontro  la  Francia,  la  Germania,  F Italia 
hanno  piu  strade  e  piu  civilta;  1'Inghilterra  ha  piu  strade  e  canali 
di  ogni  altra  parte  d'Europa,  ed  ha  anche  piu  civilta  di  tutte.  Mi 
ricordo  d'aver  veduto  nell'opera  del  signor  Dupin3  sull'Inghilterra, 
che  la  lunghezza  totale  delle  sue  strade  e  canali,  in  ragion  di  super- 
ficie  territorial,  e  grandemente  maggiore  di  quella  delle  strade  e 
canali  in  Francia.  Non  stanno  forse  nella  stessa  proporzione  la  ci- 
vilizzazione  rispettiva  di  questi  paesi!  Facciasi  lo  stesso  confronto 
tra  le  strade  e  i  canali  del  nord  dell' Italia  con  quei  del  regno  di 
Napoli,  e  sortira  la  stessa  proporzione,  lo  stesso  risultamento. 

Non  e  gia  una  coincidenza  casuale.  6  un  effetto  immancabile 
d'una  causa  infallibile.  Per  la  mancanza  di  comunicazioni  facili, 
gli  uomini  rimangono  disgiunti  ed  isolati,  la  loro  mente  si  raffredda, 
il  loro  spirito  si  addormenta,  non  sentono  emulazione,  non  provano 

10  sprone  dei  bisogni,  dei  desiderii ;  quindi  poco  o  nessun  sviluppo 
morale,  poca  energia,  poca  attivita.  Ecco  perche  il  repubblicano,  o 

11  cittadino  d'uno  stato  libero  e  d'animo  fervido,  attivo,  intrapren- 
dente,  siccome  quegli  che  vive  e  si  agita  nella  moltitudine;  invece 
il  suddito  d'una  monarchia  assoluta,  dove  per  lo  piu  la  popolazione 
e  rara  e  gettata  su  una  immensa  superficie,  riesce  svogliato  e  son- 
nacchioso  non  meno  pel  terrore  che  per  1'isolamento  in  cui  vive. 

i.  Omero,  //.,  in,  234-6  della  traduzione  del  Monti.  2.  Frangois-Pierre 
Dupin  (1784-1873),  economista  e  ingegnere  francese.  II  Pecchio  allude, 
quasi  certamente,  alia  sua  opera  Voyages  en  Grande-Bretagne  de  1816  a 
p,  pubblicata  nel  1820-1824. 


102  GIUSEPPE   PECCHIO 

Riawicinate  gli  uomini,  mediante  strade,  canali,  bastimenti  a  va- 
pore,  ponti  a  catene,  rail-roads1  (e  volesse  la  sorte  anche  con  palloni 
volanti),  ed  essi  si  sveglieranno,  i  loro  bisogni,  le  loro  idee,  i  loro 
desiderii  si  moltiplicheranno,  e  in  proporzione  la  loro  energia  e  i 
loro  lumi.  Perche  un  contadino  e  naturalmente  meno  attivo  e  meno 
intelligente  di  un  cittadino  ?  Perche  un  abitante  di  una  piccola  citta 

10  e  meno  di  quello  di  una  grande  capitale  ec.  ?  Perche  la  mesco- 
lanza,  Pattrito  degli  uomini  e  minore.  Pare  die  lo  sviluppo  della 
mente  e  delPenergia  umana  sia  in  ragione  composta  della  massa 
degli  uomini  e  della  velocita  del  loro  commercio  .  .  . 

Le  strade  rette,  e  le  citta  simmetriche  fanno  supporre  un  potere 
dispotico  poco  o  nulla  curante  del  diritto  di  proprieta.  La  rettilinea 
e  simile  alia  spada  di  Alessandro  che  taglia  il  nodo  gordiano  invece 
di  scioglierlo.  Le  due  citta  piu  simmetriche  di  Europa,  Torino  e 
Berlino  sorsero  sotto  il  bastone  di  due  monarchic  militari.2  Chi 
non  vede  nelle  interminabili  strade  rettilinee  della  Francia  e  della 
Polonia  una  mano  prepotente  che  le  ha  tagliate  cosi  ?  Per  lo  con- 
trario  in  Inghilterra,  in  questa  anziana  terra  della  liberta,  le  strade 
sono  tortuose  con  volte  e  rivolte,  e  molte  delle  sue  citta  sono 
mucchi  di  abitazioni  nati  dal  caso  secondo  il  capriccio  ed  il  bisogno, 
anziche"  essere  composte  di  filari  di  case  schierate  come  altrettanti 
battaglioni  di  soldati.  Eppure  Pinglese  ama  Pordine,  la  celerita,  il 
risparmio  di  tutto ;  verissimo ;  ma  piu  di  tutto  finora  pare  che  abbia 
amato  ancor  piu  il  diritto  della  proprieta.  £  tale  e  tanta  la  tortuosita 
delle  vie  pubbliche  in  Inghilterra,  che  dalla  proporzione  stabilita 
dal  signor  Dupin  di  cui  poc'anzi  ho  parlato,  si  dovrebbe  fare  una 
deduzione  in  favore  della  Francia. 

II  marciapiedi  che  sempre  fiancheggia  ogni  contrada  nelle  citta,  e 

11  piu  sovente  anche  le  strade  nella  campagna,  mostra  che  il  popolo 
e  rispettato  e  si  fa  rispettare.  Le  mercanzie  hanno  i  canali,  i  viaggia- 
tori  in  carrozza  il  mezzo  della  strada,  i  pedoni  il  marciapiedi.  II 
marciapiedi  e  il  trionfo  della  democrazia ;  il  minuto  popolo  non  e 
come  altrove  intieramente  diseredato,  ha  la  sua  legittima,  piccola 
si,  ma  inviolabile.  Sul  continente  invece  le  strade  non  sembrano 
fatte  che  pei  ricchi  e  pei  cavalli .  .  . 

Appena  le  strade  sono  divenute  comode  e  belle,  le  carrozze,  i 

i.  rail-roads:  strade  ferrate,  ferrovie.  2.  Le  due  citta  .  .  .  militari:  Torino 
e  citta  di  origine  romana  e  si  e  sviluppata  su  rettilinei  per  opera  di  Car 
lo  Emanuele  I  e  II  e  di  Vittorio  Amedeo  II.  L'osservazione  appare  meno 
esatta  per  quel  che  si  riferisce  a  Berlino. 


OSSERVAZIONI   DI    UN   ESULE    SULL'INGHILTERRA        103 

carri  cangiano  forma,  si  fanno  piii  leggieri,  piu  eleganti;  si  puo 
far  uso  di  cavalli  piu  belli,  piu  fini,  perch6  le  strade  non  li  faticano 
piu  tanto.  Si  fabbricano  degli  alberghi  piu  comodi,  forniti  di  prov- 
vigioni  sempre  fresche,  perche  il  passaggio  e  il  consume  aumentano : 
vi  vorranno  delle  stalle  meglio  riparate,  dei  palafrenieri  piu  istrutti 
e  piu  attenti.  Una  diligenza  inglese  che  carica  di  18  persone  vola 
trascinata  da  quattro  bei  cavalli,  con  un  cocchiere  vestito  come  un 
gentiluomo,  fa  palpitare  e  meravigliare  allo  stesso  tempo  lo  spetta- 
tore  che  vede  passarsi  dinanzi  agli  occhi  quella  montagna  di  gente 
e  di  merci  appena  appena  in  equilibrio.  Supponete  delle  strade 
cattive  invece  delle  buone,  tutto  deve  cangiare,  la  scena  da  me  di- 
pinta  sparisce ;  perche  in  una  cattiva  strada  quella  vettura  cosi  carica 
si  romperebbe,  o  si  rovescerebbe  ad  ogni  tratto,  Fattrito  aumente- 
rebbe,  bisognerebbe  sostituire  dei  cavalli  pesanti  ec.  Tutti  i  mi- 
glioramenti  sono  una  catena  che  pende  dall'anello  principale  che 
sono  le  strade.  Tutti  quei  che  viaggiano  in  Ispagna  si  arrabbiano 
sulle  prime,  e  poi  finiscono  a  ridere  nel  sentirsi  burattati1  in  una 
carrozza  che  ha  dei  travi  per  timone,  per  assi  e  per  molle,  tirata  da 
sei  muli,  quasi  trascinassero  un  cannone  da  24.  La  moda  di  quelle 
carrozze  fatte  a  guisa  di  bastimenti  non  dipende  dal  cattivo  gusto 
spagnuolo,  ma  dalle  diroccate  strade  dell'Arragona,  delPEstrema- 
dura,  della  Gallizia  ec.  Divenute  adunque  liscie  e  solide  le  strade 
cogli  altri  successivi  miglioramenti,  le  relazioni  tra  provincia  e  pro- 
vincia,  tra  parenti,  tra  amici,  diventano  frequenti,  intime,  i  matri- 
monii,  le  awenture,  gli  aneddoti,  tutto  moltiplica  e  crea  un  nuovo 
mondo.  In  Inghilterra  si  va  alia  caccia  alia  distanza  di  300  miglia; 
merce  di  questi  comodi  gli  amici  si  rendono  visita  a  100,  200,  300 
miglia  di  distanza;  i  vecchi,  le  damigelle,  i  bambini  da  latte  colle 
loro  madri  viaggiano  senza  noia,  senza  inconvenient!,  senza  disagi. 
Ad  ogni  albergo  sulle  strade  la  colazione,  il  pranzo,  o  la  cena  sono 
sempre  pronti;  il  fuoco  arde  in  ogni  camera;  Facqua  pel  te,  pel 
caffe  e  sempremai  bollente.  Dei  letti  soffici  con  cammini  accesi  in- 
vitano  a  riposarsi.  I  giornali  coprono  le  tavole  per  disannoiare  il 
passaggiere.  Gli  alberghi  inglesi  sarebbero  veri  palazzi  incantati, 
se  poi  il  conto  delFoste  non  distruggesse  Pillusione.  In  quest'isola, 
il  re,  i  ministri,  i  membri  del  parlamento,  tutti  sono  in  continuo 
moto,  a  cavallo,  in  gig,2  in  carrozza,  recantisi  a  pranzi,  a  corse  di 

i.  burattati:  scossi,  sbattuti,  come  la  farina  nel  buratto.  2,  gig:  vettura 
leggera  a  due  ruote. 


104  GIUSEPPE   PECCHIO 

cavalli,  ad  assemblee,  a  concert!,  a  balli.  Ai  balli  che  si  danno  tre 
o  quattro  volte  Tanno  in  ogni  contea  intervengono  le  famiglie  che 
dimorano  a  venti,  trenta,  quaranta  miglia  discosto,  soltanto  per 
passarvi  tre  o  quattro  ore.  Per  mezzo  di  questi  veicoli,  di  questi 
va-e-vieni,  gli  agi,  le  ricchezze,  le  invenzioni,  tutto  si  livella  in  giusta 
proporzione  su  tutta  la  superficie  dell'isola.  Non  sono  solo  i  fluidi 
che  tendono  a  livellarsi;  rompete  le  dighe  delPinquisizione,  della 
polizia,  delle  dogane,  dello  spionaggio,  lasciate  sgorgare  e  scorrere 
Tumano  sapere,  ed  anche  la  filosofia,  le  lettere,  le  costituzioni,  ve- 
drete  che  tendono  esse  pure  a  mettersi  a  livello  sulla  superficie 
delPEuropa.  In  mezzo  a  quest'affluenza  di  viaggiatori  i  ladri  spa- 
riscono.  £  noto  che  solo  60  anni  fa  si^usava  fare  in  Inghilterra  la 
borsa  pei  ladri;1  tanto  n'erano  in  allora  infestate  le  strade.  Ora 
sono  rarissimi  gli  esempi  d'aggressione.  £  mestieri  che  un  ag- 
gressore  di  strada  faccia  tanto  presto  a  svaliggiare  una  carrozza 
quanto  un  borsaiuolo  a  rubare  un  orologio.  Nella  notte  ad  ogni  ora 
arrivano  e  partono  diligenze  piene  di  viaggiatori  con  trombe  che  le 
annunziano,  con  fiaccole  (talvolta  anche  di  gaz)  che  gettano  una 
luce  di  cento  piedi  all'intorno,  correndo  a  rompicollo.2  £  impos- 
sibile  il  calcolare  quanto  tempo  risparmi  T Inghilterra,  e  quanto 
abbia  raccorciate  le  sue  distanze,  mediante  le  strade,  in  confronto 
di  solo  40  anni  fa.  Da  York  a  Londra,  cioe  per  200  miglia,  s'impie- 
gavano  6  giorni.  Ora  la  diligenza  delle  lettere  v'impiega  20  ore;3 
le  altre  vetture  24.  Da  Exeter  a  Londra  cinquant'anni  fa  si  annun- 
ziava:  «.Viaggio  sicuro  e  spedito  per  Londra  in  quindici  giorni  !» 
Ora  anche  le  diligenze  particolari  fanno  le  175  miglia  che  vi  sono 
da  quella  citta  alia  capitale  in  18  ore.4  Prima  dell'invenzione  dei 
bastimenti  a  vapore  la  posta  delle  lettere  impiegava  da  Dublino  a 
Londra  almeno  6  giorni:  soltanto  12  anni  fa,  e  nella  procellosa  sta- 


i.  la  borsa  pei  ladri:  una  borsa  da  consegnare  ai  ladri,  mentre  il  denaro  e 
nascosto  altrove.  2. « Questa  parola  non  e  oziosa.  Perch6  succede  non  di 
rado  che,  per  la  gran  rapidita,  il  cocchio  si  rovescia,  e  alcuni  de'  viaggiatori 
si  rompono  il  collo  alia  lettera'»  (nota  del  Pecchio).  3.  « Ad  ogni  momento 
vi  e  un  nuovo  miracolo  in  quest'isola.  Nel  mese  di  marzo  del  1828  una  so- 
ciet&  di  cacciatori  che  doveano  celebrare  un  pranzo  a  Cheltenam,  da  Lon 
dra  a  quella  citt£  trascorsero  (o  volarono)  cento  miglia  in  poco  piu  di  8 
ore  in  diligenze  a  4  cavalli »  (nota  del  Pecchio).  4.  «In  una  gara  tra  due 
diligenze  di  Liverpool  che  andavano  a  Manchester,  una  di  esse  non  impie 
gava  pel  cambio  de'  cavalli  che  32  minuti  secondi.  Ad  ogni  cambio  v'erano 
8  uomini  pronti  ad  attaccare  e  staccare  i  4  cavalli »  (nota  del  Pecchio). 


OSSERVAZIONI   DI   UN  ESULE    SULL'INGHILTERRA        105 

gione  d'inverno  qualche  volta  ritardo  sino  42  giorni.  Ora  non  im- 
piega  mai  piu  di  tre  giorni,  qualunque  sia  la  stagione.  Ultimamente 
un  bastimento  a  vele  giunse  in  sedici  giorni  dagli  Stati  Uniti  a  Li 
verpool,  e  port6  della  cacciagione  fresca  dell'altro  mondo.  Quando 
i  bastimenti  a  vapore  varcheranno,  forse  non  andra  molto,  PAtlan- 
tico,  il  selvaggiume  americano  non  sara  piu  un  piatto  raro.  Tutta 
questa  velocita  di  comunicazioni  si  accrescerebbe  ancora,  se  1'In- 
ghilterra  volesse  nelle  strade  adottare  la  dispotica  linea  retta  che 
passa  e  fora  come  una  palla  di  cannone,  case,  parchi,  giardini  ec. 
Un  matematico  potrebbe  divertirsi  a  ridurre  la  superficie  dell'In- 
ghilterra  alia  proporzione  in  cui  sta  la  velocita  presente  di  viaggiare 
a  quella  di  40  anni  addietro.  Forse  risulterebbe  che  Plnghilterra  si 
e  ridotta  a  un  decimo  di  quel  che  era.  Exeter  era  una  volta  (in  ra- 
gion  di  tempo)  16  volte  piu  distante  da  Londra  che  ora  non  e. 
Tutto  adunque  si  compensa.  A  misura  che  colle  scoperte  della 
Nuova  Olanda  e  deirinterno  delP Africa  il  mondo  si  allarga  e  si 
estende  per  Pocchio,  colla  velocita  delle  comunicazioni  le  sue  parti 
riawicinandosi  si  ristringe  e  si  rimpicciolisce. 

Mi  fa  ridere  il  dispotismo  che  vuol  respingere  la  liberta,  mentre 
questa  a  suo  dispetto  entra  da  mille  parti  per  mezzo  della  civiliz- 
zazione.  Mi  pare  simile  allo  stupido  villano  di  Metastasio  che  corre 
affannoso  da  tutte  le  parti  per  frenare  il  torrente 

ma  disperde  in  sull'arene 
il  sudor  le  cure  e  I'arti, 
che,  se  in  una  lo  trattiene, 
si  fa  strada  in  cento  parti 
il  torrente  vincitor.1 

Se  egli  inceppa  la  liberta  della  stamp  a,  le  verita  penetrano  per  mezzo 
delle  universita.  Se  perseguita  e  imprigiona  un  professore  di  uni 
versita,  la  civilizzazione  entra  per  mezzo  del  commercio  estero.  Se 
adotta  il  sistema  proibitivo  per  diminuire  questo  inconveniente, 
le  strade,  le  strade  sole  bastano  per  mettere  in  contatto  e  fermento 
le  menti.  Non  v'e  dispotismo  conseguente  ne'  suoi  mezzi  e  ne*  suoi 
fini,  e,  s'e  lecito  dir  cosi,  illuminate,  che  il  dispotismo  turco,  il 
quale  non  ha  ne  stampa,  ne  universita,  ne  commercio,  ne  strade. 
Pure  anche  cola  le  sole  botteghe  di  caffe  in  Costantinopoli  basta- 
vano  ancora  a  creare  un'opposizione  al  sultano,  quantunque  fra- 
tello  della  luna  e  del  sole, 
i.  Metastasio,  Artaserse,  atto  n,  scena  vii. 


106  GIUSEPPE   PECCHIO 


LE  GIOVANI   INGLESI1 

Mentre  io  dopo  avere  perduto  e  beni  e  patria  esercitava  il  mestiere 
che  aveva  fatto  Dionigi2  dopo  aver  perduto  la  corona,  e  mi  andava 
confortando  in  questa  noiosa  professione,  e  procurando  di  nobili- 
tarla  ai  miei  occhi  coU'esempio  di  Milton  che  prima  di  divenire 
uno  dej  secretari  di  Cromwell  aveva  fatto  il  maestro  di  scuola,  e 
coiresempio  ancora  di  Macchiavelli  che  dopo  essere  stato  il  se- 
gretario  della  repubblica  fiorentina,  e  molte  volte  ambasciatore,  vi- 
desi  quasi  ridotto  ad  abbracciare  questa  professione  in  un  qualche 
viilaggio  di  Toscana,3  ricevetti  una  lettera  gentile  d'un  ministro 
della  Chiesa  anglicana  con  cui  mi  pregava  di  dar  lezione  di  lingua 
italiana  a  tre  delle  sue  figlie.  Non  esitai  ad  accettare,  ed  eccomi  un 
bel  mattino  sur  un  cavallo  da  nolo  (che  poteva  competere  coi  Bri- 
gliadoro  d' Italia)4  girmene  a  trotto  serrato  per  dieci  miglia  a  un 
borgo  (che  gl'Inglesi  un  poco  enfaticamente  chiamano  citta),  ove 
la  famiglia  del  ministro  abitava.  Questa  citta  per  iperbole  non  e 
abitata  che  da  piccioli  fittabili.  Le  case  sono  del  color  rosso  naturale 
del  mattone  cosi  disaggradevole  agli  occhi,  ma  pur  cosi  generale  in 
Inghilterra  ed  in  Iscozia,  tranne  le  osterie  che  sono  imbiancate,  e 
la  casa  del  ministro  che  perci6  si  poteva  dire  il  sole  di  quel  borgo. 
Smontai  a  un  albergo  polito  e  fornito  di  tutti  i  comodi,  qual  non  si 
ritroverebbe  in  una  delle  piu  superbe  citta  d' Italia.  Quando  si  parla 
di  case  in  Inghilterra  e  impossibile  di  non  imitare  Puso  di  Omero 
di  ripetere  costantemente  lo  stesso  epiteto  di  polito.  II  fuoco  ardeva 
da  gran  tempo  nella  sala  de*  forastieri,  la  gazzetta  sul  tavolo  pro- 

1.  Questo  brano  corrisponde  alle  pp.  173-83  dell'edizione  da  noi  seguita. 

2.  il  mestiere  .  .  .  Dionigi:  Dionisio  il  giovane,  tiranno  di  Siracusa.  La  noti- 
zia  e  in  Plutarco,  Timol.t  14.     3.  «  ...  "Starommi  adunque  cosi  tra  i  miei 
cenci,  senza  trovare  uomo  che  della  mia  servitu  si  ricordi,  o  che  creda 
che  io  possa  esser  buono  a  nulla.  Ma  egli  e  impossibile  ch'io  possa  star 
molto  cosi,  perch6  io  mi  logoro,  e  vedo,  quando  Iddio  non  mi  si  mostri  pKi 
favorevole,  che  sard  un  dl  forzato  ad  uscir  di  casa,  e  pormi  per  ripetitore, 
o  cancelliere  d'uno  connestabile,  quando  io  non  possa  altro,  o  ficcarmi  in 
qualche  terra  deserta  ad  insegnare  a  leggere  ai  fanciulli,  e  lasciar  qui  la  mia 
brigata  che  faccia  conto  ch'io  sia  morto  ..."  Cosi  scriveva  il  3  agosto  1514 
a  Francesco  Vettori,  questo  ottimo  e  grande  italiano»  (nota  del  Pecchio). 
In  verita  la  lettera  e  datata  io  giugno  1514.     4.  coi  Brigliadoro  d' Italia: 
cioe,  con  i  migliori  cavalli  italiani  da  sella.  Brigliadoro  era  il  cavallo  del  pa- 
ladino  Orlando. 


OSSERVAZIONI   DI   UN   ESULE   SULL'INGHILTERRA        IOJ 

metteva  un  compenso  pel  lungo  silenzio  che  osservano  quei  che 
viaggiano  in  carrozza;  in  uno  scaffale  v'erano  delle  spazzole  per 
essere  sempre  immaculati;  in  un  altro  v'era  un  libro  di  morale  re- 
ligiosa,  e  quanto  occorre  per  scrivere ;  tutto  terso  e  lucente.  Mi  ri- 
posai  a  mio  bell' agio  guardando  le  stampe  di  trenta  o  quarant'anni 
fa  che  dalle  grandi  citta  e  dalle  eleganti  sale,  al  par  degli  eroi  in- 
felici,  sogliono  passare  gli  ultimi  lor  giorni  in  qualche  umile  vil- 
laggio.  II  mio  riposo  non  fu  punto  sturbato  da  quelle  inospitali 
offerte,  che  gli  osti  ti  fanno  in  Italia  ad  ogni  momento  per  ismaltire 
le  loro  vecchie  rancide  provvigioni  condite  con  panegirici  tanto 
sinceri  quanto  soglion  essere  tutti  i  panegirici.  Suonai  il  campanello, 
quando  mi  piacque;  compari  subito  una  fantesca;  ordinai  la  co- 
lazione;  compari  subito  la  colazione;  suonai  di  nuovo,  fimto  ch'eb- 
bi,  e  la  fantesca  compari  di  nuovo;  ordinai  di  sparecchiare,  e 
subito  ogni  cosa  disparve.  II  tutto  con  pochi  magici  monosillabi.  - 
Battono  le  undici  ore.  Era  Pora  fissata  della  lezione.  In  Inghilterra 
tutto  il  tempo  e  distribuito;  non  v'e  margine;  la  puntualita  e  piu 
che  un  dovere.  Esatto  adunque  anch'io  come  Torologio  della  chiesa, 
entrai  in  quel  punto  nel  giardino  che  fronteggiava  la  casa  del  mi- 
nistro,  tutto  coltivato  a  fiori,  ad  arbusti,  coi  sentieri  non  ingombri 
della  piu  picciola  paglia,  con  ombreggianti  e  spessi  alberi  sul  da- 
vanti,  non  tanto  per  difendere  la  casa  dal  sole  e  dai  venti,  quanto 
per  nasconderla  alia  curiosita  importuna  dei  passeggieri.  Qui  il  pu- 
dore  regna  dappertutto.  Ne  le  persone  ne  le  case  non  si  presentano 
mai  con  quelPardire  e  confidenza,  che  gl'ItaKani  e  le  case  degl'Ita- 
liani  per  lo  piu  si  presentano,  biancheggianti  e  proprio  sulPorlo 
della  pubblica  strada.  Tutto  era  silenzio  come  nell'ora  della  siesta 
in  Ispagna.  Ma  nelle  famiglie  inglesi  non  e  Morfeo  che  regna,  ma 
solo  il  Dio  del  silenzio,  Arpocrate.1  Le  persone  vanno  su  e  giu 
per  le  scale  cosi  leggiermente  come  farebbero  i  fantasmi  se  esistes- 
sero.  Se  e  vero  che  il  silenzio  e  un  contro-stimolo  che  abbatte  il 
temperamento  e  lo  spirito,  io  vorrei  credere  ch'esso  e  una  delle 
cause  per  cui  le  passioni  sono  deboli  e  compresse  in  Inghilterra. 
Bussai  alia  porta  con  replicati  colpi  per  dare  ad  intendere  ai  servi 
ch'era  un  visitatore,  e  non  un  qualche  mercenario  operaio  o  vendi- 
tore,  a  cui  non  e  lecito  d'annunziare  la  loro  venuta  che  con  un 

i.  Arpocrate:  dio  egiziano  -  1'Horus  fanciullo- penetrate  nel  mondo  greco- 
romano.  Rappresentato  con  un  dito  alle  labbra,  in  gesto  fanciullesco,  di- 
venne  percid  simbolo  del  silenzio. 


108  GIUSEPPE    PECCHIO 

solo  e  moderate  colpo.  Un  servo  con  calzoni  di  velluto  e  calze 
bianche  di  cotone  (non  pero  incipriato)  mi  apri  la  porta  e  m'intro- 
dusse  nella  sala  da  pranzo,  lasciandomi  ivi  solo,  mentre  che  andava 
ad  annunziarmi  al  padrone  di  casa.  Un  fuoco  da  auto-da-fe  splen- 
deva  nel  mezzo  di  questa  sala.  Ogni  cosa  era  al  suo  luogo,  come  se 
si  dovesse  passare  una  rivista  generale.  Un  paniere  di  latta  inverni- 
ciata  di  verde  giaceva  dinanzi  a  una  delle  lunghe  fmestre,  ripieno 
di  vasi  di  fioriti  gerani,  educati  nella  serra,  e  circondato  aH'intorno 
da  molti  altri  vasellini  di  bellissimi  fiori,  che  a  vicenda  escono  dalla 
serra  ad  adornare  la  sala  destinata  per  gli  ospiti.  Dopo  pochi  minuti 
ecco  il  Reverendo  .  .  .  che  entra  nella  sala  con  un  affabile  sorriso. 
Non  ebbi  fatica  ad  indovinare  ch'era  il  padrone  di  casa,  avendo 
veduto  pendere  da  una  delle  pareti  un  ritratto  di  lui  somigliantissi- 
mo.  Bel  tempo!  .  .  .  Bellissima  giornata!  (quantunque  avesse  pio- 
vuto  due  o  tre  volte  nel  mattino)  -  questo  eterno  quotidiano  ceri- 
moniale  delPInghilterra  fu  Tesordio  del  nostro  dialogo.  II  Reve 
rendo  .  .  .  era  un  uomo  di  circa  45  anni,  di  una  florida  salute.  La 
felicita  del  suo  stato  era  dipinta  sul  suo  volto  vivace  ed  ilare.  La 
sua  fronte  non  era  offuscata  da  nessuna  di  quelle  rughe,  di  quelle 
nubi  che  Passiduo  studio,  o  le  sciagure  imprimono.  I  suoi  bian- 
chissimi  denti,  il  suo  umore  lieto  dinotavano  che  la  sua  digestione 
era  sempre  felice.  Seppi  poi  che  il  secreto  di  tutto  cio,  che  il  suo 
elixir  di  lunga  vita,  la  sua  acqua  di  Ninon  de  Lenclos,1  era  il  con- 
tinuo  esercizio  che  faceva  alia  caccia  della  volpe,  alia  caccia  del 
fucile,  alia  pesca,  col  seguito  ed  appendici  di  buoni  pranzi  e  bot- 
tigHe.  II  suo  abito  corto  e  fatto  alia  foggia  degli  abiti  da  viaggio 
ch'usano  gl'Inglesi,  era  di  velluto,  che  dai  re  sino  ai  mulattieri  at- 
trae  sempre  maggior  rispetto  di  qualunque  altra  stoffa.  Questo  era 
il  solo  remotissimo  indizio  di  sacerdozio  che  avesse  indosso.  Pochi 
momenti  dopo  entr6  la  moglie  del  Reverendo  .  .  .  il  quale  senza 
allontanarsi  punto  dal  fuoco  a  cui  stava  rivolto  col  dorso  alPuso  del 
continente,  stese  il  braccio  indicandomi  che  cola  era  la  signora . . . 
Intanto  ch'io  col  frustino  in  mano,  incurvandomi  alia  guisa  d'un 
ballerino  francese,  piegando  un  poco  il  capo  a  destra,  stringendo 
le  labbra,  e  con  tutte  le  smorfie  comiche  della  moda  borbottava 
tra  i  denti  un  complimento  in  francese  coi  soliti  charme  e  enchant^, 

i.  Ninon  de  Lenclos:  la  galante  awenturiera,  vissuta  dal  1620  al  1705,  che 
conservd  a  lungo  un  aspetto  giovanile,  si  che  si  diceva  possedesse  il  segreto 
di  un' acqua  di  giovinezza. 


OSSERVAZIONI    DI    UN   ESULE   SULL'INGHILTERRA        K>9 

la  signora  .  .  .  con  passo  freddo  e  svogliato,  con  un  contegno  indif- 
ferente  s'awiava  verso  il  cammino,  torcendo  intanto  il  capo  verso  di 
me.  Essa  era  alta,  ben  fatta,  e  senza  essere  altiera,  mostrava  avere  di 
se  quella  stima  die  certamente  ella  meritava.  Mi  si  disse  ch'era  stata 
una  bellissima  donna;  questa  volta  m'avvidi  che  le  frequenti  esage- 
razioni  inglesi  sul  bello  e  sul  meraviglioso  non  eccedevano  il  vero. 
Dopo  alcuni  momenti  ella  uscl  e  monto  di  nuovo  le  scale  ad  awerti- 
re  le  figlie  che  avessero  tutto  in  pronto.  Intanto  il  Reverendo ...  mi 
fece  una  disgressione  su  gli  storici  antichi,  mi  fece  intendere  ch'era 
legato  in  amicizia  con  lord  Byron,  m'invito  a  rimaner  seco  a  pranzo, 
e  mi  fece  mille  altre  cortesie.  Vidi  da  questo  screziato  discorso  ch'era 
familiare  col  ceto  nobile,  ch'era  ricco,  e  che  ad  onta  della  caccia  era 
versato  negli  studi  classici.  Quei  pochi  cenni  furono  per  me  il  blaso- 
ne  di  famiglia.  In  un  tuono  facile  e  disinvolto  soggiunse  poscia  ch'io 
poteva  ascendere,  ed  egli  stesso  mi  precedette  indicandomi  il  cam 
mino.  Trovai  la  sala  di  compagnia  al  solito  ingombra  da  molti  ta- 
volini,  da  un  cembalo,  da  libri  e  da  lavori  donneschi.  Le  scuolare 
erano  ritte  in  piedi  colla  solita  aria  fredda  e  modesta  inglese  che 
farebbe  agghiacciare  sulle  labbra  un  complimento  anche  al  piu 
spensierato  parigino.  La  maggiore  era  una  giovine  di  19  anni  svelta 
di  corpo,  piuttosto  magra,  brunetta  di  carnagione,  con  capelli  neri, 
occhi  neri,  e  con  denti  eguali  e  bianchissimi,  ch'e  un  pregio  piut 
tosto  raro  in  Inghilterra  tanto  fra  gli  uomini  che  fra  le  donne.  II 
suo  sorriso  era  soave,  e  1'espressione  del  suo  volto  angelico-italiana. 
Aveva  tutti  i  requisiti  per  rendermi  un  Saint-Preux.1  La  seconda 
era  uno  scherzo  di  natura,  un'albina;  ben  fatta,  candidissima  di 
carnagione,  con  capelli,  sopraccigli  e  cigli  affatto  bianchi,  e  con  oc 
chi  tiranti  al  rosso.  Ogni  suo  moto,  ogni  sua  parola  era  un  zefiro, 
era  tutta  dolcezza.  Cortissima  di  vista,  mi  sembrava  piu  avanzata 
negli  studi  della  sorella  maggiore,  cio  ch'e  sempre  il  compenso  d'un 
po'  meno  di  belta.  La  terza  era  una  fanciulla  di  13  anni,  bellina,  so- 
migliante  a  sua  sorella  la  prima,  vivacissima  ne'  suoi  sguardi,  cui 
ora  di  soppiatto  lanciava  a  me,  mentre  io  leggeva,  ora  verso  la  so 
rella  maggiore,  quando  si  trattava  di  darmi  qualche  risposta.  La 
madre  durante  la  lezione  Iavor6  sempre,  parlando  di  tratto  in  tratto 
sotto  voce  con  alcuna  delle  sue  figlie  in  riposo,  o  rispondendo  per 
le  sue  figlie,  quando  interrogate  da  me  su  ci6  che  sapevano  di  fran- 

i.  un  Saint-Preux:  un  innamorato  pieno  di  passione.  Saint-Preux  e  il  pro- 
tagonista  del  romanzo  La  nouvelle  Heloise  di  J.  J.  Rousseau. 


110  GIUSEPPE   PECCHIO 

cese  e  d'italiano  chinavano  gli  occhi  e  non  ardivano  fare  le  proprie 
lodi.  II  fatto  sta  ch'esse  erano  bene  istrutte,  intendevano  a  mera- 
viglia  il  francese,  e  con  tutto  candore  manifestavano  le  difficolta 
che  incontravano  nella  lettura  di  Metastasio,  di  cui  si  deliziavano. 
La  mia  situazione,  quasi  direi  anfibia,  era  di  un  divertimento  a  me 
stesso.  Ora  mi  sembrava  di  essere  realmente  nato  per  fare  il  maestro 
e  cercava  di  dissertare  su  gli  articoli,  sulle  concordanze  ec.;  ora 
mi  sembrava  d'essere  il  conte  d'Alma  Viva  nel  Barbiere  di  Siviglia, 
quando  soprattutto  la  milk-white  hand,1  la  bianco-lattea  mano  della 
prima  di  quelle  damigelle  (ch'era  la  mano  descritta  dall'Ariosto),2 
seguiva  col  dito  le  righe  del  libro.  Ora  poi  correndomi  alia  memoria 
tutte  quelle  sudicie  allusioni  a  cui  i  termini  grammaticali  danno 
luogo  in  Italia,  stava  per  iscoppiare  dalle  risa  quando  mi  toccava  di 
parlare  del  preterito  ec.  ec.  Nelle  cose  piu  indifferenti,  anche  nelle 
famiglie  di  sangue  men  che  celeste,  la  primogenitura  e  sempre 
rispettata.  Perci6  le  mie  scolarine  venivano  sempre  in  ordine  di  eta 
alia  lettura.  Terminata  che  fu  la  lezione  scendemmo  nella  sala  da 
pranzo  dov'era  imbandito  un  lautissimo  launchon?  La  signora  mi 
ofTri  replicate  volte  e  con  molta  cortesia  del  bue  freddo,  della  torta 
di  riso  e  latte  ec.  ec.,  ma  siccome  non  v'e  piacere  nel  cibo  che  non 
e  condito  dairintima  amicizia  e  dalla  spensierata  allegria,  ricusai  e 
me  ne  ritornai  all'albergo.  Mentre  stavano  sellando  il  mio  cavallo, 
diedi  un'occhiata  alia  chiesa  del  borgo,  antica  e  di  apparenza  ancora 
phi  antica  per  la  forma  gotica  che  quasi  in  ogni  dove  hanno  le  chiese 
della  religione  anglicana,  e  dopo  avere  ricevuto  un  inchino  delPoste 
che  sentiva  ancora  del  vassallaggio  antico,  spronai  il  mio  cavallo, 
e  partii  al  galoppo  attraverso  quelle  deserte  contrade  . .  . 


i.  «Le  mani  delle  inglesi  e  irlandesi  sono  cosi  belle  che  Ossian  apostrofa 
spesso  le  giovani  irlandesi  "Blanche  mani  d'Erina!"  6  peccato  che  in  que- 
sto  paese  non  vi  sia  1'uso  del  baciar  la  mano.  Gl'Italiani  chiamano  spesso  le 
loro  amanti  "Begli  occhi  del  mio  ben!"  I  Francesi  potrebbero  apostrofare 
le  loro  dicendo  "Cari  amati  piedi!"»  (nota  del  Pecchio).  2.  la  mano  .  .  . 
Ariosto :  « e  la  Candida  man  spesso  si  vede  /  lunghetta  alquanto  e  di  lar- 
ghezza  angusta,  /  dove  ne"  nodo  appar,  ne  vena  escede»  (Orl.fur.,  vn,  15). 
3.  «Sostanziosa  refezione  tra  colazione  e  pranzo »  (nota  del  Pecchio). 


OSSERVAZIONI   DI   UN   ESULE   SULL'INGHILTERRA        III 


LA  PROMESSA  SPOSA1 

V oleva  dedicare  questo  capitolo  ai  cavalieri  serventi,  agli  spasimanti 
eterni,  ai  tiranni  di  famiglia,  e  a  quelle  madri  che  credono  che  uno 
sguardo  contamini  le  loro  figlie,  e  che,  ansiose  di  smaltire  la  loro 
merce,  ad  altro  non  aspirano  che  a  maritarle  una  volta,  qualunque 
sia  per  essere  lo  sposo,  o  un  calandrino,2  o  un  babbuino,  o  un  vec- 
chio  lib  ...  no ;  ma  ho  poi  pensato  ch'e  meglio  essere  tollerante, 
e  lasciar  vivere  ciascuno  a  suo  mo  do. 

La  damigella  K  . . .  era  una  giovine  di  19  anni  alta,  svelta,  di  belle 
maniere,  festevole  senz' essere  troppo  gaia  ne  vispa,  di  bianchissime 
carni,  con  uno  sguardo  lento  e  soave,  ma  non  languente,  con  una 
copiosa  capigliatura  biondo-scura  a  larghe  anella,  tale  insomma  da 
essere  ammirata  dalla  doppia  schiera  di  giovani  in  mezzo  a  cui 
guizzano  via  le  belle  italiane  che  entrano  nel  teatro  della  Scala  di 
Milano.  In  una  visita  ch'essa  rese  ad  una  famiglia  di  sua  cono- 
scenza,  lontana  dalla  sua  citta  ben  cento  miglia,  piacque  a  un  gio 
vine  di  quella  famiglia.  La  richiese  in  isposa;  ebbe  il  consenso  della 
giovine  e  de'  suoi  parenti.  Ma  lo  sposo  non  essendo  ancora  bene 
awiato  nella  sua  professione  di  awocato,  si  convenne  da  ambe  le 
parti  di  differire  il  matrimonio  per  due  anni.  Intanto  lo  sposo  di 
quando  in  quando  veniva  a  visitare  la  sua  promessa  moglie;  era 
accolto  dalla  famiglia  con  un'intimita  piu  che  amichevole,  consi- 
derato  e  onorato  dagli  amici  come  il  marito  futuro  della  giovine. 
Cosi  i  due  sposi  invece  di  andare  all'altare  ad  occhi  bendati,  ave- 
vano  campo  (ed  un'invidiabile  pazienza)  di  studiare  il  loro  carat- 
tere,  di  awezzarsi  a  rispettarsi  in  presenza  degli  altri,  di  correggersi 

i.  Questo  brano  corrisponde  alle  pp.  192-201  dell'edizione  da  noi  seguita. 
Precedono  il  testo  i  seguenti  versi,  e  la  traduzione,  di  George  Crabbe: 
«  For  who  more  blest  than  youthful  pair  remov'd  /  from  fear  of  want,  by 
mutual  friends  approv'd,  /  short  time  to  wait,  and  in  that  time  to  live  /  with 
all  the  pleasures  Hope  and  Fancy  give;  /  their  equal  passion  rais'd  on  just 
esteem  /  when  reason  sanctions  all  that  Love  can  dream  ? »  (« Chi  piu  felice 
d'una  giovane  coppia  esente  dal  timor  del  bisogno,  da  comuni  amici  com- 
mendata,  che  breve  tempo  attende,  ed  in  quel  tempo  vive  fra  tutti  i  piace- 
ri  che  danno  la  speranza  e  rimaginazione ;  la  cui  egual  passione  e  giustamen- 
te  pregiata  quando  la  ragione  approva  tutto  quanto  amor  pu6  sognare?»). 
George  Crabbe  (1754-1832),  celebre  poeta  inglese,  cant6  i  villaggi  e  costumi 
degli  abitanti  del  suo  Suffolk  nativo,  senza  vero  impegno  sociale,  ma  non 
senza  un  gusto  bozzettistico  che  prelude  al  realismo  del  romanzo  ottocen- 
tesco.  2.  un  calandrino:  uno  sciocco,  dal  noto  personaggio  del  Decameron. 


112  GIUSEPPE   PECCHIO 

se  mai  avevano  qualche  difetto.  Per  piu  stringere  la  conoscenza  e 
Tamicizia  delle  due  famiglie,  una  sorella  dello  sposo  rimase  per 
piu  mesi  in  casa  della  giovine,  trattata  piu  come  una  parente  che 
come  un' arnica.  Cosi  invece  di  ritrovare  una  cognata  gelosa  un 
giorno,  e  maledica,  la  giovane  si  preparava  un'amica  nella  nuova  fa- 
miglia,  una  pronuba  delle  sue  nozze,  e  una  protettrice  in  ogni 
evento  per  la  riconoscenza  che  genera  un'amichevole  ospitalita. 
Or  bene;  questa  giovine  ch'era  da  me  conosciuta  prima  di  questa 
promessa  di  nozze  non  altero  punto  ne  le  sue  maniere,  ne  il  suo 
tratto  amichevole  con  me.  Bene  spesso  ella  era  la  prima  a  invitarmi 
ad  ire  seco  lei  a  passeggio.  Come  forastiero  aveva  qualche  volta 
Tonore  di  darle  il  braccio.  II  passeggio  era  sempre  un  passeggio 
petrarchesco1  -  tra  solitarie  piaggie  -  tra  deserti  campi  -,  com'e  il 
gusto  inglese.  Due  o  tre  volte  essa  venne  di  buon  mattino  a  farmi 
visita,  in  mia  propria  casa,  accompagnata  per6  da  una  sua  cara  e 
vivace  sorellina.  Entrava  giuliva;  Poggetto  della  visita  era  qualche 
grazioso  invito  di  pranzo  o  di  te.  Si  fatte  visite  non  sono  un'irrego- 
larita,  ne  un  fenomeno  in  questo  paese.  Siate  pur  celibe,  siate  pur 
giovine  (ma  non  siate  scapestrato,  almeno  in  apparenza),  e  se  cadete 
ammalato  avrete  la  visita  di  tutte  le  nubili  e  maritate  di  vostra  co 
noscenza.  Piu ;  ella  seppe  che  la  mia  biancheria  era  trascurata,  sic- 
come  quella  di  un  orfano  senza  patria  e  vagabondo  sulla  faccia  della 
terra;  si  offerse,  e  con  una  soave  violenza  voile  aggiustar  essa  ogni 
cosa.  Quindi  con  quella  cura  e  con  quell'affezione  che  una  tenera 
sposa,  o  una  sviscerata  amante  in  un  quarantesimo  quarto  grado  di 
latitudine  farebbe,  ella  mend6  il  mio  lacero  equipaggio,2  e  segn6 
col  mio  nome  i  miei  fazzoletti  e  le  mie  camisce.  Se  a  un  quarante 
simo  quarto  grado  di  latitudine  una  giovine  mi  avesse  fatto  solo 
un  borsellino,  la  mia  cieca  vanita  mi  avrebbe  fatto  credere  che  in 
quel  borsellino  v'era  il  suo  cuore.  Ma  il  cuore  di  K  .  .  .  era  gia 
dato  ad  un  altro,  e  sarebbe  morta  mille  volte  piuttosto  che  commet- 
tere  uno  stellionato3  di  tal  sorta.  La  sacra  parola  da  lei  data  non 
le  proibiva  per6  secondo  Pusanza  lodevole  della  sua  nazione,  di  es- 
sere  meco  e  con  altri  affettuosa  e  cortese.  Ella  sapeva  fare  sempre 
del  regali  adattati,  eleganti,  e  di  buon  gusto.  Quando  partii  per 

1.  un  passeggio  petrarchesco:  il  Pecchio  allude  alia  preferenza  che  il  Petrarca 
spesso  manifesta  per  i  luoghi  campestri  e  solitari.  Le  due  espressioni  che 
seguono  richiamano  due  luoghi  del  Petrarca  (Rime,  cxxix,  4,  e  xxxv,  i). 

2.  equipaggio:  corredo.     3.  stellionato:  e  il  reato  di  chi  vende  come  libero 
da  ogni  ipoteca  un  possesso  di  cui  non  gli  e  lecito  disporre  a  suo  arbitrio. 


OSSERVAZIONI    DI   UN   ESULE    SULL'INGHILTERRA        113 

la  Grecia,  mi  rega!6  una  nitida  edizione  del  Child-Harold  di  lord 
Byron,  e  quando  ne  ritornai  avendo  traspirato1  che  non  aveva 
nel  mio  nuovo  alloggio  ne  carta  ne  calarnaio  da  scrivere,  s'introdusse 
di  furto  nel  mio  studio,  mentr'era  fuori  di  casa,  con  una  sua  cugina 
complice  di  quello  scherzo  magico,  e  depose  sul  mio  tavolino  un 
elegante  portafoglio,2  un  calamaio,  della  finissima  carta;  e  poi  per 
nascondere  il  suo  dono  generoso  finse  che  due  delle  Fate  che  da 
tanti  secoli  abitano  PInghilterra,  e  carolano  nella  notte  nei  boschi, 
e  nei  campi  incolti  d'Inghilterra,  avevano  recato  quel  regalo.  lo 
(e  qualunque  altro  nato  sotto  un  sole  ardente)  io  che  in  Italia,  in 
Francia,  ec.  avrei  concepita  la  speranza  di  un  colpevole  amore  a 
una  sola  benigna  occhiata  che  una  ragazza  avesse  lasciato  cadere 
sopra  di  me,  ho  io  mai  nutrito  il  piu  lieve  indecente  pensiero  su 
questa  graziosa  giovine?  Da  uomo  d'onore,  no.  Ecco  1'effetto  della 
confidenza  accordata  alPuomo,  e  della  coscienza  della  propria  virtu 
nella  donna.  Le  promesse  di  matrimonio  molto  tempo  prima  della 
celebrazione  sono  qui  molto  frequenti  nel  medio  ceto.  Se  mai  il 
giovane  manca  di  parola,  i  parenti  della  figlia  lo  citano  innanzi  ai 
tribunali;  se  non  giustifica  il  suo  pentimento,  e  condannato  a  una 
multa  adeguata  alle  circostanze.  Alcune  ammende  montano  a  cin 
que  e  sino  a  dieci  mila  lire  sterline.  Vero  e  che  questo  sistema 
puo  dar  luogo  ai  perfidi  agguati  di  un  Lovelace.3  Ma  quanti  pochi 
Lovelace  sono  da  temersi,  quando  la  soddisfazione  di  un  capriccio 
deve  costare  tanto  tempo,  tante  cabale,  tante  bugie  e  tanti  pericoli! 
Io  credo  che  un  giovine  farebbe  piuttosto  il  giro  del  mondo  a  piedi 
che  di  assoggettarsi  a  tutte  le  pene  del  Lovelace  di  Richardson  per 
ottenere  una  Clarisse  per  tradimento.  D'altronde  Puomo  che  tra- 
disce  una  giovine  in  Inghilterra  va  incontro  alPabbominio  dell'opi- 
nione  pubblica  al  punto  che  quel  sig.  Wakefield  che  1'anno  scorso 
tent6  d'ingannare  la  damigella  Turner  era  piu  detestato  da  ogni 
persona,  che  se  avesse  ucciso  Giorgio  IV. 

Riferir6  un  altro  esempio  di  questa  innocente  liberta.  -  Una  da 
migella  scozzese,  grande,  ben  fatta,  robusta  al  pari  delle  eroine  di 
Ossian,4  con  guance  rosee,  fresche  come  mele,  era  venuta  da  Edim- 
burgo  alia  distanza  di  200  miglia  per  annoiarsi  per  due  mesi  e  per 

i.  avendo  traspirato:  avendo  avuto  sentore.  2. portafoglio'.  una  cartella  da 
tavolo,  da  tenervi  dei  fogli.  3.  un  Lovelace:  un  seduttore,  dal  nome  del 
protagonista  del  romanzo  Clarissa  Harlowe  (1747-1748)  di  Samuel  Ri 
chardson  (1689-1761).  4.  Ossian:  vedi  la  nota  3  a  p.  73. 


114  GIUSEPPE   PECCHIO 

disannoiare  una  vecchia  avola  che  solitaria  viveva  nella  solitaria 
citta  di  Tadcastle  in  una  solitariissima  casa.  Per  una  italiana,  o  una 
spagnuola  quella  casa  sarebbe  stata  una  tomba;  si  sarebbe  creduta 
una  sepolta  viva.  Avrebbe  fatto  suonar  alto  colle  sue  amiche  il  sa- 
grifizio  che  faceva  alia  parentela,  e  quei  due  mesi  le  sarebbero  sem- 
brati  due  secoli.  La  scozzese  invece  adempiva  al  suo  pietoso  ufficio 
colla  piu  generosa  naturalezza.  Le  feci  due  visite,  sempre  di  sor- 
presa,  e  la  trovai  sempre  ben  pettinata  ed  elegante,  come  se  fosse 
per  ricevere  visita  da  alcune  sue  invide  rivali.  Questo  e  molti  altri 
esempi  m'hanno  convinto  che  le  inglesi  si  vestono  non  tanto  per  gli 
altri  quanto  per  se;  sono  quindi  sempre  ben  vestite.  Generalmente 
non  vi  sono  alti  specchi  nelle  loro  camere,  non  hanno  nemmeno 
quel  dolce  compenso  di  gettare  furtivo  uno  sguardo  sulla  propria 
immagine  passandogli  dinanzi  con  frequenti  pretesti.  Non  vi  sono 
balconi.  Non  v'e  Puso  di  mettere  il  capolino  fuori  della  finestra  per 
vedere  che  tempo  fa  e  che  gente  passa;  e  nelle  strade  non  vi  sono 
n6  babbei  ne  cicisbei.  John  Bull1  lavora,  guadagna,  ammassa  denaro, 
e  poi  si  marita  senz'altre  manovre  di  fazzoletti,  di  finestre  socchiuse, 
od  altri  segni  telegrafici.  lo  la  trovava  per  lo  piu  al  tavolino  leggendo 
o  scrivendo;  tutto  lucente,  scrittoio,  calamaio,  penna  con  Hbri  ben 
stampati,  ben  legati  e  ancor  meglio  scritti.  Nessun  imbarazzo,  nes- 
suna  confusione  nella  conversazione.  Le  giovani  hanno  1'abitudine 
della  societa,  e  la  lettura  suggerisce  loro  interessanti  argomenti. 
Quindi  gli  amici  comuni,  la  letteratura,  la  differenza  de'  costumi 
erano  i  soggetti  de'  nostri  discorsi.  I  ladri  domestic!  sono  pochi  in 
paragone  del  gran  numero  de'  servi  che  abbiamo,  io  credo,  perche 
la  confidenza  e  il  loro  freno.  Cosi  anche  il  maresciallo  di  Richelieu2 
sarebbe  stato  forse  onesto  a  suo  malgrado  in  questo  t@te-d-tete.  E 
poi  per  un  uomo  intraprendente,  per  un  conquistatore,  un  tamer- 
lano3  del  bel  sesso  (com* era  il  maresciallo)  non  avrebbe  forse  per  la 
facilitk  rinunziato  alia  conquista,  quando  ella  mi  invit6  a  passeggiar 
seco  lungo  il  flume  vicino  alia  sua  casa  per  un  sentiero  quasi  solita- 
rio  che  ci  condusse  a  un  colle  petroso,  coperto  di  annose  quercie  e 
folti  cespugli?  Ma  il  maresciallo  si  sarebbe  ingannato;  avrebbe 

i.  John  Bull:  vedi  la  nota  sap.  70.  2.  Louis  Frai^ois  duca  di  Richelieu 
(1696-1788),  maresciallo  francese,  famoso  per  i  suoi  intrighi  amorosi  e  la 
sua  fortuna  con  le  donne  (due  sue  amanti  si  batterono  a  duello  per  lui), 
ma  che  fu,  per  queste  sue  awenture,  varie  volte  imprigionato.  3.  un  tamer  - 
lano:  un  conquistatore,  dal  noto  personaggio  storico:  vedi  la  nota  3  a 
P-  37- 


OSSERVAZIONI    DI   UN   ESULE   SULL'INGHILTERRA        115 

disprezzato  comme  une  bicoque  ce  qui  etait  une  fortresse  tout-d-fait 
digne  de  Vauban.1  Passammo  vicino  a  un  antico  campo  romano.  Si 
vedono  ancora  i  rialzi  di  terra  dentro  cui  que'  conquistatori  del 
mondo  chiudevano  le  loro  legioni.  Ella  mi  fece  da  Cicerone,  e  per 
vero  eccesso  di  cortesia  mi  parlava  de'  romani  quasi  fossero  gli 
antenati  degPItaliani.  Per  reciprocita  io  le  parlai  di  Walter-Scott, 
quasi  fosse  1'Ariosto  scozzese.  La  conversazione  non  langui  mai, 
a  segno  che  sarei  passato  dinnanzi  a  una  bella  casa  di  campagna 
che  sorgeva  sull'altra  riva  del  fiume  senza  awedermene,  s'ella  non 
me  ne  faceva  accorto.  Giunti  a  casa,  le  fu  imbandito  il  pranzo. 
Ella  m'invito  a  prendere  una  refezione  (la  zia  fu  sempre  invisibile 
perch.6  confinata  da  un  infreddore  nella  sua  camera).  Terminato  il 
pranzo,  a  un  chinar  di  capo  che  mi  fece,  segnale  dei  brindisi  inglesi, 
sorbimmo  insieme  un  bicchier  di  vino  composto  di  estratto  di  fiori 
di  zucchero  e  di  un  po*  d'acquavite,  detto  vino  inglese,  bevanda 
gradevole  e  concessa  anche  alle  giovani  donzelle  di  quando  in  quan- 
do:  mi  mostro  la  collezione  delle  romanze  e  poesie  spagnuole  di 
Bohl  de  Fabre.2  M'aveva  gia  detto  che  la  religione  e  il  conforto 
delle  anime,  e  la  felicita  delle  famiglie,  cosi  mi  addit6  alcune  reli 
giose  odi  di  Leon  da  Ponzio,3  sue  favorite,  e  veramente  sublimi.  Mi 
fece  leggere  uno  squarcio  delPOda  sulla  Santa  Soledad\  colla  ma- 
tita  erano  gia  segnati  i  passi  piu  belli  e  conformi  ai  sentiment!  della 
sua  anima.  Ben  era  tempo  di  prendere  congedo  dopo  una  visita  di 
quattr'ore  ch' erano  passate  velocemente  al  pari  delle  ore  piu  felici 
d'amore.  Ribattei  al  galoppo  le  dieci  miglia  che  aveva  fatte  ve- 
nendo;  non  agitato,  non  sbalordito,  ma  imbalsamato  da  un  piacere 
simile  a  quello  che  si  prova  alia  veduta  di  un  bel  quadro  del  Poussin4 
con  belle  ninfe  e  ameni  paesaggi. 


i.  Sebastian  Le  Preste,  marchese  di  Vauban  (1633-1707),  ingegnere  mili- 
tare  francese,  rimase  famoso  per  i  sistemi  di  fortificazione,  che  egli  rin- 
nov6.  2.  la  collezione  ,  .  .  di  Bohl  de  Fabre:  Juan  Nicolas  Bohl  de  Faber 
(1770-1836),  scrittore  spagnolo  di  origine  tedesca,  cui  si  deve  una  raccolta 
(collezione)  di  rime:  Floresta  de  rimas  antiguas  castellanas  (1821-1825). 
3.  Leon  da  Ponzio:  Frey  Luis  Ponce  de  Leon  (1528-1591),  poeta,  religioso 
e  scrittore  spagnolo.  4.  Nicolas  Poussin,  pittore  francese  (i594~I665), 
vissuto  lungamente  a  Roma  e  formatosi  sulla  pittura  italiana. 


Il6  GIUSEPPE   PECCHIO 


[FANCIULLI  INGLESI  ]r 

Non  vi  sono  nel  mondo  fanciulli  piu  belli  degl'inglesi,  se  non  forse 
quei  del  Correggio  o  dell'Albani.2  Sono  lucidi,  freschi,  veri  fiori 
di  primavera.  Simili  appunto  ai  fiori,  che  la  natura  li  crea  belli,  ma 
la  mano  e  Findustria  li  fanno  ancora  piu  belli.  L'estrema  pulizia, 
il  vitto  sano,  metodico  ed  abbondante,  la  compiacenza,  la  dolcezza 
inalterabile  de'  parenti,  1'assenza  totale  dei  dispiaceri  contribui- 
scono  a  rendere  sereni  i  loro  volti  e  sani  i  loro  corpi.  Se  in  Inghil- 
terra  i  quadrupedi  hanno  leggi  ed  oratori  nel  parlamento  che  li 
proteggono,  quanta  cura,  quale  amorevolezza  non  si  deve  avere  pe' 
fanciulli!  Essi  sono  lavati  due  o  tre  volte  il  giorno.  Ogni  giorno 
cambiano  almeno  due  volte  di  abiti.  Due  volte  almeno  si  petti- 
nano.  Chi  vide  mai  teste  piu  rilucenti  di  quelle  dei  bambini  inglesi  ? 
Sono  auree  teste.  La  eleganza  non  e  una  vanita  in  loro,  ma  un'abi- 
tudine.  Non  ho  mai  inteso  una  madre  vantare  al  suo  figlio  un  abito 
nuovo,  promettergli  per  premio  un  cappellino  nuovo.  Quindi  non 
ho  mai  veduto  un  fanciullo  pavoneggiarsi  per  gli  abiti,  ne  mostrare 
con  iattanza  le  scarpette.  II  loro  cibo  e  semplice,  latte,  frutta  cotte, 
butirro,  pane,  e  carne  senza  salse,  non  mai  contrastati,  ne  misurati. 
Siedono  a  tavola  a  guisa  degli  altri;  ho  assistito  molte  volte  al 
pranzo  di  soli  fanciulli,  tagliano,  si  servono,  sono  composti,  acqui- 
stano  senza  fatica,  senza  rimproveri,  senza  lagrime  lo  stesso  conte- 
gno,  la  stessa  gentilezza  di  modi,  la  stessa  disinvoltura  delle  per- 
sone  adult  e.  Quei  pani  grossi  inglesi,  quelle  cataste  di  patate,  quei 

i.  Questo  brano  corrisponde  alle  pp.  207-23  delPedizione  da  noi  seguita. 
Precedono  il  testo  i  seguenti  versi,  e  la  traduzione,  dell' Ode  on  a  Distant 
Prospect  of  Eton  College  (w.  41-50)  di  Thomas  Gray  (1716-1771),  uno  dei 
maggiori  poeti  del  Settecento  inglese,  egualmente  celebre  per  le  sue  Odes 
« oraziane  »  che  per  la  famosa  Elegy  Written  in  a  Country  Churchy ar d  (1750) : 
«Gay  hope  is  theirs  by  fancy  fed,  /  less  pleasing,  when  possest;  /  the  tear 
forgot  as  soon  as  shed  /  the  sunshine  of  the  breast,  /  their  buxom  health  of 
rosy  hue,  /  wild  wit,  invention  ever  new,  /  and  lively  cheer  of  vigour  born ;  / 
the  thoughtless  day,  the  easy  night  /  the  spirits  pure,  the  slumbers  light  / 
that  fly  the  approach  of  morn»  (« La  gaia  speranza  alimentata  dalla  fantasia 
ti  e  men  gradita  se  giugni  al  possesso;  si  dimenticano  le  lagrime  appena 
sparse,  Pallegrezza  del  cuore,  la  dolce  salute  di  color  di  rosa,  1'indomito 
genio  sempre  nuovo  neU'invenzioni,  le  leggeri  gioie  figlie  del  vigore,  il 
giorno  senza  cure,  Tindolente  notte,  i  puri  spiriti  e  i  leggeri  sonni  che 
fuggono  all'awicinarsi  del  mattino»).  2.  quei  .  .  .  deWAlbani:  cioe,  di- 
pinti  dal  Correggio  e  dall'Albani.  Francesco  Albani,  bolognese  (1578-1660), 
fu  pittore  di  una  grazia  piuttosto  leziosa. 


OSSERVAZIONI   DI   UN   ESULE    SULL'INGHILTERRA        117 

monti  di  carne  paiono  fatti  apposta  per  prevenire  1'avidita,  e  per 
saziar  piu  presto  colla  loro  vista  i  ghiottoncelli.  Tutta  questa  ab- 
bondanza  non  lascia  luogo  a  querele  e  a  dispute.  I  fanciulli  si  asten- 
gono  tutti  dal  vino,  e  sino  ai  died  o  dodici  anni  anche  dal  te  e  dal 
caffe.  Non  e  per  loro  una  privazione  quella  del  vino ;  perche  le  loro 
madri,  le  loro  sorelle  se  ne  privano  quasi  ogni  giorno  volontaria- 
mente.  Ma  poi  si  sa  che  divenuti  grandi  se  ne  compensano  con 
usura. 

Ma  se  sono  belli  i  fanciulli  inglesi  sono  ancora  piu  felici.  Non 
sono  ne  schiavi,  ne  tiranni;  quindi  ne  insolenti,  ne  gementi.  Non 
avendo  mai  inteso  lunghi  vagiti  e  piagnistei  nelle  case  signorili,  volli 
verificare  se  questo  era  un  vantaggio  solo  riser vato  alle  classi  agiate. 
Scorsi  le  straduccie  piu  sucide,  visitai  i  casolari  piu  poveri  nelle 
citta,  nelle  campagne,  trovai  che  i  fanciulli  non  tiranneggiati,  non 
disprezzati,  non  irritati,  e  soprattutto  non  mai  beffati  menano 

.  .  .  i  giorni 
della  tenera  eta  lieti  ed  adorni.1 

Quante  volte  compiansi  la  sorte  dej  miei  compatriotti,  che  tormen- 
tati,  inquietati,  torturati  dalle  leggi,  dagli  uomini,  dal  governo, 
per  un  invincibile  istinto  della  natura  umana,  si  sfogano  e  si  vendi- 
cano  contro  i  piu  deboli,  e  divengono  a  vicenda  i  tiranni  delle  loro 
famigliel  II  padre  qui  non  s'immischia  punto  dell'educazione  de* 
figH.  Essi  sono  assorti  negli  affari,  e  per6  gli  abbandonano  alle  cure 
della  madre,  che  ben  di  rado  esce  di  casa,  ed  esercita  questo  sacro 
ministerio  con  una  costante  soave  equanimita.  NelPeducazione  do- 
mestica  e  escluso  il  castigo,  al  pari  del  premio,  stimolo  di  rivalita. 
I  fanciulli  non  abborriscono  la  lettura,  perche  vaghi  sempre  d'imi- 
tare,  vedendo  sempre  i  tavoli  seminati  di  libri,  e  che  tutti  gli  altri 
leggono  per  lo  meno  lo  smisurato  giornale,  o  un  inevitabile  ro- 
manzo  del  profluvio  che  se  ne  stampano,  leggono  anch'essi  volen- 
tieri  qualche  libricciuolo  della  loro  libreria.  In  questi  ultimi  qua- 
rant'anni  e  immenso  il  numero  dei  libri  che  si  sono  composti  in 
Inghilterra  per  istruzione  dei  ragazzi  e  della  gioventu.  lo  ne  darei 
qui  a  piedi  di  pagina  una  lista  d'alcuni,  che  meriterebbero  d'essere 
tradotti  e  adottati  anche  dalle  altre  nazioni,  ma  sarebbe  un  catalogo 
troppo  lungo. 

L'ordine  e  la  distribuzione  del  tempo  in  una  famiglia  facilitano 

i.  «Tasso»  (nota  del  Pecchio),  e  precisamente  Ger.  lib.,  IX,  33. 


Il8  GIUSEPPE   PECCHIO 

ogni  cosa.  Stabilito  una  volta  un  ordine  impreteribile,  diventa  come 
una  legge  inesorabile  di  natura  a  cui  ogni  individuo  obbedisce  senza 
renitenza.  Diviso,  dico,  che  sia  il  giorno  in  porzioni  assegnate,  non 
v'e  piu  d'uopo  di  esortazioni  e  di  comandi.  Ognuno  si  sottomette 
al  suo  dovere,  come  ognuno  si  sottopone  senza  dolersi  alle  vicende 
del  giorno  e  della  notte.  La  giornata  inglese  a  questo  rispetto  e 
simile  al  sistema  celeste.  La  famiglia  si  leva,  fa  colazione,  pranza 
ec.  ec.,  sempre  allo  stesso  minuto.  £  un  pianeta  che  segue  la  sua 
orbita  senza  bisogno  di  ulteriore  impulso.  La  taciturnita  e  il  timor 
reverenziale  de'  servi  fa  si  ch'essi  non  comunicano  i  loro  vizi  o  le 
loro  passioni  ai  fanciulli,  come  in  altri  paesi  succede. 

Tre  cose  piu  d'ogn'altra  mi  hanno  fatto  senso  nell'educazione 
inglese;  il  rispetto  che  i  parent!  mostrano  ai  loro  figli;  la  cura  di 
non  fomentare  Tiracondia;  gli  esercizi  di  corpo  che  compensano  la 
perdita  di  forze  per  gli  esercizi  mentali. 

II  rispetto  del  padre  verso  i  figli  comincia  di  buon'ora,  e  non 
cessa  mai.  Questa  concessione  istituisce  il  diritto  di  reciprocita  in 
favore  del  padre.  Una  contumelia  non  cade  mai  dalle  labbra  del 
padre.  L'onore  del  figlio  deve  giungere  immaculato  nella  societa, 
e  quando  e  immaculato  si  ha  sempre  il  coraggio  di  difenderlo.  Qui 
non  parlo  delle  madri;  perch6  esse  possono  fare  ci6  che  vogliono, 
la  loro  collera  e  sempre  Pira  di  un  amante.  Sovente  il  padre,  quando 
riceve  lettere,  se  pur  non  sono  lettere  d'affari,  le  comunica  e  le  fa 
circolare  in  tutta  la  famiglia.  Sfugge  per  lo  piu  di  far  uso  di  nomi  ac- 
carezzativi,  che  sono  diminutivi  che  alia  fine  fanno  supporre  anche 
una  diminuzione  di  merito.  Anzi  molte  volte  trapassano  in  un'af- 
fettazione  opposta  di  chiamare  il  figlio  col  nome  di  famiglia  .  .  .  il 
sig.  Tizio  . .  .  per  la  ragione  per  cui  madame  de  Lotenville1  non 
voleva  che  George  Dandin  chiamasse  sua  moglie  «  ma  femme  »  ma 
«  madame  Dandin  ».  Un  signore  inglese  mio  amico  ascoltava  con  at- 
tenzione  ed  interesse  le  lezioni  d'idrostatica  che  suo  figlio  leggeva 
dinanzi  a  una  brigata.  Un  altro  gentiluomo  inglese  che  aveva  in- 
segnato  egli  stesso  il  latino  a  sua  figlia,  prendeva  lezioni  d'italiano 
in  presenza  di  lei  dopo  aver  fatto  colazione  insieme.  Anche  ne?  col- 
legi  i  giovanetti  sono  sempre  trattati  da  eguali  dai  loro  superiori, 
e  stimati  e  trattati  da  uomini.  II  frutto  di  questa  ragionevolissima 
etichetta  e,  che  Finglese  (forse  nato  con  facolta  non  cosi  pronte 

i.  madame  de  Lotenville:  madame  de  Sotenville,  corne  veramente  deve  scri- 
versi,  e  personaggio  assai  noto  della  commedia  George  Dandin  di  Moliere. 


OSSERVAZIONI    DI   UN  ESULE   SULL'INGHILTERRA       Il<) 

come  quelle  d'un  italiano)  diventa  uomo  piu  presto.  Non  brillano 
con  facezie,  non  sono  mai  prodighi  di  spirito,  ma  sono  sempre 
sensati  e  non  dicono  mai  scipitezze.  Non  sapranno  far  sonetti,  ma 
sanno  far  affari.  La  nazione  inglese  ha  ridotto  il  tempo  a  capitale; 
quindi  la  vita  di  un  uomo  e  un  capitale  piu  fruttifero  quanto  piu 
di  buon'ora  comincia  a  rendere. 

Quei  che  ammirano  o  deridono  la  freddezza  inglese  credono  che 
sia  effetto  del  clima  e  del  loro  temperamento.  Si  suol  dire  che  non 
hanno  sangue  nelle  vene.  Ma  non  avevan  sangue  nelle  vene  quando 
tanto  ne  sparsero  nelle  guerre  civili  della  Rosa  rossa  e  Rosa  bianca  I1 
Quando  sotto  il  regno  di  Maria2  perseguitarono  e  incrudelirono 
contro  tante  migliaia  di  loro  concittadini  per  dispute  teologiche  ?  E 
quando  nella  guerra  tra  il  parlamento  e  Carlo  I3  per  piu  anni  segui- 
tarono  a  trucidarsi  con  proscrizioni,  con  patiboli,  con  battaglie? 
Se  gl'inglesi  de'  nostri  giorni  sono  tanto  tranquilli  e  freddi  da  pa- 
rerci  uomini  di  ghiaccio,  forse  e  perche  sono  pentiti  di  quelle  loro 
antiche  pazzie,  fors'anche  perche  non  hanno  occasione  da  riscal- 
darsi,  ma  il  piu  probabile  si  e  che  la  loro  educazione  comprime  in 
loro  quei  fuochi  fatui  che  noi  crediamo  sempre  segnali  di  volcani, 
e  spesso  all'atto  poi  c'ingannano.  Fatto  si  e  che  nella  loro  educa 
zione  la  loro  anima  non  e  mai  disturbata  da  passioni 

venti  contrarii  alia  vita  serena.4 

Non  v'e  Fuso  delle  beffe,  e  delle  satire  nelle  famiglie,  che  tanto 
esaspera  gli  animi  dei  fanciulli.  La  madre  evita  tutte  le  occasioni 
di  eccitare  lo  sdegno  de?  suoi  figli;  se  mai  essi  s'infuriano,  s'acci- 
gliano,  essa  tosto  con  un  vezzo  li  disarma,  o  li  prega  in  tuono  au- 
torevole  di  non  andar  in  collera.  Non  andate  in  collera  ed  otterrete 
tutto.  -  Questo  e  il  firmano5  che  le  madri  pubblicano  ad  ogni 

i.  guerre. .  .bianca:  la  guerra  civile,  per  motivi  dinastici,  tra  le  famiglie 
di  Lancaster  e  di  York,  e  i  loro  seguaci,  si  svolse  dal  1455  al  1485  e  fu 
sanguinosissima.  Fu  detta  delle  «due  rose»  dalle  insegne  nobiliari  delle 
due  famiglie:  una  rosa  bianca  i  Lancaster,  una  rossa  gli  York.  2.  il  re 
gno  di  Maria:  Maria  Tudor,  figlia  di  Enrico  VIII  e  di  Caterina  d'Arago- 
na,  regn6  dal  1553  al  1558.  Educata  al  piu  fervido  cattolicesimo,  tent6 
di  imporre  la  sua  fede  nello  Stato  e  vers6  in  questa  lotta  molto  sangue. 
3.  guerra.. .  Carlo  I:  Carlo  I,  figlio  di  Giacomo  I,  regnc-  dal  1625  al  1648. 
II  suo  tentative  di  imporsi  al  Parlamento  provoc6  una  guerra  civile  (1642- 
1646),  che  fini  con  la  sua  decapitazione  (30  gennaio  1649).  4.  Petrarca, 
Rime,  cxxvin,  105.  5.  firmano:  decreto,  editto  (dal  persiano  firman). 


120  GIUSEPPE   PECCHIO 

momento  nel  loro  impero.  L'esser  padroni  di  se  -  to  Keep  the 
temper  -  e  una  tal  legge  d'educazione  che  pare  quasi  divenuta  una 
legge  fondamentale  dello  stato.  Non  e  permesso  1'escir  de*  gan- 
gheri  (come  i  toscani  ben  esprimono)  neppur  co'  servi,  neppur  col 
piu  fangoso  facchino.  Un  risentimento  grave  espresso  in  decorose 
parole  e  la  divisa  del  gentiluomo  in  Inghilterra.  Nel  parlamento 
stesso  quegli  oratori  che  non  sanno  frenarsi,  sono  generalmente 
biasimati,  e  giudicati  inetti  al  maneggio  dei  grandi  affari.  Un  duello 
fatto  precipitosamente  e  stimato  tanto  ignominioso  quanto  un  duel 
lo  codardamente  ricusato.  II  sig.  Hamilton  Rowan  (padre  del  Co- 
modoro  Hamilton)  credette  due  anni  sono  di  essere  stato  offeso 
nel  disco rso  pronunziato  da  un  membro  in  parlamento.  Sebbene 
carico  di  75  anni,  parte  immediatamente  da  Dublino  per  doman- 
dare  uno  schiarimento  a  Londra  alPoratore.  Segue  un  carteggio; 
le  due  parti  scelgono  ciascuna  un  amico  per  decidere  la  cosa;  il 
sig.  Hamilton  non  sapeva  rinvenire  Tinsulto,  e  non  sapeva  d'altron- 
de  ritirarsi.  Alia  fine  sottomette  il  caso  a  un  antico  giudice,  e  uomo 
delicato  negli  affari  d'onore.  Tosto  che  questi  ebbe  profferito  che 
se  avesse  insistito  di  piu  avrebbe  avuto  il  torto,  e  la  disapprovazione 
de'  suoi  amici,  il  coraggioso  vecchio  se  ne  ritorn6  a  Dublino  a  con- 
tinuare  i  suoi  lavori  nelle  belle  arti.  Se  per6  esiste  Poffesa,  il  duello 
diventa  legittimo  ed  inevitabile :  cosi  accadde  molti  anni  sono  quan- 
do  il  duca  d'York,  fratello  del  re,  a  una  rivista  diresse  un  troppo 
pungente  rimprovero  a  un  colonnello.  II  colonnello  prima  di  chie- 
dere  soddisfazione  al  principe  interpello  i  suoi  ufficiali  se  lo  crede- 
vano  ingiuriato.  Avendo  questi  risposto  di  si,  mand6  la  sfida,  e  il 
duello  si  effettu6. 

Non  e  gia  Teducazione  inglese  simile  al  sistema  di  Pitagora  che 
con  cinque  anni  di  continue  silenzio  e  col  solo  vitto  di  vegetabili 
rendeva  i  suoi  discepoli  altrettanti  frati  della  Trappa.1  Non  e  nep 
pur  simile  allo  stoicismo,  secondo  il  quale,  in  mezzo  alle  ruine  del 
mondo,  Tuomo  doveva  conservarsi  imperturbabile  come  una  statua. 
L'educazione  inglese  e  un  sistema  inglese  che  non  si  somiglia  a 
null'altro,  nato  in  Inghilterra,  prodotto  da  molte  circostanze,  forse 
dall' essere  una  nazione  commerciale  e  guerriera  ad  un  tempo,  che 
comprime  le  passioni  nelle  cose  frivole,  e  lascia  loro  la  briglia  nelle 

i.  frati  della  Trappa:  i  trappisti  appartengono  a  un  ordine  che,  soppresso 
con  la  Rivoluzione  francese,  fu  ricostituito  con  la  Restaurazione.  La  regola 
esige  il  silenzio,  un  vitto  di  pane  e  vegetali,  un  assiduo  pensiero  della  morte. 


OSSERVAZIONI   DI   UN    ESULE    SULL'INGHILTERRA        121 

rilevanti.  In  famiglia,  nel  tratto  socievole,  nella  discussione  degli 
affari,  vuole  calma,  freddezza,  ponderazione.  Nelle  grandi  intra- 
prese,  nella  guerra,  nei  pericoli  della  patria,  vuole  coraggio  ed  en- 
tusiasmo.  Quello  stesso  inglese  che  a  stento  risponde  al  vostro  sa- 
luto,  e  che  siede  a  tavola  con  voi  come  un  Pagoda,1  lo  vedreste  in 
un  giorno  di  combattimento  in  mare,  o  in  tempo  di  un'elezione 
parlamentaria,  spiegare  il  piu  sfrenato  entusiasmo.  Qual'e  quel- 
Timpresa  dove  ci  sia  d'acquistar  gloria  ove  Tinglese  non  si  getti  a 
capo  chino  (headlong)  ?  Mungo  Park2  s'interna  solo  nei  deserti  del- 
P  Africa;  non  atterrito  dalle  sciagure  del  primo  viaggio,  ritenta  il 
secondo,  e  perisce.  II  capitano  Cokrane3  ritorna  a  piedi  da  Kamst- 
ska  a  Pietroburgo  per  sei  mila  miglia,  solo  soletto  come  fosse  una 
passeggiata  dell'Hyde  Park;  indi  va  in  America  per  fare  un'altra 
passeggiata  attraverso  le  Cordiliere,  e  vi  muore.  Lord  Byron  ab- 
bandona  il  caro  ozio  delle  Muse,  il  sorriso  ancor  piu  caro  delle  belle 
italiane,  per  morire  in  suolo  straniero  in  difesa  della  liberta  stra- 
niera.4  Lord  Cokrane5  dopo  aver  combattuto  nell'Atlantico  e  nel 
Pacifico  per  1'Indipendenza  dei  nuovi  Stati  d' America,  vola  nel- 
FArcipelago  a  dividere  la  gloria  con  un  pugno  di  Greci  che  lottano 
da  sei  anni  col  mostruoso  impero  che  gli  opprime.  Leggete  la  vita 
di  sir  Robert  Wilson6  e  vedrete  quanti  pericoli  volontariamente  ha 
corsi  in  favore  sempre  degli  oppressi,  o  fossero  re  (in  seguito  in- 
grati),  o  popoli  (poco  grati),  o  semplici  individui  (ingratissimi).  Eb- 
bene;  tutti  costoro  che  mostrarono  un  fanatismo  da  cavalieri  er- 


i.  un  Pagoda',  si  chiamano  cosi,  oltre  che  i  templi  indiani  e  cinesi,  anche 
gl'idoli  che  vi  sono  adorati.  2.  Mungo  Park,  celebre  viaggiatore  inglese, 
si  rec6  in  Africa  sulle  sponde  del  Niger  nel  1795,  e  poi,  tomato  in  pa 
tria  e  pubblicata  una  relazione  del  suo  viaggio,  rinnovo  la  sua  impresa 
(1805)  per  scoprire  le  sorgenti  dello  stesso  fiume.  Solo  nel  1810  si  seppe 
che  era  stato  trucidato  con  i  suoi  compagni.  3.  //  capitano  Cokrane:  John 
Cochrane,  esploratore  inglese  (1780-1825).  Nel  1820  cerc6  di  raggiungere 
1' America  del  Nord  attraverso  1'Asia  e  lo  stretto  di  Bering,  ma,  per  le  diffi- 
colta  incontrate,  si  fermd  (1821)  a  Kamtschatka,  donde  torno  a  Pietroburgo 
a  piedi:  e  narr6  in  un  libro  questa  sua  impresa.  Si  stabili  poi  nell' America 
del  Sud,  in  Columbia,  dove  mori.  4.  per  morire  .  .  .  straniera:  e  noto  che 
Byron  mori  (1824)  in  Grecia,  a  Missolungi,  dove  si  era  recato  per  com- 
battere  insieme  con  i  Greci  insorti.  5.  Lord  Cokrane:  Thomas  Cochrane 
(1775-1860),  ammiraglio  inglese,  combatte  a  lungo  nell' America  meridio- 
nale,  in  aiuto  del  Peru  e  del  Cile.  Nel  1827,  proprio  mentre  il  Pecchio 
componeva  queste  pagine,  parti  per  la  Grecia  a  combattere  in  favore  degli 
insorti,  ma  negli  anni  successivi  ebbe  varie  traversie  in  conseguenza  del  suo 
stesso  carattere.  6.  Robert  Wilson:  vedi  la  nota  i  a  p.  86. 


122  GIUSEPPE   PECCHIO 

ranti,  nella  vita  sociale  non  si  sarebbero  resi  colpevoli  di  un  atto 
d'impazienza,  neppur  con  un  servo. 

Pare  che  Rousseau  avesse  tolte  dagP  Inglesi,  in  mezzo  a  cui  visse 
qualche  tempo,  le  idee  principali  dell'educazione  fisica  del  suo 
Emilia.1  La  ginnastica  degPInglesi  e  quasi  tutta  applicata  a  cose 
utili.  In  quella  guisa  ch'essi  non  studiano  il  diritto  pubblico  e  lo 
stile  lapidario,  perche  li  credono  studi  inutili,  non  imparano  la 
scherma,  n6  il  salto  mortale,  ne  i  capitomboli  dei  grotteschi,  ne*  le 
capriole  dei  ballerini;  ma  invece  imparano  a  correre  a  briglia  sciolta 
a  cavallo,  a  saltar  siepi  e  fosse,  a  nuotare,  a  saltare  a  piedi  giunti,  ad 
arrampicarsi  su  gli  alberi.  Noi  impariamo  con  tanta  fatica  la  scher 
ma,  tanto  inutile,  se  non  per  chi  vuole  uccidere  o  essere  ucciso  in 
regola.  In  guerra  pure  e  di  poco  vantaggio.  GPInglesi  invece  im 
parano  a  boxer  che  (ridasi  pur  quanto  si  vuole)  e  utile  ad  ogni  mo- 
mento  della  vita.  Noi  siamo  destri  nel  bigliardo,  destrezza  di  nessun 
applicazione  nella  vita,  simile  a  un  dipresso  al  giuoco  delle  palle 
degPIndiani.  GPInglesi  invece  dalPinfanzia  sino  alia  vecchiaia  sono 
awezzi  a  giuocare  al  criket,  giuoco  alParia  libera  che  richiede  forza, 
destrezza,  velocita  e  qualche  po'  d'intrepidezza  nelPaspettar  la  pe- 
sante  palla  che  Pavversario  lancia  a  tutta  forza  contro  alcuni  stecchi 
di  legno  che  Paltro  ribatte  con  una  specie  di  clava.  La  caccia  della 
volpe,  quella  del  fucile,  le  corse  a  cavallo,  il  nuoto,  il  remigare,  il 
guidare  un  cocchio,  il  criket,  lo  sdrucciolare  sul  ghiaccio  (patiner) 
sono  esercizi  che  tengono  in  continue  moto  quasi  tutte  le  eta.  Si- 
mili  ai  Greci,  gPInglesi  credono  che  la  ginnastica  non  disconvenga 
ne  a  nessuna  eta,  n£  a  nessuna  professione.  Alia  caccia,  al  criket  e 
allo  sdrucciolar  sul  ghiaccio  mi  sono  trovato  piu  volte  con  fanciulli, 
preti  e  uomini  in  eta  avanzata,  tutti  misti  insieme.  In  tutti  questi 
esercizi  la  mira  non  e  di  abbellire  ma  di  fortificare,  to  steel,  cioe, 
dare  una  tempra  d'acciaio  al  corpo.  Per  esempio  alia  caccia  della 
volpe  a  cavallo,  pochi  Tartari  sarebbero  capaci  di  sopportare  la  fa 
tica  che  alcune  volte  soffrono  con  ilarita  i  giovani  inglesi.  II  primo 
giorno  del  corrente  anno  (1828)  vi  fu  una  caccia  vicino  a  York  in 
cui  i  cavalieri  inseguendo  un'astutissima  volpe  scorsero  52  miglia  in 
sei  ore  e  mezza,  e  non  fecero  alto  che  una  sola  ,volta  per  10  minuti. 

i.  Pare  .  .  .  Emilio:  Rousseau  si  rec6  in  Inghilterra,  accettando  Tinvito  e 
1'ospitalita  di  Hume,  nel  1765,  quando  gi£  aveva  pubblicato  Vfimile  (1762). 
Ci6  non  toglie  che  egli  abbia  potuto  trarre  dagli  Inglesi,  ad  esempio  da 
Locke,  qualche  idea  sull'educazione  fisica. 


OSSERVAZIONI   DI   UN   ESULE    SULL'INGHILTERRA        12$ 

Nessuno  spaventa  mai  i  ragazzi  coll'idea  de'  pericoli.  Gli  Spar- 
tani  dicevano,  quando  gettavano  nel  burrone  i  figli  nati  storpi, 
ch'e  meglio  che  un  figlio  muoia,  di  quel  che  cresca  un  cittadino 
inutile  alia  patria.  Quando  gPInglesi  lasciano  scivolar  sui  fiumi  ap- 
pena  agghiacciati  i  loro  figli,  pare  che  anch'essi  molto  saviamente 
giudichino  ch'e  meglio  correre  il  pericolo  di  perdere  il  figlio  per 
un  infelice  accidente,  che  d'aver  un  pusillanime  e  tremebondo  per 
tutta  la  vita.  Non  ammollito  quindi  da  soverchie  carezze,  non  at- 
territo  da  irati  sopraccigli,  o  da  tuonanti  minacce,  il  fanciullo  in- 
glese  e  libero  ne'  suoi  movimenti,  si  siede  per  terra,  balza  in  piedi 
a  sua  voglia,  si  sdraia  sul  sofa  o  sulFerba;  purche  non  turbi  la  pace 
degli  altri,  egli  puo  fare  ogni  suo  innocente  capriccio.  In  questo 
modo  fa  continue  esperienze  da  s6,  si  abitua  ad  osservare,  a  giudi- 
care  da  se,  paragona  i  suoi  mezzi  colle  difficolta  da  vincersi,  scan- 
daglia  i  pericoli,  e  acquista  vigore  e  confidenza  nelle  proprie  forze. 
All' eta  di  sei  o  sette  anni  il  fanciullo  e  gia  capace  di  andare  da  solo 
a  scuola  per  le  afTollate  strade  di  Londra,  in  quel  trambusto  di 
carri,  carrozze  e  cavalli.  6  pero  vero  che  gl'inviolabili  e  inviolati  mar- 
ciapiedi  di  tutte  le  citta  inglesi  sono  una  specie  di  guida  pei  ragazzi. 
Nondimeno  essendo  rarissimi  gli  sfortunati  accident!  di  alcun  di 
loro  pesto  od  offeso  dalle  carrozze,  la  giustizia  vuole  che  non  sieno 
defraudati  del  merito  del  precoce  loro  buon  senso.  La  paura  natu- 
rale  all'uomo  e  gia  un  mentore  sufficiente  contro  i  pericoli,  senz'ac- 
crescerla  con  un'eccessiva  timida  previdenza.  Mi  ricordo  (e  con 
sospiro  me  ne  ricordo)  di  aver  veduto  sul  lago  di  Como  parimenti  i 
fanciulli  dei  pescatori  o  dei  montanari,  abbandonati  in  balia  di  se 
stessi,  scherzare  in  riva  del  lago,  commettersi  in  piccioli  battelli  al 
capriccio  delFonde,  giuocare  sull'orlo  dei  pozzi,  arrampicarsi  su 
precipizi,  pendere  come  camozze  da  altissime  rocche,  senza  mai  ca- 
dere  o  farsi  male.  Ed  e  uopo  anche  confessare  che  le  popolazioni  de' 
nostri  laghi  sono  le  piu  dotate  di  coraggio  e  di  talento.  Tutti  i  fan 
ciulli  in  quest'isola  sanno  cavalcare,  perche  sin  dalla  piu  tenera  eta 
vi  sono  awezzi.  Nessuno  gli  accompagna.  Vanno,  girano,  vagano 
da  se,  trattano  il  loro  pony1  come  un  compagno ;  lo  nutrono,  lo  pu- 
liscono  essi  stessi,  lo  lasciano  riposare  a  tempo;  non  abusano  dell  a 
sua  docilita,  perche  e  il  commilitone  delle  loro  awenture.  Leggasi 


i.«Razza  di  cavallini   docili  e  forti  ch'e  molto  coltivata  in  Inghilterra» 
(nota  del  Pecchio). 


124  GIUSEPPE    PECCHIO 

a  questo  proposito  la  graziosa  novelletta  di  Light-food  di  miss 
Edgeworth.1 

La  liberta  e  la  maestra  d'ogni  cosa  in  Inghilterra.  Ad  imitazione 
del  governo  che  pubblica  ordini  e  leggi  meno  che  puo,  cosi  non  vi 
sono  che  pochi  e  indispensabili  legami  in  ogni  cosa,  Gli  alberi  non 
sono  storpiati,  ne  contorti,  ne  recisi  da  forbici,  ma  crescono  rigo- 
gliosi,  fronzuti  a  loro  voglia  ne'  parchi  e  nelle  campagne;  i  giardini 
non  sono  simmetrizzati,  ma  imitano  la  natura;  le  case  non  sono  ar- 
chitettate  ne  simmetrizzate  di  soverchio  a  dispendio  de'  comodi 
interni,  ma  sono  ora  corpulente,  ora  in  isghembo,  ma  sempre  ben 
divise  e  comode  nell'interno.  I  cavalli  non  sono  irritati,  o  storpiati 
con  esercizi  inutili  e  movimenti  mimici,  ma  sono  forti,  nerboruti 
e  velocissimi.  Qui  in  somma  1'educazione  e  piuttosto  una  norma, 
una  guida,  che  una  violenta  compressione.  II  popolo  inglese  e 
il  popolo  incivilito  che  meno  si  scosta  dalla  natura. 


i.  Maria  Edgeworth  (1767-1849),  scrittrice  anglo-irlandese,  autrice  di  rac- 
conti  di  vita  irlandese  (Belinda,  1801;  Leonora,  1806)  e  di  narrazioni  mo- 
rali  per  fanciulli.  I  suoi  scritti  influirono  in  Italia  su  Pietro  Thouar  e  Bianca 
Milesi. 


LEONETTO  CIPRIANI 


PROFILO  BIOGRAFICO 

JLEONETTO  CIPRIANI  nacque  a  Ortinola,  una  frazione  di  Centuri, 
in  Corsica,  il  10  ottobre  1812.  La  famiglia,  oriunda  di  Firenze, 
mescolata  nel  Medioevo  alle  lotte  comunali,  e  percio  varie  volte 
esiliata  come  ghibellina,  si  era  poi  rifugiata  -  almeno  il  ramo  che 
piu  ci  interessa  -  dalla  Toscana  in  Corsica  nel  1427,  fissandosi 
precisamente  ad  Ortinola.  Da  secoli  si  occupava  di  commerci,  e  lo 
stesso  padre  di  Leonetto,  Matteo  Cipriani,  aveva  forti  interessi 
in  America,  a  Trinita,  dove  si  era  varie  volte  recato.  La  prima  in- 
fanzia  di  Leonetto  si  svolse  in  Corsica,  ma,  stabilitosi  il  padre  a 
Livorno,  la  famiglia  lo  raggiunse  nel  1822.  Dopo  due  anni,  Leo 
netto  fu  posto  col  fratello  Pietro  nel  collegio  di  Santa  Caterina  a 
Pisa,  per  farvi  i  suoi  studi;  ma  ben  poco  vi  imparo  e,  ribelle  e  vio- 
lento,  si  fece  cacciare  clamorosamente  dopo  soli  quattro  anni  (1828). 
Da  allora  non  ebbe  piu  un  regolare  insegnamento,  e  perci6  quel 
che  apprese  fu  conquista  da  autodidatta,  anche  se  per  alcun  tempo 
frequento  poi  (1834-1835),  come  libero  uditore,  senza  affrontare 
esami,  alcune  lezioni  delPUniversita  di  Pisa,  specialmente  di  scienze 
naturali  e  di  medicina.  La  sua  formazione  non  venne,  dunque, 
dai  libri,  ma  dalle  sue  intense  e  molteplici  esperienze  di  vita:  e 
ci6  spiega  il  forte  rilievo  della  sua  personalita  e  il  colorito  vivace 
delle  sue  pagine,  come  anche  certe  sue  strane  sordita  e  Tirregolare 
architettura  del  suo  stile. 

Giovanissimo,  nel  1830,  partecipo  con  uno  zio  alia  spedizione 
francese  di  Algeri,  mostrando  audacie  da  guerriero  in  germe,  ma 
anche  un  precoce  ardore  passionale;  che,  tornando  a  Livorno, 
port6  con  se  una  giovinetta  tratta  fuori  dalPharem  del  Dey,  e  fu 
si  preso  da  questo  suo  primo  romanzo  d'amore  che  la  giovane  donna 
si  uccise,  ed  egli  fu  a  lungo  malato  e  vicino  a  morire.  Appena  gua- 
rito,  il  padre  lo  invi6  in  America  (1831),  a  Trinita;  e  di  li,  fra  molte 
plici  awenture,  Leonetto  visito  gran  parte  delle  zone  centrali  del 
continente  americano,  risalendo  poi,  lungo  il  Mississippi,  fino  a 
Washington,  a  Baltimora,  a  Nuova  York,  donde  si  imbarco,  il 
i°  maggio  del  1834,  per  tornare  a  Livorno,  che  raggiunse  nel  lu- 
glio  del  1834,  dopo  aver  visitato  Parigi,  il  Belgio  e  TOlanda.  Fu 
questo  il  suo  primo  viaggio  in  America,  cui  ne  seguirono  altri 
sei,  con  dimore,  varie  volte,  di  parecchi  anni,  tra  esperienze  sem- 


128  LEONETTO    CIPRIANI 

pre  piu  complesse  e  awenture  spesso  straordinarie.  E  gia  nel  set- 
tembre  del  1835,  dopo  breve  dimora  a  Livorno,  egli  ripartiva  per 
Tisola  di  Trinita,  per  risolvere  senza  danno,  nei  possessi  del  pa 
dre,  Pemancipazione  degli  schiavi,  voluta  dalla  nuova  legge  in- 
glese  (1834)  e  sempre  piu  vivamente  sostenuta  dalPopinione  pub- 
blica.  Fu  questo  un  breve  viaggio,  che  Leonetto  torno  presto  a 
Livorno  (maggio  1836)  e  per  lungo  tempo  (fino  al  1851)  non  si 
mosse  dair  Italia,  trattenuto  dapprima  dalla  morte  del  padre 
(16  aprile  1837)  e  dalla  propria  nomina  a  tutore  della  famiglia,  e 
successivamente  dagli  eventi  politici  ai  quali  partecip6  con  Pim- 
peto  che  era  proprio  del  suo  carattere. 

Negli  anni  immediatamente  anteriori  all'elezione  di  Pio  IX, 
due  importanti  esperienze  influirono  nell'orientare  Patteggiamento 
politico  del  Cipriani.  Anzitutto  il  contatto,  che  divenne  presto  ami- 
cizia,  con  la  famiglia  Bonaparte,  e  particolarmente  con  Tex  re 
Girolamo  e  il  di  lui  figlio  principe  Napoleone.  Questa  amicizia 
avvi6  il  Cipriani  verso  posizioni  decisamente  monarchiche,  an- 
che  nei  confront!  del  problema  italiano.  Contemporaneamente,  le 
difficolta  creategli  da  alcuni  elementi  mazziniani,  ai  quali  si  era 
legato  suo  fratello  Alessandro,  e  i  colloqui  da  lui  avuti  in  tale  occa- 
sione,  lo  resero  aspramente  avverso  e  intollerante  di  fronte  alia 
corrente  repubblicana  e  gli  fecero  giudicare  il  Mazzini  come  il 
maggiore  nemico  del  nostro  Risorgimento.  II  Cipriani  non  riusci 
mai  a  riesaminare  questa  sua  posizione,  non  dico  per  schierarsi 
con  i  mazziniani,  il  che  sarebbe  stato  impossibile  per  il  suo  tempe- 
ramento  e  le  sue  convinzioni,  ma  almeno  per  considerare  con  mag 
giore  obbiettivita  il  pensiero  e  Pazione  del  Mazzini. 

I  primi  veri  interventi  del  Cipriani  nella  politica  ebbero  inizio 
subito  dopo  1'elezione  di  Pio  IX,  con  un  suo  viaggio  a  Roma  e  vari 
colloqui  con  alcuni  cardinali.  Di  questi  colloqui  egli  da  un  reso- 
conto  abbastanza  ampio  nelle  sue  «memorie»,  ma  le  idee  che  egli 
attribuisce  ai  prelati  con  i  quali  si  svolsero  i  suoi  incontri  sono,  in 
realta,  poco  credibili:  n6  dovettero  sembrare  possibili  allo  stesso 
Carlo  Alberto,  dal  quale  il  Cipriani  si  rec6,  subito  dopo,  a  riferire, 
a  Torino.  Promulgate  le  costituzioni  e  scoppiata  la  guerra,  egli, 
che  era  gia  tomato  in  Toscana,  si  diede  da  fare  perche  Leopoldo  II 
lasciasse  partire  i  volontari;  si  uni  ad  essi,  combatte  valorosamente 
a  Curtatone,  e  divenne  poi  prigioniero  degli  Austriaci,  per  un'errata 
missione  affidatagli  dal  comandante  De  Laugier  dopo  la  battaglia. 


PROFILO    BIOGRAFICO  I2Q 

Concluso  1'armistizio,  il  Cipriani  torn6  in  Toscana,  rifiut6  di  assu- 
mere  il  dicastero  della  guerra  nel  mmistero  Capponi,  e  venne  poco 
dopo  inviato  a  Livorno  (15  agosto  1848),  a  sedarne  la  rivoluzione, 
con  la  carica  di  colonnello  di  stato  maggiore.  Fu  questa  una  mis- 
sione  sfortunata,  che  ebbe  poi  un  lungo  strascico  di  polemiche. 
II  Cipriani  non  riusci  a  piegare  gli  insorti  e  dove  abbandonare  la 
citta,  ormai  totalmente  dominata  dagli  elementi  mazziniani.  Un 
episodic,  questo,  che  accentub  il  suo  odio  per  i  repubblicani  e  lo 
volse  sempre  piu  verso  una  soluzione  monarchica.  Nei  mesi  suc- 
cessivi  fu  inviato  dal  governo  toscano  a  Torino,  perche  Carlo  Al 
berto  intervenisse  a  Livorno;  a  Parigi,  poi,  per  acquistarvi  delle 
artiglierie.  E  a  Parigi  rimase,  sia  pure  senza  veste  ufficiale,  dopo  che 
il  Guerrazzi  successe  al  Capponi  nel  governo  della  Toscana.  Da 
allora  si  inizio  quell'opera  che  forse  fu  la  piu  importante  tra  quelle 
svolte  dal  Cipriani:  perche,  eletto  Luigi  Napoleone  presidente 
della  repubblica  francese,  egli  awi6,  con  alcune  gite  fra  Torino  e 
Parigi,  quella  politica  di  awicinamento  tra  il  Piemonte  e  il  Bona 
parte  che  doveva  dare  poi  i  suoi  frutti,  per  merito  di  ben  piu  abili 
uomini,  dieci  anni  dopo.  Si  pu6  dire  che  da  questo  tempo  il  Ci 
priani  non  si  considero  piu  suddito  della  Toscana,  ma  totalmente 
alle  dipendenze  della  dinastia  di  Savoia.  Alia  ripresa  della  guerra 
entro  a  far  parte  delPesercito  piemontese,  come  addetto  allo  stato 
maggiore  del  generale  Bes,  combatte  alia  Sforzesca,  vide  la  scon- 
fitta  di  Novara,  soffri  dell'abdicazione  di  Carlo  Alberto. 

Tomato  in  Toscana,  si  rinchiuse  nella  piu  sdegnosa  solitudine, 
che  la  situazione  italiana  e  la  presenza  degli  Austriaci  nel  Grandu- 
cato  gli  parvero  intollerabili  e  tali  da  lasciare  poca  speranza  di  un 
migliore  futuro.  Invio  allora  al  granduca  le  sue  dimissioni  da  colon 
nello  di  stato  maggiore,  e  si  occupo  unicamente  degli  interessi  della 
propria  famiglia:  ai  quali  aggiunse  una  curiosa  attivita  archeolo- 
gica,  tutto  preso  da  certi  scavi  che  voile  fare  in  un  suo  possesso 
a  Cecina.  Non  bastandogli  queste  occupazioni,  progett6  allora  un 
viaggio  in  California,  che  fu  certamente  il  piu  importante  dei  tanti 
da  lui  fatti  in  America.  Parti  da  Le  Havre  il  19  novembre  del  1851, 
giunse  a  New  York,  vi  si  imbarc6  per  1'istmo  di  Panama,  risali 
di  li  a  San  Francisco  e  vi  si  insedio  come  console  sardo,  rizzando 
quella  ardimentosa  casa  smontabile  che  lo  aveva  intanto  raggiunto 
dallTtalia  con  alcuni  compagni  e  numeroso  bagaglio.  Poi,  da 
San  Francisco,  messa  insieme  una  vera  e  propria  carovana,  con  un 


130  LEONETTO    CIPRIANI 

migliaio  di  buoi,  vacche  e  cavalli,  traverse  (1853)  ^  continente  ame- 
ricano  da  Westport  al  South  Pass  e  di  11  al  Lago  Salato  e  al  frame 
Humboldt,  superando  non  poche  difficolta,  tra  1'orrido  della  na- 
tura  e  le  minacce  delle  tribu  indiane  in  rivolta. 

Tre  anni  e  pm  rimase  in  America,  che  solo  il  27  maggio  del  1855 
sbarcava  a  Liverpool.  Subito  corse  a  Parigi,  fissandovi  la  propria 
dimora:  aH'ombra  dei  Bonaparte,  ma  non  dimentico  dell' Italia. 
NelPottobre  del  1855,  infatti,  si  recava  a  Pollenzo  per  un  impor- 
tante  colloquio  col  re  Vittorio  Emanuele,  e  si  impegnava  con  tutto 
il  suo  zelo  per  quel  matrimonio  tra  il  principe  Napoleone  e  la  prin- 
cipessa  Clotilde,  che  fu  considerate  tra  i  piu  forti  vincoli  che  avreb- 
bero  dovuto  legare  la  dinastia  francese  alia  piemontese.  Ma  quando 
si  inizi6  la  guerra  del  '59,  Leonetto  era  di  nuovo  in  America,  da 
pochi  mesi:  richiamato  in  Europa  dal  principe  Napoleone,  sposo 
in  fretta  Maria  Worthington  (che  mod  nel  1860,  senza  che  egli  la 
rivedesse),  e  torn6  subito  a  Parigi:  tanto  fascino  esercitava  su  lui 
la  speranza  di  veder  libera  1' Italia.  II  22  giugno  era  gia  a  Torino 
ed  entrava  a  far  parte  dello  stato  maggiore  di  Napoleone:  certo, 
ubbidendo  alle  sue  sirnpatie  per  i  Bonaparte,  ma  anche  convinto  di 
potere,  con  tale  carica,  giovare  meglio  alia  causa  italiana.  Dopo 
Villafranca,  infatti,  si  dimise  da  quell'ufficio  e  accetto  la  nomina 
(16  agosto  1859)  agovernatore  della  Romagna:  incarico  che  dopo 
tre  mesi,  nei  primi  di  novembre,  egli  lasciava,  sostituito  dal  Fa- 
rini.  Anche  allora  la  sua  opera  fu  molto  discussa:  le  accuse  fattegli 
erano  certo  ingiuste,  e  perfetta  la  sua  buona  fede  e  yivissimo  il  suo 
zelo :  ma  e  anche  veto  che  egli  non  fu  mai  un  politico,  ed  era  nato 
soltanto  per  1'azione,  Suo  massimo  desiderio  fu,  allora,  di  ottenere 
un  riconoscimento  di  ci6  che  aveva  fatto  per  1' Italia:  quella  lettera 
di  elogio,  inviatagli  da  Vittorio  Emanuele  (29  aprile  1860),  che  egli 
consider6  come  la  massima  onorificenza  da  lui  ottenuta,  e  che  poi, 
nel  suo  testamento,  chiese  fosse  letta  in  senato  quale  unica  comme- 
morazione  alia  sua  morte. 

In  realta,  dopo  il  1859,  ^  Cipriani  rimase  lontano  dalle  successive 
vicende  del  nostro  Risorgimento.  Gia  nel  luglio  del  1860  ripartiva 
per  la  California,  e  non  ne  tornava  che  nel  1864;  di  nuovo  era  in 
America  nel  1866,  e  ancora,  per  un  ultimo  viaggio,  nel  1871.  Ma 
gia  negli  intervalli  tra  questi  viaggi  egli  aveva  fissata  la  sua  dimora 
a  Centuri,  nonostante  gli  onori  che  gli  erano  stati  tributati  dalF  Ita 
lia,  con  la  nomina  a  conte,  senatore  (1865),  gran  croce  dei  santi  Mau- 


PROFILO    BIOGRAFICO  13! 

rizio  e  Lazzaro,  generale  onorario.  Troppo  lo  avevano  amareggiato 
i  dissidi  tra  Francia  e  Italia,  che  egli  sentiva  entrambe  care  al  suo 
animo,  pur  essendo  e  considerandosi  cittadino  italiano.  E  a  Cen- 
turi  si  ritir6  definitivamente  dopo  il  1871,  intento  a  curare  il  pro- 
prio  patrimonio  e  occupandosi  dei  figli,  uno  (Leonetto)  nato  dalle 
prime  nozze  in  America,  e  altri  cinque  da  un  successive  matrimo 
nio  in  Italia.  Finche  il  10  maggio  1888,  nella  sua  Corsica,  si  chiuse 
la  sua  awenturosa  esistenza. 

II  Cipriani,  durante  la  sua  vita,  scrisse  e  pubblico  solamente  una 
narrazione  dei  fatti  awenuti  a  Livorno  mentre  egli  vi  era  commis- 
sario :  un  opuscolo  che  non  sorgeva  certo  da  intenti  letterari,  ma 
voleva  essere  soltanto  una  difesa.  Le  «memorie»  che  egli  lascio 
manoscritte  e  che  apparvero  quasi  cinquant'anni  dopo  la  sua  morte, 
nel  1934,  per  cura  di  Leonardo  Mordini,  nacquero  anch'esse  senza 
fini  letterari,  soprattutto  dal  desiderio,  che  egli  ebbe  fortissimo, 
proprio  perche  si  sentiva  dimenticato,  di  lasciare,  almeno  ai  pro- 
pri  figli,  il  ricordo  di  quanto  aveva  fatto  per  T  Italia  e  di  quelle 
grandi  qualita  virili  che  egli  stesso  si  riconosceva.  Ma  questi  in 
tenti  furono  poi  vinti  e  travolti  dalla  passione  con  cui  risorgeva- 
no  dinanzi  alia  sua  memoria,  vivamente  coloriti,  episodi,  uomini, 
paesaggi.  Narra  lo  stesso  Cipriani  (vol.  II,  p.  21)  che,  tornato  in 
Toscana  dopo  Novara,  « nella  lunga  estate,  in  Piombino,  per  non 
stare  inoccupato  scrisse  una  parte  di  questi  racconti  [le  « memo- 
rie»],  e  particolarmente  i  fatti  piii  recenti  del  1848  e  1849)).  Ma  gli 
anni  veramente  dedicati  alia  stesura  delle  «  memorie  »  furono  quelli 
dal  1869  al  1876:  in  forma  distesa  per  il  periodo  che  arriva  fino  al 
1853,  in  brani  ancora  slegati,  e  a  volte  come  semplici  appunti, 
con  ampie  lacune,  per  quel  che  si  riferisce  agli  anni  successivi, 
non  oltre  Tultimo  viaggio  in  America.  II  Cipriani  scrive  in  terza 
persona,  fingendo  che  sia  un  immaginario  «  vecchio  mentore»  a  nar- 
rare  la  vita  di  Leonetto,  dopo  che  questi  era  morto:  e  il  racconto 
si  rivolge  al  primo  figlio  del  Cipriani,  che  si  chiamava  Leonetto 
come  il  padre.  Una  finzione  che  a  volte  riesce  d'impaccio  al  let- 
tore,  ma  che  pure  permette  spesso  allo  scrittore  di  esaltare  la  pro- 
pria  persona  senza  apparire  troppo  scopertamente  vanitoso. 

II  Cipriani  non  e  uno  scrittore  nel  senso  che  si  da  tradizional- 
mente  a  questa  parola:  troppi  vocaboli,  troppe  forme  sintattiche 
sono  lontani  dalla  proprieta  e  correttezza  che  si  vorrebbero,  ne  le 


132  LEONETTO    CIPRIANI 

pagine  si  sviluppano  in  una  misurata  linea  architettonica.  Solo  in 
parte  queste  deficienze  possono  attribuirsi  alia  mancata  revisione 
del  manoscritto  da  parte  sua:  piu  spesso  appare  evidente  che  egli 
si  muove  come  im  irregolare  e  un  ribelle,  ubbidendo  soprattutto 
a  se  stesso.  Ma  il  fascino  che  esercitano  le  sue  pagine,  anche  per  il 
loro  procedere  un  poj  capriccioso  e  arbitrario,  e  ugualmente  grande. 
Anzitutto,  per  il  rilievo  con  cui  vi  si  scolpisce  la  sua  personalita, 
asciutta  e  vigorosa  come  il  suo  stile;  egli  e  sempre  al  centro  d'ogni 
episodio,  domina  nella  Firenze  del  '48,  nella  battaglia  di  Curta- 
tone,  nella  rivolta  di  Livorno,  sullo  sfondo  delle  Montagne  rocciose 
d' America,  quasi  gli  eventi  e  i  paesi  divenissero  il  suo  piedestallo. 
GPindiani  stessi  non  vedono  che  lui,  lo  onorano  come  un  grande 
capo :  le  donne  poi  se  ne  innamorano  perdutamente  al  primo  incon- 
tro.  Non  ha  mai  un  momento  di  esitazione :  sicuro  di  se,  tagliente 
nei  giudizi,  certo  d'esser  nato  per  comandare.  Giustamente  il  Baldi- 
ni  (vedi  Tarticolo  citato  nella  bibliografia)  ha  sentito  in  lui  la  stoffa 
di  un  Cellini:  ridimensionato,  certo,  dalla  diversa  civilta  delF Otto- 
cento,  ma  non  meno  manesco  e  violento :  di  che  il  suo  stesso  stile 
diventa  una  prova,  cosi  drammatico  e  rapido,  senza  gli  abili  chiaro- 
scuri  di  tanti  suoi  contemporanei.  A  Livorno,  basta  che  egli  guardi 
una  vecchia  che  da  un  uscio  gli  ha  gridato  «  assassino » :  e  quella 
fugge  atterrita  per  le  scale,  e  si  spezza  una  gamba:  « impassibile 
nei  piu  grandi  pericoli,  acquistava  in  essi  una  lucidita  d'intelletto 
che  ne  faceva  un  uomo  eccezionale »  (vedi  qui  a  p.  218).  Basta  ri- 
pensarlo  scatenato,  in  lotta  con  maestri  e  compagni  in  collegio, 
«  come  Orlando  furioso  »,  o  altero  e  aggressive  dinanzi  a  Radetzky. 
Non  vi  e  dubbio  che  gli  storici  non  potrebbero  accogliere  senza 
ampi  ritocchi  e  spostamenti  le  sue  testimonialize.  Ma  quei  suoi 
personalissimi  quadri  del  Risorgimento  hanno  una  vitalita  che  si 
impone  al  disopra  dell'esattezza  storica.  I  volontari  toscani  e  Pat- 
mosfera  di  quei  tempi,  il  tono  un  po'  flaccido  e  casalingo  della 
vita  politica  del  granducato  di  Leopoldo  II,  dei  suoi  ministri  e  go- 
vernatori,  le  colorite  e  stravaganti  divise,  gPimpensabili  armamenti 
dei  piu  accesi  liberali,  la  stessa  variopinta  uniforme  inventata  per  se 
dal  Cipriani;  questi  e  tanti  altri  quadri  delPepoca  trascendono  con- 
tinuamente  il  documento  storico  e  divengono  il  «romanzo»  del 
Risorgimento,  per  il  mordente  stesso  della  narrazione.  Come  la  sua 
carovana  del  1853  in  America,  del  cui  viaggio  non  abbiamo  potuto 
riprodurre  che  solo  una  parte,  e  Tepopea  della  marcia  di  un  pio- 


PROFILO   BIOGRAFICO  133 

niere,  una  rude  leggenda  della  conquista  dell'Ovest,  da  aggiungere, 
scarna  e  vigorosa  quale  e,  alle  tante  di  cui  e  ricca  la  letteratura  ame- 
ricana.  Certo,  tra  questi  riconoscimenti  e  il  dire  che  le  «memorie» 
sono  un*  opera  di  primo  piano,  corre  un'enorme  differenza.  Ma  cio 
non  toglie  che  le  pagine  del  Cipriani  meritino  maggior  numero  di 
lettori  e  maggior  fortuna  di  quanto,  in  realta,  fmora  abbiano  avuto. 


Le  Avventure  della  mia  vita  apparvero  per  la  prima  volta,  ad  opera  e  con 
note  di  L.  Mordini,  in  2  volumi,  a  Bologna,  Zanichelli,  1934,  e  su  esse 
vedi  quanto  diciamo  nella  Nota  ai  testi,  in  fondo  al  presente  volume. 
Nel  1872  il  Cipriani  pubblico  a  Roma  un  opuscolo  Sul  risanamento  e  colo- 
nizzazione  delVagro  romano,  che  non  ho  visto,  ma  che  viene  qui  ricordato 
per  maggior  compiutezza  di  notizie. 

Per  la  vita  del  Cipriani,  oltre  quanto  si  ricava  direttamente  dalle  Avven 
ture,  si  veda  L.  FERRARI,  Onomasticon,  repertorio  biobibliografico  degli  scrit- 
tori  italiani  dal  1501  al  1850,  Milano,  Hoepli,  1947;  F.  PERA,  Quarta  serie 
di  nuove  biografie  livornesi,  Siena,  tip.  Pontif.  S.  Bernardino,  1906 ;  1'articolo 
di  L.  MORDINI,  in  M.  Rosi,  Dizionario  del  Risorgimento  nazionale,  Mi 
lano,  F.  Vallardi,  1930,  e  quello  di  M.  MENGHINI  nell'Enciclopedia  Ita- 
liana. 

Alia  pubblicazione  delle  Avventure  si  ebbero  varie  recensioni,  tra  le  quali 
citiamo:  A.  BALDINI,  in  «Corriere  della  Sera»,  28  dicembre  1933;  C.  ZA- 
GHI,  in  «Nuovi  problemi  di  politica  storia  ed  economia»,  fasc.  5-12  (mag- 
gio-dicembre  1933),  pp.  551-7;  G.  MAZZONI,  in  «Archivio  stor.  ital. »,  xxi 
(1934),  p.  164;  P.  GADDA,  in  «Pan»,  n.  5  (1934);  M.  MORANDI,  in  «Civilta 
fascista»,  1934,  pp.  762-3;  E.  M.  Fusco,  Gli  usignuoli  e  un  viandante,  Mi 
lano,  I.T.E.,  1934. 

Fra  i  contributi  per  lo  studio  della  personalita  del  Cipriani,  vedi  M.  Ros- 
SELLI  CECCONI,  Ualbero  genealogico  della  famiglia  Cipriani  del  Capocorso, 
in  «Archivio  stor.  di  Corsica »,  1933,  pp.  564-6;  G.  LETI,  II  duello  Malen- 
chini-Cipriani  nel  1851  a  Parigi,  in  «La  cultura  moderna»,  Milano,  ago- 
sto  1931,  pp.  481-5 ;  G.  MAZZONI,  II  duello  fra  L.  Cipriani  e  V.  Malenchini, 
in  «L'ape»,  Firenze,  Barbera,  aprile  1934;  A.  GUERRIERI,  Leonetto  Ci 
priani  a  Livorno  e  il  miracolo  del  Sant* Antonio,  in  « Corsica  antica  e  mo- 
derna»,  gennaio-febbraio  1934,  pp.  32-41;  L.  BULFEKETTI,  Leonetto  Ci 
priani  console  sardo  in  California  (1851-1853),  in  «Archivio  stor.  di  Cor 
sica)),  1939,  pp.  94-132. 


DALLE  «AVVENTURE  BELLA  MIA  VITA» 
L'INFANZIA  DI  LEONETTO  FIND  ALL'ETA  DI  DIECI  ANNI1 

Leonetto2  e  nato  il  16  ottobre  1812  nella  casa  paterna  nel  villag- 
gio  di  Ortinola,  in  Centuri  di  Corsica,  allora  dipartimento  del- 
rimpero  francese. 

Nella  prima  infanzia  fu  di  una  tale  vivacita,  che  teneva  in  conti- 
nua  apprensione  la  madre.3  All'eta  di  tre  anni  si  batteva  con  tutti  - 
correva  solo  sui  monti  -  non  incontrava  bestia,  cavallo,  mulo  o 
somaro  che  fosse,  senza  arrampicarcisi  sopra  -  e  percio  arrivava 
sempre  a  casa  ferito  o  con  la  testa  rotta. 

A  cinque  anni  andava  a  scuola  da  un  vecchio  curato  ignorante, 
che  non  sapeva  dare  che  lezioni  di  nerbo. 

Una  volta  Leonettino,  per  una  nerbata  affibbiatagli,  arrivo  a 
casa  con  un  occhio  insanguinato.  Sua  madre  voleva  correre  a  strap- 
pare  gli  orecchi  alia  bestia  tonsurata,  ma  il  padre4  disse :  —  Ci 
penso  io.  —  Infatti  la  sera  tardi  ando  alia  canonica  con  un  grosso 
bastone  di  fico  fresco  e  gliene  dette  tante,  che  stette  per  un  mese  a 
letto  e  poi  se  ne  ando  alia  malora. 

A  sei  anni,  dovendo  passare  la  processione  del  Corpus  Domini 
sotto  casa  sua,  erano  stati  preparati  diversi  mortaretti  carichi  di 
polvere.  A  Leonetto,  che  stava  li  coi  fratelli  e  i  cugini,  venne  1'idea 
di  darvi  fuoco.  Detto  fatto,  ando  in  cucina,  prese  un  tizzo,  e  sof- 
fiandoci  su,  lo  awicino  ai  mortaretti. 

Allo  scoppio  scapparono  tutti  chi  da  un  lato  chi  dall'altro,  fuor- 
che  i  piccini,  che  rimasero  gridando  e  piangendo,  senz'avere  nessun 
male.  Gli  altri  furono  trovati  appiattati  piu  o  meno  lontani. 

Ma  gira  e  cerca  tutto  il  giorno,  Leonetto  non  si  trovava,  e  la 
povera  madre  lo  piangeva  ferito  o  morto.  II  padre  organizz6  delle 
battute  con  tutta  la  popolazione,  e  finalmente  a  mezzanotte  lo  tro- 
varono  nascosto  sotto  la  paglia  in  un  casolare  assai  distante.  Non 

i,  Ed.  cit.,  vol.  i,  cap.  IV,  pp.  23-6.  2.  Leonetto'.  come  abbiamo  detto  nel 
Profilo  biografico,  il  Cipriani  finge  che  le  sue  Avventure  siano  narrate  da  un 
« vecchio  mentore».  3.  la  madre:  discendente  della  famiglia  dei  prlncipi 
Caracciolo  di  Napoli,  la  madre  aveva  sposato  Matteo  Cipriani  a  Centuri, 
nel  1810.  Mori  a  Livorno  il  14  marzo  1869.  4.  il  padre:  Matteo  Cipriani 
era  nato  a  Centuri  il  30  novembre  1770.  Ebbe  una  vita  molto  awenturosa: 
combatte1,  navig6,  commercio  in  America.  Mori  a  Pisa  il  16  aprile  1837. 
La  famiglia  Cipriani,  originaria  di  Firenze,  si  era  stabilita  in  Corsica  dalla 
meta  del  Quattrocento. 


136  LEONETTO    CIPRIANI 

dormiva;  ignorando  cosa  era  seguito  dei  fratelli  e  dei  cugini,  si 
aspettava  Dio  sa  che,  e  sapeva  che  il  padre  gli  avrebbe  dato  una 
lezione  da  non  dimenticarsela  piu. 

Lo  condussero  a  casa,  e  il  padre  non  disse  nulla.  Gli  dette  da 
cena,  lo  mise  a  letto,  e,  tratto  caratteristico  di  quelPuomo,  il 
giorno  dopo  proibi  si  facesse  mai  piu  parola  delPaccaduto  in  pre- 
senza  del  figlio.  Ma,  d'allora  in  poi,  quando  voleva  incutergli  ti- 
more,  bastava  che  gli  dicesse  con  quel  suo  cipiglio:—  Leonetto, 
rammentati  —  e  Leonetto  diventava  un  agnello. 

Un'altra  volta,  ando  alia  fonte  col  servitore  che  conduceva  a 
bere  il  cavallo.  Voile  montarvi  sopra,  strapp6  la  cavezza  dalle  mani 
del  servo  e  via  al  galoppo  verso  casa.  Ma  arrivato  davanti  alia  stalla 
il  cavallo  ci  entrb,  e  Leonetto  fu  stramazzato  in  terra  e  rimase  come 
motto  per  diverse  ore. 

Un'altra  volta  essendo  solo,  ballava  e  cantava  sopra  una  tavola 
in  mezzo  al  giardino.  II  padre  lo  vide  e  gli  ordino  di  scendere. 
Salto  giu,  ma  cadde  sopra  un  sedile  di  lavagna  e  si  taglio  le  due 
labbra.  II  padre  gliele  cuci,  ma  egli  ne  porto  sempre  la  cicatrice. 

Ma  la  piu  grossa  di  tutte  fu  questa.  Egli  si  trovava  con  la  fa- 
miglia  a  prendere  i  bagni  di  mare  alle  Mute.1  Vi  era  un  battello 
nel  porto.  Vi  and6  a  nuoto  e  si  arrampicd  come  un  gatto  in  cima 
alPalbero.  II  padre  se  ne  accorse,  e  col  famoso  nerbo  in  mano  si 
diresse  verso  la  barca.  Ma  Leonetto  che  essendo  nudo  sentiva 
frizzarsi  sulla  pelle  le  nerbate,  non  si  sgoment6  -  dalPalbero  si 
getto  in  mare  e  fuggi  come  un  pesce,  finche  il  padre  non  lo  raggiunse 
e  gli  salvo  la  vita  al  momento  che,  perdute  le  forze,  stava  per  af- 
fogare. 

La  sua  piu  gran  passione  era  la  guerra,  che  si  sarebbe  detto  sen 
tiva  per  istinto  da  bambino,  come  la  fece  da  adulto. 

Allora  le  guerre  si  combattevano  fra  i  ragazzi  del  villaggio  di 
sopra  e  di  quello  di  sotto.  Degli  ultimi  era  lui  il  capo  e  sembra  che 
degnamente  li  comandasse,  perche  era  quello  che  piu  spesso  tor- 
nava  con  la  testa  rotta. 

I  proiettili  erano  sassate  -  e  la  posizione  strategica  di  quelli  di 
sopra  essendo  migliore,  chi  ne  toccava  sempre  era  lui  coi  suoi. 

Furibondo  di  non  essere  mai  vincitore,  immagin6  una  sorpresa. 
Fece  impegnare  una  lotta  dai  compagni,  e  lui  con  quattro  altri  dei 
piu  arditi,  prendendo  a  dritta  per  le  ripe,  nascosti  dalle  vigne,  sali- 
i.  Mute  i  e  il  nome  del  porto  di  Centuri. 


AVVENTURE  DELLA  MIA    VITA  137 

rono  il  monte  e  piombarono  alle  spalle  del  nemici,  che  pagarono 
in  una  volta  tutte  le  passate  vittorie,  perche  ve  ae  furono  diversi 
malamente  feriti,  ed  a  loro  scorno  furono  inseguiti  fin  dentro  il 
villaggio. 

II  padre,  non  riuscendo  a  frenare  questa  temerita  eccessiva  e  pe- 
ricolosa,  che  in  fondo  non  gli  dispiaceva,  ma  teneva  in  continuo 
allarme  la  madre,  cerc6  di  darci  sfogo  mandandolo  a  caccia,  senza 
fucile,  s'intende  bene,  e  con  un  cacciatore  fidato,  alia  pesca,  facen- 
dogli  fare  limghe  corse  a  piedi  o  sopra  un  disgra2iato  ciuco,  e  invian- 
dolo  spesso  solo  a  notte  oscura  con  un  pretesto  qualunque  dalPava 
materna  a  Morsiglia,  distante  tre  buone  miglia  di  sentieri  da  capre 
in  mezzo  ai  boschi. 

Ma  tutto  inutilmente.  Fino  ai  sette  anni  fu  indomabile ;  e  la  ma 
dre  raccontava  che  a  quelPeta  era  nello  stato  di  un  f ebbricitante  fu- 
rioso :  il  giorno  faceva  il  diavolo  a  quattro,  e  la  notte  sognava  e 
smaniava  nel  letto. 

Finl  col  cadere  malato  di  una  curiosa  malattia. 

Una  notte  la  madre  lo  senti  gridare  piu  del  solito,  e  nello  stesso 
tempo  senti  piangere  il  fratello  Pietro1  che  dormiva  in  un  letto  ac- 
canto  a  lui.  Era  Leonetto  che  aveva  preso  il  povero  fratello  per  le 
gambe,  e  correva  per  la  stanza  strascinandoselo  dietro  e  sognando 
di  essere  sopra  il  suo  somaro. 

Non  fu  possibile  svegliarlo.  Non  riconosceva  nessuno  -  non  sa- 
peva  quel  che  diceva  -  e  duro  in  quello  stato  tre  giorni  e  tre  norti 
gridando  sempre  e  non  mangiando  che  per  forza. 

II  quarto  giorno  un  medico  venuto  da  Bastia  gli  somministro 
una  forte  dose  di  oppio.  Si  addorment6,  dormi  ventott'ore  -  e 
quando  si  svegli6  era  guarito;  in  una  parola,  non  era  piu  lo  stesso. 

Nel  1822  il  padre  essendo  gia  in  Italia,  scrisse  alia  madre  che  lo 
raggiungesse  coi  due  figli  Leonetto  e  Pietro. 

Partirono  sopra  una  feluca  napoletana  che  era  nel  porto  di  Cen- 
turi,  ma  presi  da  fiera  tempesta  furono  spinti  nella  notte  nel  golfo 
della  Spezia,  e  naufragarono  sulla  spiaggia.  Leonetto  che  nuotava 
come  un  pesce  fu  il  primo  a  prendere  terra,  e  senza  guardare  ad 
altro  corse  alle  prime  case  a  chiedere  aiuto  —  e  i  pescatori  arriva- 
rono  a  tempo  per  salvare  la  madre  che,  col  figlio  Pietro  attaccato 
al  collo,  stava  aggrappata  ad  una  banda  della  feluca. 

i.  Pietro:  uno  dei  fratelli  di  Leonetto.  Mori  a  vent'anni  a  Livorno,  nel 
1834,  cadendo  da  cavallo. 


138  LEONETTO    CIPRIANI 


DAI  DIECI  AI   DICIASSETTE  ANNI1 

A  Livorno,  Leonetto  ebbe  da  principio  per  maestro  un  frate  do- 
menicano  che  teneva  pubblica  scuola. 

Profittando  poco,  il  padre  prese  in  casa  un  precettore  di  nome 
Tortora,  rifugiato  corso  e  antico  maestro  di  scuola ;  e  poi  un  abate 
Pietri  che  fu  costretto  a  mandar  via,  perche  aveva  la  cattiva  abitu- 
dine  di  picchiare,  qualche  volta  con  ragione,  ma  piu  spesso  a  torto. 

Con  loro  imparo  a  leggere  e  a  scrivere ;  e  un  poco,  ma  molto  poco, 
di  grammatica  italiana  e  francese. 

A  dodici  anni  fu  messo  col  fratello  Pietro  nel  collegio  di  S.  Ca- 
terina  a  Pisa,  e  vi  stette  quattro  anni,  studiando  bene  il  latino,  e 
meno  1'italiano  e  il  francese.  Cio  perche  il  maestro  di  latino  -  il 
vice-rettore  -  lo  aveva  saputo  prendere  colle  buone,  solleticando 
il  suo  amor  proprio  e  non  facendogli  mai  rimproveri  che  lo  awilis- 
sero;  ed  anche  perche  Leonetto  era  appassionato  per  tutto  quello 
che  era  romano,  il  padre  avendogli  sempre  parlato  dei  grandi  uo- 
rnini  di  Roma,  e  i  primi  libri  letti  essendo  stati  la  storia  romana  e 
Plutarco. 

Invece,  dei  maestri  d'italiano,  uno  era  un  certo  prete  Rocchi  - 
orgoglioso  e  bilioso-al  quale  aveva  messo  nome  bulina  perche" 
camminava  di  traverso  (a  Centuri  di  un  bastimento  che  va  con  un 
solo  quarto  di  vento  e  con  le  vele  traverse  si  dice  va  di  bulind). 
Un  giorno,  interrogate  in  classe,  non  seppe  rispondere,  e  il  Roc 
chi  gli  disse :  —  Lei  sara  sempre  un  asino.  —  Non  aveva  finito  di 
dirlo,  che  Leonetto  gli  scagliava  il  calamaio  in  viso.  -  Gran  rivo- 
luzione  -  e  punizione  a  pane  ed  acqua  per  otto  giorni. 

L'altro  maestro  era  un  tal  Cardella  -  sgarbato,  noioso,  antipa- 
tico  e  ridicolo;  e  quello  di  francese  un  Giannoni  ancor  piu  sgar 
bato  e  ridicolo.  E  con  questi  maestri  e  facile  capire  come  col  suo 
carattere  Leonetto  non  prendesse  passione  alPitaliano  come  Paveva 
al  latino;  ed  ecco  perche  1'italiano  lo  seppe  sempre  poco. 

L'ultimo  anno  di  collegio  (aveva  gia  sedici  anni  e  intelligenza  e 
fisico  sviluppati  piu  delPordinario),  gli  riapparvero  i  segni  delPan- 
tica  vivacita  ed  irrequietezza. 

Avendo  imparato  assai  bene  il  disegno,  faceva  di  tutti,  maestri  e 
compagni,  caricature  sconce  e  ridicole,  e  le  seminava  passando  per 

i.  Ed.  cit.,  vol.  i,  cap.  v,  pp.  27-34. 


AVVENTURE  DELLA  MIA  VITA  139 

i  corridoi  e  nelle  scuole,  facendo  ridere  chi  non  vi  era  interessato, 
ma  accumulando  sul  suo  capo  Todio  e  i  rancori  dei  messi  in  ri- 
dicolo. 

Tre  di  questi,  i  piu  arditi,  vollero  vendicarsi  assalendolo  nel 
corridoio  dei  camerini.  Ma  lui  come  Orlando  furioso  dette  di 
mano  ad  una  granata,  e  giu  botte  da  orbo.  Alle  loro  grida  accor- 
sero  i  compagni  e  il  prefetto  Bachi,  e  Leonetto  batte  in  ritirata  fino 
al  camerino  dove  erano  schierati  una  ventina  di  recipient!  che  but±6 
addosso  agli  assalitori,  facendoli  fuggire  fino  al  salone  della  ri- 
creazione. 

Conosciuta  la  causa  di  tanto  baccano,  il  vice-rettore,  pur  non 
dandogli  apertamente  ragione,  avrebbe  voluto  infiiggergli  una  pu- 
nizione  leggera,  e  punire  invece  severamente  i  tre  provocatori; 
ma  il  Bachi  ricorse  al  rettore,  il  quale  diede  a  Leonetto  il  piu  se- 
vero  gastigo  e  nulla  ai  tre  compagni. 

Quanto  tale  ingiustizia  inasprisse  il  suo  carattere  e  facile  im- 
maginarsi.  Divenne  taciturno ;  sfuggiva  la  compagnia  di  tutti  e  guar- 
dava  tutti  con  occhio  bieco  e  sprezzante. 

Una  volta  ch'egli  andava  a  passeggiare  con  la  camerata  fuori 
della  porta  a  Lucca,  un  barocciaio  per  poco  non  invest!  suo  fra- 
tello  Pietro.  Leonetto  mise  mano  a  un  mucchio  di  sassi  e  con  uno 
colpi'  il  barocciaio  sopra  una  tempia  cosi  malamente  che  quello 
cadde  tramortito,  e  ando  a  ruzzolare  sotto  una  ruota  del  carro.  Fu 
raccolto,  ed  in  realta  non  aveva  gran  male ;  si  trattava  di  una  sem- 
plice  graffiatura  alia  tempia,  cio  che  dava  a  supporre  che  fosse  ca- 
duto  piu  dalla  paura  che  dal  dolore;  e  il  baroccio  ch'era  scarico 
non  gli  aveva  fatto  nulla. 

Leonetto  aveva  senza  dubbio  ragione,  ma  involontariamente  la 
sua  punizione  era  riuscita  eccessiva  e  quella  sassata  era  andata 
troppo  diritta  in  una  parte  cosi  delicata.  II  dovere  del  prefetto  era 
pesare  equamente  la  ragione  e  il  torto,  e  se  non  fosse  stato  cosi  mal 
disposto  verso  lui,  probabilmente  Y avrebbe  fatto.  Invece,  non  con- 
tento  di  caricarlo  di  schiafE  e  pugni,  se  lo  mise  sotto  i  piedi,  pe- 
standogli  crudelmente  le  mani,  e  poi  lo  fece  condannare  dal  ret 
tore  a  otto  giorni  di  reclusione  in  camera  a  pane  ed  acqua. 

Accetto  rassegnato  1'isolamento  ed  il  pane  ed  acqua,  ma  non 
pote  dimenticare  gli  schiaffi.  E  cerco  vendicarsi  senza  essere  sco- 
perto. 

Una  sera,  quando  tutti  i  giovani  furono  chiusi  nelle  loro  stanze, 


140  LEONETTO    CIPRIANI 

Leonetto  dal  buco  della  chiave  vide  il  prefetto,  che  stava  leggendo 
al  suo  banco  in  mezzo  al  salone,  alzarsi  e  prendere  il  lume,  e  senti 
aprire  e  chiudere  una  porta.  Siccome  la  camera  del  prefetto  era 
un'alcova  chiusa  da  una  semplice  tenda,  gli  venne  in  mente  la  ven 
detta  che  cercava.  Con  un  chiodo  storto  preparato  da  rnolto  tempo 
apre  la  sua  porta  -  cosa  pur  troppo  in  uso  nel  collegio  -  corre  alia 
porta  che  aveva  sentito  chiudere,  da  una  volta  alia  chiave,  la  prende 
e  la  butta  dalla  finestra.  Era  la  porta  del  camerino;  e  il  prefetto 
dove  passarvi  tutta  la  notte,  perche  ebbe  un  bel  gridare  e  bussare; 
chi  non  senti,  chi  non  capi  di  dove  venisse  il  rumore,  e  tutti  poi 
essendo  chiusi  a  chiave,  quelli  che  avevano  il  chiodo  di  contrab- 
bando  non  avrebbero  osato  convenirne  aprendo. 

La  mattina  il  cameriere  libero  il  prigioniero  mezzo  soffocato  da 
quell'aria  pestifera  e  che  capiva  bene  da  chi  fosse  venuto  il  tiro. 
Ma  senza  prove  era  impossibile  punirlo  -  e  la  causa  della  prigionia 
fu  attribuita  dal  rettore  ad  uno  scatto  di  molla  della  toppa. 

II  Bachi  pero  che  non  aveva  dubbii  sul  colpevole,  gli  aizzo  con- 
tro  tutta  la  camerata  e  gli  mise  il  soprannome  di  corsaro.  Segui 
quel  che  doveva  seguire:  a  uno  Speciale  genovese  che  lo  chiam6 
cosi  e  che  egli  come  corso  odiava  piu  di  tutti,1  gli  gonfi6  la  faccia 
dai  pugni;  e  peggio  fece  per  lo  stesso  motivo  a  Giuseppe  Monta- 
nelli,  nipote  del  rettore.  E  fu  chiuso  in  camera  per  un  mese  a  pane 
ed  acqua. 

Con  queste  continue  punizioni  e  1'isolamento,  il  suo  carattere 
s'inaspriva  sempre  piu  -  ed  un  giorno,  preso  come  da  delirio,  co- 
mincio  ad  urlare  spaccando  e  buttando  all'aria  quanto  gli  capitava 
tra  le  mani. 

II  prefetto,  vedendo  dal  finestrino  quello  spettacolo,  e  non 
osando  entrare  perche  temeva  il  saldo  degli  schiaffi,  mand6  a 
cercare  il  rettore,  il  quale  fece  aprire,  e,  buon'uomo  in  fondo,  lo 
calmo,  e  gli  domando  perche  aveva  ridotto  la  camera  in  quello 
stato.  Egli  rispose  che  il  caldo  lo  aveva  fatto  ammattire,  e  che  se 
non  ci  fosse  stata  Pinferriata  alia  finestra,  si  sarebbe  buttato  dalla 
disperazione  nel  giardino. 

II  rettore  gli  fece  dare  una  camera  piu  grande  delle  altre  -  quella 
alPangolo  che  guarda  la  corte  della  cisterna  -  e  da  mangiare  come 

i.  che  egli  .  .  .  tutti:  la  Corsica  aveva  a  lungo  manif estate  la  sua  aspirazione 
all'indipendenza  da  Geneva.  Col  trattato  di  Versailles,  il  15  maggio  1768, 
era  stata  ceduta  alia  Francia. 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  141 

agli  altri,  permise  che  il  fratello  gli  andasse  a  tener  compagnia, 
e  gli  condono  dieci  giorni. 

Questo  sistema  di  dolcezza  sarebbe  riuscito  bene  col  suo  ca- 
rattere;  ma  il  Bachi  voleva  tutt'altro.  Quando  Leonetto  termino  la 
punizione,  trovo  i  compagni  piu  freddi  che  mai  -  e  disperato  per 
essere  trattato  cosi  inumanamente,  decise  di  fuggire  dal  collegio. 

Persuase  il  fratello  a  seguirlo;-e  un  giorno  essendo  con  la 
camerata  a  passeggiare  verso  Coltano,  si  appiattarono  in  un  fosso, 
e  quando  i  compagni  furono  lontano,  si  dettero  a  correre  verso 
Livorno  a  traverse  il  padule.  Ma  erano  stati  visti  da  dei  contadini, 
e  furono  trovati  accovacciati  tra  le  canne,  grondanti  di  acqua  e  tre- 
manti  dal  freddo,  e  ricondotti  al  collegio  sopra  un  baroccio. 

La  scappata  era  grossa.  Ne  fu  awisato  il  padre;  egli  venne,  e, 
ammoniti  i  figli,  che  gli  promisero  di  essere  buoni,  prego  il  rettore 
di  usare  dolcezza  con  Leonetto.  Ma  il  Bachi,  che  era  stato  severa- 
mente  rimproverato,  continue  ad  essere  con  lui  piu  cattivo  che  mai. 

Una  volta  lo  sorprese  in  camera  mentre  stava  facendo  la  sua 
caricatura,  da  diavolo  con  le  corna  e  la  coda.  Accecato  dalla  collera, 
gli  dette  uno  schiaffo  cosi  forte,  che  gli  pareva  che  un  occhio  gli 
uscisse  dal  posto.  -  Leonetto  prese  un  chiodo  che  aveva  affilato 
alia  pietra  della  finestra,  gli  si  awent6  contro,  e  gli  diede  una  chio- 
data  nelle  parti  molli. 

Urla  «son  morto,  aiuto!»-cola  il  sangue  -  sviene  -  si  leva  un 
grido:  —  II  corsaro  ha  assassinate  il  prefetto! 

Accorre  tutto  il  collegio  -  e  fu  tale  lo  spavento  generale  nel  ve- 
dere  un  sacerdote  svenuto  in  un  lago  di  sangue,  che  credendolo 
in  fin  di  vita  gli  fu  portata  1'estrema  unzione. 

Tutto  questo  avrebbe  dovuto  far  sentire  a  Leonetto  I'enormita 
della  colpa  commessa.  Ma  1'insulto  ricevuto  fece  tacere  Tistinto 
della  pieta  al  punto,  ch'egli  confessava  poi  d'  essere  stato  quello 
uno  dei  momenti  in  cui  piu  aveva  sentito  il  piacere  e  la  soddisfa- 
zione  di  lavare  col  sangue  il  piu  grave  degli  insulti  -  e  non  aveva 
mai  potuto  dimenticarlo,  benche  fosse  allora  cosi  giovane. 

II  Bachi  intanto,  che  era  svenuto  piu  dalla  paura  che  dal  dolore, 
poiche  il  chiodo  non  gli  aveva  fatto  che  una  ferita  insignificante  in 
una  parte  del  corpo  quasi  insensibile,  rinvenne  poco  dopo  di  aver 
ricevuto  1'estrema  unzione,  e  il  medico  assicuro  che  tutto  si  ridu- 
ceva  al  dovere  per  qualche  giorno  star  seduto  sopra  una  sola  parte 
del  mobile  che  serve  a  tale  scopo. 


142  LEONETTO    CIPRIANI 

Leonetto,  che  si  aspettava  a  tutto,  si  barrico  in  camera.  Ma  il 
rettore  arrivato  sul  luogo  ed  accortosi  dei  suoi  preparativi  di  difesa, 
ordino  di  lasciarlo  tranquillo.  A  mezzanotte  poi,  mentre  dormiva, 
aprono  la  porta,  rovesciano  la  barricata,  gli  saltano  addosso  e  gli 
legano  mani  e  piedi. 

La  mattina  fu  sciolto  e  condotto  dal  rettore,  il  quale  prima  con 
calma  gli  fece  una  gran  predica,  ma  poi  perdendo  la  misura  gli 
disse :  —  Non  vuole  che  lo  chiamino  corsaro  -  ma  lei  e  peggio  di  un 
corsaro  -  e  una  bestia  feroce,  un  assassino. 

A  queste  parole  Leonetto  prese  una  seggiola  e  gliela  scagli6  tra 
capo  e  collo.  II  rettore,  uomo  robusto,  gli  salto  addosso  agguan- 
tandolo  per  la  gola,  ma  Leonetto  gli  dette  un  maledetto  calcio  in  uno 
stinco  che  gli  fece  subito  allargare  la  mano  e  gridare  aiuto.  Ac- 
corse  una  dozzina  di  preti,  e  il  rettore  disteso  sopra  una  poltrona, 
alzando  le  braccia  al  cielo,  esclam6 :  —  Curavimus  Babiloniam,  non 
est  sanata  -  derelinquamus  earn.1 

E  senza  perdere  un  momento  fu  ordinata  una  carrozza  -  e  Leo 
netto  accompagnato  dal  prete  Pecori  fu  scacciato  dal  collegio  e 
rimandato  dal  padre. 

Riflessioni  sulFeducazione. 

Ripensando  alia  sua  pessima  educazione,  ed  al  poco  profitto 
tratto  da  quattro  anni  di  collegio,  Leonetto  si  domandava  se  tutta  la 
colpa  fosse  sua,  e  non  esitava  un  momento  a  darla  per  la  maggior 
parte  al  sistema,  che  piu  o  meno  era  ed  e  lo  stesso  in  tutti  i  collegi. 

II  primo  dovere  di  un  precettore  e  quello  di  studiare  il  carattere 
del  giovinetto  che  gli  e  affidato.  Quando  si  e  accertato  che  il  cuore 
e  buono  -  che  il  carattere  e  dolce  -  che  non  ha  cattivi  istinti  -  la 
migliore  correzione  delle  piu  gravi  colpe  e  rammonizione  fatta  con 
calma  e  dolcezza. 

Un  precettore  non  deve  aver  sangue  nelle  vene  -  deve  essere  sem- 
pre  padrone  di  se  stesso  -  deve,  prima  di  punire  severamente,  ten- 
tare  ogni  mezzo  di  persuasione  -  e  quando  non  basti,  anche  pu- 
nendolo  severamente,  non  deve  mostrare  verso  il  giovane  ne  col- 
lera  ne  disprezzo,  e  tanto  meno  umiliarlo. 

Leonetto  ammetteva  che,  quando  per  i  cattivi  istinti  le  ammoni- 

i.  Ierem.y  51,  9:  «Abbiamo  curato  Babilonia,  ma  non  e  rinsavita  -  abban- 
doniamola  ». 


AVVENTURE   BELLA   MIA   VITA  143 

zioni  e  le  punizioni  non  bastassero,  si  dovesse  ricorrere,  come 
all'unico  rimedio,  alia  sferza,  s'intende  bene  prima  dell'eta  della 
ragione. 

Ma  se  il  giovine  perdona  la  sferza  piu  severa  al  padre,  non  la  per- 
dona  ad  altri.  Odia  chi  lo  batte  -  e  1'odio  nella  prima  gioventu 
e  la  sorgente  di  tutte  le  cattive  qualita. 

E  vero  che  non  tutti  i  figli  possono  essere  educati  dal  padre  - 
ma  anche  nei  collegi,  per  i  casi  eccezionali  in  cui  sia  necessaria  la 
sferza,  non  dovrebb'essere  mai  il  precettore  ad  applicarla,  ma  uno 
non  conosciuto  dal  giovinetto,  e  che  gli  infliggesse  non  piu  di  dieci 
nerbate,  sempre  sulle  parti  molli  senza  nudarle. 

£  un  errore  il  credere  che  prima  dell'eta  della  ragione  produca 
maggiore  effetto  la  punizione  pubblica,  o  come  si  suol  dire,  1'ef- 
fetto  morale.  Se  il  punito  ha  molto  amor  proprio,  ne  rimane  of- 
feso,  ma  se  non  ne  ha,  vi  si  awezza  -  e  in  ogni  caso  il  carattere  gli 
rimane  inasprito  e  degradato. 

E  anche  un  errore  il  credere  che  la  punizione  corporale  abbia 
un  effetto  morale;  essa  ha  soltanto  un  effetto  fisico,  cioe  il  dolo- 
re  prodotto  dalle  nerbate. 

Un  giovine  commette  la  prima  volta  una  maricanza  che  merita  la 
sferza  ?  fategli  dare  col  sistema  esposto  due  nerbate.  Prima  di  ri- 
cadere  nello  stesso  fallo  riflettera  bene,  perche  si  ricordera  il  do- 
lore  provato,  e  stara  savio  per  un  mese.  -  Lo  commette  la  seconda 
volta  ?  -  fategli  dare  sei  nerbate.  -  Vedrete  che  stara  due  mesi 
senza  ricadere  in  fallo.  -  Lo  commette  la  terza  volta  ?  -  fategli  dare 
dieci  nerbate,  e  siate  certi  che  saranno  le  ultime. 

Qual  mezzo  impiegate  per  correggere  un  difetto  fisico,  come  lo 
star  piegato  o  il  servirsi  della  mano  sinistra  ? 

Legate  per  uno,  due,  tre  mesi  la  mano  sinistra  in  modo  che  ne 
sia  impedito  1'uso,  -  mettete  un  busto  per  obbligare  il  torso  a  star 
dritto:  e  siete  certi  che  in  pochi  mesi  avrete  guarito  quei  difetti. 

Seguira  senza  dubbio  nel  morale  cio  che  segue  nel  fisico. 

Uscito  di  collegio  a  diciassette  anni,  si  sarebbe  detto  che  Leo- 
netto  avesse  cambiato  natura. 

II  padre  se  ne  serviva  per  sorvegliare  i  suoi  beni  di  campagna, 
gli  faceva  tenere  la  corrispondenza  di  affari,  e  rimane va  incantato 
vedendolo  calmo,  intelligente,  attivo,  riflessivo,  modellandosi  in 
tutto  su  lui. 


144  LEONETTO    CIPRIANI 

Aveva  in  Leonetto  un'assoluta  fiducia:  quando  aveva  bisogno  di 
denaro,  gli  dava  la  chiave  della  cassa,  e  lui  prendeva  o  per  il  padre 
o  per  la  madre  quello  che  chiedevano.  E  non  si  rammentava  d'aver 
mai  preso  uno  scudo  per  se  senz'awisarne  il  padre,  abituandosi  cosl 
fin  da  giovinetto  ad  una  scrupolosa  delicatezza,  che  divenne  per 
tutta  la  sua  vita  una  seconda  natura. 

Alia  fine  del  1829  arrive  in  famiglia  dalla  Trinita1  il  cugino  Ci- 
priano  Cipriani,  colla  moglie  Amelia  e  i  figli. 

Vi  stettero  sei  mesi,  ed  Amelia,  giovine  e  bella,  fu  la  prima  donna 
che  feri  la  sua  immaginazione  -  un  vero  amor  platonico. 

Arrive  il  1830,  e  i  preparativi  della  spedizione  di  Algeri.2  Leo 
netto,  avendo  per  padrino  il  generale  barone  Juchereau  de  Saint- 
Denis,3  capo  di  stato  maggiore  del  corpo  di  spedizione,  chiese  al 
padre  di  essere  mandato  in  Africa  sotto  la  protezione  del  Juchereau. 

II  padre  acconsentl;  e  scrisse  al  generale,  che  rispose  che  colla 
flotta  francese  non  era  possibile,  ma  che  poteva  raggiungerla  al- 
Tisola  di  Palma4  con  un  bastimento  particolare,  e  che  allora  lo 
avrebbe  sistemato. 

Fu  noleggiata  una  paranzella  napoletana,  e  fornita  di  tutto  il 
necessario.  La  madfe  piangeva  vedendo  tutti  quei  preparativi  della 
partenza  del  diletto  figlio,  speranza  della  famiglia,  ma  il  padre  la 
consolava  facendole  coraggio,  ed  essa  piego  la  fronte,  colla  sua  fi 
ducia  cieca  in  chi  sapeva  pensare  per  se  e  per  lei. 


i.  Trinita:  una  delle  Antille  inglesi,  gia  spagnole,  a  poca  distanza  dal 
Venezuela.  2.  spedizione  di  Algeri:  « Da  un  pezzo  erano  tese  le  relazioni 
tra  la  Francia  e  il  dey  di  Algeri,  quando  quest' ultimo,  nella  primavera  del 
1827,  termino  una  vivace  discussione  col  console  francese  colpendolo  in 
viso.  Essendo  rimaste  infruttuose  le  pratiche  fatte  per  ottenere  soddisfa- 
zione  di  quest'insulto,  il  governo  borbonico,  malgrado  1'opposizione  del- 
1'  Inghilterra,  decise  la  spedizione  di  Algeri.  Gli  ordini  relativi  comincia- 
rono  ad  essere  dati  nel  febbraio  del  1830;  e  cosi  venne  inaugurata  quella 
pplitica,  che  dopo  pifc  di  ottant'anni  di  lotte  sanguinose  e  di  abili  trattative 
diplomatiche  ha  reso  la  Francia  padrona  deH'Africa  settentrionale,  dal 
golfo  delle  Sirti  all'Atlantico,  e  dal  Mediterraneo  al  Sudan »  (Mordini). 
3.  «  Antonio  Juchereau  de  Saint-Denis  (1778-1842),  dopo  aver  servito  pa- 
recchi  anni  nelTesercito  turco,  entro  nel  1808  in  quello  francese  col  grado 
di  colonnello  del  genio,  e  fu  capo  dello  stato  maggiore  nella  spedizione  di 
Spagna  (1823)  e  sotto  capo  in  quella  di  Algeri »  (Mordini).  4.  alVisola  di 
Palma:  «Non  all'isola,  ma  nella  baia  di  Palma,  nell'isola  di  Maiorca,  la 
maggiore  delle  Baleari»  (Mordini). 


AVVENTURE   BELLA   MIA   VITA  145 


LA  PRESA  DI  ALGERI1 

Partite  da  Livorno  il  10  maggio  1830,  il  15  era  alia  baia  di  Palma, 
dove  aspett6  la  flotta  francese.  Arrivata  quella,  ando  sul  vascello 
ammiraglio  ov'era  il  generale  Juchereau,  die  lo  accolse  come  un 
figlio  e  lo  presento  al  generale  Bourmont,3  il  quale  lo  autorizzo 
ad  an  dare  di  conserva  colla  flotta. 

II  13  giugno  giunsero  in  vista  di  Algeri,  e  fatta  mostra  di  quella 
gran  riunione  di  vascelli  in  numero  di  cento  legni  da  guerra,  e  di 
non  meno  di  quattrocento  trasporti,  volsero  a  levante  e  dettero  fon- 
do  davanti  alia  pianura  di  Sidi  Feruk,  dov'era  una  piccola  torre  ar- 
mata  di  due  cannoni.  Quella  pianura,  posta  a  levante  della  citta, 
da  cui  la  divide,  un'alta  catena  di  colli,  era  destinata,  nel  piano  della 
spedizione,  allo  sbarco  delPesercito,  per  assaltare  dalla  parte  di 
terra  la  citta,  che  la  non  era  che  debolmente  fortificata. 

L'indomani  furono  immediatamente  disposti  i  preparativi  di 
sbarco,  mentre  uno  dei  soli  due  vapori  che  vi  fossero  nella  flotta, 
la  Sfinge>  ebbe  Tordine  di  andare  a  far  tacere  e  smantellare  il 
piccolo  forte,  che  con  poche  cannonate  mal  dirette,  pm  che  of- 
fendere  si  sarebbe  detto  salutare  la  flotta  francese.  Fu  prestissimo 
ridotto  al  silenzio,  e  si  videro  gli  Arabi  fuggire  verso  il  monte. 

Leonetto  impaziente  di  mettere  il  piede  in  terra,  ottenutone  il 
permesso,  sbarco  dalla  suaparanzella  in  un  piccolo  seno  all'imbocca- 
tura  del  torrente,  e  fu  cosi  il  primo  a  calcare  la  terra  d5  Africa.  Nello 
stesso  tempo  si  awicino  al  lido  uno  stormo  di  lance  cariche  di  sol- 
dati  che,  coll'ordine  che  poteva  permettere  il  mare  agitato,  sbarca- 
rono  e  si  formarono  immediatamente  in  compagnie,  battaglioni  e 
reggimenti.  E  quando,  sul  far  della  sera,  la  meta  almeno  del- 
Tesercito  era  schierato  sulla  spiaggia,  arrivo  la  lancia  ammiraglia 
collo  stato  maggiore  ed  il  generale  Bourmont. 

Ma  prima  che  fossero  sbarcati,  Leonetto,  impaziente  di  fare  una 
galoppata  nella  deserta  pianura  lungo  il  torrente,  arrivato  ad  un 
punto  dove  la  valle  faceva  un  seno,  vide  un  numeroso  corpo  di  ca- 
valleria,  e  staccarsi  da  quello  un  drappello  di  Arabi,  che  come  ful- 
mini  si  diressero  verso  di  lui.  Esimio  cavaliere  fmo  dalla  prima  gio- 
ventu,  voltare  il  cavallo,  fuggire  come  il  vento,  e  rifugiarsi  nelle 

i.  Ed.  cit.,  vol.  I,   cap.  vi,  pp.  35-40.      2.  II  generale  Augusto  Vittorio 
conte  di  Bourmont  (1773-1846),  comandante  la  spedizione  di  Algeri. 


146  LEONETTO    CIPRIANI 

linee  francesi  fu  tutt'uno  -  e  li,  per  istinto  di  soldato,  raccontb  al 
Juchereau  cio  che  aveva  veduto.  II  Bourmont,  che  era  vicino, 
disse  con  un  sorriso  al  suo  capo  di  stato  maggiore :  —  Notre  pre 
miere  reconnaissance  est  faite  par  un  gamin.  —  Ed  egli  stesso  dette 
or  dine  che  si  facesse  una  gran  perlustrazione  di  cavalleria. 

Awicinatasi  la  sera,  furono  prese  tutte  le  disposizioni  per  non 
essere  sorpresi,  continuando  lo  sbarco  fino  a  notte  avanzata. 

La  mattina  dopo  all'alba  si  sentirono  le  prime  fucilate.  Erano 
cavalieri  arabi  che  si  accostavano  alle  nostre  linee,  sparavano  e  fug- 
givano.  Coperti  dal  bianco  burnus*  e  il  giorno  non  essendo  chiaro, 
sembravano  ombre  che  apparivano  e  sparivano  dalPorizzonte.  Si 
vedevano  intanto  le  colline  coronarsi  di  armati  dai  mille  colori,  che 
facevano  bella  mostra  di  s6  ai  primi  raggi  del  sole. 

Ma,  da  prudente  ed  esperto  generate  qua? era,  il  Bourmont  stette 
fermo  sulla  spiaggia  aspettando  il  nemico,  che  inesperto  e  pieno  di 
ardore  piu  che  di  tattica  militare,  doveva  scendere  nel  piano. 

Infatti,  come  nubi  spinte  dal  vento  in  una  stretta  valle,  gli  Arabi 
scendevano,  con  la  fanteria  al  centro  e  due  numerosi  corpi  di  ca 
valleria  alle  ali.  Ma  non  si  sa  per  qual  ragione,  forse  per  consiglio 
di  un  ufficiale  inglese  che  si  disse  essere  nello  stato  maggiore  del 
Beylerbey  o  comandante  supremo  degH  Arabi,  arrivati  al  piede 
delle  colline,  si  fermarono,  con  gran  soddisfazione  del  Bourmont, 
che  a  causa  del  mare  grosso  non  aveva  ancora  potuto  disporre  del- 
Tartiglieria  e  di  parte  della  cavalleria,  che  stavano  in  quel  mentre 
sbarcando. 

Verso  mezzogiorno,  gli  Arabi,  vedendo  1'esercito  francese  im 
mobile,  e  supponendo  che  esso  non  si  credesse  in  forza  da  impe- 
gnare  la  lotta,  si  decisero  a  fare  un  movimento  in  avanti.  Awici- 
nati  a  tiro  di  cannone,  le  batterie  francesi  si  smascherarono  e  co- 
minciarono  a  coprire  di  mitraglia  il  nemico. 

Come  sempre  usano  gli  orientali,  che  hanno  gran  fiducia  nella 
cavalleria,  si  vide  quella  araba  in  numero  non  minore  di  diecimila 
uomini  piombare  sulla  fanteria  francese  che,  formata  in  quadrati 
inespugnabili,  la  riceve  sulla  punta  delle  sue  baionette  -  e  mentre  gli 
Arabi  si  ritiravano  per  formarsi  a  nuove  cariche,  i  quadrati  si  apri- 
rono  come  ventagli  e  rartiglieria,  coprendoli  di  mitraglia,  ne  fece 
grande  strage. 

Rallentatosi  Tardore  degli  Arabi,  il  Bourmont,  che  aveva  fatto 
i.  burnus:  e  parola  araba  e  indica  un  mantello  con  cappuccio. 


AVVENTURE   DELLA   MIA  VITA  147 

situare  due  batterie  a  ridosso  di  un  colle  alia  sua  diritta,  dette  or- 
dine  di  salire  su  quello  e  fulminate  la  fanteria  nemica,  che  investita 
dalle  colonne  di  attacco  al  passo  di  carica,  fu  rovesciata  e  si  dette 
alia  fuga,  protetta  malamente  dai  due  corpi  di  cavalleria.  Quella 
francese  Tinsegui  facendo  numerosi  prigionieri  -  ma  era  in  troppo 
piccol  numero,  in  confronto  della  nemica,  per  allontanarsi  troppo; 
e  verso  sera  il  nemico  era  sparito  per  incanto,  come  per  incanto  era 
comparso. 

L'esercito  francese  riprese  il  suo  accampamento,  e  fu  una  di 
quelle  gioie  che  non  si  descrivono.  Tutti  sembravano  impazziti, 
e  Tintera  notte,  malgrado  il  severo  ordine  di  riposare,  fu  una  gran 
baldoria  dei  soldati  mascherati,  colle  spoglie  nemiche. 

Leonetto  aveva  intanto  fatto  sbarcare  venti  casse  di  vino  vec- 
chio  del  Capo  Corso,  e  due  barili  di  biscotti  e  paste  dolci  d'ltalia. 
Ne  offri  al  Bourmont  che  gradi  il  dono  con  una  parola  ascoltata  da 
tutti:  —  Voila  un  gamin  qui  promet!  —  e  divise  il  resto  fra  i  sol 
dati  e  soprattutto  fra  i  due  reggimenti  di  cavalleria  che  avevano 
tutte  le  sue  simpatie.  Passo  con  loro  una  parte  della  notte  finche, 
sentendosi  stordito  da  quel  vino  generoso  e  dalla  strepitosa  allegria, 
fu  accompagnato  al  suo  piccolo  bivacco  vicino  a  quello  del  generale 
Juchereau.  Poche  ore  di  sonno  bastarono  per  dissipare  cio  che  per 
lui,  non  abituato,  era  stato  un  vero  stravizio. 

Allo  spuntar  del  giorno  1'esercito  si  mise  in  marcia  in  ordine  di 
battaglia,  ed  alle  otto  era  sulla  cresta  delle  colline,  dominando  il 
golfo  di  Algeri  a  levante,  e  quello  dello  sbarco  a  ponente. 

Si  vedeva  a  poca  distanza  un  gran  forte  chiamato  dell'Impera- 
tore.  -  Fatto  un  movimento  in  avanti,  ed  arrivati  a  tiro  di  cannone, 
furono  ordinati  in  batteria  i  pezzi  da  16  e  comincio  il  fuoco.  II 
forte  rispondeva,  -  e  da  principio  sgomento  non  poco,  perche  aveva 
pezzi  di  piu  forte  calibro,  ma  questi  essendo  mal  serviti,  i  piu  dei 
proiettili  passavano  alti,  mentre  i  Francesi  col  tiro  giusto  riuscirono 
a  fame  tacere  la  piu  gran  parte. 

II  fuoco  ben  nutrito  dei  Francesi,  fiacco  degli  Arabi,  duro  fino 
alia  notte.  Allora  furono  awicinate  le  batterie  in  luogo  piu  adatto  a 
battere  il  lato  nord  del  forte,  che  presentava  maggior  facilita  per 
Passalto. 

AlPalba  tutta  Tartiglieria  francese  tuonava,  ed  alle  otto  il  forte 
smantellato  taceva.  Le  colonne  di  attacco  si  ayanzarono,  ma  fu 
rono  costrette  a  retrocedere,  perche  dovendo  scendere  in  una  piega 


148  LEONETTO    CIPRIANI 

del  terreno  dove  Tartiglieria  non  poteva  proteggerle,  erano  prese  di 
fianco  dalle  cariche  della  cavalleria  nemica  situata  in  una  gola  di- 
fesa  da  scoscese  colline. 

Alia  destra  vi  era  un  alto  colle  che  dominava  d'infilata  quella 
gola.  Ne  era  difficile  Taccesso  per  Partiglieria,  ma  non  impossi- 
bile;  e  una  batteria  francese,  facendo  un  lungo  giro  sulla  cresta  dei 
colli,  riuscl  ad  arrivarvi  piu  facilmente  di  quello  che  si  supponeva. 
A  mezzogiorno  giunse  sulla  cima  e  subito  fulmin6  la  cavalleria  ne 
mica,  che  fu  costretta  a  ritirarsi,  una  piccola  parte  nel  forte,  il 
resto  verso  la  citta. 

Ordinate  di  nuovo  le  colonne  di  attacco,  si  awicinarono  al 
forte,  difeso  da  quindicimila  uomini  di  fanteria,  con  poca  caval 
leria,  e  da  duecento  cannoni,  molti  dei  quali  per6  erano  gia  fuori 
di  servizio. 

Una  vera  breccia  non  si  era  ottenuta,  e  non  poteva  ottenersi 
con  pezzi  da  campagna,  ma  le  troniere1  erano  smantellate,  ed  in  un 
punto  si  vedeva  una  larga  apertura  piu  bassa.  Da  quel  lato  fu  ordi- 
nato  Passalto.  La  prima  colonna  con  un  ordine  ammirabile  si  ac- 
costo  fino  a  ridosso  del  forte,  e  quantunque  decimata  dalle  fucilate, 
vi  appoggio  bravamente  le  scale. 

Dalla  collina  dove  era  il  generale  in  capo  con  tutto  lo  stato  mag- 
giore,  e  fra  questo  Leonetto,  si  vedeva  ad  occhio  nudo  quel  sublime 
spettacolo  di  uomini  che  salivano,  cadevano  e  si  ammassavano 
morti  e  feriti  a  pie  delle  scale,  quando  ad  un  tratto  si  scorse  svento- 
lare  la  bandiera  francese  sulla  troniera,  con  uno  stormo  di  valorosi 
che  la  seguiva.  Fu  come  un  precipitoso  torrente  che  rompe  una 
diga  -  colonna  sopra  colonna  invasero  il  forte. 

Gli  Arabi  non  credendolo  possibile,  bast6  un  momento  di  sor- 
presa  per  sgomentarli.  Ma  non  essendovi  scampo,  la  difesa  fu  dispe- 
rata  nell'interno  del  vastissimo  forte.  Nulla  per6  resistendo  al- 
rimpeto  francese,  i  difensori  furono  in  gran  parte  massacrati,  e  se 
ne  videro  molti  che  per  salvarsi  si  gettavano  dalle  mura  sfracellan- 
dosi  a  terra. 

Prima  del  calar  del  sole  la  bandiera  francese  dai  gigli  borbonici 
sventolava  sulPalta  torre  nel  centro  del  forte,  e  siccome  questo  do 
minava  la  citta,  la  presa  di  Algeri  poteva  dirsi  un  fatto  compiuto. 

Assicurate  le  sorti  della  spedizione,  fu  ordinato  alia  flotta  di 
sospendere  lo  sbarco  dei  viveri  e  del  materiale,  di  lasciare  soltanto 
i.  le  troniere:  le  feritoie  per  i  cannoni. 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  149 

i  due  vapori,  e  di  trovarsi  il  giorno  dopo  davanti  ad  Algeri  fuori  del 
tiro  dei  forti,  aspettando  i  segnali  convenuti  per  bombardarla. 
Nello  stesso  tempo  fu  armato  il  forte,  dal  lato  che  guardava  la 
citta,  con  i  migliori  pezzi  rimasti  (gli  Arabi  non  avevano  inchio- 
dato1  neppure  un  cannone,  e  vi  erano  tante  munizioni  da  sostenere 
dieci  anni  di  assedio),  e  air  alba  del  4  luglio  fu  lanciata  una  pioggia 
di  bombe  sulla  citta. 

II  sole  non  era  ancora  alzato,  che  si  vide  la  bandiera  della  mezza- 
luna  abbassarsi  sulla  torre  della  Casba,  ed  al  suo  posto  sventolare 
una  bandiera  bianca.  -  La  citta  si  arrendeva  -  il  fiero  Dey2  era 
vinto. 

Nella  giornata  arrivarono  come  parlamentari  il  suo  primo  mi- 
nistro,  napoletano  rinnegato,  ed  altri  funzionari  con  pieni  poteri. 
U*  ultimatum  della  Francia  fu:  1'abbandono  della  citta  con  tutto 
quello  che  conteneva;  la  citta  e  il  suo  territorio  proclamati  colonia 
francese;  il  Dey  colla  famiglia  esiliato  in  Italia  o  in  Spagna. 

Fu  un  colpo  di  fulmine  per  i  plenipotenziari,  che  insieme  al  Dey 
credevano  placare  lo  sdegno  francese  con  qualche  milione,  e  non 
avevano  mai  potuto  supporre  tanta  sciagura. 

Chiesero  di  riferire  al  Dey;  ebbero  tempo  sei  ore  a  decidere;  e  la 
sera  portarono  Paccettazione. 

Fu  convenuto  che  fosse  immediatamente  licenziato  Tesercito 
arabo,  e  che  i  Francesi  occupassero  la  citta  e  i  forti. 

L'esercito  fu  diviso  in  tre  corpi:  uno  doveva  entrare  dalla  porta 
Bab-Oued  al  nord  -  uno  dalla  porta  Bab-Azun  al  sud  -  ed  il  terzo 
rimanere  al  forte  delHmperatore  sorvegliando  i  forti  della  Casba. 
La  flotta  nello  stesso  tempo  doveva  awicinarsi  in  ordine  di  battaglia, 
pronta  a  fulminare,  nel  caso  di  tradimento,  la  lunga  linea  di  forti 
che  difendevano  Algeri  dalla  parte  del  mare. 

II  generale  in  capo  stava  a  poca  distanza  dalla  citta  su  di  una 
collina  che  dominava  la  Casba  ossia  il  palazzo  e  la  fortezza  del  Dey. 
Quando  vide  sventolare  la  bandiera  francese  su  quella  e  su  tutti  i 
forti  del  littorale,  scese  verso  la  porta  Bab-Oued,  e  traversando  tutta 
Algeri  sali  alia  Casba  abbandonata  la  mattina3  dal  Dey  con  parte 
della  famiglia. 

i.  inchiodato:  si  rendevano  inservibili  i  cannoni  piantando  un  chiodo  nel 
focone.  2.  il  fiero  Dey:  « Hussein-ben-Hussein,  dey  di  Algeri  dal  1818  al 
1830,  morto  ad  Alessandria  d'Egitto  nel  1838))  (Mordini).  3.  la  mattina: 
4  luglio  1830. 


150  LEONETTO   CIPRIANI 

KATIM1 

Leonetto  collo  stato  maggiore  ed  il  generale  Juchereau  capo  di 
quello,  prese  alloggio  nel  serraglio  del  Dey.  Erano  saloni  dorati  con 
bei  pavimenti  di  marmi  preziosl  -  fonti  di  acqua  perenne  -  profu- 
sione  di  specchi,  divani  e  guanciali  -  tappeti  orientali  -  stoie  finis- 
sime  delle  Indie  -  lusso  asiatico  -  ma  mancanza  assoluta  di  tutto 
quello  che  e  indispensabile  ad  un  Europeo. 

Ma  industria  omnia  vincit  -  e  la  era  facile  vincere,  perche  non 
mancavano  ne  il  materiale  ne  lo  spazio.  Senza  nessuna  veste- 
senza,  si  puo  dire,  esperienza  -  ma  solo  per  istinto  e  per  quelPatti- 
tudine  a  far  tutto  che  Leonetto  dimostrb  sempre  durante  la  sua  vita, 
egli  era  il  factotum,  e  lo  zio  (cosi  chiamava  il  Juchereau),  che  aveva 
per  lui  aifezione  di  padre,  lo  lasciava  fare  ed  anzi  lo  incoraggiava. 

Scelse  per  lo  zio  la  piu  bella  sala  -  con  dei  divani  vi  fece  un  buon 
letto  e  vi  port6  quello  che  trovo  di  piu  prezioso  nelle  altre  stanze. 
In  un  gran  salone  accanto  fu  organizzato  il  gabinetto  dello  stato 
maggiore  -  ed  egli  scelse  per  suo  nido  un  piccolo  chiosco  nel  cor- 
tile,  unito  alia  camera  dello  zio  da  un  corridoio  vetrato ;  uno  di  quelli 
dove  il  Dey  riceveva  la  favorita  del  giorno. 

Se  quelFatmosfera  di  essenza  di  rose,  e  di  quel  tale  odore  di  gio- 
vine  donna  bella  come  lo  erano  le  schiave  georgiane,  delle  quali  si 
sapeva  avere  il  Dey  una  splendida  collezione,  inebbriasse  i  sensi 
di  Leonetto,  e  facile  immaginarlo.  Aveva  diciotto  anni!  -E  come 
un  bracco  puro  sangue  che  sente  Todore  della  pernice,  egli  sentendo 
quello  delle  odalische,  le  cercava  frugando  in  ogni  angolo  del 
serraglio. 

Lo  zio,  uomo  gia  di  sessant'atmi,  ma  che  era  stato  esimio  cac- 
ciatore  di  simile  gibier,  gli  domando :  —  Che  cerchi  che  stai  sempre 
correndo  per  tutto  il  serraglio  ? 

—  Mio  buon  zio,  —  gli  rispose  Leonetto  —  sento  un  odore  . .  . 
cerco  da  dove  viene,  e  non  lo  trovo! 

—  Che  odore? 

Non  rispose,  e  si  mise  a  ridere  arrossendo. 

—  Ho  capito,  mauvais  garnement!  Ci6  che  cerchi  non  e  qui.  Vedi 
quella  villa  isolata  guardata  da  sentinelle?  Quelle  che  ha  lasciate  il 
Dey  sono  tutte  la,  e  non  sappiamo  che  fame. 

i.  Ed.  cit.,  vol.  i,  cap.  vn,  pp.  41-51. 


AVVENTURE   BELLA   MIA   VITA  151 

—  6  mai  possibile  ?  —  rispose  Leonetto  che  non  ha  mai  dubitato 
di  nulla— -  Lasciatemi  andare  a  sceglierne  sei  -je  m'en  charge! 

Questa  risposta  fece  il  giro  del  quartiere  generate,  e  fece  nascere 
Tidea  di  dare  a  chi  la  desiderava  una  delle  belle  odalische,  col  loro 
consenso,  s'intende  bene. 

II  primo  a  scegliere  doveva  essere  il  generale  in  capo,  che  declino 
tale  onore.  II  secondo,  il  capo  dello  stato  maggiore,  che  accetto  e  si 
fece  la  parte  del  leone  per  se  e  per  Leonetto.  La  mattina  allo  spuntar 
del  giorno  ando  con  lui  e  il  suo  dragomanno  maltese  nell5  harem, 
dove  le  donne,  awisate  la  sera,  eran  pronte  a  riceverli. 

Erano  settanta  -  venti  delle  quali  gia  avanzate  in  eta,  pingui  e 
sfigurate  -  venti  giovani  e  belle,  more  o  abissine  -  e  trenta  geor- 
giane  e  greche  con  qualche  italiana  e  spagnuola  rapite  da  bambine 
dai  corsari  ed  allevate  per  il  Dey. 

Avevano  preparato  il  caffe  con  ogni  sorta  di  dolci,  i  narghile 
e  le  pipe.  Seduti  che  furono,  lo  zio  domando  in  greco,  lingua  che 
parlava  correntemente,  se  tra  loro  vi  fossero  delle  greche. 

La  piu  bella  di  tutte  rispose :  —  Sono  greca. 

—  Volete  venire  a  stare  con  me  ? 
-Si. 

—  Sceglietene  un'altra  per  tenervi  compagnia. 

La  scelse,  -  era  una  sua  sorella.  Allora  lo  zio  ordino  che  si  met- 
tessero  insieme  per  nazione.  Fu  come  un  alveare  di  api  ai  primi 
raggi  del  sole  -  chi  correva  da  un  lato,  chi  dalPaltro,  ridendo  e  gri- 
dando  in  tutte  le  lingue;  sembrava  la  torre  di  Babele. 

Fra  quei  gridi  Leonetto  ne  senti  uno  «  Sono  taliana,  sono  taliana! ». 
-  Si  alzo  guardando  da  qual  bocca  uscisse  quel  dolce  grido,  e  vide 
un  viso  che  era  un  sorriso  divino.  Come  per  corrente  magnetica,  i 
loro  sguardi  s'incontrarono ;  e  quando  lo  zio  gli  disse:  —  Scegli  — 
non  corse,  no,  volo  precipitevolissimevolmente  gridando :  —  Sono 
italiano!  —  e  Tabbraccio  strettamente. 

E  lei  -  fosse  il  dolce  nome  di  patria  -  una  lontana  visione  dei 
suoi  -  Tistinto  della  salvezza  -  svenne  e  cadde  tra  le  sue  braccia. 

Fu  una  scena  commovente  che  inteneri  perfino  quelle  arnme  pur 
troppo  educate  ad  essere  insensibili. 

Ripresi  i  sensi,  si  scelse  per  compagna  una  bellissima  abissina. 
E  intanto  lo  zio  fece  chiedere  a  tutte  se  volessero  restare  ad  Algeri  o 
ritornare  ai  loro  paesL 

Tutte  decisero  di  rimanere  in  Algeri.  In  giornata  molte  trovarono 


I£2  LEONETTO    CIPRIANI 

protettori  -  alle  altre  fu  data  liberta  di  andare  in  citta  a  cercarsene. 
E  il  giorno  dopo  neH'harem  non  rimanevano  che  Sofia  la  bella 
greca,  Katim  (Caterina)  la  bella  italiana,  e  le  loro  due  compagne. 
Lo  zio  s'impadroni  della  graziosa  villa,  e  vi  si  stabilirono  tutt'e  due 
con  delle  serve  more. 

Ma  lo  zio  essendo  molto  occupato,  non  si  faceva  mai  vedere  du- 
rante  il  giorno,  e  Leonetto  rimaneva  solo  colle  donne.  Segui  quel 
che  doveva  succedere.  -  Un  giovine  di  diciott'anni,  bello  e  robusto 
come  Leonetto,  doveva  essere  spesso  messo  in  confronto  col  gene- 
rale,  vecchio  consumato  da  vita  dissoluta,  da  quelle  povere  menti, 
che  della  specie  umana  non  conoscevano  e  non  apprezzavano  che  la 
forza  fisica.  Finirono  per  essere  innamorate  tutt'e  quattro  di  lui  -  e 
lui,  al  quale  sei  nonavrebbero  fatto  paura-fini  per  awicinarle  tutte. 

Ma  questo  gioco  non  piaceva  a  Katim,  che  si  era  appassionata- 
mente  innamorata  di  lui  -  e  piaceva  anche  meno  allo  zio  che,  fa- 
cendo  vista  di  non  sapere  n6  vedere  nulla,  vedeva  tutto  e  sapeva 
tutto-e  si  accorgeva  che  Leonetto  deperiva  ogni  giorno  di  piu. 

In  quel  mentre  arriv6  come  un  fulmine  a  ciel  sereno  la  notizia 
della  rivoluzione  di  Francia  e  della  caduta  dei  Borboni.1  II  Bour- 
mont  e  il  Juchereau  furono  sostituiti  dai  generali  Clauzel  e  Delort,2 
e  partirono  per  la  Francia. 

Leonetto  rimase,  ma  non  essendovi  piu  ragione  per  restare  alia 
Casba,  affitto  una  casa  in  via  Bab-Oued  vicino  alia  piazza  d'armi  e 
vi  si  stabili  colla  bella  Katim,  ma  con  lei  sola,  occupandosi  intanto 
di  vendere  con  gran  benefizio  le  merci  che  gli  spediva  il  padre. 

Ma,  giunto  il  novembre,  questi  lo  richiam6  a  casa,  colPordine 
espresso  di  essere  a  Livorno  prima  della  fine  dell' anno. 

Leonetto,  conoscendo  il  puritanismo  del  padre  e  della  famiglia, 
non  sapeva  qual  partito  prendere  colla  sua  Katim  -  e  questa  giu- 
rava  che,  se  la  lasciava,  si  sarebbe  affogata  in  sua  presenza  al  mo- 
mento  della  partenza. 

A  diciott'anni  si  crede  tutto,  e  1'idea  di  vederla  sparire  nelle  onde 
lo  fece  raccapricciare.  Decise  di  condurla  seco.  Le  tagli6  i  capelli, 

i.  rivoluzione  . .  .  Borboni:  come  e  noto,  rinsurrezione  contro  Carlo  X 
di  Borbone  comincio  a  Parigi  il  27  luglio  1830  e  si  concluse  con  1'ascesa  al 
trono  di  Luigi  Filippo  d'Orl&ms.  2.  « II  conte  Bertrando  Clauzel  (1772- 
1842),  in  aspettativa  durante  la  Restaurazione,  governatore  dell* Algeria 
dal  1830  al  1832,  e  dal  1835  al  1836,  maresciallo  di  Francia  nel  1831;  il 
generale  Giacomo  Delort  (1773-1846),  distintosi  in  Ispagna  e  nella  campa- 
gna  del  1814,  in  aspettativa  durante  la  Restaurazione »  (Mordini). 


AVVENTURE   BELLA   MIA  VITA  153 

la  vesti  da  uomo,  e  la  condusse  a  bordo  come  se  fosse  un  suo  servi- 
tore.  Ma  era  il  vero  caso  di  dire  « 1'abito  non  fa  il  monaco  »  e  Pequi- 
paggio  fin  dal  primo  giorno  capi  cosa  fosse  il  servitore. 

Arrivarono  il  20  dicembre  a  Livorno,  al  lazzaretto  di  S.  Rocco. 
Scontata  una  quarantena  di  venti  giorni,  Leonetto  usci  dal  lazza 
retto  accompagnato  da  tutta  la  famiglia;  e  Katim,  vestita  da  donna 
europea,  and6  a  stare  in  una  locanduccia  in  un  luogo  appartato  della 
citta. 

E  tempo  ora  di  dire  chi  era  Katim,  e  come  era  capitata  nel  serra- 
glio  del  Dey. 

Da  quanto  si  rammentava  aver  sentito  dire  dalla  madre,  era  di 
Genova,  e  doveva  esserlo,  perche  il  poco  che  parlava  d'italiano  era 
dialetto  genovese.  I  suoi  genitori,  partiti  da  Genova  per  andare  a 
Malaga,  erano  stati  spinti  dalla  tempesta  sulle  coste  d' Africa  e  fatti 
schiavi.  II  padre  era  morto  poco  dopo,  e  la  madre,  incinta,  essendo 
bellissima,  era  stata  venduta  al  Dey,  ed  era  morta  quando  la  figlia 
poteva  avere  sei  o  sette  anni.  E  Katim  era  stata  educata  da  una 
vecchia  genovese  di  buona  famiglia,  schiava  da  molti  anni,  e  inca- 
ricata  d'insegnare  la  musica  alle  bambine  del  serraglio,  finche  a 
quindici  anni  era  entrata  nelPharem. 

Era  Katim  un  tipo  raro  di  bonta  e  di  dolcezza,  e  aveva  un  istin- 
tivo  senso  morale  ed  un  pudore  infantile.  Nel  fisico  era  la  Venere  del 
Campidoglio  -  alta  -  ben  formata  -  pelle  fmissima  e  vellutata  -  ca- 
pelli  neri  lucidi  come  le  penne  del  corvo  -  bocca  di  paradiso  - 
sguardo  velato  e  sorriso  di  sirena.  Di  carattere  era  triste  e  malinco- 
nica  -  parlava  poco,  come  se  il  parlare  fosse  una  fatica  per  lei.  E 
raccontava  che  il  Dey  non  P aveva  mai  distinta  fra  le  altre  per  la  sua 
malinconia  e  la  sua  freddezza. 

Se  Leonetto  alia  sua  eta  amasse  una  donna  simile,  e  facile  im- 
maginarlo,  -  ed  e  facile  capire  quanto  lei  lo  contraccambiasse,  poi- 
che  non  aveva  che  lui  in  questo  mondo,  e  senza  di  lui  non  sapeva 
immaginare  1'esistenza.  Ignorando  poi  in  gran  parte  le  difficolta 
che  Leonetto  aveva  da  vincere,  viveva  tranquilla,  sempre  chiusa 
nella  sua  camera  ad  aspettarlo.  Ma  egli,  per  allontanaie  i  sospetti, 
non  poteva  vederla  che  poco  e  di  rado,  e  mai  la  notte. 

Era  arrivato  appena  da  una  settimana,  quando  una  mattina  il 
padre  lo  sveglia  e  gli  dice:  —  Alzati  -  si  parte  subito  per  Firenze. 

Con  quel  padre  non  era  possibile  far  Tombra  di  un'osservazione. 
Non  restava  che  obbedire  e  partire. 


1^4  LEONETTO    CIPRIANI 

QuelFimprowisa  partenza  era  cagionata  senza  dubbio  dal  fatto 
che  il  padre  vedeva  deperire  il  figlio  ogni  giorno  piii,  e  supponeva 
che  cio  provenisse  da  cattive  abitudini  contratte  in  Algeri.  E  penso 
percio  di  condurlo  in  una  villa  isolata  che  aveva  in  affitto  nelle  vi- 
cinanze  di  Firenze,  sicuro  che  Leonetto,  allontanato  dalle  tenta- 
zioni,  sotto  la  sorveglianza  di  un  vecchio  e  fido  servitore  si  sarebbe 
presto  ristabilito. 

Sei  giorni  dopo  1'arrivo  alia  villa,  il  padre  parti  per  Livorno, 
ordinando  al  figlio  di  stare  nella  villa  finche  non  tornasse  e  di 
non  mettere  piede  in  citta,  ma  permettendogli  di  fare  lunghe  passeg- 
giate  a  cavallo  sui  colli. 

La  sera  Leonetto  usci  per  fare  una  passeggiata  col  cavallo  arabo 
All  che  aveva  portato  da  Algeri,  ed  infilo  la  via  di  Livorno.  Fece 
sessanta  miglia  in  dodici  ore,  fermandosi  soltanto  un'ora  alPOste- 
ria  Bianca,1  e  la  mattina  al  far  del  giorno  entro  in  citta. 

Mise  il  cavallo  in  una  stalla  vicino  alia  posta  dei  cavalli,  ed  and6 
alia  locanda  della  Pace,  dirimpetto  alia  stalla,  dove  aveva  lasciato 
Katim.  Entro  inaspettato  nella  sua  camera,  e  la  trovo  seduta  sul 
letto  con  un  Cristo  nelle  mani,  piangendo  come  una  Maddalena 
penitente. 

La  sera  a  notte  oscura,  dopo  averle  promesso  di  tornare  ogni 
quattro  giorni  a  vederla,  risali  a  cavallo,  ed  arrivb  la  mattina  alia 
villa,  dove  disse  al  servitore  di  aver  passato  il  giorno  prima  da  un 
arnico,  in  una  villa  vicina. 

Due  giorni  dopo  riparti,  e  cosi  di  seguito  per  quattro  volte.  E 
malgrado  il  freddo,  la  pioggia,  la  neve  e  le  dodici  ore  in  compagnia 
di  Katim,  la  sua  costituzione  di  ferro  era  tale  che  pote  reggere  a  cosi 
dura  fatica. 

Ma  la  quinta  volta,  mentre  era  con  Katim,  lo  prese  un  tremito 
con  febbre.  Impossibile  partire  la  sera  -  rimase  con  lei  la  notte  e  il 
giorno  dopo.  La  sera,  sentendosi  meglio,  voile  partire,  prevenen- 
dola  che,  se  non  lo  rivedesse  per  molti  giorni,  stesse  tranquilla  ad 
aspettarlo. 

E  lei  che  nata  in  Algeri  non  era  stata  battezzata,  e  della  religione 
cristiana  non  aveva  che  poche  nozioni  insegnatele  dalla  vecchia 
genovese,  gli  chiese  in  grazia  di  permetterle  di  farsi  battezzare,  e 
gli  domando  a  chi  doveva  rivolgersi.  Egli  la  consigli6  di  andare 

i.  Osteria  Bianca:  « Vicino  ad  Empoli»  (Mordini). 


AVVENTURE  BELLA  MIA  VITA  155 

dal  vescovo,1  che  era  un  sant'uomo,  e  di  fare  tutto  quello  che  le 
avrebbe  suggerito.  -  La  religione  che  e  la  consolazione  delle  anime 
afHitte,  doveva  essere  la  sua. 

Leonetto  parti  col  presentimento  che  era  Tultima  volta  che  la 
vedeva,  ed  arrivato  alia  villa,  cadde  malato  di  febbre  cerebrale. 

I  genitori,  informati  da  un  espresso,  accorsero,  e  trovarono  il 
figlio  morente,  fuori  di  se  -  e  chiamando  sempre  Katim,  Katim. 

II  padre,  informato  dal  servo  che  il  figlio  di  quando  in  quando 
faceva  delle  grandi  scappate  a  cavallo,  e  quasi  sempre  con  quello 
arabo,  supponendo  che  vi  fosse  sotto  un  grande  amore,  voile  co- 
noscere  la  causa  del  male  per  pond  rimedio. 

La  sera,  all'ora  che  Leonetto  soleva  partire,  ordino  la  sua  car- 
rozza,  e  la  fece  precedere  da  un  palafreniere  montato  su  Ali,  ma  a 
briglia  libera,  affinche  il  cavallo  potesse  prendere  la  via  che  era 
abituato  a  seguire.  Prese  la  via  di  Livorno  e  arrivato  alPOsteria 
Bianca  verso  la  mezzanotte,  si  fermo  alia  posta.  Proseguirono  dopo 
due  ore  di  riposo,  e  arrivati  la  mattina  a  Livorno,  il  padre  mand6 
la  carrozza  alia  villa,  sali  sopra  Ali,  ed  entrato  in  citta  lo  Iasci6  an- 
dare  da  se  stesso,  ed  il  cavallo  ando  diritto  alia  solita  stalla  accanto 
alia  posta. 

Scese,  consegno  Ali  allo  stalliere,  e  gli  domando  se  conosceva 
quel  cavallo.  Rispose  che  veniva  spesso  alia  sua  stalla. 

—  Sapete  di  chi  e? 

—  Sissignore  -  me  Tha  detto  il  Bacci  -  e  del  Cipriani. 

Ando  dal  Bacci,  che  era  seduto  sulla  porta,  e  gli  chiese  se  avesse 
veduto  qualche  volta  il  figlio  arrivare  a  cavallo. 

—  Sissignore  -  arriva  spesso  la  mattina,  scende  a  quella  locanda 
e  riparte  la  sera. 

Per  il  momento  ne  sapeva  abbastanza.  Ando  alia  villa  a  ripo- 
sarsi,  e  dopo  mezzogiorno  si  diresse  alia  locanda  e  chiese  al  pa 
drone  :  —  Potreste  dirmi  chi  avete  alia  locanda  ? 

—  C}e  un  prete  di  Pisa  -  un  fattore  di  Lucca  -  e  poi  c'e  una 
ragazza  che  e  qui  da  quasi  due  mesi. 

Gli  mise  in  mano  uno  zecchino,  e  gli  disse:  —  Voglio  sapere 
tutta  la  verita. 

—  Sissignore,  ma  non  occorre  che  lei  s'incomodi  —  rispose,  met- 
tendosi  per6  i  due  francesconi2  in  tasca. 

i.  vescovo:  «Monsignor  Angelo  Gilardoni,  vescovo  di  Livorno  dal  1821 
al  1834*  (Mordini).  2.  due  francesconi  formavano  vino  zecchino  toscano. 


156  LEONETTO    CIPRIANI 

—  Chi  e  la  ragazza  die  dite? 

—  Non  lo  so,  ma  dev'essere  una  forastiera,  perche  parla  male 
toscano. 

—  £  giovine  ? 

—  Se  e  giovine!  dica  una  bimba  -  bella  come  il  sole  -  e  buona 
buona  -  mi  aiuti  a  dir  buona. 

—  £  sola? 

—  Sissignore,  sempre  sola. 
— -  Non  vede  mai  nessuno? 

—  Veramente,  nessuno  e  troppo.  C'e  un  bel  giovine!  Ma  per 
carita  non  mi  comprometta.  Sono  un  pover'uomo  carico  di  famiglia, 
che  faccio  i  miei  affari  per  strappare  il  pane. 

—  State  tranquillo  -  non  solo  non  vi  comprometto,  ma  vi  ricom- 
pensero  come  meritate. 

—  Ma  scusi,  lei  e  della  polizia  ? 

—  No,  sono  un  padre  che  cerca  suo  figlio. 

—  Dio  buono!  Ma  che  sarebbe  il  babbo  di  quel  bravo  giovine 
che  vuol  tanto  bene  alia  signora  Katima? 

—  SI,  sono  precisamente  lui.  Ditemi  ora  quando  mio  figlio  e 
venuto  qui? 

—  Sara  due  mesi.  In  sul  principio  ci  veniva  tutti  i  giorni  -  poi, 
di  quando  in  quando,  arrivava  la  mattina  e  se  ne  andava  la  sera. 
Ora  sono  diversi  giorni  che  non  si  vede,  e  la  signorina  piange 
giorno  e  notte  che  fa  proprio  compassione.  -  Se  sapesse  come  e 
buona!  Lo  sa?  Paltro  giorno  mi  ha  portato  dal  vescovo  -  c'e  stata 
un'ora  e  poi  mi  sono  sentito  chiamare  -  Tha  battezzata  e  sono  stato 
il  su'  compare.  Si  vede  che  non  era  cristiana.  Dopo  d'allora  e  sem 
pre,  giorno  e  notte,  con  un  Cristo  in  mano,  e  piange,  piange  che 
non  smette  mai. 

—  Chi  vi  paga  la  locanda?  avanzate  nulla? 

—  Oh!  Dio  liberi!  la  signorina  mi  paga  puntualmente  tutte  le 
settimane  come  un  botteghino  del  lotto.  Dev'essere  ricca,  sa!  Ha 
tante  gioie!  N'ha  un  baule  pieno.  La  mia  Betta  dice  ch'e  piu  ricca  del 
Bartolommei,1  -  e  poi,  vuol  che  gli  dica  tutto  ?  leri  mi  mand6  a 
vendere  un  anello  con  un  brillantone.  Andai  dal  Pini~sa,  qui 
vicino  -  perche  lui  e  un  galantuomo  -  lo  peso  -  e  sa  quanto  mi 


i.  Bartolommei:  « Famiglia  c6rsa  stabilitasi  a  Livorno  per  ragioni  di  affari, 
e  divenuta  rapidamente  una  delle  piu  ricche  della  citta»  (Mordini). 


AVVENTURE   BELLA  MIA   VITA  157 

dette  ?  800  francesconi  tondi  tondi.  -  Glieli  portai  puntualmente,  e 
mi  ha  regalato  uno  zecchino  come  lei. 

Dopo  aver  riflettuto  sul  da  farsi,  fece  awisare  Katim  che  c'era 
il  padre  di  Leonetto  che  desiderava  parlarle.  Era  tanto  il  dolore  di 
queirinfelice,  che  non  esito  un  momento  e  lo  fece  entrare.  Con  le 
lacrime  agli  occhi  gli  fece  cenno  di  sedere,  e  gli  domandd :  —  Voi 
siete  il  padre  di  Leonetto? 

-Si. 

—  6  malato  ? 

—  Si,  e  gravemente  malato. 

Non  pianse,  ma  rimase  impietrita.  Datole  il  tempo  di  riaversi, 
il  padre  le  domand6 :  —  Di  dove  e  lei  ? 
— -  Non  lo  sapete? 

—  No  -  non  so  niente  -  ed  ho  bisogno  che  lei  mi  dica  tutto,  se 
vogliamo  salvare  Leonetto. 

Gli  raccont6  come  Paveva  conosciuto  in  Algeri  -  come  si  tro- 
vava  a  Livorno  -  come  da  due  giorni  soltanto  si  era  fatta  battez- 
zare  dal  vescovo  -  e  come,  dopo  Dio,  il  suo  solo  protettore  e  salva- 
tore  fosse  Leonetto. 

II  padre,  gia  meravigliato  di  vedere  quelPangiolo  di  bellezza  con 
tanta  espressione  di  bonta,  rimase  intenerito  da  tanto  amore;  - 
e  per  quel  giorno  non  ebbe  coraggio  dl  dirle  altro.  Si  alzo,  le  doman- 
do  se  poteva  tornare  il  giorno  dopo,  e  usci,  lasciando  Katim  incan- 
tata  dalla  bonta  di  quel  vecchio  venerando,  che  alia  severita  pa- 
terna  sapeva  unire  la  carita  cristiana. 

Torn6  Findomani,  e  lei  piu  bella  che  mai,  perche  nella  notte 
aveva  probabilmente  fatto  sogni  ridenti  pieni  di  speranze  nell'awe- 
nire,  gli  bacio  la  mano  e  gli  disse:  —  lo  sono  un'infelice  che  non 
e  degna  neppure  di  baciarvi  la  mano,  ma,  per  1'amor  di  Dio, 
ditemi  dov'e,  e  se  e  in  pericolo. 

Le  raccontc-  tutto  per  filo  e  per  segno  -  e  senza  darle  tempo  a 
rispondere,  aggiunse :  —  Per  quanto  io  vi  ammiri  e  sia  incantato 
della  vostra  bonta  -  voi  non  potete  essere  nulla  per  Leonetto.  Voi 
stessa  convenite  della  vostra  triste  condizione,  dellsinfelice  vostra 
sorte.  Scusate  la  mia  franchezza  per  il  vostro  bene  e  quello  di  mio 
figlio.  -  Non  e  possibile  che,  uscita  dal  serraglio  di  un  turco  - 
buttata  nelle  braccia  di  Leonetto  da  un  vecchio  libertino,  nel 
quale  non  mi  perdoner6  mai  di  aver  avuto  cieca  fiducia  -  voi  vi- 
viate  con  lui  in  qualsiasi  modo;  -  non  puo  essere  in  questo  paese, 


158  LEONETTO    CIPRIANI 

e  molto  meno  nella  mia  famiglia.  -  Dite  voi  cosa  vi  resta  da  fare. 

—  Salvare  prima  di  tutto  Leonetto,  —  rispose  Katim  —  e  vi  do 
la  mia  parola  d'onore,  se  onore  s'intende  che  abbia  un'infelice 
come  me,  -  vi  giuro  su  questo  Cristo,  che  quando  lo  avro  veduto 
sano  e  salvo,  spariro  per  sempre. 

Al  vecchio  padre  queste  parole  fecero  gelare  il  sangue  nelle  vene, 
perche  sapeva  di  cosa  e  capace  una  donna  che  ami  con  passione. 
Ma  malgrado  quel  che  sentiva  internamente,  dove  essere  crudele,  e 
parti  dicendole  soltanto  che  le  credeva,  e  che  ogni  giorno  le  avrebbe 
scritto  le  nuove  del  figlio. 

Tornato  alia  villa,  lo  trovo  migliorato  nel  fisico,  ma  peggiorato 
molto  nel  morale.  Non  conosceva  piu  nessuno  -  non  parlava  che 
di  guerra,  di  arabi,  di  francesi,  -  e  sempre  Katim,  Katim.  Ma  per 
calrnare  il  suo  delirio,  basto  che  il  padre  ripetesse  quel  nome,  ag- 
giungendo:  —  L'ho  veduta-ti  aspetta. 

Da  principio  spalanco  gli  occhi,  e  tese  gli  orecchi  come  per  udire 
una  voce  lontana  -  poi  a  poco  a  poco  fisso  lo  sguardo  sul  padre  - 
gli  prese  la  mano  -  e  finalmente  gli  si  butto  al  collo,  e  pianse  dirot- 
tamente. 

Era  salvo.  La  malattia  fu  lunga,  ma  il  ventunesimo  giorno  cesso 
la  febbre  e  cominci6  la  convalescenza. 

II  padre,  scrupoloso  osservatore  della  parola  data,  ogni  giorno 
mandava  a  Katim  le  notizie  del  figlio,  e  appena  questi  fu  in  grado 
di  farlo  da  se,  glielo  permise.  E  quando  fu  completamente  rista- 
bilito,  gli  ordino  di  scriverle  che  fra  due  o  tre  giorni  sarebbe  an- 
dato  da  lei  per  dirle  addio. 

Infatti,  arrivato  a  Livorno,  il  padre  gli  disse:  —  Andrai  dalla  si- 
gnora  Katim  e  le  dirai  che  domani  parti  per  rAmerica. 

Leonetto  abbasso  la  fronte  perche  sapeva  che,  se  il  padre  era 
stato  buono  e  pietoso,  era  pero  inesorabile,  ed  assoluto  nella  sua 
volonta. 

Ando  alia  locanda,  ma  Katim  era  partita  il  giorno  innanzi  con 
tutta  la  sua  roba,  lasciando  una  lettera  per  lui.  L'apri  -  c'era  una 
treccia  di  capelli,  e  queste  sole  parole:  «  Addio,  ti  rivedro  in  cielo! ». 

Corse  tutta  la  citta  -  alia  locanda,  alia  polizia,  aH'ufficio  dei  pas- 
saporti,  al  porto  -  nessuna  traccia  di  Katim. 

Torno  alia  locanda,  e  seppe  che  era  partita  con  una  timonella1 
condorta  da  un  certo  Conti.  Riusci  a  trovarlo,  e  gli  domando  se  il 
i.  timonella'.  «Carrozza  a  quattro  ruote  e  ad  un  cavallo»  (Mordini). 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  159 

giorno  innanzi  aveva  preso  una  signora  alia  locanda  della  Pace. 

—  Sissignore. 

—  Dove  1'avete  condotta? 

—  Mi  ordino  di  andare  da  un  ebreo  che  comprasse  roba  vec- 
chia  -  la  portai  in  via  degli  Ebrei  -  fece  scaricare  i  bauli  -  ci  stette 
mezz'ora  e  risali  in  carrozza  senza  la  roba,  fuorch6  un  baulino  ros 
so  (era  quello  delle  gioie).  -  Mi  disse  di  andare  dal  vescovo  - 
scese,  mi  fece  portare  dentro  il  baulino,  e  ci  stette  piu  di  un'ora.  - 
Torno  senza  il  baulino,  e  mi  ordino  di  andare  all'Ardenza,  e  li 
stette  seduta  sopra  uno  scoglio  fmo  a  notte  avanzata.  Si  torno  in 
citta,  scese  alia  marina  dei  Mori,1  mi  pago  bene  e  se  ne  ando. 

Mentre  il  vetturino  diceva  queste  ultime  parole,  Leonetto  vide 
una  quantita  di  popolo  che  correva  allo  scalo  dinanzi  ai  Mori. 
Come  per  istinto  si  diresse  da  quel  lato  -  traverso  la  folia  e  vide 
Katim  morta  annegata! 

Cadde  svenuto  e  fu  dallo  stesso  vetturino  portato  alia  villa, 
dove  Iott6  due  mesi  tra  la  vita  e  la  morte. 


[LA  TOSCANA  E  LA   CAMPAGNA  DEL    1 848]* 

Primo  il  re  di  Napoli  proclamo  la  costituzione.  Lo  segui  il  Gran- 
duca,  e  dopo  loro  Carlo  Alberto  e  il  Papa.3 

II  24  febbraio  scoppi6  la  rivoluzione  in  Francia.  I  Milanesi  in- 
sorsero  e  scacciarono  gli  Austriaci,  Carlo  Alberto  pass6  il  Ticino 
con  Tarmata  piemontese  e  si  diresse  su  Mantova. 

I  Toscani  gridavano  per  le  strade  armi  ed  armati  per  scendere  in 
Lombardia,  ma  nessuno  oso  prendere  Piniziativa  dirigendosi  al 
presidente  del  consiglio  dei  ministri,  il  marchese  Ridolfi,4  e  al 
Granduca.5 

i.  marina  dei  Mori:  cosi  detta  perche*  vi  sorge  il  monumento  a  Ferdinando  I 
di  Lorena,  opera  del  Tacca,  dove  figurano,  nel  piedestallo,  quattro  mori 
incatenati.  2.  Ed.  cit.,  vol.  I,  dal  cap.  xm,  pp.  115-61.  3.  Primo  ... 
Papa:  «2O  gennaio,  15  febbraio,  4  e  14  marzo  i848»  (Mordini).  4.  «I1 
marchese  Cosimo  Ridolfi  (1794-1865),  valentissimo  agronomo,  aio  dei  figli 
del  Granduca  e  uno  dei  capi  del  partito  liberale  moderato  in  Toscana,  fu 
ministro  delT interne  nel  1847,  presidente  del  Consiglio  e  incaricato  di  una 
missione  diplomatica  a  Parigi  e  Londra  nel  1848,  ministro  degli  esteri  nel 
'59  dopo  la  rivoluzione  del  27  aprile,  e  senatore  Tanno  seguente.  Non  fu 
per6  che  il  4  giugno  1848  che  egli  successe  al  Cempini  come  presidente  del 
Consiglio»  (Mordini).  5.  Granduca:  Leopoldo  II  (1797-1870)  governd 
la  Toscana  dal  1824  al  1859. 


l6o  LEONETTO    CIPRIANI 

Fu  tuo  padre  che  senza  dir  niente  a  nessuno  si  presento  al 
Ridolfi,  e  gli  disse:  —  Lei  sa  che  io  sono  awerso  alle  dimostra- 
zioni  di  piazza.  Per  non  prendervi  parte  neppure  indiretta  sono 
fuggito  lontano.  Ma  oggi  le  dimostrazioni  debbono  finire  per  dar 
luogo  a  propositi  di  uomini  che  pensano  seriamente  al  risorgi- 
mento  italiano.  -  I  Milanesi  hanno  scacciato  gli  Austriaci,  e  Carlo 
Alberto  ha  passato  il  Ticino.  I  Toscani  debbono  partire  immedia- 
tamente  per  la  Lombardia,  organizzati  o  non  organizzati;  il  primo 
movimento  deve  essere  tutto  di  effetto  morale  sul  resto  d5  Italia. 
fe  necessario  che  oggi  stesso  il  Granduca  dichiari  guerra  all' Austria 
e  con  un  proclama  chiami  i  Toscani  sotto  la  bandiera  tricolore. 

II  buon  Ridolfi  rimase  spaventato,  e  rispose  il  solito  « vedremo  - 
mi  ci  lasci  pensare  -  si  fara». 

Ma  non  era  piu  il  tempo  di  contentarsi  dei  vedremo  e  dei  si  fara. 
Leonetto  gli  rispose  con  tuono  risoluto :  —  Se  lei  entro  oggi  non 
mi  da  Pordine  di  partenza  dei  volontari  e  delle  truppe  regolari, 
partiremo  domani  tutti  in  massa  strascinando  o  con  le  buone  o  con 
le  cattive  armi  ed  armati  regolari. 

II  Ridolfi,  con  quella  rara  lealta  che  lo  distingueva  rispose: 
—  Voglion  che  sia  cosi,  e  cosi  sia.  Non  domando  di  meglio.  Vado  dal 
Granduca.  -  Torni  a  mezzogiorno,  le  daro  la  risposta. 

Torno  a  mezzogiorno.  La  risposta  fa  che  il  consiglio  dei  mi- 
nistri  si  sarebbe  riunito  a  palazzo  Pitti  per  le  due.  Gli  disse  che  il 
Granduca  si  mostrava  favorevole,  ma  voleva  il  consenso  di  tutti 
i  ministri;  ed  aggiunse :  —  Venga  a  palazzo  Pitti  alle  tre  e  mi  aspetti 
nel  salone  davanti  al  gabinetto  del  Granduca. 

Alle  tre  Leonetto  era  seduto  in  quel  salone,  quando  vide  appa- 
rire  la  Granduchessa1  che  gli  disse  con  tuono  secco : 

—  £  lei  il  Cipriani  ? 

—  Altezza  si. 

—  Aspetti  -  tra  un  momento  sara  contento.  Ma  Dio  voglia  che 
finisca  bene!  —  E  se  ne  and6,  lasciando  tuo  padre  con  un  naso  piu 
lungo  di  quello  del  Paganini.2 

Poco  dopo  entro  il  Ridolfi  con  in  mano  un  piego  non  sigillato. 
Era  il  proclama  manoscritto  che  permetteva  ai  Toscani  di  partire 
per  la  Lunigiana. 

i.  la  Granduchessa:  Maria  Antonia,  dei  Borboni  di  Napoli,  aveva  sposato 
Leopoldo  II  nel  1833.  Mori  nel  1896.  2.  Allude  al  celebre  violinista 
Niccol6  Paganini  (1784-1840). 


AVVENTURE   DELLA    MIA   VITA  l6l 

Non  era  tutto,  ma  era  molto  e  bastava.  Era  il  caso  di  dire: 
//  rfy  a  que  le  premier  pas  qui  coute. 

Chiese  un  treno  espresso  per  Pisa  e  Livorno.  L'ottenne  -  ed 
andando  alia  locanda  a  prendere  il  suo  fagotto  incontr6  Rinaldo 
Ruschi1  al  quale  disse  cio  che  aveva  ottenuto  e  che  invito  a  partire 
con  lui. 

Partirono.  Alia  Rotta,  traversando  la  via  maestra,  la  locomotiva 
dette  contro  un  baroccio  tirato  da  muli,  e  li  massacre.  Fu  salvo 
il  barocciaio,  il  quale  comparve  il  giorno  dopo  a  Livorno  a  chie- 
dere  un'indennita.  Leonetto  gli  regalo  venti  zecchini,  e  fu  quello  il 
primo  sacrificio  pecuniario,  come  fu  il  primo  sangue  sparso  in 
Toscana  per  1'indipendenza  italiana. 

Arrivarono  a  Pisa  ad  ora  tarda.  Molti  cittadini  e  tutti  gli  ufE- 
ciali  della  guardia  nazionale  eran  riuniti  in  casa  del  colonnello 
Dal  Borgo.2  Comunico  il  proclama,  che  fu  mandato  per  espresso  a 
Lucca,  e  parti  per  Livorno,  ove  arrivo  sul  far  del  giorno. 

Ando  dal  Bargagli3  governatore  della  citta,  che  abitava  allora  il 
palazzo  del  Granduca.  Era  a  letto  -  ma  se  Leonetto  aveva  passato 
la  notte  in  viaggio,  poteva  bene  alzarsi  lui  alle  cinque! 

Con  un  tuono  da  dittatore  lo  fece  svegliare.  Si  alzo,  ed  in  veste 
da  camera  lo  riceve  in  un  salotto  dove  Leonetto  non  aveva  mai  messo 
piede  ne  ve  lo  mise  mai  piu,  pero  lo  rammentava  vent'anni  dopo, 
come  se  lo  avesse  veduto  il  giorno  innanzi  -  tappezzerie  giallo 
arancio,  tende  e  mobili  di  damasco  arancio. 

Comunico  al  Bargagli  il  proclama,  con  la  lettera  aperta  del  pre- 
sidente  del  consiglio  che  gli  ordinava  di  farlo  stampare  ed  affig- 
gere  sulle  canto  nate. 

Lesse  e  rilesse  il  proclama  e  poi  la  lettera  -  si  strofino  gli  occhi 
credendo  sognare  -  rilesse  -  e  non  essendo  ancora  convinto  che 
quel  che  leggeva  era  una  realta,  domand6 :  —  Questo  e  il  proclama  — 
questa  e  la  lettera  del  Ridolfi  ? 

—  Sissignore  -  bisogna  subito  farlo  stampare. 

—  Come,  subito?  Vedremo! 

i.  « Rinaldo  Ruschi  (1817-1891),  patriotta  pisano,  deputato  all'Assemblea 
toscana  del  1859,  e  poi  al  Parlamento  italiano  dalla  7a  alia  9a  legislatura,  se- 
natore  nel  1868 »  (Mordini).  2.  « Giovanni  Saladino  Dal  Borgo  (1807- 
1861),  di  nobile  famiglia  pisana,  membro  del  Senato  toscano  nel  1848)) 
(Mordini).  3.  « II  cav.  Scipione  Bargagli,  governatore  civile  e  militare  di 
Livorno  dal  15  gennaio  al  24  marzo  1848,  e  prima  e  dopo  ministro  di 
Toscana  presso  la  S.  Sede»  (Mordini). 


162  LEONETTO    CIPRIANI 

—  Come,  vedremo  ?  Le  dico :  subito,  senza  perdere  un  minuto  — 
e  cosi  dicendo  si  alzo,  gli  levo  di  mano  il  proclama,  e  suono  forte  il 
campanello. 

Comparve  lo  stesso  servitore  che  di  pessimo  umore  gli  aveva 
aperto  il  portone,  e  di  pessimo  umore  rispondeva  ad  una  chiamata 
imperativa,  alia  quale  non  erano  abituati  in  quel  palazzo.  —  Chia- 
mate  il  segretario  di  Sua  Eccellenza  — -  gli  disse  Leonetto. 

—  Non  dorme  in  palazzo. 

—  Correte.a  cercarlo  in  casa  sua  e  conducetelo  subito  qui. 
Sua  Eccellenza  non  fiatava,  assorto  nel  pensiero  di  cio  ch'era  per 

lui  la  fine  del  mondo.  Ma  Leonetto,  al  quale  il  viaggio  e  Pinsonnia 
avevano  aguzzato  Tappetito,  gli  domando  se  poteva  fargli  preparare 
un  po'  di  colazione. 

—  Sissignore,  ma  bisogna  svegliare  il  cuoco. 

—  Lo  svegli. 

—  Non  so  dove  sta. 

—  Suoni  tutti  i  campanelli,  qualcheduno  deve  corrispondere  al 
piano  superiore  dove  dorme  la  servitu. 

E  Sua  Eccellenza  corse  a  suonare  i  campanelli  con  tanta  buona 
volonta  da  strappar  tutto,  finche  comparvero  uno  dopo  Paltro  una 
mezza  dozzina  di  giovani  e  vecchi  sciancati  mezzi  vestiti  -  i  piu 
fiorentini,  perche  vecchi  servi  addetti  al  palazzo.  —  Icche  c'e  egli  ?  - 
c'£  iffoco  ?  -  Oh  eccellenza  la  scusi,  i9  sono  in  camicia  —  e  cosi  tutti 
nello  stesso  tono,  da  far  crepare  dalle  risa  il  GoldonL 

Ma  T Eccellenza,  furiosa  di  trovarsi  a  contatto  con  quella  gente, 
esclamo :  —  Dov'e  il  cuoco  ? 

—  Eccellenza,  iccoco  e'  un  c'e  -  un  dorme  a  ippalazzo  -  e'  gli 
e  un  livornese  che  dorme  accasa  sua. 

—  Nessuno  di  voi  sa  fare  un  po'  di  colazione,  il  caffe  ? 

—  Eh  diamine,  Eccellenza  -  i'  1'ho  fatto  per  ippadron  Ferdi- 
nando1  bon'anima, 

—  Ebbene,  fate  del  caffe,  delle  ova  -  portate  quel  che  trovate  in 
dispensa. 

Poco  dopo  era  imbandita  una  splendida  colazione  con  i  resti 
del  pranzo  del  giorno  prima;  ma  resti  che  meritavano-  esser  prin- 
cipio  di  un  altro  pranzo:  un  fagiano  arrosto  ripieno  di  tartufi- 
una  galantina  intatta  -  un  fricand6  e  diversi  piatti  di  dessert  inci- 
gnati. 

i.Ferdinando  III,  padre  di  Leopoldo  II  e  suo  predecessore  sul  trono. 


AVVENTURE  BELLA  MIA  VITA  163 

II  personale  di  servizio  era  al  complete  e  in  livrea  -  ed  avendo 
senza  dubbio  preso  Leonetto  per  un  principe  di  casa  d' Austria, 
un  vecchio  domand6  alPorecchio  di  Sua  Eccellenza :  —  La  ordina 
vini  forestieri  ? 

Fu  Leonetto  che  rispose  con  un  si  sonoro :  —  Una  bottiglia  di 
sciampagna  non  fara  male. 

Fu  stappata  e  versata,  e  Leonetto  fece  il  primo  brindisi  -  ewiva 
il  Granduca,  ewiva  1'Italia  -  al  quale  1'Eccellenza  rispose  balbet- 
tando,  non  essendo  ancora  ben  certa  che  tutto  quello  che  seguiva 
fosse  una  realta. 

Cosa  mangio  tuo  padre  non  e  credibile.  Spari  il  fagiano,  spari 
la  galantina  e  sarebbe  sparito  il  resto,  se  non  arrivava  il  segretario. 
Leonetto  si  alzo,  e  dando  il  proclama  al  Bargagli,  gli  disse:  — 
Tocca  a  lei  dare  gli  ordini. 

Lo  rilesse  daccapo,  e  finalmente  disse  al  segretario :  —  Porti 
questo  proclama  alia  stamperia.  —  E  Leonetto  aggiunse:— Lo 
aspetti,  e  appena  pronto  ne  porti  cinquanta  copie  ~  e  poi  cinque- 
cento.  Aspetto  qui. 

Voleva  rimettersi  a  tavola  -  se  non  lo  fece,  fu  per  pudore.  Prese 
il  caffe  ritto,  e  prego  I'Eccellenza  di  andare  a  fare  la  sua  toilette, 
mentre  lui  avrebbe  fatto  un  sonno  sopra  il  sofa.  E  partito  il  Barga 
gli,  si  sdrai6  e  attacco  un  sonno  cosi  profondo  che  per  svegliarlo  ci 
vollero  le  grida  di  migliaia  di  matti  che  sotto  le  finestre  urlavano: 
—  Viva  Leopoldo,  viva  Pio  IX,  viva  1'Italia! 

La  voce  si  era  sparsa  dalla  stamperia,  e  prima  che  fosse  affisso 
il  proclama  ne  giravan  gia  molte  copie. 

Arrive  il  segretario  coi  proclami,  e  Leonetto  disse  al  Bargagli:  — 
Ne  butti  qualche  copia  dal  terrazzo. 

—  La  mi  faccia  il  piacere  -  glieli  butti  lei. 

Cosi  fece  Leonetto,  e  senza  dir  addio  alia  ridicola  Eccellenza, 
infilo  1'uscio,  e  ando  alia  sua  villa  a  dormire  e  digerire  il  copioso 
pasto  fatto  ad  ora  insolita.  Alle  due  ando  in  citta  da  Gian  Paolo 
Bartolommei  maggiore  della  guardia  nazionale,  ove  eran  tutti  riu- 
niti  per  prendere  i  prowedimenti  per  la  partenza. 

Racconto  il  fatto,  e  raccomando  di  non  perdere  tempo.  —  In 
ogni  mo  do  domani  deve  partire  il  primo  battaglione. 

—  Si,  si,—  risposero  tutti—  domani  partiremo  colla  sola  camicia, 
se  occorre,  ma  partiremo. 

Dopo  aver  messo  in  moto  la  cosa  pubblica,  Leonetto  pensd  a 


164  LEONETTO    CIPRIANI 

quella  privata.  -  Sistem6  gli  affari  di  famiglia  in  modo  da  esser 
tranquillo  sull'awenire  della  madre  e  del  fratello,  se  la  guerra  gli 
fosse  stata  fatale.  -  Si  equipaggio  di  tutto  quanto  poteva  occorrergli, 
e  non  essendo  neppure  della  guardia  nazionale  si  fece  fare  un'uni- 
forme  di  sua  invenzione  -  tunica  verde  a  mostreggiature  rosse  con 
una  fila  di  bottoni  lisci,  calzoni  verdi  foderati  di  pelle,  berretto 
verde  orlato  di  rosso,  cinturone  di  cuoio  e  bar  datura  completa  di 
cavalleria.  Non  uno  stemma,  non  un  filo  di  oro  o  di  argento. 

Per  armi  porto  due  sciabole,  due  pistole  a  cartuccia  a  doppio 
colpo,  una  carabina  Lepage1  ed  un  fucile  da  munizione  di  Saint- 
fitienne.2 

Non  sapendo  come  avrebbe  servito  e  cosa  avrebbe  fatto,  parti 
in  una  carrozza  con  due  buoni  cavalli,  e  condusse  seco  il  suo  vec- 
chio  cameriere  Jacopo. 

E  finalmente  prese  alia  banca  Adami  una  credenziale  di  100.000 
franchi  sopra  il  banchiere  Laurent  di  Parma. 

Avendo  tutto  preparato,  raccomando  la  madre  allo  zio  Carac- 
ciolo,  la  tranquillizzo  sulle  sorti  della  guerra,  Pabbraccio  e  parti. 

A  Pietrasanta  raggiunse  i  volontari  livornesi.  Ne  aveva  il  co- 
mando  il  maggiore  Baldini,3  delParmata  regolare,  suo  intimo  ami- 
co;  e  ne  era  stato  nominato  commissario  straordinario,  per  sugge- 
rimento  da  lui  dato  al  Ridolfi,  1'altro  suo  intimo  amico,  il  professore 
Matteucci.4 

Quella  riunione  di  armati  veniva  chiamata  volontari,  ma  in 
realta  la  maggior  parte  e  i  migliori  di  essi  erano  le  guardie  nazionali 
delle  citta.  Gli  altri  volontari  che  partirono  con  quella  erano  in 
generale  un'accozzaglia  di  giovani  poco  atti  alle  fatiche  perche 
quasi  tutti  -  tranne  pochi  contadini,  vere  eccezioni  -  operai  irre- 
quieti,  ciarlatani,  bestemmiatori  -  qualcuno  di  buona  volonta,  i  piu 
vagabondi,  per  i  quali  le  parole  liberta  ed  indipendenza  si  traduce- 
vano  in  licenza,  T Italia  un'occasione  di  far  baccano,  e  la  guerra, 
alia  quale  i  piu  non  arrivarono,  un  mezzo  di  mangiare  e  bere  senza 
lavorare.  A  questi  furono  dati  ufficiali  improwisati,  i  piu  giovani 
desiderosi  di  far  bene  e  combattere. 


i.  carabina  Lepage:  il  nome  indica  il  tipo  di  carabina.  2.  fucile  .  .  .  Saint- 
j&tiennei  Saint-Etienne,  in  Francia,  e  citta  famosa  per  la  sua  fabbrica  d'armi. 
3.  «I1  maggiore  Pietro  Baldini,  del  i°  reggimento  di  linea,  si  distinse  e  fu 
fatto  prigioniero  a  Montanara»  (Mordini).  4.  Carlo  Matteucci,  di  Forli 
(1811-1868),  professore  di  fisica  all'Universita  di  Pisa. 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  165 

L'elemento  della  guardia  nazionale  essendo  migliore,  quelli  che 
liberi  di  se  stessi  poterono  partire  fecero  miracoli,  ma  la  maggior 
parte  dovette  rimanere,  perche  padri  di  famiglia  o  in  eta  avan- 
zata. 

Lo  stato  maggior e  della  guardia  nazionale  era  composto  di  quel 
che  vi  era  di  piu  onesto  e  di  piu  patriottico  nelle  citta,  e  di  piu 
distinto  nella  classe  agiata  e  colta,  medici,  legali  ed  artisti. 

Dei  Pisani  Pelemento  volontario  era  migliore  -  piu  quieto,  piu 
docile,  meno  esigente,  piu  abituato  alle  fatiche,  perche  la  maggior 
parte  del  contado.  La  guardia  nazionale  poi  eccellente,  e  lo  stato 
maggiore  perfetto. 

Ma  quel  che  fece  la  meraviglia  di  tutti  fu  il  vedere  Puniversha 
intera  di  Pisa  chiedere  come  un  sol  uomo  di  partire  per  la  santa 
guerra,  studenti  e  professori.  —  I  giovani  erano  quel  che  sono  tutti 
gli  studenti  -  pieni  di  ardore  e  di  buona  volonta,  ma  troppo  gio 
vani  e  con  abitudini  contrarie  al  fare  un  buon  soldato.  -  Malgrado 
ci6  si  piegarono  con  rassegnazione  alle  lunghe  marce,  dormirono  da 
bravi  sulla  paglia,  e  da  bravi  vuotarono  con  avidita.  le  gamelle.  Ma 
quel  che  onora  grandemente  la  loro  memoria,  fu  che  da  bravi  stet- 
tero  al  fuoco,  e  parecchi  lasciarono  la  vita  alia  battaglia  di  Curta- 
tone.  -  E  i  professori,  tutti  insigni  italiani,  partirono  con  loro  perche 
nell'animo  italiani,  e  perche  non  vollero  affidare  a  nessuno  la  dire- 
zione  e  le  cure  di  quella  falange,  preziosa  speranza  della  patria, 
della  scienza  e  della  famiglia. 

Fra  i  militi  dell'universita  vi  era  Giuseppe  Toscanelli,1  il  piu  ori 
ginate  e  il  piu  ciarlone  di  quanti  volontari  varcarono  PAppenni- 
no,  compresi  i  fiorentini  che  lo  sono  in  modo  sfrenato.  Originale 
perche  piccolissimo  di  statura,  marciava  bravamente,  carico  come 
un  somaro  di  ogni  sorta  di  roba.  Oltre  al  fucile,  alia  sciabola,  al 
sacco,  al  cappotto  e  alia  coperta,  e  due  pistole  e  uno  stile  alia  cm- 
tola,  portava  una  carniera  da  caccia,  una  fiaschetta  ed  un  impermea- 
bile  che  lo  copriva  tutto  da  capo  a  piedi  nei  tempi  piovosi.  In  testa 
un  berrettino,  sopra  quello  un  cappellone  di  paglia,  e  sopra  il  cap- 
pellone  un  elmo  romano,  d'ordinanza  della  guardia  nazionale,  e 
vero,  ma  un  arnese  impossibile,  permesso  solo  ai  pompieri,  e  che  il 

i.  «Giuseppe  Toscanelli,  pisano,  valentissimo  agricoltore  ed  enologo,  de- 
f,,putato  dalla  vn  alia  xvi  legislatura,  prii  che  oratore,  intermttore  pieno  di 
'brio  e  di  arguzie,  morto  settantenne  a  Roma  il  27  febbraio  1891))  (Mor- 


l66  LEONETTO    CIPRIANI 

Toscanelli  era  Punico  dei  volontari  che  se  lo  trascinasse  dietro.1 
E  quando  il  caldo  lo  soffocava,  si  attaccava  quello  scaldaletto  dietro 
le  spalle,  restando  col  cappellone,  che  fu  battezzato  il  parafulmine 
di  Beppe. 

£  strano  come  la  maggior  parte  della  gioventu  faccia  le  cose  non 
perche  le  piacciano,  non  perche  le  siano  utili,  ma  per  essere  osser- 
vati.  Siano  o  no  ridicoli,  non  importa:  son  contenti  quando  due 
occhi  curiosi  si  posano  su  di  loro.  -  Cos!  il  Toscanelli  che  ne  sentiva 
di  tutti  i  colori,  e  rispondeva:  —  Bene,  bene  -  cantate  pure,  ma  in- 
tanto  a  me  non  mi  manca  nulla  — ;  e  come  Diogene,  fiero  della  sua 
botte,  duro  finche  pote,  seminando  a  poco  a  poco  tutta  la  sua  roba 
per  la  strada,  finche  cadde  malato. 

Con  tutto  questo  ridicolo  addosso  per6  egli  era  uno  dei  pochi 
che  capisse  quel  che  faceva,  dove  andava  e  perche  ci  andava.  Aveva 
ricevuto  un'educazione  sbagliata  nella  forma,  ma  completa  per 
Pistruzione,  poich6  aveva  una  tintura  generale  di  tutto,  come  a  torto 
si  da  alia  gioventu  ricca  in  Italia.  Ma  era  gia  molto  che  sapesse  quel 
che  si  faceva,  perche  pochi  potevano  dire  altrettanto,  ed  egli  ha 
mostrato  di  saperlo  fino  in  fondo,  poiche  oltre  al  far  quello  che 
gli  permisero  le  forze  nella  prima  campagna,  si  trov6  nella  secon- 
da  a  Venezia  assediata  dagli  Austriaci,  ove  si  distinse  in  modo 
speciale. 

Peccato  che  quel  giovane  avesse  Penorme  difetto  di  una  parlan- 
tina  senza  principio  ne  fine  -  perche  parlava  con  se  stesso  quando 
non  trovava  altri  che  avessero  la  pazienza  di  ascoltarlo,  -  e  doveva 
parlare  anche  dormendo  -  e  di  tutto  e  di  tutti,  uomini  e  cose,  con 
parole  scelte,  e  vero,  con  cognizioni  di  fatti  speciali  e  spesso  con 
buon  senso,  ma  perdendo  il  merito  di  tutto  per  il  modo  di  esporre, 
per  il  tuono  stridente,  e  soprattutto  per  voler  sempre  lui  la  parola  e 
la  ragione.2 

i.  e  che  .  .  .  che  se  lo  trascinasse  dietro :  si  incontrano  spesso  nel  Cipriani  im- 
perfezioni  sintattiche  e  stilistiche.  Qui  bisognerebbe  sopprimere  il  primo 
chey  oppure  trasformare  1'ultima  relativa  in  una  forma  implicita:  a  trasci- 
narselo  dietro.  2.  «  Se  ci  permetteremo  di  quando  in  quando,  con  parsi- 
monia,  di  questi  schizzi  biografici,  e  ben  lontana  da  noi  Pintenzione  di  voler 
mettere  in  ridicolo  o  biasimare  quelli  che  su  su  facendo  strada  incontre- 
remo  piu  adatti  a  far  toccare  con  mano  le  conseguenze  di  educazioni  sba- 
gliate,  scopo  principale  di  questi  nostri  racconti.  La  prova  della  nostra 
buona  intenzlone  e  che  coloro  che  metteremo  in  scena  saranno  sempre  amici 
e  parenti.  Giuseppe  Toscanelli  e  figlio  di  una  nostra  cugina  .germana,  nata 
Cipriani »  (nota  del  Cipriani). 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  167 

I  Lucchesi  pure  erano  buoni  element!,  tanto  nella  guardia  na- 
zionale  che  nei  volontari.  I  Senesi  avevano  eccellenti  guardie  na- 
zionali  e  migliori  volontari,  perche  fra  questi  molti  erano  giovani  di 
campagna  awezzi  alle  fatiche.  I  Fiorentini,  Pistoiesi,  Pratesi  ed 
Aretini  formavano  un  corpo  separate  che  si  riuni  cogli  altri  a 
Fivizzano. 

Da  Pietrasanta  la  colonna  si  diresse  a  Massa  di  Carrara,  dove  si 
fece  gia  sentire  prepotente  il  bisogno  di  uno  spurgo  e  di  una  orga- 
nizzazione,  che  non  furon  pero  fatti  alia  meglio,  che  molto  dopo, 
sotto  Montanara. 

Gia  arrivando  a  Pietrasanta,  Leonetto  che  non  era  nulla  e  non 
aveva  nessuna  veste  datagli  da  nessuno  (Puniforme  stessa  che  por- 
tava,  era  uniforme  sua  personale),  aveva  preso  Finiziativa  e  la  re- 
sponsabilita  in  tutto,  dirigendo,  ordinando,  e  quando  occorreva  pa- 
gando  del  suo  le  cose  piu  urgenti.  Era  il  factotum,  e  tutti  finirono 
per  dirigersi  a  lui,  che  i  semplici  militi  chiamavano  con  tutti  i  ti- 
toli,  da  sor  caporale  a  sor  comandante  e  sor  commissario.  Ed  egli 
ascoltando  con  calma  tutti,  grandi  e  piccoli,  ufficiali  e  soldati,  se 
non  contentava  tutti  perche  era  impossible,  a  tutti  diceva  una  buo- 
na  parola,  che  spesso  vale  la  cosa  richiesta. 

A  questo  contribuirono  moltissimo  la  conoscenza  che  i  piu  ave- 
van  di  lui,  del  suo  carattere,  della  sua  attitudine  a  tutto  e  delle  sue 
facolta  pecuniarie;  e  i  suoi  intimi  rapporti  cogli  uffiziali  e  soprat- 
tutto  col  comandante  Baldini  e  col  Matteucci,  i  quali  gli  lasciavan 
far  tutto  e  approvavano  tutto,  ben  fortunati  di  trovare  in  lui  Tin- 
telligenza  e  Tattivita  adatta  a  sbrigare  quanto  era  possibile  I'arruf- 
fata  matassa,  e  mandare  innanzi  quelle  turbe  composte  di  element! 
cosi  diversi. 

La  prima  prova  d'istinto  militare  che  diede  fu  nell'entrare  a 
Massa.  Ci  arriv6  prima  della  colonna  e  subito  fece  una  ricognizione 
in  citta  per  vedere  dove  sistemarla.  -  II  Baldini  era  gia  sceso  al 
palazzo  del  Governo,  ove  aveva  probabilmente  fatto  una  copiosa 
seconda  o  terza  colazione  ;r  e  da  antico  soldato  dell'impero  facendo 

i.  una  copiosa . . .  colazione:  «"Se  e  vero  che  il  Radetzky  e  la  prima  spada 
d' Italia,  noi  possiamo  dire  senza  superbia  che  il  Baldini  e  la  prima  forchetta 
del  mondo,  e  che  per  intendere  come  mai  il  governo  1'abbia  messo  alia  testa 
della  spedizione,  bisogna  credere  che  abbia  preso  i  tedeschi  per  roba  da 
mangiare."  Cosi  scriveva  alia  moglie  Giambattista  Giorgini  il  5  aprile  1848 
da  Pontremoli  (GIORGINI,  XXVII  letter  e  dal  Campo,  Pisa,  Nistri,  1912,  p. 
19) »  (Mordini). 


l68  LEONETTO    CIPRIANI 

con  ripugnanza  quel  mestiere  di  conduttore  di  volontari,  se  ne 
stava  a  panda  all'aria  sul  terrazzo,  aspettando  che  le  mandre  di 
pecoroni,  come  li  chiamava,  arrivassero  e  se  la  sbrogliassero  da  loro 
stessi.  E  con  lui  era  il  Matteucci,  pure  a  pancia  alParia,  sua  posi- 
zione  preferita,  che  non  intendendosi  di  nulla  lasciava  fare. 

Leonetto  intanto  corse  incontro  alia  colonna,  ed  ordino  al  Bar- 
tolommei  di  sfilare  sulla  piazza  e  di  schierarsi  di  fronte  al  palazzo 
del  Governo.  Cosi  fu  fatto,  con  gran  sorpresa  del  Baldini.  £  vero 
che  al  comando  chi  si  volto  a  destra  e  chi  a  sinistra,  ma  ove  sarebbe 
stato  il  merito,  se  avessero  manovrato  come  vecchi  soldati  ? 

Furono  accasermati,  e  gli  uffiziali  sparsi  nelle  locande  ed  in  case 
particolari. 

II  giorno  dopo  Leonetto  seppe  che  a  Pietrasanta  vi  erano  due 
pezzi  di  artiglieria  senza  i  cavalli.  Domando  al  Baldini  perche  non 
li  avesse  presi,  e  questi  rispose  che  non  avendo  ordini  non  voleva 
compromettersi. 

Qui  e  necessario  dire  qual  fosse  il  contegno  del  Granduca  in 
quella  circostanza  ed  in  seguito.  -  Leopoldo  II,  nipote  del  gran 
Leopoldo,1  era  prima  di  tutto  principe  di  casa  d' Austria  e  come  tale 
awersava,  per  educazione  e  conformemente  alle  parole  d'ordine  che 
riceveva  da  Vienna,  tutte  le  innovazioni,  la  liberta,  1'indipendenza 
e  molto  piu  la  guerra  al  Tedesco.  E,  si  capisce,  non  poteva  essere  di- 
versamente.  Ma  quando  una  cosa  ripugna  alia  coscienza,  il  dovere 
di  un  galantuomo  e  quello  di  dirlo  francamente,  di  voltare  le  spalle 
e  di  andare  ove  spingono  i  propri  interessi,  e  le  proprie  simpatie. 

Leopoldo  II  lo  fece  nel  1859  -  ma  allora  barcamenava.  Aveva 
per  ministri  degli  uomini  di  opinioni  diverse,  ma  dei  quali  aveva  la 
responsabilita  il  marchese  Ridolfi,  italianissimo,  che  godeva  la 
stima  universale,  pieno  di  capacita  ed  attitudine  a  tutto,  che  non 
aveva  e  non  ebbe  in  quei  tempi  che  un  difetto  e  una  colpa  -  la  de- 
bolezza  e  un  poco  di  leggerezza,  difetto  comune  a  quasi  tutti  i  To- 
scani.  Questi  sono  tutti  pieni  d'ingegno  e  molti  di  loro  son  capaci 
di  tenere  i  posti  piu  difficili,  ma,  salvo  poche  eccezioni,  son  tutti 
mancanti  della  forza  di  carattere,  senza  la  quale  non  vi  e  uomo 
di  stato  possibile.  -  Credo  che  in  loro  il  carattere  se  ne  vada  in  con- 
sunzione  a  forza  di  parlare,  di  ridere,  e  di  mettere  tutto  in  burletta. 

i. gran  Leopoldo:  Pietro  Leopoldo  ( 1747- 1792) go verno  laToscana  dal  1765 
al  1790,  quando  divenne  imperatore  di  Germania,  per  la  morte  del  fra- 
tello  Giuseppe  II,  In  Toscana  gli  successe  Ferdinando  III. 


AVVENTURE  DELLA  MIA  VITA  169 

II  ministro  della  guerra  era  il  marchese  Nerino  Corsini,1  lui 
pure  italianissimo  quanto  e  piu  del  Ridolfi,  se  era  possibile,  ma 
incomparabilmente  piu  di  lui  uomo  di  state,  formato  alia  scuola 
dello  zio  don  Neri,  tipo  dei  veri  uomini  di  stato  sul  taglio  del 
Guizot,2  e  non  e  poco  dire.  Nerino  che  aveva  preso  molto  dallo  zio, 
aveva  fatto  buoni  studi  sul  serio,  sapeva  a  fondo  tutto  quello  che 
sapeva,  e  sapeva  molto.  -  Mori  troppo  presto.  -  Fu  per  P Italia  una 
perdita  enorme,  non  sentita  abbastanza  dai  nostri  farfalloni,  ma 
sentita  profondamente  da  chi  pensa  e  riflette.  Dopo  Cavour,  era  il 
solo  uomo  di  mente,  di  cuore  e  di  braccio  che  avesse  P  Italia. 

Anche  lui  in  quell'epoca  ebbe  il  torto  del  Ridolfi,  di  far  parte  di 
un  ministero  la  cui  maggioranza  era  awersa  al  movimento  ita- 
liano.  Lo  vedeva,  lo  sentiva,  ne  soffriva,  ma  per  timore  di  peggio 
rimaneva,  per  non  cadere  dalla  padella  nella  brace. 

Ebbe  un  altro  torto  -  di  prendere  il  ministero  della  guerra.  Non 
se  n'intendeva,  e  nelPamministrazione  della  guerra  piu  che  in  qua- 
lunque  altra  chi  non  se  n'intende  non  ci  capisce  nulla,  soprattutto 
uno  che  come  lui  era  circondato  da  codini,  tutti  nemici  dal  primo 
alPultimo.  Aveva  un  bel  dare  ordini,  raccomandare  prontezza  e 
zelo ;  era  fiato  buttato  via.  II  vero  ministero  della  guerra  era  al  co- 
mando  generale  presso  il  comandante  in  capo  Parmata,  il  generate 
conte  d'Arco  Ferrari,3  la  piu  gran  coda  della  Toscana,  ignorante, 
borioso,  vile  -  come  lo  proveremo  a  suo  tempo  -  e  cieca  creatura 
del  Granduca.  -  Che  volete  sapesse  Nerino  del  Fra^ois  ?4  Per  lui 
era  un  commissario  alle  sussistenze,  -  ma  per  il  Ferrari  era  Paffa- 
matore  dei  poveri  volontari. 

Corsini  solo  sarebbe  stato  uomo  da  tener  testa  a  tutto  il  consi- 
glio,  e  Pavrebbe  tenuta,  se  avesse  toccato  con  mano  il  barcamenare 
del  Granduca.  Ma  egli,  che  era  Ponesta  e  la  lealta  personificate, 

i.  Nerino  Corsini:  «Neri  Corsini  marchese  di  Lajatico  (1805-1859),  mini 
stro  della  guerra  e  degli  esteri  nel  1848,  inviato  toscano  a  Londra  nel  1859, 
era  nipote  di  don  Neri  Corsini  (1771-1845),  rappresentante  della  Toscana 
al  congresso  di  Vienna,  ministro  dell'interno  col  Fossombroni,  e  dopo  la 
sua  morte  (13  aprile  1844)  primo  ministro  col  portafoglio  degli  esteri » 
(Mordini).  2. « Francesco  Guizot  (1787-1874),  professore  e  storico,  piu 
volte  ministro,  fu  1'ultimo  presidente  del  consiglio  di  Luigi  Filippo» 
(Mordini).  3.«Ulisse  d'Arco  Ferrari,  pisano,  veterano  di  Napoleone, 
aveva  fatto,  come  capitano,  le  campagne  di  Spagna  e  di  Russia  e  si  era  di- 
stinto  all'assedio  di  Danzica.  Venne  nominato  generale  il  23  gennaio  1848  » 
(Mordini).  4.  «Alessandro  Francois,  commissario  di  guerra  a  Portofer- 
raio,  Firenze  e  Livorno,  partecipd  in  tale  qualita  alia  campagna  del  1848, 
fu  giubilato  nel  marzo  1857  e  mori  il  9  ottobre  1859  »  (Mordini). 


170  LEONETTO    CIPRIANI 

non  poteva  immaginare  che  il  Granduca  giocasse  ai  burattini.1 
II  giorno  che  ne  fa  certo,  non  voile  piu  sentirne  parlare  -  si  ribel- 
lava  al  pensiero  che  la  sua  lealta  era  stata  sorpresa. 

Non  lo  abbiamo  mai  veduto  in  uno  stato  di  orgasmo  come  in 
nostra  presenza  a  Milano  la  sera  del  14  luglio  1859,  al  palazzo  reale, 
dopo  il  pranzo  con  PImperatore*  e  il  re  Vittorio  Emanuele.  - 
L'Imperatore  stava  solo  in  un  gabinetto  in  fondo  al  gran  salone. 
Senti  parlare  a  voce  alta  -  guardo,  e  vide  Leonetto  che  discorreva 
con  Corsini  ed  altri. 

Lo  chiam6  con  un  cenno  della  testa  e  gli  chiese  di  che  cosa  discu- 
tesse  con  Corsini. 

—  Della  probabilita  del  ritorno  di  casa  Lorena  in  Toscana. 

—  Che  cosa  ne  pensa? 

—  Pensa  che  e  impossibile  e  che  non  sara  mai  -  che  se  tornano 
troveranno  Firenze  un  deserto.  Quanto  a  lui,  con  tutta  la  sua  fami- 
glia  scappera  fino  in  China.  Non  ne  puo  sentir  parlare  -  diventa 
furioso. 

—  Ditegli  che  venga  qui. 

Ando  -  e  mentre  con  noi  s'infuriava,  coll'Imperatore  prese  quel 
tono  freddo,  calmo  e  stringente,  che  da  la  convinzione  di  una  buona 
causa  in  un  animo  leale.  Nessuno  meglio  di  lui  conosceva  la  que- 
stione,  persone  e  cose,  e  seppe  trattarle  in  modo  da  impressionare 
vivamente  1'Imperatore,  come  ce  ne  accorgemmo  il  giorno  dopo  a 
Torino.  -  Per  ora  basta. 

E  il  Granduca  profittava  della  stima  che  avevano  il  Corsini  e  il 
Ridolfi  della  onesta  tradizionale  di  casa  Lorena  e  della  loro  defe- 
renza  per  lui,  per  tirare  tutto  in  lungo  e  cercare  il  modo  di  salvare 
capra  e  cavoli.  La  Toscana  era  una  bella  vacca  da  mungere,  e  non 
era  facile  decidersi  a  darle  un  calcio  e  scappare;  -  e  cosi  ai  Toscani 
si  dava  la  costituzione  e  la  bandiera  italiana,  ed  a  Vienna  si  scriveva : 
«lasciateli  sfogare,  son  ragazzi  scappati  da  scuola  -  a  suo  tempo  le 
nerbate  ce  li  faranno  tornare».  E  dopo  il  consiglio  dei  ministri 
costituzionali,  nel  quale,  grazie  a  quei  codoni  che  avevan  nome 
Landucci,  Baldasseroni3  ed  altri  si  prendevano  risoluzioni  an- 

i.  giocasse  ai  burattini:  agisse  fmtamente,  recitando  -  e  facendo  recitare 
agli  altri,  inconsapevolmente  -  una  commedia.  2.  rimperatore :  Napo- 
leone  III.  3.  «Leonida  Landucci,  senatore  e  prefetto  di  Firenze,  e  poi 
ministro  delle  finanze  col  Capponi  e  ministro  deirinterno  dal  1849  ai 
1850;  Giovanni  Baldasseroni,  ministro  delle  finanze  e  poi  presidente  del 
consiglio  dal  1849  al  18593)  (Mordini). 


AVVENTURE   BELLA   MIA   VITA  iyi 

nacquate,  combattute  invano  dal  Corsini,  e  piu  debolmente  dal 
Ridolfi,  che  si  stancava  e  finiva  col  cedere,  si  riimiva  il  consiglietto 
di  palazzo  Pitti:  il  Granduca,  la  Granduchessa,  Matteo  Bittheuser,1 
il  Landucci  e  il  Baldasseroni. 

Ai  Toscani  si  diceva : « partite  per  la  Lunigiana »  —  ma  non  si  di- 
ceva:  «  partite  per  la  guerra  contro  1' Austria)).  E  non  si  dava  loro 
ne  armi  ne  munizioni,  ne  una  coperta,  ne  un  cappotto.  -  E,  bene 
inteso,  partivano  i  volontari  soltanto  -  non  un  soldato  dell'armata 
regolare  e  a  stento  due  o  tre  uffiziali  come  comandanti. 

Cosi  si  poteva  scrivere  a  Vienna:  « e  un  branco  di  matti  che  son 
partiti  per  fare  una  passeggiata  nei  nostri  Stati.  £  stata  una  mano  di 
Dio  levarseli  di  torno  -  lo  spurgo  di  tutti  i  ladri  e  vagabondi  della 
citta.  -  Lasciateli  andare;  creperanno  di  fame,  di  stenti  e  di  malat- 
tie,  e  saran  tanti  di  menol  Vedete  bene  che  son  partiti  senza  un 
soldato  dell'armata  regolare,  senza  un  cannone,  con  fucili  che  son 
siringhe  che  non  faranno  mai  fuoco,  senz'approwigionamenti, 
senza  un  francescone  in  cassa.  Commissari  militari  alle  sussistenze 
si,  ma  amici  nostri.  E  i  livornesi,  la  peggio  canaglia  del  paese,  sono 
raccomandati  bene,  hanno  il  Fra^ois  -  lasciate  fare  a  lui  per  farli 
morir  di  fame!». 

E  cosi  era.  Quel  Francois  e  un  rimorso  di  Leonetto.  Lo  annuso 
fin  dal  primo  giorno,  e  si  e  sempre  pentito  di  non  aver  trovato  modo 
di  farlo  scappare.  Gli  schizzava  il  tradimento  da  tutti  i  pori. 

Queste  cose  spiegano  come  non  vi  fosse  ne  capo  ne  coda,  come 
sprowisti  di  tutto,  a  tutto  si  cercasse  prowedere  con  mezzi  arbi- 
trari,  e  come  i  pochi  che  avessero  autorita  legalmente  conferita  e 
Favessero  accettata  in  buona  fede,  con  aspirazioni  italiane  e  volonta 
di  andare  innanzi,  o  per  carattere  o  per  abitudini  contratte  al  ser- 
vizio,  non  osando  assumere  responsabilita  di  nessuna  sorta,  la 
lasciassero  volontieri  assumere  al  solo  che  ne  aveva  il  coraggio  e, 
se  vogliamo,  anche,  il  toupet.  E  per  questo  al  Baldini  che  non  voleva 
assumersi  la  responsabilita  di  prendere  Partiglieria  a  Pietrasanta, 
Leonetto  disse:—  Ci  ander6  io. 

—  Non  te  la  daranno. 

—  Questo  riguarda  me. 

—  Bene,  bene  -  prova.  Ma  bada  non  ti  chiudano  in  fortezza. 
Ando  dal  Matteucci,  gli  racconto  il  fatto  e  gli  chiese  un  ordine 

scritto.  Stintign6  un  poj  per  la  solita  ragione  della  responsabilita, 
i. « Matteo  Bittheuser,  segretario  intimo  del  Granduca »  (Mordini). 


1 72  LEONETTO    CIPRIANI 

ma  fini  per  darglielo.  Con  questo  ando  alia  posta  dei  cavalli,  fece 
sellare  le  sei  coppie  che  vi  erano,  e  le  condusse  seco  a  Pietrasanta, 
dove  prese  altre  cinque  coppie  alia  posta.  Si  awio  poi  con  tutti  i  ca 
valli  alia  fortezza,  seguito  da  gran  gente  che  gridava :  —  Viva  F  Italia, 
viva  la  guerra!  —  eran  scamiciati,  e  vero,  ma  in  quei  tempi  qualche 
dozzina  di  mascalzoni  faceva  calar  le  brache  ai  codini,  ed  era  quel 
che  lui  voleva.  S'insacco  nel  forte  con  tutti  i  cavalli  -  al  rumore 
arrive  il  comandante,  un  buon  uomo  che  era  stato  con  Napoleone 
in  Russia.  Capi  subito,  e  senz'aspettare  che  gli  mostrasse  Tordine, 
fece  attaccare  i  due  cannoni  ed  i  due  cassoni  da  munizioni. 

Ma  quando  voile  visitarli,  Leonetto  si  accorse  che  i  cassoni  eran 
vuoti.  II  comandante  gli  fece  un  monte  di  scuse,  e  lo  fece  accompa- 
gnare  dal  sergente  maggiore  in  polveriera. 

Ma  per  Leonetto  era  buio  pesto  -  era  la  prima  volta  che  vedeva 
munizioni  di  artiglieria.  Fortunatamente,  venutagli  alia  mente  la 
parola  assortimento,  come  se  ne  avesse  chiesto  uno  di  ortaggi,  or- 
dino  di  mettere  rassortimento  completo  ad  ogni  pezzo.  Lascio 
fare  stando  zitto,  per  non  fare  un  arrosto1  -  gran  segreto  quello  di 
tacere!  uno  che  e  inutile  nominare  ha  vissuto  ed  e  morto  colla  ripu- 
tazione  di  uomo  colto,  ed  era  una  bestia  calzata  e  vestita. 

Quando  fu  tutto  pronto,  diede  una  stretta  di  mano  al  comandante, 
al  quale  dimentico  di  lasciare  1'ordine  scritto,  ed  entro  trionfalmente 
in  Massa,  ricevendo  da  tutti  grandi  elogi  per  la  fortunata  spedizione, 
e  facendo  ridere  come  un  matto  il  Matteucci  quando  gli  rimise  in 
mano  1'ordine. 

Ma  i  cannoni  senza  cavalli  e  senza  artiglieri  erano  in  realta  piu 
un  impiccio  e  una  spesa  che  altro.  Non  importa  -  era  una  lezione 
ai  codoni  di  Firenze;  -  e  poi  tutto  sta  cominciare,  e  facendo  strada 
si  trova  il  resto. 

Leonetto  non  credeva  di  ragionare  cosi  giusto,  ne  di  realizzare 
tutto  il  resto  il  giorno  dopo.  -  Mentre  faceva  colazione,  gli  porta- 
rono  un  biglietto  del  tenente  di  artiglieria  Rinaldi,  che  gli  dava 
appuntamento  alle  scuderie  dell' artiglieria.  Ci  ando,  e  il  Rinaldi 
gli  disse  che  in  citta  ci  erano  due  cannoni  e  ventiquattro  cavalli  di 
artiglieria  del  Duca2  (era  scappato  da  cosi  poco  tempo  che  si  par- 
lava  sempre  in  nome  suo),  e  lo  consiglio  di  chiederli  al  governo 

i.  fare  un  arrosto:  fare  un  guaio.  2.  del  Duca:  « Francesco  V  d'Austria- 
Este  (1819-1875),  duca  di  Modena  dal  1846  al  1859 »  (Mordini).  Era  fug- 
gito  da  Modena  il  zi  marzo  del  1848. 


AVVENTURE   BELLA    MIA   VITA  173 

prowisorio  di  Massa,  e  in  caso  di  rifiuto  di  prenderli  colla  forza.  - 
II  Rinaldi,  uscito  dalla  scuola  di  artiglieria  di  Modena,  buon  ufn- 
ciale,  e  buon  italiano  come  tutti  i  modenesi,  voleva  far  la  guerra, 
e  Poccasione  era  troppo  bella  per  levarsi  da  Massa  con  tutto  il  ma- 
teriale  che  era  stato  a  lui  affidato. 

A  Leonetto  1'idea  piacque  moltissimo,  e  voile  fare  il  tiro  senza 
dime  parola  a  nessuno.  Era  in  buona  vena,  e  non  bisognava  per- 
derla  con  passi  inutili. 

Aveva  gia  conosciuto  i  membri  del  Municipio,  convertiti  in  go- 
verno  prowisorio ;  e  se  nel  mimero  vi  erano  delle  code,  vi  eran  pero 
il  giovine  Medici1  ed  un  suo  compagno  di  studio,  il  Fabbricotti,2 
tutti  e  due  italianissimi. 

Ando,  li  trov6  riuniti  -  e  chiese  e  cavalli  e  cannoni.  —  Ma  gli 
pare!  non  e  possibile.  L'artiglieria  non  e  nostra,  e  del  Duca  —  disse 
un  vecchio  Guerra.3 

—  Del  Duca?!  Ma  che  qui  regna  sempre  il  duca  di  Modena? 

—  Nossignore  -  ho  voluto  dire  del  governo  di  Modena;  e  noi 
siamo  responsabili. 

—  La  loro  responsabilita  e  al  coperto  con  una  ricevuta  del  com- 
missario  toscano. 

—  Oh!  allora—  soggiunse  il  Medici—  tutto  e  in  regola  e  non 
c'e  piu  responsabilita.  Gia  quei  cannoni  qui  non  ci  fan  nulla,  e'se  il 
governo  prowisorio  di  Modena  li  reclamera,  glieli  restituiranno 
passando. 

Ma  molti  continuarono  a  dire:  —  No,  non  e  possibile  -  1'artiglie- 
ria  e  in  Massa  e  deve  stare  in  Massa  —  (seppe  poi  che  fra  i  piu 
renitenti  vi  era  il  fornitore  dei  foraggi). 

—  Signori,  poche  parole,  ma  buone.  Se  li  voglion  dare  cosi  con 
una  ricevuta  nostra,  bene:  se  no,  partendo  me  ne  impadronisco, 
e  li  faccio  intanto  guardare  da  cento  volontari  livornesi  —  (i  li- 
vornesi  erano  il  terrore  dei  govern!  prowisori). 

II  Medici  e  il  Fabbricotti  intervennero  e  la  causa  fu  vinta.  — 
Ma  —  c'e  sempre  un  ma  —  per  noi  la  ricevuta  del  professore  Mat- 
teucci  non  conta  nulla  -  meglio  quella  di  lei  che  ha  qualcosa  da 

i.  il  giovine  Medici:  «Forse  il  conte  Andrea  Dal  Medico  Staffetti,  elogiato 
col  Cipriani  nel  rapporto  del  Matteucci  in  data  27  marzo,  e  che  fu  poi 
nominate  dal  ministero  Montanelli  R.  Delegate  per  la  provincia  di  Mas- 
sa-Carrara»  (Mordini).  2.  «I1  conte  Giuseppe  Fabbricotti  (1827-1914), 
deputato  dal  1870  al  1890  »  (Mordini).  3.  «  II  conte  Carlo  Guerra,  prirno 
assessor  e  del  municipio  di  Massa »  (Mordini). 


174  LEONETTO    CIPRIANI 

perdere.  —  E  Leonetto  senza  difficolta  prese  la  penna,  e  firm6  la 
ricevuta  che  deve  essere  sempre  nelParchivio  del  municipio  di 
Massa;  e  in  cambio  riceve  Tordine  di  consegna  dei  cannoni,  che 
firmarono  tutti,  ma  con  molta  ripugnanza,  perche  parecchi  ave- 
vano  paura  del  ritorno  e  delle  bastonate  del  Duca. 

Fu  un  colpo  magistrate.  Quando  gli  fece  vedere  Pordine,  il 
Rinaldi  non  ci  credeva.  Dette  la  consegna  a  lui  e  ad  un  vecchio 
sergente  modenese,  e  poi  and6  a  raccontare  tutto  al  Matteucci, 
che  non  sapeva  capacitarsene. 

Questi  due  falti  ripetuti  ed  ingranditi  fecero  credere  che  Leo 
netto  portasse  in  tasca  poteri  dittatoriali,  e  non  vi  fu  piu  nulla  che 
resistesse  alia  sua  volonta,  mentre  in  realta  lui  non  faceva  che  pren- 
dere  lezione  da  tutto  e  da  tutti,  non  essendo  nulla,  ma  facendo  vista 
di  essere  e  saper  tutto. 

II  giorno  dopo,  partenza.  -  Essendo  Tartiglieria  sua  creatura, 
Leonetto  s'incarico  di  spingerla  innanzi.  E  siccome  il  tanto  corre- 
re  gli  aveva  scorticato  i  piedi,  e  d'altra  parte  andare  alia  guerra  in 
carrozza  cominciava  a  puzzare  di  Dulcamara,1  si  decise  per  la  pri- 
ma  volta  ad  assumere  un  vero  aspetto  militare,  sballando  la  barda- 
tura,2  armandosi  di  sciabola,  che  fin  allora  non  aveva  messa,  perche 
a  piedi  gl'imbarazzava  le  gambe,  e  di  pistole,  ed  inforcanda  un 
bel  cavallone  da  guerra ;  -  e  vi  riusci  facilmente,  perche  era  un 
bel  giovine  alto  e  snello  con  fisonomia  marziale,  ed  anche  esimio 
cavaliere. 

Riflettendo  poi  che  la  strada  era  lunga  e  difficile,  e  che  i  cavalli 
non  essendo  stati  attaccati  da  diversi  mesi  avrebbero  tirato  male  in 
montagna,  chiese  ed  ottenne  dal  Baldini  dieci  uomini  scelti  per 
pezzo,  e  sessanta  di  scorta,  scegliendoli  non  tra  i  piu  intelligent!, 
ma  tra  i  piu  forti,  coll'idea  di  servirsene  ad  uso  trazione. 

Usciti  dalla  citta,  c'era  una  piccola  scesa,  e  con  le  scarpe3  ando  a 
meraviglia.  Ma  dopo  veniva  una  salita,  in  certi  tratti  dal  sette  al- 
1'otto  per  cento,  e  in  altri  anche  piu;  e  li  bisogno  che  cannonieri, 
scorta  e  curiosi  spingessero  alle  rote.  Alia  scesa,  tutti  i  santi  aiu- 
tano,  e  sul  far  della  notte  s'entro  in  Carrara. 


i.  Dulcamara:  e  il  nome  del  cerretano,  venditore  di  strani  specifici,  che 
nelT£/ttzr  d'amore  di  Donizetti  appare  sulla  scena  in  carrozza.  2.  sbal 
lando  la  bar  datura:  tirando  fuori  le  bardature  complete  da  cavalleria,  che 
aveva  portato  con  se.  3.  le  scarpe:  le  staffe  di  ferro  che  agiscono  da  freno 
alle  ruote  durante  iina  discesa. 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  175 

Arrivati,  trovarono  Taffamatore  Fran?ois,  partito  la  mattina  per 
preparare  le  razioni,  che  con  una  faccia  di  bronzo  disse:  —  Non  c'e 
pane. 

—  Come  non  c'e  pane? 

—  I  fornai  non  volevano  cuocere  che  a  contanti,  e  contanti  non 
ne  ho. 

Senza  perder  tempo,  Leonetto  salto  come  un  cervo  al  muriicipio, 
e  fattosi  accompagnare  da  quello  stesso  Medici  di  Massa,  che  era 
cittadino  di  Carrara  e  faceva  parte  del  muriicipio,  ando  in  giro  dai 
fornai,  e  pagando  a  contanti  trov6  presto  il  pane  necessario.  Alle 
sei  la  distribuzione  era  fatta. 

Per  evitare  la  ripetizione  di  questi  casi  spiacevoli,  si  fece  man- 
dare  da  Livorno  da  Francesco  Pacho  all'Avenza,  il  porto  dei  mar- 
mi  di  Carrara,  ventimila  libbre  di  biscotto.  Scrisse  poi  subito  al 
Corsini,  che  ne  rimase  indignato,  ed  ordino  di  spedire  immediata- 
mente  al  Fran9ois  cinquantamila  lire.  Era  poco  -  ma  la  vena  era 
aperta. 

Si  dira:  ma  che  campavano  di  solo  pane?  Purtroppo  fu  cosi  nei 
primi  giorni,  per  la  ragione  semplicissima  che  era  impossibile  far  la 
distribuzione  della  carne  e  del  vino,  non  essendovi  recipienti  ove 
cuocerla  e  ove  metterlo. 

Ma  da  principio  tutti  avevano  qualche  paolo  in  tasca  e  mangia- 
vano  alle  osterie.  Se  vi  era  qualche  povero,  vi  era  anche  della  gente 
ricca  che  spendeva  per  tutti.  Non  poteva  durare  -  ma  da  principio 
fu  Funico  mezzo  per  evitar  disordini  e  saccheggi. 

Da  Carrara  si  ando  in  una  tappa  a  Fornovo,  piccolo  castello,  ove 
non  era  possibile  procurarsi  nulla.  Ci  fu  proweduto  mandando  il 
necessario  da  Carrara.  -  Da  Fornovo  in  due  tappe  a  Pontremoli, 
grosso  borgo,  capitale  della  Lunigiana. 

Una  volta  a  Pontremoli,  non  si  sente  piu  parlare  di  partenza. 
II  Baldini  ed  il  Matteucci  non  avevano  ordini. 

Ma  duemila  volontari  in  una  piccola  citta  son  come  la  grandine  - 
guai  dove  casca.  Cominciarono  le  risse,  i  furti  e  qualcosa  di  peg- 
gio  -  e  il  municipio  non  rispondeva  di  nulla  se  non  partivano. 

II  Matteucci  scrisse  lettera  sopra  lettera  al  Ridolfi.  Dopo  molto 
aspettare,  perche  il  Granduca  teneva  forte  quanto  poteva,  per  non 
lasciar  passare  la  frontiera,  venne  finalmente  la  risposta:  star  fermi 
a  Pontremoli  durante  le  trattative  di  cessione  dei  territori  fra  Mo- 
dena  e  Toscana.  -  Era  una  vera  canzonatura. 


176  LEONETTO    CIPRIANI 

La  sera  che  arrive  la  risposta,  Leonetto  era  a  letto  con  la  feb- 
bre.  II  Matteucci  gliela  lesse,  e  gli  disse :  —  lo  me  ne  vado.  Si 
burlan  di  noi,  e  con  questi  matti  -  e  ne  avranno  mille  ragioni  - 
finira  male. 

Leonetto  penso  un  momento,  e  rispose :  —  Ho  un  febbrone,  ma 
non  importa :  passera  tanto  in  carrozza  come  in  letto.  Tu  stai  fermo 
fino  al  mio  ritorno  da  Firenze. 

Parti  immediatamente  a  rotta  di  collo  colla  posta,  e  arrivato,  sali 
dal  Ridolfi,  e  gli  espose  in  poche  parole  la  situazione  e  la  necessita 
assoluta  di  dar  Tordine  di  partenza  per  Parma. 

—  Ha  ragione  -  che  vuol  che  le  dica  ?  mi  son  sfiatato  e  con  me 
Nerino,  ma  il  Granduca  sta  fermo,  appoggiato  dagli  altri  mi- 
nistri. 

—  Vada  dal  Granduca  e  gli  dica  che  da  un  momento  alPaltro 
puo  nascere  una  carneficina  tra  volontari  e  paesani ;  e  la  responsa- 
bilita,  a  torto  o  a  ragione,  cade  tutta  sopra  di  lui.  -  Una  delle  due, 
o  li  sciolgano  o  li  mandino  avanti  -  e  a  scioglierli  immagini  lei  il 
ritorno  e  le  conseguenze. 

—  Ci  vado  subito.  Lei  intanto  mi  aspetti  da  Nerino. 

Ando  dal  Corsini  e  trovo  un  uomo  scoraggiato  che  non  ne  po- 
teva  piu.  Si  lamento  del  Ridolfi  che  non  lo  appoggiava  abbastanza 
per  ottenere  dal  Granduca  una  modificazione  di  ministero  per 
potere  andare  avanti  francamente.  Del  Granduca  non  disse  parola, 
ma  fino  d'allora  doveva  esserne  stufo. 

Intanto  arrivo  il  Ridolfi,  che  aveva  persuaso  il  Granduca  a 
lasciar  partire  i  volontari,  non  per  Parma  ma  per  Fivizzano,  dove 
riuniti  ai  volontari  fiorentini  sarebbero  scesi  a  Reggio.  Non  era 
tutto,  ma  era  qualcosa.  La  ragione  poi  del  cambiamento  di  dire- 
zione  era  che  il  Granduca  non  disperava  fin  li  di  vedere  il  Ra- 
detzky  prendere  la  rivincita  e  tornare  a  Milano,  e  percio  tirava  in 
lungo  piu  che  poteva,  aspettando  questa  desiderata  notizia. 

Leonetto  riparti  coll'ordine  del  ministro  della  guerra.  Arrivo  a 
Pontremoli,  e  due  ore  dopo  la  colonna  si  mise  in  marcia  per  Fiviz 
zano.  E  per  tranquillare  i  malcontenti,  fu  sparsa  voce  che,  male 
organizzati  come  erano,  non  era  possibile  scendere  a  Parma,  dove 
si  trovava  sempre  un  reggimento  di  cavalleria  tedesco.  Era  vero, 
ed  era  credibile. 

Arrivati  a  Fivizzano,  borgo  meno  grande  di  Pontremoli  ma  che 
offriva  le  stesse  risorse,  vi  trovarono  i  volontari  fiorentini,  con  pochi 


AVVENTURE    BELLA   MIA    VITA  177 

pistoiesi,  pratesi  ed  aretini  comandati  dal  maggiore  Belluomini1 
delTarmata  regolare. 

In  massa  erano  buoni  element!,  con  pochissime  eccezioni  —  la 
piu  bella  gente  dopo  i  lucchesi,  ma  piu  tenuta,  piu  contegnosa. 
Parlavan  molto,  e  vero,  ma  il  loro  parlare  non  faceva  male  anessuno. 
Predominavano  per  numero  la  classe  ricca  e  quella  colta. 

A  giudicare  dal  passato,  si  doveva  credere  che  a  Fivizzano  il 
Granduca  gli  avrebbe  fatto  passar  Testate.  Ma  gli  awenimenti  non 
andarono  a  seconda  dei  suoi  desideri,  poiche  gli  Austriaci  furono 
costretti  ad  abbandonare  la  Lombardia  ed  il  Veneto,  e  a  rifugiarsi 
nel  Quadrilatero  ;2  e  Carlo  Alberto  si  porto  sotto  Verona  sempre  vit- 
torioso.  II  Granduca  comincio  a  disperare,  e  spinto  dai  gridi  di 
piazza  fu  obbligato  a  dichiarare  la  guerra  all' Austria,3  e  a  dar  Tor- 
dine  di  partenza  delTarmata  regolare  toscana,  comandata  dal  ge- 
nerale  d'Arco  Ferrari. 

QuelTarmata  consisteva  in  pochi  battaglioni  di  cattivi  soldati,  due 
compagnie  di  artiglieria  meno  cattive,  uno  squadrone  di  cavalleria 
pessimo,  e  peggiori  ufficiali.  -  II  seguito  giustifichera  il  severo  giu- 
dizio. 

Partirono  da  Firenze,  e  per  Castelnuovo  scesero  a  Reggio  ove, 
arrivati  che  furono  i  volontari  da  Fivizzano,  si  trovarono  riunite 
tutte  le  forze  toscane,  regolari  ed  irregolari. 

Tra  gli  uffiziali,  i  colonnelli  de  Laugier  e  Giovannetti4  eran  due 
eccezioni  alia  regola.  II  primo,  vecchio  soldato  delTImpero,  co- 
noscendo  a  fondo  il  suo  mestiere,  coraggioso,  leale,  di  virtu  inte- 
merata,  aveva  riputazione  di  buon  italiano;  riputazione  che  perse 
in  seguito,  essendogli  state  contrarie  le  circostanze;  ma  siamo  con- 
vinti  che  si  penti  amaramente  di  essersi  buttato,  alia  Restaurazione, 


i.  Giacomo  Belluomini  (1798-1861)  aveva  partecipato  col  Murat  alia  cam- 
pagna  di  Russia.  Dal  1847  entro  nelTesercito  toscano  e  fu  capo  di  stato  mag 
giore  dopo  Curtatone.  2.  a  rifugiarsi  nel  Quadrilatero :  cioe,  nelle  fortezze 
del  quadrilatero,  composto  delle  citta  di  Peschiera  e  Mantova  sul  Mincio, 
di  Verona  e  Legnago  sull'Adige.  3.  II  Granduca  .  .  .  Austria:  Leopoldo  II 
aderi  a  malincuore  alle  pressioni  dei  liberali,  e  dichiar6  anch'egli  la  guerra 
all' Austria.  4.  «  Cesare  de  Bellecour,  conte  de  Laugier  (1789-1871),  nato  a 
Portoferraio  da  famiglia  originaria  francese,  ministro  della  guerra  durante  la 
Restaurazione;  Giuseppe  Giovannetti,  lucchese,  si  distinse  nelle  guerre 
dell'Impero,  comando  a  Montanara,  ed  al  ritorno  in  Toscana  fu  ucciso  a 
tradimento  a  Pecorile  il  14  luglio  1848  dai  suoi  soldati,  ai  quali  era  inviso  per 
la  grande  severita  ed  i  modi  eccessivamente  bruschi  e  talvolta  anche  ma- 
neschi.  Era  nato  nel  1783  »  (Mordini). 


178  LEONETTO    CIPRIANI 

nelle  braccia  del  Granduca.  -  II  Giovannetti  poi  era  una  vera 
perla,  come  soldato  e  come  italiano. 

Discreti  i  capitani  della  linea  Magrini,  Baldini  e  Fortini1  il  quale 
se  non  era  un  fanatico  italiano,  era  pero  certamente  di  buona  fede,  e 
disposto  a  dare  la  sua  vita  alia  patria.  -  Nella  cavalleria,  tutti  pessi- 
mi.  -  L'artiglieria  aveva  due  buoni  capitani,  Niccolini  e  Contri:3 
il  primo  coraggioso  e  italianissimo ;  il  secondo  molto  istruito  e  di 
bastante  coraggio,  ma  di  carattere  debole  ed  incerto.  -  Due  buoni 
maggiori  eran  rimasti  in  Toscana,  il  Manganaro  comandante  i 
carabinieri  ed  il  Reghini.3 

In  Reggio  cesso  il  mandate  del  commissario  straordinario  Mat- 
teucci.  Al  colonnello  Laugier  fu  dato  il  comando  di  tutti  i  volontari, 
ed  il  Belluomini  fu  capo  di  stato  maggiore. 

AReggio,Leonetto,nonavendogrado,feceilmorto.Ma  ilpoco  che 
aveva  fatto  arrivo  alle  orecchie  del  Laugier  e  del  Ferrari,  che  vollero  , 
tutt'e  due  averlo  con  loro.  Gli  era  piu  simpatico  il  Laugier,  ma  dette 
la  preferenza  al  Ferrari,  per  che  al  quartier  generale  tutto  e  possibile. 

Gli  fu  conferito  a  voce  il  grado  di  capitano,  senza  specificare  di 
cosa,  e  siccome  era  a  cavallo,  si  battezzo  da  se  di  cavalleria,4  conser- 
vando  la  sua  uniforme  che  aveva  qualcosa  della  cavalleria  toscana. 

Restituito  il  cavallone  preso  a  Massa  tra  quelli  delPartiglieria 
modenese,  bisognava  equipaggiarsi.  Ma  essendo  impossibile  tro- 
vare  cavalli,  ed  avendo  saputo  che  a  Parma  le  scuderie  del  Duca5 

i.«Il  capitano  Bartolomeo  Fortini,  promosso  maggiore  il  12  giugno» 
(Mordini).  2.  «  Giuseppe  Niccolini,  uno  degli  eroi  di  Curtatone  ove  fu 
gravemente  ferito,  colonnello  e  governatore  dell'Elba  nel  1859;  Alessan- 
dro  Contri,  in  seguito  comandante  il  reggimento  di  artiglieria  toscano» 
(Mordini).  3.  «  Giovanni  Manganaro,  successo  nel  marzo  '48  al  Reghini 
nel  comando  dei  carabinieri,  fu  nominato  maggiore  il  20  giugno  se- 
guente;  Michele  dei  conti  Costa  Reghini,  nato  a  Pontremoli  il  26  no- 
vembre  1791,  fece  la  campagna  di  Russia  come  sottotenente  di  fanteria, 
fu  promosso  tenente  sul  campo  di  battaglia  di  Dresda,  e  fatto  prigionie- 
ro  poco  dopo  dai  cosacchi.  Ammesso  col  suo  grado  nell'esercito  tosca- 
no,  organizzo  e  comando  dal  1840  al  principio  del  1848  il  corpo  dei  ca 
rabinieri.  Colonnello  alia  fine  dell'anno,  dopo  la  Restaurazione  divenne 
governatore  dell'Elba  e  generale.  Mori  a  Pistoia  il  18  febbraio  1876" 
(Mordini).  4.  si  battezzo  .  .  .  cavalleria:  « II  decreto  ufficiale  di  nomina  a 
capitano  onorario  di  cavalleria  non  fu  firmato  che  il  20  maggio  1848" 
(Mordini).  5.  Duca:  «  Carlo  Lodovico,  gia  duca  di  Lucca,  poi  di  Parma 
dopo  la  morte  di  Maria  Luisa,  abdico  in  favore  del  figlio  il  14  marzo  1849, 
e  mori  piu  che  ottantenne  a  Nizza  il  16  aprile  1883.  -  Prima  di  partire  da 
Parma  il  9  aprile  1848,  il  duca  infatti,  racconta  il  Sardi  (Lucca  e  il  suo  Du- 
catot  Firenze  1921),  vende  i  molti  suoi  cavalli,  compresi  quelli  inglesi,  al 
prezzo  medio  di  300  lire  l*uno»  (Mordini). 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  179 

erano  piene  di  bei  cavalli  da  tiro  e  da  sella,  and6  da  lui  che  conosceva 
personalmente,  e  per  una  miseria,  25.000  franchi  (il  Duca  temeva 
che  da  un  momento  all'altro  glieli  portassero  via),  compro  dodici 
cavalli  da  sella  e  due  ungheresi  da  tiro  per  se  e  gli  amici,  venti  da 
tiro  per  rartiglieria,  e  poi  una  gran  quantita  di  bardature,  furgoni  e 
roba  simile. 

II  Ferrari,  che  non  sapeva  stare  a  cavallo  e  montava  una  calia1 
di  truppa  degna  di  girare  un  bindolo,  e  che  con  lui  a  cavallo  sareb- 
bero  state  due,  non  voile  approfittare  per  se  della  compra,  ma  Tap- 
prove  per  conto  dell'armata,  e  dette  un  ordine  di  pagamento,  che 
non  fu  eseguito  che  tre  mesi  dopo  a  Firenze  con  molte  difficolta. 

E  cosi  Leonetto  si  trovo  ad  avere  carrozza,  otto  cavalli  da  sella, 
quattro  uomini  di  scuderia  e  un  buon  cuoco.  -  Aveva  capito  che 
colla  sua  attivita  infaticabile  e  con  molti  cavalli  avrebbe  potuto  cor- 
rer  molto  e  trovarsi  dappertutto,  e  cosi  distinguersi  in  tutte  le  azio- 
ni,  e  non  s'inganno,  per  che  non  fu  tirata  fucilata  ch'egli  non  si 
trovasse  presente. 

Intanto  i  toscani  passarono  il  Po  ed  arrivarono  alle  Grazie,2 
ove  fu  stabilito  il  quartier  generale  per  il  blocco  di  Mantova. 

I  volontari  fiorentini,  lucchesi  e  senesi  insieme  ad  un  reggimento 
di  linea  napoletano,  il  solo  che  il  re  di  Napoli  consentisse  a  mandare 
alia  sacra  guerra,  occuparono  la  posizione  di  Montanara.  I  livornesi 
e  i  pisani  col  battaglione  universitario  occuparono  il  ponte  di  Curta- 
tone,  con  poche  compagnie  della  truppa  regolare  toscana,  della 
quale  la  maggior  parte  guardava  il  quartier  generale,  che  non  aveva 
bisogno  di  essere  guardato.  Santa  paura! 

La  mattina  del  3  maggio  gli  Austriaci  attaccarono  il  campo  di 
Montanara  a  S.  Silvestro.  -  I  volontari  si  condussero  bene,  benis- 
simo  i  Napoletani,  e  gli  Austriaci  furono  respinti. 

Leonetto  era  a  Goito.  Tomato  verso  le  tre,  seppe  il  fatto  e  lesse 
il  rapporto  del  Giovannetti.  Domando  al  generale  se  era  stato  sul 
luogo.  —  No,  —  rispose  —  cosa  vuol  che  vada  a  fare  ora  che  tutto  e 
finito? 

—  Mi  pare  che  farebbe  buon  effetto,  se  non  altro  di  visitare  i 
feriti. 

—  Ebbene,  andiamo.  Ma  a  cavallo,  e  lontano.  Andremo  col  suo 
legno. 

i.  calia:  cavalla  di  poco  pregio.  2.  alle  Grazie:  pochi  chilometri  ad  ovest 
di  Curtatone. 


l8o  LEONETTO    CIPRIANI 

Era  ancora  attaccato ;  partirono.  -  Altro  che  buon  effetto  occor- 
reva!  C'era  uno  spavento  generale  -  il  primo  fuoco,  il  primo  san- 
gue  -  si  capisce. 

Arrivato  al  posto  avanzato  di  San  Silvestro,  dove  era  il  Belluo- 
mini,  questi  chiese  assolutamente  di  ritirarsi  a  Montanara.  Disse  di 
sapere  con  certezza  che  gli  Austriaci  sarebbero  tornati  il  giorno  dopo 
con  maggiori  forze,  che  sarebbero  stati  fatti  tutti  prigionieri,  che 
non  aveva  piu  munizioni,  che  non  c'era  piu  un  fulminante,  e  via 
dicendo. 

II  Ferrari  rispose  che  il  dovere  di  un  buon  mflitare  e  di  stare  al 
posto :  ma  il  Belluomini,  al  quale  la  stizza  aveva  sciolto  la  lingua, 
replic6 :  —  Ebbene,  faccia  venire  del  rinforzo,  e  resti  qui  con  noi. 

Leonetto  chiam6  da  parte  il  generale,  che  sembrava  tutt'altro 
che  persuaso  della  proposta,  e  gli  disse :  —  Che  male  ci  sarebbe  se 
noi  si  restasse  qui  o  a  Montanara  fino  a  domani  ?  Se  gli  Austriaci 
attaccano,  si  sapra  che  noi  eravamo  awisati  e  ce  ne  siamo  andati. 

II  generale  secco  secco  rispose :  —  Resti  lei,  se  vuole  -  io  me  ne 
vado! 

—  Ed  io  resto. 

E  rimase  infatti  la  notte  a  S.  Silvestro.  Ma  quella  posizione  es- 
sendo  pessima,  prese  sopra  di  se  di  levarla  e  concentrare  tutti  a 
Montanara.  Era  grossa  -  ma  il  Ferrari  appro  vo,  per  che  gli  bruciava 
la  coda  di  paglia. 

Ora  alcune  rifiessioni.  - 1  volontari  in  Lombardia  per  la  loro 
cattiva  o  nulla  organizzazione,  e  per  la  loro  poco  lusinghiera  riputa- 
zione  -  a  torto,  perche  se  fra  i  livornesi  vi  era  realmente  della  ro- 
baccia,  il  resto,  se  non  soldati,  era  certamente  gente  onesta  -  erano 
il  cauchemar  di  Carlo  Alberto,  che  a  nessun  costo  li  voleva  vicini  a  se. 

Da  un  certo  punto  di  vista  aveva  ragione,  perche  il  contatto  coi 
volontari,  sempre  indisciplinati,  in  tutti  i  paesi,  e  fatale  alle  truppe 
regolari  e  disciplinate  come  Io  erano  i  Piemontesi,  e  perche  non 
essendo  essi  istruiti  a  manovre  di  nessuna  specie,  sono,  bisogna  pur 
convincersene,  piu  d'imbarazzo  che  di  utilita  in  una  battaglia. 

Son  queste  le  ragioni  che  gli  fecero  assegnare  ai  Toscani  un 
posto  isolato  sotto  Mantova,  lontani  venti  miglia  almeno  dalPar- 
mata  piemontese,  lasciandoli  percio  abbandonati  a  se  stessi. 

In  Mantova,  per  poco  che  vi  fosse,  vi  erano  diecimila  uomini, 
due  reggimenti  di  cavalleria,  e  cinquanta  cannoni,  senza  contare  i 
depositi;  ed  i  Toscani,  regolari  ed  irregolari,  erano  in  tutto  al  piu 


AVVENTURE  DELLA  MIA  VITA  l8l 

quattromila,1  con  otto  pezzi  di  artiglieria,  e  un  cattivo  squadrone  di 
cavalleria. 

Era  questo  il  corpo  d'armata  che  s'intendeva  dovesse  fare  il 
blocco  di  Mantova!  -  Era  un'assurdita,  che  metteva  in  bocca  al 
lupo,  quando  avesse  avuto  fame,  quattromila  vittime. 

E  alTosservazione  che  se  vi  stettero  due  mesi  senz'essere  slog- 
giati,  non  vi  era  poi  tanta  assurdita,  la  risposta  e  facile :  la  verita  e 
che  gli  Austriaci  non  sapevano  che  farsi  di  quattromila  prigionieri  - 
altrimenti  bastava  una  passeggiata  militare.  Se  gli  Austriaci  con 
cinque  o  sei  mila  uomini  e  un  reggimento  di  cavalleria  avessero  la 
notte  passato  il  Mincio  a  Governolo,  marciando  per  Castellucchio, 
ce  li  saremmo  trovati  alle  spalle,  e  con  poche  fucilate  dalla  parte  di 
Mantova  e  poche  alle  spalle,  la  retata  era  fatta. 

Di  questo  conveniva  anche  il  Laugier.  E  cio  che  non  era  seguito 
fino  allora  poteva  seguire  da  un  momento  all'altro.  Percio  Leonetto 
scrisse  una  lettera  molto  seria  al  Ridolfi,  awertendolo  dell'enorme 
responsabilita  che  pesava  sul  ministero  toscano.  Ma  non  contento  di 
questo  e  in  vista  anche  della  nessuna  stima  che  godeva  il  Ferrari, 
si  decise  a  partire  per  Firenze,  ove  espose  al  Ridolfi  e  al  Corsini 
la  situazione  con  colori  cosi  vivi,  che  ne  rimasero  visibilmente  im- 
pressionati.  E  dopo  aver  riferito  al  Granduca,  il  Corsini  ebbe  Tor- 
dine  di  partire  pel  campo  con  pieni  poteri. 

Arrivo  P 1 1  maggio  -  e  convenne  subito  che  la  nostra  organizza- 
zione  era  ridicola,  e  la  nostra  posizione  una  trappola.  Ma  non  es- 
sendo  possibile  cambiare  la  posizione,  perche  Carlo  Alberto  non 
voleva  sentirne  parlare,  si  limito  da  principio  a  procedere  ad  uno 
spurgo  di  bocche  inutili,  circa  duecento,  quasi  tutti  livornesi.  Fu 
la  prima  volta  che  si  fece  qualcosa  sul  serio. 

La  mattina  del  13  erano  alle  Grazie  quando  si  sentirono  delle  fu 
cilate.  Leonetto  fu  il  primo  a  cavallo  con  Corsini  ed  un  giovine 
Alberti.  II  Ferrari  faceva  la  sua  toilette,  e  per  metterlo  a  cavallo 
ci  voile  un'ora. 

i .  i  Toscani . . .  quattromila :  «  Ufficialmente  i  Toscani  sarebbero  stati  6972, 
ma  il  29  maggio  i  combattenti  furono  soltanto  4867,  2422  dei  quali  a  Cur- 
tatone  e  il  resto  a  Montanara.  -  Cosi  il  Laugier  nel  suo  Racconto  storico 
pubblicato  senza  nome  di  autore  nel  1854.  Nelle  sue  Milizie  toscane  nella 
guerra  (1849),  e  nelle  Osservazioni  al  suo  rapporto  ufficiale,  da  lui  inviate  al 
governo  granducale,  e  pubblicate  dall'Oxilia  in  appendice  a  La  campagna 
toscana  del  1848  in  Lombardia,  egli  da  pero  cifre  alquanto  diverse  (4485 
combattenti  nelle  prime,  4585  nelle  seconde) »  (Mordini). 


l82  LEONETTO    CIPRIANI 

Partirono  al  gran  galoppo.  Arrivati  a  poca  distanza  dal  ponte  di 
Curtatone,  che  le  cannonate  austriache  prendevan  d'infilata,  PA1- 
berti  esclamo:  —  Eccellenza,  la  badi,  fischian  le  palle! 

E  il  Corsini  gli  rispose:  —  Ma  che  alia  guerra  crede  ci  fischin  le 
cicale?  Si  cheti,  stupido! 

Dopo  poche  cannonate  i  Tedeschi  se  ne  andarono.  Si  sarebbe 
detto  che  erano  venuti  a  tirare  al  bersaglio. 

II  Ferrari  non  comparve.  Lo  incontrarono  al  ritorno  vicino  alle 
Grazie,  al  piccolo  passo  della  sua  calia.  Corsini  non  lo  saluto  -  e 
non  voile  neppure  pranzar  con  lui  la  sera,  II  giorno  dopo  parti, 
e  appena  tomato  a  Firenze  lo  richiamo  e  nomino  al  suo  posto  il 
Laugier,  e  Leonetto  suo  aiutante  di  campo  col  grado  di  capitano 
di  cavalleria. 

II  29  maggio  allo  spuntar  del  giorno  si  senti  tuonare  spesso 
il  cannone  verso  Curtatone  e  Montanara.  -  II  dies  irae  era  arri- 
vato. 

II  Laugier  parti  subito  con  tutto  lo  stato  maggiore  ed  il  capo  di 
quello,  Chigi,1  lasciando  Leonetto  al  quartier  generale  coll'ordine 
di  prendere  tutte  le  disposizioni  per  la  ritirata  e  poi  raggiungerlo. 
Eseguiti  gli  ordini  e  disposto  che  i  suoi  equipaggi  fossero  pronti  a 
partire,  Leonetto  vo!6  a  Curtatone. 

Come  si  e  detto,  i  Toscani  ascendevano  a  circa  4000  uomini, 
con  otto  cannoni  e  uno  squadrone  di  cavalleria.  La  loro  linea, 
di  fronte  a  Mantova,  si  estendeva  alia  sinistra  del  ponte  di  Curta 
tone  per  trecento  metri  fino  al  mulino  sulla  sponda  del  lago,2  e  per 
altrettanti  alia  destra. 

La  strada  maestra  che  veniva  da  Mantova  in  linea  retta  per  un 
miglio,  e  poi  per  mezzo  del  ponte  andava  alle  Grazie,  era  chiusa 
da  una  trincera  in  terra  con  quattro  pezzi  da  otto  e  il  ponte3  alle 
spalle  a  cinquanta  metri. 

Montanara,  a  destra,  distante  dal  ponte  due  miglia,  e  un  piccolo 
villaggio  nascosto  tra  gli  alberi.  Vi  erano  un  2500  uomini,  fra  i  quali 
i  napoletani,  e  due  pezzi  di  artiglieria  davanti  alia  chiesa. 

L'armata  austriaca  mosse  da  Mantova  in  numero  di  25.000  uo 
mini,  quattro  reggimenti  di  cavalleria,  e  cento  cannoni,  comandati 

i.  « Carlo  Corradino  Chigi,  nato  e  morto  a  Siena  (u  settembre  1802- 
26  marzo  1881),  ferito  gravemente  a  Curtatone,  poi  generale  e  senatore  del 
Regno»  (Mordini).  2.  alia  sinistra  .  .  .  del  lago:  e  la  parte,  detta  «supe- 
riore»,  del  lago  che  intorno  a  Mantova  forma  il  Mincio.  3.  e  il  ponte: 
e  avendo  il  ponte. 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  183 

dal  maresciallo  Radetzky.1  Una  divisione  si  diresse  verso  Mantova, 
il  resto  verso  Curtatone,  colla  diritta  appoggiata  al  lago,  il  centro 
alia  strada,  e  la  sinistra  scaglionata,  collegandosi  colla  divisione  di 
Montanara. 

Riserva  toscana  nessuna.  Al  quartier  generale  c'era  il  solo  squa- 
drone  di  cavalleria,  e  Parmata  piemontese  era  a  venticinque  miglia 
di  distanza.  -  Gli  Austriaci  avevano  invece  la  fortezza  di  Mantova 
alle  spallel 

Precisate  cosi  le  posizioni  e  le  forze  dei  due  combattenti,  e  fa 
cile  capire  come  la  lotta,  piii  che  lotta,  fosse  il  giuoco  di  un  gigante 
contro  un  pigmeo. 

Allo  spuntare  di  un  bel  sole  di  maggio  gli  Austriaci  attaccarono2 
su  tutta  la  linea,  coprendo  di  proiettili  Curtatone  -  e  cosi  continua- 
rono  fermi  nelle  stesse  posizioni  fino  al  mezzogiorno. 

Stettero  bravamente  al  loro  posto  i  Toscani  scambiando  fucilate 
coi  Croati  al  mulino,  e  coi  Tirolesi  alia  sinistra,  e  sostenendo  il 
fuoco  dei  quattro  cannoni  al  centro,  incoraggiati  dal  Laugier,  che, 
trovandosi  dappertutto,  dava  un  belFesempio  -di  valore. 

Difendevano  la  sinistra  i  volontari  pisani  e  il  battaglione  univer- 
sitario.  Si  distinsero  in  questo  i  professori  Montanelli,  Ferrucci3 
e  Studiati;4  e  fra  quelli  Ruschi5  e  Michelazzi.6  Vi  lasciaron  la  vita 
molti,  vite  preziose,  speranze  della  patria. 

Al  centro  i  livornesi  non  furono  da  meno.  Si  distinse  fra  loro  in 
modo  speciale  il  capitano  Malenchini.7  II  comandante  Partiglieria, 
capitano  Niccolini,8  si  copri  di  gloria.  II  Castinelli9  gia  avanzato  in 

1.  « II  f eld-mares ciallo  conte  Giuseppe  Venceslao  Radetzky  di Radetz  (1766- 
1858),  dal  1831  comandante  in  capo  delle  truppe  austriache  in  Italia,  vin- 
citore  dei  Piemontesi  nel  1848  e  nel  1849,  e  dopo  Novara  governatore  gene- 
rale  e  comandante  militare  del  Lombardo-Veneto  fino  al  1857))  (Mordini). 

2.  Allo  spuntare  .  .  .  attaccarono :  la  battaglia  di  Curtatone  e  Montanara 
ebbe  luogo  il  29  maggio  1848.     3.  Michele  Ferrucci,  di  Lugo  (1801-1881), 
latinista  molto  stimato,  fa  professore  di  letteratura  latina  alTUniversita 
di  Pisa.  Nel  1848  partecipo  con  i  suoi  studenti  alia  guerra  e  combatte  a 
Curtatone.     4. « Cesare  Studiati,   professore  di  fisiologia,  maggiore  nel 
battaglione  civico  pisano-senese »  (Mordini).     5.  Ruschi:  vedi  la  nota  i 
a  p.  161.     6.  « Francesco  Michelazzi,  capitano  nel  battaglione  civico  pi 
sano-senese  »    (Mordini).     7.  Vincenzo   Malenchini^    di    Livorno    (1813- 
1881),  combatte  a  Curtatone  nel  '48,  a  Novara  nel  '49,  a  Milazzo  nel  '60; 
partecipo  alia  campagna  del  '66  e  alia  presa  di  Roma.  Deputato  di  Livorno 
per  varie  legislature,  fu  nominate  senatore  nel  1876.     8.  Niccolini'.  vedi 
la  nota  2  a  p.  178.     9.  « Ridolfo  Castinelli,  ingegnere  in  capo  del  comparti- 
mento  pisano,  capitano  comandante  il  genio,  deputato  al  parlamento  to- 
scano,  nato  e  morto  a  Pisa  (21  novembre  1791-27  marzo  1859) »  (Mordini). 


184  LEONETTO    CIPRIANI 

eta,  ma  pure  infaticabile,  sostenuto  da  forza  morale  e  da  sviscerato 
amor  di  patria,  fu  ammirabile  d'intelligenza  e  sangue  freddo. 

Dopo  il  mezzogiorno,  gli  Austriaci,  coprendo  di  racchette  incen- 
diarie1  i  Toscani,  misero  la  desolazione  fra  quella  gioventu  ardita 
ma  non  awezza  a  scene  di  sangue.  Gli  artiglieri  presi  dalla  paura 
sparirono,  e  i  cannoni  avrebbero  taciuto,  se  non  si  fossero  moltipli- 
cati  a  servirli  i  giovani  di  buona  volonta. 

Si  distinse  fra  tutti  un  cannoniere  dell'Elba  di  nome  De  Gasperi, 
che  nudo  ed  abbruciato  da  capo  a  piedi  continu6  a  servire  il  suo 
pezzo  finche  le  carni  staccandosi  a  pezzi  e  gli  occhi  chiudendosi 
dairirifiammazione,  il  dolore  vinse  il  valore.2 

Ad  un  tratto  si  videro  i  Croati  arrivare  al  mulino.  Fosse  Pef- 
fetto  delle  racchette,  fosse  quello  della  presenza  delle  piu  crudeli 
truppe  dell' Austria,  vi  fu  un  momento  di  panico  -  ed  il  battaglione 
universitario  piego  verso  il  ponte.  Era  su  quello  tuo  padre  che, 
come  gli  scrisse  il  Ferrucci,3  impavido  sotto  quella  grandine  di 
proiettili  si  mise  a  traverso  del  ponte  e  con  parole  non  di  comando 
ma  di  amore  di  patria  riusci  a  fermare  i  fuggenti,  che  ripresero  i 
loro  posti  e  non  li  lasciarono  finche  non  fu  ordinata  la  ritirata. 

Intanto  il  Laugier,  che  si  prodigava  insieme  col  Chigi  e  col 
Villamarina,4  avendo  visto  il  nemico  che  si  avanzava  sulla  diritta 
per  attaccare  i  Toscani  di  fianco,  ordino  a  Leonetto  di  prendere  una 
forte  compagnia  di  artiglieria  di  piazza.,  comandata  dal  capitano 
Contri,  una  compagnia  di  linea  ed  un  pezzo  di  artiglieria,  e  difen- 
dere  la  diritta  mentre  egli  avrebbe  ordinato  la  ritirata. 

Dura  verita:  le  due  compagnie  avanzarono  a  passo  di  formica, 
facendo  due  passi  avanti  e  uno  indietro,  ma  ad  ogni  mo  do  avanza 
rono,  e  Leonetto,  ordinatele  sulla  strada  in  modo  da  ingannare  il 

i.  racchette  incendiarie:  razzi  incendiari.  2.  Si  distinse  .  .  .  valore:  «Per  la 
sua  eroica  condotta,  il  caporal  foriere  De  Gasperi  ottenne  la  medaglia  al 
valore  tanto  dal  Granduca  che  dal  re  Carlo  Alberto)  (Mordini).  3.  co 
me  .  .  .  Ferrucci:  la  lettera  di  Michele  Ferrucci,  cui  allude  il  testo,  e  ri- 
prodotta  nelTedizione  Mordini  a  p.  204  del  n  volume.  II  Ferrucci  vi  ricorda 
ed  esalta  il  valore  di  Leonetto  Cipriani,  e  del  di  lui  fratello  Giuseppe,  con 
parole  di  grande  ammirazione,  e  aflerma  che  nessuno  aveva  meritato  in 
quella  battaglia  la  decorazione  di « cavaliere  di  san  Giuseppe »  quanto  i  due 
fratelli  Cipriani.  Giuseppe  Cipriani,  nato  a  Livorno  il  29  ottobre  1826, 
accompagno  il  principe  Napoleone  in  Crimea  nel  1854,  fu  con  lui  in  To- 
scana  nel  1859,  collaboro  col  fratello  nel  governo  della  Romagna  dall'agosto 
al  novembre  dello  stesso  anno.  Mori  a  Firenze  1'8  novembre  del  1912. 
4.  Villamarina:  « Capitano  di  stato  maggiore  piemontese  addetto  a  quello 
del  Laugier »  (Mordini). 


AVVENTURE    DELLA   MIA   VITA  185 

nemico  sul  numero,  riusci  a  tener  fermo  finche  le  truppe  toscane 
avessero  passato  il  ponte,  e  fu  1'ultimo  a  ritirarsi,  quando  gia  gli 
Austriaci  eran  sotto  le  trincere,  e  con  poche  o  punte  perdite. 

Tutto  il  corpo  toscano  essendo  in  piena  ritirata  sulle  Grazie,  gli 
Austriaci  per  inseguirlo  dovevano  passare  lo  stesso  ponte,  ma  te- 
mendo  che  fosse  minato  (cio  che  era  stato  dimenticato  di  fare  per 
ignoranza  inesplicabile)  si  fermarono.  E  i  Toscani  dalle  Grazie, 
riunitisi  al  quartier  generale  in  un  disordine  indescrivibile,  presero 
la  via  di  Goito. 

II  generale  ordino  a  Leonetto  di  coprir  la  ritirata  collo  squadrone 
di  cavalleria  e  le  due  compagnie  formica.  Coprir  la  ritirata!  Era 
frase  cosi  ridicola  che  dicendola  mosse  il  sorriso  del  Laugier  e  del 
suo  aiutante  di  campo. 

Rimase  sulla  piazza  delle  Grazie,  e  quando  all'angolo  della  via 
che  dal  ponte  conduce  a  Castellucchio  vide  apparire  degli  ulani 
austriaci  a  tutta  camera,  crede  fosse  un  corpo  di  cavalleria,  e  si 
rassegno  a  passare  qualche  mese  prigioniero  in  Boemia.  Fortunata- 
mente  erano  solo  pochi  ulani,  che  infilarono  la  via  di  Castelluc 
chio,  e  sparirono;  e  i  Toscani  furono  tranquillamente  lasciati  an- 
dare  a  Goito,  dove  arrivarono  la  sera. 

Intanto  a  Montanara  avevano  ricevuto  il  nemico  a  sangue  freddo. 
Avevano  scambiato  fucilate  per  quattr'ore  senz'avanzare  ne  retro- 
cedere,  e  fatto  infine  quel  che  potevano,  comandati  com' erano  dal 
Giovannetti,  dal  Bernardi  e  dal  Rodriguez.1  Verso  il  mezzogiorno 
furono  circondati,  fatti  quasi  tutti  prigionieri,  e  diretti  a  Mantova. 

Secondo  tuo  padre,  la  spiegazione  di  quanto  precede  era  la  se- 
guente.  II  Radetzky,  cacciato  dalla  Lombardia  e  dal  Veneto,  si  era 
ritirato  nelle  fortezze,  aspettando  rinforzi  dalla  via  del  Tirolo,  la 
sola  che  gli  fosse  rimasta  aperta. 

Rinforzi  numerosi  P  Austria  non  poteva  mandarne,  avendo  alle 
spalle  la  rivoluzione  ungherese;  pure  mando  un  20.000  uomini. 
Con  questi,  e  colParmata  di  Lombardia,  in  gran  parte  demoraliz- 
zata  dalla  precipitosa  ritirata,  formo  due  corpi:  uno  di  60.000  uo- 


i.  «I1  colonnello  Vincenzo  Bernardi,  comandante  i  civici  livornesi,  e  poi 
il  battaglione  invalidi  e  veterani;  il  tenente  colonnello  Rodriguez,  del 
10°  reggimento  di  linea  napoletano,  comandava  il  distaccamento  di  Goito, 
e  non  prese  percio  parte  alia  battaglia.  II  comandante  dei  napoletani  a 
Montanara  era  il  maggiore  Spiligato,  che  si  batte  bravamente  e  vi  rimase 
ferito»  (Mordini). 


l86  LEONETTO    CIPRIANI 

mini  da  stare  a  fronte  dei  Piemontesi  che  minacciavano  la  posizione 
di  Rivoli,  Faltro  di  25.000  per  tentare  le  sorti  della  guerra. 

II  suo  piano  era  di  attaccare  il  corpo  toscano  la  mattina  del  29, 
nella  convinzione  che  i  Toscani  avrebbero  mandati  awisi  sopra 
awisi  chiedendo  soccorso  al  Re  ed  al  generale  Bava,1  che  non  avreb 
bero  potato  fare  a  meno  di  accorrere  essi  stessi  con  parte  dell'ar- 
mata.  Se  le  sue  previsioni  si  fossero  awerate,  il  Radetzky  sperava 
di  dare  una  gran  battaglia  a  Curtatone ;  ed  i  Piemontesi  essendo  di- 
visi,  e  lontani  e  fuori  dalla  loro  base  di  operazioni,  egli  con  Mantova 
alle  spalle  aveva  tutte  le  probabilita  di  vincere. 

Prova  di  cio  e  che  quando  il  Laugier  dette  1'ordine  di  preparare  la 
ritirata  alle  Grazie,  Leonetto  volgendo  lo  sguardo  sul  lago  all'an- 
golo  dove  sbocca  il  Mincio,  vide  brillare  una  massa  di  baionette. 
Fattolo  osservare  al  Belluomini,  questi  disse :  —  Quelle  sono  per 
metterci  in  gabbia!  —  ed  era  vero.  Quel  corpo  era  destinato  a  pas- 
sare  il  Mincio  quando  i  soccorsi  piemontesi  avrebbero  impegnato 
la  lotta,  a  prenderli  alle  spalle,  e  a  dare  all'aquila  austriaca  una 
vittoria  certa. 

Ma  la  sorte  d' Italia  voile  che  quel  giorno  tale  sventura  non  awe- 
nisse.  I  Toscani  non  chiesero  soccorsi,2  ed  il  Re  ed  il  Bava  non  gli 
mandarono  perche  certamente  si  accorsero  del  laccio  che  quella 
volpe  di  Radetzky  tendeva  loro.  Meglio  sacrificare  i  Toscani  che 
compromettere  le  sorti  d' Italia. 

II  Radetzky,  non  ricevendo  awiso  del  movimento  dei  Piemontesi, 
si  decise  ad  avanzare  e  a  prendere  il  corpo  di  Montanara  come 
trofeo  di  guerra  per  ritemprare  Panimo  delle  sue  truppe,  che  erano 
state  costrette  a  fuggire  da  tutte  le  citta  della  Lombardia  dinanzi 
alia  furia  del  popolo.  Non  si  euro  poi  di  far  prigionieri  tutti  i 
Toscani  per  tre  ragioni:  perch6  avendo  il  giorno  dopo  bisogno  di 
tutte  le  sue  forze,  voleva  lasciare  in  Mantova  soltanto  la  guarni- 
gione  strettamente  necessaria ;  perche  tremila  volontari  anche  disar- 
mati  potevano  provocare  un'insurrezione ;  e  finalmente  per  eco- 
nomia  di  razioni. 

Due  miglia  dopo  le  Grazie,  quando  fu  oramai  certo  di  non  essere 

i.  «Eusebio  Bava  (1790-1854),  comandante  il  i°  corpo,  generale  d'armata 
dopo  Goito,  poi  comandante  in  capo  Fesercito,  ispettore  generale  e  mi- 
nistro  della  guerra »  (Mordini).  2.  /  Toscani .  . .  soccorsi:  «Veramente  il 
Laugier  quel  giorno  chiese  ripetutamente  soccorso  al  Bava,  ma  senza  risul- 
tato»  (Mordini). 


AVVENTURE  BELLA  MIA  VITA  187 

inseguito,  Leonetto  propose  al  Laugier  di  andare  dal  generale 
Bava  a  riferirgli  Paccaduto  e  a  prendere  i  suoi  ordini. 

II  generale  approve,  ed  egli  parti  con  un  magnifico  cavallo 
arabo,  veloce  come  il  vento,  che  aveva  comprato  a  Firenze.  Giunto 
al  quartiere  generale  piemontese,  fu  subito  ricevuto  dal  Bava,  che 
udito  il  racconto  della  battaglia,  gli  diede  Pordine  verbale  di  dire  al 
Laugier  che  il  giorno  dopo  all' alba  lasciasse  Goito  e  si  dirigesse  a 
marcia  forzata  a  Castellucchio. 

Riparti  immediatamente.  Arrivato  a  Goito,  riferi,  e  furon  dati  gli 
ordini  opportuni,  disponendo  egli  stesso  tutto  nella  notte  senza 
prender  riposo.  AlPalba  erano  sulla  strada  che  porta  a  Castelluc 
chio,  ove  arrivarono  la  sera. 

II  giorno  stesso  gli  Austriaci  assalirono  i  Piemontesi,  che  in  nu- 
mero  di  25.000  si  erano  radunati  a  Goito.  Gli  Austriaci  fecero  pro- 
digi  di  valore,  ma  tutto  fu  inutile  contro  le  posizioni  migliori, 
Tincrollabile  fermezza  dei  Piemontesi  e  la  bonta  della  loro  artiglie- 
ria.  La  vittoria  fu  completa,  e  il  duca  di  Savoia1  si  copri  di  gloria. 

La  sera  del  30,  il  Laugier,  che  arrivato  a  Castellucchio  si  era 
dovuto  mettere  a  letto  malato,  avendo  sentito  tuonare  tutto  il 
giorno  il  cannone  a  Goito  ed  ignorando  il  risultato  della  battaglia, 
incarico  tuo  padre  di  disporre  un  cordone  di  sentinelle  avanzate  a 
mezzo  miglio  del  paese,  per  non  essere  sorpresi.  Leonetto  passo 
tutta  la  notte  andando  da  una  sentinella  alPaltra,  e  la  mattina  si 
reco  a  riferire  al  generale,  che  trovo  a  letto  con  intorno  una  quantita 
di  ufHziali,  fra  i  quali  quelli  di  una  batteria  di  artiglieria  piemontese 
che  arrivava  da  Torino. 

Appena  vedutolo,  il  Laugier  gli  disse:—  Giusto  ti  aspettavo.  - 
Mi  assicurano  che  abbiamo  i  Tedeschi  a  poca  distanza.  Se  i  Pie 
montesi  non  avessero  vinto  ieri,  lo  sapremmo  gia  -  vuol  dire  che  e 
stata  una  vittoria.  I  Tedeschi  vicini  a  noi  han  da  essere  un  corpo 
staccato.  Bisogna  farli  prigionieri.  Anderai  come  parlamentario,  e 
grintimerai  di  arrendersi. 

Quelle  parole  furono  per  tuo  padre  un  fulmine  a  ciel  sereno. 
Osservazioni  ne  avrebbe  fatte  se  eran  soli,  ma  non  eran  possibili  in 
presenza  degli  ufHciali  piemontesi,  che  si  sarebbero  fatto  un 
meschino  concetto  dei  rapporti  che  in  Toscana  esistevano  tra  gene- 
rali  e  subalterni;  e  poi  capi  che  1'ombra  di  un'osservazione  avrebbe 

i.  il  duca  di  Savoia:  il  primogenito  di  Carlo  Alberto,  il  futuro  re  Vittorio 
Emanuele  II. 


l88  LEONETTO    CIPRIANI 

fatto  dubitare  del  suo  ardire.  Si  limito  a  domandare:  —  Subito?  — 
Subito  —  rispose  il  Laugier. 

Quel  subito  non  era  tuo  padre  che  1'aveva  detto;  era  il  suo  sto- 
maco.  Ventre  vuoto  non  ragiona  -  e  il  suo  era  vuotato  dalla  lunga 
trottata  passata  a  ciel  sereno. 

Scendendo  le  scale,  si  rammento  che  i  parlamentari  dovevan  por- 
tare  un  ordine  scritto  -  alia  guerra  phi  che  altrove  verba  volant, 
scripta  manent  -  e  che  dovevano  essere  accompagnati  da  un  drap- 
pello  di  cavalleria. 

Ma  il  tornar  di  sopra  a  chiedere  1'ordine  scritto  poteva  essere 
preso  per  poca  voglia  d'imbarcarsi  in  quell' impresa;  e  lo  sguardo 
dei  Piemontesi  che  non  lo  conoscevano  e  non  sapevano  di  che  cosa 
era  capace,  gli  faceva  una  paura  maledetta.  D'altronde  riflette  che 
avendo  preso  tanta  autorita  che  poteva  ordinar  tutto  e  da  tutti  essere 
ubbidito,  non  aveva  bisogno  che  la  scorta  gliela  desse  il  generale. 

Si  cambio,  fece  spazzolare  la  vecchia  uniforme  che  aveva  ad- 
dosso  da  tre  mesi,  scelse  una  cavalla  quieta  e  calma  come  si  addice 
ad  un  parlamentario,  prese  con  se  quattro  cavalieri  ed  un  caporale 
di  scorta,  e  parti. 

Passato  1'ultimo  posto  avanzato  toscano,  vide  a  un  tiro  di  fu- 
cile  appoggiata  a  un  albero  la  vedetta  austriaca  che  dormiva.  Lo 
scalpitar  dei  cavalli  la  sveglio,  e  come  un  lampo  spiano  il  fucile. 
Leonetto  si  fermo  sventolando  una  pezzola  bianca,  e  gridando :  — 
Parlamentario!  —  La  tregua  era  stabilita. 

Senti  dietro  a  se  un  galoppo  di  cavalli.  Si  volto  -  era  la  scorta, 
meno  il  caporale,  che  scappava!  -  Era  un  pensiero  di  meno,  ed 
ordino  al  caporale  di  andarsene  anche  lui. 

La  sentinella  lo  accompagno  ad  un  forte  posto  avanzato,  da 
dove,  bendato,  fu  diretto  al  generale  Wimpffen.1  Sceso  da  cavallo, 
e  salita  una  scala,  fu  sbendato,  e  si  trovo  in  un  gran  salone  in  pre- 
senza  del  generale  e  del  suo  stato  maggiore. 

—  Chi  siete? 

—  Sono  Paiutante  di  campo  del  generale  de  Laugier,  comandante 
i  Toscani. 

—  Chi  vi  manda  ? 

—  II  mio  generale. 

i.  Wimpffen-.  « Secondo  il  Laugier  e  lo  Schonhals  era  invece  il  generale 
barone  d'Aspre  (1789-1850),  che  si  distinse  a  Novara,  e  comand6  il  corpo 
austriaco  che  nel  maggio  seguente  occupo  la  Toscana»  (Mordini). 


AVVENTURE    DELLA    MIA    VITA  189 

—  Con  qual  veste  ? 

—  Con  la  veste  di  parlamentario. 

—  Datemi  il  mandate. 

—  Non  ho  mandate  scritto. 

—  Cosa  avete  da  dirmi? 

—  II  generale  de  Laugier  v'intima  di  arrendervi.  L'armata  au- 
striaca  e  stata  disfatta  a  Goito,  Peschiera  e  presa.  Siete  circondati 
dai  Piemontesi  e  dai  Toscani,  e  non  avete  ritirata  possibile. 

Se  il  generale  fosse  stato  bilioso  e  di  cattivo  carattere,  la  risposta 
certa  eran  sei  palle  nello  stomaco,  perche  in  realta  tuo  padre  non 
rivestiva  nessuno  dei  caratteri  del  vero  parlamentario.  Poteva  es- 
serlo,  ma  la  supposizione  piu  plausibile  era  che  fosse  invece  una 
spia  o  un  subornatore,  perche  un  generale  austriaco  non  poteva  e 
non  doveva  ammettere  che  il  de  Laugier  sapesse  cosi  poco  le  rigo- 
rose  formalita  militari  da  aver  dimenticato  le  piu  essenziali.  Ma  il 
Wimpffen  era  prima  di  tutto  un  gentiluomo,  e  di  carattere  cavalle- 
resco  e  leale,  senza  quella  rozzezza  di  forme  e  di  parole,  che  molti 
militari  credono  a  torto  necessaria  coi  sottoposti.  Con  un  mezzo 
sorriso  impercettibile  rispose :  —  Vi  dirigo  al  quartier  generale  del 
Maresciallo  —  saluto  con  la  testa  ed  usci. 

Tuo  padre  fu  condotto  in  una  sala  terrena,  dove  un  ufficiale  gli 
domando  se  gli  occorresse  niente.  Chiese  di  mangiare  un  boccone, 
e  gli  fu  servita  una  buona  colazione.  Dopo  aver  bevuto  una  tazza  di 
caffe  si  distese  su  un  canape  di  paglia,  senza  levarsi  ne  il  berretto  ne 
la  sciabola,  e  dormi  saporitamente  sei  ore,  finche  fu  svegliato  per 
partire.  Monto  a  cavallo,  fu  bendato,  e  alle  sei  arrive  a  Roverbella. 

Scese,  gli  fu  levata  la  benda,  e  fu  introdotto  nel  vasto  salone  ter- 
reno,  dove  tante  volte  aveva  pranzato  col  Bartolommei.  Vi  era  il 
maresciallo,  con  molti  ufficiali,  tra  cui  dalla  faccia  giovine  e  bionda 
riconobbe  gli  arciduchi  di  Austria,  uno  dei  quali  era  Tattuale  Im- 
peratore.1 

Con  tuono  brusco  il  Radetzky  gli  domando  perche  fosse  entrato 
nelle  linee  austriache,  e  Leonetto  ripete  quanto  aveva  gia  detto  al 
Wimpffen,  protestando  di  non  essere  stato  trattato  come  un  parla 
mentario,  contro  tutti  i  diritti  e  gli  usi  della  guerra. 

Colla  bile  negli  occhi  per  le  batoste  ricevute  il  giorno  prima,  il 

i.Vattuale  Imperatore:  « Francesco  Giuseppe  I  (1830-1916),  imperatore 
d' Austria  il  2  dicembre  1848  in  seguito  all'abdicazione  dello  zio  Ferdi- 
nando  I»  (Mordini). 


IQO  LEONETTO    CIPRIANI 

maresciallo  rispose :  —  Ma  voi  non  siete  un  parlamentario  -  siete 
una  spia. 

A  quelle  parole  tuo  padre  senti  un  brivido  da  capo  a  piedi,  e  colla 
testa  alta  e  gli  occhi  fuori,  esclamo :  —  lo,  una  spia  ?  Prima  d'insul- 
tarmi,  domandate  chi  sono,  e  vi  pentirete  di  aver  insultato  un 
uomo  che  non  puo  difendersi  che  con  la  parola. 

Rimasero  attoniti,  e  mentre  da  principio  avevan  tutti  facce  da 
de  profundis,  a  quelle  parole  si  rischiararon  tutte  come  per  incanto, 
ed  il  maresciallo,  detto  qualcosa  in  tedesco  che  Leonetto  non  capi, 
si  ritiro  con  i  generali. 

Rimasero  molti  ufficiali  che  lo  circondarono  con  fisonomie  ri- 
denti,  facendogli  mille  domande  su  Firenze  e  sul  Granduca.  Era  fra 
questi  un  bell'uomo  che  gli  disse  essere  colonnello  del  reggimento 
Leopoldo  Granduca  di  Toscana,1  essere  stato  recentemente  a  Fi 
renze,  ed  avervi  sentito  parlare  di  lui. 

—  O  come  mai,  —  gli  chiese  tuo  padre  —  se  sapete  chi  sono,  avete 
permesso  che  io  fossi  cosi  crudelmente  insultato  ? 

—  Sono  soltanto  un  colonnello,  —  rispose  —  ed  e  il  maresciallo 
che  vi  ha  diretto  la  parola;  ma  state  tranquillo,  le  vostre  parole  han- 
no  fatto  effetto  su  di  lui  e  sugli  arciduchi. 

Comparve  in  quel  momento  un  ufficiale,  del  quale  non  conobbe 
ne  Funiforme  ne  il  grado,  ma  che  doveva  essere  un  pezzo  grosso, 
perche  tutti  gli  fecero  largo.  Ordino  a  tuo  padre  di  depofre  la  scia- 
bola,  il  che  egli  fece  protestando  di  nuovo,  e  di  seguirlo.  Montarono 
a  cavallo,  scortati  da  un  drappello  di  ussari,  e  a  notte  arrivarono  a 
Mantova,  dove  Leonetto  fu  rinchiuso  nelle  prigioni  in  una  cella 
sotterranea  da  spaventare  ogni  altro  che  quell'uomo  di  ferro. 

II  carceriere  che  lo  accompagno  gli  domando  se  voleva  mangiare. 

-Si. 

—  A  quest'ora  non  c'e  che  pane  e  vino. 

—  Portatelo. 

—  Bisogna  pagarlo. 

Si  guard6  in  tasca  -  non  aveva  un  soldo.  Aveva  del  denaro 
nascosto,  ma  non  voleva  dirlo;  sicche  al  carceriere,  che  stava  colla 
mano  stesa,  rispose:  —  Non  vedete  che  non  ho  un  soldo? 

—  Vi  faro  credito. 

—  Vi  ringrazio. 

i.  un  belTuomo  .  . .  Toscana:  «II  conte  Zichy  Ferraris,  comandante  il  4° 
reggimento  dragoni  Leopoldo  II  di  Toscana »  (Mordini). 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  IQI 

Port6  il  pane  e  il  vino  -  gli  augur6  la  buona  notte  -  e  se  ne  andava 
col  lume. 

—  Non  mi  lasciate  lume  ? 

—  £  proibito,  al  numero  uno. 

—  Lasciatemi  almeno  vedere  dove  ho  da  buttarmi  a  dormire. 
Era  un  pancaccio  umido  e  sporco  da  far  rizzare  i  capelli  a  un 

morto.  Non  pote  fare  a  meno  di  esclamare  portandosi  le  mani  al 
volto:  —  Oh!  santa  patria! 

La  candela  trem6  in  mano  al  carceriere.  Volto  le  spalle,  usci  e 
dette  tre  giri  di  chiave. 

Rimasto  nell'oscurita,  a  stento  pote  trovare  il  pane  e  il  vino. 
Lo  divor6  -  perche  non  confessarlo  ?  -  piangendo  e  pensando  a  sua 
madre. 

Cerc6  poi  un  mobile  indispensabile ;  non  ce  n'era-  ne  fece  a 
meno.  Si  butto  sul  pancaccio,  e  tante  erano  la  stanchezza  e  le  fati- 
che  di  quei  tre  mesi,  che  benedi  quasi  il  riposo  di  quella  tomba. 

Dormi  tutta  la  notte  malgrado  i  topi  che  gli  camminavano  sul 
corpo,  ma  era  tanto  il  bisogno  di  dormire  che  lascio  fare  e  non  si 
mosse. 

La  mattina,  svegliandosi,  dalla  scarsa  luce  che  penetrava  da  un 
pertugio  obliquo  si  accorse  che  era  giorno.  Arrivo  il  carceriere,  e 
gli  chiese  cosa  voleva  mangiare,  aggiungendo  che  gli  avrebbe  fatto 
credito. 

—  Datemi  una  tazza  di  caffe  la  mattina,  una  bistecca  a  mezzo- 
giorno  con  mezza  bottiglia  di  vino  ed  altrettanto  la  sera. 

—  Vi  basta? 

—  Si,  ma  che  la  bistecca  sia  di  due  libbre  con  buon  pane. 
La  giornata  fu  triste.  Quando  si  tende  ad  un  alto  scopo,  i  peri- 

coli,  le  privazioni,  il  disgusto  non  si  sentono  -  ma  sotterrato  in 
quella  cloaca  immonda  non  vi  era  illusione  possibile. 

La  notte  i  topi,  presa  confidenza,  non  si  contentarono  piu  della 
passeggiata.  Gli  morsero  le  mani  -  se  le  mise  in  tasca  -  gli  morsero 
gli  orecchi.  Erano  affamati,  e  chi  ha  fame,  bestia  o  cristiano,  prende 
il  mangiare  dove  lo  trova.  Ma  quel  che  piu  gli  fece  ribrezzo,  fu  sen- 
tirsi  nella  mano  qualcosa  di  freddo  fermo  immobile.  Non  capiva 
cosa  fosse,  e  nonosava  muovere  la  mano,  ma  quel  freddo  salendo  su 
pel  corpo  Palz6  preso  da  moto  convulso,  e  senti  cadere  in  terra  qual 
cosa  che  saltellava  -  era  un  rospo. 

Animale  schifoso,  ma  inoffensive  e  meno  noioso  del  topo.  -  Fatta 


192  LEONETTO    CIPRIANI 

questa  riflessione,  si  addormento.  -  £  incredibile  come  Puomo  ri- 
soluto  a  tutto,  dando  spiegazione  a  tutto,  e  sopportando  tutte  le 
tribolazioni  come  se  fossero  un  nulla,  sa  trovare  la  calma  in  qua- 
lunque  stato  si  trovi  -  e  certo  quello  di  tuo  padre  non  era  brillante. 
II  giorno  passo  come  il  primo  e  la  notte  peggio  della  seconda  a 
causa  dei  topi. «  Pazienza,  dormiro  il  giorno  e  staro  sveglio  la  notte  », 
pensava  il  tuo  povero  padre.  Chiese  al  secondino  che  gli  portava  i 
pasti  -  non  era  piu  il  carceriere  -  un  certo  Stockhausen  -  cinque 
libbre  di  carne  cruda.  La  domanda  era  cosi  strana,  che  quelPuomo 
si  scosse,  e  domando :  —  Per  che  fare  ? 

—  Per  dar  da  mangiare  ai  topi. 

Gli  volto  le  spalle  borbottando  in  tedesco  -  senza  dubbio  lo  prese 
per  matto. 

La  notte,  solita  storia  -  calci,  pugni,  lotta  continua  con  i  poveri 
affamati.  Sul  mattino  si  addormento  profondamente,  quando  tutto 
ad  un  tratto  si  sveglio  sentendo  un  topo  dentro  lo  stivale. 

Mandare  un  grido,  buttarsi  giu  dal  pancaccio  e  saltare  come  un 
ossesso  fu  tutt'uno.  Non  senti  piu  muovere  nulla,  ma  sent!  qual- 
cosa  di  umido  al  piede,  e  capi  subito  -  un  topicidio! 

Si  levo  lo  stivale  -  lo  scote  -  non  c'era  nulla  da  pulirlo  -  chiuse 
gli  occhi  e  la  bocca,  infilo  il  piede  e  salto  finche  Pimpressione  non  fu 
passata. 

Non  trovando  poi  profitto  a  dormire  il  giorno,  perche  tanto  la 
notte  i  topi  lo  tormentavano  lo  stesso,  stette  sveglio  tutto  il  giorno. 
La  sera  si  addormento,  e  se  lo  svegliavano  ad  intervalli  quando  lo 
morsicavano,  alle  loro  passeggiate  aveva  fatto  1'abitudine.  Ma  al- 
Palba  si  sveglio  sentendo  un  rosicchio  -  era  una  dozzina  di  topi  che 
avevano  dato  addosso  alle  suole  degli  stivali.  Allora  si  che  salto  dal 
pancaccio,  e  per  una  ragione  diversa  dalle  altre. 

Partendo  per  la  guerra  si  era  fatto  fare  da  un  Crispino  Rizzani 
del  piano  di  Pisa  due  stivaloni  di  vacchetta  con  cinquanta  napoleoni 
dentro  ogni  suola.  A  camminare  erano  pesotti,  ma  a  cavallo  face- 
vano  stare  piu  fermi  in  sella.  I  topi  avevano  gia  intaccato  le  cuciture, 
ma  fortunatamente  non  vi  era  gran  male. 

La  sera  gli  porto  il  pranzo  lo  Stockhausen.  Lo  rivide  con  piacere, 
gli  domando  se  era  stato  malato. 

—  No  -  ho  avuto  da  fare  -  e  voi  come  siete  stato  ? 

—  Come  pu6  stare  un  povero  prigioniero  in  questa  fossa.  I 
topi  non  mi  lasciano  dormire,  mi  mordono  le  mani  e  gli  orecchi  - 


AVVENTURE   BELLA   MIA   VITA  IQ3 

guardate  quest 'orecchio  insanguinato  -  e  poi  i  rospi  che  mi  sal- 
tano  addosso,  quello  si  che  e  un  gusto!  Ma  pazienza  -  tutto  ha  un 
fine  -  e  Napoleone  a  S.  Elena  sofferse  mille  volte  piu  di  me. 

A  queste  parole  quel  vecchio  si  scosse  da  capo  a  piedi,  e  perso  ogni 
ritegno  gli  strinse  le  mani,  dette  una  guardata  alia  porta  ed  esclamo : 
—  Napoleone,  il  grand'uomo !  —  e  tremando  che  qualcuno  sen- 
tisse,  gli  disse  all'orecchio :  —  Sono  Ungherese,  amico  degPIta- 
liani! 

II  prigioniero  politico  deve  sempre  e  poi  sempre  diffidare,  ma 
Pemozione  di  quell'uomo  era  tale,  e  fino  dal  primo  giorno  ne  aveva 
dato  segno,  che  il  dubitarne  era  insultare  al  bene.  Tuo  padre  gli 
accosto  la  bocca  alPorecchio,  e  disse:  —  Zitto  per  amor  di  Dio  - 
non  vi  perdete. 

Commosso  da  quelFuomo  che  prima  di  pensare  a  se  pensava  a 
lui,  il  buon  vecchio  gli  disse:  —  State  tranquillo.  Ma  ditemi,  siete 
proprio  innocente  ? 

—  Sono  dawero  un  parlamentario,  e  vedrete  che  non  passano 
otto  giorni  che  saro  liberate. 

—  Iddio  lo  voglia.  Ma  passerete  prima  un  .  .  .  —  e  si  fermo. 

—  Cosa  volete  dire  ?  siate  pure  franco  -  non  temete  spaventarmi. 

—  Fra  qualche  giorno  vi  sara  il  consiglio  di  guerra  che  deve  giu- 
dicarvi. 

—  Tanto  meglio  -  e  una  buona  notizia  -  saro  assolto. 

—  Povero  capitano,  non  conoscete  i  Tedeschi.  Ma  non  parlia- 
mone  piu.  -  Stanotte  vi  faro  dormire  in  una  buona  stanza.  Vi  verro 
a  prendere  un  poco  piu  tardi,  tenetevi  pronto. 

—  Che  Iddio  vi  benedica  e  benedica  la  vostra  famiglia  se  ne  avete. 

—  Si,  ne  ho.  Mia  moglie  e  con  me  alia  prigione,  e  mi  tormenta 
che  vuole  vedervi  -  e  di  Milano. 

Se  ne  ando,  torn6  un'ora  dopo  e  lo  condusse  al  numero  venti- 
quattro,  dove  vi  era  un  buon  letto  e  tutto  il  necessario  per  lavarsi. 
Gli  augur6  la  buona  notte,  e  gli  disse :  —  lo  dormiro  alia  vostra  por 
ta,  sopra'una  seggiola.  Se  verra  la  ronda,  che  non  viene  tutte  le  not- 
ti,  e  c'e  gia  stata  ieri  sera,  vi  sveglier6,  e  tornerete  al  numero  uno. 

Leonetto  si  lavo,  si  fece  la  barba,  si  cambio  e  dormi  saporita- 
mente.  La  mattina  il  carceriere  lo  ricondusse  al  numero  uno,  e  gli 
disse:  —  Ho  chiesto  per  voi  il  permesso  di  scrivere  a  casa  vostra,  e 
se  volete  al  governatore  della  fortezza.  A  colazione  vi  portero  la 
carta,  il  calamaio,  un  tavolino  e  il  lume. 


194  LEONETTO    CIPRIANI 

Decisamente  c'era  un  angelo  che  lo  proteggeva,  e  per  istinto  capi 
che  c'era  lo  zampino  di  una  donna.  La  donna,  quando  e  buona,  e  la 
consolazione  del  poveri  afflitti. 

Scrisse  alia  madre,  e  poi  una  bella  lettera  dignitosa  al  gover- 
natore,  della  quale  si  penti  non  aver  tenuto  copia  perche,  a  giu- 
dicare  dal  risultato,  doveva  essere  un  capolavoro.  II  risultato  fu 
che  a  mezzogiorno  venne  Pordine  di  metterlo  al  numero  24.  Ne 
prese  subito  possesso,  mise  tutto  al  suo  posto  come  se  fosse  stato 
a  casa  sua,  ed  a  finestra  spalancata  stette  tutto  il  giorno  a  re- 
spirare  Faria  a  pieni  polmoni  colle  mani  appoggiate  alPinfer- 
riata;  ed  i  passerotti  che  saltavano  nel  cortile  gli  sembravano  il 
piu  bello  spettacolo  della  natura  che  avesse  mai  osservato  sotto  il 
tropico. 

La  sera  ebbe  un  buon  pranzo,  con  un  piattone  di  ciliege  che  in- 
goio  tutte  col  nocciolo. 

Ripensando  poi  che  quel  salto  dal  numero  i  al  24  non  poteva 
essere  effetto  della  sola  sua  lettera,  rimmaginazione  ando  lontano, 
e  penso  che  Carlo  Alberto  e  i  numerosi  amici  che  aveva  in  Italia  e 
fuori  si  eran  tutti  coalizzati  per  salvarlo. 

II  giorno  dopo  comparve  un  aiutante  del  governatore  Gorz- 
kowski,  che  gli  domando  se  voleva  fare  tratta  su  banchieri,  e  se  gli 
occorreva  vestiario,  libri,  carta  e  via  dicendo.  Accetto,  e  chiese 
un'udienza  dal  governatore,  ma  questa  gli  fu  ricusata.  La  sera  lo 
Stockhausen  lo  invito  a  pranzo,  e  lo  presento  a  sua  moglie,  una  mi- 
lanese  di  mezza  eta,  grassoccia,  belloccia,  assai  comune,  ma  buona 
donna  che  chiacchierava  di  tutto,  ma  s'intende  bene,  nei  limiti  che 
esigevano  il  luogo  e  le  persone. 

La  mattina  dopo  venne  Faiutante  colPebreo  Basevi  banchiere, 
che  accetto  una  sua  tratta  di  duemila  franchi  su  Parma. 

Tutti  gPisraeliti  in  quella  provincia  erano  piu  o  meno  liberali, 
per  due  ragioni:  Pistruzione,  che  era  tra  essi  obbligatoria,  e  Pop- 
pressione  che  gravava  su  di  loro.  La  liberta  era  una  speranza  d'e- 
mancipazione  -  per  quella  molti  fecero  onorati  sacrifizi  e  Potten- 
nero.  Ma  bisognava  dissimulare  per  non  cadere  negli  artigli  della 
polizia,  e  vi  riuscivano  facilmente,  essendo  per  natura  e  per  educa- 
zione  diffidenti  di  tutto  e  di  tutti  ed  avendo  disposizioni  particolari 
a  giocare  a  doppio  giuoco. 

II  Basevi  era  uno  dei  fornitori  delParmata  austriaca,  e  con  loro 
era  il  piu  arrabbiato  tedesco.  Con  i  liberali  era  Pagente  piu  segreto 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  195 

e  piu  attivo,  ma  non  aveva  rapporti  con  nessuno  fuorche  con  un 
intermediario,  il  duca  di . .  ,x 

Nella  nuova  camera,  con  dei  buoni  pasti,  libri,  carta  da  scrivere, 
e  la  simpatia  delPungherese,  la  prigionia  era  sopportabile,  e  se  non 
si  fosse  sentito  rodere  dal  bisogno  di  notizie,  1'avrebbe  presa  come 
una  sosta  necessaria  alia  sua  infaticabile  esistenza. 

Due  giorni  dopo  venne  il  Basevi,  che  dopo  essersi  assicurato 
bene  che  le  sue  parole  non  potevano  venire  ascoltate,  gli  disse:  — 
Avete  molti  amici  -  non  temete  piu  nulla.  Volevano  fucilarvi  e  il 
consiglio  di  guerra  era  gia  nominato,  quando  e  venuto  un  contror- 
dine  del  maresciallo ;  e  ieri  si  diceva  che  Carlo  Alberto  minacciava 
rappresaglie  contro  i  prigionieri  austriaci  che  aveva,  se  non  vi  resti- 
tuivano  sano  e  salvo. 

—  Potreste  darmi  notizie  della  guerra? 

—  Per  oggi  no  -  basta  —  e  se  n'ando. 

Tuo  padre  si  mise  a  scrivere  una  memoria  diretta  al  maresciallo. 
Come  sai,  non  ha  mai  avuto  pretension!  di  scrittore,  ma  la  penna  in 
mano  sapeva  tenerla,  e  se  spesso  non  metteva  virgole  e  punti  al  loro 
posto,  aveva  per6  il  merito  raro  di  sapere  esporre  i  fatti  con  colori 
cosi  vivi  e  con  tanta  verita  da  impressionare  gli  animi  piu  mal 
disposti.  Puoi  immaginare  dunque  se  in  quel  momento  fu  ispirato, 
e  se  la  memoria  gli  venne  fatta  bene.  La  mando  poi  al  governatore, 
ma  non  seppe  mai  se  pervenne  al  maresciallo. 

Intanto  i  suoi  rapporti  con  il  buon  ungherese  e  la  moglie  eran 
divenuti  intimi.  II  marito  era  fanatico  di  Napoleone,  che  conside- 
rava  come  la  piu  gran  figura  delPepoca.  -  Sotto  certi  rapporti  aveva 
ragione,  ma  e  morto  da  troppo  poco  per  giudicarlo. 

La  moglie  faceva  la  cucina  e  stirava.  Tuo  padre,  che  nelle  cose 
materiali  particolarmente  sapeva  far  tutto  quel  che  voleva,  si  mise 
bravamente  ad  aiutarli  in  cucina,  e  fece  un  pasticcio  di  pasta  frolla 
e  maccheroni  che  divorarono.  Ma  la  giornata  campale  fu  quella 
della  stiratura.  -  Dette  di  mano  ad  un  ferro,  e  li  colpi  da  sfondare 
il  tavolino  sui  canovacci  che  aveva  avuto  per  imparare ;  e  la  sera  poi 
stir6  una  camicia  della  buona  milanese. 

II  28  giugno  Paiutante  del  generale  venne  a  prenderlo.  -  Strinse 
la  mano  allo  Stockhausen,  ma  le  forme  si  opponevano  a  che  chie- 
desse  di  dire  addio  alia  moglie.  Volse  per6  lo  sguardo  verso  la  porta 
che  in  fondo  al  corridoio  delle  prigioni  metteva  al  loro  quartiere, 
i.  il  duca  di .  .  .:  «Nome  illeggibile  nel  manoscritto »  (Mordini). 


196  LEONETTO    CIPRIANI 

e  vide  da  uno  spiraglio  un  par  d'occhi  che  scintillavano.  Aspetto 
che  1'aiutante  s'incamminasse  avanti  collo  Stockhausen,  si  volto, 
e  le  mando  un  bacio  colla  mano  -  e  senti  chiudere  forte  la  porta. 

Salirono  in  carrozza  e  traversarono  tutta  la  citta,  tuo  padre  zitto, 
e  il  tedesco  zitto  ed  immobile.  Arrivarono  in  un  gran  cortile.  Oh 
sorpresa!  la  carrozza  era  circondata  dai  prigionieri  di  Montanara, 
che  lo  credevano  morto  fucilato,  e  che  vedendolo  salvo  fra  di  loro 
lo  volevano  divorare  dai  baci. 

Fu  una  scena  cosi  commovente  che  non  la  dimentico  mai,  e  che 
in  un  momento  gli  pago  centuplicato  il  poco  che  aveva  fatto  per  loro 
durante  tre  mesi. 

Gli  raccontarono  come  era  arrivata  la  notizia  del  suo  arresto  ille- 
gale  -  ed  esagerando  le  cose  come  sempre  awiene  -  della  sua  fucila- 
zione  e  delle  rappresaglie  di  Carlo  Alberto,  che  aveva  fatto  fucilare 
un  prigioniero  preso  sotto  Peschiera,  il  colonnello  principe  di  Ben- 
theim.1  Ma  nelle  notizie,  se  non  e  lupo  e  can  bigio,  qualcosa  di  vero 
c'e  sempre. 

Trovo  tra  i  prigionieri  tre  amici  lasciati  a  Castellucchio,  Ri- 
naldo  Ruschi,  il  professore  Studiati  e  il  Michelazzi,  che  partiti  da 
Brescia,  ov'erano  stati  concentrati  i  volontari  per  riorganizzarsi,  per 
vedere  1'assedio  di  Peschiera,  sbagliarono  strada,  e  furono  fatti  pri 
gionieri  da  una  pattuglia  austriaca  e  mandati  a  Mantova.  Per  loro 
come  per  tuo  padre  vi  erano  intercession!  potenti. 

Tutti  e  quattro  furono  chiamati  dinanzi  al  governatore,  che  gli 
disse  che  eran  liberi,  se  giuravano  di  non  prendere  piu  parte  alia 
guerra. 

Come  era  convenuto  tra  loro,  tuo  padre  prese  la  parola  e  fece 
osservare  che,  quanto  a  se,  essendo  un  parlamentario  arrestato  ille- 
galmente,  doveva  essere  rilasciato  senza  condizioni ;  e  che  gli  altri, 
essendo  stati  arrestati  mentre  passeggiavano  senza  armi,  ignorando 
di  trovarsi  nelle  linee  austriache,  non  potevano  essere  considerati 
come  prigionieri  di  guerra;  e  che  il  fatto  di  essere  loro  quattro  sol- 
tanto  restituiti  in  via  eccezionale  fra  tanti  prigionieri  era  la  prova 
che  non  si  trovavano  nelle  stesse  condizioni  di  quelli. 

Queste  osservazioni  eran  giuste,  ma  gli  ordini  del  maresciallo 

i.«Il  principe  Guglielmo  di  Bentheim  (30  aprile  1814-2  luglio  1849), 
maggiore  nel  17°  reggimento  fanteria  austriaco,  poi  tenente  colonnello, 
fatto  prigioniero  il  30  maggio  a  Goito  e  rimesso  poco  dopo  in  liberta» 
(Mordini). 


AVVENTURE   BELLA   MIA   VITA  197 

essendo  precisi,  il  governatore  rispose  che  o  accettavano  o  sareb- 
bero  partiti  per  il  Tirolo  coi  loro  compagni. 

Era  dura  -  era  un'enormita  per  tuo  padre  particolarmente,  ma 
bisognava  piegare  la  fronte  alia  violenza.  Chiesero  un  giorno  per  ri- 
flettere  -  e  decisero  di  accettare  perche,  se  non  potevano  essere  utili 
alia  guerra,  potevano  esserlo  in  Toscana,  perche  Leonetto  sperava 
essere  sciolto  dal  giuramento  presentandosi  a  Radetzky,  ed  infine 
perche  i  compagni  lo  scongiuravano  ad  accettare  nelFinteresse  di 
tutti. 

La  separazione  fu  dolorosa,  perche  fra  pochi  giorni  i  prigionieri 
dovevan  partire  pel  Tirolo,  da  dove  furono  internati  in  Boemia. 
I  facoltosi  avrebbero  potuto  anche  li  procurarsi  tutti  gli  agi  della 
vita,  ma  i  poveri,  ed  eran  molti,  avevano  in  prospettiva  una  caserma, 
un  tozzo  di  pane  e  trattamenti  brutali. 

Non  potendo  aiutar  tutti,  tuo  padre  divise  fra  gli  amici  e  i  co- 
noscenti  il  resto  dei  cento  napoleoni  del  Basevi  e  gli  altri  cento 
levati  dagli  stivali.  E  non  bastando,  chiese  al  Basevi  di  scontargli 
un'altra  tratta  di  5.000  franchi.  Questo  accetto,  e  licenziandosi  gli 
diede  di  soppiatto  una  lettera,  e  gli  disse  di  awisare  Carlo  Alberto 
che  si  stava  preparando  una  spedizione  segreta  di  25.000  uomini 
verso  il  Po  a  Cremona,  e  che  i  dettagli  erano  nella  lettera. 

La  mattina  del  30  giugno  partirono  accompagnati  da  due  parla- 
mentari,  il  capitano  Cavriani1  degli  usseri  per  tuo  padre,  e  un  capi- 
tano  tirolese  per  gli  altri,  e  agli  avamposti  furono  consegnati  al  mu- 
nicipio,  non  essendovi  autorita  militare.  Leonetto  parti  per  Brescia, 
ove  era  il  quartier  generale  del  corpo  toscano. 

II  Laugier  gli  venne  incontro  a  braccia  aperte,  ed  egli  gli  espose 
come  era  stato  costretto  a  dare  la  sua  parola  d'onore  di  non  servir 
pm  contro  F  Austria,  come  cio  fosse  per  lui  una  catena  insopporta- 
bile,  e  come  egli,  Laugier,  avendo  la  colpa  di  tutto,  doveva  pro- 
mettergli  di  chiedere  al  Radetzky  di  scioglierlo  dal  giuramento  e 
occorrendo  accompagnarlo  dal  maresciallo.  II  generale  che  aveva 
squisito  sentire  e  cuore  generoso,  accettb,  aggiungendo:  —  Se  do- 
vessi  chiedere  la  tua  grazia  in  ginocchio,  lo  faro. 

Racconto  poi  a  tuo  padre  le  ansie  mortali  provate  non  vedendolo 
tornare,  e  come,  accortosi  dello  sbaglio  commesso,  mando  al  Ra 
detzky  un  parlamentario  con  missione  regolare,  che  non  fu  nean- 

i.  « II  conte  Ladislao  Cavriani,  del  ramo  austriaco  della  famiglia  omonima» 
(Mordini). 


198  LEONETTO    CIPRIANI 

che  ricevuto;  come  fossero  riusciti  inutili  per  liberarlo  tutti  gli 
sforzi  del  re  Carlo  Alberto,  che  aveva  invano  offerto  di  scambiarlo 
col  principe  di  Bentheim,  del  Granduca,  del  principe  Girolamo,  del 
principe  Napoleone1  e  di  lord  Palmerston2  interessati  dal  Matteuc- 
ci;  e  come  finalmente  il  ministro  della  guerra  Franzini,3  antico 
amico  del  Radetzky,  avesse  chiesto  la  sua  liberazione  in  nome  della 
loro  vecchia  amicizia  al  maresciallo,  che  aveva  consentito  colla  let- 
tera  seguente:  « Je  vous  accorde  la  grace  de  Cipriani  sans  echange 
ne  pouvant  prejuger  au  droit  de  la  guerre.  Votre  ancien  ami 
Radetzky». 

Dice  il  proverbio  che  con  i  santi  si  va  in  paradise.  Ma  la  verita 
e  che  con  tanti  santi  tuo  padre  sarebbe  stato  fucilato,  se  non  era  il 
Franzini. 

Non  e  facile  dire  qual  riconoscenza  provasse  per  tante  prove  d'in- 
teresse  dategli.  Senti  il  bisogno  di  esprimerla  subito  al  Re  ed  in 
modo  speciale  al  Franzini,  e  convenuto  col  Laugier  del  da  farsi, 
parti  per  il  quartier  generale  piemontese,  ove  fu  ricevuto  dal  Re 
con  tanta  benevolenza,  che  non  lo  dimentico  mai.  Gli  rammento 
la  visita  a  Torino,4  e  gli  disse:  —  Vede?  qualcosa  si  e  fatto,  e  se  la 
Prowidenza  ci  aiuta,  faremo  il  resto.  Ma  ci  vuole  il  concorso  di 
tutti,  e  per  ora  il  resto  d* Italia  ha  fatto  poco :  —  e  sorridendo  —  il  re 
di  Napoli  manda  un  reggimento!  La  Toscana  ha  fatto  quel  che  po- 
teva,  ma  —  col  solito  sorriso  —  non  son  soldati!  I  volontari  sono  un 
grande  imbarazzo  -  lei  deve  esserne  persuaso!  -  Ha  corso  un  gran 
pericolo  -  che  sbaglio  quello  del  Laugier!  Senza  Franzini  era  sem- 
pre  a  Mantova;  vada  a  ringraziarlo ;  deve  tutto  a  lui! 

E  fece  cenno  di  licenziarlo.  Tuo  padre  allora  gli  fece  la  commis- 
sione  del  Basevi  e  gli  dette  il  foglio.  II  Re  rimase  sorpreso,  e  stette 


i.  Girolamo  Bonaparte  (1784-1861),  gia  re  di  Vestfalia;  il  principe  Na 
poleone  Girolamo  (1820-1891),  che  spos6  nel  gennaio  del  1859  la  princi- 
pessa  Clotilde,  figlia  di  Vittorio  Emanuele.  2.  «  Enrico  Giovanni  Temple, 
visconte  Palmerston  (1784-1865),  ministro  degli  esteri  (1830-1834  e  1846- 
1851),  e  primo  ministro  (1855-1858  e  1859-1865).  -  Con  dispaccio  del 
17  giugno  1848,  lord  Palmerston  incaricava  infatti  lord  Ponsonby,  amba- 
sciatore  inglese  a  Vienna,  d'interporre  i  suoi  buoni  ufficii  presso  il  governo 
austriaco  per  ottenere  la  liberazione  del  Cipriani  e  dei  suoi  tre  amiciw 
(Mordini).  3.  «I1  conte  Antonio  Franzini  (1788-1860),  nel  1848  ministro 
della  guerra  e  presidente  del  consiglio  permanente  di  guerra »  (Mordini). 
4.  la  visita  a  Torino:  nel  1847  il  Cipriani  si  era  recato  a  Torino,  per  riferire 
al  re  Carlo  Alberto  il  contenuto  di  alcuni  colloqui  da  lui  avuti  a  Roma  con 
il  cardinale  Luigi  Amati. 


AVVENTURE   DELLA  MIA   VITA  199 

due  minuti  pensando;  poi  fece  venire  il  Sonnaz,1  comandante  il 
secondo  corpo,  e  gli  ripete  quanto  aveva  esposto  tuo  padre.  II 
Sonnaz  si  mostro  molto  scettico,  dicendo  che  non  vedeva  lo  scopo 
di  simil  piano.  —  Ebbene,  io  lo  vedo,  —  rispose  il  Re  —  ne  ripar- 
leremo. 

Una  gran  riverenza,  come  sapeva  farla  il  Sonnaz  che  era  arri- 
vato  a  quella  posizione  a  furia  di  riverenze,  nelle  quali  era  dottis- 
simo.  Cosi  avesse  saputo  di  tattica  militare  come  sapeva  di  tattica 
pedestre!  , 

—  Posso  ingannarmi,  —  soggiunse  il  Re  a  tuo  padre  —  ma  lei  ci 
ha  reso  un  gran  servizio.  Mi  rammentero  di  lei!  —  E  se  ne  rammento 
sempre,  fmo  alPultimo  momento  della  sua  partenza  da  Novara. 

Tuo  padre  ando  poi  a  ringraziare  il  Franzini  che  lo  accolse  affet- 
tuosamente,  e  gli  mostro  la  minuta  della  sua  lettera  al  Radetzky, 
e  la  risposta  di  questo.  E  quando  si  alz6  per  licenziarsi,  gli  disse:  — 
Ma  sa  che  non  credo  che  vi  sia  in  Italia  un  uomo  che  abbia  piu 
amici  di  lei,  e  quel  ch'e  piu  in  questi  tempi,  che  sia  tanto  stimato? 
Non  puo  immaginare  le  lettere  che  mi  son  piovute  da  tutte  le  parti  I 
Anche  una  bella  signora!  Arrivo  troppo  tardi,  ma  se  Radetzky 
avesse  ricusato  a  me,  son  certo  che  a  quella  signora  non  avrebbe 
resistito.  -  Addio  -  vada  dal  Bava,  ci  trovera  Bartolommei  che  le 
vuol  piu  bene  che  se  fosse  un  suo  fratello. 

Ci  ando  subito  e  fu  appunto  ricevuto  dal  Bartolommei,  il  suo 
piu  grande  amico,  e  non  avendo  segreti  per  lui,  conoscendo  per 
prova  la  sua  discrezione,  gli  confido  Tawiso  del  Basevi.  Prese 
fuoco,  e  voleva  comunicarlo  subito  al  Bava,  ma  tuo  padre  non  voile, 
perche  una  confidenza  fatta  al  Re  non  doveva  esser  fatta  ad  altri.  — 
Hai  ragione,  —  rispose  il  Bartolommei  —  ma  vedrai  che  lo  man- 
dera  a  chiamare. 

II  Bava  comandava  Parmata  piemontese  sotto  gli  ordini  del  Re. 
Ma  questi  sottoponendo  tutti  i  piani  ad  un  consiglio  composto 
del  Bava,  del  Franzini,  del  Sonnaz  e  di  altri,  accadeva,  come  sem 
pre  in  simili  casi,  che  tutti  i  consiglieri  preferissero  la  strategia  di- 
fensiva  a  quella  arditamente  offensiva. 

Gli  elementi  delParmata  piemontese  erano  perfetti  sotto  tutti 
i  rapporti.  Buoni  soldati,  buoni  quadri,  buonissima  la  cavalleria, 
eccellente  1'artiglieria.  Se  difettava  in  qualcosa,  era  nello  stato  mag- 

i.  «I1  conte  Ettore  Gerbaix  de  Sonnaz  (1787-1867),  ministro  della  guerra 
nel  1849,  cavaliere  dell' Annunziata »  (Mordini). 


200  LEONETTO    CIPRIANI 

giore,  anima  della  guerra.  Ma  in  complesso  i  Piemontesi  erano, 
benche  pochi,  cosi  buoni  e  cosi  compatti,  che  era  il  caso  di  poter 
tutto  osare  nelle  condizioni  in  cui  si  trovava  TAustria. 

Osare  osare  osare  -  ed  osare  in  quel  momento  voleva  dire  abban- 
donare  1' Italia  e  per  il  Tirolo  piombare  sopra  Vienna.  L'Ungheria 
insorta  avrebbe  fatto  altrettanto,  e  1'Austria  era  vinta. 

Ma  una  dozzina  di  vecchi  generali  a  questo  piano  si  sarebbero 
spaventati,  esclamando :  e  la  base  di  operazioni  -  e  la  ritirata  -  e 
gli  appro wigionamenti  -  e  1$  munizioni  -  e  cento  e  mille,  ma  da 
fame  uscir  la  voglia  al  piu  ardito. 

Un  generale  in  capo  non  deve  prender  consigli  da  nessuno;  o 
e  o  non  e  all'altezza  della  situazione:  se  non  lo  e,  vada  a  casa  sua, 
se  lo  e,  i  consigli  non  gli  fanno  far  nulla  di  buono.  I  piani  troppo 
studiati  provano  timidita  e  poca  fiducia  nel  successo ;  e  la  fiducia  nel 
successo  e  quasi  sempre  vittoria. 

Carlo  Alberto  non  era  all'altezza  della  sua  responsabilita.  Pas- 
sando  il  Ticino  fu  il  coraggioso  iniziatore  dell'emancipazione  ita- 
liana,  e  per  quel  motive  sara  venerate  dai  posteri  come  redentore 
d'ltalia,.  Ma  PItalia  non  Than  fatta  ne  la  prima,  ne  la  seconda,  ne 
la  terza,  ne  la  quarta  campagna,  che  Iddio  perdoni  a  chi  le  diresse. 
L'ltalia  Pha  fatta  laProwidenza  -  chiamatela  prowidenza,  destino, 
fortuna  o  terno  al  lotto;  son  variant!  che  vogliono  dir  tutte  lo  stesso. 
GP Italian!  han  fatto  di  tutto  per  disfarla,  non  per  farla.  Ma  rin- 
graziamone  Iddio:  PItalia  e  fatta,  e  fatta  per  sempre  appunto  per- 
che  chi  non  ebbe  stomaco  a  farla  neppur  ha  stomaco  a  disfarla. 

Se  Carlo  Alberto  fosse  stato  un  principe  Eugenio,1  con  qualche 
pugno  di  buoni  Piemontesi,  prima  che  finisse  il  '48,  era  re  di  tutta 
Italia,  compresa  Roma;  spazzati  gli  Austriaci,  i  Lorena  a  casa  loro, 
il  Borbone  di  Napoli  a  casa  del  diavolo,  e  il  papa  al  Vaticano  ponte- 
fice  spirituale.  La  vittoria  e  il  prestigio  avrebbero  fatto  tutto.  Ai 
Lorena  ed  ai  Borboni  bastava  uno  scappellotto.  Col  papa,  se  mai  vi 
fu  momento  da  arrivare  ad  accordi,  sarebbe  stato  quello. 

A  Pio  IX,  gia  disgustato  dalla  cattiva  prova  di  papa  costituzio- 
nale,  ma  sempre  inebbriato  dagli  applausi  della  strada,  Carlo  Al 
berto  tornando  da  Napoli  vittorioso,  ed  entrato  in  Roma  doveva 
dire :  —  Ci  sono  e  ci  sto  — ;  e  fattosi  proclamare  in  CampidogHo 
dalParmata  imperatore  degPItaliani,  domandargli  ossequiosamente 

i.  Francesco  Eugenio  di  Savoia  Carignano  (1663-1736),  celebre  generale 
delle  armate  imperial!  contro  la  Francia  e  i  Turchi. 


AVVENTURE  BELLA  MIA  VITA  201 

di  essere  incoronato.  Se  aderiva,  bene  -  se  non  aderiva  e  ricorreva 
alia  grande  arma  di  Roma,  la  scomunica,  farlo  imbarcare  a  Civi 
tavecchia  con  tutti  i  cardinali,  e  mandarli  a  Gerusalemme.1 

Chi  vi  si  sarebbe  opposto?  Chi  avrebbe  protestato?  -  LJ Italia 
avrebbe  applaudito,  1'Inghilterra  e  la  Russia  avrebbero  applau- 
dito  anche  piu,  la  Francia  era  in  quel  momento  quel  die  non  sara 
mai  piu  riguardo  a  Roma,2  la  Spagna  non  contava  nulla,  e  non  con- 
tera  mai  nulla.  Ma  e  indubitato  che  Pio  IX  e  i  cardinali,  al  primo 
soffio  di  libeccio,  presi  dal  mai  di  mare  tornavano  indietro  e  chie- 
devano  in  grazia  a  Carlo  Alberto  di  tornare  a  Roma  rinunziando  a 
tutti  i  diritti  del  potere  temporale. 

Questa  lunga  digressione  venne  fatta  da  tuo  padre,  perche  di 
quando  in  quando  aveva  bisogno  di  sfogarsi. 

Bartolommei  lo  present6  al  Bava  che,  gia  informato  dell'acca- 
duto,  disse  corna  di  Laugier,  e  gli  chiese  cosa  intendeva  fare.  Tuo 
padre  rispose  che  dipendeva  dalla  risposta  che  avrebbe  data  Ra- 
detzky  alia  domanda  di  Laugier  per  ottenere  lo  scioglimento  del- 
rimpegno  contratto. 

—  Crede  che  1'otterra? 

—  Ne  son  certo  -  ho  veduto  la  minuta  della  lettera  che,  pur  es- 
sendo  decorosa,  e  pero  concepita  in  termini  tali,  che  Radetzky 
non  puo  rifiutarsi. 

—  Me  ne  fido,  —  soggiunse  il  Bartolommei  —  per  scrivere  lasci 
fare  a  lui.  Chi  sa  che  diamine  ha  detto! 

—  Bartolommei  lo  conosce  bene.  Fra  le  altre  cose  aveva  messo 
da  principio :  «  se  non  restituisce  la  parola  a  Cipriani,  mi  costituisco 
io  prigioniero  a  Mantova». 

—  Eh,  diavolo! 

—  Cosi  e  -  ma  glielo  feci  levare,  perche  era  un'esagerazione  che 
non  giovava  allo  scopo. 

—  Ebbene,  quando  sara  libero,  venga  con  noL  Lei  non  e  uomo 
da  stare  con  dei  volontari. 

—  La  ringrazio,  generale.  Avevo  Pintenzione  di  chiedere  a  suo 
tempo  questa  grazia  al  Re,  e  con  la  sua  protezione  ci  posso  con- 
tare. 

i.  A  Pio  IX  .  .  .  Gerusalemme:  e  forse  superfluo  osservare  quale  fantasiosa 
immaginazione  guida  questiprogetti,  ricalcati  in  parte  sulle  vicende  napoleo- 
.niche.  2.  la  Francia  .  .  .  Roma:  nel  giugno  del  1848  la  Francia  era  ancora 
in  plena  rivoluzione  repubblicana  e  fortemente  agitata  da  moti  di  tendenza 
socialista. 


2O2  LEONETTO    CIPRIANI 

Seppe  poi  che  Bartolommei  aveva  dato  al  Bava  le  notizie  avute  dal 
Basevi,  e  che  questo  lo  aveva  messo  in  grande  agitazione,  perche 
ne  riconobbe  subito  Timportanza.  Infatti  Tindomani  fu  chiamato 
dal  Re,  e  fu  deciso  Pattacco  del  forte  di  Governolo  sul  basso  Min- 
cio,  tagliando  cosi  corto  alle  velleita  del  Radetzky.  Si  seppe  poi 
indubitatamente  che  la  spedizione  era  pronta,  e  che  non  fu  preve- 
nuta  che  di  pochi  giorni. 

Fu  a  Governolo  che  Bartolommei  si  distinse  fra  tutti  entrando 
il  primo  nel  forte. 

Tuo  padre  torno  a  Brescia.  La  risposta  del  Radetzky  facendosi 
aspettare  ed  avendo  bisogno  di  un  poco  di  riposo,  an  do  dalla  madre 
aLivorno,  ove  gli  pervenne  la  lettera  del  Laugier,  che  gli  annunziava 
esser  libero,1  e  nello  stesso  tempo  gli  dava  le  infauste  notizie  del  di- 
sastro  di  Custoza2  e  dell'armistizio  di  Milano.3 

Terminata  cosi  la  prima  campagna,  tuo  padre  si  mise  ad  occu- 
parsi  delle  cose  sue,  trascurate  nella  lunga  assenza,  sperando  che 
durante  Parmistizio  lo  lasciassero  in  pace. 


MISSIONE  A  LIVORNO4 

11  15  agosto  1848  Leonetto  ando  alle  acque  di  Montecatini  per 
curarsi  un'affezione  al  fegato.  -  Era  li  da  diversi  giorni  tranquillo, 
scrivendo  sul  passato  appunti  che  han  servito  a  mettere  insieme 
questi  racconti,  quando  arrivo  per  staff etta  un  dispaccio  del  mini- 
stero  della  guerra,5  che  gli  ordinava  di  partire  immediatamente  per 
Livorno,  dove  era  nominate  capo  di  stato  maggiore. 

i .  la  lettera  .  .  .  libero :  il  Mordini  rip  reduce  in  nota  la  lettera  inviata  dal 
Radetzky  al  Laugier,  ricavandola  dall'opera:  LAUGIER,  Le  milizie  toscane 
nella  guerra  delVindipendenza  italiana,  Pisa,  Pieraccini,  1849,  p.  42.  Ecco 
il  testo  della  lettera:  ((Excellence,  Je  profite  de  cette  occasion  pour  vous 
temoigner  mon  estime  toute  particuliere,  en  rendant  au  Capitaine  Cipriani 
la  parole  que  S.  E.  le  Gouverneur  de  Mantoue  se  fit  donner  en  le  rela- 
chant.  Agreez  F  expression  de  ma  consideration.  RADETZKY  -  Quartier  ge 
neral  de  Verone  le  16  juillet  1848)).  2.  disastro  di  Custoza:  i  Piemontesi 
furono  vinti  a  Custoza  il  25  luglio  1848  e  dovettero  ripassare  il  Mincio. 
3.  armistizio  di  Milano:  allude  alia  tregua  di  Milano,  conclusa  il  5  agosto 
e  in  base  alia  quale  la  citta  di  Milano  doveva  tornare  agli  Austriaci.  L' ar 
mistizio  fu  invece  stabilito  1*8  agosto,  a  Vigevano,  dal  generale  piemontese 
Salasco  e  dall'austriaco  Hess,  ed  e  appunto  noto  col  nome  di  « armistizio 
Salasco».  4.  Ed.  cit.,  vol.  I,  cap.  xv,  pp.  171-91.  5.  minister o  della  guerra: 
nel  ministero  toscano,  presieduto  aUora  dal  Capponi,  era  ministro  della 
guerra  il  colonnello  Belluomini,  sul  quale  vedi  la  nota  zap.  177. 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  203 

Prima  di  raccontare  uno  dei  piu  important!  episodi  della  sua 
vita  politica,  e  necessario  dire  poche  parole  sulla  citta  ove  questo 
ebbe  luogo,  sulle  sue  cause  e  sui  suoi  effetti. 

La  citta  di  Livorno,  la  piu  popolata  della  Toscana  dopo  Firenze, 
era  stata  fin  dal  principio  del  '47  la  piu  inquieta,  la  piu  irragione- 
vole,  quella  che  infine  aveva  dato  maggior  pensiero  al  governo. 
La  spiegazione  e  facile  a  darsi:  Livorno,  citta  commerciale,  aveva 
una  classe  di  popolo  per  dir  cosi  disponibile,  cioe  pronta  sempre  a 
scendere  in  piazza,  che  le  altre  citta  non  avevano. 

Questa  classe  era  composta  dei  giovini  di  banco,  cioe  impiegati 
di  commercio,  e  dei  capi  facchini,  che  trascinavano  dietro  a  loro  la 
turba  di  tutti  quelli  che  in  un  modo  o  nell'altro  vivevano  alia  gior- 
nata  del  movimento  materiale  del  commercio.  Eran  gia  questi 
diverse  migliaia,  ed  a  loro  si  univano  i  mestieranti  di  tutte  le  profes- 
sioni,  numerosi  pur  quelli,  ed  infine  i  navicellai  e  i  contrabbandieri, 
fra  i  quali  alcune  menti  sveglie  con  qualche  educazione,  e  perci6 
influenti  sopra  gli  altri. 

La  classe  agiata  e  ricca,  sia  proprietari,  come  negozianti,  era  in 
genere  apatica,  irresoluta,  timida,  disposta  piuttosto  a  maledire  che 
a  benedire  il  movimento  italiano,  che  dalPelezione  di  Pio  IX  in  poi 
si  accentuava  sempre  piu. 

Fino  da  molti  anni  prima,  Livorno  era  la  citta  ove  la  setta  della 
Giovine  Italia  aveva  maggiori  radici,  ed  ove  aveva  sviluppato  i  suoi 
migliori  rampolli,  fra  i  quali  pochissimi  eran  gli  uomini  distinti  per 
mente  e  per  cuore.1  Alcuni  di  questi  ultimi  erano  della  classe  ricca, 
i  piu  della  classe  colta,  medici  o  legali  -  tutti  ardenti  italiani,  tutti 
pronti  a  qualunque  sacrifizio  per  raggiungere  il  grande  scopo. 

Come  sempre  awiene  in  simili  sconvolgimenti,  i  pochi  cattivi 
in  cui  prevaleva  Finsana  rabbia  delPambizione,  eran  quelli  che  do- 
minavano  le  masse  popolari,  che  ne  dirigevano  le  esigenze  e  ne  lusin- 
gavano  gPistinti,  facendo  loro  gridare:  —  Abbasso  la  regia  del  sale! 
e  pane  e  lavorol  —  per  avere  pane  senza  lavoro,  e  come  variante:  — 
Guerra!  —  per  farla  a  casa  loro,  e:  —  Abbasso  il  governatore!  ab- 
basso  il  ministero! 

Dal  marzo  all'agosto  1848  in  quella  citta  si  erano  consumate  le 
riputazioni  di  diversi  governatori,  in  parte  per  colpa  loro,  in  parte 

i .  fra  i  quali ,  .  .  cuore :  il  Cipriani  fu  sempre  aspramente  awerso  al  Maz- 
zini  e  alia  Giovine  Italia,  e  perci6  sono  numerosi  nelle  sue  memorie  i  giu- 
dizi  severi  e  le  ingiuste  condarme  contro  il  mazzinianesimo. 


204  LEONETTO    CIPRIANI 

perche  Livorno  era  divenuta  ingovernabile.  Al  governatore  Bar- 
gagli1  era  succeduto  il  Guinigi;2  e  quando  alia  fine  di  agosto  il  mi- 
nistero3  si  decise  a  mostrarsi  energico,  nomino  governatore  di  Li 
vorno  don  Neri  Corsini,4  dandogli  come  primo  consigliere  Vin- 
cenzo  Malenchini5  e  come  capo  di  stato  maggiore  Leonetto  Ci 
priani. 

Appena  ricevutone  Pordine  a  Montecatini,  Leonetto  parti,  ed  a 
Livorno  trovo  Malenchini,  ma  Corsini  non  compariva. 

La  citta  era  in  gran  fermento,  le  autorita  tutte  esautorate,  la 
guarnigione  tremante,  la  guardia  nazionale  ridotta  ad  influenza  ne- 
gativa,  perche  il  suo  maggiore  elemento  era  tra  gl'impazienti  e  peg- 
gio  -  in  una  parola,  il  disordine  e  la  confusione  al  piii  alto  grado. 

La  nomina  di  lui  e  del  Malenchini,  mancando  il  Corsini,  era 
lettera  morta.  Decisero  di  andare  a  Firenze  per  avere  istruzioni,  ed 
andando  furono  incaricati  di  presentare  le  seguenti  domande  del 
popolo : 

1.  preparativi  per  riprendere  la  guerra  dell'indipendenza; 

2.  aumento  della  marina  da  guerra; 

3.  amnistia  generale; 

4.  riordinamento  della  guardia  civica; 

5.  tariffe  fisse  per  le  spese  di  giustizia,  e  revisione  delle  pensioni; 

6.  diminuzione  del  prezzo  del  sale. 

Poche  ore  prima  della  loro  partenza  il  Guinigi  fu  crudelmente  in- 
sultato  da  una  masnada  di  giovani  di  infima  classe  che  avevano  in- 
vaso  il  palazzo  governativo.  Partirono  sotto  quella  triste  impres- 
sione,  che  non  era  fatta  dawero  per  decidere  due  giovani  come 
tuo  padre  e  Malenchini  a  prendere  parte  a  quel  governo. 

Arrivarono  e  si  presentarono.  -  Corsini  aveva  saviamente  ricu- 
sato  e  non  ne  voleva  sentir  parlare.  -  II  posto  di  governatore  fu  al- 
lora  offerto  a  Leonetto.  E  per  farlo  accettare,  quel  venerando  vec- 
chio  del  Capponi  invoco  la  salute  pubblica  e  la  necessita  di  quiete 
per  prepararsi  con  calma  a  nuova  lotta  contro  1'Austria. 

i.  Bargagli:  vedi  la  nota  3  a  p.  161.  2.  « II  generale  marchese  Lelio  Gui 
nigi,  lucchese,  nominate  governatore  di  Livorno  il  24  marzo  1848.  Ben- 
che  in  pratica  avesse  cessato  di  esserlo  fin  dall'agosto,  le  sue  dimissioni 
vennero  accettate  soltanto  il  27  settembre  successive))  (Mordini).  3.  il 
minister o :  come  abbiamo  gia  detto,  questo  ministero  era  presieduto  da  Gino 
Capponi,  e  governo  dal  16  agosto  al  26  ottobre  del  1848.  4.  don  Neri  Cor 
sini:  vedi  la  nota  i  a  p.  169.  Si  tratta,  naturalmente,  del  nipote,  che  aveva 
allora  43  anni.  5.  Vincenzo  Malenchini'.  vedi  la  nota  yap.  183. 


AVVENTURE   DELLA    MIA   VITA  205 

Eran  parole  che  arrivavano  al  suo  cuore.  -  Accetto,  ma  a  queste 
condizioni : 

che  la  sua  missione  non  sarebbe  durata  che  il  tempo  necessario 
per  riportare  la  tranquillita  negli  animi  esacerbati  e  per  dar  sod- 
disfazione  a  giuste  esigenze,  come  quella  dell'organizzazione  rego- 
lare  dei  volontari; 

che  gli  fossero  accordati  pieni  poteri; 

che  fosse  messo  a  sua  disposizione  un  reggimento  di  fanteria, 
comandato  dal  Reghini,1  trecento  carabinieri  comandati  dal  Man- 
ganaro,2  due  squadroni  di  cavalleria  e  mezza  batteria  di  artiglieria. 

La  prima  condizione  1'accordarono  facilmente,  trattandosi  di  sole 
parole.  Accettarono  le  altre  due,  ma  la  seconda  non  dipendendo  dai 
ministri,  promisero  di  chiederla  alia  rappresentanza  nazionale  riu- 
nita  allora  inFirenze.  Ed  infatti  furono  chiesti  airAssemblea  i  pieni 
poteri  e  votati  d'urgenza  il  27  agosto. 

Per  tutto  questo  occorsero  diversi  giorni.  -  Intanto  arrivo  da  Li- 
vorno  una  commissione  affacciando  assurde  pretese.  Non  fu  rice- 
vuta.  Ma,  tornata  che  fu  a  Livorno,  il  popolo  insorse,  s'impossesso 
di  tutte  le  armi,  e  fu  padrone  della  citta.  II  Guinigi  fuggi  -  altret- 
tanto  fece  la  maggior  parte  delle  autorita  -  ed  il  municipio  debol- 
mente  rappresentato  divenne  lo  zimbello  di  quelle  turbe  sfrenate, 
inebriate  dal  facile  trionfo. 

Fu  in  quella  circostanza  che  Leonetto  assumeva  1'ardua  impresa. 
-  Non  si  trattava  piu  di  governare,  e  di  rendere  la  calma  ad  una 
citta;  si  trattava  di  levarla  dalle  mani  degl'insorti.  Ma  piu  1'im- 
presa  diventava  difficile  e  piu  ritemprava  quel  carattere  di  ferro. 
Non  si  sgoment6,  non  disper6,  ebbe  fiducia  in  se  e  negli  amici  che 
aveva  a  Livorno  -  e  infatti  se  non  riusci,  non  fu  per  colpa  sua. 

Prima  di  partire  aspettava,  com' era  naturale,  che  il  ministro 
della  guerra  Belluomini3  gli  desse  un  grado  superiore,  corrispon- 
dente  alle  esigenze  di  quella  posizione,  e  che  lo  mettesse  al  disopra 
dei  militari  che  dovevano  essere  sotto  i  suoi  ordini  immediati. 
Ma  non  vedendo  capitar  nulla,  prendendo  commiato  all' ultimo 
momento  gli  disse :  —  Faccia  stendere  il  brevetto  di  colonnello  di 
stato  maggiore  e  lo  porti  alia  firma  del  Granduca.  Finche  non  torna, 
non  parto. 

i.  Reghini:  vedi  la  nota  sap.  178.     2.  Manganaro:  vedi  la  nota  sap.  178. 
3.  Belluomini:  vedi  la  nota  zap.  177. 


206  LEONETTO    CIPRIANI 

Non  era  piu  tempo  di  desideri,  ma  di  ordini  -  e  cosi  fanno  gli 
uomini  che  si  sentono  all'altezza  delle  circostanze. 

II  decreto  fu  steso  -  portato  alia  firma  -  firmato.  -  E  cosi  tuo 
padre  si  fece  colonnello  da  se  stesso.1 

Parti  per  Pisa,  ove  si  concentravano  le  forze  richieste.  Mancando 
pero  parte  della  linea,  la  cavalleria  e  tutti  i  carabinieri,  il  nerbo 
migliore  per  1'urEciale  che  li  comandava  e  per  gli  elementi  che  li 
componevano,  voleva  aspettarli.  Ma  alcuni  amici  di  Livorno  lo 
scongiurarono  a  non  perder  tempo  a  venire,  perche  se  allora  era  pos- 
sibile  prendere  aH'imprevista  gl'insorti  non  ancora  organizzati  ne 
preparati  a  seria  difesa,  in  pochi  giorni  tutto  poteva  mutare,  la  citta 
essere  esposta  al  saccheggio,  e  la  vita  degli  onesti  dipendere  dal 
popolo  infuriato.  Aggiungevano  di  avere  sicure  intelligence  af- 
finche  le  porte  si  aprissero,  e  di  prevedere,  per  quanto  era  possibile, 
che  si  sarebbe  evitato  spargimento  di  sangue. 

Le  ragioni  e  le  riflessioni  eran  cosi  giuste  che  lo  persuasero. 

La  mattina  del  30  agosto  fece  interrompere  le  comunicazioni 
telegrafiche  con  Livorno,  per  impedire  awisi  e  fare  della  sorpresa 
Pelemento  essenziale  del  successo.  Ordin6  nello  stesso  tempo  un 
treno  di  quanti  vagoni  erano  disponibili,  compresi  quelli  delle  mer- 
canzie  e  le  piattaforme,  con  diverse  locomotive,  e  senza  metter  nes- 
suno  a  parte  del  piano  che  aveva  immaginato,  alle  tre  dopo  mezzo- 
giorno  parti  col  treno  e  colle  truppe,  mandando  nello  stesso  tempo 
la  mezza  batteria  per  la  via  maestra,  con  Tordine  di  andare  al  gran 
trotto  e  di  fermarsi  alia  fonte  di  S.  Stefano  (aveva  la  fortuna  di  co- 
noscere  quella  localita  come  casa  sua,  perche  la  gran  pianura  che 
circonda  Livorno  da  quel  lato  era  stata  proprieta  della  sua  famiglia). 

II  treno  parti  -  lui  era  sulla  macchina.  -  Arrivati  al  capannone2 
fece  fermare,  e  condusse  le  truppe  per  una  via  sterrata  alia  fonte  di 
S.  Stefano.  Aveva  calcolato  bene  il  tempo  e  la  distanza:  Partiglie- 
ria  arriv6  poco  dopo.  Formo  sulla  larga  via  maestra  la  colonna  per 
compagnie  di  fronte  -  e  senza  perdere  un  minuto,  a  passo  ?cce- 
lerato  si  diresse  verso  la  citta,  lontana  poco  piu  di  un  miglio  e 
mezzo. 

Arrivato  a  poca  distanza  dal  punto  ove  la  via  maestra  si  biforca, 

i.  si  fece  . . .  da  se  stesso: « Con  decreto  del  27  agosto  1848  il  Cipriani,  allora 
semplice  capitano  di  cavalleria  onorario,  fu  nominate  colonnello  addetto 
allo  Stato  maggiore  generale »  (Mordini).  2.  capannone:  «Manca  una  pa- 
rola  illeggibile  nel  manoscritto »  (Mordini). 


AVVENTURE   BELLA    MIA   VITA  207 

un  braccio  dirigendosi  verso  Tantica  porta  a  Pisa,  a  trecento  metri 
di  distanza,  e  Faltro  alia  porta  S.  Marco  a  mille  metri,  incontro  due 
suoi  intimi  amici,  capitani  nella  guardia  nazionale,  il  dottor  An 
drea  Giovannetti  e  Federico  Conti,  i  quali  gli  consigliarono  di 
entrare  per  la  porta  a  Pisa,  perche  non  vi  avevano  veduto  nessun 
preparative  di  difesa  e  perche  vi  erano  scaglionati  amici  pronti  a 
dargli  mano. 

Non  era  questo  il  suo  piano,  perche  dalla  porta  a  Pisa  alia  piazza 
d'armi  vi  era  quasi  un  miglio  da  percorrere  in  citta,  in  un  sobborgo 
male  abitato,  mentre  dalla  porta  San  Marco,  il  sobborgo  essendo 
deserto  per  duecento  metri  dentro  le  mura,  non  vi  era  die  un  pic 
colo  spazio  da  percorrere  per  arrivare  lungo  i  fossi  alia  piazza,  per 
una  via  tutta  di  palazzi  e  magazzini,  senza  una  bottega;  e  perche 
infine,  nel  caso  che  la  citta  fosse  stata  prevenuta,  come  lo  era  stata 
difatti,  e  avesse  voluto  prepararsi  a  disperata  difesa,  Tavrebbe  pre- 
parata  alia  stazione  della  via  ferrata  davanti  la  porta  S.  Marco,  ove 
non  vedendolo  comparire  ma  sentendo  il  rumore  dei  tamburi  e 
della  musica  che  appositamente  suonava,  i  popolani  armati  do- 
vevano  credere  si  fosse  diretto  alia  porta  a  Pisa,  e  accorrervi  ab- 
bandonando  quella  di  S.  Marco. 

Per  queste  ragioni  ricuso,  e  a  piedi,  in  testa  alia  colonna,  volto 
a  destra  verso  S.  Marco,  pregando  gli  amici  di  non  accompagnarlo, 
perche  non  erano  al  loro  posto,  e  potevano  essergli  molto  piu  utili 
andando  nella  piazza  d'armi. 

II  Conti  lasciandolo  gli  disse :  —  Non  si  sa  cosa  pub  seguire  — 
e  sotto  mano  gli  porse  un  paio  di  pistole  corte,  colle  quali  hai  gio- 
cato  tante  volte  da  bambino.1 

Arrivati  davanti  alia  porta  che  era  chiusa,  grido:  —  Aprite! 

—  Chi  siete  ? 

—  Amici. 

—  Aspettate  che  vengano  gli  ordini  dal  municipio. 

—  Non  si  aspetta.  Aprite  o  apro  a  cannonate  —  e  fece  mettere  i 
pezzi  in  batteria.  Diversi  scamiciati  che  erano  arrampicati  sulle 
mura  gridavano  sotto :  —  Aprite,  aprite  -  han  le  micce  accese. 

Per  influenza  di  un  sergente  capoposto,  gia  volontario  protetto 
da  tuo  padre,  decisero  di  aprire.  Furono  spente  le  micce  -  entra- 


i.  colle  quali  .  .  .  da  bambino:  come  gia  abbiamo  detto,  le  Awenture  si  im- 
maginano  narrate  da  un  « vecchio  mentore  »  al  figlio  di  Leonetto  Cipriani. 


208  LEONETTO    CIPRIANI 

rono  -  e  siccome  guerra  nella  citta  contro  il  popolo  non  e  guerra  in 
campagna  contro  i  nemici,  Leonetto  voleva  essere  il  primo  ad  avere 
contatto  o  cozzo  che  fosse  col  popolo,  tanto  piu  ch'egli  solo  col  suo 
prestigio  era  in  grado  di  esercitare  una  buona  influenza,  mentre 
un'avanguardia  poteva  al  primo  apparire  irritare  gli  animi.  Ordino 
percio  la  colonna  per  mezze  compagnie  colPartiglieria  al  centro,  e 
messosi  alia  testa,  per  gli  scali  di  S.  Marco  arrive  davanti  al  teatro 
di  S.  Marco.  Li  incontro  Luigi  Fabbri1  con  altri  che  vollero  fer- 
marlo  pregandolo  di  non  andare  in  piazza.,  ove  sarebbe  stato  rice- 
vuto  a  fucilate,  se  prima  non  prometteva  amnistia  generale;  e  il 
Fabbri  presentandogli  un  foglio  gli  disse :  —  Firma  per  carita,  Leo 
netto,  ed  aspetta. 

Tuo  padre  gli  strappo  il  foglio  di  mano,  e  grido  ai  tamburi  che 
si  eran  fermati:  —  Avanti,  avanti  —  a  passo  di  carica! 

In  un  momento  furono  sulla  piazza.  Stupore  generale  -  non  una 
fucilata  -  non  un  grido  -  diremo  di  piu :  terrore  generale.  -  Dispose 
le  truppe  sulla  piazza  —  i  cannoni  davanti  al  palazzo  governativo, 
dove  sali  per  dare  gli  ordini  necessari. 

Eran  le  nove  -  gia  notte.  Era  pericoloso  mandare  la  truppa  nelle 
caserme  -  irritante  far  la  bivaccare  in  piazza.  Tra  i  due  mali,  pre 
fer!  evitare  il  pericolo  piuttosto  che  la  provocazione.  Furono  prese 
tutte  le  precauzioni  necessarie  contro  una  sorpresa  notturna;  - 
e  per  poco  che  la  gente  riflettesse  e  che  il  suo  prestigio  prevalesse, 
vi  eran  tutte  le  probabilita  di  vedere  la  mattina  la  citta  calma  come 
se  non  vi  fosse  mai  stato  disordine. 

Cosi  fu  -  la  notte  non  si  senti  un  alito  -  la  mattina  ognuno  an- 
dava  per  i  fatti  suoi  -  i  demagoghi  scamiciati  erano  spariti  -  gli 
ambiziosi  rientrati  -  e  tutto  faceva  ritenere  un  risultato  insperato. 
Ma  tuo  padre,  ben  lontano  dalPaddormentarsi  in  quell'apparente 
quiete,  si  occupo  di  prevenire  con  tutti  i  mezzi  il  ripetersi  dei  disor- 
dini  passati,  dando  ordini  severi  d'isolare  il  soldato  dal  cittadino  - 
di  non  permettere  che  i  soldati  si  facessero  vedere  in  citta  -  di  far 
uscire  la  mattina  le  truppe  dalle  caserme  per  andare  a  fare  gli  eser- 
cizi  a  fuoco  alPArdenza,  portando  il  rancio  e  tornando  la  sera. 

La  turba  degli  irrequieti  era  molta,  ma  i  caporioni  pochi,  e  di 

i.  Luigi  Fabbri:  « Allora  uno  dei  priori,  poi  gonfaloniere  di  Livorno  quasi 
ininterrottamente  dal  settembre  1848  al  dicembre  1857.  Aveva  fatto  la 
campagna  del  '48  come  capitano  nel  battaglione  livornese  comandato  dal 
Bartolommei.  Mori  sessantacinquenne  nel  1876))  (Mordini). 


AVVENTURE   BELLA    MIA   VITA  209 

questi  i  piu  usciti  dai  volontari.  -  Vi  era  poi  una  serpe  velenosa,1 
divorata  dalla  rabbia  di  non  esser  mai  potuta  arrivare  a  nulla,  che 
dominava  tutti,  e  della  quale  era  organo  sibillino  il  «  Corriere  Li- 
vornese»,  e  Pistrumento  piu  attivo  il  redattore  di  quello,  un  essere 
miserabile  chiamato  Giannini.2 

Leonetto  fece  chiamare  uno  dopo  Paltro  i  caporioni  gia  volontari, 
e  valendosi  del  proprio  prestigio,  e  di  quello  che  su  alcuni  di  loro 
aveva  maggior  potenza  -  il  francescone  -3  con  buone  parole  e  con 
dolcezza  assicuro  loro  formalmente  che  aveva  accettata  la  missione 
con  1'unico  scopo  di  migliorare  le  loro  condizioni;  e  che  se  aveva 
chiesto  i  pieni  poteri  era  per  poterli  organizzare  completamente, 
dando  ai  piu  capaci  il  grado  che  meritavano,  e  cosi  sciolto  dalle 
pastoie  delFamministrazione  militare  centrale  far  di  loro  in  poco 
tempo  un  corpo  omogeneo,  che  poteva  esser  pronto  a  muoversi  non 
come  bande,  ma  come  battaglioni  e  reggimenti  sul  piede  di  guerra. 

Queste  idee  che  erano  giuste,  e  dall'applicazione  delle  quali  sol- 
tanto  poteva  ottenersi  un  effetto  utile,  1'unico,  a  quella  pienezza  di 
vita,  furono  accolte  da  loro  con  estrema  gioia,  e  tutti  promisero  di 
appoggiarlo,  influenzando  i  buoni  e  facendo  tacere  i  cattivi. 

Egli  chiese  poi  loro  la  restituzione  delle  armi,  fra  le  quali  vi  era  un 
cattivo  pezzo  di  artiglieria.  II  contrabbandiere  Petracchi4  capitano 
dei  volontari,  promise  ogni  cosa,  ma  osservo  che  una  parolina  detta 
bene  da  Leonetto  a  tutti  avrebbe  facilitato  la  restituzione ;  e  fu  con- 
venuto  di  fare  un  awiso  al  popolo  che  lo  invitava  a  depositare  le 
armi  al  Municipio. 

Fu  mal  fatto,  perche  suscito  diffidenze.  Meglio  era  aspettare, 
tanto  piu  che  molti  le  avevano  gia  vendute,  e  molti  non  le  avrebbero 
restituite.  E  quando  una  misura  governativa  come  quella,  che  non  e 
un  ordine  assoluto  ma  soltanto  un  invito,  non  deve  avere  un  ef 
fetto  immediato  e  completo,  non  ha  ragione  di  essere  -  e  tanto  piu 
in  quel  caso,  quando  le  due  ragioni  sopraddette  dovevano  essere 
prevedute.  Tuo  padre  in  quella  circostanza  s'illuse,  e  si  lascio  se- 
durre  dalle  promesse  di  chi  non  aveva  facolta  di  mantenere. 

i.  una  serpe  velenosa:  il  Cipriani  indica  cosi  Giuseppe  Mazzini,  del  quale 
non  comprese  la  grandezza  e  la  nobilta.  2.  «  Silvio  Giannim,  letterato  e 
giornalista  (Bastia  i8i5-Torino  i86o)»  (Mordini).  3.  il  francescone:  cioe, 
il  denaro.  Un  francescone  valeva  circa  L.  5,60.  4.  « Antonio  Petracchi, 
capo-popolo  livornese,  prima  awersario,  poi  partigiano  fanatico  del  Guer- 
razzi,  e  quasi  onnipotente  a  Livorno  quando  il  Pigli  vi  era  governatore » 
(Mordini). 


210  LEONETTO    CIPRIANI 

Fu  affisso  1'awiso.  Alcune  armi  furono  depositate  -  quanto  al 
cannone,  il  Petracchi  venne  a  pregarlo  di  lasciarglielo  perche  vole- 
vano  andare  il  giorno  dopo  in  processione  alia  Madonna  di  Monte- 
nero  e  strascinarlo  fin  sul  monte  per  salutare  i  giorni  migliori  che 
prometteva  la  presenza  sua.  -  Egli  acconsenti. 

In  quel  giorno  vi  fu  riunione  di  cittadini  influenti,  alcuni  uo- 
mini  di  buon  consiglio,  come  Andrea  Padovani,  il  nipote  Giovanni 
Fabrizi1  e  Andrea  Giovannetti,  e  si  parlo  della  guardia  nazionale. 
Era  questa  comandata  dal  colonnello  Bernardi,2  antico  soldato, 
ma  che  avendo  con  Peta  perso  tutte  le  qualita  militari,  non  era  piu 
che  un  buon  uomo  vestito  da  colonnello. 

Per  le  ragioni  gia  dette  replicatarnente  la  guardia  nazionale  non 
esisteva  piu.  I  graduati  avevan  dato  in  gran  parte  le  loro  dimissioni 
-  e  se  non  le  avevan  date  tutti,  e  perche  non  eran  present!.  Riorga- 
nizzarla  su  nuove  basi  richiedeva  tempo  -  ed  il  tempo  mancava.  Le 
discussioni  ed  i  consigli  non  approdarono  a  nulla  -  e  Leonetto  dove 
accorgersi  che  senza  guardia  nazionale,  con  poca  truppa  cattiva  e 
ufficiali  peggiori,  quel  che  non  riusciva  ad  ottenere  personalmente 
non  lo  avrebbe  ottenuto  coi  mezzi  dei  quali  disponeva. 

A  giudicare  dallo  stato  della  citta  quando  vi  entr6,  e  dal  modo 
come  vi  entro,  si  dovrebbe  credere  che  si  guardasse  bene  dall'esporsi 
isolate  nelle  vie.  Al  contrario:  -  non  vi  era  ombra  di  pericolo,  ma 
quand'anche  vi  fosse  stata,  doveva  mostrarsi  e  passeggiar  solo  nelle 
vie  piu  popolate  come  un  semplice  cittadino  inoffensive. 

Cosl  fece.  -  Al  mezzogiorno  -  in  borghese,  s'intende  bene  -  dalla 
piazza  percorreva  due  volte  la  via  grande,  rientrando  un  giorno  per 
gli  scali  della  Fortezza  Vecchia  e  la  Venezia,  Paltro  per  gli  scali  di 
San  Marco  e  via  Nuova. 

La  sua  presenza  faceva  piacere  -  e  le  parole  che  lo  accoglievano, 
«  guarda  guarda  il  sor  Leonetto  »,  indicavano  simpatia.  Se  incontrava 
un  volontario  che  avesse  conosciuto  alParmata,  lo  fermava,  gli  do- 
mandava  le  sue  nuove:  —  Cosa  fai?  ti  occorre  nulla?  vieni  a  tro- 
varmi  —  e  se  non  fosse  dipeso  che  da  quei  giovini,  lo  scopo  che  si 
era  prefisso  sarebbe  stato  certo  raggiunto. 

1.  « Andrea  Padovani,  di  famiglia  c6rsa  stabilita  a  Livorno;  Giovanni  Fa 
brizi,  nato  a  Bastia  nel  1811,  awocato,  giornalista,  scrittore,  professore  a 
Pisa,  inviato  nel  1859  dal  Ricasoli  a  Torino,  deputato  alFassemblea  toscana 
e  al  parlamento  italiano,  morto  a  Livorno  il  31  dicembre  1871 »  (Mordini). 

2.  Bernardi:  vedi  la  nota  a  p.  185. 


AVVENTURE   BELLA    MIA    VITA  211 

Vi  era  un  club  al  teatrino  degli  Strozzi,  ove  si  riunivano  la  sera, 
diretto,  come  accade  sempre  nei  clubs,  da  chi  sa  parlare  e  con  le 
parole  lusingare  le  passion!  dominant!.  In  esso  si  era  rifugiata  la 
schiuma  delle  cattive  passioni,  da  esso  per  la  prima  volta  la  velenosa 
serpe  aveva  mostrato  la  testa,  e,  per  la  prima  volta  forse  in  Italia, 
era  uscita  la  parola  repubblica.  Era  infine  il  solo  ostacolo  alia  paci- 
ficazione  dell'intera  citta. 

Ne  ordin6  la  chiusura.1  Ma  fu  forse  troppo  presto,  perche  in 
simili  casi  toglier  tutto  ad  un  tratto  lo  sfogo  delle  parole  e  come  voler 
fermare  artificialmente  la  corrente  di  un  precipitoso  fiume,  men- 
tre  o  bisogna  sviarlo,  o  lasciarne  abbassare  le  acque  e  chiuderlo  al- 
lora  tra  argini  insormontabili.  -  II  chiuderlo  ad  un  tratto  quando  e 
in  furore,  lo  fa  straripare  e  piu  precipitoso  scendere  al  piano,  tra- 
volgendo  con  se  uomini  e  cose.  —  E  fu  quello  che  awenne. 

II  primo  settembre  fu  affisso  1'ordine  che  vietava  i  clubs.  - 
Fin  prima  del  mezzogiorno  i  tristi  effetti  di  questa  misura  furono 
patenti.  La  gente  si  aggmppava  a  leggerlo,  disapprovava  -  e  il  pre- 
stigio  di  Leonetto  spariva.  —  Lo  senti,  ma  lo  sbaglio  era  fatto,  e  il 
tornare  indietro  sarebbe  stato  esautorarsi. 

Nel  dopo  pranzo,  dalla  disapprovazione  si  pass6  alle  dimostra- 
zioni  ostili.  Fu  strappato  1'affisso  dalle  cantonate,  e  le  sentinelle 
della  gran  guardia  ed  anche  del  palazzo  che  vollero  impedirlo,  fu 
rono  insultate. 

Sul  far  della  sera  cominciarono  le  grida  di  pochi  dinanzi  al  pa 
lazzo  «abbasso  il  dittatore!».  Era  la  parola  d'ordine  della  serpe 
nascosta.  -  E  tra  quelli  che  gridavano,  tuo  padre,  stando  dietro  le 
persiane  delle  finestre  di  palazzo,  osservo  tre  individui,  due  briachi 
ed  un  giovine  col  cappello  che  gli  copriva  gli  occhi  -  un  tal  Lilla  - 
che  come  maestri  di  cappella  davan  Tintonatura  alForchestra. 

Chiamo  il  capitano  dei  carabinieri  Gori,  che  era  in  palazzo,  e  gli 
ordino  che  uscisse  dalla  porta  di  dietro  con  qualche  carabirdere, 
facesse  il  giro  dalla  via  del  Granduca,  traversasse  la  piazza,  e  scan- 
sando  il  corteo  di  ragazzi  arrivasse  alPimprowiso  sui  tre,  H  arre- 
stasse  e  li  conducesse  in  palazzo.  -  Se  Fordine  fosse  stato  bene  ese- 
guito,  dai  briachi  avrebbe  facilmente  saputo  chi  gli  aveva  pagato  il 
vino,  e  dal  Lilla,  con  le  cattive  o  piu  facilmente  con  una  manata  di 
francesconi,  chi  lo  pagava  per  dirigere  quell' orchestra.  Ma  il  Gori 

i.  Ne  ordino  la  chiusura:  « In  seguito  ad  ordine  categorico  del  ministro  del- 
rinterno  Samminiatelli »  (Mordini). 


212  LEONETTO    CIPRIANI 

era  una  bestia,  ed  avendo  probabilmente  la  colica,1  esegui  1'ordine 
cosi  male  che  dette  loro  tempo  a  fuggire. 

La  sera  vennero  a  palazzo  Andrea  Padovani  ed  il  nipote  a  pre- 
venirlo  di  cio  che  gia  sapeva,  che  il  popolo  si  preparava  a  cose 
nuove.  -  Prowedesse  e  si  guardasse  bene. 

Egli  non  si  era  finora  occupato  della  guardia  nazionale  per  le  ra- 
gioni  gia  esposte,  ma  aveva  pero  studiato  la  formazione  di  una  guar 
dia  del  commercio,  nella  quale  i  negozianti,  che  pel  commercio  pa- 
ralizzato  soffrivano  piii  di  tutti,  avrebbero  fatto  entrare  i  loro  capi 
facchini  e  quelle  centinaia  di  facchini,  ai  quali  quello  stato  di  cose 
minacciava  di  togliere  i  mezzi  di  campare.  Questa  guardia  doveva 
essere  pagata  generosamente  giorno  per  giorno. 

La  mattina  del  2  settembre  riuni  a  palazzo  la  camera  di  commer 
cio,  della  quale,  se  la  memoria  non  m'inganna,  era  presidente  il  Ber 
ghini,2  con  altri  primari  negozianti,  ed  espose  loro  il  progetto  gia 
formulato  in  carta.  Lo  approvarono  alPunanimita,  promisero  coa- 
diuvarlo  con  tutte  le  loro  forze  -  e  fu  convenuto  che  avrebbero  com- 
pilato  la  lista  degli  uomini  dei  quali  ognuno  di  essi  rispondeva, 
avrebbero  fatto  fare  altrettanto  a  tutti  i  negozianti,  e  le  avrebbero 
al  piu  presto  sottoposte  al  governatore.  I  capi  facchini  sarebbero 
stati  nominati  capisquadra  con  dieci  paoli  al  giorno  di  paga,  e  i 
componenti  le  squadre  avrebbero  avuto  tre  paoli,  ed  un  cappotto 
e  un  berretto  per  ciascheduno. 

Non  vi  e  alcun  dubbio  che,  se  si  avesse  avuto  il  tempo  di  realiz- 
zare  simile  progetto,  la  citta  era  in  mano  di  tuo  padre.  Ma  la  serpe 
nascosta  vegliava,  e  si  accorse,  che  se  dava  tempo  a  formare  quella 
guardia,  le  sue  tristi  aspirazioni  eran  fallite. 

£  tempo  dire  quali  fossero  la  serpe  nascosta  e  le  sue  aspirazioni. 
Era  il  Mazzini  che  per  mezzo  dei  suoi  pochi  agenti,  resti  della  Gio- 
vine  Italia,  avendo  visto  fallita  la  sua  scellerata  ed  insana  trama  a 
Milano3  la  notte  delFarmistizio,  voleva  profittare  dei  torbidi  di  Li- 


i.  avendo  .  .  .  la  colica:  cioe,  avendo  paura.  2.  «Pasquale  Berghini  (1798- 
1881),  sarzanese,  affiliate  alia  Giovane  Italia,  condannato  in  contumacia 
a  morte  nel  1833,  esule  in  Corsica  e  in  Francia,  pote  poi  fissarsi  a  Lucca, 
occupandosi  di  ferrovie,  e  nel  1848  fu  deputato  al  parlamento  sardo.  - 
Presidente  della  camera  di  commercio  di  Livorno  era  non  il  Berghini,  ma 
Eduardo  Lloyd,  facoltoso  commerciante  inglese  cola  stabilito »  (Mordini). 
3.  la  sua  ...  Milano :  si  allude  alle  dimostrazioni  contro  Carlo  Alberto 
awenute  la  sera  del  5  agosto  1848  a  Milano,  e  delle  quali  il  Cipriani  consi- 
dera  artefici  gli  element!  mazziniani. 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  213 

vorno  per  seminare  Pidea  che  e  stata  e  sara  finche  vivra  il  sogno  della 
sua  vita  -  la  repubblica. 

Durante  il  giorno  gli  awisi  di  rivolta  imminente  si  ripeterono.  - 
Tutti  gli  ordini  furono  dati  e  le  disposizioni  prese  in  conseguenza. 
Mezzo  squadrone  di  cavalleria  col  tenente  Alessandro  Cappellini1 
era  nella  piccola  caserma  vicino  al  palazzo.  Fu  raddoppiata  la  guar- 
dia  di  palazzo  e  rinforzata  da  50  carabinieri  (200  con  il  Manganaro 
dovevano  arrivare  la  sera  con  Pultimo  treno).  Tutto  cio  coram  po- 
puloy  affinche  questo  sapesse  come  sarebbe  stato  ricevuto. 

In  casi  simili  Postentazione  e  sana  politica  -  Papparato  della  forza 
intimidisce,  fa  riflettere,  e  spesso  previene  spargimento  di  sangue  e 
repression!  cittadine  sempre  deplorabili. 

Sul  far  della  sera,  a  poco  a  poco,  come  marea  montante,  si  ag- 
grupparono  migliaia  d'individui  dinanzi  al  palazzo,  come  se  aspet- 
tassero  la  parola  d'ordine,  e  tutto  ad  un  tratto  si  accostarono  gri- 
dando  «  morte  al  dittatore »  e  tentarono  di  disarmare  le  due  senti- 
nelle,  che  si  rifugiarono  dentro. 

Leonetto,  vedendo  dalle  fmestre  quel  movimento  in  avanti, 
e  non  fidandosi  di  nessuno,  scese  e  da  se  stesso  dispose  dinanzi 
alia  porta  i  carabinieri  a  baionetta  abbassata.  -  II  cosiddetto  po- 
polo  gridava  gridava  -  ma  dalla  porta  non  si  entrava,  alle  finestre  vi 
erano  inferriate,  ed  il  palazzo  non  aveva  che  una  doppia  piccola  por 
ta  di  dietro. 

Profittando  di  un  momento  di  sosta,  ordino  ai  carabinieri  co- 
mandati  dal  solito  poltrone  Gori,  non  avendo  altri  sotto  la  mano,  di 
piombare  su  quella  folia  e  disperderla  facendo  arresti  se  era  possi- 
bile  -  con  i  fucili  carichi,  ma  guardandosi  bene  dal  far  fuoco.  Nello 
stesso  tempo  mando  ordine  al  Cappellini  di  salire  a  cavallo  e  prender 
posizione  davanti  alia  dogana,  ed  al  Reghini  di  tenere  pronta  la 
fanteria  coirarme  al  braccio  e  Partiglieria  coi  cavalli  attaccati. 

II  Gori  esegui  il  movimento  ma  senza  insieme,  alia  sparpagliata. 
Egli  fu  il  primo  a  fuggire  in  palazzo  -  i  carabinieri  isolati  furon  cir- 
condati  e  alcuni  disarmati  e  maltrattati.  Quando  si  sentirono  le 
prime  fucilate  degPinsorti,  al  canto  della  via  della  Posta,  non  era  piii 
tempo  da  mezze  misure,  e  Leonetto  ordino  al  Cappellini  di  caricare 
il  popolo. 

Fu  disperse  e  la  piazza  rimase  sgombrata.  Ma  le  fucilate  contro 

i.  « Alessandro  Cappellini,  poi  maggiore  comandante  i  cacciatori  a  cavallo, 
e  nel  1859  colonnello  del  reggimento  cavalleggeri  di  Firenze»  (Mordini). 


214  LEONETTO    CIPRIANI 

la  cavalleria  piovevano  a  grande  e  piccola  distanza  dagli  sbocchi 
di  tutte  le  vie  -  e  la  fanteria  e  I'artiglieria,  che  avevan  ricevuto  Tor- 
dine  di  portarsi  in  piazza  al  passo  di  carica,  non  arrivavano. 

II  Reghini  mando  ordini  sopra  ordini,  e  non  vedendole  compa- 
rire,  disse :  —  Ci  andero  io  stesso.  —  Parole  degne  di  un  uomo  di 
cuore  e  di  un  soldato  coraggioso.  -  Un  giovane  tenente  di  artiglieria, 
ufficiale  d'ordinanza  del  governatore  (il  nepote  del  Fabbri  di  Fi- 
renze)  disse :  —  Ci  andero  io  e  1'artiglieria  almeno  le  garantisco  che 
verra.  —  E  parti. 

Grinsorti  armati  agli  sbocchi  delle  vie  Grande,  delle  Galere, 
della  Posta  e  di  S.  Giulia  aumentavano,  e  facevano  fuoco  nutrito 
contro  il  palazzo,  perche  la  cavalleria  in  piccol  numero  si  era  messa 
al  sicuro  nel  cortile  dello  spedale. 

Finalmente  comparve  Partiglieria  comandata  dal  tenente  Mazzei 
delPisola  dell'Elba,  e  si  port6  dinanzi  al  palazzo.  Tuo  padre  scese 
in  piazza  e  fece  tirare  qualche  colpo  a  polvere  -  le  cariche  erano  gia 
state  preparate  per  suo  ordine  -  e  questo  bast6  per  vederli  fuggire 
dal  canto  del  Consiglio  e  della  Posta.  Dispose  I'artiglieria  in  mezzo 
alia  piazza  con  un  cannone  rivolto  a  S.  Giulia  e  un  altro  che  infi- 
lava  via  della  Posta  da  dove  era  apparso  il  maggior  numero  degli 
insorti  -  e  furono  tirate  due  sole  cannonate  a  polvere  nelle  due 
direzioni. 

Cominciarono  le  fucilate  dalle  finestre  di  casa  d'Angiolo.1  Cadde 
un  cannoniere  -  tutti  gli  altri  fuggirono. 

GFinsorti  si  awicinavano  —  la  fanteria  non  arrivava.  II  momento 
era  supremo.  O  lasciarsi  scannare  da  quella  turba,  o  fame  macello. 

Egli  ordin6  a  voce  alta:  —  A  palla—  e  lui  stesso  col  Mazzei  ed  un 
cannoniere  caricando  i  pezzi,  furon  tirati  due  colpi  a  palla  e  due  a 
mitraglia. 

In  quella,  vide  apparire  dalla  via  della  Posta  il  Manganaro  coi 
carabinieri  addossati  alle  case  di  fronte  a  quel  lato  del  palazzo  del 
Granduca  che  si  prolunga  fino  a  mezza  strada.  Lo  riceve  a  braccia 
aperte,  e  gli  ordino  di  fermarsi  davanti  al  palazzo.  -  Onore  al  Man 
ganaro  ed  a  quelli  che  comandava  e  che,  scesi  alia  stazione,  accor- 
sero  ove  piu  infuriava  il  pericolo. 

Sopraggiunse  alfine  la  fanteria  a  passo  di  formica,  quando,  si 
pu6  dire,  era  tutto  finito,  perche  se  fu  tirata  qualche  fucilata,  Io  fu 

i.  «Michele  D'Angiolo,  gonfaloniere  prowisorio  di  Livomo  nell'agosto 
1848,  e  gonfaloniere  effettivo  dal  dicembre  1857))  (Mordini). 


AVVENTURE   DELLA  MIA   VITA  215 

dal  canto  di  via  S.  Giulia,  e  pochissime  dalle  finestre.  La  fanteria  ne 
tiro  qualcuna  a  caso  senz'ordine,  dominata  dalla  paura.  Fu  ordi- 
nata  in  quadrate  sulla  piazza. 

Fu  cambiata  la  guardia  al  palazzo;  e  Leonetto,  cercando  1'uffi- 
ciale  che  la  comandava,  lo  vide  uscir  di  sotto  una  tavola.  Gli  strappb 
le  spalline  e  gli  levo  la  sciabola. 

And6  poi  alia  gran  guardia,  che  era  chiusa.  Aprirono  -  ed  en- 
trando  furioso  vide  il  tenente  appiattato  sotto  i  pancacci.  Lo  tiro 
per  le  gambe,  e  non  avendo  ne  spalline  ne  sciabola  da  strappargli, 
a  calci  lo  mise  fuori;  e  la  guardia  fu  cambiata. 

II  fuoco  intanto  era  cessato,  gl'insorti  spariti.  Fece  raccogliere  i 
pochi  feriti  e  portarli  allo  spedale  vicino  -  e  rientro  in  palazzo. 

Vi  trov6  un  giovine  in  uniforme  di  tenente  della  guardia  nazio- 
nale  che  si  mise  a  sua  disposizione.  Domand6  il  nome  -  Sirio 
Fazzi  -1  si  rammento  di  averlo  veduto  all'armata,  ma  non  lo  co- 
nosceva  personalmente. 

Sorpreso  gli  disse :  —  E  lei  ha  avuto  il  coraggio  di  uscir  di  casa, 
traversare  la  citta  e  salire  queste  scale  in  simile  momento  ? 

—  E  perche  no  ? 

Gli  strinse  fortemente  la  mano.  —  Non  lo  rivide  che  diciassette 
anni  dopo;  e  per  circostanze  poco  ordinarie  il  Fazzi  fu  il  suo  mi- 
gliore  amico  e  quello  che  phi  di  ogni  altro  prese  a  cuore  i  suoi  in- 
teressi.  -  E  di  lui  fece  menzione  onorevole  nel  suo  rapporto. 

Vi  trovo  pure  Francesco  Cipriani,  suo  cugino,  che  non  vedeva 
da  molti  anni  a  causa  di  questioni  d'interessi.  Non  faceva  parte  della 
guardia  nazionale  -  non  era  nulla.  La  sua  presenza  fu  un  balsamo 
per  Leonetto,  che  lo  abbraccio  e  lo  ringrazio  commosso. 

Degli  altri  suoi  numerosi  intirni  amici  -  si,  teneri  amici  a  parole 
nella  prospera  fortuna  -  non  vide  nessuno  -  neppure  il  suo  predi- 
letto  Gian  Paolo2  per  il  quale  avrebbe  dato  mille  volte  la  vita. 

Lo  aveva  conosciuto  da  giovinetto  e  si  era  stretto  con  lui  con 
una  di  quelle  amicizie  che  rammentano  Oreste  e  Pilade.  Quel  che 
aveva  Funo  aveva  Faltro  -  quel  che  voleva  uno  lo  voleva  Faltro  - 
comuni  le  aspirazioni  e  i  desideri.  E  aveva  fatto  per  lui  miracoli  di 
devozione  quando  gli  affari  dissestati  lo  minacciavano  di  fallire  diso- 

i.  «I1  notaio  Sirio  Fazzi,  nato  a  Livorno  il  17  gennaio  1819,  fu  nel  1859 
consigliere  aggiunto  di  quel  governo  prowisorio,  e  consigliere  comunale, 
e  mori  a  Livorno  il  2  marzo  1893 » (Mordini).  2.  Gian  Paolo  Bartolommei 
(1810-1853)  aveva  comandato  nel  1848  i  volontari  livornesi. 


2l6  LEONETTO    CIPRIANI 

norato.  Aveva  salvato  lui  e  la  sua  famiglia  dalla  rovma  -  ed  egli, 
al  momento  di  provare  la  sua  riconoscenza  per  tutto  quello  che  Leo- 
netto  aveva  fatto  per  lui  in  tante  circostanze,  non  comparve!  Si  era 
rifugiato  il  25  agosto  alia  villa  di  Limone  con  tutta  la  famiglia;  - 
e  neppure  gli  scrisse  una  parola  per  giustificare  la  sua  assenza! 

Ma  fece  anche  peggio.  II  tre  settembre  la  vecchia  madre  di  Leo- 
netto,  temendo  essere  insultata  nella  sua  propria  villa  dal  po 
polo-re,  pens6  di  rifugiarsi  nella  vicina  villa  Foa,  ma  il  Foa  non 
voile  riceverla.  Si  diresse  allora  a  Limone,  sicura  di  essere  accolta  a 
braccia  aperte  -  ma  invece  lo  fu  cosi  freddamente,  e  cosi  chiara- 
mente  a  malincuore,  che  non  reggendo  a  quelPatmosfera  glaciale, 
dopo  soli  tre  giorni  se  n'ando  dalla  sorella  a  Montalto. 

Furon  colpevoli  tutti  i  Bartolommei?  Iddio  mi  guardi  dal  cre- 
derlo.  Ma  uno  solo  che  fosse  dominate  dalla  paura  bastava  per 
influenzare  piu  o  meno  tutti  gli  altri. 

Gian  Paolo  non  parlo  mai  a  Leonetto  di  questi  fatti.  Colpevole 
non  era  lui,  ma  responsabile  si.  Quanto  al  colpevole  -  gliene  rimase 
la  macchia  sul  volto  finche  visse  -  ed  a  lui  nella  miseria  Leonetto 
levo  piu  volte  la  fame.1 

Tornando,  dopo  questa  dolorosa  digressione,  al  nostro  racconto, 
la  ribellione  era  vinta?  No,  perche  gli  elementi  che  la  componevano 
eran  sempre  in  liberta.  E  Leonetto  decise  percio  di  fare  operare 
nella  notte  stessa  due  o  trecento  arresti. 

La  polizia  aveva  compilato  una  lista  dei  piu  facinorosi,  e  si  sapeva 
dove  abitavano.  Ma  come  eseguire  gli  arresti?  La  truppa  aveva 
fatto  cattiva  prova,  ed  i  carabinieri  eran  pochi  per  eseguire  gli  ar 
resti  nella  notte,  e  quasi  tutti  contemporaneamente  per  non  dare  la 
sveglia. 

Penso  a  un  resto  di  guardia  nazionale,  contando  sul  patriottismo 
degli  ufficiali  che  avevano  date  le  dimissioni.  Mando  a  chiamare  il 
Bernardi  e  gli  domando  se  credesse  possibile  riunire  un  drappello.  - 
Ma  alle  prime  osservazioni  del  Bernardi  si  accorse  che  era  un'illu- 
sione,  una  di  quelle  idee  false  che  vengono  alia  mente  in  casi  dispe- 
rati  come  quello.  E  capi  che  bisognava  fare  gli  arresti  con  cio  che 
aveva  sotto  mano. 

i.  Quanta  al  colpevole ...  fame:  non  si  capisce  a  quale  membro  della  fa 
miglia  Bartolommei  il  Cipriani  alluda,  se  non  a  Luciano,  che  fu  con  lui 
alle  Antille. 


CHAMBER    MUSIC  223 

Ex.  I  ('Theme  from  the  "49th  Parallel"  '),  so  marked,  is  given 
out  by  the  viola  to  be  answered  at  once  by  the  other  strings  in 
octaves  playing  'con  sordini',  *sul  ponticello',  and  tremolando. 
Next  the  other  strings,  still  in  octaves,  take  over  Ex.  i  while  the 
viola  embarks  on  a  new  idea,  a  tune  in  double  stops  marked 
'cantabile': 


which  as  it  unfolds  itself  becomes  increasingly  chromatic.  A  re 
statement  of  Ex.  i,  echoed  by  the  other  strings  in  octaves,  leads 
to  the  onset  of  continuous  triplet  motion  and  still  another,  more 
wide-ranging  theme  from  the  viola: 

""-      i  -rffTf-nftrrffiFff 


This  is  in  turn  taken  up  by  the  other  strings  in  octaves — while 
the  viola  keeps  triplet  motion  going.  The  climax  to  which  all 
this  leads  is  crowned  by  the  abandonment  of  octaves  and  the 
substitution  of  four  different  rhythms  for  a  few  bars  which  lead 
into  the  section  dominated  by  Ex.  9.  It  may  be  observed  that  the 
four  fiats  in  the  signature  of  Ex.  i  and  all  the  first  part  of  the 
Scherzo  proclaim  F  minor  but  in  feet  produce  a  very  flat  form  of 
G  minor.  Now  that  we  come  to  the  trio  (if  trio  it  is)  we  have  G 
minor  in  name  as  well  as  practice.  This  section  however  is  short 
(fourteen  bars)  and  is  linked  by  a  short  cadenza  for  the  viola  to  a 
recapitulation  of  Exx.  i  and  9.  As  in  the  other  movements  this 
recapitulation  is  much  condensed  and  is  content  to  recall  the 
principal  themes  with  the  merest  hint  of  Exx.  10  and  1 1.  The  last 
few  bars,  coda  if  you  like  but  very  organic  with  the  rest  of  the 
movement,  are  but  an  expansion  in  diminution  of  the  viola's 
cadenza. 

Epilogue 

The  short  epilogue  has  a  subtitle  'From  Joan  to  Jean',  Joan  being 
Joan  of  Arc.  The  opening  tune  (Ex.  12)  had  at  one  time  been 


2l8  LEONETTO    CIPRIANI 

assaliti  a  pugni;  alcuni  furono  disarmati,  altri  scapparono  e  scap- 
pando  seminarono  le  uniform!  e  le  armi.  -  Arrive  alia  fortezza  sano 
e  salvo,  senz'aver  provato  ombra  di  emozione. 

Fu  un  tratto  di  coraggio  che  si  puo  raccontare,  ed  in  Livorno 
Pho  sentito  raccontare  io  stesso  con  ammirazione.  Ma  per  lui  non 
era  nulla,  perche  impassibile  nei  piu  grandi  pericoli,  acquistava  in 
essi  una  lucidita  d'intelletto  che  ne  faceva  un  uomo  eccezionale. 
Ho  sempre  pensato  che  se  si  fossero  presentate  le  circostanze,  sa- 
rebbe  diventato  gran  generale.  Non  si  presentarono,  e  rimase  quello 
che  era,  commiserando  le  riputazioni  militari  usurpate  che  furono 
la  vergogna  dei  nostri  eserciti. 

Chiusa  la  fortezza,  si  occupo  a  metterla  al  sicuro  da  un  colpo  di 
mano,  disponendo  diversi  cannoni  verso  la  via  della  Darsena  ed  il 
borgo  dei  Cappuccini. 

Dovendo  poi  render  conto  delPawenuto  al  ministero,  scrisse  un 
dispaccio  confidenziale  e  lo  consegno  ad  un  carabiniere  vestito  in 
borghese,  con  un  biglietto  per  la  stazione  di  Pisa  che  lo  mandasse 
per  treno  espresso  a  Firenze.  Ma  il  soldato  invece  di  prendere  lungo 
le  mura,  come  gli  aveva  ordinato,  attraverso  la  citta.  Fu  ricono- 
sciuto,  fermato  -  e  il  dispaccio  portato  al  Petracchi  che  lo  lesse  e  lo 
strappo  senza  dir  nulla  a  nessuno,  forse  per  riconoscenza  dei  cin- 
quanta  zecchini  che  gli  aveva  regalati,  o  piu  probabilmente  per  non 
intimidire  il  popolo-re,  che  si  preparava  a  grandi  imprese  e  al  sac- 
cheggio.  -  In  quel  dispaccio  chiedeva  di  essere  autorizzato  a  bom- 
bar  dare  Livorno. 

Distese  allora  un  lungo  rapporto,  e  il  console  americano  Binda* 
s'incarico  di  portarlo  a  Firenze. 

II  giorno,  il  popolo,  come  se  aspettasse  il  bombardamento,  ve- 
niva  sotto  le  mura  e  gridava  ai  cannonieri  «siam  tutti  fratelli- 
non  fate  fuoco». 

Verso  sera  fece  un  giro  pel  forte,  e  trovo  il  servizio  mal  fatto. 
Alia  troniera  poi  che  guarda  la  darsena  c'era  una  scala  appoggiata 
dal  di  fuori,  dalla  quale  avevano  disertato  tutti  i  cannonieri;  e  il 
cannone  che  aveva  ordinato  di  caricare  a  mitraglia  era  scarico. 

Fece  chiamare  il  capitano  Ulacco  e  gli  disse :  —  Lei  e  il  respon- 
sabile  -  dove  sono  i  cannonieri  di  questo  pezzo,  dov'e  la  carica  a 


i.  «  Giuseppe  Binda,  lucchese,  visse  lungamente  in  Inghilterra  e  poi  negli 
Stati  Uniti,  dei  quali  fa  console  a  Livorno  dal  1841  al  i86i»  (Mordini). 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  219 

mitraglia  ?  —  Quel  vile,  insolente  come  tutti  i  vili,  rispose :  —  O  sa 
lei  un  po'  come  Te?  Noi  non  ci  vogliamo  far  assassinate  per  lei. 
Siamo  padri  di  famiglia! 

—  Mi  esca  davanti  e  si  costituisca  prigioniero  —  e  siccome  1'altro 
voile  replicare :  —  Escimi  davanti,  o  ti  butto  dalla  troniera.  —  Fuggi 
e  non  lo  vide  piu. 

Nella  notte,  vedendo  di  non  potersi  fidar  di  nessuno,  per  non 
esser  sorpreso  -  non  per  lui  ma  per  la  responsabilita  che  gli  pe- 
sava  addosso  -  monto  esso  stesso  la  guardia  andando  dalPuna  al- 
Faltra  delle  troniere  che  guardano  la  strada. 

II  giorno  dopo  riceve  la  visita  del  Codrington,1  comandante  della 
fregata  inglese  Thetis,  che  gli  offri  Pospitalita  sulla  sua  nave  nel 
caso  che  si  decidesse  a  ritirarsi.  Ricuso  per  il  momento,  e  parlando 
con  lui  gli  disse  la  condotta  che  avevan  tenute  le  truppe  toscane. 
Ed  il  Codrington,  che  era  gia  stato  informato  di  tutto  dal  console 
inglese  Mac  Bean,2  deplorando  che  un  uomo  di  cuore  avesse  do- 
vuto  contare  su  tali  soldati,  aggiunse :  —  Ce  ne  sont  pas  des  soldats, 
ce  sont  des  moutons  plus  laches  que  les  moutons. 

Nulla  essendo  possibile  con  quella  truppa  che  si  ricusava  a  tutto, 
dovette  abbandonare  qualunque  idea  di  sottomettere  la  citta. 

Proponendo  poi  il  bombardamento,  egli  aveva  inteso  di  buttare 
qualche  bornba  per  svegliare  gl'interessi  materiali,  e  far  nascere 
un  po'  di  vigor  e  nelle  anime  intimidite  dei  negozianti  e  dei  proprie- 
tari,  il  che  poteva  forse  essere  un  mezzo  potente  per  riprendere 
Poflfensiva.  Nelle  guerre  civili  Pelemento  militare  e  ben  presto  de- 
moralizzato,  ma  se  e  appoggiato  e  coadiuvato  da  quello  civile  ar- 
mato,  si  ritempra  e  non  cede. 

Ma  mancandogli  le  braccia,  e  non  potendo  da  se  solo  far  tutto, 
decise  la  ritirata  -  la  truppa  partendo  la  notte  dal  lazzaretto 
San  Rocco  per  la  via  Maremmana,  e  lui  coi  carabinieri  per  mare 
fino  alia  spiaggia  del  Gombo. 

II  colonnello  Reghini,  desiderando  salvare  per  quanto  era  possi 
bile  Fonore  delPuniforme,  perche  se  fra  i  soldati  i  piu  si  eran  con- 


i.  « Enrico  Giovanni  Codrington  (1808-1877),  contrammiraglio  nel  1857, 
ammiraglio  nel  1877,  era  figlio  deirarnmiraglio  Codrington,  comandante 
la  flotta  anglo-franco-russa  a  Navarino,  e  fratello  del  generale  Codrington, 
successo  al  Simpson  nel  comando  dell'esercito  inglese  in  Crimea  »  (Mor- 
dini).  2.  «Alessandro  Mac  Bean,  console  inglese  a  Livorno  dal  1843  fino 
al  27  febbraio  1883,  giorno  della  sua  morte  a  Roma»  (Mordini). 


220  LEONETTO    CIPRIANI 

dotti  vilmente,  qualcheduno  ve  n'era  che  aveva  fatto  e  si  sentiva 
il  coraggio  di  fare  il  suo  dovere,  propose  di  riunire  in  consiglio  di 
guerra  tutti  gli  ufficiali  e  domandar  loro  se  eran  pronti  ad  ubbidire 
ai  suoi  ordini  e  a  riprendere  Poffensiva. 

Al  sicuro  nella  fortezza  risposero  tutti  di  si  (e  potevano  giurarlo, 
perche  sapevano  che  i  soldati  non  li  avrebbero  seguiti.  Fu  una  vera 
commedia,  alia  quale  Leonetto  non  prese  parte,  tanta  era  la  ripu- 
gnanza  che  gPispiravano).  Ed  affinche  rimanesse  traccia  del  loro 
valor  e  alia  posterita,  vollero  tutti  firmare  apposita  dichiarazione. 

Quando  il  Reghini  gliela  presento,  sorrise  e  gli  disse:—  Sarei 
tentato  di  dirgli  che  mi  seguano  tutti  in  citta! 

—  Non  lo  faccia,  —  rispose  il  Reghini  —  non  ci  vien  nessuno. 
II  giorno  dopo,  prevenuto  il  Codrington,  una  lancia  inglese  lo 

condusse  a  bordo  della  fregata. 

Arrivato  a  bordo,  fece  chiamare  il  capitano  Bargagli1  comandante 
il  vapore  da  guerra  toscano  il  Giglio,  ed  in  presenza  del  Codrington 
gli  ordino  di  accendere  i  fuochi,  di  mettersi  a  traverso  della  fre 
gata  e  ricevere  i  carabinieri  per  condurli  con  lui  e  il  suo  stato  mag- 
giore  al  Gombo.  Ma  il  Bargagli  spaventato  rispose  che  i  marinai 
avrebbero  ricusato,  che  le  barche  che  stavano  sempre  intorno  al  va 
pore  ne  avrebbero  dato  awiso  in  citta  ed  egli  si  esponeva  ad  essere 
maltrattato ;  e  che  del  resto  egli  non  dipendeva  da  tuo  padre,  ma 
dal  ministero  di  guerra  e  marina. 

Leonetto  lo  squadro  da  capo  a  piedi,  e  gli  disse:  —  Scriva  subito 
al  suo  primo  ufficiale  di  accendere  i  fuochi  e  di  venire  per  banda  alia 
fregata. 

-  Ma  ... 

—  Scriva,  le  dico! 

II  Bargagli  si  rivolse  al  Codrington,  e  gli  chiese:  —  Cosa  ne  pensa, 
comandante  ?— II  Codrington  lungo  lungo  abbassava  la  testa  e 
sembrava  riflettere,  e  il  Bargagli,  con  quella  imperdonabile  legge- 
rezza  e  quel  poco  tatto  toscano  che  da  sui  nervi,  gli  domando  dac- 
capo :  —  Ma  dunque  cosa  ne  pensa  ? 

II  Codrington,  con  i  denti  stretti,  e  alzando  solo  le  palpebre  senza 
cambiare  la  posizione  di  uomo  che  pensa  a  testa  bassa,  e  scolpendo 
le  parole  ad  una  ad  una  rispose:  —  Lorsque  -  on  -  me  -  demande  - 
mon  -  opinion  -  je  -  reflechis  -  avant  -  de  -  la  -  donner.  —  Ab- 

i.  « Carlo  Bargagli,  capitano  di  fregata,  nato  a  Siena  nel  1803,  morto  nel 
1858  a  Livorno  dove  fu  a  lungo  capitano  del  porto»  (Mordini). 


AVVENTURE    DELLA   MIA   VITA  221 

basso  di  nuovo  gli  occhi,  e  rialzandoli  disse:  —  A  -  votre  -  place  - 
je  -  signer ais. 

E  il  Bargagli  firm6.  E  dopo  si  dirigeva  verso  la  scala,  ma  tuo  pa 
dre  all'orecchio  gli  disse:  —  Mi  aspetti  qui.  —  Non  sapeva  dove  dar 
colla  testa:  —  Oh!  e  vero  -  dimenticavo  -  che  testa!  -  scusi  Ec- 
cellenza. 

£  questo  il  fare  dei  vili.  Orgoglio  ed  insolenza  finche  non  incon- 
trano  chi  li  fa  stare  umili  e  striscianti.  -  Schifosi! 

II  Codrington  dette  a  bassa  voce  un  ordine  a  un  ufficiale,  e  due 
lancioni  furono  calati  in  mare  e  si  diressero  tra  il  Giglio  e  la  bocca 
del  porto.  E  tuo  padre,  che  passeggiava  sul  ponte,  capi  che  era  una 
manovra  per  prevenire  il  caso  che  il  vapore,  una  volta  pronto,  ten- 
tasse  di  entrare  diritto  nel  porto.  -  Ma  cosi  non  fu;  il  secondo1 
era  un  isolano  di  poche  parole  ma  di  molti  fatti,  e  il  Giglio  arrivo 
per  traverso  alia  Thetis. 

II  comandante  inglese  mando  otto  lance  a  caricare  i  carabinieri. 
Quando  furono  sul  Giglio,  Leonetto  si  congedo  dal  Codrington. 
Non  lo  ringrazio  -  una  semplice  stretta  di  mano  basto  perche  si 
capissero. 

Sali  sul  Giglio.  La  mattina  sbarcarono  al  Gombo  e  la  sera  erano  a 
Pisa.  Tuo  padre  parti  per  Firenze  ed  ebbe  una  prima  conferenza 
col  Capponi,  che  si  mostro  soddisfatto  del  suo  operato,  deplorando 
che  per  ragioni  indipendenti  da  lui  non  fosse  riuscito.  Cosi  pure  si 
espressero  gli  altri  ministri  ed  in  ispecial  modo  il  Belluomini,  mi- 
nistro  della  guerra. 

La  stampa  di  opposizione,  e  piu  ancora  quella  che  gia  si  atteg- 
giava  a  repubblicana,  si  scatenarono  contro  di  lui.  Se  si  fossero  sca- 
tenate  soltanto  perche  aveva  fatto  il  suo  dovere,  le  avrebbe  lasciate 
abbaiare,  ma  non  poteva  permettere  che  mentissero,  travisando  i 
fatti.  Scrisse  una  relazione  sui  fatti  di  Livorno  e,  dopo  aver  rice- 
vuto  1'approvazione  del  Capponi,  la  fece  stampare  a  mille  copie.2 


i.il  secondo:  il  secondo  ufficiale  del  Giglio  y  cui  era  diretto  Fordine. 
2.  Scrisse .  .  .  mille  copie:  «Narrazione  dei  fatti  che  si  riferiscono  alia  mia 
missions  come  Commissario  straordinario  nella  citta  di  Livorno,  Firenze, 
Lemonnier,  1848.  -  Una  lettera  del  Cipriani  al  principe  Girolamo  sui  fatti 
di  Livorno  venne  pubblicata  nella  ri vista  "II  Risorgimento  italiano", 
1912,  vi,  p.  894.-  Interessanti  poi  in  proposito,  e  poco  conosciuti,  sono  i 
rapporti  ufficiali  del  Codrington  inseriti  nel  Blue  book  sugli  affari  d' Italia 
dal  luglio  al  dicembre  1848,  presentato  nel  1849  al  parlamento  inglese » 
(Mordini). 


222  LEONETTO    CIPRIANI 

I  card  arrabbiati,  non  potendo  piu  mordere,  si  chetarono.  E 
Leonetto  lascio  Firenze  e  raggiunse  la  madre  nella  villa  di  Montalto. 


DA  LE  HAVRE  A  NUOVA  YORK1 

I  vapori  che  traversano  1'oceano  sono  citta  ambulanti  che  hanno 
per  monumenti  da  ammirarsi  le  potenti  macchine,  per  passeggiate 
i  lunghi  corridoi  e  il  ponte,  per  le  riunioni  gli  eleganti  saloni,  e  per 
gli  alloggi  le  cabine,  che  in  lingua  povera  sono  armadi  a  due  o  tre 
palchi,  dove  il  passeggere  e  costretto  a  passare  la  notte,  fortunate 
quando  il  mal  di  mare  non  ve  lo  tiene  inchiodato  anche  il  giorno. 

Ma  a  tutto  si  fa  1'abitudine.  Per  poco  che  in  quei  viaggi  s'incontri 
buona  compagnia,  specialmente  riguardo  al  bel  sesso,  la  vita  in  co- 
mune  diventa  non  solo  sopportabile,  ma  spesso  piacevole,  ed  il 
giorno  dell'arrivo  non  e  sempre  un  giorno  di  gioia. 

II  primo  giorno  ognuno  si  squadra  da  capo  a  piedi  per  giudicare 
dalla  fisonomia,  dai  modi,  dall'abito,  a  qual  paese  ed  a  qual  classe 
appartiene.  Arriva  Fora  dei  pasti  -  e  il  primo  scalino  delle  cono- 
scenze,  e  non  solo  coi  vicini,  perche  la  conversazione  si  fa  generale, 
e  all'alzarsi  continuando  nel  salone  o  sul  ponte  le  conversazioni  gia 
cominciate,  i  viaggiatori,  senza  intenzione  e  senza  saper  perche,  si 
trovano  riuniti  in  gruppi  a  ridere  ed  a  scherzare.  E  il  secondo  o 
terzo  giorno  ognuno  si  trova  nel  suo  centro,  anche  i  piu  riservati, 
e  cio  che  si  chiarna  intimita  di  viaggio  e  un  fatto  compiuto. 

In  quel  viaggio  poi  le  donne  essendo  in  maggioranza  anglosas- 
soni  di  sangue  e  di  costumi,  ed  abituate  a  viaggiare  sole,  s'incon- 
trano  molte  belle  mogli  senza  il  marito,  e  ragazze  adorabili  che 
vanno  a  prenderlo,  accompagnate  soltanto  dalla  loro  innocenza. 
La  liberta  completa  produce  affiatamento,  e  da  questo  nascono 
spesso  relazioni  improwise,  che  si  precipitano  al  fine  a  causa  della 
vita  in  comune  da  mattina  a  sera,  e  forse  anche  del  viaggio  lirnitato 
e  del  tempo  misurato  che  fanno  mettere  in  pratica  il  proverbio:  il 
tempo  perso  non  si  ritrova  piu. 

Tuo  padre  mi  raccontava  che  in  una  traversata,  avendo  avuto 
brevi  ma  intimi  rapport!  con  una  giovine  inglese  che  andava  a 
Boston  a  sposarvi  un  cugino,  ricco  negoziante,  le  chiese  poco  prima 
di  sbarcare  a  quale  locanda  volesse  andare.  Lei,fredda  come  se  non 
i.  Ed.  cit.,  vol.  u,  cap.  xxv,  pp.  53-8. 


AVVENTURE   BELLA   MIA   VITA  223 

Pavesse  mai  conosciuta,  rispose:  —  Perche  mi  fate  questa  do- 
manda? 

—  Per  accompagnarvi. 

—  Oh  no!  dove  vado  io  non  potete  andar  voi. 
-Perche? 

—  Perche  da  questo  momento  non  vi  conosco  piu,  e  se  v'incon- 
trassi  in  societa,  sareste  per  me  uno  sconosciuto. 

Tuo  padre  la  prese  per  un  polso,  la  fece  sedere  sopra  una  panca, 
e  le  disse:—  Spiegatemi,  vi  prego,  questo  modo  di  agire  dopo  i 
rapporti  che  abbiamo  avuti  insieme. 

—  Oh!  e  molto  facile,  ed  a  voi  che  mi  avete  fatto  passare  qualche 
bel  momento  voglio  dare  una  lezione  che  vi  serva  in  casi  simili. 
Per  noi  donne  inglesi  ed  americane  le  intimita  come  la  vostra  son 
come  la  sete  del  viaggiatore  che  trova  una  sorgente ;  si  leva  la  sete, 
le  volta  le  spalle  e  non  ci  pensa  piu. 

Ed  e  proprio  vero  quel  loro  modo  di  fare  e  di  sentire.  In  un  viag- 
gio  da  San  Francisco  a  NuovaYork  Leonetto  conobbe  una  bella 
americana  in  gran  lutto,  vedova  da  pochi  mesi.  II  terzo  giorno  erano 
strettamente  legati,  e  lo  furono  fino  a  Nuova  York.  Li  essa  spari, 
e  non  la  vide  piu. 

Dieci  anni  dopo  si  trov6  con  lei  sullo  stesso  vapore  da  Nuova 
York  a  Liverpool.  L'accosto  e  le  stese  la  mano  chiamandola  per 
nome;  lei  si  scanso,  come  se  le  avesse  detto  una  grossa  insolenza. 
Tuo  padre  non  si  sgoment6,  e  profittando  di  una  tempesta  in  cui 
pote  esserle  utile,  riusci  presto  ad  ammansirla  come  un  agnello. 
Ma  non  voile  mai  convenire  che  era  la  stessa  di  dieci  anni  prima  - 
tanto  era  vera  la  massima  della  bella  inglese:  sorgente  che  mi  hai 
dissetato,  non  ti  conosco  piu. 

Sul  Vapore  Arago,  sul  quale  era  imbarcato1  Leonetto,  vi  era  fra 
le  altre  una  donna  elegante,  giovine  e  bella,  dai  movimenti  riso- 
luti,  accompagnata  da  un  uomo  di  mezza  eta,  che  si  vedeva  bene 
non  esserle  ne"  padre  ne  marito  ne  protettore.  Era  la  celebre 
Lola  Montes,2  accompagnata  da  un  impresario  che  la  conduceva  a 
Nuava  York  per  speculare,  piu  che  sul  suo  modesto  talento,  sulla 
curiosita  del  pubblico  americano,  avido  di  vedere  una  donna  che 

i.  era  imbarcato:  il  Cipriani  si  era  imbarcato  a  Le  Havre  il  19  novem- 
bre  1851  insieme  a  Giorgio  Magnani  e  ad  un  servo.  Era,  questo,  il  suo  terzo 
viaggio  in  America.  2.  «  Lola  Montes  (1820-1861),  ballerina  e  awenturiera 
irlandese,  favorita  del  re  Luigi  I  di  Baviera,  che  fu  costretto  a  scacciarla 
in  seguito  ad  una  sommossa  popolare  »  (Mordini). 


224  LEONETTO    CIPRIANI 

aveva  fatto  tanto  parlare  di  se  alia  corte  di  Baviera.  Ma,  saputo  chi 
era,  Leonetto  Pevito  come  si  evita  nei  campi  1'ortica. 

Vi  era  pure  una  celebrita  europea,  il  celebre  dittatore  Kossuth1 
accompagnato  da  uno  state  maggiore  di  profughi  ungheresi,  e  dal 
Lemmi2  di  Livorno,  intimo  amico  del  Mazzini,  che  lo  aveva  pro- 
babilmente  messo  a  lato  del  dittatore  nel  tentative  che  il  triumvi- 
rato  repubblicano  di  Londra,  Kossuth,  Mazzini  e  Ledru-Rollin3 
voile  fare  sulla  borsa  americana.  Senza  dubbio  il  Lemmi,  che  co- 
nosceva  benissimo  Leonetto,  lo  addito  ai  compagni  come  uno  degli 
anti-repubblicani  piu  accaniti  della  recente  rivoluzione  italiana, 
ragione  per  cui  lo  evitarono  come  la  peste. 

A  pranzo  Leonetto  si  trovo  accanto,ad  una  signora  che  era  alia 
diritta  del  capitano  e  per  la  quale  il  medesimo  aveva  riguardi  spe- 
ciali.  Quella  buona  vecchia  malinconica  lo  interesso  ed  il  terzo 
giorno  era  diventato  il  suo  cavalier  servente,  e  non  vi  era  piccola 
attenzione  che  non  le  prodigasse.  Era  la  signora  Franklin,  e  fino 
aH'arrivo  Leonetto  crede  che  fosse  una  delle  tante  Franklin  delFIn- 
ghilterra.  Ma  all'arrivo  a  Nuova  York  seppe  daU'amico  Pastacaldi4 
che  era  lady  Franklin,  la  vedova  del  celebre  esploratore.5 

Questo  piccolo  episodic  prova  fino  alia  evidenza  che  cosa  siano 
le  intimita  che  si  contraggono  sui  vapori.  Credete  aver  fatto  la 
conoscenza  di  una  signora  per  bene  -  ed  era  una  donna  pubblica; 
di  un  Catone  -  ed  era  un  falsario,  se  non  un  galeotto  liberato. 

La  maggioranza  dei  viaggiatori  in  quella  traversata  era,  come  ac- 
cade  generalmente  nei  viaggi  da  Le  Havre  in  America,  di  commessi 
viaggiatori  francesi,  di  negozianti  americani  e  di  americani  della 
Nuova  Orleans  di  origine  francese.  Se  i  primi  sono  sfacciati  e  ru- 
morosi,  lo  sono  maggiormente  gli  ultimi,  ed  i  mercanti  americani 
mettendosi  al  diapason,  la  traversata  diventa  un  baccanale  conti 
nue,  tanto  piu  che  si  conoscono  quasi  tutti,  sia  per  i  loro  rapporti 
economici,  sia  per  incontrarsi  ogni  anno  sugli  stessi  vapori. 


i.  (cLuigi  Kossuth  (1802-1894),  dittatore  dell'Ungheria  dall'aprile  al- 
Pagosto  1849))  (Mordini).  2.  «Adriano  Lemmi  (1822-1906),  patriotta  ed 
uomo  d>affari,  gran  maestro  della  massoneria»  (Mordini).  3.  «Alessan- 
dro  Ledru-Rollin  (1807-1874),  uno  dei  capi  dell'estrema  sinistra  francese 
durante  la  seconda  repubblica,  esiliato  dopo  il  2  dicembre»  (Mordini). 
4. « Michele  Pastacaldi,  livornese  stabilito  a  Nuova  York,  amico  intimo  del 
Cipriani,  morto  nel  i862»  (Mordini).  5.  celebre  esploratore:  « Giovanni 
Franklin  (1786-1847),  ammiraglio  inglese,  inviato  alia  ricerca  del  passaggio 
del  Nord-Ovest,  rimase  coi  compagni  vittima  dei  ghiacci  polari »  (Mordini). 


AVVENTURE    DELLA    MIA    VITA  225 

Un  vlaggiatore  che  come  tuo  padre  si  trova  per  la  prima  volta 
in  quella  torre  di  Babele,  ne  rimane  stordito,  e  come  il  micio  si  rag- 
gomitola  su  se  stesso  credendo  di  non  essere  veduto.  Ma  e  impossi- 
bile  difendersi  da  relazioni,  sia  pure  momentanee  e  senza  conse- 
guenze.  Quattro  pasti  al  giorno,  dei  quali  uno  solo  con  posto  asse- 
gnato,  e  il  poter  fumare  soltanto  in  una  stanza  determinata,  fanno 
si  che  per  amore  o  per  forza  bisogna  barattare  qualche  parola  con  la 
gioconda  brigata.  E  siccome  quelli  che  la  compongono  hanno  buon 
naso  e  san  distinguere  i  ricchi  ed  i  signori,  sono  per  essi  ossequiosis- 
simi;  ma  mentre  i  francesi  ed  i  creoli  si  dan  per  quel  che  sono, 
gli  americani  con  Pabito,  con  le  forme,  con  i  modi  studiati,  fan  di 
tutto  per  farsi  credere  quel  che  non  sono. 

In  quella  turba  Leonetto  osservo  un  omaccione  panciuto  ben 
piantato,  con  un  faccione  da  imperatore  romano,  con  belle  mani  e  bei 
piedi,  e  sempre  in  giubba.  -  Sembrera  strano  a  molti  che  tuo  padre 
osservasse  la  mano  o  il  piede  del  primo  venuto.  Ma  la  mano  essendo 
quasi  sempre  la  spia  della  condizione  sociale  e  della  professione 
delle  persone,  e  la  prima  cosa  che  un  osservatore  guarda.  Nelle 
donne  poi  quello  che  risveglia  spesso  rimmaginazione  dell'uomo 
e,  piu  che  una  bella  testa,  una  bella  mano  e  soprattutto  un  bel  pie- 
dino  ben  calzato.  E  Tabitudme  fa  si  che  anche  squadrando  un 
uomo  gli  occhi  si  fermano  sopra  i  piedi. 

Quell'americano  dunque  aveva  bei  piedi,  ma  quel  che  colpi  di 
piu  tuo  padre  fu  il  vedergli  cambiare  scarp  e  tre  o  quattro  volte  al 
giorno,  e  qualche  volta  parlando  con  altri  farsele  ammirare  e  discu- 
terne  il  prezzo.  -  Era  conosciuto  da  tutto  Pequipaggio.  I  came- 
rieri  per  lui  volavano  -  il  maitre  d'hotel  non  gli  ricusava  mai  nulla. 
Se  qualcuno  si  lamentava,  era  lui  che  ne  esponeva  le  lagnanze;  per 
le  signore  tutte  indistintamente  era  poi  in  moto  continue ,  e  sem 
pre  e  con  tutti  aveva  modi  distinti  e  decorosi.  Si  chiamava  Mr.  By 
ron,  e  anche  il  nome  sotto  cui  si  pavoneggiava  contribuiva  a  farlo 
osservare. 

Arrivato  a  Nuova  York,  Mr.  Byron  si  awicino  a  tuo  padre  e  gli 
dette  un  biglietto.  Credendo  lo  facesse  per  eccesso  di  cortesia, 
Leonetto  tiro  fuori  il  portafoglio,  e  gli  dette  il  suo.  Poi  lesse  il  bi- 
glietto:  «Mr.  John  Byron  -  Shoemaker ».  Era  un  calzolaio! 

Tra  le  donne  vi  era  poi  un  gruppo  interessante,  un  donnone 
di  forme  maschili  con  due  belle  ragazzine  bionde  che  sembravano 
sorelle.  Eran  sempre  insieme  e  non  parlavano  mai  con  nessuno. 


226  LEONETTO    CIPRIANI 

Le  ragazzine  eran  sempre  vestite  elegantemente,  ma  modesta- 
mente,  coi  bei  riccioli  sciolti.  La  virago  sempre  in  nero  col  capo 
coperto  da  quella  cuffia,  che  usano  in  campagna  le  americane  della 
classe  agricola,  e  che  somiglia  molto  a  quella  delle  nostre  monache; 
un  gran  par  d'occhialoni  turchini  e  imbacuccata  in  una  sciarpa, 
dimodoche  nessuno  avrebbe  potuto  riconoscerla.  Le  ragazzine  la 
trattavano  come  se  fosse  stata  la  loro  madre.  Leonetto  le  sorprese 
spesso  a  legger  con  lei  la  Bibbia;  e  la  domenica  le  vide  assistere 
compunte  aU'ufHzio  divino. 

Al  momento  delParrivo,  poco  dopo  la  mistificazione  del  calzolaio, 
la  virago  in  gran  toilette,  con  un  cappellone  a  penne  e  le  due  ragazze 
una  a  dritta  e  1'altra  a  sinistra,  si  awicino  a  Leonetto,  ed  ex  abrupto, 
voltando  la  testa  a  dritta  ed  a  sinistra,  gli  dice :  —  Miss  Kate  -  Miss 
Peg—  gli  pianta  in  mano  un  biglietto  e  gli  volta  le  spalle. 

Leonetto  stordito  si  volta  a  Pastacaldi  e  lo  vede  reggersi  la  pan- 
cia  dalle  risa.  Mistificato  piu  che  mai,  guarda  il  biglietto,  e  legge 
«  Madame  Helena  Washington  -  Pension  de  demoiselles  -  via  tale, 
numero  tale». 

Cosa  fossero  lei  e  loro  e  facile  a  capirsi.  I  commessi  viaggiatori 
americani  vanno  in  Francia  e  in  Inghilterra  a  raccogliere  campioni 
per  invogliare  i  compratori  paesani.  Le  commesse  viaggiatrici  ame 
ricane  vanno  in  Inghilterra  a  prowedersi  esse  stesse  della  mercan- 
zia  che  alimenta  il  loro  commercio,  e  purche  sia  bella  e  fresca,  la 
pagano  a  caro  prezzo  ai  genitori  bisognosi  che  la  vendono,  e  la  con- 
segnano  ad  una  virago  che  per  pudore  e  presentata  come  una  ricca 
zia  vedova  senza  figli  che  desidera  adottare  le  piu  belle  ragazze 
della  famiglia  per  maritarle  in  America. 

L'uomo  che  viaggia  per  dire  che  ha  viaggiato,  senza  rendersi 
conto  di  cio  che  ha  veduto,  e  un  baule  che  torna  come  e  partito. 
I  viaggi  debbono  essere  uno  studio  continuo  di  osservazione  delle 
cose  e  degli  uomini;  ed  e  cosi  che  dai  viaggi  si  ritrae  un  insegna- 
mento  utile  a  se  stesso,  e,  per  quelli  che  son  destinati  alia  vita  pub- 
blica,  utile  alia  generalita,  poiche  si  giovano  delle  osservazioni  fatte 
e  dell'esperienza  acquistata. 

£  per  questa  ragione  che  tuo  padre  si  lascia  trascorrere  di  quando 
in  quando  a  raccontare  impressioni  ed  episodi  che  al  primo  aspetto 
possono  sembrare  intempestivi,  ma  che  in  realta,  dando  un'idea 
severa  ma  imparziale  di  carattere  e  di  costumi,  potranno  interes- 
sare  te  ed  altri,  se  questi  racconti  vedranno  la  luce. 


AVVENTURE  DELLA  MIA  VITA  22y 


DA  NUOVA  YORK  A  CHAGRES1 

Una  volta  arrivato  a  Nuova  York,  le  informazioni  avute  dal  Pasta- 
caldi  e  da  altri  sulla  California  furono  maravigliose  per  il  favoloso 
movirnento  di  affari,  e  per  la  sua  inesauribile  ricchezza  minerale, 
ma  spaventose  per  il  costo  della  vita.  Questo  fece  si  che  tuo  padre  si 
trattenesse  a  Nuova  York  piu  di  quello  che  aveva  progettato,  per 
dar  tempo  alia  Distruzione2  di  arrivare,  e  con  quella  aver  subito  a 
San  Francisco  alloggio  e  personale  pronti.  Finalmente  nel  gen- 
naio  1852  parti  sul  vapore  Georgia  per  Pistmo  di  Panama. 

Benche  nei  due  anni  da  che  era  stata  scoperta  la  ricchezza  aurife- 
ra  della  California,  vi  avessero  emigrato  dalla  sola  America  duecen- 
tomila  persone,  pure  1'afHuenza  di  coloro  che  vi  si  recavano  era 
sempre  grande,  ed  era  rara  la  traversata  dove  non  vi  fossero  a  bordo 
piu  di  mille  passeggeri,  i  due  terzi  dei  quali  di  terza  classe. 

II  Georgia  era  un  vapore  di  quattromila  tonnellate,  ma  per 
grande  che  fosse,  non  era  facile  trasportare  millecinquecento  pas 
seggeri,  sia  pure  stretti  come  sardine,  e  le  prowiste  necessarie  per 
un  viaggio  di  ventiquattro  giorni  tra  1'andata  e  il  ritorno.  E  il 
momento  dell'imbarco  fu  qualcosa  da  far  scappare  uno  che  non 
fosse  determinate  ad  andare  avanti  ad  ogrd  costo. 

Per  quante  precauzioni  fossero  prese  per  evitare  ingombro  e 
disordine,  Pingombro  e  il  disordine  erano  al  sommo  grado.  Dal 
ponte  quattro  passatoi3  erano  appoggiati  allo  scalo,  uno  per  classe 
e  1'ultimo  pei  bagagli.  Ad  ognuno  stavan  di  guardia  due  robusti 
marinai,  che  lasciavan  passare  solo  chi  ne  aveva  il  diritto  e  caccia- 
vano  via  gli  altri  a  spintoni  da  farli  traballare.  Per  evitare  d'ingom- 
brare  il  vapore,  non  era  permesso  portar  con  se  che  una  piccola 
valigia,  e  bauli,  casse  e  sacchi  venivan  buttati  nella  stiva  come  balle 
di  fieno,  e  se  andavano  in  pezzi,  peggio  per  chi  non  era  stato  pre- 
venuto  del  modo  brutale,  ma  forse  il  solo  possibile,  d'imbarcare 
se  e  la  sua  roba. 

Ma  lo  spettacolo  piu  drammatico  era  al  passatoio  della  terza 

i.  Ed.  cit.,  vol.  n,  cap.  xxvi,  pp.  59-64.  2.  Distrusione:  il  piroscafo  sul 
quale  si  erano  imbarcati  a  Geneva  tre  compagni  del  Cipriani,  che  parteci- 
pavano  a  questa  sua  spedizione  in  America.  Avrebbero  portato,  tra  Taltro 
bagaglio,  una  casa  in  legno  precostruita  e  smontata  in  milleduecento  pezzi, 
ricomponibili  con  settecento  grappe  e  ventiseimila  viti.  Questa  costruzione 
era  stata  ideata  dal  Cipriani.  3.  passatoi:  passerelle. 


228  LEONETTO    CIPRIANI 

classe,  dove  oltre  ai  marinai  vi  era  una  dozzina  di  agenti  di  polizia 
pronti  ad  intervenire.  Arrivavano  quelle  turbe  di  uomini,  donne  e 
ragazzi,  stracciati,  scamiciati,  i  piu  briachi.  Se  avevano  in  mano  il 
loro  biglietto,  una  spinta,  e  salivano  -  se  lo  cercavano  in  tasca, 
una  spinta ,  e  fuori  per  dar  posto  agli  altri  -  se  qualcuno  voleva 
accompagnare  sul  vapore  un  parente,  un  amico,  una  spinta,  e  via. 
E  mentre  passeggeri,  amici,  parenti  e  curiosi  gridavan  tutti  come 
energumeni,  i  marinai  avevan  la  bocca  murata.  Le  loro  parole  erano 
spinte,  nulPaltro  che  spinte;  ed  anche  per  il  bagaglio  di  troppo, 
non  dicevano  neanche  « lasciatelo »,  perche  il  dirlo  portava  alia 
discussione,  ma  lo  strappavan  di  mano  e  lo  buttavano  via. 

La  partenza  era  fissata  per  le  undici  di  mattina.  Un  quarto  d'ora 
prima  sona  la  campana  e  fischia  il  vapore  -  e  Tawiso  di  sgombrare 
il  bordo  per  chi  non  parte.  Allora  si  che  la  confusione  prende  pro- 
porzioni  inverosimili!  Gli  uni  si  affrettano  a  scendere,  mentre  i 
passeggeri  arrivati  in  ritardo  temendo  non  essere  in  tempo,  si 
precipitano  per  salire,  formando  cosi  nei  passatoi  due  correnti  op- 
poste  che  si  urtano  e  si  spingono,  e  le  donne  spesso  anche  belle  e 
ricche  gridano  scapigliate  come  furie  infernali.  Un  ultimo  fischio  - 
la  macchina  comincia  a  mettersi  in  moto  -  si  ritirano  i  passatoi  -  e 
finalmente  il  gigantesco  cetaceo  si  allontana  lentamente  tra  le  grida 
universali,  mentre  quelli  che  non  sono  arrivati  a  tempo  rimangono 
con  un  naso  lungo  come  quello  del  Paganini.1 

Intanto  i  camerieri,  meno  bestiali  dei  marinai,  accompagnano  i 
viaggiatori  alle  loro  celle  e  danno  loro  le  indicazioni  necessarie. 
Ognuno,  data  un'occhiata  a  quelle  catacombe  e  deposta  la  sua  roba, 
sale  sul  ponte.  Spariscono  a  poco  a  poco  le  rive  del  flume2  che  si  al- 
larga  alia  foce,  e  un  moto  ondulatorio  annunzia  che  dal  regno  delle 
acque  dolci  si  entra  in  quello  delle  acque  salse.  Quando  il  mare  e 
calmo,  la  differenza  e  poco  sensibile,  ma  quando  e  grosso,  in  un 
batter  d'occhio  la  meta  dei  passeggeri  sparisce  ingolfandosi  nei 
corridoi,  ognuno  cercando  in  fretta  la  sua  cabina  per  buttarsi  sul 
letto. 

Ma  1'arrivarci,  per  quelli  che  hanno  le  cuccette  superiori,  e  un'im- 
presa  tutt'altro  che  facile.  E  col  mal  di  mare,  guai  per  chi  sta  sotto. 
6  vero  pero  che  nei  mal  comune  raramente  ci  son  dispute.  Ognuno 
si  difende  come  pu6  dalle  innaffiature  sgradite  -  ma  ognuno  ca- 

i.  Paganini:  vedi  la  nota  2  a  p.  1 60.     2.  le  rive  delfiume:  il  fiume  Hudson 
o  North  River,  sulle  cui  rive  sorge  New  York. 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  22Q 

pisce  che  cio  che  segue  e  forza  maggiore,  contro  la  quale  non  si  puo 
resistere;  e  il  torpore  poi  prodotto  dal  mal  di  mare  neutralizza  la 
collera  piu  feroce.  £  difficile  poi  che  uno  non  soffra,  perche  in 
tutti  i  vapori  si  respira  piu  o  meno  un'aria  viziata  che  rivolta  lo  sto- 
maco,  e  quando  vi  si  aggiunge  il  puzzo  di  vomito,  meno  male  an- 
cora  nell'inverno,  ma  nell' estate  e  qualcosa  da  levar  di  corpo  le 
budella. 

Come  ti  ho  detto,  tuo  padre  era  accompagnato  da  Giorgio  Ma- 
gnani1  e  da  un  servitore.  Avevano  avuto  per  loro  una  cabina  in- 
tera,  pagando  solo  due  posti  e  mezzo  (1250  scudi),  col  patto  che  il 
servitore  dormisse  con  loro  e  mangiasse  coi  servi. 

Leonetto  ha  sofferto  terribilmente  del  mal  di  mare  fino  ad  una 
certa  eta.  Ma  dopo  i  trentacinque  anni,  sia  Pabitudine,  sia  un'altra 
ragione,  non  soffriva  piii  che  nelle  grandi  tempeste,  e  solo  come  sof- 
frono  molti  marinari  di  professione,  cioe  potendo  far  tutto  quello 
che  vogliono. 

Non  cosi  il  Magnani,  che  dal  primo  momento  divento  un  sacco 
di  stracci.  Con  gran  difficolta  Leonetto  riusci  a  strascinare  quel 
voluminoso  corpaccio  nella  cabina  e  a  rotolarlo  nella  cuccetta  piu 
bassa,  dove  fece  di  tutto  per  tre  giorni  senza  che  fosse  possibile 
smuoverlo.  II  terzo  giorno,  il  mare  essendo  calmo,  lo  spoglio  but- 
tando  in  mare  tutti  i  suoi  vestiti,  lo  condusse  al  bagno  e  di  la  sul 
ponte,  mentre  i  camerieri  portavan  via  materasse,  lenzuoli  e  coper- 
te  divenuti  un  monte  di  sugo,  e  ripulivano  e  fumigavano  la  cabina. 

Intanto  Leonetto  aveva  fatto  amicizia  col  capitano  del  vapore,  il 
signor  Porter,  tenente  nella  marina  americana,  che  simpatizzando 
con  lui  anche  per  1'odio  comune  contro  1' Austria,  lo  colmo  di 
cortesie,  mettendolo  a  tavola  alia  sua  diritta  e  offrendogli  il  libero 
accesso  nella  sua  cabina  sul  ponte,  eccezione  invidiata  da  tutti. 

II  quinto  giorno  arrivarono  all'Avana,  porto  e  capitale  dell'isola 
di  Cuba,  ove  dovevano  fare  scalo  per  rinnovare  le  prowiste  di  car- 
bone  e  di  acqua. 

i.  Giorgio  Magnani. . . servitore:  in  un  capitolo  precedente  delle  Avventure 
(vol.  n,  cap.  xxm,  p.  43)  si  dice  di  lui  che  era  « ricco  e  giovine  scapestrato 
al  quale  tuo  padre  s'interesso  per  cercare  di  fame  qualcosa,  lontano  dalle 
occasioni  che  gli  facevano  sciupare  gioventu  e  fortuna ».  A  p.  67  del  volume 
II,  in  nota,  il  Mordini  informa  che  «  Giorgio  Magnani,  di  Agostino  e  di  Ca 
milla  Lucchesini,  nato  a  Pescia  il  20  luglio  1826*,  rnori  «a  Firenze  il  4 
agosto  1879,  dopo  aver  dissipato  in  bagordi  e  stravizi  il  vistosissimo  patri- 
monio  ereditato  dal  padre ».  II  servo  che  accompagnava  il  Cipriani  si 
chiamava  Gostxx 


230  LEONETTO    CIPRIANI 

Leonetto  aveva  per  il  governatore  Pepe  Concha1  una  lettera  di 
raccomandazione  del  suo  intimo  amico  Gomez.2  Gliela  mando,  e 
un'ora  dopo  riceve  un  gentile  invito  di  scendere  a  palazzo. 

I  tre  fratelli  Concha  alia  caduta  di  Maria  Cristina3  erano  stati 
esiliati  e  si  erano  rifugiati  in  Toscana,  raccomandati  a  Giuseppe 
Gomez,  gia  stabilito  in  Livorno  da  dieci  anni.  Da  lui  Leonetto  li 
aveva  conosciuti,  e  simpatizzando  molto  col  generale  Pepe,4  nel- 
Tmverno  del  1843  lo  condusse  a  passare  due  mesi  a  caccia  nella  sua 
tenuta  in  Maremma.  Otto  anni  dopo,  ritrovandolo  capitano  gene- 
rale  all'Avana,  e  facile  capire  come  il  generale  fosse  lieto  di  ricam- 
biargli  le  gentilezze  avute  quando  era  emigrate.  Lo  accolse  con  tutti 
gli  onori,  e  per  due  giorni  non  furono  die  pranzi  e  feste. 

II  resto  del  viaggio  fino  a  Chagres  fu  una  deliziosa  passeggiata, 
tanto  piu  che  durante  la  traversata  Leonetto  aveva  fatto  diverse 
conoscenze. 

Fra  queste  vi  era  una  ricchissima  famiglia  americana,  composta 
dei  genitori  e  di  un'unica  figlia  di  venti  anni,  bellissima  di  viso, 
ma  somigliante  per  le  forme  ad  una  corpulenta  baccante  di  Rubens. 
Era  istruitissima,  ma  essendo  erede  di  una  immensa  fortuna,  aveva 
avuto  una  pessima  direzione  morale;  era  oltremodo  superba,  e 
guardava  dall'alto  dei  suoi  milioni  il  resto  del  genere  umano,  come 
Giove  guardava  i  miseri  mortali ;  e  malgrado  il  desiderio  dei  geni 
tori,  non  aveva  trovato  ancora  chi  credesse  degno  di  essere  suo  ma- 
rito,  ideale  che  nelle  lunghe  conversazioni  avute  con  tuo  padre 
descriveva  da  capo  a  piedi  cosi  al  fisico  che  al  morale,  con  una  li- 
berta  di  pensiero  e  di  espressione  che  mal  si  addiceva  a  giovane 
donna. 

Venti  anni  fa  Leonetto  era  sempre  giovine  e  bell'uomo.  Le  cor- 
tesie  usategli  dal  capitano  Porter  e  piu  dal  Governatore,  fecero 
nascere  in  lei  il  desiderio  di  conoscerlo  piu  da  vicino  -  e  qual  fu 

i.  Pepe  Concha:  «I1  generale  Giuseppe  (Beppe)  della  Concha,  marchese 
delTAvana  (1812-1895),  fu  governatore  di  Cuba  dal  1849  al  1852,  dal  1854 
al  1856  e  dal  1872  al  1875,  ambasciatore  a  Parigi,  ministro  e  presidente 
del  Senato.  Suo  fratello  primogenito,  il  generale  Emanuele,  marchese  del 
Duero  (1808-1874),  fu  ucciso  alia  battaglia  di  Muro,  ove  comandava  Teser- 
cito  opposto  ai  carlisti»  (Mordini).  2. « Giuseppe  Valeriano  Gomez,  con 
sole  generale  di  Spagna  a  Genova  dal  1849  al  1855,  morto  a  Nizza  nel  mar- 
zo  i86o»  (Mordini).  3.  alia  caduta  di  Maria  Cristina:  Maria  Cristina  di 
Borbone  (1829-1878),  moglie  di  Ferdinando  VII  re  di  Spagna,  alia  cui 
morte  (1833)  divenne  reggente  del  trono  per  la  figlia  Isabella.  Fu  cacciata 
dal  regno  nel  1854.  4.  II  generale  Pepe  Concha,  di  cui  alia  nota  i. 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  231 

la  sua  sorpresa,  mentre  era  dal  Concha,  di  ricevere  dalla  bella  Giu- 
none  un  biglietto,  nel  quale  lo  invitava  a  passare  tre  mesi  in  campa- 
gna  con  lei!  Capi  finalmente  trattarsi  di  una  commedia  che  spesso 
finisce  con  un  matrimonio  o  con  delle  bastonate,  come  nelle  nozze 
di  Pulcinella.  Chiese  consigHo  al  generale,  e  questo  gli  rispose  laco- 
nicamente:  —  Mejor  es  que  Usted  vaya  a  ahogarse.1 

Segui  il  consiglio.  -  Dodici  anni  dopo,  andando  da  Le  Havre 
a  Nuova  York,  vide  nel  vapore  una  donna  enorme  che  sembrava 
avere  sessant'anni.  Gli  parve  di  riconoscerla,  ma  non  riusciva  a  ri- 
cordarsi  chi  fosse,  e  le  informazioni  poco  lusinghiere  avute  sul 
suo  conto  non  gli  diedero  nessuna  indicazione  in  proposito, 

Diversi  giorni  dopo  si  accorse  che  quella  foca  terrestre  lo  guar- 
dava  fisso.  Si  senti  venir  freddo,  e  in  un  lampo  riconobbe  la  gio- 
vine  americana  che  aveva  conosciuta  sul  Georgia.  Lei  gli  si  awi- 
cino  e  con  molta  sfrontatezza  gli  disse :  —  Non  siete  voi  un  italiano 
che  ho  conosciuto  molti  anni  fa  andando  all'Avana? 

—  Si  -  ed  ora  riconosco  voi  pure. 

Con  un  crescendo  di  sfrontatezza  gli  prese  le  mani  e  stringendo- 
gliele  forte  esclamo :  —  Oh!  mon  cher  ami,  que  je  suis  heureuse  de 
vous  rencontrer!  Quel  malheur  que  vous  nous  ayez  quittes  a  la 
Havane! 

E  si  mise  a  piangere.  Leonetto  le  chiese  le  nuove  dei  suoi  geni- 
tori.  —  Ils-sont  morts  a  temps.  -  Mais  je  vous  raconterai  mon  hi- 
stoire  a  terre  -  ici  il  y  a  trop  de  monde.  A  quel  hotel  descendez- 
vous? 

—  Au  New  York  hotel. 

—  C'est  bien,  j'y  descendrai  aussi.  Oh!  mon  cher  ami,  que  je  suis 
heureuse  de  vous  avoir  rencontre!  C'est  peut-etre  la  Providence  qui 
vous  a  dirige  vers  moi! 

Leonetto  non  capiva  nulla  a  quelle  tenerezze.  Ma  la  sua  fisono- 
mia  di  donna  consunta  dal  vizio,  la  sua  esaltazione,  e  le  informa 
zioni  avute  gli  davano  un  senso  di  ribrezzo. 

Arrivati  a  Nuova  York  venne  come  al  solito  a  prenderlo  a  bordo 
Pamico  Pastacaldi,  che  accortosi  della  conoscenza,  gli  disse:  — 
Ma  che  conosci  quel  demonio? 

Leonetto  gli  racconto  tutto,  e  gli  chiese  informazioni.  E  il  Pasta 
caldi  rispose :  —  La  voce  pubblica  1'accusa  di  avere  assassinato  tre 
mariti.  Per  il  primo  a  forza  di  denaro  la  cosa  fu  abbuiata  all' Avana. 
i . « £  meglio  che  Lei  vada  ad  affogarsi. » 


232  LEONETTO    CIPRIANI 

Per  il  secondo  fu  processata,  ma  assolta  per  mancanza  di  prove. 
II  terzo  marito  e  sparito  e  non  si  e  mai  potuto  sapere  quel  che  ne  sia 
stato.  E  quel  che  e  peggio,  e  anche  sospettata  d'infanticidio.  Era 
poi  ricchissima,  ed  ora  e  ridotta  a  vivere  di  stoccate.  Dammi  retta, 
vieni  da  me  e  domani  parti  subito  per  Baltimora. 

E  cosi  fu  fatto. 

L'esperienza  insegna  molto,  ma  non  insegna  mai  abbastanza. 
£  tristo  il  dirlo,  ma  e  pur  vero  e  necessario,  diffidare,  diffidare 
sempre  di  tutto  e  di  tutti  e  il  solo  modo  di  difendersi  da  tutto  e  da 
tutti. 

Un  altro  episodio  curioso  successo  in  quel  viaggio  e  il  seguente. 
Vi  erano  a  bordo  tre  signore,  due  di  una  certa  eta,  e  una  giovanis- 
sima,  di  quindici  anni  al  piu  con  i  capelli  sulle  spalle.  Erano  belle, 
distinte,  e  modeste  -  gli  avresti  dato  la  comunione  senza  confes- 
sione.  Nessuno  le  conosceva. 

Una  sera,  dopo  PAvana,  mentre  prendeva  il  fresco  sul  ponte, 
Leonetto  se  ne  trovo  una  accanto.  Le  cadde  il  fazzoletto,  glielo 
raccolse,  ed  essa  gli  disse:  —  Merci. 

—  Vous  parlez  fran9ais  ? 

—  Oui,  Monsieur,  mon  pere  est  fran9ais. 

—  Vous  allez  en  Calif ornie  ? 

—  Oui,  Monsieur. 

—  Et  les  dames  qui  sont  avec  vous  aussi? 

—  Oui,  Monsieur.  Monsieur  est  fran9ais? 

—  Non,  je  suis  italien,  et  je  vais  en  Californie  comme  consul  de 
Sardaigne.1 

—  J'en  suis  charmee.  Vous  aurez  pour  collegues  mon  mari  qui 
est  consul  de  Suisse,  et  le  mari  de  mon  amie  qui  est  consul  de 
Prusse. 

La  conoscenza  era  fatta.  Le  mogli  dei  collegia  son  colleghe,  e  in 
pochi  giorni  furono  intimi,  intimita  pero  riservata,  e  con  tutte  le 
forme  del  piu  gran  rispetto.  -  Seguitando  il  viaggio  sapremo  cosa 
fossero  le  consolesse. 


i.  comme  consul  de  Sardaigne:  nel  capitolo  xxin  delle  Avventure  (vol.  n, 
p.  38)  e  narrate  che  per  desiderio  di  Massimo  d'Azeglio  il  Cipriani  aveva 
accettato  la  nomina  a  console  sardo  in  California.  II  decreto  di  nomina  fu 
fatto  in  data  10  settembre  1850,  come  annota  il  Mordini. 


AVVENTURE   BELLA   MIA   VITA  233 


DA  CHAGRES  A  PANAMA  E  SAN  FRANCISCO1 

Sbarcato  a  Chagres,  piccola  citta  della  Repubblica  di  Granada2 
airimboccatura  del  fiume  omonimo,  Leonetto  ando  subito  a  ve- 
dere  quali  erano  i  mezzi  di  trasporto  per  risalire  il  fiume.  Non  c'era 
che  un  cattivo  vapore  che  doveva  rimorchiare  delle  chiatte  senza 
tende,  con  quanti  passeggeri  potevano  contenere,  messi  su  pancac- 
ce  in  fila,  come  nelle  chiese,  e  stretti  come  sardine. 

Ne  rimase  spaventato.  Torno  al  villaggio  -  e  mentre  stava  con- 
trattando  con  dei  mori  abitanti  del  luogo,  che  gli  offrivano  di  tra- 
sportarlo  in  una  buona  piroga  ma  chiedendo  un  prezzo  esagerato, 
gli  si  awicino  un  uomo  di  fisonomia  simpatica,  evidentemente  eu- 
ropeo,  che  sentendo  il  Magnani  parlare  italiano,  esclamo :  —  Ma 
loro  sono  italiani? 

—  Sissignore. 

—  Vanno  in  California  ? 

—  Sissignore. 

—  Mi  fa  grazia  del  suo  nome  ? 

—  Sono  il  colonnello  Cipriani,  console  sardo  in  California. 

—  Son  piemontese  anch'io.  Abbia  la  compiacenza  di  venire  a 
casa  mia. 

La  sua  casa,  in  confronto  delle  misere  capanne  che  la  circonda- 
vano,  era  una  reggia.  Era  un  quadrato  a  terreno  in  legno,  circondato 
da  balconi,  e  in  mezzo  ad  un  gran  giardino  di  aranci  e  palme,  con 
un  gran  magazzino,  una  spezieria,  camera  e  salotto  decenti  e 
comodi. 

L'italiano  prowidenza  di  Chagres  era  il  dottor  Donalisio,  di 
Alessandria,  che  cumulava  in  quel  paese  le  profession!  di  nego- 
ziante,  medico,  chirurgo  e  speziale.  In  un'ora  fece  allestire  un  ec- 
cellente  pranzo,  con  buoni  vini  e  squisita  cioccolata;  e  quando  Leo 
netto  lo  prego  di  trovargli  una  buona  piroga  per  rimontare  il  fiume, 
rispose  come  se  fosse  una  cosa  naturale :  —  6  tutto  pronto,  e  domat- 
tina  allo  spuntar  del  giorno  partiranno.  La  piroga  e  mia;  ai  quattro 
mori  arrivati  a  Cruces  dara  dieci  scudi  a  ciascuno.  Ecco  una  lettera 

i.  Ed.  cit.,  vol.  n,  cap.  xxvii,  pp.  65-71.  2.  Repubblica  di  Granada:  No 
va  Granada,  o  Repubblica  di  Colombia.  La  citta  di  Chagres,  o  Chargres, 
alVimboccatura  del  fiume  omonimo,  dal  1 903  entro  a  far  parte  della  Repub 
blica  di  Panama.  Questa  parte  del  viaggio  del  Cipriani  si  svolge  nella  zona 
dove  fu  poi  aperto  il  canale  di  Panama. 


234  LEONETTO    CIPRIANI 

per  il  mio  corrispondente  di  Cruces,  che  le  dara  le  mule  per  prose- 
guire  fino  a  Panama.  II  prezzo  e  fissato  dieci  scudi  Tuna.  A  Pa 
nama  e  probabile  che  non  si  fermino,  ma  nel  caso  eccole  un'altra 
lettera  per  il  padrone  della  locanda  La  Pace.  6  piemontese,  amico 
mio,  e  fara  per  lei  tutto  quello  che  le  puo  occorrere. 

Fra  gl'incarichi  dati  a  Leonetto  dal  governo  piemontese  vi  era 
quello  di  nominare  prowisoriamente  degli  agenti  consolari  ove  lo 
avesse  creduto  utile  agl'interessi  nazionali.  Essendovi  gia  alcuni 
italiani  a  Chagres,  e  piu  a  Panama  e  nei  dintorni,  la  prima  nomina 
fu  quella  del  Donalisio,  che  in  seguito  fu  promosso  al  grado  di  con 
sole  generale,  e  decorato. 

La  mattina  dopo  si  misero  in  viaggio,  inalberando  alia  poppa 
della  grande  e  comoda  piroga  la  bandiera  italiana,  la  prima  che  sven- 
tolasse  sulPistmo  di  Panama. 

Erano  sedici  anni  che  Leonetto  mancava  dalP  America,  e  quan- 
tunque  avesse  sempre  presente  la  prodigiosa  vegetazione  del  tro- 
pico,  le  sponde  del  flume  e  il  canto  e  la  varieta  degli  uccelli  lo  en- 
tusiasmarono,  rammentandogli  gli  anni  felici  della  prima  gioventu 
passata  alle  Antille.1 

La  processione  delle  chiatte  con  un  migliaio  e  piu  di  passeggeri 
era  partita  la  sera  innanzi,  ma  le  acque  essendo  basse  in  quella  sta- 
gione,  ora  il  rimorchiatore,  ora  una  delle  chiatte  che  serpeggiando 
lo  seguivano,  faceva  fondo,  dimodoche  tutta  la  notte  e  il  giorno  dopo 
fu  un  battagliare  continue  andando  avanti  a  spinte.  Questo  fece  si 
che  verso  le  due  pomeridiane  Leonetto  incontro  quelPinfelice  con- 
voglio  arenato,  con  tutti  i  passeggeri  sbarcati,  per  permettere  alia 
flottiglia  alleggerita  di  passare  le  secche,  mentre  la  bella  piroga 
bene  armata  e  ben  diretta  risaliva  facilmente  il  flume.  Leonetto 
che  capiva  come  il  confronto  doveva  irritare  quei  disgraziati,  ordino 
di  far  forza  di  remi  per  lasciarli  indietro.  Quando  ad  un  tratto  si 
senti  chiamare:  —  Colonel!  colonel!  — ,  si  volto,  e  vide  sulla  riva  le 
due  consolesse  e  la  giovinetta  che  passava  per  nipote  di  quella  di 
Prussia,  che  gli  dissero:  —  Si  muor  di  fame  -  avete  nulla  da  darci  ? 

Approdo  -  le  fece  entrare  nella  piroga  -  e  mentre  divoravano,  da 
un  gruppo  di  americani  di  terza  classe  che  si  erano  fermati  a  guar- 
darli,  si  alzo  una  voce  che  chiamava—  Joan,  Joan!  —  A  quel  nome 

i.  gli  anni .  .  .  Antille:  il  Cipriani,  nel  suo  primo  viaggio  in  America,  dal 
1831  al  1834,  era  stato  nelle  Antille,  dove,  a  Trinita,  il  padre  aveva  forti 
interessi  commercial!. 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  235 

Leonetto  vide  la  consolessa  di  Prussia  che  alzava  la  testa,  ma  un 
feroce  sguardo  di  quella  di  Svizzera  gliela  fece  subito  abbassare. 

L'americano  continue  a  chiamare—  Joan,  Joan !  —  e  poiche  nessu- 
no  rispondeva,  prese  una  manata  di  ghiaia  e  la  scagH6  sulla  piroga. 

L'insulto  era  grave  e  intollerabile  per  tutti;  ma  quello  che  phi 
feri  Tamor  proprio  di  Leonetto  fu  Pinsulto  alia  bandiera.  Aveva  un 
fucile  sotto  la  mano,  si  alzo,  lo  imbraccio  —  ma  la  consolessa  sviz- 
zera,  pronta  quanto  lui,  con  un  rovescio  di  sotto,  alzo  le  canne  e  il 
colpo  parti  in  aria. 

Leonetto  ordino  subito  ai  marinai  di  far  forza  di  remi  per  arri- 
vare  alPaltra  sponda,  prevedendo  un  assalto  di  quei  cannibali. 
Ma  invece  per  fortuna  prevalse  la  ragione,  e  i  compagni  presero 
a  pugni  Timprudente  che  aveva  lanciato  la  ghiaia,  gridando :  — 
£  briaco  -  scusate,  scusate! 

In  quelPepoca  Leonetto  conosceva  poco  il  carattere  americano; 
ma  dopo  la  lunga  esperienza  acquistata  in  quindici  anni  di  rapporti 
avuticonloro,  diceva:—  Se  fossi  stato  per  essi  uno  sconosciuto,  sarei 
stato  massacrato,  avessi  avuto  pure  mille  ragioni.  Cio  che  mi  salvo 
furono  i  precedent!  -  il  capitano  Porter1  e  il  capitano  generale  di 
Cuba.2 

Riportate  le  tre  signore  sulla  sponda  destra,  seguito  ii  suo  viaggio. 
Non  essendo  possibile  navigare  la  notte  in  quel  flume  a  causa  degli 
scogli  e  dei  rapidi,  scelse  un  bel  sito  deserto,  ove  fu  piantato  il  bi- 
vacco,  e  fatta  un'eccellente  cena  colle  prowiste  avute  dal  Donalisio. 

Dopo  cena  Leonetto  chiamo  in  disparte  Giorgio  Magnani.  fe 
necessario  dir  tutto  in  una  volta  cosa  fosse  quest'individuo,  e  come 
si  conducesse  durante  il  viaggio,  anticipando,  per  lui  soltanto,  il  se 
guito  per  non  parlarne  piu. 

Ricchissimo,  e  col  padre  morto  poco  dopo  la  sua  nascita,  era 
stato  educato  dalla  madre,  che  debole  ed  imbevuta  della  falsa  mas- 
sima  che  la  ricchezza  e  tutto  in  questo  mondo,  ne  aveva  fatto  un 
asino,  orgoglioso,  insolente,  crudele  con  i  sottoposti  e  per  conse- 
guenza  vile  con  quelli  che  la  sua  baldanza  non  intimidiva.  Come  mai 
Leonetto  si  fosse  appiccicato  un  essere  cosi  disprezzabile,  e  stato 
detto3  -  ma  fu  soltanto  durante  il  viaggio  che  ebbe  la  certezza  di 
quel  che  fosse  realmente. 

Passando  sopra  alle  stravaganze  ed  alia  vita  scandalosa  di  lui  a 

i.  il  capitano  Porter:  vedi  p.  229.  2.  il  capitano  . . .  Cuba:  cioe,  Pepe  Con 
cha;  vedi  la  nota  i  a  p.  230.  3.  come . . .  stato  detto:  vedi  la  nota  a  p.  229. 


236  LEONETTO    CIPRIANI 

Parigi,  a  Londra  ed  a  Nuova  York,  vi  era  sul  Georgia  fra  i  passeg- 
geri  un  giovine  inglese,  giocatore,  scialacquatore,  briacone,  che 
si  era  fatto  scacciare  da  tutti  i  collegi  e  dalla  marina  per  i  suoi 
cattivi  istinti  e  le  sue  perverse  abitudini.  II  padre  come  ultimo  tenta 
tive  gli  faceva  fare  un  viaggio  di  diversi  anni,  accompagnato  da  un 
vecchio  precettore.  Avevano  visitato  tutti  gli  Stati  Uniti  e  si  erano 
incontrati  sul  Georgia  per  recarsi  nelle  repubbliche  del  Sud.  La 
mala  erba  fa  presto  amicizia.  Giorgio  ed  il  giovine  inglese  si  annu- 
sarono,  e  furono  presto  intimi,  passando  il  loro  tempo  a  bere  ed  a 
giuocare.  Leonetto  trovando  diverse  volte  il  Magnani  briaco,  lo 
ammoni  prima  dolcemente  e  poi  sever amente,  minacciandolo  di 
scrivere  in  Italia  la  sua  vergognosa  condotta,  sola  minaccia  che 
faceva  su  di  lui  un  qualche  effetto. 

Una  sera  il  vecchio  precettore,  col  quale  tuo  padre  passava  vo- 
lentieri  qualche  momento,  perche  era  un  uomo  distinto  ed  istruito, 
gli  disser  —  II  Magnani  mi  ha  incaricato  dirvi  che  non  intende 
star  piu  con  voi,  e  vi  manda  questa  lettera  perche  gli  restituiate  le 
sue  lettere  di  credito  ed  il  suo  passaporto.  Arrivati  a  Panama,  con- 
tinuera  il  viaggio  con  noi. 

Leonetto  freddamente  rispose :  —  Voi  siete  il  mentore  pagato  del 
vostro  allievo  -  io  lo  sono  volontario  del  giovine  Magnani.  -  Che 
cosa  direste  se  fossi  stato  incaricato  dal  primo  di  dire  a  voi  quello 
che  voi  dite  a  me  ? 

Un  francese,  un  italiano,  uno  spagnuolo,  si  sarebbero  ofTesi  di 
questa  lezione  severa,  benche  data  con  termini  cortesi,  e  probabil- 
mente  gli  avrebbero  risposto  senza  riflettere.  Ma  gli  anglosassoni 
hanno  sulla  razza  latina  la  gran  superiorita  del  sangue  freddo  e  della 
riflessione.  II  vecchio  inglese  abbasso  la  testa,  stette  un  poco  a  pen- 
sare,  e  disse  come  parlando  a  se  stesso:  —  I  am  stupid!  —  E  poi, 
rivolgendosi  a  Leonetto  in  cattivo  francese :  —  Je  vo  demande  par 
don  -je  etre  stupide-vo  avoir  raison!1 

Leonetto  ando  in  cerca  del  Magnani.  Lo  trovo  nella  cabina  del- 
Pinglese  che  giocavano  a  carte  accanto  ad  una  bottiglia  di  rum 
ammezzata. 

Con  un  to  no  da  intimidire  ben  altri  che  quel  pecorone,  gli  chiese : 
—  Sei  tu  che  hai  scritto  questa  lettera  ? 

—  Si  -  gua  -  scusa  -  credevo  .  .  . 

i.  La  frase  rispecchia  le  sgrammaticature  di  uno  straniero. 


AVVENTURE   DELLA   MIA    VITA  237 

—  Vieni  subito  nella  nostra  cabina. 

—  O  se  volessi  star  qui? 

Per  risposta  lo  prese  per  un  braccio,  gli  fece  fare  mezzo  giro  e  con 
una  manata  se  lo  spinse  innanzi.  Intanto  Tinglese,  ben  lontano  dal 
prendere  le  sue  parti,  vedutolo  cosi  disfatto,  dette  in  una  gran  ri- 
sata,  e  duro  a  ridere  finche  lo  vide  fra  gli  artigli  di  Leonetto. 

Arrivati  nella  cabina,  lo  mando  con  una  spinta  sul  sofa,  e  la  chiuse 
a  chiave.  Informo  poi  di  tutto  il  capitano,  che  approvo,  e  disse: 
—  Se  fa  il  cattivo,  minacciatelo  di  metterlo  ai  ferri.  Intanto  pre- 
verro  i  camerieri  che  non  entrino  a  far  la  cabina  senza  avvisarvi. 

Per  due  giorni  stette  zitto  e  cheto.  Ma  la  sera,  mentre  Leonetto 
era  a  pranzo,  fu  awertito  che  urlava  e  cercava  di  sfondare  la  porta. 

Ando,  apri,  ed  ordino  al  cameriere:  —  Andate  dal  capitano,  e  di- 
tegli  da  parte  mia  che  mandi  il  custode  della  prigione  per  mettere 
ai  ferri  il  signore. 

Impallidire  -  buttarsi  in  ginocchio  -  e  stringer  e  le  gambe  di 
Leonetto  chiedendogli  scusa,  fu  tutt'uno.  E  Leonetto,  che  non  vo- 
leva  dawero  essere  con  lui  rigoroso  e  crudele,  gli  disse,  come  si  dice 
ai  ragazzi:  —  Se  sarai  buono  io  saro  buono  con  te.  -  Alzati,  vestiti 
e  vieni  a  pranzo.  Ma  rammentatelo  bene  -  guai  se  mi  fai  la  se- 
conda. 

La  lezione  fece  il  suo  effetto,  e  per  diversi  giorni  non  diede  piu 
motivo  a  lagnanze,  occupandosi  anche  con  zelo,  allo  sbarco  a  Cha- 
gres,  delle  molte  cosarelle  che  in  viaggio  bisogna  far  da  se. 

Rimontando  il  flume,  tuo  padre  cercava  di  svegliare  la  sua  intelli- 
genza  e  la  sua  immaginazione  facendogli  ammirare  la  vegetazione, 
insegnandogli  i  nomi  delle  piante  e  degli  uccelli,  e  raccontandogli 
i  suoi  primi  viaggi  ed  il  profitto  ricavatone.  Ascoltava,  ma  si  vedeva 
bene  che  era  fiato  sprecato.-  Intelligenza  apatica,  e  d'istinti  bestiali, 
non  sentiva  e  non  sapeva  altro  che  quello  che  solleticava  material- 
mente  il  suo  corpaccio. 

Al  momento  in  cui  fu  lanciato  il  pugno  di  ghiaia  sulla  piroga, 
vi  erano  a  poppa  tre  fucili  carichi,  e  mentre  tuo  padre  dava  di  mano 
ad  uno  ed  il  servitore  faceva  altrettanto,  sapete  cosa  faceva  il  Ma- 
gnani?  Si  sdraio  lungo  disteso  sulla  piroga,  e  quando  si  alzo,  lui 
sempre  rubicondo,  era  pallido  come  un  morto.  E  la  signora  sviz- 
zera  che  aveva  la  lingua  lunga,  esclamo :  —  Voila  un  defenseur  de  la 
patrie! 

Leonetto  non  disse  nulla,  ma  ne  rimase  stomacato,  e  si  riservo 


238  LEONETTO    CIPRIANI 

di  farglielo  sentire  in  un  altro  momenta.  II  momenta  era  arrivato  - 
e  nel  silenzio  della  notte  in  quel  sito  deserto  gli  disse :  —  A  bordo 
della  Georgia  hai  voluto  fare  il  gradasso  credendo  trovare  appoggio 
in  uno  straniero.  Sulla  piroga  hai  provato  che  sei  un  vigliacco. 
Ne  convieni? 

—  Si,  ne  convengo  -  ho  avuto  paura.  Sono  un  porcone. 

Per  il  resto  del  viaggio  sino  a  San  Francisco  non  ci  fu  nulla  da 
dire.  Ma  dopo  pochi  giorni  dalParrivo,  poiche  spendeva  piu  di 
quello  che  poteva,  e  tuo  padre,  come  doveva,  lo  teneva  a  corto  di 
denari,  fini  col  mettersi  sotto  la  protezione  -  ve  lo  do  a  indovinare 
in  mille  -  del  console  austriaco!  -  E  tuo  padre,  stanco  di  avere  in- 
torno  a  se  uno  che  non  aveva  ombra  di  onore  ne  di  pudore,  lo  ab- 
bandono  alia  malora  e  non  lo  vide  piu. 

Passata  una  fresca  notte  al  bivacco,  partirono  la  mattina  e  verso 
mezzogiorno  arrivarono  a  Cruces.  Ripartirono  subito  a  cavallo  per 
Panama,  viaggiando  tutta  la  notte,  e  vi  giunsero  all'alba,  scendendo 
alia  locanda  indicata  dal  Donalisio. 

II  giorno  dopo  arrivarono  i  primi  passeggeri,  e  loro  pure  scesero 
alia  locanda  aspettando  gli  altri  ed  il  convoglio  dei  bagagli  e  delle 
mercanzie  che  non  potevano  esservi  prima  deirindomani. 

Nelle  ore  calde,  mentre  Leonetto  stava  facendo  la  siesta,  senti 
delle  grandi  risate  nella  stanza  accanto.  Annoiato  si  alzo,  ed  awi- 
cinandosi  alia  porta  chiusa  che  metteva  in  comunicazione  le  due 
camere,  conobbe  le  voci  delle  consolesse,  e  grida  ed  espressioni 
tutt' altro  che  di  consolesse. 

Mise  Pocchio  ai  buco  della  chiave  e  vide  le  tre,  scapigliate  e  nude 
come  pesci  sullo  stesso  letto,  che  correvano  una  dietro  1'altra  a 
quattro  zampe,  ridendo  e  bestemmiando  come  usseri  briachi.  Capi 
allora  tutto.  -  Le  consolesse  erano  due  famose  cortigiane  di  Nuova 
York,  che  andavano  a  portare  in  California  Telemento  che  piu  vi 
mancava. 

II  resto  del  viaggio  fu  piacevolissimo,  grazie  alia  raccomanda- 
zione  del  Porter  per  il  capitano  del  Golden  Gate,  che  era  uno  dei 
rari  americani  che  possano  chiamarsi  gentiluomini. 

Arrivati  a  San  Francisco,  era  gia  notte  quando  scesero  a  terra, 
ed  il  capitano  consiglio  Leonetto  a  pernottare  sul  vapore.  Ma  la  gran 
curiosita  di  vedere  la  citta  lo  invoglio  a  far  prima  una  passeggiata 
accompagnato  da  una  guida. 

Passando  davanti  a  una  trattoria,  che  aveva  fra  le  altre  cose  molta 


AVVENTURE   DELLA   MIA    VITA  239 

selvaggina  del  paese,  tra  cui  cervo  e  orso,  furono  tentati  di  festeg- 
giare  il  felice  arrive  con  delle  costolette  d'orso. 

Entrarono  -  era  un  gran  salone  con  piu  di  cento  tavolini  - 
presero  posto  (erano  quattro:  Leonetto,  Magnani,  la  guida  e  il 
servo). 

II  filetto  d'orso  al  Madera  era  squisito  -  i  fagiani  dell' Oregon1 
deliziosi  -  i  vini  di  Francia  e  una  bottiglia  di  champagne  prelibati. 
II  conto  -  sessanta  dollari! 

Leonetto  pago.  Ma  Dio  sa  le  riflessioni  che  fece  tornando  a  bordo 
-  e  nella  notte  svoltolandosi  nel  duro  letto  pensava  ai  sessanta 
scudi,  e  almanaccava  sul  modo  di  vivere  in  quella  voragine  senza 
rovinarsi  in  otto  giorni. 

L'ARRIVO  A  SAN  FRANCISCO 
LA  CALIFORNIA2 

La  mattina  dopo  Leonetto  ando  in  giro  per  la  citta  cercando  una 
locanda  ove  potesse  stare  al  coperto  e  mangiare  con  spesa  relativa- 
mente  sopportabile. 

Nelle  locande  americane  1'alloggio  col  vitto  costava  trenta  scudi 
al  giorno,  e  quindici  per  il  servo.  Fuggi  come  da  un  appestato,  e  si 
fece  condurre  ad  una  locanda  italiana,  indicatagli  dal  cocchiere, 
tenuta  da  un  certo  Martin  di  origine  genovese. 

II  proverbio  dice  che  un  genovese  e  un  ebreo  con  dieci  pelli  di 
giudeo.  Ma,  rifletteva  Leonetto,  «  annunziandomi  come  il  console 
generale  di  Sardegna,  il  Martin  ci  pensera  bene  prima  di  scorticar- 
mi,  perche  potrebbe  temere  di  cadere  un  giorno  nelle  mie  mani  e 
che  io  gli  facessi  altrettanto  -  e  del  resto  potra  anche  credermi  ge 
novese,  e  i  lupi  non  si  mangiano  fra  di  loro  ». 

Per6  Leonetto  confessava  poi  che  in  tutti  i  rapporti  avuti  in 
California  con  genovesi,  questi  dal  primo  fino  all'ultimo  diedero 
la  piu  solenne  smentita  alia  rapacita  che  si  attribuisce  loro.  II 
Martin  poi  gli  diede  buone  camere  e  li  tratt6  splendidamente  alia 
trattoria  della  locanda  per  un  prezzo  relativamente  minimo,  venti 
scudi  al  giorno  per  loro  tre,  tutto  compreso. 

II  giorno  dopo  port6  una  lettera  di  raccomandazione  del  barone 

i.  II  paese  delTOregott,  confinante  con  la  California,  gia  dal  1819  possesso 
degli  American!,  divenne  nel  1859  uno  dei  « territori»  che  compongono  gli 
Stati  Uniti.  2.  Ed.  cit.,  vol.  II,  cap.  xxvm,  pp.  73-7. 


240  LEONETTO    CIPRIANI 

Brenier1  al  signer  Dillon,  console  di  Francia,  e  ne  fu  accolto  con 
graridissima  cordialita.  Tomato  alia  locanda,  trovo  ad  aspettarlo 
il  signor  Gover,  console  generale  d'Austria,  e  i  signori  Nicola 
Lauro  ed  Ottavio  Cipriani. 

II  Gover  gli  si  presento  non  tanto  come  collega  quanto  come  in- 
glese  nato  a  Livorno,  intimo  dei  Bartolommei  e  conoscente  vita  e 
miracoli  di  tuo  padre.  Gli  amici  degli  amici  sono  amici.  Come  tale 
Leonetto  gli  strinse  la  mano,  ma  come  console  non  mise  mai  piede 
in  casa  sua,  ragione  per  cui  non  si  videro  piu. 

Nicola  Lauro  era  il  piu  ricco  negoziante  italiano  della  citta  - 
uomo  alia  buona,  ma  franco  e  tutto  cuore.  Ottavio  Cipriani  era  il 
figlio  unico  del  primogenito  di  Francesco  Cipriani,  fratello  del  pa 
dre  di  Leonetto.  Entrambi  sono  stati  nello  stesso  tempo  la  prowi- 
denza  e  la  causa  della  cattiva  fortuna  di  tuo  padre  in  California. 
Non  vi  furono  cortesie  e  cordialita  che  non  gli  prodigassero ;  ma 
d'altra  parte,  e  pensando  far  bene,  lo  dissuasero  dal  suo  progetto  di 
comprar  terreni  a  scopo  di  speculazione,  impedendogli  cosi  di  ac- 
cumulare  in  pochi  anni  un'immensa  fortuna. 

La  California  fu  scoperta  nel  1542  dal  portoghese  Cabrillo,  che 
ne  prese  possesso  per  la  Spagna.  Fu.  per  molto  tempo  un  possesso 
nominale,  perche,  lontana  dalle  altre  colonie  spagnuole,  non  of- 
friva  nessun  profitto  alia  madre  patria,  e  percio,  a  differenza  del 
resto  del  continente  americano,  le  numerose  tribu  indiane  che  Tabi- 
tavano  continuarono  a  vivere  felici  lontane  dalla  civilizzazione  spa- 
gnuola,  che  per  i  loro  consimili  si  convertiva  in  distruzione  efret- 
tiva.  Erano  d'indole  pacifica  e  vivevano  tra  loro  in  buona  armonia, 
essendovi  spazio,  e  caccia  e  pesca  sufficient!  per  tutti. 

Ma  appunto  la  sua  lontananza  la  fece  scegliere  come  luogo  di  re- 
legazione  per  i  condannati  militari.  Questi,  aumentati  di  numero, 
ed  accasatisi  colle  indiane,  in  un  periodo  di  cinquant'anni  forma- 
rono  quella  popolazione  che  oggi  si  chiama  indigena,  e  che  gli 
American!  hanno  dovuto  combattere  per  impossessarsi  del  paese. 

La  Spagna,  vedendo  cosi  sorgere  un  principio  di  colonia,  fondo 
sulla  costa  le  stazioni  di  San  Francisco,  Monterey  e  San  Diego,  la 
seconda  delle  quali  ebbe  il  titolo  di  capitale  e  fu  sede  di  un  gover- 
natore  e  di  una  piccola  guarnigione. 

i.  «I1  barone  Anatolio  Brenier  (1807-1885),  console  di  Francia  a  Livorno.. 
poi  direttore  della  contabilita  al  ministero  degli  esteri,  e  dal  1855  al  1860 
ministro  a  Napoli»  (Mordini). 


AVVENTURE    DELLA    MIA    VITA  241 

Dopo  averla  organizzata  politicamente,  la  Spagna  vi  mando, 
come  nelle  altre  sue  colonie  nascenti,  dei  missionari  francescani 
per  civilizzare  gP Indian!  e  convertirli  alia  fede  di  Cristo.  Al  prin- 
cipio  del  XVIII  secolo  i  missionari,  con  perseveranza  ed  abnega- 
zione  grandissime,  avevano  fondato  dodici  centri  nelle  posizioni 
piu  belle  del  paese,  e,  cosa  meravigliosa,  col  solo  aiuto  degl'In- 
diani  avevano  fabbricato  chiese  capaci  di  duemila  persone  e  vasti 
edifizi,  dei  quali  alcuni  esistono  ancora  ed  altri  abbandonati  sono 
mucchi  di  rovine. 

Ma  sembra  ormai  un  fatto  provato  che  le  razze  selvagge  deperi- 
scono  al  contatto  della  civilta.  In  meno  di  un  secolo  spari  la  meta 
degPIndiani  della  California,  malgrado  che  in  quel  paese,  a  diffe- 
renza  degli  altri,  gli  Europei  non  facessero  nulla  per  distruggerlL 

I  primi  missionari  facevano  ascendere  la  popolazione  indiana  dal 
mare  alle  Montagne  Nevose  e  dal  Rio  Colorado  al  Sacramento1 
a  200.000  abitanti,  che  nel  1848  eran  ridotti  a  non  piu  di  20.000, 
E  se  si  pensa  che  quest' enorme  diminuzione  awenne  senza  guerre 
n6  tra  loro  ne  cogli  Europei,  senza  epidemic  e  senza  contagi,  e 
pur  forza  convenire  che  la  sola  civilta,  o  per  meglio  dire  Pabban- 
dono  della  vita  nomade,  fu  la  causa  della  loro  distruzione.  Essi  poi 
non  contribuirono  airincremento  della  colonia  che  con  Pincrocio 
delle  loro  donne  cogli  Europei,  e  solo  poche  famiglie  di  sangue  puro 
indiano  si  dettero  alPagricoltura  o,  per  essere  piu  esatti,  alia  pasto- 
rizia. 

Come  e  facile  capire,  la  proprieta  del  suolo  era  della  madrepa- 
tria,  rappresentata  dal  vicere  del  Messico,  GPIndiani  non  ne  ave 
vano  che  1'uso,  e  venivano  respinti  da  un  luogo  alFaltro  a  misura 
dell'avanzarsi  degli  Europei.  A  questi  la  concessione  dei  terreni 
veniva  data  dal  vicere,  in  misura  non  maggiore  di  dodici  leghe  qua 
drate,  e  in  seguito  a  domande  trasmesse  dal  governatore  e  che  non 
venivano  mai  rigettate,  cosicche  nel  1848  le  piu  belle  valli  apparte- 
nevano  a  Calif orniani,  che  vi  facevano  pascolare  del  bestiame  allo 
stato  semiselvaggio,  come  nelle  maremme  toscane  e  romane. 

La  California  subi  essa  pure  le  conseguenze  della  gran  rivolu- 
zione  delle  colonie  spagnuole,  e  rimase  unita  alia  repubblica  mes- 
sicana,  della  quale  formava  Testremita  settentrionale  fino  al  flume 
Oregon.  Nel  1848  poi  gli  Stati  Uniti  vittoriosi  ottennero  dal  Mes- 

i.  Sacramento:  e  il  fiume  della  California  che  sbocca  nella  baia  di  San 
Francisco. 

16 


242  LEONETTO    CIPRIANI 

sico  la  sua  cessione,  dal  Rio  Colorado  fino  ai  possess!  inglesi  della 
Colombia,  e  dal  mare  alle  Montagne  Rocciose. 

In  realta  quella  cessione  non  aveva  allora  nessuna  importanza 
politica  od  economica,  non  essendo  il  paese  popolato  che  da  poche 
tribu  indiane  e  non  producendo  nulla  che  potesse  alimentare  il 
commercio  americano.  Ma  ne  aveva  un'immensa  per  1'awenire, 
estendendo  i  confini  degli  Stati  Uniti  dall'Atlantico  al  Pacifico. 

Fra  gli  Europei  che  gli  Americani  trovarono  in  California  ve  ne 
erano  alcuni  venuti  in  quel  lontano  paese  per  passione  di  awen- 
ture.  Uno  di  questi .  .  .*  che  aveva  servito  come  capitano  nella  guar- 
dia  svizzera  in  Francia  ed  era  emigrato  in  America  dopo  la  caduta 
di  Carlo  X,2  da  Nuova  York  traversando  tutto  il  continente  arrive 
nel  1842  sulla  sponda  del  Sacramento,  dove  ottenne  una  conces- 
sione,  e  si  stabili  defmitivamente  sposando  un'indiana.  Uomo  che 
sapeva  fare  un  po'  di  tutto,  in  pochi  anni,  coadiuvato  dagPIndiani 
che  aveva  saputo  affezionarsi,  riusci  a  mettere  insieme  tutti  i  co- 
modi  della  vita  e  ad  esercitare  diverse  Industrie  fino  allora  cola 
sconosciute. 

Fra  queste,  impianto  una  segheria  con  motore  idraulico  per  se- 
gare  il  legno,  messo  in  azione  dall'acqua  presa  ad  un  vicino  af- 
fluente  del  Sacramento.  Pochi  giorni  dopo,  essendo  il  canale  ripieno 
di  terra  e  ghiaia  trasportata  dalla  corrente,  lo  svizzero  incarico 
degl'Indiani  di  ripulirlo  e  vide  che  si  mostravano  dei  pezzi  di  me- 
tallo  color  giallo  lucente  senza  sapere  che  cosa  fossero. 

II  capitano  riconobbe  immediatamente  il  prezioso  metallo  -  eran 
pezzi  di  oro.  Ne  fece  raccogliere  quanto  ne  pote  trovare  e  scese  im 
mediatamente  il  fiume  fino  a  San  Francisco,  dove  si  trovavano  gia 
alcuni  Americani,  che,  saputa  la  gran  notizia,  si  affrettarono  ad 
abbandonare  la  nascente  citta  per  correre  in  cerca  dell'oro. 

Le  comunicazioni  cogli  Stati  deH'Atlantico  essendo  lente  e  dif- 
ficili,  occorrendo  allora  quattro  mesi  per  la  via  di  terra  e  forse  piu 
per  quella  di  mare,  la  notizia  ufficiale  e  i  primi  pezzi  d'oro  non 
arrivarono  che  al  principio  del  1848.  II  governo  federale  mando 
allora  immediatamente  truppe  per  terra  ed  una  squadra  per  mare 
a  prendere  possesso  materiale  dei  territori  ceduti  dal  Messico. 
Nello  stesso  tempo  la  febbre  aurifera  essendo  scoppiata  come  con- 

i.  Uno  di  questi  .  .  . :  « II  nome  e  rimasto  in  bianco  nel  manoscritto  »  (Mor- 
dini).  2.  II  re  Carlo  X,  conte  di  Artois,  era  stato  deposto  nel  1830; 
vedi  la  nota  i  a  p.  152. 


AVVENTURE   BELLA   MIA   VITA  243 

tagio,  migliaia  di  emigranti  partirono  dagli  Stati  Uniti,  dagli  altri 
stati  di  America  e  poco  dopo  dall'Europa  per  la  California. 

Alcuni  giorni  dopo  Leonetto,  la  Distruzione  arrivo  a  San  Fran 
cisco.  Essendo  aumentata  di  quattro  persone  la  famiglia,1  non  era 
piu  possibile  stare  alia  locanda ;  ed  affittarono  una  casetta  di  legno 
smobiliata,  dove  dormivano  sui  materassi  di  bordo  facendosi  la 
cucina  da  se". 

Intanto  fu  sbarcato  il  carico  e  trasportato  sul  lotto  di  terreno 
comprato.  Cio  fatto,  vi  montarono  le  loro  tende,  e  vi  si  stabilirono 
cominciando  la  montatura  della  casa.2 

II  salario  giornaliero  dei  muratori  essendo  di  venti  scudi,  dei 
legnaiuoli  quindici  e  dei  braccianti  dieci,  bisogno  rassegnarsi  a  far 
tutto  da  se.  -  E  cosi  Leonetto,  il  Garbi,  il  Del  Grande,  Crespino 
Bizzarri  colla  moglie  e  Gosto,  alzati  all'alba,  lavoravano  fmo  alia 
notte,  lavoro  faticoso  ed  al  quale  nessuno  di  loro  era  abituato. 
Finalmente  agli  ultimi  di  giugno  1852  la  casa  era  montata,  mobiliata 
ed  abitata. 

ESCURSIONI  NELL'INTERNO  DELLA  CALIFORNIA3 

Dove  e  or  a  la  citta  di  San  Francisco,  non  vi  erano  nel  1848  che 
due  povere  case  e  poche  capanne  d'indiani,  trovandosi  la  missione 
che  porta  quel  nome  a  tre  miglia  nell'interno.  Dopo  la  scoperta  del- 
1'oro,  San  Francisco  fu  subito  costituito  in  municipio  secondo  I'uso 
americano,  ma  da  principio  il  suo  sviluppo  non  fu  grande,  perch6 
Foro  trovandosi  da  cento  a  trecento  miglia  nelFinterno  e  vicino  a 
fiumi  navigabili,  gli  American!  piu  pratici,  e  Dio  sa  se  lo  sono  in 

i.  la  Distruzione  .  .  .famiglia:  Giuseppe  del  Grande,  Alessandro  Garbi  e  il 
servo  Crespino  Bizzarri  con  la  moglie,  che  accompagnarono  il  Cipriani  in 
questa  spedizione  in  America,  erano  partiti  prima,  verso  la  fine  di  maggio 
del  1851,  con  il  bastimento  la  Distruzione,  mentre  il  Cipriani,  il  Magnani 
e  1'altro  servo  Gosto  si  imbarcarono  sul  vapore  Arago  a  Le  Havre,  il  19  no- 
vembre  1851,  come  gi£  abbiamo  detto  (vedi  la  nota  zap.  223).  Era  sta- 
bilito  che  i  due  gruppi  si  incontrassero  a  San  Francisco.  Giuseppe  Pieral- 
lini  del  Grande,  che  era  stato  nel  1849  tenente  dei  veliti,  mori  nel  1861 
nelT Africa  occidental  Alessandro  Garbi,  nato  a  Firenze  Fix  marzo 
del  1828,  combatte  come  volontario  nel  1848,  si  distinse  come  urBciale 
dell'esercito  piemontese  nelle  campagne  del  1860-61  e  del  1866.  Collocato 
a  riposo  nel  1871  col  grado  di  maggiore,  mori  a  Firenze  il  5  febbraio  1902. 
Le  notizie  sul  Pierallini  e  sul  Garbi  sono  date  dal  Mordini  nelle  note  a 
p.  39  del  volume  il  delle  Avventure.  2.  la  montatura  della  casa:  vedi  la 
nota  2  a  p.  227.  3.  Ed.  cit.,  vol.  II,  cap.  xxrx,  pp.  79-87- 


244  LEONETTO    CIPRIANI 

modo  meraviglioso,  si  lasciarono  ingannare  dai  precedent!  degli 
stati  dell'Atlantico,  dove  le  grandi  citta  commerciali  son  poste  sui 
fiumi  e  non  sulla  costa;  e  perche  per  un  anno  e  piu  coloro  che  arri- 
vavano  a  San  Francisco  si  affrettavano  a  partire  per  Tinterno,  te- 
mendo  di  non  arrivare  in  tempo  a  prendere  parte  all'aurea  raccolta. 
Anche  gli  equipaggi  disertavano,  e  nel  1850  vi  erano  nella  baia  piu 
di  mille  bastimenti  abbandonati. 

Ma  a  poco  a  poco  la  citta  comincio  a  popolarsi;  e  a  misura  che 
venivano  fabbricati  case  ed  edifizi  pubblici,  cresceva  il  valore  dei 
terreni  del  centre,  che  in  breve  tempo  centuplicarono  parecchie 
volte  il  loro  valore.  Ma  alia  periferia  i  terreni  continuavano  ad 
avere  un  prezzo  insignificante,  perche  nessuno  credeva  nel  prodi- 
gioso  incremento  che  ebbe  in  seguito  la  citta.  D'altra  parte  vi  erano 
stati  dei  forti  alti  e  bassi  sui  terreni,  che  avevano  rovinato  molti 
speculator!. 

Nicola  Lauro  ed  Ottavio  Cipriani,1  che  da  due  anni  esercita- 
vano  il  commercio  a  San  Francisco,  erano  rimasti  anche  loro  scot- 
tati  da  quel  genere  di  speculazione,  e  percio,  quando  Leonetto  fece 
loro  noto  che  lo  scopo  del  suo  viaggio  era  appunto  quello  di  com- 
prar  terreni,  tanto  fecero  e  tante  gliene  dissero  che  riuscirono  a 
dissuaderlo.  Cosi  egli  non  compro  che  un  solo  lotto  per  piantarvi 
la  sua  casa,  pagandolo  mille  scudi. 

Leonetto  penso  allora  di  comprare  vicino  alia  citta  delle  vaste 
estensioni  di  terreno  a  scopo  agricolo.  Ma  non  ci  riusci,  non  avendo 
potuto  mettersi  d'accordo  coi  proprietari  per  il  prezzo;  e  fu  un 
vero  peccato,  perche  una  tenuta,  per  la  quale  non  voleva  dare  che 
8.000  scudi  invece  di  12.000,  fu  venduta  quindici  anni  dopo 
200.000  scudi;  e  un'altra,  per  la  quale  ne  chiedevano  16.000,  fu 
venduta  dieci  anni  dopo  300.000  scudi! 

Falliti  questi  tentativi,  Leonetto  penso  di  fame  altri  nell'in- 
terno,  ed  una  sera  parti  a  cavallo  per  visitare  il  rancho  del  Gabilan, 
sopra  un  altipiano  della  sierra  di  California,  accompagnato  da  un 
indiano  che  il  proprietario  della  tenuta  gli  aveva  dato  per  guida. 
Viaggiarono  tutta  la  notte  per  monti  e  per  piani,  e  la  mattina  tuo 
padre,  vedendo  che  1'indiano  non  parlava  di  fermarsi,  gli  domando 
dove  intendeva  far  colazione. 

—  Aqui  cerquito  — 2  rispose. 

1.  Nicola  Lauro  ed  Ottavio  Cipriani:  vedi   il  brano  precedente   a  p.  240. 

2.  ftQui  intorno,  qui  vicino. » 


AVVENTURE   DELLA   MIA   VITA  245 

II  cerquito  era  cosi  cerquito  che  solo  verso  mezzogiorno  ar- 
rivarono  in  una  bella  valle  piena  di  bestiame  con  una  casuccia 
sulla  quale  fumava  un  cammino.  Era  un  altro  rancho  del  mede- 
simo  proprietario,  e  appunto  in  quel  giorno  vi  era  rodeo  e  gran 
baldoria. 

Per  rassicurare  i  viandanti  affamati,  erano  stati  appesi  agli  al- 
beri  quarti  di  bove  e  di  cervo.  Di  pane  e  di  vino  non  se  ne  discor- 
reva.  Ognuno  sceglieva  Tanimale  che  preferiva,  ne  toglieva  il  pezzo 
che  piu  gli  piaceva,  lo  infilava  in  una  bacchetta  di  legno,  lo  ar- 
rostiva  sulla  brace  dei  fuochi  accesi  qua  e  la  e  lo  divorava  anco- 
ra  sanguinante.  Tuo  padre  fece  come  gli  altri,  e  divoro  anche  lui 
quelle  carni  sanguinanti  che  non  facevano  sentire  il  bisogno  di 
dissetarsi. 

Dopo  quel  pasto  di  cannibali,  gl'indiani  e  gli  altri  intervenuti  - 
eran  piu  di  cento  -  si  misero  a  far  delle  corse  a  cavallo  e  a  giostrare 
fra  di  loro,  finche  arrive  la  notte.  Ognuno  si  awolse  nella  sua  co- 
perta  e  si  sdraio  per  terra.  Leonetto,  stanco  da  diciotto  ore  di  ca 
vallo  e  una  nottata  persa,  dormi  saporitamente  dalle  sette  di  sera 
alle  otto  di  mattina. 

Dopo  una  copiosa  colazione  fatta  colla  solita  carne,  Tindiano 
and6  alia  macelleria,  affetto  come  salsicce  un  trenta  libbre  di  carne, 
I'amrnatasso  e  la  lego  dietro  la  sella  del  cavallo.  Era  la  prowista  per 
due  giorni,  pel  caso  difficile  che  non  si  trovasse  selvaggina. 

La  sera  a  ora  molto  tarda  giunsero  in  una  gran  valle,  e  Pindiano 
esclamo :  —  Siamo  arrivati.  —  E  cosi  dicendo  scese,  impastoio  i  ca- 
valli,  accese  un  gran  fuoco  e  fece  arrostire  una  parte  delle  salsicce 
che  si  potevan  considerare  gia  cotte  dal  sole  e  dal  sudore  del  ca 
vallo,  e  Pofrri  a  tuo  padre,  vantandone  il  sapore.  Egli  esitava  - 
non  era  la  carne  mezzo  cruda  che  lo  spaventava  -  era  il  puzzo  dei 
peli  di  cavallo  che  vi  si  erano  attaccati  e  che  erano  stati  arrostiti 
insieme.  II  suo  stomaco  si  rivoltava,  ma  le  budella  ballavano,  e  dice- 
vano  «  siarrio  vuote »  -  sicche  senza  rispondere  ne  prese  un  pezzo, 
chiuse  gli  occhi  -  e  dopo  la  prima  impressione  fini  col  mangiarne 
piu  delFindiano. 

Verso  la  mezzanotte,  sul  primo  sonno,  fu  svegliato  dai  salti  dei 
due  cavalli  che  giravano  intorno  ad  un  fuoco,  acceso  non  senza  ra- 
gione  dalFindiano.  Alz6  la  testa,  e  visto  al  chiaror  della  fiamma  al- 
cune  ombre  che  si  muovevano  lentamente,  dette  mano  alia  cara- 
bina,  ma  1'indiano  rapido  come  un  lampo  gliela  levo  di  mano  di- 


246  LEONETTO    CIPRIANI 

cendo:  —  For  Dios  que  hace  Usted?  Mirelos  -  non  son  hombres  - 
son  osos.  Dejelos  pasear  y  duerma.1 

Era  il  consiglio  dell'esperienza.  Quelle  bestie  lasciate  tranquille 
non  vi  e  mai  caso  che  si  awicinino  al  fuoco,  ma  una  palla  che  li  fe- 
risca  soltanto,  li  rende  feroci  e  pericolosi. 

Leonetto,  nuovo  in  quel  genere  di  societa,  non  dormi  in  tutta  la 
notte  e  pote  studiare  a  suo  belPagio  le  loro  abitudini  in  quelle  cir- 
costanze  speciali.  Erano  sei,  quattro  grossi  e  due  piccoli,  messi  in 
triangolo,  che  tutta  la  notte  fecero  la  ronda  intorno  al  fuoco,  fer- 
mandosi  quando  Pindiano  vi  gettava  su  della  legna,  finche  allo  spun- 
tare  del  giorno  sparirono  uno  dopo  Paltro  nelle  folte  erbe. 

L'indiano  allora,  che  aveva  osservato  la  ripugnanza  di  Leonetto 
per  quella  sudicia  carne,  si  alzo,  prese  la  carabina  e  si  allontano. 
Torno  dopo  poco,  con  un  mezz'orsacchiotto  sulle  spalle  ed  un  quar 
to  di  cervo  in  mano,  e  si  mise  subito  a  dar  prova  della  sua  abilita 
di  cuoco  selvaggio. 

Taglio  la  testa  dell'orso,  Pawolse  con  erbe  ancora  umide  di 
guazza,  la  copri  di  cenere  e  la  mise  a  cuocere  con  carboni  ardenti 
sopra  e  sotto.  Infilo  poi  il  cervo  in  un  palo  ficcato  obliquamente 
in  terra  e  vi  accese  sotto  un  gran  fuoco. 

Mezz'ora  dopo  1'arrosto  era  pronto  -  bruciato  al  di  fuori,  ma 
delizioso  al  di  dentro.  La  testa  delPorso  poi  non  solo  era  deliziosa 
ma  era  bianca  come  le  teste  di  maiale  che  si  pelano  a  forza  di  acqua 
bollente,  ed  aveva  un  odore  aromatico  da  far  venire  fame  a  un  mo- 
ribondo. 

Tutto  il  giorno  percorsero  a  cavallo  Paltipiano.  Era  uno  di  quei 
siti  alpestri  che  innamorano.  Abbondanza  di  acque  perenni,  un 
piccolo  lago  limpido  come  il  cristallo  con  trote  enormi,  numerosis- 
simi  branchi  di  selvaggina,  lepri  e  pernici  a  migliaia,  folti  boschi  di 
pini  sulle  vette,  nella  valle  prati  ove  i  cavalli  sparivan  mezzi  tra 
Perba,  con  delle  enormi  quercie  sparse  qua  e  la  come  nei  parchi  di 
Europa,  e  da  lontano  la  vista  della  sierra  Nevada  colle  sue  nevi 
eterne,  ed  ai  suoi  piedi  nell'immensa  pianura  il  flume  S.  Gioac- 
chino,  il  piu  grande  della  California  -  era  uno  spettacolo  magnifico. 
Chi  avesse  detto  a  tuo  padre  che  in  quella  pianura  soltanto  avrebbe 
trovato  col  tempo  la  ricompensa  delle  sue  fatiche!2 

i.  «Per  Dio,  che  fa?  Guardi:  non  sono  uomini,  sono  orsi.  Li  lasci  passeg- 
giare  e  dorma. »  2.  in  quella  pianura  .  .  .fatiche:  «I1  18  novembre  1867 
vi  trov6  dell'oro»  (Mordini). 


AVVENTURE  DELLA  MIA  VITA  247 

Alle  due,  dopo  aver  percorso  il  Gabilan  in  tutta  la  sua  lunghezza 
dal  nord  al  sud,  si  diressero  verso  Foriente  per  tornare  al  rancho, 
dove  Tindiano  sperava  arrivare  la  sera  stessa.  Ma  verso  le  sette  il 
cavallo  di  Leonetto  si  fermo  dalla  stanchezza.  L'indiano  parti  solo 
promettendo  tornare  quanto  prima  con  un  altro  cavallo ;  Leonetto 

10  aspetto  fino  alle  dieci,  poi  si  rimise  in  viaggio,  finche  stanco  lui 
e  piu  di  lui  il  cavallo,  si  fermo,  accese  due  gran  fuochi,  divoro  un 
pezzo  d'orso  e  si  addormento  awolto  nella  sua  coperta  come  un 
uomo  a  cui  la  societa  orsina  aveva  impedito  di  dormire  la  notte  pre 
cedence. 

Verso  le  due  senti  degli  urli.  Crede  fosse  Pindiano,  ma  invece  vide 

11  cavallo  che  si  difendeva  a  calci  contro  una  dozzina  di  lupi. 

La  lezione  della  sera  innanzi  doveva  servirgli  a  qualcosa.  Si 
affretto  ad  attivare  i  fuochi  intorno  alPalbero  al  cui  piede  era  sdraia- 
to,  e  prese  la  carabina  e  le  pistole,  vi  si  arrampico  su,  e  messosi  a 
cavallo  ad  un  ramo  colle  spalle  appoggiate  al  tronco,  pote  studiare 
da  quell'osservatorio  la  societa  lupesca,  come  la  notte  prima  aveva 
studiato  quella  orsina.  I  lupi  occupati  a  lottare  col  cavallo,  e  poi  a 
divorarlo,  furono  di  una  villania  senza  nome  verso  tuo  padre;  non 
se  ne  occuparono,  come  se  non  ci  fosse  stato.  Finche  ci  fu  carne,  ri- 
masero  tra  loro  in  buona  armonia,  ma  quando  furono  agli  ossi, 
comincio  la  discordia:  urlavano  e  si  mordevano  strappandosi  la 
preda  di  bocca.  Finalmente  spunto  il  giorno,  e  i  lupi  fuggirono  al- 
Papparire  di  alcuni  rancheros  che  accompagnarono  Leonetto  al 
rancho. 

Arrivati  li,  e  raccontato  1'awenuto,  chi  passo  un  brutto  quarto 
d'ora  fu  il  povero  indiano.  II  maggiordomo  senza  tanti  compli- 
menti  prese  un'accetta  e  gliela  scaglio  addosso,  spaccandogli  una 
spalla,  gridando:  —  Perro  selvaje  sin  verguenza!1 

Un  poco  lo  meritava,  perche  non  doveva  lasciar  solo  in  quella  val- 
le  infestata  da  lupi  il  signore  che  il  padrone  gli  aveva  affidato,  e  lo 
meritava  forse  piu  per  non  essere  tornato  la  notte  stessa.  Ma  Leo 
netto,  vedendo  che  il  maggiordomo  dopo  Paccetta  aveva  dato  di 
mano  allo  schioppo,  intercede  per  lui  che  ne  aveva  avuto  assai. 

II  giorno  dopo  torno  a  San  Juan,  dove  il  proprietario  gli  chiese 
cinquemila  scudi  del  Gabilan.  Accetto,  riservandosi  di  far  esami- 
nare  i  titoli  di  proprieta  dal  suo  awocato.  Ma  avendo  trovato  che  la 

i.  «Cane  selvaggio  senza  vergogna!» 


248  LEONETTO    CIPRIANI 

concessione  era  stata  bensi  chiesta,  ma  non  aveva  avuto  la  sanzione 
del  vice-re  del  Messico,  non  ne  fece  nulla. 

Un  mese  dopo,  una  volta  riposato  dalle  fatiche  e  dalle  emozioni 
della  prima  escursione,  tuo  padre  ne  fece  un'altra  al  nord  della 
California  per  visitare  diversi  ranches  che  gli  si  offrivano  a  prezzi 
discreti,  fra  i  quali  il  Clean  Lake,  distante  duecento  miglia  da 
S.  Francisco. 

Cogli  amici  Megas  e  Tintenmaker  che  vollero  accompagnarlo, 
ando  col  vapore  fmo  a  Napa,  e  di  li  si  misero  in  viaggio  a  cavallo, 
con  due  americani  pratici  del  paese  per  guide. 

La  prima  sera  pernottarono  al  rancho  disabitato  de  las  putas,1 
che  aveva  preso  quel  brutto  nome  da  una  tribu  d'indiani  vivente 
nei  dintorni  allo  stato  di  brutale  natura.  La  seconda,  pernottarono 
alle  Sorgenti  calde,  acque  sulfuree  a  quaranta  gradi,  che  hanno 
acquistato  poi  grande  celebrita  come  bagni  antiscrofolosi  ed  antireu- 
matici ;  e  la  terza  arrivarono  alle  sponde  del  lago,  ove  trovarono  una 
buona  casa  abitata  da  un  americano  che  faceva  da  dottore  alle  tribu 
indiane  dei  dintorni. 

II  giorno  dopo,  seguendo  la  riva  settentrionale  del  lago,  giunsero 
in  una  valle  cosi  bella  che  Leonetto  la  battezzo  valle  del  paradiso, 
nome  rimastole  in  seguito  e  col  quale  e  segnata  sulle  carte. 

Era  un  semicerchio  posto  ad  oriente,  nel  quale  si  entrava  da  una 
stretta  gola,  da  dove  un  precipitoso  torrente  sboccava  nel  lago  dopo 
aver  traversato  la  valle.  Questa  era  un  prato  di  una  lega  quadrata, 
diviso  in  tante  parti  da  ruscelli,  sulle  sponde  dei  quali  vegetavano 
enormi  platani  e  lecci  dai  rami  pendenti,  come  quelli  dei  salci  pian- 
genti,  e  qua  e  la  un  maestoso  cedro  che  li  dominava  tutti.  Intorno 
vi  erano  piccole  colline,  coperte  da  boschetti  di  meravigliosi  ciliegi, 
peri  e  meli  selvatici,  non  piu  alti  di  mezzo  metro,  ma  carichi  di 
frutti.  Ma  quello  che  piu  stupi  gli  esploratori  furono  branchi  di 
piccoli  daini,  somiglianti  alle  gazzelle  africane,  che  senza  spaventarsi 
continuavano  a  pascolare,  guardandoli  con  espressione  di  confi- 
denza  e  awicinandosi  loro  come  sogliono  fare  le  pecore  la  mattina 
aH'arrivo  della  pastorella  che  le  guarda.  Eran  tutti  armati,  ma  a  nes- 
suno  venne  in  mente  di  tirare  -  tanto  e  vero  che  sugli  uomini  an- 
che  crudeli  (e  tutti  lo  sono  verso  le  bestie  selvagge)  predomina 
ristinto  della  bonta  verso  gli  esseri  simpatici  ed  inoffensivi.  -  Quella 
valle  era  una  riserva  delle  tribu  indiane,  che  venivano  a  prov- 
i .  « delle  puttane. » 


AVVENTURE   BELLA   MIA   VITA  249 

vedervisi  di  selvaggina,  quando  non  potevano  pescare  nel  lago  a 
causa  della  tempesta. 

Traversando  il  torrente,  i  cavalli  si  rifiutarono  ad  un  tratto  di 
avanzare.—  Ce  un  orso!  —  esclamo  il  dottore,  ed  infatti  giunti  sulla 
riva  opposta  videro  a  piccola  distanza  una  dozzina  di  orsi,  alcuni 
sui  rami  di  un'antica  quercia,  altri  sotto,  che  stavano  mangiando 
le  ghiande.  Ognuno  si  affretto  a  sparare.  Tre  orsi  rimasero  morti, 
gli  altri  fuggirono.  Fu  quella  la  prima  volta  che  tuo  padre  vide  ai 
suoi  piedi  un  orso  colpito  dalla  sua  carabina  -  era  un  animale 
enorme,  che  pesava  non  meno  di  mille  libbre. 

Esplorata  la  valle,  uscirono  dal  canon1  da  dove  erano  entrati, 
e  costeggiando  il  lago,  ad  un  certo  punto  trovarono  sei  piroghe 
d'indiani  fatte  preparare  dal  dottore  per  traversarlo. 

Leonetto  nei  suoi  primi  viaggi  in  America  si  era  spesso  imbar- 
cato  su  piroghe  fatte  con  un  grosso  tronco  scavato,  che  sono  sicure 
quanto  un  bastimento  a  tre  ponti.  Ma  queste  nuove  piroghe  eran 
fatte  con  paglia  awoltolata  e  stretta  come  le  trecce  da  cappelli, 
unita  a  tre  o  quattro  strati  sopra  un'armatura  di  salci  simile  a  un 
paniere.  £  difficile  a  capirsi,  ma  il  fatto  e  che  quelle  piroghe  portano 
benissimo  due  o  tre  persone. 

Fu  una  bella  passeggiata;  e  la  sera  arrivarono  alia  casa  del  dot- 
tore,  vicino  alia  quale  erano  accampate  due  tribu  indiane  intorno 
a  grandi  fuochi. 

La  notte  fu  un  tamburinare  e  uno  spifferare  continui.  La  mat- 
tina  gli  uomini  andarono  alia  caccia  ed  alia  pesca  per  offrire  ai  bian- 
chi  i  regali  di  uso,  e  ricevere  in  cambio  il  cento  per  uno.  Ed  intanto 
il  dottore  fece  disporre  sotto  un  folto  ciuffo  di  lecci  i  regali  destinati 
agPIndiani  e  consistent  in  tabacco,  coperte,  fazzoletti,  chincaglie- 
rie  e  roba  simile  di  poco  prezzo. 

Sei  corrieri  a  cavallo,  coperti  di  mantelli  di  penne  nere  e  bianche 
annunziarono  Tarrivo  delle  tribu  che  si  avanzavano  coi  capi  alia 
testa,  montati  su  bei  cavalli  e  seguiti  da  tutti  i  guerrieri.  Venivano 
dopo  le  piu  belle  e  giovani  indiane  con  grandi  panieri  in  capo  pieni 
di  pesce,  cacciagione,  e  frutti  selvatici,  e  finalmente  i  vecchi  e  la 
marmaglia  con  uno  stormo  di  card,  amici  indivisibili  degPIndiani. 

Deposti  in  beH'ordine  i  regali,  i  capi  fecero  uno  dopo  Paltro  dei 
discorsi  che  per  Leonetto  ebbero  due  gran  meriti,  di  essere  brevis- 
simi,  e  di  non  capirci  nulla.  II  dottore  rispose  per  tutti,  e  allora, 

i.  canon:  gola. 


250  LEONETTO    CIPRIANI 

cosa  strana,  i  due  capi  andarono  da  tuo  padre  a  dargli  una  stretta  di 
mano,  saluto  americano,  ed  a  fregargli  il  naso  colla  punta  del  loro, 
saluto  indiano. 

Fu  commedia  preparata,  o  Tessere  Leonetto  piu  alto  e  di  aspetto 
piu  militare  dei  compagni,  e  1'avere  una  gran  sciarpa  di  seta  cele 
ste  alia  vita,  feri  rimmaginazione  di  quei  selvaggi  ?  II  fatto  si  e  che 
lo  presero  per  un  capo,  ed  a  lui  fecero  il  piu  bel  regalo. 

Era  un'indiana  giovine  e  bella,  nuda  come  un  pesce,  ma  con  una 
chioma  nera  lucente  che  la  copriva  da  capo  a  piedi.  Gli  s'inginoc- 
chio  davanti,  ed  una  vecchia  che  era  la  sacerdotessa  della  tribu 
le  verso  sul  capo  un  vaso  d'acqua  -  era  il  solenne  attestato  che  era 
immacolata. 

Tuo  padre  non  si  aspettava  tanto  onore  ne  un  simile  regalo,  ma 
non  perse  la  bussola.  Si  levo  il  mantello,  la  copri  e  la  fece  sedere  ai 
suoi  piedi. 

Fu  un  grido  universale  di  gioia  -  sembravan  duemila  indemoniati 
-  finche  i  capi  fecero  suonare  le  trombe,  ossia  i  pifferi  di  canna,  e  i 
giuochi  cominciarono,  mentre  le  vecchie  facevano  arrostire  la  sel- 
vaggina  portata  in  regalo.  Per  i  guerrieri  a  cavallo  il  giuoco  consi- 
steva  nel  corrersi  incontro  di  camera  e  nel  cercare,  incrociandosi, 
di  rovesciarsi  da  cavallo  -  per  tutti  gli  altri,  balli  e  capriole  al  suono 
discordante  dei  loro  strumenti. 

Quando  Parrosto  fu  pronto,  le  vecchie  cominciarono  a  gridare 
una  parola  che  somigliava  molto  al  piro  piro,  col  quale  le  nostre 
massaie  sogliono  chiamare  le  galline.  Tutti  accorsero,  e  gli  esplora- 
tori  da  una  parte,  gl'indiani  dall'altra  si  misero  a  divorare.  Quelle 
squisite  carni,  le  trote  da  dieci  a  quindici  libbre  awolte  in  erbe  aro- 
matiche  ed  arrostite  sulla  brace,  che  non  cedevano  per  nulla  a  quanto 
di  piu  squisito  sanno  preparare  i  piu  celebri  artisti  di  Francia,  e  gli 
ottimi  frutti  selvatici,  fecero  di  quello  spettacoloso  banchetto  uno 
degli  episodi  che  abbiano  maggiormente  impressionato  Leonetto. 

Dopo  vi  fu  la  distribuzione  dei  regali  per  ordine  gerarchico,  e 
finalmente  arrivo  la  notte,  che  doveva  essere  Tora  del  riposo,  se 
non  fossero  stati  quei  duemila  indiavolati,  briachi  di  allegrezza,  che 
non  fecero  che  saltare  e  strepitare  fmo  alia  mattina. 

Leonetto,  che  non  sapeva  cosa  farsi  della  sua  Indiana,  chiese  al 
dottore  il  modo  di  sbarazzarsene  senza  offendere  la  suscettibilita 
della  tribu.  E  il  dottore  lo  consiglio  di  cederla  ad  un  indiano  che 
ne  era  innamorato,  e  che  avrebbe  dato  la  vita  per  possederla,  preve- 


AVVENTURE   BELLA   MIA    VITA  251 

nendolo  pero  di  versarle  in  sua  presenza  un  bicchier  d'acqua  sulla 
testa  per  provargli  che  gliela  dava  immacolata  come  Paveva  rice- 
vuta.  Cosi  fu  fatto  con  gran  gioia  di  tutti. 

La  mattina  dopo  partirono,  ed  il  terzo  giorno  erano  di  ritorno  a 
San  Francisco. 

Benche  Leonetto  fosse  rimasto  innamorato  di  quel  rancho,  non 
lo  compro,  per  la  troppa  lontananza  dalla  citta,  che  non  lasciava 
sperare  un  prossimo  aumento  di  valore,  e  perche  gl'Indiani  erano 
un  cattivo  vicinato  tanto  come  amici  che  come  nemici.  -  Ma  nel 
1870  raccontandomi  quanto  sopra,  mi  diceva  che  nel  1866,  cioe 
quattordici  anni  dopo,  nella  valle  del  Clean  Lake  vi  erano  una  pic- 
cola  citta  di  3000  anime,  piu  di  trecento  case  coloniche,  ed  una 
miniera  di  borace  che  rendeva  annualmente  diversi  milioni! 


ANTONIO  GHISLANZONI 


PROFILO  BIOGRAFICO 


ANTONIO  GHISLANZONI  nacque  a  Lecco  il  25  novembre  1824.  II 
padre,  Giovanni,  desideroso  di  awiarlo  alia  sua  stessa  professione, 
lo  mando  a  Pavia,  a  studiare  medicina  in  quella  universita.  Ma  il 
figlio,  mal  disposto  a  tale  studio,  si  volse  ben  presto  alle  scene,  che, 
dotato  di  una  buona  voce  baritonale,  gli  sembro  quella  la  sua  vera 
strada.  A  ventidue  anni  (1846)  debutto  a  Lodi  nella  stagione  car- 
nevalizia,  e  poco  dopo  passo  al  Carcano  di  Milano  e  nei  teatri  di 
Piacenza,  di  Codogno,  di  Arezzo,  acquistando  notevole  rinomanza. 
Di  idee  liberali,  come  aveva  partecipato  alle  Cinque  giornate  di 
Milano,  cosi  voile  poi  accorrere  a  Roma  per  la  difesa  della  repub- 
blica,  e  vi  si  rec6  con  una  giovane  arnica,  guidato  da  uno  spirito 
awenturoso  che  non  gli  faceva  vedere  ne  ostacoli  n6  difficolta.  I 
Francesi,  che  gia  assediavano  Roma,  lo  fermarono  quasi  alle  porte 
della  citta  e,  liberata  la  sua  compagna,  lo  chiusero  prigioniero  nel- 
Fisola  di  Santa  Margherita  e  lo  trasferirono  poi  in  Corsica,  a  Bastia. 
Solo  dopo  quattro  durissimi  mesi  pote  riavere  la  liberta  e  recarsi, 
con  il  denaro  offertogli  da  un  ammiratore,  in  Francia,  a  continuarvi 
la  sua  attivita  lirica.  E  gia  cantava  a  Parigi  nel  Teatro  italiano, 
quando  la  sua  fortuna  fu  troncata  dagli  awenimenti  politici.  La 
sera  del  2  dicembre  1851  egli  interpretava  la  parte  di  Carlo  V  nel- 
VErnani  allorche  gia  Parigi  si  agitava  per  il  colpo  di  Stato:  i  tumulti 
del  giorno  successive  provocarono  la  chiusura  del  teatro  e  posero 
sul  lastrico  anche  il  nostro  baritono.  Periodo,  questo,  di  miseria 
e  di  fame,  cui  egli  tento  di  reagire  nel  marzo  del  1853  con  la  for- 
mazione  di  una  propria  compagnia  teatrale,  con  la  quale  inizio  al- 
cuni  giri  in  provincia.  Ma,  ammalatosi  gravemente  a  Nimes,  anche 
quella  sua  debole  speranza  di  risollevarsi  si  concluse  in  un  falli- 
mento.  Tra  1'altro,  la  sua  voce  se  ne  andava  rapidamente,  e  tocco 
proprio  a  Milano  di  togliergli  ogni  speranza  teatrale,  con  un  subisso 
di  fischi,  al  teatro  Carcano,  nel  1855.  Tutte  queste  esperienze,  tea- 
trali  e  politiche,  italiane  e  francesi,  il  Ghislanzoni  rievoco  poi  con 
brio  e  ironia  in  due  suoi  scritti  (Memorie  politiche  di  un  baritono  e 
In  chiave  di  baritono),  dove  gli  awenimenti  infelici  sono  guardati 
ormai  con  la  noncuranza  di  chi  li  ha  superati  e  allontanati  da  se. 
Dato  un  addio  alTarte  teatrale,  il  Ghislanzoni  passo,  dal  1853,  alia 
letteratura.  Da  allora  fu  un  succedersi  di  romanzi,  novelle,  articoli, 


256  ANTONIO    GHISLANZONI 

epigrammi,  poesie  satiriche,  bizzarrie,  commedie  e  di  una  cinquan- 
tina  di  libretti  per  opere  liriche.  Ne  minore  fu  Pattivita  giornalistica, 
che  per  vario  tempo  egli  scrisse  nel «  Secolo »,  il  quotidiano  milanese 
sorto  in  quegli  anni,  diresse  la  «  Gazzetta  musicale»  creata  da  Giu- 
lio  Ricordi,  fondo  la  «Rivista  minima »,  e  poi  «II  capriccio»  e 
infine  «  La  posta  di  Caprino » :  questi  tre  ultimi,  in  verita,  di  diffu- 
sione  e  di  vita  stentatissime,  Nella  Milano  di  quegli  anni  il  Ghislan- 
zoni  ebbe  certo  una  sua  fama  e  i  suoi  scritti  piacquero  e  si  cercarono 
e  ristamparono.  Un  suo  romanzo,  Gli  artisti  da  teatro  (1858),  che 
univa  a  una  trama  fantasiosa  un  quadro  assai  nero  delle  miserie 
e  degli  intrighi  e  delle  turpitudini  del  mondo  teatrale,  quasi  a  dis- 
suadere  i  giovani  dal  volgersi  alle  scene,  ebbe  particolare  fortuna,  e 
cosi  i  suoi  Racconti,  e  il  romanzo  Abrakadabra,  immaginosa  storia 
dell'awenire,  e  soprattutto  i  libretti,  tra  i  quali  /  Lituani  musicato 
dal  Ponchielli,  V  Aida  dal  Verdi,  I  promessi  sposi  dal  Petrella, 
VEdmea  dal  Catalani.  Ma  forse,  piu  assai  che  i  suoi  scritti,  la  mag- 
gior  parte  dei  quali  sono  giustamente  dimenticati,  meriterebbe  una 
particolare  attenzione  la  sua  vita,  che  fu  quella  di  un  bohemien, 
sempre  in  lotta  con  la  miseria,  pronto  a  spendere  disordinatamente 
ogni  guadagno,  generoso  con  gli  amici,  facile  agli  entusiasmi,  inetto 
alia  vita  pratica,  festoso  nelle  comitive,  bizzarro  e  paradossale  sem 
pre.  In  realta,  la  sua  biografia,  1'ambiente  in  cui  visse,  le  sue  ami- 
cizie,  le  sue  follie  creano  un  quadro  che  per  tanti  lati  anticipa  e 
prepara  la  Scapigliatura  milanese  e  sotto  alcuni  aspetti  ne  e  gia  un 
documento:  e  ne  possono  essere  riprova,  tra  Paltro,  anche  la  sua 
simpatia  e  amicizia  verso  Iginio  Tarchetti  e  le  lodi  da  lui  ri volte 
a  Emilio  Praga  e  i  contatti  che  ebbe  con  Arrigo  Boito.  Gli  aneddoti, 
i  particolari  biografici  che  di  lui  ha  lasciato  Salvatore  Farina,  co- 
struiscono  un  ritratto  che  meriterebbe  di  essere  completato  sullo 
sfondo  di  un  ambiente  cosi  caratteristico  quale  fu  quello  dei  lette- 
rati  e  musicisti  e  giornalisti  della  Milano  del  tempo. 

A  un  tratto,  pochi  anni  dopo  il  1870,  con  la  spensieratezza  che 
gli  era  propria,  il  Ghislanzoni  lascio  Milano  e  voile  ritirarsi  nel 
paesello  di  Caprino  bergamasco,  convinto  di  potervi  vivere  e  lavo- 
rare  serenamente  per  i  tanti  musicisti  che,  certo,  avrebbero  conti- 
nuato  a  chiedergli  libretti  da  musicare.  Calcolo,  questo,  troppo  in- 
genuamente  roseo.  A  Caprino  rimase  solo,  dimenticato  a  poco  a 
poco  da  tutti,  in  una  miseria  sempre  piu  grave :  uno  squallore  aggra- 
vato  dalle  sue  malattie  e  dalla  paralisi  della  moglie,  e  soltanto  a  fa- 


PROFILO   BIOGRAFICO  257 

tica  diradato,  di  quando  in  quando,  dagli  aiuti  di  qualche  amico. 
Anche  la  ristampa  in  volumetti  di  antichi  suoi  lavori,  caldeggiata 
da  Salvatore  Farina,  non  dette  alcun  frutto,  se  non  la  somma  che 
il  Farina  stesso  voile  anticipargli  sui  futuri  guadagni. 

II  1 6  luglio  1893  sopraggiungeva  la  fine.  Qualche  giorno  prima 
aveva  voluto  intorno  a  se  i  fanciulli  poveri  del  paese,  per  distribuire 
loro  manciate  di  ciliege,  e  aveva  raccomandato  che  anche  dentro  la 
sua  bara  vi  fossero  moltissimi  fiori :  ultime  romantiche  manifesta- 
zioni  della  sua  vita. 

Tra  i  tanti  scritti  del  Ghislanzoni,  riproduciamo  la  sua  breve  e 
bizzarra  Storia  di  Milano  dal 1836  011848?  una  rievocazione  estrosa 
di  quel  periodo,  condotta  per  rapide  linee,  attraverso  episodi  di 
cronaca,  accenni  fugaci,  schizzi  brevissimi:  Tinteresse  nasce  dalla 
successione,  dal  susseguirsi  di  immagini  che  passano  mobilissime 
come  in  una  lanterna  magica  e,  pur  slegate  fra  loro,  creano  un 
effetto  d'insieme  che  piace.  Certo,  come  ha  osservato  il  Croce,  non 
storia  e  la  sua :  ne,  puo  aggiungersi,  cronaca.  Ma,  al  di  fuori  di  ogni 
classificazione,  quelle  sue  pagine  sembrano  salvare  alia  vita  alcuni 
coloriti  frammenti  di  un  mondo  tramontato. 


Molti  degli  scritti  del  Ghislanzoni  apparvero  dapprima  in  giornali  e  ri- 
viste,  e  furono  poi,  almeno  in  parte,  inseriti  in  varie  raccolte  dallo  stesso 
autore.  Manca  una  esatta  ricostruzione  bibliografica  della  sua  produzione, 
della  quale  facciamo  cenno  solo  per  alcune  opere.  Gli  artisti  da  teatro, 
pubblicati  dapprima  (1858)  nella  rivista  «I1  cosmorama  pittorico»,  fu 
rono  poi  (1921)  ristampati  in  volume  dal  Treves  di  Milano;  Abrakadabra, 
apparso  in  edizione  parziale,  a  Milano,  nel  1865,  fu  edito  integralmente 
dal  Brigola,  a  Milano,  nel  1884,  e  ristampato  ancora  dal  Sonzogno,  Mi 
lano  1924;  Le  donne  brutte,  romanzo-,  gia  apparso  a  Milano  nel  1867, 
fu  ristampato  dal  Sonzogno  nel  1894.  Nel  1878  apparve  il  Libro  proibito, 
Milano,  Tip.  Ed.  Lombarda,  dove  il  Ghislanzoni  raccolse  gran  parte  dei 
suoi  piu  che  duecento  epigrammi;  nel  1882  il  Libro  bizzarro,  Milano,  Bri 
gola,  che  raccoglie  alcuni  suoi  racconti:  tra  i  due  libri,  gli  altri  della  stessa 
serie,  Libro  allegro,  libra  serio.  La  raccolta  piu  completa  dei  suoi  racconti, 
scritti  bizzarri  ecc.  e  rappresentata  dai  sei  volumetti  intitolati  Capricci  let- 
terari,  Bergamo,  Stabilimento  tipografico  Cattaneo,  1886-1889,  dove  riap- 
paiono  racconti  ed  epigrammi  gia  editi  nelle  raccolte  or  ora  citate,  e  presen- 
ti,  in  buona  parte,  in  altri  volumi  precedentemente  stampati. 

Manca  una  accurata  ed  esauriente  biografia  del  Ghislanzoni,  ma  sono 
ancora  oggi  utilissime,  per  notizie  sulla  sua  vita  e  le  sue  opere,  le  pagine 
che  M.  CERMENATI  ha  posto  come  prefazione  all* edizione  1924  di  Abraka- 

17 


258  ANTONIO   GHISLANZONI 

dabra,  e  quanto  scrive  S.  FARINA,  La  mia  giornata  (dalValba  al  pomeriggio), 
Torino,  S.T.E.N.,  1910,  passim,  eLa  mia  giornata  (care  ombre),  ivi,  1913, 
pp.  100-17. 

Per  un  giudizio  sulla  sua  opera,  vedi  B.  CROCE,  La  letteratura  della  nuova 
Italia,  v,  Bari,  Laterza,  I9432,  pp.  113-8,  e  L.  Russo,  /  narratori,  Milano- 
Messina,  Principato,  1951,  pp.  53-4. 

Dato  il  carattere  delle  pagine  del  Ghislanzoni,  abbiamo  ridotto  al  mi- 
nimo  indispensabile  le  note  esplicative  del  testo. 


STORIA  DI  MILANO 

dal  1836  al  I8481 

Sotto  1'oppressura  di  una  indigestione  solennemente  cattolica,  io 
mi  accingo  ad  un  lavoro  altrettanto  grave  quanto  proficuo :  a  scri- 
vere  la  Storia  di  Milano  dalFanno  1836  al  1848.  Voi  tosto  compren- 
derete  che  io  scrivo  dietro  incarico  di  un  editore,2  al  quale  preme, 
se  non  mi  inganno,  di  aggiungere  due  nuovi  volumi  alle  opere  del 
Verri3  e  del  De-Magri,4  oggimai  screditate  completamente.  Con- 
viene  adunque,  che  io  raccolga  i  pensieri  a  capitolo  -  Timpresa  e 
molto  arrischiata,  ma  io  solo  conosco  Palta  mercede  che  mi  attende. 

Raduniamo  i  materiali.  Io  detesto  gli  sgobboni  che  fabbricano 
la  Storia  sui  libri  altrui,  sulle  testimonianze  poco  attendibili  dei 
giornali  e  sulle  postume  adulazioni  delle  medaglie  e  dei  marmi  se- 
polcrali.  -  D'altronde,  non  Fho  io  veduta  coi  miei  propri  occhi  la 
Storia  di  Milano  dal  1836  al  1848  ?  -  Questa  riflessione  mi  fa  inca- 
nutire  venti  peli  della  barba,  ma  in  ogni  modo  mi  conforta  e  mi 
infonde  lena  al  lavoro. 

Aduniamo  le  nostre  reminiscenze  -  senza  ordine  -  senza  me- 
todo  -  come  vengono.  -  Cosa  era  Milano  dal  1836  al  1848?  -O 
piuttosto:  qual'era  Milano?  -  A  tale  interpellanza,  mi  si  affaccia  il 
caos  .  .  .  Dodici  anni  mi  si  affollano  intorno,  urtandosi,  sospingen- 
dosi,  assordandomi  1'orecchio  di  grida  diverse.  L'immortale  que- 
sturino  di  Siviglia  non  si  trovo  a  peggior  condizione  della  mia,  al- 
lorquando  sali  in  casa  di  don  Bartolo  per  rimettervi  Pordine.5 

Se  non  m' inganno,  fu  nelPanno  1838  che  S.  M.  Apostolica  Pirn- 
peratore  Ferdinando  d' Austria6  venne  a  Milano  per  farsi  incoro- 
nare  Re  d' Italia.  A  quelFepoca,  per  ricordare  Faugusto,  si  diceva 


i.  Questo  scritto  comprende  le  pp.  87-120  del  volume  II  dei  Capricci  let- 
terari  delTedizione  da  noi  seguita.  2.  Voi  tosto . . .  editore:  e  evidentemente 
una  finzione,  che  nasce  da  un  intento  ironico.  3.  Pietro  Verri  (1728-1797) 
pubblicd  il  solo  primo  volume  della  sua  Storia  di  Milano  (Milano  1763), 
condotta  fino  al  1523;  nel  1798  il  canonico  Anton  Francesco  Frisi  vi 
aggiunse  un  secondo  volume,  proseguendo  la  narrazione  fino  al  1564; 
solo  in  seguito  P opera  fu  continuata  da  Pietro  Custodi  (1824).  4.  Allude 
alia  Storia  di  Milano  di  B.  Corio,  edita  «  sulPedizione  principe  del  1503 
ridotta  a  lezione  moderna  con  prefazione,  vita  e  note  del  prof.  Egidio  de 
Magri»,  Milano,  Colombo,  1855-1857,  voll.  3.  5.  L'immortale  .  .  .  ordine: 
allude  alia  fine  del  primo  atto  dell' op  era  II  barbiere  di  Siviglia  (1816)  di 
Rossini.  6.  Ferdinando  dy  Austria:  vedi  la  nota  5  a  p.  292. 


260  ANTONIO    GHISLANZONI 

generalmente :  il  «nostro  imperatore  »,  taluni,  piu  ingenui:  il  «no- 
stro  buon  imperatore » ;  -  molti  nobili  lombardi  si  recavano  ad  onore 
•di  vestire  la  divisa  di  ufRziali  tedeschi  .  .  .  C'erano,  all'entrata  di 
S.  M.,  delle  guardie  italiane  sfolgoranti  d'oro  e  di  perle;  .  .  .  una 
meraviglia  di  splendore,  di  pompa,  di  beatitudine  generale.  Non  ri- 
cordo  se  il  cholera  ci  abbia  fatto  la  sua  prima  visita,  innanzi,  o  dopo 
rincoronazione  di  Ferdinando.  II  perfido  morbo  si  die  a  cono- 
scere  verso  quell'epoca,1  ed  anche  allora  si  rinnovarono  scene  atroci 
e  balorde,  non  molto  dissimili  da  quelle  che  il  Manzoni  descrisse 
nel  suo  sublime  romanzo.  II  popolaccio  e  sempre  uguale  in  ogni 
tempo  -  e  sempre  la  gran  bestia. 

Di  politica  nessuno  fiatava.  -  Le  contrade  erano  illuminate  da 
lampade  ad  olio,  e  i  riverberi  delle  fiamme  acciecavano  affatto  il 
passeggiero.  -  I  Milanesi  menavano  gran  vanto  della  loro  pulitezza, 
e  i  marciapiedi,  frattanto,  erano  attraversati  da  rigagnoli  che  non 
sentivano  di  muschio.  La  cattedrale,  ammirata  dagli  stranieri,  ser- 
viva  da  pisciatoio  ai  piu  civilizzati,  i  quali,  per  maggior  vilipendio 
deU'edificio,  erano  in  buon  numero.  -  La  citta  si  svegliava  verso  le 
undici  del  mattino ;  i  veri  lions  non  apparivano  in  pubblico  che  alia 
una  dopo  mezzodi.  -  Si  incontravano  al  Corso  dei  giovanotti  di 
sedici  ed  anco  di  diciotto  anni,  vestiti  colla  giacchettina  corta,  pro- 
filata  alle  natiche,  accompagnati  dal  tutore  o  dal  pedagogo,  il  quale 
ordinariamente  era  prete.  II  cappello  a  cilindro  torreggiava  sulla 
testa  degli  eleganti  a  porta  Renza2  ed  ai  pubblici  giardini;  ma  c'era 
pericolo  ad  affrontare,  con  quel  simbolo  in  testa,  i  terraggi3  di  porta 
Ticinese  e  i  rioni  di  porta  Comasina.4  -  Quando  al  Corso  passavano 
in  cocchio  1'arcivescovo  o  il  vicere,  non  c'era  alcuno  che  non  levasse 
il  cappello.  L'arcivescovo  era  tedesco  e  si  chiamava  Carlo  Gaetano 
conte  di  Gaisruk;  il  vicere  si  firmava  Raineri.5  Nel  1840,  i  figli  di 

i.  il  cholera  .  .  .  epoca:  vedi  la  nota  4  a  p.  292.  2.  porta  Renza:  delle  porte 
di  Milano  quella  volta  verso  la  Brianza,  detta  anche  porta  Orientale  e, 
dopo  la  pace  di  Villafranca  (1859),  porta  Venezia.  Sulla  fine  del  Sette- 
cento,  quando  Ferdinando  d' Austria  comincio  la  costruzione  della  Villa  di 
Monza,  il  borgo  e  la  contrada  di  porta  Renza  mutarono  il  loro  aspetto  di 
campestre  abbandono  in  cui  apparvero  a  Renzo  (Promessi  sposi,  cap.  xi), 
divenendo  zona  di  residenze  signorili  e  di  elegante  passeggio.  3.  terrag 
gi:  nome  delle  contrade  sorte,  sulla  sponda  interna  del  Naviglio,  lungo  la 
cinta  del  terrapieno  o  bastione  medievale.  4.  porta  Ticinese  .  .  .  porta  Co 
masina:  la  prima  aperta  in  direzione  del  Ticino,  Paltra  verso  Como,  ribat- 
tezzata  sulla  fine  del  secolo  scorso  in  porta  Garibaldi.  Zone  di  quartieri 
popolari.  5.  Rainerii  vedi  la  nota  2  a  p.  310. 


STORIA   DI    MILANO    DAL    1836    AL    1848  26l 

quest 'ultimo,  due  figuri  lunghi  e  rasi  sotto  la  nuca,  venivano  salu- 
tati  al  corso  con  qualche  affettazione  di  rispetto  e  berteggiati  dietro 
le  spalle  a  voce  bassa.  -  Gli  uffiziali  austriaci  portavano  1'abito  bor- 
ghese.  -  II  governatore,  il  conte  Pachta,  il  Torresani,  il  Bolza,1  go- 
devano  di  una  autorita  illimitata.  -  C'era  un  casino  di  Nobili  e  un 
casino  di  Negozianti,  rivaleggianti  di  supremazia. 

L'aristocrazia  e  il  commercio  si  guardavano  biecamente.  I  giova- 
notti  di  buon  genere  si  ubbriacavano  di  Porto  o  di  Madera,  e  da 
ultimo  si  suicidavano  coll'absenzio.  Questa  atroce  bevanda  si  intro- 
dusse  a  Milano  verso  il  1840.  -  La  moda  dei  mustacchi  e  della 
barba  completa  incontrava  degli  oppositori  pertinaci  e  accanitL 
Molti  padri  di  famiglia  tenevano  il  broncio  ai  figliuoli  od  ai  nipoti 
per  una  leggiera  insubordinazione  di  peli.  Due  fratelli  Clerici  rap- 
presentavano  le  piu  belle  e  piu  complete  barbe  di  Milano.  I  vecchi, 
gl'impiegati,  e  in  generale,  tutti  i  cosi  detti  uomini  seri,  si  radevano 
scrupolosamente  dal  naso  al  gozzo.  Gli  studenti  che  portassero 
barba  o  mustacchi  rischiavano  compromettere  il  loro  awenire;  or- 
dinariamente  venivano  rinviati  dalFesame,  od  anche  eliminati  dalla 
scuola. 

Tre  quarti  della  popolazione  non  conosceva  altro  mondo,  fuori 
di  quello  rinchiuso  entro  il  circuito  dei  bastioni.  La  attivazione 
della  ferrovia  fra  Monza  e  Milano2  fu  un  awenimento  colossale, 
che  parve  prodigio.  Si  udivano  dei  vecchi  esclamare :  —  Ora  che  ho 
veduto  questa  meraviglia,  sono  contento  di  morire!  —  e  parecchi 
morirono  infatti.  L'apertura  del  caffe  Gnocchi  in  Galleria  De  Cri- 
stoforis  ispirava  due  lunghi  articoli  alia  «Gazzetta  di  Milano  »; 
quasi  altrettanto  rumore  levo  Fapertura  del  caffe  dei  Servi,  e  piu 
tardi  Pinaugurazione  della  bottiglieria  di  San  Carlo. 

I  Cafe-restaurants  non  esistevano  prima  del  i84o-nel  1847  si 
contavano  sulle  dita.  La  colazione  di  lusso  consisteva  in  un  caffe  e 
panera3  con  due  chiffer  o  pannini  alia  francese.  -  Questa  lauta  co 
lazione  costava  otto  soldi  di  Milano.  Non  era  permesso  fumare  in 
alcun  luogo  pubblico,  e,  innanzi  al  1844,  erano  guardati  di  mal  oc- 
chio  e  tacciati  di  malcreanza  i  pochi  scioperati  che  osavano  inol- 
trarsi,  collo  zigaro  in  bocca,  sui  bastioni  di  porta  Renza,  o  dentro  i 


i .  Pachta  .  .  .  Torresani .  .  .  Bolza :  capi  della  polizia  austriaca  nel  Lom- 
bardo-Veneto ;  cfr.  p.  309  e  la  nota  3.  2.  ferrovia  fra  Monza  e  Milano : 
inaugurata  nel  1840.  3.  panera:  panna  montata. 


262  ANTONIO    GHISLANZONI 

pubblici  giardini  durante  il  trattenimento  della  banda.  Le  signore, 
all'appressarsi  di  uno  zigaro,  fingevano  il  deliquio :  alia  vista  di  una 
pipa  inorridivano  del  pari  il  gracile  e  il  forte  sesso. 

In  materia  culinaria,  I'istinto  pubblico  tendeva  al  grasso  e  al 
pesante. 

Gli  Ambrosiani  non  avevano  ancora  degenerate  al  punto  da  pro- 
scrivere  il  cervelaa1  dal  risotto.  II  buon  vino,  il  vino  corroborante  e 
stomatico  doveva  innanzi  tutto  essere  un  liquido  opaco.  Si  man- 
giava  eccessivamente  ad  ogni  ricorrenza  di  solennita  ecclesiastica; 
nel  resto  dell'anno  una  parte  del  popolo  digiunava  per  compenso. 
Questo  popolo  non  aveva  giornali,  ne  libri  -  la  sua  letteratura  erano 
le  bosinate2  -  la  sua  politica  si  riassumeva  nel  motto :  Viva  nun  e 
porchi  i  scioriP  -  Porta  Comasina  e  poita  Ticinese  si  detestavano ; 
esistevano,  dentro  i  bastioni,  antagonismi  feroci,  come  fuori,  tra 
villaggio  e  villaggio.  A  porta  Ticinese,  verso  I'imbrunire,  una  per 
sona  civilmente  vestita  rischiava  la  fine  di  santo  Stefano. 

La  «Gazzetta  di  Milano»,  il  solo  foglio  die  trattasse  estesamente 
la  politica,  usciva  in  formato  modestissimo;  il  suo  primo  articolo 
verteva  ordinariamente  sulle  questioni  della  China.  Al  compleanno 
ed  al  giorno  onomastico  di  S.  M.  1'imperatore  dj Austria,  il  foglio 
usciva  stampato  a  caratteri  d'oro  e  tutto  ornato  di  rabeschi.  In 
quelle  ricorrenze,  la  boemia4  dei  poetastri  gracidava  dalla  « Gaz- 
zetta»  i  suoi  inni  pindarici.  I  poeti  e  i  letterati,  meno  qualche  ecce- 
zione,  passavano  per  spie. 

La  calunnia  non  rispettava  le  grandi  intelligenze,  e  imperversava 
sulla  turba  degli  scribacchiatori.  Qualunque  letterato  non  avesse 
una  posizione  determinata,  qualunque  non  fosse  in  grado  di  esporre 
al  pubblico  il  bilancio  attivo  e  passive  delle  proprie  finalize,  cadeva 
in  sospetto  di  agente  dell' Austria.  A  Milano,  come  si  vede,  gli 
uomini  di  lettere  furono  in  ogni  tempo  assai  corteggiati  dall'opi- 
nione  pubblica. 

i.  cervelaa:  la  «  cervellata»  o  « cervellato  »  e  una  specie  di  salsiccia  di  colore 
giallastro  composta  di  midollo  di  bue,  grasso  di  maiale,  aromatizzata  con 
zafferano,  spezie  e  parmigiano.  2.  Le  bosinate  erano  composizioni  poeti- 
che  in  dialetto  o  cantate  su  motivi  popolari  dai  bosini,  tipici  cantastorie,  e  di 
solito  traevano  argomento  da  fatti  del  giorno.  3.  «Viva  noi»  e  «porci  i 
signori».  4.  boemia:  disordinata  poverta.  La  voce  deriva  dal  nome  di 
bohemienS)  dato  in  Francia  agli  zingari.  Divenne  comune  a  indicare  1'irre- 
golare  e  misera  e  spensierata  vita  degli  artisti,  dopo  che  Henri  Murger 
(1822-1861)  pubblic6  il  romanzo  Scenes  de  la  vie  de  Boheme  (1851). 


STORIA   DI   MILANO    DAL    1836    AL    1848  263 

II  «  Pirata »,  foglio  teatrale  del  dottor  Francesco  Regli,  era  letto 
avidamente.  Luigi  Roman!  istituiva  il  «  Figaro  » ;  Pietro  Cominazzi 
la  «Fama»  che  esiste  tuttora;  il  signor  Pezzi  dettava  critiche  lette- 
rarie  e  teatrali  nel  Glissons:1  c'era  un  «  Bazar »  diretto  dal  Boniotti. 
Da  Torino  giungeva  fin  qui  il  «Messaggere  torinese»  diretto  dal 
Brofferio;  Firenze,  piu  tardi,  ci  mandava  una  «Rivista»  redatta  dal 
Montazio.  In  fatto  di  letteratura  periodica  non  si  andava  piu  in  la. 
-  Erano  per  la  massima  parte  fogli  teatrali,  ma  in  allora  il  teatro 
costituiva  la  massima  preoccupazione  della  societa  colta;  eppero  il 
«  Pirata»,  il «  Figaro  »  e  la « Fama»  erano  aspettati  avidamente  e  letti 
da  quanti  sapevano  leggere. 

II  caffe  del  Duomo,  emporio  di  letteratura  e  di  letterati,  offriva 
anche  il «  Politecnico  »,  e  la « Rivista  europea  »,  il «  Debats»,  la  «  Rivi- 
sta  piemontese  »,  P«  Allgemeine  »  ed  altri  pochi  periodici  provenienti 
dall'estero.  Nei  principal!  caffe  di  Milano,  all'infuori  della  «  Gaz- 
zetta»  e  del «  Pirata  »,  nessun  foglio  stampato.  I  pedanti  muovevano 
guerra  al  Manzoni,  e  stampavano  libelli  da  fare  raccapriccio.  Tom- 
maso  Grossi,  aggredito  accanitamente  dalla  critica  pe'  suoi  Lom- 
bardi?  abbandonava  iracondo  il  campo  delle  lettere  per  rifugiarsi 
nel  notariato. 

La  satira  inferociva  coi  grandi.  Tutte  le  ire,  le  contumelie,  le 
calunnie  che  oggidi  si  disfogano  nella  lotta  politica,  si  addensavano 
allora  sulle  teste  dei  poeti  e  degli  artisti,  e  su  quelle  andavano  a  ro- 
vesciarsi  furiose  e  mortifere.  £  la  storia  del  passato,  sara  la  storia 
deH'awenire.  Esistera  sempre  una  lega  di  inetti,  di  mediocri  e  di 
impotenti,  per  combattere  le  intelligenze  superiori,  per  contristare 
la  esistenza  di  chi  opera  ed  emerge. 

Si  mangiava  a  buon  patto,  e  un  vino  detestabile  si  smaltiva  dai 
brugnoni3  per  otto,  per  sei  soldi  al  boccale.  All'osteria  della  Foppa, 
si  pranzava  al  prezzo  di  una  lira  austriaca.  Quel  pranzo  si  compo- 
neva  di  tre  piatti,  minestra,  vino,  giardinetto.  Nell'osterie  ed  anco 
negli  alberghi  di  lusso,  la  mensa  era  rischiarata  da  candele  di  sego. 


i.  Francesco  Pezzi,  Testensore  delle  appendici  letterarie  della  « Gazzetta 
di  Milano »,  che  avevano  per  epigrafe  il  motto  Glissons,  n'appuyons  pas. 
Fu  tra  i  piu  accaniti  oppositori  dei  Romantici  e  tra  i  piu  costanti  bersagli 
della  satira  anticlassicista  del  Porta  (vedi  II  Romanticismo,  Apoll  desbirolaa 
de  la  veggiaja,  ecc.)  2.  J  Lombardi  alia  prima  Crociata,  poema  in  quindici 
canti  di  Tommaso  Grossi  (1791-1863),  era  stato  pubblicato  negli  anni  1821- 
1826.  3.  brugnoni:  osti  (voce  milanese). 


264  ANTONIO    GHISLANZONI 

Ad  ogni  mutamento  di  piatto,  il  piccolo  andava  in  giro  collo  smoc- 
colatoio  -  la  fuliggine  pioveva  nelle  zuppe. 

I  secchi  dei  lattivendoli  giravano  scoperti  nelle  vie,  o  solo  coperti 
da  uno  strato  di  mosche.  In  ogni  via  aprivasi  un  macello ;  i  suini  ed 
i  vitelli,  trascinati  brutalmente  sui  carri,  intronavano  dei  loro  ge- 
miti  le  vie.  - 1  monsignori  del  Duomo  si  distinguevano  per  la  ro- 
tondita  dell'addome :  gli  altri  ministri  del  culto,  meno  qualche  pro- 
fessore  damerino,  facevano  gara  di  collaretti  bisunti.  Delia  decenza 
pubblica  si  teneva  poco  conto.  Mentre  i  fianchi  del  Duomo  veni- 
vano  liberamente  usufruttati  per  sfogo  di  una  secrezione  meno 
pura;  presso  gli  scalini,  in  sul  far  della  notte,  si  davano  convegno 
barattieri  e  ruffiani  d'ogni  specie,  i  quali  senza  scrupolo  di  sorta, 
offrivano  ai  passanti  la  merce  proibita.  Nel  centro  della  citta,  a 
poca  distanza  della  cattedrale,  esistevano  case  di  vizio.  A  tutte  le 
ore  del  giorno,  le  piu  sozze  femminaccie  scendevano  in  sulla  porta, 
o  afPacciavansi  alle  fmestre,  e  colla  voce  o  con  gesti  laidissimi  invi- 
tavano  a  salire.  Ai  veglioni  della  Canobbiana  e  del  Carcano,1  eb- 
brezza  e  dissolutezza  inenarrabili.  In  una  notte  di  sabbato  grasso, 
al  teatro  Fiando,2  si  dovette  sospendere  il  veglione,  e  i  poliziotti 
fecero  sgombrare  la  sala,  perche  i  cavalieri  danzanti  s'erano  spo- 
gliati  infmo  alia  camicia. 

Risaliamo  alle  region!  elevate.  Marchesi  godeva  fama  di  scultore 
eminentissimo ;  Canella  e  Bisi  emergevano  nel  paesaggio;  Sabba- 
telli  era  insuperabile  negli  affreschi,  Molteni  chiamato  Timperatore 
dei  ritrattisti,  Sanquirico,  scenografo  della  Scala  e  cavaliere  di  piu 
ordini,  riceveva,  con  alterezza  principesca,  principi  visitatori.  Ros 
sini,  Bellini  e  Donizetti  fornivano  il  repertorio  musicale  ai  grandi  e 
piccoli  teatri.  Piacevano  due  o  tre  opere  di  Mercadante.  Pacini,  gia 
quasi  obliato,  nel  1842  riviveva  glorioso  colla  Saffo.3  Alia  Scala  si 


1.  Canobbiana  .  .  .  Carcano:  teatri  dove,  specie  durante  il  carnevale,  si  svol- 
gevano  balli  mascherati.  II  teatro  della  Canobbiana,  costruito  dal  Pier- 
marini  e  inaugurate  nel  1799,  fu  chiamato  cosi  perche  sito  sull'area  delle 
antiche  scuole  di  Paolo  da  Canobbio.  Piu  volte  danneggiato  e  modificato 
nelle  successive  ricostruzioni  e  1'attuale  Teatro  Lirico.  II  teatro  Carcano, 
inaugurate  nel  1805,  soprawive  ancor  oggi  in  corso  di  Porta  Romana. 

2.  Fiando :  teatro  scomparso  gia  sulla  fine  del  secolo  scorso ;  era  sito  nel 
pretorio  dell'antica  piazza  dei  Mercanti.     3.  La  Saffo  di  Giovanni  Pa 
cini  (1796-1867)  da  Catania  era  stata  rappresentata  la  prima  volta  a  Na- 
poli,  nel  1840.  II  Pacini  aveva  gia  avuto  molti  applausi  a  Milano,  nel  1813, 
con  1'opera  Annetta  e  Lucinda, 


STORIA   DI    MILANO    DAL    1836   AL    1848  265 

rappresentavano  con  successo  i  Falsi  Monetari  del  Rossi,1  lo  Sca- 
ramuccia  e  la  Chiara  del  Ricci,2  il  Furioso3  di  Donizetti,  il  Buon- 
tempone  del  Mandanici,4  tutte  opere  in  oggi  obliate  o  dannate  al 
ludibrio  dei  piccoli  teatri.  La  Malibran  era  morta,  la  Pasta  abban- 
donava  la  scena;  Rubini,  Lablache,  Tamburini,  Galli  e  gli  altri 
creatori  illustri  delle  opere  di  Rossini  e  di  Bellini,  emigravano  al- 
Pestero  per  cogliere  paghe  favolose  nei  teatri  di  Londra  e  di  Parigi. 
Salvi,  Moriani,  Ronconi,  la  Tadolini,  la  Strepponi,  la  Schober- 
lechner,  Poggi,  la  Frezzolini,  Guasco,  Debassini,  Ferri,  aprivano, 
con  altri  pochi  valenti,  1'epoca  nuova.  Fervide,  accanite  polemiche 
suscitavano  la  Cerrito  e  la  Taglioni;  una  pantofola  della  Cerrito  fu 
pagata  duecento  franchi.  LaElssler,  apparsa  piu  tardi,  faceva  obliare 
le  due  antagoniste  awenturate ;  il  pitale  della  Elssler  fu  comperato 
da  un  fanatico  al  prezzo  di  lire  seicento.  -  Nella  quaresima  del 
1842,  coll'opera  il  Nabucco,  si  palesava  un  nuovo  atleta  delParte 
musicale,  il  maestro  Giuseppe  Verdi.  Tutti  i  dotti  si  scatenarono 
atrocemente  contro  lui,  ma  il  pubblico  non  tardo  un  istante  a  ren- 
dergli  omaggio.  Gustavo  Modena  recitava  al  Lentasio5  la  Zaira,  il 
Luigi  XI,  YOreste,  il  Filippo?  e  di  la  passava  al  Carcano  ed  al  Re,7 
dove  la  sua  forte  e  poetica  declamazione  produceva  insoliti  effetti. 
Al  teatro  Re,  nella  stagione  di  quaresima,  recitava  periodica- 
mente  la  Compagnia  Sarda,  che  conto,  fino  all'ultimo,  attori  di- 
stintissimi.  La  Ristori,  al  fianco  della  Marchionni,  rappresentava 
le  parti  ingenue  ed  amorose,  tipo  ideale  di  bellezza.  NelParte  dram- 
matica  emergevano  il  Vestri,  attore  unico  nel  suo  genere,  il  Bon, 
il  Taddei,  il  Gattinelli,  il  Ventura,  la  Robotti,  la  Romagnoli,  il 
Dondini  -  Ernesto  Rossi,  Tommaso  Salvini,  la  Sadowski,  il  Ma- 

i.  Lauro  Rossi  (1812-1885)  di  Macerata,  direttore  del  Conservatorio  di 
Milano  dal  1856  al  1871,  aveva  dato  alle  scene  1'opera  La  casa  disabitata 
o  ifalsi  monetari,  la  prima  volta  a  Milano  nel  1834.  2.  Luigi  Ricci  (1805- 
1859),  di  Napoli  Piu  nota  la  Chiara  di  Rosemberg  (Milano,  1831)  che  lo 
Scaramucda.  3.  L' opera  teatrale  II  furioso  alVisola  di  San  Domingo  di 
Gaetano  Donizetti  fu  data  primieramente  alle  scene  nel  1833.  4.  Pla- 
cido  Mandanici  (1798-1852)  di  Barcellona  di  Sicilia,  diresse  a  Milano  una 
rinomata  scuola  di  ballo  e  composizione.  Autore  di  molte  opere  in  musica, 
compose,  tra  1'altro,  //  buontempone  di  porta  Ticinese,  dato  alia  Scala  il 
16  giugno  1841.  5.  Lentasio:  altro  teatro  milanese,  di  carattere  popolare, 
sul  corso  di  Porta  Romana.  6.  Zaira  e  una  tragedia  di  Voltaire;  il  Luigi 
XI  e  un  dramma  storico  di  Casimir  Delavigne  (1793-1843);  I'Oreste  e  il 
Filippo  sono  due  note  tragedie  delTAlfieri.  7.  Dal  nome  dell'impresario 
Carlo  Re  si  chiam6  il  teatro  che  sorgeva  nei  pressi  delTattuale  piazza  San 
Fedele.  Inaugurate  nel  1813,  fu  abbattuto  nel  1872  nei  lavori  di  sistema- 
zione  della  zona  contigua  alia  nuova  Galleria  del  Mengoni. 


266  ANTONIO    GHISLANZONI 

ieroni,  e  quasi  tutti  gli  attori  piii  illustri  dei  tempi  nostri,  aggregati 
alia  Compagnia  di  Gustavo  Modena,  si  ispiravano  alle  lezioni  ed 
agli  esempi  di  quel  grande.  La  Compagnia  Lombarda,  istituita  da 
Giacinto  Battaglia  e  diretta  dal  Morelli,  arruolava  sotto  le  sue  ban- 
diere  il  fiore  delle  giovani  reclute,  iniziando,  pel  teatro  drammatico, 
un'era  novella.  Scrivevano  per  la  scena  italiana  il  Bon,  il  Nota,  il 
Brofferio,  il  Giacometti  ed  altri  pochi.  Giacinto  Battaglia  e  Giu 
seppe  Revere1  fornivano  qualche  dramma  storico  non  si  tosto  ap- 
plaudito  che  obliato.  Goldoni  era  sempre  gustato.  II  repertorio 
di  Scribe  e  d'altri  autori  francesi  godeva  pieno  favore.  Si  tentarono 
per  la  prima  volta  le  tragedie  di  Shakespeare  e  di  Schiller;  YOtello, 
recitato  dal  Modena,  fu  al  teatro  Re  male  accolto;  assai  bene  il 
Wallenstein.  Una  tragedia  di  Manzoni,  recitata  parimenti  dal  Mo 
dena,2  ottenne  fredda  accoglienza.  Si  leggevano  avidamente  i  versi 
milanesi  del  Raiberti.3  II  primo  dramma  di  Revere,  Lorenzino  de' 
Medici,  levo  qualche  rumore.  Rovani,  a  dicianove  anni,4  pubbli- 
cava  un  romanzo  storico,  il  Lamberto  Malatesta.  Uberti5  esordiva 
alle  lettere  con  un  frammento  di  poema  in  versi  sciolti,  Le  quattro 
stagioni.  Tutti  i  romanzi  storici  e  le  novelle  storiche  apparse  dopo  i 
Promessi  Sposi  e  il  Marco  Visconti,  arieggiavano  lo  stile  di  Manzoni 
e  di  Grossi.  La  povera  tosa6  metteva  il  capo  dappertutto.  Correva 
manoscritta  una  mesta  poesia  in  morte  di  Silvio  Pellico,  ne  vi  era 
alcuno  che  non  sapesse  recitarla  a  memoria.  Quella  poesia  comin- 
ciava  coi  versi :  «  Luna,  romito  aereo,  tranquillo  astro  d'argento . . .  »7 

i.  Giuseppe  Revere:  vedi  la  nota  2  a  p.  300.  2.  Una  tragedia  .  .  .  Modena: 
il  Modena  recito  al  teatro  Re,  presente  il  Manzoni,  il  brano  del  diacono 
Martino  (Adelchi,  atto  iv,  scena  n)  e  non  1'intera  tragedia.  Vedi  R.  BAR- 
BIERA,  Vite  ardenti  ?iel  teatro,  Milano,  Treves,  1931,  p.  222.  3.  Giovanni 
Raiberti  (1805-1861)  di  Milano,  notissimo  per  le  sue  pagine  sul  gatto  (// 
gatto  e  la  coda,  1846),  aveva  scritto  molte  poesie  dialettali  (Le  strade  ferrate, 
Elpover  Pill,  I  fest  de  Natal,  ecc.).  4.  a  dicianove  anni:  Giuseppe  Rovani 
(1818-1874),  not°  soprattutto  per  il  suo  romanzo  /  cento  anni  (1868-1869), 
pubblic6  il  Lamberto  Malatesta  nel  1843,  a  venticinque  anni.  5.  Giulio 
Uberti  'di  Brescia  (1806-1876)  pubblico,  nel  '41  e  nel  '42,  L'inverno  e  La 
primavera,  poemetti  satirici  in  versi  sciolti.  6.  povera  tosa:  povera  ragazza 
(tosa  e  voce  milanese).  I  romanzi  narravano  allora  assai  spesso  i  casi  sventu- 
rati  di  fanciulle  perseguitate  dalla  passione  amorosa  di  prepotenti  signori. 
7.  Correva  .  .  .  d'argento:  la  poesia,  fortunatissima,  si  diffuse  anonima  fino 
al  1848,  quando  pote  essere  stampata  col  nome  dell'autore,  che  era  Giunio 
Bazzoni  (1801-1849)  di  Milano,  il  quale  partecipo  attivamente  ai  moti  delle 
Cinque  giornate.  La  lirica  era  stata  scritta  nel  1825,  allorche  si  era  diffu- 
sa  la  falsa  notizia  della  morte  del  Pellico  allo  Spielberg:  per  la  sua  tra- 
smissione  orale  subi  varie  trasformazioni,  anche  nei  primi  versi  (« romita, 
aerea»),  che  qui  il  Ghislanzoni  riproduce  invece  nella  loro  forma  genuina. 


STORIA   DI    MILANO    DAL    1836    AL    1848  267 

I  romanzi  del  Guerrazzi,  superato  il  confine,  passavano  da  mano 
a  mano,  divorati  ansiosamente  dai  giovani.  Giusti  e  Leopardi  erano 
poco  noti ;  del  Giusti  erano  lette  furtivamente  le  prime  poesie  che 
giravano  manoscritte.  Le  donne  idolatravano  Prati,  e  si  inteneri- 
vano  alle  amorose  peripezie  di  Ermenegarda.1  I  professori  di  ret- 
torica  ed  i  giovani  poetanti  inveivano  acerbamente  contro  il  gentile 
e  melodioso  poeta,  ma  tutti  poi  lo  imitavano,  e,  come  al  solito, 
lo  superavano  nei .  . .  difetti.  Le  opere  delPingegno  fruttavano  poco 
ai  mediocri,  ma  i  distinti  ne  coglievano  frutti,  comparativamente 
lautissimi.  Tommaso  Grossi  dai  Lombardi  alia  prima  Crociata  ri- 
trasse  da  quindici  a  ventimila  lire;  Cesare  Cantu  colla  Storia  Uni- 
versale  e  con  altre  opere  istoriche  pubblicate  dippoi,  arricchi.  Ma 
anche  allora  c' erano  poeti  e  letterati  che  facevano  pieta  a  vederli, 
quando  non  ispirassero  terrore.  Faccie  smunte,  soprabiti  scuciti,  e 
colli  da  stnizzo.  La  letteratura  piu  affamata  pranzava  alia  trattoria 
del  Popolo,  dove  non  pochi  cantanti  e  ballerini  gareggiavano  di 
appetito  coi  poeti.  Le  appendici  letterarie  e  teatrali  della  «  Gazzetta 
di  Milano»  portavano  alternativamente  i  nomi  di  Lambertini, 
Piazza,  Biorci,  Cremonesi.  Scrivevano  libretti  d'opera  Felice  Ro- 
mani,  Rossi,  Bidera,  Cammarano,  Sacchero  e  Giorgio  Giachetti. 
Nei  palchetti  della  Scala,  durante  la  rappresentazione  dell'opera,  si 
giuocava  a  tarocco  e  qualche  volta  si  cenava.  Nei  massimo  teatro 
le  panche  della  platea  erano  coperte  di  una  grossa  tela  giallastra; 
le  scale  nude  di  tappeti,  la  scena  illuminata  tetramente.  Alessandro 
Guerra,  famoso  equitatore,  godeva  una  fama  napoleonica.  -  Era 
gustata  la  birra  Tarelli,  e  qualche  signora  suggeva  deliziosamente 
la  gazosa  di  fambros.2  II  caffe  Mazza3  era  rinomato  per  la  confezione 
dei  sorbetti,  il  caffe  di  Brera  per  gli  squisiti  tortelli,  la  chiesa  di  San 
Marco  per  i  suoi  predicatori.  -  II  vicere  Rainieri,  la  sera  del  gio- 
vedi  santo,  si  prestava  gratuitamente  a  lavare  i  piedi  di  dodici  vec- 
chioni  dello  stabilimento  Triulzi:4  tutte  le  dame  e  i  gentiluomini  di 
buon  gusto  facevano  ressa  per  assistere  a  quello  spettacolo.  La 
contessa  Samayloff  si  rendeva  celebre  per  una  mascherata  di  gatti, 

i.  Ermenegarda:  la  novella  in  versi  del  Prati  si  intitola  Edmenegarda  e  fu 
pubblicata  a  Milano  nei  1841.  L'errore  del  testo  e  quasi  certamente  do- 
vuto  alia  stampa.  2.  fambros:  da  framboise  (lampone).  3.  caffe  Mazza: 
posto  all'angolo  del  Coperto  dei  Figini,  verso  la  Corsia  dei  Servi,  ora  corso 
Vittorio  Emanuele.  4.  stabilimento  Triulzi:  ricovero  di  vecchi  fondato  nei 
1771  dai  principe  Antonio  Tolomeo  Trivulzio,  nei  suo  palazzo  di  via  della 
Signora. 


268  ANTONIO    GHISLANZONI 

e  faceva  celebrare  con  pompa  inaudita  i  funerali  di  una  cagnolina. 
Uno  zigaro  di  Virginia  costava  due  soldi  di  Milano.  -  II  conte 
Giulio  Litta1  scriveva  delle  opere  musicali  applaudite,  su  libretti 
del  poeta  Rotondi  suo  pensionato.  Alia  Scala  piaceva  Ylldegonda, 
musica  e  poesia  di  Temistocle  Solera.2  -  I  matrimoni  dell'aristo- 
crazia  coll'arte  erano  rari  come  quelli  della  nobilta  col  commercio. 
Levo  immenso  rumore  il  matrimonio  della  contessa  Samayloff  col 
Pery,  un  oscuro  baritone  che  rappresentava  al  teatro  di  Como  la 
parte  di  Carlo  V  ntlVErnani.  -  Al  corso,  nella  prima  domenica  di 
quaresima,  non  apparivano  che  carrozze  ed  equipaggi  di  lusso. 
Non  esistevano  ancora  gli  ignobili  broughams.3  Una  dozzina  di  car- 
rozzoni  sepolcrali  facevano  il  servizio  della  intera  citta.  -  La  pro- 
cessione  del  Corpus  Domini  costituiva  uno  degli  spettacoli  piu  gran- 
diosi  e  piu  popolari  dell'epoca;  rampolli  di  illustri  famiglie  figura- 
vano  da  angioli  nel  corteggio.  Uomini  di  censo  e  di  una  serieta  in- 
discutibile  si  contendevano  Fonore  di  sostenere  il  baldacchino.  - 
Nelle  grandi  arsure  dell'estate  c'era  un  espediente  sicurissimo  e 
poco  complicato  per  ottenere  la  pioggia ;  si  esponevano  alia  pubblica 
venerazione  due  angiolotti  di  legno.  Le  fanciulle  da  marito  filavano 
Pamore  sentimentale  nei  boschetti  di  porta  Renza,  ai  Servi  ed  al 
Carmine,  durante  la  messa,  e  al  teatro  Filodrammatico.  Le  chiese 
erano  affollatissime  in  ogni  ricorrenza  di  triduo  serale;  giovinotti 
dai  venticinque  a  trent'anni  assistevano  alle  cerimonie  religiose 
col  ginocchio  piegato,  col  libro  delle  preghiere  nella  mano  destra. 
Questi  devoti  solevano  impiegare  abbastanza  vantaggiosamente  an- 
che  la  mano  sinistra.  -  Alia  Corona,  slYAgnello,  al  Falcone,  ai  Cap- 
pello,  e  in  tutti  gli  alberghi  di  tal  rango,  si  alloggiava  al  prezzo  di  una 
lira  al  giorno.  I  cittadini  erano  gai:  nelle  famiglie  si  giuocava  all'oca 
ed  alia  tombola  e  qualche  volta  si  faceva  un  po'  di  musica  e  si  bal- 
lava  all'oscuro.  Lotterio  e  Battezzati,  un  baritono  ed  un  basso  di 
lettanti,  venivano  festeggiati  nei  salotti.  II  principe  Emilio  Bel- 
gioioso  era  un  tenore  stupendo,  il  conte  Pompeo,  basso  profondo 
di  primo  ordine,  cantava  a  Bologna  lo  Stabat  Mater  di  Rossini.  - 

i.  Giulio  Litta  (1822-1891)  compositore  di  varie  opere  teatrali,  tra  cui 
Bianca  di  Santafiora  (1843),  Sardanapalo,  Editta  di  Lormo,  ecc.  2.  Te 
mistocle  Solera  (1817-1878)  di  Ferrara,  compositore  e  librettista,  scrisse 
rildegonda  (1840),  //  contadino  d'Agliata  (1846)  ecc.  Compose  vari  libretti 
per  opere  di  Giuseppe  Verdi.  3.  broughams:  carrozze  a  quattro  ruote  e  a 
due  posti.  Dal  vocabolo  pronunciato  correttamente  brum  derivo  la  voce 
milanese  brumisti,  cioe  vetturini. 


STORIA    DI    MILANO    DAL    1836    AL    1848  269 

Una  libbra  di  manzo  si  pagava  diciasette  soldi,  e  meta  della  popo- 
lazione  non  assaggiava  carne  che  alia  domenica  o  alle  grandi  solen- 
nita  della  Chiesa.  Si  parlava  meneghino  su  tutta  la  linea.  Al  Corso 
di  Porta  Renza  tutti  portavano  i  guanti;  sulla  porta  delFHagy  sta- 
zionavano  ancora  parecchi  milionari.  Saper  nulla  era  lusso,  moda 
Tinerzia  e  la  ciocca.1 

La  contessa  Samayloff  era  la  lionne  di  Milano.  Una  sera,  al  teatro 
Re,  ella  recito  con  molto  garbo  una  parte  principalissima  nel 
dramma  francese  Le  prime  armi  di  Richelieu.2  La  rappresentazione 
aveva  scopo  benefico,  e  il  canonico  Ambrosoli  sedeva  nelPatrio 
del  teatro  a  sorvegliare  il  bacile.  Le  dame,  per  invidia,  detestavano 
la  contessa ;  i  poveri  ne  dicevano  il  maggior  bene.  -  La  moglie  del 
vicere  Rainieri,3  dal  suo  palchetto  alia  Scala,  dardeggiava  col  bi- 
noccolo  i  giovinotti  piu  alia  moda.  Uno  dei  lions  piu  avidamente  6c- 
chieggiati  dalla  arciduchessa,  si  compiaceva  di  imbarazzarla  colle 
sue  pose  stranissime  e  non  affatto  decenti.  -  Produsse  gran  sensa- 
zione  un  incendio  awenuto  a  Corsico,4  che  divoro  buona  parte  del 
paese.  -  Un  fallimento  dava  materia  a  discorrere  per  parecchi  anni, 
e  la  famiglia  di  un  fallito  vestiva  a  lutto  o  spariva  dal  consorzio  cit- 
tadino.  -  In  fatto  di  equipaggi,  non  era  permesso  il  tiro  a  sei  che  a 
S.  A.  I.  R.  il  Vicere,  ed  a  Sua  Eminenza  monsignor  PArcivescovo.  - 
II  vicolo  delle  Ore  e  il  sottopassaggio  che  dalPinterno  del  Duomo 
metteva  alPArcivescovado  erano  i  punti  prescelti  pei  convegni  amo- 
rosi.  Verso  le  estremita  del  boschetto  pubblico  prospicienti  la  strada 
Isara,5  si  presentavano,  sul  far  della  notte,  dei  gruppi  mostruosi . . . 
L'osteria  dei  Tre  Scranni  si  rese  celebre  per  una  awentura  degna 
di  figurare  nel  Decamerone,  e  lo  sgraziato  protagonista,  che  fini 
imprigionato,  per  disdoro  della  curia  era  un  prete.  -  In  estate,  le 
bande  tedesche  chiamavano  al  cafFe  Cova  una  folia  mista  di  buon- 
temponi  e  di  fanciulle  da  marito.  L'ingresso  al  caffe  costava  mezza 
lira  e  questa  dava  diritto  alia  consumazione  di  un  gelato.  I  Baconi, 
i  Paumgartten  ed  i  Kaiser  fornivano  le  migliori  bande  musicali.  - 

i.  la  ciocca:  Tubriacatura.  2.  Les  premieres  armes  de  Richelieu,  ((vaude 
ville  »  in  due  atti,  rappresentato  per  la  prima  volta  in  Parigi  al  Theatre  du 
Palais  Royal,  la  sera  del  3  dicembre  1839,  di  Jean-Fra^ois- Alfred  Bayard 
(1796-1853)  e  di  Philippe  Francois  Pinel  Dumanoir,  o  Du  Manoir  (1806- 
1865).  3.  La  moglie ...  Rainieri:  Maria  Elisabetta  di  Carignano  (1800- 
1856),  sorella  di  Carlo  Alberto.  4.  Corsico:  sobborgo  di  Milano.  5.  la 
strada  Isara:  Fattuale  via  Palestro,  tra  la  piazza  Canonica  (oggi  piazza 
Cavour)  e  il  borgo  di  porta  Orientale  (corso  Venezia). 


270  ANTONIO    GHISLANZONI 

La  varieta  delle  monete  era  notevolissima  e  qualche  volta  imba- 
razzante,  contuttocio  il  popolo  ambrosiano  non  pote  mai  divezzarsi 
dal  contare  in  lire  milanesi.  Esistevano  spezzati  di  ogrd  valore:  il 
centesimo,  il  sesino,  il  tre  centesimi,  il  soldo,  il  carantano,  la  par- 
pagiuola,  il  tre  e  mezzo,  il  quartino,  il  nove  meno  un  quattrino,  il 
diciasette  e  mezzo,  il  dicianove  soldi  (tre  lire  di  Parma),  il  venti 
soldi.  II  valore  della  svanzica  ando  gradatamente  elevandosi  dai 
ventitre  ai  venticinque  soldi  di  Milano.  Fino  al  1848,  ebbero  gran 
voga  i  crocioni  e  i  quarti  di  crocione.  II  Trentanove1  ebbe  gli  onori 
di  una  brillante  poesia  dettata  da  Ercole  Durini,2  gentiluomo  ama- 
bilissimo  e  ricco  di  ingegno. 

Fra  le  monete  d'oro,  figuravano  ancora  le  pezzette,  gli  zecchini, 
le  colombie,  le  sovrane,  le  papaline,  le  messicane,  le  genove,  i  luigi, 
le  panne.  -  II  duca  Litta,  recandosi  a  Lainate  con  legno  di  posta,  a 
ciascun  postiglione  gettava  per  mancia  un  marengo.  I  ballerini 
ed  i  mimi,  notevoli  per  la  loro  chioma  raffaellesca,  stazionavano 
sulla  porta  del  caffe  della  Cecchina,  detto  dei  virtuosi.  Effisio  Catte 
faceva  colazione  nella  retro  bottega  del  salsamentario  Morandi; 
Cumirato,  un  tenore  in  perpetua  disponibilita,  pranzava  tutti  i 
giorni  deiranno  col  caffettiere  del  teatro  Re,  pagandolo  di  facezie 
e  di  epigrammi.  -  Non  esistevano  giornali  umoristici ;  il  «  Cosmo- 
rama  Pittorico  »,  istituito  dallo  Zini,  contava  settemila  abbonati.  - 
In  piazza  Castello  si  giuocava  al  pallone.  -  In  una  bottega  sulla 
Corsia  del  Duomo,  si  offerse  per  circa  sei  mesi  uno  spettacolo  di 
pulci  ammaestrate,  le  quali  eseguivano  diversi  esercizi  ginnastici; 
tutta  Milano  corse  ad  ammirarle.  -  II  Meneghino  Moncalvo3  re- 
citando  alia  Stadera  ed  alia  Commenda,  si  faceva  imprigionare  re- 
golarmente  due  volte  alia  settimana  per  Parditezza  delle  sue  allu- 
sioni  antiaustriache.  II  teatro  Santa  Radegonda,  a  cui  si  ascendeva 
per  una  scala  di  legno,  era  piu  angusto,  piu  sudicio  e  piu  tetro  che 
non  sia  al  presente.  -  Merelli,  impresario  del  teatro  alia  Scala, 
possedeva  una  superba  villa  a  Lentate,  e  dava  commission!  ai  piu 
celebri  pittori  e  scultori.  -  Rovaglia,  vestiarista  degli  imperiali  regi 

i.  //  Trentanove:  detto  piu  esattamente  trentanoeuv-men-on-quattrin  e  lo 
stesso  che  il  quarto  di  crocione.  2.  Ercole  Durini:  vedi  la  nota  i  a  p.  338. 
3.  Giuseppe  Moncalvo,  nato  nel  1781,  fu  detto  Meneghino  dalla  maschera 
rappresentata.  Spesso  trascorreva  le  notti  in  guardina:  a  volte  i  poliziotti  lo 
liberavano  per  le  ore  della  rappresentazione  e  lo  riconducevano  poi  in  pri- 
gione.  Ha  lasciato  una  breve  autobiografia  (Autobiografia  del  vecchio  artista 
Giuseppe  Moncalvo,  Milano,  L.  Brambilla,  1858). 


STORIA    DI    MILANO    DAL    1836    AL    1848  271 

teatri,  sfoggiava  sul  corso  un  magnifico  equipaggio,  -  L'agente 
Burcardi  veniva  giustamente  considerate  il  piu  magro  cittadino 
di  Milano.  -  L'abate  Gianni,  un  colossale  gigante,  regalava  pub- 
blicamente  due  schiaffi  al  figlio  di  Radesky,  che  lo  aveva  insultato, 
e  n'aveva  dal  generale  felicitazioni  ed  encomii.  -  Di  duelli  non  si 
udiva  parlare ;  le  quistioni  piu  complicate  si  scioglievano  col  metodo 
estemporaneo  dei  pugni  e  delle  reciproche  bastonature.  -  Le  teste 
dei  poliziotti,  nei  quartieri  di  porta  Ticinese  e  di  porta  Comasina, 
furono  piu  volte  sprofondate  nel  vano  dei  loro  keppy  torreggianti.  - 
I  barabba1  portavano  gli  orecchini  e  si  radevano  la  nuca;  i  garzoni 
da  macello  si  distinguevano  per  due  enormi  ricci  poco  simmetrici, 
striscianti  sull'orecchio.  -  Prima  del  1840,  il  tabarro  costituiva  Pin- 
dumento  invernale  piu  usitato.  Vi  erano  tabarri  da  quattro,  e  per- 
sino  da  otto  a  dieci  pellegrine.  II  paletot  veniva  generalmente  adot- 
tato  verso  il  1841.  -  II  giorno  di  Pasqua,  fosse  pioggia  o  bel  tempo, 
meta  della  popolazione  indossava  arditamente  gli  abiti  estivi.  II 
pantalone  di  nankin2  godeva  in  estate  il  massimo  favore.  Sul  Corso 
si  incontravano  ad  ogni  passo  delle  dame  seguite  da  un  domestico 
in  livrea.  I  cani  favoriti  dalle  signore  appartenevano  alia  razza  dei 
carlini  o  dei  maltesi.  -  Balzac  soggiornava  per  alcun  tempo  a  Mi 
lano,3  e  durante  quella  breve  dimora,  notava  che  le  figlie  delle  nostre 
portinaie  avevano  1'aspetto  di  altrettante  regine.  II  celebre  roman- 
ziere  veniva  derubato  di  una  preziosa  tabacchiera  che  ben  tosto  gli 
era  restituita  per  cura  delPimperiale  regio  direttore  di  polizia.  -  II 
baritono  Varesi  cantava  alia  Scala  nel  Corrado  d'Altamura  e  nella 
Saffo  di  Pacini.  -  Dal  Conservatorio  uscivano  famosi  istromentisti, 
il  Piatti,  il  Bottesini,  PArditi,  il  FumagallL 

Gli  allievi  del  Conservatorio  portavano  un'uniforme  poco  dis- 
simile  da  quella  dei  comrnissari  di  polizia,  vale  a  dire  una  marsina 
verde  scuro  con  bottoni  dorati  e  cappello  a  barchetta.  II  giovedi  e 
la  domenica,  quei  giovani  musicisti  delPawenire  passeggiavano 
a  schiera  sui  bastioni  e  sul  Corso.  L'alunno  Antonio  Cagnoni  scri- 
veva  la  sua  prima  opera  Don  Bucefalo*  mentre  a  Giuseppe  Verdi 


i.  /  barabba:  i  bravacci,  i  mafiosi.  2.  di  nankin:  di  anchina,  una  tela  di 
color  giallo,  che  proveniva  da  Nanchino,  cioe  dalla  Cina.  3.  Balzac  .  .  . 
a  Milano:  si  allude  quasi  certamente  alia  presenza  di  Balzac  a  Milano 
nel  1837.  4.  Antonio  Cagnoni  (1828-1896)  diede  il  Don  Bucefalo  nel  1847 
al  teatro  Re  di  Milano.  A  questa  prima  opera  molte  altre  ne  seguirono 
(II  testamento  di  Figaro,  1848;  Amori  e  trappole,  1850,  ecc.). 


272  ANTONIO    GHISLANZONI 

era  negata  Tammissione  nel  Conservatorio,  dietro  verdetto  di  un 
professore  di  pianoforte  onnipotente.1  II  maestro  Triulzi,  orribile 
a  vedersi,  dava  lezioni  di  canto  alia  bella  Finoli  ed  alia  Lotti.  Rolla, 
e  piu  tardi  Cavallini,  dirigevano  1'orchestra  della  Scala,  che  contava 
fra  i  suoi  migliori  istromentisti  TErnesto  Cavallini  solista  di  clari- 
netto,  il  Daelli  oboista,  Rabboni  professore  di  flauto  e  Merighi  pro 
fessore  di  violoncello.  Ferrara  creava  eccellenti  allievi  nel  violino. 
Angelo  Mariani,  bellissimo  giovane,  dirigeva  il  concerto  e  1'orche- 
stra  del  teatro  Carcano  nell'autunno  dell'anno  1846  e  nella  prima- 
vera  del  1847.  -  Alberto  Mazzucato2  scriveva  pel  teatro  delle  opere 
piu  o  meno  accette,  e  dettava  articoli  di  arte  nella  «  Gazzetta  Mu- 
sicale»,3  edita  dal  Ricordi.  Anche  il  Lucca,  editore  di  musica,  isti- 
tuiva  un  giornale  artistico  letterario,  l'«  Italia  Musicale»,  dove  il 
Cattaneo,  il  Raiberti,  il  Rovani,  il  Ceroni,  il  d'Azeglio,  il  Vitali  ed 
il  Piazza  scrivevano  articoli  svariatissimi.  II  cavaliere  Andrea  Maffei 
donava  all' Italia  le  sue  splendide  traduzioni  di  Schiller  e  di  Moore,4 
e  il  prevosto  Riccardi,  con  un  libro  nel  quale  si  prediceva  vicinissi- 
ma  la  fine  del  mondo,  destava  il  piu  vivo  alParme  nel  pubblico. 
Correvano  trascritte  brillanti  poesie  di  Ottavio  Tasca  in  onore  della 
Cerrito  e  della  Taglioni.  Tutte  le  strenne  che  uscivano  in  Milano 
portavano  una  ode  od  una  novella  di  Pier  Ambrogio  Curti.5  II 
maestro  Bonino  giungeva  desiderato  nelle  sale  della  piu  eletta  so- 
cieta  pel  brio  delle  sue  narrazioni,  per  lo  spirito  inventive  delle 
sue  celie.  Nelle  case  della  borghesia  furoreggiava  il  Rabitti,  con- 
traffacendo  il  ronzio  della  vespa,  lo  stridore  della  sega,  la  tosse  ed  il 
rantolo  dei  morenti.  Nelle  osterie  si  giuocava  alia  mora  fragoro- 
samente.  Sulla  porta  del  caiFe  Martini  brillava  il  vecchio  Catena, 
protettore  di  cantanti  e  ballerine,  che  viveva  da  signore  colla  ren- 
dita  di  un  capitale  non  piu  ingente  di  lire  diecimila.  Alia  Scala  si 
rappresentava  un  Don  Carlo  del  Bona,6  ed  a  Genova  un  Ernani 

i.  a  Giuseppe  Verdi ...  onnipotente:  cio  era  awenuto  nel  1832.  2.  Al 
berto  Mazzucato  (1813-1877)  di  Udine  esordi  come  operista  nel  1834, 
a  Padova,  con  Lafidanzata  di  Lammermoor,  e  continue  con  numerose  opere. 
Fu  insegnante,  dal  1839,  al  Conservatorio  di  Milano,  del  quale  divenne  poi 
(1872)  direttore.  3.  «  Gazzetta  Musicals*',  ne  fu  poi  redattore  lo  stesso 
Ghislanzoni.  4.  Di  Thomas  Moore  (1779-1852),  poeta  irlandese,  il  MafFei 
tradusse  le  Melodie  irlandesi  e  Gli  amori  degli  angioli.  Dello  Schiller,  invece, 
aveva  tradotto  tutti  i  drammi:  ed  e  questo  il  suo  lavoro  migliore.  5.  Pier 
Ambrogio  Curtt,  awocato,  ebbe  fama  a  Milano  per  le  sue  novelle,  ma  il  suo 
nome  resta  piuttosto  legato  al  volume  Tradizioni  e  leggende  di  Lombardia 
(1857).  6.  Pasquale  Bona  (1816-1878)  di  Cerignola,  compositore  e  inse 
gnante  di  canto. 


STORIA   DI    MILANO    DAL    1836    AL    1848  273 

del  maestro  Mazzucato.  L'attore  Giovanni  Ventura1  destava  fa- 
natismo  nel  Torquato  Tasso2  e  nel  Vagabondo?  e  pubblicava  una 
raccolta  di  poesie  in  dialetto  milanese,  scritte  col  miglior  garbo. 

Sulla  piazzetta  di  S.  Paolo,  le  botteghe  del  parrucchiere  Miglia- 
vacca  e  del  calzolaio  Brivio  rivaleggiavano  di  lusso  e  di  celebrita. 
II  Brivio,  nelPatto  di  prender  la  misura  ad  un  piedino  elegante  di 
donna,  si  compiaceva  di  esplorare  a  mezzo  di  uno  specchio  accol- 
lato  al  fondo  del  suo  cappello  e  deposto  ai  piedi  della  cliente,  i 
contorni  d'altre  polpe  piii  intime,  le  quali  non  reclamavano  la 
scarpa.  —  Lo  stabilimento  di  educazione  diretto  dal  signor  Racheli 
era  nel  massimo  fiore,  e  quivi  si  educavano  liberalmente  i  giovanetti 
delle  famiglie  piu  cospicue.  II  professore  abate  Pozzone4  pubbli 
cava  delle  liriche  manzoniane,  splendide  nel  concetto  e  nella  forma. 
Giuseppe  Barbieri5  teneva  il  primo  posto  fra  gli  oratori  ecclesia- 
stici,  e  un  altro  Barbieri,  credo  Gaetano,6  traduceva,  oltre  i  ro- 
manzi  di  Walter  Scott,  non  saprei  quante  centinaia  di  altri  romanzi. 

L'omeopatia  suscitava  polemiche  accanite,  e  il  Raiberti  vi  pren- 
deva  parte  colle  sue  satire  piene  di  attico  sale,  Un  Lanfontaine 
venuto  di  Francia  dava  i  primi  saggi  di  magnetismo  al  ridotto 
della  Scala.  La  fotografia  sulla  carta  non  era  peranco  inventata  od 
almeno  si  ignorava:  i  ritratti  al  dagherrotipo  su  lamina  di  zinco 
preparato,  costavano  da  dieci  a  venti  £ ranch!  cadauno,  riproducendo 
una  immagine  sbiadita  e  molto  spesso  enigmatica. 

La  grande  invenzione  degli  zolfanelli  fulminanti  data  dal  1834. 
Un  mazzetto  di  quegli  zolfini  greggi,  che  in  oggi  si  vendono  a  un 
soldo  la  dozzina,  in  sulle  prime  costava  dodici  soldi.  Per  piu  mesi 


i.  Giovanni  Ventura  (1800-1869)  fu  considerate  allora  poco  inferiore  a 
Gustavo  Modena.  Per  le  sue  poesie,  vedi  G.  VENTURA,  Poesie  milanesi  e  ita- 
liane,  Milano,  F.  Vallardi,  1859.  2.  II  Torquato  Tasso  cui  si  allude  e 
certamente  il  dramma  in  versi  di  Paolo  Giacometti  (1816-1882),  che  fu 
composto  nel  1855.  II  lavoro  piu  farnoso  .del  Giacometti  resta  La  morte 
civile.  3.  Vagabondo:  si  tratta  probabilmente  della  commedia  Un  vaga- 
bondo  e  la  sua  famiglia,  composta  nel  1835  da  Francesco  Augusto  Bon 
(1788-1858),  autore  e  attore  drammatico,  che  ha  lasciato  anche  un  libro 
di  memorie,  intitolato  Avventure  comiche  e  non  comichey  ed  ebbe  ai  suoi 
tempi  molti  ammiratori.  4.  Giuseppe  Pozzone  (1792-1842)  di  Trezzo, 
di  cui  furono  molto  lodati  i  versi  (anche  dal  Cattaneo)  e  che  oltre  a  varie 
poesie  (L?immortalita\  I  versi  a  mensa;  A  mia  madre;  Per  messa  novella, 
ecc.)  raccolse  anche  i  suoi  Sermoni  sacri  e  morali.  5.  Giuseppe  Barbieri 
(1774-1852)  di  Bassano,  celebre  come  oratore  sacro,  ma  anche  poeta,  e  di 
idee  liberali  che  gli  procurarono  persecuzioni.  6.  Gaetano  Barbieri,  che 
era  professore  di  matematica,  tradusse  anche  drammi  di  Shakespeare. 


274  ANTONIO    GHISLANZONI 

si  vendettero  al  prezzo  di  soldi  sei,  quindi  scesero  gradatamente 
fino  al  carantano.  Molti  vecchi  inorridivano  di  quel  trovato;  per  un 
momento  si  ebbe  a  temere,  che  in  seguito  ai  tanti  reclami,  alle 
tante  proteste  della  popolazione  antiquata,  lo  zolfanello  venisse 
proscritto  dalle  leggi.  Gli  istinti  del  pipistrello  e  del  gufo  son  propri 
della  maggioranza,  e  questa  fece  sempre  una  brutta  smorfia  ad  ogni 
sprazzo  di  luce.  L'inventore  dello  zolfino  fulminante  non  lascio 
traccie  del  suo  nome,  e  cosi  al  Prometeo  del  secolo  nostro  manco 
Fapoteosi  dei  carmi  e  dei  quadri  coreografici. 

L'arcivescovo  Gaisruck  e  il  conte  Mellerio1  si  detestavano,  fau- 
tore  quest'ultimo  delle  fraterie,  Taltro  nemico  e  oppositore  perti- 
nace.  I  liceisti  e  i  forestieri  delle  provincie  assistevano,  in  piazza 
del  Duomo,  al  concerto  quotidiano  della  banda  che  suonava  sotto  il 
palazzo  del  vicere.  Vaccai,2  1'autore  della  Giulietta  e  Romeo  e  d'altre 
opere  teatrali,  presiedeva  alia  direzione  del  Conservatorio.  Do 
nizetti  era  maestro  di  Corte  a  Vienna,  e  scriveva,  per  quel  teatro 
italiano,  la  Linda  e  la  Maria  di  Rohan?  Ogni  anno  egli  tornava  alia 
Bergamo  nativa  per  abbracciare  il  suo  vecchio  maestro  Simone 
Mayr,4  il  quale,  cieco  d'occhi  e  affranto  dagli  anni,  si  era  esclusi- 
vamente  dedicate  alle  composizioni  di  chiesa.  -  Ignazio  Marini,  il 
celebre  basso,  veniva  per  sempre  rinviato  dal  teatro  delPopera  di 
Vienna,  per  avere,  ad  una  rappresentazione  di  gala  a  cui  assisteva 
Pimperatore,  emessa  una  nota  troppo  profonda  che  nessuno  pote 
illudersi  gli  fosse  uscita  dal  petto.  -  A  quelPepoca,  gli  artisti  si 
prendevano  delle  strane  licenze,  e  il  governo,  purche  non  si  trat- 
tasse  di  licenze  politiche,  si  mostrava  tollerantissimo. 

Temistocle  Solera,  viaggiando  col  basso  Marini  da  Milano  a 
Stradella  in  legno  di  posta,  involto  nella  zimarra  teatrale  di  Fa- 

i.  Giacomo  Mellerio,  membro  della  Reggenza  milanese  alia  caduta  del 
Regno  d' Italia,  anima  della  Restaurazione  religiosa  dopo  il  ritorno  del- 
1' Austria.  2.  Nicola  Vaccai  (1790-1848)  di  Tolentino  fu  professore  di 
composizione  e  censore  del  Conservatorio  di  Milano  dal  1838  al  1844. 
L'opera  Giulietta  e  Romeo,  considerata  il  suo  migliore  lavoro,  e  del  1825. 
3.  Donizetti ...  Rohan:  Gaetano  Donizetti  fu  nel  1841-1842  a  Vienna 
« maestro  direttore  dei  concerti  privati»  di  Corte.  Nel  teatro  Viennese  di 
Porta  Carinzia  ebbero  grande  successo  le  sue  opere  Linda  di  Chamonix 
(1842)  e  Maria  di  Rohan  (1843).  4.  Giovanni  Simone  Mayr  (1763-1845), 
bavarese,  fu  maestro  di  cappella  nella  chiesa  di  S.  Maria  Maggiore  di  Ber 
gamo  e  direttore,  ivi,  della  Scuola  di  musica.  Gia  autore  di  musica  sacra, 
di  molti  oratori,  scrisse  circa  settanta  opere,  tra  cui  la  Saffo,  rappresentata 
a  Venezia  nel  1794. 


STORIA   DI    MILANO   DAL    1836    AL    1848  275 

Hero,1  trinciava  benedizioni  a  quanti  villani  si  trovavano  sul  di  lui 
passaggio,  e  questi  a  inginocchiarsi  e  fare  il  segno  della  croce. 

L'autore  di  questo  frammento  storico,  partito  da  Codogno  dopo 
una  rappresentazione  dQlYAttila,2  con  indosso  1'armatura  e  le  ma- 
glie  di  Ezio3  romano,  in  tale  abbigliamento  scendeva  alPAncora,  e 
quivi  prendeva  alloggio.  -  Un  giovane  scapato  e  di  mano  pronta 
applicava  due  schiaffi  sonori  alia  moglie  d'un  celebre  impresario 
nelFatrio  del  piu  vasto  teatro.  Un  tale  awenimento  fece  parlare  il 
mondo  milanese  per  dieci  anni  di  seguito.  -  Per  quanto  mi  dolga 
recar  sfregio  alia  tanto  vantata  moralita  di  quei  tempi,  non  debbo 
tacere  di  una  festa  da  ballo  privata,  ove  convennero  in  buon  numero 
persone  di  ambo  i  sessi,  abbigliate  nel  semplicissimo  costume  di 
Eva  e  di  Adamo.  La  polizia  austriaca  non  si  commosse  dello  scan- 
dalo  -  quei  danzatori  cosi  succinti  nelle  vesti  non  erano  persone 
da  cospirare  contro  la  sicurezza  dello  Stato.  Un  Congresso  di  scien- 
ziati  chiamo  gran  folia  a  Milano  nel  1846.  II  popolo  profitto  del- 
Foccasione  per  testimoniare  il  suo  rispetto  alia  scienza.  Nelle  trat- 
torie  si  gridava  al  cameriere:  —  Un  piatto  di  scienziati!  —  e  quegli 
a  recar  tosto  un  piatto  di  zucche  o  di  patate.  Anche  i  somarelli 
vennero  in  quell' epo ca  salutati  col  medesimo  titolo.  -Nobili  istinti 
delle  masse! 

Uomini  che  pensassero  all' Italia,  che  fremessero  del  servaggio 
straniero,  che  abborrissero  1' Austria,  erano  in  numero  assai  scarso. 
I  piu  ignoravano  che  un' Italia  esistesse.  Eppure,  qualcheduno  agiva 
in  secreto,  qualcheduno  scriveva,  qualcheduno  assume va  Fincarico 
pericoloso  di  propagare  i  fogli  di  Mazzini.  Allora  c' erano  rischi 
tremendi  a  parlare  di  politica,  foss'anche  col  piu  intimo  degli  amici. 
Taluni  che  troppo  osavano,  cadevano  in  sospetto  di  spie.  Le  Prigioni 
di  Silvio  Pellico  erano  ritenute  un  libro  ultrarivoluzionario.  Qual 
cheduno,  tremando,  osava  declamare  le  liriche  concitate  del  Ber- 
chet,  in  circolo  ristretto  di  conoscenti.  Tali  ardimenti  cominciavano 
verso  Fanno  1842. 

Si  impiegavano  sei  ore  per  trasferirsi  in  vettura  da  Milano  a  Pa- 


i.  II  Marin  Falierot  opera  di  Gaetano  Donizetti,  apparsa  sulle  scene  nel 
1838.  2.  L' opera  musicale  Attila  di  Giuseppe  Verdi  apparve  sulle  scene 
nel  1846,  a  Venezia.  3.  II  generale  romano  Ezio  nella  battaglia  dei  Campi 
Catalaunici  (451  d.  C.)  vinse  gli  Unni  guidati  da  Attila  e  ne  fronteggio 
ranno  successivo  Finvasione  in  Italia.  Fu  ucciso  nel  453  in  una  congiura 
di  palazzo  voluta  dalFimperatore  Valentiniano  III. 


276  ANTONIO    GHISLANZONI 

via;  non  era  permesso  di  varcare  senza  passaporto  i  confini  della 
Venezia. 

Le  maschere  carnevalesche  erano  insulse  e  indecenti.  Ai  veglioni 
della  Scala  non  era  permesso  lo  accedere  senza  Tabito  nero  e  un 
piccolo  domino  alia  spagnuola,  che  ordinariamente  si  prendeva  a 
nolo  per  dieci  o  venti  lire.  La  guerra  dei  coriandoli,  al  giovedi  e  al 
sabbato  grasso,  assumeva  proporzioni  intollerabili.  -  Recandosi  in 
autunno  alle  ville,  le  famiglie  patrizie  trasportavano  enormi  ba- 
gagli.  -  Gli  stradali  da  Milano  a  Varese,  e  quelli  della  provincia  di 
Lodi  e  Cremona  erano  infestati  di  ladri.  II  brigantaggio  scomparve 
lentamente  colPestendersi  delle  comunicazioni  e  colla  coltivazione 
dei  terreni  boschivi.  -  La  Valtellina,  la  Brianza,  i  colli  del  Vare- 
sotto  producevano  dei  vinetti  esilaranti.  II  Monterobbio  e  V Inferno1 
rivaleggiavano  coi  piu  famosi  vini  dell'estero.  Ogni  anno,  gli  ele- 
ganti  di  Milano  facevano  regolarmente  la  loro  comparsa  alia  sagra 
di  Imbevera2  ed  ai  mercati  autunnali  di  Lecco.  I  signori,  boriosi  e 
stolidissimi,  dopo  aver  vissuto  famigliarmente  in  campagna  con 
persone  del  ceto  medio,  negavano  a  queste  il  saluto,  scontrandole 
pochi  di  dopo  sul  lastrico  di  Milano.  -  I  Bergamaschi  alloggiavano 
alTAgnello,  i  Lecchesi  alia  Corona,  i  Pavesi  a  Sant*  Ambrogio  alia 
Palla  ed  al  Pozzo,  i  Lodigiani  al  Cappello  ed  al  Falcone.  Fra  quei  di 
Bergamo  e  quei  di  Milano  duravano  livori  e  rappresaglie.  -  La 
Pasta  e  la  Taglioni  comperavano  ville  sul  lago  di  Como.  II  poeta 
Ottavio  Tasca  sposava  la  Taccani  cantante.  II  poeta  awocato  Baz- 
zoni3  si  annegava  nelle  acque  del  Lario ;  tutti  gli  anni  qualche  po- 
vero  innamorato  si  gettava  dal  Duomo. 

Alia  morte  delParcivescovo  Gaisruk,  e  poco  dopo,  alia  entrata 
trionfale  del  suo  successore  Romilli,4  si  manifestavano  nelle  vie  i 
primi  segnali  della  insurrezione  latente.  In  piazza  Fontana,  in  una 
serata  di  luminaria  fatta  ad  onore  del  nuovo  arcivescovo,  echeggia- 

i.  Monterobbio  .  .  .  Inferno:  vini  rinomati;  il  primo,  prodotto  dai  vigneti  di 
Montarobio  (in  milanese  Monterobbi),  colle  presso  Merate  (Como);  1'altro 
della  Valtellina.  2.  sagra  d" Imbevera:  Bevera  e  il  nome  di  un  fiumicello 
della  Brianza  che  nei  pressi  di  Brenno  si  riversa  nel  Lambro.  Da  esso  ha 
nome  la  Madonna  d* Imbevera,  che  il  Cherubini  (Vocabolario  milanese- 
italiano)  dice  «santuario  di  poca  appariscenza,  ma  assai  frequentato  dai 
Brianzuoli .  .  .  e  1'8  di  settembre  anche  da  molte  persone  del  bel  mondo 
della  citta  di  Milano,  di  Bergamo  e  di  Como,  le  quali  v'accorrono  per  quella 
specie  di  festa  di  cui  il  Cantu  ha  difrusa  la  celebrita  colla  sua  Madonna 
d*  Imbevera  ».  3.  Bazzoni:  vedi  la  nota  sap.  266.  II  Bazzoni  mori  nel  1 849, 
cadendo  da  una  balza  delle  montagne  sopra  L&zzeno,  e  non  affogato  nelle 
acque  del  Lario.  4.  Gaisruk  .  .  .  Romilli:  vedi  la  nota  i  a  p.  314. 


STORIA   DI    MILANO   DAL    1836   AL    1848  277 

rono  le  prime  grida  di  Viva  Pio  IX.  I  dragord,  prorompendo  a  ca- 
vallo  nel  mezzo  della  folia,  misero  in  fuga  i  dimostranti,  e  un  povero 
fabbricatore  di  mobili,  certo  Ezechiele  Abate,  rimase  morto  sul 
terreno  .  .  . 

E  qui,  lettori  miei,  pongo  fine  al  mio  riassunto,  giacche  mi  pare 
di  aver  adunata  materia  sufficiente  per  riempire  i  due  volumi  com- 
messimi  dall'editore.  Certo  e  che,  descrivendo  gli  awenimenti  in 
ordine  di  date,  e  riproducendo  le  circostanze  di  luogo  e  di  persone 
con  tratti  piu  larghi,  ben  altro  mi  sowerra  alia  mente,  che  qui  venne 
omesso  per  oblio.  Ma  questo  breve  ed  informe  sommario  non  potra 
a  meno  di  suggerire  dei  confronti  e  di  provocare  vivaci  discussion! 
fra  gli  insanabili  adoratori  del  passato  e  i  fanatici  dell' era  presente. 
In  poche  parole  esprimero  Pawiso  mio.  AlPepoca  teste  descritta, 
la  citta  di  Milano  contava  i  milionarii  in  maggior  numero,  ma  Pagia- 
tezza  era  minore  assai  nelle  classi  borghesi  e  nelle  masse  che  vivono 
d'arte  o  d'industria.  II  patriziato  e  1'alto  commercio  sfoggiavano 
un  lusso  abbagliante,  ma  il  cilindro  obbligatorio  del  calzolaio,  del 
salumiere,  del  pittore,  del  letterato  e  delPimpiegato,  brillava  di  un 
lucicore  miserevole  che  ricordava  allo  sguardo  le  traccie  bavose  del- 
la  lumaca.  II  vestito  di  seta  non  era  sceso  alia  donna  del  popolo; 
e  la  sartorella  sollevando  la  gonna  per  trapassare  i  frequenti  riga- 
gnoli,  metteva  in  mostra  delle  calze  e  delle  sottane  piu  atte  a  de- 
primere  che  a  suscitare  i  salaci  istinti  di  un  ammiratore.  In  lettera- 
tura,  emergevano  delle  individuality  piu  distinte,  ma  la  massa  del 
popolo  era  quattro  volte  piu  idiota.  C'erano  persone  serie,  che  si 
occupavano  di  sen  studi,  che  pubblicavano  seriissimi  lavori,  ma  le 
crasse  maggioranze  ne  pensavano,  ne  studiavano,  ne  leggevano.  La 
musica  era  in  fiore,  ma  assai  meno  compresa  che  oggigiorno :  si  ap- 
plaudivano  con  fanatismo  degli  insigni  capolavori  ma  altresi  veni- 
vano  acclamati  degli  aborti  oggidi  intollerabili.  II  ceto  lavorante 
spendeva  meno  per  vivere,  ma  era  meno  retribuito.  Notevolissima, 
in  ogni  modo,  esemplarissima  e  degna  della  massima  ammirazione 
era  a  quei  tempi  la  rassegnazione  a  pagare  il  testatico,  a  sopportare 
i  balzelli,  a  subire  i  prestiti  forzosi,  a  sopportare  i  rabuffi  e  le  fru- 
state  degl'imperiali  regi  commissarii  di  polizia,  ed  anche  la  basto- 
natura  dei  sergenti  croati. 

E  questa  rassegnazione,  questa  pazienza  nel  subire  tanti  malanni, 
si  chiamava  amore  del  quieto  vivere. 

Lecco  -  iSo. 


GIOVANNI  VISCONTI  VENOSTA 


PROFILO  BIOGRAFICO 


GIOVANNI  VISCONTI  VENOSTA  nacque  a  Milano  il  4  settembre 
1831  da  Francesco  e  da  Paola  Borgazzi,  secondo  di  tre  figli  maschi, 
che  Emilio,  il  primogenito,  aveva  tre  anni  piu  di  lui,  e  altrettanti 
ne  correvano  dal  minore,  Enrico. 

La  famiglia  era  oriunda  della  Valtellina  e  i  suoi  maggiori  vi  ave- 
vano  dimorato  costantemente,  legati  a  Tirano  e,  specialmente,  a 
Grosio  da  ampie  proprieta  terriere,  ed  anche  dalla  attivissima  parte 
sostenuta  nelle  vicende  storiche  della  regione.  Era  stato  il  nonno, 
Nicola,  a  fissarsi  per  primo  a  Milano,  dal  1823,  e  vi  era  morto  nel 
1828.  Da  allora  la  famiglia  alternava  le  sue  residence  con  le  sta- 
gioni,  che  Testate  e  buona  parte  deH'autunno  si  spostava  in  Valtel 
lina,  per  passare  poi  a  Milano  gli  altri  mesi  delTanno. 

I  Visconti  Venosta,  di  origine  nobile,  erano  legati  di  amicizia  a 
varie  famiglie  aristocratiche  milanesi,  soprattutto  a  quelle  di  spiriti 
liberali,  che  erano  allora  le  piu  numerose.  I  fanciulli  iniziarono  i 
loro  studi  nelFistituto  Boselli,  che  era  il  piu  stimato  degli  istituti 
privati  di  Milano,  ma  piu  ancora  trovarono  una  intelligente  guida 
nel  padre,  uomo  colto  e  aperto  ai  problem!  del  tempo.  Risentirono 
percio  anche  piu  fortemente  della  sua  morte  immatura,  awenuta 
nel  1846.  Da  allora  continuarono  gli  studi  un  po'  disordinatamente, 
con  maestri  privati,  spesso  distratti  dagli  awenimenti  politici  che 
rapidamente  si  susseguirono  in  quegli  anni  fortunosi  e  che  li  tra- 
scinarono  presto,  come  elementi  attivissimi,  nel  turbinoso  pro- 
gredire  del  nostro  Risorgimento.  Pure,  la  loro  vita  intellettuale  si 
svolse  ugualmente  vigorosa:  frequentavano  assiduamente  la  casa 
di  Cesare  Correnti,  cui  il  padre,  morendo,  li  aveva  raccomandati, 
e  che  raccoglieva  intorno  a  se  molti  degli  ingegni  e  degli  spiriti  piu 
vivaci  del  tempo:  da  quelle  conversazioni  Emilio  e  Giovanni  trae- 
vano  stimolo  a  nuove  idee  e  a  sempre  nuove  letture,  soprattutto 
degli  scrittori  risorgimentali,  e  Giovanni  ricorda  nelle  sue  memorie 
la  passione  con  cui  allora  scopri  D'Azeglio,  Guerrazzi,  Giusti, 
Gioberti,  Balbo,  Mazzini  e  1'influenza  che  esercitarono  su  lui  i  versi 
del  Berchet. 

In  realta,  Giovanni  era  allora  in  troppo  tenera  eta  perche  aweni 
menti  e  letture  potessero  gia  far  sorgere  da  lui  notevoli  frutti,  come 
invece  aweniva  per  Emilio.  Fin  da  quei  tempi  egli  viveva  aH'ombra 


282  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

del  fratello  maggiore,  ne  seguiva  le  orme:  e  fu  questa,  anche  dopo, 
la  sua  sorte,  tanto  fu  il  rilievo  che  acquisto  Emilio  nella  vita  italiana. 
Sicche  spesso  gli  studiosi,  postisi  a  ricostruire  la  figura  di  Giovanni, 
hanno  finito  col  narrare  ad  un  tempo,  almeno  per  il  periodo  che  va 
fino  al  1859,  la  comune  esistenza  dei  due  fratelli.  II  che  awenne 
allo  stesso  Giovanni  nel  ripercorrere  i  suoi  ricordi.  Insieme  essi  ap- 
plaudirono  a  Pio  IX  e  alle  sue  riforme,  si  dolsero  della  morte  del 
Confalonieri,  parteciparono  alle  dimostrazioni  in  onore  del  nuovo 
vescovo  di  Milano,  il  Romilli,  succeduto  al  tedesco  Gaisruck,  in- 
dossarono  giacche  di  velluto,  ostentarono  cappelli  alia  calabrese. 
Vissero,  insomma,  i  notissimi  episodi  della  Milano  del  tempo,  fino 
alle  Cinque  giornate,  pur  sostenendovi,  naturalmente,  una  assai 
diversa  parte,  come  comportava  la  loro  eta.  Cosi,  mentre  Emilio, 
gia  studente  universitario,  si  arruolava  tra  i  volontari  di  Garibaldi 
nel  '48,  Giovanni,  ancora  diciassettenne,  era  costretto  a  restare  con 
la  madre  ed  Enrico,  e  a  rifugiarsi  poi  con  essi  nel  Canton  Ticino, 
a  Bellinzona. 

Ma  tracciare  la  vita  di  Giovanni  in  quei  tempi  significherebbe 
ripercorrere  le  vicende  del  Risorgimento :  anch'egli  ascolto,  entu- 
siasta,  a  Lugano,  il  Mazzini;  soffri  della  presenza  dei  Croati  in 
Milano  e  in  Valtellina;  si  riempi  di  amarezza  per  la  sconfitta  di 
Novara,  il  dramma  di  Brescia,  la  caduta  di  Venezia  e  di  Roma.  Se- 
guirono  anni  di  grigiore  e  di  raccoglimento,  ma  anche  di  viva 
resistenza  al  dominio  straniero.  Le  universita  restavano  chiuse,  il 
Teatro  alia  Scala  era  affollato  di  ufficiali  austriaci,  le  sale  di  scherma 
e  le  palestre  ginnastiche  erano  state  serrate.  Non  vi  erano  giornali, 
se  non  quelli  governativi.  NeU'ombra,  veramente,  si  ricostruivano 
i  comitati  mazziniani,  ma  gia  i  fratelli  Visconti  si  venivano  allon- 
tanando  dai  repubblicani  e  si  orientavano  verso  altre  concezioni 
politiche.  Giovanni  organizzo  con  altri  amici  nel  palazzo  dei  suoi 
cugini  Parravicini  una  sala  di  scherma  con  sciabole  di  legno,  e  una 
palestra ;  divenne  assiduo  nel  salotto  della  contessa  Maffei,  in  casa 
di  Carmelita  Manara,  di  Emilio  Dandolo ;  fu  tra  i  collaborated  del 
«Crepuscolo»  insieme  col  fratello  Emilio.  Intanto  la  repressione 
austriaca  diventava  piu  dura,  i  nuclei  mazziniani  erano  scompagi- 
nati  da  arresti  e  condanne  (Antonio  Sciesa,  don  Giovanni  Griola 
ecc.),  si  iniziavano  i  processi  di  Mantova,  falliva  miseramente  la 
rivolta  mazziniana  del  6  febbraio  del  '53,  trascinandosi  dietro  come 
funebre  scia  nuove  forche  ed  altri  martiri.  Giovanni  ed  Emilio 


PROFILO   BIOGRAFICO  283 

guardavano  ormai  al  Piemonte,  speravano  nel  Cavour,  si  esaltavano 
per  la  spedizione  di  Crimea,  seguivano  ansiosi  il  Congresso  di  Pa- 
rigi.  Una  vita,  in  sostanza,  cosi  intimamente  scandita  nel  ritmo 
degli  awenimenti  storici,  da  non  potersi  distinguere  da  essi,  da 
formare  una  inscindibile  unita.  Di  veramente  personale,  in  quegli 
anni,  vi  fu  solamente  il  lungo  viaggio  che  nel  1853  Giovanni  effettuo 
col  fratello  Emilio  fino  in  Sicilia,  dal  luglio  al  settembre:  ma  a  ben 
guardare,  anche  quel  viaggio  fu  compiuto  con  occhi  sempre  vigili 
e  intenti  a  scoprire  se  vi  fossero  speranze  per  1*  Italia. 

Pure,  sarebbe  in  errore  chi  ripensasse  quei  giovani  come  alfie- 
rianamente  tesi  in  una  lotta  senza  riposo.  Anche  la  lotta  aveva  le 
sue  pause  di  sorriso,  che  la  mostrano,  proprio  per  questo,  piu 
umana.  Nel  '55,  a  Tirano,  Giovanni  rallegrava  se  stesso  e  gli  amici 
con  quei  versi  senza  senso,  alia  Burchiello,  che  faceva  declamare  a 
un  sarto,  attore  dilettante,  nel  teatro  del  luogo;  nello  stesso  anno 
metteva  in  scena,  in  casa  di  donna  Giulia  Carcano,  a  Milano,  una 
commediola  scherzosa,  Nicolb  o  la  questione  d' orient  e,  in  cui  gli  at- 
tori  recitavano  imitando  le  marionette,  e  rappresentando  la  guerra 
russo-turca,  allora  iniziata,  con  una  buffonesca  parodia,  che  la  po- 
lizia  austriaca  si  afrretto  a  proibire;  nel  '56  componeva  quello 
scherzo  poetico,  La  partenza  del  crodato,  che  ebbe  tanta  fortuna. 
Ed  erano  gli  stessi  anni  in  cui  le  citta  della  Lombardia  ofFrivano 
ognuna  un  cannone  alia  fortezza  di  Alessandria,  e  alia  patriottica 
manifestazione  partecipava  anche  la  Valtellina,  auspice  Giovanni 
Visconti.  Del  resto,  anche  la  resistenza  organizzata  due  anni  dopo, 
nel  '58,  contro  le  blandizie  di  Massimiliano  d' Austria,  nuovo  go- 
vernatore  del  Lombardo-Veneto,  mostra  un  miscuglio  di  durezza 
e  di  scherzo:  nacque  in  un  salotto,  come  una  bravata,  1'idea  di 
sfidare  a  duello  chiunque  si  awicinasse  all'arciduca  austriaco,  ma 
la  bravata  cre6  poi  impegni  e  pericoli  non  lievi. 

Momento  culminante  delle  manifestazioni  antiaustriache  in  Mi 
lano  fu  per  i  fratelli  Visconti  il  funerale  di  Emilio  Dandolo.  II  loro 
atteggiamento,  soprattutto  quello  di  Emilio,  mette  in  moto  la  po- 
lizia.  Diviene  necessaria  la  fuga:  quella  di  Giovanni  oscilla  fra  il 
tragico  e  il  comico,  come  si  puo  leggere  nelle  pagine  dei  Ricordt 
che  abbiamo  riprodotto.  A  Torino  si  ritrovano  insieme  i  due  fratelli, 
poco  prima  della  dichiarazione  di  guerra.  Giovanni  si  iscrive  tra  i 
volontari  comandati  dal  Mezzacapo,  fa  parte  col  fratello  della  com- 
missione  consultiva  di  lombardi  chiamati  a  proporre  i  decreti  am- 


284  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

ministrativi  da  emanare  appena  occupata  la  Lombardia.  Iniziata 
Poperazione  militare,  Emilio  diviene  commissario  regio  al  campo 
di  Garibaldi,  Giovanni  e  nominate  commissario  regio  per  la  Val- 
tellina.  Da  questo  momento  la  vita  dei  due  fratelli  si  svolge  su  vie 
diverse.  Emilio  andra  a  Modena  a  raggiungere  il  Farini,  vi  lavorera 
dopo  Villafranca  per  le  annessioni,  correra  a  Napoli  nel  1860  e  si 
awiera  rapidamente  a  quelle  funzioni  di  primo  piano  che  lo  ve- 
dranno  per  ben  sette  volte  ministro  degli  esteri  del  Regno  d'  Italia, 
nel  periodo  dal  1863  al  1901.  Giovanni,  finite  il  suo  commissariato 
in  Valtellina,  sopraggiunto  Parmistizio  di  Villafranca,  tornera  a 
Milano.  Da  allora,  la  sua  esistenza  si  svolgera  su  un  piano  che  po- 
tremmo  chiamare  municipale.  Presidente  del  comitato  di  soccorso 
per  Pemigrazione  veneta,  vi  compira  a  lungo  un'azione  benefica, 
preparazione  lontana  delPannessione  della  Venezia  nel  1866;  scri- 
vera  per  un  anno  di  argomenti  letterari  nel  giornale  «  La  perseve- 
ranza»,  dopo  che  il  «  Crepuscolo  »  avra  interrotto  la  sua  pubblica- 
zione;  diverra  assessore  della  Giunta  di  Milano  nel  1860,  in  seguito 
alle  prime  elezioni  di  quel  municipio,  e  sara  attivo  collaborator, 
con  questa  carica,  del  primo  sindaco  di  Milano,  Antonio  Beretta. 
Sono  gli  anni  in  cui  egli  diresse  al  comune  la  pubblica  istruzione, 
e  poi  i  servizi  urbani,  sempre  continuando  a  far  parte  della  com- 
missione  scolastica.  Nel  1865  fu  eletto  deputato  per  il  primo  col- 
legio  di  Milano.  Divenne  presidente  delPAssociazione  costituzio- 
nale  milanese,  presiede  per  undici  anni  PAssociazione  generale  de 
gli  operai,  fu  posto  a  capo  della  Societa  autori  ed  editori  dal  1886  al 
1906.  Aveva  compiuto  da  poco  settantacinque  anni,  quando  soprag- 
giunse  la  morte,  il  i°  ottobre  del  1906. 

Ma  piu  che  il  succedersi  delle  molteplici  cariche  interessa  in- 
vece,  per  tracciare  un  suo  profilo,  Pattivita  letteraria  che  egli  svolse, 
gli  scritti  da  lui  pubblicati  dopo  il  1870. 

Nel  suo  primo  gruppo  di  Novelle,  raccolte  in  volume  dal  Le 
Monnier  di  Firenze  nel  1884,  figurano  tre  lunghi  racconti,  Una 
scappata  fuori  del  nido^  Lo  scartafaccio  delVamico  Michele^  L'avvo- 
cato  Massimo  e  il  suo  impiego :  il  secondo  dei  quali  riapparve  succes- 
sivamente,  in  volume  separato,  presentandosi  con  Paspetto  di  ro- 
manzo  piu  che  novella.  In  realta,  se  non  per  la  loro  ampiezza,  certo 
per  la  varieta  delle  vicende,  dei  personaggi,  degli  ambienti,  tutti  e 
tre  i  racconti  si  potrebbero  considerare  dei  romanzi.  II  primo,  che 
reca  il  sottotitolo  Memorie  di  Alberto,  narra  in  prima  persona  di  un 


PROFILO    BIOGRAFICO  285 

giovane  provinciale  trascinato  e  illuso  da  comitati  rivoluzionari, 
in  cui  e  evidente  la  parodia  degli  agitator!  mazziniani:  e  anche  ir- 
retito,  a  Milano,  dalla  sua  stessa  vanita,  per  cui  si  fa  credere  nobile 
e  di  ricchissima  famiglia.  Naturalmente,  come  non  dura  la  sua 
finzione,  cosi  Alberto  si  awede  fmalmente  dell'ingannevole  vani- 
loquio  e  del  meschino  imbroglio  dei  suoi  compagni  cospiratori: 
sicche  se  ne  torna  al  paese  rinsavito,  e  subito  dopo  anche  purificato 
dalla  guerra  del  '66,  cui  partecipa  da  valoroso.  Racconto,  evi- 
dentemente,  a  tesi,  con  una  sua  morale,  che  vorrebbe  ammonire 
a  non  uscire  dal  proprio  guscio,  a  non  lasciarsi  illudere  da  fanatismi 
rivoluzionari,  ma  rimanere  ben  fermi  nella  scia  ufEciale,  monarchica 
del  nostro  Risorgimento,  senza  eccessive  ambizioni  e  pericolose 
vanita.  L'intento  morale  e  sociale  appare  cosi  scoperto  che  a  volte 
il  racconto  ne  e  fortemente  turbato,  anche  se  la  sincerita  degli 
ideali,  il  candore  delle  intenzioni,  la  fluidita  della  prosa  ne  ren- 
dono  ancora  piacevole  la  lettura.  Ne  diversa  impressione  suscita 
il  secondb  racconto,  in  cui  un  anziano  personaggio,  Michele, 
dopo  avere  intensamente  operate  per  il  Risorgimento  nazionale, 
ormai  convinto  d'esser  vecchio  e  malato,  ed  ancor  piii  amareg- 
giato  e  deluso  di  non  ritrovare  nella  realta  quella  patria  ideale  per 
cui  ha  combattuto,  decide  di  ritirarsi  da  ogni  attivita  e  rifugiarsi 
nel  suo  piccolo  paese  natio.  Ma  lo  spettacolo  di  ingiustizie  e  di 
intrighi,  di  prepotenze  e  di  corruzione  che  gli  si  presenta  nel  suo 
Borghignolo,  lo  trascina  a  riprendere  la  sua  operosita  civile,  a  in- 
tervenire  nella  vita  del  suo  comune,  a  divenirne  il  sindaco.  Un 
chiaro  invito,  in  sostanza,  alia  generazione  che  aveva  lottato  fino 
alia  proclamazione  del  Regno  d*  Italia,  perche  non  si  mettesse  da 
parte  e  mantenesse  invece  nelle  sue  mani  oneste  e  sicure  Pammi- 
nistrazione  del  paese,  minacciata  dalla  gente  nuova.  E  un  racconto 
a  tesi  e  anche  il  terzo,  che  Pawocato  Massimo  lascia  il  suo  paesello 
di  Castelrenico,  dove  vive  agiatamente,  aspirando  a  un  alto  impiego 
che  un  amico  deputato  gli  ha  fatto  vagamente  sperare :  e  se  ne  va  a 
Milano,  e  consuma  ogni  suo  avere  nelPattesa  di  quell'impiego  e  si 
affanna  a  mantenere  se  stesso,  e  la  famiglia  che  si  e  creata,  in  un 
tenore  di  vita  insostenibile,  ma  che  gli  appare  necessario  perche 
queirimpiego  gli  sia  finalmente  concesso.  Ma  quando  la  nomina 
viene,  si  tratta  di  un  cosi  misero  posticino,  che  solo  la  contempo- 
ranea  rovina  economica  lo  induce  ad  accettarlo :  e  si  trascina  allora 
per  lontani  paesi,  fra  difficolta  e  pericoli,  e  perde  infine  la  moglie  e 


286  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

Timpiego  stesso,  finche  la  mano  affettuosa  di  un  amico,  che  ha  avuto 
la  saggezza  di  restare  a  lavorare  a  Castelrenico  e  vi  ha  fatto  fortuna, 

10  rialza  da  tanto  awilimento  e  rovina,  e  lo  riconduce  al  paese  verso 
una  nuova  vita. 

Letteratura,  dunque,  con  intenti  civili,  che  si  propone  di  conti- 
nuare,  in  diverse  modo,  quell'operosita  e  queirapostolato  patriot- 
tico  gia  svolti  dal  Visconti  nel  periodo  precedente.  Era  questo,  del 
resto,  un  orientamento  alquanto  diffuse,  che  in  quei  medesimi  anni 

11  De  Amicis  scriveva  le  sue  varie  opere  per  educare  gli  italiani  ai 
suoi  ideali.  Ma,  certo,  assai  minore  era  nel  Visconti  la  capacita 
architettonica,  che  i  suoi  racconti,  anche  quelli  che  compose  negli 
anni  successivi,  sembrano  spesso  incompleti,  e  le  vicende  restano 
abbandonate  alia  fantasia  del  lettore,  appena  la  tesi  che  lo  scrit- 
tore  si  era  proposta  ha  raggiunto  una  sufficiente  dimostrazione. 
In  compenso,  e  molto  piu  dominata  la  sentimentalita,  che  nel  De 
Amicis  invece  tende  ad  effondersi  senza  freno :  e  vi  e  maggior  cura 
nel  ritrarre  uomini  e  cose  della  provincia,  quasi  per  un  parziale 
affermarsi  degli  orientamenti  veristici.  Certi  personaggi  -  il  far- 
macista,  il  fornaio,  la  ragazza  di  paese,  Martin  matto,  i  cospiratori 
di  provincia  —  sono  gia  curati  con  un  gusto  delP  ambient  e,  che  fa 
da  contrasto  all'intento  civile  e  a  volte  lo  travolge  in  una  creazione 
piu  disinteressata.  Manzoniana,  invece,  e  ancora  la  prosa,  con  quel 
suo  fluire  pacato  e  il  piacere  dell'ironia:  ma  tanto  piu  fresca  e  agile 
quanto  meno  profondo,  infmitamente,  e  lo  spirito  da  cui  e  nata. 

Molte  di  queste  osservazioni  potrebbero  ripetersi  per  //  curato  di 
Orobio  (1886),  dove  1'influsso  del  Manzoni  e  anche  piu  evidente 
nella  stessa  trama.  Enrico  e  Cristina,  due  giovani  di  diversa  condi- 
zione  sociale,  il  cui  amore  e  awersato  dalla  nobildonna  Flavia,  zia 
e  tutrice  della  giovinetta,  ma  e  fortemente  protetto  dal  curato  don 
Cornelio,  giungono  dopo  molteplici  peripezie  a  potersi  unire  in 
matrimonio. -L'interesse  del  racconto,  piu  che  sui  motivi  sociali, 
si  appoggia  tutto  sulla  contrapposizione  di  un  clero  fortemente 
evangelico,  liberale,  patriottico,  che  ha  la  sua  idealizzata  figura  in 
don  Cornelio,  e  un  clero  zotico,  calcolatore,  meschino.  Si  coglie 
Fansia  di  una  riforma  morale  del  sacerdozio,  il  desiderio  di  vederlo 
rinnovato  da  un  ritorno  alia  purezza  evangelica :  atteggiamenti  che 
certo  precorrono,  sebbene  in  modo  vago,  quelli  di  cui  sara  dopo 
pochi  anni  vivace  esponente  Antonio  Fogazzaro,  ma  che  in  buona 
parte  derivano  anche  dal  ricordo  dei  tanti  sacerdoti  caldamente 


PROFILO   BIOGRAFICO  287 

impegnati  nelle  lotte  risorgimentali  e  cosi  diversi  da  quelli  ormai 
chiusi  e  diffident!  dopo  Poccupazione  di  Roma  e  la  contemporanea 
ventata  anticlericale. 

Molto  inferiori,  sotto  ogni  aspetto,  i  Nuovi  racconti  del  Visconti 
Venosta,  che  il  Treves  raccolse  in  volume  nel  1897.  Sono  tre  rac 
conti  —  La  settima  medaglia,  II  matrimonio  d'Eloisa,  Urf  ascensione 
al  Zebru  -  e  in  essi  riappaiono  temi  e  procedimenti  gia  apparsi  nelle 
prime  Novelle,  ma  senza  il  vigore  di  un  tempo,  e  anzi  con  sbanda- 
menti  e  incertezze  di  disegno  e  lungaggini  ingiustificate,  che  non 
invitano  a  un  attento  esame. 

L'opera  migliore  del  Visconti  Venosta  sono  certamente  i  Ricordi 
di  gioventii,  che  gia  precisano  il  loro  carattere  nel  sottotitolo :  cose 
vedute  o  sapute,  1847-1860.  Non  sono,  dunque,  i  ricordi  di  un 
uomo,  ma  di  un  popolo;  le  vicende  milanesi  di  un  periodo  ecce- 
zionale,  quali  le  aveva  viste  e  vissute  Pautore,  che  le  sente  ormai 
tutt'uno  con  la  propria  giovinezza.  Non  vi  e  dubbio  che  queste 
memorie  siano  un  documento  notevolissimo  per  gli  storici :  il  Lisio 
le  giudico  esattissime,  pienamente  concordi  con  altre  fonti,  e  ricche 
di  aneddoti  anch'essi  oltremodo  attendibili.  Ne  puo  togliere  valore 
storico  ai  Ricordi  1'osservazione  che  essi  disegnano  il  Risorgimento 
da  un  solo  angolo  visuale:  quello  che  attribuisce  ogni  merito  al 
Cavour  e  al  Piemonte,  svalutando  Mazzini  e  la  sua  azione.  Anzi, 
e  proprio  tale  parzialita  che  fa  dei  Ricordi  una  fonte  per  lo  storico, 
anziche  una  «storia»  gia  tracciata.  Ma  non  e  certo  questo  il  loro 
pregio  maggiore.  I  Ricordi  ricostruiscono  un  ambiente,  Panimo  di 
un'epoca  con  affettuosa  nostalgia,  in  un  tono  simpaticamente  in- 
termedio  tra  il  rimpianto  di  quegli  anni  e  la  gioia  di  averli  vissuti : 
e  non  vi  e  mai  posa  eroica,  ma  anzi  spesso  un  sorriso  indulgente  e 
una  sottile  vena  di  umorismo,  quasi  che  con  le  memorie  tornasse 
ancora  la  giovinezza  spensierata  e  audace  di  quei  tempi  lontani. 
Nessuna  traccia  di  una  tesi,  di  una  polemica  o  di  una  propaganda 
politica :  eroi  veri  ed  eroi  da  melodramma,  martiri  d'una  idea  e  fa- 
natici  paradossali  sono  ugualmente  rivisti  con  affetto,  rievocati  con 
obbiettivita  serena,  in  uno  stile  tranquillo,  senza  eccessi  di  lirismo, 
senza  spunti  epici :  e  se  anche  a  volte  scoppia  la  frase  di  esaltazione, 
essa  resta  fuori  dal  tessuto  del  racconto,  come  una  didascalia  o  un 
commento  morale  facilmente  isolabile. 

Certo,  chi  guardi  prevalentemente  alia  forma,  alia  tecnica  stili- 
stica,  potra  restare  deluso  dalPandamento  prosastico  del  racconto : 


288  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

ma  quella  noncuranza  formale  e  il  segno  genuine  di  ima  ricchezza 
interiore,  della  serieta  morale  di  tutta  una  vita,  si  che,  se  la  pagina 
isolata  puo  sembrare  sbiadita,  i  capitoli  nella  loro  interezza  lasciano 
ben  altra  impressione.  Basterebbero,  a  provarlo,  il  quadro  vivissimo 
delle  Cinque  giornate,  cosi  ricco  di  chiaroscuri  misuratissimi,  o 
certi  rapidi  scorci  del  viaggio  a  Napoli  e  in  Sicilia,  o,  infine,  per  non 
citare  ulteriormente,  la  commossa  rievocazione  dei  funerali  di  Emi- 
lio  Dandolo  e  la  successiva  fuga  eroicomica  dell' au tore  dalla  Lom- 
bardia  verso  il  libero  Piemonte.  Ed  e  stato  per  noi  motivo  di  insi- 
stente  cruccio  il  non  poter  offrire  una  scelta  piu  ampia  di  queste 
vivissime  tra  le  memorie  del  nostro  Ottocento. 


Di  Giovanni  Visconti  Venosta,  detto  anche  Gino,  non  esiste  una  compiuta 
ed  esauriente  biografia.  Per  il  periodo  fino  al  1860  la  si  puo  ricostruire  ser- 
vendosi  dei  suoi  Ricordi  di  gioventu,  per  gli  anni  successivi  giovano  parzial- 
mente  allo  scopo:  L.  FERRARI,  Onomasticon:  repertorio  biobibliografico  degli 
scrittoriitalianida.il 501  al  1850,  Milano,  Hoepli,  1947;  A.  DE  GUBERNATIS, 
Dictionnaire  international  des  ecrivains  du  monde  latin,  Rome-Florence 
1905-1906,  e,  naturalmente,  YEnciclopedia  Italiana  e  V Enciclopedia  Cat- 
tolica.  Notizie  sparse  si  possono  ricavare  anche  dai  saggi  e  dagli  articoli 
di  giornale  che  citeremo  piu  innanzi. 

Per  gli  scritti  minori  di  Giovanni  Visconti  Venosta  citiamo  le  edizioni 
che  abbiamo  presenti:  Novelle,  Firenze,  Le  Monnier,  1884;  //  curato  di 
Orobio,  Milano,  Treves,  1886;  Nicolo  o  la  questione  d'oriente,  Milano, 
Treves,  1886;  Nuovi  racconti,  Milano,  Treves,  1897;  Lo  scartafaccio  del- 
V arnica  Michele,  Milano,  Cogliati,  1899.  La  prima  edizione  dei  Ricordi  di 
gioventu  apparve  a  Milano,  presso  Cogliati,  nel  1904,  ma  dopo  pochi  giorni, 
data  Tenorme  richiesta,  1'editore  ne  pubblico  una  seconda  edizione.  Nel 
1906  il  Cogliati  stesso  starnpd  una  terza  edizione  (da  noi  seguita)  in  due 
tipi,  con  illustrazioni  e  senza  illustrazioni.  L' edizione  piu  recente,  col  no- 
me  di  5a,  risale  al  1925,  sempre  a  Milano,  presso  il  Cogliati.  Non  ho  visto 
n6  ho  notizia  della  4a  edizione.  I  due  scherzi  poetici,  di  cui  ho  fatto  cenno 
nel  Profilo,  sono  riprodotti  in  note  poste  dallo  stesso  autore  ai  suoi  Ri 
cordi  di  gioventu. 

Non  sono  molte,  e  tutt'altro  che  esaurienti,  le  pagine  dedicate  dagli  stu- 
diosi  alle  opere  del  Visconti  Venosta.  Ricordiamo  quelle  che  abbiamo  visto : 
G.  MAZZONI,  in  Rassegne  letter  arie,  Roma  1887,  pp.  28  sgg.  (sul  Curato 
di  Orobio);  G.  ZOCCHI,  Scadimento  del  romanzo,  Roma,  Uff.  della  « Ci- 
vilta  cattolica»,  1901,  pp.  176-9;  G.  STIAVELLI,  Poesia  senza  sensoy  Roma 
1904;  O.  BRENTANI,  Giovanni  Visconti  Venosta,  in  «Corriere  della  Sera», 
2  ottobre  1906  (in  occasione  della  morte);  L.  PULLE,  A  raccolta,  Milano 
1911,  pp.  318  sgg.;  G.  CRESPI,  Le  caricature poetiche  di  Giovanni  Visconti 
Venosta,  in  « La  lettura»,  giugno  1913.  Si  occupano  piu  particolarmente  dei 


PROFILO   BIOGRAFICO  289 

Ricordi  di  gioventu  i  seguenti  scritti :  A.  D*ANCONA,  Dalle  Cinque  giornate  al 
«grido  di  dolor  e^,  in  « II  giornale  d'  Italia »,  15  maggio  1904;  D.  CHIATTONE, 
Le  memorie  di  un  patriotta,  in  « II  Piemonte»  (pubblicato  a  Saluzzo),  2,1 
maggio  1904;  F.  LAMPERTICO,  in  «Rassegna  nazionale»,  i°  giugno  1904, 
PP-  474-8;  G.  Lisio,  in  «Archivio  storico  lombardo »,  in  (1905),  serie  4% 
pp.  192-210;  G.  STIAVELLI,  Ricordi  d'altri  uomini  e  d'altri  tempi:  Giovanni 
Visconti  Venosta,  Frascati  1905;  M.  SCHERILLO,  Visconti  Venosta  minor 'e, 
in  «La  let±ura»,  maggio  1915,  pp.  395-405. 


DAI  «RICORDI  DI  GIOVENTtl» 

[PRIMI  RICORDI]1 

Se  spingo  il  mio  pensiero,  lontano,  nei  tempi  della  mia  infanzia  a 
cercarvi  qualche  fatterello,  o  piuttosto  qualche  impressione,  mi  si 
affacciano  dei  vaghi  ricordi,  che  mi  dicono  quanto  fossero  diverse 
le  abitudini  e  la  vita  di  quei  tempi.  La  prima  e  massima  linea  di 
separazione  tra  quei  tempi  e  i  tempi  nuovi  fu  segnata  dal  1848. 

Da  allora  tutto  muto  rapidamente,  nelle  abitudini  domestiche, 
.  nella  vita  cittadina,  nelle  usanze,  nelle  menti,  direi  quasi  come  se 
fosse  passato  un  secolo,  non  un  breve  tempo.  Ripensando  ai  tempi 
di  prima,  tutto  mi  si  affaccia  come  in  un  mondo  diverso ;  un  mondo 
piu  semplice,  piu  rispettoso,  e  piu  uniformemente  tranquillo,  come 
uno  stagno.  Noi  ragazzi,  nella  nostra  famiglia,  come  dissi,  eravamo 
educati  con  una  grande  dolcezza,  ma  nelle  famiglie  degli  altri  fan- 
ciulli,  nostri  amici,  Peducazione  era  piu  severa;  si  ragionava  poco, 
e  si  ubbidiva  molto.  In  una  famiglia  di  quei  tempo  non  si  sarebbe 
mai  udito  «  si  fa  la  tal  cosa,  o  non  si  fa,  perche  nostro  figlio,  od  anche 
solo  la  nostra  bambina,  vogliono  o  non  vogliono»!  Una  simile  pre- 
tesa  avrebbe  fatto  ridere  come  una  incredibile  stranezza.  I  balocchi, 
i  divertimenti,  erano  pochi  e  semplici.  Nelle  famiglie  signorili  si 
pranzava  tra  le  quattro  e  le  cinque  del  pomeriggio,  e  dopo  pranzo 
si  andava  in  carrozza  al  Corso,  che  si  svolgeva  tra  la  Porta  Orientale,2 
ora  Porta  Venezia,  e  i  bastioni  vicini,  sotto  la  direzione  d'un  Com- 
missario  di  polizia  a  cavallo,  seguito  da  due  ussari.  Le  carrozze  che 
vi  intervenivano  erano  molte,  e  tutte  a  due  cavalli.  Una  signora 
non  sarebbe  andata  mai  in  un  legno  a  un  sol  cavallo,  e  non  usciva 
a  piedi  che  seguita  da  un  domestico  in  livrea. 

Non  c'  erano  vetture  pubbliche,  come  ora;  c'erano  solo  dei  fiacres 
a  due  cavalli  in  alcune  piazze  della  citta,  e  servivano  specialmente 
pei  forestieri.  I  cosi  detti  broughams5  non  comparvero  che  dopo  il 
1850,  e  gli  omnibus  assai  piu  tardi. 

La  prima  signora  che  a  Milano  sfoggib  un  elegante  brougham,  a 
un  cavallo,  venuta  da  Parigi,  fu  la  marchesa  Ippolita  d'Adda  Sal- 
vaterra  Pallavicino.  Di  questo  fatto  allora  si  parlo  molto  a  Milano. 

Alle  ville,  in  campagna,  ci  si  andava  coi  cavalli  propri,  perche 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  I,  pp.  10-28.     2.  Porta  Orientale:  vedi  la  nota  zap. 
260.     3.  broughams:  vedi  la  nota  sap.  268. 


292  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

non  c'erano  ferrovie,  alFinfuori  del  breve  tronco  di  dodici  chilo- 
metri  tra  Milano  e  Monza,  aperto  nel  1842.*  Noi  andavamo  nelle 
nostre  case  in  Valtellina,  distant!  da  Milano  da  1 60  a  170  chilometri, 
col  nostro  legno  e  coi  nostri  cavalli,  impiegandoci  tre  giorni.  L'il- 
luminazione  a  gaz  per  le  vie  di  Milano  non  principi6  che  nel  1845. 

Alle  volte  il  babbo  e  la  mamma  ci  conducevano  al  teatro  alia 
Scala,  ove  si  diceva  che  c'erano  dei  grandi  maestri  e  de'  grandi 
cantanti;  ma  cio  che  m'interessava  soprattutto  era  il  balletto  co- 
mico,  che  chiudeva  lo  spettacolo  dopo  il  hallo  grande.2 

Qualche  volta  poi  nostro  padre  ci  conduceva  a  sentire  il  Modena,3 
e  ci  diceva :  —  Quando  sarete  grandi,  vi  fara  piacere  ricordarvi  di 
questo  attore. 

Una  delle  impressioni,  che  mi  rimase  viva  per  parecchi  anni,  fu 
lo  spavento  che  aveva  messo  in  tutti  la  prima  invasione  del  colera 
in  Lombardia.4  Mio  padre  si  conservava  calmo,  come  di  solito,  ma 
mia  madre  era  spaventata,  e  voile  lasciare  Milano.  Si  ando  a  To 
rino,  ma  prima  di  passare  il  Ticino  si  dovette  fare  una  quarantena 
di  parecchi  giorni  in  una  villa,  che  mise  a  nostra  disposizione  il 
conte  Francesco  Annoni,  amico  e  parente  di  mio  padre.  Alcune 
stampe  di  quel  tempo  raffiguravano  il  colera  in  forma  d'un  dia- 
volo,  anche  piu  brutto  del  solito,  che  percorreva  i  paesi  spar- 
gendo  un  veleno.  Per  me  dunque  il  colera  non  era  altro  che  quel 
diavolo,  e  mi  guardavo  sempre  in  giro  per  scansarlo,  caso  mai 
comparisse. 

Dopo  il  colera,  ci  fu  nel  1838  Pingresso  solenne  in  Milano  di 
Ferdinando  I,5  il  nuovo  Imperatore  d*  Austria,  ch'era  successo  al 
padre.  Fui  condotto  anch'io  su  un  terrazzino  del  corso  di  Porta 
Orientale  a  vedere  lo  spettacolo  della  fastosa  sfilata  di  cavalieri  in 
ricchi  costumi,  di  araldi,  e  di  cocchi  dorati.  Quando  arrive  la  car- 
rozza,  tutta  oro  e  cristalli,  nella  quale  c'erano  T Imperatore  e  rim- 

1.  nel  18421  la  ferrovia  Milano-Monza  fu  inaugurata  il  17  agosto  1840. 

2.  «Alla  Scala  Popera  veniva  interrotta  a  meta  dal  ballo,  detto  "grande"; 
finita  1'opera  c'era  il  ballo  "piccolo",  o  "balletto  comico".  Di  questi  "bal- 
letti"  ne  fu  celebre  uno,  che  rappresentava  in  caricatura  tutti  i  giovani  ele- 
ganti  milanesi  piu  noti  a  quel  tempo »  (nota  del  Visconti  Venosta).     3.  Gu 
stavo  Modena  (1803-1861),  uno  dei  piu  famosi  attori  tragici  italiani;  fu 
anche  fervido  patriotta.  Sono  rimaste  celebri  le  sue  interpretazioni  del- 
PAlfieri.     4.  la  prima  .  .  .  Lombardia:  la  prima  epidemia  colerica  si  diffuse 
in  Italia  negli  anni  1835-1837;  in  Lombardia  divampo  nel  1836.     5.  Fer 
dinando  I  d'Austria  (1793-1875)  sali  al  trono  nel  1835,  succedendo  al  padre 
Francesco  I,  e  abdico  a  favore  del  nipote  Francesco  Giuseppe  nel  1848. 


RICORDI   DI    GIOVENTt  293 

peratrice,  parecchi  lungo  la  strada  incominciarono  ad  applaudire 
ed  a  sventolare  i  fazzoletti.  lo  guardavo  con  tanto  d'occhi,  e  bisogna 
dire  che  in  quel  momento  avessi  levato  di  tasca  il  fazzoletto  anch'io, 
perche  a  un  tratto  mi  sentii  prendere  fortemente  pel  braccio  da  un 
giovinotto  piu  alto  di  me,  che  mi  era  vicino,  e  che  mi  disse  bru- 
scamente: —  Guardati  bene  dalPapplaudire  quando  Plmperatore 
passera  qui  sotto! 

Fissai  quel  giovane  stupefatto,  e  senza  capire  nulla,  ma  mi  guar- 
dai  bene  dall'applaudire.  Poco  dopo  domandai  alia  mamma  la  spie- 
gazione  di  quel  comando ;  essa  mi  rispose  che  quel  giovanotto  aveva 
avuto  ragione,  ma  che  certe  cose  le  avrei  capite  piu  tardi.  Era  questa 
una  risposta  che  sentivo  sovente,  e  non  chiesi  altro.  Quel  giova 
notto  si  chiamava  Guido  Susani,1  che  rividi  molti  anni  dopo,  e 
col  quale  entrai  in  amicizia;  un'amicizia  che  fu  spesso  attraversata 
da  nuvole  e  da  temporali,  poiche  quelFarroganza,  sotto  i  cui  auspici 
avevo  fatto  la  sua  prima  conoscenza,  lo  accompagnava  sempre,  sia 
che  avesse  torto,  sia  che  avesse  ragione,  come  in  quel  giorno  del- 
Tentrata  dell'Imperatore. 

Ma  siccome  i  bambini  molte  volte  vanno  ruminando  tra  se  nel 
pensiero  sulle  cose  udite  e  non  capite,  soprattutto  quando  si  dice 
loro  che  son  cose  che  capiranno  piu  tardi,  cosi  ho  poi  ruminato 
anch'io  sulle  parole  del  Susani,  e  a  poco  a  poco,  pigliando  a  volo 
una  parola  qua,  una  parola  la,  sentendo  parlare  da  mia  madre  della 
storia  pietosa  di  Teresa  Confalonieri,3  e  del  Pellico  da  mio  padre, 
imparai  che  gli  austriaci  erano  una  cosa  detestabile.  In  casa  nostra 
non  erano  mai  venuti  ne  ufiziali,  ne  alti  funzionari  austriaci. 

Bisogna  dire  che  la  parola  diplomatico  avesse  colpito,  a  que£ 
tempi,  la  fantasia  di  mio  fratello  Emilio,3  poiche  ricordo  che  quando 
gli  domandavano,  come  si  fa  coi  bambini:  —  Che  cosa  vuoi  fare 

i.  Guido  Susani  (1824-1892),  nato  a  Mantova.  Giovanissimo  al  tempo  di 
questo  episodic,  si  laureo  poi  in  ingegneria  ed  ebbe  fama  e  onori.  Deputato 
di  Sarnico  e  poi  di  Sondrio,  dove  dimettersi,  nel  1864,  perche  risulto  coin- 
teressato  nella  Societa  delle  ferrovie  meridionali,  proprio  mentre  era  rela- 
tore  di  una  legge  a  favore  di  questa  Societa.  Visse,  da  allora,  soprattutto 
in  Francia,  e  mori  a  Parigi.  2.  Teresa  Confalonieri:  Teresa  Casati  (1787- 
1830),  moglie  di  Federico  Confalonieri  (1776-1846).  3.  Emilio  Visconti 
Venosta  (1829-1914),  fratello  maggiore  di  Giovanni,  fu  poi  tra  i  piu  no- 
tevoli  ministri  degli  esteri  del  Regno  d' Italia,  e  copri  tale  carica  per  ben 
sette  volte,  dal  24  marzo  1863,  quando  entr6  a  far  parte  del  gabinetto  Min- 
ghetti,  fino  al  15  febbraio  1901,  in  cui  lascio  tale  portafoglio,  che  aveva 
tenuto  nel  gabinetto  Saracco. 


294  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

quando  sarai  grande  ?  —  rispondeva :  —  Voglio  fare  il  diplomaticol  — 
e  si  rideva.  Una  volta  pero,  quando  fu  piu  grandicello,  il  babbo  gli 
disse:  —  Sta  bene,  se  tu  dici  cio  come  un  proposito  di  studiare  se- 
riamente;  ma  ricordati  che  nel  nostro  paese  c'e  un  governo  che  non 
dobbiamo  servire! 

L'anno  dopo  la  venuta  delPImperatore  fui  mandate  a  scuola  per 
far  la  prima  classe  elementare,  ma  un  caso  disgraziato,  che  poteva 
essermi  fatale,  mi  fece  interrompere  le  lezioni  per  alcuni  mesi.  Un 
giorno  fui  preso  dalla  curiosita  di  sapere  che  cosa  ci  fosse  nelPar- 
madio  di  una  stanza  di  servizio,  che  vedevo  sempre  chiuso :  Papersi, 
e  in  mezzo  a  molte  bottigliette  ne  trovai  una  sulla  quale  era  scritto 
«  Malaga  vecchio  » :  ne  tracannai  un  sorso ;  mi  sentii  come  una  flam- 
ma  in  bocca,  e  caddi  a  terra.  Era  acido  solforico. 

Fui  in  grave  pericolo  per  parecchi  giorni,  soffrendo  molto ;  guarii 
lentamente,  e  ne  risentii  per  un  pezzo. 

Mio  fratello  Emilio,  che  andava  a  scuola  gia  da  tre  anni,  aveva  i 
suoi  piccoli  amici,  ch'eran  parecchi,  ma  i  tre  piu  intimi  erano  i  figli 
del  marchese  Antonio  Trotti,1  Lodovico  e  Lorenzo,  che  poi  mori 
giovane,  e  Saule  Mantegazza.  Queste  amicizie  erano  naturalmente 
accompagnate  da  quelle  dei  rispettivi  parenti ;  in  casa  Trotti  poi  ci 
andavano  altri  ragazzi,  e  di  carnevale  c'erano  delle  lezioni  di  ballo, 
delle  belle  festicciuole  anche  in  costume,  e  delle  recite.  Era  un 
grande  divertimento,  e  i  miei  genitori  conducevano  anche  me.  Una 
sera  per6  Emilio  ebbe  un  dispiacere,  ed  uno  lo  ebbi  anch'io. 
Emilio  ballava  con  una  bambina  d'Azeglio,  vestita  alia  Bernese2  con 
una  gran  cuffia;  urtati  nel  ballare,  caddero  tutt'e  due;  fecero  per 
rialzarsi,  ma  in  grazia  del  cuffione  della  bambina  e  delle  maglie 
strette  che  aveva  Emilio,  non  ci  riuscirono ;  ruzzolarono  sotto  una 
tavola,  e  ci  voile  un  po'  di  tempo  per  levarneli. 

Emilio,  da  quel  giorno,  non  voile  ballar  piu. 

II  mio  dispiacere  Febbi  alcune  sere  dopo.  Mia  madre  aveva  com- 
binato  con  la  marchesa  Fanny  d'Adda  De  Capitani  ch'io  ballassi 

i.  i  figli .  .  .  Trotti:  Antonio  Bentivoglio  Trotti  (1798-1879),  nobile  mila- 
nese,  pur  non  svolgendo  parte  attiva,  fu  tra  i  sostenitori  della  causa  nazio- 
nale.  Attivissimo,  invece,  fu  il  figlio  Lodovico  (1829-1914),  combattente 
tra  gli  insorti  milanesi  nelle  Cinque  giornate,  e  poi  nelle  guerre  del  '48, 
del  '59,  del  '66.  Fu  tra  i  milanesi  che  sostennero  la  soluzione  monarchica 
del  problema  italiano.  Vedi  A.  MALVEZZI,  II  Risorgimento  italiano  in  un 
carteggio  di  patrioti  lombardi,  Milano  1924.  2.  alia  Bernese:  secondo  il 
costume  delle  Alpi  bernesi. 


RICORDI    DI    GIOVENTt  2Q5 

una  quadriglia  con  la  sua  bambina  Lauretta.  La  quadriglia  and6 
disastrosamente,  e  non  seppi  piu  neanche  dove  fosse  andata  a  finire 
la  mia  ballerina.  Per  un  pezzo,  anche  dopo  quella  sera,  io  continuai 
a  incolparne  quella  bambina,  mentre  essa  continu6  a  prendersela 
con  me. 

Chi  mi  avrebbe  detto  allora  che  quella  bambina  sarebbe  un 
giorno  diventata  mia  moglie!1  Eppure  la  nostra  prima  conoscenza 
e  datata  da  quella  sera,  e  comincio  con  un  disaccordo  che  doveva 
essere  il  primo  e  rultimo. 

Da  bambini,  noi  tre  fratelli  eravamo  gracili,  nervosi,  vivacissimi. 
Percio  nostro  padre  non  voile  mandarci  a  scuola,  e  neanche  farci 
insegnar  Falfabeto,  che  dopo  i  sette  anni  compiuti.  Cosi,  fino  a 
quelPeta,  non  si  fece  che  giocare,  saltare  e  passeggiare,  accompa- 
gnati  dal  babbo,  ch'era  sempre  con  noi,  e  prendeva  occasione  da 
ogni  piccola  cosa  per  interessarci  a  tutto  cio  che  si  vedeva. 

Allora  non  c'erano  scuole  di  ginnastica,  ed  in  casa  nostra  non 
c'era  un  giardino ;  percio  nostro  padre  ne  aveva  preso  uno  in  affitto, 
dove  ci  conduce va  ogni  giorno  a  far  il  chiasso,  mentre  lui  se  ne 
stava  sotto  una  pianta  con  un  libro  in  mano. 

Le  scuole  pubbliche  elementari  a  quei  tempi  erano  scarse,  e 
non  buone.  Nei  Ginnasi  e  nei  Licei  c'era  qualche  bravo  professore, 
e  anche  celebre,  ma  si  studiava  poco,  e  superficialmente.  A  Milano 
c'erano  diversi  Istituti  d'insegnamento  private,  e  tra  questi  il  Bo- 
selli2  e  il  Racheli  erano  i  due  piu  importanti,  che  accoglievano  i 
figliuoli  di  molte  tra  le  migliori  famiglie. 

Noi  fummo  mandati  all'Istituto  Boselli,  ove  c'erano  alcuni  tra  i 
migliori  professori  d'allora,  tra  i  quali  Achille  Mauri,3  noto  lette- 
rato,  e  che  piu  tardi  nella  Camera  Piemontese,  nei  Senato  italiano 
e  nei  Ministero  della  Pubblica  Istruzione  lascio  un  nome  caro  ed 
onorato. 

i.  Lauretta . . .  mia  moglie:  Giovanni  Visconti  Venosta  spos6  Laura  D'Adda 
Salvaterra,  dopo  che  essa  rimase  vedova  del  suo  primo  rnarito,  il  nobile 
Scaccabarozzi.  2.  Antonio  Boselli  (1803-1848),  direttore  delTIstituto,  cadde 
tra  i  primi  nella  insurrezione  delle  Cinque  giornate  (cfr.  p.  318).  Vedi  A. 
VANNUCCI,  I  martiri  della  liberta,  Milano,  Bortolotti,  1887,  n,  pp.  340-1. 
3.  Achille  Mauri  (1806-1883),  letterato  (traduzione  del  Messias  di  Klopstock; 
una  Vita  di  son  Carlo  Borromeo ;  il  romanzo  storico  Caterina  Medici  di  Broni 
ecc.),  insegn6  per  alcuni  anni,  fino  al  1847,  nell'istituto  Boselli.  Attivissi- 
mo  nella  insurrezione  di  Milano  del  '48,  esule  in  Piemonte,  deputato, 
torno  a  Milano  nei  '59.  Senatore  dal  1871.  Gli  era  stato  offerto  dal  Rat- 
tazzi,  dopo  Villafranca,  il  ministero  dell'istruzione,  rna  non  lo  accetto, 
per  modestia. 


296  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

Nell'Istituto  Boselli  la  prima  classe  elementare  era  tenuta  da  un 
certo  maestro  Pozzi,  uomo  di  moltissimo  ingegno,  il  quale,  dopo 
aver  fatto  il  professore  di  matematica  in  un  Liceo,  aveva  voluto  de- 
dicarsi  ai  fanciulli,  per  esperimentare  certi  suoi  metodi  che  dove- 
vano  condurli  a  imparare  rapidamente  il  leggere,  lo  scrivere,  un 
po3  d'aritmetica,  ed  altre  belle  cose. 

I  metodi  del  maestro  Pozzi,  dawero  ingegnosissimi,  consistevano 
in  una  serie  continua  di  giochi  traverse  i  quali  si  imparava  in  fretta, 
senza  fatica,  anzi  divertendoci  moltissimo.  De'  suoi  sistemi  alcuni 
sono  rimasti,  e  sono  in  uso,  senza  che  alcuno  rammenti  chi  primo 
li  introdusse.  Tra  i  suoi  scolaretti  il  Pozzi  poi  ne  sceglieva  alcuni,  e, 
sempre  a  furia  di  giochi,  insegnava  loro  cose  che  facevano  sbalordire 
i  buoni  genitori,  quando  presentava  i  suoi  piccoli  allievi  agli  esami, 
come  cagnolini  ammaestrati. 

Ma  non  c'erano  solo  i  giochetti,  c'era  di  serio  nella  scuola  del 
Pozzi  che  1'insegnamento  diventava  facile,  attraente,  rapido,  senza 
stancare  mai  la  mente  tenera  dei  bambini,  e  senza  far  nascere  quelle 
ripugnanze  precoci  che  ispiravano  molte  volte  le  vecchie  scuole. 

II  maestro  Pozzi  lascio  la  scuola  pochi  anni  dopo,  e  mori  gio- 
vane.  Tra  gli  ultimi  suoi  scolari  ci  fu  mio  fratello  Enrico,  a  cui 
prodigo  cure  affettuose  e  pazienti,  che  non  dimentichero  mai. 

Mio  fratello  Enrico,  a  cagione  d'una  malattia  cerebrale  avuta  da 
bambino,  era  giunto  fino  agli  otto  anni  senza  quasi  poter  profferire 
le  parole.  Si  temette  da  principio  che  fosse  muto ;  ma  non  era  sordo, 
e  dava  segni  d'intelligenza  svegliata.  Mio  padre  s'intese  col  maestro 
Pozzi,  il  quale  a  poco  a  poco,  in  un  paio  d'anni,  riusci  a  snodar  la 
lingua  ad  Enrico,  e  a  farlo  parlare,  con  un  seguito  di  espedienti 
ingegnosi  e  amorevoli. 

Mio  fratello  Enrico  divento  un  uomo  di  mente  svegliata  e  acuta ; 
ebbe  Fanimo  buono  e  giocondo,  lo  spirito  pronto  e  arguto. 

Tutto  amore  pei  suoi  fratelli,  le  sue  preoccupazioni,  i  suoi 
pensieri,  eran  tutti,  e  sempre,  rivolti  a  loro,  con  un  affetto  quasi 
figliale. 

Finche  visse,  le  abitudini  mie  furono  le  sue;  eravamo  sempre  in- 
sieme,  in  casa,  in  campagna,  nelle  conversazioni,  nei  divertimenti ; 
non  ci  lasciavamo  mai. 

II  suo  carattere  aperto  e  leale,  la  grande  bonta  del  suo  animo  lo 
rendevano  caro  ai  molti  che  lo  conobbero  e  che  ne  cercavano  con 
premura  1'amicizia.  Mori  a  46  anni,  nel  1881,  e  la  sua  perdita,  che 


RICORDI    DI    GIOVENTtl  2Q7 

rimpiango  ogni  giorno,  mi  lascio  privo  quasi  d'una  parte  di  me 
stesso. 

II  maestro  Pozzi  aveva  per  assistente  un  chiericotto,  che  pareva 
awiato  a  divenir  prete ;  ma  quel  chierico  abbandono  presto  il  collare 
e  1'insegnamento  delPalfabeto.  Piu  tardi  lo  ritrovai,  quando  fui  alia 
Universita;  si  chiamava  Taw.  Antonio  Mosca  e  fu  mio  professore 
di  legge.  Dopo  il  1859  divento  deputato,  e  fu  un'  illustrazione  del 
Foro  Lombardo. 

II  direttore,  Antonio  Boselli,  aveva  dato  molta  riputazione  al  suo 
Istituto  circondandosi  sempre  di  ottimi  professori.  Quanto  valesse 
lui  non  lo  so,  ma  nej  suoi  alunni  non  desto  1'impressione  simpatica 
lasciataci  dai  suoi  maestri  e  professori.  Ne  avevamo  paura:  era  duro, 
severo,  e  distribuiva  con  grande  facilita  ingiurie  e  scappellotti,  spe- 
cialmente  a  quelli  che  teneva  in  pensione. 

Le  prime  confidenze  su  queste  abitudini  manesche  del  Boselli 
le  ebbi  da  alcuni  condiscepoli  dejla  prima  classe  ginnasiale.  Era- 
vamo  in  tre  sul  medesimo  banco,  e  io  ero  nel  mezzo.  Fin  dal  primo 
giorno  feci  una  grande  amicizia  coi  miei  due  compagni,  e  incomin- 
ciarono  le  confidenze  mentre  si  mangiavano  i  due  panini  concessi 
nella  mezz'ora  della  ricreazione.  Due  panini,  nulla  di  piu;  i  rego- 
lamenti  scolastici,  allora,  non  permettevano  altro,  e  la  concessione 
d'un  po'  di  companatico  era  un  affare  non  facile.  II  mio  vicino  di 
sinistra  era  un  giovanetto  magruccio,  pallido,  timido;  aveva  due 
gran  mani,  gonfie,  rosse  pei  geloni,  e  sanguinolenti.  Era  un  con- 
vittore,  e  mi  raccontava  che  il  Boselli  li  faceva  alzare  col  lume  nel- 
rinverno  prima  di  scuola,  e  li  metteva  a  studiare  in  camerotti  freddi, 
distribuendo  poi  con  facilita  fior  di  ceffoni  senza  economia;  e  mi 
diceva  che  quando  i  convittori  erano  irrequieti,  il  Boselli,  chia- 
mando  morbosa  1'irrequietudine,  sornministrava  loro  dei  purganti. 

Non  so  dei  purganti ,  ma  dei  ceffoni  ne  pigliava  parecchi  anche 
il  mio  povero  compagno.  Poverino!  e  infatti  aveva  Faria  intimi- 
dita  e  malinconica.  Ma  non  lo  era  di  natura,  poiche  quando  piu 
tardi,  divenuto  io  amico  in  casa  sua,  ci  ritrovammo,  in  mezzo  ai 
suoi  fratelli,  lo  rividi  vispo,  allegro,  e  tutt' altro  che  timido.  Ma  allo 
ra  mi  faceva  tanta  compassione!  Solo  mi  pareva  che  un  giovinetto 
cosi  mingherlino,  cosi  timido,  avesse  un  nome  troppo  solenne, 
troppo  da  uomo  grande;  si  chiamava  Malachia  De  Cristoforis.1 

i.  Malachia  De  Cristoforis  (1832-1915),  medico,  partecip6  alia  guerra  del 
1859,  fu  al  Volturno  nel  '60,  combatte  nella  guerra  del  '66.  Grande  gineco- 


298  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

II  mio  compagno  di  destra  era  molto  diverse;  aveva  dodici  anni, 
era  tarchiato,  aveva  il  fare  risoluto,  e  lanciava  anche  qualche  be- 
stemmia,  specialmente  contro  il  latino.  Suo  padre  1'aveva  messo 
nella  Pensions  Boselli  solo  per  alcuni  mesi,  cioe  mentre  era  assente 
con  parte  della  famiglia,  lasciata  in  Spagna.  Pero,  diceva  questo  mio 
compagno,  se  nel  frattempo  il  signor  Boselli  mi  somministrasse  un 
qualche  ceffone,  allora  farei  una  «  conspiracion  in  collegio,  e  poi  un 
pronunciamientOy  e  occorrendo  una  revolution,  come  si  fa  in 
Spagna  ». 

—  Sei  spagnuolo  ?  —  gli  domandai. 

—  No,  sono  di  Val  Seriana,1  ma  mio  padre  e  cittadino  onorario 
di  Saragozza,  ove  e  chiamato  el  Dio  del  do  di  petto! 

lo  non  capivo  niente.  Ma  il  mio  amico  mi  racconto  che  suo  padre 
in  trepiazze  dove  fece  tre  stagioni,  in  Spagna,  era  ricevuto  come  un 
Rey. 

Basti  dire  che  a  Toledo  gli  §tudenti  gli  staccarono  i  cavalli  e 
trascinarono  essi  la  carrozza;  a  Valladolid  illuminarono  la  citta  per 
lui.  Quando  poi  c'era  la  sua  serata,  allora  fioccavano  inviti,  poesie, 
serenate,  regali,  e  si  lanciavano  pel  teatro  dei  canarini:  e  il  mio 
amico  non  la  finiva  piu  nel  raccontare  cose  meravigliose,  intanto 
che  si  sbocconcellavano  que'  due  panini.  lo  e  gli  altri  compagni  lo 
ascoltavamo  pieni  di  meraviglia  e  quasi  d'invidia ;  ci  pareva  proprio 
il  figlio  d'un  Re. 

Due  mesi  dopo  venne  a  prenderlo  un  belPuomo,  senza  barba, 
che  cantarellava,  intanto  che  il  signor  Boselli  gli  faceva  vedere 
1'Istituto. 

Era  il  cittadino  di  Saragozza,  che  veniva  a  prendere  suo  figlio 
per  ricondurlo  in  Spagna.  Tutti  salutammo  affettuosamente  il  no- 
stro  amico,  facendo  mille  propositi  per  1'anno  dopo.  Ma  1'amico 
non  ritorno  piu,  e  non  seppi  piu  nulla  di  lui. 

Si  andava  alia  fine  d'ogni  mese  al  Ginnasio  di  S.  Alessandro 
(ora  Beccaria)  a  fare  un  breve  esame,  chiamato  «  esperimento  »,  su 
qualcuna  delle  materie  della  classe,  insieme  agli  alunni  del  Gin 
nasio  pubblico.  Ci  trovavo  press'a  poco  sempre  gli  stessi  scolari, 
ch'erano  molto  birichini  e  insolenti,  soprattutto  con  noi  delle  scuole 

logo  e  ostetrico,  fu  a  lungo  primario  dell'Ospedale  Maggiore  di  Milano. 
Era  rimasto  orfano  del  padre  nel  1838,  con  altri  sette  fratelli.  Ha  lasciato 
moltissime  pubblicazioni  nel  campo  medico,  i.  Val  Seriana:  e  la  valle 
del  flume  Serio,  affluente  dell'Adda. 


RICORDI    DI    GIOVENTtl  299 

private;  per  cui  correvano  spesso  delle  busse.  Parecchi  mi  canzo- 
navano  perche  avevo  i  capelli  rossi,  e  mi  lanciavano  dei  proverbi 
popolari  poco  lusinghieri.  Per  un  po'  fingevo  di  non  badarci;  poi 
ne  pigliavo  qualcuno,  e  gli  davo  una  buona  strigliatina.  Mi  dice- 
vano  in  milanese:  —  Guardet  de  la  tos  e  di  cavei  ross,  Qui  ross  in 
difficil  de  conoss.1 

Tra  questi  scolari  ne  avevo  notato  specialmente  due,  che  stavano 
sempre  tra  loro,  col  fare  brusco  e  con  la  faccia  accigliata.  D'uno 
seppi  piu  tardi  ch'era  il  figlio  d'un  Commissario  di  Polizia;  Paltro, 
ch'era  anche  il  piu  altezzoso  dei  due,  per  un  pezzo  non  sapemmo 
chi  fosse;  ma  qualcuno  tra  noi  disse  che  doveva  essere  il  figlio  d'un 
generale,  perche  una  volta  venne  a  prenderlo  suo  padre  con  in  capo 
una  feluca. 

Un  giorno,  nelPuscir  di  scuola,  gli  domandarnmo :  —  E  tu  chi 
sei  ?  Chi  e  tuo  padre  ?  —  Mio  padre  —  rispose  in  tono  fiero  il  ra- 
gazzo  —  e  Commissario  di  Sanita  del  Municipio. 

Ma  siccome  noi  avevamo  Faria  di  non  aver  capito,  e  si  rideva,  il 
ragazzo  replico,  con  fare  d'importanza  e  di  compassione  per  la 
nostra  ignoranza:  —  Mio  padre  e  il  Capo  che  sta  al  disopra  di  chi 
accalappia  i  card! 

Rammento  ancora  un  grosso  guaio  ch'ebbe  una  volta  mio  fra- 
tello  Emilio  nella  scuola  BosellL  Non  so  per  qual  ragione,  la  sua 
classe  era  stata  un  giorno  messa  tutta  in  castigo  e  privata  della  ri- 
creazione.  Che  fecero  allora  gli  scolari  ?  C'era  su  una  stufa  grande, 
e  fatta  a  colonna,  un  busto  in  gesso  dorato,  ch'era  il  ritratto  delFIm- 
peratore  d' Austria;  gli  scolari,  approfittando  d'un  momento  in  cui 
il  professore  era  uscito  dalla  classe,  buttarono  una  cor  da  al  collo 
del  busto,  e  con  una  forte  tirata  lo  rovesciarono  a  terra,  mandando 
tutto  in  frantumi  Tinfelice  Imperatore.2 

Apriti  cielol  I  sospetti  piu  gravi  caddero  su  mio  fratello  Emilio, 
come  ispiratore  e  principale  esecutore  del  delitto.  Boselli,  a  buon 

i.  «  Guardati  dalla  tosse  e  dai  capelli  rossi.  Chi  e  rosso  e  difficile  a  conoscer- 
si. »  2.  « Nella  Cronistoria  di  Alessandro  Gianetti  edita  da  L.  F.  Cogliati, 
si  legge:  "II  Direttore  dell'Istituto  Boselli,  in  obbedienza  delle  ricevute 
ingiunzioni,  dispose  per  1'insegnamento  de'  suoi  allievi  del  canto  dell'inno 
austriaco.  Ma  non  pochi  di  questi  allievi  vi  si  rifiutarono,  e  non  lo  canta- 
rono.  Tanto  era  il  sentimento  di  italianita  che  quegli  scolaretti  avevano 
gia  assorbito  nelPambiente  delle  loro  famiglie.  Quei  giovanetti  erano  i  fra- 
telli  Mancini,  i  fratelli  Guy,  i  fratelli  De  Cristoforis,  i  fratelli  Visconti- 
Venosta,  Carissimi,  Emilio  Bignani-Sormani,  ed  altri"  »  (nota  del  Visconti 
Venosta). 


3OO  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

conto,  gli  diede  una  terribile  lavata  di  capo,  accompagnata  da  pa 
role  ingiuriose;  mio  fratello  allora  mise  i  suoi  libri  sotto  il  braccio, 
e  se  ne  ando  a  casa.  II  giorno  dopo,  mio  padre  accomod6  la  faccenda 
alia  meglio. 

Boselli,  quando  ci  strapazzava,  soleva  dedurre  dalle  nostre  scap- 
patelle  le  piu  terribili  conseguenze :  «  Si  incomincia  colla  disobbe- 
dienza,  poi  di  questo  passo  si  finisce  sulla  forca!)) 

Molti  anni  dopo,  nel  1853,  vennero  i  processi  di  Mantova,  le 
forche  furono  rizzate  dawero,  e  mio  fratello  Emilio  corse  un  grave 
pericolo.1  —  Che  Boselli  1'avesse  indovinata?  —  mi  disse  un  giorno 
Emilio.  Infatti  c'era  mancato  poco. 

Ma  i  vecchi  alunni  del  signor  Boselli  dovevano  presto  perdonar- 
gli  le  strapazzate,  gli  scappellotti,  i  purganti,  e  i  suoi  pronostici, 
poiche  venute  le  Cinque  Giornatey  egli  fu  tra  i  primi  ad  accorrere 
al  Broletto,  che  fu  uno  dei  punti  di  ritrovo  delPinsurrezione,  e  vi 
rimase  ucciso. 

Devo  pero  dire  che,  a  quei  tempi,  il  migliore  dei  miei  maestri  e 
stato  mio  padre.  Egli  ci  faceva,  dopo  la  scuola,  delle  ripetizioni, 
ch'erano  vere  lezioni,  e  con  grande  amorevolezza  e  chiarezza  c'in- 
segnava  ben  piu  di  quanto  avevamo  sentito,  e  talvolta  non  capito, 
a  scuola. 

Con  mio  fratello  Emilio,  maggiore  di  me,  come  dissi,  e  che  era 
dotato  di  molta  precocita  d'ingegno  e  di  molta  volonta  di  studiare, 
le  lezioni  eran  lunghe,  ed  erano  seguite  poi  da  discorsi  istruttivi 
durante  le  passeggiate  che  si  facevano  dopo  le  lezioni.  Molte  volte 
ci  accompagnava  nelle  passeggiate  il  poeta  Giuseppe  Revere,2  anzi 
ricordo  che  parecchi  de'  suoi  bei  sonetti  li  scrisse  in  casa  nostra. 

Uno  dei  modi  di  educazione  di  mio  padre  era  quello  di  stare  coj 
suoi  figli  piu  che  poteva,  di  esigere  da  noi  una  confidenza  illimitata, 
ricambiandocene  molta,  e  di  considerarci  come  persone  un  po' 
superiori  alia  nostra  eta;  cosi  ispirava  in  noi  il  sentimento  della 
responsabilita  e  del  dovere.  Eravamo  trattati  da  piccoli  uomini, 
cosa  che  ci  lusingava  assai ;  per  cui  era  grande  il  nostro  impegno  per 
tenerci  a  quel  livello. 

i.  mio  fratello  .  .  .pericolo:  Emilio  era  stato  dapprima  mazziniano  e  caro 
al  Mazzini.  Percio  aveva  avuti  frequenti  contatti  con  quei  mazziniani  lom- 
bardi  che  furono  arrestati  e  condannati  nei  processi  di  Mantova,  special- 
mente  con  Antonio  Lazzati.  2.  Giuseppe  Revere  (1812-1889),  di  Trieste, 
noto  per  i  suoi  drammi  storici  (Lorenzino  de'  Medici,  1839;  /  Piagnoni  e 
gli  Arrabbiati,  1843  ecc.)  e  i  suoi  sonetti  lirici  e  paesistici. 


RICORDI    DI    GIOVENTtl  $01 

In  Valtellina,  ove  passavamo  le  vacanze,  mio  padre  alle  volte 
interrompeva  1  miei  spassi,  non  di  rado  un  po5  sfrenati,  colPafE- 
darmi  qualche  incombenza  campestre,  in  cui  ci  volesse  delFassi- 
duita  e  dell'attenzione.  Non  e  a  dire  come  ne  fossi  superbo,  e  con 
quanta  serieta  mi  ci  mettessi.  Cio  aweniva  specialmente  nel  tempo 
delle  vendemmie,  che  mio  padre,  buon  agricoltore  e  buon  enologo, 
dirigeva  in  casa  sua  diligentemente,  introducendo  metodi  allora 
nuovi,  e  prendendo  Emilio  e  me  come  suoi  aiutanti. 

Mio  padre  amava  i  contadini  e  ne  era  fortemente  riamato;  vo- 
lontieri  s'intratteneva  con  loro,  s'occupava  dei  loro  affarucci,  e  il 
suo  studio  era  sempre  frequentato  da  contadini  che  venivano  a  chie- 
dergli  aiuti  e  consigli.  Specialmente  affezionata  gli  era  Pintera  po- 
polazione  di  Grosio,  colla  quale  la  nostra  famiglia  aveva  avuto  da 
parecchi  secoli  tradizionali  legami  di  interessi  e  di  affetti. 

Sentimenti  riaccesi  anche  piii  vivamente  da  non  lontane  me- 
morie,  quelle  che  si  riannodano  al  mio  avo,  don  Nicola,  il  quale, 
anche  in  mezzo  alle  gravi  occupazioni  della  sua  vita  operosa,  non 
aveva  mai  dimenticato  i  suoi  grosini,  ed  era  stato  in  ogni  occasione 
difensore  e  consigliere  amorevole  degli  affari  loro  e  del  Comune. 

Cerano  in  quel  tempo  in  Tirano  parecchie  buone  e  distinte  fa- 
miglie,  ora  in  parte  scomparse ;  e  noi  ci  avevamo  anche  dei  parenti, 
poiche  mio  padre  aveva  tre  sorelle  che  si  maritarono  in  Valtellina, 
nelle  famiglie  Cattani,  Quadrio  e  Merizzi.  Tra  i  parenti  voglio 
ricordarne  specialmente  due,  che  lasciarono  nel  mio  animo  una 
cara  e  indelebile  memoria;  e  questi  furono  un  cognato  di  mio 
padre,  don  Antonio  Merizzi;  e  un  suo  cugino  germano,  don  Luigi 
Quadrio,  prete  e  parroco  nel  paesello  di  Bianzone. 

Don  Luigi  Quadrio  era  un  sacerdote  severe  nella  condotta,  di- 
gnitoso  nella  persona;  aveva  ingegno,  coltura,  idee  larghe  e  liberali, 
come  molti  a  quel  tempo  nel  clero  lombardo.  Modestissimo,  nemico 
di  ogni  rumore  mondano,  non  voile  cariche,  che  lo  avrebbero  con- 
dotto  a  diventar  Vescovo,  e  passo  la  maggior  parte  della  sua  vita  nei 
paeselli  di  Bianzone  e  di  Mazzo  in  Valtellina,  amatissimo  dal  po- 
polo,  venerato  dal  clero,  dedito  ai  suoi  studi  e  alle  cure  intelligent! 
e  solerti  della  sua  piccola  parrocchia,  spendendo  tutto  il  suo  in  be- 
neficenza.  Tra  lui  e  mio  padre  c'era  un  grande  accordo  di  senti- 
menti  e  di  pensieri;  c'era  un  legame  d'affetto  quasi  fraterno,  che  il 
buon  sacerdote  continue  con  noi  pure,  fin  che  visse. 

Dopo  il  1840,  una  prima  e  lieve  aura  di  risveglio  nazionale  aveva 


302  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

cominciato  a  spirare  in  Italia  coi  Congressi  scientific!,  ch'erano 
stati  awiati  in  alcune  citta.1 

Al  Congresso,  che  si  doveva  tenere  in  Milano  nel  1844,  si  voleva 
dare  una  speciale  importanza,  e  percio  se  ne  cominciarono  i  prepa- 
rativi  fin  dall'anno  prima.  Vi  prendevano  parte  le  persone  piu  no- 
tevoli  e  piu  colte  di  Milano;  si  preparavano  temi  e  studi  di  argo- 
menti  patri  e  cittadini.  C'era  in  tutti  un  ridestarsi  di  attivita,  di  in- 
tendimenti  patriottici,  e  di  vaghi  presentimenti. 

II  Cattaneo,  che  preparava  il  suo  libro  sulle  Condizioni  morali 
e  civili  delta  Lombardia?  s'era  rivolto  a  parecchi  studiosi  per  avere 
delle  notizie  economiche,  statistiche,  morali,  riguardanti  le  diverse 
provincie  lombarde.  Si  rivolse  a  mio  padre  per  aver  quelle  della 
provincia  di  Sondrio. 

Mio  padre  si  mise  al  lavoro,  e  fece  una  completa  monografia 
della  Valtellina,  che  per  la  sua  importanza  non  fu  trasfusa  nel  libro 
del  Cattaneo,  ma  fu  per  intero  pubblicata  negli  «Annali  di  stati- 
stica».3  Presentata  al  Congresso,  ne  ebbe  grandissime  lodi,  e  mise 
allora  in  vista  mio  padre,  che  viveva  di  solito  in  un  modesto  riserbo, 
e  gli  diede  molta  notorieta.  Fu  allora  che  entro  in  relazione  piu 
intima  con  quel  gruppo  di  studiosi,  fra  i  quali  Cesare  Correnti,4 
che  poco  dopo  dovevano  diventare  uno  dei  nuclei  piu  important! 
delPazione  e  della  lotta  politica. 

Mio  padre  era  socio,  e  assiduo  frequentatore,  della  Societa  d'ln- 
coraggiamento  delle  scienze,  lettere  ed  arti,  che  aveva  una  ricca 
biblioteca,  ed  era  un  ritrovo  di  studiosi,  ma  che  per  la  natura  dei 

i.  Dopo  .  .  .  citta:  numerosi  i  congressi  scientific!  che  si  svolsero  durante  il 
Risorgimento  e  agevolarono  il  trionfo  della  causa  nazionale.  Quello  di  Mi 
lano,  cui  qui  si  accenna,  ebbe  luogo  dal  12  al  27  settembre  1844.  2.  // 
Cattaneo. .  .Lombardia:  quest'opera,  di  cui  il  Cattaneo  esegul  il  solo  pri- 
mo  volume,  nel  1844,  e  tra  le  sue  piu  note:  una  sintesi  della  storia  geologi- 
ca,  economica,  culturale  e  politica  della  Lombardia.  Per  le  notizie  sul  Cat 
taneo,  vedi  il  volume  che  ne  accoglie  gli  scritti  (comprese  anche  le  Notizie 
naturali  e  civili  su  la  Lombardia)  nella  presente  collezione,  Romagnosi,  Cat 
taneo,  Ferrari,  a  cura  di  E.  Sestan.  3.  Gli  « Annali  universali  di  statistica, 
economia  pubblica,  storia,  viaggi  e  commercio  »,  iniziati  nel  1 824,  erano  una 
rivista  mensile,  fondata  da  Francesco  Lampato,  e  poi  proseguita  da  Giu 
seppe  Sacchi.  Tra  gli  animatori  vi  furono  Gian  Domenico  Romagnosi, 
Carlo  Cattaneo,  Giuseppe  Ferrari,  Cesare  Correnti.  Gli  «  Annali »  cessaro- 
no  la  loro  pubblicazione  nel  1871.  4.  Cesare  Correnti  (1815-1888)  era  gia 
collaborator  degli  « Annali »,  dove  nel  '42  aveva  pubblicato  una  Teoria 
della  statistica.  Fu  tra  gli  animatori  del  congresso  di  Milano  del  '44,  dove 
desto  molta  lode  una  sua  relazione  sul  lavoro  dei  fanciulli.  Su  lui,  vedi  C. 
MORAKDI,  L 'azione  politica  di  Cesare  Correnti  nel  '48,  in  « Annali  di  scien 
ze  politiche»  di  Pavia,  xm  (1940),  pp.  1-56. 


RICORDI   DI    GIOVENTft  303 

tempi  limitavasi  ad  essere  poco  piu  (Tun  casino  di  lettura.  Nell'oc- 
casione  del  Congresso  si  penso  di  risollevarla  e  di  fame  un  centre 
di  studi  attivi  e  fecondi.  Si  nomino  una  Commissione  incaricata  di 
stendere  il  programma;  mio  padre  ne  £u  il  presidente,  e  lesse  una 
prima  relazione  suH'argomento.  lo  allora  ero  un  giovanetto,  e  non 
saprei  dire  quali  fossero  gli  intenti  di  mio  padre  e  della  Commis 
sione;  solo  ricordo  ch'egli  ne  discorreva  calorosamente  col  Cor- 
renti,  col  Revere,  e  col  conte  Carlo  Porro,1  in  un  locale  munici- 
pale  ove  il  Porro  si  occupava  dei  primi  ordinamenti  del  nascente 
Museo  di  storia  naturale.  Vi  si  radunavano  parecchi,  che  non 
conoscevo,  e  mio  padre,  che  ci  aveva  sempre  con  se,  vi  conduceva 
Emilio  e  me.  Piu  volte  vi  sentii  parlare  della  Societa  Palatina,2  ono- 
re  in  passato  di  Milano,  e  augurio  di  speranza  per  Pawenire. 

II  conte  Porro  doveva  morire  subito  dopo  le  Cinque  Giornate, 
come  vedremo,  ucciso  da  un  soldato,  mentre  era  condotto  prigio- 
niero  ed  ostaggio.  E  ben  presto  doveva  morire  mio  padre. 

Mio  padre  era  pure  tra  i  frequentatori  della  casa  di  donna  Anna 
Tinelli,3  signora  colta,  e  nota  a  Milano  pel  suo  talento  artistico  e 
per  le  sue  belle  miniature.  Nel  suo  salotto  conveniva  un  piccolo 
mondo  politico,  quale  era  compatible  coi  tempi,  ed  erano  avanzi 
di  gente  complicata  nei  movimenti  del  1831.  II  marito  di  lei  era 
stato  processato  e  condannato  in  contumacia,  e  s'era  riparato  in 
America.  Anche  donna  Anna  era  stata  inquisita  dallo  Zaiotti,4  e  se 
n'era  liberata  con  fermezza  e  presenza  di  spirito.  Durante  il  pro- 

i.  II  conte  Carlo  Porro,  divenuto,  ancor  giovane,  provetto  naturalista,  fu  poi 
tra  gli  ostaggi  che  il  Radetzky  trascino  con  se  nel  '48  sgombrando  Milano. 
A  Melegnano,  la  sera  del  23  marzo,  un  colpo  di  fucile,  tirato  contro  gli  ostag 
gi,  ferl  mortalmente  il  Porro,  che  spir6  due  giorni  dopo,  senza  che  si  potesse 
stabilire  chi  fosse  il  responsabile  di  quella  fucilata.  Un  commissario  di 
polizia,  Maurizio  De  Betta,  in  un  suo  libro,  Gli  ostaggi  milanesi  alia  fortezza 
di  Ruf stein,  Vienna  1850  (citato  da  C.  SPELLANZON,  Storia  del  Risorgimento 
e  delVunita  d'ltalia,  in,  Milano,  Rizzoli,  1936,  p.  953),  narra  che  si  tratt6 
di  un  colpo  sfuggito  disgraziatamente  dal  fucile  di  un  caporale.  Vedi 
PP-  337-8.  2.  La  Societa  Palatina  era  stata  fondata  a  Milano,  nel  1721, 
da  un  gruppo  di  nobili,  tra  i  quali  primeggiava  il  principe  Alessandro  Teo- 
doro  Trivulzio,  per  la  stamp  a  e  la  pubblicazione  dei  Rerum  Italicarum 
Scriptores  del  MuratorL  3.  Anna  Tinelli  Zannini  (1805-1885),  moglie 
del  dottor  Luigi  Tinelli,  che  fu  arrestato  nel  1833  e  condannato  a  morte 
nel  1835:  condanna  commutata  in  venti  anni  di  carcere  e  poi  nell'esilio. 
Donna  di  molto  talento,  si  applico  all'arte  della  miniatura.  Nel  suo  salotto, 
in  via  Santo  Spirito,  convenivano  numerosi  patriotti.  Concluso  il  Risorgi 
mento,  si  dedico  alTeducazione  e  alTistruzione  della  donna.  4.  Paride 
Zaiotti)  di  Trento  (1793-1843),  fu  giudice  istruttore  assai  spietato  nei  pro- 
cessi  contro  i  liberali,  dal  1831  fino  al  1842,  quando  fu  trasferito  a  Venezia. 


304  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

cesso  Paride  Zaiotti  soleva  inter rornpersi  con  qualche  storiella,  poi 
ripigliava  il  filo,  per  confondere  gli  inquisiti.  Una  volta  avendo  ri- 
cevuto  una  lettera,  s'interruppe  ridendo :  —  Ecco  uno  che  mi  scrive 
«  al  Signor  Adone  Zaiotti » ;  le  pare  che  io  sia  un  Adone  ?  —  E  donna 
Anna  prontamente :  —  Non  e  un  Adone,  ma  non  e  neanche  un  Pa- 
ride!  —  Zaiotti  riprese  il  fare  brusco. 

Da  donna  Anna  andavano  pure  assiduamente  Arese,1  Belcredi, 
il  marchese  Gaspare  Resales,2  i  genitori  miei  e  di  mia  moglie,  e 
parecchie  altre  persone  appartenenti  a  famiglie  cospicue,  liberali 
ed  anti-austriache. 

Ai  primi  di  settembre  del  1846,  finite  le  scuole,  che  allora  du- 
ravano  tutto  il  mese  d'agosto,  si  parti  per  Tirano. 

Le  vacanze  di  quell'anno  incominciarono  con  auspici  che  si  sareb- 
bero  detti  piu  lieti  del  solito.  Mio  padre  aveva  incominciato  uno  stu 
dio  economico  sulla  Beneficenza  religiosa  e  la  Beneficenza  civile,  e 
correggeva  le  bozze  d'una  seconda  edizione,  di  molto  ampliata,  del 
suo  libro  sulla  Valtellina.  Queste  occupazioni,  le  sue  nuove  amicizie, 
il  nuovo  campo  d'attivita  intellettuale  che  presentiva,  erano  argo- 
mento  in  quei  giorni  d'una  viva  soddisfazione  nelPanimo  suo,  e  lo 
distraevano  da  una  preoccupazione  malinconica  che  lo  turbava  da 
parecchio  tempo  in  seguito  a  un  caso  disgraziato  che  gli  era  awenuto. 

II  caso  era  stato  che  nel  ritornare  dalla  Valtellina,  una  notte,  la 
diligenza  in  cui  si  trovava  era  ribaltata  da  un'alta  ripa,  tra  Sondrio 
e  Morbegno.  Un  certo  Scala,  di  Grosotto,  che  si  trovava  nella  di 
ligenza,  era  rimasto  morto;  e  a  mio  padre,  in  seguito  alia  scossa 
avuta,  era  andata  mano  mano  indebolendosi  la  vista  d'un  occhio, 
fino  ad  offuscarsi  completamente.  Questo  fatto  lo  impensieriva  as- 
sai,  e  gli  aveva  lasciato  dei  presentimenti  dubbiosi  e  mesti. 

Ora,  il  mutamento  improwiso  delle  sue  abitudini  solite  veniva 
con  molta  opportunity  a  sviarlo  dai  pensieri  molesti,  e  a  ridargli  la 
calma  serena  delPanimo  e  Pattivita  geniale  della  mente. 

Mia  madre,  che  lo  adorava,  ne  gioiva  ed  era  in  vena  di  vivacita 
e  di  spirito  piu  che  mai. 

i.  Francesco  Arese  Lucini  (1805-1881)  fu  nel  '48  un  sostenitore  dell'inter- 
vento  di  Carlo  Alberto  in  Lombardia.  Data  la  sua  amicizia,  fin  da  giovane, 
con  Luigi  Napoleone,  molto  giovo  al  Piemonte  nel  favorire  i  rapporti  con 
Napoleone  III,  prima  e  dopo  la  guerra  del  '59.  2.  Gaspare  Ordono  de 
Resales  (1802-1887),  milanese,  di  famiglia  d'origine  spagnola,  arrestato 
nel  1832  come  mazziniano,  esule  poi  in  Svizzera,  organizzatore  della  spedi- 
zione  di  Savoia,  condannato  in  contumacia,  era  poi  potuto  tornare  in  Mi- 
lano  dopo  dodici  anni  di  esilio. 


RICORDI    DI    GIOVENTt  305 

lo  poi  avevo  dentro  di  me  una  secreta  gioia,  die  mi  faceva  pa- 
rere  quell'autunno  il  piu  bello  di  tutti.  Mio  padre,  per  non  so  quale 
disgusto  che  aveva  avuto  col  direttore  Boselli,  aveva  fissato  di  farci 
continuare  gli  studi  in  casa,  alia  ripresa  delle  scuole. 

S'era  fatto  intanto  un  programma  di  escursioni  sui  monti  e  di 
scarrozzate,  e  si  principio  con  una  gita  a  Poschiavo  in  una  nume- 
rosa  compagnia.  A  Poschiavo  allora  s'andava  per  una  strada  appena 
carreggiabile,  a  cavallo  o  su  carrette.  La  brigata  non  poteva  essere 
piu  allegra;  e  ricordo  che  mia  madre  fu  in  quel  giorno  (e  doveva 
esserlo  per  1' ultima  volta  nella  sua  vita),  della  piu  gioconda  festivita. 

Nel  ritornare,  sulla  sera,  fummo  sorpresi  da  un  temporale  e  da 
un  forte  acquazzone.  Per  un  tratto  di  strada  non  breve  non  trovam- 
mo  ove  ripararci,  e  intanto  soffiava  un  vento  gelato  che  veniva  dalle 
gole  del  monte  Bernina. 

Nella  notte  mio  padre  si  senti  male;  gli  si  sviluppo  un  violento 
malore,  e  tre  giorni  dopo  spirava  ai  24  settembre  del  1846. 

Presente  a  se  fino  agli  ultimi  momenti,  voile  salutarci  tutti,  rac- 
comandando  1  suoi  figli  a  quanti  erano  accorsi  in  casa  nostra.  A  me 
disse :  —  Sii  d'aiuto  in  ogni  cosa  alia  mamma,  e  seguine  sempre  i 
consigli .  .  .  te  ne  troverai  contento  per  tutta  la  vita. 

I  ricordi  di  mio  padre  e  i  consigli  di  mia  madre  dovevano  essere 
infatti  una  delle  fortune  della  mia  esistenza. 

Mia  madre  era  caduta  in  terra  svenuta,  e  fu  in  delirio  per  parec- 
chi  giorni.  lo  e  i  miei  fratelli  fummo  condotti  quella  sera  in  casa 
di  mio  zio  Merizzi ;  il  giorno  dopo  venne  a  prenderci  il  cugino  don 
Luigi  Quadrio,  e  ci  voile  presso  di  se  nel  suo  paesello  di  Bianzone, 
ove  fu  condotta  poi  anche  mia  madre. 

Saputasi  a  Grosio  la  morte  di  mio  padre,  tutta  la  popolazione  in 
massa  scese  a  Tirano,  che  dista  dodici  chilometri,  e  voile  averne  la 
salma  per  accompagnarla  la,  dove  riposavano  tanti  della  nostra  fa- 
miglia. 

Mio  padre  aveva  da  poco  compiuti  i  48  anni.  Egli  ebbe  la  sven- 
tura  di  passare  la  maggior  parte  della  sua  vita  nel  periodo  di  quella 
morta  gora  in  cui  visse  1s  Italia  tra  il  1815  e  il  1848.  La  sua  mente, 
i  suoi  studi,  la  riputazione  che  s'era  acquistata  gli  avrebbero  cer- 
tamente  riservata  una  parte  politica  importante  nei  grandi  aweni- 
menti  che  seguirono  da  poco  la  sua  morte;  ma  questa  immatura- 
mente  lo  tolse  alle  speranze  del  paese,  e  alPaffetto  di  quanti  lo  co- 
nobbero.  Di  questi  sentimenti  si  rese  interprete  Cesare  Correnti  in 


306  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

una  Commemorazione  che  lesse  alia  Societd  d'lncoraggiamento,  e 
che  fu  uno  de*  suoi  scritti  piu  ispirati  e  gentili. 

[PRODROMI   DELLE  ((CINQUE   GIORNATE »   DI   MILANO]1 

ll  Governo,  le  Autorita  militari  e  la  Polizia  di  Milano  comincia- 
vano  a  perdere  la  bussola,  e  la  pazienza.  Da  Vienna  venivano  alle 
Autorita  locali  ordini  rigorosi  ingiungenti  la  resistenza  e  la  forza; 
i  militari  e  la  Polizia  anelavano  a  menar  le  mani. 

La  prima  occasione,  o,  meglio,  il  primo  pretesto,  1'ebbero  dalla 
dimostrazione  del  non  fumare.  Questa  comincio,  come  ho  detto,  il 
primo  gennaio.  La  prima  giornata  passo  lietamente.  La  gente  scen- 
deva  in  strada,  passeggiava,  per  vedere  la  dimostrazione,  e  i  citta- 
dini,  incontrandosi,  si  ammiccavano  anche  senza  conoscersi,  per 
congratularsi  reciprocamente  che  nessuno,  proprio  nessuno,  avesse 
il  sigaro  o  la  pipa  in  bocca.  La  sera,  in  tutte  le  case,  in  tutti  i  caffe 
non  si  parlo  d'altro ;  e  non  si  fum6. 

Ma  il  giorno  dopo,  ch'era  una  domenica,  la  faccenda  cominci6 
a  farsi  seria.  Le  strade  erano  percorse  da  ufficiali  e  da  soldati  in 
gran  numero,  che  fumavano,  fin  con  due  sigari  in  bocca  per  cia- 
scuno,  per  aver  Taria  ancor  piu  provocatrice ;  e  una  folia,  che  andava 
crescendo,  li  seguiva,  e  tratto  tratto  li  fischiava. 

Un  ufficiale,  il  conte  Neipperg,  figlio  di  Maria  Luigia2  Duchessa 
di  Parma,  il  quale  con  aria  provocante  se  ne  stava  fumando  sulla 
porta  del  caffe  Martini,  di  fronte  al  Teatro  la  Scala,  dopo  una  collut- 
tazione  con  alcuni  aveva  ricevuto  uno  schiaffo.  II  Podesta  Casati,3 
che  si  dava  d'attorno  per  raccomandare  ai  cittadini  la  prudenza, 
e  alle  guardie  di  Polizia  la  moderazione,  s'era  trovato  in  mezzo 
a  un  gran  tafferuglio,  e  sulle  prime  era  stato  arrestato  anch'esso. 

Quelle  prime  awisaglie  non  dovevano  essere  che  il  preludio  dei 
fatti  ben  piu  gravi  che  seguirono  poi. 

La  sera  del  3  gennaio  mi  trovavo  in  casa  della  nonna,  con  mia 
madre.  Vi  si  discorreva  del  fumare,  e  delle  dimostrazioni  della 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  in,  pp.  53-60.  2.  il  conte  .  .  .  Luigia:  il  conte  Adam 
di  Neipperg  (1775-1829),  padre  deU'officiale  qui  ricordato,  dopo  avere  a 
lungo  convissuto  con  Maria  Lirisa,  separata  ormai  da  Napoleone  relegato  a 
Sant'Eleha,  la  sposo  morganaticamente  e  ne  ebbe  tre  figli.  3.  II  conte  Ga- 
brio  Ctfsaft  (1798-1873),  podesta  di  Milano  dal  1837,  fu  nel  1848  presiden- 
te  del  govemo  prowisorio  creato  durante  le  Cinque  giornate,  e  si  orient6, 
politicamente,  verso  la  fusione  della  Lombardia  col  Piemonte. 


RICORDI    DI    GIOVENTtl  307 

giornata.  Ne  i  miei  zii,  ne  altri,  in  casa  della  nonna,  avevano  mai 
fumato ;  la  nonna,  che  si  awicinava  ai  novant'anni,  diceva  di  credere 
che  due  de'  suoi  figli  avessero  fumato  quand'erano  ufficiali  nel- 
1'armata  Napoleonica,  ma  ne  parlava  come  d'una  scappata  giova- 
nile,  scusabile  tra  gli  orrori  della  campagna  di  Russia:  approvava 
quindi  la  dimostrazione  del  non  fumare,  ma  non  capiva  perche  mai 
il  Governo  non  fosse  dello  stesso  parere.  Quando  entra  mio  fratello 
Emilio,  col  fare  concitato,  e  con  gravi  notizie.  Veniva  dal  centro 
della  citta  per  awisare  la  mamma,  e  per  tranquillarla,  sul  proprio 
conto,  nel  tempo  stesso. 

Bande  di  soldati  si  erano  sparse  per  la  citta,  ubbriachi,  fumando 
e  provocando  quanti  incontravano.  Qua  e  la  la  folia  H  circondava, 
ed  essi  sfoderavano  le  sciabole,  gettandosi  sui  cittadini  inermi. 
C'erano  gia  stati  parecchi  feriti,  e  vicino  alia  Galleria  De  Cristoforis 
era  stato  ucciso,  con  un  colpo  di  sciabola  sulla  testa,  il  vecchio  Con- 
sigliere  d'Appello  Manganini.  In  ogni  punto  della  citta  accadevano 
atti  di  violenze  soldatesche,  e  fatti  di  sangue;  si  parlava  gia  di  pa 
recchi  morti,  e  d'un  centinaio  di  feriti  tra  i  cittadini. 

II  giorno  dopo  si  seppe  che  quella  sera  stessa  un  gruppo  di  cit 
tadini,  tra  i  quali  c' erano  Carlo  d'Adda,  Cesare  Giulini,  Enrico 
Besana,  Manfredo  Camperio1  e  il  Podesta  Casati,  erano  entrati  nel 
Palazzo  Marino,  dove  alloggiava  il  Ficquelmont,2  per  esporre  lo 
stato  della  citta,  e  protestare  con  vive  parole  contro  1'eccidio  che  vi 

i.  Carlo  d'Adda  (1816-1900),  prima  della  rivoluzione  milanese  delle  Cin 
que  giornate,  fu  scelto  dai  patriotti  perche  si  recasse  da  Carlo  Alberto  a 
sollecitarne  aiuti,  e  fu  poi  rappresentante  a  Torino  del  governo  prowisorio 
milanese.  Ebbe  molta  parte  nel  decennio  di  preparazione.  Vedi  su  lui 
EMILIO  VISCONTI  VENOSTA,  Carlo  D'Adda,  Firenze  1904;  Cesare  Giulini 
Della  Porta  (morto  nel  1862),  preparatore  e  animatore  delle  Cinque  gior 
nate,  dopo  il  ritorno  degli  Austriaci  (agosto  1848)  fu  esule  a  Torino.  Tomo 
a  Milano  nel  1850,  ma  conserv6  frequenti  rapporti  con  il  Cavour  e  ne  age- 
vo!6  molto  1'opera  fino  alia  guerra  del  '59;  Enrico  Besana  (1814-1878), 
gia  esule  a  Lugano,  vivamente  attivo  nella  insurrezione  milanese,  combatte 
nel  '48-49.  Viaggio  poi  lungamente  in  Asia  e  in  America;  ma  fu  presente 
nelle  campagne  del  '59  e  del  '66;  Manfredo  Camperio  (1826-1899)  nel 
gennaio  del  '48  fu  arrestato  e  condotto  a  Lienz:  ricondotto  a  Milano  per  il 
processo,  il  popolo  insorto  lo  Iiber6,  e  partecipo  cosi  alle  Cinque  giornate. 
Combatte  nel  '48,  nel  '59,  nel  '66.  Viaggid  a  lungo.  Fu  deputato.  Ha  lasciato 
una  autobiografia  (Milano,  Quintieri,  1917)-  2.  -Karl  Ludwig  von  Fic 
quelmont  (1777-1857),  gia  generale,  e  poi  ambasciatore  austriaco  in  yari 
stati,  era  allora  in  Milano  con  la  vaga  missione  di  impedire  che  gli  Italiani 
si  distaccassero  sempre  piu  dall* Austria.  Come  e  noto,  scoppiata  la  rivolu 
zione  e  allontanato  il  Metternich,  subito  il  Ficquelmont  fu  chiamato  a  Vien 
na  come  ministro  degli  esteri:  cio  alia  vigilia  delle  Cinque  giornate,  ch6  egli 
parti  da  Milano  il  9  marzo. 


308  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

accadeva.  II  Governatore,  alia  sua  volta,  ne  incolpava  le  provoca- 
zioni,  e  il  D'Adda  gli  aveva  risposto :  —  Forse  che  il  cuoco  del  conte 
di  Ficquelmont,  ch'e  tra  gli  uccisi,  era  d'accordo  con  noi  per  pro- 
vocare  gli  austriaci? 

La  citta  rimase  sdegnata,  ma  non  atterrita.  Le  proteste  d'ogni  or- 
dine  di  cittadini,  e  le  dimostrazioni  si  succedettero  con  maggiore 
insistenza  e  con  maggiore  entusiasmo,  fino  a  che  il  22  febbraio  il 
Governatore  Spaur  pubblico  la  legge  marziale,  che  iniziava  un  pe- 
riodo  di  severe  repression!  e  legalizzava  le  violenze  militari. 

Giovanetto  qual  ero,  e  di  solito  non  uscendo  di  casa  solo,  avevo 
pero  veduta  qualcuna  delle  dimostrazioni,  e  m'ero  trovato  anche  in 
mezzo  a  qualche  tafTeruglio ;  ma  poi  tornavo  a  casa,  per  non  tenere 
in  agitazione  mia  madre.  Mio  fratello  Emilio  ci  prendeva  invece 
una  parte  attivissima.  Egli  faceva  il  primo  anno  degli  studi  legali 
universitari  privatamente  in  Milano;  i  suoi  professori  pero  sole- 
vano  dire  a  mia  madre,  e  al  nostro  tutore,  lo  zio  don  Giovanni  Bor- 
gazzi,  che  questo  loro  scolare  era  un  giovane  di  molto  ingegno,  ma 
che  non  aveva  la  testa  a  casa,  e  che  pensava  molto  piu  alia  rivolu- 
zione  che  alia  filosona  del  diritto. 

Le  notizie  di  quei  giorni,  e  i  propositi  pei  giorni  seguenti,  le 
discussioni  sulle  idee  e  sui  fatti  che  si  andavano  svolgendo,  li  sen- 
tivo  in  casa  Correnti,  dove  andavo  con  mio  fratello  quasi  ogni  sera. 
Ricordo  ancora  vivamente  quelle  serate,  interessanti,  talora  com- 
moventi,  piene  di  entusiasmo  e  di  fede,  che  furono  la  mia  prima 
scuola  di  patriottismo  e  di  politica. 

Nello  studio  del  Correnti,  in  via  della  Spiga,  ch'era  tutto  un  di- 
sordine  di  libri  ammucchiati  e  di  carte  sparse,  c'era  ogni  sera  un 
andirivieni  di  molte  persone,  che  venivano  a  portar  notizie,  a  ri- 
ceverne,  a  discutere  sui  fatti  d'ogni  giorno,  a  preparare  le  dimo 
strazioni,  e  a  raccogliere  la  parola  d'ordine  per  gli  altri  crocchi 
d'amici,  che  si  radunavano  in  altre  case  o  in  altri  ritrovi.  In  mezzo  a 
tutti  Cesare  Correnti  era,  come  gia  dissi,  un  vero  capo  di  Stato 
Maggiore;  era,  nel  gruppo  de'  suoi  amici,  la  mente  direttiva,  ed 
aveva  su  tutti  un  assoluto  predominio.  Egli  lo  esercitava  nello  spin- 
gere  alPazione  e  nel  mantenere  la  concordia  tra  le  diverse  correnti 
d'opinioni  che  si  agitavano  intorno  a  lui.  Occorreva  che  un'alta 
idealita  patriottica  predominasse  in  tutti  alle  singole  opinioni  ed  ai 
partiti;  e  verso  questa  idealita  il  Correnti  infiammava  gli  animi 
costantemente. 


RICORDI    DI    GIOVENTtl  309 

In  questo  suo  lavoro  di  propaganda  e  di  disciplina,  che  possiamo 
dire  rivoluzionarie,  aveva  trovato  un  forte  contradditore  in  Carlo 
Cattaneo. 

II  Cattaneo  era  certamente,  a  quei  tempi,  uno  dei  cittadini  piii 
cospicui  di  Milano.  I  suoi  studi  economici,  studi  non  coltivati  allora 
da  molti  a  Milano,  e  il  suo  « Politecnico »,*  gli  davano  notorieta 
ed  autorita;  la  sua  casa  era  un  centro  di  studiosi,  filosofi,  econo- 
misti,  giuristi,  della  scuola  del  Romagnosi.2  Aveva  il  carattere 
altero  e  sdegnoso,  e,  per  un  certo  orgoglio  d'intelletto,  si  teneva 
lontano  dalle  opinioni  dei  piu.  Pregato  piu  volte  di  prender  parte 
alle  manifestazioni  patriottiche  che  si  andavano  apparecchiando 
nei  primi  mesi  del  1848,  egli  vi  si  era  sempre  rifiutato,  conside- 
randole  quasi  come  ragazzate.  Le  sue  opinioni  lo  conducevano 
per  una  strada  affatto  diversa,  sulla  quale,  a  dir  vero,  era  pres- 
soche  solo. 

Era  repubblicano,  federalista.  Sognava  un* Italia  divisa  in  varie 
repubbliche,  per  arrivare  alle  quali  era  disposto  ad  intendersi  coi 
Principi  italiani,  e  anche  forestieri,  salvo  a  strappar  poi  loro  a  una 
a  una  tutte  le  liberta.  Credeva  possibile  di  accomodarsi  a  questo 
modo  anche  con  1' Austria  pel  Lombardo-Veneto,  e  sognava  un'au- 
tonomia  amministrativa  e  in  parte  militare,  come  esiste  oggi  in 
Ungheria.3  Seguendo  questa  Utopia,  egli  aborriva  soprattutto  dal- 
Tidea  di  chiamare  Carlo  Alberto  a  farsi  condottiero  della  guerra 
per  Pindipendenza  italiana,  la  cui  conseguenza  sarebbe  stata  la  for- 
mazione  di  un  forte  stato  monarchic©  nelPalta  Italia.  Repubblicano 
e  democratico,  non  vedeva  in  tale  concetto  che  una  cospirazione 
di  nobili  e  di  conservatori. 

Udii  dire  in  casa  Correnti  che  Alessandro  Manzoni,  interrogato 
su  questo  disparere,  rispose:  —  Oggi  tutto  e  Utopia,  ma  tra  Tutopia 
bella  delFunita  e  quella  della  federazione,  sto  per  T Utopia  bella. 

Piu  volte  il  Correnti,  col  mezzo  di  amici  comuni,  aveva  cercato 


i.  Carlo  Cattaneo  fondd  il  «  Politecnico  »  nel  1837,  quale  «repertorio  men- 
sile  di  studi  applicati  alia  coltura  e  prosperita  sociale  ».  Ne  apparvero  sette 
volumi  fino  al  1844.  La  rivista  risorse  alia  fine  del  1859  e  cesso  le  sue  pub- 
blicazioni  nel  1865.  2.  Gian  Domenico  Romagnosi  (1761-1835),  giurista  e 
nlosofo,  collaboratore  del  « Conciliatore »,  fu  tra  gli  arrestati  dalla  polizia 
austriaca  nel  1820  e,  sebbene  liberate,  subi  sempre  sorveglianza  e  perse- 
cuzioni  come  liberale.  3.  un'autonomia  .  .  .  Ungheria:  si  allude  alia  costi- 
tuzione  dualistica  deirirnpero  austro-ungarico,  attuata  con  la  cosiddetta 
«legge  di  decembre»  (21  dicembre  1867). 


310  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

di  persuadere  il  Cattaneo,  e  di  smoverlo ;  ma  sempre  inutilmente. 
Egli  guardava  d'alto  in  basso  i  giovani  cospiratori,  e  questi,  natu- 
ralmente,  se  ne  lagnavano,  e  non  lo  amavano.  Molti  anzi  lo  criti- 
cavano  aspramente,  e  il  Cattaneo  li  chiamava  «  ragazzi ». 

Le  intelligenze  colla  parte  aristocratica  il  Correnti  le  coltivava 
col  mezzo  di  amici  suoi,  ch'erano  Cesare  Giulini,  Carlo  Porro, 
Carlo  d'Adda,  Anselmo  Guerrieri.1  Vedeva  di  frequente  il  Podesta 
Casati,  essendo  professore  d'uno  dei  figli;  Taltro  figlio  era  all'Ao 
cademia  militare  di  Torino.  Le  adesioni  erano  larghe,  e  risolute.  Le 
famiglie  aristocratiche  milanesi,  che  nel  1815  avevano  accolto  con 
qualche  favore  il  governo  austriaco,  sia  per  la  poca  simpatia  verso  il 
regime  napoleonico,  sia  pei  buoni  ricordi  tradizionali  lasciati  in 
Lombardia  dal  Governo  di  Maria  Teresa,  ora,  disilluse  ed  irritate, 
se  ne  staccavano  sempre  phi,  si  schieravano  risolute  nelfopposi- 
zione,  e  guardavano  al  Piemonte. 

La  rivoluzione  di  Parigi  del  24  febbraio,  e  il  movimento  liberale 
che  andava  manifestandosi  in  ogni  punto  d'Europa,  spingevano 
anche  Milano  alia  rivoluzione. 

L'eccitazione  degli  animi  cresceva  ogni  giorno,  e  parecchie  fa 
miglie  di  impiegati  e  di  ufficiali  austriaci,  sbigottite,  si  disponevano 
alia  partenza. 

Primi  a  partire,  sul  principio  del  marzo,  furono  il  de  Ficquelmont 
e  il  Vicere,2  colle  famiglie,  diretti  a  Bolzano.  Ficquelmont,  mandato 
come  un  fine  diplomatico,  aveva  scoperto  che  i  Milanesi  si  annoia- 
vano.  Era  vero,  ma  non  era  tutto.  II  Vicere  Raineri,  zio  dellTmpe- 
ratore  Ferdinando,  aveva  due  figlie,  di  cui  una  era  andata  sposa  al 
Principe  di  Piemonte  Vittorio  Emanuele,  e  cinque  figli  maschi.  Noi 
giovanetti  quando  s'incontravano  a  passeggio  i  cinque  arciduchi, 
impalati,  seri,  con  una  gran  tuba,  e  conun  gran  precettore,  si  rideva, 
e  ci  parevano  anche  molto  brutti. 

i.  II  marchese  Anselmo  Guerrieri  Gonzaga  (1819-1879)  aveva  studiato  lette- 
re  a  Pavia,  ma  aveva  allora  un  impiego  negli  uffici  fiscali  di  Milano.  Mem- 
bro  del  governo  prowisorio,  nel  marzo  del  '48  fu  inviato  a  Parigi  a  favo- 
rire  la  causa  italiana  presso  il  ministro  Lamartine.  Rimase,  poi,  a  lungo 
esule  a  Torino.  Fu  deputato,  dopo  il  '59,  di  Mantova.  Appartenne  alia 
destra.  Ha  lasciato  varie  traduzioni  d'opere  tedesche.  2.  il  Vicere:  1'ar- 
ciduca  Ranieri  d' Austria  fu  vicere  del  Lombardo-Veneto  dal  1818  al  1848. 
Una  sua  figlia,  Maria  Adelaide,  sposo  nel  1842  Vittorio  Emanuele  1'allora 
duca  (che  il  Visconti  Venosta  definisce  impropriamente  Principe  di  Pie 
monte)  di  Savoia,  e  mori  nel  1855.  II  vicere  lascio  Milano  il  17  marzo  del 
1848,  in  seguito  alia  rivoluzione  di  Vienna,  quando  ancora  la  notizia  era 
ignorata  dai  Milanesi. 


RICORDI   DI    GIOVENTtr  3!! 

In  compenso  era  molto  bella  la  madre,  Parciduchessa  Elisabetta, 
sorella  di  Carlo  Alberto.  Sulla  bella  Viceregina,  e  sul  brutto  Vicere, 
correvano  vari  pettegolezzi  di  Corte,  di  cui  giungeva  Peco  fino  a  noi 
ragazzi. 

Anche  il  Governatore  Spaur,  dopo  aver  proclamato  la  legge  mar- 
ziale,  se  n'era  andato. 

«Fanno  fagotto,  fanno  fagotto »  diceva  la  gente,  tutta  ilare,  e 
fregandosi  le  mani.  Ma  rimanevano  Radetzki,  con  PHiibner,1  col 
Vice  Governatore  O'Donnel2  e  col  barone  Torresani,3  direttore 
della  Polizia.  -  Non  avevano  quindi  fatto  fagotto  i  personaggi  piu 
importanti.  A  Radetzki,  che  da  parecchio  tempo  aveva  dato  Pal- 
larme  a  Vienna,  erano  stati  a  mano  a  mano  rinforzati  i  presidi  in 
Italia  fino  a  80.000  uomini,  e  con  lui  c' erano  i  generali  Walmoden, 
Carlo  Schwarzenberg,  Clam  Gallas,  Wohlgemuth,  Wocher,  Schon- 
hals.  La  guarnigione  di  Milano  era  stata  portata  a  diciottomila 
uomini. 

C'era  da  riflettere,  ma  per  fortuna  nessuno  rifletteva.  Non  riflet- 
teva  che  Carlo  Cattaneo,  il  quale  ad  alcuni  amici  che  s'erano  recati 
ancora  da  lui  la  sera  prima  della  rivoluzione  perche  si  unisse  a  loro, 
aveva  dato  un  reciso  rifiuto.4  Egli  si  disponeva  invece  a  pubbli- 

i.  Radetzki'.  vedi  la  nota  i  a  p.  183  e  questi  Ricordi  a  pp.  360-1;  Joseph 
Alexander  Hubner  (1811-1892)  era  a  Milano,  inviato  dal  principe  di  Met- 
ternich,  con  una  missione  presso  il  vicere  Ranieri.  Rimase  poi  per  cento- 
sei  giorni  in  ostaggio  dei  milanesi:  periodo  che  egli  stesso  ha  narrato 
(Une  annee  de  ma  vie,  Paris,  Hachette,  1891).  L'Hiibner  fu  poi  ambascia- 
tore  presso  Napoleone  III  e,  dopo  il  '65,  per  un  paio  d'anni,  presso 
Pio  IX.  2.  Heinrich  O'Donnel,  vice-governatore  di  Milano,  si  trov6  a  capo 
della  citta,  essendo  partito  il  conte  Spaur,  che  ne  era  il  governatore. 
3.  Carlo  Giusto  Torresani  Lanzelfeld  (1779-1852),  tirolese,  era  dal  1822 
direttore  di  polizia  a  Milano.  D'accordo  col  Radetzky,  contro  Topinione 
del  vice-governatore,  avrebbe  voluto  energiche  misure  allo  scoppio  della 
sommossa.  Sfuggi  agli  insorti  seguendo  le  truppe  austriache  che  lascia- 
vano  la  citta,  ma  la  moglie  fu.  trattenuta  a  Milano  come  ostaggio.  Caduto 
in  disgrazia  per  gli  eventi  milanesi,  si  ritir6  a  vita  privata.  4. «  Ecco  come 
il  Cattaneo  racconta  la  visita  avuta  da  alcuni  giovani  la  mattina  del  18  mar- 
zo:  "La  sera  del  17  marzo,  uno  degli  amici  rniei,  che  veniva  airistante  dalla 
casa  del  conte  O'Donnel,  Vicepresidente  del  govemo,  avendomi  annunziato 
che  una  nuova  sedizione  in  Vienna  ci  apportava  1'abolizione  della  Censura, 
deliberai  tosto,  di  por  mano  pel  di  seguente  alia  pubblicazione  d'un  gior- 
nale.  Parevami  propizio  il  momento  d'indirizzare  i  cittadini  a  estorcere 
immantinente  all'attonito  governo  quanto  piu  si  potesse  di  armamenti  o  di 
liberta ;  e  recarci  soprattutto  in  poter  nostro  i  nostri  soldati.  Conveniva  met- 
terci  in  grado  di  dar  principio  alia  lega  italica  con  mani  guarnite,  sicche 
il  vicino  regnante,  fattosi  costituzionale  da  troppo  pochi  di  e  solo  per  nostro 
amore,  ci  fosse  alleato  se  voleva,  ma  non  padrone.  Ricordo  nuovamente  che 


312  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

care  un  giornale,  il  ((Cisalpino));1  nel  nome  c'era  il  programma 
C'era,  invece,  in  tutti  il  presentimento  di  grandi  novita  e  di 
grandi  awenimenti,  che  nessuno  sapeva  precisare,  ma  di  cui  tutti 
parlavano.  A  un  tratto  si  sparse  intorno  la  notizia  d'una  rivoluzione 
scoppiata  a  Vienna  il  13  marzo.  La  commozione  fu  grande  e  gene- 
rale  in  Milano,  e  sebbene  non  si  sapesse  nulla  di  precise,  pure  tutti 
si  agitavano  e  si  chiedevano :  —  E  noi  cosa  si  fa  ?  —  Ma  poco  dopo 
corse  la  parola  d'ordine,  che  si  dovesse  fare  una  grande  dimostra- 
zione  per  chiedere  le  riforme,  sostenendola,  dicevano  i  piu  animosi, 
anche  con  le  armi. 


Fimpresa  dei  cittadini  comprendeva  il  conquisto  dell'indipendenza  insieme 
e  della  liberta.  Una  indipendenza  servile,  una  indipendenza  all'austriaca 
o  alia  russa,  non  mi  pareva  cosa  da  farsi  se  non  per  disfarla  da  capo. 
Per  siffatte  mezze  imprese  non  mi  pareva  lecito  insanguinare  la  patria. 
Avevo  appena  finite  di  scrivere  in  fretta  il  mio  primo  foglio,  quando  poco 
dopo  1'alba  due  amici  vollero  entrare  da  me,  ragguagliandomi  che  il  podesta 
Casati  dopo  mezzodi  doveva  recarsi  dal  Municipio  al  governo,  per  diman- 
dare  a  nome  del  popolo  alcune  concession!;  volevano  essi  avere  1'awiso  mio 
su  cio  ch'era  per  loro  a  farsi,  nel  quasi  inevitable  evento  di  un  conflitto. 
Questa  smania  di  correre  immantinente  alia  forza,  quando  nulla  si  era  fatto 
per  possederla  e  ordinarla,  mi  pareva  troppo  favorevole  al  nemico,  che 
sapevamo  presto  e  bramoso.  —  II  Podesta  fara  mitragliare  i  cittadini:  —  io 
dissi  —  egli  va  da  cieco  dove  lo  spingono ;  ma  voi  con  che  forze  volete  assa- 
lire  una  massa  di  ventimila  uomini,  che  si  e  preparata  di  lunga  mano  a  fare 
un  macello,  e  lo  desidera  ?  Quanti  combattenti  avete  ?  —  Quei  giovani  non 
avevano  a  mano  che  qualche  dozzina  d'altri  cacciatori.  —  Non  vedete  — 
risposi  —  che  vi  vogliono  parecchie  migliaia  d'uomini  bene  armati  e  ben 
comandati  ?  —  Mi  dissero  che  tutta  la  citta  si  sarebbe  mossa,  e  che  si  ave 
vano  pronti  quarantamila  fucili.  —  Questi  quarantamila  fucili  li  avete  visti  ? 
—  Non  li  abbiamo  visti ;  ma  sappiamo  che  il  comitato  direttore  li  aspettava 
di  Piemonte.  —  Andate  dunque  prima  a  vedere  se  sono  arrivati;  andate  al 
comitato-direttore.  E  siete  poi  certi  che  questo  comitato  vi  sia  ?  —  Senza 
dubbio;  tutti  ne  parlano.  —  Ebbene,  vedrete  che  infine  non  avremo  ne 
comitato,  ne  fucili.  Io  conosco  da  un  pezzo  codesti  ciambellani;  hanno  una 
fede  cieca  in  Carlo  Alberto,  e  saranno  corrisposti  come  al  solito.  Carlo  Al 
berto  non  ama  la  liberta;  e  non  puo  amarla.  Bisogna  pigliar  tempo  per 
armarci,  e  perche  tutta  PItalia  si  metta  in  grado  d'aiutarci;  non  ci  vuol  meno 
che  tutta  1' Italia.  Andiamo  adagio;  non  cacciamo  in  bocca  al  cannone 
un  popolo  disarmato,  finche  almeno  non  ci  mettono  alia  assoluta  necessita 
della  difesa.  —  Li  amici  se  ne  andarono  poco  di  me  content!.  Ne  vennero  al- 
tri;  e  si  fecero  li  stessi  discorsi;  altri  m'invitarono  a  non  so  quale  adunanza, 
a  due  ore,  nella  Galleria;  io  intanto  portavo  a  uno  stampatore  il  mio 
manoscritto"  DelV  insurrezione  di  Milano  nel  1848,  e  della  successiva  guerra, 
Memorie  di  C.  Cattaneo,  Bruxelles,  Societa  Tipografica,  1849,  pp.  29-31" 
(nota  del  Visconti  Venosta).  i .  il  «  Cisalpino » :  il  giornale  non  arrive-  alia 
luce,  che  gli  eventi  travolsero  1'iniziativa  del  Cattaneo. 


RICORDI   DI    GIOVENTtl  313 

[RICORDI  DELLE  «  CINQUE  GioRNATE))]1 

La  mattina  del  18,  tra  le  dieci  e  le  undici,  una  gran  folia,  stipata 
in  piazza  del  Duomo,  si  metteva  in  colonna  per  recarsi  al  Broletto, 
sede  del  Municipio,  a  chiedere  al  Podesta  e  alle  autorita  cittadine 
che  si  mettessero  alia  testa  del  popolo  per  muovere  insieme  al  pa- 
lazzo  del  Governatore,  e  chiedere  le  Riforme. 

E  la  colonna,  ossia  un'innumerevole  folia,  si  mosse,  inondando 
le  vie,  e  levando  un  alto  mmore,  come  un  mare  in  burrasca. 

Con  questo  primo  atto  incomincia  la  rivoluzione  delle  Cinque 
Giornate]  rivoluzione  che  ha  i  suoi  episodi  in  ogni  via  della  citta, 
gia  narrati  e  descritti  da  testimoni  oculari  e  dai  molti  che  hanno 
scritto  su  quel  grande  awenimento.  Non  e  quindi  la  storia  delle 
Cinque  Giornate  che  io  rifaro ;  io  mi  propongo  soltanto  di  scrivere 
alcuni  episodi  veduti  da  me,  che,  si  noti,  era  un  giovanetto,  e  quello 
che  in  quei  giorni  sentivo  dire  intorno  a  me. 

Fin  dalle  prime  ore  del  mattino  mio  fratello  Emilio,  ch'era  ri- 
tornato  da  Correnti,  rientrando  aveva  detto  alia  mamma  e  a  me 
che  in  quel  giorno  ci  sarebbe  stata  una  grande  dimostrazione,  la 
quale  avrebbe  potuto  finire  anche  con  la  rivoluzione.  La  povera 
mamma  raccomando  a  Emilio  la  prudenza,  e  le  si  velaron  gli  occhi 
di  lacrime.  Principio  da  quel  giorno  nel  suo  cuore,  ch'era  grande, 
la  lotta  tra  Pamor  di  patria  e  1s  amor  infinite  per  i  suoi  figli;  la 
lotta  che  per  tanti  anni  doveva  essere  piena  di  dolorosi  contrast!  e 
costarle  molte  ansieta  e  molte  lacrime.  Povera  mammal 

AlPannunzio  datomi  da  Emilio  pensai  di  mettermi  subito  anch'io 
in  istato  di  guerra.  Uscii  di  casa  un  po7  di  soppiatto,  poiche  fino 
allora,  secondo  gli  usi  del  tempo,  io  non  avevo  che  una  liberta 
limitata,  e  corsi  a  comperarmi  due  piccole  pistole  innocue,  e  un 
gran  cappello  alia  calabrese.  Poi,  rientrato,  tolsi  da  un  cassette  una 
coccarda  tricolore,  alquanto  vistosa,  che  mi  aveva  regalata  pochi 
giorni  prima  una  cuginetta,  e  la  cucii  in  secreto  sul  davanti  del 
cappello. 

Con  cio,  dal  canto  mio,  ero  pronto  agli  awenimenti.  E  gli  awe- 
nimenti  non  tardarono  a  presentarsi. 

Era  mezzogiorno.  Un  rumore,  da  prima  cupo  e  lontano,  ma  che 
awicinandosi  pareva  quello  d'una  folia  in  festa,  che  battesse  le 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  in,  pp.  63-8. 


314  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

mani  e  gridasse  degli  ewiva  entusiastici,  clamorosi,  ci  chiam6 
tutti,  noi  e  i  vicini,  ai  balconi  e  alle  finestre,  le  quali  si  andavano 
spalancando  in  ogni  casa.  Era  la  dlmostrazione  che  arrivava,  pre- 
ceduta  dalle  carrozze  dell'Arcivescovo,1  del  Podesta  e  del  Muni- 
cipio,  awiandosi  al  palazzo  del  Governo. 

Noi  abitavamo  in  via  della  Cerva,  al  primo  piano  della  casa  che 
fa  angolo  con  quella  parte  di  via  Monforte  che  conduce  alia  chiesa 
di  S.  Babila. 

Spinto  dalla  curiosita  e  dal  desiderio  di  far  qualcosa  anch'io, 
scesi  in  istrada  e  mi  awiai  verso  la  folia  che  procedeva  in  colonna 
serrata. 

Nell'uscire,  m'ero  trovato  sul  pianerottolo  con  un  inquilino  del 
secondo  piano,  il  dottor  Restelli,  il  quale  scendeva  le  scale  insieme 
ad  un  altro  giovane  medico,  il  dottor  Angelo  Tizzoni;  Puno  e 
1'altro  avevano  il  fucile  in  ispalla,  e  furono  i  due  primi  armati  che 
vidi  unirsi  alia  dimostrazione  cosi  detta  pacifica. 

M'ero  appena  messo  tra  la  folia,  quando  alcuni  vedendo  questo 
giovanetto  con  una  cosi  grande  coccarda  tricolore  (nessuno  ancora 
1'aveva  al  cappello),  cominciarono  ad  attirare  Pattenzione  su  me 
con  qualche  «  bravo  ragazzo! »  e  con  qualche  «  ewiva  la  coccarda! ». 
Detto  fatto,  parecchi  tra  quelli  che  m'eran  vicini  mi  presero  tra  le 
braccia  e  mi  sollevarono  in  alto,  provocando  una  piccola  dimostra- 
zione  speciale  in  mio  favore.  Anziche  stare  in  alto  io  mi  sarei  spro- 
fondato.  Mi  dibattevo,  e  pregavo  mi  si  lasciasse  andare.  Ma  fu 
inutile,  e  fui  portato  in  trionfo  per  un  centinaio  di  passi.  Una  sola 
faccia  riconobbi  in  quel  momento  tra  le  moltissime  che  vedevo  ri- 
volte  a  me,  ed  era  la  faccia  di  Carlo  Tenca,2  che  rideva  e  mi  am- 
miccava  con  benevolenza. 

Quando,  ad  un  tratto,  a  liberarmi  venne  il  rumore  d'un  colpo  di 

i.  Arcivescovo:  era  arcivescovo  di  Milano  Bartolomeo  Romilli,  di  Bergamo 
(1794-1859),  che  aveva  preso  possesso  della  diocesi  il  6  settembre  1847, 
tra  il  giubilo  del  popolo,  poiche  un  prelate  italiano  veniva  a  sostituire  Par- 
civescovo  precedente,  Gaetano  Gaysruck  (morto  il  19  novembre  1846),  di 
origine  tedesca.  Vedi  C.  CASTIGLIONI,  Gaysruck  e  Romilli,  arcivescovi  di 
Milano,  Milano  1938.  2.  Carlo  Tenca  (1816-1883)  era  gia  giornalista  e 
critico  letterario  molto  stimato :  dal  '45  al  '47  aveva  diretto  la  « Rivista  eu- 
ropea ».  Dopo  le  Cinque  giornate  diresse  il « Ventidue  marzo »,  giornale  del 
governo  prowisorio,  e  poi,  awerso  alia  fusione  della  Lombardia  col  Pie- 
monte,  scrisse  nell'«  Italia  del  popolo  ».  Tomato  a  Milano  dopo  una  lunga 
dimora  in  Toscana,  diede  vita  al  piti  importante  dei  suoi  periodici,  « II 
crepuscolo»  (6  gennaio  1850-31  maggio  1859).  II  Tenca  fu  poi  deputato 


RICORDI   DI    GIOVENTtT  315 

fucile;  mi  si  lascio  cadere,  e  ruzzolai  per  terra.  II  mio  trionfo  era 
finite;  ero  salito  e  caduto  precipitosamente,  come  succede  nelle 
rivoluzioni. 

La  folia  si  era  arrestata.  Si  senti  dapprima  un  rumore  assordante 
di  voci,  anzi  di  urli,  che  venivano  dalle  vicinanze  del  palazzo  del 
Governo;  poi  la  folia  comincio  a  retrocedere,  come  presa  da  un 
panico;  poi  quegli  urli  diventarono  piu  vicini  e  distinti,  e  non 
s'udiva  piu  che  il  grido:  «Airarmi!  airarmi!». 

Mi  tirai  dietro  la  porta  d'una  casa,  per  non  farmi  travolgere 
dalla  folia.  Poco  dopo  vidi  rovesciare,  presso  il  ponte  di  S.  Da- 
miano,  un  carro  di  botti  vuote  che  vi  stava  fermo,  e  si  principio 
la  prima  barricata  tra  un  baccano  indiavolato.  Poi  sentii  suonare 
a  stormo  le  campane  della  vicina  chiesa  di  S.  Damiano;  poi  il 
rumore  secco  di  alcune  fucilate;  poi  un  grido:  «Ewiva  i  morti!» 
alto,  terribile,  che  parmi  ancora  di  riudire  oggi  mentre  scrivo,  dopo 
tanti  anni. 

In  breve  la  via  Monforte  rimase  deserta,  e  rasente  al  muro  mi 
diressi  in  fretta  verso  la  chiesa  di  S.  Babila,  fino  alia  colonna  da  cui 
ha  principio  il  corso  Venezia,  chiamato  allora  di  Porta  Orientate,  e 
popolarmente  Porta  Renza. 

Mi  fermai  alquanto  a  contemplare  lo  spettacolo  cosi  nuovo,  e 
che  tanto  entusiasmava,  delle  bandiere  tricolori  che  ornavano  ogni 
finestra. 

Erano  bandiere  improwisate  quella  mattina,  bandiere  fantasti- 
che,  fatte  di  coperte,  di  scialli,  di  cenci,  purche  fossero  bianchi, 
rossi  e  verdi.  E  dalle  finestre  le  signore  gettavano  alia  folia,  che  ap- 
plaudiva,  coccarde  e  nastri  tricolori. 

Tra  quella  folia  agitata  parecchi  erano  gia  armati  con  fucili  da 
caccia;  alcuni  avevano  delle  carabine  o  qualche  fucile  militare  in- 
trodotto  dal  Piemonte.  Tra  quegli  armati  riconobbi  parecchi  gio- 
vani  miei  amici,  o  di  mia  conoscenza,  tra  i  quali  Lodovico  Trotti,1 
i  fratelli  Mancini,2  Enu'lio  Morosini,  i  fratelli  Dandolo,  Luciano 
Manara,  Carlo  De  Cristoforis,3  e  mio  cugino  Minonzio,  che  di- 


di  Milano,  dal  1860  al  1876,  e  copri  important!  cariche.  Vedi  i  suoi  scritti, 
in  due  volumi,  raccolti  da  Tullio  Massarani,  Milano,  Hoepli,  1888. 
i.  Lodovico  Trotti:  vedi  la  nota  i  a  p.  294.  2.  Per  uno  del  fratelli  Mancini, 
Lodovico,  vedi  la  nota  i  a  p.  355.  3.  Emilio  Morosini  (1831-1849)  parte- 
cip6  giovanissimo,  con  gli  amici  fraterni  Dandolo  e  con  Luciano  Manara, 
alle  campagne  del  '48  e  del  '49 ;  e  insieme  con  loro  alia  difesa  di  Roma,  dove 


316  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

vento  poi,  quasi  vent'anni  dopo,  colonnello  e  capo  di  stato  mag- 
giore  del  generate  Cialdini. 

Questi  giovani,  in  unione  con  altri,  sotto  la  guida  di  Luciano 
Manara,  avevano  fatto  venir  secretamente  dei  fucili  dal  Piemonte, 
e  durante  1'inverno  si  erano  esercitati  tutt'insieme  e  di  nascosto  al 
maneggio  delle  armi  ed  avevano  preparate  munizioni  e  cartucce.1 
Quei  giovani  valorosi,  entusiasti  d'amor  patrio,  ed  ispirati  nel  tempo 
stesso  a  idee  mistiche  e  religiose,  prima  di  scendere  in  istrada  ar- 
mati,  erano  andati,  circa  in  trenta,  in  una  chiesa  a  ricevere  Passo- 
luzione  quali  morituri  da  un  buon  prete,  il  coadiutore  Sacchi.2 
Li  conduceva  un  barnabita,  il  padre  Piantoni,  e  il  precettore  dei 
Dandolo,  il  prof.  Angelo  Fava.3  Corsero  poi  alle  barricate,  e  furono 
primi  tra  i  piii  audaci  nei  principali  combattimenti  per  cinque 
giorni. 

Educatore  ed  ispiratore  di  alcuni  di  quei  giovani,  specialmente 


mori  il  i°  luglio,  e  dove  caddero  anche  Enrico  Dandolo  (1827-1849)  e  il 
Manara  (1825-1849);  Carlo  De  Cristoforis  (1824-1859),  fratello  del  gia  ri- 
cordato  Malachia  (vedi  lanota  a  pp.  297-8),  partecipo  alia  insurrezione  delle 
Cinque  giornate,  combatte  nel  battaglione  Manara  la  guerra  del  '48 ;  fu  esule 
da  Milano,  perche  ricercato  dopo  gli  eventi  del  6  febbraio  1853,  ai  quali 
del  resto  non  aveva  partecipato,  e  accorse  volontario  nel  1859:  cadde 
a  San  Fermo,  il  27  maggio  1859.  Fu  studioso  di  problemi  economici  e 
militari,  e  su  tali  argomenti  ha  lasciato  alcune  pubblicazioni.  i .  « "Riu- 
niti  in  piccola  brigata,"  scrive  Emilio  Dandolo,  nel  suo  libro  sui  Volon- 
tari  Lombardi  "passavamo  delle  ore  ad  imparare  gli  esercizi  militari.  La 
notte  ci  trovava  raccolti  in  qualche  cameretta  rernota  a  fondere  palle  e  a 
preparare  cartucce.  Ogni  nostro  giardino,  ogni  nostro  cortile  racchiudeva 
in  fosse  casse  di  munizioni  procacciate  dai  nostri  risparmi,  a  quella  no- 
stra  eta  oltremodo  penosi."  Tra  quei  giovani  ricordiamo  i  fratelli  Croff, 
i  fratelli  Broggi,  Gerolamo  e  Alessandro  Borgazzi,  Manara,  i  fratelli  Dan 
dolo,  Fioretti,  Testa,  i  fratelli  Mancini,  Lodovico  Trotti,  Saule  Mante- 
gazza,  Carlo  De  Cristoforis,  Bussi,  e  qualche  altro  che  non  rammentiamo. 
Tutti  furono  alle  barricate.  -  Era  sempre  con  loro  Angelo  Fava.  -  In  via 
Rugabella,  nel  giardino  di  casa  Valerio,  i  fratelli  Lazzati  ed  altri  avevano 
nascoste  delle  armi.  Carlo  Alberto  vi  mando  un  carico  di  polveri  nelle  Cin 
que  Giornate,  che  non  fu  possibile  far  penetrare  in  citta » (nota  del  Visconti 
Venosta).  2.  Sacchi:  di  questo  sacerdote  liberale  il  Visconti  Venosta  diede 
una  trasfigurazione  nel  suo  romanzo  //  curato  d'Orobio,  dove  don  Cornelio 
Sacchi,  protagonista  del  romanzo,  diviene  simbolo  di  un  sacerdozio  ideale. 
Qualcuno  pensa  che  al  prete  del  romanzo  abbia  dato  non  pochi  colori 
don  Cesare  Ajroldi,  su  cui  vedi  la  nota  a  p.  322  (cfr.  M.  SCHERILLO, 
Visconti  Venosta  minore,  in  «La  lettura»,  maggio  1915,  p.  399).  3.  Angelo 
Fava  (1808-1881),  sebbene  dottore  in  medicina,  si  dedico  all'educazione 
dei  giovani,  tra  i  quali  i  Dandolo  e  il  Morosini  gli  furono  carissimi.  Al  ri- 
torno  degli  Austriaci  a  Milano  emigr6  in  Piemonte.  Rese  poi  notevoli  ser- 
vizi  al  Regno  d' Italia,  presso  il  ministero  della  pubblica  istruzione. 


RICORDI   DI    GIOVENTtl  317 

del  Dandolo  e  del  Morosini,  era  il  Fava,  che  divento  poi,  durante 
il  Governo  Prowisorio,  capo  della  pubblica  sicurezza  in  Milano, 
e  piu  tardi  Segretario  Generate  al  Ministero  delPIstruzione  Pub- 
blica  in  Torino.  Quella  mattina  era  sceso  in  istrada  coi  suoi  alunni; 
io  lo  intravidi  dal  piazzale  di  S.  Babila  in  mezzo  a  una  folia  che  ad 
im  tratto  sbuco  precipitosa  dalla  via  Bagutta.  Quella  folia  veniva 
dalla  via  Monte  Napoleone  sospinta  dalla  tnippa,  che  poco  prima 
aveva  fatto  fuoco  su  di  essa. 

Molti  anni  dopo,  ricordando  col  Fava  alcuni  fatti  delle  Cinque 
Giornate,  e  dicendogli  che  Favevo  visto  sbucare  da  via  Bagutta 
dopo  le  fucilate  di  via  Monte  Napoleone,  egli  mi  racconto  questo 
episodio:  —  In  via  Bagutta  mi  ero  imbattuto  pochi  minuti  prima  in 
Carlo  Cattaneo.  Io  ero  stato  fra  quelli  che  nei  giorni  prima  della 
rivoluzione  avevano  cercato  di  persuaderlo  ad  essere  con  noi.  Egli 
mi  aveva  opposto  un  costante  rifiuto.  Avevo  a  lungo  discorso  con 
lui,  rimanendo  e  1'uno  e  1'altro  nelle  nostre  opinioni  e  nei  nostri 
propositi.  La  rivoluzione,  secondo  lui,  era  un  errore,  e  sopra  tutto 
un'impresa  impossibile.  Ma  ora  la  rivoluzione  era  scoppiata,  e  non 
c'era  piu  da  discutere.  «Dove  vai,  Cattaneo  ?»  gli  dissi  «vieni  con 
me! »  «  Dove  vado  ? »  mi  rispose  «  Quando  i  ragazzi  hanno  il  soprav- 
vento,  gli  uomini  vanno  a  casa! »  e  mi  volto  le  spalle. 

Ma  a  quello  scatto  improwiso  segui  poi  la  riflessione :  il  Cattaneo 
aveva  la  mente  troppo  alta  per  ostinarsi  in  un  rifiuto  sdegnoso  e 
inerte.  Chiamato  dopo  tre  giorni  in  Municipio,  lo  vediamo  a  capo 
d'un  Comitato  di  difesa  con  Enrico  Cernuschi,  con  Giorgio  Clerici, 
con  Giulio  Terzaghi1  prender  parte  risoluta  ed  energica  alia  ri 
voluzione.2 

Intanto  la  rivoluzione  era  incominciata  e  da  per  tutto  sorgevano 

1.  Enrico  Cernuschi  (1821-1896)  fa  tra  i  piu  arditi  nelle  Cinque  giornate, 
e  tra  1'altro  si  dove  a  lui  1'organizzazione  del  Martinitt  come  messaggeri 
(cfr.  pp.  331-2).  Tornati  gli  Austriaci,  combatte  alia  difesa  di  Roma.  Ca- 
duta  la  Repubblica,  si  stabili  a  Parigi,  rimanendo  lontano  dagli  awenimenti 
italiani,  fedele  alle  sue  convinzioni  repubblicane  federaliste;  di  Giorgio  Cle 
rici  « la  cronaca  poco  informa,  tranne  che  era  egli  eccellentepatriotta  e  uomo 
d'azione » (cosi  C.  PAGANI,  Uomini  e  cose  in  Milano,  dalmarzo  all'agosto  1848, 
Milano,  Cogliati,  1906,  p.  178);  il  marchese  Giulio  Terzaghi,  secondo  le  Me- 
morie  del  conte  Enrico  Martini,  era  stato  fino  allora  austriacante  e  «  maestro 
di  danza  alle  arciduchessine  austriache»  (cosi  C.  PAGANI,  op.  cit.,  p.  34). 

2.  « II  Comitato  di  difesa  si  trasform6  in  un  Comitato  di  guerra  di  cui  era 
presidente  il  conte  Pompeo  Litta,  gia  capitano  d'artiglieria  al  seguito  di 
Napoleone  I,  e  ne  erano  membri  Cattaneo,  Cernuschi,  Clerici,  Terzaghi, 
Carnevali,  Lissoni,  Cerani,  Torelli»  (nota  del  Visconti  Venosta), 


318  GIOVANNI    VISCONTI   VENOSTA 

barricate;  dai  portoni  delle  case  uscivano  carrozze  ch'erano  subito 
rovesciate ;  dalle  fmestre  venivano  gettate  tavole,  sedie,  materasse  e 
masserizie  d'ogni  sorta;  il  selciato  e  le  pietre  del  marciapiedi  ve 
nivano  messi  sossopra,  tutto  era  ammucchiato  con  febbrile  attivita, 
e  ogni  strada  in  pochi  momenti  era  asserragliata  da  barricate  che 
sorgevano  a  poca  distanza  1'una  dall'altra. 

Ero  fuori  di  casa  ormai  da  parecchie  ore,  e  pensai  di  rientrare 
per  non  lasciare  troppo  a  limgo  in  agitazione  la  mia  buona  mamma. 
Emilio  non  rientro  che  a  notte  inoltrata  ed  eravamo  in  non  poca 
agitazione  per  lui:  egli  era  stato  lungamente  trattenuto  con  Lodo- 
vico  Trotti  in  una  delle  vie  che  fiancheggiano  la  piazza  del  Duomo, 
poiche  sulla  Cattedrale  c'erano  i  cacciatori  tirolesi  che  facevano 
fuoco  su  quanti  cercavano  di  attraversare  la  piazza. 

Emilio  ci  racconto  i  fatti  a  cui  aveva  preso  parte,  o  che  aveva  udito 
da  altri ;  ci  narro  che  gli  austriaci  avevano  assalito  e  preso  il  Brolet- 
to,  facendo  molti  prigionieri  tra  i  nostri  e  conducendoli  in  Castello 
quali  ostaggi ;  ci  disse  i  nomi  di  alcuni  di  questi,  e  i  nomi  dei  primi 
caduti,  tra  i  quali  il  nostro  antico  Direttore  di  scuola,  il  Boselli,  che 
era  stato  ucciso  a  colpi  di  baionetta  sulla  porta  del  Broletto. 

All'alba1  del  giorno  seguente,  una  domenica,  Emilio  era  uscito  di 
casa  di  buon'ora,  ed  anch'io  ero  sceso,  e  m'ero  fermato  sul  lirnitare 
del  pottone,  socchiuso  come  tutti  gli  altri  portoni. 

Pioveva;  nella  via  della  Cerva  non  si  vedeva  nessuno;  tutt'in 
giro  era  un  profondo  silenzio,  non  interrotto  che  dal  suono  conti- 
nuo  delle  campane  a  stormo,  e  da  qualche  colpo  di  cannone.  Tutte 
le  persiane  eran  chiuse,  o  socchiuse.  Mi  spinsi  piano  piano  fino  allo 
sbocco  della  strada,  e  vidi  che  anche  la  via  Monforte  era  abbando- 
nata  e  silenziosa.  La  barricata  del  ponte  era  stata  distrutta  dagli 
austriaci  durante  la  notte  e  gettata  in  parte  nel  canale  detto  il 
Naviglio.  Al  di  la  del  ponte,  in  vicinanza  del  palazzo  del  Governo, 
si  vedevano  dei  soldati,  che  ora  procedevano  guardinghi,  ora  si 
ritiravano  tenendosi  ai  lati  della  strada,  sotto  le  gronde,  coi  fucili 
in  direzione  delle  finestre,  e  pronti  a  far  fuoco  appena  vedessero 
una  persiana  semiaperta. 

A  un  tratto  vidi  venire  dal  piazzale  di  S.  Babila,  rasente  il  muro, 
un  giovane  armato  di  carabina;  egli  si  fermo  al  vicolo  Rasini,  e  si 
apposto  dietro  Tangolo.  Questo  valoroso,  che  doveva  morire  poche 
i.  Ed.  cit.,  cap.  rv,  pp.  73-88. 


RICORDI   DI    GIOVENTt  319 

ore  dopo,  era  Giuseppe  Broggi.1  Dal  punto  in  cui  s'era  messo,  in- 
comincio  a  far  fuoco  contro  i  soldati  che  erano  nelle  vicinanze  del 
ponte,  e  ogni  suo  colpo  ne  faceva  cadere  uno.  Cosi,  solo,  in  meno 
di  mezz'ora  ricaccio  fino  al  bastione  i  soldati  che  avanzandosi  len- 
tamente  si  preparavano  ad  occupare  la  via  Monforte.  II  Broggi, 
quando  vide  che  tutta  la  via  era  sgombra,  si  avanzo  fino  al  ponte,  e 
presa  la  strada  del  Naviglio  si  apposto  di  nuovo,  facendo  fuoco, 
all'angolo  del  Corso.  Qui  ebbe,  sulle  prime,  il  medesimo  fortunato 
successo,  finche  una  palla  di  cannone,  rimbalzando  dallo  stipite  di 
una  porta,  che  ne  conserva  ancora  la  traccia,  gli  squarci6  il  petto. 

Per  alcune  ore  tutto  fu  quiete  e  silenzio  nelle  vie  Cerva  e  Mon 
forte.  Di  tanto  in  tanto  qualcuno  si  affacciava  alle  finestre,  o  con 
passo  prudente  usciva  dalle  porte,  e  allora  si  awiava  in  istrada  un 
po'  di  conversazione,  per  chiedersi  e  scambiarsi  qualche  notizia. 
Non  tutti,  naturalmente,  erano  eroi;  chi  aveva  1'aria  spaventata; 
chi  sommessamente  arrischiava  qualche  parola  di  prudenza  o  di 
biasimo;  chi  si  millantava;  chi,  senza  allontanarsi  dalla  porta,  pru- 
dentemente,  faceva  progetti  e  propositi  terribili.  Tutti,  anche  i 
migliori,  erano  esaltati,  e  ben  diversi  del  solito. 

Tra  le  persone  piu  agitate  del  quartiere  osservai  un  certo  inge- 
gnere  Alfieri,  che  abitava  nella  stessa  nostra  casa;  uomo  di  solito 
tranquillo  e  di  poche  parole,  diventato  ora  loquacissimo  e  di  ma- 
niere  strane.  Egli  s'era  trovato  il  giorno  prima  in  via  Monte  Na- 
poleone  nel  momento  di  quel  gran  parapiglia  in  cui  la  folia,  che 
ritornava  dal  palazzo  del  Governo,  veniva  accolta  a  fucilate  da  una 
compagnia  di  soldati.  Vivamente  impressionato,  aveva  avuto  tutta 
la  notte,  come  mi  disse  poi  il  suo  servitore,  una  gran  febbre,  e 
improwisamente  era  impazzito.  Ma  nessuno  lo  sospetto  allora,  e 
parve  soltanto  un  patriota  dei  piu  ardenti. 

L'ingegnere  Alfieri,  a  un  tratto,  chiamo  tutto  il  vicinato  e  pa- 
recchi  delle  case  vicine  a  raccolta  in  una  corte ;  dichiaro  che  da  quel 
momento  egli  prendeva  il  comando  del  quartiere  e  che  tutti  avreb- 
bero  dovuto  obbedire  a  lui  solo  sotto  la  piu  severa  disciplina.  La 
cosa  parve  a  tutti  naturalissima,  e  Fingegnere  cominci6  a  dare  i  suoi 
comandi.  Ordin6  che  si  preparassero  dei  pannolini  bagnati  per  spe- 

i.  Giuseppe  Broggi  (1814-1848)  aveva  disertato  dall'esercito  austriaco  e, 
fuggito  ad  Algeri,  si  era  armolato  nella  legione  straniera.  Tomato  a  Mi- 
lano,  fu  lasciato  libero  dagli  Austriaci,  dopo  breve  prigionia.  Sembrava  lon- 
tano  da  interessi  politici  e  fu  invece  tra  i  primi  a  combattere  e  a  cadere 
(19  marzo)  nelle  Cinque  giornate. 


320  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

gnere  le  bombe,  e  che  si  mettessero  delle  caldaie  al  fuoco  per  get- 
tare  acqua  ed  olio  bollente  sui  soldati;  poi  mando  alcuni  nelle  can- 
tine,  e  sui  tetti,  per  sorvegliare  le  spie  e  i  nemici  nascosti.  Anche  su 
cio  non  si  ebbe  nulla  da  ridire.  A  me,  che  avevo  le  pistole,  diede  1'or- 
dine  di  tenermi  accovacciato  dietro  Tabbaino  d'un  tetto,  ove  mi 
condusse  egli  stesso,  per  sorprendere  un  nano  che,  a  suo  dire,  fa- 
ceva  dei  segnali  dai  tetti,  ai  soldati.  A  nessuno,  dico,  venne  il  so- 
spetto  che  a  quel  nostro  comandante  avesse  dato  di  volta  il  cervello. 
Erano  tutti  esaltati  da  un  bisogno  di  fare  e  di  credere;  piu  un  co- 
mando  era  misterioso,  e  piu  ci  trovava  devoti.  Si  viveva  alPinfuori 
della  realta;  la  realta  era  il  complesso  dei  sentimenti  e  delle  spe- 
ranze  di  tutti;  era  un  amore  infinite  per  T Italia;  era  la  sicurezza 
della  vittorial 

Rimasi  parecchie  ore  sui  tetto,  dietro  il  mio  abbaino,  osservando 
innanzi  tutto  se  compariva  il  nano,  e  poi  le  linee  dei  soldati,  che 
tratto  tratto  sfilavano  sui  bastioni,  a  passo  rapido,  e  guardando  i 
campanari  che  picchiavano  a  martello  le  campane  sulle  torri  di 
tutte  le  chiese.  Tutto  ci6,  tra  un  rumore  continue  di  grida,  di  fu- 
cilate,  di  cannonate,  che  assordavano  1'aria,  e  tra  il  sibilo  tetro  delle 
racchette1  e  delle  bornbe. 

Nel  guardare  lungo  la  via,  vidi  presso  il  ponte  sui  Naviglio  di 
S.  Damiano,  stesi  sui  lastrico,  due  cadaveri,  che  vi  giacevano  pro- 
babilmente  dal  giorno  prima.  E  infatti  seppi  poi  che  i  soldati  ve- 
nuti  dal  bastione  a  rioccupare  il  palazzo  del  Governo,  appena  n'era- 
no  usciti  O'Donnel  e  le  Autorita  milanesi,  nel  caricare  la  folia  e 
nel  risospingerla  al  di  la  del  ponte,  erano  entrati  in  alcune  case,  e 
saliti  sui  tetti,  avevano  gettato  in  istrada  quei  due  infelici  che  vi 
stavano  appiattati,  e  di  cui  vedevo  i  cadaveri. 

In  quel  momento  mi  sentii  risuonare  nell'anima,  con  una  pro- 
fonda  pieta,  quel  grido:  «Ewiva  i  morti !»  con  cui  avevo  sentito  il 
giorno  prima  la  folia  salutare  le  prime  vittime. 

I  morti  erano  la.  E  non  ristavo  dal  guardarli  da  lontano,  con 
quella  specie  di  fascino  che  ci  tiene  awinti  alle  cose  che  ci  fanno 
meditare.  Chi  erano  quei  morti  ? 

Venne  la  sera,  e  il  nano  non  compariva;  per  di  piu  avevo  una 
gran  fame,  e  cio  contribui  a  persuadermi  che  la  mia  missione  fosse 
pel  momento  finita.  Cercai  la  scaletta  per  la  quale  ero  venuto,  ed 

i.  racchette:  razzi  incendiari  (cfr.  p  331). 


RICORDI   DI    GIOVENTtl  321 

ebbi  Pingrata  sorpresa  di  vedere  che  Puscio  era  chiuso  a  chiave. 
L'aveva  forse  chiuso  il  mio  stesso  comandante,  per  assicurarsi  me- 
glio  che  avrei  eseguito  la  consegna  datami. 

Che  cosa  fare  ?  Non  mi  rimaneva  che  di  aggirarmi  pei  tetti,  come 
un  gatto,  di  fumaiolo  in  fumaiolo,  col  pericolo  di  finire  in  istrada, 
in  cerca  d'im'altra  soffitta  aperta  e  d'un'altra  scaletta. 

Le  trovai ;  scesi ;  ed  eccomi  in  una  casa,  e  in  mezzo  a  gente  che 
non  conoscevo.  In  altri  tempi  sarei  stato  accolto  come  un  ladro, 
ma  in  quel  giorno  fui  accolto  come  un  amico,  come  un  figliuolo  di 
casa.  Narrai  la  mia  awentura  a  quella  buona  famiglia,  in  mezzo 
alia  quale  ero  capitato ;  mi  si  fece  una  gran  festa,  si  parlo  del  nano, 
e  si  voleva  anche  trattenermi  a  cena,  se  non  avessi  avuto  fretta  di 
rivedere  mia  madre. 

Non  e  facile  descrivere  1'ospitalita  che  in  quei  giorni  si  trovava  in 
ogni  casa.  I  pericoli,  e  le  vicende  della  lotta,  obbligavano  spesso  a 
cercar  rifugio  nella  prima  casa  che  capitasse.  Tutti  trovavano  dap- 
pertutto  un'accoglienza  fraterna  e  festosa.  Pareva  che  Milano  fosse 
una  sola  famiglia.  Si  era  in  quei  giorni  tutti  amici  e  fratelli;  tutti 
si  soccorrevano  a  vicenda,  si  abbracciavano,  si  davan  del  tu.  Dalle 
strade  si  saliva  nelle  abitazioni,  e  vi  si  trovava  un  letto  per  ripo- 
sare,  un  bicchier  di  vino,  un  boccone  per  rifocillarsi.  Cio  alle  volte 
diventava  una  vera  necessita.  In  alcune  vie  tutte  le  botteghe  eran 
chiuse,  e  le  comunicazioni  erano  difficilissime.  Qualche  cuoco,  o 
qualche  servitore  che  si  era  azzardato  ad  andare  in  cerca  di  com- 
mestibili,  era  stato  ferito  o  ammazzato.  La  citta  era  bloccata,  e  al 
quarto  giorno  i  viveri  cominciarono  a  scarseggiare.  La  larga  ospi- 
talita,  che  metteva  in  comune  le  prowiste  di  quelli  che  ancora  ne 
avevano,  diventava  una  vera  prowidenza. 

I  ricchi  e  le  persone  agiate  distribuivano,  nelle  strade  e  nelle 
case,  viveri  e  soccorsi  a  quanti  si  presentassero  loro,  fossero  o  non 
fossero  poveri.  I  signori  distribuivano  larghi  soccorsi  ai  popolani 
e  agli  operai,  che  in  quei  giorni  della  rivoluzione  si  trovavano  ne- 
cessariamente  disoccupati.  Soccorrevano  in  ogni  maniera  anche  le 
loro  famiglie,  ed  essi  volonterosi  e  coraggiosamente  si  adoperavano 
in  ogni  piu  audace  azione,  e  volonterosi  ubbidivano  a  chi  li  diri- 
geva  e  li  comandava. 

Nessun  furto  awenne  in  quei  giorni,  mentre  tutte  le  case  erano 
aperte  a  tutti  e  non  guardate  da  nessuno.  Milano  era  una  famiglia 
sola;  tale  fu  la  fisionomia  morale  della  rivoluzione. 


322  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

La  mattina  del  lunedi,  di  buon'ora,  qualcuno  venne  ad  awi- 
sarci  die  i  soldati  si  avanzavano,  che  avevano  oltrepassato  il  ponte, 
e  che  pareva  si  disponessero  ad  occupare  tutta  la  via.  Sarebbe 
stata  da  parte  loro  una  bella  mossa,  che  avrebbe  potuto  condurli 
a  pigliare  alle  spalle  le  barricate  del  corso  di  Porta  Orientale. 

L'allarme  fu  grande  tanto  nella  casa  nostra  quanto  nelle  case 
vicine,  e  tutti  si  misero  ad  asserragliare  le  porte  per  timore  d'una 
invasione.  II  figlio  del  nostro  portinaio,  certo  Cecco  Migliavacca, 
giovanotto  alto  e  robusto,  detto  fatto,  principle  a  disselciare  il 
cortile,  e  a  portar  sassi  su  un  balcone  della  casa  dal  quale  si  domi- 
nava  rimboccatura  della  strada.  lo  lo  aiutai  in  questo  lavoro,  e  ifi 
pochissimo  tempo  ci  fu  su  quel  balcone  una  abbondante  prowista 
di  sassi.  Quando,  ad  un  tratto,  che  cosa  vediamo  ?  I  soldati  si  avan- 
zano  rapidamente,  coi  fucili  puntati  alle  finestre,  e  quattro  zappa- 
tori  colle  asce  alzate,  comandati  da  un  ufficiale,  principiano  a  menar 
colpi  a  tutta  forza  contro  il  portone  della  casa  del  duca  Visconti  di 
Modrone,  che  fa  angolo  tra  via  Monforte  e  via  della  Cerva. 

Quella  casa  era  zeppa  di  gente,  venuta  a  ricoverarsi  dalle  case 
piu  minacciate  di  via  Monforte,  e  trattenuta  con  una  generosa  ospi- 
talita  dal  Duca. 

II  mio  giovanotto  comincio  a  lanciar  sassi  furiosamente :  io  Taiu- 
tai  del  mio  meglio,  e  i  soldati  qua  e  la  retrocedevano,  senz'accorger- 
si  sulle  prime  da  qual  parte  venisse  quella  grandinata.  Tutto  cio 
fu  1'affare  d'un  minuto. 

Intanto  il  portone  di  casa  Visconti  stava  per  cedere  ed  era  im- 
minente  una  qualche  grave  sciagura;  quand'ecco  aprirsi  la  finestra 
d'una  casa  vicina,  che  fa  angolo  col  vicolo  Rasini,  e  nella  quale 
abitavano  alcuni  canonici  della  chiesa  di  S.  Babila.  A  quella  finestra 
si  affaccia  un  prete,  il  quale,  tra  le  fucilate  che  gli  tirano  dalla  strada 
i  soldati,  spiana  un  fucile,  prende  di  mira  I'ufficiale  e  lo  colpisce. 

Questo  fatto  improwiso  atterrisce  i  soldati,  che  rapidamente 
fuggono  al  di  la  del  ponte,  portando  seco  il  ferito.  La  casa  Visconti 
era  salva. 

Chi  era  quel  prete  ?  II  vicinato  disse  subito  che  era  don  Cesare 
Ajroldi.1  Io  lo  vidi,  quel  prete,  mentre  lanciavo  i  sassi,  ma  nella 

i.  Cesare  Ajroldi  Aliprandi  (1800-1891)  aveva  studiato  lettere  e  filosofia, 
ma,  sebbene  sacerdote,  non  gli  era  stato  concesso  di  insegnare,  proprio  per 
le  sue  idee  liberali.  Al  ritorno  degli  Austriaci  si  ritiro,  o  fu  obbligato  a  riti- 
rarsi,  nel  paesello  di  San  Giovanni,  presso  Sesto,  e  non  torno  a  Milano  se 
non  dopo  la  liberazione  del  1859. 


RICORDI    DI    GIOVENTfl  323 

commozione  del  memento  non  potei  rawisarlo.  Sul  nome  di  quel 
prete  si  fecero  poi  correre  voci  disparatissime,  con  Fevidente  in- 
tenzione  di  non  richiamare  una  speciale  attenzione  su  nessuno.  Pa- 
recchi  avevano  anche  Findiscrezione  di  domandare  air  Ajroldi  stesso 
se  fosse  stato  lui  Feroe  di  questo  episodio,  ma  egli  si  schermiva 
sempre.  Uomo  d'ingegno  e  distinto  predicatore,  FAjroldi,  dopo  il 
ritorno  degli  austriaci,  fu  tenuto  per  dieci  anni  in  una  specie  di 
esilio ;  lo  mandarono  curato  in  un  paesello  di  poche  centinaia  d'ani- 
me;  dopo  il  1859  ritorno  a  Milano,  divento  Monsignore  del  Duo- 
mo,  ed  occupo  diverse  cariche  cittadine  nella  beneficenza,  tra  la 
stima  generale. 

Dopo  quel  fatto  venne  Fordine,  non  so  da  chi,  di  erigere  una 
forte  barricata  di  fianco  a  S.  Babila,  per  difendere  il  Corso,  e  per 
proseguire  poi,  con  altre  barricate,  di  mano  in  mano  fino  al  ponte. 

Eccoci,  dunque,  tutti  quelli  del  vicinato,  a  costruire  in  gran  fretta 
una  barricata,  servendoci  di  masserizie  e  di  materiali  che  genero- 
samente  ci  venivan  dati  dalle  case  vicine.  Don  Cesare  Ajroldi,  sceso 
in  istrada  esso  pure,  aveva  preso  a  dirigerne  la  costruzione. 

La  barricata  era  finita,  e  gia  si  pensava  a  costruirne  un'altra, 
quando  gli  austriaci  avanzarono  di  nuovo  fino  al  ponte  con  due 
pezzi  d'artiglieria,  e  ci  tirarono  alcune  cannonate.  La  nostra  bar 
ricata  si  sfascio,  e  in  breve  fu  messa  sossopra.  Ci  mettemmo  in 
fretta  a  ricostruirla,  ma  mentre  stavamo  collocando  dei  sacconi  e 
delle  materasse  per  difenderla  meglio,  una  palla  di  cannone  Fat- 
travers6,  schiacciando  e  recidendo  la  testa  d'uno  ch'era  in  mezzo  a 
noi,  un  certo  Perelli.  Don  Cesare  e  il  Migliavacca  trasportarono  il 
morto  nella  vicina  chiesa  di  S.  Babila,  e  tiratici  tutti  in  disparte, 
commossi,  assistemmo  una  seconda  volta  allo  sfacelo  della  nostra 
barricata.  Non  tentammo  allora  di  rizzarla  nuovamente,  e  poco 
dopo  anche  gli  austriaci  ritirarono  i  loro  cannoni,  e  pel  momento 
non  fecero  piu  nessuna  mossa  in  avanti. 

Nullameno  i  fatti  di  quella  mattina  avevano  messo  in  allarme 
tutto  il  quartiere.  II  duca  Visconti  comincio  a  raccogliere  gente  per 
fame  dei  difensori  della  sua  casa,  e  questi  furono  il  primo  nucleo 
d'un  reggimento  di  volontari,  che  poi  equipaggio  a  sue  spese  e 
condusse  al  campo.  II  duca  in  quei  giorni  era  sempre  in  mezzo  alia 
strada,  con  un  sacchetto  di  lire  austriache,  dette  svanziche,  che 
vuotava  e  poi  riempiva,  distribuendo  sussidi  agli  operai,  ai  popo- 
lani,  alle  donne  del  quartiere  e  dei  quartieri  vicini. 


324  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

Intanto  le  case  di  via  Monforte  e  di  via  Cerva  venivano  in  parte 
abbandonate  dagrinquilini,  che  cercavano  di  rifugiarsi  in  vie  meno 
esposte,  in  punti  meno  minacciati.  Correva  la  voce  che  gli  austriaci 
si  preparassero  ad  un  nuovo  e  piu  vigoroso  assalto,  scendendo  dalla 
via  Monforte. 

La  mattina  del  terzo  giorno  Emilio,  capitato  a  casa,  dopo  averci 
narrato  le  sue  vicende,  ma  in  modo  da  non  spaventare  la  mamma, 
la  persuase  a  lasciar  la  casa,  e  a  portarsi  altrove  con  me  e  col  fratello 
Enrico.  Mia  madre  penso  allora  di  recarsi  nella  vicina  via  Durini 
presso  una  certa  madame  Garnier,  ch'essa  conosceva  e  ch'era  la 
direttrice  d'un  Collegio  di  fanciulle  situato  nel  palazzo  Durini. 

Non  e  a  dire  con  quanta  festa  ci  accogliesse  quella  buona  signora, 
la  quale  aveva  gia  messo  a  disposizione  di  altri,  ch'erano  venuti  a 
chiederle  ospitalita,  i  locali  delle  sue  scuole.  C'era  percio,  in  quel 
Collegio,  un  andirivieni  continuo  di  amici  e  di  amiche  della  Diret 
trice,  di  giovanotti  armati  e  di  combattenti  che  venivano  a  portare 
e  a  sentir  notizie,  a  veder  le  sorelle,  o  le  madri  che  v'erano  accorse, 
a  rifocillarsi,  a  riposarsi,  o  a  farsi  medicare  se  feriti.  Tutto  cio  in 
un  Collegio  di  fanciulle!  Ma  chi  ci  badava  allora?  Tutti  rispettosi, 
tutti  fratelli;  la  gente  aveva  ben  altro  pel  capo. 

Dopo  che  ci  fummo  collocati  alia  meglio  nella  nuova  abitazione, 
mi  venne  la  curiosita  di  ritornare  in  via  Cerva,  e  di  dare  una  capa- 
tina  in  via  Monforte  per  vedere  se  gli  austriaci  avanzassero.  In  via 
Cerva  trovai  un  assembramento  di  persone,  e  pareva  anche  che  ci 
fosse  un  po'  di  parapiglia,  precisamente  dinanzi  alia  casa  Perelli, 
dove  noi  abitavamo.  Che  cosa  era  awenuto  ?  In  quella  casa  abitava 
pure  un  certo  De  Simoni,  console  pontificio;  ora  un  messo,  scor- 
tato  da  alcuni  cittadini  armati,  era  venuto  ad  invitarlo  a  un  ritrovo 
dei  Consoli  che,  come  si  seppe  poi,  volevano  chiedere  un  abbocca- 
mento  al  maresciallo  Radetzki.  Ma  il  messo  e  la  pattuglia  erano 
stati  bruscamente  fermati  dalPingegnere  Alfieri,  il  quale  gridava 
che  senza  il  suo  permesso  il  Console  non  sarebbe  uscito  di  casa. 

II  Console  intanto  s'era  affacciato  alia  finestra,  ed  era  principiato 
un  curioso  colloquio  tra  lui,  1* Alfieri,  il  messo  e  quelli  della  strada. 

Finalmente  il  Console,  in  uniforme,  scese,  e  allora  1' Alfieri  si 
mise  a  gridare :  —  Vedete  quest'uomo  ?  Questa  e  la  spia  che  tutti 
andiamo  cercando  da  due  giorni  .  .  .  ammazziamolo ! 

II  povero  Console,  che  non  ne  capiva  nulla,  si  agitava,  tremava; 
ma  per  fortuna  le  smanie  dell' Alfieri  furon  tali  e  tante  che  tutti 


RICORDI   DI    GIOVENTt  325 

finalmente  si  accorsero,  cosa  non  facile  in  quei  momenti,  che  aveva 
smarrita  la  ragione.  Dopo  un  chiasso  indiavolato,  TAlfieri  cadde  a 
terra  dibattendosi. 

Raccolto  da  alcuni  pietosi  fu  condotto  alPOspedale,  dove  pochi 
giorni  dopo  mori  delirando.  Non  fu  in  quei  giorni  il  solo  caso  di 
pazzia  improwisa. 

La  mattina  del  21,  sull'albeggiare,  dopo  parecchie  ore  dormite 
saporitamente  su  una  branda,  nelPanticamera  del  Collegio  Garnier, 
non  ostante  lo  scampanio  continue  di  quasi  tutti  i  campanili  della 
citta,  scesi  in  istrada  e  m'imbattei  subito  in  alcuni  che,  con  una 
sciarpa  tricolore  a  tracolla,  si  affannavano  a  dar  ordini  in  nome  del 
Comitato  di  difesa  e  a  disciplinare  Tinsurrezione :  non  fosse  altro, 
ne  avevano  la  buona  intenzione.  Caduto  anch'io  nelle  mani  d'uno 
di  questi  capi,  fui  messo  subito  di  sentinella  ad  una  innocua  bar- 
ricata,  che  chiudeva  la  via  Durini  dalla  parte  del  Verziere.  II  mio 
comandante,  dopo  aver  osservato  le  mie  pistole,  non  trovandole 
forse  abbastanza  micidiali,  voile  aumentare  il  mio  armamento,  e 
mi  mise  in  mano  un  fioretto  da  scherma,  poi  mi  diede  la  parola 
d*  or  dine :  «  Papa  Pio  ». 

Poco  dopo  venne  un  altro  capo,  il  quale  trovo  opportune  di  rin- 
forzare  il  posto,  e  mi  diede  un  compagno,  ch'era  un  buon  vec- 
chietto,  armato  di  una  lancia  antica.  Gli  confidai  la  parola  d'ordine, 
e  fummo  subito  amici. 

Venne  una  pattuglia:  —  Alt!  —  grid6  il  vecchietto—  la  parola 
d5  or  dine! 

—  Concordia,  coraggio  —  rispose  il  capo  della  pattuglia. 

—  Veramente,  —  osserv6  il  vecchietto  —  la  parola  d'ordine  sa- 
rebbe  un'altra  . .  .  pero,  siamo  tutti  italiani,  e  passino  pure  .  .  . 

Rimanemmo  appoggiati  alia  barricata  chiacchierando,  io  e  il  mio 
vecchietto,  ch'era  un  impiegato  in  pensione,  per  un  paio  d'ore.  II 
vecchietto  mi  racconto  che  il  Podesta  era  stato  «promosso  a  Go- 
verno  Prowisorio  » ;  e  mi  confido  le  ingiustizie  che  aveva  subite  du- 
rante  la  sua  camera,  concludendo  che  se  «arriveremo  a  diventar 
noi  i  tedeschi .  .  .  »* 

Alia  fine  cominciammo  a  domandarci  che  cosa  facevamo  noi  li. 
II  nemico  non  si  lasciava  vedere;  si  combatteva  in  tutt'altre  parti 
della  citta;  intorno  a  noi  tutto  era  silenzio;  la  curiosita  chiamava 

i .  Cioe,  comandare  al  posto  dei  tedeschi,  essere  liberi. 


326  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

tutti  altrove;  e  anche  noi  due,  dataci  la  buona  sera,  ce  ne  andammo 
pei  fatti  nostri. 

Riacquistata  la  mia  liberta  individuale,  mi  portai  alia  Corsia  dei 
Servi  (ora  Corso  Vittorio  Emanuele),  e  poi  mi  spinsi  innanzi  verso 
il  Corso  di  Porta  Orientale. 

Vidi  con  stupore  la  barricata  dei  chierici  del  Seminario,1  la  piu 
formidabile  di  quante  ce  ne  fossero  in  tutta  Milano;  una  barricata 
tutta  fatta  coi  lastroni  di  granito  dei  marciapiedi,  che  sbarrava  il 
Corso,  ed  era  alta  parecchi  metri,  Vidi  sventolare  sulla  piu  alta 
guglia  del  Duomo  la  bandiera  tricolore,  messaci,  seppi  poi,  dal 
Torelli,  un  amico  di  mio  padre,  che  vedevo  in  casa  nostra  a  Mi 
lano  e  a  Tirano.  Vidi  poi  alzarsi  i  palloncini,2  fatti  dai  seminaristi, 
per  mandar  fuori  di  citta  i  bollettini  e  i  proclaim  del  Governo  Prov- 
visorio.3 

Vidi  cose  serie  e  cose  buffe,  ma  che  allora  a  me  e  a  tutti,  pare- 
vano  serie  anch'esse;  vidi  le  barelle  su  cui  erano  trasportati  feriti  e 
morti;  e  vidi  dei  bellimbusti,  con  corazze  lucenti,  sciarpe  e  cappelli 
con  penne  d'ogni  colore,  con  spado ni  antlchi,  che  passeggiavano, 
come  cantanti  sul  palcoscenico.  Ammiravo  anche  loro. 

Ritornato  sul  tardi  al  mio  quartiere  generale,  presso  mia  madre, 
in  casa  Garnier,  ove  continuava  1'andirivieni  di  conoscenti  e  non 
conoscenti,  seppi  le  nuove  di  tutti  i  fatti  che  s' erano  andati  svol- 
gendo  nella  giornata. 

Seppi  ch'era  stato  costituito  il  Governo  Prowisorio,  e  che  il 
conte  Martini4  aveva  potuto  penetrare  dalle  mura  in  citta,  recando 


i .  la  barricata  .  .  .  Seminario :  la  barricata  costruita  dai  seminaristi  nel 
corso  di  Porta  Orientale.  Tra  i  suoi  difensori  merita  particolare  ricordo 
Tallora  chierico  Antonio  Stoppani  (vedi  sotto  la  nota  3).  2.  i  palloncini: 
narra  il  Cattaneo  che  « li  Austriaci,  accampati  sui  bastioni,  stavano  attoniti 
mirando  quelli  aerei  messaggeri  sorvolare  alle  loro  linee,  e  li  bersagliavano 
con  vani  colpi »  (Dell'insurresione  di  Milano  nel  1848,  in  Romagnosi,  Catta 
neo,  Ferrari,  a  cura  di  E.  Sestan,  Milano-Napoli,  Ricciardi,  1957,  p.  894). 
Con  questo  sistema  di  comunicazione  si  diffuse  e  rincoro  1'insurrezione 
fuori  della  citta.  3.  «La  costruzione  della  barricata,  e  la  costruzione  dei 
palloncini,  erano  state  dirette,  come  seppi  piu  tardi,  da  uno  dei  chierici 
anziani,  Antonio  Stoppani,  che  aveva  allora  23  anni.  Lo  Stoppani  [1824- 
1891]  divento  poi  sacerdote,  e  fu  il  celebre  geologo  e  scrittore  a  tutti  no- 
to »  (nota  del  Visconti  Venosta).  4.  Enrico  Martini  di  Crema  ( 1 8 1 8- 1 869) , 
cognato  di  Luciano  Manara,  incaricato,  poco  prima  dell'insurrezione,  di 
chiedere  aiuti  a  Carlo  Alberto.  Dal  1848  visse  esule  in  Piemonte,  fu  depu- 
tato  di  Genova.  Dopo  il  '59  rappresento  per  varie  legislature  la  sua  citta  al 
Parlamento. 


RICORDI    DI    GIOVENTfr  327 

da  Torino  Tassicurazione  datagli  da  Carlo  Alberto  che  le  truppe 
piemontesi  avrebbero  varcato  il  Ticino.  Seppi  che  i  consoli  s'erano 
recati  dal  maresciallo  Radetzki,  e  che  il  giorno  prima  un  maggiore 
austriaco  si  era  presentato  al  Governo  Prowisorio  per  proporre  un 
armistizio. 

A  quella  notizia,  il  viso  di  Madame  Gamier,  che  in  cuor  suo  co- 
minciava  ad  essere  inquieta  per  randirivieni  crescente  degli  ospiti, 
si  illumino  d'un  breve  raggio  di  speranza.  Ma  subito  chino  gli  occhi, 
rassegnata,  perche,  tra  gli  applausi  degli  astanti,  si  senti  che  il  Go 
verno  Prowisorio  aveva  respinto  la  proposta.  Questa  notizia  veniva 
a  mano  a  mano  ripetuta  festosamente  da  quanti  venivano,  e  tutti 
la  ripetevano  a  un  modo  ch'era  evidentemente  quello  della  verita. 
II  Governo,  cioe,  aveva  riunito  il  Comitato  di  difesa,  e  i  principal! 
'comandanti  delle  barricate.  La  discussione  era  stata  breve.  II  conte 
Durini  e  il  conte  Pompeo  Litta,1  ex  militare  Napoleonico,  avevano 
osservato  che  1'armistizio  poteva  esserci  utile  per  lasciare  a  Carlo 
Alberto  il  tempo  di  giungere  a  Milano  e  prendere  gli  austriaci  alle 
spalle.  Ma  gli  altri,  unanimi,  dimostrarono  le  ragioni  prevalent!  per 
respingere  la  proposta,  la  quale  era  stata  pur  respinta  dai  Comitati 
di  guerra  e  di  difesa,  recentemente  nominati.  Del  Comitato  di 
guerra,  nominate  il  terzo  giorno,  aveva  accettato  di  far  parte  anche 
il  Cattaneo.2 


1.  II  conte  Giuseppe  Durini  (1800-1850)  fu  ministro  degli  affari  esteri  nel 
governo  prowisorio,  sostenne  la  tesi  delTannessione  al  Piemonte,  tenne  il 
ministero  delPagricoltura,  industria  e  commercio  nel  gabinetto  Casati  dal 
27  luglio  al  15  agosto  1848;  Pompeo  Litta  (1781-1852)  aveva  combattuto 
nelle  guerre  napoleoniche  (Ulm,  Austerlitz),  e  si  era  poi,  per  una  siogatura, 
ritirato  a  vita  privata,  occupandosi  di  quegli  studi  di  araldica  e  genealogia 
cui  e  legato  il  suo  nome.  Fu  tra  le  guide  politiche  nelle  Cinque  giornate 
e  solo   brevemente  si  rifugi6,  al  ritorno   degli  Austriaci,  in  Piemonte. 

2.  « Piu  tardi,  quando  alia  verita  si  sovrappose  la  leggenda,  molti  vollero 
attribuirsi  il  merito  d'aver  respinto  rarmistizio;  si  disse,  tra  1'altre  cose, 
che  il  Governo  Prowisorio  lo  accettasse,  e  che  il  solo  Cattaneo  lo  respin- 
gesse:  la  verita  e  piu  semplice.  lo  mi  atterro  a  quanto  ne  scrisse  Luigi  To- 
relli,  presente  a  quel  Consiglio,  nei  suoi  Ricordi  delle  Cinque  Giornate, 
cronaca  esattissima  d'ogni  fatto  della    Rivoluzione:   "Essendo  presente 
anch'io  a  quel  Consiglio,  posso  darne  qualche  ragguaglio.  Riuniti  in  nu- 
mero  non  minore  al  certo  di  quattordici  o  quindici,  poiche,  oltre  il  Go 
verno  Prowisorio,  v'era  il  Comitato  di  guerra  ed  il  Comitato  di  difesa 
(del  quale  io  facevo  parte),  il  presidente  Casati  espose  la  domanda  di 
sospensione  d'armi  del  generate  Radetzki.  Chi  prendesse  primo  la  parola 
non  rammento;  certo  il  signer  Cattaneo  fu  uno  di  quelli  che  parlarono  con- 
tro,  ma  sul  numero  di  present!  tre  soli  opinarono  per  1'accettazione;  gli 


328  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

I  felici  e  important!  success!  ottenuti  dagli  insorti  nella  quarta 
giornata,  la  presa  della  Caserma  del  Genio  (1'attuale  palazzo  della 
Cassa  di  risparmio)  e  di  altre  caserme,  nelle  quali  s'eran  fatti  dei 
prigionieri,  avevano  nei  piu  accresciuto  Tentusiasmo  e  la  fede,  e 
dissipato  in  parecchi  i  dubbi  e  la  paura. 

Dopo  la  presa  delle  caserme  e  dei  vari  posti  militari,  il  numero  dei 
cittadini  armati  era  di  molto  cresciuto,  e  si  facevano  piu  fitte  le  fu- 
cilate,  di  cui  giungeva  1'eco  dai  vari  punti  della  citta. 

C'era  gia  nell'aria  il  presentimento  della  vittoria,  e  si  pareva  tutti 
mezzo  matti  per  Pesaltazione  e  per  la  gioia:  non  si  vedevano  che 
facce  stravolte  per  la  fatica,  per  1'insonnia,  e  per  Tebbrezza  della 
lotta  e  del  pericolo :  tutti  avevano  la  voce  rauca,  tutti  avevan  fame, 
e  cercavano  di  rifocillarsi,  sicche  pareva  un  boccone  ghiotto  anche 
il  pezzo  di  pane  secco  che  veniva  offerto  da  chi  ne  aveva  ancora 
un  poco  in  serbo. 

Gli  austriaci,  sia  per  indecisione,  sia  per  un  certo  sprezzo  militare 
di  fronte  a  dei  borghesi  quasi  senz'armi,  s'eran  lasciati  sorprendere 
il  primo  giorno,  e  poi  non  avevan  saputo  riaversi  con  una  offensiva 
risoluta  e  audace.  Al  quarto  giorno  la  lotta  era  diventata  difficile, 
ma  nei  primi  due  giorni,  con  un'azione  vigorosa,  le  truppe  avreb- 
bero  potuto  soffocare  la  rivoluzione  senza  molta  difficolta,  prima 
che  fosse  proclamato  Pintervento  di  Carlo  Alberto.  Radetzki  giu- 
stifico  la  sua  ritirata  con  buone  ragioni ;  ma  le  ha  trovate  dopo. 

Alia  fine,  le  barricate,  le  tegole  che  piovevano  dai  tetti,  e  quel- 
1'incessante  sonare  a  stormo  di  tutti  i  campanili  della  citta,  avevano 
sbalordito,  scoraggito  i  soldati.  I  generali,  tra  le  notizie  incerte,  al- 
larmanti,  di  Vienna,  di  Torino,  e  delle  citta  lombarde,  pressoche 
tutte  insorte,  erano  rimasti  dubbiosi  e  inerti.  Le  truppe  stettero 

altri,  senza  aver  d'uopo  di  sforzi  di  rettorica  di  nessuno,  la  ripudiarono  riso- 
lutamente,  perche  era  evidente  che,  in  ogni  modo,  era  piu  utile  a  Radetzki 
che  a  noi.  Quando  venne  il  mio  turno,  senza  ripetere  le  ragioni  degli  altri, 
aggiunsi  solo:  che  nella  mia  qualita  di  capo  delle  pattuglie,  dovevo  poi 
dire  che  si  andava  ben  errati,  se  mai  si  credeva  che  quand'anche  si  avesse 
accettata  la  sospensione,  i  combattenti  Tavrebbero  rispettata;  di  disciplina 
non  vi  era  nemmen  I'ombra.  Inoltre  potrei  anche  appellarmi  ai  molti  che 
spero  ancora  esistano,  per  rammentar  loro  come,  durante  il  breve  tra- 
gitto  da  casa  Vidiserti  a  casa  Taverna,  si  gridasse  ad  alta  voce,  no,  no,  non 
accettiamo  sospensione;  e  questo  fu  ripetuto  perfino  nella  sala  maggiore 
di  casa  Taverna,  che  precede  quella  dove  si  tenne  il  Consiglio.  Voi  ve- 
dete  dunque  che  senza  nulla  detrarre  al  merito  reale  del  signor  Cattaneo, 
non  e  quella  circostanza  che  si  puo  addurre  come  di  gran  servizio  reso  al 
paese"  »  (nota  del  Visconti  Venosta). 


RICORDI   DI    GIOVENTfr  329 

quasi  sempre  sulla  difensiva,  certamente  ostinata  e  valorosa,  ma  i 
loro  assalti  alle  barricate  furono  pochi,  e  poco  vigorosi. 

La  sera  del  quarto  giorno  gli  austriaci  avevano  perduto  quasi  tutti 
i  posti  e  tutte  le  caserme  dell'interno  della  citta;  erano  ancora  pero 
padroni  del  Castello  e  dei  bastioni  che  circondano  la  citta,  e  delle 
porte. 

Tra  i  posti  perduti  nell'interno  della  citta  c'era  stato,  come  ho 
detto,  il  palazzo  del  Genio  militare,  ove  ora  si  trova  la  Cassa  di 
Risparmio.  Ne  aveva  diretta  la  presa  Augusto  Anfossi,1  che  aveva 
militato  all'estero.  Dirigeva  il  fuoco  da  un  balcone  d'una  casa  di- 
rimpetto,  quando  una  palla  lo  colpi  in  fronte.  Ma  Tassalto  era  con- 
tinuato,  per  opera  del  manipolo  d'insorti  capitanati  dal  Manara,  in 
cui  erano  il  Dandolo,  il  Morosini,  Manfredo  Camperio,  i  Mancini, 
il  Minonzi,2  ed  altri;  finche  un  ciabattino  sciancato,  Pasquale  Sot- 
tocornola,3  si  porto  ad  appiccare  il  fuoco  alia  porta  delta  caserma, 
incendiandola,  cosi  fu  costretta  alia  resa. 

«LJassalto  a  una  porta »-fu  il  pensiero,  fu  la  parola  d'ordine 
dei  combattenti,  del  Governo  Prowisorio  e  del  Comitato  di  difesa, 
nella  notte  tra  la  quarta  e  la  quinta  giornata.  Con  cio  si  sarebbe 
rotto  quelPanello  che  circondava  la  citta ;  gli  armati  accorsi  dai  paesi 
vicini  sotto  le  mura4  sarebbero  entrati  in  Milano,  e  con  essi  i  viveri 
che  cominciavano  a  scarseggiare. 

L'impresa  era  certamente  grave  e  difficile,  ma  in  quel  momento 
tutto  pareva  possibile  nelPebbrezza  delle  prime  vittorie. 

i.  Augusto  Anfossi  (nato  a  Nizza  nel  1812,  morto  il  21  marzo  1848), 
ufficiale  piemontese,  costretto  a  esulare  dopo  le  repression!  del  1831,  si  era 
recato  in  Francia.  Si  era  poi  arruolato  nell'esercito  egiziano,  che  allora  inva- 
deva  la  Siria.  Era  a  Milano  da  pochi  giorni,  quando  scoppiarono  i  moti. 
Per  la  sua  esperienza  militare  fu  organizzatore  degli  insorti.  Cadde  mentre 
guidava,  ferito,  1'attacco  al  Palazzo  del  Genio.  2.  Minonzi:  e  quello  stes- 
so  Minonzio  (Carlo  Minunzi)  di  cui  Tautore  ha  fatto  cenno  a  pp.  315-6. 
3.  Pasquale  Sottocorno  (1822-1857)  non  solo  incendio  la  porta,  ma  anche, 
appena  invasa  la  caserma,  i  fienili.  Al  ritomo  degli  Austriaci,  esulo  a  Tori 
no,  dove  continue  il  suo  mestiere  di  ciabattino :  e  a  Torino  mori.  4.  «  Da 
principle  si  decise  di  tentare  1'assalto  della  citta  entrando  dal  bastione 
di  Porta  Comasina  (oggi  Porta  Garibaldi).  Se  ne  incarico  Gerolamo  Bor- 
gazzi  alia  testa  di  alcune  centinaia  di  persone  ch'egli  aveva  condotte  dalla 
campagna.  Ma  durante  Passalto  rimase  morto.  Questo  era  fratello  d'un 
Alessandro  Borgazzi  che,  durante  le  dimostrazioni,  insultato  da  un  uffi 
ciale,  nipote  del  Ficquelmont,  lo  aveva  bastonato.  La  "Gazzetta  d' Augu 
sta"  aveva  stampato  che  un  "nobile  milanese  aveva  aggredito  un  Thurn,  e 
ch'era  stato  arrestato".  Questi  Borgazzi  erano  cugini  di  mia  madre»  (nota 
del  Visconti  Venosta). 


330  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

Sentivo1  dire  che  s'era  pensato  di  dare  Passalto  a  Porta  Comasina, 
ma  che  colla  morte  del  Borgazzi2  1'impresa  fosse  fallita ;  e  che  poi  si 
progettasse  un  assalto  alia  Porta  Ticinese,  ma  la  resistenza  vigorosa 
che  vi  si  trovo,  e  varie  altre  circostanze  che  rendevano  difficile 
1'impresa,  facessero  mutar  consiglio.  Alia  fine  era  prevalso  il  pro- 
getto  delPassalto  a  Porta  Tosa. 

Questo  fatto,  che  e  certamente  uno  dei  piu  importanci  della  ri- 
voluzione,  fu  preparato  e  diretto  con  molte  cautele,  con  ordine, 
e  con  un  piano  predisposto.  Ci  furono  un'ala  destra  e  un'ala  smistra 
di  combattenti  di  fianco  al  corso,  che  si  avanzavano  attaccando  le 
truppe  dei  bastioni  per  distrarle  dal  punto  centrale,  ch'era  la  porta; 
e  contro  la  porta  furono  dirette,  lungo  il  corso,  le  barricate  mobili 
con  le  quali  si  doveva  alia  fine  prenderla  d'assalto.  I  meglio  armati, 
e  i  piu  risoluti,  avevano  il  comando  dei  vari  gruppi  di  combattenti, 
ai  quali  era  affidata  I'esecuzione  di  questo  piano. 

Le  barricate  mobili  erano  grandi  cilindri,  fatti  di  fascine  legate 
con  corde,  che  venivano  sospinte  innanzi  rotolandole,  e  dietro  le 
quali  stavano  i  nostri  combattenti.  Le  aveva  pensate,  e  fatte  se- 
guire,  Antonio  Carnevali,3  gia  professore  alia  scuola  militare  di  Pa- 
via  durante  il  Regno  napoleonico.  Furono  queste  barricate  che  re- 
sero  possibile  Pavanzarsi  dei  nostri  sotto  le  fucilate  d'un  reggi- 
mento  di  fanteria,  e  sotto  la  mitraglia  d'una  batteria,  che  difende- 
vano  la  porta. 

Trovandomi  sulla  piazza  del  Verziere  assistetti  alia  costruzione 
d'una  di  tali  barricate ;  e  piu  tardi,  verso  il  mezzogiorno,  spinto  dalla 
curiosita  e  dal  desiderio  di  far  qualcosa  anch'io,  mossi  verso  il  ponte 
di  porta  Tosa,  per  arrivare  almeno  fino  all'imboccatura  del  corso. 

Da  lontano,  nella  direzione  del  bastione  e  della  porta,  si  sentiva 
il  rumore  continue  delle  fucilate  dei  soldati,  e  dei  colpi  di  carabina 

i.  Ed.  cit.,  cap.  v,  pp.  91-102.  2.  Girolamo  Borgaszi  (1808-1848),  educa 
te  da  giovane  in  Francia,  legato  ai  mazziniani,  aveva  partecipato  alia  spedi- 
zione  nella  Savoia  (1834),  era  stato  nella  legione  straniera  in  Algeria  e  tra 
gli  insorti  costituzionali  in  Spagna.  Tomato  a  Milano  nel  1843,  era  ispet- 
tore  della  strada  ferrata  che  si  costruiva  in  Lombardia,  e  perci6  pote  portare 
aiuti  dentro  la  citta.  Mori  nell'assalto  a  porta  Comasina  (vedi  la  nota  4  a 
p.  329).  3.  Antonio  Carnevali  (1791-1866)  aveva  combattuto,  nel  1813, 
in  Germania,  nelTarmata  napoleonica.  Prigioniero  a  Wittemberg,  era  tor- 
nato  a  Milano  nel  settembre  del  1814.  Insegnava  matematica  al  collegio 
militare  di  San  Luca  e  al  collegio  delle  Filippine.  Durante  le  Cinque  gior- 
nate  fece  parte  del  comitato  di  difesa.  Esule  in  Piemonte,  continue  ad 
insegnarvi,  e  torno  in  Lombardia  solo  nel  1860. 


RICORDI   DI    GIOVENTtl  331 

dei  nostri;  e  a  brevi  intervalli  la  mitraglia,  rimbalzando  sul  selciato, 
giungeva  fino  al  Naviglio. 

II  ponte,  tra  il  Verziere  e  il  tratto  di  strada  che  conduce  al  corso 
di  porta  Tosa,  era  asserragliato  da  una  forte  barricata,  alia  cui  cu- 
stodia  stava  un  drappello  di  cittadini  armati.  Quand'io  mi  presen- 
tai  (ero  un  giovanetto  mingherlino),  non  mi  fecero  neanche  Ponore 
di  domandarmi  dove  volessi  andare.  Uno  diede  un'occhiata,  sor- 
ridendo,  a  me  e  al  fioretto  di  cui  ero  armato,  e  mi  fece  un  gesto 
che  voleva  dire  di  lasciare  il  passo  ad  altri,  e  di  tornare  indietro. 

Infatti  non  si  lasciavano  passare  che  persone  armate  di  carabine 
o  di  fucili,  oppure  popolani  robusti,  che  venivano  con  fascine,  con 
pali,  con  corde,  per  rafforzare  le  barricate  mobili. 

Passare  il  ponte  voleva  dire  andare  al  fuoco  sotto  la  mitraglia, 
voleva  dire  gettarsi  in  una  mischia  terribile,  e  affrontare  la  morte. 

Mentre  ero  rimasto  li  sui  due  piedi,  un  po'  mortificato,  per  essere 
stato  tacitamente  dichiarato  inabile,  e  guardavo  Paffaccendarsi  af- 
fannoso  di  chi  andava  e  di  chi  veniva,  vidi  che  al  di  la  della  barri 
cata  stava  ritto  un  prete:  aveva  un  crocifisso  in  mano,  e  dava  Passo- 
luzione  in  articulo  mortis  ai  combattenti,  che  si  inginocchiavano 
dianzi  a  lui  prima  di  andare  al  fuoco.  Quello  spettacolo,  grave  e 
solenne  nella  sua  semplicita,  e  tanto  caratteristico  di  quei  giorni  e 
di  quel  tempo,  non  si  cancello  piu  dalla  mia  memoria. 

Passai  quasi  tutta  la  giornata  nella  piazza  del  Verziere  e  nelle 
strade  vicine,  facendo  anch'io  un  po'  di  tutto,  per  quel  che  potevo 
nel  limite  delle  mie  forze,  aiutando  a  portar  travi  ed  assi,  sacconi  e 
masserizie  per  rinforzare  le  barricate.  Poi  c'era  sempre  qualche  no- 
tizia  o  qualche  or  dine  da  portare;  o  si  era  chiamati  in  un'osteria,  o 
in  un  caffe,  o  in  qualche  casa  a  fonder  palle  e  a  far  cartucce.  In- 
tanto  venivano  a  mano  a  mano  i  feriti,  portati  nelle  case  o  all'ospe- 
dale.  Vidi  tra  questi,  su  una  barella,  un  bel  giovane,  squarciato  dalla 
mitraglia;  mi  si  disse  ch'era  Pingegnere  Stelzi.  Di  tanto  in  tanto 
cadevano  anche  nella  piazza  dei  razzi,  o  «  racchette  »  come  le  chia- 
mavano  allora,  che  erano  ancora  in  uso  nelPartiglieria  austriaca. 

Questi  razzi  molte  volte  riuscivano  innocui;  ma  in  quel  giorno 
vidi  parecchi  cittadini  rimanerne  feriti. 

Andavano  e  venivano  dal  ponte  dei  piccoli  e  coraggiosi  messag- 
geri,  che  avevano  libero  il  passo,  e  ch' erano  gli  alunni  dell'Orfano- 
trofio,  detti  dal  popolo  i  «  Martinitt ».  Col  loro  mezzo  i  combattenti 
del  corso  di  porta  Tosa  comunicavano  coi  vari  punti  della  citta,  e 


332  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

col  Comitato  della  difesa.  Questi  valorosi  figlioli  della  beneficenza 
cittadina  erano  argomento  deH'ammirazione  di  tutti. 

E  tutti,  ogni  tanto,  alzavano  gli  occhi  in  alto,  nella  direzione 
della  piu  alta  guglia  del  Duomo,  sulla  quale  sta  la  statua  della  Ver- 
gine,  con  cui  i  milanesi  sono  in  grande  confidenza,  come  col  genio 
tutelare  della  casa,  e  la  chiamano  la  «  Madonnina ».  Essa  vede  da 
tanti  anni  le  nostre  gioie  e  i  nostri  dolori;  situata  si  in  alto,  pare  piu 
vicina  al  cielo,  al  quale  i  milanesi  amavano  sperare  che  dicesse  in 
quei  momenti  una  buona  parola  per  loro.  Quando,  nella  terza  gior- 
nata  della  rivoluzione,  si  vide  sventolare  in  mano  alia  «  Madonnina)) 
la  bandiera  tricolore,1  nessuno  dubito  piu  della  vittoria.  Da  tutta  la 
citta  si  levo  un  grido  di  trionfo  e  di  gioia,  come  se  la  «  Madonnina  » 
avesse  fatto  causa  comune  con  noi,  e  avesse  preso  Milano  sotto  la 
sua  protezione.2  E  ogni  tanto  si  guardava  in  su,  per  assicurarsi  che  la 
bandiera  della  «  Madonnina »  sventolasse  ancora. 

Verso  la  sera  della  quinta  giornata,  le  grida  « vittoria,  vittoria », 
fecero  accorrere  e  affollare  verso  il  ponte  quanti  erano  in  piazza, 
e  questa  volta  la  barricata  e  i  suoi  custodi  non  valsero  piu  a  tratte- 
nere  la  gente.  Potei  anch'io  passare  il  ponte,  e  avanzarmi  fino  al- 
1'imboccatura  del  corso. 

La  mitraglia  non  rimbalzava  piu;  tutto  il  combattimento  s'era 
ridotto  alia  porta.  Era  stata  presa,  poi  incendiata,  poi  ripresa  dagli 
austriaci,  poi  ancora  dai  nostri;  ora  bruciava.  Gli  austriaci  si  erano 
ritirati,  lateralmente,  sui  bastioni,  e  facevan  fuoco  sulla  folia  che 
correva  verso  la  porta.  Le  prime  case  del  corso,  in  vicinanza  al 
bastione,  ardevano,  e  le  fiamme  si  elevavano  alte  nelPoscurita,  ere- 
pitando;  il  terrore  di  quello  spettacolo  era  accresciuto  dalle  grida 
della  vittoria,  dagli  urli  degli  assalitori,  e  dai  lamenti  acuti  dei 
feriti,  o  di  donne  fuggenti.  Ogni  tanto  qualche  panico  ricacciava  e 
disperdeva  la  folia,  che  poco  dopo  ritornava  con  nuovo  furore. 

i.  sventolare  .  .  .  tricolore:  a  piantare  sul  duomo  di  Milano  la  bandiera  fu 
Luigi  Torelli,  che  narro  poi  (1876)  I'insurrezione  di  Milano.  Vedi  L.  To- 
RELLI,  Ricordi  intorno  alle  Cinque  giornate  di  Milano,  Milano,  Dumolard, 
1883.  2.  «Durante  i  primi  due  giorni  della  rivoluzione  il  terrazzo  piu 
alto  del  Duomo  era  occupato  dai  cacciatori  tirolesi,  che  colle  loro  carabine 
tenevano  sgombre  la  piazza  del  Duomo  e  le  vie  vicine.  Appena  cesso  il 
fuoco  nel  terzo  giorno,  Luigi  Torelli,  che  fu  poi  ministro  e  senatore  del 
regno,  accompagnato  da  un  altro  cittadino,  ebbe  1'idea  felice  e  coraggiosa 
di  salire  sul  Duomo  per  assicurarsi  che  i  cacciatori  si  fossero  ritirati,  e  di 
piantarvi  la  bandiera  tricolore  per  indicare  ai  cittadini  che  si  era  padroni 
del  centro  della  citta;  fatto  che  non  solo  rialzo  gli  animi  in  tutta  la  citta, 
ma  anche  nei  paesi  circonvicini »  (nota  del  Visconti  Venosta). 


RICORDI    DI    GIOVENTt  333 

Corsi  a  casa  a  confermare  anch'io  la  gran  notizia  della  presa  di 
Porta  Tosa,  chiamata  da  quel  momento  dal  popolo  Porta  Vittoria 
(Decreto  6  aprile  1848),  e  trovai  mia  madre  agitatissima,  perche 
ormai  da  ventiquattro  ore  non  s'era  pill  veduto  Emilio.  Non  lo  rive- 
demmo  che  la  mattina  seguente,  e  allora  ci  narro  le  varie  peripezie 
della  giornata,  che  gli  avevano  impedito  di  venire  in  via  dei  Durini. 

Calata  la  notte,  e  cessato  il  fuoco  a  Porta  Tosa,  si  principle  a 
sentire  un  cannoneggiamento  lontano,  che  pareva  venisse  dalle 
vicinanze  del  castello.  Ed  ecco  subito  giungere  ordini  nelle  case  di 
sorvegliare  attentamente  i  tetti,  le  soffitte,  i  fienili,  poiche  pareva 
che  incominciasse  un  bombardamento  piu  vigoroso. 

Ecco  mi  ancora  di  guardia  su  un  tetto,  questa  volta  della  via  dei 
Durini,  passandoci  una  notte  umida,  fredda,  appoggiato  ad  un  fu- 
maiolo,  e  rawolto  in  una  coperta  di  lana;  ne  la  stanchezza  ne  il 
sonno  mi  avrebbero  potuto  vincere  dinanzi  allo  spettacolo  spaven- 
tevole  di  quella  notte.  Dalle  parti  del  castello  e  lungo  un  tratto  dei 
bastioni  si  vedeva  una  grande  striscia  di  fuoco,  che  in  vari  punti 
si  elevava  con  fiamme  alte  e  sinistre  nella  notte  nerissima. 

Erano  incendi  di  case  e  colonne  di  rumo,  era  il  fuoco  dei  batta- 
glioni  austriaci  e  delle  artiglierie,  che  assieme  tiravano  contro  la 
citta,  senza  tregua,  con  un  rumore  indiavolato,  che  scoteva  1'aria  e 
la  terra. 

Era  uno  spettacolo  cupo,  grandiose,  che  la  notte  rendeva  piu  mi- 
sterioso  e  spaventevole. 

Tutti,  come  seppi  poi,  erano  rimasti  in  piedi  quella  notte,  com- 
presi  da  un  muto  terrore;  tutti  s'erano  domandati  ansiosamente  se 
un  corpo  d'insorti,  o  una  avanguardia  piemontese,  fossero  venuti 
a  dar  Passalto  alle  mura;  o  se  principiassero  Fincendio  e  il  saccheg- 
gio  della  citta.  Tutti  erano  trepidanti,  silenziosi.  Anche  le  campane 
a  martello  in  alcuni  punti  tacevano. 

—  Alt!  chi  sei  tu?  —  chiesi  a  un  tratto  ad  un'ombra  bianca  che 
si  avanzava  verso  di  me  pian  piano,  e  facendo  scricchiolare  le  tegole 
del  tetto. 

—  Sono  una  sentinella,  viva  Pio  IX! 

—  Parola  d'ordine! 

—  Augusta  Anfossi. 

E  chi  mi  rispose  cosi  venne  a  sedersi  accanto  a  me,  tutto  rawolto 
in  una  coperta  di  lana  bianca  e  con  uno  spadone  antico  a  due  mani 
sulla  spalla. 


334  GIOVANNI   VISCONTI   VENOSTA 

Riconobbi  in  lui  quel  guerriero  che  avevo  gia  osservato  piu  volte 
il  giorno  prima  al  ponte  di  Porta  Tosa,  e  che,  pur  accorrendo  dove 
si  sentivano  le  fucilate,  procurava  che  la  sua  coperta  di  lana  facesse 
sempre  delle  pieghe  bizzarre  con  una  certa  pretesa  artistica.  Era 
un  giovanotto  sui  vent'anni. 

Si  principio,  io  e  lui,  con  Palmanaccare  su  quello  strepito  diabp- 
Hco  e  su  quei  fuochi.  II  mio  collega  ne  sapeva  quanto"  me,  ma  so- 
prattutto  ammirava  le  tinte  purpuree  incandescent!  del  cielo.  E 
intanto  prese  a  narrarmi,  con  la  voce  rauca,  e  con  un  linguaggio 
un  poj  slegato  e  fantastico,  i  mille  episodi  della  presa  di  Porta 
Tosa  e  di  altri  fatti  ai  quali  aveva  preso  parte,  prima  con  un  fucile 
che  gli  si  era  rotto,  poi  con  lo  spadone,  uno  spadone  antico,  che 
diceva  essere  una  bellezza.  Alia  fine  gli  domandai : 

—  Sei  uno  studente  ? 

—  Ma  che!  —  mi  rispose  con  una  certa  alterigia.  —  Sono  un  ar- 
tista,  un  pittore! 

—  Ed  hai  fatto  molti  quadri  ?  —  gli  domandai. 

—  No,  ma  ne  ho  gia  in  mente  tre  .  .  .  ed  ora  penso  a  un  quarto  .  .  . 
la  scena  di  questa  notte  veduta  da  un  tetto,  la  luce  delValba,  e  il  bom- 
bardamento  della  cittd!  che  contrasto!  .  .  .  una  cosa  magnifica!  ve- 
drai!  che  bellezza! 

—  Come  ti  chiami  ? 

—  Sebastiano  De  Albertis.1 

QuelPamicizia,  incominciata  sul  tetto,  continue;  egli  fece  pa- 
recchi  quadri,  non  la  scena  veduta  da  un  tetto,  che  gli  diedero  una 
certa  fama;  fu  garibaldino  nel  '59  e  dipinse  delle  scene  militari; 
rammentammo  piu  volte  la  notte  passata  insieme,  appoggiati  ad  un 
fumaiuolo.  La  rammentammo  anche  pochi  giorni  prima  che  mo- 
risse,  trovandoci  in  una  Commissione  che  preparava  pel  50°  anni- 
versario  delle  Cinque  Giornate  quei  festeggiamenti  ch'egli  non 
doveva  vedere, 

Alle  tre  dopo  la  mezzanotte  tutto  quel  rumore  diabolico  improv- 
visamente  cesso.  Segui  un  silenzio  profondo,  ansioso,  che  duro  un 
paio  d'ore;  poi  ad  un  tratto  si  sentirono  delle  grida  lontane,  che  pa- 

i.  Sebastiano  De  Albertis  (1828-1897),  pittore,  partecip6  attivamente  alle 
Cinque  giornate.  L'accenno  dell'autore  alia  coperta  corrisponde  al  modo 
con  cui  gli  insorti  se  lo  indicavano:  1'uomo  « della  coperta  di  lana».  Parte- 
cipo  successivamente  a  tutte  le  campagne  d' Italia,  al  seguito  di  Garibaldi. 
Tra  i  suoi  quadri,  La  morte  di  Francesco  Ferruccio ;  Carica  di  carabinieri  del 
1848  •  Ricordo  di  Bezzecca  ecc. 


RICORDI    DI    GIOVENTt  335 

revano  degli  ewiva;  poi  alcuni  campanili  incominciarono  a  so- 
nare  non  a  martello,  ma  a  festa;  poi  un  rumore  nuovo,  come  di  voci 
allegre  e  di  gente  festosa,  scoppiava  da  ogni  ptinto,  cresceva,  e  saliva 
distinto  fino  a  noi. 

—  Che  c'e  ?  Che  sara  ?  —  esclamammo  noi  due,  e  corremmo  ra- 
pidamente  in  strada. 

In  istrada  la  gente  scendeva  da  tutte  le  case.  Non  si  sentiva  piu 
che  un  grido: 

—  Sono  andati!  Sono  andati! 

Tutti  si  ripetevano  Tun  Taltro  la  grande  notizia,  tutti  si  abbrac- 
ciavano,  si  baciavano,  piangevano;  le  porte,  le  finestre  si  spalanca- 
vano;  da  ogni  finestra  sventolava  una  bandiera  fatta  coi  tre  colori; 
molti  vi  accendevano  dei  lumi.  Sono  andati!  Sono  andati! 

Oh,  come  descrivere  a  chi  non  1'ha  veduta  la  gioia,  la  frenesia 
di  quell'ora! 

Chi  aveva  sopportato  i  dolori  e  la  vergogna  della  schiavitu  pro- 
vava  ora  la  fierezza  del  sentirsi  libero,  la  confidenza  nelle  proprie 
forze,  la  fede  nel  proprio  awenire.  Nessuno  avra  fatto  Panalisi  di 
tutto  ci6  in  quel  momento,  ma  pure  c'era  tutto  cio  in  quel  grido 
unanime,  pieno  di  gioia  e  di  ebbrezza  -  « sono  andati,  sono  an 
dati!))  -  che  erompeva  come  una  voce  sola. 

—  Giovanin  Bongee1  e  vendicato!  —  fu  la  prima  parola  che  mi 
disse  il  Correnti  quando  lo  incontrai  in  quel  giorno. 

Dopo  avere  scambiato  anch'io  molti  abbracci  e  molti  baci,  non 
solo  con  mia  madre,  ma  con  quanti  c'erano  in  casa  Garnier,  ritornai 
in  fretta  a  girandolare  per  le  strade,  spingendomi  verso  tutti  quei 
posti  dove  sentivo  che  c'erano  stati  i  principal!  combattimenti. 
Dappertutto  era  il  medesimo  spettacolo ;  dappertutto  sventolavano 
drappi,  tele,  cenci  d'ogni  qualita,  purche  fossero  bianchi,  rossi  e 
verdi;  e  la  gente  noncessava  dal  contemplare,  dalTinebbriarsi  quasi 
di  quei  colori,  simbolo  di  tante  speranze  e  di  tanti  dolori.  Tutti 
portavano  grandi  coccarde  d'ogni  foggia  ai  cappelli  e  sui  vestiti; 
e  dalle  coccarde  pendevano  medaglie  col  ritratto  di  Pio  IX  e  col 
motto:  « Italia  libera,  Dio  lo  vuole». 

Nelle  strade  era  uno  scambiarsi  continue  di  saluti,  di  rallegra- 
menti,  di  abbracci,  tra  conoscenti  e  non  conoscenti.  A  ogni  passo 

i.  Giovanin  Bongee:  e  il  nome  del  protagonista  d'una  celebre  composizione 
poetica  di  Carlo  Porta,  Desgrazzi  de  Giovannin  Bongee,  che  rappresenta  un 
popolano  milanese  angariato  e  offeso  dai  dominatori  francesi. 


336  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

c'era  qualche  crocchio  in  cui  si  scambiavano  notizie,  o  si  narravano 
i  fatti,  gli  episodi  di  quei  giorni ;  seppi  allora  che  con  quel  grande 
strepito,  che  ci  aveva  colpiti  nella  notte,  gli  austriaci  avevano  pro- 
tetto  la  loro  ritirata. 

Sentii  anche  che  nelle  corti  del  Castello  si  vedevano  cose  racca- 
priccianti,  pozze  di  sangue,  cadaveri  di  uomini  e  di  donne,  fucilati, 
mutilati. 

«  Sono  andati!  Sono  andati! »  E  in  tutti  era  una  festa,  un  entusia- 
smo  che  pareva  un  delirio ;  tutti  eran  mossi  da  una  smania  di  espan- 
dersi,  di  affratellarsi,  di  affaccendarsi.  Molti  continuavano  il  lavoro 
alle  barricate,  specialmente  quelli  che  ne  erano  stati  lontani  nei 
giorni  antecedenti;  le  rinforzavano,  e  persino  le  abbellivano,  glo- 
riosi  di  quelPopera  cittadina,  che  in  quel  giorno  pareva  il  presidio 
eterno  della  comune  liberta. 

Non  mancavano,  anzi  abbondavano,  i  tipi  comici,  che  furono  poi 
chiamati  gli «  eroi  della  sesta  giornata  »,  che  andavano  in  giro  facendo 
pompa  dei  piu  strani  costumi;  con  corazze  antiche  sul  petto,  con 
cappelli  piumati  o  morioni,  con  stivali  di  cuoio  giallo,  con  armature 
ed  abiti  da  teatro.  Queste  strane  fogge  di  « abbigliamenti  patriot- 
tici»  continuarono,  pur  troppo,  per  molto  tempo  ancora;  e  anzi 
comparve  una  moda  nel  vestire,  chiamata  alia  «lombarda»,  e  che 
consisteva  in  un  camiciotto,  o  blouse,  di  velluto  nero,  di  fabbrica  na- 
zionale,  stretta  alia  vita  da  una  cintura  di  pelle  da  cui  pendeva  una 
daga  o  una  spada;  colletto  bianco,  grande,  rovesciato  sulle  spalle; 
calzoni  corti  di  velluto  nero ;  stivali  che  arrivavano  fino  al  ginocchio ; 
cappello  alia  calabrese  con  pennacchio ;  e  una  collana  che  scendeva 
sul  petto,  e  da  cui  pendeva  un  medaglione,  ch'era  di  solito  il  ri- 
tratto  di  Pio  IX. 

Anche  ad  alcuni  uomini  seri  non  era  sembrato  strano,  in  quei 
primi  giorni,  il  vestire  a  un  di  presso  cosi.  E  non  era  sembrato 
strano  neppure  a  Cesare  Correnti,  secretario  generale  del  Governo 
Prowisorio,  che  appunto  in  quei  giorni  vidi  anche  lui  vestito  di 
velluto,  alia  (dombarda»,  con  la  fusciacca  tricolore  a  tracolla,  e  una 
sciabola  al  franco. 

Anche  parecchie  eleganti  signore  adottarono  sulle  prime  questo 
strano  genere  di  abbigliamento,  e  trovarono  modo  di  adoperare, 
quali  ornamenti  delle  toilettes,  fusciacche  tricolori,  cappelli  alia 
calabrese,  pistole,  e  persino,  Dio  glielo  perdoni!  spade  e  sciabole 
di  cavalleria. 


RICORDI    DI    GIOVENTtl  337 

La  festivita,  mezzo  seria  e  mezzo  comica,  che  segui  in  Milano  la 
ritirata  degli  austriaci,  si  protrasse  per  parecchi  giorni.  Nessuna 
stranezza  stupiva,  o  pareva  tale,  usciti  tutti  come  eravamo  da  quel 
grande  awenimento,  che  superava  cio  che  di  piu  strano  poteva 
figurarsi  la  nostra  immaginazione. 

Ci  furono  anche-,  ad  onor  del  vero,  delle  manifestazioni  e  degli 
atti  piu  seri.  II  24  marzo  un  manipolo  di  giovani,  ch'erano  stati  tra 
i  piu  valorosi  durante  la  rivoluzione,  sotto  il  comando  di  Luciano 
Manara,  uscivano  dalla  citta  inseguendo  la  retroguardia  austriaca. 
Quei  giovani  furono  il  primo  nucleo  di  quel  battaglione  lombardo 
di  circa  otto  cento,  che,  dopo  avere  valorosamente  combattuto  a 
fiance  dell'esercito  piemontese  sui  campi  di  Lombardia,  e  piu  tardi 
alia  Cava1  in  Piemonte,  chiudeva  la  sua  breve  e  gloriosa  vita  militare 
decimato  sugli  spalti  di  Roma.3 

Un  altro  gruppo  di  cittadini  milanesi  s'awiava  intanto  penosa- 
mente,  dietro  i  carriaggi  austriaci,  verso  Verona:  erano  gli  ostaggi. 
In  seguito  all'assalto  e  alia  presa  del  Broletto,  eseguiti  per  ordine 
del  generale  Wallmoden,  sulPimbrunire  del  18  marzo,  erano  stati 
presi  circa  cinquanta  cittadini,  e  condotti  prigionieri  in  castello. 
Tra  questi,  n'erano  stati  scelti  una  ventina  quali  ostaggi,  al  mo- 
mento  in  cui  Parmata  si  ritiro,  nella  notte  del  22  marzo.3 

Le  truppe  giunsero  la  sera  del  23  marzo  a  Melegnano,  condu- 
cendo  seco  gli  ostaggi,  affidati  alia  custodia  d'un  Commissario  di 
Polizia,  un  tal  De  Betta.  Furono  rinchiusi  in  un  camerone  oscuro, 
ove  poco  dopo  si  vide  una  luce  sinistra,  seguita  da  un  colpo,  e  da 
un  grido;  uno  degli  ostaggi  cadde  mortalmente  ferito;  era  il  conte 
Carlo  Porro.4  Ne  fu  incolpato  il  Commissario  De  Betta,  che  poi  se 
ne  scolpo,  e  attribui  il  colpo  a  un  soldato,  e  a  un  caso  fortuito.  II 
Porro  mori  il  giorno  dopo,  e  fu  una  grave  perdita.  Cultore  di  scienze 
naturali,  fu  uno  dei  fondatori  del  museo  di  Milano;  cittadino  auto- 

i.  Cava:  e  il  nome  di  un  paese  sulk  via  provinciale  Pavia- Alessandria. 
Nel  '49,  in  conseguenza  dell'errore  compiuto  dal  generale  Ramorino,  il 
battaglione  Manara  vi  sostenne  Turto  di  quattordicimila  austriaci,  ritardan- 
done  1'avanzata.  Per  quell' episodic  Cava  ebbe  poi  (1863)  il  nome  di  Cava 
Manara.  2.  sugli  spalti  di  Roma:  nella  difesa  della  Repubblica  romana 
del  1849.  Vedi  la  nota  2  a  p.  339.  3.  «Fu  dato  1'ordine  di  prendere  il 
Palazzo  del  Broletto,  ove  risiedeva  il  Municipio,  a  qualunque  costo,  al  co- 
lonnello  Perrin  che  comandava  un  reggimento  boemo.  Lo  Schonhals  pero, 
nella  storia  sulla  campagna  d' Italia,  attribuisce  la  presa  del  Broletto  al  co- 
lonnello  Doll  [rectius:  Doll]  comandante  del  reggimento  Paumgater  [rect ius : 
Paumgartten]  »  (nota  del  Visconti  Venosta).  4-  Carlo  Porro:  vedi  la  nota 
i  a  p.  303. 


338  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

revolissimo,  era  stato  in  quei  giorni  uno  dei  dirigenti  il  movimento 
del  paese,  di  cui  era  un  onore  e  una  speranza.1 

Gli  ostaggi  furono  condotti  a  Klagenfurt,  e  piii  tardi  vennero 
scambiati  con  prigionieri  austriaci. 

Cosi  si  chiudeva  quel  primo  giorno  di  trionfo.  I  gridi  di  gioia 
coprivano  molti  gemiti,  e  molte  lacrime,  come  segue  la  sera  d'ogni 
trionfo ;  ma  la  gioia  era  tanta,  che  perfino  gli  afHitti  gioivano,  o  al- 
meno  erano  piu  rassegnati  nel  dolore. 

Intanto  giungevano  notizie  da  ogni  parte  della  Lombardia  e  del 
Veneto.  Dappertutto  era  la  stessa  cosa;  come  in  una  polveriera 
dove  si  fosse  dato  fuoco  a  una  miccia  nel  tempo  stesso,  in  ogni 
citta,  in  ogni  borgata,  in  ogni  villaggio,  ognuno  a  suo  modo  aveva 
fatto  la  sua  rivoluzione,  quasi  vi  fosse  stata  un'intesa,  e  con  gli  stessi 
caratteri  di  concordia,  di  entusiasmo,  e  talora  di  imprevidenza 
generosa  e  ingenua. 

Le  lezioni  delPesperienza  vennero  poi,  inesorabili  e  dure;  ma 
non  turbiamo  quei  momenti  felici. 


[VIAGGIO   PER  L'lTALIA]2 

In  principio  di  luglio,3  fatti  i  nostri  esami  universitarii,  io  e  mio 
fratello  Emilio  ci  sentimmo  presi  da  una  grande  smania  di  pren- 
dere  una  boccata  d'aria  fuor  di  paese,  e  di  sollevarci  un  po'  Tanimo 
dopo  tanti  giorni  di  sciagure,  e  dopo  i  pericoli  corsi,  specialmente 
da  Emilio.4  Ci  decidemmo  per  un  viaggetto  a  Roma,  a  Napoli,  e  in 
Sicilia:  Favere  un  passaporto  per  quei  paesi,  incatenati  al  pari  di 
noi,  non  era  difficile;  e  poi  ci  sorrideva  di  vedere  una  parte  d' Italia, 

i .  « Gli  ostaggi  erano :  Antonio  Bellati  delegato  (Prefetto)  di  Milano,  conte 
Giuseppe  Belgiojoso  assessore  municipale,  conte  Ercole  Durini,  nob.  Pie- 
tro  Bellotti  assessore  municipale,  marchese  Giberto  Porro,  conte  Giulio 
Porro,  nob.  Filippo  Manzoni,  nob.  Carlo  De  Capitani,  nob.  Francesco  Gia- 
ni,  Enrico  Mascazzini,  nobile  Alberto  De  Herra,  dottor  Antonio  Peluso, 
Enrico  Obicini,  Mascheroni,  Citterio,  ing.  A.  Brambilla,  Carlo  Crespi, 
Carlo  Pozzi,  Guglielmo  Fortis,  nobile  Carlo  Porro.  Lungo  la  strada  ne 
furono  aggiunti  altri  sedici,  arrestati  tra  i  notabili  dei  paesi  che  le  truppe 
attraversavano  nella  ritirata.  Carlo  Porro  era  fratello  del  conte  Alessandro 
Porro,  che  divenne  poi  Senatore  e  Presidente  della  Cassa  di  Risparmio  di 
Milano »  (nota  del  Visconti  Venosta).  2.  Ed.  cit.,  cap.  xvii,  pp.  263-83. 

3.  In  principio  di  luglio:  del  1853.  II  viaggio  durd  dal  luglio  al  settembre. 

4.  sciagure  .  .  .  Emilio :  allude  ai  processi  di  Mantova  e  ai  pericoli  corsi  al- 
lora  da  Emilio.  Vedi  la  nota  i  a  p.  300. 


RICORDI   DI    GIOVENTtl  339 

di  questa  nostra  Italia  a  cui  si  dedicavano  tanti  pensieri  e  tanti 
dolori.  Partimmo  per  Geneva,  ove  dope  un  paio  di  giorni  passati 
in  compagnia  di  parecchi  amici  emigrati,  o  fuggiti  dai  recenti  pro- 
cessi,  ci  imbarcammo,  e  si  ando  a  Civitavecchia. 

Sbarcati,  fummo  condotti  nell'uffizio  della  Dogana,  ove  ci  fu- 
rono  aperti  i  bauli,  e  un  commissario  di  Polizia  li  perquisi  minuta- 
mente.  Ne  tolsero  i  libri,  un  Macchiavelli,  un  Moliere  e  un  paio  di 
romanzi,  dicendoci  che  qualsiasi  libro  veniva  sequestrate,  e  che 
avremmo  potuto  cercarli  poi  alia  Polizia  centrale  in  Roma.  Ma  in 
fatto  non  li  riavemmo  piu.  Questa  prima  impressione  non  fu  pia- 
cevole,  e  meno  piacevole  ancora  fu  il  viaggio  da  Civitavecchia  a 
Roma  in  una  vecchia  diligenza  sgangherata,  che  Emilio  diceva  tro- 
vata  tra  le  masserizie  di  Torquemada.1 

In  Roma  rimanemmo  quindici  giorni,  girando  da  mattina  a  sera, 
nella  canicola  del  luglio,  trafelati,  ma  non  stanchi  di  vedere  e  di 
ammirare.  Visitammo  anche  minutamente  quei  luoghi  a  cui  le  re 
centi  memorie  della  difesa  di  Roma  davano  uno  speciale  interesse: 
le  mura,  il  Vascettoz  e  la  breccia,  ove  erano  caduti  Manara,  Enrico 
Dandolo,  Morosini,  e  tant'altri  amici  e  giovani  valorosi  in  nome 
di  una  grande  idea  la  quale  pareva  non  si  potesse  effettuare  che  in 
tempi  ben  lontani.  Quando  incontravamo  per  le  strade  i  soldati 
francesi  esclamavamo  in  cuor  nostro :  «  Che  cosa  fate  voi  qui  ?  II 
vostro  posto  sarebbe  stato  sui  campi  di  Lombardia  da  amici,  e 
non  qui  da  nemici!» 

Chi  m'avrebbe  detto  allora  che  questa  logica  del  sentimento 
avrebbe  avuto  tra  pochi  anni  il  suo  trionfol  E  per  di  piu,  per  opera 
di  colui  che,  in  quei  giorni,  per  essere  dei  patriotti  in  tutta  regola, 
bisognava  chiamare  con  ira  Tccuomo  del  2  dicembre»!3 

Francia  e  francesi  nei  nostri  animi  giovanili  erano  associati  al- 
1'epopea  della  rivoluzione,  e  del  regno  italico;  erano  associati  a  ogni 
piu  alta  idea  di  liberta  e  di  progresso!  E  ora  invece  vedere  i  francesi 


i.  Metaforica  allusione  a  Tomas  de  Torquemada  (1420-1498),  inquisitore 
di  Spagna.  2.  La  villa  del  Vascello>  a  porta  San  Pancrazio,  dove  i  gari- 
baldini,  comandati  da  Giacomo  Medici,  combatterono  strenuamente,  nel 
1849,  contro  le  truppe  francesi,  in  difesa  della  Repubblica  romana.  Nella 
difesa  di  Roma  morirono,  tra  i  tanti,  Luciano  Manara,  a  Villa  Spada; 
Enrico  Dandolo  a  Villa  Corsini;  Emilio  Morosini  in  seguito  alle  ferite 
riportate  al  bastione  del  Merluzzo.  3.  II  2  dicembre  1851  Napoleone 
Bonaparte,  presidente  della  seconda  Repubblica  francese,  intraprese  il 
colpo  di  stato  che  gli  schiuse  la  via  al  trono. 


340  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

in  Roma,  accanto  agli  svizzeri  del  Papa,  venuti  a  sostenere  colle 
armi  il  governo  temporale  papalino! 

Un'altra  cosa  che  ci  offendeva  la  vista  e  il  sentimento  era  il  tro- 
vare,  in  ogni  ufficio  ove  s'andasse,  dei  preti;  dei  brutti  preti  che, 
col  piglio  di  frequente  rozzo  e  sgarbato,  adempivano  a  incarichi 
che  proprio  non  avevan  nulla  a  che  fare  colla  sacristia.  E  ci  stupiva 
poi  tanto  il  sentir  bestemmiare  contro  i  preti  e  dileggiarli,  senza  ri- 
tegno  e  generalmente ;  noi,  che  eravamo  abituati  a  rispettare  i  nostri 
bravi  preti  di  Lombardia.  E  che  cosa  poi  non  si  diceva  del  governo 
dei  preti!  Era  un  subisso  di  imprecazioni,  che  vorremmo  per  un 
momento  solo  far  udire  a  quelli  che  lo  invocano . . .  per  passatempo. 

Un  giorno,  mentre  in  piazza  di  Monte  Cavallo  stavo  osservando 
Pobelisco  e  i  cavalli  greci,  vidi  uscire  dal  palazzo  del  Quirinale 
una  gran  carrozza  a  vetri  tutta  dorata.  In  quella  carrozza  c'era  un 
bel  vecchio,1  tutto  vestito  di  bianco,  che  benediceva  dagli  sportelli : 
il  suo  viso  pareva  circondato  da  un'aureola  di  santita  e  di  pace; 
sulle  sue  labbra  c'era  un  fine  sorriso  pieno  di  bonta;  quel  dolce  sor- 
riso  col  quale  forse  aveva  pronunziate  un  giorno  quelle  parole  che 
risuonarono  dall'Etna  alle  Alpi:  «  Gran  Dio,  benedite  1' Italia !». 

Pensamrno  di  recarci  a  Napoli,  attraversando  gli  Appennini,  pas- 
sando  poi  per  Capua  e  per  Caserta.  II  primo  giorno  s'ando  a  Tivoli 
e  ad  Arsoli,  un  ameno  paesello  presso  il  confine  del  regno  di  Napoli, 
con  un  viaggio  di  parecchie  ore  di  polvere  e  di  afa  in  una  vetturaccia, 
in  compagnia  d'un  frate  che  russava  e  d'una  balia  che  allattava.  Ad 
Arsoli  ci  dissero  che  non  c'eran  locande  per  «  galantuomini » :  in  quei 
paesi  si  chiamano  galantuomini  quelli  che  noi  chiameremmo  persone 
civili.  Ci  fu  pero  indicato  un  palazzotto  il  cui  proprietario,  un  certo 
signor  Marcello,  offriva  Pospitalita  ai  forestieri,  e  ai «  galantuomini ». 

II  signor  Marcello  era  un  uomo  gentile  e  gioviale.  Ci  alloggio  as- 
sai  bene,  e  la  sera  ci  diede  un'ottima  cena.  Ci  disse  ch'era  di  Roma, 
e  che  dopo  i  fatti  del  1849  passava  parte  dell' anno  in  quella  sua  villa; 
poi  mi  racconto  molte  storielle  della  sua  gioventu,  nelle  quali  c'en- 
trava  anche  il  principe  Luigi  Napoleone.  Ci  disse  pure  che  nella 
villa  c'eran  sua  moglie  e  le  sue  figlie,  ma  non  ce  le  lascio  vedere.  E 
avendogli  noi  lodata  la  cena,  ci  informo  ch'era  stata  cucinata  da  una 
sua  giovane  cuoca;  ma  anche  questa  non  fu  visibile.  E  quando  prima 
di  partire  la  cercammo  per  darle  la  mancia,  si  presento  invece  sua 
un'altra  persona  di  servizio,  ch'era  un  maschio. 
i.  un  bel  vecchio:  Pio  IX. 


RICORDI   DI    GIOVENTt  341 

II  signer  Marcello  ci  procure  una  guida  e  tre  muli  per  attra- 
versare  PAppennino.  Si  viaggio  tutta  una  giornata,  valicando  un 
monte  arido  e  dirupato,  per  una  strada  mulattiera  che  conduceva 
a  Tagliacozzo,  per  scendere  poi  ad  Avezzano.  La  strada  che  noi  fa- 
cemmo  era  appunto  quella  che,  circa  dieci  anni  dopo,  veniva  per- 
corsa  dalle  bande  dei  briganti  che  entravano  dallo  Stato  romano 
negli  Abruzzi ;  e  su  quelle  baize  era  preso  e  fucilato  il  carlista  spa- 
gnolo  Borjes,1  venuto  in  Italia  a  capitanare  il  brigantaggio,  a  ricat- 
tare  e  a  tagliar  orecchie,  da  dilettante. 

Verso  sera,  prima  di  arrivare  ad  Avezzano,  fummo  raggiunti  da 
un  signore,  pure  a  cavallo,  il  quale  con  molta  cortesia  ci  diede  delle 
indicazioni  utilissime,  e  ci  procure  un  buon  alloggio.  Non  contento 
di  questo,  la  mattina  seguente  venne  a  prenderci  e  ci  condusse 
a  vedere  il  lago  di  Fucino  e  Temissario  di  Nerone:2  poi  ci  voile  ac- 
compagnare  fino  a  Sora  e  a  Capua.  Sulle  prime  ci  eravamo  tenuti 
•con  lui  in  molto  riserbo,  ma  a  poco  a  poco  smettemmo  la  diffidenza. 
Egli  ci  disse  che  in  seguito  agli  awenimenti  del  '48  era  stato  rele- 
gato  in  provincia;  e  ci  diede  una  infinita  di  particolari  su  cose  e 
persone  che  sapevamo  d'altra  parte  veritieri. 

Questo  cortese  signore  si  chiamava  Altobelli,  e  mio  fratello  Emi- 
lio  lo  rivide  a  Napoli  nel  1861,  quando  v'ando  con  Farini.  LJ Al 
tobelli  gli  racconto  che  dopo  la  cavalcata  e  la  gita  con  noi  era  stato 
arrestato  dalla  Polizia,  la  quale  voleva  sapere  quali  macchinazioni 
avesse  fatte  con  quei  due  forestieri  venuti  dal  confine  romano ;  e,  a 
buon  conto,  Tavevano  tenuto  in  prigione  alcuni  mesi. 

Accomiatatici  a  Sora  dal  signor  Altobelli,  si  ando  in  vettura  a 
S.  Germane,  poi  a  cavallo  alPAbbazia  di  Montecassino.  Eravamo 
neiragosto,  e  si  pensi  che  caldo  facesse.  II  portmaio  del  convento, 
indovinando  i  nestri  desideri,  ci  condusse  subito  in  un  salottino  da 

i.  Jose  Borjes  (nato  nel  1803)  aveva  combattuto  in  Ispagna  tanto  alia  morte 
di  Ferdinando  VII  come  nel  1847.  Ingaggiato  segretamente  dai  Borboni 
spodestati,  avrebbe  dovuto  sollevare  la  Calabria  contro  il  Regno  d'ltalia: 
sbarco  infatti  con  un  pugno  di  spagnoli  in  Calabria  (15  settembre  1861), 
ma  circondato  dalle  truppe  italiane,  e  contando  solo  su  alcune  centinaia  di 
briganti,  cadde  prigioniero  e  fu  fucilato  a  Tagliacozzo  1'8  dicembre  1861. 
Vedi  B.  CROCE,  Uomini  e  cose  della  vecchia  Italia,  u,  Bari,  Laterza,  I9432, 
pp.  325  sgg.,  e  vedi  anche  G.  SCHMITT,  Briganti  celebri,  Napoli,  S.  Roma 
no,  1905,  pp.  68-78.  2.  il  lago  . . .  Nerone:  il  lago  di  Fucino,  negli  Abruzzi, 
era  stato  fornito,  nell'antichita,  da  Claudio  imperatore,  di  un  emissario  che 
ne  impediva  gli  straripamenti,  portando  le  acque  nel  Liri:  emissario  che 
successivamente  si  ostrui  del  tutto.  II  Fucino  fu  interamente  prosciugato 
con  i  lavori  compiuti  dal  1854  al  1875. 


342  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

toeletta  ove  potemmo  lavarci,  rinfrescarci,  e  toglierci  di  dosso  tutta 
la  polvere  che  ci  rawolgeva.  Quel  bravo  portinaio  ci  porto  anche 
delle  buone  limonate,  e  ci  disse  a  nome  del  Priore,  al  quale  ave- 
vamo  mandate  i  nostri  biglietti  da  visita,  che  eravamo  pregati  di 
accettare  in  refettorio  una  colazione.  Accettammo  con  piacere,  e  la 
colazione  fu  ottima.  Alle  frutta  vennero  due  monaci  benedettini, 
uno  dei  quali  credo  fosse  il  Priore,  a  farci  visita;  poi  il  piu  giovane 
dei  due  ci  condusse  a  visitare  il  convento,  la  chiesa,  e  la  biblioteca; 
visita  che  duro  parecchie  ore,  e  che  quel  monaco  ci  rese  anche  piu 
interessante  colla  sua  molta  erudizione.  Era  di  Napoli,  e  si  chia- 
mava  Carfora;  aveva  maniere  distinte  e  gentili  da  signore. 

Lasciammo  con  dispiacere  quello  splendido  asilo,  ove  avevamo 
trovato  un'ospitalita  tanto  cortese ;  ove  tutto  era  dedito  alia  fede, 
alia  coltura,  all'arte:  e  ove  tutto  faceva  dimenticare  «li  pretacci»  di 
Roma,  come  dicevano  allora  i  romani. 

Viaggiando  tutta  notte  in  una  diligenza,  si  arrive  la  mattina  dopo 
a  Capua.  Di  quel  viaggio  ricordo  che  un  gendarme,  incaricato  di 
scortare  la  diligenza,  non  trovando  altro  posto,  venne  a  sedere  in 
mezzo  tra  me  ed  Emilio  schiacciandoci  sui  fianchi  del  legno.  Cer- 
cammo  di  protestare,  ma  fu  inutile.  Che  cosa  non  era  lecito  a  un 
gendarme  ?  Anzi  voleva  essere  ringraziato.  Prima  ci  frugo  indosso 
per  assicurarsi  che  non  avevamo  qualche  arma  nascosta,  poi  voltosi 
a  Emilio,  che  aveva  un  paio  di  giovanili  baffetti  biondi,  gli  disse: 
—  lo  vi  dovrei  far  tagliare  li  mostacci,  perche  nel  Regno  sono  proi- 
biti,  ma  veggo  che  siete  inglesi  e  per  rispetto  alia  vostra  nazione 
non  ci  faccio  caso.  Ma  ringraziatemi,  perche  vi  faccio  una  grazia. 
Ma  pure  mi  dovete  ringraziare  se  sto  assettato  in  mezzo  a  voi,  e  vi 
proteggo  contro  li  malfattori,  che  ce  ne  stanno  tanti .  .  .  che  se  ve- 
nissero  nella  notte  avranno  da  fare  con  me  .  .  .  sangue  di!  .  .  .  Rin 
graziatemi,  ringraziatemi ...  —  Poco  dopo,  col  fucile  tra  le  gambe, 
si  addormento,  e  russo  fino  alia  mattina. 

Da  Capua  s'andava  a  Napoli  con  la  strada  f errata,1  una  strada 
ferrata  di  carattere  pacifico  e  conciliante,  su  cui  il  treno  andava  con 
la  velocita  d'una  vettural  i  passanti  lo  facevano  fermare  per  salire  o 
per  scendere  a  loro  volonta. 

A  Napoli  alloggiammo  in  un  albergo,  in  vicinanza  di  via  Toledo, 

i.  Da  Capua  .  .  .ferrata:  il  tronco  ferroviario  Capua-Caserta  era  stato  inau 
gurate  nel  1844,  come  prolungamento  della  linea  Caserta-Napoli,  comple- 
tata  nel  1843. 


RICORDI   DI    GIOVENTtl  343 

che  si  chiamava,  mi  pare,  del  Commercio.  II  proprietario  e  direttore 
era  un  vecchio  francese,  Monsieur  Martin,  venuto  a  Napoli  ai 
tempi  di  Murat,  e  che  quando  non  brontolava,  come  faceva  quasi 
sempre,  canticchiava  sottovoce  continuamente  una  canzone  fran 
cese  che  aveva  per  ritornello:  «Aux  armes,  aux  armes,  que  vient 
le  Due  de  Parme». 

Appena  arrivati  trovammo  alcuni  amici  che  furono  poi  i  nostri 
compagni  per  tutto  il  tempo  che  si  rimase  a  Napoli,  ossia  una 
quindicina  di  giorni.  Questi  erano  Carlo  Casalini  veneto,  compagno 
di  studi  di  Emilio,  il  conte  Sassatelli  di  Bologna  e  Cristoforo  Ro- 
becchi  milanese,  che  divento  molti  anni  dopo  Console  generate  del 
Regno  d'  Italia. 

Se  volessi  dire  tutte  le  impressioni  di  maraviglia  da  cui  passavo 
da  mattina  a  sera,  non  la  finirei  piu;  quella  Bella  Napoli  m' aveva 
ubriacato.  Ma  pur  troppo  accanto  alle  maraviglie  del  cielo,  della 
natura  e  dell'arte,  c'eran  le  impressioni  brutte  che  lasciava  nell'ani- 
ma  la  gente  bassa,  che  e  appunto  quella  parte  di  popolo  che  chi 
non  e  del  paese  vede  di  piu. 

Per  noi  che  ci  sentivamo  italiani,  cittadini  di  una  Italia  da  farsi, 
e  che  come  tutti  i  liberali  di  quel  tempo  circondavamo  il  popolo  di 
tanta  poesia  e  di  tante  speranze,  era  penoso  il  veder  quella  plebaglia 
cosi  priva  di  dignita  e  talora  d'onesta.  Allora  c' erano  ancora  i  tra- 
dizionali  (dazzaroni)),  scomparsi  poi  coi  Borboni  loro  protettori.  I 
forestieri  se  ne  divertivano,  ma  noi  ne  arrossivamo.  Quello  sciame 
di  pitocchi,  di  oziosi,  che  a  ogni  passo  s'aveva  tra'  piedi,  che  piom- 
bavano  addosso  come  locuste,  che  ingannavano,  truffavano,  e  che 
bisognava  nunacciare,  o  peggio,  per  liberarsene,  era  uno  spettacolo 
insoffribile,  tristissimo.  Ci  confortavamo  col  dire  tra  noi  che  quel 
popolo  era  tenuto  ad  arte  nelPignoranza  e  nell'abbiezione;  ma  bi 
sognava  pur  confessare  che  i  risultati  del  sistema  non  potevano 
essere  piu  completi. 

Tutta  questa  bordaglia  faceva  contrasto  e  vero  con  le  classi  alte, 
e  soprattutto  coi  molti  eletti  per  ingegno  e  per  cultura  di  cui  non 
era,  e  non  fu  mai,  scarso  quel  paese.  Ma  allora  molti  di  questi  si 
tenevano  in  disparte,  e  quasi  appiattati,  per  non  dar  nell'occhio 
alia  Polizia,  la  quale  non  era  meno  feroce,  ma  era  piu  vessatoria  e 
pm  stupida  della  Polizia  del  Governo  militare  di  Lombardia. 

Un  giorno  io  e  Emilio,  tornati  dalla  gita  del  Vesuvio  stanchi,  ac- 
caldati,  ci  buttammo  sul  letto  mezzo  vestiti,  e  ci  addormentammo 


344  GIOVANNI    VISCONTI   VENOSTA 

profondamente,  senza  aver  chiusi  gli  usci  delle  nostre  camere.  Ci 
svegliammo  verso  Tora  del  pranzo,  e  si  pensi  con  quale  spiacevole 
maraviglia  ci  accorgemmo  ch'eran  scomparsi  tutti  i  nostri  abiti, 
compresi  quelli  ch'erano  negli  armadi.  Chiamammo  il  carneriere, 
chiamammo  il  signor  Martin,  furono  interrogate  le  persone  di  ser- 
vizio  dell'albergo,  ma  dei  nostri  abiti  non  se  ne  seppe  piu  nulla; 
e  per  quel  giorno  si  dovette  pranzare  in  camera  in  maniche  di  cami- 
cia,  e  poi  andare  a  letto. 

II  signor  Martin  ci  giuro  in  francese,  in  italiano,  e  sulla  sua  testa, 
che  avrebbe  scoperto  il  ladro.  Per  un  paio  di  giorni  lo  sentimmo 
strepitare  e  bestemmiare ;  poi  tutto  torno  in  quiete,  ed  egli  riprese 
a  canticchiare « aux  armes,  aux  armes,  que  vient  le  Due  de  Parme». 

Cio  che  di  buono  fece  intanto  il  signor  Martin  fu  di  chiamar 
subito  un  bravissimo  sarto,  che  con  una  rapidita  ammirabile,  cioe 
in  un  paio  di  giorni,  ci  riforni  di  quanto  c'era  stato  rubato,  portan- 
doci  degli  abiti  assai  ben  fatti  e  di  ottimo  gusto.  C'eran  state  ru- 
bate  anche  le  «  marsine »,  e  avevamo  un  invito  a  pranzo  proprio  in 
quei  due  o  tre  giorni.  II  sarto  con  un  sorriso  benevolo  ci  rassicur6, 
e  un'ora  prima  del  pranzo  ci  porto  le  « marsine)),  i  calzoni,  e  le 
sottovesti  che  andavano  a  pennello. 

Quando  partimmo  da  Napoli  il  signor  Martin,  nel  metterci  in 
carrozza,  ci  disse  aH'orecchio  che  il  ladro  dei  nostri  abiti  era  stato 
il  servitore  d'un  generale,  venuto  per  la  festa  di  Piedigrotta,  e  che 
aveva  le  sue  camere  accanto  alle  nostre;  ma  che  trattandosi  di  per 
sona  dipendente  da  un  pezzo  grosso,  era  prudenza  tacere. 

II  pranzo,  pel  quale  ci  occorrevano  le  « marsine »,  era  in  casa 
Gargallo.  Ai  discendenti  del  traduttore  d'Orazio1  eravamo  stati 
presentati  pochi  giorni  prima ;  ed  essi,  tutta  una  famiglia  composta 
di  fratelli,  sorelle,  nuore  e  nipoti,  ci  avevano  invitati  pel  giorno 
della  festa  di  Piedigrotta  a  veder  la  «parata»  la  mattina,  cioe  la 
grande  rivista  militare  e  il  passaggio  del  corteo  dei  Sovrani,  e  poi 
a  pranzo  la  sera. 

Ci  trovammo  in  casa  Gargallo  con  altri  invitati,  che  dovevano 
essere  dei  borbonici  della  piu  belFacqua.  Ce  ne  accorgemmo  quan- 
do  pass6  la  carrozza  del  Re  seguita  dalle  carrozze  di  Corte.  Emilio 
mi  diede  subito  un'occhiata,  per  domandarmi  se  dovevamo  ritirarci 

i.  traduttore  d'Orazio:  Tommaso  Gargallo  (1760-1842),  marchese  di  Ca~ 
stel  Lentini,  autore  di  liriche,  epigrammi,  novelle,  poemetti,  e  traduttore 
di  Orazio. 


RICORDI   DI    GIOVENTfr  345 

dal  balcone,  come  si  faceva  a  Milano  quando  passava  un  generale 
austriaco.  M'aspettavo  in  buona  fede  che  su  quei  balconi  si  facesse 
altrettanto,  ma  nessuno  si  mosse.  lo  avevo  gia  atteggiato  il  viso  a 
una  sdegnosa  severita  patriottica,  ma  ecco  che  i  miei  vicini  inco- 
minciano  a  batter  le  mani,  a  gridar  viva  il  Re,  e  a  salutare  ammic- 
cando  con  gli  occhi  le  persone  del  seguito. 

Durante  il  pranzo  poi  i  discorsi  si  aggirarono  unicamente  su 
notizie  di  Corte ;  e  dal  mio  vicino  ricevetti  le  congratulazioni  perche 
anche  in  Lombardia  fossero  stati  ristabiliti  Pordine  e  la  tranquillita! 

Due  giorni  dopo  facemmo  la  nostra  visita  di  congedo  in  casa  Gar- 
gallo.  Credevamo  d'esser  sulle  mosse  per  andare  in  Sicilia;  ma  un 
improwiso  incidente  venne  a  trattenerci  ancora  per  una  settimana. 

L'amico  Cristoforo  Robecchi  desiderava  fare  il  giro  della  Sicilia 
con  noi,  e  avevamo  quindi  mandato  alia  Polizia  i  nostri  tre  passa- 
porti  chiedendo  il  «  visto»  per  la  partenza.  Ma  eccoci,  dopo  un'atte- 
sa  di  alcuni  giorni,  una  lettera  che  ci  chiama  alia  Legazione  d' Au 
stria.  A  quei  tempi  gli  italiani,  sudditi  austriaci,  viaggiando  evi- 
tavano  di  presentarsi  alle  Legazioni  o  alle  Ambasciate  austriache 
per  cansarne  le  cortesie.  Questa  volta  eravamo  chiamati,  e  biso- 
gnava  andarci. 

Alia  Legazione  fummo  ricevuti  dal  prirno  secretario,  poiche  il 
ministro  era  in  congedo.  Questo  secretario,  certo  signor  Rajmond, 
ci  accolse  molto  gentilmente,  e  ci  awiso  che  alia  Polizia  di  Napoli 
era  arrivata  una  relazione,  piena  di  sospetti  sul  nostro  conto,  in 
causa  della  strada  insolita  che  avevamo  percorsa  venendo  da  Roma, 
e  in  causa  delle  «  persone  con  le  quali »  (il  signor  Altobelli)  ci  era 
vamo  abboccati. 

Non  ci  fu  difficile  dimostrare  al  signor  Rajmond  1'innocenza  delle 
nostre  azioni,  ed  egli  si  assunse  di  persuaderne  la  Polizia  napole- 
tana,  e  di  domandare  per  noi  quei  passaporti  speciali  che  occorre- 
vano  per  andare  in  Sicilia.  Noi  non  sapevamo  che  il  nostro  passa- 
porto  per  le  Due  Sicilie  non  bastasse,  e  che  per  una  sola  Sicilia 
ce  ne  volesse  uno  rilasciato  anche  dal  Governo  di  Napoli. 

Dopo  due  giorni  siamo  chiamati  di  nuovo  alia  Legazione,  e  il 
signor  Rajmond  ci  comunica  la  risposta  del  Governo  il  quale  ci 
concedeva  «due»  passaporti  ma  non  «tre»;  bisognava  quindi  sce- 
gliere  tra  noi  chi  poteva  partire  e  chi  dovesse  rimanere.  II  signor 
Rajmond  pero,  sempre  gentile,  si  offerse  di  interporsi  ancora  per 
ottenerci  la  <cgrazia»  di  partire  in  tre. 


346  GIOVANNI   VISCONTI   VENOSTA 

La  grazia  venne,  ma  un  personaggio  del  Governo  voile  vederci 
e  interrogarci  alia  presenza  del  secretario  della  Legazione.  Questo 
personaggio,  di  cui  non  rammento  il  nome,  era  un  ometto  asciutto 
e  sbarbato;  ci  fece  un  lungo  interrogatorio,  squadrandoci  da  capo 
a  piedi  a  ogni  domanda ;  poi  alia  fine  con  molta  solennita  ci  disse : 
—  Ebbene,  si  concede  a  tutti  e  tre  il  passaporto  per  la  Sicilia,  ma 
si  concede  soltanto  per  un  riguardo  alia  loro  bandiera!  —  E  cosi 
dicendo  accennava  con  la  mano  al  secretario  della  Legazione 
d'  Austria. 

«Per  la  nostra  bandiera! »  cioe  per  la  bandiera  austriaca. 

Cosi  potemmo  andare  quella  volta  in  Sicilia  grazie  a  un  funzio- 
nario  austriaco,  il  quale  per  di  piu  ci  raccomando  di  tenerci  molto 
in  guardia  per  cansare  le  vessazioni  della  Polizia  borbonica,  ch'egli 
pure  si  permetteva,  sorridendo,  di  riconoscere  eccessive. 

Partii  pieno  d'entusiasmo  per  il  bel  paese  che  avevo  veduto,  ma 
ne  venivo  via  con  tre  dispiaceri  nel  fondo  delPanimo :  quello  cioe 
d'aver  perdute  anche  qui,  e  piu  che  mai,  molte  illusion!  su  quel 
popolo  che  Mazzini  mi  aveva  insegnato  a  mettere  accanto  a  Dio; 
d'aver  trovati,  nelle  classi  educate,  dei  borbonici;  e  d'aver  avuto 
un  protettore  nella  Legazione  austriaca. 

Ci  imbarcammo  per  Messina,  e  la  traversata  fu  poco  felice:  il 
mare  era  burrascoso,  il  battello  procedeva  male  e  quasi  a  stento; 
a  Paola  si  dovette  fare  una  lunga  fermata.  Quando  si  giunse  a  Mes 
sina  era  sera,  e  si  dovette  passar  la  notte  a  bordo;  la  conclusione  fu 
che  si  rimase  sul  battello  chiquant'ore.  Nel  frattempo  ci  furono 
tutti  quegli  episodi  che  si  possono  immaginare  pensando  a  un  bat 
tello  durante  una  burrasca.  lo  e  Emilio  per  fortuna  non  pagammo 
quel  tributo  che  il  beccheggio  e  il  rullio  fecero  pagare  agli  altri, 
Tra  i  passeggieri,  ch'eran  molti,  c'era  tutta  una  compagnia  comica; 
la  compagnia  Domeniconi  che  andava  a  Messina.  L'avevo  veduta 
altre  volte  sulle  scene,  e  allora  la  vidi  tutta  col  mal  di  mare,  che  ruz- 
zolava  sul  ponte  o  nel  salotto,  in  pose  ora  tragiche  ed  ora  comiche. 

Tra  gli  altri  viaggiatori  c'erano  delle  donne,  e  anche  qualche  uo- 
mo,  che  parevano  impazziti  per  la  paura;  strillavano,  pregavano, 
invocavano  tutti  i  santi  napoletani  e  siciliani ;  e  ad  ogni  nuovo  colpo 
di  vento,  o  ad  ogni  ondata  piu  violenta,  facevano  un  nuovo  voto. 
Ne  fecero  di  cosi  smisurati  (fra  gli  altri  quello  d'un  organo  a  tre 
tastiere  con  sessanta  canne),  da  scommettere  che  non  furon  man- 
tenuti  tutti. 


RICORDI   DI    GIOVENTti  347 

A  Messina  ci  fermammo  tre  o  quattro  giorni,  poi  si  ando  a  Ca 
tania,  dopo  aver  passata  una  giornata  a  Taormina;  nella  meravi- 
gliosa  Taormina  I 

Dopo  aver  gironzolato  per  alcuni  giorni  nella  bella  citta  di  Ca 
tania,  ci  accingemmo  alia  salita  delTEtna.  Ma  1'Etna,  ci  si  disse,  non 
e  sempre  cortese  coi  viaggiatori,  e  difatti  non  lo  fu  neppure  con  noi ; 
sicche  dovemmo  contentarci  di  leggere  sulla  Guida  la  descrizione 
dello  spettacolo  che  vi  si  contempla  dalla  vetta.  La  prima  fermata 
fu  a  Nicolosi,  ove,  com' era  di  prammatica  allora,  si  ando  a  far  visita 
al  professore  Gemellaro,1  1'illustratore  delTEtna,  di  cui  egli  parlava 
come  un  buon  babbo  parla  di  un  suo  figliolo,  che  fa  qualche  scap- 
pata,  e  vero,  ma  che  gli  da  pure  molte  consolazioni. 

Dopo  Nicolosi  il  tempo  si  fece  cosi  cattivo  che  dovemmo  ripararci 
in  una  grotta  e  starci  forse  un  paio  d'ore,  intanto  che  un  vento  impe- 
tuoso,  accompagnato  da  una  fitta  gragnuola,  schiantava  gli  alberi 
e  faceva  rotolar  sassi  giu  della  montagna.  Usciti  dalla  grotta  giun- 
gemmo,  dopo  altre  sette  ore  di  cammino,  a  un  rifugio  chiamato  la 
casa  degli  inglesi.  Ci  si  passo  la  notte,  mezzo  assiderati,  poiche  in 
quella  casina  anche  il  vento  e  la  pioggia  avevano  libero  1'ingresso. 
A11J alba  tentammo  la  salita  del  cono,  ma  dopo  una  mezz'ora  di 
strada  fummo  ricacciati  indietro  da  una  « tormenta »  di  lapilli  e  di 
neve,  venuta  a  dirci  bruscamente  che  anche  il  cono  non  voleva  sa- 
perne  di  noi. 

E  cosi  si  dovette  rifar  la  strada  giungendo  a  Catania  stanchissimi 
per  la  fatica,  pel  freddo  e  pel  caldo,  poiche  dalla  neve  e  dai  ghiacci 
dell'alta  zona  del  monte  eravamo  passati,  al  piano,  a  36  gradi  cen- 
tigradi. 

Ad  onta  di  tutti  questi  demeriti  che  1'Etna  ebbe  verso  di  noi,  io 
ne  ho  conservato  un  grande  e  indimenticabile  ricordo.  Per  quanto 
la  mia  aspettativa  fosse  molta,  essa  fu  superata;  e  ripensandoci, 
dopo  tanti  anni,  lo  spettacolo  vario  e  grandiose  delPEtna  mi  riempie 
ancora  la  mente  di  maraviglia. 

Ma  altri  spettacoli  grandiosi  ci  si  presentarono  subito  dopo,  prin- 
cipiando  da  Siracusa.  Non  parlero  della  citta  moderna  che  se  ne  sta 
accanto  al  piccolo  porto,  come  un  signore  decaduto  sta  in  un  quar- 

i.  Carlo  Gemellaro  (1787-1866),  scienziato  molto  lodato,  e  soprattutto  vul- 
canologo.  Numerosi  i  suoi  scritti  sulla  struttura  e  le  eruzioni  dell'Etna, 
anche  sotto  1'aspetto  storico  e  botanico.  II  fratello  Mario,  maggiore  di  lui, 
e  che  si  era  ugualmente  occupato  dell'Etna,  era  rnorto  nel  1839. 


348  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

tierino  modesto;  ma  ricorder6  la  landa  che,  arida  e  maestosa,  si 
diparte  dalPattuale  citta,  e  su  cui  si  distendeva  la  Siracusa  antica, 
la  grande  citta  greca,  di  cui  non  ci  son  piu  neppure  le  rovine. 

Percorremmo  quella  landa  per  parecchie  ore  a  cavallo,  non  tro- 
vando  che  qualche  raro  frammento  di  pietre  spezzate,  la  dove  per 
piu  secoli  si  agito  la  vita  d'oltre  un  milione  d'abitanti.  Durante 
quella  lunga  cavalcata  non  trovammo,  noi  tre,  una  parola  da  dire. 
Certi  spettacoli  rendono  silenziosi  e  meditabondi  anche  a  vent'anni. 

Da  Siracusa  si  ando  a  Girgenti,  passando  per  Noto,  Modica, 
Ragusa,  Vittoria,  Terranova,  Licata,  viaggiando  ogni  giorno  per 
sei  o  sette  ore  a  cavallo.  Da  Girgenti  si  ando  a  Sciacca,  con  una 
cavalcata  di  tredici  ore  filate;  poi,  a  Selinunte,  a  Castelvetrano,  a 
Mazzara,  a  Marsala,  sempre  su  cavalli,  o  su  muli. 

Ripensandoci,  dopo  tanti  anni,  mi  si  ridesta  ancora  Timpressione 
di  quelle  ore  calde,  faticose,  di  quelle  sabbie  infocate  sulle  quali 
le  nostre  cavalcature  camminavano  a  stento  sprofondandovi.  Le 
vedo  ancora  quelle  terre  arse  e  sabbiose,  e  quel  cielo,  che  face  van 
pensare  al  deserto,  e  alPOriente.  La  fatica  e  gli  stenti  erano  grandi, 
ma  era  cosi  grande  tutto  cio  che  vedevamo  che  alia  fatica  non  si 
badava  piu.  Quel  mare  azzurro,  quelle  spiaggie  vaghissime,  quegli 
avanzi  greci,  romani,  saraceni,  normanni  che  riuniti  su  una  mede- 
sima  terra  ci  parlavano  di  tanti  popoli  e  di  tante  vicende,  traspor- 
tavano  i  nostri  pensieri  in  una  sfera  cosi  alta  e  vasta  che  Teco  dei 
nostri  disagi  e  dei  nostri  piccoli  guai  non  ci  poteva  arrivare. 

DeJ  piccoli  guai,  e  degli  incomodi,  oltre  la  fatica,  il  caldo  e  la 
stanchezza,  a  dir  vero  ce  n'eran  parecchi.  I  tre  maggiori  erano  la 
fame,  la  sporcizia  e  i  poliziotti. 

Di  solito  si  faceva  anche  allora  il  giro  della  Sicilia  con  vaporetti 
che  ne  toccavano  i  punti  piu  interessanti.  Ma  il  giro  della  costa  per 
terra,  che  bisognava  fare  a  cavallo  non  essendoci  strade  per  lun- 
ghissimi  tratti,  non  veniva  di  solito  intrapreso  da  chi  viaggiava  per 
divertimento,  se  non  da  qualche  inglese.  Perci6  eravamo  presi 
sempre  per  inglesi  anche  noi.  E  degli  inglesi  veri  ne  trovammo  in- 
fatti  alcuni  che  facevano  la  nostra  medesima  strada,  ma  la  facevano 
con  maggior  previdenza  e  con  minori  disagi  di  noi :  portavano  con 
se  prowisioni  di  acqua,  di  vino,  di  viveri;  e  avevano  le  tende  per 
riposare  di  giorno,  e  occorrendo  anche  di  notte,  quando  non  tro- 
vavano  locande  decenti. 

Oggi  in  quasi  tutti  quei  paesi  della  costa  si  trovano  buone  lo- 


RICORDI   DI    GIOVENTfr  349 

cande,  e  strade;  ma  non  era  cosi  a  quei  tempi,  e  val  la  pena  ram- 
mentare  come  si  viaggiasse  al  tempo  del  Governo  borbonico. 

Dicendo  che  parecchie  volte  abbiam  sofferto  la  fame  non  rendo 
che  un  doveroso  omaggio  alia  verita.  In  quelle  bettole  ignobili  che 
si  trovavano  lungo  la  strada  non  c'era  il  piu  delle  volte  che  del  pane 
secco,  del  cacio  ammuffito,  o  qualche  altro  commestibile  che  ro- 
vesciava  lo  stomaco.  Se  ci  fermavamo  a  qualche  cascinale  ci  si  tro 
vavano  al  piu  delle  ova:  se  ci  son  le  ova,  argomentavamo  tra  noi, 
ci  dovrebbero  essere  anche  le  galline;  ma  siccome  la  logica  non  reg- 
ge  sempre  le  cose  di  questo  mondo,  cosi  le  galline  non  c'eran  mai, 
ed  era  impossibile  di  scovarle  per  quanto  si  ofTrissero  dei  prezzi 
principeschi. 

Nei  piccoli  paesi  le  cosi  dette  locande  eran  bettolacce  da  mulat- 
tieri.  Sul  limitare  s'era  subito  accolti  da  un  puzzo  che  vi  diceva  di 
non  entrare ;  e  il  piu  delle  volte  infatti  non  ci  si  entrava,  e  si  dor- 
miva  sotto  la  volta  del  cielo,  con  la  sella  del  mulo  per  guanciale. 

Se  volessi  parlare  degnamente  del  sudiciume  che  ho  ammirato  in 
alcune  di  quelle  locande,  e  in  qualcuno  di  quei  paesi,  ci  sarebbe  da 
fame  un  poema.  II  concetto  d'un  po'  di  nettezza  non  c'era  nep- 
pure  nello  stato  embrionale.  Bisogna  dire  che  la  nozione  della  pu- 
lizia  sia  tra  quelle  che  penetrano  per  le  ultime  in  certi  cervelli 
umani,  i  quali  comprendono  piu  facilmente  il  soprannaturale  che 
il  sapone. 

Una  volta  (mi  si  perdoni  cio  che  sto  per  dire),  mio  fratello  avendo 
detto  alia  padrona  della  locanda  di  pulirgli  un  coltello,  su  cui  c'era 
stratificata  una  lunga  storia  di  usi  diversi,  la  locandiera  sputo  sul 
mat  tone  del  pavimento,  ci  frego  sopra  la  lama,  la  risciacquo  in  un 
catino  d'acqua  sporca,  e  Pasciugo  ne'  suoi  capelli;  tutto  cio  con  una 
rapidita  e  con  una  premura  che  dimostravano  la  miglior  volonta 
di  servirci  bene. 

Al  primo  arrivare  in  un  paese  si  era  subito  pigliati  da  un  gen 
darme,  il  quale  prima  di  lasciarci  andare  alia  locanda  ci  conduceva 
all'uffizio  della  Polizia;  dove  ci  si  frugava  nei  bagagli,  e  perfm 
nelle  tasche,  e  ci  si  facevano  i  piu  strani  interrogator!,  ch'eran  spesso 
un  divertimento.  Alia  fine  ci  domandavano  una  buona  mancia. 
Dappertutto  eravamo  poi  sempre  Fargomento  d'una  grande  cu- 
riosita.  Forestieri  ne  vedevan  di  raro,  era  dunque  ben  naturale  che 
tutti  avessero  un  gran  desiderio  di  awicinarci  e  di  parlarci.  Ma 
devo  anche  dire  ch'eran  tutti  molto  cortesi  ed  ospitali,  e  che  spesso 


35°  GIOVANNI   VISCONTI  VENOSTA 

si  durava  fatica  a  cansare  certe  cortesie  eccessive,  come  quelle  d'of- 
ferte  di  doni  che  ci  venivan  da  persone  che  vedevamo  per  la  prima 
volta.  A  Vittoria,  avendo  noi  lodati  i  vini  di  parecchi  che  ci  avevano 
condotti  a  vedere  le  loro  cantine,  tutti  volevano  che  ne  accettassimo 
dei  fiaschi  e  persino  dei  barili  da  portar  con  noi;  un  tale  ci  voleva 
donare  un  gran  pacco  di  cremor  di  tartaro  non  sapendo  che  cosa 
darci  di  meglio. 

I  discorsi,  le  domande  che  questa  brava  gente  ci  facevano,  di- 
mostravano  sovente  una  ben  scarsa  nozione  degli  awenimenti  mo- 
derni,  mentre  poi  dinotavano  in  loro  quasi  sempre  una  certa  cul- 
tura  classica  e  soprattutto  archeologica.  Ne  c'era  da  stupirsene, 
poiche  negli  stessi  «gabinetti  di  lettura  e  di  conversazione)),  come 
li  chiamavano,  non  ci  abbiamo  mai  visto  di  moderno  che  il  Gior- 
nale  ufEciale  delle  Due  Sicilie.  II  tenere  isolate  le  popolazioni  della 
Sicilia  da  ogni  contatto  intellettuale  col  rimanente  del  mondo  era 
allora  una  delle  principali  preoccupazioni  del  governo  borbonico. 

Non  era  piccolo  lo  stupore  di  chi  ci  interrogava  a  sentirsi  rispon- 
dere  che  non  eravamo  inglesi,  ma  italiani  e  lombardi.  Allora  ci  ve- 
nivano  rivolte,  con  una  grande  curiosita  patriottica,  infinite  do 
mande  che  dimostravano  quanto  in  quei  paesi  la  gente  fosse  tenuta 
all'oscuro  su  tutto  cio  che  riguardava  gli  altri  paesi  d'ltalia. 

A  Girgenti,  mentre  stavamo  contemplando  gli  avanzi  d'un  tem- 
pio  greco,  un  ufEciale,  che  ci  parve  di  quelli  addetti  alle  piazze, 
dopo  averci  osservati  per  un  pezzo,  non  reggendo  piu  alia  curiosita, 
ci  si  awicino  e  ci  diresse  parecchie  domande.  Si  capiva  ch'era  un 
buon  uomo ;  per  farsi  poi  perdonare  le  sue  interrogazioni  egli  le 
intercalava  con  una  infinita  di  scuse  e  d'offerte  di  servizi.  Le  nostre 
risposte  accrescevano  sempre  piu  la  sua  curiosita,  ma  ogni  tanto 
rimaneva  cosi  impigliato  nelle  sue  sorprese  che  non  sapeva  piu 
raccapezzarsi. 

II  maggiore  de'  suoi  imbarazzi  fu  quando  gli  dicemmo  che  era 
vamo  italiani  lombardi.  Non  era  forte  nella  geografia,  e  si  ostinava 
a  voler  mettere  la  Lombardia  nella  Svizzera.  Ad  onta  di  questo 
disinganno  che  gli  dovemmo  dare,  voile  incaricarsi  egli  stesso  di 
procurarci  le  cavalcature  per  andare  a  Sciacca,  e  di  farci  il  contratto 
coi  mulattieri.  Era  un  contratto  che  si  poteva  sbrigare  con  poche 
parole,  ma  quel  buon  uomo  era  verboso  e  voleva  mostrarci  tutto 
Tinteressamento  che  prendeva  per  noi.  Alia  fine,  parlando  ai  mu 
lattieri,  conchiuse  con  questa  perorazione :  —  Sentite,  questi  si- 


RICORDI   DI    GIOVENTtl  351 

gnori  sono  cavalieri  prestantissimi  che  sanno  scrivere!  da  Sciacca 
mi  manderanno  due  righe  scritte  di  loro  pugno,  sulla  carta,  capi- 
te? .  .  .  e  se  mi  scriveranno  che  siete  stati  dei  bricconi,  io  vi  faro 
dare  tante  bastonate  che  ve  ne  ricorderete  per  un  pezzo!  .  .  .  —  e 
qui  fece  una  faccia  minacciosa  e  terribile,  ma  poi  rabbonendosi  su- 
bito  continue :  —  Ma  voi  siete  dei  bravi  figlioli,  vi  conosco  .  .  . 
questi  signori  cavalieri  saranno  contenti  di  voi,  vi  daranno  una 
buona  mancia  . . .  e  voi  avrete  la  mia  protezione!  —  E  alzo  il  brac- 
cio  in  atto  quasi  di  benedirli. 

Con  quei  mulattieri  si  fece  una  lunga  cavalcata,  arrivando  la  sera 
a  Sciacca.  Su  quelle  strade,  in  uno  dei  punti  piu  deserti,  ci  imbat- 
temmo  in  due  individui  a  cavallo  che  potevano  essere  contadini,  o 
guardiani,  e  che  avevano  i  fucili  ad  armacollo.  Questi,  dopo  averci 
squadrati  ben  bene,  tirarono  in  disparte  i  nostri  due  mulattieri  e 
rimasero  per  qualche  tempo  a  confabulare  con  essi,  poi  scompar- 
vero,  mentre  noi  proseguivamo  lentamente  per  la  nostra  strada. 
Poco  dopo  i  nostri  mulattieri  vennero  a  dirci  che  quei  due  avevano 
fatto  loro  la  proposta  di  pigliarci  alle  spalle,  di  ammazzarci  e  di 
dividersi  il  bottino.  I  nostri  mulattieri  soggiungevano  d'essersi  op- 
posti,  dicendo,  per  meglio  dissuaderli,  che  noi  eravamo  terribil- 
mente  armati,  e  che  per  di  piu  avevan  veduti  a  poca  distanza  i 
gendarmi. 

Quella  proposta  sara  stata  vera?  0  i  nostri  mulattieri  ce  Tave- 
vano  inventata  per  farsi  raddoppiare  la  mancia,  e  per  assicurarsi 
meglio  quelle  due  righe  di  benservito  da  portare  alTuffiziale  ?  Le 
due  ipotesi  sono  possibili  del  pan. 

Quest' episodic  fu  il  solo  che  ci  rammentasse  la  poca  sicurezza  di 
quelle  strade.  Noi  le  abbiamo  percorse  di  giorno  e  di  notte,  senza 
nessuna  precauzione,  e  senza  darcene  pensiero;  fortunatamente 
nulla  venne  a  turbare  questa  nostra  serenita. 

A  Marsala  ci  fermammo  una  giornata  per  riposarci.  Sul  taccuino, 
ove  scrissi  allora  i  miei  appunti  giornalieri,  trovo  scritto:  aOltre 
le  fattorie  del  vino  e  qualche  avanzo  dell'antica  grandezza  c'e  poco 
da  ricordare».  Chi  m'avrebbe  detto  allora  che  cosa  ci  sarebbe  stato 
da  ricordare,  sette  anni  dopo!1 

Da  Marsala  andammo  a  Trapani  per  mare,  in  una  barca  di  pesca- 
tori,  poi  un  po'  a  cavallo  e  un  po'  in  vettura  si  arrivo  in  tre  giorni 

i.  sette  anni  dopo:  allude  allo  sbarco  dei  Mille,  a  Marsala,  I'll  maggio  del 
1860. 


352  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

a  Palermo,  passando  per  Calatafimi,  Segesta,  Alcamo  e  Monreale. 

A  Palermo,  ove  eravamo  arrivati  il  6  ottobre,  rimanemmo  otto  o 
dieci  giorni,  il  tempo  appena  necessario  per  dare  un'occhiata  a  quel 
paese  di  maravigliosa  bellezza,  e  alle  cose  pin  notevoli  della  citta. 
Una  lettera  di  nostra  madre  ci  aveva  consigliati  di  affrettare  il  ri- 
torno,  e  ci  diceva  che  a  Geneva  avremmo  trovate  altre  sue  lettere. 

Carlo  Tenca  ci  aveva  date  delle  lettere  per  alcune  persone  col- 
1'incarico  di  chiedere  delle  corrispondenze  pel  «  Crepuscolo  »,x  o 
almeno  delle  informazioni  di  tanto  in  tanto ;  cio  per  stabilire  una 
relazione  intellettuale  e  morale  tra  i  lettori  del  «  Crepuscolo  »  e  la 
Sicilia,  come  gia  aweniva  con  molte  altre  provincie  d' Italia. 

Trovammo  delle  distinte  persone  che  ci  accolsero  con  molta 
cortesia,  ma  tutte  ci  diedero  un'eguale  risposta,  e  cioe  che  mandar 
delle  lettere,  anche  non  politiche,  sulla  Sicilia  era  un  affar  serio  e 
quasi  impossibile,  poiche  quelle  lettere  sarebbero  state  certamente 
aperte  dalla  Polizia  e  sequestrate;  chi  poi  le  mandasse  avrebbe 
avute  perquisizioni  e  vessazioni  senza  fine.  Ci  dissero  per  di  piu 
che  sarebbe  stato  poco  prudente  anche  il  lasciarsi  veder  troppo 
insieme  con  noi  per  le  strade,  poiche  chi  bazzicava  con  forestieri 
diventava  per  la  Polizia  un  cittadino  sospetto. 

Valga  cio  a  dare  un'idea  delle  condizioni  in  cui  si  trovava  a  quel 
tempo  la  Sicilia  e  del  modo  con  cui  era  governata. 

Dopo  aver  percorsi  gli  Stati  del  Papa  e  del  Re  di  Napoli,  nel 
ritornare  in  Lombardia,  bisogna  confessare  che,  ad  onta  dello  stato 
d'assedio  e  dei  rigori  del  Governo  militare,  si  provava  un  senso  di 
sollievo;  si  sentiva  d'essere  in  un  paese  le  cui  condizioni  erano 
meno  socialmente  retrive,  e  che  aveva  un  Governo  meno  stupida- 
mente  tirannico.  II  Governo  austriaco  era  sempre  stato,  quanto  alia 
politica,  pedantescamente  assoluto ;  allora  poi  era  in  un  periodo  di 
violenta  reazione;  ma  era  un  governo  civile  del  secolo  decimonono, 
mentre  il  papalmo  e  il  napoletano  erano  ancora  in  parte  governi 
d'altri  tempi,  e  giustamente  ritenuti  tra  i  peggiori  del  mondo  civile. 

Da  Palermo  partimmo  per  Geneva,  con  un  battello  a  vapore, 
toccando  solo  per  poche  ore  Napoli,  Civitavecchia  e  Livorno. 

A  Genova  trovammo  le  lettere  che  nostra  madre  ci  aveva  an- 

i.  « II  crepuscolo »,  fondato  e  diretto  da  Carlo  Tenca  (vedi  la  notaa  a  p.  314), 
fu  un  giornale  settimanale  di  letteratura,  arte  e  scienze  economiche:  ebbe 
molta  importanza  nella  vita  culturale  di  Milano  e,  pur  non  occupandosi 
apertamente  di  politica,  giov6  notevolmente  alia  causa  nazionale. 


RICORDI    DI    GIOVENTfr  353 

nunziate;  lettere  important!,1  che  ci  lasciarono  pensierosi  e  per- 
plessi. 

[L'IMPERATORE  D'AUSTRIA  A  MILANO]  2 

La  causa  italiana  riceveva  dal  Cavour  un  impulse  gagliardo  e  un 
nuovo  awiamento.  Egli  voleva  toglierla  dalFambito  puramente  ri- 
voluzionario  in  cui  era  rimasta  negli  ultimi  tempi ;  voleva  staccarla 
dall'azione  del  Comitato  di  Londra,3  terreno  su  cui  era  facile  alle 
Potenze  il  combatterla.  Cavour  aveva  accusato  P  Austria  di  mante- 
nere  T Italia  in  uno  stato  rivoluzionario,  mentre  dimostrava  che  Tor- 
dine  era  rappresentato  dal  Piemonte;  e  per  di  piu  accusava  1' Au 
stria  d'avere  sconfinato  nell'interpretare  i  poteri  datigli  in  Italia 
dagli  stessi  trattati  di  Vienna.  Era  dunque  in  nome  dei  principii 
conservator!  che  Cavour  difendeva  Pltalia  dinanzi  ai  gabinetti;  ma 
era  recente  il  6  febbraio,4  bisognava  dunque  dare  alia  politica  ita 
liana  un  indirizzo  diverse,  togliendola  dalle  mani  del  partito  rivo 
luzionario. 

L'  Austria  vide  questo  pericolo;  quindi  la  venuta  dell'Imperatore 
Francesco  Giuseppe  a  Milano5  non  fu  soltanto  un  fatto  di  politica 
interna,  ma  soprattutto  era  un  atto  di  politica  estera;  era  evidente- 
mente  una  concessione  alle  preoccupazioni  di  alcune  potenze  eu- 
ropee,  specialmente  delPInghilterra;  la  quale  voleva  bensi  che  le 

i.  lettere  importanti:  in  esse  la  madre  li  awertiva  dell'arresto  di  Pietro 
Fortunate  Calvi,  che  era  entrato  in  Valtellina  per  suscitarvi  un  moto 
progettato  dal  Mazzini.  Con  lui  furono  arrestati  Ulisse  Dalis,  Antonio  Za- 
netti  e  Gervasio  Stoppani.  Una  accurata  perquisizione  era  stata  anche  ese- 
guita  dalla  polizia  nella  casa  dei  Visconti  Venosta.  Gli  arrestati  furono 
processati  a  Mantova,  e  il  Calvi  sail  sul  patibolo  il  4  luglio  1854.  2.  Ed. 
cit.,  dal  cap.  xxm,  pp.  363-72.  3.  Comitato  di  Londra:  il  comitato  d'a- 
zione  rivoluzionaria  presieduto  da  Mazzini.  4.  II  6  febbraio  1853,  secondo 
un  piano  predisposto  dal  Mazzini,  doveva  scoppiare  in  Milano  una  rivolta 
dell'ampiezza  gia  avuta  dalle  Cinque  giornate.  Ma  la  sommossa  si  risolse 
in  un  fallimento:  pochissimi  scesero  in  piazza,  e  solo  qua  e  la  si  ebbero 
degli  scontri  con  sentinelle  o  soldati  isolati.  Pure,  gli  arresti,  i  prowe- 
dimenti  militari  e  polizieschi  che  ne  seguirono,  furono  numerosi  e  gravi: 
e  molte  anche  le  condanne  a  morte.  SulF episodic,  cfr.  p.  282;  A.  BARGONI, 
II  6  febbraio  1853,  Memorie  di  Giuseppe  Piolti-De  Bianchi,  in  « Rivista 
storica  del  Risorgimento »,  1897,  e  G.  MONDAINI,  Nuova  luce  sul  moto 
milanese  del  6  febbraio  1853,  in  «Boll.  della  Soc.  pavese  di  storia  patria», 
dicembre  1905.  5.  la  venuta  .  .  .  a  Milano:  Francesco  Giuseppe  (1830- 
1916)  era  salito  al  trono  imperiale  d' Austria  nel  1848,  dopo  Tabdicazipne 
di  Ferdinando  I  (cfr.  la  nota  sap.  292).  II  suo  Arrive  a  Milano,  per  il  viag- 
gio  di  cui  scrive  1'autore,  awenne  il  15  gennaio  del  1857. 


354  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

condizioni  dei  paesi  italiani  fossero  migliorate,  ma  non  voleva  che 
ci6  fosse  argomento  di  complicazioni  europee,  ed  era  quindi  in 
sospetto  per  1'attitudine  sempre  piu  energica  del  Piemonte  e  quella 
sempre  meno  tranquillante  di  Napoleone. 

Le  persone  influenti,  e  che  avevano  una  direzione  dell'opinione 
patriottica,  non  tardarono  a  richiamare  Tattenzione  pubblica  sul- 
rimportanza  che  avrebbe  avuto  il  viaggio  delPImperatore,  solle- 
citati  anche  da  informazioni  e  da  consigli  autorevoli  che  venivano 
da  Torino. 

La  parola  d'ordine  fu  subito  che  si  dovesse  cospirare  di  nuovo, 
e  lavorare  attivamente,  per  mandare  all'aria  i  progetti  imperiali,  in 
modo  che  in  faccia  a  tutto  il  mondo  il  viaggio  delPImperatore  man- 
casse  allo  scopo,  ed  apparisse  un  fiasco. 

Bisognava  dunque,  quando  1'Imperatore  fosse  in  Italia,  fare  il 
vuoto  intorno  a  lui,  ai  suoi  ministri  e  a  tutto  il  suo  seguito ;  bisogna- 
va  che  tutte  le  persone  piu  notevoli  delle  classi  dirigenti,  delle  classi 
piu  in  vista,  si  tenessero  in  disparte;  che  nessuno  cedesse  ne  a  lu- 
singhe,  ne  a  pressioni;  bisognava  insomma  rendere  piu  evidenti  e 
piu  clamorose  1'astensione  e  la  resistenza. 

A  tali  scopi  erano  dirette  in  quei  giorni  la  propaganda  e  I'agita- 
zione  in  tutte  le  societa,  in  tutti  i  ritrovi.  Le  signore  piu  alia  moda, 
piu  eleganti,  piu  belle,  insomma  tutte  le  oche,1  come  si  diceva,  erano 
nella  cospirazione :  il  non  essere  nella  Fronda,  era  non  essere  alia 
moda.  Quanto  bene  non  fecero  allora  quelle  signore! 

In  ogni  ritrovo  cittadino  non  si  parlava  d'altro,  e  di  salotto  in 
salotto  correva  la  «  parola  d'ordine  »  sul  contegno  da  tenersi,  e  sulle 
dimostrazioni  di  resistenza  che  la  citta  avrebbe  dovuto  fare  durante 
tutto  il  tempo  del  soggiorno  dell'Imperatore  in  Milano.  Guai  a  chi 
avesse  mancato  alia  disciplina;  e  coi  timidi  e  cogli  incerti  non  si 
lasciavano  mancare  anche  certe  minacce ;  si  minacciava  cioe  di  non 
ricevere  nelle  case,  ove  solevano  andare,  e  di  non  salutar  piu,  quelli 
che  avessero  accettati  gli  inviti  a  Corte,  o  avessero  fatto  qualsiasi 
atto  di  deferenza  alFImperatore  e  a  chi  era  con  lui.  In  casa  Maffei,3 

1.  le  oche:  in  un  altro  capitolo  (xxi,  p.  337)  dei  suoi  Ricordi  di  gioventii, 
1'autore  scrive  che  questo  nomignolo  fu  dato  dagli  ufficiali  austriaci  «alle 
signore  milanesi  della  societa  elegante,  che  nei  loro  salotti  tenevano  alta 
Vintonasione  del  patriottismo.  Le  chiamavano  le  oche,  parodiando  quelle 
del  Campidoglio,  perche  tenevano  sveglio  nella  gioventu  1'odio  alia  domi- 
nazione  austriaca  ».  Per  i  patriotti  quel  nomignolo  divenne  un  titolo  d'onore. 

2.  casa  Maffei:  il  salotto  di  Clara  MafTei  (1814-1886)  fu  tra  i  piu  illustri  e 


RICORDI   DI    GIOVENTfr  355 

in  casa  d'Adda,  in  casa  Dandolo  e  Carcano,  in  casa  del  marchese 
Luigi  Crivelli,  e  in  molte  altre  frequentate  da  giovani,  Peccitazione 
era  grandissima:  pareva  che  tutti  si  preparassero  a  una  battaglia. 

Si  pensi  quanto  fossero  frequentate  e  vivaci  le  serate  di  casa 
Maffei.  Mio  fratello  Enrico  che,  sebbene  da  poco  avesse  fatto  il 
suo  ingresso  in  societa,  gia  la  frequentava  piu  di  Emilio  e  di  me, 
e  vi  era  desiderate  per  la  schiettezza  del  suo  carattere  e  pel  suo  spi- 
rito  buono  e  fmamente  gioviale,  capitava  ogni  sera  in  casa  Maffei 
col  bollettino  delle  notizie  e  delle  prime  awisaglie.  «  Ci  va  ?  o  non 
ci  va?»  (a  Corte,  s'intende),  era  una  delle  domande  che  s'udivano 
piu  spesso,  e  su  cui  si  facevano  discussioni  accanite  e  perfino  delle 
scommesse  a  proposito  di  qualche  signora  in « pericolo  » ;  in  pericolo 
s'intende  di  cedere  alia  pressione  di  qualche  suocero  timido,  che 
volesse  mandarla  a  un  ricevimento  di  Corte.  Mio  fratello  portava 
le  notizie  intime,  le  piu  accreditate,  le  piu  sicure. 

Non  meno  eccitate  erano  le  autorita  austriache;  condnuamente 
in  faccende  a  spiarci,  a  far  pressioni  con  ordini  e  con  circolari  ora 
lusinghiere  e  dolci,  ed  ora  minacciose. 

Alcune  settimane  prima  della  venuta  delPImperatore,  la  Poli- 
zia,  per  dare  un  awiso  alia  gioventu  milanese,  ne  mando  parecchi 
dei  piu  in  vista  a  domicilio  coatto.  Tra  questi  rilego  Emilio  Dandolo 
ad  Adro,  Massimiliano  Stampa  Soncino  a  Bormio,  Lodovico  Man- 
cini1  a  Edolo,  Costanzo  Carcano  a  Mariano,  e  in  altri  luoghi  altri  di 
cui  non  rammento  i  nomi;  e  ci  dovettero  stare  finche  PImperatore 
rimase  a  Milano. 

Un  gran  da  fare  della  Luogotenenza  e  della  Polizia  era  pur  quello 
di  indurre  almeno  qualche  signora  delParistocrazia  a  presentarsi  a 

piu  attivi  del  nostro  Risorgimento.  Figlia  del  conte  G.  B.  Carrara  Spinelli, 
la  contessina  Clara  aveva  sposato  nel  1832  Andrea  Maffei,  ma  se  ne  era 
separata  nel  1846.  Specialmente  da  allora  essa  dedico  la  sua  vita  alia  causa 
italiana.  Vedi  R.  BARBIERA,  II  salotto  della  contessa  Maffei  e  la  societa  mila 
nese  (1834-1886),  Milano,  Treves,  1895,  P°i  numerose  volte  ristampato.  II 
Barbiera  da  notizia  anche  degli  altri  salotti  milanesi  che  1'autore  ricorda  su- 
bito  dopo.  i.  Massimiliano  Stampa  Soncino  (1825-1876)  gia  nel  gennaio 
del  1848  era  stato  arrestato,  come  Gaspare  Resales  (vedi  la  nota  2  a  p.  304), 
e  trasferito  a  Lubiana.  In  quanto  alia  sua  relegazione  a  Bormio,  nel  1857, 
pare  che  essa  sia  awenuta  dopo  Parrivo  dell'imperatore,  per  un  episodic 
verificatosi  alia  Scala:  era  rimasto  seduto  all' ingresso  di  Francesco  Giusep 
pe.  Vedi  E.  MICHEL,  in  M.  Rosi,  Dizionario  del  Risorgimento  nasionale, 
Milano,  F.  Vallardi,  1930,  iv,  p.  316;  Lodovico  Mancini:  gia -comb attente 
nelle  Cinque  giornate,  ufEciale  poi  nel  battaglione  Manara,  ferito  alia  di- 
fesa  di  Roma  il  3  giugno  1849. 


356  GIOVANNI   VISCONTI   VENOSTA 

Corte.  Citero,  tra  i  molti,  un  episodic  che  ancora  ricordo,  e  che  pu6 
dare  un  esempio  dei  piccoli  maneggi  che  si  usavano  per  trovare 
una  qualche  recluta  per  la  Corte. 

II  marchese  Carlo  Ermes  Visconti,1  marito  da  poco  d'una  bella 
e  colta  sposa,  la  contessa  Teresa  Sanseverino  Vimercati,  si  trovava 
un  giorno  in  casa  d'uno  zio  di  sua  moglie,  il  principe  Porcia. 
Questo  signore  aveva  dei  beni  feudali  in  Austria,  e  vi  divent6  poi 
membro  della  Camera  dei  Signori;  viveva  a  Milano,  ove  in  eta 
avanzata  sposo  la  contessa  Vimercati,  vedova  Bolognini,  sorella  del 
conte  Ottaviano  e  madre  della  futura  duchessa  Eugenia  Litta.  II 
giovane  marchese  Visconti  durante  la  sua  visita,  si  trov6  di  fronte 
al  barone  Burger,  ch'era  il  luogotenente  austriaco  della  Lombardia, 
venutoci  casualmente  dopo.  II  Burger  condusse  a  poco  a  poco  il 
discorso  sulla  prossima  venuta  delPImperatore  a  Milano,  e  disse 
al  Visconti  a  bruciapelo:  —  Spero  bene  che  lei  condurra  a  Corte 
sua  moglie,  che  sara  una  delle  gemme  dei  ricevimenti  imperiali.  — 
II  Visconti,  senza  esitare,  rispose  francamente: —  Barone,  non  ci 
calcoli.  —  II  Barone  insistette,  prima  con  modi  cortesi  e  insinuanti, 
poi  con  1'aria  altera  e  brusca.  Alia  fine  il  Visconti  gli  rispose:  —  Se 
andassi  a  Corte,  farei  un  atto  contrario  alle  mie  convinzioni,  e  con- 
tro  il  mio  paese;  dopo  un  atto  simile  non  mi  resterebbe  che  di 
espatriare.  —  II  Burger  non  disse  altro,  e  cosi  cesso  la  conver 
sazione. 

Tra  i  prowedimenti  della  Polizia,  di  cui  molto  si  parl6  in  Mi 
lano,  ci  fu  la  chiamata  di  Carlo  Tenca  per  una  speciale  ammoni- 
zione.  II  direttore  di  Polizia  gli  disse  che  la  luogotenenza  sperava  di 
vedere  nel  « Crepuscolo »  annunziata  degnamente  la  venuta  del- 
ITmperatore.  II  Tenca  rispose  che  il  suo  giornale  per  massima  non 
si  occupava  dei  fatti  interni  dell' Austria,  e  quindi  non  trovava  ra- 
gione  per  occuparsi  del  viaggio  dellTmperatore.  II  direttore,  un  po' 
colle  buone,  un  po'  colle  brusche,  cerco  dimostrargli  come  questo 
viaggio  fosse  un  awenimento  di  cui  s'occupava  1'opinione  pubblica 
di  tutta  Europa,  e  come  il  tacerne  avrebbe  avuto  un  carattere  di  op- 
posizione  che  il  Governo  non  poteva  tollerare.  II  Tenca,  ch'era 


i.  Carlo  Ermes  Visconti  (1834-1911)  si  occupo  successivamente,  ai  primi 
accenni  della  guerra  del  '59,  di  awiare  molti  giovani  al  di  la  del  confine, 
perche  si  arruolassero  nell'esercito  piemontese.  Si  calcola  che  diecimila 
lombardi  fossero  gia  passati  in  Piemonte  prima  dello  scoppio  della  guerra 
del  '59. 


RICORDI    DI    GIOVENTtl  357 

uomo  dall'aspetto  freddo  e  di  poche  parole,  non  aggiunse  altro, 
e  se  ne  ando. 

Una  simile  intimazione  gli  fu  ripetuta  alia  vigilia  della  venuta 
dell'Imperatore,  con  la  minaccia,  questa  volta,  della  soppressione 
del  giornale,  visto  die  il  «  Crepuscolo »  era  assai  noto  all'estero,  e 
ch'era  salito  in  fama  tra  le  persone  colte;  circostanza  che  avrebbe 
reso  piu  grave  il  suo  silenzio.  Tenca  ripete  la  sua  prima  risposta, 
rimase  fermo,  non  si  piego. 

II  giorno  15  gennaio  1'Imperatore  Francesco  Giuseppe  fece  il 
suo  ingresso  solenne  in  Milano.  Prima  si  fermo  sul  piazzale  di  Lo- 
reto  ove  era  atteso,  sotto  un  padiglione,  dal  Podesta,  conte  Sebre- 
gondi,  e  dalle  altre  autorita.  Poi,  proseguendo  entro  in  citta  dalla 
Porta  Orientale,  detta  comunemente  Porta  Renza,  ed  ora  Porta 
Venezia,  e  per  il  Corso  Francesco,1  ora  Vittorio  Emanuele,  si  rec6 
al  palazzo  di  Corte. 

L'intesa  tra  i  cittadini  era  che  lungo  le  vie,  che  dovevano  essere 
percorse  dal  corteo  imperiale,  non  solo  non  ci  fossero  addobbi,  ma 
rimanessero  chiuse  anche  le  persiane. 

Poco  prima  che  incominciasse  Fentrata  m'ero  recato  dalla  piazza 
del  Duomo  alia  Porta  Orientale  per  vedere  se  Fintesa  era  mante- 
nuta.  Vidi  che  in  gran  parte  lo  era,  ma  vidi  anche  dei  commissari 
di  Polizia  che  entravano  mano  mano  nelle  case  a  far  aprire  le  fi- 
nestre,  e  a  farle  addobbare  con  tappeti  o  con  drappi.  Per  le  strade 
non  c'era  molta  gente;  un  po'  di  popolani,  ma  le  persone  piu  civili 
evitavano  il  Corso.  Mi  recai  subito  dalla  contessa  Dandolo,  che  abi- 
tava  in  casa  del  marchese  Luigi  Crivelli,  appunto  sul  Corso  di 
Porta  Orientale  al  secondo  piano  verso  strada,  sicuro  di  trovarci 
degli  amici,  e  anche  per  vedere  di  nascosto  Fentrata  dell'Imperatore 
spiando  traverso  le  persiane,  ch'eran  chiuse.  Trovai  infatti  dalla 
contessa  parecchi  amici,  tutti  lieti  per  le  buone  notizie  che  ci  scam- 
biammo  sulFastensione  della  miglior  parte  dei  cittadini. 

A  un  tratto  il  servitore  della  contessa  entra  in  sala  ad  annunziare 
un  commissario  di  Polizia.  Costui  veniva  a  intimare  che  si  apris- 
sero  subito  le  persiane,  e  che  si  addobbassero  le  finestre  con  stoffe, 
tappeti,  od  altro.  La  contessa  Ermellina  lascio  partire  il  commissa- 

i.  «  II  Corso  Francesco,  denominazione  ufficiale,  era  comunemente  chiamato 
Corsia  de*  Servi,  poiche  sulk  attuale  piazza  di  San  Carlo  esisteva  una  chiesa 
detta  di  Santa  Maria  dei  Servi,  essendo  congiunta  a  un  Convento  di  ServitL 
La  chiesa  di  San  Carlo  fu  inaugurata  nel  1847 »  (nota  del  Visconti  Venosta). 


358  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

rio,  poi  prese  una  pelle  di  tigre,  che  stava  dinanzi  a  un  divano,  e  la 
mise  alia  finestra  per  addobbo,  come  drappo.  Chi  passava  guardava 
in  su,  rideva,  e  principiava  a  far  crocchio.  Ma  ecco  di  nuovo  il  com- 
missario  con  tanto  d'occhi  fuori,  scalmanato,  investendoci  tutti  e 
ordinando  che  fosse  subito  levata  quella  pelle,  mentre  la  contessa 
dichiarava  di  non  aver  altri  addobbi.  Tolta  la  pelle,  il  commissario 
ridiscese  in  strada,  e  intanto  arrivava  il  corteo  che  precedeva  e  se- 
guiva  la  carrozza  delPImperatore.  Non  un  applauso,  non  un  ewiva, 
neppure  tra  quella  plebe  che  applaude  a  tutti.  Solamente,  e  proprio 
presso  casa  Dandolo,  alcuni  ragazzacci  vociarono  qualcosa  che  pote- 
va  esser  preso  per  degli  « ewiva »;  allora  Giulio  Venino,1  ch'era 
con  noi,  mando  un  sonorissimo  fischio  che  fece  rivolgere  il  viso  in 
su  a  tutti  i  componenti  il  corteo.  II  corteo  intanto  procedeva  attra- 
versando  una  folia  fredda  e  silenziosa. 

Nella  giornata  corse  la  voce  che  all'Imperatore,  appena  arrivato 
al  padiglione  di  Loreto,  fosse  giunta  la  notizia  che  il  Municipio 
di  Torino  aveva,  quella  mattina  stessa,  accolta  Pofferta  del  monu- 
mento  alTesercito  sardo,2  presentata  da  una  deputazione  milanese. 
Cio  forse  spiegava  il  malumore  delPImperatore,  e  Paccoglienza 
asciutta  fatta  al  Podesta,  che  i  presenti  avevano  osservato.3 

Alcuni  giorni  prima,  mio  fratello  Ernilio  aveva  ricevuto,  secre- 
tamente,  un  pacco  di  fotografie  di  quel  monumento,  ch'era  ancora 
nello  studio  del  Vela.4  Ci  mettemmo  in  parecchi  a  distribute  quelle 
fotografie,  in  modo  che  fossero  recapitate  principalmente  alle  per- 
sone  del  seguito  dell'Imperatore,  e  che  i  ministri  le  trovassero,  arri- 
vando,  nei  loro  alloggi,  e  sulle  loro  scrivanie.  Si  seppe  poi  che 
quella  distribuzione  aveva  avuto  un  esito  felicissimo. 

Pochi  giorni  dopo  ci  fu  il  ricevimento  e  la  presentazione  a  Corte 
delle  autorita  e  degli  invitati.  Era  una  giornata  interessante,  poiche 

i.  II  conte  milanese  Giulio  Venino ,  che  entro  poi  nell'esercito  piemontese 
come  ufficiale  di  artiglieria.  2.  monumento  .  .  .  sardo:  il  monumento,  opera 
di  Vincenzo  Vela  (vedi  sotto  la  nota  4),  che  celebrava  1'esercito  sardo  per 
Timpresa  di  Crimea,  era  ancora  in  modello  nello  studio  dello  scultore,  ma 
le  fotografie  che  se  ne  difrusero  ebbero  ugualmente  un  grande  effetto. 
3.  «La  prima  idea  del  monumento  all'  Esercito  Sardo  era  stata  comunicata 
dal  Correnti,  forse  d'intesa  con  Cavour,  che  in  quei  giorni  cercava  d'ina- 
sprire  i  rapporti  coir  Austria,  mentre  questa,  seguendo  i  consigli  delTIn- 
ghilterra,  era  disposta  a  riprendere  i  rapporti  col  Piemonte »  (nota  del  Vi- 
sconti  Venosta).  4.  Vincenzo  Vela  (1822-1891),  nato  nel  Canton  Ticino, 
scultore  molto  noto  (Napoleone  I  morente,  VEcce  homo  ecc.),  aveva  com- 
battuto  tra  i  volontari  lombardi  nel  1848. 


RICORDI  DI   GIOVENTtl  359 

si  sarebbero  conosciuti  e  contati  quelli  che  ci  andavano.  II  ricevi- 
mento  a  Corte  awenne  di  giorno,  Molti  giovani  della  migliore  so- 
cieta,  molte  signore,  quasi  tutti  invitati,  si  diedero  ritrovo  in  piazza 
del  Duomo,  e  dinanzi  al  palazzo  di  Corte,  facendo  ala  per  vedere  chi 
ci  entrava,  e  per  assistere  allo  sfilare  delle  carrozze.  Passavano  tra 
Pindifferenza  quelle  delle  autorita  austriache  ed  italiane,  e  della 
societa  ufficiale;  ma  la  curiosita  e  i  sorrisi  ironici  degli  spettatori 
eran  rivolti  verso  le  carrozze,  che  in  verita  furon  poche,  degli  in 
vitati.  Alcuni  cercavano  nascondersi  nel  fondo  della  carrozza,  o  ca- 
lavano  le  tendine,  per  non  essere  veduti. 

La  sera  in  tutte  le  riunioni,  in  tutti  i  salotti,  non  si  par!6  che  del 
ricevimento  delPImperatore  e  della  famosa  sfilata,  ed  era  un  con- 
tinuo  scambiarsi  di  notizie.  Le  notizie  erano  buone;  le  diserzioni 
erano  state  pochissime  e  parecchie  di  queste  venivano  scusate  con 
qualche  circostanza  attenuante. 

Cose  piccole  possono  sembrar  queste  a  chi  le  guarda  a  tanta  di- 
stanza  di  tempo ;  ma  pure  furono  cose  grandi,  se  si  pensa  alia  meta 
che  si  voleva  raggiungere,  e  che  fu  raggiunta. 

Quel  primo  ricevimento  era  fallito ;  era  riuscita  una  cosa  misera. 
Le  autorita  austriache  non  se  lo  dissimulavano,  e  ne  erano  furenti: 
in  citta  si  gongolava  di  contentezza,  perche  quella  prima  battaglia 
era  stata  vinta. 

Per  molte  famiglie  delParistocrazia,  Pastensione  fu  un  atto  co- 
raggioso,  e  veramente  meritorio.  In  alcune  di  esse  c' erano  tradi- 
zioni  di  antiche  relazioni  personali,  in  altre  legami  di  parentela  con 
famiglie,  e  con  personaggi  militari  o  politici  austriaci;  in  altre  gio 
vani  e  vecchi  rappresentavano  due  correnti  diverse,  e  ora  si  erano 
fuse  in  una  sola.  Nel  secolo  antecedente,  PImperatrice  d' Austria 
Maria  Teresa,  che  si  occupava  anche  delle  faccende  private  delle 
famiglie  dei  suoi  sudditi,  aveva  combinati,  e  talora  imposti,  dei  vin- 
coli  matrimoniali  tra  famiglie  austriache  e  lombarde  delParistocra- 
zia:  da  cio  eran  venute  delle  relazioni  di  parentela  e  d'amicizia. 
Nel  1848  queste  relazioni  furono  rotte;  certe  fiere  ripulse,  anche 
negli  anni  successivi,  meritano  quindi  d' essere  menzionate  nella 
storia  del  patriottismo  lombardo. 


360  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 


[MASSIMILIANO  E  LA  RESISTENZA  MILANESE]1 

L'anno  1858,  al  pari  delPanno  antecedente,  principiava  a  Milano 
con  una  viva  preoccupazione  nelle  classi  che  chiamero  «  dirigenti » ; 
nella  parte  voglio  dire  piii  eletta  e  patriottica  delle  classi  aristocra- 
tiche  e  borghesi  che  allora  veramente  dirigevano  Popinione  pubblica 
cittadina.  L'anno  prima  trattavasi  della  venuta  delPImperatore, 
ora  trattavasi  dell'arciduca  Massimiliano2  giunto  da  poco  e  gia  in- 
sediato  tra  noi. 

L'arciduca  era  un  bel  giovane  alto,  biondo,  e  che  vestiva  di  so- 
lito  Puniforme  di  ufficiale  di  marina.  Lo  aveva  preceduto  la  fama 
di  uomo  intelligente,  attivo,  pieno  di  buona  volonta,  di  maniere 
affabili,  e  di  intenzioni  larghe  e  liberali  a  favore  dei  paesi  di  cui 
doveva  prendere  il  governo.  Voci  ufficiose  cercavano  di  accreditare 
1'opinione  ch'egli  avesse  dei  poteri  piu  larghi  di  quanto  apparisse. 
A  queste  voci,  o,  diro  meglio,  a  queste  speranze,  aveva  partecipato 
Parciduca  stesso.  In  cuor  suo  egli  andava  esagerando  la  sua  mis- 
sione,  e  credeva  di  cavarne  quei  risultati  che  gli  prometteva  la  sua 
fantasia.  Non  privo  di  coltura,  ma  utopista,  di  mente  fantastica  e 
un  poj  leggiera  (come  Pha  provato  la  tragica  awentura  del  Messico), 
egli  non  si  era  accorto  che  a  Vienna  le  cose  erano  intese  ben  diver- 
samente :  la  sua  missione  era  una  lustra.  Egli  aveva  creduto  di  di- 
ventare  il  Principe  d'uno  Stato  quasi  autonomo,  mentre  da  Vienna 
era  stato  mandato  a  riprendere  la  tradizione  delPantico  Vicere,  os- 
sia  di  quel  fantoccio  che  c'era  prima  del  quarant'otto :  perche  PAu- 
stria  mutasse  ci  volevano  prima  Solferino,  poi  Sadowa.3 

La  morte  di  Radetzki,  awenuta  il  5  gennaio  1858,  aveva  contri- 
buito  a  rinforzare  le  illusioni  delParciduca.  II  vecchio  maresciallo 
dal  1848  aveva  avuto  il  governo  civile  e  militare  delle  provincie 
Lombarde  e  Venete,4  da  lui  riconquistate  alP  Austria,  rappresen- 
tandovi  colla  durezza  delle  armi  e  del  governo  la  politica  della  rea- 

i.  Ed.  cit.,  cap.  xxiv,  pp.  385-96.  2.  Federico  Carlo  Massimiliano  (1832- 
1867),  fratello  di  Francesco  Giuseppe,  governatore  della  Lombardia  fino 
al  1859,  fu  poi  imperatore  del  Messico  (1864),  e  fini  fucilato  a  Queretaro. 

3.  II  24  giugno  1859  i  franco-piemontesi  vinsero  a  Solferino  gli  Austriaci; 
il  3  luglio  1866  gli  Austriaci  furono  sconfitti  dai  Prussiani  a  Sadowa. 

4.  77  vecchio  .  .  .  Venete:  dopo  Novara,  il  Radetzky  fu  nominato  governa 
tore  generale  del  Lombardo-Veneto,  e  rimase  in  tale  carica  fino  al  28  feb- 
braio  1857,  allorch6  fu  collocate  a  riposo. 


RICORDI    DI    GIOVENTtl  361 

zione  e  delFassolutismo;  ossia  il  governo  di  Metternich  peggiorato. 

Radetzki  era  uomo  di  mente  mediocre  e  di  poca  coltura;  cieca- 
mente  devoto  al  suo  Imperatore,  buon  militare,  bonario  tra  i  suoi 
soldati,  dai  quali  era  amatissimo,  duro,  severe  cogli  awersari  e 
nelPesercizio  del  governo.  «Tre  giorni  di  sangue  assicurano  tren- 
t'anni  di  pace)),  aveva  detto  alia  vigilia  delle  Cinque  Giornate,  e 
nella  sua  mente  angusta  e  tenace  n'era  convinto.  Investito  di  poteri 
illimitati,  governo  il  paese  per  quasi  dieci  anni  senza  pensare  al 
domani;  lo  governo  come  un  paese  occupato  in  tempo  di  guerra, 
dimenticando  che  questo  paese  era  una  delle  parti  piu  important! 
della  monarchia  ch'egli  difendeva;  e  dimenticando  che  con  un  go 
verno  imprevidente,  colPodio  che  lo  circondava,  e  ch'egli  accre- 
sceva,  poteva  preparare,  per  Pawenire,  alia  monarchia  austriaca 
le  piu  gravi  e  minacciose  questioni  politiche.  E  cosi  awenne.  Le  sue 
lettere  alPamata  figlia  Federica,  pubblicate  dopo  la  morte  di  lui, 
sono  piene  di  affetto  paterno  e  di  tenerezza;  ma  di  ferro,  di  fuoco 
e  di  forche  pei  sudditi  italiani  malcontent!. 

La  sua  morte  capitava  in  buon  punto :  pareva  segnasse  la  fine 
d'un  fosco  passato,  e  che  col  suo  successore,  il  giovane  arciduca, 
ora,  sorgesse  un'alba  promettente. 

Massimiliano  si  mise  subito  all'opera,  e  per  alcuni  mesi  da  Vienna 
lo  lasciarono  fare,  e  si  lascio  che  si  impigliasse  nell'equivoco.  Egli 
si  trovo  da  principio  come  in  un  deserto,  e  cerco  d'attirarvi  gente 
che  piantassero  delle  tende  intorno  a  lui.  Penso  di  conoscere  un  po' 
di  quei  sudditi  che  doveva  governare;  cerco  di  attirarli  a  se,  e  di 
crearsi  delle  simpatie  e  de'  partigiani,  nulla  risparmiando  fin  da 
principio  per  raggiunger  tale  scopo.  Ma  era  tardi. 

Un  primo  addentellato,  per  incominciare,  gli  era  offerto  da  una 
Convenzione  stipulata  a  Vienna  per  una  grande  Societa  Ferroviaria, 
che  aveva  tra  gli  altri  scopi  Fesercizio  delle  ferrovie,  fatte  e  da 
farsi,  nel  Lombardo  Veneto.1  Fra  i  firmatari  della  Convenzione 


i .«  Convenzione  14  marzo  1856,  stipulata  in  Vienna,  approvata  colla 
Sovrana  Risoluzione  17  aprile  successive,  tra  gli  II.  RR.  Ministri  Austriaci 
di  Finanza  e  del  Commercio,  e  i  signori:  Principe  Adolfo  di  Schwarzen- 
berg,  Presidente  e  rappresentante  dell' I.  R.  Istituto  privilegiato  di  Cre- 
dito  per  il  commercio  e  per  1'industria  a  Vienna;  Conte  Francesco  Zichy 
juniore;  Barone  A.  S.  de  Rothschild,  Vice-presidenti  e  rappresentanti  del- 
1'Istituto  suddetto;  La  casa  bancaria  S.  M.  Rothschild,  in  Vienna;  Mar- 
chese  Raffaele  de  Ferrari,  duca  di  Galliera,  in  Bologna;  Duca  Lodovico 
Melzi,  in  Milano;  S.  E.  Conte  Giuseppe  Archinto,  in  Milano,  rappresentato 


362  GIOVANNI   VISCONTI   VENOSTA 

c'era  stato  il  duca  Lodovico  Melzi,1  e  Parciduca  lo  fece  chiamare 
offrendogli  un'alta  influenza  nella  amministrazione.  II  Melzi  ac- 
cetto,  a  condizione  che  fossero  nominate  nei  vari  uffici  le  persone 
ch'egli  avrebbe  indicate:  ma  piu  tardi  il  direttore  di  Polizia  osservo 
che  i  proposti  dal  duca  erano  tutte  persone  compromesse  o  sospette. 
Infatti  molti  dei  giovani  ammessi  allora  negli  uffici  delle  ferrovie 
militavano  nel  campo  patriottico,  alcuni  erano  reduci  da  poco  dal- 
1'esilio  e  dalle  prigioni;  anzi,  poco  dopo,  v'ebbe  un  impiego  anche 
il  Lazzati.  Massimiliano  tuttavia  li  nomino  tutti  dicendo:  «Ora 
spero  che  questi  almeno  verranno  da  me  ».  Ma  anch'essi  trovarono 
dei  pretesti  per  non  andarci,  e  non  ci  ando  nessuno.  L'arciduca 
dovette  accorgersi,  fin  da  principio,  che  non  otteneva  neanche  la 
riconoscenza  comandata. 

Fra  i  suoi  progetti  c'era  stato  anche  quello  di  fondare  un  gran 
giornale,  che  doveva  chiamarsi  la  «  Gazzetta  Italiana)):  si  concedeva 
a  quella  gazzetta  il  nome  di « italiana  »  purche  fosse  sottinteso  quello 
di «  austriaca  ».  Alcuni  dicevano  che  la  direzione  del  nuovo  giornale 
dovesse  venir  affidata  a  Cesare  Cantu,2  che  Tarciduca  aveva  voluto 
conoscere;  ma  altri  asserivano  che  il  Cantu  fosse  destinato  a  in- 
carichi  ben  piu  alti.  II  Cantu  smentiva  queste  dicerie,  soprattutto 
la  prima.  II  fatto  provo  ch' erano  dicerie  tutte. 

II  giornale  doveva  essere  il  portavoce  dell'arciduca  Massimiliano 
e  della  sua  politica,  ma  il  solo  annunzio  datone  desto  nel  pubblico 
una  forte  opposizione,  e  gia  si  preparavano  delle  dimostrazioni.  La 
«  Gazzetta  Italiana  »  doveva  in  realta  essere  diretta  da  un  giornalista 
di  professione,  il  Menini,  circondato  da  altri  redattori,  tra  i  quali 

dai  sigg.  Sebastiano  Mondolfo  e  C.  F.  Brot;  Pietro  Bastogi,  in  Livorno; 
Fratelli  de  Rothschild,  in  Parigi;  E.  Blonnt  e  C.,  in  Parigi;  Paolino  Ta- 
labot,  in  Parigi;  N.  M.  de  Rothschild  e  figli,  in  Londra;  Samuele  Laing, 
in  Londra;  M.  Uzielli,  in  Londra;  mediant  e  la  quale  viene  concesso  ai  sud- 
detti  signori:  i.  1'esercizio  ed  il  godimento  di  tutte  le  II.  RR.  strade  fer 
rate  situate  nel  Regno  Lombardo-Veneto,  con  eccezione  del  tronco  che  da 
Verona  s'inoltra  verso  il  Tirolo  meridionale,  con  tutti  i  diritti  ed  obblighi 
alle  medesime  inerenti;  2.  la  costruzione  e  Fattuazione  di  nuovi  tronchi» 
(nota  del  Visconti  Venosta).  i.  Lodovico  Melzi  d'Eril  (1820-1886)  si  av- 
vicind  a  Massimiliano  sperando  che  si  preparassero,  in  tal  modo,  migliori 
condizioni  alia  Lombardia.  Ma  dopo  una  missione  a  Parigi,  resosi  conto 
degli  indirizzi  politici  di  Napoleone  III  e  del  Cavour,  si  dimise  dalle  cari- 
che  afEdategli  da  Massimiliano,  e  and6  a  stabilirsi  a  Geneva.  Conclusa  la 
guerra  del  '59,  torn6  alia  sua  Milano.  2.  Cesare  Cantu  (1804-1895),  il 
letterato  e  storico  assai  noto,  non  sembra,  ad  alcuni  studiosi,  che  veramente 
favorisse  Popera  di  Massimiliano. 


RICORDI   DI    GIOVENTtl  363 

Emilio  Treves,1  un  giovane  triestino  assai  promettente,  che  doveva 
farvi  la  parte  letteraria.  Ne  fu  preparato  il  primo  numero,  quale 
saggio,  e  si  mando  a  Vienna:  ma  ne  venne  subito  la  proibizione. 
Cosi  il  gran  giornale  mori  prima  di  nascere,  e  Parciduca  veniva 
gia  sconfessato;  come  implicitamente  si  faceva  per  ogni  atto  di 
qualche  importanza  della  sua  politica,  tutta  fondata,  come  dicem- 
mo,  su  degli  equivoci. 

Ma  Farciduca  intanto  procedeva  impavido,  e  tra  le  prime  per- 
sone  a  cui  si  rivolse  ve  ne  furono  alcune,  tra  le  piu  notevoli,  di 
parte  clericale.  Vi  trovo  alcuni  seguaci,  e  gli  argomenti  coi  quali 
cercavano  di  giustificarsi  potevano  essere  speciosi:  dicevano  che 
bisognava  una  buona  volta  chiudere  il  passato ;  ch'era  tempo  di  sol- 
levare  il  paese  da  quello  stato  di  inerzia  e  di  prostrazione  in  cui  gia- 
ceva  da  tanti  anni,  per  metterlo  sulla  via  del  progresso  economico ; 
che  ormai  si  dovevano  mutare  gli  scopi  e  le  speranze  per  1'awenire; 
essere  ormai  un'utopia  1'ostinarsi  a  sperare  nel  Piemonte,  impo- 
tente  qual'era:  dicevano,  che  le  potenze  a  ogni  modo  non  volevano 
la  guerra;  che  bisognava  quindi  preparare  una  soluzione  nuova, 
giovandosi  delParciduca  Massimiliano,  venuto  appositamente  per 
assecondarla  ed  effettuarla;  che  bisognava  infine  cercare  1'autono- 
mia  e  la  liberta  per  altre  vie. 

Tale  miraggio  messo  innanzi  a  un  paese  che  da  tanti  anni,  o  lan- 
guiva  nell'attitudine  rigida  d'una  astensione  passiva,  o  combatteva 
senza  speranze  vicine  contro  il  suo  governo,  era  un  pericolo  grave. 
Da  quasi  dieci  anni  il  paese  aspettava  invano  la  riscossa,  e  ormai 
principiava  a  dar  qualche  segno  di  stanchezza.  II  contegno  e  il 
linguaggio  di  Massimiliano  divennero  in  breve  seducenti  per  molti, 
che  gia  principiavano  a  discutere  apertamente  se  si  dovesse  appog- 
giarlo  e  seguirlo.  Dico  subito  pero  che  tra  questi  non  ce  n'era  nep- 
pure  uno  che  avesse  appartenuto  al  patriottismo  militante;  erano 
persone  che  in  passato  avevano  seguita  Fonda  dei  piu,  ma  che  non 
avevano  partecipato  all'azione  attiva,  e  che  pur  nutrendo  senti- 
menti  di  italianita  non  s'erano  compromesse  di  fronte  al  governo 
austriaco.  Gente  mediocre,  alTinfuori  di  pochi,  che  poi  non  fece 
piu  parlare  di  se,  e  che  scomparve  sommersa  dall'alta  marea  degli 
anni  che  seguirono. 

i.  Emilio  Treves  (1834-1916),  venuto  a  Milano  dalla  nativa  Trieste,  yi 
fond6  poi,  nel  1861,  la  nota  casa  editrice  che  prese  il  suo  nome  e  fu  tra  le 
maggiori  che  abbia  avuto  V  Italia. 


364  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

Si  lasciava  credere  come  dissi,  che  tra  i  fautori  di  Massimiliano 
ci  fosse  anche  Cesare  Cantu.  II  Cantu,  lavoratore  indefesso,  non 
viveva  che  nella  cerchia  ristretta  dei  suoi  intimi,  e  di  alcuni  ammira- 
tori.  Da  giovane  era  stato  egli  pure  imprigionato1  dagli  austriaci, 
ma  poi  non  era  piu  entrato  nel  secreto  consorzio  dei  patriotti,  non 
s'era  unito  a  nessuno  di  loro,  e  viveva  solitario  tra  i  suoi  libri  e  i 
suoi  lavori. 

II  Cantu  era  egli  pure  un  awersario  del  Governo  austriaco,  ma 
sdegnoso  delle  opinioni  altrui,  non  segui  nel  '58  il  movimento  d'op- 
posizione  a  Massimiliano,  e  il  pubblico  a  cui  doleva  di  non  avere 
con  se,  in  quei  giorni  di  lotta,  un  cittadino  illustre,  gli  si  mostrava 
severo  e  credette  anche  cio  che  non  era.2 

La  societa  milanese  di  solito  si  occupava  ben  poco  dei  personaggi 
governativi  e  politici  austriaci ;  anzi  c'era  quasi  Paffettazione  di  non 
parlarne  mai:  ma  di  Massimiliano,  dopo  solo  due  mesi  ch'era  a 
Milano,  si  parlava  gia  molto.  Era  questo  un  risultato  a  cui  nessun 
Principe,  nessun  Governatore  austriaco,  prima  di  lui,  era  arrivato 
mai.  Egli  amava  far  parlare  di  se,  e  occupare  di  se  Topinione  pub- 
blica:  non  essendo  quindi  possibile  lasciar  cadere  lui  e  la  sua 
missione  nel  silenzio,  bisognava  combatterlo  tanto  piu  vivamente, 
bisognava  rendergli  impossible  Fesecuzione  di  qualsiasi  suo  di- 
segno,  di  qualsiasi  sua  buona  intenzione. 

Massimiliano,  per  la  causa  dell'indipendenza,  era  un  pericolo.  I 
suoi  sforzi,  Popera  sua  assai  probabilmente  non  avrebbero  condotto 
a  nulla,  sarebbero  riusciti  alia  fine  a  un  disinganno  per  lui  e  pei 
suoi  aderenti;  ma  nel  frattempo  potevano  illudere,  potevano  attra- 
versare  la  politica  nazionale  del  Piemonte.  Le  lusinghe  di  Massimi 
liano  potevano  indurre  molti  a  sperare  in  lui  e  ad  abbandonare 
quella  resistenza  che  durava  da  dieci  anni  e  che,  rendendo  vani 

i.  imprigionato:  il  Cantu  era  stato  arrestato  a  Milano  il  15  ottobre  1833  e 
sottoposto  a  processo  dall'inquisitore  Paride  Zaiotti.  Avevano  destato 
sospetto  i  suoi  scritti  suir«  Indicatore »,  che  raccoglieva  intorno  a  s6  molti 
giovani  romantici.  Non  trovandosi  prove  contro  di  lui,  e  poiche  egli  ne- 
gava  costantemente  ogni  addebito,  fu  liberato  Pn  ottobre  1834.  2.  «I1 
Cantu  piii  tardi,  nella  sua  Cronistoria  delV  Indipendenza  Italiana,  disco- 
nobbe  gli  uomini  piu  alti  e  piu  cari  del  risorgimento  nazionale,  e  ci6  gli  fu 
poi  d'ostacolo  a  entrare  in  Senato,  onore  a  cui  Pavrebbero  chiamato  i  suoi 
titoli  di  scrittore  e  di  storico.  Crispi,  essendo  ministro  delPinterno,  pro 
pose  al  Re  Umberto  la  nomina  di  Cesare  Cantii  a  Senatore.  Domenico  Fa- 
rini,  presidente  del  Senato  e  figlio  delPex  Dittatore  dell'Emilia,  saputo  cio, 
si  reco  dal  Re  e  vivamente  lo  sconsiglio  di  nominare  senatore  Pautore  della 
Cronistoria.  II  Re  non  firm6  il  decreto»  (nota  del  Visconti  Venosta). 


RICORDI    DI    GIOVENTtl  365 

tutti  i  tentativi  delP  Austria,  aveva  data  tanta  forza  alia  politica  na- 
zionale  del  Piemonte. 

Bisognava  dunque  combattere  Massimiliano  piu  che  i  marescialli 
che  ci  avevano  governati  cogli  stati  d'assedio,  colle  prigioni  e  colle 
forche.  «  Combattere  Massimiliano  in  ogni  modo,  e  ad  ogni  costo  », 
fu  la  parola  d'ordine  che  allora  corse  imperiosa  tra  i  patriotti  mi- 
lanesi. 

Quindici  anni  dopo,  quando  Vittorio  Emanuele  ando  a  Vienna 
a  far  visita  all'imperatore  Francesco  Giuseppe,  un  ministro  au- 
striaco,  discorrendo  di  Milano  con  mio  fratello  Emilio,  che  accom- 
pagnava  il  Re,1  ricordo  gli  anni  corsi  tra  il  '49  e  il  '59,  e  rammento 
le  nostre  resistenze  e  le  nostre  lotte.  Pareva  al  ministro  austriaco 
che  le  classi  dirigenti  italiane  avessero  avuto  sotto  mano  una  co- 
spirazione  formidabile  per  mantenere  il  paese,  con  tanta  disciplina, 
in  quello  stato  di  lotta  continua.  Mio  fratello  gli  rispose:  —  Non 
c'era  nessuna  cospirazione  pennanente;  ci  fu  qualche  speciale  co- 
spirazione,  ma  breve  e  di  pochi;  ma  c'era  la  grande  cospirazione  di 
tutti,  naturale,  spontanea:  la  fermezza  e  la  disciplina  erano  mante- 
nute  nelle  nostre  file  dai  metodi  di  governo  di  quel  tempo ;  erano 
mantenute  dai  vostri  governanti,  dai  vostri  generali,  dalle  vostre 
Polizie.  Una  volta  sola  la  nostra  cospirazione  divento  difficile,  e  ci 
mise  in  pensiero  .  .  .  fu  quando  ci  mandaste  Parciduca  Massimi 
liano. 

Uno  dei  ritrovi,  ove  piu  gagliardamente  ed  efficacemente  si  pre- 
parava  e  dirigeva  la  lotta  contro  Parciduca,  era  il  salotto  della  con- 
tessa  Maffei:  nella  storia  di  quel  salotto  Pinverno  del  1858  segna 
forse  la  data  piu  memorabile.  L'antica  tinta  repubblicana  di  alcuni 
anni  prima  era  scomparsa:  il  patriottismo  andava  sempre  piu  di- 
sciplinandosi  intorno  a  una  nuova  fede,  la  fede  in  Vittorio  Ema 
nuele  e  in  Cavour.  «  Casa  Maffei »  voleva  dire  in  Milano  una  societa 
politica  e  battagliera;  alcuni  la  credevano  un  ritrovo  arcigno  di 
letterati  e  di  pedanti;  ma  era  tutt'altro. 

Nel  piccolo  appartamento  di  via  Bigli,  dove  la  contessa  Maffei 
riceveva  ogni  sera,  si  incontravano  persone  serie,  vecchi  patriotti, 
uomini  di  studio  e  di  bella  fama,  ma  vi  intervenivano  anche  signore 
del  mondo  elegante,  artisti,  giovani  che  vedremo  poi  nel  1859  var- 

i.  Quindici .  .  .  Re:  il  viaggio  di  Vittorio  Emanuele  II  a  Vienna  ebbe  luogo 
nel  settembre  del  1873.  Emilio  Visconti  Venosta  accompagnava  il  re  come 
ministro  degli  esteri. 


366  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

care  il  Ticino  e  arruolarsi  tra  i  volontari.  Nelle  serate  in  casa  della 
contessa  si  discorreva  piacevolmente  di  cose  serie  e  di  cose  liete ;  si 
discorreva  di  politica,  di  letteratura,  d'arte,  e  dei  fatterelli  cittadini; 
si  scherzava  e  si  rideva,  ma  1'intonazione  generale  era  sempre  alta- 
mente  patriottica.  La  contessa  MafFei,  di  natura  indulgente  e  mite, 
diventava  fiera  e  intransigente  ogni  volta  che  fosse  in  questione  il 
Governo  straniero.  Si  pensi  con  quanto  entusiasmo  essa  e  i  suoi 
amici  prendessero  parte,  in  queirinverno  del  1858,  alia  lotta  contro 
Parciduca  Massimiliano  che  ferveva  nella  societa  milanese. 

Chiarina  Maffei  esercitava  sempre  molto  fascino  intorno  a  se,  il 
fascino  della  gentilezza  e  della  bonta.  Intelligente  e  colta,  senza 
essere  ne  una  letterata  ne  una  dotta,  aveva  Tentusiasmo  d'ogni  cosa 
buona  e  bella,  Pentusiasmo  della  patria  soprattutto.  Era  sempre  in 
faccende  per  far  del  bene;  e  quando  i  suoi  mezzi,  ch'eran  modesti, 
non  le  permettevano  di  fare  quanto  il  suo  cuore  avrebbe  voluto, 
allora  ricorreva  agli  uomini  ricchi,  o  influenti,  ricorreva  special- 
mente  al  conte  Cesare  Giulini,1  la  cui  carita  e  generosita  erano 
inesauribili. 

II  Giulini  era  sempre  in  Milano  una  delle  persone  piu  note  e  di- 
stinte;  ricco,  generoso,  di  mente  alta,  di  sentimenti  nobilissimi, 
aveva  Tanimo  buono  e  caritatevole.  La  sua  cultura  era  vastissima 
e  la  sua  memoria  era  straordinaria,  mentre  poi  era  altrettanto  straor- 
dinaria  la  sua  distrazione,  a  proposito  della  quale  si  raccontavano 
tra  gli  amici  i  piu  divertenti  episodi.  II  dovere  e  la  patria  erano  per 
lui  una  religione,  e  la  parte  ch'egli  ebbe  negli  awenimenti  patrii, 
dal  '48  al  '59  in  Milano,  fu  grande,  pure  svolgendosi  con  quella 
semplicita  e  con  quella  modestia  ch'erano  nella  sua  natura.  Quando 
il  paese  fu  libero,  il  conte  di  Cavour  voleva  fare  di  lui  un  Gover- 
natore,  un  Ministro;  ma  egli  non  accetto,  e  nel  1862  moriva  non 
avendo  che  47  anni. 

II  Giulini,  che  aveva  conservato  dei  legami  d'amicizia  col  Cavour 
e  coi  principali  uomini  politici  del  Piemonte,  trovava  modo  di  fare 
di  tanto  in  tanto  delle  gite,  ora  palesi  ora  secrete,  a  Torino ;  e  di  la 
portava  alia  contessa  e  agli  amici  piu  intimi  quelle  notizie  ch' erano 
Falimento  delle  nostre  speranze.  Non  aveva  mancato  d'andarci  in 

i.  II  Giulini  (vedi  la  nota  i  a  p.  307)  nel  periodo  '48-50,  da  lui  trascorso 
a  Torino,  era  divemito  intimo  del  Cavour  e  di  molti  uomini  politici  pie- 
montesi,  come  era  amico  dei  patriotti  lombardi:  fu  percid  attivo  messag- 
gero  tra  le  due  parti  e  molto  giovo  a  preparare  I'unione  della  Lombardia 
al  Piemonte. 


RICORDI   DI    GIOVENTtl  367 

quel  giorni,  e  col  Cavour  aveva  discorso  di  Massimiliano  e  della 
nuova  situazione  che  1'arciduca  cercava  di  preparare  in  Milano :  e 
ci  aveva  riferito  che  Cavour,  come  conclusione  del  discorso,  gli 
aveva  detto  airorecchio :  —  £  urgente  che  facciate  mettere  di  nuovo 
Milano  in  istato  d'assedio! 

Questo  motto,  che  diventava  una  parola  d'ordine,  corse  rapida- 
mente  di  bocca  in  bocca,  con  patriottiche  indiscrezioni,  e  servi  ad 
infondere  in  una  cerchia  di  persone,  che  si  faceva  ogni  giorno  piu 
larga,  un  nuovo  ardore  e  una  maggiore  audacia. 

Emilio  Dandolo  era  stato  chiamato  a  Torino  da  Cavour,  che  gli 
disse:—  Caro  Dandolo,  ci  siamo:  Napoleone  mi  promise,  che  se 
gli  austriaci  mettono  piede  sul  territorio  Piemontese,  egli  verra  in 
nostro  aiuto.  A  farci  invadere  penseremo  noi.  A  Milano  fate  cogli 
amici,  e  cogli  amici  del  paese,  del  vostro  meglio  per  tener  viva  la 
fiaccola  del  patriottismo  e  per  tener  viva  Fagitazione. 

II  marchese  Luigi  Crivelli,1  quel  medesimo  che  fu  in  prigione 
dopo  il  6  febbraio  in  grazia  della  barba,  e  sua  moglie,  la  marchesa 
Carolina,  nata  Medici  di  Marignano,  riunivano  in  casa  loro  una 
societa  numerosa  di  persone,  tra  le  quali  predominava  la  gioventu. 
Si  rideva,  si  ballava,  e  si  faceva  del  patriottismo  risoluto  e  chias- 
soso :  il  punto  verso  cui  convergevano  anche  in  casa  Crivelli  tutti  i 
discorsi  era  Farciduca  Massimiliano ;  si  puo  immaginare  quale  ef- 
fetto  vi  facessero  le  parole  di  Cavour,  ripetute  alTorecchio  in  gran 
secreto  ...  ma  da  tutti. 

L'arciduca  Massimiliano,  a  cui  non  era  ancora  riuscito  di  dare 
a  Corte  ne  una  festa  ne  un  ricevimento,  adoperava  tutte  le  arti  della 
sua  seduzione  personale  per  fare  delle  conoscenze,  e  per  chiamar 
gente  intorno  a  se:  si  rivolgeva  a  persone  notevoli  per  ingegno,  per 
studi  o  per  pratica  amministrativa,  ogni  volta  che  gli  si  presentava 
qualche  affare  di  pubblico  interesse;  e  faceva  chiamare,  sotto  i  piu 
futili  pretesti,  anche  dei  semplici  gentiluomini  per  .aver  gente  a 
Corte.  In  tal  modo,  ogni  tanto,  si  veniva  a  sapere  che  qualche  nuovo 
pesciolino  era  stato  preso  alPamo,  e  che  qualche  nuova  recluta  era 
entrata  in  palazzo  reale  a  far  visita  all'arciduca.  Era  appunto  ci6 
che  non  si  voleva. 

i.  Luigi  Crivelli:  dopo  la  mancata  rivolta  del  6  febbraio  1853  (yedi  la  nota  4 
a  p.  353),  la  polizia  austriaca  cercava  il  capo  della  cospirazione,  che  era 
il  mazziniano  G.  Piolti  De  Bianchi,  di  cui  non  conosceva  ancora  il  nome, 
ma  sapeva  solo  della  sua  lunga  barba  rossiccia.  Per  questa  particolare  rasso- 
miglianza  era  stato  dapprima  arrestato  il  marchese  Luigi  Crivelli. 


368  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

«  Bisogna  finirla»,  s'era  detto;  bisogna  arrestare  queste  diserzioni 
dal  campo  intransigente,  che  a  un  poj  per  volta  possono  creare  una 
situazione  nuova,  pericolosa,  contraria  ai  nostri  disegni,  contraria 
alia  politica  che  con  tanta  abilila  e  con  tanta  fortuna  seguiva  il 
Piemonte.  Finirla,  e  presto  detto,  ma  in  qual  modo? 

La  sera,  dopo  il  teatro,  andavo  frequentemente  coi  miei  amici 
dalla  contessa  Dandolo,  e  chiacchierando  e  fumando  fino  ad  ora 
tarda,  si  facevano  le  nostre  discussioni  e  le  nostre  piccole  cospi- 
razioni  politiche.  La  contessa,  intelligente,  animosa,  ardente  di 
sentimenti  giovanili  come  noi,  era  Panima  della  conversazione.  Alle 
volte,  essa  ci  faceva  imbandire  qualche  cenetta,  improwisandola,  e 
si  passavano  in  casa  sua  delle  ore  deliziose. 

Una  sera,  mentre  si  parlava  delParciduca  e  di  quelli  che  abboc- 
cavano  al  suo  amo,  qualcuno  di  noi,  forse  Emilio  Dandolo  stesso, 
salto  su  a  dire  che,  per  impedire  le  visite  a  Corte,  bisognava  pur 
pensarne  qualcuna,  se  non  bastava  la  pubblica  riprovazione,  se  non 
bastavano  il  negare  il  saluto  e  il  troncare  i  rapporti  d'amicizia  con 
chi  ci  andava. 

Nei  nostri  discorsi,  ch'erano  Peco  dei  discorsi  e  dei  pensieri  di 
persone  piu  serie  di  noi,  c'era  una  preoccupazione,  c'era  il  senti- 
mento  secreto  d'un  pericolo  che  cominciava  a  manifestarsi.  Quale 
potra  essere  il  risultato,  pensavano  gia  parecchi,  dell'azione  conti- 
nua,  instancabile  dell'arciduca  ?  Riescira  egli  ad  aprire  una  breccia 
nel  patriottismo  disciplinato,  rigido,  ch'era  durato  fino  allora? 
quanti  mano  mano  non  andranno  cedendo  alle  lusinghe  governa- 
tive  ?  quali  nuovi  interessi  non  verranno  per  awicinare  il  paese  al 
Governo  ?  II  pubblico,  il  gran  pubblico,  dicevano  i  patriotti,  fino  a 
quando  ci  seguira  nella  resistenza  inflessibile  anche  dinanzi  a  un 
regime  che  si  annunzia  mite  e  largo  di  promesse  ?  E  una  tregua  dei 
lombardo-veneti  nella  resistenza  non  avra  delle  conseguenze  fatali 
per  la  politica  di  Cavour? 

E  dunque  ?  Dunque  che  cosa  si  fa  ? ...  Dunque  si  potrebbe  far 
qualcosa  di  chiassoso  . . .  sfidare  a  duello,  per  dime  una,  quelli  che 
d'ora  innanzi  senza  esserne  obbligati  andranno  volontariamente  a 
Corte,  o  si  awicineranno  in  qualsiasi  modo  alia  politica  dell'arci- 
duca! 

L'idea  fu  accolta  con  entusiasmo :  questa  bravata  ci  parve  bel- 
lissima,  ed  era  infatti  al  livello  della  temperatura  delle  nostre  teste, 
e  di  quella  in  mezzo  a  cui  si  viveva. 


RICORDI   DI    GIOVENTtl  369 

Dopo  cio,  quella  sera  ci  separammo,  colle  teste  calde  di  progetti 
e  di  duelli. 

L'arciduca1  Massimiliano  continuava  imperterrito,  e  talora  anche 
con  qualche  buon  risultato,  a  usare  le  sue  arti  seduttrici;  quando 
eccoci  ad  un  nuovo  episodic,  capitato  proprio  qualche  giorno  dopo 
1'intesa  del  duelli,  in  casa  Dandolo. 

Era  assai  noto  a  quel  tempo,  in  Milano,  come  amatore  di  cavalli 
ed  esperto  cavallerizzo,  un  .marchese  Luigi  d'Adda  Salvaterra, 
fratello  del  marchese  Gerolamo,  letterato,  scrittore  d'arte,  e  noto 
bibliofilo.2  II  d'Adda  compariva  quasi  ogni  giorno  sui  bastioni  della 
citta,  ch'erano  a  quel  tempo  il  luogo  della  passeggiata  pubblica  e 
il  ritrovo  del  mondo  elegante,  cavalcando  1'uno  o  Paltro  dei  suoi  bei 
cavalli  arabi.  Correva,  caracollava,  e  lo  avevano  soprannominato  il 
Mazeppa? 

Un  giorno  Massimiliano,  che  di  tanto  in  tanto  cavalcava  egli  pure 
sul  bastione,  mando  il  suo  aiutante  a  dire  al  d'Adda  che  desiderava 
ammirare  il  suo  belParabo.  II  d'Adda  gli  si  awicino,  1'arciduca 
gliene  fece  gli  elogi  e  lo  preg6  di  mandare  i  suoi  cavalli  alia  caval- 
lerizza  di  Corte,  desiderando  cavalcarli.  Dopo  di  cio,  sotto  vari 
pretesti,  lo  fece  andare  a  Corte  piii  volte,  e  lo  invito  a  colazione. 
II  d'Adda  accett6  gli  inviti. 

Questo  fatto,  che  in  altre  circostanze  sarebbe  passato  inosservato, 
allora  fece  parlar  molto;  e  a  qualcuno,  tra  quei  deH'«intesa»,  parve 
venuta  Poccasione  di  dar  principio  al  programma  dei  duelli.  «  Si 
incominci  dunque  dal  d'Adda!»  Trattandosi  d'una  persona  tanto 
nota  in  Milano,  come  il  d'Adda,  il  caso  era  opportune,  sebbene  vio- 
lento,  per  una  dimostrazione  chiassosa. 

Ragazzate!  potra  esclamare  qualcuno  nel  leggere  questi  fatti;  ma 
i  giovani  d'allora  erano  cosi;  e  si  puo  essere  indulgenti  con  questi 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  xxv,  pp.  399-405.  2.  Luigi  d'Adda  Salvaterray  nato 
nel  1829,  aveva  partecipato  alle  guerre  del  '48  e  del  '49  come  sottotenente 
di  cavalleria:  partecipd  anche  alia  guerra  del  '59.  II  fratello  Girolamo 
(1815-1881)  fu  realmente  notissimo  bibliofilo  ed  erudito,  e  molto  scrisse  in 
tale  campo:  non  ebbe  parte,  invece,  nel  Risorgimento  italiano,  che  visse 
raccolto  nei  suoi  studi.  3.  Mazeppa:  romanzieri  e  poeti  hanno  trasfigu- 
rato  il  personaggio  storico  di  Jvan  Stepanovic  Mazepa,  vissuto  tra  il  1644 
e  il  1709,  che  tento  di  dare  1'indipendenza  all'Ucraina.  II  personaggio 
leggendario  appare  in  un  poema  di  Puskin,  in  Byron,  in  Victor  Hugo. 
NelPaccenno  del  Visconti,  si  allude  soprattutto  alia  sua  eccezionale  abili- 
ta  di  cavaliere. 


370  GIOVANNI   VISCONTI   VENOSTA 

ragazzi,  quando  si  pensi  che  pochi  mesi  dopo,  tra  mille  pericoli, 
lasciavano  la  casa  loro  per  prender  le  armi;  e  che  molti  alle  loro 
case  non  ritornarono  piu. 

Alcune  sere  dopo  ci  fu  un  veglione  alia  Scala  e  Alfonso  Carcano, 
ch'era  il  piu  giovane  della  compagnia  di  Casa  Dandolo,  ci  ando 
in  maschera,  e  detto  fatto  si  diresse  verso  il  d' Adda,  e  dopo  un  breve 
colloquio,  alludendo  alia  visita  fatta  alPArciduca,  lo  insulto;  poi 
levatasi  la  maschera  gli  diede  il  suo  biglietto  di  visita.  II  d'Adda 
era  in  un  palchetto  con  due  forestieri,,dei  quali  e  facile  immaginarsi 
lo  stupore.  Corse  subito  la  voce  del  fatto  per  tutto  il  teatro,  e  per 
alcuni  giorni  in  Milano  non  si  parlo  d'altro. 

La  mattina  seguente  vennero  da  me  donna  Giulia  e  Costanzo 
ch'eran  la  madre  e  il  fratello  dell' Alfonso  Carcano,  dicendomi  che 
questo  si  teneva  nascosto,  e  pregava  me  e  il  marchese  Massimi- 
liano  Stampa  Soncino  a  fargli  da  padrini.  La  buona  donna  Giulia 
piangeva,  ma  mi  pregava  d'assistere  suo  figlio. 

Due  giorni  dopo  ci  fu  un  ritrovo  tra  i  padrini;  pel  d'Adda  furono 
quei  due  che  s'eran  trovati  nel  palco,  venuti  alia  Scala  per  dwertirsi 
al  veglione;  ed  erano  un  Della  Rocca,  ex  ufficiale  spagnolo,  e  un 
Cervis  di  Novara.  Nel  frattempo  ebbi  una  chiamata  alia  Polizia. 

II  Direttore  mi  ricevette  tenendosi  ritto  in  piedi  e  parlandomi 
in  tono  brusco  e  severo. 

—  So  tutto:  —  prese  a  dirmi—  il  marchese  Luigi  d'Adda  e  stato 
Faltra  notte  insultato  in  teatro  da  un  giovinastro  mascherato  . .  . 
sappiamo  chi  e  .  .  .  e  sappiamo  anche  la  causa  deirinsulto!  ...  Si 
parla  di  un  duello,  e  si  dice  che  lei  sara  uno  dei  padrini .  .  .  ma  io 
le  dico  che  questo  duello  non  si  fara!  Ha  capito  ? .  . .  Questo  duello 
sarebbe  uno  scandalo!  Questo  duello  mi  obbligherebbe  a  far  arre- 
stare  lei  e  i  suoi  due  amici,  e  a  far  aprire  contro  di  loro  una  duplice 
inquisizlone,  cioe  pel  delitto  di  duello,  e  pel  delitto  politico!  Ha 
capito  ? .  . .  Ora  le  domando  formalmente  di  darmi  la  sua  parola 
d'onore  che  il  duello  non  si  fara  .  . .  o  almeno  che  lei  non  vi  pren- 
dera  parte.  Mi  risponda! 

—  Del  duello  di  cui  lei  mi  parla,  —  risposi  —  finora  non  so  nulla. 
Ma  devo  pero  dirle  che  io  non  le  potrei  dare  la  parola  d'onore  che 
mi  domanda.  Lei  e  un  gentiluomo,  e  comprendera  che,  se  un  amico 
mi  chiedesse  di  assisterlo  in  un  caso  simile,  io  non  potrei  rifiutare. 

Si  discusse  per  alcuni  minuti,  fermi  Tuno  e  Paltro  nei  nostri  ar- 
gomenti;  egli  alzando  la  voce  e  in  tono  sempre  piu  minaccioso;  io 


RICORDI   DI    GIOVENTt  371 

con  1'aria  rassegnata,  come  una  vittima,  caso  mai,  deiramicizia. 

In  quella  stessa  mattina  il  marchese  Soncino  aveva  avuta  una 
eguale  chiamata  dal  Direttore  di  Polizia,  e  aveva  sentite  le  stesse 
minacce,  e  aveva  data  la  stessa  risposta,  poiche  le  avevamo  com- 
binate. 

Nel  nostro  abboccamento  era  parso,  ai  padrini  del  d'Adda,  sulle 
prime  che  un  diverbio  di  veglione  dovesse  venire  accomodato  con 
qualche  bottiglia  di  champagne,  ma  presto  capirono  che  sotto  il 
diverbio  apparente  c'era  una  questione  politica,  e  che  il  duello  era 
quindi  inevitabile. 

Si  convenne  un  duello  alia  pistola,  da  farsi  al  di  la  del  Ticino, 
presso  la  frontiera.  Ma  il  difficile  era  Pandarci,  sorvegliati  come 
eravamo  dalla  Polizia. 

Si  combin6  di  partire  quella  stessa  sera,  e  per  non  svegliar  so- 
spetti  s'ando  tutti  al  teatro  della  Scala,  mostrandoci  nei  palchi  fino 
alTora  convenuta. 

Dal  teatro,  poi  scomparimmo  improvvisamente,  e  andammo  di- 
filato  in  piazza  Fontana,  dove  ci  attendevano  due  carrozze. 

Per  attraversare  il  Ticino,  a  quel  tempo,  non  c'erano  ferrovie; 
eravamo  in  febbraio,  nevicava  e  faceva  un  gran  freddo;  io  era  in 
giubba,  con  la  cravatta  bianca,  le  scarpette  lucide  e  le  calze  di  seta: 
gelavo!  Non  avevo  il  passaporto,  indispensabile  a  quei  tempi;  per 
questo,  quando  si  arriv6  alia  frontiera,  montai  a  cassetta  d'uno  dei 
due  legni,  e  il  Della  Rocca  mi  fece  passare  pel  suo  cameriere. 

In  un  villaggio,  al  di  la  del  confine,  trovammo  un  ufficiale  di 
cavalleria  piemontese,  che,  prevenuto  dal  mio  collega,  il  marchese 
Soncino,  aveva  portato  le  pistole.  L'ufficiale  ci  condusse  in  una 
boscaglia  distante  circa  un  chilometro,  che  facemmo  in  mezzo  al 
fango  e  alia  neve.  Oh  le  mie  scarpette!  e  che  freddo!  Con  noi  era 
venuto  Scipione  Signoroni,  un  giovane  nostro  amico  medico,  e  gia 
ufficiale  di  Manara. 

I  due  awersari  furono  messi  di  fronte,  a  venti  passi  di  distanza. 
La  sorte  indico  il  Della  Rocca  pel  comando  del  duello,  che  doveva 
essere  «al  segnale».  Puntarono;  «uno,  due,  tre»;  i  due  colpi  par- 
tirono  insieme,  ma  le  due  palle  andarono  a  conficcarsi  negli  alberi 
vicini;  avevano  avuto  piu  giudizio  di  noi.  Ma  a  nostra  discolpa  ri- 
peter6  ancora  una  volta  che  a  quel  tempo  noi  ci  consideravamo  co 
me  gia  in  guerra,  e  che  se  allora  la  gente  si  fosse  condotta  sempre 
con  certe  buone  regole  di  prudenza  e  di  giudizio,  gli  austriaci  forse 


372  GIOVANNI   VISCONTI   VENOSTA 

passeggerebbero  ancora  per  le  vie  di  Milano.  Si  ricaricarono  le 
pistole,  ma  allora  i  padrini  awersari  si  awicinarono  a  noi  dicendo 
che,  avuto  riguardo  alia  causa  che  ci  aveva  condotti  sul  terreno,  si 
poteva  far  cessare  lo  scontro  e  riconciliare  i  due  awersari.  Fummo 
tutti  del  medesimo  parere :  la  dimostrazione  politica  era  fatta,  e  sa- 
rebbe  stato  assurdo  il  continuare  il  duello.  II  d'Adda  ci  teneva  a 
giustificarsi;  ci  scambiammo  delle  strette  di  mano  e  delle  parole 
cortesi,  poi  partimmo  subito  per  Milano. 

Qualche  ora  dopo,  viene  da  me  il  Soncino,  che  aveva  avuto  una 
nuova  chiamata  dal  Direttore  di  Polizia:  questi  era  stato  con  lui 
ancora  piu  brusco  del  giorno  prima;  ma  con  sua  gran  sorpresa  il 
mio  amico  s'era  accorto  che  il  Direttore  non  sapeva  ancora  che  il 
duello  fosse  avvenuto! 

—  Sento  ripetere  che  lei  dovrebb'essere  uno  dei  padrini,  ma 
questo  duello  non  si  fara!  Se  tentassero  di  farlo,  li  faro  sorprendere 
in  flagrante\  li  far6  arrestare  tutti,  e  manterro  la  mia  parola  .  .  . 
duplice  processo!  Glielo  dico  di  nuovo  ...  ha  capito? 

II  Soncino  aveva  taciuto,  stringendosi  nelle  spalle,  come  chi  e 
rassegnato  alia  fatalita,  solo  ripetendo  ancora  che,  pregato,  non 
avrebbe  potuto  rifiutarsi  a  un  amico :  non  aggiunse  altro,  poi  corse 
da  me.  —  Oh  che  commedia!  —  si  disse  tra  noi.  —  Ma  come  la 
finira? 

In  Milano  per  alcuni  giorni  non  si  par  16  che  del  duello,1  e  se  ne 
fece  un  gran  chiasso.  lo  e  i  miei  due  amici,  non  sapevamo  che  fare : 
parecchi  ci  consigliavano  di  prender  il  largo;  ma  noi,  d'accordo 
anche  coi  nostri  awersari,  si  decise  di  non  muoverci,  e  di  negare 
che  ci  fosse  stato  il  duello,  non  essendocene  le  prove,  caso  mai  ci 
arrestassero. 

Non  fumrno  arrestati.  Piu  tardi  venni  a  sapere  che  al  nostro  ar- 
resto  s'era  opposto  il  luogotenente  Burger,  il  quale  aveva  giusta- 
mente  osservato  al  Direttore  di  Polizia  che,  non  essendo  egli  riu- 
scito  ad  impedire  il  duello,  era  meglio  che  fingesse  di  non  saperne 
nulla;  tanto  piu  che  il  processo  avrebbe  sollevato  un  chiasso  enorme 
su  un  fatto  ch'era  meglio  mettere  in  tacere.  Cosi  la  passammo  liscia. 


i.  duello:  a  questo  duello  ne  seguirono  molti  altri.  Tra  i  duelli  awenuti  a 
Milano  in  quegli  anni,  prima  della  seconda  guerra  di  indipendenza,  1'au- 
tore  ricorda  quello  di  Manfredi  Camperio  con  il  capitano  Schonhals, 
a  proposito  del  quale  riproduce  una  lettera  dello  stesso  Camperio. 


RICORDI   DI    GIOVENTt  373 


[MORTE  DI  EMILIO  DANDOLO  -  LA  FUGA  IN  piEMONTE]1 

II  1859  s'apriva  con  una  bella  giornata,  serena  come  le  nostre  spe- 
ranze;  e  principiava  anche  lietamente.  Alcune  bande  musicali  an- 
date  sulle  prime  ore  del  mattino  a  far  omaggio  pel  capo  d'anno, 
come  d'uso,  alle  autorita,  nel  far  ritorno,  percorrendo  parecchie  vie 
della  citta,  salutavano  Fanno  nuovo  con  allegre  sonate.  Tra  queste, 
ogni  tanto  ripetevano,  tra  gli  applausi  della  folia  che  le  seguiva,  una 
canzone  popolare,  venuta  fuori  da  poco,  chiamata  la  Bella  Gi- 
gogin. 

La  musica  della  canzone  era  facile  e  vivace,  le  parole  erano  sci- 
pite  e  quasi  senza  senso,  ma  tra  esse  c'era  un  ritornello  che  diceva: 
«  dagliela  avanti  un  passo,  delizia  del  mio  cor  »;  parole  a  cui  il  pub- 
blico  dava  un  significato  patriottico  sottinteso,  accogliendole  con 
entusiasmo. 

La  Bella  Gigogin  percorse  quella  mattina  Milano  trionfalmente, 
tra  infiniti  applausi,  accolta  come  un  augurio,  e  rinnovando  in  tutti, 
col  buon  umore,  le  speranze. 

Quella  canzone  fu  per  qualche  tempo  popolarissima;  talche, 
quando  Napoleone  entr6  in  Milano  dopo  la  battaglia  di  Magenta, z 
le  musiche  militari  francesi  sonavano  la  Bella  Gigogin,  che  chia- 
mavano  la  milanaise.  Ma  il  miglior  augurio  pel  nuovo  anno  ci 
doveva  venire  prima  da  Parigi,  poi  da  Torino.  Napoleone  nel  ri- 
cevimento  di  capo  djanno  del  corpo  diplomatico,  rivolgendosi  al- 
Tambasciatore  d' Austria,  Hiibner,3  gliaveva  detto:—  Mi  duole  che 
le  nostre  relazioni  non  siano  cosi  buone  come  per  Taddietro.  —  Quel- 
le  parole  del  silenzioso  Imperatore  avevano  avuto  un'eco  formida- 
bile  in  tutta  Europa,  come  se  fossero  gia  un  annunzio  di  guerra. 
LJ  Austria  rispose  mandando  subito  in  Lombardia  un  nuovo  corpo 
d'Armata,  e  sei  battaglioni  di  «confinari»  croati. 

Pochi  giorni  dopo,  il  10  gennaio,  Vittorio  Emanuele  nel  discorso 
d'apertura  della  sessione  del  Parlarnento,  pronunziava  le  parole: 
«  Non  sono  insensibile  al  grido  di  dolore  che  verso  noi  si  leva  da 
ogni  parte  d'  Italia  »;  parole  che  si  seppe  erano  state  dette  d'accordo 
con  Napoleone.4 

i.  Ed.  cit.,  cap.  xxvi,  pp.  417-41.  2.  La  battaglia  di  Magenta  awenne  il 
4  giugno,  e  1'ingresso  di  Napoleone  in  Milano  1*8  giugno  1859.  3.  Hiibner: 
vedi  la  nota  i  a  p.  311.  4.  La  citazione  testuale  (presso  G.  MASSARI,  Vita 


374  GIOVANNI    VISCONTI   VENOSTA 

Ne  giunse  la  notizia  a  Milano  la  sera  del  giorno  stesso  in  cui 
erano  state  pronunziate.  Ero  al  teatro  della  Scala;  a  un  tratto  si 
vide  un  parlarsi  Tun  1'altro,  con  ansieta,  con  commozione,  come  di 
persone  che  si  comunicano  una  grande  notizia,  parve  scorresse  in 
tutti  un  fremito ;  e  una  sorpresa  insolita  si  osserv6  anche  nei  palchi 
delle  autorita  e  dei  generali  austriaci. 

Queirelettricita,  per  cosi  dire,  ch'era  nell'aria,  che  era  in  tutti, 
doveva,  poche  sere  dopo,  scoppiare  rumorosamente  in  quella  sala 
stessa  del  teatro. 

Si  rappresentava  la  Norma,  e  appena  i  sacerdoti  druidici  intona- 
rono  il  coro  possente  del  «  guerra,  guerra  »,  tutto  il  pubblico  scatto 
in  piedi :  dai  palchetti  le  signore  sventolavano  i  fazzoletti,  e  tutti  a 
una  voce,  anzi  con  un  urlo  formidabile,  si  grido  «  guerra!  guerra  »! 
II  coro  fu  fatto  ripetere  piu  volte  tra  un  entusiasmo  frenetico. 

Gli  ufficiali  della  guarnigione,  che,  come  di  solito,  occupavano  le 
due  prime  file  della  platea  a  loro  riservate,  non  capirono  sulle  prime 
la  ragione  di  quel  chiasso.  Esterrefatti,  guardavano,  quasi  interro- 
gando,  nei  due  palchetti  riuniti  di  prima  fila,  ove  stava  il  generale 
Giulay,1  con  parecchi  ufSciali  superiori. 

Questi  capirono  ben  presto  di  che  cosa  si  trattasse  e  si  misero  ad 
applaudire  essi  pure  il «  guerra  guerra  >\  Anzi  Giulay  stesso  ne  diede 
il  segnale,  battendo  replicatamente  la  sciabola  sul  pavimento.  Chi 
gli  avrebbe  detto  quella  sera  che  la  guerra  sarebbe  proprio  scop- 
piata,  e  che  cinque  mesi  dopo  egli  vi  avrebbe  perduta  a  Magenta 
una  grande  battaglia! 

II  segnale  dato  da  Giulay  fu  subito  seguito  da  tutti  gli  ufficiali 
che  si  rizzarono  in  piedi,  e  fissando  il  pubblico,  applaudirono 
fragorosamente. 

Si  pensi  che  baccano!  Da  una  parte  si  gridava  entusiasticamente 
«  viva  la  guerra! »,  si  sventolavano  i  fazzoletti,  e  si  chiedevano  nuove 
ripetizioni  del  coro;  dalPaltra  si  battevano,  con  grande  strepito  e 
in  modo  parimente  provocante,  le  sciabole  in  terra. 

II  teatro  fu  attorniato  dalla  truppa  chiamata  in  fretta,  e  Giulay 
usci  circondato  dallo  stato  maggiore  e  da  ufficiali,  quasi  accorsi  in 
sua  difesa. 

II  baccano  quella  sera  duro  lungamente;  era  la  esplosione  d'una 

di  Vittorio  Emanuele,  Milano,  Treves,  1878, 1,  p.  367)  reca: « Non  siamo  in- 
sensibili  al  grido  di  dolore  che  da  tante  parti  d' Italia  si  leva  verso  di  noi ». 
i.  II generale  Giulay  ebbe  il  comando  degli  Austriaci  nella  guerra  del  '59. 


RICORDI   DI    GIOVENTfr  375 

aspirazione  repressa,  di  veder  spuntare  il  giorno  desiderate,  il  giorno 
della  guerra.  Le  parole  di  Vittorio  Emanuele  avevano  messo  il 
fuoco  alle  polveri. 

Intanto  si  andavano  disponendo  i  mezzi,  seriamente  e  in  grande, 
per  mandare  quanti  piu  giovani  si  poteva  ad  arruolarsi  in  Piemonte. 
Le  citta  e  le  borgate  di  Lombardia  dovevano  awiare  questi  giovani 
a  Milano,  e  da  Milano,  per  varie  strade  prestabilite,  sarebbero  stati 
poi  diretti  ai  confini  del  Ticino,  della  Svizzera  e  del  Po.  Lungo  tali 
strade  ci  sarebbero  stati  dei  punti  indicati,  ove  chi  arrivava  avrebbe 
trovato  carrozze,  alloggio  airoccorrenza,  e  guide  per  proseguire  il 
cammino  in  modo  rapido  e  sicuro.  Tutto  cio  era  pagato  da  una 
Cassa  centrale  in  Milano.  Chi  partiva  riceveva  degli  scontrini 
ch'erano  carte  da  gioco  tagliate,  o  bastoncini  che  combaciavano, 
noti  a  chi  li  doveva  raccogliere  ai  punti  di  ritrovo. 

Con  questi  contrassegni,  se  occorrevano,  o  accompagnati  da  soc- 
corsi  in  denaro  quand'era  opportune,  i  giovani  che  partirono  giun- 
sero  presso  che  tutti  in  Piemonte  rapidamente  e  senza  contrattempi. 
In  tre  mesi  ve  ne  giunsero  circa  dieci  mila. 

Alle  spese  prowedeva  una  cassa  secreta  fatta  con  contribution! 
fiduciarie.  La  cassa  e  gli  scontrini  erano  affidati  ad  un  gruppo  di 
cittadini  che  se  li  passavano  Fun  Faltro,  tenendoli  pochi  giorni, 
poiche  era  un  deposito  pericoloso.  E  infatti  presso  chi  Taveva  c'era 
subito  un  andirivieni  di  giovani  che  doveva  destare  i  sospetti  della 
Polizia,  e  che  procur6  spesse  visite,  chiamate  e  perquisizioni. 

Non  tutti  i  diecimila  certamente  andarono  in  Piemonte  coi  mezzi 
e  coi  soccorsi  della  cassa  secreta,  poiche  chi  lo  poteva  andava  a  pro- 
prie  spese,  ma  ce  n'andarono  moltissimi.  In  tutto  ci6  ebbe  una  gran 
parte  quella  cospirazione  generale,  spontanea,  di  tutti,  che  s'era 
veduta  nel  quarantotto;  e,  come  allora,  le  classi  elevate  contribui- 
rono  con  una  grande  generosita,  tanto  piii  notevole  questa  volta 
perche  secreta. 

II  pensiero  d'andare  in  Piemonte  ad  arruolarsi  comincio  presto 
a  farsi  strada  tra  i  giovani  e  tra  gli  antichi  volontari  del  '48. 

Gia  nei  primi  giorni  del  gennaio,  nei  ritrovi,  nei  caffe,  tra  gli 
studenti,  si  susurrava:  ccQuando  si  va?» 

Una  sera  mi  trovavo  in  casa  del  marchese  Luigi  Crivelli,  e  si 
parlava  appunto  delle  speranze  ch* erano  sulle  bocche  di  tutti,  e  del 
progetto  di  passare  in  Piemonte  per  arruolarsi.  —  Quando  si  in- 
cominciera?—  domandavano  alcuni.  —  E  se  si  andasse  subito?  — 


3?6  GIOVANNI   VISCONTI   VENOSTA 

salt6  su  Giulio  Venino,  che  allora  era  studente  di  matematica,  e 
che  poi  divento  capitano  d'artiglieria.  —  Se  io,  per  esempio,  partissi 
tra  un  paio  di  giorni,  farei  bene  ? 

Tutti  lo  applaudirono,  e  pochi  giorni  dopo  seppi  ch'era  partito, 
e  che  s'era  arruolato  a  Torino  come  soldato  semplice  nelPartiglieria. 

Ho  voluto  ricordare  il  suo  nome,  perche  in  quei  giorni  il  nobile 
esempio  del  Venino  trov6  un'eco  simpatica  e  vivissima  tra  i  gio- 
vani  milanesi. 

Un  giorno,  il  padre  di  Gaetano  Negri,1  ch'era  un  vecchio  amico 
di  casa  nostra,  venne  a  confidare  a  mia  madre  che  il  suo  unico  figlio 
maschio  Gaetano,  giovane  di  vent'anni,  partiva  per  arruolarsi.  Ave- 
va  le  lacrime  agli  occhi,  ma  nel  tempo  stesso  era  superbo  della 
decisione  di  suo  figlio.  Gaetano  Negri,  dopo  un  anno  era  sotto- 
tenente  di  fanteria,  e  aveva  gia  guadagnato  una  prima  medaglia  al 
valor  militare. 

Questi  esempi  furono  presto  seguiti  da  molti,  e  ormai  ogni  giorno 
s'udivano  ripetere  i  nomi  di  giovani  appartenenti  alle  piu  alte  fa- 
miglie  milanesi  che  si  erano  furtivamente  recati  in  Piemonte  per 
arruolarsi.  L'esempio,  cominciato  dall'alto,  si  diffuse  in  ogni  classe; 
prima  che  finisse  il  febbraio  si  contavano  gia  a  migliaia  gli  arruolati. 
I  pochi  che,  potendolo,  non  partivano,  non  si  lasciavano  vedere. 
Tra  gli  arruolati  si  annoveravano  anche  i  piu  bei  nomi  delle  pro- 
vincie  lombarde  e  delle  venete.  Nessuno  resisteva  a  quelPentusia- 
smo  generale  che  chiamava  la  gioventu  ad  espatriare  per  arruolarsi 
e  ad  esporsi  alle  piu  gravi  sventure,  se  gli  awenimenti  fossero  fi- 
niti  male. 

Questa  grande  dimostrazione  patriottica  merita  veramente  d'es- 
sere  ricordata  come  uno  dei  fatti  piu  seri,  piu  generosi  che  conti 
la  storia  del  nostro  risorgimento.  Le  autorita  austriache,  civili  e 
militari,  solite  a  burlarsi  delle  nostre  dimostrazioni,  questa  volta 
rimasero  stupite;  e  pur  fremendo  ammiravano  un  tal  fatto  cosi 
nuovo,  e  che  non  giungevano  a  frenare. 

Ciascuno  di  noi,  di  quel  gruppo  di  giovani,  voglio  dire,  che  vi- 
veva  in  continua  dimestichezza,  aveva  fatto  i  propri  preparativi  per 
passare  in  Piemonte,  ma  se  ne  voleva  differire  Pesecuzione  per  poter 

i.  Gaetano  Negri  (1838-1902)  combatte  nella  guerra  del  '59,  partecipo  dopo 
il  '60  alia  campagna  contro  il  brigantaggio  nell*  Italia  meridionale.  Lettera- 
to,  saggista  e  sindaco  di  Milano.  Deputato  nella  seconda  legislature,  fu  se- 
natore  dal  1891. 


RICORDI   DI    GIOVENTfr  377 

intanto  accrescere  la  cassa,  e  sorvegliare  i  contrassegni  di  fronte  a 
qualche  improwiso  contrattempo,  o  a  qualche  scoperta  della  Po- 
lizla. 

Eran  questi  di  solito  gli  argomenti  del  nostri  discorsi  in  quei 
giorni  in  casa  Dandolo,  seduti  presso  la  poltrona  su  cui  giaceva  il 
povero  Emilio,  affranto  dalla  tisi  che  faceva  rapidamente  i  suoi  ul- 
timi  progress!.  Egli  era  affettuosamente  assistito  dalla  madre  Er- 
mellina,1  dal  padre,  dal  barnabita  padre  Piantoni,  dagli  amici,  e 
tra  questi,  soprattutto,  dal  medico  Scipione  Signoroni,  suo  antico 
compagno  d'armi  nel  battaglione  Manara,  e  gia  attaccato  lui  pure 
dalla  tisi  che  doveva  spegnerlo,  sul  fiore  dell'eta,  pochi  anni  dopo.2 

Emilio  Dandolo  non  s'illudeva  da  parecchio  tempo  sulla  gravita 
del  suo  male,  e  nei  discorsi  di  quei  giorni  le  nostre  liete  speranze 
facevano  un  penoso  contrasto  colla  inesorabile  fatalita  che  spegneva 
1'amico.  Dandolo  nondimeno  si  lusingava  di  poter  vivere  ancora  al- 
cuni  mesi;  non  sperava  di  poter  rivestire  la  sua  antica  divisa  di 
ufficiale  dei  bersaglieri,  ma  Cavour  gli  aveva  assicurato  un  posto 
nello  Stato  Maggiore.  I  suoi  pensieri  erano  tutti  rivolti  alia  guerra 
e  si  aggiravano  sempre  intorno  alia  speranza  di  morire  su  un  campo 
di  battaglia.  Ma  il  male  inesorabile  doveva  ben  presto  dissipargli 
crudelmente  anche  questo  ultimo  sogno. 

In  uno  di  quegli  ultimi  discorsi  intimi  egli  mi  confidava  alle  volte 
alcune  informazioni  che  gli  giungevano,  e  ch'egli  trasmetteva  a  Ca 
vour,  sulle  forze  e  sui  movimenti  delle  truppe  austriache.  Fin  dal- 
Pautunno  erano  secretamente  venuti  in  Lombardia  due  capitani 
piemontesi  di  Stato  Maggiore,  Incisa  e  Govone.3  II  capitano  Al 
berto  Incisa  della  Rocchetta,  nominate  innanzi,  e  che  divenne  poi 
generale  come  il  suo  collega  Govone,  aveva  a  Milano  parenti  ed 

i.  Ermellina  Maselli  era  la  matrigna  di  Emilio.  II  padre,  Tullio,  perduta 
(1835)  la  prima  moglie,  Giulietta  Bargnani,  aveva  sposato  Ermellina  nel 
1844;  ed  essa  fu  affezionatissima  ai  figliastri.  2.  «Tra  gli  amici  intimi  che 
avevano  in  passato  fatte  liete  le  serate  di  casa  Dandolo,  e  che  ora  circonda- 
vano  il  povero  amico  che  si  spegneva,  rammento,  oltre  al  dottor  Signoroni, 
i  fratelli  Mancini,  i  Carcano  e  i  Caccianino,  Pingegnere  Pirovano,  Alfredo 
Ulrich,  Costantino  Garavaglia,  il  conte  Ignazio  Lana,  Ignazio  Crivelli, 
il  marchese  e  la  marchesa  Crivelli,  il  pittore  Chialiva,  le  famiglie  Piola  e 
Fontana»  (nota  del  Visconti  Venosta).  3.  Alberto  Incisa  della  Rocchetta 
(1824-1888)  aveva  lasciato  Milano  nel  1848  ed  era  entrato  nelPesercito 
piemontese:  aveva  percio  conoscenze  e  legami  notevoli  nella  Lombardia; 
Giuseppe  Govone  (1825-1872)  aveva  gia  partecipato  alle  guerre  del  '48- 
49  e  di  Crimea.  Nella  guerra  del  '59  e  poi  nel  '66  prest6  altri  servizi.  Nel 
1869  fu  ministro  della  guerra. 


378  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

amici,  oltre  il  Dandolo,  che  I'aiutarono  nella  sua  pericolosa  mis- 
sione:  tra  quest!  Lodovico  Trotti,  Carlo  d'Adda,  Cesare  Giulini, 
Carlo  Ermes  Visconti. 

Piu  tardi  Cesare  Giulini,  con  quei  due  ufficiali,  compiva  una 
missione  ancora  piu  ardita.  Conoscendo  strade  e  paesi  tra  Milano, 
il  Ticino  e  il  Novarese,  per  averci  dei  possessi,  quando,  dopo  la 
dichiarazione  della  guerra,  le  truppe  austriache  entrarono  in  Pie 
monte,  essi  ne  seguirono  a  poca  distanza  le  mosse,  e  via  via  ne 
facevano  giungere  le  informazioni  al  Lamarmora. 

La  mattina  del  20  febbraio  Emilio  Dandolo  tranquillamente  spi- 
rava  nelle  braccia  del  padre  e  della  madre,  circondato  da  alcuni 
amici. 

La  notizia  corse  rapida  per  la  citta,  e  corse  anche  la  parola  d'or- 
dine  che  tutti  dovessero  accorrere  a  rendere  gli  estremi  onori  al  gio- 
vane  e  valoroso  patriotta.  Intanto  la  famiglia  e  gli  amici  vegliavano 
il  cadavere,  e  prendevano  gli  accordi  per  la  giornata  dei  funerali. 
Si  voleva  che  sulla  tomba  parlasse  mio  fratello  Emilio,  ma  in  quella 
mattina  egli  doveva  essere  padrino  d'un  duello  di  Gerolamo  Fadini 
con  un  ufficiale  austriaco ;  cosi  egli  cedette  il  mesto  incarico  al  conte 
Gaetano  Bargnani,1  parente  dei  Dandolo,  il  quale  in  poche  ore 
prepare  un  caloroso  e  coraggioso  discorso.  Carmelita  Manara  ed 
Ermellina  Dandolo  deposero  il  cadavere  nella  bara:  Carmelita  gli 
mise  sul  petto  la  coccarda  tricolore,  che  suo  marito  Luciano  aveva 
portata  durante  le  campagne;  Ermellina  vi  colloc6  una  ghirlanda 
di  fiori  dai  tre  colori. 

Ma  non  contenta  di  cio,  la  contessa  Ermellina  incaricava  uno 
degli  amici,  Ignazio  Crivelli,  di  procurargli  delle  camelie  bianche 
e  rosse  per  intrecciarle  con  foglie  verdi  e  fame  una  corona,  ch'essa 
pensava  di  far  collocare  sul  feretro  nel  momento  del  trasporto.  E, 
fissa  in  questo  pensiero,  faceva  conficcare  nel  coperchio  del  cofano 

i.  Gaetano  Bargnani  (nato  nel  1810),  di  Brescia.  Organizzatore  mazziniano, 
fu  costretto  a  esulare  in  Svizzera  nel  1833;  nell'anno  successive  partecip6 
alia  spedizione  di  Savoia,  fallita  la  quale  si  trasferi  in  Francia.  Da  Parigi  fu 
successivamente  allontanato  e  cosl  da  Bruxelles,  per  le  sue  manifestazioni 
politiche:  riparo  in  Inghilterra  nel  1840.  L'amnistia  generate,  concessa  dal- 
Pimperatore  Ferdinando,  gli  permise  di  tornare  in  Italia.  Nel  marzo  1848, 
uscito  da  Milano  travestito,  sollevo  con  i  suoi  discorsi  Bergamo  e  Brescia. 
Esul6  poi  in  Piemonte;  di  11  corse  a  Roma,  dove  era  riuscito  a  trasferire  il 
battaglione  Manara.  Caduta  la  repubblica,  torn6  in  Piemonte.  Una  nuova 
amnistia  lo  aveva  riportato  a  Milano  da  poco,  sempre  attivo  propagandista: 
finche  le  parole  dette  al  funerale  di  Emilio  Dandolo  non  lo  costrinsero  a 
nuovo  esilio  in  Piemonte. 


RICORDI   DI   GIOVENTtl  379 

dei  chiodi  sporgenti  per  assicurare  la  sua  corona.  Ma  qui  stava  il 
difficile,  perche  la  Polizia  Pavrebbe  sequestrata  al  suo  primo  appa- 
rire.  Penso  dunque,  d'accordo  cogli  amici,  di  far  collocare  la  corona 
sul  feretro  solo  quando  il  corteo  sarebbe  uscito  dalla  chiesa,  dopo 
le  esequie.  Cosi  tutti  1'avrebbero  veduta,  e  alia  Polizia  sarebbe 
riuscito  piu  difficile  sequestrarla. 

II  trasporto  funebre  fit  fatto  la  mattina  del  22,  e  il  feretro  fu 
portato  alia  chiesa  di  San  Babila  dalla  casa  Crivelli,  posta  sul  corso 
di  Porta  Orientate,  ove,  come  gia  dissi,  abitavano  i  Dandolo. 

Durante  le  esequie,  la  folia,  che  presto  non  pote  piu  trovar  posto 
nella  chiesa,  ando  rapidamente  agglomerandosi  sulla  piazza,  oc- 
cupando  a  mano  a  mano  fin  le  strade  vicine  e  una  parte  del  corso. 
Era  una  folia  serrata,  silenziosa,  imponente.  La  Polizia  se  ne  al- 
larmo,  e  non  potendo  disperderla,  mando  Tordine  alia  chiesa  di 
sospendere  il  trasporto  del  feretro  al  cimitero.  Appena  si  seppe 
quest5 ordine,  si  sollevo  nella  chiesa  un  vivo  rumore  di  impazienza  e 
di  protesta  che  decise  alcuni  amici  di  casa  Dandolo,  tra  i  quali  Co- 
stantino  Garavaglia  e  Lodovico  Mancini,1  a  recarsi  subito  nella  sa- 
crestia,  dove  c'era  un  Commissario  di  Polizia,  per  persuaderlo  a  la- 
sciar  compiere  il  trasporto.  Dopo  un  lungo  e  inutile  battibecco,  il 
conte  Tullio  Dandolo2  e  la  duchessa  Giovanna  Visconti  di  Modro- 
ne  andarono  dal  luogotenente  Burger  per  persuaderlo  come,  nel- 
Tinteresse  stesso  dell'ordine  pubblico,  fosse  miglior  partito  lasciar 
compiere  il  trasporto.  II  Burger,  fatte  molte  raccomandazioni,  ac- 
consenti. 

II  feretro,  portato  a  spalla,  si  mosse,  e  la  folia  che  era  in  chiesa 
si  precipito  fuori  dalle  porte  laterali.  Alia  porta  centrale  stava  il 
gruppo  degli  amici  di  Emilio  Dandolo,  in  mezzo  ai  quali  c'era  il 
portinaio  di  casa  Crivelli,  un  ometto,  patriotta  anche  lui,  che  teneva 
nascosta  sotto  un  ampio  mantello  la  corona.  Mentre  il  convoglio 
stava  per  uscire  dalla  chiesa,  Lodovico  Mancini,  giovane  alto  della 
persona,  prese  la  corona  e  rapidamente  la  colloco,  non  veduto,  sul 
feretro  assicurandola  ai  chiodetti. 

i.  Costantino  Garavaglia:  banchiere  milanese,  che  nel  1860  consegn6  al 
D'Azeglio,  allora  governatore  di  Milano,  una  ingente  somma,  richiesta 
dal  Cavour  e  che  sembra  certo  servisse  per  la  spedizione  dei  Mille.  Un 
documento  in  proposito  si  trova  in  questi  Ricordi  di  gioventu,  alle  pp.  585- 
7  deU'edizione  da  noi  seguita.  II  Garavaglia,  non  essendo  riuscito  a  fuggire, 
fu  tra  gli  arrestati  dopo  il  funerale  di  Emilio  Dandolo;  Lodovico  Mancini: 
vedi  la  nota  i  a  p.  355.  2.  Tullio  Dandolo:  il  padre  di  Emilio  Dandolo: 
vedi  la  nota  i  a  p.  377. 


380  GIOVANNI    VISCONTI   VENOSTA 

Appena  comparve  dinanzi  all'immensa  folia  quel  feretro,  su  cui 
stava  la  bella  corona  tricolore,  ci  fu  un  fremito  in  tutti  e  si  Iev6  un 
urlo  infinite,  frenetico,  spaventoso,  che  si  ripercosse  a  lungo  e  lon- 
tano  tra  quelle  migliaia  di  persone  accorse  a  dar  Pultimo  saluto  al 
valoroso  patriotta  precocemente  morto. 

In  mezzo  a  quella  folia  stipata  non  fu  facile  formare  il  corteo ;  al- 
lora  i  feretri  non  venivano  collocati  sulle  carrozze,  ma  erano  portati 
a  spalla.  Dodici  tra  noi,  amici  intimi  del  povero  Emilio,  ci  eravamo 
prefissi  di  adempiere  a  questo  ufficio,  dandoci  il  cambio  tratto 
tratto,  e  tenendoci  intorno  al  feretro.  Accanto  a  noi  c'era  il  padre 
Piantoni,  un  dotto  barnabita,  amico  dei  Dandolo.  Dietro,  al  posto 
d'onore,  veniva  un  drappello  di  antichi  soldati  ed  ufEciali,  avanzi 
del  battaglione  Manara,  alcuni  dei  quali  erano  mutilati. 

II  commovente  drappello  accresceva  la  commozione  e  il  fermento 
della  moltitudine  di  persone  che  si  stipavano  intorno.  II  feretro 
procedeva  lentamente,  fendendo  a  stento  quella  folia  agitata,  so- 
spinta.  Tutti  volevano  veder  la  corona  tricolore  che  ad  ogni  passo 
sollevava  grida  di  entusiasmo ;  grida  che  facevano  uno  strano  con- 
trasto  col  sentimento  di  dolore  che  pur  vedevasi  in  tutti. 

Quel  trasporto  funebre  pareva  un  trionfo.  Era  infatti  il  trionfo 
d'un  patriotta,  il  trionfo  di  quella  concordia  cittadina  ch'era  Pomag- 
gio  piu  caro  allo  spirito  di  lui. 

La  ressa  era  tale  che  piu  volte,  essendo  io  pure  tra  gli  amici  che 
sjawicendavano  nel  portare  il  feretro,  temetti  che  fossimo  rove- 
sciati  e  calpestati.  I  gendarmi,  le  guardie,  gli  agenti  della  Polizia, 
erano  scomparsi.  Non  sarebbe  stato  possibile  aifrontare  quella  folia 
esaltata  e  risoluta;  cosi  essa  rimase  padrona  del  campo  dalla  chiesa 
fino  al  cimitero,  detto  di  San  Gregorio,  ora  soppresso,  e  ch'era 
fuori  la  Porta  Orientale. 

II  feretro  e  la  folia,  giunti  alia  dolorosa  meta,  trovarono  il  cimi 
tero  occupato  e  circondato  dalla  truppa.  II  feretro  e  parte  di  quelli 
che  lo  seguivano  poterono  entrarci,  ma  i  piu  furono  respinti.  La 
cassa  fu  sepolta  prowisoriamente  in  una  fossa  comune,  e  su  di  essa 
pronunciarono  parole  patriottiche  e  coraggiose  il  conte  Bargnani, 
come  era  stato  stabilito,  e  Antonio  Allievi.1 

i.Antonio  Allievi  (1824-1896)  fu  tra  i  fondatori,  con  Carlo  Tenca,  del 
cc  Crepuscolo »,  e  successivamente  della  « Perseveranza  ».  In  seguito  alle  pa 
role  da  lui  dette  sul  feretro  di  Ernilio  Dandolo,  fu  costretto  a  fuggire  in  Pie- 
monte.  A  Torino  fu  addetto  al  gabinetto  di  Cavour:  fu  poi  deputato,  se- 
natore,  presidente  delle  Ferrovie  meridionali. 


RICORDI   DI    GIOVENTIJ  381 

II  giorno  dopo  il  conte  Tullio  ottenne  di  far  trasportare  la  salma 
del  figlio  nella  sua  villa  di  Adro,  in  provincia  di  Brescia  e  fu  disse- 
polta  secretamente,  alia  presenza  di  agenti  di  Polizia.  Vi  accorse  la 
contessa  Ermellina,  che  pote,  non  veduta,  ritrovare  la  corona,  na- 
sconderla  sotto  il  mantello,  e  riportarla  a  casa. 

Nei  giorni  seguenti  il  conte  Tullio  era  chiamato  a  Torino  per 
assistere  a  un  ufficio  funebre  che,  per  iniziativa  di  Cavour,  veniva 
celebrato  in  sufFragio  del  figlio.  Tra  i  promotori  di  quelle  onoranze 
si  leggevano,  accanto  al  nome  di  Cavour,  quello  di  Lamarmora, 
Azeglio,  Durando,  Lanza,  Sella  ed  altri. 

Era  da  aspettarsi  che  il  Governo  noa  avrebbe  tardato  a  far  pa- 
gare  a  qualcuno  quella  grande  dimostrazione,  contro  la  quale  era 
stato  impotente,  e  ch'era  parsa  quasi  uaa  sollevazione. 

Infatti,  nella  giornata  seguente  a  quella  del  funerale,  alcune  faccie 
poliziesche  si  presentarono  in  casa  Bargnani  a  chiedere  del  conte. 
Avvisatone,  egli  si  reco  subito  da  mio  fratello  Emilio,  che  gli  diede 
una  lettera  per  un  signore  di  Pavia,  1'aw.  Caravaggio,1  divenuto 
poi  prefetto  e  senatore,  e  che  allora  si  adoperava  a  far  passare  il 
confine  ai  compromessi  e  ai  volontari.  II  Bargnani,  prima  di  partire, 
ritorno  a  casa  sua  per  pochi  mornenti,  e  n'era  appena  uscito  di 
nuovo  che  capitarono  gli  agenti  della  Polizia.  Dopo  averlo  cercato 
invano,  fecero  nella  casa  una  minuta  perquisizione;  e  frugando  fin 
nelle  tasche  dei  vestiti  di  lui,  nel  vestito  che  aveva  mutato  poco 
prima  trovarono  la  lettera  di  mio  fratello,  che  nella  fretta  egli  vi 
aveva  dimenticato. 

La  contessa  Bargnani,  ch'era  stata  presente  alia  perquisizione, 
appena  usciti  i  poliziotti,  corse  a  casa  nostra  per  awisare  Emilio 
che  la  sua  lettera  era  stata  trovata  e  sequestrata.  Emilio  ne  awis6 
1'Allievi,  pensando  che  la  Polizia  avesse  voluto  arrestare  il  Bargnani 
in  causa  dei  discorsi  pronunciati  al  cimitero ;  e  lo  esorto  a  partire. 
L'Allievi  infatti  parti. 

Alia  mia  volta  esortai  molto  mio  fratello  perche  partisse  egli  pure, 
parendorni  che  dopo  il  sequestro  della  sua  lettera  1'aria  di  Milano 
non  facesse  piu  per  lui;  ma  Emilio,  che  fu  sempre  ritroso  a  pren- 
dere  delle  precauzioni  per  se,  prefer!  differire. 

La  sera  del  giorno  seguente,  ch'era  il  24  febbraio,  dopo  la  rap- 
presentazione  del  teatro  della  Scala,  ci  trovavamo  io  e  Emilio  in 

i.Evandro  Caravaggio  (1836-1913)  era  allora  studente  di  giurisprudenza 
alTUniversita  di  Pavia.  Fu  nominate  senatore  nel  1901. 


382  GIOVANNI   VISCONTI    VENOSTA 

tin  crocchio  di  amici  al  caffe  Cova.  Emilio  racconto  1'awentura 
della  lettera,  poi  disse  che  poco  prima  s'era  incontrato,  in  un  cor- 
ridoio  del  teatro,  col  Direttore  di  Polizia,  il  quale  lo  aveva  fissato 
in  un  certo  modo  che  pareva  volesse  dire:  «Ah,  sei  ancora  a  Mi- 
lano  ?  Ci  rivedremo  tra  poco ! » 

Gli  amici  esortarono  Emilio,  e  anche  me,  a  pigliare  il  largo,  al- 
meno  a  non  rincasare  quella  sera,  offrendoci  Tospitalita  in  casa  loro. 
Pregato  vivamente  anche  da  me,  Emilio  si  persuase  a  seguire  un 
amico  che  voile  condurlo  in  casa  sua.  Emilio  voleva  che  ci  andassi 
anch'io,  ma  un  impegno  me  lo  impediva.  Sapevo  che  la  mattina 
seguente,  di  buon'ora,  dovevano  venire  alcuni  giovani  bresciani 
indirizzatici  da  Giuseppe  Zanardelli,1  per  avere  gli  scontrini  neces- 
sari  per  passare  il  confine.  Di  piu  dovevo  consegnare  la  Cassa  se- 
creta,  che  tenevo  in  quei  giorni,  alPamico  Carlo  Cagnola2  che  mi 
succedeva  nelFincarico. 

Rincasai  ma  non  andai  a  letto  subito.  Avevo  il  presentimento, 
naturale  del  resto,  che  potesse  capitare  anche  in  casa  nostra  una 
visita  della  Polizia  da  un  momento  all'altro,  forse  quella  stessa  notte. 
Diedi  un'occhiata  alia  scrivania  di  Emilio  e  alia  mia,  e  bruciai  alcune 
carte.  Nel  frattempo,  sempre  seguendo  i  presentimenti,  mi  venne 
un  pensiero  che  doveva  tornarmi  molto  utile,  e  cioe  di  chiudere 
la  camera  di  Emilio,  e  di  nasconderne  la  chiave.  Poi  andai  a  letto. 

Un  po'  prima  delPalba  fui  svegliato  di  soprassalto  da  un  rumore 
di  passi  nella  stanza  vicina,  ed  ecco  spalancarsi  la  porta  ed  entrare 
il  mio  servitore,  che  teneva  un  lume  con  mano  tremante,  ed  era 
seguito  da  alcune  persone.  Queste  circondarono  subito  il  mio  letto ; 
spalancai  gli  occhi  e  vidi  due  Commissari  e  quattro  guardie  di  Po 
lizia.  Uno  dei  Commissari  mi  disse  che  mi  dovevano  fare  una  per- 
quisizione,  e  che  mi  alzassi. 

Mentre  frugavano  tra  le  mie  carte  e  tra  i  miei  libri,  in  ogni  angolo 
della  camera,  e  persino  nelle  tasche  degli  abiti,  mi  vestii,  apersi  le 
finestre  e  diedi  un'occhiata  in  istrada.  Giu,  presso  il  portone,  c'eran 

1.  Giuseppe  Zanardelli  (1826-1903),  partecipo,  giovanissimo,  agli  eventi  del 
'48-49,  distinguendosi  nelle  dieci  giornate  di  Brescia.  Deputato  dal  1860, 
fu  ministro  dei  lavori  pubblici  col  Depretis  (14  marzo  1876  -  14  novem- 
bre  1877),  degli  interni  col  Cairoli,  nel  1878,  e  poi  a  lungo  ministro  di 
grazia  e  giustizia:  a  lui  si  deve  la  preparazione  del  nuovo  codice  penale 
(1890).  Fu  poi  presidente  del  Consiglio  (15  febbraio  1901-29  ottobre  1903). 

2.  Carlo  Cagnola  (1828-1895)  apparteneva  anch'egli  al  gruppo  di  patriotti 
milanesi  che  faceva  capo  a  Emilio  Dandolo.  Dopo  la  liberazione  fu  depu- 
tato  per  varie  legislature  e,  successivamente  (1876),  senatore. 


RICORDI    DI    GIOVENTfr  383 

due  guardie  e  una  carrozza.  La  carrozza  voleva  dire,  a  quei  tempi, 
che  si  trattava  delParresto, 

Uno  del  Commissari  mi  domando  se  eravamo  due  fratelli.  Gli 
risposi  ch' eravamo  tre.  Mi  parve  che  questa  risposta  lo  imbaraz- 
zasse,  perche  si  mise  a  confabular  piano  coiraltro ;  poi  mi  disse  di 
condurlo  nella  camera  del  fratello  maggiore. 

Quando  si  trovarono  dinanzi  a  un  uscio  chiuso  e  senza  cliiave,  i 
miei  personaggi  montarono  in  furore.  Mi  fecero  un  monte  di  do- 
mande  alle  quali  risposi  che  non  sapevo  nulla,  e  alia  fine  ingiunsero 
al  mio  servitore  di  chiamare  un  fabbro.  II  servitore  ando,  si  fece 
aspettare  un  pezzo,  poi  ritorno  dicendo  che  le  botteghe  eran  chiuse, 
e  che  di  fabbri  non  ce  n'era.  Nuovi  furori  dei  Commissari,  che 
finirono  colPordinare  alle  guardie  di  abbattere  Puscio. 

—  Come  mai  ?  —  esclamarono  vedendo  un  letto  ancor  fatto  — 
Ma  . .  .  suo  fratello  ieri  sera  era  in  teatro! 

—  E  ne  siamo  usciti  insieme  —  risposi.  —  Poi  io  venni  difilato  a 
casa,  ed  egli  ando  al  caffe. 

II  non  aver  trovato  Emilio,  e  Paver  sentito  che  eravamo  tre  fra 
telli,  due  fatti  non  preveduti,  fecero  confabulare  di  nuovo  i  miei 
Commissari.  Poi,  uno  se  ne  ando  per  chiedere,  evidentemente,  nuo- 
ve  istruzioni,  e  dicendo  infatti  che  sarebbe  tornato  tra  poco;  Paltro 
principio  a  fare  la  sua  perquisizione  nella  camera  di  Emilio.  Intanto 

10  m'ero  messo  a  chiacchierare  colle  guardie,  dando  loro  dei  sigari, 
passeggiando  per  le  stanze  attigue  e  meditando  il  mio  piano. 

A  un  tratto  sento  il  campanello  delPuscio  che  metteva  sul  piane- 
rottolo.  Mi  viene  un  sospetto,  e  accompagnato  da  una  guardia  corro 
ad  aprire.  Vedo  tre  giovani,  capisco  ch'erano  i  tre  bresciani  mandati 
da  Zanardelli.  Ricordo  ancora  quelle  tre  facce  che,  sbalordite  per 
aver  vedute  le  guardie  in  strada,  ora  si  trovavano  dinanzi  a  un  altro 
poliziotto:  devono  aver  creduto  in  quel  momento  d'esser  caduti  in 
trappola.  Dissi  piano,  ammiccando  loro :  —  A  piu  tardi  —  e  loro  giu 
in  fretta  per  le  scale. 

Seppi  poi,  molto  tempo  dopo,  che  li  accolse  mio  fratello  Enrico, 

11  quale  sapeva  dove  tenevo  nascosti  gli  scontrini  e  la  Cassa,  e  che 
penso  lui  a  tutto. 

AlPappartamento  che  occupavamo  allora,  si  accedeva  anche  da 
una  scaletta  di  servizio,  e  nella  casa  c'eran  due  corti,  una  che  met 
teva  nella  via  Cerva  e  Paltra  nella  via  Monforte.  La  Polizia  era  ve- 
nuta  da  via  Cerva.  Ora,  mentre  passeggiavo  per  le  stanze,  e  scam- 


384  GIOVANNI    VISCONTI   VENOSTA 

biavo  colla  massima  indifferenza  alcune  chiacchiere  colle  guardie, 
mi  decisi  pel  mio  piano,  ch'era  di  svignarmela  prima  che  arrivasse 
il  secondo  Commissar io.  E,  detto  fatto,  approfittando  d'un  istante 
di  distrazione  delle  guardie,  passai  di  soppiatto  da  un  uscio  a  muro 
in  una  stanza  attigua,  presi  la  scaletta,  scesi  in  fretta  nella  seconda 
corte,  apersi  lo  sportello  del  portone  di  cui  poco  prima  avevo  preso 
la  chiave,  e  in  un  attimo  fui  in  via  Monforte. 

Albeggiava;  le  strade  erano  ancora  deserte,  e  io  potei  principiare 
la  mia  ritirata  con  una  certa  velocita,  senza  destar  sospetti,  perche 
non  incontrai  anima  viva. 

E  ora  dove  vado  ?  Fu  questo  il  mio  primo  pensiero,  dopo  aver 
fatto  un  paio  di  strade,  mentre  rallentavo  il  passo  per  riavere  il 
fiato.  Dove  vado  ? 

Andr6,  pensai,  in  casa  di  qualche  arnico  dove  potr6  prowedere 
ai  casi  miei.  Mi  diressi,  di  buon  passo  s'intende,  verso  la  casa 
delPamico  Costantino  Garavaglia;  e  giuntovi,  trovai  sul  portone 
il  portinaio  smorto,  allibito.  Mi  conosceva,  e  fattosi  vicino  mi  disse 
piano:  —  II  signor  Garavaglia  e  stato  arrestato,  1'hanno  condotto 
via  mezz'ora  fa. 

Mi  diressi  allora  verso  casa  Carcano,  e  fu  la  stessa  scena.  —  Quelli 
della  Polizia  son  venuti  a  prendere  don  Costanzo  questa  notte ;  — 
mi  disse  tremando  il  portinaio  —  ha  ben  cercato  lui  di  svignarsela, 
ma  1'hanno  ripreso. 

E  ora  dove  vado  ?  dissi  ancora  tra  me.  Faccio  pochi  passi,  ed  ecco 
il  servitore  di  casa  Dandolo  che  mi  disse  d'essere  in  giro  per  ordine 
della  contessa,  per  awisare  i  Carcano,  me  ed  altri,  che  nella  notte  la 
Polizia  era  andata  in  casa  Dandolo  a  fare  una  perquisizione,  arre- 
stando  poi  il  moro  Latif. 

Lath0  era  un  giovane  negro,  che  Emilio  Dandolo  aveva  condotto 
con  se  dal  suo  viaggio  in  Egitto.  La  Polizia  lo  aveva  arrestato  spe- 
rando  di  sapere  da  lui  come  fosse  awenuta,  in  casa  Dandolo,  la 
cospirazione  del  funerale,  e  quali  fossero  i  cospiratori.  Ma  il  povero 
moretto,  come  vedremo  piu  innanzi,  rimase  in  prigione  qualche 
tempo  quasi  senza  aprir  bocca,  rispondendo  a  monosillabi :  sapeva 
qualche  parola  di  milanese,  e  ad  ogni  domanda  rispondeva:  —  Mi 
soo  nient. 

II  poveretto  mori  poco  tempo  dopo,  etico  anche  lui  come  il  suo 
padrone,  a  cui  era  grandemente  affezionato. 

Al  servitore  di  casa  Dandolo  diedi  quelle  poche  notizie  che  ho 


RICORDI    DI    GIOVENTU  385 

qui  riferite;  lo  incaricai  di  salutare  la  contessa,  e  di  dirle  che  speravo 
di  non  lasciarmi  acchiappare. 

Mi  venne  intanto  il  pensiero  di  andare,  per  strade  un  po'  fuor 
di  mano,  dalla  contessa  Maffei,  sicuro  che  vi  avrei  trovato  tutti 
quegli  aiuti  che  mi  potevano  occorrere.  Piu  tardi  seppi  che  in  quella 
notte  la  Polizia  aveva  fatti  altri  arresti,  ed  altri  ne  ordino  poi  tra  le 
persone  che  credeva  complici  nella  dimostrazione  pel  Dandolo. 
Tra  questi  c'erano  il  marchese  Luigi  e  la  marchesa  Carolina  Cri- 
velli,  e  il  marchese  Lodovico  Trotti,  che  fuggirono  in  Piemonte. 

La  contessa  Maffei,  che  feci  svegliare  dalla  cameriera,  mi  rice- 
vette  subito,  immaginandosi  che  ci  fosse  qualche  cosa  d'importante 
se  venivo  a  quell'ora.  In  poche  parole  le  raccontai  1'accaduto,  ed 
essa  penso  di  far  chiamare  subito  il  Tenca. 

Mentre  la  contessa  si  vestiva,  e  il  servitore  andava  a  chiamare  il 
Tenca,  mi  ricordai  ch'ero  uscito  di  casa  senza  un  soldo  in  tasca, 
circostanza  sfavorevole  per  chi  si  prepara  a  una  fuga.  La  contessa, 
li  per  li,  non  ne  aveva  molti.  A  pochi  passi,  cioe  alia  Croce  Rossa, 
abitava  donna  Laura  Scaccabarozzi  d'Adda,  che  avrebbe  potuto 
supplire,  e  in  due  salti  fui  da  lei.  Mi  ricevette,  e  mi  diede  quanto 
mi  poteva  largamente  abbisognare,  poi  si  assunse  di  far  awisare 
Emilio,  e  di  andare  da  mia  madre  per  dirle  quanto  era  awenuto, 
appena  mi  sapesse  fuori  della  citta.  Ritornato  dalla  contessa  vi  trovai 
il  Tenca,  il  quale  ando  a  chiamare  un  comune  amico,  Tingegnere 
Achille  Villa,  che  aveva  cavalli  e  carrozze. 

In  meno  di  mezz'ora  il  Villa  fu  alia  porta  di  casa  Maffei  con  un 
legnetto  e  un  buon  cavallo.  Partii  con  lui,  di  gran  trotto,  e  uscimmo 
da  Porta  Nuova  senza  che  le  guardie  si  occupassero  di  noi,  in 
mezzo  airandirivieni  dei  carri  e  delle  carrette  che  a  quell'ora  en- 
trano  in  citta.  Strada  facendo  il  Villa  mi  disse  che  m'avrebbe  con- 
dotto  in  una  cascina,  a  due  miglia  dalla  citta,  ove  abitava  un  tale,  di 
cui  non  rammento  piu  il  nome;  mi  diede  il  suo  biglietto  da  visita, 
con  cui  dovevo  presentarmi,  e  quel  tale  si  sarebbe  incaricato  di 
mandarmi  al  di  la  del  Ticino. 

Si  giunse  alia  cascina,  ci  salutiamo,  e  in  un  attimo  il  legnetto  e 
1'ingegnere  scomparvero. 

Eccomi  dunque  solo,  nella  vasta  corte  d'un  cascinale,  dinanzi  a 
un  cane  che  abbaiava,  e  a  un  branco  di  oche  che  scappavano. 
Ma  poco  dopo  mi  venne  incontro  anche  un  uomo,  un  cavallaro. 

—  C'e  il  signor .  .  .  —  gli  domandai  subito. 

25 


386  GIOVANNI   VISCONTI   VENOSTA 

—  II  signer  . .  .  ?  mio  padrone  non  c'e.  £  andato  ieri  a  Milano,  e 
per  alcuni  giorni  non  tornera. 

Cio  detto  il  mio  cavallaro  mi  volto  le  spalle  e  se  ne  ando  in  una 
stalla. 

Si  incomincia  male,  pensai  tra  me.  E  ora  che  cosa  si  fa? ... 
Dar6  una  buona  mancia  al  cavallaro  e  lo  mandero  a  Milano  con  un 
biglietto  per  Fingegnere  Villa  raccontandogli  il  mio  contrattempo. 

II  cavallaro  mi  fisso  con  una  cert'aria  scrutatrice,  poi  mi  disse 
sottovoce:  —  Lei  sarebbe  per  caso  uno  di  quei  giovanotti  che  vanno 
via  ...  che  vanno  per  di  la?  —  e  fece  un  gesto  nella  direzione  d'oc- 
cidente,  ossia  verso  il  Ticino. 

—  Precisamente  —  risposi. 

—  Allora,  quand'e  cosi,  aspetti  un  momento ;  attacco  un  legnetto, 
e  si  parte  subito.  Eh,  ne  ho  condotti  in  questi  giorni,  de*  giovanotti 
che  vanno  ad  arruolarsi! 

—  Vedo  che  siete  un  brav'uomo. 

Poco  dopo  ero  nel  legnetto,  che  s'awio  per  strade  comunali,  e 
fuor  di  mano,  evitando  le  strade  principali  ch'erano  per  corse  da 
pattuglie.  II  cavallaro-cocchiere  mi  disse  che  m'avrebbe  condotto  a 
un  paesello,  di  cui  non  ricordo  il  nome,  ove  avrei  trovato  un  altro 
legnetto  per  proseguire. 

Cosi  viaggiai  fin  quasi  a  sera,  mutando  tre  volte  il  vetturale,  il 
legno  e  il  cavallo,  somministratimi  da  persone  che  non  conoscevo, 
senza  spiegazioni,  come  cosa  intesa,  e  andando  sempre  per  stradette 
tortuose  e  fuor  di  mano.  Che  brava  gente! 

Suirimbrunire,  Tultimo  dei  miei  vetturali  prese  a  dirmi:  —  Vede 
quel  paese  ?  £  Lonato  Pozzuolo.  £  la  che  lo  conduce,  e  ci  siamo.  — 
Poi  interrompendosi  di  botto,  m'indico  poco  distanti  certe  punte 
di  elmi  che  luccicavano  -  allora  i  gendarmi  avevano  gli  elmi  alia 
prussiana-e  mi  disse  sotto  voce:—  I  gendarmi!  scenda  subito, 
passi  la  siepe,  attraversi  in  fretta  quel  campicello  .  .  .  vedra  in  prin- 
cipio  del  paese  una  vecchia  casa  .  .  .  ci  entri.  —  Cosi  dicendo,  volto 
il  legnetto;  io  scesi,  attraversai  la  siepe,  e  via  tutt'e  due,  uno  da 
una  parte,  uno  dalPaltra. 

In  pochi  minuti  giunsi  alia  vecchia  casa,  e  entrai  in  un  portone. 

—  Chi  e  la  ?  Chi  cerca  ?  —  mi  chiese  una  vecchia  fantesca  facen- 
dosi  innanzi. 

—  C'e  il  padrone  di  casa?  —  risposi  franco  come  se  lo  conoscessi. 

—  Entri  per  quell'uscio  in  cucina,  e  ve  lo  trovera. 


RICORDI   DI    GIOVENTtl  387 

Seduto  sotto  la  cappa  (Tun  gran  camino,  attizzando  colle  molle 
le  legna,  e  fumando  la  pipa,  se  ne  stava  un  ometto  sulla  cinquantina, 
che  vedendomi  mi  squadro,  si  alz6,  e  mi  venne  incontro. 

—  Con  chi  ho  il  piacere  di  parlare  ?  —  mi  disse  con  un  fare  bo- 
nario  che  ispirava  confidenza. 

—  Con  uno  —  gli  risposi  —  che  viene  a  domandare  ospitalita. 

II  mio  ospite  mi  squadro  ancora,  e  diede  una  occhiata  interroga- 
tiva  al  mio  cappello.  Bisogna  sapere  che  nel  fuggire  di  casa,  quella 
mattina,  nella  fretta  m'ero  messo  in  testa  un  cappello  a  tuba.  Quel 
cappello  aveva  piu  volte  attirato  lo  sguardo  curioso  e  un  poco 
sospettoso  dei  miei  vetturali  e  di  quanti  incontravo  per  le  stradette 
di  campagna. 

—  lo  sono  —  presi  a  dire  —  un  giovane  che  vorrebbe  andare  di 
la  ...  —  e  feci  quel  tal  gesto  colla  mano  e  col  braccio.  —  Ma  c'e  di 
piu;  la  Polizia  questa  mattina  e  venuta  per  arrestarmi,  e  son  fug- 
gito  da  Milano.  Ora  poi,  poco  fa,  una  pattuglia  di  gendarmi  po- 
trebbe  avermi  veduto,  mentre  attraversavo  unasiepe  e  me  la  davo 
a  gambe  .  .  . 

—  Ha  fatto  bene  a  dirmelo ;  vado  a  chiudere  il  portone,  e  allora 
non  ci  pensi  piu,  lei  e  al  sicuro. 

—  Eccomi  da  lei  —  continue  poco  dopo,  ritornando  in  cucina,  e 
fregandosi  le  mani.  —  Dunque  lei  avra  le  notizie  di  Milano  . .  . 

—  Innanzi  tutto  le  diro  chi  sono  ...  —  e  andavo  cercando  nel 
portafogli  un  biglietto  da  visita. 

—  Non  importa,  non  importa.  Volevano  arrestarla?  Basta  cosi. 
Siamo  tutti  patriotti,  e  viva  Fltalia! 

£  cosi  che  si  parlava  allora.  lo  non  sapevo  chi  fosse  lui,  egli  non 
sapeva  chi  fossi  io;  ma  un  sentimento  reciproco  di  fiducia,  una  spe- 
ranza,  una  fede  comune  ci  legava  tutti;  bastava  che  si  parlasse  lo 
stesso  linguaggio,  per  sentirci  amici,  fratelli. 

—  Dunque  a  Milano  grandi  novita  ?  Si  park  che  ci  fu  un  grande  fu- 
nerale,  che  ci  fu  una  grande  dimostrazione!  —  Mi  dica,  mi  racconti. 

—  Eh,  sicuro ;  ci  ho  preso  qualche  parte  anch'io,  e  forse  per  questo 
mi  volevano  pigliare.  Se  desidera  delle  novita,  gliene  porto  un  sacco. 

—  Benone,  benone.  Sa  che  cosa  faremo  ?  Vado  a  chiamare  due 
miei  amici,  ghiotti  anche  essi  di  notizie .  .  .  un  ingegnere  e  un 
prete,  due  bravi  giovanotti  a  cui  piace  la  compagnia.  Lei  ci  raccon- 
tera  le  notizie,  e  passer emo  la  sera  insieme.  Ma,  a  proposito,  mi  dica 
un  po*  come  stiamo  a  appetito  ? 


388  GIOVANNI    VISCONTI    VENOSTA 

—  Benissimo,  —  risposi  —  ho  pranzato  appunto  ventiquattr'ore 
fa;  poi  ho  sbocconcellato  oggi  per  strada  qualche  pezzo  di  pane  .  . . 
e  basta. 

—  Peccato  che  lei  sia  capitato  proprio  quando  avevo  finito  di  ce- 
nare.  Ma  guardiamo  nella  credenza,  forse  qualcosa  ci  sara. 

Poco  dopo,  sulla  tavola  d'un  salottino,  accanto  alia  cucina,  il  mio 
ospite  mi  imbandi  un  mezzo  piccione,  del  salame  e  del  cacio;  poi 
usci  a  chiamare  i  suoi  due  amici.  Prima  che  il  padrone  tornasse, 
la  serva  aveva  collocato  sulla  tavola  quattro  bicchieri  e  sei  bottiglie! 
Cio,  evidentemente,  doveva  far  parte,  oltre  i  discorsi,  del  program- 
ma  della  serata. 

L'ingegnere  e  il  prete,  che  vennero  poco  dopo,  erano  due  buoni  e 
allegri  compagni,  che  amavano  la  patria,  il  vino  buono  e  la  com- 
pagnia. 

Se  ne  fecero  delle  chiacchiere!  Si  continue  fino  a  notte  inoltrata, 
fmche  il  vino,  la  stanchezza,  i  discorsi,  m'ebbero  rifinito.  Non  ne 
potevo  piu;  finalmente  il  mio  ospite,  che  per  suo  conto  avrebbe 
continuato  a  chiacchierare  e  a  bere,  mi  condusse  in  una  camera 
ove  e'er  a  un  gran  letto,  e  datami  la  buona  notte  mi  raccomand6  di 
non  uscire  prima  che  venisse  lui  a  prendermi. 

Quando  venne,  il  sole  era  gia  alto  e  io  dormivo  placidamente 
ancora.  Egli  mi  disse  d'aver  fatto  intanto  un  giretto  d'esplorazione 
nei  dintorni,  e  d'aver  osservato  che  il  passaggio  del  Ticino  era  di- 
venuto  ormai  quasi  impossibile.  Le  rive  del  flume  erano  continua- 
mente  percorse  da  pattuglie  di  ussari ;  i  barcaiuoli,  minacciati  con- 
tinuamente  dai  gendarmi,  non  osavano  piu  muovere  le  barche;  a 
voler  passare  c'era  da  prendersi  una  schioppettata. 

—  Per 6  lei  passera  —  concluse  il  mio  ospite.  —  Ne  ho  fatti  pas 
sare  dei  giovanotti!  . .  .  e  lei,  sangue  freddo,  e  faccia  franca! 

Poco  distante  c'era  un  ufficio  di  Dogana,  con  un  Commissario  di 
Polizia.  II  mio  ospite  conosceva  il  Commissario,  gli  aveva  fatto  visita 
poco  prima,  e  gli  aveva  detto  ch'era  arrivato  Pingegnere  capo  d'una 
ferrovia  progettata,  di  cui  si  parlava  in  quei  giorni.  Io,  dunque,  do- 
vevo  essere  Pingegnere,  venuto  a  visitare  le  vicinanze  della  Dogana. 

Eccoci  dunque  sulla  strada  che  conduce  all'ufficio  della  Dogana, 
ed  ecco  poco  dopo  il  Commissario,  che  avendoci  veduti  mi  veniva 
incontro  a  complimentarmi.  In  quel  momento  il  mio  cappello  a 
tuba  tornava  opportunissimo,  come  se  Io  avessi  preso  apposta  per 
la  circostanza. 


RICORDI    DI   GIOVENTtl  389 

—  Dunque  e  vero  che  si  sta  studiando  il  prolungamento  della 
ferrovia  a  cavalli  di  Tornavento  ?  —  mi  chiese  il  Commissario. 

—  Si  studia,  si  studia  —  risposi  col  fare  circospetto  di  chi  non 
vuol  entrare  in  particolari. 

II  Commissario  amava  discorrere,  ed  era  molto  ossequioso;  io 
serbavo  un  contegno  pieno  di  dignita. 

—  Dicevo  questa  mattina  al  signor  Ernesto,  venuto  gentilmente 
a  salutarmi,  —  prese  a  dire  il  Commissario  —  che  sarebbe  questa 
una  bella  occasione  per  me,  se  potessi  impiegare  mio  figlio  nella 
Societa,  di  cui  sento  ch'ella  e  I5  Ispettore  . .  .  Non  avrei  osato  rac- 
comandarglielo,  ma .  . .  il  signor  Ernesto  Tirinanzi  mi  ha  fatto 
coraggio  . . . 

Sentivo  in  quel  momento,  per  la  prima  volta,  che  il  mio  ospite 
si  chiamava  il  signor  Ernesto  Tirinanzi. 

Accolsi  con  benevolenza  la  raccomandazione  del  Commissario; 
gli  feci  alcune  interrogazioni  sul  figlio ;  e  levato  di  tasca  il  portafogli 
presi  degli  appunti,  incoraggiando  il  mio  ossequioso  interlocutore 
a  mandarmi,  col  mezzo  del  signor  Tirinanzi,  un'istanza  regolare  e 
documentata. 

Mentre  il  Commissario  si  profondeva  in  ringraziamenti,  il  signor 
Tirinanzi  gli  domando  se  il  signor  Ispettore,  cioe  io,  avrebbe  potuto 
portarsi  per  una  mezz'oretta  sulla  riva  destra  del  Ticino  per  certi 
studi  che  stavo  facendo. 

—  Veramente,  —  rispose  il  Commissario  —  in  questi  momenti 
non  si  potrebbe  . .  .  pero  . . . 

—  Oh,  ma  io  —  soggiunsi  —  non  ho  alcuna  fretta  .  .  .  al  caso,  piu 
tardi,  un'altra  volta  .  .  . 

—  No,  signor  ingegnere,  cioe  signor  Ispettore,  se  vuol  portarsi 
sulPaltra  riva,  per  darci  un'occhiata,  e  meglio  che  ci  vada  subito, 
intanto  che  non  ci  sono  i  soldati.  Lasci  fare  a  me,  signor  ispetto- 
re  .  .  .  —  e  chiamo  quattro  guardie  di  finanza. 

Poco  dopo,  colle  guardie  e  col  signor  Tirinanzi,  entrai  in  una 
barca  della  finanza;  il  Commissario  si  scuso  di  non  poterci  accom- 
pagnare,  per  non  abbandonare  il  posto;  e  in  pochi  minuti  toccammo 
la  sponda  piemontese. 

Cosi  io  potei  compiere  la  mia  fuga,  attraversando  il  Ticino  sotto 
la  scorta  delle  guardie  di  finanza. 

Fattici  i  reciproci  complimenti  per  aver  bene  rappresentata  la 
nostra  commedia,  dissi  al  signor  Tirinanzi :  —  Io  sono  al  sicuro,  ma 


390  GIOVANNI   VISCONTI   VENOSTA 

lei  deve  tornare  a  casa  . . .  come  Paccomodera  col  Commissario  ? 

—  II  Commissario  capira  che  1'ho  canzonato,  ma  gli  converra  di 
tacere.  Ora,  lei  dovra  andare  a  Oleggio,  poi  a  Novara,  ove  prendera 
la  strada  ferrata  per  Torino.  Bisognera  per6  che  fino  a  Oleggio 
Faccompagni  io,  diversamente  traverso  le  boscaglie  c'e  da  perdere 
la  strada. 

Si  and6  insieme  a  piedi  a  Oleggio,  poi  da  Novara  mandai  subito 
un  telegramma  a  Milano  per  tranquillare  mia  madre  e  mio  fratello 
Enrico. 

A  Oleggio  salutai,  abbracciandolo,  il  signor  Tirinanzi,  e  cercai 
alia  meglio  di  esprimergli  tutta  la  mia  riconoscenza.  Ci  scrivemmo 
di  tanto  in  tanto  per  parecchi  anni,  e  ci  vedemmo  pure  qualche 
volta.  Di  lui  rammentero  sempre  la  cordialita  con  cui  mi  ospit6,  e 
il  sentimento  patriottico  con  cui  protesse  me,  che  gli  ero  scono- 
sciuto,  come  se  fossi  un  suo  figlio. 

Da  Novara1  a  Torino  mi  trovai  in  vagone  con  parecchi  giovani, 
che  avevano  da  poco  passata  la  frontiera,  e  che  tutti  narravano  le 
loro  peripezie  di  quella  mattina,  o  del  giorno  innanzi.  Cantavano 
come  coscritti,  e  il  «  dagliela  avanti  un  passo »  era  il  ritornello  co- 
mune. 

Tra  quei  giovani  c'era  un  bergamasco,  il  Caroli,3  allegro  e  chias- 
soso  piu  di  tutti.  Povero  giovane!  chi  gli  avrebbe  allora  predette  le 
terribili  vicende  a  cui  era  destinato!  Dopo  la  campagna,  implicato 
in  una  questione  delicata  con  Garibaldi  e  percio  mal  veduto  dai  ga- 
ribaldini,  and6  in  Polonia  col  Nullo  ;3  prese  parte  all'insurrezione, 
fu  fatto  prigioniero,  e  condannato  alia  fucilazione.  II  nostro  am- 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  xxvn,  pp.  443-4.  2.  Luigi  Caroli,  di  Bergamo,  dopo 
aver  partecipato  alia  guerra  del  1859,  come  volontario,  si  invaghi  della 
marchesina  Raimondi,  che  doveva  sposare  Garibaldi.  Questo  suo  idillio 
gli  suscit6  contro  molte  inimicizie,  che  invano  egli  cerc6  di  vincere,  sia 
combattendo  al  seguito  di  Garibaldi  nel  1860  e  poi  ad  Aspromonte,  sia 
ponendo  le  sue  grandi  ricchezze  al  servizio  della  causa  nazionale.  Segui 
Nullo  (vedi  la  nota  3)  in  aiuto  dei  Polacchi  insorti:  mortogli  accanto 
Nullo,  e  fatto  prigioniero  dai  cosacchi,  fu  dapprima  condannato  a  mor- 
te,  poi  deportato  in  Siberia,  nella  prigione  di  Kadaja,  insieme  con  due 
compagni  italiani:  e  ivi  mori  (8  giugno  1864)  e  fu  sepolto.  Di  lui  e  delle 
sue  vicende,  scrisse  belle  pagine  G.  C.  ABBA,  in  Ritratti  e  profili,  Torino, 
S.T.E.N.,  1912,  pp.  175-87.  3.  Francesco  Nullo,  di  Bergamo  (1826-1863), 
prese  parte  alia  rivoluzione  delle  Cinque  giornate,  alia  spedizione  dei 
Mille,  a  quella  di  Aspromonte  con  Garibaldi.  Chiamato  come  generate 
nella  Polonia,  che  combatteva  per  la  sua  liberta,  mori  combattendo  a 
Krjykavoka. 


RICORDI   DI   GIOVENTtl  3QI 

basciatore,  Pepoli,  gli  salvo  la  vita;  ma  il  Caroli  fu  deportato  in 
Siberia,  ove  poco  dopo  mori. 

Tra  i  canti  e  1'allegria  si  giunse  sul  far  della  sera  a  Torino.  Scesi 
all'albergo  Europa,  ove  la  fortuna  voile  che  trovassi  anche  mio  fra- 
tello  Emilio,  arrivatoci  quella  stessa  mattina.  Ci  raccontammo  le 
nostre  awenture,  lieti  d'essere  giunti  felicemente  alia  Mecca,  come 
si  diceva  allora,  e  senza  il  menomo  timore  che  quello  potesse  essere 
il  primo  giorno  d'un  esilio ;  tanta  era  in  noi,  come  in  tutti,  la  fede 
che  presto  casa  nostra  sarebbe  stata  libera  per  sempre. 


UGO  PESCI 


PROFILO  BIOGRAFICO 


II  PESCI  stesso,  nelle  prime  pagine  che  di  lui  abbiamo  riprodotto, 
ripercorre  gli  anni  della  sua  fanciullezza,  trascorsa  col  nonno  a 
Mercatale,  villaggio  del  comune  di  San  Casciano,  e  quelli  della  sua 
adolescenza,  vissuti  a  Firenze,  dove  fu  acceso  spettatore  dei  vari 
eventi  che  decisero  la  fine  del  granducato  e  Tannessione  della  To- 
scana  al  Piemonte.  Ugo  Pesci  era  nato  a  Firenze  nel  1842,  e  gia 
dalla  famiglia,  come  poi  dagli  awenimenti  stessi  di  quel  tempo, 
aveva  tratto  sentimenti  ed  entusiasmi  liberali.  Proprio  per  questi 
suoi  ideali  si  awio  alia  camera  militare,  e,  frequentata  la  scuola  di 
Modena,  ne  usci  ufficiale  nel  1865.  La  sua  statura,  la  sua  solida 
complessione  lo  fecero  assegnare  ad  un  reggimento  di  granatieri, 
e  come  ufficiale  dei  granatieri  partecipo  alia  guerra  del  '66  e  fu 
presente  alia  battaglia  di  Custoza.  Alia  fine  della  guerra,  quando 
era  appena  passato  tra  i  bersaglieri,  awenne  a  lui  ci6  che  quasi  nello 
stesso  tempo  accadde  al  De  Amicis:  la  passione  del  giornalista  e 
dello  scrittore  lo  allontano  dalla  vita  militare  e  diede  un  nuovo 
orientamento  alia  sua  esistenza.  Ma,  in  realta,  dell'esperienza  vis- 
suta  nell'esercito  gli  rimase  non  poco:  tra  Paltro,  quel  suo  costante 
lealismo  monarchico  che  gli  si  presentava  come  un  impegno  d'onore 
e  di  disciplina,  e  che,  mentre  dette  un  particolare  colore  alle  sue 
pagine,  gli  impedi  anche,  assai  spesso,  di  comprendere  pienamente 
altri  atteggiamenti  della  vita  politica  italiana.  Entrato  nella  reda- 
zione  del  «Fanfulla»,  a  Firenze,  ne  fu  tra  i  principali  collaborator^ 
elegante  ed  arguto :  e  proprio  per  questo,  oltre  che  per  il  suo  pas 
sato  militare,  fu  prescelto  dal  giornale  perche  seguisse,  come  in- 
viato  speciale,  le  truppe  italiane  che  nel  '70  movevano  alljoccupa- 
zione  di  Roma.  E  gia  il  20  settembre  era  anch'egli  dentro  le  mura 
della  citta,  a  vederne  le  prime  ore  di  nuova  vita:  spettacolo  per  lui 
indimenticabile,  e  che  sembra  ancora  lo  commuova  e  lo  esalti  nelle 
belle  pagine  del  volume  in  cui  fisso  i  ricordi  di  quelPawenimento 
storico :  il  volume  Come  siamo  entrati  in  Roma,  pubblicato  molti 
anni  dopo,  nel  1895,  e  che  tanto  piacque  al  Carducci. 

Come  altri  giornali,  anche  il  <cFanfulla»  si  trasferi  nella  nuova 
capitale:  e  il  Pesci,  che  ne  divenne  redattore  capo,  si  spost6  an- 
ch'egli  da  Firenze  a  Roma.  Fu,  questo,  il  periodo  migliore  della 
vita  giornalistica  del  Pesci :  al «  Fanfulla  »  egli  si  sentiva  animatore  ed 


396  UGO  PESCI 

arbitro,  anche  piu  dello  stesso  direttore,  Bino  Avanzini,  cui  del 
resto  era  particolarmente  affezionato.  Gli  ambient!  politici,  quelli 
militari,  la  stessa  Corte  erano  aperti  a  lui:  re  Vittorio  prima,  re 
Umberto  poi,  gli  mostravano  benevolenza  e  simpatia,  deputati  e 
ministri  gli  erano  amici.  Ma  sapeva  anche  conservare  frequenti  con- 
tatti  con  popolani :  lieto  e  fiducioso  verso  quella  Roma  che  si  spro- 
vincializzava  gradualmente  e  faticosamente,  pur  conservando  il 
fascino  delle  sue  feste  e  dei  suoi  costumi:  spesso,  d'altra  parte,  tur- 
bato  dalle  prime  agitazioni  sociali  e  dal  risorgere  di  moti  repub- 
blicani. 

Quando  1' Avanzini  lascio  la  direzione  del  « Fanfulla »,  il  Pesci 
abbandono  il  giornale  e  si  trasferi  a  Milano,  a  collaborarvi  per  al- 
cuni  anni  al  «  Corriere  della  sera  »,  e  poi  al  «  Caffe  »  e  alP«  Illustra- 
zione  italiana».  A  Milano  sposo  una  figlia  del  pittore  Formis  e  ne 
ebbe  una  figliuola,  Vittoria,  che  divenne  il  suo  costante  pensiero. 
Nel  1888,  chiamato  a  dirigere  la  «Gazzetta  dell' Emilia »,  si  sposto 
a  Bologna,  che  gli  fu  poi  cara  come  seconda  patria,  ne  piu  se  ne 
allontano.  Furono  gli  anni  d'oro  di  quel  nuovo  giornale,  tanto  vi- 
gore,  e  vivacita  d'ingegno  e  abilita  di  scrittore,  vi  profuse  il  Pesci, 
sostenendovi,  con  i  suoi  articoli,  instancabilmente,  il  liberalismo 
moderato,  fino  al  1901,  quando,  sospesa  temporaneamente  la  pub- 
blicazione  del  giornale,  egli  ne  lascio  la  direzione.  Da  allora,  pur 
continuando  una  sua  attivita  giornalistica,  come  collaborator  assi- 
duo  del  cc  Giornale  d' Italia  »,  della  «  Perseveranza»,  del «  Secolo  XX », 
dell' cc  Illustrazione  italiana»,  rivolse  piuttosto  la  sua  attenzione  a 
raccogliere  in  volumi  i  molti  ricordi  della  sua  vita,  che  per  gran 
parte  si  intrecciavano  alle  vicende  italiane  svoltesi  dalla  prima 
guerra  di  indipendenza  sino  alia  fine  del  secolo.  II  ripensamento 
della  sua  esistenza  gli  destava  contemporaneamente  interessi  e  cu- 
riosita  fra  storiche  e  cronachistiche.  La  sua  stessa  vita  di  quegli  anni 
ne  e  un  segno,  che  entro  a  far  parte  del  comitato  romagnolo  della 
Societa  nazionale  per  la  storia  del  Risorgimento  e  fu  tra  gli  assidui 
frequentatori  della  libreria  Zanichelli,  dove  si  riunivano,  in  po- 
meridiane  conversazioni,  il  Carducci,  il  Panzacchi,  il  Guerrini, 
ripercorrendo  ricordi  letterari  e  memorie  patriottiche,  lamentando 
a  volte  il  presente  ed  esaltando  il  passato.  In  quegli  anni  egli  com 
pose  quasi  tutti  i  suoi  volumi:  una  rievocazione  dei  molti  bolognesi 
che  avevano  combattuto  nelle  guerre  del  Risorgimento,  una  vita  del 
generale  Carlo  Mezzacapo,  che  era  stato  suo  comandante  a  Custoza, 


PROFILO    BIOGRAFICO  397 

una  biografia  di  Umberto  I,  una  narrazione  dei  tempi  in  cui  Fi- 
renze  era  stata  capitale,  e  di  quelli  in  cui  Roma  aveva  iniziata  la  sua 
nuova  esistenza  come  centro  politico  della  vita  italiana.  Ma  gia  la 
sua  salute  cedeva:  nel  1905  dove  sottoporsi  alPamputazione  di  un 
piede  per  cancrena  diabetica,  negli  anni  successivi  non  usci  piii  di 
casa:  il  13  dicembre  del  1908  cesso  di  vivere. 

Nei  libri  di  memorie  cui  il  Pesci  dedico  gli  ultimi  anni  della  sua 
vita,  si  incontrano  due  tendenze  dello  scrittore:  Tabitudine,  ac- 
quistata  nei  lunghi  anni  di  giornalismo,  di  riferire  gli  awenimenti 
con  ampiezza  e  precisione  di  particolari,  e  il  desiderio  di  richia- 
mare  in  vita  1'atmosfera  di  anni  ormai  lontani,  con  i  sentimenti,  gli 
ideali,  gli  uomini  che  Pavevano  animata.  Due  tendenze  spesso  con- 
trastanti,  che  Puna  lo  fermava  ai  particolari  della  cronaca  e  ad  un 
procedimento  minuto  e  analitico,  mentre  Paltra  lo  invogliava  a 
panorami  piu  vasti,  e  piu  liberi  da  riferimenti  particolari.  Non  sem- 
pre  egli  seppe  contemperare  o,  meglio,  fondere  in  unita  le  due  esi- 
genze.  Una  difficolta,  questa,  che  gia  aveva  incontrato  nel  volume 
Come  siamo  entrati  in  Roma,  composto  vari  anni  prima,  e  nel 
quale  a  pagine  nuove  e  colorite  gia  si  alternavano  notizie  precise  e 
minute,  fino  agli  elenchi,  posti  in  appendice,  di  tutti  i  reparti  pre- 
senti  airimpresa,  e  dei  morti  e  dei  feriti  e  dei  decorati  al  valore. 
Documento,  certo,  da  servire  allo  storico,  ma  che  nella  sua  opera, 
non  certo  storica,  apparivano  contrastanti  con  le  saporite  pagine 
sulle  dimostrazioni  festose  del  popolo  romano.  Questo  strano  im- 
paccio  riapparve  in  Firenze  capitale,  non  tanto  nel  primo  capitolo 
(Un  decennio  di  prefazione),  dove  si  alternano  toni  vivi  e  arguti  con 
elenchi  di  uomini  illustri  venuti  da  ogni  parte  d*  Italia  nella  capitale 
del  granducato,  ma  soprattutto  nei  successivi,  dei  quali  solo  in  pic- 
cola  parte  abbiamo  dato  un  saggio  nella  nostra  scelta.  E  riapparve, 
in  forma  e  misura  piu  grave,  nelPaltro  volume  da  cui  abbiamo  tratto 
alcune  pagine  che  ci  son  sembrate  piu  felici  e  piu  significative,  e  che 
si  intitola  I  primi  anni  di  Roma  capitale.  In  esso  il  Pesci  rievoca  fi- 
nanche  le  feste,  i  balli  della  Corte  e  delle  famiglie  aristocratiche 
nella  Roma  di  Vittorio  Emanuele  II,  con  dovizia  eccessiva  di  par 
ticolari,  dando  non  solo  minuti  elenchi  degli  invitati,  ma  anche 
descrizione  degli  abiti  stessi  delle  dame  intervenute:  e  cio  vuol  es- 
sere  soltanto  un  esempio,  sia  pure  il  piu  significative,  del  procedi 
mento  cronachistico  di  tante  delle  sue  memorie,  Ne  bisogna  tacere 


398  UGO  PESCI 

che  questa  stessa  minuteria  pesa  sulla  prosa  del  Pesci,  ne  sgretola 
e  distrugge  non  poche  pagine,  tanto  Pingombro  dei  particolari  cro- 
nachistici  fiacca  il  suo  stile,  ne  annulla  il  brio  e  la  disinvoltura, 
quella  « semplicita  e  famigliarita  calda  e  non  affettata»  di  cui  lo 
lodava  il  Carducci. 

Ma  questi  sono  i  difetti,  i  limiti  delle  sue  opere,  che  pure  hanno, 
in  compenso,  non  pochi  pregi.  Da  un  diverso  angolo  visuale, 
questi  pregi,  in  sostanza,  hanno  la  medesima  sorgente  di  quei  di 
fetti.  Cera  nel  Pesci,  e  lo  abbiamo  gia  accennato,  un'ansia  evi- 
dente  di  rievocare  il  passato,  gli  uomini,  gli  eventi,  i  luoghi  tra  cui 
era  vissuto,  di  fermare  per  sempre,  nelle  sue  pagine,  il  tempo 
che  se  ne  era  corso  via  cosi  rapido  e  tumultuoso :  di  salvarne  le  linee 
maggiori,  ma  anche  le  briciole,  quelle  che  il  tempo  cancella  e  di 
strugge  totalmente.  Era,  del  resto,  la  stessa  ansia  che  guidava  molti 
studiosi  di  quel  periodo,  il  quale  era  ancora,  nei  piu  anziani, 
quello  del  realismo  e  del  positivismo,  intento  a  rianimare  il  pas 
sato  anche  nei  suoi  piu  minuti  particolari.  Ne  bisogna  dimenti- 
care  che  con  questo  orientamento  dei  tempi  si  incontrava  il  pe- 
renne  gusto  dei  vecchi,  e  tale  ormai  si  sentiva  il  Pesci,  di  riandare 
lungo  i  propri  ricordi,  di  stringerli  ancora  alia  propria  vita. 

Da  questi  atteggiamenti,  molteplici  ma  concordi,  nascono  le 
pagine  migliori  del  Pesci,  quella  sua  capacita  di  rendere  vivi  e  pre- 
senti  gli  anni  lontani :  e  ne  sono  un  esempio  le  pagine  sulla  caduta 
del  granducato,  quelle  delPannunzio  a  Firenze  della  presa  di  Roma/ 
le  altre  sulPawento  della  Sinistra  al  potere,  la  morte  di  Vittorio 
Emanuele,  di  Pio  IX,  il  conclave  di  Leone  XIII.  E,  piu  ancora, 
certi  rapidi  quadri  di  ambiente  fiorentino,  certi  scorci  di  vita  ro- 
mana:  stampe  ottocentesche  disegnate  con  commossa  simpatia, 
senza  insistenza,  ma  piuttosto  con  quelPimplicito  distacco  che 
nasceva  dal  sentirle,  ad  un  tempo,  care  ed  irrevocabili. 

Certo,  lo  storico  del  Risorgimento  che  legga  le  sue  memorie  non 
puo  non  restare  troppe  volte  perplesso :  in  quella  folia  di  piccoli 
fatti,  di  impression!  e  di  passioni  labili,  la  prospettiva  dell'insieme 
puo  apparire  falsata;  e  quelle  vicende,  contemplate  e  giudicate  con 
il  costante  metro  delle  sfere  ufficiali  monarchiche,  debbono  neces- 
sariamente  destare,  e  di  continue ,  il  desiderio  di  panorami  meno 
unilateral!  e  piu  completi.  Vogliamo  dire  che  i  ricordi  del  Pesci 
non  sono  ancora  la  storia,  come,  del  resto,  gia  osservava  il  Carducci 
per  i  ricordi  della  occupazione  di  Roma;  ma,  certo,  sono  un  docu- 


PROFILO   BIOGRAFICO  399 

mento  storico  tra  i  piu  vivi;  e  la  loro  stessa  unilateralita,  Concorde, 
d'altra  parte,  con  tanta  parte  dell'opinione  pubblica  di  quei  tempi, 
accresce  il  loro  valore  documentario,  tanta  e  la  sincerita  e  la  fede 
dello  scrittore.  E  in  cio  appunto,  oltre  che  nei  molti  pregi  letterari, 
trova  il  suo  appoggio  la  resistente  vitalita  che  ci  e  sembrato  di  scor- 
gere  nelle  sue  pagine. 


Per  le  opere  del  Pesci,  si  veda  anzitutto:  UGO  PESCI,  Come  siamo  entrati  in 
Roma:  ricordi,  con  prefazione  di  G.  Carducci,  Milano,  Treves,  1895.  Una 
nota  edizione  popolare  dell'opera  pubblic6  il  Treves  nel  1911.  Recente- 
mente  il  libro  e  stato  ristampato,  con  la  prefazione  di  G.  Carducci  e  una 
presentazione  di  A.  Trombadori,  Firenze,  Parenti,  1956.  Si  vedano  inol- 
tre:  II  re  martire:  la  vita  e  il  regno  di  Umberto  I:  date,  aneddoti,  ricordi 
(1844-1900),  Bologna,  Zanichelli,  1901,  ristampato  in  edizione  economica 
nel  1902;  Firenze  capitale  (1865-1870).  Dagli  appunti  di  un  ex-cronista, 
Firenze,  Bemporad,  1904;  I  bolognesi  nelle  guerre  di  indipendenza  nazionale, 
Bologna,  Zanichelli,  1906 ;  Iprimi  anni  di  Roma  capitale  (1870-1878),  Firen 
ze,  Bemporad,  1907;  II  gener ale  Carlo  Mezzacapo  e  il  suo  tempo.  Da  appunti 
autobiografici  e  da  lettere  e  documenti  inediti,  Bologna,  Zanichelli,  1908.  Delia 
sua  produzione  minore,  oltre  alia  collaborazione  ai  giornali  e  a  lie  riviste  di 
cui  abbiamo  dato  notizia  nel  Profile,  e  utile  ricordare  tre  brevi  lavori: 
Vittorio  Emanuele,  il  re  liber atore,  numero  umco  (per  1'inaugurazione  del 
monumento  a  Vittorio  Emanuele  II  a  Milano,  il  24  giugno  1896),  Milano, 
Treves,  1896;  Uassociazionepro  esercito  ai  coscritti,  Milano,  Tip.  A.  Codara, 
1907;  G.  Carducci  e  I' esercito  (commemorazione  fatta  al  Circolo  ufEciali  in 
Bologna),  Bologna,  Tip.  P.  Neri,  1907,  i  quali  scritti  documentano  la  sua 
costante  fede  militare  e  monarchica. 

Non  esiste  una  biografia  esauriente  del  Pesci.  Notizie  su  lui  si  possono  rac- 
cogliere,  anzitutto,  da  una  rapida  nota  premessa  alia  citata  edizione  1911 
del  volume  Come  siamo  entrati  in  Roma,  e  poi  da  giornali  e  riviste,  special- 
mente  in  occasione  della  sua  morte:  e  di  alcuni  di  essi  diamo  successiva- 
mente  Pindicazione. 

Sul  Pesci  scrittore  e  giornalista  danno  giudizi  e  informazioni :  G.  CARDUC 
CI  nella  citata  prefazione,  ristampata  in  Opere,  xix  (edizione  nazionale), 
pp.  45  sgg.  (le  relazioni  fra  il  Carducci  e  il  Pesci  sono  ancor  meglio  docu- 
mentate  dal  copioso  epistolario  del  poeta);  A.  D.  V.  in  una  recensione  al 
volume  Firenze  capitale,  in  «Archivio  storico  italiano»,  xxxvn  (1906),  serie 
5%  PP-  479-8o;  la  redazione  del « Corriere  della  sera»,  14  dicembre  1908;  la 
redazione  dell'«  Illustrazione  italiana»,  20  dicembre  1908.  Si  veda,  infine, 
il  saggio,  gia  citato,  di  A.  Trombadori,  che,  pur  non  fermandosi  diretta- 
mente  sul  Pesci,  esprime,  di  scorcio,  alcuni  giudizi  su  lui  e  la  sua  opera. 


DA  ccFIRENZE  CAPITALS  (1865-1870) » 

UN  DECENNIO  DI  PREFAZIONE1 
(1855-1865) 

I  primi  ricordi  chiari  e  precisi  della  mia  vita,  che  escono  daU'am- 
bito  ristretto  delle  pareti  domestiche,  si  riferiscono  al  1854,  vale 
a  dire  ai  primi  tempi  della  guerra  di  Crimea.2  Mio  nonno,  lasciando 
la  biblioteca  Magliabechiana,3  dove  aveva  reso  utilissimi  servigi  a 
molti  eruditi  e  studiosi  del  tempo  suo,  s'era  ritirato  dal  1850  a  vi- 
vere  in  un  villaggio  della  Val  di  Pesa,  dove  io  passavo  con  lui  tutto 
il  tempo  delle  vacanze  scolastiche.  In  quel  villaggio  -  Mercatale, 
nel  comune  di  San  Casciano  -  capito  neir estate  del  1854  un  vendi- 
tore  girovago  di  libri,  storie  e  carte  geografiche.  Mio  nonno  ne 
compro  una  grande,  a  colon,  del  «teatro  della  guerra  d'Oriente», 
contornata  da  piccole  vedute  di  citta  e  da  ritratti  dei  generali  belli- 
geranti,  fra  i  quali  colpi  pill  di  tutti  la  mia  fantasia  di  fanciullo  - 
non  avevo  ancora  otto  anni-quello  di  Omer  pascia;4  probabil- 
mente  a  causa  del  fez  rosso  che  portava  in  testa. 

A  Mercatale  arrivava  giornalmente,  per  mezzo  del  procaccia,  una 
copia  del  «Monitore  Toscano»,s  nel  quale,  a  comodo  suo  e  con  il 
permesso  dei  superiori,  P  abate  Casali  riportava  le  notizie  della  guer 
ra,  tagliandole  dalla  «Gazzetta  di  Genova».6  Quella  copia,  diretta 
alia  farmacia,  faceva  il  giro  delle  case  de'  notabili.  II  nonno  era  uno 
de'  primi  ad  averla  nelle  mani,  e  mi  pare  ancora  di  vederlo  occu- 

i.  Questo  brano  corrisponde  alle  pp.  5-57  dell'  edizione  da  noi  seguita. 
2. guerra  di  Crimea:  Francia  e  Inghilterra,  alleatesi  con  la  Turchia,  iniziaro- 
no  ufficialmente  la  guerra  contro  la  Russia  alia  fine  d'aprile  del  1854.  La  par- 
tecipazione  del  Piemonte  fu  approvata  dal  Senate  il  3  marzo  dell'anno  suc 
cessive.  3.  la  biblioteca  Magliabechiana :  Antonio  Magliabechi  (1633-1714) 
aveva  stabilito  per  testamento  che  la  sua  ricchissima  biblioteca  privata  fosse 
aperta  al  pubblico :  e  cosi,  nel  1747,  si  inaugur6  la  Magliabechiana,  che,  gra- 
dualmente  arricchitasi,  entro  poi  a  far  parte  (1861),  come  nucleo  essenziale, 
dell'odierna  Biblioteca  nazionale  di  Firenze.  4.  Omer  pascia:  generale 
turco,  che  poi  acquisto  particolare  fama  per  avere  sostenuto  e  respinto 
1'attacco  dei  Russi  a  Eupatoria,  nel  febbraio  del  1855.  s.«Monitore 
Toscano»:  questo  quotidiano,  organo  ufEciale  del  governo  granducale,  si 
era  cominciato  a  stampare  il  6  novembre  1848,  come  continuazlone  della 
«Gazzetta  di  Firenze »,  e  dur6  fino  al  31  dicembre  1862.  Ne  fu  direttore, 
fino  al  1859,  1' abate  Giulio  Cesare  Casali.  6.  La  ^Gazzetta  di  Geneva* 
fu  tra  i  piu  important!  giornali  del  Risorgimento.  Nata  con  questo  no- 
me  nel  1805,  fu  dapprima  napoleonica;  poi,  caduto  Napoleone,  divenne 
organo  ufBciale  del  governo  piemontese,  adeguandosi  man  mano  ai  suoi 
orientamenti  politici.  Gesso  di  esistere  nel  1878. 

26 


402  UGO    PESCI 

pato  a  cambiar  posto  agli  spilli  con  banderuoline  di  varii  colori, 
che  gli  servivano  ad  indicare,  chi  sa  con  quanto  ritardo,  la  posizione 
degli  eserciti  combattenti  su  la  famosa  carta  distesa  e  fermata  sopra 
un  tavolino. 

Non  capivo  nulla  della  «questione  d'Oriente»:  ma  il  vedere  as- 
sorto  nella  strana  operazione  un  uomo  abitualmente  dedito  a  tutt'al- 
tri  studii,  mi  faceva  intravedere  che  awenisse  qualche  cosa  di  straor- 
dinario.  In  tale  supposizione  indefinita  mi  confermo  1'udire  alcune 
mezze  parole  di  speranza  e  di  desiderio,  delle  quali  ho  capito  molto 
piu  tardi  il  vero  significato,  a  proposito  dei  piemontesi,  della  loro 
partenza  per  la  guerra  e  della  battaglia  della  Tchernaja.1 

In  quel  villaggio  di  mille  anime,  come  in  tutti  gli  agglomeramenti 
di  popolazione,  si  muoveva  e  si  agitava  un  microcosmo,  un  piccolo 
mondo,  con  tutti  i  pregi  ed  i  mancamenti  del  mondo  grande.  La 
maggioranza  si  componeva  di  un  gruppetto  di  piccoli  possidenti 
e  bottegai,  indifferenti  a  quanto  non  aveva  relazione  immediata  col 
prezzo  delle  derrate  ed  i  loro  affari.  II  medico  condotto,  di  principii 
avanzati,2  non  aveva  fiducia  nella  politica  del  Piemonte  perche 
politica  «regia».  II  priore,  come  quasi  tutti  i  preti  toscani  d'allora  - 
se  pur  non  dediti  esclusivamente  al  paretaio  ed  alia  calabresella3  - 
esercitava  caritatevolmente  e  con  tolleranza  il  suo  ministero,  pre- 
dicando  piu  con  Tesempio  che  con  la  parola,  rispettando  scrupolosa- 
mente  il  governo  costituito,4  ma  non  nascondendo  sentimenti  ed 
aspirazioni  italiane.  Nessuno  a  Mercatale  pensava  certamente  ad 
una  rivoluzione,  e  tanto  meno  alFunita  dj  Italia:  ma  pure  posso 
affermare  che  nella  farmacia  di  Sandrino  Montecchi,  giu  a  sinistra 
in  fondo  alia  piazza,  ho  intraveduto  vagamente,  ad  otto  o  nove  anni, 
che  la  parola  « Italia  »  era  qualche  cosa  piu  di  una  espressione  geo- 
grafica. 

In  me,  come  in  tutti  i  ragazzi  di  quel  tempo,  quelPembrione 
di  sentimento  di  nazionalita  germoglio  lentamente,  con  Feta  e  con 
gli  studi  fatti  alle  scuole  pubbliche.  Prima  d'aver  compiuti  i  nove 
anni,  da  una  scuola  privata,  in  piazza  Madonna,  tenuta  da  due  si- 

i .  a  proposito  .  .  .  Tchernaja :  il  corpo  di  spedizione  piemontese  contribul 
molto  valorosamente,  insieme  con  i  Francesi,  all'esito  vittorioso  della  bat 
taglia  della  Cernaia  (16  agosto  1855).  2.  avanzati:  cioe,  repubblicani, 
mazziniani.  3.  al  paretaio  ed  alia  calabresella:  alia  caccia  e  al  gioco.  II pa 
retaio  e  il  terrene  destinato  a  stendervi  le  reti  per  prendere  gli  uccelli; 
la  calabresella  e  un  gioco  di  carte,  con  tre  giocatori,  simile  al  tressette. 
4.  il  governo  costituito:  il  governo  del  granduca  Leopoldo  II  di  Lorena,  che 
regno  in  Toscana  dal  1824  al  1859. 


FIRENZE    CAPITALS   (1865-1870)  403 

gnore  con  i  metodi  degli  Asili  Infantili  gia  da  un  pezzo  in  onore 
a  Firenze,  ero  passato  alia  prima  classe  ginnasiale  del  Liceo  Fio- 
rentino.1  L'istituto,  fondato  con  la  legge  del  1852^  che  toglieva 
ai  padri  Scolopi  la  esclusivita  dell'insegnamento  secondario,  aveva 
la  sua  sede  in  quel  palazzo,  che,  in  piazza  Santa  Croce,  sta  dirim- 
petto  alia  Chiesa,  allora  proprieta  del  conte  Luigi  Serristori  gen- 
tiluomo  fiorentino  d'antica  stirpe,  stato  generale  in  Russia  ai  tempi 
napoleonici,  e  padre  del  conte  Alfredo  che  faceva  allora  la  campa- 
gna  di  Crimea  nell'esercito  Sardo,  e  fu  poi,  per  molte  legislature, 
deputato  per  il  collegio  di  Pontassieve.3 

L'istruzione  che  s'aveva  nel  Liceo  non  si  sarebbe  potuta  dire 
liberale,  dando  a  questa  parola  il  significato  che  le  si  da  moderna- 
mente:  si  poteva  bensi  ritenere  liberalissima  tenendo  conto  de' 
tempi  e  del  governo  d'allora,  che,  per  necessita  ligio  all' Austria, 
era  bensi  tollerante  non  soltanto  per  i  sudditi  ma  anche  per  gli  esuli 
di  altri  stati  italiani.  I  maestri  -  allora  non  v'era  Pusanza  di  dare  del 
«  professore »  a  tutto  pasto  -  sinceramente  affezionati  al  loro  paese, 
s'ingegnavano  senza  ostentazione  ad  educare  a  buoni  sentimenti 
Panimo  dei  discepoli,  che  di  loro  hanno  generalmente  conservato 
grata  memoria. 

Nei  primi  anni  c'insegnava  grammatica  inferiore  don  Niccola 
Anziani,4  giovine  prete  della  Garfagnana,  poi  divenuto  biblioteca- 

1.  Liceo  Fiorentino'.   questo  primogenito  liceo  di  Firenze  fu  istituito  con 
decreto  del  30  settembre  1853  e  si  apri  nel  novembre.  II  4  marzo  1865 
il  governo  italiano  gli  assegn6  il  nome  di  Liceo  Dante.  Vedi  F.  MAG- 
GINI  e  G.  MISCHI,  Cenni  storici  sul  Liceo-Ginnasio  Dante,  Firenze  1925. 

2.  la  legge  del  1852 :  la  legge  granducale  del  30  giugno  1852  riconosceva  la 
liberta  dell'insegnamento  privato,  stabiliva  che  vi  fossero  licei  nelle  princi- 
pali  citta  della  Toscana,  e  che  fossero  mantenuti  dairerario  con  1'apporto  di 
vari  altri  contributi.  Vedi  G.  BALDASSERONI,  Leopoldo  II  granduca  di  Toscana 
e  i  suoi  tempi,  Firenze  1871,  p.  474.     3.  II  conte  Luigi  Serristori  (1793- 
1857)  si  reco  in  Russia  nel  1819,  entr6  al  servizio  dello  zar,  raggiunse  il 
grado  di  colonnello.  Partecipo  alia  guerra  del  1828-29  contro  la  Turchia. 
L'accenno  ai  tempi  napoleonici  e  dunque  inesatto.  Sulla  figura  del  Serri 
stori,  i  suoi  viaggi,  la  parte  da  lui  avuta  nelle  vicende  toscane  dal  1847 
al  1849,  vedi  A.  SAPORI,  Luigi  Serristori,   Firenze  1925;   Alfredo  Serri 
stori  partecipo  alia  guerra  di  Crimea  come  aiutante  di  Omer  Fascia.  Com- 
batt6  poi  nell'esercito  sardo,  nelle  guerre  del  1859,  del  1 860-61,  del  1866. 
Fu  deputato  del  collegio  di  Pontassieve  per  cinque  legislature  e,  successiva- 
mente,  di  uno  dei  collegi  di  Firenze.     4.  L'abate  Nicola  Anziani  insegn6 
grammatica  nel  Liceo  fiorentino  dal  1853  al  1861.  Su  lui  e  sugli  altri  maestri 
qui  sotto  ricordati,  vedi  anche  le  belle  pagine  di  rievocazione  (I  primi 
tempi  del  Liceo  fiorentino)^  in  T.  GUARDUCCI,  Studi  e  ricordi,  San  Casciano 
1902. 


404  UGO    PESCI 

rio  della  Laurenziana;  geografia  e  storia,  Silvio  Pacini,1  liberalis- 
simo,  che  ha  raccomandato  la  propria  fama  a  parecchi  libri  scola- 
stici  reputatissimi;  aritmetica  il  prof.  Merlo,2  oggi  Accademico 
della  Crusca,  e  fino  a  pochi  anni  sono  ancora  insegnante  nel  Liceo 
Dante ;  umanita  e  rettorica  don  Marcello  Fornaini,3  romagnolo  - 
Marcellus  Fornainuspraesbyter,  come  egli  firmava  -  latinista  di  bella 
fama.  Era  direttore  del  ginnasio  e  liceo  un  altro  prete,  il  canonico 
Girolamo  Carloni,4  uomo  mite,  pieno  di  affettuose  premure  per 
tutti  noi;  e  prete,  naturalmente,  era  il  catechista,  don  Giovanni 
Metzger,  che  ogni  giovedi  ci  faceva  una  lunga  ma  non  seccante 
lezione,  prendendo  per  testo  il  Catechismo  di  perseveranza  del 
Gaume.5 

La  prevalenza  numerica  degli  ecclesiastici  non  dava  all'insegna- 
mento  ed  alia  nostra  educazione  alcun  carattere  di  bigottismo;  e 
quantunque  la  legge  del  Granducato,  citata  sopra,  dasse  ai  vescovi 
un  diritto  di  vigilanza  sugli  istituti  secondari,  nessuno  si  accorse  mai 
che  tale  diritto  fosse  realmente  esercitato.  L'insegnamento  reli- 
gioso  era  impartito  con  giusta  misura:  il  regolamento  imponeva 
di  compiere  tre  o  quattro  volte  alFanno  alcune  pratiche  religiose; 
ma,  piu  che  ad  alcun  mezzo  di  coercizione,  Posservanza  del  regola 
mento  era  affidata  alia  buona  fede  degli  allievi  e  delle  loro  famiglie. 

II  governo  granducale  perdurava  nel  seguire  il  metodo  del  vi- 
vere  e  lasciar  vivere,  del  quale  pare  si  trovasse  contento:  ed  il 
metterlo  in  pratica  gli  riusciva  agevole  per  Pindole  dei  tempi  e  del 
popolo  toscano.  La  ricchezza  pubblica  era  scarsa;  ma  pochi  i  bi- 
sogni  e  pochi  i  gravami:  per  conseguenza  alto  il  valore  del  denaro. 
Semplice  e  non  fastoso  anche  per  i  signori,  era  facile  e  senza  gravi 

i.  Silvio  Pacini ,  laico,  patriotta,  autore  di  manual!  di  storia  e  geografia, 
e  anche  di  antologie  e  racconti  ad  uso  delle  scuole.  2.  Francesco  Merlo 
insegn6  matematica  nella  sezione  ginnasiale  del  Liceo  fiorentino  dal  1853 
al  1859,  e  poi  nel  Liceo  fino  al  1901.  3.  L'abate  Marcello  Fornaini  in- 
segn6  «retorica  inferiore»  nel  Liceo  fiorentino  dal  1853  al  1870.  4.  II 
canonico  Girolamo  Carloni  (1800-1882)  era  gia  stato  professore  di  discipline 
filosofiche  nel  liceo  militare  «Arciduca  Ferdinando».  Presiede  il  Liceo 
fiorentino  dal  1853  al  1859,  quando  si  ritir6  e  gli  fu  sostituito  F.  S.  Or- 
landini  (vedi  la  nota  6  a  p.  432).  II  Carloni  pubblic6,  tra  1'altro,  una  gram- 
matica  latina  svolta  in  forma  di  dialoghi.  5.  Jean-Joseph  Gaume  (1802- 
i879)>  teologo  e  scrittore  francese,  noto  soprattutto  per  la  sua  polemica 
contro  lo  studio  dei  classici,  che  considerava  causa  dei  mali  morali,  politici 
e  sociali  del  proprio  tempo.  Tra  le  molte  sue  opere,  la  piu  popolare  fu  il 
Catechisme  de  perseverance,  apparso  a  Parigi  nel  1838,  ristampato  nume- 
rose  volte,  e  assai  diffuso,  in  traduzione,  anche  in  Italia. 


FIRENZE   CAPITALE    (1865-1870)  405 

fasti dii  il  vivere  per  chi,  appena  discretamente  proweduto,  si 
contentava  del  proprio  stato ;  ed  era  ignota  allora  quella  eccitabilita 
morbosa  che  adesso,  da  un  momento  alPaltro,  per  cose  da  nulla, 
suscita  o  deprime  le  masse,  le  quali  restano  poi  indifPerenti  ed  apa- 
tiche,  per  awenimenti  di  molto  maggiore  importanza. 

Come  s'erano  rassegnati,  quantunque  molti  contro  voglia,  a 
veder  richiamare  il  Granduca  nel  1849,  e  Per  fc>rza  anche  ad  avere 
gli  Austriaci  in  casa,  i  Toscani  si  rassegnarono  filosoficamente,  dal 
1852  al  1857,  al  flagello  della  crittogama,  che  prima  intristi,  poi 
distrusse  intieramente  le  vigne  toscane;  con  danno  grandissimo  dei 
possidenti  e  d'una  popolazione  awezza  a  comprare  con  304  crazie 
-  21  o  28  centesimi  -  un  fiasco  di  vino  buonissimo  e  non  intrugliato. 
Con  stoica  serenita  sostituirono  al  vino  strane  bevande  artificiali  o 
pipiona  di  Spagna;  e  con  la  stessa  serenita  si  rassegnarono  al  colera 
che,  nel  1855,  fece  nel  granducato  26.000  vittime  sopra  1.800.000 
abitanti. 

Benche  visitassero  Firenze  e  vi  dimorassero  fmo  da  allora  molti 
stranieri,  portandovi  gli  agii  e  le  abitudini  dispendiose  di  paesi 
molto  piu  ricchi  del  nostro ;  benche  vi  si  trovassero  parecchi  ita- 
liani  d'altre  parti  della  penisola,  ne  vi  fosse  penuria  nel  patriziato 
fiorentino  di  famiglie  ricche  e  signorilmente  ospitali,  Firenze  con- 
servava  grande  parsimonia  e  sempHcita  nelle  consuetudini,  nei 
gusti,  nei  desiderii;  e  v'era  comune  piu  che  altrove  la  grande  virtu 
di  non  fare  un  passo  senza  aver  misurato  prima  se  la  gamba  era 
lunga  abbastanza. 

Delia  semplicita,  si  potrebbe  anche  dire  della  ingenuita  dei  gusti 
della  Firenze  dj allora  davano  saggio  le  pubbliche  solennita  e  gli 
spettacoli  graditi  alia  popolazione.  A  ripensarci  oggi,  pare  impossi- 
bile  che,  nella  seconda  meta  del  XIX  secolo,  in  una  citta  reputata 
colta  e  gentile,  nella  quale  fiorivano  eletti  ingegni  ed  era  vivo 
Pamore  e  schietto  il  gusto  per  1'arte,  il  pubblico  di  ogni  ceto,  non 
la  sola  plebe,  si  potesse  divertire  alia  corsa  de7  barberi,1  a  quella  de' 
cocchi,  alia  fiera  delle  rificolone2  in  via  de'  Servi,  ed  alia  processione 
del  Corpus  Domini. 

i.  corsa  dey  barberi:  di  questo  divertimento,  che  si  ripeteva  a  Firenze  varie 
volte  nell'anno,  si  pu6  vedere  una  vivace  descrizione  in  G.  CONTI,  Firenze 
vecchia,  Firenze,  Bemporad,  1900,  pp.  587-99-  2.  fiera  delle  rificolone: 
grande  festivita  del  7  settembre,  nata  dalle  vivaci  canzonature  che  i 
Fiorentini  facevano  alia  gente  del  contado  e  della  montagna  accorsa  in 
citta  per  partecipare  alia  festa  religiosa  del  giomo  dopo,  II  vocabolo  nacque 


406  UGO  PESCI 

Ho  rivisto  dopo  il  1870  la  corsa  de'  Barberi  a  Roma,  e  m'e 
sembrata  uno  spettacolo  barbaro  per  i  nostri  tempi  e  per  una  citta 
civile,  ma  pur  singolare  e  non  senza  attrattive.  Per  lo  meno,  a 
Roma,  partendo  da  piazza  del  Popolo,  i  cavalli  corridori  infilavano 
per  una  strada  diritta  fino  al  palazzo  di  Venezia,  dove  erano  fer- 
mati  alia  (cripresa  de*  Barberi »:  sicche  gli  spettatori  ben  situati 
potevano  seguirne  con  lo  sguardo,  per  lungo  tratto,  la  corsa  sfre- 
nata.  A  Firenze,  invece,  i  barberi  partivano  dalla  porta  al  Prato, 
e  dopo  aver  percorso  sul  Prato  ed  in  Borgognissanti  un  tratto  di 
strada  diritto  ed  abbastanza  largo,  penetravano  per  via  della  Vigna 
Nuova  nel  laberinto  di  viuzze  delPantico  centro  di  Firenze,  da 
pochi  anni  scomparse,  e  di  li,  traversata  via  Calzaioli,  proseguivano 
per  il  Corso,  il  canto  de'  Pazzi,  Poscuro  e  stretto  Borgo  degli  Al- 
bizi,  il  mercatino  di  San  Piero,  il  canto  alle  Rondini,  via  Pietra- 
piana,  e  borgo  la  Croce  fino  alia  porta:  percorrevano  cioe  tre  buoni 
chilometri  di  strade  strette  e  contorte,  con  sbocchi  mal  guardati  da 
tutte  le  parti,  e  lungo  quelle  strade  la  popolazione  fiorentina  e 
quella  del  contado  si  affollavano  pigiandosi  contro  le  case,  sulle  so- 
glie  delle  botteghe,  alle  finestre  e  sui  tetti,  in  modo  tale,  da  far 
credere  rimasti  a  casa  i  soli  ammalati. 

Si  correva  il  palio  per  le  feste  di  San  Giovanni  Battista,  protet- 
tore  di  Firenze,  cioe  nel  giorno  del  Santo  ed  in  quello  di  San  Luigi; 
poi  in  quello  di  San  Vittorio.1  La  corsa  era  preceduta  dal  corso  di 
gala,  nel  quale  le  famiglie  patrizie  fiorentine  od  infiorentinate  fa- 
cevano  sfoggio  di  quei  ccservizi  di  gran  gala))  de*  quali  si  sarebbe 
perduto  il  ricordo  se  la  corte  italiana  non  li  adoperasse  nelle  so- 
lenni  occasioni. 

Una  berlina  tutta  a  cristalli,  foderata  di  damasco  o  di  raso,  do- 
rata  e  dipinta  al  di  fuori,  con  ornamenti  d'argento  o  di  bronzo  do- 
rato  agli  angoli  ed  agli  sportelli,  era  tirata  da  due  ed  anche  da  quat- 
tro  poderosi  cavalli,  guarniti  di  fiocchi,  di  cordoni  e  di  nappe  di 
seta,  con  i  finimenti  quasi  coperti  da  pesanti  ornamenti  di  metallo. 
Le  redini  erano  grossi  cordoni  di  seta,  e  le  adoperava  abilmente 
un  cocchiere,  con  cappello  a  tre  punte  e  parrucca  bianca  a  coda,  li- 


da  una  storpiatura  popolare  di  « fierucolone ».  Si  chiamarono  cosi  anche  i 
fanali  di  carta  con  dentro  un  lumino,  che  arieggiarono  dapprima  figure  di 
popolane,  e  si  portavano  in  giro  su  una  pertica  con  gran  chiasso.  Vedi 
G.  CONTI,  op.  cit.,  pp.  606-10.  i.  le  feste  .  .  .  Vittorio:  rispettivamente, 
il  24,  il  21  giugno  e  il  21  maggio. 


FIRENZE   CAPITALE  (1865-1870)  407 

vrea  gallonata  su  tutte  le  cuciture,  calze  di  seta  carnicina,  e  scarpe 
con  fibbie  d'argento,  troneggiante  in  mezzo  ad  un  alto  sedile  co- 
perto  da  ricco  panneggiamento  a  frangie  d'oro  e  d'argento  con  lo 
stemma  della  «  eccellentissima  casa».  Dietro  la  berlina  stavano  ritti 
su  di  ima  predella,  reggendosi  a  larghe  stafTe  di  cuoio  coperte  esse 
pure  di  galloni  e  di  frangie,  tre  staffieri  vestiti  come  il  cocchiere; 
e  quando  la  vista  di  quei  sei  polpacci  allineati  e  coperti  di  seta  invo- 
gliava  qualche  monello  a  punzecchiarli  con  uno  spillo  fermato  ad 
un  leggiero  bastoncino,  provocando  movimenti  subitanei  quanto 
grotteschi,  anche  le  persone  serie  si  permettevano  una  risatina, 
senza  paura  di  scapitare  in  reputazione. 

La  maggioranza  della  popolazione  si  divertiva  ad  ammirare  i 
«  servizi »  ed  a  riconoscere  le  faccie  note  di  chi  era  dentro  le  berline, 
o  quelle,  ancor  piu  note  al  popolino,  de'  cocchieri  delle  grandi  case, 
od  altri  segni  esteriori  meno  variabili;  come  i  grandi  stemmi  d'ar 
gento  con  il  bove  e  la  corona  reale  dei  Poniatowsky,1  le  tre  lune 
crescenti  di  casa  Strozzi,  il  cacdatore  barbuto  e  spennacchioso  del 
principe  Demidoff,  le  livree  ricchissime  e  vistose  del  marchese  Pan- 
ciatichi  Ximenes  d'Aragona,  di  casa  Corsini,  di  casa  Alberti;  e 
molti  spettatori  si  scambiavano  un'occhiata  espressiva  quando  com- 
parivano  le  livree  del  cavalier  priore  Emanuele  Fenzi,2  verdi,  a 
risvolte  rosse  guarnite  di  larghi  galloni  d'argento. 

II  Granduca,  dopo  aver  percorso  in  carrozza  con  Timperiale 
reale  e  numerosa  famiglia  un  breve  tratto  di  strada  dal  ponte  alia 
Carraia  al  principio  di  via  del  Prato  -  tutto  il  giro  del  corso  di  gala 
lo  faceva  in  altre  occasion!  -andava  a  veder  passare  i  barberi  da  una 
bella  loggia  vicino  all'antica  Porticciola,3  quasi  di  rimpetto  alia  casa 
rossa,  di  stile  gotico,  eretta  in  quel  tempo  dall'architetto  e  scultore 
milanese  Ignazio  Villa,  con  grande  meraviglia  e  scandalo  de5  bon- 
gustai  fiorentini.  Per  ospitare  due  o  tre  volte  alPanno  il  Granduca 
e  la  Corte,  era  stata  costruita  quella  loggia  -  su  disegno  del  cav. 
Luigi  de  Cambray  Digny,  padre  del  senatore  ed  ex  ministro  conte 
Luigi  Guglielmo  ~4  tutta  in  pietra  serena,  con  alte  e  svelte  co- 

i .  la  corona  reale  dei  Poniatowsky :  per  ricordare  che  Stanislao  Poniatowski 
aveva  regnato  in  Polonia  (dal  1764  al  1795)-  2.  Emanuele  Fenzi  (1784- 
1875),  banchiere  fiorentino,  eletto  nel  1849  alia  Costituente  toscana. 
Nel  1860  fu  nominate  senatore.  La  livrea  deUa  sua  casa  richiamava  al  pen- 
siero  la  bandiera  tricolore.  3.  antica  Porticciola:  di  questo  e  di  tutti  gli 
altri  luoghi  ricordati,  qui  e  altrove,  non  e  possibile  dare  notizia.  4.  Luigi 
Guglielmo  di  Cambray  Digny  (1820-1906)  era  figlio  del  sopraricordato 


408  UGO  PESCI 

lonne,  ornata  nell'interno  da  pitture  murali  del  prof.  Luigi  Ade- 
mollo;  ora  incorporata  nella  casa  attigua  che  serve  ad  uso  di  al- 
bergo,  e  dallo  spirito  pratico  moderno  divisa  in  tre  o  quattro  ca- 
mere  da  cinque  lire  al  giorno. 

Di  li  il  granduca,  la  granduchessa  e  gli  arciduchi  stavano  a 
veder  sgombrare  la  strada  prima  della  corsa,  e  gli  impiegati  delle 
pubbliche  amministrazioni,  da  alcuni  palchi  riservati  ad  essi,  eretti 
fra  la  casa  Villa,  ed  il  « panorama  di  Napoli»  oggi  officina  dello 
scultore  in  legno  Barbetti,  potevano  compiacersi  dello  spettacolo 
della  corte  che  si  divertiva.  Lo  scoppio  di  un  mortar etto  dava  il  se- 
gnale  della  partenza :  subito  dopo  passavano  rapide  come  un  lampo 
sette  od  otto  rozze,  con  i  fianchi  tormentati  dalle  perette*  ed  un 
gran  numero  scritto  malamente  con  il  gesso  sul  quarto  posteriore. 
Appena  passate  le  rozze,  il  pubblico  si  affollava  sotto  la  loggia 
granducale  da  dove  il  granduca  e  la  granduchessa  si «  benignavano  » 
di  lasciar  cadere  su  quella  folia  i  loro  elenchi  de'  cavalli  corridori, 
stampati  su  carta  distinta  dalla  tipografia  Cambiagi  in  Condotta, 
per  il  gusto  di  vedere  centinaia  e  centinaia  di  braccia  protendersi 
in  alto,  e  centinaia  di  persone  darsi  degli  spintoni,  e  quasi  azzuf- 
farsi  contrastandosi  il  possesso  di  quei  due  pezzi  di  carta. 

La  corsa  de'  cocchi  parrebbe  oggi  spettacolo  troppo  primitive 
anche  in  una  modesta  borgata.  Piazza  Santa  Maria  Novella  si 
trasformava  in  anfiteatro,  circondata  da  rozzi  palchi  di  legno,  dove 
si  prendeva  posto  pagando  un  prezzo  variabile  secondo  che  gli  spet- 
tatori  erano  piu  o  meno  lungamente  esposti  al  sole.  Addossati  al 
porticato  di  San  Paolo,  sul  prolungamento  di  via  della  Scala, 
v'erano,  in  mezzo,  il  palco  della  corte  granducale,  a  destra  ed  a 
sinistra  quelli  destinati  ai  magistrati,  ufficiali,  impiegati  ec.  ec.  ed 
alle  loro  famiglie.  All'imboccatura  di  via  della  Scala  si  schierava 
una  compagnia  di  veliti ;  di  fronte,  su  gli  sbocchi  di  via  del  Sole  e 
di  via  dei  Fossi,  uno  squadrone  di  cacciatori  a  cavallo,  con  Telmo 
eguale  a  quello  della  cavalleria  pesante  Sarda.  Sotto  i  palchi  di 

cav.  Luigi,  molto  noto  come  architetto.  II  figlio  ebbe  parte  attiva  nelle 
vicende  del  Risorgimento.  Fu  nominate  senatore,  subito  dopo  il  plebiscite, 
il  23  marzo  1860.  Trasferita  la  capitale  a  Firenze,  fu  sindaco  della  sua  citta. 
Nel  gabinetto  Menabrea  fu  ministro  delle  finanze,  dairottobre  1867  fino  a 
che  al  Menabrea  fu  sostituito  il  Lanza  (15  dicembre  1869).  i.  La_pe- 
retta  e  una  «  pallottola  di  metallo,  fornita  di  alcune  punte,  la  quale  si  pone 
sul  dorso  o  sulla  groppa  del  cavallo,  che  corre  il  palio,  acciocch6  sia  piu 
celere  al  corso»  (Tommaseo-Bellini). 


FIRENZE    CAPITALE  (1865-1870)  409 

fianco  al  granducale  stavano  le  guardie  nobili,  con  la  uniforme  di 
gala  color  rosso  scarlatto,  pantaloni  di  pelle  e  stivali;  bei  giovanotti 
di  famiglie  nobili  o  facoltose,  ben  montati,  che  si  compiacevano 
di  stimolare  la  irrequietezza  dei  loro  cavalli,  ed  agli  occhi  di  noi  ra- 
gazzi  apparivano  -  ahi,  spesso  vana  apparenza!  -  il  nee  plus  ultra 
dell'ardimento  e  della  baldanza  militare.  Nella  piazza  intieramente 
sgombra,  intorno  alle  due  guglie  fattevi  inalzare  a  bella  posta,  gi- 
ravano  quattro  bighe  alia  romana  -  i  cosiddetti  cocchi  -  inorpel- 
late  sconciamente  e  tirate  ciascuna  da  due  cavalli  sbilenchi,  guidati 
da  un  uomo  ritto  nella  biga.  Ciascun  uomo  aveva  in  testa  la  classica 
galea  .  .  .  di  cartone,  e  sulle  spalle  uno  sciatto  paludamento  ro- 
mano  del  colore  della  biga  e  della  bardatura  de'  suoi  cavalli,  cioe 
azzurro,  verde,  rosso  o  bianco.  Le  quattro  bighe  facevano  in  gara 
tre  giri,  senza  affannarsi  troppo ;  qualche  volta  si  urtavano  con  le 
mote  o  trabaltavano  volendo  fare  la  voltata  troppo  stretta:  ma 
generalmente  la  gara  non  aveva  tragico  fine,  ed  il  popolino  ne  de- 
duceva  che  i  quattro  fossero  d'accordo  riguardo  al  resultato. 

Per  San  Giovanni  v'erano  anche  i  fuochi  artificiali  sul  Ponte  alia 
Carraia :  per  P  Ascensione  i  fiorentini  andavano  a  torme  a  far  cola- 
zione  su  i  prati  delle  Cascine  ed  a  cercarvi  il  ccgrillo  canterino));1 
per  la  festa  del  Corpus  Domini  una  numerosa  processione  faceva  un 
lungo  giro  per  le  principali  ma  ancora  strette  strade  della  citta, 
coperte  da  tendoni  tirati  da  una  casa  alPaltra  per  riparare  dai  mole- 
sti  raggi  del  sole  di  giugno  il  granduca  Leopoldo  II  che,  a  capo  sco- 
perto,  e  indossando  la  cappa  magna  di  gran  maestro  del  «Sacro 
militare  ordine  equestre  di  Santo  Stefano  papa  e  martire»  seguiva 
il  baldacchino  sotto  il  quale  monsignor  Minucci2  arcivescovo  di 
Firenze  portava  il  Santissimo.  Seguivano  il  granduca  altri  cavalieri 
in  cappa  magna,  ed  il  gonfaloniere  di  Firenze,  marchese  Dufour 
Berte,  in  zimarrone  di  damasco  rosso  e  teletta  d'oro,  che  spingeva 
la  venerazione  per  il  suo  sovrano  fino  a  rassomigliarlo  nell'andatura 
dinoccolata:  poi  le  guardie  nobili,  la  magistratura,  e  altri  ecclesia- 
stici  e  militari. 

I  fiorentini  di  quel  tempo  preferivano  economicamente  agli  altri 
spettacoli  quelli  che  si  potevano  godere  gratis  et  amore  Dei.  Uno 

i.  il  «.grillo  canter  mov.  tradizionale  festa  di  Firenze,  che  ancora  si  celebra 
nel  giorno  dell'  Ascensione.  2.  Ferdinando  Minucci  fa  arcivescovo  di  Fi 
renze  dal  1828  al  1856,  anno  della  sua  morte.  Gli  successe  F  arcivescovo 
Giovacchino  Limberti,  fino  al  1876. 


4IO  UGO   PESCI 

speculator e  azzardoso,  tal  Nanni,  chiese  ed  ottenne  di  circondare 
con  palchi,  solidamente  costruiti  senza  risparmio,  la  nuova  piazza 
di  Barbano,  o  Maria  Antonia  dal  nome  della  granduchessa1  -  oggi 
piazza  delPIndipendenza  -  per  dare  in  quella  piazza  spettacoli  di 
passeggiate  storiche,  con  centinaia  e  centmaia  di  persone,  cavalli  e 
carri  tirati  da  buoi,  con  i  costumi  e  le  bandiere  delle  antiche  Capitu- 
dini  fiorentine  o  corporazioni  d'arti  e  mestieri,  con  movimenti  co- 
reografici  ed  altri  giuochi  i  quali  dovevano,  secondo  i  suggerimenti 
delTimaginoso  abate  Fioretti,2  rinnuovare  in  qualche  modo  o  per 

10  meno  ramrnentare  gli  spettacoli  pubblici  fiorentini  del  XIV  e 
XV  secolo.  L'impresario  aveva  probabilmente  fatto  assegnamento 
sulPamore  dei  fiorentini  per  le  tradizioni  patrie ;  ma  non  seppe  calco- 
lare  il  rapporto  aritmetico  fra  quell'amore  e  la  voglia  di  spendere. 

11  vasto  recinto  si  riempi  due  o  tre  volte  di  spettatori  attratti  dalla 
nuovita;  poi  il  pubblico  non  si  lascio  piu  vedere,  e  Pimpresario 
ando  a  finire  malamente  i  suoi  giorni  nelPArno. 

II  24  maggio  1855  termino  Poccupazione  delle  truppe  austria- 
che.  Ricordo  i  ramoscelli  di  mortella  e  quercia  che  i  soldati  infila- 
vano  sugli  shakd3  nei  giorni  di  parata;  le  sciarpe  gialle  a  lunghe 
nappe  che,  in  servizio  e  nei  giorni  di  gala,  gli  ufficiali  giravano  piu 
volte  attorno  alia  vita  sulle  bianche  ed  attillate  divise,  con  le  quali 
stavano  volentieri  a  pavoneggiarsi  sul  marciapiede  del  caffe  Doney, 
o  quasi  di  rimpetto  a  poca  distanza,  su  la  porta  del  Casino  dei  No- 
bili.  Ricordo  i  pantaloni  celesti  de'  reggimenti  boemi  ed  ungheresi, 
stretti  alia  gamba  e  chiusi  negli  stivaletti  alti,  che  avevano  fatto  dare 
il  nome  dipolpini  ai  soldati  di  quelle  nazioni,  dei  quali  si  componeva 
la  guarnigione  di  Firenze;  e  mi  ricordo  d'aver  creduto  io  pure  a 
quel  tempo  alia  leggenda  popolare  secondo  la  quale  quei  poveri  dia- 
voli  si  nutrivano  usualmente  di  candele  di  sevo. 

Nei  novembre  del  1856  Parciduca  ereditario  Ferdinando4  spos6 
la  principessa  Anna  di  Sassonia,  figlia  del  dantista  re  Giovanni,5 


i.  Maria. .  .granduchessa:  vedi  la  nota  i  a  p.  160.  2.  L*  abate  Stefano 
Fioretti,  direttore  artistico  deirAccademia  filodrammatica  dei  Fidenti,  or- 
ganizzatore  attivissimo  di  rappresentazioni  e  spettacoli.  3.  shako:  vedi  la 
nota  a  p.  217.  4.  Ferdinando  di  Lorena  (1835-1908),  figlio  di  Leopoldo 
II,  abbandono  col  padre  la  Toscana  il  27  aprile  1859.  Si  considero  erede 
e  successore  col  nome  di  Ferdinando  IV,  assunto  nei  luglio,  all'abdicazione 
del  padre;  ma,  nonostante  trame  e  tentativi,  non  rivide  piu  la  Toscana. 
5.  II  re  Giovanni  di  Sassonia  (1801-1873),  salito  al  trono  nei  1854,  fu  uomo 
di  vasta  cultura,  soprattutto  famoso  per  i  suoi  appassionati  studi  dante- 


FIRENZE   CAPITALE   (1865-1870)  411 

e  sorella  della  principessa  Elisabetta,  gia  vedova  del  duca  di  Ge- 
nova,  e  madre  della  principessa  Margherita1  e  del  principe  Tom- 
maso  di  Savoia,  de'  quali  Parciduca  divento  zio.  Egli  aveva  ventun 
anno ;  la  principessa  venti.  Ferdinando  non  aveva  saputo  emergere 
in  nulla  e  non  era  amato :  la  principessa,  invece,  arrivando,  trovo  la 
popolazione  benevolmente  disposta  verso  di  lei,  e  la  benevolenza 
aumento  quando  i  fiorentini  Pebbero  veduta,  awenente,  pallida, 
con  le  apparenze  di  non  florida  salute.  L'arciduchessa  ereditaria 
parve  predestinata  a  non  esser  felice,  e  quando  mori,2  dopo  soli 
ventisei  mesi,  il  compianto  fu  universale. 

Si  fecero  grandi  feste  per  quelle  nozze.  L'illuminazione  di  Fi- 
renze  fu  veramente  splendida.  Le  finestre  del  palazzo  Ferroni,  a 
Santa  Trinita,  allora  sede  del  Municipio,  erano  tutte  illuminate  a 
trasparenti  dipinti  maestrevolmente  da  reputati  pittori.  Allo  sguardo 
di  chi  riusciva  ad  affacciarsi  al  Lung'Arno  appariva  uno  spettacolo 
veramente  fantastico  ed  incantevole.  Non  v'era  straducola  ne  chias- 
suolo,  anche  nei  piu  remoti  quartieri,  che  non  avesse  le  case  quasi 
tutte  illuminate.  Nelle  vie  principali  tale  era  la  folia,  da  parere  im- 
possibile  il  cavarsene  fuori  evitando  di  rimanere  soffocati.  Non 
s'era  mai  visto  a  Firenze  nulla  di  simile,  ne  si  puo  dubitare  della 
spontaneita  di  quella  dimostrazione :  ma  bisogna  pur  anche  riflettere 
come  dal  1848  non  fosse  piu  stata  usata  quella  forma  di  pubblica 
letizia,  della  quale  piu  tardi  si  e  invece  molto  abusato.  D'altra  parte 
il  cessare  della  occupazione  straniera  aveva  levato  un  gran  peso 
dallo  stomaco  a  tutti,  ed  ogni  mezzo  pareva  buono  per  dimostrare 
la  compiacenza  del  provato  sollievo. 

II  governo  granducale,  per  tenere  allegri  i  sudditi  e  non  farli 
pensare  a  melanconie,  permise  nuovamente  nel  carnevale  1855-56 
Puso  della  maschera,  proibito  nel  1850  da  un  ordine  del  coman- 
dante  generale  dell' I.  e  R.  corpo  d'occupazione.  I  fiorentini  profit- 
tarono  del  permesso  con  vero  entusiasmo.  Si  puo  dire  senza  iper- 
bole  «i  fiorentini))  perche  tutti  i  non  piu  lattanti  e  non  ancora  va~ 


schi.  Tradusse  in  tedesco  la  Divina  Commedia,  con  ampio  commento  (1828- 
1849).  Vedi  G.  A.  SCARTAZZINI,  Dante  in  Germania,  Milano  1881-1883, 
I,  pp.  50-3;  II,  pp.  69-70.  i.  Margherita:  la  futura  regina,  moglie  di 
Umberto  I.  2.  La  principessa  Anna  di  Sassonia,  arciduchessa  ereditaria, 
mori  il  10  febbraio  1859,  a  Napoli,  dove  si  era  recata  con  il  marito  e  il 
suocero  per  assistere  alle  nozze  di  Francesco  di  Borbone,  principe  eredita- 
rio  del  Regno  deUe  Due  Sicilie  (vedi  la  nota  2  a  p.  420). 


412  UGO    PESCI 

letudinari  infilarono  un  domino  di  cambrl?  o  un  «  costume  »  dzpierrot, 
da  arlecchino,  o  da  debardeur?  Nei  giorni  de'  corsi  mascherati  si 
poteva  andare  in  maschera  dalle  3  pomeridiane  in  poi.  Assai  prima 
di  quelPora  le  vie  di  Firenze  rimanevano  deserte,  e  quando  1'ora 
s'appressava,  in  tutte  le  case,  dietro  i  portoni  e  le  porte,  si  udiva 
un  confuso  e  strano  bisbiglio,  come  di  gente  trattenuta  a  stento  ed 
impaziente  d'uscire.  Finalmente,  quando  Porologio  di  palazzo  Vec- 
chio  batteva  il  primo  tocco  delle  tre,  porte  e  portoni  si  spalancavano 
e  le  strade  si  empivano  in  un  attimo  d'una  folia  multicolore,  vestita 
in  strane  foggie,  che  gridava,  agitava  bubboli  e  sonagli,  suonava 
trombette,  si  studiava  di  far  baccano  in  tutti  i  modi  possibili,  e  si 
awiava  correndo  verso  le  strade  per  le  quali  passava  il  Corso.  Le 
carrozze  facevano  il  giro  della  piazza  di  Santa  Croce,  poi  andavano 
per  via  del  Fosso,  via  del  Palagio  oggi  via  Ghibellina,  via  del  Pro- 
consolo ;  girando  dietro  la  cupola  del  Duomo,  continuavano  lateral- 
mente  alia  basilica  ed  al  « bel  San  Giovanni  »  seguitando  per  le  vie 
Cerretani,  Rondinelli  e  Tornabuoni,  fino  alia  colonna  di  Santa  Tri- 
nita ;  senza  lo  spreco  di  fiori  e  di  dolci  che  s'e  poi  veduto  per  qualche 
anno,  ma  con  una  allegria  schietta  e  attaccaticcia,  punto  ostentata 
ne  incoraggiata  da  comitati;  senza  prendere  il  carnevale  come  pre- 
testo  a  violenze  ed  a  prepotenze,  e  senza  mancar  di  rispetto  ne 
al  prossimo  ne  alle  buone  creanze.  Molta  gente  si  divertiva  di 
gusto,  prendendo  parte  a  quel  correre  e  quel  gridare:  moltissima 
si  divertiva  un  mondo  a  stare  a  vedere,  senza  invidia  e  senza  ram- 
marico,  con  non  minor  sodisfazione  di  quelli  che  andavano  in  car- 
rozza,  giacche,  grazie  al  Cielo,  non  era  ancora  di  moda  Pinvidiare  e 
Podiare  quanti  apparentemente  sembrano  privilegiati  dalla  for- 
tuna. 

Nelle  mattinate  di  Berlingaccio  (giovedi  grasso)  e  degli  ultimi 
due  giorni  di  Carnevale,  v'era  gran  raduno  di  maschere  sotto  il  por 
tico  degli  Uffizi  -  dove  si  terminava  allora  di  collocare  le  statue 
d'illustri  Toscani3  erette  con  elargizioni  private  e  col  ricavo  di 
pubbliche  tombole  -  e  nello  spazio  intermedio,  dove  si  stipavano 
come  in  una  gran  sala  migliaia  e  migliaia  di  persone.  II  Gran- 
duca,  la  Granduchessa,  gli  Arciduchi  piu  grandi  facevano  due  o 

i.  cambrt:  tela  di  cotone  fine,  fabbricata  in  Francia,  a  Cambrai.  2.  da  de 
bar  deur:  da  scaricatore  di  porto.  3.  si  terminava  .  .  .  Toscani:  le  statue 
dei  grandi  fiorentini,  in  numero  di  ventotto,  si  cominciarono  a  collocare 
nelle  Logge  degli  Uffizi  dal  1842. 


FIRENZE   CAPITALS   (1865-1870)  413 

tre  giri  in  mezzo  a  quella  gran  calca,  die  si  apriva  rispettosamente 
per  lasciarli  passare,  ma  non  li  salutava,  essendo  sottinteso  lo 
«  strettissimo  incognito  ».  Vale  la  pena  di  notare  come,  quantunque 
in  simili  occasioni  non  si  prendesse  alcuna  precauzione,  almeno 
apparente,  non  sia  mai  accaduto  neppur  1'ombra  di  un  disordine. 
Fra  principe  e  popolo  non  vi  era  certamente  molto  buon  sangue, 
specie  dopo  il  1849:  ma  non  v'era  neppure  alcun  pericolo  di  atti 
criminosi,  oggi  divenuti  frequenti ;  e  tutt'al  piu  la  vena  satirica  del 
popolo  minuto  -  che  aveva  per  rapsodi  e  rappresentanti,  il  Lachera 
venditore  di  ciambelle,  Miciolle  ciabattino  sul  canto  fra  via  de' 
Pucci  e  via  de'  Servi,  ed  altri  simili  -  si  sfogava  chiamando  Cana- 
pone  il  granduca,  e  non  risparmiando,  ne  a  lui  ne  alia  granduchessa, 
qualche  epiteto  o  soprannome  plebeamente  scurrile. 

Nel  pomeriggio  del  30  giugno  1857  andavo,  con  un  compagno  di 
scuola,  da  casa  al  Parterre,  fuori  di  porta  a  San  Gallo,  ritrovo  favo- 
rito  di  noi  ragazzi  per  il  giuoco  della  sbarra1  o  per  fare  a  rincorrersi. 
Al  quadrivio  di  Candeli2  vedemmo  molte  persone  ferme  a  leggere 
un  manifesto  attaccato  di  fresco.  Annunziava  la  promulgazione 
di  una  specie  di  stato  d'assedio,  conseguenza  di  un  moto  mazzi- 
niano  awenuto  quel  giorno  stesso  a  Livorno,  in  relazione  con  quello 
di  Genova  e  con  la  partenza  di  Carlo  Pisacane  e  dei  suoi  compagm 
per  la  spedizione  terminata  con  Teccidio  di  Sapri.  II  moto  di  Li 
vorno  fu  subito  sedato,  non  avendo  avuto  il  favore  della  popola- 
zione;  ne  poteva  averlo  un  atto  di  ribellione  del  quale  non  si  ca- 
piva  lo  scopo.  A  Firenze,  nel  ceto  medio,  la  prima  impressione  fu 
di  sgomento ;  la  seconda  di  sdegno  contro  i  promotori  del  disordine, 
parendo  quello  il  miglior  modo  per  far  tornare  i  Tedeschi  appena 
partiti.  Ricordo  la  meraviglia  che,  dentro  di  me,  provai  nel  vedere 
alcuni  cittadini,  vestiti  bene,  leggere  il  manifesto  e  poi  darsi  una 
fregatina  alle  mani,  come  per  dire: 

—  Per  questa  volta  glie  Fabbiamo  fatta! 

Si  afFermava  generalmente  che  gli  Inglesi  avessero  messo  uno 
zampino  nella  faccenda  di  Livorno,  per  avere  un  pretesto  di  sbarco 
e  di  occupazione:  la  voce  non  aveva  probabilmente  alcun  fonda- 
mento  di  verita;  ma  offri  occasione  a  qualche  nostro  maestro,  di 
ripetere  sottolineandoli  con  particolare  enfasi  i  versi  della  canzone 

i.  sbarra:  Pasta  di  ferro,  fissata  orizzontalmente,  che  serve  per  esercizi 
ginnastici.  2. « II  quadrivio  dove  oggi  s'incrociano  la  via  Pintle  la  via 
degli  Alfani,  prima  di  entrare  in  via  dei  Pilastri»  (nota  del  Pesci). 


414  UGO   PESCI 

del  Filicaia;1  e  quel  «servir  sempre  o  vincitrice  o  vinta»  cominciava 
a  parerci  una  colossale  ingiustizia. 

Nella  seconda  meta  d'agosto  dello  stesso  anno  1857,  Firenze 
ebbe  la  visita  di  Pio  IX.  Arrivo  il  18  da  Bologna,  per  la  strada  delle 
Filigare.  Gli  Arciduchi  Tandarono  ad  incontrare  fino  al  confine  la 
sera  innanzi ;  pernottarono  con  lui  nella  villa  Gerini  alle  Maschere, 
poi  fecero  sosta  alia  villa  Guicciardini,  dove  il  Papa  trovo  il  Gran- 
duca  mossogli  incontro,  e  con  il  Granduca  entro  in  Firenze  per 
la  porta  San  Gallo,  e  ando  fino  a  palazzo  Pitti,  dove  gli  era  stato 
preparato  un  quartiere  sontuosamente  arredato,  che  il  pubblico  fu 
ammesso  a  visitare  dopo  partito  il  Pontefice. 

Queiringresso  del  Papa  con  il  Granduca  ispiro  allo  spirito  biz- 
zarro  di  Vincenzo  Salvagnoli2  un  epigramma  che,  dopo  ventiquat- 
tr'ore,  tutti  i  fiorentini  sapevano  gia  a  memoria.  Diceva: 

Esempio  di  virtu  sublime  e  raro, 
entro  Cristo  in  Sion  su  di  un  somaro; 
per  imitarlo,  il  nostro  Padre  Santo 
entro  a  Firenze  col  somaro  accanto. 

A  Firenze  non  esiste,  e  tanto  meno  esisteva  allora,  il  pregiudizio 
della  iettatura :  ma  taluni  disgraziati  incidenti  che  precedettero  ed 
accompagnarono  la  dimora  di  Pio  IX  nella  reggia  toscana  parvero 
fatti  apposta  per  confermare  la  fama  di  iettatore  affibbiata  gia  da  un 
pezzo  a  Pio  IX  dalla  plebe  romana. 

Una  breve  malattia  aveva  ucciso  poco  prima,  quando  si  comincio 
a  parlare  del  viaggio  del  Papa,  Farciduchessa  Maria  Luisa3  so- 
rella  di  Leopoldo  II,  rimasta  nubile  per  la  deformita  del  corpo,  ad 
onta  della  quale  era  dal  popolo  la  piu  ben  voluta  fra  tutti  i  compo- 
nenti  della  famiglia  granducale.  La  chiamavano  comunemente  « la 

i.  i  versi  .  .  .  del  Filicaia:  fu  per  lungo  tempo  famosa  la  canzone  che  il  poeta 
fiorentino  Vincenzo  da  Filicaia  (1642-1707)  aveva  dedicate  all' Italia  (E 
pure,  Italia,  epure);  ma  le  parole  che  il  Pesci  ricorda  subito  dopo  apparten- 
gono  all'ultimo  verso  («per  servir  sempre  o  vincitrice  o  vinta»)  di  un  so- 
netto  del  Filicaia  (Italia,  Italia,  o  tu  cui  feo  la  sorte),  anch'esso  caro  agli 
uomini  del  Risorgimento.  2.  Vincenzo  Salvagnoli  (1801-1861),  awocato, 
giurista,  uomo  politico.  Fu  dapprima  vicino  al  Guerrazzi,  ma  se  ne  stacc6 
nel  1848-49.  Dopo  il  ritorno  del  granduca  and6  esule  a  Torino:  favori  la 
causa  italiana  sostenendo  la  politica  unitaria  del  Piemonte.  Si  ricordano, 
fra  i  suoi  scritti,  il  Discorso  sullo  stato  politico  della  Toscana  (1847)  e  Del- 
Vindipendenza  d*  Italia  (1859).  Fu  tra  i  fondatori  del  giornale  «La  Patria» 
(1847).  3.  Farciduchessa  Maria  Luisa,  nata  nel  1798,  mori  nel  giugno 
del  1857. 


FIRENZE   CAPITALE  (1865-1870)  415 

gobbina»  ma  senza  alcuna  intenzione  dispregiativa:  ne  apprezza- 
vano  anzi  molto  1'ingegno,  che  aveva  fatto  desiderare  a  Ferdinan- 
do  III1  di  poter  lasciare  a  lei  e  non  al  «toscano  Morfeo»2  la  corona 
del  granducato:  ed  apprezzavano  gli  atti  di  beneficenza  e  di  carita 
da  essa  continuamente  compiuti,  fino  al  punto  di  rimaner  sprowe- 
duta  qualche  volta  del  necessario. 

Ai  funerali  della  «  gobbina  »  era  stato  grandissimo  il  concorso  del 
popolo  sinceramente  addolorato,  quantunque  si  fossero  sparse  voci 
allarmanti  di  possibili  tumulti,  che  trovavano  facile  ascolto  dopo 
quanto  era  accaduto  ai  funerali  dell'arcivescovo  Minucci,3  egli 
pure  morto  in  quelPanno.  Non  si  e  mai  saputo  chi  ringraziare;  ma 
mentre  il  corteo  funebre  delParcivescovo,  mosso  da  piazza  del 
Duomo,  sfilava  per  via  Rondinelli  ed  era  quasi  giunto  al  palazzo 
Antinori,  cominci6  un  fuggi  fuggi  generate.  Dalla  folia  dei  curiosi 
il  panico  si  propago  al  clero,  alle  confraternite,  a  quanti  formavano 
il  corteo,  compresi  i  soldati ;  ed  il  feretro,  portato  a  spalla,  fu  lasciato 
cadere  piii  che  deposto  in  mezzo  alia  strada;  mentre  quelli  che  lo 
portavano  si  misero  a  correre  all'impazzata,  senza  saper  dove  ne 
perche,  non  sospettando  neppure  di  essersi  forse  ccprestati  gentil- 
mente »  a  favorire  qualche  tiro  birbone,  preparato  da  emeriti  bor- 
saiuoli. 

Per  la  visita  di  Pio  IX  a  Firenze  vi  furono,  come  per  le  nozze 
dell'Arciduca  ereditario,  fuochi,  bellissima  illuminazione,  e  dune 
elettriche  »4  uno  dei  primi  elementari  tentativi  di  elettrotecnica :  e 
fu  eseguita  una  trilogia  musicale  del  cav.  Raimondi,  romano,  nel 
Salone  dei  Cinquecento,5  che  dette  una  bella  prova  di  solidita  re- 
sistendo  incrollabile  a  quella  musica.  Infinito  fu  Paccorrere  di  gente 
da  ogni  parte  della  Toscana,  gente  non  tutta  chiamata  dalla  curiosita 
e  dalla  voglia  di  divertirsi,  ma  anche  da  un  sentimento  di  venera- 
zione  per  il  capo  della  Chiesa.  II  '49  e  gli  anni  successivi  avevano 
fatto  dimenticare  intieramente  Tinarrivabile  prestigio  goduto  dal 


i .  Ferdinan do  III:  figlio  di  Pietro  Leopoldo  e  padre  di  Leopoldo  II,  fu 
granduca  di  Toscana  dal  1790  al  1824,  salvo  la  lunga  parentesi  francese 
e  napoleonica  (1799-1814),  durante  la  quale  si  rifugio  in  Austria.  2.  «fc>- 
scano  Morfeo»:  cfr.  Giusti,  Ulncoronazione,  v.  25.  3.  quanto  .  .  .  Minucci: 
nel  1856,  durante  i  funerali  dell'  arcivescovo  Minucci,  erano  awenuti 
gravi  disordini.  4.  lune  elettriche:  globi  per  illuminazione.  5.  Ilsalone, 
che  e  nel  palazzo  della  Signoria,  si  chiamo  dei  Cinquecento  solo  quando  fu 
sede  della  Camera  dei  deputati  (in  nurnero  di  Cinquecento,  donde  il  nome), 
dal  1865  al  1871,  allorche  Firenze  divenne  capitale  del  Regno  d'ltalia. 


416  UGO  PESCI 

Papa  nel  '47  e  nel  '48 :  non  di  meno  le  masse  lo  rispettavano  e  lo 
veneravano.  Pio  IX,  che  nel  1857  aveva  soli  65  anni  e  ne  dimostrava 
dieci  di  meno,  era  veramente  un  bel  Papa,  e  pareva  fatto  apposta  per 
piacere  alle  moltitudini.  Seducevano  in  lui  la  fisonomia  sempre  sor- 
ridente  e  lo  sguardo  vivace,  mobile,  penetrante:  le  mani  erano  pic- 
cole,  belle,  tenute  con  molta  cura;  lo  zucchetto  di  raso  candidissimo 
-  ne  cambiava  uno  e  qualche  volta  due  al  giorno  -  Fabito  talare 
bianco  lindissimo,  guarnito  ai  polsi  di  magnifiche  trine  antiche, 
indicavano  in  lui  Puomo  di  gusti  signorilmente  raffinati. 

Ebbi  occasione  di  vederlo  molto  phi  da  vicino  di  quanto  poteva 
essere  possibile  ad  un  ragazzo  della  mia  eta,  perche  fino  da  quando 
ne  fu  preannunziata  la  venuta  a  Firenze,  il  canonico  Carloni,  diret- 
tore  del  Liceo  Fiorentino,  si  mise  in  moto  per  potergli  presentare  la 
scolaresca.  II  buon  canonico  aveva  anche  scritto  un  componimento 
poetico  da  recitarsi  da  uno  di  noi  al  cospetto  del  Santo  Padre.  La 
scelta  cadde  su  di  me.  Attribuisco  la  preferenza  alia  bonta  del  di- 
rettore  che,  fra  tanti  ragazzi,  giovanetti  ed  anche  giovinotti, 
avrebbe  potuto  molto  facilmente  trovare  chi,  per  ingegno  e  per 
condizione  della  famiglia,  fosse  adatto  piu  di  me  a  rappresentare 
Tistituto.  Chiunque  altro  egli  avesse  preferito  non  sarebbe  stato 
almeno,  come  ero  io  e  son  rimasto,  privo  di  qualunque  attitudine 
alia  declamazione  ed  al  «bel  porgere». 

Fatto  sta  che,  a  furia  di  ripetere  i  versi  del  canonico  -  i  quali 
formavano  una  specie  di  ode,  con  il  metro  ed  il  movimento  lirico 
degli  Inni  manzoniani  -  arrivai  ad  impararli  a  mente  e  a  dirli  ab- 
bastanza  male.  II  canonico  mi  faceva  andare  la  sera  a  casa  sua,  die- 
tro  il  Duomo,  dove  ripetevo  Tode  tre  o  quattro  volte.  La  faccenda 
della  presentazione  degli  alunni  al  Sommo  Pontefice,  aveva  messo 
il  Carloni  in  grande  orgasmo,  il  quale  aumento  quando  si  seppe 
definitivamente  che  Pio  IX  avrebbe  ricevuto  professori  e  scolari 
del  Liceo  Fiorentino  nella  sagrestia  di  Santa  Croce,  il  21  agosto, 
dopo  aver  collocata  la  prima  pietra  della  facciata  di  quel  tempio,1 
costruita  poi  intieramente  a  spese  di  un  ricco  inglese,  il  signor 
Sloane. 

Venuto  il  gran  giorno,  si  stette  un  gran  pezzo  nella  sagrestia  ad 
aspettare;  e  durante  la  lunga  aspettativa  il  canonico  Carloni,  fra 
Pamorevole  e  Tagitato,  mi  ripeteva  le  istruzioni  gia  datemi  tante 

i.  facciata .  .  .  tempio:  la  facciata  di  Santa  Croce,  opera  di  Nicola  Matas, 
fu  eseguita  dal  1857  al  1863. 


FIRENZE    CAPITALS   (1865-1870)  417 

volte:  recitare  la  poesia  a  voce  alta,  franca  e  spedita;  poi  presentare 
al  Papa  la  copia  scritta  in  bella  calligrafia,  genuflettermi  e  baciare 
il  piede  di  Sua  Santita  e  precisamente  la  croce  ricamata  sulla 
scarpa. 

A  farla  apposta,  dovetti,  per  dire  come  dicono,  «  svolgere  il  pro- 
gramma))  in  tutt'altro  modo.  II  Papa,  dopo  un  gran  pezzo  entro 
finalmente,  benedicendo,  nella  sagrestia  gia  affollata,  e  ando  a  se- 
dere  sul  trono  eretto  in  fondo,  di  faccia  alPingresso.  II  Granduca 
venne  a  metterglisi  vicino,  in  piedi,  con  la  testa  reclinata  verso  la 
spalla  destra,  secondo  la  sua  abitudine:  e  due  guardie  nobili  in 
grande  uniforme,  con  la  spada  sguainata,  si  posero  una  da  una  parte 
ed  una  dall'altra  deirultimo  gradino  del  trono.  Furono  prima  pre- 
sentati  al  Papa  alcuni  preti  e  frati ;  poi  il  canonico  Carloni  mi  prese 
per  mano,  e  lasciando  tutti  i  miei  compagni  disposti  in  bell'or- 
dine  di  fronte  al  trono,  m'incamminai  con  lui  verso  il  Papa.  Men- 
tirei  se  dicessi  che  non  sentivo  la  imponenza  di  quel  momento  e  di 
quella  scena,  della  quale  ero  indegnamente  un  attore :  mi  atterriva 
particolarmente  la  paura  di  aver  dimenticato  i  versi  e  le  istruzioni 
del  direttore.  Questi,  presentato  a  Pio  IX,  si  genuflesse  commosso, 
gli  bacio  il  piede  e,  dopo  aver  detto  poche  parole,  si  ritrasse  dietro 
di  me  che  mi  trovai  faccia  a  faccia  con  il  Pontefice,  con  il  granduca 
e  le  due  guardie  nobili,  immobili  ed  impettite.  Non  vedevo  altro. 
II  sorriso  di  Pio  IX,  pur  leggermente  canzonatorio,  mi  incoraggio 
a  cominciare  speditamente  la  recitazione  dei  versi:  ma  dopo  tre  o 
quattro  strofe,  Pio  IX,  quasi  presentendo  che  ne  venivano  dietro 
circa  un'altra  ventina,  m'interruppe  dicendo: 

—  Bravo  giovinetto!  bravo!  e  come  ti  chiami?  —  E  quando  ebbi 
risposto :  —  Di  chi  sei  figlio  ? 

Dopo  qualche  altra  breve  domanda,  vedendomi  imbarazzato  per 
non  sapere  se  dargli  o  non  dargli  il  foglio  dell5 ode,  m'indico  di 
porgerlo  ad  un  signore  vestito  alia  spagnola,  tutto  di  nero  -  un 
cameriere  di  cappa  e  spada  -  che  s'era  fatto  innanzi  in  quel  mentre. 
Avendo  poi  fatto  Patto  d'inginocchiarmi  per  baciare  il  piede,  Pio  IX 
mi  trattenne  dolcemente  col  gesto  e  mi  porse  invece  a  baciare  il 
grosso  cammeo  rappresentante  la  Vergine,  che  portava  nelPanu- 
lare  della  mano  destra.  Quando  ho  riveduto  Pio  IX  a  Roma,  dopo 
il  1870,  era  sempre  florido,  sempre  lindo,  ma  Pespressione  del  suo 
volto  non  era  piii  gioviale  come  a  Firenze,  ed  il  sorriso  aveva  assai 
piu  del  sarcastico.  Certamente,  anche  dedicandomi  un  poco  felice 

27 


418  UGO  PESCI 

scherzo  sulle  parole  ugonotto  ed  ugo  noto,  Pio  IX  non  seppe  mai  che 
il  giornalista  buzzurro1  di  Roma  e  lo  studente  del  Liceo  fiorentino 
erano  la  stessa  persona.2 

Pio  IX  se  n'ando  per  la  via  di  Siena,  lasciando  il  tempo  che  aveva 
trovato;  e  se  la  sua  visita  fu  gradita  non  desto  certamente  entu- 
siasmo,  non  suscito  quella  esultanza  e  quelle  acclamazioni  con  le 
quali  furono,  dopo  non  molto  tempo,  salutati  i  liberatori  della  pa- 
tria.  Fino  da  allora,  non  ostante  Tapparente  indifferenza  per  le 
cose  pubbliche,  i  prossimi  futuri  eventi  erano  attesi  ed  aspettati 
con  il  desiderio  di  molti  e  con  Popera  di  parecchi  patrioti,  che 
tendevano  continuamente  1'orecchio  e  lo  sguardo  verso  il  Pie- 
monte.  Era  generale,  in  ogni  ceto,  una  vaga  aspirazione  ad  un 
mutamento  politico,  ma  oltre  al  temere  un  secondo  1849,  i  piu  non 
sapevano  precisamente  quale  governo  avrebbero  sostituito  a  quel- 
lo  del  granduca,  o  credevano  questo  non  inconciliabile  con  un 
regime  piu  liberale,  e  con  la  intiera  liberazione  delPItalia  dagli 
stranieri. 

Le  correnti  della  opinione  pubblica  si  formavano  allora  -  mi  sia 
permessa  la  frase  -  in  mo  do  molto  di  verso  da  quelle  del  tempo  pre- 
sente.  Oggi  a  nulla  si  pensa  per  piu  di  otto  giorni  consecutivi . .  . 
forse  a  qualche  delitto  di  quelli  chiamati  celebri.  Allora  invece  la 
folia  che  oggi  discute  a  vanvera  problemi  politici  e  sociali,  si  ap- 
passionava,  forse  per  mancanza  di  vita  pubblica,  a  cose  alle  quali 
non  si  da  ora  alcuna  grande  importanza;  ai  teatri  anche  di  se- 
cond'ordine,  ai  pettegolezzi,  ed  a  molte  altre  cose. 

In  quelli  anni  i  fiorentini,  per  dime  una,  durante  i  mesi  d'estate, 
parteggiavano  come  tanti  guelfi  e  ghibellini  per  questo  o  quel  giuo- 
catore  di  pallone,  e  la  citta  si  divideva  in  due  fazioni;  quella  dei  fau- 
tori  del  Maestrelli,  giuocatore  abilissimo  ed  elegante,  e  quella  dei 
fautori  del  Puccianti,  giuocatore  di  maggior  forza,  famoso  per  le 
volate.  II  giuoco  del  pallone  era  lungo  il  lato  esterno  alle  antiche 


i .  buzzurro :  con  questo  epiteto,  che  equivale  a  «  uomo  zotico »,  i  romani  chia- 
marono  i  forestieri,venuti  a  Roma  dalle  altre  parti  d' Italia,  dopo  il  1870  (cfr. 
pp.  510  sgg.).  II  vocabolo,  gia  in  uso  a  Firenze  prirna  di  allora,  indicava  gli 
svizzeri  oUscesi  d'inverno  in  Italia  a  vendere  castagne  e  castagnacci.  2. « Po- 
co  dopo  il  1870,  essendo  io  andato  a  Roma  per  il  "Fanfulla"  ed  avendo  in 
quei  primi  tempi  acquistata  una  certa  notorieta  giornalistica  come  Ugo, 
Pio  IX  che  si  dilettava  di  calembours,  disse  un  giorno  che  ero  un  ugo-noto, 
parendogli  di  dire  a  quel  modo  che  ero  un  eretico.  II  motto  allora  fece  il 
giro  dei  giornali »  (nota  del  Pesci). 


FIRENZE   CAPITALE  (1865-1870)  419 

mura,  subito  fuori  della  porta  a  Pinti,  ora  scomparsa,  vale  a  dire  in 
fondo  a  Borgo  Pinti,  a  sinistra  di  chi  guarda  la  collina  di  Fiesole 
nello  spazio  occupato  adesso  dal  viale  Principe  Amedeo.1  Costi, 
.ed  altrove,  fra  le  mura  e  la  strada  erano  de'  vasti  rettangoli  piu 
bassi  del  piano  stradale,  chiamati  ghiacciaie,  perche  d'inverno  vi  si 
lasciava  andare  Pacqua  fino  ad  una  certa  altezza  per  farne  ghiaccio 
e  magari  pattinarvi  sopra.  Una  di  codeste  ghiacciaie,  quella  subito 
fuori  di  porta,  serviva  ds estate  al  giuoco  del  pallone.  II  vasto  ret- 
tangolo  non  bastava  a  contenere  i  numerosissimi  spettatori,  e  molti 
dovevano  restar  fuori  dello  steccato  ad  aspettare  le  notizie  della 
partita  ed  i  palloni  sbagliati.  Ad  ogni  bel  colpo,  un  grido  di  arnrnira- 
zione  prorompeva  da  mille  bocche  e  trovava  eco  tutt'alPintorno. 
Finita  la  partita,  una  vera  folia  rientrava  in  citta  discutendo  ani- 
matamente,  con  vera  passione,  come  non  si  discute  piu  adesso 
neanche  un  voto  del  Parlamento.  Ne  s'appassionava  il  solo  popolo 
minuto :  vj  erano,  fra  i  piu  esaltati,  anche  patrizi,  professionisti,  ar- 
tisti,  regi  impiegati,  ed  il  nostro  professore  di  retorica,2  sacerdote 
ed  uomo  serio  e  posato,  scriveva  distici  di  sapore  oraziano  per  cele- 
brare  le  volate  del  Puccianti,  del  quale  era  partigiano. 

Sulla  fine  del  1858  e  il  principio  del  1859  comincio  a  ribollire  piu 
evidentemente  il  fermento  del  patriottismo.  II  ribollimento  si  ma- 
nifestava  in  mille  modi,  specie  dopo  che  Vittorio  Emanuele  ebbe 
accennato  al  «  grido  di  dolore»  inalzato  a  lui  da  tante  parti  d' Ita 
lia.3  Per  esempio  al  teatro  Pagliano,4  ai  primi  del  1859,  si  rappresen- 
tava  La  Muta  di  Portici  delPAuber.5  Mio  padre  mi  condusse  una 
sera  a  quel  teatro,  e  credo  non  senza  secondo  fine.  Quando  Masa- 
niello,  seguito  dai  popolani  di  Napoli,  si  avvento  addosso  ai  soldati 

i .  viale  Principe  Amedeo :  oggi  viale  Giacomo  Matteotti.  2.  il  nostro  .  .  . 
retorica:  il  gia  nominate  don  Marcello  Fomaini.  3.  dopo  che  .  .  .  Italia: 
allude  alle  famose  parole  pronunziate  da  Vittorio  Emanuele  il  10  gen- 
naio  1859,  al  Parlamento  subalpino  (cfr.  p.  373  e  la  nota  4).  4.  teatro 
Pagliano :  oggi  teatro  VerdL  II  vecchio  nome  gli  era  venuto  dal  proprieta- 
rio  e  fondatore,  Girolamo  Pagliano,  largamente  noto  anche  come  inventore 
di  uno  sciroppo  cui  Ieg6  il  suo  nome  e  che  gli  procuro  non  piccola  fortuna. 
Era  tra  le  figure  piu  originali  e  umoristiche  della  Firenze  del  tempo. 
5.  II  musicista  francese  Daniel  Francois  Esprit  Auber  (1782-1871)  music6, 
tra  le  altre  op  ere,  La  muette  de  Portici,  in  cinque  atti,  su  libretto  di  Scribe  e 
Delavigne.  La  prima  rappresentazione  ebbe  luogo  a  Parigi,  il  29  febbraio 
1828.  La  protagonista,  Fenella,  la  muta,  e  sorella  di  Masaniello:  tradita 
per  una  nobile,  Elvira,  dal  fratello  del  vicere"  di  Napoli,  ne  salva  generosa- 
mente  la  vita  nella  rivolta :  ucciso  poi  Masaniello  dalla  folia,  si  inabissa  nella 
lava  del  Vesuvio. 


420  UGO    PESCI 

spagnoli  strappando  la  bandiera  di  mano  alPalfiere,  tuono  tale  un 
grido  fragoroso  e  potente  dal  loggione  e  dalla  platea,  che,  non  avendo 
mai  udito  nulla  di  simile,  io  rimasi  confuse  e  quasi  atterrito,  anche 
perche  vedevo  straordinariamente  commossi  quei  pochi,  che  non 
applaudivano  e  non  gridavano. 

Nel  febbraio  mori  a  Napoli  PArciduchessa  ereditaria,1  andata  in 
quella  citta  con  i  suoceri  ed  il  marito  per  assistere  alle  nozze  di 
Francesco  II,2  allora  duca  di  Calabria.  La  di  lei  salma,  trasportata  in 
Firenze  per  essere  sepolta  nella  Cappella  Medicea  di  San  Lorenzo, 
fu  ricevuta  con  segni  di  universale  e  sincere  compianto.  Quella 
morte,  pur  non  avendo  intrinsicamente  alcuna  importanza  poli- 
tica,  alieno  sempre  piii  gli  animi  della  popolazione  dalla  famiglia 
regnante,  ed  a  ragione  od  a  torto,  non  saprei  dirlo,  TArciduchessa 
fu  considerata  come  una  vittima  del  marito,  di  gusti  e  di  sentimenti 
grossolani  e  poco  delicati. 

Intanto  si  parlava  dovunque,  continuamente,  ad  alta  voce  di 
guerra  per  I'mdipendenza.  Noi  ragazzi  se  ne  bisbigliava  anche  du- 
rante  le  lezioni,  cominciando  ad  assistervi  un  po?  distratti  da  quanto 
accadeva  fuori.  Sentivamo  dire  sommessamente  che  alcuni  de'  piu 
anziani  delle  classi  Hceali  erano  sulle  mosse  per  andare  ad  arruolarsi 
in  Piemonte,  e  domandavamo  se  avrebbero  preso  noi  piccoli  per 
suonare  il  tamburo.  Volontari  d'ogni  ceto  e  condizione  ne  partivano 
ogni  giorno  corampopulo,  senza  mistero.  Oggi  non  si  vedeva  piu  alle 
Cascine  il  tal  giovinotto  elegante,  solito  a  comparirvi  ogni  giorno 
guidando  la  sua  pariglia,  e  si  sapeva  subito  dopo  che  era  andato  a 
Pinerolo  ad  arruolarsi  nei  lancieri  di  Novara.  Parecchi  partivano 
direttamente  per  conto  loro :  chi  non  aveva  mezzi  andava  alia  bot- 
tega  del  fornaio  Dolfi3  in  Borgo  San  Lorenzo,  od  a  bussare  alia 
porta  del  mezzanino  del  palazzo  Aldobrandini  in  piazza  Madonna, 


i.  Nel  febbraio  .  .  .  ereditaria:  vedi  la  nota  2  a  p.  411.  2.  Francesco  II  di 
Borbone,  nato  nel  1836,  divenne  re  delle  Due  Sicilie  alia  morte  del  padre, 
Ferdinando  II  (22  maggio  1859).  Le  sue  nozze  con  Maria  Sofia  di  Ba- 
viera  erano  state  celebrate  a  Napoli  P8  gennaio  1859.  Dopo  laresa  di  Gaeta 
(febbraio  1861),  perduto  il  trono,  visse  a  Roma.  Mori  ad  Arco,  nel  Tren- 
tino,  nel  1894.  3.  Giuseppe  Dolfi  (1818-1889)  ebbe  grande  influenza  sui 
moti  e  le  vicende  risorgimentali  a  Firenze.  La  sua  bortega  di  fornaio  fu 
punto  di  incontro  fra  i  patriotti :  parte  decisiva  egli  ebbe  nella  pacifica  ri- 
voluzione  fiorentina  del  27  aprile  1859.  Repubblicano  e  legato  a  Mazzini, 
pure  agevold  runificazione  monarchica.  Dopo  il  '60  si  interesso  vivamente 
di  problemi  sociali. 


FIRENZE   CAPITALE   (1865-1870)  421 

dove  abitava  Enrico  Lawley,1  oriundo  inglese  nato  in  Italia  e  vero 
italiano  d'educazione  e  di  sentiment! ;  e  li  era  proweduto  di  quanto 
gli  occorreva  per  andare  a  Livorno  e  presentarsi  a  Vincenzo  Ma- 
lenchini,2  che  pensava  ad  imbarcarlo  per  Genova. 

E  risaputo  che  quelle  partenze  erano  favorite  e  regolate  da  chi, 
nel  tempo  stesso,  dirigeva  il  movimento  liberale  contenendolo  ne' 
voluti  confini;  cioe  da  un  gruppo  di  cittadini  che  si  riunivano  spesso 
in  casa  del  marchese  Bartolommei,3  sul  canto  di  via  Lambertesca. 
II  marchese  Ferdinando  era  conosciuto  da  tutti  i  fiorentini  per  la 
semplice  e  squisita  signorilrta  de}  suoi  modi,  e  per  la  salda  fermezza 
del  suo  carattere.  Tutti  sapevano  che,  dopo  il  1850,  era  stato  con- 
finato,  per  ordine  del  Granduca,  nella  sua  tenuta  delle  Case,  vicino 
a  Monsummano:  poi  arrestato  e  portato  nelle  carceri  del  Bargello 
dopo  le  fucilate  tirate  in  Santa  Croce  il  29  maggio  del  1851.  Esi- 
liato  fuor  di  Toscana,  vi  era  tornato  nel  1854,  immutato ;  dan  do  aiuto 
d'opera,  di  denari  e  di  consiglio,  a  qualunque  impresa  potesse  gio- 
vare  alia  causa  italiana,  coadiuvato  sempre  dalla  moglie,  la  marchesa 
Teresa,  nata  Morelli  Adimari,  signora  di  nobili  sentimenti,  affe- 
zionatissima  al  marito,  affascinante  per  la  schietta  gentilezza  delle 
maniere  ed  il  pronto  ed  acuto  ingegno ;  di  virili  propositi  per  quanto 
risguardava  Pindipendenza  italiana.  Per  dare  un'idea  di  quanto  ef- 


i.  Enrico  Lawley,  di  famiglia  oriunda  inglese,  fu  poi  deputato  di  Pisa  du- 
rante  1'xi  legislatura,  ma,  per  circostanze  di  famiglia,  rinuncio  al  mandate. 
La  Camera  ne  prese  atto  nella  seduta  del  4  giugno  1873.  2.  Vincenzo  Ma- 
lenchini:  vedi  la  nota  7  a  p.  183.  3.  Ferdinando  Bartolommei  (1821-1869) 
fu  dei  piu  colti  e  attivi  liberali  fiorentini:  come  opero  per  il  risorgimento 
politico  dell' Italia,  cosi  dette  il  meglio  di  se  al  rinnovamento  delle  con- 
dizioni  economiche  e  civili  della  Toscana.  Le  notizie  date  dal  Pesci  non 
sembrano  del  tutto  esatte.  Dopo  il  ritorno  di  Leopoldo  II  nel  '49,  il  Barto 
lommei  si  era  volontariamente  ritirato  nelle  sue  terre  in  Val  di  Nievole: 
nelPanniversario  della  morte  di  Carlo  Alberto,  il  28  luglio  1850,  organizzo 
una  manifestazione  di  lutto,  dopo  la  quale  la  polizia,  saputo  della  sua  inten- 
zione  di  recarsi  a  Siena  in  occasione  del  palio,  lo  consiglio  di  non  muoversi 
di  villa;  il  29  maggio  1851  organizzo  a  Firenze,  in  Santa  Croce,  onoran- 
ze  in  memoria  dei  caduti  di  Curtatone  e  Montanara,  ma,  scoppiati  dei 
tumulti,  fu  confinato  nella  sua  villa  presso  Monsummano.  Tornato  a  Fi 
renze,  avendo  la  polizia  saputo  che  aveva  in  casa  una  stamperia  clandestina, 
gli  perquisi  il  palazzo,  sia  pure  invano:  ma  fu  ugualmente  arrestato  ^e 
condannato  a  sei  mesi  di  reclusione,  commutati  in  esilio.  Viaggio  allora  in 
Francia,  Belgio,  Olanda,  Inghilterra.  Torno  a  Firenze  nel  1854  e  vi  ri- 
prese  la  sua  attivita  politica.  Vedi  M.  GIOLI,  //  rivolgimento  toscano  e 
Vazione  popolare  (1847-1850).  Dai  ricordi  famigliari  del  marchese  Ferdi 
nando  Bartolommei,  Firenze,  Barbera,  1905. 


422  UGO   PESCI 

ficacemente  operassero  allora  il  marchese  e  la  marchesa  Bartolom- 
mei,  bastera  dire  che  furono  spese  da  loro  46.000  lire  per  la  par- 
tenza  e  1'arruolamento  di  volontari;  parte  delle  quali  raccolte  fra  gli 
amici,  ma  per  tre  quarti  offerte  dal  Bartolommei  stesso,  oltre  50  ca- 
valli  da  lui  mandati  in  dono  al  Piemonte. 

Gli  awenimenti  precipitavano ;  il  27  aprile1  si  awicinava.  Da 
alcuni  mesi  era  tomato  a  Firenze  Stefano  Siccoli,2  figlio  di  tin  re- 
putatissimo  awocato.  Esiliato  dalla  Toscana  «per  insormontabile 
awersione  al  governo  austriaco»  era  andato  nell' America  del  Sud 
ed  aveva  combattuto  nel  Peru  per  Fabolizione  della  schiavitu,  per- 
dendovi  una  gamba  e  guadagnandovi  il  grado  di  maggiore.  Era  un 
bel  giovine,  biondo,  alto  di  statura,  d'aspetto  militare,  e  Fessere 
rimasto  zoppo  combattendo  per  una  idea,  gli  dava  agli  occhi  nostri 
singolar  pregio.  II  maggiore  Siccoli  aveva  due  fratelli,  uno  de* 
quali  studente  al  ginnasio.  Due  o  tre  di  noi  suoi  compagni  anda- 
vamo  spesso  a  studiare  da  lui,  che  abitava  con  la  famiglia  al  se- 
condo  piano  del  palazzo  Fossi,  vicino  al  ponte  alle  Grazie.  Ma  in 
quei  giorni,  sulk  meta  d'aprile  del  1859,  nessuno  studiava  piu. 
Le  nostre  visite  a  casa  Siccoli  s'erano  fatte  bensi  piu  frequenti, 
perche  ci  davano  occasione  di  vedere  da  vicino  il  valoroso  amputate, 
uno  dei  piu  zelanti  nel  preparare  quanto  accadde  e  doveva  acca- 
dere  pochi  giorni  dopo.  Avendo  bisogno  di  stare  continuamente 
in  corrispondenza  con  altri  liberali,  il  Siccoli  si  accorse  presto  che 
rammirazione  dei  compagni  di  suo  fratello  poteva  essergli  utile  a 
qualche  cosa.  Chi  poteva  sospettare  di  noi  ?  Cominci6  a  mandarci, 
ora  Funo  ora  Faltro,  a  portare  dei  minuscoli  bigliettini  misteriosi, 
con  precisa  e  perentoria  raccomandazione  di  consegnarli  esclusiva- 
mente  alia  persona  indicataci.  Credendoci  inalzati  alia  dignita  di 
cospiratori,  ci  pareva  di  non  toccar  piu  terra,  e  correvamo  di  volo 

i.  il  2j  aprile  1859,  data  deirallontanamento  dei  Lorena.  2.  Stefano  Sicco 
li  (1834-1886),  fiorentino.  Dopo  una  prima  giovinezza  irrequieta,  emigr6  in 
America,  ove  si  pose  al  seguito  di  Garibaldi  come  mozzo  e  medico  dilettan 
te.  Dopo  la  mutilazione,  subita  combattendo  nel  Peru  per  Fabolizione  degli 
schiavi,  fu  a  Parigi,  in  Inghilterra,  in  Germania  ecc.  Verso  la  fine  del  1858 
torn6  in  Italia.  Ebbe  poi  Fincarico  di  scortare  i  Lorena  fuori  dai  confini 
della  Toscana.  Partecip6  nel  1860  alia  diversione  Zambianchi,  e  raggiunse 
successivamente  Garibaldi  in  Sicilia.  Repubblicano  di  idee,  propugn6  alia 
Camera,  come  deputato,  varie  riforme  sociali,  che  parvero  allora  rivoluzio- 
narie.  Mori  a  Roma  quasi  dimenticato.  Vedi  M.  PUCCIONI,  II  Risorgimento 
italiano  nett'opera,  negli  scritti  e  nella  corrispondenza  di  P.  Puccioni,  Fi 
renze,  Vallecchi,  1932. 


FIRENZE   CAPITALE  (1865-1870)  423 

alia  bottega  di  Giuseppe  Dolfi,  fornaio  e  capopopolo  in  Borgo 
San  Lorenzo,  o  sul  ponte  Vecchio  dai  fratelli  Tanagli,  orafi,  che 
con  i  loro  cappelli  a  larghe  falde,  le  corporature  colossali,  i  baffi  ti- 
rati  su  alia  sgherra  ed  il  pizzo  all'imperiale,  arieggiavano  a  moschet- 
tieri  ritiratisi  dal  servizio. 

Nel  pomeriggio  del  26  aprile  ero  stato  ad  accompagnare  mia 
madre  fino  a  casa  di  mia  nonna,  in  via  San  Sebastiano,  ora  Gino 
Capponi,  poi,  con  un  compagno  di  scuola,  m'ero  awiato  al  Par 
terre.  Quando  si  fu  per  la  via  interna  lungo  le  mura,  vicino  alia 
torre  del  Maglio  -  tutta  roba  scomparsa  e  quasi  dimenticata  -  ci 
arriv6  all'orecchio  un  lontano  rumore  come  di  grida,  e  vedemmo 
correr  gente  verso  via  Larga,  ora  via  Cavour.  Subito  corremmo  an- 
che  noi  ed  arrivammo  trafelati  in  piazza  San  Marco,  dove  una  gran 
folia  era  ferma  davanti  alia  caserma  della  gendarmeria,  situata  dove 
fu  poi  il  ministero  della  guerra  ed  ora  risiede  il  comando  dell'vin 
corpo  d'esercito.  Sulla  porta  due  ufficiali  sembravano  volessero 
persuadere  la  gente  ad  andarsene  per  i  fatti  suoi;  ma  la  folia  rispon- 
deva  alle  esortazioni  gridando  «Vogliamo  la  guerra  all' Austria !» 
poiche  nella  caserma  era  stato  persuaso  a  ritirarsi  il  generale  Fer 
rari  da  Grado,1  comandante  austriaco  del  piccolo  esercito  toscano, 
dopo  avere  sfidato  impassibile,  per  lungo  tratto  di  strada,  un  vero 
uragano  di  fischi.  Seguito  da  centinaia  e  centinaia  di  persone,  cam- 
minava,  secondo  il  solito,  rigidamente  impettito,  dando  prova  di 
un  coraggio  persooale  che,  in  quel  momento,  pareva  una  sfida  inop- 
portuna. 

Raggiunsi  piu  tardi  mia  madre  che,  avendo  saputo  della  dimo- 
strazione,  era  agitata  ed  inquieta  conoscendo  la  mia  smania  d'an- 
dare  a  curiosare  da  per  tutto,  specie  in  quei  giorni.  Ebbi  timore  che 
la  mattina  dopo  non  mi  sarebbe  stato  permesso  Puscire  di  casa, 
mentre  sapevo  gia  che  la  popolazione  fiorentina  si  sarebbe  radunata 
in  piazza  Barbano.  A  buon  conto,  la  mattina  del  27  fed  lo  gnorri, 
ed  alPora  solita,  radunati  i  miei  libri,  non  incontrando  alcun  osta- 
colo  o  proibizione,  scesi  le  scale  a  salti  e  me  n'andai  difilato,  senza 
voltarmi  indietro,  verso  piazza  Santa  Croce,  non  con  il  proponi- 
mento  d'andare  a  scuola,  ma  con  la  speranza  d'incontrare  de5  com- 
pagni  ed  unirmi  con  loro  per  «fare  la  rivoluzione ». 

i.  Federico  Ferrari  da  Grado,  austriaco  di  nascita,  era  comandante  del- 
Fesercito  toscano,  da  quando  (1851)  il  De  Laugier  aveva  lasciato  la  carica  di 
ministro  della  guerra. 


424  UGO    PESCI 

Compagni  ne  trovai  quanti  volli,  poiche  sulla  porta  socchiusa  del 
Liceo  Fiorentino,  un  burbero  custode,  con  le  campanelle  d'oro  agli 
orecchi  -  era  un  umbro  stato  gendarme  del  Papa  -  annunziava 
bruscamente  a  quanti  si  presentavano  che  per  quel  giorno  le  lezioni 
erano  sospese.  Allora  noi  ragazzi  via  a  gambe,  con  i  libri  sotto  brac- 
cio,  correndo  per  la  lunga  strada  fra  piazza  Santa  Croce  e  Barbano. 
In  Borgo  Pinti,  alia  porta  della  casa  dove  abitava  il  cav.  Carlo 
Bon- Compagni1  ministro  Sardo  -  precisamente  dirimpetto  al  Li 
ceo  Militare  « Arciduca  Ferdinando  »  -  erano  ferme  parecchie  car- 
rozze.  Traversate  le  piazze  deirAnnunziata  e  di  San  Marco,  ancora 
poco  popolate,  in  via  degli  Arazzieri  trovammo  altri  compagni,  con 
i  quali  ci  affrettammo  temendo  sempre  di  non  arrivare  a  tempo. 
A  che  cosa  ?  Non  lo  sapevamo  dawero :  ma  sapevamo  e  capivamo 
che  qualche  cosa  doveva  pure  accadere. 

Molta  gente  d'ogni  fatta  era  radunata.  Alcuni  cittadini  si  rivolge- 
vano  ai  varii  capannelli,  raccomandando  di  astenersi  per  il  momento 
da  qualunque  grido,  e  distribuivano  coccarde  tricolori  da  mettersi 
fuori  piu  tardi.  Ciascuno  di  noi  ebbe  la  sua.  L'attitudine  dei  conve- 
nuti  era  molto  pacifica,  ne  poteva  essere  altrimenti,  nessuno  avendo 
armi  oltre  il  temperino.  Parecchi  guardavano  non  senza  inquietu- 
dine  dalla  parte  della  fortezza  da  Basso,  ed  assicuravano  di  vedere  un 
cannone,  collocato  in  maniera  da  prendere  d'infilata  il  breve  tratto 
di  strada  diritta,  che  divide  la  piazza  dalla  fortezza. 

Ad  un  tratto  Tawocato  Pietro  Coccoluto  Ferrigni  (Yorick)2  il 
quale,  poco  dopo,  doveva,  in  casa  Bon-Compagni,  scrivere  con  la 
sua  bella  calligrafia  rotonda  e  regolarissima  le  domande  da  presen- 
tarsi  a  Leopoldo  II  in  nome  del  popolo,3  comparve  in  una  car- 
rozza  di  piazza  con  attrici  ed  attori  della  compagnia  Meynadier 


i.  Carlo  Bon  Compagni  (1814-1880),  dopo  aver  ricoperto  alte  cariche  poli- 
tiche  in  Piemonte  (ministro  nel  1848  e  nel  1852;  presidente  della  Camera, 
1853-1856),  fu  inviato  (1856)  dal  governo  sardo  come  proprio  rappre- 
sentante  a  Firenze.  Sollecitato  dal  Cavour  a  vincere  i  suoi  scrupoli  morali, 
prepare  con  i  liberall  di  Firenze  quegli  awenimenti  che  culminarono  con  la 
liberazione  della  Toscana.  Dopo  Villafranca  torno  in  Piemonte,  ma  poco 
dopo  fu  nuovamente  a  Firenze  come  commissario  per  1'Italia  centrale,  fino 
ai  plebisciti  e  aU'annessione.  2,  II  Ferrigni  (1836-1895),  pKi  noto  col  nome 
di « Yorick  figlio  di  Yorick »,  fu  tra  i  piu  vivaci,  arguti  giornalisti,  e  scrittore 
piacevolissimo.  Nel  *6o  ando  in  Sicilia  con  Garibaldi.  3.  le  domande  .  .  . 
popolo:  le  richieste  che  don  Neri  Corsini  (vedi  la  nota  zap.  169)  ebbe  in- 
carico  di  presentare  al  granduca,  e  che  esigevano,  tra  1'altro,  la  sua  abdica- 


FIRENZE    CAPITALE   (1865-1870)  425 

che  recitava  al  Cocomero;1  e  seguivano  la  prima  carrozza  altre 
con  altri  attori  ed  attrici,  che  il  popolo  comincio  ad  applaudire  fra- 
gorosamente  per  la  loro  qualita  di  francesi,  come  forse  non  aveva 
mai  tanto  applaudito  per  il  loro  talento  artistico.  Non  bisogna  di- 
menticare  che  il  giorno  avanti  una  prima  divisione  francese  era 
sbarcata  a  Genov£,  per  venire  a  combattere  a  pro  delFindipendenza 
italiana. 

Quelli  applausi  ruppero  il  ghiaccio.  Subito  dopo  s'incomincio  a 
gridare  tutti:  «  Viva  Pltalia,  guerra  all' Austria!))  Pareva  un  delirio. 
Comparvero  delle  bandiere  tricolori  a  qualche  finestra:  tutte  le  coc- 
carde  tricolori  uscivan  di  tasca.  La  bandiera  tricolore  che  era  gia 
stata  inalberata  sul  forte  di  Belvedere,  dava  ormai  come  cosa  certa 
che  la  truppa  non  avrebbe  tirato  sul  popolo. 

Come  ando  la  pacrfica  rivoluzione  fiorentina  del  27  aprile  1859 
e  stato  piu  volte  narrato  anche  da  chi  vi  ebbe  parte  principale.  Nulla 
potrei  aggiungere  se  non  che  tornando  a  casa  rosso  e  scalmanato, 
quando  Fora  di  tornare  era  passata  da  un  pezzo,  trovai  la  mamma  ed 
il  babbo  ch'erano  stati  in  pensiero,  ma  non  ebbi  la  strapazzata  che 
mi  aspettavo.  Mio  padre  aveva  cominciato  a  rimproverarmi,  senza 
sdegno  ma  con  severa  gravita  di  espressione,  quando  si  udirono 
nuove  grida,  e  tutti,  egli  compreso,  corremmo  alia  finestra  a  ve- 
dere.  Una  immensa  folia  seguiva  acclamando  alcuni  che  portavano 
sollevato  in  alto  un  busto  di  Vittorio  Emanuele  -  dove  erano  andati 
a  prenderlo  ?  -  circondato  da  bandiere  tricolori.  Dalle  finestre  tutti 
si  spenzolavano,  battendo  le  mani  e  sventolando  i  fazzoletti.  Su  la 
piazza  Santa  Croce  quella  folia  si  scopri  il  capo  e  s'inginocchi6 ! 

II  granduca  aveva  fatto  sapere  che  se  n'andava,  ed  il  popolo  era 
fuor  di  se  dalla  gioia.  In  quel  momento  udii  gridare  per  la  prima 
volta  «  Viva  Vittorio  Emanuele  re  d' Italia! ! »  e  la  paternale  rimasta 
sospesa  non  e  piu  stata  continuata. 

La  curiosita  e  la  quasi  sicurezza  delTimpunita  mi  spinsero,  nel 
pomeriggio,  verso  il  ponte  Rosso,  fuori  porta  a  San  Gallo,  per  ve- 
der  passare  il  granduca  e  la  famiglia  granducale  che,  in  parecchie 
carrozze,  s'awiavano  per  la  via  Bolognese  verso  Pesilio.  Benche 
non  lasciassero  alcun  rimpianto  e  si  dimenticassero,  in  quell'ora, 
anche  le  molte  cose  buone  compiute  in  120  anni2  dalla  dinastia 

i .  Cocomero :  il  maggior  teatro  di  prosa  nella  Firenze  del  tempo :  oggi,  tea- 
tro  Niccolini.  2.  in  120  anni:  la  dinastia  dei  Lorena  successe  a  quella 
medicea  nel  1737,  ma  I'ingresso  in  Firenze  del  primo  granduca  lorenese, 


426  UGO    PESCI 

Austro-Lorenese,  i  partenti  furono  rispettati  e  salutati,  come  dai 
popoli  veramente  civili  si  rispetta  e  saluta  chiunque  e  colpito  dalla 
sventura. 

L'aspetto  di  Firenze  era  allora  molto  diverse  non  soltanto  dal 
presente,  ma  anche  da  quello  che  la  citta  aveva  gia  preso  nel  1870, 
quando  cess6  di  essere  la  capitale  del  Regno.  II  Buomo  non  aveva 
facciata,1  e  da  poco  tempo  si  lavorava  a  quella  di  Santa  Croce.  Via 
de'  Martelli  era  una  strada  strettissima,  come  lo  erano  via  de'  Cerre- 
tani  e  via  de'  Panzani,  via  Tornabuoni  non  arrivava  ad  essere  larga 
un  terzo  di  quanto  e  attualmente.  II  Lung'Arno  nuovo,  come  si 
chiamava  allora,  era  terminato  soltanto  dal  ponte  alia  Carraia  al- 
1'antica  porticciola,  vale  a  dire  poco  al  di  la  del  palazzo  Arese,  stato 
costruito  allora  dal  marchese  Manfredi  Calcagnini  Estense;  e  da 
non  molto  tempo  era  scomparsa  Pantica  farmacia  del  Granchio  con 
le  case  che  andavano  da  Borg'Ognissanti  al  ponte  alia  Carraia, 
allora  ripido  e  stretto  chiudendo  quello  che  si  chiama  adesso 
Lung'Arno  Amerigo  Vespucci,  ed  occupando  lo  spazio  dove  ora  si 
erge  la  statua  di  Carlo  Goldoni.  Al  di  la  della  piazza  d'Ognissanti, 
ora  Manin,  le  strade  fra  Borgognissanti,  il  Prato  e  il  nuovo  Lung'Ar 
no  erano  ingombre  di  casupole  abitate  da  gente  che  passava  la  vita 
sull'uscio  di  casa  da  marzo  a  dicembre,  bisticciando  e  pettegolando. 
Stavano  ancora  in  piedi  le  vecchie  mura  e  non  esistevano  i  viali  ne 
la  passeggiata  dei  Colli.  Fuori  porta  a  San  Gallo,  dove  ora  si  apre 
circondata  da  grandiosi  portici  la  piazza  Cavour,  si  stringeva  con- 
tro  alParco  trionfale  e  alia  cancellata  del  Parterre  uno  strettume  di 
casupole,  e  a  sinistra  di  chi  usciva  dalla  citta,  molte  stalle  sulle  quali 
spiccava,  dipinta  a  grandissime  lettere  nere  su  fondo  bianco,  la 
scritta  Stallatico  Minoccheri^  ricoveravano  settimanalmente  il  molto 
bestiame  che  veniva  al  mercato  di  Firenze  dal  Mugello  e  dal  Bo- 
lognese. 

Erano  strettissime  via  degli  Avelli,  di  fianco  a  Santa  Maria  No 
vella;  come  via  Buia,  dietro  il  Duomo.  Dove  fu  poi  edificato  il 
nuovo  quartiere  della  Mattonaia  si  estendevano  ortaglie  e  campi, 
irrigati  con  1'antico  sistema  del  bindolo  con  la  ruota  girata  da  un 
vecchio  asino  ciampicante:  1'edifizio  piii  memorabile  di  quella  plaga 

Francesco  Stefano,  ebbe  luogo  all'inizio  del  1739:  da  cio  il  compute  di 
centoventi  anni.  i.  II  Duomo  .  .  .facciata:  la  facciata,  opera  dell'architet- 
to  fiorentino  Emilio  de  Fabris  (1808-1883),  iniziata  nel  1876,  fu  compiuta, 
dopo  la  sua  morte,  da  Luigi  Del  Moro,  e  inaugurata  il  12  maggio  1887. 


FIRENZE   CAPITALE   (1865-1870)  427 

era  una  vecchia  casa,  in  una  stradella  come  quelle  di  campagna, 
nella  quale  abitava  con  le  sue  numerose  pariglie  Pamericano  Li 
vingstone.  In  piazza,  di  Barbano  o  Maria  Antonia  sorgevano  alcune 
case  -  fra  le  altre  quella  che  aveva  acquistato  il  tenore  Baucarde;1 
ma  nei  dintorni  della  piazza,  erano  poche  costruzioni,  e  in  talune 
parti  vi  si  raccoglievano  ancora  i  carciofi  e  Pinsalatina. 

In  piazza  della  Signoria  detta  «del  Granduca»,  fino  al  27  aprile, 
di  fronte  a  palazzo  Vecchio,  dove  e  adesso  il  palazzo  Lavison,  eravi 
un  basso  edificio  con  una  tettoia  sporgente,  chiamata  il  tetto  de' 
Pisani,  sotto  la  quale  si  aprivano  grandi  finestre  con  inferriate  tanto 
robuste  e  massicce  da  bastare  ad  un  luogo  di  pena  per  giganti 
condannati  alia  reclusione.  Era  Tufficio  postale  per  la  distribuzione 
delle  lettere.  Sotto  la  tettoia,  vicino  alPultimo  fmestrone  dalla  parte 
di  Vacchereccia  stava  un  soldato  di  sentinella,  mandato  dalla  gran 
guardia,  che  risiedeva  al  terreno  del  palazzo  Vecchio,  nelle  stanze  su 
la  facciata,  comandata  da  un  ufficiale.  Un'altra  sentinella  stava 
sotto  le  loggie  de'  Lanzi,  dove  non  erano  ancora  ne  il  gruppo  del 
Fedi,2  ne  le  lapidi  commemorative,3  ne  gli  strumenti  metereolo- 
gici;4  e  faceva  sentinella  alia  porta  di  Palazzo  Vecchio  anche  il 
David  di  Michelangelo,  poi  trasportato  nella  Accademia  di  Belle 
Arti. 

Non  esisteva  il  Lung'Arno  Torrigiani,  ne  quello  Serristori;  ed  in 
piazza  delle  Travi,  sulla  riva  destra  del  fiume,  si  vedeva  ancora  uno 
strano  edifizio  di  legno,  i  cosi  detti  Tiratoi,  dove  i  tintori  della  citta 
mettevano  ad  asciugare  le  pezze  di  panno  e  le  matasse  di  lana  e 
di  seta. 

I  primi  lampioni  a  gas  si  erano  veduti  a  Firenze  nel  1846:  ma 
dieci  anni  dopo  v'erano  ancora  dei  lampioni  a  olio.  Per  accenderne 
uno  ci  volevano  spesso  e  volentieri  almeno  dieci  minuti  e  poi  da- 
vano  luce  talmente  scarsa  ed  incerta,  da  far  credere  alcune  strade 
lasciate  in  piene  tenebre.  Vari  altri  servizi  pubblici  si  facevano  in 
modo  assolutamente  rudimentale;  ma  non  per  questo  si  trovavano 
meno  contenti  del  soggiorno  di  Firenze  gli  stranieri  e  gli  italiani 
d' altre  parti  della  penisola  che  vi  affluivano. 

i.  Carlo  Baucarde  (1825  circa-  1883),  celebre  tenore  di  famiglia  oriunda 
francese.  2.  il  gruppo  del  Fedi:  allude  al  Ratio  di  Polissena,  dello  scultore 
Pio  Fedi  da  Viterbo  (1825-1892),  eseguito  nel  1866  e  collocato  nella  Loggia 
dei  Lanzi  3.  le  lapidi  commemorative',  le  lapidi  che  ricordano  i  plebi- 
sciti  di  Venezia  (1866)  e  di  Roma  (1870).  4.  gli  strumenti  meter  eologici: 
oggi  tolti  dalla  Loggia. 


428  UGO    PESCI 

Con  il  27  aprile  comincio  una  sequela  non  interrotta  di  aweni- 
menti  che  tennero  per  lungo  tempo  in  continue  sussulto  la  popo- 
lazione  di  Firenze.  Poche  ore  erano  hastate  perche  si  esplicasse  in 
tutta  la  sua  potenza  il  sentimento  patriottico  rimasto  fino'allora  allo 
stato  latente,  e  scomparisse  qualsiasi  traccia  di  quella  esitazione 
che  aveva  potuto  sembrare  indifferenza. 

Dopo  la  meta  di  maggio,  cioe  una  ventina  di  giorni  dopo  la 
partenza  del  Granduca,  arrivo  a  Firenze  una  divisione  del  v  corpo 
francese,  sbarcata  a  Livorno,  con  una  brigata  di  cavalleria  e  le  ri- 
serve  d'artiglieria  e  genio.  Furono  accolti  con  entusiasmo;  ma  par- 
vero  indisciplinati  e  sporchi  a  chi  li  metteva  a  confronto  con  i  bei 
soldati  attillati  e  lindi  che  si  vedevano  da  un  mese  nelle  battaglie  in 
litografia,  di  fabbrica  francese,  delle  quali  rigurgitavano  le  vetrine 
dei  venditori  di  stampe.  II  dolman*  bianco  degli  ussari  deH'Impera- 
trice  era  diventato  grigio  durante  la  traversata  da  Marsiglia  a  Li 
vorno!  Accamparono  sul  gran  prato  delle  Cascine  -  quello  delle 
corse  al  galoppo  -  ed  entrando  in  citta  a  drappelli,  schiamazzando  e 
bociando,  con  un  fare  altezzoso  e  prepotente,  non  seppero  farsi 
voler  molto  bene,  e  quando  ne  n'andarono  nessuno  li  pianse. 

Poi  giunse  il  principe  Napoleone  Girolamo,2  comandante  del 
v  corpo.  Altre  acclamazioni,  altre  feste,  altre  luminarie,  perche 
ad  ogni  nuovo  awenimento  era  venuto  di  mo  da  il  mettere  fuori  i 
lumi.  II  principe  era  cugino  di  Napoleone  III  e  genero  di  Vittorio 
Emanuele:  che  cosa  non  si  sarebbe  fatto  per  lui,  quantunque  tutta 
la  sua  buona  volonta  non  bastasse  a  dare  un'aria  marziale  al  suo 
viso  sbarbato  di  donna  vecchia?  Quando  si  mormoro  bensi  di 
velleita  imperiali,  di  ricostituzione  di  un  regno  d'Etruria  per  darne 
al  principe  la  corona,  anche  T entusiasmo  per  lui  ando  scemando  e 
comincio  a  garbar  poco  che  la  divisione  toscana,  la  quale  si  stava 
sollecitamente  ordinando,  fosse  aggregata  come  divisione  di  riserva 
al  v  corpo  francese. 

Al  giubilo  per  la  vittoria  degli  alleati  segui  presto  lo  sgomento 
per  la  pace  di  Villafranca  :3  ma  esso  fu  causa  di  nuova  concordia 


i .  II  dolman  era  una  cappa  con  maniche  larghe  e  rotonde,  che  indossavano 
gli  ufficiali.  II  vocabolo,  d'origine  turca  (dolimari),  giunse  nell'Occidente  at- 
traverso  gli  Ungheresi.  2.  Napoleone  Girolamo:  vedi  la  nota  i  a  p.  198. 
3.  la  pace  di  Villafranca:  Fn  luglio  1859  furono  stabiliti  fra  Napoleone  III 
e  Francesco  Giuseppe  soltanto  i «  preliminari »  della  pace,  che  fu  invece  fir- 
mata  a  Zurigo  il  10  novernbre. 


FIRENZE   CAPITALE   (1865-1870)  429 

nella  grande  maggioranza  dei  liberal!  fra  i  quali  -  altrimenti  non 
saremmo  italiani!  -  si  era  cominciato  a  manifestare  prima  qualche 
dissenso.  Si  formava  intanto  la  Guardia  nazionale,  vestendo  i  mi- 
liti  con  camiciotti  estivi  di  rigatino,  che  davano  un  aspetto  molto 
dimesso  e  casalingo  al  «palladio  delle  pubbliche  liberta»  e  faceva 
mettere  in  caricatura  le  guardie  nel  «Lampione»  del  Matarelli,1 
giornale  umoristico  illustrate,  perche  si  scambiavano  con  gli  accen- 
ditori  del  gas.  II  giorno  n  settembre,  il  barone  Bettino  Ricasoli 
governatore  generale  e  dittatore  della  Toscana,2  passo  in  rivista  alle 
Cascine  -  a  cavallo,  in  abito  nero  e  cappello  a  cilindro  -  le  quattro 
legioni  florentine  comandate  dal  generale  Belluomini -3  un  veterano 
delle  guerre  napoleoniche  -  e  consegno  loro  le  bandiere  nazionali. 
NelPottobre,  venuto  a  Firenze,  quale  ministro  della  guerra  in 
Toscana,  il  colonnello  Raffaele  Cadorna,4  il  piccolo  esercito  toscano 
fu  portato  a  22  mila  uomini  e  si  vide  in  citta  un  insolito  movimento 
di  soldati  e  d'ufficiali,  che  mano  a  mano  costituivano  i  corpi  de* 
quali  il  governo  aveva  decretata  la  formazione. 

La  gendarmeria  toscana,  invisa  al  popolo,  s'era  epurata  e  trasfor- 
mata  in  un  corpo  di  carabinieri,  ordinati,  vestiti  e  disciplinati  alia 
piemontese,  con  alcuni  ufficiali  venuti  dal  Piemonte:  e,  per  rendere 
airarma  autorita  e  dignita  vi  entrarono  volontariamente  come  sotto- 
tenenti,  alcuni  signori  liberali,  non  sospetti  dawero  d'andare  in 
cerca  d'un  posto;  come  Giovanni  Frassi5  di  Pisa,  amico  intimo  e 


i .  II  «  Lampione »,  giornale  umoristico  fiorentino,  pubblicato  dapprima  nel 
periodo  1848-49,  risorto  poi  dal  1860  al  1865,  e  di  nuovo  dal  1866  al 
1868  e  dal  1869  al  1877.  Ne  fu  principale  caricaturista,  durante  il  secondo 
periodo,  Adolfo  Matarelli,  artista  veramente  geniale.  Vedi  G.  RONDONI, 
I  giornali  umoristici  fiorentini  del  triennio  glorioso  (j#59-'6j),  Firenze,  San- 
soni,  1914,  pp.  151-78.  2.  il  barone  .  .  .  Toscana:  dopo  la  partenza  dei 
Lorena,  appena  costituita  la  Consulta  di  Stato,  Bettino  Ricasoli  (1809-1880) 
divenne  la  figura  piu  eminente  della  Toscana.  Quando  il  principe  Eugenio 
di  Carignano  creo  commissario  per  1* Italia  centrale  Carlo  Bon  Compagni, 
questi  ebbe  a  suo  rappresentante,  per  le  zone  al  di  qua  delTAppennino 
Bettino  Ricasoli,  e  per  quelle  al  di  la  Luigi  Carlo  Farini.  3.  Giacomo 
Belluomini:  vedi  la  nota  i  a  p.  177.  Nel  1859  fece  parte  deU'Assemblea 
toscana  e  voto  per  la  decadenza  della  dinastia  dei  Lorena.  4.  Raffaele  Ca 
dorna  (1815-1897)  aveva  gia  partecipato,  nell'esercito  sardo,  alia  guerra  del 
'48-49,  alia  spedizione  di  Crimea,  alia  guerra  del  '59.  II  governo  prowisorio 
della  Toscana  lo  chiarno,  nell'ottobre  del  '59,  perche  riordinasse  le  truppe: 
a  Firenze  fu  nominato  generale,  e  fu  anche  ministro  della  guerra.  II  suo 
nome  e  soprattutto  legato  all'occupazione  di  Roma  il  20  settembre  1870. 
5.  Giovanni  Frassi  (1806-1860),  studioso  di  matematiche,  filantropo.  Par- 


430  UGO  PESCI 

biografo  di  Giuseppe  Giusti,  Enrico  Lawley  che  ho  rammentato 
di  sopra,  suo  fratello  Francesco,  poi  reputatissimo  enologo  e  pre- 
sidente  del  comitato  ampelografico,  il  conte  Prini-Aulla  di  Pisa, 
il  Maggi  gia  guardia  nobile,  e  parecchi  altri,  dando  esempio  di  ab- 
negazione  troppo  raramente  imitato. 

Di  bandiere  tricolori  non  ve  n'erano  mai  abbastanza:  le  signore 
erano  continuamente  affaccendate  a  cucirne  delle  nuove,  per  met- 
terle  alle  finestre;  oggi  per  la  convocazione  dell'Assemblea  Tosca- 
na;1  domani  per  il  voto  unanime  che  proclamava  la  dinastia  di 
Lorena  decaduta  dai  suoi  diritti  sulla  Toscana;2  domani  Paltro  per 
il  voto  d'annessione  al  Regno  di  Vittorio  Emanuele  II.3 

Non  mancavano  episodi,  per  intramezzare  le  esultanze  patriotti- 
che  con  impeti  di  sdegno  contro  i  nenuci  della  liberta:  come  le 
bombe  fatte  scoppiare  nell'atrio  del  palazzo  della  Crocetta  -  dove 
e  ora  il  museo  archeologico  -  una  sera  nella  quale  il  Bon-Compagni, 
tomato  a  Firenze  in  qualita  di  R.  Commissario,  dava  una  festa;4 
e  quelle  scoppiate  pochi  giorni  dopo  nel  palazzo  Ricasoli,  e  nel  ter- 
reno  della  casa  del  Salvagnoli  in  via  Ghibellina.5  Mezz'ora  dopo  lo 
scoppio,  duemila  guardie  nazionali,  spontaneamente,  si  trovarono 
radunate  senza  alcuna  chiamata  nei  loro  quartieri,  pronte  a  repri- 
mere  qualunque  tentative  reazionario ;  mentre  i  popolani,  mettendo 
in  burletta  i  cospiratori  retrivi,  cantavano  per  le  strade: 


tecipo  alia  guerra  del  '48,  fu  esule  in  Piemonte,  torn6  in  Toscana  nel  '59 
ed  entrd  nel  corpo  del  carabinieri.  Scrisse  la  Vita  di  Giuseppe  Giusti 
e  ne  raccolse  V Epistolario  (1859).  i.  la  convocazione  .  .  .  Toscana:  1'As- 
semblea  toscana,  eletta  il  7  agosto  1859,  fu  convocata  il  giorno  u  a 
Palazzo  Vecchio.  2.  il  voto  .  .  .  Toscana:  la  decadenza  dei  Lorena  fu  vo- 
tata  dall'Assemblea,  su  proposta  del  marchese  Ginori  Lisci,  il  16  ago 
sto  1859.  3.  il  voto  .  .  .  Emanuele  II:  il  20  agosto,  su  proposta  del  mar 
chese  Girolamo  Mansi,  fu  votata  dairAssemblea  1'unione  della  Toscana 
al  regno  di  Vittorio  Emanuele.  II  plebiscite  ebbe  poi  luogo  I'll  e  12  mar- 
zo  1860.  4.  le  bombe  .  .  .festa:  lo  stesso  Bon  Compagni  nel  diario  «an- 
nunziava . . .  che  una  festa  da  ballo  data  la  sera  del  2  gennaio  da  lui  nel  suo 
palazzo  »  era  stata  turbata  « da  ...  due  mortaletti,  col  cui  sedizioso  sparo 
una  mano  misteriosa  aveva  tentato  di  spandere  »  agitazione.  Vedi  E.  RUBIERI, 
Storia  intima  della  Toscana,  Prato,  Alberghetti,  1861,  p.  299.  5.  quelle  .  .  . 
Ghibellina:  «la  sera  del  17  gennaio,  verso  le  ore  sei,  due  mortaletti,  della 
specie  di  quelli  che  erano  stati  incendiati  nel  tempo  del  ballo  offerto  dal 
comm.  Bon  Compagni,  ma  piu  madornali,  furono  fatti  scoppiare  nell'an- 
drone  della  porta  laterale  del  palazzo  Ricasoli,  e  due  minori  in  quello 
della  casa  dove  abitava  il  ministro  Salvagnoli »  (E.  RUBIERI,  op.  cit.,  p. 


FIRENZE    CAPITALE   (1865-1870)  431 

Codini  andate  a  letto! 
Ib*  Babbo  un  torna  piu! 

II  28  di  marzo  del  1860  fecero  il  loro  ingresso  le  truppe  piemon- 
tesi,  sbarcate  il  giorno  precedente  a  Livorno.  La  brigata  granatieri 
di  Sardegna  sfilo  per  via  del  Prato  e  Borgo  Ognissanti  sotto  una 
pioggia  di  fieri,  ammirata  dai  fiorentini  che  paragonavano  invo- 
lontariamente  il  contegno  corretto,  dignitoso,  irreprensibile,  quasi 
severo,  di  questi  soldati  italiani,  con  quello  un  po'  sguaiato  de' 
soldati  francesi.  Gli  ufficiali  apparivano  tutti  persone  di  seria  e  per- 
fetta  educazione.  Rispondevano  agli  applausi,agli  ewiva,  sorridendo 
e  salutando,  commossi  da  quella  accoglienza;  ma  composti,  senza 
alcuna  delle  smancerie  che  s'erano  vedute  pochi  mesi  prima.  Con 
i  granatieri  arrivo  anche  una  compagnia  di  zappatori  del  genio, 
comandata  dal  capitano  Geymet,  poi  deputato,  tenente  generale  e 
senatore  del  Regno :  ed  i  fiorentini,  che  si  son  sempre  piccati  d'aver 
buon  gusto,  non  sapevano  capacitarsi  per  che  sulla  testa  di  quei  sol 
dati  si  fosse  potuto  mettere  un  cappello  di  forma  talmente  strana, 
come  quello  portato  allora  dalParma  del  genio. 

II  giorno  seguente  entro  in  Firenze  il  principe  Eugenio  di  Savoia 
Carignano,  stato  nominate  luogotenente  del  Re  in  Toscana.1  La  di 
lui  carrozza,  circondata  da  una  selva  di  bandiere,  fu  in  un  momento 
talmente  ripiena  di  fiori,  da  obbligare  gli  aiutanti  a  buttarne  via, 
perche  il  Principe  non  ne  rimanesse  addirittura  soffocato. 

Non  ci  vuol  molto  a  capire  che,  durante  quei  mesi  di  agitazione 
incessante,  s'andava  a  scuola  distratti,  per  obbligo  ma  con  la  mente 
rivolta  a  tutt'altro ;  e  pare  quasi  un  miracolo  il  non  avere  disimparato 
addirittura  il  leggere  e  scrivere  correntemente ;  tanto  piu  conside- 
rando  come  nella  pubblica  istruzione  incominciasse  fino  d* allora  la 
variabilita  di  nor  me,  di  programmi  e  di  metodi,  ormai  malattia 
cronica  ed  incurabile  dello  Stato  italiano. 

Gli  awenimenti  pubblici  avevano  naturalmente  avuto  altresi 
un'influenza  diretta  anche  su  la  scuola.  Non  si  facevano  piu  distici 
latini  per  un  giuocator  di  pallone,  ma  si  dedicavano  componimenti 
poetici  di  tutti  i  generi,  che  nella  sua  infinita  misericordia  il  Signore 
Iddio  ci  avra  perdonati,  a  tutti  gli  eroi  del  giorno,  specie  a  Vitto- 

i.  il  principe  .  .  .  Toscana:  Eugenio  di  Carignano  (1816-1888)  fu  legato  reg- 
gente  di  Vittorio  Emanuele  in  Toscana,  ma  vi  si  fece  rappresentare  da  un 
commissario  regio,  il  Bon  Compagni  (cfr.  la  nota  2  a  p.  429). 


432  UGO    PESCI 

rio  Emanuele  ed  a  Garibaldi.  Dopo  di  loro,  il  generate  Cialdini1  era 
il  phi  preso  di  mira.  IL  professor  Vescovi,2  venuto  ad  insegnarci 
retorica  nel  1859,  ci  faceva  imparare  a  memoria  una  sua  ode  a 
Vittorio  Emanuele,  della  quale  ricordo  ancora  due  versi  che  forma- 
vano  una  specie  di  ritornello : 

Ma  sicuro  su  libero  soglio, 
non  vuol  servi  mo  figli  d^  amor  I 

Nelle  classi  liceali  insegnava  lettere  latine  il  professore  Dal  Rio  ;3 
greco  il  professore  Eugenio  Ferrai,4  poi  per  trent'anni  insegnante 
stimatissimo  alia  Universita  di  Padova:  filosofia  il  canonico  Al- 
bertosi,  morto  nel  1861,  cui  succedette  Pietro  Siciliani;5  fisica  il 
professor  Del  Beccaro.  Al  canonico  Carloni  era  succeduto  nella 
direzione  del  Liceo  Fiorentino  il  prof.  Francesco  Silvio  Orlandini,6 
letterato  di  bella  fama  e  provato  patriota;  mancante  pero  della  espe- 
rienza  necessaria  a  far  sentire  ai  giovani  « la  mano  di  ferro  sotto  il 
guanto  di  velluto»  come  sarebbe  stato  necessario  particolarmente 
in  quei  giorni. 

Lasciando  le  classi  ginnasiali  in  piazza  Santa  Croce,  quelle  li 
ceali,  aspettando  di  essere  dennitivamente  trasferite  al  palazzo 
Da  Cepparello,  nel  Corso,  si  erano  prowisoriamente  accampate  al 
piano  terreno  del  palazzo  Borghesi  in  via  del  Palagio ;  con  la  classe 
di  fisica  alPIstituto  tecnico  fondato  nel  1857  in  via  San  Gallo.  Le 
Cascine,  le  strade  di  San  Domenico,  di  Settignano  e  del  pian  di 


i.  Enrico  Cialdini  (181 1-1892),  combattente  per  la  liberta  nei  moti  del  1831, 
quindi  in  Portogallo  e  in  Ispagna,  poi  con  i  volontari  lombardi  nel  '48  e 
con  Garibaldi  nel  '59,  comando  fra  il  '60  e  il  *6i  1'esercito  regio  vincitore 
a  Castelfidardo  e  a  Gaeta.  Senatore  dal  1864,  ambasciatore  a  Madrid  e  a 
Parigi,  sedate  le  aspre  polemiche  con  Lamarmora  per  il  piano  strategico 
e  gli  svolgimenti  operativi  della  campagna  del  '66.  2.  II  professor  Raf- 
faello  Vescovi  insegno  retorica  nel  ginnasio  del  Liceo  fiorentino  dal  1859 
al  1 86 1.  3.  Dal  Rio:  il  nome  esatto  e  Pietro  Del  Rio.  Insegno  retorica  nelle 
prime  classi  del  Liceo  fiorentino  dal  1853  al  1856.  4.  Eugenio  Ferrai  (1833- 
1897),  aretino,  letterato  e  umanista,  per  limghi  anni  insegnante  di  greco 
all' Universita  di  Padova,  traduttore  dei  dialoghi  di  Platone  (Padova  1873- 
1883)-  5-  Pietro  Siciliani  (1835-1885),  filosofo  e  pedagogista.  Dapprima 
medico,  si  dedico  poi  alia  filosofia,  ,e  fu  positivista.  Nel  1876  passo  all'Uni- 
versita  di  Bologna  come  insegnante  di  filosofia  teoretica.  6.  Francesco  Silvio 
Orlandini  (1805-1865),  letterato  fiorentino,  di  ideali  ghibellini  come  Gio- 
van  Battista  Niccolini,  fu  ammiratore  e  raccoglitore  degli  scritti  del  Foscolo. 
Tenne  per  cinque  anni,  dal  1859  al  1865,  la  presidenza  del  Liceo  fioren 
tino.  Awers6  gli  inizi  poetico-letterari  del  Carducci. 


FIRENZE    CAPITALE   (1865-1870)  433 

Giullari  sanno  quanto  favorisse  lo  sbandamento  degli  scolari  code- 
sta  necessita  di  correre  da  un  punto  alFaltro  della  citta  per  andare 
a  lezione. 

Non  ostante  tali  inconvenient!  il  numero  degli  alunni  era  straor- 
dinariamente  aumentato,  e  venivano  continuamente  a  Firenze  per 
far  gli  studi  liceali  giovani  d'altre  provincie  d' Italia,  specie  della 
Sicilia  e  del  Mezzogiorno,  dove  il  novus  or  do  non  era  ancora  nato 
dal  caos.  In  una  oscura  e  incomoda  sala  del  palazzo  Borghesi  piu  di 
cento  assistevano  alle  lezioni  di  filosofia  del  Siciliani,  od  a  quelle 
del  Bianciardi1  che  comentava  e  spiegava  la  Divina  Comedia.  E 
fra  i  tanti  mi  par  di  avere  ancora  davanti  agli  occhi,  quali  erano 
allora,  Andrea  e  Cino  Corsini  figli  di  Neri,  marchese  di  Laiatico, 
morto  alia  fine  del  1859  a  Londra,  dove  era  oratore  del  Governo 
Toscano;  Tommaso  Cambray  Digny,2  stato  poi  per  molti  anni 
deputato  di  Firenze  e  rapito,  come  i  due  Corsini,  da  morte  im- 
matura;  Giorgio  e  Sidney  Sonnino,3  venuti  da  poco  con  il  pa 
dre  a  stabilirsi  a  Firenze;  Ettore  Socci,4  ora  deputato  dell'estre- 
ma  sinistra;  Alessandro  Bardi,  morto  pochi  anni  sono  a  Pechi- 
no,  dove  era  ministro  d' Italia;  due  fratelli  Branchi,  uno  dei  quali 
e  ora  console  generale  a  New  York;  due  fratelli  Ascenzo  Spa- 
dafora,  siciliani,  de'  quali  oltre  il  nome  ci  avevano  colpito  la 
fisonomia  stranamente  espressiva  ed  i  pince-nez  montati  in  tarta- 
ruga,  allora  rarissimi  fra  i  giovanotti  di  quella  eta :  e  tanti  e  tanti 
altri  che  si  sono  poi  fatta  strada  nelle  pubbliche  amministrazioni 
e  nelle  profession!  liberali,  ed  ora  sono  quasi  vecchi .  .  .  o  scom- 
parsi. 

II  15  marzo  del  1860  fu  rinnuovato  a  Firenze,  con  qualche  va- 
riante,  il  miracolo  fatto  da  Giosue  per  vincere  la  battaglia  di  Ga- 


i.  Stanislao  Bianciardi  (1811-1868),  educatore,  desideroso  di  veder  realiz- 
zata  una  concordia  fra  Chiesa  e  Stato.  Scrisse  molti  articoli  nelle  «  Veglie» 
e  nelP«  Esaminatore »,  giornale,  quest'ultimo,  da  lui  fondato  a  Firenze 
nel  1864.  2.  Tommaso  Cambray  Digny,  figlio  del  gia  ricordato  Luigi  Gu- 
glielmo,  nacque  a  Firenze  nel  1845,  mori  nel  1901.  Fu  gtornalista  e  scrit- 
tore,  autore  di  opere  teatrali,  deputato  di  Firenze  per  sei  legislature. 
3.  Sidney  Sonnino  (1847-1924),  di  padre  italiano  e  di  madre  inglese,  notis- 
simo  uomo  politico,  fu  poi  presidente  del  Consiglio  (nel  1906  e  nel  1909- 
10)  e  ministro  degli  esteri  (dal  1914  al  191 9);  Giorgio  era  il  fratello  primo- 
genito,  nato  nel  1844;  studio  scienze  naturali.  Vedi  G,  BIAGI,  Sidney  Son 
nino,  in  a  La  lettura»,  luglio  1915,  pp.  603-12,  dove  figurano  molte  notizie 
sulla  farniglia.  4.  Ettore  Socci:  vedine  a  pp.  575  sgg.  il  Profile  biografico. 

28 


434  UGO 

baon.  II  barone  Ricasoli  non  ferm6  il  sole,  che  era  tramontato  da  un 
pezzo,  ma  fece  dar  ordine  all'orologiaro  di  Palazzo  Vecchio  di  ritar- 
dare  il  suono  della  mezzanotte  fin  quando  la  Suprema  Corte  di 
Cassazione  non  avesse  finito  lo  scrutinio  de'  voti  del  plebiscito  di 
tutti  i  comuni  della  Toscana,  per  il  quale  scrutinio  era  solennemente 
adunata  fino  dalla  mattina. 

Enrico  Poggi,1  guardasigilli  del  Governo  della  Toscana,  omet- 
tino  piccolo  di  statura  ma  di  grande  ingegno,  e  tutto  pieno  di  atti- 
vita  e  d'energia,  impaziente  per  la  lentezza  con  la  quale  lo  scrutinio 
procedeva,  aveva  gia  mandato  a  dire  piu  volte  al  presidente  di  solle- 
citare.  Finalmente  egli,  che  aveva  preparato  ed  ordinato  tutte  le 
operazioni  del  sufTragio  universale,  pote  comparire  alia  ringhiera  di 
palazzo,  e  promulgare  con  «alta,  chiara  ed  intelligibile  voce»  al- 
rimmensa  moltitudine  affollata  sulla  piazza,  sotto  il  portico  degli 
Uffizi  e  nelle  vie  circostanti,  il  resultato  della  votazione;  con  la 
quale  366.571  toscani  proclamavano  la  loro  unione  alia  monarchia 
costituzionale  di  Vittorio  Emanuele.  Gli  araldi  del  comune,  in  co 
stume  del  400,  girando  su  carri  espressamente  addobbati,  divulga- 
rono  a  suon  di  tromba  la  notizia  per  tutte  le  vie  della  citta  festante 
ed  illuminata,  mentre  i  cannoni  del  forte  di  Belvedere  sparavano 
cent'un  colpo  in  segno  di  gioia. 

Quattordicimila  toscani  votarono  per  un  «  regno  separate  »,  for 
mula  indeterminata  ed  astratta  di  voto,  la  quale  poteva  voler  dire 
molte  cose,  compresa  la  restaurazione  degli  Austro-Lorenesi,  che 
Napoleone  III  faceva  mostra  di  desiderare.  6  stato  fatto  poi  rile- 
vare  che,  in  nessun'altra  regione  d'ltalia  si  ebbe  un  tal  numero  di 
voti  contrari  alia  annessione;  ma  cio  non  vuol  dire  che  in  Toscana 
il  sentimento  nazionale  fosse  meno  forte  che  altrove.  Quando  i 
Toscani  furono  chiamati  a  decidere  la  loro  sorte  politica,  se  Punita 
d*  Italia  era  nel  desiderio  dei  piu,  appariva  ancora  a  molti  come  una 
bella  Utopia  difficile  a  realizzarsi.  II  considerare  come  insormonta- 
bile  tale  difficolta  fu,  probabilmente,  una  delle  cause  principali  dei 
14.000  e  tanti2  voti  contrari,  che  non  si  sarebbero  potuti  raccogliere 
nelle  Marche,  nelFUmbria,  nelle  provincie  del  Mezzogiorno  ed  in 
Sicilia,  dove  la  formula  del  plebiscito  fu  piu  precisa,  consistendo  in 

i.  II  fiorentino  Enrico  Poggi  (1812-1890)  fu  giurista,  storico  e  uomo  poli 
tico.  Ministro  di  grazia  e  giustizia  nel  governo  prowisorio  toscano  del  1859. 
Ha  lasciato,  tra  Paltro,  Memorie  storiche  del  governo  della  Toscana  nel 
1859-60,  Pisa  1867.  2.  e  tanti:  precisamente,  14925. 


FIRENZE    CAPITALE  (1865-1870)  435 

un  semplice  e  concise  dilemma,  cioe:  « annessione  o  non  an- 
nessione  ? » 

S'ingannerebbe  chi  dal  numero  di  quei  voti  volesse  trarre  il- 
lazioni  contrarie  alia  sincerita  ed  alia  diffusione  dell'idea  nazionale 
in  Toscana.  Si  puo  anzi  affermare  che,  alPinfuori  del  Piemonte 
dopo  il  1849,  in  nessuna  altra  regione  esisteva  praticamente  Pita- 
lianita  come  in  Toscana,  dove  anche  il  governo  granducale,  pur 
ligio  all5 Austria,  sembrava  favorirla,  tollerando  e  qualche  volta  acco- 
gliendo  onorevolmente  esuli  d'altre  parti  d' Italia,  e  chiamando  ad 
insegnare  nel  granducato  uomini  nati  e  venuti  in  fama  fuori  de* 
confini  di  esso.  Prima  del  1848  molti  non  toscani  s'erano  stabiliti 
in  Toscana:  molti  altri  v'erano  stati  sbalzati  dagli  awenimenti  po- 
litici  del  1848  e  1849,  e  ^i  non  picc°la  parte  del  movimento  in- 
tellettuale  della  Toscana  erano  stati  precursori  italiani  di  altre 
provincie. 

Avevano  insegnato  od  insegnavano  ancora  da  cattedre  toscane; 
il  Pilla  di  Venafro,1  professore  di  geologia  a  Pisa,  caduto  a  Curta- 
tone  alia  testa  d'una  compagnia  del  battaglione  universitario ;  Mau- 
rizio  Bufalini  di  Cesena;  Carlo  Matteucci  di  Forli;  il  Puccinotti 
d'Urbino;  il  Mossotti  di  Novara;  Leopoldo  Nobili2  di  Reggio  Emi 
lia,  compromesso  nei  moti  del  1831.  Era  di  Palermo  il  professore 
Parlatore3  direttore  dell'orto  Botanico:  di  Modena  Tastronomo 


i.  Leopoldo  Pilla  (1805-1848),  dal  1841  occup6  la  cattedra  di  geologia  e 
mineralogia  nell'Universita  di  Pisa,  donde  parti  con  i  suoi  studenti  per  la 
prirna  guerra  di  indipendenza,  e  cadde  a  Curtatone.  2.  II  medico  Mau- 
rizio  Bufalini,  nato  a  Cesena  nel  1787,  visse  soprattutto  a  Firenze,  dove  fu 
professore  di  medicina  dal  1835,  e  mori  nel  1875.  Sostenne  nei  suoi  molti 
lavori  metodi  analitici  e  sperimentali  contro  il  «vitalismo»  allora  domi- 
nante.  Fu  elegante  scrittore:  lascio,  tra  1'altro,  degli  interessanti  Ricordi; 
Carlo  Matteucci:  vedi  la  nota  4  a  p.  164.  Partecipo  agli  eventi  del  1848- 
1849  e  ai  successivi.  Senatore  e  poi  ministro  della  pubblica  istruzione 
(1862)  del  Regno  d' Italia;  Francesco  Puccinotti  (1794  -1872),  medico,  sto- 
rico  della  medicina,  insegno  nelle  Universita  di  Macerata,  Pisa,  Firenze, 
dedicando  i  suoi  studi  soprattutto  alia  medicina  sociale;  Ottaviano  Fa- 
brizio  Mossotti  (1791-1863),  fisico,  matematico,  astronomo,  insegno  a 
Buenos  Aires,  a  Corfu  e,  dal  1840,  a  Pisa.  Combatte  con  i  suoi  studenti, 
nel  1848,  a  Curtatone  e  Montanara;  Leopoldo  Nobili  (1784-1835),  fisico 
assai  stimato,  dov£  abbandonare  il  ducato  di  Modena  dopo  il  1831,  e 
ottenne  allora  a  Firenze  una  cattedra  al  Museo  di  fisica  e  storia  natu- 
rale.  3.  Filippo  Parlatore  (1816-1877)  fu  tra  i  piu  stimati  botanici  del 
suo  tempo.  Nel  1842  venne  a  Firenze.  Per  sua  proposta,  in  Firenze 
sorse  Torto  botanico,  di  cui  egli  fu  il  primo  direttore  per  nomina  di  Leo 
poldo  II. 


436  UGO    PESCI 

Amici1  direttore  della  Specola;  d'Oneglia  il  Vieusseux,2  il  cui  ga- 
binetto  letterario,  a  Santa  Trinita,  £u  per  tanti  anni  il  centre  del- 
Fattivita  intellettiva  e  della  cultura  liberale  non  della  sola  Firenze 
ma  di  gran  parte  dj Italia.  Era  di  Padova  Eugenio  Alberi,3  che  ebbe 
per  alcuni  anni  bella  fama  come  scrittore  e  la  compromesse  poi 
impacciandosi  di  cospirazioncelle  reazionarie.  Era  piemontese  Ga- 
spero  Barbera,4  che,  fattosi  presto  largo  come  editore,  pubblicava 
ancor  prima  del  1859  opere  di  scrittori  italiani  di  fuor  di  Toscana,  e 
nel  1859  incomincio  la  ccBiblioteca  civile  deiritaliano»,  dando  fuori 
nelPaprile,  con  i  nomi  del  Ricasoli,  del  Salvagnoli,  del  Peruzzi,5 
di  Cosimo  Ridolfi,6  di  Tommaso  Corsi,7  di  Leopoldo  Cempini8  e 
Celestino  Bianchi  il  volumetto  Toscana  ed  Austria?  che  per  la 
dinastia  lorenese  fu  peggio  d'una  sommossa . . . 

i.  Giovanni  Battista  Amici  (1786-1863)  dal  1831  visse  a  Firenze,  quale 
astronomo  al  Museo  di  fisica  e  storia  natural  e.  Grandi  i  suoi  meriti  nel- 
Pottica,  per  il  perfezionamento  dei  microscopi,  grandissimi  nella  storia  na- 
turale  per  i  suoi  studi  e  le  sue  scoperte  sulla  fecondazione  dei  vegetali  e 
sulla  patologia  vegetale.  2.  Gian  Pietro  Vieusseux  (1779-1863),  di  One- 
glia,  ma  ginevrino  di  origine,  notissimo  animatore  della  vita  intellettuale 
fiorentina,  fondatore  di  un'  Gabinetto  scientifico-letterario,  della  famosa 
«  Antologia »,  soppressa  nel  1833,6  dell'«  Archivio  storico  italiano ».  3 .  Euge 
nio  Alberi  (1817-1878)  ebbe  fama  soprattutto  per  1'edizione  da  lui  attuata, 
sugli  autografi,  di  tutte  le  opere  del  Galilei  e,  inoltre,  delle  relazioni  degli 
ambasciatori  veneti  del  secolo  XVI.  Era  venuto  a  Firenze  nel  1838.  Vicino 
dapprima  al  Vieusseux  e,  in  un  certo  periodo,  neoguelfo  giobertiano  (Del 
Papato  e  dell* Italia),  divenne  poi  legittimista  rigido  e  nemico  dell'unita 
italiana.  4.  Gaspero  Barbera  (1818-1880),  venuto  a  Firenze,  vi  lavoro  dap 
prima  presso  1 'editore  Fumagalli,  poi  presso  il  Le  Monnier.  Successivamen- 
te  si  associ6  con  i  fratelli  Bianchi,  tipografi,  dei  quali  fu  assai  noto  Celestino, 
come  letterato.  II  Barbera  fu  tra  gli  editori  piu  intelligent!  ed  attivi  del  suo 
tempo  e  giovo  con  le  sue  edizioni  al  Risorgimento  italiano.  Ha  lasciato 
un  libro  di  interessanti  memorie  (Memorie  di  un  editore,  Firenze,  Bar 
bera,  1883).  5.  Ubaldino  Peruzzi  (1822-1891)  fu  sindaco  di  Firenze  ca- 
pitale.  6.  Cosimo  Ridolfi'.  vedi  la  nota  4  a  p.  159.  7.  Tommaso  Corsi 
(1814-1891),  di  Livorno,  liberale,  col  quale  il  Covour  intesse  accordi  nel 
1859.  Dopo  il  27  aprile  prefetto  di  Firenze.  Fu  deputato,  ministro  col  Ca- 
vour,  senatore  dal  1873.  8.  Leopoldo  Cempini  (1824-1866),  fiorentino,  uo- 
mo  politico.  Partecipo  alia  campagna  del  1848.  Awerso  al  governo  demo- 
cratico  restaurato  in  Toscana  nel  1849,  riparo  in  Piemonte.  Si  adoper6  nel 
'59  per  la  cacciata  del  granduca.  Fu  poi  deputato  del  Regno  d' Italia.  9.  II 
volumetto  Toscana  ed  Austria,  che  faceva  parte  della  collezione  «  Biblioteca 
civile  dell' italiano »,  e  apparve  alia  luce  il  22  aprile  1859,  era,  in  realta, 
opera  di  Celestino  Bianchi  (1817-1885),  sebbene  gli  altri  patriotti  ricordati 
dal  Pesci  lo  avessero  sottoscritto  per  rendersi  solidali  con  lui.  II  volumetto 
mostrava  i  danni  della  politica  lorenese  continuamente  succube  alia  volonta 
dell' Austria.  Per  le  vicende  di  questa  pubblicazione,  si  veda  G.  BARBARA, 
op.  cit.,  pp.  151-6. 


FIRENZE   CAPITALE   (1865-1870)  437 

Vittorio  Emanuele  entro  la  prima  volta  in  Firenze  nel  pomerig- 
gio  del  1 6  aprile  1860.  Percorse  a  cavallo  le  vie  principali  della 
citta  che  meritava  dawero  il  nome  di  citta  dei  fiori,  tanti  ne  erano 
abbondantemente  sparsi  dovunque;  con  archi  trionfali,  statue,  tro- 
fei,  pennoni,  stendardi  profusi  con  grande  sfarzo.  Accanto  al  Re, 
ma  un  passo  indietro,  cavalcavano  il  pingue  principe  di  Carignano 
in  uniforme  di  ammiraglio,  e  lo  stecchito  barone  Ricasoli,  con  il  so- 
lito  abito  nero  a  coda  di  rondine,  cravatta  bianca,  cappello  a  gibus 
in  testa  ed  una  sciarpa  tricolore  cinta  intorno  alia  vita.  Arrivato  al 
Duomo,  Vittorio  Emanuele  scese  da  cavallo  e  v'entro,  ricevuto  dal- 
Tarcivescovo  Giovacchino  Limberti,  che  aveva  gia  cantato  il  Te 
Deum  per  il  plebiscite.  Ma  poco  dopo  il  secondo  saggio  di  propositi 
conciliativi,  dato  andando  incontro  al  Re  eletto,  monsignore  ri- 
cevette  dal  Vaticano  ordini  perentorii  di  non  prendere  piu  alcuna 
parte  a  cerimonie  di  carattere  nazionale. 

Non  si  puo  descrivere,  pure  avendola  bene  in  memoria,  Pacco- 
glienza  fatta  a  Vittorio  Emanuele  in  Firenze.  Enorme  la  quan- 
tita  di  gente  accorsa  da  ogni  parte  della  Toscana:  eloquentemente 
evidente  il  contrasto  fra  la  semplice  curiosita  che  P aveva  rictdamata 
in  occasioni  recenti,  e  Pirrefrenabile  entusiasmo  suscitato  in  quei 
giorni  dalla  presenza  del  Re  Galantuomo,  anche  negli  animi  delle 
persone  piu  posate,  piu  serie,  piu  riguardose  nelPesprimere  i  loro 
sentimenti.  La  sera  precedente  al  giorno  delParrivo,  quantunque  si 
sapesse  alPincirca  Fora  dello  sbarco  del  Re  a  Livorno  e  della  sua 
partenza  da  quella  citta  per  Firenze  -  due  cose  che  dovevano  acca- 
dere  il  giorno  seguente  -  due  terzi  della  popolazione  non  si  decide- 
vano  ad  andare  a  casa,  quasi  temendo  qualche  sorpresa;  e  rimasero  a 
fare  di  notte  giorno  per  le  strade  affollate,  nelle  quali  si  dava  solle- 
citamente  P  ultima  mano  agli  addobbi,  mentre  nelle  case  si  prepara- 
vano  altre  bandiere  ed  altre  coccarde,  quasi  non  ve  ne  fosse  abba- 
stanza. 

Gino  Capponi,1  gia  cieco,  si  fece  accompagnare  alia  stazione  per 
essere  uno  dei  primi  a  salutare  il  Re,  dolente  della  sua  cecita  che 
non  gli  permetteva  di  contemplare  i  lineamenti  delPadulto  figlio 

i.  II  marchese  Gino  Capponi  (1792-1876)  era  il  personaggio  piii  ammirato 
e  venerate  nella  Toscana  del  tempo.  Dopo  la  promulgazione  dello  Statute 
toscano  e  dopo  il  ministero  Ridolfi,  fu  a  capo  del  governo  dal  17  agosto  al 
27  ottobre  1848.  Di  idee  moderate,  si  venne  awicinando  alia  causa  nazio 
nale  con  sempre  maggiore  convinzione.  Dopo  Tannessione  della  Toscana 
fu  senatore  e  collare  deU'Annunziata. 


438  UGO  PESCI 

di  Carlo  Alberto,  che  egli  aveva  veduto  bambino  al  Poggio  Impe- 
riale  trentotto  anni  prima. 

Giovan  Battista  Niccolini,1  il  poeta  di  Giovanni  da  Prodda  e  di 
Arnaldo  da  Brescia,  che  da  qualche  anno  pareva  preso  da  cupa  me- 
lanconia,  si  ridesto  ad  un  tratto  e  fattosi  accompagnare  a  Palazzo 
Pitti  per  presentare  a  Vittorio  Emanuele  le  sue  tragedie,  come  vate 
ispirato  disse  al  Sovrano  i  versi  del  Prodda: 

Qui  necessario  estimo  un  Re  possente: 
sia  di  quel  Re  scettro  la  spada,  e  Velmo 
la  sua  corona  .  .  . 

con  quel  che  segue. 

Da  Firenze,  Vittorio  Emanuele  accompagnato  dal  Farini2  ando 
per  la  via  delle  Filigare  a  Bologna,  dove  il  i°  maggio  il  conte  di 
Cavour,  tomato  subito  a  Torino  dopo  una  breve  comparsa  a  Fi 
renze,  raggiungeva  frettoloso  il  Re;  ed  in  una  stanza  terrena  della 
gia  villa  legatizia  di  San  Michele  in  Bosco,  dove  il  Re  risiedeva,  dopo 
un  lungo  ed  animato  colloquio  fu  stabilito  di  non  impedire  se  non 
di  favorire  la  spedizione  dej  Mille.  Ricordo  che  alcuni  fiorentini  e 
toscani  facevano  parte  di  quella  spedizione  e  delle  seguenti  partite 
per  la  Sicilia,  e  Pansia  con  la  quale  erano  attese  e  richieste  loro 
notizie.  Ricordo  la  commozione  provata  da  tutta  Firenze  quando 
nel  giornale  « II  Lampione»  fu  pubblicata  una  lettera  diretta  ad  un 
amico  da  Beppe  Bandi3  per  annunziargli  d'essere  stato  ferito  a  Ca- 
latafimi.  Chi  avrebbe  pensato  allora  che  il  povero  Beppe  sarebbe 
stato  poi  direttore  d'un  giornale,  e  gli  anarchici  lo  avrebbero  assas 
sinate  per  che  diceva  la  verita  con  lo  stesso  coraggio  con  il  quale 
aveva  afrrontato  le  palle  borboniche? 

i.  Giovan  Battista  Niccolini  (1782-1861),  drammaturgo  tra  i  piu  noti 
del  nostro  Risorgimento.  Visse  e  mori  a  Firenze.  Fra  le  sue  tragedie  ebbero 
grande  fama  il  Giovanni  da  Prodda  (composto  nel  1817,  reso  pubblico 
nel  1830)  e  V Arnaldo  da  Brescia  (1843),  in  cui  e  vivacemente  condannata 
ogni  forma  di  teocrazia.  I  versi  citati  appartengono  al  Giovanni  da  Procida, 
atto  n,  scena  m.  2.  Luigi  Carlo  Farini  (1812-1866),  dittatore,  resse  il  go- 
verno  delTEmilia,  da  Villafranca  fino  al  plebiscite  e  alPannessione  al 
Piemonte,  che  ebbe  luogo  nel  marzo  del  1860.  Vedi  su  di  lui  il  i  tomo 
dei  Memorialisti  delVOttocento,  a  cura  di  G.  Trombatore,  in  questa  stessa 
collezione,  pp.  533-92.  3.  Giuseppe  Bandi  (1834-1894)  combatte  a  Cu- 
stoza  nel  '59  con  1'esercito  regolare,  in  Sicilia  con  Garibaldi.  Lasciato 
Tesercito,  si  volse  interamente  al  giornalismo.  Mori  pugnalato  da  anarchici. 
£  autore,  fra  Taltro,  de  I  Mille  (1886),  in  cui  rievoca  la  spedizione  garibal- 
dina.  Su  lui  vedi  il  i  tomo  dei  Memorialisti  deW Ottocento,  qui  sopra  ci 
tato,  pp.  895-1003. 


FIRENZE    CAPITALE   (1865-1870)  439 

Ricordo  anche  la  ressa  con  la  quale  tanti  giovanotti  fiorentini 
andarono  ad  arruolarsi  nella  brigata  garibaldina  che  Giovanni  Ni- 
cotera1  stava  formando  a  Castel  Pucci,  vicino  a  Firenze  -  luogo 
assegnatogli  dal  governo  -  ed  il  putiferio  prodotto  dall'arresto  del 
Nicotera,  awenuto  in  pieno  giorno,  in  piazza  della  Signoria,  e  del 
quale  non  si  seppe  ne  si  e  mai  saputo  chi  avesse  dato  Pordine.  II 
Ricasoli  dette  quello  di  rilasciarlo,  prowedendo  nel  tempo  stesso 
alia  sollecita  partenza  della  brigata,  sicche  i  fiorentini  arruolati  non 
poterono  neppure  correre  a  casa  ad  abbracciare  i  parenti,  ma  arri- 
varono  a  prender  parte  alia  battaglia  del  i°  ottobre  al  Volturno. 

Anche  il  Principe  di  Piemonte  ed  il  Duca  d'Aosta2  venuti  a  Fi 
renze  nel  gennaio  del  1861,  vi  furono  accolti  cori  molta  festa. 
Amedeo  era  allora  esile  ed  aveva  1'aspetto  malaticcio;  ne  quello 
d'Umberto  prometteva  la  maschia  fisonomia  che  egli  ebbe  poi  da 
giovinotto  e  da  uomo  mature.  Ambedue  erano  un  po'  timidi  ed 
impacciati:  spesso  con  uno  sguardo  chiedevano  consiglio  al  loro 
severo  governatore,  il  generale  Rossi:  ma,  quantunque  sulle  prime 
avessero  destato  un  po'  lo  spirito  critico  e  mordace  dei  fiorentini, 
lasciarono  ottima  impressione  per  la  serieta  del  loro  contegno. 

Nella  primavera  dello  stesso  anno  1861  fu  mandate  a  Firenze  un 
battaglione  mobilizzato  della  Guardia  nazionale  di  Napoli.  A  pa- 
ragone  delle  nostre,  che  avevano  per  uniforme  il  solo  cappotto  gri- 
gio  chiaro,  le  guardie  nazionali  di  Napoli,  in  tunica  attillata  con 
mostre  color  amaranto,  erano  stupendamente  vestite.  II  batta 
glione  era  proweduto  di  un  gran  numero  di  tamburini  e  di  zappa- 
tori,  con  grembiuli  bianchi  di  pelle  dal  collo  ai  ginocchi,  e  barbe 
piu  lunghe  di  quella  del  Mose  di  Michelangelo.  I  fiorentini,  un 


i.  Giovanni  Nicotera  (1828-1894),  fuggito  dalla  nativa  Calabria,  fu  esule 
a  Malta  e  a  Corfu.  Partecipo  nel  '49  alia  difesa  di  Roma;  compagno  del 
Pisacane  nella  spedizione  di  Sapri,  fu  ferito,  graziato  della  vita,  chiuso  in 
carcere  e  liberato  nel  1860.  Inviato  da  Mazzini,  comandava  a  Castel  Pucci 
una  brigata  garibaldina  in  via  di  formazione,  che  appariva  arruolata  per 
portare  aiuti  a  Garibaldi,  ma  che  si  preparava,  nell'intenzione  dei  mazzi- 
niani,  a  invadere  lo  Stato  pontificio.  Un  proclama  del  Nicotera  desto  so- 
spetto  nel  Cavour,  che  invitd  il  Ricasoli  a  prowedere.  Dopo  rarresto,  la 
cui  responsabilita  apparve  poco  chiara,  i  volontari  furono  imbarcati  e 
condotti  a  Palermo.  II  Nicotera  lascio  allora  il  comando  di  quella  forma 
zione,  ormai  sfuggita  al  programma  mazziniano.  2.  il  Principe  .  .  .  Aosta : 
Umberto  di  Savoia  (1844-1900),  allora  principe  ereditario;  Amedeo  duca 
d'Aosta  (1845-1890),  secondogenito  di  Vittorio  Emanuele  II,  fu  poi  re  di 
Spagna  dal  novembre  1876  all'u  febbraio  1873. 


440  UGO  PESCI 

po*  increduli  per  abitudine,  sospettavano  artificialmente  arricchito 
quelPonore  del  mento,  ed  i  monelli  studiavano  ogni  modo  per  con- 
vincersi  della  autenticita.  Un  gigantesco  capotamburo  con  un 
enorme  cappello  peloso  sormontato  da  un  grosso  e  lungo  pennac- 
chio,  ed  una  mazza  da  guardia  portone,  ch'egli  gettava  in  alto  per 
ripigliarla  a  volo,  era  ammirato  da  tutti  i  bighelloni,  che  anche  allora 
non  erano  pochi. 

I  napoletani  piacquero  per  la  loro  loquace  vivacita,  il  gesticolare 
continue  e  frequente,  e  per  tutto  il  complesso  delle  loro  qualita 
esterne,  delle  quali,  essendo  stata  breve  la  loro  dimora,  i  fiorentini 
non  ebbero  tempo  di  essere  sazii. 

La  morte  del  conte  di  Cavour,  awenuta  il  6  giugno,  produsse  in 
Firenze  un  profondo  cordoglio,  espresso  con  tutte  le  possibili  ma- 
nifestazioni  esterne  di  lutto.  Quasi  tutti  avevano  un  velo  nero  al 
braccio  o  al  cappello.  II  doloroso  fatto  dette  anche  occasione  ad  un 
incidente  che  avrebbe  potuto  avere  conseguenze  molto  piu  gravi 
di  quelle  che  ebbe.  II  7  di  giugno  ricorreva  1'ottavario  del  Corpus 
Domini,  ed  in  quel  giorno  si  celebrava  in  Duomo  una  funzione  reli- 
giosa,  con  Passistenza  dell'Arcivescovo,  ed  una  processione  in  chiesa 
ed  intorno  alia  chiesa.  I  fautori  di  reazione  e  di  restaurazione  gran- 
ducale  non  seppero  o  non  vollero  avere  1'accorgimento  di  differire 
almeno  la  processione:  parve  invece  che  volessero  darle  inconsueta 
apparenza  di  pompa,  con  il  maligno  proposito  di  offendere  in  qual- 
che  modo  il  sentimento  di  dolore  della  maggioranza.  Vi  fosse  o  no 
rintenzione,  1'atto  per  lo  meno  inconsiderate  suscit6  lo  sdegno  di 
molta  parte  della  popolazione.  I  processionanti,  fra  i  quali  erano  ex 
ministri  e  dignitari  della  corte  granducale,  furono  prima  solenne- 
mente  fischiati;  poi,  essendo  piu  facile  il  muovere  gli  impeti  di 
passione  che  il  trattenerli,  a  parecchi  furono  strappati  di  mano  e 
sbattuti  in  faccia  i  torcetti  di  cera,  dal  che  quella  prese  il  nome  di 
giornata  delle  «torcettate».  II  tumulto  ed  il  fuggi  fuggi  si  sparsero 
in  un  baleno  per  la  citta:  la  Guardia  nazionale  -  sia  pace  alia  sua 
belPanima  -  fu  quel  giorno  veramente  benemerita  dell'ordine  pub- 
blico.  Seppe  impedire  che  fosse  insultato  1'Arcivescovo,  accompa- 
gnandolo  al  suo  palazzo :  trattenne  i  piu  scalmanati  che  inseguivano 
in  Duomo  i  processionanti  awiati  di  corsa  a  rifugiarsi  nella  sa- 
grestia;  e  termin6  le  sue  fatiche  a  sera  avanzata,  accompagnando 
fino  di  la  d'Arno  i  seminarist!,  che,  al  primo  scompiglio,  erano  an- 
dati  a  rimpiattarsi  dovunque  avevano  trovato  ricovero. 


FIRENZE   CAPITALS   (1865-1870)  441 

II  15  settembre,  Vittorio  Emanuele,  venuto  di  nuovo  a  Firenze, 
v'inaugurava,  all'antica  stazione  della  ferrovia  di  Prato  e  Pistoia, 
fuori  porta  al  Prato,  adattata  alia  meglio  per  Poccasione,  la  prima 
Esposizione  nazionale,1  deliberata  nel  giugno  del  1860,  dal  primo 
Parlamento  Italiano.  La  cerimonia  inaugurate  fu  veramente  so- 
lenne,  e  non  meno  lo  furono  le  feste  che  la  seguirono.  La  celebre 
Marietta  Piccolomini,2  da  poco  ritiratasi  dai  trionfi  delle  scene  dopo 
il  suo  matrimonio  con  Francesco  Caetani  marchese  della  Fargna, 
cugino  del  duca  di  Sermoneta,  canto  alia  Pergola  come  si  cantava 
a  que'  tempi,  Pinno  a  La  Croce  di  Savoia,  scritto  da  Giosue  Car- 
ducci3  nel  1859  e  musicato  dal  maestro  Romani.4  Molti  ancora  ri- 
cordano  d'aver  veduto  manifesti  i  segni  della  comrnozione  su  la 
faccia  maschia  e  soldatesca  del  Re,  quando  alle  parole 

Bianco,  croce  di  Savoia, 
Dio  ti  salvi  e  salvi  il  Re 

dette  dalla  Piccolomini  con  voce  calda  ed  appassionata,  rispose  un 
grido  d'irrefrenabile  entusiasmo  dai  petti  dello  sceltissimo  pubblico 
scattato  in  piedi. 

L'Esposizione  del  1861  fu  per  la  maggior  parte  dei  fiorentini, 
de'  toscani,  degli  italiani  d'allora  una  inaspettata  rivelazione  di 
cose  sconosciute :  fu  un  mezzo  efficacissimo  per  far  si  che,  procla- 
mato  il  regno  dj  Italia,  gli  Italiani  si  cominciassero  a  conoscere  fra 
loro,  e  ad  apprezzare  quanto  valevano.  L'antica  stazione,  accomo- 
data  come  si  poteva  meglio,  raccolse  quanto  la  ristrettezza  del 
tempo  permise  di  mandare  ai  fabbricanti,  agli  agricoltori,  agli  artisti 
d'un  paese  da  due  anni  in  rivoluzione  ed  in  guerra,  e  costituito  da 
pochi  mesi.  Ma  non  soltanto  si  mettevano  in  evidenza,  in  quella 
mostra,  i  prodotti  della  operosita  artistica  ed  industriale  italiana: 


i.  La  prima  Esposizione  nazionale,  proposta  da  Quintino  Sella,  fu  organiz- 
zata  da  un  comitato  di  cui  furono  animator!  Cosimo  Ridolfi  e  Francesco  Ca- 
rega  di  Livorno.  Le  si  attribui  un  grande  significato  politico.  II  Carega  ha 
lasciato  un  volume,  La  esposizione  italiana  agricolay  industriale  e  artistica 
tenuta  in  Firenze  nel  1861,  Firenze  1862.  2.  Maria  Piccolomini,  senese,  fu  ai 
suoi  tempi  tra  le  cantanti  piti  celebri,  ed  ebbe  trionfi  anche  a  Parigi,  a 
Londra,  in  America.  3.  Vinno  .  .  .  Carducci:  1'inno  a  La  Croce  di  Savoia 
figura  nel  libro  VI  dei  Juvenilia.  Di  esso  scrisse  il  Carducci  nel  1880,  nella 
prefazione  alia  raccolta  dei  Juvenilia :  cfr.  Opere,  xxiv  (edizione  nazionale), 
pp.  71  sgg.  4.  Carlo  Romani  (1824-1875),  di  Avellino,  compositore, 
aveva  studiato  a  Firenze  e  vi  si  era  fermato. 


442  UGO   PESCI 

vi  si  trovavano  a  contatto,  si  guardavano,  si  studiavano  scambievol- 
mente,  gli  abitanti  variamente  parlanti  di  tutte  le  regioni  del  nuovo 
State  italiano. 

Davanti  ai  quadri  di  Domenico  Morelli,  dell'Ussi  e  del  Celen- 
tano,1  al  cannone  a  retrocarica  inventato  dal  generale  Cavalli2  e 
gia  adoperato  contro  Gaeta,  al  pantelegrafo  dell'abate  Caselli,3  ai 
primi  pianoforti  fabbricati  a  Torino  sulle  tastiere  de'  quali  scorre- 
vano  le  agilissime  dita  del  pianista  Tito  Mattel  ;4  davanti  alle  por- 
cellane  del  Ginori,  ai  prodotti  agricoli  delle  Puglie  e  della  Sicilia, 
ai  damaschi  di  Como,  ai  velluti  e  alle  trine  di  Genova  e  della  Li- 
guria,  alia  Victoria  Regia3  che  il  prof.  Parlatore  era  riuscito  a  far 
nascere  per  la  prima  volta  in  Italia  nelPorto  botanico  di  Firenze,  alia 
Leggitrice  scolpita  dal  Magni,6  ed  a  tante  e  tante  altre  opere  dell'in- 
gegno  italiano,  si  udivano  parlare  tutti  i  dialetti  della  penisola, 
ed  uomini  con  i  capelli  grigi,  per  i  quali  Viareggio  od  Arezzo  erano 
stati  fmo  a  quel  giorno  I'ultima  Thule,  cominciarono  a  comprende- 
re  dawero  la  Italia  grande  e  forte,  da  loro  vagamente  intraveduta 
come  in  un  sogno ;  mentre  i  musaici  ed  i  vetri  di  Venezia  e  di  Mu- 

i.  Domenico  Morelli  era  nato  a  Napoli  nel  1823  e  vi  mori  nel  1901.  Nella 
esposizione  del  1861  ebbero  grande  successo  i  suoi  quadri  Gli  iconoclasti 
(1854),  II  conte  di  Lara  e  Bagno  pompeiano-,  Stefano  Ussi,  nato  a  Fi 
renze  nel  1822,  morto  ivi  nel  1901,  combatte"  a  Montanara,  tra  i  volon- 
tari,  e  vi  rimase  prigioniero.  Liberate,  visse  a  Firenze,  ma  viaggi6  in 
Egitto  (1869)  e  in  Marocco  (1874,  con  il  De  Amicis).  Tra  le  tante  sue 
ppere  qui  si  allude  soprattutto  a  La  cacciata  del  duca  d'Atene,  finita 
in  quel  tempo;  Bernardo  Celentano,  nato  a  Napoli  nel  1835,  morto  a 
Roma  nel  1863,  ebbe  compagno  e  consigliere  Domenico  Morelli.  La  sua 
maggiore  opera  e  il  Consiglio  dei  Died,  dipinta  nel  1862.  Caratteristico, 
tra  le  sue  prime  opere,  VAutoritratto.  2.  cannone .  .  .  Cavalli'.  Giovanni 
Cavalli  (1808-1879),  ufficiale  di  artiglieria,  direttore  della  Fonderia  di 
Torino,  ideo  i  cannoni  a  retrocarica,  che  da  lui  presero  il  nome.  3.  pante 
legrafo  .  .  .  Caselli:  telegrafo  elettrico,  inventato  nel  1856  dalPabate  Gio 
vanni  Caselli  (1815-1891),  per  mezzo  del  quale  si  potevano  trasmettere 
scritti  e  disegni.  4.  Tito  Mattel  (1841-1914),  celebre  pianista  e  com- 
positore.  Fu  anche,  per  qualche  tempo,  pianista  alia  corte  reale  d' Italia. 
Dal  1865  si  stabili  a  Londra,  dove  fu  direttore  d'orchestra  del  Teatro 
delT opera  italiana  e  scrisse  varie  opere  (Maria  di  Gand,  Londra  1880, 
ecc.).  5.  La  Victoria  Regia  e  una  particolare  specie  di  pianta  acquatica, 
di  vaste  dimensioni,  con  grandi  foglie  verdi  scure  di  sopra  e  rosse  di  sotto, 
propria  del  Rio  delle  Amazzoni.  La  sua  cultura  fu  realizzata  dal  professor 
Parlatore  con  particolari  accorgimenti,  in  vasi  posti  in  bacini  di  stufe  a 
temperatura  accuratamente  regolata.  6.  Pietro  Magni  (1816-1877)  fu  per 
lunghi  anni  insegnante  all'Accademia  di  Brera.  La  Leggitrice,  il  David,  il 
Socrate  sono  tra  i  suoi  primi  lavori.  6  opera  sua  la  statua  di  Leonardo  da 
Vinci  in  piazza  della  Scala  a  Milano,  la  fontana  nell'atrio  del  museo  Re- 
voltella  a  Trieste,  la  Storia  di  santa  Prassede  nel  duomo  di  Milano. 


FIRENZE    CAPITALE   (1865-1870)  443 

rano,  le  oreficerie  romane,  e  molti  quadri  di  soggetto  patriotico, 
tenevano  sempre  piu  vivo  negli  animi  il  desiderio  di  veder  presto 
compiuta  Punita  nazionale. 

Disgraziatamente  cominciarono  i  dissensi  fra  le  parti  politiche. 
Gli  impazienti  tentarono  di  vincere  la  mano  ai  prudenti  e  temperati, 
che  non  sempre  poterono  esser  tali  quando  furono  obbligati  a  fre- 
nare  le  impazienze  generose  ma  inopportune.  La  stampa  politica 
quotidiana  aveva  gia  acquistato  difTusione  ed  autorita,  ma  non  man- 
cavano  i  giornali  che  stimolavano  ed  aizzavano  le  passioni,  rammen- 
tando  al  popolo  i  diritti  e  non  i  doveri.  Oltre  il  «  Monitore  Tosca- 
no))1,  rimasto  giornale  officiale  del  governo  anche  dopo  il  27  aprile, 
si  pubblicava  in  Firenze  fino  dal  luglio  1859  «  La  Nazione»,2  allora 
diretta  da  Alessandro  D'Ancona:  ma  per  le  mani  del  popolo  minuto 
andavano  dei  giornaletti  d'idee  avanzate,3  scritti  un  po'  alia  becera, 
che  volevano  screditare  Topera  del  governo  ed  il  principio  d'au- 
torita.  Nel  1862,  dopo  gli  awenimenti  di  Sicilia  e  d'Aspromonte, 
anche  a  Firenze  furono  suonati  i  tre  squilli,  e  soldati  italiani  do- 
vettero  per  la  prima  volta  inastare  le  baionette  per  disperdere  la  folia 
che  li  fischiava.  Non  v'e  peggio  che  incominciare.  Lo  spettacolo, 
doloroso  sempre,  dolorosissimo  in  un  paese  non  ancora  solidamente 
costituito  ne  intieramente  libero  dagli  stranieri,  si  ripete  molte 
volte.  I  giornali  dimenticarono  sempre  piu  la  coscienza  della  loro 
grave  responsabilita,  le  lotte  partigiane  s'inasprirono  e  diventarono 
offensive  e  d'indole  personale.  Se  negli  ultimi  dieci  anni  la  trasfor- 
mazione  di  Firenze  era  stata  notevole,  sia  nella  parte  materiale  della 
citta  sia  nelle  abitudini  e  nel  modo  di  vivere  dei  cittadini,  la  liberta 
improwisamente  acquistata  cambio  anche  piu  sollecitamente  il 
modo  di  apprezzare,  di  giudicare,  di  sentire,  e  di  esprimere  senti- 
menti  e  giudizi.  A  rendere  turbolento  lo  spirito  di  una  parte  della 
popolazione  —  che  non  era  dawero  la  maggioranza  -  cooperarono 
il  dottrinarismo  del  partito  liberale,  ed  un  malinteso  risentimento, 
conseguenza  di  un  grave  errore  politico.  Ai  Toscani  prima  del- 
Pannessione,  per  desiderio  poco  giustificato  dei  loro  governanti,  e 

i . «  Monitore  toscano  » :  vedi  la  nota  5  a  p .  40 1 .  a.  II  quotidiano  «  La  Nasione  » 
apparve  il  14  luglio  1859,  subito  dopo  Tannunzio  dei  preliminari  di  Villa- 
franca.  Dapprima  ne  £u  direttore  Leopoldo  Cempini  e  poi  Alessandro 
DyAncona  (1835-1914),  notissimo  successivamente  come  uno  dei  maggiori 
critici  letterari  della  corrente  positivista.  3.  giornaletti ...  avanzate'.  tra 
essi  il  Pesci  allude  certamente  a  «  Lo  zenzero »,  quotidiano  repubblicano, 
diretto  da  Emilio  Torelli  e  sorto  nel  marzo  del  1862. 


444  UGO 

per  imprudente  condiscendenza,  allora  bensi  necessaria,  del  go- 
verno  di  Torino,  era  stata  promessa  e  concessa  Fautonomia  legisla- 
tiva  ed  amministrativa.  Ma,  poiche  -  come  scriveva  il  conte  di  Ca- 
vour  al  colonnello  Carini1  nell'ottobre  del  1860 -ale  annessioni 
condizionate  portano  al  sistema  federative  »,  e  Fautonomia  legisla- 
tiva  e  manifestamente  incompatibile  con  il  sistema  unitario,  si  do- 
vette  considerare  quella  concessione  come  lettera  morta,  offrendo 
ai  malcontenti  un  pretesto  del  quale  si  servirono  per  un  pezzo  gli 
agitatori  politici. 

Ma,  si  puo  affermarlo  e  proclamarlo  senza  temere  contradizioni, 
ogni  qual  volta  gli  agitatori  tentarono  di  opporre  i  pregiudizi  del 
toscanesimo  alia  schiettezza  del  sentimento  nazionale,  non  riusci- 
rono  nel  loro  malvagio  intento,  e  pochi  anni  dopo  1'annessione  non 
si  sarebbe  potuta  trovare  in  tutta  la  Toscana  la  minima  traccia  di 
aspirazioni  separatiste  o  federaliste. 

Questo  era  Fambiente  nel  quale,  ai  primi  di  settembre  del  1864, 
appena  terminata  Fagitazione  artificiale  prodotta  dalla  proibizione 
d'un  comizio,  che  si  voleva  tenere  per  chiedere  lo  scioglimento 
della  Camera,  s'incomincio  a  parlare  anche  a  Firenze  della  Con- 
venzione  stipulata  fra  i  governi  di  Torino  e  di  Parigi,  in  forza  della 
quale  si  sarebbe  dovuta  trasportare  a  Firenze  la  capitale  del  Regno, 
come  aveva  gia  consigliato  Massimo  d'Azeglio,  che  allora  abitava 
molto  a  Firenze,  nel  suo  opuscolo  sulle  Questioni  urgenti,  pubbli- 
cato  dal  Barbera  nel  i86i.2 


i.  come  .  .  .  Carini:  Giacinto  Carini  (1821-1885),  combattente  nel  '48  nella 
Sicilia  insorta  e  poi  al  seguito  di  Garibaldi  nella  spedizione  dei  Mille. 
Entr6  successivamente  nell'esercito  regolare,  fu  deputato  di  Palermo  per 
varie  legislature.  La  lettera  di  cui  qui  si  fa  cenno  si  trova  a  pp.  55-6  del 
volume  iv  di  C.  CAVOUR,  Lettere  edite  ed  inedite,  a  cura  di  L.  Chiala,  To 
rino,  Roux  e  Favale,  1884-1887.  2.  trasportare  .  .  .  1861:  vedi  Topuscolo 
citato,  a  pp.  51-2. 


FIRENZE    CAPITALS   (1865-1870)  445 


[LA   CONVENZIONE  DI   SETTEMBRE   -   IL   RE  A  FIRENZE]1 

Non  occorre  narrare  la  storia  delle  origin!  della  Convenzione  di 
settembre,  stata  scritta  anche  da  chi  ebbe  parte  principalissima  nel 
concluderla.2  Basta  rammentare  che  il  ministero  Minghetti,3  ac- 
cettando  la  proposta  di  stipularla,  non  fece  che  conformarsi  ad 
una  idea  gia  avuta  dal  conte  di  Cavour,4  e  la  parte  della  Conven 
zione  particolarmente  relativa  al  trasporto  della  capitale  a  Firenze 
fu  conseguenza  immediata  d'uno  stato  di  cose  che  non  poteva  es- 
sere  cambiato;  ma  nessun  fiorentino  v'ebbe  ne  colpa  ne  peccato. 
II  generale  Manfredo  Fanti5  aveva  gia  espresso  da  tempo  il  suo  pa- 
rere  intorno  alia  necessita  di  tale  trasferimento  in  caso  di  guerra 
con  P Austria;  guerra  che  presto  o  tardi  si  doveva  combattere  per 
liberare  la  Venezia.  Per  molte  altre  ragioni,  oltre  quelle  militari 
addotte  dal  Fanti,  Massimo  d'Azeglio,  come  ho  accennato,6  aveva 
scritto  fino  dal  1861,  che  come  sede  del  governo  italiano,  stimava 
Firenze  preferibile  ad  ogni  altra  citta  d' Italia. 

Della  probabile  effettuazione  del  trasferimento  si  era  parlato 
sino  dal  maggio  senza  che  a  Torino  se  ne  offendessero :  il  Mor- 
dini,7  che  sedeva  allora  all'estrema  sinistra,  aveva  proclamato  alia 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  i  (Da  Torino  a  Firenze),  pp.  59-65.  2.  stata  .  .  .  conclu 
derla:  il  Pesci  allude  a  Marco  Minghetti  e  al  suo  volume  La  Convenzione  di 
settembre,  Bologna,  Zanichelli,  1899.  3.  Marco  Minghetti  (1818-1886), 
studioso  di  problem!  economici  e  agrari,  nel  '48  fece  parte  del  primo  mini 
stero  laico  in  Roma,  ma  dopo  1'allocuzione  pontificia  del  29  aprile,  lasciata 
Roma,  raggiunse  Carlo  Alberto.  Combatte  nel  '48  e  nel  '49.  Collaborator  del 
Cavour,  fu  poi  ministro  degli  intern!  nel  gabinetto  Lanza  (vedi  la  nota  4 
a  P-  457)-  Ministro  delle  finanze  col  Farini,  divenne  poi  presidente  del  Con- 
siglio  (31  marzo  1864)  e  stipulo  la  Convenzione  di  settembre.  Fu  di  nuovo 
presidente  dal  10  luglio  1873  all'awento  della  Sinistra  (1876).  I  suoi  antichi 
rapporti  con  Pio  IX  e  la  sua  moderazione  politica  lo  fecero  apparire  ai  piu 
accesi  poco  energico  nelk  auspicata  politica  anticlericale.  4.  una  idea . .  . 
Cavour :  il  Cavour  aveva  gia  lavorato  per  un  accordo  con  la  Francia  sulla 
questione  romana:  ritiro  da  Roma  delle  truppe  francesi,  e  obbligo  del- 
T  Italia  a  garantire  da  ogni  aggressione  il  territorio  del  papa  e  ad  accetta- 
re  la  formazione  di  un  piccolo  esercito  pontificio.  Vedi  L.  CHIALA,  Dal  1858 
ali8g2.  Pagine  di  vita  contemporanea,  Torino  1892-1898,  pp.  211  e  214. 
5.  Manfredo  Fanti  (i 808- 1865),  gia  combattente  per  la  liberta  delle  Romagne 
nel  1831  e  della  Spagna  dal  '35  al  '48.  Comando  i  regolari  piemontesi  in 
Crimea  e  nella  guerra  del  '59,  quindi  le  forze  dell' Italia  centrale  e  fu  allora 
nominate  ministro  della  guerra.  6.  come  ho  accennato:  vedi  p.  444  e  la 
nota  2.  7.  Antonio  Mordini  (1819-1902),  dapprima  mazziniano,  aveva 
poi  accettato  la  soluzione  monarchica.  II  15  novembre  1864  sostenne  alia 
Camera  il  trasporto  della  capitale  a  Firenze. 


446  UGO   PESCI 

Camera  la  impossibilita  di  governare  da  Torino.  Consenziente 
Vittorio  Emanuele,  non  con  entusiasmo,  ma  con  plena  coscienza 
di  fare  atto  prowido,  il  trasferimento  era  stato  deliberato  in  massi- 
ma,  e  sanzionato  anche  da  un  Consiglio  di  generali,1  presieduti 
dal  principe  di  Carignano,  die  escludendo  Napoli  troppo  esposta 
dalla  parte  del  mare,  dette  la  preferenza  a  Firenze,  secondo  1'opi- 
nione  del  Fanti  e  dei  fratelli  Mezzacapo.2  II  Re,  pure  addolorato  di 
lasciare  Torino  dove  era  nato,  rassegnandosi  anche  al  nuovo  sa- 
grifizio  per  Punita  d'ltalia,  s'era  gia  dichiarato  in  favore  di  Firenze. 

II 15  settembre  fu  firmata  la  Convenzione:  il  21  e  il  22  accaddero 
a  Torino  i  dolorosi  fatti  a  tutti  noti.3  II  governo  aveva  commesso  dei 
gravi  errori,  non  si  puo  metterlo  in  dubbio:  prima  di  tutti  quello  di 
lasciar  partire  la  guarnigione  di  Torino  per  il  campo  di  San  Mau- 
rizio  precisamente  quando,  o  per  moto  spontaneo,  o  perche  v'era 
chi  soffiava  nel  fuoco,  cominciavano  le  prime  dimostrazioni.  Molto 
peggio  del  trattenere  le  truppe  fu  il  doverle  richiamar  subito,  e  il 
non  adoperarle  come  la  prudenza  avrebbe  voluto:  ma  non  puo  far 
meraviglia  che  cio  awenisse,  considerando  quanto  fosse  contrario 
alia  Convenzione  ed  ai  ministri  il  generale  Delia  Rocca4  che  le  co- 
mandava.  Cosi  molto  si  irritarono  i  Torinesi  i  quali,  sempre  dispo- 
sti  ad  ogni  sacrificio  per  il  bene  della  patria,  avrebbero  trangugiato 
con  disinvoltura  Tamaro  calice,  se  fosse  loro  stato  presentato  con 
maggior  garbo. 

Al  ministero  La  Marmora,5  succeduto  a  quello  Minghetti  dopo 

i.  un  Consiglio  di  generali:  la  riunione  ebbe  luogo  il  18  settembre  1864, 
cioe  dopo  la  firma  della  Convenzione  di  settembre,  ma  prima  che  il  Parla- 
mento  fosse  chiamato  ad  approvarla.  Vi  presero  parte  Cialdini,  Durando, 
Delia  Rocca,  De  Sonnaz  e  1'ammiragHo  Persano.  2.  fratelli  Mezzacapo: 
Carlo  Mezzacapo  (1817-1905)  e  il  fratello  Luigi  (1814-1885),  entrambi 
generali,  provenivano  dall'esercito  borbonico,  ma  erano  presto  passati  in 
quello  nazionale.  Vedi  U.  PESCI,  II  generale  Carlo  Mezzacapo  e  il  suo  tempo, 
Bologna,  Zanichelli,  1908.  3.  il  21 .  .  .  noti:  a  Torino,  alle  prime  notizie 
sulla  Convenzione,  il  21  settembre  si  ebbero  dimostrazioni,  che  nel  giorno 
successive  si  trasformarono  in  vere  violenze,  quando  in  piazza  San  Carlo 
si  verified  uno  scontro  sanguinoso  tra  la  folia  e  gli  allievi  carabinieri. 
4.  Enrico  Morozzo  Della  Rocca  (1807-1897),  generale,  uomo  politico  e  uomo 
di  corte,  assai  vicino  a  Vittorio  Emanuele  II,  che  spesso  si  servi  della  sua 
opera.  5.  Alfonso  La  Marmora  (1804-1878),  generale  piemontese  devo- 
tissimo  alia  dinastia  sabauda,  piu  volte  ministro,  nel  '55  comandante  in 
capo  del  corpo  di  spedizione  in  Crimea,  presidente  del  Consiglio,  dopo 
Parmistizio  di  Villafranca  e  dopo  i  fatti  di  Torino,  il  24  settembre  1864. 
Negozio  cosi  con  la  Prussia  Talleanza  antiaustriaca  per  la  campagna  del 
'66,  il  cui  esito  infelice  fu  per  gran  parte  dovuto  alia  sua  inefficienza  stra- 
tegica. 


FIRENZE   CAPITALE   (1865-1870)  447 

i  disordini  di  Torino,  tocco  il  non  ambito  ufficio  di  far  approvare 
la  Convenzione  dal  Parlamento.  Ma  il  dilemma  era  semplice  e 
chiaro.  Vittorio  Emanuele  Faveva  accettata  senza  entusiasmo,  ma 
ormai  nulla  al  mondo  Favrebbe  indotto  a  disdirla:  ed  i  ministri  ai 
quali  egli  affidava  il  governo,  o  non  dovevano  accettare  Fufficio,  o 
dovevano  approvare  incondizionatamente  quanto  il  Re  li  incaricava 
di  sottoporre  all' appro vazione  del  Parlamento, 

La  Camera,  come  ognun  sa,  nella  seduta  del  18  novembre,  con 
296  voti  contro  63  e  3  astenuti,  delibero  di  passare  alia  discussione 
degli  articoli  della  proposta  di  legge;  e  nella  stessa  seduta,  con 
270  voti  contro  70,  approve  1'articolo  i°,  il  quale  diceva: 

«  La  capitale  del  Regno  sara  trasferita  a  Firenze  dentro  sei  mesi 
dalla  data  della  presente  legge ». 

La  proposta  di  legge  m  approvata  con  grande  maggioranza  an- 
che  dal  Senato  ai  primi  del  dicembre;  e  subito  dopo  sanzionata 
dalla  firma  del  Re. 

A  Firenze,  la  promulgazione  della  legge  non  fu  accolta  con  quel- 
Fentusiasmo  che,  forse,  a  Torino  s'inunaginavano.  II  primo  atto 
spontaneo  della  popolazione  di  Firenze,  dopo  i  fatti  di  settembre 
fu  anzi  la  manifestazione  di  un  sentimento  di  rammarico  per  quanto 
era  awenuto.  Se  alcuni  cittadini  di  Firenze  pensarono  di  poter  tro- 
vare  il  loro  tornaconto  nel  trasferimento  della  capitale;  se  altri, 
dolenti  di  aver  veduto  discendere  al  grado  di  citta  di  provincia  Fex 
capitale  del  granducato,  credettero  che  la  deliberazione  del  Parla 
mento  fosse  un  onore  conferito  o  restituito  alia  loro  citta,  la  mag 
gioranza  dei  fiorentini  sospetto  subito  che  1'onere  potesse  esser 
maggiore  delFonore.  Spavento  principalmente  Fidea  della  inevita- 
bile  e  quasi  immediata  sovrapposizione  di  un  troppo  abbondante 
numero  di  abitanti  venuti  di  fuori  alia  popolazione  fiorentina  o 
infiorentinata.  Ho  notato  come  gli  Italiani  di  altre  regioni  fossero 
sempre  stati  accolti  in  Firenze  cortesemente,  senza  preconcetti  ostili 
e  senza  pregiudizi  di  campanile;  ma  non  era  mai  awenuta  la  im- 
migrazione  simultanea  di  parecchie  migliaia  di  persone,  la  quale 
poteva  portare  e  porto  un  cambiamento  radicale  e  troppo  repen- 
tino  nelle  abitudini  cittadine,  alle  quali  i  fiorentini  erano  molto 
attaccati. 

Se  Fimprevidenza  del  governo  era  stata  una  delle  cause  princi- 
pali  dei  fatti  di  Torino,  non  si  era  fatto  nulla  intanto  per  attenuarne 
il  ricordo.  Anzi!  La  discussione  awenuta  nella  Camera  sulla  in- 


448  UGO  PESCI 

chiesta  ordinata  intorno  a  quei  fatti,  quantunque  terminasse  con 
1'approvazione  di  un  patriottico  ordine  del  giorno1  d'oblio,  pro- 
posto  dal  barone  Ricasoli,  aveva  rinfocolato  risentimenti  in  appa- 
renza  sopiti.  Vi  furono  tumulti  nelle  sere  del  25  e  26  gennaio  1865 ; 
si  ripeterono  il  27,  ed  il  28  fu  necessaria  Pintromissione  della  Guar- 
dia  nazionale,  sullo  zelo  della  quale  era  prudente  aver  alcun  dub- 
bio  in  tale  occasione.  Uomini  autorevoli,  che  avrebbero  dovuto 
adoperarsi  pro  bono  pads,  usavano  invece  della  loro  autorita  per 
tener  viva  1'agitazione,  non  calcolandone  le  conseguenze. 

La  sera  del  30  gennaio  le  sale  del  palazzo  Reale  si  aprirono  per 
la  prima  festa  di  quell'inverno.  Alcune  centinaia  di  persone,  riu- 
nite  in  gruppi  -  alia  testa  d'uno  de'  quali  v'era  un  deputato  -  ac- 
colsero  ed  accompagnarono  con  fischi  e  grida  di  scherno  le  car- 
rozze  degli  invitati  al  loro  comparire  in  piazza  Castello.  Furono  an- 
che  tirate  delle  sassate,  e  ne  busc6  una  il  cocchiere  d'un  ministro 
straniero.  Molte  carrozze  tornarono  indietro,  non  osando  chi  v'era 
dentro  attraversare  la  piazza  dove  i  tumultuanti  spadroneggia- 
vano  non  disturbati ;  altri  invitati  awertiti,  non  si  mossero  da  casa ; 
ed  alia  festa  manco  la  maggior  parte  delle  signore  invitate. 

Atteso  invano,  per  due  giorni,  un  atto  del  municipio  di  Torino 
che  valesse  a  separare  nettamente  la  responsabilita  del  popolo  to- 
rinese  da  quella  dei  tumultuanti,  la  mattina  del  2  febbraio  i  mi- 
nistri  si  adunarono  alia  presenza  del  Re -che  dietro  ai  cristalli 
d'una  finestra  del  palazzo  reale  aveva  assistito  alle  sconvenienti 
scenate  -  ed  in  quell' adunanza  fu  risoluto  -  quattro  ministri  erano 
piemontesi,  nessuno  toscano  -  che  Vittorio  Emanuele  partirebbe 
la  mattina  seguente  per  Firenze.  «La  Gazzetta  Ufficiale»  del  3 
dava  1'annunzio  della  partenza  con  le  seguenti  parole : 

«  Questa  mattina  alle  ore  8,  S.  M.  il  Re  e  partito  da  Torino  per 
Firenze,  accompagnato  da  S.  E.  il  presidente  del  Consiglio  dei 
ministri,  generale  La  Marmora ». 

II  conte  Giuseppe  Pasolini,3  che  aveva  gia  chiesto  di  essere 
dispensato  dall'ufficio  di  Torino,  scriveva  quello  stesso  giorno  al 
Minghetti :  «...  ecco  il  frutto  di  aver  lasciato  che  ognuno  faccia 
quel  che  vuole  per  cinque  o  sei  giorni! » 

i.  L3 'ordine  del  giorno  fu  presentato  dal  Mordini,  dopo  un  suo  patriottico 
discorso,  il  15  novembre  1864.  2.  Giuseppe  Pasolini  (1815-1876),  senatore 
dal  1860,  gia  ministro  degli  esteri  dal  dicembre  1862  al  marzo  1863,  era 
allora  prefetto  di  Torino,  alia  quale  carica  era  stato  chiamato  due  anni 
avanti. 


FIRENZE    CAPITALE   (1865-1870)  449 

Vittorio  Emanuele  passando  per  Piacenza  e  Bologna  e  per  la 
ferrovia  Porrettana  da  poco  aperta,1  giunse  alia  stazione  di  Firenze 
lo  stesso  giorno  alle  10%  di  sera,  accompagnato  dal  generale 
La  Marmora,  dal  barone  Natoli2  ministro  della  istruzione,  e  da 
quasi  tutti  i  component!  delle  sue  case  civile  e  militare.  La  sta 
zione,  orribile  come  e  rimasta  da  quarant'anni,  era  sfarzosamente 
illuminata  e  addobbata.  Vi  si  trovavano  tutti  i  senatori  e  deputati 
di  Firenze,  le  autorita  civili,  militari  e  municipali,  moltissimi  fra  i 
piu  ragguardevoli  cittadini.  Partito  da  Torino  piu  dispiacente  che 
sdegnato  dal  torto  fattogli,  Vittorio  Emanuele  fu  gradevolmente 
sorpreso  e  commosso  della  affettuosa  accoglienza  che,  specie  a 
quell'ora,  non  si  aspettava;  e  manifesto  eloquent emente  la  propria 
commozione  abbracciando,  con  insolita  effusione,  quegli  che  senza 
contrasto  era  il  piu  onorando  fra  i  presenti  e  fra  i  cittadini  di 
Firenze,  il  vecchio  e  cieco  senatore  Gino  Capponi. 

Altre  sorprese  aspettavano  il  Re.  Subito  fuori  della  stazione  una 
gran  folia  lo  saluto  con  entusiastiche  acclamazioni.  Le  vie  che  con- 
ducono  dalla  stazione  al  palazzo  Pitti  -  alcune  delle  quali  molto 
anguste  -  erano  illuminate,  imbandierate  e  gremite  di  gente ;  e  non 
ostante  Fora  notturna  vi  stavano  schierate  le  legioni  della  Guardia 
nazionale,  numerosissime.  In  via  Tornabuoni,  la  carrozza  del  Re 
che  procedeva  a  stento  fra  tanta  ressa,  fu  circondata  dai  soci  del 
Club  deH'Unione  e  del  Casino  Borghesi,  vale  a  dire  dai  rappresen- 
tanti  della  nobilta  e  della  migliore  borghesia,  con  torcetti  di  cera, 
che  Taccompagnarono  fino  al  palazzo.  Costretto  dalle  insistent! 
acclamazioni  del  popolo,  il  Re  dovette  piu  volte  affacciarsi  al  bal- 
cone;  e  la  mezzanotte  era  gia  suonata  da  un  pezzo  quando  tacquero 
i  festosi  rumori  di  quella  spontanea  ed  affettuosa  accoglienza  .  .  . 


i.  la  ferrovia  .  .  .  aperta:  la  ferrovia  della  Porrettana,  che  univa  Firenze  a 
Bologna,  attraverso  la  Porretta,  era  stata  inaugurata  nel  1864.  2.  Giu 
seppe  Natoli  (1815-1867)  ebbe  molta  parte  nella  rivoluzione  siciliana  del 
1848;  esule  in  Piemonte,  fu  deputato  di  Messina  dopo  il  1860.  Ministro 
gia  con  il  Cavour  nel  1861,  reggeva  il  dicastero  dell' istruzione  nel  secondo 
gabinetto  La  Marmora. 


450  UGO  PESCI 

[LA  CRISI  DEGLI  ALLOGGI  •  IL  MALUMORE  DEI  FIORENTINl]1 

I  fiorentini,  awezzi  al  fare  casalingo  del  governo  granducale, 
sotto  al  quale  bastava  per  tutti  i  ministeri  palazzo  Vecchio  e  n'avan- 
zava  per  chi  n'avesse  voluto;  persuasi  che  si  potesse  governare 
Pintiera  1' Italia  e  qualche  altra  parte  del  mondo  aumentando  qual- 
che  dozzina  d'impiegati,  erano  stupefatti  vedendo  arrivare  dal 
a  piccolo  paese  a  pie  delle  Alpi » tale  e  tanto  esercito  di  «  funzionari » 
e  di  cavajer?  e  non  lietamente  sorpresi  dalla  occupazione  di  tanti 
palazzi,  di  tanti  conventi,  di  tanti  edifizi  pubblici. 

Ma  questo  era  il  minore  dej  mali.  II  maggiore  consisteva  nella 
necessita  di  prowedere  ipso  facto  un  decente  ricovero  a  tutte  quelle 
migliaia  di  persone  venute,  da  un  giorno  all'altro,  ad  unirsi  ai 
118.000  abitanti  che  vivevano  nella  cerchia  delle  mura  di  Firenze, 
non  ancora  atterrate.  I  fiorentini  non  proprietari  di  case,  non  ave- 
vano  motive  di  rallegrarsi  di  quell'inatteso  aumento  di  popolazione : 
ne  furono  anzi  disturbati  se  non  spaventati;  non  tanto  perche  il 
sopraggiungere  di  25  o  30.000  persone  di  modi,  d'abitudini,  di 
parlare  differente,  sconvolge  necessariamente  il  regolare  anda- 
mento  di  una  citta  quieta  e  quasi  metodica  nelle  sue  abitudini; 
quanto  perche  Taumento  non  desiderate  costava  alia  maggior  parte 
molto  di  tasca,  invece  di  procurare  un  guadagno.  II  solo  annunzio 
del  trasporto  della  capitale  aveva  talmente  aumentato  il  prezzo  degli 
affitti,  da  far  rimanere  molte  persone,  alia  lettera,  senza  casa;  ed  il 
Municipio  non  sapendo  piu  a  quale  santo  votarsi,  per  prowedere  un 
ricovero  alle  famiglie  piu  bisognose,  fece  un  contratto  con  la  Societa 
edificatrice  di  case  operaie,  la  quale,  mediante  la  garanzia  di  un 
prestito  di  tre  milioni,  si  assunse  la  costruzione  di  3000  stanze,  prese 
subito  in  affitto,  come  era  da  prevedersi,  da  famiglie  del  medio  ceto. 

II  Municipio  ebbe  anche  la  melanconica  idea  di  spendere  circa 
un  milione  e  mezzo,  per  edificare  fuori  delle  porte  alia  Croce  ed  a 
San  Frediano,  delle  case  di  legno  e  ferro,  diventate  presto  un  inqua- 
lificabile  ricettacolo  di  sporcizia,  che  un  incendio  fortunatamente 
distrusse  nelPanno  1872. 

Ma  questi  prowedimenti  avevano,  di  fronte  al  bisogno,  PefHcacia 
che  avrebbe  Popera  di  chi  pretendesse  vuotare  il  mare  con  una 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  I  (Da  Torino  a  Firenze),  pp.  69-74.     2.  cavajer:  e  la  forma 
dialettale  piemontese  di  «  cavaliere  »,  adoperata  qui  con  una  punta  di  ironia. 


FIRENZE    CAPITALS  (1865-1870)  451 

secchia!  Piuttosto  che  bene,  urgeva  far  presto,  e  vero!  Ma  le  citta 
s'improwisano  in  sei  mesi  soltanto  nel  West  End1  e  nelP  Africa 
Australe! 

Naturalmente  i  nuovi  venuti,  non  trovando  da  accasarsi,  s'irri- 
tavano  e  se  la  prendevano  ingiustamente  con  chi  non  aveva  al- 
cuna  colpa;  i  giornali  sbraitavano  a  vanvera  contro  1'inerzia  del  Mu- 
nicipio,  quantunque  in  pochi  mesi  avesse  fatto  il  possibile  per  com- 
pilare  piani  edilizi  e  procurare,  se  non  altro,  aree  fabbricabili,  chie- 
dendo  perfino  1'aggregamento  al  Comune  di  Firenze  di  alcune  parti 
di  Comuni  suburban!. 

II  Governo,  fmo  dal  gennaio,  tempestava  da  Torino  con  tele- 
grammi  e  lettere,  per  che  con  il  i°  di  maggio  fossero  pronte  quante 
abitazioni  occorrevano  agli  impiegati  da  trasferire :  le  proposte  degli 
speculated  fioccavano;  si  progettava  di  coprire  di  case  non  il  solo 
Parterre,  rna  le  Cascine  addirittura.  Nessuno  era  contento,  ed  i 
fiorentini  meno  di  tutti,  per  paura  che  quel  cataclisma  cambiasse 
addirittura  la  fisonomia  di  Firenze. 

Con  la  capitale  venivano,  o  Pavevano  -accortamente  preceduta, 
parecchi  negozianti  di  Torino,  pieni  di  attivita  e  di  pratica  della 
loro  clientela,  di  attitudine  a  far  bene  il  loro  mestiere,  ed  a  saper 
vendere,  come  si  dice,  il  loro  cerotto.  Si  accaparrarono  i  migliori 
locali,  nelle  posizioni  piii  belle  o  destinate  a  divenir  tali,  ornandoli 
con  sfarzo  non  mai  veduto,  stimolando  a  quel  modo  Pemulazione 
dej  negozianti  fiorentini,  e  mandando  presto  in  disuso  il  fare  bona- 
rio  e  patriarcalmente  semplice  delle  botteghe  di  Calimara,  porta 
Rossa  e  Mercato  Nuovo,  dove  ancora  alcune  conservavano  la  porta 
con  il  muricciolo  rialzato  da  un  lato,  gli  sportelloni  verdi  coperti  di 
grossi  chiodi,  e  il  gran  chiavistello  che  riuniva  gli  sportelli  attraver- 
sando  a  sghembo  da  una  parte  all'altra. 

Scomparvero  presto  anche  le  abitudini  piu  che  semplici  delle 
«  mescite  di  minestre  »  e  delle  «  canove  di  vino  »  dove  si  poteva  fare 
un  discrete  pasto  bevendo  un  paio  di  bicchieri  di  vino  buono, 
con  una  spesa  di  sette  od  otto  crazie  -  49  o  56  centesimi  -  senza 
tovaglia,  s'intende,  e  con  posate  di  ferro. 

Vedendo  scomparire  quella  semplicita,  anche  molte  persone 
intelligent!  e  d'idee  moderne  in  tante  altre  cose,  esclamavano 
con  grande  rammarico,  come  Diego  Martelli,2  quando  il  vinaio 

i.  West  End:  il  Pesci  intendeva  forse  scrivere  Far  West.     2.  Diego  Martelli 
(1838-1896),  giornalista  e  critico  d'arte  fiorentino:  vedi  la  scelta  dei  suoi 


452  UGO   PESCI 

Melini  dette  una  prima  ripulita  alia  sua  bottega  in  via  Calzaioli : 

—  Oh!  mia  buona  e  vecchia  Firenze,  dove  sei  tu? 

Tutto  sommato  fra  gli  antichi  abitanti,  nati  e  vissuti  all'ombra 
del  cupolone,  ed  i  nuovi  venuti  -  ora  si  puo  dirlo  francamente, 
giacche  acqua  passata  non  macina  piu  -  un  po'  di  broncio  vi  fu 
realmente;  e  come  accade  sempre  in  simili  casi,  un  po'  per  colpa 
degli  uni,  un  po'  per  colpa  degli  altri :  o  per  dir  meglio  ne  per  colpa 
degli  uni  ne  degli  altri,  ma  per  necessita  degli  eventi. 

I  nuovi  venuti,  sbalzati  ad  un  tratto  lontano  dai  loro  paesi, 
costretti  a  rinunziare  contro  voglia  alle  loro  consuetudini  materiali 
e  morali;  attribuendo  erroneamente,  per  una  serie  di  malintesi, 
tutti  questi  loro  disturbi  a  cause  molto  differenti  dalla  causa  vera, 
ed  airinframettenza  dei  fiorentini;  credendo  di  essere  soli  a  pa- 
tire  i  danni  per  tornaconto  degli  altri,  arrivavano  mal  prevenuti 
contro  Firenze;  dicevano  male  anticipatamente  di  tutto  e  di  tutti; 
male  delle  usanze,  dei  fabbricati,  della  cucina,  dei  caffe,  delle  pas- 
seggiate,  del  vino,  delPacqua,  della  lingua  parlata  .  . .  sicuro :  anche 
della  lingua!  Lamentavano  la  mancanza  di  agii  e  di  svaghi:  avreb- 
bero  voluto  a  Firenze,  i  portici  di  piazza  Castello,  il  monte  dei 
Cappuccini,  le  botte  di  Barbera,  il  caffe  Fiorio,  le  totine,  e  tante  altre 
belle  cose,  molte  delle  quali  vennero  presto  a  raggiungerli. 

Abituati  a  vivere  in  una  citta  relativamente  moderna,  mette- 
vano  in  canzonatura  il  rispetto  affettuoso  dei  fiorentini  d'ogni  ceto 
per  le  glorie  artistiche  cittadine,  ed  il  loro  culto  per  le  tradizioni 
locali,  non  persuadendosi,  ad  esempio,  che  si  potesse  esprimere  il 
desiderio  di  non  allargare  una  strada  pur  di  non  toccare  un  palazzo 
delFAmmannato  od  un  tabernacolo  di  Luca  della  Robbia.1 

I  fiorentini,  dal  canto  proprio,  seccati  da  tante  nuovita  frago- 
rose  che  turbavano  la  loro  apatica  tranquillita;  seccati  -  diciamolo 
pure  -  dal  vedere  allargarsi  ad  un  tratto  il  loro  stretto  orizzonte ; 
risentendo  i  piu  danno  e  non  profitto  dal  rincaro  delle  pigioni  e 
della  mano  d'opera;  sentendosi  lacerare  le  ben  costrutte  orecchie 
dalle  orribili  favelle  degli  immigranti,  si  ribellavano  e  rispondevano 
salato  alle  critiche,  correndo  rischio  di  perdere  la  fama  di  mitezza 
e  di  gentilezza  goduta  da  secoli.  Per  esser  giusti,  bisogna  dire  pero 

Scritti  d'arte,  a  cura  di  A.  Boschetto,  Firenze,  Sansoni,  1952.  i.  un  palazzo 
.  .  .  della  Robbia:  numerose  in  Firenze  le  opere  di  architettura  e  scultura  di 
Bartolomeo  Ammannati  da  Settignano  (1511-1592).  Ugualmente  nume 
rose  le  opere  di  Luca  delta  Robbia  (i399?-i482),  capostipite  della  celebre 
famiglia  di  plasticatori. 


FIRENZE    CAPITALE   (1865-1870)  453 

che  i  fiorentini  non  accolsero  con  premeditata  animadversione  i 
nuovi  venuti,  come  si  legge  in  qualche  storia,  di  quelle  scritte  con 
prosopopea  ed  in  molti  volumi;  ricambiarono  bensi  con  la  natu- 
rale  e  pungente  arguzia  le  canzonature  di  chi  si  credeva  lecito  di 
dileggiarli,  quasi  per  diritto  di  conquista:  come  si  vede  chiaro  in 
quanto  fu  scritto  e  stampato  su  tale  argomento  nei  giornali  del 
tempo;  specie  in  una  assennatissima  lettera,  in  data  del  25  hi- 
glio  1865,  mandata  all'a  Opinione »  dall'editore  Gaspero  Barbera,1 
torinese  di  nascita,  stabilito  fino  dal  1840  a  Firenze  dove  era  ben- 
voluto  e  stimato. 

I  giornali  -  sia  detto  anche  questo  -  seguitarono  a  tirare  per  le 
lunghe  le  polemiche  intorno  a  tale  dissenso,  che  in  fin  de'  conti 
non  meritava  di  sprecar  tanto  inchiostro.  Le  cause  di  esso  erano  in 
realta  superficiali.  Non  poteva  durare  e  non  duro  molto  tempo. 
Le  reciproche  prevenzioni  non  erano  del  resto  mai  state  unanimi, 
ed  erano  svanite  intieramente  assai  prima  che  gli  awenimenti  del 
1870  portassero  definitivamente  la  capitale  da  Firenze  a  Roma. 

Presto  Firenze  si  allargo,  si  trasformo,2  mostro  di  non  sdegnare 
le  modernita;  si  ripulirono  e  si  adornarono  i  caffe,  le  trattorie  e 
molti  altri  negozi;  si  moltiplicarono  le  mescite  di  liquori  prima 
quasi  sconosciute ;  i  nuovi  venuti  cominciarono  presto  a  trovarsi  a 
loro  agio  nella  nuova  capitale ;  ad  accorgersi  che  il  caffe  e  latte  equi- 
valeva  al  bicierin?  che  il  Chianti,  la  Rufina  e  il  Pomino  potevano 
sostituire  il  Barolo,  il  Barbera,  ed  il  Grignolino;  che  Fiesole,  Ca- 
reggi,  il  Romito  valevano  le  colline  di  Torino  e  il  Rubatto;  e  si 
persuasero  che  tutto  il  mondo  e  paese.  Tanto  e  vero,  che  molti  pie- 
montesi  venuti  a  Firenze  con  la  capitale  nel  1865  per  ragione  di 
ufficio,  brontolando  ed  anche  imprecando,  vi  sono  poi  rimasti  a 
godersi  in  santa  pace  la  loro  pensione,  o  vi  sono  tornati  da  Roma; 
e  nessuno  sarebbe  capace  di  persuaderli  a  cambiar  domicilio  per 
tutto  1'oro  del  mondo. 

i.  una  assennatissima. . .  Barbera:  la  lettera  e  riprodotta  dallo  stesso  Barbera 
(per  cui  cfr.  la  nota4  a  p.  436),  nelle  sue  Memorie,  a  pp.  301-6.  In  appendice, 
nello  stesso  volume  (p.  562),  figura  Tinteressante  lettera  che  Giosue  Car- 
ducci  indirizzo  al  Barbera  in  quella  occasione ;  e  cfr.  Opere,  xxvi  (edizione 
nazionale),  pp.  327-8;  Lettere,  IV,  pp.  290-1.  2.  Presto.. .  trasformo:  sulle 
molte  opere  pubbliche  eseguite  allora  a  Firenze,  soprattutto  dairarchitetto 
Giuseppe  Poggi,  vedi  G.  POGGI,  Relazione  sui  lavori  per  Vingrandimento  di 
Firenze,  Firenze  1882.  Tra  1'altro  furono  creati  allora  i  viali  di  circonval- 
lazione,  il  viale  dei  ColH,  il  piazzale  Michelangelo.  3.  bicierin:  bicchie- 
rino.  L'espressione  del  dialetto  piemontese  giova  al  colore  del  brano. 


454  UGO 


[ALLEGRIA,  PATRIOTTISMO  E  DISORDINI 
NELLA  NUOVA  CAPITALE]1 

L'anno  1866  cominci6  allegramente  nella  nuova  capitale  d' Ita 
lia,  dove  Paffollarsi  degli  uomini  parlamentari,  dei  loro  clienti,  di 
migliaia  d'impiegati  dello  Stato,  dei  rappresentanti  delle  potenze 
straniere,  e  di  molti  italiani  e  stranieri  attratti  dalla  curiosita  di 
vedere  una  capitale  nuova  e  dalla  voglia  di  divertirsi,  produceva  un 
movimento  nuovo  e  continue.  La  musoneria  dei  nostri  giorni  non 
permette  neanche  di  imaginare  quale  e  quanta  varieta  di  passatempi 
si  trovavano  allora  a  Firenze.  Erano  aperti  nove  o  dieci  teatri :  molte 
famiglie  fiorentine  o  straniere  facevano  a  gara  nell'invitare  a  feste  e 
ricevimenti.  La  baldoria  carnevalesca  durava  qualche  settimana  ed 
era  assordante.  Si  faceva  di  notte  giorno,  ed  alle  4  o  le  5  della  mat- 
tina,  chi  usciva  da  una  festa  da  ballo  o  da  un  veglione  ed  aveva  an- 
cora  voglia  e  fiato  di  darsi  bel  tempo,  poteva  andare  in  qualcuno 
dei  nuovi  caffe,  aperti  da  piemontesi  -  specie  al  caffe  delle  Alpi  in 
piazza  Santa  Maria  Maggiore  -  dove  si  mangiava,  si  beveva,  e  ma- 
gari  si  ballava  disperatamente  fino  a  giorno  fatto. 

Ne  i  soli  giovanotti  erano  scapestrati  e  chiassoni:  si  univano  a 
loro  volentieri  anche  uomini  che,  per  la  loro  eta  ed  il  loro  ufficio, 
avrebbero  dovuto  essere  od  almeno  parere  serii  ed  assennati.  Ri- 
cordo  che  una  notte,  uscendo  verso  1'alba  da  un  veglione  della  Per 
gola,3  con  una  brigata  di  spensierati  d'ambo  i  sessi,  mi  trovai  non 
so  come  insaccato  dentro  un  fiacre,  il  solo  ancora  disponibile,  con 
altre  quattro  o  cinque  persone ;  mentre  che  1'onorevole  Pier  Carlo 
Boggio,3  il  quale  protestava  di  non  voler  fare  la  strada  a  piedi,  spinto 
da  otto  o  dieci  mani  sul  cielo  della  carrozza,  vi  adagiava  la  sua  pic- 
cola  persona  grassa  e  rotonda,  e  stando  lassu  veniva  dalla  Pergola  al 
caffe  di  Parigi  aperto  dal  Boudrandi  di  Torino  fra  via  Cerretani  e 
via  de'  Panzani,  dove  e  ora  il  negozio  di  musica  Brizzi  e  Niccolai. 
Chi  avrebbe  pensato,  vedendo  in  quello  strano  atteggiamento  Telo- 
quente  oppositore  del  ministero,  Pautore  delle  lettere  ad  Emilio  01- 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  n  (La  campagna  del  1866),  pp.  87-9.  2.  Pergola:  il 
teatro  tuttora  esistente,  in  Firenze,  con  lo  stesso  nome.  3.  Pier  Carlo 
Boggio  (1827-1866),  professore  di  diritto  costituzionale,  deputato  di  Cuneo, 
pubblicista,  fu  per  vari  anni  il  piii  vivace  oppositore  del  ministero  La  Mar- 


FIRENZE    CAPITALE  (1865-1870)  455 

livier1  intorno  ai  fatti  di  Torino,  che  pochi  mesi  dopo  egli  sarebbe 
scomparso  a  Lissa,  nei  gorghi  dell'Adriatico,  con  gli  avanzi  del 
Red*  Italia?2 

Se  molti  spendevano  allegramente  e  Fantica  parsimonia  fioren- 
tina  era  facilmente  dimenticata,  le  strettezze  finanziarie  dello  Stato 
davano  invece  molto  da  pensare  a  chi  governava.  Ai  primi  del  1866 
fu  promossa  una  generosa  Utopia,  vale  a  dire  una  sottoscrizione  na- 
zionale  con  la  quale  si  sarebbe  dovuto  estinguere  niente  meno  che  il 
debito  pubblico  del  Regno  dj  Italia,  salito  in  cinque  anni  alia  rispet- 
tabile  cifra  di  cinque  miliardi  e  un  terzo,  con  un  disavanzo  medio 
annuo  di  circa  250  milioni  e  con  la  rendita  pubblica  scesa  al  di 
sotto  del  50  per  cento. 

Eppure,  il  sentimento  patriottico  era  allora  tanto  schietto  e  sin- 
cero,  e  tanto  grande  la  fiducia  di  tutti  neirawenire,  che  Tidea  del 
«Consorzio  Nazionale»  fu  accolta  generalmente  con  entusiasmo. 
Vittorio  Emanuele  sottoscrisse  per  un  milione:  furono  offerte,  da 
chi  poteva,  molto  ragguardevoli  somme.  Gli  stipendiati  dello  Stato 
offrirono  tutti,  piu  o  meno  spontaneamente,  una  giornata  del  loro 
stipendio,  ed  ogni  ordine  di  cittadini  contribui  a  seconda  dei  pro- 
prii  mezzi.  Ma  occorreva  altro!  Firenze  non  stette  in  dietro  alle  al- 
tre  citta  d' Italia,  e  quantunque  si  pretendesse  di  riempire  il  mare 
con  un  cucchiaino  da  caffe,  Funanimita  di  quel  tentativo,  quantun 
que  inadeguato  al  fine,  ebbe  in  se  qualche  cosa  di  bello  e  di  generoso. 

I  partiti  estremi  cercavano  intanto,  fino  d' allora,  di  sfruttare  ogni 
occasione  a  loro  profitto,  e  s'ingegnavano  a  promuovere  tumultL 
Una  delle  occasioni  preferite  era,  da  qualche  anno,  il  19  marzo, 
giorno  dedicate  dalla  Chiesa  a  San  Giuseppe.  II  Mazzini  profugo, 
il  Garibaldi  ferito  ad  Aspromonte,  avendo  tal  nome,  la  parte  esal- 
tata  raccoglieva  quel  giorno  turbe  di  gente  ignara  a  gridare  in 
piazza. 

Per  il  San  Giuseppe  del  1866,  le  truppe  della  guarnigione  erano 


•L.Emilio  Ollivier  (1825-1913)  allo  scoppio  della  guerra  franco-prussiana 
del  1870  era  presidente  del  Consiglio.  Fu  assai  stimato  scrittore  politico. 
2.  Re  d? Italia-,  cosl  chiamavasi  la  nave  aminiraglia  del  conte  Carlo  di  Per- 
sano  nell'infausta  battaglia  di  Lissa,  il  19  luglio  1866.  II  Persano  all'inizio 
della  giomata  si  trasferi,  senz'awertire  tempestivamente  gli  equipaggi, 
dalla  Re  d'ltalia  alia  corazzata  a  torri  VAffondatore.  Sfuggi  quindi  alia 
catastrofe  delFincrociatore  che,  speronato  dalla  ammiraglia  austriaca  Fer 
dinand  Max,  al  comando  del  Tegetthoff,  s'inabisso  rapidamente  col  fianco 
squarciato. 


456  UGO  PESCI 

state  consegnate  in  quartiere  fino  dal  giorno  innanzi,  e  dovettero 
poi  uscire  la  sera  a  ristabilire  Tordine  in  piazza  della  Signoria,  in  via 
Calzaioli,  e  davanti  al  palazzo  Riccardi.  Pareva  che  fosse  per  acca- 
dere  una  vera  rivoluzione ;  la  cavalleria  dovette  caricare  piu  volte  in 
via  Calzaioli,  in  piazza  della  Signoria  ed  in  Vacchereccia.  Fu  al- 
lora,  se  non  m'inganno,  che  uno  dei  plotoni  di  lancieri  era  coman- 
dato  dal  luogotenente  Francesco  Martini  Bernardi,  fiorentino,  poco 
uso  a  lasciarsi  posare  mosche  sul  naso.  In  Vacchereccia  era  ed  e 
ancora  un  Carle  Cavour,  lungo  e  stretto  come  un  corridoio,  che 
va  a  riuscire  in  Calimaruzza.  Mentre  il  Martini  passava  e  ripassava 
al  passo  per  Vacchereccia,  di  dentro  al  caffe,  i  dimostranti  che  vi 
s'erano  rifugiati  lo  salutavano  con  fischi  ai  quali  non  abbadava. 
Quando  ai  fischi  ed  alle  contumelie  lanciategli  contro  si  aggiimse 
anche  un  bicchiere,  il  Martini  volto  improwisamente  il  cavallo,  e 
seguito  dal  trombettiere,  traverso  tutto  il  caffe  uscendone  per  la 
porta  sull'altra  strada,  distribuendo  piattonate  durante  il  non  breve 
tragitto,  felicemente  compiuto  non  ostante  i  tentativi  di  cacciare 
sgabelli  e  tavolini  fra  le  gambe  del  cavallo  per  farlo  cadere.  II 
caffe,  uscitone  il  Martini,  si  vuoto  subito :  ed  il  giorno  dopo,  con  il 
comodo  sistema  della  stampiglia,  adoperata  probabilmente  da  chi 
era  rimasto  a  casa  quando  il  Martini,  nel  1859,  era  andato  ad  arruo- 
larsi  volontario  per  la  guerra,  si  leggeva  su  tutte  le  cantonate  di 
Firenze:  Morte  a  Cecco  Martini  austriaco! 

Tutto  questo  pero,  in  fin  de'  conti,  non  faceva  paura  a  nessuno, 
perche  non  poteva  allora  neanche  passare  in  mente  che  vi  fossero 
Italiani  capaci  di  voler  disfare  1'Italia,  non  ancora  finita  di  mettere 
insieme.  A  noi  giovanotti  poi  non  premeva  punto  di  sapere  perche  il 
Ministero  avesse  ottenuto  un  voto  di  fiducia  dalla  Camera,  chie- 
dendo  altri  due  mesi  di  esercizio  prowisorio;1  ne  a  quale  scopo 
da  Antonio  Scialoja,  succeduto  al  Sella,2  fosse  stato  presentato 
un  completo  progetto  di  riforma  tributaria.  Consideravamo  nella 

i.  il  Ministero  .  .  .  prowisorio:  1'esercizio  prowisorio,  gia  concesso  al 
terzo  ministero  La  Marmora  nel  febbraio  1866,  fu  poi  prolungato  di  tre 
mesi,  pur  avendo  la  maggioranza  della  giunta  per  le  finalize  stabilito  di 
concederne  solo  due.  2.  Antonio  Scialoja  (1817-1877)  fu  ministro  delle 
finanze  nel  terzo  ministero  La  Marmora  (31  dicembre  1865  -  20  giugno 
1866)  e  nel  secondo  ministero  Ricasoli  (20  giugno  1866  -  10  febbraio 
1867);  Quintino  Sella  (1827-1884)  era  stato  ministro  delle  finanze  nel 
secondo  gabinetto  La  Marmora  (dal  28  settembre  1864  al  31  dicembre 
1865);  torno  a  quel  dicastero  nel  gabinetto  Lanza  (14  dicembre  1869  - 
10  luglio  1873). 


FIRENZE   CAPITALE   (1865-1870)  457 

politica  un  solo  aspetto ;  cioe  la  speranza  di  un  sollecito  compimento 
delPunita  e  della  indipendenza  nazionale  mediante  una  guerra  vit- 
toriosa. 


IL    1870  FIND  AL   20   S^TTEMBRE1 

Tanto  per  mutare,  il  1869  era  finite  con  un  cambiamento  di  mi 
nistero;2  ed  al  generale  Menabrea,3  al  Cambray-Digny  ed  ai  loro 
colleghi,  erano  succeduti  dopo  molti  contrast!  ed  ostacoli,  il  Lanza4 
ed  il  Sella,  con  il  Visconti-Venosta,  il  Govone,  il  Raeli,  il  Gadda,  il 
Correnti,  P  Acton  ed  il  Castagnola.  Ormai,  abituati  ai  frequenti 
cambiamenti  di  scena,  i  fiorentini  avevano  accolto  anche  questo 
con  la  solita  indifferenza ;  non  curandosi  neppure  di  riflettere  che 
nessun  toscano  faceva  parte  del  nuovo  gabinetto.  Se  ne  poteva  fare 
anche  a  meno ;  ma  Pinfluenza  de'  loro  uornini  politici  ne  veniva  in- 
dubbiamente  dirninuita. 

Firenze  s'abbelliva  e  s'ingrandiva :  ricchi  stranieri  od  italiani 
d'altre  regioni  venivano  tutti  i  giorni  a  stabilirvi  la  loro  dimora. 
Gli  inconvenienti  rnanifestatisi  subito  dopo  il  trasferimento  erano, 
in  cinque  anni,  quasi  scomparsi;  mentre  dalle  nuove  condizioni 
della  citta  emergevano  grandi  benefizi  per  tutti.  La  popolazione 
andava  consider evolmente  aumentando:  era  giunta  a  191.000  abi- 
tanti  alia  fine  del  1868,  e  a  circa  200.000  alia  fine  del  1869.  II  mu- 


i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  vn  (//  iSjofino  al  20  settembre),  pp.  215-35.  2.  un  cam 
biamento  di  minister o:  il  19  novembre  1869,  il  terzo  ministero  Menabrea, 
in  seguito  alPesito  della  votazione  per  la  nomina  della  presidenza  della  Ca 
mera,  rassegno  le  dimissioni.  I  nuovi  component!  del  ministero  Lanza, 
elencati  dal  Pesci,  ebbero,  rispettivamente,  i  dicasteri  delle  finanze,  esteri, 
guerra,  grazia  e  giustizia,  lavori  pubblici,  istruzione,  marina  ed  agricoltura. 
3.  Luigi  Federico  Menabrea  (1809-1896),  deputato  della  Savoia,  senatore 
dal  29  febbraio  1860,  generale  devotissimo  a  Vittorio  Emanuele  II,  ebbe  da 
quest'ultimo  Pincarico  di  costituire  il  governo  nei  giorni  critici  di  Mentana, 
e  fu  presidente  del  Consiglio  dal  27  ottobre  1867  al  14  dicembre  1869. 
Collare  dell'Annunziata  dopo  1'annessione  delle  provincie  venete  il  4  no 
vembre  1866,  fu  ambasciatore  ^Londra  (1876-1882)  e  a  Parigi  (1882- 
1892),  prima  di  rientrare  a  vita  privata.  4.  Giovanni  Lanza,  di  Casal 
Monferrato  (1810-1882),  ministro  dell' istruzione  e  poi  delle  finanze  col 
Cavour,  dal  31  maggio  1855  fino  a  Villafranca;  presidente  della  Camera  dal 
2  aprile  al  17  dicembre  1860;  ministro  degli  intemi  nel  secondo  gabi 
netto  La  Marmora  (28  settembre  1864  -  25  agosto  1865),  presidente  della 
Camera  (9  dicembre  1867-8  agosto  1868;  18  novembre  -  14  dicembre 
1869),  e  presidente  del  Consiglio  (14  dicembre  1869  -  10  luglio  1873). 


458  UGO   PESCI 

nicipio,  non  potendo  prevedere  il  caso  che  la  capitale  fosse  traspor- 
tata  a  Roma  da  un  giorno  all'altro,  faceva  le  cose  alia  grande,  e  fa- 
ceva  bene:  giacche,  dato  il  caso  che  per  forza  di  eventi  il  governo 
avesse  dovuto  rimanere  ancora  per  qualche  anno  a  Firenze,  era 
necessario  fare  sparire  definitivamente  ogni  aspetto  di  precarieta 
nella  sua  residenza.  * 

Quantunque  le  contingenze  politiche  e  fmanziarie  del  regno 
non  fossero  molto  liete,1  alia  capitale  v'era,  almeno  apparente- 
mente,  un  largo  benessere.  Se  «  Teconomia  fino  all'osso  »  e  la  « lente 
dell'avaro))2  erano  la  base  del  programma  economico  del  governo: 
se  v'  erano  ancora  molti  cittadini  i  quali  risentivano  piu  danno  che 
benefizio  dall'essere  aumentati  i  bisogni  ed  i  prezzi  di  tutto,  senza 
un  corrispondente  aumento  delle  loro  scarse  entrate,  e  si  trovavano 
per  cio  obbligati  a  stare  a  stecchetto,  quattrini  ne  correvano  molti 
ed  allegramente,  non  mancavano  per  parecchi  i  subiti  e  facili  gua- 
dagni,  e  la  tradizionale  parsimonia  e  semplicita  fiorentina  si  anda- 
vano  adagio  adagio  dimenticando. 

Negli  ultimi  mesi  del  1869  v*  ^u  Per  Firenze  un  gran  passaggio 
di  vescovi  e  di  preti  awiati  a  Roma  per  il  Concilio  Ecumenico,3 
che  fu  aperto  1*8  dicembre;  ed  anche  quei  sacerdoti,  quantunque 
poco  favorevolmente  disposti  verso  la  nuova  Italia,  apparivano 
molto  sodisfatti  di  quanto  vedevano  nella  capitale  prowisoria  del 
regno,  che  secondo  loro  avrebbe  dovuto  essere  la  definitiva. 

Si  trovano  sempre  degli  uomini  di  buona  volonta,  ed  il  giorno 
dell'apertura  del  Concilio  se  ne  trovarono  di  quelli  disposti  a  fare 
una  dimostrazione  contro  Tarticolo  primo  dello  Statute.4  Riusci 
meschina  e  risibile,  e  non  poteva  riuscire  diversamente  essendone 


i.  Quantunque...  liete:  tra  le  principal!  preoccupazioni  del  ministero 
Menabrea  vi  era  la  situazione  finanziaria:  il  ministro  delle  finanze,  il 
fiorentino  Guglielmo  Cambray  Digny,  aveva  fatto  approvare  dalla  Ca 
mera  e  dal  Senate  importanti  prpwedimenti,  tra  i  quali  la  tassa  del  ma- 
cinato,  che  fu  definitivamente  abolita  solo  dieci  anni  dopo,  il  i°  gen- 
naio  1884.  a.  La  frase  economiafino  alVosso  fu  pronunziata  da  Quintino 
Sella  nel  suo  discorso  del  10-11  marzo  1870;  la  necessita  di  considerare  le 
spese  con  la  lente  delVavaro  fu  indicata  dal  presidente  Lanza  nel  suo 
discorso  del  15  dicembre  1869.  3.  II  Concilio  Ecumenico,  apertosi  1'8  di 
cembre  1869,  con  la  presenza  di  seicentottantatre  vescovi,  si  chiuse  con 
la  proclamazione,  awersatissima,  del  dogma  dell'mfallibilita  papale  (18 
luglio  1870).  4.  Ij'articolo  primo  dello  Statute  stabiliva:  «La  religione 
cattolica,  apostolica  e  romana  e  la  sola  religione  dello  Stato.  Gli  altri  culti 
ora  esistenti  saranno  tollerati  conformemente  alle  leggi». 


FIRENZE    CAPITALE   (1865-1870)  459 

stati  promotori  pochi  esaltati,  ed  alcuni  compromessi  ne'  recenti 
process!  per  gli  strascichi  delPaffare  della  Regia;1  come  il  Burei, 
TEller,  il  Caregnato,  ecc.  ecc. 

Piu  che  di  quelle  inconcludenti  dimostrazioni,  chi  vedeva  un 
palmo  piu  in  la  della  punta  del  proprio  naso  si  dava  pensiero  del- 
Pagitarsi  dej  partiti  estremi2  in  alcune  provincie.  Al  palazzo  Ric- 
cardi,  dove  si  era  insediato  Ponorevole  Lanza,  giungevano  spesso, 
troppo  spesso,  brutte  notizie  dalla  Romagna.  Un  giorno  era  il  ge- 
nerale  ExcofHer,  reggente  la  prefettura  di  Ravenna  assassinate  dal- 
Pispettore  di  p.  s.  Cattaneo  traslocato  a  Grosseto  perche  si  aveva 
bisogno  di  mandarvi  un  uomo  operoso  e  perspicace  -  lo  disse  il 
Lanza  alia  Camera  -  e  che  voleva  invece  rimanere  a  Ravenna  per 
continuare  una  pratica  con  una  donna  di  mal  affare ;  un  altro  giorno 
erano  tentativi  di  tumulti  a  Bologna,  o  scassi  o  violenze  per  portar 
via  i  fucili  della  Guardia  nazionale  in  qualche  paese  della  Romagna. 

Fino  dal  1867,  quando  si  rumoreggiava  contro  il  governo  perche 
non  faceva  passare  alle  truppe  il  confine  dello  Stato  Romano,  era 
cominciata  una  continuata  propaganda  repubblicana,  che  Giu 
seppe  Mazzini  dirigeva  da  Londra,  rivolgendola  particolarmente 
alPesercito.  Non  vje  da  stupirsi  se,  fra  i  tantissimi  militari  leali  os- 
servatori  del  giuramento,  si  trovassero  pochi  sconsigliati,  immemori 
dej  loro  doveri  fino  al  punto  di  diventare  felloni.3 

Non  per  questo,  tanto  era  grande  e  dolorosa  la  nuovita,  rimasero 
meno  stupiti  i  fiorentini  la  mattina  del  di  24  marzo,  quando  sep- 
pero  che,  durante  la  notte,  la  caserma  di  San  Francesco  a  Pavia  era 
stata  assalita  da  una  banda  di  un  centinaio  di  persone,  armate  di  ri- 
voltelle  sottratte  in  Castello  con  la  complicita  di  tre  sottufficiali 

i.  affare  della  Regia:  P8  agosto  1868  la  Camera  aveva  approvato  una  legge 
con  la  quale  lo  Stato  concedeva  ad  una  societa  il  privilegio  della  manifattura 
e  vendita  dei  tabacchi.  Vi  furono  allora,  e  si  rinfocolarono  e  complicarono 
man  mano,  accuse  di  cornizione  ad  uomini  politici,  e  ne  sorsero  querele, 
duelli,  process!  e  una  inchiesta  parlamentare,  che  il  12  luglio  1869  emise 
un  verdetto  che  liberava  da  ogni  colpa  i  sospettati.  Ma  intanto,  in  margine 
alia  questione,  si  erano  verificate  varie  forme  di  reato,  come  una  simula- 
zione  di  tentato  assassinio,  per  cui  furono  condannati  il  maggiore  on.  Lob- 
bia  e  i  suoi  complici  Martinati  e  Caregnato,  e  un  furto' epistolare  per  cui  fu 
process ato  e  condannato  un  tal  Burei,  impiegato  alia  Questura  della  Ca 
mera.  II  monopolio  dei  tabacchi  torno  allo  Stato  col  1884.  2.  agitarsi  .  .  . 
estremi:  vedi  E.  CONTI,  Le  origini  del  socialismo  a  Firenze,  Roma,  Edizioni 
Rinascita,  1950,  specialmente  le  pp.  90-7,  dove  sono  accenni  anche  al- 
1' Emilia.  3.  Non  v*e  .  .  .felloni:  indipendentemente  da  ogni  giudizio  sulla 
propaganda  repubblicana  e  sugli  awenimenti,  e  necessario  tener  present! 
le  convinzioni  politiche  di  Ugo  Pesci  decisamente  antimazziniane. 


460  UGO   PESCI 

d'artiglieria,  e  che  gli  assalitori  erano  d'accordo  con  alcuni  sottuf- 
ficiali  e  caporali,  i  quali,  stando  dentro,  avrebbero  dovuto  secondarli 
ed  impadronirsi  del  quartiere,  dove  era  un  distaccamento  della  bri- 
gata  Modena,  di  stanza  a  Piacenza.  La  fermezza  del  giovine  uf- 
ficiale  di  picchetto,  sottotenente  Vegezzi,  che  quantunque  ferito 
da  un  colpo  di  fucile  tirato  da  quei  di  dentro  rimase  al  suo  posto ; 
e  la  imperturbata  fedelta  de'  soldati,  che  rinchiusero  in  una  stanza 
alcuni  dei  sottufficiali  del  complotto,  e  furono  pronti  a  rispondere 
senza  esitanza  al  fuoco  con  il  fuoco,  resero  vano  il  folle  e  criminoso 
attentato.  Otto  felloni  poterono  fuggire:  il  sergente  Pernice  ed  il 
caporale  Barsanti,1  arrestati  e  sottoposti  a  processo,  furono  condan- 
nati,  il  prirno  a  vent'anni  di  reclusione,  il  secondo  alia  pena  di  morte 
per  aver  fatto  fuoco  contro  i  compagni. 

Mentre  si  assaliva  a  Pavia  la  caserma  di  San  Francesco,  a  Pia 
cenza  accadeva  qualche  cosa  di  simile  alia  caserma  di  Sant'Anna 
dalla  quale  erano  stati  sottratti  34  fucili;  ed  a  Brisighella  si  riuniva- 
no  due  o  trecento  giovanotti  romagnoli  repubblicani,  una  quaran- 
tina  dej  quali  erano  raggiunti  ed  arrestati  a  Riolo. 

Questi  fatti  impressionavano  dolorosamente  Popinione  pubblica : 
tanto  piu  perche  il  ministero  Lanza  che  piu  tardi  seppe  acquistarsi 
molte  benemerenze,  aveva,  in  quei  primi  tempi,  contro  di  se  quasi 
tutta  la  stampa  della  capitale:  particolarmente  la  «Nazione»  e  la 
«Gazzetta  djltalia»,2  giornali  d'origine  e  d'indole  fiorentina,  che  lo 
accusavano  d'incapacita ;  oltre  la  «  Riforma »,  il  «  Diritto  »3  e  gli  altri 
giornali  che  lo  combattevano  per  sistematica  opposizione  al  governo 
non  composto  dai  loro  amici  della  sinistra.  Non  si  puo  neanche 


1.  II  caporale  lucchese  Pietro  Barsanti,  capo  della  rivolta,  era  ardente  se- 
guace  del  movimento  mazziniano.  E  utile  precisare  che,  al  momento  del- 
Fassalto  alia  caserma  di  Pavia,  era  ancora  minorenne,  perche  nato  il  30 
luglio  del  1849.  Questo  e  gli  altri  moti  cui  accenna  il  testo  nacquero,  in 
parte,  dalla  persuasione  che  il  governo  monarchico  non  intendesse  risolvere 
la  questione  romana  e  che  fosse  necessaria,  a  questo  fine,  1'instaurazione 
della  repubblica.  Ma  alcune  agitazioni  si  originarono  da  esigenze  sociali. 

2.  La  «  Gazzetta  d*  Italia  »,  quotidiano  di  destra,  rappresento  una  antitesi  alia 
«Nazione».  Fu  anch'essa  diffusissima :  sorse  a  Firenze  il  16  dicembre  1866, 
vi  si  pubblicd  fmo  al  31  dicembre  1871,  seguito  poi  a  Roma,  fino  al  1889. 
Tra  i  collaborator!  fu  anche  il  Pesci;  per  la  «Nazione»,  vedi  la  nota  2  a 
p.  443.     3.  Organo  del  partito  democratico,  il  quotidiano  la  «Riforma», 
fondato  da  Francesco  Crispi  e  altri,  sorse  in  Firenze  e  vi  si  pubblico  dal 
4  giugno  1867  al  30  agosto  1871:  e  continue  poi  a  Roma  fino  al  1887; 
il  <t  Diritto »,  fondato  a  Torino  nel  1854,  trasferito  a  Firenze  nel  1865,  a 
Roma  nel  '71,  fu  organo  di  sinistra. 


FIRENZE   CAPITALE    (1865-1870)  461 

dire  che  quel  ministero  godesse  il  favore  della  opinione  pubblica 
fiorentina,  la  quale  faceva  volentieri  eco  agli  uomini  politic!  piii 
noti  a  Firenze,  molti  de'  quali  ancora  in  buone  relazioni  con  i  mi- 
nistri  caduti.  Essi  ritenevano  il  Lanza  poco  adatto  a  governare  un 
paese  nelle  condizioni  del  nostro;  gli  rimproveravano  di  non  aver 
dato  mente  agli  awisi  del  complotto  pavese  arrivati  a  palazzo 
Riccardi,  e  di  non  aver  saputo  metter  le  mani  sugli  autori  del  com 
plotto  salvatisi  con  la  fuga.  D'altra  parte,  poiche  il  pagare  non  e 
gradito  ad  alcuno,  si  brontolava  volentieri  contro  le  proposte  finan- 
ziarie  del  Sella,  ed  il  ceto  de*  cosi  detti  uomini  d'affari  rimproverava 
a  lui  ed  al  Lanza  d'aver  consentito  alia  richiesta  deirestrema  si- 
nistra  di  pubblicare  i  nomi  dei  possessori  d'azioni  della  Banca  Na- 
zionale,  quando  fu  proposto  di  trasformarla  in  Banca  d' Italia, 
affidandole  il  servizio  di  tesoreria  dello  Stato;  cio  che  poi  e  av- 
venuto  trent'anni  dopo.1 

Nel  maggio,  con  il  fiorir  delle  rose,  fiorirono  nuove  velleita  di  ri- 
bellioni  repubblicane,  in  Calabria,  nella  provincia  di  Pisa,  a  Lucca,2 
in  Sardegna.  I  due  figli  di  Garibaldi,  Menotti  e  Ricciotti,  si  trova- 
vano  allora  a  Catanzaro,  avendo  ottenuto,  con  il  concorso  di  qualche 
capitalista  e  non  senza  il  tacito  favore  del  ministero  precedente, 
Tappalto  per  il  traforo  della  galleria  di  Stalletti,  sulla  strada  ferrata 
che  costeggia  il  mare  Jonio.  Socio  delPimpresa  era  Achille  Fazzari,3 
di  Catanzaro,  che  venuto  a  Firenze  nel  1867  dopo  aver  toccato  una 
grave  ferita  a  Monterotondo,  vi  era  stato  accolto  e  curato  amorevol- 
mente  da  una  famiglia  arnica;  poi,  fattosi  largo,  con  la  sua  franchezza 
e  le  sue  maniere  disinvolte,  era  riuscito  senza  sforzo  a  trasformarsi 
in  uomo  in  evidenza  ed  importanza  di  personaggio  politico,  e  ad 

1.  quando .  .  .  dopo:  il  decreto  del  23  ottobre  1865  aveva  stabilito  la  fusione 
della  Banca  nazionale  con  la  Banca  nazionale  toscana,  per  formare  un  unico 
istituto  bancario,  cui  si  sarebbe  dovuto  affidare  il  servizio  di  tesoreria.  Ca- 
duto  questo  decreto  insieme  con  il  ministero,  per  il  voto  sfavorevole  del 
19  dicembre  1865,  la  fusione  e  1'istituzione  della  Banca  d5 Italia,  con  ser 
vizio  di  tesoreria,  si  pote  attuare  solo  con  la  legge  del  16  agosto  1893. 

2.  a  Lucca:  la  rivolta  di  Lucca  fu  particolarmente  importante,  perche 
organizzata  e  guidata  dal  repubblicano  Tito  Strocchi  (1846-1879).  L'am- 
nistia  seguita  alia  presa  di  Roma  salvo  lo  Strocchi  dal  processo  e  gli  per- 
mise  di  combattere  a  Digione  con  Garibaldi.  Lo  Strocchi  fu  commedio- 
grafo  e  giornalista  stimato.     3.  Achille  Fazzari  (1839-1910)  partecipo  alia 
spedizione  dei  Mille  e  a  quella  dell'Agro  romano,  dove  fu  ferito  a  Monte- 
libretti.  Fu  deputato  nella  xin  e  xvr  legislatura,  durante  la  quale  si  dimise, 
non  vedendosi  seguito  in  un  suo  progetto  di  conciliazione  tra  Italia  e  pa- 
pato. 


462  UGO   PESCI 

acquistarsi  benevolenza  in  tutte  le  classi,  compresa  quella,  pare 
impossibile,  del  banchieri  e  capitalist!. 

Essendo  stato  detto  che  i  figli  di  Garibaldi  avevano  partecipato 
alia  ribellione  calabrese,1  il  Lanza,  interrogate  alia  Camera,  non 
soltanto  smenti  la  notizia,  ma,  non  bene  informato,  aggiunse  che 
Menotti  Garibaldi  s'era  offerto  spontaneamente  alle  autorita  di 
Catanzaro  per  dare  la  caccia  ai  ribelli.  Apriti  Cielo!  Menotti  Gari 
baldi  scrisse  una  lettera  pubblicata  da  un  giornale  mazziniano,  nella 
quale  accusava  il  Lanza  di  aver  mentito  e  diceva  che  non  si  sarebbe 
mosso  dawero  per  far  piacere  ai  governo  italiano,  «mucchio  di 
canaglia  e  di  ladri». 

A  Firenze,  molti  risero  alle  spalle  del  ministro.  Poi  risero  anche 
alle  spalle  d'una  banda  di  ribelli  che  scorrazzava  nella  provincia  di 
Pisa,  guidata  da  un  cuoco  disoccupato,  che  si  chiamava  Galliano. 
Ironia  della  sorte  che  da  lo  stesso  nome  ad  un  ciarlatano  e  ad  un 
eroe!2 

Intanto  le  agitazioni  mazziniane  continuavano :  a  Milano  acca- 
devano  tumulti  e  si  sequestravano  fucili  e  bombe  alFOrsim.3  Si 
sapeva  che  il  Mazzini  era  venuto  da  Londra  a  Geneva  con  il  nome 
d'Enrico  Zammith,  e  che  quel  prefetto  se  Pera  lasciato  scappare, 
temendo  di  fare  atto  illegale  arrestandolo,  non  ostante  i  ripetuti  or- 
dini  del  ministero.  Lo  stesso  accadde  al  prefetto  di  Napoli,  mar- 
chese  d'Afflitto:  non  al  generale  Medici,  prefetto  a  Palermo,  pronto 


i.  ribellione  calabrese:  a  Maida,  in  provincia  di  Catanzaro,  e  poi  nella  vicina 
Filadelfia,  si  svilupp6  dal  6  al  10  maggio  1870  un  moto  insurrezionale, 
che  in  piccola  parte  si  estese  anche  a  Cosenza.  Fu  presto  represso,  e  si  tro- 
varono  addosso  agli  arrestati  stampe  ed  elenchi  col  motto  « Dio  e  popolo, 
alleanza  repubblicana  universale».  La  «Gazzetta  Ufficiale»  delPn  mag 
gio  diede  notizia  di  un'offerta  d'aiuto  fatta  da  Menotti  Garibaldi,  allora  in 
Calabria;  ma  il  14  maggio  apparve  nel  «Gazzettino  rosa»  una  lettera  ad 
Achille  Bizzoni,  che  ne  era  il  direttore,  in  cui  Menotti  smentiva  la  notizia, 
affermando  che  egli  non  avrebbe  mai  dato  il  suo  « appoggio  al  piu  schifoso 
dei  governi».  2.  un  eroe:  allude  al  colonnello  Giuseppe  Galliano  (1846- 
1896)  che  combatte  in  Africa  e,  particolarmente,  nella  guerra  del  1895- 
1896  difese  il  forte  di  Makalle.  Mori  nella  battaglia  di  Adua.  3.  bombe  al- 
rOrsini:  espressione  quasi  proverbiale  nella  letteratura  e  pubblicistica  del- 
I'Ottocento  italiano,  tanto  in  senso  proprio  quanto  in  senso  metaforico, 
per  denotare  fabbricazione  di  esplosivi  e  attivita  dinamitardo-sowersiva 
nella  scia,  o  ad  imitazione,  delPagitatore  romagnolo  Felice  Orsini,  decapi- 
tato  il  13  marzo  1858  in  Parigi,  per  avervi,  il  13  gennaio,  attentato,  ap- 
punto  con  lancio  di  bombe,  alia  vita  dell'  imperatore  Napoleone  III,  men- 
tre,  con  1'imperatrice  Eugenia  ed  il  seguito,  questi  si  recava  oil' Opera. 


FIRENZE   CAPITALE   (1865-1870)  463 

ad  arrestarlo  il  13  aprile1  prima  di  lasciarlo  sbarcare,  ed  a  farlo  tra- 
sportare  dal  piroscafo  postale  sul  Fieramosca,  dove  il  grande  agita- 
tore,  trattato  con  tutti  i  riguardi,  rimase  qualche  giorno,  prima  d'es- 
sere  rinchiuso  in  uno  dei  forti  di  Gaeta. 

Firenze  rimaneva  tranquilla,  e  le  manifestazioni  repubblicane 
alia  capitale  si  limitavano  a  qualche  manifestino,  strappato  prima 
d'essere  finite  d'attaccare  ai  muri.  Altri  e  ben  piu  gravi  eventi  pre- 
mevano;  mentre  la  Camera,  sempre  affollata  di  spettatori,  discu- 
teva  i  prowedimenti  per  la  finanza,  e  la  parte  piu  agiata  della  popo- 
lazione  pensava  se  dovesse  andare  sui  monti  o  al  mare  in  cerca  d'aure 
piu  miti.  La  scelta  di  un  Hohenzollern  a  candidate  al  trono  di  Spa- 
gna  metteva  il  mondo  a  soqquadro,  ofTrendo  a  Napoleone  III  Toc- 
casione  di  una  guerra  contro  la  Prussia,2  e  la  possibilita  di  una  tal 
guerra  animava  insolitamente  anche  la  capitale  d' Italia.  Vittorio 
Emanuele,  solito  ad  allontanarsi  da  Firenze  al  principio  delP estate, 
vi  si  trattenne  fmo  al  3  luglio,  avendo  frequenti  colloqui  con  i  mi- 
nistri.  Tutti  pensavano  con  inquietudine  in  quali  condizioni  si 
sarebbe  trovata  V  Italia  se,  anche  suo  malgrado,  si  fosse  trovata  per 
forza  di  eventi  impegnata  in  un  confiitto,  dopo  avere  tanto  ridotto 
1'esercito! 

Tutti  sapevano  che  Vittorio  Emanuele,  per  istinto  di  cavalleresca 
generosita,  in  lui  piu  forte  della  fredda  ragione  di  Stato,  avrebbe  vo- 
luto  correre  in  aiuto  del  suo  antico  alleato,  e  della  nazione  alia  quale 
ormai  apparteneva  sua  figlia  Clotilde;  mentre  nella  maggioranza 
del  consiglio  dei  ministri  prevaleva  il  programma  di  una  assoluta 
neutralita.  Si  sapeva  da  alcuni,  se  non  dai  piu,  che  il  La  Marmora  ed 
il  Sella  prevedevano  le  vittorie  prussiane,  contro  Topinione  piu 
generalmente  diffusa  la  quale  riteneva  favorevole  ai  francesi  Tesito 
della  guerra;  e  che  il  Sella,  volendo  persuadere  Vittorio  Emanuele 
della  superiorita  militare  della  Prussia,  non  era  mai  stato  ascoltato. 

Quale  criterio  politico  fosse  seguito  nelle  risoluzioni  del  governo 
italiano  apparve  chiaramente  soltanto  quando  la  guerra  fu  gia  di- 
chiarata,  e  da  Parigi  venne  a  Firenze  il  signor  Witzhum,  mandato 


i.  il  13  aprile:  la  data  deve  essere  corretta  in  13  agosto.  2.  La  scelta  .  .  , 
Prussia:  la  candidatura  del  principe  Leopoldo  di  Hohenzollern-Sigrna.rin- 
gen,  congiunto  del  re  di  Prussia,  al  trono  di  Spagna,  grazie  alle  abili  ma- 
nipolazioni  diplomatiche  del  Bismarck  e  alia  sua  truccata  versione  del 
dispaccio  di  Ems,  fu  causa  occasionale  delTincidente  diplomatico  che 
provoc6  la  guerra  franco-prussiana  nel  luglio  1870. 


464  UGO   PESCI 

dal  presidente  del  consiglio  austriaco  conte  de  Beust  per  negoziare 
una  triplice  alleanza  fra  1' Austria,  la  Francia  e  P  Italia.  Era  ormai 
troppo  tardi!1 

II  1 6  fu  fatta  a  Firenze  -  era  il  giorno  seguente  alia  dichiarazione 
di  guerra  -2  una  prima  dimostrazione  a  favore  della  Prussia,  preci- 
samente  da  quel  partito  che  ha  poi  tanto  fieramente  biasimato  1'al- 
leanza  dell' Italia  con  gli  imperi  centrali.3  Ma  allora  era  un  altro 
paio  di  maniche!  In.  odio  a  Napoleone  III  -  che  certamente  aveva 
fatto  il  possibile  perche  gli  Italiani  dimenticassero  ogni  obbligo  di 
gratitudine  verso  di  lui  -  non  soltanto  i  deputati  della  sinistra  e 
delTestrema  sinistra  pendevano  dal  labbro  del  signer  Brassier  de 
Saint- Simon,  ministro  prussiano  a  Firenze;  ma  si  gridava  per  le 
strade  «  viva  la  Prussia))  dagli  stessi  che  gridavano  «  viva  Garibaldi, 
vogliamo  Roma»  ed  anche  qualche  volta  «viva  Mazzini». 

I  dimostranti,  invitati  a  raccolta  da  un  manifestino  stampato  e 
firmato  da  un  « comitato »  anonimo,  si  riunirono  alle  7  di  sera  in 
piazza  del  Duomo,  vicino  al  cosi  detto  «  Sasso  di  Dante))4  con  qual 
che  bandiera:  di  li  si  awiarono  in  piazza  della  Signoria  a  gridare 
sotto  il  Ministero  degli  esteri;  poi,  per  via  Cerretani  e  via  Torna- 
buoni,  alia  Legazione  prussiana  in  via  del  Sole.  Dalla  Legazione 
prussiana,  sempre  aumentando  il  numero  dei  curiosi,  andarono  al 
N.  1 1  del  corso  Vittorio  Emanuele,  passato  il  Politeama,  alia  lega- 
zione  Francese,  dove  furono  suonati  i  tre  squilli  al  primo  grido  di 
«abbasso  la  Francia ».  Allora  dimostranti  e  spettatori  presero  la 
fuga,  meno  due  signori  che  entrarono  nel  palazzo.  Erano  il  barone 
di  Malaret,  ministro  francese,  che  andava  a  pranzo  ed  il  suo  segre- 
tario  signor  De  Villestreux  che  lo  accompagnava.  II  ministro  arri- 

i.  Era  .  .  .  tardi:  la  Francia  aveva  dichiarato  guerra  alia  Prussia  il  19  luglio, 
e  gia  il  giorno  prima  1' Austria  aveva  proclamato  la  propria  neutralita.  Le 
trattative  per  un'alleanza  franco-italo-austriaca  erano,  percio,  gia  cadute, 
non  soltanto  quelle  efFettuate  durante  il  1869,  ma  anche  quelle  proposte 
da  Napoleone  nel  1870,  prima  della  dichiarazione  di  guerra,  al  ministro 
Lanza.  Anche  1' Italia  proclamo  la  propria  neutralita,  il  23  luglio.  2.  II 
1 6 . . .  guerra:  la  guerra  fu  dichiarata  formalmente  il  19  luglio,  ma  gia  il  15 
il  ministero  francese  aveva  chiaramente  annunziato  la  decisione  al  Corpo 
legislativo  e  al  Senato.  -$.precisamente  .  .  .  centrali:  bisogna  tener  pre- 
sente  che  a  molti  Napoleone  III  appariva  non  solo  un  sovrano  antiliberale, 
ma  il  maggiore  impedimento  alia  soluzione  della  questione  romana.  La 
triplice  alleanza  -  Italia,  Austria,  Germania  -  fu  stipulata  dodici  anni  dopo 
con  il  trattato  segreto  del  10  maggio  1882.  4.  Sasso  di  Dante:  a  Firenze, 
in  piazza  del  Duomo,  esiste  una  lapide  che  indica  il  posto  in  cui,  secondo 
una  tradizione  popolare,  Dante  andava  d'estate  a  «godere  il  fresco ». 


FIRENZE    CAPITALE   (1865-1870)  465 

vava  con  un  po'  di  ritardo  perche  aveva  voluto  seguire  i  dimostranti, 
persuaso  che  avrebbero  preso  la  strada  di  casa  sua. 

Riunitisi  di  nuovo  piu  tardi,  i  dimostranti  andarono  a  gridare 
sotto  le  finestre  del  palazzo  Riccardi.  Per  un  quarto  d'ora  li  lascia- 
rono  sfogare:  alle  10  furono  suonati  ancora  una  volta  i  tre  squilli  di 
prammatica ;  fu  sequestrata  unabandiera,  una  guardia  di  sicurezza 
ebbe  la  solita  pugnalata  nella  schiena,  e  meno  quel  povero  diavolo, 
tutti  andarono  a  letto  content!  come  pasque  e  convinti  d'aver  reso 
un  grande  servigio  alia  patria  e  alPumanita. 

Le  due  correnti  di  opinione  manifestatesi  allora  con  molta  con- 
vinzione  si  urtavano,  si  cozzavano  ogni  momento ;  con  la  solita  intol- 
leranza  ed  ingiustizia  degli  atti  subitanei  ed  irreflessivi.  Vi  furono 
duelli,  accaddero  alterchi  e  furono  scambiati  pugni  e  bastonate  fra 
prussianofili  e  francofili.  I  prussianofili  rimproveravano  ai  non  po- 
chi  francesi  allora  a  Firenze  di  non  esser  partiti  subito  per  difen- 
dere  la  loro  patria :  ma  nessun  rimprovero  poteva  essere  piu  ingiusto 
perche  la  guerra  scoppio  quando  pareva  ormai  scongiurata,  ed  ap- 
pena  fu  dichiarata  i  francesi  corsero  a  far  ressa  alia  cancelleria  della 
legazione  per  richiedere  il  passaporto,  senza  il  quale  non  si  poteva 
in  quei  giorni  passare  il  confine  per  entrare  in  Francia.  Appena  po- 
tevano  averlo  partivano  per  arruolarsi :  partivano  quasi  tutti,  anche 
uomini  fatti  che  avevano  per  le  mani  aziende  importanti;  per  esem- 
pio  il  signor  Lalouette,  uomo  sulla  cinquantina,  direttore  dell'of- 
ficina  del  gas. 


Vittorio  Emanuele,  partito  per  Valsavaranche  ai  primi  di  luglio, 
quando  tutto  pareva  ormai  accomodato,  torno  a  Firenze  il  17,  due 
giorni  dopo  la  dichiarazione  di  guerra;  sempre  convinto  in  cuor 
suo  che  i  francesi  avrebbero  vinto,  e  sempre  risoluto,  come  egli 
confessava  francamente  piu  tardi,  ad  aiutare  Napoleone  III  quando 
caso  mai  si  fosse  trovato  in  cattive  acque. 

II  Re  passava  la  sera  al  teatro  Principe  Umberto,1  che  preferiva 
agli  altri  potendovi  fumare  a  suo  comodo.  Vi  andava  abitualmente 
con  il  conte  di  Castellengo:  ve  lo  raggiungevano  il  generale  Ber- 
tole-Viale,  il  generale  Maurizio  de  Sonnaz,2  il  generale  Eleonoro 

i .  L/anfiteatro  Principe  Umberto  sorgeva  in  piazza.  D'Azeglio  e  fu  inaugurate 
il  i°  luglio  1869.  Fu  poi  distrutto  da  un  incendio.  2.  II  generale  Ettore 
Bertole-Viale  (1829-1892),  deputato  di  Crescentino,  erastato  ministro  della 


466  UGO  PESCI 

Negri,  il  dottore  Adami,  il  conte  Aghemo  e  qualche  altro.  Vittorio 
Emanuele  aveva  ordinato  die  gli  fossero  portati  al  teatro  i  tele- 
grammi  che  riceveva  direttamente  da  Parigi  dal  conte  Ottavio  Vi- 
mercati.1  Qualche  telegramma  arrivava  ogni  sera:  ed  in  quella  an- 
siosa  aspettativa  di  notizie  molti  speravano  d'indovinarne  il  conte- 
nuto,  studiando  1'effetto  prodotto,  sulle  varie  fisonomie  dei  radu- 
nati  nel  palco,  dalla  lettura  di  quei  telegrammi,  fatta  solitamente 
dal  generale  Bertole-Viale.  Ma  non  si  arrivava  a  saper  nulla,  e 
neanche  il  Re  era  sempre,  per  quel  mezzo,  sollecitamente  informato  : 
tanto  e  vero,  che  ebbe  dal  Sella  la  notizia  della  sconfitta  dei  fran- 
cesi  a  Weissemburg  e  dal  Ministero  degli  esteri  quella  della  scon 
fitta  di  Worth.2 

Dopo  questa  ultima,  il  7  agosto,  Napoleone  III  mando  a  Vit 
torio  Emanuele  un  lungo  telegramma  invocando  i  sentimenti  ca 
valier  eschi  del  Re  d' Italia.  Vittorio  Emanuele  interrog6  i  ministri 
e  fece  interrogare  il  La  Marmora:  gli  uni  e  1'altro  furono  commossi 
dalle  tristi  ma  nobili  e  dignitose  espressioni  di  un  Sovrano  cui 
P Italia  doveva  pur  tanto:  ma,  come  responsabili  degli  atti  del  go- 
verno  e  come  cittadini  italiani,  fecero  riflettere  al  Re  come  1* Ita 
lia,  pur  esponendo  se  stessa  a  gravi  pericoli,  nulla  poteva  ormai 
operare  di  utile  per  la  Francia.  Ed  il  9  agosto  il  governo  italiano 
si  accordava  con  quello  inglese  per  mantenere  una  stretta  neu- 
tralita. 

L'8  agosto  s'era  radunato  il  tribunale  supremo  di  guerra  e  ma 
rina,  presieduto  dal  generale  Giovanni  Durando,3  per  esaminare  il 


guerra  nel  ministero  Menabrea,  dal  1867  al  1869;  Luigi  Maurizio  Gerbaix 
de  Sonnaz  (1816-1892),  gia  combattente  nel  '48-49,  nel  '59  (carica  di  Mon- 
tebello),  nel  '60  (presa  di  Perugia  e  assedio  di  Ancona),  era  stato  nominate 
primo  aiutante  di  campo  del  re  (10  gennaio  1870)  e  tenne  questa  carica 
fine  al  21  gennaio  1872.  i.  Ottaviano  Vimercati  (1815-1879)  aveva  preso 
parte  alle  Cinque  giornate  e  poi  alia  guerra  del  '48-49  come  ufficiale  d'or- 
dinanza  di  Carlo  Alberto.  Visse  lungamente  a  Parigi,  dove,  dopo  la  guerra 
del  '59,  fu  addetto  militare  di  quella  legazione  italiana,  restando  in  carica 
fino  al  1 870.  2.  A  Wissembourg,  il  4  agosto,  i  Francesi  subirono  una  pri- 
ma  sconfitta,  che  apri  al  nemico  la  via  dell'Alsazia ;  la  sconfitta  di  Worth, 
il  6  agosto,  costrinse  il  maresciallo  MacMahon  a  riparare  dietro  la  Mosella, 
abbandonando  la  linea  dei  Vosgi.  3.  Gia  ufficiale  piemontese,  Giovanni 
Durando  (1804-1869)  comando  nel  1848  Tesercito  romano  che  dovette  poi 
capitolare  a  Vicenza.  Rientrato  quindi  al  servizio  della  monarchia  sabauda, 
fu  a  Novara,  in  Crimea  e  a  San  Martino.  Senatore  dal  1860,  presiedette  dal 
1867  il  Tribunale  supremo  di  guerra  e  marina.  Fratello  maggiore  del  gene- 
rale  e  politico  piemontese  Giacomo. 


FIRENZE    CAPITALE   (1865-1870)  467 

ricorso  presentato  dal  caporale  Pietro  Barsanti,  contro  la  sentenza 
del  tribunale  militare  di  Milano,  che  lo  aveva  condannato  alia  fuci- 
lazione  per  il  fatto  deila  caserma  di  San  Francesco  a  Pavia  .  .  . 

Fra  gli  spettatori,  piii  numerosi  del  consueto,  v'era  un  povero 
vecchio  piangente,  che  abbraccio  il  Pierantoni1  quando  ebbe  termi- 
nata  la  sua  difesa,  nella  quale  s'era  particolarmente  rivolto  alia  pieta 
dei  giudici.  Quel  vecchio  era  il  padre  del  caporale  Barsanti. 

II  tribunale  supremo  si  riservo  di  far  nota  la  sua  risoluzione. 
Quattro  o  cinque  giorni  dopo  si  seppe  che  il  ricorso  era  stato  re- 
spinto.  Furono  allora  tentati  tutti  i  modi  per  salvare  quello  sciagu- 
rato.  Si  confido  di  ottenere  dal  Re  la  grazia  della  vita  facendo  sot- 
toscrivere  una  istanza  a  quante  donne  si  commuovevano  all'idea 
del  sangue  da  versare,  dimenticando  quello  innocente  versato  per 
mano  dei  ribelli.  II  governo  credette  di  dovere  essere  inesorabile. 
E  noto  che  la  domanda  di  grazia  firmata  dalle  donne  doveva  essere 
presentata  a  Vittorio  Emanuele  dalla  moglie  del  marchese  Giorgio 
Pallavicino  Trivulzio,2  collare  dell' Annunziata :  e  noto  che  il  Lan 
za,  sconsigliando  la  grazia  per  alte  considerazioni  politiche,  sug- 
geri  al  Re  di  non  ricevere  quella  signora,  venuta  apposta  a  Firenze, 
ed  il  Re  accetto  quel  suggerimento.  II  caporale  Barsanti  fu  fucilato, 
il  26  agosto,  in  un  cortile  del  castello  di  Milano,  dove  era  stato  con- 
dotto  per  il  processo. 

Nulla  awenne  allora  di  straordinario :  soltanto,  dopo  qualche 
tempo,  fu  sfruttato  il  nome  del  disgraziato,  facendolo  segnacolo  in 
vessillo  di  ribellione3  e  di  fellonia. 

Le  notizie  di  Francia  erano  intanto  sempre  peggiori,  e  sempre 
attese  con  ansiosa  curiosita.  A  Firenze,  come  in  tutta  F  Italia,  si  pen- 
sava  ormai  al  miglior  modo  di  profittare  sollecitamente,  ma  anche 
dignitosamente,  delle  vittorie  tedesche  per  il  compimento  delTunita 
nazionale.  Sul  fine  erano  tutti  d'accordo:  su  i  mezzi  non  lo  erano 
neppure  i  ministri.  Gli  spacciatori  di  fandonie  non  avevano  tregua: 
oggi  si  annunziava  che  il  governo  aveva  dato  1'ordinazione  di  cucire 

i.  L'awocato  Pierantoni  era  genero  di  Pasquale  Stanislao  Mancini  (vedi 
la  nota  sap.  501),  e  fu,  in  seguito,  deputato.  2.  moglie .  .  .  Trivulzio: 
Anna  Kopfhiann  (1819-1885),  figlia  del  governatore  austriaco  di  Praga  e 
moglie  del  marchese  Giorgio  Guido  Pallavicino  Trivulzio  (1796-1878),  il 
notissimo  cospiratore  condannato  nei  processi  del  1821,  fu  nobilissima  fi- 
gura  di  donna  del  nostro  Risorgimento.  3.fu  sfruttato . . .  ribellione:  molti 
circoli  repubblicani  e  intemazionalisti  presero  poi  nome  dal  nome  del 
caporale  Barsanti. 


468  UGO    PESCI 

non  so  quante  migliaia  di  camicie  rosse:  domani  un  imbroglione, 
con  il  pretesto  di  arruolarli  volontari  per  una  spedizione  a  Roma,  le- 
vava  dei  quattrini  di  sotto  a  del  giovinotti,  che  poi  lo  bastonavano 
di  santa  ragione. 

Nella  seconda  meta  del  luglio  furono  richiamate  le  classi  del 
1842  e  1843  con  ^e  quali  1'esercito  si  rafforzo  di  circa  60.000  uo- 
mini:  la  mattina  delPn  agosto  fu  affisso  il  manifesto  per  la  chia- 
mata  delle  classi  1844  e  1845,  che  ne  comprendevano  almeno  al- 
trettanti.  La  Camera,  che  s'era  prorogata  per  le  vacanze  estive  il 
31  di  luglio,  cioe  piii  tardi  del  solito,  fu  riconvocata  per  il  17  agosto. 

II  salone  dei  Cinquecento  si  vide  quel  giorno  gremito  di  deputati 
e  di  pubblico :  palazzo  Vecchio  era  attorniato  di  curiosi  come  nelle 
solenni  occasioni.  Ne  piu  solenni  di  quella  ve  ne  potevano  essere 
per  1' Italia  in  generale  e  per  Firenze  in  particolare!  II  20  agosto, 
dopo  una  seduta  tempestosissima,  fu  votato  con  62  voti  di  maggio- 
ranza  un  ordine  del  giorno  nel  quale  si  esprimeva  la  fiducia  «  che  il 
ministero  prowedera  alia  soluzione  della  questione  Romana,  con- 
forme  alle  aspirazioni  del  paese». 


Nella  notte  dal  20  al  21  agosto  arrivo  a  Firenze  il  principe  Na- 
poleone  Girolamo,  accompagnato  dal  colonnello  del  genio  Ragon. 
La  mattina  del  21,  i  ministri  andando  a  palazzo  Pitti  per  la  rela- 
zione  degli  afFari  correnti  e  la  firma  dei  decreti,  seppero  dal  Re 
dell* arrivo  del  principe,  e  di  una  lettera  autografa  scritta  da  Napo- 
leone  III  a  Vittorio  Emanuele,  dal  campo  di  Chalons,  portata  dal 
principe  al  suocero.  II  Re  mostro  ad  alcuni  ministri  quella  lettera, 
nella  quale  Flmperatore,  non  avendo  piu  fede  nella  fortuna  delle 
armi  francesi,  invocava  Tintervento  diplomatico  dell' Italia.  II  prin 
cipe,  dal  canto  suo,  rinnuovo  le  istanze  per  ottenere  dal  suocero  un 
intervento  armato,  ed  insistette  nella  richiesta  anche  con  alcuni 
ministri,  andati  a  salutarlo  il  24  a  palazzo  Pitti. 

Appena  arrivato,  il  principe  non  si  fece  vedere  in  pubblico.  Poi 
usci  qualche  volta  in  carrozza,  in  piccola  tenuta  da  generale,  ac 
compagnato  dal  colonnello  Ragon.  Non  aveva  mai  avuto  aspetto 
marziale,  neppure  quando  undici  anni  prima  era  venuto  a  Firenze 
a  capo  di  un  corpo  d'esercito  di  alleati  e  liberatori,  ed  in  attitudine 
di  aspirante  al  regno  d'Etruria:1  il  vederlo,  nel  1870,  vestito  di  quella 

i.  undid  .  .  .  Etruria:  vedi  p.  428. 


FIRENZE   CAPITALE   (1865-1870)  469 

uniforme  faceva  pensare  soltanto  alia  di  lui  lontananza  dai  campi 
di  battaglia  della  Francia  invasa.  Nulla  poteva  ottenere  e  nulla  ot- 
tenne.  Si  decise  a  partire  soltanto  quando,  arrivata  la  notizia  della 
capitolazione  di  Sedan,1  il  Lanza  fu  costretto  a  fargli  riflettere  la 
poca  convenienza  del  rimanere  piu  a  lungo  in  Italia. 

Intanto  aumentavano  le  impazienze  della  grande  maggioranza 
che  aspettava  una  decisione  del  governo,  riguardo  alia  occupazione 
di  Roma.  Erano  passati  da  Firenze  alcuni  zuavi  pontifici,  diretti  in 
Francia  per  andare  a  combattere  in  difesa  del  loro  paese;  ed  ave- 
vano  sparso,  riguardo  a  Roma,  notizie  fantastiche  e  contradittorie : 
erano  d'accordo  fra  loro  soltanto  nel  dire  che  ai  «  mezzi  morali »  dei 
quali  credevano  di  potersi  servire  alcuni  ministri,  Pio  IX  opponeva 
dei  cannoni,  facendo  barricare  le  porte  della  Citta  Santa. 

Continuava  molto  movimento  di  truppe  e  di  richiamati  alle  ar- 
mi:  partivano  da  Firenze  per  la  frontiera  pontificia  il  21°  battaglione 
bersaglieri  ed  il  reggimento  lancieri  d* Aosta :  ma  intanto  nel  consi- 
glio  dej  ministri,  un  sentimento  di  riguardo  all'Imperatore  tratte- 
neva  ancora  da  decise  risoluzioni,2  e  tre  soli  si  dichiararono  favore- 
voli  al  partito  di  occupare  subito  Roma;  il  Sella,  il  Castagnola  e 
il  Raeli. 

L'aspetto  della  cosa  cambio  da  un  momento  alPaltro,  appena  si 
seppe  proclamata  la  repubblica3  in  Francia.  I  ministri,  riunitisi  di 
nuovo,  deliberarono  alia  unanimita  di  occupare  lo  Stato  pontificio  e 
Roma,  mandandovi  prima  il  conte  Ponza  di  San  Martino4  con  una 
lettera  di  Vittorio  Emanuele  a  Pio  IX.  Si  delibero  altresi  di  richia- 
mare  sotto  le  armi,  oltre  le  classi  gia  richiamate,  la  seconda  catego- 
ria  del  1848,  che  contava  45.000  uomini,  e  che  poi  resto  a  casa  per 
un  contr'ordine  dato  dopo  la  occupazione  di  Roma. 

L'ansiosa  aspettativa  della  popolazione  aumentava:  i  giornali  ed  i 
supplement!  si  vendevano  a  ruba,  sperando  tutti  di  trovarvi  qualche 

i.  La  capitolazione  di  Sedan  awenne  il  2  settembre  1870.  2.  nel  const- 
glio  .  .  .  risoluzioni'.  il  consiglio  dei  ministri,  il  22  agosto,  aveva  deliberate 
che,  «  qualora  avesse  luogo  la  proclamazione  della  repubblica  in  Francia  », 
si  sarebbe  potuta  considerare  caduta  la  Convenzione  di  settembre,  che  non 
era  se  non  « un  patto  bilaterale  con  1'imperatore  Napoleone ».  3 .  proclamata 
la  repubblica :  Fimpero  fu  dichiarato  decaduto  il  4  settembre  e  si  proclamo 
la  terza  repubblica.  4.  II  conte  Gustavo  Ponza  di  San  Martino  (1810-1876), 
deputato  fin  dalla  in  legislatura,  ministro  degli  interni  (col  Cavour)  dal  4 
novembre  1852  al  6  marzo  1854,  nominate  successivamente  senatore,  fu 
commissario  del  re  nel  '59  a  Massa  e  Carrara,  luogotenente  a  Napoli  nel  *6i. 
Awers6  vivamente  la  Convenzione  di  settembre. 


470  UGO  PESCI 

nuova  notizia.  Era  un  continue  domandare :  «  Passano  ?  Sono  pas- 
sati  ? ...»  Si  parlava  di  convocare  un  grande  comizio  popolare  per 
spingere  il  governo  che  pareva  ancora  esitante :  ma  la  partenza  del 
conte  Ponza  di  San  Martino  per  Roma  fece  sospendere  i  preparativi 
della  riunione  popolare. 

II  conte  Ponza  di  San  Martino,  1'antico  capo  della  «  Permanente  »r 
parti  la  sera  dell'8  settembre,  accompagnato  dal  marchese  Ales- 
sandro  Guiccioli,2  segretario  di  legazione.  Lo  salutarono  alia  sta- 
zione  il  prefetto  Montezemolo,  il  questore  Amour,3  e  qualche  altro 
deputato  ed  uomo  politico. 

Non  essendo  piu  sicuro  il  potere  arrivare  a  Napoli  passando  per 
Roma,  e  neppure  il  passaggio  del  confine  romano,  parecchi  si- 
gnori  napoletani  e  romani  che  avevano  passato  Testate  a  Livorno 
o  nell'alta  Italia,  si  fermarono  intanto  a  Firenze  ad  aspettarvi  Tepi- 
logo  dell'epopea  nazionale. 


Sul  mezzogiorno  del  10  settembre,  vicino  al  solito  «Sasso  di 
Dante»  in  piazza  del  Duomo,  fu  affisso  un  proclama  nel  quale  gli 
abitanti  di  Firenze  erano  invitati  a  manifestare,  con  una  piccola  di- 
mostrazione,  il  voto  che  « la  liberazione  di  Roma  fosse  apportatrice 
di  un  awenire  di  liberta  ...»  ecc.  ecc.  Poco  dopo,  un  manifesto 
del  Prefetto,  di  formato  piu  grande  ma  rivolto  agli  stessi  Cittadini! 
come  quelP altro,  li  esortava  alia  calma  piu  che  mai  necessaria  in 
quei  solenni  momenti. 

Si  era  radunata  molta  gente  a  leggere  prima  un  manifesto,  poi 
1'altro ;  quando  sopraggiunse  in  un  fiacre  Francesco  Piccini,4  gran 

i,  « Permanente »:  parecchi  deputati  piemontesi,  dopo  la  Convenzione  di 
settembre,  avevano  costituito  un  gruppo  di  opposizione  (detto  « Associazio- 
ne  permanente  »)  contro  qualunque  ministero  avesse  lasciato  la  capitale  a 
Firenze.  II  loro  motto  era  « Torino  o  Roma  ».  II  gruppo  si  sgretolo  soltan- 
to  sotto  il  ministero  Menabrea.  2.  Alessandro  Guiccioli,  marchese  di  Ca 
del  Bosco,  entrato  nella  camera  diplomatica,  passo  al  ministero  degli  este- 
ri  proprio  nel  1869.  Fu  poi  deputato,  senatore,  sindaco  di  Roma,  prefetto  a 
Firenze,  a  Roma,  a  Torino.  3.  II  marchese  Massimo  Cordero  di  Monte 
zemolo  (1807-1879),  deputato,  senatore  (dal  1850),  collaboro  a  giornali  e 
riviste,  diresse  «I1  subalpino».  Fu  prefetto  di  Bologna,  di  Napoli,  ed  era 
allora  prefetto  di  Firenze;  Amour,  allora  questore  di  Firenze,  mori  nel 
1893  mentre  era  prefetto  di  Bologna.  4.  Francesco  Piccini,  calzolaio,  ar- 
dente  mazziniano,  fu  tra  gli  iniziatori,  insieme  con  Giuseppe  Dolfi  (vedi 
la  nota  3  a  p.  420),  della  «Fratellanza  artigiana  d'Italia»,  sorta  a  Firenze 
nel  dicembre  1860.  Vedi.  E.  CONTI,  op.  cit.,  p.  58  e  passim. 


FIRENZE   CAPITALE   (1865-1870)  471 

maestro  della  Fratellanza  Artigiana,  e  con  poche  parole  persuase 
ognuno  ad  andare  per  i  fatti  suoi,  non  essendo  quello  il  momento  di 
stare  a  gridare  per  le  strade.  A  que'  tempi  v'erano  anche  dei  demo 
cratic!  di  buon  senso!  I  radunati  rimasero  un  po'  titubanti:  ma  poi 
vedendo  passare  due  compagnie  di  soldati,  li  applaudirono  frago- 
rosamente,  li  seguirono  per  qualche  minuto,  indi  se  n'andarono 
ognuno  per  la  sua  strada. 

La  sera,  al  teatro  Principe  Umberto,  la  presenza  di  Vittorio  Ema- 
nuele  suscito  1'entusiasmo  del  pubblico  affollato  ed  ormai  convinto 
che,  se  le  truppe  non  avevano  ancora  passato  il  confine,  lo  avrebbero 
passato  presto.  Durante  lo  spettacolo  fu  fatta  suonare  due  volte  la 
marcia  Reale,  e  due  volte  gli  spettatori,  levatisi  in  piedi,  acclama- 
rono  il  Re  che  si  alzo  ripetutamente  inchinandosi  a  ringraziare. 
Terminato  lo  spettacolo,  la  folia  corse  fuori  ad  acclamare  il  Re 
quando  esciva,  gridando  «Viva  Vittorio  Emanuele  in  Campido- 
glio»,  vi  fu  anche  un  bell'umore  che  grido  «Viva  la  Repubblica 
francese  »  ed  era  probabilmente  uno  di  coloro  che,  un  mese  prima, 
gridavano  a  squarciagola  «Viva  la  Prussia)). 

La  sera  del  12  la  dimostrazione  si  rinnuovo.  Questa  volta  le  truppe 
erano  proprio  passate:  non  per  questo  era  cessata  la  irrequietudine, 
ne  il  desiderio  di  avere  continuamente  notizie:  desiderio  sfruttato 
anche  da  abili  delinquent  che,  fatti  stampare  dei  falsi  «  bollettini » 
con  notizie  immaginarie,  afEggendoli  al  muro  in  alcune  localita  cen- 
trali,  si  divertivano  poi  a  levare  il  portamonete  ed  il  portafogli  di 
tasca  ai  curiosi  che  si  affollavano  a  leggerli ;  fin  quando,  in  via  de* 
Panzani,  uno  dei  derubati  non  ebbe  afferrato  per  il  collo  Tingegnoso 
quanto  mal  cauto  borsaiuolo,  e  la  polizia  non  ebbe  scoperto  il 
trucco. 

II  13  passo  per  Firenze  il  conte  d'Arnim,1  che  il  governo  di  Ber- 
lino  rimandava  sollecitamente  a  Roma  dove  era  mmistro  presso  la 
Santa  Sede:  belPuomo,  alto,  simpatico,  che  non  aveva  punto 
Paspetto  di  una  futura  vittima  del  principe  di  Bismarck.  II  15  arrivo 

i.  Harry  conte  di  Arnim  (1824-1881),  ambasciatore  di  Prussia  e  poi 
(1866)  della  Germania  del  nord,  dal  1864  al  1870,  presso  il  pontefice.  Am 
basciatore  a  Parigi  dal  gennaio  1872,  venne  in  grave  contrasto  col  Bismarck 
per  la  politica  ecclesiastica  e  per  i  tentativi  di  restaurazione  monarchica  in 
Francia:  percio  fu  deposto  dalla  carica,  il  2  aprile  1874.  Accusato  di  aver 
sottratto  documenti  delTambasciata,  fu  processato,  fuggi  alTestero:  pub 
blico  libelli  e  articoli  in  sua  difesa  e  fu  allora  di  nuovo  processato,  come  reo 
di  tradimento,  e  condannato  a  cinque  anni,  in  contumacia. 


472  UGO    PESCI 

il  signer  Senard,1  che  il  governo  repubblicano  francese  mandava  a 
Firenze  in  missione  temporanea. 

La  sera  del  18  —  era  una  domenica  —  all 'arena  Goldoni,  di  la 
d'Arno,  si  sparse,  non  si  sa  come,  la  voce  delPingresso  delle  truppe 
italiane  in  Roma.  II  pubblico  usci  fuori  gridando  festosamente,  e  si 
sparse  per  le  strade  vicine  acclamando  .  .  .  ma  era  troppo  presto,  o, 
come  dicono  i  giornali,  «la  notizia  era  prematura  )>. 

Si  aspetto  invano  qualche  cosa  di  nuovo  tutto  il  giorno  seguente, 
lunedi  19,  e  la  sera  di  quel  giorno  i  fiorentini  andarono  a  letto  di 
cattivo  umore,  come  quei  bambini  ai  quali  non  e  dato  il  regalo  stato 
loro  promesso. 

La  mattina  del  20  si  alzarono  ancora  piu  malcontenti  ed  irre- 
quieti.  Al  Canto  alia  Paglia,  al  quadrivio  del  caffe  di  Parigi,  da 
Santa  Trinita,  sulla  cantonata  di  via  de5  Martelli,  in  piazza  della 
Signoria,  si  radunavano  in  capannelli  persone  che  non  si  erano  mai 
viste  ne  conosciute,  leggendo  e  commentando  i  giornali  della  mat 
tina,  nei  quali  naturalmente  non  v'era  nulla  di  piu  che  in  quelli 
della  sera  precedente,  visto  e  considerato  che,  generalmente,  non 
si  occupano  citta  durante  la  notte. 


Quando  mezzogiorno  fu  suonato  da  pochi  minuti  all'orologio  di 
palazzo  Vecchio,  sbuco  fuori  da  via  Valfonda  verso  il  centro  della 
citta  una  folia  di  strilloni  con  «  Tultimo  supplemento  »  della  «  Gaz- 
zetta  del  popolo»  che  conteneva  in  poche  parole  Pannunzio  del- 
Tingresso  delle  truppe  in  Roma  per  la  porta  Pia  e  per  la  breccia 
aperta  poco  distante,  dopo  quattro  ore  e  mezzo  di  fuoco. 

Subito  tutta  Firenze  si  agita  e  si  muove,  come  Tacqua  d'una 
caldaia  al  momento  di  levare  il  bollore.  Le  strade  si  popolano,  gli 
operai  interrompono  il  lavoro;  le  bandiere  nazionali  appariscono 
atutte  le  finestre.  Dovunque  si  formano  gruppi:  appena  messosi  in 
moto,  ciascuno  dei  gruppi  diventa  una  folia;  e  le  varie  folle  cosi 
formate  se  ne  vanno  su  e  giu  per  le  strade,  senza  una  meta  determi- 
nata,  senza  uno  scopo  preciso,  ma  con  Paramo  riboccante  del  piu 
spontaneo  e  schietto  entusiasmo. 

i.  Jules  Senard  (1800-1885)  era  stato  inviato  a  Firenze,  nella  speranza  che 
le  sue  idee  liberali  e  la  sua  awersione  al  potere  temporale  agevolassero 
la  sua  azione  tendente  ad  ottenere  un  intervento  militare,  o  almeno  diplo- 
matico,  in  favore  della  Francia.  Nonostante  tutto,  la  sua  azione  falli.  Torno 
allora  in  Francia. 


FIRENZE   CAPITALE   (1865-1870)  473 

Piazza  del  Duomo  e  zeppa  di  popolo,  che  grida  «  Viva  il  Re,  Viva 
Roma)) fra  scroscianti  ed  interminabili  applausi.  Una  diecina  di  gio- 
vinotti,  seguiti  da  altri  venti,  da  altri  cento,  corre  li  vicino,  a  casa 
del  campanaio;  lo  portano  di  peso,  come  in  trionfo,  ad  aprire  la 
porticina  del  campanile  di  Giotto,  e  cinque  minuti  dopo  il  suono 
del  campanone  echeggia  rimbombando  festosamente  sulla  citta  giu- 
bilante.  II  campanile  e  invaso  da  ondate  di  gente ;  molte  signore  sal- 
gono  fino  in  cima,  sul  terrazzino.  Gli  stessi  giovinotti  che  hanno 
fatto  aprire  il  campanile  si  arrampicano  sull'antenna,  sfidando  il 
vento  ed  il  giramento  di  capo,  ed  issano  lassu  in  cima  una  bandiera 
nazionale. 

Le  campane  di  molte  chiese,  suonate  dal  popolo  ed  anche  dai 
sagrestani,  rispondono  al  campanone  del  Duorno.  Un  gruppo  di 
giovani,  diretto  a  far  suonar  quelle  di  Santa  Maria  Novella,  incon- 
tra  Quintino  Sella  e  lo  applaude:  ed  egli  pure,  tanto  schivo  d'ap- 
plausi,  risponde  ad  essi  festosamente,  tanta  e  grande  nel  suo  cuore 
la  gioia  di  quel  momento  solenne. 

Nelle  vie  de'  Cerretani,  de'  Tornabuoni,  de'  Rondinelli,  non  si 
puo  andare  ne  indietro  ne  avanti,  tanta  e  la  calca.  Alle  inferriate 
delle  finestre  al  piano  terreno  del  palazzo  Franchetti,  detto  delle 
Cento  iinestre,  stanno  attaccati  i  ragazzi  fitti  come  i  chicchi  d'uva 
in  un  grappolo.  Una  numerosa  frotta  di  dimostranti  viene  da  piazza 
del  Duomo,  diretta  verso  piazza  Santa  Trinita,  applaudita  dal  nu- 
meroso  pubblico  accalcato  sul  largo  marciapiede  del  caffe  di  Parigi. 

Di  la  dal  ponte  Santa  Trinita,  in  piazza  Frescobaldi,  la  dimostra- 
zione  si  ferma  davanti  all'antico  convento  dei  frati  Barbetti,  sede 
del  Ministero  della  manna,  e  strepita  perche  alle  finestre  non  vi  e 
una  bandiera.  Lo  strepito  continua  un  bel  pezzo:  si  ripete  piu 
volte  in  coro,  ma  inutilmente,  il  grido  di  «fuori  la  bandiera  ». 
Qualcuno  indispettito  vorrebbe  tirar  de'  sassi  nelle  finestre;  ma,  li 
per  li,  sassi  fortunatamente  non  se  ne  trovano.  In  mancanza  d'altri 
proiettili  v'e  chi  tira  dei  soldi  contro  le  finestre  del  primo  piano; 
mentre  una  voce  stentorea  domanda  se  la  bandiera  del  Ministero  e 
stata  messa  al  monte  di  pieta.  Si  fa  strada  fra  la  folia  un  giovinotto 
con  una  piccola  bandiera  presa  in  prestito  in  un  negozio  vicino; 
ed  arrampicandosi  sulle  inferriate  e  sugli  ornati  di  pietra,  arriva  al 
primo  piano,  incoraggiato  dagli  applausi,  e  pianta  la  bandiera  fra  le 
stecche  d'una  persiana. 

Arriva  intanto  dal  ponte  Santa  Trinita  il  distaccamento  di  truppa 


474  UGO 

che  va  a  dare  il  cambio  alia  guardia  del  palazzo  reale,  con  la  musica 
e  la  bandiera.  Altre  molte  bandiere  lo  precedono,  compresa  quella 
degli  emigrati  romani,  con  Taquila  trionfatrice  e  la  lupa.  Seguono  i 
soldati  5  o  6000  persone,  e  vanno  per  via  Maggio  verso  piazza 
Pitti. 

La  musica  entra  in  piazza  suonando  la  marcia  reale,  che  appena 
appena  si  arriva  ad  udire  fra  le  acclamazioni  e  gli  ewiva.  Le  ban 
diere  si  vanno  a  mettere  a  destra  ed  a  sinistra  del  portone  principale 
del  palazzo,  in  due  gruppi.  Gli  applausi  e  le  grida  di  ewiva  al  Re 
continuano  per  dieci  buoni  minuti.  Finalmente  gli  staffieri  met- 
tono  un  tappeto  di  velluto  cremisi  sul  davanzale  del  terrazzino  del 
primo  piano,  e  Vittorio  Emanuele  si  affaccia.  fe  vestito  di  nero,  se- 
condo  il  solito,  con  il  goletto  della  camicia  rivoltato  sopra  il  pan- 
ciotto.  Ha  il  cappello  in  mano  e  lo  agita,  salutando  la  folia  plaudente. 
Nella  sua  fisonomia,  sempre  imperturbabile,  traspare  la  commo- 
zione  e  Fintensa  gioia. 

Da  tutte  le  finestre  delle  case  di  piazza  Pitti,  in  un  batter  d'oc- 
chio  adornate  di  tappeti  e  d'arazzi,  le  signore  sventolano  i  fazzoletti 
ed  agitano  centinaia  di  bandierine.  Vittorio  Emanuele,  richiamato 
dagH  applausi,  torna  a  mostrarsi  due,  tre,  quattro  volte,  e  le  grida 
d'ewiva  continuano  quando  egli  e  gia  scomparso  da  un  pezzo. 

In  piazza  della  Signoria  si  applaudono,  si  circondano,  si  abbrac- 
ciano  pochi  bersaglieri  che,  smontata  la  guardia,  tornano  al  loro 
quartiere  del  corso  dei  Tintori  e  quei  bravi  ragazzi  non  sanno  phi 
come  sottrarsi  a  quell'ondata  d'entusiasmo  tirando  avanti  per  la  loro 
strada.  Si  awicina  la  sera  e  pare  che  nessuno  pensi  neppure  al  so 
lito  desinare.  La  folia  va  sempre  aumentando:  le  strade  sono  sti- 
pate.  Migliaia  di  persone  ritornano  in  piazza  Pitti  e  rinnuovano  le 
dimostrazioni  di  affetto  e  di  gratitudine  al  Re,  quando  egli  esce 
dalla  reggia,  verso  le  9,  per  andare  al  teatro  Principe  Umberto, 
sfolgoreggiante  per  la  luce  di  mille  e  mille  fiammelle  a  gas.  Anche 
li  un'altra  folia  acclama  Vittorio  Emanuele  e  lo  fa  alzare  in  piedi 
quattro  volte  di  seguito  per  ringraziare. 

Molte  case  si  illuminano;  il  palazzo  del  Municipio  -  in  piazza 
Santa  Trinita  -  pare  che  abbia  una  facciata  di  fuoco.  Le  bande  per- 
corrono  le  strade  o  suonano  sulle  piazze,  e  non  prima  di  un'ora  o 
due  verso  mezzanotte  ritorna  nella  citta  un  po'  di  calma  e  un  po'  di 
silenzio,  e  si  puo  riflettere  a  tutta  rimportanza  del  grandissimo 
awenimento. 


DA  «I  PRIMI  ANNI  DI  ROMA  CAPITALE  (1870-1878)* 
[PIAZZA  SAN  PIETRO  E  IL  VATICANO]1 

Torse  nessuno  ha  veduto  la  piazza  di  San  Pietro  e  Tester-no  del 
Vaticano  nelle  circostanze  nelle  quali  io  li  vidi  la  prima  volta,  la 
mattina  del  21  settembre  1870. 

La  sera  prima,  dopo  le  n,  incontrato  Edmondo  De  Amicis  nel 
caffe  di  piazza  Colonna  ribattezzato  quel  giorno  con  il  nome  di 
Cavour,  trovata  per  caso  una  botte2  vicino  a  piazza  Venezia,  allon- 
tanandoci  dal  festoso  baccano  delle  vie  principali,  eravamo  andati 
fino  al  Foro  Romano  ed  al  Colosseo,  passando  sotto  il  Campidoglio, 
attoniti  dinanzi  alia  grandiosita  degli  avanzi  di  Roma  antica,  che 
ci  appariva  anche  piu  solenne  nel  silenzio  e  nella  oscurita  della 
notte. 

La  mattina  dopo,  uscito  di  buon'ora  dalPalbergo  d'Europa,  salii 
in  un'altra  botte  in  piazza  di  Spagna  e  dissi  al  bottaro  di  accompa- 
gnarmi  in  piazza  San  Pietro.  II  bottaro  mi  guardo  sorpreso,  e  con- 
vintosi  subito  che  non  ero  romano,  mi  disse  in  pretto  abruzzese: 

—  Signuri . .  .  la  ce  stanno  ancora  li  caccialepril3 

Ma  avendo  io  insistito,  s'awio  per  via  Condotti,  via  Fontanella 
di  Borghese,  via  delPOrso;  passo  davanti  all'antico  albergo  omo- 
nimo,  nel  quale  il  Montaigne4  alloggio  nel  1581,  e  sbocco  di  faccia 
alia  mole  Adriana  lasciandosi  dietro  Pora  scomparso  teatro  Apollo. 
A  ponte  Sant'Angelo,  sulla  riva  sinistra  del  Tevere,  era  di  guardia 
una  compagnia  del  21°  battaglione  bersaglieri  comandata  dal  capi- 
tano  Boyer,5  un  valoroso  ufSciale  piemontese,  col  petto  coperto  di 
medaglie,  che  a  Firenze,  da  dove  era  venuto  il  battaglione,  chiama- 
vano  il  «capitano  Fanfullav.  Egli  aveva  la  consegna  di  non  lasciar 
passare  il  ponte  a  soldati  nostri,  e  di  non  permettere  che  si  awici- 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  i  (//  Vaticano),  pp.  7-11.  2.  botte:  carrozzella  d'affitto 
in  uso  a  Roma,  cosi  detta  dalla  sua  forraa  caratteristica.  3.  caccialepri: 
cosi  il  popolo  chiamava  i  soldati  del  papa.  Nel  dialetto  romano,  «  caccia- 
lepre » e  nome  di  un  uccello  di  rapina.  4.  Michel  de  Montaigne  (1533-1592), 
subito  dopo  la  pubblicazione  del  primo  e  secondo  libro  dei  suoi  Essais 
(1580),  intraprese  un  viaggio  in  cui  visito  anche  Venezia,  Firenze,  Roma  e 
Loreto,  lasciandone  relazione  in  un  celebre  diario.  5.  Andrea  Boyer,  nato 
a  Nizza  nel  1835,  ancora  semplice  soldato  nel  1855,  era  colonnello  nel  1872. 
Combatte  nel  1839  e  nel  1866,  partecip6  alia  presa  di  Roma  nel  1870.  II 
soprannome  (capitano  Fanfulla)  conteneva  una  evidente  allusione  al  noto 
personaggio  del  Niccolo  dey  Lapi  (1841)  di  Massimo  D'Azeglio. 


476  UGO    PESCI 

nassero  alia  riva  sinistra  i  pontifici,  che  si  vedevano  affollati  dietro 
un  cancello,  dall'altra  parte  del  ponte,  all'ingresso  di  castel  Sant'An- 
gelo  allora  forte  e  caserma. 

II  Boyer  voile  dissuadermi  dal  proseguire;  ma  non  Tascoltai. 
M'ero  messo  in  testa  di  vedere  che  cosa  accadeva  nella  cosi  detta 
citta  Leonina:1  almeno  in  apparenza,  ero  un  cittadino  contro  la  cui 
libera  circolazione  non  poteva  esistere  alcuna  consegna,  poiche  altra 
gente  andava  e  veniva  per  il  ponte  da  una  parte  e  dall'altra.  Passai 
davanti  al  cacciatore  estero  di  sentinella  al  castello,  infilai  per  Borgo, 
incontrando  soldati  papalini  di  varie  specie,  e  domestici  in  livrea 
cardinalizia  che  parevano  affrettarsi  alia  ricerca  di  un  rifugio  sicuro. 
Le  botteghe  de'  coronari2  erano  semiaperte,  e  le  cicoriare  offrivano 
la  loro  fresca  ed  umida  mercanzia  alle  donnette  che  uscivano  da 
Santa  Maria  in  Traspontina  affrettando  il  passo. 

Giunto  in  piazza  Rusticucci  mi  si  presento  allo  sguardo  tutta  la 
maesta  della  Basilica  Vaticana  e  del  palazzo  pontificio:  ma  da 
quella  prima  impressione  subito  mi  distrasse  un  altro  spettacolo, 
dawero  non  altrettanto  maestoso,  ma  curioso  e  strano.  Tutt'intorno 
al  porticato  del  Bernini  e  lungo  la  gradinata  di  San  Pietro  erano 
schierati  fra  i  5000  ed  i  6000  uomini  di  varie  truppe,  che  vi  avevano 
bivaccato  durante  la  notte:  una  batteria  da  campagna,  con  gli  avan- 
treni  staccati  ed  i  pezzi  rivolti  contro  la  citta,  stava  davanti  al- 
Tobelisco;  il  reggimento  zuavi  davanti  al  portico  a  sinistra  di  chi 
guarda  verso  la  facciata,  al  di  la  della  fontana. 

Le  truppe  a  piedi  avevano  fatto  i  fasci  d'armi,  presso  i  quali  si 
aggruppavano  disordinate;  un  drappello  di  dragoni  era  appiedato 
con  i  cavalli  alia  mano :  sotto  il  portico  fumavano  qua  e  la  nereg- 
gianti  avanzi  di  legna  bruciate,  servite  per  il  caffe  od  un  primo 
rancio.  Molto  avanti,  verso  piazza  Rusticucci,  erano  riuniti  pa- 
recchi  ufficiali:  altri  gruppi  se  ne  vedevano  qua  e  la  dispersi  nel 
vastissimo  spazio. 

Non  v'era,  oltre  i  soldati,  anima  viva  in  tutta  la  piazza.  II  bottaro, 
punto  incoraggiato  da  quello  spettacolo,  aveva  rallentato  il  trot- 
tarello  della  sua  brenna:  poi  si  fermo  addirittura  col  pretesto  di 
domandarmi  dove  volessi  andare.  Per  non  fare  una  vergognosa  ri- 
tirata,  lo  tenni  li  fermo  a  chiacchiera  per  due  o  tre  minuti,  durante 

i.  citta  Leonina:  cosi  e  chiamata  quella  zona  trasteverina  di  Roma  che 
papa  Leone  IV  (847-855)  cinse  di  mura  e  fortified  contro  gli  assalti  dei 
Saraceni.  2.  coronari:  venditori  di  corone  e  immagini  sacre. 


I    PRIMI   ANNI   DI    ROMA    CAPITALE   (1870-1878)         477 

i  quali  detti  un'occhiata  distratta  alia  facciata  della  basilica,  alia  cu 
pola  di  Michelangelo,  ed  alia  facciata  del  palazzo  che  appare  di 
sghembo  al  di  la  del  portico  del  Bernini :  poi  dissi  al  bottaro  di  tor- 
nare  indietro,  ed  egli  si  affretto  a  voltare,  frustando  con  entusiasmo 
la  povera  bestia  sorpresa  dalPingiustificato  maltrattamento. 

Tornai,  dopo  tre  o  quattro  giorni,  in  piazza  San  Pietro ;  visitai  la 
Basilica  nella  quale  entravano  a  frotte,  e  passeggiavano  riverenti  ed 
a  bocca  aperta  per  lo  stupore  quei  buoni  ragazzi  de'  nostri  soldati : 
girai  di  fuori  intorno  al  palazzo  ed  ai  giardini  come  allora  si  poteva, 
perche  il  quartiere  dei  Prati  era  una  vasta  estensione  di  ortaglie  e 
di  terreni  abbandonati  mal  praticabile.  Visitai  la  Pinacoteca,  le  logge 
di  RafFaello,  i  Musei,  la  Sistina,  entrando  in  Vaticano  con  uno  dei 
tanti  biglietti  rilasciati  in  quei  primi  giorni  dal  maestro  dei  Sacri 
palazzi  apostolici  alle  nostre  autorita  militari,  ed  intestati  al  tenente 
colonnello  Montreal  del  57°  fanteria,  a  cui  non  ho  mai  capito  perche 
fosse  toccato  d'essere  il  gerente  responsabile  di  tutti  i  visitatori  del 
Vaticano. 

Alcun  tempo  dopo  potei  anche  procurarmi  il  permesso  speciale 
necessario  per  visitare  altre  parti  del  palazzo,  vietate  a  chi  e  sem- 
plicemente  munito  di  un  biglietto  ordinario :  entrai  ossequiato  dagli 
svizzeri  di  guardia  alia  porta  di  bronzo,  visitai  i  giardini,  potei 
accompagnarmi  a  comitive  di  pellegrini,  ed  assistere  ad  alcuni  so- 
lenni  ricevimenti  di  Pio  IX  nella  Sala  Ducale. 

Non  ho  mai  verificato  se  esistano  dawero  in  Vaticano  11.000 
stanze ;  non  ho  mai  contato  le  grandi  sale  e  neppure  i  cortili ;  non 
ho  mai  misurato  a  passi  i  piu  lunghi  corridoi  come  fanno  le  belle 
americane  per  verificare  le  indicazioni  delle  «  guide  ».  Ma  il  palazzo, 
o  per  meglio  dire  quelPammasso  di  palazzi,  costruiti  e  sovrapposti 
Puno  alPaltro  in  tempi  tanto  diversi,  mi  ha  sempre  fatto,  riveden- 
dolo,  una  maggiore  impressione  di  grandiosita  e  d'imponenza.  Non 
ho  mai  veduta  la  residenza  del  Dalai  Lama  del  Tibet  -  il  palazzo  di 
Potala1  vicino  a  Lhassa  -  in  fama  d'essere  uno  dei  piu  grandi  edi- 
fizi  del  mondo :  forse  non  Phanno  veduto  neppure  tutti  coloro  che 
hanno  la  pazienza  di  leggere  questo  libro.  Ma  senza  averlo  veduto, 
si  puo  scommettere  che,  se  pur  misurandolo  a  metri  ha  dimension! 
maggiori  del  Vaticano,  non  e  dawero  altrettanto  imponente  e 
grandioso.  Quando  poi  si  pensa  alle  meraviglie  delParte  contenute 

i.  Potala  e  un  monte  del  Tibet,  posto  in  vicinanza  di  Lhasa,  in  cima  al  qua 
le  s'innalza  il  palazzo  ove  risiede  il  Dalai  Lama. 


478  UGO  PESCI 

nella  residenza  del  pontefice  romano;  alPinfinito  popolo  di  statue 
che  vi  tiene  stanza;  ai  sorprendenti  monumenti  di  tutte  le  civilta 
che  vi  hanno  raccolto  varii  pontefici;  al  numero  enorme  di  artisti 
insigni  che  hanno  collaborate  ad  edificarla,  ad  ampliarla,  ad  ornarla 
di  capolavori  unici  al  mondo ;  si  finisce  per  acquistare  la  immuta- 
bile  convinzione  che  tutta  questa  inarrivabile  magnificenza  e  stata 
creata  ed  esiste  in  forza  di  una  idea  veramente  immensa;  di  tale 
immensita  che  sfugge  alle  nostre  piccole  menti  critiche,  e  che 
1'ostentato  disprezzo  di  chi  non  e  arrivato  neppure  a  comprenderne 
la  grande  importanza  storica,  rende  anche  piu  gigantesca . . . 


[PIO  IX  E  IL  CARDINALS  ANTONELLl]1 

Non  mi  propongo  il  riassumere  la  biografia  di  Pio  IX:  e  nem- 
meno  il  discutere  gli  atti  politici  di  lui  dopo  il  1870.  Egli  ne  fu  cer- 
tamente  responsabile  soltanto  in  parte,  perche  circondato  da  per- 
sone  che  lo  informavano  a  modo  loro  di  quanto  accadeva  fuori.  Per 
molto  tempo  dovettero  fargli  credere  prossimo  il  ristabilimento  del 
potere  temporale,  per  opera  di  quella  o  di  questa  potenza  d'Eu- 
ropa.  Le  sue  illusion!  svanirono  una  dopo  Paltra ;  ma  intanto  erano 
passati  gli  anni,  e  scemata  la  possibilita  di  rinunziare  alia  volontaria 
prigionia,  della  quale  era  stato  detto: 

NelVEvangelo  e  scritto: 

Quando  la  turba  il  Cristo  voile  re 

egli  abscondit  se. 

Nel  Vatican  si  legge 

che  Pio,  vicario  suo,  nasconde  se 

quando  non  e  piu  re. 

*  Quando  gli  parlavano  della  Divina  Prowidenza  e  del  prossimo 
trionfo  definitive  del  potere  temporale,  aveva  preso  1'abitudine  di 
rispondere : 

—  Non  fo  il  profeta  ne  Pindovino  .  .  .  Non  vi  so  dire  se  questo 
trionfo  sia  vicino  o  lontano.  Se  dovra  venire,  verra!  Intanto  rasse- 
gnamoci! 

A  lasciar  Roma,  quantunque  si  parlasse  spesso  della  sua  partenza 
come  di  un  fatto  imminente,  e  piu  volte  s'indicasse  la  meta  e 
Titinerario  del  viaggio,  credo  che  veramente  non  pensasse  mai.  Nel 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  I  (//  Vaticano),  pp.  15-22. 


I    PRIMI    ANNI    DI    ROMA    CAPITALS   (1870-1878)         479 

1871  aveva  mandate  a  Tolone  Ylmmacolata  Concezione  -  unico  le- 
gno  della  flotta  pontificia,  lasciato  in  sua  proprieta  -1  per  rimetterla 
in  grado  di  tenere  il  mare  senza  pericolo,  ma  poco  dopo  la  nave  era 
divenuta  di  nuovo  inservibile.  Nell'ottobre  del  1874,  quando  il  go- 
verno  della  repubblica  francese  si  decise  a  richiamare  il  famoso 
Orenoque,2  lasciato  dal  1870  nelle  acque  di  Civitavecchia  a  dispo- 
sizione  del  Papa,  Pio  IX  ebbe  Paria  d'adirarsene;  ma  fu  sdegno 
esclusivamente  ufficiale. 

Con  gli  intimi,  e  con  chiunque  quando  sentiva  il  bisogno  d'uno  di 
quelli  sfoghi  di  sincerita  in  lui  frequentissimi  ed  impulsivi,  parlava 
in  tutt'altro  modo. 

—  Ci  vorrebbero  fare  abbandonare  Roma  —  diceva  il  3  ottobre 
1873  a  circa  3°°  giovani  cattolici  presentatigli  dal  cardinale  Borro- 
meo;  e  soggiungeva  —  Giammai!  —  forse  con  una  velata  ironia  per 
iljamais  del  signer  Rouher.3 

Che  non  si  volesse  muovere  da  Roma  lo  hanno  sempre  ripetuto 
quanti  Fawicinavano.  Monsignor  Pacca  -  che  dopo  la  morte  di 
Pio  IX  fu  dei  piu  caldi  sostenitori  della  proposta  d'andare  a  tenere 
il  conclave  fuori  di  Roma  -  essendo  ancora  maggiordomo  di  Sua 
Santita,  parlando  un  giorno  con  un  prelato,  nel  luglio  del  1872,  e 
credendo  di  non  essere  ascoltato,  esclamava: 

—  Non  capisco  come  quelVuomo  Id  (il  Papa)  si  ostini  a  volere  ri- 
maner  qui  dove  siamo  esposti  ad  umiliazioni  ed  a  pericoli,  costretti 
alia  nostra  eta  a  cambiare  abitudini  ed  a  star  chiusi  qui  dentro! 
Ma  lui  non  si  vuol  muovere! 

Se  Pio  IX  era  inesattamente  informato  di  quanto  accadeva  fuori 
del  Vaticano,  correvano  spesso  sul  di  lui  conto  notizie  che  erano 
tutto  lavoro  di  fantasia.  Non  parliamo  di  quei  giornali  secondo  i 
quali  poca  paglia  serviva  di  giaciglio  al  prigioniero  del  Vaticano. 
Ogni  tanto  qualcuno  Paveva  veduto  uscire  per  andare  a  visitare  le 

i.  VImmacolata  . . .  proprieta:  nella  resa  di  Civitavecchia,  awenuta  il  15  set- 
tembre  1870,  fu  appunto  stabilito  che  tutto  il  materiale  delTesercito  pontifi- 
cio  passasse  all' Italia, « facendo  solo  eccezione  peril  bucintoro  papale Imma- 
colata  Concezione ».  2.  Nell* ottobre  .  .  .  Orenoque:  nell'autunno  del  1874  il 
governo  francese  richiamo  dalle  acque  di  Civitavecchia  la  na.veL'Orenoque3 
lasciata  a  disposizione  del  pontefice  per  il  caso  ch'egli  volesse  abbandonare 
1*  Italia.  La  presenza  della  nave  aveva  dato  luogo  a  lagnanze  e  polemiche 
della  stampa  e  dei  partiti  italiani.  3.  iljamais  .  .  .  Rouher:  si  allude  al  duro 
discorso  pronunziato  dal  ministro  jfrancese  Eugene  Rouher  al  Coipo  le- 
gislativo  francese,  dopo  Mentana,  in  cui  aveva  affermato  che  1' Italia  non 
si  sarebbe  impadronita  di  Roma  jamais. 


480  UGO   PESCI 

scuole  di  San  Salvatore  in  Lauro,  o  vedere  i  restauri  della  chiesa 
del  Santi  Apostoli.  Fino  dai  primi  mesi  del  1871,  di  quando  in 
quando  lo  dicevano  gravemente  ammalato,  mentre  le  condizioni 
della  sua  salute  potevano  dirsi  eccellenti,  pensando  che  compi  Tot- 
tantesimo  anno  il  7  agosto  del  1872.  D'estate  qualche  volta  non  sta- 
va  bene :  soffriva  disturbi  gastrici  e  dolori  alle  gambe,  le  quali,  negli 
ultimi  anni  di  vita,  gli  si  gonfiarono  procurandogli  non  lievi  sof- 
ferenze.  I  medici  avrebbero  voluto  mandarlo  a  passare  i  mesi  piu 
caldi  a  Castel  Gandolfo,  ma  egli  assolutamente  non  voile,  e  quando 
aveva  detto  una  cosa  non  era  facile  per  nessuno  il  fargli  cambiar  pa- 
rere.  Alia  rinfrescata  si  rimetteva  presto  in  salute;  tanto  da  salire 
senza  bisogno  d'aiuto,  dopo  la  passeggiata  nei  giardini,  i  due  capi 
di  scale  che  portavano  al  suo  quartiere.  Un  giorno,  arrivato  in  cima 
al  secondo  ramo,  si  volto  verso  i  sediari  saliti  con  la  portantina 
vuota,  e  disse  loro  col  suo  fine  sorriso  ironico :  —  Ci  avete  fatto 
una  bella  figura! 

Perche  non  si  dice  nulla  di  nuovo  ne  di  irriverente  ricordando 
che  sul  trono  pontificio  Pio  IX  aveva  conservato  spirito  sottilmente 
ironico  ed  anche  pungente,  sempre  pronto  a  vivace  ed  appropriata 
risposta,  anche  nei  piu  solenni  momenti.  Testimoni  autorevoli 
hanno  affermato  che  quando,  appena  eletto,  il  Cardinale  decano  gli 
rammento,  secondo  il  rito,  che  non  sarebbe  vissuto  papa  per  piu  di 
venticinque  anni  —  Non  videbis  annos  Petri  —  egli  non  pote" 
trattenersi  dal  rispondergli  subito :  —  Hoc  non  est  fidei  —  questo 
non  e  dogma  di  fede.  Era  in  lui  vivo  il  desiderio  di  piacere,  di  fare 
buona  impressione  sui  numerosi  fedeli  ammessi  a  visitarlo :  si  com- 
piaceva  di  vedersi  fatto  oggetto  di  profondo  ossequio  e  di  evidenti 
dimostrazioni  di  affettuoso  rispetto.  Buonissimo  e  generoso,  era  nei 
tempo  stesso  d'indole  subitanea:  non  nascondeva  il  risentimento, 
ma  era  incapace  di  serbarlo. 

A  prova  di  cio  si  potrebbero  citare  infiniti  aneddoti,  molti  de' 
quali  noti,  altri  ignoti  o  dimenticati;  e  mi  verra  fatto  di  narrarne  piu 
d'uno  parlando  delle  abitudini  di  Pio  IX,  e  del  suo  modo  non  uffi- 
ciale  di  pensare  intorno  alle  cose  accadute  in  Roma  dopo  il  1870. 
Chiunque  altro,  al  suo  posto,  non  avrebbe  fatto  buon  viso  a  coloro 
che  dovevano  parergli  usurpatori  dei  diritti  della  Chiesa  e  del  pon 
tificate,  anche  se  gli  fosse  stata  lasciata  piena  ed  intiera  liberta  d'agi- 
re  a  suo  modo;  ma  la  difesa  delle  proprie  ragioni  non  lo  faceva  es- 
sere  sempre  ingiusto  nei  suoi  giudizi. 


I    PRIMI   ANNI    DI   ROMA    CAPITALS    (1870-1878)         481 

Non  meno  meritevoli  di  studio  erano  le  relazioni  fra  Pio  IX  ed  ii 
personaggio  piu  importante  dopo  di  lui  in  Vaticano,  il  cardinale 
Giacomo  Antonelli1  segretario  di  State  e  maestro  dei  Sacri  palazzi 
apostolici.  L'Antonelli  aveva  diretto  la  politica  della  Santa  Sede 
dal  ritorno  da  Gaeta2  fino  al  settembre  1870,  per  venti  anni,  e  sa- 
rebbe  ardua  impresa  lo  stabilire  quanta  parte  di  responsabilita  negli 
errori  politici  commessi  durante  quel  tempo  spetti  al  sovrano  tem- 
porale  od  al  suo  ministro.  Certo  e  che  quelli  dell' Antonelli  -  fra 
gli  altri  Pessersi  opposto  fino  alPultimo  momento  a  che  Francesco  II 
dasse  una  costituzione  ai  suoi  popoli;  e  Paver  respinto  le  pratiche 
del  conte  Daru  e  del  duca  di  Grammont3  perche  il  Concilio  del 
1870  non  fosse  chiamato  a  convertire  in  articoli  di  fede  le  dottrine4 
riguardanti  incontestabilmente  Pordine  politico  -  hanno  fatto  mol- 
to  piu  bene  che  male  all' Italia. 

L'orientamento  politico  delPAntonelli  -  per  dire  come  ora  di- 
cono  -  fu  sempre  verso  la  Francia,  e  dal  suo  punto  di  vista  ebbe 
pienamente  ragione,  tanto  e  vero  che,  dopo  il  20  settembre,  riusci 
ad  ottenere  dal  signor  Favre  e  dagli  altri  repubblicani5  quanto  non 
avrebbe  ottenuto  da  Napoleone  III;  per  esempio,  far  mandare  in 
permesso  il  de  Choiseul,  ministro  a  Firenze,  alia  vigilia  dell'ingresso 
ufficiale  di  Vittorio  Emanuele  in  Roma;6  fare  arrivare  qui  Pincari- 
cato  d'affari  signor  Villestreux  sette  giorni  dopo  il  Re ;  ed  insistere 


i.  Giacomo  Antonelli  (1806-1876)  dal  1848  fino  alia  morte  fu  segretario  di 
Stato  di  Pio  IX.  2.  ritorno  da  Gaeta:  caduta  la  Repubblica  e  occupata 
Roma  dai  Francesi  (4  luglio  1849),  Pio  IX  era  tomato  da  Gaeta  a  Roma 
il  12  aprile  1850.  3.  II  conte  Napoleon  Daru  (1807-1890)  tenne  per  breve 
tempo  il  portafoglio  degli  esteri  nel  ministero  Ollivier  (vedi  la  nota  i  a  p. 
455)>  dal  2  gennaio  al  13  aprile  1870.  Gli  successe  il  15  maggio  il  duca  di 
Gramont  (1819-1880),  che  tenne  il  portafoglio  degli  esteri  fino  al  10  agosto, 
nell'ultimo  gabinetto  Ollivier.  4.  il  Concilio  .  . .  dottrine:  la  proclamazio- 
ne  del  dogma  dell'infallibilita  (per  cui  cfr.  la  nota  3  a  p.  458)  provoco  pri- 
ma  e  dopo  il  Concilio  vaticano  del  1869-70  lunghe  e  aspre  polemiche. 

5.  Jules  Favre  (1809-1880),  ministro  degli  esteri  della  Repubblica  francese 
(4  settembre  1870  -  22  luglio  1871),  pur  awerso  al  pot  ere  temporale,  so- 
stenne  allora  il  pontefice,  con  grande  irritazione  di  quegli  italiani  che  ave- 
vano  visto  solo  in  Napoleone,  e  non  nella  Francia,  Postacolo  alia  soluzione 
della  questione  romana.  II  Favre  espose  la  sua  politica  nel  volume  Rome  et 
la  Republique  franpaise,  Paris,  Plon,  1871.  Con  1'espressione  altri  repubblicani 
il  Pesci  allude  soprattutto  ad  Adolphe  Thiers,  che,  divenuto  primo  presiden- 
te  della  Repubblica  francese,  ne  guido  la  politica  fino  al  24  maggio  1873. 

6.  ingresso  .  .  .  Roma:  Vittorio  Emanuele  entrd  ufficialmente  a  Roma  il  2 
luglio  1871.  Ma,  privatamente,  era  gia  stato  nella  capitale  il  31  dicembre 
1870  e  vi  aveva  soccorso  i  danneggiati  dalla  piena  del  Tevere. 


482  UGO   PESCI 

perche  P  Austria  ordinasse  altrettanto  al  suo  rappresentante,  non 
avendone  voglia. 

Per  i  servigi  resi,  per  Pautorita  acquistata,  PAntonelli  conserve 
la  sua  onnipotenza  anche  quando  rimase  ministro  in  partibus:1  ci6 
non  ostante  egli  conservo  sempre  di  fronte  a  Pio  IX  una  attitudine 
di  forse  apparente  ma  costante  abnegazione,  e  confessava  di  non 
presentarsi  mai  al  Pontefice  senza  una  qualche  apprensione. 

Pio  IX  dal  canto  suo,  quantunque  PAntonelli  avesse  molti  nemici 
e  non  mancasse  a  talun  cardinale,  di  fama  illibata,  il  coraggio  di 
lamentarsi  col  Papa  di  gravezze  imposte  alle  popolazioni,  volute 
dalPAntonelli  per  arricchire  la  sua  famiglia  e  la  sua  clientela,  non 
mosse  mai  alcun  rimprovero  al  Segretario  di  Stato.  Fra  quanti  da 
molto  tempo  avevano  occupato  Paltissimo  ufficio,  Giacomo  Anto- 
nelli  era  senza  dubbio  il  meno  erudito,  il  meno  ecclesiastico.  Ar- 
ricchi  se  stesso  ed  i  suoi  fratelli,  Filippo,  Angelo  e  Luigi,  li  fece 
creare  conti,  ed  al  primo  ottenne  il  privilegio  della  Banca  Romana ; 
privilegio  nel  quale  vanno  ricercate  le  prime  origini  degli  imbrogli 
che  ebbero  il  loro  epilogo  nel  i893.2  Ma  i  suoi  difensori  dicono  che 
parecchi  predecessori  delPAntonelli  lasciarono  il  segretariato  di 
Stato  molto  piu  ricchi  di  lui,  dopo  essere  stati  in  carica  per  un  tempo 
piu  breve. 

Affabilissimo,  particolarmente  con  le  signore,  con  le  quali  sapeva 
parlare  di  argomenti  mondani,  ed  anche  di  abbigliamenti ;  cortese 
ed  insinuante  con  tutti;  dotato  abbondantemente  di  quel  saper  fare 
che  acquistano  facilmente  i  nativi  della  Ciodaria  appena  infarinati 
d'un  po*  d'educazione,  con  la  buona  grazia  si  faceva  perdonare  dai 
diplomatici  Porribile  francese  nel  quale  rivolgeva  loro  il  discorso. 

In  Vaticano  non  ebbe  amici  fedeli :  erano  suoi  famigliari  assidui 
il  dottor  Belli  -  fratello  di  Giovacchino,  Pautore  dei  celebri  sonetti 
in  dialetto  romanesco  -  amante  di  anticaglie  e  raccoglitore  di  marmi 
preziosi;  e  Pex  gesuita  Tessieri,  numismatico  e  dilettante  di  fisica  e 
di  meccanica.  Suo  segretario  private  era  Paw.  Aguglia.  Del  Belli 


i.  quando  .  .  .partibus:  cioe,  dopo  Toccupazione  di  Roma.  2.  imbrogli  . .  . 
nel  1893:  la  Banca  romana,  gia  Banca  dello  Stato  pontificio  (1850-1870), 
che  era  uno  degli  istituti  di  emissione,  dopo  aver  inondato  il  mercato  di 
carta  moneta,  giunse  al  fallimento.  La  vicenda  provoco  accuse  al  ministero 
di  corruzione  e  di  indulgenza,  e  ne  derive  un'inchiesta,  che  fece  molto  ru- 
more  e  danno  a  vari  uomini  politici.  Vedi  G.  GIOLITTI,  Memorie  della  mia 
vita,  Milano,  Treves,  1922,  i,  capp.  iv  e  v,  pp.  61  e  199. 


I    PRIMI    ANNI    DI    ROMA    CAPITALS    (1870-1878)         483 

si  serviva  particolarmente  come  cTintermediario  per  aumentare  la 
raccolta  pregevolissima  di  marmi  rari  e  pietre  preziose,  per  la  quale 
era  appassionatissimo,  e  che,  lui  morto,  e  andata  probabilmente 
dispersa. 

Non  fu  un  grande  politico,  mancandogli  la  larghezza  di  vedute 
che  si  acquista  con  una  particolare  istruzione  ed  esperienza  di  fac- 
cende  di  Stato:  ebbe  pero  molta  potenza  assimilatrice,  tempera- 
mento  di  scettico,  ed  altre  doti  che,  se  non  bastano  a  fare  un  uomo 
di  Stato,  giovano  a  formare  un  ministro  accorto.  Quantunque  Pio  IX 
avesse  dato  a  lui  ed  ai  fratelli  il  titolo  comitale,  il  figlio  di  Domenico 
Antonelli  e  Loreta  Moriconi,  agricoltori  di  Sonnino,  aveva  una 
istintiva  awersione  per  Paristocrazia,  ed  il  suo  ideale  politico  era  la 
costituzione  d'uno  Stato  nel  quale  la  grassa  borghesia  avesse  molta 
potenza  e  grandi  ricchezze;  contrario  ad  ogni  nuovita  politica, 
ma  disposto  a  favorire  quelle  tenderize  che  miravano  ad  aumentare 
il  benessere  materiale.  Nel  1852,  contro  il  parere  degli  altri  con- 
siglieri  del  Papa,  voile  che  negli  Stati  pontifici  fossero  costruite 
strade  ferrate,  affidandone  la  costruzione  al  banchiere  Salamanca. 

Fu  sempre  contrario  a  chi  consigliava  Pio  IX  a  lasciare  il  Vati- 
cano  e  Roma,  alia  quale  in  troppi  modi  si  sentiva  legato.  La  sua 
politica,  dopo  il  1870,  si  riassumeva  in  due  parole:  protestare1  ed 
aspettare.  Lo  disse  egli  stesso  a  Ruggero  Bonghi,2  che  conosciutolo 
la  prima  volta  quando  venne  a  Roma,  nel  1848,  segretario  di  am- 
basciata  della  Lega  Italiana,  aveva  poi  avuto  occasione  di  essere 
ricevuto  nuovamente  da  lui  nel  1869;  e  mandato  nel  1870  dal  mi 
nistro  Correnti3  a  visitare  le  biblioteche  di  Roma,  credette  suo  do- 
vere  di  andare  ad  ossequiarlo.  Fu  subito  ricevuto,  ed  il  discorso 
cadde  naturalmente  sulla  condizione  di  cose  creata  pochi  giorni 
prima  dalFingresso  delle  truppe  italiane  in  Roma.  LJ  Antonelli  af- 

i. protestare:  dopo  1'occupazione  di  Roma,  una  notevole  protesta,  diretta 
dall' Antonelli  alle  potenze  amiche,  fu  innalzata  il  2  gennaio  1871,  ma  ne 
seguirono  moltissime.  2.  Ruggero  Bonghi  (1826-1895)  nel  1848  accompa- 
gno  a  Roma,  come  segretario,  la  legazione  straordinaria  che  doveva  recarsi 
an  che  a  Firenze  e  a  Torino  per  prendere  accordi  per  la  lega  italiana:  ma  Pen- 
ciclica  di  Pio  IX  del  29  aprile  fece  crollare  ogni  speranza.  Esule  da  Napoli 
dopo  il  15  maggio  1848,  vi  torno  immediatamente  prima  del  crollo  dei 
Borboni  e  favori  Tannessione  delle  Due  Sicilie  al  Piemonte.  Professore  di 
letteratura  greca  a  Torino,  di  letteratura  latina  a  Firenze,  di  storia  antica 
a  Milano  e  poi  a  Roma.  Deputato,  ministro  della  pubblica  istruzione  dal 
1874  al  1876.  Fondo  a  Torino  «La  Stampa»;  diresse  dal  1866  «La  Per- 
severanza».  3.  Cesare  Correnti  (cfr.  la  nota  4  a  p.  302)  era  allora  (1869- 
1 872)  ministro  della  pubblica  istruzione. 


484  UGO    PESCI 

fermo  la  necessita  che  il  Papa  non  uscisse  dal  Vaticano,  perche 
Tuscire  sarebbe  stato  un  riconoscere  e  sancire  quanto  era  stato 
fatto  contro  di  lui.  Da  parte  del  Papa  -  egli  diceva  -  bisognava 
mantenere  il  diritto  intatto  ed  incolume,  perche  la  di  lui  forza  sta 
in  quel  diritto.  Spiego  perche,  allora,  secondo  il  Vaticano,  i  cattolici 
non  dovevano  andare  alle  urne.1  Ed  al  Bonghi,  che  accennava  alia 
possibilita  di  trattative  fra  il  Pontefice  ed  il  Governo  italiano,  ri- 
spondeva : 

—  Ma  che  trattative,  mio  caro  signore!  Con  chi  si  tratta  quando 
si  tratta  col  Governo  italiano  ?  Prima  che  la  trattativa  sia  intavolata, 
il  Governo  e  belPe  cambiato!  E  poi,  come  si  puo  avere  piu  fede  negli 
uni  che  negli  altri? 

E  concluse  dicendo: 

—  Non  vi  e  che  una  risoluzione  possibile :  protestare  ed  aspettare! 
£  quanto  egli  f ece  ed  hanno  fatto  finora  i  suoi  successor! ;  quan- 

tunque  dal  1870  molte  cose  siano  cambiate. 


[PELLEGRINAGGI,  RICEVIMENTI,  L'UNIVERSITA  PONTIFICIA, 
L'ARCADIA]2 

I  ricevimenti  solenni  di  numerosi  pellegrini  stranieri  ed  italiani 
ricominciarono  presto  in  Vaticano,  dopo  il  settembre  1870.  A 
Pio  IX  piaceva  ricevere  gli  omaggi  dej  fedeli,  ed  apparire  loro,  sor- 
ridente,  circondato  dalla  pompa  della  sua  corte,  quantunque  con- 
tradicesse  in  tal  modo  le  favole  intorno  alia  di  lui  prigionia  messe 
in  giro  dagli  ultramontani.  Roseo  nel  volto,  con  il  capo  coperto  da 
uno  zucchetto  di  raso  leggero  e  candido  come  la  neve  -  lo  metteva 
nuovo  ogni  giorno  -  con  1'abito  candidissimo,  compariva  fra  le 
guardie  nobili  ed  i  prelati  domestici,  con  dignitosa  afTabilita  che 
inteneriva  molti  fino  alle  lacrime,  alzando,  in  atto  di  benedizione, 
la  mano  piccola,  morbida,  e  ben  tenuta.  Guai  pero  a  chi,  pur  in- 
volontariamente,  non  dimostrava  il  rispetto  dovuto  alia  sua  qualita 
di  capo  della  Chiesa  cattolica! 

Un  giovane  inglese,  un  tale  signor  Newton,  veniva  volentieri  a 


i .  perche  .  .  .  urne:  nel  1874  la  Chiesa  stabili  il  non  expedit,  con  cui  si  vietava 
ai  cattolici  di  partecipare  alle  lotte  elettorali  e  parlamentari.  Don  Margotti, 
direttore  delP«  Unita  cattolica »,  conio  la  formula  «  ne  eletti  ne  elettori »,  che 
ebbe  Papprovazione  di  Pio  IX.  2.  Ed.  cit.,  dal  cap.  I  (//  Vaticano),  pp.  43-5 1 . 


I    PRIMI   ANNI   DI    ROMA   CAPITALE   (1870-1878)         485 

passare  I'inverno  a  Roma,  dove  per  riunire  Futile  al  dilettevole,  es- 
sendo  modestamente  prowisto,  si  valeva  della  pratica  acquistata 
della  citta,  per  condurre  in  giro  giovanetti  di  ricche  famiglie  de'  ' 
suoi  connazionali.  Una  sera  del  1876,  o  '77,  in  casa  di  comuni  ami- 
ci,  arrive  il  signor  Newton  tutto  mortificato.  Che  cosa  gli  era  acca- 
duto?  Andato  ad  accompagnar  i  giovani  afEdatigli  ad  un  ricevi- 
mento  in  Vaticano,  aveva  creduto  che  la  sua  qualita  di  accompagna- 
tore  non  lo  obbligasse  a  prender  parte  ad  alcuna  dimostrazione  d'os- 
sequio,  ed  anglicano  convinto,  era  rimasto  discretamente  sulla  so- 
glia  d'una  porta,  in  piedi  mentre  tutti  gli  altri  s'inginocchiavano. 
Non  Pavesse  mai  fatto!  Pio  IX,  agli  occhi  del  quale  milk  sfuggiva, 
appena  vedutolo,  traversata  la  sala  fra  la  folia  dei  gemiflessi,  s'era 
awiato  verso  di  lui,  seguito  dai  famigliari  sorpresi,  intimandogli  di 
inginocchiarsi. 

Nel  gennaio  del  1871  venne  a  Roma  un  pellegrinaggio  belga; 
ed  in  quell'inverno  anche  una  deputazione  cattolica  inglese  della 
quale  facevano  parte  alcuni  signori  della  prima  nobilta:  il  duca  di 
Norfolk1  allora  appena  ventiquattrenne,  un  Arundel,  un  Douglas, 
un  Denbigh,  un  Kerry,  un  Campbell .  .  .  e  siccome  non  si  e  signori 
inglesi  per  nulla,  andarono  subito  ad  un  meet*  della  caccia  alia  volpe, 
e  vi  incontrarono  il  principe  di  Piemonte.  Come  si  potrebbe  dire 
particolarmente  di  tutti  i  pellegrinaggi  venuti  a  Roma  in  sette  anni, 
anche  senza  contare  quelli  per  PAnno  Santo  e  per  il  Giubileo  epi- 
scopale  del  Papa?  Chi  puo  mai  sapere  quanti  milioni  portarono 
i  pellegrini  in  quelli  anni? 

Nel  maggio  1874  un  numeroso  pellegrinaggio  francese,  che  con- 
tava  nelle  sue  file  anche  alcuni  vescovi,  assisteva  al  concistoro  nel 
quale  furono  creati  cardinali  monsignor  Donnet  e  monsignor  Re- 
gnier,  ed  offri  al  Papa  254  mila  franchi,  -  oltre  150  mila  mandati 
dalParcivescovo  di  Parigi-dopo  avergli  letto  un  indirizzo  nel 
quale  era  detto  che  «la  salute  della  Francia  e  nel  trionfo  della 
Chiesa». 

Nel  giugno  ebbe  psrticolari  accoglienze  un  gruppo  di  Irlandesi 
dj America,  sbarcato  a  Civitavecchia  il  giorno  dello  Statute,  con  14 


i.  Henry  Fitzalan  Howard,  duca  di  Norfolk  (1847-1917).  Su  quest!  pelle 
grinaggi  e  sui  rapporti  fra  Stato  e  Vaticano,  vedi  Sidle  soglie  del  Vaticano. 
Dalle  memorie  di  GIUSEPPE  MANFRONI,  a  cura  del  figlio  Camillo,  volume  I 
(1870-1878),  Bologna,  Zanichelli,  1920.  2.  meet:  appuntamento,  convegno 
di  caccia. 


486  UGO   PESCI 

signore  ed  un  vescovo.  Dicono  che,  vedendo  il  Vaticano,  qualcuno 
di  essi  non  si  potesse  trattenere  dalTesclamare  americanamente :  / 
'  say  what  jolly  prison!1  Presentarono  danari  e  doni  preziosi  -  un 
vescovo  della  Nuova  Zelanda  aveva  mandato  in  quei  giorni  480.000 
franchi  -  ed  il  cardinale  Borromeo  li  invito  ad  un  ricevimento  nel 
palazzo  Altieri  dove  abitava,  facendoli  trovare  insieme  a  molti  si- 
gnori  dell'aristocrazia  papalina. 

Nell'anno  1875  i  ricevimenti  si  succedettero  piu  frequenti  e  piu 
numerosi  in  occasione  deH'Anno  Santo.  II  i°  gennaio  Pio  IX  aveva 
ordinato  speciali  preghiere  al  mondo  cattolico:  il  giorno  dell'Epi- 
fania,  alle  colonne  del  palazzo  abitato  dal  cardinale  vicario  (allora 
Costantino  Patrizi)  era  stato  affisso  il  manifesto  col  quale  si  bandiva 
il  Giubileo,  awertendo  che  esso  non  si  sarebbe  potuto  «  adempiere 
nelle  esterne  sue  forme ».  Lo  stesso  giorno,  il  conte  Acquaderni  di 
Bologna  presentava  a  Pio  IX  una  rappresentanza  della  «  Gioventu 
cattolica  »3  composta  di  giovani  di  tutte  le  citta  d'ltalia,  con  I'offerta 
di  100.000  lire,  ed  il  Papa  benediva  1'Italia  cattolica;  poi,  quasi  ri- 
prendendosi,  estendeva  la  benedizione  a  tutti  gli  Italiani,  partico- 
larmente  ai  traviati «  perche  si  convertano  ».  II  5  maggio  dello  stesso 
anno  erano  ricevuti  numerosi  pellegrini  francesi  condotti  dal 
visconte  di  Damas,  che  non  capirono  molto  del  discorso  rivolto  loro 
dal  Papa  in  italiano  -  agli  Irlandesi  aveva  parlato  in  francese  facen- 
dosi  capire  anche  meno.  Pochi  giorni  dopo,  per  1*83°  anniversario 
della  sua  nascita,3  numerosi  cardinal!  e  prelati  si  awiavano  con  i 
loro  carrozzoni  alPingresso  dei  giardini  Vaticani,  mentre  al  portone 
principale  sotto  il  portico  del  Bernini,  si  affollavano  preti  e  frati, 
signori  romani,  una  ventina  di  ciociare  nel  loro  costume  originale, 
un  pellegrinaggio  tedesco  guidato  dal  barone  Loe,  una  delega- 
zione  di  contadini  del  Belgio,  portando  indirizzi  ed  offerte.  Nel 
luglio,  Pio  IX  ricevette  700  donne  affiliate  alia  Pia  unione  delle 
donne  cattoliche  condotte  dalla  marchesa  Antici  Mattei;  e  1'Anno 
Santo  termino  con  un  solenne  ricevimento  di  tutti  i  cardinal!  e  pre 
lati  delle  sacre  congregazioni  ecclesiastiche,  e  di  tutte  le  autorita 
pontificie:  poich6  erano  rimasti  in  carica  non  il  solo  segretario  di 
stato,  ma  anche  tutti  gli  altri  ministri  -  eccetto  monsignor  Negroni, 

i.  «Dico:  che  bella  prigione!»  2.  La  Societa  della  « Gioventu  cattolica », 
ideata  da  Mario  Fani  Giotti  nel  marzo  1866,  appro vata  da  Pio  IX  il  2 
maggio  1868,  ebbe  a  suo  primo  presidente  il  conte  dottor  Giovanni  Ac 
quaderni  di  Bologna.  3.  ¥83°  . .  .  nascita:  Giovanni  Maria  Mastai  Ferretti 
(Pio  IX)  era  nato  a  Senigallia  il  13  maggio  1792. 


I    PRIMI   ANNI   DI   ROMA   CAPITALE    (1870-1878)         487 

dimessosi  da  ministro  delFinterno  per  entrare  nella  Compagnia  di 
Gesu  -  la  consulta  di  fmanze,  il  consiglio  di  stato,  il  tribunale  di 
Ruota,  il  tribunale  civile  e  perfino  il  senatore1  di  Roma,  marchese 
Francesco  Cavalletti  Belloni. 


In  ventisei  secoli  i  Romani,  stati  present!  a  tanti  awenimenti, 
hanno  preso  1'abitudine  di  non  rneravigliarsi  di  nulla,  ed  il  Gran 
Mogol  potrebbe  passeggiare  nelle  strade  piu  popolari,  in  tutto  lo 
sfoggio  della  sua  pompa  orientale,  senza  destarvi  grande  curiosita. 
Per  conseguenza  tra  i  Romani  non  ne  destavano  alcuna  i  piu  ori- 
ginali  preti  spagnuoli  accompagnati  da  contadini  della  Biscaglia; 
ne  i  pellegrini  Canadesi,  ne  i  Dalmati,  ne  i  Croati,  ne  i  Portoghesi 
d'ogni  provincia,  ne  i  Bretoni,  accorsi  a  Roma  per  1'Anno  Santo, 
o  per  il  Giubileo  sacerdotale  di  Pio  IX,  o  per  il  suo  Giubileo  epi- 
scopale.2  Per  i  nuovi  arrivati,  e  non  ancora  acclimati  al  cosmopoli- 
tismo  romano,  era  ben  altra  faccenda.  Quando  incominciava  un  po' 
di  movimento  intorno  al  Vaticano,  specie  in  quei  primi  anni,  non 
potevano  trattenersi  dalPandare  a  vedere  la  berlina  di  gala  del 
principe  Massimo,  i  soliti  carrozzoni  cardinalizi  e  prelatizi,  i  soliti 
addetti  alia  corte  pontificia  od  ex  impiegati  del  Papa  che,  terminate 
il  ricevimento  o  la  cerimonia,  sul  portone  di  bronzo,  aspettando 
una  botte  che  li  riportasse  a  casa,  raccoglievano  nel  fazzoletto  le 
cornrnende  di  San  Gregorio  Magno,  delFordine  Piano,  e  d'altri 
ordini  equestri  pontifici.  Per  il  Giubileo  episcopale,  cioe  per  il 
50°  anniversario  della  consacrazione  di  Pio  IX  come  vescovo  di 
Spoleto,  che  ricorreva  alia  fine  di  maggio  del  '77,  la  curiosita  fu 
grandissima,  ed  acuita  dalla  coincidenza  con  la  festa  dello  Statuto. 
Ricevimenti  al  Quirinale  ed  al  Vaticano,  rivista  al  Macao  e  funzioni 
religiose  a  San  Pietro  in  Vincoli  si  dividevano  Tattenzione  del  pub- 
blico,  che  accorreva  nei  giorni  seguenti  a  visitare  1'esposizione  dei 
doni  fatti  al  Papa  in  quell' occasione  dai  cattolici  di  tutto  il  mondo 
e  dai  sovrani  anche  non  cattolici,  inaugurata  in  Vaticano  il  21  di 
maggio.  La  sola  regina  Vittoria  d'Inghilterra  aveva  mandate  cinque 
grandi  casse  di  roba.  La  ricchezza  e  la  quantita  delle  cose  esposte 
era  dawero  meravigliosa :  mitre,  piviali,  pianete,  camici,  trine, 

1.  senatore:  e  il  titolo  che  aveva  il  sindaco  di  Roma  fino  al  20  settembre. 

2.  il  Giubileo  sacerdotale  .  .  -  episcopale:  Pio  IX  era  stato  ordinato  sacer- 
dote  il  19  aprile  1819,  consacrato  vescovo  di  Spoleto  il  3  giugno  1827. 


488  UGO   PESCI 

stoffe,  velluti,  pelli  preziose  v'erano  accumulate  a  quintal!,  in  mezzo 
a  vasi  sacri  tempestati  di  gemme,  ostensorii,  calici,  reliquiari,  can- 
delieri,  croci,  pastorali,  quadri,  statue  .  .  .  ed  anche  a  piramidi  di 
bottiglie  e  di  scatole  di  generi  alimentari :  un  vero  ammasso  di  te- 
sori,  che  Pio  IX  distribui  con  la  solita  generosita  agli  ordini  mona- 
stici  ed  alle  chiese  povere,  tenendo  per  la  Cappella  Sistina  il  calice 
prezioso  mandatogli  in  dono  dal  principe  Amedeo  duca  d'Aosta.1 

Gli  Italiani  delle  altre  provincie  che,  in  quei  primi  anni,  soprag- 
giungevano  giorno  per  giorno  alia  capitale,  non  rimanevano  sor- 
presi  soltanto  alia  vista  del  Vaticano,  ma  anche  a  quella  di  tutte  le 
varie  e  diverse  manifestazioni  che  da  quel  centre  massimo  del  cat- 
tolicesimo  si  irradiano  per  tutta  Roma  e  le  danno  una  particolare 
fisonomia:  dal  treno  di  gala  degli  ambasciatori  accreditati  presso  il 
Papa,  ai  seminarist!  tedeschi  vestiti  di  rosso,  che  tirandosi  su  bra- 
vamente  la  tonaca  giuocano  a  tamburello  a  Villa  Borghese;  dai 
pellegrinaggi  alle  basiliche  durante  PAnno  Santo,  -  ai  quali  ho  vi- 
sto  prender  parte  giovani  elegantissimi  e  signore  e  signorine  del 
patriziato,  ridotte  in  stato  compassionevole  dalFaver  fatto  a  piedi 
in  mezzo  alia  folia  molti  chilometri  di  strada,  salmodiando  e  can- 
tando  inni  sacri  in  una  giornata  canicolare  -  agli  allievi  del  collegio 
Nazareno  condannati  a  passeggiare  tutto  Tanno,  anche  quelli  an- 
cora  bambini,  in  frack,  tuba  e  cravatta  bianca. 

Perche  il  Vaticano,  nel  significato  astratto  e  complesso  della  pa- 
rola,  non  sta  tutto  in  Vaticano,  ma  s'infiltra  per  tutta  Roma  mo- 
derna  in  mille  diversi  modi.  Molte  sacre  congregazioni  ecclesiasti- 
che  hanno  fuori  del  Vaticano  la  loro  sede ;  dimorano  in  citta  i  car- 
dinali  e  i  prelati  non  addetti  ai  palazzi  apostolici  ed  alia  corte :  sono 
sparse  per  tutta  Roma  le  case  generalizie,  le  sedi  di  patriarch!  mel- 
chiti  e  maroniti,2  di  monache  e  frati  di  tutti  gli  ordini,  gli  istituti 
ecclesiastic!,  le  accademie  pontificie,  i  seminar!  di  ogni  nazione,  il 
corpo  diplomatico  accreditato  presso  la  Santa  Sede ;  le  associazioni 
politiche  e  non  politiche  fondate  dopo  il  1870  sotto  gli  auspicii  del 
Vaticano  .  .  .3 

i.  principe  .  .  .  d'Aosta:  vedi  la  nota  2  a  p.  439.  2.  I  melchiti  sono  fedeli  di 
rito  bizantino,  ma  cattolici,  con  un  loro  patriarca  ad  Antiochia,  Gerusa- 
lemme  e  Alessandria;  i  maroniti  sono  una  societa  di  cristiani  di  rito  sirio, 
ma  cattolici  nella  dottrina,  che  abitano  nel  Libano,  in  Siria,  Palestina, 
Cipro  ed  Egitto :  hanno  a  capo  un  patriarca.  3.  le  associazioni . . .  Vaticano : 
tra  queste,  importantissima  la  « Societa  primaria  romana  per  gli  interessi 
cattolici »,  istituita  per  iniziativa  del  padre  Curci  (vedi  la  nota  3  a  p.  536). 


I    PRIMI   ANNI   DI   ROMA    CAPITALS   (1870-1878)         489 

II  Vaticano  ebbe,  per  breve  tempo,  anche  una  Universita.  Alcuni 
dei  professor!  che  nel  settembre  del  1870  insegnavano  alia  Sapienza, 
richiesti  di  prestare  giuramento  al  nuovo  governo,  vi  si  rifiutarono 
ed  abbandonarono  i  loro  posti.  In  luogo  del  padre  Mura,  fu  no- 
minato  rettore  il  prof.  Clito  Carlucci.  Poi,  nell'aprile  del  1871,  fu 
proposto  ai  professor!  Pinvio  di  un  indirizzo  al  Doellinger,1  del- 
Puniversita  di  Monaco,  il  capo  dei  vecchi  cattolici.  Parecchi  si  ri 
fiutarono  a  firmarlo,  e  furono  pensionati  dal  Papa  con  gli  altri  ri- 
fiutatisi  al  giuramento.  Monsignor  De  Merode2  si  procure  allora 
dodici  posti  alPuniversita  di  Louvain  e  vi  mando  dodici  student! 
soggetti  alia  leva,  che  consentirono  al  rischio  di  essere  considerati 
renitenti.  Poi  penso  di  aprire  uno  studio  nel  palazzo  pontificio  di- 
videndolo  in  tre  facolta;  fisica,  matematica  e  giuridica:  furono  chia- 
mati  ad  insegnarvi  i  professor!  che  non  avevano  volute  giurare  fe- 
delta  al  governo  italiano;  vi  si  inscrissero  120  student!  di  Roma  e 
delle  ex  provincie  pontificie.  Ma  gli  student!  sono  sempre  student! : 
in  Vaticano  facevano  troppo  chiasso.  II  cardinale  Antonelli,  mae 
stro  dei  sacri  palazzi  apostolici,  non  ve  li  voile  piu,  anche  perche 
ve  1!  aveva  portati  monsignor  De  Merode.  Quest!  trasferi  Puniver- 
sita  vaticana  al  palazzo  Altemps,  alia  fine  del  '72;  ma  poi,  in  tutt'al- 
tre  faccende  affaccendato,  si  stanco  d'occuparsene  e  di  spendervi : 
si  stancarono  gli  scolari  vedendo  di  non  concluder  nulla,  ed  alia 
fine  delPanno  scolastico  1874,  nel  luglio,  i  93  ancora  inscritti  chie- 
sero  ed  ottennero  dal  ministero  dell'istruzione  pubblica,  di  prendere 
Pesame  di  licenza  liceale  per  entrare  nella  Regia  Universita  di 
Roma. 

La  cultura  letteraria  e  scientifica  Vaticana  e  rappresentata  in 
Roma  da  varie  accademie.  La  Pontificia  Accademia  de'  Nuovi  Lin- 
cei,  che  si  occupa  di  sole  scienze  fisiche  e  matematiche,  si  trasferi 
nel  palazzo  di  Propaganda  da  quando  gli  accademici  si  divisero  in 
due  campi,  e  parte  di  ess!  costituirono  il  vero  istituto  nazionale  che 
oggi  risiede  nel  palazzo  gia  Corsini  in  via  della  Lungara  . . . 

i.  Ignazio  Doellinger  (1799-1890),  teologo  cattolico  tedesco  e  storico  am- 
mirato.  Sostenne  la  necessita  di  una  Chiesa  nazionale  con  larga  autonomia, 
e  si  oppose  alia  Curia  romana  contro  il  potere  temporale,  contro  il  Sil- 
labp  e  la  proclamazione  del  dogma  deH'infallibilita.  Scomunicato  nel  1871, 
ispird  e  diresse  il  movimento  dei  vecchi  cattolici  che,  rifiutando  il  dogma 
delPinfallibilita,  crearono  in  Germania  una  Chiesa  scismatica.  2.  Fran 
cesco  Saverio  De  Merode,  arcivescovo  di  Melitene,  era  stato  da  Pio  IX 
preposto  all'edilizia  di  Roma,  e  poi  nominato  elemosiniere  segreto.  Mori 
l'i  i  luglio  1874.  Tra  lui  e  il  cardinale  Antonelli  esisteva  un  evidente  dissidio. 


490  UGO  PESCI 

Ma  la  piu  nota  urbi  et  orbi  fra  tutte  queste  accademie  e  T  Arcadia, 
che  ha  i  suoi  quartieri  d'inverno,  con  biblioteca,  al  palazzo  Altemps, 
ma  si  raduna  qualche  volta  durante  Testate  anche  al  Bosco  Parrasio, 
sul  monte  Gianicolo.  A'  tempi  dei  quali  parlo  era  custode  generale 
d' Arcadia  monsignor  Stefano  Ciccolini  (Agesandro  Tesporide), 
prelate  d'idee  moderne,  alia  cui  gentilezza  non  ricorreva  mai  invano 
chi  desiderava  assistere  ad  «una  straordinaria  adunanza  di  libero 
argomento  »  al  Bosco  Parrasio,  anche  non  essendo  in  grande  odore 
di  santita:  sottocustodi  del  Bosco  Parrasio  erano  il  marchese  Lez- 
zani  (Polimete  Metimneo)  ed  il  commendator  Gian  Carlo  Rossi 
(Fileno  Amatunteo)  e  figuravano  fra  le  pastorelle  d'Arcadia  la  si- 
gnora  Sciamanna  (Ippomene  Neleide)  e  la  contessa  Teresa  Gnoli 
Gualandi  (Irminda  Aonia).  Muniti  del  relativo  biglietto  d'invito  si 
poteva  penetrare  aH'ombra  degli  allori,  incontrandovi  monsignori 
in  abito  paonazzo,  e  spesso  qualche  cardinale.  I  giovani  pastorelli 
arcadici  andavano  fino  al  cancello  incontro  alle  signore  e  signorine 
della  minuta  borghesia  « di  buoni  principii »  e  le  accompagnavano 
a  fare  sfoggio  dei  loro  abbigliamenti  domenicali  in  un  anfiteatro 
semicircolare  rialzato.  Nei  posti  riservati  si  vedeva  qualche  addetto 
alle  legazioni  presso  la  Santa  Sede,  obbligato  a  stare  a  Roma  ad 
aspettare  i  piu  anziani  di  ritorno  dal  congedo,  e  ad  ammazzare  il 
tempo  in  qualche  modo  non  passivo  di  censure  ecclesiastiche.  Molti 
seminaristi,  preti,  collegiali  erano  sparsi  un  po'  da  per  tutto,  e  co- 
desto  pubblico  molto  vario  e  diverso  applaudiva  il  discorso  preli- 
minare  del  custode  generale,  le  poesie  romanesche  del  comm. 
Tolli,1  le  apologie  del  papato  fatte  da  monsignor  Tripepi,  ed  i 
versi  della  signorina  Caetani  e  della  signorina  Clelia  Bertini,2  la  cui 
musa  gentile  era  bensi  meglio  ispirata  dai  sentimenti  patriotticL 


i.  Filippo  Tolli  (1843-1924),  di  Roma,  fu  tra  i  maggiori  esponenti  della 
corrente  clericale,  e  per  molti  anni  presidente  della  Gioventu  cattolica. 
Diresse  il  giornale  «  La  Stella »,  fondato  nel  1871,  e  fu  tra  i  principal!  redat- 
tori  de  «La  frusta »,  battagliero  e  violento  foglio  clericale.  Scrisse  in  lin 
gua  dramrni,  commedie,  racconti,  poesie.  Ebbero  molta  fama  allora  le  sue 
poesie  romanesche,  raccolte  in  vari  volumi.  Vedi  E.  VEO,  Ipoeti  romaneschi, 
Roma  1927.  2.  Clelia  Bertini  Attioli,  nata  a  Roma  nel  1862,  poi  insegnante 
nella  Scuola  normale  Margherita  di  Savoia  a  Roma,  poetessa  e  conferenziera 
applaudita.  Tra  le  sue  raccolte  di  prose  e  di  versi:  Donna  (1884);  //  mio 
cuore  (1889);  Adua  (1896);  Fons  amoris  (1905). 


I    PRIMI   ANNI    DI    ROMA    CAPITALE    (1870-1878)         491 


[AL   QUIRINALE    -    IL  RE  A   ROMA]1 

11  2  di  luglio2  Vittorio  Emanuele  entrava  in  Roma  solennemente, 
ed  il  ministro  Visconti  Venosta3  annunziava  ufficialmente  ai  rap- 
presentanti  d' Italia  che  la  capitale  del  Regno  era  trasferita  da  Fi- 
renze  a  Roma.  Quindici  giorni  prima,  festeggiandosi  in  Vaticano  il 
giubileo  sacerdotale  di  Pio  IX  -  nella  quale  occasione  gli  abitanti 
di  Roma  dettero  tale  saggio  di  assennatezza  che  merito  le  lodi  di 
tutto  il  mondo  civile  -  appariva  alle  9  e  mezzo  da  Borgo  in  piazza 
Rusticucci,  avviandosi  difilata  alia  porta  del  Vaticano,  una  carrozza 
di  Corte  con  livree  rosse  di  mezza  gala,  dalla  quale  scesero  il  gene- 
rale  Bertole  Viale4  aiutante  di  campo  ed  il  capitano  degli  Usseri 
conte  Michiel  ufficiale  d'ordinanza  del  Re.  Gli  Svizzeri  e  i  curiosi 
che  si  affollavano  vicino  alia  porta  per  vedere  arrivare  le  varie  de- 
putazioni,  si  guardarono  in  faccia  trasognati.  II  generale,  fattosi  ac- 
compagnare  dal  cardinale  segretario  di  Stato,  discese  col  capitano 
Michiel  dopo  una  mezz'ora.  L'Antonelli  aveva  subito  ricevuto  la 
visita  inaspettata,  mostrandosi  disposto  a  far  si  che  il  Bertole  Viale 
fosse  ricevuto  da  Pio  IX,  cui  doveva  presentare  gli  omaggi  del 
Re  d'ltalia.  Ma  altri  porporati  si  opposero.  II  colloquio  fra  il  cardi 
nale  ed  il  generale  duro  piu  d'un  quarto  d'ora,  ed  il  cardinale  scrisse 
e  consegno  al  generale  una  lettera  nella  quale  dicevagli  di  conside- 
rare  come  compiuta  la  sua  missione. 

Non  e  facile  descrivere  con  quale  entusiasmo  Vittorio  Emanuele 
fu  accolto  in  Roma.  Gli  abitanti  della  nuova  capitale  dimostrarono 
di  comprendere  tutta  rimportanza  storica  di  un  awenimento  che 
non  ha  forse  Feguale  nel  tempo  moderno,  perche  Tinsediamento 
del  primo  Re  dj Italia  in  Roma  con  Tassenso  di  tutte  le  potenze 
d'Europa  -  erano  presenti  tutti  i  ministri  stranieri,  meno  quelli  di 
Francia  e  dj Austria  Ungheria,  in  grazia  del  repubblicanissimo  si- 
gnor  Giulio  Favre5  -  chiudeva  definitivamente  il  medio  evo,  e  con- 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  n  (II  Quirinale),  pp.  64-8.  2.  //  2  di  luglio:  del  1871. 
3.  Emilio  Visconti  Venosta  era  allora  ministro  degli  esteri:  vedi  la  nota  3  a 
p.  293.  Sulla  sua  opera  di  ministro,  vedi  F.  CATALUCCIO,  Alleanza  e  prin- 
cipio  di  equilibria  nella  politica  di  Emilio  Visconti  Venosta,  in  Questioni  di 
storia  del  Risorgimento  e  delVunita  d*  Italia,  Milano,  Marzorati,  1951,  pp. 
973-86,  con  relativa  bibliografia.  4.  il  generale  Bertole  Viale:  vedi  la  nota 
2  a  p.  465.  5.  «  II  signer  Giulio  Favre  voile  negare,  in  una  lettera  pubbli- 
cata  il  12  febbraio  1872,  di  avere  fatto  premure  perche  TAustria  non  man- 
dasse  a  Roma  il  suo  ministro  il  2  luglio  1871 ;  dimenticando  d'essersi  vantato 


492  UGO    PESCI 

sacrava  solennemente,  dopo  undid  secoli,  la  fine  della  podesta  tem- 
porale  del  Papato.  Senza  entrare  nei  particolari  del  ricevimento ; 
senza  parlare  delle  antenne,  del  festoni,  delle  migliaia  di  bandiere, 
delle  piu  remote  straducole  illuminate,  e  lecito  affermare  che  ogni 
spirito  imparziale  pote  apprezzare  1'universalita  e  la  spontaneita  dei 
sentimenti  del  popolo,  anche  senza  confronti  superflui  ed  inutili. 

Vittorio  Emanuele  arrivato  alle  12  e  mezzo,  entro  in  citta  in  car- 
rozza  accompagnato  dal  Sindaco,  principe  Francesco  Pallavicini,1 
dall'on.  Lanza  e  dal  generale  Maurizio  de  Sonnaz  :2  and6  al  Qui- 
rinale  percorrendo  alcune  delle  vie  principali  sotto  una  pioggia  di 
fiori,  e  dovette  affacciarsi  piu  volte  al  balcone.  Nel  pomeriggio, 
alPAcqua  Acetosa,  assisteva  airinaugurazione  d'una  gara  nazionale 
di  tiro  a  segno :  la  sera  vi  fu  pranzo  di  gala  al  Quirinale  e  rappre- 
sentazione  di  gala  all'Apollo,  dove  il  Re  ando  e  da  dove  ritorno  fra 
le  acclamazioni  della  folia. 

Nel  pomeriggio  del  3,  Vittorio  Emanuele  pass6  in  rivista  al  Pincio 
le  guardie  nazionali  di  Roma  e  della  provincia,  alia  presenza  del 
corpo  diplomatico  e  dei  sindaci  delle  principali  citta  italiane,  e 
scortato  dallo  squadrone  della  guardia  nazionale  a  cavallo  torno  al 
Quirinale,  dove  la  sera,  le  societa  operaie,  le  associazioni  politiche, 
i  circoli,  gli  altri  sodalizi  e  migliaia  di  cittadini,  andaroao  con  mu- 
siche,  torcie  e  bandiere  ad  acclamarlo  nuovamente,  facendolo  piia 
volte  affacciare  al  balcone.  Poi,  ancora  accompagnato  dalla  guardia 
nazionale  a  cavallo,  il  Re  ando  alia  festa  offertagli  in  Campidoglio 
dal  Municipio,  che  dalParchitetto  Gabet  aveva  fatto  unire,  per 
mezzo  di  due  gallerie  prowisorie,  il  palazzo  Senatorio  con  quello 
dei  Conservatori  e  col  Museo  Capitolino.  Vittorio  Emanuele  entro 
verso  le  10  e  mezzo  nel  grande  salone  -  dove,  non  si  sa  perche, 
erano  state  nascoste  baroccamente  le  statue  di  Paolo  III,  di  Gre- 
gorio  XIII  e  di  Carlo  d'Angio  -  dando  il  braccio  alia  principessa 
Pallavicini;  assistette  senza  badarvi  alia  quadriglia  d'onore,  ed  alle 

precisamente  del  contrario  nel  capitolo  xi,  pp.  1 19  e  segg.  del  suo  libro  Rome 
et  la  Republique  francaise,  Paris,  H.  Plon,  1871 » (nota  del  Pesci).  Sul  Favre, 
vedi  la  nota  5  a  p.  481.  i.  II  principe  Francesco  Pallavicini  era  gia  state  a 
capo  della  Giunta  municipale  prowisoria  nominata  dal  generale  La  Mar 
mora,  luogotenente  del  re,  il  15  ottobre  del  1870.  Awenute  poi  le  regolari 
elezioni  (20  novembre  1870),  fu  eletto  e  nominato  sindaco  il  principe  Fi- 
lippo  Doria:  ma  non  molto  dopo,  ritiratosi  il  Doria  e  lasciati  per  alcun 
tempo  alcuni  assessor!  come  suoi  delegati,  torno  sindaco  il  Pallavicini. 
2.  Lanza:  vedi  la  nota  4  a  p.  457;  Maurizio  de  Sonnaz:  vedi  la  nota  zap. 
465- 


I    PRIMI    ANNI    DI    ROMA   CAPITALE   (1870-1878)         493 

ii  lascio  il  Campidoglio,  awiandosi  direttamente  alia  stazione  per 
andare  a  Firenze. 

Non  ritorno  in  Roma  prima  del  Novembre,  pochi  giorni  avanti 
la  riapertura  del  Parlamento.  Vittorio  Emanuele  non  dimoro  maf 
stabilmente  a  Roma  per  lunghi  period!  di  tempo.  Non  credo  punto 
che  lo  tenessero  lontano  gli  scrupoli  di  buon  cattolico,  ma  piuttosto 
la  sua  irrequietezza  ed  il  desiderio  di  liberta.  Dal  1855  fino  al  1864 
aveva  vissuto  a  Pollenzo  ed  alia  Mandria  assai  piu  che  a  Torino: 
dal  '65  al  '70  si  era  abituato  a  Firenze,  dove  nel  quartiere  del 
palazzo  Pitti  da  lui  abitato,  verso  il  giardino  di  Boboli,  poteva  an 
dare  e  venire  senza  dar  neirocchio,  rimanendo  per  giornate  intiere 
alia  villa  della  Pietra  od  a  San  Rossore  senza  che  nessuno  si  accor- 
gesse  della  sua  assenza. 

Al  Quirinale  egli  si  trovava  a  disagio.  Dopo  il  1870  furono  subito 
incominciati  i  lavori  per  adattare  ad  abitazione  privata  del  Re  la 
palazzina  vicina  al  quadrivio  delle  Quattro  Fontane,  quasi  dirim- 
petto  alia  chiesa  di  San  Carlo.  Vi  fu  rifatto  ed  elegantemente  ornato 
di  pitture  uno  scalone  di  marmo :  al  primo  piano  si  trovo  modo  di 
disporre  una  camera  da  letto,  una  stanza  da  bagno,  una  stanza  da 
fumare,  una  sala,  un  salone  ed  una  sala  da  pranzo,  che  furono  ben 
mobiliate  ed  ornate  di  pitture  del  prof.  Bruschi,  di  Cecrope  Barili 
e  del  Natali.1  Al  piano  terreno  e  nei  sotterranei  erano  i  locali  per 
tutti  i  servizi ;  al  secondo  piano  le  stanze  per  gli  addetti  alia  persona 
del  Re :  un  lungo  corridoio  riservato  univa  la  palazzina  ai  locali  de- 
stinati  alle  riunioni  del  Consiglio  de'  ministri.  La  palazzina,  cosi 
rifatta  sotto  la  direzione  delParchitetto  Antonio  Cipolla,  aveva 
aspetto  comodo  e  gaio :  ma  Vittorio  Emanuele  non  voile  mai  starvi ; 
e  la  palazzina  fu  abitata  per  la  prima  volta  dalla  regina  Maria  Pia,2 
quando  nel  '78  venne  a  Roma  per  la  morte  del  padre;  ed  ora  e  di- 
mora  abituale  di  Vittorio  Emanuele  III.  II  Re,  quando  torno  a 
Roma,  abit6  ancora  nel  quartiere  terreno  in  fondo  al  grande  cortile, 
a  sinistra  di  chi  entra  dal  portone  principale;  in  quel  quartiere  dove 
sette  anni  dopo  esalo  Pultimo  respiro. 

1.  Domenico  Bruschi,  pittore,  nato  a  Perugia  (1840),  morto  a  Roma  (1910); 
Cecrope  Barili  o  Barilli,  pittore,  di  Parma,  di  cui  assai  sono  lodati  i  quadri 
La  vendemmia  e  La  ciociara.  Non  ci  e  stato  possibile  trovare  notizie  del  Natali. 

2.  Maria  Pia  di  Savoia  (1847-1911),  figlia  di  Vittorio  Emanuele  e  di  Ma 
ria  Adelaide,  aveva  sposato  nel  1862  Luigi  I  re  del  Portogallo.  Morto  il 
marito  (1889),  ucciso  in  un  attentato  il  figlio  Carlo  (1908)  e  costretto  dalla 
rivoluzione  a  fuggire  il  nipote  Manoel  (1910),  Maria  Pia  si  rifugio  in  Italia. 


494  UGO 

Sperando  che  Pavere  prossima  a  Roma  una  vasta  tenuta,  adatta 
alia  caccia  come  quella  di  San  Rossore,  potesse  invogliare  Vittorio 
Emanuele  a  trattenersi  piu  lungamente  alia  capitale  e  sapendo  che 
egli  aveva  fatto  trattare  dal  maggiore  conte  Baldelli  la  compra  d'una 
tenuta  al  Chiarone,  il  governo  tratto  invece  con  il  duca  Grazioli 
Pacquisto  di  Castel  Porziano  che  il  principe  Umberto  aveva  gia  vi- 
sitato  con  i  figli  del  proprietario,  ed  il  contratto  fu  firmato  dal  duca 
e  dalPonorevole  Sella,  per  4  milioni  e  mezzo,  la  sera  del  28  dicembre 
1871.  Vittorio  Emanuele  vi  ando  volentieri  piu  volte  ma  non  molto 
spesso.  Si  diceva  allora  che  sarebbe  stato  adattato  per  lui  tutto  il 
pian  terreno  della  parte  del  palazzo  lungo  via  del  Quirinale,  chia- 
mato  volgarmente  ccbraccio  lungo »  o  palazzo  della  famiglia;  ma, 
per  sua  volonta,  non  se  ne  fece  nulla.  II  Re  poi  acquist6,  fuori  porta 
Pia,  fra  la  villa  Torlonia  e  Sant'Agnese,  una  villa  per  la  contessa 
di  Mirafiori,1  ne  amplio  il  giardino  ed  il  parco  con  alcuni  terreni 
confinanti,  ed  uscendo  presto  di  citta  per  la  via  Nomentana  non 
era  difficile  incontrarlo  mentre  egli  vi  rientrava  solo,  in  una  victoria 
senza  livrea  di  Corte,  con  due  o  tre  cani  da  caccia,  la  giacca  e  il  cap- 
pello  a  cencio,  nel  quale  costume  il  Padre  della  Patria  era  general- 
mente  creduto  un  buon  mercante  di  campagna. 

[AL   QUIRINALE   -    LA  MESSA  DEI  PRINCIPl]2 

Quando  i  principi3  arrivarono  a  Roma  nel  1871,  monsignor  An- 
zino,  cappellano  di  Corte  e  preside  delle  cappelle  Reali,  si  disponeva 
a  celebrare  la  messa  per  loro,  non  mancando  nel  Quirinale  cappelle 
e  luoghi  consacrati,  oltre  la  cappella  Paolina.  II  vicariato  significo 
a  monsignor  Anzino  che,  essendo  il  luogo  inter detto,  non  vi  si  po- 
teva  ufficiare.  I  principi  dovettero,  la  prima  domenica  dopo  arrivati, 
andare  ad  ascoltare  la  messa  fuori,  e  scelsero  fra  le  altre  chiese  la 
basilica  di  Santa  Maria  Maggiore.  Giuntivi  improvvisamente,  fu- 
rono  ricevuti  rispettosamente  da  alcuni  canonici  e  fu  loro  offerto 
un  inginocchiatoio  con  cuscini.  Disse  la  messa  monsignor  Anzino. 

1.  Rosa  Vercellana  Guerrieri  (1833-1885),  nominata  (1850)  da  Vittorio 
Emanuele  contessa  di  Mirafiori  e  di  Fontanafredda,  fu  sposata  dal  re,  reli- 
giosamente  nel  1869,  e  morganaticamente  il  7  novembre  1877  a  Roma. 

2.  Ed.  cit.,  dal  cap.  n  (//  Quirinale),  pp.  69-70.      3.  i  principi:  Umberto 
(1844-1900)  aveva  sposato,  nel  1868,  la  cugina  Margherita  di  Savoia  (1851- 
1926),  figlia  di  Ferdinando  duca  di  Geneva.   I  principi  si  stabilirono  a 
Roma  nel  gennaio  1871. 


I    PRIMI   ANNI   DI   ROMA    CAPITALS   (1870-1878)         495 

Ma  quei  cuscini  diventarono  per  alcuni  giorni  un  vero  affare  di 
Stato.  I  canonic!  che  avevano  ricevuto  i  principi  furono  awertiti  di 
non  permettersi  simili  licenze.  Tornati  a  Santa  Maria  Maggiore  la 
domenica  seguente,  i  principi  nulla  trovarono  disposto,  ed  un  po- 
vero  diavolo  di  scaccino,  parendogli  che  non  si  debba  mai  essere 
scortesi  con  una  signora,  porto  alia  principessa  una  sedia  di  chiesa 
ed  un  cuscino  qualsiasi. 

Dopo  quel  giorno  i  principi  continuarono  ad  assistere  alia  messa 
che  monsignor  Anzino  diceva  alle  10  a  Santa  Maria  Maggiore: 
soltanto,  per  non  compromettere  lo  scaccino  di  fronte  ai  superiori, 
uno  stafEere  di  Corte  precedeva  con  un  cuscino  di  velluto  la  prin 
cipessa  che  s'inginocchiava  in  una  delle  cappelle  laterali,  dove  il 
principe  restava  in  piedi.  E  poiche  dell'incidente  dei  cuscini  s'era 
parlato  per  tutta  Roma,  molta  gente  andava  a  quelFora  nella  basilica 
a  vedere  la  giovane  principessa  che  pregava  Dio  senza  curarsi  degli 
sgarbi  che  Le  erano  stati  fatti. 

Cosi  continuarono  le  cose  durante  tutto  l'inverno  del  '71  e  fino 
a  quando  i  principi  non  partirono  per  Monza.  Vittorio  Emanuele 
aveva  intanto  ordinato  che  la  piccola  chiesa  del  Sudario,  detta  dei 
Piemontesi,  da  molto  tempo  di  proprieta  di  casa  Savoia,  allora  ab- 
bandonata  e  in  cattive  condizioni,  fosse  restaurata,  come  lo  fu, 
cominciando  ad  acquistarvi  fama  preclara,  con  gli  affreschi  dipin- 
tivi,  il  pittore  Cesare  Maccari.1  II 15  novembre  del  '71  la  chiesa  del 
Sudario  fu  nuovamente  consacrata  da  monsignor  Angelini,  vice- 
gerente  di  Roma,  e  vi  furono  trasferiti  alcuni  privilegi  ecclesiastici 
che  la  casa  di  Savoia  godeva  nella  chiesa  di  Sant' Andrea  al  Quiri- 
nale,  noviziato  dei  Gesuiti,  dove  e  sepolto  Carlo  Emanuele  IV2 
morto  a  Roma  nel  1819. 

Ritornando  a  Roma  i  principi  poterono  andare  alia  messa  al  Su 
dario,  in  casa  propria;  e  soltanto  dopo  qualche  anno  fu  dato  da 
Leone  XIII  il  permesso  di  ufficiare  nel  Quirinale,  che  per  la  cura 


i.  Cesare  Maccari  (1840-1919)  visse  soprattutto  a  Roma.  Dal  1870  al  1873 
dipinse  la  chiesa  del  Sudario  con  sette  affreschi  molto  lodati,  specialmente 
quelli  della  volta,  che  rappresentano  la  gloria  di  cinque  beati  di  casa  Savoia. 
Ma  la  sua  fama  e  legata  soprattutto  alle  decorazioni  nel  palazzo  Madama 
e  alle  pitture  della  cupola  della  basilica  di  Loreto.  2.  Carlo  Emanuele  IV: 
re  di  Sardegna  nelP agitato  periodo  dal  1796  al  1798,  quando  fu  costretto 
dai  Francesi  ad  abdicare:  questa  abdicazione,  che  egli  ritenne  non  valida, 
fu  poi  da  lui  liberamente  rinnovata  nel  giugno  1802.  A  Roma,  dove  si 
era  ritirato,  entro  nella  Compagnia  di  Gesu:  mori  il  6  ottobre  1819. 


496  UGO    PESCI 

delle  anime  dipende  dalla  parrocchia  dei  Santi  Vincenzo  ed  Ana- 
stasio  a  Trevi. 


[L'AVVENTO  BELLA  SINISTRA]1 

La  prima  sessione  della  xn  legislatura  fu  chiusa  il  21  febbraio 
1876.  II  governo  aveva  gia  dovuto  riscattare  le  Ferrovie  Romane, 
e  lo  Spaventa,2  convinto  statolatra  per  eccellenza,  si  proponeva  il 
riscatto  di  quelle  dell'Alta  Italia  e  delle  Meridionali,  per  costituire 
una  gran  rete  di  Stato.  Era  il  precursore  dell'idea  che,  male  o  bene, 
e  stata  effettuata  dopo  trent'anni.3  I  Toscani,4  un  po5  perche  tradi- 
zionalmente  fautori  del  liberismo  economico,  un  poj  -  anzi  molto  - 
perche  stanchi  d'un  ministero  cui  riusciva  di  far  molto  di  buono, 
e  curiosi  di  vedere  che  cosa  sarebbe  awenuto  cambiando  metro, 
nicchiavano,  cucinando  in  tutte  le  salse  quel  povero  Adamo  Smith5 
predestinato  ad  essere  il  gerente  responsabile  del  loro  passaggio 
alia  opposizione. 

La  seconda  sessione  della  legislatura  fu  aperta  il  6  di  marzo,6  con 
un  discorso  della  Corona  giudicato  poco  felice,  nel  quale  la  frase 
alludente  al  riscatto  delle  ferrovie  scoppio  come  una  bomba.  II 
Biancheri7  fu  rieletto  presidente  con  172  voti,  contro  108  dati  al 
Depretis  :8  ma  nella  elezione  dei  vicepresidenti,  dei  segretari  e  dei 
questori,  il  centro  e  la  sinistra  presero  il  soprawento.  Si  poteva 
dire  dawero  fata  trahuntl 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  in  (Governo  e  Parlamento),  pp.  120-30.  2.  Silvio  Spa 
venta  (1822-1893)  era  stato  condannato  dal  governo  borbonico  nel  1852 
insieme  col  Settembrini,  gli  fu  poi  compagno  di  cella  a  Santo  Stefano  e 
come  lui  raggiunse  1'Inghilterra  nel  1859.  Uomo  politico  della  Destra,  era 
dal  10  luglio  1873  ministro  dei  lavori  pubblici  nelT  ultimo  ministero  Minghet- 
ti,  con  il  quale  cadde,  all'awento  della  Sinistra.  3.  idea  .  .  .  trent'anni:  le 
ferrovie,  gestite  fino  allora  da  societa  private,  con  la  cointeressenza  e  con- 
trolli  van  dello  Stato,  divennero  esercizio  di  Stato  con  decreto  del  15  giu- 
gno  1905.  4.  /  Toscani:  i  deputati  dei  collegi  della  Toscana.  5.  Adamo 
Smith:  vedi  la  nota  3  a  p.  79.  6.  La  seconda . . .  marzo :  piu  esattamente,  il  5 
marzo.  II  re  pronunzio  il  discorso  della  corona  alle  ore  1 1  di  quel  giorno. 
7.  Giuseppe  Biancheri  (1823-1909),  deputato  dal  1853,  ministro  della  ma 
rina  (17  novembre  1 866-10  aprile  1867),  presidente  della  Camera  nel  dicem- 
bre  1869,  conserve  tale  carica  fino  al  3  ottobre  1876.  Tornc-  poi  alia  presi- 
denza  della  Camera  moltissime  volte.  8.  Agostino  Depretis  (1813-1887), 
notissimo  uomo  di  Stato  e  patriotta,  dopo  essere  stato  varie  volte  ministro, 
sali  alia  presidenza  del  Consiglio  con  Pawento  della  Sinistra  e  vi  rimase 
fino  al  marzo  1878.  Tomato  vi  nel  dicembre  dello  stesso  anno,  tenne  la 
carica  fino  al  luglio  del  1879  e  rest6  poi  a  lungo  arbitro  della  vita  politica  ita- 
liana,  fino  alia  morte,  awenuta  a  Stradella  quando  era  ancora  al  potere. 


I    PRIMI   ANNI    DI   ROMA   CAPITALE   (1870-1878)         497 

Tanto  per  cominciare,  fu  messa  in  discussione  una  proposta  di 
legge  sulla  pesca,  presentata  dal  Finali,1  a  proposito  della  quale 
ando  in  giro  questo  epigramma: 

II  povero  Finali  non  s'e  accorto 
che  la  lenza  e  un  congegno  primitive, 
il  qual  da  un  lato  ha  un  pesce  semivivo 
e  dalValtro  un  ministro  mezzo  morto. 

II  1 6,  Ton.  Minghetti2  fece  Pesposizione  finanziaria,  che,  con 
frase  non  piu  molto  fresca,  fu  detta  da  tutti  il  «  canto  del  cigno  ». 
II  cigno  stavolta  cantava  bene;  annunziava,  cosa  ormai  non  udita 
da  molti  anni,  15  milioni  d'avanzo;  e  terminava  il  canto  dicendo: 

—  Guai  a  coloro  che  verranno  in  quest'aula  a  dire  che  il  pareggio 
non  fu  mantenuto! 

Ma  la  Camera  aveva  ormai  deciso  di  sbarazzarsi  di  un  ministero 
di  valentuomini.  Secondo  il  solito,  per  buttarlo  giu,  non  affronto 
apertamente  la  questione  di  principio;  ma,  il  18,  dopo  che  Ton. 
Morana3  ebbe  svolto  una  interpellanza  sulla  esazione  del  macinato 
in  Sicilia,  e  presentata  una  mozione  della  quale  il  Minghetti  chiese 
il  rinvio  dopo  discusse  le  convenzioni  ferroviarie,  fu  messa  ai  voti 
la  questione  di  priorita  e  respinta  la  proposta  Minghetti  con  235 
voti  contro  lyS.4 

—  Lascio  il  paese  tranquillo  alPinterno,  rispettato  alPestero,  le 
finanze  in  buone  condizioni ;  —  disse  il  Minghetti  —  venite  pure  a 
questo  posto;  io  vado  via  volentieri! 


II  lettore  osservera  probabilmente  che  tutti  i  ministri  caduti 
vanno  via  volentieri .  .  .  quando  non  possono  rimanere.  Ma  il  Min 
ghetti  era  in  quel  momento  sincere.  Un  ministero  non  puo  adattarsi 
a  vivere  a  quel  mo  do.  D'altra  parte,  il  Minghetti  aveva  fra  le  sue 
qualita  personali  una  serenita  veramente  serafica,  che  non  perdeva 
neppure  nei  momenti  meno  piacevoli  della  sua  vita.  Non  per  nulla 
il  conte  di  Cavour  aveva  scritto  di  lui  nel  '56  a  Michelangelo  Ca- 

i.  Gaspare  Finali,  di  Cesena  (1829-1914),  studioso  di  problemi  economic!, 
umanista,  amico  e  protettore  del  Pascoli,  senatore  dal  1862,  ministro  di 
agricoltura,  industria  e  commercio  neirultimo  gabinetto  Minghetti,  dal 
luglio  1873  al  marzo  1876.  2.  Minghetti:  vedi  la  nota  3  a  p.  445.  3.  Giovan 
Battista  Morana.  (nato  nel  1833),  deputato  di  Palermo.  4.  23$  voti  contro 
178:  in  realta,  i  voti  furono  242  contro  181. 


498  UGO   PESCI 

stelli:1  «Quel  homme  charmant!  quel  excellent  ministre  il  serait!» 
e  non  per  nulla  Carlo  Alberto  lo  aveva  promosso  maggiore  di  stato 
maggiore  la  stessa  sera  della  battaglia  di  Goito,  per  Pintrepidezza 
mostrata,  standogli  sempre  a  fianco  sul  campo. 

A  Roma,  poco  dopo  il  '70,  quando  non  era  ancora  ministro,  una 
sera  uscendo  da  casa  del  principe  Bariatinski,  i  ladri  lo  fermano, 
gli  portano  via  Porologio  e  750  lire,  ed  egli  rimane  sereno  e  tran- 
quillo  come  se  nulla  fosse.  Durante  la  discussione  della  legge  sulle 
corporazioni  religiose,2  si  trova  per  caso  in  mezzo  ad  un  subbuglio 
in  piazza  Venezia:  un  mascalzone  lo  riconosce,  lo  ingiuria,  tenta 
percuoterlo ;  Ton.  Minghetti  non  perde  la  calma,  e  poi  non  si  degna 
neppure  di  riconoscere  il  suo  aggressore. 

La  sera  del  16  marzo,  vale  a  dire  la  sera  del  giorno  nel  quale  il 
Minghetti  aveva  annunziato  il  pareggio  alia  Camera,  verso  mezza- 
notte  andavo  verso  casa  -  abitavo  in  fondo  al  Corso,  verso  piazza 
del  Popolo  -  accompaghato  dalPon.  conte  Alessio  Suardo,3  depu- 
tato  per  Trescorre,  carissimo  e  compianto  amico.  Quando  fummo  al 
palazzo  Odescalchi  ne  vedemmo  uscire  il  presidente  del  consiglio, 
stato  a  pranzo  alPambasciata  Russa. 

Tornammo  indietro  e  ci  accompagnammo  con  lui,  diretto  a  casa, 
in  piazza  Paganica,  palazzo  Mattel.  Era  una  serata  tepida:  Ponore- 
vole  Minghetti  aveva  il  soprabito  sbottonato;  gli  si  vedeva  a  tra- 
colla  la  fascia  di  un  ordine  russo,  e  di  sotto  la  cravatta  bianca  gli 
pendeva  il  collare  delPAnnunziata.  Era  sereno  e  sorridente.  II  Mi- 
nistero  non  era  ancora  caduto;  ma  la  coalizione  era  gia  formata  e  si 
sapeva  che  i  Sassoni  del  centro4  avrebbero  disertato. 

i.  Michelangelo  Castelli  (1808-1875),  dopo  un  primo  periodo  mazziniano, 
rimase  sempre  accanto  al  Cavour,  del  quale  fu  amicissimo.  Deputato,  ebbe 
la  nomina  a  senatore  nel  1860.  Vedi  il  Carteggio  politico  di  Michelangelo 
Castelli,  a  cura  di  L.  Chiala,  Torino  1890-1891.  La  lettera  qui  citata  e 
del  17  marzo  1856,  da  Parigi,  e  figura  nel  volume  n,  pp.  416-7  di  C. 
CAVOUR,  Lettere  edite  ed  inedite,  a  cura  di  L.  Chiala,  Torino,  Roux  e  Favale, 
1884-1887.  2.  legge .  .  .  religiose:  la  legge  per  la  soppressione  delle  cor 
porazioni  religiose  era  stata  presentata  al  Parlamento  nel  1872,  provocando 
una  allocuzione  diPio  IX  (23  dicembre  1872)  e  lunghe  discussioni,  di  fronte 
alle  quali  le  correnti  anticlericali  dimostrarono  una  accesa  impazienza.  La 
legge  passo  alia  Camera  e  al  Senato  rispettivamente  il  27  maggio  e  il  17 
giugno  1873,  quando  il  governo  era  presieduto  dal  Lanza,  cui  Minghetti 
successe  il  9  luglio  del  1873.  3.  Alessio  Suardo,  di  Bergamo  (1839-1900), 
combattente  nel  1860  con  Garibaldi,  poi  nella  guerra  del  '66;  fu  depu- 
tato  per  molte  legislature.  4.  i  Sassoni  del  centro:  i  deputati  che  sedevano 
al  centro,  ed  erano  suddivisi  in  piccoli  gruppi,  si  ribellarono,  come  gli 
antichi  Sassoni. 


I    PRIMI    ANNI    DI    ROMA    CAPITALE    (1870-1878)         499 

Strada  facendo,  il  Minghetti  parlava  di  tutto  questo,  senza  farsi 
illusion!,  senza  rammarico,  senza  rampogne.  Lo  angustiava  solo  il 
timore  di  veder  mandata  a  male  dai  successori  la  buona  condizione 
finanziaria  da  lui  creata.  Diceva  cio  senza  la  minima  ostentazione, 
fumando  il  suo  sigaro,  con  qualche  leggera  inflessione  di  pronunzia 
bolognese,  dalla  quale  non  si  era  potuto  mai  liberare.  Quando  ar- 
rivammo  verso  piazza  Colonna,  dove  era  piu  gente,  abbottono  il 
soprabito  e  tiro  su  il  bavero  per  non  far  mostra  delle  decorazioni. 

Andammo  fino  in  piazza  Paganica  sempre  ascoltandolo.  Mi  pa- 
reva  quasi  che  avesse  1'aspetto  d'uomo  soddisfatto  piu  del  consueto, 
come  se  gli  fosse  riescito  di  levarsi  un  peso  di  sullo  stomaco.  Un 
momento  solo,  sul  portone  del  palazzo,  il  sentimento  deiruomo 
offeso  prese  il  disopra,  e  salutandoci  gli  scappo  detto :  —  L'ho  sol- 
tanto  con  quel  f .  .  .  Barazzuoli,1  detto  Agonial 

Vittorio  Emanuele  il  19  chiamo  al  Quirinale  il  Depretis,  capo 
riconosciuto  della  nuova  maggioranza,  e  gli  dette  Tincarico  di  for- 
mare  un  Ministero  che  presto  giuramento  dopo  sei  o  sette  giorni. 
Tutti  sanno  che,  con  il  Depretis,  lo  componevano  il  Nicotera,  lo 
Zanardelli,  il  Mancini,  il  generale  Mezzacapo,  il  Melegari,  il  Brin, 
il  Coppino,  il  Majorana  Calatabiano.z 

Taluni  temevano  che  dovesse  succedere  un  fmimondo,  ma  i  ti- 
mori  dileguarono  presto.3  Ora  non  si  crede  possibile  che  quel  Mi 
nistero  potesse  parere,  come  pur  pareva  a  tanta  gente,  una  com- 
briccola  di  giacobini  pericolosi,  tanta  e  la  differenza  fra  le  idee  pa- 
triottiche  dei  presunti  rivoluzionari  d'allora  e  la  volgarita  delle  idee 
e  delle  azioni  di  tahmi  rivoluzionari  d'oggi!  6  vero  che  la  sola  Ion- 
tana  possibilita  del  potere  modifica  sensibilmente,  oltre  le  opinion! 
politiche,  anche  le  abitudini.  Parecchi  anni  dopo,  una  signora  di 
molto  spirito,  indicandomi  con  un  gesto  impercettibile,  nella  sala 
da  pranzo  del  Grand  Hotel,  un  deputato  delFestrema  che  pranzava 
ad  un  tavolino  vicino  a  noi,  mi  diceva  sottovoce: 

i.  Augusto  Barazzuoli  (1830-1896),  combattente  a  Curtatone  e  Montanara, 
favorevole  all'miita  nazionale  sotto  i  Savoia,  attivo  patriotta  nella  pacifica 
rivoluzione  di  Firenze  il  27  aprile  1859,  deputato  di  Colle  Val  d'Elsa  e 
Siena.  Fu  poi  ministro  d'agricoltura,  industria  e  commercio  nell'ultimo 
gabinetto  Crispi  (14  giugno  1894  -  5  marzo  1896).  2.  Tutti . .  .  Calatabiano : 
i  ministri  indicati  reggevano  rispettivamente  i  dicasteri  dell'interno,  lavori 
pubblici,  grazia  e  giustizia,  guerra,  esteri,  marina,  istruzione,  agricoltura. 
3.  Taluni .  .  .presto:  sugli  esigui  mutamenti  politic!  prodotti  dall'awento 
della  Sinistra,  vedi  B.  CROCK,  Storia  d' Italia  dal  1871  al  1915,  Ban,  Laterza, 
1928,  pp.  4-26  e  305-7. 


500  UGO   PESCI 

—  Deve  aspirare  al  potere! 

E  poiche  io  la  guardavo  con  la  fisonomia  atteggiata  a  punto  inter 
rogative,  aggiungeva: 

—  Non  vede  ?  ha  imparato  a  mangiare  il  pesce  senza  adoprare  il 
coltello. 

Alcuni  dei  nuovi  ministri  di  sinistra  erano  di  abitudini  semplici 
e  democratiche;  ma  non  lo  erano  altrettanto  molti  loro  predeces- 
sori?  II  Depretis,  gia  ministro  altre  due  volte,  allora  scapolo,  faceva 
mostra  di  qualche  disprezzo  per  il  parrucchiere,  e  la  «  classe  »  -  co 
me  ora  dicono  -  avrebbe  avuto  ragione  di  tenere  un  comizio  di 
protesta  contro  la  sua  testa  arruffata  e  la  sua  barba  incolta. 

Giuseppe  Guerzoni,1  stato  da  giovane  suo  segretario,  raccontava 
che  un  giorno,  quando  la  capitale  era  ancora  a  Torino,  il  Depretis 
era  stato  mandate  a  chiamare  dal  Re,  ed  egli  aveva  dovuto  correre 
sotto  i  portici  di  Po  a  comprargli  una  camicia,  perche  in  casa  non 
ne  aveva  una  stirata.  Appena  a  capo  del  governo,  per  qualche  setti- 
mana  si  fece  vedere  pettinato  e  con  la  barba  assestata;  poi  se  ne 
dimentico.  Non  cambio  abitudini,  e  fin  quando  non  ebbe  sposato 
donna  Amalia,  andando  con  essa  ad  abitare  al  secondo  piano  del 
palazzo  Caffarelli  in  via  Condotti,  rimase  in  via  Belsiana  dove  aveva 
una  modesta  camera  ed  un  sospetto  di  salottino,  in  casa  di  una 
francese,  madame  Ursula,  pettinatrice  de  son  etat.  Essa  aveva  sem- 
pre  avuto  molta  cur  a  del  suo  inquilino,  anche  quando  era  molestato 
da  qualche  attacco  di  gotta,  e  gli  send  poi  anche  da  introduttrice 
degli  ambasciatori  e  dei  sovrani:  re  Giorgio  di  Grecia,  introdotto 
dalla  buona  madame  Ursule,  fece  visita  un  giorno  nel  salottino  di 
via  Belsiana  al  presidente  del  consiglio,  e  lo  trov6  con  i  piedi  fa- 
sciati  di  flanella  nelle  pantofole. 

II  Melegari,2  ministro  d'  Italia  a  Berna,  era  stato  per  molti  anni 

i.  Giuseppe  Guerzoni,  mantovano  (1835-1886),  volontario  nel  1859,  fu  poi 
dei  Mille,  segui  Garibaldi  ad  Aspromonte,  partecipd  alia  campagna  del  1866, 
alia  spedizione  garibaldina  del  1867,  alia  presa  di  Roma.  Deputato  dal  1865 
al  1874,  poi  professore  di  letteratura  italiana  nelle  universita  di  Palermo 
(1874-1876)  e  diPadova(i876-i884).  Oltre  numerosi  lavori  letterari  e  critici 
ha  lasciato  una  Vita  di  Nino  Bixio  (Firenze  1875)  e  un  Garibaldi  (Firenze, 
Barbera,  1882).  Vedi  in  questa  collezione  il  gia  citato  I  tomo  dei  Memorialisti 
dell'Ottocento,  a  cura  di  G.  Trombatore,  pp.  1085-107.  2.  Luigi  Amedeo 
Melegari  (1807-1881),  esule  dalla  nativa  Emilia  dopo  il  1831,  seguace  del 
Mazzini  (tentative  in  Savoia  nel  1834),  poi  convertito  alia  soluzione  monar- 
chica,  fu  deputato,  senatore  (1862)  e,  dal  1867,  ministro  d' Italia  a  Berna, 
dove  rimase  fino  alia  morte,  eccettuato  il  periodo  (25  marzo  -  25  dicembre 
1876)  in  cui  fii  ministro  degli  esteri  col  Depretis. 


I    PRIMI    ANNI    DI    ROMA    CAPITALE    (1870-1878)          50! 

amico  intimo  del  Cavour  e  del  Rattazzi;1  Michele  Coppino2  era  una 
perla  di  galantuomo,  attaccatissimo  alle  istituzioni  e  alia  dinastia, 
modesto  quanto  un  buon  maestro  di  campagna.  II  Majorana  Ca- 
latabiano  aveva  toccato  il  cielo  con  un  dito  diventando  ministro, 
tanto  piu  perche  questo  trionfo  dei  Majorana  Calatabiano  doveva 
far  morir  di  rabbia  i  Majorana  Cucuzzella3  loro  competitor!  a  Mi- 
litello. 

II  Mancini4  stava  in  via  Gregoriana,  al  primo  piano  d'una  casa 
del  commendator  Berardi,  con  un  piccolo  atrio,  poco  illuminato  di 
giorno,  in  fondo  al  quale  v'e  ancora  come  allora  una  Venere  di 
gesso.  In  casa  sua  andava  molta  gente,  si  suonava,  si  cantava,  e  Sua 
Eccellenza  il  guardasigilli  non  sdegnava  talvolta  di  canterellare 
qualche  pezzo  di  musica  rossiniana. 

Di  sansculottes  non  v'era  nel  Ministero  proprio  nessuno:  il  piu 
scapigliato,  a  guardare  le  nove  teste  ministeriali,  era  il  presidente 
del  consiglio.  II  piu  temuto  rivoluzionario,  il  Nicotera,  vestiva  con 
corretta  eleganza,  era  il  solo  che  facesse  uso  di  un  titolo  nobiliare5 
ed  avesse  un  brougham6  di  buono  stile  per  venire  da  palazzo  Braschi 
a  Montecitorio. 

Non  parliamo  del  programma  politico.  Tutti  i  ministri  si  affret- 
tarono  a  dichiarare  che  nulla  sarebbe  cambiato;  che  si  conserve- 

i.  Urbano  Rattazzi  (1808-1873),  parlamentare  piemontese  di  centro-sini- 
stra,  fra  i  piu  eminent!  sin  dal  1848,  ministro  con  Cavour  fino  al  1857,  poi 
col  Lamarmora;  presidente  del  Consiglio  nel  1862  e  nel  1867,  dovette  su- 
bire  le  ripercussioni  politico-parlamentari  di  Aspromonte,  rispettivamente, 
e  di  Mentana.  Collare  dell'Annunziata,  rivesti  piu  volte  la  carica  di  presi 
dente  della  Camera  dei  deputati.  2.  Michele  Coppino,  di  Alba  (1822-1901), 
letterato,  poeta,  insegno  letteratura  italiana  all'Universita  di  Torino.  Depu- 
tato,  ministro  della  pubblica  istruzione  (10  aprile  -  27  ottobre  1867)  nel  ga- 
binetto  Rattazzi  e  poi  in  tre  dei  minister!  Depretis.  Amicissimo  del  presi 
dente,  ne  disse  1'orazione  commemorativa  a  Stradella  nel  1888.  3.  Salva- 
tore  Majorana  Calatabiano  fu  ministro  deH'agricoltura,  oltre  che  nel  primo 
(25  marzo  1876  -25  dicembre  1877),  anche  nel  terzo  gabinetto  Depretis  (19 
dicembre  1878  - 14  luglio  1879).  La  famiglia  Majorana  Cucuzzella,  anch'essa 
di  Militello,  ebbe  un  suo  membro  deputato  per  tre  legislature,  nel  periodo 
1861-1869,  e  precisamente  Salvatore  Majorana  Cucuzzella,  nato  nel  1800: 
egli,  peraltro,  prese  poca  parte  ai  lavori  della  Camera.  4.  Pasquale  Stanislao 
Mancini,  di  Castel  Baronia  presso  Ariano  (1817-1888),  awocato  eprofessore 
a  Napoli,  esule  in  Piemonte,  dove  fu  creata  per  lui  la  cattedra  di  diritto 
internazionale  all'Universita  di  Torino,  professore  a  Roma  dal  1872  e  pre 
sidente  dell'Istituto  di  diritto  internazionale  a  Ginevra(i873).  Deputato  dal 
1860,  ministro  di  grazia  e  giustizia  nel  primo  gabinetto  Depretis  (1876-1877), 
fu  poi  (1881-1885)  ministro  degli  esteri.  5.  ilsolo  .  .  .  nobiliare:  1'onorevole 
Giovanni  Nicotera  (vedi  la  nota  i  a  p.  439)  riceve  il  titolo  di  barone. 
6.  brougham:  vedi  la  nota  3  a  p.  268. 


502  UGO    PESCI 

rebbe  il  pareggio,  negate  quindici  giorni  prima;  che  si  continue- 
rebbe  la  stessa  regola  nelle  relazioni  con  gli  altri  Stati :  il  presidente 
del  consiglio  dichiaro  anzi,  nel  suo  primo  discorso,  di  voler  rialzare 
il  prestigio  delle  istituzioni ;  ed  il  ministro  dell'interno  ribadi  questo 
concetto  del  prestigio  rialzato  nella  sua  prima  circolare  ai  prefetti. 
Riguardo  poi  alia  morale,  nessuno  Taveva  mai  tenuta  in  tanto 
onore!  Basta  dire  che,  una  sera,  appena  il  nuovo  ministro  dell'in- 
terno  ebbe  preso  possesso  dell'ufficio,  una  signora  bella  ed  elegan- 
tissima  fu  vista  giungere  alia  stazione,  dove  erano  raccolti  molti 
curiosi,  accompagnata  da  un  ispettore  di  pubblica  sicurezza  che 
non  Pabbandono  fin  quando  non  fu  partita.  Era  la  famosa  etera 
Fanny  Lear,  espulsa  per  ordine  del  governo  da  Roma,  dove  si  tro- 
vava  da  qualche  giorno  alPalbergo  di  Roma,  con  il  supposto  pro- 
posito  di  aspettarvi  uno  dei  tanti  granduchi  di  Russia.  Poteva  il 
ministro  democratico  permettere  una  cosa  simile,  specie  dopo  aver 
saputo  che  dispiaceva  allo  Zar  ? 


Ripeto  che  non  ho  punto  la  voglia  di  far  la  cronaca  politica  e  par- 
lamentare  di  quel  periodo  di  tempo.  Gli  argomenti  non  manche- 
rebbero;  anzi  sarebbero  talmente  abbondanti,  da  non  sapere  dove 
ripiegarli.  Ma  appunto  per  questa  ragione  devo  rinunziare  a  parlare 
di  molte  cose:  della  seduta  della  opposizione,  nella  quale,  per  pro- 
posta  del  Minghetti,  fu  affidata  al  Sella  la  direzione  del  partito,  con 
consenso  apparentemente  ma  non  realmente  unanime ;  della  seduta 
del  Senate  dove  fu  messa  due  volte  in  votazione  la  legge  su  i  punti 
franchi  -  che  la  prima  volta  non  era  stata  approvata  -  profittando 
della  fretta  con  la  quale  il  «mansueto»  De  Filippo,1  invitato  a 
pranzo  in  casa  Pallavicini,  tolse  la  seduta,  poi  riaperta  dalPEula:2 
e  tanto  meno  delle  elezioni  del  novembre  1876,  le  quali  fecero  ve- 
ramente  «  passare  la  volonta  del  paese  »  dando  occasione  a  gustosi 
episodii,  e  riducendo  Pantica  maggioranza  ad  un  esiguo  drappello. 

I  piu  autorevoli  uomini  di  destra,  i  componenti  del  ministero 
Minghetti,  furono  sconfitti  nei  loro  collegi;  lo  Spaventa  battuto  ad 

i.  Gennaro  De  Filippo  (1816-1887),  awocato  napoletano,  imprigionato 
dal  governo  borbonico  nel  1859,  inviato  in  esilio  ai  primi  del  1860.  Depu- 
tato,  ministro  di  grazia  e  giustizia,  senatore  dal  1872.  Nel  1876  era  uno  dei 
vicep resident!  del  Senato.  2.  Lorenzo  Eula  (1829-1893),  giurista  e  alto 
magistrate  piemontese.  Senatore  dal  1874,  era  in  quel  periodo  (6  marzo  - 
3  ottobre  1876)  uno  dei  vicepresidenti  del  Senato. 


I    PRIMI    ANNI    DI   ROMA    CAPITALE   (1870-1878)         503 

Atessa  da  uno  sconosciuto,  fu  portato  a  Sant'Arcangelo  di  Ro- 
magna,  poi  eletto  a  Bergamo :  il  Bonghi,  battuto  a  Lucera,  portato 
ed  eletto  a  Conegliano,  dove  dal  Ricasoli  era  invece  raccomandato 
agli  eletto rl  il  maggiore  Baratieri.1 

Poi  vennero  i  70  deputati  della  maggioranza  nominati  commen- 
datori  tutti  di  un  colpo,  e  chiamati «  commendatori  dello  zucchero  » 
perche  la  loro  nomina  -  quando  si  dice  le  combinazioni!  -segui 
quasi  immediatamente  la  votazione  d'una  legge  sugli  zuccheri,  ri- 
sultata  non  facilmente  favorevole  al  ministero :  venne,  durante  le 
vacanze,  il  viaggio  del  Crispi,2  presidente  della  Camera,  alle  prin- 
cipali  capitali  d'Europa:  vennero  il  12  novembre  le  dimissioni  dello 
Zanardelli,3  che  dopo  aver  fatto  approvare  le  convenzioni  ferro- 
viarie,  prefer!  1'abbandonare  il  ministero  al  firmarle.  Furono  poi 
firmate,  a  tardissima  ora,  la  sera  del  21,  al  ministero  dei  lavori  pub- 
blici,  dal  Depretis  succeduto  temporaneamente  allo  Zanardelli,  dal 
comm.  Balduino,  dal  principe  Marcantonio  Borghese  e  da  altri 
rappresentanti  degli  istituti  di  credito  contraenti. 

Le  dimissioni  dello  Zanardelli  misero  in  maggiore  evidenza  il 
gruppo  Cairoli4  e  lo  raiforzarono  tanto  da  contare  no  deputati,  i 
quali  si  proponevano  di  stare,  di  fronte  al  ministero,  in  « vigilante 
aspettazione»  non  piu  benevola,  ma  cosparsa  di  «incipiente  sfidu- 
cia».  La  cosi  detta  situazione  parlamentare  era  proprio  amena:  il 
gruppo  Cairoli  vigilava  sul  ministero ;  il  comitato  dei  xv,  nominate 
da  un  gruppo  di  75  ministeriali,  vigilava  sulla  maggioranza;  il 
ministero  sorvegliava  il  gruppo  Cairoli.  Questo  scambievole  vigi- 

i.  il  maggiore  Baratieri:  deve  essere  quasi  certamente  identificato  con  Ore- 
ste  Barattieri  (1841-1901),  garibaldino,  poi  ufficiale  delTesercito,  deputa- 
to,  scrittore,  governatore  e  coraandante  militare  delTEritrea  (1892-1896) 
fino  alia  sconfitta  di  Adua  (i°  marzo  1896),  che  gli  valse  Pesonero  e  il 
collocamento  a  riposo.  2.  II  viaggio  del  Crispi  aveva  come  fine  segre- 
to  di  saggiare  le  possibilita  politiche  dell' Italia  nella  situazione  europea  e 
prepararne  la  alleanza  con  la  Germania.  Francesco  Crispi  (1818-1901), 
il  celebre  patriotta  siciliano,  esule  e  agitatore  con  Garibaldi  che,  assunta  la 
dittatura  dell'isola,  lo  nomin6  suo  segretario  (maggio  1860) ;  ruppe  con  Maz- 
zini  e  i  repubblicani  del  partito  d'azione  il  marzo  del  1865;  fu  quindi  piu 
volte  ministro  e  presidente  del  Consiglio,  ritirandosi  a  vita  privata  nel  1896, 
dopo  la  rotta  di  Adua  e  mentre  dilagava  la  cosiddetta  «questione  morale  ». 
3.  Zanardelli:  vedi  la  nota  i  a  p.  382.  4-  H  gruppo  Cairoli:  ne  era  a  capo 
Benedetto  Cairoli  (1825-1889),  notissimo  patriotta  (Cinque  giornate;  '48- 
49;  '59;  spedizione  deiMille;  1866),  dapprima  mazziniano,  poi  monarchico. 
Apparteneva  alia  sinistra,  ma  capitano  in  essa  una  opposizione  interna  al 
Depretis  nel  1878,  e  torn6  poi  alia  presidenza  nel  luglio  1879  rimanendovi 
fino  al  maggio  1881. 


504  UGO   PESCI 

larsi  fu  interrotto  dalPincidente  della  «gamba  di  Vladimiro»  che 
narrero  genuinamente,  come  forse  non  e  mai  stato  narrato. 

Verso  il  tocco  del  9  dicembre  '77  entro  nelPufficio  del «  Fanfulla))1 
il  marchese  Alessandro  Guiccioli,2  oggi  ministro  d'ltalia  a  Belgrade, 
allora  deputato  per  San  Giovanni  in  Persiceto,  ed  attivo  cooperato- 
re  del  Sella  nella  direzione  dell'opposizione  costituzionale.  Bisogna 
premettere  che  l'«  Italie  »,  il «  Bersagliere  »,  la  «  Nazione »  di  Firenze, 
e  la  «  Lombardia»3  di  Milano,  giornali  allora  tutti  ministeriali,  ave- 
vano  pubblicato,  in  un  telegramma  particolare  in  data  del  4,  che  il 
granduca  Vladimiro,  figlio  dello  zar  Alessandro,  era  stato  ferito  gra- 
vemente  ad  un  ginocchio  vicino  ad  Orkanie  -  si  combatteva  allora 
la  guerra  russo-turca4  -  dove  si  aspettava  Alessandro  II  a  visitarlo. 

II  Guiccioli,  sorridendo  e  socchiudendo  gli  occhi  come  suol  fare, 
tiro  fuori  dal  portafoglio  e  mi  messe  davanti  un  telegramma  di- 
retto  al  conte  Leone  Bobrinsky,  dimorante  in  Roma,  che  lo  aveva 
ricevuto  la  mattina  del  4.  Glielo  aveva  spedito  il  fratello  conte 
Alessandro,  che  aveva  un  figlio  alia  guerra.  II  telegramma  diceva 
precisamente  cosi: 

«  Wladimir  blesse  genou  Orkanie.  Pars  avec  Alexis  aller  le  voir. » 

Wladimiro  era  il  figlio  ferito;  Alexis  un  di  lui  fratello:  il  tele 
gramma  era  firmato  Alessandro.  II  conte  Bobrinsky,  che  per  abi- 
tudine  non  vedeva  molte  persone,  aveva  comunicato  la  notizia  a  due 
o  tre  soli  signori  russi,  parenti  od  amici,  che  non  erano  andati  cer- 
tamente  a  strombazzarla  ne  per  i  clubs  ne  per  i  caffe,  tanto  piu 
perche,  se  per  essi  aveva  importanza,  capivano  che  non  ne  aveva 
alcuna  per  il  pubblico.  Ma,  a  palazzo  Braschi,  qualcuno  avendo 
avuto  Pingenuita  di  credere  che  lo  Zar  telegrafasse  a  quel  mo  do  al 
conte  Bobrinsky  i  fatti  suoi,  aveva  subito  gratificato  della  primizia 

i.  II  « Fanfulla »,  fondato  nel  1870  a  Firenze,  si  trasferi  a  Roma  nel  1871, 
dal  21  ottobre.  Tra  i  fondatori  Francesco  De  Renzis  (vedi  la  nota  6  a  p.  525). 
II  giornale  aveva  distinzione  di  forma  e  vivacita  e  varieta  di  contenuto.  Vi 
collaboro  attivamente,  dal  1871,  Ferdinando  Martini.  2.  Alessandro  Guic 
cioli:  vedi  la  nota  3  a  p.  470.  3.  L'«  Italie  »,  interarnente  redatto  in  francese, 
promosso  dalla  principessa  Belgioioso,  sorse  a  Milano  il  2  ottobre  1860. 
Passo  poi  a  Torino  (1861),  a  Firenze  (1865)  e  infine  a  Roma,  dove  fu  diretto 
da  Giuseppe  Augusto  Cesana ;  il «  Bersagliere  »,  iniziato  a  Livorno  il  3  novem- 
bre  1860,  usciva  il  sabato,  diretto  da  Riccardo  Ferroni.  Fu  molto  diffuso  per 
la  sua  vivacita;  la  « Lombardia »  nacque  nel  1859  e  fu  per  vari  decenni  or- 
gano  della  democrazia  lombarda.  Tra  i  suoi  direttori  ebbe  Emilio  Broglio 
(vedi  la  nota  a  p.  553).  Per  la  « Nazione  »  vedi  la  nota  2  a  p.  443.  4.  la  guerra 
russo-turca:  iniziata  nell'aprile  del  1877,  si  concluse  col  trattato  di  Santo 
Stefano  il  4marzo  1878. 


I    PRIMI   ANNI   DI   ROMA    CAPITALE   (1870-1878)         505 

i  giornali  ufficiosi,  il  corrispondente  della  «  Lombardia  »  ed  il  buon 
Lello  Erculei  corrispondente  della  «  Nazione »,  che  poi  non  si  ri- 
guardava  da  confessarlo. 

Mentre  Ton.  Guiccioli  mi  dava  queste  spiegazioni,  sopraggiunse 
Bino  Avanzini.1  Fu  presto  messo  insieme  un  articolo,  e  mandate 
a  stampare  in  grandi  caratteri. 

Alia  Camera,  intanto,  era  trapelato  qualche  cosa,  ed  in  fine  di  se- 
duta,  Ton.  Corte2  fece  in  proposito  una  compiacente  interrogazione 
al  ministro,  perche  questi  potesse  dichiarare  solennemente  che  - 
man co  male!  -  non  erano  stati  mai  comunicati  a  giornali  dispacci 
privati;  e  spiegare  a  modo  suo  come  poteva  essere  accaduto  il  fe- 
nomeno,  dicendo  una  quantita  di  cose  una  piu  carina  delPaltra. 

Un'ora  dopo  usciva  il  «Fanfulla»  con  1'articolo,  che  fece  molto 
rumore.  E  poiche  i  grandi  effetti  derivano  sempre  da  piccole  cause, 
tutti  incominciarono  a  parlare  della  «gamba  di  Vladimiro».  Otto 
giorni  dopo  Ton.  Parenzo3  interpellava  sul  serio  il  ministro,  proprio 
dal  banco  al  quale  sedeva  Ton.  Nicotera  deputato.  II  ministro,  si- 
euro  della  sua  maggioranza  provoco  un  voto ;  gli  furono  favorevoli 
184  contro  162  e  10  astenuti,  fra  i  quali  lo  Zanardelli  e  Nicola  Fa- 
brizi.4  II  Depretis  invito  i  colleghi  a  presentare  le  dimissioni,  si- 
euro  di  avere  1'incarico  di  formare  un  nuovo  ministero.  La  gesta- 
zione  fu  laboriosa:  non  prima  del  30  dicembre  il  ministero  fu  ri- 
composto5  con  Francesco  Crispi  airinterno,  sopprimendo  il  por- 
tafoglio  dell'agricoltura  e  creando  quello  del  tesoro. 

Dieci  giorni  dopo  Vittorio  Emanuele  spirava,6  ed  incominciava 
il  regno  di  Umberto  I. 

i.  Baldassare  Avanzini  (1840-1905),  detto  dagli  amici  Bino,  era  allora  di- 
rettore  del  « Fanfulla ».  2.  Clemente  Corte,  di  Vigone  (Pinerolo),  dove 
nacque  nel  1826.  Combatte  a  Custoza,  Novara,  Milazzo,  sotto  Capua,  se- 
gui  Garibaldi  ad  Aspromonte,  comando  una  brigata  di  volontari  nel  1866. 
Deputato  per  molte  legislature,  questore  della  Camera,  senatore  dal  1880. 
Fu  prefetto  di  Palermo  (1878),  di  Firenze  dal  1879  per  molti  anni,  finche 
si  dimise  dalla  carica,  nel  1885,  per  un  contrasto  col  prefetto  di  Torino. 
3.  Cesare  Parenzo  (1842-1898)  aveva  seguito  Garibaldi  in  Sicilia,  ad  Aspro 
monte,  nel  Trentino.  Deputato  per  varie  legislature,  senatore  dal  1889. 
Alia  Camera,  dove  sedeva  a  sinistra,  fu  sostenitore  di  molte  proposte  di 
legge  (precedenza  del  matrimonio  civile,  divorzio,  ecc.).  4.  Nicola  Fdbrizi 
(1804-1885),  di  Modena,  esule  dopo  il  '31,  amico  di  Mazzini,  partecipo 
alia  spedizione  della  Savoia,  ai  moti  del  '48,  alia  guerra  del  '59,  alia  spe- 
dizione  dei  Mille,  alia  guerra  del  '66.  Deputato,  appartenne  alia  Sinistra. 
5.  il  ministero  fu  ricomposto:  fu  il  secondo  ministero  Depretis,  dal  26  dicem 
bre  1877  al  24  marzo  1878.  II  portafoglio  del  tesoro  fu  affidato  all'onorevole 
Angelo  Bargoni.  6.  Vittorio  Emanuele  spirava:  il  9  gennaio  1878. 


506  UGO  PESCI 

[ROMANI  DE  ROMA  -  NOBILI,  BORGHESIA,  POPOLO]Z 

Gli  uomini  della  nobilta,  particolarmente  quelli  in  eta  matura, 
avevano  quasi  tutti  -  si  parla  in  generale,  s'intende,  e  le  eccezioni 
servono  di  conferma  alia  regola  -  ima  tal  quale  presunzione  di  loro 
stessi  e  del  loro  grado  sociale,  non  ostentata  ma  naturalmente  ac- 
quistata  in  forza  di  educazione  e  di  ambiente,  e  temperata  da  signo- 
rile  cortesia  e  correttezza  di  forma:  ima  specie  di  alterezza  non  of- 
fensiva  e  «ben  portata»  come  dicono  i  sarti  degli  abiti  bene  indos- 
sati.  Le  relazioni  fra  i  gran  signori,  e  la  loro  clientela  eran  diverse 
da  quelle  fra  principi  e  ricchi  borghesi  indipendenti :  per  esempio, 
tal  principe  che  non  avrebbe  ammesso  alle  sue  feste  la  moglie  e  le 
figlie  di  un  affittuario  milionario,  invitava  immancabilmente  le  fi- 
glie  del  suo  medico  e  del  suo  awocato.  Nei  giovani,  che  avevano 
subito  volontariamente  o  involontariamente  Pinfluenza  delle  idee 
nuove,  i  difetti  di  origine  apparivano  assai  minori.  Nobili  e  plebei, 
erano  tutta  bella  gente,  robusta,  ardita,  amante  della  caccia  e  d'ogni 
altro  esercizio  del  corpo:  i  signori  quasi  tutti  intrepidi  cavalieri: 
ne  disgrazie  ne  editti  di  Papi  erano  bastati  a  tenerli  lontani  dai  pe- 
ricoli  della  caccia  a  cavallo.  A  mantenere  il  bel  sangue  delle  famiglie 
patrizie  valeva  forse  la  mescolanza  di  razze  derivante  da  frequenti 
matrimoni  con  signore  straniere. 

La  borghesia  ricca  era  piu  espansiva,  piu  cordiale  della  nobilta; 
meno  attaccata  alle  forme.  Nella  borghesia  minuta  la  cordialita  era 
anche  maggiore,  spesso  patriarcale.  Chiunque  entrasse  in  una  casa 
di  quel  ceto,  vi  era  accolto  con  sincera  festosita:  si  trovavano  ancora 
molte  di  quelle  famiglie  alia  buona,  delle  quali  la  domestica  era 
considerata  una  persona  come  tutte  le  altre,  perche,  magari,  in  casa, 
da  quando  i  vecchi  si  erano  sposati,  vi  aveva  visto  nascere  i  giovani. 
Fra  le  famiglie  che,  per  aiutarsi  in  qualche  modo  o  per  lo  meno 
sollevarsi  dal  peso  di  un  affitto  troppo  forte  affittavano  qualche  ca 
mera,  ne  ho  vedute  molte  che  si  affezionavano  al  loro  inquilino  come 
ad  un  figliuolo,  e  conosco  piu  d'un  inquilino  che  andato  nel  '70  ad 
abitare  in  una  camera  mobiliata,  v'e  poi  rimasto  magari  una  diecina 
d'anni  e  1'ha  lasciata  soltanto  per  qualche  caso  di  forza  maggiore; 
altrimenti  vi  sarebbe  invecchiato. 

Anche  le  donne  delle  famiglie  borghesi  erano  d'indole  franca, 
i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  IV  (I  «Roinani  de  Roma»\  pp.  174-80. 


I    PRIMI   ANNI   DI   ROMA   CAPITALE   (1870-1878)         507 

espansiva,  senza  quelle  ostentazioni  di  riserbo  e  di  sentimentalismo 
che  hanno  tanto  poco  del  verosimile  e  del  sincere,  pronte  a  scher- 
zare  senza  malizia  con  un  giovanotto  simpatico  -  honny  soit  qui  mal 
y  pense1  -  senza  vergognarsi  del  loro  prospero  aspetto,  ne  del  buon 
appetite,  e  senza  sciuparsi  lo  stomaco  in  tentativi  di  cure  dima- 
granti.  Quantunque  la  educazione  delle  ragazze,  prima  del  '70,  la- 
sciasse  molto  a  desiderare,  pure  erano  venute  su  fra  la  borghesia 
molte  ottime  madri  di  famiglia,  le  quali  avevano  allevato  e  cresciuto 
i  loro  figliuoli  ispirando  in  essi  sentimenti  di  schietta  italianita. 

fe  da  notare  che  fra  borghesia  ricca  e  borghesia  minuta  il  distacco, 
quasi  impercettibile  fra  gli  uomini,  era  molto  maggiore  fra  le  si- 
gnore.  Una  satira  messa  in  giro  per  Roma  qualche  anno  prima  del 
'70,  distingueva  le  signore  della  borghesia  in  due  distinte  categoric, 
il  «  generone  »  ed  il «  generetto  ».  II «  generone  »  ossia  le  signore  della 
borghesia  ricca,  avevano  talvolta  qualche  contatto  occasionale  con 
le  signore  delParistocrazia;  le  signore  del  «  generetto  »  cioe  le  mogli 
di  negozianti  anche  ricchi,  magari  con  carrozza  e  palco  in  terza  fila 
air  Apollo  -  in  prima  e  seconda  fila  erano  ammessi  soltanto  la  no- 
bilta  ed  il  corpo  diplomatico  -  non  potevano  per  tradizione  aspirare 
ad  un  tanto  onore.  E  la  distinzione  fra  «  generone »  e  « generetto  » 
continue  per  qualche  tempo  anche  dopo  il  1870. 

Tutto  sommato,  non  si  potrebbe  agevolmente  dire  se  una  classe 
della  popolazione  romana  fosse,  nel  suo  complesso,  piu  liberale 
d'un'altra;  e  tanto  meno  stabilire  quale  di  esse  meritasse  il  primo 
premio  di  liberalismo.  Ma  non  si  puo  mettere  in  dubbio  che  la  pic- 
cola  borghesia,  i  bottegai,  gli  artieri,  e  specie  il  popolo  minuto,  ab- 
biano  avuto  il  gran  merito  di  accettare  volentieri  un  mutamento, 
nel  quale  essi,  materialmente,  non  hanno  guadagnato  nulla.  Subito 
dopo  il  1870  le  loro  condizioni  si  trovarono  mutate,  le  loro  abi- 
tudini  dovettero  necessariamente  modificarsi.  II  popolo  si  sottopose 
a  tutto  questo  con  una  pazienza  ed  una  docilita  senza  esempio,  man- 
tenendosi  allegro  e  cordiale;  facendo  buona  accoglienza  a  tutti,  an 
che  a  chi  andava  a  levargli  il  pane  di  bocca.  AlFartiere  romano,  che 
lavorava  bene  ma  soltanto  quando  ne  aveva  voglia,  mancarono  ad 
un  tratto  molte  occasioni  di  guadagno  che  gli  procuravano  le  feste 
e  le  pompe  ecclesiastiche,  mentre  ai  piu  bisognosi  venivano  meno 
da  un  giorno  alPaltro  tutte  le  elargizioni  e  distribuzioni  da  parte 

i .  E  il  motto  dell'ordine  della  Giarrettiera.  L'espressione  si  usa  anche  iro- 
nicamente  e  maliziosamente. 


508  UGO  PESCI 

di  istituzioni  ecclesiastiche  od  ordini  religiosi,  le  quali  facevano  cre 
dere  a  molti  non  essere  indispensabile  il  lavorare  molto  per  vivere. 
Intanto  da  ogni  parte  d' Italia  immigravano  a  Roma  migliaia  di 
disoccupati,  spinti  dalTappetito,  ed  ormai  agguerriti  nella  lotta  per 
Pesistenza,  e  si  accaparravano  la  maggior  parte  dei  molti  lavori 
necessari  al  trasferimento  della  capitale  ed  alia  trasformazione  della 
citta;  ed  il  governo  italiano  imponeva  delle  enormi  tasse,  diretteo 
indirette,  a  gente  die  non  aveva  mai  dato  im  soldo  per  contribuire 
alle  spese  pubbliche. 

Ad  onta  di  tutto  questo,  il  popolano  romano  non  s'inaspri,  e  se 
manifesto  talvolta  il  suo  malcontento,  lo  fece  con  qualche  innocen- 
tissima  pasquinata,  che  provocava  risa  e  non  sdegno.  Quando  si 
pensa  quali  erano  allora  le  condizioni  del  popolo  minuto  a  Roma, 
e  si  paragonano  quelle  liete  manifestazioni  di  fugace  cattivo  umore 
con  le  violente  e  feroci  diatribe  d'odio  di  classe,  oggi  erompenti  dal- 
ranimo  di  gente  la  quale  non  ha  dawero  eguali  ragioni  di  lamen- 
tarsi,  rammirazione  per  i  Romani  di  trent'anni  sono,  e  piu,  deve 
essere  giustamente  grandissima.  Non  si  puo  negare  che  Fesempio 
degli  altri  ha  cambiato  anche  loro;  e  quantunque  un  tal  cambia- 
mento  si  chiami  generalmente  progresso,  a  pensarci  bene  si  puo  fare 
a  meno  di  compiacersene. 

Di  quei  bei  fenomeni  morali  e  sociali  ora  indicati  con  i  nomi  di 
teppa,  di  teppismo  e  di  mala  vita  non  si  aveva  allora  neanche  il  so- 
spetto:  tutt'al  piu,  in  una  rissa,  il  popolano  d'un  rione,  sopraffatto 
da  popolani  d'un  altro,  era  sicuro  di  essere  aiutato  da  quelli  del  suo. 
Nelle  sue  relazioni  con  persone  di  qualunque  altra  condizione  so- 
ciale,  il  popolano  romano  aveva  allora  una  familiarita  rispettosa  ed 
insieme  dignitosa,  che  faceva  in  qualche  modo  sparire  ogni  distan- 
za  fra  esso  e  chi  sapeva  comprenderlo  o  apprezzarlo.  Guai  per6 
a  chi  si  fosse  messo  in  mente  di  trattarlo  con  aria  altezzosa  e  spa- 
valda,  come  lo  trattano  oggi  taluni  democratici  di  professione  e 
protettori  del  proletariato!  Chi  lo  trattava  invece  cordialmente,  da 
uomo  ad  uomo,  senza  offenderne  le  suscettibilita  rispettabili,  era 
sicuro  di  trovar  subito  in  ogni  buon  popolano  un  amico  ed,  in  qua 
lunque  caso,  anche  un  difensore. 

Una  signora  straniera,  maritata  in  Italia  e  da  alcuni  anni  domi- 
ciliata  in  Roma,  m'invito  una  volta,  ad  accompagnarla  nella  sua  car- 
rozza  alia  fiera  di  garofani,  d'agli  freschi  e  lumache  cotte,  che  si  fa 
ogni  anno  nella  notte  fra  il  23  e  il  24  giugno,  la  vigilia  di  San  Gio- 


I    PRIMI   ANNI    DI    ROMA    CAPITALS   (1870-1878)         509 

vanni,  sul  piazzale  della  basilica  Laterana.  Andai  ben  volentieri.  Era 
il  San  Giovanni  del  '72  o  del  '73,  ne  prima  ne  dopo.  La  principessa 
-  la  chiamero  con  il  suo  titolo  -  aveva  un  abito  elegante  ma  sem- 
plice,  senza  cappello,  con  una  mantilla  spagnuola  in  testa.  Le  splen- 
devano  agli  orecchi  due  grossi  solitari.  Essa  era  molto  conosciuta  a 
Roma,  come  lo  erano  la  sua  carrozza  e  la  sua  livrea. 

Ci  awiammo  lentamente  a  San  Giovanni  verso  mezzanotte,  se- 
guendo  la  fila  delle  vetture.  Passando  davanti  all'osteria  del  Coc- 
chio,  che  era  sulla  piazza  vicino  allo  sbocco  di  via  Menilana,  udim- 
mo  parecchie  voci  che  cantavano  accompagnate  da  mandolini  e 
chitarre,  il  canto  ed  il  suono  si  facevano  sentire  non  ostante  Fas- 
sordante  rumore  delle  grida  dei  venditori  e  della  folia  chiassosa. 

La  principessa,  quasi  azzardando  una  proposta  enorme,  impos- 
sibile,  espresse  il  desiderio  di  entrare  dentro  ad  ascoltare  meglio  la 
musica.  Piu  nuovo  di  Roma  ma  piu  pratico  di  lei  delPambiente  nel 
quale  ci  saremmo  trovati,  le  risposi  che  Pavrei  accompagnata  vo 
lentieri  nell'osteria,  purche  si  adattasse  a  seguire  le  mie  istru- 
zioni.  Le  carrozza  usci  dalla  fila  e  si  fermo  davanti  alPosteria. 
Scendemmo,  entrammo  nella  prima  sala  e  la  traversammo,  non 
senza  destarvi  un  movimento  di  benevola  meraviglia.  Entrammo  nel 
giardinetto  dove  cantanti  e  suonatori  stavano  sotto  un  pergolato, 
con  molta  gente  seduta  ed  in  piedi  intorno  a  loro.  Mentre  davo 
un'occhiata  intorno  per  vedere  se  v'era  una  sedia  o  una  panca  libera, 
venti  o  trenta  persone  si  alzarono  in  piedi  per  farci  posto,  ed  un 
belPuomo  sulla  cinquantina,  una  specie  di  capocda,  datosi  una 
bella  fregata  alle  labbra  con  la  manica  della  camicia  di  bucato,  odo- 
rosa  di  spigo,  s'awicino  appena  il  bicchiere  alia  bocca  e  lo  presento 
alia  Principessa,  ancora  in  piedi  ed  appoggiata  al  mio  braccio.  La 
sentii  fare  un  impercettibile  movimento  di  repulsione,  al  quale  ri 
sposi  prontamente  stringendole  leggermente  il  braccio  col  mio. 
Essa  capi  l'awertimento,  prese  il  bicchiere  con  signorile  buona  gra- 
zia,  e  bewe  un  sorso  di  vino;  poi  il  bicchiere  dalle  mani  del  capoccia 
passo  nelle  mie.  Oramai  eravamo  in  ballo  e  bisognavaballare:  al 
primo  bicchiere  tennero  dietro  parecchi  altri;  ognuno  voleva  far 
onore  agli  insoliti  commensali,  mentre  cantanti  e  mandolinisti  si 
studiavano  di  farci  sentire  i  piu  bei  pezzi  del  loro  repertorio.  Come 
di  regola,  feci  portare  delle  fogliette1  e  contraccambiai  le  cortesi  of- 

i.  La  foglietta  e  misura  romana,  equivalente  ad  un  quarto  di  boccale, 
circa  mezzo  litre. 


510  UGO   PESCI 

ferte.  Fu  un  miracolo  se  non  scoppiarono  gli  applausi  quando  la 
principessa,  dopo  una  buona  oretta,  alzandosi  per  uscire,  si  awi- 
cino  ai  suonatori  ed  ai  cantanti  lodando  la  loro  abilita  e  ringrazian- 
doli.  Chi  avesse  avuto  la  cattiva  idea  di  offrire  una  mancia,  si  sa- 
rebbe  dovuto  lasciar  dire  delle  insolenze. 

Oggi  forse  non  oserei  di  fare  altrettanto  a  Roma:  non  ci  penserei 
neppure  in  qualunque  altra  delle  grandi  citta  d' Italia.  E  quello  che 
ho  narrato  non  era  allora,  come  si  suol  dire,  «un  fatto  isolate ». 
Un  mio  amico,  gentiluomo  fiorentino,  di  molto  spirito  e  di  caris- 
sima  compagnia,  maestro  di  cerimonie  di  Corte,  morto  da  parec- 
chi  anni  -  la  principessa  e  viva  ed  e  ancora  una  bella  donna  a 
dispetto  delle  indiscrezioni  dell3 'Almanacco  di  Gotha  -l  era  gia  stato 
a  Roma,  ma  quando  venne  la  prima  volta  a  farvi  il  turno  mensile  di 
servizio,  voile  che  io  Paccompagnassi  a  vedere  tante  cose  ancora 
nuove  per  lui.  A  molta  indipendenza  di  spirito  e  ad  un  considere- 
vole  disprezzo  per  le  «menzogne  convenzionali »  egli  univa  una 
elegante  ricercatezza  nel  vestire.  Col  proposito  di  girare  tutta  la 
mattina  e  di  far  colazione  in  qualunque  posto  ci  avesse  colto  Pap- 
petito,  mi  veniva  a  prendere  in  redingote  ed  in  cappello  acilindro, 
il  che  non  gli  ha  impedito  piii  volte  di  seguirmi  in  qualche  osteria 
di  codna,  o  nella  bottega  di  Cucciarello,  il  friggitore  di  Trastevere, 
dove  ciascuno  di  noi  si  prowedeva  di  un  belFinvolto  di  eccellente 
pesce  fritto,  per  andarlo  a  mangiare  nelPosteria  di  rimpetto,  dove 
in  grazia  del  cappello  a  cilindro  ci  distendevano  un  tovagliolo  sulla 
tavola  e  ci  davano  delle  posate  di  ferro.  O  andate  un  po'  a  far  que- 
sto  in  un  altro  paese! 


[l  ((BUZZURRD)   •   UNA   VASTA   IMMIGRAZIONE]2 

Con  questo  nome  i  giornali  clericali  indicarono  i  nuovi  abitanti 
di  Roma,  con  evidente  intenzione  di  sprezzo,  neppure  espressa  con 
proprieta  di  vocabolo ;  poiche  col  nome  di  «  buzzurro »  da  tempo 
indefinito  si  chiamano  a  Firenze  quelli  Svizzeri  del  Cantone  Ticino 
che  vi  scendono  nell'inverno  a  vendere  castagne  lesse  e  polenda  di 


i.  Almanacco  di  Gotha:  e  il  piti  celebre  degli  almanacchi.  Fondato  nel  1763, 
in  Germania,  dette  di  anno  in  anno  aggiornate  notizie  sulle  case  nobiliari 
di  tutta  1'Europa.  2.  Ed.  cit.,  dal  cap.  v  (I  «JE?tt##zim»),  pp.  199-206. 


I    PRIMI    ANNI    DI   ROMA    CAPITALE   (1870-1878)         5!! 

farina  dolce,  ospiti  particolarmente  graditi  ai  ragazzi,  e  da  nessuno 
disprezzati  perche  gente  attiva,  proba  ed  incapace  di  dare  fastidio 
a  una  mosca. 

A  Roma  la  parola  «  buzzurro  »  per  indicare  PItaliano  di  altre  pro- 
vincie  andatovi  dopo  il  20  settembre,  fu  usata  molto  per  qualche 
tempo,  specie  dalla  parte  meno  educata  della  popolazione,  ma  senza 
il  significato  dispregiativo  che  avevano  voluto  darle.  Pero  nelle 
famiglie  appena  appena  di  mediocre  educazione  ci  chiamavano  «  gli 
Italiani »,  come  ci  avevano  chiamato  i  Veneti  nel  1866.  Neppure  i 
clericali  bene  educati  usavano  la  parola  messa  fuori  dai  loro  gior- 
nali,  e  se  non  volevano  dire  «  gli  Italiani »  si  servivano  di  circonlo- 
cuzioni  e  di  mezzi  termini.  Ho  conosciuto  una  vecchia  signora  pa- 
pista,  la  quale  chiamava  « loro  .  .  .  quelli .  .  . »  i  nuovi  venuti,  e  ri- 
teneva  che  tutti  la  dovessero  capire  alia  prima. 

Non  staro  a  dire  come  e  quanto  fosse  cortesissima  e  cordialissima 
Paccoglienza  fatta  ai  pochi  entrati  insieme  alle  truppe  e  nei  primi 
giorni  successivi.  Ad  essi  si  aprirono,  si  spalancarono  addirittura 
tutte  le  porte  dei  circoli,  dei  clubs,  delle  case  private,  anche  di  quelle 
case  aristocratiche  che  non  si  erano  mai  aperte  ai  Romani  di  eguale 
condizione,  e  forse,  in  altri  momenti,  non  sarebbero  state  tanto  fa- 
cilmente  accessibili  a  quelli  stessi  per  i  quali  allora  lo  furono.  Nel- 
1'aristocratico  Club  della  caccia,  nato  da  poco,  che  aveva  allora  una 
residenza  ristretta  in  piazza  San  Carlo  al  Corso,  dirimpetto  alia 
chiesa,  sulPangolo  di  via  delle  Carrozze  -  e  poi  si  trasferi  subito 
vicino  a  piazza  Venezia  fra  il  palazzo  Doria  e  il  palazzo  Bonaparte  - 
i  nuovi  venuti  non  titolati  furono  ammessi  con  maggiore  facilita  dei 
Romani,  dei  quali  cinque  e  sei  soli  erano  i  soci  non  appartenenti 
a  famiglie  nobili.  Sul  canto  di  via  Convertite,  press'a  poco  dove  ora 
e  il  caffe  Aragno,  e  precisamente  sopra  il  caffe  delle  Convertite  che 
occupava  quelTangolo  dell'isolato  nel  quale  e  stato  poi  costruito 
il  palazzo  Marignoli,  v'era  un  piccolo  club  di  giovanotti  della  bor- 
ghesia  ricca,  nel  quale  i  nuovi  venuti  furono  ammessi  senza  nep- 
pure  alcuna  formalita  di  votazione.  Non  parlo  degli  ufficiali,  per  i 
quali  Puniforme  italiana  serviva  di  passe-partout:  debbo  anche  con- 
statare  che  i  piu  intransigent!  clericali  ne  riconobbero  subito  e  ne 
lodarono  il  contegno,  il  tatto  e  Peducazione. 

La  cordialita  della  prima  accoglienza  continu6  immutata  per 
quelli  che  seppero  non  demeritarla:  naturalmente  non  si  pote  esten- 
dere  in  egual  misura  a  tutti  i  nuovi  venuti  quando  furono  legione, 


512  UGO   PESCI 

e  quando  aumentando  la  quantita  peggioro  in  proporzione  diretta 
la  qualita. 

L'immigrazione  in  Roma,  in  conseguenza  del  trasporto  della  ca- 
pitale,  per  la  forza  di  attrazione  della  citta,  e  per  la  sua  posizione 
topografica,  fu  di  due  specie  diverse.  Da  Firenze  vennero,  gli  uni 
dopo  gli  altri,  tutti  gli  impiegati  dello  Stato  gia  trasferiti  in  quella 
citta  da  Torino,  ed  i  negozianti  che  da  Torino  avevano  seguito  la 
capitale  a  Firenze,  ed  ora,  per  spirito  d'intraprendenza,  la  segui- 
vano  a  Roma:  da  altre  provincie  dell'Alta  Italia,  commercianti  e 
speculator!  che  nell'incremento  immancabile  della  nuova  capitale, 
e  nei  lavori  edilizi  indispensabili  per  ottenerlo,  speravano  di  tro- 
vare  ottimo  collocamento  ai  loro  capitali.  Dalle  provincie  del  Mez- 
zogiorno,  meno  ricche  e  molto  piii  vicine  alia  nuova  capitale,  si  af- 
fol!6  presto  in  Roma  una  moltitudine  in  cerca  di  fortuna,  o,  per  lo 
meno,  di  farsi  uno  stato,  di  trovare  un  posticino  che  procurasse 
tanto  da  sbarcare  il  lunario ;  moltitudine  rumorosa,  irrequieta,  pro- 
cacciante,  e  non  ostante  le  apparenze  etniche,  meno  omogenea  al- 
Pantica  popolazione  romana  del  toscano  o  del  piemontese  infio- 
rentinato. 

Gli  impiegati  trasferiti  nel  1865,  improwisamente,  da  Torino  a 
Firenze,  vi  erano  andati,  come  ho  narrato  in  un  altro  libro,1  molto 
di  mala  voglia;  ma  vi  s'eran  presto  trovati  bene,  si  erano  facilmente 
abituati  ai  difetti  ed  alle  buone  qualita  della  loro  nuova  residenza, 
vi  s'erano  fatta,  come  si  dice,  la  loro  nicchia.  Un  altro  trasferimento 
dopo  cinque  anni,  a  parte  le  ragioni  patriotiche,  non  li  poteva 
avere  punto  rallegrati.  I  primi  trasferiti  vennero  a  Roma  mal  vo- 
lentieri,  brontolando,  lagnandosi  come  tanti  deportati  in  Siberia; 
e  poiche,  come  ho  detto,  non  essendo  pronti  subito  i  locali  per  tutti 
i  ministeri  e  gli  altri  uffici  governativi,  gli  impiegati  dovettero  lasciar 
Firenze  a  pochi  per  volta,  quelli  trasferiti  dopo  arrivarono  anche 
piu  mal  disposti,  ed  addirittura  spaventati  dalle  notizie  ricevute 
dalle  avanguardie,  secondo  le  quali  la  vita  a  Roma  era  meno  facile 
e  molto  cara,  anzi  non  era  possibile  il  potervi  risiedere  per  man- 
canza  d'alloggi. 

Tanto  chi  doveva  venire  a  Roma  senza  averne  voglia,  quanto  i 
Romani  che  avrebbero  veduto  volentieri  la  capitale  defmitivamente 

i.  come  .  .  .  libro  i  il  Pesci,  in  una  nota,  rinvia  alle  pp.  70  sgg.  del  suo  vo 
lume  Firenze  capitale.  Si  tratta  di  un  brano  che  anche  noi  abbiamo  ripor- 
tato,  a  pp.  450-3. 


I    PRIMI    ANNI    DI    ROMA    CAPITALE    (1870-1878)          513 

stabilita  da  un  momento  all'altro  dentro  le  loro  mura,  se  la  prende- 
vano  con  il  governo  perche  non  si  dava  briga  di  prowedere  alia 
mancanza  d'alloggi,  come  se  il  governo  potesse  far  sorgere  da  un'ora 
alPaltra  nuovi  quartieri,  con  un  colpo  di  bacchetta  magica;  od  ob- 
bligare  a  costruire  delle  case  chi  non  ne  aveva  il  proponimento,  od 
avendolo  non  aveva  i  denari  per  effettuarlo.  Dal  canto  suo,  il  go 
verno  se  la  prendeva  con  il  Murdcipio  di  Roma,  un  Municipio  ap- 
pena  nato,1  ed  ancora  imbrogliato  come  un  pulcino  nella  stoppa, 
il  quale  pure  faceva  tutti  gli  sforzi  possibili  per  mostrare  le  sue 
buone  disposizioni,  lottando  contro  difficolta  materiali  di  tutti  i 
generi. 

Per  avere  una  idea  della  sproporzione  fra  la  richiesta  ed  il  numero 
degli  alloggi  disponibili  alia  meta  del  1 871 ,  bastera  dire  che,  secondo 
i  calcoli  del  governo,  per  gli  impiegati  da  trasferirsi  a  Roma  con  la 
capitale  occorrevano  40180  stanze,  ed  una  notificazione  del  Muni 
cipio  di  Roma  dette  per  resultato  di  trovarne  500.  Era  una  canzo- 
natura!  ma  d'altra  parte,  come  sarebbe  stato  possibile  Pobbligare 
chi  affittava  delle  camere  a  stranieri,  ad  alti  prezzi,  per  sei  o  sette 
mesi  dell' anno,  di  cederle  ad  impiegati  che  non  avrebbero  potuto 
pagare  neppure  la  meta? 

Un  anno  e  mezzo  dopo  la  data  ufficiale  del  trasferimento,  vale  a 
dire  alia  fine  del  1872  -  piu  di  due  anni  dopo  il  plebiscite  -  il  Mu 
nicipio  di  Roma  si  trovava  ancora  nella  necessita  d'intimare,  per 
ragioni  di  utilita  pubblica,  la  riduzione  di  molti  fienili  a  case  abi- 
tabili! 

E  poi,  se  le  40000  camere  e  piu,  ritenute  necessarie  agli  impiegati 
dello  Stato,  secondo  i  computi  del  governo,  trovandole,  fossero  ba- 
state  per  essi  e  le  loro  famiglie,  doveva  pur  trovare  la  maniera  di 
mettersi  per  lo  meno  al  coperto  anche  tutto  Tesercito  di  professio- 
nisti,  affaristi,  disoccupati  in  cerca  di  lavoro,  commercianti,  solle- 
citatori,  speculatori,  operai  ed  artefici,  oziosi  e  vagabondi  dell'uno 
e  delPaltro  sesso,  ed  altra  gente  di  buon  conto  e  di  mal  affare,  che 
forma  quello  strato  superficiale  ed  instabile  della  popolazione  delle 
capitali  moderne,  specie  negli  stati  retti  col  sistema  parlamentare. 

Awenne  nei  primi  tempi  che  operai  venuti  da  altre  provincie 
con  la  sicurezza  di  trovare  a  Roma  sovrabbondanza  di  lavori  d'ogni 

i.  un  Municipio  .  .  .  nato:  il  primo  consiglio  comunale  di  Roma  fu  eletto 
con  le  votazioni  del  20  novembre  1870. 


33 


514  UGO    PESCI 

genere,  retribuiti  meglio  che  altrove,  furono  costretti  a  tornare  in- 
dietro  a  centinaia  e  centinaia,  mancando  assolutamente  gli  alloggi 
adatti  alia  loro  condizione  ed  ai  loro  mezzi.  Col  tempo  ne  vennero 
poi  anche  troppi!  Professionisti,  commercianti,  industriali,  trova- 
rono  da  accomodarsi  alia  meglio:  ma  chi  voile  rilevare  negozi  in 
buone  posizioni,  o  farsi  cedere  quartieri  gia  presi  in  affitto  da  altri, 
dovette  rassegnarsi  a  subire  pretese  spesso  realmente  enormi.  Tutto 
il  mondo  e  paese,  quando  si  tratta  di  tornaconto! 

I  trasferiti  per  ragione  d'impiego  e  non  per  volonta  propria  s'im- 
pensierivano  anche  per  il  prezzo  dei  viveri,  riguardo  al  quale  per6 
le  loro  apprensioni  non  erano  intieramente  giustificate.  Dopo  il 
1870  vi  fu  un  rincaro  prodotto  dalPaumentato  numero  di  consu- 
matori,  ma  non  tale  da  fare  spavento.  Si  sa  che  i  dintorni  di  Roma, 
per  un  raggio  di  alcuni  chilometri  intorno  alia  citta,  non  danno  al- 
cun  prodotto  meno  qualche  ortaggio,  un  po'  di  vino,  di  latte  e  di 
formaggio ;  e  tutto  il  rimanente  di  quanto  e  necessario  alia  alimen- 
tazione  di  una  grande  citta  deve  esservi  portato  da  lontano.  Oggi, 
dopo  36  anni,  il  problema  deH'alimentazione  di  Roma  e  press'a 
poco  allo  stesso  punto :  si  pu6  anzi  dire  che  si  e  maggiormente  com 
plicate,  perche  per  il  grande  aumento  degli  abitanti,  e  tutto  rinsie- 
me  delle  condizioni  economiche  del  paese  che  ha  diminuito  il  va- 
lore  del  denaro,  i  prezzi  di  ogni  genere  di  derrate  sono  grandemente 
aumentati,  meno  quello  dei  cereali.  Nei  primi  anni  dopo  il  '70, 
questo  fu  molto  oscillante  e  soggetto  a  sensibili  sbalzi.  Dal  '70  al  '71 
sali  rapidamente  ed  il  grano  da  19  lire  1'ettolitro  arrivo  a  24:  si 
mantenne  alto,  ed  anzi  aumento  fino  al  '74,  nel  quale  anno  si  pag6 
il  pane  fino  a  62  centesimi  al  chilogrammo,  per  ribassare  nel  '75 
e  mantenersi  sempre  piu  basso.  Anche  il  prezzo  delle  carni,  molto 
basso  fino  agli  ultirni  mesi  del  '71  -  poco  piu  di  una  lira  al  chilo  - 
aumento  rapidamente  del  50%,  non  solo  per  le  bestie  bovine,  ma 
anche  per  gli  ovini,  dej  quali  si  faceva  e  si  fa  un  gran  consumo, 
e  per  i  suini. 

Per  queste,  e  forse  per  altre  ragioni  meno  facilmente  ponderabili 
e  calcolabili,  Fadattamento  della  popolazione  (cbuzzurra»  trasferita 
a  Roma  per  ragioni  d'ufficio,  awenne  assai  piu  lentamente  che  da 
Torino  a  Firenze,  anche  perche  molti  impiegati,  sempre  per  la  man- 
canza  di  alloggi,  furono  costretti  ad  andare  al  loro  posto  lasciando 
le  famiglie  per  qualche  tempo  a  Firenze  od  altrove,  aspettando  il 
momento  di  poterle  sistemare  alia  meglio.  Quando  il  buon  Giu- 


I    PRIMI   ANNI    DI   ROMA    CAPITALE   (1870-1878)         515 

seppe  Massari,1  nel  marzo  del  '74,  in  un  pranzo  al  club  della 
Caccia,  disse  in  un  brindisi  che  ormai  non  v'era  piu  alcuna  diffe- 
renza  fra  antichi  e  nuovi  romani,  espresse  un  nobile  desiderio  piut- 
tosto  che  la  vera  realta  delle  cose.  Certamente  il  sentimento  pa- 
triotico  che  aveva  mosso  gli  italiani  di  tutti  i  partiti  liberali,  non 
era  affievolito  neanche  nelPanimo  dei  trasferiti  di  malavoglia ;  ma 
le  necessita  della  vita  pratica  di  ogni  giorno  prendono  talvolta  il 
soprawento  su  i  sentiment! ,  ed  occorre  del  tempo,  per  che  questi 
e  quelle  possano  mettersi  intieramente  d'accordo. 

L'adattamento  fu  piu  lento,  anche  perche  si  protrasse  piu  lun- 
gamente  la  immigrazione  degli  impiegati.  Alcune  direzioni  generali 
vennero  a  Roma  dopo  tre  o  quattr'anni  dal  giorno  del  trasferimento 
ufficiale,  molte  dopo  diciotto  mesi  o  due  anni,  e  gli  impiegati  venuti 
prima,  agli  altri  lagni  aggiunsero  quelli  per  la  non  richiesta  ne  de 
siderata  preferenza. 

Non  ostante  questo  metodo  di  trasferimento  a  sgoccioli,  la  fiso- 
nomia  di  Roma  comincio  a  modificarsi  fino  dal  1871.  I  nuovi  abi- 
tanti  di  una  citta,  meno  alcuni  solitari  misantropi,  specie  quando 
son  legati  fra  loro  da  comunanza  di  occupazioni  e  d'orario,  pren 
dono  facilmente  Pabitudine  di  fare  come 

quando  le  pecorelle  escort  dal  chiuso 
a  una,  a  due}  a  tre  .  .  ,2 

ed  a  gruppetti,  ed  uscendo  dall'ufEcio  si  awiano  verso  le  strade 
piu  centrali  e  piu  frequentate.  Nei  primi  mesi  dell'autunno  del 
'71  -  in  quella  stagione  nella  quale  mancano  a  Roma  i  forestieri  ed 
i  signori  della  citta,  e  le  pariglie  signorili  vanno  al  Pincio  attaccate 
a  breaks*  di  scuderia,  con  le  guardarobiere  o  le  famiglie  del  cocchiere 

0  del  guardiaportone  -  incomincio  fra  le  6  e  le  6  e  mezzo  a  compa- 
rire  nel  Corso  il  loquace  ed  irritdbile  genus  degli  impiegati  dello 
Stato,  non  ancora  tanto  irritabile  da  tener  comizi  e  reclamare  il  di- 
ritto  allo  sciopero.  Ho  notato,  particolarmente  a  Roma,  che  mentre 

1  soldati,  cioe  gli  uomini  ingenui  ed  ignari,  corrono  subito  ad  am- 

i.  Giuseppe  Massari  (1821-1884),  di  Bari,  deputato  al  Parlamento  napole- 
tano  del  1848,  esule  in  Piemonte  dopo  il  15  maggio,  com'era  stato  prece- 
dentemente  esule  in  Francia  (donde  la  sua  amicizia  col  Gioberti).  Deputato 
e  segretario  nella  Camera  del  Regno  d' Italia,  fu  poi  senatore.  Scrisse  la 
vita  di  Vittorio  Emanuele  II.  2.  Dante,  Purg.,  in,  79-80.  Ma  Dante  scri- 
ve:  «  Come  le  pecorelle  »  ecc.  3.  breaks:  i  brecchi,  carrozze  grandi  aperte, 
a  quattro  ruote. 


516  UGO  PESCI 

mirare  i  monumenti  di  fama  mondiale,  gli  impiegati,  vale  a  dire  gli 
uomini  di  mezzana  cultura,  ostentano  di  non  occuparsene  e  non 
e  mai  accaduto  di  vederli  in  gran  numero  come  i  soldati  ne  a  San 
Pietro  ne  al  Colosseo,  ne  sul  colle  capitolino  davanti  alia  statua  di 
Marc'Aurelio.  L'«ora  del  vermouth*  entro  presto  nelle  nuove  con- 
suetudini  della  capitale,  anche  perche  i  vermuttai  di  Torino  e  di 
Firenze,  tutti  piemontesi,  all'avanguardia  deH'immigrazione  «  buz- 
zurra»  vennero  a  raggiungere  i  loro  corregionali  gia  stabiliti  a 
Roma  prima  del  '70. 

I  «  FORESTIERI  »  I 

Dal  tempo  del  quale  parlo,  anche  i  «  forestieri »  sono  cambiati.  Al- 
lora  non  si  conosceva,  o  per  meglio  dire  non  era  ancora  in  uso  il  si- 
stema  di  viaggiare  in  carovana,  affidando  intieramente  il  proprio 
benessere  materiale  ed  intellettuale  ad  una  Societa,  che  vi  rilascia 
tanti  tickets  corrispondenti  alia  sodisfazione  d'un  bisogno  od  al 
conseguimento  d'un  piacere,  e  vi  affida  alia  sua  volta  ad  un  capo 
carovana  che  vi  colloca  in  un  albergo,  vi  somministra  i  pasti  alle 
ore  stabilite,  e  vi  prescrive  i  monumenti  e  le  vedute  che  devono 
destare  la  vostra  ammirazione.  Alcune  nazioni  davano  allora  a  Ro 
ma  un  contingente  di  visitatori  molto  minore  di  quello  che.  danno 
adesso;  mentre,  allora  come  oggi,  vi  erano  varie  categoric  di  visi 
tatori  a  seconda  delle  stagioni,  pur  essendo  la  citta  sempre  piu  af- 
follata  di  stranieri  dalla  fine  di  dicembre  -  gli  Inglesi  sono  ancora 
generalmente  fedeli  alFusanza  di  passare  il  Natale  a  casa  -  alia  set- 
timana  dopo  Pasqua. 

D'altra  parte,  parlando  di  stranieri  a  Roma,  bisogna  cominciare 
a  distinguere  quelli  che  vi  hanno  preso  stabile  domicilio  -  e  non 
sono  pochi  -  e  quelli  che  sono  soliti  a  passarvi  abitualmente  1'in- 
verno,  salvo  casi  eccezionali,  da  quelli  che  vi  capitano  una  volta 
durante  la  loro  vita,  o  vi  ritornano  a  molto  lunghi  intervalli,  perche 
chi  e  stato  una  volta  a  Roma  parte  generalmente  col  desiderio  di 
ritornarvi. 

Quest'ultima  categoria  si  suddivide  poi  in  molte  altre.  Vi  e  pri 
ma  di  tutto,  come  ho  detto,  il «  forestiere »  d'estate  ed  il «  forestiere  » 
d'inverno.  In  estate  vengono  a  Roma  quelli  che  hanno  meno  da 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  vi  (/  «forestieri»),  pp.  229-31. 


I    PRIMI    ANNI    DI    ROMA    CAPITALE    (1870-1878)         517 

spendere  e  sanno,  in  quella  stagione,  di  potersela  cavare  a  miglior 
mercato;  quelli  che  sono  molto  occupati  durante  il  resto  dell'anno, 
e  soltanto  durante  1' estate  possono  prendersi  qualche  svago:  i  pro- 
fessori  ed  i  magistrati  in  ferie;  qualche  comitiva  di  studenti;  qual 
che  ingenuo  che  spera  di  acquistare  oggetti  d'arte  o  di  antichita 
piu  o  meno  autentici,  a  prezzi  di  «  fine  stagione  ».  In  generale,  i  fo- 
restieri  «d'estate»  sono  francesi,  belgi,  o  tedeschi. 

Capitavano  e  capitano  spesso  anche  dj  estate,  come  d'inverno,  i 
component!  di  pellegrinaggi  che  vengono  quasi  esclusivamente  per 
vedere  il  Papa,  per  visitare  le  basiliche  ed  altri  luoghi  di  devozione. 
II  <cforestiere))  di  questa  categoria  fa  larghi  acquisti  di  corone  e  di 
medaglie  e  di  piccole  riproduzioni  del  San  Pietro  della  Basilica  Va- 
ticana,  che  porta  seco  quando  e  ricevuto  con  gli  altri  in  udienza  dal 
Santo  Padre.  Ma  ormai,  questo  «forestiere»,  meno  quando  va  in 
comitiva  con  la  coccarda  del  suo  pellegrinaggio,  non  si  distingue 
piu  facilmente  dagli  altri.  Non  viene  piu,  come  dopo  il  1870,  irri- 
tato  contro  T  Italia  e  gli  Italian!,  credendo  di  trovare  il  Papa  in  una 
prigione.  Ormai  si  sa  in  tutto  il  mondo  come  stanno  le  cose:  molti 
attriti  sono  quasi  cessati,  molti  spigoli  si  sono  arrotondati,  e  il 
« forestiero  fanatico  »  e  addirittura  scomparso.  Non  si  saprebbe  piu 
dove  andare  a  cercare  due  giovani  signori  inglesi1  come  quelli  che, 
venuti  per  il  giubileo  pontificale  di  Pio  IX,  il  18  giugno2  1871,  si 
misero  a  rischio  di  far  finire  tragicamente  una  giornata  solenne 
trascorsa  senza  alcun  disordine,  e  di  terminare  essi  pure  tragica 
mente  la  loro  esistenza.  Erano  alloggiati  all'albergo  d'Angleterre,  in 
via  Bocca  di  Leone.  Al  balcone  di  una  sala  vicina  alle  loro  stanze 
sventolava  una  bandiera  italiana,  statavi  esposta  perche  bandiere 
nazionali  erano  fuor  delle  fmestre  di  tutte  le  case  di  Roma.  I  due 
inglesi  pretendevano  che  fosse  tolta,  e  non  volendosi  i  camerieri 
delPalbergo  prestare  a  quell'atto,  essi  tentarono  di  toglierla  e  lace- 
rarla.  Ne  nacque  un  alterco,  ed  il  proprietario  dell' alb  ergo  fu  co- 
stretto  a  ricorrere  agli  agenti  della  forza  pubblica.  La  bandiera  fu 
rimessa  a  posto,  con  la  intimazione  di  rispettarla.  Tutto  pareva  fi- 
nito ;  ma  qualche  notizia  del  fatto  si  era  gia  sparsa,  ed  un  numeroso 
gruppo  di  persone  radunatosi  davanti  alPalbergo  fece  sentire  dei 

1.  due .  .  .  inglesi:  facevano  parte  di  una  commissione  di  cattolici  inglesi 
con  Lord  Gainsborough,  venuta  ad  ossequiare  il  pontefice  nel  suo  giubileo. 

2.  il  giubileo  .  .  .  giugno:  Pio  IX  fu  eletto  pontefice  il  16  (non  il  18)  giugno 
1846,  e  fu  coronato  il  21  giugno. 


518  UGO  PESCI 

sibili  evidentemente  diretti  ai  due  stranieri,  uno  dei  quali  si  affac- 
cio  alia  finestra  gridando:  —  Viva  Pio  IX  papa  re,  abbasso  Plta- 
lia!  —  Apriti  cielo!  gli  urli  e  i  fischi  raddoppiarono ;  lo  sprezzante 
epiteto  di  puzzoni  fu  ripetuto  con  energia  romanesca  da  centinaia 
di  voci,  e  ci  voile  del  buono  e  del  bello  per  impedire  un'invasione 
delPalbergo  con  tutte  le  deplorevoli  conseguenze  che  avrebbe  po- 
tuto  avere.  I  cappelli  piumati  de'  bersaglieri,  simpatia  del  pubblico, 
e  le  parole  concilianti  delle  guardie  nazionali  accorse  in  gran  nu- 
mero,  poterono  impedire  un  eccesso. 


[BALDORIE  CARNEVALESCHE]1 

JMa  e  ormai  tempo  di  lasciare  le  sale  dei  palazzi  aristocratici2  e 
scendere  nelle  strade,  quando  vi  si  agita  e  ribolle  la  baldoria  carne- 
valesca.  Non  pretendo  di  descrivere  il  corso  mascherato  di  Roma 
quale  era  una  volta  ed  anche  nei  primi  anni  dopo  il  1870:  occorre- 
rebbe  altra  forza  di  stile  e  di  colorito,  che  io  non  mi  abbia;  e  d'altra 
parte  non  si  potrebbe  che  ripetere  quanto  hanno  gia  detto  moltis- 
simi  autori.  Ve  inoltre  nelle  feste  pubbliche  qualche  cosa  che  nes- 
sim  stilista  pu6  riescire  a  descrivere :  non  basta  dire  che  dalla  porta 
del  Popolo  alia  ripresa  de'  Barberi  -  cioe  in  quel  tratto  di  strada 
stretta  oltre  piazza  di  Venezia,  fra  il  palazzetto  di  Venezia  ed  il 
palazzo  Nepoti,  oggi  scomparso  -  i  marciapiedi,  le  botteghe,  i  por- 
toni,  le  finestre,  i  balconi  erano  stipati  di  gente,  e  di  gente  era  affol- 
lata  tutta  la  strada;  ed  in  mezzo  alia  folia  procedevano  lentamente 
due  file  di  carrozze,  piene  zeppe  anche  quelle  di  persone  mascherate 
e  non  mascherate,  molte  delle  quali  tentavano  ripararsi  con  visiere 
di  sottilissimo  filo  di  ferro  dai  nembi  di  coriandoli  ingessati  che 
piombavano  giu  nella  strada  da  tutti  i  piani  delle  case,  oscurando 
il  cielo  con  la  loro  polvere  bianca,  e  dalle  manciate  degli  stessi  co 
riandoli  lanciate  da  chi  camminava  a  piedi.  Non  basta  dire  che,  fra 
i  nuvoli  della  polvere  dei  coriandoli,  dalle  finestre  e  dai  balconi 
scendevano  e  dalla  strada  si  alzavano  gettati  con  slancio  mazzi  di 
fiori,  scatoline  di  dolci,  e  certi  grossi  confetti  involtati  in  carta  sot- 

1.  Ed.  tit,  dai  cap.  vm  (Feste  private  e  divertimenti  pubblici),  pp.  317-20. 

2.  Ma  .  .  .  aristocratici:  nelle  pagine  precedent!,  da  noi  tralasciate,  il  Pesci 
descrive  a  lungo,  con  minuzie  cronachistiche,  le  feste  date  dai  nobili  e  dai 
diplomatic!  in  Roma  durante  il  periodo  1871-1878. 


I    PRIMI   ANNI   DI   ROMA    CAPITALE   (1870-1878)         519 

tile  argentata  o  dorata  con  lunghe  striscie  svolazzanti,  chiamati 
razzi  cTamore :  e  che  al  vocio  giulivo,  alle  grida  allegre  e  festose,  ai 
canti,  agli  strilli,  alle  esclamazioni  di  sorpresa,  si  mescolava  lo  strim- 
pellio  di  molti  strumenti  primitivi  e  discordi,  alcuni  dei  quali,  di 
provenienza  partenopea,  come  u'  putipu  e  uy  tricca-ballacche,1  servi- 
vano  di  accompagnamento  ai  lazzi  dei  numerosi  pulcinelli,  le  cui 
salaci  scurrilita  si  perdevano  fortunatamente  in  mezzo  a  quella  con- 
fusione  di  rumori.  Non  basta  dire  che  alcune  carrozze  erano  cariche 
di  ragazze,  altre  di  artisti,  altre  di  giovanotti  eleganti,  altre  di  fa- 
miglie  straniere  con  persone  serie  e  di  eta  matura,  che  per  una  volta 
nella  loro  vita  volevano  levarsi  il  gusto  di  far  pazzie  -  semel  in  vita 
se  non  in  annol  -  e  prendevano  parte  al  baccano  senza  perdere 
qualche  cosa  della  loro  innata  serieta  e  compostezza. 

No,  tutto  questo  non  basta  1  Bisognerebbe  anche  far  capire  come 
in  quella  confusione,  in  quell' eccitamento  che  pareva  far  diventare 
una  citta  intiera,  per  qualche  ora,  una  gran  gabbia  di  matti,  nessuno 
passava  il  segno,  nessuno  esorbitava,  nessuno  dava  ad  altri  giusto 
motivo  di  risentirsi,  quantunque  tutti  i  ceti,  tutte  le  condizioni  so- 
ciali  si  trovassero  mescolate,  gornito  a  gomito,  ed  il  popolano  po- 
tesse  porgere  un  fiore  alia  gran  dama,  ed  i  giovani  stranieri  si  sbrac- 
ciassero  a  buttar  mazzi  e  dolci  a  signorine  ed  a  popolane ;  e  potesse 
accadere  spesso,  in  quella  febbre  di  divertimento,  di  dare  una  go- 
mitata  ad  un  principe  di  sangue  reale  o  riceverla  da  un  trasteverino 
con  la  giacca  di  velluto  buttata  sulle  spalle,  o  da  una  ciociara  col 
busto  messo  sulla  camicetta  bianca  ed  uno  stile  d'argento  infilato 
dentro  la  massa  enorme  delle  treccie  corvine.  Bisognerebbe  saper 
dire  con  quanto  non  servile,  ma  schietto  e  sincere  riguardo,  i  popo- 
lani  sapevano  scherzare  con  i  signori,  e  con  quanto  garbo,  senza 
alterigia  ne  aria  di  protezione,  akneno  in  quei  giorni,  i  signori  sa 
pevano  accettare  lo  scherzo  familiare  de'  popolani  e  contraccam- 
biarlo. 

La  febbre  del  divertimento  arrivava  al  parossismo  Pultima  sera 
di  carnevale,  quando,  al  segnale  dell'Ave  Maria  che  abitualmente 
indica  Tora  della  preghiera,  incominciavano  ad  accendersi  i  mocco- 
letti.  Come  si  pu6  far  comprendere,  a  chi  non  Tha  visto,  il  meravi- 

i.  iC  putipu  e  u*  tricca-ballacche:  due  rozzi  strumenti  musicali  usati  dal 
popolo  napoletano.  II  primo  e  qualcosa  di  intermedio  fra  il  tamburo  e 
i  piatti;  il  tricca-ballacche  e  formato  di  tre  bastoncini  che  hanno  in  cima 
martelli,  e,  stando  fermo  il  mediano,  si  fanno  cozzare  tra  loro. 


520  UGO   PESCI 

glioso  spettacolo  di  centinaia  di  migliaia  di  fiammelle  che,  in  cinque 
minuti,  brillavano  in  continue  moto  da  un  capo  aU'altro  d'una  strada 
diritta  e  lunga  quasi  due  chilometri,  e  la  inondavano  di  luce  dai 
marciapiedi  alle  grondaie  dei  tetti?  Ognuno  difendeva  il  proprio 
moccolo  dagli  attentati  di  spengimento  e  tentava  di  spengere  il 
moccolo  altrui,  o  d'impedire  di  riaccenderlo  quando  era  spento. 
Cinquantamila  bocche  gridavano  senza  moccolo!  senza  moccolo!  Lo 
straniero  flemmatico  lasciatosi  sedurre  da  quel  nuovo  spettacolo, 
sperava  di  proteggere  il  proprio  moccolo  mettendolo  dentro  il  cap- 
pello  che  teneva  in  mano  ben  stretto :  ma  un  colpo  di  mano  inco 
gnita  spengeva  il  moccolo  e  faceva  cadere  il  cappello,  Lo  straniero 
rimaneva  un  momento  sbalordito  e  finiva  per  ridere.  In  un  alto 
palco  eretto  dentro  un  portone,  un  gruppo  di  belle  ragazze  si  rite- 
nevano  sicure  da  ogni  assalto ;  neppure  i  fazzoletti  legati  in  cima  ai 
bastoni  erano  potuti  arrivare  a  spengere  i  loro  moccoli:  ma  ecco 
ad  un  tratto  sbucar  fuori  da  una  bottega  di  rimpetto  un  drappello 
di  giovani  armati  di  lunghe  canne,  alle  quali  avevano  legato  quelle 
spazzole  di  penne  che  servono  a  levar  la  polvere  dalle  pareti;  il 
gruppo  delle  ragazze  rimaneva  al  buio  fra  le  allegre  risate  del  pub- 
blico  ora  spinto  a  ondate,  ora  trattenuto  fermo  per  parecchi  secondi. 
Dalle  finestre  basse  si  agitavano  enormi  ventole  per  spengere  i  moc 
coli  a  chi  passava  sotto :  i  ragazzi  si  arrampicavano  alle  inferriate 
per  spengerli  a  chi  stava  alle  finestre  dei  mezzanini:  chi  era  in 
carrozza  allungava  quanto  poteva  le  braccia,  saliva  in  piedi  sui  se- 
dili,  si  arrampicava  al  posto  del  cocchiere,  ma  non  arrivava  a  di- 
fendersi  dalle  insidie  che  lo  minacciavano  daH'alto  e  dal  basso.  Le 
donne,  e  particolarmente  le  ragazze,  erano  esposte  ai  maggiori  as- 
salti,  tanto  piii  frequenti  ed  insistenti  quanto  piu  erano  belle  e 
piacenti;  ad  ogni  attentato  cacciavano  piccoli  e  brevi  strilli,  che 
avrebbero  potuto  anche  far  supporre  in  esse  il  desiderio  di  restar 
vinte,  purche  il  vincitore  fosse  simpatico  e  ardito.  Soltanto  dopo 
un'ora  e  anche  piu,  le  fiammelle  andavano  lentamente  diminuendo 
di  numero,  e  adagio  adagio  le  tenebre  della  notte  non  erano  piu 
rischiarate  altro  che  dalla  fioca  luce  del  gas  della  Societa  anglo-ita- 
liana.  II  Corso  rimaneva  deserto  . . .  ma  molti  spengimenti  di  moc 
coli  avevano  piu  tardi  il  loro  epilogo  in  qualche  festicciuola  privata 
od  in  qualche  veglione. 


I    PRIMI    ANNI    DI    ROMA    CAPITALE    (1870-1878)         521 


[IL  TEATRO  APOLLO]1 

Prima  del  '70,  il  Comune  di  Roma  teneva  in  affitto  i  due  prin 
cipal!  teatri,  di  proprieta  del  principe  Torlonia,  cui  pagava  un  gros- 
so  canone  oltre  alia  dote  che  corrispondeva  all'impresario :  ma  nel 
1869,  considerando  di  non  poter  star  soggetto  al  beneplacito  di  un 
privato  che,  negando  1'uso  dei  teatri  poteva  privare  la  citta  dei  con- 
sueti  spettacoli,  prese  in  enfiteusi  il  teatro  Argentina  ed  acquisto 
il  teatro  Apollo,  indicate  col  nome  di  «  regio  ».  Poiche,  quantunque 
la  Corte  pontificia  non  andasse  al  teatro,  P  Apollo  era  considerate 
come  il  teatro  ufEciale;  monsignor  governatore  di  Roma  vi  aveva 
un  palco  dove  compariva  talvolta,  ed  immancabilmente  la  sera 
nella  quale  s'inaugurava  la  stagione  d'autunno,  facendo  in  qtiella 
occasione  distribuire  rinfreschi  a  chi  si  trovava  nei  palchi  di  primo 
e  second' ordine. 

L' Apollo  stava  abitualmente  aperto  dalla  prima  quindicina  d'ot- 
tobre  fino  a  Pasqua,  se  pure  non  v'era  spettacolo  anche  in  prima  - 
vera:  il  Comune  corrispondeva,  come  ho  detto,  una  dote  alPim- 
presa,  imponendole  Tobbligo  della  mitezza  dei  prezzi.  Dopo  il  '70, 
il  Comune  non  credette  piu  necessario  di  imporre  tale  obbligo,  e 
Timpresa  seppe  profittarne,  essendo  accresciuto  il  numero  di  coloro 
che  in  qualche  modo  erano  obbligati  ad  avere  un  palco  al  teatro,  o 
per  lo  meno,  in  alcune  occasion!,  ad  assistere  agli  spettacoli.  Oltre 
la  dote,  fissata  in  lire  150.000  per  il  1871-72,  e  poi  mantenuta 
press'a  poco  eguale,  Timpresa  disponeva  di  tutti  i  palchi,  la  ven- 
dita  dei  quali  rendeva  altrettanto  se  non  piu :  il  principe  Torlonia 
si  era  conservato  soltanto  Puso  di  un  palco  di  proscenio  in  primo 
ordine,  dove  si  vedeva  quasi  tutte  le  sere  in  compagnia  della  prin- 
cipessa  e  della  figlia.  Nel  palco  dirimpetto  andava  Vittorio  Erna- 
nuele,  e  i  due  palchi  vicini  a  quello  del  Re  erano  a  disposizione 
delle  Case  militare  e  civile  di  S.  M.  La  principessa  Margherita 
aveva  per  se  un  palco  vicino  al  proscenio,  al  second'ordine:  gli 
altri  palchi  di  quella  fila  erano  tutti  acquistati  dai  ministri  stranieri 
o  dalle  famiglie  della  primissima  nobilta,  tanto  che  Pandare  al  tea 
tro  in  un  palco  di  second'ordine  era  ritenuto  un  grande  e  difficile 
onore.  Alcune  signore  delParistocrazia  dovevano  contentarsi  di 
andare  al  terzo,  gli  altri  palchi  del  quale  erano  occupati  dal  «gene- 
i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  ix  (Teatri  e  ritrovi),  pp.  343-8- 


522  UGO    PESCI 

rone»:  il  «  generetto  »*  si  contentava  del  quarto.  Cio  non  ostante  i 
palchi  erano  pochi,  in  confronto  al  numero  dei  richiedenti,  e  per 
conseguenza  i  piii  ricchi  ne  acquistavano  la  meta,  gli  altri  soltanto 
un  quarto;  vale  a  dire  che  quelli  avevano  diritto  di  andarvi  ogni 
due  sere,  questi  ogni  quattro,  e  nel  manifesto  le  sere  di  spettacolo 
erano  indicate  come  di  i°,  2°,  3°  o  4°  giro.  Le  serate  di  i°  e  3°  giro 
erano  le  piu  eleganti:  chi  voleva  acquistare  quel  turno  doveva  pa- 
gare  qualche  cosa  di  piu,  e  Paumento  di  spesa  era  compensate  dal- 
Pimpresa,  facendo  coincidere  con  quei  due  turni  quasi  tutte  le 
prime  rappresentazioni. 

Si  andava  nei  palchi  senza  pagare  biglietto  d'ingresso  e  v'era 
piu  d'uno  che,  in  corretto  ed  elegante  abito  nero  e  cravatta  bianca, 
faceva  ogni  sera  le  sue  quattro  o  cinque  visite,  godendo  lo  spettacolo 
con  la  spesa  di  4  o  5  soldi  per  la  guardaroba.  Non  v' erano  barcaccie, 
come  vi  sono  in  quasi  tutti  i  teatri  delPalta  Italia:  faceva  eccezione 
un  palco  di  prima  fila  vicino  al  proscenio,  acquistato  regolarmente 
ogni  anno  da  una  societa  di  antichi  frequentatori,  appassionati  per 
il  teatro  e  platonici  ammiratori  di  virtuose:  il  pubblico  chiamava 
quel  palco  ceil  bagno  di  Susanna »  alludendo  ai  vecchioni,  fra  i 
quali  furono,  fin  quando  ebbero  vita,  il  duca  Mario  Massimo,  il 
duca  di  Castelvecchio,  il  Ferretti  ball  delPOrdine  di  Malta,  il  cav. 
Valerio  Trocchi  ed  alcuni  altri. 

La  cosi  detta  claque  esisteva  anche  prima  del  '70:  fu  piu  tardi 
esercitata  apertamente,  come  un  onesto  mestiere,  anche  da  taluni 
che  si  potevano  credere  a  prima  vista  persone  a  modo,  prima  di 
sapere  con  quale  temeraria  sfacciataggine  essi  andavano  ad  imporre 
i  loro  patti  agli  artisti,  che  non  accettandoli  correvano  pericolo  di 
essere  fischiati. 

£  naturale  supporre  che  Pimpresario,  prendendo  dal  Comune 
una  bella  dote,  e  potendo  elevare  i  prezzi  a  suo  beneplacito,  dovesse 
ammannire  al  pubblico  eccellenti  spettacoli,  ma  pur  troppo  spesso 
aweniva  che  il  pubblico  avesse  ragione  di  lamentarsi.  Eppure 
Vincenzo  Jacovacci,  al  quale  non  si  presentavano  mai  concorrenti, 
era  un  impresario  abile  ed  un  galantuomo,  tanto  e  vero  che  avendo 
avuto  per  parecchi  anni  una  specie  di  monopolio  di  quasi  tutti  i 
teatri  di  Roma,  mori  nel  1881  non  lasciando  dawero  un  gran  pa- 
trimonio,  quantunque  molti  milioni  fossero  passati  per  le  sue  mani. 

i.  «generone  .  .  .generation  vedi  p.  507. 


I    PRIMI    ANNI    DI   ROMA    CAPITALS    (1870-1878)          523 

Vincenzo  Jacovacci  era  1'ultimo  rappresentante  degli  impresari 
di  antica  scuola.  Aveva  incominciato  a  20  anni  nel  1830,  a  posse- 
dere  un  teatrino  di  marionette  al  palazzo  Fiano,  dove  Cassandrino1 
faceva  sbellicare  il  pubblico  dalle  risa,  e  mandava  spesso  il  burat- 
tinaio  in  prigione.  Fu  presto  impresario  dell* Argentina  -  il  miglior 
teatro  di  Roma  prima  che  il  principe  Torlonia  restaurasse  1' Apollo  - 
ed  in  un  periodo  della  sua  vita  ebbe  nelle  mani  1* Argentina,  V  Apollo 
restaurato  da  poco,  PAlibert  bruciato  nel  1863-6880  pure  del 
principe  Torlonia,  sulle  cui  rovine  sorsero  i  locali  nei  quali  ebbe 
poi  sede,  dopo  il  '70,  il  Circolo  artistico  internazionale  -  Panfiteatro 
Corea  che  s'apriva  nelF  estate  con  rappresentazioni  drammatiche 
e  (cgiochi  de'  cavalli»  e  lo  Sferisterio  dove  si  giuocava  al  pallone. 

Ossequente  a  tutti  i  governi  costituiti,  procure  sempre  di  andare 
d'accordo  con  i  gusti  artistici  del  tempo:  classico  con  Rossini,  fu 
poi  romantico  con  Gounod  e  con  Arrigo  Boito  del  quale  rappre- 
sento  il  Mefistofele,2  su  quelle  scene  dell' Apollo  sulle  quali  furono 
rappresentati  per  la  prima  volta  II  Trovatore  ed  Un  ballo  in  masche- 
ra?  Soltanto  per  i  balli  aveva  un  gusto  suo  particolare,  ed  osava 
esprimerlo :  romano  autentico,  li  avrebbe  voluti  d'argomento  tolto 
dalla  storia  di  Roma,  convinto  che  avrebbero  fatto  impressione  sul 
pubblico,  il  quale  invece,  ingratissimo,  non  gli  sapeva  buon  grado 
di  tale  preferenza,  e  Pobbligo  a  rinunziarvi.  II  Municipio  di  Roma 
capitale  non  era  stato  avaro  con  lui:  ma,  come  ho  detto,  egli  non 
ebbe  il  talento  di  farsi  ricco.  Gli  artisti  gli  volevano  bene:  i  «  divi»  e 
le  «  dive  »  qualche  volta  lo  strapazzavano,  ed  egli,  lasciandosi  stra- 
pazzare  di  buona  grazia,  finiva  per  farli  fare  a  modo  suo.  Gli  artisti 
rninori,  quelli  addetti  quasi  stabilmente  al  teatro,  vollero  portare  il 
feretro  del  loro  vecchio  impresario  dalla  casa  alia  chiesa. 

Mori,  si  puo  dire,  sulla  breccia.  Abitava  un  quartiere  in  via 
Tordinona,  nello  stesso  stabile  del  teatro  Apollo,  e  mentre  era  in 
agonia  sentiva  dal  letto  le  prove  di  un  ballo  nuovo,  VArduino 


i.  Cassandrino:  maschera  romana,  creata  da  Filippo  Teoli  (1806-1844), 
e  che  figure  a  lungo  come  protagonista  nelle  commedie  rappresentate  al 
palazzo  Fiano,  all'angolo  tra  il  Corso  e  Via  in  Lucina.  II  nome  derivava  dal 
Cassandro  della  commedia  dell'arte:  era  il  tipo  del  corteggiatore  maturo  e 
vanesio,  deriso  dalle  donne.  2.  II  Mefistofele  ebbe  la  sua  prima  rappresen- 
tazione  a  Milano  nel  1867  e,  caduto,  fu  ripreso  a  Bologna  nel  1875.  3.  II 
Trovatore  fu  rappresentato  a  Roma,  per  la  prima  volta,  nel  1853.  Un  ballo 
in  maschera  nel  1859.  L'anfiteatro  Corea  divenne  successivamente  la  sala 
deH'allora  distrutto  Augusteo. 


524  UGO    PESCI 

d'lvrea,  tolto  dalla  tanto  applaudita  tragedia  di  Stanislao  Morelli.1 
Fu  vittima  di  un  tumore  maligno  alia  mica,  che  non  voile  farsi 
operare  a  tempo.  Era  gia  ammalato  quando  gli  abbuonati  dell' Apol 
lo,  condannati  per  varii  contrattempi  ad  un  regime  d'Aida2  con- 
tinuato  per  quasi  due  mesi,  non  lasciarono  una  sera  tirar  su  il  si- 
pario.  Quei  benedetti  abbuonati  erano  la  sua  disperazione!  e  la  loro 
collera  deve  aver  contribuito  a  far  peggiorare  il  povero  sor  Cencio. 
II  teatro  Apollo  o  di  Tor  di  Nona,  rifatto  intieramente  dal  Tor- 
Ionia  nel  1830,  con  disegno  del  Valadier,3  restaurato  nel  1862  sotto 
la  direzione  del  Carnevali,4  e  demolito  parecchi  anni  sono  per  re- 
golare  il  corso  del  Tevere,  aveva  una  bella  sala :  ma  a  qualche  altro 
difetto  si  aggiungeva  quello  della  vicinanza  del  flume,  la  piu  pic- 
cola  piena  del  quale  faceva  uscir  fuori  Pacqua  dalle  chiaviche,  e 
minacciava  di  chiudere  gli  spettatori  dentro  al  teatro;  tanto  che 
del «  fa  bisogno »  di  esso  faceva  parte  anche  un  ponte  di  legno,  pas- 
sando  sul  quale  si  usciva,  in  caso  di  piena,  andando  fmo  ad  un 
vicolo  nella  piazza  di  San  Salvatore  in  Lauro,  piu  alta  di  via  Tor- 
dinona.  Questo  awenne  precisamente  a  chi  era  alP Apollo  la  vigilia 
delFinondazione  del  dicembre  '70,  dalla  quale  il  teatro  fu  assai 
danneggiato. 


[POETI  E  SCRITTORl]5 

Giuseppe  Giovacchino  Belli,6  morto  nel  '63,  non  aveva  lasciato 
dietro  di  se  alcun  poeta  dialettale  che  potesse  appena  emularne  non 
che  superarne  la  fama.  Cesar  e  Pascarella7  era  nel  '70  appena  un  ra- 

i.  Stanislao  Morelli,  di  Figline  (1821-1881),  combattente  nelle  guerre  d'in- 
dipendenza,  direttore  della  «Gazzetta  d'  Italia »  a  Firenze,  dal  1856  si  dedi- 
c6  al  teatro.  La  sua  fama  e  legata  zll'Arduino  d'lvrea  (1870),  che  rispecchia- 
va  situazioni  e  sentiment!  del  Risorgimento,  ed  ebbe  molti  applausi  soprat- 
tutto  nella  recitazione  di  Tommaso  Salvini.  2.  ~L'Aida  fu  rappresentata 
dapprima  al  Cairo,  il  24  dicembre  1871,  poi  alia  Scala  di  Milano  I5  8  feb- 
braio  1872.  3.  Giuseppe  Valadier  (1762-1839),  architetto  neo-classico 
molto  lodato  per  la  modernita  delle  sue  concezioni,  per  1'attenzione  che 
rivolse  all'urbanistica,  all'archeologia,  alia  restaurazioiie  dei  rnonumenti. 
4.  L' architetto  Nicola  Carnevali,  morto  a  Roma  nel  1872,  vi  lavoro  a  lungo 
per  i  teatri  Metastasio  (1840),  Argentina  (1861),  Tordinona  (1862).  5.  Ed. 
cit.,  dal  cap.  x  (Archeologi,  letterati  e  scienziati),  pp.  389-98.  6.  Giuseppe 
Gioacchino  Belli  (1793-1863),  il  maggior  poeta  romanesco  dell'altro  secolo. 
7.  Cesare  Pascarella  (1858-1940),  il  celebre  autore  di  Villa  Glori  e  de  La 
scoperta  de  V America. 


I    PRIMI   ANNI    DI    ROMA   CAPITALS   (1870-1878)         525 

gazzo,  e  si  dilettava  piu  di  schizzare  teste  d'asino  che  di  poesie 
dialettali :  i  suoi  primi  sonetti  furono  scritti  alcuni  anni  dopo.  Au- 
gusto  Sindici,1  come  ho  detto,  lasciato  Tesercito,  aveva  dimostrato 
di  aver  passione  per  il  teatro  drammatico,  e  non  pensava  a  scrivere 
in  lingua  vernacola.  V'erano  scrittori  di  sonetti  satirici,  per  lo  piu 
di  argomento  politico  ma  non  destinati  a  soprawivere  alia  effimera 
occasione  che  li  aveva  ispirati.  Ne  pubblico  un  volumetto  Augusto 
Marini  :2  e  Giggi  Zannazzo3  scriveva  allora  alcune  delle  sue  poesie 
vernacole,  che  furono  stampate  piu  tardi. 


Sconosciuto  anche  dai  suoi  concittadini  prima  del  1870,  Pietro 
Cossa,4  nato  da  un  arpinate  e  da  una  torinese,  emerse  presto  fra  i 
letterati  romani  per  la  vigoria  delFingegno,  per  la  impronta  ga- 
gliarda  e  potente  dei  suoi  lavori  drammatici,  per  la  originale  biz- 
zarria  della  sua  indole,  schiva  di  quelle  che  Max  Nordau5  chiamo 
(cmenzogne  convenzionali »  ed  altrettanto  schiva  di  onori.  Quegli 
a  cui  Roma  ha  innalzato  una  statua,  e  che  i  suoi  concittadini  avreb- 
bero  eletto  deputato,  s'egli  avesse  voluto  assoggettare  la  sua  indi- 
pendenza  alia  disciplina  di  un  partito ;  quegli  che  fu  sinceramente 
compianto  da  tutta  Roma  quando  nel  1881  mori  d'ileotifo  all'al- 
bergo  del  Giappone  a  Livorno,  assistito  da  Virginia  Marini,  da 
Francesco  De  Renzis,6  dairawocato  Giacomo  Balestra  e  da  quel 

i.  Augusto  Sindici  (1839-1921),  combattente  nelle  campagne  del  '59,  '66  e 
'70,  comincio  a  pubblicare  qualche  saggio  delle  sue  poesie,  piu  che  romane, 
laziali,  nel  1895.  Prima  di  allora,  lasciato  Pesercito  (era  ufficiale  di  cavalleria), 
s'era  rivolto  a  scrivere  romanzi,  novelle,  non  poche  e  ammirate  commedie, 
cronache  mondane  e  letterarie.  2.  Augusto  Marini  (morto  nel  1897),  ga- 
ribaldino,  esule,  dopo  il  1870  ebbe  un  impiego  neU'amministrazione  comu- 
nale  di  Roma.  Per  lui  e  per  gli  altri  minori  poeti  romaneschi,  vedi  E.  VEO, 
Ipoeti  romaneschi,  Roma,  Anonima  romana  editoriale,  1927-  3-  Giggi  Za- 
nazzo,  nato  a  Roma  nel  1860,  studioso  di  folklore,  favori  il  risorgere  del 
teatro  dialettale.  Fond6  nel  1887  il  «Rugantino  »,  giornale  umoristico.  Mori 
nel  1911.  4.  Pietro  Cossa  (1830-1881)  esordi  con  Mario  e  i  Cimbri  (1860), 
fu  poeta  della  scuola  romana,  condividendone  il  patriottismo,  e  chiuse  la 
sua  attivita  teatrale  con  /  Napoletani  del  1799  (1880).  5.  Max  Nordau, 
pseudonimo  del  sociologo  magiaro  Max  Simon  Siidfeld  (1849-1923),  il  cui 
libro  Die  konventionellen  Lilgen  der  Kvlturmenschheit(i&&3)  ebbe,  anche  in 
Italia,  vivissimo  successo  (la  settima  edizione,  poi  ristampata  piu  volte,  e 
di  Torino,  Bocca,  1912).  6.  Virginia  Marini  (1844-1918),  attrice  assai  sti- 
mata  per  le  interpretazioni  di  Dumas,  Ferrari,  Giacosa,  Martini  e,  infine, 
D'Annunzio;  Francesco  De  Renzis  (1836-1900),  gia  ufficiale  dei  Borbom, 
entro  neU'esercito  italiano,  combatte  valorosamente  a  Gaeta  (1860),  fu  um- 
ciale  d'ordinanza  del  re  nel  1866,  ecc.  Nel  1870  uno  dei  fondatori,  a  Firenze, 


526  UGO   PESCI 

cuore  d'oro  di  Augusto  Rotoli,  non  aveva  mai  saputo  che  cosa  fos- 
sero  superbia  ed  orgoglio,  e  si  era  dibattuto  da  giovane  nelle  strette 
della  miseria,  facendo  il  cantante  e  il  viaggiatore  di  commercio, 
mentre  scriveva  il  Beethoven,  il  Puskine,  il  Monaldeschi,  il  Sordello, 
lavori  imperfetti  nei  quali  si  rivela  bensi  tutta  la  forza  del  suo  splen- 
dido  ingegno.  Quando  era  gia  celebre  ed  a  tutti  noto  il  suo  nome, 
in  Roma  e  fuori,  lo  conoscevano  di  persona  appena  i  frequentatori 
del  teatro  Valle,  gli  assidui  al  caff  e  di  rimpetto  al  teatro  ed  i  frequen 
tatori  della  trattoria  del  Mellone. 

A  19  anni  Pietro  Cossa  fu  nel  '48  sotto  le  armi  per  la  liberta  e 
Findipendenza  dltalia.  II  suo  battaglione  era  stato  mandato  a  Bo 
logna.  Quando  ritorn6,  appena  posato  il  fjicile  in  caserma,  corse 
difilato  alFanfiteatro  Corea,  dove  si  recitava,  dimenticando  di  an- 
dare  a  farsi  vedere  a  casa.  Parecchi  anni  dopo  egli  tornava  dalF Ame 
rica,  dove  era  riuscito  a  raggranellare  qualche  soldo  cantando.  Ma, 
poiche  nessuno  ha  mai  conosciuto  il  valore  del  denaro  meno  di  lui, 
quando  arrivo  a  Civitavecchia  i  quattrini  messi  da  parte  erano  sfu- 
mati :  tanto  sfumati,  da  dover  egli  fare  a  piedi  le  cinquantaquattro 
miglia  che  dividono  Tantica  Centum  Cellae1  da  porta  Cavalleggeri. 
Arriv6  a  Roma  a  notte  inoltrata,  passo  ponte  Sant'Angelo,  infi!6 
per  via  Papale,2  e  di  fianco  all'orologio  dei  Filippini  vide  il  lume  an- 
cora  acceso  nelle  stanze  dove  abitava  la  sua  famiglia.  Mancava  da 
Roma  da  due  anni;  ma  senza  salire,  tiro  via  fino  a  piazza  di  Spagna, 
dove  era  stato  eretto  da  poco  il  monumento  dedicate  da  Pio  IX 
alia  Immacolata.3  Lo  guardo  bene  da  tutte  le  parti ;  poi  esclam.6 : 

—  Che  bricconata!  —  e  se  n'ando  a  casa. 

Quando  venne  a  Roma  subito  dopo  il  20  settembre  del  '70,  il 
Cossa  accetto  il  posto  di  furiere  maggiore  stipendiato  di  un  batta 
glione  di  guardia  nazionale,  che  gli  fu  dato  perche  veterano  della 
difesa  di  Roma.  Lo  lascio  per  andare  a  fare  il  precettore  d'una  casa 
patrizia,  dove  rimase  brevissimo  tempo,  come  era  da  imaginarsi. 
Nel  maggio  del  '71,  come  ho  accennato,  fu  rappresentato  al  Valle 
il  Nerone.  Da  quella  rappresentazione  il  Cossa  non  ebbe  le  so- 

del « Fanfulla»,  ma,  entrato  alia  Camera  (1874),  vende  la  sua  parte  del  gior- 
nale  (1876)  per  conservare  la  propria  liberta  politica.  Scrisse  per  il  teatro, 
specie  proverbi,  e  anche  pubblico  novelle  e  prose  varie.  i.  Centum  Cellae: 
oggi  Civitavecchia.  2.  via  Papale  e  Podierno  corso  Vittorio  Emanuele. 
3.  il  monumento  .  .  .  alia  Immacolata:  la  statua,  opera  dello  scultore  Luigi 
Poletti,  fu  fatta  innalzare  da  Pio  IX  in  occasione  della  proclamazione  del 
dogma  della  Immacolata  Concezione  (8  dicembre  1854). 


I   PRIMI   ANNI   DI   ROMA   CAPITALS   (1870-1878)         527 

disfazioni  che  aveva  diritto  di  attendersi :  ebbe  pero  almeno  quella 
di  essere  nominate  professore  di  lingua  italiana  e  di  storia  alia  scuola 
tecnica  di  Santa  Francesca  Romana.  Nella  conoscenza  della  lingua 
latina  e  della  storia  di  Roma  pochi  potevano  superarlo:  ve  1'aveva 
addottrinato  uno  zio  paterno,  Pabate  Cossa,  reputatissimo  lati- 
nista,  che  avrebbe  voluto  persuaderlo  ad  entrare  negli  ordini. 

II  Nerone  fu  accolto  a  Roma  secondo  il  merito  soltanto  quando  i 
milanesi  lo  ebbero  entusiasticamente  applaudito.  Allora  fu  offerto 
al  Cossa  un  banchetto  al  quale  erano  invitati  anche  alcuni  perso- 
naggi  ufficiali.  Si  doveva  andare  a  tavola  alle  7 :  alle  7  %  il  Cossa  non 
s'era  ancora  fatto  vedere.  Furono  spediti  emissari  a  cercarlo  da 
tutte  le  parti:  uno  fmalmente  torno,  annunziando  d'avere  incon- 
trato  il  poeta  che,  sbucciando  un'arancia,  usciva  dall'aver  desinato 
in  una  taverna  sotto  il  portico  d'Ottavia. 

Per  il  Nerone  gli  furono  offerte,  ed  egli  le  accetto,  ottocento  lire 
che  gli  parvero  un  patrimonio :  al  patrimonio  bensi  fu  presto  dato 
fondo,  senza  che  al  Cossa  rimanessero  neanche  i  danari  per  com- 
prarsi  uno  Svetonio  nuovo,  come  egli  s'era  proposto.  Ma  dei  beni 
materiali  non  si  curava  ne  punto  ne  poco.  Un  giorno,  mentre  lavo- 
rava  non  so  piu  a  quale  delle  sue  ricostruzioni  del  mondo  antico, 
corsero  ad  awertirlo  che  la  casa  in  via  della  Torretta,  dove  abitava, 
stava  per  crollare  ed  urgeva  sgomberarla.  Assorto  nel  suo  lavoro, 
il  Cossa  si  fece  ripetere  un  paio  di  volte  Pinvito :  poi  si  alzo  ad  un 
tratto,  e  scese  in  strada. 

—  Ha  preso  tutto  ?  —  gli  domando  qualcuno  che  presiedeva  allo 
sgombero  della  casa. 

—  Si,  tutto  !  —  risponde  il  Cossa.  Aveva  in  una  mano  il  mano- 
scritto,  e  nelPaltra  il  cappello  a  cilindro;  erano  rimasti  in  casa  i 
mobili,  i  libri,  le  suppellettili. 

Nel  '74  il  muncipio  di  Ferrara  lo  incarico  di  un  lavoro  dramma- 
tico  su  Ludovico  Ariosto1  da  rappresentarsi  in  occasione  delle  feste 
ariostee.  Ebbe  accoglienza  non  piu  che  benevola  a  Ferrara  e  nelle 
varie  citta  dove  fu  rappresentato,  compresa  Roma  dove  ando  in 
scena  il  15  di  febbraio  1876,  quindici  giorni  dopo  il  trionfo  della 
Messalina.  NelPagosto  del  '74  si  rappresento  Giuliano  Vapostata\ 
nel  '76  i  romani  elessero  Pietro  Cossa  consigliere  comunale,  ma 
quattro  anni  dopo  non  lo  confermarono  in  quell'ufficio,  ricono- 

i.  un  lavoro  .  .  .  Ariosto:  il  titolo  integrate  e  Ludovico  Ariosto  e  gli  Estensi 
(pubblicato  nel  1875). 


528  UGO   PESCI 

scendo  che  egli  poteva  stare  degnamente  in  Campidoglio,  ma  non 
per  discutervi  il  bilancio  comunale  od  il  regolamento  di  polizia  ur- 
bana:  tanto  e  vero,  che  in  quattr'anni,  nelPaula  Capitolina  com- 
parve  non  molto  frequentemente  ne  mai  vi  fece  udir  la  sua  voce. 
Gia  per  indole  parlava  poco,  quantunque  in  compagnia  che  gli 
andasse  a  sangue,  e  quando  era  di  buon  umore  avesse  la  risposta 
pronta  ed  arguta.  Una  sera  si  parlava  di  un  comune  amico  che  go- 
deva  di  una  tal  quale  reputazione  di  letterato,  senza  aver  mai  fatto 
nulla  per  meritarsela.  Ed  il  Cossa  osservo : 
—  Non  stampa  nulla  appunto  per  conservare  la  sua  fama! 


Raffaello  Giovagnoli,1  fin  da  quando  era  ufficiale  nell'esercito, 
aveva  tentato  a  Firenze,  al  tempo  della  capitale,  1'arringo  dramma- 
tico  con  esito  assai  lusinghiero.  Ognun  sa  che  nel  1867  combatte  va- 
lorosamente  nelle  file  garibaldine  a  Monterotondo,  dove  un  suo 
fratello  trovo  gloriosa  morte  in  faccia  al  nemico.  A  Roma,  dopo  il 
1870,  anche  il  Giovagnoli  consacro  i  suoi  studi  alia  storia  antica 
della  citta :  scrisse  un  dramma  medioevale  Marozia,  ed  il  romanzo 
Spartaco,  buttato  giu  sera  per  sera  al  caffe  del  teatro  Valle  e  pub- 
blicato  nelle  appendici  del  «Fanfulla».  Da  Spartaco  nacque  Opt- 
mia,  da  Opimia  Baudilla,  ed  ebbero  numerosa  discendenza  di  altri 
figli,  figlie  e  nipoti,  fino  a  Faustina  pubblicata  nel  «  Capitano  Fra- 
cassa»,  del  quale  il  Giovagnoli,  eletto  deputato  di  Tivoli,  dirigeva 
poi  la  parte  letteraria ;  oggi  e  tuttavia  deputato  del  primo  collegio 
di  Roma,  e  insegna  letteratura  nella  Scuola  superiore  femminile 
di  magistero  della  capitale. 

Poeta  piu  che  prosatore,  erudito,  un  po'  pedante,  di  tutt'altro 
genere  d'ingegno,  ma  pur  degno  di  essere  ricordato,  fu  Ettore 
Novelli,2  bibliotecario  della  Vallicelliana,  che  il  Giovagnoli  chia- 
mava  in  canzonatura  « Dante  Veliterno»  inutilmente  presentatosi 
piu  volte  come  candidate  politico  ai  suoi  concittadini  di  Velletri. 

i.  Raffaello  Giovagnoli  (1838-191 5),  di  Roma,  combatte  nelle  campagne  del 
'59,  del  '60,  del  '66  e  nella  spedizione  garibaldina  delTAgro  romano.  Ebbe 
ro  fama  le  sue  rievocazioni  della  Roma  classica  e  medievale  (Spartaco,  Opi 
mia,  La  guerra  sodale,  Messalina,  Publio  Clodio  ecc.)  e  i  suoi  lavori  storici 
(Ciceruacchio  e  Don  Pirlone,  vol.  I,  1894;  Pellegrino  Rossi  e  la  rivoluzione 
romana,  1898-1911).  Fu  professore  all'Istituto  superiore  di  magistero  in 
Roma  e  deputato  piu  volte.  2.  Ettore  Novelli  (1822-1900),  di  Velletri, 
elegante  scrittore  e  poeta  allora  molto  apprezzato. 


I    PRIMI    ANNI    DI    ROMA   CAPITALS   (1870-1878)          529 


Non  e  qui  il  caso  di  parlare  dei  letterati  di  altre  parti  d'  Italia 
ventiti  a  Roma  con  la  capitale,  se  non  in  quanto  essi  lasciarono 
qualche  ricordo  nella  vita  romana.  Giovanni.  Prati,1  che  a  Firenze 
fu  durante  gli  anni  dal  '65  al  '70  quotidiano  frequentatore  del  caffe 
Doney,  divenne  a  Roma  frequentatore  assiduo  del  caffe  del  Par- 
lamentoy  dove  teneva  crocchio  con  il  suo  sigaro  Virginia  quasi 
sempre  spento,  ed  eternamente  in  bocca.  Quantunque  i  due  poeti 
si  detestassero  cordialmente,  specie  dopo  la  nomina  del  Prati  a  se- 
natore,  andava  spesso  nello  stesso  caffe  anche  Giuseppe  Revere,2 
sempre  malcontento  del  mondo,  dei  suoi  abitanti,  e  dei  governanti, 
che  avevano  commesso  1'ingiustizia  di  nominare  senatore  il  Prati 
e  non  lui ;  malcontento  di  essere  relegato  alia  direzione  del  «  Bul- 
lettino  consolare»  al  ministero  degli  esteri,  quantunque  da  molti 
gli  fosse  invidiato  quel  canonicato ;  e  sempre  pronto,  come  il  Prati, 
a  sciorinare  qualche  bel  sonetto,  magari  satirico  e  talvolta  pieno  di 
feroce  ironia. 

L'Aleardi,3  che  fece  alcune  letture  al  Circolo  Cavour,  e  detto 
una  iscrizione  per  una  lapide  alTingresso  di  Campo  Verano,  si  ve- 
deva  assai  meno  in  pubblico,  ne  stava  a  Roma  da  un  anno  all'altro 
come  il  Revere  ed  il  Prati.  Vi  dimorava  invece  stabilmente  Ar- 
naldo  Fusinato,4  revisore  degli  stenografi  al  Senato,  che  ormai 
vecchio  -  e  lo  pareva  anche  di  piii  poiche  aveva  perduto  quasi  tutti 
i  denti  -  non  scriveva  piu  versi,  ma  non  aveva  perduto  nulla  del 
brio  e  delParguzia  giovanile,  ne  era  riuscito  a  dimenticare  il  dialetto 
vicentino.  Sua  moglie,  la  signora  Erminia  Fua- Fusinato,5  poetessa 
e  scrittrice,  nominata  direttrice  della  scuola  superiore  femminile, 
si  rese  altamente  benemerita,  contribuendo  efficacemente  a  tra- 


i.  Giovanni  Prati  (1815-1884)  aveva  seguito  i  Savoia  da  Firenze  a  Roma. 
Nel  1876  fu  nominate  senatore.  2.  Giuseppe  Revere:  vedi  la  nota  2  a  p.  300. 
3.  Aleardo  Aleardi  (1812-1883),  dal  1864  professore  di  estetica  e  storia 
deirarte  nelTIstituto  di  belle  arti  di  Firenze,  fu  anch'egli  nominate  sena 
tore  nel  1873.  4.  Arnaldo  Fusinato  (1817-1888),  di  Schio,  volontario  nel 
'48,  partecipo  1'anno  successive  alia  difesa  di  Venezia.  Poeta  patriottico, 
autore  di  canti  popolari,  e  anche  di  composizioni  satiriche,  fu  ai  suoi  tempi 
molto  ammirato.  5.  Erminia  Fua-Fusinato  (1831-1876),  di  Rovigo,  scrit 
trice,  poetessa,  insegnante,  visse  a  Firenze  dal  1864  al  1870,  e  poi  a  Roma. 
I  suoi  versi,  ispirati  all'amore  della  famiglia  e  della  patria,  piacquero  ai 
contemporanei.  Molti  suoi  scritti  ebbero  finalita  educative. 


530  UGO  PESCI 

sformare  di  sana  pianta  la  educazione  della  donna,  molto  trascu- 
rata  sotto  1'antico  regime.  Le  allieve  della  scuola  da  lei  diretta,  e 
n'ebbe  molte  dal  '73  al  '76,  la  idolatravano,  e  quando  mori  in  Roma, 
il  27  settembre  del  '76,  tornatavi  appena  dalla  campagna,  fu  da 
tutti  sinceramente  rimpianta,  come  se  qui  fosse  nata.  II  suo  fu- 
nerale  parve  un  trionfo :  aveva  scritto  di  se  stessa 

Paga  se  le  diran  dopo  la  bar  a: 
Ella  fu  buona  e  pia; 

ed  il  suo  voto  fu  pienamente  esaudito.  Quando  il  consiglio  diret- 
tivo  della  scuola  superiore  femminile,  che  da  lei  prese  nome  per 
deliberazione  del  Comune,  si  costitui,  sotto  la  presidenza  dell'ono- 
revole  awocato  Marchetti,1  in  comitato  promotore  per  erigere  alia 
educatrice  gentile  un  monumento  al  Campo  Verano,  sollecite  e 
numerose  offerte  gli  giunsero  da  ognl  ceto  della  cittadinanza  ro- 
mana  come  da  ogni  parte  d' Italia. 

Rammentero  un  altro  poeta  che,  venuto  a  Roma  nei  primi  anni 
della  capitale,  con  tutti  gli  entusiasmi  siciliani  della  sua  Melilli, 
ammiratore  sconfinato  di  Emanuele  Giaraca,2  poeta  dell'isola  sco- 
nosciuto  a  molti  profani,  ha  finito  per  dedicarsi  egli  pure  alia  edu 
cazione  ed  alia  istruzione  femminile.  Parlo  di  Giuseppe  Aurelio 
Costanzo,3  che  giunse  a  Roma  preceduto  da  bella  fama,  poi  confer- 
mata  con  Gli  eroi  della  soffitta,  e  con  altri  versi,  che  oggi  dirige  la 
scuola  superiore  femminile  di  magistero. 


Dal  crocchio  dei  frequentatori  del  teatro  Valle  e  del  caffe  vicino, 
del  quale  diro  phi  tardi,  nacque  la  «Lega  dell5ortografla»  auspice 
Raffaello  Giovagnoli ;  una  riunione  di  persone  di  buon  umore,  piu  o 
meno  infarinate  d'arte  o  di  letteratura,  le  quali  non  si  proponevano 
punto,  come  si  potrebbe  credere,  di  riformare  la  ortografia  italiana 


i.  RafFaele  Marchetti,  di  Roma.  Nel  1870  aveva  fatto  parte  della  Giunta 
prowisoria  di  governo  della  nuova  capitale.  2.  Emanuele  Giaraca  (1825- 
1881),  di  Siracusa,  poeta  e  traduttore  di  classici.  Awerso  ai  Borboni,  aveva 
perduto  1'impiego  dopo  la  rivoluzione  del  1848  in  Sicilia.  Fu  professore 
e  poi  preside  del  liceo  di  Siracusa.  3.  Giuseppe  Aurelio  Costanzo  (1843- 
1913)  pubblic6  nel  1869  il  suo  primo  volume  di  versi.  Gli  eroi  della  soffitta 
apparvero  nel  1880:  riprendevano  un  argomento  di  origine  sociale,  che  il 
Costanzo  aveva  gia  trattato  in  un  dramma,  /  ribelli. 


I    PRIMI    ANNI   DI   ROMA   CAPITALE   (1870-1878)          531 

come  il  presidente  Rooswelt1  si  propone  oggi  di  riformare  quella 
inglese  in  America;  bensi  pensavano  essere  necessario  di  sapere 
scrivere  « Italia »  senza  1'ombra  d'un  g]  e  si  vantavano  di  essere 
arrivati  fino  alPortografia  delParte.  I  primi  simposii  della  «Lega» 
furono  dati  alia  caupona,  nota  volgarmente  col  nome  di  osteria  del 
Mellone,  uno  dei  primissimi  fu  offerto  al  povero  Giacosa  dopo 
1'esito  felicissimo  del  Trionfo  d'amore.2  L'osteria  del  Mellone  non 
dista  molto  dal  teatro  Valle:  il  tratto  di  strada  che  divide  il  teatro 
dalla  caupona  fu  chiamato  « la  via  dei  trionfatori ».  II  Cossa  la  per- 
corse  dopo  la  prima  rappresentazione  della  Messalina,  e  quando 
oltrepass6  la  soglia  dell'osteria,  il  saluto  augurale  gli  fu  rivolto  dal 
commendatore  Ettore  Novelli,  e  gli  fu  offerto,  secondo  il  rito,  un 
litro  d'onore  mediante  pubblica  sottoscrizione  di  cinque  centesimi 
a  testa. 

Andando  avanti  i  riti  cambiarono,  s'ingentilirono.  Pietro  Cossa 
non  aveva  forse  incominciato  a  pettinarsi,  ad  ungersi  i  capelli  ed  a 
calzare  guanti  ?  La  Lega  trasferi  la  sua  residenza  al  Circolo  Giraud, 
dove  ebbero  luogo  vari  pranzi  sociali,  pranzi  allegramente  rumo- 
rosi,  nei  quali  si  discuteva  qualche  serio  argomento,  come  ad  esem- 
pio  i  «  Rapporti  ortografici  ed  etimologici  fra  la  costoletta  alia  mila- 
nese  e  la  metafisica  deirarte».  L'argomento  era  indicate  nell'invito, 
sottoscritto  dal  dittatore,  che  fu  per  molto  tempo  Francesco  De 
Renzis.  Si  poteva  essere  invitati  ad  un  banchetto  senza  essere  soci, 
ma  Tinvito  in  questo  caso  non  era  scevro  di  pericoli,  essendo  fa 
cile  trovare  un  pretesto  per  far  pagare  dalle  6  alle  12  bottiglie  di 
Champagne  all'invitato  sospetto  di  aver  sollecitato  Pinvito  per  darsi 
un  po'  Paria  del  letterato.  Tutte  le  opinioni  politiche  erano  am- 
messe  nella  Lega  .  .  .  ma  era  vietato  scrupolosamente  di  esprimerle. 

Oltre  il  Giovagnoli,  il  piu  tempestoso  ed  irrequieto  della  comi- 
tiva;  oltre  Pietro  Cossa,  che  qualche  rara  volta  si  ricordava  di  essere 
stato  baritono  ed  intuonava  un  pezzo  delP  opera  allora  in  voga; 
oltre  il  dittatore  De  Renzis;  appartennero  alia  Lega  fino  dalPori- 
gine,  o  vi  entrarono  piu  tardi,  il  maestro  Luigi  Mancinelli,  Bino 
Avanzini  direttore  del  «  Fanfulla  »,  il  marchese  D'Arcais,  Giuseppe 
Costetti,  Ferdinando  Martini,  Luigi  Arnaldo  Vassallo,  Giuseppe 

i.  Theodore  Roosevelt  (1858-1919),  il  ventesimo  sesto  presidente  degli  Sta- 
ti  Uniti,  svolse  anche  un'intensa  attivita  pubblicistico-letteraria,  seguita  con 
fervido  interesse  dai  lettori  italiani  del  primo  Novecento.  2.  II  Trionfo 
d'amore  di  Giuseppe  Giacosa  (1847-1906)  fu  rappresentato  per  la  prima 
volta  nel  1875. 


532  UGO   PESCI 

Turco,1  e  tanti  e  tanti  altri,  la  maggior  parte  de'  quali  ahime!  sono 
scomparsi,  come  sono  passati  quei  tempi  nei  quali  mi  pare  di  udire 
echeggiare  ancora  le  loro  allegre  risate. 


[IL   CORTEO  DI   CERVARA]2 

Gli  artisti  di  tutti  i  paesi  dimoranti  in  Roma  solennizzano  il  ri- 
torno  della  bella  stagione  con  una  festa,  che  gli  artisti  tedeschi  re- 
clamano  il  merito  di  avere  inventata.  E  una  festa  indescrivibile; 
non  la  penna  ma  la  matita  o  il  pennello  di  un  pittore  umorista,  po- 
trebbero  darne  un'idea  approssimativa  a  chi  non  Tha  mai  veduta. 
£  una  processione,  e  un  corteo  di  equipaggi  strani,  di  asini,  di 
cavalli  di  sangue,  di  cosacchi  in  tuba  ed  egiziani  mfrack,  di  costumi 
splendidi  e  costumi  fantasticamente  ed  artificiosamente  miserabili ; 
cavalieri  di  Cromwell  con  1'elmo  alia  romana,  fedeli  del  Campido- 
glio,  e  guerrieri  romani  antichi  con  il  kolbak  alia  ussara. 

II  corteo,  scortato  dalla  «gendarmeria  di  Cervara»  s'incammi- 
nava  di  buon'ora  fuori  di  porta  Maggiore  e  faceva  un  primo  alt  a 
Tor  di  Schiavi  -  alt  che  fu  poi  soppresso,  avendo  per  conseguenza 
il  dover  pagare  troppi  danni  ai  proprietari  dei  prati  circonvicini  - 
poi  si  dirigeva  a  Cervara,  dove  nelle  bellissime  grotte  di  tufo  si 
faceva  colazione.  I  principi  di  Piemonte,  dal  '71  in  poi,  non  man- 
carono  mai  per  parecchi  anni  di  assistere  alia  sfilata  del  corteo  di 


i.  Luigi  Mancinelli  (1848-1921),  di  Orvieto,  direttore  d' orchestra  e  com- 
positore,  si  affermo  a  Roma,  all'  Apollo :  e  inaugur6  poi  le  sale  da  concerto 
di  vari  teatri  (Costanzi  di  Roma,  Metropolitan  di  New  York  ecc.) ;  per  Bino 
Avanzini  vedi  la  nota  i  a  p.  505 ;  Francesco  D'Arcais  (1830-1890),  di  Ca- 
gliari,  critico  e  compositore,  fu  redattore  musicale,  e  anche  drammatico, 
del  giornale  «  L'opinione  »,  e  critico  musicale  della  « Nuova  Antologia » ;  Giu 
seppe  Costetti  (1834-1928),  di  Bologna,  commediografo.  Molti  i  suoi  lavori 
teatrali  (II  figlio  difamiglia,  1864;  Gli  intolleranti,  1865;  //  dover  e,  1866; 
La  lesina,  1867,  ecc.).  Nel  1873  pubblic6  le  Confessioni  di  un  autore 
drammatico.  Collaboro  al  «Fanfulla»  e  al  «  Bersagliere » ;  per  Ferdinando 
Martini  vedine  il  Profilo  biografico  piu  avanti,  in  questo  volume;  Luigi 
Arnaldo  Vassallo  (1852-1906),  di  Genova,  generalmente  noto  con  lo  pseu- 
donimo  di  «  Gandolin  ».  Scrisse  nel  giornale  romano  «  Capitan  Fracassa », 
nel  «  Don  Chisciotte »,  da  lui  fondato  a  Roma  nel  1887,  e  nei  quaderni  men- 
sili  del  « Pupazzetto »,  dove  bril!6  come  disegnatore  caricaturista ;  Giu 
seppe  Turco,  giornalista,  direttore  del  « Bersagliere »,  fondato  da  Federico 
Pugno  nel  1875,  mori  a  Napoli  nel  1903.  2.  Ed.  cit.,  dal  cap.  xi  (Pittori, 
scultori,  architetti  e  musicisti)>  pp.  457-9. 


I    PRIMI    ANNI    DI   ROMA    CAPITALE   (1870-1878)         533 

Cervara,  che,  in  quel  primo  anno,  rappresentava  il  trionfo  d'un 
Faraone  -  il  pittore  Anatolio  Scifoni  -1  con  i  carri  del  trionfatore 
seduto  in  trono,  della  rispettiva  «faraona»  e  del  hue  Api,  con  la  ca- 
valleria  mista  comandata  dal  principe  di  Ginnetti,  e  la  cavalleria  asi- 
nina  comandata  dallo  scultore  Masini.2  I  gendarmi  di  Cervara, 
stivalati  fmo  all'mguine,  con  delle  vesti  di  fiaschetti  d'Orvieto  per 
spalline,  e  dei  candelieri  da  pianoforte  per  speroni,  rendevano  gli 
onori  militari. 

Troppo  ci  vorrebbe  a  parlare  anche  delle  sole  feste  di  Cervara  de' 
primi  anni ;  nel  '74  vi  figurava  un  bellissimo  scia  di  Persia  con  tutto 
il  suo  seguito,  la  gendarmeria  era  comandata  dal  bizzarro  pittore 
Viennese  Teodoro  Ethofer  ;3  e  la  questura  fece  ridere  alle  sue  spalle 
volendo  arrestare  Raimondo  Tusquetz,4  il  bel  pittore  spagnuolo, 
vestito  da  francescano  con  una  tonaca  piena  di  rattoppature  mera- 
vigliosamente  artistiche,  perche  era  in  una  botticella,  sotto  un  im- 
menso  ombrellone  d'incerato  verde,  con  una  pacchiana5  alia  quale 
ogni  tanto  dava  un  abbraccio.  La  questura,  credendola  una  pac 
chiana  vera,  credette  di  scorgere  in  quelli  abbracci  un'offesa  al  pub- 
blico  pudore,  ma  resto  con  tanto  di  naso  quando  nella  pacchiana 
dovette  riconoscere  il  Russo  . .  .  che  era  un  pittore  italiano. 

Nel  1876,  avendo  cambiato  proprietario  la  tenuta  di  Cervara,  la 
festa  fu  fatta  alia  Magliana,  fuori  di  porta  Portese,  dove  il  magni- 
fico  palazzo  fattovi  costruire  da  Sisto  IV  della  Rovere,  che  albergo 
Leone  X  e  la  sua  Corte,  si  reggeva  appena  in  piedi,  mutato  in  gra- 
naio  ed  in  dormitorio  di  mandriani  e  di  butteri.  Vi  fu  rappresen- 
tato  il  Trionfo  di  Bacco,  e  profittando  della  vicinanza  del  Tevere, 
all'esercito  di  terra  si  uni  Tarmata,  rappresentata  dai  canottieri  del 
Tevere,  che  tentarono  uno  sbarco  respinto  daU'artiglieria  da  costa. 

Si  torn6  presto  a  Cervara:  molte  altre  feste  sono  allegramente 
riuscite:  debbo  confessare  di  non  averne  piu  vedute  da  un  pezzo, 
e  non  so  proprio  dire  se  valgano  quelle  d'una  volta. 

i.  Anatolio  Scifoni  (1841-1884),  di  Firenze,  si  trasferi  a  Roma  nel  1870  e 
vi  si  stabili.  Ebbe  fama  per  le  rievocazioni  del  mondo  antico,  specie  di  sce 
ne  e  ambienti  pompeiani.  2.  Girolamo  Masini  (1840-1885)  fu  professore 
di  scultura  nelTIstituto  di  belle  arti  di  Roma.  Tra  le  sue  statue  (Cleopatra, 
Fabiola,  Cola  di  Rienzi,  ecc.)  merita  ricordo  il  monumento  ad  Adelaide 
Cairoli,  eretto  a  Groppello.  3.  Teodoro  Ethofer,  nato  a  Vienna  nel  1849. 
Visse  per  quindici  anni  in  Italia.  4.  Raimondo  Tusquetz  (1837-1904),  di 
Barcellona,  si  stabili  a  Roma  nel  1865,  ed  ebbe  fama  per  i  suoi  quadri 
storici.  5.  pacchiana:  popolana,  contadinotta.  Vocabolo  romanesco,  forse 
da  pagana,  abitante  di  un  pagus,  villaggio. 


534  UGO 


[LIBERALI  E  CLERICALI]* 

Quaiido  un  potere  si  sovrappone  ad  un  altro  e  umanamente  ne- 
cessario  che  awengano  attriti  fra  i  sostenitori  e  fautori  del  potere 
antico  e  quelli  del  nuovo  ;  e  che  tali  attriti  siano  maggiori  quando, 
nella  lotta  fra  i  due  poteri,  entra  di  mezzo  o  si  vuol  farvi  erttrare 
anche  un  dissidio  d'indole  religiosa.  Poi,  a  poco  a  poco,  il  tempo 
calma  i  risentimenti,  addolcisce  le  asprezze,  smussa  gli  angoli  troppo 
acuti,  e  fa  diventare  praticamente  possibile  la  convivenza  dei  due 
poteri,  anche  se  rappresentano  due  diversi  principii,  convivenza  che 
teoricamente  si  sarebbe  dovuta  ritenere  impossible.  II  y  a  m§me 
avec  le  del  des  accomodements,  dicono  i  Francesi,  e  secondo  un 
nostro  vecchio  proverbio  «  le  some  si  aggiustano  lungo  la  via  ». 

La  storia  di  Roma  capitale  d'ltalia,  dal  20  settembre  ad  oggi,  e 
tutta  piena  di  urti,  di  attriti  e  di  accomodamenti  fra  i  due  poteri 
che  si  trovano  domiciliati  sulle  due  rive  del  Tevere.  Chi  potrebbe 
ridire  ad  uno  ad  uno  gli  incidenti,  gli  episodi  di  questa  lotta,  di- 
venuta  sempre  meno  aspra  da  una  parte  e  dall'altra,  a  mano  a  mano 
che  sono  scomparsi  i  principali  attori  delle  prime  fasi  di  essa,  ed  i 
loro  successori  hanno  dovuto  accettare  la  realta  del  fatto  compiuto  ? 
Mi  sforzero  di  accennare  agli  episodi  principali  awenuti  negli  anni 
de'  quali  si  parla  in  questo  volume. 


Nel  pomeriggio  del  20  settembre,  appena  mi  fu  possibile,  corsi 
a  villa  Potenziani  dove  era  stato  ricoverato  il  tenente  d'artiglieria 
Giulio  Cesar  e  Paoletti,  ferito  gravemente  la  mattina  da  una  palla 
di  Remington.  Era  gia  morto!  Nella  villa  avevano  ricoverato  altri 
feriti :  stava  ad  assisterli  un  giovine  francescano  di  Palestrina,  non 
grande  di  statura,  esile,  con  una  morbida  barba  castagna.  Rividi 
quel  seguace  del  poverello  d'Assisi  la  mattina  del  2  ottobre,  la  so- 
lenne  giornata  del  plebiscite.  Egli  da  una  parte,  il  canuto  cappel- 
lano  delPAccademia  di  San  Luca,  in  abito  talare  e  calze  paonazze, 
dalFaltra,  camminavano  accanto  ad  una  grande  bandiera  tricolore, 
dietro  la  quale  marciavano  in  bell'ordine  gli  ufficiali  e  i  sottufficiali 
romani  delPesercito  italiano,  venuti  a  dare  il  loro  voto  per  Pan- 
nessione. 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  xm  (Attriti  ed  accomodamenti),  pp.  497-509. 


I   PRIMI   ANNI   DI   ROMA   CAPITALE   (1870-1878)         535 

Pochi  giorni  dopo,  il  fraticello  depose  il  saio  francescano:  lo  ave- 
vano  mandate  via  dalPordine  e  private  di  ogni  ufficio  ecclesiastico. 
Frequento  le  conferenze  didattiche  tenute  in  Roma  per  prowedere 
sollecitamente  maestri  alle  scuole  elementari  comunali,  e  il  conte 
Guido  di  Carpegna  1'aiuto  ad  entrare  nelPinsegnamento.  II  frati 
cello  che,  nei  primi  giorni  dopo  il  20  settembre,  era  con  il  generate 
Cadorna  1'uomo  piu  in  vista  di  Roma,  scomparve  presto  e  forse 
piu  nessuno  ora  lo  ricorda.  Questo  primo  episodio  non  ebbe  alcuna 
importanza  di  per  se  stesso ;  ma  il  suo  significato  non  puo  sfuggire 
a  chiunque  considera  non  soltanto  superficialmente  le  cose  di  que- 
sto  mondo. 

II  i°  di  novembre  Pio  IX  lancio  la  scomunica  a  quanti  avevano 
cooperate  alia  occupazione  di  Roma:  il  governo  ebbe  il  torto  di  se- 
questrare  i  giornali  che  pubblicarono  il  documento  pontificio,  quasi 
se  ne  potesse  incriminare  Tautore.  L'occupazione  del  Quirinale  e 
quella  di  alcuni  conventi,  fatta  prima  di  estendere  a  Roma  la  legge 
sulle  corporazioni  religiose,  suggeriva  intanto  al  cardinale  Anto- 
nelli  Tinvio  di  varie  note  diplomatiche,  una  dopo  1'altra,  alle  po- 
tenze  che  mostravano  di  non  curarsene  troppo. 

II  5  novembre  la  Giunta  municipale  prowisoria  nominata  dal 
generale  Cadorna,  che  per  comporla  non  era  andato  dawero  a 
scegliere  dei  rompicolli,  invio  una  lettera  al  generale  La  Marmora 
luogotenente  del  Re,  esponendogli  quali  inconvenienti  potevano 
derivare  dal  lasciare  tranquillamente  i  Gesuiti  risiedere  e  fare  scuola 
nel  Collegio  romano;  ed  Aristide  Gabelli,1  proweditore  agli  studii, 
d'accordo  con  Tonorevole  Brioschi  consigliere  della  Luogotenenza 
per  le  cose  delPistruzione,  awertiva  con  una  circolare  della  non 
validita  degli  esami  fatti  nelle  scuole  della  Compagnia  di  Gesu  dopo 
1'apertura  delle  scuole  governative.  II  Circolo  Cavour,  il  piu  mo- 
derato  dei  circoli  politici  di  Roma,  mandava  al  Luogotenente  del 
Re  una  petizione  chiedendo  che  i  gesuiti  fossero  espulsi  immedia- 
tamente:  glie  la  presentarono  gli  stessi  tre  cittadini  che,  nel  '46, 
ne  avevano  presentata  una  eguale  a  Pio  IX.  II  La  Marmora  rispose 
di  doversi  rimettere  alle  decisioni  del  governo;  ma  il  giorno  dopo, 
qualche  centinaio  di  persone  ando  davanti  al  palazzo  della  Consulta 

i.  Aristide  Gabelli  (1830-1891),  di  Belluno,  pedagogista,  rinnovatore  di 
metodi  e  strutture  della  scuola  elementare  italiana.  Fu  proweditore  agli 
studi  in  Roma  dal  1874  al  1881,  e  successivamente  deputato  di  Venezia  dal 
1886  al  1890. 


536  UGO   PESCI 

ad  esprimere  lo  stesso  desiderio  con  delle  grida.  Fu  proibito  ai  ge- 
suiti  1'insegnamento,  e  la  bandiera  tricolore  sventolo  sulla  porta  del 
Collegio  Romano,  mentre  la  martellina  degli  scalpellini  lavorava  a 
cancel lare  la  sigla  dell'Ordine  scolpita  nel  travertine  della  facciata. 

I  gesuiti,  abbandonando  quasi  tutto  il  vasto  fabbricato,  occupato 
dal  governo  per  stabilirvi  il  ginnasio  e  liceo  Ennio  Quirino  Visconti, 
si  riunirono  nell'altro  convento  del  Gesu,  di  loro  spettanza,  conser- 
vando  al  Collegio  Romano  1'osservatorio,  il  cortile  ridotto  a  giar- 
dino  dal  padre  Secchi,1  ed  alcuni  altri  locali. 

In  quei  primi  tempi,  come  e  naturale,  da  ambedue  le  parti  si 
esorbitava.  Mentre  alcuni  giornali  clericali  svillaneggiavano  il  go 
verno  ed  i  nuovi  venuti,  qualche  giornale  liberale  perdeva  talvolta 
il  rispetto  alle  cose  rispettabili.  Alia  penna  degli  scrittori  si  aggiun- 
geva  la  matita  dei  caricaturist! :  TAntonelli,  il  generale  Kanzler,2 
monsignor  De  Merode  erano  particolarmente  presi  di  mira:  si  usa- 
va  qualche  riguardo  a  Pio  IX  per  paura  dei  sequestri.  Si  rappresen- 
tava  Lafuga  in  Corsica,  essendosi  sparsa  la  falsa  notizia  che  il  Papa 
volesse  andarvi,  disegnando  1'Antonelli  sopra  un  asinello,  con  Pio  IX 
nelle  braccia  in  sembianza  di  pargoletto,  ed  il  padre  Curci3  che 
tirando  la  corda  all'asino  restio  lo  costringeva  a  camminare;  con  il 
titolo  di  Museo  archeologico>  si  raffigurava  il  Papa  seduto  in  trono 
come  un  idolo  buddistico,  con  il  cardinale  Antonelli  che  invitava  il 
pubblico  alF«  ultima  rappresentazione »  suonando  la  lira. 

Poi  venne  il  carnevale  del  '71  e  con  il  carnevale  le  mascherate 
allusive.  Sopra  un  carro  don  Pirlone4  assisteva  « il  temporale »  sul 

i.  Angelo  Secchi  (1818-1878),  di  Reggio  Emilia,  dell'ordine  dei  gesuiti. 
Astronomo  di  amplissima  fama,  insegnante  nel  Collegio  romano:  quando 
nel  1873  i  gesuiti  ne  furono  allontanati,  egli  rimase  in  queH'osservatorio, 
per  intervento  di  Quintino  Sella,  Marco  Minghetti  e  Antonio  Scialoja. 
Ha  lasciato  numerosissime  opere.  Su  lui  vedi  G.  ABETTI,  Padre  Angelo  Sec 
chi,  Milano  1928.  2.  II  generale  Hermann  Kanzler  (1822-1888),  coman- 
dante  delle  truppe  pontificie,  diresse  la  resistenza  di  Roma  nel  1870. 
3.  Carlo  Maria  Curci  (1810-1891),  di  Napoli,  entro  nell'ordine  dei  gesuiti 
nel  1826.  Difensore  dapprima  deU'ordine  contro  il  Gioberti,  e  del  potere 
temporale,  con  volumi  e  articoli  sul  giornale  « Civilta  cattolica »  (in  gran 
parte  fondato  per  opera  sua,  a  Napoli,  nel  1850),  sostenne  successivamente 
la  necessita  che  la  Chiesa  rinunziasse  al  potere  temporale,  e  fu  percio  co- 
stretto  ad  uscire  dall'ordine  (1877).  Pubblico  allora  alcuni  libri  notevoli: 

II  moderno  dissidio  tra  la  Chiesa  e  V Italia  (1877);  La  nuova  Italia  e  i  vecchi 
zelanti  (1881);  lo  Scandalo  del  Vaticano  regio  (1884);  //  Vaticano  regio 
(1885),  che  furono  condannati  dalla  Chiesa.  Si  ritratto  e  rientr6  nell'or- 
dtne  nel  1891.     4.  don  Pirlone:  nel  secondo  numero  di  un  settimanale 
umoristico,  « II  don  Pirlone »,  che  si  pubblic6  a  Genova  dal  23  settembre 


I    PRIMI   ANNI   DI   ROMA   CAPITALE   (1870-1878)         537 

letto  di  morte.  Poiche  si  parlava  altresi  d'una  crociata  che  nel  Bel- 
gio  si  preparava  a  rimettere  il  Papa  sul  trono,  erano  pronti  ad  ap- 
parire  sul  Corso  i  «  nuovi  templari »  inforcando  degli  asini,  quando 
la  polizia  sopraggiunse  a  proibire  la  mascherata. 

II  popolino  se  la  godeva  sfogandosi  in  cose  puerili:  all' Argentina 
si  rappresentava  1'opera  buffa  Chi  la  dura  la  vince,1  ed  il  pubblico 
applaudiva  fragorosamente  un  personaggio  quando  cantava: 

O  povero  Giovanni, 
di  te  che  mai  saral 

perch£  Pio  IX  si  chiamava,  al  secolo,  Giovanni  Mastai  Ferretti. 
Alia  tombola,  passatempo  graditissimo  ai  romani  di  alcuni  ceti,  il 
numero  58  (Papa)  era  accolto  con  urli  e  fischi,  ed  il  20  -  settembre  - 
da  prolungati  applausi. 

Non  mancavano,  dalla  parte  contraria,  eccitamenti  alia  reazione. 
Alle  4%  dell'8  dicembre,  in  piazza  San  Pietro,  alcuni  cacdalepri 
e  vaticanisti  di  bassa  condizione  gridarono  «  Viva  Pio  IX  papa  Re, 
morte  ai  liberali)>.  Ad  uno  schiaffo  datogli,  un  popolano  rispose 
con  una  legnata:  ne  nacque  un  tafferuglio,  ed  i  papalini  fuggirono, 
non  senza  qualche  tentative  di  menar  le  mani,  si  che  un  Francesco 
Bersani  fu  leggermente  ferito,  e  poi  arrestato  dagli  agenti  di  pub- 
blica  sicurezza,  insieme  ad  un  Valentin!  e  ad  Angelo  Tognetti,  resosi 
poi  famoso  per  simili  e  peggiori  imprese.  Un  ufEciale  ed  alcuni 
militi  della  Guardia  nazionale  salvarono  tre  individui  che  i  borghi- 
giani  eccitati  volevano  buttare  a  flume.  Nel  processo  fatto  poco  dopo 
al  Valentin!  ed  al  Tognetti,  essi  furono  assoluti2  per  insufficienza 
di  prove,  e  non  pote  venir  bene  in  chiaro  chi  veramente  fosse  stato 
il  provocatore. 

Nel  febbraio  del  '71  il  Circolo  romano  rinnuovo  la  richiesta,  gia 
fatta  dal  Circolo  Cavour,  per  Pespulsione  immediata  di  tutti  i  ge- 


1863,  si  spiego  il  titolo  osservando  come  «girella»  venga  da  «girare»,  che 
equivale  a  pirlare ;  cioe  Pirlone  significa  « voltafaccia  »,  mentre  don  identifi  - 
ca  il  personaggio  con  un  prete  e  specialmente  con  un  gesuita.  Giornali  di 
tempi  diversi  (a  Torino  nel  1852  e  a  Roma  nel  1848-1849  e  nel  1863) 
presero  il  titolo  da  questa  caricatura  anticlericale.  i.  L'opera  buffa  Chi 
dura,  vince,  di  Luigi  Ricci  (1805-1859),  data  per  la  prima  volta  a  Roma 
nel  1835,  fu  poi  rielaborata  dal  musicista  per  il  Teatro  alia  Scala  di  Milano, 
e  vi  ebbe  un  vero  trionfo  nel  1837.  I  versi  citati  figurano  nella  scena  vin 
dell'atto  n  e  sono  di  lacopo  Ferretti,  autore  del  libretto.  2.  Nel  proces 
so  . .  .assoluti:  il  processo  si  chiuse  il  4  gennaio  1871. 


538  UGO   PESCI 

suiti.  II  2  marzo,  Pio  IX  indirizzo  al  cardinale  vicario  Costantino 
Patrizi1  una  lettera  con  la  quale  respingeva  anticipatamente  la  legge 
per  le  garanzie  che  in  Firenze  si  discuteva  alia  Camera,  facendo 
1' apologia  dei  gesuiti  e  negando  di  subirne  Pinfluenza:  il  6,  in  con- 
cistoro  segreto,  pronunziava  una  allocuzione  vivacissima  contro  gli 
autori  di  quanto  era  stato  fatto  in  Roma  dal  20  settembre  in  poi. 


Nella  chiesa  del  Gesu,  verso  il  mezzogiorno  del  9  marzo,  il  padre 
Tommasi,  della  Compagnia  di  Gesu,  stava  per  terminare  la  predica, 
quando  entro  un  tenente  della  Guardia  nazionale,  il  signor  Santini, 
in  abito  borghese.  Tenne  un  contegno  non  conveniente  al  luogo 
dove  era  entrato  ?  Egli  lo  nego :  i  suoi  aggressori  lo  affermarono,  ne 
gando  alia  lor  volta  di  essersela  presa  con  lui,  riconoscendolo  per 
ufficiale.  Fatto  sta  che  lo  aggredirono  in  parecchi,  armati  di  bastoni, 
uno  de'  quali  raccolto  in  chiesa,  aveva  per  porno  una  piccola  ac- 
cetta  di  metallo.  II  Santini  si  difese;  accorsero  le  guardie  ed  un  uf 
ficiale  del  62°  fanteria  con  un  picchetto  di  guardia  al  convento. 
Furono  arrestati,  quali  aggressori  del  Santini,  Giuseppe  Scevola 
ex  maresciallo  della  gendarmeria  pontificia,  e  Camillo  Costa  di 
buona  famiglia  borghese  clericale.  La  predica  era  terminata  in 
fretta  ed  in  furia,  e  quelli  che  uscivano  dalla  chiesa  s'incontrarono 
in  molti  giovani  che  saputo  il  fatto,  s'erano  fermati  sulla  piazza. 
Ne  nacque  una  nuova  zuffa;  usci  di  tasca  qualche  rivoltella.  Cara- 
binieri,  guardie  e  soldati  sgombrarono  la  piazza,  ne  chiusero  gli 
sbocchi,  e  raccolsero  sul  campo  di  battaglia  parecchi  revolvers  e 
bastoni  con  stocco.  Gli  ufficiali  del  62°  accompagnarono  alcune 
vecchie  signore  che  non  si  attentavano  ad  uscire  di  chiesa.  Furono 
arrestate  19  persone,  fra  le  quali  due  preti  ed  un  ex  ispettore  della 
polizia  pontificia:  un  tale  che  aveva  ferito  una  guardia  di  pubblica 
sicurezza  e  s'era  poi  rifugiato  accanto  ad  un  altare  dove  si  celebrava 
la  messa,  fu  arrestato  soltanto  quando  la  messa  fu  terminata  e  la 
chiesa  chiusa. 

La  sera  vi  fu  un  tentative  di  dimostrazione  contro  il  convento 
del  Gesu,  ma  i  dimostranti  furono  persuasi  ad  andarsene  dal  conte 
Michelangelo  Spada  tenente  dei  carabinieri,  molto  ben  voluto  da 
tutti :  vi  fu  un  po'  di  rumore  a  piazza  Colonna,  e  si  fischio  credendo 

i.  Cardinale  e  senatore  di  Roma,  Costantino  Patrizi  era  natb  a  Siena  il 
1798,  mori  a  Roma  nel  1876. 


I    PRIMI    ANNI    DI    ROMA    CAPITALS    (1870-1878)         539 

cacdalepre  chi  non  lo  era.  La  mattina  dopo,  alia  predica  del  padre 
Tommasi  assistevano  sole  donne,  e  le  prediche  cessarono  non  per 
ordine  d'alcuno  ma  per  volonta  del  capi  dell'Ordine. 

Altre  scene  spiacevoli  accadevano  nelle  chiese.  A  Sant'Ignazio, 
durante  una  predica  di  monsignor  Annaviti,  giornalista  clericale 
che  chiamava  il  Renan1 «  Giuda  della  letteratura  modernaw,  temen- 
dosi  qualche  disordine,  erano  entrati  due  funzionari  di  pubblica  si- 
curezza.  Terminata  la  predica,  il  marchese  Baviera  passa  vicino  ad 
uno  dei  due,  che  conoscendolo  faceva  atto  di  salutarlo,  gli  batte 
una  mano  sulla  spalla  e  gli  dice:  —  Se  in  Roma  si  credono  padroni 
loro,  in  chiesa  siamo  padroni  noil  —  Nella  stessa  chiesa,  il  padre 
Curci  chiama  i  liberali  «schiavi  delle  piu  abiette  passioni»,  ed  in 
Sant' Andrea  delle  Fratte  usa  parole  irriverenti  per  indicare  la  prin- 
cipessa  Margherita,  da  pochi  giorni  arrivata  a  Roma:  i  giornali  li 
berali  protestano  vivamente,  ed  il  padre  Curci  rettifica  le  frasi  sta- 
tegli  attribuite.  Le  aveva  dette? 

Ho  conosciuto  il  padre  Curci  in  casa  del  signor  Montgomery 
Stuart,2  qualche  anno  dopo,  quando  aveva  scritto  II  Vaticano  regio 
ed  era  per  cio  caduto  in  disgrazia.  Chi  lo  sentiva  parlare  allora,  non 
poteva  certamente  crederlo  capace  di  triviali  insulti  verso  una  au- 
gusta  signora.  La  sua  conversazione  era  piacevolissima  ed  originale : 
ricordo  che  un  giorno,  presente  un  capitano  d'artiglieria,  si  discor- 
reva  di  non  so  quali  eccessi  di  plebaglia  scatenata.  Ad  un  tratto 
il  padre  Curci,  che  non  aveva  mai  perduto  Paccento  e  il  modo 
di  parlare  napoletano,  con  gesti  animati,  usci  fuori  con  questa 
frase: 

—  Signori  miei!  qua  non  ce  stanno  che  due  rimedi:  Cristo  o  u' 
cannone!  La  parola  di  Cristo  la  dico  anch'io:  —  e  indicando  il  ca 
pitano  —  pe*  uy  cannone  ce  sta  u'  signore! 

Ricorrendo  la  Pasqua  del  '71,  il  Cardinale  Vicario  ordino  ai  sa- 
cerdoti  della  diocesi  di  negare  Passoluzione  a  quanti  avevano  giu- 
rato  fedelta  al  governo  italiano,  mettendo  molte  coscienze  in  grave 

i.  Ernest  Renan  (1823-1892),  il  celebre  autore  della  Vie  de  Jesus,  per  essa, 
in  ispecie,  oltre  che  per  la  sua  mancata  vocazione  ecclesiastica  e  il  suo  se- 
mi-razionalismo,  definite  Giuda  della  letteratura  moderna,  a  irrisione  e 
condanna  del  successo  letterario  dell'opera  sua.  2.  James  Montgomery 
Stuart  (1816-1889),  venuto  in  Italia  (1841),  per  la  sua  malferma  salute  si 
fermo  a  Firenze,  divenne  amicissimo  dell'  Italia,  favorevole  al  suo  Risorgi- 
mento.  Si  awicino  al  gruppo  del  Vieusseux,  fondo  (1855)  la  «Rivista  bri- 
tannica»,  scrisse  su  giornali  inglesi  a  favore  del  nostro  paese. 


540  UGO    PESCI 

imbarazzo.  Per  il  giuramento  delle  reclute  chiamate  sotto  le  armi 
non  fu  possibile  trovare  un  prete  che  dicesse  la  messa.  Don  Nic- 
cola  Cafiero,  parroco  di  Santa  Maria  del  Carmine  a  porta  Portese, 
la  disse  per  le  reclute  dei  bersaglieri  e  deH'artiglieria,  rivolgendo 
loro  brevi  parole  intorno  alia  religione  e  la  patria :  fu  subito  private 
della  parrocchia  e  sospeso  a  divinis,  e  si  ottenne  in  tal  modo  che  la 
messa  e  la  benedizione  d'un  prete  fossero  non  piu  considerate  ne- 
cessarie  per  la  santita  del  giuramento.  Tali  fatti  non  potevano  pas- 
sare  sotto  silenzio,  ed  eccitavano  un  sentimento  di  reazione  dall'al- 
tra  parte:  il  13  aprile,  anniversario  del  ritorno  di  Pio  IX  da  Gaeta, 
in  piazza  di  Spagna  furono  tirate  delle  sassate  contro  le  finestre 
d'una  inglese  fanatica,  che  aveva  messo  fuori  delle  lanterne  di  carta 
bianca  e  gialla,  sulle  quali  era  scritto  «Viva  Pio  IX  papa  re!». 

Promulgata  la  legge  delle  guarentigie,1  una  nota  dell' Antonelli 
dichiaro  alle  potenze  che  il  Papa  non  poteva  accettarla:  la  nota, 
pubblicata  da  un  giornale  romano,  fu  dichiarata  apocrifa  dair«  Os- 
servatore»:2  ma  la  vera  era  quasi  eguale.  II  25°  anniversario  del- 
Tesaltazione  di  Pio  IX  al  pontificate  fu  solennizzato  senza  incidenti, 
poiche  il  buon  senso  ed  il  tatto  della  grande  maggioranza  della  po- 
polazione  romana  furono  sempre  degni  di  ammirazione  e  di  lode, 
ne  possono  far  torto  ad  una  cittadinanza  le  birichinate  e  le  aberra- 
zioni  di  pochi.  Ho  gia  detto  come  il  Re  d' Italia  mando  le  sue  con- 
gratulazioni  al  pontefice,  e  come  i  suoi  inviati  furono  ricevuti  dal 
cardinale  Antonelli.3 

Nell'agosto  si  celebrarono  tridui  e  si  cantarono  Te  Deum  per 
avere  il  Papa  raggiunti  e  superati  «  gH  anni  di  Pietro  ».4  I  clericali 
andarono  in  massa  a  San  Giovanni  in  Laterano,  non  disturbati: 
ma  durante  la  funzione,  due  botti  ed  un  carretto  arrivarono  sulla 
piazza,  pieni  di  giovanotti  con  bandiere  tricolori,  che  gridavano 
aViva  T Italia» ;  i  carabinieri  li  pregarono  d'andarsene,  e  niente  altro 
awenne.  Ma  il  giorno  dopo,  il  24,  alia  fine  d'un  triduo  celebrate 
nella  chiesa  della  Minerva,  i  primi  usciti  furono  accolti  con  fischiate 
ed  insulti.  La  forza  pubblica  intervenne  ed  arresto  i  caporioni,  fra 
i  quali  il  solito  Angelo  Tognetti :  i  compagni  allora  f ecero  del  chias- 
so  per  volerlo  libero,  e  andarono  per  il  Corso  e  via  delle  Convertite 

i.  La  legge  delle  guarentigie  fu  promulgata  il  13  maggio  1871,  2.  «Osser- 
vatore»:  P«  Osservatore  romano »,  sorto  il  5  settembre  1849  come  trisetti- 
manale,  divenne  quotidiano  dal  1851.  3.  Ho  gia  detto  .  .  .  Antonelli:  vedi 
p.  491,  4.  per  avere . . .  Pietro :  vedi  p.  480. 


I    PRIMI   ANNI   DI   ROMA   CAPITALS   (1870-1878)         54! 

fino  a  San  Silvestro,  dove  allora  era  la  questura,  vociando  «fuori 
Tognetti,  abbasso  la  consorteria! »  Tentarono  di  entrare  in  questu 
ra,  ma  le  guardie  li  respinsero.  Saranno  stati  circa  400;  respinti  si 
sparpagliarono,  sempre  gridando  e  facendo  credere  a  un  finimondo. 
Un  gruppo  di  dimostranti,  inseguito  dalla  truppa  chiamata  fuori, 
infilo  per  via  Bocca  di  Leone,  dove  era  la  trattoria  del  Rebecchino. 
II  cuoco,  Bartolommeo  Ferrero,  mentre  stava  tagliando  qualche 
pezzo  di  carne,  uditi  gli  urli,  salto  fuori  per  curiosita  con  un  gran 
coltellaccio  in  mano.  Un  disgraziato  soldato,  supponendo  da  tale 
atteggiamento  del  cuoco  chi  sa  quali  malvagi  propositi,  gli  va  in- 
contro,  gli  lascia  andare  una  fucilata,  e  il  Ferrero  cade  morto.  In 
piazza  Colonna  la  folia  stava  tranquillamente  a  sentire  la  banda,  ed 
in  tutta  la  citta  era  una  grande  calma:  intanto  la  intemperanza  di 
pochi  faceva  due  vittime,  il  Ferrero  ed  il  povero  soldato,  poi  con- 
dannato  a  cinque  anni  di  carcere.  II  doloroso  episodio  ebbe  anche 
uno  strascico :  la  «  Capitale  »*  apri  una  sottoscrizione  per  la  vedova 
del  Ferrero;  la  «Nuova  Roma»2  accuse  la  « Capitale »  di  non  avere 
prontamente  consegnate  alia  vedova  le  somme  raccolte,  e  la  fac- 
cenda  ebbe  il  suo  epilogo  in  tribunale. 


Mentre  awenivano  questi  urti,  questi  attriti  inevitabili  nel  primo 
periodo  di  una  condizione  di  cose  tanto  anormale,  quale  era  il  sen- 
timento  della  gran  massa  della  popolazione  di  Roma?  Molti  indizi 
facevano  credere  che  desiderasse  un  pacifico  adattamento,  una  re- 
ciproca  tolleranza,  se  non  una  vera  e  propria  conciliazione,  la  pos- 
sibilita  della  quale  era  bensi  considerata  senza  alcun  risentimento 
ne  alcun  timore;  sine  ira  nee  metu.  Vi  sono  fatti  di  per  se  stessi  senza 
alcuna  importanza,  che  acquistano  un  grande  significato  per  il  mo- 
mento  ed  il  luogo  nel  quale  awengono.  Fu  pubblicata  ed  esposta 
sul  Corso  una  litografia  intitolata  Un  vaticinio,  nella  quale  si  vedeva 
Pio  IX  al  braccio  di  Vittorio  Emanuele:  il  Re  aveva  la  mano  sinistra 
appoggiata  all'impugnatura  della  sciabola,  il  Papa  sollevava  la  de- 
stra  in  atto  di  benedire.  Le  copie  di  quella  litografia  andarono  a 
ruba:  dove  erano  esposte  in  vendita  si  accalcava  la  folia,  in  mezzo 

i.  la  «  Capitate*:  quotidiano  democratico,  che  si  pubblico  a  Roma  dal  1870 
al  1907,  fondato  e  diretto  da  RafTaele  Sonzogno  (nato  a  Milano  nel  1829, 
assassinate  a  Roma  nel  1875).  2.  La  «Nuova  Roma*  si  pubblic6  dal 
1871  al  1873. 


542  UGO   PESCI 

alia  quale  si  udivano  comment!  generalmente  benevoli,  espressioni 
sincere  di  desiderio  che  quel  «vaticinio»  si  potesse  awerare. 

II  i°  gennaio  del  '72  Vittorio  Emanuele  mandava  gli  augurii  per 
il  nuovo  anno  a  Pio  IX,  per  mezzo  del  generale  Di  Pralormo  e  del 
marchese  Piero  Corsini  di  Lajatico,  che  TAntonelli  riceveva  corte- 
semente.  Alcuni  altri  conventi  erano  espropriati  ed  occupati  senza 
difEcolta;  il  colonnello  Garavaglia  prese  possesso  dell'area  del  no- 
viziato  dei  Gesuiti,  a  San  Vitale,  dove  si  fabbricava  non  ostante  il 
decreto  di  espropriazione,  e  dei  locali  addetti  alia  chiesa;  non  della 
chiesa:  l'«  Osservatore  Romano »  levo  alti  lamenti.  Pio  IX  invece 
permetteva  che,  nel  palazzo  dei  Sabini  in  via  delle  Muratte,  si  discu- 
tesse  fra  cattolici  e  protestanti  se  San  Pietro  sia  stato  a  Roma,  e  la 
discussione  era  presieduta  dal  vecchio  principe  Sigismondo  Chigi 
maresciallo  del  conclave  e  presidente  della  societa  per  gli  interessi 
cattolici,  assistito  dalPawocato  concistoriale  De  Dominicis  Tosti, 
e  dal  reverendo  Pigott  pastore  della  chiesa  protestante  di  via  delle 
Coppelle.  Lo  Sciarelli,  ministro  evangelico,  disputo  con  monsignor 
Fabiani  canonico  di  Santa  Maria  in  via  Lata,  e  con  il  parroco  Ci- 
polla,  sostenendo  la  tesi  che  San  Pietro  non  puo  essere  venuto  a 
Roma;  il  Ribetti,  altro  evangelico,  confute  gli  argomenti  del  Fa 
biani;  il  Gavazzi  rispose  al  Cipolla:  il  prof.  Guidi  riassunse  la 
discussione,  e  ciascuna  delle  parti  si  attribui  la  vittoria.  Gli  steno- 
grafi  che  avevano  assistito  alle  sedute  del  concilio  ecumenico,  e 
quelli  della  Camera  dei  deputati,  raccolsero  i  discorsi  che  furono 
poi  stampati:  ma  altre  discussioni  non  furono  poi  permesse,  es- 
sendo  sembrato  agli  zelanti  che  il  Papa  non  avesse  dovuto  permet- 
tere  neanche  la  prima.  II  famoso  padre  Giacinto  Loyson1  faceva 
intanto  delle  letture  al  teatro  Argentina:  ma  la  spesa  di  due  lire  per 
Tingresso  tratteneva  molti  dalT assist ervi,  e  dava  occasione  a  mon 
signor  Annavitti  di  prendersela  nei  suoi  molteplici  giornali  con 
«il  signor  Loyson  »  .  . . 


i.  Carlo  Loyson  (1827-1912),  di  Orleans,  ordinato  prete  nel  1851,  passo 
nell'ordine  dei  carmelitani  nel  1859,  assumendo  il  nome  di  padre  Giacinto. 
Fu  grande  predicatore.  Nel  1869  prese  posizione  awersa  al  Concilio  ecu 
menico  e  fa  percio  scomunicato.  Aderi  poi  (1881)  ai  «vecchi  cattolici »  e 
sposo  una  vedova  americana,  pur  continuando  a  vestir  1'abito  talare  e  a  dir 
messa.  Nel  1878  fondo  a  Parigi  quella  che  egli  chiam6  Chiesa  gallicana. 
Mori  a  Parigi  senza  essersi  sottomesso  alia  Chiesa. 


I    PRIMI   ANNI    DI   ROMA   CAPITALE   (1870-1878)         543 


Si  farebbe1  torto  a  Pio  IX  supponendo  che  egli  non  comprendes- 
se  facilmente  che  Vittorio  Emanuele,  nella  sua  qualita  di  monarca 
costituzionale,  non  poteva  ragionevolmente  opporsi  alle  delibera- 
zioni  del  Parlamento.  Pio  IX  era  stato  egli  pure  sovrano  costitu 
zionale!  Quando  una  deputazione  straniera  ando  a  presentargli, 
nell'aprile  del  '75 ,2  una  somma  per  Tobolo  di  San  Pietro,  la  Camera 
aveva  appro vato  ed  il  Senato  doveva  ancora  discutere  la  legge  che 
sottoponeva  i  chierici  alia  leva  militare.  II  Pontefice,  rispondendo 
al  principe  di  Windischgratz,  oratore  della  deputazione,  prego  indi- 
rettamente  Vittorio  Emanuele  a  porre  il  suo  veto  a  quella  legge.  Se- 
condo  alcuni  egli  avrebbe  detto :  «  Rivolgo  la  parola  al  Re  che  ebbe 
anche  dei  Santi  nella  sua  augusta  famiglia  ...»  Secondo  altri,  in- 
vece,  le  parole  testuali  del  Papa  sarebbero  state:  «  Rivolgo  la  parola 
alia  Maesta  che  regna  in  Roma,  che  ebbe  gia  anche  dei  Santi  ec  . . . » 
-  la  differenza  e  notevole  -  chiedendo  in  sostanza  di  non  sanzionare 
la  deliberazione  della  Camera;  ma  il  Senato  1'approvo  con  60  voti 
contro  25,  non  ostante  Topposizione  del  Lanzi,  del  Mauri  e  del 
Tabarrini,  e  Vittorio  Emanuele  la  sanziono  con  la  sua  firma  reale. 

Pio  IX  puo  averne  avuto  rincrescimento,  non  risentimento  con 
tro  il  Re ;  che  alia  sua  volta  approfitto  della  prima  occasione  presen- 
tataglisi  per  accogliere  un'altra  domanda  del  Papa.  La  cosa  non  e 
molto  facile  a  raccontare,  ma  procurero  di  levarmi  d' imbroglio  nel 
miglior  modo  possibile.  Nel  vicolo  delle  Vacche,  di  fianco  al  con- 
vento  di  Santa  Maria  della  Pace,  dove  era  un  liceo  cat<-olico  autoriz- 
zato  dalle  autorita  scolastiche,  era  stata  impiantata  una  casa .  .  . 
una  di  quelle  che  nel  Giappone  chiamano  (cease  da  te»,  con  tale 
sontuosita  di  arredamento,  ch'era  di  per  se  stessa  un  richiamo.  Se 
ne  parlava  molto,  e  certamente  non  ad  edificazione  de'  buoni  co- 
stumi,  e  non  senza  forte  motivo  di  distrazione  per  gli  scolari  del  vi- 
cino  liceo.  Pio  IX  invoco  Tintervento  di  Vittorio  Emanuele  perche 
lo  scandalo  cessasse:  in  questo  caso  lo  statute  non  entrava  per  nulla, 
ed  il  Re,  data  carta  bianca  ad  un  suo  dipendente  riguardo  alia  spesa, 
indennizzo  largamente  la  proprietaria  della  casa,  che  fu  chiusa  im- 
mediatamente,  vendendosi  tutti  i  mobili  al  pubblico  incanto. 

Le  cose  di  questo  mondo  non  si  accomodano  mai  tanto  bene  co- 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  xin  (Attriti  ed  accomodamenti),  pp.  523-9-     2.  nell'apri- 
le  del*J5'.  1'episodio  awenne  il  13  aprile. 


544  u°o  PESCI 

me  quando  si  lasciano  accomodare  da  loro  stesse.  Tutto  quello  che 
si  diceva  e  si  scriveva  allora  per  mettere  d'accordo  il  Papa  ed  il  Re, 
il  Sillabo  e  lo  Statute,  gli  editti  del  cardinale  vicario  e  le  circolari 
del  prefetto  di  Roma  non  ottenne  mai  alcun  effetto :  cio  non  ostante, 
pochi  anni  dopo  il  20  settembre,  il  Papa  ed  il  Re  vivevano  in  pace 
Puno  al  Vaticano  1'altro  al  Quirinale,  cercando  di  contentarsi  scam- 
bievolmente  per  quanto  stava  in  loro;  Funo  tenendo  concistoro  e 
pronunziandovi  allocuzioni,  Paltro  inaugurando  le  sessioni  parla- 
mentari  con  i  discorsi  della  Corona.  Le  carrozze  dei  cardinali  s'in- 
contravano  con  quelle  dei  mmistri,  quando  questi  non  andavano  a 
piedi;  scolari  e  soldati  occupavano  monasteri  e  conventi,  mentre 
frati  e  monache  trovavano  da  alloggiare  in  palazzi  e  ville,  stando 
meglio  di  prima  quelli  e  quelli  altri.  L'«  Osservatore  Romano  »  e  la 
«  Voce  della  verita))1  usavano  della  liberta  concessa  a  tutti,  e  se  tal- 
volta  ne  abusavano,  forse  non  arrivavano  mai  ad  abusarne  quanto 
taluni  altri  giornali  scalmanati,  che  si  proclamavano  i  soli  difensori 
della  liberta.  E  questo  si  poteva  considerare  un  modus  vivendi  non 
disprezzabile,  ottenuto  senza  sacrifizi  o  renunzie  da  una  parte  come 
dall'altra. 

Talvolta  Pio  IX,  egli  pure  soggetto  alle  debolezze  delPumanita, 
non  tratteneva  qualche  scatto  repentino,  come  la  allocuzione  pro- 
nunziata  il  13  marzo2  1877.  Quella  allocuzione  fu  la  piu  violenta 
di  quante  ne  erano  state  pronunziate  dal  Papa  dopo  il  20  settem 
bre,  e  fuori  d'  Italia  provoco  dimostrazioni  clericali,  interpellanze 
alPassemblea  di  Versailles:3  ma  a  Roma  non  ne  fu  punto  turbata  la 
pubblica  tranquillita ;  non  la  turbavano  piu  neanche  le  prediche; 
anzi  monsignor  Mermillod,4  vescovo  d'Hebron,  divenuto  pochi 

i.  la  «  Voce  della  verita*;  organo  cattolico  intransigente,  pubblicato  a  Roma 
dal  1871  al  1904.  2.  il  13  marzo:  V allocuzione  fu  pronunziata  il  12 
marzo  (non  il  13)  1877,  durante  un  concistoro  per  la  nomina  di  undici 
nuovi  cardinali.  Suon6  violentissima,  e  riepilogo  tutti  i  torti  del  governo 
italiano,  dall'occupazione  di  Roma  alle  varie  leggi  emanate.  Egualmente 
dura  apparve  la  circolare  che  subito  (17  marzo)  il  ministro  Mancini  invio 
ai  prefetti,  rawisando  nell' allocuzione  «oltraggi»  alle  leggi  ed  alle  istitu- 
zioni  dello  Stato.  3.  interpellanze . . .  Versailles:  nel  maggio  1877,  in  segui- 
to  ad  agitazioni  clericali  in  vari  luoghi  della  Francia,  dovute  all  allocuzio 
ne  pontificia,  si  svolse  un  dibattito  alTassemblea  francese,  su  interroga- 
zione  del  deputato  Leblond.  Rispose  con  tono  amico  all' Italia  il  ministro 
Jules  Simon.  4.  Gaspard  Mermillod  (1824-1922),  svizzero,  cardinale  dal 
1890,  fu  ammirato  oratore:  tratto  con  predilezione  il  problema  sociale,  di 
cui  sentiva  1'importanza  e  che  pensava  dovesse  essere  risolto  con  Pausilio 
della  religione. 


I    PRIMI    ANNI    DI    ROMA    CAPITALE    (1870-1878)          545 

mesi  prima  Puomo  alia  moda  per  le  sue  prediche  alia  Trinita  dei 
Monti,  ne  cambiava  Fora  in  domenica,  non  volendo  impedire  a 
nessimo  di  andare  a  Villa  Borghese  a  veder  correre  il  Bertaccini 
che,  gareggiando  con  un  cavallo,  percorreva  30  chilometri  in  due 
ore  girando  intorno  a  piazza  di  Siena. 

Nella  settimana  santa  del  '76  v'era  stata  una  nuovita  nella  basilica 
di  San  Pietro:  vi  si  cantarono  solennemente  dalla  cappella  alcune 
strofe  del  Miserere,  il  che  non  era  piu  awenuto  dalla  settimana 
santa  del  1870.  Segno  dei  tempi! 

Segno  de'  tempi,  anche  piu  eloquente  e  piu  importante,  il  voto 
con  il  quale  il  Senato,  ai  primi  di  maggio1  del  '77,  respinse  la  pro- 
posta  di  legge  contro  gli  abusi  del  clero,  delta  quale,  con  tanto 
sfoggio  di  eloquenza,  il  guardasigilli  Mancini  aveva  ottenuto  Tap- 
provazione  dalla  maggioranza  della  nuova  Camera2  eletta  nel  no- 
vembre  del  '76.  Prevalse  a  palazzo  Madama  il  parere,  sostenuto  da 
antichi  liberali  quali  Carlo  Cadorna  e  Carlo  Boncompagni,  che  ai 
possibili  abusi  del  clero  bastasse  il  freno  della  legge  comune  e  non 
occorressero  leggi  restrittive  particolari,  e  di  fronte  all'attitudine 
del  Senato  apparve  non  grande  la  solidarieta  fra  i  ministri,  poiche 
il  Nicotera  ed  il  Depretis,  esortati  dal  Mancini  a  dire  qualche  pa- 
rola,  rimasero  seduti  senza  fiatare. 

La  notizia  del  voto  contro  la  legge,  che  in  Vaticano  era  conside- 
rata  legge  di  persecuzione,  fu  portata  subito  a  Pio  IX  dal  cardinale 
Simeoni,  succeduto  da  pochi  mesi  alFAntonelli  nelFufficio  di  Se- 
gretario  di  Stato,  e  si  dice  che  il  Papa  rispondesse  laconicamente 
al  cardinale  queste  sole  parole: 

—  Ringraziamo  Iddio! 

E  si  dice  altresi  che  il  partito  degli  zelanti  dal  quale  era  stata 
consigliata  a  Pio  IX  Penciclica  del  13  marzo,  non  fosse  contento 
di  quel  voto,  sperando  nell'approvazione  della  legge  come  in  un 
efficace  coefficiente  della  reazione  clericale  temporalista  che  si  era 
manifestata  qua  e  la  in  Europa,  e  contro  la  quale  finalmente  anche 
il  governo  francese  aveva  preso  una  attitudine  risoluta. 

Un  comitato  repubblicano  ed  anticlericale  voile  protestare  con 
tro  il  voto  del  Senato,  e  convoco  la  cittadinanza  di  Roma  ad  un  co- 
mizio  per  il  3  giugno,  giorno  nel  quale  ricorreva  contemporanea- 
mente  la  trentesima  festa  commemorativa  dello  Statute  ed  il  giubi- 

i.  ai  primi  di  maggio:  il  7  maggio.  2.  la  proposta  . .  .  Camera:  la  Camera 
aveva  approvato  il  disegno  di  legge  il  24  gennaio  1877. 

35 


546  UGO   PESCI 

leo  episcopale  di  Pio  IX.  L'onorevole  Nicotera  ministro  delFinterno 
non  proibi  il  comizio,  ma  lo  fisso  per  il  31  di  maggio.  II  teatro  era 
pieno  zeppo:  presiedeva  il  repubblicano  Narratone;  parlarono  il 
repubblicano  Antonio  Fratti,  Armand  Levy  gia  magna  pars  della 
Comune  di  Parigi,  il  prof.  Bovio  ed  Edoardo  Pantano,1  non  an- 
cora  deputati.  Furono  lanciati  molti  fulmini  in  «prosa  robustaw 
contro  il  Vaticano,  i  preti  ed  i  pellegrini  venuti  a  Roma  per  il  giu- 
bileo  episcopale;  ma  il  comizio  arrive  alia  fine  senza  incident!,  e 
tutti  se  n'andarono  allegri  e  contenti  di  aver  dichiarato,  forse  senza 
comprendere  intieramente  il  significato  di  queste  parole,  che  «il 
privilegio  religioso  ha  la  sua  garanzia  nel  privilegio  politico)). 

Mentre  all* Apollo  si  « respingevano  gli  attentati  alia  liberta  ed 
alPunita  della  patria»2  a  San  Pietro  in  Vincoli  incominciavano,  con 
immenso  concorso  e  con  1'assistenza  del  corpo  diplomatico  accre- 
ditato  presso  la  Santa  Sede,  le  solennita  religiose  per  il  giubileo  epi 
scopale.  E  la  domenica,  mentre  Pio  IX  riceveva  in  Vaticano  la  no- 
bilta  romana  rimastagli  fedele,  e  le  deputazioni  delle  societa  cat- 
toliche  di  molte  citta  d' Italia,  Vittorio  Emanuele,  dopo  aver  passata 
la  rivista  al  Macao,  riceveva  le  deputazioni  del  Senato,  della  Ca 
mera  e  del  municipio  di  Roma.  Una  fila  di  carrozze  non  interrotta 
era  diretta  verso  ponte  Sant'Angelo  e  il  Vaticano,  mentre  un'altra 
fila  saliva  verso  il  Quirinale. 

II  ministero  di  sinistra  quantunque  composto  di  uomini  che  ave- 
vano  per  lungo  tempo  censurato  qualunque  prowedimento  preven 
tive  a  tutela  dell'ordine  pubblico,  e  qualunque  atto  di  riguardo 
verso  il  Pontefice,  in  quella  occasione  non  soltanto  fece  quanto 
avrebbe  fatto  qualunque  governo,  ma  esager6  le  precauzioni  fino 
al  punto  di  non  permettere  la  «girandola»  solita  a  farsi  per  lo  Sta- 

i .  Domenico Narratone  (1839-1899),  mazziniano  fervente,  segul  Garibaldi  in 
Sicilia  nel  1860,  e  fu  ferito  a  Milazzo.  Ancora  fu  con  Garibaldi  ad  Aspromon- 
te,  e  con  lui  combatt6  nel  1866,  nella  spedizione  dell'Agro  romano,  in  Fran- 
cia  nel  1870;  Antonio  Fratti  (1845-1897),  mazziniano,  deputato  della  nativa 
Forli,  combattente  con  Garibaldi  nel  1866  e  nel  1867,  lo  segui  in  Francia 
nel  1870.  Mori  a  Domokos,  combattendo  tra  i  volontari  repubblicani  accorsi 
in  aiuto  della  Grecia;  Armand  Levy  (1827-1891),  giornalista  francese  che, 
dopo  la  Comune,  si  rifugi6  in  Italia.  Famoso  fu  un  suo  lavoro,  La  Cour  de 
Rome,  le  brigandage  et  la  Convention  franco-italienne,  Paris,  Vasseur,  1865; 
Giovanni  Bovio,  di  Trani  (1841-1903),  oratore  ammiratissimo,  professore 
di  filosona  e  storia  del  diritto  all'Universita  di  Napoli,  fu  deputato  di  estrema 
sinistra;  Edoardo  Pantano  (1842-1932),  garibaldino,  deputato,  senatore, 
varie  volte  ministro.  2.  Sono  parole  dell'ordine  del  giorno  con  cui  si  chiuse 
il  comizio  all' Apollo,  il  31  maggio. 


I    PRIMI   ANNI   DI   ROMA   CAPITALE   (1870-1878)         547 

tuto,  e  di  proibire  . . .  una  dimostrazione  d'affetto  e  di  lealismo  alia 
monarchia,  che  spontaneamente  si  voleva  fare  la  sera  . . .  pur  aven- 
do  permesso  il  comizio  repubblicano  al  teatro  Apollo.  La  proibi- 
zione  del  ministro  non  menomo  pero  la  solennita  dello  spettacolo 
dato  da  Roma  alPEuropa,  spettacolo  che  meglio  di  qualunque  di- 
scorso,  di  qualunque  nota  diplomatica  valse  a  dimostrare  il  senno 
magnanimo  dei  Romani,  ed  il  vero  amore  di  tutti  gli  Italian!  per 
la  buona  e  sana  liberta. 

Per  la  domenica  seguente  gli  elettori  di  Roma  erano  convocati 
per  la  nomina  di  12  consiglieri  comunali  e  6  provinciali.  Non  si  era 
ancora  arrivati  alia  possibilita  di  accordi  taciti  o  palesi  fra  le  fra- 
zioni  piu  temperate  del  partito  liberale  e  del  partito  cattolico,  e 
quantunque  gia  esistesse  allo  stato  latente  nel  cervello  di  molti  Tidea 
di  costituire  un  partito  conservatore,  come  si  tento  nel  '79  nelle 
riunioni  tenute  in  casa  del  conte  Paolo  di  Campello,  esso  non  aveva 
ne  poteva  avere  ancora  voce  in  capitolo.  La  preparazione  alle  ele- 
zioni  amministrative  del  '77  fu  molto  tumultuaria :  una  vera  ridda 
di  candidati,  di  comitati,  di  accordi  falliti,  di  negoziatori  nominati 
e  poi  licenziati.  Di  fronte  ai  cattolici  concordi  nel  presentare  una 
sola  lista,  i  liberali  ne  presentarono  una  moderata  e  una  progressista 
con  dieci  nomi  comuni.  I  cattolici,  rispondendo  alTappello  del- 
FUnione  Romana,  presieduta  da  Paolo  Borghese1  e  sostiruita  alia 
Societa  degli  interessi  cattolici  nella  direzione  del  movimento  elet- 
torale,  furono  solleciti  a  presentarsi  alle  sezioni,  e  su  trenta  seggi 
ne  conquistarono  diciotto;  sette  risultarono  composti  di  liberali 
e  cinque  misti.  Al  primo  appello  gli  elettori  cattolici  furono  in  pre- 
valenza  di  numero :  la  notizia  di  questo  incominciamento  di  sconfitta 
richiamo  una  vera  folia  di  elettori  liberali  al  secondo  appello,  e  fu 
rono  eletti  tutti  i  candidati  della  lista  progressista  con  un  numero  di 
voti  variante  fra  i  5877  e  i  4576,  mentre  il  principe  Marcantonio 
Borghese,  primo  della  lista  cattolica,  n'ebbe  3472.  La  sera  stessa  in 
piazza  Colonna  fu  chiesta  la  Marcia  reale;  un  centinaio  di  studenti 
che,  prima  di  lasciare  Roma  per  le  vacanze,  si  erano  riuniti  a  banr 
chetto  in  una  osteria  fuori  di  Porta  del  Popolo,  tornati  in  citta  accla- 
marono,  secondati  dal  pubblico,  al  Re,  alia  patria,  all'awenire 
d' Italia.  La  sera  seguente  si  voile  «  dimostrare »  ancora  una  volta 
fischiando  sotto  le  finestre  del  palazzo  Borghese  senza  che  la  que- 

i.  Paolo  Borghese  (1845-1920),  figlio  del  principe  Marcantonio  (1814- 
1886),  copri  anch'egli  varie  cariche  pubbliche  in  Roma  dopo  il  1870. 


548  UGO  PESCI 

stura  se  ne  occupasse,  plaudendo  sotto  quelle  dell'onorevole  Seismit 
Doda,1  che  si  affaccio  a  ringraziare,  e  provocando  un  discorso  del 
sindaco  Venturi,2  brava  persona,  di  cui  non  si  poteva  dire  pero  che 
Feloquenza  fosse  il  suo  forte. 


[LA  MORTE  DI  VITTORIO  EMANUELE  II]3 

Quello  stesso  giorno  5,4  Vittorio  Emanuele  che  non  aveva  fino 
allora  voluto  dire  di  non  star  bene,  e  quantunque  febbricitante  con- 
tinuava  a  disimpegnare  i  suoi  doveri  di  capo  dello  stato,  fu  obbligato 
a  rimanere  in  letto  gravemente  indisposto.  Fu  telegrafato  subito  al 
prof.  Bruno,  che  giunse  da  Torino  alle  2  pomeridiane  del  giorno  6, 
e  trovo  che  la  febbre  malarica,  la  quale  aveva  colpito  Vittorio 
Emanuele  da  alcuni  giorni,  si  era  complicata  con  una  pleuro-pneu- 
monite  acuta,  la  quale  aveva  attaccato  particolarmente  il  polmone 
destro.  Era  la  stessa  malattia  avuta  da  Vittorio  Emanuele  a  San 
Rossore  nel  1869,  che  aveva  allora  fatto  molto  temere  per  la  sua 
vita.  Tale  coincidenza  fece  subito  pensare  a  chiamare  da  Firenze 
il  prof.  Pietro  Cipriani,5  che  lo  aveva  curato  e  guarito  in  quella  oc- 
casione ;  ma  per  motivi  non  facili  a  comprendere  -  pare  per  conve- 
nienze  professionali  -  la  buonissima  idea  non  fu  messa  in  pratica. 
Fu  chiamato  invece  il  prof.  Guido  Baccelli.6 

Non  bisogna  dimenticare  che  nella  seconda  meta  del  dicembre 
'77  il  ministero  Depretis  aveva  dovuto  dimettersi  in  conseguenza 
della  famosa  «  gamba  di  Vladimiro  »7  e  le  trattative  per  la  formazione 
del  nuovo  gabinetto,  nel  quale  entr6  il  Crispi  come  ministro  dell'in- 
terno,  erano  durate  parecchi  giorni.  Appena  terminate,  Vittorio 


i.  Federico  Seismit-Doda,  zaratino  (1825-1893),  giornalista,  economista, 
poeta,  romanziere,  combatte  nel  Veneto  nel  1848,  alia  difesa  di  Roma  nel 
'49.  Fu  deputato  dal  1865  al  1893,  ministro  delle  finanze  nel  gabinetto  Cai- 
roli  nel  1878  e  in  quello  Crispi  nel  1889.  2.  II  dottor  Pietro  Venturi  fu  il 
quarto  sindaco  di  Roma,  eletto  nel  1875.  3.  Ed.  cit.,  dal  cap.  xv  (Due 
morti  celebri),  pp.  586-93 .  4.  giorno  5 :  il  5  gennaio  1 878.  Nello  stesso  giorno 
era  morto,  a  Firenze,  il  generale  Alfonso  La  Marmora.  5.  Pietro  Cipriani: 
illustre  clinico  fiorentino,  che  aveva  curato  Vittorio  Emanuele  II  a  San  Ros 
sore.  Nel  1870  era  stato  nominato  senatore.  6.  Guido  Baccelli  (1832-1916), 
docente  di  medicina,  umanista,  deputato  dal  1876  alia  morte,  ministro  della 
pubblica  istruzione  dal  1881  al  1884,  dal  1893  al  1896  e  dal  1898  al  1900. 
Successivamente,  dal  1901  al  1903,  fu  ministro  di  agricoltura,  industria  e 
commercio.  7.  « gamba  di  Vladimiro  »:  vedi  pp.  503-5. 


I    PRIMI    ANNI    DI   ROMA   CAPITALS   (1870-1878)         549 

Emanuele  aveva  fatto  una  rapida  corsa  a  Torino,  partendo  da 
Roma  la  sera  del  26  e  tornandovi  il  29.  I  primi  sintomi  della  ma- 
lattia  gli  si  erano  manifestati  durante  il  ritorno,  ma  egli  non  vi  aveva 
badato.  Awezzo  fino  dairinfanzia  alle  rigidezze  del  clima  alpino, 
non  usava  portare  indumenti  di  lana  sotto  i  suoi  abiti,  e  non  sof- 
friva  assolutamente  il  freddo:  ma  durante  quel  viaggio  non  basta- 
rono  a  riscaldarlo  i  mantelli  e  le  coperte  da  viaggio  dei  suoi  aiutanti 
di  campo.  La  sera  del  primo  delFanno,  dopo  il  pranzo  di  gala,  aveva 
provato  invece  un  gran  caldo,  e  fatte  aprire  le  finestre  della  sua 
camera,  vi  s'era  trattenuto  a  fumare  un  sigaro. 

Nel  pomeriggio  del  6  si  seppe  che  il  principe  Umberto  aveva 
dovuto  rinunziare  ad  andare  a  Firenze,  come  avrebbe  desiderato, 
per  assistere  ai  funerali  del  generale  La  Marmora,  dovendo  rappre- 
sentare  quella  sera  il  Re  al  pranzo  di  gala  al  quale  erano  gia  invitati 
da  qualche  giorno  gli  ambasciatori  e  gli  altri  rappresentanti  degli 
stati  stranieri. 

Alle  9  di  sera  fu  pubblicato  un  bollettino  firmato  dai  professori 
Bruno  e  Baccelli  e  dal  dottor  Saglione,  medico  curante  di  Sua 
Maesta  succeduto  in  quelPufficio  al  dottor  Adami.  Esso  diceva  che 
nel  pomeriggio  vi  era  stato  aumento  di  febbre. 

Un  altro  bollettino,  pubblicato  alle  8  antimeridiane  del  7,  ac- 
cennava  ad  un  nuovo  aumento  di  febbre  come  ad  un  sintomo  ine- 
vitabile  ed  «in  armonia  col  progresso  della  pleuro-pneumonite 
destra  ». 

Tali  notizie  produssero  un  grave  allarrne :  si  diceva,  d'altra  parte, 
che  la  costituzione  robusta  e  sanguigna  di  Vittorio  Emanuele  do- 
veva  necessariamente  far  si  che  i  sintomi  d'una  malattia  acuta  si 
presentassero  in  lui  con  straordinaria  violenza.  L'opinione  dei  me- 
glio  informati  era  che  le  condizioni  del  Re,  pur  essendo  gravi,  non 
giustificavano  serie  apprensioni:  in  questa  opinione  confortava  la 
tranquillita  dell'augusto  ammalato.  La  sera  del  7  egli  apparve  anche 
piu  sollevato,  e  parlo  con  le  persone  dalle  quali  era  assistito  in 
modo  da  far  vedere  che  non  si  dava  alcun  pensiero  della  propria 
salute.  Nel  bollettino  redatto  alle  n  pomeridiane  era  constatato 
un  miglioramento :  ma  durante  la  notte  dal  7  air  8  quel  migliora- 
mento  non  continue,  come  fu  detto  nel  bollettino  delle  8  anti 
meridiane  del  giorno  8. 

I  bollettini  erano  comunicati  daH'ufficiale  di  ordinanza  di  servi- 
zio  ed  esposti  nella  prima  anticamera  del  quartiere  del  Re,  dove 


550  UGO   PESCI 

diplomatici,  senator!,  deputati,  persone  di  ogni  ceto  andavano  a 
leggerli,  iscrivendo  il  proprio  nome  in  apposito  registro.  La  sera 
del  7  si  dettero  convegno  al  Quirinale  tutti  i  ministri,  per  vedere  il 
bollettino  delle  9  pomeridiane  che  doveva  essere  poi  telegrafato  ai 
prefetti.  Ando  a  quel  convegno  anche  Ton.  Nicotera,  quantunque 
non  piu  ministro. 

Pio  IX,  dalla  sera  del  6,  aveva  voluto  essere  spesso  ed  esattamente 
informato  delle  condizioni  del  Re.1 

I  timori,  pur  troppo  non  ingiustificati,  cominciarono  durante  la 
giornata  dell'8.  Al  Quirinale  era  continuo  randirivieni  di  ambascia- 
tori  e  di  ministri  stranieri :  tutti  i  sovrani  d'Europa  chiedevano  con 
insistenza  notizie  di  Vittorio  Emanuele.  Una  fila  non  interrotta 
di  visitatori  di  tutti  i  ceti  entrava  per  il  portone  del  Quirinale,  s'av- 
viava  silenziosa  verso  la  galleria  a  sinistra  in  fondo  al  cortile,  pas- 
sava  fra  due  corazzieri  immobili,  a  parecchi  staffieri  in  livrea  rossa 
e  ad  un  cameriere  in  abito  nero.  Un  guardaportone  gigantesco 
apriva  e  chiudeva  il  grande  usciale  a  vetri  per  il  quale  si  entrava  dal 
cortile  nella  galleria:  uno  staffiere  apriva  la  porta  dell'anticamera 
dove  era  il  bollettino  e  il  registro.  L'ufficiale  d'ordinanza  di  ser- 
vizio  salutava  i  visitatori  che  scrivevano  il  loro  nome:  taluno,  co- 
noscendolo,  scambiava  qualche  breve  parola  a  bassa  voce  con  1'uf- 
ficiale.  Nel  quartiere  v'era  un  grande  silenzio,  non  interrotto  nep- 
pure  dal  rumore  de'  passi  soffocato  dal  tappeto :  pareva  che  ognuno 
temesse  di  disturbare  quella  quiete,  necessaria  alFaugusto  am- 
malato. 

* 

II  giorno  8  fu  telegrafato  al  duca  d'Aosta,  alia  principessa  Clo- 
tilde  ed  al  principe  di  Carignano  di  venire  a  Roma,  a  Maria  Pia 
regina  del  Portogallo  si  mandavano  piu  volte  al  giorno  notizie  tele- 
grafiche  del  padre.  Nelle  prime  ore  pomeridiane  si  manifesto  di 
nuovo  un  lieve  miglioramento ;  ma  verso  le  sei  s'ebbe  un  altro  au- 
mento  di  febbre  con  irregolarita  di  polsi.  Si  faceva  spesso  respirare 
al  Re  delPossigeno  preparato  dal  professore  Cannizzaro  all'Istituto 
di  chimica  universitario :  i  medici  non  abbandonavano  piu  la  ca 
mera  del  malato ;  uno  dei  ministri  si  trovava  sempre  nel  quartiere 
del  Re. 

La  mattina  del  9  la  malattia  s'aggravo  ancora;  fu  osservato  un 

i.  Pio  IX .  .  .  Re:  su  questo  interessamento,  vedi  quanto  scrive  G.  MAN- 
FRONI,  op.  cit.,  pp.  326  sgg. 


I    PRIMI    ANNI    DI   ROMA    CAPITALS   (1870-1878)         551 

principle  di  eruzione  migliarica,  che  ando  rapidamente  aumen- 
tando.  I  medici  espressero  Topinione  che  essa  avrebbe  potuto  pro- 
durre  una  crisi  favorevole.  Alle  5  antimeridiane,  il  generale  Giu 
seppe  De  Sonnaz,  awisato  dai  medici,  aveva  fatto  noto  al  principe 
Umberto  il  peggioramento  soprawenuto  nella  notte.  II  principe, 
desolatissimo,  scese  nella  camera  del  padre:  interrogo  con  insi- 
stenza  i  medici,  che  dovettero  dichiarare  essere  loro  doloroso  do- 
vere  di  annunziare  al  principe  una  probabile  disgrazia.  II  principe, 
piangendo;  ordino  di  awisare  gli  altri  figli  del  Re  deirimminenza 
del  pericolo. 

Awisato  del  suo  stato  dal  professore  Bruno,  Vittorio  Emanuele, 
accettando  subito  il  consiglio  di  ricevere  i  sacramenti,  fece  chiamare 
monsignor  Anzino1  che  ascolto  la  di  lui  confessione. 

Uscito  monsignor  Anzino,  Vittorio  Emanuele  fece  chiamare  il 
principe  Umberto,  poi  anche  la  principessa  Margherita  e  rimase 
venti  minuti  solo  con  loro.  All' una  dopo  mezzogiorno  fu  ammini- 
strato  al  Re  il  Viatico  da  monsignor  Anzino,  accompagnato  dai 
principi  Umberto  e  Margherita,  dalla  marchesa  di  Montereno,  dai 
ministri  Depretis  e  Crispi,  da  tutti  i  componenti  le  case  militari  e 
civili  del  Re  e  dei  principi.  Entrarono  nella  camera,  con  il  cero  ac- 
ceso,  i  principi,  i  ministri,  gli  alti  dignitari  della  Corte:  gli  altri  ri- 
masti  nelle  stanze  attigue  sfilarono  poi  davanti  al  Re  che,  seduto  sul 
letto,  guardava  ciascuno  in  faccia  serenamente,  muovendo  la  testa 
in  atto  di  saluto.  Terminata  quella  commuovente  sfilata,  il  comm. 
Aghemo  chiese  al  principe  Umberto  di  voler  permettere  al  conte 
di  Mirafiori2  di  entrare  nella  camera  del  Re:  il  principe  acconsenti. 

Mentre  monsignor  Anzino  si  preparava  ad  amministrare  il  Via 
tico  al  Re,  giungeva  al  Quirinale  monsignor  Marinelli,  sagrista  dei 
Sacri  palazzi  Apostolici :  Taveva  mandato  Pio  IX  appena  saputo  che 
lo  stato  di  Vittorio  Emanuele  era  disperato,  e  che  il  Re  si  disponeva 
a  ricevere  i  sacramenti.  Monsignor  Marinelli  fu  fatto  entrare  nella 
camera  dopo  la  cerimonia  e  pote  trattenersi  qualche  minuto  col  Re 
d'ltalia3  ormai  moribondo,  ma  in  pieno  possesso  delle  sue  facolta 
mentali. 

i.  monsignor  Anzino:  vedi  p.  494-  2.  Emanuele  Guerrieri,  conte  di  Mira 
fiori,  figlio  di  Vittorio  Emanuele  II  e  di  Rosa  Vercellana,  detta  «la  beila 
Rosina».  Vedi  la  nota  i  a  p.  494;  3-  Monsignor  .  .  .  d'ltalia:  diversa- 
mente  testimonia  la  citata  opera  di  G.  Manfroni,  che  narra  come  mon 
signor  Cenni  e  il  suo  sacrista  monsignor  Marinelli  non  andassero  oltre  la 
portineria. 


552  UGO    PESCI 

La  Curia  Romana  voile  poi  far  credere  che  Vittorio  Emanuele 
avesse  fatte  dichiarazioni  contradicenti  agli  atti  della  sua  vita.  Egli 
invece,  in  piena  coerenza  con  se  stesso,  disse  soltanto  queste  parole : 

—  lo  muoio  cattolico ;  ho  sempre  avuto  una  particolare  afFezione 
e  deferenza  alia  persona  di  Sua  Santita:  se  in  qualche  atto  da  me 
compiuto  avessi  potuto  recar  dispiacere  personalmente  al  Santo  Pa 
dre,  dichiaro  che  ne  provo  rincrescimento.  Ma  in  tutto  quello  che 
ho  fatto  ho  portato  sempre  la  coscienza  di  adempiere  ai  miei  doveri 
di  cittadino  e  di  principe,  e  di  non  commettere  nulla  contro  la  re- 
ligione  dei  miei  padri. 

Pochi  momenti  dopo  il  Re  era  agli  estremi.  In  ginocchio  a  pie 
del  letto  erano  il  principe  Umberto  ed  il  conte  di  Mirafiori:  piu 
indietro  i  generali  Medici,  De  Sonnaz  e  Luigi  Mezzacapo,  gli  ono- 
revoli  Depretis,  Mancini  e  Correnti,  il  conte  Visone,  il  comm. 
Aghemo,  il  colonnello  Guidotti  ed  il  tenente  colonnello  Carenzi, 
ufficiali  d'ordinanza  di  servizio.  Alle  2,35  Vittorio  Emanuele,  sem 
pre  seduto  sul  letto  appoggiandosi  sulPanca  sinistra,  con  un  leggero 
sospiro,  e  con  faccia  sempre  serena,  reclino  leggermente  la  testa  da 
quella  parte,  e  spiro. 

II  professor  Bruno  si  awicino  al  letto,  ascolto  il  petto,  ed  avendo 
udito  che  il  gran  cuore  aveva  cessato  di  battere,  disse  con  voce  so- 
lenne  e  commossa: 

—  II  primo  Re  d'ltalia  e  morto!  Pare  che  dorma  e  riposi,  dopo 
compiuto  un  grande  lavoro. 


Tante  erano  state  le  alternative  di  peggioramento  e  migliora- 
mento ;  tanto  era  Pansioso  desiderio  di  vedere  scongiurata  la  grande 
s ventura,  che  fino  alPultimo  istante  non  si  voile  rinunziare  alle  piu 
lusinghiere  e  pur  troppo  fallaci  speranze.  Anche  nelle  direzioni  del 
giornali,  che  tenevano  in  permanenza  uno  dei  loro  redattori  al  Qui- 
rinale,  era  un  andare  e  venire  di  cittadini  speranzosi  di  qualche 
buona  notizia.  Nella  sala  grande  delPufficio  del  «  Fanfulla  »  -  quella 
che  faceva  angolo  fra  piazza  di  Montecitorio  e  via  degli  Uffici  del 
Vicario-alle  due,  stavano  in  attesa  piu  di  venti  persone;  fra  esse 
qualche  senatore  e  qualche  deputato.  Le  prevision!  erano  general- 
mente  ottimiste;  Ponorevole  Emilio  Broglio,1  che  era  ministro  nel 

i.  Emilio  Broglio  (1814-1892)  aveva  avuto  parte  attiva  neirinsurrezione 
delle  Cinque  giornate.  Professore  di  economia  pubblica  all'Universita  di 


I    PRIMI    ANNI    DI    ROMA    CAPITALS    (1870-1878)          553 

1869  quando  Vittorio  Emanuele  fu  in  fin  di  vita  a  San  Rossore, 
narrava  come  anche  allora  il  Re  avesse  ricevuto  i  sacramenti  e  fosse 
stato  creduto  ormai  in  fin  di  vita.  Mentre  gli  altri  ascoltavano  quella 
narrazione,  con  il  vivo  desiderio  di  vedere  rinnuovata  la  sorpren- 
dente  guarigione,  si  presento  sulla  porta  per  la  quale  si  veniva  dal 
di  fuori,  il  redattore  del  giornale  che  aveva  dopo  mezzogiorno  so- 
stituito  al  Quirinale  uno  dei  suoi  colleghi. 

—  Signori,  —  egli  disse  con  voce  tremante  per  la  commozione  — 
Vittorio  Emanuele  e  morto! 

Nessuno  ebbe  fiato  di  parlare  per  qualche  minuto :  poi  comincio 
un  sommesso  scambio  di  parole  fra  i  piu  vicini,  mentre  il  direttore, 
Avanzini,  entrato  un  momento  nella  sua  stanza,  vi  scriveva  rapi- 
damente,  concise  ma  eloquenti  parole. 

La  bandiera  italiana  che  sventola  sulPalto  del  Quirinale,  fu  su- 
bito  abbrunata  e  calata  a  mezz'asta:  tutti  i  negozi  nelle  vie  princi- 
pali  si  chiusero  immediatamente ;  alle  4  erano  stati  chiusi  anche  nelle 
vie  piu  remote  della  citta,  mano  a  mano  che  la  notizia  vi  era  arrivata. 
Piazza  del  Quirinale  si  empi  subito  di  una  folia  grandissima,  silen- 
ziosa:  per  le  vie  che  conducono  alia  reggia  altre  migliaia  e  migliaia 
di  cittadini  vi  si  awiavano,  ma  dovevano  rinunziare  al  proposito 
di  giungervi,  tanta  era  la  calca.  La  fiera  di  piazza  Navona  fu  so- 
spesa.  Durante  la  serata  Roma  aveva  un  aspetto  lugubre :  nelle  vie 
principali  ed  intorno  al  Quirinale  si  aggirava  ancora  una  folia  muta: 
nelle  vie  fuori  di  mano  pareva  di  essere  in  una  citta  spaventata  da 
una  grande  catastrofe  ed  abbandonata  dagli  abitanti.  I  giornali  si 
vendevano  a  ruba:  sotto  ogni  lampione  si  formava  un  capannello 
di  gente,  in  ascolto  dei  particolari  delle  ultime  ore  del  Re. 

Anche  le  persone  note  per  awersione  al  nuovo  ordine  di  cose 
instaurato  in  Roma  dal  20  settembre  1870,  deplorarono  sincera- 
mente  la  morte  di  Vittorio  Emanuele:  non  si  ebbe  da  lamentare 
nessuna  di  quelle  intemperanze  di  cinismo  alle  quali  altri  partiti 
hanno  poi  tentato  di  abituarci. 

Anche  i  molti  stranieri  che  gia  si  trovavano  a  Roma  non  furono 
indifferenti  alia  sciagura  che  aveva  colpito  F Italia:  molti  facevano 
vivi  ed  affettuosi  elogi  del  Re  defunto ;  molti  ammiravano  la  calma, 
la  tranquillita,  la  serieta  della  quale  Roma  dava  esempio,  dopo  un 
awenimento  tanto  straordinario. 

Torino,  deputato  per  molte  legislature,  fu  ministro  della  pubblica  istruzione 
dal  1867  al  1869. 


554  UGO  PESCI 

II  cielo  era  scuro:  la  serata  tristissima ;  le  consuetudini  della  po- 
polazione  parevano  turbate.  Alle  7  Tannunzio  ufficiale  della  morte 
di  Vittorio  Emanuele  fu  dato  da  un  manifesto  del  prefetto:  poco 
dopo  fu  affisso  un  manifesto  del  if.  di  sindaco,  pronto  gia  prima 
delle  5,  ma  del  quale  fu  ritardata  la  pubblicazione  per  farlo  prima 
approvare  dal  capo  del  governo,  in  quei  momenti  non  facilmente 
accessibiie.  Alle  10  fu  pubblicata  la  « Gazzetta  ufficiale))  con  il  pro- 
clama  di  re  Umberto.  Si  vedevano  vecchi,  donne,  uomini  fatti,  pian- 
gere  come  bambini  leggendo  gli  annunzi  della  morte  del  Re.  I  de- 
putati  presenti  in  Roma,  circa  120,  riunitisi  nel  pomeriggio  a  Mon- 
tecitorio,  andarono  di  la  a  quattro  a  quattro,  con  il  vicepresidente 
De  Sanctis1  alia  testa,  ad  iscriversi  nel  registro  delPanticamera 
reale. 

[LA  MORTE  DI  PIO  ix]2 

Fino  dalle  4  era  stato  dato  ordine  di  non  lasciare  entrare  alcuno 
nel  Vaticano,  salvo  i  camerieri  di  cappa  e  spada.  Pio  IX  era  morto 
appena  da  un  quarto  d'ora,3  quando  postomi  sotto  il  patrocinio 
di  una  gentilissima  patrizia  clericale,  potei  penetrare  non  soltanto 
in  Vaticano,  ma  fino  al  quartiere  private  del  pontefice  defunto. 
Credevo,  salendo  le  scale  insieme  alia  mia  nobile  introduttrice, 
d'essere  riuscito  ad  ottenere  quasi  Pimpossibile:  ma  presto  dovetti 
accorgermi  della  presenza  di  molte  persone  che  avevano  quanto 
me  il  diritto  di  trovarsi  in  quel  luogo. 

Alle  9  di  sera  la  salma  di  Pio  IX  fu  trasportata  dalle  guardie  no- 
bili  nella  sala  che  precede  quella  del  trono,  andandovi  dal  quartiere 
privato.  Fu  deposta  sopra  un  piccolo  letto  di  ferro  foderato  di  da- 
masco  rosso,  come  le  pareti  della  sala,  e  coperta  con  un  lenzuolo 
bianco.  Ai  due  lati  del  letto  stavano  due  guardie  nobili;  agli  angoli 
quattro  grandi  candelabri,  ciascuno  con  un  grosso  cero.  Alcune 
poche  persone  furono  ammesse  nella  giornata  dell'8  a  visitare  la 
salma.  In  Vaticano  continue  un  grande  andirivieni  di  persone  estra- 
nee,  rimanendo  ferma  bensi  la  consegna  di  non  lasciar  passare  nes- 
suno,  se  non  conosciuto  personalmente.  Soltanto  piu  tardi,  quando 

i.  Francesco  De  Sanctis  (1817-1883)  era  allora  vicepresidente  della  Came 
ra.  2.  Ed.  cit.,  dal  cap.  xv  (Due  morti  celebri),  pp.  612-21.  3.  Pio  IX  .  .  . 
ora:  Pio  IX  mori  il  7  febbraio  1878,  alle  ore  17,40.  II  governo  italiano,  at- 
traverso  1'agenzia  Stefani,  dette  rannunzio  con  un'ora  di  anticipo  e  comu- 
nic6  che  il  decesso  era  awenuto  alle  ore  14,30:  e  cio  provoc6  scandalo  e 
polemiche. 


I    PRIMI    ANNI    DI   ROMA    CAPITALS   (1870-1878)         555 

era  ormai  inutile,  si  prowide  ad  impedire  quella  evidente  trasgres- 
sione  agli  ordini  dati. 

La  sera  dell ' 8  i  medici  curanti  di  Pio  IX  cominciarono  ad  imbal- 
samarne  la  salma:  Poperazione,  durata  parecchie  ore,  riusci  be- 
nissimo.  II  cadavere  fu  vestito  di  sottana  bianca  e  camauro,  con  le 
mani  conserte  ed  un  crocifisso  sul  petto.  II  9,  mentre  al  Sudario  si 
celebravano  solenni  funerali  per  Vittorio  Emanuele  nel  trigesimo 
della  sua  morte,  la  salma  di  Pio  IX  era  visitata  dalle  persone  addette 
alia  Corte  pontificia  e  da  parecchie  signore.  Le  visite  terminarono 
alle  2,  dovendosi  preparare  per  le  6  il  trasporto  della  salma  in 
San  Pietro. 

Questo  awenne  derogandosi  in  parte  dalle  norme  stabilite  nel 
cerimoniale.  La  salma  era  stata  rivestita  alle  4  degli  abrti  pontificali : 
la  portarono  quattro  sediari,  che  sostennero  di  avere  tale  diritto, 
riconosciuto  dal  Cardinale  camerlengo;  e  la  seguirono  tutti  i  laici 
appartenenti  alia  Corte,  i  cardinali  con  torcie,  le  guardie  nobili,  i 
camerieri  segretari,  le  guardie  svizzere  e  palatine.  La  ricevette  so- 
lennemente  il  capitolo  di  San  Pietro,  con  alia  testa  il  cardinale  Bor- 
romeo,  arciprete  della  basilica,  e  fu  deposta  nella  cappella  del  Sa 
cramento,  in  modo  che  i  piedi  calzati  di  pantofole  rosse  sporgessero 
alquanto  a  traverso  le  sbarre  della  cancellata  di  bronzo  che  chiude 
quella  cappella. 

Alle  sette  furono  aperte  le  porte  della  Basilica  e  vi  entro  subito 
una  gran  folia,  che  ando  aumentando  sempre  durante  la  giornata. 
Ma  tutto  era  disposto  con  molto  accorgimento,  per  prevenire  ed 
evitare  qualunque  incidente.  Le  carrozze  dovevano  accedere  alia 
piazza  per  le  strade  e  i  ponti  indicati,  e  ripartirne  per  altre  strade  ed 
altri  ponti.  Carabinieri,  guardie  di  questura  e  municipali  regolavano 
Tingresso  per  le  due  porte  a  sinistra,  e  Puscita  da  quella  di  destra. 
Quella  parte  della  navata  di  destra  che  sta  di  fronte  alia  cappella  del 
Sacramento  era  chiusa  da  un  forte  impalancato,  di  modo  che  le 
persone,  lasciate  entrare  in  chiesa  a  non  molte  per  volta,  awiatesi 
fra  doppia  fila  di  bersaglieri,1  potevano  awicinarsi  soltanto  ad  una 
ad  una  alia  cancellata,  e  proseguire  dopo  avere  baciato  il  piede  del 
Pontefice.  II  catafalco,  coperto  di  damasco  rosso,  era  a  piano  incli- 
nato ;  e  cosi,  anche  da  lontano,  dalla  meta  della  navata  centrale  si 

i.  bersaglieri:  i  soldati  italiani  furono  fatti  entrare  in  San  Pietro  su  richiesta 
dell'economo  della  basilica.  Vedi  G.  MANFRONI,  op.  cit.,  pp.  335  sgg.  e  la 
nota  a  p.  345. 


556  UGO    PESCI 

scorgeva  benissimo  la  fisonomia  sorridente  di  Pio  IX,  molto  ben 
conservata.  Sei  candelabri  erano  accesi  da  una  parte  e  dall'altra  del 
catafalco,  ai  quattro  angoli  del  quali  stavano  immobili  altrettante 
guardie  nobili  in  piccola  tenuta. 

Un  curioso  incidente  dimostro  subito  come  la  morte  di  Pio  IX 
faceva  presentire  un  cambiamento  de'  tempi.  Un  giornale  umori- 
stico  ebbe  il  poco  tatto  di  mettere  in  canzonatura  una  delle  guardie 
state  in  servizio  presso  il  feretro  di  Pio  IX,  perche  di  statura  colos- 
sale  e  di  persona  gigantesca.  La  guardia  -  era  un  gentiluomo  mar- 
chigiano,  che  aveva  parenti  nel  campo  bianco  ed  anche  al  servizio 
dello  Stato  -  non  voile  tollerare  Pinsolenza,  e  si  rivolse  ad  un  gior- 
nalista  liberale,  ufficiale  di  complemento.  La  faccenda  fu  risoluta 
come  doveva,  mediante  il  verdetto  di  un  giuri  d'onore,  composto, 
con  il  consenso  della  guardia  nobile,  di  ufficiali  delPesercito  e  di 
giornalisti. 

La  folia  fu  tale,  dopo  mezzogiorno,  da  dover  chiudere  le  cancel- 
late  dell'atrio,  aprendo  di  quando  in  quando  soltanto  quella  a  si- 
nistra.  II  giorno  seguente  continue  Pesposizione  della  salma:  agli 
abitanti  di  Roma  si  aggiunsero  quelli  venuti  in  grandissimo  numero 
da  molti  paesi  del  Lazio.  Le  porte  furono  lasciate  aperte:  signore 
e  signori,  frammisti  a  gruppi  di  contadini  e  di  ciociari,  preti,  frati, 
monache,  soldati  d'ogni  arma,  intieri  educandati  maschili  e  fem- 
minili,  ufficiali  di  tutti  i  gradi,  formavano  una  continua  corrente, 
che  guardie  e  carabinieri  riuscivano  a  regolare  con  molta  buona  gra- 
zia  e  longanimita.  Due  battaglioni  di  truppa  stavano,  per  qualunque 
bisogno,  con  le  armi  al  fascio  sotto  il  portico  della  piazza. 

Alle  9  e  mezzo  del  12,  ultimo  giorno  della  esposizione  della  salma,1 
la  Regina  ando  a  compiere  un  atto  di  ossequioso  rispetto,  visitan- 
dola:  i  carabinieri  le  facevano  strada,  tenendo  lontana  la  folia. 

La  cerimonia  del  seppellimento  prowisorio  del  defunto  awenne, 
secondo  le  norme  del  cerimoniale,  la  sera  del  13.  Vi  assistevano 
circa  2000  persone:  il  Sacro  Collegio,  la  Corte  pontificia,  il  Corpo 
diplomatico  accreditato  presso  la  Santa  Sede  ed  il  patriziato  ro- 
mano  devoto  al  Vaticano ;  v' erano  anche  molti  bianchi,  fra  i  quali 
donna  Laura  Minghetti,  la  duchessa  di  Marino,  il  principe  di  Tea- 
no,  alcuni  ufficiali  in  uniforme,  parecchi  forestieri.  Al  momento  nel 
quale  il  feretro  si  alzava  fino  alia  tomba  prowisoria,  di  fronte  al  se- 
polcro  degli  Stuart,  la  contessa  Mastai,  nipote  del  Papa,  si  svenne; 
i.  U esposizione  della  salma  di  Pio  IX  duro  dal  10  al  13  febbraio. 


I    PRIMI    ANNI   DI   ROMA   CAPITALE   (1870-1878)         557 

altre  signore  e  qualche  cardinale  si  ritirarono  davanti  al  penoso 
spettacolo,  reso  anche  piu  impressionante  dalla  oscurita  deU5im- 
mensa  basilica  interrotta  da  soli  pochi  ceri,  e  dal  mesto  silenzio  in 
mezzo  al  quale  si  alzavano  le  voci,  non  sempre  rispettosamente 
basse,  degli  operai  incaricati  del  funebre  lavoro. 


Agli  aneddoti  gia  citati  nel  primo  capitolo  di  questo  libro  per 
dare  un'idea  delPindole  vivace  di  Pio  IX,  ne  aggiungero  qui  alcuni 
altri,  de}  quali  ebbi  conoscenza  diretta  e  sicura. 

II  giorno  dello  Statute,  nel  '72,  piowe.  Due  o  tre  giorni  dopo,  nel 
giardino  del  Belvedere,  Pio  IX  incontro  due  o  tre  guardie  nobili 
fuori  di  servizio.  Fermatosi,  rivolse  loro  benevolmente  il  discorso, 
domandando  fra  le  altre  cose  se  erano  stati  a  vedere  la  rivista.  Cre- 
dendo  di  farsene  un  merito,  le  guardie  risposero  in  coro: 

—  Santita,  no! 

—  Bisognava  andare—  replico  Pio  IX;  e  poi  sorridendo:  —  For- 
se  avete  avuto  paura  dell'acqua! 

Verso  la  persona  di  Vittorio  Emanuele  e  le  altre  della  famiglia 
reale  dimostro  sempre  deferente  benevolenza.  Un  giorno  il  padre 
Gatti  d.  C.  d.  G.  parlava  male  del  Re: 

—  Padre,  —  lo  interruppe  severamente  Pio  IX  —  non  voglio  sen- 
tire,  perche  e  un  brav'uomo. 

A  tale  sentimento  di  benevolenza  univa  anche  un  qualche  cosa 
di  cavalleresco,  rimastogli  dalla  gioventu  e  dalle  prune  sue  aspira- 
zioni.  Nelljanticamera  del  quartiere  privato,  un  giorno  alcune  guar 
die  nobili  stavano  ascoltando  uno  di  loro  che,  in  un  giornale,  leg- 
geva  le  festose  accoglienze  fatte  in  Trastevere  alia  principessa  Mar- 
gherita,  andata  al  Politeama,  dove  la  signora  Ristori1  aveva  rappre- 
sentato  Giuditta. 

—  Come  sa  farsi  voler  bene!  tutti  la  salutano  —  disse  una  guardia. 

—  lo  non  Tho  mai  salutata—  replico  un'altra. 

—  Eppure,  —  tuono  dalla  porta  una  voce  sonora  che  fece  scattare 
in  piedi  e  schierarsi  il  drappello  —  eppure,  quando  ero  io  guardia 
nobile,  si  riteneva  primo  dovere  di  un  ufficiale  la  cortesia  verso  le 
signore. 

i.  Adelaide  Ristori  (1822-1906)  aveva  rappresentato  allora  la  Giuditta  di 
Paolo  Giacometti,  suo  « amico  e  autore  prediletto  »  (cfr.  la  nota  2  a  p.  273). 
Vedi  A.  RISTORI,  Ricordi  e  studi  artistici,  Torino  1887,  p.  52. 


558  UGO   PESCI 

E  del  conte  Camillo  Benso  di  Cavour  diceva  che,  quantunque 
avesse  fatto  molto  danno  alia  Chiesa,  non  gli  dispiaceva,  perche 
generoso,  buono  e  caritatevole,  e  certamente  convinto  di  fare 
il  bene  del  suo  paese  awersando  il  potere  temporale  del  pa- 
pato. 

Una  singolarita  di  Pio  IX,  non  a  tutti  nota,  era  quella  di  stare 
molto  attaccato  alia  proprieta  della  lingua  italiana.  Non  voleva  sen- 
tir  dire  che  una  lettera  era  stata  messa  alia  posta;  si  doveva  dire 
mandata.  Un  giorno  alcune  bambine  di  un  educandato,  accompa- 
gnate  dalle  signore  loro  protettrici,  andarono  ad  offrirgli  della  bian- 
cheria  da  altare  diligentemente  ricamata.  Bambine  e  signore  si 
aspettavano  un  ringraziamento  ed  un  elogio,  quando  Pio  IX  invece 
usci  fuori  a  dire: 

—  L'accetto  volentieri,  grazie!  Ma  non  la  chiamate  lingeria:  sa- 
rebbe  un  grosso  errore  di  lingua. 

Anche  nelle  cose  risguardanti  la  Chiesa,  dimostrava  talvolta  una 
serena  filosofia.  II  duca  di  Castelvecchio,  avendo  avuto  torto  dal 
tribunale  al  quale  era  ricorso  protestando  contro  1'occupazione  del 
convento  delle  Barberine  allo  Sferisterio,  sul  quale  la  famiglia  Bar- 
berini  aveva  diritto  di  patronato,  ando  al  Vaticano  facendone  alti 
lamenti : 

—  Si  calmi,  signor  Duca,  —  gli  disse  sorridendo  Pio  IX  —  io  ho 
veduto  di  peggio,  eppure  mi  son  rassegnato.  —  E  il  buon  Duca 
rimase  anche  piu  costernato  dopo  quella  risposta. 

Scherzava  volentieri  anche  con  gli  acciacchi  inseparabili  dalla 
grave  eta  alia  quale  era  giunto.  In  occasione  del  cinquantenario 
della  sua  nomina  a  vescovo,  nel  '77,  quando  da  tutte  le  parti  del 
mondo  gli  furono  mandati  regali  magnifici  d'ogni  specie,  ricevendo 
alcune  persone  di  grado  elevato,  fra  le  quali  era  la  principessa  di 
Thurn  e  Taxis,  col  suo  solito  sorriso  Pio  IX  diceva: 

—  Eppure,  fra  tante  ottime  persone  che  mi  hanno  colmato  di 
preziosi  doni,  pare  impossibile  che  a  nessuna  sia  venuto  in  mente 
di  farmi  il  regalo  che  avrei  gradito  di  piu  .  .  . 

—  Santita .  . .  se  fosse  possibile  .  . .  se  fossi  ancora  in  tempo  . . . 
—  si  affretto  a  dire  la  principessa. 

-—  Non  credo,  principessa  .  . . 

—  Ma  se  Vostra  Santita  volesse  degnarsi  di  dirmelo  .  . . 

—  Principessa  . .  .  badi!  credo  che  non  riuscirebbe  neppure  a 
lei ... 


I    PRIMI    ANNI   DI   ROMA    CAPITALE   (1870-1878)         559 

E  poiche  la  principessa  insisteva,  Pio  IX  soggiunse : 
—  Avrei  preso  volentieri  un  paio  di  gambe  nuove. 


Di  maniere  cortesissime  e  signorili  anche  con  gli  infimi,  non  riu- 
sciva  pero  sempre  a  trattenere  gli  scatti  d'impazienza.  Accuratis- 
simo  nel  vestire,  aveva  conservato  alcune  ricercatezze  mondane. 
Adoperava  saponi  finissimi,  teneva  nel  suo  spogliatoio  bottiglie 
di  collutorii  profumati  e  di  essenze  odorose,  delle  quali  parcamente 
faceva  uso.  Si  alzava  d' estate  fra  le  5  y2  e  le  6,  e  con  Paiuto  dello 
Zangolini,  suo  garzone  di  camera,  vestito  di  una  zimarra  violetta, 
prendeva  cura  della  sua  persona.  Alle  7  entrava  nella  piccola  cap- 
pella  privata,  dove  celebrava  una  messa  e  ne  ascoltava  un'altra,  pre- 
senti  i  chierici  ed  i  cappellani  di  servizio,  i  domestici  di  camera,  e 
Pufficiale  di  servizio  della  Palatina;  spesso  anche  il  generale  Kanz- 
ler.  Dalla  cappella  passava  nella  sala  da  pranzo,  dove  era  preparata 
una  scodella  di  brodo  con  finissime  pastine,  un  piccolo  bicchier  di 
vino  d'Orvieto  ed  alcuni  biscotti.  Di  li  passava  nella  sala  da  bagno 
dove  lo  aspettava  il  prof.Ceccarelli  r1  da  una  cura  di  bagni  alle  gambe 
con  1'acqua  delle  terme  di  Civitavecchia,  prescrittagli  da  quel  suo 
medico,  aveva  ottenuto  gran  giovamento. 

Alle  9  era  nello  studio :  sedeva  su  di  una  poltrona  a  pernio  da- 
vanti  alia  scrivania,  sulla  quale  erano  poche  carte,  un  crocifisso  e 
una  immagine  della  Concezione. 

Primo  a  presentarglisi,  fin  quando  visse,  fu  il  cardinale  Antonelli, 
in  abito  cardinalizio  di  corte  -  sottana  nera  orlata  di  rosso,  con 
bottom  rossi  e  mantello  rosso  -  che  Pio  IX  era  scrupoloso  nel  volere 
rispettate  le  regole  d'etichetta.  II  cardinale  presentava  a  Pio  IX 
qualche  dispaccio  giunto  nella  notte ;  riceveva  istruzioni  e  prendeva 
in  consegna  le  somme  ricevute  dal  Papa  nella  giornata  precedente 
per  Pobolo  di  San  Pietro.  Le  visite  del  cardinale  Simeoni,  succe- 
duto  all' Antonelli,  non  erano  quotidiane,  anche  perche  il  Papa,  m- 
vecchiato,  desiderava  di  affaticarsi  meno. 


i.  Alessandro  Ceccarelli (1840-1893),  gia  chirurgo  delTesercito  pontificio,  fu 
dal  1870  medico  e  chirurgo  di  Pio  IX.  Aveva  svolto  a  Roma,  prima  dell'oc- 
cupazione  italiana,  unavasta  attivita  nella  fondazione  di  ospedali,  dispensari 
ecc.,  e  si  era  battuto  perche  nella  Convenzione  di  Ginevra  (1868)  si  consi- 
derassero  neutrali  i  feriti  di  guerra. 


560  UGO    PESCI 

Dopo  PAntonelli,  Pio  IX  riceveva  il  suo  maestro  di  casa  comm. 
Giovacchino  Spagna,  che  gli  riferiva  quanto  riguardava  Tanda- 
mento  dei  palazzi  apostolici,  e  Tinvestimento  di  capital!  nelle  ban- 
che  straniere.  Un  prelato  portava  la  posta  al  Papa.  Con  ima  gran 
lente  da  presbite,  questi  dava  un'occhiata  a  qualche  giornale  scelto 
a  caso  nel  mazzo :  poi  il  maestro  di  camera  gli  portava  la  nota  delle 
udienze  accordate  per  quel  giorno,  ed  il  Papa,  accompagnato  da 
due  o  tre  cardinal!,  riceveva  qualche  personaggio  in  udienza  pri- 
vata  o  si  faceva  vedere  ai  molti  devoti  adunati  nella  sala  del  Conci- 
storo  od  in  quella  della  contessa  Matilde.  Verso  mezzogiorno  scen- 
deva  in  giardino  con  i  cardinal!  di  curia  che,  per  turno,  gli  face- 
vano  compagnia,  con  il  generale  Kanzler  e  con  1'anticamera  nobile. 

Secondo  la  stagione  e  le  sue  condizioni  di  salute,  passeggiava  in 
carrozza  od  a  piedi,  oppure,  seduto  in  qualche  luogo  coperto  od  al 
rezzo  degli  alberi,  teneva  crocchio  per  piu  di  un'ora,  informandosi 
con  curiosita  degli  awenimenti  di  Roma,  e  delle  notizie  politiche 
di  fuori  d' Italia  risapute  dalle  relazioni  dei  nunzi. 

Pranzava  alle  2 :  la  sua  tavola  era  molto  ben  servita  e  disposta  con 
eleganza.  Uso  per  molto  tempo  di  prendere  una  tazza  di  brodo 
prima  della  passeggiata:  vi  sostitui  poi  una  tazza  di  latte,  come  piu 
nutriente.  II  pranzo  era  quasi  invariabilmente  composto  di  minestra 
di  riso,  fritto  abbondante,  bove,  arrosto  di  stagione,  erbaggio  cotto, 
frutte  abbondanti  e  sceltissime,  dolce  di  bigne  o  pasta  frolla:  be- 
veva  due  o  tre  bicchierini  di  Bordeaux  e  prendeva  il  caffe.  Lo 
serviva  lo  Zangolini,  ed  assisteva  quasi  sempre  al  pranzo  il  comm. 
Filippani,  scalco  segreto. 

Preso  il  caffe  si  ritirava  nella  camera  da  letto  a  prendere  un 
breve  riposo.  Passeggiava  poi  nelle  loggie,  accompagnato  dal  fede- 
lissimo  generale  Kanzler,  e  spesso  dalParcheologo  barone  Visconti,1 
che  divertiva  il  Papa  con  le  sue  barzellette,  o  da  qualche  altro  laico 
della  nobilta  antica  o  nuova.  Si  fermava  talvolta  nella  gran  sala 
della  Biblioteca  o  nella  sala  degli  scrittori,  parlando  del  piu  e  del 
meno,  e  non  di  rado  anche  delle  discussion!  awenute  a  Monteci- 
torio.  Ritiratosi  nuovamente  nel  suo  studio  vi  riceveva  i  capi  ed  i 
segretari  delle  congregazioni  ecclesiastiche :  poi,  libero  ormai  delle 
cure  pontifical! ,  cenava  con  una  minestra  come  quella  della  mat- 
tina,  un  piatto  d'erba  e  un  bicchierino  di  Bordeaux  bianco.  Prima 

i.  Ercole  Visconti  (1802-1880),  nipote  di  Ennio  Quirino  Visconti,  barone 
per  nomina  di  Pio  IX. 


I    PRIMI   ANNI    DI    ROMA   CAPITALE    (1870-1878)          561 

di  ritirarsi  in  camera,  si  tratteneva  nella  biblioteca,  ricca  di  libri 
modern!  molto  ben  rilegati,  e  con  monsignor  Cenni  suo  segretario 
si  divertiva  ad  esaminare  e  criticare  qualche  libro  pubblicato  da 
poco,  essendo  dalla  natura  dotato  di  acume  e  di  spirito  vivacemente 
polemico.  Lo  dimostro  una  volta  ad  una  Deputazione  di  cattolici 
inglesi,  parlando  alia  quale,  nel  '74,  citando  a  memoria  vari  periodi 
di  un  opuscolo  recentemente  pubblicato  dal  Gladstone,1  non  an- 
cora  amico  degli  irlandesi,  lo  confuto  negando  che  la  Chiesa  catto- 
lica  ecciti  con  i  suoi  dogmi  alia  ribelHone  contro  i  governi  legal- 
mente  costituiti. 


[ELEZIONE  DI  LEONE  xni]2 

Anche  il  conclave  nel  quale  fu  eletto  il  successore  di  Pio  IX  ap- 
partiene  ormai  da  un  pezzo  alia  storia,  e  chi  avesse  desiderio  di  co- 
noscerne  i  particolari  non  ha  da  far  altro  che  leggere  il  libro  di 
RafTaele  De  Cesare.3  La  deliberazione  presa  dal  Sacro  Collegio  di 
tenere  il  conclave  in  Roma,  non  ostante  il  parere  contrario  soste- 
nuto  gagliardamente  dagli  intransigent,  oltre  a  confermare  la  pos- 
sibilita  della  convivenza  dei  due  poteri  in  Roma,  dimostro  che 
il  contegno  della  popolazione,  del  governo  e  di  quasi  tutta  la  stampa 
in  occasione  della  morte  di  Pio  IX,  era  stato  giustamente  apprez- 
zato  dalla  maggioranza  dei  cardinali  stranieri  ed  italiani. 

L'avere  il  cardinale  camerlengo  Gioacchino  Pecci,4  con  molta 
dottrina  ed  eloquente  parola,  combattuto  la  proposta  della  mino- 
ranza  dei  cardinali,  la  quale  proponeva  di  determinare,  durante  la 

i.  William  Ewart  Gladstone  (1809-1898)  pubblico  nel novembre  del  1874  un 
opuscolo,  ispirato  dai  risultati  del  Concilio  vaticano  di  quattro  anni  avanti : 
The  Vatican  Decrees  in  their  bearing  on  Civil  Allegiance:  a  Political  Expostu 
lation.  Per  la  polemica  che  ne  segui,  cfr.  J.  MORLEY,  The  Life  of  W.  E.  Glad 
stone^  London,  Macmillan,  1904,  n,  pp.  515  sgg.;  D.  C.  LATHBURY,  Letters 
on  Church  and  State  of  W.  E.  Gladstone,  London,  Murray,  1910,  n,  pp.  46 
sgg.  2.  Ed.  cit.,  dal  cap.  xvi  (Gli  inizi  d'un  regno  e  d'un  pontificate),  pp. 
647-52.  3.  il  libro  .  .  .  Cesare:  si  allude  a  //  conclave  di  Leone  XIII,  con  do- 
cumenti,  Citta  di  Castello,  Lapi,  1887.  Raffaele  De  Cesare  (1845-1918)  fu 
uomo  politico,  senatore  e  storico :  autore,  altresi,  de  La  fine  di  un  regno, 
Citta  di  Castello,  Lapi,  1895  e  di  volumi  di  aneddoti  e  memorie,  soprat- 
tutto  «  meridionali ».  4.  Vincenzo  Gioacchino  Pecci  (1810-1903),  sacerdote 
dal  1838,  nunzio  in  Belgio  (1843-1846),  vescovo  di  Perugia,  cardinale  nel 
1853,  camerlengo  nel  1877.  L'elezione  a  pontefice  awenne  il  20  febbraio 
1878. 

36 


562  UGO    PESCI 

vacanza  della  Santa  Sede,  una  specie  di  programma  politico  che 
vincolasse  in  certo  qual  modo  il  futuro  pontefice,  dimostra  come 
egli  avesse  la  speranza  ed  il  desiderio  di  vedere  seguita,  forse  anche 
riguardo  al  Regno  d' Italia,  una  politica  differente  da  quella  del 
cardinale  Antonelli,  continuata  dal  cardinale  Simeoni.  II  camer- 
lengo  prese  bensi  pretesto  dalla  proroga  della  Camera1  decretata 
dal  ministero  per  far  rilevare,  in  una  Nota  ai  nunzi  pontifici,  che  lo 
stesso  governo  italiano  riconosceva  come  il  funzionamento  delle 
istituzioni  fosse  contrario  all'esercizio  dei  poteri  ecclesiastici. 

I  cardinali  entrarono  in  conclave  il  18.  La  commissione  formata 
di  tre  di  loro  per  lo  scrutinio  del  personale  non  aveva  voluto  am- 
mettere  cinque  ecclesiastici  proposti  come  conclavisti;  due  de'  cin 
que  furono  esclusi,  a  quanto  pare  per  sospetti  politici. 

L'esame  dei  cardinali  sindacatori  era  stato  rigorosissimo.  II  car 
dinale  Schwarzemberg,  a  nome  di  altri  colleghi  stranieri,  chiese 
una  dilazione  d'un  paio  di  giorni  alia  chiusura  del  conclave,  perche 
le  celle  si  asciugassero  meglio  e  potessero  venir  prowedute  di 
maggiori  comodita;  ma  tale  richiesta  non  fu  ascoltata.  II  giorno 
fissato,  in  poco  piu  di  mezz'ora,  sessantadue  cardinali  entrarono  in 
conclave :  le  loro  carrozze  avevano  ingresso  dal  portone  delle  fon- 
damenta.  Poche  persone,  giornalisti  e  preti  francesi,  stavano  a  ve 
dere  1'entrata  dei  cardinali:  ultimo  fu  reminentissimo  Moretti, 
arrivato  quando  i  gendarmi,  non  vedendo  arrivare  altre  carrozze, 
stavano  chiudendo  il  portone. 

I  cardinali  dovettero  accorgersi,  e  lodarono  o  criticarono  secondo 
i  loro  gusti,  Teconomia2  rigorosa  introdotta  nei  Sacri  Palazzi  dal 
cardinale  Pecci,  e  1'energia  con  la  quale  egli  aveva  soppresso  tutti 
gli  abusi  e  le  dilapidazioni  solite  ad  awenire,  per  tradizione,  nel 
periodo  di  sede  vacante. 

II  19,  alFora  della  passeggiata,  il  Pincio  e  villa  Borghese  videro 
disertare  molte  delle  solite  frequentatrici.  Le  loro  carrozze,  invece 
di  salire  dove  furono  gli  orti  di  Nerone  ed  avrebbe  dovuto  sorgere 
il  palazzo  del  Re  di  Roma,3  si  awiavano  in  lunga  fila  per  Borgo 
fino  in  piazza  San  Pietro,  e  vi  si  fermavano  ad  aspettare  la.fumata. 
Borgo  aveva  in  quei  giorni  un  aspetto  strano.  Oltre  alle  molte  bot- 

i.  proroga  della  Camera:  la  nuova  sessione  parlamentare,  gia  indetta  per  il 
febbraio,  fu  rinviata  al  7  marzo.  2.  Veconomia:  il  Pesci  ha  costruito  in  di- 
pendenza  delPincidentale,  anzich6  della  proposizione  principale.  3.  Re  di 
Roma:  il  figlio  di  Napoleone  I  e  di  Maria  Luisa,  il  celebre  «aiglon». 


I    PRIMI   ANNI    DI   ROMA   CAPITALS   (1870-1878)         563 

teghe  dei  «  coronari »  con  le  vetrine  piene  di  ritratti  e  di  memorie 
del  pontefice  defunto,  ve  n'erano  altre  improwisate  nelle  quali  si 
vendevano  i  ritratti  di  Pio  IX  e  di  Vittorio  Emanuele,  di  Umberto  I 
e  dei  cardinali  piii  «  quotati »  per  la  elezione  al  pontificate.  Quantun- 
que  fosse  tradizione  che  il  camerlengo  non  abbia  alcuna  probability 
di  essere  eletto,  non  mancavano,  anzi  abbondavano  i  ritratti  del- 
reminentissimo  Pecci,  accanto  alle  litografie  della  cappella  ar- 
dente  al  Quirinale,  e  della  cappella  del  Sacramento  con  1'esposi- 
zione  della  salma  di  Pio  IX.  La  conciliazione  era  bell'e  fatta .  .  . 
almeno  fra  le  fotografie  e  le  litografie. 

II  pubblico  che  si  era  raccolto  in  piazza  San  Pietro,  a  piedi  ed  in 
carrozza,  non  era  meno  multicolore;  v'erano  il  barone  di  Keudell,1 
e  monsignor  Theodol?  che  non  aveva  voluto  lasciare  entrare  la 
marchesa  di  Montereno  nella  Basilica  vaticana  durante  la  tumula- 
zione  di  Pio  IX;  il  generale  Kanzler  e  qualche  generale  dell'esercito 
italiano ;  il  marchese  di  Noailles,  ambasciatore  di  Francia  presso  il 
Re  d'ltalia,  ed  il  duca  della  Regina  ministro  del  re  di  Napoli  presso 
la  Santa  Sede;  la  baronessa  d'Uxhull  ambasciatrice  di  Russia  e 
parecchie  signore  nere,  reporters  e  guardie  nobili,  Ferdinando  Mar 
tini  e  la  principessa  Altieri,  Ton.  Spaventa  ed  Antonio  Gallenga3 
del  «  Times»,  Ferdinando  Gregorovius4  ed  il  marchese  di  Monte 
reno,  il  barone  Barracco5  e  la  principessa  del  Drago.  Tutti  guarda- 
vano  in  su  verso  il  parafulmine  della  cappella  Sistina:  le  signore  do- 
mandavano  spiegazioni ;  gli  uomini  sfoggiavano,  magari  improwi- 
sandola,  una  grandissima  erudizione  intorno  alle  Constitutiones  apo- 
stolicae  che  regolano  i  conclavi.  Una  fumata  s'era  veduta  al  tocco 


1.  II  barone  di  Keudell  (1824-1903)    era  ambasciatore  di   Germania  a 
Roma  dal  1873.  Nel  1887,  in  seguito   alia  sua  rottura  col  Bismarck,  si 
ritiro  a  vita  privata  in  Roma.  Ebbe  vivissima  passione  per  la  musica. 

2.  Augusto  Theodoli  (1819-1892),  allora  monsignore,  fu  create  cardinale 
nel  1886.     3.  Antonio  Gallenga  (1812-1895),  amico  dapprima  e  poi  awer- 
sario  del  Mazzini,  deputato  dal  1854  al  1856,  quando  fu  costretto  a  dimet- 
tersi  e  a  ritirarsi  in  Inghilterra,  fu  corrispondente  del  «  Times  »  e  come  tale 
segui  la  guerra  del  1859,  la  spedizione  dei  Mille,  la  guerra  austro-prussiana 
del   1866  e   la  franco-prussiana  del  '70-71.     4.  Ferdinando   Gregorovius 
(1821-1891),  venuto  a  Roma  nel  1852  per  studi  storico-letterari,  vi  rimase 
quasi  ininterrottamente  fino  al  1874,  e  vi  dimoro  spesso  anche  negli  anni 
successivi.  Nel  1876  ebbe  dal  municipio  di  Roma  la  cittadinanza  onora- 
ria,  in  riconoscimento  della  sua  Storia  di  Roma  nel  Medioevo  (1859-1873). 
5.  II  barone  Giovanni  Barracco,  senatore,  lego  nel  1905  al  municipio  di 
Roma  il  museo  di  antichita  da  lui  amorosamente  raccolte,  che  oggi  porta 
il  suo  nome. 


564  UGO    PESCI 

e  mezzo;  quella  dopo  lo  scrutinio  del  pomeriggio  tardava  a  farsi 
vedere,  e  molti  se  n'erano  gia  andati  o  se  n'andavano,  quando  alle 
6  y%  un  lieve  fumo  si  alzo  dal  tubo  a  cio  destinato,  accolto  da  un 
oooh!  dei  curiosi  che  si  allontanarono  in  fretta,  lasciando  solo,  in 
fondo  alia  piazza,  un  battaglione  di  fanteria. 

La  mattina  seguente  molti  curiosi  tornarono  verso  le  10  in  piazza 
San  Pietro,  e  vi  si  trattennero  fino  a  dopo  mezzogiorno.  Veduta 
una  piccola  fumata  se  n'andarono  quasi  tutti.  Quando,  alPuna  e 
20  minuti,  dopo  il  secondo  scrutinio,  fu  aperta  la  vetriata  di  mezzo 
della  loggia  sopra  Pingresso  della  Basilica  Vaticana,  detta  delle  be- 
nedizioni,  la  piazza,  era  quasi  vuota.  Comparve  la  croce  papale  se- 
guita  da  alcuni  conclavisti  e  cerimonieri,  che  sventolavano  i  fazzo- 
letti:  il  cardinal  Caterini,  decano  dell'ordine  dei  preti,  lesse  la  solita 
formula  latina  per  annunziare  ilgaudium  magnum.  La  voce  delPemi- 
nentissimo  non  giungeva  distinta  fino  alia  piazza:  i  pochi  astanti 
fecero  comprendere  con  i  loro  gesti  di  non  avere  inteso  mzlla.  Allora 
uno  dei  prelati  che  accompagnavano  il  cardinale  grid6  dalla  loggia 
con  voce  tonante :  mPecci!  Leone  dedmoterzo  !  ».  Alcuni  applaudirono. 
La  proclamazione  fu  poi  fatta  verso  Finterno  della  chiesa ;  si  udi  me- 
glio,  ma  non  v'era  quasi  nessuno. 

Alle  4  di  quello  stesso  giorno  fu  aperto  il  conclave.  La  piazza, 
che  s'era  cominciata  a  popolare  appena  sparsa  la  voce  della  elezione, 
era  gia  affollata  verso  le  3.  Correva  voce  che  il  nuovo  Papa  avrebbe 
benedetto  il  popolo  mostrandosi  dal  gran  finestrone  della  loggia 
sulla  porta  maggiore  della  basilica;1  che  al  suo  apparire  la  truppa 
schierata  in  piazza  lungo  il  portico  di  sinistra  avesse  ordine  di  pre- 
sentare  le  armi,  e  che  da  Castel  Sant'Angelo  si  sarebbero  sparati 
ventun  colpo  di  cannone.  Sette  od  ottomila  persone  stavano  invece 
dentro  la  basilica;  ma  quelli  che  erano  fuori  confermavano  le  loro 
speranze  vedendo  molta  gente  afFacciata  alia  loggia  scoperta  del 
Vaticano,  sopra  Fatrio  della  scala  ducale,  e  molti  preti  e  molti  neri 
che  aspettavano  con  loro  sulla  cordonata  esterna.  Realmente,  a 
quell'ora  nessuno  in  Vaticano  ne  sapeva  piu  di  quanti  stavano  in 
piazza.  Dalle  tre  alle  quattro  continue  Pansiosa  aspettativa,  fatta 
piu  grande  quando  si  vide  gente  affaccendarsi  al  finestrone  della 
loggia  verso  la  piazza,  poi  allontanarsi  ed  awicinarsi  di  nuovo.  Un 

i.  Correva..  .basilica:  su  questa  attesa  di  una  benedizione  esterna,  in- 
torno  alia  quale  vi  furono  molte  supposition!  e  discussioni,  vedi  G.  MAN- 
FRONI,  op.  cit.y  p.  349. 


I    PRIMI   ANNI    DI    ROMA    CAPITALE   (1870-1878)         565 

prelate,  uscito  in  quel  mentre  dalla  porta  di  bronzo,  awiso  quanti 
si  trovavano  sul  suo  passaggio  che  la  benedizione  sarebbe  stata  data 
in  chiesa:  ventimila  persone  si  precipitarono  in  cinque  minuti, 
spingendosi  verso  la  Confessione  di  San  Pietro  per  veder  meglio, 
Se  Leone  XIII  si  fosse  affacciato  a  benedire  il  popolo  in  piazza 
sarebbe  stato  accolto  da  una  ovazione;  ma  questa  appunto  si  te- 
meva,  e  non  fu  voluta. 

Apertosi  il  finestrone  interne,  fu  messo  sul  parapetto  un  tappeto 
rosso  ed  un  guanciale.  Leone  XIII  comparve  in  mezzo  a  due  car- 
dinali :  la  croce  s'inalzava  dietro  di  lui.  Le  tenebre  invadevano  gia 
la  parte  bassa  della  basilica:  dalla  folia  si  alzo  un  grido  inarticolato ; 
lo  spettacolo  era  solenne.  II  pontefice  con  un  gesto  della  mano  si- 
nistra  invito  a  far  silenzio,  mentre  lo  stesso  cenno  facevano  i  cardi- 
nali  e  prelati  che  raccompagnavano.  Alzata  la  mano  destra,  il  Papa 
intuon6  la  formula  della  benedizione,  alia  quale  fecero  seguito  le 
giaculatorie  d'uso  cantate  dai  prelati,  e  ad  esse  rispose  un  Amen 
finale,  detto  da  migliaia  di  voci. 

Quando  Leone  XIII  disparve  lo  saluto  un'altra  acclamazione: 
poi,  non  avendo  tutti  perduto  ancora  la  speranza  della  benedizione 
verso  la  piazza,  la  folia  usci  frettolosa  dalla  basilica,  alzando  e  vol- 
tando  indietro  la  testa  appena  fuori. 

Si  credette  che  un'altra  benedizione  al  popolo  raccolto  nella  ba 
silica  sarebbe  data  dal  Papa  dopo  la  cerimonia  della  incoronazione 
awenuta  il  3  marzo  nella  cappella  Sistina;  e  gli  ordini  erano  gia 
dati,  prese  le  necessarie  precauzioni  per  prevenire  qualunque  in- 
cidente,  quando  Leone  XIII,  a  cui  s'era  detto  che  il  governo  non 
garantiva  la  quiete  pubblica,  rinunzio  a  quella  cerimonia  dicendosi 
stanco. 

Al  nuovo  Papa,  ed  a  quanti  lo  circondavano  e  vedevano  di  mal 
occhio  I'attitudine  benevola  delTopinione  pubblica  verso  di  lui,  non 
era  facile  il  far  comprendere  che  lo  Statuto  non  consentiva  d'im- 
pedire  riunioni  contro  il  papato  simili  al  comizio  del  24  febbraio 
delPanfiteatro  Corea,  nel  quale  si  predico  la  distruzione  della 
Chiesa;1  e  tanto  meno  di  persuaderli  come  quelle  tirate  lasciassero 


i.  comizio  .  .  .  Chiesa:  nel  comizio,  tenuto  all5 'anfiteatro  Corea,,  si  condann6 
la  politica  ecclesiastica  del  governo.  Piii  grave  apparve  la  dimostrazione 
awenuta  a  Roma,  la  sera  del  3  marzo,  poche  ore  dopo  Tincoronazione  di 
Leone  XIII :  i  dimostranti,  gridando  contro  il  papa  e  il  governo,  scagliarono 
sassi  contro  le  finestre  festosamente  illuminate  delle  famiglie  clericali. 


566  UGO  PESCI 

il  tempo  che  avevan  trovato.  In  Vaticano,  dove  la  legge  delle  gua- 
rentigie  era  stata  respinta,  domandavano  che  cosa  avrebbe  servito 
Taccettarla  se  permetteva  di  dire  pubblicamente  della  Chiesa  e  del 
suo  Capo  quanto  non  si  sarebbe  potuto  dire  di  qualunque  istitu- 
zione  del  Regno. 


[ANTICHI  RicoRDi]1 

Ricordo  sempre  lo  strano  effetto  prodotto  in  me  dallo  spettacolo 
delle  passeggiate  del  Gasparoni  per  Roma.  Tutti  sanno  che  Antonio 
Gasparoni  fu  un  famoso  brigante,  ed  a  capo  di  una  banda,  piii  o 
meno  numerosa  secondo  le  stagioni  e  la  energia  dei  gendarmi  man- 
dati  a  combatterla,  esercito  il  suo  mestiere  dal  '15  al  '27  sulla  strada 
percorsa  dai  viaggiatori  da  Roma  a  Napoli.  Alcuni  scrittori  stra- 
nieri,  venuti  in  Italia  quando  il  bandito  non  poteva  piu  far  danno 
ad  alcuno,  crearono  intorno  al  suo  nome  una  leggenda  postuma  di 
gesta  cavalleresche,  facendone  una  specie  d'eroe  di  strada  maestra, 
pronto  tanto  a  combattere  valorosamente  contro  la  forza  pubblica, 
quanto  a  lasciare  nobilmente  andare  per  i  fatti  loro  gli  stranieri  che 
sapevano  ispirargli  sentimenti  di  benevolenza.  Egli  stesso  raccontava 
di  aver  riconsegnato,  senza  alcun  compenso,  e  senza  torcer  loro  un 
capello,  signorine  straniere  per  le  quali  avrebbe  potuto  chiedere  ed 
ottenere  un  lauto  riscatto,  commosso  dalle  lagrime  delle  madri: 
raccontava  anche  di  essere  stato  un  brigante  benefico,  come  asse- 
riva  di  avere  parentela  con  il  cardinale  Antonelli ;  parentela  della 
quale  non  esiste  e  non  e  mai  esistito  alcun  documento. 

Fatto  sta  che,  se  i  gendarmi  e  i  dragoni  pontificii  non  erano  mai 
riusciti  a  mettergli  le  mani  addosso  -  ed  avranno  avuto  le  loro  buo- 
ne  ragioni  per  non  esporre  a  troppo  gran  repentaglio  la  loro  vita  - 
Parciprete  Rappini  di  Sezze  riusci  a  persuadere  il  Gasparoni,  con 
la  promessa  di  una  amnistia,  a  costituirsi  con  la  sua  banda  alle 
autorita.  Appena  ebbe  deposte  le  armi,  il  Gasparoni,  con  la  sua 
banda  ormai  resa  inoffensiva,  contrariamente  alle  promesse  fu  rin- 
chiuso  nel  bagno  di  Civitavecchia,  dal  quale  alcuni  anni  dopo  lo 
trasferirono,  sempre  con  i  suoi  compagni,  nel  forte  di  Civita  Ca- 
stellana,  dove  lo  vidi2  gia  vecchio  pochi  giorni  prlma  del  20  settem- 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  xvm  (Roma  scomparsa),  pp.  697-705.  2.  lo  vidi:  il  Pesci 
ne  scrive  nel  suo  volume  Come  siamo  entrati  in  Roma  (vedi  la  bibliografia). 


I   PRIMI   ANNI    DI   ROMA   CAPITALE   (1870-1878)         567 

bre  1870,  come  lo  videro,  visitando  il  forte  facilmente  espugnato, 
molti  ufficiali  d'ogni  grado  del  corpo  d'esercito  del  Cadorna. 

Ebbi  allora  opportunity  di  parlare  a  lungo  con  il  capobanda, 
persuadendomi  ch'egli  era  un  rozzo  ed  ignorante  ciodaro,  dotato  di 
tenderize  megalomani,  ma  sprowisto  di  quei  pregi  statigli  attribuiti 
dalla  fantasia  di  alcuni  scrittori:  lessi  anche  una  specie  di  diario  de' 
tempi  ne?  quali  la  sua  banda  batteva  la  campagna,  tenuto  dal  let- 
terato  della  compagnia,  segretario  e  confidente  del  capo,  nel  quale 
diario  vidi  registrati  con  pompose  parole  molti  reati  comuni,  ai 
quali  mancava  proprio  qualunque  parvenza  di  cavalleresco  e  di 
nobile. 

Occupata  Roma,  il  governo  italiano  penso  che  il  Gasparoni  e  i 
suoi  compagni  non  potevano  legalmente  esser  trattenuti  in  carcere, 
dove  non  stavano  poi  tanto  male,  se  e  vero  che  sotto  il  governo  pon- 
tificio  li  lasciavano  qualche  volta  anche  andare  a  spasso,  sapendo 
che  oramai  non  avevano  piii  alcuna  velleita  di  scappare.  Un  processo 
contro  di  loro  non  era  mai  stato  fatto,  ne  si  poteva  ormai  fare  es- 
sendo  passati  quarantacinque  anni  da  quando  erano  caduti  nel- 
1'agguato ;  e  trent'anni  fanno  cadere  in  prescrizione  qualunque  de- 
litto.  II  Gasparoni  ed  i  suoi  furono  messi  in  liberta:  alcuni  lascia- 
rono  il  capo,  il  <cprincipe  dei  monti»  come  lo  chiamavano,  per  tor- 
nare  ai  loro  paesi  dove  avevano  forse  ancora  qualche  lontano  con- 
giunto:  il  capobanda  venne  a  Roma,  col  suo  segretario,  che  si  dice 
fosse  stato  prete,  ed  altri  due  o  tre  compagni;  in  quella  Roma  che 
non  aveva  veduta  mai,  ma  dove  i  rapsodi  popolari,  ciechi  o  veg- 
genti,  ne  avevano  per  tanti  anni  cantato,  nei  trivii  e  nelle  osterie, 
le  imprese  illustrate  altresi  dalPoriginale  bulino  di  Bartolommeo 
Pinelli.1 

Quando  vi  giunsero,  cominciarono  a  girare  per  la  citta;  spesso 
erano  uniti,  talvolta  il  Gasparoni  solo,  con  il  cappello  a  pan  di 
zucchero,  il  mantello  sbiadito  e  rappezzato,  le  ciocie  e  la  lunga 
barba  bianca.  Avrebbe  potuto  passare  per  un  modello:  ma  quan- 
tunque  fosse  ormai  lontano  il  tempo  delle  sue  gesta,  fu  presto  rico- 
nosciuto  ed  ebbe  subito  un  numeroso  codazzo  di  ammiratori.  Dico 
ammiratori  per  ossequio  alia  verita;  il  capo  brigante  non  ispirava 

i.  Bartolomeo  Pinelli  (1781-1835),  disegnatore,  incisore,  scultore,  e  rimasto 
famoso  soprattutto  come  interprete  di  tipi  e  costumi  popolari  di  Roma, 
che  egli  ritrasse  in  creta,  in  rame  e  nella  fortunatissima  serie  di  acqueforti 
detta  dei  Buffi  caricati.  Vedi  R.  PACINI,  Bartolomeo  Pinelli  e  la  Roma  del 
suo  tempo,  Milano  1935. 


568  UGO   PESCI 

evidentemente  alcun  disprezzo,  ma  una  curiosita  rispettosa  ed  an- 
che  ammiratrice :  i  ragazzi  gridavano  qualche  volta  «Viva  Gaspa- 
roni »,  senza  neppur  sospettare  come  e  quanto  offendevano  il  senti- 
mento  morale  e  il  galantomismo :  v'era  ancora  neHJanima  della  folia 
un  istinto  di  reazione  contro  antichi  sistemi  di  governo  che  facevano 
stimare  dai  compaesani  il  giovane  che  si  dava  alia  macchia  piii  di 
quello  che  andava  ad  arruolarsi  soldato  nelle  milizie  papali,  e  ri- 
tenere  onorevole  il  mestiere  del  brigante,  considerando  i  brigand 
in  lotta  con  il  governo.  Aberrazioni,  pregiudizi  fin  che  volete,  ma 
in  gran  parte  giustificati  od  almeno  scusati  dai  fatti. 

II  Gasparoni  continue  a  girellare  a  quel  modo  per  alcune  setti- 
mane  nelle  vie  di  Roma,  invitato  spesso  a  bere  ed  a  mangiare  nelle 
osterie,  sempre  seguito  da  numerosi  gruppi  di  popolo  -  un  giorno, 
in  una  strada  vicino  a  piazza  Navona,  ho  veduto  le  carrozze  obbli- 
gate  a  tornare  indietro  dalla  folia  che  impediva  il  passo  -  fino  a 
quando  Pautorita  di  pubblica  sicurezza,  per  togliere  quello  scan- 
dalo,  decise  di  mandare  il  Gasparoni,  con  i  compagni  rimastigli, 
alia  Pia  Casa  d'Abbiategrasso,  dove  egli  mori  ad  89  anni  nel  1882. 
A  Roma  gia  era  stato  dimenticato. 


II  Gasparoni  passeggiava  le  strade  di  Roma  nel  '71,  quando 
ancora  gli  zampognari  suonavano  la  novena  del  Natale  sotto  le  im- 
magini  per  le  strade ;  e  le  trasteverine  e  le  abitanti  del  rione  Monti 
si  riconoscevano  per  alcune  singolarita  del  vestirsi  e  del  portare  lo 
scialle,  e  gli  uomini  dei  due  rioni  si  guardavano  spesso  e  volentieri 
in  cagnesco :  quando  un  palno  vestito  bene  non  si  sarebbe  facil- 
mente  lasciato  indurre  a  passare,  specie  di  sera,  per  alcune  strade 
del  rione  Regola  abitate  dai  vaccinari,  dove  probabilmente  nessuno 
gli  avrebbe  detto  un'insolenza,  ne  mandato  una  maledizione,  ne 
torto  un  capello,  s'egli  andava  per  i  fatti  suoi  senza  impicciarsi  di 
quelli  altrui,  ma  dove  .  . .  i  casi  ed  i  malintesi  son  tanti!  .  .  .  poteva 
capitargli  anche  qualche  guaio.  In  quelle  strade,  ne  in  quelle  del 
rione  Monti,  ne  in  Trastevere,  si  arrischiavano  dawero  i  soldati 
francesi  durante  la  occupazione,  se  non  in  forti  drappelli,  ed  anche 
questi  vi  furono  talvolta  presi  a  sassate. 

Quelli  delle  passeggiate  del  Gasparoni  erano  i  tempi  nei  quali  i 
lavoranti  delPAscolano  e  del  Teramano,  che  venivano  a  portare  il 
contribute  della  loro  mano  d'opera  nei  latifondi  della  campagna 


I    PRIMI   ANNI    DI   ROMA   CAPITALE   (1870-1878)         569 

romana  per  la  mietitura,  passando  per  la  citta,  dormivano  a  frotte 
sulle  scalinate  di  Santa  Maria  Maggiore,  e  perfino  nell'atrio  del 
palazzo  Massimo,  buscandovi  le  febbri,  per  poi  tornare  dopo  qual- 
che  giorno  a  curarsele  nei  nostri  spedali.  Piazza  Farnese  era  ancora 
ripiena  di  banchi  ogni  domenica  mattina,  per  comodo  dei  contadini 
che  venivano  quel  giorno  in  citta :  molte  donne  vi  stavano  accocco- 
late  in  terra  negli  angoli,  mentre  i  loro  uomini  facevano  compre  o 
combinavano  qualche  affare;  gli  asini  si  riposavano  intorno  alle 
due  fontane,  e  la  massa  imponente  del  palazzo,  abbandonato  dai 
Borboni  di  Napoli  e  non  ancora  occupato  dalla  legazione  di  Francia, 
.giganteggiava  muta  e  solitaria  con  i  finestroni  chiusi.  A  piazza 
Montanara,  dove  anche  a  tempo  del  governo  pontificio  le  botteghe 
potevano  rimanere  aperte  in  giorno  festivo  fin  dopo  mezzogiorno, 
accorrevano  egualmente  i  contadini  in  gran  numero,  ed  erano  la 
pronti  ad  ingarbugliarli  venditori  ambulant!  d'ogni  generi,  riven- 
duglioli  di  roba  usata,  ebrei  e  battezzati.  La  trovavano  i  caporali, 
sub-appaltatori  di  lavori  campestri,  che  venivano  a  reclutarli;  fa 
cevano  prowiste  di  pan  duro  e  baccala  secco ;  la  trovavano  cappelli 
a  pan  di  zucchero,  cappotti  foderati  di  verde,  fiaschette  di  legno  e 
ghette  di  cuoio :  la  era  1'albergo  della  GhifTa  dove  si  spendevano  8 
e  perfino  10  baiocchi  per  dormire  una  notte  «con  tutt'er  comido», 
vale  a  dire  soli  in  un  letto,  mentre  con  5  baiocchi  si  poteva  avere  un 
posto  in  un  letto  dove  erano  o  potevano  venire  altre  due  persone, 
in  una  stanza  dove  erano  altri  tre  di  quei  letti.  Vi  si  faceva  la  barba 
all'aria  aperta,  per  un  soldo,  mettendo  a  sedere  il  cliente  sopra  una 
delle  cinque  o  sei  seggiole  di  paglia  poste  Tuna  accanto  alTaltra,  e 
nel  soldo  erano  comprese  mdicazioni  talvolta  sincere  e  disinteres- 
sate  sul  prezzo  corrente  della  mano  d'opera;  vi  si  trovavano  con 
il  loro  tavolino  due  o  tre  scrivani  pubblici,  pronti  a  mettere  il 
loro  intelletto,  la  loro  pratica  d'affari  ed  il  loro  stile  a  benefizio  di 
chiunque,  mediante  il  compenso  di  tre  « baiocchi »  compresa  la 
spesa  viva  d'inchiostro  e  carta.  I  frati  zoccolanti,  dopo  aver  por- 
tato  Tinsalatina  fresca  alle  loro  « poste »  poiche  gli  orti  d'alcuni 
conventi  non  ancora  soppressi  ne  prowedevano  mezza  Roma,  ca- 
pitavano  in  piazza  Montanara  a  chiedere  1'elemosina  per  Panime 
del  purgatorio,  e  quei  poveri  diavoli  che  lavoravano  tutta  la  setti- 
mana  sotto  la  canicola  per  guadagnare  poco  piu  d'un  centinaio  di 
baiocchi,  non  si  facevano  pregare  a  metterne  uno  nella  bisaccia  del 
frate.  Ora  lo  danno  alia  Camera  del  lavoro:  chi  sa  poi  se  ot- 


57°  UGO  PESCI 

tengono  la  stessa  calma  deiranimo  che  procurava  loro  la  fede. 

D'intorno  a  piazza  Montanara,  negli  altri  giorni  della  settimana, 
gironzavano  gli  «anticagliari»,  piccoli  ed  ignari  pirati  di  antichita, 
sbocconcellatori  vandalici  di  monumenti,  o  ricettatori  di  roba  sca- 
vata  di  nascosto  dai  burrini  o  coltivatori  di  vigne,  che  vendevano  le 
loro  cc  anticaglie  »  al  minuto  portandole  in  giro  in  una  cesta  come  le 
ciambelle  dolci,  ed  offrendo  ai  forestieri  statuette  di  bronzo  fabbri- 
cate  a  getto  due  giorni  prima,  pezzetti  di  musaico  e  diti  o  nasi  di 
statue  rubati,  e  piccole  lastre  di  marmi  che  chiamavano  « pietrelle » 
raccattate  alia  Marmorata  od  al  Foro  Romano  allora  incustodito, 
o  fatte  con  ritagli  di  grossi  pezzi  lavorati  dai  marmisti:  ed  al  posto 
di  questi  «anticagliari»  spariti,  che  si  annunziavano  con  un  grido 
tradizionale  come  i  venditori  di  semi  di  zucca  abbrustoliti  e  le  ven- 
ditrici  di  cicoria,  successero  poi  in  quella  stessa  localita  i  mercanti 
di  roba  scavata  e  sottratta  dalla  melma  secolare  del  Tevere,  quando 
incominciarono  i  lavori  di  sgombro  delFalveo  e  di  sistemazione  del 
tronco  urbano  del  fiurne. 

Le  strade  lungo  i  fianchi  del  Palatino,  fra  il  Palatino  ed  il  Circo 
Massimo,  ed  intorno  alia  Bocca  della  Verita,  erano  fiancheggiate  da 
fienili  invece  di  case;  e  quei  fienili  due  o  tre  volte  1'anno  rinnova- 
vano  la  loro  prowista.  Allora  carri  enormi  stracarichi  di  fieno,  tirati 
da  due  paia  di  grossi  bovi,  sul  giogo  de'  quali  si  ergeva  quasi  sempre 
in  un  quadretto  la  immagine  di  Sant' Antonio,  ostruivano  quelle 
strade;  e  dai  carri  si  sprigionavano  a  nuvoli,  insieme  ad  altri  insetti 
alati,  quelle  zanzare  alle  quali  la  scienza  moderna  ha  riconosciuto  il 
merito  di  essere  il  mezzo  diretto  di  trasmissione  delle  febbri  ma- 
lariche. 


Si  vedeva  allora  frequentemente  il  Santo  Bambino,  che  si  custo- 
disce  e  si  venera  nella  chiesa  di  Santa  Maria  d'Ara  Coeli,  trasportato 
a  casa  degli  ammalati  ormai  condannati  dai  medici  -  spes  ultima 
Dea  —  in  una  carrozza  prestata  dai  principe  Alessandro  Torlonia 
alia  sacra  immagine  ed  ai  frati  che  Paccompagnavano :  giacche 
tutti  sanno  che  la  piu  bella  carrozza  del  Papa,  regalata  nel  '49  al 
Santo  Bambino  dai  triumviro  Armellini,1  per  salvarla  dai  furor 

i.  Carlo  Armellini  (1777-1863),  magistrate  e  giurista,  sostenitore  di  riforme 
nello  Stato  pontificio,  form6  con  Mazzini  e  Aurelio  Saffi  il  triumvirato 
della  Repubblica  romana  nel  1849.  Mori  esule  in  Belgio. 


I    PRIMI   ANNI   DI    ROMA    CAPITALS   (1870-1878)         571 

della  plebe  che  bruciava  quelle  del  Papa  e  dei  cardinal!,  ritorno 
nel  1850  nelle  rimesse  pontificie,  ed  1  frati  che  non  si  erano  peritati 
di  sedervisi  per  portare  Fimmagine  alle  case  degli  infermi  ebbero 
da  Pio  IX  una  buona  lavata  di  capo. 

Allora  come  adesso  le  persone  metodiche  ed  amanti  di  stare  in 
regola  con  le  autorita  costituite  e  col  tempo  medio,  aspettavano  con 
Porologio  alia  mano  il  segnale  delPosservatorio  del  Collegio  ro- 
mano  -  un  pallone  che  cadeva  dalla  cima  ai  piedi  d'una  grande  asta  - 
al  quale  rispondeva  fino  dal  1848  un  colpo  di  cannone,  annunziando 
il  mezzogiorno,  ora  salutata  dal  1457  dal  suono  delle  campane,  per 
ordine  di  papa  Calisto  III,1  in  memoria  dell'essere  stata  liberata 
dall'assedio  di  150.000  turchi  comandati  da  Maometto  la  citta  di 
Belgrade,  antemurale  d'Europa  contro  rislamismo. 

Da  prima  il  colpo  si  tirava  dalPalto  del  castello,  ma  per  consiglio 
del  padre  Secchi,2  affinche  le  onde  sonore  non  si  disperdessero 
troppo  in  alto,  fu  tirato  con  un  cannone  sui  bastioni  piu  bassi  del 
castello  oggi  scomparsi,  ed  un  drappello  di  artiglieri  italiani  con- 
tinuo  questo  servizio  incruento  nel  quale  rartiglieria  papalina  aveva 
acquistato  incontestata  esperienza. 

Chi  rincasava  la  sera  tardi,  trovava  a  piazza  San  Carlo  sul  canto 
di  via  della  Croce,  sul  canto  del  palazzo  Chigi,  sull'angolo  di  via 
Cacciabove,  ed  in  qualche  altro  punto  della  citta  il  «  sigararo  »  non 
ancora  soppresso  dalla  Regia  de*  tabacchi,  che  rivendeva  sigari  con 
licenza  de'  superiori;  ma  non  trovava  le  luride  e  disgraziate  creature 
dalle  quali  a  qualunque  ora  di  notte  sono  ora  battuti  i  marciapiedi 
del  Corso  e  delle  vie  principal^  durando  ancora  la  tradizione  della 
Roma  pontificia,  nella  quale  aweniva  quanto  awiene  in  tutto  il 
mondo,  ma  con  maggior  riguardo  per  le  apparenze:  riguardo  ipo- 
crita  finche  si  vuole,  ma  I'ipocrisia,  se  non  e  dawero  un  omaggio 
reso  dal  vizio  alia  virtu,  come  ha  scritto  il  La  Rochefoucauld,3 
&  per  lo  meno  un  omaggio  reso  dalla  sudiceria  alia  decenza. 


i.  Alfonso  Borgia,  di  Valenza,  fu  pontefice  col  nome  di  Calisto  HI  dal 
1455  al  1458.  2.  padre  Secchi:  vedi  la  nota  i  a  p.  536.  3.  II  duca  Fran- 
9013  de  La  Rochefoucauld  (1613-1680),  autore  delle  Maximes. 


ETTORE    SOCCI 


PROFILO  BIOGRAFICO 

ETTORE  Socci  nacque  a  Pisa,  da  Giuseppe  e  da  Elettra  Badanelli, 
il  25  luglio  1846,  ma  dopo  i  primissimi  studi  passo  a  Firenze,  a  fre- 
quentarvi  quel  Liceo  fiorentino,  che  era  sorto  in  seguito  alia  legge 
granducale  del  1852.  Ugo  Pesci,  nel  suo  volume  Firenze  capitals  (vedi 
qui  a  p.  433),  lo  ricorda  tra  i  suoi  compagni  di  scuola  in  quegli  anni 
fortunosi  del  nostro  Risorgimento.  Ma  il  Socci  fu  quasi  da  allora 
convinto  repubblicano,  entusiasta  poi  della  propaganda  mazziniana 
di  Alberto  Mario  in  Firenze:  e  non  solo  ando  alia  guerra  del  1866 
come  volontario  garibaldino,  ma  si  trovo  anche  a  Mentana.  Si  di- 
rebbe  che  egli  avesse  nel  sangue  quel  che  di  eroico  e  di  romantico 
vibrava  nel  garibaldinismo,  quasi  il  gusto  dell'awentura;  e  ne  e  un 
segno  la  prefazione  che  egli  compose  per  il  libro  Villa  Glori  di  Pio 
Vittorio  Ferrari,  rievocando  la  spedizione  dell'Agro  romano  in  pa- 
gine  saporitamente  colorite,  ma  segretamente  commosse. 

Tornato  a  Firenze,  ben  lungi  dall'abbandonarsi  alia  delusione  e 
alPawilimento,  si  tuffo  tutto  nella  propaganda  repubblicana  e  nelle 
prime  prove  di  giornalismo.  Proprio  con  Ugo  Pesci,  che  ne  fa  ricordo 
in  Firenze  capitale  (Firenze,  Bemporad,  1904,  pp.  446-8),  fondo  al 
lora,  nel  febbraio  del  1868,  un  foglietto  settimanale  di  otto  pagine, 
che  scriveva  di  educazione  e  di  letteratura,  di  teatro  e  di  economia 
pubblica,  di  pittura  e  di  morale.  Si  intitolava  «La  Verita»  e  forse, 
come  tale,  ebbe  pochi  lettori  e  breve  vita:  ma  gia  indicava  un 
principio  cui  Socci  non  venne  mai  meno,  che  sincerita  e  lealta  gli 
parvero  sempre  la  base  certa  di  ogni  azione  ed  educazione  politica. 

Nel  1870,  accesasi  la  guerra  franco-prussiana,  proclamata  a  Parigi 
la  repubblica,  accorso  Garibaldi  in  Francia,  anche  il  Socci  parti  vo 
lontario,  superando  gli  ostacoli  e  le  traversie  che  egli  stesso  narra 
ampiamente  nelle  pagine  che  abbiamo  riprodotto.  Nei  Vosgi,  sotto 
Digione,  in  quel  caleidoscopio  di  volontari  d'ogni  gente,  egli  visse 
la  sua  maggiore  esperienza  garibaldina :  e  ne  torno  phi  intimamente 
convinto  che  solo  in  Garibaldi  e  nella  repubblica  stessero  le  sorti 
future  deiritalia.  Percio,  reduce  a  Firenze,  entro  nella  Societa  in- 
ternazionale,  fondata  sotto  gli  auspici  di  Mazzini :  e  fu  tra  i  firma- 
tari  di  quei  due  indirizzi  che  salutavano  le  forze  popolari  e  repub- 
blicane  francesi  insorte  contro  una  restaurazione  monarchica  in 
Parigi.  Fu  allora  che  la  questura  invase  i  locali  della  Societa  inter- 


576  ETTORE   SOCCI 

nazionale,  sequestro  carte  e  document!  e  sciolse  Fassociazione. 
Nello  stesso  giorno  il  Socci  e  i  suoi  compagni  creavano,  in  sostitu- 
zione,  1'Unione  democratica  sociale. 

£  questo  un  periodo  piuttosto  complesso,  per  i  repubblicani  ita- 
liani.  Ovunque  si  andava  affermando  il  socialismo  con  la  sua  Inter- 
nazionale,  e  di  fronte  ad  esso  si  aprivano  dissidi  entro  le  file  repub- 
blicane :  Mazzini,  in  nome  della  sua  visione  ideale,  condannava  il 
materialismo,  ma  Garibaldi  guardava  con  altri  occhi  alle  nuove 
istanze  sociali.  I  repubblicani  si  dividevano,  incerti  tra  i  due  orienta- 
menti :  se  accogliere  le  nuove  voci  sociali  o  restar  fermi  alia  lotta 
istituzionale.  II  Socci  fu  di  quelli  che  cercarono  di  eliminare  i  dis 
sidi  tra  le  forze  popolari,  di  awicinarle  in  un'opera  unitaria.  And6 
a  Roma  a  dar  vita  a  «L' Italia  nuova»,  il  giornale  gia  fiorentino  che, 
acquistato  da  Emilio  Sequi,  e  collocatosi  a  Roma  nel  palazzo  Mon- 
serrato,  svolse  per  breve  tempo  una  battaglia  radicale,  con  collabo- 
ratori  gia  assai  noti  (Francesco  Pais,  Tito  Strocchi,  Mario  Paniz- 
za  ecc.).  Ma  il  tentative  fu  vano  e  il  Socci  torn6  a  Firenze. 

A  Firenze,  assunse  la  direzione  del  «Satana».  £  facile  intuire 
quanto  il  giornale  fosse  malvisto  e  come  si  cercasse  un'occasione 
per  sopprimerlo.  L'occasione  fu  data  da  una  lettera  del  Guerrazzi, 
che  il  giornale  pubblico,  e  nella  quale  il  repubblicano  livornese, 
con  parole  di  fuoco,  plaudiva  ai  disordini  awenuti  a  Pisa,  da  cui  il 
popolo  aveva  cacciato  padre  Curci  e  i  gesuiti,  giuntivi,  pare,  per 
riaprirvi  una  casa  dell'Ordine.  La  sera  stessa  il  Socci  fu  arrestato  e 
il  «  Satana  »  cess6  le  pubblicazioni.  Stette  due  mesi  in  carcere  in  at- 
tesa  del  processo,  fmche  la  Corte  d'Assise  lo  assolse.  Da  allora  fu 
un  succedersi  di  arresti  e  di  assoluzioni :  i  biografi  del  Socci  elencano 
tredici  arresti  e  altrettante  assoluzioni.  Noi  non  li  seguiremo  nel- 
Pelenco :  bastera  ricordare  che,  sequestrato,  appena  uscito,  un  suo 
nuovo  giornale,  « II  grido  del  popolo  »,  egli  ebbe  un  altro  processo ; 
awenute  in  Italia,  e  anche  a  Firenze,  dimostrazioni  perche  si  abo- 
lissero  tutte  le  corporazioni  gesuitiche,  stette  in  prigione  un  mese ; 
organizzata  in  Firenze  TAvanguardia  repubblicana,  fu  ancora  arre 
stato.  Soprattutto,  per6,  merita  particolare  ricordo  il  suo  arresto 
YS  agosto  1874. 

A  Villa  RufE,  a  Roma,  erano  awenuti  disordini,  moti  insurrezio- 
nali  erano  scoppiati  a  Caprara:  i  democratici  fiorentini  temevano  che 
a  Prato  si  preparasse  un  simile  sommovimento,  e  vole  vano  evitarlo. 
Mandarono  il  Socci  a  persuadere  gli  operai  pratesi  delPinutilita  di 


PROFILO    BIOGRAFICO  577 

moti  incomposti,  piii  dannosi  che  utili:  la  missione  riusci,  ma  il 
Socci,  appena  tornato  a  Firenze,  fu  chiuso  alle  Murate  e  vi  stette 
tredici  mesi,  in  attesa  del  processo.  La  polizia  aveva  arrestato  con 
lui  trentadue  estremisti,  repubblicani  e  socialisti,  considerati  fra 
loro  conniventi.  Fu  un  processo  celebre,  con  ventisette  awocati, 
trentasette  volumi  di  document!  processuali,  duecento  testimoni  di 
accusa  e  trecento  di  difesa:  tra  questi  ultimi  Aurelio  Sain,  Menotti 
Garibaldi,  e  lo  stesso  Giuseppe  Garibaldi,  che,  infermo,  invio  per 
iscritto  la  sua  deposizione,  tutta  di  vivo  elogio  per  il  Socci.  Lo  stesso 
Pubblico  Ministero,  nella  requisitoria,  ritiro  Taccusa  per  lui  e  per 
alcuni  altri;  la  Corte  poi  assolse  turti  la  sera  del  31  agosto  1876, 
fra  grandi  manifestazioni  di  gioia  di  buona  parte  della  citta. 

II  processo  si  era  risolto  in  un  fiero  colpo  per  I'organizzazione 
repubblicana  ed  aveva  invece  accentuato  Porientamento  delle  classi 
popolari  verso  rinternazionalismo.  Anche  per  questo  il  Socci  lascib 
Firenze  e  si  stabili  a  Roma.  La  caduta  della  Destra  storica  e  Pascesa 
al  potere  della  Sinistra  gli  facevano  sperare  una  maggiore  possibility, 
di  diffondere  i  suoi  ideali.  A  Roma  egli  fu  tra  i  creatori  del  Circolo 
repubblicano,  con  Domenico  Narratone,  Raffaello  Petroni,  Luigi  Ca- 
stellazzo,  Alfredo  Comandini;  quando  i  dissidi  interni  sgretolarono 
Pesistenza  del  Circolo,  die  vita  con  alcuni  amici  alPAssociazione 
repubblicana  dei  Diritti  delPuomo;  e  successivamente,  nel  1878, 
entro  nella  Lega  della  Democrazia  e  nella  redazione  del  giornale 
omonimo  (1880-1883),  diretto  da  Alberto  Mario.  Sono  i  tempi  in 
cui  il  Socci  lotta  per  Pallargamento  del  diritto  al  voto,  per  Peman- 
cipazione  della  donna,  per  la  tutela  dei  fanciulli,  per  Pirredentismo 
(donde  la  partecipazione  del  Socci  alia  fondazione  della  « Dante 
Alighieri))).  Nascono,  anche  per  opera  sua,  due  giornali,  «I1  fascio 
della  Democrazia  » (1883-1885),  «  La  Democrazia  » (1886) :  con  il  suo 
vivo  appoggio  sorge  nel  1889  il  Circolo  radicale,  che  dovrebbe  unire 
socialisti  e  repubblicani  e  raccoglie  uomini  come  Ferri,  Caldesi, 
Bizzoni,  Cavallotti,  Gattorno :  aU'unanimita  ne  e  eletto  presidente. 

Col  novembre  del  1892  la  sua  attivita  giornalistica  divenne  se- 
condaria,  che,  eletto  deputato  per  il  collegio  di  Grosseto,  tutte  le 
sue  cure  furono  da  allora  rivolte  alFesercizio  del  mandate.  La  Ca 
mera,  da  quel  momento  fino  alia  morte,  lo  ebbe  tra  i  suoi  compo- 
nenti  piu  assidui  e  piu  stimati,  e  di  legislatura  in  legislatura  la  sua 
affermazione  elettorale  divenne  sempre  piu  significativa.  Quan 
do  sopraggiunse  la  fine,  in  un  ospedale  di  Firenze,  il  19  luglio 

37 


578  ETTORE  socci 

1905,  la  sua  scomparsa  suscitb  dolore  non  soltanto  nel  partito  re- 
pubblicano,  ma  in  tutti  i  settori  del  Parlamento,  non  soltanto 
a  Grosseto,  che  vedeva  in  lui  il  proprio  difensore,  ma  a  Firenze, 
a  Pisa,  fra  tutte  le  molteplici  categorie  di  lavoratori  per  le  quali 
aveva  sostenuto  coraggiose  battaglie. 

Non  fu  certo  un  grande  uomo  politico.  Ma  pochi  seppero,  come 
lui,  dedicare  tutta  la  vita  ai  propri  ideali  senza  ostentazioni  e  al  di 
la  d'ogni  utilita  personale,  subordinando  lo  stesso  proprio  partito 
a  quelli  che  gli  parvero  gli  interessi  del  popolo.  I  suoi  discorsi  alia 
Camera,  i  suoi  scritti  ne  sono  documento :  da  quelli  per  Tespro- 
priazione  dei  latifondi  a  quelli  per  la  bonifica  della  Maremma,  per 
la  difesa  delle  liberta  di  stampa,  di  riunione,  di  propaganda :  instan- 
cabile  Iott6  per  Pinfanzia  abbandonata,  per  la  riduzione  delle  ore  di 
lavoro,  per  Pemancipazione  della  donna,  contro  lo  sperpero  del 
denaro  pubblico,  il  «fermo»  di  polizia,  la  subordinazione  dello 
Stato  alia  Chiesa,  Pinsegnamento  religioso  nelle  scuole.  Anche  a 
non  accoglierne  le  idealita,  si  resta  ammirati  della  fede  con  cui 
sempre  sostenne  il  suo  pensiero,  della  sincerita  e  lealta  d'ogni  sua 
azione.  Era  appena  entrato  alia  Camera  e  gia  dava  una  lezione  di 
vita  morale  col  suo  intervento  sulla  risposta  al  discorso  della  Co 
rona.  Si  parlava  in  esso  ambiguamente  di  grandi  opere  idrauliche 
e  invece  era  gia  noto  il  decreto  che  le  avrebbe  rinviate  di  tre  anni. 
« A  me  ripugna»  disse  il  Socci  ache  si  cominci  una  legislatura  con 
asserire  una  cosa  che  non  sara  mantenuta:  quanto  a  me,  ultimo  ve- 
nuto  tra  voi,  permettetemi  di  dire  che,  quando  le  Assemblee  poli- 
tiche  mancano  di  sincerita,  non  hanno  piu  diritto  al  rispetto,  e  io 
penso  che,  appunto  da  questa  mancanza  di  sincerita,  dipenda  lo 
scredito  in  cui  noi  vediamo  purtroppo  cadere  di  giorno  in  giorno 
il  parlamentarismo  ». 

Si  direbbe  che  assai  piu  di  un  politico  egli  fu  un  moralista :  ogni 
problema  gli  si  presentava  anzitutto  sotto  Paspetto  morale,  diveniva 
un'esigenza  di  giustizia:  e  percio  difendeva  con  identico  ardore  le 
telegrafiste  dello  Stato  e  i  principi  di  eguaglianza  democratica,  un 
agente  della  polizia  e  il  diritto  alia  liberta  di  stampa.  Non  c'erano, 
per  lui,  problemi  grandi  e  piccoli,  ma  prowedimenti  giusti  o  in- 
giusti. 

Non  fu  un  oratore,  nel  senso  che  si  da  comunemente  alia  parola. 
Ma  la  convinzione  con  cui  parlava,  la  semplicita  e  la  chiarezza  dei 
suoi  discorsi,  la  dote,  che  sempre  ebbe,  di  ridurre  nei  loro  termini 


PROFILO    BIOGRAFICO  579 

essenziali  le  question!,  quel  suo  continue  ritornare  al  problema,  per 
lui  fondamentale,  di  educare  le  masse,  come  sola  via  sicura  del  pro- 
gresso,  destavano  ammirazione  e  consenso,  e  fanno  ancora  persua- 
siva  la  sua  parola.  Chi  lo  ascoltava,  conosceva  la  sua  lealta  e  la  sua 
poverta,  sentiva  che  vi  era  in  lui  qualcosa  di  perennemente  giovanile 
ed  eroico,  di  garibaldino :  anche  certe  sue  ingenuita,  se  abbassavano 
il  politico,  sollevavano  1'uomo. 

Ne  vero  politico,  ne  oratore:  e  neppure  veramente  scrittore.  I 
suoi  romanzi  (Una  signoraper  bene;  La  devota;  Ilgrido  delta  rivolta; 
Uno  che  li  ha  finiti;  Un  amore  nell* ergastolo)  sono  giustamente  di- 
menticati,  anche  se  vivi  documenti  non  solo  del  suo  animo,  ma  del 
suo  tempo.  Gli  scritti  essenzialmente  politici  (Del  partita  democra- 
tico;  Uassalto  a  Montecitorio;  I  misteri  di  Montecitorio),  autobio- 
grafici  e  sociali  (Un  anno  alle Murate;  Da giornalista  a  deputato),  le 
conferenze  (Evoluzione  o  rivoluzione?;  La  donna;  I  bambini;  Gu- 
glielmo Ober  dan;  Antonio  Fratti;  Felice Cavallotti,  ecc.), sonotroppo 
legati  ai  tempi,  interessano  la  storia  o  la  cronaca  politica  italiana 
e  non  gia  la  letteratura.  Lo  stesso  puo  dirsi  della  sua  assidua  col- 
laborazione  ai  giornali,  durata  per  tutta  la  vita:  fra  1'altro,  egli 
fu  redattore  per  lunghi  anni  deir«Etruria  nuova»,  un  giornale  che 
si  pubblicava  a  Grosseto  e  che  conserve  la  sua  attivita  nobilissima, 
anche  quando  egli  era  gia  scomparso :  che  la  sua  opera  aveva  vera 
mente  stabilito  una  tradizione. 

Pure,  a  noi  sembra  che  almeno  due  dei  suoi  lavori  .meritino  di 
essere  ricordati,  sia  pure  per  ragioni  diverse.  Anzitutto  un  vo 
lume  per  la  gioventu  e  per  il  popolo,  Umili  eroi  della  patria  e  del- 
Vumanita,  che  ebbe  ben  cinque  edizioni  e  si  diffuse  ampiamente, 
anche  nelle  scuole  primarie.  Rievocava,  in  una  galleria  di  profili, 
figure,  certo  secondarie,  del  nostro  Risorgimento,  ma  di  quelle  che 
egli  pensava  non  dovessero  essere  dimenticate,  perche  in  esse 
Teroismo,  Tattaccamento  alia  patria,  la  resistenza  e  la  battaglia  con- 
tro  il  dominio  straniero  erano  stati  cosi  puri  e  istintivi  da  poter 
valere  di  esempio  e  documentare  gli  aspetti  eroici  del  nostro  Ri 
sorgimento.  E  percio  apparivano  dawero  intimamente  commosse, 
in  quel  libro,  le  pagine  su  Elbano  Gasperi,  Pasquale  Sottocorno, 
don  Giovanni  Verita,  Carlo  Zima,  Giorgio  Imbriani,  ecc.  Perche 
un  libro  vale  anche  per  1'erEcacia  avuta  su  una  generazione  e  non 
soltanto  per  i  suoi  pregi  puramente  letterari. 

Piu  interessante,  per  motivi  diversi,  e  1'opera  sua  Da  Firenze  a 


580  ETTORE   SOCCI 

Digwne,  dalla  quale  abbiamo  tratto  una  larga  scelta.  Queste  sue 
impressioni,  segnate  come  appunti  durante  la  campagna  di  Francia 
e  sistemate  poi  in  volume,  nel  1871,  appena  ritorno  in  Italia,  si 
affiancano  ad  altre  che  sulla  stessa  impresa  scrissero  Achilla  Biz- 
zoni,  Tito  Strocchi,  Giuseppe  Beghelli,  Jessie  White  Mario.  Questi 
volumi  di  memorie  hanno  certamente  una  loro  importanza  anche 
documentaria :  e  proprio  su  un  episodic,  pur  senza  esagerarne  il 
valore,  che  ha  un  alto  significato.  Poiche  molti  dei  volontari  gari- 
baldini  sentivano  veramente  che  bisognava  accorrere  in  aiuto  della 
sorgente  repubblica  francese,  dare  la  propria  vita  per  un  ideale  che 
non  poteva  rimanere  soltanto  nazionale,  ma  farsi  europeo,  e  pre- 
pararsi  a  divenire  universale.  E  di  questa  atmosfera  tra  eroica  e 
romantica,  di  questo  garibaldinismo,  che  e  Paspetto  piu  grande 
del  nostro  Risorgimento  e  quasi  un  atteggiamento  perenne  d'ogni 
forte  ideale,  le  pagine  del  Bizzoni  e  del  Socci,  piu  che  le  altre,  sono 
una  felice  rievocazione.  Certo,  il  Bizzoni  ha  maggiore  ampiezza  di 
visione,  nelle  sue  memorie:  ufficiale  nello  Stato  maggiore  delPeser- 
cito  dei  Vosgi,  segue  gli  eventi  intendendone  i  fmi  strategici,  corre 
da  un  luogo  alPaltro  e  ritrae  perci6  piu  numerosi  quadri,  e  piu 
vari,  dell' impresa:  e  forse  anche  piu  esatti.  Mentre  il  Socci, 
angolato  in  un  suo  reparto,  soldato  fra  soldati,  scorge  un  piccolo 
settore,  vede  soltanto  il  battaglione  nemico  che  gli  sta  dinanzi,  i 
suoi  compagni,  la  sua  awentura.  Una  differenza  che  andrebbe  cer 
tamente  a  favore  del  Bizzoni,  se  qui  si  trattasse  di  cercare  documenti 
piu  ampi  e  sicuri.  Ma  il  lettore  si  stanca  delle  preoccupazioni  docu- 
mentarie  del  Bizzoni,  dei  suoi  ritorni  sui  precedenti  di  una  battaglia, 
della  sua  cura  nelPindicare  lo  schieramento  delle  truppe:  mentre 
gli  sono  grate  le  pagine  episodiche,  tutte  spensieratezza  ed  estrosita 
giovanile,  di  cui  pure  Popera  e  ricca.  Proprio  per  questo  crediamo 
possano  piacere  le  impression!  del  Socci:  hanno  molti  dei  pregi 
del  Bizzoni,  senza  i  difetti. 

Lo  Stuparich,  alcuni  anni  or  sono,  giustificando  la  sua  preferenza 
per  il  Bizzoni,  lamentava  che  il  Socci,  molto  colorito,  avesse  un  suo 
tono  « popolaresco »,  fatto  di  «vivacita  toscana»:  noi  pensiamo  in- 
vece  che  questo  sia  un  pregio  del  volume.  Si  leggano,  ad  esem- 
pio,  le  pagine  sul  primo  tentative  di  imbarcarsi  a  Livorno  per  la 
Francia.  Sono  pagine  d'una  vivacita  piacevolissima:  quella  spensie 
ratezza  e  ingenuita  giovanile  assetata  di  awentura;  il  buffo  gioco 
di  astuzia  tra  guardie  e  volontari,  ritratti  le  une  e  gli  altri  con  un'iro- 


PROFILO    BIOGRAFICO  581 

nia  cosi  felicementetoscana;  il  brio  indiavolato  sul  piroscafo ;  quella 
madre  stizzosa  e  disperata  e  buffa  che  viene  a  riprendersi  uno  dei 
volontari;  e  il  figliolo  che  corre  per  la  tolda  inseguito,  mentre  le 
guardie  dalle  barche  si  divertono  allo  spettacolo  e  gridano  e  aizzano 
alia  corsa;  e  poi  quel  chiudersi  delljawentura  in  un'ombra  di  ama- 
rezza,  quasi  da  ragazzi  imbronciati,  per  cui  la  politica  e  la  stessa 
prigione  restano  a  mezzo  tra  un  serio  e  grave  impegno  morale  e  la 
sconfitta  in  un  gioco  di  fanciulli:  tutte  queste  pagine,  libere  da 
ogni  preoccupazione  letteraria,  hanno  la  vitalita  delPanimo  dei 
Socci,  forte,  certo,  ma  giovanilmente  sereno. 

Non  vi  e  dubbio  che  in  vari  luoghi  puo  dar  noia  al  lettore  qualche 
sprazzo  di  patriottismo  e  idealismo  espressi  in  forme  assai  fruste  e 
lontane  dal  nostro  gusto.  Ma  non  si  tratta  di  retorica:  o,  meglio,  e  la 
retorica  di  quei  tempi,  che  ogni  generazione  ha  la  sua,  senza  che  per 
questo  si  'possa  dire  insincera.  Ingenua,  se  mai,  come  ingenui  appa- 
iono  nel  Socci  certi  vagheggiamenti  di  donne,  riecheggianti  temi 
allora  di  moda :  ma  egli  non  tanto  li  prende  dalla  letteratura,  quanto 
piuttosto  li  ha  neiranimo,  che  si  e  formato  in  quel  clima  spirituale: 
il  che  poi,  intorno  al  1870,  era  gia  un  vivere,  letterariamente,  in 
ritardo,  ancorati  troppo  piu  a  motivi  romantici  che  non  alPormai 
avanzante  verismo.  Ma  ogni  collocazione  storica  e  necessariamente 
da  ripudiarsi,  per  la  natura  stessa  delle  pagine  del  Socci,  nate  senza 
intenzioni,  nel  puro  bisogno  di  ricordare  e  di  raccontare. 


Per  la  vita  e  Top  era  di  Ettore  Socci  esiste  un  volume  abbastanza  esauriente, 
il  migliore  che  abbiamo:  G.  BADII,  Ettore  Socci,  Grosseto,  M.  Minucci, 
1923.  Ma  altre  notizie  si  possono  vedere  in  M.  Rosi,  Dizionario  del  Ri- 
sorgimento  nazionale,  Milano,  F.Vallardi,  1930  e  nett'Enciclopedia  biogra- 
flea  del  Tosi,  Milano  1936  sgg.  Molti  articoli  commemorativi  apparvero 
su  lui  in  quasi  tutti  i  giornali  per  la  sua  morte:  ed  e  da  vedere,  specialmente, 
r«  Etruria  nuova »,  anche  per  la  celebrazione  delTanniversario  della  scom- 
parsa. 

Per  le  opere  di  cui  non  ci  siamo  particolarmente  occupati,  non  potendo 
fornire  una  bibliografia  completa,  si  ricordino  almeno  le  seguenti  edi2ioni: 
Evoluzione  o  rivoluzione?  La  donna  per  ETTORE  Socci,  Roma,  Capaccini  e 
Ripamonti,  1879;  Del  partito  democratico  in  Italia,  Roma,  Stab.  tip.  ital., 
1886;  /  misteri  di  Montecitorio,  Citta  di  Castello,  Lapi,  1887;  //  grido 
della  rivolta,  Citta  di  Castello,  Lapi,  s.  a.,  e  di  esso  una  nuova  edizione 
a  Pitigliano,  Paggi,  1897;  Un  amore  nelVergastolo,  Roma,  Stab.  tip.  de 
«  La  Tribuna»,  1887;  Una  signora  per  bene,  Pitigliano,  Paggi,  1896;  La  de- 
vota,  Pitigliano,  Paggi,  1897;  Umili  eroi  della  patria  e  deU'umanita,  Milano, 


S§2  ETTORE  SOCCI 

Libr.  ed.  naz.,  1903,  e  poi  Firenze,  Bemporad,  1913  e,  in  quinta  edizione, 
1930.  Per  la  citata  prefazione  di  Ettore  Socci,  si  veda  P.  FERRARI,  Villa 
Glori,  ricordi  e  aneddoti  dett'autunno  1867,  Roma,  Soc.  ed.  Dante  Alighieri, 
1899.  Per  la  sua  attivita  giornalistica  si  vedano  le  raccolte  dei  giornali  ci- 
tati  e,  in  particolare,  deir«  Etruria  nuova »,  cui  egli  collaboro  dal  1 895  alia 
morte. 

Per  il  volume  Da  Firenze  a  Digione.  Impressioni  di  un  reduce  garibal- 
dino,  si  vedano  le  due  edizioni:  Prato,  Tip.  sociale,  1871,  e  Pitigliano, 
Paggi,  1898.  Per  una  piu  completa  visione  della  campagna  dei  Vosgi,  ci- 
tiamo:  A.  BIZZONI,  Impressioni  di  un  volontario  aWesercito  dei  Vosgi,  Mi- 
lano,  Sonzogno,  s.  a.  ma  1874;  T.  STROCCHI,  Igaribaldini  volontari  in  Fran- 
da,  Lucca,  « II  Serchio»,  1871;  J.  WHITE  MARIO,  I  garibaldini  in  Francia, 
Roma,  Polizzi,  1871;  G.  BEGHELLI,  La  camicia  rossa  in  Francia,  Torino, 
Civelli,  1871. 

Per  un  quadro  delle  operazioni  militari,  vedi  P.  MARAVIGNA,  La  campa 
gna  di  Francia  1870-1871,  in  Garibaldi  condottiero,  pubblicato  dalTUfficio 
storico  del  Ministero  della  guerra,  Roma  1932. 

Notizie  su  molti  dei  volontari  abbiamo  tratte  da  G.  CASTELLINI,  Eroigari- 
baldini,  a  cura  di  C.  Agrati,  Milano,  Treves,  1931,  oltre  che  dal  Dizionario 
del  Risorgimento  nazionale  del  Rosi. 


DA  FIRENZE  A  DIGIONE  -  IMPRESSIONI  DI 
UN  REDUCE  GARIBALDINO 


— Bada  bene  che  domani  ti  aspettiamo  a  Livorno. 

—  Non  ne  dubitate  .  . .  Brucio  anche  io  dal  desiderio  di  lasciar 
queste  lastre.2 

—  Allora  siamo  intesi? 

—  Intesissimi. 

—  A  domani  dunque! . . . 

E  tutti  e  tre  ci  stringemmo  vicendevolmente  la  mano,  e  si  stava 
per  congedarci,  quando  tutto  ad  un  tratto  un  prolungato  mormorio 
ci  giunge  all'orecchio :  e  un  accorrere  di  gente,  uno  spalancarsi  im~ 
prowiso  di  finestre  e  di  usciali3  di  botteghe  vicine,  un  domandare  e 
un  rispondere,  un  incomposto  gridio  di  ragazzi,  un  esclamare  di 
donne,  continue  e  in  tuono  di  spavento. 

—  Che  ci  sia  la  rivoluzione  ?  —  domando  un  mio  compagno  che 
da  circa  quindici  giorni  non  sognava  che  sangue  e  trambusti. 

Senza  rispondere  alia  strana  supposizione,  mossi  dalla  curiosita 
uscimmo  tutti  dalla  bottega  di  caffe,  nella  quale  eravamo  seduti. 
Qual  magnifico  spettacolo  non  ci  si  offerse  alia  vista! 

Era  terminate  di  piovere  ed  il  cielo  era  tutto  rosso,  infuocato, 
quasiche  fosse  awolto  in  un  lenzuolo  d'amianto;  i  popolani,  tutti 
a  bocca  spalancata  tenevano  la  testa  alPinsu,  e  distornavano  gli 
sguardi  dalPalto,  solamente  per  occhieggiarsi  tra  loro,  lambiccando 
il  cervello  e  arrapinandosi,4  per  spiegare  il  fenomeno,  che  per  la 
prima  volta  vedevano,  e  di  cui  non  erano  mai  giunti  a  farsi  un'idea. 
I  lettori  si  rammenteranno  dell* Aurora  boreale  che  apparve  ai  ven- 
ticinque  dell'ottobre  decorso;  e  la  sera  appunto  del  venticinque 
d'ottobre  era  I'ultima  che,  a  nostro  giudizio,  dovevamo  passare  in 
Firenze. 

—  Anche  il  cielo  si  tinge  di  rosso  —  grido  il  solito  compagno, 

i.  Questo  e  i  brani  seguenti  riproducono  via  via  i  capitoli  dell'edi- 
zione  da  noi  seguita,  senza  interruzioni.  Daremo  percio  notizia,  di  volta 
in  volta,  solo  dei  tagli  che  abbiamo  operati.  2.  queste  lastre:  questo  lastri- 
cato :  cioe,  questa  citta.  II  Socci  usa  di  frequente  modi  di  dire  prettamente 
fiorentini  o  almeno  toscani.  3.  usciali:  usci  a  vetri.  4.  arrapinandosi:  ar- 
rovellandosi,  dandosi  molto  da  fare. 


584  ETTORE   SOCCI 

provocando  un'occhiataccia  dal  padron  di  bottega,  il  quale  dacche 
aveva  raggruzzolato  la  miseria  di  un  mezzo  milione  si  era  buttato, 
anima  e  corpo,  nella  categoria  dei  ben  pensanti.  —  Allegri,  ragaz- 
zi,  —  continue  collo  stesso  tuono  di  voce  lo  scapato  —  gli  auguri 
non  potrebbero  essere  migliori . .  .  Ewiva  il  rosso! 

—  Ewiva!  —  rispondemmo  noi  tutti,  contenti  come  pasque  per 
la  nuova  distrazione  che  ci  dava  quel  caso  inopinato  e  maraviglioso 
che  faceva  inorridire  dallo  spavento  il  superstizioso  fellak1  e  la 
donnicciola  dei  nostri  camaldoli  ;3  due  selvaggi  in  questo  secolo  in 
cui  non  si  fa  che  ragionare  di  civilta. 

Dopo  pochi  minuti,  lasciai  i  miei  compagni,  e  prima  di  ridurmi 
a  casa,  ebbi  vaghezza  di  vedere,  forse  per  F  ultima  volta,  il  lungarno. 
Era  deserto!  Non  sto  a  ripetere  tutti  i  pensieri  che,  ispirati  dalla 
solitudine,  si  accavallavano  e  si  cozzavano  nel  mio  cervello  in  ebol- 
lizione :  finalmente  si  poteva  partire,  e  partire  per  la  repubblica  .  .  .3 
finalmente  era  venuto  il  momento  di  far  vedere  ai  nostri  nemici 
che  non  si  era  buoni  soltanto  a  declamare  per  i  cafFe  e  per  le  bettole, 
finalmente  si  realizzava  quel  sogno  che  da  tanto  tempo  vagheggia- 
vamo  nel  phi  segreto  dei  nostri  pensieri.  E  dire  che  i  pezzi  grossi 
della  democrazia,  tutti,  come  un  sol  uomo  ci  avevano  sconsigliato. 
Ma  che  vogliono  dunque  -  ripeteva  tra  me  -  questi  vecchi  che  coi 
loro  scritti,  colle  loro  opere  sono  stati  i  primi  a  farci  amare  la  re 
pubblica  ?  -  Lasciar  solo  la,  tra  un  popolo  straniero,  Garibaldi,  e 
farci  sfuggire  una  si  bella  occasione  .  .  .  Ma  che  vogliono  dunque 
costoro  ?  .  .  .  Alia  fine,  soccorrendo  la  Francia,  noi  non  adempiamo 
che  al  nostro  dovere ;  si  soccorre  la  nostra  sorella  maggiore,  la  patria 
delle  grandi  iniziative,  quella  che-ci  ha  istruito  colle  sue  opere,  che 
ci  ha  dato  sollazzo  coi  suoi  romanzi,  che  ha  fatto  le  spese  dei  nostri 
teatri,  che  dal  campo  sereno  e  grandioso  della  scienza  a  quello  fri- 
volo  della  moda  ci  ha  dato  ogni  cosa;  se  ci  e  di  mezzo  quel  male- 


i .  fellak :  contadino  (voce  araba).  2.  camaldoli:  in  senso  generico  per  « mon- 
ti».  Camaldoli  e  una  localita  delPAppennino  casentinese,  in  provincia  di 
Arezzo.  3.  la  repubblica:  dopo  la  sconfitta  e  la  capitolazione  di  Sedan, 
a  Parigi  era  stata  proclamata  la  repubblica  (4  settembre  1870),  soprattutto 
per  opera  di  Leon  Gambetta.  Garibaldi  aveva  allora  offerto  alia  Francia 
repubblicana  il  suo  aiuto  e,  dopo  varie  vicende,  era  giunto  in  Francia 
e  aveva  avuto  1'incarico  di  organizzare  i  corpi  volontari  nella  regione  dei 
Vosgi.  Vedi  P.  MARAVIGNA,  La  campagna  di  Francia  i8jo-i8ji,  in  Gari 
baldi  condottiero,  Roma,  Ufficio  storico  del  Ministero  della  guerra,  1932, 
PP-  353-411- 


DA  FIRENZE   A   DIGIONE  585 

detto  affare  di  Mentana,1  che  colpa  ce  ne  ha  la  Francia,  che  colpa 
ce  ne  hanno  i  discendenti  di  Voltaire  e  di  Danton,  i  figli  di  quella 
Nazione  che  ha  proclamato  per  prima  in  faccia  alPattonito  mondo 
i  diritti  delFuomo?  .  .  .  Oh!  la  sarebbe  bella,  se  i  nostri  soldati  fos- 
sero  mandati  in  China  o  in  qualunque  parte  del  mondo  a  puntel- 
lare  un  monarca  imbecille  e  codardo,  oh!  la  sarebbe  bella,  che  se  ne 
avesse  a  fare  un  carico  a  noi!  .  .  .  Eppoi  andare  contro  un  re  per  la 
grazia  di  Dio,  noi  che  non  crediamo  in  Dio  e  non  abbiamo  i  re 
nelle  nostre  simpatie;  aiutare  un  governo  che  ha  i  palloni  volanti 
per  posta2  e  per  soldato  chiunque  e  buono  di  portare  un  fucile; 
utilizzare  a  pro  di  causa  santissima  una  vita  noiosa  e  disutile,  tra- 
versare  il  Mediterraneo,  veder  citta  e  paesi  che  tante  volte  abbiamo 
sentito  nominare  nei  libri,  e  che  tante  volte  abbiamo  desiderato 
vedere,  riabbracciare  i  vecchi  compagni  con  cui  in  altro  tempo  si  e 
diviso  i  pericoli  e  Pemozioni  delle  battaglie;  inebriarsi  di  nuovo 
tra  la  polvere,  il  fumo  e  Passordante  rumore  dei  combattimenti ;  e 
udire  le  grida  dei  prodi,  che  si  lanciano,  come  un  sol  uomo,  alia 
carica  e  unirsi  a  loro  e  vederli .  . .  vederli  da  vicino  i  terribili  soldati 
che  fan  tremare  PEuropa,3  misurarsi  con  essi,  picchiarsi,  vincere, 
morire  forse  anche  pel  nostro  ideale  .  .  .  Oh!  le  care  fantasie  che 
mi  carezzavano  Pimmaginazione,  sotto  quel  cielo  di  fiamme,  sul 
quale  proprio  davanti  ai  miei  occhi  staccava,  superbamente  mo- 
desto,  il  tempio  di  San  Miniato!  —  Anche  la  son  morti  dei  repub- 
blicani,4  —  io  dissi  con  compiacenza  a  me  stesso  —  anche  la  fu  com- 
battuta  Paspra  tenzone  che  da  tanto  tempo  agita  Pumanita  .  .  .  Essi 
son  morti,  ma  vivono  eterni  nella  memoria  del  popolo.  Oh!  toccasse 
a  noi  la  lor  sorte! 

Insomma,  d'idea  in  idea,  di  fantasticaggine  in  fantasticaggine, 
chi  sa  dove  sarei  andato  a  cascare,  se,  piu  macchinalmente  che  altro, 
non  mi  fossi  ritrovato  sulla  piazzetta,  dove  era  la  mia  abitazione. 

i.  quel .  .  .  Mentana:  il  ricordo  doloroso  dell'intervento  francese  nel  1867, 
mentre  Garibaldi  tentava  la  sua  spedizione  nell'Agro  romano,  che  culmino 
nella  battaglia  di  Mentana  (3  novembre  1867).  2.  i  palloni ...  posta: 
Leon  Gambetta  usci  da  Parigi  assediata,  il  7  ottobre  1870,  su  un  pallone 
volante.  Successivamente,  Parigi  comunico,  mediante  questo  mezzo,  con  le 
altre  region!  della  Francia  non  ancora  occupate.  3 .  i  terribili  .  .  .  Europa : 
i  soldati  prussiani,  intorno  ai  quali  gia  si  era  creato  il  mito  deH'invincibilita. 
4.  il  tempio  .  .  .  repubblicani:  sul  colle  di  San  Miniato  sorge  la  chiesa  omo- 
nima  di  architettura  romanica,  al  di  la  della  quale  Michelangelo  creo  quelle 
fortificazioni  che  giovarono  alia  difesa  di  Firenze  repubblicana  contro  i 
Medici,  nel  celebre  assedio  del  1530. 


586  ETTORE   SOCCI 

—  Eccolo  —  esclamo  una  voce  ben  nota,  appena  spuntai  dall'angolo 
della  via. 

—  Eccolo!  —  ripresero  altre  voci. 

I  miei  due  amici,  a  cui  se  ne  erano  aggiunti  altri  due,  avevan 
fatto  un  capannello  davanti  al  mio  uscio  e  mi  awidi  alia  prima 
che  mi  aspettavano. 

—  Abbiamo  creduto  bene  di  venir  tutti  da  te;  cosi  domani  sa- 
remo  sicuri  di  svegliarci  e  non  recheremo  disturbo  ai  nostri  padroni 
di  casa  . .  . 

—  Lo  recherete  al  mio  —  interruppi . . . 

—  Non  importa;  gia  ora  siamo  liberi;  abbasso  i  padroni .  .  . 

—  Specialmente  quelli  di  casa,  che  se  si  tarda  a  pagarli,  diven- 
tano  peggio  di  iene. 

—  Su  .  .  .  su  —  gridarono  tutti. 

—  Su!  —  gridai  anche  io,  facendo  di  necessita  virtu;  che  oramai 
bisognava  mi  convincessi  o  di  girellare  tutta  la  notte,  o  di  portare 
in  casa  mia  quell'indiavolati. 

S'immagini  il  lettore,  che  cosa  divenisse  in  pochi  minuti  quella 
camera;  tutti  fumavano  come  camini,  ed  io  in  un  cantuccio  davo 
fuoco  a  certi  appunti,  coi  quali  sera  per  sera  confidavo  alia  carta 
le  impressioni  provate  durante  il  corso  della  giornata.  II  mio  letto 
era  piccolo  per  uno  solo  e  in  lunghezza  non  aveva  niente  da  invi- 
diare  a  quello  celebre  di  Procuste;  eppure  cotesta  sera  ci  entrarono 
in  quattro,  e  non  potendo  dormire,  come  e  piu  che  naturale,  co- 
minciarono  a  tirarsi  spinte  e  pedate  tra  loro,  facendo  un  baccano  da 
mettere  in  sussulto  il  vicinato :  ora  uno  stivale  colpiva  negli  stinchi 
qualcuno,  provocando  certi  moccoli  da  fare  arrossire  un  vetturino; 
ora  si  sentiva  un  urlaccio,  che  traeva  Torigine  da  un  gentil  pizzi- 
cotto ;  ora  un  guanciale  cadeva,  a  mo*  di  bomba,  sul  tavolino,  ro- 
vesciando  il  calamaio  sul  tappeto,  che,  se  non  era  turco,  non  era 
meno  diletto  al  padrone  di  casa  che  ci  passava  davanti  intiere  mez- 
z'ore  in  arnrnirazione ;  e  ad  accrescere  il  diavoleto,  risate  omeriche, 
grida  incomposte,  esclamazioni  piu  o  meno  frizzanti,  ma  non  cer- 
tamente  autorizzate  dal  Galateo  di  Monsignor  della  Casa. 

II  piu  rivoluzionario  dei  miei  amici  si  awolse  dignitosamente  nel 
lenzuolo,  quasiche  fosse  un  peplo ;  ma  le  forme  del  futuro  difensore 
della  Repubblica  Frances  e  non  erano  greche  di  certo ;  i  suoi  stinchi 
potevano  benissimo  scambiarsi  per  fusi,  e  tutto  1'insieme  ti  dava 
un'idea  esatta  di  un  Cristo  del  Cimabue. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  587 

—  Cantiamo  la  Marsigliese  —  grido. 

E  tutti,  con  certe  voci  da  birboni,  che  non  le  puo  immaginare 
aH'infuori  di  chi  Pabbia  sentite,  cominciarono  il  celebre  inno  di 
Rouget  de  Flsle:  «  Aliens,  enfants  de  la  patrie  »,  con  quel  che  segue. 

—  Signori,  per  carita  —  urlava  con  voce  piu  delle  nostre  stuo- 
nata,  la  padrona  di  casa  dall'uscio  vicino. 

—  Questa  e  una  vera  porcheria  —  di  rimando  aggiungeva  Fin- 
quilino  della  stanza  di  contro.  —  Quando  si  ha  la  sbornia  la  si  va  a 
digerire  in  campagna. 

—  A  chi  lo  dice  briaco?  —  protestava  offeso,  nella  sua  dignita, 
il  Romano  dal  letto. 

—  Misuri  i  termini  —  vociavano  gli  altrL 

—  Per  chi  la  ci  ha  preso  ? 

—  Bellino  lui!  . .  .  Fa  il  feroce,  perche  e  dietro  la  porta. 

—  Giu  la  porta. 

—  Alle  barricate! . . . 

—  Alle  barricate!  .  .  . 

Descrivervi  la  pioggia  di  proiettili  d'ogni  genere  che  fu  scara- 
ventata  su  quelFuscio,  sarebbe  cosa  impossibile;  era  un  turbine  di 
stivaletti,  di  libri,  di  guanciali,  di  spazzole ;  il  malcapitato  se  ne  and 6 
battendo  a  piu  riprese  la  porta  e  protestando  che  andava  a  far  rap- 
porto  alia  delegazione  vicina. 

—  E  ora,  saranno  soddisfatti!  —  proferi  la  padrona,  sempre  dietro 
le  scene, 

Per  nostra  buona  fortuna  il  chiarore  bianchiccio  dell'alba  si  fece 
vedere  tra  gli  spiragli  delle  nostre  finestre,  ed  i  miei  compagni 
partirono  allegri  e  contenti,  dopo  averci  scambiato  la  promessa  di 
vedersi  tra  otto  ore  in  via  Grande  a  Livorno,  che  le  mie  occu- 
pazioni  esigevano  che  io  mi  dovessi  trattenere  tutta  la  mattina  a 
Firenze. 

Andai  per  dormire,  ma  avevo  fatto  i  conti  senza  Foste,  e  questa 
volta  la  parte  delPoste  doveva  esser  sostenuta  dalla  mia  vecchia 
padrona  di  casa,  la  quale  mi  carico  di  rimprocci,  mi  torturo  coi 
suoi  omei,  mi  secco  colle  sue  geremiate  -  Noi  si  cercava  di  rovinarla, 
il  nostro  non  era  agire  da  persone  educate.  -  Io  presi  pretesto  da 
tutte  queste  lamentazioni,  per  restituire  la  chiave,  uscii,  senza  ascol- 
tare  scusa  veruna,  disbrigate  in  fretta  e  furia  le  mie  faccenduole  mi 
awiai,  diritto  come  un  fuso,  alia  stazione,  ed  aspettando  il  magico 
fischio  che  doveva  annunziarmi  la  partenza  dalla  moribonda  capi- 


588  ETTORE    SOCCI 

tale  del  felicissimo  regno  degli  analfabeti,1  mi  rincantucciai  in  un 
vagone. 

—  Era  tempo!  —  esclamera  il  lettore  e  non  avra  tutti  i  torti. 

Ci  moviamo:  quale  felicita!  Eppure  credevo  di  dover  provare  un 
poj  piu  d'allegrezza:  il  cielo  era  d'un  colore  plumbeo  e,  per  quanto 
si  aguzzasse  lo  sguardo,  non  si  scorgeva  un  solo  strappo  che  facesse 
sperare  il  sereno:  eppoi,  non  lo  so,  partendo  non  si  puo  fare  a  meno 
di  risentire  una  certa  malinconia  .  .  .  son  troppe  le  reminiscenze  che 
vengono  a  assalirti,  tutte  di  un  colpo!  II  minimo  nonnulla  prende 
le  proporzioni  delle  cose  piu  grandi;  ci  si  rammenta  i  piu  incon- 
cludenti  discorsi,  si  ripensa  alle  passeggiate  gradite,  ai  geniali  con- 
vegni,  alle  conversazioni  che  eravamo  soliti  di  frequentare;  gli 
stessi  dispiaceri  che  abbiamo  provato  ci  sembrano  meno  crudeli; 
e  nelle  nostre  fantasie  si  affollano  invece  le  gentili  esibizioni  degli 
amici,  gli  affettuosi  conforti  delle  nostre  belle,  i  favori  che  ci  fu 
dato  ricevere,  frequentando  la  societa;  le  vie  per  le  quali  eri  solito 
passeggiare  ti  sfilano  davanti,  coi  loro  negozi,  colle  loro  gentili  pas- 
seggiatrici  che  ti  sono  divenute  familiari,  quantunque  tu  non  le 
abbia  mai  awicinate:  e  davanti  ai  tuoi  occhi  che  distrattamente  si 
affissano  sugli  alberi,  i  quali  sembra  che  fuggano  indietro  impauriti 
a  veder  passare  la  macchina,  sfilano  ad  uno  ad  uno,  quasiche  fossero 
figure  di  lanterna  magica,  i  volti  di  tutti  coloro  che  ti  conoscono, 
che  tu  conosci,  o  che  hai  veduto  anche  soltanto  una  volta:  le  occu- 
pazioni  che  poco  fa  riguardavi  come  un  martirio,  ora  ti  sembrano 
care  .  .  .  E  quando  tornero  ? .  .  .  E  se  non  tornassi  ? .  .  .  Quante  cose 
saranno  cambiate,  nel  primo  caso  .  .  .  chi  mi  compiangera  nel  se- 
condo? .  .  .  Oh!  in  questi  momenti  si  comprende  Feroismo  di  chi 
per  una  idea  puo  lasciare  una  madre! 

—  Livorno  —  grida  la  guardia.2 

«Gia ...  a  Livorno »  pensai  tra  me  e  me.  -  Ed  io  che  credeva 
di  essermi  mosso  da  pochi  minuti!  Chi  avevo  avuto  per  compagni 
di  viaggio  ?  io  non  me  lo  ricordo ;  probabilmente  mi  devono  aver 
preso  per  matto. 

Scendo  e  vado  di  corsa  in  via  Grande,  ove  avevo  Fappuntamento 

i.  capitate  .  .  .  analfabeti:  Firenze  era  allora  capitale  del  Regno  d' Italia, 
qui  detto  regno  degli  analfabeti,  non  tanto  per  I'effettiva  gravissima  piaga 
delPanalfabetismo,  allora  molto  estesa,  quanto  perche  al  Socci  appari- 
vano  politicamente  analfabeti  gli  Italiani  sordi  alle  idee  repubblicane.  2.  la 
guardia:  il  controllore;  e  cfr.  Carducci,  Alia  stasione  in  una  mattina  d'au- 
tunno,  v.  1 4. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  589 

a  Livorno ;  il  Consolato  francese  doveva  darci  modo  di  pervenire 
sicuramente  a  Marsiglia;  che  la  questura  livornese,  diretta  dal  ce- 
lebre  Bolis,  stava  con  tanto  d'occhi  sgranati,  affinche  nessuno  salisse 
sui  vapori  francesi,  importunando  e  viaggiatori,  e  marinari,  e  fac- 
chini  di  porto,  fino  a  tanto  che  quest!  non  avessero  dati  schiarimenti 
piu  che  lampanti  sulFesser  loro,  o  sulle  faccende  che  li  facevano 
stare  sul  mare;  anche  muniti  di  biglietto,  si  correva  rischio  di  esser 
mandati,  e  con  cattivo  garbo,  di  dove  si  era  venuti,  e  i  passaporti  non 
si  volevano  piu  concedere  ad  alcuno. 

Sicuro  che  gli  amici  avessero  fatto  le  pratiche,  che  ci  era  stato 
consigliato  di  fare,  io  sentii  sollevarmi  un  gran  peso  dal  cuore, 
appenache  poteimuovere  unpasso  nella  citta;  incontrai  quasi  subito 
gli  altri,  ma  ahime  qual  delusione!  .  .  .  Le  loro  ridenti  fisonomie 
erano  diventate  oscure;  nessuno  di  loro  osava  indirizzare  una  pa- 
rola  al  compagno,  e  tutti  mi  accolsero  con  quella  musoneria  con  cui 
i  popoli  accolgono  un  re,  dopo  un  manifesto  del  Sindaco,  che  invita 
a  rimettere  anche  un  tanto  di  tasca  per  le  spese  del  ricevimento. 

—  Che  ci  e  di  nuovo  ?  —  domandai  con  ansia  a  quelli  che  mi  ave- 
vano  fatto  un  cerchio  all'intorno. 

—  Che  ci  e  di  nuovo  ?  —  proferi  con  rabbia,  il  piu  secco  e  piu 
bisbetico.  —  Perdio! . . .  Vieni  al  Consolato  e  vedrai . . .  E  avrebbe 

a  andar  benino  dawero! 

« 

—  Andra  come  doveva  andare  —  soggiunse  un  altro.  —  Quando 
alia  testa  ci  si  vuol  mettere  certa  gente  .  .  .  Quando  si  vuol  proceder 
sempre  con  certa  maniera  .  .  .  Gia  lo  dicevo  io  .  .  .  tutte  le  volte  che 
ci  siam  fidati  dei  Francesi  si  e  fatto  un  bel  bollo.1 

—  Ma  insomma  che  cosa  ci  e? .  .  .  si  parte? .  . . 

—  Si ...  per  Firenze,  o  per  dir  meglio  per  le  Murate!2 

—  Ma  .  . .  come? 

—  Vieni .  .  .  vieni  con  noi  e  ti  si  ripete,  vedrai. 

Non  intendendo  alcuna  cosa,  ma  volendomi  per  lo  meno  since- 
rare  su  una  sventura,  che  non  conoscevo  e  che  ci  minacciava,  seguii 
colla  coda  tra  le  gambe  i  bravi  ragazzi. 

Arrivammo  in  due  salti  alia  sede  del  Consolato;  in  faccia  alia 
porta  una  folia  innumerevole  di  popolani  chiassava,  si  agitava,  ge- 
stiva;  qualcuno,  senza  far  tanti  disco rsi,  si  era  gia  messa  la  camicia 
rossa  sotto  la  giacchetta;  un  andare  e  venire,  un  rimescolarsi  con- 

i.  un  bel  bollo:  una  sciocchezza.  £  frase  popolaresca.      2.  le  Murate:  e  il 
nome  del  carcere  di  Firenze. 


59°  ETTORE   SOCCI 

tinuo,  un  accalcarsi  intorno  a  qualche  povera  vittima  che  esciva  dal 
portone,  un  vociar  di  ragazzi  che  a  capannelli  osservavano  la  scena, 
e  gridavano  incessantemente :  —Viva  Garibaldi ...  —  Per  una  spedi- 
zione  fatta  in  tutta  segretezza  il  principio  non  poteva  esser  migliore! 

—  Ma  che  vi  e  dunque  ?  —  domandai  a  un  mio  compagno. 

—  II  console  non  si  fa  vedere,  il  cancelliere,  nuovo  Pilato,  dice 
che  se  ne  lava  le  mani,  e  tutta  questa  gente  e  rimasta  come  la  ce- 
lebre  statua  di  Tenete. 

—  E  che  abbiamo  da  fare  ? 

—  Va  tu,  che  sai  alia  meglio  bestemmiare  un  po'  di  francese, 
scongiura  quella  gente  a  prendere  una  decisione;  lo  vedi  meglio  di 
me,  qui,  se  non  si  schizza  tutti  in  domo  Petri1  e  un  vero  miracolo. 

Con  quale  animo  andassi,  se  lo  puo  di  leggieri  immaginare  il 
lettore;  chi  ben  comincia  e  alia  meta  dell'opera,  dicevano  i  nostri 
nonni  che  non  eran  baggei,  e  cominciare  peggio  di  noi,  credo,  sa- 
rebbe  stata  cosa  impossibile. 

Mi  feci  annunziare  al  cancelliere  e  poco  dopo  venivo  introdotto. 

II  cancelliere  era  un  bel  giovinotto ;  aveva  una  fisonomia  distinta 
ed  aristocratica  e  mi  accolse  con  tutta  Teducazione  possibile;  pure 
sin  da  bel  principio  mi  awidi  che  la  mia  presenza  gli  riusciva  in- 
cresciosa  piii  di  quella  di  un  creditore,  e  rimasi  convinto  che  la 
camicia  rossa  non  era  di  certo  una  delle'simpatie  piu  sentite  di  quel- 
Pimpiegato.  Difatti  il  nuovo  governo  della  Repubblica  Francese 
aveva  lasciato  al  suo  posto  tutti  i  vecchi  funzionari,  i  quali  in  quel 
trambusto  non  sapendo  a  qual  santo  votarsi  cercavano  di  restare  in 
bilico,  come  meglio  sapevano,  fermi  pero  nella  idea  di  non  compro- 
mettersi ;  metteteci  anche  un  poj  d'affezione  alia  dinastia  che  aveva 
loro  dato  quel  posto  . . .  eppoi  ditemi,  se  questa  trascuraggine  del 
governo  repubblicano  non  ha  certo  influito  a  che  fosse  si  scarso 
il  numero  degli  Italiani,  che  mossi  da  un'idea  generosa,  hanno  pu- 
gnato  e  gloriosamente  pugnato  sui  campi  di  Francia. 

—  Capisco  di  gia,  perche  viene  —  mi  disse  pel  primo  e  facendomi 
segno  di  sedere,  il  cancelliere.  —  Con  mio  gran  rincrescimento  pero, 
sono  obbligato  di  dirle  che  non  possiamo  far  niente  per  loro. 

—  Ma,  se  a  Firenze  ci  hanno  inviato  qui! ... 

—  A  Firenze  hanno  perduto  certamente  il  cervello  . . .  Le  pare, 
che  noi  vogliamo  suscitare  una  questione  di  diritto  internazionale! 

i.  in  domo  Petri:  in  carcere. 


DA  FIRENZE  A  DIGIONE  591 

—  Ma  anche  noi,  le  ripeto,  siamo  stati  spediti  direttamente  e  a 
colpo  sicuro:  di  piu  sappiamo  che  1'altra  sera  partirono  altri  volon- 
tarii,  mandati  da  loro,  e  si  ha  diritto  d'andare  anche  noi. 

—  Per  me,  si  figuri,  li  manderei  subito  ~  aggiunse  1'altro  con  un 
sorriso,  ed  io  credendo  immediatamente  a  quest'ultimo  desiderio 
di  colui  che  mi  parlava,  ma  non  volendo  darmi  per  vinto,  esclamai: 
—  Ma  e  cosi  che  PAmbasciata  Francese  di  Firenze  mantiene  le 
proprie  promesse? 

—  Noi  non  abbiamo  ricevuto  ordini  dalPAmbasciata .  .  . 

—  Ma  pure  1'altra  sera  partirono  . . . 

—  Non  glielo  nego ...  ma  sapesse  le  rimostranze  della  que- 
stura .  . . 

—  Ebbene :  su  noi  puo  fidare,  noi  non  la  comprometteremo  . . , 
ci  dia  1'imbarco  ...  lei  vede  lo  scopo  pel  quale  partiamo. 

—  Si  prowedano  dei  loro  passaporti . . . 

—  Se  non  li  vogliono  dare. 

—  Prenda  un  mio  consiglio  ...  lei  mi  pare  un  giovane  a  modo, 
torni  a  casa .  . .  Metz,  se  non  ha  capitolato,  poco  puo  stare  a  far- 
lo1  . . .  accetti  un  mio  consiglio,  glielo  ripeto,  torni  a  Firenze. 

—  A  Firenze  poi  no! ... 

—  £  la  meglio! 

—  Mi  meraviglio  che  un  Francese  . . . 

—  Allora  faccia  lei  —  secco,  secco  ed  alzandosi,  per  farmi  veder 
che  Tuggivo,  mi  proferi  il  cancelliere. 

Disanimato,  e  non  volendo  attaccare  una  briga  che  poteva  man- 
dare  a  voto  tutti  i  nostri  disegni,  salutai  appena  il  mio  consigliere, 
e  gabellandolo  per  imperialista  e  anche  peggio,  scesi  di  corsa  la  scala, 
e  preso  a  braccetto  un  mio  amico,  partii  con  gli  altri  dalla  piazzetta 
del  Consolato. 

Andare  bisognava  andare:  a  dispetto  del  mondo  e  delle  circo- 
stanze;  una  nuova  poesia  si  aggiungeva  a  quella  immensa  che  ci 
aveva  sostenuto  fmo  a  quel  punto;  sfuggire  i  questurini,  farla  in 
barba  alle  autorita  costituite,  sfidare  un  nuovo  pericolo,  raggiungere 
il  nostro  scopo,  giusto  appunto,  quando  i  pusilli,  scoraggiati  sa- 
rebbero  tornati  indietro  ...  era  troppo  bella,  troppo  attraente  la 
prospettiva,  per  poter  stare  un  soFattimo  dubbiosi  su  cio  che  do- 
vevamo  intraprendere. 

i.  Metz  . .  .farlo:  la  citta  di  Metz,  dove  il  maresciallo  Bazaine  (vedi  la  nota 
2  a  p.  612)  era  assediato,  capitolo  il  27  ottobre  1870. 


592  ETTORE   SOCCI 

10  esposi  queste  idee  agli  amici,  e,  godo  dire,  che  queste  idee  fu- 
rono  accolte  con  entusiasmo :  ma  a  che  parte  rivolgersi  per  ottenere 
I'intento  ?  Quali  passi  potevamo  tentare  con  sicurezza  ?  Quali  spe- 
ranze  ci  sorridevano  ?  Quali  probabilita  di  successo  ?  Noi  non  lo  sa- 
pevamo,  il  romanticismo  di  una  awentura,  che  offriva  in  se  stessa 
tanti  pericoli,  ci  sorrideva  certamente  e  noi  eravamo  contenti :  con- 
tenti  come  il  povero  diavolo,  abbandonato  da  tutti,  che,  incerto 
dell'indomani,  si  addormenta  tranquillamente  sull'erba  di  un  viot- 
tolo,  sotto  un  cielo  sereno  e  popolato  di  stelle,  sognando  pace,  agia- 
tezza,  fortuna  .  . .  Oh!  1'idea  di  un  dovere  che  si  compie,  malgrado 
gli  ostacoli  che  frappongono  gli  uomini  e  la  sorte,  fa  piovere  in  seno 
una  consolazione  che  intender  non  la  puo  chi  non  Pabbia  provata.1 

Andammo  all'Agenzia  dei  vapori  della  compagnia  Valery,  e  per 
quanto  scongiurassimo  1'agente,  ci  fu  impossibile  ottener  da  lui, 
anche  pagandolo  il  doppio,  un  biglietto  di  imbarco.  Gli  ordini  della 
questura  erano  precisi. 

—  Noi  glielo  daremmo  anche  gratis,  —  ci  ripetevano  quegli  im- 
piegati  —  ma  .  .  . 

Quel  ma  era  tanto  eloquente,  che  noi  non  aggiungemmo  parola. 

Con  un  po'  di  sconforto  nelPanima,  dopo  aver  girellato  a  casaccio 
un'altra  mezz'ora,  affiacchiti  e  cascanti  ci  buttammo  sulle  panche 
di  un  caffe  di  Via  Grande;  un  tavoleggiante,  giovinetto  che  avra 
avuto  appena  appena  quindici  anni,  dopo  averci  ben  bene  sbirciato, 
venne  da  me  e  chiamommi  dapparte. 

—  Lei  vuole  imbarcarsi  per  la  Francia  ?  —  mi  sussurro  a  bassis- 
sima  voce. 

—  Si  —  risposi  io  francamente,  che  non  potevo  credere  in  si  gio- 
vane  eta  nequizia  veruna. 

—  Ebbene  . .  .  le  do  il  mezzo  d'imbarco. 

—  Non  scherzi  ? 

—  Sulla  mia  parola  d'onore  . . .  Aspetti  un  momentino  e  le  porto 
Puomo  per  la  quale! . . . 

—  Bravo,  e  se  farai  bene  ti  prometto  una  buona  mancia. 

11  giovinetto  se  ne  ando  saltellante  e  fece  poco  dopo  ritorno, 
accompagnato  da  un  barcaiuolo,  un  pezzo  di  diavolone,  tarchiato  e 
traverse,  che  era  un  piacere  a  vederlo ;  intanto  io  aveva  messo  i  com- 

i.  che  intender  .  .  .provata:  e  una  evidente  reminiscenza  del  v.  n  del  so- 
netto  di  Dante  Tanto  gentile  e  tanto  onesta  pare. 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  593 

pagni  a  parte  della  peregrina  scoperta  e,  quando  questi  ultimi  vi- 
dero  awicinarsi  quel  colosso  in  giacchetta,  gli  si  fecero  incontro 
con  una  grazia  e  con  certe  fisonomie  cosi  gentilmente  ridenti,  che 
si  poteva  credere  che  non  un  omaccio,  ma  la  piu  vaga  figlia  di  Eva 
fosse  entrata  in  quel  mentre  nel  nostro  caffe. 

—  Dunque  loro  vogliono  andare  ?  —  dandomi  una  seconda  stretta 
di  mano,  comincio  a  dirmi  il  barcaiolo. 

—  Sicuro!  —  rispondemmo   noi  tutti  —  ma  vediamo  tante  dif- 
ficolta. 

—  Si  fidino  di  me,  che  non  fo  per  dire,  ma  lo  puo  domandare  a 
tutta  la  piazza,  sono  uno  di  quei  buoni ...  si  figurino,  ho  fatte  tutte 
le  campagne  e  anche  Aspromonte  e  Mentana  e  se  non  fosse  perche, 
perche  .  .  .  e  questo  non  e  nulla :  quello  che  ho  fatto  per  salvare  i 
compromessi  politici!  Le  son  cose  che  forse  non  le  crederebbero  .  .  . 
Hanno  fatto  bene  a  rivolgersi  a  me,  perche  ci  e  gran  canaglia  tra  i 
barchettaiuoli  e  ...  e  ... 

—  E  insomma  t'impegni  di  farci  entrare  in  un  bastimento,  delu- 
dendo  la  vigilanza  delle  guardie?  .  .  . 

—  Se  me  ne  impegno  .  .  .  Faccian  conto  di  esserci  sopra  .  .  . 

—  Tu  potrai  contare  sulla  nostra  riconoscenza. 

—  Oh!  io  per  il  partito  darei  un  bicchier  del  mio  sangue. 

—  Dopo  ti  daremo  qualche  cosa .  .  . 

—  Oh!  mi  contento  di  un  trentino  per  uno. 

—  Cosi  poco!  —  esclamammo  noi,  credendo  che  ragionasse  di 
centesimi. 

—  Sicuro  .  .  .  vedono  che  mi  adatto :  per  lor  signori  cosa  son 
trenta  franchi? 

Ammirammo  tutti  insieme  lo  spirito  patriottico  che  ci  faceva  pa- 
gare  150  lire,  quello  che  nella  stagione  dei  bagni  si  ottiene,  a  dir 
molto,  con  ottanta  centesimi;  pure,  stringemmo  la  mano  al  gene- 
roso,  dicendo  che  ci  saremmo  riveduti  phi  tardi:  poiche  eravamo 
decisi,  con  nostro  gran  sacrifizio,  ad  appigliarci  a  quest' ultimo  par 
tito,  se  gli  altri  ci  fossero  falliti. 

Ci  movemmo  dal  caffe,  e  vedemmo  un  insolito  brulichio  in  quella 
contrada,  sempre  brulicante  di  popolo :  che  e,  che  non  e  ?  .  .  .  Han- 
no  arrestato  un  maggiore  garibaldino :  la  questura  si  era  avveduta, 
e  non  ci  voleva  una  gran  fatica,  che  molti  giovanotti  volevano  par- 
tire  per  la  Francia  e  cominciava  a  allungar  le  sue  grinfe.  Lo  scon- 
forto  cominciava  a  impossessarsi  anche  di  noi. 

38 


594  ETTORE   SOCCI 

—  Ettore  —  sento  gridarmi  vicino.  Mi  voltai  e  vidi  il  colonnello 
Perelli.2 

—  Dunque  si  parte  ?  —  gli  domandai  immediatamente. 

—  Parli  a  bassa  voce  . .  .  che  io  son  tenuto  d'occhio,  guardi,  ecco 
subito  due  musi  proibiti  che  ci  osservano  .  . . 

—  Ma  dunque? 

—  Dunque  venga  stasera  alia  locanda  della  Luna. 

—  Ma  ci  e  speranza? 

—  Credo  che  ci  sia  sicurezza  ...  A  rivederci. 

—  A  rivederci  a  stasera. 

—  Allegri  amici,  —  dissi  subito  appena  ebbi  lasciato  il  mio  inter- 
locutore  —  allegri  amici,  le  speranze,  non  che  diminuire,  prendono 
tutte  le  probabilita  di  un  vicino  successo  .  .  .  Andiamo  a  mangiare 
all'Ardenza.2 

Senza  rispondere  alle  mille  domande  colle  quali  mi  oppressero 
gli  altri,  accesi  un  sigaro,  e  andammo  all'Ardenza. 

II 

II  sole,  awolgendosi  in  un  lenzuolo  di  porpora,  si  era  coricato 
dietro  le  ultime  linee  del  tranquillissimo  mare ;  non  la  piu  piccola 
nube  nel  cielo,  non  il  piu  leggiero  maroso  in  quella  superficie  az- 
zurra,  e  dolcemente  increspata  dal  venticello  della  sera  che  ci  ca- 
rezzava  la  faccia.  L'isola  della  Gorgona  appariva  modestamente  su 
quel  sereno  orizzonte,  nel  quale  cominciava  qua  e  la  a  apparir  qual- 
che  stella;  tutto  ispirava  una  calma  e  una  pace  divina;  il  creato  ti 
sembrava  quasi  un'arpa  sterminata,  da  cui  si  elevasse  un  canto  gran- 
dioso;  il  canto  dell'accordo  e  dell'armonia  delle  sfere.  Pranzammo 
stupendamente. 

Esatto  piu  di  un  impiegato  il  giorno  della  riscossione  della  paga, 
lasciai  la  trattoria  e  mi  awiai  in  via  Grande  esaminando  distratta- 
mente  il  bello  spettacolo  che  mi  si  offriva  davanti  e  le  nuvolette 
grigiastre  che  mi  uscivano  di  bocca  a  causa  del  sigaro. 

Arrivai  alia  Locanda  della  Luna,  e  dopo  essermi  fatto  annun- 
ziare  dal  cameriere,  passai  in  un  salotto,  dove,  intorno  ad  un  tavo- 
lino  nel  quale  erano  varie  bottiglie  stappate,  se  ne  stavano  a  chiac- 
chiera  tre  o  quattro  individui  che  formavano  una  specie  di  Stato 

i.  Luigi  Perelli,  garibaldino,  gia  ferito  a  Bezzecca.     2.  Ardenza:  sobborgo 
balneare  di  Livorno,  oggi  incorporato  nella  citta. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  595 

maggiore  del  colonnello  Perelli.  Con  mia  gran  meraviglia  vidi  tra 
loro  una  giovine  donna. 

II  colonnello  era  piu  brusco  del  solito  e,  appena  mi  vide,  si  af- 
fretto  a  parlarmi  in  tal  modo:  —  Anche  lei  vorra  sapere  qualche 
cosa . .  .  me  lo  immagino  .  .  .  ma  per  ora,  purtroppo,  siamo  sem- 
pre  alle  solite :  vede,  qui  siamo  in  un  piccolo  consiglio  di  famiglia 
e  cerchiamo  . .  . 

—  Se  fossi  un  uomo  io! . . .  —  salto  a  dire  la  giovine  donna,  la 
quale  era  la  rnoglie  di  quel  Gagliano,  arrestato  poco  tempo  avanti 
ed  ora  nascosto  in  casa,  perche  tenuto  d'occhio  dalla  questura  e 
deciso  a  partire  con  noi. 

—  Se  foste  uomo  voi!  —  borbotto  il  colonnello  —  quando  non 
ci  son  mezzi .  .  . 

—  Garibaldi,  quando  ha  voluto  e  riuscito. 

—  Se  si  andasse  avanti  colle  chiacchiere!  . . . 

—  Eppoi  tutti  questi  giovani  che  so  no  qua? 

—  Li  ho  fatti  partire  io ,  . .  forse  ? 

—  Non  dico  questo :  ma  e  un  fatto  che  non  hanno  avuto  che 
cinque  lire :  quattro  e  novantacinque  ne  hanno  spese  pel  viaggio  e 
cominciano  a  far  chiasso,  perche  non  si  sono  anche  sdigiunati1  e 
qua  non  conoscon  nessuno . .  . 

Quello  che  udivo  era  Vangelo! .  . .  Se  certi  comitati  avessero 
agito  un  poco  piu  sul  serio,  non  si  avrebbero  avuto  a  deplorare  tanti 
scangei2  e  nelFarmata  dei  Vosgi  avremmo  avuto  piu  soldati  e  piu 
buoni. 

—  E  dunque,  cosa  facciamo  ?  —  ripeterono  tutti  guardandosi. 

A  tale  interrogazione  mi  cascaron  le  braccia;  anche  qui  dunque 
non  si  sapeva  a  qual  gancio  attaccarsi,  anche  qui  si  passava  il  tempo, 
cullandosi  tra  le  illusion!  e  le  ipotesi,  come  nel  nostro  modesto  cer- 
chio  di  amici. 

Dopo  essere  stati  un  poco  in  silenzio,  entro  quasi  di  corsa  nella 
stanza  un  tale  che  gia  si  era  accomodato  a  fare  da  ordinanza  al 
colonnello :  proferi  sommessamente  alcune  parole  al  padrone ;  que 
sti  ci  parve  soddisfatto  ed  infatti  poco  dopo  con  tuono  brioso  ci 
disse:  —  Signori,  domani  arriva  il  Var,  chi  e  buono  di  salirci  va  in 
Francia . .  .  Confido  nella  vostra  accortezza  e  nel  vostro  corag- 
gio  . . .  Io  tento  di  salire  pel  primo  ...  A  domani  1 

i.  non  .  .  .  sdigiunati:  non  hanno  ancora  mangiato.      2.  scangei:  sinistri,  in- 
cidenti  che  impediscono  il  buon  procedere  di  un'azione. 


596  ETTORE   SOCCI 

Non  dormimmo  in  tutta  la  notte  e  appena  fu  giorno,  andammo  al 
porto  e  prendemmo  una  barca.  Un  forte  libeccio  aveva  cominciato 
a  soffiare ;  il  mare  era  agitatissimo  ed  i  cavalloni  sbalzavano  di  qua  e 
di  la,  di  sotto  e  di  sopra  la  nostra  barchetta,  spruzzandoci  piu  o 
meno  impetuosamente  il  volto,  e  procurandoci  quel  malessere  in- 
terno  che  e  il  primo  principio  del  mal  di  mare. 

—  Oggi  me  li  guadagno  —  ci  diceva  il  barcaiolo.  —  E  vogliono 
girar  molto  tempo  ?  .  .  . 

—  Fino  a  che  non  arriva  il  vapore! 

—  Non  casca  un  cencio!  .  .  .*  Se  arrivera  a  mezzogiorno!  ...  0 
anche  loro  vogliono  andare  in  Francia? ...  A  me,  via,  lo  possono 
dire. 

—  Ebbene  ...  si ...  vogliamo  andare  in  Francia. 

—  Me  Favevano  a  far  sapere!  .  .  .  Guardino,  due  barche  piene 
di  guardie. 

—  6  vero  .  .  .  e  ora  che  cosa  si  fa  ? 

—  Non  si  sgomentino  .  .  .  Figureranno  di  pescare  .  . .  Prendano 
le  lenze! 

Noi  prendemmo  questi  ordigni  e,  tramutati  li  per  li  in  pescatori, 
cominciammo  con  una  serieta  unica  un'operazione  che  dentro  di 
noi  ci  faceva  scompisciar  dalle  risa.  lo  credo  che  i  pesci  fossero  i 
primi  a  canzonarci;  e'  si  vedevano  guizzare  a  fior  d'acqua,  proprio 
vicini  alFesca  fatale;  poi  face  van  cilecca  e  ci  lasciavano  con  un 
palmo  di  naso. 

Non  so  quanto  durasse  questo  divertimento ;  mi  rammento  pero 
che  ci  venne  un  appetito  diabolico:  il  nostro  Caronte,  da  uomo 
saggio  capi  per  aria  Fantifona  e  ci  condusse  a  dei  vicini  barconi, 
dove  per  lo  piu  mangiano  i  marinari  e  i  facchini  del  porto.  Uno 
stoccafisso  rifatto  colle  cipolle,  ci  sembro  piu  gustoso  di  un  mani- 
caretto  apprestato  da  Tomson;2  ci  bevemmo  due  fiaschi  di  vino,  e 
ci  sentimmo  raddoppiati  in  coraggio  e  in  costanza.  Intanto  il  libec 
cio  seguitava  a  infuriare;  il  mare  era  divenuto  addirittura  cattivo; 
si  troncavano  gli  alberi  delle  piccole  navi  vicine,  si  vedeva  volare 
dei  cappelli,  che  appartenevano  agli  imprudenti  che  troppo  si  erano 
accostati  alia  riva ...  la  cosa  comincia  ad  essere  non  troppo  gra- 
ziosa:  in  quella  aspettativa  i  minuti  ci  sembravano  ore;  non  aveva- 

1.  Non  casca  un  cencio:  non  c'e  nulla  da  obiettare:  e  frase  popolaresca. 

2.  Tomson-.  il  piu  elegante  dei  ristoranti  di  Firenze,  Doney,  era  stato  aperto 
dall'inglese  Thompson. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  597 

mo  alcuna  notizia  del  moltissimi  nostri  compagni  e  non  il  piu  pic 
colo  indizio  ci  faceva  sperare  che  si  awicinasse  il  tanto  desiderato 
bastimento. 

Ecco  una  striscia  di  fumo!  .  .  .  Un  oggetto  nero,  che  ingrandisce 
a  vista  d'occhi,  si  approssima  . . .  e  il  Var,  si  grida  tutti  con  un  urlo 
di  contentezza  che  si  sprigiona  dalle  piu  intime  viscere;  e  il  Var, 
il  momento  supremo  e  venuto,  coraggio! 

II  battello  si  accosta  ad  un  brigantino,  che  ha  bandiera  greca; 
in  un  fiat  e  circondato  dalle  guardie.  Cominciano  le  difficolta,  noi 
siamo  decisi  a  superarle. 

—  Se  non  li  metto  su,  che  Santa  Lucia  benedetta  mi  faccia  perder 
la  vista  degli  occhi!  —  grida  il  barcaiolo,  divent?to  entusiasta  dopo 
P ultimo  fiasco. 

Traversammo  arditamente  la  fila  dei  bastimenti,  e,  allorch6  fum- 
mo  vicini  alle  guardie,  ci  sdraiammo  nel  fondo  del  nostro  piccolo 
schifo,  Puno  sull'altro,  proprio  alia  maniera  dei  fichi  secchi;  poi, 
scongiurato  il  pericolo,  si  giro  dietro  a  una  tartana  che  combaciava 
perfettamente  col  brigantino :  i  questurini,  che  non  sono  mai  stati 
ritenuti  per  aquile  d'intelligenza,  non  avevan  posto  attenzione  a 
quella  manovra  che  poteva  far  cominciare  a  credere  la  nostra  intra- 
presa  principiasse  ad  avere  molte  probabilita  di  sicuro  successo. 

—  Ed  ora  come  si  sale  ?  —  domandai  io,  molto  imbarazzato  nel 
non  vedere  alcuna  fune. 

—  Si  va  per  la  catena  delPancora  —  aggiunse  immediatamente  e 
con  tuono  esaltato  lo  Stefani,  il  compagno  piu  secco  e  piu  sussur- 
rone  tra  tutti  coloro  che  erano  venuti  con  noi  da  Firenze. 

La  proposizione  fu  accettata  di  subito,  e  io  che  non  ho  mai  bril- 
lato  per  la  mia  sveltezza  e  molto  meno  per  le  mie  movenze  ginna- 
stiche,  mi  aggrappai  alia  catena  di  ferro  e  a  forza  di  urti  e  di  spinte 
arrivai  ad  andar  ruzzoloni  e  facendo  un  gran  tonfo,  sul  cassero  delia 
tartana.  Riavuto  appena  dal  colpo  mi  awidi  che  ero  molto  al  di- 
sotto  del  livello  dei  miei  amici,  saliti  dietro  di  me;  infatti  caduto 
sopra  un  monte  d'avena,  per  quanti  sforzi  facessi,  non  giungevo  a 
capo  di  trarmi  d'impaccio,  che  ogni  sforzo  ad  altro  non  era  valevole 
che  a  farmi  affondare  di  piu.  Dopo  essere  stato  ripescato  alia  me- 
glio  dagli  altri,  saltammo  tutti  insieme  sul  brigantino.  Pochi  passi 
piu  ed  i  nostri  voti  sono  esauditi:  un  maledetto  cagnaccio  comincla 
a  abbaiare  e  finisce  coll'attaccarsi  alle  polpe  di  mio  fratello. 

Si  tenta  Fultimo  colpo:  il  mio  fratello  lascia  al  famelico  cane  uno 


598  ETTORE   SOCCI 

straccio  del  suoi  pantaloni . .  .  E  dire  che  sperava  con  questi  di  far 
tanta  figura,  quando  sarebbe  sceso  a  Marsiglia! 

II  salto  riesce,  siamo  a  bordo  del  Var:  i  marinari  ci  accolgono 
tra  le  loro  braccia,  la  gioia  ci  rende  frenetici  e  tutti  insieme  confon- 
diamo  le  nostre  aspirazioni,  le  nostre  speranze,  i  nostri  voti  piu 
cari,  al  magico  grido  di  «viva  la  repubblica». 

—  Giu,  giu  —  ci  gridarono  quei  bravi  figli  del  mare,  appena  che 
fu  terminate  quello  slancio  di  esultanza,  e  ci  buttarono  a  viva  forza 
nella  carbonaia. 

S'immagini  un  po'  il  lettore  la  nostra  situazione,  in  quelPatmo- 
sfera  soffocante,  e  con  quella  polvere,  che  ci  ridusse  in  pochi  mo- 
menti  in  uno  stato  veramente  deplorevole;  di  piu  si  aggiunga  lo 
spettacolo  non  troppo  gradito  che  ci  si  presentava  alia  vista  dell'uni- 
co  finestrino,  pel  quale  prendeva  aria  questa  stamberga;  un  andare 
e  venire  di  barche  su  cui  facevano  bella  mostra  di  loro  tutte  le  fac- 
cie  piu  proibite  della  Cristianita,  e  pennacchi  di  carabinieri  e  mon- 
ture  di  guardie  di  pubblica  sicurezza . . .—  Fortuna  che  siamo  pro- 
tetti  dalla  bandiera  francese  —  si  diceva  tra  noi  —  e  qui  il  Reale 
Governo  Italiano  non  conta  un  bel  corno. 

Ogni  poco  veniva  a  noi  qualcheduno  delP equip aggio  e  ci  esortava 
a  soffrire  con  pazienza.  L'equipaggio,  composto  quasi  tutto  da  ori- 
ginarii  di  Linguadoca,  naturalmente  par  lava  provenzale;  per  cui 
grande  imbroglio  nei  nostri,  i  quali  per  farsi  capire  francesizzavano 
Fitaliano,  creando  una  lingua  ibrida,  bastarda,  che  ci  faceva  crepar 
dalle  risa:  lingua  che  si  perfezion6  in  Francia  e  che  ha  fatto  dire, 
bene  a  ragione,  ultimamente  al  Bizzoni1  che,  se  fosse  continuata  la 
campagna,  il  mondo  avrebbe  annoverato  un  idioma  di  piu;  quello 
dei  volontarii. 

Da  un  paio  d'ore  si  era  in  quei  triboli,  quando  si  vide  arrivare 
il  Perelli  che  nelPascensione  aveva  perduto  il  suo  cappello  a  cilin- 
dro. . . 

—  Cosa  fanno  qui  loro  ?  —  ci  disse. 

—  Lo  vede:  siamo  nascosti. 

—  Vengano  su  nelle  cabine  . . .  ci  siamo  tutti  noi . . . 
Contenti,  come  uno  che  abbia  beccato2  un  terno,  salimmo.  Quale 

i.  Achilla  Bizzoni,  di  Pavia  (1841-1904),  giornalista  e  scrittore,  partecip6 
alia  campagna  dei  Vosgi.  Nel  suo  libro  Impressioni  di  un  volontario  alVeser- 
cito  dd  Vosgi,  Milano,  Sonzogno,  s.  a.  ma  1874,  e  1'osservazione,  qui  ri- 
cordata,  sulla  nascita  di  un  ibrido  idioma  italo-francese.  2.  beccato:  af- 
ferrato,  acchiappato. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  599 

non  fu  la  nostra  sorpresa,  quando  vedemmo  quasi  tutti  i  nostri 
amici!  -  O  tutte  le  guardie  cosa  facevano  li  intorno?  .  ,  . 

La  questura  ci  dava  1'idea  di  quei  mariti  che  stanno  in  fazione 
di  faccia  alPuscio  di  casa,  mentre  il  cicisbeo  della  moglie  passa  dalla 
finestra. 

Una  gran  risata  echeggia  da  un  capo  alPaltro  del  ponte  .  .  .  Che 
e,  che  non  e  ?  .  .  .  £  comparso  un  individuo  in  perf etto  costume  di 
Adamo.  Per  risparmiare  la  spesa  del  barchettaiolo,  oppure  per  non 
esporsi  al  pericolo  di  perder  qualche  cosa,  come  noi  tutti,  aveva 
preferito  di  buttarsi  a  nuoto  nel  mare.  Era  un  bel  giovinotto  e  ci 
riusci  subito  simpatico  per  lo  strano  modo  con  cui  a  noi  si  presen- 
tava.  Povero  diavolo!  .  .  .  lo  lo  dovea  rivedere,  ma  col  cranio  fra- 
cassato  da  una  palla  prussiana,  sulla  gran  via  di  Parigi,  sotto  Talant, 
e  mi  rincresce  di  non  sapere  il  suo  nome,  perche  rammentandolo, 
forse  a  lui  darebbe  un  pensiero  pietoso  qualche  anima  buona! 
Mi  conforta,  pero,  la  persuasione  che  chiunque  lo  abbia  veduto  in 
quel  giorno,  non  potra  cosi  facilmente  obliarlo,  e,  leggendo  queste 
modeste  mie  righe,  capira  alia  prima  di  chi  voglio  parlare. 

—  Signori,  mi  rincresce  —  venne  a  dirci  il  capitano  —  ma  per 
stasera  e  impossible  la  partenza  -  il  libeccio  e  tremendo  ed  io  non 
ho  intenzione  di  mettermi  in  sicuro  pericolo. 

—  Ma  noi .  .  .  saremo  sicuri  ?  —  domando  uno. 

—  Sulla  mia  parola  d'uomo  onesto,  nessuno  potra  farsi  bello  di 
avere  insultato  la  bandiera  francese,  qui  dove  sono  io  .  .  .  Se  non 
viene  il  console  a  bordo,  e  se  egli  pel  primo  non  mi  ordina  di  assi- 
stere  ad  una  flagrante  violazione  del  diritto  delle  genti,  i  questurini 
prima  di  toccare  uno  solo  di  loro,  dovranno  passare  sul  mio  ca 
daver  e. 

—  Grazie,  capitano  —  gridammo  noi  tutti.  —  Voi  siete  un  vero 
Francese. 

—  E  a  che  ora  si  mangia?  —  chiese  sbadigliando  uno  dei  nostri: 
a  cui  le  idee  non  facevano  dimenticare  di  essere  uomo. 

—  Alle  cinque  .  .  .  ci  e  il  pranzo  dei  viaggiatori .  .  . 

—  Noi  veniamo  tutti  a  quello  .  .  .  non  e  vero  compagni  ? 

—  Si  —  risposero  gli  altri  alFunisono. 

Io  mi  azzardai  allora  di  salire :  e  rincattucciato  dietro  il  parapetto 
del  bastimento,  diedi  un'occhiata  alia  riva  vicina:  qualche  facchino 
passeggiava  distrattamente  in  su  e  in  giu,  nessuno  osservava  il  no- 
stro  battello;  tutto  a  un  tratto  uno  scialle  rosso  e  uno  nero,  compa- 


600  ETTORE   SOCCI 

riscono  sulla  via ;  due  donnine  dalla  taglia  svelta  si  appoggiano  al- 
rimpalancato  che  circonda  il  porto  ed  aifissano  i  loro  occhi  sul  Var. 
«  Chi  sieno  queste  due  creature  ? »  pensai  tra  me  e  me  e  cominciai 
a  figurarmele  bellissime,  e  mi  parvero  gli  angeli  del  buon  augurio 
che  fossero  venute  li  a  darci  il  buon  viaggio ;  ma  poi  un  altro  pen- 
siero  mi  sopraggiunse :  Povere  donne!  .  .  .  Devono  essere  di  certo 
parenti ,  ami  che  di  qualcuno  che  e  insieme  con  noi,  e  sfidano  questo 
vento,  e  questa  indiavolata  stagione,  purche  loro  sia  dato  vederlo, 
fosse  anche  per  Tultima  volta:  povere  donne!  . .  .  Per  noi  uomini 
la  gloria,  le  improwise  e  belle  emozioni,  lo  stordimento  che  ci  pro- 
curano  e  i  nuovi  piaceri  e  le  nuove  occupazioni,  le  gioie  dell'orgo- 
glio  soddisfatto;  per  esse  la  solitudine,  la  lontananza  delle  care  per- 
sone,  la  continua  ansia  di  saperle  in  pericolo. 

Tornai  giu  e  dopo  poco  ci  movemmo  tutti  per  il  pranzo ;  nel  ri- 
passare  io  vidi  i  due  fantastici  scialli. 

II  trovarci  tutti  insieme  a  mangiare  sul  Var,  dopo  le  belle  cose 
che  ci  erano  accadute,  non  poteva  fare  a  meno  di  darci  un  brio, 
una  parlantina,  un'ebbrezza,  che,  chiunque  ha  in  zucca  un  po'  di 
mitidio,1  comprendera  perfettamente  alia  prima.  I  nostri  appetiti 
erano  qualche  cosa  di  classico,  ed  il  cameriere  di  bordo  ci  guardava 
con  certi  occhi  stralunati,  pensando  certamente  che,  se  ogni  giorno 
gli  fossero  capitati  di  tali  awentori,  prudenza  avrebbe  voluto,  che 
Pordinario2  fosse  a  dir  poco  raddoppiato. 

Cominciarono  i  brindisi;  i  ricordi  piu  cari  s'intrecciavano  coi 
piu  generosi  propositi :  ora  uno  parlava  degli  occhi  celesti  della  gra- 
ziosa  biondina  che  aveva  lasciato  a  Firenze,  ora  un  altro  giurava  di 
non  aver  comprato  un  revolver  perche  era  sicuro  di  prenderlo  al 
primo  ufficiale  prussiano,  che  gli  si  fosse  presentato  davanti  e  che 
avrebbe  ucciso  certamente. 

—  Ewiva,  ewiva. 

Che  c'e? 

Entra  nella  stanza  Gagliano!  Un  altro  fiasco  che  hanno  fatto  le 
guardie! 

.  —  leri  passo  da  Firenze  Ricciotti  ;3  la  —  dice  —  trover emo  anche 
lui! 

i.  mitidio:  giudizio,  senno:  &  voce  familiare  toscana,  usata  per  celia  (forse 
dal  greco  JITJTIS).  2.  Vordinario:  le  prowiste  ordinarie,  i  pasti  usuali. 
3.  I  figli  di  Garibaldi,  Ricciotti  e  Menotti,  combatterono  valorosamente 
nell'esercito  dei  Vosgi. 


DA   FIRENZE  A   DIGIONE  6oi 

—  Ewiva  Ricciotti  —  gridano  tutti. 

—  E  Menotti,  e  Garibaldi  e  tutti  i  bravi  Italian!  che  ci  han  pre- 
ceduto ! 

Dopo  poco  entra  Tito  Strocchi,1  giornalista  repubblicano  e  va~ 
loroso  soldato,  che  tanto  onore  si  e  fatto  dappoi. 

—  Ma  dunque  ci  siamo  tutti! 

—  Tutti  —  urlano  entrando  alia  lor  volta  il  Rossi  e  il  Piccini. 

—  Anche  tu!  —  dicemmo  a  quest' ultimo  —  E  come  hai  fatto, 
stronco  come  sei,  ad  arrampicarti  ? 

—  Eh!  ...  Le  guardie  di  finanza  son  dalla  nostra  e  ci  hanno  in- 
segnato  la  strada.  Figuratevi  che  noi  siamo  passati  per  la  scaletta, 
proprio  come  se  si  fosse  viaggiatori! 

—  Ma  le  guardie  ci  son  sempre? 

—  Se  ci  sono!  . .  .  E  bisogna  vederli  quei  poveri  diavoli  a  questo 
brezzone  . .  .  infilan  le  pispole,2  come  se  si  fosse  in  pieno  gennaio! 

—  Anche  voi  pero  .  .  . 

—  Non  ve  lo  neghiamo,  il  freddo  ci  e  entrato  nelPossa. 

—  Del  cognac,  del  cognacl 

E  il  cameriere  ci  porto  una  bottiglia  polverosa  di  vecchio  cognac. 
E  qui  bevi;  bevi  in  un  modo  incredibile:  in  un  momento  il  tavolo 
fu  pieno  di  bottiglie,  e  quando  andai  per  distendermi  nella  mia 
cabina  vedevo  tre  o  quattro  colonnelli,  una  ventina  di  lumi  e  un 
centinaio  di  persone,  tra  le  quali  apparivano,  circondati  da  un'au- 
reola,  i  due  scialli  che  mi  avevano  fatta  tanta  impressione  pochi 
momenti  innanzi. 

Tale  era  il  mio  sonno  e,  diciamolo  pure,  1'alterazione  in  me  pro- 
dotta  dal  vino,  che  quando  mi  destai  il  sole  era  gia  alto.  Salii  a 
poppa  della  nave  dove  trovai  il  povero  Rossi,  che  contemplava 
astrattamente  rimmensa  superficie  del  mare,  divenuto  di  nuovo 
tranquillissimo ;  tutto  era  celeste  e  Fonde  venivano  a  baciare  colla 
loro  spuma  bianchiccia  la  carena  del  nostro  battello:  si  sarebbe  di 
momento  in  momento  aspettato  che  qualche  Nereide  sbucasse  a 

1.  Tito  Strocchi:  vedi  la  nota  2  a  p.  461.  Egli  ha  lasciato,  tra  I'altro,  un  libro 
di  memorie,  I  garibaldini  volontari  in  Francia,  Lucca,  «I1  Serchio»,  1871; 
che  insieme  coi  volumi  del  Bizzoni,  del  Socci  e  del  Beghelli  forma  un  inte- 
ressante  quadro  di  quell'impresa.  Su  di  lui  interessanti  pagine  nel  volume 
di  E.  Socci,   Umili  eroi  della  pallia  e  delVumanita  (vedi  la  bibliografia). 

2.  infilan  le  pispole'.  stanno  al  freddo  e  tremano.  L'espressione  e  del  lin- 
guaggio  familiare  toscano.  La  pispola  e  un  uccelletto  che  frequenta  le  pia- 
nure  e  gli  scopeti. 


602  ETTORE   SOCCI 

fior  d'acqua  per  rammentare  ai  mortali  le  dolcezze  del  buon  tempo 
antico. 

II  colonnello  Perelli  non  se  ne  stava  con  le  mani  in  mano  ma  dava 
prova  di  una  instancabile  attivita;  gia  aveva  costituito  le  squadre, 
nominandone  i  capi,  gia  aveva  pensato  al  mo  do  di  prowedere  il 
vitto  per  tutta  quella  gente  (che  nella  nottata  il  numero  dei  volontarii 
era  asceso  fino  a  cento)  ed  aveva  in  serbo  per  tutti  buone  speranze 
e  conforti.  La  salle  a  manger  era  stata  trasformata  in  ufficio  di  stato 
maggiore,  ed  io  fui  incaricato  di  compilare  il  primo  or  dine  del 
giorno. 

Cominciavo  a  scrivere,  quando  scesero  nella  stanza  Tagente  della 
compagnia  accompagnato  dal  capitano;  mi  domandarono  dove  si 
trovasse  il  colonnello  ed  io  mi  mossi  per  andarlo  a  chiamare. 

Salii  immediatamente,  e  trovai  il  Perelli  a  tu  per  tu  con  una  vec- 
chietta,  tutta  pepe  e  tutta  piangente. 

—  Queste  sono  infamie  e  il  governo  dovrebbe  mandarli  in  ga- 
lera . .  .  non  si  strappano  cosi  i  figliuoli  alle  povere  mamme  che 
hanno  fatto  tanti  sacrifizii  per  mantenerli. 

—  L'ho  forse  chiamato  io  il  suo  figliuolo  ?  —  borbottava  1'altro 
stizzito. 

—  Non  Io  so,  ma  Io  voglio! 

—  Ebbene,  se  Io  trova,  che  se  Io  riprenda! 

—  Loro  me  T hanno  nascosto,  ho  girato  per  tutto  e  non  mi  e  stato 
possibile  di  trovarlo. 

—  E  allora? 

—  E  allora  ? !  allora  me  Phanno  a  rendere,  e  mi  meraviglio  di  lei 
che  non  e  piii  delFerba  d'oggi  e  che  dovrebbe  avere  un  po'  di  cuore 
e  un  po'  di  cervello. 

—  Ma  se  il  nome  del  suo  figliuolo  non  comparisce  nel  ruolo!  .  .  . 

—  Quel  briccone  ne  avra  dato  uno  falso  . .  . 

—  Colonnello,  —  interruppi  io  —  c'e  il  capitano  e  Pagente  che  la 
desiderano. 

—  Vado  ...  mi  sbrighi  lei  questa  donna. 

Cercai  di  persuadere  e  di  consolare  alia  meglio  quella  povera 
madre  che  mi  rispondeva  con  impertinenze  da  levare  il  pelo :  feci 
guardare  nei  buchi  piu  ascosi  della  nave,  ma  non  potei  rintracciare 
suo  figlio.  Allora  la  donnicciola  impallidi  e  non  potendo  resistere 
alia  pena  e  allo  stringimento  di  cuore  mi  cadde  fra  le  braccia  sve- 
nuta.  Un  vecchio  che  1'aveva  accompagnata  in  barchetta  e  che 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  603 

seppi  dopo  esser  marito  di  lei,  salto  infuriate  sul  ponte  facendo 
un  baccano  indiavolato,  minacciando  tutti  e  bestemmiando  peggio 
di  un  turco.  La  mia  posizione,  se  era  interessante,  era  anche  noiosa. 
I  volontarii  si  erano  affollati  intorno  all'energumeno  e  di  momento 
in  momento  stava  per  nascere  una  pubblicita  spaventevole.  Ria- 
vutomi  un  pochino  dallo  stupore,  fui  preso  da  rabbia  indicibile  e 
mi  venne  voglia  perfino  di  scaraventare  in  mare  I'incomodo  far- 
dello  che  mi  gravava  le  braccia. 

—  Oh!  andremo  in  questura! . . .—  proferi  il  vecchio  strascinan- 
dosi  dietro  la  moglie  che  s'era  riavuta  e  che  urlava  a  squarcia- 
gola:  —  Birbanti,  ladri,  assassini,  il  giusto  Dio  verra  anche  per  voi! 

Appena  rimessi  da  quella  brutta  impressione,  vedemmo  capitare 
altre  due  donne.  Capimmo,  pur  troppo,  per  aria,  quello  che  vole- 
vano  anche  esse.  lo  incominciai  a  credere  di  assistere  ad  una  pro- 
cessione  di  streghe  e  mi  persuasi  che  il  nostro  orizzonte  comin- 
ciava  ad  oscurarsi  dawero. 

Una  delPultime  venute  vide  il  suo  figliuolo  e  noi  glielo  restituim- 
mo.  Ecco  un  altro  scandalol  II  figliuolo  non  voleva  andare  a  nessun 
costo  e  si  mise  a  correre  come  uno  spiritato  offrendo  un  gradito 
spettacolo  alle  guardie  che  ci  circondavano  e  che  si  erano  tutte  riz- 
zate  per  goder  meglio  la  scena,  urlando  ad  ogni  poco :  —  Piglialo 
piglialo. 

Non  si  creda  calunnia  il  contegno  che  io  attribuisco  alle  guardie : 
chiunque  e  stato  sul  Var  puo  fare  ampia  testimonianza  che  esse  fino 
dal  bel  principio  della  mattina  erano  completamente  ubriache. 

A  viva  forza  spingemmo  il  ricalcitrante  figliuolo  giu  dal  battello; 
appena  pero  egli  si  assise  nella  barchetta  che  aveva  accompagnato 
sua  madre,  fu  circondato  dai  carabinieri  i  quali  non  curando  i 
pianti,  i  lamenti,  le  disperazioni  della  disgraziatissima  donna,  lo 
condussero  verso  le  carceri. 

—  Si  nascondano,  si  nascondano  per  carita,  Pha  raccomandato 
anche  il  signor  colonnello  —  venne  a  gridarci  con  voce  angosciosa 
il  cameriere  di  bordo. 

—  Che  c'e  dunque  ? 

—  C'e  che  la  polizia  vuole  acchiapparli .  .  . 

—  £)  una  storiella! .  .  . 

—  £  la  verita,  se  lo  assicurino. 

—  Ma  il  colonnello  ? 
— -  £  nascosto. 


604  ETTORE   SOCCI 

—  E  tutti  gli  altri  ? 

—  Hanno  seguito  Fesempio  del  comandante  ...  si  nascondano 
anche  loro  . .  .  o  die  vorrebbero  comprometterci  tutti  col  rimanere 
in  cosi  pochi  sul  ponte  ? 

Ci  guardammo  difatti  e  con  nostra  sorpresa  il  brulichio  che  ci 
eravamo  abituati  a  vedere,  era  scomparso  e  tutti  i  nostri  compagni, 
come  per  incanto,  si  erano  dileguati. 

Anche  noi  ci  buttammo  gattoni  verso  la  carbonaia  e  poco  dopo  i 
miei  amici  vi  erano  gia  scesi:  ero  per  seguitarli  quando  sentii  bus- 
sare  dietro  la  porta  della  vicina  cabina  e  la  voce  del  colonnello  mi 
disse :  —  Noi  siamo  qui,  venga  anche  lei.  —  La  porta  si  schiuse  ed 
io  entrai. 

Eravamo  sette  in  una  stanzuccia  dove  a  mala  pena  ci  si  poteva 
rigirare  in  tre!  La  grotta  di  Monsummano1  era  al  paragone  una 
cantina  in  tempo  d'estate!  Mai  bagno  a  vapore  ha  ottenuto  reffi- 
cacia  diretta  che  produceva  in  noi  quelFambiente!  i  nostri  abiti  e 
le  nostre  camicie  sembravano  inzuppate  nell'acqua:  se  le  autorita 
costituite  avessero  saputo  i  nostri  tormenti,  benevole  come  sono 
verso  noi  scavezzacolli,  scommmetto  che  invece  di  arrestarci  ci 
avrebbero  lasciato  diverse  ore  in  quel  bagno,  se  non  per  altro  onde 
avere  il  gusto  di  aprire  la  porta  e  trovarci  in  uno  stato  di  liquefazione 
completa. 

—  Ma  cos'e  accaduto  di  nuovo  ?  —  dimandai  a  bassa  voce. 

—  £  accaduto  che  la  questura  lasciava  liberamente  partire  noi 
sette  o  otto,  purche  prima  le  avessimo  consegnato  tutti  questi  bravi 
ragazzi .  . .  Io  ho  sdegnosamente  rifiutato  questa  proposta. 

—  Bravissimo!  -  E  ora? 

—  Ora  credo  che  sieno  andati  a  riportare  la  mia  risposta  al  que- 
store. 

—  O  guardiamo,  se  Bolis  e  tanto  birro  da  violare  anche  la  ban- 
diera  francese  ? 

—  Prima  di  farlo  vorra  pensarci  due  volte. 

—  E  perche  ? .  .  .  I  ciuchi  hanno  sempre  dato  pedate  ai  leoni 
morenti ...  ma  per  qual  causa  stiamo  nascosti  ? 

—  II  capitano  e  sceso  a  terra;  se  gli  rilasciano  le  patenti,  in  meno 
di  un'ora  si  prendera  il  largo. 


i.  A  Monsummano,  in  Val  di  Nievole,  esiste  una  celebre  grotta  sudorifera, 
detta  «  grotta  Giusti »,  perch6  appartenente  a  terre  della  famiglia  del  poeta. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  605 

—  Speriamolo  .  .  .  perche  qui  non  siamo  di  certo  in  un  letto  di 
rose. 

Passa  mezz'ora,  un'ora  e  nessuna  notizia:  si  comincia  a  udir  qual- 
che  rumore ;  poi  sotto  la  fortezza  ci  giunge  all'orecchio  un  sussurro 
inusitato ;  poniamo  1'occhio  al  finestrino  della  cabina :  il  mare  e  po- 
polato  di  barche,  e  le  barche  son  popolate  d'angioli  custodi  in 
lucerna;  affollatissima  e  tutta  la  spiaggia:  sul  cassero  un  calpestio 
concitato  e  in  senso  diverse,  poi  reclamazioni  a  cui  si  risponde 
dalla  parte  del  popolo  con  fischiate  non  interrotte;  un  battere  di 
sciabole,  uno  sbattacchiare  di  porte  .  .  .  pur  troppo  non  vi  era  piu 
dubbio  alcuno,  il  grande  atto  si  era  consumato,  e  gli  eroici  cam- 
pioni  del  Regio  Governo  Italiano  potevano  annoverare  una  gloria 
di  piu  tra  tutte  le  altre  che  li  ha  resi  famosi. 

Sprangammo  la  porta;  ci  rannicchiamo  nelle  cuccette  e,  ratte- 
nendo  il  respiro,  facendoci  piccini  piccini  colPansia  e  la  trepida- 
zione  nelPanima,  collo  sconforto  nel  cuore,  incerti  di  cio  che  ci  sa- 
rebbe  accaduto  tra  pochi  minuti  ma  decisi  a  giocar  di  tutto,  atten- 
devamo  di  momento  in  momento  di  veder  saltare  la  porta. 

Trascorre  un'altra  mezz'ora;  si  ascolta  il  rumore  dei  disgraziati 
che  sono  stati  awinghiati  pei  primi  dai  falchi  del  Bolis:  si  corn- 
piangono,  ma  quale  fortuna,  se  noi  potessimo  uscir  loro  dalle  un- 
ghie!  ...  II  vapore  e  in  movimento  .  .  .  Che  si  parta  dawero?  Non 
si  osa  credere  a  noi  stessi,  ma  alia  fine  ci  si  persuade  che  si  va  .  .  . 
Si  va,  ripetiamo  tutti  tra  noi,  e  sentiamo  tra  ciglio  e  ciglio  Tumor  di 
una  lacrima.—  Ci  si  ferma  di  nuovo!  —  esclama  un  nostro  com- 
pagno,  e  pur  troppo,  ci  si  convinse  di  subito  della  triste  verita. 

Una  testa  comparisce  al  nostro  finestrino ;  era  la  testa  di  un  birro, 
che  da  abile  esploratore,  si  era  arrampicato  al  difuori  del  bastimento, 
ed  aveva  scoperto  il  nostro  nascondiglio. 

—  Signori,  non  resistano  —  ci  disse  con  voce  rauca. 
Nessuno  rispose;  egli  se  ne  ando  . .  .  Oh!  avessimo  avuto  un 

revolver  I 

—  Lei  deve  aprirci  la  porta—  ripeteva  intanto  sul  cassero  una  vo- 
cina  melliflua,  a  cui  rispondeva  Paccento  ben  cognito  del  capitano : 
—  Mi  rincresce,  ma  fu  perduta  la  chiave  .  .  .  Passicuro  pero  che 
quello  e  il  mio  spogliatoio  . .  . 

—  lo  ho  1'ordine  di  perquisire  ogni  cosa  ...  si  mandi  pel  ma- 
gnano  del  porto. 

Intanto  una  tempesta  di  colpi  si  sprigionava  su  quel  povero  uscio. 


606  ETTORE   SOCCI 

—  £  impossible  trovare  il  magnano  —  diceva  poco  dopo  un'altra 
voce. 

—  Signori  —  gridava  allora  al  buco  della  nostra  serratura  quello 
che  poco  fa  parlava  col  capitano.  —  Signori,  io  li  prego  a  non  com- 
mettere  imprudenze,  si  arrendano  colle  buone;  partite  e  impossi- 
bile,  non  facciano  perdere  un  tempo  prezioso  al  capitano. 

Che  fare?  Qualunque  resistenza  sarebbe  stata  inutile  e  non  ci 
poteva  riuscir  che  dannosa;  ci  guardammo  in  faccia  (che  facce!  il 
condannato  che  vien  trascinato  al  patibolo  ne  pu6  dare  un'idea!) 
e  con  mano  tremante  il  piu  vicino  alia  porta  tiro  la  stanghetta. 

Un'ooA  prolungato  e  di  soddisfazione  ci  accolse,  appena  che 
comparimmo. 

Dalla  scena  che  si  presento  allora  ai  nostri  occhi,  un  pittore 
avrebbe  potuto  prendere  argomento  per  un  bellissimo  quadro  ed 
un  letterato  per  una  magnifica  descrizione.  Una  lunga  fila  di  cara- 
binieri  e  di  questurini  occupava  tutto  il  lato  del  bastimento  che 
•  era  dicontro  alia  nostra  cabina;  piu  avanti  il  giudice  d'istruzione 
colla  ciarpa1  turchina.  Bolis  raggiante  di  contentezza,  e  un  nuvolo 
di  delegati  e  d'applicati  di  Pubblica  Sicurezza  che  si  davano  un 
moto,  un  daffare  indicibile,  e  si  pavoneggiavano,  esponendo  al  ri- 
spettabile  pubblico  ed  aH'inclita  guarnigione  le  fasce  tricolori  che 
avevano  a  tracolla,  come  segno  indiscutibile  della  loro  autorita.  II 
capitano  serio  serio  rivolgeva  delle  parole  concitatissime  al  console, 
che  appoggiato  ad  un  tavolino,  con  una  faccia  di  tramontana2  guar- 
dava  distrattamente  il  cancelliere  che  redigeva  il  processo  verbale. 

Tra  le  squarciate  nuvole3  si  era  fatta  strada  la  luna;  e  pareva  che 
ci  mandasse  un  compassionevole  sguardo ;  sulla  spiaggia  uno  scin- 
tillio  di  baionette,  sulle  quali  si  ripercoteva  il  malinconico  raggio 
della  poetica  face  dei  cuori  sensibili  e  degli  innamorati,  ci  abbar- 
bagliava  la  vista  e  ci  rendeva  sicuri  che  molta  truppa  era  sotto 
Tarmi,  e  che  la  questura  di  Livorno  non  aveva  trascurato  verun 
prowedimento,  perche  i  pesciolini  non  le  scappassero  di  rete.  Una 
lunga  processione  di  bar  che  solcava  le  onde  tranquille  del  mare 
sulla  cui  superficie  una  miriade  di  atomi  luminosi,  frequenti  piu 
delle  stelle  del  cielo,  avrebbe  fatto  nascer  la  voglia  di  intonare  un 
bel  canto  alia  natura,  se  natura  ed  uomini  non  si  fossero  mostrati 

i.  ciarpa:  sciarpa.  2.  faccia  di  tramontana:  fredda,  insensibile,  come  se 
fosse  intirizzita  dalla  tramontana.  3.  Tra  le  squarciate  nuvole:  remini- 
scenza  del  v.  115  del  manzoniano  coro  di  Ermengarda  nell' Adelchi. 


DA  FIRENZE  A  DIGIONE  607 

cosi  accanitamente  contrarii  ad  una  impresa  che  tanto  avevamo  so- 
spirato  e  che,  purtroppo,  cosi  miseramente  finiva. 

Le  trombe  che  suonavano  la  ritirata  sui  bastioni  della  vicina  for- 
tezza  ci  suonavano  in  cuore  meste,  come  il  pensiero  che  manda  in 
quell'ora  il  coscritto  alia  madre,  alia  casetta  paterna,  alle  occupa- 
zioni  di  un  tempo :  meste  come  quella  luna,  come  quei  visi  lunghi 
dei  nostri  compagni  che  ci  passavano  davanti  colla  rispettiva  ac- 
compagnatura,  come  i  popolani  che  vedendo  la  loro  impotenza  a 
salvarci  ci  guardavano  da  riva  con  occhi  stralunati  e  pregni  di 
lacrime. 

—  Ma  Gagliano  . . .  Gagliano  dove  e? .  .  .  Noi  credevamo  che 
fosse  tra  loro !...—-  esclamo  Bolis,  dopo  averci  ben  bene  sbirciati. 

—  E  perche  han  fatto  resistenza?  —  ci  domando  con  un  sorrisetto 
volpino  il  giudice  d'istruzione. 

—  Perche!  ...  —  rispondemmo  noi  tutti  a  una  voce  e  in  tuono  di 
meraviglia. 

—  Si ...  quando  sapranno  tutto,  chi  sa  che  non  sieno  i  primi  a 
ringraziarci. 

—  Ringraziarlo  di  averci  arrestati? 

—  Sissignori .  .  .  Oggi  e  venuta  la  notizia  della  capitolazione  di 
Metz. 

Quest'ultima  sassata,  che  cosi  benignamente  ci  si  scagliava  nel 
nostro  infortunio,  ci  fece  nascere  li  per  li  una  tal  rabbia  contro 
quegli  arnesacci  di  una  bottega  fallita,  che  loro  volgemmo  disde- 
gnosamente  le  spalle.  Gia  .  .  .  e  egli  possibile  che  le  idee  di  sacri- 
fizio,  di  abnegazione,  di  generosita,  possano  esser  comprese  anche 
alia  lontana,  da  un  birro  ? 

—  L'ho,  Tho  preso!  ...  —  saltando  come  un  burattino,  e  fregan- 
dosi  le  mani,  strillo  con  la  sua  vocina  da  pettegola  il  Fassio,  awi- 
cinandosi  a  noi.  Questo  Fassio  e  uno  dei  piu  famigerati  ispettori  di 
Pubblica  Sicurezza  che  si  abbia  in  Italia;  garibaldino  nel  1860, 
come  succede  di  tutti  gli  apostati,  ora  e  diventato  la  piu  gran  co- 
lonna  della  sbirraglia  italiana. 

«  Che  qualcuno  di  noi  avesse  in  tasca  una  mitragliatrice  ? »  pensai 
tra  me  e  me.  «  O  che  tra  i  nostri  compagni  si  sia  mescolato  sotto 
mentite  spoglie  qualche  gran  malfattore  ? ! » 

Difatti  1'aria  del  Fassio  me  lo  faceva  sperare:  Cristoforo  Colombo 
che  dal  ponte  del  suo  bastimento  vede  baluginare  qualche  cosa, 
che  ha  sembianza  di  terra;  Moltke  a  Sadowa  che  riceve  Fannunzio 


608  ETTORE   SOCCI 

delParrivo  del  corpo  d'armata  del  bon  Fritz,1  ci  possono  dare  a 
malapena  un'immagine  della  beatitudine  che  provava  in  quel  mo- 
mento  il  rinnegato  democratico. 

Dietro  di  lui  si  vide  arrivare  lemme  lemme  il  Gagliano  in  uno 
state  tale,  che,  se  ne  avessimo  avuta  la  voglia,  ci  avrebbe  fatto  crepar 
dalle  risa.  Nero,  per  lo  meno  come  uno  spazzacamino,  stizzito  come 
un  giocator  di  Mako  che  fa  Pultima  cista,2  senza  azzardarsi  nemme- 
no  di  farci  un  saluto,  il  povero  uomo  passo  a  capo  basso  davanti  alle 
autorita  e  fu  fatto  immediatamente  scendere  in  una  barchetta,  dietro 
la  quale  in  un'altra  fummo  messi  io,  mio  fratello,  il  colonnello  ed 
un  giovinetto,  che  ancora  non  conoscevo. 

—  Viva  la  liberta  d' Italia!  —  si  gridava  tutti  come  pazzi  per  via, 
ed  i  carabinieri  non  ardivano  di  dirci  una  sillaba;  anzi  dalle  loro 
fisonomie  si  vedeva  chiaramente  che  avrebbero  lasciato  quell'in- 
carico  alle  guardie  di  questura,  che  tutte  impettite,  boriose  si  te- 
nevano  delParresto  di  giovani  inermi  nello  stesso  mo  do  che  avreb 
bero  fatto,  se  avessero  vinto  la  battaglia  piu  aspra  che  si  sia  com- 
battuta,  dacche  mondo  e  mondo, 

Giunti  vicini  alia  Sanita,  dove  vedevamo  sbarcare  tutti  gli  altri, 
un  carabiniere  mi  tocco  dolcemente  nel  braccio  e  mi  accenn6  un 
vaporino,  la  cui  caminiera3  faceva  fumo. 

—  Vede  quello  la  ?  —  mi  disse  —  Era  preparato  per  loro,  qualora 
avessero  preso  il  largo. 

Guardai,  e  quello  spauracchio  mi  fece  sorridere;  il  grande  edi- 
fizio  navale  non  aveva  che  due  cannoni,  uno  per  parte  e  di  un  ca- 
libro  cosi  modesto,  che  sembravano  piuttosto  giocattoli  da  bimbi 
che  utensili  da  guerra.  Oh!  .  .  .  se  si  fosse  usciti  dal  porto,  se  si 
avesse  cominciato  a  flare  .  .  .  se  erano  buoni  ad  acchiapparci  con 
quel  trabiccolo,  sarei  stato  contento  di  perder  la  testa!  .  .  . 

La  barca  si  fermo :  noi  scendemmo.  Diedi  un  ultimo  sguardo  al 
porto,  vidi  il  camino  del  Var  che  fumava,  e  il  battello  che  era  in 
movimento!  Oh  come  in  quelFistante  il  mio  pensiero  ricorse  alle 

i.  Moltke  .  .  .  Frits:  la  vittoria  di  Moltke  a  Sadowa  (3  luglio  1866)  fu  age- 
volata  dal  sopraggiungere  dell'armata  del  principe  ereditario  Federico  Gu- 
glielmo.  Helmut  von  Moltke  (1800-1891),  capo  dello  Stato  maggiore  prus- 
siano  di  re  Guglielmo  I,  elaboro  nel  1868  e  attuo  nel  1870  il  piano  strategic© 
della  guerra  franco-prussiana  cui  soprattutto  si  dovettero  le  strepitose  vit- 
torie  tedesche.  2.  Mako  .  .  .  cista:  il  macao  e  un  gioco  di  carte  in  cui  la 
cista,  rappresentata  dal  dieci  o  da  una  figura,  equivale  a  un  punto  nullo. 
3.  caminiera:  ciminiera. 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  609 

cabine,  dove  ci  eravamo  sdraiati  la  sera  avanti  alia  medesima  ora: 
oh!  come  desiderai  che  il  tempo  ritornasse  indietro  di  poche  ore 
soltanto  per  non  essere  sicuro  della  barbara  realta,  che  ci  opprimeva 
in  quel  mentre. 

Moltissima  gente  si  era  affollata  ar  due  lati  della  porta  che  condu- 
ceva  alFurHzio  della  delegazione  del  porto.  Tra  questa  gente  io  vidi 
di  nuovo  i  due  scialli .  .  .  Ma  dunque,  non  ci  abbandoneranno  piii 
queste  donne? 

Un  vecchietto,  con  li  occhiali  d'oro  piu  giu  che  a  meta  del  naso, 
rincantucciato  in  uno  sgabbiolo  di  legno  che  faceva  le  veci  di  scrit- 
toio,  via  via  che  si  passava  ci  chiedeva  il  nostro  nome,  quello  dei 
nostri  parenti,  il  nostro  domicilio  e  la  nostra  professione. 

—  Possono  partire  —  grido  poco  dopo  con  voce  tonante  il  Bolis, 
Giove  Tonante  di  quell' Olimpo  di  birracchioli  e  di  guardie  di  tutte 
le  qualita  e  di  tutte  le  dimensions 

Un  applauso  prolungato  fece  eco  a  queste  parole ;  i  giovanotti  ere- 
devano  di  essere  liberi .  .  .  Poveri  grulli!  .  .  .  Quale  storia  ci  ha  mai 
fatto  sapere  che  il  gatto  si  lasci  scappare  il  sorcio  dalle  unghie? 

—  Avanti  I  ...  —  urlarono  con  mala  grazia  a  loro  volta  le  guar 
die  ... 

—  O  dove  si  va  ?  —  cerco  qualcheduno. 

—  Loro  non  lo  devono  sapere. 

A  noi,  come  presi  insieme  col  colonnello,  fu  fatto  il  favore  di 
farci  passare  nella  caserma  dei  carabinieri ;  ci  si  disse,  in  attesa  di 
ordini  superiori. 

Intanto  gli  altri  traversavano  via  Grande,  tutta  gremita  di  po- 
polo  che  li  accompagnava  con  applausi  frenetici ;  ci  voile  del  buono 
e  del  bello  per  sconsigliare  i  popolani  a  non  far  qualche  pazzia, 
ed  essi  allora,  non  potendo  fare  altro,  si  mostrarono  generosissimi 
con  quei  poveri  diavoli  che  venivano  trasferiti  alle  carceri ;  e  fu  una 
pioggia  continua  di  sigari,  di  pezzi  di  pane,  d'involti  di  compana- 
tico,  e  persino  di  foglietti  da  mezzo  franco  e  da  un  franco.  II  popolo 
e  generoso,  e  al  primo  indizio  di  lotta  vicina,  come  un  uomo  solo 
corre  al  suo  posto.  Oggi  protesta  con  gli  urli  alle  guardie  e  colle 
battute  di  mano  ai  prigionieri,  domani  muore,  santificando  il  prin- 
cipio  democratico,  sulle  barricate.  Perdendo  lo  vedrete  marcire 
nelle  carceri,  e  soffirire  per  le  vie;  vincendo,  voi  lo  vedrete  al  la- 
voro! 

I  carabinieri  ci  accolsero  con  tutta  la  gentilezza  immaginabile, 


6lO  ETTORE   SOCCI 

ci  domandarono  se  avevamo  bisogno  di  qualche  cosa,  e  noi  che, 
come  uomini,  dopo  tante  ore  di  disagio  si  aveva  diritto  ad  avere 
appetito,  ordinammo  del  salame,  del  prosciutto  e  un  poco  di  vino. 
Incontrammo  in  quella  stanza  lo  Strocchi;  anche  egli  aveva  ri- 
cevuto  lo  strano  favore  di  essere  trattato  un  po'  meglio  del  rima- 
nente  della  spedizione. 

Chi  era  stato  la  causa  diretta  delPinvasione  del  Var  ?  lo  non  lo 
saprei  dire.  Hanno  qualche  carattere  di  verita  le  accuse  che  si  son 
palleggiati  1'uno  con  Taltro  e  a  vicenda  diversi  individui  che  face- 
vano  parte  della  nostra  mandata?  lo  credo  di  no:  credo  soltanto 
che  il  governo  Italiano,  il  quale  ha  sempre  in  serbo  un  granello 
d'incenso  per  chi  trionfa  ed  e  forte,  siccome  e  uso  di  tutti  i  codardi, 
sia  sempre  disposto  a  tirar  sassate  da  orbi  a  tutti  quelli  che  per 
propria  disgrazia  si  trovano  a  terra;  e  cosi,  mentre  or  non  sono 
pochi  anni,  per  non  violare  la  bandiera  Imperiale  di  Francia  si  la- 
sciavano  tranquillamente  a  bordo  dell'Authion  i  fratelli  La  Gala:1 
in  pieno  1870  si  aveva  il  coraggio  di  buttar  giu  porte,  scassinar 
serrature  e  strappare  a  viva  forza  dei  giovani  generosi,  che  dovevano 
essere  sacri,  perche  protetti  dallo  stendardo  di  una  nazione  arnica, 
di  un  governo  che  si  era  riconosciuto,  ma  che  versava  in  pericoli 
immensi. 

—  E  dove  ci  mandano  ?  —  domandammo  al  brigadiere  dei  cara- 
binieri,  dopo  che  avemmo  veduto  un  soldato,  latore  di  un  piego, 
che  fu  letto  attentamente  dal  capoposto. 

—  lo  devo  trasmetterli  ai  Domenicani. 

—  Sicche  proprio  in  prigione? 

—  Pur  troppo! 

Un  lungo  silenzio  tenne  dietro  a  queste  parole.  Creder  di  andare 

i.  Cipriano  La  Gala,  gia  condannato  dal  governo  borbonico  a  venti  anni 
di  galera  per  furto  con  violenza,  fuggi  dal  carcere  nel  1860  e  si  pose  a  capo 
di  una  banda  sowenzionata  dagli  spodestati  Borboni,  che  molto  contavano, 
per  una  restaurazione,  sul  brigantaggio  nell' Italia  meridionale.  Vinta  e 
scompaginata  la  banda,  il  La  Gala  si  rifugi6  nello  Stato  pontificio  e  di  11,  col 
fratello  Giona  e  alcuni  compagni,  si  imbarc6  sul  piroscafo  francese  Aunis 
(non  Authion).  A  Geneva,  durante  la  sosta  della  nave,  col  consenso  del  con 
sole  di  Francia,  il  prefetto  fece  arrestare  i  fratelli  La  Gala  e  i  loro  compagni, 
ma  ne  nacque  un  incidente  diplomatico,  in  nome  della  extraterritorialita 
del  piroscafo.  L' Italia  dove  restituire  gli  arrestati,  chiedendone  successiva- 
mente  alia  Francia  Pestradizione,  e,  ottenutala,  dove*  mutare  la  condanna  a 
morte  di  Cipriano  La  Gala  nei  lavori  forzati  a  vita,  secondo  la  condizione 
impostale  dalla  Francia.  Vedi  A.  PIERANTONI,  //  brigantaggio  borbonico- 
papale  e  la  questione  dell* Aunis,  Roma,  Soc.  ed.  Dante  Alighieri,  1900. 


DA  FIRENZE  A  DIGIONE  6ll 

in  Francia  e  sgusciare  diritti  come  fusi  in  prigione,  era  una  cosa  che 
non  ci  si  aspettava  di  certo,  e,  per  quanto  tutti,  chi  piii  chi  meno, 
ci  si  piccasse  di  esser  filosofi,  e  malgrado  che  dopo  Parresto  questa 
soluzione  fosse  Tunica  prevedibile,  una  tal  notizia  dettaci  li  a  bru- 
ciapelo,  mentre  il  ritardo  ci  aveva  fatto  rinascere  in  cuore  un  po' 
di  speranza,  ci  mise  a  tutti  un  diavolo  per  capello. 

—  Si  facciano  coraggio,  —  ci  diceva  il  brigadiere  —  prendano  le 
cose  con  calma  . . .  tutt'al  piu  sara  il  male  di  qualche  settimana! 

Qualche  settimana!  -  E  gli  pareva  di  dir  poco  al  buon  uomo!  .  .  . 
Rinunziare  alia  vita,  alle  nostre  speranze,  non  goder  piu  di  quella 
liberta,  che  e  primo  attributo  di  ogni  essere,  ma  sia  pur  per  un'ora, 
per  chi  sente  qualcosa  e  sempre  un  supplizio. 

—  Entri,  entri,  ma  mi  raccomando  non  faccia  scene  —  cosi  di 
ceva,  introducendo  nella  stanza  la  moglie  di  Gagliano,  un  carabi- 
niere. 

—  Veramente! ...  —  borbotto  alzandosi  il  brigadiere  . . . 

—  Lasci  correre;  —  ci  affrettammo  a  proferire  noi  tutti—  nessuno 
parlera  di  questo  colloquio. 

—  Ti  hanno  messo  le  manette,  questi  vili,  eh?  -  E  tu  non  hai 
avuto  cuore  di  bucar  loro  la  pancia  ?  —  gettandosi  al  collo  del  ma- 
rito,  e  frammischiando  al  suo  dire  qualche  singhiozzo,  esclamava 
la  donna. 

La  presenza  di  una  donna  in  quell'ora  tristissima,  in  mezzo  ai 
carabinieri,  dopo  tutte  le  emozioni  che  si  era  subito  durante  il  corso 
di  quella  giornata  memorabile,  ci  procure  un  sollievo  e  uno  stringi- 
mento  di  cuore,  che  non  mi  provo  nemmeno  a  descrivere. 

—  Le  carrozze  son  pronte! 

—  Partiamo! 

—  Meno  male  che  marciamo  en  grands  seigneurs. 

—  Di'  piuttosto,  come  i  malfattori  che  vanno  alia  Corte  d'As- 
sise . . . 

—  Eh  I . .  .  loro  ed  i  principi  sono  i  soli  che  hanno  diritto  di  avere 
una  scorta!  Gli  estremi  si  toccano . .  . 

—  E  si  rassomigliano! 

Si  monto  nelle  carrozze  e  dopo  un  breve  tratto  di  via  ci  fer- 
mammo :  sentimmo  cigolare  una  porta  .  . . 
Eravamo  giunti  ai  Domenicani. 


6l2  ETTORE   SOCCI 


III1 

La  prigione!  ...  £  mai  vissuta  creatura  umana,  diro  con  Guer- 
razzi,  che  sollevando  le  pupille  verso  il  soffitto  di  una  di  quelle 
mude  nelle  quali,  per  rawederlo,  s'incretinisce  il  colpevole,  non 
abbia  esclamato  esser  questa  1'invenzione  piu  barbara,  che  mai  sia 
mulinata  nel  cervello  deiruomo?  Quattordici  passi  di  lunghezza; 
sei  di  larghezza:  una  finestra  alta  cinque  piedi  da  terra,  e  dalla  cui 
ferriata  a  quadrelli  vedi  sempre  quel  medesimo  strappo  di  cielo, 
quella  medesima  tettoia  delPedifizio  difaccia,  quella  medesima 
stella  che  sera  per  sera,  par  che  venga  a  darti  un  saluto  canzonato- 
rio;  un  pagliericcio  per  sdraiarsi:  una  brocca  d'acqua  per  bere;  in 
quanto  a  mangiare  .  . .  ci  sono  le  mani  che  paiono  fatte  apposta 
per  questo!  ...  II  rumore  del  mondo,  in  mezzo  al  quale  ti  trovi 
ma  che,  almeno  per  ora  e  morto  per  te,  viene  a  colpirti  gli  orecchi 
nella  tua  solitudine;  ed  ora  qualche  allegra  canzone  ti  rammenta  i 
bei  tempi  delle  scampagnate  gioconde:  ora  i  concerti  di  una  mu- 
sica  militare  t'inebriano,  ti  rapiscono  in  pensieri  Tuno  piu  delPaltro 
impetuosi:  ora  il  frastuono  della  via,  le  urla  dei  venditori,  il  con- 
tinuo  passare  delle  carrozze  ti  riportano  ai  momenti  in  cui  tu  pur 
passeggiavi,  in  cui  tu  pure  davi  alia  sfuggita  un'occhiata  alle  belle 
signore  che  come  Dee  ti  passavano  innanzi  agli  occhi,  trasportate 
da'  loro  cocchi:  insomnia  un  cumulo  di  reminiscenze  che  ti  stra- 
ziano  1'anima.  E  un  martirio  che  fa  deperire  e  qualche  volta  impaz- 
zire  Puomo  d'ingegno  e  di  cuore,  e  che  indurisce  vieppiu  chi  e 
incallito  nel  vizio.  Aggiungete  a  tutto  questo  Pobbligo  di  restare  li 
chiuso,  mentre,  alia  semplice  idea  di  esser  costretto  a  fare  una  cosa, 
fosse  pure  la  piu  gradita,  si  prova  la  piu  gran  repugnanza. 

Grazie  alPamabilita  del  capo  guardiano  dello  stabilimento,  fu 
cercato  di  renderci  meno  dura  che  fosse  possibile  la  prigionia.  Ci 
misero  in  cinque  in  una  stanza,  lasciarono  che  si  fumasse  a  nostro 
belPagio :  ci  si  passavano  i  giornali,  dove  tra  le  altre  cose  appren- 
demmo  Pinfame  tradimento  del  generale  cortigiano  Bazaine:2  non 

i.  In  questo  capitolo  abbiamo  soppresso  due  brani.  2.  II  maresciallo  Fran- 
$ois-Achiile  Bazaine  (1811-1888)  aveva  capitolato  il  27  ottobre,  aprendo  ai 
Prussian!  la  fortezza  di  Metz.  La  capitolazione  fu  considerata  colpevole,  il 
Bazaine  fu  processato  e  condannato  a  morte.  II  Mac-Mahon,  allora  presi- 
dente  della  Repubblica  (vedi  la  nota  2  a  p.  660),  gli  commut6  la  pena  nel 
carcere  a  vita.  Ma  il  Bazaine  riusci  a  evadere  dal  forte  dell'isola  di  Sainte- 
Marguerite  e  a  rifugiarsi  in  Ispagna. 


DA  FIRENZE   A   DIGIONE  613 

ci  era  fatta  alcuna  restrizione  nel  mangiare  e  nel  here :  ci  si  trattava 
insomma  coi  guanti,  e  inservienti  e  guardiani,  lungi  da  far  pompa 
di  quelle  mosse  scortesi  di  cui  si  spesso  e  si  volentieri  fanno  pompa 
coi  carcerati  di  bassa  estrazione,1  si  perdevano  in  scappellature  ed 
inchini  e  venivano  due  o  tre  volte  per  ora  a  domandarci,  se  si 
abbisognava  di  qualche  cosa.  Non  era  compassione  questa:  no 
dawero!  Anche  la  avendoci  veduti  insieme  col  colonnello  e  per 
questo  scambiandoci  forse  per  uno  Stato  Maggiore,  si  cercava  en- 
trare  nelle  nostre  buone  grazie,  perche  si  aveva  la  ferma  credenza 
che  eravamo  pezzi  grossi . . .  Quell'ingegno  ferace,  che  tanto  pre- 
dominava  sugli  altri  per  lo  spirito  d'osservrazione  e  che  cosi  presto 
doveva  esser  rapito  alTItalia,  intendo  parlare  di  Carlo  Bini,2  nelle 
sue  riflessioni  sui  prigionieri  ha  dettato  delle  pagine  meravigliose 
per  la  verita  sulle  distinzioni  sociali,  che  con  scrupolo  sono  vene 
rate  ancora  nelle  carceri . .  . 

Dunque,  come  ho  detto,  eravamo  in  cinque  in  una  prigione. 
Gagliano,  il  colonnello,  il  mio  fratello,  io  ed  un  giovinetto  peru- 
gino,  che  per  la  prima  volta  si  moveva  da  casa,  e  che  era  innamorato 
come  un  ciuco  di  una  ballerina  cui  aveva  promesso  per  quanto  prima 
Tanello  nuziale. 

II  primo  giorno  non  vedendo  alcuna  probability  di  un  interro- 
gatorio,  non  facemmo  che  scrivere.  Scrivemmo  al  console,  a  una 
dozzina  di  deputati,  a  una  mezza  dozzina  di  giornalisti,  e  perfine  al 
Lanza:3  in  tutti  i  nostri  scritti  si  protestava  contro  la  patente  in- 
giustizia,  di  cui  eravamo  stati  le  vittime,  e  si  scongiurava,  affinche 
fosse  troncato  quello  stato  penoso,  che  temevamo  si  prolungasse 
ancora  per  un  lasso  di  tempo  non  indifFerente. 

Uno  dei  nostri,  che  era  stato  diverse  volte  in  prigione  sempre  per 
afTari  politici,  ci  inizio  nei  misteri  della  vita  non  troppo  geniale  del 
carcere,  e  c'insegno  tra  le  altre  cose  un  mezzo  sicuro,  per  comuni- 
care  con  gli  altri  infelici,  quantunque  fossero  in  stanze  dalla  nostra 
lontane :  il  nome  tecnico  di  questo  nuovo  sistema  di  comunicazione 
e  il  cavallo ;  si  attacca  ad  un  sasso  o  a  un  pezzo  di  legno  una  carto- 
lina,  in  cui  si  scrive  quello  che  vogliamo;  si  awolge  poi  tutto 

i.  di  bassa  estrazione:  di  umile  classe  sociale.  2.  Carlo  Bini  (1806-1842), 
di  Livorno,  mazziniano,  autore  del  Manoscritto  di  un  prigioniero>  di  cui 
una  larga  scelta  si  puo  leggere  nel  tomo  I  dei  Memorialisti  delVOttocento, 
in  questa  collezione.  3.  Giovanni  Lanza  (vedi  la  nota  4  a  p.  457)  era  allora 
presidente  del  Consiglio. 


614  ETTORE   SOCCI 

ad  un  filo  e  dalla  finestra  si  lancia  dove  si  ha  intenzione  di  farlo 
recapitare;  i  ptigionieri  nella  solitudine  aguzzano  tanto  Fingegno, 
addiventano  tanto  maestri  nella  precauzione,  che  se  s'ingannano 
una  volta  sola,  in  questo  nuovo  bersaglio,  si  pub  assicurare  che  e 
una  fatalita.  Inutile  il  dire,  che  noi  ci  servimmo  di  questo  mezzo 
spessissimo,  e  sul  principio  facemmo  delle  matte  risate  alle  spalle 
di  qualcheduno  il  quale  piu  che  si  piccava  ad  essere  gran  tiratore, 
piu  ne  mandava  di  fuori. 

Come  son  lunghe,  eterne 
Pore  del  prigionier! 

canta  il  tenore  nel  secondo  atto  del  Pipelet,1  e  se  noi  non  cantavamo 
queste  parole,  se  ne  comprendeva  pero  in  quei  momenti  tutta  la 
desolante  verita.  Addormentarsi  colle  galline,  essere  in  piedi  ai 
primi  chiarori  dell'alba;  appena  desti,  eccoti  ad  assalirti  la  spaven- 
tevole  idea  di  quattordici  o  quindici  ore  d'inerzia  forzata;  oh;  al- 
meno  oggi  tuonasse,  infuriasse  una  gran  tempesta  .  .  .  sarebbe  una 
distrazione!  ...  Oh!  se  si  avesse  nel  cuore  la  mansuetudine  peco- 
resca  del  Pellico,2  che  potremmo  passare  ore  intiere,  facendo  asce- 
ticamente  delle  contemplazioni  sulle  tele  di  ragno,  che  in  si  gran 
numero  e,  a  mo'  di  tendoni,  adornano  la  volta  della  nostra  abita- 
zione!  Oh!  venisse  un  nuovo  carceriere  gobbo,  sbilenco,  rachitico, 
o  per  lo  meno  tartaglione:  si  potrebbe  ridere  qualche  tempo  alle 
sue  spalle  . . .  Ma  no  signori,  sempre  i  medesimi  volti,  sempre  il 
medesimo  cielo  ne  sereno,  n6  brusco,  sempre  qualche  pezzetto  di 
ragnatelo  che  ci  da  fastidio,  cadendo  ed  appiccicandosi  sui  nasi  re- 
spettivi .  .  . 

Passammo  altri  due  giorni  in  questa  completa  atonia;  gia  tre 
giorni  che  eravamo  separati  da  tutti,  gia  tre  giorni  col  timore  che  i 
nostri  compagni  avessero  bruciato  delle  cartuccie  contro  i  Prus- 
siani!  .  .  .  Finalmente  venne  1'interrogatorio :  un  interrogate rio  pro 
forma,  dove  ognuno  rispondeva  a  casaccio  tutto  quello  che  gli  ve- 
niva  alia  bocca,  dove  s'inventavano  scuse  cosi  magre  e  storie  cosi 
bambinesche,  che  sarebbero  cadute  al  primo  soffio  di  un  accusatore, 

i.  Pipelet:  commedia  lirica  ispirata  alia  figura  di  un  personaggio  dei  Misteri 
di  Parigi  di  Eugenic  Sue.  Su  libretto  di  RafTaele  Berninzone,  musicato  da 
Serafino  Amedeo  De  Ferrari  (1824-1885),  il  Pipelet  fu  rappresentato  la 
prima  volta  a  Venezia  il  25  novembre  1855.  2.  la  mansuetudine  .  .  .  Pellico: 
la  religiosa  rassegnazione  del  Pellico,  da  cui  sono  animate  Le  mie  prigioni, 
fu  giudicata  dagli  spiriti  piu  ardenti  come  ignavia  e  colpa. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  615 

fosse  anche  il  piu  dozzinale.  Entrammo  dal  giudice  colla  speranza: 
si  credeva  che  finite  I'interrogatorio  ci  avrebbero  rimandato:  in- 
vece  quale  non  fu  la  nostra  sorpresa,  quando  ci  vedemmo  di  nuovo 
rinchiudere  nell'aborrita  stamberga,  che  ci  aveva  accolto  fino  a 
quel  giorno? 

—  Non  ci  mandano  via  che  a  guerra  finita  —  borbotto  stizzosa- 
mente  uno  di  noi. 

Chinammo  tutti  la  testa,  che  tale  cominciava  a  diventare  1'uni- 
versale  credenza. 

E  passo  un  altro  giorno,  eppoi  un  altro:  era  il  tre  di  novembre; 
la  vigilia  eravamo  stati  di  un  umor  perfidissimo ;  senza  provare  al- 
cuno  dei  sentimenti  dettati  dalla  religione,  quelle  campane  che  in- 
vitavano  a  andare  a  commemorare  i  defunti,  ci  facevano  pensare 
ai  nostri  poveri  morti,  a  quelli  che  caddero  per  le  nostre  idee, 
a  quelli  che  cadevano  in  quel  mentre  per  far  scudo  coi  loro  corpi 
a  una  pericolante  repubblica,  per  opporre  un  argine  airirrompente 
valanga  dei  venduti  soldati  della  monarchia  degli  Hokenzollern . .  / 
Noi  eravamo  mesti,  e  si  passava  intere  mezz'ore  difaccia  alle  qua- 
drelle  delFinferriata,  tanto  per  vedere  quel  miserabile  lembo  di 
cielo :  orizzonte  rimpiccolito  come  quello  delFidee  che  ci  bollivano 
in  testa  e  che  non  si  potevano  espandere. 

II  tre  novembre  fu  un  gran  movimento  pei  corridoi,  un  via  vai 
continuato  e  un  accorrere  di  guardiani.  Qual  nuova  awentura  era 
giunta  a  disturbare  la  quiete  monotona  di  quel  sepolcro  di  vivi  ?  .  .  . 
II  caso  era  nuovo. 

Rossi,  Piccini,  Stefani  ed  altri  fiorentini  avevano  avuto  Tidea 
bizzarra  di  commemorare  i  caduti  a  Mentana;  ne  correva  Panni- 
versario,2  e  loro,  come  avanzi  degli  Chassepots  di  De  Failly,3  vollero 
degnamente  onorarlo ;  coi  pagliericci  improwisarono  un  catafalco, 
ci  posero  sopra  una  camicia  di  flanella  rossa,  lo  circondarono  con 
venticinque  candele  steariche,  comprate  la  sera  avanti,  eppoi  at- 
taccarono  un  cartello  nel  quale  a  parole  cubitali  era  scritto: 

Ai  Martiri  di  Mentana 
i  superstiti  Repubblicani. 

i .  Hokenzollern:  naturalmente  Hohenzollern.  2.  V anniversario :  era  dunque 
il  3  novembre  1870.  3.  II  generale  francese  De  Failly  aveva  vinto  a  Men 
tana  i  volontari  di  Garibaldi.  I  suoi  soldati  avevano  usato  i  nuovi  fucili 
chiamati  Chassepots,  ed  egli  telegrafo  al  governo  francese  che  le  armi  cosi 
collaudate  avevano  fatto  «meraviglie». 


6l6  ETTORE   SOCCI 

S'immagini  un  poy  il  buon  letter e,  quando  i  guardiani  entrarono 
nella  prigione,  per  portare  il  becchime  a  quegli  uccelli  ingabbiati. 
Vedere  tutti  quei  lumi,  poi  quel  catafalco  .  .  .  c'era  da  fare  andare 
in  bestia  il  secondino  piu  mansueto  che  abbia  mai  esercitato  questa 
nobile  professione!  Subito  un  reclame  dal  direttore,  il  quale  seguito 
dal  capo  guardiano,  dallo  stato  maggiore  e  da  un  nuvolo  di  carce- 
rieri  si  presenta  maestosamente  sulle  soglie  delle  profanata  stan- 
zuccia. 

—  Questo  e  troppo!  .  . .  lo  sono  buono,  ma  non  lo  sono  tre 
volte  .  .  .  Impongo  loro  di  tor  via  quel  cartello  rivoluzionario  .  .  . 

—  Ma  noi  non  diamo  noia  a  nessuno,  e  poi  qui  chi  lo  vede  ? 

—  Non  importa .  . .  Lascino  pure  il  catafalco  ma  levino  il  car 
tello! 

—  Ma  se  nessuno  puo  leggerlo!  .  .  . 

—  lo  ho  usato  troppe  gentilezze  con  loro :  -  questo  scandalo  non 
lo  subisco  . .  . 

—  Ma  se  non  v'e  scandalo! 

Insomma,  per  il  buon  della  pace,  fu  necessario  tor  via  quel  disgra- 
ziato  cartello.  -  £  un  fatto,  chiaro,  lampante  e  arci  che  provatissimo : 
i  governi  che  pericolano  hanno  paura  dei  morti,  eguali  in  tutto  e 
per  tutto  alFinfermo  incurabile  che  fa  il  viso  serio  solamente  a 
sentir  parlare  di  morte. 

In  premio  di  non  aver  preso  parte  alle  dimostrazioni  sowertitrici 
dei  nostri  amici,  quel  giorno  noi  fummo  mandati  a  prender  aria 
un'ora  piia  presto. 

Una  dolce  sorpresa  ci  attendeva  sulla  terrazza:  arrampicandoci 
suirinferriata,  e  spenzolandoci  come  meglio  si  poteva,  si  vide  se- 
dute  sulla  spalletta  di  un  fosso  che  attraversava  la  via,  le  due  fate 
dai  magici  scialli,  che  tanto  mi  avevano  dato  a  riflettere  sul  Var :  esse 
guardavano  in  su;  era  certo  che  qualche  prigioniero  aveva  portato 
con  se  molta  parte  di  cuore  di  quelle  creature  che  credevamo  vez- 
zosissi'me  e  che  le  ci  apparivano,1  come  una  visione,  nei  momenti 
piu  climaterici  di  quella  intrapresa. 

Ci  si  perdeva,  come  di  solito,  in  congetture  su  quelle  apparizioni, 
quando  venne  un  custode  e  con  ilare  fisonomia  ci  disse:  —  Giu, 
giu  nella  stanza  del  capoguardiano. 

-—  Ci  son  novita? 

i.  che  le  ci  apparivano:  sgrammaticatura  propria  del  linguaggio  parlato 
toscano  (e  cfr.  a  p.  633:  «che  ne  andavano  in  solluchero  »). 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  617 

—  Become!  -  Loro  son  liberi. 

—  Liberi!  —  urlammo  noi  e  ci  stringemmo  Pun  Faltro  la  mano. 
Scendemmo  a  rotta  di  collo  le  scale,  entrammo  nel  corridoio, 

dove  di  subito  fummo  circondati  dal  nostri  compagni,  che  ci  ab- 
bracciavano,  ci  baciavano,  ci  opprimevano  di  mille  domande;  chi 
troverebbe  parole  per  descrivere  Temozione  di  quel  momento  so- 
lenne?  Xon  era  il  tornare  a  vivere  che  ci  sorridesse  soltanto:  era 
Pidea  che  prima  o  poi  avrernmo  raggiunto  nostro  padre,  che  tale 
deve  considerarsi  da  un  giovane  Teroe  leggendario  della  liberta  e 
del  progresso,  che  tale  deve  essere  riguardato  da  tutti  coloro  che 
soffrono,  il  prode  general  Garibaldi. 

Fassio,  incaricato  dalla  questura  ad  assistere  alia  nostra  libera- 
zione,  voile  farci  sospirare,  piu  che  fosse  possibile,  un  tanto  ago- 
gnato  momento.  Eravamo  una  lunghissima  fila,  ognuno  che  usciva 
dalla  stanza  provocava  in  tutti  un  sospirone  che  si  poteva  tradurre 
in  queste  parole :  <?  Lui  felice  .  .  .  ed  io  pure,  che  mi  awicino  alia 
liberazione! » 

Venne  la  mia  volta.  Entrai.  II  commissario  mi  abbordo  subito 
con  queste  parole:  —  Lei  e  di  Firenze? 

—  Sissignore! 

—  Vuol  fare  il  viaggio  a  spese  sue  o  a  conto  della  questura  ? 

—  Ma  io  voglio  restare  in  Livorno. 

—  £  impossible! 

—  Se  ci  ho  i  miei  interessi! 

—  Non  importa:  lei  e  di  Firenze  e  deve  tornare  a  Firenze! 

—  Ma  questa  e  bella! 

—  O  bella,  o  brutta  . . .  tali  son  gli  ordini. 

Strana  logica  invero  questa  della  polizia!  Se  nel  mio  interrogato- 
rio  avessi  detto  di  essere  del  Missisipi  chi  sa  che  la  questura  non 
mi  avesse  spedito  gratis  fino  a  quelle  lontane  regioni! .  .  .  Ah! 
averlo  pensato! ! 

A  tutti  gli  altri  fu  fatta  la  medesima  proposizione :  tutti  accet- 
tammo  di  andare  a  spese  nostre,  decisi  di  tentare  ogni  via  per  sfug- 
gire  ai  questurini. 

—  Domani  si  presenteranno  al  questore  in  Firenze  —  disse  allora 
il  Fassio  con  tuono  burbanzoso,  e  poi  volgendosi  al  Piccini  aggiun- 
se :  —  Lei  mi  par  piu  serio  degli  altri,  fara  da  capo  squadra  .  .  *  Alia 
stazione  li  accompagneranno  le  guardie,  ne  li  lascieranno  fino  a  che 
non  avranno  preso  il  biglietto. 


6l8  ETTORE   SOCCI 

LValtra  speranza  che  si  dileguava.  Bisognera  tornare  per  forza 
donde  eravamo  partiti  con  tutta  allegrezza. 

—  Possono  andare  ,  .  .  e  si  sbrighino  perche  il  vapore1  parte  a 
momenti. 

Dei  picchi  ripetuti  all'uscio  della  nostra  antica  carcere,  richia- 
mano  Puniversale  attenzione  verso  quel  posto.  £  Gagliano  che  pro- 
testa  airingiustizia  e  alFinfamia:  e  il  rumoroso  Gagliano  che  solo 
vien  rilasciato  ai  Domenicani  per  conto  della  questura.  —  Scrivete 
sui  giornali,  —  egli  vociava  —  fate  nota  la  nuova  ingiustizia,  dite 
che  mi  si  vuol  rovinare  da  questa  canaglia.  —  Nessuno  porgeva 
ascolto  alle  di  lui  querele,  qualcuno  rideva:  Tuomo  che  esce  da  un 
pericolo  diventa  egoista. 

—  Via»  via  —  ci  disse  il  nostro  accompagnatore,  una  specie  di 
Don  Checco,2  scalcinato  come  un  poeta,  e  zoppicante,  come  un  verso 
sciolto  di  qualche  genio  incompreso. 

Demmo  un  ultimo  sguardo  alia  stanzuccia  che  ci  aveva  racchiusi 
quei  giorni,  e,  cosa  strana,  provammo  un  certo  dispiacere  ad  abban- 
donaria.  Quanti  pensieri,  quanti  generosi  proponimenti,  quanti  ri- 
cordi,  quante  speranze  non  ci  avevano  agitato  la  dentro! 

Quando  io  esco  di  prigione,  e  lo  dovevo  imparare  benissimo 
dopo,  grazie  al  benigno  nostro  governo,  io  provo  il  medesimo  ef- 
fetto  di  quando  esco  da  un  bastimento.  Mi  gira  la  testa  e  le  gambe 
mi  reggono  appena  . ,  .  quella  sera  mi  pareva  di  essere  addirittura 
ubriaco.  Ed  anche  senza  parere  ubriaco,  io  credo  che  la  nostra  co- 
mitiva  avesse  in  se  tanto  di  umoristico  da  farsi  guardare  da  chiun- 
que  passava. 

Figuratevi :  prima  Don  Checco  con  una  mazza  gigantesca,  su  cui 
si  appoggiava,  ma  che  non  era  valevole  a  farlo  passar  per  meno 
zoppo  di  quello  che  era:  poi  il  colonnello  in  cappello  a  cilindro 
coi  due  tubi  di  latta,  in  cui  erano  le  carte  geografiche,  ma  che  di 
notte  gli  davano  un'idea  di  Sesto  Caio  Baccelli,3  con  gli  annessi 
cannocchiali;  dietro  a  loro  il  giovinetto  innamorato  con  due  vali- 
gione,  che  erano  vote,  ma  che  egli  aveva  portato  con  se  per  dar 
polvere  negli  occhi  alia  polizia;  in  coda  noi  altri  urlando,  chiassan- 

i.  iltapore:  il  treno;  e  cfr.  Tultimo  verso  dell'ode  carducciana  Allefonti  del 
Clitumno.  2.  Don  Chfcco:  commedia  lirica  su  libretto  di  Almarindo  Spa- 
dettm,  musicata  da  Nicola  De  Giosa  (1820-1885).  La  prima  rappresenta- 
zione  awenne  a  Napoli  I'n  luglio  1850.  3,  Sesto  Caio  Baccelli:  I'imma- 
ginario  astrologo,  la  cui  bizzarra  immagine  figura  sulla  copertina  dei  lunari 
che  hanno  il  suo  nome. 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  619 

do,  facendo  le  fiche  a  quel  povero  diavolo,  che  tentava  attaccar  di- 
scorso  con  tutti,  senza  che  nessuno  gli  rispondesse:  in  poche  pa 
role  egli  sembrava  un  precettore  che  conduce  a  passeggiare  una 
mandata  di  birichini,  e  scommetto  che  in  quell'ora,  avvedutosi  della 
parte  ridicola  che  sosteneva,  avrebbe  mandato  in  quel  paese  Bolis, 
la  Francia,  il  Ministero  e  gli  eroi  della  liberta. 

Arrivati  alia  ferrovia,  le  guardie  ci  fecero  ala,  ne  si  allontanarono, 
fino  a  che  non  avemmo  presi  i  biglietti. 

—  Dunque  a  rivederli,  signori  ~-  traendo  un  sospiro  di  conten- 
tezza  ci  disse  il  delegato. 

—  Dica  addio!  —  riprendemmo  noi  tutti. 

—  Grazie  dell'accompagnatural  —  proferiva  uno  in  tuono  di  burla. 

—  La  ci  saluti  Bolis .  . . 

—  Al  piacere  di  non  riverirla  mai  piu  . . . 

E  via  di  seguito  con  espressioni  piu  o  meno  frizzanti,  tutte  ail'in- 
dirizzo  di  quell'mfelice  che,  impappinato  come  un  pulcino  nella 
stoppa,  voltandosi  ad  ora  ad  ora  per  darci  una  sbirciata  piu  o  meno 
benevola,  se  ne  ando  quatto  quarto  e  colla  coda  tra  le  gambe. 

Entrammo  nella  stazione:  quelli  che  viaggiavano  a  conto  della 
questura  erano  stati  ficcati  in  due  vagoni  di  terza  classe,  e  cantava- 
no:  cantavano  dalla  rabbia  o  dal  piacere?  Xon  saprei  dirlo  dawero, 
ma  e  un  fatto  che  un  uomo  che  si  trova  in  una  situazione  eccezio- 
nale,  prova  un  refrigerio,  stuonando  un'arietta;  i  ragazzi  che  hanno 
paura  a  andar  soli  in  una  stanza  canticchiano,  i  poveri  coscritti 
cercano  alle  canzoni  montagnoie  e  ai  patriottici  inni  quel  coraggio 
che  invano  cercherebbero  al  cuore. 

Ecco  i  due  scialli!  . . .  Ecco  le  due  donne  che  ci  hanno  fatto  tanto 
almanaccare  colla  testa  sul  Var  e  in  prigione!  -  Oh!  finalmente  ci 
e  dato  awicinarle!  —  Sono  la  madre  e  la  sorella  di  un  arrestato  —  mi 
sussurra  uno,  che  ho  accanto.  Mi  approssimo  a  loro.  Qual  delusio- 
ne!  La  madre  e  sbilenca,  le  mancano  due  denti  davanti  ed  ha  una 
bazza,  come  quella  del  barone  Ricasoli.1  E  la  figlia  ?  Mi  risparmino  i 
lettori  rorrore  di  descriverla! .  .  .  Un  viso  da  leticare  il  giallo  alle 
carote,2  un  personale  impossible,  due  mani  che  certamente  non 
sarebbero  state  sproporzionate  per  il  Biancone3  di  piazza.  Mi  fecero 

i  RicasoU:  vedi  la  nota  2  a  p.  429-  2.  Un  viso  .  .  .  carote:  riecheggia  un 
verso  di  Giuseppe  Giusti,  nella  poesia  La  scritta.  3-  «'  Bia"c°™''  COS1  e 
chiamato  dai  Fiorentini,  con  intenzione  spregiativa,  il  Nettuno  dell  .\mman- 
nati  che  sorge  sulla  fontana  di  Piazza  della  Signona. 


620  ETTORE   SOCCI 

mille  complimenti,  mi  volevano  presentare  il  figliuolo  e  il  fratello, 
io  con  una  scusa  qualunque  voltai  loro  gentilmente  le  spalle,  che 
amavo  credere  il  nostro  compagno  di  sventura,  gobbo,  sciancato, 
ridicolo:  per  potere  almeno  avere  il  vanto  di  aver  conosciuta  la  fa- 
miglia  piu  brutta  che  in  questi  tempi  borgiani1  passeggi  sotto  la 
cappa  del  cielo! 

Pochi  minuti  dopo  entrammo  tutti  nel  convoglio:  Piccini  che 
doveva  essere  il  capo  squadra,  ci  sfugge :  il  treno  &  in  movimento  e 
noi  ci  troviamo,  spinte  e  sponte2  trasportati  a  Firenze. 

IV3 

Essere  in  Firenze,  e  ricominciare  a  studiare  le  strade  per  tornare 
in  Francia  fu  tutt'una.  II  male  si  era,  che  le  nostre  piccole  risorse 
avevano  avuto  un  colpo  tremendo,  e  che  la  questura  aguzzava, 
come  Argo,  cento  occhi  per  spiare  i  nostri  movimenti  piu  piccoli, 
le  nostre  piu  segrete  conventicole.  Non  si  credano  esagerate  le  mie 
parole:  per  il  malaugurato  afFare  di  Livorno  si  era  imbastito  un 
processo,  e  si  adopravano  nelle  sfere  go ver native  a  tutt'uomo  per 
mandarlo  avanti  o  di  rifFe  o  di  rafFe :  si  voleva  infatti  far  vedere  alia 
Prussia  come  in  Italia  fossero  ligi  al  principio  di  neutralita  e  come  il 
governo  non  dividesse  per  nulla  le  idee  piazzaiole  di  quello  scomu- 
nicato  di  Garibaldi. 

Noi  dal  canto  nostro  non  stavamo  con  le  mani  in  mano,  e,  tra  le 
altre  cose  (vedete,  come  eravamo  poeti)  si  cerco  di  organizzare  in 
Firenze  una  compagnia  tutta  Toscana,  che  si  sarebbe  chiamata  dei 
carabinieri  delP Arno.  Un  tal  disegno  ci  porto  per  le  lunghe :  e  tra 
proposte,  decision],  consigli  si  perse  un  tempo  prezioso. 

II  colonnello  non  lo  vedemmo  piu:  gia  non  e  fuor  di  luogo  il 
notare  che  egli  apparteneva  alia  fioritura  di  quei  colonnelli  ga- 
ribaldini,  il  cui  nome  non  si  e  mai  conosciuto  sui  campi  di  battaglia, 
che  non  hanno  mai  comandato  nemmeno  un  plotone  ma  che  sono 

i.  tempi  borgiani:  tempi  di  tradimento  e  delitti.  La  famiglia  Borgia  (Ales- 
sandro  VI,  Lucrezia  Borgia  ecc.)  era  divenuta,  attraverso  una  produzione 
letteraria  soprattutto  franeese,  documento  di  ogni  piii  grave  infamia.  Ma 
qui  il  Socci  ripete  Tespressione  che  Garibaldi  adoper6  in  un  suo  messag- 
gio  di  solidarieta  al  deputato  Lobbia  il  22  giugno  1869,  in  occasione  della 
aggressione  che  quegli  pare  avesse  subito.  2.  spinte  e  sponte:  in  parte 
forzatanaente  e  in  parte  spontaneamente :  sponte  e  av\'erbio  latino,  su  cui  e 
scherzosamtente  costruita,  con  valore  avverbiale,  la  forma  spinte.  3.  In 
questo  capitolo  e  stato  soppresso  un  episodio  marginale. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  621 

sempre  in  prima  linea  in  tempo  di  pace.  Buon  uomo  in  fondo! 
Discrete  ingegnere  idraulico,  dopo  avere  almanaccato  tutte  le  ore 
del  giorno  suIPacqua,  pigHava,  la  sera,  certe  sbornie  che  parevano 
castighi  di  Dio!  Mori  poco  dopo  per  congestione  cerebrale.  Pace 
alPanima  sua! 

Mentre  nelPAtene  dell'Arno,  quantunque  muniti  delle  piu  belle 
intenzioni,  non  si  dava  ne  in  tinche,  ne  in  ceci,1  il  coraggioso  e 
bravo  Ricciotti  compieva  la  rornanzesca  impresa  di  Chantillon.2 
La  democrazia  e  tutti  coloro  che  sentono  amore  per  P  Italia,  ap- 
plaudivano  il  giovane  condottiero,  che  con  un  pugno  di  uornini, 
sorprendeva,  notte  tempo,  ottocento  Prussiani,  ne  faceva  piu  che 
quattrocento  prigionieri,  e  toglieva  loro  buon  numero  di  cavalli  e 
di  armi. 

Garibaldi,  dopo  aver  costituito  il  suo  microscopico  esercito  a 
Dole,  si  era  portato  ad  Autun,  e  dopo  avere  ottenuto  splendidi  re- 
sultati  a  Lantenay,  si  era  spinto  fin  sotto  Dijon,  ed  avrebbe  certa- 
mente  occupato  questa  citta,  se  la  imperizia  e  la  codardia  della 
guardia  mobile  non  lo  avesse  obbligato  a  ritirarsi  fino  nella  citta  da 
dove  si  era  partito  con  tanta  speranza  nel  cuore.  I  Prussiani  ave- 
vano  cercato  di  sorprenderlo,  capitando  airimpensata  in  Autun,  ma 
grazie  alPesattezza  dei  tiri  delle  batterie  da  montagna  che  Pillustre 
generale  aveva  sotto  i  suoi  ordini,  ed  al  valore  dei  giovani  volontari, 
i  tremendi  soldati  che  facevano  paura  a  tutta  PEuropa,  dopo  averne 
buscate  come  ciuchi,  si  erano  refugiati  a  rotta  di  collo  dentro  Dijon, 
dove  il  general  Werder  aveva  piantato  il  suo  quartier  generale.3 

Queste  notizie  che  leggevamo  sui  giornali  erano  tante  stilettate 
per  noi;  gia  varii  dei  nostri  compagni  erano  partiti  alia  spicciolata 
per  la  Francia.  lo  mi  rammento  che  in  quei  giorni  mi  vergognavo 
ad  uscir  soltanto  di  casa:  mi  pareva  che  tutta  quella  gente  che  era 
conscia  della  mia  prima  partenza  mi  ridesse  sul  muso,  e  che  dentro 

1.  non  si  .  .  .  ceci\  non  si  concludeva  nulla:  e  frase  popolaresca  toscana. 

2.  Nella  notte  tra  il  18  e  il  19  novemfare  1870  Ricciotti  Garibaldi  con  mille 
franchi  tiratori,  spintosi  entro  le  linee  nemiche,  sorprese  il  presidio  di 
Chdtillon  sur-Seine,  presso  Digione,  gli  inflisse  gravi  perdite  e  torn6  in- 
dietro  con  molti  prigionieri  e  grande  bottino.  L'episodio  e  narrato  ampia- 
mente  da  A.  BIZZONI  nel  capitolo  xv  delle  sue  Impressioni  di  un  volontario 
air  esercito  dei  Vosgi,  cit.      3.  /  Prussiani  .  .  .  generale:  dopo  la  capitolazione 
di  Metz,  da  lui  assediata,  il  generate  von  Werder  (vedi  la  nota  3  a  p.  651) 
pote  volgere  tutti  i  suoi  sforzi  contro  il  corpo  dei  volontari.  In  realta,  il 
Socci  da  eccessivo  rilievo  all'episodio  di  Autun  (i°  dicembre  1870),  che  pure 
mostro  il  valore  dei  garibaldini. 


622  ETTORE    SOCCI 

di  s6  mi  rimproverasse  queH'inerzia,  che  cTaltronde  era  la  conse- 
guenza  logica  della  mia  situazione. 

Finalmente  un  giorno  capit6  da  me,  che  in  quel  momento  avevo 
gia  dimesso  il  pensiero  di  poter  prender  parte  alia  campagna  di 
Francia,  il  Bocconi,  e,  senza  che  io  proferissi  nemmeno  una  parola, 
mi  disse:—  Sei  sempre  deciso  di  venire  in  Francia? 

—  Sicuro!  —  gli  risposi. 

—  Allora  domani  Taltro  partiamo. 

—  Xon  burli? 

—  Ti  parlo  del  miglior  senno  possibile  . . .  ci  stai  sempre  ? 

—  Se  ci  sto! .  . . 

—  Allora  siamo  in  cinque. 

E  nssammo  di  vederci  due  sere  dopo  al  Caffe  Ferruccio ;  che  Tora 
della  nostra  partenza  era  alle  quattro  del  mattino ;  saremmo  andati 
a  Geneva  per  via  di  terra,  non  essendo  cosa  ben  fatta  il  tentar  di 
ripassar  da  Livorno,  dove  il  questore  Bolis  comandava  tutt'ora  a 
bacchetta. 

La  sera  che  dovevamo  partire  me  ne  andai  solo  solo  al  teatro 
Principe  Umberto;1  chiacchierai  cogli  amici,  mi  mostrai  piu  di 
buon'umore  di  quello  che  ero  realmente,  dissi  male  degli  Italiani 
che  erano  andati  in  Francia,  e  protestai  di  riconoscer  di  avere  io 
fatto  malissimo  a  partire  la  prima  volta.  Che  volete  ?  I  casi  che  mi 
erano  accaduti  antecedentemente  mi  rendevano  sempre  piu  con- 
vinto,  che  a  voler  che  un'impresa  vada  per  il  suo  verso,  e  necessaria 
un  poj  di  gesuiteria,  e  che  una  persona  che  crede  di  andare  avanti 
colla  buona  fede,  e  collo  spifferare  tutto  quello  che  ha  sullo  sto- 
maco,  in  generale  finisce  colPavere  il  male,  il  malanno  e  Fuscio  ad- 
dosso. 

Salutai  gli  amici  e  verso  mezzanotte  mi  ridussi  al  caffe  Ferruccio. 
I  miei  quattro  compagni  non  avevano  mancato  airappello  e  co- 
minciavano  a  sussurrare  della  mia  tardanza;  alcune  nostre  cono- 
scenze  fiorentine,  colle  quaii  potevamo  fidarci  a  occhi  chiusi,  si 
erano  assise  al  nostro  tavolino,  e  sotto  voce  ci  davano  qualche  con- 
forto,  o  si  lamentavano  di  non  poterci  seguire. 

II  caffe  si  chiuse  alle  due,  ed  i  nostri  amici  partirono.  Qui  comin- 
ciarono  le  dolenti  note.  Sembra  una  cosa  incredibile,  ma  in  Fi- 
renze  capitale  d*  Italia,  fu  impossibile  di  trovare  un  locale  che  fosse 
aperto  in  quell'ora.  Un  nevischio  impertinente  ci  filtrava  nell'ossa, 

i.  teatro  Principe  Umberto:  vedi  la  nota  zap.  465. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  623 

e  ci  batteva  sulla  faccia,  procurandoci  dei  brividi  che  erano  salutati 
da  veementissime  apostrofi.  Come  furono  lunghe  quelle  due  ore! . . . 
E  con  qual  gioia  non  si  saluto  Paprirsi  dei  cancelli  della  stazione! 
Gli  Ebrei  che  giunsero  finalmente  a  mettere  il  piede  nella  terra  pro- 
messa,  dovevano  forse  aver  provato  la  medesima  gioia .  . .  mag- 
giore  e  impossibile. 

—  Prudenza,  ragazzi  —  ci  disse  a  bassissima  voce  il  Materassi, 
uno  dei  nostri. 

•—  Che  c'e  ?  —  proferimmo  tutti  spaventati. 

~  Guardate!  —  e  ci  accenno  colla  mano  una  delle  piu  celebri 
guardie  di  sicurezza  fiorentine,  che  prendeva  il  biglietto. 

Soprapensieri,  come  eravamo  noi  tutti,  cominciammo  a  temerel . . . 

Ci  si  butto  in  un  vagone,  e  dopo  un'ora  eravamo  a  Pistoia.  Altro 
intoppo!  . .  .  Viene  una  guardia  e  ci  annunzia  che  dovremo  restar 
li  fermi,  a  dir  poco  due  ore.  La  neve  impediva  che  il  treno  proce- 
desse,  fino  a  che  una  macchina  non  fosse  andata  ad  esplorare  la 
ferrovia.  Difatti  per  quanto  tu  stendessi  lo  sguardo,  non  ti  era  dato 
di  vedere  che  un  bianco  lenzuolo:  bianchi  erano  i  monti  lontani; 
bianche  le  collinette  vicine;  gli  alberi  piu  alti  sembravano  pianti- 
celle  di  giardino,  ed  invece  di  essere  in  quella  localita  cosi  ricca  di 
vegetazione  tu  avresti,  a  buon  diritto,  creduto  di  essere  ai  piedi 
delle  Alpi. 

Per  digerire  il  male  umore,  e  per  farci  passare  il  freddo  dalle  ossa, 
bevemmo  un  par  di  bicchieri  di  cognak,  che  era  proprio  un  castigo 
del  cielo,  ma  che  fu  da  noi  bevuto  con  quella  filosofia  con  cui  si 
trangugia  una  medicina. 

Le  due  ore  si  tramutarono  in  piu  di  tre:  finalmente  torn6  la  in- 
vocata  locomotiva:  rimontammo  nei  nostro  vagone,  e  insieme  con 
noi  rimont6  la  guardia  di  pubblica  sicurezza.  —  Che  si  avesse  a 
fare  la  seconda  di  cambio  ?  —  si  pensava  tutti  tra  noi,  ma  nessuno 
ardiva  dirlo  al  compagno. 

Maggiore  il  nostro  desiderio  di  sbrigarsi,  minore  la  velocita  con 
la  quale  si  andava:  la  neve  infatti  piu  che  ci  si  awicinava  alPAp- 
pennino  prendeva  delle  proporzioni  imponenti ;  a  tutte  le  stazioni 
intermedie  bisognava  fermarsi  una  buona  ora:  ad  ogni  fermata  si 
trangugiava  un  bicchierino  d'acquavite. 

—  Aqua  vitae*  lo  chiamavan  gli  antichi,  —  declamava  il  Mate- 

I.  Aqua  vztae:  acqua  di  vita,  che  da  vita.  L'espressione  latina  e  deformazio- 
ne  intenzionale  di  «  acquavite  *. 


624  ETTORE   SOCCI 

rassi,  vecchio  soldato  —  per  mettere  anima  in  corpo  par  fatta  ap- 
posta. 

Si  comincio  a  traversare  gallerie  e  a  percorrer  viadotti!  .  .  .  Quali 
considerazioni  non  vengono  in  mente  al  maestoso  spettacolo,  che 
scienza  ed  arte  offrono  innanzi  ai  nostri  occhi! .  .  .  E  pensare  che 
un  secolo  fa  sarebbe  stato  trattato  da  pazzo,  chiimque  avesse  pre- 
detto  la  magica  impresa,  e  pensare  che  il  primo  Napoleone,  il  genio 
della  tirannide,  rise  sulla  faccia  a  colui  che  gli  proponeva  il  sublime 
ritrovato  delPumana  potenza! .  .  .  Ma  cosi  e;  disgraziato  chi  trionfa 
alia  prima:  Tumanita  e  codarda  coi  grandi,  e  ne  attua  solamente 
i  grandiosi  disegni  allorquando  essi  non  sono  che  polvere!  Gio 
vanni  Uss,1  Galileo,  e  tanti  e  tanti  altri  ce  ne  possono  e  ce  ne 
potranno  dare  un  esempio.  Corri  adunque,  o  macchina  apportatrice 
di  civilta  e  di  grandezza:  corri,  che  tu  ci  rappresenti  il  progresso 
che  non  cura  gli  intoppi  o  che  li  debella;  gli  ostacoli  cadono  a  te 
davanti :  tu  ti  fai  strada  tra  le  impraticabili  montagne,  in  mezzo  alle 
piu  folte  boscaglie:  superi  fiumi,  traversi  estese  pianure,  riunisci 
e  fai  conoscer  tra  loro  popoli  diversi  di  costumanze,  di  tradizioni, 
e  generalized  Tidee  generose,  a  dispetto  del  prete  che  ti  stigmatizzd 
quando  nascesti ;  a  dispetto  del  retrograde  che  in  te  vide  Tannun- 
zio  di  sua  prossima  morte.2 

A  Pracchia  ci  dovemmo  trattener  altre  due  ore  , . . 

...  Mi  sembra  inutile  descrivere  ai  miei  buoni  lettori  il  lungo  viag- 
gio  che  avemmo  a  fare  da  Bologna  a  Genova.  Le  famose  awenture 
in  ferrovia,  che  sono  cosi  spesso  tirate  in  ballo  dai  romanzieri,  per 
me  sono  fa  vole  belle  e  buone;  noi  fummo  trasportati,  nelFidentico 
modo  con  cui  sono  trasportati  i  bauli.  Avemmo  a  compagni  dei 
mercanti,  dei  contadini  e  dei  soldati  in  congedo;  ci  fermammo  per 
far  colazione,  come  tutti  gli  altri  a  Piacenza;  mangiammo  di  nuovo 
a  Tortona;  bevemmo  una  buona  bottiglia  di  vino  a  Novi,  non 
potemmo  fare  a  meno  di  ammirare  la  magnifica  vallata  di  Serra- 


i.  Giovanni  Huss  (1369-1415),  rinnovatore  religiose  boemo,  seguace  di 
Wycliffe,  fu  arso  vivo  il  6  luglio  1415,  a  Costanza.  2.  Quest'esaltazione 
progressistico-giacobina  delle  strade  ferrate,  quant'e  comune  a  molta  lette 
rs  tura  europea  dell'Ottocento  (cfr.  A.  GERBI,  La  disputa  dd  Nuovo  Mondo, 
Milano-Napoli,  Ricciardi,  195  5,  p.  571,  575,  584),  tanto  piu  trionfa  in  con- 
temporanee  scritture  italiane  di  autori  politicamente  afftni  o  vicini  ai  Socci 
(per  es.  Tlmw  a  Satana  di  Carducci;  e  cfr.  la  nota  i  a  p.  618). 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  625 

valle,1  schiudemmo  i  cuori  alle  piu  liete  speranze,  osservando  Tin- 
finito  numero  di  fabbriche  di  San  Pier  dj  Arena,  e  scendemmo  a 
Geneva  nelle  prime  ore  della  notte. 

La  luna  illuminava  il  monumento  di  Cristoforo  Colombo  che  e 
sulla  piazza  della  stazione.  Xoi  volgemmo  un  saluto  a  quel  grande, 
che  in  ricompensa  di  un  nuovo  mondo  si  ebbe  le  catene  da  un  re, 
e  ci  persuademmo,  che  per  volger  di  secoli  e  per  variare  di  avveni- 
menti  Fumanita  non  e  punto  cambiata. 

Xostro  primo  pensiero  fu  di  recarci  da  un  certo  individuo,  che 
ci  doveva  dare  il  mezzo  sicuro,  perche  si  potesse  muovere  senza  di- 
sturbi  alia  volta  di  Francia.  Ci  aveva  dato  una  lettera  di  racco- 
mandazione  per  questo  genio  benefico,  Andrea  Fieri,  uno  dei  no- 
stri  buoni  amici  fiorentini,  giovane  egregio  e  provato  patriotta,  di 
cui  la  democrazia  piange  a  lacrime  amare  la  perdita.  Trovammo 
quasi  subito  la  tanto  desiderata  persona,  e  secolui  ci  riducemmo  in 
una  bettoluccia  non  molto  distante  dal  teatro  Carlo  Felice,  bettoluc- 
cia  frequentata  soltanto  da  marinari,  e  da  qualche  facchino  di 
porto. 

—  Noi  si  vuol  partir  subito  —  fu  il  primo  discorso  che  facemmo. 

—  Non  dubitate  .  .  .  domani  sera  voi  partirete  .  .  .  Domattina  .  .  . 
uno  di  voi  verra  con  me  e  combineremo  ogni  cosa. 

—  Va  bene! 

—  Ma  saremo  disturbati  qua  in  Geneva  ?  .  .  .  —  dimandai  io  che 
avevo  sempre  fisse  in  mente  le  persecuzioni  con  cui  ci  onorava  il 
Bolis  a  Livorno. 

—  Loro    possono    an  dare   tranquillamente  ...  Si    figurino,    in 
quest'ultimo  mese  ne  ho  gia  imbarcati  piu  di  duecentocinquanta. 

Mi  rincresce  non  poter  nominare  questo  giovane  che  con  tanta 
abnegazione  si  prestava  per  procurare  dei  difensori  alia  francese 
repubblica;  egli  in  oggi  e  uno  dei  miei  amici  piu  cari,  ma,  se  lo 
nominassi,  domani  forse  non  avrebbe  piu  pane  e,  quello  che  e 
peggio,  non  1'avrebbe  nemmeno  la  sua  numerosa  famiglia. 

Si  dormi  in  un  albergo,  a  cui  c'indirizzo  il  nostro  amico ;  il  pro- 
prietario,  i  earner ieri  la  pensavano  come  noi  e  terminammo  la  se- 
rata  cullandoci  tra  le  piii  belle  illusion!  e  facendo  i  piu  attraenti 
progetti  per  Pawenire. 

Al  mattino  Materassi  ando  a  fissare  per  la  partenza;  noi  andam- 

i.  vallata  di  Serravalle:  la  valle  del  torrente  Scrivia  dal  confluente  padano 
ai  valico  appenninico  dei  Giovi. 

40 


626 


ETTORE   SOCCI 


mo  a  vedere  i  magnifici  giardini  dell'Acquasola  ed  ammirammo 
tutta  la  poesia  di  una  splendida  giornata;  il  mare,  la  terra,  il  cielo 
erano  ridenti,  ridenti  come  il  nostro  pensiero,  che  spaziava  in  quel- 
Poceano  di  luce,  in  quel  verde  sterminato  delle  miriadi  di  piante 
che  ci  circondava,  e  che  traeva  da  tanta  magnificenza  di  natura 
nuova  forza  per  tentare  Pimpresa,  e  certa  speranza  di  sicura  riu- 
scita. 

—  Stasera  alle  otto  si  parte!  —  ci  disse  a  pranzo  il  Materassi. 

—  Ma  come  ? 

—  Andremo  ad  uno  ad  uno  al  battello  . . .  lo  vo  per  il  primo :  voi 
mi  seguirete. 

SulFimbninire  ci  avviammo  al  porto ;  il  porto  di  Genova  e  senza 
dubbio  il  primo  d'ltalia:  il  continue  movimento,  Paffaccendarsi  di 
migliaia  di  persone,  lo  sterminato  numero  di  navi  che  vi  sono  an- 
corate,  lo  svariato  numero  di  vapori  che  s'incrociano  arrivando  e 
partendo,  disegnando  sull'orizzonte  una  lunga  striscia  di  fumo,  ti 
rendono  certo  di  essere  in  uno  degli  emporii  commerciali  tra  i  piu 
accreditati  in  Europa.  A  terra  hai  il  lavoro,  in  mare  hai  il  vapore: 
le  due  leve  che  rialzeranno  Pumanita  fino  all'altezza  dei  suoi  glo 
ries!  destini;  Pattivita  individual  e  la  scienza! 

Se  i  barcaioli  di  Livorno  ci  si  erano  mostrati  usurai  e  sordidi, 
quelli  di  Genova  ci  sorpresero  per  il  loro  galantomismo. 

—  Lei  va  in  Francia  ?  —  mi  domando  quello  che  guidava  la  mia 
barca. 

—  Si  —  gli  risposi. 

E  lui,  zitto  come  un  muro. 

—  Quanto  devi  avere  ?  —  gli  domandai  quando  fui  giunto  alia 
scala  del  bastimento. 

—  Mi  dara  mezzo  franco. 

—  Soltanto!  —  esclamai  io  con  sorpresa. 

—  £  il  mio  avere. 

Io  gli  diedi  due  franchi,  egli  mi  pose  in  mano  il  resto  e  si  offese 
quando  gli  dissi  che  del  resto  io  intendeva  fargli  un  regalo. 

A  bordo,  mi  buttarono  giu  tra  le  cabine  dei  marinari.  Dove  erano 
gli  altri  ?  Sul  bastimento  di  certo,  e  se  non  li  vedevo  quella  sera, 
li  avrei  veduti  quando  Tana  fosse  piu  liberal 

Noi  eravamo  nientemeno  che  sul  Conte  Cavour,  vapore  italia- 
nissimo  e  appartenente  alia  compagnia  Aquarone.  Mi  sdraiai  alia 
meglio  in  una  cabina,  quando  entro  nella  stanza  un  tale,  che  mi  fu 


DA   FIRENZE  A   DIGIONE  627 

presentato  con  queste  parole  da  un  marinaro:  — -  Anche  lui,  viene 
in  Francia. 

—  E  di  dove  viene  ?  —  io  gli  richiesi. 

—  Vengo  da  Milano,  ed  ho  fatto  a  piedi  fin  qui  tutta  la  strada  .  .  . 

—  E  come  mai  ? 

—  lo  ero  nei  cavalleggeri  Monferrato  e  son  disertore! 

lo  lo  guardai  e  sentii  compassione  di  lui ;  io  non  ho  mai  creduto 
che  Timpresa  di  Francia  potesse  riuscire,  e,  se  andavo,  era  sola- 
mente  perche  reputavo  un  delitto  per  un  repubblicano  il  non  ac- 
correre  la  dove  si  pugnava  e  si  moriva  eroicamente  intorno  al  glo- 
rioso  vessillo  delPumana  emancipazione.  Morire  e  nuila  per  chi  ha 
un  poco  di  cuore :  ma  andando  alia  guerra  ci  son  maggiori  proba- 
bilita  di  restare  che  di  andare  tra  i  piu,  e  se  quel  povero  diavolo 
Pavesse  scampata,  che  avrebbe  fatto?  In  Italia  non  poteva  tornare 
di  certo,  in  Francia  non  sapendo  una  parola  di  lingua  francese 
sarebbe  morto  di  fame  . . .  Oh!  quanti  eroi  vivono  e  muoiono  igno- 
rati,  in  questo  secolo  falso  in  cui  si  inneggia  aireffetto  scenico  dei 
bugiardi  eroismi! 

Questa  volta  ci  si  moveva  dawero ;  allorche  io  ne  fui  proprio  si- 
euro  mi  addormentai  profondamente. 

Quando  al  mattino  mi  destai  noi  eravamo  fermi. 

—  Venga  pur  su  dai  suoi  compagni  —  mi  disse  un  mozzo. 

—  Ma  perche  ci  siamo  fermati? 

—  Siamo  a  Savona:  ci  fermiamo  fino  a  stasera. 

—  E  avremo  altre  soste  avanti  di  arrivare  a  Marsiglia  ? 

—  Oh!  ...  sissignore!  Per  lo  meno  resteremo  dieci  ore  a  Porto 
Maurizio. 

I  miei  compagni,  secondo  il  solito,  piu  fortunati  di  me,  erano 
stati  messi  nelle  cabine  di  prima  classe.  Io  li  trovai  nel  cosi  detto 
salone,  nel  quale  ci  si  rigirava  appena,  tanto  era  piccolo!  ...  ma 
pure  lo  avevano  battezzato  come  salone. 

Prendemmo  un  caffe,  e  si  assise  con  noi  un  polacco,  che  bistic- 
ciava  alia  peggio  un  po'  di  francese:  egli  ci  disse  che  veniva  in 
Francia,  e  che  era  gia  stato  ufficiale  di  cavalleria  neiPesercito  au- 
striaco  e  prussiano,  e  per  convalidare  cio  che  diceva,  ci  mostro 
una  fotografia,  che  aveva  in  tasca,  dove  era  rappresentato  in  alta 
montura  di  ussero.  Alia  nostra  domanda  se  avesse  intenzione  di 
arruolarsi  con  Garibaldi,  fece  una  smorfia  e  protestandoci  di  amare 
i  volontari,  ma  di  trovarsi  al  suo  posto  soltanto  tra  tmppe  discipli- 


628  ETTORE   SOCCI 

nate,  ci  fece  noto  il  suo  divisamento  di  entrare  nell'esercito  di 
Bourbaki/  allora  in  formazione,  io  credo,  a  Chalons. 

Era  Intanto  sceso  giu  da  noi  il  macchinista,  un  be!  tipo  di  Fran- 
cese  meridionale,  un  repubblicano  a  prova  di  bomba,  che  faceva 
parte  del  Comitato  di  Marsiglia  e  che  anzi  s'incaricava  di  condurre 
piu  gente  che  gli  fosse  possibile  in  quest'ultima  citta.  La  testa  di 
quest'uomo  era  molto  espressiva;  fronte  spaziosa  e  barba  foltis- 
sima;  con  un  berretto  frigio  sul  capo  ti  rassomigliava  perfettamente 
uno  di  quei  celebri  convenzionali2  che  tanto  impaurirono  ed  entu- 
siasmarono  la  Francia  sullo  scorcio  del  secolo  decimottavo.  Franco 
e  leale  egii  cantava  le  cose  come  le  sentiva,  per  cui  alle  parole  del 
polacco,  che  aveva  terminato  il  discorso  con  mille  elogi  degli  eser- 
citi  permanent!,  sola  speranza  di  una  nazione  in  pericolo  (sic)  alzo 
furiosamente  le  spalle,  e  fini  borbottando :  —  Xoi  non  andiamo 
d'accordo. 

—  E  come  e  vestita  la  cavalleria  in  Francia?—  gli  domando  il 
discendente  di  Sobieski,3  che  persino  in  viaggio  era  di  un'eleganza 
ineccezionabile.4 

—  Da  soldato!  —  rispose  Taltro  bruscamente  e  volgendosi  a  noi 
ci  disse  a  bassa  voce  e  in  genovese :  —  Dev'essere  un  imbecille,  un 
soldato  di  ventura. 

Tale  opinione  ci  fu  poco  dopo  convalidata;  il  nostro  compagno 
di  viaggio  comincio  a  parlarci  delle  sue  conquiste,  dei  cavalli  che 
aveva  lasciato  a  Vienna  e  degli  illustri  parenti  che  aveva  lasciato  a 
Berlino,  e  termino  mostrandoci  il  ritratto  della  sua  mattresse,  una 
bella  bionda  che  non  in  fotografia,  ma  in  carne  ed  ossa  avremmo 
desiderato  avere  davanti.  Durante  tutta  la  campagna  non  vidi  piu 
questo  polacco;  probabilmente  come  tanti  altri  avventurieri  aven- 
do  veduta  la  malaparata  sari,  andato  in  cerca  di  fortuna  migliore; 
che  la  campagna  di  Francia  ebbe  questo  di  buono:  pochi  volontarii, 

i.  II  generale  Charles  Bourbaki  (1816-1897)  aveva  combattuto  in  Crimea 
e  neSIa  campagna  del  1859.  Dopo  aver  partecipato  alia  difesa  di  Metz, 
assunse  il  comando  della  seconda  armata  della  Loira:  avrebbe  dovuto 
sbloccare  Belfort,  operando  dietro  le  linee  nemiche  con  una  vasta  manovra 
aggirante,  ma,  battuto  alia  Lisaine  e  incalzato  dal  Manteuffel,  la  sua  azione 
si  concluse  in  un  fallimento,  nel  tentato  suicidio  del  generale  e  nello  scon- 
finamento  in  Isvizzera  dei  suoi  soldati.  2.  convensionali:  con  tale  nome 
furono  indicati  i  membri  delta  Convenzione  nazionale  francese,  che  duro 
dal  21  settembre  1792  al  26  ottobre  1795.  3.  Giovanni  Sobieski,  il  libe- 
ratore  di  Vienna  (1683),  fu  re  di  Polonia  dal  1674  al  1696.  4.  ineccezio 
nabile*.  ineccepibile. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  629 

ma  i  pochi  ispirati  e  che  dicevano  e  facevano  davvero  . .  .  ne  diano 
prova  luminosa  le  centinaia  dei  cadaver!  che  abbiamo  lasciato  lassu. 

A  mezzogiorno  preciso  il  vapore  si  mosse;  tutti  salimmo  in  co- 
verta.  La  giornata  era  superba,  il  panorama  mcantevole.  II  nostro 
batteilo,  che  si  poteva  chiamare  un  guscio,  tanto  era  piccolo,  co- 
steggiava  la  bella  riviera  che  e  una  delle  prime  bellezze  della  bel- 
lissima  Italia;  noi  non  ci  scostammo  mai  piu  di  cinquanta  passi 
da  riva:  si  passava  adunque  vicinissimi  a  quei  seni,  a  quei  golfi 
che  s'intersecano  nelle  montagne,  ora  ridenti  per  il  verde  delle 
piante,  ora  tristi  per  il  cenerognolo  dei  molti  uliveti,  ora  orride 
per  il  colore  rossiccio  delle  pietre  e  per  la  rnancanza  di  abitazioni ; 
i  cento  villaggi,  i  pittoreschi  castelli  che  si  vedevano  spuntare  qua 
e  la,  e  dominare  superbi  sulle  vette  delle  colline  e  dei  monti;  le 
capannuccie  dei  pescatori  a  cui  ad  ora  ad  ora  si  scorgeva  legata 
qualche  barchetta,  le  onde  leggermente  increspate  dal  venticello 
che  rapiva  i  profumi  dalle  piante  del  lido,  e  li  offriva  a  noi  ricrean- 
doci,  gli  alcioni  che  apparivano  a  fior  d'acqua,  che  si  tuffavano  e 
riapparivano  scuotendo  le  ali  immense,  e  il  cielo  tutto  sereno,  ce 
leste  come  Pestesa  superficie  del  mare  ci  facevano  credere  di  essere 
in  primavera,  e  ci  ispiravano  un  saluto  dal  profondo  dell^anirna  alia 
terra  deiramore  e  della  poesia,  a  quelFItalia  che  si  biasimava,  si 
vituperava  vivendoci,  ma  che  ora  si  sentiva  di  amare  piu  di  noi 
stessi.  E  a  farlo  apposta  sembrava  che  Pltalia,  quasi  amante  che  si 
voglia  tradire,  si  facesse  bella  di  tutti  i  suoi  vezzi  per  renderci  piu 
amara  la  dipartita. 

Ci  fermammo  di  nuovo  a  Porto  Maurizio,  e  fu  forza  il  pernot- 
tarci.  Mi  condonino  i  lettori  la  noia  di  tutti  questi  ragguagli:  ne 
soffrimmo  tanta  noi  della  noia . . .  che  possono  pazientare  anche 
loro,  poich6  poco  piu  ora  manca  alia  fine  di  questa  escursione  ma- 
rittima. 

II  mare  si  fece  cattivo:  un  colpo  di  vento  port6  via  tutte  le  panche 
che  erano  a  poppa  e  dove  ci  eravamo  seduti  il  di  innanzi :  il  nostro 
stato  era  deplorevole:  lascio  da  parte  certe  descrizioni  che  urtereb- 
bero  il  delicato  sentire  dei  miei  lettori  e  delle  mie  buone  lettrici; 
lo  stesso  capitano  non  sapeva  piu  che  pesci  si  prendere:  1'equipag- 
gio  giurava  per  tutti  i  santi  del  calendario  cartolico  di  non  essersi 
mai  ritrovato  in  acque  si  brutte.  A  Tolone  si  sobbalzava  tanto 
nelle  nostre  cabine  che  si  arrivava  a  picchiare  capate  terribili  nelle 
asse  del  soffitto;  e  per  sopramercato  si  era  anche  nel  colmo  della 


630  ETTORE    SOCCI 

notte.  £  impossible  descrivere  Pirritazione  di  cui  eravamo  in  pre- 
da;  lo  sconforto  si  era  impossessato  di  noi,  e  ci  si  aspettava  di  mo- 
rnento  in  momento  di  trovar  la  tomba,  ora  che  si  era  arrivati  in 
Francia. 

Ma  il  tempo  si  calm6;  altre  cinque  ore  di  viaggio;  -  poi  il  ca- 
pitano  ci  chiam6  sul  ponte.  Corremmo  tutti.  Un  bosco  d'antenne 
occupava  tutto  il  porto;  una  magnifica  citta  ci  si  stendeva  davanti 
in  mezzo  a  due  picchi,  sul  primo  dei  quali  si  vedeva  il  campanile 
di  una  chiesuola. 

—  Quella  e;  la  Madonna  della  Guardia  — l  ci  disse  il  capitano.  — 
Loro  sono  a  MarsigHa. 

Finalmente  si  era  giunti! 


Andammo  subito  al  Comitato:  non  vi  era  nessuno:  se  ne  do- 
mandd  la  ragione  e  ci  risposero  che  era  domenica;  si  cominciava 
benino! 

Facendo  di  necessita  virtu,  deliberammo  di  tornarci  il  giorno 
dopo,  e  intanto  andammo  a  passeggiare  per  la  citta.  Non  posso 
negare  che  piu  che  mi  inoltravo  in  quelle  magnifiche  strade,  piu 
osservavo  il  chiasso,  il  movimento,  il  lusso,  il  fare  spigliato  di  quella 
popolazione,  piu  mi  sentivo  in  preda  d'impressioni  bruttissime. 
Nonch6  essere  in  una  nazione,  tanto  bistrattata,  tanto  awilita, 
tanto  depressa  come  era  allora  la  Francia,  tu  avresti  creduto  tro- 
varti  in  un  paese  dove  tutte  le  cose  vadano  a  meraviglia,  dove  non 
si  sia  nemmeno  alk  lontana  sentito  parlare  di  guerra.  Molti  gio- 
vanotti  avevano  il  berretto  da  guardia  nazionale,  ma  molti  ancora 
se  la  passeggiavano  tranquilli  e  contend,  a  braccio  di  signore  di 
virtu  piu  o  meno  problematica,  e  occupavano  cianciando,  chias- 
sando  e  ridendo  i  tavolini  che  sono  al  difuori  dei  molti  caffe,  che 
si  trovano  nella  magnifica  strada  della  CanMere.2 

Ai  caf&  ch&ntcmte^  si  cantava  la  Marsigliese,  le  chant  du  depart,3 
tutte  canzoni  patriottiche . . .  naa  ptir  si  cantava;  alia  Mmson  dorfa 
si  Wkva  sempre  patriotticameiite  il  cmcon:  tutte  le  cocottes  di 

I.  la  Madonna  della  G*t&r&&:  il  cciebre  santuario  di  Notre  Dame  de  k 
Ganie,  che  da  cst  sovrasta  la  citti  e  il  porto  di  MarsigHa.  2.  La  forma 
coiretta  ^,  naturalniantc,  C&nebi&e.  3.  le  chant  du  dlpwrt :  vedi  la  nota  a 
p,  671, 


DA   FIRENZE  A   DIGIONE  63! 

Parigi,  allontanate  da  quella  cittk  a  causa  dell'assedio,  erano  pio- 
vute  la  a  Marsigiia,  dove  abbassando  le  loro  pretese,  avevano  tro- 
vato  ammiratori  a  iosa;  erano  aperti  tre  teatri;  sui  boulevards  tutte 
le  sere  suonava  la  banda;  unico  indizio  di  vita  belligera  noi  lo  tro- 
vammo  in  certi  cartetli  che  erano  attaccati  a  tutte  le  cantonate; 
cartelli  ove  era  scritto  a  lettere  cubitali :  «  Parigi  non  si  arrendera 
mai ».  Del  resto,  come  ho  detto,  un'indifferenza  da  fare  schifo,  una 
corruzione  che  non  ci  faceva  mai  presupporre  che  un  Trochu1 
avesse  la  sfacciataggine  di  qualificark  all'Assemblea  per  italiana.2 
Se  si  fa  un  paragone  tra  qualunque  delle  nostre  citta  nel  1866  e 
Marsigiia  nel  1871,  bisogna  in  coscienza  affermare  che  noi,  quan- 
tunque  corrotti,  siamo  molto,  ma  molto  superiori,  se  non  altro  nel- 
Famore  di  patria,  alia  citta  piu  spinta  del  mezzogiorno  delia  Francia. 

Ne"  solamente  le  classi  agiate  se  la  spassavano ;  bastava  andare  sul 
porto  per  potere  esser  certi  se  quel  popolo  li,  aveva  intenzione  di 
concorrere  alia  guerra!  Le  infinite  baracche  dei  saltimbanchi,  i 
giuochi  improwisati  lungo  la  strada,  la  folk  che  si  assiepava  in- 
torno  ad  un  vaporino  che  faceva  il  giro  del  porto,  i  cantastorie  am- 
bulanti,  se  offrivano  un  bel  colpo  d'occhio,  ci  raffermavano  sempre 
piu  nella  nostra  opinione.  -  £  vero  che  tra  gli  altri  sollazzi  vedemmo 
anche  un  tiro  al  bersaglio  e  in  questo  servivano  di  niira  due  Prus- 
siani  piu  grandi  del  naturale;  ma  a  che  pro  sciupare  la  polvere 
contro  i  Prussian!  di  carta,  quando  si  fuggiva  a  rotta  di  colio  davanti 
a  quelli  di  carne? 

La  molta  gente  che  interrogammo,  ci  rispose  facendo  voti  per  la 
pace;  il  commercio  incagliato,  i  guadagni  diminuiti  parlavano  nel 
cuore  di  tutti  quegli  uomini,  piu  delk  voce  della  patria  tradita. 
Noi  pensammo  che  era  ben  difficile  che  k  Francia  potesse  pigliare 
una  rivincita. 

In  mezzo  alia  folk  vedemmo  qua  e  la  confusi  ed  incerti  alcuni 
Turcos  ed  alcuni  Zuavi,3  zoppicanti  e  con  volti  emaciati.  Erano 
feriti;  erano  avanzi  gloriosi  di  Wissembourg,  di  Woert,  di  Gra- 

i.  II  generale  Louis  -  Jules  Trocku  (1815-1896)  combatt£  nel  1859  a  Magenta 
e  a  Solferino.  Nel  1870-1871,  quale  governatore  militare  di  Parigi,  fece  parte 
del  Govemo  della  difesa  nazionale.  2.  quaUficarla  .  .  .  itaUana:cfm  questa 
qualifica  il  Trochu  intendeva  spiegare,  in  inaniera  evidentemente  offensiva, 
k  leggerezza  e  Tindifferenza  di  Marsigiia.  3.  Turcos  .  .  .  Zuavi:  corpi  spe- 
ciali  deiTesercito  francese.  I  Turcos  erano  una  formazione  analoga  ai  nostri 
bersaglieri;  gli  Ztiavi,  originarianiente  formati  di  truppe  algerine,  poi 
soltanto  nazionali,  erano  anch'essi  truppe  veloo. 


632  ETTORE   SOCCI 

velotte,1  Abituati  a  vedere  questi  fieri  soldati,  allorche*  nel  cinquan- 
tanove  baldanzosi  e  trionfanti  traversarono  Y  Italia,  noi  provammo 
un  senso  di  dolore  nel  vederli  ridotti  in  tale  stato.  I  ragazzacci  del 
popolo  non  di  rado  li  accompagnavano  colle  loro  fischiate,  o  fa- 
cevano  loro  dei  brutti  scherzi  da  far  rivoltare  lo  stomaco  agli  uo- 
mini  piu  abboccati3  del  mondo:  la  sventura  dovrebbe  esser  sacra. 
La  popolazione  di  Marsiglia  Paveva  maledettamente  con  Tesercito ; 
mentre  uomini,  donne,  fanciulli  si  affollavano  lungo  le  vie  e  guar- 
davano  con  ammirazione  la  guardia  Nazionale,  che  faceva  crepar 
dalle  risa;  tutti  avevano  sempre  un  frizzo,  un  insulto  per  quei  po- 
veri  diavoli  del  60°  reggimento,  che  allora  si  ricostituiva  in  quella 
citta:  li  chiamavano  i  soldati  di  Napoleone,  e  tutti  erano  all'unisono 
per  dichiarare  quest'ultimo  come  un  traditore,  come  Tunica  causa 
di  tutti  i  disastri  che  avevano  ridotto  al  lumicino  la  patria  degli  eroi 
del  novantadue3  e  degli  espugnatori  di  Malakoff.4 

Un  po'  sconcertati  continuammo  a  girellare,  ma  e  un  fatto  che 
quella  varieta,  quei  movimento  ci  stordiva  in  modo,  che  queste  cose 
le  quali,  or  ripensando  mi  danno  fastidio,  terminarono  col  non 
farmi  n6  caldo  ne  freddo  e  col  darmi  gusto.  Rintoppammo5  sul  porto 
il  nostro  compagno  di  viaggio,  disertore  dalPesercito  italiano. 

—  Vadano  al  Comitato  —  ci  disse  —  perche  fra  poco  si  parte. 

—  Dici  dawero? 

—  Sul  mio  onore. 

E  noi  ci  awiammo  al  celebre  Comitato  che  aveva  la  sua  sede 
sulla  piazza  della  Prefettura. 

Un  gruppo  di  giovani  dal  portamento  spigliato,  era  sulla  canto- 
nata  e  faceva  pervenire  ai  nostri  orecchi  il  dolce  suono  della  gentile 
favella  del  si.  Saranno  stati  alPincirca  una  cinquantina  ed  erano 
tutti  Italiani,  qualcuno  aveva  il  berretto  rosso:  tutti  vestivano  an- 
cora  con  abiti  cittadineschi.  Fummo  accolti  da  loro  come  fratelli : 


i.  Per  le  battaglie  di  Wis^embmarg  e  di  Worth,  vedi  la  nota  2  a  p.  466;  la 
battaglia  di  Gravelatte  ebbe  luogo  il  1 8  agosto  1 870.  Veramente  a  Grave- 
lotte  i  Frances!,  guidati  da  Bazaine,  resistettero,  e  fu  Jnvece  nel  vicino  vil- 
laggo  di  Saint  Privat  che  i  Prussian!  riuscirono  a  sfondare.  Pure,  la  batta- 
giia  rimase  nella  storia  col  n<Hne  di  Grmvelotte.  2.  abboccati ':  pronti  a 
rnangiare  qualunque  cibo.  3.  eroi  dei  n&vemtadue:  i  Francesi  che  il  20  set- 
tembre  1792,  guidati  dal  generale  Kellermann,  respinsero  le  truppe  prus- 
siane  a  Valmy.  4.  La  torre  di  Malakoff,  ultimo  baluardo  della  fortezza 
di  S«b®slc^>oH,  fu  espugnata  dai  Fnmcesi,  guidati  dal  Mac-Mahon,  1*8 
settembre  1855.  5.  Rmtoppammo:  ci  imbattemmo  di  nuovo. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  633 

in  quei  momenti  s'improwisano  le  amicizie,  e  il  tu  alia  quacquera 
di  primo  acchito,1  soave  reminiscenza  dell'Universita,  predomina 
su  tutta  la  linear  ne  si  creda  che  queste  amicizie  che  si  concludono 
in  un  quarto  d'ora,  sfumino  come  tutte  le  amicizie  del  mondo,  no, 
sono  esse  le  piu  inalterabili,  perche  dope  molti  anni  quando  1'uo- 
mo  vive  nel  passato  e  chiede  un  conforto  e  una  lacrima  al  sacro 
patrimonio  d'affetto  che  ha  raccolto  qua  in  terra,  ripensa  a  questi 
amici  di  gloria  e  di  sventura,  come  Pesule  o  il  prigioniero  ripen- 
sano  alia  casetta  paterna. 

Tutti  erano  allegri ...  si  andava  incontro  a  un  nernico  forrnida- 
bile,  si  era  certi  della  difficolta  di  vincere,  si  sapeva  che  probabil- 
mente  meta  di  noi  avrebbe  pagato  col  sangue  le  idee  che  ci  bollivano 
in  testa;  ma  che  c'importava?  Anche  il  sacrifizio  ha  le  sue  volutta 
e  sono  piu  inebrianti  di  quelle  della  gioia. 

—  Stasera  non  possono  partire  —  venne  a  dirci  un  coso  sbilenco, 
che  doveva  essere  addetto  al  Comitato. 

—  Daccapo  —  urlarono  i  giovard  e  proruppero  in  fischi. 

—  Domani  sera  partiranno  di  sicuro  —  proferi  a  malapena  quel 
corvo  del  malaugurio  e  se  la  svigno  alia  chetichella. 

—  Pazienza  ragazzi  —  bisogna  assuefarsi  alle  disillusioni ;  venite 
con  me  alia  vicina  taverna  e  la  faremo  passare  la  malinconia,  tran- 
gugiando  un  buon  bicchiere  di  vino  caldo. 

Quello  che  parlava  era  un  bel  tipo  di  soldato;  era  gia  vestito  da 
garibaldino  e  camminava  un  po'  zoppo. 

—  Ewiva  il  Mago!  —  gridarono  tutti. 

—  Venite  con  me  sempre,  o  ragazzi,  e  vedrete  che  anche  al  fuoco 
non  vi  faro  scomparire. 

—  Eh!  lo  sappiamo  che  tu  sei  un  eroe  . . . 

—  Che  eri  alPattacco  di  Dijon . .  .a 

—  E  che  ci  fosti  ferito. 

—  Ewiva  i  prodi  soldati! 

—  Ewiva. 

E  cantando  patriottiche  cantiche  ce  ne  andammo  tutti  alia  vicina 
taverna,  dove  due  fior  di  ragazze  dispensavano  bibite  e  sorrisi  agli 
awentori,  che  ne  andavano  in  solluchero  a  questo  connubio  co- 
tanto  attraente. 

1.  il  tu .  .  .  acckito:  sono  i  w.  53-4  delle  Memorie  di  Pisa  del  Giusti. 

2.  all'attacco  di  Dijon:  la  prima  battaglia  di  Digione  o,  meglio,  di  Prenois, 
awenne  alk  fine  di  novernbre  e  culmino  il  i"  dicembre  1870. 


634  ETTORE   SOCCI 

A  Marsiglia,  il  vin  caldo  e  il  cognak  costano  la  miserable  som- 
ma  di  10  centesimi,  e  si  not!  bene  che  le  bibite  non  si  amministrano 
omeopaticamente  come  da  noi. 

—  Se  ci  fossero  certi  amici!  —  esclam6  il  Materassi,  quando 
giunse  a  cognizione  di  questa  consolante  notizia. 

—  Mago,  su  . . .  giacche4  non  sappiamo  come  passare  il  tempo, 
raccontaci  i  fatti  gloriosi  di  cui  e  gia  stato  eroe  Garibaldi .  . .  Noi 
ci  istruiremo  e  le  ore  ci  trascorreranno  come  se  fossero  minuti. 

—  Che  volete  . .  .  che  dica  .  . . 

—  Di  quello  che  sai :  raccontaci  come  si  portano  i  nostri,  quale  e 
la  nostra  organizzazione,  e  infine  se  i  soldati  Prussiani  sono  poi 
quella  gente  famosa  da  far  tremare  tutto  il  mondo  . . . 

—  In  quanto  a  questi  vi  assicuro  che  non  fanno  di  noccioli1  e 
che  tirano  diritto,  e  che  son  duri  come  montagne,  ma,  poich6  vo 
lete  sapere  proprio  ogni  cosa,  vi  spiffero  tutto  dall'a  alia  si  pregan- 
dovi  a  scusarmi  se  non  parlo  in  punta  di  forchetta. 

Tutti  fecero  silenzio  e  il  sergente  (il  Mago  era  sergente)  inco- 
minci6 :  —  Figuratevi  che  si  era  in  Autun.  II  clima  di  Francia  e 
pazzo  come  gli  abitanti.  A  Dole  non  aveva  fatto  che  piovere,  a  Au 
tun  era  un  freddo  che  pareva  di  essere  in  Siberia.  Noi  stemmo  sei 
giorni  all'avamposti  e  vi  assicuro  di  aver  provato  certi  brezzoni,  che 
al  solo  ricordarli  mi  sento  gelato.  Riunita  tutta  la  legione,  si  parti 
col  nostro  Vecchio2  per  Arnay  le  Due. 

—  O  in  che  legione  eri  ?  —  interruppe  uno. 

—  lo  ero  con  Tanara;3  un  bravo  uomo,  ragazzi,  un  uomo,  del 
genere  del  quale  ce  ne  vorrebbe  molti  nelk  democrazia,  uno  di  quei 
pochi  insomma  che  si  seguono  volentieri,  quando  cominciano  a  fi- 
schiare  le  palle! . . .  Tornando  a  bomba:  vi  dir6  che  da  Arnay  le 
Due,  girammo  come  FEbreo  errante,  per  tutti  quei  paesuoli,  sempre 
in  cerca  dei  Prussiani  che  non  si  vedevano  mai . . .  Che  marcie, 
figliuoli! . . .  Non  dubitate,  che  chi  potri  raccontare  questa  cam- 
pagna,  potri  esseme  altero  e  potri  dire  di  esser  sfuggito  alle  unghie 
del  diavolo.  II  gk>rno  ventiquattro4  entrammo  in  Malin,  abban- 
donato  poco  priina  dai  Prussiani;  pernottammo  alia  stazione,  e 

i.  mm  f tamo  tK  noccioli:  cio^T  farmo  sul  serio;  e  frasc  dimlettale,  2.  nostro 
Vfcckio:  Giuseppe  GariWdi.  3.  Faustino  Tanara  (1836-1876)  dal  1859 
aveva  p«rte<np«to  a  tuttc  le  azkmi  militari  di  Garibaldi,  acquistando  larga. 
tasm.  Nei  Vo^ri  fu  a  capo  ddk  piii  eroica  legione  di  volontari,  che  com- 
batt£  m  zaodo  mirabile  nella  secooda  battaglia  di  EHgione.  4.  //  gwmo  ven- 
tiquattro:  il  24  novembre  1870. 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  635 

Garibaldi,  il  bravo  uomo,  era  la ...  in  mezzo  a  noi,  a  farci  co- 
raggio,  a  prometterci  che  ci  saremmo  fatti  onore.  II  freddo  era  in- 
tenso,  acutissimo  e  il  nostro  Vecchio  era  sorridente,  sereno,  come 
se  fosse  stato  nella  stanza  piu  Bella  e  piu  riscaldata  del  suo  quartier 
generale.  Gli  abitanti  cercavano  di  renderci  meno  dure  le  priva- 
zioni  colle  loro  gentilezze :  e  si  affannavano  a  portarci  da  mangtare 
e  da  bere;  le  donne,  anche  le  donne  delle  classi  non  basse,  ci  por- 
tavano  il  pane  ed  il  vino  e  ci  stringevano  la  mano,  L'era  una  cosa 
da  far  piangere  i  sassi . . .  ve  Tassicuro.  AH'alba  parti mmo  e  ci  fra- 
stagliammo,  compagnie  per  compagnie,  nei  borghi  diversi  adia- 
centi  a  Malin.  Cosi  passammo  Fintera  giornata:  sul  far  della  sera 
venne  ordine  immediate  di  partenza,  e  difatti  tutti  insierne  si  and6 
a  Lantenay.  Qui  ritrovammo  una  infinita  di  guardie  mobili,1  qual- 
che  pezzo  di  artiglieria,  un  mezzo  squadrone  di  Chasseurs  d'Afrique2 
e  varii  corpi  di  volontari.  Garibaldi  alloggi6  al  castello;  noi  ci 
fermammo  proprio  sotto  di  lui  e  per  riscaldarci  facemmo  degli 
immensi/a/o.  I  Prussiani  erano  al  di  la  di  una  foresta  che  si  stende 
sulFalture  del  Nord  Ovest  del  castello:  in  linea  retta  tra  noi  e  loro 
non  ci  correva  nemmeno  un  chilometro.  La  mattina  del  ventisei 
oltre  la  paga  ci  diedero  dei  pezzi  di  capretto  che  erano  stati  requi- 
siti :  ma  sul  piu  bello,  allorche  si  corninciava  ad  assaporare  questa 
vivanda  cosi  patriarcale,  suon6  Tassemblea,  e  in  un  minuto  bisognd 
correre  ai  ranghi,  lasciando  sul  terreno  e  nelle  case  piu  di  meta  di 
quel  cibo,  che  con  tanta  veemenza  veniva  reclamato  dai  nostri  sto- 
machi  vuoti.  Appena  arrivati  al  castello,  vedemmo  Garibaldi  a 
cavallo:  era  seguito  da  Menotti,  da  Bordone,  da  Canzio.3  II  Vec 
chio  diede  qualche  ordine,  poi  seguito  dai  suoi  e  da  alcune  guide  ci 
precedette,  inoltrandosi  al  trotto  verso  Pestremita  della  foresta; 
dopo  brevi  istanti  noi  ci  avanzammo.  Pigliammo  una  viuzza  e  in 

i.  guardie  mobili:  tutti  i  francesi  celibi,  dai  diciotto  anni  in  su,  atti  alle  arnii, 
erano  stati  frettolo&amente  mobilitati  e  formavano  delle  brigate,  ancora,  in 
realta,  male  organizzate.  Sono  i  moblots  di  cui  poi  discorre  piii  volte  il 
Socci.  2.  Ckassfiers  d'Afriqtie:  truppe  di  colore  provenienti  dalF Algeria. 
3.  Filippo  Toussaint  Giuseppe  Bord&ne  (1821-1892),  nato  ad  Avignone 
di  famiglia  piemontese,  chirurgo  di  marina  fino  al  1848,  partecipd  con 
Garibaldi  alia  guerra  del  '59  e  alia  spedizione  dei  Mille.  Nel  1870,  pre- 
sentatosi  a  Caprera,  condusse  il  generale  in  Francia,  e  fu  suo  capo  di  Stato 
maggiore  nell*esercito  dei  Vosgi ;  Stefano  Canzio,  di  Geneva  (1873-1909), 
aveva  gia  cotnbattuto  a  nanco  di  Garibaldi,  dai  '59  in  poi,  in  tutte  le 
imprese.  Nel  1861  sposo  una  figlia  di  Garibaldi,  Teresita.  Nei  Vosgi 
comandd  la  5*  brigata  e  si  distinse  soprattutto  nella  giornata  di  Pouiily. 


636  ETTORE   SOCCI 

poco  tempo  raggiungemmo  lo  stato  maggiore.  Allora  si  ordino  a 
due  compagnie  del  primo  battaglione,  tra  Ie  quali  alia  mia,  di  occu- 
pare  Taltipiano  e  di  stenderci  in  catena.  Nell'eseguire  quest'ordine 
voltai  i  miei  occhi  a  destra  e  vidi  in  terra  sdraiato  il  prode  Garibaldi. 
Egli  si  riposava:  li  a  cento  passi  da  noi .  . .  lo  non  so  no  un  poeta, 
sono  un  ignorante,  un  soldataccio  cresciuto  tra  le  bestemmie  della 
caserma,  ma  che  volete,  non  ve  lo  nascondo,  a  veder  quel  vecchio, 
malato,  quelFuomo  della  cui  fama  e  pieno  il  mondo  e  che  si  6  gia 
conquistata  Pimmortalita,  a  vederlo,  dico,  li  sdraiato  come  uno  di 
noi,  con  quella  faccia  di  santo,  a  pochi  passi  dalla  morte,  io  sentii 
inumidirmi  le  ciglia  e  piansi  come  una  donnicciuola. 

Due  batterie,  una  da  campagna  e  Paltra  da  montagna,  presero 
posizione  accanto  a  noi.  Poco  distante  tuonava  il  cannone;  erano 
Ie  truppe  di  Bossak1  e  di  Ricciotti,  almeno  io  credo,  che  distur- 
bavano  le  mosse  del  nemico.  Che  magnifico  spettacolo  ci  si  pre- 
sent6  agli  occhi  quando  principiammo  a  guardare!  Una  vallata 
ubertosissima  di  vegetazione  si  stendeva  sotto  di  noi;  i  battaglioni 
bavaresi  e  prussiani  formavano  un'estesa  e  ben  compatta  colonna ; 
gli  ulani  correvano  da  un  estremo  alPaltro  di  quella  linea,  che  sem- 
brava  di  ferro,  tanto  era  nera:  ma  colle  nostre  complessioni  e  coi 
nostri  comandanti  si  ammacca  anche  il  ferro!  . . .  Venne  Tordine 
infatti  di  avanzarsi.  II  terreno  che  dovevamo  percorrere  era  pieno 
d'intoppi :  era  un  awicendarsi  di  piccoli  scaglioni  che  qualche  volta 
ci  facevano  andare  a  gambe  levate.  I  Francs  Tireurs2  si  erano  inter- 
nati  nella  foresta  e  appoggiavano  i  nostri  movimenti.  Dopo  poco 
trovammo  dietro  uno  dei  tanti  rialzi  gli  Chasseurs  d'Afrique  che 
erano  in  esplorazione.  Una  scarier  a  bruciapeio  eseguita  dai  Prus 
siani  li  fece  retrocedere ;  allora  occupammo  noi  la  sommita  abban- 
donata  dalla  nostra  cavalieria.  II  rombo  del  cannone  si  fece  sentire 
da  tutte  e  due  le  parti,  i  Prussiani  rispondevano  ai  nostri  con  acca- 
nimento :  le  jmile,  le  bombe  ci  piovevano  di  sopra,  di  sotto,  intorno 
al  capo,  alle  gambe :  ogni  poco  i  superior!  ci  ordinavano  di  sdraiarci 
per  terra.  Una  racchetta3  port6  via  la  coscia  del  bravo  luogotenente 


i.  II  generate  Bouak  comarxiava  una  brigata  di  volontari.  Era  di  nobile  fa- 
rniglia  poiacca;  dopo  aver  partecipato  alia  insurrezione  (1863)  della  sua 
patria  ccmtro  roppressione  dello  zar  Alessandro  III  e  il  lungo  esilio  in 
Imzxem,  cadde  il  gomaio  de!  '71  a  Digione.  2.  Francs  Tireursi  volon- 
tari  francesi  a^regati  all*esercito  del  Vosgi,  simili,  sotto  molti  aspetti, 
ai  vd<Kitari  garibaldini.  3.  raccketta;  vedi  la  nota  a  p.  320. 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  637 

Deirisola  aiutante  di  Menotti . . .  Egli  e  morto1  da  eroe.  II  nostro 
capitano  Morelli  era  sempre  alia  testa  della  compagnia  e  di£  prova 
di  un  sangue  freddo,  che,  come  vecchio  soldato,  io  vi  dichiaro  ra- 
rissimo.  Pigliammo  d'assalto  un  paesetto,  lo  traversammo  a  baio- 
netta  calata,  in  mezzo  agli  applausi  di  quei  buoni  abitanti.  I  Prus- 
siani  si  ritiravano  colle  loro  artiglierie:  apriamo  il  cuore  alia  gioia, 
guardiamo  e  si  vede  in  capo  alia  strada  il  Generale  .  . .  Ma  dunque 
quest'uomo  e  per  tutto,  quest'uomo  e  miraeoloso,  quest'uomo  e 
invulnerabile!  .  .  .  gridano  i  volontari,  e  poi,  tutti  prorompono  in 
acclamazioni  all  Jil  lustre  condottiero.  Garibaldi  ci  salutava  col  suo 
solito  sorriso,  poi,  chiamata  una  tromba,2  si  fece  dare  un  poco  da 
bere,  e  be  we  1'acqua  di  una  vicina  pozzanghera.  Intanto  il  cielo 
aveva  aperto  le  sue  cateratte,  ed  una  pioggia  diabolica  c'inzuppava 
maledettamente  i  vestiti,  e  ci  rendeva  assai  malagevole  il  camminare 
a  causa  del  fango. 

Facemmo  alto3  in  un  luogo  disabitato  e  scoperto;  quivi  sfilo  in- 
nanzi  ai  nostri  occhi  tutto  il  piccolo  esercito  che  aveva  sotto  di  se 
Garibaldi.  Passato  che  fu,  venne  anche  per  noi  Fordine  di  avanzarsi 
senza  sapere  ove  si  andasse  e  senza  nemmeno  curarsene:  che  il 
buon  soldato  non  deve  mai  discutere,  ne  sofisticare  su  quanto  or- 
dinano  i  superiori.  Dope  aver  camminato  un  poco,  arrivammo  in 
un  piccolo  villaggio  situato  al  Nord  di  Lantenay,  e  qui  dalla  bocca 
stessa  dei  villici  sapemmo  che  i  Prussiani,  prima  di  partire,  avevan 
fatta  man  salva  di  tutto  il  bestiame. 

Di  cibo  non  ci  era  da  parlarne,  e  noi  si  aveva  un  appetito  numero 
uno;  una  sola  botteguccia  era  aperta,  ma  anche  in  questa  non  si 
trovavano  che  pochi  pezzucci  di  pane;  li  dividemmo  da  buoni 
fratelli,  ma  appena  si  cominciavano  a  divorare,  eccoti  di  nuovo  Tor- 
dine  d'immediata  partenza.  Ragazzi  rniei,  non  e  il  fuoco  che  co 
st  ituisce  lo  amaro  di  una  campagna,  che  anzi  ne  e  la  festa  da  bailo; 
sono  le  privazioni  e  gli  stenti,  a  cui  per6  di  buon  grado  deve  assog- 
gettarsi  il  soldato  dell'idea.  Noi  eravamo  stanchi,  le  gambe  non  ci 
reggevano  piu,  i  respiri  si  elevavano  a  mala  pena  dal  petto,  ma  il 
nostro  lavoro  non  era  terminato,  bisognava  finirlo,  come  voleva 
Garibaldi,  e,  o  male  o  bene,  noi  lo  facemmo  ed  ecco  come  and6  . , . 

II  Generale  voleva  sorprendere  Digione,  ed  era  sicuro  d'impa- 
dronirsene  con  uno  dei  suoi  colpi  di  mano  e  vi  garantisco  che  sa- 

i .  e  morto :  come  sara  detto  successivamcsnte  (vedi  p.  654),  la  notizia  era  ine- 
satta.  z.  trombai  trombettiere.  3.  alto:  alt,  sosta. 


638  ETTORE   SOCCI 

rebbe  riuscito  . . .  Oh!  mille  valorosi  di  piu  o  duemila  vigliacchi  di 
meno,  e  avreste  vedutoi  Noi  ci  inoltrammo  silenziosi  lungo  la 
strada;  avevamo  avuto  il  comando  di  non  scaricare  il  fucile;  quatti 
quatti  senza  respirare  nemmeno,  col  cuore  che  ci  batteva  forte  forte, 
procedevamo  in.  mezzo  a  quel  buio  d'inferno;  nessun  rumore  si 
sentiva  all'mtorno ;  un  acquazzone  tremendo  ci  percoteva  da  tutti 
i  lati.  Noi  marciavamo  per  primi  insieme  ad  una  compagnia  di 
Francs  tireurs^  dietro  a  noi  venivano  diversi  battaglioni  di  guardie 
mobili  e  rartiglieria. 

Cosi  giungemmo  fino  a  un  chilometro  dalla  citta;  pareva  che  i 
Prussiani  non  si  fossero  anche  accorti  di  noi;  un  subitaneo  schiop- 
pettio  di  fucilate  ci  rese  sicuri  che  la  nostra  avanguardia  era  alle 
prese  cogli  avamposti  deirinimico. 

I  nostri  superior!  ci  diedero  Pordine  che  ad  ogni  scarica  ci  buttas- 
simo  nei  fossi  che  fiancheggiavano  la  strada;  quest  i  era  no  pieni 
d'acqua,  e  allorche  il  lampo  annunziatore  delle  palle  vicine  si  fa- 
ceva  vedere  in  quel  buio,  noi  prendevamo  dei  bagni,  ne"  troppo 
comodi  in  quella  stagione,  n£  troppo  puliti.  Pero  di  tratto  in  tratto 
ci  si  avanzava,  tra  quel  diavoleto:  le  nostre  trombe  suonavano 
avanti;  avanti,  gridavano  gli  ufficiali;  avanti  si  grida  noi  tutti,  e 
come  un  sol  uomo,  ci  spingevamo,  ci  accalcavamo,  per  quella  strada 
che  poco  dopo  doveva  essere  ingombra  da  mucchi  di  deformati  ca- 
daverL  Gia  qualche  ferito  emetteva  grida  strazianti,  gia  Paria  s'im- 
pregnava  di  quel  simpatico  odore  di  polvere  che  suole  accompa- 
gnare  i  combattenti,  gia  il  lontano  ruilo  del  tamburo,  il  subito 
gulzzo  che  pari  a  lingua  di  fuoco  si  percoteva  per  tutta  quella 
estensione,  e  il  fechio  non  interrotto  mai  delle  micidialissime  palle 
nemiche,  ci  rendeva  sicuri  che  assistevamo  ad  un'imponente  bat- 
taglk. 

Le  scariche  dei  Prussiani  di  minuto  in  rninuto  crescevano  d*in- 
tensita,  eppure  noi  fedeli  ai  nostri  ordini  non  ci  azzardavamo  di  far 
uso  delle  nostre  armi,  quando  quei  vili  delle  guardie  mobili  co- 
mmciarooo  a  sca^mre  e  a  tirar  fucilate  airindietro,  fucilate  che  col- 
pivano  noi,  noa  i  Prussiani.  L'impresa  a  quel  momento  si  poteva 
chiainare  fallita;  un  uomo  prudente,  uno  che  va  col  successo  si  sa- 
rebbe  ritirato,  ma  Garibaldi  era  H  in  prima  fila,  e  noi  che  si  vedeva 
fiiggire  i  Frances!  volevamo  far  vedere  quanto  piu  di  loro  valessero 
i  calunniati  Italiani,  eppercid  con  Fentusiasmo  di  chi  sa  di  sacri- 
fearsi  per  UBS  idea  generosa  restammo  fermi  al  nostro  posto.  E  li 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  639 

mori  il  povero  tenente  Anzillotti;1  li  mori  il  bravo  Del  Pino,  uno 
dei  ragazzi  piu  buoni  e  piu  coraggiosi  che  io  m'abbia  conosciuto 
e  certo  uno  del  migliori  della  mia  compagnia.  Non  vi  sto  a  dire  il 
numero  dei  feriti,  i  Carabinieri  Genovesi  furono  decimati . . .  gli 
Italiani  si  batterono,  e  si  batterono  da  eroi. 

Fu  giocoforza  il  ritirarsi;  mai  ritirata  poteva  cominciare  con 
tanto  disordine;  si  correva  airimpazzata  pei  campi,  ogni  poco  si 
cadeva  per  terra,  ogni  poco  ci  si  trovava  a  mezza  garnba  nell'acqua 
e  tutto  questo  sotto  un  fuoco  continuo  di  mitragliatrici,  di  cannoni, 
di  moschetteria.  Giunto  a  capo  di  una  viuzza  fui  scaraventato  per 
terra:  tentai  di  rialzarmi,  mi  fu  impossibile;  poco  dopo  io  era  fuori 
dei  sensi:  non  so  quanto  dur6  il  mio  sbalordimento,  quando  rni 
riebbi  mi  trovai  sopra  un  barroccio  che  mi  port6  ail'ambulanza 
d'Autun,  da  dove  fui  trasferito  a  Lione.  Una  impertinentissima 
scheggia  di  mitraglia  mi  aveva  forato  una  coscia.  Ottenuto  un  per- 
messo  di  convalescenza,  ho  fatto  un  mesetto  di  villeggiatura  a  Niz- 
za,  ed  ora  me  ne  torno  lassu,  che,  grazie  al  Cielo,  della  forza  per 
battermi  coi  Prussian!  ne  ho  sempre,  perche*,  sappiatelo  ragazzi,  una 
battaglia  e  uno  di  quei  divertimenti  che  non  capitano  ad  ogni  canto 
di  gallo ;  si  pu6  morire,  ma  dove  volete  trovare  una  cosa  piu  bella 
di  morire,  in  mezzo  al  fuoco,  al  ramore,  alle  trombe  e  alia  gloria  .  . , 
eh!  via  dunque,  venite  con  me,  e  vi  farete  onore,  il  vecchio  Mago 
ha  veduto  troppe  volte  da  vicino  la  morte,  perch6  vi  possa  far  fare 
una  figuraccia  indecente. 

—  Ewiva  il  Mago!  —  gridarono  tutti  e  tutti  picchiarono  il  bic- 
chiere  tra  loro. 

Dopo  aver  discorso  un'altra  buona  mezz'ora,  dopo  aver  doman- 
dato  tutto  il  domandabile  al  brav'uomo  che  aveva  gia  veduto  i 
Prussian!,  ci  congedammo  da  queirallegra  compagnia  e  ci  awiam- 
mo  alPalbergo. 

—  Ma  se  ci  mandassero  con  Frapolli  ?2  —  esclamo  uno  di  noi  per 
la  strada. 

i.  Carlo  AnzUotti,  di  Pescia,  nato  nel  1851,  aveva  seguito  Garibaldi  nel  '66 
e  nel  '67.  Sottotenente  nelk  legione  Tanara,  mori  sotto  Digione  il  26  no- 
vembre  1870.  2.  Lodovico  FrapoUi  (1815-1878),  milanesc,  disertore  del- 
Tesercito  austriaco,  esule  in  Francia,  Inghilterra,  Germania,  incaricato  di 
missioni  diplomatiche  in  Francia  nel  periodo  1 848-^49,  vicino  al  Farini, 
a  Modena,  nel  1859  (vedi  la  nota  2  a  p.  438),  fu  deputato  alia  Camera  per 
varie  legislature.  Era  gran  maestro  della  massoneria.  Durante  la  campagna 
del  1870-71  si  era  posto  ad  organizzare  volontari  neEa  xona  di  Lione, 
creando  un  forte  attrito  fra  la  sua  azione  e  queila  di  Garibaldi.  Nelk  prefa- 


640  ETTORE   SOCCI 

—  Sei  matto!  . . .  Parleremo  ben  chiaro  al  Comitato,  noi  inten- 
diamo  di  batterci  e  non  di  fare  il  framassone  a  cento  miglia  dal 
teatro  della  guerra. 

—  E  spiegatevi  bene!  .  .  .  —  ci  disse  uno  che  per  buona  fortuna 
era  venuto  dalla  taverna  con  noi.  —  Perch£  quei  signori  che  spe- 
discono  sono  tutti  una  zuppa  e  un  pan  molle  con  quelli  arfasatti1 
e,  se  voi  state  zitti,  vi  troverete  di  certo  mistificati. 

Noi  ringraziammo  il  gentile  consigliero  e  ci  addormentammo 
decisi  di  raggiungere  tra  poche  ore  il  generale  e  PArmata  dei  Vosgi. 


VI 

II  giorno  seguente,  appena  fu  un'ora  da  persone  educate,  an- 
dammo  a!  Comitato.  Dopo  molta  anticamera,  ch6  anche  nella  de- 
mocrazia  quando  si  comincia  a  salire  si  assumono  tutte  le  belle  e 
gentili  maniere  le  quali  distinguono  Faristocrazia,  fummo  intro- 
dotti  in  quel  sinedrio  di  senno  e  di  patriottismo,  e  ci  trovammo  da- 
vanti  al  presidente  Panni,  un  omettino  tarchiato  colla  barba  lunga, 
nato  a  Firenze  ma  domiciliato  da  vario  tempo  a  causa  d'affari  a 
Marsiglia.  Tanto  lui  come  il  segretario  Lalli,  si  davano  tutto  il  tuono 
di  persone  important!,  ci  squadrarono  dall'alto  in  basso  con  una 
prosopopea  da  commissari  di  polizia,  e  parlarono  della  guerra  colla 
medesima  autorita,  che  avrebbero  adoperato  se  fossero  stati  gene 
ral!  d'armata  o  per  lo  meno  capi  di  stato  maggiore. 

Adempiute  le  formalita  di  quella  specie  di  arruolamento  che  si 
firmava  presso  di  loro,  noi  facemmo  noto  a  quella  gente  il  nostro 
proposito  di  andare  diretti  al  quartiere  generale  di  Garibaldi. 

—  Loro  possono  andare  anche  con  Frapolli  —  ci  disse  il  segre 
tario.  —  Tutte  le  vertenze  sono  accomodate  e  i  due  generali,  glielo 
assicuro  io,  camminano  verso  la  medesima  meta. 

—  Sono  belle  assicurazioni,  ma  noi  abbiamo  deciso  di  raggiungere 
Garibaldi  e  vogliamo  andare  a  Digione. 

—  Facciano  come  vogiiono;  stasera  partono  una  cinquantina  di 
vokmtari . .  ,  potranno  andare  anche  loro  —  borbotto  il   presi 
dente,  non  nascondeado  un  senso  di  malumore  e  di  contrariety : 
poi,  rivoltosi  ad  Omero  Piccini,  fratello  di  quello  che  era  sul  Var 

zioo-e  ftfi'uhimft  edkionc  del  suo  lifaro,  quella  da  noi  seguita,  il  Socci 
nobtimente  ritratta  le  accuse  contro  il  Frapolli  (finito  matto  e  siricida) 
e  la  ina^ofjeria.  i.  arfe&atti;  volgari  raggiratori. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  641 

e  in  prigione  con  noi,  gli  proferi  in  tuono  brusco:  —  Lei  non  pud 
andare. 

—  E  perche"? 

—  Non  lo  vede  .  . .  e  un  ragazzo. 
Difatti  il  nostro  compagno  aveva  17  anni. 

—  Eppure  —  interrompernmo  noi  —  e  gik  stato  a  Mentana. 

—  Allora  faccia  lei ...  Stasera  alle  dieci  sieno  qui . .  .  se  vogliono 
partire. 

Cosa  dovemmo  fare  per  giungere  alle  dieci!  . . .  Entrammo  nella 
taverna  della  sera  avanti .  . .  Ah!  cosl  ci  fosse  venuto  un  granchio 
alle  gambe! . . ,  Rivedemmo  le  simpatiche  Ebi1  che  con  tanta  grazia 
porgevano  il  nettare  agli  awentori,  entusiasti  delle  loro  bellezze,  le 
rivedemmo  e  ci  attaccammo  discorso;  si  parlo  della  guerra,  della 
Francia,  delle  donne  italiane,  che  esse  dicevano  bellissime,  delle 
prossime  emozioni  del  campo,  della  moda,  dei  vestiti  corti,  del 
ciuco  ammaestrato  che  facevano  vedere  sul  porto,  della  guardia 
mobile,  delPeserdto  di  Bourbaki  e  dei  pasticcini  di  Strasburgo,  che 
non  arrivavano  piu.  Erano  discorsi  le  piu  volte  senza  senso  comune, 
ma  che  servivano  mirabilmente  per  farci  ammazzare  alia  meno 
peggio  qualche  ora.  II  male  si  fu,  che  le  parole  erano  accompagnate 
dalle  libazioni :  le  libazioni  c'indussero  a  fare  il  dtfuner,  questo  tiro 
dietro  di  se  lo  Champagne  ...  Si  era  cominciato  a  sdrucciolare  su 
una  sgamba  viuzza  ed  ormai  bisognava  mzzoiare  a  rotta  di  collo 
per  tutta  la  china.  II  piacere  di  esser  giunti  finalmente  in  quella 
Francia,  che  da  tanto  tempo  agognavamo,  il  trovarsi  accanto  a  quelle 
vaghe  ragazze,  la  generosita  dei  vini  che  avevamo  trincato,  la  gio- 
ventu  che  ci  bolliva  nel  cuore,  ci  avevano  sprigionato  tale  un'alle- 
grezza  dalle  piu  intime  fibre,  che,  non  sapendo  piu  quello  che  si 
faceva,  ridevamo  senza  alcuna  ragione,  folleggiavamo  come  se  fos- 
simo  tornati  bambini  e  si  facevano  le  piu  strane  proposte  e  tutte 
venivano  approvate. 

—  Andiamo  tutti  in  barca  sul  porto. 

—  Si ...  si ...  sul  porto. 

E  prese  a  braccetto  le  due  silfidi,  ci  awiammo  verso  il  mare,  e 
traversata  la  popolosa  citta  poco  dopo  eravamo  in  barchetta, 

lo  ero  di  venuto  il  cavaliere  servente  o  per  dir  meglio  il  consi- 
gliere  intimo  della  piu  giovane  delle  due  vezzose  sorelle.  Essa  chia- 

i.  Ebi:  Ebe,  la  dea  della  giovinezza,  mesce,  nella  mitologia  greca,  il  nettare 
agli  dei  d^limpo. 


642  ETTORE   SOCCI 

mavasi  Aissa,  e  nella  sua  vita  disordinata,  aveva  veduto  TAfFrica, 
la  Spagna,  T Italia,  sempre  con  nuovi  amanti,  e  cercando  soltanto 
la  volutta  vertiginosa  delForgia;  senza  curarsi  n£  punto  ne  poco 
del  mondo,  delle  convenienze  social!  e  di  quel  buon  nome  che  si 
acquista  soltanto  col  rispetto  dell'apparenze,  la  capricciosissima 
figlia  d'Eva,  siccome  farfalla,  di  fiore  in  fiore,  aveva  libato  in  tutte  le 
loro  forme  svariate  1'emozioni  e  i  piaceri  ed  ora,  annoiata  di  tutto 
e  di  tutti,  continuava  la  sregolata  sua  vita,  per  far  fronte  alle  spese 
pazze  che  sono  la  logica  conseguenza  degli  sbalordimenti  procac- 
ciati  per  obliare  il  presente  e  per  non  pensare  airawenire.  La  ta- 
verna  non  era  che  un  pretesto;  la  vecchia  padrona  teneva  quelle 
ragazze  per  accalappiare  i  merlotti,  e  mentre  ritraeva  da  ioro  dei 
lucri  non  indifferenti,  mentre  non  lesinava  il  denaro  per  vestirle 
con  tutto  il  lusso  immaginabile,  mai  era  larga  con  esse  dell'oro  che 
cosi  indegnamente  guadagnava. 

Aissa  del  resto  era  simpaticissima;  aveva  in  se  qualche  cosa  di 
orientale ;  i  suoi  occhi  nerissimi  ed  umidi  sempre  indicavano  chia- 
ramente  la  di  lei  voluttk;  due  labbra  tumide  che  reclamavano  un 
bacio;  due  mani  da  principessa;  un  piedino  da  vera  Andalusa; 
insomma  un  boccone  da  fare  escire  dai  gangheri  un  anacoreta! 

II  mare  era  tranquillo :  la  campana  della  Madonna  della  Guardia 
sonava  lentamente;  era  Tora  poetica  delle  ricordanze;  cento  bar- 
chette  in  qua  e  la  solcavano  le  onde.  Noi  ci  sentivamo  commossi ; 
su  di  un  piccolo  schifo,  un  sonatore  girovago,  uno  di  quei  Napole- 
tani  che  strascinano  per  i  caffe  il  biblico  strumento  degli  antichi 
profeti,1  fece  echeggiare  per  Paere  una  canzonetta  patetica,  molle, 
meridionale  e  noi  rammentarnmo  Tltalia,  le  sue  belle  costiere  pro- 
fumate  d'aranci,  il  movimento  delle  nostre  citta,  le  amate  fisonomie 
dei  nostri  amici,  e  dei  nostri  congiunti ...  la  commozione  era  al 
colmo  e  il  bello  si  &  che  al  pan  di  noi  erano  inteneiite  le  nostre  com- 
pagne  . . .  E  perch<§  ci6  ha  da  es&ere  strano  ?  . . .  Le  reminiscenze 
sono  il  patrimonio  degli  sventurati,  e  pari  alia  rugiada  del  cielo  vi- 
vificano  i  cuori  .  . .  quelle  povere  donne  erano  certamente  sven- 
turate,  e  piu  stimabili  di  tante  che  scroccano  il  nome  d'oneste  nel 
mondo,  sentivano  la  santa  volutli  di  una  lacrima,  e  trovavano  una 
scusa  ai  loro  trascorsi,  immerse  nelHmponente,  nel  sublime  spetta- 
colo  delk  calma  natura. 

La  nostra  escursione  si  prolungc*  per  piu  di  due  ore ;  il  momento 
I.  U  biblico  .  .  .  profeti:  forae  una  piccola  arpa  a  braccio. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  643 

della  partenza  si  awicinava  a  gran  pa&si;  era  mestieri  dirci  ad- 
dio  . .  . 

Riaccompagnammo  a  casa  le  donne. 

—  Vi  prometto  di  raggiungervi  —  mi  disse  Aissa,  stringendomi 
forte  forte  la  mano. 

10  la  guardai  e  sorrisi;  non  credevo  punto  al  coraggio  di  quel- 
Feroina . . .  Col  tempo  pero,  come  vedranno  i  lettori,  fui  completa- 
mente  disingannato ;  e  solo  per  tal  causa  ho  riportato  questo  epi- 
sodio  della  nostra  breve  dimora  a  Marsiglia:  episodio  che  sarebbe 
stato  proprio  un  di  piu,  se  non  fosse  collegato  con  altri  che  si  svol- 
geranno  a  Digione  . . . 

—  Bisogna  pagare  il  conto  —  disse  un  di  noi. 

Oh!  la  crudele  parola! . . .  Oh!  la  bmttissima  prosa  dopo  tante 
ore  di  non  interrotta  poesia! .  .  .  Ci  guardammo  in  faccia  I'uno  col- 
Taltro  . ,  .  Che  una  donna  gravida  non  vegga  mai,  per  Pamore  dei 
suoi  futuri  nati,  delle  fisonomie  come  avevano  in  quel  momento  i 
miei  compagni . . .  Le  nostre  risorse  erano  tanto  limitate,  che  se 
noi  ne  fossimo  usciti  puliti,  ci  era  di  che  attaccare  un  voto! 

11  conto  era  di  102  franchi:  tra  tutti  ne  avevamo  104:  se  ci  fos 
simo  trattenuti  un'ora  di  piu,  si  rescava  in  pegno  a  Marsiglia!  E 
la  bella  prospettiva  che  avevamo  davanti :  intraprendere  un  viaggio 
di  due  giorni  con  due  franchi  in  saccoccia . .  .  o  negatemi  che  in 
Francia  il  divertirsi  non  costi  salato! 

Baci,  saluti,  strette  di  mano,  e  poi  di  galoppo  al  Comitato. 

—  E  se  non  si  partisse  . . .  che  facciamo  senza  quattrini  ? 

—  Ma! ...  —  proferi  filosoficamente  il  Materassi,  e  noi  a  nostra 
volta  ripetemmo  la  filosofica  esclamazione. 

Per  buona  fortuna  queila  sera  pareva  che  si  dovesse  partire  cer- 
tamente:  erano  gia  stati  distribuiti  i  berretti  rossi  ed  i  Garibaldini, 
schierati  in  due  file  lungo  la  strada,  attendevano  il  luogotenente  che 
doveva  accompagnarli  fino  a  Digione.  I  volontari  erano  allegri, 
cantavano  a  squarciagok,  e  negli  intermezzi  clanciavano,  poiiti- 
cavano,  facevano  inline  un  brusio  indiavolato;  un  milanese  po- 
nendosi  ambe  le  mani  alia  bocca  imitava  perfettamente  il  fischio 
del  vapore,  un  altro  faceva  da  cane,  abbaiando  e  guaendo  con 
tanta  naturalezza  da  chiamar  per  la  strada  tutti  i  cani  che  giravano 
per  quei  dintorni.  Era  ii^omma  una  scena  deliziosissima  e  il  te- 
nente  non  si  vedeva. 

Ognuno  che  abbia  frequentato  per  poco  i  volontari,  sa  quanto  sia 


644  ETTORE  SOCCI 

sussurrone  e  incontentabile  questo  elemento,  quando  e  lontano  dal 
fuoco;  quindi  facilissimo  &  immaginarsi  quali  recriminazioni,  quale 
sussurro  provocasse  questa  inopinata  tardanza.  Prima  furono  pro- 
teste,  poi  fischi  acutissimi:  fmalmente  calci  e  pugni  alia  porta. 

—  Noi  non  si  vuol  fare  il  comedo  di  nessuno! 

—  Si  comincia  male! 

Tali  erano  a  un  dipresso  le  espressioni  di  quella  gente  stizzita,  e 
a  rinforzare  la  dose  il  Mago  dava  degli  schiarimenti  sul  Comitato  e 
sulle  spilorcerie  ed  angherie  da  questo  commesse  per  il  passato. 
—  Figuratevi  —  diceva  —  che  a  me  diede  a  portare  venti  uomini  a 
Dole,  e  mi  diedero  una  lira  per  uomo  .  .  .  Di  qui  bisognava  andare 
a  Mouchard,  ventiquattro  ore  di  strada,  1&  bisognava  dormire  e  poi 
partire  il  giorno  dopo  per  la  destinazione  . . .  vi  raccomando  quello 
che  dovevo  fare  . . .  E  lo  stesso  che  a  me  &  succeduto  a  tutti  i  capi 
squadra  . . .  Oh!  harmo  un  gran  talento  quei  signori  di  su!  . . . 

—  Abbasso  . . .  Abbasso  questi  grulli ...  —  urlavano  tutti.  —  Son 
Frapollini . . .  Giu  i  traditori! 

Chi  sa  dove  avremmo  finito,  se  fortunatamente  non  avessimo 
udito  degii  altri  rumori  e  piii  intensi  dei  nostri  sulla  piazza  vicina. 
Cosa  era  accaduto  ? . . .  Noi  non  vedevamo  che  delle  guardie  mo- 
bili,  che  venivano  via  a  rotta  di  collo.  Rompemmo  le  righe  ed  an- 
dammo  a  vedere  che  cosa  era.  Un  faattaglione  delle  guardie  mobi- 
Hzzate  delle  Bouches  du  Rhdn1  aveva  rifiutato  partire,  ed  aveva  la- 
sciato  soli,  sulla  piazza,  il  maggiore  e  tre  o  quattro  altri  ufficiali  di 
buona  volonta;  uno  di  questi  si  mordeva  le  mani  e  piangeva .  . . 
Oh!  ne  avea  ben  ragione!  A  vedere  quel  branco  di  vili  che  fuggi- 
vano  piuttosto  di  andare  a  difender  la  patria,  vi  era  bene  da  ese- 
crare  Pumanita,  da  vergognarsi  di  esser  uomini  per  non  avere  a 
compagm  quella  canaglia. 

Vedendo  1'inutilitk  della  nostra  presenza,  tornammo  indietro,  e 
dopo  pochi  minuti  fummo  consolati  dalla  venuta  del  tenente.  II 
nostro  accompagnatore  era  grasso  e  rubizzo,  avrebbe  fatto  miglior 
figura  vestito  da  canonico  che  da  garibaldino.  Lo  accompagnava 
una  bella  ed  elegantissima  signora,  che  sapemmo  essere  la  di  lui 
indivisible  compagna;  non  si  creda  che  quella  donna  divenisse 
un'eroina,  giacch^  quel  tenente  in  tutta  la  campagna  avra  forse  ve- 
duto  il  fumo  del  caminetto,  quello  dei  combattimenti  no  certo,  li- 

i.  Bouckes  du  Rhone:  il  dipartimento  di  cui  Marsigiia  e  il  capoluogo. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  64$ 

mitandosi  i  suoi  incarichi  ad  accompagnare  i  volontari  da  Marsiglia 
al  quartier  generale.  Non  nego  con  questo  che  certi  irnpieghi  non 
sieno  indispensabiH,  ma  sarebbe  piii  giusto  vederli  affidati  a  soldati 
d'avanzata  eta  e  non  a  giovani  tarchiati  e  robusti,  come  appunto  era 
il  nostro  duce  provvisorio. 

Fu  fatto  Pappello,  eppoi  a  quattro  a  quattro  ci  movemmo  alia 
volta  della  stazione.  Che  Pltalia  sia  la  terra  del  canto,  non  pub  esser 
certo  impugnato.  Chiunque  ha  fatto  anche  una  sola  campagna  lo 
sa;  il  soldato  Itaiiano  appena  si  muove  canta,  canta  andando  all'at- 
tacco,  come  quando  e  in  ritirata,  canta  nei  malinconici  stanzoni 
della  caserma,  come  in  mezzo  alle  strade,  quando  sa  di  partire; 
parta  per  una  guarnigione,  o  parta  per  andare  alia  guerra. 


Non  piangert  mio 
forse  ritomero, 

cantavamo  in  coro  noi  tutti.  Le  finestre  si  spalancavano,  si  illumi- 
navano,  offrendoci  leggiadri  visetti,  ed  occhi  superbi  che  ci  lancia- 
vano  sguardi  tanto  benigni  da  farci  veramente  commuovere.  II 
nostro  contegno  non  poteva  sottrarsi  al  paragone  con  quello  delle 
guardie  mobilizzate  delle  Bouches  du  Rhon,  e  chiunque  ha  un  po* 
di  senno  puc»  di  leggeri  comprendere  quanto  un  tale  esame  resul- 
tasse  per  noi  favorevole. 

II  lunghissimo  tratto  di  via  che  e  tra  la  prefettura  e  la  stazione 
ci  pass6  in  un  baleno;  in  una  carrozza  sul  piazzale  delia  ferrovia 
vedemmo  la  simpatica  Aissa  che  ci  butt6  un  bacio  sulla  punta  delle 
dita.  Se  quel  bacio  non  era  precisamente  il  castissimo  bacio  degli 
angeli,  e  innegabile  che  per  noi  era  assai  caro.  Salutammo  gentil- 
mente  quella  donna. 

—  Avanti,  marchs  —  grid6  con  voce  stentorea  il  lillipuziano  se- 
gretario  del  comitato  .  .  .  e  tutti  noi  lo  seguimmo  nella  stazione. 

Vedendo  otto  vagoni  a  nostra  disposizione  fummo  colpiti  da 
una  dolce  maraviglia.  Fin  allora  avevamo  veduto  i  soldati  ammon- 
ticchiati  Puno  sull'altro  nei  vagoni  di  terza  classe:  noi  tutt'al  piu 
eravamo  quattro  per  scompartimento  ;  ci  era  posto  di  sdraiarsi  e  di 
attaccare  anche  un  sonnellino.  Ah!  .  .  .  quanto  sono  fallaci  le  spe- 
ranze  del  mondo!  .  .  .  Ah!  ...  la  speranza  meretrice  della  vita,  dir6 
con  Francesco  Domenico!  .  .  -1  La  nostra  gioia,  il  nostro  benessere 

i.  Francesco  Domenico  Guerrazzi. 


646  ETTORE   SOCCI 

doveva  protrarsi  fino  alia  prima  stazione,  e  questa  £  appena  a  venti 
minuti  di  distanza  da  Marsiglia. 

Vienna/  Avignone,  Remoully  dovevano  vomitare  sul  nostro  di- 
sgraziatissimo  treno  una  congerie  di  mobilizzati.  L'educazione  pare 
che  non  entrasse  nella  teoria  che  s'insegnava  a  questi  campagnoli 
del  mezzogiorno  delFantica  terra  dei  Druidi.  Infatti  entravano  in 
frotta,  e  senza  garbo  ne  grazia,  in  quei  vagoni  che  avevamo  avuto 
Fillusione  di  credere  nostra  proprieta;  entravano  pestandoci  i  piedi, 
sedendosi  sulle  nostre  ginocchia  con  Tindifferenza  di  una  donna 
del  mondo  galante,  non  per6  colla  di  lei  grazia  n6  colla  di  lei  legge- 
rezza. 

Fra  tutte  le  sventure  che  possono  capitare  a  un  viaggiatore,  io 
credo  non  esserne  alcuna  che  possa  stare  a  confronto  colla  com- 
pagnia  di  un  inobilizzato  della  campagna.  Se  lo  immaginino  un 
poco  i  lettori:  questi  eroi  avevano  sulle  spalle  un  magazzino,  una 
vera  montagna  d'involti,  di  fagotti  e  di  fagottini ;  erano  muniti  di 
due  o  tre  paia  di  scarpe;  pretendevano  di  stare  a  baionetta  in  canna 
anche  tra  noi,  anche  in  quelli  sgabuzzini ;  avevano  chi  il  cane,  chi 
un  uccello  in  gabbia,  tutti  poi  indispensabilmente  delle  pagnotte 
stragrandi ;  si  piantavano  a  sedere,  e  per  quante  gomitate,  per  quanti 
urtoni  loro  si  somministrassero,  non  ci  era  verso  di  farli  muovere 
un  solo  centimetro ;  i  phi  attaccavano  sonno  e  russavano  come  con- 
trabbassi;  quei  pochi  che  erano  desti  non  ci  rispondevano,  e  si 
lamentavano  tra  loro  del  governo  che  li  strappava  alle  ordinarie 
occupazioni. 

I  nostri  compagni  di  viaggio  erano  vestiti  in  mille  maniere;  ve  ne 
erano  col  cappello  alia  spagnola,  col  basco  e  col  berretto;  ve  ne 
erano  dei  bigi,  dei  neri,  dei  verdi,  dei  turchini;  avevano  tutti  il  fa 
cile  aU'antica  ed  in  pessimo  stato.  Siarao  giusti!  . . .  Se  le  guardie 
mobili  hanno  fatto  nella  campagna  del  1871  una  figura  non  invidia- 
bile,  non  ne  sono  del  tutto  colpevoli.  Comandate  dal  nipote  del 
Sindaco,  dallo  Speziale  del  luogo,  dal  beniamino  della  moglie  del 
sotto-Prefetto,  insomma  da  tutti  ufficiali  creati  per  dato  e  fatto 
deirimpero,  e  che  non  ne  sapevano  un  acca:  armate  con  certi  fucili 
die  avevano  piii  apparenza  di  schizzettoni  che  di  armi  micidiali: 
disiiluse  di  tutto,  persuase  di  esser  tradite  e  condotte  al  macello, 
d0fenti  di  dover  trascurare  i  loro  interessi  per  una  patria  che  finora 

i.  Vienna:  Vienne  sul  Rodano. 


DA   FIRENZE  A   DIGIONE  647 

non  conoscevano,  esse  non  potevano  fare  eroismi:  Feroismo  ri- 
chiede  la  convinzione:  Feroismo  nasce  dalla  virtu  cittadina.1 

Appena  spunt6  1'alba  cominciammo  a  scorgere  le  colline  eirco- 
stanti  a  Lione;  colline  che  nelle  belle  stagioni  sono  amenissirne; 
ubertose  per  viti  delFaltezza  di  un  palmo,  cosi  fitte  tra  loro  da  far 
sembrare  i  campi  un'estesa  brughiera,  bagnate  da  un'infinita  di 
ruscelletti  e  di  canali  che  scorrono  placidamente,  per  perdersi  poi 
nella  Loira  o  rtel  Rodano,  presentano  proprio  uno  sguardo  incan- 
tevole. 

A  tutte  le  stazioni  eravi  un  movimento  indicibile:  un  andare  e 
venire  di  soldati  e  di  guardie  nazionali :  uno  stringersi  di  mano,  un 
baciarsi  tra  loro  nei  vari  gruppi  che  facevano  ressa  intorno  a  quei 
che  parti  vano. 

Finalmente  si  comincib  a  vedere  un'infinita  di  camini  di  orHcine 
industrial},  poi  una  miriade  di  case  e  di  palazzi;  finalmente  si  tra- 
scorse  in  mezzo  ad  immensi  magazzini .  . .  Eravamo  arrivati  a 
Lione. 

Sotto  la  magnifica  stazione  ci  ponemmo  al  rango2  e  il  tenente  ci 
fece  un'arringa  che  non  aveva  certo  nessuna  parentela,  neppure 
alia  piu  lontana,  con  quelle  di  Demostene  o  di  Napoleone  primo. 
Fece  Feroe,  magnified  le  gesta  dei  Garibaldini  nostri  predecessori, 
sfoggi6  di  tutti  i  luoghi  comuni  che  si  sono  inventati  dal  quaran- 
totto  a  questa  parte,  e  tutto  questo  per  dirci  che  bisognava  rimanere 
fino  a  sera  a  Lione,  e  che  coloro  i  quali  non  sarebbero  partiti,  sa- 
rebbero  restati! 

Questa  peregrina  scoperta  del  nostro  duce  ci  fece  acquistare 
una  grande  opinione  sul  di  lui  talento;  lo  salutammo  perci6  con 
rispetto,  e  content!  di  vedere  anche  questa  nuova  citta  e  di  para- 
gonarla  con  quella  che  avevamo  lasciato  da  cosi  poco  tempo,  scen- 
demmo  la  gradinata  che  e  davanti  all'edifizio  e  ci  trovammo  nella 
magnifica  piazza  con  due  fontane,  che  gli  sta  dicontro. 


i.  cittadina:  cioe,  « civics »  e  « civile  *.     2.  al  rango:  in  fila  (e  cfr.  p,  648)* 


648  ETTORE   SOCCI 


VII1 

. . .  Noi  eravamo  giunti  a  Digione,  a  quella  Digione  che  poco  dopo 
doveva  essere  illustrata  dal  sangue  di  tanti  prodi  Italiani  e  che  al- 
lora  ci  appariva  in  mezzo  alia  nebbia  coi  suoi  gotici  campanili,  colla 
sua  semplice  guglia  di  San  Benigno,  come  apparisce  un'oasi  a  chi 
si  e  perso  neirampio  deserto,  come  apparisce  la  meta  allo  stanco 
auriga  che  gia  comincia  a  disperar  del  trionfo. 

La  stazione  era  ingombra  di  cannoni,  di  casse  delFambulanza, 
di  bagagli  di  tutte  le  dimension!  che  appartenevano  alle  tnippe  ed 
ai  battaglioni  che  di  poco  ci  avevano  preceduto.  Due  o  tre  sentinelle 
di  guardie  mobili  passeggiavano  per  lungo  sulPambulatorio,  fa- 
cendo  sfoggio  di  una  prosopopea,  che  te  li  avrebbe  fatti  gabellare 
per  eroi;  d'altronde  eravamo  in  prima  linea,  e  quando  il  nemico 
non  attacca,  ci  si  pu6  prendere  la  scesa  di  testa2  di  farla  da  gente 
feroce  e  terribile. 

—  In  rango  —  grid6  il  nostro  ufficiale  con  una  voce  da  baritono 
molto  sfogato,  e  sfoderando  per  la  prima  volta  la  durlindana. 

Questo  movimento  in  altre  circostanze  ci  avrebbe  fatti  scorn  - 
pisciare  dalle  risa:  in  quel  momento  eravamo  troppo  felici  per  aver 
raggiunto  lo  scopo  delle  nostre  fatiche,  e  dei  nostri  dolori,  per  poter 
nemmeno  prestare  attenzione  a  questa  spacconata. 

Per  quattro  fianco  destroy  avanti  marchs! 

E  mertendoci  alia  peggio  per  quattro,  escimmo  dalla  stazione 
dietro  all'ardente  condottiero,  infilammo  il  viale  dei  platani  che  vi 
conduce,  e  passando  di  sotto  all'Arco  che  fu  innalzato  ad  onore 
dello  strenuissimo  Principe  di  Conde",3  entrammo  nel  capoluogo 
della  Cote  d'Or. 

Traversammo  la  citta  e  nella  nostra  traversata  non  ci  fu  dato  ve- 
dere  alcun  amico,  n6  tampoco  alcuno  che  rivestisse  la  divisa  di 
Garibaldino ;  in  quelPora  cosi  mattinale,  i  componenti  delF Armata 
dei  Vosgi,  o  erano  occupati  in  recognizioni  ed  esercizi,  oppure  se 
la  dormivano  saporitamente.  Felici  questi  ultimi . . .  noi  casca- 

i»  Del  capitolo  vn  abbiamo  soppresso  la  massima  parte,  riunendo  le  pagine 
prescelte  col  successive  capitolo  vnr.  II  presente  brano  corrisponde,  in  tal 
modo,  alle  pp.  97-116  detfedizione  da  noi  seguita,  2.  scesa  di  testa:  ca~ 
priceio,  ghiribixzo,  pazzia:  ^  espressione  delPItalia  meridionale,  3.  Luigi 
di  Borbooe,  Prmcipe  di  Condi  (1621-1686),  il  famoso  generale  francese,  vin- 
citore  degli  Sp^noli  nella  « manzoniana  »  battaglia  di  Rocroy, 


DA   FIRENZE  A    DIGIONE  649 

vamo  dal  sonno!  Ci  portarono  al  quartier  generale  che  era  proprio 
in  fondo  della  citta  al  lato  opposto  della  ferrovia;  il  generale  Ga 
ribaldi  abitava  il  palazzo  della  Prefettura,  dove  erano  stati  anche 
impiantati  gli  uffizi  dello  stato  maggiore.  Vedemmo  alia  porta  in 
fazione  un  carabiniere  genovese  ed  una  guardia  nazionale. 

II  rivedere  la  simpatica  camicia  rossa,  ci  fece  nascere  in  cuore 
un'emozione  dolcissima;  i  nostri  timori  di  non  arrivare  in  tempo 
eransi  dileguati:  entrammo  nel  cortile  ilari  c  svelti,  proprio  come 
se  uscissimo  allora  da  un  morbido  letto. 

II  tenente  ando  a  prendere  ordini;  poco  dopo  torno  e  ci  disse: 
possono  andare  in  citta:  per  ora  non  e  stata  data  alcuna  disposizione 
per  loro;  a  mezzogiorno  sulla  piazza  della  Maine  io  faro  le  paghe. 

Dopo  queste  poche  parole,  se  ne  andarono  tutti,  e  si  stava  per 
fare  altrettanto  anche  noi  delFesigua  combriccola  fiorentina,  quan- 
do  ci  sentimmo  chiamare  su,  di  verso  il  terrazzo,  e  avemmo  appena 
il  tempo  di  voltarci  che  si  era  abbracciati  e  baciati . . . 

—  Ne  eravamo  sicuri! 

—  Credevamo  di  trovarvi  quassu  . .  . 

Guardammo  e  vedemmo  il  Piccini  e  lo  Stefani  gia  vestiti  da 
Garibaldini,  che  ci  salutavano  cosi  affettuosarnente. 

—  O  Rossi  ? . .  .  domandammo  noi  altri. 

—  Rossi  e  a  lavorare . .  .  Riatta  i  fucili  della  compagnia  ,  .  .  Lo 
vedremo  piii  tardi! 

—  E  come  mai  siete  arrivati  a  raggiungere  Garibaldi  ? 

—  £  una  cosa  lunga! 

—  Allora  ne  riparlererno  stasera,  perched  noi  abbiamo  un  appetite 
birbone,  e  si  ha  una  voglia  matta  di  dorrnire. 

—  Per  dormire  non  ci  e  bisogno  d'andare  alPalbergo. 

—  Dawero? 

—  Sicuro! . . .  Venite  con  noi  dal  moire  ed  avrete  un  biglietto 
d'alloggio  . . .  qui  in  Francia,  in  tempo  di  guerra,  i  militari  hanno 
questo  diritto. 

—  Ewiva  la  Francia! . . .  —  gridammo  noi,  sedotti  ed  entusiasmati 
dalFidea  di  non  spendere  quei  pochi  piccioli1  che  ci  erano  rirnasti. 

—  Venite  dunque  con  me  —  disse  il  Piccini  e  tutti  noi  Io  seguim- 
mo  verso  la  piazza  maggiore  della  citta. 

Durante  il  nostro  tragitto  cominciammo  a  farci  un'idea  del  corpo 

i.  piccioli:  denari.  II  picciolo  e  un'antica  moneta  fiorentina:  il  vocabolo  e 
rimasto  nelTuso  familiare. 


650  ETTORE   SOCCI 

d'armata  che  era  stato  affidato  aireroe  dei  due  mondi ;  vedemmo  i 
Franchi  tiratori,  I  Mobilizzati,  gli  Spagnoli,  la  Croce  di  Nizza,  le 
Guide:  i  costumi,  gli  abbigliamentl  di  questi  giovani  soldati  della 
liberta,  forma vano  un  contrasto  cosi  bizzarramente  artistico,  che 
faceva  credere  di  essere  in  preda  di  un  sogno ;  ad  ogni  cantonata  tu 
vedevi  un  nuovo  vestiario:  pareva  quasi  di  avere  in  faccia  agli  occhi 
un  caleidoscopio  continue ;  chi  aveva  in  cuore  un  po'  di  sentimento 
di  artista,  lo  si  poteva  facilmente  conoscere  dal  modo  con  cui  por- 
tava  le  piume  al  cappello  e  la  svelta  casacca;  una  collezione  di  penne 
di  tutte  le  qualita;  dairaristocraticissima  penna  di  pavone,  alia 
plebea  di  gallina,  che  forse  rammentava  un  allungamento  di  mano 
non  permesso  dal  Codice,  tu  vedevi  brillare  sui  cappelli  di  questi 
amabili  matti,  ogni  specie  di  questi  arnesi  indispensabili  agli  ani- 
mali  che  s'elevano  dal  suolo. 

I  Franchi  Tiratori  ci  offrivano  resattissima  riproduzione  dei  vo- 
lontari  Italiani  del  1860  e  del  1866;  tra  loro  spiccavano  delle  distin- 
tissime  fisonomie:  tra  loro  figurava  in  mezzo  ai  figli  della  montagna 
Partista,  in  mezzo  all'uomo  del  lavoro  abbronzato  dal  fumo  delPof- 
ficine,  il  generoso  milionaro  abbronzato  dal  sole:  tutti  erano  rappre- 
sentati  in  quelle  file,  ch6  Tamore  di  liberta  affratella  nel  momento 
supremo,  in  cui  la  liberta  versa  in  pericolo,  tutti  i  magnanimi. 

Una  tal  vista  rallegro  i  nostri  spiriti :  il  sonno  e  lo  strapazzo  si 
era  dileguato,  si  era  dileguata  la  fame.  O  divini  entusiasmi  di  chi 
affronta  la  morte  per  un'idea  generosa,  perch£  siete  svaniti,  e  cosi 
presto  svaniti  ?  . .  .  Siamo  forse  diventati  vecchi  in  due  mesi  ?  . . . 
Le  nostre  fibre  non  si  commuovono  forse  tuttora  alia  corrente  ma- 
gnetica,  che  infonde  la  voce  del  dovere,  della  patria,  della  societk 
conculcata?  Chi  sa  .  . .  L'atonia  in  cui  viviamo  ci  ripiomba  in  uno 
scetticismo  che  voglio  credere  temporaneo  . . .  Tornino  i  giorni  fe- 
lici,  torni  il  santo  momento  di  una  rivoluzione,  e  scettici  o  no,  ci 
troveremo  al  nostro  posto!  Utilizzare  la  vita  a  pro  di  chi  langue: 
ecco  quale  deve  essere  in  tanta  tristezza  di  tempi,  il  programma  per 
chi  ha  cuore  e  coscienza. 

Andammo  alk  Maine  e  volendo  render  meno  dura  che  fosse 
possibile  la  situazione,  che  ci  si  preparava,  approfittandoci  dei  no 
stri  abiti  cittadineschi,  demmo  a  bere  airimpiegatoxhe  eravamo  uf- 
ficiaii,  e  ci  fu  sul  tamburo1  steso  un  biglietto  d'alloggio  per  uno  dei 
primari  palazzi  di  Digione,  nientemeno  che  il  palazzo  di  Beverant. 
i .  ml  tamburo :  H  per  U,  immediatamente. 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  651 

Qui  fummo  accolti  gentilissimamente  da  una  vecchia  signora, 
che  ci  condusse  in  un  magnifico  appartamento  e  ci  addito  uno 
stanzino  tutto  pieno  di  legna,  dicendoci  che  con  quel  freddo  ci 
avrebbero  fatto  assai  comedo!  Eppoi  la  simpatica  vecchia  si  intrat- 
tenne  con  noi  in  amichevole  conversazione;  la  ci  disse  le  cose  le  piu 
gentili,  ci  saluto  come  gli  angioli  salvatori  di  quel  disgraziato 
paese . .  . 

L'ospite  nostra  ci  raggxiagH6  su  certe  prodezze  che  avevano  com- 
messo  i  soldati  di  re  Guglielmo  nella  prima  occupazione  della  citta; 
il  comando  generale  gliene  aveva  messi  in  palazzo  cinquantasei :  e 
tutti  spadroneggiavano  peggio  che  se  fosse ro  in  una  caserma;  ac- 
cendevano  il  fuoco  e  facevano  da  cucina  nelle  magnifiche  camere; 
avevan  ridotto  il  giardino  a  maneggio  per  i  cavalli:  pretendevano 
le  legna,  e  qualche  giorno  persino  il  vino  e  la  carne.  L'amore  na- 
zionale  avra  forse  fatto  esagerare  un  poco  quella  signora,  ma  e  un 
fatto  che  molti  tra  i  soldati  della  grazia  di  Dio1  ne  fecero  di  quelle 
di  pelle  di  becco.2 

Sapemmo  anche  per  mezzo  della  no&tra  interlocutrice,  quanto  fu 
lo  spavento  da  cui  fu  colto  il  generale  Werder,3  allorche*  Garibaldi 
tent6  di  sorprenderlo  la  sera  del  26  novembre:  tutti  i  cariaggi  erano 
stati  preparati,  tutte  le  disposizioni  per  una  ritirata  erano  state  or- 
dinate  in  men  che  si  dice;  i  soldati  avevan  fatto  fagotto:  i  battaglioni 
di  riserva  erano  adunati  nelle  piazze,  e,  di  momento  in  momenta, 
altro  non  si  attendeva  che  1'ordine  deila  partenza. 

La  signora  ci  rese  informati  di  un' episodic,  che  poi  ci  fu  dato 
raccogliere  anche  da  tutti  gli  altri  cittadini  che  awicinammo;  epi- 
sodio  ben  meschino  a  paragone  di  quelli  che  si  svolsero  in  quel 
maraviglioso  periodo  di  storia  che  fara  stupire  i  nostri  posteri, 
ma  che  ci  si  dava  come  ragione  principale  dello  sgombro  della  citta 
da  parte  dei  soldati  germanici. 


i .  i  soldati  della  grasia  di  Dio :  e  un'espressione  che  il  Socci  ripeterlt  varie 
volte.  6  probabile  che  egli,  oltre  a  dare  airespressione  un  senso  ironico, 
intenda  dire  che  erano  soldati  di  un  re  e  alludere  alia  formuk  allora  in  uso: 
« re  per  grazia  di  Dio  e  voloatii  della  nazione » ;  formuk  la  cui  prima  parte 
spiaceva  particolarmente  agli  element!  repubblicani,  come  residuo  di  cooce- 
zioni  assolutistiche  (e  cfr.  p.  668).  2.  quelle  .  .  .  becco:  sporcbe  e  vergogno- 
se.  3.  August  voo  Werder?  generale  prussiano  (1808-1887),  fu  tra  i  mag- 
giori  condottieri  nelia  guerra  del  1870-1871,  vincitore  del  Bourbaki.  Era 
il  comandante  delle  truppe  badesi  che  avevano  occupato  Digione  contro 
rAnnata  francese  delFEst. 


652  ETTORE   SOCCI 

Dicevasi  dunque  che  il  buon  Werder,  che  e  un  cattolicone  coi  fioc- 
chi,  dope  un  lungo  colloquio  che  aveva  avuto  col  vescovo  di  Dijon, 
degno  servo  di  Dio,  avrebbe  preso  le  sue  carabattole  e  cheto  come 
un  olio,  spaventato  dalle  minaccie  dei  fulmini  delPira  divina,  aveva 
trasferito  le  sue  tende  ben  lontano  da  quella  citta,  dove  sarebbe 
piovuto  acqua  bollente  se  egli  si  fosse  piccato  di  continuare  un'oc- 
cupa2ione  in  odio  alle  tremende  divinita  che  reggono  il  mondo. 

Dopo  aver  bevuto  dell'eccellente  wermuth,  lasciammo  il  pa- 
lazzo,  che  cominciavamo  a  riguardar  come  nostro,  e  rientrammo  in 
quelle  strade,  dove  un  continue  via  vai  di  soldati,  di  cavalieri,  di 
carri,  d'artiglierie  produceva  un  chiasso,  una  confusione  che  c'ine- 
briava. 

Arrivati  appena  nella  rue  Condi,  via  principale  della  citta,  degli 
applausi  entusiastici  ci  colpiron  gli  orecchi;  poi  un  correre  con- 
citatc*  di  ragazzi  e  di  donne;  uno  spalancarsi  di  finestre;  un  affol- 
larsi  rcpente  lungo  i  marciapiedi,  ed  un  gridio  unanime,  pieno, 
che  ci  produsse  immediatamente  una  commozione  indicibile.  Vive 
Galibardi (I)1  Vive  k premier  dtfenseur  de  la  France.  II  primo  soldato 
della  liberta  dei  popoli  passava  per  quella  strada,  ed  il  popolo  che 
in  tutto  il  mondo  fa  sempre  sentire  la  generosa  sua  voce  in  favore 
dei  generosi  che  alia  liberta  dedicano  la  loro  intiera  esistenza,  ac- 
coglieva  come  si  conveniva,  ben  differente  dai  grandi  del  mondo 
che  dispregiano  sempre,  chi  e  grande  davvero. 

Garibaldi! . . .  Chi  pu6  rammentare  questo  nome,  chi  le  gesta 
famose  delFeroe  divenuto  gia  leggendario,  senza  sentirsi  di  subito 
rapito  in  una  commozione  divina? . . .  Eccolo  la,  questo  vecchio 
figlio  della  rivoluzione,  sempre  giovine  quando  si  tratta  di  rispon- 
dere  ai  di  lei  magnanimi  appelli!  Eccolo  la  quelPuomo,  che  nel  suo 
splendido  passato  dalPultima  Montevideo  alia  vicina  Mentana  e 
stato  sempre  in  prima  fila  per  la  causa  divina  delFUmanita!  .  .  . 
A  che  mi  si  rammentano  i  grandi,  a  che  mi  si  rammentano  gli 
eroi  ?  Pari  ai  sole  che  quando  sorge  col  suo  Oceano  di  luce  fa  oscu- 
rare  le  stelle,  quest'uomo  ha  fatto  oscurare  la  fama  di  tutti  quelli 
che  lo  precedettero.  I  posteri  lo  crederanno  un  mito:  perch6  la 
forturaa  ha  dato  a  questi  tempi  un  Garibaldi,  quando  non  ci  ha  dato 
un  Flutarco  per  rammentarne  degnamente  le  gesta?  Ma  i  buoni 
popohni  sono  per6  sempre  pronti  a  rammentarlo  degnamente  ai 

i.  I  Fraacesi  storpiavano  regolarmente  il  nome  di  Garibaldi:  ne  da  testi- 
monianza  anchc  iJ  Bizzoni. 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  653 

loro  figli,  ad  insegnar  loro  a  venerarlo  come  quello  da  cui  dipende 
la  felicita,  rawenire  di  quanti  soffrono!  lo  per  me,  le  poche  volte 
che  mi  e  stato  dato  incontrarlo  mi  son  sentito  le  lacrime  agli  occhi 
ed  egli  mi  e  trasvolato  davanti  come  un  eroe  dei  tempi  sublimi,  in 
cui  i  Cincinnati  e  i  Fabbrizi3  lasciavano  la  spada  dopo  aver  salvato 
la  patria,  per  tornare  alle  glebe,  o  alle  officine.  Benedetto  da  tutti 
quelli  che  soffrono ;  terribile  ai  tiranni ;  sempre  presente  agli  schiavi ; 
invano  tenteranno  d'abbatterlo  i  Giuda  politici,  i  pennaioli  che  si 
inspirano  ai  fondi  segreti  del  ministero. 

II  Generale  era  in  carrozza  con  1'indivisibile  Basso;2  ambedue 
erano  vestiti  in  borghese;  Garibaldi  aveva  un  cappello  alia  cala- 
brese  bigio  ed  il  punch3  che  lo  ha  accompagnato  in  tutte  le  campa- 
gne;  dietro  alia  carrozza  venivano  a  cavallo  il  maggiore  Fontana 
dello  stato  maggiore,  e  il  capitano  Galeazzi  delle  Guide,  aiutante 
di  campo.  II  Generale  sorrideva  a  quei  popolani  che  1'applaudivano 
con  tanto  entusiasmo,  e  li  salutava  gentilrnente  con  le  mani.  II 
popolo  di  Digione  accompagnava  sempre  con  dimostrazioni  d'af- 
fetto  il  Generale,  e  quello  che  or  si  vcdeva,  si  doveva  d'ora  in  la  ri- 
petere  ogni  giorno  davanti  ai  nostri  occhi, 

Poco  dopo  che  noi  ci  eravamo  commossi  ad  un  tale  spettacolo, 
dovevamo  esser  sorpresi  da  un  incontro  non  meno  gradito.  Tro- 
vammo  Rossi,  nostro  compagno  sul  Veer,  ingrassato  in  una  tal  ma- 
niera,  che  noi  durammo  fatica  a  riconoscerlo :  sembrava  piii  un  Do- 
menicano  che  un  Garibaldino;  gli  si  leggeva  in  volto  la  contentezza 
delFuomo  che,  dopo  tante  fatiche,  ha  potuto  raggiungere  uno  scopo 
per  tanto  tempo  da  lui  vagheggiato. 

Andammo  tutti  insieme  a  pranzo :  11  sapemmo  a  un'incirca  tutto 
Tandamento  precise  deirArmata  dei  Vosgi:  questo  mucchio  di  uo- 
mini,  abbastanza  omeopatico,  a  cui  superbamente  si  regalava  il 
titolo  d'armata,  era  allora  diviso  in  quattro  brigate:  la  prima  sotto 
il  comando  del  generale  Bossak,  aveva  il  suo  quartier  generale  a 
Fontaine,  paesetto  a  circa  due  chilometri  di  distanza  da  Digione: 

i.  Cincinnati .  .  .  Fabrizi:  Garibaldi  medesimo,  tanto  piu  dopo  ii  suo  esilio 
agreste  a  Caprera,  amd  paragonarsi  (e  ne  rimane  traccia  nei  suoi  scritti) 
agli  antichi  romani  della  tradizione  repubblicano-plutarchea,  II  rafFronto 
« classicistico »  pass6,  quindi,  nella  letteratura  garibaldina,  specialmcnte  in 
Abba  e  in  Guerzoni.  2.  Giovanni  Basso  (1824-1^84),  nizzardo,  segui  Ga 
ribaldi  dair America  alia  Cina  e  di  li  in  Italia;  fu  sempre  al  suo  fianco  e 
dopo  il  1860  ne  divenne  1'indivisibile  segretario.  3,  il  pumch:  il  mantcllo 
tutto  d'un  pezzo,  con  un'apertura  in  mezzo  per  la  testa:  fu  caratteristico  di 
Garibaldi.  La  voce  deriva  dallo  spagnolo  poncho. 


654  ETTORE  SOCCI 

la  seconda,  anticamente  comandata  da  Delpeche,1  ed  ora  comandata 
dal  Lobbia,2  si  era  avviata  verso  Langres,  e  non  si  sapevano  notizie 
precise  sul  di  lei  conto:  la  terza,  generate  Menotti,  era  a  Talant, 
e  ne  formavano  parte  le  due  legioni  italiane  sotto  gli  ordini  di 
Tanara  e  Ravelli :  Ricciotti  con  la  quarta  brigata  era  dalla  parte  di 
Foully,3  lato  Nord  Est  della  citta. 

Grata  notizia  fu  per  noi  tutti  il  sapere  che  il  bravo  tenente 
Dairisola,  datoci  per  morto  dal  Mago  nel  suo  racconto  della  bat- 
taglia  di  Prenois,  era  vivo  e  verde,  quantunque  gii  fosse  stata  am- 
putata  una  gamba. 

La  notizia  della  morte  di  lui  era  talmente  diffusa  che  il  buon 
Giorgio  Imbriani  ne  mandc-  la  necrologia  delFeroe  caduto  al  «  Po- 
polo  d' Italian,  giornale  di  Napoli  di  cui  era  corrispondente  . . . 

Dairisola  invece  era  in  casa  del  curato  di  Prenois,  che  lo  assisteva 
colla  pieta  gentile  di  un  padre.  La  Jessie  Mario,  con  Narratone  e 
Giorgio  Imbriani,4  sfidando  gravi  pericoli  andarono  a  trovarlo,  ed 
ecco  come  la  signora  Mario  narrava  la  scena  commovente : 

« II  curato  ci  fece  un'accoglienza  entusiastica  e  subito  c'introdusse 

i.  Louis  Delpeche,  ingegnere  e  uomo  politico  della  sinistra  repubblicana 
francese,  legatissimo  a  Gambetta,  fu  poi  prefetto  di  Marsiglia  e  deputato 
anti-boulangista.  2.  Cristiano  Lobbia  (1832-1876)  aveva  gia  preso  parte  a 
tutte  le  imprese  garibaldine.  Nei  1869,  deputato  al  Parlamento,  aveva  su- 
scitato  queH'inchiesta  sulIa  Regia,  di  cui  abbiamo  detto  alia  nota  i  di  p.  459. 
£  utile  ricordare  che  molti  dubitarono  delle  accuse  di  simulazione  rivolte- 
gli  da  una  parte  deH'opinione  pubblica  e  ripetute  nei  tribunal!.  3.  Foully. 
la  forma  corretta  e  Pouilly.  4.  Jessie  White  Mario  (1832-1906),  la  scrit- 
trice  inglese  che  consacrd  se  stessa  alia  causa  italiana  fin  dal  1856.  Sposd 
(1858)  Alberto  Mario,  il  noto  repubblicano  e  federalista,  lo  segul  nelle  varie 
spedizioni,  fu  rinfermiera  dei  garibaldini.  Morto  il  marito  (1883),  visse  fra 
Lendinara  e  Firenze,  dove  fu  poi  insegnante  di  lingue,  continuando  a  pub- 
blicare  i  suoi  lavori  intorno  a  Mazzini,  Garibaldi  e  i  repubblicani.  Tra  l*al- 
tro,  I  gar&aldm  m  Francia,  Roma,  Polizzi,  1871 ;  cfr.  il  necrologio  che  di 
lei  scrisse,  nel  1906,  G.  C.  ABBA,  in  Ritratti  e  profili,  Torino,  S.T.E.N., 
1912,  pp.  95-8,  dove  anche  si  legge:  «Pochi  mesi  or  sono,  vecchia,  amma- 
lata,  affranta,  benedisse  della  sua  presenza  le  ceneri  di  Ettore  Socci,  umile 
fedele  che  solo,  perche  fedele  a  un*idea,  parve  a  lei  un  gigante»;  Dome- 
nico  Narratone  (vedi  la  nota  i  a  p.  546)  aveva  organizzato  a  Lione  un 
btttaglione  di  volontari  e  Taveva  condotto  nei  Vosgi  a  Garibaldi ;  Giorgio 
Imbriam,  figlio  di  Paolo  Emilio,  aveva  gi&  combattuto  nel  1866.  Nato  nel 
1848,  cadde,  come  qui  e  detto,  il  21  gennaio  1871.  Sull'Imbriani  si  ricprdi- 
BO  le  parole  del  Carducct  nella  prefazione  alle  sue  Poesie,  Firenze,  Barbara, 
1871  (trascritte  dal  Socci  medesimo  a  pp.  265-6  deU'edizione  citata  del 
suo  volume),  riprodotte  in  Opere  (edizione  nazionale),  xxiv,  pp.  610-29; 
e  cfr.  ibid.,  xix,  pp.  29-30.  Veggasi  anche  il  profilo  che  ne  traccia  lo  stesso 

Socci  nel  volume   Uimli  erci  della  patria  €  deW  wnanita.  Nonch^  qui  a 

xx     *  * 

pp.  665-6. 


DA   FIRENZE  A   0IGIONE  655 

nella  camera  di  DalFIsola.  L'incontro  fra  questi  e  Plmbriani  fu 
toccantissimo;  si  baciarono,  si  abbracciarono,  e  fu  un  fuoco  di  fila 
di  domande  e  di  risposte, 

II  curato,  che  pendeva  piu  a!  soldato  che  al  prete,  ci  narr6  tutta 
la  storia  delle  giornate.  Benestante  e  allegro  era  Panima  di  quel 
piccolo  villaggio,  che  sempre  fece  buon  viso  ai  nostri,  e  fu,  per 
quanto  gli  e  venuto  fatto,  molestissimo  ai  Prussian!, 

II  curato  la  mattina  del  26,  preso  quale  ostaggio,  potette  fuggire, 
raccolse  tutti  i  feriti  in  casa  sua;  i  trasportabili  fece  trasportare  a 
Dijon. 

Rimasto  il  solo  DalFIsola,  lo  confortd  d'un  medico  tre  volte  la 
settimana,  prestandogli  egli  medesimo  gli  offici  assidui  d'infer- 
miere,  vegliandolo  la  notte  e  nei  momenti  disperati  imboccandolo 
come  un  uccello;  accomodandogli  i  guanciali  con  mano  leggera  di 
donna,  e  poscia  trasportando  dal  letto  al  sofa  e  da  questo  a  quello 
il  malato,  con  un  braccio  solo  a  foggia  d'un  bimbo.  Si  mostr6  beato 
della  prowigione  dei  sigari,  come  Isola  dei  libri  che  io  avevo  por- 
tati  meco. 

Ci  reiter6  le  profferte  di  ospitalita  pur  consigliandoci  di  non  dif- 
ferire  il  ritorno,  a  cagione  delle  quotidiane  scombande  del  nemico 
in  quei  dintorni. 

In  quelPora  passata  al  letto  di  DalPIsola  compresi  perch£  egli 
fosse  tanto  amato  da'  suoi  amici.  Messe  in  oblio  le  sue  sofferenze 
non  pens6  che  a  dimandar  notizie  della  legione  italiana.  II  combat- 
timento  di  Autun,  narratogli  da  Imbriani,  gli  gonfiava  il  petto  d'or- 
goglio;  e  voile  sapere  degritaliani  se  sono  sen,  se  si  conducono 
bene.  Mostrossi  affitto  che  non  ci  fosse  Ferraris,1  altro  fra  i  suoi 
prediletti:  e  certo  egli  non  presentiva  allora  che  entro  un  mese 
Puno  e  Paltro2  di  quei  santi  e  nobilissimi  giovani  avrebbero  perduto 
la  vita  sul  campo  degli  stranieri! » 

Le  traversie  che  ebbero  a  subire  Rossi  e  Piccini,  SquagHa  e 
Baldassini  per  giungere  in  Francia,  ci  furono  raccontate  a  quel  de- 
sinare  e  meritano,  credo,  Pattenzione  dei  lettori,  se  non  altro  perch6 
questo  serva  ad  assicurarli  del  come,  quando  si  vuole,  si  affronta 
e  si  supera  qualunque  pericolo. 

Rossi  e  gli  altri,  dopo  il  nostro  arresto  restarono  in  Livorno  e 

i.  Adamo  Ferraris,  chirurgo,  entr6  nelle  file  dei  combattenti  al  seguitowdi 
Garibaldi,  Mori  mentre  portava  un  messaggio  di  Garibaldi  e  fu  sepolto  nei 
cimitero  di  Digione.  2.  Ttmo  e  Valtroi  I' Imbriani  e  il  Ferraris. 


656  ETTORE    SOCCI 

riuscendo  ad  eludere  queiroculatissima  polizia,  poterono  giungere 
al  memento  bramato  di  imbarcarsi  su  una  piccola  barca,  colla  quale 
si  accingevano  a  intraprendere  una  traversata  che  mette  in  pensiero 
chi  deve  farla  in  piroscafo.  Perseguitati  dalla  polizia  che  non  si 
ristava  un  momento  da  pedinarli,  con  un  tempo  indiavolato  essi 
poterono  imbarcarsi  verso  mezzanotte,  due  miglia  lontani  da  Li- 
vorno.  II  mare  metteva  spavento:  ognuno  potra  ricordarsi  quanto 
furono  sconsacrate1  le  giornate  che  resero  celebre  Tinverno  1870- 
1871;  perfido  il  clima,  continue  le  pioggie,  mai  interrotte  le  bur- 
rasche;  ma  i  bravi  giovani  erano  decisi  a  giocare  di  tutto  per  rag- 
giungere  il  loro  scopo,  e  possedevano  tempra  da  reputarsi  piu  che 
miracolosa  in  quei  tempi  di  universali  debolezze.  Certo  che  chiun- 
que  avesse  veduto  quel  piccolo  legno,  sbattuto  in  mezzo  agli  spa- 
ventevoli  cavalloni,  sempre  a  un  pelo  per  far  cufEa,2  sernpre  fri- 
sando3  gli  scogli,  sempre  a  pochi  passi  dalla  morte,  non  poteva 
fare  a  meno  di  esser  colpito  da  tanto  coraggio  ...  II  vento  impetuo- 
sissimo,  i  marosi  che  avevano  raggiunto  tutto  quanto  pu6  esservi 
di  piu  temibile  per  il  marinaro,  Talbero  maestro  troncato  costrin- 
sero  i  nostri  giovani  amici  a  fermarsi  a  Vada,  piccolo  paese  della 
Maremma,  distante  a  dir  molto  mezza  giornata  di  cammino  da 
Livorno. 

Attorniati  immediatamente  dai  carabimeri,  essi  dovettero  ai  sen- 
timenti  generosi  dei  buoni  popolani  di  lassu,  il  potersi  ridurre  in 
salvo:  si  rifugiarono  difatti  in  un  abbaino,  alia  cui  finestra  non 
erano  imposte,  n6  vetri,  e  che  aveva  tanto  basso  il  soffitto  da  co- 
stringere  chiunque  v'entrasse,  ad  andarvi  carponi.  Vi  doverono 
star  sette  giorni :  senza  un  pagKericcio,  senza  un  brodo  che  loro  rav- 
vivasse  le  forze  gia  esauste;  costretti  a  dormire  1'uno  1'altro  abbrac- 
ciati,  per  s<x>ngiurare  la  veemenza  del  freddo,  confortandosi  e 
prendendo  animo  all'idea  del  santissimo  sacrificio  che  per  santis- 
simo  intento  essi  in  quel  momento  facevano,  passarono  in  quella 
dolorosa  situazione  degli  istanti  diviru. 

Riattato  il  piccolo  navicello,  essi  a  notte  inoltrata  poteron  ripar- 
tire:  a  bordo  vi  erano  viveri,  ma  essendo  durato  il  viaggio  per  altri 
sedici  giorni,  i  futuri  difensori  della  repubblica  soffrirono  anche  la 
fame  ed  arrivarono  sfiniti,  cascanti,  dopo  cento  altre  peripezie,  a 
Bastia. 

i.  sconsacrate:  maledette.     2.  far  cuffia:  sprofondare  di  prua,  affondare. 
:  rasentando:  fc  voce  francese. 


DA   FIREN2E   A   DIGIONE  657 

Nella  capitale  della  Corsica1  trovarono  una  ostile  accoglienza: 
tutti  narrarono  che  gli  abitanti,  devoti  alia  causa  napoleonica,  ap- 
pena  ebbero  odorato,  che  quei  giovinotti,  sbarcati  dal  navicello, 
stracciati,  ed  in  cattivissimo  stato,  erano  dei  Garibaldim,  li  guar- 
davano  in  cagnesco,  non  risparraiando  loro  certi  atti  villani,  che 
sarebbero  stati  degnamente  rintuzzati,  se  in  quel  momento  ragioni 
potentissime  non  avessero  consigliato  sangue  freddo  e  prudenza. 

Ricevuti  come  cani  alia  Prefettura,  trattati  quasi  come  pazzi  al 
comando  di  piazza,  guardati  con  diffidenza  dal  Moire,  essi  non  si 
perdettero  di  coraggio  e  fiduciosi  nel  proverbio  che  riniportuno 
vince  Favaro,  tanto  almanaccarono,  tanto  si  diedero  da  fare,  usando 
ora  buone  maniere,  ora  sgarbi,  pregando  e  protestando,  che  alia 
fine  furono  imbarcati  sopra  un  piroscafo,  e  inviati  a  Marsiglia,  dove 
si  erano  gia  costituiti  i  due  celebri  comitati  garibaldini. 

Credendo  di  aver  toccato  il  cielo  con  un  dito,  i  bravi  amici  salu- 
tarono  Marsiglia,  come  il  fanciullo  che  si  e  perduto  nel  bosco,  saluta 
il  camino  della  casa  paterna.  E  furono  accolti  a  braccia  aperte  dal 
Comitato,  ed  i  membri  di  questo  furono  loro  cortesi  d'incoraggia- 
menti  e  di  belle  parole;  ne  quando  accamparono  il  loro  desiderio 
di  partir  prontarnente,  fu  fatta  la  plu  piccola  obiezione  . .  .  Meno 
male  che  la  fortuna  qualche  volta  corona  felicemente  gli  sforzi  di 
chi  ha  sofferto!  Cosi  pensavano  i  nostri ...  Oh  si  che  la  pensavano 
bene!  Essi  non  erano  giunti  che  alia  prima  stazione  del  Calvario 
che  doveva  menare  qualcuno  di  loro  alia  morte. 

Frapolli  aveva  in  quell'epoca  il  suo  quartier  generale  a  Cham- 
b£ry,  e  gia  stava  istituendo  un  primo  battaglione  di  fanteria  a 
Montmelian  neU'estrema  Savoia.  La  furono  diretti  i  nostri  amici, 
i  quali,  non  sapendo  ancora  quanto  fosse  discorde  il  celebre  grande 
Maestro  della  Massoneria  dai  disegni  del  Generale,  andarono  alia 
loro  destinazione,  allegri  e  content!,  con  la  ferma  convinzione  di 
raggiungere  tra  pochi  giorni  Pinvitto  capo  delParmata  dei  VosgL 

Arrivati  alia  loro  destinazione,  essi  trovarono  tra  i  component! 
del  battaglione  lo  Stefani,  venuto  via  pochi  giorni  avanti  da  Fi- 
renze.  Quattrocento  giovinotti  erano  gia  adunati,  ma  nessimo  di 
loro  aveva  arme,  nessuno  aveva  il  piu  piccolo  distintivo  che  po- 
tesse  contrassegnarli,  come  soldati.  I  superiori,  si  sfogavano  a  ram- 
mentare  ogni  giorno,  che  presto  sarebbero  anche  loro  andati  in 

i.  La  capitale  della  Corsica  e,  veramente,  Ajaccio,  dove  altresi  erano  e  SOIK> 
piii  vive  le  memorie  napoleonic^e. 

42 


658  ETTORE   SOCCI 

prima  linea,  e  intanto  esortavano  i  dipendenti  a  fare  delle  esercita- 
zioni,  le  quali  tutte  si  compendiavano  in  gite  di  15,  16  e  persino  di 
20  chilometri,  su  quei  monti,  dove  la  neve  si  alzava  7  od  8  metri  dal 
suolo.  I  continui  strapazzi,  tutti  infruttuosi,  il  rigido  clima  di  quelle 
alpine  regioni  influirono  maledettamente  sulla  salute  di  quei  poveri 
diavoli  di  cui  molti  ne  andarono  allo  spedale,  mentre  gli  ufficiali 
passavano  allegre  serate,  rawivati  da  cene  lucullesche,  che  il  loro 
capo  scroccava  ai  buoni  Massoni  di  quelle  montagne :  ragione  que- 
sta  per  cui  ogni  ufficiale  che  dipendeva  dal  buon  Frapolli  si  faceva 
di  subito  iniziare  ai  misteri  della  Massoneria! 

Fu  dato  il  comando  del  battaglione  al  Perla,1  a  quest'eroe  che  ora 
e  una  delle  piu  belle  figure  nel  Pantheon  dei  martiri  della  liberta: 
Perla  valoroso  soldato  delle  nostre  guerre  dell'Indipendenza,  co- 
mandando  una  frazione  del  microscopico  esercito  del  Frapolli,  non 
si  rese  certamente  complice  dei  bassi  intrighi  del  suo  superiore,  e 
lo  mostrc-  chiaramente  quando  tra  i  primi  raggiunse  le  legioni  di 
Garibaldi,  ove  doveva  incontrare  cosi  gloriosamente  la  morte. 

Rossi,  Piccini,  Stefani,  in  ricompensa  d'aver  servito  altre  volte, 
furono  fatti  sergenti,  ma  il  tempo  passava  (erano  gia  scorse  due 
settimane)  e  ancora  non  si  veniva  a  capo  di  nulla;  unica  cosa  fatta, 
fu  rabbigliamento  dei  volontari:  i  giovani  cominciavano  a  mor- 
morare:  le  notizie  degli  scontri  che  aveva  sostenuto  Garibaldi  erano 
giunte  fin  la,  e  troppo  repugnava  a  giovine  gente  restare  in  un  de- 
posito,  mentre  i  fratelli  si  misuravano  coll'inimico  e  spargevano  di 
nobile  sangue  gli  ubertosi  vigneti  della  Borgogna. 

Tutte  le  sere  in  caserma  succedevano  concitatissime  conversa- 
ziioni;  si  proferivano  gridi  che  non  erano  certo  di  ammirazione  per 
i  comandanti ;  si  fischiavano  gli  accaniti  difensori  degli  ufEciali,  era 
insomma  una  confusione  da  metter  pensiero  a  chi  era  incaricato  di 
condurre  tutta  quell'accolta  di  gente :  una  di  queste  sere,  proprio 
airimpensata,  capitc-  a  MontmeKan  Frapolli  ed  ordin6  una  rivista 
per  il  giorno  dipoi. 

Dopo  aver  squadrato,  cosi  per  pretesto,  ad  uno  ad  uno  i  suoi 
dipexidenti,  il  Frapolli  fece  formare  il  quadrato,  e  piantandosi  in 
mezzo  alle  file,  sciorino  tutto  d'un  fiato  un  lungo  discorso,  dove 
chi  capi  un'acca  pot6  chiamarsi  ben  fortunato.  Parl6  di  trame  e  di 
cospirazioni,  protesto  di  esser  calunnkto,  di  andar  d'accordo  con 

i .  Lutgi  Perla%  bergama&co,  era  stato  <iei  Mille.  Mori  a  Digiane, 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  659 

Garibaldi,  ma  che  per6  non  bisognava  sposarsi  a  quest'ultimo, 
poiche*  dei  guerrieri  bravi  ce  ne  erano  anche  piu  di  lui,  poich6 
era  succeduta  la  rivoluzione  anche  nelFarmi  e  nella  strategia  e  che 
perci6  ci  voleva  gente  nuova. 

Un  lungo  mormorio  e  anche  qualche  fischio  accolsero  le  stram- 
palate  parole  del  generale,  che  alzando  bruscamente  le  spalle  e 
borbottando  non  so  quali  impertinence,  si  ritiro  seguito  dal  suo 
stato  maggiore. 

Giunto  il  battaglione  alia  caserma,  Piccini  scrisse  una  lettera  a 
Garibaldi,  nella  quale  si  metteva  chiaramente  a  nudo  la  situazione 
e  si  chiedevano  consigli  su  cio  che  era  da  operarsi:  qualora  non 
fosse  pervenuta  alcuna  risposta,  i  tre  amici  avevano  deciso  di  di- 
sertare. 

Come  furono  lunghi  i  cinque  giorni  d'aspettativa!  Quante  po- 
lemiche,  quante  questioni  anche  serie  non  accaddero  in  quel  breve 
lasso  di  tempo!  I  soldati  cominciavano  a  perdere  la  fiducia  nel 
loro  capo,  dacche"  subodoravano  che  tra  lui  ed  il  grande  Italiano 
non  ci  era  piu  quelPaccordo,  che  solo  puo  produrre  buoni  resul- 
tati;  finalmente  venne  il  colpo  di  grazia,  e  questo  colpo  fu  giusto 
appunto  la  lettera  con  cui  Canzio  a  nome  del  Generale  rispondeva 
a  Piccini. 

Frapolli  vi  tradisce,  Frapolli  e  un  inviato  del  Governo  Italiano, 
che  tenta  di  seminare  la  zizzania  nel  campo  degli  eroi  della  liberta.  - 
Tale  era  a  un  dipresso  il  sunto  dello  scritto  di  Canzio.  Un  fulmine 
e  questa  lettera  potevano  produrre  il  medesimo  efTetto.  I  volontari 
si  ragunarono  tumultuosamente:  «  siamo  traditi :  abbasso  i  traditori : 
viva  Garibaldi:  vogliamo  partire ...»  ecco  le  grida  che  sorgevano  da 
tutti  quei  petti,  ecco  le  convinzioni  che  tutti  quei  giovani  espri- 
mevano  proprio  all'unisono:  invano  gli  ufficiali  con  preghiere,  con 
moine,  con  minaccie  pretendono  di  far  rientrare  in  caserma  i  sotto- 
posti  e  di  ridurli  a  dovere;  invano  si  rammenta  loro  la  causa  che  so- 
stengono  e  che  pu6  essere  compromessa  con  moti  intempestivi  e 
con  deliberazioni  improwise:  oramai  tutti  son  rimasti  troppo  scot- 
tati  dalle  buone  parole,  oramai  tutti  sono  stanchi  di  lasciarsi  abbin- 
dolare  di  piu;  gli  ufficiali  sono  obbligati  ad  andarsene  scorbacchiati 
e  confusi;  n£  potevano  quei  bravi  avanzi  delle  guerre  della  libert^ 
disapprovare  in  cuor  loro  Timpazienza  generosa  di  quei  bravi  ra- 
gazzi:  difatti  la  maggior  parte  de^li  ufficiali  raggiunse  poco  dopo 
Tesercito  e  si  porto  croicamente:  rimasero  solamente  quegli  eroi 


66o  ETTORE   SOCCI 

che  fuggono  al  fuoco,  ma  che  sono  i  primi  ad  attaccarsi  i  ciondoli 
del  valor  militate  sul  petto. 

Dalla  rivoluzionaria  assemblea,  fu  conchiuso  d'inviare  una  com- 
missione  al  Generale  e  fargli  noto,  come  idea  ferma  di  tutti,  fosse  il 
raggiungere  I  fratelli  che  si  trovavano  in  faccia  al  nemico.  Eletti  a 
far  parte  di  questa  commissione  furono  appunto  i  tre  nostri  amici 
Rossi,  Piccini,  Stefani.  Essi  portaronsi  immediatamente  a  Cham- 
be1  ry,  dove  si  abboccarono  col  colonnello  Pais,1  uno  dei  repubblicani 
distinti  che  era  rimasto  acchiappato  dalle  reti  del  Frapolli.  Pais 
cominci6  col  fare  qualche  appunto  al  quartier  generale,  deploro  le 
parole  del  Canzio,  esorto  i  nostri  giovani  a  non  volere  attizzare 
quel  fuoco,  che  divampando  avrebbe  distrutto  la  reputazione  di 
patriotti  distinti  e  forse  anche  Fesito  della  intrapresa  repubblicana. 
I  tre  furono  irremovibili :  vedendo  allora  il  colonnello  come  qua- 
lunque  parola  sarebbe  stata  vana  a  trattenerli,  permise  loro  di  al- 
lontanarsi  dal  battaglione,  anzi  li  preg6  a  presentarsi  al  quartier 
generale,  allora  in  Autun,  ed  a  scongiurare  coloro  che  comanda- 
vano  Tarmata  dei  Vosgi  a  prendere  una  definitive  risoluzione,  af- 
finche  cessasse  quel  fatale  dualismo  che  poteva  condurre  a  cos! 
tristi,  e  cosi  deplorevoli  conseguenze. 

Accompagnati  alia  stazione  dagli  applausi  di  tutti  i  compagni,  ed 
imbarcatisi,  dopo  un  viaggio  lungo  anzichen6  a  causa  delPinterru- 
zioni  ferroviarie,  i  nostri  amici  arrivarono  al  capoluogo  del  Giura, 
alia  citt£  che  fu  culla  del  noto  Mac-Mahon,2  e  senza  por  tempo  di 
mezzo,  si  recarono  alia  sede  del  quartier  generale. 

Lobbia  e  Canzio  accolsero  i  nuovi  venuti  piu  che  se  fossero  amici, 
proprio  come  se  fossero  stati  fratelli.  Tutti  erano  indignati  per  il 
contegno  tenuto  dal  Frapolli:  difatti  nessuno  poteva  farsi  una  ra- 
gione  del  come  quest'uomo  d'accordo  coi  Comitati  accaparrasse 
per  s£  tutta  la  miglior  gioventu  che  veniva  d*  Italia,  e  la  forzasse 


i.  Francesco  Pa«-Serra  (1835-1924),  colonnello  garibaldino,  piu  volte  de- 
putato  per  collegi  della  nativa  Sardegna,  fondo  nel  1872,  e  diresse,  il  quo- 
tkiiano  bolognese  «  La  voce  del  popolo »,  poi  risorto,  sotto  la  medesima  di- 
rexione  del  Pais  e  col  medesimo  indirizzo  democratico-repubblicano,  sotto 
i!  nuovo  titolo  di  *  L'epoca  ».  GH  fu  amico  il  Carducci  che  del  Pais  park  so- 
vente  nell'opera  sua,  ^>prattutto  nell'epistolario.  2.  II  maresciallo  Patrice 
de  Mac-Mahem,  nato  ad  Autun  nel  1808,  aveva  acquistato  fama,  in  Italia, 
cofi  la  battaglia  di  Magenta  (4  giugno  1859).  Durante  la  guerra  franco-prus- 
siana  fu  fatto  prigicmiero  a  Sedan.  Diresse  poi  la  lotta  contro  la  Comune, 
fta  presidente  (1873)  delk  Repubblica  francese,  si  dimise  nel  1879. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  66l 

alFinazione,  alia  vita  corruttrice  della  caserma  e  della  guarnigione, 
rnentre  il  generate  Garibaldi  non  faceva  che  raccomandarsi  a  tutte 
le  parti,  perche  gli  inviassero  degli  uomini. 

Canzio  in  special  modo  era  irritatissimo:  disse  ai  nostri  amici 
che  a  giorni  sarebbe  partite,  come  infatti  parti,  per  condurre  via 
tutti  gli  uomini  che  erano  adunati  a  Chambery  e  a  Montmelian. 

I  giovani  generosi  non  vollero  tornare  donde  erano  venuti,  quan- 
tunque  loro  si  facessero  balenare  delle  prospettive  di  avanzamenti 
sicuri;  troppo  content!  di  aver  finalmente  raggiunto  Garibaldi,  di 
aver  potato  riabbracciare  i  vecchi  compagni  d'arme  e  di  trovarsi 
con  loro,  essi  si  strapparono  i  galloni  di  sergente  ed  entrarono 
semplici  soldati  nella  Compagnia  dei  Carabinieri  Genovesi,  com- 
pagnia  che  si  ricostituiva  allora  sotto  gli  ordini  del  distinto  capitano 
Razzeto. 

Dopo  due  o  tre  giorni  il  quartier  generale  erasi  trasferito  a  Di- 
gione  ed  i  tre  nostri  amici,  insieme  al  prode  comandante  deirarmata 
dei  Vosgi  (che  la  compagnia  dei  Carabinieri  Genovesi  mai  si  stac- 
cava  da  lui)  erano  venuti  in  questa  citta. 

Tale  a  un  dipresso  fu  la  narrazione  che  a  pezzi  e  boccom  strap- 
pammo  durante  il  desinare  ai  nostri  compagni,  che  si  mostravano 
di  un  buon'umore  e  di  una  gaiezza  invidiabile.  Entrarono  nella 
trattoria  e  si  unirono  con  noi  Macheri  e  Ghino  Polese,  appartenenti 
ambedue  alle  Guide,  e  gia  in  Francia  ambedue  fino  dai  primi  prin- 
cipii  della  campagna.  E  qui  furono  lunghi  discorsi,  domande  spesse, 
ripetute,  alia  maggior  parte  delle  quali  era  impossibile  dare  una 
risposta,  tanto  rapidamente  le  si  succedevano;  era  una  conversa 
zione  briosa,  scapigliata,  attraente. 

Noi  secondo  Pabitudinaccia  nostra  si  diceva  male  di  tutto  e  di 
tutti,  si  prendevano  in  burletta  certe  cose  che,  convengo  pel  primo, 
sarebbe  stato  assai  meglio  pigliare  sul  serio.  II  Rossi  soltanto  non 
prendeva  parte  alcuna  alle  nostre  maldicenze;  anzi  con  fare  affet- 
tuoso  e  paterno  ci  faceva  delle  reprimende  che  per  lo  piu  termina- 
vano  in  lirismi  ed  in  voti  di  esagerate  speranze  per  Tawenire.  II 
Rossi,  popolano  del  Pignone  aveva  la  fede  e  Fenergia  di  un  apostolo, 
la  fermezza  di  un  cospiratore,  il  fanatismo  del  martire.  Sempre 
uguale  a  se  stesso:  nella  sua  officina  a  Firenze,  nelle  prigioni  che 
spesse  volte  aveva  assaggiato  per  non  esser  troppo  devoto  al  pre- 
sente  ordine  di  cose,  nei  combattimenti  dove  aveva  a  incontrare 
poco  dopo  tanto  gloriosarnente  la  morte,  egli  avrebbe  creduto  di 


662  ETTORE   SOCCI 

peecare  smentendo  se  stesso,  anche  cosi  per  far  chiasso  in  una  con 
versazione  <Tamici.  A  sentir  lui  era  certo  il  trionfo  della  repubblica, 
non  solamente  in  Francia  ma  in  un  altro  paese  dove  egli  era  sicuro 
che  Garibaldi  ci  avrebbe  portato  appena  districati  gli  ultimi  conti 
coi  fedeli  alleati  della  Grazia  di  Dio,  Figuratevi  in  quella  combric- 
cola  di  scapestrati,  quale  effetto  facessero  le  parole  calme,  dolci  di 
questo  giovine,  la  cui  perdita  ha  lasciato  tanto  vuoto  nelle  file  del- 
Fesiguo  partito  democratico  della  mia  bella  Firenze. 

£  inutile;  il  Rossi  parlava  come  un  santo,  ma  quella  sera  doveva 
essere  baccano  :  si  festeggiava  il  nostro  arrivo  e  non  poteva  essere  a 
meno!  .  .  .  Squaglia,  Baldassini,  una  caterva  di  Livornesi  ci  rag- 
giunsero,  e  tutti  insieme  rammentandoci  le  vaghe  colline  della  no- 
stra  Toscana,  il  nostro  bel  cielo,  il  volto  delle  nostre  ragazze,  idea- 
lizzato  dalla  lontananza,  le  chiassose  baldorie  e  le  ribotte  di  un 
tempo,  incominciammo  a  intuonare  quelli  stornelli,  che  si  sentono 
tante  volte  sulle  labbra  gentili  delle  nostre  donne  del  popolo:  stor 
nelli  d'amore,  malinconici  come  il  ricordo  di  una  svanita  illusione, 
modesti  e  simpatici  come  i  fiorellini  dei  campi  che  Fhanno  ispirati, 
poeticamente  rozzi,  come  coloro  che  senza  alcuna  istruzione  Fhanno 
composti. 

Dagli  stornelli  passammo  alle  ardenti  canzoni  ed  agli  inni:  la 
Rondinella  di  Mentana^  VInno  di  Garibaldi,  la  Marsigliese  .  ,  .  Era  la 
voce  delFUmanita  e  della  Patria,  che  sorgeva  gigante  ad  oscurare 
quella  della  citta  e  della  famiglia,  e  che  in  mezzo  alia  orgia  ci  faceva 
ricordare  di  essere  uomini. 

Escimmo  cantando:  quella  sera  ci  si  sentiva  felici:  i  popolani  si 
accalcavano  al  nostro  passaggio  e  ci  accompagnavano  coi  loro  ap- 
plausi:  noi  Italiani  in  Francia  abbiamo  molta  fama  musicale,  molta 
piu  di  quella  che  ci  si  merita:  qualcuno  di  noi  per  esempio  stuonava 
piu  di  un  secondo  tenore  del  teatro  Nazionale,1  eppure  sentimmo 
ripetere  che  mai  coro  piu  accordato  del  nostro  erasi  sentito  in  Di- 
gione  .  .  .  Chi  si  contenta  gode! 

L'orologio  batt6  mezzanotte:  Fora  era  piu  che  canonica:  biso- 
gnava  ritirarsi  :  Rossi  che  voleva  saper  Fandamento  generale  delle 
cose  d'ltalia,  e  i  progressi  che  vi  aveva  fatto  Fidea,  e  come  il  popolo 
accogliesse  le  notizie  di  Francia,  voile  in  tutti  i  modi  accompagnarci 
a  casa. 


Nasionale:  un  teatro  popolare  di  Firenze. 


DA  FIRENZE  A  DIGIONE  663 

Povero  Rossi!  . . .  Venue  con  noi,  cominci6  a  domandare  . . , 
rna  noi  con  poco  rispetto  attaccammo  un  sonno  da  paragonarsi  so- 
lamente  a  quello  di  un  lettore  novellino  della  « Perseveranza »/ 
ed  egli  continu6  a  gestire,  e  scalmanarsi  per  una  buona  mezz'ora, 
in  mez2o  alle  note  piu  o  meno  sfogate  deile  nostre  trachee,  cambiate 
11  per  li  in  contrabbassi. 

VIII  [X]2 

...  La  vita  di  quei  primi  giorni  per  noi  non  fu  di  certo  una  vita  co 
lor  di  rose :  il  freddo  era  a  ventotto  gradi,  tre  sentinelle  geiarono  agli 
avamposti ;  moiti  volontarii  erano  negli  ospedali  assiderati  in  qual- 
che  parte  del  corpo  e  di  piu  ogni  giorno  noi  eravamo  sconcertati  dal 
tristo  spettacolo  di  una  infinite  di  bare  e  di  casse  da  raorto:  il  vaiolo 
ed  il  tifo  infierivano>  e,  come  se  fosse  poco  la  guerra,  diradavano  le 
file  dei  generosi  campioni  della  liberta.  —  Se  si  torna  e  un  miraco- 
lo ;  —  ripetevamo  tra  noi  —  qui  ci  e  il  tifo,  il  vaiolo  e  i  Prussiani.  — 
Era  tanto  spaventevole  Tidea  di  morire  di  malattia,  che  tra  i  nagelli 
che  ci  minacciavano  si  ponevano  in  ultima  linea  i  Prussiani:  la 
sorte  voleva  ben  esperimentare  la  tempra  dei  giovani  soldati  e  questi 
hanno  resistito  alia  prova. 

Basti  il  dire  che  si  era  tutti  infreddati ...  Oh!  la  prosa  desolante 
di  una  ostinata  infreddatura!  In  certi  momenti  invece  di  essere  tra 
i  seguaci  di  Marte,  si  poteva  creder  benissimo  di  essere  in  un  ospe- 
dale  di  tisici  al  terzo  stadio.  Ma  non  cessavano  per  questo  le  bur- 
lette,  ed  era  un  ridere  continuato  alle  spalle  di  qualcuno  che  se  la 
prendeva,  un  awicendarsi  di  prognostic!  di  cattivissimo  augurio 
che  terminavano  con  una  bevuta  alia  salute  di  tutti  noi  altri  . . . 
anche  questi  erano  mezzi  per  cacciare  la  noia  di  quei  giorni  mono- 
toni!  Eppoi  Digione  offriva  delle  distrazioni  anche  in  tempo  di 
guerra  e  coi  nemici  alle  porte.  Nel  palazzo  ducale  vi  e  un  museo, 
nel  quale  non  facevano  difetto  artistici  capolavori;  1'arte  italiana 
vi  era  degnamente  rappresentata  da  alcuni  quadri  di  Guido  Reni, 
da  una  Sacra  famiglia  di  Andrea  del  Sarto,  e  da  piccole  pitture  del 

i .  *  Perseveranza  » :  il  giornale  *  codino  »  o  « benpensante  »,  diretto  da  Rug- 
gero  Bonghi  (vedi  la  nota  zap.  483),  che  si  pubblicava  a  Mikno.  2-  Ab- 
biamo  soppresso  il  capitolo  ix  e  una  prima  parte  del  x:  il  brano  riportato 
corrisponde  alle  pp.  128-31  deiTedizione  da  noi  seguita. 


664  ETTORE   SOCCI 

Caracci  e  del  Francia;  alcune  battaglie  del  Borgognone,1  una  bel- 
lissima  collezione  di  litografie  all'acqua  forte,  delle  statue  moderne 
di  qualche  valore,  diversi  busti  di  uomini  celebri,  tra  cui  quello  di 
Piron,2  celui  qui  nefut  rien,  pas  mime  academicien,  i  superbi  mauso- 
lei  dei  duchi  della  Borgogna  offrivano  a  chi  desiderava  di  ammaz- 
zare  il  tempo  un  divertimento  geniale  e  istruttivo.  Un  bellissimo 
quadro  di  una  battaglia  era  sfondato  . . .  ci  dissero  che  autori  di 
tale  barbaric  erano  stati  i  Badesi  nella  prima  occupazione ;  i  soldati 
delle  monarchic,  quando  vincono,  diventano  vandali. 

Una  biblioteca,  assai  fornita  di  libri,  dava  un  altro  passatempo  a 
chi  voleva  far  Tuomo  grave:  per  gli  scapati  ci  era  il  Caffe  di  Parigi, 
dove  si  beveva  e  si  giocava:  II  era  il  convegno  del  fior  fiore  delPar- 
mata:  11  vedevi  Pelegante  ufEciale  di  stato  maggiore,  lo  svelto  Franc 
tireur,  il  mobilizzato  sornione,  lo  scapigliato  volontario,  tutti  af- 
fratellati  davanti  a  un  banco  di  lansquenet?  o  in  una  partita  al  ca- 
rambolo. 

Le  prime  ore  della  sera  noi  le  passavamo  al  Restaurant,  ciancian- 
do  tra  noi  e  mangiando  e  bevendo.  Dopo  si  andava  in  una  bottega 
di  tabaccaio,  vicina  al  nostro  palazzo,  cioe  al  palazzo  della  nostra 
ospite:  bottega  dove  avevamo  rinvenuto  una  gentile  donnina,  che 
ci  incantava  per  il  suo  spirito  e  per  la  sua  educazione. 

Questa  graziosa  ragazza  che  la  nostra  buona  fortuna  ci  aveva 
fatto  incontrare,  era  figlia  di  un  colonnello  che  era  stato  fatto  pri- 
gioniero  a  Sedan;  suo  zio  generale,  era  pur  egli  prigioniero  e  ferito 
gravemente  ad  una  coscia;  ora  la  stava  in  casa  della  tabaccaia  che 
Paveva  veduta  bambina  e  che  Pamava  come  una  mamma.  Parlava 
di  piani  di  guerra  con  la  medesima  facilita  con  la  quale  un'altra 
donna  parlerebbe  di  crochet ,  d'orli  o  di  ricami ;  non  aveva  alcuna 
fiducia  del  Bourbaki,  disperava  delle  sorti  della  Francia  e  attendeva 
un  combattimento  per  poter  recar  soccorso  ai  feriti,  tra  Pimperver- 
sare  della  mitraglia.  Un  tipo  curioso,  ma  piena  d'ardimento.  Una 
volta  diede  in  presenza  nostra  uno  schiaffo  ad  un  mobilizzato  della 
Provenza,  perche*  le  aveva  detto  che  era  arnica  dei  Prussiani;  cor- 
reva  tutto  il  giorno  per  gli  ospedali,  spendeva  le  sue  piccole  risorse 
in  quelle  ghiottonerie  che  son  tanto  gradite  ai  convalescenti  e  si 

i.  Jacques  Courtois  (1621-1675),  pittore  francese,  in  Italia  detto  il  Bor- 
gogmme.  Ebbe  grandissima  fama  come  pittore  di  battaglie.  2.  Alexis  Piron 
(1689-1773),  celebre  commcdiografo  francese.  3.  lansquenet:  hnziche- 
,  zeccfaiaetta:  &  an  gioco  d*azzardo. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  665 

sdegnava  se  qualcuno  le  proponeva  di  accompagnarla  in  queste 
pietose  escursioni:  presto  divenimmo  di  lei  amici . . .  era  tanto  ca- 
rina  che  non  avremmo  meritato  scusa  veruna  a  trascurarla! 

Dopo  cinque  o  sei  giorni,  dace  he  eravamo  arrivati,  fummo  ral- 
legrati  dai  concenti  piu  o  meno  armoniosi  di  trombe  che  suona- 
vano  marcie  italiane:  era  la  legione  Tanara,  che  veniva  per  fermarsi 
qualche  giorno  in  citta.  I  volontari  marciavano  come  vecchi  soldati 
e  avevano  un  piglio  guerresco  da  renderli  cari ;  il  primo  battaglione 
era  comandato  da  Ciotti;  il  secondo  da  Erba;  questo  aveva  una 
bandiera  tutta  rossa  sulla  quale  in  lettere  d'oro  stava  scritto :  Pa- 
tatrac.  I  cittadini  ogni  poco  ci  fermavano  per  domandarci  che  si- 
gnificava  quella  arcana  parola,  e  noi  rispondevamo  loro  che  signi- 
ficava  ci6  che  era  tanto  bramato  da  noi,1  ci6  che  ora  il  procuratore 
del  re  non  mi  permette  di  far  sapere  ai  Jetton. 

La  maggior  parte  dei  component!  delle  legioni  appartenevano 
alle  provincie  settentrionali  d'ltalia;  tra  gli  ufficiali  erano  molti  dei 
comproinessi  negli  afFari  di  Pavia,2  commilitoni  e  fratelli  d'idea  del 
martire  Barsanti.  Dietro  pochi  passi  da  loro  io  vidi  I'lmbriani . . . 
Povero  Giorgio!  . . .  Come  eri  contento  per  aver  raggiunto  final- 
mente  le  schiere  dei  generosi  difensori  di  quel  principio  che  avevi 
sempre  adorato! . .  .  Con  quale  affetto  tu  mi  stringesti  la  mano,  ve- 
dendo  che  io  pure  non  avevo  mancato  airappello!  Eri  giovane  e 
forte:  Tawenire  ti  si  dipingeva  davanti  con  i  colori  piu  rosei,  ep- 
pure  un  presentimento  vago,  indefinite,  ad  ora  ad  ora  ti  sorgeva 
nell'anima:  «chi  sa  per  quanti  di  noi  sara  tomba  questa  citta »  tu 
mi  dicesti;  e  Io  doveva  essere  anche  per  te;  ed  in  mezzo  al  com- 
battimento  mi  doveva  giungere  la  novella  della  tua  fine;  che,  ar- 
dimentoso  come  eri,  tu  dovevi  morire  tra  i  primi  ed  io  non  era  a 
te  vicino  per  poterti  dare  Pultimo  bacio  delFamicizia,  per  poter 
raccogliere  il  tuo  estremo  sospiro!3 

Erano  due  anni  che  non  ci  si  vedeva:  ci  eravamo  lasciati  ad  un 
banchetto,  dove  si  era  irmeggiato  alia  Repubblica  e  alle  barricate, 
ora  ci  si  doveva  ritrovare  per  essere  eternamente  divisi.  Eterna- 
mente! . . .  Oh!  la  dura  parola  per  chi  ti  ha  conosciuto! 

i.  rid  ...  da  noi\  il  crollo,  il  patatrac  della  monarchia  c  1'avvento  della  re- 
pubblica  in  Italia.  2.  qffari  di  Pavia:  siiirinsurrezione  di  Pavia  e  lafud- 
lazione  del  Barsanti,  vedi  pp.  459-60  e  la  nota  i  a  p.  460.  3.  Povero  .  .  . 
tospiro:  si  osservi  cc«ne  la  sincera  e  nobile  comrnozione  si  atteggi  nel  Socci 
secosndo  i  modi  gia  allora  ccmsunti  del  romanticismo.  £  un'o&servazione  che 
dovremmo  ripetere  per  molti  luoghi  della  sua  narrazlone. 


666  ETTORE   SOCCI 

Insieme  ad  Imbriani,  poeta  come  lui,  biondo,  bello  e  di  gentile 
aspetto,  come  il  Manfredi  di  Dante,  era  Antonio  Fratti  di  Forll.1 

Non  lo  conoscevo  ma  lo  amai  subito.  II  suo  fare  gentile,  le  sue 
movenze  aristocratiche,  la  bonta  innata  che  da  ogni  suo  gesto,  da 
ogni  suo  atto  traspariva,  mi  dissero  subito  che  egli  alia  dolcezza 
della  fanciulla  accoppiava  un  cuore  da  leone.  I  due  giovani  non  si 
abbandonavano  mai,  non  avevano  accettato  alcun  grado,  quantun- 
que  avessero  gia  fatto  due  campagne ;  erano  insomma  due  cavalieri 
errand  delPideale. 


ix  [xi] 

Riceiotti  arrivava  in  questo  frattempo  a  Digione,  dopo  aver  so- 
stenuto  diversi  piccoli  scontri  con  recognizioni  nemiche,  scontri  in 
cui  aveva  sempre  ottenuti  indiscutibili  vantaggi.  II  di  lui  arrivo  fu 
per  noi  una  vera  festa:  il  giovine  ed  ardito  condottiero  che  gia  erasi 
acquistata  tanta  gloria  in  questa  campagna,  troppo  ci  aveva  fatto 
temere  per  il  suo  spensierato  coraggio  ed  era  di  troppa  utilita  al 
nostro  esercito,  perch6  non  ne  valutassimo  Parrivo  come  un  lieto 
awenimento.  Dipiu  nella  sua  brigata  noi  avevamo  amici  carissimi : 

10  Strocchi,  POrlandi  Cardini  erano  nei  Francs  Chevaliers  de  Cha- 
tillon,  squadrone  di  cavalleria  che  il  prode  e  simpatico  figlio  di 
Garibaldi  aveva  organizzato  dopo  la  memorabile  impresa  che  ag- 
giunse  non  poco  lustro  alle  armi  italiane. 

Quasi  nel  medesimo  tempo  veniva  da  Chambery  il  simpatico 
Canzio,  portando  seco  circa  duecento  uomini,  che  uniti  a  quelli 
del  deposito,  a  cui  eravamo  stati  ascritti  in  principle,  formarono 
un  battaglione  sotto  gli  ordini  del  maggiore  Perla,  battaglione  che 
fu  denominato  dei  Cacdatori  di  Marsala.  Cavallotti,2  Rossi  di  Lodi 
e  tanti  altri  generosi  si  trovavano  in  quelle  file:  essi  avevano  lasciato 

11  Frapolli  per  essere  in  prima  linea. 

La  gioia  di  questi  arrivi  fu  per  noi  un  po'  amareggiata  dalla  no- 

i,  Antvmo  Fratti:  vedi  k  nota  I  a  p.  546.  2.  Giuseppe  Cavallotti,  nato  a 
Milano  nel  1841,  aveva  combattuto  come  garibaldino  nel  1860  a  Capua>  e 
ncU'csercito  regolarc  durante  k  guerra  del  1866.  Arrestato  con  molti  altri 
per  cospirazione  repubblicana  nel  1869,  appena  fu  Uberato,  nel  novembre 
<kl  1870,  da  un'amnistia,  corse  in  Francia.  Faceva  parte  del  battaglione 
Perla.  Mori  il  21  gennaio  1871  sotto  Digione.  II  fratello  Felice,  poeta  e  de- 
putato  repubblkano,  compose  in  sua  memoria  il  canto  intitokto  Dtfon. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  667 

tizia  che  i  famosi  cavalli  che  dovevano  arrivare  con  Canzio,  sareb- 
bero  arrivati  due  o  tre  giorni  dopo  . . .  Se  ci  avessero  detto  che  non 
dovevano  arrivare  mai,  saremmo  usciti  dai  gangheri  e  chi  sa  quale 
determinazione  avremmo  preso! 

Ai  nuovi  volontari  furono  distribuite  delle  carabine  Wtincester* 
bellissime  armi  che  forse  esigevano  un  po*  troppo  perizia  in  chi  le 
adoperava;  avevano  esse  diciotto  colpi  di  riserva,  erano  elegantis- 
sime  e  quando  se  ne  vedcva  una  in  mano  di  qualche  Garibaldino, 
ci  si  affollava  intorno  a  lui,  e  con  noi  si  affollavano  a  bocca  spa- 
lancata  i  buoni  popolani  della  citta;  difatti  nelle  piazze,  nelle  vie 
principali  tu  non  avresti  veduto  che  gnippetti  di  gente,  e  in 
mezzo  a  questi  un  volontario  che  dava  tutte  le  spiegazioni  pos- 
sibili  e  immaginabili  in  mezzo  allo  stupore  e  alia  soddisfazione  ge- 
nerale. 

Bisogna  esser  giusti:  neirultimo  periodo  della  campagna  i  vo- 
lontari  non  erano  armati  male :  i  Carabinieri  Genovesi  avevano  per 
esempio  delle  buone  carabine  Spencer,  con  sette  colpi  di  riserva  nel 
calcio :  unico  danno,  come  dicevo  poco  anzi,  era  la  difficolta  con  cui 
potevano  adoperarsi  da  mani  inesperte;  per  cui  avrei  reputato  cosa 
molto  migliore  il  dispensare  fino  dal  bel  principio  quei  Remingtons 
che  furono  dispensati,  come  sempre  succede,  quando  non  ce  ne  era 
piu  alcun  bisogno. 

Ai  nostri  soldati  non  si  distribuiva  alcun  rancio :  si  dava  loro  un 
franco  il  giorno,  se  erano  di  fanteria;  uno  e  venticinque  centesimi, 
se  di  cavalleria:  questo  prowedimento,  molto  noio&o  quando  le 
truppe  si  trovavano  in  marcia  o  nei  paesetti,  era  assai  comodo  quan 
do  si  trovavano  in  Digione.  I  cittadini  non  si  potevano  infatti  mo- 
strare  ne*  piu  ospitali,  ne*  piu  generosi:  accoglievano  a  braccia  aperte 
nelle  loro  case  i  giovani  loro  difensori  e  H  trattavano  cavalleresca- 
mente.  —  Gran  bella  citta  Digione :  —  mi  diceva  un  mio  amico  —  an- 
che  con  pochi  soldi  ci  e  da  farsi  un  peculio!  . . .  —  £  un  fatto  che 
gli  abitanti  della  Cote  d'Or  ci  volevano  un  ben  delFanima;  bastava 
che  le  trombe  del  Tanara  suonassero  la  ritirata  perch6  s'improwi- 
sasse  una  dimostrazione  con  grandi  ewiva  a  Garibaldi  e  all' Italia; 
allorche"  fu  data  onorata  sepoltura  nel  cimitero  alia  salma  del  bravo 
tenente  Anzillotti,  tutta  la  popolazione  prese  parte  alk  cerimonia 
pietosa,  ed  assist^  religiosamente  ai  discorsi  del  Tanara  e  di  Canzio, 
quantunque  fossero  proferiti  in  lingua  Miana:  si  erano  troppo 
i.  Weincester:  Winchester. 


668  ETTORE   SOCCI 

assaggiati  i  soldati  della  grazia  di  Dio  per  non  far  buon  viso  ai 
soldati  della  Liberia. 

La  concentrazione  di  truppe  continuava;  giungeva  pure  in  Di- 
gione  Faltra  legione  italiana  comandata  dal  Ravelli:  questa  era  co- 
stituita  di  tre  battaglioni,  della  forza  di  circa  quattrocento  uomini 
per  ciascheduno;  se  il  nome  del  comandante  giungeva  a  tutti  nuo- 
vissimo,  vi  erano  sotto  di  lui  bravi  soldati  e  bene  esperimentati 
patriotti.  I  rnaggiori  Pastoris,  Rav£  e  Mereu,  i  capitani  Becherucci, 
Romanelli,  Narratone  e  Sartori,  il  tenente  Ademollo  e  tanti  altri 
che  non  cito,  perch6  ci6  mi  trarrebbe  fuori  dal  seminato.  La  legione 
era  organizzata  militarmente  piu  di  ogni  altra;  aveva  anche  una 
piccola  fanfara,  n£  eccellente,  n£  perfida,  ma  lassu  applauditis- 
sima. 

II  trovarsi  tutti  riuniti  produsse  un  brio  generale:  mai  le  strade 
della  capitale  della  vecchia  Borgogna  hanno  assistito  a  un  rnovi- 
mento,  a  un  brusio  simile  a  quello  di  quelle  belle  serate:  ogni  poco 
si  riconosceva  qualcuno :  ogni  poco  uno  schioppettio  di  baci  ti  sol- 
leticava  dolcemente  Porecchio;  e  conforti  reciproci,  e  auguri  di  fu 
ture  vittorie,  e  strette  di  mano  e  ricordi  del  passato  s'incrociavano, 
si  avviceridavano  tra  i  varii  individui.  Oh!  . .  .  Chi  ci  rende  quei 
moment!  felici  in  cui  non  si  pone  mente  al  domani,  in  cui,  tanto 
vicini  alia  morte,  si  ritrova  la  caima  e  Pallegria  del  fanciullo,  e  la- 
sciata  ogni  maschera  di  convenience  sociali,  si  parla  col  cuore  sulla 
bocca,  e  si  da  Fultimo  soldo  alfamico,  persuasi  di  non  fare  nemme- 
no  una  gentilezza,  ma  di  adempire  un  dovere! . . .  E  ancora  qui 
dal  tavolino  della  mia  camera,  raffazzonando  questi  appunti,  io  vi 
veggo  sfilare  a  me  davanti,  o  simpatici  volti  dei  miei  compagni  d'ar- 
me,  e  mi  par  d'essere  tomato  in  mezzo  alle  vie  rallegrate  dal  vostro 
chiasso  e  dalle  vostre  canzoni:  molti  di  voi  non  sono  piu,  ma  se 
sokanto  chi  lascia  credit^  d'affetto  ha  gioia  dairurna,1  voi  vivrete 
eternamente  nella  memoria  del  popolo,  come  vi  giuro  che  eterna- 
mente  vivrete  nella  mia. 

Airoscuro,  come  eravamo,  sui  movimenti  del  nemico,  tutti  era- 
vamo  convinti  che  Garibaldi  avesse  intenzione  di  tentare  un  gran 
colpo.  fe  pur  la  bnitta  cosa  esser  soldato! .  . .  Non  saper  mai  nulla 
su  quello  che  hanno  intenzione  di  fare  i  superiori  ed  avere  in  capo 
una  curiosita,  come  avevo  io! 

i.  soltanto ,  .  .  dall'uma:  &  un  evidente  richiamo  ai  w.  41-2  dei 
foseoliani. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  669 

La  nostra  perplessita  non  poteva  durar  molto  a  lungo:  la  dorne- 
nica,  15  gennaio,  una  guida  che  doveva  portare  un  dispaccio  al 
maggiore  Farlatti,  torn6  quasi  subito,  annunciandoci  che  a  poco 
piu  di  tre  chilometri  dalla  citta  vi  erano  i  Prussian!.  In  questa  stessa 
domenica,  passeggiando  lungo  il  viale  del  Parco>  bellissima  pas- 
seggiata  con  un  getto  d'acqua  da  ammirarsi,  mi  sentii  toecar  leg- 
germente  sulle  spalle.  Mi  voltai  immediatamente,  e  non  potei  fare 
a  meno  di  proferire  un  grido  di  stupore. 

Quella  mano  che  mi  aveva  cosi  gentilmente  toccato,  era  la  mano 
d'Aissa.  La  gentile  ragazza  indossava  un  bellissimo  costume  da 
vivandiera,  tutto  in  velluto  nero ;  il  suo  piedino  aristocratico  faceva 
mostra  di  tutta  la  sua  eleganza,  in  virtu  della  corta  sottana;  un  pic 
colo  revolver  le  stava  alia  cintola  .  f  *  era  insomma  un  bel  tipo. 

—  Voi  qui  ?  —  le  dissi. 

—  Mi  credevate  incapace  di  mantenere  una  promessa. 

—  No  .  .  .  ma  .  . .  e  con  chi  siete  ? 

— -  Sono  con  i  mobilizzati  dell'Isere  . . .  non  vedete,  son  vivan 
diera! 

—  Mi  rallegro  con  voi .  .  .  E  ci  potremo  vedere  ? 

—  Chi  sa  . .  .  ora  vi  lascio! 

—  Restate  un  pochino  . .  . 

—  £  impossible  . . .  son  la  col  mio  ...  col  mio  . . .  non  so  come 
chiamarlo  . . .  e  geloso  come  una  iena  ...  A  ri  vedere  i. 

Le  strinsi  la  mano,  e  guardai  questo  . .  .  non  so  come  chiamar 
lo  ...  e  vidi  un  capitano  della  guardia  mobile,  brutto  come  un  bri- 
gadiere  delle  guardie  di  sicurezza  o  poco  meno;  piccolo  e  grasso 
come  una  botte.  Capii  la  di  lui  gelosia  .  .  .  e  lo  compiansi :  egli  non 
era  che  un  pas  per  tout1  per  la  awenente  fanciulla,  che  aveva  trovato 
modo  di  distrarsi  rendendosi  utile  a  quella  societa,  dalla  quale  aveva 
ricevuto  tanti  sgarbi  e  alia  quale  aveva  fino  allora  arrecati  tanti 
danni. 

Avevo  appena  veduta  questa  vecchia  conoscenza  (dico  vecchia 
perche  una  conoscenza  di  un  mese  in  quegli  eccezionali  momenti 
si  pu6  dichiarare  antichissima)  quando  comincid  a  cadere  a  larghi 
fiocchi  la  neve,  e  questa  persist^  ostinatamente  fino  alia  sera.  Ci 
alzammo  al  mattino  dipoi  e  continuava  la  poco  gradevole  sinfonia : 

i.  pas  per  tout  (cioe,  naturalmente,  passe -par  tout):  il  Socci  vuol  dire  che 
qiiel  capitano  era  per  Aissa  un  mezzo  per  raggiungere  Tesercito  dei  Vosgi. 


670  ETTORE   SOCCI 

il  negait,  il  negcdt^  il  negcdt*  proprio  come  nella  ritirata  di  Russia,  cosi 
ammirabilmente  dipinta  da  Victor  Hugo  nei  suoi  Ch&timents.  Fi- 
guratevi  quale  allegria  non  fosse  per  noi  il  vedere  tutti  quei  tetti 
acuminati,  candidi  come  Panima  di  una  verginella;  il  passeggiare 
quelle  vie,  quelle  piazze  dove  si  affondava  fino  a  mezza  gamba,  Pam- 
mirare  i  nasi  dei  nostri  compagni  di  sventura  rossi  come  peperoni, 
seccati  chi  sa  da  quanti  anni!  , . . 

x  [xn] 

Cosi  giimgemmo  al  di  17  gennaio  delPanno  di  grazia  1871. 

II  cielo  si  era  un  po'  rischiarato:  ci  destammo  un  poco  piu  tardi 
del  solito,  poich£  in  dormiveglia  ci  sentivamo  solleticare  gli  orecchi 
dal  monotono  tic  tac  delPacqua  che  sgocciolava  dai  tetti,  su  cui 
si  sfaceva  la  neve. 

Andammo  al  quartiere,  nulla  di  nuovo:  allora  lasciati  i  compa 
gni,  me  ne  tornai  a  casa  a  tener  compagnia  al  Materassi  che  avendo 
mandato  ad  allargare  uno  stivale,  si  trovava  nella  dura  situazione 
o  di  marciare  a  pi&  nudo,  o  di  aspettare  il  comodo  del  cittadino  cal- 
zolaio;  era  sdraiato  in  poltrona,  ed  in  faccia  ad  un  caminetto  le  cui 
fiammate  eloquentemente  addimostravano  le  prodigalita.  .  .  dei 
nostri  padroni  di  casa.  Materassi  aveva  prescelto  quest'ultimo  par* 
tito,  e  con  una  posa  tra  i!  Pacha  e  il  cuor  contento  aspirava  volut- 
tuosamente  le  boccate  di  fumo  di  una  pipa  da  dieci  soldi,  che 
riteneva  come  un  ricordo  di  Lione. 

lo  era  sdraiato  su  di  un'altra  poltrona  davanti  a  lui.  Parlammo 
per  due  ore  buone:  si  parld  delle  nostre  padroncine  di  casa  che  tutti 
elogiavano  e  che  noi  non  avevamo  per  anche  vedute:  si  fecero  un 
centinaio  di  progetti  per  giungere  ad  ammirare  queste  famose  belta : 
si  parlo  di  una  nuova  mitragliatrice  che  avrebbe  ottenuto  portento- 
sissimi  effetti :  questo  nuovo  ordigno  di  guerra,  invece  di  mitraglia, 
doveva  vomitar  dei  inarenghi,  e  le  truppe  delFinimico  sarebbero 
state  sbaragliate  piu  presto  . , .  ma  sul  piu  bello  della  discussione, 
sentimmo  un  gran  rumore  per  le  scale:  Puscio  s'apri  improwisa- 
mente,  la  nostra  padrona,  con  una  feonomia  da  metter  paura  in 
corpo  alPuomo  piii  sconclusionato  del  mondo,  si  butt6  ai  nostri 
piedi,  gridando  a  squarciagola:  —  Les  Prussians,  les  Prussiensl 

.  .  .  il  megmt:  ciofe  il  neigeait,  quasi  il  lugtibre  ritornello  iniziale 
v%  xin)  nei  Ch&iments  vittorughiani. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  671 

—  Les  Prussiem?/  —  grida  il  Materassi.  —  Che  siano  giu  per  le 
scale?! 

—  Ma  dove  .  . „  ma  come  . .  ,  ma  quando  ? 

—  Per  carita,  partite, 

—  Oh!  non  abbiamo  bisogno  delle  vostre  preghiere!  Prendo  le 
scale  e  vado  . . . 

—  \V . .  .  prima  a  pigliarmi  lo  stivale  .  . .  eppoi  partiremo  in- 
sieme. 

—  Ma  ora  . , . 

—  Permetteresti  che  io  non  venissi  con  voi  ? 

—  Hai  ragione:  in  due  salti,  vado  e  torno. 

Scendo  in  strada:  un  movimento  da  dar  le  vertigini:  un  correre 
da  tutte  le  parti:  un  ritirarsi  continuo  dei  cittadini  dentro  le  porte; 
a  tutte  le  cantonate  squilli  di  tromba  che  chiamavano  a  raccolta; 
e  un  chiudersi  di  botteghe,  un  vocio  di  donne  che  dalle  finestre  si 
raccomandavano  . . .  insomma  una  desolazione,  uno  spavento  tale 
da  non  farsene  idea;  spavento  e  desolazione  che  non  hanno  altro 
riscontro  alPinfuori  di  quello  prodotto  da  false  notizie  nella  serata 
del  ventitre*. 

Via  via  che  mi  inoltravo  verso  la  piazza,  vedevo  battagiioni 
di  guardia  mobile  che  s'indirizzavano  verso  le  porte  della  citta; 
il  contegno  di  queste  genti  non  era  bellicoso  di  certo  e  sembravano 
piu  montoni  condotti  al  macello,  che  difensori  di  un  sacrosanto 
principio.  Difaccia  alia  Maine  incontrai  la  legione  Tanara:  i  Ga- 
ribaldini  cantavano  Addio  ima  bella  addio  e  interrompevano  Tinni, 
soltanto  per  prorompere  in  acclamazioni  entusiastiche  alia  Re- 
pubblica  e  a  Garibaldi,  Eppoi  mi  trasvolarono  difaccia  agli  occhi 
due  batterie  con  i  cavalli  a  trotto  serrato;  quindi  venne  la  volta 
della  brigata  Ricciotti;  il  simpatico  giovine  era  alia  testa,  e  i  suoi 
Francs  tireurs,  col  volto  raggiante  di  gioia,  colla  testa  alta,  col  passo 
accelerato,  quasiche"  loro  tardasse  il  trovarsi  a  fronte  coll'oppressor 
della  Francia,  avevano  intuonato  il  magnifico  inno  dello  Ch6nier  :* 

c'est  la  repmMique*  qm  no/us  appdle 


Un  Frattfms  doit  vwre  pour  ette 
et  pour  elle  un  Francois  doit  motmr, 

I.Joseph  Marie  Chemer  (1764-1811),  fratello  del  piu  celebre  Andrea. 
famoso  di  lui  questo  Chant  du  depart. 


672  ETTORE   SOCCI 

«Dunque  ci  siarno  per  dawero?»  dicevo  tra  me  e  me,  esaltato 
anche  io  dalla  febbre  generale,  trascinato  dal  potentissimo  fascino 
dell'entusiasmo.  -  A  rivederci  a  fra  poco,  o  giovani  soldati  della 
liberta,  o  eroica  falange  del  pochi  che  tra  1'ignavia  dei  piu  vogliono 
essere  gli  apostoli,  e  i  rivendicatori  delFumanita  conculcata!  .  .  . 
molti  di  voi  stasera  non  risponderanno  alPappello,  le  vostre  file 
diradera  la  mitraglia:  siete  giovani,  ardenti,  pieni  di  salute  ...  tra 
poco  sarete  mutilati .  . .  e  che  importa  ?...!!  vostro  nome  rested 
eterno  sulle  labbra  dei  reietti  e  dei  diseredati,  unica  gente  che  ha 
cuore:  essi  insegneranno  ad  adorarvi,  siccome  martiri,  ai  figlir  e 
voi  non  morirete  del  tutto  .  .  . 

Ai  generosi 

giusta  di  gloria  dispensiera  2  morte.1 

Arrival  dal  ciabattino :  lo  stivale  era  nell'identico  stato  di  quando 
era  entrato  in  bottega:  lo  agguantai  non  senza  stiacciar  qualche 
moccolo  e  a  passi  di  corsa  ripresi  la  via. 

O  .  .  .  sentite  un  po*  cosa  mi  va  a  capitare  per  dato  e  fatto  di  quei 
baggei  di  mobiiizzati,  allucinati,  secondo  il  solito,  da  una  paura 
birbona!  . .  . 

II  vedere  un  individuo,  vestito  meta  da  cittadino  e  meta  da  sol- 
dato,  vederlo  andare  di  corsa  ed  esaminando  la  di  lui  fisonomia  che 
certo  non  era  francese,  fece  nascere  in  quei  cervelli  balzani  Pidea 
che  Findividuo  in  questione  non  fosse  che  una  spia  dei  Prussian!. 
Chi  sa  da  quanto  tempo  io  era  pedinato  da  coloro  che  invece  di 
correre  in  faccia  ai  nemico  preferivano  restare  in  citta  ad  arrestare 
chi  voleva  andarci ;  io  non  mi  era  minimamente  avveduto  di  nulla. 
Allo  svolto  di  Rue  Piron,  mi  trattiene  nella  disordinata  fuga  un 
braccio  che  mi  avvinghia  alle  spalle :  mi  volto  per  rispondere  per  le 
rime  al  viilano  che  cercava  fermarmi  e  mi  veggo,  in  men  che  si 
dice,  circondato  da  una  folia  di  gente,  che  mi  squadrava  in  cagne- 
sco,  e  che  emetteva  grida  tutt'altro  che  rassicuranti. 

—  Cosa  volete?  —  proferii  io  maravigliato. 

—  C*e$t  %m  espion  ...  -  c*est  un  Prussten! 

—  Ma  no  .  . .  io  sono  un  Garibaldino!  —  risposi  in  francese. 

—  Non  e  vero . . .  non  e  vero!  —  urlava  piu  che  mai  indemoniata 
k  folia  . . . 

—  Ma  vi  dico  di  si . . .  ve  lo  garantisco. 

i.  Foscok>»  Stpokri,  \*v,  220-1. 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  673 

—  Alia  Mcdrie,  alia  Mcdrie. 

—  Dalli  alia  spia!  . . . 

—  Abbasso  i  Prussian! ! 

—  Caput  a  Bismarkl1 

Non  ci  e  che  dire:  io  doveva  esser  proprio  una  spia;  garantisco 
che  in  tre  campagne,2  e  tra  le  mille  peripezie  che  hanno  agitato  la 
mia  esistenza,  garantisco  di  non  aver  mai  passato  un  momento 
piu  brutto  di  quello.  La  folia  aumentavasi  a  vista  d'occhio  e  di 
momento  in  momento  diventava  piu  minacciosa:  mi  aspettavo  di 
udir  gridare :  a  la  lanterne  e  di  sentirmi  appiccare  ad  uno  dei  pros- 
simi  lampioni. 

Per  buona  fortuna  passo  il  nostro  tenente,  che  attirato  dal  chias- 
so,  si  awicin6  per  curiosita  al  gruppo  tumultuante;  non  sto  a  de- 
scrivere  lo  stupore  dal  quale  fu  preso,  vedendomi  in  mezzo  a  quei 
disperati ;  il  tenente  era  in  alta  montura  e  tutti  gli  fecero  largo. 

—  Che  c'e?  —  mi  domando. 

—  Si  figuri,  che  mi  hanno  preso  per  una  spia! 

—  Baie! 

—  Sul  mio  onore. 

II  tenente,  che  ne  avea  pochi  degli  spiccioli,3  fece  allora  una  pa- 
ternale  numero  uno  a  quei  mobilizzati  che  pretendevano  di  fare  il 
sopracci6  a  tre  chilometri  dal  campo  di  battaglia:  questi  accettarono 
la  reprimenda  a  viso  basso  e  confuse  e  ci  lasciarono  passare. 

Appena  scongiurato  il  pericolo,  io  mi  rivolsi  al  mio  salvatore  e 
gli  domandai :  —  Ma  dunque  ci  si  batte  sul  serio  ? 

—  Sembra  di  si . . .  Anzi  venga  con  me  al  quartier  generale,  che" 
presto  partiremo  anche  noi! 

—  A  piedi  ? 

—  Ben'inteso:  quando  non  ci  sono  cavalli! 

—  Vado  ad  awertire  Materassi  e  vengo  subito. 

—  Gli  raccomando  sbrigarsi! 

—  Non  dubiti:  vado  e  torno! 

Materassi  mi  accolse  con  un  diluvio  d'imprecazioni,  a  causa  del 
ritardo:  rimprecazioni  arrivarono  poi  al  grado  superlativo,  quando 
io  gli  mostrai  lo  stivale,  preciso  come  Taveva  dato  al  mattino.  Che 

i .  Otto  von  Bismarck*  il  cancelliere  prussiano,  proprio  in  quei  giorni  faceva 
proclamare  in  Versailles  la  costituzione  dell'Inipero  germanico.  Caput ^  cioe, 
tedescamente,  Kaput, « abbasso ».  2.  in  tre  campagne:  nel  Trentino  (1866), 
nell'Agro  romano  (1867),  nei  Vosgi.  3.  che  ne  . . .  spiccioli:  che  non  era  di- 
sposto  a  pazientare  e  a  lasciar  correre  (locuzione  |K>polareggiante  toscana). 

43 


674  ETTORE    SOCCI 

fare  ?  Tempo  da  perdere  non  ce  ne  era  dicerto :  bisogn6  prendere  un 
eroico  proponimento,  e  con  un  rasoio  spaccarlo  sopra  la  fiocca  .  . . 
Se  Materassi  avesse  saputo  che  doveva  terminare  la  campagna  con 
quello  spacco  non  troppo  elegante,  chi  sa,  se  avrebbe  avuto  il 
braccio  tanto  fermo! 

In  due  salti  si  arriva  al  quartier  generale,  i  nostrl  compagni  erano 
gia  partiti :  si  domanda  alle  sentinelle  per  dove  hanno  preso  ed  esse 
c'indicano  la  vicina  strada  della  stazione;  allunghiamo  il  passo  e 
tentiamo  raggiungerli :  per  la  strada  non  s'incontra  nessuno :  tutto 
e  calma  alFintorno  ed  un  combattimento  non  pu6  essere  ancora 
incominciato :  meno  male,  pensiamo  tra  noi,  sentiremo  il  primo 
saluto,  ma  piu  ci  si  avvicina,  maggiore  e  il  silenzio. 

Fatto  appena  un  chilometro  sempre  per  una  strada  fiancheg- 
giata  da  campi  che  ci  sembrano  incolti,  e  da  estese  pianure,  su 
cui  si  alzavano,  a  poca  distanza  da  noi,  i  due  promontori  di  Fon 
taine  e  Talant,  cominciammo  a  vedere  dei  Franchi  tiratori,  del- 
le  Guardie  mobili,  dei  Garibaldini,  tra  cui  qualche  Guida.  Do- 
mandiamo  il  perche  se  ne  tornano,  ed  essi  ci  rispondono  che  tra 
poco  tutte  le  truppe  rientreranno  in  Digione:  che  i  Prussian!  che 
erano  alle  viste,  nonch6  avanzare,  si  sono  ritirati,  e  che  gli  Chasseurs 
han  preso  due  cavalli  ai  cavalier  i  nemici.  Quest  e  informazioni  erano 
piu  che  veritiere:  pochi  momenti  dopo,  passava  il  Generale  e  lo 
stato  maggiore;  noi  rientrammo  in  citta,  insieme  alia  legione  Ta- 
nara,  le  cui  trombe  suonavano  gioiosamente.  Non  si  era  trattato 
che  di  un  falso  allarme.  Un  falso  allarme  equivale  ad  un  appunta- 
mento  al  quale  manchi  la  bella  dei  nostri  pensieri:  io  preferisco 
cinque  battaglie,  ad  una  sola  delle  ore  penose  dell'aspettativa. 

Quella  sera  la  citt£  fu  rawivata  da  un  chiasso  dei  piu  clamorosi : 
o  male  o  bene  si  era  veduto  che  dei  Prussiani  ce  ne  era  dintorno 
a  noi,  e  cosi  avevamo  acquistato  la  certezza  di  potersi  levare  il  piz- 
zicore  dalle  mani;  non  mi  provo  nemmeno  a  raccontare  tutte  le 
strampalerie  che  furono  proferite :  tutti  volevano  dir  la  sua  su  quella 
sorpresa  deirinimico:  chi  diceva  che  era  un  corpo  sbandato,  chi 
che  avevano  avuto  paura,  chi  che  credevano  pigliarci  airimpensata: 
In  tutti  per6  era  certezza,  che  poco  poteva  tardare  una  battaglia. 

La  mattina  dipoi,  mentre  eravamo  a  chiacchierare  sul  piu  sul 
meno  sulk  piazza  della  Mame,  vedemmo  il  colonnello  Bossi  con 
due  guide,  e  dietro  a  loro  una  diecina  di  prigionieri  prussiani.  Ap- 
parteoevano  tutti  al  61°  reggimento,  e  procedevano  stupidi  e  mogi 


DA  FIRENZE  A   DIGIONE  675 

in  mezzo  a  due  file  di  popolo  che  non  risparmiava  di  tanto  in  tanto 
qualche  espressione  poco  gentile  al  loro  indirizzo.  Cercammo  awi- 
cinarli :  ia  maggior  parte  di  loro  bisticciava  alia  peggio  il  francese : 
ci  parlavano  delle  loro  famiglie,  come  ne  parlerebbe  un  ragazzo 
lontano:  ci  chiesero  con  infantile  curiosita  dove  li  avrebbero  man- 
dati,  e  ci  domandarono  se  era  loro  permesso  di  accender  la  pipa 
e  fumare.  lo  ho  osservato  che  nessuna  altra  categoria  di  persone  e 
disposta  a  bamboleggiare,  come  i  soldati:  il  pifferaro  scozzese  tra 
rimperversare  della  mitraglia  a  Waterloo  ripeteva  le  canzonette 
delle  montagne  native;  il  coscritto  bacia  i  ragazzi  che  incontra  e  ii 
porta  in  braccio  con  quella  delicatezza  con  cui  non  son  use  a  por- 
tarli  le  serve:  il  prigioniero,  tra  le  schiere  nemiche,  spesso  tra  i 
fischi  del  popolo,  si  perde  in  chi  sa  quali  vaneggiamenti,  e  fuma 
imperrurbabile.  Cosi  e:  i  regolamenti  rnilitari  o  sviluppano  la  ma- 
linconia  in  modo  da  render  gli  uomini  stupidi,  o  li  rendono  feroci 
piu  delle  belve.  Quanto  saremo  civili  quando  avremo  abolite  le 
caserme,  questo  ricettacolo  di  gente  che  divora  la  parte  piu  grossa 
del  benessere  di  tutti,  a  beneficio  di  quello  di  un  solo! 

Questo  piccolo  incidente  ci  rallegro  un  pochette,  ma  la  nostra 
allegria  crebbe  a  mille  doppi  per  una  buona  notizia  che  ci  fu  comu- 
nicata  al  quartier  generale.  In  un  piccolo  villaggio  poco  distante 
da  Fontaine  una  recognizione  prussiana  si  era  impadronita  di  cen- 
toventi  capi  di  bestiame,  e  poi  se  ne  era  andata  zitta  zitta  e  quasi  di 
corsa.  II  coraggioso  colonnello  Lhoste1  dei  Franchi  Tiratori  da  al- 
cuni  paesani  era  stato  informato  del  furto  che  avevano  commesso 
i  campioni  della  Grazia  di  Dio  e  della  legittimitk.2  Appiattatosi  con 
mold  suoi  uomini  in  una  boscaglia,  attese  al  varco  i  predoni,  e 
mentre  questi  se  ne  andavano  sicuri  e  canticchiando  a  bassa  voce 
certe  canzoni  che  se  erano  tedesche,  non  avevano  niente  che  fare 
colle  ispirate  melodic  che  si  sentono  sulle  rive  del  Danubio  e  del 
Reno,  una  searica  a  bruciapelo  provocd  una  confusione  universale. 
Chi  cadde  nei  fossati,  chi  ur!6  come  uno  spiritato,  qualcuno  rimase 
ferko,  i  morti  furono  pochissimi . . .  chiunque  era  in  grado  di 


1.  II  cot&mellQ  Lhoste,  comandante  dei  franchi-tiratori,  fu  raortalmente  fe- 
rito  il  giorno  dopo  (22  gennaio).  Bbzoni  lo  descrive  rnentre  *  gemeva  mori- 
bondo  nel  suo  letto  di  dolore»  che  non  doveva  abbandonare  se  non  cada- 
vere*  (Impressiom  di   un  volontario  all*  esercito  dei  Vosgi,  cit.,  p.  314). 

2.  ddla  Ugtit&mta:  del  Jegittimismo,  deirinalienabile  diritto  dei  sovrani  a 
mantenere  il  tixmo  ereditario;  vedi  la  nota  i  a  p.  651, 


676  ETTORE  SOCCI 

farlo,  se  1'era  battuta  senza  rifiatare  nemmeno,  Cosi  fu  ripreso  il 
bestiame,  e  il  bravo  Lhoste  coi  bravissimi  suoi  volontari  torn6  nel 
villaggio  in  mezzo  alle  benedizioni  e  agli  applausi  di  quei  paesani. 
Non  ci  era  che  dire :  i  Franchi  Tiratori  non  potevano  fare  a  meno  di 
addiventare  gli  enfants  cheris  delle  popolazioni:  gik  si  sapeva  come 
essi  nel  novembre  avevano  ritolto  ai  Prussian! ,  piombando  loro  ad- 
dosso  alFimpensata,  un  centinaio  di  Garibaldini  che  traducevano 
prigionieri:  gia  si  sapeva  con  quanto  ardimento  essi  dissemina- 
vansi  nelle  boscaglie  e  dietro  le  siepi,  da  dove  con  un  fuoco  alia 
spicciolata  scombuiavano  i  nemici,  piu  che  se  si  fossero  trovati  in 
aperta  battaglia:  gia  a  tutti  era  noto  come  i  Prussiani  ripetessero 
sempre,  che  non  avrebbero  dato  quartiere  a  questi  bravi  figli  di 
Francia  ed  ai  Garibaldini,  mentre  trattavano  da  buoni  figliuoli  gli 
appartenenti  alia  Guardia  mobile;  insomma  il  nome  di  Franc  tireur 
ispirava  in  tutti  rispetto,  e  tutti  si  fermavano  a  veder  passare  questa 
eletta  della  gioventu  francese  che  per  guerreggiare  poteva  dare  dei 
punti  alia  truppa  piu  agguerrita  d'Europa.  Erano  cosi  svelti,  cosi 
simpatici,  cosi  pieni  di  vita  che  c'era  da  andarne  matti  per  Pentu- 
siasmo! 

Del  battaglione  condotto  da  Canzio  e  che  era  stato  battezzato  col 
glorioso  nome  di  Cacciatori  di  Marsala,  fu  affidato  il  comando  allo 
strenuissimo  Perla.  I  Cacciatori  di  Marsala,  i  Carabinieri  Genovesi 
e  alcuni  battaglioni  di  mobilizzati  delPIsere,  formarono  la  quinta 
brigata,  al  cui  stato  maggiore  Canzio  chiam6  tra  gli  altri  il  Canessa. 

Questi  erano  graditissimi  awenimenti  per  noi;  ma  il  dolce  ci 
doveva  essere  amareggiato  e  non  poco. 

Ahi  sventurat  sventura^  sventura.1 

Quei  celebri  cavalli  che  si  attendevano  a  braccia  aperte,  che  do- 
vevano  esser  per  noi  la  realizzazione  di  tanti  e  si  prolungati  desi- 
derii,  i  celebri  cavalli  sfumarono.  Tironi  era  rimasto  a  Remoully, 
dove  organizzava  uno  squadrone  di  cavaJleria  per  la  nuova  brigata, 
e  noi  rimanevamo  a  piedi ...  A  piedil  .  . .  Oh  la  desolante  parola! 
Dunque  saremo  d'ora  in  &  un  corpo  ibrido  di  nuovo  genere  ?  Squa 
drone,  speroni,  grandi  stivali  e  niente  altro.  Fortuna  che  per  chi 
to  vuol  trovare,  un  fucile  ci  e  sempre  e  noi  fin  d'allora  proponemmo 
d'attenerci  a  questo  fmrtito,  che  fu  di  poi  attuato  a  puntino. 

i .  £  il  v,  57  della  Battaglia  di  Maclodio,  coro  del  manzoniano  Conte  di  Car- 
magnola. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  677 

XI  [XIIl] 

II  19  gennaio,  sul  far  giorno,  tutte  le  truppe  che  erano  in  Di- 
gione  presero  la  campagna:  i  Carabinieri  Genovesi  furono  mandati 
d'avamposto,  a  circa  tre  chilometri  dalla  porta  Sant'Apottinare, 
px>co  distante  da  ima  piccola  borgata,  Essi  piazzarono  le  loro  ve 
dette  dietro  un  muricciolo,  e  poi  si  buttarono  distesi  nel  campo, 
come  loro  era  stato  ordinato.  I  Cacciatori  di  Marsala  presero  po- 
sizione  sulla  loro  destra  sempre  dietro  quel  piccolo  muro  che  cin- 
geva  quelle  coltivazioni.  In  faccia,  dietro  le  case,  eravi  una  fitta 
boscaglia.  II  Generale  si  era  portato  tra  i  primi  lassu  . . .  tutto  in- 
fine  annunziava  per  quel  giorno  un  combattimento ;  ma  anche  per 
questa  volta  la  speranza  degli  animosi  doveva  esser  delusa. 

Noi  fummo  consegnati  al  quartier  generale  e  passamrno  tre  o 
quattro  ore  di  noia,  di  pena,  di  continua  ansieta ;  interrompeva  so- 
lamente  la  monotonia  di  queirangosciosa  situazione,  Pordine  di 
portare  qualche  dispaccio  al  comando  d'artiglieria,  alia  Maine,  a 
qualche  caserma.  Non  si  pu6  immaginare,  non  che  descrivere  quale 
voglia  ci  prendesse  tante  volte,  di  dissigillare  quei  dispacci,  e  di 
giunger  cosi  a  capire  qualche  cosa  anche  noi ...  in  quel  momento 
si  sentiva  rifluire  nelle  nostre  vene  il  pretto  sangue  di  quell'Eva 
che  per  vera  curiosita  si  giuoco  il  Paradiso  Terrestre.  Lo  stare  inat- 
tivi,  mentre  si  presume  che  i  nostri  amici  agiscano  come  si  con- 
viene,  per  chi  ha  un  poco  di  cuore  e  un  vero  supplizio  di  Tantalo.  - 
Nel  cortile  dove  eravamo,  comincio  a  farsi  un  sussurro :  questo  sus- 
surro  prese  delle  proporzioni  imponenti,  in  tal  modo  imponenti 
che,  lasciati  due  o  tre  pel  servizio,  il  Ricci  ci  disse  di  seguirlo,  e 
tutti  content!  prendemmo  con  lui  il  primo  viottolo  che  e  fuor 
della  porta,  sicuri  con  ci6  di  accorciare  la  via. 

Arrivammo  difatti  in  poco  piu  di  mezz'ora  alle  prime  linee  dei 
nostri:  vedemmo  il  Generale  e  Canzio  che,  ritto  in  mezzo  alia  via, 
osservava  tranquillamente  col  suo  cannocchiale  le  mosse  del  ne- 
mico :  si  distingue vano  infatti  in  lontananza  sopra  una  piccola  spia- 
nata  diversi  cavalieri  prussiani  (certo  uno  stato  maggiore)  e  al  prin- 
cipiare  della  foresta  ogni  tanto  abbarbagliava  la  vista  il  luccichio 
di  qualche  fucile  o  baionetta:  la  fanteria  prussiana  doveva  essere 
ricoverata  la  entro. 

Ci  dissero  di  buttarci,  come  tutti  gli  altri,  per  terra:  la  cosa  era 


678  ETTORE   SOCCI 

un  po'  incomoda  a  causa  del  fango  prodotto  dalla  neve  che  si  disge- 
lava,  ma  d  la  guerre  comme  d  la  guerre:  quella  non  era  certo  1'ora  di 
pretenderla  a  damerini.  Cominciammo  poco  dopo  a  sentir  fischiar 
delle  palle.  I  nostri  avamposti  risposero  .  . .  poi  tutto  fini  e  fu  un 
silenzio  lungo,  ostinato  fino  sulPimbrunire:  quella  gente  a  cavallo 
che  ci  aveva  colpito  la  vista,  appena  che  eravamo  arrivati,  si  era  di- 
leguata.  Una  guida  di  Ricciotti,  il  quale  con  tutta  la  sua  brigata  era 
alia  nostra  sinistra,  si  avanz6  arditamente  per  esplorare,  e  venne 
ricevuta  da  una  potentissima  scarica:  la  credevamo  morta,  quan- 
do  la  vedemmo  apparire  trionfante,  avendo  perduto  soltanto  il  cap- 
pello. 

Garibaldi  torn6  verso  la  citta  e  noi  lo  seguimmo :  i  Genovesi  ri- 
masero  d'avamposto  fino  al  mattino  di  poi. 

Quando  rientrammo  in  Digione  eravamo  in  uno  stato  compassio- 
nevole:  impiastricciatJ  di  fango  dalla  punta  del  capelli  a  quella  degli 
stivall . . ,  eppure  le  belle  donnine  ci  salutavano  e  ci  sorridevano 
con  grazia:  la  vezzosa  fata  che  passava  le  sue  giornate  dalla  tabac- 
caia,  ci  voile  offrire  per  forza  dei  sigari  scelti,  e  ci  mostro,  con  fie- 
rezza  romana,  una  cappa  d'incerato,  alia  manica  della  quale  faceva 
uno  stacco  molto  sentito  la  fascia  bianca  colia  croce  rossa  del  soc- 
corso  ai  feriti,  Giunti  a  casa  trovammo  sul  caminetto  una  bottiglia 
di  vecchio  Borgogna  che  in  quel  momento  ci  apparve  piu  cara  di 
tutte  le  moine.  Oh!  non  erano  sconoscenti  i  buoni  abitanti  della 
Cdte  d'Or!  Le  gentilezze  di  cui  ci  erano  prodighi  infondevano  nuo- 
vo  ardore  nei  nostri  petti,  e  tutti  noi  anelavamo  un  combattimento 
per  mostrare  che  non  eravamo  indegni  delia  fiducia  che  in  noi 
riponevasi. 

E  i!  combattimento  poco  poteva  tar  dare:  la  era  questione  non 
di  giorni,  ma  d'ore:  se  per  due  volte  di  seguito  avevamo  tenuto  la 
difensiva,  alia  fine  attaccheremo  noi  -  si  pensava.  Garibaldi  non  e 
uomo  da  lasciarsi  posar  mosche  sul  nasol  -  Erano  i&tanti  di  febbrile 
ansieti:  specialmente  la  notte;  ad  ogm  rumore  ci  si  alzava  dal  letto, 
si  correva  alia  finestra,  si  tendeva  Forecchio:  poi  quasi  dubitando 
delle  nostre  facoha  auricoiari,  ci  s'infilava  alia  peggio  la  giubba, 
si  soendeva  in  strada,  si  correva  alia  piazza  . .  .  tutto  silenzio  . .  . 
tutti  dormivano . .  .  e  allora  a  rifare  i  nostri  passi,  ed  a  darsi  del 
bambino,  del  gnillo,  deiruomo  che  s'impressiona  per  niente,  e  a 
giurare  di  non  muoversi  piii  sino  a  che  non  venissero  le  trombe  a 
s©0nare  sotto  le  finestre  di  casa  . . .  Si . . .  bei  proponimenti,  su- 


DA    FIRENZE  A  DIGIONE  679 

perbi  disegni!  Batte  una  porta,  una  folata  di  vento  agita  gli  alberi 
del  giardino,  i  cavalli  delia  vicina  scuderia  urtano  nella  mangiatoia 
colla  testa,  o  scalpitano  sulle  pietre  del  pavimento  . . .  ed  eccoci  di 
nuovo  in  balia  delle  nostre  fisime.  -  E  se  ritornassi  fuori  ?  .  .  .  La- 
sciare  il  calduccino  delle  lenzuola  per  andare  a  scivolare  sul  diaccio 
e  a  battere  i  denti,  mentre  vi  sono  tutte  le  probability  che  non  ci  sia 
milla  di  serio!  .  .  .  Gia  i  Prussian!  di  notte  non  hanno  mai  attac- 
cato  .  . .  ma  se  questa  volta  attaccassero  ?  Se  si  facesse  sul  serio  ?  .  .  , 
Permetter6  che  i  miei  compagni  si  ammazzino,  compiano  il  loro  do- 
vere,  ed  io  star6  qui,  poltrone,  a  sciogliere  un  inno  alia  beatitudine 
del  dolce  far  niente?  .  .  .  Oh!  no,  sarebbe  troppo  egoismo,  confes- 
siamolo  pure,  troppa  vigliaccheria . . .  se  non  dormo  stanotte,  dor- 
mir6  domani,  non  son  mica  venuto  quassu  per  stare  in  panciolle! 
Bisogna  andare  .  .  .  -  E  via  un'altra  volta  giu  in  strada,  e  via  a  cor- 
rere  come  un  matto,  ad  arrapinarsi,  a  ficcare  per  tutto  il  naso,  che 
era  divenuto  un  vero  pezzo  gelato  . . .  e  allora  addio  di  nuovo  belle 
volonta,  addio  proponimenti  di  passar  Pintera  nottata  ad  aspettare 
quelli  che  non  venivano,  e  di  nuovo  nel  letto  colFidea  fissa  di  non 
addormentarsi :  e  invece  appisolarsi  di  subito,  destando&i  per6  ad 
ogni  momento,  e  tendeado  Porecchio . . . 

La  nottata  passo,  e  nulla  di  nuovo  ci  annunzifr  il  giorno  seguente : 
i  Carabinieri  Genovesi  tomarono  dagli  avamposti,  le  legioni  italiane 
non  si  mossero  neppure ;  per  ora  tutto  annunziava  riposo.  Che  gior- 
nata  triste,  uggiosa,  pesante!  il  cielo  era  oscuro,  la  neve  caduta  nei 
giorni  decorsi  era  ghiacciata,  da  un  lato  all'altro  delle  vie  si  poteva 
patinare  e  furono  fatti  sdruccioloni  tremendi.  Ci  dissero  di  star 
pronti  per  il  domani;  noi  trascorremmo  cinque  o  sei  ore  a  chiac- 
chierare  davanti  il  caminetto  fumando,  ragionando  di  Firenze,  che 
ci  appariva  come  un  sogno  lontano  e  delle  feste  da  hallo  in  cui  sa- 
ranno  stati  imrnersi  i  rtostri  amici,  allora  nel  pieno  sviluppo  del 
carnevale. 

Andammo  a  desinare  e  trovammo  la  trattoria  gremita  addirit- 
tura;  si  assisero  al  mio  tavolino  Rossi,  Squaglia,  Piccini  e  Stefani: 
eravamo  tutti  uggiosi :  p^reva  quasi  si  divinasse  che  erano  Tultime 
ore  che  si  ragionava  con  qualcuno  di  quelli  che  erano  tra  noi. 

Venne  a  noi  vicino  il  maggiore  Pastoris,1  accompagnato  da  una 
elegantissima  signora:  Pastoris  ci  disse  che,  quantunque  in  per- 
messo,  egli  non  aveva  potuto  resistere  all'idea  che  di  ora  in  ora  po- 
i.  Pastom:  era  maggiore  nella  legiortc  Ravelli. 


680  ETTORE  SOCCI 

tesse  esserci  qualche  attacco  e  che  non  poteva  star  piii  lontano 
da  noi. 

Bevemmo  allegramente  tutti ;  eravamo  sul  piu  bello  degli  anni, 
tutti  ci  si  sentiva  bollire  nel  sangue  Tenergia  e  Tattivitk  .  . .  non  do- 
vcvano  passare  venti  ore,  e  Pastoris,  Rossi,  Squaglia,  dovevano 
esser  cadaveri! 

xn  [xiv]1 

. . .  Brillava  ancora  qua  e  la  per  il  cielo  qualche  Stella,  che  man 
mano  sbiancandosi  andava  a  svanire  nelPinfinito  come  un  generoso 
proposito  di  un'anima  debole,  e  noi  eravamo  al  quartier  generale. 
Passammo  li  moke  ore  senza  alcuna  novella,  quando  ci  fu  detto 
che  anche  in  quel  giorno  non  eravi  alcuna  cosa  di  nuovo;  ma  che 
per6  stessimo  pronti  per  il  domani  che  nel  domani  avremmo  avuto 
una  grande,  una  decisiva  battaglia.  Rossi,  Piccini,  gli  altri  nostri 
amici  della  Compagnia  Genovese,  ci  confermarono  1'esattezza  di 
ci6  che  si  udiva. 

Sul  mezzogiorno  per6  a  tutti  i  canti  della  citta  suonarono  le 
trombe;  i  soldati  furono  in  fretta  e  in  furia  mandati  fuori  della 
citt£ . . .  il  cannone  tuonava :  questa  volta  ci  si  era  dawero. 

Tutti  si  corse,  come  un  sol  uomo,  al  palazzo  della  prefettura: 
la  trovammo  il  nostro  tenente  Ricci.  —  Si  vuole  andare  —  gridammo 
a  coro  pieno.  —  Andremo,  —  rispose  lui  —  anche  senza  arme  —  e  po- 
co  dopo  tutti  ci  movemmo,  senza  curarsi  nemmeno  di  avere  un  fu- 
cile. 

Passammo  dalla  Porta  sant'Apollinare  dove  trovamrno  Bordone 
con  tutti  i  suoi  ufficiali:  prendemmo  a  passo  di  corsa  un  viottolo, 
desiosi  di  anticipare  il  momento,  che  anelavamo  da  si  gran  tempo. 
Ad  ogni  minuto  il  rimbombo  delPartiglieria  rassembrava  una  voce 
potente  che  ci  accusasse  di  essere  lontani  dal  pericolo:  i  circostanti 
campi  erano  ghiacciati:  ghiacciati  i  fossi  che  fiancheggiavano  la  via, 
eppure  si  sudava,  eppure  il  cuore  ci  batteva  forte  forte  nel  petto 
e  noi  avevamo  la  lingua  fuori.  Ad  ogni  colpo  un  sol  grido  elevavasi 
da  noi,  un  sol  grido  che  chiaramente  mostrava  la  nostra  animazione, 
la  nostra  bramosia,  il  grido  di:  «Avanti!» 

A  mezzo  chiloroetro  dalla  citta,  incominciammo  a  trovare  delle 

i.  Abtriamo  sopprssso  la  parte  iniziale  del  capitolo  xiv,  e  precisamente  le 
p$>.  150-1  deiredizione  da  noi  seguita. 


DA   FIRENZE  A    0IGIONE  68l 

guardie  mobili,  o  appiattate,  o  che  si  ritiravano:  noi  non  facemmo 
loro  alcun  rimprovero,  ma  invece  con  la  piu  buona  maniera  del 
mondo,  si  richiedevano  del  Joro  fucile1  e  delle  loro  cartucce.  Molti 
lo  diedero  assai  volentieri;  molti  altri,  inorridisco  a  dirlo,  ce  lo 
venderono:  pochi,  messi  su  dalPesempio,  ci  seguitarono.  E  intanto 
pochi  passi  ci  mancavano  per  arrivare  a  Fontaine ;  una  salita,  molto 
erta,  e  ci  si  era;  facemmo  quella  salita  di  corsa. 

AlFingresso  del  paese,  due  palle  attraversarono  la  via;  i  piu  gio- 
vani  abbassarono  istintivamente  la  testa,  noi  godemmo  per  aver 
raggiunto  finalmente  la  meta.  Fontaine  era  desolato:  chiuse  tutte 
le  case,  non  un  abitante  per  le  due  o  tre  vie  che  costituiscono  questa 
borgata. 

Prendemmo  la  prima  strada  che  ci  si  paro  innanzi  alia  vista,  ed 
arrivammo  ad  una  piazzetta,  che  e  proprio  sotto  alia  piccola  collina, 
suIla  quale  e  situata  la  chiesa.  La  mitraglia  imperversava  al  nostro 
arrivo:  i  piccoli  rnuri  che  custodiscono  i  vicini  giardini,  erano  bat- 
tuti,  scalcinati,  rovinati  addirittura  da  quest'uragano  di  nuovo  ge- 
nere :  andare  in  mezzo  alia  spianata  sarebbe  stato  impossibile ;  meno 
male  che  fu  Paffare  di  pochi  secondi!  .  .  .  Addossati  a  una  cancel- 
lata  di  un  giardino,  trovammo  Kane,  Niklatz  e  le  altre  due  guide 
che  erano  al  seguito  del  generale  Bossak. 

Kane  mi  trasse  in  disparte,  e  mi  sussurro  negli  orecchi :  —  Si 
crede  morto  Bossak:  e  da  stamani  che  noi  non  Tabbiamo  ve- 
duto  . .  . 

Montammo  su  alia  chiesa,  una  sezione  d'artiglieria  stava  ai  due 
lati  della  modesta  parrocchia;  il  colonnello  Olivier2  assisteva  alle 
operazioni  dei  suoi  cannonieri :  e  a  pochi  passi  da  lui,  con  un  sangue 
freddo  invidiabile,  col  suo  breviario  sotto  il  braccio,  se  ne  stava  il 
priore  di  Fontaine.  II  fuoco  degli  assalitori  era  diminuito ;  di  tanto 
in  tanto  qualche  nuvoletta  di  fumo  appariva  improvvisamente  sul- 
Porizzonte,  e  qualche  scaglia  veniva  a  cadere  ai  nostri  piedi. 

— -  Datemi  un  po*  il  cannocchiale  —  domand6  un  mio  compagno 
a  un  artigliere,  un  bellissimo  giovane. 

—  Tenete  —  egli  disse,  e  non  fu  capace  di  darlo,  che"  una  palla 
gli  faceva  schizzare  il  cervello  .  .  .  Fu  Tunica  palla  di  fucile  che 
sentimmo  ronzare  in  Fontaine. 

Intanto  un  vivissimo  fuoco  di  moschetteria  comincid  a  sentirsi 

i.  si  richiedevano  del  lorojuctie;  si  chiedeva  il  loro  fucile.  2.  II  cok&mello 
Otemer  comainkva  I^artiglieria. 


682  ETTORE   SOCCI 

dalla  parte  della  vicina  Talant.  Talant  e  Fontaine,  come  ho  gia 
detto,  son  due  collinette  isolate,  che  si  elevano  in  una  estesa  pia- 
nura,  frastagliata  qua  e  la  da  piccoli  rialzi,  e  nel  cui  fondo  e  il  piccolo 
paese  di  Daix,  che  era  stato  sgombrato  al  mattino  da  due  batta- 
glioni  di  guardia  mobile  che  Tavevano  in  custodia.  I  Prussiani  si 
erano  spinti  verso  Fontaine,  poi  ritirandosi  con  una  mossa  improv- 
visa,  si  erano  ricostituiti  dietro  il  villaggio  di  Daix,  per  piombare 
in  grandi  masse  sopra  Talant:  per  conseguenza  il  fuoco  di  fronte 
a  noi  potea  dirsi  quasi  cessato;  mentre  cominciava,  e  senza  posa, 
sulla  nostra  sirustra. 

—  Che  facciamo  ?  —  domandammo  al  Ricci. 

—  Andiamo  laggiii . . . 

E  tutti  scendemmo  la  strada  e  per  far  piii  presto  entrammo  nei 
campi:  11  cominci6  la  belk  sinfonia  delle  palle!  . .  .  Addio  Italia, 
pensammo  tra  noi,  addio  occupazioni  della  nostra  vita  scapata  .  . . 
Un  grido  ci  tolse  alle  riflessioni .  . .  il  povero  Gaido,  colpito  in  mez 
zo  al  cuore,  cadeva  a  pochi  passi  da  noi. 

Si  precede . .  .  riscontriamo  un  ferito  che  vien  trasportato  a 
braccia  alia  vicina  ambulanza ...  —  Ciao  ragazzi,  —  ci  dice  —  viva  la 
Repubblica  —  e  noi  si  procede  ancora  e  vediamo  il  prode  capitano 
Vichard,  capo  di  stato  maggiore  del  Bossak,  dilaniato  da  cinque 
ferite. 

—  Portalo  airambulanza  —  mi  grida  il  tenente. 
-  Ma ... 

—  Poi  ci  raggiungerai . . ,  tu  sai  dove  siamo! 

E  io  e  il  Bocconi,  preso  a  braccetto  il  Vichard,  rifacemmo  quella 
via  sempre  in  mezzo  all'imperversar  delle  palle,  almanaccammo 
una  buona  mezz'ora  per  trovare  questa  benedetta  ambulanza,  e 
quando  ci  fummo  arrivati,  fummo  dolorosamente  sorpresi  nel- 
rosservare,  che  punto  piu  esposto  di  quello  alle  palle  era  impossi- 
bile  il  ritrovare;  li  ci  era  addirittura  una  grandine  e  molti  feriti, 
credo,  vi  ricevessero  il  colpo  di  grazia. 

E>opo  poco  raggiungemmo  i  compagni . , . 

E  ci  spingcmmo  sotto  Talant,  dove  aveva  da  essere  la  sublime 
ecatombe,  dove  Garibaldi  in  persona,  a  cavallo,  in  prima  linea 
capitanava  il  combattimento.  Nei  campi  e  sulla  destra  del  paese 
avevano  preso  posizione,  e  si  accingevano  a  rintuzzar  Fassalto  dei 
Prussiani,  k  Compagnia  Genovese  (capitano  Razzeto),  i  Caccia- 
tori  Spagnoli,  del  cui  capitano  sono  dolente  di  raon  sapere  il  nome, 


DA  FIRENZE   A   DIGIONE  683 

e  gli  Egiziani,  comandati  da  Zauli.  I  Cacciatori  di  Marsala  erano 
in  sostegno  di  queste  compagnic.  La  legione  Tanara  era  dall'altro 
lato  della  via,  mentre  Ravelli  coi  suoi  era  in  riserva  nel  paese.  Tutta 
la  terza  e  quinta  brigata  erano  insomma  lassu. 

Dai  vigneti,  dalle  ville  poco  distanti  i  Prussiani  cominciarono  un 
fuoco  d' inferno:  gli  alberi  erano  scheggiati  ad  ogni  minuto;  le  siepi 
si  stroncavano,  producendo  un  fracasso  indescrivibile:  ogni  poco 
si  spengeva  per  sempre  una  generosissima  vita:  ogni  poco  erano 
gemiti,  strida,  imprecazioni ;  gli  strazianti  lamenti  degii  uomini 
avevano  riscontro  in  quei  dei  cavalli .  .  .  povere  bestie  innocenti, 
che  ad  ogni  poco  cadevano  stramazzoni  per  terra  in  quella  grandi- 
nata  di  proiettili,  che  di  minuto  in  minuto  raddoppiava  d'intensitii. 

I  nostri  erano  imperterritl  come  vecchi  soldati :  gli  Spagnoli  am- 
mirabili;  nelle  legioni  italiane  non  mancavano  spiritosaggini,  n£ 
arguzie. 

— Guarda  se  con  quegli  elmi  non  paiono  civiconi  del  quaran- 
totto!1  —  diceva  uno. 

—  Mirali  bene  . .  .  che  vadano  a  godere  delia  loro  grazia  di  Dio! 

—  Coraggio  amici ...  si  giuoca  ruitima  carta  ...  o  si  sballa  o  sa- 
remo  eroL 

Conforti  reciproci,  incoraggiamenti  non  mancavano  certo  in 
quelle  file  che  decimava  la  morte.  I  Prussian!  avevano  fatto  delle 
feritoie  in  un  muro  di  faccia  e  con  tutta  la  sicurezza  possibile 
miravano  come  se  fossero  al  bersaglio. 

Nella  prima  mezz'ora,  Squaglia  ebbe  una  palia  in  bocca  che  poco 
dopo  lo  rese  cadavere:  povero  Squaglia!  . . .  Quasich6  presentisse 
la  morte,  aveva  dato  a  tutti  i  compagni  la  sua  carta  di  visita  con 
rindirizzo  precise  della  sua  famiglia. 

Canzio,  PAiace  del  Garibaldinismo,  come  sempre  elegantissimo, 
se  ne  stava  in  capo  alia  via,  puntando  i  nemici  col  cannocchiale,  in- 
differente  come  se  puntasse  una  bella  donna  al  teatro.  Canessa  era 
a  pochi  passi  da  lui.  Menotti,  Bizzoni,  Tanara,  Erba,  Gattoroo, 
Pasqua,  Sant'Ambrogio,2  traversavano  recando  ordini,  incorag- 
giando  col  loro  contegno  i  piu  timidi  in  mezzo  a  quel  turbine  di 
palle  di  ogni  qualita,  che  ci  aveva  ridotti,  alia  lettera,  sordi.  Garibal 
di  espc^to  come  tutti  gli  altri,  piu  di  tutti  gli  altri  alle  micidialissime 

i.  dvicom  del  quarantotto:  guardie  nazicmali  del  1848.  2.  Erba  .  .  .  San- 
t'Ambrogw:  tutti  appartenenti  alio  Stato  ma^iore  di  Garibaldi  e  gii  provati 
neile  precedent!  imprese  garibaldine. 


684  ETTORE   SOCCI 

scariche  del  nemico,  era  sorridente,  tranquillo  e  faceva  nascere  nel 
cuore  d'ognuno  un  sentimento  tale  di  dignita  e  di  rispetto  che  credo 
sarebbe  stato  per  chiunque  impossibile  il  mancare  al  proprio  do- 
vere. 

I  nostri  furono  spinti  due  volte  alia  baionetta,  le  cariche  furono 
ricevute  accanitamente  dal  nemico  . . .  Quante  nobili  vite  non  fu 
rono  spente! ...  II  terreno  era  chiazzato  di  sangue,  ad  ogni  passo 
impediva  Fandare  un  cadavere,  via  via  che  si  procedeva  i  morti  era- 
no  ammonticchiati  1'uno  sulFaltro. 

E  intanto  si  awicinava  la  sera;  e  un'acqua  fine  fine  ci  filtrava 
neH'ossa;  fu  dlora  che  vidi  Miss  White  Mario  passeggiare  intrepida- 
mente  ii  proprio  in  prima  fila  con  un  sangue  freddo  da  fare  invidia 
a  un  vecchio  soldato ;  chiunque  ha  preso  parte  alle  tremende  gior- 
nate  di  Digione,  deve  serbare  eterna  memoria  di  questa  eroina, 
che  abbiamo  veduta  trasvolarci  davanti,  come  un  esempio  vivente 
di  quanto  pu6  fare  una  donna  animata  da  generosi  propositi;  lei 
hanno  ammirata  al  proprio  fianco  i  combattenti,  lei  hanno  salutata 
come  afFettuosa  sorella  i  feriti;  lei  hanno  riverito  gli  stessi  nemici, 
in  mezzo  ai  quali  passava  dalle  nostre  file,  per  poter  recare  un  sol- 
lievo  a  chi  era  in  angustie,  per  potere  avere  informazioni  sicure  su 
certe  cose  che  rimanevano  al  buio. 

Mai  k  morte  ha  mietute  tante  vite  magnanime  in  pochi  mo- 
menti,  come  quella  sera  a  Talant.  Gli  Spagnoli  erano  ridotti  un 
piccolo  nucleo  ed  avevano  perdu  to  i  loro  ufficiali,  lo  stesso  potea 
dirsi  degli  Egiziani  il  cui  prode  tenente  Zauli  giaceva  ferito ;  morto 
il  bravo  tenente  dei  Genovesi  Gnecco,  ed  esanimi  al  suolo  giace- 
vano  gi&  Salomone,  Imbriani,  Settignani  e  Pastoris. 

L'ecatombe  stava  per  compiersi :  a  quelli  in  prima  linea  mancava- 
no  le  munizioni,  e  Postinatezza  dei  Prussian!  raddoppiava:  mentre 
difatti  essi  avevano  sgombrato  quasi  tutto  Pesteso  terreno  che  ci 
stava  di  contro,  si  agglomeravano  in  faccia  a  Talant,  a  Talant  i  di 
cui  difensori  oramai  potevansi  calcolare  a  poche  centinaia.  Ave 
vano  i  nostri  avversari  occupata  una  cascina  al  disotto  del  paese, 
e  si  avanzavano  a  pelettoni1  serrati,  e  tirando  su  noi  con  una  conti- 
nuita  straordinaria. 

Vien  dato  al  battagltone  dei  Cacciatori  di  Marsala  Fordine  di 
avanzarsi  e  di  caricare  il  nemico.  Lo  strenuissimo  Perla  col  volto 

I.  pclfttom:  plotoni  II  Socci  usa  la  foonm  dcrivata  dal  francese pdoton. 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  685 

raggiante,  con  pigllo  da  infonder  coraggio  ad  un  morto,  si  pone  alia 
testa,  Genovesi,  Bgiziani,  Spagnoli,  quelli  delle  altre  legioni,  tutti 
si  raggranellano  dietro  di  lui,  tutti  sono  ansiosi  di  morire  da  forti  o 
di  veder  rinculare  il  nemico.  Molti  non  hanno  piu  cariche,  molti 
sono  sfiniti  dalla  stanchezza,  molti  non  resistono  piu  in  mezzo  a 
quella  desolazione  e  vanno  incontro  a  una  palla  tanto  per  finirla 
una  volta  con  questo  mondo  codardo;  avanti  gridano  gli  ufficiali, 
avanti  ripetono  i  piu  animosi,  avanti  grida  nel  cuore  Tamore  del- 
1'umanita  e  della  repubblica,  avanti  la  voce  del  dovere  e  tutti, 
come  un  solo  uomo,  si  accingono  alia  titanica  impresa.  Cinque- 
cento  cori  battono  in  quelPistante  aH'unisono! . . . 

« Viva  la  Repubbiica,  viva  Garibaldi ...»  giu  la  baionetta  ed  a 
passo  di  corsa  contro  i  soldati  di  re  Guglielmo.  II  fumo  impedisce 
la  vista:  in  quella  penombra, prodotta  anche  dalFora  divenuta  tarda, 
ad  ogni  secondo  si  vedono  guizzare  immense  strisce  di  fuoco;  si 
precede  pestando  i  cadaveri  e  seminando  a  ogni  poco  di  nuovi  ca- 
daveri  il  suolo;  i  Prussian!  essi  pure  si  avanzano,  ma  lentamente; 
il  cozzarsi  e  divenuto  inevitable  e  sara  un  cozzo  tremendo. 

Lo  slancio  dei  nostri  e  impetuoso  .  - .  troppo  impetuoso :  Perla,  il 
veterano  di  tutte  le  campagne  dell'indipendenza  stramazza  per 
terra  mortalmente  ferito:  Cavallotti  e  morto:  moribondo  il  tenente 
Rossi  di  Lodi:  i  soli  Cacciatori  di  Marsala  hanno  17  ufficiali  fuori 
di  combattimento.  I  Prussiani  si  asserragliano  in  due  casette;  vien 
dato  anche  ai  nostri  Tordine  di  ritirarsi;  rimanendo  la  sola  legione 
Ravelli  a  guardia  di  Talant. 

—  Vieni  via  —  grida  il  Piccini  al  Rossi,  quando  tutti  si  erano 
ritirati. 

—  Fammi  utilizzare  anche  le  ultime  due  cariche  che  mi  sono 
restate  —  questi  rispose .  . .  e  si  avanzo  verso  il  nemico.  Un  vi- 
vissimo  fuoco  di  moschetteria,  1* ultimo  che  si  eseguisse  in  quel 
punto,  uccise  il  nostro  amico  diletto,  il  nostro  compagno  di  tante 
sventure  e  di  tante  peripezie.  Nessuno  piu  lo  rivide;  il  giorno  dipoi 
sapemmo  da  una  guida  che  egli  era  morto  in  conseguenza  di  tre 
ferite :  due  nel  petto  ed  una  nella  faccia. 

Ci  ritirammo;  il  cielo  era  ingombro  qua  e  la  da  densi  mivoloni; 
gli  alberi  sembravano  giganteschi;  al  fragore  prolungato  di  poco  fa 
era  succeduto  un  silenzio  cupo,  lugubre,  interrotto  solamente  a 
lunghi  intervalli  da  qualche  colpo:  rientrammo  nella  gran  strada  e 
qui  un  viavai  di  carri,  d'ambulanze,  sopra  uno  dei  quali  scorsi  la 


686  ETTORE   SOCCI 

simpatica  donnina  che  avevamo  veduto  dalla  tabaccaia,  e  trasporti 
di  feriti,  e  imprecazioni  di  morenti,  e  un  chiamarsi  ad  alta  voce  tra  i 
carri  e  un  domandarsi  informazioni,  accolte  ora  da  bestemmie,  ora 
da  un  « meno  male  >»  proferito  in  senso  stizzoso  e  soddisfatto.  Nei 
campi  adiacenti  si  vedevano  a  quell'incerto  chiarore  molti  cada- 
veri ;  la  lima  si  mostrava  timidamente  in  mezzo  alle  nubi.  Mi  venne 
in  mente  la  leggenda  popolare  che  sostiene  Caino  esser  stato  rele- 
gato  nella  luna;  le  macchie  di  questo  pianeta  mi  sembravano  in 
quella  sera  proprio  gli  occhi  di  questo  primo  fratricida,  che  ora 
allegravasi  a  quella  strage  fraterna. 

Su  un  carrettone  vedemmo  insieme  a  tanti  altri  lo  Stefani  che 
era  stato  ferito  in  un  braccio.  C'inoltravamo  serii  serii  in  mezzo  a 
quella  confusione;  nessuno  avrebbe  potuto  scherzare:  un  giovi- 
netto  si  azzard6  di  intuonare  sottovoce  una  cantilena,  fu  acremente 
ripreso:  erano  troppi  i  morti  che  avevamo  veduti  a  quell'ora,  eran 
troppe  le  perdite  che  ci  facevano  sanguinare  Panima  a  tutti,  ce  lo 
perdonino  gli  spiriti  forti,  si  sentiva  quasi  voglia  di  piangere.  lo 
comprendo  in  certi  momenti  Pindispensabilitk  di  una  guerra,  com- 
prendo  che  nel  fervore  delle  pugne  ci  s'inebri  piu  che  se  prendes- 
simo  parte  a  una  scena  d'amore  e  di  ardentissimo  amore,  ma,  quan- 
do  tutto  ritorna  nella  solita  calrna,  quando  girando  gli  occhi  non 
vedi  che  informi  ammassi  di  carne  che  saran  putrefatti  tra  poco, 
e  che  poco  tempo  fa  sentivano,  amavano,  speravano;  quando  ri- 
pensi  al  dolore,  alia  disperazione  di  migliaia  di  madri  e  di  vedove, 
se  non  detesti  questa  macelleria  di  innocenti,  questa  violazione  delle 
piu  care  affezioni  e  dei  legami  piu  sacri,  bisogna  dire  che  la  natura 
ti  ha  dotato  di  un  cuore  di  pietra!  ...  I  Chinesi,  che  noi  abbiamo 
avuto  il  coraggio  di  chiamare  barbari  sino  a  questi  ultimi  tempi, 
fino  dalPeta  piu  lontane,  come  dice  Laotsu,1  imponevano  ai  loro 
generali  di  mettersi  in  lutto,  appenach6  avevano  vinto  una  bat- 
taglia:  noi  che  ci  si  becca  il  titolo  di  umanissimi  e  di  civilizzati 
inalziamo  sulle  nostre  piazze  monument!  ai  generali,  anche  quando 
hanno  pcrduto,  purche*  abbiano  tirato  a  far  ciccia.  Ewiva  la  civilta! 

Entrati  in  Digione,  con  grandissJma  nostra  sorpresa,  trovammo 

aperte  tutte  le  botteghe;  andammo  alk  solita  trattoria era  quasi 

deserta.  Quanti  di  quelli  che  erano  soliti  a  frequentarci  non  ave- 
vano  ksciata  k  vita,  nel  breve  volgere  di  otto  o  dieci  ore! . . . 

Ogni  persona  che  entrava,  erano  domande,  grida  di  meraviglia, 
i.  Laotsu:  Lao-Tseo,  fijkwofo  e  poeta  cinese  del  VI  secolo  a.  C. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  687 

strette  di  mano ;  e  solamente  allora  si  cominciava  a  forza  di  racconti 
a  sapere  gli  episodi  gloriosi  del  combattimento,  le  perdite  che  ave- 
vamo  subito,  Tandamento  preciso  della  battaglia.  —  II  tale  .  .  .  ?  — 
domandava  qualcuno.  —  £)  morto  —  gli  si  rispondeva;  —  e  il  tale 
altro  ? . . .  —  Morto  anche  lui . . .  —  e  tutti  a  sforzarci  a  sorridere  per 
far  gli  uomini  forti,  ma  il  sorriso  moriva  sul  labbro  e  ci  si  sentiva 
invece  un  groppo  alia  gola  che  ci  faceva  discorrere  stentatamente. 

Le  guide  del  generale  Bossak  ci  annunziarono  la  morte  di  questo 
eroico  figlio  della  Poloaia;  come  erano  commosse  via  via  che  pro- 
cedevano  nel  loro  racconto!  Non  era  un  superiore  quello  che  ave- 
vano  perduto,  era  un  fratello:  Bossak  aveva  voluto  dar  loro  di  sua 
tasca  ogni  giorno  il  doppio  della  paga  che  ricevevano  dal  corpo; 
ogni  giorno  le  voleva  a  mensa  con  lui;  il  primo  delPanno  fe*  loro 
presente  di  qualche  marengo :  una  volta  che  la  brigata  mancava  di 
viveri  prowide,  sempre  a  sue  spese,  affinch6  nessuno  soffrisse  la 
fame.  La  democrazia  faceva  una  perdita  irreparabile  con  la  morte 
di  lui;  figlio  di  una  delle  piu  illustri  famiglie  polacche,  si  era  posto 
a  capo  della  rivoluzione  nel  1864,*  ed  esule  in  Svizzera  confezionava 
le  cartoline  da  spagnolette,2  tanto  per  tirare  avanti  onoratamente 
la  sua  famigliola.  Appenache"  seppe  esser  la  Francia  divenuta  re- 
pubblica,  si  mise  a  di  lei  servizio,  e  nella  mattina  di  quel  giorno 
glorioso,  spintosi  alia  testa  di  una  ventina  di  guardie  mobili,  piu 
arditamente  di  quello  che  sogliono  fare  tutti  i  generali,  aveva  in- 
contrato  la  morte,  suggellando  col  sangue  la  sua  vita  esempiare. 

Verso  le  dieci  io  volli  ridurmi  a  casa:  la  stanchezza  mia  era  in- 
descrivibile ;  appena  in  strada  incontrai  i  Carabinieri  Genovesi: 
saranno  stati  una  trentina;  gli  Spagnoli  che  li  seguivano  erano 
tutt'al  piu  venticinque:  quante  vittime  in  quella  giornata!  quante 
nazioni  non  affratelkva  quel  sangue  generoso  sparso  in  pro  di  una 
repubblical 

Arrivato  a  casa  mi  scinsi  la  sciabola:  non  guardai  nemmeno 
una  vecchia  bottiglia  che  ci  aveva  apprestato  la  padrona  di  casa, 
meditai  molto,  riandai  tutti  i  piu  piccoli  episodii  della  strage  a  cui 
avevo  assistito,  poi  cominciai  ad  appisolarmi  e  un  benefico  sonno 
mi  tolse  alle  ansie,  alle  dolorose  ricordanze,  alle  considerazioni 
piu  o  meno  filosofiche. 


i.  rivoktsicme  nd  18641  la  rivoluzione  polacca  contro  Toppressione  russa 
nel  1863.     2.  cartolme  da  spagnolette:  cartine  da  sigarette. 


688  ETTORE   SOCCI 

La  gioia  dfi  projani 
e  un  fumo  passeggier. 

Mi  desto  di  soprassalto  e  sento  di  miovo  suonar  delle  trombe; 
credo  sul  principio  che  ci6  non  sia  che  un  giuoco  della  mia  alterata 
immaginazione :  aguzzo  Porecchio,  vo  alia  finestra,  la  schiudo  . . . 
Non  ci  e  che  dire  . .  ,  sono  trombe  che  ci  chiamano  un'altra  volta  a 
raccolta.  -  Ci  siamo,  dico  tra  me  e  non  senza  imprecazioni,  mi  ri- 
cingo  la  durlindana  e  scendo  in  mezzo  alia  via.  Doveva  esser  suo- 
nata  e  da  molto  la  rnezzanotte.  I  soldati  si  avviano  verso  la  stazione ; 
io  tenni  lor  dietro. 

-Chec'i? 

—  I  Prussian!  si  avanzano  .  ,  .  hanno  avuto  rinforzi. 

—  O  non  si  erano  ritirati  ? 

—  Si ...  ma  ora  ritornano. 

—  E  noi? 

—  Battiamo  in  ritirata. 

—  E  impossibile . . .  Garibaldi  si  fark  ammazzare  ma  non  vorra 
dar  loro  questa  soddisfazione. 

—  Eppure  vedrete  . . .  vi  dico  che  si  va  a  Lione. 

—  Smettete,  pazzo! 

—  Non  e  vero! 

—  Se  hai  paura,  va'  a  letto. 

—  6  impossibile! . . . 

Insomnia  a  forza  di  queste  discussion!,  si  era  giunti  al  cimitero 
che  e  quasi  difaccia  alia  ferrovia.  Li  trovammo  Garibaldi  in  car- 
rozza,  tutto  lo  stato  maggiore  ed  alcuni  battaglioni  schierati.  Alia 
porta  della  citta  colla  sua  compagnia  era  Domenico  Narratone, 
rottimo  amico,  il  repubblicano  integerrimo.  DegU  scorridori1  pren- 
devano  la  via  onde  attinger  notizie,  o  recar  dei  dispacci.  II  freddo 
era  tremendo.  Tutti  si  batteva  i  denti,  ci  si  strusciava  le  mani,  si 
passava  infine  un  quarto  d'ora  phi  climaterico  di  quello  di  Ra 
belais.* 

Fortunatamente,  dopo  informazioni  ricevute,  il  Generate  ci  ri- 
mand6  tutti  a  dormire. 

I.  $£0rri£fori:  staffette.  2.  un  quarto  . .  .  di  Rabelais:  un  aneddoto  narra  che 
Fnni£0is  Rabelais  (1483  ?-i553),  il  celebre  autore  di  Gargantua  e  Pantagruel, 
trovaiuiosi  senza  soldi  in  un  albergo,  trascorse  un  brutto  quarto  d'ora  e 
riusci  a  disimpegiiam  facerKk)si  arrestare  e  trasportarc  perci6  gratuitamente 
a  Parigi,  dove  si  rise  del  suo  stratagemma. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  689 

A  qual  cosa  dovevamo  attribuire  questa  sorpresa  che  ci  colpiva 
cosi  in  plena  notte  ed  in  tanta  stanchezza? 

Vale  la  pena  di  narrarlo. 

Garibaldi,  poco  dopo  che  era  giunto  al  quartiere  generale,  ricev6 
un  bigliettino  dalla  Jessie  Mario  che  era  rimasta  sul  campo  di 
battaglia  e  aveva  occupata  quella  casina,  sotto  Talant,  nella  quale 
ritirandoci  avevamo  lasciato  i  Prussiani. 

La  egregia  donna  chiedeva  aiuti  di  uomini  e  fanali  per  racco- 
gliere  i  feriti.  Dava  poi  al  generale  questa  buona  notizia:  «i  nemici 
si  sono  ritiratia. 

Garibaldi,  cui  un  sorriso  illumin6  la  ampia  fronte  serena,  inca- 
ric6  Gattorno  che  quelk  notte  gli  faceva  la  guardia,  di  rispondere 
alia  Mario  che  si  sarebbe  proweduto.  Poi  si  corico  tranquilla- 
mente. 

Dopo  pochi  minuti  per6  eransi  presentati  al  quartiere  generale, 
il  Maire,  TArcivescovo,  il  Giudice  di  pace  e  il  generale  Pelissier,1 
Dovevano  parlare  e  subito  a  Garibaldi.  Canzio  non  voleva  farli 
passare  a  nessun  costo.  Fu  giocoforza  introdurli. 

II  generale  si  alz6  sul  letto  sorridente. 

II  Maire  disse  con  voce  tremante  che  si  risparmiasse  una  nuova 
occupazione  a  mano  armata  della  citta,  II  nemico,  piu  numeroso 
che  mai,  avrebbe  airindomani  attaccato,  si  trattasse  la  resa,  salvo 
potendosi  chiamare  Fonore  delle  armi  italiane. 

E  il  vescovo  aggiunse  che  ci6  voleva  la  umanita,  descrivendo  con 
foschi  colori  le  nefandezze  che  avrebbe  commesso  Tesercito  in- 
vasore. 

II  generale  Pelissier  per  ragioni  strategiche  uruvasi  alle  preghiere 
degli  altri. 

Garibaldi  ruggiva,  di  tanto  in  tanto,  e  guardava. 

Quando  tutti  tacquero  si  rivolse  affabilmente  al  Maire  e  gli  dis 
se:  —  £  giusto  che  voi,  signor  Maire,  vi  occupiate  della  sicurezza 
della  vostra  citt£,  come  e  giusto  che  Voi,  signor  vescovo,  uorno  di 
chiesa,  usiate  Popera  vostra  per  scongiurare  massacri  che  non  av- 
verranno  certo;  ma  voi  generale,—  volgendosi  con  piglio  severo 
al  Pelissier  aggiunse  il  nostro  duce  —  ma  voi  generale  che  venite 
a  perorare  una  resa,  io  non  vi  posse  n£  vi  debbo  comprendere. 

i.  Pelissier:  il  generale  che  comandava  i  mobilizzati  della  zona.  II  Giudiee 
di  pace  (altri  scrittori  lo  dicono  un  notaio)  era  inviato  dal  generale  tedesco 
Ketkr. 


690  ETTORE   SOCCI 

Del  resto  vi  garantisco  che  non  avete  nulla  a  temere  e  potrete  an- 
darvene  tranquilli . . . 

I  quattro  se  ne  andarono,  come  se  fossero  cani  frustati. 

Ma  Garibaldi  non  si  riaddormentb:  nella  notizia  delPaumento 
delle  forze  Prussiane  e  del  prossimo  attacco,  vi  poteva  essere  qual- 
che  cosa  di  vero.  Eppoi  bisognava  provare  alia  citta,  forse  terroriz- 
zata,  che  Garibaldi  ed  i  suoi  vegliavano  su  lei. 

Fece  attaccare  la  carrozza  ed  usci. 

E  si  suono  a  raccolta. 

E  noi  con  quel  freddo  maledetto  si  era  andati  alia  porta  della 
citta. 

—  Accident!  alle  autorit&  di  Digione  —  dicemmo  noi  tutti,  quan- 
do  si  seppe  appuntino  la  cosa. 


xni  [xv] 

Quattro  ore  di  sonno,  e  poi  via  di  corsa  in  quartiere:  quelli  erano 
giorni  che  si  poteva  affermare  di  essere  esempii  viventi  della  teoria 
di  la  da  venire,  del  moto  perpetuo.  La  nostra  scuderia  aveva  due 
nuovi  ospiti ;  due  cavalli  che  Mecheri  e  Ghino  Polese  avevano  preso 
sul  campo:  questi  due  giovani,  il  giorno  innanzi,  distaccandosi  con 
tre  o  quattro  altri  da  noi,  erano  corsi  in  prima  fila,  ed  avevano  ot- 
tenuto  dai  present!  gli  elogi  piu  ampi  per  il  loro  sangue  freddo  e  il 
loro  coraggio:  Ghino,  da  quel  capo  ameno  che  era,  tra  una  scarica 
e  Taltra,  nel  turbinio  delle  palle  faceva  un  minuetto,  destando  una- 
nimi  sorrisi  d'ammirazione  . . .  non  dico  di  piu,  perch£  non  si  abbia 
a  dire  che  Tamicizia  ha  potere  di  convertir  noialtri  scapati  in  societa 
di  mutua  ammirazione;  chi  li  ha  veduti  non  potra  dire  che  come 
me:  con  loro  fu  ferito  assai  gravemente  il  nostro  caporal  furiere 
Pianigiam,  gipvinetto  livornese  quasi  bambino,  ma  che  per  fer- 
mezza  poteva  dar  dei  punti  a  un  vecchio  militare;  il  Mattei,  guida 
pur  egli,  ebbe  trapassata  una  coscia  da  un  colpo  di  mitragliatrice, 
mentre  si  disponeva  ad  aadare  alFattacco. 

Raggranello  ahri  ra^uagli  del  giorno  innanzi:  delle  quindici 
guide  dbe  si  erano  mosse  a  piedi  col  tenente  Ricci,  due  erano 
mofte  e  sette  ferite:  il  nostro  drappello  avea  dato  il  suo  contingente 
albi  carneficina. 

NeHa  nottata  due  m^tri  caporali,  Luperi  e  Ariteud,  avevan  fatto 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  691 

prigioniero  il  nipote  del  generale  Werder,1  che  si  era  addormentato 
in  una  casetta. 

In  prima  fila,  alle  prime  fucilate,  Giorgio  Imbriani  era  morto 
da  prode,  gridando  —  Viva  Tltalia! 

Mi  si  parla  di  un  Romagnolo,  Salvadore  Caimi,  che,  giacente  in 
letto  all'ospedaie,  e  dato  per  spacciato  dai  medici,  e&sendo  afflitto 
da  perfidissimo  vaiolo,  alPudire  il  cannone  salt6  giu,  si  rimpannuc- 
ci6  alia  meglio,  e  corse  in  prima  fila,  ove  mori,  ma  non  colpito  dalle 
palle:  tutti  hanno  da  raccontare  qualche  eroismo  che  hanno  veduto, 
qualche  atto  di  valore  di  cui  furono  parte:  manco  male,  non  avran- 
no  piu  il  coraggio  di  dire  che  gli  Italiani  non  si  battono!  I  preti, 
strano  a  dirsi,2  erano  stati  pel  contegno  loro  ammirabili;  alcuni 
signori  dei  paesi  a  noi  vicini  si  erano  mescolati  ai  soldati,  ed  alcuni 
erano  caduti  vittime  del  loro  amore  di  patria.  Se  la  perdita  di  molti 
nostri  compagni  ci  faceva  essere  di  malumore,  ci  era  anche  di  che 
rifarsi  la  bocca! 

Ci  pongono  in  liberta,  raccomandandoci  di  non  scostarsi  tanto 
dal  quartier  generale:  approfitto  di  quest'intermezzo  per  recarmi  a 
far  visita  al  ferito  Stefani;  la  ferita  era  leggerissima,  e  lo  avevano 
di  nuovo  portato  nella  sua  casa,  che  serviva  anche  d'ambulanza.  Ci 
trovai  mio  fratello  con  diversi  della  Compagnia  Genovese.  Tutti 
seduti  intorno  al  fuoco  facevano  piani  di  guerra,  discutevano  i 
comandi  del  giorno  avanti,  rammentavano  i  morti,  godevano  ed  era- 
no  sorpresi  di  averla  scapolata  e  giuravano  che  fuoco  indiavolato 
come  quello  sotto  Talant  era  piu  che  impossibile  avesse  di  nuovo 
a  farsi  sentire.  Vollero  di  rifFa  che  io  facessi  una  corrispondenza  per 
un  giornale  di  Firenze  e  tutti  ci  misero  Io  zaxnpino  . .  .  immagina- 
tevi  che  brodo  lungo  la  venne  a  riuscire,  e  come  mostrasse  eloquen- 
temente  che  chi  la  scriveva  non  era  un  Montecuccoli3  n£  un  Na- 
poleone  .  . .  pure  ci  sembr6  un  capolavoro  di  descrizione,  una  vera 
pagina  di  dottrina  strategica  , , .  ci  si  contentava  di  tanto  poco,  dopo 
una  batosta  cosi  indiavolata! 


i.  Werderi  il  generale  prussiano  che  aveva  occupato  Digk^ie.  Vedi  la  i>ota 
3  a  p.  651 .  2.  I  preti . . .  a  dirsi:  i  repubblicani  furono  sempre  fkramente 
antidericali.  3.  Raimofido  Mtmtecuccofo  (1608-1681),  di  Modena,  comaiKl6 
le  tru{^>€  imperiali  cootro  gli  Svedesi,  i  Turchi,  i  Fraucesi,  e  vinse  varie 
vohe  anche  questi  ultimi,  sebbene  guidati  dal  Turenne  e  dal  CoiKie.  Scxis- 
se  Memorie  delVarte  Mia  guerra,  considerate  un  classico  della  letteratura 
militare. 


692  ETTORE   SOCCI 

A  interrompere  la  nostra  ammirazione,  capita  in  mezzo  a  noi, 
come  una  bomba,  il  PiccinL  Aveva  Pamico  un  viso  di  tramontana 
da  metterci  i  brividi  addosso  e  non  aveva  torto;  partito  a  bruzzico1 
insieme  al  Baldassini  per  rinvenire  il  cadavere  del  suo  gia  indivisi- 
bile  Rossi,  per  quanto  avesse  frugato,  gli  era  stato  impossibile  ef- 
fettuare  questo  disegno;  nelle  sue  investigazioni  il  giovine  Garibal- 
dino  erasi  spinto  tanto  in  avanti,  che  si  era  in  una  strada  incontrato 
con  una  squadra  di  Prussiani,  che  gli  aveva  fatto  una  scarica  ad 
dosso,  scarica  alia  quale  con  favoloso  coraggio  aveva  risposto  con 
due  o  tre  colpi,  rimanendo  illeso  proprio  per  uno  di  quei  miracoli 
del  caso  che  non  si  sanno  spiegare.  A  quel  che  ci  diceva,  anche  in 
quel  giorno  avremmo  avuto  battaglia  sicura;  conferm6  quest'idea 
anche  Pamico  Mecheri,  che  andato  a  Fontaine  a  restituire  quel  ca- 
vallo  che  si  era  appropriate  il  di  innanzi,  aveva  udito  un  rumore 
vivissimo  di  fucileria  agH  estremi  avamposti.  Bisogna  confessare 
che  queste  notizie  non  furono  accolte  con  molto  entusiasmo  da  noi ; 
quel  giorno  avremmo  bramato  di  riposare  ...  si  ripos6  anche  Dio, 
a  detta  degli  Ebrei  e  dei  cristiani:  ma  pure  se  ci  fosse  Fordine,  se 
Garibaldi  si  fosse  battuto,  senza  essere  onnipotenti  come  il  Dio 
dei  Cattolici,  ci  sentivamo  tomi  da  cacciar  la  stanchezza  e  da  fare 
quello  che  dovevarno  fare.  Andammo  per62  alia  prefettura. 

II  cortile  di  questa  dava  Pesattlssima  idea  del  vestibolo  dell'In- 
ferno  di  Dante;  non  mancavano  le  diverse  lingue,  le  favelle  orribili, 
le  voci  alte  e  fioche3  di  chi  dava  schiarimenti,  di  chi  chiedeva  infor- 
mazioni,  di  chi  narrava  i  fatti  del  giorno  innanzi,  n€  manco  il  suon 
di  mani,  quando  comparve  la  nobile  figura  di  Garibaldi  sorridente 
piu  deirordinario.  Monto  in  carrozza  svelto,  come  ai  suoi  bei  tempi 
e  mont6  insieme  con  lui,  secondo  i!  solito,  Basso.  Ci  salut6  affet- 
tuosamente;  poi  ci  disse:  —  Oggi  avremo  vittoria.  —  Parl6  spa- 
gnuolo  con  due  o  tre  figli  d'lberia  che  erano  poco  distanti  dal  nostro 
gnippo,  e  si  rallegro  con  loro  per  lo  splendido  contegno  che  essi 
avevano  tenuto  il  di  innanzi:  poi  i  cavalli  si  misero  al  trotto,  il  ge- 
rterale  si  tolse  il  cappello  in  mezzo  alle  acclamazioni,  e  parti  seguito 
da  alcuni  ufficiali  di  stato  maggiore.  Aveva  appena  oltrepassata  la 
porta  che  un  colpo  di  cannone  ci  annunzib  che  anche  per  quel 
giorrto  continuava  la  musica  bella. 

I  Prussiani,  mentre  potevano  attaccare  Digione  al  Nord  Ovest, 

i.  m.  bruxzico:   la  mattma  di  buon'ora.     2.  perd:  perci6.     3.  diverse  .  .  .  e 
jwcke:  richiama  le  parole  di  D«nte,  Inf.,  in,  25-7. 


DA   FIRENZE  A   DIGIONE  693 

la  dalla  Ferme  de  Foully,1  pianura  senza  la  minima  ombra  di  forti- 
ficazione,  commettendo  un  errore  che  non  si  sa  comprendere  nei 
vincitori  di  Sadowa  e  di  Sedan,  si  ostinarono  a  tornare  airattacco 
di  Talant,  precisamente,  come  il  giorno  avanti.  La  brigata  Menotti 
aveva  a  sostenere  adunque  Fattacco  e  ii  degno  figlio  dell'eroe  dei 
due  mondi  ebbe  tutti  gli  onori  di  quella  giornata;  diverse  compa- 
gnie  di  Franchi  tiratori  e  qualche  pezzo  d'artiglieria  avevano  du- 
rante  la  notte  rinforzate  le  file  che  dipendevano  da  lui. 

Le  legioni  Italiane  rimasero  in  seconda  fila;  ma  varii  se  la  svi» 
gnarono  alia  chetichella  dai  ranghi,  e  corsero  tra  il  fischiar  delle 
palle  e  Timperversare  della  mitraglia,  presentendo  quasi  che  la 
vittoria  annunziata  da  Garibaldi  dovcva  avere  la  piu  ampia  realiz- 
zazione. 

I  colpi  deirartiglierie  si  succedevano  senza  tregua;  i  cittadini 
non  se  ne  addavano;2  quel  giorno  tutti  avevan  fiducia.  Materassi  e 
Polese  erano  al  seguito  del  generate,  io,  Mecheri,  e  Bocconi  pigliam- 
mo  a  piedi  la  via  e  ci  incamminammo  verso  Talant.  Al  principiar 
della  strada  incontrammo  il  maggior  Sartorio  che  prowedeva  a  che 
fossero  presto  recate  a  compimento  molte  barricate  che  s'inalza- 
vano  da  operai,  requisiti  a  tale  scopo. 

Era  una  vera  giornata  di  primavera:  il  sole  splendido,  senza 
una  nuvola  il  cielo :  i  paesetti  di  Fontaine  e  Talant,  con  le  due  vaghe 
colline,  staccavano  sul  fondo  azzurro  del  cielo  e  invitavano  piu  a 
godere  di  quelParia  purissima,  e  ad  inebriarsi  in  queU'oceano  di 
luce  che  ad  andare  a  scannarsi.  Splendi  pure,  con  tutta  la  potenza 
degli  animator!  raggi,  o  ministro  maggiore  della  madre  natura,  oggi 
almeno  rischiarerai  il  trionfo  della  Liberta! 

A  poco  piu  di  mezzo  chilometro  dalla  citta,  vedemmo  cinque  o 
sei  cavalli  morti ;  da  uno  di  questi  si  parti va  una  striscia  di  sangue, 
che,  come  la  mistica  colonna  che  guidd  nel  deserto  gli  Israeliti,  do- 
veva  guidare  i  nostri  passi  fino  a  Talant.  A  pie  della  scala  di  una 
casuccia  era  steso  morto  un  giovine  Garibaldino;  un  campagnolo 
ci  mostr6  una  lettera  che  aveva  trovata  nelle  di  lui  tasche.  . .  Era 
una  lettera  della  sua  mamma;  la  povera  donna  sperava  di  riabbrac- 
ciare  suo  figlio  nelle  feste  di  Natale:  la  data  di  queila  lettera  era  di 
novembre  ed  il  giovine  1'aveva  tenuta  sul  cuore  tutto  quel  tempo! 

Arrivammo  alle  nostre  batterie;  il  fumo  ci  impediva  di  poter 

i.  Foully :  vedi  la  nota  sap.  654  (e  vedi  pp.  698,  708),     2.  non 
V€tno:  non  se  ne  curavano. 


694  ETTORE   SOCCI 

scorgere  cio  che  aweniva  nel  versante  a  noi  sottoposto;  un  ronzio 
impertinente  di  palle  ci  rendeva  avvertiti  che  i  nemici  non  erano 
molto  lontani.  Garibaldi,  Menotti,  Bizzoni,  Sant'Ambrogio  in  quel 
momento  eran  la.  Troviamo  lo  Strocchi  che  ci  avevano  dato  per 
ferito,  lo  abbracciamo  e  si  unisce  a  noi.  II  Generale  era  sceso  di 
carrozza,  esaminava  i  tiri  deirartiglieria  e  dava  consigli  agli  arti- 
glieri.  Uno  di  marina,  che  faceva  il  servizio  ai  pezzi,  punt6  due 
volte  il  cannone  e  fece  due  tiri  ammirevoli :  le  nostre  perdite  erano 
fin  allora  pochissime  e  i  nostri  nemici,  non  che  avanzare,  perdevano, 
di  momento  in  momento,  il  terreno;  allora  fu  comandata  la  carica 
alia  baionetta. 

I  Franchi  tiratori  si  lanciarono,  come  leoni,  aH'attacco:  due  zuavi 
li  precedevano  di  qualche  passo,  agitando,  a  mo'  di  bandiera,  i  gui- 
doni1  delle  compagnie  a  cui  erano  stati  ascritti.  II  momento  era  su 
blime!  II  fumo  si  era  dileguato  ed  il  sole  ripercotendo  i  suoi  raggi 
sugli  elmi  dei  nostri  awersari,  faceva  apparire  qua  e  Ik  dei  subiti 
guizzi  di  luce,  che  parevano  lampi.  Un  gridio  continue,  entusia- 
stico,  un  prorompere  di  fucilate  .  .  .  eppoi  i  soldati  di  re  Guglielmo, 
pestati,  inseguiti  colla  baionetta  alle  reni,  abbandonavano  a  rotta 
di  collo  il  campo  di  battaglia,  seminando  il  terreno  di  fucili,  di  elmi, 
di  feriti  e  di  rnorti,  e  ritirandosi  per  tre  chilometri  buoni:  tra  gli 
altri  trofei  furono  presi  sette  furgoni  d'ambulanza  del  valore  di  cir 
ca  novantamila  franchi. 

II  bravo  colonnello  Lhoste  per6,  caricando  arditamente  alia  testa 
dei  suoi  audaci  Franchi  tiratori,  veniva  mortalmente  ferito.  La  bat 
taglia  era  compiuta,  la  vittoria  aveva  sorriso  airindomito  coraggio, 
allo  slancio  piu  che  umano  dei  volontari  della  repubblica. 

Tornammo  subito  indietro  per  annunziare  la  grata  novella;  ma 
quale  non  fu  la  nostra  maraviglia,  quando,  fatti  pochi  passi  dal 
campo,  incontrammo  delle  signore  che  si  erano  spinte  arditamente 
fin  lassu;  signore  che  infangavano  nelle  pozzanghere  i  loro  stiva- 
letti  aristocratici  e  che  ci  salutavano  sventolando  i  loro  fazzoletti 
e  sorridendoci  con  angelica  grazia, 

Non  era  gioia,  non  era  entusiasmo  quello  da  cui  era  presa  Di- 
gtone  k  sera  del  ventidue  , . .  era  ebbrezza,  delirio :  a  mezzo  chi- 
tometro  dalla  citt&  era  gi&  affollata  la  via;  donne,  vecchi,  ragazzi  ci 
sakavano  al  collo,  ci  prendevano  tra  le  mani  la  testa,  ci  sollevavano 
dal  peso  delle  armi,  ci  iBsegnavano  Fun  Faltro,  gridando  a  squar- 
x.  gmdoni:  banderuole  triangolari  di  piccoli  reparti. 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  695 

ciagola:  Vive  les  Galibardiens,  vive  GaUbardi^  vim  VltaUe.  Ci  por- 
tavano  quasi  in  collo  dal  mezzo  di  strada  nelle  trattorie,  e  li  ci  offri- 
vano  da  here,  ne  ci  era  versi  di  rifiutarlo;  da  ogni  parte  strette  di 
mano,  da  ogni  parte  baci :  «  come  sono  giovani »  si  sentiva  ripetere 
da  un  canto;  «son  dei  bravi  soldati»  si  ripeteva  dall'altra .  .  .oh! 
divini  momenti,  oh!  dolci  soddisfazioni  di  chi  compie  un  dovere, 
capaci  di  riabilitare  la  persona  piii  turpe,  capaci  di  fare  un  eroe  del 
piu  pusillanime. 

Ma  echeggia  un  grido  potente,  non  interrotto,  che  fa  rintronare 
da  un  capo  all'altro  la  strada;  le  finestre  si  spalancano  con  forza; 
le  vecchie,  rimaste  uniche  in  casa,  si  affacciano,  si  spenzokno, 
agitano  le  loro  pezzole;  un  fremito  nuovo  di  gioventu  rianima  queile 
fibre  affralite  dagli  anni:  non  e  il  vincitore  d'ingiuste  battaglie 
quello  che  passa,  h  Fapostolo  delle  cause  giuste,  e  il  propugnatore 
delPumanita,  e  Peroe  leggendario,  Fuomo  incorrotto  che  con  un 
pugno  di  ragazzacci  fa  retrocedere  i  soldati  che  han  fatto  tremare 
1'Europa  . .  .  &  Garibaldi. 

—  Viva  Garibaldi  —  gridano  tutti,  e  popolani,  e  soldati  si  but- 
tano  verso  di  hii,  vanno  quasi  sotto  i  cavalli  e  le  ruote  delia  car- 
rozza:  tutti  vorrebbero  stringergli  la  mano,  tutti  vorrebbero  divo- 
rarlo  dai  baci! 

—  Gridate:  viva  la  Repubblica  —  urk  il  buon  veechio,  e  non 
sa  riparare  a  salutare,  e  sorridere. 

I  soldati  che  tornano  hanno  tutti  un  elmo,  un  fucile  preso  ai 
Prussian! ;  un  giovinetto  ha  un  piffero  e  fischia  un'arietta  in  mezzo 
agli  applausi  di  tutti.  Passano  dei  prigionieri;  tutti  li  guardano, 
ma  nessuno  alza  un  grido . . .  il  popolo  sente  la  generosita  per 
istinto!  Per  tutte  le  piazze  b  baldoria;  per  tutto  si  canta,  si  grida,  si 
applaude:  sulla  piazza  del  teatro  si  da  fuoco  persino  a  dei  morta- 
letti:  la  fiducia  generale  i  rinata;  gli  elmi  dei  Prussiani  coirannesso 
parafulmine  fanno  le  spese  di  tutta  la  sera;  contento  delFo^i  nes 
suno  cura  il  domani  e  tutti  dimenticano  Tieri. 

Si  va  a  portare  il  fausto  annunzio  allo  Stefani;  sul  principio  cre- 
deva  che  si  scherzasse:  gli  avevano  dato  nientemeno  a  bere  che  si 
trattava  di  una  capitolaziorte  e  che  i  Prussiani  si  avanzavano  verso 
Digione  a  marcia  forzata. 

lo  era  stanco  morto:  tutte  queile  emozioni,  tutte  queile  fatiche 
mi  avevano  prostrato:  mi  pareva  che  la  vita  mi  sfuggisse  ed  in  ca 
mera  del  mio  amico  ferito  ebbi  un  trabocco  di  sangue. 


696  ETTORE   SOCCI 

—  O  guardiamo,  se  dope  che  ti  han  risparmiato  le  palle,  vieni 
qui  a  far  la  morte  della  Signora  delle  Camelie  P1  —  mi  disse  il  Ma- 
terassi,  che  non  si  reggeva  piu  dalla  fatica,  essendo  stato  in  giro 
tutta  la  notte,  e  a  cavallo  tutto  il  giorno. 

Non  gli  risposi,  perch£  quest' ultimo  incidente  mi  faceva  uscire 
proprio  dai  gangheri.  Cheto,  cheto  me  ne  andai  e  neppur  mezz'ora 
dopo  mi  sdraiavo  sul  letto. 

xiv  [xvi] 

Per  quanto  facessi,  mi  fu  impossibile  in  quella  nottata  di  pro- 
vare  un  poco  di  sonno.  La  testa  mi  ardeva,  la  febbre  in  certi  mo 
ment!  mi  procurava  il  delirio;  ora  mi  pareva  di  essere  in  mezzo  alia 
mischia,  di  vedere  i  nostri  giovani  battagHoni  avanzarsi,  sgominare 
le  schiere  nemiche,  ed  annusavo  a  piene  narici  il  simpatico  odor 
della  polvere,  e  m'inebriavo  ai  mille  episodi  di  un  combattimento 
e  di  una  vittoria;  ora  mi  pareva  di  essere  tomato  in  mezzo  ai  miei 
cari,  e  li  vedevo  a  me  d'intorno,  raccolti,  pendere  ansiosi  dai  miei 
labbri,  interessarsi  alle  vicende  delle  battaglie,  alle  storie  che  rac- 
contavo:  e  vedevo  brillar  deile  lacrime,  spuntar  dei  sorrisi . .  . 
Finalmente  venne  il  mattino,  e  parve  che  la  luce,  come  fugava 
le  tenebre,  fugasse  da  me  i  vaneggiamenti  della  immaginazione 
malata.  Mi  alzai  ed  uscii ;  quelli  non  mi  sembravano  giorni  da  pol- 
trir  sulle  piume. 

A  tutte  le  cantonate  della  citta  era  affisso  un  ordine  del  giorno 
di  Garibaldi;  ordine  del  giorno  nel  quale  Tillustre  comandante  dei 
volontari,  nonch6  inorgoglirsi  ai  fumi  delle  vittorie  e  proclamare  i 
suoi  soldati  per  eroi,  raccomandava  a  loro  di  moderare  la  foga  dei 
di  passati,  di  non  attaccare  in  massa  il  nemico,  ma  bensi  in  pochi 
e  alk  spicciolata,  e  spronava  in  special  modo  gli  ufficiali  ad  adem- 
piere  tin  poco  di  piu  al  loro  dovere. 

Alk  porta  del  quartiere  delle  Guide,  vidi  il  Materassi  che  scen- 

i.  la  morte  della  Signora  delle  CameUe:  Alexandra  Dumas  fils  (1824- 
1895)  ebbe  i!  suo  primo  successo  letterario  col  romanzo  La  Dctme  aux  ca- 
mekas  (1848),  da  cui  trassc  il  dramma  di  uguale  titolo  (1852).  La  protago- 
nista,  cc^n'e  noto,  muore  di  tisi.  Questo  tema,  della  donna  di  facili  costumi 
redenta  da  un  gnmde  amore,  divenne  pc^oiarissimo,  e  influi  potenteniente 
sulla  lettermtura  e  sul  costume  dell'Ottocento :  nel  capitolo  successivo  il 
Socci  ne  presenta  una  ennesima  incarnazioaie,  modificata  per6  dalla  fine 
in  battaglia,  ndU  figuni  di  Aissa. 


DA   FIRENZE    A   DIGIONE  697 

deva  da  cavallo;  mi  accolse  a  braccia  aperte  e  mi  mostrd  delle  bot- 
tiglie  di  vino  generoso,  urlando:  —  Ecco  lo  specifico  per  la  tua  ma- 
lattia! 

Quel  vino  era  stato  trovato  nelle  ambulanze  Prussiane  e  doveva 
far  le  spese  di  un  mattiniero  banchetto  che  imbandimmo  li  sul 
tamburo.  Era  mezzogiorno  e,  malgrado  tutte  le  dicerie,  si  comin- 
ciava  a  credere  che  per  quel  giorno  gli  oppressor!  della  Francia 
non  ci  avrebbero  molestato.  Finite  il  pasto,  ce  ne  andammo  tutti  a 
trovare  lo  Stefani;  dopo  poco  che  eravamo  entrati  nella  di  lui  ca 
mera,  mi  si  comincio  ad  abbagliare  la  vista,  sentii  al  palato  un  sa~ 
pore  di  sangue,  tossii  a  piu  riprese  e  caddi  sfmito  sopra  il  divano. 

Non  so  quanto  stessi  in  quello  stato  in  cui  piu  non  sentivo  la 
vita:  quando  cominciai  a  comprender  qualche  cosa,  tuonava  il  can- 
none,  e  lo  Stefani,  mezzo  vestito,  stava  per  alzarsi  da  letto. 

—  Si  son  riattaccati  ? . . .  —  domandai. 

—  Altro  che  riattaccati!  . .  .  Affacciati  alia  finestra  e  guarda. 
Guardai .  .  .  confesso  di  non  aver  mai  assistito  a  un  cosi  scon- 

fortante  spettacolo! ...  La  gente  scappava  a  rotta  di  collo  per  tutte 
le  vie ;  le  porte  si  chiudevano  ermeticamente ;  le  finestre  erano  pure 
ermeticamente  tappate;  ogni  poco  qualche  guardia  nazionale,  o 
senza  fucile,  o  senza  cappello,  traversava  a  passo  accelerato  da- 
vanti  a  noi,  battendosi  il  capo,  proferendo  gridi  di  lamento  o  d'im- 
precazione;  donne  piangenti  che  si  portavano  dietro  i  bambini, 
carri  che  si  caricavano,  ufficiali  d'intendenza  che  a  gran  passi  si 
awiavano  in  direzione  del  quartier  generale  .  . .  « Ma  dunque 
siamo  in  completa  disfatta?*  dissi  tra  me,  e  impaziente,  colla 
piu  dolorosa  angoscia  nelFanima,  col  dubbio  che  mi  torturava  il 
cervello,  presi  la  mia  sciabola,  ed  andal  anche  io  per  strada,  deciso 
di  correre  alia  prefettura,  e  di  la  portarmi  sul  campo.  Sulla  piazza 
del  teatro,  vidi  quattro  batterie  di  cannoni  guardate  da  due  o  tre 
guardie  mobili.  Erano  nuove  artiglierie  arrivate  allora  allora  dalle 
fabbriche  di  Lione  e  del  Creusot . .  ,l  osservandole  bene  . , .  !o  si 
sarebbe  agevolmente  compreso,  ma  in  quel  momento,  in  quel- 
Pesitazione  lo  credei  anche  io,  come  il  popolo,  un  indizio  di  ritirata. 
Ma  donde  venivano  queste  paure  ?  I  nostri  avevan  forse  perduto  ? 
No;  come  vedremo  tra  poco:  ma  alcuni  battaglioni  di  guardia  na 
zionale  presi  dal  panico  a  quel  terzo  assalto  dei  nostri  nemici,  at- 

i.  Le  Creitsot  &  citt&  del  dipartimento  di  Sadne  et  Loire:  centre  metallur- 
gico  fra  i  pih  attivi. 


698  ETTORE   SOCCI 

territi  anche  dal  numero  con  cui  questa  volta  si  erano  presentati, 
non  ascoltando  piu  alcun  comando,  avevano  retrocesso,  e,  come 
valanga,  erano  piombati  per  le  vie  della  citta,  travolgendo  coloro 
che  volevano  impedire  questa  ignobile  fuga  e  facendo  nascere  Pal- 
larme  e  lo  spavento  per  ogni  dove. 

I  Prussiani,  awedendosi  del  grave  err  ore  che  avevano  commesso 
nei  giorni  antecedent!,  e  pensando  forse  che  le  nostre  truppe  fos- 
sero,  almeno  per  la  maggior  parte,  agglomerate  in  Fontaine  e  Talant 
(posizioni  contro  le  quali  essi  si  erano  rotte  le  corna)  si  concentra- 
rono  in  grandi  masse  e  prendendo  la  strada  di  Langres  si  spin- 
sero  infino  al  castello  di  Foully.  Garibaldi  aveva  ordinato  alia  bri- 
gata  Canzio  di  avanzarsi  verso  la  direzione  da  cui  venne  difatti  il 
nemico,  il  quale,  fugati  ben  facilmente  i  mobilizzati,  che  sparsero 
poi  tanta  desolazione  in  citta,  erano  giunti  persino  ad  accerchiare 
in  una  prossima  masseria  Tardito  Ricciotti,  che  coi  suoi  bravi  Fran- 
chi  tiratori  faceva  una  resistenza  eroica,  seminando  la  morte  tra 
quelle  schiere  che  non  si  azzardavano  ad  assalirlo  e  tenute  a  rispet- 
tosa  distanza  dal  ben  nutrito  fuoco  di  fila,  che  a  loro  opponevano 
dalle  finestre,  dalle  feritoie,  dalle  siepi  questi  giovani  soldati  della 
Hberta.  I  figli  di  Garibaldi  si  mostrarono  degni  del  loro  genitore,  e 
la  Francia  ha  da  serbar  eterna  memoria  del  loro  coraggio,  della  loro 
abnegazione,  della  loro  bravura. 

Quando  arrival  le  bombe  solcavano  Paria,  gia  impregnata  di 
fumo:  il  sibilo  delle  palle  non  aveva  tregua  alcuna;  i  Carabinieri 
Genovesi,  i  Cacciatori  di  Marsala  (tutta  la  quinta  brigata),  sdraiati 
pei  campi  o  nelle  vicine  praterie  non  facevano  uso  alcuno  delle 
armi.  Canzio  osservava  impassibilmente  le  masse  nemiche,  ed  ogni 
tanto  andava  da  Garibaldi,  con  cui  confabulava.  Tutto  ad  un 
tratto  guizza,  come  un  lampo  dall'uno  alPaltro  dei  militi,  una  no- 
tizia;  un  fremito  geraerale  si  comunica  di  fila  in  fila,  come  se  tutti 
quegli  uomini  subissero  1'influenza  di  una  pila  galvanica:  Canzio 
coiHStato,  col  viso  raggiante,  si  alza,  grida  a  tutti  i  suoi  uomini:  — 
Ricciotti  &  circondato,  salviamolo  —  e,  come  Pultimo  dei  suoi  su- 
balterni,  si  lancia  eroicamente  alia  carica. 

La  cavalieria  Pmssiana  si  schiera  in  ordine  di  battaglia  difaccia 
ai  aostri ;  due  tiri  di  cannone  bene  aggiustati  bastano  a  metterla  in 
fuga,  prima  aacora  che  si  ponga  al  trotto  contro  di  noi;  altri  colpi 
a  iBitragBa  ^mragliario  i  tetaglioni  nemici  che  si  ammassano,  si 
urtano,  si  Mrangono  contro  k  masseria,  le  cui  mura  sembrano  di 


DA   FIRENZE  A   DIGIONE  699 

fuoco;  i  Genovesi,  i  cacciatori  di  Marsala,  gli  Egiziani,  gli  Spagnoli 
e  persino  due  battaglioni  di  mobilizzati  di  Saone-Loire  anirnati  dal 
nobile  esempio  dei  volontari,  si  spingono  dietro  il  prode  Canzio 
alia  baionetta,  gridando  viva  la  Repubblica,  viva  la  Francia,  viva 
Garibaldi  e  intuonando  la  Marsigliese  e  Tinno  d'ltalia.1  Che  spet- 
tacolo  imponente  . . .  al  solo  pensarci  si  provano  le  vertigini,  e 
quasi  si  crede  di  avere  assistito  a  una  fantasmagoria. 

La  brigata  Ricciotti  si  spinge  eroicamente  fuori  della  masseria 
e  arditamente  da  di  cozzo  nelle  file  Pmssiane:  da  tutte  le  parti  e 
una  carneficina  terribile;  i  cadaveri  si  addensano  sopra  i  cadaver! ; 
&  affusti  di  cannoni  stroncati,  qua  siepi  distrutte,  alberi  sbarbicati 
dal  terreno;  per  terra  frantumi  di  bombe,  pozze  di  sangue,  ossa 
scheggiate,  rimasugli  schifosi  di  corpi  umani ;  i  Prussian!  non  pos- 
sono  piu  reggere;  e  troppo  formidabile  Purto  dei  nostri  soldati  e 
non  che  compatte  colonne  di  uomini,  sfonderebbe  le  rnuraglie  d'ac- 
ciaio.  Le  file  a  noi  di  contro,  piegano,  indietreggiano,  si  sparpa- 
gliano,  eppoi  si  danno  a  disperatissima  fuga. 

Canzio  e  il  primo  dei  primi,  Gattorno  a  cavallo  trascorre  qua  e  la 
velocemente,  Ricciotti,  gli  ufficiali  tutti  sono  eroi.  £  una  scena 
degna  delPAriosto.2 

Tito  Strocchi  e  il  capitano  Rostain  di  Grenoble  raccolgono  in 
mezzo  ai  cadaveri,  sempre  tra  Tinfuriare  delle  palle  nemiche,  lo 
stendardo  del  61°  Reggimento  Guglielmo;  reggimento  che  in  quel 
giorno  fu  quasi  disfatto. 

Garibaldi  corse  subito  sul  luogo  dove  era  stata  definita  la  tre- 
menda  tenzone,  e  dove  era  accaduto  rorrendo  macello;  tutti  gli 
furono  intorno;  tutti  vollero  dire  qualche  cosa . . „  pochi  e  ben 
pochi  furono  capaci  di  articolare  un  monosillabo;  la  gioia  di  quel 
momento  e  inesprimibile;  nessuno  sentiva  piu  la  fatica;  eravamo 
tra  mucchi  immensi  di  morti,  si  sentiva  qualche  fucilata  lontana, 
indizio  che  i  soldati  della  grazia  di  Dio  erano  molto,  ma  molto  di- 
stanti  da  noi  e  che  se  la  battevano  disperatamente :  avevamo  preso 
una  bandiera:  piu  bella  vittoria  noi  non  la  potevamo  sperare,  ed 
ora  se  ne  aspirava  a  pieni  polmoni  tutta  la  volutta.  Perche"  non  po- 

i.  Vffino  d1  Italia:  Tinno  di  Garibaldi.  2.  degna  ddTArw&toi  awkiziamento 
che  a  noi  pu6  sonbrare  strano,  ma  corrisponde  a  un  giudkio  del  Fziriofo 
ccnne  poema  essenzialmente  eroico :  a  Findividuo  per  coraggio  e  virtii  d*ani- 
mo,  forza  di  muscoli  e  maestria  d'anni  sul  cofnune  degli  uonxini  si  kra  e 
grandeggia »,  scrisse  il  Gioberti  nel  Primate  (vol.  in,  p.  25,  ddPed.  a  cura 
di  G.  Balsamo-Crivelii,  Torino,  U.T.E.T.,  1920), 


7QQ  ETTORE   SOCCI 

terono  dividere  le  nostre  letizie  tanti  generosi  che  ora  giacevano 
cadaver! ,  perche  non  le  doveva  dividere  il  buon  Ferraris,1  il  medico 
del  Generale,  che  recandosi  a  portare  un  ordine  insieme  a  Gattorno, 
colpito,  forse  per  errore  dalle  guardie  mobili,  doveva  essere  Pultimo 
del  nostri  morti  nella  campagna  di  Francia? 

Mentre  Garibaldi,  dopo  aver  risposto  ai  piu  vicini,  stava  per 
congedarsi  da  noi  e  tornare  in  Digione,  una  scarica  quasi  a  brucia- 
pelo  c'involse  tutti  in  un  turbine  di  proiettili  che  fortunatamente 
non  colpirono  alcuno.  Fu  fatta  voltare  la  carrozza  e  il  generale  si 
ritir6  immediatamente.  Da  chi  ci  veniva  fatta  quella  sorpresa  ?  lo 
non  lo  so;2  certo  che  gli  autori  ne  ebbero  poco  gusto:  i  volontari 
si  gittarono  con  rabbia  verso  la  parte  da  cui  cosi  stranamente  era- 
vamo  stati  salutati,  e  probabilmente  altri  cadaveri  si  aggiunsero  ai 
molti  che  ingombravano  il  terreno. 

I  Genovesi  e  i  cacciatori  di  Marsala  dovevano  pernottare  nelle 
loro  posizioni:  salutai  caramente  i  miei  amici,  ed  appoggiato  al 
braccio  di  uno  dei  Francs  chevaliers  de  Chantillon,3  piano  piano,  me 
ne  tornai  verso  la  citta,  persuaso  di  assistere,  se  pur  era  possibile, 
ad  una  dimostrazione  e  ad  un  entusiasmo  maggiore  di  quelli  pre 
cedent! . 

Avevo  sbagliato  i  miei  calcoli!  ...  Si  ebbe  un  bel  dire  ai  cittadini 
che  avevamo  conquistata  una  bandiera,  che  la  nostra  era  stata  una 
completa  vittoria,  che  i  Prussian!  erano  lontani  chi  sa  quante  miglia, 
oramai  lo  spavento  si  era  loro  infiltrato  nel  cuore,  oramai  vedevano 
le  cose  dietro  il  prisma  della  paura.  Poche  botteghe  si  riaprirono ; 
pochissime  donne  ardirono  di  far  capolino  dalle  finestre;  difaccia 
alia  Prefettura  e  alia  Mairie  vi  erano  i  soliti  capannelli  susurroni, 
insistenti :  fu  insomnia  necessario  che  il  Moire  facesse  battere  i  tam- 
buri  a  tutte  le  cantonate,  ed  ivi  dal  banditore  annunziare  ai  Digio- 
nesi  che  potevano  andare  a  letto,  e  prender  sonno  tranquilli,  poiche* 
i  Prussiani  erano  stati  respinti  su  tutta  la  linea.  -  Dietro  questa 
confortante  pubblicazione,  ricominciammo  a  veder  del  movimento 


i.  U  buon  Ferraris',  vedi  la  nota  i  a  p.  655.  z.  una  scarica  .  ,  .  lo  so:  narra 
il  Bizzoni  (Impression*  di  un  vohntario  att'esercito  dei  Vosgi,  cit.,  p.  306) 
che  « erano  pochi  prussiani »  nascosti  in  un  fossato,  i  quali  speravano  rag- 
giuugere  i  loro  reparti  in  ritirata  durante  la  notte :  ma  « vistisi  awicinare 
da  akuni  soldati .  .  .  e  credendosi  scoperti,  tirarono  quasi  a  bruciapelo  su 
di  loro:  e  le  palle  vennero  a  battere  tutt'intorno  al  generale  e  qualche 
soldato  cadde  feritoa.  3.  Ckanttfhm:  ChStillon. 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  701 

per  le  strade;  si  riaprirono  i  caffe  e  la  citta  riprese  il  suo  aspetto 
normale. 


xv  [xvn] 

Alia  mattina  del  ventiquattro  la  bandiera  Prussiana  fu  mostrata 
a  tutte  le  truppe  e  suscito  ovunque  1'entusiasmo  piu  vivo;  quella 
bandiera  era  nuovissima,  tutta  in  setat  magnifica.  La  popolazione 
Digionese,  accortasi  dell'errore  meschino  in  cui  I'avevano  fatta  ca- 
dere  la  sera  precedente  alcuni  vigllacehi,  non  si  ristava  dal  magni- 
ficare  il  nostro  coraggio  ed  aumentava  verso  di  noi  le  dimostrazioni 
afFettuose  e  gentili;  sapemmo  che  causa  principale  dello  sgomento 
e  deirallarme  era  stato  il  colonnello  dei  mobilizzati  dell'Alta  Sa- 
voia,  che  al  primo  rumore  del  combattimento  era  corso  con  diversi 
suoi  uomini  alia  ferrovia,  pretendendo  che  di  riffe  o  di  raffe  si  met- 
tesse  in  pronto  un  convoglio,  onde  partire  alia  volta  di  Lione. 

Tutto  ci  faceva  sicuri  che  i  Prussian!  non  avrebbero  riattaccato ; 
i  nostri  amici  erano  alPavamposti;  pensammo  bene  di  far  Joro  una 
visita  e  intanto  dare  un'occhiata  al  terreno,  dove  poche  ore  avanti 
erasi  combattuta  la  sanguinosa  battagHa;  alia  quale  eravamo  stati 
presenti. 

Qual  tremendo  spettacolo  non  ci  offersero  quei  campi!  Se  io 
avessi  la  potenza  descrittiva  di  poterli  ritrarre  al  vero,  farei  inorri- 
dire  i  lettori ...  II  piu  sfegatato  paladino  della  guerra  non  avrebbe 
potuto  fare  a  meno  di  fremere  davanti  a  quella  carneficina  autoriz- 
zata  dalle  cosi  dette  genti  civilL  In  qualche  punto  i  cadaveri  erano 
a  strati;  pochi  i  nostri,  moltissimi  quelli  Prussian!;  i  Tedeschi  si 
erano  battuti  come  eroi :  nel  posto  dove  f u  rinvenuta  la  bandiera  si 
contavano,  uno  accanto  all*ahro,  piu  di  novanta  cadaveri,  tra  i  quaii 
quello  di  un  maggiore;  la  prateria,  la  strada,  i  viottoli  erano  ingoni- 
bri  di  elmi,  di  fucili,  di  sacchi;  ad  ogni  passo  eravamo  sicuri  d*in- 
ciampare  in  un  morto . . .  Quanta  gioventu,  quanta  vita  dileguata 
in  un  soffio! . . .  Erano  imberbi  adolescenti,  uomini  tarchiati;  tutti 
avranno  lasciato  nelle  proprie  case  una  sposa,  una  moglie,  una  ma- 
dre:  queste  povere  donne  ogni  giomo  saranno  accorse  al  giungere 
della  posta,  avranno  divorato  dai  baci  le  righe,  che  fra  le  fastidiose 
occupazioni  del  campo  scrivevano  i  loro  cari :  le  avranno  aspettate 
anche  il  domani  quelle  benedette  righe,  che  loro  facevano  spuntare 
tra  ciglio  e  ciglio  una  lacrima  e  1'avranno  aspettate  invano,  e  invano 


J02  ETTORE   SOCCI 

anche  domani,  e  cos!  via  di  seguito  per  chi  sa  quanto  tempo!  . .  . 
poi  finiranno  col  vestirsi  a  bruno,  col  piangere,  col  pregare,  col- 
Fimprecare  a  chi  ordin6,  a  chi  voile,  a  chi  fece  la  guerra:  ma  re 
Guglielmo  sara  salutato  imperatore  di  Germania,1  ma  Napoleone 
godra  in  santa  pace  nei  beati  ozi  di  Londra2  i  milioni  carpiti  alia 
disgraziatissima  Francia! 

Oh!  avessi  avuto  la  virtu  d'Ezzecchiello!  Oh!  avessi  potuto  tra- 
sfondere  la  vita  in  quelli  esanimi  corpi!  . .  ,3  Sorgete,  avrei  voluto 
gridare  con  voce  tuonante,  sorgete  ed  imprecate  alle  arpie  coronate, 
ai  potenti  del  mondo;  tornate  nelle  vostre  citta,  nei  vostri  villaggi, 
ncllc  vostre  famiglie,  predicate  che  si  ha  da  esser  tutti  fratelli,  che 
non  si  deve  sprecar  piii  tanto  coraggio  per  soddisfare  Pambizione 
di  quelli  che  ci  opprimono,  che  si  deve  abolire  il  macello  di  creature 
innocenti,  create  per  amarsi  tra  loro,  Tune  alFaltre  simpatiche,  per- 
ch£  legate  dal  santo  vincolo  della  sventura  .  .  .  Se  Traupmann  con 
otto  omicidi  fece  rabbrividire  tutto  il  mondo  civile,  perche"  si  de- 
vono  dar  ghirlande  d'alloro  a  chi,  a  sangue  freddo,  fa  sgozzar  cen- 
tomila? 

E  mi  pareva  difatti  che  quei  morti  si  levassero  giganti,  e  colle 
braccia  poderose  scaraventassero  nei  vano  i  tarlati  troni  delle  ti- 
rannidi  umane. 

Garibaldi  travers6  la  via  in  carrozza  con  Canzio;  i  due  illustri 
e  prodi  soldati,  arrivati  che  furono  al  posto  di  cui  parlo,  furono 
pur  essi  commossi. 

Poco  distante  da  B  avevano  passata  tutta  la  notte  i  Carabinieri 
Genovesi.  Piccini  ci  accoke  ridendo  .  , .  —  Oh!  la  bella  storia  che 
ho  da  contarvi! 

—  Raceontacek. 

~~  In  pochc  parole  vi  sbrigo  . . .  Vedete  quella  casetta  ? . . .  Ter- 
minata  la  mia  guardia,  sono  andato  li  per  riposarmi .  .  .  Ci  erano 
tre  Prussian!  morti  ed  io  mi  sdraiai  in  mezzo  a  loro;  appena  steso 
per  terra,  e  inutile  che  vi  dica,  che  attaccai  un  sonno  birbone:  mi 
ero  addormentato  di  poco,  quando  mi  parve  sentirmi  girellare  d'in- 
ton&>,  non  mi  volli  scomodare  ad  aprire  gli  occhi,  e  il  calpestio  non 

i.  re  GttgUelmo.. .  Germama:  vedi  la  nota  i  a  p.  673.  A  Gugiielmo  I  fu 
cofifcrito  il  titolo  di  imperatore  di  Germania  il  18  gennaio  1871.  2.  Na- 
polcane . . .  Lomdra:  Napole<Mte  III  dope  la  pace  di  Francoforte  (1871) 
visse  m  Qiklehurst,  presso  Loodra,  fino  alia  sua  morte,  il  9  gennaio  1873. 
3.  Is  mrtu  , .  .  forp$:  il  profeta  ebreo  Ezediiek  non  ebbe  la  virtii  qui  attri- 
buitagli,  &t  invece,  la  vistooe  della  resorreziooe  dei  morti. 


DA  FIRENZE   A   DIGIONE  703 

che  cessare,  accresceva:  una  mano  poco  delicatamente  si  poso  sul 
mio  petto,  mentre  un'altra  si  awicinava  con  gran  celerita  alia  mia 
tasca ;  mi  alzo  allora,  come  di  soprassalto,  e  do  un  grand'urlo :  —  Chi 
£  ? . . .  Non  sono  mica  morto  io,  perche  mi  abbiate  a  frugare! . . .  — - 
Un  grido  disperato  e  una  fuga  generale  tenne  dietro  alie  mie  pa 
role:  seguii  i  fuggitivi  e  trovai  due  della  mia  compagnia  che  eserci- 
tavano  questo  mestiere  proficuo  si,  ma  schifoso  . . . 

—  E  domandaste  loro,  se  avevano  trovato  molta  roba? 

—  Si ...  mi  risposero  anzi  che  tutti  quell  i  che  avevano  frugato 
avevano  in  tasca  la  bibbia,  e  moltissimi  la  carta  geografica. 

Era  verita:  nessun  basso  uffiziale1  era  sproweduto  della  carta 
di  Francia.  £  cosi  che  si  vincono  le  battaglie,  e  non  come  si  fece 
nei  beatissimo  regno  d'  Italia  nelia  vergognosissima  guerra  del  J66, 
ove  le  carte  non  erano  conosciute  nemmeno  di  vista  dai  colonnelli 
di  stato  maggiore. 

Dopo  avere  scambiato  qualche  altra  parola  partimmo  dalle  linee 
dei  Genovesi  e  andammo  per  tornare  a  Digione:  avevamo  fatti 
appena  pochi  passi,  che  sentimmo  dei  gemiti  poco  distant!  da  noi : 
questi  gemiti  venivano  da  una  specie  di  casaccia  che  era  al  princi- 
piar  di  una  viottola:  quella  casaccia  non  doveva  servire  di  abita- 
zione  ad  alcuno,  nemmeno  in  tempo  di  pace;  era  bassa,  piccola,  e 
non  aveva  finestre.  II  desiderio  di  giovare  a  qualcuno,  Fidea  che 
forse  si  poteva  trovare  qualche  amico,  ci  fecero  entrare  risoluta- 
mente  in  quella  catapecchia. 

Sopra  una  barca  di  concio2  vedemmo  airincerta  luce  che  veniva 
dalk  piccola  porta,  un  involucro  di  carne;  da  questo  partivano  i 
lamenti  e,  cosa  strana,  questi  lamenti  non  ci  parvero  d'uomo ;  ma 
che  li  dentro  ci  fosse  una  donna?  -  Accesi  con  mano  tremante  un 
fiammifero,  mi  appressai . . .  un  urlo  mi  parti  dalla  strozza,  il  lume 
mi  cadde  di  mano ;  era,  purtroppo,  una  povera  donna  colei  che  si 
lamentava  in  tal  guisa  e  in  quella  povera  donna  io  riconobbi  Aissa. 

—  Aissa,  Aissa  —  le  dissi  e  fui  incapace  di  proferire  altre  pa 
role. 

La  moribonda  mi  guardo  attentamente,  direi  quasi  con  ostina- 
zione :  si  pose  una  mano  sul  cuore,  come  per  repriraerae  i  f^lpiti, 
stette  un  poco  senza  articolare  parola,  poi  faticosamente,  senza 
riconoscermi,  sussurr6  a  bassissima  voce:  —  Portateini  fuori! 

i .  basso  iqffizialc :  ufficiale  subaltemo,  di  grado  inferiore.    2.  barca  di  condo : 
mucchio  dt  letame. 


704  ETTORE    SOCCI 

Interrogai  con  un'occhiata  i  compagni;  vedendo  com'essi  erano 
propensi  ad  esaudire  quest'ultimo  voto  di  quella  bella  creatura,  la 
presi  amorevolmente  pel  capo,  mentre  gli  altri,  adagino  adagino, 
la  sollevarono  pei  pledi,  e  la  deponemmo  su  di  un  praticello,  dove 
Terbetta  era  tutta  ingemmata  dalle  stille  della  mattiniera  rugiada, 
e  dove  ripercuotavasi  un  vagabondo  raggio  di  sole,  che  si  era  fatto 
strada  tra  le  nuvole  che  tutto  ingombravano  il  cielo. 

Aissa  era  rimasta  prostrata;  gli  occhi  le  si  erano  chiusi;  come 
era  bella!  . .  .  Soffusa  di  un  pallore  che  faceva  apparire  le  di  lei 
carni  di  cera;  coi  magnifici  capelli  neri  disciolti  lungo  le  spalle,  tu 
Tavresti  creduta  Tangelo  della  grazia  e  della  bellezza,  morto  esso 
pure  in  tanto  turbinio  di  barbaric!  Poco  piu  sotto  del  cuore,  uno 
straccio  nell'abito,  delle  goccie  di  sangue  rappreso  indicavano  dove 
Pavesse  colpita  il  piombo  nemico!  In  quelPistante  la  si  sarebbe 
detta  gia  morta,  se  un  anelito  frequente  muovendo  ad  ogni  poco 
il  busto  di  lei  non  avesse  ispirato  la  certezza,  che  ancora  non  si  era 
dileguato  il  soffio  animatore  di  quella  materia. 

La  discinsi;  feci  portare  da  uno  dei  nostri  dell'acqua:  con  que- 
sta  le  bagnai  ambe  le  tempia,  e  poi  colla  faccia  proprio  sopra  la  sua, 
mi  misi  a  spiare  il  momento,  in  cui  ella  sarebbe  tornata  ad  essere 
in  se. 

—  Chiamino  un  medico! ...  —  sentii  esclamare  una  voce. 

—  Bravo  —  gridai  io  in  tuono  d'assentimento,  ma  senza  muo- 
vermi .  .  .  e  uno  in  fretta  e  furia  and6  per  il  medico. 

L'aria  fresca  rianimb  la  bella  dolente;  Aissa  apri  le  sue  luci; 
gir6  lo  sguardo  per  le  circostanti  campagne  e  addiventfr  pensierosa: 
in  quel  momento  forse  le  tornarono  in  mente  i  molti  fatti  del  lu- 
gubre  dramma,  a  cui  ella  aveva  assistito  negli  ultimi  giorni,  mi 
osserv6  lungamente,  un  sorriso  sfior6  le  di  lei  labbra  sbiancate  . . . 
elk  mi  aveva  riconosciuto. 

—  Vedete  se  ho  bene  adempiutx)  alia  promessa  che  io  vi  feci  a 
Marsiglia, 

—  Ma  dove  siete  stata  ferita? 

—  Qui ...  —  la  rispose,  aceennandomi  dove  avevo  veduto  il  san 
gue  rappreso. 

—  Ed  &  grave? 

—  Io  credo  che  sia  mortale  . . .  lo  spero. 

Restai  annichilito;  sperar  nella  morte  in  quell'eta,  con  quella 
bellezxa,  con  quel  carattere  ardente  e  leggiero  che  tanto  mi  aveva 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  705 

sorpreso  fino  dal  giorno  che  la  conobbi!  .  , .  Un  fremito  mi  aveva 
invaso  ogni  fibra,  volevo  persuadermi  di  assistere  ad  una  alluci- 
nazione  mentale  ed  avrei  dato  la  mia  vita,  pur  di  non  assistere  a 
questo  tristissimo  episodic,  che  doveva  avere  lo  scioglimento  in  fac- 
cia  ai  miei  occhi. 

—  A  che  mi  guardate  cosi  stranamente  ?  —  con  voce  sempre  piu 
tremula  continuo  la  rnoribonda.  —  Oh!  lo  so  cosa  pensate  tra  voi . .  . 
Me  lo  immagino  .  .  .  ma  se  sapeste  quanto  mi  sorride  il  lasciar  que- 
sta  vita,  che  mi  opprime  come  la  camicia  di  forza  del  galeotto  .  .  . 
Oh!  quante  volte  ho  proposto  di  faria  finita  per  sempre  e  sul  piii 
bello  mi  e  mancato  il  coraggio! 

—  Ma  voi  non  morrete:—  internippi  io—  voi  siete  sul  fiorire 
degli  anni,  siete  robusta,  la  vostra  ferita  non  &  tanto  grave  . . . 

—  £  mortale  .  .  .  lo  sento! . . .  Non  sprecate  le  vostre  cure  per 
me  . , .  sentite  ...  la  ...  come  urla  quel  povero  soldato  ferito  . . . 
vedete,  scommetto  che  lui  ha  o  una  mamma,  o  una  sposa  . . .  al- 
lora  si  soffre  a  lasciare  la  terra,  ma  io  . . .  io  . . . 

—  Voi  potrete  trovar  degli  amici. 

—  Degli  amici?!  Ma  dove?  .  . .  Ma  come? . . .  Ma  chi?  . . . 

—  Io,  per  esempio! 

—  Voi  traverserete  il  mare,  tornerete  in  mezzo  ai  cari  vostri,  e 
presto,  come  tutti  gli  altri,  vi  dimenticherete  di  me  .  . .  Noi  donne 
galanti,  alia  moda,  non  sappiamo,  non  c'immaginiamo  neppure 
Pamicizia;  Pamicizia  richiede  del  cuore  e  a  noi  ce  Phanno  strappato 
i  signori  di  cui  siamo  i  giocattoli.1  Chi  ci  ha  mai  inculcata  la  santa 
religione  delPaffetto,  della  fede  ?  Chi  ci  ha  mai  rammentato  di  esser 
donne?  L'artigiano  che  ci  disprezza  perch6  non  giungera  mai  ad 
aver  col  lavoro  la  nostra  ricchezza,  ci  addita  alle  sue  figlie  come 
vampiri,  come  mostri,  e  queste  ci  salutano  colle  loro  fischiate;  i 
nostri  protettori  quando  si  sono  sbizzaniti  con  noi  vanno  a  cer- 
carne  delle  altre;  noi  ricorriamo  a  spese  matte,  a  piaceri  che  ab- 
bruciano:  i  denari  van  via,  e  viene  Peta:  la  prima  grinza  fa  fuggire 
Pultimo  adoratore  e  . . .  e  . . .  se  non  morissi  qui,  se  continuassi  a 
vivere,  tra  pochi  anni,  obliata  da  tutti,  morirei  nel  fondo  di  uno 
spedale . . .  Fortuna  che  questa  palla  ha  troncato  tanta  colpa  e 
tanta  miseria!  .  .  .  Ve  lo  ripeto,  ve  ne  scongiuro  .  .  .  andate  a  soc- 
correre  quel  povero  soldato  . . .  forse  potrete  risparmiare  un  gran 

i .  Not  donne . . .  i  gtocattoli:  per  la  figura  di  Aissa,  vedi  la  nota  a  p.  696. 
45 


706  ETTORE   SOCCI 

dolore  ad  una  povera  madre,  pensate  alia  vostra  che  ora  prega  per 
voi  in  Italia. 

Le  mani  d'Aissa  cominciavano  ad  agghiacciarsi,  e  posandosi  sulle 
mie,  mi  producevano  la  medesima  impressione,  che  provasi  quando 
si  tacca  una  serpe.  —  Oh!  . . .  un  tempo  . . .  io  ve  lo  voglio  dire  .  .  . 
un  tempo  io  non  era  cattiva!  —  la  prosegui  con  tuono  piu  flebile. 
—  Amai  troppo,  credei  troppo  . . .  e  ne  ho  scontato  anche  troppo 
la  pena.  Ah!  avessi  dato  retta  alia  mamma  .  . .  fatemi  il  piacere,  le- 
vatemi  dal  seno  la  crocellina  che  &  attaccata  a  questo  piccolo  na- 
stro  . . .  Febbi  da  lei,  una  sera,  una  beila  sera  di  estate:  eravamo 
sulFaia,  e  ci  era  stato  il  prete  a  benedire  il  ricolto;  rimmagine 
della  madonna  era  illuminata,  un  andirivieni  di  lucciole  faceva 
scintillare  le  siepi,  i  contadini  cantavano  le  litanie,  io  accarezzavo 
il  vecchio  Bibi  perch£  non  abbaiasse;  la  mamma,  finita  la  preghiera, 
mi  venne  vicina,  mi  baci6  e  mi  attacc6  al  collo  questa  crocetta  . . . 
da  quella  sera  non  la  ho  piu  abbandonata  e  quando  ero  per  darmi 
in  braccio  alia  disperazione,  quando  dentro  di  me  meditavo  qual- 
che  vendetta  terribile,  quando  avevo  commesso  una  colpa,  guar- 
davo  quella  crocetta  e  mi  tornavano  in  mente  Faia,  il  prete,  le  li 
tanie,  il  vecchio  Bibi,  i  bei  tempi  insomma  in  cui  ero  giovine,  in 
cui  ero  buona:  e  le  colpe  mi  sembravano  meno  gravi,  perche  mi 
sembrava  vedere  la  mamma  che  pregava  per  me,  che  sorridente 
additavami  il  cielo  . . . 

Lo  spirit o  che  aveva  animato  quella  donna  a  proferire  il  lungo 
discorso,  via  via  che  la  parlava  sembrava  che  Pabbandonasse;  Paffie- 
volita  voce,  il  faticoso  respiro  che  aveva  preso  tutte  le  parvenze  del 
rantolo,  mi  convinsero  che  ormai  niente  vi  era  da  sperare,  che  ora- 
mai  gli  istanti  di  quella  vaga  creatura  erano  contati! 

La  squilladelk  vicina  parrocchia  di  Fontaine  si  fe'  modestamente 
sentire;  i  tocchi  di  quella  campana  mi  scesero  in  cuore  mesti,  sic- 
come  la  preghiera  pei  moribondi :  traversd  il  viottolo  a  noi  vicino 
una  vecchia  cenciosa  che  portava  per  mano  un  ragazzo  ...  —  Non- 
nas  —  disse  quest'ultimo  —  cosa  fa  tutta  quella  gente  sdraiata  ?  — 
Povero  bimbo,  —  rispose  la  vecchia  —  quelli  che  vedi  son  morti.  — 
E  BOH  si  risveglieranno  mai . . .  mai  piu  ?  —  II  bambino  chin6  gli 
occhi  e  poi  si  rimpiatt6  nel  fossato  . . .  intanto  uno  stormo  di  corvi 
volte^i6  intorno  a  noi! ...  la  nonna  si  mise  in  ginocchio  e  pregc- ; 
il  fanciullo  urlava  e  pkngeva! 

Uo  prete  col  breviario  sotto  il  braccio  si  awicinb,  quasi  pauroso, 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  707 

alia  moribonda;  io  gli  additai  la  crocellina  che  essa  si  era  portata 
alle  labbra,  egli  se  ne  and6  al  soldato  che  era  per  morire  poco  di- 
stante  da  noi,  ed  intuon6  ad  alta  voce  le  preci  dei  moribondi. 

Gli  stormi  dei  corvi  raddoppiavano ;  la  nebbia  sollevandosi  a 
poco  a  poco  dall'estreme  linee  di  quelFestesa  pianura  aveva  offu- 
scato  il  sole  e  i  grandi  alberi  della  strada  maestra  in  queirincerto 
barlume  sembravano  giganti  che  osservassero  con  fiero  cipiglio 
quella  scena  d'orrore;  dei  carrettoni  traversavano  innanzi  a  noi, 
come  una  triste  visione  di  mente  impaurita;  questi  carrettoni  erano 
colmi  di  cadaveri  e  i  carrettieri,  sferzando  i  cavalli,  fischiettavano 
le  ariette  dei  villaggi  natii;  ogni  tanto  qualche  lurida  faccia,  tale 
da  farti  ribrezzo  solamente  a  pensarci,  appariva  in  mezzo  ai  solchi, 
nei  cespugli,  tra  le  siepi,  disopra  al  ciglione  dei  fossi,  ch<§  non  pochi 
erano  quelli  che  giravano  per  frugare  i  cadaveri. 

Aissa  mi  strinse  forte  forte  la  mano;  parve  che  a  furia  di  bad 
volesse  divorare  la  crocellina:  si  sforzo  di  richiamare  sulle  labbra 
un  somso  e  gli  occhi  invece  le  si  empirono  di  lacrime,  proferi 
mestamente:  —  arrivederci  —  chino  il  capo,  sembr6  addormentarsi, 
e  si  addormentd  difatti  per  non  destarsi  mai  piu. 

II  bambino,  fattosi  animo,  era  saltato  dal  fosso  ed  era  venuto  a 
vederla,  la  voile  toccare  con  infantile  curiosit&;  la  senti  fredda  come 
un  marmo,  e  rimase  impietrito;  il  prete  e  la  vecchia  continuavano 
a  biascicare  orazioni,  e  i  corvi  si  erano  tanto  a  noi  awicinati  da 
sfiorarci  il  capo  con  le  nerissime  all. 

Nello  stesso  tempo  esalaya  I'estremo  respiro  il  soldato  vicino, 
susurrando  a  fior  di  labbra  il  gentil  nome  di  Greetchen.  Greet- 
chen!  . . .  Mi  passo  innanzi  alia  mente  la  poetica  creazione  di 
Goethe1  e  vidi  in  un  remoto  abituro  una  bionda  fanciulla  che  in 
quel  momento,  fissando  il  cielo,  pregmva  per  Tamioo  lontano  e  che 
gia  pregustava  le  gioie  inenarrabili  di  un  sospirato  ritorno,  che: 
PafFetto  immenso  di  vergine  suole  ispirare  fiducia;  1'amico  lontano 
muore  invece  esecrato  da  tutti;  muore  in  terra  straniera,  in  terra 
che  egli  calpest6  vincitore  e  su  cui  batt6  prepotentemente  la  scia- 
bola;  muore  proferendo  il  nome  di  lei,  senza  che  alcuno  possa  por- 
tarle  quests  notizia,  che  le  sarebbe  non  lieve  conforto  nelle  future 
affiizioni.  Vestiti  a  bruno,  o  bionda  fanciulla,  ed  impara  ad  ese- 
crare  i  tiranni;  vestiti  a  bruno  e  grida  insieme  con  me:  «Maledet- 
ta  la  guerra!» 
i .  Greetchen . . .  Goethe :  ck£,  Gretchcn,  Margfceritai,  Feit^na  del  prime  Fmtst. 


JOS  ETTORE   SOCCI 

Come  erano  belli  quei  due  cadaveri! .  . .  Tutti  e  due  erano  morti, 
ispirandosi  a  reminiscenze  soavi .  . .  tutti  e  due,  assort!  nelFideale, 
sorridendo  eran  morti! . . .  lo  correva  dall'uno  alFaltro,  mi  chinavo 
su  loro,  li  contemplavo,  avrei  voluto  trasfondere  nel  loro  corpo  il 
mio  spirito  vitale  onde  di  nuovo  animare  tanta  gioventu,  tanta  for- 
za,  tanta  bellezza ...  mi  sembrava  che  il  cervello  avesse  a  darmi 
volta:  i  miei  compagni  mi  trascinaron  via  a  forza  dal  triste  spetta- 
colo:  quando  rinvenni  dallo  stupore  aveva  fatto  piii  che  mezza 
strada  per  arrivare  a  Digione.  La  febbre  mi  aveva  occupato  tutte  le 
membra. 

—  Va*  a  letto  —  mi  dissero. 

—  Si  —  risposi  deciso  di  dare  ascolto  a  un  tal  consiglio,  e  lasciai 
gli  amici. 

Arrivato  appena  in  citta  trovai  alia  porta  del  quartier  generale 
Materassi,  Piccini  e  alcuni  altri. 

—  Vieni  con  noi  —  mi  dissero. 

—  E  dove  ? 

—  Si  va  a  vedere  i  morti  che  hanno  gia  portato  in  citta  .  . .  chi  sa 
che  non  rinveniamo  il  cadavere  di  qualche  amico,  di  qualche  cono- 
scente. 

Quantunque  la  scena  a  cui  ci  si  preparava  ad  assistere  offrisse 
una  prospettiva  tutt'altro  che  ridente,  in  special  modo  per  un 
ammalato,  come  ero  io,  un  po*  per  bruttissima  curiosita  (ripeto 
ai  lettori  che  io  non  bramo  di  farmi  meglio  di  quello  che  sono), 
un  po*  per  non  sembrare  da  meno  degli  altri,  un  po*  per  una  vaga 
speranza  di  ritrovar  forse  una  memoria  da  consegnare  ai  parenti 
lontani  di  qualche  estinto,  seguii  la  comitiva  che  accingevasi  a 
questa  visita  lugubre. 

Durante  il  tragitto,  mi  fu  raccontata  la  storia  luttuosissima  del 
capitaiK)  dei  Franchi  Tiratori,  rinvenuto  cadavere  e  tutto  bruciato 
nel  castello  di  Foully.  Garibaldi  aveva  ordinata  un'inchiesta  su  tale 
nuova  barbarie;  io  qui  non  voglio  discutere,  n£  avrei  dati  bastanti 
per  farlo,  se  sieno  o  no  vere  le  spiegazioni,  che  pretese  dare  il  Go- 
verno  Pnissiano  con  una  nota  pubblicata  su  quasi  tutti  i  giornali 
del  mondo:  quello  che  e  certo  si  e  che  Fufficiale  aveva  le  mani  le 
gate,  che  covoni  di  paglia  gia  incendiati  erano  a  poca  distanza  da 
lui  e  che  rinfelice,  come  ben  si  pu6  osservare  dalla  fotografia,  era 
tutto  coperto  d'ustioni,  airinfuori  del  capo.  Con  ci6  non  intendo 
knciare  un'accusa  generale  a  tutto  il  popolo  germanico;  il  soldato 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  709 

abbrutito  nella  caserma,  a  qualunque  nazione  appartenga,  spesso 
c  volentieri  cessa  di  essere  un  uomo  per  addiventare  la  belva  piu 
sanguinaria. 

Passata  di  poco  la  porta  Sant'Apollinare,  avanti  di  giungere  alia 
barriera  vi  e  il  convento  dei  Capuccini :  ivi  erano  stati  messi  i  cada- 
veri,  forse  perch6  si  potessero  riconoscere  a  belFagio  dagli  amici. 
Prima  d'entrare  la  nostra  vista  fu  dolorosamente  colpita  da  due 
carrettoni,  zeppi  di  morti  Prussiani:  quali  di  questi  ciondolava  una 
garnba,  quale  una  mano;  1'insieme  ti  offriva  1'idca  di  una  gran  mon- 
tagna  di  carne;  il  pavimento  era  tutto  cosparso  di  sangue,  ch£  al- 
cune  ferite  tuttora  gocciavano. 

Entrammo  in  una  piccola  stanza;  sopra  due  tavoloni  erano  stesi 
una  ventina  di  Garibaldini,  tutti  privi  di  vita:  tra  questi  lo  Squa- 
glia,  sorridente  come  vivesse  tuttora;  la  maggior  parte  mancava  di 
qualcosa  di  vestiario :  gli  awoltoi  del  la  gloria  avevano,  come  poco 
fa  si  e  veduto,  fatto  man  bassa  sulle  piu  piccole  inezie,  purche 
vi  fosse  da  ricavar  qualche  soldo.  Noi  procedevamo  in  silenzio: 
solo  il  Piccini,  incaponito  di  trovare  il  Rossi,  esaminava  ad  uno  ad 
uno  i  cadaveri,  passava  per  far  piu  presto  disopra  aile  tavole,  sempre 
con  viso  imperturbabile,  e  con  un  sangue  freddo  assai  raro. 

La  seconda  stanza  era  grandissima ;  avra  contenuto  piu  di  settanta 
morti,  disposti  non  colla  medesima  cura  di  quelli  che  giacevano 
nella  prima;  qui  vi  erano  Guardie  Mobili,  Franchi  Tiratori,  Ga 
ribaldini  ed  anche  qualche  Prussiano;  vedemmo  tra  gli  altri  il  po- 
vero  Pastoris  col  cranio  tutto  fracassato;  il  prode  maggiore  era 
stato  spogliato  fino  dalla  camicia;  questa  profanazione  mi  fece 
ribrezzo. 

Ci  fu  impossibile  ritrovare  il  Rossi ;  domandammo  schiarimenti 
ai  guardiani  e  questi  ci  risposero  che  forse  la  salma  del  nostro  amico 
doveva  essere  nella  stanza  di  quelli  che  erano  morti  di  vaiolo. 

Avanti  di  partire  non  potei  fare  a  meno  di  rivolgere  uno  sguardo 
a  tutta  quella  gioventu,  che  si  era  dileguata  come  una  meteora  nel 
cielo;  un  raggio  di  gloria,  uno  sprazzo  di  luce,  eppoi  il  nulla! 
Quante  illusioni,  quante  speranze,  quanti  pensieri  non  si  erano 
spent!  per  sempre  in  quella  clade1  sanguinosissima! 

Quante  madri,  quante  sorelle  abbrunate!  -  pensavo  dentro  di 
me  e  continuando  a  guardare  i  cadaveri,  sentivo  commuovermi  non 
tanto  per  loro,  quanto  per  le  care  persone  che  avevano  lasciato. 
i.  clade:  sconfitta;  e  ktinismo,  da  clades. 


710  ETTORE   SOCCI 

La  democrazia  italiana,  credo  bene  ripeterlo,  ha  lasciato  un  de- 
gno  e  glorioso  contingente  sui  campi  di  Francia;  la  democrazia 
italiana,  come  sempre,  anche  nel  1871  ha  immolate  al  principio 
repubblicano  i  cuori  piu  giovani  e  piu  entusiasti,  le  immagina- 
zioni  piu  fervide,  le  intelligenze  piu  belle  .  .  . 

Nel  ridurmi  a  casa . . .  ebbi  la  prova  piu  luminosa  della  fiducia 
generale  che  si  nutriva  in  Garibaldi  ed  in  noi;  dappertutto  non  si 
faceva  che  domandar  notizie  e  porgere  elogi  aU'eroico  Ricciotti  e 
alia  sua  valorosa  brigata:  i  nomi  di  Menotti,  di  Canzio  volavano 
accompagnati  da  lodi,  per  tutte  le  bocche;  e  le  donne  con  quel 
sentimento  gentile,  che  ci  rende  caramente  diletto  quel  sesso,  che 
sembra  esser  stato  messo  quaggiu  per  asciugare  le  lagrime  e  per 
darci  un  pietoso  conforto  in  mezzo  alle  disillusioni  e  agli  affanni, 
accoppiavano  a  questi  nomi,  omai  resi  gloriosi,  quello  non  meno 
caro,  quantunque  modesto,  di  Teresita.1 

£  stato  detto  che  la  superstizione  e  la  poesia  dell'ignoranza :  io, 
quando  vidi  in  capo  alia  strada,  dove  abitavo,  le  donne  affollarsi 
a  pregare  davanti  a  un'immagine,  |>er  Garibaldi,  per  noi,  per  la 
Francia,  aspirai  tutto  il  profumo  di  questa  ingenua  poesia,  e  rimasi 
a  contemplare  estatico  quel  gruppo,  che  avrebbe  offerto  a  un  pit- 
tore  un'invid  iabile  quadretto  di  genere,  e  che  a  me  offriva  un  certo 
qua!  refrigerio  di  cui  non  so  farmi  ragione. 

II  male  per6  progrediva  spaventosamente :  mi  martellavano  le 
tempie;  avevo  perduto  la  voce,  le  gambe  mi  reggevano  appena. 
Passando  dalla  bottega  della  tabaccaia,  vi  entrai,  e  mi  buttai  ri- 
finito  su  di  una  seggiola. 

La  graziosa  fanciulla,  affidata  alle  cure  della  bottegaia,  si  svestiva 
in  quel  mentre  della  sua  cappa  di  appartenente  airambulanza;  ave- 
va  gia  visitato  tutti  gli  ospedali  della  citta,  aveva  gia  fatto  amicizia 
con  tutti  i  feriti  Prussian! :  mi  disse  tutto  questo  d'un  fiato,  senza 
cbe  la  potessi  interrompere.  Quando  io  commciai  a  parlare,  la  buo- 
na  ragazza  sentendo  la  mia  voce  roca,  esaminandomi  fissamente 
nel  voho,  con  tono  aiFettuoso  mi  disse :  —  Ma  voi  avete  bisogno 
delle  mie  cure  . . .  voi  siete  malato. 

—  Che  . . .  non  i  nulla! 

—  Oh  voi  dovete  curarvi . . .  andare  a  lettol 

—  Vi  pare  . . .  qui ...  in  facck  al  nemico  , . . 

i.  Teresita:  la  figiia  di  Garibaldi,  sposa  di  Stefano  Canzio. 


DA  FIRENZE   A   DIGIONE  711 

—  II  nemico  ne  ha  abbastanza  da  rifarsi  di  forze  e  credo  che  non 
avrk  intenzione  di  riattaccare. 

—  Ammettiamolo  pure.  Ma  che  vorreste  . . .  che  io  passassi  uno, 
due,  forse  tre  giorni  solo,  come  un  cane  ?  . .  . 

—  Siete  ingiusto  . . .  voi  dimenticate  gli  amici . , . 

—  Son  tutti  occupati . . . 

—  E  . . .  le  amiche  ?  —  ficcandomi  gli  occhi  negli  occhi  proferi 
la  ragazza. 

—  Le  amiche! 

—  Si,  andate  ed  io  vi  prometto  di  venirvi  a  far  visita,  di  passare 
la  maggior  parte  della  giornata  da  voi. 

—  Dawero  ? 

—  Sul  mio  onore  . . .  via,  via  andate  . . .  non  fate  il  bambino  . . . 
il  vostro  sarebbe  un  eroismo  inutile  . . .  —  E  tanti  altri  bei  discorsi, 
che  uniti  al  male  che  mi  sentivo  in  dosso,  e  la  voglia  di  aver  collo- 
qui  intimi  con  quella  gentile  infermiera,  di  cui  avevo  imparato  ad 
ammirare  il  carattere,  mi  persuasero  a  cacciarmi  nel  letto,  deciso 
per6  di  non  badare  a  prescrizione  veruna  del  medico,  o  di  chicches- 
sia,  qualora  avessi  udito  suonare  a  raccolta  le  trombe,  o  tuonare  il 
cannone. 

Dope  poco  ero  a  letto;  a  letto,  con  una  tazza  di  tisana  a  me  vi- 
cina  sul  comodino,  apprestatami  dalla  mia  gentilissima  ospite. 

xvi  [xvm] 

Se  il  trovarsi  ammalato  lontano  dai  suoi,  in  terra  dove  siamo 
sconosciuti,  nella  solitudine,  che,  a  detta  di  Pascal,1  fa  giocare  per- 
sino  alle  carte  con  se  medesimi,  in  generale  &  una  disgrazia,  godo 
nel  dire  che  io  feci  eccezione  alk  regola.  La  solitudine  che  io  te- 
meva,  non  Tebbi  a  provare  che  in  qualche  momento:  gentili  pre- 
niure,  assistenza  piu  che  fraterna,  riguardi  inconcepibili  non  mi 
fecer  difetto  ed  io  serber6  riconoscenza  indelebile  per  le  generose 
creature  che,  ispirandosi  al  santo  amor  della  patria  e  deirumanitk, 
con  le  loro  attenzioni  resero  meno  tristi  le  travaglkte  ore  di  un  po~ 
vero  malato.  Se  questi  miei  ricordi  varcassero  le  Alpi,  io  Tavrei 
caro  soltanto  per  mostrare  ai  miei  pietosi  assistenti  che  sotto  la  ca- 
micia  rossa  del  Garibaldino  non  batte  il  cuore  di  un  ingrato,  ma  che, 

i.  Biaise  Pascal  (1623-1662),  il  filosofo  delk  Pens&s,  delle  Lcttres  provm- 
ciales,  ecc. 


712  ETTORE   SOCCI 

finch6  campa,  egli  serba  una  soave  reminiscenza  di  chi  gli  fece  del 
bene. 

Appena  da  un'ora  ero  in  letto,  quando  capit6  la  mia  vaga  vi- 
cina  in  perfetto  abbigliamento  da  infermiera:  and6  al  caminetto, 
attizzo  il  fuoco  e  mi  prepar6  della  nuova  tisana;  poi  mi  disse  che 
piii  tardi  avrebbe  portato  il  medico,  e  cominci6  a  tirar  fuori  boc- 
cette  d'essenze,  scatole  di  pasticche  e,  quel  che  phi  m'importava, 
dei  libri . . .  e  che  libri! . . .  Le  poesie  di  Alfredo  di  Musset  e  un 
paio  di  romanzi  di  Walter  Scott;1  un  libro  &  un  grande  amico  nella 
solitudine  ed  io  salutai  quei  libri  con  la  medesima  gioia  con  cui  si 
salutano  gli  amici  piu  can, 

Per  quella  sera  per6  non  potei  leggere:  le  palpebre  mi  si  erano 
appesantite:  un  sonno  profondo,  prodotto  dalla  febbre,  mi  rese 
inerte  durante  la  notte.  Al  mattino  stavo  un  po'  meglio;  pregai 
Materassi  e  Bocconi  che  stavano  di  casa  con  me  di  tenermi  infor- 
mato  a  puntino  di  quanto  sarebbe  successo,  e  di  non  por  tempo  in 
mezzo  per  venire  ad  awisarmi,  se  vi  fosse  stata  la  probabilita  di 
un  nuovo  attacco.  Cosa  d'altronde  poco  probabile,  dacche*  i  Prus- 
siani  ne  avevano  buscate  anche  troppe! 

Erano  trascorse  due  ore  buone  e  nessuna  notizia  erami  peranco 
arrivata:  io  tentava,  per  passare  il  tempo,  di  legger  qualchecosa, 
ma,  quantunque  ci6  che  leggevo  fosse  bellissimo,  il  mio  pensiero 
volava  lontano  lontano. 

Fu  bussato  dolcemente  alia  porta.  Quale  non  fu  la  mia  sorpresa 
quando,  dopo  aver  detto :  —  Entrate  —  io  vidi  comparire,  in  compa- 
gnia  della  vecchia  padrona,  due  graziose  figurine  di  fanciulle  degne 
proprio  delFelegante  pennello  delPispirato  Wattau.2 

Le  principesse  invisibili  si  erano  finalmente  degnate  di  scendere 
dairOlimpo  per  visitare  un  mortale  .  .  .  quelle  due  signorine  erano 
k  figlie  del  proprietario  del  nostro  ricco  palazzo:  le  medesime,  per 
veder  le  quali  avevamo  tanto  almanaccato  nelle  molte  ore  d'ozio 
che  avevano  preceduto  le  tre  giomate  di  combattimento.  La  fama 
quests  volta  non  era  bugiarda;  vi  assicuro  che  erano  proprio  ca- 
rine,  modeste,  educate,  geniali.  Tanta  fu  la  mia  sorpresa  che  non 
sapevo  cosa  dire,  e  sul  primo  devo  aver  fatto  la  figura  del  collegiale 

x.  L£  poesie . ,  .  Scott:  sono  autori  e  letture  care  alle  generazioni  roman- 
tidbe  deJT  Ottocento.  2.  Antoine  Watteau  (1684-1721),  il  pittore  di  cui 
sono  soprattutto  famose  le  scene  di  vita  mondana  e  galante. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  713 

piu  candido  che  sia  mai  scappato  dalFunghie  dei  reverendissimi 
maestri. 

Si  trattennero  una  mezz'ora;  dissero,  secondo  il  solito,  ira  di 
Dio  dei  Prussian!,  canzonarono  i  moblots*  inalzarono  al  cielo  i  Ga- 
ribaldini,  parkrono  deiritalia  e  del  desiderio  intensissimo  che  avea- 
no  di  vederla,  mi  fecero  con  mille  moine  trangugiare  altri  due  bic- 
chieri  di  tisana  e,  protestando  di  non  volere  piu  oltre  importunarmi, 
si  accomiatarono,  promettendomi  di  tornar  la  sera  a  farmi  visita. 

Ero  tutt'ora  sotto  la  dolce  impressione  di  questa  visita  inaspet- 
tata,  quando  con  strepito  immenso  entrc-  Materassi,  seguito  da 
uno  sciame  di  Guide. 

—  Notizie  ?  —  domandai  subitamente. 

—  Nessuna. 

—  La  cronaca  del  giorno? 

—  Ah  ...  La  Corte  Marziale  ha  condannato  a  dodici  anni  di 
galera  una  guardia  mobile  che  non  ha  voluto  ricevere  un  ordine 
dal  suo  tenente. 

—  Hai  detto  una  guardia  mobile?  -  Benissimo!  . . .  Meglio  in 
galera  che  averli  tra  i  piedi! 

—  Appro vato  —  urlano  tutti. 

—  Di  piu,  —  continuo  il  Materassi  —  sembra  che  i  Prussian!  mar- 
cine  su  Dole  .  .  .  tentando  cosi  di  prenderci  in  mezzo  .  . . 

—  O  di  avere  altre  briscole!2 

—  Speriamo  che  debba  succeder  cost!  Del  resto  per  oggi  puoi 
restar  tranquillamente  a  letto;  da  tutti  i  lati  della  citta  per  ben 
molte  miglia  k  impossible  rintracciare  un  Tedesco,  e  noi  siamo 
venuti  qui  per  far  Fora  di  andare  al  trasporto  di  Ferraris  . . .  Credi 
che  per  oggi  non  ci  &  timore  di  sorta! . .  . 

Dope  poco  entrarono  in  camera  mio  fratello,  i  due  Piccim  e  van 
altri;  si  poteva  creder  benissimo  di  essere  in  una  caserma;  per  am- 
mazzare  il  tempo  van  si  posero  a  giuocare  alle  carte:  alcuni  altri 
chiesero  aiuto  alle  muse,  e  si  misero  a  sciorinare  ottave,  sonetti, 
rispetti  con  una  facilita  piu  che  arcadica.  Fra  le  akre  birbonate, 
sentii  un  rispetto  non  moko  bruttaccio,  e  lo  regalo  ai  lettori,  se  oon 
ahro  onde  mostrare  cfae  a  tu  per  tu  colla  morte,  colk  corte  marziale 
e  col  linguaggio  barbino  dei  superiori  e  dei  regolamenti,  qualcuno 
alk  meglio  o  alia  peggio  trovava  il  momento  di  dedicarsi  alle  arti 

i.  mobfat$:  vedi  la  nota  i  a  p.  635.  2.  briscole;  busse;  ^  parola  del  linguag 
gio  familiare. 


714  ETTORE   SOCCI 

gentili.  II  rispetto  era  dedicate  ai  Franchi  Tiratori,  a  questi  benia- 
mini  delta  situazione.  Eccolo: 

Son  della  patria  un  Franco  tiratore 
e  corro  i  monti  a  caccia  dei  Prussiani: 

0  carabina,  o  donna  del  mio  cuoret 

1  colpi  tu&i  van  dritti  e  van  lontani, 
gran  bella  festa  k  il  di  della  tenzone! 
Squilla  la  tromba  e  brontola  il  cannone, 
Vengan  gli  idani  dalVacuta  lancia: 

noi  non  moviamo  pit .  .  .  Viva  la  Francia! 
Si  avansin  pure  i  cavalier  piu  baldi  .  .  . 
Vile  &  chi  trema  .  .  .  Ewiva  Garibaldi! 

Ogni  tanto  la  padrona  di  casa,  veniva  a  pigliar  mie  notizie,  dava 
un'occhiata  a  quei  gruppi  e  se  ne  andava  proferendo  con  amabil 
sorriso :  —  Oh  les  brmes  garfons! 

L'ora  di  assistere  alia  cerimonia  pietosa  in  onore  del  compianto 
Ferraris  si  awicinava  a  gran  passi,  e  i  miei  amici  mi  lasciaron  solo 
di  nuovo:  questa  partenza  che  li  per  li  mi  uggiva  non  poco,  doveva 
procacciarmi  un  paio  d'ore  di  felicita,  se  almeno  la  felicita  si  valuta 
dalla  maggiore  o  minor  prestezza  con  la  quale  volan  gli  istanti . . . 
quelle  due  ore  mi  sembrarono  infatti  appena  un  minuto,  ed  eccone 
la  ragione. 

Leggevo  con  piu  attenzione  del  solito  una  delle  piu  belle  poe- 
sie  del  Musset:  il  fino  contorno  di  una  gamba  elegante,  ed  il  pic 
colo  piede  di  una  figlia  d'Eva,  attraente  come  la  colpa,  erano  ivi 
tratteggiate  con  una  finezza  indicibile  dal  poeta  piu  simpatico  della 
Francia  moderna:  il  mio  pensiero  vagava  per  orizzonti  tutt'altro 
che  pktonici  e  la  mia  immaginazione  esaltata  riandava  i  bei  piedini 
ed  i  fini  contorni  di  certe  gambe,  che  lo  zeffiro,  compiacente  come 
un  ufficiale  d*ordinanza  di  un  re,  tante  volte  aveva  svelato  al  po- 
vero  boh&me  che  dalla  porta  di  un  caff&  vede  trasvolarsi  davanti, 
come  una  visione,  le  belle  del  mondo  privilegiato. 

Leggera  quasi  farfalla,  senza  che  io  la  veda,  si  ^  awicinata  al  mio 
ktto  la  gentile  infermiera,  la  pietosa  visitatrice  di  tutte  le  ambu- 
knze.  Essa  mi  guarda  in  silenzio;  alia  mia  volta  io  la  guardo  e  sto 
atto. 

Finalmente  lei  rompe  il  ghiaccio,  e  colla  sua  vocina  simpatica 
comincia:  —  Non  ho  potuto  portare  il  medico,  come  vi  avevo  pro- 
messo. 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  715 

—  Non  importa  . . . 

—  Vi  sentite  meglio? 

—  Tanto  meglio  che  domani  mattina  esco  di  casa. 

—  Voi  non  commetterete  questa  pazzia!  Ve  lo  proibisco  in  nome 
di  vostra  madre  . . .  pensate  alia  povera  donna  che  forse  vi  aspetta. 

—  Mia  madre  e  mortal  —  proferisco  un  po'  commosso  all'evo- 
cazione  di  tale  ricordo  , . . 

—  A  vostro  padre  ...  —  continua  piii  affettuosamente  la  cara 
fanciulla. 

—  £  morto!  —  replico  in  tuono  brusco. 

—  Dunque  siete  orfano? . . . 

—  Purtroppo! 

—  Avrete  una  bella  pero? . . .  confessatelo! 
-No. 

—  £  impossibilel 

—  Ve  lo  garantisco. 

Osservo  che  la  mia  interlocutrice  arrossisce  molto  facilmente  ed 
ha  un  nasino  retrowsS1  graziosissimo. 
Altri  due  minuti  di  silenzio. 

—  Ebbene,  vi  far6  da  sorelia.  Come  vi  chiamate  ? 
•—  Ettore  . . .  e  voi  ? 

—  Luisa! 

—  Ho  appunto  una  sorella  che  si  chiama  come  voi. 

—  Benissimo!  . .  .  Allora  ci  faremo  confidence  reciproche.  Va 
bene? 

—  A  meraviglia! . . .  Cominciate  voi,  che  mi  avete  fatto  tante 
domande  e  rispondetemi  a  tuono  . . .  E  voi . . .  ? 

Non  mi  azzardo  a  continuare,  ma  1'altra  capisce  alia  prima  e 
volendo  soddisfare  a  quel  sentimento  di  vanita,  prerogativa  del 
sesso  debole  in  generale  e  delle  francesi  in  particolare,  si  affretta 
a  rispondermi:  —  Ah! . . .  lo  appena  sara  finita  la  guerra  ho  da  es- 
sere  sposa  .  * . 

—  E  chi  e  il  fortunato  ?  — 

—  £  , . ,  Ve  lo  do  a  indovinare  tra  mille  . , . 

—  Non  saprei . . .  qui  non  oonosco  nessuno. 

—  6  nientemeno  che  un  ufficiale  Badese. 

—  Un  vostro  nemico? 

—  lo  iK>n  ho  alcun  nemico. 
I.  retrousse',  rivolto 


7*6  ETTORE   SOCCI 

—  Ma  . . .  che  so  io  .  . .  un  oppressore. 

—  Che  ci  han  che  fare  quei  poveri  diavolil  . . .  Oh!  sentiste  come 
la  pensa  anche  lui!  .  . .  scommetto,  che  se  vi  avvicinaste,  in  pochis- 
simo  tempo  diventereste  amici  del  cuore.  6  tanto  buono,  e  cosi  ge- 
neroso! 

—  Sara  . . .  ma  dove  Pavete  conosciuto  ? 

—  Qui:  alPepoca  delPoccupazione:  egli  mi  chiese  in  tutte  le  re- 
gole  ed  io  acconsentii. 

Cosa  strana,  egoistica,  tutto  quel  che  volete!  Non  sentivo  nulla 
per  quella  donna,  ma  provai  dispetto  ad  udir  quella  confessione, 
che  cosi  ingenuamente  venivami  fatta:  per  cui  non  potei  fare  a 
meno  di  diventar  brusco;  Luisa  se  ne  awide  e  per  placarmi  si  chin6 
su  me  e  le  di  lei  labbra  sfioraron  le  mie;  non  Pavesse  mai  fatto!  .  . . 
un  fuoco  di  fila  di  baci,  tutt'altro  che  fraterni,  echeggio  sotto  il 
padiglione  nuziale  che  adornava  il  mio  letto.  Povero  ufficiale  Ba- 
dese,  io  mi  prevaleva  un  po'  troppo  dei  diritti  del  vincitore,  ma  ora 
ti  auguro  un  brevetto  da  colonnello,  una  croce  delPaquila  nera, 
un'eredita  di  un  mezzo  milione,  purch6  tu  renda  felice  la  mia  as- 
sidua  assistente! 

Era  tanto  carina,  quando  parti,  imbacuccata  nel  suo  water 
proof  \l  Giunta  alia  porta  torn6  indietro,  si  Iev6  di  tasca  una  meda- 
glina,  me  Pattaccfr  al  collo  . . .  io  la  lasciai  fare:  era  una  medaglia 
della  vergine  madre  ...  oh!  religione! . . .  Eppure  non  ho  mai  ab- 
bandonato  quel  microscopico  pezzetto  d'argento:  non  fremano  i 
liberi  pensatori:  io  tengo  molto  alia  religione  ...  dei  gentili  ricordi! 

Partita  lei,  tornarono  !e  padroncine  e  insieme  alia  vecchia  vollero 
servire  il  mio  desinare  da  ammalato:  le  piu  squisite  galanterie,  che 
Parte  e  Pumana  ghiottoneria  hanno  inventato  pei  convalescent!, 
mi  si  portarono  davanti. 

Cosa  beUa  e  mortal  passa  e  non  dura.2 

La  campana  dei  vespri  mi  rapi  la  genial  compagnia:  in  quella  fa- 
miglia  erano  religiosissimi,  come  in  quasi  tutte  le  famiglie  delle 
classi  aristocratiche  e  borghesi  di  Francia.  Mai  ho  maledetto  San 
Paolino  di  Nola3  e  la  sua  sconsacrata4  invenzione  delle  campane, 
o>me  Io  feci  in  quella  sera. 

i .  water-proof:  impemieabile,  2.  Petrarca,  Rime,  CCXLVIII,  8.  3.  Paolino  di 
Bordeaux,  vescovo  di  Nolat  morto  nel  43 1 ,  detto  appunto  «  delle  campane  *, 
oooie  se  ne  fosse  stato  Pin ven tore.  4.  sconsacrata:  vedi  p.  656  e  la  nota  i. 


DA    F1RENZE   A    DIGIONE  717 

E  a  rincarar  la  dose  del  mio  malumore,  capitarono  gli  amici. 
Avevano  accompagnato  la  salma  del  Ferraris,  ma,  colla  teorica  degli 
antichi  Roman!,  dopo  i  funerali  erano  andati  alle  mense,  e  ci6  si 
vedeva  chiaramente  dalle  accese  loro  fisonomie,  dal  loro  modo  di 
muovere  i  passi. 

II  Piccini  entro  traballando,  e  parlando  un  francese  che  non  si  ca- 
piva  ne  da  Italian!  ne  da  Frances! :  ogni  poco  interrompeva  il  bistic- 
cio  per  vociare :  —  Lc saucisson de Lyon ...en  avant Garibaldims . . .  — 
Cosa  credeva  di  dire,  non  giungemmo  mai  a  capirlo  nemmeno  da 
lui!  .  . .  II  Dio  Bacco  1'aveva  inalzato,  a  dir  poco,  alia  ventesima 
potenza  dell'ebrieta,  e  quando  si  ml&e  a  sedere  attacc6  un  tal  sonno, 
che  per  portarlo  via  ci  vollero  persino  dei  pugni. 

Giunsi  a  comprendere  in  tanto  baccano  che  il  funebre  trasporto 
era  stato  imponenttssimo  e  che  Canzio  aveva  proferito  generose  e 
ben  degne  parole  sulla  tomba  del  figlio  prediletto  della  democra- 
zia  torinese. 

Dopo  aver  rimesso  un  polmone,  o  poco  meno  per  mandar  via 
di  camera  tutti  quegrindiavoiati,  mi  addormentai  saporitamente  . .  . 
Con  poche  ore  di  riguardo  e  di  calma  il  mio  male  era  passato. 

xvn  [xxi]1 

. . .  Spalancando  la  porta  con  una  pedata,  entra  in  camera  Ghino 
Polese  con  un  viso  da  far  rizzare  i  bordoni  alFuomo  piu  grasso  del 
mondo. 

—  Che  e  ?  —  gli  si  grida  tutti  a  una  voce. 

—  6  ...  —  e  qui  un  moccolo  da  Livornese  puro  sangue.  —  £  ... 
che  si  tratta  nientemeno  . . . 

—  Di  assedio  della  citta? 

—  Peggio  . . .  potremmo  morire  colle  armi  alia  mano. 

—  I  Prussiani  son  entrati? 

—  Ma  peggio! 

—  Ma  cosa  dunque  . . .  per  carita! 

—  Ci  &  1'armistizio! . ,  .2 

i.  Abbiamo  sc^>pre&so  i  c^)itoli  xix,  xx  e  una  prima  pmrte  del  xxi.  II  brano 
presente  corrisponde  alle  pp.  220-3  dell'edizione  da  noi  seguita.  2.  f  or- 
mistixio:  il  28  gennaio  si  conclusero  le  trattative  fra  Jules  Favre  e  Bismarck 
per  rarmistizio.  Ma  nell'acx:ordo  non  furono  specificamente  cmnpresi 
il  temtorio  dei  Vosgi  e  quello  che  occupava  Fesercito  dell'Est,  <x>man- 
dato  dal  generale  Clinchant,  successore  del  Bourbali.  II  Clinchant  ri- 


718  ETTORE   SOCCI 

Un  fulmine  che  fosse  caduto  in  mezzo  a  noi  poteva  produrre  il 
medesimo  effetto.  Prima  un  silenzio  di  morte,  poi  una  salva  di 
imprecazioni  tutte  allo  stesso  indirizzo. 

—  Ma  sei  ben  sicuro  di  quello  che  dici  ? 

—  Me  lo  ha  assicurato  un  ufficiale  di  stato  maggiore .  . , 
-~  6  impossible!  Parigi  si  difendera  fino  all'ultima  pietra. 

—  Parigi  ha  capitolatol  .  .  .* 

Altro  silenzio,  poi  tutti  mossi  dallo  stesso  pensiero  giu  a  rotta  di 
collo  per  la  scala,  e  portarci  al  quartier  generale. 

Sulla  cantonata  incontriamo  la  vaga  Luisa  ...  —  Dites  done?  . . . 
—  proferisce  ed  io  secco  secco  la  congedo  con  un  « non  ho  tempo 
da  perdere®  e  continuo  la  via.  .  .  Dei  gruppi  concitati  s'incon- 
trano  in  qua  e  la ...  la  parola  vile  corre  di  bocca  in  bocca. 

—  E  Favre2  che  giurava  che  finch6  esistesse  una  pietra  di  questa 
citta  I'mvasore  avrebbe  trovato  un  baluardo?! 

—  Ed  e  stato  lui  che  ha  segnato  la  capitolazione! 

—  E  noi  che  cosa  faremo  ?  —  gridava  un  disertore  dell'esercito. 

—  Imparerete  a  servire  la  Francia  —  di  rimando  rispondeva  un 
gallofobo. 

E  i  popolani  abbassavano  il  capo,  quando  noi  si  passava,  ch6 
la  maggioranza  dei  Digionesi  era  repubblicana:  e  lo  svelto  ed  al 
legro  Garibaldino  era  divenuto  sornione  e  Io  vedevi  trascorrere  colle 
mani  in  tasca,  col  berretto  sugli  occhi  mordendosi  i  labbri,  e  ad  ogni 
poco  udivi  ripetere,  commiserandoli,  i  nomi  dei  prodi  caduti . . . 
Solo  i  volti  dei  moblots  brillavano  per  insueta  gaiezza  . . .  non  ci  era 
piu  dubbio. 

Colle  gambe  che  ci  facevano  cilecca  arrivammo  alia  prefettura; 
una  folia  di  gente  si  accalcava  intorno  alle  due  colonne  che  son  di 
fianco  alia  porta,  e  su  cui  si  attaccavano  i  dispacci  e  le  comunica- 
zioni  officiali :  tutti  si  alzavano  in  piedi,  e,  quando  erano  pervenuti 

pard  in  Svizzera,  e  Garibaldi,  rimasto  solo  in  armi  di  fronte  alle  truppe 
prussiane,  per  non  essere  costretto  ad  arrendersi,  ordin6  la  ritirata  del  suo 
esercito  nella  zona  di  Autun,  compresa  nell'armistizio.  La  manovra,  pro- 
tetta  in  retroguardia  dalle  brigate  di  Menotti  e  di  Baghino,  fu  rapidissima  e 
riusci  perfettaniente :  il  i°  febbraio  Pintero  corpo  volontario  si  era  sottratto 
al  nemico.  i.  P-on^i  ha  copitolatoi  Parigi  si  arrese  il  28  gennaio,  con  la  ca- 
pitc^iizione  firmata  dai  genendi  Vinoy  e  Trochu.  2.  Jules  Favre:  vedi  la 
oota  5  a  p.  481.  Giii  costante  oppositore  deirimpero,  airawento  della  re- 
pubblica  (4  settembre  1 870)  era  divenuto  vicepresidente  del  governo  della 
dife&a  nazionale,  succcssivamente  ministro  degli  esteri  e,  infine,  anche  degli 
k^emi.  Dopo  aver  firrnato  rarmistkio,  condusse  le  trattative  che  culmina- 
ron«o  coo  la  pace  di  Franeoforte,  nel  maggio  1871. 


DA  FIRENZE  A   DIGIONE  719 

a  leggere,  si  ritiravano  mandando  imprecazioni  e  grattando&i  il 
capo.  Si  sarebbe  detto  che  le  magiche  parole  del  convito  di  Bal- 
dassare1  fossero  la,  scolpite  su  quei  marmi,  e  che  tutti  coloro  che  vi 
si  awicinavano  ne  risentissero  i  terribili  effetti. 

Due  sole  righe  di  scritto:  due  righe  che  contenevano  per6  la  piu 
dolorosa  notizia  per  chiunque  preferisce  la  dignita  al  beato  vivere: 
«Oggi  e  stato  concluso  un'armistizio  di  ventun  giorno^.  E  dire 
che  mani  francesi  non  avean  rifiutato  di  firmare  un  patto,  che  se- 
gnava  lo  stigma  sulla  fronte  di  quella  nazione  che  fin'ora,  come  il 
favoloso  Dio  dell'Olimpo,  bastava  muovesse  le  ciglia  per  fare  alli- 
bire  il  mondo  tutto  dalla  paura ;  e  dire  che  un  Favre  era  stato  tra  i 
manipolatori  di  tale  infamia! 

L'armistizio  fu  la  testa  di  Medusa  delFentusiasmo  nostro;  io 
vidi  qualcuno  piangere:  la  maggior  parte  si  sbizzarriva  lanciando 
improperii  a  Favre  e  alia  Francia:  quella  sera  non  canti  per  le  vie, 
non  le  allegre  conversazioni  dei  giorni  passati,  ma  una  musoneria 
generate .  . .  Non  vi  era  piu  fede! 

Un  ordine  del  giorno  di  Garibaldi  nel  quale  ci  si  esortava  ad  ad- 
destrarsi  nelle  armi,  ad  attender  preparati  il  momento  della  riscossa, 
fece  credere  a  diversi  che  non  sarebbe  stata  cosa  impossibile  il  po- 
tersi  di  nuovo  misurare  col  nemico  e  ci6  fece  rinascere  un  poco 
quella  gaiezza  di  cui  davano  tanta  prova  ne'  di  del  pericolo  i  Gari- 
baldini.  Per  conto  mio  non  mi  illudevo:  armistizio  non  poteva  si- 
gnificare  che  pace  disonorante:  la  resa  di  Parigi  lo  dioeva  troppo 
chiaramente;  eppoi  da  quando  in  qua  i  seguaci  di  Garibaldi  po- 
tranno  ottenere  un  completo  trionfo? , . .  Gli  unitari  d'oggi  non  lo 
relegarono  nel  *6o  a  Caprera,  mentre  volava  alia  conquista  di  Roma  ? 
Gli  arfasatti  che  gli  si  caccian  sempre  davanti,  non  gli  han  fatto 
sgombrare  il  Tirolo,2  quando  a  palmo  a  palmo  lo  aveva  conquistato, 
mentre  a  Lissa  e  Custoza  veniva  oltraggiata  la  bandiera  italiana  ? . .  * 
Non  fu  il  prode  Generale  ferito  da  piombo  italiano  ad  Aspro- 
monte  ?  . . .  Non  fu,  dopo  la  vittoria  di  Monterotondo,  lasciato  solo 

i.  le  magicht  .  . .  Baldass&re;  Baldassarre,  persona^io  biblko,  identifkato 
cxm  un  re  di  Babilcmia,  vide  durante  un  convito  una  maiK»  che  scriveva 
sulk  parete  le  misteriose  parole:  Mane,  Thecel,  Pkares.  La  notte  succes- 
siva  Baldassarre  fu  ucciso.  Le  tre  parole  appaiono  preannunzio  di  sven- 
tura.  Vedi  Dan,,  5.  2.  tgQwfcrare  il  Tirolo:  nelk  guerra  del  1866,  Ga 
ribaldi,  dopo  k  vittoria  di  Bezzecca  (20  luglio),  puntavm  su  Trento, 
quando  fu  fennato  dall'armistizio  e  costretto  all**  Obbediso>  »  (e  vedi  p.  263 
deli'edkioae  <k  noi  seguita  deJ  libro  del  Sooa). 


720  ETTORE   SOCCI 

a  Mentana  e  non  si  lasciarono  scannare  i  suoi  generosi,  mentre 
trentamila  uomini  di  truppa  italiana  erano  sul  confine?  Non  si  i 
sempre  cercato  di  sfruttare  i  suoi  trionfi,  facendolo  poi  passare 
quasi  per  un  pazzo  o  per  un  avventuriere?  Non  si  e  avuto  il  co- 
raggio  di  stampare,  che  lo  si  aveva  aiutato,  mentre  si  era  tentato 
ogni  mezzo  per  awersarlo  o  per  screditarlo?  ...  I  repubblicani 
francesi  erano  presso  a  poco  gli  stessi  pagliacci  dei  consorti  italiani, 
ed  era  da  prevedersi  quello  che  era  avvenuto,  quello  che  awenne  di 
poi.  Ma  muovan  pur  guerra  le  anime  vili  e  i  livreati  pigmei  a  que- 
st'uomo  che  da  solo  basterebbe  a  riabilitare  la  societ&,  tentino  pure 
di  schiacciarlo  e  di  awilirlo,  Garibaldi  vincera  sempre  in  nome  della 
liberta,  vincerik  anche  perdendo,  perche"  il  suo  nome  oramai  rap- 
presenta  una  idea  e  le  idee  non  si  vincono. 

xvin  [xxn]1 

Passammo  il  lunedi  svogliatamente,  senza  conclusione  alcuna: 
fino  allora  il  pensiero  dell*  Italia  di  rado  balenava  nella  nostra  mente, 
ma  dali'ora  fatale  in  cui  comincid  a  tenzonarci  nel  capo  il  dubbio 
che  non  avremmo  fatto  pm  alcuna  cosa,  vennero  ad  assalirci  tutte 
ad  un  tratto  le  care  affezioni  alle  quali  avevamo  dato  un  addio, 
ed  un  cocente  desiderio  di  rivarcare  le  Alpi  s'impadroni  delle  nostre 
anime. 

—  Noi  abbiamo  finito  di  combattere  —  dicevo  alia  vaga  Luisa 
che  colla  testolina,  chinata  sempre,  osava  appena  guardarci. 

—  Oh!  voi  siete  felice  . . .  voi  rivedrete  la  vostra  bella  . . .  io  me 
la  immagino  . . .  ime  charm&nte  petite  ItaUenne. 

—  No,  assicuratevelo,  io  non  son  punto  felice! 

—  E  perch6? 

—  Voi . . .  Francese ...  mi  potete  domandare  il  perche"  ? 

—  Io  Francese  vedo  che  siamo  traditi. 

—  E  . . .,  e  . . .  —  gridai  io  dimenticandomi  di  parlare  con  una 
donna. 

—  Ed  ho  pianto  —  sussurr&  lei  con  le  lacrime  agli  occhi. 

—  Vi  ricorderete  di  me? 

—  Sempre  . . .  ci  avete  il  vostro  ritratto  ? 
-No! 

i.  Dd  capitoio  xxn  dellredizk«ie  da  noi  seguita  abbiamo  soppresso  gli 
uhimi  tre  capoversi. 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  J21 

—  Me  lo  manderete? 

—  Ve  lo  prometto! 

—  Grazie  . . .  io  voglio  tanto  bene  ai  Garibaldmi. 

Venne  il  martedi,  giornata  che  noi  credevamo  simile  alk  altre 
che  ci  aspettavano,  per  monotonia  e  che  grazie  alia  lealta  dei  gover- 
nanti  francesi  doveva  esser  pregna  per  noi  di  awenimenti  di  nuo- 
vissimo  genere. 

Usciti  di  casa  incontrammo  la  legione  Ravelli,  che  colla  musica 
in  testa  marciava  verso  la  direzione  della  barriers  del  Parco. 

—  Dove  andate  ?  —  domandai  al  capitano  Becherucci  che  si  era 
staccato  dalla  sua  compagnia  per  salutarmi. 

—  Ma . . .  sento  un  presentimento  che  mi  dice  che  ci  si  awia 
verso  T  Italia. 

II  mio  amico  doveva  esser  profeta. 

Erano  appena  le  undici  e  Mecheri,  Ghino  ed  io  mangiavamo 
delle  paste  in  una  bottega  di  faccia  al  teatro. 

Tutto  ad  un  tratto,  quando  rneno  lo  si  aspettava,  vedemrno  for- 
marsi  dei  capannelli  di  gente  che  discorreva  con  animazione :  poi  ci 
giunsero  agli  orecchi  dei  colpi  d'artiglieria :  credevamo  sognare: 
si  pag6  il  conto,  si  andd  in  strada  e  cercammo  rmccapezzare  qual- 
che  cosa  tra  le  mille  versioni  che  si  davano  del  fatto  inopinato. 

—  I  Prussiani  si  avanzano  . . . 

—  O  I'armistizio  ? 

—  Quei  barbari  non  rispettano  nientel 

—  No  . .  .  &  Menotti  che  per  conto  proprio  ha  attaccato  il  fuo€O. 

—  Ed  ora  espone  la  citta  a  chi  sa  quale  disastrol 

—  £  impossible,  —  urlammo  noi  —  Menotti  sa  il  suo  dovere. 

—  £  vero,  e  vero  —  ripetevano  allora  i  popolani  e  davano  del 
grullo  a  chi  aveva  accampato  un  cosl  sciocco  discorso. 

—  Qui  non  si  sapra  nulla ;  —  disse  Mecheri  —  andiamo  alia  ca- 
serrna  che  &  a  pochi  passi. 

Era  cosl  giusto  questo  consiglio  che  non  differimmo  un  istante 
a  metterlo  in  pratica. 

Alia  caserma  il  foriere  aveva  fatto  caricare  tutte  le  casse  e  i  re- 
gistri  su  di  un  carro  a  cui  era  gia  stata  attaccata  la  rozza  piu  ar- 
rembata  della  nostra  scuderia. 

—  Partiamo  ?  —  si  domandd  appena  giungemmo. 

—  Non  Io  so, 

—  E  allora  a  cosa  servono  questi  preparativi? .  . . 


722  ETTORE   SOCCI 

—  Qucsti  prcparativi  ?  .  .  .  Gli  ho  fatti  per  precauzione  .  .  .  pero 
ho  mandate  a  prendere  ordini  al  quartier  generale  .  .  . 

—  O  il  tenente? 

—  Non  Tho  veduto. 

—  E  tutti  gli  altri  ? 

—  Nemmeno  per  sogno! 

Frattanto  le  trombe  della  compagnia  delle  mitragliatrici,  com- 
pagnia  che  aveva  stanza  poco  distante  da  noi,  suonavano  a  raccolta 
e  poco  dopo  i  soldati  della  medesima  si  muovevano  in  completo 
assetto  di  marcia.  Poco  appresso  gli  Usseri,  nostri  vicini  di  ca- 
serma,  montavano  a  cavallo  e  partivano  a  mezzo  trotto. 

Decidemmo  di  prendere  la  stessa  direzione  allorche"  vedemmo 
venire  a  noi  il  sottotenente  Mussi  e  il  caporale  Luperi,  che  essen- 
dosi  portati  fuori  della  citta  per  recare  una  lettera  al  colonnello 
Tanara,  ci  ragguagliarono,  essere  cominciato  un  fuoco  abbastanza 
lento  tra  le  due  artiglierie.  Ci  dissero  essere  ottimo  lo  spirito  dei 
volontari,  ma  che  nessuno  sapeva  farsi  ragione,  del  come  i  Prus- 
siani,  violando  i  trattati  si  avanzassero  verso  di  noi  con  colonne 
strapotentissime.  Tra  gli  altri  Garibaldini  in  faccia  al  nemico  si 
trovava  quel  giorno  il  bravo  Pais,  che  deposto  il  berretto  da  co 
lonnello  e  messosene  uno  di  pelo,  marciava  come  un  semplice 
soldato,  munito  di  carabina.  Dopo  essere  stato  destituito  da  Fra- 
polli,  1'onesto  repubblicano  era  corso  la  dove  aveva  spedito  tanti 
uomini  che  non  si  volevano  far  partire,  esponendosi  fino  d'allora  ad 
essere  destituito  e  a  subire  un  consiglio  di  guerra. 

Si  ando  alia  prefettura;  v'incontrammo  Ricci  che  ci  ordin6  di 
star  pronti;  domandammo  ragione  di  quel  diascoleto  ed  ei  ce  lo 
spieg6  in  poche  parole. 

II  governo  della  difesa  Nazionale,  non  ultima  disgrazia  della  di- 
sgraziatissima  Francia,  non  aveva  compreso,  nel  patto  proposto,  i 
dipartimenti  della  Cote  d'Or,  del  Doubs  e  del  Jura.  Quindi  so- 
spensione  d'ostilita  per  tutti  gli  eserciti  fuori  che  per  il  nostro;  si 
voleva  avere  il  gusto  di  vedere  sconfitti  anche  i  pochi  cialtroni  che 
sapevanofamamrnazzare^perch^nonavevanonientedaperdere  .  .  . 
a  detta  di  lorol  —  Nessuno  awiso  era  stato  comunicato  a  Garibaldi 
su  questa  clausok  delPiniquo  contratto:  cosi  si  ricompensava  Teroe 
generooo,  che  unico  aveva  vinto,  che  unico  aveva  strappato  una 
bandiera  ai  Prussian!;  cosl  si  ricompensava  Fardente  figlio  della 
che  pur  di  porre  il  suo  braccio  a  disposizione  della  repub- 


DA   FIRENZE   A   DIGIONE  723 

blica  aveva  dimenticato  le  prodezze  francesi  del  1849,  le  rnaravi- 
glie  degli  Chassepots  che  il  generate  De  Failly  aveva  provato  contro 
i  petti  dei  generosi  figli  d' Italia  a  Mentana. 

Sorpresi  da  imponenti  colonne  nemiche  nelle  loro  posizioni,  i 
nostri  sarebbero  caduti  vittirae  dell'infame  tranello  e  gia  i  Prus 
sian!  triplicati  di  numero  pregustavano  le  gioie  di  una  facile  vitto- 
ria,  ma  i  traditori  francesi  e  i  generali  avevano  fatto  i  conti  senza 
Garibaldi:  quel  giorno  apparvero  le  sue  virtu  militari,  ed  egli  fu 
piu  grande  nella  precipitosa  ritirata  dalla  Borgogna  che  nelle  tre 
celebri  giornate  che  tanta  gloria  aggiunsero  alia  nostra  povera 
Italia. 

I  nemici  furono  tenuti  a  bada  tutto  il  giorno  dai  nostri  cannoni ; 
Menotti  ed  i  suoi  ufficiali  facevano  i  puntatori,  e  in  questo  tempo 
le  truppe  si  awiavano  verso  Chagny. 

—  Ma  sicche  dobbiamo  proprio  partire  ?  —  domandammo  al  no- 
stro  tenente  che  ci  dava  tutti  quest!  ragguagli. 

—  Purtroppo. 

Andammo  a  casa  e  facemmo  in  pochi  momenti  il  nostro  modesto 
bagaglio,  e  senza  avere  il  coraggio  di  salutare  i  nostri  ospiti,  scen- 
demmo  a  rotta  di  collo  le  scale. 

—  Oil  allez  vous?  —  ci  domand&  allorch£  ci  vide  passare  la  Luisa, 
sorpresa  in  vederci  in  perfetta  tenuta  di  marcia. 

—  Andiamo  a  batterci  —  rispondemmo  noi  tutti. 

—  Vraiment? 

—  Sulla  nc^tra  parola. 

—  Soyez  prudents  —  sussurrd  a  mezza  bocca  e  volk  a  ogni  costo 
baciarmi  alia  presenza  di  tutti.  Gli  angioli  del  Signore,  favoleggiati 
dai  buoni  credenti,  non  avrebbero  avuto  di  che  veiarsi  la  faccia,  e 
quel  bacio  doveva  esser  Tultimo  che  io  riccvcva  dalla  vezzosa  fan- 
ciulla, 

Arriviamo  al  quartier  generate :  il  j^rtire  dei  carri  aveva  prodotto 
un'adunanza  insolita  di  gente  davanti  alia  porta:  tra  le  molte  per- 
sone  scorgo  le  due  gentili  figliuole  della  nostra  padrona  di  casa: 
cerco  sfuggirfe:  mi  chiamano:  non  vi  £  dubbio,  esse  pure  mi  ripe- 
terono  Fimportuna  e  doterosa  richiesta. 

—  Dove  andate? 

—  Partiamo, 

—  Sul  serio? 

—  Cod  non  fosse! 


724  ETTORE   SOCCI 

—  Ma  la  ragione  ? . . . 

—  Chiedetela  a  Favre  . . . 

Le  ragazze  mi  guardaron  fisse  negli  occhi,  poi  chinarono  i  proprii 
e  si  tacquero:  e  in  questo  tempo  mille  altre  domande  sullo  stesso 
tenore  si  rivolsero  a  noi,  e  noi  ci  sfogammo  a  dire  tutto  il  male  pos- 
sibile  degli  eroi  da  commedia  che  disonoravano  in  quel  momento 
la  Francia,  ed  i  Digionesi  facevano  eco  alle  nostre  invettive. 

Arriva  il  Piccini  tutto  sonnacchioso.  —  Che  ci  e  di  nuovo  ?  — 
proferisce  con  uno  sbadiglio. 

—  Ce  di  nuovo  che  partiamo. 

—  E  perche"? 

—  Perche  non  siamo  compresi  neirarmistizio. 

—  O  la  mia  compagnia? 

—  Sar£  partita. 
-Edio? 

—  Vieni  con  noi! 

—  Vengo  subito :  vo  a  dire  addio  a  due  bambine  e  vi  raggiungo. 
E  via  a  gran  camera. 

—  Le  Guide  alia  Stazione :  —  grida  poco  dopo  il  Ricci  -—  la  tromba 
vada  suonando  per  chiamar  gli  sbandati. 

A  quattro  a  quattro,  con  accompagnamento  di  tromba  e  di  be- 
stemmie,  traversando  la  cittk  le  cui  botteghe  eransi  chiuse  ad  un 
tratto,  arrrivammo  al  gran  piazzale,  dove  si  doveva  attendere  quei 
pochi  che  avevano  un  cavallo  e  che  dovevano  ricevere  ordini  sul- 
ritinerario  da  percorrere  per  recarsi  a  Chagny. 

Sul  piazzale  vi  era  una  confusione  indicibile:  cariaggi,  cannoni 
trasvolavano  tra  Tincerto  chiarore  (era  sorta  la  notte)  a  noi  davanti, 
provocando  esclamazioni  che  io  non  oporto  per  non  fare  arrossire 
la  mia  lettrice:  tutti  eravamo  stizziti  e  non  si  cercava  che  un  pre- 
testo  qualunque  onde  dar  sfogo  alia  bile. 

I  moblots  si  erano  addossati  ai  lati  della  piazza,  mettendo  in  fasci 
i  loro  fucili  e  intuonando  la  Marsigliese . .  .  Ci  voleva  il  loro  co- 
raggio!  .  .  .  Questi  canti  che  mai  eransi  da  loro  uditi,  durante  il  pe- 
ricolo,  fecero  saltare  a  qualcuno  dei  nostri  pm  bizzoso,  il  pulcino,1 
e  quindi  lotte  con  scambi  di  pugni,  subito  appacificate  dai  superior! ; 
qualcun  altro  per  far  la  burletta  si  divert! va  a  vociare :  —  Les  Prussians, 
les  Pntssiew  —  e  i  moblots  scappavano,  poco  curandosi  dei  loro  arma- 
mentl:  ma  allorche"  potemmo  ammirare  una  fuga  dirotta,  si  fu, 

i» fecero  .  .  .  il  pulcino:  fecero  stizzire,  saltare  la  mosca  al  naso. 


DA  FIRENZE   A  0IGIONE  725 

quando  un  cavallo  del  treno,  ia&ciato  in  balia  di  se  stesso  si  di&  a 
saltare  a  scavezzacollo  in  mezzo  alia  piazza.  Un  grido  immenso, 
un  urtarsi,  un  rovesciarsi  addosso  ai  fasci  di  armi,  una  Babilonia 
insomma  da  far  perder  la  testa, 

Ricciotti  era  vicino  all'Arco  di  trionfo,  battendo  i  piedi  e  sbuf- 
fando:  poco  piii  in  la  un  volontario  consolava  in  italiano  un  bel 
fior  di  ragazza  che  si  struggeva  in  lacrime ;  a  poca  distanza  una  guida 
per  smaltire  il  malumore  si  divertiva  a  pestare  i  calli  di  alcuni  mo- 
bilizzati  che  si  erano  sdraiati.  II  nimore  del  cannone  era  cessato: 
la  notte  era  fredda,  ma  tranquillissima;  un  bel  chiaro  di  luna  faceva 
spiceare  sul  fondo  stellate,  nel  quale  errava  qua  e  la  qualche  vaga- 
bonda  nuvoletta  bianca  e  diafana,  le  purissime  linec  della  guglia  di 
San  Benigno . . .  Le  case  non  apparivano  che  incerte  masse  nere, 
ad  ora  ad  ora  intramezzate  da  un  lumicino,  o  dall'argenteo  riflesso 
dei  raggi  ripercossi  sui  vetri :  un  chiarore  confuso  s'innalzava  sui 
tetti. 

O  Digione,  o  Digione  come  mi  apparivi  cara  in  quel  tristo  mo- 
mento!  .  . .  Come  mi  si  strinse  il  cuore  al  pensiero  di  doverti  la- 
sciare!  II  sangue  generoso  dei  nostri  compagni  morti  nelle  fertili 
pianure  che  ti  ricingono,  ti  ha  legata  all' Italia! . . .  Le  gentilezze  che 
tu  facesti  ai  suoi  cari,  le  cure  assidue,  piii  che  fraterne,  che  hanno 
da  te  ricevuto  i  nostri  feriti,  hanno  a  te  legato  Tltalia,  sOh!  venga 
il  nemico, »  io  pensava  tra  me  neH'esaltazione  del  dispiacere  «  ven 
ga  e  mi  uccida  qui,  proprio  sotto  quest'arco .  .  .  Oh!  che  io  possa 
morire  piuttostoehe'  di  accingermi  a  questa  dipartita  fatale,  che  mi 
fa  sprezzare  Pumanita,  che  mi  fa  vergognare  di  essere  uomo  », 

—  Su  .  . .  su  . . .  non  ci  e  tempo  da  perdere,  ~  mi  grida  il  fo- 
riere  —  alia  stazione. 

—  Partiamo  col  treno? . . . 

—  Si,  nello  stesso  convoglio  del  Generale. 

Con  uno  sforzo  sovrumano  arriviamo  a  varcare  i  cancelli :  un'in- 
finita  di  mobilizzati  ed  anche  qualche  Italiano,  o  di  rifle  o  di  raffe, 
pretendevano  forzare  la  consegna  e  risparmiarsi,  assoggettandosi 
a  degli  urtoni  o  al  pericolo  di  qualche  partaccia,  una  trentina  di 
kilornetri  da  farsi  colk  ca\-alcatura  di  San  Francesco. 

Arriviamo  sotto  la  stazione:  li  troviaxno  qualche  aiutante  del 
Generale,  diversi  ufHciali  di  stato  maggiore  e  un  convoglio  .  .  . 
quel  convoglio  per&  non  era  per  noi,  esso  era  stato  serbato  ai  feriti. 

Garibaldi  non  era  anche  giunto :  il  generoso  eroe  dei  due  mondi 


726  ETTORE   SOCCI 

voleva  partire  soltanto  ailorch£  sarebbe  stato  sicuro  che  nessuno 
dei  suoi  cari,  sofferente,  potesse  cadere  nelle  mani  deirinimico. 

Appena  partito  il  treno,  cominciano  ad  arrivare  nuovi  stroppi  : 
si  buttano  sulle  panche  della  stazione  gemendo  ed  urlando  ;  alcune 
donne  prestano  loro  qualche  soccorso  o  qualche  conforto. 

Si  appresta  un  altro  convoglio  :  —  Speriamo  sia  il  nostro  —  dice 
qualcuno;  si  domanda  al  capo  stazione,  o  a  una  guardia  qualunque 
e  ci  rispon.de  negativamente.  Allora  la  solita  storia  delle  mille  chiac- 
chiere  imitili. 

—  O  sta  a  vedere,  che  ci  prendono  come  salami! 

—  Sentite  .  .  .  ma  certe  ostinazioni  non  le  si  capiscono  .  .  . 

—  E  se  andassimo  in  quel  treno  li  ? 

—  Ma  noi  si  ha  Tor  dine  di  star  qui. 

—  Eppoi  abbandonereste  il  nostro  vecchio? 

—  E  se  fosse  partito? 

Un  grido  di  disapprovazione  copriva  queste  ultime  parole,  e  il 
disgraziato  che  sbadatamente  le  aveva  proferite,  ebbe  dicatti1  a 
rincantucciarsi  e  a  non  farsi  piu  vivo  durante  tutto  il  viaggio. 

Qualcuno  piu  furbo  di  lui,  ma  con  la  stessa  tremarella,  mentre 
gli  altri  si  perdevano  in  chiacchiere,  facendo  lo  zoppo  od  il  monco, 
entr6  in  qualche  vagone,  gabbando  le  guardie  e  anticipando  il  mo- 
mento  di  scappar  di  mano  a  quei  Prussian!  che  Pesaltata  immagi- 
nazione  faceva  vedere  a  pochi  passi. 

La  locomotiva  da  un  fischio,  ed  il  triste  convoglio  dei  feriti  si 
dilegua  ai  nostri  occhi. 

La  stazione  resta  un  po'  piu  liberal  ...  Si  attacca  la  carrozza  del 
Generale;  &  un  vagone  di  prima,  a  cui  fa  seguito  uno  di  seconda 
per  lo  stato  maggiore;  e  preceduto  da  due  carri  per  i  bagagli. 

Entrano  il  colonnello  Bossi  e  il  Capitano  Galeazzi. 

—  Guide:  —  dice  quest'ultimo  —  che  nessuno  monti  in  questo 
convoglio  ...  ad  eccezione  di  voi  .  .  . 

—  E  dove  andremo? 

—  Su  .  .  .  tra  i  bagagli. 

Prendiamo  d'assalto  i  due  carri,  dove  ci  accomodiamo  alia  meglio. 
Dope  pochi  minuti  subito  una  questione  in  capo  del  carro  .  »  . 
-—  Giii  .  .  .  sacramento! 
-  Che 


i.  ebbe  dicatti:  si  pot£  dichiarare  fortunate.  L'espressione  k  toscana  e  de- 
riva  dal  latino  de  capto,  «per  guadagnato  ». 


DA  FIRENZE  A   DIGIONE  727 

—  Siamo  Italiani  come  voi,  Dio , » . 

—  C'e  Tordine  di  non  far  salire  che  Guide. 

—  E  noi  siamo  della  legione  Tanara . . .  della  legione  di  ferro  . . . 

—  0  di  ferro  o  di  rame  noi  rispettiamo  gli  ordini. 

—  E  noi  siamo  qui . . . 

—  Giu  . . .  giu. 

E  qui  qualche  colpo  di  mano  e  qualche  pedata:  quindi  gran  di- 
scussione  di  ufficiali,  a  cui  finiamo  col  prender  parte  noi  tutti. 

—  Diamogli  ragione  —  mi  dice  un  Livornese,  —  Non  vedi  che 
fiasca  di  vino  hanno  a  tracolla . . .  per  strada  fa  comodo. 

Si  urla,  si  strepita . . ,  molti  scendono,  poi  risalgono  e  i  due  non 
van  via ... 

—  II  Generale! ...  —  grida  una  voce. 

Tutto  tace  e  nessuno  piii  pensa  al  meschino  incidente. 

All'udire  che  vi  e  Garibaldi,  mi  si  prende  uno  stringimento  al 
cuore,  e  mi  spenzolo  dal  carro  onde  meglio  vederlo.  Povero  eroe ! . . . 

Garibaldi  era  serio,  ma,  come  sempre,  serene,  e  come  sernpre 
spirante  dal  volto  una  bonta  che  i  impossible  descrivere:  lo  ac- 
compagnava  il  generale  Bordone,  che  non  parti  con  noi;  a  poca 
distanza  da  lui  venivano  i  maggiori  Fontana  e  Gattomo  e  il  tenente 
Grossi. 

Tutti  quelli  che  erano  sotto  la  stazione  si  levarono  il  cappello: 
il  Generale,  appoggiandosi  su  un  bastoncello,  stii  un  po*  fermo  e 
gir6  uno  sguardo  malinconico  alFintorno.  Parl6  a  lungo  cx>n  un 
signore  tutto  vestito  di  nero,  o>n  barba  (credo  il  sinda^o  od  il 
prefetto),  poi  si  mc^se  per  montare  nel  vagone. 

Un  vecchio  venerando  gl'impedisce  Fandare  per  serrargli  la 
mano.  II  Generale  to  guarda,  poi  ricambia  affettuosanaente  la  stret- 
ta.  Non  &o  perch6;  ma  ho  voglia  di  piangere. 

Tutti  ci  sentiamo  comimjssi :  un  guardatreno  grida :  —  Vive  GaK- 
bardi ...  —  nessuno  risponde:  in  quell'istante  ogni  ewiva  era  su- 
perfluo:  la  vera  grande^a  disdegna  le  facili  manifestazioni  del 
volgo. 

II  Generale  £  in  carrozza:  la  locomcdva  fischk:  mm*  in 
vimento . . , 


728  ETTORE   SOCCI 


XIX    [XXVIIl]1 

. . .  Macon  e  il  capoluogo  del  dipartimento  di  Saone  et  Loire;  in 
tempi  di  pace  e  celebre  per  il  buffet  della  stazione  e  per  le  mode  ori- 
ginali  delle  sue  donne  del  popolo;  in  tempo  di  guerra  noi  vi  tro- 
vammo  delle  gentilissime  signore  che  rivolgevano  ogni  cura  per 
sollevare  i  feriti  e  per  recar  conforto  ai  soldati  di  passaggio:  in 
tempo  d'armistizio,  come  ci  si  capitava  ora,  non  rinvenimmo  che 
bei  caff^  delle  donne  eleganti  e  un  giornale  buonapartista  ad  ol- 
tranza,  che  ci  screditava  facendo  di  noi  certe  biografie  impossibili 
e  piene  di  una  filza  di  menzogne. 

Non  sto  a  dire  qual  folia  di  gente  invadessero  i  pacifici  uffizi 
della  MairUy  appena  fummo  arrivati.  II  Moire  protestava,  sbuf- 
fava,  sudava:  tutti  volevano  esser  serviti  alia  prima  ed  egli  non  ser- 
viva  nessuno:  per  temperamento  fu  deciso  di  dare  solamente  i 
biglietti  d'alloggio  agli  ufficiali :  mi  fo  prestare  il  berretto  dal  tenente 
Mussi  e  in  poco  tempo  non  che  uno  mi  trovo  con  quattro  biglietti 
in  saccoccia.  II  primo  di  quest!  era  per  un  marchese,  il  secondo 
per  un  droghiere,  il  terzo  per  un  macchinista  di  ferrovia,  Preferii 
quest'ultimo:  piccato  ad  osservare,  volevo  conoscere  intimamente 
i  sentiment!  del  popolo  e  di  piii  provavo  il  bisogno  di  ritemprar 
la  mia  anima  in  una  atmosfera  serena. 

Ne  mal  mi  ero  apposto:  una  fanciulla  dalFaria  ingenua,  dal  ve- 
stitino  d'indiana  mi  ricev6  con  aria  franca,  poi  and6  a  chiamare  la 
mamma:  questa  era  una  vecchiarella  che  si  perse  in  inchini,  che 
mi  sgrano  in  faccia  due  occhioni  grossi  come  pani  tondi  quando 
seppe  che  io  ero  nato  in  Italia  e  che  per  andare  da  Macon  ai  confini 
d'ltalia  ci  erano  piu  di  duecento  miglia:  le  due  donne  mi  prepara- 
rono  una  cameretta  pulita,  modesta,  degna  di  accogliere  una  ver- 
gine:  non  so  perche\  ma  quell'aria  mi  purificava,  e  non  trovavo 
verso  di  staccarmi  da  quelle  due  donnnicciole  che  parlavano  il 
linguaggio  dell'ignoranza,  Punico  che  parte  veramente  dal  cuore. 

Eravarno  andati  a  Macon  per  discioglierci  ;2  pure  ci  tennero  due 

i.  Abbiamo  soppresso  i  capitoli  xxm-xxvn  e  il  primo  capoverso  del  capi- 
toio  xxvni.  II  brano  presente  corrisponde  alle  pp.  273-6  delPedizione  da 
noi  seguita,  cio&  ad  una  prima  parte  del  capitolo  xxvm.  2.  per  discioglifrci: 
i'armata  dei  Vosgi  fu  sciolta  il  io  marzo,  e  disarmata.  I  volontari  furono 
rimpatriati.  Garibaldi  fu  eletto  deputato  a  Parigi,  a  Nizza,  a  Digione,  ecc. 
c«m  due  milkmi  di  voti,  ma,  accolto  ostilmente  airAssemblea  nazionale  di 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  729 

giorni  in  un  ozio  increscioso:  a  romper  la  monotonia  di  quelle  lun- 
ghe  ore  venne  il  §  Journal  de  Macon  t.  In  un  articolo  pieno  di  bile 
la  piu  velenosa,  il  venduto  imbrattator  di  carte  si  scagliava  su  r*oi 
in  un  modo  veramente  indecente.  Dopo  aver  detto  ira  di  Dio  di 
Garibaldi  e  Gambetta,  I'articoUsta  aveva  lo  spudorato  coraggio  di 
chiamarci  i  cavalieri  erranti  della  repubblica,  i  fannulloni  Italiani 
che  erano  andati  in  Francia  a  fare  i  signori,  gli  spavaldi  guerrieri 
che  non  avevano  mai  veduto  il  fuoco,  ma  che  trattavano  il  diparti- 
mento  di  Saone  e  Loire  come  se  fosse  un  paese  conquistato. 

Mettere  una  mano  in  un  alveare  e  scrivere  quella  robaccia  fu  la 
medesima  cosa!  In  poche  ore  piu  di  trecento  Garibaldini  corsero 
alFufficio  del  malcapitato  giornale.  Un  pagliaccio  qualunque,  alli- 
bito  dalla  paura,  si  scusava,  si  profondeva  in  milk  proteste,  dava 
insomma  tal  prova  di  vigHaccheria,  che  nessuno  dei  nostri  voile 
sporcarsi  le  mam  col  daglierle  sul  muso. 

II  giorno  dopo  il  giornale  esci  fuori  colle  due  prime  colonne  in 
bianco:  piu  sotto  vi  era  una  protesta,  in  cui  si  dichiarava  che  la 
libera  starnpa  deve  tacere  la  dove  regna  la  sciabola.  £  un  fatto:  i 
giornalisti  venduti  son  come  i  rospi,  bisogna  schiacciarli. 

Dopo  tale  incidente  cominciava  a  rinascere  in  noi  il  malumore. 
A  che  ci  trattengono  ?  si  cominciava  a  ripetere :  forse  la  guerra  non 
&  fmita  ? . . .  Non  veggono  dunque  come  noi  cominciarno  a  trovarci 
in  una  situazione  abbastanza  anormale  ? .  .  .  E  qui  gli  stessi  lamenti, 
e  gli  stessi  lunghi  discorsi,  da  cui,  stringi  stringi,  non  si  poteva  ri- 
levare  che  rimmenso  desiderio  che  tutti  dormnava  di  rivedere  al 
piu  presto  1* Italia. 

Arriva  finalmente  la  legione  Ravelli  per  essere  disarmata;  lo  stes- 
so  giorno  disarmano  noi,  promettendoci  pel  dl  dopo  due  mesi  di 
paga  e  il  congedo. 

Pure  quella  sera  fu  baldoria:  si  trattava  di  tornare  in  Italia,  di 
riveder  la  famiglia,  gli  amici,  e  non  osavamo  misurare  col  pensiero 
quelle  poche  ore  che  ci  dividevano  dalfistante  bramato,  tanta  era 
la  nostra  bramosia  d'arrivarvi,  M&i  ho  sentito  Tamor  di  patria, 
come  quando  ne  sono  stato  lontano:  so  anche  io  che  Tidea  falsa 

Bordeaux,  che  voile  escluderio  col  pretesto  dclla  noo  cittadinanza  francese, 
si  dimise  e  parti  per  Caprera.  Unka  voce  a  lui  favorevole  quella  di  Victor 
Hugo,  che,  mentre  i  deputati  tumultuavano,  awersi  a  Garifcildi,  si  Iev6  ad 
esaltarne  il  valore  e  la  generositi,  dimettendosi,  quiitdi,  per  solidarieti, 
alk  sua  volta.  Cfr.  di  V.  HUGO,  appunto,  Actes  et  Paroles.  Depuis  VexU, 
I,  pp.  133  sgg.  (delPed.  Nelson). 


730  ETTORE   SOCCI 

della  nazionalita  deve  o  prima  e  poi  cedere  in  faccia  a  quella  santis- 
sima  deirumanita,  ma  che  volete?  Noi,  che  abbiamo  avuto  la  di- 
sgrazia  di  nascere  in  un  periodo  di  transizione,  che  siamo  stati  tirati 
su  colle  idee  vecchie,  che  abbiamo  veduto  il  sacrifizio  di  tanti 
martin,  che  abbiamo  assistito  alle  lotte  generose  dai  giovani  piu 
magnanimi  intraprese  contro  i  governi  e  contro  gli  eserciti  stranieri 
per  affermare  il  principle  della  nazionale  unita,  noi  siamo  affezio- 
nati  piu  che  alia  madre  a  quella  patria  che  ci  hanno  insegnato  a 
rispettare  piu  di  noi  stessi  gli  scritti  di  tanti  filosofi  ed  il  sangue  di 
tanti  eroi.  Capisco  tutta  Timmensa  poesia  del  futuro  e  mi  sento 
capace  di  sacrificarmi  per  la  causa  della  liberta  in  qualunque  luogo 
la  vegga  afTermarsi  o  la  vegga  in  pericolo,  ma  a  conti  fatti,  se  a 
qualche  straniero  saltasse  il  ticchio  di  voler  venire  a  spadroneggiare 
di  qua  dalPAlpi,  mi  sento  pure  capace  d'impugnare  un  fucile  an- 
che  colla  monarchia  e  forse  collo  stesso  entusiasmo,  con  cui  lo 
facemmo  nel  1866.  Non  vi  nego  che  in  ci6  si  possa  riscontrare  della 
contradizione,  ma  a  certi  sentimenti  non  si  comanda  ed  il  cuore, 
vero  rivoluzionario,  non  si  pu6  piegare  alle  disquisizioni  dei  dot- 
trinarL 

Furono  disarmate  le  legioni  itaiiane  (mi  dimenticavo  di  dire  che 
era  arrivata  anche  quella  del  valoroso  Tanara),  furono  disarmati  i 
Francs  Tireurs:  molti  di  questi  ultimi  non  volevano  depositare  le 
loro  armi:  gli  Spagnoli  minacciarono  un  ammutinamento ;  «con 
queste  armi  vogliamo  passare  i  Pirenei  e  mandare  a  spasso  Tuomo 
che  FEuropa  ha  voluto  regalarci  per  re»;r  tali  a  un  dipresso  erano  i 
loro  discorsi.  E  quando,  ridotti  a  buon  partito  dai  consigli  dei  su- 
periori,  si  decisero  di  sciogliersi  pacificamente,  ci  vollero  stringer 
la  mano  e  dicendoci  addio  avevano  le  lacrime  agli  occhi . . . 


i.Vuomo .  .  .per  re;  Amedeo  di  Savoia,  secondogenita  di  Vittorio  Eina- 
nuele  II  t  era  state  eletto  re  di  Spagna  dalle  Cortes  costituenti  (16  novem- 
barc  1870)  e  aveva  a<xettato  Tarduo  incarico  (4  dicembre).  Inviso  ai  repub- 
biicafM  e  mal  sostenuto  dai  suoi,  fu  costretto  ad  abdicare  Tn  febbraio 
1873- 


DA   FIRENZE    A    DIGIONE  7JI 

XX  [XXVIIl]1 

A  rivedercil 

MiquelP  ci  chiama  in  fretta  e  furia,  ci  da  i  due  mesi  di  paga  e  ci 
ordina  di  partire  il  giorno  dopo  col  treno  delle  quattro  e  quaran- 
ta  antimeridiane. 

Decidiamo  di  non  andare  a  dormire:  vo  a  casa,  faccio  alia  meglio 
il  mio  piccolo  involto,  bacio  tutta  la  famiglia  dei  miei  ospiti,  torno 
dagli  amici,  che  sono  au  Soldi  cmich&nt, 

A  mezzanotte  si  chiuse  la  trattoria;  girellammo  come  persi, 
un'oretta  nelle  deserte  vie  di  Macon;  per  passare  ie  altre  tre,  ed 
essendo  abbastanza  assonnati,  credemmo  che  non  sarebbe  stato 
cosa  malfatta  riposare  un  pochino,  ma  quasi  tutti  avevamo  detto 
addio  a  coloro  che  ci  avevano  ospitato;  per  cui  ci  riducernmo  in 
dodici  nella  camera  di  un  nostro  amico:  la  notte  antecedente  alia 
mia  partenza  di  Firenze  avcva  un  degno  riscontro  nelPultima  che 
passavamo  lassu.  Quattro  saltarono  sul  letto,  gli  altri,  me  compreso, 
si  buttarono  per  terra  facendo  un  diavoleto  indescrivibile.  Nes- 
suno  pot6  dormire;  tutti  ci  perdevamo  in  congetture  piu  o  meno 
umoristiche  sulle  accoglienze  che  avremmo  avuto  in  Italia. 

Suonarono  le  tre  e  ci  awiammo  alia  stazione  :  si  bewe  per  Tultima 
volta  una  buona  bottiglia  di  vieux  Macon  e  poi  ci  buttammo  nei 
vagoni  a  noi  destinati. 

La  macchina  fischia:  il  treno  e  in  movimento:  ci  spenzoliamo, 
quantunque  sia  sempre  buio,  per  dare  un  ultimo  saluto  alia  citta, 
e  non  posslamo  a  meno  di  ripeter  tra  noi:  Povera  Francia!  Si  cam- 
mina,  si  cammina  per  tutta  la  mattinata:  passlamo  TEst  della 
Francia:  si  arriva  alia  Savoia:  passiamo  i  suoi  monti,  siamo  colpiti 
dairimmensa  poesia  che  fanno  piovere  nel  cuore  le  folte  boscaglie, 
gli  scoecesi  macigni,  il  verde  cupo  degli  alberi,  tutt'a  un  tratto  in- 
tramezzati  da  estese  pianure  di  neve.  La  ferrovia  va  per  lungo  spa- 
zio  sul  lago  di  Chautilbn:3  quel  kgo  stretto,  monotono,  lungo: 


i.  H  prcsente  brano  cormponde  a  una  seconda  parte  del  capitolo 
ddTedkkme  da  noi  scguita,  e  precisamente  alle  pp.  277-82.  ±.  M 
un  sottoCencnte  franccse  dello  squadrone  di  guide  cui  apparteneva  il  Socci. 
Veramente  lo  squadrmie  era  comandato  dal  tenente  Ricci  di  Forll,  un 
garit^ldino  gii  ferito  ad  AsproiKHite:  ma,  fuorch^  nei  combattimeinti, 
sp^drcme^iava  il  Miquelf.  3,  logo  di  Chmtttiloni  oc»i  errore  di  grafia  e  di 
geografk  il  Socd  inteiade  qui  riferirsi  al  lago  di  Bourget,  sulie  cui 


732  ETTORE   SOCCI 

quella  neve,  quella  solitudine  cosi  bella  nella  sua  orridezza  ha  qual- 
cosa  d'imponente:  quanto  volentieri  me  ne  anderei  sul  muricciolo 
di  quella  chiesetta  che  sbuca  sulla  cima  del  promontorio!  La  e  cir- 
condata  da  pini :  una  cascata  che  va  a  versarsi  nel  lago  scaturisce  a 
pochi  passi  da  lei  e  di  lassu  ci  dev'essere  un  incantevole  colpo 
d'occhio.  Delle  mandre  di  pecore  s'inerpicano  sui  sassi  che  le  fanno 
ghirlanda :  il  montanino  vi  corre  per  dare  un  pensiero  ai  suoi  morti 
e  poi  ne  ritorna  cantando  le  ispirate  canzoni  che  suol  dettare  nej 
vergini  cuori  la  poesia  dell*aperta  campagna ...  ah!  come  sarei 
felice  di  viver  lassu,  lontano  dal  rumore  del  mondo,  solo  con  le  mie 
meditazioni,  salutando  con  un  inno  il  sole  che  nasce,  ritrovando 
una  lacrima,  quando  la  squilla  della  sera  che  invita  a  pregar  pei 
morti  ripercuotesse  quell'aure  calme,  che  t'incitano  a  esser  buono 
e  a  sperare! .  . . 

Mi  aweggo  che  io,  fumatore  per  eccellenza,  ho  da  due  ore  il 
sigaro  spento  e  che  non  ho  importunate  alcun  amico  per  avere  un 
fiammifero. 

Giungiamo  a  Chambery;  ci  tratteniamo  alcuni  minuti:  tanto, 
perche  le  gentili  signore  della  capitale  della  Savoia  ci  offrano  una 
refezioncella,  a  cui  facciamo  onore  con  un  appetito  invidiabile. 

Altre  montagne,  altri  boschi,  Montm61ian  in  lontananza:  ecco 
cosa  ci  oifre  il  breve  tragitto  che  da  Chambe'ry  ha  da  farsi  per  arri- 
vare  a  Saint  Michel.  Qui  ci  si  ferma  una  buona  mezz'ora:  fa  un 
freddo  indiavolato:  ci  sembra  di  esser  ritornati  ai  primi  giorni 
della  campagna:  si  sale  nel  treno  Fell,1  e  ci  si  accinge  a  traversare 
le  Alpi. 

II  passaggio  delle  Alpi  colla  ferrovia  Fell  e  una  cosa  imponente: 
il  pauroso  che  si  affaccia  al  vagone  in  tal  traversata,  son  persuaso 
che  passa  un  cattivo  momento :  ma  per  noi,  che  tanto  poco  curiamo 
i  pericoli,  vi  assicuro  che  e  uno  dei  piu  attraenti  spettacoli.  Tro- 
varsi  in  cima  a  burroni  tanto  scoscesi  da  perder  gli  occhi  per  volerne 
rintracciare  la  fine,  vedere  ogni  tanto  qualche  picco,  passare  in 
mezzo  ad  una  neve  perenne,  osservare  le  centinaia  di  croci  che  in 
ricordo  di  disgrazie  awenute  son  seminate  lungo  la  via,  ti  da  un'eb- 

sorge  il  castello  di  Chltillon.  i.  John  Fell  (1815-1902),  ingegnere  ingle- 
se,  venne  in  Italia  nel  1852  e  ottenne  la  concessione  per  una  linea  ferro- 
viaria  attraverso  il  valico  del  Moncenisio:  e  per  tale  scopo  ide6  e  fece 
oostruire  una  speciale  locomotiva  per  binari  a  dentiera.  Ma  la  linea  fu  sosti- 
tuita  dalla  costruztone  del  traforo  del  Frejus.  Saint-Michel  e,  in  Moriana, 
una  stazione  di  quella  linea. 


DA   FIRENZE   A    DIGIONE  733 

brezza  da  farti  pigliare  la  vertigine.  Ah!  potenza  del  progresso!  .  .  . 
Quell'Alpi  che  Annibale  e  Napoleone  giunsero  solamente  a  valicare 
con  tanta  iattura  dei  loro,  or  si  sorpa&sano  in  poco  piu  di  quat- 
tro  ore,  e,  quando  sara  compiuto  il  foro  del  Moncenisio,1  i  cui  la- 
vori  non  possiamo  a  meno  di  ammirare  anche  trasvolando  quassu, 
il  piu  imbecille  dei  commessi  viaggiatori  superera  i  baluardi  della 
natura,  fino  ora  detti  insuperabili,  nel  medesimo  tempo  che  agli 
eroi  ci  voleva  per  muovere  solamente  di  un  passo  una  balestra  o 
un  cannone. 

Traversiamo  Modane:  Modane  e  un  grazioso,  bizzarre  e  pitto- 
resco  paesucolo  di  case  di  legno,  di  capanne  fatte  alia  peggio,  ove 
abita  la  gran  quantita  degli  operai  che  so  no  occupati  ai  la  vori  della 
ferrovia.  Ci  si  beve  una  grappa  eccellente:  le  donne  vi  posson 
trovare  a  qualunque  ora  un  buon  bicchiere  di  iatte. 

II  nostro  guardatreni  scende  e  ne  sale  uno  nuovo,  il  quale  fa  pre 
sto  amicizia  con  noi ;  ci  dice  in  buona  lingua  italiana  che  alia  mat- 
tina  ha  accompagnato  tre  ufficiali  dello  stato  maggiore  italiano  e 
che  uno  scese  piu  avanti  |>er  studiar  quelle  posizioni.  Gran  me- 
raviglia  da  parte  nostra:  tre  ufficiali  di  stato  maggiore  che  studiano, 
ma  dunque  in  Italia  voglion  morire?! 

Vediamo  il  forte  d'Esilles.2 

—  Ora  siamo  in  Italia  —  mi  dice  il  guardatreni. 

Sento  allargarmi  il  cuore:  un  sense  di  dolcezza  mi  corre  di  fibra 
in  fibra  e  ripeto,  entusiasta,  agli  amici ;  —  Siamo  in  Italia. 

—  E  ora  ?  —  mi  risponde  uno  in  tono  di  dubbiosa  ansieta. 

—  E  ora  che  ? . . .  —  di  rimando  rispondo. 

—  Come  ci  tratteranno  i  nostri  padroni? 

Restai  pensieroso,  ma  un  araico,  certamente  piu  giovine  e  per 
conseguenza  piu  poeta  di  me,  prese  la  parola  e  schiccherd  questo 
bel  discorsino :  —  Come  vuoi  che  ci  trattino  ? .  .  .  lo  lassu  in  Fran- 
cia  ho  letto  i  giornali  e  tutti  dicevano  bene  di  noi  e  celebravano  le 
vittorie  di  Garibaldi:  la  nostra  gloria,  assicuratevelo,  ha  avuto 
un'eco  potente  nelle  nostre  citta,  quantunque  awilite  e  prostrate 
sotto  il  falso  sistema  che  le  corrompe;  non  siamo  fu^iti;  afc^>iamo 

i.  il  foro  del  Moncemsio:  il  traforo  del  Fr^jus,  impropriamctite  detto  del 
Cenisio,  fu  inaugurate  nel  1871 :  allaccid  con  n^>ida  comunkazione  Bardo- 
necchia  a  Modane.  2,  Uf&rU  d'Esilles:  nei  pressi  del  villaggio  alpino  di 
Esille  (francess  Exilles)  sorge  un  famoso  forte  sabaudo,  o^i  ^dibito  a  pri- 
giooe  miiitare. 


734  ETTORE  SOCCI 

vinto:  la  morte  ha  falciato  nelle  nostre  file  con  piu  animazione  di 
quella  con  cui  il  colono  falcia  le  spiche:  poveri  siamo  partiti,  piu 
poveri  siamo  tornati:  abbiamo  affrontato  fatiche  che  a  narrarle 
soltanto  possono  sembrare  impossibili,  abbiamo  fatto  sempre  il 
nostro  dovere  . . .  come  vuoi  che  ci  accolga  il  nostro  popolo,  come 
vuoi  che  ci  accolga  il  nostro  governo  ?  Abbiamo  forse  fatto  disonore 
airitalia?  le  glorie  della  camicia  rossa  non  sono  state  oscurate:  il 
nostro  debito  di  gratitudine  verso  la  Francia  e  stato  pagato;  ab 
biamo  vinto,  abbiamo  tolto  una  bandiera  al  nemico,  ah!  non  temete : 
il  governo  Italiano  non  si  dara  per  inteso  del  nostro  arrivo,  e  non  ci 
farJt  dei  soprusi ...  £  impossibile!  ...  La  gloria  italiana  si  e  ar- 
ricchita  di  una  nuova  pagina,  e  chiunque  si  sente  balzare  nel  petto 
un  cuore  che  risponda  degnamente  a*  sentimenti  italiani,  non  potri 
che  applaudirci  e  ci  applaudira  nelPintimo  del  cuore  anche  il 
governo! 

—  Va  bene  —  gridammo  noi  tutti  solleticati  a  tale  speranza.  — 
Va  bene.  -  Viva  I'ltalia! 

—  Ewiva  tutti  coloro  che  non  son  mai  mancati  al  proprio  do 
vere!  . . . 

—  E  che  gli  awersarii  onesti  sono  in  obbligo  di  rispettare . . . 

—  Come  far&  il  governo  Italiano! 

—  Susa! ...  —  grida  in  perfetto  accento  piemontese  la  guardia 
della  stazione. 

—  Ci  siamo!  —  si  grida  noi  tutti,  emettendo  un  sospiro  di  con- 
tentezza. 

Scendiamo,  anche  avanti  che  il  treno  si  fermi ;  calpestiamo  con 
compiacenza  la  terra  italiana;  le  parole  semibarbare  di  due  o  tre 
paesani  che  ci  stringono  la  mano,  ci  sembrano  una  musica  paradi- 
siaca . . . 

—  Facciano  il  piacere  di  venire  con  noi  —  mi  dice  battendomi 
sulk  spalla,  un  carabiniere. 

—  E  dove  si  ha  andare? . . . 

—  Dal  sor  Delegato . . . 

—  Ho  capito . . . 

Povero  amico! . . .  Come  hai  speso  bene  il  tuo  fiato! . . .  Segui- 
tiamo  i  carabinieri  e  andiamo  dal  sor  Delegato . . . 


GUGLIELMO  MASSAJA 


PROFILO  BIOGRAFICO 


GUGLIELMO  (al  secolo  Lorenzo)  MASSAJA  nacque  il  9  giugno  1809 
in  una  frazione  (La  Braja)  di  Piova  d'Asti,  da  Giovanni,  proprieta- 
rio  di  un  piccolo  podere  che  coltivava  egli  stesso,  e  da  Maria  Bar- 
torelli.  A  diciassette  anni,  il  6  settembre  1826,  entrb  neirordine  dei 
cappuccini  e  vi  assunse  il  nome  di  un  suo  fratello  prete:  ed  £  con 
questo  nome  ch'egli  e  passato  alia  storia.  L'anno  dopo  promise  i  voti 
e,  compiuto  a  Moncalieri  il  corso  di  teologia  e  fiiosofia,  il  16  giugno 
1832  fu  ordinato  sacerdote  a  Vercelli.  Superata  una  grave  malattia, 
fu  assegnato  (1833),  come  cappellano,  alFospedale  Mauriziano  di 
Torino  e  ivi  apprese,  neiPassistenza  quotidiana  ai  malati,  quelle 
nozioni  pratiche  di  medicina  che  poi  molto  gli  giovarono  nella  sua 
opera  di  missionario.  Aveva  girato  per  van  conventi  deirordme, 
quando  fu  chiamato  (1836)  a  Testona  (Moncalieri)  come  lettore 
difilosofia  e  teologia:  e  rimase  in  quelPufficio,  anche  quando  lo  stu- 
dentato  si  trasferi  (1845)  a*  convento  del  Monte  (Torino),  molto 
stimato  e  carissimo  ai  suoi  discepoli. 

Non  sappiarno  quasi  nulla  dei  suoi  studi  in  quel  periodo,  anche 
perche  egli  par!6  sempre  poco  di  se  stesso.  Certo,  doveva  essere  gia 
noto  e  apprezzato  fra  i  cappuccini,  se  ne  fu  eletto  (1844)  «defini- 
tore  provinciates,  e  se  nel  gennaio  del  1846  era  in  Roma,  chiama- 
tovi,  d'ordine  del  pontefice,  per  ricevere  il  vicariato  di  una  missio- 
ne.  Ma,  piu  che  la  sua  cultura,  debbono  essere  apparse  ammirevoli 
le  sue  doti  morali,  il  vigore  del  suo  carattere.  Dal  gennaio  attese  in 
Roma  le  decision!  della  Curia:  solo  a  Pasqua  gli  fu  rivelato  che  gli 
si  affidava  Tincarico  di  istituire  una  nuova  missione  tra  i  popoli 
Galk,  abitanti  fra  le  sorgenti  del  Nilo  Axzurro  e  del  Nilo  Bianco. 
Era  stato  uno  scienziato  francese,  Antoine  D*Abbadie,  vissuto  a 
lungo  in  Abi^inia,  a  proporre  e  caldeggiare  quelk  nuova  missione, 
in  una  sua  lettera  alia  Sacra  Congregazione  De  propaganda  Fide: 
e  la  scelta  deiruomo  cui  affidare  Tapostoiato  era  caduta  sul  Mas- 
saja.  Sebbene  riluttante  per  umilta,  fu  consacrato  (24  maggio  1846) 
vescovo  di  Cassia,  in  part&m  infideUum^  e,  assegnatigli  tre  compa- 
gni  del  suo  ordine  e  un  frate  kico,  parti  il  4  giugno  1846  da  Ci 
vitavecchia  verso  quelle  terre  d' Africa  che  poi  lo  videro  compiere, 
per  trentacinque  anni,  un'opera  cosl  alta  e  rnirabile  da  sembrare, 
in  roiltit,  una  miracolosa  epopea. 

47 


738  GUGLIELMO   MASSAJA 

II  Massaja  partiva  dall*  Italia  quando  Gregorio  XVI  spirava,  dopo 
aver  detto  parole  d'incoraggiamento,  sul  letto  di  morte,  all'umile 
cappuccino  missionario.  Solo  al  Cairo  seppe  dell'elezione  di  Pio  IX 
e  delle  grandi  speranze  che  aveva  subito  destate  fra  i  liberali:  ma 
ormai  egli  volgeva  lo  sguardo  non  piii  ai  problemi  dell'Europa, 
bensi  a  quelli  dell* Africa.  E  del  resto  le  sue  idee,  rigidarnente  con- 
servatrici,  lo  tenevano  lontano  dai  problemi  che  il  Risorgimento 
agitava  fortemente  in  Italia. 

Chi  segua  e  ripensi  il  suo  grande  apostolato  in  Africa,  per  com- 
prendere  e  ammirare  Tuomo,  il  religioso,  il  missionario,  deve  ri- 
mmziare  ad  inserirlo  nei  movimenti  e  nelle  correnti  ideali  del 
nostro  paese,  anche  in  quelle  di  opposizione.  Egli  svolse  un'opera 
che  sotto  vari  aspetti  ha  il  suo  vero  sfondo  soltanto  negli  aweni- 
menti  di  quella  parte  dell'Africa  ove  compi6  il  suo  apostolato:  al 
resto  del  mondo  e  della  storia  lo  legavano  solamente  la  sua  fede  reli- 
giosa,  la  sua  aha  morale  cristiana,  la  sua  obbedienza  totale  alia 
Chiesa.  Anche  se  poi  ebbe  contatti  con  le  maggiori  personalita  po- 
litiche  europee  e  la  sua  conoscenza  delPAfrica  orientale  fu  utilizzata 
a  fini  politici  e  commercial  i,  bisogna  riconoscere  che  ci6  fu  soltan 
to  frutto  indiretto  della  sua  azione  e  che  egli,  invece,  mir6  unica- 
mente  a  difFondere  in  quelle  terre  lontane  la  religione  e  la  morale 
cattolica. 

Questa  osservazione  credo  possa  giovare  anche  a  riconoscere 
i  limiti  e  caratteri  della  sua  cultura,  interamente  poggiata  sui  testi 
religiosi :  e  altresi  a  intendere  molti  aspetti  del  suo  stile,  lontanissi- 
mo  da  influssi  letterari,  disancorato,  almeno  come  consapevolezza, 
dalle  correnti  deila  prosa  del  tempo. 

Le  sue  prime  esperienze  in  Africa  furono  assai  dure.  Soltan 
to  il  25  ottobre  del  1846,  dopo  itinerari  faticosissimi,  giunse  a 
Massaua,  ove  si  incontro  col  grande  missionario  Giustino  De  Ja- 
cobis,  venutogH  incontro  da  Gual£  neirAgamien,  che  era  il  cen 
tre  della  propaganda  religiosa  in  Abissinia,  e  dove  il  Massaja  si 
rec6  intanto  con  lui,  per  studiare  quale  fosse  la  migliore  via  di 
raggiungere  i  Galla.  La  situazione  dell* Abissinia  era  in  quel  mo- 
npento  difficilissima:  ras  AJy,  vero  capo,  in  quel  momento,  della 
jnegione,  era  in  guerra  col  degiac  Ubi^  che  gli  si  era  ribellato.  Ca 
po  dei  copti  era  da  poco  il  vescovo  Abuna  Salama,  uomo  corrotto 
e  politicante,  timoroso  delParrivo  di  un  vescovo  cattolico,  e  che 
subito,  alFannunzio  delFingresso  del  Massaja  in  Afric^  gli  aveva 


PROFILO   BIOGRAFICO  739 

lanciato  contro  la  scomunica  chiamandolo  ironicamente  Abuna 
Messias,  e  minacciando  d*interdetto  ogni  popolo  e  principe  che 
gli  dessc  aiuto  e  ospitalita.  Gia  da  allora  la  posizione  del  Mas&aja 
si  rivelo  irta  di  difficolta  e  pericoli,  compiicata  da  ripetute  fughe  e 
travestimenti,  fra  persecution!  e  minacce.  Solo  alia  fine  del  1849, 
dope  dolorose  vicende,  egli  pote  giungere  al  campo  di  ras  Aly  e 
riccvervi  Fordine  di  andar  a  chiedere  la  protezione  della  Francia, 
condizione  necessaria  perche  1'opera  missionaria  potesse  ottcnere 
appoggio  e  libera  azione  attraverso  il  territorio  dell'Abissinia.  Nel 
gennaio  del  1850,  il  Massaja  si  nascose  tra  i  pastori  Zellan,  rag- 
giunse  Ifagh,  si  port6  nel  Waggara,  fu  di  nuovo  a  Massaua  nel 
marzo,  ne  parti  per  Aden,  il  cui  vicariato  gli  era  stato  aggiunto  a 
quello  di  Cassia,  ritorn6  in  Europa. 

La  sua  prima  esperienza  africana  e  finita.  In  Francia  e  accolto 
con  ammirazione  ed  entusiasmo:  uomini  politici,  militari,  associa- 
zioni  lo  cercano,  lo  ascoltano,  chiedono  a  lui  cx>nsigli  e  pareri;  lo 
stesso  Luigi  Napoleone,  allora  pre&idente  della  seconda  Repubbli- 
ca,  lo  vuol  conoscere.  Gli  vien  chiesta  una  rclazione  riservata  sulla 
situazione  in  Abissinia,  e  insieme  una  pubblica,  che  col  titolo  La 
propaganda  mwsulmana  m  Africa  e  nelk  IwMe,  venne  effettivamen- 
te  stampata  (vedi  G.  FAIUNA,  Le  lettere  del  cardinal?  G.  Massaja* 
Torino,  Berruti,  1937,  nn.  123-48),  ed  apparve  densissima  di  pen- 
siero  e  di  giudizi.  L'esattezza  e  la  chiarezza  con  cui  egli  penetrava 
nei  problemi  dell' Africa  e  dell'Qriente  sembrarono  tali  agli  uomini 
politici  francesi,  che  furono  fatte  molte  pressioni  su  lui  perche^ 
rimanesse  in  Europa,  a  farsi  guida  e  consigliere  sui  problemi  afri- 
cani  e  orientali.  Naturalmente,  rifiut6,  ansioso  di  tornare  a  svol- 
gere  la  sua  opera  missionaria,  di  raggiungere  il  territorio  assegna- 
togli  dei  Galla.  In  reaita,  egli  vedeva  quei  problemi  con  animo  e 
fini  da  missionario,  timoroso  della  penetrazione  mussulmana  in 
Africa  soltanto  per  le  sue  conseguenze  religiose  e  morali:  unica- 
mente  per  mera  coincidenza,  piu  che  naturale  del  resto,  le  sue 
preoccupazioni  e  i  suoi  giudizi  illuminavano  anche  Faspetto  poli 
tico  dei  problem!  rrtediterranei  e  africani. 

Le  accoglienze  di  Londra,  i  o>lloqui  con  Lord  Palmerston,  col 
ministro  ii^lese  della  marina  rinnovarono  i  trionfi  parigini.  II  pe- 
ricolo  di  essere  trattenuto  in  Europa  al  Massaja  sembro  allora, 
man  mano,  piu  grande,  ed  aifrett6  la  partenza.  II 4  aprile  1851  parti 
da  Marsiglia,  il  13  era  di  nuovo  ad  Alessandria. 


740  GUGLIELMO   MASSAJA 

Questo  secondo  viaggio  in  Africa  si  svolge  in  modi  anche  piu 
complessi  del  primo.  Anzitutto,  scioglie  un  voto  e  appaga  un  an- 
tico  desiderio:  si  reca  a  Gerusalemme,  sale  ii  Calvario,  quasi  a 
chiedere  la  protezione  soprannaturale  per  Timpresa  che  doveva  af- 
frontare.  E  sul  Calvario,  dagli  alberi  che  videro  il  sacrificio  di  Cri- 
sto,  come  egli  stesso  scrisse,  si  taglia  il  bordone  che  lo  accompa- 
gnera  e  sosterra  per  tutta  la  vita,  ed  e  ora  conservato  nel  convento 
di  Frascati,  cimelio  della  sua  altissima  impresa.  Tornato  ad  Ales 
sandria,  si  traveste  all'araba,  col  rosso  fez  dei  mussulmani,  assume 
il  nome  di  Giorgio  Bartorelli  (il  casato  materno),  si  finge  mer- 
cante.  Da  questo  momento  si  inizia  la  lunga  lotta,  fatta  di  coraggio 
e  di  astuzia,  per  giungere  tra  i  Galla,  nonostante  il  divieto  di  Abuna 
Salama.  II  24  giugno  1851  parte  in  una  barca  sul  Nilo,  visita  il  mo- 
nastero  copto  di  Sant* Antonio,  ne  fa  fuggire  un  giovane  allievo 
della  missione  De  propaganda  Fide  che  vi  era  stato  rinchiuso,  ri- 
prende  la  via  del  fiume  tra  mille  disagi,  cerca  di  raggiungere  i  Galla 
girando  ad  ovest  delFAbissima,  per  Metamma,  Doca,  Gadaref, 
Kiri.  Una  via  impossibile,  pericolosa,  interrotta  da  incontri  mi- 
nacciosi,  da  scoppi  di  fanatismo,  da  malattie:  e  obbligato  a  tornare 
indietro,  a  ritentare.  Riprende  speranza.  Viaggia  come  «un  pic 
colo  mercante  di  aghi  e  di  forbici »,  ma  la  sua  qualita  di  cristiano  e 
sempre  motivo  di  pericolo:  un  intero  mercato,  a  Luka,  lo  assale. 
A  stento  salva  la  vita,  ma  e  costretto  a  tornare  a  Metamma.  Ne 
basta,  che,  ad  aggiungere  ostacoli,  sopraggiungono  le  guerre  interne 
in  Abissinia:  comincia  la  ribellione  del  degiac  Kassa  (il  futuro 
Teodoro)  contro  ras  Aly,  e  la  implacabile  guerra  rende  ancor  piu  pe- 
ricolosi  i  viaggi.  Eppure,  proprio  ora  il  Massaja  decide  di  raggiun 
gere  i  Galla  per  la  via  piu  difficile,  attraverso  PAbissinia  e  il  Gog- 
giam,  sempre  piu  a  sud,  fino  alle  terre  del  suo  vicariato.  £  una  ri- 
soluzione  ardita,  forse  temeraria,  ma  «  awenga  ci6  che  Dio  vuole », 
come  scriveri  in  una  sua  lettera,  si  awia  per  il  viaggio.  Nel- 
1'agosto  ^  a  Ifagh  dove  le  piogge  lo  fermano:  il  melasnti  (capo 
del  villaggio)  Maquonen  gli  e  generoso  di  aiuti,  ed  egli  intanto,  pur 
conservando  Tincognito,  svolge  la  sua  propaganda  cattolica,  spe- 
cialmente  fra  le  vicine  tribu  dei  Zelkn.  II  23  agosto  1852,  sempre 
col  nome  di  Bartorelli,  accompagnato  da  un  figlio  di  Maquonen 
come  porta-parola,  dal  servo  Giuseppe  e  dal  portatore  Tokk6,  ri- 
prende  il  cammino.  Per  via  altri  giovani  vogliono  seguirlo.  Varca 
Pansa  settentrionale  dell^bbai  (Nilo  Azzurro),  giunge  a  2^emie, 


PROFILO   B1OGRAFICO  741 

vi  ritrova  il  cappuccino  padre  Cesare,  e  accolto  generosamente  dal 
fitorari  Workie-Jasu,  riposa  firialmente  del  lungo  viaggio.  Poi,  il 
21  novembre  1852,  nprende  la  strada  e  passa  infine  Fan&a  meri- 
dionale  delFAbbai,  il  27  novembre,  entrando  nelle  terre  della  sua 
missione.  £  il  momento  piu  solenne  delFimpre&a:  abbandona  il  fez 
e  gli  abiti  arabi,  veste  il  saio  religiose,  innalza  al  cielo  il  Te  Deumt 
fra  lo  stupore  dei  compagni.  Ormai  pud  iniziare  il  suo  apostolato. 

Nel  Gudru,  presso  Asandabo,  sorge  lentamente,  con  Faiuto  di 
un  ricco  capo,  Gama-Moras,  la  sede  della  missione,  quasi  un  intero 
villaggio  con  capanne,  cappella,  officine,  un'ampia  chiesa  rudimen- 
tale  dove  gia  nel  gennaio  del  1853  si  pu6  celebrare  la  messa.  E  a 
raggiungerlo,  intanto,  giungono  padre  Felicissimo  da  Cortemilia 
e  Tindigeno  padre  Michele  Hajlu.  Per  tre  anni  il  Massaja  svolge 
un'altissima  opera  di  apostolato  nel  Gudru :  e  Fanimatore  e  il  pre- 
dicatore,  la  sua  parola  trova  le  vie  piu  efficaci  per  giungere  alFani- 
mo  dei  giovani,  il  suo  esempio  esercita  una  meravigliosa  attrazione. 
Cura  i  malati,  innesta  il  vaiolo,  pacifica  e  consiglia,  studia  e  possiede 
la  lingua  degli  indigeni :  e,  siccome  essa  e  soltanto  parlata  e  non 
scritta,  rende  con  precisione,  mediante  Falfabeto  latino,  tutti  i  suo- 
ni  della  lingua  galla,  fino  a  comporre  una  grammatics  oromonica 
(galla)  in  lingua  latina,  ad  uso  dei  missionari :  un'opera  che  saiii 
poi  stampata  a  Parigi  nel  1867.  Intanto  invia  piii  a  sud  alcuni 
sacerdoti,  per  compiere  Topera  di  apostolato:  nell'Ennerea^  dove 
ha  grande  autorita  Abba  Baghibo,  a  Lagamara  dove  un  capo  loca 
le,  Abba  Gallet,  invoca  1'arrivo  dei  missionari. 

Ai  primi  di  settembre  del  1855  il  Massaja  lascia  I*orrnai  salda 
rnissione  del  Gudru  e  si  awia  a  Lagamara.  Un  viaggio  che  dur6 
tre  mesi,  fra  le  accoglienze  festose  degli  abitanti  di  Kobbo,  di 
Loja,  di  Gomb6,  di  Giarri,  traversando  la  palude  Cioma  che  egli 
chiamo  il  lago  Verde:  e  ovunque  predica,  cura,  innesta  il  vaiolo, 
fa  proseliti,  pacifica,  battezza.  Quattro  anni  dur6  il  suo  apostolato 
a  Lagamara;  un  periodo  di  grandi  frutti,  ma  anche  di  dolori  e  lotte, 
carestie  ed  epidemie,  ch'egli  affront6  con  altissimo  spirito. 

II  4  aprile  1859  parte  per  FEnnerea  e  vi  o>macra  vescovo  padre 
Felicissimo  Cocino,  gi^  inviato  da  lui  in  quelle  terre.  Dope  essersi 
fermato  ad  Afallo,  il  2  ottobre  1859  entra  nel  tenitorio  dei  Kaffa, 
che  sara  la  zona  piu  meridionale  della  sua  missione,  e  vi  svolge 
una  intensa  opera  di  apostolato:  due  anni  di  mirabile  kvoro, 
tra  sacrifici  e  predi^zione,  assistenza  materiale  e  morale.  Non 


742  GUGLIELMO    MASSAJA 

diffonde  soltanto  la  fede,  ma  la  civilta:  e  il  messaggero  e  il  maestro 
di  piu  alte  forme  di  vita.  Opera  con  la  finezza  e  discrezione  di  un 
grande  diplomatico,  ma  in  realta  &  guidato  soltanto  da  amore  e 
comprensione  umana,  da  un'acuta  intuizione  deiranimo  di  quei 
popoli  ai  quali  vuol  portare  la  luce.  Ne  studia  la  lingua  e  tenta 
di  fare  per  il  koffino  cio  che  ha  fatto  per  il  galla;  si  interessa  di 
zoologia  e  di  botanica,  di  meteorologia  e  di  agraria,  tentando  col- 
tivazioni  nuove.  Non  ha  carta  su  cui  scrivere,  e  se  la  crea  con  le 
foglie  di  cocao,  la  pianta  indigena  del  pane;  non  ha  inchiostro,  e  lo 
fabbrica  con  Forzo  carbonizzato  e  la  gomma  arabica;  non  ha  penna, 
e  si  serve  di  quelle  degli  uccelli.  Ci6  che  stupisce  e  la  continua  in- 
ventivita  del  suo  spirito,  il  suo  far  tesoro  deU'esperienza,  il  suo  spi- 
rito  d'osservazione,  al  di  sopra  d'ogni  cultura. 

Ma  la  mutabiliti  dei  capi  locali  lo  fa  cacciare  in  esilio.  II  7  set- 
tembre  1861  e  costretto  a  ripartire  per  TEnnerea  e,  di  li,  morto  il 
suo  protettore  Abba  Baghibo,  a  ritornare  a  Lagamara,  alia  fine  del 
gennaio  1862.  Dovunque  e  accolto  trionfalmente  nei  villaggi  in  cui 
gia  vastissima  e  stata  la  conversione,  e  quasi  leggendaria  e  divenuta 
la  sua  figura.  Risale  lentamente  da  Lagamara  verso  il  Gudru,  verso 
la  grande  stazione  missionaria  di  Asandabo,  verso  il  protettore 
Jndigeno  Gama-Moras.  Pure,  nello  sfondo,  ad  atterrire  i  capi  abis- 
sini  di  ogni  terra,  si  e  ormai  sollevata  la  figura  di  re  Teodoro,  che, 
conquistate  vaste  zone,  e  divenuto  il  terribile  e  crudele  signore  di 
tutta  TEtiopia.  Per  restarvi  a  continuare  Papostolato,  e  necessario 
il  suo  consenso.  E  percio  il  Massaja  si  avvia  verso  il  nord.  Nell'alto- 
piano  di  Nagala  e  incatenato  dai  soldati  di  Teodoro,  trascinato, 
fra  durissime  sofferenze,  alia  presenza  del  sovrano.  Tutto  sem- 
bra  perduto:  forse  anche  la  vita.  Ma  il  cappuccino,  nelPincontro 
col  tiranno  feroce,  appare  piu  forte  di  lui,  ne  vince  1'animo  ostile. 
II  re  lo  trattiene  con  se*  fino  al  20  luglio  1863,  poi  lascia  che  muova 
verso  la  costa  dell'Eritrea,  dove  finalmente  egli  arriva  fra  disagi, 
pericoli  e  malattie  che  lo  hanno  ridotto  Pombra  di  se  stesso. 

II  secondo  viaggio  e  apostolato  africano  e  ormai  finite.  II  2  feb- 
braio  1864  il  Massaja  e  al  Cairo  e,  dopo  una  visita  a  Gerusalemme, 
torna  in  Europa  nelFaprile  dello  stesso  anno.  Certo,  quei  suoi 
coatimii  viaggi,  tra  il  1864  e  il  1866,  dal  Piemonte  alia  Francia  e 
vkeversa,  il  suo  colloquio  con  Napoleone  III,  debbono  aver  mi- 
rato  allora  ad  ottenere  aiuti,  di  danaro,  di  sacerdoti  e  di  educatori, 
per  la  sua  missione.  Ma  forse  aveva  anche  sperato  che  gli  uomini 


PROFILO   BIOGRAFICO  743 

politici  agevolassero  la  sua  azione  con  accordi  ed  inte&e  che  gli  ren- 
dessero  favorevole,  per  la  sua  opera,  Teodoro.  £  solo  una  ipotesi, 
in  quanto  ancora  molti  aspetti  della  vita  e  dell'azione  del  Massaja 
restano  oscuri:  e  precisamente  i  suoi  contatti  con  i  governi  europei, 
e  anche  molti  di  quelli  che  ebbe  col  Vaticano.  Ma  forse  T  ipotesi 
pu6  trovare  appoggio  nella  brevita  del  suo  terzo  viaggio  in  Africa: 
tomato  a  Massaua  nel  1866,  nel  1867  era  gia  di  nuovo  in  Europa, 
a  Roma  prima,  per  due  mesi,  e  poi,  brevemente,  a  Parigi,  a  Lio- 
ne,  a  Marsiglia. 

Sappiamo  che  a  Massaua  aveva  trovato  lettere  da  Roma  e  da 
Marsiglia  K  che  richiedevano  la » sua  «  presenza  in  quelle  due  citta  %  e 
che  in  conseguenza  fu  ®  obbligato  a  mutare  disegni  ed  apparecchiar- 
si  a  quel  nuovo  e  lungo  viaggio  ».  Ma  anche  piu  important!  delle 
lettere  ricevute  a  Massaua,  furono  le  rx>tizie  che  vi  apprese  sulla 
situazione  abissina.  Teodoro,  spezzato  ogni  rapporto  con  gli  Ingle- 
si,  imprigionati  i  loro  rappresentanti,  si  era  tirata  addosso  la  spe- 
dizione  punitiva  di  Sir  Robert  Napier ;  lo  Scioa,  il  Tigre,  gli  Uollo 
Gaila  gli  si  erano  ribellati;  il  terribile  sovrano  si  ritirava  ormai 
nella  fortezza  di  Magdala.  Era  una  situazione  di  versa,  che  sconvol- 
geva  forse  tutti  i  progetti  delineati  dal  Massaja  nel  suo  precedente 
viaggio  in  Europa,  e  ne  richiedeva  di  nuovi. 

Le  ragioni  e  le  finalita  di  questo  improwiso  ritorno  in  Europa 
restano,  comunque,  poco  chiare,  anche  perche  non  si  hanno  a 
disposizione  lettere  e  documenti  di  quel  periodo.  II  6  settembre 
1867,  del  resto,  gi&  ripartiva  da  Marsiglia.  In  Egitto  ricevA  let 
tere  da  Menelik,  il  diciannovenne  sovrano  dello  Scioa,  che  lo  in- 
vitava  a  raggiungerlo  attraverso  la  via  meridionale  di  Zeila,  dove 
avrebbc  potuto  affidarsi  a  un  capo  locale,  Abu  Bekr,  per  1'orga- 
nizzazione  di  una  carovana,  e  dove  gli  sarebbe  andato  incontro 
un  emissario  di  Menelik,  Ato  Mekev.  Le  ruberie  e  le  astuzie  di 
Abu  Bekr  e  poi  d'un  suo  figlio,  il  camrnino  penoso  della  caro 
vana,  finalmente,  dope  lunghi  indugi,  partita  da  Ambabo,  presso 
Gibuti,  il  i°  febbraio  1868,  alleggerita  e  depredata  dei  suoi  bagagli 
fino  all'mverosimile,  taglie^iata  in  ogni  modo,  resero  il  viaggio 
awenturoso,  pieno  di  o>ntinui  pericoli.  Dopo  tanta  sete,  fame,  di- 
sagi  e  minacce,  il  Massaja  giunge  a  Licc^,  al  ghebl  di  Menelik,  ^ 
ricevuto  dal  sovrano  il  6  marzo  1868,  con  grandi  profferte  di  aiuti 
e  favori.  Ma  intanto  il  dramma  di  Texxloro  si  compie,  Magdala 
cade  in  mano  agli  Inglesi,  i  quali  trovano  che  il  terribile 


744  GUGLIELMO   MASSAJA 

si  £  gi&  ucciso.  Certo  il  Massaja  fu  allora  consigliere  e  guida  del  re 
dello  Scioa,  il  medico  e  Fapostolo  delle  genti  di  quelle  terre,  e  istitui 
a  Licce  stesso,  a  Finfinni,  a  Gilogov,  nuovi  centri  della  missione. 
Pure,  la  situazione  generale  della  missione  divenne  assai  presto 
preoccupante.  Scomparso  Teodoro,  un  nuovo  signore  si  andava  ra- 
pidamente  affermando  nella  zona  settentrionale,  quel  Besber  Kas- 
sa,  capo  del  Tigre,  cui  gli  inglesi  di  Lord  Napier  avevano  lasciato 
gran  parte  delle  loro  armi  e  che,  gi£  riuscito  vincitore  di  un  avver- 
sario  locale,  si  faceva  coronare  sovrano  nella  citta  sacra  di  Aksum, 
col  titolo  di  Giovanni  IV.  Menelik  stesso,  dopo  varie  speranze  e 
tentativi  di  contrapporglisi,  sara  costretto  a  riconoscere  il  nuovo 
signore,  a  rendergli  omaggio. 

Vittime  di  questa  nuova  situazione  politica  furono  il  Massaja  e  il 
suo  apostolato.  Sembra  certo  che  il  Massaja  abbia  sperato  di  raf- 
forzare  Findipendenza  di  Menelik,  di  fame  il  baluardo  delle  missio- 
ni:  possono  esserne  prova,  in  campo  politico,  Fambasceria  di  Mene 
lik  al  re  d'ltalia,  Farrivo  nello  Scioa  della  spedizione  Antinori  e,  piu, 
del  capitano  Martini  e  di  Antonio  Cecchi;  in  campo  religioso,  gli 
aiuti  e  gli  appoggi  dati  assiduamente  da  Menelik  al  Massaja  e  alle 
missioni,  le  sue  lettere  al  pontefice.  Un  periodo,  questo,  che  rima- 
ne  ancora  non  ben  precisato,  per  la  mancanza  e  Finaccessibilita  di 
molti  documenti.  Ma,  se  anche  vi  furono  speranze,  la  situazione 
precipitd  rapidamente.  Piegatosi  ormai  Menelik  a  Giovanni  IV,  fu 
necessario  sacrificare  le  missioni  alia  volonta  del  nuovo  sovrano. 
Un  congresso  religioso  copto  nello  Scioa  (settembre  1878)  rinnego 
Fopera  del  Massaja;  il  re  stesso  lo  invitb  a  recarsi  dalFimperatore. 
Lungo  il  viaggio,  iniziato  il  27  giugno  1879,  Fapostolo  dei  Galla 
vede  crollate  ad  una  ad  una  le  sue  missioni,  distrutta  la  sua  ope 
ra  di  tanti  anni,  dispersi  i  centri  di  civilta  che  aveva  faticosamente 
creati.  Non  e  facile  immaginare  quali  sofferenze  ed  umiliazioni 
accompagnarono  il  suo  cammino.  II  5  agosto  giunge  a  Debra 
Tabor:  Giovanni  IV  lo  riceve  duramente,  ordina  a  lui  e  ai  suoi  di 
aspettare  in  un  vicino  villaggio  la  fine  delle  piogge  e  di  ritornare 
subito  dopo  nei  loro  paesi  d'Europa.  II  9  ottobre  1879  comlncia 
Fesodo:  da  Metamma  a  Gadaref  a  Kassala,  sul  percorso  del  Sen- 
naar,  e  una  via  di  dolori  e  patimenti.  II  Massaja  6  ridotto  uno  sche- 
letro:  viaggia  ormai  dentro  una  cassa  legata  su  un  cammello.  Ar- 
riva  a  Massaua  il  6  febbraio,  quasi  ridotto  agli  estremi,  in  un  tor- 
fisico  e  morale  che  fa  pena  anche  agli  infedeli. 


PROFILO   BIOGRAFICO  745 

Non  rivedra  piu  TAfrica.  Da  Suez  si  fa  trasportare  a  Gerusalem- 
me:  sul  Calvario,  all' Agnus  Dei*  perde  i  sensi  e  cade  a  terra.  Dope 
aver  visitato  alcune  localita  dell'Oriente,  T8  luglio  del  1880  sbarca 
a  Marsiglia,  1*8  settembre  e  a  Roma,  chiamatovi  dal  pontefice 
Leone  XIII:  un  incontro  e  un  abbraccio  in  cui  la  commozione  lo 
vince.  La  sua  vita  gli  sembra  veramente  conclusa,  come  egli  stesso 
dice  poggiando  la  fronte  sulla  tomba  degli  apostoli  in  San  Pietro : 
cursum  consummate.  Eppure  la  sua  fibra  sembra  fatta  di  acciaio: 
vivra  e  operera  per  altri  nove  anni  ancora. 

Nel  1884  il  Massaja  fu  create  cardinale.  A  lui  sembro  un  onore 
eccessivo  e  immeritato,  ma  forse  nessuno  interpreto  il  giudizio 
universale  su  quella  nomina  quanto  padre  Mauro  Ricci  delle 
Scuole  Pie:  «Lo  stesso  cardinalato,  la  piu  alta  onorificenza  per  un 
uomo  di  Chiesa,  non  fece  che  uguagliare  a  60  e  piu  persone  certa- 
mente  rispettabilissime  tutte,  lui,  per  cuore,  per  carattere,  nei 
nostri  tempi,  e  per  grandezza  d'animo,  solo!  »  (vedi  G.  FARINA,  Le 
letter  e  del  cardinale  G,  Massaja,  cit.,  n.  396). 

Dapprima  il  Massaja  dimoro  a  Roma,  nei  convento  del  suo  or- 
dine  in  piazza  Barberini:  e  li,  per  volonta  del  pontefice,  si  pose  a 
comporre,  sebbene  stanco  e  sofferente,  quelle  memorie  di  tren- 
tacinque  anni  di  apostolato  in  Etiopia,  che  lo  assorbirono  per  lun- 
ghe  ore  del  giorno  e  della  notte,  dal  1880  al  1885.  Gli  era  accanto, 
come  segretario  privato,  padre  Giacinto  da  Trojna,  ma  il  inano- 
scritto  deU'opera  fu  tutto  di  suo  pugno.  Dal  gennaio  del  1884  si 
fes&  definitivamente  a  Frascati,  nei  convento  della  RufRnella:  k 
morte  lo  raggiunse  a  San  Giorgio  a  Cremano,  sul  golfo  di  Napoli, 
dove  si  era  recato  a  trovar  sollievo  dopo  un  primo  attacco  di  con- 
gestione  cerebrale,  il  6  agosto  del  1889. 

£  impc^sibile  dare  un  giudizio  sicuro,  e  tanto  piu  sotto  Taspetto 
letterario,  della  sua  opera :  Pedizione  a  stampa  che  ne  abbiamo  sem 
bra  divergere  notevoimente  dal  manoscritto,  come  precisiamo  oel- 
la  Nota  d  testo,  posta  in  fine  al  presente  volume.  Ma  se  ci  fermia- 
mo  all'opera  quale  ci  e  dato  di  leggerla,  essa  i  gia  di  natura  da  de- 
stare  la  nostra  ammirazione  e  il  nostro  piu  vivo  interesse.  Nessuna 
cura  letteraria,  certo,  e  anzi,  a  volte,  parecchie  imperfezioni  stili- 
stiche  e  sintattiche,  le  quali  fanno  pensare  al  frequente  uso  che,  sia 
del  francese  sia  delle  lingue  indigene  d^Africa,  ebbe  a  fare  per  lun- 
ghi  anni  il  Massaja.  Pure,  crediamo  il  lettore  moderno  non  cerchi 
Farte  in  questo  aspetto  formale :  vi  sono  pagine  che  creano  scenari 


746  GUGLIELMO    MASSAJA 

efficacissimi,  di  luoghi,  di  ambienti,  di  costumi;  ritratti  vigorosl  di 
personaggi,  come  quelli,  ad  esempio,  di  re  Teodoro  e  del  neofita 
Gabriele;  una  penetrazione  mirabile  deiranimo  degli  indigeni,  dai 
piu  elevati  ai  piu  umili.  E  le  vicende  vi  sono  svolte  in  una  loro  pro- 
gressione  drammatica,  che  perde  molto  dalla  necessita  di  ridurle  ad 
una  scarna  scelta  antologica,  Direi  che  Fopera,  anche  se  letta  come 
un  libro  di  awenture,  si  pone  degnamente  fra  le  piu  interessanti 
che  abbiano  scritto  i  nostri  viaggiatori  ed  esploratori  dell'Ottocento. 

Ma  anche  piu  grande  ammirazione  desta  la  pietas,  Fanimo  del 
Massaja,  costantemente  rivolto  a  un  fine  di  apostolato  religioso. 
Quel  cappuccino  che  percorre  terre  inospitali,  fra  mille  pericoli, 
quasi  sempre  a  piedi  nudi,  cibandosi  miseramente,  e  si  tiene  stretto 
alia  sua  fede  e  alia  sua  missione,  e  si  fa  per  essa  apostolo,  operaio, 
infermiere,  agricoltore,  ricorda  continuamente  le  grandi  figure  apo- 
stoliche  dei  primi  tempi  del  Cristianesimo :  le  ricorda  soprattutto 
nella  sua  umilta  e  nella  sua  fiduciosa  rassegnazione.  Certo,  le  sue 
idee  illiberali,  il  suo  sdegno  e  sospetto  per  le  costituzioni  de- 
mocratiche  e  le  riforme  che  si  attuavano  allora  in  Europa,  fino 
a  lamentare  come  un  male  Fabolizione  della  pena  di  morte,  tur- 
bano  a  volte  il  lettore.  Ma  il  lettore,  in  questo  caso,  guarda  e 
giudica  con  un*esperienza  che  il  Massaja  non  ebbe,  tanto  piu  che, 
separate  dalFEuropa  fin  dal  1846,  egli  necessariamente  conserv6 
gFideali  della  sua  prima  formazione,  e  perci6,  sotto  questo  aspetto, 
non  di  un  settantennio,  ma  di  piu  di  un  secolo  rimase  anteriore  ai 
nostri  tempi.  D'altra  parte,  &  oltremodo  interessante  vedere  F Eu 
ropa  e  i  suoi  awenimenti,  tra  i  quali  non  ultimo  il  Risorgimento, 
contemplati  e  giudicati  da  un  religioso  lontano  e  disgiunto  per  mi- 
gliaia  di  chilometri. 

Per  tutte  queste  ragioni,  e  anche  per  il  candore  che  le  anima,  ab- 
biamo  creduto  che  in  una  scelta  di  memorie  delFOttocento  non 
potessero  mancare  alcune  almeno  delle  nobilissime  pagine  scritte 
dalPapostolo  dei  Galla. 


Per  la  sua  opera,  vedi  GUGLIILMO  MASSAJA»  /  mid  trentacinque  atmi  di  mis- 
«w»ttf  mi? Aha  Etiopia,  in  12  voll,  Roma,  Tip,  Poligotta,  e  Milano,  Tip. 
S.  Giuseppe,  1885-1895.  Piu  facilmente  accessible,  Fed.  Roina,  Coop, 
tip.  Manuzio,  1921-1923. 

i  tutti  i  trattati  di  storia  e  geografia  delF Africa  danno  il  dovuto  ri- 
airazione  svolta  dal  Massaja  fra  i  popoli  deirEtiopia:  ancora  insuf- 


PROFILO   BIOGRAFICO  747 

ficienti,  invece,  sebbene  numerosi  e  a  volte  pregevoli,  ci  sernbrano  gli  studi 
direttamente  rivolti  alia  figura  e  alFopera  del  M«ssaja.  Ci6  dipende  soprat- 
tutto  dall'essere  ancora  intcce&sibih  o  dcfinitivamente  perduti  qiiei  docu 
ment!  e  quelle  corrispondenze  che  potrebbero  megliochianre  alcuni  atpetti 
dclla  sua  altissima  opera,  soprattutto  nei  suoi  nrles&i  pohtici.  Molto  po- 
trebbe  giovare  allo  scopo,  crediamo,  la  pubbhcazione  del  Journal  dt  mon- 
signer  De  Jacobis,  il  cui  manoscritto  e  tuttora  inedito  nell'Archivio  scgrcto 
vaticano. 

Tra  i  lavori  dedicati  al  Massaja  citsamo  anzitutto  Taccurata  biblic^fra- 
fia  di  S.  CULTRERA,  Gli  scrittori  Italians  e  d  cardinal?  Massaja,  Roma»  "  II 
Massaja-*,  1948.  Degli  studi,  in  parte  elogiativi  e  occasional!,  in  parte 
divulgativi  della  sua  opera,  e  in  parte  gia  awiati  su  un  piano  storico  e  cri- 
tico,  citiamo:  R.  BONGHI,  in  *  Nuova  Antologia*,  i°  settembre  1^89;  G. 
DA  MASSA,  Ungrande  apostolo  dftt'Afrifa,  Lucca,  Tip.  ed,  G,  Gtusti,  1928 ; 
L.  GENTILE,  Uapo$tdo  dti  Galla.  Vita  del  cardinale  G.  Mastaja,  Torino- 
Roma,  Marietti,  193 13,  opera  che  e  stata  anche  tradotta  in  tedesco;  R,  Di 
LAURO,  Elogio  del  cardinal*  Mastaja,  Xapoli,  Clet»  1932;  E.  GIANAZZA,  G. 
Massaja  missionario  ed  esploratore  neU^Alta  Etiopia*  Torino,  Paraviaf  1932, 
iQ39r  1941;  G.  GALBIATI,  //  cardinal  Massafa,  Roma  1936;  C.  SALIGSM- 
MI,  Un  grande  italiano  in  Abitnma^  Firenze  193^;  G,  FARINA,  Le  letter  e 
del  cardinale  G.  Ma$$aja,  con  prefazione  di  P.  Badoglio,  Torino,  Berruti, 
1937;  E.  MARTIRE,  Ma$$aja  da  vicsn&t  Roma,  Ra»egna  rotnana,  I937J  O. 
BUONOCORE,  Tre  africamsti  cla$$icit  Sapeto,  DeJacMs,  Massafa^  in «  La  cul- 
tura  *»  Napoli,  gennaio  104°  \  O.  REALI,  U opera  $&c%ah  del  cardinale  Mas&aja 
tra  i  Galla,  Roma  1940;  S.  CuLTRiRA,  II  cardinal*  G.  Mawaja  e  Vepera  sua, 
Roma,  « II  Massaja»T  1940;  M.C.  BISCOTTINI,  L* Italia  in  Etiopia  aU'epoca 
di  G.  Massaja.  Attmta  pditica  e  mitriamaria,  Rotna,  Ed.  del  «  Giornale  di 
politica  e  letteratura^,  1941 ;  E,  COZZANI,  Vita  di  G.  Mas&aja,  nella  colk- 
zione  «I  grandi  italiani  d'Africa*,  Firenze,  VaJlecchi,  i,  agosto  1943,  n, 
maggio  1944;  D,  RuscoNi,  In  Africa  suUe  orme  del  Maszafa,  Roma,  « II 
Massaja »,  1952. 


DA  «I  MIEI  TRENTACINQUE  ANNI  DI  MISSIONE 
NELL'ALTA  ETIQPIA* 

AL   MONASTERO  DI   S.  ANTONIO1 

Se  fossi  state  un  semplice  viaggiatore  secolare,  con  Tunico  e  solo 
scopo  di  studiare  quei  luoghi,  il  viaggio  del  Nilo,2  fatto  con  tanta 
liberta  e  sicurezza,  mi  avrebbe  dato  argomento  a  molte  e  variate 
osservazioni  ;  ed  ai  miei  lettori  avrei  potato  offrire  descrizioni  e 
fatti  assai  curiosi  ed  interessanti  intorno  a  quei  luoghi,  che  forse 
non  si  trovano  in  altre  narrazioni  gia  pubblicate.  Ma,  essendo  io 
un  missionario  cattolico,  gli  studii  puramente  scientific!  e  naturali 
non  potevano  essere  il  mio  principale  scopo:  avea  a  pensare  a 
tutt'altro  che  alia  natura.3  Tuttavia  era  impossible  non  occupar- 
mene  punto:  ma  se  tutto  ora  volessi  dire,  questa  storia  andrebbe 
troppo  a  lungo;  dappoiche,  pel  solo  viaggio  del  Nilo  sino  a  Kartum, 
non  basterebbe  un  volume.  Inoltre,  scrivendo  ventinove  anni  dopo 
che  feci  quei  viaggio,  e  sperdute,  per  la  persecuzione  sorTerta  in 
Kaffa  nel  1861,  tutte  le  note  prese  intorno  ad  esso,  ben  poco  po&so 
ricordarmi  delle  cose  particolari  ivi  osservate.  Son  costretto  adun- 
que  restringere  notevolmente  la  mia  narrazione,  e  lasciare  molte 
cose  che  vidi  e  mi  accaddero  lungo  quei  viaggio,  non  prive  forse 
d'interesse;  poiche  n£  anco  ricordo  i  nomi  di  alcuni  paesi  e  case  di 
missione  poste  sul  Nilo,  e  dove  ci  fermavarno  a  passare  la  notte.  Dei 
luoghi  e  delle  fermate  principal!,  conservandone  ancora  una  qual- 
che  reminiscenza,  posso  dime  con  precisione  le  particolariti  e  gli 
accidenti  piu  notevoli. 

2.  Si  era  convenuto  col  Reis4  di  continuare  il  viaggio  anche  di 
notte,  se  il  vento  ci  fosse  spirato  favorevole,  e  Tacqua  del  fiume 
non  si  fosse  trovata  divisa  in  diverse  correnti,  come  spesso  suole 
accadere  nel  Basso  Egitto:  ed  i  primi  quattro  giorni,  quantunque 


i.  Ed.  cit.,  vol.  n,  cap,  n,  pp.  18-32.  2.  HviaggsQ&l  NU&:  il  Massaja  ini- 
ziavm  aliora  (24  giugno  1851)  il  suo  secondo  viaggio  fhiviale  africaiK),  dal- 
TEgitto  verso  i  luoghi  del  suo  vkariato  (vadi  ii  Profilo  bic^rafico).  3.  gX 
studti  .  .  .  natura:  in  realti,  il  Massaja  non  indugia  mai,  nelk  sua  opera,  su 
problemi  geografki  e  scientific!:  pure,  sooo  numerosissimfi  le  sue  osserva- 
zioiii,  aitche  se  marginal*,  su  questioni  ctniche,  giottologiche,  geograBche, 
botaniche,  zoologiche,  e  dalla  rtarrazione  stessa  si  intuisce  quanta  ricchis- 
sima  e&perienza  egii  aequist6  anche  su  questi  ^x^ti  dei  pa^si  visitati. 
4.  Rtis:  vedi  k  nota  i  a  p.  19;  qui,  il  capitano  delk  imbarcazione. 


750  GUGLIELMO    MASSAJA 

si  naviga&se  contra  acqua,1  il  viaggio,  sia  di  giorno  che  di  notte, 
fu  felice  ed  anche  celere.  Ma  di  mano  in  mano  che  si  andava  piu 
in  alto,  cominciavamo  ad  incontrare  difficolta  abbastanza  gravi, 
principalmente  di  notte.  In  certi  luoghi  1'acqua  era  si  bassa,  e  la 
corrente  del  fiume  si  forte,  che  bisognava  dalla  spiaggia  tirare  la 
barca  a  mani,  per  farla  montare;  e  questo  lavoro  non  poteva  farsi 
che  di  giorno.  Piu,  un  altro  pericolo  rendeva  impossibile  il  viaggiar 
di  notte.  Lasciato  il  Cairo,  per  cinque  o  sei  giorni  di  corso  non  si 
trovano  nel  Nilo  coccodrilli ;  ma  salendo  piu  in  alto,  il  fiume  ne  e 
cosi  infestato,  che  i  marinari,  appena  si  fa  buio,  son  costretti  a 
prender  terra,  e  passare  la  notte  al  sicuro.  lo  inoltre  non  aveva  fu- 
cili,  almeno  per  ispaventarli,  come  la  si  usa  fare;  e  di  uno  che  tro- 
vavasi  nella  barca,  non  potevamo  servirci  per  mancanza  di  polvere. 
Per  questi  motivi  adunque  mi  dovetti  contentare  di  viaggiare  sola- 
mente  il  giorno,  e  passare  la  notte  in  qualche  villaggio  delle  sponde. 
II  che  recava  molto  piacere  ai  miei  marinari,  che  in  mezzo  a  quelle 
popolazioni  trovavano  a  divertirsi  lecitamente  ed  anche  illecitamen- 
te,  senza  che  io  potessi  dir  parola;  poiche",  essendo  solo,  ed  in  balia 
di  loro,  inutilmente  e  forse  con  pericolo  avrei  fatto  rimostranze. 

3.  Dopo  dieci  giorni  di  viaggio,  cio&  il  4  luglio,2  si  arriv6  ad  una 
citta  posta  sul  Nilo,  di  cm  non  ricordo  il  nome.  Vi  era  un  coman- 
dante  civile  ed  un  vescovo  copto,3  ed  una  casa  di  missionarii  catto- 
Hci.  Mi  recai  pertanto  a  visitare  prima  le  due  autorita;  i  quali, 
vedendo  le  lettere  di  raccomandazione,  di  cui  era  proweduto,  mi 
accolsero  ambidue  con  ogni  riguardo;  anzi  il  vescovo  impresse 
un  rispettoso  bacio  sulla  lettera  del  patriarca,  che  gli  mostrai.  Ma- 
nifestando  loro  il  desiderio  di  voler  visitare  il  monastero  di  S.  An 
tonio,4  H  pregai  a  darmi  qualche  raccomandazione  particolare  per 
quel  luogo,  ed  essi  mi  promisero  ogni  agevolazione.  II  prefetto  del 
piccolo  convento  del  Cairo  mi  avea  dato  una  lettera  per  quei  mis- 

i.  contra  acqua:  contro  corrente.  2.  4  luglio  1851.  3.  vescovo  coptoi  col 
noine  di  copti  si  indicano  gli  Egiziani  e  gli  Abissini  di  religione  cristiana,  ma 
seguaci  della  dottrina  roonofisita  (vedi  la  nota  i  a  p.  772).  Dipendevano  dal 
patriarca  di  Alessandria,  che  risiedeva  al  Cairo.  Nella  liturgia  delta  Chiesa 
copta  m.  adopera  ancora  1 'antics  lingua  omonima,  non  piu  usata  da  alcun 
popolo,  e  che  fe  una  trasformazione  dell'egiziano  con  larga  inserzione  di 
dementi  greci.  4.  S,  Antomo  abate,  detto  « il  padre  dei  monaci »,  fu  Por- 
ganizzatorc  delle  comunita  anacoretiche  in  Egitto.  Nato,  secondo  la  biogra- 
fia  cfee  i>e  sorisse  sant'Atanasio,  nel  Medic  Egitto,  si  ritir6  diciottenne  a 
vita  eremitica  e,  seguito  presto  da  vari  discepoli,  pass6  gran  parte  della  sua 
estslmza  ueJk  solitudme  e  nelk  pregiiiera.  Mori  nel  suo  eremo,  presso 
Afoexlflopoli,  c4ti?e  i!  Nilo,  a!Pet&  di  centocinque  anni,  nel  336. 


MISSIONS    NELL'ALTA   ET1OPIA  751 

sionarii,  nella  quale  io  era  raccomandato  come  prete  cattolico,  che 
mi  recava  con  finto  nome  a  Kartum.  Mi  portai  pertanto  alia  lore 
casa,  ma  essendo  assente  il  missionario  europeo,  trovai  an  prete 
copto  indigene,  il  quale  mi  ricevette  bene,  e  m'invito  a  desinare. 
Sentendo  la  mia  intenzione  di  voler  visitare  S.  Antonio,  disse  non 
esser  cosi  facile  il  penetrarvi,  tranne  che  non  mi  fosse  riuscito  di 
ottenere  dal  vescovo  copto  una  particolare  raccomandazione.  —  Vo- 
lentieri  —  soggiunse  —  le  presterei  Jo  questo  servizio,  ma  non  pos&o, 
perch£  con  questo  sedicente  vescovo  non  ci  troviamo  in  buone  re- 
lazioni.  —  E  riferitagli  la  promes&a  che  il  vescovo  mi  avea  fatta, 
replied  :  —  Allora  non  vi  ha  dubbio,  che  tutto  andeii  bene.  Per6» 
con  quella  raccomandazione  fa  d'uopo  ch'Ella  si  porti  prima  ad  un 
villaggio  appartenente  ai  due  mona&teri,  e  lontano  di  qui  un  giorno 
di  barca,  o  due,  se  il  vento  non  sari  favorevole;  lascera  in  quelPospi- 
zio  il  bagaglio,  e  Io  riprendera  poscia  al  ritorno.  —  Mi  fermai  per 
tanto  un  giorno  in  quella  citta,  ed  andando  ora  dalPuno  ora  dall'al- 
tro,  ottenni  quanto  desiderava.  II  vescovo  mi  diede  una  lettera  pel 
superiore  dell'ospizio,  ed  il  comandante  mi  assegnd  una  persona 
per  accornpagnarmi  nel  viaggio,  e  poscia  presentarmi  allo  $d£kl 
del  villaggio;  al  quale  ordinava  di  aver  ctira  del  bagaglio,  che  avrei 
lasciato  in  quel  luogo,  e  di  trattarmi  come  p>crsona  raccomandata 
particolarmente  dal  vicer6.a 

4.  Era  una  di  quelle  sere  cosi  lirnpide  e  belk,  che  t*invitano  a 
viaggiare,  la  luna  illuminava  quasi  a  giorno  quel  deserto  e  quel 
fiume,  e  un'aura  fresca  e  soave  ci  diceva  di  partire;  e  partimmo  su- 
bito.  Si  viaggib  tutta  la  notte  ed  il  giorno  appresso  felicemente,  e 
verso  Fimbrunire  g&  eravamo  ancorati  a  Benesuet,  viliaggio  del 
monastero.  Mi  recai  tosto  all'ospizio,  dove  fui  ben  accoho  e  ben 
trattato  da  quei  pochi  monaci.  II  viliaggio,  tutto  copto  eretico,  tK>n 
contava  che  un  centinaio  di  famiglie,  in  gran  parte  appartenenti 
alk  classe  dei  contadini,  e  circa  un  quinto  erano  impiegati  e  cam- 
mellieri,  che  ogni  settimana  andavano  e  venivano  dai  due  monasteri 
di  S.  Antonio  e  di  S.  Paolo.  Anche  questo  monastero  aveva  un 
ospizio  in  quel  vilkggiQ;  poich^  I*uno  e  Taltro  formano  uii  ordine 
distinto,  e  vivono  sotto  diversa  regola,  I!  di  seguente  alk 


1.  «  Cotui  che  fa  da  sindaco  nei  picooli  pacsi  o  viiiaggi  »  (nqta  ckl  Massaja). 

2.  victrtf;  FEgitto,  g^  dominio  arabo,  era  stato  occupato  dai  Turchi  &i  dal 
1517.  Ma  dal  1841,  pur  continuando  la  sovratut^  rKwninale  delk  Turchia, 
l*Egitto  aveva  coaseguito  uja'efietti^  iiKiipendenza,  per  opera  di  Moham 
med  AH. 


752  GUGLIELMO   MASSAJA 

dello  sciek  dichiarai  ai  miei  marinari  ch'erano  liberi  per  tre  setti- 
mane  di  andare  con  la  barca  ovunque  avessero  voluto,  purche*  si 
fossero  trovati  pronti  ai  miei  ordini  alia  fine  di  esse.  Mi  era  preso 
tutto  questo  tempo,  perch6  aveva  intenzione  di  visitare  tutti  e  due 
i  monasteri ;  quantunque  poi,  per  mancanza  di  cavalcature  e  di  com- 
pagnia,  non  potei  andare  a  S.  Paolo. 

5.  In  due  giorni  la  carovana  fu  pronta  alia  partenza  per  S.  An 
tonio  ;  e  con  un  giovane  monaco,  che  faceva  da  capo,  ci  mettemmo 
in  viaggio.  Eravamo  cinque  persone  con  sei  cammelli ;  uno  serviva 
per  me,  uno  pel  monaco,  e  gli  altri  per  portare  le  prowiste  del 
monastero.  Lasciato  il  villaggio,  dopo  circa  un  quarto  djora  di  cam- 
mino,  entrammo  in  una  pianura  di  finissima  sabbia,  di  cui  non  si 
vedeva  la  fine.  II  monaco  parlava  un  poco  la  lingua  franca  (ritaliano 
corrotto  del  Cairo),  e  sarebbe  stato  meglio  per  me  se  non  avesse 
saputo  parlare  altra  lingua  che  la  sua;  poiche*  lungo  la  strada  non 
fece  altri  discorsi  che  di  cose  di  mondo,  e  spesso  cosi  liberi  e  sco- 
stumati,  che  io  mi  trovava  impicciato  a  rispondergli  un  po'  pulita- 
mente.  Egli  mi  teneva  per  un  secolare,  n6  poteva  mai  credere  che 
fossi  prete,  non  avendolo  io  manifestato  a  nessuno ;  e  perci6  permet- 
tevasi  simili  discorsi.  I  cammellieri  erano  in  verita  piu  modesti  e 
piu  buoni  di  lui ;  ma,  non  parlando  che  la  loro  lingua,  non  poteva 
trattenermi  con  loro,  come  avrei  voluto.  Per  ischivare  pertanto  in 
qualche  modo  quella  spiacevole  conversazione,  camminava  sempre 
con  la  corona1  in  mano;  tuttavia  quel  caro  figlio  di  S.  Antonio  non 
mi  lasciava  quieto :  sicche  finalmente,  istigato  a  parlare,  gli  dissi  che, 
essendo  un  pellegrino  diretto  al  sepolcro  di  S.  Antonio,  non  con- 
veniva  occuparmi  d'altro  che  di  preghiere.  E  cosi  fui  lasciato  un 
po*  tranquillo. 

6.  La  sera  poco  prima  della  caduta  del  sole  si  arriv6  ad  una  pic- 
cola  oasi,  e  trovandovi  delFerba,  ci  fermammo  per  passarvi  la  notte. 
Fatta  la  cena  con  ci6  che  avevamo  portato  dall'ospizio,  ci  tratte- 
nemmo  un  poco  in  conversazione,  studiandoci  Tun  Taltro  di  farci 
intendere  alia  meglio.  Due  dei  nostri  cammellieri  toccavano  quasi 
la  quarantina,  ed  anzich6  imitare  le  sconce  facezie  del  monaco, 
amavano  piuttosto  parlare  di  affari.  II  terzo,  giovane  in  su  i  venti 
anni,  si  adattava  volentieri  ai  gusti  del  monachello,  il  quale  pareva 
non  avesse  altra  voglia  che  tener  discorsi  e  fare  atti  per  nulla  conve- 
aevoli  alk  sua  condizione.  Non  potendone  piu,  gli  domandai: 

i.  la  corona:  del  rosario. 


MISSION!   NELL'ALTA    ETIOPIA  753 

—  Avete  voi  voti  ? 

—  No,  —  rispose  —  noi  non  facciamo  voti :  ma  solamente,  dive- 
nuti  monaci,  non  possiamo  prender  rnoglie. 

— -  E  non  pare  a  voi  —  soggiunsi  —  che  sarebbe  meglio  prender 
moglie,  anzich6  fare  e  dire  certe  cose,  da  cui  i  secolari  stessi  abor- 
riscono  ? 

A  queste  parole  si  mise  a  ridere,  fmgendo  di  non  aver  capito,  o 
meglio  mostrando  di  aver  capito  assai  bene.  Allora,  per  non  isvelare 
ch'io  fossi,  cangiai  discorso,  e  gli  dornandai  se  pagassero  tributi  ai 
governo. 

—  Ne  paghiamo  pur  troppo,  —  rispose  —  ma  al  patriarca. 

—  E  pagate  molto? 

—  Piu  della  meta  di  quanto  si  raccoglie. 

—  E  il  patriarca  che  ne  fa? 

—  Paga  per  noi  il  governo,  ed  una  parte  la  ritiene  per  se. 

7.  In  Oriente  i  vescovi  ed  i  patriarch!  eretici  sono  veri  esattori  ed 
impiegati  civili  del  governo ;  e  se  i  popoli,  a  loro  soggetti,  non  corri- 
spondono  puntualmente  alle  loro  esigenze,  mane^iano  il  bastone 
con  piu  severita  dei  secolari.  Fra  gli  orientali  sentono  piu  di  tutti 
questa  dura  severita  i  poveri  copti ;  perche  i  loro  superior!  so  no  piu 
ingordi  e  piu  venali.  II  potere  civile,  ammettendo  il  clero  superiore  a 
questa  specie  di  governo,  sembra  a  prima  vista  che  lo  abbia  voluto 
onorare:  ma  invece  non  ebbe  in  mira  che  di  aggiogarlo  al  suo  carro, 
e  renderselo  schiavo.  Questa  schiavitu  inoltre  e  antichissima,  e  nac- 
que  con  rarianesimo,1  quando  la  parte  eretica,  per  iscuotere  il  giogo 
della  Chiesa  romana  e  sostenersi  neik  sua  ribellione  ed  indipen- 
denza,  si  attaccd  al  potere  civile;  il  quale  da  parte  sua  lo  accett6 
volentieri,  e  gli  promise  protezione;  non  per  benevolenza,  ma  in 
verita  per  dominarlo,  e  servirsi  furbescamente  delk  sua  autoritk 
presso  il  popolo.  II  governo  turco,  succeduto  airimpero  bbantino/ 

i.  Fariantsimo:  la  dottrina  di  Ario  di  Alessandria  (morto  a  Cc^tantieopoli 
nel  336),  che  considers va  Cristo  generato  dal  Padre,  e  F>ercid  licm  coero  a 
Lui.  Veramente,  ai  tempi  del  Massaja,  IKHI  si  potevm  piii  pariare  di  ariani, 
se  nofi  attribuerKio  un  nuovo  senso  al  vocabdlo:  per  indicare,  eioe,  gli  anti- 
tiinitari  in  geoere,  o  i  sostenitori  della  stibordinazkme  del  dero  alio  Stato, 
o,  senza  una  precisa  determinazkaie,  gli  eretici  tutti,  2.  Uimpero  bu^ntino 
cadde  definitivamente  nel  1453,  con  Toccupaziooe  di  CostantinofK>li  da 
parte  dei  Turchi,  ma  le  regioni  orientali  che  ne  avevano  fatto  parte  erano 
gi^  da  seeoH  palate  gradualn^ente  sotto  il  dominio  arabo.  In  realta,  il  Mas 
saja,  con  questo  aocenno,  iropreciso  storicamente,  intenck;  cocidannare  la 
posiziooe  assunta  in  Oriente  dalla  Chiesa  ortodossa  nei  confronti  delk)  Stato. 


754  GUGLIELMO   MASSAJA 

vide  Putilita  di  siffatto  connubio,  ed  anziche"  rompere  questa  catena, 
la  strinse  maggiormente :  e  quindi,  assoggettando  a  si  la  gerarchia 
ecclesiastica,  scissa  da  Roma,  ne  fece  una  sua  dipendenza,  la  priv6 
di  quell' aureola  divina  ch'esternamente  la  circondava,  e  la  rendeva 
degna  di  stima  e  di  rispetto  dinanzi  al  pubblico,  e  rese  in  questa 
maniera  schiavi  il  clero  e  il  popolo,  insomma  tutta  1'eresia. 

8.  Ed  e  questo  uno  dei  motivi  per  cui  la  Chiesa  latina  ha  lavorato 
e  lavora  in  Oriente  con  pochissimo  frutto.  Finche  la  gerarchia  ec 
clesiastica  orientale  rimarri  schiava  del  potere  civile,  e  non  riacqui- 
stera  la  sua  indipendenza,  sara  difficile  che  ritorni  al  seno  della  sua 
vera  mad  re.  Ed  e  questo  medesimo  ostacolo  che  fa  disperare  della 
conversione1  della  Russia.  Ne"  possiamo  prometterci  che  spunti  un 
migliore  awenire  per  queste  sventurate  nazioni ;  umanamente  par- 
lando  vi  e  ben  poco  a  sperare!  Ci  vorrebbe  un  nuovo  Costantino,2 
che  si  gertasse  neile  braccia  della  Chiesa,  od  uno  sconvolgimento  so- 
ciale,  che  spezzasse  questa  diabolica  catena,  e  mettesse  tutto  in 
iscompiglio:  allora  potrebbe  ritornare  ogni  cosa  alPordine  ed  alia 
verita.  N6  solo  in  Oriente,  ma  anche  nelFOccidente  i  governi  civili 
hanno  ambita  questa  supremazia,3  ed  hanno  tentato  di  ridurre  la 
Chiesa  a  questa  abbietta  schiavitu.  I  vincoli  del  re  sagrestano  Giu 
seppe  II4  e  dei  suoi  predecessor!,  le  leggi  tanucciane,5  gli  articoli 
organici,6  ed  oggi  gli  sforzi  di  tutti  i  governi  d'Europa,  retti  a 
Uberali$mo>  mirano  a  ci6.  Si  proclama  a  parole  libera  Chiesa  in  li- 

i.  conversione:  passaggio  dalla  dottrina  scismatica  alia  cattolica,  donde 
1'eventuale  riunione  con  Roma,  z.  Costantino,  imperatore  dal  306  al  337, 
eman6  a  Milano,  nel  313,  il  famoso  editto  di  tolleranza  verso  i  cristiani. 
3.  supremazia:  dello  Stato  sulla  Chiesa.  II  Massaja  allude  alle  lotte  che 
si  svolsero  in  Europa,  gia  prima,  ma  soprattutto  dopo,  la  Rivoluzione 
francese,  per  stabilire  Pautonomia  dello  Stato  di  fronte  alia  Chiesa  in 
tutto  ci&  che  non  appartenesse  alia  religione.  Ma  egli  muove,  natural- 
mente,  da  un  suo  punto  di  vista  strettamente  osservante.  4.  Giuseppe  II 
fu  imperatore  d' Austria  dal  1765  al  1700.  Con  1'editto  di  tolleranza  del 
1781  diede  liberti  di  culto  a  protestanti  e  greco-ortodossi.  Soppresse  or- 
dini  religiosij  miro  a  creare  un  clero  nazionale,  a  limitare  i  privilegi  eccle- 
siastici.  Una  simile  politica  avevano  gia  seguito  la  madre  Maria  Teresa  e 
il  padre  Francesco  I.  5.  leggi  tanucciane:  Bernardo  Tanucci  (1698-1783), 
ministro  di  Carlo  III  e  di  Ferdinando  IV  di  Borbone,  re  di  Napoli,  con 
Tintento  di  consolidare  la  monarchia  aboil  molti  privilegi  ecclesiastici  e 
sottrasse  il  Regno  dalia  sua  dipendenza  feudale  al  papa.  6.  articoli  orga- 
mci:  Napoleone,  il  16  luglio  1801,  aveva  stipulate  un  concordato  con  la 
S«nta  Sede,  ma  esso  trovd  gravi  opposizioni  in  Francia.  Allora  rimr>era- 
tcce  vi  aggiunse  i  77  articoli  orgamcit  con  cui  stabiliva  il  controllo  gover- 
Batm)  sailla  gerarchia  ecclesiastica  e  salvava,  in  tal  modo,  le  « liberta  gal- 
licaue ».  La  Santa  Sede  non  ricoeobbe  mai  tali  articoli. 


MISSIONS    NELL'ALTA    ETIOPIA  755 

bero  Stato:  ma  a  fatti  si  vuole  la  schiavitu  dcila  Chiesa  e  la  supre- 
mazia  dello  Stato,  per  distruggere,  come  in  Qriente,  il  regno  di  Gesu 
Cristo.1 

9.  Ritornando  alia  mia  storia;  troncata  la  conversazione,  ci  met- 
temmo  a  dormire  al  chiarore  delle  stelle,  e  con  un'auretta  cosi  fre- 
sca,  che  ti  faceva  dimenticare  di  trovarti  in  mezzo  ai  deserti  afri- 
cani.  Mi  ci  voile  pero  del  tempo  per  chiudere  gli  occhi,  a  causa  del 
monachello,  che  non  ostante  i  miei  buoni  consigli,  e  talvolta  le  mie 
brusche  ammonmoni,  non  ismetteva  punto  le  sue  oscene  facezie. 
Coricato  tra  i  cammellieri,  faceva  un  baccano  indiavolato  con  tutti, 
e  principalmente  col  piii  giovane.  lo  non  poteva  capir  tutto  quello 
che  diceva,  perch£  poca  conoscenza  aveva  allora  deirarabo :  ma  tra 
le  altre  cose  lo  intesi  iamentarsi  che  nel  monastero  non  vi  erano 
uomini  ma  donne.  Ci6  mi  fece  una  grande  impressione;  e  non  sa- 
peva  comprendere  come  in  un  monastero,  cosi  venerato,  vi  fossero 
donne:  tuttavia  mi  guardai  dal  chiedergiiene  la  spiegazione.  Ma 
poco  tempo  dopo  me  la  diede  il  giovane  propagandista  che  andava 
a  liberare,2  ed  in  verita  fu  cosi  brutta,  che  neppure  ardisco  riferirla. 
Oh  quali  guasti  orribili  e  mostruosi  portarono  Teresia  e  Tislamisrao 
a  quelle  cristiane  popolazioni! 

10.  II  di  appresso,  svegiiatici  di  buon'ora,  ci  rimettemmo  in  viag- 
gio,  e  verso  mezzogiorno  si  arrivo  ad  un'altra  piccola  oasi,  in  cui 
riposammo  alquanto,  e  mangiammo  il  nostro  modesto  pranzetto. 
Ripreso  il  cammino,  verso  sera  scorgernmo  in  lontananza  Aml>a 
Antun  ;3  e  trovata  un'altra  oasi,  ci  fermammo  per  passarvi  k  iK)tte. 
Un  fenomeno  singolare  ebbi  ad  <^scrvare  in  questo  luogo:  non  vi 
era  affatto  acqua,  ne  lungo  Fanno  vi  cadeva  pioggia;  tuttavia  quel- 
Farida  sabbia  era  sparsa  di  graziosa  erbetta  e  di  fold  sterpi,  che  in- 
dicavano  una  bella  vegetazione.  Cercando  tra  me  stesso  la  spiega 
zione  di  questo  fenomeno,  pensai  che  quei  mari  di  sabbia  abbiano 
in  certi  punti  un'azione  assorbente  i  vapori  dell'atmosfera,  da  cui 
viene  agevolata  la  vegetazione.  Piu,  scavando  in  certi  luoghi,  trovai 

i*  Si  proclama  .  .  .  Cristo:  il  Afassaja,  seguace  convinto  della  dottriBa  ufii- 
ciale  delta  Chiesa,  fu  profofidainente  awerso  a  tutto  rorientamcnto  liberals 
del!*Europa  e  non  riusci  mai  a  distinguere  nella  vita  della  Chiesa  Taspetto 
reiigi<^o  da  quello  temporale.  2.  U  gwvwu  .  .  .  Wb&r®re\  il  Massaja,  recan- 
dosi  al  rnofitastero  copto  di  Sant*Antonio,  intendeva  liberare  il  gkyvaue  Mi- 
chelangelo,  discepolo  della  Congregazione  De  propaganda  Fidt,  die  vi  era 
trattenuto  per  volonta  sc^>rattutto  del  vescovo  cc^sto  Abiina  Salama,  grande 
nemico  del  Massaja  (vedi  il  Profilo  bio^rafico).  3.  *  Montmgna  di  S.  An- 
tonio*  (nota  del  Massaja). 


756  GUGLIELMO   MASSAJA 

a  poca  profondita  la  sabbia  assai  umida;  il  che  giovo  a  confermare 
la  mia  ipotesi:  dappoich£  quell'umiditi.  superficiale  in  luoghi  dove 
non  piove  giammai,  non  pu6  altrimenti  prodursi  che  con  1'assor- 
bimento  di  vapori  atmosferici. 

11.  Mi  e  difficile  descrivere  la  grata  impressione  che  fece  sulFani- 
mo  mio  la  vista  di  quella  montagna.  Essa  sorge  come  uno  scoglio 
in  mezzo  ad  un  mare  di  sabbia,  ed  airimmaginazione  si  presenta 
come  un'oasi,  in  cui  germoglid  e  crebbe  la  pianta  del  monachismo. 
Tutto  d'intomo  e  sterile  e  senza  vita;  la  solamente  pare  che  la 
Prowidenza  abbia  mutato  aspetto  alia  natura,  rendendola  fertile  e 
facendovi  scaturire  una  sorgente,  per  nutrire  e  dissetare  non  uo- 
mini,  ma  angeli  in  carne.  E  tali  erano  in  sul  principio  della  loro  isti- 
tuzione  quei  cenobiti.  Ma  oggi?  Oggi  quel  gran  monastero  (e  lo 
stesso  dicasi  delPaltro  di  S.  Paolo)  e  piuttosto  un  ergastolo  di  vizii, 
che  un  asilo  di  santita.  Quei  degeneri  figli  del  grande  eremita, 
fuorviati  dalFeresia  ed  abbrutiti  dalle  piu  abbiette  passioni,  non 
servono  che  a  ricordare  Pantica  santita  e  purita  dello  spirito  evan- 
gelico,  che  vi  fioriva,  come  le  Piramidi  ricordano  la  prisca  grandezza 
deirEgitto.  Quei  due  monasteri  io  oggi  li  rassomiglio  a  due  scheletri 
umani,  non  ancora  totalmente  spolpati,  e  gettati  in  mezzo  al  de- 
serto;  i  quali  par  che  dicano:  &Noi  prima  eravamo  uomini,  oggi 
non  siamo  che  ossa  e  putridume®. 

12.  Rimessici  di  buon  mattino  in  viaggio,  seguitavamo  la  strada 
sempre  in  direzione  della  montagna,  ed  a  mano  a  mano  che  ci 
awicinavamo,  essa,  che  prima  sembrava  una  piccola  collina,  gra- 
datamente  s'ingrandiva.  Avanzandoci  piu  innanzi,  si  cominci6  a 
scorgere  il  monastero,  e  ad  ogni  passo  si  rendeva  piu  visibile  ed 
ammirabile  nelle  sue  maestose  forme  e  speciose  particolarita.  Esso 
&  piantato  alle  falde  della  montagna,  e  presenta  un  gran  quadrato, 
aperto  dalla  parte  di  essa  montagna,  la  quale  sembra  sorgere  dal 
monastero.  Accostandosi  di  piu,  si  scorge  non  esser  quel  quadrato 
che  la  cinta  esterna,  dentro  cui  s'innalza  un  altro  quadrato,  ch'e 
propriamente  il  monastero,  con  in  mezzo  una  gran  torre.  Nella 
parte  interna,  che  sta  a'  piedi  della  montagna,  si  vede  un  po*  di 
verde,  che  comincia  a  ricreare  la  vista,  stanca  di  sempre  guardare 
quelle  aride  sabbie;  ed  un  bel  contrasto  fa  esso  con  queirimmensa 
pianura,  priva  assolutamente  di  vegetazione.  Sono  principalmente 
alberi  di  datteri,  che  vi  nascono  e  crescono  assai  bene. 

13.  Finalmente  si  giunse  al  febbricato,  e  ci  arrestammo  al  muro 


MISS1ONE   NELL'ALTA    ETIOPIA  757 

di  cinta,  alto  circa  sei  metri  e  fatto  di  fango  battuto.  Rirnasi  sorpreso 
nel  non  trovarvi  porta  d'ingresso:  ma  solo  uno  spaccato,  a  gui$a 
di  portico,  in  parte  ncl  grosso  del  muro  della  cinta.  —  E  per  dove 
si  entra  ?  —  domandai.  —  Ecco  —  e  mi  si  addit6  una  finestra  quasi 
circolare  aperta  nel  centro  della  volta  dello  spaccato,  e  dalla  quale 
scendeva  una  grossa  corda  di  palma,  raccomandata  ad  un  cilindro 
orizzontale,  simile  a  quelli  dei  nostri  pozzi,  i  quali  servono  per  at- 
tingere  Tacqua.  AlFestremita  della  corda  era  attaccato  un  piccolo 
legno,  sul  quale  la  persona  mettendosi  a  cavallo,  veniva  tirata 
su  da  due  monaci,  per  mezzo  di  manubrii  sporgenti  dal  grosso 
cilindro.  Veramente  in  sulle  prime  ebbi  timore  di  affidarmi  ad 
essi;  ma  poi,  fatto  coraggio,  mi  aggrappai  fortemente  alia  corda, 
e  feci  la  mia  curiosa  ascensione, 

14.  Introdotti  per  quella  finestra  sul  muro  di  cinta,  si  resta  sor- 
presi  nel  trovarlo  si  largo  da  potervi  passeggiare  comodamente  sei 
persone  di  fila,  avendo  circa  quattro  metri  di  gros&ezza.  Una  stretta 
scala  vi  porta  nel  cortile  e  nel  giardino,  o  meglio  nel  quadrato 
interno  che  serve  per  Fabkazione  dei  monaci.  Ivi  trovai  il  superiore 
con  molti  altri,  i  quali  mi  condussero  avanti  la  cappelk,  dove  in  un 
piccolo  atrio  con  varie  sedie  si  ricevevario  i  forestieri.  La  faccia 
interna  della  cinta  era  in  gran  parte  coperta  d'iscrizioni  in  tutte  le 
Hngue,  ksclatevi  dai  viaggiatori,  che  avevano  visitato  il  monastero. 
Mostrate  le  lettere  di  raccomandazione,  divenni  presto  loro  amico, 
e  mi  si  misero  attorno,  assediandomi  con  continue  e  varie  iriter- 
rogazioni.  £  difficile  che  vi  lascino  un  momento  solo;  hanno  tanta 
smania  di  parlare,  che  non  solamente  il  giorno,  ma  anche  la  rtotte 
vi  terrebbero  in  conversazione. 

15.  II  mio  principale  scopo  era  di  liberare  il  giovane  Michelan 
gelo,  allievo  di  Propaganda'^  e  perci6  ad  esso  era  diretto  ogni  mio 
studio  e  premura.  Fingendo  d'intender  poco  la  lingua  araba  e 
franca,  ch'essi  parlavano,  domandai  se  per  caso  non  vi  fosse  qual- 
cuno  tra  i  monaci  che  parlasse  un  po*  meglio  ritaliano.  Ed  il  supe 
riore,  che  nulla  poteva  sospettare  dei  miei  disegni  (poicM  feci  una 
tale  richiesta  con  k  massima  indifFerenza),  mi  present6  Michelan 
gelo.  Era  quello  che  io  desiderava,  e  ringraziai  Iddio  che  le  mie  ope- 
razioni  cominciassero  cosl  bene.  Anche  Michelangelo  da  parte  sua 
ne  fu  contento,  molto  piu  quando  da  alcuni  segni  e  parole,  dirette- 
gli  furtivamente,  travide  i  miei  intendimenti.  II  poveretto  deside 
rava  piu  di  me  di  essere  liberate,  e  gli  parve  un'apf^rizione  celeste 


75$  GUGLIELMO  MASSAJA 

il  mio  arrive;  tuttavia,  per  non  suscitar  sospetti,  ci  guardammo 
bene  dal  mostrare  questo  contento. 

1 6.  Mi  condussero  poscia  nelPinterno  del  monastero,  facendomi 
minutamente  osservare  ogni  cosa:  e  tra  le  altre,  mi  mostrarono  una 
stanza,  che  dissero  di  essere  stata  abitata  da  un  certo  Andrea,1  gi£ 
monaco,  ed  allora  vescovo  dell' Abissinia.  Compresi  subito  chi  fosse 
quel  bravo  soggetto,  principalmente  quando  nella  parete  lessi  il  suo 
nome  scritto  in  lingua  itaiiana  ed  inglese:  ma  finsi  di  non  cono- 
scerlo.  Dopo  fui  introdotto  nella  torre ;  essa  sorge  in  mezzo  al  cor- 
tile  del  secondo  fabbricato,  e  di  forma  quadrata,  alta  circa  quattro 
metri  piu  del  monastero,  e  comunica  con  esso  per  mezzo  di  quattro 
ponti  levatoi,  che  si  tirano  dai  quattro  lati  della  torre,  o  del  mona 
stero,  secondo  il  bisogno.  Anticamente,  ed  anche  in  tempi  a  noi 
non  molto  lontani,  era  il  loro  rifugio,  quando  i  Beduini,2  a  guisa  di 
orde  scorazzando  per  quel  deserto,  finivano  con  dar  Tassalto  al  mo 
nastero.  Allora  i  monaci  si  difendevano  prima,  combattendo  di 
sopra  le  mura:  ma  poi,  superate  queste,  per  ultimo  scampo  si  riti- 
ravano  nella  torre,  e  tirati  i  ponti,  combattevano  con  pietre  gl'in- 
vasori.  Sottomessi  poscia  i  Beduini  dal  governo  egiziano,  principal 
mente  per  opera  di  Mohammed- Aly,3  il  monastero  non  ebbe  piu 
a  temere  quei  terribili  nemici ;  ed  anche  oggi  e  lasciato  tranquillo. 
Sono  ammirabili  queste  costruzioni,  sia  per  la  loro  antichita  e 
grandezza,  sia  per  la  loro  indistruttibile  solidita;  e  quantunque 
di  fango  battuto,  pure  vi  stanno  da  molti  secoli,  e  pare  che  sfidino 
la  successione  dei  tempi. 

17.  Visitai  poscia  il  refettorio,  assai  lungo  e  stretto,  e  con  una 
sola  tavola  di  alabastro  in  mezzo.  I  monaci  di  S.  Antonio  mangia- 
vano  in  comune,  al  contrario,  come  mi  si  diceva,  di  quelli  di 
S.  Paolo;  i  quali,  conservando  ancora  un  po'  di  vita  eremitica,  in 
comune  non  mangiano  che  nelle  grandi  solennita.  Mi  condus 
sero  poi  nella  chiesa;  una  piccola  cappella,  che  non  corrisponde 
alia  grandezza  del  monastero,  ed  &  Punico  luogo  in  cui  si  vede 
qualche  costruzione  in  calce.  Accanto  ad  essa  vi  era  una  specie 
di  casotto,  in  cui  i  monaci  e  gPinservienti  prima  di  dir  Messa  si 


i.  Andrea:  e  il  nome  deR'Abuna  Salarna.  2. i  Bedmni:  i  nomadi  dell'Asia 
arafoica  e  dell* Africa.  3.  Mohammed- Aly,  ufficiale  albanese  venuto  in 
E^gitto  con  Tesercito  turco  ai  tempi  della  spedizione  francese  del  1798, 
diveratte  poi  il  creatore  della  effettiva  indipendenza  dell'Egitto,  che  govem6 
dal  1806  alia  morte,  nel  1849.  Vedi  la  nota  2  a  p,  751. 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIOPIA  759 

lavavano  da  capo  a  piedi.  Esso  veniva  chiamato  il  luogo  della  puri- 
ficazkme,  ed  in  verita  non  vi  si  faceva  che  la  vera  purificazione  se- 
condo  il  rito  mussulmano.  Dalla  chiesa  per  alcuni  gradini  si  di- 
scende  nel  sepolcro,  che  chiudeva  le  o&sa  di  S.  Antonio,  oggi  vuoto 
e  senz'alcun  ornamento.  Una  semplice  stanzetta  chiusa  con  porta, 
e  senza  un  emblema  od  un  ricordo  della  sua  antica  destinazione, 
formava  la  cripta  del  Santo  anacoreta;  ond'io  trovatala  piu  pulita 
della  camera  che  mi  avevano  assegnata  per  dormire,  dissi  loro  che 
preferiva  passar  la  notte  li  dentro,  a  fin  di  soddisfare  meglio  la  mia 
devozione.  A  dir  il  vero,  feci  questa  sceita  non  solo  per  evitare  le 
cimici,  di  cui  il  monastero  era  straordinariamente  infestato;  ma  per 
avere  agio  di  conferire  piu  liberamente  con  Michelangelo,  ed  anche 
per  potermi  chiudere  la  notte  di  dentro,  e  cosi  liberarmi  da  visite 
poco  convenient!  e  poco  cristiane! 

1 8.  Poscia  fui  condotto  nella  sala  di  conversazione;  era  questa 
un  grande  stanzone,  dove  i  monad  passavano  la  giomata  e  quasi 
meta  della  notte  a  fumare,  a  chiacchierare  e  a  divertirsi.  Un  basso 
divano  occupava  la  lunghezza  delle  due  pareti  laterali,  su  cui  sede- 
vano  i  monaci,  ed  un  seggiolone  con  altre  sedie  a  lato,  posti  nelia 
parete  di  prospetto1  alia  porta,  erano  riservati  alPabbate  ed  agii  altri 
superiori.  NelPangolo  a  destra  della  porta  vi  era  una  gran  cesta 
piena  di  tabacco  da  fumo,  ed  alia  parte  opposta  un'altra  con  pipe 
di  diversa  forma  e  lunghezza,  in  mezzo  poi  un  gran  vaso  di  terra 
cotta  con  fuoco  sempre  acceso.  Questa  saia  serviva  anche  per  la 
scuola  e  per  io  studio:  ma  in  dodid  giorni  che  mi  fermai  i£  mm  vidi 
mai  nessuno,  ne"  a  studiare,  ne  a  fare  scuola.  Avendo  donundato 
quanti  maestri  vi  fossero  —  Due  soli,  —  mi  risposero  —  uno  per  la 
lingua  araba  ed  uno  per  la  lingua  copta.  —  Mi  venne  allora  il  desi- 
derio  d'imparare  con  quest*occasiooe  almeno  Falfabeto  o>pto,  e 
domandai  chi  ne  fosse  il  maestro :  ma  saputo  ch'era  assente  da  due 
mesi,  e  che  la  sua  sdenza  si  limitava  a  saperla*  appena  leggere,  ne 
dismisi  il  pensiero.  Non  deve  far  meraviglia  tanta  ignoranza;  poich6, 
come  essi  stessi  mi  dicevano,  non  solo  Tignorava  Fabbate,  ma  anche 
il  patriarca  ed  i  vescovi  copti  medesimi.  Li  pregai  inoltre  di  farmi 
vedere  la  biblioteca,  e  mi  condussero  in  una  stanza,  dove  quattro  o 
cinque  cestoni  contenevano  disordinatamente  mucchi  di  libri  tutti 
impolverati.  Erano  pcrgan^ne  in  lingua  araba  e  copta,  e  varii  libri 

i.  di  prospetto:  dirimpetto.     2.  s&perla:  la  omoordanza,  anzid^  gramma- 
tkak  ccm  af/abeto,  avvrac  am  il  sottinteso  « lingua 


760  GUGLIELMO   MASSAJA 

liturgici  in  lingua  araba.  Certamente  dovevano  trovarsi  libri  pre- 
ziosi  tra  quei  vecchiumi;  quantunque,  secondo  che  essi  mi  dice- 
vano,  ne  fossero  stati  comprati  alquanti  da  un  francese,  capitato 
&  qualche  tempo  prima. 

19.  Per  cattivarmi  maggiormente  la  lore  benevolenza  e  render- 
meli  obbligati,  domandai  se  in  monastero  si  fosse  trovata  qualche 
cosa  da  comprare,  come  acquavite,  carne  ed  altro,  per  offrir  loro 
un  segno  della  mia  gratitudine  e  riconoscenza  delle  accoglienze  e 
cortesie  ricevute :  ed  avendomi  tutti  risposto  con  trasporti  di  gioia, 
che  presso  il  procuratore  avrei  potuto  comprare  Pacquavite :  —  Eb- 
bene,  —  dissi  —  dimani  mattina  accetterete  questo  primo  segno  di 
mia  affezione.  —  Giunta  Tora  di  cena,  mi  portarono  pane,  datteri, 
uva  fresca  ed  un  piatto  di  maccheroni.  II  pane  era  molto  buono, 
perci6  mi  contentai  di  mangiar  solo  quello  con  uva  e  datteri,  e  ri- 
mandai  i  maccheroni,  che  certamente  non  venivano  da  Napoli,  di- 
cendo  che  un  pellegrino  &  obbligato  sempre  a  fare  qualche  asti- 
nenza.  Michelangelo,  cui  gia  aveva  potuto  manifestare  segretamente 
i  miei  disegni,  mentre  si  cenava,  tra  un  discorso  e  Paltro,  mi  fece 
intendere  che  desiderava  confessarsi ;  giacche  da  due  anni  non  aveva 
piti  ricevuto  sacramenti.  Ma  essendo  difficile  che  i  monaci  ci  aves- 
sero  lasciati  soli,  ed  io  non  volendolo  ammettere  nella  mia  stanza, 
per  non  suscitare  gelosie  e  sospetti ;  si  convenne  che  quella  notte, 
adducendo  il  pretesto  del  gran  caldo,  avrei  prescelto  di  passarla  in 
giardino;  e  cosi  ad  una  data  ora,  mentre  gli  altri  dormivano,  noi 
avremmo  potuto  comodamente  far  tutto. 

20.  Finita  la  lunga  conversazione,  alcuni  monaci  si  ritirarono 
alle  loro  stanze;  kddove  altri  vollero  restare  con  me  in  giardino. 
II  che  mi  mise  alquanto  in  impiccio,  non  solo  per  ci6  che  avevamo 
stabilito  di  fare  con  Michelangelo,  ma  anche  perche  non  piacevami 
di  notte  la  loro  monacale  compagnia.  Quanto  aveva  inteso  e  veduto 
fare  al  monachello  lungo  il  viaggio  per  S.  Antonio,  mi  aveva  dato 
sufficiente  conoscenza  della  loro  moralital  Tuttavia,  fatti  al  propa- 
gandista  alcuni  segni  convenzionali,  ci  mettemmo  a  riposare.  II 
buon  giovane  passo  la  notte  a  prepararsi,  per  fare  bene  la  sua  con- 
fessione:  e  ad  una  cert'ora,  assicuratosi  che  i  compagni,  stanchi 
delk  baldoria  fatta  sino  a  tarda  sera,  se  ne  stavano  immersi  nel 
soiMK>,  venne  a  chiamarmi;  e  condottomi  un  po*  lontano,  come  per 
a«xx>mpagnarmi  ad  un  atto  necessario,  fece  la  sua  confessione. 
Poveretto!  Alzatosi  dai  miei  piedi,  disse  che  provava  una  gioia 


MISSIONE   NELL'ALTA    ETIOPIA  761 

indicibile,  e  tutto  queilo  che  era  accaduto  sembravagli  un  sogno  : 
poich6,  condotto  e  chiusa  forzatamente  II  dentro,  aveva  perduto 
ogni  speranza  di  ricevere  dal  Signore  una  simile  grazia.  Parlato 
poscia  dei  nostri  affari,  e  mes&ici  d'accordo  sul  modo  di  regolarci  e 
sui  mezzi  per  raggiungere  Tintento,  ritornammo  al  nostro  posto, 
e  ci  mettemmo  a  dormire.  Prima  che  uscisse  il  sole  mi  alzai,  e  ri- 
tiratomi  nella  cripta  di  S.  Antonio,  quieto  e  tranquillo  potei  reci- 
tare  il  breviario  e  le  altre  mie  solite  preghiere. 

21.  Mentre  mi  tratteneva  nella  cripta  in  devote  meditazioni,  sen- 
tiva  fuori  un  baccano  indescrivibile  :  erano  i  monaci  che  comincia- 
vano  a  fare  baldoria,  perche  si  awicinava  Pora  della  colazione,  e  gia 
sentivano  Todore  delFacquavite.  Essendo  pronta  ogni  cosa,  vennero 
alcuni  a  bussare  fortemente  alia  porta,  invitandomi  con  premura  di 
andare  nella  sala,  dove  tutti  mi  attendevano.  Giuntovi,  venne  ap- 
prestato  loro  abbondantemente  a  mie  spese  caffe,  zucchero  e  tre 
bottiglie  di  acquavite  :  a  me  portarono  uva,  datteri  e  due  eccellenti 
pagnottelle,  che  mangiai  con  grande  appetito.  Queste  pagnottelle, 
che  sono  di  una  finezza  e  cottura  particolare,  mi  si  regalavano  da  un 
vecchio  monaco,  chiamato  Maestro  gerente,  il  quale  faceva  le  veci 
dell'abbate  Daud,  mandato  in  Abissinia  a  predicare  la  crociata 
contro  Abuna  Messias.1  Oh  se  avessero  conosciuto  che  Abuna 
Messias  stava  nelle  loro  mani!  E  poich6  si  sapeva  che  oltre  la  cola 
zione,  avrei  dato  loro  un  pranzo,  J  monad  non  capivano  in  loro 
stessi  per  Pallegrezza,  ed  era  un  continue  gridare:  —  Ewiva  il  si- 
gnor  Bartorelli,  ewiva  il  signor  Giorgio.2  —  lo  per6  pensava  che  a 
quegli  osanna  avrebbe  potuto  facilmente  succedere  il  crudfige! 

22.  Dopo  la  colazione  si  convenne  di  fare  quelk  mattina  unt  gita 
alia  montagna,  e  dieci  monaci  mi  vollero  accompagnare.  Ci  voile 
una  buona  mezz'ora  per  e^ere  cakti  giu  ad  uno  ad  uno  dalla  fin«- 
stra  della  cinta.  Finalmente  ci  mettemiBO  in  cammino,  ed  in  mcno 
di  un  quarto  d'ora  si  arriv6  alia  cima,  donde  Tocchio  poteva  spa- 
ziare  su  di  un  vasto  orizzonte,  ma  tutto  sterile  e  deserto.  Restai 


1.  Abfata  M&sias:  con  tak  IK«IIC,  sernbra  per  dileggto  e  ktHik,  il  vescovo 
copto  Abtina  Saiama  aveva  iitdkato  il  Mstssaja  neila  scomuniot  che  gli 
aveva  knckto.  Tale  notne  rknase  poi  al  Massaja  in  tutta  FAbminia,  ma 
coo  vafore  di  elogio  e  afumirazkHK.  II  vocabolo  Aintmi  equivak  a  *  vescovo  ». 

2.  B&rtwM  .  .  .  Gi&rgio:  per  superare  1'oppcmzJooe  e  gli  ostaoc^i  del  ve- 
scovo  copto,  e  poter  raggiungere  k  terra  dei  GaUa  attra  verso  T  Abissinia,  il 
Ma^aja  aveva  assunto  il  nome  di  Giorgio  Bartorelli,  fingendosi  un  mer- 
caete.  Lo  pseudonimo  scetto  era  il  casato  deila  madre. 


762  GUGLIELMO    MASSAJA 

meravigliato  nello  scorgere  a  levante  tracce  abbastanza  chiare  del 
Mar  Rosso;  ed  i  monaci  mi  dicevano  che  in  giorni  piii  limpidi  si 
vedeva  in  confuso,  un  po*  piu  verso  il  nord,  anche  la  sommita  del 
Sinai.  Da  ci6  argomentai  che  la  montagna  di  S.  Antonio  doveva 
trovarsi  piu  vicina  al  Mar  Rosso  che  al  Nilo ;  molto  piu  che  da  quel 
punto  non  appariva  traccia  di  sorta  di  questo  grande  fiume.  La 
forma  di  questa  montagna  e  bislunga,  da  sembrare  una  catena, 
di  circa  un  giorno  di  viaggio,  che  si  stende  verso  il  sud,  con  un  po* 
d'inclinazione  alFovest.  Alia  punta  nord  sorge  il  monastero  di 
S.  Antonio,  ed  alia  punta  opposta  quello  di  S.  Paolo.  Camminando 
circa  un  quarto  d'ora  sulla  sua  cresta,  si  giunse  ad  una  piccola  valle, 
in  cui  trovai  della  vegetazione.  I  monaci  mi  dicevano  che  da  prin- 
cipio  S.  Antonio  aveva  fissato  in  quel  luogo  il  suo  ritiro,  ed  ogni 
giorno  andava  alia  fontana  per  attingere  Pacqua.  Moltiplicatisi  po- 
scia  i  monaci,  e  stabilita  la  vita  comune,  ando  a  piantare  1'eremi- 
torio  vicino  alia  fontana,  dove  fu  poi  innalzato  Tattuale  monastero. 
Ritornati  indietro,  prima  di  scendere  la  montagna  volli  delineare 
alia  meglio  la  pianta  del  monastero  e  del  giardino,  che  da  quel 
punto  si  vedevano  in  tutta  la  loro  maesta  e  grandezza. 

23.  Discesi  e  rimontai  al  solito  per  mezzo  della  corda,  volli  misu- 
rare  la  lunghezza  di  un  lato  del  muro  di  cinta,  e  contai  centosessanta 
passi  ordinarii.  Indi  mi  feci  condurre  alia  fontana,  e  trovai  una  vasca 
grande  ed  irregolare,  per6  abbastanza  ben  fatta,  avuto  riguardo  a 
quei  luoghi,  che  poco  si  curano  di  arte.  L'acqua  usciva  di  sotto 
uno  strato  rossiccio  di  arena,  simile  alia  pozzolana  di  Roma:  non 
potei  calcolarne  il  getto,  perche"  veniva  fuori  sparpagliata  in  varie 
vene;  ma  doveva  essere  un  gran  volume,  poich6,  non  solamente 
bastava  per  gli  usi  del  monastero,  ma  anche  per  irrigare  il  giardino. 
Presane  un  poco  col  concavo  della  mano,  la  trovai  freschissima,  e 
riempitone  poscia  un  bicchiere,  era  limpidissirna  come  il  cristallo. 
Voleva  beveria:  ma  tutti  i  monaci  si  opposero,  dicendo  che  mi 
avrebbe  fatto  male.  —  E  voi  dunque  quale  acqua  bevete  ?  —  do- 
mandai.  —  Questa,  -—  risposero  —  ma  prima  la  mettiamo  in  alcuni 
grandi  vasi,  vi  mescoliamo  una  certa  medicina,  e  dopo  tre  giorni 
la  cominciamo  a  bere.  —  E  se  la  beveste  naturale  che  cosa  awer- 
rebbe?  —  Allora  uno  di  essi  accostandomisi  all'orecchio,  mi  disse 
confidenzialmenfce:  —  Dopo  qualche  tempo  la  persona  che  la  be- 
vesse  diventerebbe  donna! 

24.  Troncai  subito  il  discorso,  ed  il  primo  momento  ch'ebbi  li- 


MISSIONS   NELL'ALTA  ETIOPIA  763 

bero,  domandai  a  Michelangelo  la  spiegazione  di  questo  segreto, 
ed  anche  della  parola  datma%  che  pure  il  monacheHo,  rnio  compagno 
di  viaggio,  aveva  pronunziato  la  notte  che  ci  eravamo  fermati  nel 
deserto,  senza  che  io  la  potessi  capire.  Ed  egli  me  la  diede:  ma, 
come  ho  detto  innanzi,  si  brutta,  che  e  meglio  non  parlarne.  Mi 
racconto  inoltre  tante  storie  su  questo  proposito,  ripetute  tradi- 
zionalmente  da  quei  monaci;  e  tra  le  aitre,  la  credenza  che  S.  An 
tonio  abbia  miracolosamente  infu&a  una  tal  virtu  a  quell'acqua, 
affinche'  i  suoi  monaci  non  cercassero  donne.  « Povero  S.  Antonio, 
qual  figura&  dissi  io  allora  «ti  fanno  rappresentare  questi,  che  me 
glio  dovrebbero  chiamarsi  figli  della  Pentapolib1  Pregai  Miche 
langelo  di  farmi  vedere  quella  medicina,  e  portatamela,  vidi  non 
esser  altro  che  una  certa  cenere,  la  quale  si  vendeva  in  Cairo  da 
un  famoso  fakiro,  e  serviva,  secondo  iui  ed  i  suoi  credenzoni,  ad 
ecchare  le  passioni.  II  diavolo,  per  abbas&are  e  togliere  Tidea  della 
castita  in  mezzo  a  quei  popoli,  divenuti  simili  alle  bestie,  inainu6 
simili  pregiudizii  ed  imposture:  e  per  veriti  non  pu6  dirsi  che  non 
sia  riuscito  nel  suo  intento.  Poiche  in  Abis&inia  giovani  e  vecchi 
prendevano  medicine  per  calmare  le  passioni  e  farsi  monaci:  in 
S.  Antonio  in  vece  si  faceva  il  contrario.  Tra  i  Galia,*  popoli  non 
guasti  dalFeresia  e  dairislamismo,  questi  stupidi  pregiudizii  non  si 
conoscevano;  e  la  virtu  ed  il  vizio  si  chiamavano  col  loro  vero  nome, 
ed  erano  seguiti  e  detestati,  per  quanto  su^eriva  loro  il  sentimento 
della  legge  naturale.  Ma  non  era  cos!  tra  i  figli  deH*eresia  e  di  Mao- 
metto:  anzi,  capitando  e^i  tra  i  Galla,  e  vedendo  i  nostri  giovani 
mantenersi  casti  e  di  morigerati  costumi,  dicevmno  che  ci6  aweniva 
per  la  virtu  di  certe  medicine  che  loro  davamo!  ed  in  certo  qual 
modo  non  dicevano  male;  poiche1  la  loro  continenza  dovevasi  alia 
pura  medicina  del  Vangelo  ed  alle  carni  immacolate  di  Gesu  Cristo. 

i.  II  Massaja  allude  alia  PemtopoU  (cinque  citta)  di  cui  narrm  la  Bibbia 
e  che  comprendeva  le  citti  di  Sodo^na,  Grocnorra,  Adamo,  Scheim  e 
Segor.  Msdedette  per  i  loro  vizi,  furtmo  distrutte  dal  fuoco  celeste,  fuor- 
cM  Segor,  salvata  dalle  preghiere  di  Lot.  2.  I  Galla  occupavaoo  larghe 
zone  delP Africa  orientale.  Suddivisi  in  varie  tribii  (Gimmo,  Ghera,  Lim- 
mu,  ecc.),  formavano  piccoli  regni  ereditari.  Ermno  dediti  prevaientefneote 
alia  pastorizia,  Pagani  o  mussulmani,  si  convertirDno  poi  in  gran  nuraero, 
I>er  opera  del  Massaja,  al  cattolicesimo.  Ai  tempi  deli*im|>er»tore  Teodoro 
(vedi  le  note  sap.  77ie2ap.  772),  ce^ata  la  loro  potema  politka  in 
Abissinia,  i  Galla  furono  assoggettati  all 'au tori ta  del  negus,  e  noo  acqui- 
starono  piii  Fantica  indipendenza.  La  attiviti  missiouaria  del  Massaja  s'in- 
dirizzava  a  quelle  tribii  galk  che  dinioravaiiG  fra  k  sorgeuti  del  Nilo  Az- 
zurro  e  del  Nilo  Bianco. 


764  GUGLIELMO   MASSAJA 

25.  Una  sorgente  simile  scaturiva  all'altra  punta  della  montagna, 
dove  era  fabbricato  il  gran  monastero  di  S.  Paolo.  Ed  io  credo  che, 
se  non  i  due  santi  anacoreti,  la  Provvidenza  di  certo  miracolosa- 
mente  ve  le  facesse  scaturire,  per  rendere  abitabili  quegli  immensi 
deserti  e  sterili  pianure.  E  per  verita  hanno  del  prodigioso  quelle 
acque  che  sgorgano  da  una  montagna  secca,  e  giammai  visitata  da 
pioggia.  Non  possono  essere  che  vene  di  acqua  venute  su  da  una 
profondita  grandissima:  ne  si  pu6  supporre  che  abbiano  origini 
da  altre  montagne  vicine;  poich£  le  montagne  che  regolarmente 
ricevono  piogge,  e  danno  sorgenti  di  acqua,  distano  da  S.  Antonio 
e  da  S.  Paolo  parecchie  centinaia  di  leghe. 

DIVERTIMENTI   E  LIBERAZIONE1 

Verso  sera  giunsero  al  monastero  alcuni  beduini  con  capre  e  for- 
maggetti  da  vendere:  ed  i  monaci  corsero  tosto  ad  awisarmi  della 
bella  occasione  per  fare  il  pranzo  promesso.  Vi  andai  con  Michelan 
gelo,  e  trovandole  ben  grasse,  ne  domandammo  il  prezzo.  Chiesero 
dieci  piastre  per  ciascuna  capra,  cioe  tre  per  uno  scudo :  ed  avendo 
offerto  loro  mezza  ghinea  inglese  per  tutto,  cioe,  per  capre  e  for- 
maggi,  da  prima  mostrarono  non  esser  content! ;  ma  poi,  ascoltando 
anche  le  premurose  insistenze  dei  monaci,  ce  le  cedettero,  con  gran- 
de  gioia  di  quei  figli  di  S.  Antonio.  Con  queste  liberalita  io  mirava 
a  distogliere  la  loro  attenzione  da  ci6  che  intendeva  fare,  per  libe- 
rare  Michelangelo;  a  rendermeli  inoltre  confident!,  per  meglio  stu- 
diare  la  loro  vita  ed  i  loro  costumi ;  e  nel  tempo  stesso  ad  affezio- 
narmeli,  per  parare  nel  caso  un  qualche  brutto  tiro,  che  mi  avreb- 
bero  potuto  fare:  poich6,  guai  a  me  se  avessero  subodorato  un  mi- 
nimo  che  della  missione  ch'era  andato  a  compiere;  quei  figli  di 
Dioscoro,2  dominati  da  brutali  passioni,  e  senza  neppur  segno  di  ti- 
more  di  Dio,  sarebbero  stati  pronti  a  commettere  qualunque  ec- 
cesso.  Questa  liberalita  intanto  mi  fruttava  da  parte  loro  regali  in 
abbondanza,  segnatamente  di  uva,  di  frutti  del  giardino  e  di  quelle 
buone  pagnottelle. 

z.  La  domenica,  terzo  giorno  del  mio  arrivo,  si  portarono  tutti 
in  chiesa  per  assistere  alia  Messa,  celebrata  secondo  il  rito  copto, 

I.Ed,  cat,  voL  H,  cap.  HI,  pp.  33-41.  2.  figli  di  Dioscoro:  seguad  del 
pastriarca  Dioscsoro  <li  Alessandria,  che  nel  concilio  di  Efeso  del  449  favorl 
il  trioiifo  deHa  dottrma  di  Eutidie  (vedi  la  nota  zap.  772),  e  di  conseguen- 
za  fu.  deposto  ed  esiliato  dal  nuovo  concilio,  tenutosi  nel  45 1  a  Calcedonia. 


MISSIONE   N£LL*ALTA   ETIOPIA  765 

con  qualche  canto,  che  io  aveva  inteso  al  Cairo »  e  con  accompagna- 
niento  di  campanelli  e  del  triangolo,  soli  strumenti  musicali  da  loro 
usati.  Vi  assistevano  tutti  in  piedi  col  bastone  in  mano,  come  gli 
ebrei;  ed  io  dalla  porta  della  cripta  o&servava  ogni  co&a,  avendo 
accanto  Michelangelo,  che  mi  dava  di  tutto  la  spiegazione.  Avrei 
avuto  aneh'io  il  desiderio  di  celebrar  Messa,  ed  il  buon  Michelan 
gelo  di  comunicarsi :  ma  oltre  la  difficolta  di  trovare  un'ora  libera, 
vi  era  Faltra,  di  non  tenere  presso  di  me  gli  oggetti  necessarii. 
Laonde  consigliai  il  buon  giovane  ad  unirsi  meco  in  ispirito,  per 
assistere  col  cuore  e  col  desiderio  alia  Messa  cattolica.  In  tutto  il 
tempo  che  dimorai  in  S.  Antonio,  non  vidi  altro  atto  religioso  che 
la  celebrazione  e  Fassistenza  alia  Messa,  se  non  erro,  due  o  tre 
volte;  del  resto  nessun  esercizio  di  pieta,  non  coro,  non  letture  spi- 
rituali,  non  orazione,  neppure  le  preghiere  della  mattina  e  delk 
sera.  Finita  la  Messa  gettarono  a  terra  i  bastoni,  e  corsero  a  ricevere 
due  pagnottelle  per  ciascuno,  che  solevano  distribuirsi  sempre  dopo 
la  Messa;  e  poscia  u&citi  fuori,  chi  le  mangiava,  chi  le  vendeva,  e  chi 
le  scambiava  con  altri  oggetti.  Io  ne  comprai  alquante,  e  con  quelle 
che  mi  furono  regakte,  ne  radunai  una  trentma.  Pesava  ciascuna 
circa  quattro  once,  ed  erano  esse  il  mio  preferito  cibo  giornaliero. 

3.  Un  giorno  niostrai  il  desiderio  di  assistere  in  refettorio  al  loro 
desinare,  e  mi  fu  permesso.  Come  ho  detto,  esso  era  assai  lungo  e 
stretto,  e  con  una  sola  tavola  di  aiaba&tro  in  mezzo,  a  cui  i  monaci 
sedevano  dalFuna  e  daU'altra  parte.  Ciascuno  si  aveva  una  scodelia, 
una  bottiglia  di  acqua,  un  bicchiere  di  terra,  un  coltello  ed  un  cuc- 
chiaio,  Sedevano  divisi  a  dieci,  ed  uno  di  essi  k  faceva  da  capo: 
al  quale  si  portava  una  marmitta  piena  di  mi&estra,  che  distribuiva 
alia  sua  decina;  pc^cia  si  dava  a  ciascuno  un  pezzo  di  came,  ed  una 
pagnotta  di  circa  una  libra,  e  nei  mercoledi  e  venerdi,  in  vece  delk 
carne,  si  pa^ava  un  piatto  di  lenticchie  o  di  fave.  Non  facevano 
preghiere»  n^  prima  n6  dopo  il  pranzo ;  solo  in  principio  si  segnavano 
col  pollice  alia  fronte,  alk  bocca  ed  al  petto  senza  dir  nulk :  n^  vi  era 
lettura,  come  costumasi  in  tutte  le  o>munita  religiose;  ma,  man- 
giando,  si  chiacchierava  e  si  faceva  baccano,  come  in  una  ttverna. 
Finite  il  pranzo,  tutti  si  alzavano,  eccetto  i  superior!  ed  i  capodecina. 

4.  Usciti  di  refettorio,  ci  recammo  alia  sala  di  ojnversazionc,  Io 
fui  fatto  scdere  a^xanto  al  seggiolone  ckiratmte,  dove  aveano  posto 
i  sottosuperiori  ed  i  piu  vecchi.  Alcuni  giovani  monaci  distribuirono 
le  pipe,  lunghe  un  metro,  poscia  il  tabacco  ed  il  faoco,  e  si  comin- 


766  GUGLIELMO    MASSAJA 

ci6  a  fumare  come  tanti  turchi.  Quel  giorno  per  mio  rispetto  vol- 
lero  dare  un  divertimento  particoiare,  e  stese  delle  stuoie  per  terra, 
presero  a  rappresentare  una  commedia.  Dalle  parole  capiva  ben 
poco,  ma  dai  gesti  e  dagli  atti  sconci,  con  cui  1'accompagnavano, 
m'accorsi  che  non  doveva  essere  per  nulla  morale.  Si  and6  tant'oltre 
in  quelle  sconcezze,  che  ad  un  certo  punto  fin  tentato  di  andarmene 
via;  e  cio  che  piu  mi  faceva  stizza  era  il  vedere  quei  vecchioni  ana- 
coreti  ridere  saporitamente  alle  oscenita  che  si  rappresentavano. 
Sulla  barca  aveva  veduto  i  marinari  trastullarsi  con  simili  atti,  e 
nessuna  meraviglia  mi  aveano  fatto,  perch6  sapeva  benissimo 
ch'erano  tutti  mussulmani;  ma  vederli  poi  rappresentati  dai  figli 
di  S.Antonio,  dagli  anacoreti  del  deserto,  non  a  meraviglia  fui 
mosso,  ma  a  schifo  ed  orrore.  Poveri  eretici! 

5.  Dovendo  finalmente  dare  il  mio  pranzo,  dissi  che  desiderava 
farlo  piuttosto  nel  giardino  che  in  refettorio,  dove  un  fetore  insof- 
fribile  moveva  a  nausea  al  primo  mettervi  il  piede.  Fu  accettata  la 
mia  proposta,  e  si  fisso  il  giovedi  seguente,  Intanto  i  giovani  pieni 
di  entusiasrno,  scelto  il  luogo,  cominciarono  a  disporre  ogni  cosa: 
piantati  grandi  pali,  vi  misero  sopra  canne  e  foglie  di  palma,  e  for- 
marono  un  capannone,  capace  di  contenere  tutti  quanti.  Stesero  po- 
scia  per  terra  delle  stuoie,  e  giunto  il  giorno  e  Fora,  ci  recammo  a 
quella  tavola  campestre.  Non  si  dovea  mangiare  altro  che  carne  arro- 
stita  sui  carboni,  e  formaggio;  seduti  adunque  tutti  per  terra,  si 
diede  Passalto  a  quei  pezzi  di  capra,  con  un'avidita  ed  ardore,  che 
pareva  non  1'avessero  mai  gustata.  A  me  diedero  un  piatto,  un  col- 
tello  ed  una  forchetta:  ma  essi  mangiavano  all'araba,  cioe  strac- 
ciando  tutto  con  i  denti  e  con  le  mani.  Consumata  una  capra,  si 
portava  Faltra,  e  finalmente  comparve  Tultima,  cotta  intiera  al  for- 
no,  e  condotta  con  suoni  e  canti  si  no  alia  capanna  in  processione. 
In  un  batter  d'occhio  la  divorarono  come  se  nulla  avessero  man- 
giato.  In  fine  feci  portare  delPacquavite,  che  accrebbe  maggior- 
mente  la  loro  allegria:  e  dopo  aver  fatto  strazio  di  tutto,  si  concluse 
il  pranzo  con  la  pipa,  e  con  un'altra  commedia  piu  libera  e  piu  sto- 
machevole  della  prima. 

6.  Erano  gia  otto  giorni  che  dimorava  in  S.  Antonio,  e  bisognava 
|mrtire.  I  tratti  di  liberalita,  usati  con  quei  monaci,  mi  avevano  cat- 
tivato  la  loro  benevolenza;  onde  poteva  trattenermi  con  piu  liberta 
a  discorrere  con  Michelangelo,  senza  destar  sospetti.  Egli  gia  avea 
compito  k  sua  confessione,  e  restava  col  desiderio  di  ricevere  Gesu 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIOPIA  767 

Sacramentato.  Rispetto  alia  fuga  si  convenne  che  in  niun  altro  modo 
avrebbe  potuto  riuscire,  che  ottcnendo  di  accompagnarmi  sino  al 
villaggio:  di  la  poi  con  maggior  facilit£  gli  sarebbe  stato  possibile 
fuggire,  e  riparare  al  Cairo  o  ad  Alessandria.  A  questo  scopo  pre- 
parai  le  lettere  di  raccomandazione  per  rnonsignor  Teodoro  Abu- 
carim,  per  monsignor  Delegate,1  ed  anche  pel  signer  Lemoync, 
console  generale  di  Francia,  affinche  giunto  in  Cairo  o  ad  Alessan 
dria,  principalmente  quest'ultimo  lo  prendesse  sotto  la  sua  prote- 
zione.  Fatto  ci6,  non  trattenendomi  alcun  altro  affare  al  monastero, 
risolvetti  di  partire :  ma  fui  costretto  fermarmi  altri  quattro  giorni, 
per  aspettare  la  partenza  della  carovana,  solita  a  portarsi  al  villag^io. 

7.  Un  giorno  mi  si  present^  un  monaco  dei  piu  vecchi,  e  mi  do- 
mand6  se  per  awentura  conosces&i  la  medicina.2  Gii  risposi  che  me 
ne  intendeva  un  poco;  ma  che,  non  avendo  portato  meco  alcun  far- 
maco,  non  poteva  occuparmene.  Allora  comincio  a  raccontarmi 
una  storia  si  lunga  dei  suoi  malanni,  che  non  la  finiva  piu.  II 
pover'uomo  era  afflitto  da  una  brutta  malattia.  —  Ma  che  posso 
farvi  io  ?  —  gli  dissi  finalmente.  Aliora  gettandomisi  ai  piedi,  e  strin- 
gendoli  e  baciandoli :  —  Abbiate  pieti  di  me,  —  diceva  —  io  son  per- 
duto,  non  sono  n6  uomo  n&  donna,  e  tutti  mi  fu^ono.  —  Voleva 
farsi  osservare :  ma  per  Jevarmelo  d'attorno,  gli  dissi  che  non  face- 
va  bisogno,  e  gli  promisi  che,  giunto  al  villaggio,  dove  teneva  il 
bagaglio,  gli  avrei  mandate  una  medicina,  che  immancabilmente  lo 
avrebbe  guarito.  Tuttavia  non  mi  iasciava  un  momento  tranquillo, 
e  mi  tenne  quattro  giorni  in  un  vero  martirio.  Quello  poi  che  piu 
mi  faceva  stizza  non  era  la  sua  noiosissima  insistenza :  ma  la  sma- 
nia  che  aveva  di  raccontarmi  cose  che  io  non  voleva  sentire,  ed  il 
lamentarsi  sempre  che  non  era  ne  uomo  ne"  donna! 

8.  Finalmente  giunse  il  giorno  della  partenza;  e  nulla  ancora  si 
era  potuto  fare  per  Michelangelo.  Tuttavia  io  non  disperava  di 
averlo  meco  nel  viaggio;  poiche,  quantunque  egli  si  trovasse  cotk 
tra  il  numero  di  coloro  ch*erano  sotto  vigilanza,  e  per  raffezione 
che  tutti  gli  portavano,  non  lo  perdes&ero  mai  di  vi&ta;  pure  la  stima 
in  cui  avevano  la  mia  persona,  ed  i  regali  loro  fatti,  quasi  sein- 
pre  per  mano  sua,  mi  facevano  sperare  che,  domandandolo  per 
compagno  sino  al  Nilo,  iK>n  me  lo  avrebbero  negate.  Per  meglio 
c^tenere  Tintento,  pensammo  di  rivolgerci  al  monaco  anomalato;  e 

i.  monsignor  Ddeg&to:  era  allora  vicario  e  delegato  ^o«tolico  per  FEgitto 
Perpetuo  Guasco.     2,  l&  medicina:  1'arte 


768  GUGLIELMO   MASSAJA 

facendogli  conoscere  che,  ritornando  dal  villaggio,  non  solo  gli 
avrebbe  riportato  il  medicamento,  ma  anche  la  regola  da  tenere 
nella  cura,  facilmente  si  sarebbe  impegnato  di  ottenerci  dal  supe- 
riore  e  dai  suoi  vecchi  colleghi  un  tal  permesso.  Intanto  nel  dubbio 
che  i  nostri  disegni  non  fossero  riusciti,  ed  egli  sarebbe  stato  co- 
stretto  restare  in  quel  luogo  dopo  la  mia  partenza,  gli  diedi  una 
sommetta  di  danaro  per  servirsene  a  fuggire  in  altra  maniera,  gli 
consegnai  le  lettere  di  raccomandazione,  e  lo  mandai  dal  monaco. 
I  nostri  desiderii  furono  appagati :  quel  povero  vecchio,  contento  e 
riconoscente  di  tanta  premura  che  ci  prendevamo  per  la  sua  salute, 
seppe  si  bene  perorare  presso  i  suoi  confratelli,  che  il  permesso  fu 
accordato, 

9.  La  carovana  essendo  pronta  a  mettersi  in  viaggio,  i  monaci 
raccolsero  tutte  le  pagnottelle  che  aveano  ricevuto  nelle  due  se- 
guenti  Messe,  e  me  le  offrirono  in  segno  di  loro  affezione.  Ed  io  alia 
presenza  di  tutti  consegnai  al  superiore  un  napoleone,  affinch6  lo 
spendesse  in  carne  ed  acquavite  per  quei  bravi  monaci.  Allora  il 
detto  superiore  mand6  a  cogliere  il  resto  dell'uva  che  si  trovava  nel 
giardino,  e  me  ne  riempirono  un  canestro,  per  mangiarla  lungo  il 
viaggio.  Non  credeva  che  dovessero  provare  tanto  dispiacere  per  la 
mia  partenza;  e  ne  fui  commosso  quando  vidi  che  molti  si  sepa- 
rarono  piangendo.  II  vecchio  monaco  ammalato  lottava  fra  due 
affetti,  quello  di  dolore,  perch6  vedevami  partire;  e  quello  di  alle- 
grezza  per  la  speranza  di  avere  la  medicina  e  risanare  della  sua  ma- 
lattia ;  e  perci6  ora  stringeva  i  piedi  miei  ed  ora  quelli  di  Michelan 
gelo,  augurandogli  un  presto  e  felice  ritorno.  Piu  della  meta  mi  vol- 
lero  accompagnare  per  un  lungo  tratto  di  strada,  e  mi  ci  voile  di 
tutto  per  farli  ritornare.  Nel  congedarmi  il  monaco  ammalato 
esckmd :  —  Questo  signore  non  &  n£  uomo  n6  donna,  —  e  diceva 
il  vero  secondo  il  senso  ch'essi  davano  a  queste  parole  —  ma  &  un 
angelo  venuto  dal  cielo,  per  portare  la  benedizione  alia  nostra 
comunita. 

10.  II  monastero  contava  circa  sessanta  persone;  dodici  dei  quali 
tenevano  i  diversi  ufficii,  ed  amministravano  le  rendite;  altri  dodici 
iibbidivano  direttamente  alFabate,  e  ricevevano  un  soldo  partico- 
lare,  perche  erano  addetti  al  servizio  della  comunita,  ed  infliggevano 
i  castighi  dati  a  ooloro  che  commettevano  mancanze.  Una  quindi- 
dm.  poi  vi  si  tenevano  rinchiusi  per  punizione,  mandativi  o  dai  ve- 
scovi  o  dai  genitori,  e  questi  erano  invigilati  severamente;  tutti  gli 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIQPIA  769 

altri  in  fine  erano  aspirant!.  Da  quanta  potei  osservare,  mi  ac- 
corsi  che  neppur  i'ornbra  dello  spirito  monastico  si  trovava  fra  di 
loro,  e  nemmeno  dello  spirito  evangelico  e  cristiano.  Tolta  qual- 
che  esteriore  apparenza  di  vita  monacale,  tenuta  piu  per  conservare 
la  casta,  o  la  nazione,  come  la  si  dice,  nel  resto  erano  peggiori  dei  piu 
depravati  secolari;  i  quali,  per  rispetto  alia  societa  in  mezzo  a  cui 
vivono,  hanno  pure  un  po*  di  pudore  e  di  ritegno:  ma  quegli 
eretici  in  veste  monacale  non  conoscevano  ne  ritegno,  n&  pudore. 
E  quindi  quel  luogo  destinato  alia  santita,  e  fatto  per  allevare  uo- 
mini  adorni  di  grazie  e  di  virtu,  era  ridotto  ad  un  ergastolo  per 
alcuni,  e  ad  una  scuola  di  brutali  immoralita  per  tutti.  Nessuna 
meraviglia  adunque  se  il  monastero,  un  tempo  si  straordinaria- 
mente  popolato  di  cenobiti,  allora  contava  un  si  sparuto  numero 
di  monaci.  L'eresia  lo  aveva  isterilito;  ed  i  pochi  aspiranti  che  vi 
accorrevano,  vi  andavano  piu  per  ambizione,  e  per  assicurarsi  un 
sostentamento ;  anziche  per  seguire  S,  Antonio  nella  via  della  pe- 
nitenza  e  della  virtu. 

ii.  Ritornati  i  monaci  al  monastero,  restammo  noi  due  soli  con 
tre  cammellieri  che  ci  accornpagnavano.  Non  comprendendo  questi 
la  nostra  lingua,  potevamo  parlare  liberamente:  e  quel  viaggio  in 
verita  fu  una  delizia:  due  giomi  e  due  notti  ci  parvero  due  ore.  II 
nostro  discorso  si  aggirava  sempre  sulla  sua  fuga,  e  sulle  cautele  da 
usarsi  per  non  mettere  a  rischio  ogni  cosa.  Egli  avrebbe  desiderato 
di  venire  con  me;  ma,  dovendo  io  viaggiare  per  paesi  popolati  in 
parte  di  copti,  la  sua  compagnia  sarebbe  stata  pericolosa  per  lui 
ed  anche  per  me.  —  II  miglior  partito  —  gli  dissi  —  e  quello  di  re- 
carti  in  Egitto,  e  presentarti  alle  persone  per  le  quali  ti  ho  date  le 
lettere.  Giunti  alPospizio,  affetterai  queiia  prudente  indiflFerenza 
che  hai  mantenuta  al  monastera,  per  non  isvegliare  sospetti,  e 
per  esser  piu  Hbero  a  cercare  un  mezzo  di  fuga:  indi,  partito  io, 
dopo  uno  o  due  giorni,  travestito,  fu^irai  di  notte,  costeggiando 
sempre  la  sponda  del  Nilo;  ed  incontrata  la  prima  barca,  se  pure 
non  ti  riusciri  di  accaparrarla  prima,  entrerai  in  essa,  pagando  qual- 
che  cosa,  ed  anche  adattandoti  a  fare  il  barcaiuolo,  finche  non  giun- 
gerai  al  Cairo.  Poscia  senza  entrare  in  citta,  dove  i  copti  sono  nu- 
merosi  e  potenti,  sopra  un*a!tra  barca  ti  porterai  direttonente  ad 
Alessandria:  ivi  presentandoti  con  le  mie  lettere  a  monsignor  De- 
legato  ed  al  console  generale  francese,  ti  lascerai  guidare  da  essi, 
e  ti  assicuro  che  tutto  andera  bene.  —  II  buon  giovaae,  riconoscendo 


770  GUGLIELMO    MASSAJA 

la  saggezza  di  questi  miei  suggerimenti,  si  acquetb  al  mio  consi- 
glio,  e  si  dispose  a  metterlo  in  esecuzione. 

12.  Dopo  un  felicissimo  viaggio,  la  mattina  del  terzo  giorno  era- 
vamo  a  vista  del  villaggio;  e  quei  monaci  avendo  gia  inteso  rela- 
zioni  della  mia  liberalita,  e  deiraffezione  con  cui  era  stato  trattato 
al  monastero,  mi  aspettavano  con  impazienza.  II  mio  arrivo  fu  per 
loro  come  quello  di  un  fratello;  poiche  non  mi  riputavano  piu  come 
un  pellegrino  od  un  forestiero,  ma  come  un  membro  della  famiglia. 
Mi  prodigarono  quindi  gentilezze  di  ogni  sorta,  e  volevano  assolu- 
tamente  che  restassi  a  pranzo  con  loro:  ma  preferii  meglio  ritirarmi 
nella  barca  che  lo  scitk,  da  me  awisato,  aveva  fatto  trovar  pronta, 
adducendo  la  scusa  che,  dovendo  presto  partire,  bisognava  allestire 
con  premura  le  mie  cose,  II  primo  pensiero  fu  quello  di  soccorrere 
il  povero  ammalato  del  monastero;  e  percio,  aperto  il  sacco  da  viag 
gio,  dove  teneva  la  mia  piccola  farmacia,  presi  una  trentina  di  pil- 
lole,  cornposte  con  lieve  dose  di  sublimate,  di  cui  mi  era  prowe- 
duto  in  Torino  alPospedale  de'  Cavalieri,  e  le  consegnai  al  superiore 
delfospizio.  Poscia,  fingendo  di  non  fidarmi  di  Michelangelo,  lo 
pregai  a  scrivere  esso  stesso  in  lingua  araba  il  metodo  da  tenersi 
nella  cura:  e  Michelangelo  poi,  ritornato  al  monastero,  avrebbe  ri- 
ferito  a  voce  altre  particolarita,  per6  segretamente.  In  quei  paesi 
caldi  la  sifilide  e  molto  piu  mite  che  tra  noi,  ed  &  piu  facile  a  cu- 
rarsi:  si  manifesta  piuttosto  cancrenosa  che  bubonica,  e  con  una 
mezza  dose  di  sublimate  si  ottiene  quasi  subito  la  guarigione. 

13.  Essendo  pronti  tutti  i  barcaiuoli,  feci  trasportare  il  bagaglio 
nella  barca;  e  presi  gli  ultimi  accordi  con  Michelangelo,  che  mo- 
stravasi  pieno  di  fiducia  e  di  speranze  per  la  sua  liberazione,  la  sera 
ci  recarnmo  alFospizio  per  congedarmi  da  quei  monaci  e  dallo 
$ci£k.  Pagate  al  superiore  alcune  spesuccie,  che  aveva  fatte  per  me, 
aggiunsi  qualche  moneta  di  piu,  pregandolo  di  comprare  qualche 
cosa,  e  mangiarla  con  gli  altri  per  amor  mio.  Indi  ci  abbracciammo, 
e  ritomai  alia  barca.  Verso  il  mattino  cominci6  a  spirare  un  venti- 
celio  favorevole,  sicch^,  leva^i  Tancora,  si  parti,  ed  alb  spuntar  del 
sole  avevamo  perduto  di  vista  il  villaggio.  Ma  1'animo  mio  era  in 
preda  md  una  grande  agitazione,  pel  passo  che  stava  per  dare  il  giova- 
nc  propagandista.  Temeva  che  non  riuscisse  a  fuggire,  o  che  poscia 
avesse  ad  incontrare  maggiori  guai  e  dispiaceri.  Da  parte  mia  intan- 
to  non  potei  fiare  altro  che  raccomandarlo  al  Signore  ed  alk  Vergine 

,  afiinch^  lo  assistessero  in  quei  pericoloso  cimento. 


MISSIONE   NELL'ALTA   ETIOPIA  JJl 

14.  Solamente  quattordici  anni  dopo  potei  avere  notizie  di  lui 
e  della  sua  fuga.  Egli  parti  di  notte,  come  si  era  convenuto,  cammi- 
nando  a  piedi  per  due  giorni  continui  :  trovata  po&cia  nella  citta  vi- 
cina  una  barca,  si  reco  al  Cairo,  e  di  lii  sul  vapore  giunse  in  Ales 
sandria.  Monsignor  Delegate  lo  tenne  qualche  giorno  na&co&to, 
finche  poi,  preso  dal  console  generak  francese  sotto  la  sua  prote- 
zione,  pote  con  lui  trasferirsi  in  Cairo.  Ivi  trov6  i  suoi  parenti,  i 
quali  gia  si  erano  convertiti  al  cattolicismo  :  e  ricevuto  in  casa  da 
monsignor  Abucarim,  fu  ordinato  saccrdote.  Ed  oggi  trovasi  an- 
cora  in  Cairo  col  nome  d'Abba  Potros  (Padre  Pietro),  e  lavora  con 
zelo  nella  Chiesa  del  Signore.  Nei  miei  viaggi,  passando  dal  Cairo, 
sempre  e  venuto  a  trovarmi;  ed  ogni  volta,  gettandomisi  ai  piedi: 
—  Voi  siete  —  esclama  —  il  mio  angelo  Hberatore! 


[FRA  i  PASTORI 

1  6.  Ifagh3  in  quel  tempo  e  sotto  il  regno  di  R&s  Aly3  era  il  centro 
di  tutto  il  commercio  dell'Abissmia.  Per  la  sua  po&izione  geogra- 
fica,  le  carovane  dovevano  nccessariamente  dirigersi  o  passare  pel 
suo  territorio,  tanto  quelle  del  sud-ovest,  che  per  la  via  Goggiim 
portavano  i  prodotti  dei  Galla,  quanto  quelle  del  sud-est,  che  ve- 
nivano  dallo  Scioa.  Quelle  inoltre  che  dalia  costa  di  Massauah 
portavano  le  mercanzie  straniere,  e  quelle  che  dalk  via  di  Metam- 
ma  e  del  Sudan  venivano  dalFovest  e  dal  nord,  facevano  necessaria- 
mente  stazione  in  Ifagh.  II  suo  clima  sempre  dolce,  e  la  sua  tempe- 
ratura  sempre  uguale  lo  rendevarto  i!  luo^>  piu  sano  e  piii  amem> 
di  tutta  TAbissima.  Posto  in  un'altezza  media,  e  ricco  di  acqua, 
i  suoi  terreni  producevano  ogni  sorta  di  cereali:  onde  vi  era  abbon- 
danza  di  grano,  di  bestiami  e  di  erba,  cose  tutte  necessane  ai 
viaggiatori  ed  alle  carovane,  che  devono  camminare  con  grande 
quantita  di  bestie  da  trasporto.  La  vicinanza  poi  del  kgo  Tsana,  lo 

1.  Ed.  cit.,  vol.  il,  dal  cap.  XI  (La  steg&me  delie  pi&ggis  in  Ifogk\  j^>.  132-5- 

2.  IJaghi  la  localiti,  che  si  trova  ad  est  del  tego  Tana,  fu  ra^iunta  dal 
Massaja  nell'agosto  del  1852,  ed  egli,  fcrmato  daile  pi<^ge,  vi  dinted  tcevc 
tempo,  pa^aB<k>  anche  quikfee  scttimana  nel  vicuao  territorio  abitato  daHe 
triHi  dei  Zelian,     3.  R&  Afy,  capo  di  una  famiglia  Galk  cfac  rktedcva 
a  Goodar,  era  allora  il  maggior  sovrano  delle  terre  deirAbis&tnia.  Cotitro 
di  lui,  dopo  una  iimurrezione  presto  dotnata  del  degiac  Ubie,  si  kv6  (iS4i 
circa)  un  uomo  di  umile  origiue,  Ka^a,  i!  futuro  Teodoro,  che  riusci  a 
scoafiggeiio,  a  entrare  trionfafite  a  GOCK^T  (1855)  e  a  scctomettere  e  uni- 
ficare  sotto  di  si  quasi  tutta  TAbissinia, 


77^  GUGLIELMO   MASSAJA 

prowedeva  abbondantemente  di  pesci,  cotanto  necessarii  a  quei 
popoli  per  i  lunghi  e  frequent!  digiuni,  cui  sono  obbligati.  Poco 
lontani,  si  trovavano  i  Zellan,  un  popolo  che  attendeva  alia  pasto- 
rizia,  e  che  possedeva  una  quantita  immensa  di  bestiame :  e  questi 
mandavano  giornalmente  in  Ifagh  carne,  latte,  formaggi  e  butirro 
per  poco  prezzo.  Piu,  il  governo  riguardava  questo  territorio  come 
iuogo  immune,  onde  i  soldati  non  potevano  restarvi  gran  tempo; 
il  che  favoriva  molto  la  sua  prosperita,  essendo  il  soldato  in  Abis- 
sinia  la  prima  piaga  dei  paesi. 

17.  Per  tutti  questi  motivi  la  citta  d' Ifagh  era  popolatissima; 
allora  contava  circa  dieci  mila  abitanti,  oltre  un  quattro  mila  che 
andavano  e  venivano  per  ragione  di  commercio.  In  questo  miscu- 
glio  di  cristiani  di  nome,  di  pagani,  di  mussulmani,  la  piu  parte  arabi 
fanatici  ed  immoralissimi,  lascio  considerare  che  sorta  di  corruzione 
vi  dovesse  dominare!  Era  una  cloaca  di  ogni  immondezza,  che  ap- 
pestava  chiunque  per  awentura  vi  fosse  capitate.  Ne  si  trovava  al- 
cuno  che  valesse  a  dire  una  buona  parola,  o  dare  un  buon  esempio; 
poiche*  quei  miserabile  clero  eutichiano1  era  piu  corrotto  del  popolo 
medesimo.  Povero  Ifagh!  Pochi  anni  dopo  non  esisteva  piu;  la  bar- 
bara  spada  di  Teodoro2  lo  avea  totalmente  distrutto:  e  net  1879^ 
passando  io  di  la,  neppure  vestigio  potei  vedere  dell'antica  citta. 
Le  sole  chiese  stavano  in  piedi  e  quasi  abbandonate! 

1 8.  In  questo  Iuogo  centrale  di  commercio  non  doveva  mancare 
il  traffico  delta  carne  umana,4  e  vi  si  faceva  spudoratamente  in 
grande.  II  messelenie5  del  Nagadaras  mi  diceva  che  piu  di  due  mila 
schiavi  stavano  registrati  in  dogana»  ed  una  gran  parte  stipati  in 

I.  clero  eutichiano:  clero  copto,  seguace  deU'eutichianesimo.  Eutiche  (378- 
454),  monaco  e  teologo,  aveva  sostenuto  la  presenza,  in  Cristo,  della  sola 
natura  divina.  I  suoi  seguaci,  eutichiani  o  monofisiti,  sono  numerosi  in 
Abissinia.  2.  Teodoro :  vedi  la  nota  3  a  p.  771 .  Teodoro,  per  Tatteggiamento 
preso  contro  i  rappresentanti  consolari  dell'Inghilterra,  provoc6  una  spedi- 
zione  inglese,  comandata  da  Sir  Robert  Napier,  cui  la  vittoria  frutt6  il  titolo 
di  Lord  Napier  of  Magdala.  Costretto  a  ritirarsi  a  Magdala,  vi  fu  assediato 
e,  quando  k  citta  fu  conquistata,  si  uccise  ( 1 868).  3.  nd  iSjg :  in  queH'anno 
ii  Massaja,  per  volonta  del  nuovo  imperatore,  Giovanni  IV  (1872-1889), 
fu  costretto  ad  allontanarsi  dallo  Scioa  e  a  tornare  definitivamente  in  Euro- 
pa  (vedi  il  Profilo  biografico).  Si  dissolvevano  di  conseguenza  i  tanti  centri 
di  civilta  cattolica  da  lui  creati  durante  il  suo  apKistolato.  4.  il  traffico  della 
came  umana :  il  commercio  degli  schiavi  era  allora  sviluppatissimo,  soprat- 
tutto  per  opera  delPelemento  mussulmano.  II  Massaja  si  occup6  moltissi- 
mo  di  cjuesto  barb^ro  costume,  richiamando  su  di  esso  anche  Tattenzione 
<^i  goveimi  europei.  5.  //  meudeml^  o  melasn&>  &  il  sindaco,  il  rappre- 
sentante  deirautorita  locale. 


MISSIONE   NELL'ALTA    ETIOPIA  773 

luride  capanne.  Volli  visitare  una  specie  di  fondaco  di  quests  mer- 
canzia  umana,  e  vi  andai  col  confessore  e  col  figlio  dello  stesso 
Maquonin.1  Entrati,  trovai  un  largo  reclnto,  sparso  di  capanne  di 
varia  grandezza,  tutte  sudicie,  mal  costrutte,  e  con  poca  paglia  per 
terra.  II  confessore  ed  il  giovane  si  accostarono  al  padrone,  e  gli 
parlarono  in  segreto.  Seppi  poi  che,  per  avere  maggior  liberta,  gli 
dissero  che  io  era  andato  con  intenzione  di  comperarne  alcuni :  il  che 
era  falso.  Ci  fu  offerto  il  caffe,  e  poscia  ci  mettemrno  a  visitare  al- 
cune  di  quelle  capanne.  Qual  vita  era  costretta  a  rnenare  in  quelle 
luride  stalle  la  creatura  piu  nobile  delPopera  di  Dio!  Gli  animali 
si  avevano  miglior  trattamento,  e  si  usava  loro  piu  compassione! 
Finalmente  mi  condussero  in  una  capanna,  in  cui  vi  stavano  rinta- 
nate  sei  o  sette  giovani  schiave,  che  al  nostro  apparire  si  rannic- 
chiarono  in  un  canto,  guardandoci  stralunate.  I  miei  compagni, 
come  se  fossero  due  mezzani,  le  cominciarono  ad  osservare  ad 
una  ad  una  con  tanta  libert&  e  spudoratezza,  che  rton  potei  tenermi 
dal  mostrar  loro  il  mio  disgusto;  e  lasciandoli  soli  cola,  me  ne  uscii 
tosto,  e  rni  allontanai  col  cuore  lacerato  per  la  sventura  di  quei 
miei  fratelli  e  sorelle,  ed  anche  stomacato  del  fare  punto  onesto  ed 
umano  di  quei  due  che  mi  tenevano  compagnia.  II  confessore  mi 
racconto  poscia  tante  cose  rispetto  a  quelle  povere  disgraziate;  e  fra 
le  altre  che  grimmondi  ed  ingordi  mercanti  fanno  un  doppio  nego- 
zio  di  quelle  misere  creature,  che  hanno  la  sventura  di  capitare  nelle 
loro  mani.  O  luce  del  Vangelo,  quando  illuminerai  tante  barbare  re- 
gioni,  e  porterai  in  mezzo  a  quei  popoli  la  iiberta  di  Gesu  Cristo  ? 
19.  Restando  in  Ifagh,  aveva  un  gran  timore  di  essere  ricono- 
sciuto,2  molto  piu  che  varie  ragguardevoli  persone  indigene  e  fore- 
stiere  venivano  continuamente  a  visitarmi,  quantunque  cercassi 
di  schivare  ogni  amicizia  e  corrispondenza  con  chicchessla.  Ad  evi- 
tare  pertanto  questo  pericolo,  che  mi  avrebbe  esposto  a  nuovi  e 
maggiori  guai,  risolsi  di  ritirarmi  presso  i  Zellan,  dove  sarei  stato 
piu  sicuro,  ed  avrei  potuto  fare  una  cura  di  latte  fresco,  di  cui  sen- 
tiva  gran  bisogno.  Intesomi  col  signer  Maquonen,  e  senza  neppur 
r^trlarne  al  confessore,  un  giorno  insieme  con  suo  figlk)  me  ne  par- 
tii,  portando  meco  il  solo  breviario,  un  po'  di  carta  ed  il  calamaio. 
Le  abitazioni  dei  2^ellin  erano  distant!  circa  tre  ore  di  cammino,  ed 

i,  M€»qucmtni  k  il  nome  dei  melasmt  di  Ifagh,  che  fu  ospitale  e  generoso 
col  Massaja,  e  il  cui  figlio  divenne  un  ardente  neofita»  COIBC  k  detto  neUe 
pagme  successive.  2.  tim&re  .  .  .  nctmo&cwto:  vedi  la  nota  2  a  p.  761. 


774  GUGLIELMO    MASSAJA 

arrivati,  il  giovane  mi  condusse  in  casa  di  un  ricco  pastore  amico 
di  suo  padre;  dal  quale  fummo  accolti  affettuosamente,  e  trattati  su- 
bito  con  un  vaso  di  latte  fresco.  Tosto  mi  prepararono  una  capanna, 
abbastanza  conxxk  per  me  ;  ed  il  giorno  dopo  il  gio  vane  se  ne  ritor- 
no  in  Ifagh,  promettendomi  di  venire  a  rivedenni. 

20.  Una  sessantina  di  persone  tra  padroni  e  schiavi  compone- 
vano  quella  famiglia,  divise  nelle  varie  mandre,  in  cui  tenevano  e 
pa&colavano  le  diverse  specie  di  animali.  Di  giorno  non  restavano 
in  casa  che  la  madre  ed  i  figli  di  minore  eta,  recandosi  gli  altri  alia 
guardia  del  bestiame,  ed  ai  servizii  della  campagna;  e  la  sera  si  riu- 
nivano  insieme  sotto  il  medesimo  tetto  alia  cena  ed  alia  conversa 
zione.  Parlavano  un  dialetto  proprio,  ma  conoscendo1  anche  la 
lingua  amarica,2  poteva  prender  parte  anch'io  ai  loro  discorsi,  II 
cibo  ordinario  era  il  latte,  quando  sciolto,  quando  coagulato,  e 
qualche  poco  di  carne;  piu,  pane  di  tief  (della  specie  del  miglio), 
il  quale  inzuppato  nel  latte  era  molto  buono  e  gustoso.  Inoltre  ag- 
giungendo  ad  un  cibo  si  semplice  qualche  tazza  di  caflfe  senza  zuc- 
chero,  che  avea  portato  meco,  me  ne  stava  1£  contento  e  tranquillo. 
Questa  famiglia  sola  possedeva  circa  due  mila  bestie  bovine,  oltre 
le  pecore  e  le  capre  :  eppure  con  tante  ricchezze  vedevate  in  quella 
casa  tale  ordine  e  semplicita,  che  sembrava  una  di  quelle  famiglie  pa- 
triarcali  che  leggiamo  descritte  nella  divina  Scrittura,  Sembrerk  in- 
credibile,  ma  6  pur  vero,  che  la  ma^ior  parte  di  essi  non  erano  mai 
stati  ad  Ifagh.  11  padre  e  la  madre  mi  dicevano  che  per  tutto  Toro 
del  mondo  non  avrebbero  mandati  i  loro  figli  in  citta,  dove  im- 
mancabilmente  sarebbero  stati  viziati  e  guastati  da  quella  gente. 
TalmentecM,  tranne  i  pochi  servi  adcletti  a  portare  ogni  mattina  il 
latte,  il  btitirro  e  la  came,  nessuno  si  acaMava  mai  alia  citli. 

21.  In  quanto  a  religione  pc^evaiK>  chiamarsi  piuttosto  pagani 
cbe  <rktiaai.  Non  ricevevaao  il  battesimo;  ma  conoscevano  i  fatti 
principal!  della  Bibbia,  e  priiidpataiente  deIl*Antico  Testamento, 
ed  aveinmo  anche  cogmzione  delle  feste  cristiane,  senza  per6  com- 
prendeme  il  mistero.  Ttitte  que^e  o^se  le  avevano  apprese  dai 
popoli  cristimiii,  vktno  ai  quali  dimoravano,  e  con  cui  erano  conti- 
nuamente  in  commercio.  Tratttndo  anche  con  i  mussulmani,  si 

p^ane  introdotte  pte^  di  loro  alcune  pratiche  maomettane: 


S.  cfm&tcmdo*.  potchc  es$a  ccrK»cevano.     2.  la  lingua  amarica  ;  la  lingua  uffi- 
"  ekrivata  dail'antico  etiopico  o  da  un  suo  dialetto,  e  di 

scfnitica»  rrta  coo  vane  infiltrazioni  e  miscugli. 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIOPIA  775 

sicche*  la  loro  religione  era  un  misto  di  paganesimo,  di  cristianesimo 
e  d'islamismo.  I  costumi  in  generate  corrispondevano  alia  sempli 
cita  della  loro  vita;  e  di  fatto  la  legge  del  matrimonio,  fonte  della 
prosperita  delle  famiglie,  era  fedelmente  e  costantemente  osservata, 
tanto  dal  padrone,  quanto  dai  servi:  ed  appena  si  acquistava  un 
nuovo  schiavo  o  schiava,  subito  si  dava  loro  una  compagna  od  un 
compagno,  che  solo  la  morte  poteva  dividere.  Vi  era  del  guasto 
nella  gioventu,  proveniente  piuttosto  da  ignoranza  che  da  malizia, 
e  dal  non  avere  una  voce  paterna  ed  autorevole  che  insegnasse  loro 
sin  dai  teneri  anni  dove  fosse  il  bene  e  dove  il  male.  I  cattivi  esempii 
poi  e  la  coabitazione  promiscua  di  giorno  e  di  notte  nelle  medesime 
capanne  erano  in  gran  parte  la  causa  deila  perdita  della  loro  inno- 
cenza:  poich6,  in  queste  occasions,  apprendevano  senz'accorger- 
sene  certe  umane  malizie,  che  svegliano  innanzi  tempo  le  naturali 
passioni.  Ne  i  genitori  usavano  quelia  diligenza,  e  mostravano  quel- 
la  severita  rispetto  aH'onesta  dei  giovani  che  veggiamo  fra  noi,  e 
che  la  legge  naturale  a  tutti  comanda.  Nella  loro  ignoranza  e  forse 
semplicita  credevano  che  certe  miserie  si  potessero  permettere  alia 
gioventu,  come  puerili  passatempi;  e  perdo,  non  che  custodirli  e 
riprenderli,  piuttosto  li  favorivano  e  vi  prendevano  sollazzo.  Era 
questo  tutto  il  male  che  ebbi  a  notare  fra  quelia  gente. 

APOSTOLATO  FRA  I  ZELLAN1 

Mi  accorsi  sin  dai  primi  giorni  che  quel  guasto  e  quei  disordini, 
da  me  accennati  piu  sopra,  e  che  deturpavano  principalmente  la 
gioventu,  non  provenivano  da  malizia,  ma  da  ignoranza;  e  quindi 
giudicai  che  un  po*  di  apostolato,  fatto  con  awedutezza,  con  carita, 
e  con  moderazione,  avrebbe  prodotto  buoni  effetti,  moito  piu  che 
alia  semplicita  univano  una  docilita  di  cuore  non  comune.  Mi  ri- 
volsi  pertanto  pria  di  tutto  ai  genitori,  e  mostrai  loro  il  danno  che 
ne  veniva  al  fisico  ed  al  morale  dei  loro  figli,  permettendo  ad  essi 
certi  atti  contrarii  alia  modestia  ed  alia  natura  medesima.  Feci  loro 
conoscere  la  sconvenienza  di  mettere  a  dormire  i  giovani  nelle  stesse 
capanne  in  cui  dormivano  i  maritati;  ed  inoltre  il  brutto  costume  di 
lasciare  negli  stessi  letti  Tuno  e  Taltro  sesso,  anche  quando  giun- 
gevano  ad  un'eta  un  po'  avanzata.  Narrai  loro  la  cautela  e  la  dili 
genza  che  sotto  questo  rispetto  si  suole  usare  nei  nostri  paesi  dai 
i.  Ed.  cit.,  vol.  n,  dal  cap.  xn,  pp.  136-41. 


776  GUGLIELMO   MASSAJA 

genitori,  ed  il  bene  che  se  ne  ricava  si  per  la  moralita,  si  pel  florido 
sviluppo  materiale  del  giovani.  Queste  esortazioni,  nuove  per  quella 
buona  gente,  fecero  una  qualchc  impressione  sull'animo  loro,  e  ri- 
conosciutele  savie  e  vantaggiose,  mi  promisero  di  metterle  in  pra- 
tica;  e  nel  tempo  stesso  mi  pregarono  d'insinuare  tali  buone  mas- 
simc  non  solo  ai  giovani,  ma  anche  al  resto  della  famiglia.  lo  non 
¥olli  altro,  contento  di  trovare  un  terreno  cosi  ben  disposto,  mi 
misi  all'opra,  sperandone  con  la  grazia  di  Dio  un  copioso  frutto. 

2,  In  pochi  giorni  di  paziente  e  paterno  apostolato  aveva  gia  ot- 
tenuto  molto ;  e  quei  giovani  non  solo  si  mostravano  docili  alle  mie 
parole,  ma  mi  si  erano  talmente  affezionati,  che  non  me  li  poteva 
togliere  da  canto.  II  piu  piccolo  dei  figli  principalmente  non  sapeva 
staccarsi  da  me  un  solo  momento;  egli  aveva  circa  quindici  anni, 
grazioso  d'aspetto  e  di  mente  svegliata,  e  di  un'indole  si  dolce  e 
mansucta  che  potevate  piegarlo  dovunque  si  volesse.  Si  chiamava 
Mel&k;  e  veramente  il  nome  gli  conveniva  perfettamente:  poiche' 
Melak  in  lingua  abissina  vuol  dire  angelo,  e  quel  caro  giovane,  tolta 
la  nerezza  della  pelle,  si  aveva  di  angelo  le  forme  ed  il  cuore.  Era 
tanto  avido  di  apprendere  il  bene,  che  non  solo  si  mostrava  assiduo 
ed  attento  a  tutte  le  istruzioni  ch'io  faceva  in  comune,  ma  voleva 
che  in  particolare  gli  raccontassi  esernpii  di  santi,  e  gFinsegnassi 
quelle  cose  che  avrebbe  dovuto  fare  o  tralasciare  per  diventar  buo- 
no.  In  pochi  giorni  aveva  gik  imparato  i  comandamenti  di  Dio,  il 
Pater  noster,  \*Ave  Maria,  e  qualche  parte  del  Credo;  le  quali  cose 
poscia  andava  a  ripetere  con  gioia  ai  genitori,  e  si  affaticava  inse- 
gnare  ai  suoi  fratelli  e  compagni. 

3.  Un  giorno  mentre  io  recitava  il  breviario,  Melak  corse  aifan- 
nato  da  me,  invitandomi  con  premura  a  seguirlo.  Andato,  trovai 
un  suo  fratello  maggiore  che  faceva  certi  atti  riprovevoli:  onde, 
preso  uii  t^tstone,  ini  diedi  a  minacciarlo  e  rimproverarlo.  Li  per  li 
intimorito  si  allontand  fuggendo,  ma  poi  awicinatosi,  mi  disse  con 
arroganza :  —  E  perch£  non  posso  fare  io  cio  che  fanno  le  pecore  e  le 
c^pre  ?  —  Figlk)  mio,  —  gli  risposi  —  fra  te  e  le  capre  vi  e  una  gran 
differenza:  tu  parli,  e  le  <^pre  non  parlano;  tu  ridi  e  piangi,  e  le 
capre  oe"  ridoiK>  a6  piangono :  esse  guardano  sempre  alia  terra,  in  cui 
tr0v»iK>  i  loro  godimenti,  e  tu  guardi  al  cielo,  dove  credi  che  ci  sia 
qualche  cosa  superiore  a  te,  di  cui  hai  bi^>gno,  ed  in  cui  spesso 
tnm  cxHift^to  e  sollievo.  Esse  inoltre  sono  stupide,  ed  han  bisogno 
di  uno  cbe  le  govern!  e  k  guidi;  laddove  tu  sei  intelligente,  e  fatto 


MISSIONS   NELL'ALTA    ETIOPIA  777 

per  governare  non  solo  le  capre  e  le  pecore,  ma  tutti  gli  altri  animali 
ed  esseri  che  sono  sulla  terra.  Esse  poi,  fatto  il  loro  tempo,  s'in- 
grassano,  e  poscia  vengono  ammazzate  e  mangiate  dall'uomo;  tu 
non  hai  questo  umile  destino.  Esse  insomma  sono  bestie,  e  tu  sei 
uomo.  Vorresti  adunque  assomigliarti  alle  capre  ?  saresti  contento 
se  ti  chiamassi  caprone?  ebbene,  continuando  ad  imitare  ci6  che 
fanno  le  pecore  e  le  capre,  tu  non  sarai  piu  un  uomo,  sarai  un  ca 
prone.  —  Melak,  ch'era  stato  presente,  ed  aveva  sentito  tutto  il  di- 
scorso,  corse  subito  dal  padre,  gridando:  —  Padre  mio,  io  non  voglio 
essere  caprone,  come  pel  passato,  perche  ora  comprendo  che  sono 
uomo.  —  Raccont6  poscia  con  ingenuita  e  schiettezza  tutto  cio  ch'era 
accaduto,  concludendo  sempre :  —  Io  non  voglio  essere  un  caprone. 

4.  I  genitori  intanto  persuasi  intimamente  delFutilit^  delle  mie 
esortazioni,  e  delle  verita  che  andava  ogni  giorno  insegnando,  ave- 
vano  gia  cominciato  ad  allontanare  tutto  ci6  che  avrebbe  potuto 
essere  d'incentivo  a  quelle  tenere  creature,  ed  una  riforma  totale 
si  era  operata  nella  casa.  II  padre  e  la  madre  e  le  altre  schiave  ma- 
ritate  dormivano  a  parte,  e  si  avevano  tolti  di  letto  le  figlie  ed  i  figli 
grandicelli,  come  costumasi  fra  noi  cristiani.  I  giovani  poi  dormi 
vano  separati  vicini  a  me,  e  le  giovanette  in  altra  capanna  con  una 
vecchia  schiava,  tenuta  in  casa  come  una  seconda  madre.  Non  si 
permettevano  piu  quelle  liberta  e  quelle  facezie,  che  prima  del  mio 
arrivo  erano  cose  usuali  fra  i  giovani,  e  si  aveva  cura  di  tener  sepa 
rati  i  piu  grandetti  anche  di  giorno,  occupandoli  in  servizii  materiali, 
e  piu  spesso  ad  ascoltare  le  mie  istruzioni,  ed  imparare  le  cose  per- 
tinenti  alia  Fede.  In  pochi  giorni  insomma  era  successo  in  quella 
famiglia  un  mutamento  tale,  che  chi  vi  fosse  capitato  per  la  prima 
volta,  Pavrebbe  riputata  una  famiglia  veramente  cristiana. 

5.  Lo  stesso  cambiamento  avrei  desiderato  nel  loro  interno;  ma 
ci6  non  dipendendo  solamente  dalPopera  mia,  ma  ben  anco  dal 
lavoro  della  Grazia,  faceva  d'uopo  pregare  ed  aspettare,  ed  insieme 
attendere  assiduamente  ad  illuminare  quelle  menti,  e  sanare  quei 
cuori.  Non  trovava  ostacoli  ed  opposizioni  in  quanto  a  dottrina; 
poich6  erano  menti  vergini,  e  non  guasti,  come  gli  altri  Abissini, 
dagli  errori  e  dai  pregiudizii  dei  mussulmani  e  degli  eretici.  Un 
po'  di  difficolta  stava  nel  correggere  i  costumi  e  la  viziata  natura; 
e  per  ottener  questo  mi  adoprava  con  modi  semplici  e  familiari  a 
gettare  nei  loro  cuori  continue  massime,  atte  a  calmare  le  passioni ; 
e  awalorando  sempre  i  miei  discorsi  con  i  dettami  della  legge  na- 


778  GUGUELMO   MASSAJA 

turale  e  con  quelle  ragioni  che  potevano  essere  comprese  dalla  loro 
limitata  istruzione,  mi  sforzava  persuaderli  della  necessita  di  raf- 
frenare  e  vincere  le  cattive  inclinazioni.  —  Vedete,  —  diceva  un 
giorno  —  ciascun  di  noi  abbiarno  sempre  a  lato  un  angelo  che 
ci  parla  al  cuore,  che  ci  comunica  la  parola  di  Dio,  e  ci  dice 
quello  che  dobbiamo  fare  o  evitare,  per  crescere  buoni  in  que- 
sta  vita,  e  meritare  poi  i  verJ  godimenti  che  ci  son  preparati  dopo 
la  morte.  E  dalFaltro  lato  ci  sta  a  canto  il  demonio,  il  quale  pure 
a  sua  volta  ci  fa  sentire  la  sua  voce  bugiarda,  ci  lusinga  con  pro- 
messe  e  con  piaceri,  e  ci  parla  un  linguaggio  tutto  opposto  a  quel 
lo  dell'angelo,  per  indurci  a  commettere  il  male  ed  offendere  Dio. 
Or  se  noi  diamo  ascolto  a  quest'ultimo,  e  facciamo  ci6  ch'esso  ci 
suggerisce  e  consiglia,  1'angelo  si  affligge  e  si  allontana,  e  ci  lascia 
in  compagnia  del  demonio,  il  quale  per  averci  ingannati,  tripudia 
e  se  la  ride.  II  nostro  cuore  intanto  resta  in  pena,  prova  dispiacere, 
si  sente  come  in  mezzo  alle  spine,  e  si  accorge  d'aver  perduta  la  sua 
felicita.  —  Vero,  vero,  —  ripigliava  subito  a  dire  Melak  —  Tho  pro- 
vato  io  facendo  alcune  brutte  azioni;  prima  sembrava  tutto  dolce 
e  piacevole,  ma  poi  dopo  subentrava  la  pena,  il  dispiacere,  ed  una 
certa  afHizione  ed  infeliclta  che  non  sapeva  spiegarmi  donde  fossero 
venute.  Ora  si  lo  comprendo,  tutto  ci6  certamente  proveniva  dal- 
l*avere  offeso  Iddio,  e  dalPessersi  allontanato  Tangelo, 

6.  Ogni  giorno  era  solito  fare  una  passeggiata  accompagnato  da 
Melak,  e  da  altri  della  farmglia,  quando  si  trovassero  liberi:  e 
spesso  visitavamo  or  Tuna  or  Taltra  campagna,  dove  i  pastori  tene- 
vaiK)  k  mandrie  e  pascolavano  gli  armenti.  Per  istrada  non  si  par- 
lava  die  di  Dio ;  poiche\  principalmente  Melak,  non  volevano  sen- 
tire  die  stone  di  santi  e  cose  di  religione.  Io  raccontava  loro  le 
preglriane  e  le  pratiche  di  piet^  che  si  facevano  nelle  nc^tre  famiglie 
cristiane,  qualche  esempio  di  santi  piu  popolari,  e  principalmente 
i  ^tti  delia  Ssu:ra  Scrittura,  la  vita  di  Gesu  Cristo  e  della  Madon 
na,  ed  altre  cose  che  meglio  mi  aprivano  la  strada  ad  opportune 
ktrazionL  Melak  stava  il  piu  attento  di  tutti,  e  giunti  alle  mandrie, 
pf^fideva  efli  la  jmrola,  e  raccontava  ai  suoi  compagni  quello  che 
10  aveva  des^>  sia  nel  giorno,  sia  nelle  <x>nferenze  che  soleva  fare  la 
acfa.  Insegntva  quindi,  con  una  premura  che  mi  riempiva  Tanimo 
<ii  consokzione,  i  comandamenti  di  Dk>,  e  raccomandava  a  tutti  di 
si  da  oeiti  atti  che  ci  fanno  lasciare  di  essere  uomini,  e  ci  fan 
otpfiofii  Oh  quanto  avrei  dato  per  condurre  meco  questo 


MISSIONE   NELL'ALTA   ETIOPIA  779 

giovane!  In  poco  tempo  e  con  lieve  fatica  ne  avrei  fatto  un  fervo- 
foso  missionario,  cotanto  necessario  per  quei  poveri  indigem :  ma 
non  era  neppure  a  pensarne;  poich6  fra  tutti  i  figli,  esso  era  Tidolo 
del  genitori,  e  non  1'avrebbero  ceduto  per  tutto  Poro  del  mondo. 

7,  Intanto,  senza  quasi  accorgermene,  erano  gia  passati  quindici 
giorni  che  mi  trovava  fra  quei  buoni  pastor  i,  quando  venne  da 
Ifagh  il  figlio  di  Maquonen  per  ricondurmi  a  casa.  Appena  si  seppe 
ci6  dalla  famiglia  di  Zellan,  fu  una  costernazione  generale,  e  geni 
tori,  figli,  schiavi  comindarono  a  scongiurarmi  ed  a  preganni  di 
non  abbandonarli  cosi  presto.  Melak  piu  di  tutti  non  voleva  sen- 
tirne  di  partenza,  e  minacciava  d'inimicizia  Maquonen  se  avesse 
insistito  a  portarmi  via.  Finalmente  tanto  dissero  e  fecero  pres&o  di 
lui  e  di  me,  che  fummo  costretti  sospendere  la  partenza,  e  restare 
ancora  altri  giorni  in  loro  compagnia.  II  giovane  d' Ifagh  doveva 
ripartir  subito :  ma  vedendo  quelPinsolito  entusiasmo  da  me  susci- 
tato  nella  famiglia  dei  Zellan,  voile  restare  sino  al  mattino  seguente. 
A  mezzogiorno  dunque  si  pranzo  piu  allegramente,  e  dopo  si  usci 
per  la  solita  passeggiata,  ed  andammo  a  visitare  un'altra  mandria  di 
pastori  che  non  avevamo  veduta.  Per  istrada  Melak  e  gii  altri  gio- 
vani  erano  sempre  attorno  al  figlio  di  Maquonen,  raccontandogli 
tutto  ci6  che  avevano  inteso  ed  imparato  da  me :  ed  egli  n'era  cosi 
meravigliato  che  stentava  a  credere  quanto  sentiva.  Giunti  al  luogo 
che  dovevamo  visitare,  dopo  avere  osservato  ogni  cosa,  dissi  anche 
1£  alcune  buone  ed  opportune  parole,  e  poscia  mi  ritirai  per  lasciare 
Melak  piu  libero  a  parlare  delle  cose  di  Dio;  poich£  la  sua  non 
sospetta  parola,  unita  con  quelPinnocente  e  fervido  zelo,  faceva 
maggiore  impressione  della  mia  sull'animo  di  quegPindigeni. 

8.  Poco  dopo  venne  a  trovarmi  il  fratello  maggiore  di  Melak, 
quello  ch'era  stato  sorpreso  nell'atto  di  commettere  un  fallo,  e  quasi 
piangendo :  —  Ella  mi  perdonera,  —  disse  —  e  mi  vorra  bene,  co 
me  a  tutti  gii  altri,  poich6  le  giuro  che  non  commetterd  piu  quelle 
mancanze.  Melak  dice  ch'egH  era  prima  un  caprone:  ma  il  vero 
caprone  sono  stato  io,  che  ho  scandalizzato  tutti;  per  Tawenire 
per6  neppure  io  sar6  un  caprone.  —  Vi  era  tanta  ingenui^  in  que- 
sta  confessione,  che  me  Io  abbracciai,  e  dandogli  buoni  consigli, 
ed  assicurandolo  che  il  Signore  ed  il  suo  angelo  Io  avrebbero  aiu- 
tato  e  custodito,  gii  feci  coraggio  e  Io  benedissi.  Partito  lui,  venne 
il  figlio  di  Maquon6n  a  lagnarsi  meco,  che  ai  Zellan  aveva  dette  ed 
insegnate  tante  belle  cose,  laddove  in  Ifagh,  che  pure  ne  aveva 


780  GUGLIELMO   MASSAJA 

tanto  bisogno,  mi  era  sempre  trattenuto  in  discorsi  estranei  alia 
religione  ed  al  costumato  vivere.  —  Hai  ragione,  —  risposi  —  ma 
questi  son  pagani  e  non  hanno  Kifa;1  laddove  voi  siete  cristiani, 
ed  avete  molti  Kit*  che  possano  istruirvi;  e  certamente  essi  si 
adonterebbero  se  venissero  a  sapere  che  io  forestiero  m'impicciassi 
degli  affari  che  appartengono  a  loro.  —  Si,  e  vero  tutto  questo:  — 
soggiunse  quel  povero  giovane  —  ma  sappia  che  se  io  sono  un  de- 
monio,  il  Kih,  confessore  di  mia  rnadre,  e  piu  demonio  di  me, 
essendo  state  egli  che  mi  ha  eccitato  a  tante  brutte  cose.  Insegni 
adunque  anche  a  me  quello  che  ha  insegnato  ai  Zellan;  poiche 
anch'io  voglio  essere  buono.  —  Senza  cercarla,  mi  accorsi  di  aver 
fatto  un'altra  conquista,  e  ne  ringraziai  Iddio.  —  Pero,  tu  domani 
dovrai  partire,  —  gli  dissi—  quindi  e  inutile  cominciare  sta  sera; 
ti  basti  per  era  quello  che  hai  inteso :  se  tuo  padre  ti  dara  licenza, 
ritornerai  presto,  e  cosi  vedremo  di  appagare  il  tuo  desiderio.  In- 
tanto  guardati  dal  far  motto  in  Ifagh  di  cid  che  hai  veduto  ed  in 
teso,  ahrimenti  non  saremo  piu  amici. 

[DA  ZEMIE  AL  GUDRd]3 

Zemie^3  era  per  me  come  la  sospirata  meta  di  circa  sei  anni  di  pe- 
regrinazione ;  poich6  per  giungere  da  quel  paese  ai  Galla  non  mi 
restava  che  a  dare  un  passo.  E  finalmente  vi  arrivai  il  23  settembre 
del  1852,  due  giorni  prima  del  Maskal  abissino,  ossia  della  festa 
deirEsaltazione  della  Croce,  che,  come  i  lettori  ricorderanno,  gli 
Abissini  celebrano  con  gran  solennit£,  piu  civile  che  religiosa, 
perche"  con  essa  s'intende  festeggiare  la  chiusura  dell'inverno  e 
1'apertura  dell'estate.4 

Ai  cinque  giovani  che  mi  seguivano  io  aveva  sempre  detto  che 
mi  sarei  fermato  a  Base;  onde,  vedendomi  inoltrare  piu  al  sud,  e 

1.  *Cosi   chiamansi   i  preti   nell'erctica  Abissinia*    (nota   del  Massaja). 

2.  Ed.  cit,  vol.  n,  dal  cap.  xrv  (//  meduo  Bartorelli  a  Zemie),  pp.  176-87. 

3.  II  villaggio  di  ZffJfK/,  nella  parte  meridkmale  del  Goggiam,    sorge  a 
poca  distanza  dall'ansa  meridicm^e  dell'Abbai  o  Nilo  Azzurro.  II  fiume, 
in  questo  trmtto,  segna  il  confine  con  le  terre  meridionali  del  Gudra  e 
dclle  altre  regioni  abitate  dai  Galla.  Si  ricordi  che  il  Massaja  aveva  avuto 
I'incarico  di  focidajre  UBa  mis&iooe  tra  i  Galla.     4.  MaskM ,  .  .  estate:  in 
altre  pagine  della  sea  opera  il  Massaja  descrive  la  festa  del  Mask&l,  che 
lift  luogo  al  terminc  delle  piogge  e  segna,  aU'equinoxio  di  autunno,  I'ini- 
zio  non.  dell'estate,  ma  della  primavera  abissina,  anzi,  tecnicamente,  del 
IMKWO  tnno  etk)pico.  Una  descriziooe  delle  feste   del  Maskal  a  Zemi£ 
vicnc  data  qui,  subito  dopo. 


MISSIONE   NELL'ALTA    ETIOPIA  781 

poscia  sentendo  che  fosse  mia  intenzione  pas&are  in  Gudru,  te- 
meva  che,  non  sentendosi  di  lasciare  TAbissinia,  mi  avrebbero 
chiesto  di  ritornare  ai  loro  paesi:  in  vece  li  trovai  non  solo  disposti 
a  restate  con  me,  ma  risoluti  di  seguirmi  fra  i  Galla,  e  dovunque 
avessi  voluto  andare.  A  cio  aveva  contribuito  anche  il  mio  Morka,1 
il  quale  in  quei  tre  giorni  ch'erano  stati  insieme  li  aveva  con  la  sua 
ingenua  ed  efficace  eloquenza  si  grandemente  invaghiti  della  nostra 
vita,  e  delle  dolcezze  che  Gesu  Cristo  e  la  cattolica  religione  apporta- 
no  alle  anime,  che  non  sospiravano  altro  se  non  di  essere  maggior- 
mente  istruiti,  ed  ammessi  alia  partecipazione  dei  Santi  Sacramenti. 

2.  L'Esaltazione  della  Croce  e  la  piii  gran  solennita  dell'Abissi- 
nia  eretica.  In  essa  il  popolo  £  tutto  in  movimento;  inviti,  pranzi, 
fuochi,  canti,  ogni  sorta  insomma  di  allegria  allieta  il  grande  ed  il 
piccolo,  la  casa  del  povero  e  quella  del  ricco.  In  quei  giorni  il  re 
siede  a  sontuosa  mensa  con  i  Grandi  della  Corte  e  con  gli  altri  im- 
piegati;2  i  capi  d'esercito  distribuiscono  ai  soldati  carne,  pane  e 
birra  abbondantemente ;  le  autoritk  delle  provincie  e  dei  paesi  in- 
vitano  a  pranzo  i  loro  subalterni  e  le  persone  ragguardevoli  dei 
luoghi;  in  una  parola  feste  e  baldoria  per  tutti.  Grandi  fuochi 
inoltre  si  sogliono  accendere  da  per  tutto,  dove  la  sera  che  precede 
la  festa,  e  dove  allo  spuntar  del  giorno.  In  molti  paesi  cristiani 
poi  questi  fuochi  si  fanno  dinanzi  le  chiese,  ma  in  altri  per  le  vie  e 
presso  le  case  di  ciascuna  famiglia;  il  quale  uso  venne  poi  anche 
imitato  da  alcuni  popoli  galla.  Ai  fuochi  finalmente  si  aggiungono 
canti  in  lingua  sacra  e  nei  particolari  dialetti  delle  diverse  popola- 
zioni,  ed  altri  segni  di  allegria. 

Questa  festa  inoltre  ha  una  particolare  importanza  presso  quei 
popoli,  primo  perche  dopo  di  essa  e  solito  che  incomincino  i  mo- 
vimenti  dei  soldati,  quando  quelle  tribu  si  trovano  fra  di  loro  in 
guerra;  ed  io  per  questo  motivo  aveva  anticipato  la  partenza  da 
Ifagh:  secondo,  perch6  Fanno  abissino  corninciandosi  a  contare 
dal  mese  di  settembre,  &  dopo  questa  festa  che  la  corre  a  tutti  Pob- 
bligo  di  pagare  i  tributi,  dovuti  al  re  ed  alle  altre  autorita. 

3.  La  sera  del  24  settembre  adunque  fui  invitato  da  Workie-Iasu3 
per  assistere  con  lui  airaccensione  dei  fuochi;  e  giunti  dirimpetto 

1.  Morka:  uno  dei  due  indigeni  (1'altro  fc  Berru)  convertiti  e  battezzati  dal 
Massaja  a  Guradit,  nel  suo  primo  tentative  di  introdursi  nelio  Scioa. 

2.  impiegati:  dignitari,  ministri.     3.  W&rkie-Iasu:  era  il  fitorari  di  Zemi£. 
Fitorari  ofilcntrari  e  titolo  onorifico  militare,  quasi  a  dire  *  generate  ».  Eti- 
mologicainente,  significa:  colui  che  conduce  Tavanguardia. 


782  GUGLIELMO   MASSAJA 

alia  chiesa,  trovammo  i  tapped  stesi  per  terra,  e  sedemmo,  Workie- 
lasu  in  mezzo,  io  ed  i  suoi  impiegati  attorno.  Pochi  metri  lungi  da 
noi  stava  piantata  una  lunga  pertica  con  un  gran  mazzo  di  fiori  in 
cima,  ed  alia  quale  se  ne  venivano  continuamente  aggiungendo 
altre,  ugualmente  ornate  di  fiori,  che  i  contadini  portavano  da  varie 
parti.  Avendone  radunate  un  mucchio  di  oltre  un  centinaio,  usci- 
rono  di  chiesa  i  preti  ed  i  diaconi  vestiti  in  sacro  con  croce,  libro  e 
turibolo,  e  cominciarono  alcune  letture  in  lingua  gheez,1  che  a  rne 
sembrarono  tratti  di  storia  di  S.  Elena,  di  Costantino  e  di  Eraclio.2 
Avendo  chiesto  che  cosa  dicessero,  nessuno  seppe  darmi  risposta; 
poich6  nessuno  comprendeva  quella  lingua.  Dopo  queste  noiose 
letture,  che  durarono  circa  un'ora,  un  prete  fece  tre  giri  attorno  a 
quel  mucchio  di  pertiche,  incensandole  replicatamente ;  poi,  co- 
minciando  dai  Grandi,  fecero  tutti  i  loro  tre  giri  cantando  certe 
strafe  in  lingua  volgare,  e  poscia  vi  appiccarono  fuoco.  Intanto  sino 
a  tarda  ora  seguitava  a  venire  gente  dalle  borgate  vicine,  cantando 
canzoni  popolari,  e  portando  in  mano  grandi  fiaccole,  che  gettavano 
nel  fald  benedetto.  Quando  poi  fu  tutto  consumato,  il  popolo  si 
ritir6  alle  proprie  case. 

4.  Ed  anche  noi  ci  ritirammo  in  casa  di  Workie-Iasu,  dove  si 
trovd  apparecchiata  la  gran  cena  del  Maskal.  Alia  prima  tavola 
sedemmo  io,  Workie-Iasu,  un  suo  fratello  ed  un  suo  cugino,  ed 
alle  altre  i  Grandi  della  Corte  e  gl'impiegati  superior! :  poscia  ce- 
narono  i  soldati  particolari  del  fitordri,  indi  i  servi,  e  finalmente  gH 
schiavi  e  la  gente  di  casa.  A  noi  per  here  fu  portato  idromele,  agH 
altri  birra:  tutto  per6  era  abbondante,  principalmente  la  carne, 
apprestata  cx>tta  e  cruda,  e  condita  con  gPinevitabili  peperoni 
rossi.  Si  faceva  un  baccano  indescrivibile,  si  stracciava  carne,  prin 
cipalmente  cruda,  come  tanti  lupi  affamati,  ed  i  corni  di  birra  si 
succedevano  Tuno  all'altro  senza  interruzione :  sicche  appena  a 
inezzaiK>tte  potei  liberarmi  da  quella  baldoria,  e  ritornare  alle  mia 
capanna.  Ne!  giorno  del  Maskal  non  vi  sono  inviti,  perch6  ciascuno 
solennizza  k  festa  con  la  propria  famiglia;  gli  inviti  poi  si  fanno 
nei  giorai  seguenti, 

i.  ghftz:  o,  piii  eaattamente,  ge*est  &  k  lingua  dciraaitka  Etic^pia,  conser- 
VBta  »o4tam£o  nelk  liturgia  c^>ta  (vedj  la  nota  3  a  p.  750).  2.  *S.  Elena  fu 
la  pc»ci|>essa  ai^iica  madre  dell'imperatore  Costaatim,  e  la  sua  vita  di 
peecatrke,  e  di  ardcnte  cristiana  dope  la  coovemorie,  fe  fra  le  piCi  dranima- 
tkfee  d^U'agiografia  cattolka;  ErocHo  I  fu  inip^atort  d'Oriente  dal  610 
a!  641  e  lott&  a  lungo  contro  Fislamismo. 


MISSIONE   NELL'ALTA    ETIOP1A  783 

5.  Zemie  essendo  posto  alPestremita  sud  deH'Abi&sinia,  forma 
la  frontiera  meridionale  del  Goggiam,  bagnata  e  difesa  dalFAbMi, 
ed  &  Fultimo  paese  cristiano  di  quella  vasta  regione.  Al  di  la  del 
fiume,  in  faccia  a  Zemi6  si  stendono  tutti  i  paesi  galla;  all'est  lo 
Scioa,  al  sud-est  il  Liban-Kuttai,  e  al  sud  il  Gudru,  che  pu6  chia- 
marsi  la  porta  di  tutti  i  paesi  galla  del  sud  e  del  sud-ovest.  Fra  questi 
regni  scorrono  il  Gemma,  il  Mugher,  ed  il  Guder,  i  quali  vanno  a 
scaricarsi  nelFAbbai. 

Zemie  quindi,  essendo  paese  di  frontiera,  aveva  una  popokzione 
mista  di  cristiani,  di  mussulmani  e  di  Galla,  i  quali  ultimi  vi  si  erano 
stabiliti  per  causa  del  commercio  che  facevano  con  lo  stesso  Zemi6 
ed  anche  con  Baso.  La  famiglia  di  Workie-Iasu  pertanto  era  com- 
posta  di  cristiani  e  di  Galla:  il  che  in  verita  mi  era  di  gran  giova- 
mento  pel  nuovo  apostolato  che  stava  per  imprendere;  poich£  par- 
landosi  in  quella  casa  le  due  lingue,  etiopica  e  galla,  potevamo  io 
ed  i  miei  giovani  impararle  comodameiite,  e  nel  tempo  stesso  co- 
noscere  e  giudicare  gli  usi  e  costumi  di  quei  popoli,  che  il  Signore 
ci  mandava  ad  evangelizzare, 

6.  Questo  principe  era  di  stirpe  abissina  per  linea  maschile,  ma 
galla  per  parte  di  madre ;  poiche"  la  sua  famiglia  usava  imparentarsi 
con  donne  galk.  Un  tal  connubio,  antico  nella  sua  casa,  faceva  si 
ch'egli  vantasse  diritti  tanto  dalFuna  quanto  dall'altra  parte  del 
fiume,  avendo  in  ambedue  eredita,  donazioni  e  possedimenti.  II 
che  inoltre  gli  giovava  molto  nelle  sollevazioni  e  guerre  che  spesso 
disturbavano  quelle  provincie;  poiche,  minacciato  o  assalito  dal 
governo  del  Goggiam,  passava  fra  i  Gaila;  dove  raccoki  uomini  ed 
armi,  dava  con  essi  tanti  fastidii  ai  suoi  nemici  ed  alle  stesse  popo- 
lazioni  del  Zemie*,  ch'erano  costrette  richiamarlo  e  £ ar  k  pace. 
Quanto  a  religione  mostrayasi  tabra  cristiano  e  talora  pagano,  se- 
condo  il  bisogno.  Con  gli  Abissini  esternamente  era  un  perfetto 
cristiano;  e  dico  esternamente,  perche"  la  vera  virtu,  la  virtu  che 
adorna  e  santiiSca  il  cuore  e  le  nostre  facolta  ed  azioni  non  si  co- 
nosce  nelFAbissinia  eretica.  Con  i  Galla  poi  era  un  perfetto  pagano, 
con  tutti  i  pregiudizii  e  le  superstizioni  di  quei  popoli,  e  senza  pos- 
sedere  quelle  buone  qualita  che  pure  si  trovano  fra  di  essi,  avendolo 
Teresia  interamente  viziato.  Grossolano  e  lurido  nel  parlare,  k  sua 
conversazione  faceva  schifo  a  qualunque  persona  anche  poco  edu- 
cata.  Non  aveva  vera  moglie  al  rnio  arrivo,  e  mi  ci  voile  del  buono 
per  persuaderlo  a  sposarsi  cristianamente;  il  che  poi  fece  dopo  al- 


784  GUGLIELMO   MASSAJA 

quanto  tempo.  In  questa  casa  adunque  era  costretto  fermarmi  e 
passarvi  circa  due  mesi,  con  quanta  pena  deH'animo  mio  il  lascio 
considerare;  e  non  solo  per  me,  ma  piu  per  i  miei  giovani,  i  quali, 
quantunque  awezzi  a  vedere  e  sentire  simili  miserie,  tuttavia  non 
potevano  non  nuocere  alia  loro  incominciata  educazione  e  conver- 
sione.  Vi  era  per6  Morka  che  vigilava  su  di  loro,  e  ne  coltivava  e 
rinfrancava  i  cuori,  e  per  questo  il  mio  timore  veniva  acquetato 
alquanto.  D'altro  lato,  rimanendo  in  quella  casa,  io  sperava  trarne 
molti  vantaggi ;  oltre  alia  comodita  di  apprendere  la  lingua  galla,  e 
conoscere  da  vicino  gli  usi  e  costumi  di  quei  popoli,  aveva  agio  di 
contrarre  amicizie  con  persone  galla  ragguardevoli,  che  venivano 
a  trovare  Workie-Iasu,  e  la  cui  protezione  mi  avrebbe  non  poco 
giovato  neEa  mia  nuova  missione:  sperava  inoltre  che  lo  stesso 
Workie  si  sarebbe  indotto  a  darci  una  delle  sue  case,  che  teneva  al 
di  Ik  del  fiume,  per  impiantarvi,  almeno  provvisoriamente,  la  Mis 
sione.  Insomma,  quella  dimora  aveva  il  pro  ed  il  contro  per  noi; 
ed  in  fin  dei  conti  o  per  amore  o  per  forza  faceva  d'uopo  restarvi; 
poiche*  per  partire  alia  volta  del  Gudru  bisognava  aspettare  Tab- 
bassamento  delle  acque. 

7.  Come  mi  sembra  di  aver  detto  altrove,  in  quei  paesi  non  si 
hanno  cattedre  di  medicina,  e  neppure  si  prende  laurea  di  dottore : 
tuttavia  non  mancano  ne  medici  ne  medicine  per  curare  gli  amma- 
lati;  il  difficile  poi  e  che  curino  bene,  e  che  gli  ammalati  guariscano. 
Presso  i  Galla  per  medico  s'intende  sempre  un  mago,  e  questo  per 
lo  piu  suol  essere  un  deftera*  che  sa  leggicchiare  qualche  libro,  e 
niente  importa  poi  che  non  ne  capisca  un'acca.  Ci6  awiene  perch6 
i  Galla,  non  sapendo  leggere,  son  persuasi  che  nei  libri  si  trovi 
tutto,  si  veda  tutto,  e  si  conosca  tutto;  ed  ecco  il  motivo  per  cui 
hanno  in  grande  stima  i  maghi  abissini.  Questi  poi,  ignoranti  piu 
di  coloro  che  in  essi  ripongono  tanta  fiducia,  attribuiscono  sempre 
le  malattie  a  cause  superstiziose,  e  percic*  a  mezzi  superstiziosi  ri- 
corrono  per  curarle;  ed  anche  usando  qualche  rimedio  empirico, 
giii  sperimentato  e  riconosciuto  efficace,  lo  applicano  sempre  con 
segni  e  modi  si  stravaganti  e  ridicoli,  che  muovono  piu  a  sdegno  che 
a  eompasslone.  Ed  in  ci6  iK>n  vi  e  solamente  ignoranza,  ma  malizia 
e  furberia;  percM  cosl  eredono  di  dare  una  maggiore  importanza 

i,  defter a\  \  dcfteri  socio  i  sapicnti  deli'Abissinia,  ma  di  una  sapienza  quale 
apparc  da  dd  die  qui  ne  scrive  il  Ma^aja. 


MISSIONS   NELL'ALTA    ETIOPIA  785 

all'opera  loro,  e  quindi  cattivarsi  maggiore  rispetto  e  trarne  non 
minore  lucro. 

Quelle  popolazioni  poi  nel  vedere  un  europeo,  credono  ch'egli 
sia  un  mago  onnipotente,  e  che  abbia  il  potere  di  curare  e  guarire 
qualunque  malattia.  Questa  pcrsuasione,  che  in  genere  hanno  per 
qualunque  forestiere,  si  accresce  maggiormente  in  loro  quando  il 
veggono  leggere  e  scrivere,  e  cavar  fuori  dal  suo  bagaglio  attrezzi, 
gingilli  e  strumenti  da  loro  non  mai  visti ;  per  essi  queste  cose  sono 
tanti  talismani  prodigiosissimi,  con  cui  possa  egli  guarire  ed  anche 
richiamare  la  gente  da  morte  a  vita.  lo  adunque  a  Zemie  era  tenuto 
in  questo  concetto,  non  solo  dalla  massa  del  popolo,  ma  dallo  stesso 
Workie-Iasu  e  dagrimpiegati  di  sua  casa.  II  signor  Bartorelli  in- 
somma  era  un  gran  medico,  o  meglio  un  gran  mago. 

8.  Un  giorno  Workie-Iasu  mi  presentb  un  ricco  galla  del  Gudru, 
chiamato  Abba  Saha  (padre  delle  vacche),  il  quale  credendosi  am- 
malato,  era  venuto  a  passare  la  stagione  delle  pioggie  a  Zemie,  con 
la  speranza  di  trovare  un  medico  valente,  e  qualche  rimedio  per  la 
sua  infermita.  Workie,  dopo  avermi  esposto  il  bisogno  di  quel  po- 
vero  ammalato,  mi  raccomand6  di  occuparmene  con  premura  ed 
affetto,  non  solamente  perche"  suo  amico,  ma  anche  per  la  speranza 
che,  essendo  assai  ricco  e  molto  potente  in  paese,  avrebbe  potuto 
essermi  utile  quando  fossi  passato  in  Gudru.  Non  potendo  negar- 
mi,  accettai  quel  nuovo  cliente,  e  condottolo  alia  mia  capanna,  lo 
consegnai  a  Morka,  affinch^  lo  esaminasse,  e  sapesse  dirmi  che  ma 
lattia  e  quali  bisogni  avesse.  Morka,  essendo  galla,  conosceva  bene 
tutti  i  pregiudizii  di  quei  popoli,  e  perci6  gli  era  piii  facile  fare  una 
diagnosi  perfetta  di  quella  malattia!  E  vi  riusci  a  meravigiia:  poi- 
ch6,  venuto  da  me,  mi  raccontb  come  Abba  Saha  si  fosse  messo  in 
testa  che  una  delle  sue  mogli  per  gelosia  lo  avesse  awelenato, 
dandogli  a  mangiare  ovi  di  rospi ;  dai  quali  poi  essendo  nati  dentro 
il  ventre  una  grande  quantit£  di  quegli  animali,  se  ne  erano  resi 
padroni,  e  lo  minacciavano  di  morte.  Egli  diceva  inoltre  di  sentirli 
muovere,  camminare  e  gracidare;  e  quando  gli  veniva  di  ruttare  o 
fare  qualche  altro  bisogno  naturale:  —  Eccoli,  -—  gridava—  ecco  le 
voci  che  mandano!  —  Morka  mi  consigli6  di  non  contraddirlo,  ma 
piuttosto,  secondando  questa  sua  sciocca  persuasione,  dargli  una 
qualche  medicina  innocua,  ma  che  valesse  nel  tempo  stesso  a  produr- 
re  un  forte  effetto  sensibile,  per  farlo  ricredere  di  quel  pregiudizio. 

9.  Per  ottenere  lo  scopo  non  ci  era  meglio  che  ricorrere  al- 


786  GUGLIELMO  MASSAJA 

Temetico ;  e  datogliene  una  forte  dose,  lo  avvertii  che  una  tal  me- 
dicina  per  guarirlo  lo  avrebbe  tormentato  circa  un'ora ;  poiche"  do- 
vendo  prima  uccidere  tutti  i  rospi,  di  cui  era  pieno  il  suo  ventre: 
e  poi,  essendo  morti,  cacciarli  fuori  dai  loro  nascondigli,  faceva 
d'uopo  ch'egli  soffrisse  tutti  gli  sforzi  di  questa  interna  e  salutare 
lotta:  ma  stesse  pur  tranquillo  che  tutti  quegli  animalacci  sarebbero 
stati  costretti  di  uscire  a  pezzi  informi,  parte  dalla  bocca  e  parte 
per  secesso.  II  farmaco  di  fatto  fece  mirabilia\  ed  il  povero  uomo 
mentre  lo  sentiva  operare  dentro  le  viscere :  —  Gia  mi  accorgo  — 
diceva  —  che  i  brutti  animali  vanno  combattendo  con  la  morte: 
ma  se  qualcheduno  ne  uscira  fuori  vivo,  lo  concer6  io!  —  Ed  era 
curioso  il  vederlo  nei  momenti  deirevacuazione  con  un  coltellaccio 
in  mano,  pronto  ad  awentarsi  contro  quei  supposti  rospi,  se  per 
case  fos&ero  usciti  vivi  dal  suo  interno.  Riuscita  bene,  e  con  sua 
grande  soddisfazione  la  prima  prova,  dopo  due  giorni  di  riposo, 
rcplicai  una  seconda  dose,  e  fece  lo  stesso  efFetto.  Finalmente  dopo 
altri  tre  giorni  gliene  diedi  una  terza,  e  sentendosi  gia  lo  stomaco 
vuoto  come  una  lanterna :  —  Son  guarito,  —  mi  disse  —  non  fa  piu 
bisogno  d'altro,  i  brutti  animalacci  sono  usciti  tutti  fuori:  ma  se 
quella  budda1  di  mia  moglie  ci  proverb  un'altra  volta  a  farmi  simili 
carezze,  sapro  io  come  trattarla! 

io.  Un  giorno  Workie  uscendo  a  passeggio  con  tutto  il  suo  se- 
guito,  voile  che  lo  accompagnassi,  e  si  and6  |>er  la  strada  che  por- 
tava  alFAbbai.  Salito  un  piccolo  colle,  ci  fermammo  sull'orlo  di  un 
precipizio  da  cui  si  vedeva  un  lungo  tratto  del  fiume,  ed  alia  riva 
opposta  una  grande  estensione  del  Gudru.  Parlando  del  luogo  che 
mi  sarebbe  stato  piu  conveniente  di  scegliere  in  quel  paese,  Workie, 
additandomi  un  punto  dei  paesi  bassi^  chiarnati  in  lingua  abissina 
Kuolla,  mi  disse :  —  Io  laggjiu  tengo  una  casa,  e  volentieri  ve  Fof- 
fro:  ma  essendo  voi  roercante,  certamente  desiderate  di  stabilirvi  in 
un  punto,  dove  possiate  esercitare  piu  comodamente  il  vostro  com- 
merck>p  Ebbeoe,  faremo  di  tutto  presso  Abba  Saha  di  agevolarvi 
coe  la  sua  autorit^,  e  principalmente  d*indurre  suo  nipote  Gama- 
McH1^2  a  cedervi  una  sua  casa ;  poiche*  essa  essendo  vicina  al  mercato, 
c  il  IIK^O  di  convegno  di  tutti  i  a>mmercianti  che  frequentano  le 
nostre  contrade.  —  Questo  {^irtito  sarebbe  migliore;  —  risposi  io, 

i.bvdda:  incantesimo,  malocchio,  genio  malefico.  z.  Gama-Morfa;  un 
ricco  capo  galla,  che  fu  di  protezione  e  di  aiuto  al  Massaja  e  alia  sua  mis- 
sioD«  net  Gtidru, 


MISSIONS  NELL'ALTA    ETIOPIA  787 


non  volendo  dare  a  conoscere  i  miei  disegni  —  intanto  avremo 
tempo  a  rifletterci,  e  nel  caso,  profittero  delle  vostre  generose  of- 
ferte. 

11.  Mentre  si  stava  discorrendo,  vedemmo  venire  verso  di  noi 
alcuni  soldati  di  Workie,  i  quali  ritornavano  dal  mercato,  e  con- 
ducevano  due  giovanette  galla,  ricevute  in  tribute  da  alcuni  mer- 
canti  di  schiavi.  Giunti  alia  presenza  di  Workie,  gliele  presentaro- 
no ;  e  vidi  che  la  sua  fisionornia  prese  un'aria  di  allegrezza,  come  di 
chi  riceva  un  gradito  regalo.  Tutto  contento,  se  le  fece  venire  vi- 
cine,  e  senz'ombra  di  rossore  e  di  riguardo  prese  ad  osservarle  mi- 
nutamente  dalia  testa  ai  piedi.  Poscia,  dato  un  bacio  alia  piu  gran- 
detta,  e  mandata  via  Taltra,  ordin6  di  chiamare  il  Kits,  ossia  quel 
prete  eretico,  che  colk  faceva  da  parroco;  il  quale  dopo  alquanto 
tempo  giunto  alia  sua  presenza,  il  nostro  Workie  con  voce  som- 
messa  e  con  affettata  pieta:  —  Tu  sai  —  gli  disse  —  che  io  son  cri- 
stiano,  e  che  mai  ho  ammesse  in  casa  mia  donne  galla  senza  prima 
averle  fatte  battezzare ;  diman  mattina  adunque  si  dia  il  battesimo 
a  questa  e  si  renda  cristiana,  —  Son  pronto  ai  suoi  voleri,—  rispo- 
se  il  Kies  —  ma  ella  sa  che  il  battesimo  si  amministra  nella  Messa, 
e  che  bisogna  dare  la  comunione  alia  battezzata  e  la  distribuzione 
a  coloro  che  assistono:  or  come  potr6  in  si  breve  tempo  apprestare 
le  ostie  per  tutti  ?  Io  lodo  il  suo  zelo,  e  comprendo  i  suoi  scrupoli ; 
ma  mi  dia  almeno  un  giorno  di  tempo  per  preparare  ogni  cosa,  e 
diman  Faltro  sara  contentato.  —  Workie  sentendo  queste  osserva- 
zioni,  che  punto  non  si  aspettava,  smesso  Tatteggiamento  di  pieta, 
si  alzc*  adirato,  e  col  bastone  che  teneva  in  mano  fe*  mostra  di  dare 
una  buona  lezione  al  reverendo,  che  aveva  osato  fare  opposizione 
ai  voleri  di  sua  altezza  fitarari.  Dimodoch^  il  povero  Ktis,  vista  k 
mala  parata,  abbass6  gli  occhi,  e  dicendo  ikwt,  ikitn  (sia,  sia)  se  ne 
parti.  Workie  ordin6  poscia  ad  un  servo  di  consegnare  la  giovinetta 
alia  vecchia  custode  delle  sue  donne,  e  conged6  i  soldati. 

12.  Indi  rivolto  a  me:  —  Che  ne  dite,  signor  Bartorelli,  di  qu^te 
scene? 

—  Caro  mio  Workie,  —  risposi  -—  stasera  ho  veduto  cose  non  mai 
viste  in  vita  mia.  Lasciando  da  parte  tutto  ci6  che  avete  detto  e 
fatto,  principalmente  col  Kih  (perch^  io  non  uso  criticare  le  auto- 
rita  di  un  paese);  mi  fa  per6  meraviglia  la  faciliti  con  cui  voi  eretici 
date  il  battesimo,  e  rendete  cristiani  i  pagani.  In  quanto  al  Kih  poi 
so  dirvi,  che  se  fosse  stato  nel  mio  paese,  ed  avesse  opposta  per 


788  GUGLIELMO   MASSAJA 

unica  difficolta  a  battezzare  quella  giovinetta  la  mancanza  delle 
ostie,  i  contadini  stessi  lo  avrebbero  preso  a  sassate. 

—  Voi  siete  troppo  severo,  —  soggiunse  Workie  —  ma  fra  noi  si 
costuma  cosi;  intanto  fa  d'uopo  sapere  che  questi  Kits  fanno  piu 
canto  delle  ostie  che  del  battesimo:  se  colui,  che  avete  sentito,  vo- 
leva  ritardare  la  funzione,  il  faceva  per  avere  le  ostie  piu  buone, 
ed  anche  per  carpire  qualche  altra  mercede.  Inoltre  se  io  mi  fo  scru- 
polo  di  tenere  una  donna  pagana,  posso  assicurarvi  che  il  mio  Kite, 
quantunque  ammogliato  e  con  figli,  di  questi  scrupoli  non  ne  ha 
punto.  Che  male  ci  e  poi  a  battezzarla? 

—  Anzi,  molto  bene,  —  risposi  io  —  ma  bisognerebbe  ammetterla 
a  questo  sacramento  con  le  dovute  condizioni ;  cioe,  prima  istruirla, 
illuminarla,  renderla  degna,  e  poi,  assicurati  ch'essa  lo  desideri, 
battezzarla  e  farla  veramente  cristiana. 

—  Presso  di  noi  non  si  ricerca  tutto  questo,  —  concluse  Workie  — 
ed  a  me  basta  che  sia  battezzata  ed  unta. 

13.  Renche"  conoscessi  le  maniere  ridicole  con  cui  quei  poveri  ere- 
tici  amministrino  i  sacramenti,  pure  mi  venne  voglia  di  assistere  a 
quella  funzione,  e  molto  piu  voleva  vedere  che  cosa  significasse  quel 
la  parola  unta,  che  Workie  aveva  aggiunto  al  nome  battezzata.  Dissi 
percio  a  Morka  di  tenermi  awisato  dell'ora,  in  cui  si  sarebbe  dato 
questo  battesimo.  II  mattino  seguente  di  fatto  il  mio  Morka,  reci- 
tate  le  preghiere  coi  nostri  giovani  e  famiKari,  mi  condusse  alia  chie- 
sa;  io  presi  posto  in  luogo  a  parte,  ed  egH,  comech6  indigeno,  si 
frammischio  con  gli  altri.  Prima  pertanto  della  Messa,  il  sacerdote, 
uscito  dal  Sancta  Sanctorum  col  suo  clero,  si  diresse  verso  la  porta, 
ed  ivi  giunto,  fece  un  segno  di  croce  sulPacqua  che  stava  preparata, 
dicendo  le  solite  parole  di  benedizione,  e  poi  ritornato  all'altare, 
comincio  a  leggere  la  liturgia  del  battesimo.  Finita  questa  lettura, 
si  awi6  di  nuovo  alia  porta  della  chiesa,  dov'era  la  battezzanda  ac- 
conip^nata  dalla  custode.  Allora  gli  assistenti  la  circondarono  in 
modo  che  io  non  potessi  vederla  (del  che  non  ne  fui  dolente,  poich6 
mi  accorsi  che  la  spogHarono  interamente),  le  fecero  alcuni  segni 
di  croce  con  1'olio  santo,  che  tenevano  conservato  in  un  piccolo 
corno  di  pecorm,  e  dope  le  versarono  sopra  un  secchio  di  acqua 
dicendo  al  solito:  Btsma  Ab,  Ua  Old,  Ua  Manfts  Kedus.1  Indi 
rasciugata  dai  diaconi,  il  Kite  mosse  per  ritornare  al  Sancta  Sancto- 
rwflf,  quando  la  vecchia  custode  fermatolo,  gli  manifest^  il  desiderio 
i .  B&m®  . . .  Kedus :  k  k  formula  del  b®ttesimo  in  lingua  etiopica. 


MISSIONE   NELL'ALTA   ETIOPIA  789 

di  Workie  che  venisse  unta  una  seconda  volta  in  parti  che  non 
lice  nominare.  Ebbene,  quei  pecoroni  in  veste  sacra  non  ebbero 
il  coraggio  di  contraddire  agli  stupidi  capricci  dello  scrupoloso 
fitordri,  e  preso  percid  un  pezzetto  di  legno,  le  fecero  la  sconcia 
unzione.  Morka,  in  veder  cio,  non  si  tenne  piu,  e  pieno  di  sdegno 
grid6  ad  alta  voce:  —  Questa  non  &  opera  di  Dio,  ma  del  diavo- 
lo  — ;  e  gettando  su  di  loro  uno  sguardo  di  disprezzo,  se  ne  parti. 
Essi  intanto  continuarono  la  funzione  con  la  celebrazione  della 
Messa,  in  fine  della  quale  si  fece  la  distribuzione,  La  scappata  di 
Morka  non  tard6  giungere  alPoreechio  di  Workie,  il  quale  andato 
in  collera  contro  il  buon  giovane,  quantunque  prima  gli  volesse 
molto  bene,  ordino  che  non  si  presentasse  piu  alia  sua  presenza: 
e  mi  ci  voile  di  tutto  per  rabbonirlo  e  fargli  fare  la  pace. 

14.  Erano  passate  circa  tre  settimane  che  mi  trovava  a  Zemie",  e 
le  strade  cominciando  ad  asciugarsi,  pensai  di  man  dare  il  servo 
Giuseppe  a  Kartum,  per  riprendere  alcuni  oggetti  ed  una  somma  di 
danaro,  che  ivi  aveva  lasciato  come  riserva,  nel  caso  che  mi  fosse 
incorso  un  qualche  disastro  lungo  il  viaggio.  Sperando  inoltre  assai 
neiramicizia  e  protezione  di  Workie-Iasu,  voleva  fargli  un  regalo, 
e  non  possedendo  una  qualche  cosa  degna  di  lui,  pensava  farmi 
mandare  dai  missionarii  di  Kartum  due  pistole,  di  cui  egli  piu  volte 
mi  aveva  esternato  il  desiderio,  offrendosi  anche  di  pagarne  il 
prezzo.  Fidandomi  pertanto  deiraffezione  e  bonta  sino  allora  di- 
mostratami  dal  servo,  lo  condussi  prima  di  partire  dinanzi  a  Workie, 
affinch£  anche  questi  fosse  a  conoscenza  di  tutto,  e  mettesse  in 
mezzo  la  sua  autorita  per  riuscir  bene  ogni  cosa.  Workie,  avendovi 
pure  il  suo  interesse,  gli  fece  tutte  le  raccomandazioni  possibili,  e 
per  maggiormente  incoraggiarlo,  gli  promise  che  al  ritorno  lo 
avrebbe  ricompensato  col  dargli  un  impiego  nel  paese.  Con  grandi 
promesse  di  fedelta  e  di  prestezza  se  ne  parti:  ma  il  miserabile, 
dopo  avere  ricevuto  dai  missionarii  oggetti  e  danaro,  prese  altra 
strada,  e  piu  non  si  vide.  Seppi  poi  che  regal6  le  due  pistole  a 
degiac  Kassa,1  il  quale  gia  si  avanzava  vittorioso  nelle  sue  conquiste, 
ed  a  me  piu  tardi  non  mand6  che  una  piccola  somma,  approprian- 
dosi  circa  150  talleri. 

15.  Ho  detto  piu  volte  che  la  poligamia  ed  il  divorzio  sono  i  due 
principal!  distruttori  della  famiglia  in  Abissinia,  ed  il  seguente 
fatto  accaduto  in  casa  di  Workie-Iasu  n'e  una  prova.  Workie  aveva 
i .  degiac  Kassa :  il  futuro  Teodoro,  per  cui  vedi  le  note  3  a  p.  77 1  e  2  a  p.  772. 


790  GUGLIELMO   MASSAJA 

due  figli,  uno  chiamato  Sciararu  di  circa  diciotto  anni,  e  Taltro 
Zallaca  di  anni  quindici.  II  primo  era  nato  da  una  moglie  galla, 
che  dopo  alcuni  anni  aveva  abbandonato ;  ed  il  secondo  da  un'altra 
moglie  appartenente  ad  una  delle  famiglie  del  Liban-Kuttai.  Con 
questa  seconda  moglie  Workie  era  vissuto  in  pace  circa  sette  anni, 
segno  che  le  portava  un  grande  affetto,  e  veramente  Pamava  assai: 
ma  un  giorno,  avendola  trovata  infedele,  monto  sulle  furie,  e  la 
fece  battere  si  spietatamente,  che,  ammalatasi,  ne  mori.  Per  questa 
morte  Workie  si  tiro  addosso  il  dritto  del  sangue,  che  secondo  la 
legge  avrebbe  dovuto  appartenere  al  figlio  dell'uccisa,  cioe  a  Zal 
laca  :  ma  essendo  questi  anche  figlio  dell'uccisore,  un  tal  dritto  passo 
ai  piu  prossimi  parenti  della  sventurata  moglie.  Workie  poi,  ricor- 
dandosi  sempre  del  grande  amore  che  portava  a  quella  donna,  dopo 
lo  sfogo  delPira,  si  penti  della  crudelta  usatale,  e  non  potendovi  piu 
rimediare,  concentrava  tutti  i  suoi  affetti  sul  figlio  Zallaca,  il  quale 
tanto  nel  volto  quanto  nel  tratto  aveva  perfettamente  le  fattezze  ed  i 
modi  della  madre. 

1 6.  Un  giorno  tutto  aH'improwiso  sento  chiamarmi.  —  Corra, 
signor  Bartorelli,  che  Workie  sta  per  ammazzare  suo  figlio  Zalla 
ca.  —  In  un  attimo  giungo  alia  stanza  di  Workie,  e  trovatolo  che, 
come  Saulle  a  Davidde,  stava  per  tirare  la  lancia  sul  figlio,  mi  getto 
in  mezzo  e  li  divide.  Acquetato  un  poco  quel  primo  furore  del  pa 
dre,  gliene  domando  il  motivo,  e  sento  che  Zallaca  era  stato  scoperto 
di  tenere  illecita  amicizia  con  una  moglie  di  Workie.  Compresi  su- 
bito  la  gravita  del  fatto,  e  come  il  padre  si  avesse  ragione  di  mostra- 
re  tanto  sdegno  contro  il  proprio  figlio :  quindi  consigliai  a  questo 
di  allontanarsi  immediatamente,  perche  vi  era  tutto  il  pericolo  che 
anche  alia  mia  presenza  sarebbe  stato  commesso  un  delitto.  II  pa 
dre  intanto  ne  rest6  talmente  offeso,  che  non  solamente  non  voile 
piu  vederlo,  ma  concepi  tant'odio  contro  il  figlio,  che  non  valsero 
ragioni  e  preghiere  per  ottenergli  perdono  e  farlo  riammettere  in 
casa.  Onde  io  mosso  a  pieta  del  povero  Zallaca,  e  sperando  di  ri- 
durlo  alia  fede,  molto  piu  che  di  quella  mancanza  si  sentiva  vera 
mente  pentito,  lo  ammisi  nella  mia  famiglia,  e  poscia  lo  condussi 
meco  in  Gudru.  Un  anno  dopo  mi  riusci  di  placare  il  padre  e  di 
ottenergli  perdono:  e  Zallaca  gia  sel  meritava,  poiche  non  era  piu 
quello  di  prima.  Divenuto  vero  figlio  di  Gesu  Cristo,  aveva  pianto 
il  suo  peccato,  ne  aveva  fatto  penitenza,  e  la  bonta  di  sua  vita  fu 
compensata  con  la  pace  paterna. 


MISSIONS  NELL'ALTA  ETIOPIA  ,      791 

17.  Una  sera  fui  condotto  a  visitare  un'ammalata,  che  si  diceva 
prossima  a  morire,  perch6  il  budda  Taveva  ammaliata,  o  come  la  si 
esprimono,  mangiata.  La  trovai  distesa  per  terra,  immobile,  senza 
parola,  e  come  fosse  asfissiata,  ed  il  cui  polso  ora  batteva  con  moto 
febbrile,  ed  ora  debolissimamente.  Gia  i  miei  lettori  comprendono 
che  il  budda,  questo  genio  malefico  del  Goggiam,  non  ci  entrasse 
per  nulla,  e  che  la  sua  malattia  fosse  piuttosto  cosa  tutta  naturale. 
A  me  sembr6  a  prima  vista  che  fosse  agitata  da  violento  e  continue 
assalto  nervoso;  ma  la  poveretta  credendo  in  vece  di  essere  stata 
ammaliata  dal  budda,  e  I'immaginazione  accrescendo  il  male  e  la 
paura,  si  teneva  per  morta.  Li  per  li  ordinai  alcuni  bagnuoli  di  acqua 
fredda  nelle  parti  piu  sensibili  del  corpo,  e  le  diedi  ad  aspirare  al- 
cune  goccie  di  etere,  che  trovai  nella  mia  piccola  farmacia.  Sembr6 
riscuotersi  un  poco,  ma  tosto  ricadde  nello  stesso  letargo.  GFindi- 
geni  mi  dicevano  che  con  una  medicina  da  loro  conosciuta  ed  usata, 
si  riusciva  a  far  subito  parlare  questi  ammalati:  ma  che,  per  quante 
ricerche  si  fossero  fatte,  non  era  stato  possibile  trovarne.  Di  che 
medicina  parlassero  non  saprei  dire,  certo  avra  dovuto  essere  una 
qualche  erba  fortemente  eccitante,  di  cui  abbondano  quei  paesi 
caldi.  Intanto  non  sapendo  che  mi  fare  (poich6  la  mia  scienza  me- 
dica  era  assai  limitata),  consigliai  di  spogHarla,  e  poi  versarle  ad- 
dosso  una  grande  quantita  di  acqua  fredda.  Ritornato  la  mattina 
seguente,  la  trovai  in  migliore  stato,  ed  avendo  riacquistato  la  pa 
rola,  mi  disse  che  il  male  lo  avvertiva  piu  allo  stomaco,  che  a  qua- 
lunque  altra  parte  del  corpo ;  onde  fatto  spremere  un  po'  di  olio  di 
ricino,  il  cui  frutto  Ik  e  abbondantissimo,  e  datogliene  una  buona 
dose,  n'ebbe  buon  effetto,  e  mise  fuori  un  qualche  verme.  Com- 
presi  allora  la  causa  del  male,  e  replicata  per  altri  due  giorni  la  me- 
desima  purga,  rigett6  una  quantitk  si  straordinaria  di  vermi  che 
tutti  ne  restarono  meravigliati.  Certamente  se  avesse  ritenuto  in 
corpo  tutti  quegli  animali,  ne  sarebbe  morta,  e  tutti  avrebbero 
creduto  che  la  poveretta  fosse  stata  vittima  del  budda !  .  .  . 

ENTRATA  NEL  CAMPO  DEL  MIO  APOSTOLATO* 

.  .  .  Insistendo  continuamente  presso  Workie-Iasu,  finalmente 
giunse  il  giorno  tanto  sospirato  di  volare  verso  la  terra  del  mio  apo- 
stolato.  Era  il  21  novembre  del  1852,  festa  della  presentazione  di 
i.  Ed.  cit.,  vol.  n,  dal  cap.  xv,  pp.  189-92  e  194-6. 


792  GUGLIELMO   MASSAJA 

Maria  Santissima  al  Tempio,  e  secondo  il  calendario  abissino  il  21 
Eddar*  festa  di  S.  Michele.  La  nostra  carovana  contava  dieci  per- 
sone,  oltre  gl'indigeni  che  ci  accompagnavano ;  cioe,  io  ed  Abba 
Fessah,2  Berrii  e  Morka,  i  cinque  giovani  neofiti  condotti  dal  Be- 
ghemeder,  ed  una  vecchia  donna,  addetta  al  servizio  della  farina  e 
del  pane.  Eravamo  prowisti  abbondantemente  di  ogni  cosa,  poiche 
Workie  si  era  mostrato  generoso,  ed  il  P.  Cesare3  da  Basso-Jebunna 
ci  aveva  mandato  il  necessario.  Si  parti  di  buon  mattino,  e  verso  le 
dieci  eravamo  gia  presso  la  sponda  del  flume ;  dove  il  giovane  Zal- 
laca  aspettava  per  tragittarlo  con  noi. 

2.  Scaricate  le  bestie,  ci  accingemmo  a  passare  il  flume,  ma  le 
acque  essendo  ancora  alte,  fu  necessario  tragittarlo  a  nuoto.  Io  non 
sapendo  nuotare,  mi  legarono  sotto  la  pancia  un  otre  gonfio,  ed 
avendo  ai  fianchi  Zallaca  ed  un  altro  bravo  nuotatore,  Io  passai  fe- 
Ucemente.  Segui  appresso  Abba  F&ssah,  poscia  Morka,  Berru,  ed  il 
resto  della  famiglia  con  i  servi  ed  il  bagaglio.  Giunti  alPaltra  sponda 
baciai  quella  terra,  e  spogliatomi  delle  vesti  che  indossava,  presi 
quelle  di  monaco  abissino.  Indi  accompagnato  da  F&ssah,  da  Berru 
e  da  Morka  intonai  il  Te  Deum  in  rendimento  di  grazie  al  Signore, 
che  dopo  circa  sei  anni  di  lunghi  viaggi  e  di  penosi  tentativi,  mi 
dava  finalmente  la  consolazione  di  toccare  la  terra,  che  la  Prowi- 
denza  avevami  destinata,  per  portarvi  la  luce  del  Vangelo,  e  farvi 
conoscere  ed  amare  nostro  Signore  Gesu  Cristo.  Immagini  il  let- 
tore  Io  stupore  di  quei  giovani  e  servi  nei  vedere  questa  mia  im- 
prowisa  ed  inaspettata  trasformazione :  e  quanto  dovettero  restar- 
ne  nieravigliati  nel  trovarsi  con  un  prete  cattolico,  anzi  con  un 
vescovo,  mentre  credevano  di  aver  seguito  un  mercante!  Tuttavia, 
se  prima  eransi  affidati  a  me,  e  con  gioia  ed  affetto,  perch6  mi 
riputavano  un  forestiero  di  onesti  e  cristiani  sentimenti,  venuti  a 
conoscenza  poi  della  mia  sacra  condizione,  la  loro  content ezza  si 
accrebbe  smisuratamente;  onde  tutti  insieme  si  dichiararono  felici 
di  seguirmi  dovunque  volessi,  e  restate  sempre  come  membri  della 
mia  casa  e  del  mio  ministero. 

i.  Eddar:  k  il  terzo  mesc  del  calendario  etiopico  e  comsponde  a  parte  del- 
I*ott€^>re  e  del  novembre.  2.  Abba  Fhsah:  un  giovane  religioso  indigeno, 
malamente  ordinato  sacerdote  dal  vescovo  copto  Salama,  e  che  un  lazza- 
ms£SL  ligure,  il  Bianchieri,  aveva  imprudentemente  mandato  al  Massaja,  a 
Zemi^,  pencil  ne  regolarizzasse  la  consacrazione.  3.  P.  Cesare:  padre 
Ce®tiT  da  Castelfranco,  uno  del  cappuccini  che  erano  stati  assegnati  al 
Massaja  fin  dalla  sua  prima  partenza  per  1'Africa. 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIOPIA  793 

3.  Licenziati  gli  uomini  che  ci  avevano  accompagnati  ed  assistiti 
nel  passaggio  del  fiume,  ripigliaramo  il  cammino.  Avevamo  di  fronte 
una  salita  abbastanza  lunga  per  arrivare  al  primo  altipiano  di  quella 
parte  del  Gudru;  tuttavia  messici  a  camminare  allegramente,  in  po- 
che  ore  fummo  lassu:  e  sentendoci  stanchi  ed  anche  deboli,  ripo- 
sammo  un  poco,  e  poscia  proseguendo  il  viaggio,  dopo  altre  tre 
ore  di  cammino  si  giunse  alia  casa  di  Workie-Iasu.  Era  mia  inten- 
zione  di  fermarci  in  quel  luogo  almeno  un  giorno,  per  celebrare  la 
santa  Messa,  di  cui  sentiva  tanto  bisogno,  e  cosi  confortare  lo  spi- 
rito  di  tutti  quei  miei  buoni  allievi.  E  di  fatto,  appena  arrivati, 
Morka  e  gli  altri  giovani  furono  in  moto  per  aggiustare  alFuopo 
una  capanna:  e  mentre  col  corpo  apparecchiavano  come  Marta  le 
cose  necessarie  alia  funzione,  attendevano  con  lo  spirito  come  Ma 
ria1  a  disporre  i  loro  cuori.  Poscia  vollero  tutti  confessarsi,  sperando 
di  essere  ammessi  alia  santa  comunione :  ma  se  con  tutta  convenien- 
za  poteva  appagare  il  desiderio  dei  due  antichi  proseliti  Berru  e 
Morka,  non  erami  in  verun  modo  permesso  di  contentare  i  nuovi 
neofiti :  poiche  essi  non  solo  non  erano  stati  ancora  ricevuti  formal- 
mente  nel  grembo  della  Chiesa,  ma  vi  era  pure  per  loro  la  questione 
della  validita  del  battesimo,  amministrato  dai  preti  eretici,  Que 
stione  che  per  tanti  motivi  e  da  piu  tempo  mi  teneva  in  pensiero, 
e  della  quale  faceva  d'uopo  attendere  una  decisione  da  Roma.  Per- 
ci6  risolvetti  di  comunicare  i  primi  due,  e  fasciare  gli  altri  nel  loro 
pio  desiderio. 

4.  La  mattina  adunque,  apprestata  ogni  cosa,  celebrai  la  santa 
Messa  con  tutta  la  solennita  possibile  in  quei  luoghi  ed  in  quelle 
circostanze,  assistendo  in  cotta  il  solo  Abba  F&ssah.  A  mezza  Mes 
sa  Berru,  Morka  ed  Abba  Fessah  si  comunicarono,  e  gli  altri  cin 
que  n'ebbero  tanta  pena  nel  restarne  privi,  che  stavano  li  11  per 
iscoppiare  in  pianto.  Allora  per  incoraggiarli  e  lenire  in  parte  il  loro 
dispiacere,  tenni  un'allocuzione :  dicendo  che  Gesu  Cristo  volen- 
tieri  sarebbe  entrato  nel  loro  cuore;  ma  voleva  che  fosse  megiio 
disposto,  e  adorno  di  grazie  e  di  virtu.  —  Egli  —  soggiunsi  —  da 
tutta  Teteraita  sospira  e  desidera  di  unirsi  con  voi ;  che  meraviglia 
adunque  se  anche  voi  aspettiate  e  desideriate  ancora  per  qualche 
giorno  questa  felice  unione?  Esercitatevi  perci6  giornalmente  in 
questo  santo  desiderio,  poiche  esso  &  accetto  grandemente  a  Dio, 

i.  Marta  e  Maria,  le  soreile  <li  Lazzaro,  scuio  divenute  i  simboli  rispettivi 
delk  vita  attiva  e  della  vita  contemplativa.  Vedi  Luc.t  u,  38-42. 


794  GUGLIELMO   MASSAJA 

e  servira  a  rendervi  piu  degni  delle  sue  sante  carni  e  del  suo  prezio- 
sissimo  sangue.  —  Cosi  fini  quella  funzione,  quanto  semplice,  al- 
trettanto  commovente,  celebrata  per  la  prima  volta  in  terra  barbara 
e  pagana. 

5.  II  giorno  appresso  rimessici  in  viaggio,  dopo  poche  ore  si 
giunse  al  vasto  altipiano  del  Gudru,  e  ci  avviammo  ad  Asandabo,1 
dove  ci  era  stata  preparata  una  casa  da  Gama-Moras.  Fummo  ri- 
cevuti  con  grandi  dimostrazioni  di  affetto,  e  trattati  con  ogni  ri- 
guardo.  In  Abissinia  arrivando  in  qualche  paese  forestieri  ragguar- 
devoli,  si  stende  per  terra  una  pelle  nelPinterno  delle  capanne,  su 
cui  s'invitano  a  sedere;  ma  fra  i  Galla  si  offre  loro  una  sedia,  sem 
plice  si,  ma  solida  e  comoda,  e  si  ricevono  quasi  sempre  alPaperto; 
poich£  in  casa  non  si  entra  che  per  mangiare  e  dormire.  Ai  padroni 
viene  subito  oiFerto  idromele,  ed  ai  servi  e  compagni  birra.  Le  don- 
ne  in  queste  occasion!  raramente  escono  fuori,  ma  attendono  a  fare 
i  loro  compliment!  quando  i  forestieri  entrano  in  casa  per  mangiare. 
Dopo  breve  conversazione  vengono  introdotti  nelle  capanne  loro 
destinate,  e  tosto  si  preparano  i  letti  e  si  ammannisce  il  pranzo. 

La  capanna  principale,  che  ad  Asandabo  ci  venne  assegnata,  era 
abbastanza  grande,  ma  non  tanto  spaziosa  per  contenere  tutta  la 
famiglia,  e  darci  il  comodo  di  alzarvi  una  cappella:  onde  si  dovette 
dividere  con  cortine,  poiche"  di  un  piccolo  oratorio  avevamo  assolu- 
tamente  bisogno.  Per  alcuni  giorni  Gama- Moras  ci  mand6  pranzo 
e  cena,  e  ci  prowide  di  ogni  cosa  necessaria:  ma  poi,  presa  cono- 
scenza  del  villaggio  e  delle  persone,  pensammo  a  tutto  da  noi .  . . 

8.  Appena  giunti  in  Gudru,  ed  assestata  alia  meglio  quella  casa, 
diedi  opera  airapostolato,  prima  rispetto  a  coloro  che  formavano 
la  mia  famiglia,  e  poscia  pel  gregge  che  il  Signore  ci  aveva  affidato. 
Gia  mi  era  proweduto  di  un  piccolo  manuale  contenente,  tradotte 
in  lingua  galla,  le  preghiere  del  mattino  e  della  sera,  ed  un  concise 
catechismo  sulfunitk  e  trinita  di  Dio,  suH'incarnazione  del  Verbo, 
sul  decalogo,  sui  sacramenti,  ed  altri  punti  principal!  della  fede, 
sufficient!  per  disporre  un  neofito  ai  battesimo.  Questo  manuale 
si  doveva  recitare  in  famiglia  mattina  e  sera  immancabilmente ;  e 
quando  io  poCeva,  non  lasciava  di  spiegarne  il  significato,  e  tenere 
opportune  conferenze.  Ohre  ai  miei  famigliari,  intervenivano  pure 
a  queste  pratidbe  religiose  alcuni  della  casa  di  Gama- Moras  e  delle 

f  k  citti  principak  del  Gudru,  fu  il  centre  maggiore  della  nuova 


MISSIONE   NELL'ALTA   ETIOPIA  795 

famiglie  vicine :  a  mano  a  mano  poi  che  la  Missione  si  stabiliva  e  si 
allargava,  Finsegnamento  religioso  si  dava  con  una  maggiore  am- 
piezza,  e  piii  volte  al  giorno;  ne  era  lecito  esimersene,  poich6  questa 
pratica  divento  ben  presto  un  punto  di  disciplina  inviolabile,  non 
solo  per  tutte  le  case  della  Missione,  ma  per  ciascun  missionario, 
anche  se  si  fosse  trovato  in  viaggio  con  uno  o  piu  compagni  e  servL 
Oltre  a  questo  stabilii  che  in  casa  un  allievo  la  facesse  da  catechista, 
e  fosse  sempre  pronto  a  ricevere  ed  accogliere  qualunque  indigeno 
o  forestiero  che  si  presentasse ;  e  dopo  avergli  usato  tuttl  quegli  atti 
di  carita  che  la  religione  e  la  civilta  comandano,  aveva  Pobbligo 
di  trattenerlo  su  qualche  punto  del  catechismo,  a  fin  di  esercitare 
Fapostolato  verso  il  popolo,  che  il  Signore  ci  aveva  mandati  ad 
evangelizzare.  A  quest'ufficio,  dal  quale  mi  prometteva  molto  bene, 
erano  destinati  i  giovani  indigeni  per  turno,  non  appena  acquistas- 
sero  una  sufficiente  istruzione. 

9.  Gama-Moras,  come  ho  detto,  ci  aveva  dato  una  capanna  gran- 
de  per  abitazione  comune,  dove  gia  avevamo  aggiustato  la  cappella ; 
una  piu  piccola  per  la  cucina  e  per  alloggiarvi  la  donna  che  ci  do- 
veva  fare  il  pane;  ed  in  fine,  un'altra  per  dorrnirvi  i  giovani.  Ma 
tutte  e  tre  non  essendo  sufficient!  ai  tanti  nostri  bisogni,  il  buon 
Gama-Moras,  senza  che  nemmeno  il  pregassimo,  ci  assegno  un 
pezzo  di  terreno,  non  molto  lungi  dal  villaggio,  per  innalzarvi  casa, 
cappella,  officine,  tutto  cio  insomma  che  per  una  Missione  nume- 
rosa  sarebbe  stato  necessario.  Ci  mettemmo  tosto  all'opra,  e  dato 
a  Berru  e  Morka  la  commissione  di  comprare  i  materiali,  e  di  cer- 
care  persone  che  aiutassero  al  lavoro,  in  pochi  giorni  fu  trovato 
tutto ;  onde  i  giovani  della  casa  ed  alcuni  indigeni  a  noi  vicini  si  pre- 
starono  con  tanto  zelo  ed  affetto,  che  in  breve  i  materiali  essendo 
al  posto,  furono  cominciate  le  o>struzioni;  ed  aiutati  da  Gama- 
Moras,  si  lavord  con  tanto  genio  e  premura,  che  pel  Natale  po- 
temmo  celebrare  Messa  nella  nuova  cappelia,  ed  in  gennaio  recarci 
tutti  ad  abitare  la  nostra  nuova  e  comoda  casa. 

10.  Otto  giorni  dopo  il  nostro  arrive  in  Asandabo,  giunse  Workk- 
lasu.  Quel  buon  ftt&rari  sentendo  dagli  uornini  che  ci  avevano  ac- 
compagnato  ed  aiutato  a  passare  il  fiurae,  che  il  signor  Bartorelli 
aveva  cambiato  il  tarb&sc  di  mercante  nel  cuav1  di  monaco,  e  che 
non  era  punto  un  medico,  ma  un  vescovo  romano,  anzi  il  pcrsegui- 
tato  Abuna  M^&ias,  ne  fu  cosi  meravigliato,  che  non  voleva  pre- 
i.  tarbiisc  .  .  .  mot?:  cc^>ricapi. 


796  GUGLIELMO    MASSAJA 

starvi  fede,  ne"  sapeva  darsi  pace.  Risolvette  pertanto  di  venir  presto 
a  trovarmi,  per  vedere  con  i  proprii  occhi  come  stessero  le  cose, 
congratularsi  meco  e  raccomandarmi  ai  suoi  amici  del  Gudru.  Di 
fatto  dopo  otto  giorni  eel  vedemmo  comparire ;  e  poiche  non  sola- 
mente  era  conosciuto  da  tutti,  ma  stimato  e  rispettato  come  un  pa- 
rente  delle  prime  famiglie  del  Gudru,  fu  ricevuto  con  grandi  feste  e 
dimostrazioni  d'onore.  In  quest'occasione  Gama-Moras  voile  dare 
un  gran  pranzo,  invitando  le  persone  piu  ragguardevoli  del  paese, 
sia  per  onorare  il  principe  di  Zemie,  sia  ancora  per  far  meglio  cono- 
scere  1* Abuna  romano ;  e  riuscito  quel  pranzo  numeroso  e  solenne, 
in  fine  Workie  si  alzo,  e  alia  presenza  di  quella  illustre  comitiva 
comincid  a  dire  le  mie  lodi.  Prese  a  raccontare  mimitamente  la 
mia  vita  tenuta  a  Zemie" » con  concetti  ed  aneddoti  si  bizzarri  e  poetici 
che  sembrava  recitasse  un  romanzo;  si  congratu!6  poscia  delPac- 
quisto  prezioso  che  aveva  fatto  il  Gudru,  e  fini  con  una  serie  di 
augurii  e  di  predizioni  favorevoli  alia  Missione,  che,  a  dire  il  vero, 
mi  consolarono  grandemente.  In  quelPoccasione  tanto  era  Pen- 
tusiasmo  suscitato  dalle  parole  di  Workie-Iasu,  che  la  Missione  del 
Gudru  parve  tutta  inghirlandata  di  rose ;  ma  sgraziatamente  non  vi 
SOBO  rose  senza  spine. 

ii.  Mentre  di  fatto  eravamo  tutti  con  Panimo  ricolmo  delle  piu 
belle  speranze,  una  notizia  venne  a  turbare  la  nostra  allegria.  Un 
corriere,  venuto  dal  Goggiam,  richiamava  con  sollecitudine  Workie- 
Iasu  a  Zemie1,  perch£  gravi  avvenimenti  px>litici,  accaduti  nelle  pro- 
vincie  centrali,  stavano  per  mutare  le  sorti  delPAbissinia.  II  cor 
riere  diceva  inoltre  che  degiac  Gosci6,  uno  dei  piu  valorosi  generali 
di  Ris  Aly,  e  protettore  di  Workie-Iasu,  mandate  a  combattere  con 
Pesercito  del  Ris  contro  degiac  Kassa,  era  stato  ucciso,  e  Pesercito 
fatto  prigioniero.  Le  conseguenze  di  questa  sconfitta  si  vedranno 
appresso.1 


i.  Le  comegwenze , . .  apprcs&o:  come  gi^  abbiamo  detto,  degiac  Kassa^  preso 
ii  name  di  TecxJoro,  divenne  sovnmo  assoluto  dcll'Abissinia  (vedi  le  note 
3  m  p.  771  e  2  a  p.  772). 


MISSIONE   NELL'ALTA   ETIOPIA  797 


[L'INNESTO  DEL 

Dope  mezzanotte,  svegliati  i  servi,  partii  dal  villaggio  di  Cioma,* 
accompagnato  da  Avietu,3  da  una  guida  di  Gombo  e  d'alcuni  gio- 
vani  della  casa ;  e  prima  che  spuntasse  il  sole  eravamo  gia  alia  sponda 
del  lago,  dove  ci  fermammo  per  aspettare  il  resto  della  carovana, 
che  sarebbe  partita  dopo  la  preghiera  comune.  DalPaltipiano  del 
Gudru  sino  al  fondo  della  vallata,  in  cui  si  stendeva  il  lago,  vi  era 
un  pendio  di  circa  cento  metri,  seminato  tutto  di  cipressi  gigante- 
schi,  di  sicomori,  di  podocarpus,  di  mimose  e  di  altri  arbusti  e 
cespugli  selvatici.  Questo  boschetto  forniva  quella  gente  delle  bar- 
che,  o  meglio  delle  zattere  per  passare  dall'una  all'altra  sponda; 
poiche  abbattendo  uno  di  quei  grandi  alberi,  ne  troncavano  un  cin 
que  metri  nella  sua  maggiore  grossezza,  e  poi  facendovi  un  cavo  di 
circa  un  metro  largo  e  profondo,  e  di  quattro  metri  lungo,  lo  acu- 
minavano  da  un  lato,  ed  ecco  compita  la  zattera.  Dieci  persone  pote- 
vano  fare  dentro  di  essa  il  tragitto  comodamente,  e  piii  volte  vidi 
caricati  su  di  una  di  queste  zattere  due  bovi  con  tre  uomini  per 
guidarla.  Quella  mattina  che  io  vi  giunsi,  ne  trovai  una  quarantine 
sparse  sul  lago  che  mi  attendevano,  parte  della  gente  di  Gombo,  ve- 
nute  ad  incontrarmi,  e  parte  del  Gudru  per  accompagnarmi  sino 
all'altra  sponda.  Veramente  il  tragitto  su  quei  legni  a  prima  vista 
non  sembravami  tanto  sicuro:  ma  osservando  poi  la  franchezza  e 
speditezza  con  cui  li  volgevano  e  mandavano  innanzi,  mi  accertai 
che  non  vi  sarebbe  stato  alcun  pericolo  di  capovolgersi  ed  annegare. 
2.  DagFindigeni  si  dava  il  nome  di  Cidma  tanto  al  flume  ed  al 
villaggio,  quanto  al  lago  che  vi  sta  vicino:  ma  io  lo  chiamava  e  lo 
chiamo  il  lago  verde  per  la  sua  speciale  particolarita  di  essere  copper- 
to  da  uno  spesso  strato  di  vegetazione,  da  sembrare  un  gran  prato 
piano  e  verdeggiante  come  nei  giorrd  di  primavera.  Lo  strato, 

i.  Ed.  cit.,  vol.  iv,  cap.  in  (A  G#»t6d),  pp.  29-38.  2.  partii  daL  villaggio 
di  Cidma:  il  Massaja,  trovandosi  nel  Gudrii,  e  stabilito  ad  Asandabo  il  cen 
tre  della  missions,  decide  di  spingersi  al  sud,  verso  Lagamara.  6  un  via^io 
trionfale,  iniziato  ai  primi  del  settembre  1885;  una  vera  e  propria  carovana 
traversa  le  terre  in  un  cammino  di  tre  mesi,  con  soste  in  nurnerosi  villag- 
gi:  Kobbo,  Gombd,  Gobbo,  Giarri,  ecc.  Tra  essi,  qudlo  di  Cioma:  e 
Cioma  si  chiama  anche  la  vastissima  sug^estiva  palude  che  il  Massaja  de- 
nomina  lago  verde.  3.  Avutu:  dipendente  da  un  ricco  cmpK>  chiamato  ne- 
gus  Sciumi,  il  giovane  Avietu  aveva  sposato,  dopo  molte  difficolta  appianate 
dal  Massaja,  la  figlia  di  Gama-Moras,  signore  del  Gudru. 


798  GUGLIELMO    MASSAJA 

composto  di  terriccio  e  di  radici  intrecciate,  era  alto  circa  un  palmo, 
da  cui  spuntava  e  si  elevava  una  folta  erba  sottiie  delle  specie  pa- 
lu&tri,  che  da  vicino  vedevasi  ondeggiare  come  un  campo  di  grano 
nan  ancora  spigato.  Era  inoltre  si  solido  e  forte  che,  se  non  reg- 
geva  il  peso  di  un  uomo,  avrebbe  certamente  sostenuto  un  oggetto 
qualunque,  anche  pesante,  ma  con  larga  base.  DalPest  all'ovest,  os- 
sia  dalla  sponda  del  Gudrii  a  quella  di  Gombo,  si  apriva  un  canale 
libero  di  vegetazione,  che  da  lontano  sembrava  un  fiume  in  mezzo  al 
prato;  il  quale,  essendo  largo  circa  quattro  metri,  serviva  comoda- 
mente  pel  passaggio  delle  zattere,  che  andavano  e  venivano.  Questo 
kgo,  benche"  non  fosse  che  una  bassa  valle  coperta  dalle  acque  del 
flume,  tuttavia  aveva  una  grande  profondita,  segnatamente  nel  cen- 
tro;  e  secondoche  mi  diceva  quella  gente,  era  pieno  di  pesci  di  va- 
ria  grandezza  e  di  diversa  specie.  Guardandolo  sott'acqua  nella 
parte  del  canale,  quel  gran  vuoto  appariva  diviso  in  due  vaste 
grotte,  ilJuminate  dalla  luce  ch'entrava  pel  canale  medesimo,  e  per 
altre  lontane  estremita  non  coperte  di  erba,  le  quali  facevan  le  veci 
di  ahrettante  finestre.  Dali'una  e  dall'altra  sponda  del  canale  eravi 
circa  mezzo  chilometro  di  distanza:  ma  tanto  la  parte  superiore 
quanto  Tinferiore  avevan  punti  molto  larghi  e  spiaggie  frastagliate. 
A  dritta,  un  cinquanta  metri  lontano,  il  lago  era  chiuso  da  un  nudo 
scoglio,  che  lo  cingeva  come  una  diga,  aperta  solamente  in  un  lato, 
da  cui  usciva  Tacqua,  e  formava  la  cascata,  sopra  descritta.  A  si- 
nistra  poi  si  estendeva  tanto  da  non  potersene  vedere  il  limite,  e 
finiva  (secondoch^  riferivami  quella  gente),  in  un  piccolo  fiumicel- 
b,  che  rimontando  verso  est,  segnava  i  confini  del  Gudru,  e  di 
Nunnu  sino  a  Kobbo.  Molte  tradizioni  raccontano  grindigeni  ri- 
apetto  a  questo  lago,  ma  in  gran  parte  favolose :  fra  le  altre  quella 
ctie  un  esercito  nemico,  marciando  contro  il  popolo  di  Gomb6, 
gmnse  di  nottc  alia  riva  di  questo  lago,  e  per  la  fresca  erba  di  cui 
era  coperto,  credeadok)  un  prato,  seguit6  il  cammino  su  di  esso : 
ma  cedendo  quello  strato  sotto  i  loro  piedi,  miseramente  perirono 
affogati  uomini  e  cavalli. 

3.  Arrivo  finalroente  il  resto  della  carovana,  portando  seco  altre 
sei  persone,  giunte  a  Loja  la  mattina  stessa  della  mia  partenza  per 
avere  inoculato  il  vaiolo;  e  non  avendomi  trovato  cola,  eranmi  ve- 
mrti  a§^>resso,  sperando  di  raggiungermi  al  lago.  Contentati  per- 
tmnto  qiiei  poveretti,  cominciammo  ad  entrare  nelle  zattere  per  fare 
il  tragitto :  e  <k>vendo  qui  separarmi  dal  caro  Avietu,  prima  lo  ab- 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIOPIA  799 

bracciai  piu  volte,  e  poi  finalmente  lo  benedissi,  lasciandolo  in 
mezzo  ad  una  gran  commozione  e  con  gli  occhi  in  pianto.  Anche  il 
giovane  Angelo1  si  divise  dal  padrone  piangendo  e  singhiozzando,  e 
ne  aveva  ragione;  poich6  non  solamente  sino  a  quel  giorno  gli  si 
era  mostrato  come  il  piu  affettuoso  dei  padri,  ma  mettendolo  in  li- 
berta,  avevagli  fatta  tal  grazia,  che  un  altro  padrone  difficilmente 
si  sarebbe  indotto  a  concedere, 

La  zattere  intanto  lentamente  si  avanzavano,  ed  Avietu  tenendo 
gli  occhi  sempre  rivolti  a  noi,  che  lo  salutavamo  con  continui  segni 
di  addio,  non  cessava  corrispondere  con  ogni  maniera  di  saluti, 
finch6  la  lontananza  fini  col  toglierci  anche  il  piacere  di  vederci, 
Dopo  mezz'ora  di  noiosa  navigazione  su  quelle  pesanti  zattere,  che 
ad  ogni  momento  minacciavano  di  capovolgersi,  finalmente,  come 
Dio  voile,  toccammo  la  sponda  del  territorio  di  Gombo. 

4.  Questo  paese  apparteneva  prima  al  regno  di  Nunnu;  ma  poi, 
per  le  solite  ambizioni  dei  capi,  ottenuta  con  le  arm!  la  separazione, 
form6  una  provincia  a  parte  ed  indipendente.  Al  nord  confinava  con 
Hurru-Galla,  alPovest  con  Sibu,  al  sud  con  Giarri,  ed  all'est  con 
Nunnu,  restando  il  Gudrii  a  nord-est.  Tutti  questi  principati,  di 
origine  e  sangue  galla,  appartenevano  in  principle  alia  razza  par- 
ticolare  di  Gemma,  la  quale  poi  dividendosi  e  suddividendosi,  era- 
no  sorti  i  sopraddetti  principati2  e  molti  altri  con  diversi  nomi  e 
capi. 

Noi  intanto  messo  piede  a  terra,  fummo  ricevuti  con  molta  cor- 
tesia  e  benevolenza  dai  parenti  di  Avietu,  che  ci  erano  venuti  in- 
contro;  e  mentre  si  aspettava  il  resto  del  mio  seguito,  che  veniva- 
sene  dentro  un'altra  zattera,  la  guida  di  Gombo,  ch'era  stata  con  noi 
lungo  quel  viaggio,  raccontava  con  grande  ampollosita  ai  suoi 
compaesani  il  bene  che  io  aveva  fatto  alia  gente  di  Cioma  coll'mo- 
culazione  del  vaiolo.  Nel  qual  tempo  senza  punto  badare  alle  me- 
raviglie  da  lui  narrate,  me  ne  stava  ad  osservare  il  lago,  che  da  quelia 
parte  vedevasi  in  tutta  la  sua  maggiore  lunghezza,  segnatamente 
verso  la  sorgente ;  e  gia  si  scopriva  la  lingua  del  fiuroe,  che,  lambendo 
i  confini  sud  del  Gudru  e  nord  di  Nunnu,  veniva  a  gettarsi  nel  lago. 

i.  Angela:  un  giovinetto,  gia  schiavo  di  Avietu,  e  battezzato  dal  Massaja, 
ch«  acxxanpagnava  il  padrone  cc^ne  porta-scudo :  ma  durante  il  viaggio 
aveva  chiesto  al  Massaja  di  seguirlo  come  discepalo,  e  Avietu  aveva  coi*- 
sentito.  2.  i . . .  prmdpati;  tutto  il  territorio  era  formato  di  numerosi,  pk- 
coli  regni,  cfae  definitivamente  scxHnp«rvero  quando  TEtiopia  fu  unificata 
da  Teodoro  prima  e  poi  da  Giovanni  IV, 


800  GUGLIELMO   MASSAJA 

I  giovani  poi  che  guidavano  le  zattere  divertivansi  a  fare  giuochi 
e  lotte  dentro  1'acqua,  gettandovisi  dentro,  guizzando  come  pesci,  e 
nascondendosi  sotto  quello  strato  di  erba,  per  ricomparire  poi  al- 
rimprowiso  in  questo  ed  in  quel  punto  della  finta  pianura,  secon- 
doche  trovavano  qua  e  la  una  qualche  crepaccia,  o  la  superficie  li- 
bera  di  vegetazione,  o  con  lo  strato  facile  a  rompersi. 

5.  Sbarcati  gli  altri  miei  compagni  di  viaggio,  si  parti  subito,  e 
dopo  un'ora  di  cammino  giungemmo  alia  casa  dei  parenti  di  Avietu, 
che  gia  ci  aspettavano  e  ci  avevano  preparato  due  belle  capanne 
per  alloggio.  Gombo  sino  a  quel  giorno  non  aveva  mai  veduto  un 
bianco  passare  pel  suo  territorio;  laonde  la  mia  comparsa  fu  per 
quella  gente  un'apparizione  nuova  e  straordinaria.  Per  istrada,  e 
giunti  al  villaggio,  tutti  correvano  verso  di  noi,  curiosi  di  vederci: 
ma  appena  scoprivano  la  mia  persona  e  la  mia  faccia,  scappavano 
via,  principalmente  le  donne  ed  i  fanciulli,  come  alia  vista  di  un 
orco.  Quale  impressione  facessi  sulla  loro  immaginazione  vera- 
mente  non  saprei  dire:  in  un  paese  dove  tutto  e  prestigio  e  super- 
stizione,  riesce  difficile  ad  un  forestiero  giudicare  ed  indovinare  le 
intenzioni  e  le  opinioni  delle  persone,  presso  cui  si  ritrova.  Alcuni 
esagerando  il  mio  potere,  e  credendo  che  col  solo  sguardo  potessi 
uccidere  la  gente,  od  operare  altre  mirabili  cose  a  loro  favore,  presi 
da  timore  e  da  speranza,  piuttosto  mi  guardavano  con  soggezione  e 
rispetto;  laddove  altri  riputandomi  un  essere  di  cattivo  augurio, 
che  portava  malattie,  siccita,  guerre  ed  altri  simili  malanni,  avreb- 
bero  avuto  in  vece  piacere  che  non  fossi  capitato  in  quelle  parti; 
e  molti  vi  erano  che  desideravano  e  consigliavano  di  cacciarmi  via. 

Un  bianco  pertanto  che  si  rechi  in  paesi  barbari,  fa  d'uopo  che 
prima  procuri  di  mettersi  sotto  la  protezione  di  un  personaggio  po- 
tente  e  temuto,  e  giunto  in  mezzo  a  quei  popoli,  non  si  allontani 
da  lui,  almeno  fino  a  tanto  che  non  sia  passata  la  prima  impressione, 
e  che  non  si  abbia  cattivata,  con  le  sue  maniere  dolci  e  popolari, 
Pamicizia  e  la  benevolenza  di  una  parte  della  popolazione.  Altri- 
menti  e  ben  facile  di  essere  immolato  qual  genio  cattivo  e  malefico 
dalla  stupida  ignoranza  e  superstizione  di  quella  gente;  come  in 
molti  luoghi  e  piu  volte  accaduto. 

6.  In  quanto  alia  mia  persona  non  vi  era  certamente  da  temere ; 
poiche  essendo  Gornbo  vicino  al  Gudru,  la  fama  del  bene,  che  in 
questo  regno  aveva  fatto,  si  era  sparsa  pure  in  mezzo  alle  popola- 
zioni  dei  contorni;  e  le  stesse  persone  venute  in  Gudru,  e  quelle 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIOPIA  8oi 

che  mi  avevano  accompagnato,  gia  raccontavano  a  chiunque  le  cose 
vedute  e  sentite:  quindi  dopo  qualche  giorno  tutta  quella  gente 
immancabilmente  si  sarebbe  mostrata  favorevole  e  benevola,  tanto 
verso  di  me  quanto  verso  la  Missione.  Tuttavia  faceva  d'uopo  usar 
prudenza,  a  fin  di  cattivarsi  a  poco  a  poco  Tammo  loro,  e  non  met- 
terli  in  sospetto  con  precipitose  ed  inaspettate  novita:  per  la  qual 
cosa  raccomandai  ad  Abba  Joannes1  ed  agli  altri  giovani  di  mo- 
derare  il  loro  zelo,  e  catechizzare  solo  quelli  che  spontaneamente 
fossero  venuti.  Di  fatto  dopo  pochi  giorni  era  un  andare  e  venire 
alle  nostre  capanne  di  ogni  classe  e  qualita  di  persone,  per  vederci, 
chiederci  consigli  ed  essere  istruiti,  ed  alcuni  per  domandarci  di 
dar  loro  la  medicina?  come  a  quei  di  Gudru  e  di  Cioma.  II  padrone 
di  casa  poi,  che  piii  di  tutti  era  a  conoscenza  del  bene  fatto  in  quei 
paesi,  pensate  se  volesse  lasciare  sfuggire  quella  bella  occasione, 
senza  procurare  alia  sua  famiglia  1'inaspettato  beneficio  contro  il 
terribile  flagello  del  vaiolo,  tanto  temuto  in  Gomb6 :  e  di  fatto  un 
giorno  mel  ctdese  spiegatamente  con  premurose  istanze. 

—  Caro  mio,  —  gli  dissi  —  tu  non  ignori  che  la  condizione  del 
Gudru  e  diversa  da  quella  di  Gombo :  la,  awezzi  i  popoli  a  veder 
continuamente  forestieri,  non  solo  non  han  di  loro  alcun  timore,  ma 
li  guardano  di  buon  occhio  e  li  stimano ;  laddove  Gombo,  non  a- 
vendone  mai  visti,  si  tiene  verso  di  loro  guar dingo  e  sospettoso.  Tu 
sai  inoltre  quanto  in  questo  paese  sia  temuto  il  terribile  flagello,  e 
come  tre  anni  sono,  colpita  una  famiglia  da  quella  malattia,  si  diede 
fuoco  alle  capanne,  facendo  morire  abbruciati  anche  gl'infermi  che 
vi  stavano  dentro.  Or  se  dopo  aver  inoculate  il  vaiolo  a  questa  gente 
ignorante,  vedendo  spuntare  le  pustole,  credessero  che  io  avessi 
comunicato  loro  la  malattia;  non  potrebbero  per  awentura  metter 
fuoco  alia  mia  casa,  o  farmi  qualche  altro  brutto  scherzo  ?  Da  parte 
mia  non  nego  a  nessuno  i  benefizii  della  carita  cristiana,  ma  non  vo- 
glio  esporre  me  stesso  e  la  Missione  imprudentemente  a  pericoli. 
Inoltre,  dovendo  vaccinare  tutta  questa  gente,  sarei  costretto  fer- 
marmi  almeno  una  settimana,  e  ritardare  notevolmente  il  mio  viag- 
gio,  molto  piu  che,  passando  per  Giarri  e  per  Gobbo,  mi  si  chiedera 
da  quei  popoli  lo  stesso  favorer  e  quindi  non  si  sa  quando  potrei 
giungere  a  Lagamara.  Tuttavia,  poiche  il  Signore  mi  ha  mandato 

i.  Abba  Joannes:  e  il  nome  assunto,  con  la  consacrazione  a  sacerdote,  dal- 
1' indigene  Morka  (vedi  la  nota  i  a  p.  781).  2.  la  medicinal  il  siero  contro 
il  vaiolo. 

si 


802  GUGLIELMO   MASSAJA 

in  queste  parti  per  far  del  bene,  con  due  condizioni  prometto  ac- 
consentire  a  cio  che  mi  chiedete:  la  prima,  che  tutti  i  capi  del  paese 
riuniti  vengano  a  domandarmi  d'inoculare  il  vaiolo  ai  loro  soggetti; 
la  seconda,  che  si  mandino  persone  in  Gudru  ed  a  Cioma,  e  dopo 
aver  veduto  Teifetto  di  quello  che  operai  cola,  ritornino  ed  assicu- 
rino  il  popolo  deirinnocuita  e  vantaggio  della  mia  medicina. 

7.  Queste  difficolta  e  condizioni  io  le  metteva  innanzi,  prima 
per  dare  importanza  all' opera  mia,  ed  in  secondo  luogo  per  guar- 
darmi  le  spalle  da  qualche  poco  gradita  sorpresa,  che  mi  avrebbero 
potuto  fare  quei  popoli  ignoranti  e  superstiziosi :  ma  in  cuor  mio 
desiderava  di  metter  mano  subito  al  lavoro,  poco  curandomi  dei 
pericoli  e  del  tempo  che  ci  sarebbe  voluto  per  vaccinare  tutta  quella 
gente.  Mandate  dal  Signore  a  compiere  Popera  sua  nelle  regioni 
dell' Africa,  non  mi  credeva  legato  ne  al  Gudru  n6  a  Lagamara,  ma 
riputava  unica  e  grave  mia  obbligazione  quella  di  far  conoscere 
Gesu  Cristo  ed  il  suo  Vangelo  a  tutti  indistintamente :  il  fermarmi ' 
adunque  in  mezzo  a  quel  popolo,  che,  appena  dopo  pochi  giorni 
di  conoscenza,  si  belle  disposizioni  mostrava  verso  la  mia  persona, 
era  una  savia  risoluzione.  Contentando  inoltre  quei  poveri  barbari, 
mi  avrei  cattivato  la  loro  aifezione,  mi  sarei  reso  popolare,  e  punto 
sospetto ;  e  cosi  avrei  avuto  agio  e  liberta  di  compiere  meglio  presso 
di  essi  il  mio  aspostolico  ministero ;  non  solo  in  quell'occasione  di 
breve  fermata,  ma  anche  in  awenire,  se  il  Signore  mi  avesse  prov- 
veduto  di  nuovi  soggetti,  per  impiantare  ivi  una  Missione.  Certo, 
per  giungere  ad  ottenere  tutti  questi  beni  richiedevasi  del  tempo, 
e  per  parte  nostra  lunghe  noie  e  fatiche:  ma  il  missionario,  che  la- 
scia  la  sua  patria,  e  si  reca  in  paesi  barbari,  non  vi  va  per  passar 
la  vita  in  divertimenti  ed  in  cerca  di  geniali  curiosita,  bensi  per 
lavorare,  aiutare  i  proprii  fratelli,  e  ricondurli  a  Gesu  Cristo,  pronto 
sempre  a  sofFrire  qualunque  disagio  per  si  santo  e  caritatevole  sco- 
po.  Se  io  fossi  andato  la  con  altre  disposizioni  e  per  altri  fini,  non 
avrei  certamente  potuto  durarla  tanti  anni  in  mezzo  a  gente  grosso- 
lana,  sospettosa,  ignorante  e  talvolta  crudele,  circondata  di  miserie, 
piena  d'insetti,  e  punto  scrupolosa  a  togliersi  di  torno  un  forestiere : 
ma  tostoche  lasciai  TEuropa  e  giunsi  cola,  tutti  quei  tapini  diven- 
nero  miei  figli,  e  per  conseguenza  le  loro  miserie  ed  i  loro  bisogni 
dovevano  essere  la  mia  eredita  e  1'oggetto  del  mio  zelo.  Laonde  nei 
pericoli,  nelle  dure  fatiche  e  nelle  occasioni  difficiK  soleva  dire  a 
me  stesso:  «Alza  gli  occhi  al  cielo,  e  poi  fa  il  tuo  dovere  e  tira  in- 


MISSIONE  NELL'ALTA   ETIOPIA  803 

nanzi;  quando  morirai,  tutto  sara  finite,  e  si  chiudera  la  tua  cam- 
pagna». 

8.  II  padrone  di  casa  intanto  non  cessava  d'insistere,  abbattendo 
ogni  mia  difficolta;  in  fine  mi  disse:  —  £  vero  che  il  nostro  paese, 
non  awezzo  a  veder  forestieri,  non  ha  con  essi  domestichezza  e 
non  li  ama;  ma  voi  siete  un'eccezione,  ed  io  vi  accerto  che  tutti  vi 
stimano  e  vi  portano  affetto.  Molti  del  nostro  paese,  frequentando 
il  mercato  di  Asandabo,  vi  hanno  la  veduto,  han  conosciuto  la  vo- 
stra  famiglia,  han  sentito  parlare  del  bene  che  facevate;  e  ritornati 
in  Gomb6,  avendo  riferito  ogni  cosa  a  questa  gente,  tanto  desiderio 
si  aveva  di  vedervi  anche  in  mezzo  a  noi,  che  stavamo  gia  per  ve 
nire  a  pregarvi  di  farci  una  visita.  Ora  che  il  Signore  vi  ci  ha  man- 
dato  spontaneamente,  come  potremo  starcene  quieti  senza  avere 
ottenuto  quel  bene  che  altrove  avete  fatto  ?  Per  carita  non  negateci 
cio  che  cosi  generosamente  avete  dato  ad  altri;  che  tutto  il  paese 
ne  sarebbe  dolente,  e  non  vi  lascerebbe  andar  via  libero  e  tranquillo. 

10  parlero  ai  capi,  e  riferiro  loro  quanto  giorni  sono  mi  diceste: 
ma  gia  so  che  tutti  risponderanno  di  esser  pronti  a  far  quello  che 
voi  vorrete,  purche  diate  anche  a  noi  la  medicina  del  vaiolo. 

—  Ebbene,  —  risposi  allora —  quand'e  cosi,  cominceremo  in  no- 
me  di  Dio:  e  prima  vacciner6  quei  della  tua  famiglia,  che  non 
hanno  ancora  sofTerto  questa  malattia.  Pero  ti  awerto  che,  se  fos- 
sero  molti,  sarebbe  meglio  dividerli  in  due  drappelli;  poiche  am- 
malandosi  tutti  grinoculati  nel  settimo  giorno,  la  tua  casa,  almeno 
per  tre  giorni,  resterebbe  senza  servizio :  ed  e  bene  che  ci6  Io  sap- 
piano  anche  tutte  quelle  persone,  che  hanno  famiglia  numerosa, 
afEnche  non  abbiano  a  soffrire  poi  un  tale  incomodo  e  disturbo. 

9.  Cominciai  adunque  la  noiosa  fatica,  ed  in  quel  giorno  inoculai 

11  vaiolo  a  quindici  persone  della  casa  del  mio  protettore.  I  primi 
si  accostavano  tremando,  sia  per  la  ripugnanza  che  avevano  di  av- 
vicinarsi  a  me,  quasi  fossi  un  animale  feroce,  sia  per  timore  del 
ferro  che  teneva  in  mano.  I  piccoli  principalmente  sembravano 
tanti  diavoletti,  e  bisognava  che  nel  tempo  delPoperazione  li  te- 
nessero  fortemente  due  persone  per  farli  stare  un  po*  fermi ;  e  poi 
che  non  mancavano  in  fine  di  lasciarmi  addosso  qualche  regalo  o 
d'insetti  o  di  cose  punto  odorifere,  fui  costretto  coprirmi  con 
una  gran  pelle,  che  legata  al  collo  ed  al  cinto,  mi  dava  Taspetto  di 
un  macellaio  o  di  qualche  cosa  simile.  Una  giovane,  prossima  a 
maritarsi,  non  voleva  punto  sentire  d'inoculazione ;  ma  i  parenti 


804  GUGLIELMO   MASSAJA 

tanto  dissero  e  fecero,  che  la  trascinarono  alia  capanna:  giunta  pero 
davanti  a  me,  sputommi  in  faccia  e  scapp6  via.  Quantunque  a  poco 
a  poco  il  timore  e  la  ripugnanza  andassero  diminuendo,  pure  nei 
primi  otto  giorni  non  vi  fu  un  gran  concorso,  essendosene  presen- 
tati  circa  un  centinaio ;  laonde  quasi  mi  consolava  che,  sbrigandomi 
in  pochi  giorni,  avrei  potuto  presto  partire :  ma  non  fu  cosi ;  poiche 
se  la  maggior  parte  stavasene  lontana,  era  appunto  per  vedere  e 
provar  prima  sugli  altri  Teffetto  che  Finoculazione  avrebbe  prodot- 
to.  E  questa  maliziosa  curiosita  mi  fece  stare  alcuni  giorni  in  timo 
re,  non  sapendo  qual  giudizio  quegl'ignoranti  e  superstiziosi  avreb- 
bero  fatto,.alPapparire  della  pustola  e  dei  sintomi  relativi.  Di  fatto, 
vedendo  da  principio  che  la  piccola  ferita  subito  asseccava,  giudi- 
carono  che  fosse  cosa  da  nulla :  ma  osservando  il  settimo  giorno  che 
i  primi  quindici  furono  presi  dalla  febbre,  e  comincio  ad  apparire 
sulla  parte  dell'inoculazione  la  piccola  pustola,  credettero  che  con 
quel  mezzo  fosse  venuto  loro  il  vero  vaiolo ;  onde  non  solo  si  fug- 
givano  Tun  Taltro  come  appestati,  ma  nessuno  si  accosto  piu  alia 
mia  capanna.  Dopo  i  tre  giorni  poi,  vedendo  che  il  male  si  limitava 
a  quella  piccola  pustola,  e  che,  cessata  la  febbre,  non  si  sentiva  altro 
incomodo,  rinacque  la  confidenza,  e  tutti  si  pentirono  di  non  esser 
venuti  prima  a  ricevere  la  medicina. 

10.  Quindi  comincio  a  presentarsi  una  folia  si  grande,  che  non 
mi  dava  tempo  n6  di  mangiare,  ne  di  pregare,  ne  di  dormire; 
fanciulli,  giovani,  adulti,  di  ogni  condizione  e  sesso,  assediavano  la 
capanna  di  giorno  e  di  notte,  si  disputavano  la  precedenza,  e  mi- 
nacciavano  di  venire  alle  mani.  lo  aveva  dato  ordine  di  non  rice- 
verne  piu  di  trenta  al  giorno,  e  non  insieme  ed  alia  stessa  ora:  ma 
furono  vane  parole;  poiche,  appena  sorta  Faurora,  cominciava  a 
sfilare  una  processione  di  gente  che  non  finiva  se  non  a  tarda  sera. 
Sentendomi  venir  meno  per  la  stanchezza,  un  giorno  chiamai  Abba 
Joannes  (cui  gia  aveva  insegnato  la  maniera  d'inoculare)  per  amtar- 
mi  a  sbrigare  tutta  quella  gente :  ma  appena  lo  videro  metter  mano 
all' ago,  tutti  quanti  se  ne  allontanarono  dicendo:  —  La  tua  saliva  e 
sporca  come  la  mia.  —  Cosicche  dovette  ritirarsi,  e  continuare  io 
la  noiosissima  fatica.  La  ragione  di  questa  espressione,  o  meglio 
pregiudizio,  era  la  seguente:  trovando  io  talvolta  il  pus  un  po' 
secco,  soleva  bagnarlo  ed  inumidirlo  con  la  mia  saliva;  or  da  ci6 
quella  gente  prese  motivo  a  credere  che  la  virtu  della  medicina 
stesse  piuttosto  nella  saliva  che  nel  pus:  e  poiche  Abba  Joannes 


MISSIONE   NELL'ALTA   ETIOPIA  805 

non  era  un  bianco  come  me,  ma  un  nero  come  loro,  non  sapevano 
quindi  persuaders!  che  la  saliva  di  un  nero  avesse  la  stessa  virtu  di 
quella  di  un  bianco.  Talmente  poi  questo  pregiudizio  era  entrato 
nelle  loro  menti,  che  se  avessi  voluto  inumidire  il  pus  con  acqua 
anziche  con  la  saliva,  nessuno  sarebbesi  accostato  a  farsi  inoculare ; 
perche  secondo  loro  la  medicina  non  avrebbe  avuto  la  vera  e  me- 
desima  virtu.  Ecco  con  che  sorta  di  gente  mi  toccava  aver  da  fare! 

11.  II  maggior  concorso  duro  una  settimana,  con  piu  di  cento 
persone  al  giorno ;  poi  diminui  gradatamente,  e  finita  la  prima  quin- 
dicina,  non  venivano  che  alcuni  di  lontano :  cosicche,  fatto  conto,  fu 
inoculate  il  vaiolo  a  piu  di  mille  persone.  Di  questi  ne  ritornarono 
un  dieci  o  dodici,  cui  non  era  venuta  febbre,  ne  apparsa  la  pustola; 
onde  giudicando  che  per  la  confusione  non  fosse  stata  fatta  bene 
Finoculazione,  replicai  Pinnesto,  che  a  due  soli  usci  naturale,  lad- 
dove  agli  altri  non  fece  alcun  effetto.  Probabilmente  cio  accadeva 
per  avere  avuto  nell'infanzia  il  vaiolo,  senza  ch'eglino  se  ne  ricor- 
dassero,  o  i  parenti  ne  avessero  conservato  memoria.  Fra  tutti 
gl'inoculati  poi  a  circa  quindici  spunto  un  vero  vaiolo  con  molte 
pustole  sparse  per  tutto  il  corpo;  pero  piu  mite  delPepidemico,  e  si 
benigno,  che  dopo  otto  giorni  restarono  perfettamente  guariti.  At- 
tribuii  questa  crisi  piuttosto  a  disposizione  particolare  che  ad  in- 
flusso  epidemico,  molto  piu  che  i  sintomi  si  manifestarono  il  set- 
timo  giorno,  come  in  tutti  gli  altri;  ne  prima  ne  dopo,  come  spesse 
volte  mi  e  accaduto  vedere  nelle  epidemic.  Intanto  questo  caso 
fu  per  me  una  prowidenza:  poich6  da  loro  potei  raccogliere  una 
grande  quantita  di  pus,  di  cui,  dopo  tutte  le  inoculazioni  fatte 
dal  Gudru  a  Gombo,  aveva  estremo  bisogno.  Le  richieste  inoltre 
di  quei  paesi  e  villaggi,  dond'era  passato,  awertendomi  che  si  sa- 
rebbero  accresciute  andando  innanzi,  faceva  d'uopo  esserne  sem- 
pre  ben  prowisto ;  e  gia  ne  aveva  raccolto  tanto  che  per  piu  anni 
avrei  potuto  dormir  tranquillo. 

12.  Fra  tutti  coloro  ch'ebbero  innestato  il  vaiolo,  piu  di  un  cen- 
tinaio  erano  bambini  e  fanciulli  sotto  i  due  anni;  or  dolevami  il 
cuore  di  lasciare  quelle  anime  innocenti  senza  la  grazia  del  santo 
battesimo;  molto  piu  che  tanti  sarebbero  morti  prima  di  giungere 
alPuso  della  ragione.  Se  vi  fosse  stata  speranza  di  poter  mandare 
qualche  missionario  in  quelle  parti  per  continuare  Papostolato,  avrei 
potuto  soprassedere :  ma  pur  troppo  questa  speranza  dileguavasi 
sempre  piu;  poiche  ne  dalla  costa,  ne  dagli  altri  luoghi  mi  si  pro- 


806  GUGLIELMO   MASSAJA 

mettevano  sacerdoti;  onde  mancando  i  ministri,  quelle  creaturine 
sarebbero  andate  alFaltro  mondo  con  Fanima  pagana. 

Intanto,  come  fare  per  battezzare  in  quelFoccasione  i  soli  bam 
bini,  senza  suscitare  pregiudizii  e  sospetti  negli  adulti  ?  Poiche  que- 
sti,  vedendo  dare  Facqua  ai  battezzandi  nel  tempo  che  s'inoculava 
loro  il  vaiolo,  certamente  riputando  quelFatto  in  relazione  colFin- 
nesto,  tutti  mi  avrebbero  chiesto  di  farlo  sopra  di  loro ;  il  che  era 
impossibile  concedere,  perche  non  ancora  istruiti  e  convertiti.  In- 
ventai  perci6  uno  stratagemma;  cioe,  diedi  ordine  che  ciascuno  dopo 
Finoculazione  si  dovesse  recare  da  Abba  Joannes  per  ricevere  Fac- 
qua  benedetta  sulla  testa.  Naturalmente  con  Abba  Joannes  si  era  ri- 
masti  d'accordo  di  versare  Facqua  sugli  adulti  recitando  la  formola 
comune  di  semplice  benedizione,  e  sui  bambini  amministrando  loro 
il  santo  battesimo.  Cosi  anche  a  Gomb6  lasciai  molti  veri  figli  di 
Dio,  pronti  a  volarsene  in  paradiso  se  fossero  morti  nella  sua  gra- 
zia;  ed  oltre  a  questi  si  diede  anche  il  battesimo  pubblicamente  ad 
alcuni  giovani  d'ambo  i  sessi,  figli  di  mercanti  cristiani  delFAbis- 
sinia,  cola  stabiliti,  ed  istruiti  in  quel  mese  da  Abba  Joannes  e  dagli 
altri  miei  allievi. 


GUERRA  FRA  LAGlMARA  E   CELIA1 

Riposato  un  poco,  chiamai  il  P.  Hajlu  Michele2  per  darmi  rela 
zione  di  ci6  che  si  era  fatto  nella  Missione,  delFandamento  della 
famiglia,  e  del  profitto  e  disposizione  di  quei  popoli  verso  il  catto- 
licismo:  e  vedendo  che  i  lavori  della  casa  erano  stati  interrotti,  e 
che  per  tutta  la  famiglia  non  vi  fosse  comodo  e  nemmeno  suffi- 
ciente  alloggio,  gli  domandai  la  ragione  di  questo  ritardo  e  disor- 
dine.  II  buon  Padre,  sospirando,  rispose:  —  Non  e  colpa  nostra  il 
disordine  che  Vostra  Eccellenza  lamenta,  e  Dio  voglia  che  non 
venga  peggio!  Quando  si  cominciarono  i  lavori  venne  scelto  questo 
sito,  come  il  piu  salubre  ed  il  piu  sicuro,  e  si  andava  avanti  alacre- 
mente:  ma  poi  dichiarata  la  guerra  fra  Lagamara  e  Celia,3  la  nostra 
casa  divenne  il  punto  maggiormente  pericoloso,  perche  piu  esposto 
alle  scorrerie  dei  nemici;  laonde,  scoraggiti,  cessammo  ogni  la- 
voro,  e  chi  sa  se  non  saremo  costretti  di  portare  la  casa  della  Mis- 

i.  Ed.  cit.,  vol.  iv,  cap.  v,  pp.  52-69.  2.  P.  Hajlu  Michele:  sacerdote  in- 
digeno,  consacrato  dal  Massaja  e  da  lui  mandate  innanzi  a  Lagamara. 
3.  Celia:  piccolo  regno  immediatamente  a  sud  di  Lagamara. 


MISSIONS  NELL'ALTA   ETIOPIA  807 

sione  di  la  del  fiume  ?  Dimani  verranno  i  capi  di  Lagamara,  e  sentira 
da  loro  tutta  la  gravita  della  condizione  in  cui  si  trova  il  paese.  E 
badi  ch'essi  confidano  molto  in  lei,  e  sperano  da  lei  il  trionfo  sui 
loro  nemici;  quindi  rifletta  bene  prima  di  rispondere,  e  dia  quei 
consigli  che  nella  sua  saggezza  giudichera  piu  convenienti. 

Caddi  dalle  nuvole,  e—  Dio  buono,—  esclamai—  quando  sperava 
di  goder  qua  un  riposo  alle  tante  fatiche  e  persecuzioni  sofferte,  tro- 
vo  in  vece  nuove  angustie,  torbidi  di  guerra,  ed  anche  il  pericolo  di 
esser  cacciato  via  e  di  aver  distrutta  la  casa!  Veramente  credeva  che 
dimani  venissero  a  chiedermi  Pinoculazione  del  vaiolo,  e  non  sa- 
peva  che  volessero  immischiarmi  nei  loro  litigi,  pretendendo  aiuti, 
che  io  non  posso  in  verun  modo  prestare ;  poiche,  nella  loro  igno- 
ranza  e  superstizione,  attribuendo  ogni  cosa  a  prestigio  sopranna- 
turale  pagano,  e  impossibile  da  parte  mia  secondare  le  loro  false 
idee,  e  contentare  i  loro  sciocchi  capricci.  Ed  ecco  che  volendo 
schivare  Scilla,  son  vemito  a  battere  la  testa  in  Cariddi.  Dio  mio, 
siate,  ve  ne  prego,  la  guida  e  lo  scudo  del  povero  vostro  servo  in 
questi  penosi  cimenti ;  tutta  la  mia  speranza  e  riposta  in  voi. 

2.  Intanto  non  potei  piu  occuparmi  d'altro;  quella  notizia  mi 
disturb6  talmente,  che  passommi  anche  la  voglia  di  discorrere; 
laonde,  congedato  il  buon  Padre,  ed  andato  a  letto  per  riposare, 
mi  fu  impossibile  prender  sonno,  o  trovare  un  mezzo  che  valesse 
a  togliermi  da  quel  grave  impiccio.  Ne  poteva  confortarmi  col 
chiedere  pareri  e  consigli  ai  due  sacerdoti  indigeni;1  poiche  sapeva 
certo  che  a  cagione  della  loro  fede,  forse  un  po'  cieca,  e  della  fidu- 
cia  ch'esageratamente  riponevano  in  me,  non  mi  avrebbero  par- 
lato  spassionatamente,  ne  dato  consigli  saggi  ed  opportuni.  E  gia 
quella  sera  e  poi  in  ogni  occasione,  vedendomi  sopra  pensiero  non 
facevano  altro  che  ripetermi:  —  Si  faccia  coraggio,  si  faccia  corag- 
gio,  che  Iddio  aiutera.  —  E  forse  con  le  stesse  parole  e  con  la  me- 
desima  fiducia  spingevano  i  capi  del  paese  ad  insistere  presso  di 
me,  ed  a  sperare  nella  mia  protezionel  Intanto,  abbattuto  nel  corpo 
non  meno  che  nello  spirito,  a  mezzanotte  mi  alzai,  anche  per  ascol- 
tare  la  confessione  di  tutta  la  famiglia,  e  specialmente  di  quelli  che 
mi  avevano  accompagnato,  desiderosi  piu  degli  altri  di  ricevere 
dopo  tanto  tempo  la  santa  comunione. 

Cosi  accade  ai  poveri  missionarii;  giunti  in  un  luogo  stanchi 
dal  cammino  e  dalle  fatiche,  in  vece  di  trovare  riposo  e  materiali 
i.  due  sacerdoti  indigeni:  padre  Hajlu  e  Abba  Joannes. 


808  GUGLIELMO    MASSAJA 

sollievi,  vedendosi  circondati  di  matura  messe,  ecco  obbligati,  non 
ostante  gFincomodi  e  la  corporate  debolezza,  a  dar  mano  alia 
falce,  e  spargere  nuovi  sudori  pel  bene  delle  anime.  E  come  se  ci6 
non  bastasse,  volere  o  non  volere,  vedo.nsi  talvolta  costretti  di 
prender  parte  a  question!  e  litigi  che  trovansi  in  paese,  ed  immi- 
schiarsi  in  cose  estranee  al  loro  ministero  apostolico,  col  pericolo 
pure  di  restarne  eglino  stessi  vittima. 

Per 6  la  mattina  mi  fu  di  non  lieve  conforto  il  vedere  tutti  quei 
miei  figli  ascoltare  la  Messa  e  ricevere  la  santa  comunione  col  piu 
grande  fervore;  e  dopo  aver  loro  rivolto  un  caloroso  discorso,  si 
concluse  la  funzione,  e  si  and6  a  mangiare  un  po'  di  pane  e  latte. 
Ma  neppure  fummo  lasciati  liberi  di  finire  quella  modesta  cola- 
zione ;  poich6  radunatisi  attorno  alia  nostra  casa  una  quindicina  di 
persone,  continuamente  mandavano  messaggeri  per  farmi  premura 
di  uscire  ed  ascoltare  ci6  che  avevano  incombenza  di  dirmi.  Sicche 
trangugiati  in  fretta  pochi  bocconi,  preso  con  me  Abba  Joannes, 
per  farmi  in  caso  di  bisogno  da  dragomanno,1  uscii  alPaperto. 

3.  Quelle  persone  erano  nientemeno  che  i  capi  principali  del 
paese,  e  dato  loro  il  saluto  d'uso,  andammo  a  sederci  sotto  un  al- 
bero,  tenendosi  molta  altra  gente  alquanto  in  distanza.  Dopo  pochi 
minuti  di  silenzio,  nel  qual  tempo  tutti  se  ne  stavano  a  testa  bassa, 
come  chi  pensa  ad  una  grave  sventura,  cosi  cominciarono  a  par- 
lare.  —  Son  circa  quattro  mesi  che  Lagamara  si  trova  in  guerra  con 
Celia,  paese  confmante  con  noi,  ed  in  tutti  gli  scontri  che  abbiamo 
avuti,  Vajancf  dei  nostri  nemici  e  rimasta  sempre  superiore  alia 
nostra,  e  siamo  stati  vinti.  Ora  Iddio  ci  ha  mandato  voi,  in  cui 
riponiamo  tutta  la  nostra  fiducia  e  speranza ;  poiche  dove  siete  voi, 
cade  di  mano  la  lancia  al  nemico,  e  dove  arriva  la  vostra  saliva,  le 
malattie  piu  terribili  diventano  mosche,  e  scompaiono.  Con  le  vostre 
preghiere  faceste  trionfare  di  tutti  i  suoi  nemici  Gama-Moras,3  e 
lo  metteste  sul  trono  del  Gudru;  aiutate  anche  noi,  che  tanto  ne  ab 
biamo  bisogno  nella  presente  guerra.  Non  vi  domandiamo  di  com- 
battere  con  noi  e  per  noi,  ma  di  benedire  le  nostre  armi,  affinche 
sconfiggano  i  nemici,  e  pregare  il  vostro  Dio,  di  essere  egli  in  que 
st*  occasione  la  nostra  ajana. 

i.  dragomanno:  interprete.  2.  ly  ajana:  il  genio,  lo  spirito  protettore. 
3.  Gama-Moras  (vedi  la  nota  2  a  p.  786)  aveva  sostenuto  una  lotta  di 
supremazia  contro  un  Fufi,  capo  della  fazione  awersaria  •  la  sua  vittoria 
parve,  agli  indigeni,  dovuta  alPamicizia  del  Massaja. 


MISSIONE   NELL'ALTA   ETIOPIA  809 

Se  non  avessi  avuto  piena  conoscenza  di  me  stesso,  e  del  linguag- 
gio  ampolloso  di  quei  popoli,  vi  sarebbe  stato  motivo  d'insuper- 
birmi  al  sentire  quelle  sperticate  lodi  verso  la  mia  persona,  e  quelle 
sicure  speranze  nella  virtu  ed  efEcacia  della  mia  preghiera:  ma  il 
dico  francamente  che  quel  linguaggio,  anziche  farmi  levare  in  su- 
perbia,  mi  eccito  tale  stizza,  che  quasi  quasi  stava  per  piantarli  li 
e  ritirarmi  silenzioso  nella  mia  capanna.  Ma  riflettendo  fra  me 
stesso  che  faceva  d'uopo  usar  prudenza,  e  cercare  di  aggiustare 
alia  meglio  la  faccenda,  li  pregai  di  darmi  un  po'  di  tempo  per  esa- 
minare  bene  la  domanda;  affinche  dai  miei  consigli  e  sperati  aiuti 
non  ne  venissero  loro  maggiori  malanni. 

4.  Ritiratomi  nella  capanna,  tenni  subito  consiglio  con  i  miei 
sacerdoti,  sperando  da  essi  qualche  lume  o  indirizzo,  che  valesse 
almeno  a  farmi  trovare  una  scappatoia  qualunque  in  quell' intricate 
affare:  ma  come  sopra  ho  detto,  avendo  essi  in  me  maggior  fiducia 
degli  stessi  capi  indigeni,  e  sperando  un  gran  vantaggio  per  la 
Missione,  qualora  i  desiderii  di  quella  gente  venissero  appagati, 
segnatamente  con  una  vittoria  sui  loro  nemici,  non  cessavano  di 
consigliarmi  a  fare  il  possibile  per  contentarli.  —  Giacche  Iddio  — 
dicevano  —  ha  svegliato  nel  cuore  di  questi  pagani  tanta  fiducia 
verso  di  lei  e  della  Missione,  perche  non  dobbiamo  coltivare  e  se- 
condare  questi  sentimenti,  e  raccoglierne  poi  i  vantaggiosi  frutti  ? 

—  Si,  —  rispondeva  io  —  quanto  voi  dite  e  sperate  sarebbe  buono 
e  prezioso,  qualora  noi  avessimo  veramente  il  potere  di  fare  ci6  che 
ci  chiedono,  e  fossimo  certi  del  felice  esito  delle  cose.  Ma  se  dopo 
le  nostre  promesse  e  benedizioni,  in  vece  di  vittorie  toccassero  scon- 
fitte,  il  nostro  credito  dove  andrebbe  ?  Non  ci  troveremmo  piutto- 
sto  esposti  a  rimproveri,  a  motteggi  ed  anche  a  vendette  ?  Aggiun- 
gete  che  la  loro  fiducia  non  partendo  da  principio  soprannaturale, 
o  meglio  da  fede  che  abbiano  nel  potere  di  Dio  e  dei  suoi  ministri, 
con  animo  di  uniformarsi  alia  volonta  del  Signore,  qualora  egli  di- 
sponesse  diversamente ;  ma  da  principii  superstiziosi  e  da  credenze 
in  prestigii  ed  altre  ridicole  arti  di  potesta  umane,  noi,  che  siam 
venuti  qua  per  togliere  dalle  loro  menti  questi  errori  e  pregiudizii, 
acconsentendo  a  cio  che  ci  domandano,  non  faremo  che  alimentarli; 
il  che,  a  dire  il  vero,  in  coscienza  non  possiamo  permettere,  ne 
in  qualsiasi  modo  agevolare. 

—  Avremo  tempo  appresso  —  soggiungevano  —  a  far  loro  co- 
noscere  dove  stia  il  vero  e  dove  il  falso,  quando  la  Missione  si  sara 


8lO  GUGLIELMO   MASSAJA 

fatta  conoscere  ed  apprezzare,  ed  abbia  preso  dominio  sui  loro 
cuori. 

5.  Mi  convinsi  allora  che  nulla  poteva  sperare  da  parte  del  miei 
compagni,  e  che  bisognava  assolutamente  far  da  me.  I  capi  intanto 
stando  fuori  ad  aspettare,  impazienti  di  avere  una  risposta,  uscii; 
ed  andati  a  sederci  nuovamente  sotto  1'albero,  Pinterrogai  del  mo- 
tivo  che  aveva  dato  principio  alPinimicizia,  e  poi  alia  guerra  fra  le 
due  razze.  —  Una  donna  —  risposero  —  fu  la  causa  di  questa  ni- 
mista:  fuggita  dalla  casa  di  uno  dei  capi  di  Celia,  per  passione  verso 
un  lagamarese,  cerc6  ricovero  presso  di  noi,  dicendo  a  tutti  di  ave 
re  abbandonato  il  marito  per  maltrattamenti  ricevuti;  e  richiesta 
poi  dal  proprio  sposo,  non  si  voile  piu  restituire  da  chi  la  teneva; 
onde  si  venne  alle  armi,  e  poco  per  volta  prendendovi  parte,  come 
fra  noi  e  uso,  la  popol'azione  dei  due  paesi,  fu  dichiarata  la  guerra. 
Lagamara,  sempre  vittoriosa  su  Celia,  credeva  di  vincere  anche  que 
sta  volta :  ma  Vajana  ci  volt6  le  spalle,  e  quindi  siamo  stati  sempre 
sconfitti,  con  un  gran  numero  di  morti  e  con  ispargimento  di  san- 
gue  quasi  ogni  giorno.  Piu,  molti  dei  nostri  e  dei  loro  soldati  es- 
sendo  stati  vittima  della  mutilazione,1  non  ci  e  piu  tregua,  ne  si  da 
luogo  a  pieta,  ma  siamo  in  piena  guerra  d'esterminio. 

Mi  accorsi  intanto  che  quella  povera  gente  era  caduta  in  tale  av- 
vilimento  d'animo,  che  dava  chiaramente  a  vedere  come  non  solo, 
un  tempo  si  forti,  sentissero  dopo  tante  sconfitte  la  propria  debo- 
lezza,  ma  che  avessero  perduto  ogni  speranza  di  trionfo.  La  qual 
condizione  non  serviva  che  a  renderli  ancor  piu  deboli  di  quello 
che  realmente  fossero;  poiche  cosi  awiene  fra  i  popoli  barbari, 
mossi  e  guidati  da  principii  e  motivi  superstiziosi :  finche  la  fortuna 
li  seconda  e  le  loro  operazioni  riescono  bene,  viva  Vajana,  e  vanno 
avanti  orgogliosi  e  pieni  di  coraggio  e  di  ardire ;  ma  toccata  qualche 
sconfitta  ed  avuta  la  peggio,  ecco  perdersi  subito  d'animo,  awilirsi 
e  lasciarsi  con  facilita  sopraffare.  Quel  nobile  sentimento,  che  rende 
Tuomo  sempre  forte  e  coraggioso,  tanto  nella  prospera  quanto 
nell'awersa  fortuna,  &  una  virtu  interamente  soprannaturale,  la 
quale  ha  le  sue  radici  nella  credenza  che  ogni  awenimento  o  pic 
colo  caso  proviene  sempre  da  Dio,  nostro  creatore  e  padrone ;  cre 
denza  che  solo  puo  trovarsi  nel  cristiano,  e  piu  viva  e  forte  nel  cat- 
tolico. 

i.  mutilazione:  Tevirazione  era  usanza  di  guerra  molto  diffusa  tra  gli  indi- 
geni  d' Africa. 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIOPIA  8ll 

6.  Intanto,  preso  motive  dal  racconto  che  mi  avevano  fatto,  e 
dalla  loro  stessa  confessione,  risposi  che  da  principio  stando  la  ra~ 
gione  per  quei  di  Celia,  ed  il  torto  da  parte  dei  Lagamaresi,  giu- 
stizia  voleva  che  il  Signore  aiutasse  quelli  anziche  questi:  poiche 
la  donna  essendo  fuggita  non  per  un  motive  giusto  e  ragionevole, 
ma  per  impulso  di  passione  peccaminosa;  ed  i  Lagamaresi,  essen- 
dosi  negati  di  restituirla,  com* era  loro  dovere,  ed  avendo  anzi  preso 
le  sue  difese,  ne  venne  che  deliberatamente  si  resero  colpevoli  di- 
nanzi  a  Dio  di  tutto  il  delitto,  e  quindi  indegni  delta  sua  protezione. 
—  Stando  cosi  le  cose,  —  soggiunsi  —  ora  volete  che  io  benedica  le 
vostre  armi,  e  preghi  per  la  vostra  vittoria :  ma  il  servo  puo  essere 
meno  giusto  del  padrone  ?  Posso  io  approvare  e  proteggere  cio  che 
il  mio  Dio  proibisce  e  riprova?  Tuttavia,  essendo  noi  ministri  di 
pace,  e  riputando  come  nostri  figli  tanto  voi  quanto  quelli  di  Celia, 
ecco  la  proposta  che  il  Signore  m'ispira  di  farvi.  Si  depongano  da 
parte  vostra  le  lancie,  e  non  si  dia  motivo  ai  nemici  da  qui  innanzi 
di  lagnarsi  di  voi;  frattanto  si  mandino  messaggeri  ad  ofrrire  la 
pace,  dicendo  anche  che  Lagamara  e  disposta  a  dare  la  dovuta  sod- 
disfazione  per  1'offesa  fatta.  Se  Celia  accettera,  noi  avremo  rag- 
giunto  Io  scopo  senza  spargere  altro  sangue ;  se  poi  rifiutera  la  nostra 
offerta  e  si  neghera  di  stenderci  la  mano,  io  saro  con  voi,  e  spero  che 
il  mio  Dio  volgera  benigno  il  suo  sguardo  sulle  vostre  armi. 

7.  Sentita  questa  proposta,  i  capi  si  riunirono  a  consiglio,  e  dopo 
lunga  discussione,  quasi  si  stava  per  risolvere  di  accettare  il  mio 
suggerimento  e  mettersi  interamente  nelle  mie  mani,  ma  uno  o  due 
dei  piu  forti,  e  forse  di  coloro  che  della  brutta  faccenda  erano  stati 
gl'istigatori,  fecero  opposizione,  e  non  si  concluse  nulla.  Intanto 
il  popolo  di  Celia  avendo  conosciuto  Tarrivo  in  Lagamara  del  Pa 
dre  Bianco,  a  cui  il  Gudru,  Gombo,  Giarri  e  Gobbo  avevano  fatte 
tante  feste  e  dati  generosi  regali,  preso  di  paura,  lascio  passare 
circa  tre  mesi  senza  fare  alcun  atto  di  ostilita:  e  si  viveva  tranquilli, 
quando  un  giorno  sentesi  da  un'estremita  all'altra  di  Lagamara  il 
grido  di  guerra,  e  si  vede  un  correre  di  gente  armata  da  ogni  parte 
del  paese  verso  i  confini  di  Celia.  Credendo  che  Tassalto  fosse  ve- 
nuto  da  questa,  tremava  in  cuor  mio  pel  povero  Lagamara;  onde 
radunata  la  famiglia  nella  cappella,  cominciammo  a  pregare  il  Si 
gnore  di  moderare  Io  spirito  bellicose  di  quegli  animi  inaspriti,  e 
far  presto  cessare  Io  spargimento  del  sangue.  Non  pass6  molto 
per6  che  venni  a  sapere  non  essere  stati  quei  di  Celia,  ma  bensi 


8l2  GUGLIELMO    MASSAJA 

alcuni  bravacci  di  Lagamara,  che,  rotta  la  tregua,  avessero  preso  le 
armi,  andando  a  sfidare  i  nemici  del  proprio  paese ;  onde  il  timore 
di  una  nuova  sconfitta  del  Lagamaresi  si  accrebbe  maggiormente, 
e  quasi  quasi  la  riputava  inevitabile.  La  casa  della  Missione  intanto 
ben  presto  si  riempi  di  vecchi,  di  donne  e  di  fanciulli,  che  trepi- 
danti  aspettavano  Tesito  della  battaglia:  ma  la  giornata  si  avanzava 
e  nessuna  notizia  giungeva  dal  campo  della  lotta.  Finalmente,  co- 
minciando  a  ritornare  alcuni  della  spedizione,  si  seppe  che  avevano 
combattuto  tutto  il  giorno,  che  vi  erano  stati  morti  e  feriti  d'ambo 
le  parti,  e  che  finalmente  Celia  era  rimasta  vittoriosa  come  pel  pas- 
sato.  Rientrati  poi  la  sera  tutti  i  combattenti,  il  paese  sembrava  un 
inferno;  lamenti,  grida,  maledizioni,  urli  spaventevoli  sentivansi 
da  ogni  parte,  per  la  perduta  vittoria,  e  per  le  persone  uccise  in 
battaglia.  Fra  gli  altri  un  nostro  cattolico,  il  piu  zelante  di  tutti,  ed 
il  primo  che  sposasse  cattolicamente,  era  rimasto  vittima,  lasciando 
la  sua  compagna,  vedova  ed  incinta.  lo  feci  di  tutto  per  ottenere  quel 
cadavere  e  seppellirlo  accanto  alia  Missione ;  ma  assolutamente  non 
si  voile  concedere,  primo  perche,  essendo  stato  mutilate,  riputa- 
vasi  immondo ;  secondo  perche  un  tale  atto  sarebbe  stato  tenuto  da 
tutti  come  un  cattivo  augurio  per  rawenire  della  guerra;  onde  si 
dovette  lasciare  insieme  con  gli  altri  per  pasto  degli  avoltoi  e  delle 
iene. 

8.  II  paese  intanto  dopo  questa  sconfitta  si  divise  in  diversi  pa- 
reri  rispetto  a  me ;  chi  diceva  non  avere  io  quella  virtu  e  quel  potere 
che  tanti  mi  attribuivano ;  chi  d'essermela  intesa  con  i  nemici,  e 
mangiando  generosi  regali,  aver  mandata  la  mia  ajana  a  proteggere 
le  loro  armi ;  chi  in  fine  mi  dava  ragione,  e  biasimava  Lagamara  di 
non  avere  ascoltato  la  mia  parola  eseguito  i  miei  consigli.  Laonde 
era  divenuto  1'oggetto  delle  dicerie  di  tutti,  non  certo  a  me  favore- 
voli,  e  quindi  in  quali  panni  mi  trovassi  il  lascio  giudicare  ai  miei 
lettori. 

La  mattina  seguente  i  capi  del  paese  in  maggior  numero  furono 
di  nuovo  alia  mia  porta  per  sentire  come  avrebbero  dovuto  regolarsi 
dopo  quest' altra  sconfitta:  coloro  che  avevano  gia  sentita  la  mia 
prima  proposta,  e  che  giudicandola  ragionevole,  si  erano  sforzati 
di  persuadere  il  popolo  a  seguirla,  mi  chiesero  scusa  di  non  avermi 
dato  ascolto,  e  poscia  presero  a  pregarmi  con  maggiore  insistenza 
di  non  abbandonarli;  promettendomi  pure  preziosi  regali,  se  avessi 
voluto  dawero  impiegare  la  mia  magica  virtu  a  loro  favore  ed  a 


MISSIONE   NELL'ALTA   ETIOPIA  813 

svantaggio  di  quei  di  Celia.  Allora,  senza  punto  turbarmi,  risposi 
che  si  sbagliavano  nel  credere  in  me  qualche  superstizioso  potere 
come  nei  loro  magbi;  e  che  se  qualche  cosa  avrei  potuto  fare  a  loro 
vantaggio,  non  a  me,  ma  alia  virtu  onnipotente  del  vero  Dio  era 
da  attribuirsi,  nelle  cui  mani  sono  le  sorti  dei  popoli,  e  le  vicende 
dei  regni.  In  quanto  ai  regali,  dissi  che  facevami  male  il  solo  sen- 
tirne  parlare ;  poiche  la  mia  missione  non  mirava  ad  interessi  tem- 
porali,  ma  unicamente  al  bene  spirituale  del  paese,  che  ormai  ri- 
putava  come  paese  mio.  —  Se  son  venuto  fra  voi,  —  soggiunsi  — 
voglio  che  mi  stimiate  come  vostro  fratello ;  poiche  non  solo  ho  a 
cuore  di  aiutarvi  quanto  piu  mi  sara  possibile  nelle  angustie  in 
cui  vi  trovate,  ma  di  dividere  con  voi  le  prosperita  e  le  miserie. 
Rispetto  dunque  alia  presente  lotta,  ripeto  anche  oggi  quello  che 
dissi  allora,  cioe,  ch'essendo  il  torto  dalla  parte  vostra,  tocca  a  voi 
chiedere  la  pace,  molto  piu  dopo  quest'ultima  sconfitta,  che  non 
solamente  ha  fatto  maggiormente  conoscere  la  vostra  debolezza, 
ma  vi  ha  reso  colpevoli  di  temeraria  provocazione  contro  gente  che 
da  tre  mesi  aveva  deposte  le  armi,  non  dando  ai  Lagamaresi  alcun 
fasti  dio. 

9.  I  capi  allora  riconoscendo  giuste  le  mie  rampogne:  —  Avete 
ragione;  —  risposero  —  ma  quesfalzata  di  scudi  non  venne  da  noi, 
bensi  da  chi,  senza  guardare  alle  conseguenze,  si  awentura  nei  ci- 
menti  delle  armi.  Nei  nostri  paesi  i  capi  ed  i  vecchi  comandano  e 
decidono  su  certe  particolari  question!,  ma  nel  resto  il  popolo  fa 
da  se;  e  talvolta  costringe  coloro,  cui  spetta  di  comandare,  a  fare  cio 
che  non  vorrebbero.  Cosi  e  accaduto  in  quest'ultimo  assalto:  al- 
cuni  giovani,  per  dar  prova  del  loro  valore,  e  senza  averne  avuto 
ordine  da  nessuno,  presero  le  armi  e  si  awiarono  contro  Celia; 
potevamo  noi  lasciarli  trucidare  dagli  orgogliosi  nostri  nemici? 
Laonde  fummo  costretti  seguirli,  prender  parte  alia  lotta,  e  quindi 
pagar  cara  la  loro  imprudenza. 

Mentre  sto  scrivendo  questa  vecchia  storia,  sento  i  lamenti  della 
Francia  assennata  per  la  spedizione  di  Tunisi,1  promossa  e  voluta 

i.  la  spedizione  di  Tunisi:  la  Tunisia  fu  invasa  dalla  Francia  nel  1881,  con  il 
pretesto  di  difendere  il  territorio  dell' Algeria  dagli  assalti  delle  tribu  dei 
Crumiri,  e  il  bey  fu  costretto  a  firmare  il  trattato  del  Bardo  (12  maggio 
1881),  che  segno  la  fine  temporanea  dell'indipendenza  del  piccolo  Stato. 
Ma  e  faziosamente  ingenue  pensare  che  il  governo  francese,  perche  repub- 
blicano  e  popolare,  fosse  allora  espressione  dell'insensatezza  e  superficiality 
della  parte  «  progressiva  »  del  paese. 


814  GUGLIELMO   MASSAJA 

da  una  parte  del  governo  popolare,  che  regge  quella  nazione;  e 
sento  anche  in  Italia  le  grida  sediziose  rispetto  all' Irredenta,1  man 
date  da  un  pugno  di  gente  che  non  ha  alcun  potere,  e  proprio  men- 
tre  il  re  con  due  ministri  trovasi  in  Austria  per  far  visita  d'amicizia 
a  quelPimperatore.2  Nazioni  educate  a  questa  maniera  potranno 
mai  prosperare  ?  Sara  possibile  tenere  nelPordinamento  e  nelle  fac- 
cende  politiche  del  governo  una  norma  assennata,  franca  e  secon- 
do  i  reali  interessi  della  nazione,  quando  il  cieco  popolo  prende  la 
mano  a  chi  regge,  e  ne  detta  la  via  da  seguire  ?  In  tal  caso  necessa- 
riamente  si  dovranno  dare  passi  imprudent!  e  falsi,  che  poi  quasi 
sempre  finiscono  con  condurre  a  precipizio  e  rovina.  Ed  in  questa 
pericolosa  ed  anormale  condizione  si  trovano  oggi  tutte  quelle  na- 
zioni,  che  vengono  rette  da  governi  popolari,  principalmente  se  tali 
forme  politiche  sieno  nuove  e  non  adatte  ai  costumi,  alPindole  ed 
alia  vita  dei  popoli,  in  mezzo  ai  quali  si  vollero  introdurre.  II  popolo 
e  fatto  per  ubbidire,3  non  per  comandare ;  onde  il  dire  popolo  so- 
vrano,  e  una  contraddizione  palese;  ma  gia  si  sa  chi  in  fin  dei  conti 
di  questa  sovranita  ne  gode  i  vantaggi,  cioe  colui  che  sa  meglio  im- 
brogliare,  e  farsi  credere  di  essa  un  legittimo  rappresentante ;  in 
conclusione  poi  veggiamo  questi  mestatori  rivestiti  di  sovranita 
reale,  con  tutti  gli  onori  e  corrispondenti  lucrosi  vantaggi,  ed  il 
popolo  formare  ad  essi  sgabello,  e  sopportarne  le  spese  e  bene 
spesso  le  beffe. 

10.  Intanto  tre  giorni  dopo  quella  lagrimevole  sconfitta,  mentre 
i  capi  stavano  a  discutere  sul  partito  da  prendere,  un  nuovo  grido 
di  guerra  si  sente  pel  paese,  ed  un  fuggire  di  donne,  di  uomini,  di 
fanciulli  disperati  e  piangenti.  Chiestone  il  perche,  si  viene  a  sapere 
che  Celia,  sdegnata  delPassalto  improwiso  dei  Lagamaresi,  aveva 
volto  le  armi  contro  il  loro  paese,  mettendo  fuoco  e  facendo  strage 
di  ogni  cosa.  Era  il  giorno  di  S.  Luca,  e  noi  stavamo  in  chiesa  per 
celebrarne  la  solennita  e  dare  il  battesimo  ad  un'intera  famiglia;  in 
sentire  tutto  quel  fracasso,  finita  con  fretta  la  funzione,  ci  demmo 

i.  Irredenta:  il  Massaja  allude  airirredentismo,  che  aspirava  a  veder  con- 
giunte  all' Italia  Trento  e  Trieste,  e  che  tanto  piu  doveva  dispiacere  al 
Cardinale,  in  quanto  era,  allora,  movimento  massonico-repubblicano-po- 
polare,  in  funzione  anticattolica  e  francesizzante.  2.  il  re .  .  .  imperato- 
re:  Umberto  I  si  rec6  in  visita  a  Vienna  neU'ottobre  del  1881.  II  viaggio 
prepar6  la  stipulazione  della  Triplice  Alleanza  (1882).  3.  II  popolo  .  .  .  per 
ubbidire;  superfluo  sottolineare  la  mentalita  conservatrice  e  retriva  del 
Massaja,  decisamente  awerso  alle  forme  democratiche,  in  obbedienza  al 
precetto  paolino  dell'omnis  potestas  a  Deo. 


MISSIONE  NELL'ALTA   ETIOPIA  815 

a  trafugare  oggetti  e  mettere  al  sicuro  le  cose  piu  necessarie  della 
chiesa.  I  guerrieri  di  Celia  intanto  assalito  il  paese  dalla  parte  abi- 
tata  da  coloro  die  avevano  dato  motive  alia  guerra,  e  che  poi  si 
erano  opposti  alia  pace,  ne  fecero  crudele  strage,  combattendo  sin 
dopo  mezzogiorno,  ed  abbruciando  non  meno  di  ottocento  ca- 
panne.  La  gente,  mandando  grida  di  spavento  e  di  dolore,  correva 
alia  parte  opposta,  trasportando  quanto  piu  cose  potesse,  per  sal- 
varle  dall'incendio  e  dalla  rapina;  ed  anche  noi,  scorgendo  vicino 
il  pericolo,  fummo  obbligati  a  fuggire,  e  mettere  in  salvo  altrove 
le  nostre  poche  masserizie  con  gli  oggetti  di  chiesa.  Fu  ima  giornata 
spaventevole  e  di  agonia  per  tutti;  oltre  gl'incendii  e  la  perdita  di 
animali  e  di  prowiste,  rubati  dai  nemici,  si  contavano  molte  per- 
sone  uccise  e  ferite,  e  quasi  tutti  mutilati.  Ne  io  poteva  dirmi  meno 
afflitto  e  piu  sicuro  di  loro ;  poiche  non  solamente  il  fuoco  era  arri- 
vato  ad  un  tiro  di  pietra  dalle  nostre  capanne,  ma  da  malevoli  ed 
ignoranti  spargevansi  pure  contro  di  noi  stupidi  sospetti  e  sangui- 
narie  minacce ;  sicche  fra  me  stesso  andava  dicendo :  « Pochi  mesi 
sono  fui  ricevuto  come  un  Dio,  e  probabilmente  saro  costretto  fug- 
girmene  di  notte  come  un  ladro». 

ii.  Ma  il  Signore,  che  protegge  sempre  chi  in  lui  confida,  an 
dava  disponendo  gli  animi  diversamente.  II  capo  di  coloro  che  ave 
vano  fatto  eco  alia  mia  proposta,  e  che  stavano  per  la  pace,  prima 
di  recarsi  a  combattere  contro  Celia  era  passato  da  me,  chiedendo- 
mi  di  benedirlo  e  di  pregare  il  Signore  per  lui;  il  che  ottenuto,  non 
solo  tenne  fronte  nella  battaglia  con  insigne  valore  ad  un  gran  nu- 
mero  di  nemici,  ma  uccisine  due,  ritorno  sano  e  salvo  con  i  riportati 
trofei,  infilzati  nella  lancia,  fra  le  acclamazioni  della  sua  casta;  che 
non  solo  al  vincitore,  ma  al  Dio  dei  cristiani  ed  al  Padre  Bianco 
cantava  inni  di  lode.  Questo  caso  fortunato  fece  tale  impressione 
nel  popolo,  che  si  risolvette  di  mettersi  interamente  nelle  mie  mani, 
senza  ascoltare  consigli  da  altri.  Laonde  venuti  novamente  da  me: 
—  La  vostra  casa  —  presero  a  dire  —  rimasta  illesa,  e  quelli  da  voi 
benedetti  ritornati  vittoriosi,  sono  segni  che  il  Signore  vi  protegge 
ed  ascolta  la  vostra  parola;  noi  dunque  giuriamo  di  sottometterci 
al  vostro  giudizio,  tanto  per  la  pace  quanto  per  la  guerra.  Se  volete 
la  pace,  eccoci  pronti  ad  accettarla;  ma  pero  vogliamo  che  sia 
chiesta  da  persona  piu  potente  di  noi. 

Mi  awidi  allora  di  essere  stato  posto  inun  nuovo  impiccio ;  poiche 
quei  capi,  per  la  vicinanza  dell'Abissinia,  conoscendo  1'uso  che  cola 


8l6  GUGLIELMO    MASSAJA 

si  teneva  di  mandare  sempre  i  preti  per  messaggeri  di  pace,  senza 
tante  cerimonie  pretendevano  che  questa  pericolosa  incombenza 
me  la  prendessi  io  o  i  miei  sacerdoti.  In  paese  cristiano  non  avrei 
avuto  difficolta  ad  assumerla;  che  alia  fine,  oltre  ad  essere  un  atto 
corrispondente  alia  missione  pacifica  del  sacerdote,  non  vi  sa- 
rebbe  stato  timore  di  andare  incontro  a  pericolo  e  di  esser  fatto 
segno  a  qualche  brutto  scherzo;  ma  fra  gente  pagana,  che  nulla 
conosceva  di  preti  e  di  ministri  di  Cristo,  ci  era  da  temere,  e  grave- 
mente.  II  mettere  poi  a  cimento  i  due  missionarii,  che  in  Lagamara 
si  trovavano,  era  per  me  questione  di  vita  o  di  morte,  essendo  pog- 
giata  tutta  la  mia  speranza,  pel  sacro  ministero  in  quelle  parti,  nel 
loro  aiuto  e  concorso.  Rifletteva  inoltre  che  acconsentendo  a  questo 
loro  desiderio,  non  avrei  piu  potuto  esimermi  dal  parteggiare  per 
essi;  ed  in  caso  di  rifiuto  dalla  parte  di  Celia,  o  di  qualche  danno 
contro  i  miei  missionarii,  sarei  stato  costretto  far  causa  comune  con 
quei  di  Lagamara,  senza  la  certezza  di  poter  recar  loro  quegli  aiuti 
e  quei  vantaggi,  che  da  me  ignorantemente  speravano.  Tuttavia 
non  fu  possibile  trovare  una  scappatoia  e  negarmi;  volere  o  non 
volere  dovetti  acconsentire,  spintovi  anche  dai  miei  due  preti,  che 
non  solo  mostravansi  disposti  di  andare  ad  offrire  e  chiedere  la 
pace,  ma  lo  desideravano. 

12.  Si  stabili  adunque  che  il  P.  Hajlu  Michele  ed  Abba  Joannes 
la  mattina  seguente  sarebbero  partiti  per  Celia  come  messaggeri 
di  pace;  e  quei  giorno  tenendosi  cola  un  gran  mercato,  si  pensb  di 
mettersi  in  viaggio  un  po'  presto,  a  fin  di  giungere  in  Celia  quando 
tutto  il  popolo  fosse  radunato  in  quei  luogo  di  traffico.  Credemmo 
bene  farli  accompagnare  da  una  nobile  donna,  nativa  di  Celia  e  ma- 
ritata  a  Lagamara  con  uno  dei  capi;  affinch6,  avendo  in  quei  paese 
un'estesa  parentela,  potesse,  in  caso  di  bisogno,  invocare  il  loro 
aiuto  e  la  loro  protezione  a  favore  dei  miei  due  missionarii.  La  notte 
si  passo  in  apparecchi  per  la  partenza,  e  poi  alquante  ore  prima  di 
giorno  celebrai  la  Messa  votiva  pro  pace,  nella  quale  tutta  quanta  la 
famiglia  ricevette  la  santa  comunione.  In  fine  tenni  loro  un  discorso 
esortandoli  a  pregare  il  Signore,  e  confidare  in  Lui  pel  buon  esito 
della  spedizione;  giacche  tutto  quello  che  da  noi  veniva  fatto  non  ad 
altro  mirava  che  ad  impedire  nuovo  spargimento  di  sangue,  ed  in- 
sieme  a  cattivare  affezione  e  stima  verso  la  Missione,  per  ricondurre 
piu  facilmente  nelPovile  di  Gesu  Cristo  quei  poveri  pagani.  I  due 
preti  messaggeri  erano  pieni  di  coraggio,  e  tutta  la  famiglia  non  du- 


MISSIONE   NELL'ALTA   ETIOPIA  817 

bitava  punto  che  la  missione  non  riuscisse  bene;  solo  io  dava  quel 
passo  con  trepidazione  d'animo,  e  temeva  che  non  ci  vemssero  ad- 
dosso  mali  maggiori. 

13.  Appena  finita  la  nostra  funzione,  trovammo  quasi  tutta  la 
popolazione  di  Lagamara  radunata  dinanzi  la  cappella,  che  impa- 
ziente  aspettava  di  veder  partire  coloro,  da  cui  sperava  la  pace. 
Uscito  fuori,  fui  accolto  da  uno  scoppio  generale  d'applausi,  a  cui 
risposi  con  poche  parole,  e  piu  con  segni  di  starsene  tranquilli  e  di 
confidare  nel  vero  Dio.  Credeva  che  in  tali  occasioni  si  mandassero 
ai  nemici  alcuni  regali;  ma  non  vidi  altro  apparecchiato  che  una 
pecora  bianca,  con  un  nido  di  uccelli  appeso  al  collo.  I  messaggeri 
adunque  non  dovevano  fare  altro  che  presentare  ai  nemici  quel  pa- 
cifico  animale,  il  quale,  venendo  accettato,  immediatamente  sarebbe 
stato  scannato  sul  loro  territorio,  e  non  si  avrebbe  piu  parlato  di 
guerra.  Quel  nido,  di  forma  rotonda  e  con  piccola  apertura  di  sopra, 
era  tessuto  con  erba  finissima  da  certi  uccelletti  domestici,  che  come 
la  pecora,  assai  propriamente  simboleggiavano  la  pace.  Questi  uc 
celletti  si  trovano  dappertutto  in  quelle  parti,  e  sono  piu  piccoli 
dei  nostri  passeri:  la  femmina  e  tutta  grigia,  ma  il  maschio  si  di 
stingue  nella  testa  di  un  rosso  infiammato,  che  gradatamente  va 
sfumandosi  sino  alia  meta  del  corpo  e  delle  ali.  £  Puccello  piu  do- 
mestico  che  si  conosca;  entra  nelle  case,  e  se  non  viene  spaventato, 
raccoglie  con  premura  ed  ammirabile  sicurezza  i  briccioli  di  pane, 
che  trova  per  terra.  Talvolta  scrivendo,  io  soleva  mettere  apposta 
sulla  carta  alcuni  granelli  di  tie/,1  e  quegli  animalucci,  come  se 
fossero  di  famiglia,  venivano  a  beccarselo  con  tutta  liberta  e  con- 
fidenza. 

Rispetto  alia  pecora,  conviene  osservare  che  1'uso  di  sceglierla 
come  animale  di  sacrifizio  e  comune  in  tutte  le  razze  barbare  e  pa- 
gane;  il  che,  a  mio  awiso,  sembra  avere  la  sua  origine  nelle  tradi- 
zioni  bibliche  dei  tempi  anteriori  e  posteriori  al  diluvio.  La  legge 
mosaica  inoltre  se  stabili  nuovi  sacrifizii,  con  riti  e  cerimonie  parti- 
colari,  mantenne  pero  Tantica  scelta  delle  vittime,  cioe  gli  animali 
mondi;  ed  ogni  popolo,  quantunque  non  seguace  della  religione 
israelitica,  pure  segui  sempre  e  dapertutto  quest'uso,  preferendo 
la  specie  pecorina,  e  talvolta  la  bovina.  Ma  piu  quella  che  questa, 
segnatamente  nelle  offerte  e  sacrifizii  che  avessero  attinenza  alia 
pace,  e  forse  anche  perche  Iddio  nell'antica  legge  prescelse  e  con- 
i.  tief:  una  specie  di  miglio  (vedi  p.  774). 


8l8  GUGLIELMO   MASSAJA 

sacro  la  pecora  come  vittima  del  sacrifizio  pasquale,  che  figurava 
la  nuova  pasqua  pacificatrice  del  mondo. 

14.  Essendo  pronti  tutti  e  disposta  ogni  cosa,  quei  poveri  igno- 
ranti  non  vollero  che  si  partisse  senza  prima  compiere  le  loro  ceri- 
monie  superstiziose,  solite  a  farsi  in  tali  occasioni :  ma  sapendo  bene 
che  io  non  solo  riprovava,  ma  neppure  voleva  vedere  quelle  ciur- 
merie,  ritiraronsi  alquanto  lontani  dalle  nostre  capanne,  senza 
nemmeno  dire  che  cosa  volessero  fare.  Ivi  PAbba  Buku,  dato  di 
mano  al  coltello,  scann6  un  toro,  e  poi  col  sangue  ne  asperse  la 
pecora,  recitando  imprecazioni  e  preghiere,  che  non  mi  curai  di 
sapere.  Poscia  venuti  a  prendere  i  due  sacerdoti,  cominci6  il  popolo 
ad  awiarsi  verso  la  frontiera  di  Celia;  ed  infine  recitato  1'itinerario1 
ed  abbracciati  e  benedetti  quei  due  miei  cari  figli,  mossero  anch'es- 
si,  circondati  e  seguiti  dal  resto  della  popolazione.  Era  il  giorno 
21  ottobre  del  1855. 

Appena  partiti,  mi  chiusi  nella  cappella,  e  passai  tutta  la  giornata 
a  pie  dell'altare  della  Madonna,  sospirando  e  pregando  per  la  sal- 
vezza  di  quelle  due  vittime  della  pace  pubblica,  che  con  si  am- 
mirabile  abnegazione  andavano  volontariamente  ad  esporre  la  loro 
vita  in  mezzo  a  gente  barbara  ed  inferocita.  Da  parte  loro  si  erano 
messi  in  via  senza  dar  segno  del  piu  lieve  turbamento :  ma  tutta 
Tambascia  era  nel  mio  cuore ;  poiche  la  loro  perdita  sarebbe  stata 
per  me  e  per  la  Missione  la  maggiore  sventura  che  il  Signore  avesse 
potuto  permettere. 

15.  Tutto  il  popolo  pass6  la  giornata  parte  sulle  frontiere,  aspet- 
tando  il  ritorno  dei  messaggeri,  e  parte  dinanzi  la  nostra  casa.  Final- 
mente  verso  le  tre  di  sera  cominciarono  a  venire  persone  con  notizie 
sfavorevoli,  e  poi  piu  tardi  giunsero  i  due  sacerdoti,  riportando  la 
pecora  viva  e  intatta  come  era  stata  loro  consegnata.  Alle  grida  della 
moltitudine  uscii  dalla  cappella,  e  senza  neppur  chiedere  notizie 
delPesito  della  spedizione,  mi  gettai  al  collo  dei  miei  due  preti,  e 
ringraziai  Dio  di  avermeli  restituiti  sani  e  salvi.  Poscia  presero  a 
raccontare  minutamente  con  le  seguenti  parole  come  fossero  stati 
ricevuti  e  trattati  dai  nemici:  —  Giunti  alle  prime  capanne,  la 
gente  di  Celia,  vedendo  la  pecora,  esult6  di  gioia;  perche  or- 
mai  credeva  giunto  il  tempo  di  por  fine  ad  una  guerra,  cotanto 
funesta  per  i  due  vicini  paesi;  e  la  stessa  allegrezza  si  manifestb 
su  tutti  i  volti,  quando  entrammo  nel  mercato:  cosicche  daper- 
i.  Vitinerario:  la  preghiera  per  il  buon  cammino. 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIOPIA  819 

tutto  sentivasi  ripetere:  «Dio  ha  mandate  la  pace,  sia  ricevuta». 
Noi  intanto  andavamo  avanti  content!  non  meno  di  loro,  e  con 
la  fiducia  in  cuore  che  la  nostra  proposta,  principalmente  dopo 
quella  popolare  accoglienza,  non  sarebbe  stata  rigettata.  Inol- 
tre  ci  eravamo  accorti  che  Celia  desiderava  la  pace  non  meno  di 
Lagamara,  primo.  perche  stanca  di  combattere  e  di  tener  sempre 
in  mano  le  armi;  secondo  per  i  danni  commerciali  che  tutte  le  classi 
della  popolazione  avevano  sofferti  per  la  si  lunga  durata  di  quella 
inimicizia;  e  finalmente  perche  nell'uno  e  nelFaltro  paese  molte 
famiglie  erano  strette  con  vincoli  di  parentela.  Tuttavia,  per  la 
malvagita  di  alcuni  mussulmani,  gelosi  che  fosse  toccata  a  noi  preti 
la  gloria  di  avere  rappacificati  quei  due  popoli,  le  nostre  speranze 
andarono  fallite.  Uno  di  essi  in  pieno  mercato  si  mise  a  gridare: 
«Non  date  ascolto  a  questi  impostori;  voi  non  li  conoscete,  sono 
maghi  mandati  dai  nemici  per  ispargere  quelle  medicine  che  da- 
ranno  la  morte  ai  vostri  soldati,  e  procureranno  la  rovina  di  tutto  il 
paese».  Alle  quali  bugiarde  parole  facendo  eco  altri  mussulmani, 
bastarono  esse  per  volgere  queirignorante  popolo,  e  principalmente 
la  gioventu,  contro  di  noi.  Cosicche,  circondati  e  minacciati  da 
tutte  le  parti,  ci  vedemmo  esposti  ad  ogni  sorta  di  disprezzi  e  mal- 
trattamenti;  e  se  i  parenti  della  donna  che  ci  accompagnava,  uniti 
con  1'Abba  Dula  Ghilindi-Nonno,  non  si  fossero  interposti  fra  noi 
e  la  folia,  e  non  ci  avessero  scortati  sino  alia  frontiera,  certamente 
saremmo  rimasti  vittima  del  cieco  furore  di  quei  forsennati. 

1 6.  Frattanto  tutto  il  popolo  di  Lagamara,  radunato  attorno  alia 
mia  casa,  ed  armato  come  se  dovesse  muovere  per  la  guerra,  non 
aveva  in  bocca  che  parole  di  sdegno  e  di  vendetta  contro  Torgo- 
gliosa  Celia;  sicch6  fui  costretto  rivolger  loro  la  parola  per  calmare 
quella  sete  di  sangue,  promettendo  che  si  avrebbero  avuto  giusti- 
zia,  anche  con  le  armi.  Vennero  poi  i  capi  e  mi  dissero :  —  Noi 
abbiamo  giurato  di  metterci  nelle  vostre  mani;  ora,  la  pace  essendo 
stata  rifiutata,  tocca  a  voi  sostenere  il  paese  con  le  vostre  preghiere 
e  col  potere  del  vostro  Dio.  Esso  e  grande,  e  grande  pure  e  la  po- 
tenza  vostra,  perche  suo  ministro ;  mettete  adunque  una  medicina 
sulla  frontiera  di  Celia,  affinche  i  nemici  sieno  vinti  e  cadano  nelle 
nostre  mani. 

Si  sa  che  in  quei  paesi  tutto  ci6  che  serve  a  produrre  un  effetto 
straordinario  vien  chiamato  medicina,  onde  credetti  bene  seguire 
quei  modo  di  pensare,  e  rispondere  secondo  il  loro  stesso  linguag- 


820  GUGLIELMO   MASSAJA 

gio.  —  Dappoiche  —  dissi  —  Celia  non  voile  accettare  la  pace,  il  torto 
e  passato  dalla  parte  sua,  e  voi  ora  avete  il  diritto  di  difendervi  con 
tutti  i  mezzi  possibili,  ma  leciti  ed  umani.  Mi  chiedete  intanto  la 
medicina  per  vincere,  e  ve  ne  dar6  una  che  ha  vinto  e  soggiogato 
tutto  il  mondo.  Per 6  vi  awerto  che  se  voi  seguiterete  ad  adorare, 
anche  in  segreto,  il  demonio,  i  serpenti,  gli  alberi,  i  maghi  e  simili 
stupide  creature,  la  mia  medicina  non  solo  non  vi  dara  la  vittoria, 
ma  apportera  grandi  sciagure  a  chiunque  si  rendera  colpevole  di 
simili  superstizioni.  Dimani  adunque  radunate  tutto  il  paese,  e 
dopo  aver  pregato  il  mio  Dio,  che  e  il  Dio  delle  battaglie,  con 
grande  solennita  anderete  a  piantare  la  medicina  sulle  vostre  fron- 
tiere. 

17.  II  giorno  seguente,  di  fatto,  accorsi  tutti  alia  nostra  casa,  fu- 
rono  benedette  alquante  croci;  e  poi,  dopo  avere  esortato  quella 
moltitudine  a  confidare  in  Dio,  unico  padrone  di  dare  o  negare  la 
vittoria,  attaccai  allo  scudo  di  ciascun  capo  il  sacro  segno  della  no 
stra  redenzione,  cioe  un  quadretto  di  carta  con  la  croce  fatta  a 
penna,  e  con  le  parole:  In  nomine  Patris,  et  Filit,  et  Spiritus  Sancti\ 
e  precedendo  i  miei  due  preti,  li  mandai  a  piantare  quelle  croci  su 
tutta  la  frontiera,  che  guardava  Celia.  Questo  fatto,  se  da  una  parte 
rianimo  la  scoraggita  popolazione  di  Lagamara,  mise  dalPaltra  in 
costernazione  e  timore  quei  di  Celia;  i  quali,  non  sapendo  qual 
effetto  quei  curiosi  segni  avrebbero  prodotto,  e  qual  sorta  sarebbe 
loro  toccata  in  awenire,  rimproveravansi  a  vicenda  del  mal  tratta- 
mento  fatto  ai  preti,  portatori  della  pace.  Passarono  intanto  tre 
settimane  senza  sentire  alcun  atto  ostile  da  parte  di  Celia;  ed  es- 
sendo  rotta  ogni  comunicazione  fra  i  due  paesi,  nemmeno  si  sa- 
peva  che  cosa  pensassero  o  volessero  risolvere. 

In  questo  tempo  Tuno  e  Paltro  paese  non  Iasci6  di  ricorrere  alle 
consuete  superstizioni,  consultando  principalmente  ilmord*  loro  li- 
bro  prezioso  per  conoscere  Tawenire  prospero  od  awerso:  ed  i 
Lagamaresi  dal  peritoneo  di  un  vitello,  scannato  per  quell'occor- 
renza,  si  ebbero  una  risposta  favorevolissima  ai  loro  desiderii,  lad- 
dove  quei  di  Celia  dal  mord  di  sette  bovi  e  vacche,  scannati  in  un 
giorno,  sempre  si  ebbero  un  response  contrario.  Si  seppe  inoltre 
che  il  figlio  di  quei  mussulmano,  il  quale  aveva  dissuaso  il  popolo 
di  accettare  la  pace,  nel  medesimo  giorno  era  caduto  in  mortale  in- 

i .  il  mora :  il  peritoneo  di  un  animale  sacrincato,  che  veniva  « letto »  come 
contenesse  un  responso. 


MISSIONE   NELL'ALTA   ETIOPIA  821 

fermita,  e  che  non  cessava  di  gridare :  ~  II  solo  prete  di  Lagamara 
mi  potra  guarire.  —  Piu,  si  diceva  che,  avendo  il  padre  mandate  ad 
interrogate  un  gran  mago  di  quei  paesi  sulla  malattia  del  figlio, 
avesse  avuto  la  seguente  risposta:  —  Non  istate  a  venire  piu  da 
me,  perche  avete  Dio  in  collera  con  voi,  dopo  esservi  negati  di 
accettare  la  pace,  che  i  preti  di  Lagamara  vi  offrivano.  —  Tutte 
queste  notizie  intanto  giovavano  molto  a  ridare  coraggio  ai  Laga- 
maresi,  ed  accrescere  le  loro  speranze  in  una  prossima  vittoria. 

1 8.  Passati  alquanti  giorni,  si  cominciarono  a  sentire  notizie  che 
Celia,  istigata  dai  mussulmani,  disponevasi  a  nuova  battaglia  con- 
tro  Lagamara,  niente  temendo  il  potere  della  medicina,  posta  dai 
preti  lungo  la  frontiera;  e  finalmente  si  seppe  il  giorno  in  cui 
avrebbero  dato  Tassalto.  I  soldati  di  Lagamara  quindi,  parte  a  piedi 
e  parte  a  cavallo  su  focosi  destrieri,  si  awiarono  pieni  di  coraggio 
e  di  fiducia  verso  la  frontiera  difesa  dalle  croci.  Pria  di  partire  io 
aveva  detto  loro  di  non  varcare  il  confine,  ma  di  tenersi  sul  proprio 
territorio,  aspettando  che  i  nemici  abbattessero  le  croci,  e  venissero 
ad  assaltarli:  e  di  fatto  un  terzo  delPesercito,  presentandosi  alia 
frontiera,  si  fermo  alquanto  in  distanza  dai  confine,  ed  il  corpo  piu 
forte  e  numeroso,  girando  inosservato  una  piccola  catena  di  monti, 
ando  a  prendere  posizione  dietro  una  collina,  poco  lontana,  per 
trovarsi  pronto  a  volare  sui  nemici,  non  appena  si  fossero  avanzati 
contro  i  compagni. 

L'esercito  di  Celia  vedendo  un  si  piccol  numero  di  soldati,  si 
awicinb  pieno  di  ardire  e  di  baldanza,  passo  un  torrente  che  divi- 
deva  i  due  territorii,  e  poi  con  grida  forsennate  attraversato  il  con 
fine  difeso  dalle  croci,  stava  per  iscagliarsi  contro  i  combattenti  di 
Lagamara;  quando  i  compagni  di  questi,  girando  a  tutta  corsa  la 
collina,  piombarono  sui  nemici,  e  ne  fecero  tale  strage,  che  quasi 
nessuno  pote  tornare  indietro.  La  maggior  parte  dei  morti  erano 
mussulmani,  i  nemici  della  croce  di  Gesu  Cristo,  e  coloro  che  ave- 
vano  dissuaso  di  accettare  la  pace. 

I  Lagamaresi  intanto,  ritornati  al  paese  trionfanti  ed  ebbri  della 
vittoria,  volevano  subito  profittare  del  generate  sbigottimento  dei 
nemici,  e  tornare  ad  assaltarli  nel  centre  stesso  del  loro  paese,  per 
sottometterli  interamente:  ma  io  non  conoscendo  quante  forze  an- 
cora  avesse  Celia,  li  consigliai  di  soprassedere,  con  la  speranza  in 
cuor  mio  di  ottenere  la  pace  ed  evitare  un  altro  crudele  eccidio. 

19.  Corsa  la  voce  a  Gobbo,  a  Giarri  ed  a  Gombo  che  Lagamara 


822  GUGLIELMO   MASSAJA 

trovavasi  in  guerra  con  Celia,  e  che  in  piu  battaglie  fosse  stata  vinta, 
mandarono  a  dire  tutti  e  tre  i  popoli  che  volentieri  sarebbero  venuti 
a  prestare  il  loro  soccorso,  anche  per  dare  a  me  una  dimostrazione 
di  gratitudine  e  di  affetto,  pel  bene  che  loro  aveva  fatto.  Ed  ecco 
che,  senza  che  io  ne  sapessi  nulla,  circa  due  mesi  dopo  la  sopra  ri- 
ferita  vittoria  giunsero  in  Lagamara  tanti  combattenti,  che  mi  spa- 
ventarono.  Cercai  dissuadere  tanto  i  Lagamaresi  quanto  quegli 
avventurieri  d'imprendere  quella  nuova  spedizione,  che  immanca- 
bilmente  avrebbe  distrutto  lo  sventurato  paese:  ma  non  valsero 
ragioni ;  un  giorno  senza  nulla  dire  mossero  da  Lagamara,  e  varcato 
il  confine,  entrarono  in  Celia.  I  nemici,  che  gia  erano  venuti  a  co- 
noscenza  di  quel  nuovo  assalto,  trovaronsi  radunati  nel  piano  del 
mercato,  e  li  si  combatte  una  battaglia  cosi  feroce,  che  dei  soldati 
di  Celia  non  rest6  vivo  se  non  chi  ebbe  la  fortuna  di  fuggire.  Indi 
i  vincitori  misero  a  sacco  e  fuoco  il  paese,  mutilando  morti  e  feriti, 
dando  la  caccia  a  chi  fosse  rimasto  salvo,  e  solo  risparmiando  le 
donne  ed  i  fanciulli.  Ghilindi-Nonno,  che  aveva  difeso  e  salvato 
i  miei  due  preti,  non  avendo  voluto  prender  parte  a  quelPultima 
lotta,  erasi  ritirato  fuori  del  paese ;  onde  fu  il  solo  Abba  Dula1  che 
siasi  salvato  da  quel  generale  eccidio  e  saccheggio.  Lagamara  poi, 
mostrandosi  verso  di  lui  generosa,  gli  restitui  i  terreni  ed  il  bestia- 
me,  gia  sequestrati  insieme  con  le  altre  proprieta,  e  voile  che  ripi- 
gliasse  il  comando  dell'esercito  come  prima,  a  patto  per6  di  esserle 
sempre  soggetto  ed  amico. 

20.  Sottomessa  interamente  Celia,  i  vincitori  ritornarono  a  Laga 
mara,  portando  appesi  alle  lancie  gli  schifosi  trofei  della  loro  pro- 
dezza,  e  conducendosi  dietro  il  pingue  bottino.  I  capi  di  Gombo,  di 
Giarri  e  di  Gobbo  vollero  passare  dinanzi  la  casa  della  Missione 
per  salutarmi,  e  rinnovare  le  proteste  del  loro  costante  affetto; 
ed  avendoli  invitati  ad  entrare,  si  negarono  dicendo :  —  Non  pos- 
siamo;  perch6,  avendo  versato  il  sangue  dei  nostri  fratelli,  siam 
divenuti  immondi:  per  la  qual  cosa  ne  in  questa  ne  in  altre  case 
entreremo,  se  prima  non  sara  placata  nelle  proprie  nostre  case 
Yajana  degli  uccisi.  —  Datoci  poscia  il  saluto,  se  ne  partirono  per 
i  loro  paesi,  portando  infilzati  alle  lancie  chi  uno,  chi  due,  chi  tre 
trofei,  e  cantando  inni  di  guerra,  in  mezzo  ai  quali  spesso  sentivasi 
ripetere  il  mio  nome.  Mi  si  diceva  che,  giunti  ai  loro  paesi,  sareb 
bero  stati  ricevuti  dal  popolo  e  dai  parenti  con  gran  solennita  ed 
i.  Abba  Dula:  capo  militate,  comandante. 


MISSIONS  NELL'ALTA   ETIOPIA  823 

onori,  e  che  poscia,  verificati  i  trofei  di  ciascuno,  avrebbero  avuto 
il  diritto  di  appenderli  alia  porta  della  propria  capanna  in  segno  di 
trionfo,  e  dopo  morte,  ai  pali  del  monumento  in  memoria  del  loro 
valore. 

In  quanto  alia  divisione  del  bottino,  generalmente  si  segue  questa 
norma.  Tutti  i  muli  conquistati  vanno  di  diritto  ai  capi  d'esercito ; 
i  cavalli  invece  a  chi  e  stato  il  primo  a  prenderli;  e  lo  stesso  degli 
altri  varii  oggetti  mobili  che  capitano  nelle  mani.  Gli  armenti  poi, 
trasportati  in  corpo,1  vengono  divisi  a  tutti,  secondo  il  valore  di- 
mostrato,  e  secondo  gli  usi  particolari  dei  paesi.  Nei  terreni2  non 
possono  avervi  parte  gli  eserciti  stranieri  ed  ausiliari,  ma  solo  il 
paese  che  intim6  e  fece  la  guerra,  tenendoli  per  se,  o  cedendoli  ai 
vinti  mediante  un  compenso.  Le  case  e  le  terre  che  le  circondano, 
dopo  conclusa  la  pace,  si  lasciano  agli  antichi  proprietarii,  purche 
facciano  atto  di  sottomissione  al  paese  vincitore;  i  terreni  coltivabili 
di  confine  vengono  divisi  fra  gli  Abba  Dula  deiresercito  vittorioso, 
i  quali  ne  danno  pure  una  parte  ai  loro  soldati ;  i  pascoli  pubblici  poi 
del  paese  vinto  restano  aperti  anche  al  popolo  vincitore,  che  puo 
condurvi  i  suoi  armenti  come  fosse  proprieta  comune, 

Ritornati  adunque  a  Lagamara,  si  venne  alia  divisione  del  bottino, 
prendendo  ciascuno  la  parte  che  gli  toccava,  mentre  dal  popolo  si 
cantavano  inni  di  guerra  e  di  lode  ai  vincitori.  Gli  eserciti  forestieri 
poi,  ricevuta  la  parte  loro,  ritornarono,  come  ho  detto,  ai  loro 
paesi,  salutati  dagli  applausi  della  moltitudine. 

21.  Non  potendosi  andar  subito  a  fare  la  divisione  dei  terreni 
conquistati,  perche  dapertutto  non  si  trovavano  che  cadaveri,  il 
povero  paese  di  Celia  resto  deserto  piu  settimane,  cioe  sino  a  tanto 
che  le  iene  e  gli  avoltoi  non  ebbero  divorate  le  sventurate  vittime. 
Finalmente,  quando  di  esse  non  restavano  che  le  spolpate  ossa, 
gli  Abba  Dula  di  Lagamara  con  1' Abba  Buku  recaronsi  a  dividere  il 
dominio  del  conquistato  paese.  Ghilindi-Nonno,  come  si  e  detto, 
fu  lasciato  nel  grado  con  tutti  gli  onori  e  poteri  che  si  aveva  prima 
della  guerra,  chiamandosi  pero  non  piu  Abba  Dula  di  Celia,  ma 
di  Lagamara.  Tutto  il  resto  poi  fu  diviso  e  posto  sotto  il  dominio 
dei  tre  Abba  Dula  di  Lagamara,  Tuuli,  Gigio  ed  Orghessa.  Per  la 
qual  cosa  ritornando  gli  antichi  proprietarii  a  riprendere  le  loro  case 
e  terreni,  dovevano  prima  recarsi  a  fare  atto  di  soggezione  e  di 

i.  in  corpo:  in  massa,  tutti  insieme.  2.  Nei  terreni:  nella ripartizione  delle 
terre  tolte  al  nemico. 


824  GUGLIELMO   MASSAJA 

sudditanza  a  quell' Abba  Dula,  nel  cui  distretto  trovavasi  la  loro 
proprieta.  Tuuli  poi,  come  capo  principale  delPesercito  di  Lagamara 
in  quella  guerra,  fu  dichiarato  pure  primo  Abba  Dula  di  Celia. 

Anche  alia  Missione  si  vollero  cedere,  insieme  con  alquanti  capi 
di  bestiame,  alcuni  pezzi  di  terreni,  quantunque,  come  forestieri, 
non  avessimo  alcun  diritto  a  beni  stabili:  e  questa  liberalita  ci 
giovo  non  poco;  poiche  con  tale  atto  si  venne  indirettamente  a 
dichiarare  la  Missione  come  un  ente  indigene. 

Cosi  ebbe  fine  quella  guerra,  che  prima  mi  fu  cagione  di  tanti 
fastidii;  ma  che  poi  rese  la  Missione  piu  indipendente  e  piu  auto- 
revole  in  quelle  regioni.  E  di  fatto,  in  tutto  il  tempo  che  mi  fermai 
a  Lagamara,  i  consigli  politici  e  militari  tenevansi  sempre  dinanzi 
la  porta  della  chiesa;  e  ci6  mostrava  il  rispetto  che  si  avesse  per  noi, 
e  la  fiducia  nel  nostro  potere :  ma  anziche  il  loro  rispetto  e  la  fiducia 
in  un  immaginario  potere  soprannaturale,  noi  cercavamo  le  loro 
anime,  per  liberarle  dalle  catene  del  demonio,  e  ridonarle  a  Dio. 
In  quanto  ai  capi,  poca  speranza  nutrivamo  di  sicuramente  conver- 
tirli :  Tuuli,  la  persona  piu  autorevole  del  paese,  veniva  ogni  giorno 
a  baciare  la  porta  della  cappella,  per  mostrare  la  sua  riconoscenza 
verso  il  Dio  dei  cristiani,  che  gli  aveva  dato  la  vittoria:  ma  qui 
finiva  tutta  la  sua  religione  e  tutto  il  suo  fervore  pel  cattolicismo. 
Tuttavia,  essendo  lasciati  liberi  nel  nostro  ministero,  principal- 
mente  nell'istruzione  ed  educazione  della  gioventu,  speravamo 
col  tempo  raccogliere  abbondante  messe  in  mezzo  a  quel  popolo. 


IN  MEZZO   AI   MAGHI1 

.Lagamara,  norne  composto  di  laga  (flume)  ed  amara  (cristiano), 
era  un  paese  fondato  ed  abitato  in  gran  parte  da  popoli  cristiani 
abissini,  divenuti  poi  galla;  i  quali  stabilitisi  in  questo  punto  della 
regione  etiopica,  chiamata  Tibie,  dove  scorreva  un  piccolo  flume,  vi 
avevano  dato  il  loro  nome.  Quella  popolazione  si  divideva  in  tre 
razze  principali,  cioe  la  Uara  Gibbu,  la  Uara  Gode  e  la  Uara  Ba- 
desso;  che  vuol  dire  i  figli  di  Gibbu,  i  figli  di  Gode,  ed  i  figli  di 
Badesso,  chiamandosi  cosi  i  capi  di  famiglia,  che,  emigrati  in  quelle 
parti,  avevano  dato  principio  alia  costituzione  delle  tre  suddette 
razze.  Oltre  a  queste,  altre  famiglie  di  mercanti  abissini  erano  an- 
i.  Ed.  cit.,  vol.  iv,  cap.  vi,  pp.  70-87. 


MISSIONS  NELL'ALTA   ETIOPIA  825 

date  posteriormente  a  stabilirsi  in  quel  paese,  conservando  sempre 
la  fede  eretica  della  loro  abbandonata  patria;  e  principale  fra  di 
essi  era  quell' Abba  Gallet,  di  cui  ho  parlato  nei  capi1  precedent!. 
Tutta  quanta  questa  colonia  di  emigrati  contava  piu  di  sessanta 
case  in  Lagamara,  e  circa  venti  erano  discendenti  del  vecchio  Abba 
Gallet :  or  la  Missione  sperava  di  raccogliere  i  primi  e  piu  copiosi 
frutti  del  suo  apostolato  in  mezzo  ad  essi,  che  lontani  dalla  perfidia 
dei  loro  preti  eretici,  e  non  ancora  passati  al  paganesimo,  erano  me- 
glio  disposti  a  ricevere  la  fede,  e  mettersi  sotto  la  nostra  direzione. 
E  gia  i  due  terzi  dei  capifamiglia  venivano  assidui  alle  istruzioni; 
e  gli  altri,  quantunque  si  mostrassero  riluttanti  ad  abbracciare  la 
fede,  pure  frequentavano  la  nostra  casa,  prendevano  parte  alle 
nostre  riunioni,  ci  aiutavano  e  soccorrevano  nei  bisogni,  insomnia 
si  riputavano  come  membri  della  nuova  casta  cristiana,  formatasi 
in  paese  dopo  il  nostro  arrivo.  Ma  le  migliori  speranze  della  Mis 
sione  erano  principalmente  sulla  gioventu,  la  quale  ci  stava  sempre 
vicina,  ci  amava  come  padri,  e  riceveva  con  docilita  i  salutari  in- 
segnamenti,  che  ogni  giorno  le  si  davano.  E  da  questa  gioventu,  gia 
a  noi  familiare,  speravamo  pure  un  grande  aiuto  per  la  conversione 
degli  altri ;  poiche  a  mano  a  mano  chjessa  prendeva  affetto  alia  re- 
ligione,  quasi  istintivamente  cercava  di  attirare  alia  fede,  e  quindi 
a  noi,  gli  altri  compagni,  non  solo  abissini,  ma  anche  galla. 

2.  In  quanto  ad  amenita,  clima  e  fertilita,  Lagamara  e  forse  il 
piu  bel  paese  di  quella  regione  galla.  Formato  di  una  vasta  pianura, 
oltre  duecento  metri  piu  bassa  delPaltipiano  che  lo  circonda,  gli 
scorre  a  ponente  il  flume  Ghivie,  ricco  sempre  di  fresca  vegetazio- 
ne;  a  settentrione  lo  chiude  in  semicircolo  Talta  catena  di  mon- 
tagne,  piu  addietro  descritte,  ed  in  mezzo  alle  quali  si  eleva  il  monte 
Tullu-Amara,  ai  cui  piedi  sorge  il  torrente  omonimo,  che  diede 
il  nome  anche  al  paese  ed  alia  pianura;  nei  resto  poi  e  circondato 
da  altre  montagne  e  colline,  che  fantasticamente  delineano  il  suo 
orizzonte.  Difeso  inoltre  a  nord  da  quella  catena  di  montagne,  con 
un  territorio  bagnato  da  perenni  e  Hmpide  acque,  e  con  una  lus- 
sureggiante  e  variata  vegetazione,  gode  il  clima  piu  sano  e  piu  dolce 
di  tutto  quelPaltipiano.  Quanto  poi  a  fertilita,  non  trovasi  certo 
territorio  in  quei  contorni  che  lo  superi ;  poiche  ivi  fioriscono  tutte 
le  produzioni  tanto  dei  paesi  alti  quanto  dei  bassi;  ed  abbondante- 

i.  capi:  capitoli.  Abba  Gallet  era  un  ricco  mercante,  ormai  vecchio,  che  fu 
molto  favorevole  alia  missione. 


826  GUGLIELMO   MASSAJA 

mente  vi  cresce  e  produce  ogni  albero  e  cereale.  Onde  un  forestiero 
che  vi  andasse  per  cercar  fortuna,  farebbe  in  poco  tempo  bene  i 
suoi  interessi;  poiche  acquistando  terreni  a  prezzo  discretissimo,  e 
poi  dandoli  a  coltivatori  con  meta  del  guadagno,  non  solo  si  assicu- 
rerebbe  il  grano  ed  i  legumi  per  vivere,  ma  ne  potrebbe  fare  oggetto 
di  commercio.  Ed  appunto  questa  dolcezza  ed  amenita  di  clima,  e 
questa  facilita  di  procacciarsi  con  poca  industria  sostentamento  e 
guadagni,  ha  attirato  sempre  in  quel  paese  una  grande  quantita 
di  popoli  stranieri,  principalmente  abissini;  i  quali,  pur  mantenen- 
do  certi  costumi  ed  usi  loro  proprii,  son  sempre  vissuti  comoda- 
mente,  ed  in  pace  ed  armonia  con  le  razze  indigene,  che  vi  trova- 
rono,  e  che  ancora  vi  emigrano  dai  paesi  vicini. 

3.  II  forestiero  adunque  si  trovava  in  Lagamara  come  in  casa 
sua,  non  solo  ben  veduto,  od  almeno  non  molestato  dagli  indigeni, 
ma  neppure  esposto  a  quelle  diffidenze  ed  animosita,  che  pur  troppo 
s'incontrano,  stando  in  mezzo  a  popoli  di  pura  razza  galla,  che  mai 
o  raramente  videro  stranieri.  Ed  appunto  per  questi  notabili  van- 
taggi  la  classe  dei  mercanti  aveva  preso  dimora  in  quel  paese,  fa- 
cendone  il  centre  dei  loro  affari  e  commerci ;  cosicche  poteva  dirsi 
che  tutto  il  traffico  del  nord  e  del  sud  stesse  nelle  loro  mani.  E 
quanto  questa  condizione  favorisse  noi  missionarii,  .non  occorre 
dire ;  poiche  con  tale  mezzo  potevamo  tenere  la  nostra  corrispon- 
denza  sia  al  nord  col  Gudru,  col  Goggiam  ed  anche  con  Massauah, 
sia  al  sud  con  Ennerea  e  Kaffa:  onde  la  casa  di  Lagamara,  anche 
per  questi  soli  rispetti,  era  la  piii  centrale,  e  quindi  la  piu  adatta 
alle  nostre  operazioni  ed  imprese  apostoliche. 

Inoltre,  come  sopra  ho  detto,  essendoci  lasciata  ampia  liberta  nel 
sacro  ministero  (cosa  non  tanto  facile  ad  ottenersi  in  altri  paesi),  in 
poco  tempo  ci  eravamo  cattivata  la  stima  e  Taffezione  del  pubblico, 
ed  insieme  avevamo  accresciuto  di  molte  pecorelle  Povile  di  ,Gesu 
Cristo.  Si  sa  poi  che  in  mezzo  alle  rose  trovandosi  sempre  e  da- 
pertutto  le  spine,  anche  fra  quel  popolo  il  nostro  apostolato  in- 
contrava  difficolta,  e  talvolta  non  lievi.  Quella  moltitudine,  com- 
posta  di  razze  e  religioni  differenti,  non  era  dawero  un  terreno 
vergine,  che  si  lasciasse  coltivare  con  molta  facilita,  e  ricevesse  do- 
cilmente  e  subito  il  seme  della  divina  grazia;  poiche  mutare  idee, 
abbandonare  pregiudizii,  darsi  ad  una  nuova  vita,  insomnia  divenire 
altr'uomo,  non  e  opera  di  un  giorno,  ne  di  si  agevole  esecuzione. 
Onde  faceva  d'uopo  sbarbicare  prima  cio  che  di  cattivo  avesse 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIOPIA  827 

piantato  Teresia,  il  paganesimo  e  Pislamismo,  e  poi  cominciare 
una  nuova  piantagione:  e  questo  lavoro  richiedeva  tempo  e  pa- 
zienza,  ed  insieme  carita  e  prudenza  nel  vincere  gli  ostacoli  e  le 
contrarieta,  che  talora  ci  si  paravano  dinanzi.  Un  poj  piu  di  eretica 
pertinacia  e  di  orientate  perfidia  la  trovavamo  in  taluni  abissini,  o 
venuti  di  fresco,  o  della  classe  piu  colta:  ma  1'essere  in  paese  fo- 
restiero,  e  lontani  dai  loro  preti,  li  rendeva  timidi  e  deboli,  e  quindi 
non  tanto  pericolosi  e  nocivi. 

4.  Dopo  qualche  anno  poi  la  Missione  di  Lagamara  divenne  una 
delle  piu  floride,  annoverando  nel  suo  seno  molti  che  gloriavansi 
veramente  del  titolo  di  cattolico,  ascoltavano  volentieri  la  parola  di 
Dio,  venivano  anche  nel  corso  della  settimana  alia  Messa,  amavano 
sinceramente  i  missionarii,  e  nelle  occasioni  li  difendevano  energi- 
camente  contro  i  mussulmani  ed  i  pagani.  Oltre  a  ci6,  anche  per  le 
pratiche  della  vita  cristiana  ci  era  da  consolarsi;  poiche  molti  vi  si 
davano  con  premura  ed  emulazione:  il  digiuno  poi  e  la  santifica- 
zione  delle  feste,  riputandosi  da  loro  come  i  doveri  piu  essenziali 
della  religione,  si  osservavano  con  iscrupolosa  esattezza.  In  quanto 
a  question!  religiose,  se  prima  poco  se  ne  occupavano,  perche  igno- 
ranti  e  lontani  dai  loro  irrequieti  Kies,  dopo  le  nostre  istruzioni 
nessuno  sapeva  od  awertiva  che  nella  dottrina  di  Gesu  Cristo 
vi  fossero  contrast!,  o  qualcuna  di  quelle  difficolta,  che  1'eresia  tien 
sempre  pronte  per  legittimare  e  difendere  la  sua  apostasia.  Cio 
che  poi  a  quel  popolo,  tutto  sensuale,  faceva  una  grande  impres- 
sione,  era  la  castita  dei  missionarii,  ed  anche  di  tutti  coloro  che 
componevano  la  nostra  famiglia,  e  stavano  a  nostro  servizio :  questa 
virtu  appariva  agli  occhi  loro  tal  dono  straor dinar io,  che  riputavanci 
come  tanti  esseri  calati  dai  cielo.  Rispetto  alia  frequenza  dei  sacra- 
menti  non  si  pote  mai  svegliare  nei  loro  cuori  quel  desiderio  e  quel 
fervore,  che  infiamma  i  petti  dei  nostri  cattolici;  ed  appena  un  terzo 
vi  si  accostava  in  qualche  solennita:  laddove  gli  altri,  senza  saperne 
dire  il  perche,  se  ne  tenevano  lontani.  Riflettendo  su  questa  in- 
vincibile  indifferenza,  piu  volte  domandai  a  me  stesso  se  mai  pro- 
venisse  da  qualche  avanzo  di  eresia;  e  meditandovi  sopra,  dovetti 
concludere  che  in  minima  parte  vi  avesse  causa  la  pratica  dell' Abis- 
sinia  eretica  di  star  lontana  dai  sacramenti,  e  che  piuttosto  quella 
freddezza  nascesse  dalla  passata  loro  corruzione,  e  dalla  debolezza 
dell'umana  natura,  non  educata  sin  dall'infanzia  alia  fervente  vita 
cattolica.  In  punto  di  morte  poi  erano  tutti  solleciti  a  chiamare  il 


828  GUGLIELMO   MASSAJA 

prete,  per  ricevere  gli  ultimi  sacrament!  e  spirare  fra  le  sue  braccia. 

5.  La  casa  della  Missione,  come  ho  detto,  era  stata  innalzata  ai 
piedi  di  Tullu-Danko,  un  terreno  appartenente  a  ricco  proprietario 
della  razza  Uara-Gode,  chiamato  Dagna-Minda;  e  per  essere  trop- 
po  lontana  dalle  varie  agglomerazioni  di  capanne,  che  formavano 
il  paese  di  Lagamara,  i  nostri  cristiani  non  eran  contenti  di  quel 
sito,  ed  avrebbero  in  vece  desiderate  che  se  ne  costruisse  un'altra 
nel  centre,  o  accosto  a  qualche  punto  del  paese.  Non  sapendo  ri- 
solverci  di  fare  questo  cambiamento,  il  seguente  tragico  fatto  venne 
a  costringerci  a  metterlo  in  esecuzione. 

Vicino  a  noi  dimorava  un  mercantuccio  cristiano  eretico,  chia 
mato  Devel6,  il  quale,  benche  mezzo  pagano  nella  condotta,  tutta- 
via  aveva  piacere  che  la  sua  numerosa  famiglia  frequentasse  la  chie- 
sa  ed  i  sacramenti:  e  per  questo  motive  ci  era  molto  caro.  Un 
giorno,  essendo  sparito  un  suo  schiavo,  Develo  ando,  come  Saulle, 
a  consultare  una  celebre  maga1  del  paese,  per  sapere  dove  fosse 
andato  o  chi  1'avesse  rapito.  Si  sa  che  fra  i  Galla  i  responsi  dei  ma- 
ghi  sono  riputati  oracoli,  ed  hanno  valore  legale  anche  nei  giudizii 
dei  tribunali:  or  quella  maga  nella  risposta  che  diede  incolp6  in 
parte  la  moglie  di  Dagna-Minda,  proprietario  del  luogo  in  cui  sor- 
geva  la  casa  della  suddetta  famiglia.  Per  la  qual  cosa,  sentito  ci6 
quella  signora,  ne  resto  si  grandemente  offesa,  che  voile  prenderne 
vendetta;  ed  una  notte,  mentre  tutti  dormivano,  mand6  ad  ap- 
piccare  il  fuoco  alia  capanna.  Le  case  galla  essendo  tutte  costruite 
di  legni  e  paglia,  e  senza  quell'intonaco  di  fango,  che  dentro  vi 
fanno  gli  Abissini,  in  un  batter  d'occhio  la  capanna  ando  in  fiamme, 
restandovi  incenerita  tutta  quella  sventurata  famiglia,  ad  eccezione 
del  padre,  ch'era  assente,  e  di  uno  schiavo,  che  coraggiosamente 
riusci  a  slanciarsi  fuori  per  la  piccola  porta.  Questa  inumana  ven 
detta,  nuova  anche  a  quei  popoli  e  paesi,  mise  lo  spavento  non  solo 
nella  mia  famiglia,  ma  anche  in  tutti  i  nostri  cattolici  ed  amici; 
onde  ad  ogni  costo  si  voile  che,  abbandonato  quel  luogo,  andassimo 
a  costruire  un'altra  casa  vicino  al  paese.  E  cosi  fu  fatto;  in  poco 
tempo,  ricevendo  aiuti  da  ogni  parte,  furono  innalzate  varie  e  co- 
mode  capanne  sul  pendio  d'una  collina,  chiamata  Tullu-Leka,  a 

i.  come . .  .  maga:  in  /  Reg.,  28,  si  narra  che  Saul,  prima  della  battaglia 
di  Gelboe,  interrog6  in  Endor  una  maga  che  gli  fece  apparire  Samuele  da 
poco  morto :  e  questi,  irato  e  minaccioso,  gli  predisse  la  sconfitta  e  la  morte 
imminente. 


MISSIONE   NELL'ALTA   ETIOPIA  829 

destra  del  torrente  Amara,  su  proprieta  di  un  certo  Abdi-Leka. 

6.  Venendo  ora  a  parlare  dei  maghi,  che  tanto  potere  ed  autorita 
hanno  presso  quei  popoli,  sino  a  ritenersi  come  prove  legali  i  loro 
responsi,  diro  cose,  che  fra  gente  civile  sembreranno  incredibili, 
e  non  sara  difficile  di  procurarmi  per  questo  una  larga  patente  di 
spacciatore  di  fandonie.  Ma  mi  conforta  il  pensiero  che  se  questa 
incredulita  nel  soprannaturale  diabolico  trovavasi  fra  i  nostri  po 
poli  civili  mezzo  secolo  fa,  oggi  per  buona  grazia  della  civilta  mo- 
derna  e  sparita  quasi  interamente;  poiche  e  un  fatto  che  da  molti 
si  presta  piu  fede  ai  responsi  degli  spiritisti,  dei  magnetizzati  e  ma- 
gnetizzanti,  delle  sonnambule,  delle  tavole  giranti  e  parlanti,  e  di 
altri  impostori  e  ministri  di  Satana,  che  alia  parola  di  Dio  ed  al 
suo  vangelo. 

Fra  i  Galla  dunque,  ed  anche  fra  gli  Abissini,  divenuti  ormai 
quasi  tutti  pagani  come  quelli,  in  ogni  occasione  si  suole  ricorrere 
ai  maghi;  e  principalmente  quando,  lesi  nella  vita,  nella  roba,  nel- 
Tonore  ecc.,  non  sanno  a  chi  dare  la  colpa  del  danno  ricevuto.  Ed 
il  mago,  o  meglio  il  diavolo  per  mezzo  del  mago,  spiega  il  mistero 
dicendo:  il  tale  ha  rubato,  il  tal  altro  ha  ucciso,  per  istigazione  di 
quello  awenne  il  tal  danno,  ecc.  Talvolta  il  padre  della  bugia  dice 
la  verita,  se  per  castigare  Porgoglio  umano  Dio  glielo  permette; 
ma  spesso  fa  il  suo  mestiere  di  menzognero,  rivelando  fatti  e  cose 
non  mai  esistite  e  successe.  E  poiche  fra  quei  popoli,  come  ho  detto, 
questi  responsi  son  tenuti  veraci,  e  possono  avere  valore  legale  con- 
tro  i  colpevoli,  immagini  il  lettore  quali  disordini  non  seguano  per 
questo  nella  societa  e  nelle  famiglie!  Se  volessi  riferire  i  fatti  orri- 
bili,  le  discordie  nelle  famiglie,  le  guerre  fra  popoli  e  paesi,  le  inimi- 
cizie  personali,  che  in  tanti  anni  vidi  e  sentii,  appunto  per  le  rive- 
lazioni  vere  o  false  di  questi  ministri  di  Satana,  non  basterebbe  un 
libro.  La  vendetta  della  moglie  di  Dagna-Minda  contro  quella  po- 
vera  famiglia,  sopra  narrata,  n'e  una  prova;  e  per  non  citare  che 
fatti,  basti  ricordare  che  la  guerra  fra  Lagamara  e  Celia  in  sostanza 
ebbe  origine  da  una  maga,  la  quale  rivelava  da  una  parte  alia  donna 
che  fuggi  le  infedelta  del  marito,  e  la  passione  per  lei  del  Lagama- 
rese,  e  dalPaltra  dava  conoscenza  a  questo  delle  turpi  inclinazioni 
di  essa  verso  di  lui.  E  quando  mandai  i  due  preti  a  Celia  per  offrire 
la  pace,  fu  quella  stessa  maga  ch'eccitb  i  mussulmani  ad  opporsi,  e 
persuadere  il  popolo  di  non  accettarla,  predicendo  le  piu  terribili 
disgrazie  in  caso  contrario. 


830  GUGLIELMO    MASSAJA 

Non  bisogna  per6  credere  che  il  diavolo  ed  i  suoi  ministri  riescano 
sempre  a  riportar  vittoria  con  questo  loro  satanico  mestiere;  anzi  be- 
ne  spesso  essi  stessi  ne  restano  scornati  e  vinti.  Tuttavia  il  male  che 
per  esso  ne  viene  e  sempre  grande ;  le  discordie,  le  guerre,  le  rap- 
presaglie,  le  vendette,  le  impudicizie  ed  altri  simili  disordini  sono, 
e  vero,  un  guadagno  pel  principe  delle  tenebre,  ed  un  motive  di 
lucro  per  i  suoi  ministri ;  ma  spesso  non  possono  contentarsi  che  di 
questa  sola  soddisfazione ;  poiche  finalmente  il  Signore,  stendendo 
il  suo  potente  braccio,  dice:  Basta;  e  mentre  il  maligno  va  a  rodere 
la  sua  rabbia  nel  cupo  regno  dell'eterno  dolore,  i  suoi  ministri  pa- 
gano  pur  essi  il  fio  delle  loro  imposture.  Di  fatto  non  vidi  mai  un 
mago  che  finisse  bene:  ma  tutti,  o  presto  o  tardi,  si  ebbero  il  me- 
ritato  castigo,  o  la  medesima  sorte  di  tante  vittime,  da  loro  immo 
late.  E  per  non  ritornare  spesso  nel  corso  di  queste  memorie  sopra 
un  tale  triste  soggetto,  riferisco  qui  alcune  malvagita  e  fatti  di  quei 
maghi,  tentati  ed  accaduti  in  diversi  tempi. 

7.  Arrivato  in  Gudru  sentiva  parlare  da  tutti  di  una  celebre  ma- 
ga,  chiamata  Dacci;  la  quale,  operando  molte  stregonerie,  erasi 
acquistato  un  gran  credito  presso  quei  popoli;  e  che  finalmente, 
dopo  aver  dato  prova  del  suo  magico  potere,  entrando  ignuda 
nell'acqua  di  un  laghetto,  e  poi  uscendone  con  una  face  accesa 
in  mano  alia  presenza  di  tutti,  era  stata  dichiarata  la  gran  maga 
del  paese.  Per  la  qual  cosa  in  ogni  bisogno  il  popolo  correva  da  lei, 
e  tanti  regali  ed  offerte  le  si  portavano,  che  quando  giunsi  io  cola 
era  divenuta  ricchissima.  Rispettata  e  temuta  da  tutti,  comandava 
e  disponeva  a  suo  piacere  nelle  caste  e  nelle  famiglie,  ed  a  tanto 
orgoglio  era  salita,  che  facevasi  chiamare  con  titolo  mascolino,  il 
signor  Dacci.  Dopo  il  mio  arrivo,  vedendo  che  molti  frequentavano 
la  mia  casa  ed  ascoltavano  la  mia  parola,  fu  presa  da  gelosia,  quasi 
volessi  farle.  concorrenza  nel  magico  mestiere,  e  cominci6  a  mo- 
vermi  guerra,  ora  di  nascosto  ed  ora  palesemente,  minacciando 
anche  di  metter  fuoco  alia  mia  casa  e  farmi  morire  abbruciato. 
E  poiche  Gama- Moras  proteggeva  e  favoriva  la  Missione,  rivolse  il 
suo  odio  anche  contro  di  lui,  dichiarandosi  sua  nemica,  ed  inci- 
tando  ed  aiutando  gli  Uara-Kumbi  e  tutti  i  loro  partigiani  a  quella 
guerra  contro  il  pretendente,  che  raccontai  nel  terzo  volume:1  la 
quale  per6,  quantunque  diretta  e  favorita  dalle  sue  magiche  arti, 
fini  con  la  sconfitta  dei  suoi  amici  e  con  la  vittoria  di  Gama.  Questi 

i.  guerra  .  .  .  volume:  vedi  la  nota  sap.  808. 


MISSIONE  NELL'ALTA  ETIOPIA  831 

allora,  non  temendo  punto  il  suo  decantato  potere,  cerco  di  averla 
nelle  mani  per  darle  una  buona  lezione:  ma,  awertita  a  tempo, 
fuggi  travestita;  la  sua  casa  pero  ed  il  suo  villaggio  andarono  in 
fiamme,  ed  i  suoi  beni  confiscati.  Dopo  qualche  tempo  mand6  a 
pregarmi  d'intercedere  per  lei  presso  Gama- Moras :  ma  questi  non 
volendo  in  veruna  maniera  perdonare  ad  una  si  triste  Strega,  la  lascio 
andare  raminga,  e  morire  fuori  del  suo  regno. 

8.  Alcune  settimane  dopo  che  eravamo  andati  ad  abitare  la  nuova 
casa  di  Tullu-Teka,  un  giorno  uscito  a  passeggio  con  Abba  Joan 
nes,  giunti  ad  un  punto,  il  giovane  sacerdote,  additando  un  largo 
recinto  con  molte  capanne,  da  sembrare  un  piccolo  villaggio,  mi 
disse:  —  £  quella  la  dimora  della  gran  maga  di  Lagamara  Hada- 
Garos,  e  dal  popolo  chiamata  gofta  (signore).  Si  puo  dire  con  cer- 
tezza  ch'essa  domini  tutto  il  paese,  non  esclusi  anche  alquanti  no- 
stri  cristiani,  non  ancora  spogli  delle  antiche  loro  superstizioni. 
Gelosa  di  noi,  ebbe  gran  dispiacere  quando  intese  che  volevamo 
trasferire  la  casa  della  Missione  in  Tullu-Leka,  e  fece  di  tutto  per 
impedirlo:  ma  non  essendovi  riuscita,  non  lascia  ora  di  spargere 
continui  sospetti  e  calunnie  contro  di  noi.  —  Compresi  che  Iddio, 
anche  in  quella  nuova  casa,  si  vicina  alia  residenza  della  signora,  o 
meglio  del  signor  Garos,  ci  preparava  altre  tribolazioni;  e  di  fatto  a 
poco  a  poco  venni  a  conoscere  che  con  chiunque  recavasi  a  consul- 
tare  il  suo  oracolo,  non  solamente  parlava  male  di  noi,  ma  minac- 
ciava  della  sua  collera  coloro  che  avessero  frequentato  la  nostra 
chiesa.  Si  sa  che  la  collera  di  una  maga  e  sempre  qualche  malattia 
od  altro  malanno  in  casa:  or  io  conoscendo  gia  sin  dove  potesse 
giungere  il  loro  magico  potere,  una  volta  mandai  a  dirle  che  i  ma- 
lanni  e  le  malattie  minacciate  ai  miei  cristiani,  il  Signore  le  riser- 
vava  per  la  sua  casa.  E  poiche  quella  razza  d'impostori,  per  quanto 
sieno  orgogliosi  e  si  atteggino  ad  invulnerabili  in  faccia  ai  poveri  ed 
ignoranti  pagani,  altrettanto  si  awiliscono  e  divengono  timidi  come 
agnelli  quando  ban  da  fare  con  uno  che  reputano  piu  potente  di 
loro,  nel  sentire  quella  risposta  e  minaccia,  ebbe  tanta  paura,  che 
non  solo  protest6  di  non  aver  detto  parola  alcuna  contro  di  noi,  ma 
che  era  e  voleva  restare  nostra  arnica. 

9.  Passo  di  fatto  un  po*  di  tempo  senza  sparlar  di  noi  e  recarci 
molestie ;  ma  Todio  pero,  occulto  nel  cuore,  aspettava  qualche  oc- 
casione  per  isfogare  esternamente,  e  non  tardo  gran  fatto  che  1'oc- 
casione  le  si  offrisse  propizia.  Giunta  la  stagione  della  semente,  e 


832  GUGLIELMO   MASSAJA 

tardando  le  pioggie  a  venire  secondo  il  solito,  cominci6  a  spargere 
fra  il  popolo  che  la  causa  di  questo  danno  eravamo  noi,  che  prima 
in  paese  si  avevano  le  stagioni  e  le  pioggie  regolarmente,  e  che  quel 
cambiamento  di  tempo  dovevasi  alPinfluenza  nostra,  quali  astri 
malefici  venuti  di  fuori  per  affamare  la  gente.  Alcuni  del  popolo, 
e  principalmente  i  campagnuoli,  sia  perche  ignoranti,  sia  perche 
tenevano  i  detti  di  quella  Strega  come  tanti  oracoli,  vi  prestavano 
fede,  ed  a  poco  a  poco  concepirono  tanto  malanimo  contro  di  noi, 
che  risolvettero  levarci  di  torno.  Una  sera  pertanto  dopo  VAve  Ma 
ria  cominci6  a  radunarsi  gente,  armata  di  lancie  e  bastoni,  e  messasi 
in  ordine,  si  awiava  senza  tanto  strepito1  verso  la  casa  nostra  per 
distruggerla.  L'Abba  Dula  Tuuli,  avendo  prima  subodorato  qualche 
cosa  dei  feroci  disegni  di  quella  ciurmaglia,  radun6  segretamente  al- 
quanti  suoi  soldati,  e  fattili  quella  sera  nascondere  in  un  bosco  vi- 
cino,  donde  dovevano  passare  i  ribelli,  e  facendo  prendere  un'altra 
posizione  ai  figli  di  Abba  Gallet,  venuti  anch'essi  per  difenderci, 
stette  li  ad  aspettare  che  giungessero.  Appena  di  fatto  li  ebbero  vi- 
cini,  fecero  tutti  insieme  alPimprowiso  una  sortita,  e  stringendoli 
in  mezzo,  e  menando  1'asta  delle  lancie  a  destra  ed  a  sinistra,  li 
conciarono  pel  di  delle  feste,  e  li  misero  in  precipitosa  fuga. 

10.  Dai  miei  difensori  essendo  stata  chiusa  la  strada  dond'erano 
venuti,  quei  disgraziati,  fuggendo,  dovettero  prendere  una  via,  che 
per  burroni  eprecipizii  internavasi  in  un  vicino  boschetto ;  e  benche 
pratici  del  luogo  ed  agili  come  fiere,  pure  neH'oscurita  della  notte 
non  riusciva  loro  si  facile  guadagnare  il  largo  senza  pericolo.  E  di 
fatto  mentre  Tuuli  ed  altri  stavano  a  raccontarmi  la  scena  accaduta, 
vengono  alcuni  a  dirci  che  un  poveretto  dal  fondo  del  precipizio 
del  bosco  gridava  pieta.  Accesa  una  fiaccola  corremmo  verso  quella 
volta,  e  calatisi  giu  alcuni  piu  arditi,  trovarono  un  giovane  immerso 
nel  sangue,  e  che  dibattevasi  fra  gli  spasimi  del  dolore.  Sceso  allora 
anch'io,  benche  a  grande  stento,  per  essere  il  pendio  assai  scosceso 
ed  ingombro  di  sterpi  e  di  spine,  feci  accendere  altri  lumi ;  ed  osser- 
vatolo,  vidi  che  il  disgraziato  stava  quasi  appeso  ad  un  tronco  di 
arbusto,  ficcatoglisi  nel  basso  ventre,  mentre  precipitosamente  cor- 
reva.  Tagliato  il  legno,  e  fatto  un  poj  di  largo  in  mezzo  a  quelle 
spine,  potemmo  liberare  il  paziente  dalla  posizione  dolorosa  in  cui 
si  trovava,  e  trasportatolo  a  casa  privo  di  sensi,  lo  adagiammo  sopra 

i.  senza.  . .  strepito:  senz'indugio,  senza  pensarci  due  volte. 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIOPIA  833 

un  letto.  Per  arrestare  Pemorragia,  in  mancanza  d'altro,  gli  feci 
continui  bagni  di  acqua  fresca  e  di  aceto  d'idromele,  e  poi  con 
istrofinazioni  di  ammoniaca  alle  narici  ed  alle  tempia,  ripigliando 
a  poco  a  poco  i  sensi,  rinvenne  dallo  svenimento,  ed  apri  gli  occhi. 
Liberate  poscia  le  parti  offese  dal  sangue  raggrumato,  ed  osservata 
la  piaga,  pareva  die  la  punta  del  legno  entrata  nel  ventre,  non 
avesse  toccato  gPintestini;  onde  non  giudicandolo  in  grave  peri- 
colo  di  morte,  lo  affidai  al  buon  Abba  Joannes,  affinche  gli  conti- 
nuasse  i  bagnuoli,  e  lo  assistesse  con  gli  altri  giovani  sino  al  mattino. 
ii.  Uscito  intanto  dalla  capanna  dell'ammalato,  mi  si  fa  innanzi 
1'Abba  Dula,  esclamando :  —  Udkdjo  cidlal  (Iddio  e  piu  grande). 
Sapete  chi  sia  costui,  caduto  nelle  vostre  rnani  in  si  miserabile  con- 
dizione  ?  e  il  drudo  della  maga  Hada  Garos ;  il  quale,  quantunque 
suo  parente,  convive  da  piu  tempo  con  essa,  ad  onta  dei  lamenti 
e  delle  proteste  del  marito.  Pare  adunque  che  veramente  il  vostro 
Dio  sia  piu  potente  di  questi  maghi.  —  Congedatici,  andai  a  dor- 
mire,  e  circa  le  tre  dopo  mezzanotte  Abba  Joannes  venne  a  dirmi 
che  rammalato  desiderava  vedermi.  Tosto  mi  recai  al  suo  letto,  e 
lo  trovai  in  pieni  sensi,  ma  con  principio  di  forte  febbre :  osservate 
le  piaghe,  vidi  che  non  mostravano  ancora  segni  d'infiammazione, 
ma  il  ventre  pero  era  alquanto  gonfio ;  tuttavia,  non  manifestandosi 
sintomi  di  singhiozzo,  mi  rassicurai  che  grintestini  non  furono1 
per  nulla  lesi.  Ordinai  allora  un  cataplasma  di  malva  con  seme  di 
lino,  e  gli  raccomandai  di  stare  tranquillo  e  farsi  coraggio,  che  sa- 
rebbe  guarito.  Mentre  i  giovani  preparavano  il  cataplasma,  Tarn- 
malato  mostro  desiderio  di  restare  solo  con  me;  onde,  usciti 
tutti,  mi  prese  la  mano,  e  baciandola  e  piangendo:  —  lo  —  dis- 
se  —  era  venuto  per  uccidervi  e  farvi  del  male  piu  che  potessi; 
ed  intanto  il  Signore  mi  ha  punito,  non  solo  col  far  cadere  su  me 
stesso  il  danno  che  voleva  recare  agli  altri,  ma  col  farmi  incappare 
fra  le  vostre  mani.  Voi  potevate  lasciarmi  morire  sulPatto,  abban- 
donandomi  in  quel  precipizio  ed  immerso  nel  sangue;  e  pure  mi 
avete  raccolto,  trasportato  in  casa  e  curato  come  fossi  vostro  figlio; 
talmenteche  son  tanto  confuso  della  carita  usatami,  che  non  so  qual 
cosa  mi  dire  per  ringraziarvi!  Se  vi  fosse  noto  quanto  male  ho 
fatto  con  quella  donna  vostra  nemica,  di  cui  sono  illegittimo  ma 
rito,  non  mi  guardereste  in  faccia!  Ma  abbiate  compassione  di  me, 

i.  non  furono:  non  erano  stati  o,  meglio  ancora,  non  fossero.  Assai  spesso 
la  prosa  del  Massaja  presenta  forme  sintattiche  scorrette  od  anacolutiche. 

53 


834  GUGLIELMO   MASSAJA 

ed  ottenetemi  dal  vostro  Dio  quel  perdono,  che  voi  si  generosa- 
mente  mi  avete  dato.  Dimani  certamente  verranno  a  prendermi, 
perche  Hada  Garos,  temendo  che  sveli  tutti  i  mostruosi  misteri 
che  sono  a  mia  cognizione,  non  vorra  lasciarmi  in  casa  vostra :  ma 

10  non  voglio  piu  separarmi  da  Abba  Joannes,  n£  da  voi;  poiche 
restando  qui,  non  solo  spero  la  guarigione  del  corpo,  ma  anche 
quella  dell'anima. 

Un  cristiano  avrebbe  parlato  con  sentiment!  di  tnaggior  com- 
punzione  e  rawedimento  di  questo  galla  pagano  ?  E  non  doveva  io 
lodare  e  benedire  la  giustizia  e  la  misericordia  di  Dio,  che  cosi  vi- 
sibilmente  aveva  punito  il  delitto,  chiamato  a  resipiscenza  un  reo, 
e  preparava  una  nuova  sconfitta  al  diavolo  ed  ai  suoi  impostori 
ministri  ? 

12.  Appena  di  fatto  spunto  il  giorno,  ecco  i  send  della  maga  ve 
nire  a  prendere  Tinfelice  per  riportarlo  a  casa:  ma  egli  tenne  fermo, 
e  per  quanto  insistessero,  non  voile  in  verun  conto1  muoversi  di  li, 
dicendo  che  aveva  bisogno  delle  nostre  cure  e  della  nostra  assi- 
stenza  per  guarire.  La  maga  sentendo  cio  diede  in  ismanie,  non  solo 
pel  colpevole  affetto  che  gli  portava,  ma  piu  pel  timore  che  non 
isvelasse  i  truci  misteri  della  sua  diabolica  vita.  Tuttavia  questo 
non  era  che  il  principio  dei  castighi,  cui  il  Signore  P  aveva  condan- 
nata;  poiche,  otto  giorni  dopo,  il  suo  figlio,  chiamato  Garos,  si 
ammal6  di  febbre  gialla;  laonde,  tenendosi  da  tutti  la  sua  casa  co 
me  appestata,  nessuno  si  awicino  piu  ad  essa.  II  pubblico  poi  aven- 
do  veduto  la  sventura  toccata  al  suo  drudo,  e  poscia  la  malattia  epi- 
demica  entrare  in  sua  casa,  comprese  finalmente  non  esser  si  grande 

11  suo  magico  potere,  se  non  aveva  Pabilita  di  tener  lontani  dalla 
sua  famiglia  quei  malanni  e  quelle  sventure  che  pretendeva  di 
cacciar  via  dalle  persone  e  dalle  case  degli  altri;  e  quindi  da  quel 
giorno  cesso  di  ricorrere  ai  suoi  prestigii  e  di  consultare  i  suoi  ora- 
coli.  Cosi  awerossi  la  minaccia  da  me  fattale  in  contrapposto  di 
quelle,  ch'essa  ripeteva  ai  cristiani,  per  dissuaderli  di  frequentare 
la  nostra  chiesa. 

13.  Un  altro  grande  mago  era  pure  a  Lagamara,  chiamato  Elma 
Dole  (figlio  di  Dole),  il  quale  perseguit6  la  Missione  per  circa  do- 
dici  anni;  cioe  dal  giorno  che  mettemmo  piede  in  quel  paese,  sino 
al  1868,  anno  in  cui  quelFimpostore  miseramente  mori.  Questo 
mago  non  occupavasi  di  malattie,  di  medicine,  di  oracoli  ecc.,  ma 

i .  in  verun  conto :  per  nessuna  ragione. 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIOPIA  835 

solamente  della  pioggia  e  del  sole,  di  cui  si  spacciava  arbitro  e 
padrone:  talmenteche,  per  avere  buono  o  cattivo  tempo,  pioggia 
o  sole,  dovevasi  ricorrere  a  lui,  s'intende  pagando  una  mancia 
proporzionata  alia  condizione  delle  persone,  che  andavano  ad  im- 
plorare  la  grazia.  Riceveva  poi  un  tributo  annuale  non  solo  dalle 
famiglie  di  Lagamara  e  di  Tibie,  ma  di  tutti  i  paesi  vicini  sino  a 
dieci  chilometri  di  distanza.  Per  la  qual  cosa  tutto  1'anno  vedevansi 
in  giro  i  suoi  avidi  rappresentanti,  riscotendo  i  detti  tributi  in 
grano,  legumi,  miele,  butirro  ed  altre  cose  commestibili.  Oltre  poi 
questo  tributo  ordinario,  ogni  volta  che  ricorrevasi  al  suo  magico 
potere,  bisognava  portare  regali  straordinarii,  come  bovi,  pecore, 
sali*  tele,  conterie2  ed  altro:  cosicche  dovendo  imprendere  una 
spedizione  militare,  fare  un  viaggio,  celebrare  una  festa  di  nozze, 
non  si  avrebbe  avuto  bel  tempo  se  non  si  fosse  andato  da  Elma 
Dole  con  pingui  e  generosi  doni.  Quante  ricchezze  adunque  avesse 
accumulato  quel  farabutto,  ciascuno  puo  immaginarlo. 

14.  Or  questo  matricolato  impostore  in  tutto  il  tempo  che  dimo- 
rai  in  Lagamara,  cioe  sino  al  4  aprile  del  1859,  non  m^  lasc^  un 
giorno  tranquillo :  ma,  screditando  il  mio  ministero,  ed  inventando 
le  piu  insulse  calunnie,  cerc6  sempre  metterci  in  odio  alia  popola- 
zione,  e  farci  dare  lo  sfratto.  Principalmente  quando  non  si  awe- 
ravano  le  sue  predizioni  e  promesse,  cioe  quando  in  vece  della 
pioggia  dardeggiava  il  sole,  o  viceversa;  e  quando  i  seminati,  gia 
maturi,  marcivano  per  le  continue  acque,  vedendosi  fatto  segno 
dal  pubblico  a  lamenti  e  minacce,  riversava  la  colpa  sopra  di  noi, 
dicendo  esser  io  la  causa  di  quel  disordhie.  Ma  fortunatamente  il 
popolo  aveva  ormai  imparato  a  conoscere  e  distinguere  I'impostore 
dal  savio ;  ed  il  grande  numero  dei  convertiti,  oltre  a  scolparmi  da 
quelle  calunnie,  era  pronto  a  difendermi  contro  chiunque  ardisse 
farmi  del  male.  Inoltre  i  molti  servizii  prestati,  e  che  continuamente 
andava  prestando  coll'inoculazione  del  vaiolo,  col  medicare  e  cu 
rare  grinfermi,  col  soccorrere  vecchi  e  poveri  in  ogni  loro  bisogno, 
avevano  reso  il  mio  nome  tanto  venerato,  che  lo  sparlare  di  quel 
malvagio  riputavasi  come  un  abbaiare  alia  luna. 

Tuttavia  una  volta  ebbe  Tardire  di  presentarsi  ai  comizii3  del- 

i.  soli:  il  sale,  foggiato  in  piastrelle,  era  in  Abissinia  adoperato  come  mo- 
neta.  2.  conterie:  perle  di  vetro  di  diversa  grandezza  e  di  colore  svariatis- 
simo,  molto  apprezzate  e  desiderate  dagli  indigeni.  3.  comizii:  le  perio- 
diche  riunioni  delle  tribu. 


836  GUGLIELMO    MASSAJA 

PAbba  Buku,  i  quali  per  Tibie  e  Lagamara  tenevansi  in  Gudeja; 
ed  ivi,  presa  la  parola,  comincio  ad  accusarmi,  dicendo :  —  lo  vi 
mando  a  suo  tempo  la  pioggia,  ed  il  prete  la  caccia  via;  se  poi  per  i 
vostri  bisogni  e  lavori  fo  dileguare  le  nubi  ed  uscire  il  sole,  il  prete 
fa  succedere  il  contrario.  Che  vi  lamentate  adunque  di  me  ?  Man 
date  via  questo  prete,  ed  allontanata  la  causa,  vedrete  il  tempo  an- 
dare  bene  come  prima. 

Allora  uno  dei  capi,  vecchio  venerando  ed  assennato,  si  alzo,  e 
rivolto  al  mago :  —  Imbroglione  che  sei,  —  gli  disse  —  tu  per  darci 
la  pioggia  ed  il  sole  prendi  un  pagamento,  ed  il  prete  che  cosa 
prende?  QuaPinteresse  puo  avere  di  recare  danno  al  popolo  con 
alterare  le  operazioni  delle  stagioni,  come  tu  dici  ?  Non  dobbiamo 
anzi  supporre  ch'egli  desideri  piuttosto  come  noi  di  venire1  la 
pioggia  ed  il  sole  a  tempo  opportune,  per  godere  anch'egli  e  la  sua 
famiglia  dei  beni  che  ci  da  la  terra  ?  Se  inoltre  il  prete  e  piu  potente 
di  te,  perche  tu  c'inganni,  promettendo  quello  che  non  e  nelle  tue 
forze  di  ottenere  ?  II  prete  anzi  ci  dice  la  parola  della  verita,  inse- 
gnando  che  Puomo  non  pu6  comandare  alia  pioggia  ed  al  sole, 
spettando  cio  al  gran  padrone  del  mondo,  che  e  Dio.  Va  via  dunque 
bugiardo,  e  cessa  dal  volerci  inimicare  con  colui  che  salva  il  paese 
dalle  guerre,  dal  vaiolo  e  dalle  malattie,  e  che  e  il  padre  dei  nostri 
poveri.  —  Dopo  questa  parlata,  se  quelPimpostore  non  si  fosse 
raccomandato  alle  gambe,  il  popolo  lo  avrebbe  conciato  per  le  feste. 

15.  Ricevuta  una  si  solenne  ed  inaspettata  lezione,  lascio  tran- 
quilla  la  Missione  sino  alia  mia  partenza  da  Lagamara:  ma  poi, 
vedendomi  lontano,  comincio  novamente  a  dar  fastidii  a  coloro 
ch'erano  la  rimasti.  II  prete  indigene  pero  non  si  perdette  d'animo. 
ed  aiutato  dai  nostri  cristiani,  seppe  sempre  resistergli  e  vincerlo. 
Ritornato  io  da  Kaffa  in  Lagamara  nel  1862,  facendosi  forte  del- 
P  esilio  inflittomi  da  quel  re,2  credette  piu  facile  sottomettermi :  ma 
sbaglio  anche  questa  volta  i  suo'i  conti ;  poiche  presso  quel  popolo 
una  tal  persecuzione,  anziche  scemare,  accrebbe  tanto  il  mio  cre- 
dito,  che  tutti  i  Lagamaresi  avrebbero  voluto  di  non  pensare3  piu 
a  movermi  dal  loro  paese,  che  si  grandemente  mi  amava  e  stimava. 

Caduto  io  in  quel  tempo  gravemente  ammalato,  un  giorno  si 

i.  di  venire:  che  venga;  vedi  la  nota  a  p.  833.  2.  esilio  .  .  .  quel  re:  il  re  del 
Kaffa  mand6  in  esilio  il  Massaja,  spinto  a  ci6  dai  suoi  consiglieri.  II  Mas- 
saja,  riparato  nell'Ennerea,  di  li  risali,  subito  dopo,  a  Lagamara.  3.  di  non 
pensare:  che  io  non  pensassi. 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIOPIA  837 

sparse  la  voce  per  quei  contorni  che  fossi  morto;  Elma  Dole  n'ebbe 
tanta  contentezza,  che  non  so  qual  sacrifizio  abbia  offerto  alia  sua 
ajana,  per  essere  rimasta  finalmente  vincitrice  di  me:  ma  fu  un 
sacrifizio  sprecato;  poiche  guarii,  e  continual  alacremente  nel  mio 
ministero.  Partito1  lo  stesso  anno  pel  Gudru,  e  poi  per  1'Europa, 
seguito  a  dar  molestie  a  monsignor  Coccino,2  mio  coadiutore,  re- 
sidente  in  Lagamara:  ma  finalmente,  ritornando  dall'Europa,  per 
istrada  ricevetti  una  lettera  dello  stesso 'monsignore,  scritta  verso  la 
fine  del  1865,  nella  quale  mi  diceva  ch'essendosi  queH'impostore 
presentato  novamente  ai  comizii  delPAbba  Buku,  per  perorare  con- 
tro  la  Missione,  il  popolo  risolvette  di  farla  finita;  e  prendendo  mo- 
tivo  di  voler  vendicare  un  fatto  di  sangue,  commesso  dalla  sua 
casta,  gli  mand6  la  sfida  di  guerra;  e  venuti  alle  armi,  si  ebbe  la 
peggio,  restando  ucciso  sul  campo  insieme  con  molti  dei  suoi.  Le 
loro  case  vennero  incendiate  e  distrutte,  e  cosi  ebbe  fine  quest'altro 
figlio  della  menzogna. 

1 6.  Ancora  di  un  altro  mago,  ed  assai  celebre,  voglio  qui  parlare, 
prima  di  chiudere  questo  capo :  i  fatti  che  di  lui  brevemente  rac- 
conto  non  successero  sotto  i  miei  occhi,  ma  mi  vennero  narrati  con 
tutte  le  piu  minute  particolarita  dal  P.  Felicissimo,  il  quale,  dimo- 
rando  in  Ennerea,  fu  presente  a  tutte  le  scene  che  accompagnarono 
la  vita  e  poi  la  trista  fine  di  quell'impostore.  Questo  mago  adunque 
avevasi  acquistato  un  credito  ed  un'autorita  si  grande,  non  solo 
nel  regno  d'Ennerea,  ma  in  molte  altre  repubbliche  vicine,  che 
non  restavagli  neppur  tempo  di  potere  ricevere  e  contentare  la 
gran  quantita  di  persone,  che  si  recavano  a  consultare  i  suoi  oracoli. 
I  popoli  correvano  da  lui  a  carovane,  e  talvolta  in  si  gran  numero, 
ch'erano  costretti  aspettare  piu  giorni  dinanzi  la  sua  porta  per 
aver  Ponore  di  parlargli,  presentare  le  offerte,  ed  ottenere  le  risposte 
e  le  medicine  desiderate.  Per  la  qual  cosa  era  divenuto  cosi  ricco 
e  potente,  che  tanto  in  casa  e  nel  suo  villaggio,  quanto  nel  recarsi 
in  qualche  punto  del  regno,  teneva  un  lusso  ed  un  contegno  piu 
nobile  e  piu  sfarzoso  del  re  medesimo.  Camminava  sempre  sotto 
ricco  ombrello,  tenuto  da  uno  schiavo,  e  con  gran  seguito  di  send, 
uno  dei  quali  portava  sempre  e  dapertutto  un  seggiolone,  per  far 

i.  Partito:  soggetto  e  il  Massaja.  2.  monsignor  Coccino:  padre  Felicissimo 
da  Cortemilia,  un  cappuccino  che  il  Massaja  aveva  condotto  con  se  fin 
dalla  sua  prima  partenza  per  1'Africa,  e  che  aveva  poi  consacrato  vescovo 
col  nome  di  monsignor  Coccino  e  col  titolo  « di  Marocco,  in  partibus  in- 
fidelium ». 


838  GUGLIELMO   MASSAJA 

sedere  il  nobile  mago  dovunque  volesse  fermarsi.  Recandosi  dal 
re,  vi  andava  con  la  medesima  pompa,  e  giunto  alia  sua  presenza, 
dopo  aver  fatto  un  apparente  inchino,  senz'altre  cerimonie  sede- 
vasi  sul  seggiolone,  e  con  sovrana  prosopopea  mettevasi  ad  ascoltare 
ci6  che  gli  si  volesse  dire.  Abba  Baghibo,1  con  la  mente  piena  di 
pregiudizii,  come  ogni  altro  galla,  pur  esso  aveva  in  gran  concetto 
la  magica  e  potente  virtu  di  quell' impostore ;  e  tanta  venerazione 
nutriva  verso  di  lui,  che  volentieri  passava  sopra  alia  mancanza 
di  rispetto  ed  altre  liberta,  che  prendevasi  alia  sua  presenza.  Quan- 
do  gmnse  la  Missione  in  Ennerea,  il  valent'uomo  capi  subito  che 
gli  affari  suoi  non  sarebbero  andati  come  prima,  e  fece  di  tutto  per 
mettere  in  discredito  i  missionarii  e  farli  allontanare;  ma  Abba 
Baghibo  tenne  fermo,  e  non  gli  diede  ascolto. 

17.  Un  fatto  per6  qualche  tempo  dopo  fece  aprire  gli  occhi  al 
credulo  re  sul  merito  di  quel  mago,  ed  e  il  seguente.  II  primoge- 
genito  di  Abba  Baghibo,  chiamato  Donoce,  ambizioso  oltre  ogni 
dire,  era  impaziente  di  regnare,  ed  andava  meditando  il  come  po- 
tersi  levare  di  torno  il  padre,  e  salire  esso  sul  trono.  Una  volta, 
apertosi  col  mago,  questi  non  solamente  appro vo  i  suoi  disegni, 
ma  lo  esorto  a  metterli  presto  in  atto,  assicurandolo  di  un  felice 
esito ;  e  gli  dichiar6  che,  se  appena  salito  sul  trono  avesse  cacciato 
i  preti  cattolici  dalPEnnerea,  egli,  oltre  ad  aiutarlo  con  la  sua  po- 
tenza  magica,  si  sarebbe  adoprato  di  fare  unire  con  lui  i  Grandi  del 
paese. 

La  congiura  intanto  essendo  ordita,  e  tutto  disposto  per  dare  il 
gran  colpo,  il  giorno  stabilito  si  presenta  Donoce  seguito  dalla  mag- 
gior  parte  deU'esercito  (il  quale  nulla  ancora  sapeva  della  trama) 
alia  casa  del  re,  con  Pintenzione  non  di  ucciderlo,  ma  di  legarlo, 
e  poscia  dichiararsi  esso  legittimo  sovrano.  Tostoch6  Abba  Baghibo 
sentl  Tarrivo  di  quella  moltitudine  e  ne  seppe  il  motivo,  ben  cono- 
scendo  quanto  il  popolo  ed  i  soldati  medesimi  lo  amassero,  usci 
fuori  senza  timore ;  e  non  dando  neppure  tempo  ai  ribelli  di  muo- 
vere  una  mano,  rivolto  alPesercito,  domand6  per  qual  fine  si  fosse 
presentato  dinanzi  alia  casa  reale  senz'essere  chiamato,  e  senza 
esservi  un  qualche  nemico  da  combattere  e  vincere.  Poscia,  mani- 
festata  loro  la  trama  ordita  dal  figlio,  concluse :  —  Scegliete  ora  fra 

i.  Abba  Baghibo:  re  dell'Ennerea,  favorevole  al  Massaja  e  protettore  della 
missione.  La  situazione  muto  alia  sua  morte,  quando  gli  successe  Abba 
Gomol. 


MISSIONS   NELL'ALTA   ETIOPIA  839 

il  vecchio  vostro  re,  che  tante  volte  vi  ha  condotto  alia  vittoria  e  vi 
ha  resi  felici,  e  questo  inesperto  ed  ambizioso  pretendente,  fuor- 
viato  piuttosto  da  malvagi  consigli.  —  Quasi  tutto  Pesercito  allora 
schierandosi  dalla  parte  del  padre,  Donoce  ed  i  suoi  pochi  parti- 
giani,  dopo  un'inutile  resistenza,  vennero  legati  e  condotti  in  pri- 
gione. 

1 8.  II  figlio  ribelle  poi,  private  della  successione  al  trono,  venne 
relegate  in  Ghera,  e  tutti  gli  altri  capi  e  soldati,  che  avevano  par- 
teggiato  per  lui,  furono  giudicati  dal  tribunale  di  guerra.  Dopo  un 
mese,  quando  tutto  sembrava  finito,  ed  il  mago  credeva  di  essersela 
passata  liscia,  fu  chiamato  come  altre  volte  dal  re ;  ed  egli  vi  and6, 
secondo  il  solito,  preceduto  dal  seggiolone,  e  sotto  il  ricco  ombrello. 
Giunto  alia  presenza  del  sovrano,  come  se  nulla  vi  fosse  da  dire 
sul  conto  suo,  fatto  Tinchino,  stava  per  sedersi:  ma  Abba  Baghibo, 
dopo  avere  ordinato  che  si  riportassero  in  casa  ombrello  e  seggio 
lone,  dinanzi  a  tutta  la  corte  gli  domando :  —  Conosci  tu  Pawe- 
nire? 

—  Conosco  tutto  —  rispose. 

—  E  se  conosci  tutto,  perche  non  hai  saputo  prevedere  che  ti  ho 
fatto  venire  qui  per  legarti  e  giudicarti  come  meriti  ?  Dunque  la  tua 
scienza  e  bugiarda,  il  tuo  mestiere  e  ingannare  la  gente,  i  tuoi  re- 
sponsi  ed  oracoli  un  mezzo  di  arricchirti  sulla  dabbenaggine  altrui. 
Tu  seducesti  mio  figlio,  promettendogli  1'acquisto  del  mio  trono ; 
ebbene,  vediamo  se  avrai  la  potenza  di  non  perdere  il  tuo,  con  tante 
imposture  e  malvagita  edificato.  Subito,  soldati,  legate  questo  prin- 
cipe  dei  maghi,  e  sia  condotto  nella  prigione  piu  rigorosa. 

Indi  ordin6  ai  soldati  di  recarsi  alia  casa  del  mago,  e  sequestrare 
tutto  cio  che  vi  si  trovasse  di  sua  proprieta,  cioe  bestiami,  grani, 
talleri,  sali,  tele,  conterie,  schiavi  e  sinanco  le  mogli  ed  i  figli. 
Riportate  tutte  quelle  ricchezze  in  Saka,1  vennero  deposte  parte 
dentro  il  recinto  reale,  e  parte  fuori  in  luoghi  guardati.  II  bestiame, 
fra  bovi,  vacche,  pecore,  cavalli  e  muli  toccava  la  somma  di  parec- 
chie  migliaia,  e  moltissimi  erano  pure  gli  schiavi  e  le  schiave; 
cosicche  poteva  dirsi  che  le  sue  ricchezze  superassero  quelle  del 
re  medesimo. 

19.  Un  giorno  Abba  Baghibo,  fatto  radunare  il  popolo  nel  reale 
recinto,  dove  trovavansi  ordinatamente  disposte  le  ricchezze  mo- 
bili  del  mago,  usci  fuori,  e  rivolto  alia  moltitudine  tenne  questo 
i.  Saka:  la  citta  principale  dell'Ennerea,  residenza  del  re. 


840  GUGLIELMO   MASSAJA 

discorso:  —  Guarda,  o  Limu,1  quanti  doni  hai  scioccamente  dato 
a  quelFimpostore :  se  io  ti  avessi  ordinato  di  pagarmi  il  decimo  di 
quanto  haf  volontariamente  portato  in  casa  del  mago,  saresti  venuto 
a  gridare  pieta,  ed  a  lamentarti  come  di  un'oppressione ;  ebbene, 
rifletti  ora  con  chi  ti  sei  mostrato  cotanto  liberale!  Da  parte  mia 
non  voglio  niente  di  tutta  questa  roba  di  mal  acquisto :  ma  serva  a 
risarcire  prima  coloro  che  da  quel  malvagio  furono  danneggiati,  e 
poi  il  resto  sia  dato  ai  poveri.  Da  qui  a  cinque  giorni  sara  fatta  la  di- 
stribuzione ;  percio  venga  chi  ricevette  danni  nella  vita,  nella  roba  e 
nell'onore,  che  sara  compensato;  venga  chi  non  ha  bestie  per  la- 
vorare  la  terra,  chi  manca  di  tele  per  coprirsi,  chi  non  tiene  grano 
per  isfamarsi,  ed  avra  una  parte  di  tutte  queste  ricchezze;  poiche 
son  sangue  di  poveri,  ed  ai  poveri  dovranno  ritornare.  —  Poscia 
ordino  pubblicamente  ai  soldati  di  an  dare  a  prendere  il  mago,  le- 
gargli  una  pietra  al  collo,  e  gettarlo  nel  fiume  Didessa,  influente* 
del  Nilo,  e  si  ritiro. 

20.  Giunto  quel  giorno,  il  popolo  di  Ennerea  si  trovo  radunato 
dinanzi  alia  casa  reale,  e  non  essendovi  famiglia  o  persona  che  non 
avesse  diritto  su  quella  roba,  o  che  non  isperasse  riceverne  a  titolo 
di  dono  una  qualche  porzione,  si  vide  li  raccolta  tanta  gente,  ch'era 
una  meraviglia.  Uscito  il  re,  e  seduto  in  tribunale,  dopo  aver  detto 
che  ciascuno  parlasse  liberamente  e  senza  paura,  perche  il  mago 
era  gia  stato  condannato  ai  coccodrilli,  ordin6  a  quelli  che  fossero 
stati  danneggiati  nella  vita  di  qualche  loro  parente,  di  mettersi  da 
una  parte,  e  dall'altra  quelli,  cui  erano  state  rubate  persone  per 
esser  vendute,  o  per  altri  turpi  fini.  Quindici  famiglie  dichiararono 
di  avere  il  diritto  del  sangue  sul  mago,  avendo  esso  ucciso  in  casa 
sua  alcuni  loro  parenti ;  ed  allora  Abba  Baghibo  interrogati  i  fami- 
liari  delPimpostore  se  realmente  fossero  stati  commessi  quei  delitti, 
e  chi  piu  chi  meno  avendo  risposto  affermativamente,  il  loro  di 
ritto  fu  riconosciuto.  Piu  di  cento  famiglie  affermarono  di  aver 
avute  rubate  persone  di  loro  casa,  cioe  mogli,  figli,  servi  e  schiavi  di 
ambo  i  sessi ;  ed  esaminati  i  testimonii,  si  venne  a  scoprire  che  non 
solo  era  reo  di  questi  ratti,  ma  che  la  maggior  parte  delle  persone 
rubate  avevale  mandate  a  vendere  segretamente  nei  mercati  lon- 
tani.  Poscia,  non  credendosi  possibile  che  di  tutti  quei  misfatti  fosse 

i.  «Nome  della  razza  che  conquist6  ed  occupa  l'Ennerea»  (nota  del  Mas- 
saja).  2.  influente:  affluente.  La  Didessa  e  un  affluente  di  sinistra  del  Nilo 
Azzurro. 


MISSIONE   NELL'ALTA   ETIOPIA  841 

reo  il  solo  mago,  si  venne  alia  ricerca  del  complici;  ed  avendo  tro- 
vato  che  dieci  manigoldi  suoi  fidi  gli  erano  stati  compagni  nel  com- 
piere  tanti  delitti,  furono  presi  e  legati  anch'essi,  e  condotti  in 
prigione. 

Indi  Abba  Baghibo,  rivolto  al  popolo  disse :  —  Limu,  son  tren- 
tacinque  anni  che  regno,  e  non  so  comprendere  come  di  tutte 
queste  malvage  imprese  non  sia  mai  giunta  al  mio  orecchio  alcuna 
notizia.  Tu  sai  che  ho  sempre  governato  con  giustizia,  e  che  sempre 
ho  difeso  i  poveri  e  gli  oppressi;  perche  dunque  nessuno  e  mai 
venuto  a  ricorrere  contro  queirimpostore  ? 

Allora  fattosi  innanzi  un  vecchio  venerando :  —  Signore,  —  prese 
a  dire  —  quel  mago  non  era  un  uomo  come  tutti  gli  altri,  ma  uno 
di  quei  genii  malefici  che  appariscono  talvolta  nel  mondo  in  veste 
umana ;  ne  da  solo  sarebbe  riuscito  in  tanti  misfatti,  se  non  avesse 
avuto  il  diavolo  pronto  ai  suoi  cenni.  Di  fatto  volendo  far  vendetta 
di  qualcuno,  lo  chiamava  a  casa  sua,  e  poi  dato  il  segno  ad  un  dia 
volo,  glielo  consegnava,  e  nulla  piii  sapevasi  dello  sventurato. 
Tutti  noi  quindi,  impauriti  della  sua  straordinaria  potenza,  e  cre- 
dendo  che  anche  voi  il  temevate  come  gli  altri,  non  solamente  non 
osavamo  parlare,  ma  neppure  concepire  un  pensiero  ed  un  senti- 
mento  contro  di  lui,  poiche  egli  leggeva  anche  nei  nostri  cuori. 

21.  Tutto  il  popolo  intanto,  credendo  che  il  mago  fosse  morto 
e  mangiato  dai  coccodrilli,  aveva  parlato  senza  paura,  e  tutti  libe- 
ramente  avevano  svelato  le  malvagita  di  queirimpostore :  ma  qual 
non  fu  la  loro  meraviglia  quando  Abba  Baghibo  fatto  un  cenno  ai 
soldati,  sel  videro  comparire  dinanzi  vivo  e  sciolto  dalle  catene! 
Allora  tutti  si  misero  a  gridare  \-Ani  bade!  dni  bade!  (siam  perduti! 
siam  perduti  I).  —  Ma  fatti  venire  poscia  i  dieci  manigoldi:  —  Non 
temete,  —  disse  il  re  —  che  nessuno  sfuggira  i  rigori  della  giustizia; 
ma  tanto  lui  quanto  questi  dieci,  che  voi  riputavate  diavoli,  paghe- 
ranno  per  mano  vostra  la  pena  di  tutti  i  loro  delitti.  —  Ordino  quin 
di  che  venissero  mutilati  dalle  quindici  persone  che  avevano  su  di 
loro  il  diritto  del  sangue,  e  poscia  gettati  realmente  nel  flume  per 
pasto  dei  coccodrilli.  Indi  dispose  che  un  terzo  dei  suoi  terreni  e 
degli  schiavi  andassero  in  proprieta  delle  suddette  quindici  per 
sone,  e  gli  altri  due  terzi  venissero  divisi  a  quelle  famiglie  che 
provarono  di  aver  avuto  rubato  e  venduto  qualche  loro  parente. 
Le  ricchezze  mobili  poi,  dopo  essere  stati  compensati  coloro  che 
in  qualunque  maniera  avevano  ricevuto  danni,  furono  distribute 


842  GUGLIELMO    MASSAJA 

ai  poveri.  E  cosi  ebbe  fine  la  vita  e  la  roba  di  quel  celebre  impo- 
store. 

Da  parte  mia  non  posso  lodare  la  condanna  della  pubblica  muti- 
lazione,  data  da  Abba  Baghibo,  e  neppure  il  far  gettare  ancor  vi- 
venti  quei  disgraziati  per  pasto  dei  coccodrilH;  poiche  Tuna  e  Pal- 
tra  pena  non  erano  negli  usi  di  quei  popoli ;  essendo  la  mutilazione 
solamente  permessa  in  tempo  di  guerra,  e  su  nemici  gia  uccisi. 
Tuttavia  potra  scusarsi  quel  re  sotto  il  rispetto,  che,  saggio  ed 
esperto  anche  negli  ultimi  anni,  avra  voluto  usare  quell'eccezionale 
rigore  per  dare  finalmente  un  colpo  spicciativo  al  bugiardo  credito 
dei  maghi,  che  ingannavano  e  dissanguavano  il  popolo,  non  solo 
impunemente,  ma  come  se  fossero  altrettanti  sovrani:  ed  anche 
per  salvare  dal  giudizio  dei  present!,  e  piu  dei  posteri,  Tonor  suo, 
quasi  fosse  stato  complice  di  tutte  quelle  trufferie  e  delitti.  Ed  e  un 
fatto  che,  dopo  quel  severo  ed  esemplare  castigo,  il  credito  e  Tau- 
torita  dei  maghi  diminuirono  grandemente  in  mezzo  agli  Oromo.1 


i.  Oromo:  i  Galla. 


GAETANO  CASATI 


PROFILO  BIOGRAFICO 


GAETANO  CAS  ATI  nacque  a  Ponte  Abbiate,  una  frazione  di  Lesmo, 
in  Brianza,  il  4  settembre  1838.  Poco  piu  che  ventenne  parte- 
cipo,  come  bersagliere,  alia  guerra  del  1859.  Nominate  ufficiale, 
prese  parte  alia  repressione  del  brigantaggio  nelle  province  meri- 
dionali  e  alia  campagna  del  1866.  Assegnato  alia  squadra  topogra- 
fica  delPIstituto  geografico  militate,  che  era  allora  a  Livorno,  con- 
corse  alia  delineazione  della  grande  carta  militare  d5  Italia,  acquistan- 
do  in  tale  lavoro  quella  abilita  di  topografo  che  molto  poi  gli  giovo 
nella  sua  dimora  in  Africa.  Abbandonato  nel  1879  il  servizio  attivo, 
quando  gia  aveva  brillantemente  superato  gli  esaml  di  maggiore, 
entro  nella  redazione  delgiornale  <cL'Esploratore»,  diretto  da  Man- 
fredo  Camperio.  Nel  dicembre  dello  stesso  anno  giunse  al  Cam- 
perio  una  lettera  di  Romolo  Gessi  che  dalP Africa  chiedeva  gli  fosse 
mandato  un  giovane  ufficiale  esperto  di  rilievi  topografici.  II  Gessi 
(1831-1881),  dopo  aver  combattuto  in  Crimea  e  fra  i  Cacciatori 
delle  Alpi  con  Garibaldi,  si  era  recato  nel  Sudan,  alle  dipendenze 
del  generale  inglese  Gordon,  aveva  esplorato  vari  territori  del- 
PAlto  Nilo  e  da  poco  aveva  represso  una  sollevazione  schiavista 
nella  zona  di  Bahr-el-Ghazal,  il  ccfiume  delle  gazzelle»:  proprio  da 
li  aveva  inviato  la  sua  richiesta.  II  Casati,  sebbene  gia  quaranten- 
ne,  si  offri  di  partire,  e  il  24  dicembre  dello  stesso  anno  1879  si 
imbarco  a  Genova  per  PEgitto.  Cominciava  la  sua  grande  awen- 
tura,  che  duro  dieci  anni,  tra  infinite  peripezie, 

II  26  agosto  1880,  dopo  un  lungo  viaggio,  all'inizio  del  quale,  a 
Suachim,  aveva  avuto  d'onore  e  la  fortuna  di  ossequiare  il  vene- 
rando  vescovo  dello  Scioa»  (il  Massaja),  cacciato  in  esilio  da  Gio 
vanni  IV,  il  Casati  giunse  a  Vau,  nel  territorio  del  Bahr-el-Ghazal, 
e  si  incontrava  col  Gessi.  Era  stato  un  percorso  durissimo,  tra  con 
tinue  difficolta  e  pericoli,  ai  quali  si  aggiungeva  ora  una  grave  malat- 
tia  che  a  stento  il  Casati  riusci  a  superare  e  dopo  la  quale  -  costretto 
il  Gessi  a  partire  per  PEgitto,  dove  mori  nel  1881  -egli  rimase 
solo,  fra  popolazioni  che  si  facevano  ogni  giorno  piu  infide.  Nel- 
Pottobre  del  1880  cominci6  quel  viaggio  ancora  piu  duro,  fra  conti- 
nui  mutamenti  di  itinerario,  che  il  Casati  fu  obbligato  a  compiere  in 
tutta  la  regione  di  Bahr-el-Ghazal  e  nei  territori  limitrofi,  e  che  si 
concluse  nel  gennaio  1885,  quando  finalmente  raggiunse,  a  Lado, 


846  GAETANO   CASATI 

Emin  Fascia,  il  quale  lo  aveva  invitato  ad  unirsi  a  lui  e  al  suo 
esercito.  Solo  allora  il  Casati  ebbe  notizia  dei  gravissimi  aweni- 
menti  che  si  erano  verificati  in  quegli  anni  e  avevano  suscitato  un 
vero  incendio  in  tutto  il  Sudan,  ripercuotendosi  variamente  nelle 
regioni  limitrofe. 

Mohammed  Ahmed,  un  santone  mussulmano,  gia  oggetto  di  ve- 
nerazione  nelljisoletta  di  Abba,  sul  Nilo,  aveva  proclamato  nel  mag- 
gio  del  1 88 1  la  guerra  santa  contro  gli  infedeli,  in  nome  di  una  re- 
staurazione  religiosa  che  riconducesse  i  popoli  al  vero  islamismo 
delle  origini.  II  movimento  trovo  un  terreno  favorevole  tra  le  po- 
polazioni  del  Sudan,  stanche  delle  vessazioni  e  del  malgoverno 
egiziano,  e  fra  i  grandi  mercanti  di  schiavi,  colpiti  dalle  recenti 
leggi  di  abolizione  della  schiavitu.  La  rivolta  divamp6  terribile: 
le  truppe  egiziane,  a  piu  riprese  inviate  a  reprimerla,  subirono  gra- 
vissime  sconfitte,  gli  interventi  inglesi  non  riuscirono  a  mutare  la 
situazione:  dovunque,  a  migliaia,  furono  trucidati  gli  awersari, 
saccheggiate  le  citta,  interi  villaggi  distrutti.  Mohammed  si  consi- 
derava  un  prof  eta  dello  stesso  Maometto,  i  seguaci  lo  chiamavano 
il  Mdhdi  (guidato  da  Dio),  ed  erano  convinti  della  sua  invincibilita. 
Neanche  Gordon,  inviato  contro  di  lui,  riusci  a  compiere  la  sua 
missione:  caduta  Kartum,  dove  era  stato  assediato,  fu  trucidato 
nel  sacco  della  citta  (26  giugno  1885).  Dinanzi  ad  una  tale  situa 
zione  il  kedive  d'Egitto  decise  di  abbandonare  a  se  stesso  il  Sudan. 
Ma  al  sud,  tagliate  fuori  da  ogni  comunicazione,  rimanevano  le 
stazioni  egiziane  dell' Equatorial  ne  fu  nominate  capo,  come  gover- 
natore  del  territorio,  Emin  Fascia,  un  naturalista  tedesco  al  servizio 
dell'Egitto,  e  gli  fu  ingiunto  di  raccogliere  le  sue  truppe  e  di  tor- 
nare  per  la  via  di  Zanzibar. 

Questa  era  la  situazione,  quando  il  Casati  raggiunse  Emin  a 
Lad6  e  di  li  si  spost6  poi  con  lui  a  Vadelai  (28  giugno  1885),  dive- 
nuta  il  maggior  centro  deirEquatoria.  La  via  per  Zanzibar,  quan- 
d'anche  fosse  stato  agevole  raggiungere  il  mare,  doveva  necessaria- 
mente  traversare  i  due  regni  indigeni  delPUnioro  e  dell' Uganda: 
eppure  questa  era  ormai  Tunica  strada  possibile  per  messaggi 
e  soccorsi  alle  isolate  truppe  deirEquatoria,  ad  Emin,  a  Casati. 
N6  si  trattava  di  regni  favorevoli  e  pacifici.  Una  guerra  tra  Unioro 
e  Uganda,  scoppiata  nel  marzo  del  1886,  sembro  tagliar  fuori  defi- 
nitivamente  gli  egiziani  di  Emin  dal  mondo  civile,  e  destinarli  a  soc- 
combere.  Perci6,  sospese  le  operazioni,  Emin  si  affrett6  ad  inviare 


PROFILO   BIOGRAFICO  847 

(maggio  1886)  il  Casati,  come  suo  rappresentante,  al  re  deU'Unio- 
ro:  doveva  agevolare  le  comunicazioni  con  Zanzibar  attraverso 
1' Uganda  e  rendere  ancora  possibile  quelPunica  via  di  salvezza. 
II  Casati,  attraverso  il  lago  Alberto,  si  reco  dal  re  Ciua,  a  svolgervi 
la  sua  difficile  missione.  Quali  siano  state  le  sue  sofferenze,  i  peri- 
coli  corsi,  rimprigionamento,  e  la  miracolosa  fuga  con  cui  pote 
sfuggire  alia  morte  (gennaio  1888),  il  Casati  stesso  racconta  nelle 
pagine  da  noi  riprodotte,  che  sono  certo  fra  le  piu  drammatiche 
delle  sue  memorie. 

Tornato  libero,  accanto  ad  Emin,  il  Casati  assiste  alle  complicate 
vicende  delle  stazioni  militari  dell'Equatoria  e  cerco  abilmente, 
ma  invano,  di  migliorare  la  grave  situazione  che  si  era  venuta 
creando.  Le  truppe,  disseminate  lungo  varie  localita  (Vadelai,  Chiri, 
Bedden,  Dufile,  Regiaf,  Mughi,  Tunguru,  Msua,  ecc.),  erano  in 
piena  agitazione,  serpeggiava  il  malcontento,  scoppiavano  rivolte; 
Emin  fu  imprigionato  dai  soldati  ribelli,  deposto,  reintegrate  poi 
nella  sua  carica  in  un  intricatissimo  succedersi  di  vicende.  Intan- 
to,  in  Europa,  il  tragico  isolamento  di  quell' esercito  aveva  destato 
un'ondata  di  commozione,  agevolata  dagli  stessi  interessi  coloniali 
dell'Inghilterra:  il  mondo  civile  organizzo  spedizioni  di  soccor- 
so,  tra  cui  unica  fortunata  quella  affidata  al  grande  esploratore 
Henry  Morton  Stanley.  Questi,  dopo  un  itinerario  rovinoso  attra 
verso  la  via  del  Congo,  superata  la  foresta  equate riale,  riusci  a 
raggiungere  Emin,  ad  organizzare  una  grande  carovana  per  Peso  do, 
a  portare  in  salvo  a  Bagamoio  le  truppe  e  le  genti  di  Emin  e  il  Ca 
sati  stesso.  Una  marcia  penosa,  fra  terre  inesplorate,  popolazioni 
awerse,  malattie  e  imboscate:  un'impresa  che  stupisce  a  ripen- 
sarla.  La  grande  carovana,  partita  il  10  aprile,  giunse  al  mare  sol- 
tanto  il  4  dicembre  del  1889. 

Tutti  questi  awenimenti,  svoltisi  in  un  lungo  periodo  di  dieci 
anni,  furono  poi  descritti  dal  Casati  nei  due  volumi  dal  titolo 
Dieci  anni  in  Equatoria  e  ritorno  con  Emin  Fascia,  che  apparvero 
nel  1891.  Egli  intanto,  ritiratosi  nella  sua  casetta  di  Monticello  in 
Brianza,  a  curare  le  terre  ereditate  dal  padre,  si  isolava,  schivo  di 
onori,  in  una  vita  modesta,  caro  ai  compaesani,  che  gli  espressero 
la  loro  fiducia  col  chiamarlo  alia  carica  di  sindaco.  Mori  a  Cor- 
tenova  di  Monticello  il  7  marzo  1902. 

II  Casati  non  fu  uno  scrittore:  gli  mancavano  troppe  qualita  per 
esserlo,  e  assai  spesso  le  sue  pagine  mostrano  Timpaccio  di  chi  non 


848  GAETANO    CASATI 

e  padrone  della  lingua,  dei  suoi  costrutti,  del  suoi  stessi  vocaboli. 
Ma,  pur  in  quello  stile  disadorno  e  malcerto,  che  fa  pensare  a  vol 
te  a  una  relazione  ufHciale  o  ad  un  «diario  di  bordo»,  spiccano 
improwise  pagine  di  indiscutibile  efficacia:  descrizioni  di  luo- 
ghi  e  di  popoli,  di  usi  e  costumi,  in  forma  coloritissima,  anche 
se  spesso  appesantite  da  una  insistente  preoccupazione  di  minuta 
esattezza.  Veramente  bella,  ad  esempio,  e  la  narrazione  della  lunga 
(cmarcia  delPesodo»,  guidata  dallo  Stanley:  ed  e  spiacevole  che  1'of- 
frirne  qualche  pagina  ai  lettori  ci  sia  stato  reso  impossibile  dal  ca- 
rattere  stesso  dell' opera,  che  solo  dalla  totalita  delPimpervio  e  peri- 
coloso  viaggio,  dalFaccumularsi  delle  peripezie,  nasce  il  suo  fascino, 
e  non  gia  dalle  singole  pagine,  minutamente  analitiche.  D'altra  parte 
Parchitettura  stessa  delPopera  ne  rende  a  volte  faticosa  la  lettura, 
perche  essa,  stesa  rapidamente,  e  sulla  base  dei  soli  ricordi,  cade 
spesso  in  deviazioni,  ritorna  a  volte  su  antefatti  erroneamente  tra- 
lasciati  e  rivelatisi  invece  indispensabili,  lascia  insufficientemente 
chiariti  alcuni  awenimenti. 

Ragioni  tutte  che  avrebbero  potuto  dissuaderci  dalPaccogliere  nel 
presente  volume  una  scelta  delle  pagine  del  Casati,  se  fossimo  stati 
guidati  da  un  intento  puramente  letterario  e  non  ci  fosse  invece 
sembrato  opportuno  adottare  un  diverse  criterio  phi  largamente 
umano  e,  nello  stesso  tempo,  indicative  della  complessa  attivita 
italiana  neirOttocento.  In  particolare,  ci  &  sembrata  di  grande  in- 
teresse  la  statura  stessa  delPuomo,  che,  pur  non  parlando  di  se 
medesimo,  e  presente,  in  un  suo  virilmente  eroico  rilievo,  in  tutte 

le  pagine. 

* 

GAETANO  CASATI,  Died  anni  in  Equatoria  e  ritorno  con  Emm  Pascid,  Mi- 
lano,  Fratelli  Dumolard,  e  Bamberga,  Libr.  editr.  Buchner,  1891,  2 
voll.  All'inizio  del  i  volume  un  profile  di  G.  Casati  scritto  da  M.  Cam- 
perio.  Tra  le  pagine  sul  Casati  si  vedano  quelle  di  L.  DAL  VERME,  in  «  Boll. 
della  Societk  geografica»,  1912,  ristampate  da  R,  TRUFFI,  Precursori  del- 
Vlmpero  africano,  Roma,  Edizioni  Roma,  1936,  pp.  73-7.  Vedi  inoltre: 
C.  BERTACCHI,  Geografi  ed  esploratori  italiani  contemporanei,  Milano, 
S.  A.  De  Agostini,  1929;  L.  MESSEDAGLIA,  Uomini  d*  Africa.  Messedaglia 
bey  egli  altri  collaboratori  italiani  di  Gordon  Pascid,  Bologna,  Cappelli,  1935 ; 
C.  ZAGHI,  Gordon,  Gessi  e  la  conquista  del  Sudan,  Firenze,  Centro  di  studi 
coloniali  dell'Universita  di  Firenze,  1947;  L' Italia  in  Africa,  a  cura  del 
Ministero  degli  Affari  Esteri,  Roma,  Istituto  poligrafico  dello  Stato,  1955, 
2  voll.,  e  particolarmente  il  n  volume,  testo  di  E.  DE  LEONE,  pp.  118-20. 
Infine,  L.  DAL  VERME,  I  Dervisci  nel  Sudan  egiziano,  Roma,  E.  Voghera, 
1894;  La  Disfatta  dei  Dervisci,  in  «Nuova  Antologia»,  16  ottobre  1898. 


DA  «DIECI  ANNI  IN  EQUATORIA  E  RITORNO 
CON  EMIN  FASCIA)) 

[ALLA  CORTE  DI  RE  ciuA]1 

Ciua,  re  dell'Unioro,2  volgarmente  noto  sotto  il  nome  di  Ca- 
brega,  nemico  accerrimo  del  governo  egiziano,  per  anni  ed  anni 
tenne  chiusa  Fentrata  settentrionale  del  regno,  e  solo,  andati 
alia  peggio  gli  affari  del  Sudan,  si  ricorda  ora  del  Dottore  Emin3 
effendi,  che  fu  un  tempo  a  visitarlo,  e  che  oggidi  e  governatore 
delPEquatoria.  Non  si  era  mai  rammentato  prima  dell'awwVo,  come 
egli  al  presente  lo  chiama,  intento  com' era  a  raccogliere  e  favorire 
i  disertori  delle  provincie  egiziane;  ma ...  Tavorio  sta  in  copia 
nella  vicina  stazione  di  Vadelai,  e  fucili  e  munizioni  sono  nelle 
mani  di  quei  soldati,  cui  fu  dalla  sorte  preclusa  ogni  via  di  scampo.4 
Ciua  e  un  nero,  quindi  pauroso,  sospettoso,  indugiatore,  di  ani- 
mo  irresoluto,  di  mente  piccola,  bugiardo  nel  dire,  facile  alle  tristi 
influenze;  vero  impasto  di  malizia  e  di  codardia.  La  superstizione, 
il  timore  della  iettatura  sono  potenti  in  lui,  come  in  tutti  i  neri; 
ma,  se  ha  intraveduto  il  proprio  utile,  fa  forza  a  se  stesso,  alle  pro- 
prie  credenze,  e  corre  la  via  che  a  lui  si  presenta. 


i.  Ed.  cit.,  vol.  n,  dal  cap.  n,  pp.  13-7.  2.  II  regno  dell'Uraoro,  il  cui  terri- 
torio  si  stende  lungo  la  riva  orientale  del  lago  Alberto,  aveva  da  poco  cessato 
di  far  guerra  con  1'Uganda.  La  regione  dell'Uganda,  ad  oriente  del  regno 
dell'Unioro,  verso  il  lago  Vittoria,  era  ormai  1'unica  via  rimasta  aperta  al  go 
vernatore  Emin  Fascia  per  le  sue  comunicazioni,  attraverso  Zanzibar,  con 
1'Egitto,  dato  che  in  tutto  il  Sudan  dominava  la  potenza  dei  mahdisti  (vedi 
p.  846).  Perci6  Emin  Fascia  aveva  inviato  a  Ciua  il  Casati  come  suo  rappre- 
sentante,  perch6  favorisse  una  stabile  pace  tra  Unioro  e  Uganda  e  ottenesse 
da  quel  re  libero  transito  di  messaggi  e  merci  attraverso  i  due  regni.  Emin 
Fascia  occupava  allora  Vadelai,  immediatamente  a  nord  del  lago  Alberto,  sul- 
la  riva  sinistra  del  Nilo.  3 .  L'esploratore  tedesco  Eduard  Schnitzler  (1841- 
1892),  entrato  nel  1873  al  servizio  dell'Egitto,  aveva  preso  il  nome  di 
Emin.  Dapprima  diresse  i  servizi  sanitari  della  regione  detta  Equatoria,  e 
poi  ne  divenne  governatore.  Come  abbiamo  detto  nella  nota  precedente, 
egli  era  ormai  tagliato  fuori  da  ogni  comunicazione  con  TEgitto.  Dopo  che 
fu  salvato  dalla  spedizione  Stanley  (vedi  la  nota  i  a  p.  872),  pass6  al  servi 
zio  della  Germania  (1890),  con  Pincarico  di  fondare  stazioni  nella  regione 
del  Tanganica.  Mori  ucciso  da  schiavisti  arabi  nel  territorio  di  Kinena 
(Congo).  4.  dalla  sorte  .  .  .  scampo:  allude  alia  grande  rivolta  mahdista  del 
Sudan,  per  cui  Emin  e  le  sue  forze  erano  totalmente  isolate.  Della  rivolta 
da  un  limpido  quadro  il  volumetto  di  L.  DAL  VERME,  J  Dervisci  nel  Sudan 
egiziano,  Roma,  E.  Voghera,  1894. 

54 


850  GAETANO    CASATI 

Lo  spirito  del  defunto  Camrasi1  aveva  guidato  i  suoi  passi  nella 
scelta  del  luogo  della  nuova  residenza;  ed  egli,  fedele  alia  religione 
degli  avi,  si  era  arrestato  in  Giuaia,  predestinata  a  capitale  del  re- 
gno  (i°  Giugno  1886). 

Si  accede  alia  magione  reale  per  sette  porte,  ciascuna  delle 
quali  e  riservata  a  speciali  caste  di  persone;  porta  per  gli  abi- 
tanti  del  distretto,  dei  Magnoro,  dei  Vahuma2  mandriani;  porta 
degli  ospiti  dei  neri  d'altri  paesi,  ora  residenti  nel  regno,  dei  regni- 
coli,  infine  porta  dello  mpango,3  speciale  pei  Mabitu,  ossia  mem- 
bri  della  famiglia  reale.  fe  in  questa  sezione  del  palazzo,  la  piu  vasta 
e  la  piu  sontuosa,  che  si  apprestano  i  sacrifizi  umani. 

£  costume  che  il  re,  ogni  giorno,  al  levare  del  sole,  in  abito 
tradizionale,  a  testa  scoperta,  coi  piedi  nudi,  e  awolto  nelFampio 
mbugu*  fissato  con  nodo  sulla  sinistra  spalla,  riceva  i  complimenti 
e  le  felicitazioni  d'uso  da  parte  de*  suoi  congiunti,  fra  lo  squillo 
delle  trombe,  e  il  battito  dei  tamburi.  E  il  popolo  lo  acclama  e  lo 
inchina  prima  di  recarsi  ai  lavori  giornalieri,  sovrano  assoluto  e 
potente,  padre  benefico,  dispensatore  d'ogni  bene,  geloso  custode  dei 
diritti  dello  stato. 

La  prediletta  occupazione  di  Ciua,  quella  che  assorbe  gran  parte 
della  giornata,  e  che  scende  consolatrice  nel  cuore  afHitto  dalle  cure 
non  sempre  liete  degli  affari  del  regno,  e  ramministrazione  delle 
numerose  mandrie  di  sua  proprieta.  Nella  sala  dei  Vahuma  egli 
ascolta  le  relazioni  sulle  condizioni  sanitarie  delle  sue  numerose 
vacche,  sui  bisogni  dei  vari  riparti;  dispensa  ricette  ed  ordinazioni 
per  le  bestie  ammalate,  dispone  pei  doni,  e  per  le  vendite ;  prodiga 
elogi,  e  sentenzia  sommariamente,  spesso  a  capriccio,  sempre  con 
severita. 

—  Tu  sei  un  pastore,  io  sono  un  guerriero ;  —  gli  diceva  il  fra- 
tello  Cabamiro  all'epoca  in  cui,  morto  il  padre,  il  paese  si  agitava 
per  la  successione  al  trono  —  lascia  a  me  la  cura  del  regno,  e  degli 
affari ;  io  ti  faccio  dono  di  tutte  le  ricchezze  in  bestiame.  —  Ma 
Ciua  voile  mandrie  e  trono,  e  la  testa  del  fratello  mercanteggi6 
con  Soliman  Daud,  il  negriero.  Essa  cadde,  e  1'esoso  monarca  at- 
teggiandosi  a  simulata  pietade,  nego  il  prezzo  delPorribile  patto. 

i.  Camrasi:  padre  e  predecessore  di  re  Ciua  nel  regno  dell'Unioro.  2.  Ma 
gnoro:  vedi  p.  858;  Vahuma:  vedi  p.  863.  3.  mpango:  nome  indigene 
che  significa  « scure»  (vedi  pp.  855-6).  4.  «  Specie  di  toga»  (nota  del  Ca- 
sati);  vedi  anche  pp.  862-3. 


DIECI   ANNI    IN   EQUATORIA  85! 

Figlio  ad  una  donna  Vahuma,  Ciua  ha  spiccate  tendenze  per  la 
pastorizia.  Egli  possiede  circa  150.000  capi  di  grosso  bestiame, 
frutto  di  continue  razzie  nella  regione  del  lago  Ruitan;1  e  alia  con- 
servazione  di  esso  prodiga  le  piu  diligenti  cure.  I  suoi  figli  rice- 
vono  la  prima  educazione  presso  i  mandriani,  vestendo  il  tradi- 
zionale  costume  dei  Vahuma,  una  pelle  di  vitello  finamente  con- 
ciata,  che  pende  sulla  schiena  a  guisa  di  piccolo  mantello. 

Occhio  profano  non  deve  fissarsi  sui  prediletti  ruminanti,  e  quan- 
do  per  le  strade  e  annunciate  con  alte  grida  il  loro  arrive,  i  vian- 
danti  devono  o  fuggire,  o  fermarsi  volgendo  il  dorso  alia  sacra 
comitiva.  II  latte  e  raccolto  da  speciali  persone,  a  cui  e  vietato  guar- 
darlo,  e,  accuratamente  coperto,  viene  inviato  alia  casa  del  re. 

Un  mungitore,  sospetto  di  avere  stregato  il  regio  latte,  fu,  senza 
forma  di  giudizio,  colpito  a  morte.  La  distribuzione  del  latte  e 
fatta  secondo  le  norme  stabilite  dal  re;  egli  assegna  i  reparti2  a 
ciascuno  de*  suoi  figli,  delle  rsue  mogli.  La  madre  del  re  ha  man- 
drie  proprie  che  governa  con  entusiasmo  pari  a  quello  del  figlio. 

Alia  porta  del  popolo,  prospiciente  un  ampio  piazzale,  egli  indice 
le  pubbliche  adunanze,  infonde  ai  guerrieri  la  fiera  virtu,  pronun- 
cia  giudizi  e  sentenze,  dispensa  modicamente  Fobolo  del  soccorso. 

II  2  Giugno  (1886)  io  fui  ricevuto  in  pubblica  udienza  dal  re. 
II  re  vestiva  abiti  di  panno,  eleganti  per  finezza  di  lavoro  e  di 
ornamenti,  la  testa  aveva  coperta  con  un  tarbusch3  rosso,  secondo 
il  costume  arabo.  Sedeva  egli  in  ampio  seggiolone,  posando  gli 
augusti  piedi  su  di  una  bellissima  spoglia  di  leopardo.  Di  forme 
colossali,  di  statura  piu  che  alta,  dalla  faccia  piena  ed  espressiva, 
con  un  sorriso  piu  sarcastico  che  compiacente,  pronta  la  lingua, 
corretto  il  gesto,  Ciua  desta  sentimento  di  simpatia  in  chi  lo  av- 
vicina  per  la  prima  volta.  II  figlio  primogenito  sedeva  alia  sua  sini- 
stra  su  di  uno  sgabello,  collocato  in  basso.  I  grandi  del  regno  face- 
vano  corona  all'ingiro  della  capanna,  seduti  all'araba  per  riverenza, 
sul  suolo,  coperto  di  papiri  verdi.4  Dietro  al  re  si  trova  un  panneg- 
giamento  di  seta,  manifattura  indiana,  importato  da  Zanzibar,  e 
dietro  questo  panneggiamento  si  vedono  di  tanto  in  tanto  teste  di 
ragazzi  che  Paprono  per  curiosita.  Sei  giovani  delle  famiglie  cospi- 
cue  facevano  corona  al  trono,  i  fucili  alia  mano.  Io  stava  seduto  alia 

1 .  £  il  lago  Ruitan-Nsige.  A  nord  vi  e  il  piccolo  lago  di  Chio,  ricco  di  sale. 

2.  i  reparti:  le  parti,  le  porzioni.     3.  tarbusch:  fez.     4.  « I  papiri  si  cam- 
biano,  quando  diventano  secchi»  (nota  del  Casati). 


852  GAETANO    CASATI 

destra  del  re,  discosto  pochi  passi.  L'udienza  fu  breve,  ma  cordiale. 

Volendo  approfittare  della  buona  disposizione  d'animo  di  Ciiia, 
esposi,  in  successiva  udienza,  lo  scope  della  mia  missione,  e  for 
mula!  le  domande  del  governatore1  che  mi  aveva  inviato. 

Libera  ed  aperta  la  via  alia  trasmissione  delle  corrispondenze, 
pronta  conclusione  della  pace  con  Uganda,  a  conseguire  il  quale 
scopo  assicuravo  il  concorso  del  governo  nel  pagamento  del  tri- 
buto,  facolta  di  ritirare  merci  dall' Uganda  e  dai  negozianti  del- 
FUnioro,  passaggio  libero  agli  impiegati  ed  ai  soldati  armati  da 
awiarsi  in  Egitto,  alleanza  con  Ntali,  affine  di  poter  usufruire  della 
via  pel  territorio  di  Ncole2  nel  caso  di  insuccesso  nelle  trattative 
con  Muanga,3  invio  a  Vadelai  di  tin  rappresentante. 

Ma  Podio  inveterate  che  domina  nei  Vanioro4  fino  dal  tempo 
che  Baker5  vi  fece  la  sua  apparizione  armata,  tiene  incerto  e  sospeso 
Tanimo  del  re.  Invano  il  buon  Catagora,  il  vecchio  ministro,  si 
adopera  a  far  risaltare  le  nostre  pacifiche  intenzioni;  il  partito  rni- 
litare  sorretto  da  certo  Abd  Rehman,  zanzibarese,  si  agita,  e  ordisce 
in  segreto  ignobili  trame6  a  nostro  danno. 

[OSTILITA.  DEL   RE  CIUAp 

II  24  Novembre  il  leale  amico,  il  vecchio  ministro  Catagora 
moriva  repentinamente.  II  re,  facendomi  annunziare  con  speciale 
messo  Finfausta  notizia,  mi  assicurava  della  sua  inalterable  bene- 
volenza.  Ma  la  voce  pubblica  lo  disse  morto  per  propinato  veleno ; 
il  re,  il  mattino  stesso  delPassassinio,  aveva  detto  che  d'ora  in- 
nanzi  voleva  governare  coi  piccoli,  non  volerne  piii  sapere  di  au- 
torita  di  grandi.  E  al  ministro  agonizzante  d'un  tratto  alia  porta 

i.  governatore:  Emin  Fascia.  2,.  Ntali .  .  .  territorio  di  Ncole:  la  regione 
compresa  fra  il  regno  di  Uganda,  il  paese  di  Ruanda  e  il  fiume  Cagera 
formava  lo  stato  di  Ncole,  sotto  il  dominio  del  re  Ntali.  3 .  Muanga :  il 
re  deirUganda.  4.  Vanioro:  e  il  nome  degli  abitanti  delPUnioro.  5.  Si 
allude,  quasi  certamente,  a  Sir  Samuel  Baker  (1821-1893),  famoso  esplora- 
tore,  che  fece  una  spedizione  militare  nell'Alto  Nilo  (1869-1873)  per  conto 
del  kedive  (vicere)  egiziano  Ismail,  e  vi  scopri  il  lago  da  lui  chiamato 
Alberto  Edoardo.  II  fratello  Valentine  fu  comandante  dell'esercito  egiziano 
dopo  il  1882.  6.  ordisce  .  .  .  trame:  il  Casati  narra  che  re  Ciua  tratteneva 
la  corrispondenza  anziche  consegnarla,  che  mirava  a  distruggere  le  forze  di 
Emin  Fascia,  e  che  aveva  impedito  a  Mohammed  Biri,  un  arabo  al  servizio 
delle  missioni  inglesi  nell'Uganda,  di  entrare  nel  suo  regno  con  un  carico  di 
stoffe  diretto  ad  Emin.  Faceva  in  sostanza  una  doppia  politica:  apparente- 
mente  amico,  copertamente  awerso.  7.  Ed.  cit.,  vol.  n,  dal  cap.  n,  pp.  21-3. 


DIECI   ANNI    IN   EQUATORIA  853 

della  reggia,  faceva  da  una  comitiva  di  ragazzi  risuonare  il  mesto 
cantico,  in  quelFistante  ironico  e  crudele :  <c  Ora  muore,  ora  muore  ». 

II  5  Decembre  il  Biri1  partiva  per  Uganda,  con  una  buona  quan- 
tita  di  avorio  da  convertirsi  in  stofe,  lasciando  negli  animi  di  tutti 
le  migliori  speranze  per  il  tempo  a  venire. 

Ma  ben  diversamente  correvano  le  cose  neirUnioro.  Re  e  sol- 
dati,  antichi  nemici  del  governo  egiziano,  che,  nella  ferma  con- 
vinzione  di  farla  finita  una  buona  volta  coirimportuno  vicino,  erano 
con  soverchia  leggerezza,  eccitati  dall'avidita  per  Fingente  copia 
d'avorio  e  di  armi,  scesi  a  mendaci  condiscendenze  e  ad  amiche 
parole,  ora,  impauriti  per  Fincontrata  resistenza  ai  loro  neri  di- 
segni,  tentavano  ritirarsi  dal  passo  mal  fatto.  E  tutte  le  piu  infami 
trame  furono  messe  in  azione,  gran  maestro  e  duce  PAbd  Rehman, 
che  agli  occhi  del  re  appariva  Funico  saggio  consigliere  che  potesse 
insinuarsi  nelPanimo  del  governatore,  e  dirigere  gli  intrighi  senza 
generare  sospetti.  Fu  richiamato  certo  Babedongo,  capo  di  soldati ; 
ai  negozianti  fu  severamente  proibito  di  venderci  merci  e  di  avere 
relazioni  con  me;  certo  Abubeker,  che  portava  da  Uganda  stoife 
pel  governo,  fu  maltrattato,  derubato  e  respinto  poscia  ai  confini; 
severa  proibizione  fu  fatta  agli  indigeni  di  vendermi  grano  e  com- 
mestibili;  Pavorio  donato  al  re,  quale  compenso  al  transito  della 
carovana  di  Biri,  fu  villanamente  rifiutato  .  . . 

—  Le  corna  delle  mie  vacche  —  mi  mando  a  dire  Ciua  —  so  no 
molto  piu  lunghe  dei  denti  d'elefante  che  mi  avete  inviati.  Non  so 
che  fame,  teneteli  per  voi. 

—  Sono  dolente  —  feci  rispondere  a  mezzo  del  capo  Bagonza 
incaricato  del  ridicolo  rifiuto  —  che  il  re  prenda  si  futile  pretesto 
per  turbare  le  nostre  relazioni.  Lo  consiglio  a  non  seguire  i  sug- 
gerimenti  dei  tristi ;  che  in  quanto  ai  pezzi  d'avorio  io  li  serbero 
a  sua  disposizione. 

Ne  a  questo  si  limitarono  le  ostili  misure.  In  un  conciliabolo 
di  grandi  e  di  soldati  presieduto  dal  re  si  and6  piu  oltre. 

I  capi  di  Tunguru  e  di  Msua2  furono  chiamati  a  Giuaia.  Chisa 


i.  ilBiri:  il  Casati,  rimproverandone  il  re,  aveva  ottenuto  che  a  Mohammed 
Biri  fosse  concessa  1'entrata  nelFUnioro  e  il  ritorno  nell' Uganda.  2.  Tun- 
gum  .  .  .  Msua:  due  localita  sul  lago  Alberto,  nel  territorio  delPUnioro, 
dove  Emin  aveva  stabilito  presidii  militari,  dopo  che  il  Casati  ne  aveva 
strappato  il  consenso  a  re  Ciua.  Ora  il  re,  chiamati  i  capi  indigeni  delle  due 
localita,  li  fa  trucidare  come  responsabili  delFinsediamento  dei  presidii. 


854  GAETANO    CASATI 

e  Gumangi  furono  trucidati  miseramente,  rel  di  avere  fatto  atto 
di  sudditanza  ad  Emin  bey;  si  istigarono  i  neri  a  rifiutare  grano  ai 
soldati;  si  fece  segreta  ed  estesa  propaganda  di  ribellione  tra  gli 
Sciuli  e  tra  i  Lur;1  si  venti!6  infine  il  progetto  di  attaccare  la  sta- 
zione  di  Vadelai,  una  volta  la  rivoluzione  trionfasse  e  si  fosse  pa 
droni  del  territorio  dei  Cefalu2  soggetti  al  capo  Anfma. 

E  contemporaneamente  a  simile  procedere,  che  io  nettamente 
indicava  al  governatore,  si  invitava  da  re  Cabrega,  Emin,  col  mezzo 
di  inviati  speciali,  a  visitare  1'Unioro  e  la  sua  corte,  protestando 
sensi  di  amicizia  e  di  alleanza.  Non  fu  agevole  dissuadere  il  go 
vernatore  dalla  proposta  visita,  e  solo  dopo  che  per  altre  vie  fu 
convinto  del  tradimento  ordito,  presto  fede  alle  mie  disinter essate 
esortazioni. 

Emin  non  venne,  ed  io  non  mossi;  il  nostro  decoro,  i  nostri  in- 
teressi  esigevano  che  noi  tenessimo  piede  nelPUnioro;  ritirarci, 
sarebbe  stata  follia  e  stoltezza,  era  confessarci  vinti  e  dar  mano 
a  che  le  animosita  dei  Neri,  finora  tenute  a  freno,  scoppiassero  in 
compatta  ed  aperta  conflagrazione  a  danno  nostro,  duce  il  buon 
re  Qua. 

[CERIMONIE  MOSTRUOSEp 

Non  esito  Ciua  nelPattuazione  del  programma  che  si  era  (gen- 
naio  1887)  prefisso;  il  segnale  fu  dato,  e  gli  Sciuli  si  sollevarono; 
ma  sconfitti  a  Fatibech,  a  Fatico,  a  Caretum  dai  soldati,  pur  sem- 
pre  ardenti  e  pronti  alia  lotta,  pagarono  con  molte  vittime  la  loro 
infedelta.  Protsciamma,  Fanima  del  movimento  insurrezionale  e 
dell'insano  tentativo,  cadde  esso  pure. 

II  mese  di  Gennaio  volgeva  al  suo  termine.  —  Non  un  soldato, 
non  una  cartuccia  avrete  da  noi  per  guerreggiare  contro  Uganda  — 
dissi  un  giorno  al  re;  ed  egli  sollecitava  la  partenza  di  Mabuzi, 
Tinviato  di  Muanga  con  doni  e  con  proposte  di  pace.  E  1'assenso 
alia  pace,  che  di  malincuore  egli  dava  costrettovi  dalla  penosa  situa- 
zione  a  lui  fatta  dalla  patita  sconfitta  degli  Sciuli,  voile  suggellare 


i.  Gli  Sciuli  occupavano  una  zona  a  nord-est  del  lago  Alberto;  i  Lur,  o 
Luri,  il  territorio  sulla  riva  occidental  dello  stesso  lago,  e  anche  piti  a  nord, 
fino  a  Vadelai.  2.  territorio  dei  Cefalu:  si  stende  lungo  il  Nilo  Vittoria. 
3.  Ed.  cit,  vol.  n,  dal  cap.  n,  pp.  24-9. 


DIECI   ANNI    IN  EQUATORIA  855 

con  ironica  pantomima.  Squadre  di  gente  Lango,1  il  corpo  ta- 
tuato  a  colori,  simulavano  evoluzioni  di  combattimento,  lancian- 
dosi  verso  la  ambasciata  del  Vaganda2  che  presenziava  il  torneo, 
in  atto  di  colpire  colle  lancie,  e  coi  lunghi  coltelli.  Individui  dalle 
finte  chiome  scarmigliate,  si  precipitavano  furenti  verso  il  re  gri- 
dando:  «Abbiamo  sete  di  sangue,  concedici  uno  di  questi  sciagu- 
rati ».  E  le  trombe  ed  i  cori  intonavano  la  nota  canzone :  «  Re  Ciua  e 
potente,  ha  ridotto  a  servitu  i  Cefalu  e  i  Vaganda;  ha  obbligato  al 
tributo  i  soldati,  i  solo  invincibili  sono  i  Lango  ».  A  cui  con  canti 
lena  marcata  e  sonora  rispondeva  un  giovane  della  deputazione  dei 
Vaganda:  «Re  Ciua,  ammazzaci,  se  ti  piace,  gettaci  al  rogo,  come 
gia  facesti  con  altri,  poco  ci  cale.  Cabaca  e  la  per  vendicarci,  il  suo 
tamburo  gia  batte  a  raccolta».  E  per  colmo  di  scherno,  quando 
Mabuzi  e  i  suoi  si  mossero  per  partire,  Ciua  li  fece  inseguire  da 
questa  turba  briaca  di  selvaggi  eccitati. 

Una  gallina  sgozzata  e  rinvenuta  nella  gran  sala  del  palazzo  reale 
il  mattino  dell'8  Febbraio  ;3  gli  Arabi  sono  sospettati  di  avere  segreta 
intelligenza  con  noi;  due  di  essi  sono  espulsi  dal  regno.  Prende 
consistenza  la  voce  che  Biri  ha  avuto  Tincarico  di  stringere  alleanza 
con  Muanga  in  nome  del  governatore  delPEquatoria;  che  i  soldati 
gia  si  organizzano  per  invadere  il  paese.  Tali  contrarieta  mettono 
in  continue  ansie  Tanimo  del  re,  gia  accasciato  dal  disastro  toccato 
agli  Sciuli,  e  facile  alle  superstiziose  credenze ;  il  trono  corre  certo 
pericolo ;  lo  spirito  del  padre,4  irato  forse  per  sofferte  trascuranze, 
non  veglia  alia  prosperita  del  regno  come  per  lo  passato;  ma  vi 
getta  lutto  e  pianto;  e  necessario  placarlo  con  sacrifizi. 

£  consultata  la  regina  madre,  gran  sacerdotessa  e  maga;  ed  essa 
decreta  che  si  ricorra  alle  cerimonie  mostruose  dello  mpango  -  ossia 
della  scure  -  affine  di  scongiurare  i  presenti  mali  e  propiziarsi  fa- 
vore  dal  defunto  Camrasi  per  un  trionfo  futuro. 

Gli  istrumenti  che  si  impiegano  nel  rito  sono:  un  tamburo, 
tutto  cerchiato  con  grosso  mo  di  ottone  ed  ornato  di  talismani, 
consistenti  in  pezzetti  di  legno,  cui  sono  attribuite  speciali  virtu 

i.  Lango:  questa  tribu  dei  Galla  abitava  ad  occidente  del  lago  Rodolfo. 
Da  essa  Ciua  aveva  tratto  una  parte  dei  suoi  soldati.  2.  Vaganda:  abi- 
tanti  di  un  territorio  limitrofo  all'Unioro.  Formavano  il  nerbo  dell'esercito 
dell'Uganda,  di  nuovo,  per  breve  tempo,  in  guerra  con  TUnioro,  tra  il 
giugno  e  il  luglio  1887.  Ma  dai  Vaganda  re  Ciua  traeva  spesso  le  sue  guardie 
del  corpo.  3.  8  Febbraio  1887.  4.  lo  spirito  del  padre:  di  Camrasi;  vedi 
la  nota  i  a  p.  850. 


856  GAETANO    CASATI 

magiche;  una  seggiola  di  legno,  coperta  con  pelli  di  leone  e  di 
leopardo;  una  lancia,  tutta  di  ferro,  di  circa  un  metro  e  mezzo 
di  altezza,  rivestita  nelPasta  con  filo  di  ottone;  infme  una  scure 
-  mpango  -  col  manico  in  legno  coperto  di  pelle  di  leopardo  e  con 
filo  di  ottone  nella  porzione  che  sporge  superiormente. 

Corre  il  decimo  giorno  di  Febbraio,  il  sole  precipita  alPoccaso ; 
batte  un  colpo  del  grande  tamburo,  cupo  e  grave.  Ad  un  tratto 
cessano  i  canti,  tacciono  i  suoni,  si  spopola  il  mercato,  ognuno 
guadagna  la  propria  abitazione,  le  vie  si  fanno  deserte  e  per  tre 
lunghi  giorni  mestizia  e  silenzio  regnano  tutto  alPintorno.  Solo 
i  rintocchi  lenti,  lugubri  e  intervallati  del  gran  tamburo  accen- 
nano  che  si  stanno  compiendo  i  riti  misteriosi  dello  mpango^  e 
fanno  trasalire  di  paura  i  miseri  abitanti.  £  popolare  credenza  che 
la  nuggara1  mandi  suoni  senza  essere  battuta,  tuttavolta  che  lo 
spirito  irritato  di  Camrasi  brami  essere  placato  con  vittime  umane." 

II  tempo  dei  riti  misteriosi  e  trascorso;  il  sole  ne  segna  nel 
suo  cammino  il  termine ;  la  gran  nuggara  tuona  in  tutta  la  sua  pie- 
nezza.  Grida  di  terrore  miste  a  riverenza  eccheggiano  dovunque 
e  si  propagano  di  villaggio  in  villaggio,  incalzando  quali  onde  ma 
rine;  e  miseri  viandanti,  pacifici  agricoltori  sono  afferrati,  ricinti 
di  corde  e  sgozzati  in  olocausto  al  Gran  Padre. 

In  Giuaia  dieci  infelici  pagarono  col  loro  sangue  il  tributo  alia 
superstizione.  II  rito  talvolta  si  prolunga  fino  al  quinto  giorno. 

Ma  il  compimento  del  grande  sacrificio  attende  gli  albori  del 
giorno  seguente.  II  re  sta  ritto  nella  capanna  dello  mpango,  al  li- 
mitare  dell'ampia  porta  d'ingresso,  vestito  dell'abito  tradizionale, 
gran  manto  di  stoffa  di  corteccia  d'albero,  sormontato  da  una  pelle 
di  leopardo  al  dorso  e  al  collo;  la  testa  coronata  da  talismani;  i 
polsi,  il  collo  e  le  caviglie  dei  piedi  ornate  di  fatate  conterie,2  im- 
pugnando  nella  destra  la  piccola  lancia;  i  Magnoro  del  Condo3  e 
tutti  i  Grandi  sono  disposti  in  semicerchio  nel  gran  cortile,  seduti 
sui  loro  piccoli  scanni;  il  custode  dello  mpango  sta  a  destra  del  re, 
tenendo  alzata  la  fatale  scure;  nuggara  e  seggiola  del  gran  rito  sono 
collocati  sul  davanti;  un'ampia  coppa  e  a  terra  poco  lungi.  Terrore 
e  silenzio  dominano  Passemblea. 

II  re  accenna  col  capo;  i  Grandi  si  alzano,  e,  curvi  in  segno 
di  riverenza,  si  awicinano  a  lui :  egli  tocca  colla  punta  della  lan- 

i.  nuggara:  tamburo.      2.  conteriei  vedi  la  nota  2  a  p.  835.      3.  Magnoro 
del  Condo:  vedi  p.  858. 


DIECI  ANNI  IN  EQUATORIA  857 

cia  uno  di  essi  alia  spalla.  Questi  s'avanza,  protende  il  collo,  1'or- 
rida  scure  scende,  il  sangue  e  raccolto  nella  coppa;  il  re  colle 
dita  ne  asperge  il  fronte  e  le  guancie  proprie,  poscia  quelle  di  tutti 
i  Grandi;  afferrando  quindi  il  vaso,  versa  il  rimanente  sangue  sul 
tamburo  e  sulla  seggiola.  II  sacrificio  e  compiuto;  nuggar  a,  seg- 
giola,  lancia,  scudo  e  coppa  sono  levate  e  trasportate  alia  residenza 
della  regina  madre.  Ad  un  cenno  del  re  i  pietosi  parenti  asportano 
il  cadavere  dell'infelice  Chisa,  gia  capo  del  distretto  di  Muenghe. 
I  tamburi  e  i  pifferi  suonano  a  festa,  si  scannano  buoi,  si  sturano 
vasi  di  birra,  e  sul  terreno  teste  bagnato  dal  sangue  della  vittima, 
tripudiano  e  ballano  gli  ubbriachi. 

Rasserenati  gli  animi,  mente  e  cuore  tornati  alia  antica  baldanza, 
fiduciosi  di  prosperi  successi,  gli  insani,  ciechi  per  sicura  prote- 
zione  superiore,  ripresero  il  filo  delle  votate  imprese. 

Mentre  Ciua  crede  prossima  la  venuta  di  Emin  in  Unioro,  de 
cide  repentinamente  Pabbandono  di  Giuaia. 

II  mattino  del  giorno  sei  di  Marzo,  il  re,  immolato  di  propria 
mano  un  giovine  dodicenne  nelPinterno  del  palazzo  ed  una  gio- 
venca  bianca  alia  porta  d'uscita,  in  olocausto  al  defunto  Padre, 
per  propiziarsi  la  protezione  durante  il  viaggio,  tra  il  frastuono 
dei  pifferi  e  dei  tamburi,  gli  spari  di  moschetteria  e  gli  urli,  piu 
che  grida,  di  una  folia  plaudente,  prende  via  verso  sud,  asportando 
seco  i  lari  paterni,  gli  strumenti  infami  dello  mpango.  Egli,  dopo 
lungo  errare,  si  ferma  a  Muimba;  pianta  la  lancia  nel  suolo;  quivi 
si  edifichera  il  nuovo  palazzo;  Poracolo  lo  impone. 

Verso  il  meriggio  lo  sgombro  di  Giuaia  e  ultimata;  colonne  di 
fumo  e  di  fuoco  si  elevano  dalla  abbandonata  residenza  reale;  il 
segnale  della  distruzione  e  dato.  L'incendio  divampa  da  ogni  punto 
crepitando,  cigolando  e  spingendo  verso  il  cielo  immense  spire 
nerastre  rotte  da  fasci  di  fiamme,  che  illuminano  sinistramente  il 
buio  di  una  notte  nuvolosa.  Per  lunghi  due  giorni  si  protrae  il  tristo 
spettacolo,  poi  tutto  piomba  nelPoscurita  e  nel  silenzio.  A  ricordo 
della  passata  grandezza  non  rimane  che  un  mucchio  di  cenere. 


858  GAETANO    CASATI 

[ORGANIZZAZIONE  E  ATTIVITA  DEL  REGNO  DELL'UNIORO] x 

Tanto  esteso  territorio  il  re  dell'Unioro  regge  a  mezzo  di  go- 
vernatori  inviati  nei  singoli  distretti.  I  magnbro,  cosi  sono  chiamati 
questi  amministratori,  sono  i  capi  delle  diverse  giurisdizioni,  che 
governano  in  nome  del  re,  forniscono  i  combattenti  nel  caso  di 
guerra,  pagano  tribute  in  avorio,  in  animali,  in  ferro  e  in  derrate 
alimentari.  Ad  essi  sono  soggetti  i  cosi  detti  matungoli,  che  hanno 
potere  limitato  su  reparti  del  territorio.  Le  provincie  devono  essere 
sempre  rappresentate  alia  residenza  del  sovrano,  o  dai  capi  in- 
vestiti,  o  da  un  loro  incaricato  che  ha  il  titolo  di  macongo.  Tra  i 
magnbro  il  re  sceglie  il  proprio  segretario,  il  direttore  dei  magaz- 
zeni  e  delle  armi,  i  delegati  a  rappresentarlo  presso  le  provincie 
tributarie,  i  capi  delle  missioni  eventuali  presso  gli  stati  limitrofi, 
il  comandante  supremo  delle  truppe  durante  la  guerra.  La  magno- 
ria  pu6  essere  ereditaria  od  elettiva  -  ereditaria  nel  caso  di  buoni 
servigi  resi  dal  padre  defunto;  elettiva  in  seguito  a  meriti  personal! 

0  a  speciale  favore  e  benevolenza  del  re.  L'ereditaria  per6  6  conse- 
guita  da  quello  tra  i  figli  che  offre  maggiori  doni  alia  voracita  del 
monarca. 

I  magnbro  possono  essere  insigniti  di  un  ordine  cavalleresco,  detto 
del  Condo,  che  mette  a  livello  dei  congiunti  reali  -  essi  non  sono 
passivi2  di  sentenza  capitale,  godono  della  riverenza  pubblica,  sono 

1  consiglieri  della  corona  e  stanno  coi  Mabitu.3  L'attuale  re  per6, 
derogando  agli  usi  consacrati  dalla  tradizione,  pronunci6  sentenza 
di  morte  anche  dei  cavalieri,  usando  la  finezza  crudele  di  radiarli, 
in  antecedenza,  dall'ordine.  L'ornamento  che  distingue  gli  insigniti 
del  Condo  consiste  in  un  nastro  di  pelle  di  bove,  tempestato  nella 
parte  esterna  da  cauri4  e  da  variate  perle  di  conterie,  il  quale  dalla 
sommita  anteriore  del  capo  scende  ai  lati  del  viso  e  si  allaccia  sotto 
il  mento.  II  numero  dei  membri  dell'ordine  e  fissato  a  diciasette; 
tra  questi  e  scelta,  a  titolo  onorifico,  la  vittima  pel  grande  sacrifi- 
zio  dello  mpango. 

La  potenza  e  la  grandezza  del  sovrano,  e  la  felicita  dei  popoli 
del  regno  si  sorreggono  merce  Taiuto  delle  potenze  invisibili,  al 

i.  Ed.  cit.,  vol.  n,  dal  cap.  in,  pp. 41 -50.  2.  passivi:  passibili.  3.  Mabitu: 
vedi  p.  850.  4.  cauri:  conchiglie,  che  erano  adoperate  come  monete  (vedi 

P.  863). 


DIECI   ANNI    IN   EQUATORIA  859 

cui  dominio  si  e  aggiunta  Talma  del  defunto  Camrasi.  Ad  ogni 
ricorrere  di  lima  sono  sacrificati  esseri  umani  per  propiziarsi  grazie 
e  benessere;  queste  immolazioni  pero  non  sono  circondate  da  al- 
cun  fasto.  Per  la  durata  di  tre  giorni  sono  sospesi  gli  affari  ed  i  com- 
merci,  e  si  compiono  nell'interno  della  reggia  i  riti  della  nuova 
luna,  scannando  qualche  vittima  di  propiziazione  nel  palazzo,  ed 
uccidendo,  al  di  fuori,  nella  direzione  da  cui  si  vuole  scacciare  la 
iettatura,  un  numero  variabile  di  individui.  Mensilmente  sono  pure 
scannati  bovi  sulla  tomba  del  defunto  re;  e,  spesse  volte,  vi  sono 
aggiunte  vittime  umane. 

In  occasione  di  malattia  del  re,  o  dei  membri  della  reale  fami- 
glia,  i  sacrifizi  umani  hanno  una  parte  importantissima.  II  giorno 
8  Maggio,  lo  Spirito  Magico,  i  di  cui  emblemi  cingono  il  capo  della 
regina  madre,  forse  sdegnato  per  mancata  riverenza,  turb6  la  di 
lei  mente  e  vi  insedio  malattia.  Furono  immolati  due  tori,  Tuno 
bianco,  Faltro  di  pelo  rosso;  ma  invano,  il  Nume  non  si  disse 
placato  e  a  lui  furono  offerte  vittime  umane  in  numero  conside- 
revole. 

Tale  un  costume  vige  da  epoca  rimota.  Sunna,  re  di  Uganda, 
padre  a  Mtesa,  colpito  da  non  grave  malattia,  fu  medico  a  se  stesso, 
ordinando  che  cento  vittime  umane  di  espiazione  si  immolassero 
giornalmente  a  provocare  la  sua  guarigione.  E  per  quindici  giorni, 
che  tanto  duro  il  malore,  ogni  levare  di  sole  miro  1'orrendo  ma- 
cello.  Fortuna  voile  che  quando  la  morte  lo  trasse  al  suo  amplesso 
non  permise  tanto  eccesso  di  devote  pratiche.  II  sovrano,  mentre  a 
cavalcioni  del  suo  primo  ministro  (che  tale  era  suo  costume),  fa- 
ceva  ingresso  nella  sua  residenza,  di  ritorno  da  un  viaggio,  cadde 
fulminate  da  colpo  apoplettico. 

Fu  durante  il  regno  di  Sunna  che  il  primo  negoziante  zanzi- 
barese  fece  la  sua  apparizione  in  Uganda.  Questi  annoiato  senza 
posa  dalla  richiesta  di  conterie,  ebbe  un  giorno  a  dire  al  re  che 
poteva  fare  delle  coltivazioni  di  esse.  II  credulo  re  si  mise  all'opera, 
e  non  vedendo  alcun  utile  risultato  si  consiglio  col  negoziante. 
Questi  che,  prossimo  ad  ultimare  i  suoi  affari,  sperava  di  presto 
andarsene,  continue  lo  scherzo  e  propose  1'espediente  di  maffiare 
giornalmente  il  campo  seminato.  Ma  spuntato  il  giorno  in  cui  il 
negoziante  sperava  di  far  ritorno  fra  i  suoi,  il  re  nego  il  suo  assenso. 
Replico  dopo  breve  intervallo  la  domanda;  ma  dovette  sentirsi  dire 
che  la  partenza  avrebbe  avuto  luogo  solo  nel  giorno  che  le  conterie 


860  GAETANO    CASATI 

avessero  germogliato.  Egli  non  fu  libero  d'andarsene  che  dopo  la 
morte  di  Sunna,  e  fu  fortuna  che  non  lo  incogliesse  di  peggio. 

La  corte  di  re  Ciua  non  ha  apparenze  aristocratiche,  come  si 
riscontra  presso  il  sire  di  Uganda;  ma  la  mano  ferrea  del  despota 
piomba  inesorabile  sulle  persone  che  a  torto  od  a  ragione  incorrono 
nella  disgrazia  sovrana.  I  colpevoli  giudicati,  anche  dietro  sem- 
plici  sospetti,  sono  uccisi  barbaramente  da  appositi  sicari.  Assi- 
curato  il  paziente  con  corde,  che  lo  recingono  alle  braccia  ed  alle 
gambe,  in  modo  da  obbligarlo  a  piegare  il  dorso  in  avanti,  con 
bastoni,  che  portano  una  estremita  ingrossata,  viene,  con  sorpren- 
dente  destrezza  atterrato  con  tre  colpi  vibrati  alle  tempie  ed  al- 
Foccipite.  Le  salme  dei  giustiziati  sono  ordinariamente  abbando- 
nate  sul  luogo  di  esecuzione,  pascolo  alle  fiere  ed  agli  avoltoi.  II 
solo  appressarsi,  o  fermarsi  a  contemplare  i  cadaveri  costituisce 
un  delitto  che  pu6  essere  punito  di  morte. 

Nei  primi  tempi  del  mio  arrivo  a  Giuaia  i  dintorni  della  mia 
abitazione  erano  il  piii  delle  volte  scelti  per  teatro  di  queste  mo- 
struosita.  Nel  silenzio  della  notte  si  sentivano  grida  strazianti,  Feco 
dei  tre  colpi  di  grazia  e  un  rantolo  che  andava  lentamente  soffo- 
cando.  Un  mattino  sette  cadaveri  giacevano,  orribilmente  sfigurati, 
nei  campi  prospicienti.  Ne  portai  lamentela  al  re,  mi  disse  che  io 
non  dovessi  fame  gran  caso,  essere  quelle  genti  immeritevoli  di 
pieta.  Gli  feci  in  allora  intendere  il  ribrezzo  che  il  fatto  produceva 
sulFanimo  mio;  egli  sorrise,  ma  scelse  altra  localita  per  Fufficio 
orribile. 

Ai  ladri,  ai  seduttori  di  donne,  tutta  volta  che  egli  giudica  il 
reato  non  grave  di  tanto  da  meritare  la  sentenza  capitale,  il  re  ap- 
pHca,  come  mezzo  correzionale,  il  taglio  delle  mani,  e  Fustione  delle 
pupille  degli  occhi. 

La  sera  del  22  Febbraio  (1887)  una  colonna  di  fumo  si  eleva  in 
prossimita  della  magione  reale;  la  capanna  di  un  esperto  lavora- 
tore  in  ceramica,  per  poca  diligenza  nei  deporre  una  pipa  tuttora 
accesa,  per  le  secche  erbe  delle  quali  costantemente  si  sparge  il 
suolo  delle  abitazioni,  divamp6  ad  un  tratto.  II  fuoco  fu  ben  tosto 
spento,  ma  il  mattino  seguente  era  bandito  un  decreto  di  proscri- 
zione  contro  le  pipe  ed  i  fumatori.  Le  guardie  del  re  furono  per  ben 
tre  giorni  impiegate  a  rompere  pipe  ed  a  bastonare  fumatori  senza 
riguardo.  II  vasaio  dove  alia  sua  perizia  nelParte,  F essere  sfuggito 
a  severissima  pena. 


DIECI   ANNI    IN   EQUATORIA  86l 

£  atto  di  somma  distinzione,  e  di  grande  fiducia  P essere  am- 
messi  alia  cerimonia  del  latte.  Non  tutti  i  membri  della  famiglia 
reale,  ne  tutti  i  grandi  capi  fruiscono  di  un  tale  onore.  L'avere 
compiuto  azioni  eroiche  in  guerra,  1'avere  addimostrato  al  re  una 
fede  inalterable,  e  piu  ancora  essere  entrato  nelle  simpatie  di  lui, 
sono  titoli  che  possono  portare  a  questa  somma  tra  tutte  le  prero 
gative  del  regno.  Calata  la  notte,  levata  la  mensa  regale,  gli  addetti 
alia  cerimonia  entrano  nella  gran  sala  del  palazzo ;  i  tamburi  bat- 
tono  ed  i  pifferi  strillano  la  marcia  reale;  il  re  prende  un  vaso  ri- 
pieno  di  fresco  latte,  e,  bevuto  il  primo,  lo  passa  ai  presenti  che, 
per  turno,  compiono  la  medesima  operazione. 

Compiuta  la  cerimonia,  le  porte  sono  aperte  e  gli  amici  ed  i 
grandi  sono  ammessi  al  cotidiano  passatempo  di  ubbriacarsi  con 
copiose  libazioni,  il  re  mecenate  e  maestro  .  .  . 

La  superstizione  si  impone  nell'Unioro,  anche  ai  cibi.  II  re  non 
si  nutre  di  carne  di  galline,  e  guai  a  quel  capo  che  non  si  unifor- 
masse  ad  imitarlo  in  simile  restrizione.  Egli  poi  limita  i  suoi  pasti 
a  carne  di  vitello  bollita  con  banane,  a  polenta  di  teldbun*  a  birra  di 
banane  fermentata  con  grano  germogliato,  la  quale  ha  il  no  me  di 
moenga. 

II  battere  dei  tamburi  annuncia  che  il  monarca  muove  verso 
la  sala,  dove  e  apprestata  la  mensa  regale.  Fuga  generale  di  donne 
e  di  ragazzi  nei  cortili  della  reggia ;  si  fa  deserta  la  via  per  la  quale 
devono  essere  portati  i  cibi  al  re,  cucinati  da  persona  fidata,  e  co- 
perti  accuratamente,  perche"  occhio  maligno  non  abbia  ad  iniet- 
tare  loro  proprieta  malefiche.  Durante  il  pasto  del  sovrano,  il  primo 
ministro  del  regno  veglia  alia  porta  d'ingresso,  volgendo  il  dorso  al 
re  che  mangia;  e,  a  compenso  ed  onore,  e  destinato  a  nutrirsi  dei 
regali  avanzi,  seduto  a  terra  e  sempre  sul  posto  di  vigilanza. 

La  popolazione  dell'Unioro,  vivace  per  naturale  intelligenza,  de- 
vota  e  sommessa  al  re  piu  per  tema,  che  per  affetto,  poco  amante  di 
imprese  guerresche  ardite,  di  spirito  bellicoso  solo  nelle  razzie  e 
nelle  rapine,  esplica  le  sue  doti  nelle  industrie  e  nei  commerci. 
Ai  luoghi  di  mercato  accorrono  numerosi  i  negozianti  coi  loro 
prodotti,  e  vi  si  possono  acquistare  farina,  sesamo,  tabacco,  pelli, 
ferro,  avorio.  Un  prodotto  di  grande  consumazione  e  la  birra  fatta 
con  succo  di  banane,  d'uso  generale,  necessaria  alle  abitudini  della 
vita  degli  indigeni,  quanto  lo  stesso  cibo.  Sul  mercato  di  Giuaia  si 
i.  telabun:  granturco. 


862  GAETANO    CASATI 

vendevano  giornalmente  mille  vasi  alPincirca,  di  buona  capacita. 

Sono  valenti  preparatori  di  pellami,  e  con  questi  fanno  vestiti 
che  in  morbidezza  possono  eguagliare  i  tessuti.  Le  loro  tiumbe  sono 
manti  formati  dalPunione  di  pelli  di  capra  convenientemente  pre- 
parate  e  cucite  con  tale  diligenza  da  presentare  uniformita  continua 
di  pelo  ai  luoghi  di  giuntura.  Preparano  pure  'tiumbe  con  pelli  di 
bove,  che  riducono  soffici  e  leggiere,  e  che  servono  da  vestito  ai 
meno  ricchi.  La  confezione  di  tali  stoffe  richiede  lavoro  paziente, 
che  si  eseguisce  con  somma  diligenza  a  mezzo  di  raschiature  succes 
sive  fatte  con  piccoli  coltelli  sul  rovescio  delle  pelli,  previamente 
bagnate  e  tenute  distese  mediante  chiodi  di  legno  fissati  nel  suolo. 

II  costume  dei  vestiti  di  pellami  e  tolto  dai  Vahuma  e  costituisce 
un  comodo  lusso,  attesa  1'abbondanza,  nel  paese,  di  bestiame. 
L'abito  tradizionale  per6,  che  tuttora  e  usato  dalla  maggioranza,  e 
che  e  sempre  portato  nella  ricdrrenza  di  feste  e  di  pubbliche  fun- 
zioni,  e  quello  fatto  colla  corteccia  dello  mbugu,  ossia  delficus  lutia. 
Ecco  come  il  missionario  Wilson,  gia  sopra  citato,  descrive  il  modo 
che  si  impiega  per  rendere  tale  corteccia  atta  a  servire  come  stoffa. 

«  Si  fa  un'incisione  in  giro  al  tronco  in  un  posto  adatto  e  un'al- 
tra  a  due  o  tre  piedi  piii  in  basso ;  quindi  si  fa  un  taglio  longitudi- 
nale  fra  le  due  incisioni,  poscia  si  leva  la  corteccia  in  modo  da  con- 
servarne  la  forma  cilindrica.  Avendo  uno  spessore  di  circa  mezz'on- 
cia,  si  leva  la  superficie  con  cura  e  la  parte  anterior  e,  che  e  piut- 
tosto  spugnosa  e  piena  d'acqua,  si  pone  sopra  una  lunga  tavola  di 
legno  duro  e  molto  levigato.  La  si  fa  battere  allora  con  forza  e  rapi- 
damente  da  due  o  tre  uomini  con  un  martello.  Questi  martelli  pure 
di  legno  durissimo,  hanno  Pestremita  arrotondata  con  scanalature, 
di  modo  che  la  stoffa  riesca  marocchinata.1  La  stofTa  si  allarga  sotto 
questa  operazione,  e  quando  ha  raggiunto  la  voluta  consistenza,  e 
sospesa  per  farla  asciugare.  Dopo  cio  tagliano  con  cura  i  bordi,  e 
vengono  rammendati  i  buchi,  che  per  awentura  avessero  potuto 
formarsi  nel  battere  la  corteccia.  Se  la  pezza,  che  ne  risulta,  non  e 
abbastanza  larga  per  fare  un  abito,  se  ne  cuciono  altre  insieme. 
Gli  alberi,  dai  quali  viene  levata  la  corteccia,  sono  subito  coperti 
di  foglie  di  banano,  che  vi  si  lasciano  fino  a  quando  si  forma 
una  nuova  scorza  sulla  ferita. » 

Varie  sono  le  qualita  di  queste  stoffe  di  mbugu\  le  piu  belle  e 

i.  marocchinata:   lavorata  in  modo   da  avere  1'aspetto   delle  pelli  dette 
«  marocchine  ». 


DIECI   ANNI    IN   EQUATORIA  863 

piu  soffici,  d'un  colore  rosso  oscuro,  provengono  dall'Uganda  e  da 
Msoga  sulla  sponda  destra  del  Nilo  Vittoria;  le  piu  resistenti  si 
fabbricano  a  Mognara  nel  distretto  di  Mruli.  Appositi  artigiani  at- 
tendono  a  questa  industria,  che  frutta,  se  non  copiosi,  certo  conti- 
nuati  guadagni. 

L'arte  ceramica  ha  pure  valenti  artisti,  che  fabbricano  vasi  per 
latte,  recipient!  per  acqua,  coppe,  scodelle  e  pipe  bellissime  per 
varieta  di  forme  e  lucidezza  di  superficie.  La  terra  che  impiegano 
e  nerastra  o  rossiccia,  e  questa  differenza  porta  un  diverse  valore, 
reputandosi  quest'ultima  di  maggior  pregio. 

Sui  mercati  trovasi  in  copia  il  burro,  che  viene  acquistato  in 
gran  parte  da  speculatori  che  lo  inviano  in  Uganda.  6  un  cespite 
di  industria,  propria  e  quasi  esclusiva  dei  Vahuma,  possessor!  di 
bestiame,  o  mandriani  del  re  e  dei  grandi  del  regno.  II  burro  fab- 
bricato  mediante  1'agitamento  del  latte  in  grosse  zucche  vuotate,  e 
conservato  in  casside,  tegumento  formato  da  foglie  di  banano  rico- 
perto  da  argilla  mescolata  a  stereo  bovino.  L'uso  di  queste  casside 
e  generale,  e  sostituisce  quello  dei  canestri;  il  tabacco,  i  fagioli,  il 
sesamo,  il  grano,  il  sale,  sono  in  esse  preparati  per  facilitarne  il  tra- 
sporto;  il  rivestimento  di  terra  si  applica  solo  quando  si  vuole 
garantire  la  conservazione  del  genere. 

I  negozianti  di  Zanzibar  hanno  assai  contribuito  a  sviluppare 
le  tendenze  commerciali  degli  indigeni,  e  Tintroduzione  dei  cauri  - 
cyprea  moneta  -  ha  facilitate  ed  esteso  le  contrattazioni.  Intro- 
dottisi  nel  paese  per  Tincetta  dell'avorio,  vi  fecero  buoni  affari 
colla  vendita  di  fucili,  polvere,  capsule,  rame,  ottone,  tela  e  con- 
terie,  aprirono  mercati,  si  misero  in  contatto  colla  popolazione, 
e  seppero  accapararsi  fiducia  e  confidenza.  Derogando  alquanto 
al  sentimento  della  propria  dignita  si  acconciarono1  anche  col  re, 
a  cui  piu  volte  vendettero  il  proprio  braccio  nei  segreti  misfatti. 

Le  varie  tribu  sparse  nel  paese,  unificate  per  lingua  e  costumi, 
e  formanti  il  popolo  dei  Vanioro,  dimorano  in  villaggi  poco  estesi, 
ed  amano  erigere  le  loro  abitazioni  nei  boschi  di  banani.  Le  capanne 
di  forma  conica  fatte  con  erbe,  hanno  porte  alte  e  con  tettoia  spor- 
gente  sopra  di  esse.  L'interno  e  provvisto  con  certa  ricchezza  di 
utensili  per  gli  usi  domestici,  ed  e  ripartito  in  varie  sezioni  per  i 
singoli  bisogni.  Le  donne  hanno  la  direzione  della  casa  ed  attendono 
ai  lavori  dei  campi;  gli  uomini  per6,  specie  nella  classe  piu  povera, 
i .  si  acconciarono :  si  accordarono,  trattarono. 


864  GAETANO    CASATI 

non  rifuggono  dal  partecipare  ai  lavori  piu  gravosi.  Sono  tutti  bevi^ 
tori  appassionati,  ed  un  vaso  di  birra  e  preferito  ad  un  pasto  son- 
tuoso.  Gli  uomini  di  rango  elevate  mangiano  da  soli;  i  piu  sie- 
dono  allo  stesso  desco  colla  famiglia;  tutti  fanno  uso  di  cucchiai  di 
legno.  Amanti  delle  feste  e  dei  balli,  colgono  tutte  le  occasioni  per 
appagare  tale  passione  -  e  ballano  per  le  nascite  e  pei  matrimoni,  e, 
ultimati  i  riti  della  nuova  luna,  per  tre  giorni  ballano  e  si  ubbria- 
cano. 

I  Vanioro  hanno  timore  e  ribrezzo  per  la  pioggia  e  per  la  rugiada. 
Non  sortono  di  casa,  se  non  a  sole  alto,  e  le  vie  nelle  ore  mattutine 
sono  completamente  deserte;  cosi  quando  piove.  Hanno  grande 
rispetto  pei  dispensatori  delle  pioggie,  che  sono  colmi  di  doni  a 
profusione.  II  gran  dispensatore,  colui  che  comanda,  che  ha  asso- 
luto,  incontestato  potere  sulla  pioggia  e  il  re ;  ma  egli  puo  conferire 
e  dividere  il  mandate  ad  altre  persone,  affine  di  distribuire  il  bene- 
ficio  alle  diverse  parti  del  regno.  Un  giorno  un  uomo  trafelato  giun- 
geva  da  parte  del  re,  e  gridava  sui  luoghi  di  passaggio  che  si  desse 
mano  alle  seminagioni,  che  Macama1  aveva  ordinato  di  dar  mano 
sollecitamente  all'operazione  ne*  suoi  campi.  La  pioggia  era  desi 
derata,  e  vero,  da  lungo  tempo;  ma  il  cielo  si  manteneva  sereno, 
Faere  tranquillo ;  eppure  Findomani  cadde  pioggia  in  copia  a  raf- 
fermare  il  potere  soprannaturale  del  gran  dispensatore. 

La  sepoltura  degli  estinti  vien  fatta  senza  lunghi  pianti  e  con 
poche  cerimonie;  essi  vengono  sotterrati  in  prossimita  dell'abita- 
zione,  a  custodi  di  essa,  confortati3  dal  pensiero  che  Pestinto  veglia 
a  tutela  della  prosperita  dei  congiunti  abbandonati.  L'uso  di  sacri- 
fizi  umani  non  e  nell'indole  dei  Vanioro,  e  se  da  taluno,  come 
vuolsi,  fu  usato,  non  e  che  una  imitazione  di  una  prerogativa  della 
famiglia  reale.  Quando  mori  Camrasi,  nella  reggia  fu  scavata  una 
larga  e  profonda  fossa  destinata  a  ricevere  la  salma  delPestinto,  ap- 
pena  compiuti  i  riti  funerari.  In  essa  furono  collocate  sei  tra  le 
mogli  del  re  defunto  sedute,  e  sulle  gambe  di  queste  fu  adagiato 
il  corpo  del  trapassato;  un  ragazzetto  inginocchiato  aj  suoi  piedi, 
teneva  la  pipa  e  il  vaso  di  tabacco.  Composto  Porrendo  gruppo  senza 
un  lamento  da  parte  delle  infelici  predestinate,  la  fossa  fu  colmata 
di  terra;  e,  sulla  tomba,  i  rivi  di  sangue  colanti  dalle  umane  vit- 
time  sgozzate,  placarono  la  grande  anima  del  re  defunto,  e  la  resero 

i.  Macama-.  il  dispensatore  della  pioggia.  Tale  appellative  apparteneva  an- 
zitutto  al  re.     ^.  confortati:  i  parenti  seppellitori. 


DIECI    ANNI    IN    EQUATORIA  865 

propizia  al  novello  despota.  Egli  veglia  tuttora  alia  grandezza,  alia 
prosperita  del  regno,  ed  infelici  vittime  pagano  il  tribute  della  ve- 
nerazione  del  popolo,  e  della  capricciosa  superstizione  del  dispo- 
tico  erede. 


[MINACCIOSE  PRESSIONI  su  CASATi]1 

11  mio  isolamento  era  oramai  completo  (6  Marzo  1887);  io  rimane- 
va  solo  a  Giuaia,  colle  mie  genti  di  casa,  con  due  soldati  del  governo, 
e  con  due  banassura2  del  re,  incaricati  piii  di  sorvegliare  i  miei 
atti,  che  di  prestare  i  loro  servigi.  II  dado  era  gettato,  il  re  pas- 
sava  il  Rubicone  e  strappava  la  maschera;  il  partito  dei  nefandi 
progetti,  suggeriti  nelPadunanza  del  25  gennaio,  aveva  vinto;  ai 
sotterfugi,  alle  mene  sorde,  al  parlare  ambiguo,  stavano  per  sot- 
tentrare  Pazione,  la  rottura  quindi  d'ogni  relazione,  e  Paggressione 
sui  territori  del  governo.  La  politica  di  Re  Ciua  a  due  faccie,  ma 
paurosa  e  circospetta,  cedeva  il  campo  a  quella  dei  banassura,  leg- 
gera,  rapace,  sfrenata. 

Pur  tuttavia  gli  affari  nostri,  in  mezzo  a  tanta  malevolenza,  si 
svolgevano  a  seconda  degli  scopi  desiderati.  Sul  principio  delPan- 
no,  prevalsero  nel  consiglio  dei  grandi  del  regno,  le  ostili  misure 
votate  in  nostro  odio ;  fu  mia  prima  cura  di  assicurare  la  trasmis- 
sione  ed  il  ricevimento  delle  corrispondenze  per  e  da  Uganda,  ed 
allo  intento  trovai  prestazione  coraggiosa  e  cordiale  in  certo  Ahmed 
Auad,  arabo  delPOman,  stabilito  nelPUnioro  per  ragioni  di  com- 
mercio.  Merce*  sua  mi  fu  sempre  possibile  trovare  messi  che,  me- 
diante  compenso  in  avorio,  si  incaricassero  di  portare  le  nostre  cor 
rispondenze  al  Signor  Mackay,  agente  delle  missioni  inglesi,  e  ri- 
mettere  fedelmente  quelle  provenienti  dalPUganda.  £  bens!  vero 
che  egli,  sospettato  di  tenere  relazioni  con  me  fu  colpito  da  sentenza 
di  esiglio  dal  regno ;  ma  mi  fu  facile,  a  mezzo  del  tristo  Abd  Reh- 
man,  ottenere  dal  confidente  del  re  la  revoca  di  tale  sentenza. 

Non  si  pass6  alPacquisto  delle  stoffe  e  d'altri  generi  in  quantita 
rilevanti,  atteso  i  prezzi  esorbitanti  domandati  dai  negozianti,  e  in 
vista  della  carovana  di  Biri  prossima  ad  entrare  nelPUnioro;  ma 
per  i  bisogni  piu  urgenti  non  fu  difficile  deludere  la  vigilanza  delle 

i.  Ed.  cit.,  vol.  n,  dal  cap.  iv,  pp.  56-8.  2.  banassura:  militari,  guardie 
del  corpo  di  re  Ciua. 


866  GAETANO    CASATI 

guardie,  poste,  anche  di  notte,  in  riva  al  torrente,  che  ci  separava 
dal  quartiere  occupato  dai  negozianti. 

Rimaneva  il  lato  piu  spinoso,  e  di  maggiore  importanza;  es- 
sere,  cioe,  al  corrente  delle  notizie  esterne,  e  piu  ancora  delle  trame 
e  dei  progetti  che  si  ordivano  e  si  succedevano  con  vece  continua 
nella  reggia.  Ma  furonvi,  tra  gli  indigeni  e  fra  le  guardie  stesse  del 
re,  i  volonterosi  ed  i  comprati  che  si  prestarono  al  pericoloso  uffi- 
cio,  sicch6  ogni  progetto,  non  appena  ventilate,  era  a  mia  cono- 
scenza  prima  che  si  desse  mano  alia  sua  attuazione. 

Costretto  a  non  muovere  dalla  mia  abitazione,  sorvegliato  alFin- 
giro  da  guardie,  spiato  in  ogni  menomo  atto,  impiegainel  difficile  la- 
voro  un  coraggioso  ragazzo  dinca,1  il  quale,  sotto  veste  di  far  acqui- 
sti  al  mercato,  trovava  abilmente  modo  di  conferire  coi  nostri  amici, 
e  soddisfare  ai  bisogni  della  situazione.  Awertito  da  lui  della  neces- 
sita  di  abboccamenti,  io  riceveva  visite  notturne,  dopo  avere  prepara- 
to  Pambiente  alPuopo,  coll'ubbriacare,  Dio  mi  perdoni,  di  buona 
ragione  le  guardie  destinate  alia  mia  sorveglianza.  Ed  in  questo  mo- 
do,  non  solo  quanto  poteva  essere  utile  ai  nostri  interessi,  ma  per- 
fino  i  pettegolezzi  e  gli  scandali  della  reggia  erano  a  mia  conoscenza. 

Insediato  il  governo  a  Muimba,  ebbero  principio  gli  attentati 
notturni  alia  mia  abitazione.  Ne  portai  lamentela  al  re  il  28  di 
Aprile,  in  seguito  ad  una  visita  perpetrata  la  notte  antecedente; 
ma  egli,  sorridendo,  mi  rispose:  —  Sparate  contro  i  ladri,  non  sono 
miei  sudditi  i  lavoratori  nelle  tenebre.  —  E  per  conferma  della  di- 
sapprovazione  sovrana,  non  appena  scorso  il  secondo  giorno,  la 
poco  grata  sorpresa  si  rinnovava.  Nel  corso  di  parecchi  mesi,  ad 
intervalli  variati,  si  ripeterono  i  tentativi,  interrotti  solo  nel  frat- 
tempo2  che  dur6  Tinvasione  dei  Vaganda.  Avuto  sentore  che  dalla 
reggia  erano  ispirate  tali  opere  nefande,  sia  per  impaurirmi,  e  de- 
cidermi  alia  partenza,  o  forse  peggio  per  togliere  di  mezzo  un  inco- 
modo  testimonio  ed  un  creduto  cospiratore  e  nemico,  opposi  in- 
differenza  e  volto  ilare  davanti  agli  importuni  curiosi,  ed  attivai 
un  regolare  e  serio  servizio  di  sorveglianza  durante  la  notte.  Fu 
un  lavoro  penoso,  difficile,  che  amareggib  i  placidi  ozii  dei  soldati 
e  dei  send,  a  cui  per  altro  io,  per  primo,  mi  sottoposi,  e  che  port6 
al  trionfo,  rendendo  frustanei3  ben  otto  tentativi. 

i.  I  Dinca  sono  un  popolo  del  Sudan,  abitante  tra  il  Bahr-el-Arab  e  il  Nilo 
Bianco,  a  sud  del  Sennaar.  2.  nel  frattempo:  nell'intervallo  di  tempo. 
3.  rendendo  frustanei:  frustrando,  rendendo  vani. 


DIECI    ANNI    IN    EQUATORIA  867 

Era  una  notte  piovigginosa ;  a  guardia  vegliava  un  giovanetto, 
facile  a  lasciarsi  sorprendere  dal  sonno.  Di  solito,  ad  intervalli  tor- 
mentato  com'ero  dall'insonnia,  e  dall'incertezza  continua  del  pro- 
babile  pericolo,  usava  sortire  dalla  mia  capanna  sia  per  controllo 
alia  sentinella  appostata,  sia  per  provare  1'attenta  vigilanza.  Preso 
il  fucile  sortii  all'aperto,  e  mi  awicinai  al  ragazzo  che  seduto  son- 
necchiava  reclinando  convulsivamente  il  capo,  e  scotendold  brusca- 
mente  lo  chiamai  alia  vigilanza.  Ad  un  tratto  un  rumore  di  una 
massa  pesante  in  fuga  si  fece  intendere  a  pochi  passi;  mi  volsi  a 
quella  parte  e  potei  confusamente  distinguere  le  forme  di  parecchi 
leoni;  sparai  il  fucile,  un  altro  colpo  diressi  nel  vuoto,  ed  il  silenzio 
torn6  a  farsi  tutto  all'intorno. 

II  mattino  constatammo  che  la  visita  poco  gradita  ci  era  stata 
fatta  da  un'intiera  famiglia  di  leoni.  II  povero  ragazzo,  la  cui  esisten- 
za  era  stata  a  repentaglio,  e  che  gli  era  stata  preservata  dal  mero 
caso,  sorrideva,  ma  tuttora  col  tremolio  sulle  labbra. 


[CASATI  SFUGGE  ALLA  PRIGIONIA  E  ALLA  MORTE] l 

Alle  ore  6  del  mattino  successivo  (9  Gennaio  1888)  Biri  ed  io, 
accompagnati  dal  mio  fido  ragazzo,  da  un  caporale  del  Governo, 
e  dai  tre  banassura  Uando,  Rehan,  e  Singoma  ci  mettiamo  in  cam- 
mino  verso  1'abitazione  del  Gnacamatera.2  Varcato  il  torrente,  e 
saliti  sulla  spianata  da  cui  si  scorge  in  lontananza  la  dimora  del 
Visir,  con  grande  nostro  stupore  ci  si  affaccia  il  luogo  gremito  di 
numerosi  armati ;  il  cuore  ci  da  una  stretta,  ci  rimiriamo  mutoli,  al 
Biri  sfugge  un  fioco  atorniamo  indietro».  £  inutile,  bisogna  pro- 
seguire;  affrettiamo  il  passo;  giungiamo  alPingresso.  Cessano  i  gri- 
di,  gli  armati  si  adunano  sul  nostro  passaggio,  alcuni  ci  salutano ; 
andiamo  a  fermarci  in  prossimita  della  sala  delle  adunanze. 

Poco  lungi,  al  piede  di  annosi  alberi,  maestosi  per  ricchezza 
di  fronde,  ed  elevatezza  di  tronco,  sta  seduto  il  gran  sacerdote, 
a  cui  fanno  corona  in  numero  i  minori  maghi.  Ha  il  capo  coperto 
da  un  ricco  turbante  di  stoffa  rossa,  ornato  di  conterie  e  di  conchi- 
glie,  e  ai  lati  della  fronte  si  dipartono  due  corna  di  bove,  cui  sono 

i.  Ed.  cit.,  vol.  II,  dal  cap.  vi,  pp.  86-106.  2.  Gnacamatera:  re  Ciua  ave- 
va  nominate  suo  ministro  questo  capo  gia  distintosi  nclla  gucrra  contro 
i  Vaganda. 


868  GAETANO    CASATI 

appesi  piccoli  talisman!  di  legno;  nella  sinistra  mano  tiene  un  gran 
corno  ripieno  della  polvere  magica,  e  colla  destra  impugna  il  pic 
colo  bastone  degli  scongiuri;  veste  1'ampio  abito  di  pelle  di  bove, 
fermato  aH'omero  sinistro;  siede  su  di  un  piccolo  sgabello,  in  at- 
teggiamento  severo,  come  conviensi  alia  sua  alta  dignita. 

S'apre  la  porta  del  palazzo,  squilla  una  tromba,  ed  il  Visir  si 
avanza  seguito  dai  dignitari  del  regno,  e  da  copia  di  armati.  I  ca- 
panelli,  disseminati  sul  piazzale  e  airintorno,  si  adunano,  e  ven- 
gono  a  formare  un  cerchio  compatto,  a  qualche  distanza,  tutto 
alFingiro  -  armati  di  fucile,  armati  di  lancie,  e  scudi,  armati  di 
archi,  e  freccie;  sono  parecchie  migliaia.  Un  religiose  silenzio,  gla- 
ciale,  annunziatore  di  atti  solenni,  domina  Passemblea;  tutti  hanno 
Pocchio  intento  alia  persona  del  Gnacamatera,  che  emerge,  fra  lo 
stuolo  armato  che  lo  rinserra,  per  Talta  statura,  e  pel  volume  della 
testa.  —  Ecco  il  tradimento,  —  sussurrai  airorecchio  di  Biri  —  che 
Dio  ci  aiuti;  e  vana  ogni  speranza;  mostriamo  coraggio. 

Forse  dieci  minuti  sono  trascorsi  dall'apparizione  del  Visir.  Ad 
un  tratto  egli  stende  risolutamente  in  alto  il  braccio  destro.  II 
segnale  e  dato;  Faere  rimbomba  di  orribili  grida,  la  turba  sfrenata 
si  awenta  sopra  di  noi;  ci  afferrano,  ci  avvingono  di  corde,  e 
siamo  barbaramente  legati  ai  grossi  alberi  in  prossimita  del  gran 
mago.  Spogliato  del  tarbusch,  e  predato  di  quanto  aveva  nelle  mani 
e  nelle  tasche,  io  sono  avvinto  con  corde  al  collo,  alle  braccia,  ai 
polsi,  ai  ginocchi,  al  collo  dei  piedi,  ed  assicurato  ad  un  grosso 
albero  con  tale  diligenza  atroce,  da  non  lasciarmi  libero  di  fare  il 
bench6  minimo  movimento ;  la  corda  al  collo  e  poi  tanto  stretta  da 
impedirmi  la  respirazione,  ed  un  braccio  e  contorto  e  ripiegato  in 
posizione  dolorosa. 

II  povero  Biri,  denudato  perfettamente  de'  suoi  vestiti,  e  legato 
ad  un  albero  prossimo  al  mio,  con  corde  ai  polsi,  al  collo,  ed  ai 
piedi.  II  mio  ragazzo  Oachil  sta  con  legature  al  collo,  alle  braccia, 
ai  polsi;  il  caporale,  stretto  con  corde  alle  braccia,  e  assicurato  ad  un 
albero,  in  prossimita  di  Biri. 

Impreco,  dirigendo  lo  sguardo  al  Gnacamatera,  che  stava  imper- 
territo  a  pochi  passi,  contro  la  vigliaccheria  di  legare  un  fanciullo, 
e  lo  prego  di  allentare  i  vincoli  al  Biri.  Le  sue  legature  sono  rimesse 
in  piu  tollerabile  misura,  ed  al  ragazzo  sono  tolte  le  corde  che 
stringono  le  braccia.  Ma  per  contro,  il  banassura  Uando,  avendo 
richiamato  Pattenzione  del  Visir  sul  mo  do  barbaro,  oltre  mi- 


DIECI    ANNI    IN   EQUATORIA  869 

sura,  con  cui  io  ero  stato  legato,  quest!  con  inutile  vampa  d'ira 
grid6,  mi  fosse  anco  il  ventre  fissato  al  grosso  albero  con  una  fune. 

I  satelliti,  pronti,  ebbri  di  gioia  ad  eseguire  Pordine  -  sorrisi, 
consolandomi  che  la  corda  che  mi  legava  al  collo,  essendo  nuova, 
si  allungava  sotto  gli  sforzi  tanto  da  permettere  la  respirazione  meno 
affannosa. 

II  Gnacamatera  si  awicin6,  ancora  piu,  a  me: 

—  Io  mi  porto—  disse  —  d'ordine  del  re  alia  vostra  abitazione; 
so  che  ivi  tenete  molti  armati,  venuti  di  soppiatto,  e  ad  intervalli 
da  Vadelai,  e  coi  quali  contavate  conquistare  il  paese;  guai  a  voi, 
se  io  trovo  in  loro  la  menoma  resistenza;  voi  sarete  immediatamente 
fatto  uccidere. 

—  Nello  stato  in  cui  m'avete  posto  —  risposi  —  d'ordine  del  vo- 
stro  re,  io  non  posso  essere  responsabile  di  quanto  sara  per  ac- 
cadere,  presentandovi  alia  mia  abitazione.  Epper6  vi  consiglio  di 
prendere  questo  ragazzo  con  voi,  il  quale  portera  la  mia  parola  agli 
armati  che  vi  si  trovano,  e  sara  da  quelli  creduto  ed  ubbidito. 

—  Sta  bene,  dategli  allora  i  vostri  ordini. 

—  I  soldati  del  Governo  consegnino  le  armi;  e  tu,  ragazzo  mio, 
ubbidisci,  senza  esitazione,  a  tutto  che  sara  per  richiedere  il  Gna 
camatera.  Che  nessuno  si  opponga,  che  nessuno  pianga. 

II  Visir  parti  accompagnato  dalle  sue  truppe,  lasciando  circa 
trecento  armati  alia  nostra  custodia. 

II  dolore  cagionato  dalle  legature,  i  dardi  del  sole  che  in  quel 
giorno  sembravano  piii  cocenti,  1'arsura  che  tormentava  le  fauci, 
Io  scherno  continue,  non  interrotto,  di  una  folia  briaca,  e  sitibonda 
di  sangue,  ecco  il  nostro  Calvario  di  lunghissime  ore. 

II  povero  Biri  ora  recitava  le  preghiere  del  Corano,  piu  spesso 
singhiozzava  rammentando  i  suoi  figliuoli,  il  suo  avorio  perduto,  e 
si  abbandonava  alia  disperazione,  mirando  Io  spettro  della  morte 
vicino. 

Io  gli  facevo  coraggio,  Io  confortavo  a  sperare,  Io  supplicava  a  non 
dare  spettacolo  di  vilta  d'animo ;  ma  pur  troppo  mi  si  spezzava  il 
cuore,  vedendoci  ludibrio  di  un  re  despota,  feroce  e  superstizioso. 

—  Se  un  piroscafo  fosse  stato  inviato  da  Dufile,1  come  voi  avete 

i.  Dufile:  locality  sul  Nile,  a  nord  del  lago  Alberto.  II  Casati  aveva  ripetuta- 
mente  awertito  Emin  del  tradimento  che  si  preparava,  ma  non  era  stato 
creduto. 


870  GAETANO    CASATI 

richiesto,  non  ci  sarebbe  toccata  tale  sorte;  il  Fascia  era  awertito 
del  pericolo.  —  Cosi  parlava  il  Biri,  e  si  lasciava  vincere  da  impeti 
di  ira  e  di  sdegno. 

II  caporale  Surur,  meno  infelice  di  noi,  era  confortato  dalle  parole 
dei  compaesani,  che  lo  sollecitavano  a  far  atto  di  sottomissione  al 
re,  che  lo  avrebbe  non  solo  perdonato,  ma  anche  tenuto  in  pregio, 
perch£  soldato;  e  gli  somministravano  tazze  ripiene  d'acqua  a  suo 
piacimento. 

Eppure  quella  folia,  ebbra  e  fanatizzata,  ondeggiava  per  grande 
paura  che  dominava  in  fondo  al  loro  cuore.  Uno,  tra  i  piii  arditi, 
dei  nostri  custodi,  awicinatosi  a  me,  si  prov6  a  sciogliere  i  laccioli 
delle  mie  scarpe,  probabilmente  per  appropriable.  Sdegnato  per 
tale  atto,  e,  non  potendo  permettermi  il  menomo  movimento,  cac- 
ciai  un  urlo,  fissando  rabbiosamente  Pinsolente.  Questi  e  la  folia, 
presi  da  subitaneo  spavento,  in  massa  indietreggiarono  precipitosa- 
mente,  urtandosi  e  cadendo  Tun  sopra  Paltro. 

La  folia  si  tenne  allora  a  distanza  fino  a  quando  uno  dei  capi,  in 
cui  il  dovere  trionfava  sopra  la  paura,  dopo  molto  esitare,  e  con 
tutta  circospezione,  non  ebbe  frugato  nelle  saccoccie  dej  miei  pan- 
taloni  ed  assicurato  gli  altri  che  non  vi  era  incantesimo.  L'oggetto 
stregato  doveva  essere  un  foglio  di  carta.  Non  potei  a  meno  di  dare 
in  una  risata,  a  cui  rispose  un  chiassoso  riso  alPunisono  di  tutta  la 
folia;  ed  anche  il  povero  Biri  ebbe  un  lampo  di  ilarita. 

Verso  le  ore  tre  pomeridiane  il  mio  ragazzo  fa  ritorno,  e,  in 
nome  di  Gnacamatera,  comunica  ordine  di  allentare  le  nostre  le- 
gature.  I  custodi  protestano  altamente  contro  tale  concessione,  non 
vi  possono  credere,  domandano  che  venga  un  banassura  del  Visir. 
Si  aggiunge  cosi  un  sopra  piu  di  tormenti  pel  capriccio  di  una 
ciurma  fanatizzata;  si  riaccende  per  un'altra  buon'ora,  e  si  rinvi- 
gorisce  la  sequela  degli  improper!,  degli  insulti,  delle  minaccie. 

Ritornato  il  ragazzo,  accompagnato  dalla  guardia  Singoma,  un 
grido  generale  di  disapprovazione  eccheggia  da  tutte  le  parti.  La 
guardia  ordina  di  sciogliere  i  vincoli  che  stringono  le  mie  braccia;  il 
capo  dei  lasciati  a  custodia  rifiuta,  protesta;  egli  non  solo  allentera, 
ma  lasciera  libere  le  braccia,  se  gli  verra  dato  irpagamento  d'uso. 

Mi  si  domanda  il  mio  abito  -  acconsento  -;  ma  lo  si  vuole  an- 
ticipatamente;  non  e  possibile  darlo  prima  che  siano  tolte  le  corde. 
Nuove  proteste,  nuove  insolenze. 

Alia  fine  mi  si  slega,  si  toglie  P  abito,  e  mi  si  rilega,  lasciandomi 


DIECI   ANNI    IN   EQUATORIA  871 

perb  libere  le  braccia;  altrettanto  si  fa  con  Biri.  II  caporale  vien 
slegato  completamente. 

£  costumanza  nelPUnioro,  tollerata  dal  sovrano,  di  permettere 
che  i  custodi  degli  individui  messi  in  ceppi,  mercanteggino  vergo- 
gnosamente  una  dose  maggiore  o  minore  di  sevizie,  a  seconda  della 
loro  voracita.  Cosi  se  un  infelice  od  un  reo,  e  in  grado  di  soddisfare 
la  loro  ingordigia  con  pagamento  pronto  ed  effettivo,  possono  pro- 
curarsi  un  alleviamento  di  pene  per  breve  ora,  che  pu6  pur  anco 
ripetersi  od  anche  continuare,  se  i  pazienti  ripetono  o  continuano  i 
regali.  Ma  se  il  disgraziato  &  povero,  e  quindi  impossibilitato  ad  of- 
frire  la  menoma  oblazione,  egli,  certo,  subira  sevizie  e  vessazioni 
ancora  maggiori  di  quelle  state  ordinate  dal  re. 

£  in  questo  modo  che  gli  impiegati  regi  si  compensano  dei  loro 
servigi  al  re,  che  si  sottrae  cosi  aH'obbligo  di  qualsiasi  retribuzione. 
E  questo  sistema  di  concussione  si  estende  ad  ogni  genere  di  ser- 
vizio ;  visite  nei  distretti,  messaggi  ai  capi,  perquisizioni  domici- 
liari,  arresti  di  individui,  servizi  di  trasporto  per  la  casa  reale,  tutto, 
indistintamente,  viene  colpito  da  una  tassa,  levata  a  discrezione  del 
funzionario. 

II  malcontento,  in  conseguenza  di  simile  procedere,  e  piu  che 
generale ;  e,  se  non  fosse  la  tema  che  incute  il  numero  considerevole 
di  armati  con  fucili,  Tor  dine  pubblico  neirilnioro,  ad  ogni  istante, 
correrebbe  seri  pericoli  di  turbamento. 

II  ragazzo  brevemente  mi  informa  di  quanto  e  avvenuto  alia 
mia  abitazione  dopo  la  nostra  partenza,  e  all'arrivo  di  Gnacamatera. 

Al  mattino,  appena  che  noi  ci  allontanammo,  la  casa  fu  bloccata 
tutto  aH'ingiro  ed  a  distanza  da  circa  duemila  armati  fatti  venire  da 
Mruli,  da  Muenghe,  dai  distretti  del  Cafu.  Quando  poi  ii  Visir  fu 
prossimo  alia  mia  dimora,  si  arrest6  col  suo  esercito  sul  colle  ante- 
stante,  e  di  1&  invi6  alcuni  armati  col  ragazzo  sempre  legato.  Le 
armi  dei  due  soldati,  e  le  mie,  colle  cartuccie,  furono  portate  da- 
vanti  al  comandante;  gli  effetti  miei  e  di  Biri,  della  nostra  gente  e 
dei  soldati  furono  disposti  sul  piazzale  vicino  alPabitazione ;  le 
genti  di  casa  furono  fatte  uscire  e  collocate  in  luogo  appartato  sotto 
custodia. 

Drappelli  di  armati  entrarono  allora  nel  recinto,  perquisirono 
minutamente  ogni  luogo,  ed  esplorarono,  battendo  coi  calci  dei  fu 
cili,  il  terreno  punto  per  punto,  per  assicurarsi  se  esistessero  nascon- 
digli  sotterranei. 


872  GAETANO    CASATI 

Chetata  la  pena  del  cuore  al  Gnacamatera,  poi  che  ebbe  1'an- 
nunzio  del  risultato  della  perquisizione,  a  spari  di  fucile,  e  al  rullo 
del  tamburi,  scese  il  colle,  varc6  il  rio,  e  sali  trionfante  a  riposarsi 
alia  mia  abitazione.  Le  sevizie  e  i  maltrattamenti  usati  verso  le 
nostre  genti  furono  degni  e  conformi  all'indole  dei  component!  Tor- 
da  selvaggia. 

Si  trasportano  intanto  tutti  i  miei  effetti  alia  residenza  del  Visir, 
e  veggo  successivamente  depositarsi  le  armi,  le  casse,  le  prowiste, 
non  che  Tavorio  di  proprieta  del  Governo;  gli  effetti  di  Biri  sono 
radunati  a  Nparo  sulla  strada  di  Mruli.  II  Gnacamatera  sta  per  far 
ritorno ;  raccomando  al  mio  ragazzo  fermezza,  e  lo  consiglio  a  fug- 
gire  per  portare  a  Vadelai  la  notizia  che  Stanley1  si  trova  nella 
regione  meridionale  del  lago  Alberto. 

Sono  prossime  le  ore  cinque  del  pomeriggio.  Gnacamatera,  cir- 
condato  dai  sacerdoti,  tenendo  un  fascetto  d'erbe  nella  mano  destra, 
grange  sul  piazzale;  suonano  i  pifferi,  squilla  una  trombetta,  rul- 
lano  i  tamburi,  sparano  i  moschetti,  e  la  folia  applaude  fragorosa- 
mente  al  vincitore. 

Gnacamatera,  gettato  uno  sguardo  su  di  me,  e  visto  che  aveva 
libere  le  braccia,  esce  in  improperi,  ed  ordina  di  legarmi  nuova- 
mente ;  cosa  che  si  fa  con  grida  di  gioia  da  parte  de'  miei  aguzzini. 

Mutato  il  vestito  guerresco  con  elegante  abito  di  stoffa,  sorte  dal- 
1'abitazione,  e  si  asside  su  un'ampia  sedia,  adunando  ad  assemblea 
intorno  a  lui  la  massa  di  armati  e  di  popolo. 

—  Quest'uomo,  —  disse,  accennando  a  me—  inunione  coll'altro, 
—  additando  Biri  —  port6  i  Vaganda  nel  nostro  paese ;  per  causa  di 
lui  furono  rapiti  i  vostri  figliuoli  e  le  vostre  mogli,  furono  incen- 
diate  le  vostre  case,  predati  i  vostri  averi,  distrutte  le  vostre  messi. 
II  re  li  ha,  per  questi  delitti,  colpiti  colla  sua  giustizia,  ed  affidati 
alia  vendetta  del  mio  braccio. 

Un  urlo  fragoroso,  pieno  di  minaccie  e  di  convinzioni2  pass6 
sul  nostro  capo:  «gobia,  goUay  traditore,  traditore». 

II  Gnacamatera  chiam6  quindi  il  caporale ;  cosa  abbia  detto  a  lui, 

i.  Henry  Morton  Stanley  (1841-1904)  aveva  partecipato  in  America  alia 
guerra  di  secessione,  e,  come  giornalista,  in  Africa,  alia  campagna  anglo- 
abissina  al  seguito  di  Sir  Robert  Napier  (vedi  p.  743).  Aveva  poi  [avuto 
1'incarico  di  ritrovare  Livingstone.  Nel  1886  fu  a  capo  della  spedizioiie  che 
and6  in  soccorso  di  Emin  Fascia.  II  Casati  aveva  saputo  ch'egli  si  avvici- 
nava  alia  zona,  e  che  aveva  gia  raggiunto  il  lago  Alberto.  2.  convinzioni: 
contumelie,  ingiurie. 


DIECI    ANNI    IN   EQUATORIA  873 

non  seppi  mai.  Fatto  poi  venire  innanzi  il  ragazzo  a  lui,  commu- 
nic6,  come  io  dovessi  essere  scortato  a  Chibiro,  e  che  Findomani 
mi  avrebbe  inviato  tutti  i  miei  effetti.  Ordina  quindi  di  sciogliermi 
dall'albero;  altrettanto  si  fa  per  Biri;  quattro  banassura  si  impos- 
sessano  di  me,  mi  legano  le  braccia  ed  il  collo,  e  via  mi  trascinano. 
Tento  parlare  al  Gnacamatera  per  il  povero  Biri,  ma  a  battiture  e  a 
strappi  di  corda  mi  allontanano  dal  luogo;  il  mio  ragazzo  ed  il  ca- 
porale  mi  seguono. 

A  ore  sette  attraversiamo  una  colonia  di  Sciuli,  e  giungiamo 
al  luogo  dove  si  giustiziano  i  malfattori ;  un  recente  accampamento 
di  armati  e  stabilito  tutto  all'intorno.  Entrati  nel  recinto,  troviamo 
i  due  soldati  del  Governo  colle  nostre  genti,  le  quali,  mediante 
dono  dei  loro  vestiti,  ottengono  dai  banassura  che  mi  sieno  levate 
le  corde.  Io  sono  per  loro  un  morto  tornato  alia  vita,  la  mia  pre- 
senza  li  porta  quasi  alia  gioia  e  dimenticano  le  vessazioni  sofferte. 
II  mio  ragazzo  mi  presenta,  con  nobile  pensiero,  un  po'  di  carta 
ed  un  lapis  che  riusci  a  trafugare  nella  confusione  del  saccheggio. 

II  luogo,  in  cui  ci  troviamo,  non  e  di  buon  augurio;  le  nuggare 
che  vediamo  sono  intrise  del  sangue  dei  trucidati;  bisogna  ten- 
tare  una  fuga.  —  Non  vi  ha  che  questo  bosco  di  spine  che  non  sia 
guardato  da  armati  —  mi  dice  il  ragazzo  di  ritorno  da  un  giro  di 
scoverta. —  Ebbene  gettiamoci  carponi;  e  via  attraverso  ad  esso, 

Detto,  fatto;  ne  sortiamo  malconci  dal  bosco,  e  ci  mettiamo 
sulla  via;  ma  presto  cadiamo  in  imboscate  tese  dai  predoni;  e  im- 
possibile  difenderci.  Abbandoniamo  la  via,  e  tra  le  erbe  ci  scostia- 
mo  dal  cammino,  battuto  per  lungo  tratto,  e  ci  arrestiamo. 

II  caporale  Surur  ci  ha  abbandonato,  egli  e  fuggito.  Udiamo 
lontano,  lontano  Feco  delle  imprecazioni  degli  armati  che  hanno 
perduto  le  nostre  traccie;  ma  a  poco  a  poco  le  voci  si  disperdono, 
e  tutto  rientra  nel  silenzio. 

Dopo  tre  ore  di  sosta  riprendiamo  la  marcia,  passiamo  la  con- 
trada  di  Faragioc,  e  arriviamo  a  Chitana,  dove,  mediante  poche 
conterie  che  le  donne  si  tolsero  dal  collo,  possiamo  sfamarci  con 
patate  dolci  (batata  edulis). 

A  mezzogiorno  (io  Gennaio  1888)  siamo  alia  sommita  della  mon- 
tagna  da  cui  si  vede  Chibiro,  e  rimmenso  azzurro  del  lago.1  Scen- 
diamo  fino  al  primo  terrazzo;  quando  ad  un  tratto,  dietro  i  bur- 
roni,  lungo  i  vari  sentieri  sbucano  armati,  che  prendono  posizione 
i.  II  lago  Alberto. 


874  GAETANO    CASATI 

tutto  all'ingiro.  Sono  ben  un  migliaio,  banassura  armati  di  fucili, 
indigeni  con  scudo,  e  lancia.  Ci  intimano  di  retrocedere,  e  al  mio 
rifiuto  reciso,  essi  gridano,  minacciano;  non  rispondo.  Inviati  di 
Gnacamatera,  di  Barabra,  capo  di  Giuaia,  di  Roconcona,  capo  di 
Chitana,  mi  accusano  di  essere  fuggito,  e  pretendono  di  trascinarci 
a  forza  sulla  via  di  ritorno.  L'afTare  minaccia  di  finire  in  modo 
tragico  -  forse  e  P  ultima  fase  della  sciagura  che  ci  ha  colto  -  ogni 
esitanza  e  certa  rovina.  Raduno  la  mia  gente  sbigottita,  e  risoluta- 
mente  protestando  che,  a  costo  della  vita,  non  ricalcher6  la  via  per- 
corsa,  muovo  il  passo  giu  per  la  discesa,  e  gli  altri  dietro  a  me. 

Alte  grida  si  innalzano  da  ogni  punto,  e  gli  armati,  lasciando  le 
loro  posizioni,  balzando  di  dimpo  in  dirupo,  serrano  lo  spazio  che  li 
separa  da  noi,  decisi  di  correre  alPaperta  violenza;  quando  ad  un 
tratto  ecco  apparire  due  individui  armati  di  lancia;  sono  inviati  da 
Cagoro,  il  gran  capo  di  Chibiro ;  egli  reclama  la  mia  persona,  e  mi 
copre  della  sua  protezione,  dacch6  mi  trovo  sul  suo  territorio. 

La  folia  irrompente  si  arresta;  e  noi  scendiamo  al  villaggio,  se- 
guitati  dai  nostri  nemici,  ridotti  al  silenzio,  ma  disposti  a  disputare 
la  preda. 

Cagoro  ci  da  alloggio  in  comoda  abitazione,  ci  invia  due  capre, 
tre  ceste  di  farina,  e  del  tabacco. 

—  Prendete  ristoro,  —  ci  fa  dire  —  non  temete  molestia,  io  non 
ho  ordini  dal  re  in  odio  alia  vostra  persona. 

La  giornata  e  la  notte  trascorrono  senza  incident!  di  sorta;  il 
villaggio  e  gremito  di  armati  che  schiamazzano,  e  si  ubbriacano; 
la  mia  casa  e  custodita  da  guardie.  Sento  da  vari  capi  che  ven- 
gono  a  visitarmi  le  piii  strane  notizie  -  io  essere  stato  tradito  dai 
soldati  che  erano  meco;  essi  riferire,  in  nome  del  Governatore, 
cose  ben  diverse,  e  contrarie  a  quelle  che  io  sosteneva  in  di  lui 
nome;  la  proposta  dello  scambio  di  sangue1  essere  un  mio  capriccio ; 
io  congiurare  segretamente  con  Muanga2  a  danno  del  re;  Emin 
essere  perfettamente  d'accordo  col  re,  e  disapprovare  il  mio  ope 
rate;  Abd  Rehman,  il  negoziante  zanzibarese,  Famico  di  Babe- 
dongo,  il  consigliero  di  Ciua,  avere  diretto  e  presenziato  la  mia 
cattura  dalla  casa  di  Gnacamatera;  i  miei  effetti  e  Tavorio  del  Go- 
verno,  essere  confiscati,  e  destinati  ad  essere  inviati  a  Mruli. 

i.  scambio  di  sangue:  un'offerta  di  stringere  un  legame  di  sangue,  rito  di 
eccezionale  valore  presso  gli  indigeni,  era  stata  fatta  al  Casati  dal  re  e  poi  da 
Gnacamatera.  2.  Muanga:  vedi  la  nota  3  a  p.  852. 


DIECI    ANNI    IN   EQUATORIA  875 

II  Visir,  alPatto  della  confisca  perpetrata  nella  mia  abitazione, 
ai  due  soldati  present!  aveva  detto :  —  Voi  direte  al  governatore  di 
Vadelai  che  la  misura  di  rigore,  che  il  re  mi  ordino  di  compiere,  e 
reclamata  dalla  sicurezza  dello  stato ;  il  di  liii  inviato  aveva  inalbera- 
to  la  bandiera  del  Governo,  e  mirava  a  detronizzare  il  re,  d'accordo 
con  Muanga;  egli  ha  coperto  di  sprezzo  e  di  ingiurie  il  re;  egli  si 
accaparrava  Tanimo  degli  indigeni  per  spingerli  alia  ribellione.  II 
re  non  intende  di  rompere  1'alleanza  e  1'amicizia  che  lo  legano  al 
Fascia,  ed  un  inviato  verra  a  Vadelai  per  confermarla  maggior- 
mente. 

A  questo  stolto  messaggio,  bugiardo  ed  infame,  non  mancarono 
credenti,  tanto  pu6  un  insuccesso  influire  suH'animo  dei  tristi,  e 
dei  semplici.  E  il  cencio  di  bandiera  fece  un  gran  chiasso. 

Inalberai  la  bandiera  egiziana  pendente1  la  guerra  di  Uganda, 
e  coll'assenso  del  re  accordato  a  Nparo,  quando  fui  a  visitarlo. 
Cessate  le  ostilita,  il  paese  era  percorso  da  bande  di  Magongo  che 
dal  Baganghese  rimpatriavano  in  quel  d'Anfina  di  recente  conqui- 
stato ;  la  poca  sicurezza  e  Tabbandono  completo  in  cui  mi  lasciava 
il  re,  e  le  mene  che  si  tramavano  a  mio  danno,  mi  consigliarono  a 
tenerla  innalzata  a  mia  protezione.  La  mia  decisione,  comunicata 
al  re,  ebbe  il  suo  pieno  consenso,  che  mi  fu  poi  confermato  dallo 
stesso  Gnacamatera. 

£  alta  e  massima  ofTesa,  tra  i  Vanioro,  il  rompere  Paltrui  pipa; 
1'ingiuria  e  presentata  al  giudizio  del  re  colle  parole :  «  Egli  ha  de- 
turpata  o  uccisa  la  mia  consorte»  -  e  1'ammenda,  che  e  decretata, 
somma  a  buon  numero  di  bovi.  Se  1'offeso  non  si  acconcia  alia  sen- 
tenza,  oppure  se  i  contendenti  non  intendono  deferirsi  ad  un  giu 
dizio,  ferimenti  gravi,  e  molte  volte  la  morte,  ne  sono  il  finale  ri- 
sultato. 

A  tale  offesa  si  ricorre  il  piu  delle  volte  quando,  per  un  qualsiasi 
motivo,  si  vuole  attirare  alcuno  in  contese. 

II  mattino,  per  tempo  (u  Gennaio  1888),  davanti  la  mia  abita 
zione,  si  disputava  vivamente  tra  una  guardia  di  Gnacamatera,  ed 
uno  dei  dipendenti  di  Cagoro.  II  banassura  aveva  arrogantemente, 
e  di  proposito,  senza  essere  stato  provocato,  levato  di  bocca,  get- 
tato  a  terra,  e  spezzato  la  pipa  ad  un  abitante  di  Chibiro.  Animan- 
dosi  sempre  piu  Talterco,  io  mi  affacciai  alia  porta,  e  subito  la 
guardia  mi  invit6  a  sedere  giudice  della  loro  contesa. 

i. pendente'.  durante  (francesismo  e  anglismo). 


876  GAETANO    CASATI 

lo,  che  conoscendo  il  costume,  divinai  il  tranello,  mi  scusai  alle- 
gando  di  essere  sofferente  in  salute,  e  pregai,  perche  mi  lasciassero 
in  pace;  poco  dopo  si  allontanarono,  e  andarono  altrove  ad  assestare 
i  loro  piati. 

Verso  le  ore  otto  molte  guardie  si  presentano  domandando  con- 
chiglie  per  comprare  birra;  getto  il  mio  panciotto,  non  possedendo 
altro;  non  sono  soddisfatti;  ma  se  ne  vanno.  Poco  appresso  ci  si  da 
intimazione  di  partire ;  muoviamo  seguiti  da  una  folia  di  armati,  che 
ci  accompagna  alia  riva  del  lago,  e  ci  invitano  a  scendere  in  due 
barche,  gia  predisposte;  nella  piccola  pretendono  che  io  mi  im- 
barchi  solo,  destinando  Taltra  al  mio  seguito. 

Mi  ribello  di  fronte  alFinsidiosa  proposta,  dichiaro  che  dovranno 
usare  violenza;  non  ceder6  che  di  fronte  alia  superiorita  di  forza; 
mi  appello  ad  alcuni  capi  di  Cagoro,  che  riconosco  tra  la  folia. 
Come  mandria  di  bestiame  siamo  allora  spinti,  e  cacciati  al  luogo 
dove  si  depura  il  sale,  e  ivi  lasciati  in  custodia  a  poche  sentinelle 
poste  alPingiro,  e  ad  una  certa  distanza;  la  massa  si  ritira,  e  si  aduna 
a  consiglio  davanti  la  casa  del  capo  del  villaggio. 

Esposti  al  sole  cocente,  senza  che  ci  sia  concesso  il  ristoro  di 
prendere  acqua  al  lago  vicino,  le  ore  si  succedono  senza  portarci 
variante  di  situazione.  Verso  le  ore  tre  pomeridiane  un  servo  inviato 
in  cerca  di  fuoco  per  distrarci  col  fumo  del  tabacco,  donatoci  la  sera 
da  Cagoro,  non  fa  piii  ritorno. 

Alle  quattro  ore  due  ribaldi  di  Gnacamatera,  i  presunti  capi  della 
banda,  si  awicinano,  e  si  impossessano  bravamente  di  un  cesto 
contenente  pochi  vestiti  dei  due  soldati.  Una  mezz'ora  piu  tardi 
vediamo  sfilare  sulla  serpeggiante  viuzza  della  montagna,  e  dile- 
guare  Funo  presso  Taltro  i  nostri  assalitori. 

La  rada  di  Chibiro  rientra  nella  sua  abituale  monotonia;  non 
una  persona  per6  si  awicina  a  noi,  i  maledetti  del  re,  i  colpiti  da 
ostracismo.  Verso  le  ore  cinque  il  capo  mi  invia  un  indigeno  incari- 
cato  di  servirci  di  guida  fino  al  prossimo  villaggio. 

Arriviamo  daTocongia  verso  le  ore  otto.Egli  ci  regala  del  pesce,  e 
ci  permette  di  passare  la  notte  in  un'ampia  capanna.  Sebbene  tutto 
che  ci  circonda  dinoti  pace  e  tranquillita,  pure  a  turno  vegliamo 
a  guardia.  Gli  awenimenti  strani  di  questi  tre  giorni  si  succedono, 
e  si  accavallano  nella  mente;  e  in  fondo  ad  essi  sempre  spunta  in- 
sistente,  e  acuto  il  dolore  della  perdita  delle  note  di  viaggio. 


DIECI    ANNI    IN    EQUATORIA  877 

Al  cantare  del  gallo  prendiamo  le  mosse  (12  Gennaio  1888) 
accompagnati  da  Tocongia,  e  verso  le  ore  sette  del  mattino  entria- 
mo  nel  villaggio  di  Ntiabo. 

£  Ntiabo  una  delle  mogli  del  re,  e,  come  vuole  Fuso,  ha  in  ap- 
panaggio  e  governa  un  distretto,  che  visita  ad  intervalli,  e  dove 
risiede  in  date  epoche.  Nella  sua  assenza  e  rappresentata  da  un 
delegate  che  governa  in  di  lei  nome,  e  che  invia  le  derrate  alia  resi- 
denza  della  regale  signora.  II  re  alle  proprie  consorti  non  solo,  ma 
anco  a  taluni  favoriti  assegna  territori,  piu  o  meno  estesi,  in  feudi; 
egli  riscuote  dai  titolari  un  canone  fisso  ed  ha  1'assistenza  con  ar- 
mati  in  occasione  di  guerre.  La  governatrice  e  assente ;  essa  si  trova 
a  Mruli  presso  lo  sposo.  Siamo  accolti  con  indifTerenza  e  tema; 
forse  sanno  della  sentenza  che  ci  ha  colpito,  e  ci  sfuggono  quali 
appestati. 

Tocongia  ci  procura  una  guida,  la  quale  ci  lascia  nelle  prime 
ore  del  pomeriggio  dal  capo  Capidi,  un  pezzo  d'uomo  alto,  grosso, 
storpio  del  piede  destro,  un  chiaccherone  faceto,  e  astuto.  Gli 
chiedo  di  istradarmi  pel  paese  di  Bochi,  non  rifiuta  apertamente, 
ma  si  schermisce,  allegando  mancanza  di  gente  fidata,  e  mostran- 
domi  la  sua  impotenza  a  fare  lungo  viaggio.  Ci  somministra  per6 
di  che  nutrirci,  e  la  giornata  scorre  in  apparente  tranquillita.  Ma, 
poco  dopo  il  tramonto  del  sole,  giungono  due  messi  di  Gnacama- 
tera,  i  quali  raccontando  i  miei  delitti  ed  il  conseguente  decreto 
del  re,  riassumono  la  nostra  sentenza  col  motto:  «N6  cibo,  ne 
stradaw.  -  L'awenire  ci  si  presenta  a  colori  piu  che  mai  foschi,  il 
feroce  despota  non  lascia  la  sua  preda. 

Scortati  da  Capidi  e  da  due  suoi  fidi  (13  Gennaio  1888),  costeg- 
giando  la  sponda  del  lago,  ci  fermiamo  poco  prima  di  mezzogiorno 
di  fronte  ad  un  isolotto,  residenza  di  Melino,  uno  dei  piu  temuti 
capi  dei  Magungo.  Egli  vuole  che  mi  rechi  alia  sua  dimora,  ma  non 
mi  sembra  conveniente  ai  nostri  interessi.  Ci  fa  attendere  per  piu 
ore,  ed  infine  ci  concede  di  proseguire,  accompagnati  da  due  guide. 

Alle  ore  quattro  entriamo  in  un  piccolo  villaggio,  governato 
da  certo  Amara,  ma  fatti  pochi  passi  gli  indigeni,  in  massa,  si  av- 
ventano  contro  di  noi  minacciosi,  intimandoci  di  retrocedere.  Le 
guide  ci  abbandonano,  Timbarazzo  cresce,i  forsennati  dalle  minac- 
cie  passano  ai  fatti,  ed  al  grido,  «n6  cibo,  ne*  strada»,  a  colpi  di  ba- 
stone  ci  cacciano  fuori  strada,  verso  i  boschi ;  ci  seguono  per  buon 
tratto,  quindi  ci  lasciano. 


878  GAETANO    CASATI 

Rinfrancati  gli  animi  sgomenti  pel  brusco  congedo,  attra verso 
le  erbe  e  gli  sterpi,  riguadagniamo  la  via  del  lago,  e  verso  il  tra- 
monto  ci  troviamo  dinanzi  ad  tin  agglomeramento  di  meschini 
abituri. 

Mando  a  parlamentare  uno  dei  soldati,  in  un  col  mio  ragazzo,  die 
parla  discretamente  la  lingua  degli  indigeni,  e,  tollerandolo  gli  abi- 
tanti,  ci  accampiamo  poco  lungi  dalle  capanne. 

Durante  la  notte,  a  nostra  grande  sorpresa,  ci  viene  servito  un 
gran  piatto  di  fagioli;  ringraziamo  di  cuore  il  generoso  anfitrione. 

Una  giovane  dinca,  sfuggita  alle  sevizie  di  un  egiziano  impie- 
gato  del  Governo  dell'Equatoria,  e  qui  sposa  al  figlio  del  capo  del 
villaggio,  amata  per  la  sua  bonta,  e  per  attivita  nelle  domestiche 
incombenze.  Essa  ci  assicura  della  benevolenza  del  proprio  ma- 
rito,  e  del  padre  di  lui,  e  ci  da  la  preziosa  notizia  che  il  giorno  1 1  il 
Fascia  e  giunto  in  Tunguru1  coi  due  piroscafi. 

II  coraggio  riprende  lena,  tutti  fanno  promessa  di  ubbidienza, 
e  la  speranza  ci  concilia  ad  un  placido  riposo. 

II  capo  Melino,  radunato  grosso  numero  di  armati,  era  giunto 
durante  la  notte  (14  Gennaio  1888).  All'alba,  convocati  i  capi  dei 
dintorni,  bandi  un'assemblea  che  decidesse  sulla  nostra  sorte.  I 
piu  arrabbiati  volevano  la  mia  morte  immediata,  gli  altri  porta- 
vano  opinione  che  fossimo  scortati  fino  al  villaggio  di  Roc6ra, 
alia  sponda  del  Nilo  Vittoria.  Dopo  infinite  discussioni,  rotte  da 
vivaci  contese,  i  due  partiti,  non  trovando  una  soluzione  che  sod- 
disfacesse  al  desiderio  generale,  votarono  la  nostra  espulsione  dal 
territorio;  e,  dato  mano  a  delle  verghe,  ci  cacciarono  sulla  via. 

I  nostri  persecute ri  si  stancarono  per6  ben  presto,  e  le  file  dei 
furiosi  poco  per  volta  si  diradarono.  Rimanemmo  soli. 

Camminiamo  per  circa  due  ore,  poi,  deviando,  si  fece  sosta  in 
una  palude  difficile,  e  fuori  di  mano.  Qui  ci  consultammo  sul  da 
farsi,  e  si  convenne  essere  urgente  procurarci  una  barca,  per  attra- 
versare  il  lago,  ed  arrivare  a  Tunguru  per  chiedervi  soccorso. 

Dopo  lunghe  ricerche  ci  venne  fatto  di  rinvenire  una  barcaccia 
in  deplorevoli  condizioni,  e  per  di  piu  senza  remi.  Ma  il  coraggioso 
Fadl,  un  arabo  di  Dongola,  non  esit6  ad  assumere  il  difficile  in- 
carico. 

Usciti  dal  nascondiglio  dopo  il  tramonto  del  sole,  e  camminando 

i.  Tunguru:  il  paese  sorge  sulla  riva  occidentale  del  lago  Alberto,  ed  e  per- 
ci6  nella  zona  opposta  a  quella  in  cui  si  sta  svolgendo  la  fuga  del  Casati. 


DIECI    ANNI    IN   EQUATORIA  879 

fra  pantani,  sprofondando  a  ogni  tratto  nelle  buche  fatte  dalle 
zampe  degli  ippopotami,  fra  le  alte  erbe,  cacciandoci  fra  roveti  e 
carme,  ora  deviando  per  comparsa  improwisa  di  grossi  anfibi,  ora 
coricandoci  impauriti  alia  vista  di  coppie  di  bufali,  ci  riducemmo, 
verso  mezzanotte,  ad  una  piccola  elevazione,  in  prossimita  del  lago. 
Acqua  a  sazieta  tenne  luogo  di  nutrimento. 

Due  servi  dell'infelice  Biri  ci  avevano  raggiunto  (15  Gennaio 
1888)  per  istrada,  e  si  erano  accompagnati  a  noi.  lo  aveva  accennato 
aH'opportunita  che  essi,  durante  la  notte,  si  recassero  alia  casa  ospi- 
tale  della  donna  dinca,  per  ottenere  da  lei  un  po'  di  cibo.  II  luogo 
non  distava  di  molto ;  le  genti  di  Melino  e  di  Amara  avevano  sgom- 
brato  dal  territorio ;  essi  si  rifiutarono. 

AlFalba,  in  lontananza,  scorgiamo  quattro  barche,  che  si  dispon- 
gono  alia  traversata  del  lago;  sarebbe  una  buona  occasione  per  noi, 
forse  la  nostra  salvezza;  ma  Hurscid,  il  soldato  circasso,  ha  i  piedi 
gonfi  e  piagati,  cammina  a  stento,  ed  a  me  non  basta  il  cuore  di 
abbandonarlo. 

La  nostra  situazione  diventa  sempre  piii  grave ;  lo  scoraggiamento 
va  impadronendosi  dei  cuori  degli  infelici  compagni ;  tutti  sono  nel 
massimo  cordoglio,  ad  eccezione  del  giovinetto  Oachil. 

Spunta  il  sole  suH'orizzonte,  ci  ricacciamo  fra  gli  ambasc1  ed  i 
canneti  in  cerca  di  radici  da  succhiare;  quand'ecco  grida  ed  urli 
selvaggi  ci  avvisano  delPapprossimarsi  di  nuovi  persecutor!.  Stormi 
d'armati  d'ogni  lato  vanno  battendo  il  terreno,  come  usasi  fare  nella 
caccia  della  selvaggina,  serrando  sul  luogo  dove  ci  troviamo  nascosti 
al  grido  di:  ((magiungo,  magiungo,  il  forestiero,  il  forestiero)). 

Esco  dal  nascondiglio,  e  mi  presento  ai  Magungo;  essi  sono  irri- 
tati  per  la  scomparsa  della  loro  barca;  ma  il  loro  sdegno  diminuisce 
vedendo  ch'io  non  sono  altrimenti  partito.  La  mia  gente  che  si  era 
sbandata  ritorna. 

Le  imprecazioni  e  le  minaccie  cambiano  di  tono,  ma  non  cessano; 
le  piu  strane  proposte  sono  agitate;  prendersi  le  donne  ad  inden- 
nizzo  del  danno  sofTerto,  legarci  e  condurci  dal  capo  Melino,  finire 
ogni  cosa  con  una  vendetta  meritata.  Discutendo,  facendo  pro- 
messe,  lasciando  intravedere  un  probabile  pericolo,  arrivo  ad  am- 
mansare  parecchi  fra  i  maggiorenti,  e  la  massa  conchiude  colla  ri- 
soluzione  che  usciamo,  sotto  scorta,  dal  territorio. 

Lieto  di  essere  scampato  anche  questa  volta  senza  danni,  stretto 

i.  ambasc:  vegetazione  del  tipo  delle  erminiere. 


880  GAETANO    CASATI 

la  mano  a  taluni  fra  gli  anziani,  lentamente  ci  drizziamo  per  1'erta 
d'una  collina.  Camminiamo  circa  due  ore,  poi  le  guide  ci  lasciano 
in  prossimita  di  un  villaggio,  abitato  da  genti  Lur  e  Lendu. 

Essi  non  ci  vogliono,  ma,  nello  stesso  tempo,  non  ci  lasciano  li- 
beri;  domandiamo  commestibili,  ce  li  mostrano,  ma  poi  ci  deri- 
dono,  e  li  ritirano;  percuotono  un  ragazzo,  faccio  rimostranza,  mi 
regalano  una  bastonata.  Si  radunano  in  consiglio,  ed  il  capo,  senza 
soverchio  dire,  propone  di  ammazzarmi. 

—  Macama1  —  dice  egli  —  ha  ordinato  che  sia  ucciso  da  Rocora 
al  di  la  del  fiume;  tanto  fa  che  noi  ci  sbrighiamo  di  lui  oggi; 
e  assai  facile  trasportarne  il  cadavere,  e  ci  togliamo  la  noia  di  avere 
tutto  giorno  rompicapo  per  cagione  sua,  e  di  incorrere  con  tutta 
probabilita  nella  disgrazia  sovrana.  —  Tale  risoluzione  mi  viene  tra- 
dotta  dal  servo  di  Hurscid,  che  conosce  la  lingua  dei  Lur. 

Mi  avanzo,  allora,  verso  il  gruppo  degli  indigeni. 

—  Se  voi  —  dico,  rivolgendomi  alPoratore  —  avete  il  coraggio  di 
mandare  ad  effetto  la  vostra  proposta,  avanzatevi,  io  sono  pronto. 
Ma  ricordatevi  voi  tutti  che  il  re  vi  ha  ordinato  di  inviarmi  al 
paese  di  Roc6ra,  e  che  una  disubbidienza  pu6  provocare  misure 
di  punizione  sul  vostro  villaggio. 

—  No,  no,  —  gridarono  in  coro  —  noi  non  vogliamo  uccidervi. 

—  Ebbene,  allontanate  queiruomo  che  vi  ha  fatto  una  proposta 
ingiusta,  e  poi  parleremo. 

Grida  unanime  di  disapprovazione  eccheggiarono  sul  capo  del 
matungoli?  che  stim6  prudente  di  andarsene. 

Un  giovane  che  balbettava  un  poj  di  lingua  araba,  e  che  aveva 
prestato  servizio,  quale  interprete,  con  Mergian  Aga  Danas- 
suri,  gia  comandante  della  stazione  egiziana  di  Magongo,  si  presta 
a  servirmi  d'intermediario  coi  Lur,  e  ottiene  ch'io  sia  lasciato  libero, 
pur  che  mi  obblighi  a  prendere  via  verso  Rocora.  Le  mie  genti  mor- 
morano,  protestano,  esse  mi  credono  impazzito.  Li  incoraggio  il 
meglio  che  posso,  li  esorto  ad  avere  confidenza;  se  vi  sara  una  via 
di  salvamento,  sapr6  trovarla.  Ci  trasciniamo  lentamente;  le  genti 
sono  rifmite  di  forze,  il  digiuno  prolungato  ha  rotto  il  vigore  delle 
membra,  e  scosse  le  fibre  deiranimo. 

—  L'anima  umana  non  muore,  se  non  col  permesso  di  Dio  — 
dico  al  musulmano  Hurscid,  che  piu  di  tutti  e  agitato  da  dolorosa 
sfiducia.  Egli  mestamente  sorride,  crollando  il  capo;  il  suo  volto 
i.  Macama:  vedi  la  nota  i  a  p.  864.     2.  matungoli:  vedi  p.  858. 


DIECI   ANNI    IN   EQUATORIA  88l 

e  triste  e  inaridito,  come  la  brulla  natura  che  ci  circonda.  Poche 
bacche  selvatiche  di  un  arboscello  spinoso,  secche  e  rossiccie,  disse- 
minano  la  piccola  carovana;  ma  Paviditk  e  presto  interrotta.  II 
bruciore  che  producono  alia  lingua  ed  al  palato  aumenta  le  nostre 
sofferenze. 

Gli  uomini  armati  che  ci  accompagnano  ci  invitano  a  sollecitare 
la  marcia;  li  prego  ad  avere  pieta;  man  mano  che  inoltriamo,  Pul- 
timo  raggio  di  speranza  si  dilegua;  fra  un  paio  d'ore  saremo  in  po- 
tere  di  Roc6ra,  la  meta  del  nostro  pellegrinaggio  al  martirio. 

Saliamo  in  silenzio  1'ultimo  colle  che  ci  separa  dal  Nilo,  e  ad  un 
tratto  vediamo  gremirsi  il  ciglio  di  armati.  Prego  il  giovine  inter- 
prete  a  precederci,  e  dire  a  quella  turba,  che  noi  non  opponiamo 
difficolta,  che  siamo  rassegnati  a  scendere  al  fiume,  che  abbiano 
per  noi  almeno  la  compassione  di  non  aumentare  la  trepidazione,  gia 
forte,  negli  animi  nostri. 

Egli  promette,  e  parte.  Un  vivo  disputare,  voci  alte  e  tonanti, 
gesta  minacciose,  un  andirivieni  di  armati,  e  uomini  accorrenti  da 
ogni  sentiero,  sbucanti  dalle  erbe,  e  dietro  i  cespugli;  e  poco  dopo 
un  disperdersi  pronto,  improvviso,  una  fuga  generale. 

Che  e  awenuto?  II  giovine  interprete  ritorna  a  noi  trepidante 
per  gioia.  —  II  vapore,  il  vapore!  —  grida  scendendo  dal  colle,  e  indi- 
rizzandosi  a  noi ;  e  ci  spiega  come  siasi  diffusa  la  novella  che  il  pi- 
roscafo  del  Governo  sia  comparso  sulle  acque  del  lago,  e  che  in- 
drizzi  le  sue  prore  a  noi.  Le  guide  che  sono  con  noi,  senz'altro  si 
danno  a  fuggire,  il  bravo  interprete  ci  addita  la  via  pel  lago,  e  ci 
lascia. 

Gli  ultimi  raggi  del  sole  che  precipita  ci  invitano  a  sollecitare  la 
marcia.  Spossatezza,  fame,  sete,  tacciono  come  per  incanto.  Mano, 
mano  che  scendiamo,  tutto  all'intorno  si  scorge  un  affaccendarsi 
insolito  degli  abitanti,  portanti  masserizie,  prowiste  di  cibarie,  cac- 
cianti  innanzi  loro  mandrie  di  capre.  Essi  non  si  curano  di  noi,  la 
loro  ferocia  del  mattino  si  e  ecclissata;  interroghiamo  taluni  di  essi, 
e  per  tutta  risposta,  affrettando  la  fuga,  angosciosamente  ci  gri- 
dano :  —  Vapore,  vapore!  — 

Che  il  piroscafo  sia  sul  lago,  che  la  salvezza  nostra  sia  proprio 
per  compiersi? 

Spingiamo  lo  sguardo,  ma  il  buio  della  notte  si  stende  impene 
trable  intorno  a  noi.  Rinati  alia  vita  dopo  angoscie  prolungantesi 

56 


882  GAETANO    CASATI 

ad  agonia,  fatti  forti  dalla  speranza,  dimentichi  delle  passate  scia- 
gure,  scherzando  sulla  paura  che  ha  invaso  i  cuori  dei  baldanzosi 
nostri  persecutor! ,  giungiamo  verso  le  ore  undici  della  notte  alia 
riva  del  lago,  e  ci  sediamo  sulla  punta  sabbiosa  che  abbiamo  fissato 
a  luogo  di  ritrovo  con  Fadl. 

Dissetati  a  volonta  nelle  terse  onde  dal  fondo  arenoso,  confortati 
da  un  fuoco  crepitante,  procuratoci  dalle  case  abbandonate  del 
vicino  villaggio,  ci  addormentiamo  nel  tranquillo  silenzio  delle  te- 
nebre,  colla  certezza  di  un  domani  sorridente. 

Brillano  tuttora  le  stelle  in  cielo,  e  gia  I'impazienza  ci  fa  trovare 
ritti  alia  spiaggia  del  lago,  gli  sguardi  intenti  al  lontano  orizzonte 
occidental  in  cerca  di  un  punto  nero ;  il  sole  sorge  in  tutto  il  suo 
splendore  dietro  noi;  poche  barche  di  paurosi,  fuggenti  alle  isole, 
guizzano  dalle  nascoste  insenature  della  spiaggia.  II  lungo  attendere 
ci  riduce  a  silenzio,  ci  ritorna  a  tristi  pensieri,  il  digiuno  domina  il 
sentimento.  Faccio  raccogliere  erbe  acquatiche,  che  i  neri  usano 
nei  giorni  di  fame ;  si  mettono  a  fuoco  in  un  ampio  vaso  tolto  dalle 
case  del  villaggio. 

—  Se  a  mezzogiorno  il  piroscafo  non  sara  giunto,  noi  costruiremo 
un'ampia  zattera  di  ambasc,  e  ci  affideremo  alle  onde;  Poperazione 
sara  facile,  giacche  gli  indigeni  spaventati  e  fuggiaschi  non  ci  distur- 
beranno. 

Verso  le  ore  nove  un  grido  interrompe  la  folia  dei  pensieri  che 
arrovellano  la  mia  mente;  si  e  vista  una  linea  di  fumo  alljorizzonte; 
si  scorge  la  ciminiera  del  piroscafo ;  si  avanza,  si  presenta  in  tutta 
la  sua  pienezza,  si  dirige  al  segnale  che  noi  abbiamo  innalzato,  il 
fazzoletto  a  colori  bianco  e  rosso  del  povero  Hurscid,  fissato  ad  una 
lunga  asta.  Lo  sguardo  di  tutti  e  fisso,  penetrante;  il  vapore  si  ar- 
resta,  e  incerto  sul  cammino,  si  impicciolisce  nelle  forme,  si  allon- 
tana  sempre  phi,  scompare  alia  vista.  Un  grido  angoscioso,  di  di- 
sperazione,  schianta  dai  petti  de5  miei  infelici  compagni;  invano 

10  tento  persuaderli  che  il  piroscafo  va  scandagliando  per  una 
rotta  sufficiente  in  profondita;  il  magro  pasto  e  interrotto,  e  cupi, 
e  mutoli,  accovacciati,  il  capo  inclinato  sulle  ginocchia,  strette 
dalle  mani  ricongiunte,  i  miseri  offrono  miserando  spettacolo  alia 
vista. 

Mi  allontano  da  loro,  facendo  voti  che  tale  stato  di  sofferenza 

11  sollecito  ricomparire  del  piroscafo  abbia  a  rendere  di  breve  du- 


DIECI   ANNI    IN   EQUATORIA  883 

rata.  Un'ora  dopo,  il  Kedive1  ricompare.  Precede  con  sicurezza,  e 
con  buona  velocita.  Lo  salutiamo  coll'agitare  del  nostro  stendardo ; 
esso  ci  risponde  col  fischio  di  saluto,  e  noi  replichiamo  con  gride 
clamorose. 

Da  fondo  a  breve  distanza;  una  barca  ci  conduce  a  bordo.  Emin 
Fascia,  e  molti  degli  uffiziali  e  degli  impiegati  erano  venuti  a  rac- 
coglierci  piii  per  pietoso  ufficio,  che  per  certezza  di  riuscita.  La  gioia 
della  insperata  salvezza  ammutoliva  tutti  quasi  a  senso  sconosciuto ; 
e  la  paura,  a  gradi,  andava  trasformandosi  ritrosa,  e  dubbiosa,  come 
in  gente  .  .  . 

.  .  .  che  con  lena  affannata 

uscita  fuor  dal  pelago  alia  riva, 

si  volge  aWacqua  perigliosa,  e  guata.2 


i.  Kedive:  e  il  nome  del  piroscafo.  II  generale  Gordon  fin  dal  1875  aveva 
disposto  che  fossero  trasportati  a  Dufile  i  vapori  Kedive  e  Nyanza.  Con  enor- 
mi  difficolt£  i  due  piroscafi,  scomposti,  trainati  a  forza  di  braccia  per  buona 
parte  della  strada,  collocati  su  barconi  dove  il  Nilo  permetteva  la  naviga- 
zione,  ricostruiti  infine  dopo  la  cascata  di  Fola,  giunsero  al  lago  Alberto. 
Cosi,  nel  1876,  il  colonnello  Mason  aveva  potuto  compiere  sul  Nyanza  la 
circumnavigazione  del  lago.  2.  Dante,  Inf.,  I,  19-21. 


LEOPOLDO  BARBONI 


PROFILO  BIOGRAFICO 

LEOPOLDO  BARBONI  nacque  a  San  Frediano  a  Settimo  (Pisa)  il 
5  febbraio  1848.  La  sua  attivita  fu  quella  di  un  insegnante:  dopo 
aver  tenuto  cattedra  di  lettere  in  varie  citta  della  Toscana,  di- 
venne  preside  e  infine  proweditore. 

Fu  la  sua  stessa  professione  a  condurlo  a  Trapani,  dove  poi,  or- 
mai  pensionato,  chiuse  la  sua  vita  nel  1921,  in  una  villetta  non 
lontana  da  quei  luoghi  che  gli  sembrava  risonassero  ancora  delle 
gesta  garibaldine.  Ma,  in  realta,  quando  si  ripensi  a  lui  attraverso 
i  suoi  scritti,  non  lo  si  concepisce  se  non  sullo  sfondo  della  Toscana 
nella  seconda  meta  delPOttocento,  soprattutto  in  quell'ambiente  e 
tra  quegli  scrittori  e  letterati  che  segnarono  in  Firenze  lo  spegnersi 
delFultimo  sprazzo  di  predominio  culturale  toscano  venuto  a  coin- 
cidere  con  la  conclusione  del  Risorgimento.  £  vero  che  gli  furono 
cari  anche  il  De  Amicis  e  il  Carducci,  entrambi,  in  diverso  modo, 
staccati  da'i  confini  della  cultura  e  della  tradizione  toscana:  ma, 
in  realta,  si  sentl  legato  a  loro  piu  da  un  moto  affettivo  del  suo 
animo  facile  alia  simpatia,  che  da  un'affinita  ideale  o  da  vera 
comprensione.  Dell'uno  non  intese  se  non  le  prime  espressioni,  e 
rest6  sordo  ai  successivi  interessi  sociali,  ch6  rimase  conservatore 
ed  ebbe  a  noia  il  profanum  vulgu$\  dell'altro  gli  piacquero  soprat 
tutto  le  rivendicazioni  patriottiche  e  anche  la  rinomanza  cui  era 
salito.  I  suoi  veri  legami  furono  col  Guerrazzi,  di  cui  si  fece  un 
mito,  ma  sentendone  soprattutto  Fimpetuosita  verbale:  ch6,  se  il 
Barboni  fosse  stato  anch'egli  sulla  scena  fiorentina  nell'aprile  del 
'49,  probabilmente  avrebbe  inveito,  sotto  il  palazzo  della  Si- 
gnoria,  contro  il  « dittatore ».  E  piu  ancora,  senza  che  ne  avesse 
piena  coscienza,  era  vicino  ai  dotti  minori  del  tempo,  F  abate 
Manuzzi,  il  conte  Passerini,  Augusto  Conti,  Marco  Tabarrini,  il 
vecchio  Centofanti  a  Pisa  e  lo  stesso  Pietro  Fanfani,  che  pure 
dileggia  nei  suoi  scritti.  Nonostante  quell' apparenza  di  scapi- 
gliatura  cui  sembra  essersi  abbandonato,  e  di  cui  segna  il  ricordo 
nelle  pagine  sullo  scapigliatissimo  Ettore  Strazza  e  negli  accenni 
a  Emilio  Praga  e  a  Iginio  Ugo  Tarchetti,  il  Barboni  rimase  intima- 
mente  ancorato  alle  tradizioni,  letterarie  e  di  costume,  della  vecchia 
Toscana  f ra  granducale  e  risorgimentale :  gli  piacquero  le  arguzie 
e  le  burle,  le  allegre  risate,  il  quieto  vivere  e  lo  svagato  conversare, 


888  LEOPOLDO   BARBONI 

I'aneddoto  piccante  e  le  memorie  locali,  le  figure  di  Niccol6  Puc 
cini,  estroso  signore  del  Villone,  e  del  magnifico  canonico  di  Pra- 
to,  Francesco  Pacchiani.  Brillava  di  entusiasmo  per  un  sonetto 
salace,  dalla  chiusa  indovinata,  scritto  li  per  li  sul  tavolo  di  un 
caffe  e  si  doleva  non  lo  si  potesse  tramandare  ai  posteri  perche 
osceno;  si  rigirava  tra  le  labbra,  godendone,  le  voci  piii  decisa- 
mente  locali,  le  andava  anzi  a  cercare,  non  gia  per  una  meditata 
adesione  alle  dottrine  del  Manzoni,  ma  per  quel  gusto  un  po'  cam- 
panilistico  che  si  sentiva  intorno ;  esaltava  con  sincerita,  ma  anche 
trasformandoli  in  tante  apoteosi  da  litografie,  le  glorie  e  gli  eroi  del 
Risorgimento,  i  sapientini  di  Curtatone  e  Giovanni  Nicotera,  Gari 
baldi  e  Vittorio  Emanuele.  II  suo  stesso  anticlericalismo  era  un 
moto  passionale  e  incontrollato,  senza  effettive  radici.  Delle  voci 
nuove  e  dei  piu  vasti  pensieri  e  degli  orizzonti  piu  ampi  che  sorge- 
vano  in  Firenze  e  in  tutta  P  Italia,  non  si  accorgeva:  i  tempi  lo  sor- 
passavano  ed  egli  restava  fermo  in  un  suo  mondo  concluso.  Anche 
per  questo  e  rimasta  tanto  scarsa  notizia  di  lui,  della  sua  vita,  e  tanta 
polvere  intorno  alle  sue  opere.  Pochissimi  si  accorsero  della  sua 
morte.  Era  uno  scrittore  minore,  come  scrisse  il  Pancrazi,  di  quelli 
che  «  anche  una  "persona  colta",  un  letterato  o  un  critico,  possono 
ignorare  o  dimenticare  senza  vergogna». 

Cominci6  la  sua  attivita  letteraria  con  un  romanzo,  Tecla  Gua- 
landi,  storia  del  secolo  XIII,  pubblicato  nel  1869:  un  romanzo  sto- 
rico,  quando  gia  quel  genere  di  composizioni  tramontava.  Lo 
mand6  al  Guerrazzi  e  ne  ebbe  delle  lodi :  ma  anche  il  Guerrazzi  lo 
ammoniva  che  quei  lavori  erano  divenuti  afrutti  fuor  di  stagione», 
e  si  occupasse  piuttosto  « degli  uomini  e  dei  tempi  presenti». 
Sembro,  per  un  istante,  dargli  ascolto,  che  1'anno  dopo  uscirono  i 
suoi  Pensieri  sulla  storia:  ma  poi  torn6  agli  antichi  amori  e  fu  un 
diluvio  di  romanzi  storici :  Bona  di  Savoia,  storia  del  secolo  XV,  nel 
1872;  La  confessione,  romanzo  storico  del  secolo  XVII,  nel  1873; 
Coscienza  di  re  [Luigi  XV],  storia  del  secolo  XVIII,  nel  1875;  H 
conte  Ugolino  della  Gherardesca,  romanzo  storico  del  secolo  XIII,  nel 
1891 :  e  non  li  abbiamo  ricordati  tutti.  Una  passione  inguaribile,  di 
cui  n<§  il  Manzoni  ne  il  Guerrazzi  hanno  colpa,  se  non  come  il  Pe- 
trarca  e  il  Carducci  dei  petrarchisti  e  dei  carducciani. 

Pure,  sotto  quella  tenace  costanza  stava  un  interesse  sincere :  il 
desiderio  di  conservare  e  ricordare  il  passato,  di  farlo  rivivere,  di 
mettervi  dentro  i  propri  sentimenti  e  le  proprie  idealita.  Un  lievito 


PROFILO    BIOGRAFICO  889 

insufficiente  per  ridestare  secoli  lontani,  quando  a  lui  mancavano 
vigore  fantastico  e  la  stessa  capacita  architettonica :  ma  che  divenne 
vivace  e  operante  appena  egli  si  rivolse  ai  propri  ricordi  e  li  Iasci6 
riapparire  in  costruzioni  di  non  grande  respiro,  un  po'  intrecciati 
fra  loro  come  se  venissero  fuori  da  una  di  quelle  conversazioni  fra 
amici  cui  doveva  essere  abituato.  Nacquero  cosi  i  suoi  libri  di 
memorie:  Sul  Vesuvio  (1892),  ascensione  tragicomica  al  cratere 
del  vulcano;  Fra  matti  e  savi  (1898);  Col  Carducci  in  Maremma 
(1906);  e,  migliore  d'ogni  altro,  Geni  e  capi  ameni  delVOttocento, 
pubblicato  nel  1911,  ma  gia  anticipato,  in  varie  sue  parti,  da  arti- 
coli  su  giornali. 

Quest'ultimo  e  il  solo  dei  suoi  libri  che  ottenne  convinti  elogi. 
Veramente,  il  Pancrazi  Iod6  anche  il  paesaggio  e  il  ritratto  da  lui 
disegnati,  nella  rievocazione  della  Maremma  carducciana  (G.  Car 
ducci  e  la  Maremmd),  e  piu  ancora  il  giro  trionfale  fatto  nelFottobre 
del  1885  col  poeta  fra  una  folia  festosa  di  autorita  e  contadini,  e  quel 
rapido  schizzo  della  supposta  «  bionda  Maria »  che  ne  e  il  culmine 
e  1'anima  (Col  Carducci  in  Maremma).  Ma  in  quegli  scritti  spunta 
troppo  spesso  il  sottinteso  elogio  di  Enotrio  romano,  «il  Giove 
olimpio)),  com* egli  diceva,  « della  nuova  letter atura »,  e  le  mac- 
chiette  fuciniane  si  mescolano  a  volte  con  una  volonta  di  apoteosi, 
come  il  linguaggio  festevolmente  popolaresco  con  le  intonazioni 
letterarie. 

Ma  di  Geni  e  capi  ameni  delVOttocento,  invece,  oltre  che  il  Pan 
crazi,  disse  bene  anche  Ugo  Ojetti,  mostrandone  la  briosita  sempre 
crescente:  e  finanche  il  «  Giornale  storico  della  letteratura  italiana », 
che  pure  con  un  certo  sussiego  e  severe  limitazioni  («scritto  da 
persona  che  e  poco  in  grado  di  formulare  giudizi  di  critica  lettera- 
ria»)  ne  riconobbe  la  « vivace  festevolezza  toscana  e  1'efficacia  e 
proprieta  di  lingua ». 

Certo,  al  Barboni  mancarono  le  qualita  del  vero  scrittore.  Se  per 
un  istante  lo  si  accosta  a  Ferdinando  Martini,  le  pagine  di  memorie 
dell'uno  a  quelle  dell'altro,  si  avverte  subito  il  diverso  respiro:  e 
pu6  venir  fatto  di  chiamare  «nenie»  quelle  del  Barboni,  come  le 
disse  il  Martini  in  un  momento  d'impazienza.  II  capitolo  sul  Guer- 
razzi,  ad  esempio,  e  tutto  un  frantumarsi  di  aneddoti,  con  troppo 
frequenti  deviazioni  e  ritorni:  la  sua  prosa  non  riesce  unitaria  di 
tono,  passa  dal  felice  fondo  fiorentino  e  simpaticamente  narrative 
a  impennate  enfatiche  e  letterarie,  a  spunti  epigrafici,  a  ventate 


890  LEOPOLDO    BARBONI 

polemiche,  con  una  ostentata  volonta  di  brio.  In  un'analisi  stilistica, 
questo  e  gli  altri  capitoli  del  libro  mostrerebbero  Pincontro,  e  non 
gia  la  fusione,  di  elementi  guerrazziani,  carducciani  e  finanche 
deamicisiani  entro  un  prevalente  tessuto  di  lingua  parlata:  e  an- 
che  questo  fiorentinismo  apparirebbe  a  volte  insistentemente  cer- 
cato.  Difetti,  certo:  e  ancor  piu  evidenti,  ad  esempio,  nelle  pagine 
su  Giovanni  Nicotera.  Tanto  che  vien  fatto  di  dubitare  di  quanto 
scrisse  il  Pancrazi  a  proposito  del  capitolo  sul  Guerrazzi,  che  gli 
sembro  disegnare  un  ritratto  certamente  affettuoso,  ma  anche  «di- 
vertentissimo,  dove  son  misti  e  temperati  tra  loro,  e  il  suo  [del 
Barboni]  entusiasmo  di  ragazzo,  e  le  sue  riserve,  i  suoi  dubbi  di 
uomo»:  dubitare,  intendo  dire,  che  il  Barboni  avesse  pienamente 
coscienza  di  questa  diseroizzazione  del  suo  idolo,  o  non  sia  essa, 
piuttosto,  una  conclusione  del  lettore. 

Ma,  detto  tutto  ci6,  ritengo  indiscutibile  che  questo  libro  me- 
riti  di  non  essere  dimenticato.  II  godimento  che  prova  il  Barboni 
nel  ricordare  e  cosi  vivo,  e  sinceramente  vivo,  che  non  pu6  non 
comunicarsi  al  lettore.  Dalle  sue  pagine,  con  quei  ritratti  agilmente 
sbozzati,  del  Guerrazzi,  del  contadinello  che  introduce  il  visitatore 
alia  Cinquantina,  del  popolano  Giuseppe  Pasquali,  di  Ettore  Straz- 
za,  del  «  f anfano  »  Pietro  Fanfani,  dello  Strazzera,  per  citare  dai  ca 
pitoli  che  abbiamo  riprodotti,  del  Cento fanti,  del  Rosini,  del  ser- 
gente  Masi,  del  Byron,  di  Niccolo  Puccini  al  Villone,  del  canonico 
Pacchiani,  per  alludere  agli  altri ;  dalle  sue  pagine  vien  fuori,  co- 
lorita  e  sicura  nelle  linee,  I'atmosfera  del  tempo,  con  i  suoi  entu- 
siasmi  e  le  sue  miseriuole,  la  sua  intelligenza  e  le  sue  incredibili 
sordita.  Veramente  il  Barboni  ha  raggiunto  in  questo  libro,  pur 
entro  i  suoi  limiti,  ci6  che  desiderava:  far  rivivere  un  periodo  e  gli 
uomini  insieme  con  esso  scomparsi. 


Delle  opere  di  LEOPOLDO  BARBONI  ricordiamo  anzitutto  i  romanzi:  Tecla 
Gualandi,  storia  del  secolo  XIII,  Pisa,  Vannucchi,  1 869 ;  Bona  di  Savoia, 
storia  del  secolo  XV,  Firenze,  Galletti  e  Cocci,  1872;  La  confessione, 
romanzo  storico  del  secolo  XVII,  Milano,  Battezzati,  1873  e,  in  n  ed.,  ibid., 
1874;  Coscienza  di  re,  storia  del  secolo  XVIII,  Napoli,  Nobili,  1875;  Mar- 
tirio  di  una  donna,  Firenze,  Tip.  della  «  Gazzetta  d' Italia  »,  1876;  La  cogna- 
ta  di  papa  Innocenzo  X,  Livorno,  Grazzini,  1886;  //  Conte  Ugolino  della 
Gherardesca,  romanzo  storico  del  secolo  XIII,  Roma,  Perino,  1891;  Prima 
del  femminismo,  romanzo  storico,  Livorno,  Giusti,  1913.  Al  saggio  Pensieri 
sulla  storia,  Pisa,  Valenti,  1871,  che  abbiamo  ricordato,  si  pu6  aggiun- 


PROFILO   BIOGRAFICO  091 

gere  Spagnolismo  femminino  in  Italia,  Livorno,  Meucci,  1888:  entrambi  di 
scarso  interesse. 

Per  i  suoi  scritti  di  narrazioni,  ricordi  e  memorie,  si  vedano:  Fra  le 
fiamme  del  Vesuvio  (racconti),  Geneva,  Sambolino,  1882;  G.  Carducci  e  la 
Maremma,  Livorno,  Giusti,  1885;  Sul  Vesuvio,  Livorno,  Giusti,  1892; 
Fra  matti  e  savi,  Livorno,  Giusti,  1898;  Col  Carducci  in  Maremma,  n  ed., 
Firenze,  Bemporad,  1906;  Geni  e  capi  ameni  deW  Ottocento.  Ricerche  e 
ricordi  intimi,  Firenze,  Bemporad,  1911.  Numerosi  sono  i  suoi  libri  per 
ragazzi  e  le  antologie,  tra  cui  citiamo:  Antologia  ricreativa  delta  prosa  e 
della  poesia  italiana,  ad  uso  delle  scuole,  Livorno,  Giusti,  1898,  e  poi,  via 
via,  in  vn  ed.,  ibid.,  1920;  Patria:  viaggio  in  automobile  traverso  ly  Italia, 
Firenze,  Bemporad,  1906;  Mucillaggine  in  Sicilia:  viaggio  in  automobile 
traverso  V Italia,  ibid.,  1908;  A  frullo  per  Valta  Italia,  ibid.,  1909;  Pagine 
divertenti,  bozzetti  e  novelle,  raccolti  da  LEOPOLDO  BARBONI,  Bologna, 
Zanichelli,  1911;  *  Patria  y>  in  Libia:  racconti  per  la  gioventu,  Firenze, 
Bemporad,  1914.  Si  tenga  presente  che  alcuni  dei  suoi  scritti  apparvero, 
in  primo  abbozzo,  in  giornali  e  furono  poi  rielaborati  e  raccolti  in  volume. 

Pochissime  le  notizie  su  lui:  solo  qualche  cenno  nell' Ottocento  di  G.  MAZ- 
ZONI,  brevi  notizie  in  A.  DE  GUBERNATIS,  Dictionnaire  international  des  ecri- 
vains  du  monde  latin,  Rome-Florence  1905-1906,  un  breve  cenno  in  L. 
Russo,  Inarratori,  Milano-Messina,  Principato,  1951,  p.  76,  e  in  B.  CRO- 
CE,  La  letteratura  della  nuova  Italia,  VI,  Bari,  Laterza,  i9452>  P-  35-  Pagine 
scelte  di  lui,  con  breve  introduzione,  diede  P.  PANCRAZI  ne  I  Toscani  del- 
r Ottocento,  Firenze,  Bemporad,  1924,  e  in  Racconti  e  novelle  delV Ottocen 
to,  Firenze,  Sansoni,  19433,  i,  pp.  615  sgg.  I  due  saggi  piu  impegnativi  sul 
Barboni  si  debbono  a  U.  OJETTI,  Scrittori  che  si  confessano,  Milano,  Tre- 
ves,  1925,  che  prende  occasione  dalla  citata  raccolta  dei  Toscani  dell' Otto 
cento,  e  a  P.  PANCRAZI,  in  Ragguagli  di  Parnaso,  nuova  ed.,  Bari,  Laterza, 
I94I,  PP-  *5-20>  ein  Scrittori  d'oggi,  serie  prima,  Bari,  Laterza,  1946,  pp. 
241-6.  II  cenno  bibliografico  anonimo  (ma  di  Rodolfo  Renier)  che  abbiamo 
citato,  si  trova  nel  «Giornale  storico  della  letteratura  italiana »,  Lix  (1912), 
pp.  459-60. 


DA  (cGENI  E  CAPI  AMENI  DELL'  OTTOCENTO» 
RICERCHE  E  RICORDI  INTIMI 

IN  VILLA  DA  F.  D.  GUERRAZZI1 

La  prima  volta  che  lessi  la  Battaglia  di  Benevento2  avevo  quattor- 
dici  anni.3  La  leggevo  la  sera,  a  voce  alta,  appassionata  o  fiera,  a 
seconda  dei  tratti,  seduto  accanto  a  una  bella  biondina  che  ne  aveva 
qulndici;  una  romantica  sfegatata  che  non  faceva  se  non  sognare 
a  occhi  aperti  usignoli,  chiari  di  luna,  zeffiri,  grilli  mori,  e  una  bar- 
chettina  in  Arno  trasportata  placidamente  dallo  scorrer  dell'acqua, 
senza  bisogno  di  remi.  Melensaggini  isteriche! 

Fu  in  questo  mo  do  che  il  Guerrazzi  mi  si  ficc6  di  furia  nella 
mente  e  nel  cuore.  Jole,  Ruggiero,  Ghino  di  Tacco ;  tre  figure  che  mi 
perseguitavano  ovunque  con  sospiri  e  gemiti  e  grida  furenti  che 
non  mi  davano  pace  ne  giorno  n6  notte.  Dopo  la  Battaglia,  divorai 
tutto  cio  ch'era  uscito  dalla  vena  di  quel  potentissimo  ingegno,  e 
n'ero  siffattamente  invasato  (il  vocabolario  non  mi  da  altra  parola 
per  render  meglio  1'idea)  che  non  battevo  ciglio  senza  aver  meco 
VAssedio  di  Firenze,  Veronica  Cybo,  la  Vita  del  Ferrucci,  V Isabella 
Orsini,  Pasquale  Paoli4  od  altro. 

A  me  giovinetto,  che  di  codesti  tempi  mandavano  ancora  in 
delirio  le  non  remote  dimostrazioni  pei  fasti  di  Palestro  e  di  San 
Martino5  e  pei  prodigi  di  Garibaldi,  e  rombavano  negli  orecchi  e 
nelPanimo  le  note  delFinno  fatidico  scritto  e  composto  allora,6  e 
commoveva  il  ricordo  della  vista  di  re  Vittorio  presentatosi  la 
prima  volta  al  popolo  pisano  dal  balcone  del  palazzo  reale,  vestito 
da  cacciatore,  in  mezzo  a  due  cani  poderosi:  e  avevo  ancora  nel 
timpano  il  frizzio  per  1'urlo  di  gioia  che  lo  accolse;  a  me,  dicevo, 
quelle  pagine  roventi  e  scultorie  del  gran  livornese,  quel  magnilo- 

i.  Ed.  cit,  cap.  in,  pp.  63-88.  2.  Battaglia  di  Benevento:  e  il  primo  ro- 
manzo  storico  del  Guerrazzi,  e  fu  pubblicato  nel  1828.  3.  quattordici 
anni'.  era,  dunque,  1'anno  1862,  esscndo  nato  il  Barboni  nel  1848.  4.  As- 
sedio  di  Firenze  .  .  .  Pasquale  Paoli:  le  prime  due  opere  citate,  apparse, 
rispettivamente,  nel  1836  e  nel  1839,  e  cosl  pure  la  quarta,  pubblicata  nel 
1844,  sono  romanzi,  allora  assai  famosi,  del  Guerrazzi.  La  Vita  del  Fer- 
rucci,  edita  nel  1863,  e  una  biografia  patriottica,  con  finalita  risorgimentali ; 
il  Pasquale  Paoli,  storia  romanzata,  apparve  nel  1860.  5.  Palestro  .  .  . 
San  Martino:  due  vittoriose  battaglie  della  guerra  del  1859.  6.  inno  .  .  . 
allora:  1'inno  di  Garibaldi,  scritto  da  Luigi  Mercantini  (1821-1872),  fu 
musicato  da  Alessio  Olivieri  (1830-1867)  nel  1858. 


894  LEOPOLDO   BARBONI 

quio  «d'uomo  che  tenta  rompere  il  sonno  ai  giacenti»,  come  osser- 
v6  Giuseppe  Mazzini,1 «  quegli  atteggiamenti  gladiatorii  dello  stile  », 
come  scrisse  il  Carducci,2  facevano  Teifetto  d'un  vulcano  in  piena 
conflagrazione  udito  nei  suoi  rugghii  e  mirato  nei  suoi  acciecanti 
bagliori  nei  cuor  della  notte. 

Del  resto  io  non  avevo  ancor  visto  nemmeno  un  ritratto  di  lui, 
e  mi  sentivo  divorare  dalla  smania  di  conoscere  com'era  fatto  quel 
gran  mago,  che  con  le  sue  sfuriate,  i  suoi  periodi  superbi,  le  sue 
immagini  sfolgoranti  non  mi  dava  piu  pace. 

II  1 6  ottobre  del  '69  ricevevo  a  Pisa  una  lettera  proveniente  da 
Firenze.  Sapeva  di  muschio  sopraffino  lontano  un  miglio,  e  sul 
dietro  della  busta  c'erano  tre  iniziali  intrecciantisi :  F.  D.  G. 

Ah,  Dio  dallo  stellato  soglio!  Era  lui,  era  proprio  lui,  il  gran 
mago,  il  consolatore,  il  martirizzatore,  il  despota  deiranima  mia; 
il  mio  inferno,  il  mio  purgatorio,  il  mio  paradiso,  tutt'insieme!  Mi 
ero  fatto  ardito  inviargli  un  mio  libro,  e  li,  dentro  a  quella  busta, 
c'era  il  responso.  Quel  libro  era  il  mio  primissimo  peccato3  (non  ave 
vo  mai  dato  nulla  ai  torchii,  n6  meno  il  mio  viglietto  di  visita),  anzi 
un  peccataccio  lungo  la  bellezza  di  576  pagine,  formato  reale,  un 
romanzo  storico  del  secolo  decimoterzo,  pieno  via  via  di  furori  e 
con  certe  digressioni  biliose  sui  tempi  nostri  da  formare  uno  stri- 
dente  contrasto,  come  lo  formerebbe  un  guerriero  del  medio  evo  con 
giustacore  e  scudo  e  spadone  e,  Dio  ci  liberi  e  scampi,  la  zazzera  ri- 
cinta  da  quel  tegamino  che  ficc6  in  capo  ai  nostri  soldati  di  fanteria 
sua  eccellenza  il  ministro  per  la  guerra,  Cesare  Ricotti,4  il  1871. 
TaPe  quale.  Sbuzzai  la  busta  col  tremito  nelle  mani;  mi  ballavano 
gli  occhi,  e  mi  sentivo  come  un  formicolio  nei  midollo  degli  stinchi. 
Se  ne  dicesse  corna  ?  se  mi  mandasse  a  tutti  i  diavoli  con  qualche 

i.  Scritti  (edizione  nazionale),  I,  p.  77.  2.  «  Francesco  Domenico  Guer- 
razzi,  che  nella  selvaggia  esuberanza  delle  sue  forze  e  degli  atteggiamenti 
gladiatorii  dello  stile  e  nei  vulcanici  sfoghi  della  passione  tutti  raccolse 
gl'istinti  d'odio  e  le  smanie  di  battaglia  d'un  popolo  oppresso  »  (nei  discorso 
inaugurale  Del  rinnovamento  letterario  in  Italia,  novembre  1874,  ora  in 
Opere,  edizione  nazionale,  vn,  pp.  392-3).  3.  il  mio  .  .  .peccato:  il  primo 
romanzo  del  Barboni,  intitolato  Tecla  Gualandi,  storia  del  secolo  XIII, 
fu  pubblicato  nei  1869.  4-  Cesare  Magnani  Ricotti  (1822-1917),  generate, 
deputato,  senatore,  fu  ministro  della  guerra  dal  1870  al  1876  e  di  nuovo 
nei  1885.  La  sua  riforma  dell'esercito,  nota  col  nome  di  «  Ordinamento 
Ricotti»,  awenne  nei  1873,  ma  i  mutamenti  delle  divise  militari  gia  figura- 
vano  nei  periodico  «L'esercito»,  in  data  21  gennaio  1871. 


GENI   E   CAPI   AMENI   DELL'OTTOCENTO  895 

frase  delle  sue  da  levare  il  fiato  per  quarantott'ore  ?  Su,  via  .  .  .  chi 
ha  paura  d'infarinarsi  non  vada  al  mulino!  E  spiegai  la  lettera. 

La  quale  diceva,  e  dice,  cosi :  «  Ricevo  in  questo  momento  il  suo 
volume,  di  cui  Le  avverto  la  recezione,  ringraziandola  del  dono. 
Mi  perdoni  se  non  lo  potr6  leggere  cosi  presto  come  desidererei, 
dacche  mi  trovo  travolto  in  una  lite  snaturata  che  un  Sanna,1  be- 
stia  feroce  sarda,  muove  contro  il  proprio  sangue,  ed  a  me  corre 
obbligo  di  salvarlo  dai  suoi  furori.  Suo  aff.mo  F.  D.  Guerrazzi». 
Ah  santa  lettera,  quante  volte  ti  baciai,  e  come  t'incorniciai!  Non 
tennero  tanto  sacra  i  boemi  la  pelle  di  Giovanni  Ziska,2  ne  il 
Douglas  il  cuore  del  morto  Bruce,3  quant'io  quella  lettera  del  gran- 
dissimo  scrittore. 

II  response  non  era  dunque  ancora  venuto,  ed  io  stava  sulle 
spine,  e  qualche  volta  anche  pensava :  «  Se,  colla  testa  sottosopra 
per  la  bestia  feroce  sarda  con  cui  e  alle  prese,  sfogliasse  il  mio 
libro  in  un  brutto  quarto  d'ora  di  mal  di  fegato,  e  mettesse  me 
pure  fra  le  bestie  feroci,  o  semplicemente  bestie,  e,  lui  ferocissimo, 
mi  saltasse  addosso  e  mi  sbranasse?» 

Come  Iddio  voile,  di  li  a  non  molto  un'altra  lettera  muschiata  e 
antidemocratica  perfino  nella  calligrafia  (il  Guerrazzzi  aveva  un 
caratterino  elegantissimo,  e  tale  da  meravigliare  in  un  uomo  che 
tanto  e  poi  tanto  scrisse)  mi  giungeva  da  Livorno.  Cominciava  con 
un  «  Mio  caro  giovane  »,  che  mi  scese  diritto  diritto  al  cuore  come 
una  voce  paterna ;  conteneva  espressioni  onestamente  franche  e  in- 
sieme  benevole,  e  concludeva: « Su,  da  bravo;  i  romanzi  storici  di- 
vennero  frutti  fuor  di  stagione ;  si  occupi  degli  uomini  e  dei  tempi 
presenti.  Stia  sano,  ed  abbia  grato.l'amore  col  quale  io  La  prosegui- 
r6  sempre  nei  suoi  studiw.  E,  al  solito,  un  « affezionatissimo  »  che 
valeva  un  tesoro;  e  questa  volta  senza  ne"  meno  Fabbreviatura. 

Ero  fuor  di  me.  Ma  a  farmi  un  tiro  anche  piu  scellerato,  «La 


i .  un  Sanna :  il  nipote  del  Guerrazzi,  Francesco  Michele,  aveva  sposato  una 
Amelia  Sanna.  2.  Giovanni  Ziska  (1360-1424)  fu  a  capo  degli  Ussiti. 
Per  vendicare  Huss  (vedi  la  nota  i  a  p.  624),  sollev6  i  Boemi  contro  Timpe- 
ratore  Sigismondo  e,  sconfittolo,  si  fece  riconoscere  re  di  Boemia.  3.  Dou 
glas  .  .  .  Bruce:  si  allude  al  romanzo  storico  Castle  Rackrent  (1800)  di 
Walter  Scott,  in  cui  lo  scozzese  James  Douglas,  postosi  al  servizio  di 
Robert  Bruce,  Hber6  con  lui  la  Scozia  dagli  Inglesi,  onde  Robert  divenne 
re  di  Scozia  (1314).  Morto  Robert,  il  Douglas  ne  raccolse  in  un'urna  il 
cuore,  che  avrebbe  dovuto  portare  a  Gerusalemme:  e  aveva  con  s6  Furna 
quando  cadde  (1330)  combattendo  in  Andalusia  contro  i  Mori. 


896  LEOPOLDO   BARBONI 

Nazione»,  autorevole  e  grave  giornale  fiorentino,  fondato  sulPalba 
del  nostro  risorgimento  politico  dal  ferreo  barone  Bettino  Ricasoli,1 
mi  faceva,  nel  suo  numero  del  25  gennaio  1870,  impallidire  di  sug- 
gezione  scrivendo  di  quel  mio  primo  peccataccio:  «£  un  lavoro 
storico  e  classico,  genere  che,  a  mente  nostra,  ha  fatto  il  suo  tempo 
in  Italia  dopo  il  Guerrazzi,  e  anco  con  lui .  .  .  Se  Pautore  non  su- 
pera  il  suo  quarto  lustro  »  (avevo  messo  le  mani  avanti,  riportando 
nel  frontespizio  la  sentenza  di  Focione:2  «  All5 eta  di  vent'anni  si 
possono  senza  vergogna  ignorare  di  molte  cose»),  «la  sua  modestia 
ci  permetta  dirgli  che  vi  sono  pochi  che  in  tanta  gioventu  sappiano 
cio  che  egli  mostra  di  sapere,  e  come  egli  scrive  scrivano».  E  piu 
sotto  una  vampata  laudativa  cosi  maiuscola,  che  quando  ci  penso  mi 
vengono  i  brividi.  Diceva :  « NelPinsieme,  Popera  del  signor  ecc. 
ecc.  farebbe  onore  ad  uomo  gia  provato  nella  dura  palestra  delle 
lettere;  ad  un  giovane  basta  a  segnarli  la  meta  piu  alta  che  possa 
desiderarsi ». 

Grazie  dal  cuore  di  tanta  cortesia.  Del  resto,  a  differenza  di  certi 
giovincelli  d'oggi,  scribacchiatorelli,  molto  citrullini  e  fetenti  di 
pappa  infortita,3  non  me  ne  gonfiai.  Ma  che!  quel  presentarmi  al 
pubblico  con  quella  po'  po'  di  smanacciata4  mi  condann6  a  secon- 
dare  piu  che  mai  Pindole  mia  di  selvatico,  e  mi  tappai  in  casa  a 
doppia  mandata  di  chiavistello.  Certo,  il  benevolo  autore  di  quella 
lode  sara  stato  mosso  dal  sentimento  delPincoraggiare.  Grazie  an- 
cora  una  volta. 

E  ritorno  al  gran  mago. 

Dopo  le  prime  due,  continu6  una  discreta  processione  di  lettere. 
Passarono  mesi  e  mesi ;  io  aveva  dato  a  luce  altre  panzanelle  piu  o 
meno  indigeste,  egli,  bonta  sua,  si  era  piaciuto  accoglierle  con  buon 
viso,  e  la  brama  di  conoscerlo  si  faceva  in  me  sempre  piu  irresisti- 
bile.  Ma  invece  d'andare  io  a  lui,  egli  venne  a  me:  in  effigie,  s'in- 
tende.  Una  busta  soavemente  profumata,  immacolata,  non  sgual- 
cita  agli  angoli,  quasi  la  posta  avesse  indovinato,  mi  portava  la 
fotografia  del  grand'uomo,  e  dietro  al  cartoncino  era,  ed  e,  scritto : 

i.  «jL<2  Nazione*:  vedi  la  nota  2  a  p.  443;  Bettino  Ricasoli:  vedi  la  nota 
2  a  p.  429.  2.  Focione  (397  circa  -  318  a.  C.),  il  generate  e  uomo  politico 
ateniese,  di  parte  oligarchica,  che  favori  il  predominio  macedone.  Per 
un  elogio  guerrazziano  di  Focione,  cfr.  Lettere  (1827-1853),  a  cura  di 
F.  Martini,  i,  Torino,  Roux,  1891,  p.  465.  3.  infortita:  inacidita.  4.  sma 
nacciata:  battuta  di  mani,  applauso. 


GENI    E    CAPI   AMENI    DELL'OTTOCENTO  897 

« II  sole  mi  ha  adulato.1  Grazie  di  tanto  affetto,  che  io  procurer6  ri- 
cambiarle.  Mi  sento  meglio.  Livorno,  29,  x,  1872.  F.  D.  G. ».  E 
sotto  Fovale  del  ritratto,  la  firma  intiera.  Mi  era  morta  in  quei 
giorni  la  madre  adorata,  e  se  conforto  pu6  darsi  negli  accascianti 
dolori,  quel  ritratto  dell'uomo  venerato  mi  rasciugo,  in  parte,  le 
lacrime  e  mi  parve  una  voce  che  mi  gridasse :  « VaJ ! » 

Va' !  parola  breve,  come  breve  e  la  via  da  Pisa  a  Livorno :  venti 
minuti  di  treno.  Ma  quella  mia  irresolutezza,  e  potrei  anche  dire 
quel  mio  procrastinare,  nasceva  da  questo:  per  me  il  Guerrazzi 
non  doveva  essere,  propriamente,  Fuomo  che 

.  .  .  mangia  e  bee  e  dorme  e  veste  panni,2 

secondo  il  verso  di  Dante ;  ma  Puomo  di  Platone,  con  due  ale  alle 
tempie;  epper6  se  lo  avessi  trovato  in  pantofole,  o  in  preda  a  una 
colica,  o  a  tavola  e  in  lotta  con  un  piatto  di  triglie  alia  livornese,  mi 
avrebbe  spoetizzato.  Grullerie;  ma  tant'e!  Se  poi  la  mia  mala  Stella 
mi  avesse  spinto  a  salire  le  scale  di  lui  in  una  giornata  in  cui  egli  si 
fosse  contorto  per  le  punture  del  fegato,  che  non  gli  dava  requie 
quasi  mai,  allora  potevo  esser  certo  di  trovar  Tuscio  di  noce,  o,  se 
pur  fatto  passare,  di  ricevere  un'accoglienza  mancina. 

Ecco  un  fatterello  che  mette  a  nudo  1'umore  bisbetico  del  gran 
fegatoso.  Una  mattina,  alia  posta  di  Firenze,  ricevo  una  sua  lettera, 
profumata  e  col  monogramma,  come  sempre.  Era  urgente,  e  biso- 
gnava  risponder  subito.  Entrai  nello  scrittoio  pubblico  della  posta 
stessa,  e  risposi.  Non  essendovi  buste  quadre  e  bianche,  bisogn6 
ricorrere  a  una  busta  gialla  di  commercio ;  ma  il  foglio  era  gia  stato 
da  me  piegato  in  quattro,  sicche  bisogn6  lo  ripiegassi  bislungo  in 
tre,  e  lo  mettessi  alia  meglio  nella  busta  gialla,  modestissima.  Alia 
fin  fine  il  Guerrazzi  era  pasta  di  democratico,  e  me  la  sarei  passata 
liscia  .  .  . 

Ma  che!  Mai  marchiano  inganno  fu  piu  marchiano  del  mio!  La 
sera  dopo,  senza  che  necessita  vi  fosse,  una  nuova  lettera  in  posta. 
Questa  volta  non  c'era  muschio,  non  monogramma;  era  una  busta 
gialla,  di  commercio!  L'apro;  il  foglio  era  stato  prima  piegato  in 
quattro,  poi  in  tre!  ((To',))  pensai  «e  un  grand' uomo,  ma  &  anche 
un  gran  .  .  .  puntiglioso ! » 

Ma  il  ripicco  mi  garb6,  e  fu  come  la  spinta  perch6  io  andassi  de- 

i.ll  sole  mi  ha  adulato:  Fimpressione  deirimmagine  sulla  carta  avveniva 
per  effetto  dei  raggi  solari.  2.  Dante,  Inf.,  xxxm,  141. 

57 


898  LEOPOLDO    BARBONI 

cisamente  a  trovarlo.  Via  dunque  in  volta  per  Cecina,  dove  il  Guer- 
razzi  si  trovava  allora  alia  sua  villa  della  Cinquantina.  La  mattina 
era  splendida,  il  treno  volava,  e  il  mio  cervello  ammattiva  per  la 
romba  della  vaporiera  e  per  le  fantasime  guerrazziane  che  mi  ci 
scorrazzavano  per  lungo  e  per  largo.  Tutte  le  scappatacce  del  gran 
romanziere  mi  ci  ballavano  il  fandango,  la  monferina,  il  trescone, 
la  sarabanda  in  un  picchio.1 

£  noto  che  nel  '48,  a  Pisa,  dal  palazzo  pretorio,  arringava  un 
giorno  alia  folia.  La  sala  del  prefetto  e  il  lungo  terrazzo  erano  pieni 
stipati.  II  popolo,  giu  dal  Lungarno,  interrompeva  a  ogni  tratto 
Foratore .  che  veramente  trascinava.  Ma  Toratore,  costretto  spesso 
a  chetarsi  e  a  troncare  un  periodo  vivacemente  scultorio,  aveva  un 
diavolo  per  capello,  tantoche  finalmente  strizz6  i  denti  e  bronto!6: 
«Ti  potessi  mitragliare,  caro  il  mi'  popolo !»  Parole  testualissime 
che  mi  furono  riferite  da  un  testimone  oculare  e  auricolare.  Del 
resto,  uno  scatto  di  nervi;  niente  piii,  niente  meno. 

Ed  altre  scappatacce  potrei  ricordare,  talune  grosse  dawero,  se 
gia  non  le  avessi  ricordate  nel  glorioso  «  Fanfulla  della  Domenica » 
di  Ferdinando  Martini.3  La  qual  cosa  forse  non  avrei  fatto,  se  di 
quei  giorni  non  fossero  usciti  i  due  primi  volumi  delPepistolario 
del  grand'uomo,  leggendo  i  quali,  molto,  e  direi  tutto,  gli  si  perdona. 

Dunque  sorvoliamo. 

Ed  eccoci  a  Cecina,  grosso  paese  arieggiante  a  citta,  a  cinquanta 
chilometri  da  Pisa,  fiero  e  gentile,  maremmanamente  schietto,  no- 
tabile  per  industrie,  la  patria  dell'unico  italiano,  il  vice  brigadiere 
di  finanza  Alberto  Botti,  che  in  giorni  di  profonda  e  comune  vi- 
gliaccheria  seppe  fare  impallidire,  ad  Ala,  il  generate  Baratieri3  che, 
del  resto,  delFimmane  sfacelo  di  Abba  Carima  non  fu  causa  prin- 
cipale.  Dei  disastri  patiti  e  da  patire  dalle  nazioni,  causa  princi- 
palissima  fu,  e  sara  sempre,  la  bestiale  insipienza  di  certi  govern!. 

Da  Cecina  alia  Cinquantina  (la  villa,  o  meglio  casa  di  campagna, 
dove  si  trovava  il  Guerrazzi),  corre,  parmi,  un  chilometro  e  mezzo. 


i .  in  un  picchio :  in  un  memento,  quanto  ce  ne  vuole  a  dare  una  bussata 
a  una  porta.  z.  non  le  avessi  .  .  .  Martini:  Particolo  cui  qui  si  allude,  e  che 
fu  anticipazione  di  questo  scritto,  apparve  nel  « Fanfulla  della  Domenica* 
il  21  dicembre  1879;  per  il  « Fanfulla »,  vedi  la  nota  i  a  p.  504.  E  per  le 
« reazioni »  livornesi  all'articolo,  F.  MARTINI,  Lettere,  Milano,  Mondadori, 
1934,  p.  78.  3.  il  generale  Baratieri:  vedi  la  nota  i  a  p.  503. 


GENI   E   CAPI   AMENI    DELL'OTTOCENTO  899 

Lo  feci  a  piedi.  II  mio  era  una  specie  di  pellegrinaggio  al  santuario 
di  chi  merit6  esser  detto  il  «  Giove  olimpico  della  nostra  lettera- 
tura  »,  e  mi  occorreva  raccoglimento,  quel  raccoglimento  appunto 
che  Tarrotio  di  una  carrozza  e  il  possibile  scontro  in  un  carro  di 
fieno,  o  in  un  branco  di  vacche  libere,  e  i  relativi  sagrati  scintillan- 
temente  toscani  del  vetturino,  m'avrebbero  frastornato. 

Quando  fui  presso  la  villa,  un  contadinello,  anche  meglio,  un 
buttero,  mi  venne  incontro  di  sei  o  sette  passi  frugandomi  con 
uno  sguardo  lungo  tra  di  curiosita  e  compassione  come  a  dirmi: 
«Toh!  o  tu  di  dove  ci  piovi,  e  che  vieni  a  cercare  in  questi  fondacci, 
tutto  infaldato1  e  inguantato,  e  a  piedi  a  piedi,  come  un  cavadenti 
stoioso  ?  »2 

Avevo  le  smanie  addosso.  La  villa  rusticana  riposava  in  un  si- 
lenzio  profondo,  indorata  da  un  vivo  sole  agostano;  i  pioppi  e  gli 
olmi  non  davano  fremiti,  una  gazza  ladra  volava  da  una  proda 
all'altra  d'un  campo  spallierato  di  viti  cariche  d'agresto;3  il  buttero 
s'era  fermato  e  mi  guardava  a  bocca  aperta. 

E  dovevo  sembrargli  dimolto  buffo!  Ero  giunto  sul  limitare  del 
tempio,  e  il  profumo  dell'ambrosia  stillante  dal  nume  mi  dava  le 
vertigini.  Involsi  le  tredici  fmestre  del  davanti  della  villa  in  un'oc- 
chiata  tremante  e  fuggiasca,  e  mi  parve  ne  uscissero  a  volo,  e  sotto 
un  nimbo  di  luce,  in  forma  di  fantasime  o  sorridenti  o  accigliate,  le 
nobili  o  tetre  o  facete  concezioni  del  grandissimo  scrittore:  Dante 
da  Castiglione,  il  Ferruccio,  Michelangelo,  Andrea  Doria,  il  Bur- 
lamacchi,  il  conte  Cenci,  Veronica  Cybo,  Isabella  Orsini,  Maria 
Benintendi,  e  cento  e  cent'altre,  ultima  fra  tutte,  scoppiante  ancora 
in  risate  demolitrici  le  albagie  francesi,  il  capitano  Giacomo  Ca- 
sella  dalla  gamba  di  legno. 

Dio,  Dio!  come  mi  sentii  piccino  e  temerario!  Giurerei  che  in 
quel  momento  una  mano  invisibile  mi  agguant6  per  le  falde,  e 
una  voce  di  gnomo  mi  soffi6  neirorecchio :  «Torna  indietro,  sca- 
rabattola  impataccata  d'inchiostro ! » 

Ma  in  pari  tempo  un'altra  voce  mi  confortava:  «No,  entra,  e  va', 
e  fagli  onore.  Egli  &  buono,  egli  sa  amare,  egli  non  e  Torco  spaven- 
tevole  quale  lo  ha  pitturato  la  consorteria  toscana  e  di  tutta  Italia ; 

i.  infaldato:  con  un  abito  a  falde.  2.  un  cavadenti  stoioso:  un  cavadenti  da 
fiera,  dall'aspetto  miserabile.  La  voce  dialettale  «stoia»  o  «trucia»  era 
adoperata  a  indicare  grande  miseria,  specie  con  riferimento  al  vestito. 
3.  agresto:  Tuva  non  venuta  a  maturita. 


900  LEOPOLDO    BARBONI 

egli  e  Finclito  cittadino  die  con  TAlfieri  e  il  Foscolo  e  Giuseppe 
Mazzini  piu  si  adopr6  a  spazzare  le  tetre  nebbie  della  tirannide  of- 
fuscanti,  da  secoli,  il  sole  d' Italia.  W,  conosci  Tuomo  che  tu  adori 
e  da  cui  sei  ricambiato  di  vivo  affetto! » 

Mi  volsi  al  buttero,  che  mi  guardava  anche  piu  insistentemente 
senza  fiatare,  e  con  tono  risoluto  chiesi: 

—  L'illustre  Guerrazzi  ? 

—  II  sor  Francesco  ? 

Fece  un  passo  avanti  stropicciandosi  goffamente  il  dito  grosso 
della  man  destra  dentro  il  pugno  calloso  della  sinistra,  e  riprese : 

—  C'e  e  non  c'e  .  .  .  fi  un  po'  malazzato,  e  forse  . . . 

—  Fagli  portare  questo  biglietto. 

Cinque  minuti  dopo,  salite  due  scale  aventi  a  capo  un'ampia  in- 
vetriata,  mi  appressavo  palpitante  all'uscio  d'un  salotto,  dal  cui 
interno  veniva  un  rumore  secco  di  sedia  smossa  e  una  voce  robusta, 
che  diceva: 

—  Venga,  venga  liberamente,  e,  se  si  contenta,  io  non  mi  muovo. 
Lei  lo  sa;  son  mezzo  assassinato  dal  mal  del  ciglio  . .  .* 

Ah,  santi,  patriarchi,  angeli,  arcangeli,  beati,  serafini,  citaredi  e 
organisti  del  paradise!  chi  potrebbe  ridire  il  rimescolio  di  sangue 
che  provai  a  quella  voce  ?  ...  Mi  parve  di  sprofondare  nelle  trombe 
degli  stivali!  Entrai  piu  morto  che  vivo  dalla  commozione,  balbet- 
tai  come  un  bimbo  che  non  ha  bene  sciolto  lo  scilinguagnolo,  but- 
tai  fuori  a  ruzzolone  un  diluvio  di  « illustre,  momento  felice,  ammi- 
razione,  Assedio! . .  .»,  non  ci  vedevo  a  cagione  dello  scuro  della 
stanza,  mi  casc6  il  cappello  come  a  un  imbecille  qualunque,  mi 
sentii  afferrare  per  le  mani  e  buttare  a  sedere  .  .  .  Era  lui,  lui,  lui!  era 
Francesco  Domenico  Guerrazzi  in  carne  e  in  ossa! 

Egli  si  accorse  della  mia  febbre,  e  per  troncarla  mi  disse  di 
colpo : 

—  A  Roma,  a  Roma;  bisogna  ch'ella  vada  a  Roma  e  ci  pianti  le 
sue  tende.  La  raccomandero  io  ai  giornali  della  democrazia.  E,  mi 
dica,  ora  che  cos'ha  a  mano  ? 

Ero  sbalordito.  Quell'entrare  cosi  furiosamente  in  carreggiata, 
senza  farmi  nemmeno  riprender  fiato,  mi  scombusso!6  piu  che  mai. 
Mi  pareva,  che  aprendo  bocca  per  rispondere,  avrei  fatta  una  stec- 
caccia.  Come  Dio  voile  non  fu  cosi. 

i.  mal  del  ciglio :  dolore  al  sopracciglio,  detto  anche  « colpo  di  sole». 


GENI   E    CAPI   AMENI    DELL'OTTOCENTO  901 

—  II  libro  di  cui  ella  si  e  degnato  accettare  la  dedica . .  .*  —  rispo- 
si  bagnato  come  un  pulcino. 

—  Si,  si,  e  vero  —  riprese  a  dire  il  Guerrazzi.  —  Conosco  il  fatto ; 
e  quel  briccone  del  canonico  Pandolfo  Ricasoli  che  ama,  non  se- 
condo  T evangelic,  le  belle  donnette  fiorentine,  e  vien  sepolto  vivo 
nei  sotterranei  di  Santa  Croce.  Benissimo  e  grazie  dal  cuore.  Badi 
pero :  nella  dedica  tralasci  tutte  le  vane  parole ;  accenni  che  mi  vuol 
bene,  e  mi  basta. 

Un'acerbissima  trafittura  al  cigHo,  un  brivido,  una  poderosa 
presa  di  tabacco. 

A  proposito  di  tabacco.  Del  grande  scrittore,  oltre  le  lettere  e  il 
proprio  ritratto  da  lui  inviatomi,  serbo  religiosamente  due  altri  ri- 
cordi.  Uno  e  la  fotografia  del  quadro  di  Gerolamo  Induno2  raffigu- 
gurante  Garibaldi  ferito  ad  Aspromonte  e  trasportato  dai  suoi  giu 
giu  fino  a  Scilla  mentre  le  parricide  canne  dei  fucili  dei  bersaglieri 
luccicano  a  pochi  passi  dietro  la  vittima  eccelsa;  1'altro  e  un' ele 
gante  tabacchiera  d'argento  dal  coperchio  istoriato  di  due  buoi 
aranti  e  punzecchiati  dal  villano. 

£  dunque  una  tabacchiera  storica,  e  merita  un  po'  d'illustrazione, 
anche  perche  si  paia  sempre  piu  che  il  Guerrazzi  non  era  un  man- 
giacristiani.  Un  giorno  del  1846  un  signore  si  trovava  solo  per  la 
via  che  dalla  Porta  al  Borgo  di  Pistoia  menava,  e  mena,  alia  cele- 
bre  Villa  di  Niccol6  Puccini,3  ritrovo  allora  dei  piu  forti  ingegni 
d' Italia,  da  Pietro  Giordani  a  Gino  Capponi,  Marco  Tabarrini4  e 


i.  II  libro  ...  /a  dedica:  il  Barboni  nel  1873  pubblic6  il  romanzo  La  con- 
fessione,  romanzo  storico  del  secolo  XVII,  con  dedica  al  Guerrazzi.  2.  Ge 
rolamo  Induno  (1826-1890),  di  Milano,  pittore  di  quadri  storici  (Uin- 
contro  di  Garibaldi  e  Vittorio  Emanuele  II,  Aspromonte,  ecc.).  Combatfe" 
nella  difesa  di  Roma  e  fu  ferito  a  Villa  Spada.  3.  L'awocato  Niccolo  Puc 
cini  (1799-1852),  filantropo  e  mecenate  pistoiese,  prowide  alPistituzione 
di  centri  educativi,  e  gliene  venne  pubblico  elogio  dal  Giordani.  Nella  sua 
villa  di  Scornio  ricevette  i  migliori  ingegni  del  tempo  suo,  in  ispecie  i  let- 
terati  e  uomini  politici  toscani,  primissimo  1'amico'  Guerrazzi.  A  Niccol6 
Puccini  e  alle  sue  simpatiche  estrosita  ha  dedicate  il  Barboni  un  capitolo 
dello  stesso  libro  da  cui  e  tolto  questo  brano.  Sul  Puccini  anche  un  discor- 
so  di  F.  Martini,  che  si  pu6  leggere  nel  suo  volume  Simpatie  (e  cfr.  nell'ed. 
cit.  delle  Lettere  del  Guerrazzi,  p.  46,  nota  i).  4.  Pietro  Giordani  (1774- 
1848),  il  letterato  piacentino  che  primo  divino  il  genio  poetico  del  Leopardi, 
filologo,  epistolografo  ed  epigrafista,  fu  privato  maestro  di  umanita  alia 
studiosa  gioventu  italiana  dagli  inizi  del  secolo  fino  alia  generazione  car- 
ducciana  degli  «amici  pedanti»;  Gino  Capponi:  vedi  la  nota  a  p.  437; 
Marco  Tabarrini  (1818-1898),  illustre  storico  toscano  di  scuola  neoguelfa, 


902  LEOPOLDO    BARBONI 

cento  altri.  Devesi  argomentare  che  di  cotesti  tempi  non  vi  fosse  un 
servizio  &  omnibus  come  al  presente,  e  forse  gli  intestini  umani  ci 
guadagnavano  un  tanto.  Sorpreso  dalla  pioggia,  il  signore  si  fermo 
rasente  una  casa,  guardando  a  destra  e  a  sinistra  se  qualcuno  pas- 
sasse.  Passo  un  popolano. 

—  Scusate,  sapete  dirmi  se  il  signor  Puccini  sia  in  villa? 

—  II  signore  Niccol6  ?  C'e,  sissignore.  Anzi,  guardi,  io  passo  pro- 
prio  davanti  alia  Villa,  che  e  li  a  due  passi,  la  vede  ?  .  .  .  Venga  con 
me;  e  nel  tempo  stesso  la  parer6,  perche  lei  non  ha  ombrello. 

La  proverbiale  gentilezza  toscana  era  allora  in  tutto  il  suo  rigo- 
glio ;  oggi  6  un  po'  in  decadenza,  anzi  piii  che  un  po* :  Puguaglianza, 
che  non  sara  mai  altro  che  una  parola  vuota  di  senso,  ha  incana- 
gliato  tutti.  Davanti  al  cancello  della  Villa  il  popolano  domand6  al 
signore : 

—  Che  lo  conosce  lei  il  sor  Niccol6  ? 

—  Siamo  amiconi. 

—  Sono  amiconi!  Qui  &  un  vai  e  vieni  di  cervelli  fini . .  .  Scusi 
se  sono  impronto  ... x  o  lei  chi  6  ? 

—  Io  sono  il  Guerrazzi. 

Un  salto  indietro,  con  pericolo  manifesto  del  manico  delFom- 
brello,  fu  Fistantaneo  scoppio  d'ammirazione  del  popolano. 

—  Lei  e  il  Guerrazzi! . .  .  Dio,  Gesu,  Maria,  san  Giuseppe!  — 
E  si  scappel!6  fino  a  terra. 

II  Guerrazzi,  sorridendo,  ringrazi6  della  doppia  gentilezza,  pre- 
g6  il  buon  popolano  a  ricordarsi  di  lui  se  caso  mai  in  qualche  cosa 
avesse  potuto  essergli  utile,  e  tutto  per  allora  finl  li. 

Tre  anni  dopo,  a  cominciare  dal  marzo  1849,  Francesco  Dome- 
nico  Guerrazzi  era  il  Dittatore  della  Toscana,  e  imperava  da  Pa 
lazzo  Vecchio,  quando  in  un  di  quei  giorni  gli  fu  annunziato  un 
popolano.  II  Guerrazzi,  a  differenza  di  tante  eccellenze  d'oggi,  non 
era  avaro  di  s6.  C'&  di  piu ;  mangiava  a  colazione  una  frittatina  alia 
svelta,  sulla  scrivania,  e  si  rimetteva  al  lavoro.  Per  avere  un'idea 
di  tanta  frugalita,  bisogna  risalire  al  Cempini,2  ministro  di  Leopol- 
do  II  granduca  di  Toscana,  che  faceva  fiorentinescamente  cola 
zione  con  un  «panino  gravido»,  o  venire  molto  piu  prossimi  a 


amico  di  Gino  Capponi  ed  editore  dei  suoi  scritti,  senatore  e  presidente 
del  Consiglio  di  Stato.  i.  impronto:  importune,  sfacciato.  2.  Cempini: 
vedi  la  nota  8  a  p.  436. 


GENI   E   CAPI   AMENI   DELL'OTTOCENTO  903 

noi,  quando  a  Roma  il  buon  ministro  Saracco1  faceva  colazione  con 
quattro  noci. 

II  popolano  era  un  tal  Giuseppe  Pasquali  impiegato  doganale  in 
riposo,  e  abitante  a  Capo  di  Strada.  Aveva  egli  scritto  e  riscritto 
al  dicastero  delle  Finanze,  a  Firenze,  per  ottenere  una  rivendita 
di  sale  e  tabacchi  in  Pistoia,  ma  nessuno  gli  rispondeva.  Sistema 
vecchio,  a  quel  che  pare.  Allora,  esasperato,  si  fece  coraggio  ripen- 
sando  Tesibizione  fattagli  dal  Guerrazzi;  prese  la  via  per  la  capita- 
le,  e  si  presentb  al  Dittatore. 

— -  Chi  sei,  e  che  vuoi? 

—  Eccellenza,  ho  scritto  quanto  sant'Agostino  per  avere  una  ri 
vendita  di  sale  e  tabacchi  a  Pistoia,  ma  nessuno  mi  ha  risposto. 

Fosse  un  giorno  di  mal  di  fegato  o  che,  il  Guerrazzi,  spazientito 
alle  prime  parole,  dette  un  gran  pugno  sulla  scrivania  gridando: 

—  E  che  c'entro  io  coi  tuoi  sali  e  tabacchi? 

Al  povero  Pasquali  parve  rovinasse  in  capo,  di  schianto,  Tim- 
mensa  torre  d'Arnolfo  di  Cambio;2  impallidl  come  se  stesse  per 
morire,  ma  anche  capi  che  il  Guerrazzi  non  lo  aveva  riconosciuto. 
Allora,  prevalendo  in  lui  Tinteresse,  s'inginocchi6  quasi  e  balbett6 : 

—  Eccellenza,  vedo  bene  che  lei  non  mi  rawisa .  . . 

—  No,  perbacco!  Chi  sei  dunque?  palesati .  . . 

—  Non  si  ricorda,  eccellenza,  tre  anni  fa .  . .  al  cancello  della 
Villa  del  signer  Niccolb  Puccini .  .  .  pioveva  .  .  .  io  la  parai  col  mio 
ombrello,  e  lei  mi  disse  che  se  avessi  avuto  bisogno  . . . 

Con  uno  scatto,  che  nessuno  pu6  immaginare  se  non  ha  cono- 
sciuto  Fuomo  vulcanico,  il  Guerrazzi  di&  un  secondo  pugno  sulla 
scrivania,  scampanell6,  fece  chiamare  il  sacerdos  magnus  dei  sali  e 
tabacchi,  assicurb  il  Pasquali  che  fra  due  giorni  avrebbe  avuto  la 
privativa,  poi,  rimasti  nuovamente  soli,  gli  attanaglio  la  mano,  se 
lo  fece  sedere  accanto,  e  agguantata  una  tabacchiera  d'argento, 
tutto  festoso  disse: 

—  Avete  fatto  bene  a  ricordarvi  di  me,  come  io  mi  son  sempre 
ricordato  del  vostro  atto  gentile,  cosi  che  potrei  dirvi  quante  stecche 
aveva,  e  se  fosse  di  seta  o  d'incerato,  il  vostro  ombrello.  Io  non  ho 

i.  Giuseppe  Saracco  (1821-1907),  awocato,  deputato  di  Acqui  (1849- 
1865),  senatore  dal  1865,  fu  ministro  delle  finanze  col  Depretis  dall'aprile 
al  luglio  1887.  La  sua  competenza  in  materia  finanziaria  e  amministrativa 
lo  condusse  poi  varie  volte  al  potere  e,  infine,  alia  presidenza  del  Consi- 
glio  (dal  giugno  1900  al  febbraio  1901).  2.  L/a  torre  del  palazzo  della  Si- 
gnoria  in  Firenze,  attribuita  ad  Arnolfo  di  Cambio  (1240  circa  -  1302  circa). 


904  LEOPOLDO   BARBONI 

altro  da  offrirvi  per  mio  ricordo  se  non  questa  scatola  da  tabacco. 
Prendetela,  e  tenetela  per  amor  mio. 

Fare  la  storia  postuma  di  quella  scatola  sarebbe  ozioso.  La  sca 
tola  e  ora  fra  i  miei  ricordi  guerrazziani,  e  mi  fu  donata  a  Pistoia 
da  un  altro  buon  popolano,  ricco  in  cuore  di  nobili  entusiasmi  per 
tuttocio  die  e  gloria  italiana  del  passato ;  ed  io  ne  lo  ringrazio  pub- 
blicamente,  anche  perche  mi  ha  dato  modo  di  ricordare  un  aned- 
doto  che  lumeggia  il  gran  livornese,  il  quale,  ripeto,  era  tutt'altro 
che  un  lupo  mannaro. 

Riaffacciamoci  alia  fmestra  della  Cinquantina,  che  si  chiama  cosi 
perche,  certo  anno,  ogni  sacco  di  grano,  che  fu  seminato  in  quel 
podere,  ne  rese  cinquanta.  Mentre  il  Guerrazzi  parlava,  io  lo  con- 
sideravo  estatico.  Era  alto,  impettito,  poderoso.  II  corpo  corrispon- 
deva  al  solenne  e  gagliardo  s.entire  del  suo  animo.  Aveva  le  guancie 
accese  per  esuberanza  di  sangue  sano;  piu  che  sano,  leonino;  gli 
occhi  erano  acuti  e  penetranti  con  espressione  via  via  di  schietta 
bonta;  e  la  fronte,  che  ora  si  spianava  ora  si  corrugava  come  per 
ispasimo  nervoso,  rivelava  Pingegno  trapotente  e  gli  scatti  del  cuore. 
Portava  il  volto  rigorosamente  rasato,  ci6  che  mi  facevami  e  fa  anco- 
ra  pensare  dove  mai,  in  qual  fibra  del  suo  organismo,  quelPuomo 
vulcanico  trovasse  la  pazienza  di  farsi  ogni  giorno  la  barba,  da  se", 
come  Napoleone  il  grande.  Consideravo  quella  sua  parrucca,  e 
pensavo  agli  epiteti  poco  o  punto  vezzeggiativi  che  la  sua  anima 
inquieta  aveva  dovuto  affibbiare  a  madre  natura  vedendosi  spelac- 
chiare  in  quel  modo. 

Tutte  le  fasi  della  sua  vita  mi  passavano  per  la  mente,  chiare, 
parlanti,  incalzantisi,  come  si  vedrebbero  sulla  parete,  di  notte,  le 
scene  colorate  rese  dalla  lente  d'una  lanterna  magica.  Ma  piu  di 
tutte  una  mi  colpiva.  Sapevo  che  aveva  le  braccia  ricamate  di  cica- 
trici.1  Erano  colpi  di  stile  che  gli  c'erano  piovuti  per  gelosie  feroci 
scoppiate  non  per  contese  letterarie  o  politiche :  per  contese  di  gon- 
nella.  E  si  ch'egli  fu  in  fama  di  misogino!  .  .  .  Piccinerie  di  cervelli! 
perche,  chi  e  che  potrebbe  ridire  il  fascino  che  lui,  giovine,  la 
fronte  gia  ricinta  d'alloro  per  le  pagine  superbe  della  Battaglia  di 
Benevento  scritta  a  ventidue  anni,  bollentissimo  nelPamore  come 
nell'odio,  aveva  sulle  donne  ?  E  appunto  quei  colpi  di  stile  gli  ave- 

i.  le  braccia  .  .  .  cicatrici:  per  questo  particolare,  vedi  R.  GUASTALLA,  La 
vita  e  le  opere  di  F.  D.  Guerrazzi,  Rocca  San  Casciano,  Lapi,  1903. 


GENI   E   CAPI   AMENI    DELL'OTTOCENTO  905 

vano  sforacchiate  le  braccia  per  cagion  di  una  donna,  la  moglie 
di  un  mercante,  bellissima  quale  Taveva  veduta  lui  nei  suoi  sogni 
di  poeta  e  di  romanziere,  ma  vana  e  « mobile  qual  piuma  al  vento  », 
come  dice  1'aria  del  Rigoletto.  Si  chiamava  Argentina. 

E  cosi  con  questa  fantasima  pel  capo,  e  guardando  1'uomo  illu- 
stre,  quasi  mi  veniva  voglia  di  domandargli :  —  Ma  perche  dedicate 
a  quella  fatua  mercantessa  YAssedio  di  Firenze,  «il  poema  sacro  alia 
rigenerazione  dj Italia)),  come  lo  chiam6  Giambattista  Niccolini?1 

Quale  discrepanza!  E  YAssedio,  infatti,  porta  questa  dedica:  A 
N.G.  A.  Monogramma  che  fece  e  f a  e  fara  sempre  lambiccare  il 
cervello  dei  piii. 

Dopo  che  per  qualche  tempo  mi  ebbe  parlato  di  se  e  delle  cose 
sue;  dopo  avermi  additato  un  bel  ritratto  d' Alfredo  Cappellini,2 
1'eroe  livornese  che  a  Lissa,  «sdegnoso  soprawivere  alia  mancata 
vittoria,  s6  e  gli  annuenti  compagni  sprofond6  nel  mare»,  giusta 
Pepigrafe  guerrazziana;  dopo  cinque  o  sei  pizzicotti  nelle  carni 
flosce  d7  Italia;  dopo  una  meravigliosa  esplosione  di  parole  in  lode 
di  Garibaldi,  « il  quale  per6  aveva  perduto  un  istante  il  cervello  cor- 
rendo  in  aiuto  di  quei  tisici  di  francesi,  che  per  tutta  ricompensa 
lo  avevano  insultato  a  Bord6»:3  il  grande  scrittore  voile  bevessi  del 
vino  delle  sue  vigne,  e  me  ne  mesce  egli  stesso  un  bicchiere.  Poi 
menatomi  alia  finestra,  di  cui  spalanc6  le  imposte  che  teneva  soc- 
chiuse  a  mitigare  le  trafitture  del  mal  del  ciglio,  mi  mostr6  con 
un  gesto  largo  del  braccio  i  suoi  possessi. 

Fu  vanita?  Non  lo  credo.  Piuttosto  voile  dirmi:  Ecco  dove  Puo- 
mo  che  ha  patito  esilii  e  galere  per  la  causa  della  liberta,  e  le  ha 
consacrato  tutto  il  suo  ingegno,  viene  di  tanto  in  tanto  a  mendicare 
un  po'  di  quiete  alPanimo  esulcerato! 

Perche  se  e  vero  ch'egli  fu  ambiziosissimo,  e  anche  troppo  vero 
che  Tltalia  composta  a  libera  nazione  obli6  indecentemente  che  i 
trenta  capitoli  delYAssedio  erano  stati  formidabili  awinghiamenti 
della  coda  di  Minos4  al  petto  e  alle  terga  dei  croati  e  delle  altre  soz- 
zure  del  dispotismo. 

Riaffacciamoci. 

i.  Giambattista  Niccolini:  vedi  la  nota  i  a  p.  438.  2.  Alfredo  Cappellini 
(1828-1866),  comandante  della  cannoniera  Palestro  nella  battaglia  di  Lissa 
(20  luglio  1866),  voile  affondare  con  la  sua  nave  e  i  suoi  marinai.  3.  a 
Bordo:  a  Bordeaux,  nell'Assemblea  nazionale  di  cui  Garibaldi  era  stato 
eletto  deputato.  Vedi  la  nota  2  a  p.  728.  4.  coda  di  Minos:  allude  al  Mi- 
nosse  dantesco.  Vedi  Inf.,  v,  4-12. 


906  LEOPOLDO    BARBONI 

La  mia  occhiata  avida  e  profonda  non  fu  meno  larga  del  largo 
gesto  del  Guerrazzi.  Campi  e  campi  dovunque,  limitati,  in  faccia, 
dal  fiume  Cecina;  a  destra,  in  lontano,  da  una  boscaglia  di  pini,  da 
sterpaie  e  ginepreti  morenti  nell'aridita  della  spiaggia  del  mar  Tir- 
reno.  Un  lungo  stradone  dirittissimo  e  silenzioso  porta  la  in  fondo 
a  quella  scena  fieramente  silvestre  e  maremmana ;  e  per  quello  stra 
done,  fra  quelle  boscaglie,  fra  quei  cumuli  di  arena  coperti  di  pru- 
naie  frustate  dai  venti  impetuosi,  fra  gli  ululati  delle  onde  flagel- 
lanti  quei  greti,  io  immaginava  il  fiero  scrittore  andare  su  e  giu 
durante  le  febbri  deiranimo  e  gemere  e  imprecare  come  il  Pieruccio 
AeWAssedio.  E  mentre  la  visione  m'andava  pel  capo,  egli  mi  era  di 
lato,  e  ne  sentivo  Falito  nel  collo! 

Ma  la  sera  incalzava,  cosicch.6,  sebbene  io  fossi  come  magnetiz- 
zato  innanzi  a  quella  figura  maestosa  dairocchio  acuto  e  benevolo 
e  dalPeloquio  purissimo  e  incantevole,  me  gPinchinai  dicendo: 

—  Ella  soffre,  e  mi  parrebbe  di  meritare  la  maledizione  di  tutti 
gPitaliani  s'io  non  la  lasciassi;  con  la  calda  preghiera  bensl  di  cori- 
carsi  per  tempo  e  vincere  cotesto  mal  del  ciglio,  che  non  ha  diritto 
di  torturare  una  testa  che  chiude  « la  prima  fantasia  d'Europa ». 

—  Ne  hanno  dette  tante  sul  conto  mio!  —  mormor6  stringen- 
domi  forte  forte  la  mano. 

Quando  Io  lasciai  gli  chiesi  se  mi  consentiva  il  grandissimo  onore 
di  dargli  un  bacio.  Egli  sorrise  e  mi  porse  la  bocca.  Aime,  fu  quella 
la  prima,  e  doveva  esser  quella  Pultima  volta  ch'io  Io  vedeva! 

Qualche  settimana  dopo,  egli  scrivevami  di  villa:  «I1  caldo  stra- 
grande  mi  d&  al  capo,  e  le  molte  morti  qui  dintorno  mi  hanno  scon- 
fortato  ».  E  prometteva  ritornare  alia  sua  bella  cittk  natale,  in  cui  il 
popolo  no,  ma  i  grassi  borghesi,  proprio  di  cotesti  tempi,  per  me- 
schine  lotte  municipali  ostentavano  verso  di  lui,  leone  libico  fra  una 
nidiata  di  topolini  intignati,  la  smorfietta  clorotica  del  ti  vedo  e  non 
ti  vedo!  D'onde  gli  accigliamenti  del  fiero  uomo,  e  il  suo  segregarsi 
fra  i  silenzii  della  Cinquantina,  e  i  suoi  lamenti  con  un  amico :  «  Vedi  ? 
ora  a  Livorno  quasi  tutti  mi  hanno  suj  corbelli ; » (non  us6  per6  que- 
sto  eufemismo)  «ma  vedrai  quando  sar6  morto;  che  gazzarra! 
quanti  onori  mi  faranno!  ...» 

La  sera  del  23  settembre  1873  il  Guerrazzi  desinava  col  nipote 
Francesco  Michele  e  con  la  moglie  di  lui  Amelia  Sanna.  Questi 
ultimi  eran  tornati  allora  da  Roma;  una  corsa  di  piacere,  perche" 


GENI    E    CAPI    AMENI    DELL'OTTOCENTO  907 

Cecina  e  la  Cinquantina  sono  appunto  sullo  stradale  Livorno-Roma. 
Fra  una  forchettata  e  Taltra  il  nipote  raccontava:  —  Sai  tu,  zio? 
lersera,  in  Piazza  Colonna,  la  banda  musicale  suon6  Tlnno  au- 
striaco!  .  .  . 

Che  improwiso  ribollimento  avvenisse  nelle  arterie  deirimpla- 
cabile  nemico  dell'aquila  a  due  teste,  Dio  solo  e  lui  lo  seppero.  Si 
accese  in  viso  piu  che  non  lo  fosse  di  sua  natura,  si  rizz6  e  grid6 : 
—  Politica  d'inferno,  che,  del  resto,  fino  a  un  certo  punto  intendo 
anch'io;  ma  e  un'infamia,  un'infamia,  un'infamia!  L' Austria  e 
pur  quella  che  assassinb  il  fiore  dei  nostri  patriotti! 

II  Guerrazzi  non  par!6  piu.  Alle  u,  o  come  oggi  si  dice  alle  23, 
egli,  terribile  in  viso,  si  ritir6  nella  sua  camera.  Alle  n  e  minuti, 
mentre  stava  per  coricarsi,  improvvisamente  barcollb.  Stese  la  mano 
a  uno  spigolo  del  canterale  esclamando :  —  Muoio !  —  E  mori.  Mori 
fulminato,  come  il  titano  della  favola;  in  piedi,  come  un  romano 
antico.  N6  Tuomo  dalla  vita  tutta  piena  d'energie  bollentissime 
poteva  e  doveva  morire  diversamente. 

Ma  fu  un  delitto  di  piu  delFempia  aquila  a  due  teste! 

«Vedrai  quando  sar6  morto!  che  gazzarra!  quanti  onori  mi  fa- 
ranno!»  lo  ricordo  bene  quei  due  giorni  di  lutto  per  la  patria.  Da 
Livorno  e  da  Pisa  il  popolo  si  affol!6  alia  Cinquantina,  portando 
lauri  bandiere  e  lacrime.  Fu  chiamato  Paolo  Gorini1  per  la  pietri- 
ficazione  della  salma,  come  gia  s'era  fatto  per  Giuseppe  Mazzini. 
E  il  Gorini  col  pianto  a  gola  corse  a  Livorno,  ma  un  intrigo  infer- 
nale  fece  ritardare  il  treno  per  la  Cinquantina,  e  la  pietrificazione 
non  pot6  effettuarsi.  Biechi  rancori  del  clericalismo  e  del  modera- 
tismo!  Mai  uomo  insigne  in  Italia,  se  si  eccettui  Francesco  Crispi,2 
ebbe  quanto  il  Guerrazzi  nemici  acerrimi  anche  oltre  la  tomba. 
Impudente  smentita  al  verso  foscoliano!3 

Varii  anni  dopo,  in  compagnia  di  un  suo  nipote,  che,  bambino  allo- 
ra,  lo  aveva  visto  barcollare  e  morire,  io  ritornava  alia  Cinquantina. 

Che  vuoto  in  quella  casa!  e  tuttavia  come  lo  spirito  del  grand'uo- 
mo  mi  compariva  lumeggiato  d'una  luce  tutta  nuova! 

Toccando  con  viva  e  quasi  religiosa  commozione  lo  spigolo  del 
canterale  cui  egli  s'era  afferrato  nell'istante  supremo  della  morte, 

i.  Paolo  Gorini  (1813-1881),  naturalista,  inventore  di  un  sistema  d'imbalsa- 
mazione  che  fu  adoperato  nel  1872  per  il  cadavere  di  Mazzini.  2,,  Fran 
cesco  Crispi:  vedi  la  nota  2  a  p.  503.  3.  verso  foscoliano:  allude  al  «giu- 
sta  di  glorie  dispensiera  e  morte))  (Sepolcri,  v.  221). 


908  LEOPOLDO   BARBONI 

ripensavo  alcuni  tratti  di  quella  parte  del  suo  epistolario  edita  per 
cura  di  Giosue  Carducci,  e  d'onde  si  pare  Tanimo  suo  buono. 

Gia  Marco  Monnier1  che  lo  aveva  visitato  nel  '59,  s'era  ricreduto 
sul  conto  di  lui  sentendolo  parlare  «  di  Dio  con  fervore,  della  fami- 
glia  umana  con  amore».  Ma  nelP  epistolario  il  gran  livornese  si  isto- 
ria  compiutamente ;  e  chi  ormai  ne  parlasse  o  ne  scrivesse  ostinan- 
dosi  nella  credenza  ch'egli  fosse  un  cuore  efferato,  meriterebbe  .  .  . 
siamo  generosi:  un  sorriso  di  compassione.  L'aateo  salmista»,  se, 
travolto  dalle  intemperanze  della  fantasia  provocata  dalle  angoscie 
e  le  cupaggini  di  cinque  anni  di  galere  e  d'esilii,  ci  die  la  fosca  fi- 
gura  di  Francesco  Cenci,2  nelFintimo  della  sua  coscienza,  e  pei  suoi, 
e  per  gli  amici,  e  pei  miseri,  trovava  affetti  santi  e  gentili. 

<c  lo  ho  sempre  amato  i  bambini ;  anche  Cristo  gli  amava .  .  .  E 
infatti  io  credo  gli  uomini  nascano  buoni  e  si  guastino  poi  per  gli 
esempi  pessimi ...  II  nastro  della  giovanetta  e  stato  riposto,  per 
segno,  dentro  di  un  vecchio  Evangelo,  che  mi  hanno  procurato  da 
un  prete  .  . .  »3  Cosi  dal  Mastio  di  Volterra,  dov'era  carcerato  nel 
'49,  a  un  suo  amico  di  Livorno.  E,  sempre  allo  stesso,  circa  la  let- 
tura  che  faceva  del  giornale  il  «  Galignani » :4  «Mi  scandalizza:  due 
pagine  sono  sempre  occupate  a  riportare  furti,  omicidi,  ecc. :  simili 
turpitudini  disonorano  Pumanita;  non  sarebbe  meglio  tacerle?»s 
E  al  nipote  Francesco  Michele  (il  Marcello  del  Buco  nel  muro):6 
«  Scrivendoti  questa  lettera  mi  e  forza  spesso  asciugarmi  gli  occhi ; 
s'e  debolezza  compagna  degli  anni  che  declinano,  avrei  da  doler- 
mene;  se  tenerezza  di  cuore,  che  non  si  senti  mai  cosi  altamente 
commosso,  io  ho  da  lodarmene».7  E  in  altra,  allo  stesso:  ccBisogna 
che  mi  stacchi  da  te,  ma  col  cuore  son  sempre  teco.  Dio  t'abbia 
nella  sua  santa  guardia».8 

i.  Marco  Monnier  (1829-1885),  letterato  e  pubblicista,  professore  airUniver- 
sita  di  Ginevra,  soprattutto  benemerito  della  causa  italiana  per  il  suo  libro 
L'ltalie  est-elle  la  terre  des  morts?  (1859).  2.  travolto  .  .  .  Cenci:  il  roman- 
20  Beatrice  Cenci  fu  pubblicato  nel  1854:  dalPi  i  aprile  del  1849  il  Guerrazzi 
stette  in  carcere  a  Firenze  e  a  Volterra,  fu  processato  e  condannato  a  quin- 
dici  anni  di  ergastolo,  ebbe  la  pena  commutata  in  esilio  e  si  ritir6  in  Cor 
sica,  dove  rimase  fino  alPottobre  del  1856.  Sul  Guerrazzi,  vedi  nei  Memo- 
rialisti  delVOttocento,  in  questa  collezione,  tomo  I,  pp.  464-531,  il  Profilo 
biografico  che  ne  da  G.  Trombatore.  3.  F.  D.  GUERRAZZI,  Letters,  cit., 
p.  356.  4.  «Galignani's  Messenger)),  grande  quotidiano  in  lingua  inglese 
fondato  a  Parigi,  nel  1814,  dal  bresciano  Giovanni  Antonio  Galignani  (1752- 
1821).  5.  F.  D.  GUERRAZZI,  Lettere,  cit.,  p.  367.  6.  II  Buco  nel  muro  e  con- 
siderato  da  molti  il  miglior  romanzo  del  Guerrazzi.  Fu  pubblicato  nel  1862. 
7.  F.  D.  GUERRAZZI,  Lettere,  cit,  p.  353.  8.  Lettere,  cit.,  p.  433. 


GENI    E    CAPI    AMENI    DELL'OTTOCENTO  909 

Eppure  era  quello  stesso  ineffabile  nepote  che  gia  si  era  illustrate 
divertendosi  a  spezzare  a  colpi  di  bastone  i  lumi  del  Caffe  Ferrucdo 
a  Firenze,  mentre  il  Guerrazzi  era  il  Dittatore  della  Toscana;  e  ai 
tavoleggianti  che  ne  lo  riprendevano  rispondeva . .  .  spiritosa- 
mente:  —  Paga  lo  zio! 

In  altra  lettera  il  Guerrazzi  scrive :  «  L'uomo  buono  gode  a  be- 
neficare  ».  Non  par  forse  una  massima  aurea  della  Tavola  di  Cebete, 
o  del  manuale  di  Epitteto,  o  dei  Ricordi  di  Marco  Aurelio?1  E 
alia  contessa  Del  Rosso,  a  Lucca,  pregandola  gli  inviasse  una  serva: 
«Desidero  serva  campagnola,  perche  i  vizi  della  citta  aborro».2  E 
chi  lo  credette  aizzatore  di  plebi,  si  ricreda  a  queste  parole  ch'egli 
scriveva  da  Livorno  nel  '47 :  «  Qui  si  vorrebbe  una  guardia  civica, 
e  presto  .  .  .  E  qui  la  plebe  e  tigre,  e  se  fa  sangue  vi  si  tuffa  fino  al 
mento  ».3 

E  basta.  Ma  no,  non  basta.  A  quel  prete  Pero,  che,  non  so  piu 
bene  da  qual  giornale  sanfedista,  dava  ai  suoi  pecoroni  la  notizia 
della  morte  del  gran  cittadino  cosi:  «£  morto  un  certo  Guerraz 
zi ...  »,  mando,  se  e  crepato,  all'inferno,  o,  se  sempre  vivo,  nella 
sua  tana  di  troglodito,  questo  che  e  parte  del  prologo  della  splendida 
lettera  che  il  Guerrazzi  dittatore  inviava  il  18  novembre  del  '48 
ai  prefetti,  esortandoli  a  sowenire  di  denari  Venezia  levatasi  im- 
pavida  e  sola  contro  gli  austriaci.  Dice  cosi:  «  .  .  .  Se  oggi  le  cat- 
toliche  nostre  fronti  non  si  vedono  deturpate  da  bende  mussul- 
mane ;  se  invece  di  gemere  contristati  nelle  tenebre  del  Corano  noi 
consola  la  benigna  luce  delPEvangelo,  noi  lo  dobbiamo  a  Venezia. 
Venezia  abbandonata  da  tutti  i  cristiani  combatt6  sola  le  battaglie 
della  cristianita)),  ecc.  ecc. 

E  questa  notizia,  quanto  mai  peregrina,  ignorata  da  tutti  e  rife- 
ritami  da  un  pisano  stato  sei  anni  con  lui  alia  Cinquantina  in  qualita 
di  sopr6mo:4  il  Guerrazzi  non  accettava  sul  podere  contadini  che 

i.  Cebete  fu  filosofo  greco,  discepolo  di  Socrate,  e  appare  nel  Fedone  di 
Platone.  Ma  la  tavola  a  lui  attribuita  non  e  opera  sua,  bens}  forse  del  I  se- 
colo  d.  C.  6  un  trattato  d'insegnamento  morale,  che  trae  il  titolo  dal  quadro 
allegorico  di  cui  il  protagonista  da  una  interpretazione  ad  alcuni  stranieri; 
Epitteto  (50-138  d.  C.),  filosofo  greco  di  scuola  stoica,  nel  suo  Manuale  ra- 
giona  sulla  pratica  della  virtu;  Marco  Aurelio,  nato  il  121  d.C.,  imperatore 
romano  dal  161  al  180,  filosofo  stoico,  redasse  in  greco  il  celebre  volume 
delle  massime  e  meditazioni  morali  A  se  stesso  (impropriamente  noto  in  ita- 
liano  col  titolo  di  Ricordi).  2.  F.  D.  GUERRAZZI,  Lettere  (1827-1853),  a  cura 
di  G.  Carducci,  i,  Livorno,  Vigo,  1880,  p.  196.  3.  Lettere,  ed.  Martini, 
p.  196.  4.  sopromo:  fattore. 


910  LEOPOLDO    BARBONI 

non  andassero  a  messa.  «Rubano  al  padrone,  se  no!»  Tiriamo  via; 
rubano  lo  stesso  anche  dopo  un'indigestione  di  messe  e  di  vespri ; 
ad  ogni  modo  c'e  qui,  nel  Guerrazzi  (sia  pure  a  traverse  un  cristia- 
nesimo  un  po'  peloso),  Tuomo  pratico,  che  sa  bene  quanto  sia  fatale 
predicare  alia  gleba  che  Dio  non  c'e. 

Non  mancarono  sciacalli  beneficati  da  lui,  che  lo  morsicarono 
ai  fianchi .  .  .  dopo  morto.  Cosi  il  triste  Enrico  Montazio1  insinuo 
che  sugli  ultimi  anni  si  dasse  a  far  1'usuraio!  Usuraio  lui!  lui  che, 
salito  al  potere,  rese  conto  fin  delPultimo  quattrino  del  danaro 
pubblico!  lui,  non  succhiatore  della  paga  di  ministro,  che  in  un  sol 
giorno  sbrigava  centosettantasette  faccende,  si  che  spessissimo  dor- 
miva  sul  sofa  del  suo  salotto  in  Palazzo  Vecchio  sdegnando  andar- 
sene  a  casa  per  non  perdere  tempo ;  lui  che  aveva  scritto : « Quando 
il  dio  quattrino  sara  appiccato  alle  corna  del  Toro  celeste  accanto 
al  dio  Giove,  le  cose  cammineranno  meglio.  I  mercanti  e  i  grandi 
proprietari  sono  la  rogna  del  mondo,'e  i  primi  peggio  dei  secondi». 

Ma  se  vi  furono  coscienze  lorde  che  lo  insultarono  nella  fama, 
anche  ve  ne  furono,  e  ve  ne  sono,  delle  onestissime  che  di  lui  dis- 
sero  e  dicono  con  reverenza.  E  di  lui  scrisse  con  imparzialita  bale- 
nante  ammirazione,  e,  s'intende,  colla  solita  sua  forma  signoril- 
mente  smagliante,  Ferdinando  Martini  nel  proemio  alle  Memorie 
inedite  di  Giuseppe  Giustif  e  ne  scrisse  Giovanni  Danelli,  cuore  e 
penna  d'uomo  onesto  e  di  grande  dottrina,  nel  suo  bel  libro  Fronde 
sparse;  e  Adolfo  Mangini,3  felice  e  invidiabile  per  aver  ricevuto  fin 
dalla  prima  infanzia  i  vezzi  del  grand'uomo,  amicissimo  e  come 
fratello  del  padre  di  lui  Antonio ;  e  di  fresco  ne  scrisse,  a  Catania, 
Antonino  Toscano4  nel  serio  suo  studio  La  psiche  di  F.  D.  Guer 
razzi. 

Ma  gia  dell'autore  deWAssedio,  con  tocchi  franchi  e  devoti,  il 
suo  e  mio  amico  Felice  Tribolati5  aveva  detto  cosi :  « Impasto  sin- 


i.  Enrico  Montazio  (1816-1886),  giornalista  e  poligrafo,  si  acquistd  nome 
con  la  propria  attivita  demagogica  nella  Toscana  del  '49,  che  gli  frutt6 
prigionia  nel  mastio  di  Volterra  e  successivamente  Tesilio  in  Francia  e  in 
Inghilterra.  Ebbe  tuttavia  durante  1'esilio  e  piu  dopo  il  suo  ritorno  (a  To 
rino  nel  1860  e  a  Firenze  nel  1865)  fama  di  penna  venduta.  2.  G.  Giu- 
STI,  Memorie  inedite,  a  cura  di  F.  Martini,  Milano,  Treves,  1890.  3.  Adol 
fo  Mangini  'autore  di  una  monografia  sul  Guerrazzi,  pubblicata  a  Livor- 
no  nel  1904.  4.  II  volume  di  Antonino  Toscano  usci  a  Catania  nel  1909. 
5.  L'awocato  Felice  Tribolati  (1834-1898),  pisano,  fu  compagno  del  Car- 
ducci  alia  Scuola  Normale  di  Pisa  e  poi  suo  costante  amico. 


GENI   E   CAPI   AMENI    DELL'OTTOCENTO  QII 

golarissimo  di  antico  e  di  moderno,  di  frate  e  di  tribuno;  di  frate 
per6  simile  al  Savonarola;  di  tribuno  somigliante  a  Giano  della 
Bella:  poeta  a  cui  manc6  la  rima;  ma  in  tutto,  nei  difetti  e  nelle 
qualita,  uomo  grande,  cuore  ottimo,  mente  arguta,  criterio  pieno 
nella  pratica  del  mondo  . . .  Am6  dawero  il  popolo  e  lo  desider6 
libero  e  felice,  ma  disprezzo  la  canaglia  e  non  la  tocc6  che  coi  go- 
miti .  . .  Alia  sua  anima  ben  temperata,  paragonando  le  attuali  pe- 
regrinanti  in  Italia  nei  parlamenti  e  nei  gabinetti,  queste  sono  blan- 
dule  e  pallide  animucciole ». 

Che  vuoto,  dunque,  nelPanima,  aggirandomi  per  la  vuota  casa 
della  Cinquantinal  e  tuttavia  come  mi  pareva  ad  ogni  istante  ve- 
dermi  ricomparire  davanti,  alto  e  solenne,  Puomo  da  me  adorato. 
Rivedevo  il  formidabile  « Impellicciato  »,  col  qual  nome  lo  appel- 
larono  i  fiorentini  per  un  gran  pastrano  alParmena  ch'egli  costum6 
portare  tra  il  '48  e  il  '49,  con  baverone  e  manopole  di  pelliccia,  e 
foderato  di  pelle  di  vaio;  pastrano  su  cui  si  sbizzarrirono  mille 
volte  tutti  i  caricaturisti  del  tempo,  e  che  io  vidi  poi  a  Livorno  ab- 
bandonato  alle  tignuole,  quasi  del  pari  che  i  suoi  cari  libri  che  gli 
eran  serviti  scrivendo  VAssedio  di  Firenze,  che  pur  vidi  e  sfogliai 
commosso  nei  sovrapporre  Pindice  su  Pimpronta  che  Pindice  suo 
aveva  lasciato  in  calce  d'ogni  paginal  Lo  rivedeva  andare  su  e  giu 
pel  suo  studio  a  rileggere  a  voce  alta  e  convulsa  i  tratti  piu  «  gla- 
diatorii »  della  sua  prosa  scultoria,  e  poich6  il  sangue  gli  fluiva  a 
onde  alia  testa,  bagnarsela  di  tanto  in  tanto  con  una  pezzuola  in- 
zuppata  nelPacqua  ghiaccia.1  Ah,  il  vulcano  che  getta  fuoco,  e  da 
se  stesso  s'infrena,  aspergendosi  delPavverso  elemento! 

Dodici  anni  dopo  dalla  sua  morte,  Livorno  gli  erigeva  una  statua. 
Ricordo  il  buon  Giuseppe  Chiarini,3  ritto  a  pie  del  titano,  leggerne 
a  voce  bassa  (di  che  non  aveva  colpa)  Papoteosi.  E  anche  ricordo 
ehe  la  mattina  di  quel  giorno  vidi  le  carrozze  di  cospicui  cittadini 
prendere  verso  PArdenza  o  verso  Montenero  o  verso  il  Fabbro 
con  una  corsa  che  assomigliava  a  una  fuga.  —  Perche"  ?  —  chiesi  poi 


i.  bagnarsela . . .  ghiaccia:  Paneddoto  e  raccontato  da  G.  MAZZINI,  in  Sent- 
ti,  II  (edizione  nazionale),  pp.  61  sgg.  2.  Giuseppe  Chiarini  (1833-1908), 
Pamico  pid  fedele  del  Carducci  sin  dagli  anni  della  scuola,  critico  di  lette- 
rature  italiana  e  straniere,  editore  del  Foscolo,  poeta  e  insegnante,  ebbe,  tra 
1'altro,  il  merito  (del  quale  non  di  meno  si  pentl  tosto)  di  « scoprire  »  e  di 
«lanciare»  D'Annunzio, 


912  LEOPOLDO   BARBONI 

a  un  d'essi  cospicui  cittadini.  —  Oh,  —  mi  fu  risposto  —  perche* 
dove  si  parla  di  lui,  non  voglio  star  io!  .  .  . —  Ma  e  credibile?  £ 
autentico. 

II  Guerrazzi  e  scolpito  seduto.  A  me  quel  Guerrazzi  seduto,  im- 
bozzacchito,  infagottato,  mi  ha  dato  sempre  e  da  Fidea  di  un  got- 
toso  che  fa  i  pediluvii.  In  piedi,  in  piedi  bisognava  istoriarlo ;  in  piedi 
e  con  la  radiosa  testa  eretta  e  come  in  atto  di  «passare  inflessibile 
dinanzi  le  turbe  tumultuanti ».  Ma  che  cosi  debbasi  raffigurare  un 
pensatore,  lo  scrisse  egli  stesso.  Ebbene,  fu  Tunica  sciocchezza 
ch'egli  scrivesse,  e  non  bisognava  raccoglierla;  anche  perch6,  se 
fosse  stato  in  piedi  piuttosto  che  seduto,  forse  i  beceri  livornesi, 
in  una  scellerata  notte  del  1889,  con  un  colpo  di  pietra  o  di  bastone 
non  gli  avrebbero  spezzata  la  penna  ch'ei  tiene  in  mano.  Proprio 
quella  penna  che  tanto  aveva  scritto,  perche  anche  la  canaglia  fosse 
riconosciuta  facente  parte  del  genere  umano! 

A  sera  fatta,  dando  un  ultimo  addio  alia  Cinquantina  divenuta 
spettrale,  le  auguravo  sollecita  una  pietra  commemorativa  che  chiu- 
desse  con  le  solenni  e  austere  parole,  che  il  Carducci  us6  nella  pre- 
fazione  dell'epistolario,1  ricordanti  il  cuore  ch'ebbe  il  grand'uomo, 
«a  cui  il  volgo  degli  awersari,  quand'altro  non  seppe,  negb  il  cuore, 
solito  rifugio  al  pettegolezzo  imbecille  dei  piccoli». 


FIGURE,   FIGURINE  E  FIGURI  DI  FIRENZE  CAPITALS2 

Si  chiamava  Ettore  Strazza,3  ed  era  milanese,  awocato  e  venti- 
quattrenne.  Firenze  capitale  lo  aveva  attirato  coi  suoi  succiatoi4 
alPombra  del  campanile  di  Giotto,  ed  egli  ci  si  risvoltolava  beata- 
mente  per  il  lungo  e  per  il  traverso.  Abitava  in  via  Portarossa  una 
camera  e  un  salottino  angusti  dove  si  radunavano  confusamente 
poeti,  storici,  romanzieri,  pittori,  ufficiali,  giornalisti,  impiegati, 
baritoni,  fioraie,  ballerine,  bevitori  d'assenzio,  e  cerberi  che  di 

i.l(Il  Carducci  raccolse  1'epistolario  del  Guerrazzi  in  due  volumi:  prima  serie 
(1827-1853),  Livorno,  Vigo,  1880;  seconda  serie  (1820-1859),  ibid.,  1882. 
La  citazione  del  Carducci,  qui  riportata,  e  a  p.  vn  della  « awertenza » (anche 
in  Opere,  edizione  nazionale,  xix,  p.  67).  2.  Ed.  cit.,  cap.  iv,  pp.  89-113. 
3.  Di  Ettore  Strazza  fa  cenno  il  Socci,  nel  suo  scritto  Da  giornalista  a  depu- 
tato,  ma  con  tono  ben  diverso  da  quello  qui  usato  dal  Barboni.  Tra  1'altro, 
lo  Strazza  doveva  andare  a  Roma  col  Socci  a  farvi  parte  della  redazione  del 
giornale  «L'Italia  nuova»,  ma  ne  fu  impedito  dalla  fine  precoce.  4.  suc 
ciatoi:  tentacoli,  come  quelli  di  un  polipo:  e  voce  popolaresca  toscana. 


GENI    E    CAPI    AMENI    DELL'OTTOCENTO  913 

quando  in  quando  prendevano  ipoteca  sopra  un  soprabito  andato 
ai  cam  o  su  un  orologio  senza  lancette. 

La  sua  conversazione  era  burrascosa,  eruditissima,  mottegge- 
vole,  estrosa,  piacevole  sempre.  Improwisava  sonetti  dal  Melini 
in  via  Calzaioli,  mangiando  un  polio  e  gargarizzandosi,  diceva  lui, 
con  un  fiasco  di  quel  del  Chianti  o  della  Rufina;  dormiva  ogni  tre 
notti,  dalle  due  antimeridiane  al  mezzogiorno;  d'estate,  metteva 
sottosopra  il  politeama  Principe  Umberto\  d'inverno,  il  Pagliano, 
la  Pergola  o  il  Niccolini'*  scriveva  con  eleganza  e  con  un  sapore 
veramente  allegro  come  pochi  hanno;  s'intendeva  di  tutto  e  discu- 
teva  su  tutto.  Alia  Citta  tirava  i  tovaglioli  in  faccia  a  chi  lo  contrad- 
diceva;  sfidava  per  una  soprano  o  per  una  mima  con  ugual  calore 
con  che  avrebbe  sfidato  un  denigratore  della  gloria  di  Garibaldi,  e 
una  sera,  me  presente,  scaravent6  un  osso  di  bistecca  ai  piedi  di  un 
povero  parroco  del  pistoiese  perche*  espettorava  in  un  modo  poco  o 
punto  cristiano.  Per  quanto  scusasse  e  compatisse  anche  le  miserie 
umane,  pure  quello  sciaguattio  gutturale  non  rammetteva  dawero. 

Per  quel  che  ne  so  io,  non  faceva  nulla,  o  quasi  nulla.  Bicordo 
che,  competitore  di  Enrico  Nencioni,*  doveva  entrare  a  dirigere 
l'«  Italia  Nuova»  o  «Nuova  Italia »,  non  so  piu  bene,  del  Bargoni3 
(lo  stesso  che  poco  dopo  fu  inviato  a  Londra  a  frugare  in  cerca 
delle  ossa  di  Ugo  Foscolo),  ma  poi  la  cosa  rimase  11.  E  anche  ricordo 
che  pativa  soventissimo  della  distrazione  di  far  sospirare  la  dozzi- 
na  alia  padrona  di  casa,  la  quale  sfogavasi  a  minacciarlo  di  mettergli 
al  monte  il  vestiario  mentr'egli  dormiva.  Qualche  mese  si  dava  che 
in  siffatte  congiunture  lo  soweniva  la  serva,  una  biondona  cele- 
brata  per  la  puntualita  con  cui  la  mattina  gli  portava  in  camera  gli 
stivaletti  lustrati,  e  per  due  occhi  che  avrebbero  traforato  la  cupola 
di  Brunellesco.  Si  diceva  che  fosse  stato  raccomandato  al  marchese 
Niccolini,  al  cui  palazzo,  in  fatti,  bussava  non  infrequentemente 
nelle  ore  mattutine;  quando  il  marchese,  cioe,  non  teneva  conver- 

1.  Principe  Umber  to:  vedi  la  nota  I  a  p.  465;    Pagliano:  vedi  la  nota  4  a 
p.  41 9 ;    Pergola :  vedi  la  nota  2  a  p.  454 ;    Niccolini :  vedi  la  nota  i  a  p.  425. 

2.  Enrico  Nencioni  (1836-1896),  critico  e  poeta  toscano.  Ferdinando  Mar 
tini,  nel  1879,  lo  mise  a  capo  della  redazione  del  «Fanfulla  della  Dome- 
nica  ».  Con  i  suoi  saggi  critici  molto  contribui  alia  diffusione  in  Italia  delle 
letterature  straniere.  Dal  1883  insegnante  all'Istituto  Superiore  di  Magi- 
stero  di  Firenze.     3.  Angelo  Bargoni  (1829-1901),  di  Cremona,  patriotta, 
volontario  nel  1848,  esule,  direttore  del  « Diritto »  (vedi  la  nota  3  a  p.  460), 
deputato  nel  1863,  senatore  dal  1876,  ministro  della  pubblica  istruzione  nel 
1869,  ministro  del  tesoro  (1877-1878).  Fu  merito  in  gran  parte  suo  se  nel 
1871  le  ceneri  del  Foscolo  furono  trasportate  da  Londra  a  Firenze. 

58 


914  LEOPOLDO    BARBONI 

sazione  di  dame  e  gentiluomini,  ma,  chiuso  nel  suo  scrittoio,  con- 
versava  coi  registri  e  coi  fogli  di  banca. 

Fra  la  folia  d'amici  che  lo  attorniavano,  uno  ve  n'era  di  cui  molti 
a  Firenze  debbono  ancor  ricordarsi,  certo  Maurizio  ***  awocato 
anch'egli  senza  clientela,  bellissimo  giovinotto  provinciale  fioren- 
tino,  dagli  occhi  neri  e  languidi,  carnato  da  principessina,  sempre 
inguantato,  infiorettato,  profumato,  impomatato,  e  percio  appunto 
vittima  dei  lazzi  dello  Strazza,  che  era  fieramente  bello  senza  lezio- 
saggini.  Antinoo1  in.  ritardo,  Maurizio  ***  si  sentiva  cotanto  infa- 
natichito  di  s£  da  vantare  pubblicamente  i  proprii  trionfi  amatorii. 
«Non  sono  k»>  diceva  «che  cado  ai  piedi  delle  belle  fiorentine; 
sono  esse  che  cadono  ai  miei! »  E  questa  era  vanita  che  lo  spingeva  a 
usare  da  tre  a  quattro  mute  il  giorno,  e  a  sprofondare  fino  alia  punta 
dei  capelli  in  una  gora  spaventosa  di  debiti;  anche  perch6  spaccian- 
dosi,  coi  non  toscani,  per  conte  o  barone,  frequentava  le  sale  ari- 
stocratiche  di  madama  Maria  Rattazzi2  in  piazza  Santo  Spirito.  E 
il  giuoco  dur6  finche  qualcuno,  avendo  sussurrato  una  parolina  in 
un  orecchio  a  sua  eccellenza  Urbano  Rattazzi,  il  vanesio  fu  preso, 
dir6  cosl,  delicatamente  con  due  dita,  come  si  farebbe  a  un  farfal- 
lone  dorato,  e  messo  alia  porta.  Per  imbrogli  d'ogni  fatta,  architet- 
tati  per  suggestione  della  irrefrenabile  vanita  sua,  doveva  essere 
processato,  ma  gli  riuscl  fuggire,  e  poco  dopo,  cosi  mi  dissero,  o 
s'impicc6  o  s'affog6  o  si  fracass6  il  cervello,  anzi  il  cervellino,  in 
Alessandria  d'Egitto. 

In  quanto  a  me,  conobbi  lo  Strazza  in  un  modo  singolarissimo. 
Era  una  di  quelle  serate  d'acqua  e  vento  come  capitano  in  autunno, 
e  1'umidore  e  Puggia  infastidivano  finance  il  Biancone  e  Tesoso 
Ercole3  del  Bandinelli.  Fra  la  luce  ancora  incerta  dei  lampioni  e  la 
cupaggine  del  cielo  annottante,  Palazzo  Vecchio  e  Orsanmichele, 
la  torre  del  Bargello  e  i  campanili  delle  chiese  medioevali  parevano 
enormi  dadi  di  bronzo  e  di  granito,  e  giganti  ebbri  del  fremito  delle 
tempeste  che  si  rincorressero  su  pej  tetti  sgocciolanti,  fischiando  e 
ruggendo  una  canzone  d'inferno. 

i.  Antinoo:  bellissimo  giovane  della  Bitinia,  schiavo  dell' imp eratore  Adria- 
no.  2.  Maria  Rattazzi:  Maria  Bonaparte  Whyse,  vedova  De  Solms,  mo- 
glie  di  Urbano  Rattazzi  (vedi  la  nota  i  a  p.  501).  Di  lei  e  dei  suoi  ricevimenti 
scrive  interessanti  notizie  U.  PESCI,  in  Firenze  capitals,  Firenze,  Bemporad, 
1904,  pp.  345-8.  3.  II  gruppo  di  Ercole  e  Caco,  di  Baccio  Bandinelli  (1487- 
1560),  e  giudicato  sfavorevolmente/  dagli  intenditori;  per  il  Biancone , 
vedi  la  nota  3  a  p.  619. 


GENI    E    CAPI    AMENI    DELL'OTTOCENTO  915 

Sotto  la  Loggia  del  Lanzi  e  sotto  gli  Uffizii  andava  su  e  giii  la 
gente  con.  ritornello  monotono  di  scarp  e  e  stivali  strusciati  svoglia- 
tamente,  e  s'intendevano  tutti  i  dialetti  d' Italia,  e  si  vedevano  sbrac- 
cettamenti  di  lombardi  e  di  siciliani,  di  piemontesi  e  di  calabresi, 
di  napoletani  e  di  veneti,  e  le  statue  marmoree  dei  grandi  toscani 
pareva  ricevessero  anima  e,  sorridendo  a  tutta  quella  promiscuanza 
della  famiglia  italiana,  mormorassero :  «Finalmente!  ...» 

Dunque  pioveva,  ne  ci  aveva  colpa  il  governo.  II  Melini,  patriarca 
deirumanita,  apriva  le  sue  braccia  alia  maggior  parte  degli  strava- 
ganti  e  degli  sbilanciati,  troneggiando  fra  trofei  di  fiaschi  e  di  bot- 
tiglie,  di  rifreddi  e  di  braciole  impanate,  o  «  cotolette  »  come  dicono 
i  ben  parlanti!  M'ero  imbattuto  nel  vanesio  a'  cui  piedi  cadevano 
di  sfascio  le  belle  fiorentine,  e  tutti  due  ce  ne  andavamo  melensi, 
rasentando  li  sporti  di  via  Calzaioli.  Dinanzi  al  Melini  Panima 
mia,  con  un  raro  slancio  di  ragionevolezza  che  mi  fece  stupire,  mi 
ali6  in  faccia  e  disse  al  mio  corpo :  « Tu  sei  quasi  allucignolato,  e 
domattina  I'uomo  potrebbe  esser  morto :  entra  11 ».  Ed  entrai,  ossia 
entrammo.  Ma  non  mi  ero  avanzato  di  tre  passi  che  un  tavoleg- 
giante  m'inciampava  rovesciandomi  addosso  un  vassoio  d'intin- 
goli,  e .  .  .  Dio  mi  perdoni!  non  so  piu  che  filastrocca  tirassi  giu, 
di  quante  poste,  e  se  in  versi  o  se  in  prosa;  per6,  questo  e  certo, 
dovette  essere  arzigogolata  ingegnosamente,  se  si  pensa  che  un 
giovine  alto  e  in  soprabito,  con  barba  nera,  ben  tenuta,  crespa  e 
degna  d'un  Raja  dell'Indostan,  si  Iev6  da  un  tavolino,  strinse  la 
mano  al  vanesio,  e  presentatomisi  e  guardatomi  prima  dal  capo  ai 
piedi,  esclam6  serio  serio :  —  Le  aff ermo  fin  da  questo  momento  la  mia 
schietta  ammirazione!— E  mi  trascin6  in  mezzo  a  un  nuvolo  di  ami- 
ci  e  di  fumo,  abballottandomi  e  gettandomi  a  sedere  su  un  divano. 

Era  lui,  era  Ettore  Strazza,  ch'era  disceso  allora  da  Fiesole, 
dov'era  stato  scarpa  scarpa1  con  Edmondo  De  Amicis. 

O  giorni,  o  lunghe  serate  allegramente,  poco  o  punto  ortodossa- 
mente  trascorse!  Serio  sempre  come  una  sfinge,  Ettore  Strazza 
aveva  nonpertanto  veri  estri  da  manicomio.  Basti  questo  per  tutti. 
La  mattina  che  giunse  a  Firenze  il  telegramma  della  conquista  di 
Roma,  Ettore  dormiva  profondamente.  Suonavano  le  undici  alia 
torre  d'Arnolfo;  undici  colpi,  cupi  e  lenti,  che  parvero  il  toc- 

i.  scarpa  scarpa:  insieme,  camminando  all'unisono.  II  De  Amicis  era  a  Fi 
renze  dal  1867. 


916  LEOPOLDO   BARBONI 

cheggio  pel  funerale  del  papa-re;  la  citta  era  sossopra,  le  botteghe 
si  sprangavano  con  una  specie  di  terremoto,  le  finestre  si  spalaaca- 
vano  con  un  certo  die  di  spicinio,  e  cento  e  cento  braccia  si  spenzo- 
lavano  per  fissare  negli  anelli  le  aste  delle  bandiere;  la  folia  corre- 
va  qua  e  la  formando  fiumane,  e  sotto  la  Loggia  dell'Orcagna  si  met- 
tevano  assieme  le  falangi  per  la  prima  ovazione  che  doveva  farsi 
sullo  spiazzale  dei  Pitti.  Per  via  Calzaioli,  giu  giu  fino  in  piazza 
della  Signoria,  correva  rapida  e  commovente  la  voce,  che  Vittorio 
Emanuele  misurava  a  passi  convulsi  le  sale  del  palazzo  e  aspettava 
mostrarsi  al  popolo  italiano  col  sorriso  di  un  galantuomo  che  ha 
mantenuto  una  parola  d'onore. 

Volai  in  via  Portarossa,  e  salite  le  scale  del  mio  eroe,  mi  precipi- 
tai  in  camera  gridando: 

—  Destati!  Roma  e  nostra  .  . .  ! 

Balz6  dal  letto  vestito  della  sola  epidermide,  spalancb  Pinvetriata 
del  terrazzino,  e  si  affacci6  comodo  e  tranquillo  senza  nemmeno  la 
foglia  di  fico!  Una  formidabile  fischiata  lo  accolse. 

—  Viva  1'esercito!  —  grid6  egli,  e  rientr6. 

Ma  e  vero  dawero  ?  Se  e  vero!  vivo  no  ancora  a  Milano  a  Firenze 
a  Roma  chi  sa  mai  quanti  dei  suoi  vecchi  amici.  N6  una  guardia, 
almeno  una,  sali  su  a  contestargli  la  contrawenzione  al  pudore? 
Ma  che!  figurarsi  se  in  quel  momento  febbrile  una  foglia  di  fico  o  no 
poteva  far  1'effetto  d'un'improwisa  nevicata  su  quella  po'  po' 
d'ebullizione  di  spiriti;  anzi! 

Questo  scapigliato,  questo  tipo  originalissimo,  amabile,  ardito, 
fannullone,  d'ingegno  potente,  di  memoria  ferrea,  che  non  dor- 
miva  quasi  mai,  che  conosceva  tutti,  che  tutti  conoscevano,  e  quello 
stesso  Ettore  Strazza  che  «con  una  facezia  innocente  sul  guarda- 
portone  della  Scalar  tirava  sulle  braccia  del  suo  intimo  Felice 
Cavallotti1  tutto  il  reggimento  degli  ccUssari  di  Piacenza»,  cioe 
causava  duelli  sopra  duelli. 

L'amicizia  fraterna  col  Cavallotti  datava  da  anni.  "L'Osteria  del 
Galloj  a  Milano,  gli  aveva  accolti  cento  e  cento  volte  entrambi  fin 
dal  1867  fra  le  quattro  pareti  di  una  retrostanza,  e  con  sacro  terrore 
aveva  inteso  i  loro  strepiti,  le  Ic-ro  poesie,  i  loro  disegni,  le  loro 

i.  Felice  Cavallotti  (1842-1898),  di  Milano,  combatte  a  Milazzo,  al  Vol- 
turno  e  nella  guerra  del  1866.  Autore  di  drammi  (/  pezzenti,  1872;  Al- 
cibiade,  1874,  ecc.),  di  liriche,  ecc.  Oratore,  polemista,  deputato.  Fond6 
nel  1866  il  « Gazzettino  rosa».  Avvers6  il  trasformismo  di  Depretis  e  il 
Crispi.  Mori  in  duello. 


GENI    E   CAPI   AMENI   DELL'OTTOCENTO  917 

prose  roventi.  Perch6  e  appunto  in  quella  retrostanza  che  il  Ca- 
vallotti  scriveva  il  «  Gazzettino  Rosa»,  e  Giuseppe  Rovani,  1'autore 
della  Giovinezza  di  Giulio  Cesare?  dissertava  sulle  virtu  dell'assen- 
zio  con  poderosi  pugni  sulla  tavola,  ed  Emilio  Praga  e  lo  Strazza 
mangiavano  di  gran  piattate  di  gamberi,  e  il  disperatamente  inna- 
morato  Iginio  Ugo  Tarchetti2  scriveva  i  versi  che  cominciano : 

Vorrei  saper  quanti  bad  fur  dati 
dal  dl  che  i  bacifurono  inventati! 

Era  una  specie  del  salottino  di  Victor  Hugo  in  via  Nostra-signora- 
dei-campi,  a  Parigi,  ai  giorni  gloriosi  del  dramma  Hernani?  quando, 
cioe,  nelle  vene  della  nobile  e  vecchia  letteratura  francese  veniva 
iniettata  un'onda  di  sangue  nuovo  e  bollente.  Del  resto,  ho  detto 
una  specie. 

Ettore  smaniava  presentarmi  al  futuro  autore  dell'Alcibiade,  ma, 
allora  come  allora,  il  poeta  si  dibatteva  in  Milano  fra  sequestri  e 
catture  e  duelli  e  latitanze  quasi  continui,  n6  gli  era  facile  venire  a 
Firenze  a  bere  un  bicchiere  di  Pomino  e  prendere  una  boccata  d'aria 
sul  Viale  dei  Colli.  Passarono  varii  anni  prima  che  io  potessi  cono- 
scere  Felice  Cavallotti  e  stringergli  la  mano  a  Livorno. 

Debbo  per6  allo  Strazza  Pincontro  arruffato  e  la  conoscenza  con 
F  autore  dei  Bozzetti  militant  Pioveva,  al  solito,  come  Dio  la  man- 
dava,  e  noi  eravamo  fermi  sotto  un  portone  di  via  della  Vigna 
Nuova.  Possedere  un  ombrello  pu6  parere  la  piu  genuina  cosa  di 
questo  mondo,  e  non  &  cosl;  almeno  a  quei  tempi  n6  Ettore  ne  io 
lo  possedevamo,  neppure,  aime,  neppure  d'alpaga  tinto  a  color 
caffe  con  Porlo  rosso,  come  usano  i  curati  e  i  cappellani  di  cam- 
pagna.  Che  c'importava  dell'acqua? 

A  un  tratto  il  mio  eroe  da  un  guizzo,  salta  in  mezzo  alia  strada, 
ferma  un  passante  intabarrato  e  frettoloso,  poi  mi  chiama,  e  li,  sotto 
quella  benedizione,  mi  presenta  a  Edmondo  De  Amicis. 

Chi  dalla  lettura  di  Pagine  sparse3  argomentasse  che  il  De  Amicis 

i.  La  Giovinezza  di  Giulio  Cesare  e  il  titolo  dell'ultimo  romanzo  di  Giuseppe 
Rovani  (vedi  la  nota  4  a  p.  266).  2.  Emilio  Praga  (1839-1875),  poeta  del 
gruppo  degli  « scapigliati »,  come  Iginio  Ugo  Tarchetti  (1841-1869).  3.  II 
dramma  Hernani  apparve  nel  1830.  4.  /' autore  .  .  .  militari:  il  De  Amicis 
andava  pubblicando  nell'«  Italia  militate »  e  nella  « Nuova  Antologia»  quei 
bozzetti  che  formarono  poi  il  suo  primo  volume,  La  vita  militare  (1868). 
5.  Nel  volume  Pagine  sparse  (1878)  il  De  Amicis  rivolse  la  sua  attenzione 
allo  studio  della  lingua,  seguendo  le  teorie  manzoniane. 


918  LEOPOLDO    BARBONI 

fosse  allora  davvero  una  specie  di  sorcio  di  biblioteca,  sempre  af- 
fannato  a  sfogliare  il  vocabolario  o  a  interrogare  la  vecchia  padrona 
di  casa  sul  come  si  dice  o  non  si  dice  a  Firenze,  o  come  si  chiama 
o  non  si  chiama  la  tal  cosa  o  la  tal'altra,  prenderebbe  un  abbaglio. 
E  poi  ci  vuol  altro  che  simili  esercizii  per  chi  non  e  nato  suirArno! 
Basti  dire  che  il  buon  De  Amicis  non  seppe  mai  liberarsi  dal  chia- 
mare  «  osso  »  il  nocciolo,  ne,  Dio  ci  liberi,  capi  mai  il  doppio  signi- 
ficato  della  parola  (ctegame)),1  come  die  a  divedere  (lui  cosi  sempre 
signorilmente  rispettoso  co'  suoi  lettori)  nel  SulVOceano2  deli- 
neando  la  cameriera  del  transatlantic©  Galileo. 

Dunque  no,  il  De  Amicis  non  era  ne  fu  mai,  almeno  fmo  a  che 
per  colpa  del  suo  romanticismo  manzoniano  non  si  scav6  1'abisso 
matrimoniale,3  un  candidate  al  paradiso  per  serieta,  innocenza  e 
lacrime.  E  poi  non  era  ancora  commendatore,  e  molto  meno  un 
Geremia  socialista;4  era  invece  il  De  Amicis  dei  venticinque  anni, 
presenza  apollinea  dardeggiante  fuoco  vivo  da  due  occhi  cerulei 
affascinanti,  arguto,  burlettone,  eccellente  forchetta,  cuor  d'oro, 
desiderate,  cercato,  amato  da  tutti. 

Del  cenacolo  dello  Strazza,  primi  fra  gli  apostoli  erano  lui  e 
Pietro  Coccoluto  Ferrigni,  Yorik?  Ricordo  che  quel  «  Coccoluto  » 
appiccicato  alia  firma  di.uomo  di  tanto  gaio  ingegno,  faceva  andare 
in  bestia  lo  Strazza.  Apostolo  minore,  non  per  inferiority  d'in- 
gegno,  ma  perch6  non  dei  phi  assidui,  il  mite  Enrico  Nencioni, 
intelletto  sopraffino.  Veniva  poi  Medoro  Savini,6  che  aveva  tratto 
in  inganno  piu  d'un  medicuzzo  pubblicando  di  quei  giorni  un  suo 
romanzo  dal  titolo  Tisi  di  cuore,  cui  tra  breve  doveva  tener  dietro 

i.  il  doppio  .  .  .  tegame:  la  voce  tegame,  oltre  che  per  indicate  il  comune 
recipiente  di  cucina,  e  usata  in  Toscana  in  senso  spregiativo  a  significare 
una  donna  sfatta,  di  consumata  prostituzione.  2.  II  romanzo  SulVOceano, 
apparve  nel  1889.  In  esso,  al  capitolo  Uoceano  azzurro,  il  De  Amicis  scrive: 
«quel  tegamaccio  della  cameriera ».  3- per  colpa  .  .  .  matrimoniale:  il  De 
Amicis  fu  assai  sfortunato  nel  suo  matrimonio,  e  i  coniugi  finirono  col  divi- 
dersi.  Le  nozze  avevano  avuto  un'origine  molto  romantica:  una  giovinetta 
morente  aveva  chiesto  di  poter  conoscere,  prima  di  morire,  lo  scrittore  di 
cui  aveva  ammirato  le  pagine:  il  De  Amicis  and6,  la  ragazza  guari  e  si  spo- 
sarono.  Questa  vicenda  ha  narrate  il  Barboni  nel  primo  capitolo  (Edmondo 
De  Amicis)  dello  stesso  libro  da  cui  e  tolto  il  presente  brano.  4.  un  Gere 
mia  socialista;  il  De  Amicis  aderl  ufficialmcnte  al  socialism©  nel  1891,  e 
gli  fu  spesso  rimproverato  il  tono  sentimentale  e  lacrimoso  della  sua  pub- 
blicistica  di  partito.  5.  Ferrigniy  Yorik:  vedi  la  nota  zap.  424.  6.  Medoro 
Savini  (1836-1888),  di  Piacenza,  autore  di  numerosi  romanzi  (Tisi  di  cuore, 
Giglio  nero,  Ave  Maria,  ecc.),  ebbe  una  breve  celebrita.  Pare  che  qualche  me- 
dicuzzo,  ingannato  dal  titolo,  credesse  Tisi  di  cuore  un  trattato  di  medicina. 


GENI   E   CAPI   AMENI   DELL'OTTOCENTO  919 

un  flusso  abbondante  di  «  chineserie »,  direbbe  il  Carducci  (niente- 
meno  che  un  romanzo  ogni  mese,  tutte  vere  e  proprie  birbonate, 
del  resto);  veniva  Carlo  Lorenzini,1  il  geniale  collaborator  del 
(cFanfulla))  col  pseudonimo  di  Collodi  a  ricordo  della  madre  ado- 
rata  ch'era  appunto  di  Collodi  presso  Lucca:  il  fortunato  genitore 
di  Pinocchio,  un  carissimo  tipo  che  non  si  levava  mai  il  cappello, 
ne  se  lo  sarebbe  levato  nemmeno  a  Sesostri  o  a  Napoleone  il  grande 
se  gli  si  fossero  presentati  dinanzi  rinviviti;  e  tanti  e  tanti  altri  ve- 
nivano,  pubblico  spicciolo  i  piu,  tranne  qualcuno  che  accennava 
ad  emergere. 

Bei  tempi!  Grazie  al  Guerrazzi  e  al  Centofanti,2  io  poco  piu  che 
ventenne,  bazzicavo,  pu6  dirsi,  quanto  di  piu  chiaro  viveva  allora 
in  Firenze,  e  cosi  ne  aweniva  che  fra  il  mio  eroe  e  me  fosse  un 
continuo  rimorchiarci  dinanzi  alle  classiche  conoscenze.  E  ne  aveva- 
mo!  C'era  Gino  Capponi,  il  gran  guelfo,  ed  il  Tommaseo,  alquale, 
incontrandolo  su  pel  Viale  dei  Colli  a  braccio  di  qualcuno  perch6 
cieco  ormai  e  affranto,  perdonavamo  Taver  chiamato « testa  piccina» 
il  Giusti,  anche  perche  tanta  albagia  gli  era  stata  in  qualche  modo 
rintuzzata  molto  innanzi  dal  Niccolini,  formidabile  atleta,  che  lo  ave- 
va  bollato,  non  giustamente,  di «  selvaggio  »  e « ipocrita »  e « malvagio 
Schiavone))!3  E  c'era  1'abate  Manuzzi,4  filologo  ed  epigrafista,  bel 
vecchiotto  tutto  bianco  e  rubizzo ;  il  buon  Luigi  Passerini,  potente 
memorioso5  e  prefetto  della  Biblioteca  Nazionale;  c'era  il  mio  ami- 
cissimo  conterraneo  Olinto  Barsanti,6  avvocato  dei  primi  in  Fi 
renze,  poi  senatore  del  regno.  C'era  il  rigido  Canestrini,7  e  il  piu 

i.  Carlo  Lorenzini  (1826-1890),  1'autore  delle  Avventure  di  Pinocchio,  usci- 
te  dapprima  nel  «Giornale  per  i  bambini)),  fondato  a  Roma  nel  1881  da 
Ferdinando  Martini.  2.  Silvestro  Centofanti  (1794-1880),  filosofo  e  let- 
terato,  collaboratore  dell'«  Antologia»  del  Vieusseux,  democratico  mode 
rate,  professore  all' University  di  Pisa  (1838-1848).  Dopo  il  1859  fu  nomi- 
nato  senatore.  A  lui  il  Barboni  ha  dedicate  un  capitolo  (Le  passeggiate  con 
Silvestro  Centofanti)  del  libro  da  cui  stiamo  trascrivendo.  3.  Schiavone: 
il  Tommaseo  era  nativo  di  Sebenico,  nella  Dalmazia  o  Slavonia.  4.  Giu 
seppe  Manuzzi,  di  Cesena  (1800-1876),  abate  e  filologo,  discepolo  e,  per  i 
problemi  linguistici,  seguace  del  padre  Cesari,  di  cui  scrisse  una  Vita.  5,  II 
conte  Luigi  Passerini  de'  Rilli  (1816-1877),  del  quale  Ferdinando  Martini 
pubblico  il  Diario,  fu  dotto  genealogista  fiorentino,  dal  1856  direttore  del- 
1'Archivio  di  Stato  e  dal  1871  della  Biblioteca  nazionale  centrale  di  Firenze; 
memorioso:  di  forte  e  ricca  memoria.  6.  Olinto  Barsanti  (1826-1905),  stu- 
dente  a  Pisa,  partecip6,  nel  battaglione  dei  sapientini,  alia  battaglia  di 
Curtatone  e  Montanara.  Fu  illustre  avvocato  del  foro  toscano.  Deputato 
di  Pisa  e  poi  di  Firenze,  fece  parte  del  Centro  destra.  Fu  nominate  sena 
tore  nel  1891.  7.  Giuseppe  Canestrini  (1807-1870),  di  Trento,  erudito, 


920  LEOPOLDO    BARBONI 

che  aggrondato  Augusto  Conti,1  abitante  allora,  se  ben  ricordo, 
su  per  1'Erta  Canina,  all'aria  pura,  presso  il  Viale  del  Colli,  a  me- 
glio  meditare,  forse,  Tinsulto  atroce  fatto  da  studente  a  Federigo 
Del  Rosso,2  luminare  dell'universita  di  Pisa,  di  che  si  era  poi 
pentito  al  punto  da  vagheggiare  una  tonaca  di  cappuccino.  In  con- 
vento  non  entro  mai,  ma  che  tre  quarti  almeno  di  frate  in  lui  ci 
fossero,  nessuno  pu6  negare;  monacofilo  con  anima  d'italiano  au- 
steramente  incorrotto,  del  resto,  che  lo  fece,  e  fino  alia  morte  lo 
mantenne,  innamorato  di  Girolamo  Savonarola;  amore  nobilissimo, 
nonostante  che  il  gran  frate  intimasse  la  distruzione  dei  capolavori 
del  genio  fiorentino  alia  vigilia  del  Rinascimento!  Cera  Tonorando 
Giovanni  Dupre3  intento  allora  a  scolpire  e  in  pari  tempo  a  scrivere 
i  suoi  Ricordi  autobiografici,  che  Augusto  Conti  gli  andava,  via  via, 
sapientemente  rivedendo  e  riducendo  a  miglior  lezione.  Cera  An 
drea  MafTei,4  alloggiante,  mi  pare,  in  un  albergo  di  Via  del  Procon- 
solo,  il  poeta  traduttore,  dalla  copiosa  chioma  e  dal  folto  pizzo  can- 
didissimi  e  coltivati  sempre  con  amore  infinito,  quasi  provasse  pena 
a  dimenticare  i  trionfi  amorosi  del  passato,  o  piuttosto  lo  facesse 
per  far  dispetto  alia  contessa  Clara5  che  di  dispetti  glie  ne  aveva 
fatti  tanti  e  gliene  faceva.  Cera  il  fanfano  Pietro  Fanfani,6  fisono- 
mia  di  ortolano  dei  sobborghi  di  Pistoia,  dal  sorriso  di  faina,  dal- 
Tocchio  infido,  verdognolo  in  viso  forse  per  la  bile  viperina  covata 
sempre  contro  il  Carducci,  e,  nelPandare,  un  po'  barellante  come  se 
portasse  sulle  spalle  le  centomila  copie  del  suo  Vocabolario.  Cera 

storico.  Eletto  deputato,  prefer!  restare  bibliotecario  della  Nazionale  di 
Firenze.  Cur6  1'edizione  delle  opere  inedite  del  Guicciardini.  i.  Augusto 
Conti  (1822-1905),  professore  all'Universita  di  Pisa  e  alPIstituto  superiore 
di  Firenze.  Mir6  a  restaurare  1'indirizzo  tomistico.  Ha  lasciato  molte  opere, 
di  interesse  piti  stilistico  che  filosofico.  2.  Federigo  Del  Rosso  fu  professo 
re,  gia  prima  del  1848,  nella  facolta  giuridica  dell'Universita  di  Pisa.  Poiche 
nelle  lezioni  esprimeva  idee  illiberali,  gli  studenti  decisero  di  punirlo.  Gli 
estratti  a  sorte,  tra  cui  Augusto  Conti,  entrarono  una  sera  in  casa  sua  e  lo 
bastonarono  duramente.  In  conseguenza  di  ci6  il  Conti  fu  arrestato  e  chiuso 
per  tre  mesi  nel  mastio  di  Volterra:  ne"  pot6  poi  ritornare  a  laurearsi  a 
Pisa.  Vedi  A.  ALFANI,  Della  vita  e  delle  opere  di  Augusto  Conti,  Firenze, 
Alfani  e  Venturi,  1906.  3.  Giovanni  Dupre  (1817-1882),  celebre  scultore. 
4.  Andrea  Maffei  (1798-1885),  poeta  trentino.  Profondo  conoscitore  delle 
lingue  e  letterature  moderne,  a  lui  si  devono  importanti  traduzioni  da 
Klopstock,  Schiller,  Goethe,  Milton,  Byron,  ecc.  5.  Su  Clara  MafTei, 
vedi  la  nota  2  a  p.  354.  6.  Pietro  Fanfani  (1815-1879),  filologo,  editore 
di  testi  antichi,  studioso  della  lingua  con  intenti  da  purista,  autore  di 
vari  vocabolari.  Fu  bibliotecario  della  Marucelliana.  II  Carducci  lo  fece 
spesso  oggetto  di  satira  e  polemiche.  La  voce  fanfano^  chiacchierone  e  ar- 
meggione,  e  suggerita  al  Barboni  anche  dal  suo  carduccianesimo. 


GENI   E   CAPI   AMENI   DELL'OTTOCENTO  Q2I 

Piero  Puccioni,1  bella  figura  di  gentiluomo  e  di  valentuomo;  Marco 
Tabarrini,  Giuseppe  Civinini2  Peloquentissimo,  e  tanti  e  tanti  altri. 

Giusto  del  Civinini.  Ettore  si  struggeva  conoscerlo,  mi  metteva 
in  croce  da  mattina  a  sera;  ed  io  a  temporeggiare,  perche  la  cosa  era 
seria.  Giuseppe  Civinini  aveva  fremuto  di  dolore  ai  piedi  del  Ga 
ribaldi  sull'Aspromonte,  lo  aveva  seguito  nella  prigionia  del  Vari- 
gnano  e  fra  le  rocce  di  Caprera,  e  nel  '66,  infilandosi  di  nuovo  la 
gloriosa  camicia  rossa  di  capitano  e  disertando  il  suo  scanno  di  de- 
putato,  lo  aveva  seguito  ancora  nel  Trentino,  guadagnandosi  fra  i 
greppi  di  Bezzecca  uno  splendido  rapporto  di  Nicola  Fabrizi3  e  la 
Croce  dell'ordine  militare  di  Savoia.  Poi?  poi,  a  giudizio  dello 
Strazza  (e  di  milioni  d'italiani),  pareva  avesse  obliato  1'antico  e  ra- 
dioso  Dio.4  Per  questo  ne  diceva  corna;  e  siccome  era  un  certo 
tipo  che  le  buttava  fuori  come  se  le  sentiva,  e  dalle  parole  passava 
subito  alle  sfide,  e  infilava  le  pancie  umane  con  una  sicurezza  pro- 
digiosa,  io  mi  sentivo  sulle  spine,  e  mi  sarei  fatto  piuttosto  abatu- 
colo  di  d6mo  anzich6  menarlo  alia  «  Nazione  ». 

Perch6  il  deputato  Civinini  era  allora  appunto  direttore  della 
«  Nazione  ».  E  mi  par  sempre  d'averlo  dinanzi  agli  occhi,  con  quella 
sua  catena  da  lucerna  con  in  fondo  un  mazzetto  di  chiavi  e  chiavet- 
tine,  e  che,  agganciata  al  primo  occhlello  del  panciotto,  gli  scendeva 
giu  lungo  il  petto,  un  po*  frittelloso,  dondolandosi  insieme  alle  lenti. 

Lo  avevo  conosciuto  da  qualche  mese,  auspici  Olinto  Barsanti  e 
Piero  Puccioni.  II  Civinini  era  secco  allucignolato,  con  baffi  inti- 
gnati,  i  denti  schiezzati5  e  neri  come  quelli  di  Napoleone  I,  il  quale 
gli  aveva  cosl  perche  tremendo,  anzi  feroce  divoratore  di  sugo  di 
requilizia.  Buono  e  austero  e  onesto  Civinini!  Ricordo  che  un  gior- 
no  lo  trovai  su  tutte  le  furie  perche  un  bel  signorino,  non  toscano, 
era  andato  ad  offrirgli  un  romanzetto  da  mettersi  in  appendice  sul 
suo  giornale,  e  ad  ogni  costo  aveva  voluto  leggergliene  le  prime 
due  o  tre  pagine. 

—  Detesto  questo  genere  di  letteratura,  —  mi  diceva  —  eppure, 

i.  Piero  Puccioni  (1833-1898),  con  Leopoldo  Cempini  e  Carlo  Fenzi  fond6 
il  giornale  « La  Nazione »  che  diresse  fino  al  1864.  Deputato  dal  1865  al 
1882  nelle  file  della  Destra.  Senatore  nel  1886.  2.  Giuseppe  Civinini  (1835- 
1871),  uomo  politico  e  letterato,  allora  deputato  e  direttore  del  quotidiano 
«  La  Nazione ».  3.  Nicola  Fabrizi  (vedi  la  nota  4  a  p.  505)  nella  campagna 
del  1866  fu  capo  di  stato  maggiore  di  Garibaldi.  4.  Vantico  .  .  .  Dio:  Gari 
baldi.  5.  schiezzati:  scheggiati:  e  forma  popolare  toscana. 


922  LEOPOLDO    BARBONI 

per  Pufficio  che  ho,  mi  tocca  quasi  ogni  giorno  a  sentirmi  torturare 
con  simili  proposte;  e  che  roba!  Non  sanno  se  «Nazione»  si  scrive 
con  una  zeta  o  con  due,  e  pur  son  tutti  scrittori ;  e  i  non  toscani  ven- 
gono  qui  alia  capitale,  sanno  che  qui  si  parla  bene,  credono  oro  di 
zecca  tutte  le  voci  che  sentono,  e  impinzano  di  porcherie  le  loro 
prose  clorotiche.  Ha  incontrato  quel  giovine  ? .  .  .  Ha  voluto  di  riffa 
assassinarmi  leggendomi  il  principio  di  un  suo  zibaldone.  Dio, 
Dio!  A  un  certo  punto  una  signora  contessa  dice  a  un  signor  mar- 
chese,  che  le  faceva  il  cascamorto :  «  Signor  marchese,  ve  ne  prego, 
non  fate  piu  il . . . »  (e  seguiva  la  parola  con  cui  anche  si  indicano  le 
chiavi  dei  violini).  «  Come  ?  come  ?  ma  e  una  turpitudine! »  «  0  non 
lo  dicono  i  toscani  nel  significato  di  sciocco,  d'imbecille,  di  noio- 
so? ...»- Eh,  eh,  eh! 

E  il  Civinini  si  buttava  via  dalle  risa  commiserando. 

Era  piuttosto  brutto,  ma  dagli  occhi  nerissimi  e  dalla  fronte  in- 
corniciata  di  capelli  pur  neri  e  crespi  gli  traluceva  Panima  italia- 
namente  altiera  nella  coscienza  delPingegno,  della  bonta  e  della 
rettitudine.  QuelPuomo  che  di  quindici  anni  appena  (dico  quindid 
anni)  minacciato  del  carcere  dalla  polizia  toscana  aveva  dovuto 
sottrarvisi  con  la  piu  drammatica  fuga,1  abbandonando  la  sua 
Pistoia,  e  la  madre  e  la  sorella  adoratissime ;  che  si  era  rifugiato  a 
Liverpool  e  poi  a  Genova,  dove  lo  incarceravano  per  cospirazione 
contro  T Austria,  e  d'onde  lo  reclamava  il  governo  lorenese  per  re- 
stituirlo,  qual  minorenne,  alia  famiglia,  ma  in  realta  per  averlo 
sottomano  e  incarcerarlo  due  o  tre  volte,  per  « ragazzate »,  diceva 
esso  governo,  bruciandogli  il  dire  che  si  trattava  invece  di  mazzinia- 
nismo ;  che  per  effetto  di « specchietto  macchiato » aveva  dovuto  dare 
un  addio  agli  studi  universitarii,  appena  iniziati,  da'^quali  si  ripro- 
metteva  rapidi  trionfi  per  Pingegno  svegliatissimo,  e  alleviamenti 
sicuri  ai  bisogni  delle  eroiche  madre  e  sorella;  che  fra  i  sedici  e  i 
venticinque  anni  aveva  dovuto  riprendere  la  via  delPesilio  e  rifu- 
giarsi  a  Ginevra,  a  Parigi,  a  Londra  e  per  ultimo  a  Costantinopoli, 
precettore  ventenne  dei  figliuoli  di  Adriano  Lemmi,2  e,  da  Costan- 

1.  drammatica  fuga:  il  Civinini  era  fuggito  a  Livorno  e  di  11  si  era  imbarcato 
per  PInghilterra.  Vedi  la  narrazione  che  di  questa  e  delle  sue  successive 
awenture  scrisse  la  sorella  G.  ARRIGHI  CIVININI,  La  prima  giomnezza  di 
G.  Civinini,  in  «La  Rassegna  nazionale»,  16  febbraio  1906,  pp.  621-58. 

2.  Adriano  Lemmi  (1822-1906),  patriotta  livornese,  mazziniano,  poi  au- 
torevole  massone.  Fu  lui  nel  1849  a  occuparsi  deirimbarco  a  Livorno 
della  legione  Manara  diretta  a  Roma.  Caduta  Roma,  torn6  a  Costantinopoli. 


GENI    E    CAPI   AMENI    DELL'OTTOCENTO  923 

tinopoli  alia  grande  notizia  dello  sbarco  del  Mille  era  volato  a 
Palermo  divenendo  in  breve  segretario  di  Garibaldi;  che  trentenne 
appena  veniva  eletto  «deputato  a  vita»  della  sua  Pistoia;  che  riem- 
piva  della  sua  eloquenza  la  Sala  dei  Cinquecento  ;r  che  travolto  con 
la  piu  nera  calunnia  nel  processo  della  Regia,2  squassando  la  chioma 
come  un  leone  ferito  s'era  difeso  convincendo  FAssemblea  che  lo 
dichiarava  incontaminato,  ed  erano  fra  i  dichiaranti  Zanardelli, 
Biancheri,  Fogazzaro  e  Cairoli;3  che  in  un  momento  di  supremo 
cordoglio  per  Toffesa  patita,  ai  pistoiesi,  che  lo  adoravano,  voleva 
restituire  il  mandato  affidatogli  prorompendogli  dairanima  la  so- 
lenne  frase  alludente  al  Parlamento:  «Nudo  vi  venni,  e  nudo  me 
ne  vado  » ;  che  gloriosamente  sempre  povero  aveva  rinunziato  a  f a- 
vore  d'istituzioni  umanitarie  la  pensione  che  gli  spettava  per  la 
«  Croce  al  merito  militare  di  Savoia  »,  quelPuomo,  rigidamente  one- 
sto  e  fieramente  italiano,  non  aveva,  no,  obliato  Tantico  e  glorioso 
Dio,  Garibaldi.  Con  acutezza  di  statista  aveva  disapprovato  Men- 
tana  nell'antiveggenza  sicura  di  altre  vie  men  rischiose  che  ci  avreb- 
bero  dato  Roma;  e  fu  profeta.  Ed  e  gloria  pel  Civinini,  che  la  grande 
opera  dello  Scherr,4  La  Germania,  si  chiuda  con  ricordare  il  suo 
nome  e  le  parole  di  lui  plaudenti  alia  nazione  dotta  che  aveva  vinto 
a  Sedan  schiudendoci  la  via  per  la  nostra  capitale. 

Tutto  questo  lo  Strazza  non  ricordava  o  non  voleva  ricordare; 
e  poi,  si  sa  che  non  c'e  peggior  sordo  di  quello  che  non  vuole  in- 
tendere. 

Dunque  Ettore  voleva  conoscerlo;  s'era  impuntato,  ed  io  dovetti 
alia  fine  contentarlo  a  scanso  di  litigi  e  scorrucciamenti,  ma  non 
prima  per6  chV  non  mi  avesse  giurato  sulla  sua  barba  di  Maha- 


Aiut6  con  denaro  la  spedizione  di  Pisacane.  Rimpatri6  definitivamente  nel 
1860.  II  Civinini  fu  precettore  dei  suoi  due  figli,  Attilio  ed  Emilio,  dal 
1857  al  1860.  Vedi  anche  p.  224  e  la  nota  2.  i.  la  Sala  dei  Cinquecento: 
vedi  la  nota  5  a  p.  415.  2.  Per  lo  scandalo  della  Regia,  vedi  la  nota  i  a 
p.  459.  Vedi  anche,  del  Civinini,  il  disco rso  da  lui  pronunciato  alia  Came 
ra  il  2  giugno  1869,  e  pubblicato  a  Firenze,  Eredi  Botta,  1869.  3.  Zanar 
delli:  vedi  la  nota  i  a  p.  382;  Biancheri:  vedi  la  nota  7  a  p.  496;  Ma 
riano  Fogazsaro,  vicentino,  padre  di  Antonio.  Era  deputato  di  Destra; 
Benedetto  Cairoli:  vedi  la  nota  4  a  p.  503.  Vedi  anche  U.  PESCI,  Firenze 
capitale,  cit.,  pp.  163-87.  4.  Johannes  Scherr  (1817-1886),  novelliere  e 
storico  tedesco.  Dopo  la  rivoluzione  del  1848  esule  in  Svizzera,  dal  1860 
occup6  la  cattedra  di  storia  nel  Politecnico  di  Zurigo.  Scrisse  numerosi 
lavori  di  argomento  storico,  animati  di  idee  liberal!. 


924  LEOPOLDO    BARBONI 

rajah  di  comportarsi  come  il  grado  e  la  fama  dell'uomo  esigevano : 
—  Ho  bisogno  di  lui  —  mi  disse  —  e  saro  serio. 

E  andammo  dal  Civinini,  che  in  quel  momenta  era  solo,  sicch6 
subito  fummo  fatti  passare.  L'illustre  parlatore  sapeva  chi  era 
lo  Strazza,  lo  conosceva  di  nome,  sapeva  a  mente  qualche  suo  epi- 
gramma,  eppero,  quando  gli  mosse  incontro  per  stringergli  la  mano, 
fece  un  risolino  furbo,  come  dire:  «So  chi  sei!  ...»  Poi,  dopo  i 
primi  convenevoli,  avendogli  io  detto  che  Pawocato  Strazza,  oltre 
ambire  di  conoscere  in  lui  uno  dei  piu  begli  ornamenti  delPassem- 
blea  italiana,  aveva  anche  bisogno  di  parlargli  di  certe  cose,  il 
Civinini,  compitissimo,  interrogo : 

—  In  che  posso  dunque  servirla? 

—  Signor  deputato,  ella  mi  ha  gia  servito  .  .  . 

—  Come?  scusi,  ma  non  capisco. 

—  Ora  mi  capira . . .  Per  oggi  non  ho  nulla  di  che  pregarla;  ci6 
verra  poi.  Mi  basta  aver  conosciuto  da  vicino  un  uomo  cui  volen- 
tieri  taglierei  la  lingua  per  attaccarmela  in  fondo  alia  gola. 

E,  serio  serio,  mise  fuori  un  temperino.  Era  un  elogio  p6rto  un 
po'  arditamente,  ma  il  Civinini  ne  rise  di  pr6,  e  da  quel  momento 
Pamicizia  corse. 

Riuscirebbe  comicissimo  tutto  il  racconto  di  quando  lo  menai 
meco  alia  biblioteca  Marucelliana  e  lo  presentai  a  Pietro  Fanfani. 

II  Fanfani,  filologo  che  qualche  volta  diceva  e  scriveva  «esta» 
invece  di  estate  (apocope  che  a  malapena  pu6  avere  il  diritto  di 
essere  usata  in  poesia),  e  diceva  e  scriveva  cosi,  forse  per  far  piacere 
al  suo  amico  Mario  Rapisardi,1  e  conseguentemente  per  far  dispetto 
al  Carducci,  era  il  disordine  in  persona.  D'inverno  toccava  gli  estre- 
mi  del  grottesco.  Portava  al  collo  una  pezzuola  di  cambri,2  rossa, 
stampata  a  fiori  gialli,  in  capo  una  tuba  col  pelo  eternamente  lisciato 
a  ritroso,  le  fedine  come  il  posa-piano  Leopoldo  II,  ispide  e  briz- 
zolate,  un  roto!6  addosso  o  un  totterone  delPuno,3  e  in  mano  uno 
scaldino  da  ciane,4  da  due  soldi,  ruvido,  senza  culatta. 

i.  Mario  Rapisardi  (1844-1912),  professore  nelPUniversita  di  Catania,  poe- 
ta  di  ispirazione  filosofica  e  sociale  (Palingenesi,  Giobbe,  Lucifero,  ecc.),  ebbe 
incitamenti  e  consigli  letterari  dal  « linguaiolo »  Fanfani,  che  forse  non  fu 
estraneo  alia  polemica  del  catanese  col  Carducci.  2.  cambri:  vedi  la  nota 
i  a  p.  412.  3.  II  rotolo  e  il  mantello  « a  ruota » ;  il  totterone ,  un  lungo  cap- 
potto.  L'espressione  delVuno  equivale  a  «vecchissimo,  consumatissimo », 
come  se  fosse  dal  primo  anno  della  storia  degli  uomini  Esiste  la  frase  « roba 
dell'uno,  quando  non  c'era  ancora  nessuno»:  e  la  usano  ancora  i  vecchi 
della  Toscana.  3.  ciane:  popolane. 


GENI   E   CAPI   AMENI    DELL'OTTOCENTO  925 

Cosi  rinchioccito1  sedeva  lavorando  al  suo  scrittoio  di  bibliote- 
cario,  da  dove  lanciava  ingiurie  ai  piu  specchiati  e  dotti  uomini 
d'ltalia,  chiamando  perfino  «cane»  il  buono  e  defunto  Nannucci.2 
Su  quello  scrittoio  le  streghe  convenivano  a  ballare  la  ridda  il  sabato 
notte,  e  il  diavolo  vi  recitava  la  messa  nera.  lo  non  vidi  mai  un  ar- 
senale  piu  arsenale  di  quel  banco!  Cera  d'ogni  cosa  un  po' ;  la  pol~ 
vere,  prima  di  tutto,  e  alta  un  dito ;  e  poi  cannelli  di  ceralacca  spez- 
zettati,  candele  stroncate  a  mezzo,  lapis  di  tutti  i  colori,  giacenti 
fra  le  scheggette  cadute  nel  temperarli;  forbici  con  la  moccolaia3 
attaccata  al  taglio;  coltellini,  stecche,  quadrelli,  ostie,  lettere  a  ri- 
fascio,  matassine  di  spago,  una  fogliata  di  pasticche  di  rosolacci, 
mucchietti  di  fagioli  colFocchio,  bianchi,  rossi,  ceciati;  patacconi 
d'inchiostro ;  Tira  di  Dio,  insomma,  rivelantesi  nello  scompiglio 
della  scrivania  di  un  filologo  malato  di  milza  e  di  cuore.  Per6  sia 
pace  ai  sepolti! 

Per  me  quel  pandemonio  era  una  novita  vecchia,  ma  quando  lo 
vide  lo  Strazza,  non  si  ritenne  dall'esaminare  tutto  con  un'atten- 
zione  quasi  feroce.  Poi  alz6  gli  occhi  sul  Fanfani,  gli  guard6  la  tuba 
il  cui  pelo  pareva  quello  di  un  gatto  quando  soffia,  gli  guardb  il 
pezzolone,  il  roto!6,  il  caldano;  torn6  a  esaminare  il  banco,  rialz6 
gli  occhi  su  lui,  e,  secondo  il  suo  solito,  esclam6  serio  serio: 

—  Signor  cavaliere,  lei  non  deve  avere  la  cova  dei  canarini ...  I 
II  Fanfani,  che  si  sarebbe  aspettato  magari  un'ingozzatura4  ma 

non  mai  una  domanda  cosl  eteroclita,  lo  squadro  alia  sua  volta, 
e  ridacchiando  di  quel  suo  riso  indefinibile  e  fastidioso,  rispose: 

—  Nossignore;  o  perch6? .  .  . 

—  Perch£  se  Pavesse,  qui  sul  suo  banco  ci  sarebbe  anche  un 
mazzetto  di  radicchio  tenero! 

Grasse  risate  del  Fanfani  e  compostezza  rigidissima  dello  Strazza, 
che,  come  ho  gia  detto,  matto  com'era,  pur  non  rideva  mai. 


i.  rinchioccito:  tutto  raccolto  in  s6  e  inebetito,  come  una  chioccia  che  sta 
covando.  2.  Vincenzo  Nannucci  (1787-1857),  erudito  e  letterato,  si  occup6 
di  provenzale,  di  grammatica  storica  e  della  nostra  letteratura  delle  origini 
(Manuale  della  letteratura  del  prime  secolo  della  lingua  italiana,  1837,  e  poi 
1856  con  un'invettiva  contro  P.  Fanfani).  II  Carducci  ne  difese  la  memoria 
contro  le  malignM  del  Fanfani  (Per  un  filologo  morto  e  galantuomo,  in 
Opere,  xxv,  edizione  nazionale,  pp.  68-75).  3-  l>a  moccolaia:  le  sbava- 
ture  di  cera  formatesi  intorno  al  lucignolo  e  tolte  con  le  apposite  forbi- 
cine.  4.  ingozzatura:  nianata  sul  cappello  in  modo  da  farlo  entrare  fino 
al  collo. 


926  LEOPOLDO    BARBONI 

Vivente  in  una  citta  dove  la  spiritosaggine,  il  frizzo,  Tepigramma 
scottante  e  ingegnosissimo  e  la  frase  sboccata  si  sentono  scoccare 
a  ogni  passo,  egli,  spiritoso  di  suo,  ma  non  di  quella  vena  che  e 
tutta  propria  dei  fiorentini,  se  ne  deliziava,  e  provocava  spesso  i 
monelli  o  le  trecche1  di  mercato  o  gli  strilloni,  pel  solo  gusto  di 
sentirsi  dare  una  risposta  amena  da  fargli  dimenticar  piu  che  mai 
i  debiti  che  aveva,  o  arrivare  una  risposta,  pepata  cosi,  da  fargli 
sgallare  la  pelle,  anco  se  1'avesse  avuta  di  tamburo. 

Piu  che  altro  lo  rapiva  un  venditore  di  castagnacci,  un  ometto 
ingrembiulato  come  un  cuoco  delle  cucine  reali  di  Stoccarda,  con 
una  gran  teglia  puntata  contro  1'anca  sinistra  e  un  gran  coltello  nella 
man  destra. 

Alle  dieci  in  punto,  nelle  mattinate  d'inverno,  a  quelle  brezze 
purificanti,  che  scendendo  giu  da  Fiesole  trinciano  il  viso  come 
fili  di  rasoio,  Tometto  si  piantava  in  Piazza  la  Signoria,  proprio 
sotto  il  Perseo  di  Benvenuto  Cellini,  e  tra  lo  smammolarsi2  dei  vet- 
turini  e  le  risate  scorbellate  delle  serve  e  le  smorfiette  delle  crestaine 
e  i  sorrisi  rassegati3  delle  guardie  municipali,  gettava  il  suo  grido 
sfidante  le  crudezze  invernali  e  magnificante  il  suo  genere  alimen- 
tario :  « Bolle,  bolle,  bolle,  bolle  .  .  .  »  e  chiudeva  con  un  doppio 
senso,  una  vera  gemma,  che  per6  sara  meglio  lasciare  nel  cala- 
maio  . . . 

Ed  ora  una  birichinata.  Non  e  improbabile  ci  sia  ancora  qual- 
cuno  che  ricordi  aver  visto  sulle  cantonate  di  Firenze,  il  1870,  una 
gran  quantity  di  copie  di  un  punto  interrogative,  di  mezzo  metro 
e  piu,  stampato  nudo  bruco  in  un  enorme  foglio  di  carta  rossa,  e 
ricordi  le  guardie  in  convulsione,  le  centomila  chiacchierate,  le  ipo- 
tesi  sbalorditoie  dei  giornali  e  PafFollarsi  del  popolino  che  a  naso 
a  1'aria,  farneticando,  arzigogolando,  si  pigiava  e  commentava  ovun- 
que  trovasse  quel  misterioso  gancio  nereggiante  in  campo  rosso. 

In  quel  torno  di  tempo,  attraversando  una  notte  a  ora  tarda  Piaz 
za  Barbano,  in  compagnia  di  un  celebre  cantante,  mi  pare  il  Bau- 
carde,3  Ettore  s'incontr6  in  due  signori,  marito  e  moglie,  forse, 
che  Pattraversavano  pure.  Egli,  risoluto,  si  avvicin6  alia  donna,  e 
salutatala,  esclam6: 

i .  trecche :  ciane,  popolane  del  mercato  (dal  tedesco  Trekken,  riven dugliole 
d'erbe  e  di  frutta).  2.  lo  smammolarsi:  1'abbandonarsi  interamente  al  pia- 
cere;  il  ridere  di  gran  gusto.  3.  sorrisi  rassegati:  sorrisi  freddi,  controllati 
e  contenuti.  4.  Baucarde:  vedi  la  nota  i  a  p.  427. 


GE'NI   E   CAPI   AMENI    DELL'OTTOCENTO  927 

—  Signora,  in  nome  del  punto  interrogative  voi  mi  darete  un 
bacio  . .  . 

Si  vide  un  bastone  alzarsi  in  aria  minaccioso,  la  signora  gett6 
uno  strillo  e  fuggi  via,  il  marito  le  corse  dietro  sacramentando ;  il 
cantante,  trasecolato,  afferr6  lo  Strazza  per  i  polsi,  e,  un  istante 
dopo,  rimmensa  piazza  tornava  quieta. 

Al  tocco,  alle  due,  alle  tre  di  notte,  mentre  tutti  dormivano,  egli 
affacciavasi  sovente  al  terrazzino  del  suo  salotto  recitando  luoghi 
di  un'amena  parodia  che  allora  faceva  del  canto  dantesco  di  Ugo- 
lino.  Certe  volte  domandato  dalle  guardie  che  cosa  intendesse  fare 
e  che  estri  fosser  quelli,  —  Magnetizzo  — •  rispose  —  il  Porcellino  di 
bronzol  —  Abitava,  come  ho  detto,  un  quartierino  di  due  stanze  a 
un  primo  piano  delPantica  via  Portarossa,  in  faccia  alia  Loggia  di 
mercato  novo,  dove  un  tempo  ebbe  bottega  d'orafo  Benvenuto  Cel 
lini,  e  dalle  sue  due  finestre  si  godeva  la  vista  del  cinghiale  di  bronzo 
(il  superbo  originale  6  agli  Uffizi),  che  il  popolo  appunto  chiama  da 
secoli  il  Porcellino.  Ora  li,  presso  quella  Loggia  e  quel  cinghiale, 
molto  e  scomparso  sotto  la  fregola  del  piccone,  che,  per  darci  vie 
larghe  e  diritte,  a  Firenze  (come  a  Roma  e  dovunque)  proclama  la 
civilta  rivaleggiando  coi  barbari  di  Alarico.  C'eran  piu  bellezze  so- 
vraccariche  di  storia  ai  piedi  della  Colonna  di  mercato  e  della  Tor 
re  dei  Caponsacchi*  che  non  in  tutti  gli  edifizii  smorfiosamente 
parigineschi  formanti  la  Piazza  del  Centre  e  inquadranti  il  monu- 
mento  al  Gran  Re.2 

Dello  Strazza  serbo  due  sonetti,  stupendi  per  la  stretta3  spirito- 
sissima,  e  pel  verso  che  ha  movenze  felicemente  dantesche.  Sono 
dei  suoi  migliori,  e,  puo  dirsi,  improwisati,  perche"  scritti  col  lapis 
sul  marmo  di  un  tavolino  del  Melini.  Forse  e  senza  forse,  la  fa 
cile  vena  di  Giuseppe  Regaldi  (anch'egli  di  cotesti  tempi  capitava 


i.  NelPantico  centre  di  Firenze,  detto  Mercato  Vecchio,  si  apriva  la  piazza 
chiamata  Foro  del  Re:  su  essa,  fra  molte  altre  anch'esse  demolite,  si  affac- 
ciava  la  Torre  dei  Caponsacchi,  e  in  un  angolo  si  innalzava  la  Torre  della 
Dovizia  o  dell'Abbondanza  (Colonna  di  Mercato},  sormontata  da  una  sta- 
tua.  Oggi  la  Torre,  con  una  statua,  e  stata  ricollocata  nella  piazza,  della 
Repubblica.  Vedi  G.  CAROCCI,  Firenze  scomparsa,  Firenze,  Galletti  e  Cocci, 
1898.  2.  il  monumento  al  Gran  Re:  la  statua  equestre  di  Vittorio  Emanue- 
le  II,  opera  di  Emilio  Zocchi  (1890),  era  al  centro  della  piazza  detta  allora 
del  Centro  o  Vittorio  Emanuele,  e  oggi  « della  Repubblica ».  3.  la  stretta: 
la  chiusa. 


928  LEOPOLDO    BARBONI 

qualche  volta  a  Firenze,  e,  sebben  franato,1  prendeva  parte  al  ce- 
nacolo)  non  ne  ha  che  li  agguaglino.  Peccato  che  non  si  possano 
riportare!  Eppure  c'e  stato  in  Italia,  pochi  anni  or  sono,  chi  si  e 
preso  T  income  do  di  regalarci  un  commento  dei  lerciumi  di  Niccol6 
Franco,2  e  con  che  pompa  d'erudizione  pitoccata  e  con  che  lusso 
editoriale! 

Dei  due  sonetti,  uno  s'intitola  da  un  prete,  arrestato  per  amori 
non  evangelici  in  un  ingresso  del  vicolo  deirOca,  e  scritto,  come 
ho  detto,  col  lapis,  su  un  tavolino  appena  giunta  la  notizia  calda 
calda,  e  nel  tempo  stesso  che  su  un  altro,  non  so  piii  bene  se  il 
Coppola3  (il  famoso  e  dimenticato  Pompier  e  del  «Fanfulla»)  ne 
buttava  giu  un  salace  stelloncino  di  cronaca  pel  fortunatissimo  e 
piacevolissimo,  in  allora,  giornale  fiorentino,  di  cui,  mi  affermano, 
era  dei  primi  abbonati  Sua  Santita  spiritosissima  papa  Pio  IX. 
L'altro,  anche  piu  bello,  piu  signorilmente  scurrile,  dice  li  imma- 
ginari  trionfi  amatorii  di  un  awocato  pisano,  Gherardo  Gherarduc- 
ci,  splendida  vegetazione  umana  e  cervello  men  che  di  passerotto ; 
notissimo,  fra  Livorno  Firenze  e  stradale,  per  ghiribizzi  forensi, 
per  una  clamorosa  fuga  su  pei  tetti  nell'occasione,  me  presente,  di 
quando  Garibaldi  dopo  la  ferita  d'Aspromonte  fu  trasportato  per 
cura  a  Pisa;  per  due  lunghe  biondicce  fedine  ondulanti  al  vento, 
per  un  ritratto  al  naturale,  vera  opera  fotografica  del  Montabone, 
vanitosamente  troneggiante  per  anni  e  anni  sulPangolo  di  via  Ron- 
dinelli,  e,  piu  che  altro,  per  la  copia  spaventosa  di  ponci  e  d'assenzii, 
si  che  poi  ne  mori.  A  questi  bersagli  poetici  il  Gherarducci  non 
era  nuovo,  e  ricordo  anche  due  versi  inediti,  di  che  lo  bol!6  un 
celebre  e  gaio  poeta,  vivente  tutt'oggi  a  Firenze,  e  amico  mio  fin 
dalla  prima  giovinezza.  Dicevano  e  dicono  cosi : 

Fra  tetti  e  tegoli,  quadri  e  quadrucci 
nacque  quell'ebete  del  Gherarducci. 

i.  franato:  rovinato,  invecchiato;  Giuseppe  Regaldi  (1809-1883),  poeta  e 
improwisatore,  viaggiatore  e  studioso  di  cose  storiche,  fini  la  sua  vita  pro- 
fessore  di  storia  alPUniversita  di  Bologna,  dove  gli  fu  critico  amico  il 
Carducci.  2.  Niccold  Franco  (1515-1570),  poeta  e  avventuriero,  finl  im- 
piccato  dall'Inquisizione  per  i  suoi  libelli.  Qui  il  Barboni  allude  soprat- 
tutto  ai  suoi  sonetti  contro  1'Aretino  (1541),  ai  quali  il  Franco  fece  seguire 
(1542)  un'oscena  aggiunta  intitolata  Priapea.  3.  Luigi  Coppola,  nato  a 
Napoli  verso  il  1830,  era  allora  capo  servizio  del  ministero  deiragricoltura 
e  foreste,  ma  la  sua  notoriet£  deriva  dai  molti  articoli  gioviali  che  firmava  col 
pseudonimo  di  Pompiere. 


GENI    E    CAPI    AMENI    DELL'OTTOCENTO  929 

Dello  Strazza  andava  pure  di  bocca  in  bocca  un  epigramma  vera- 
mente  caustico  fatto  intorno  a  Vittorio  Emanuele  e  chiudentesi 
con  la  sgrammaticatura  attribuita  scioccamente  al  Lanza:1  Ita- 
glia,  invece  d'ltalia.  Ettore  riseppe  che  il  Re  se  lo  era  fatto  recitare 
da  Quintino  Sella,2  e  che  ridendo  bonariamente  con  quella  sua  fac- 
cia  franca  e  aperta,  aveva  punteggiato  con  un  cuntacc!3 

Una  sera  quel  giovane  li,  che  pareva  fatto  di  ferro  benche  bran- 
colante  nello  sfacelo  del  suo  animo,  mi  sembro  avesse  il  pianto 
alia  gola.  M'arrischiai  fargli  coraggio,  ed  egli  mi  attanaglio  le  brac- 
cia,  e,  ridendo  un  riso  stravolto,  disse  i  versi  del  suo  morto  amico 

Emilio  Praga: 

Vorreifarmi  carnefice, 
vorreifarmi  becchino, 
per  lacerarti,  o  secolo, 
il  manto  d'arlecchinol* 

E  due  lucciconi  gli  cadder  giu  per  le  gote.  Sempre  cosi!  Eppure 
la  colpa  non  e  poi  tutta  del  secolo,  ma  piuttosto  di  chi  a  traverso  il 
secolo  non  sa  camminare.  Del  resto  egli  era  buono,  e  lo  amavano 
tutti,  dal  piu  focoso  repubblicano  ai  compilatori  del  « Fanfulla ». 
Mori  di  venticinque  in  ventisei  anni,  e,  mi  dissero,  profetando  la 
sua  fine  con  prescienza,  con  chiaroveggenza  cinicamente  inappun- 
tabile,  o  quasi.  Si  trovava  in  una  conversazione  di  cui  egli,  come 
sempre  e  dovunque,  era  Panima.  Quando  si  congedo,  guard6  tutti 
fissamente,  e  disse: 

—  Signore  e  signori,  annunzio  loro  che  domani  sera  a  quest'ora 
sar6  morto! 

—  Gran  burlettone! 

La  mattina  dopo,  egli,  che  odiava  il  letto,  non  si  alz6,  e  due 
giorni  dopo  una  violenta  perniciosa  lo  spengeva. 

Trespiano  e  uno  dei  camposanti  di  Firenze,  e  la  Ettore  Strazza 
dorme.  O  amico,  sono  passati  a  diecine  gli  anni  sulla  tua  fossa,  ma 
non  gia  tu  mi  sei  passato  ne"  mi  passerai  mai  dalla  mente  e  dal 
cuore! 


i .  Lanza :  vedi  la  nota  4  a  p.  457.  2-  Quintino  Sella :  vedi  la  nota  zap.  456. 
3.  cuntacc!:  vivace  interiezione  dialettale,  simile  all'italiana  «caspita,  per- 
bacco».  4.  Sono  i  w.  1-4  di  Spes  unica. 


59 


930  LEOPOLDO    BARBONI 


L'ANIMA   EROICA  DI    GIOVANNI   NICOTERA1 

(Alia  cara  memoria  di  Giuseppe  Bandi)2 

Era  una  promessa  cheioaveva  appunto  con  lui,  col  povero  Bandi! 
—  Poiche  vai  in  Sicilia,  —  mi  diss'egli  fra  un  bacio  e  Faltro —  quan- 
do  ti  piaccia,  visita  anche  per  me  Forrida  fossa  dove  tanto  sofferse 
Giovanni  Nicotera,3  e  scrivine  per  la  mia  «Gazzetta  livornese  ».4 
Ahime,  la  promessa  e  mantenuta,  ma  non  tu  mi  leggerai,  o  dolce 
amico,  o  valoroso  ferito  di  Calatafimi,  nella  esuberanza  della  vita 
ferocemente  assassinato  dal  pugnale  di  un  vile  anarchico! 

L'isoletta  di  Favignana,  Fantica  Egusa,  nej  cui  paraggi  Lutazio 
Catulo  sbaraglic-  Farmata  punica  nel  242  avanti  Cristo,  si  mostra  a 
occhio  nudo  nettamente  delineata  in  un  trionfo  d'azzurro  di  mare 
e  cielo,  a  dodici  miglia  da  Trapani  d'onde  partii  con  la  barca  postale 
il  3  agosto  1894,  saettato  dalla  canicola.  A  bordo  c'erano  barili  vuoti, 
cestoni  pieni  di  bottiglie  di  gassosa,  due  ragazzi  stuzzicantisi  con 
accanimento  febbrile  i  buchi  del  naso,  e  due  donne  che  andavano 
a  rivedere  i  loro  mariti,  relegati  a  domicilio  coatto.  Anche  c'era  un 
professore  di  scienze  naturali,  il  quale  veniva  a  Favignana  per  istu- 
diarne,  credo,  cosi  a  scappa  e  fuggi,  i  caratteri  geologici  e  in  pari 
tempo  per  accertarsi  se  le  zanzare  di  la  avessero  il  pungiglione  da- 
vanti  oppure  al  polo  opposto,  e  se  le  mosche  avessero  sei  gambe, 
come  quelle  del  resto  d' Italia,  owero  sette,  e  fossero  uggiose,  e 
volassero  e  ronzassero  e  s'impigliassero  nei  ragnateli  e  facessero 
tant'altre  belle  cosettine  con  la  terminazione  in  assero. 

Sotto  il  soffio  del  vento,  la  vela  rigonfia  pieg6  presto  quasi  un'ala 
poderosa  di  gabbiano  che  sfiorasse  il  pelo  delPacque,  e  una  lunga 
scia  gorgogliante  m'indic6  che  volavamo  sfidando  lo  stellone  del 
sole,  che  picchiava  diritto  e  abbrustoliva. 

A  mano  a  mano  che  ci  awicinavamo,  il  monte  che  domina  Fiso- 
letta  mi  discopriva  i  suoi  fianchi  aridi,  e  in  cima  in  cima,  su  un  grup- 
po  di  macigni  granitici,  il  forte  di  Santa  Caterina,  svelto  di  fuori, 

i.  Ed.  cit.,  cap.  vm,  pp.  189-220.  2.  Giuseppe  Bandi:  vedi  la  nota  3  a 
p.  438.  3.  Giovanni  Nicotera:  vedi  la  nota  zap.  439.  £  superfluo  ripetere 
quanto  abbiamo  detto,  in  generate,  nel  Profilo  biografico  del  Barboni: 
1'autore  e  portato  dal  suo  entusiasmo  a  ingigantire  le  figure  che  gli  sono  care, 
si  che  i  fatti,  certamente  eroici,  si  colorano  drammaticamente  e  la  narra- 
zione  assume  toni  troppo  enfatici.  4.  II  Bandi  dal  1872  ebbe  la  direzione 
della  ^Gazzetta  livornese^:  nel  1876  acquist6  la  proprieta  del  giornale. 


GENI    E    CAPI    AMENI    DELL'OTTOCENTO  93! 

spettrale  nei  meandri  del  suo  interne.  Lassu  a  quell'altezza,  l'n 
maggio  del  1860,  Garibaldi  punto  dal  bordo  del  Ptemonte  il  suo 
cannocchiale,  e  a  varii  fra  i  Mille  che  gli  stavano  attorno,  fra  cui 
Beppe  Bandi,  accennando  disse :  —  La,  o  amici,  e  sepolto  vivo  il 
povero  Nicotera!  Fra  pochi  giorni  lo  libereremo  o  morremo.  — 
Egli  ignorava  che  da  un  anno  e  mezzo  il  condannato  era  stato 
tradotto  nella  bassura  di  San  Giacomo. 

Alle  3  e  minuti  la  barca  postale  appro dava  al  piccolo  molo  di 
Favignana,  ed  io  e  il  professore  scendevamo  avvampati  dalla  cal- 
dura,  dirigendoci  quasi  di  corsa  all'albergo  (un  albergo  dalPentra- 
tura  nata  da  un  parto  con  Pantro  di  Trifonio1),  pregustando  la 
poesia  della  tavola;  perch6  le  memorie  patrie  son  belle  e  buone 
e  care  e  santissime,  ma  non  vanno  mai  viste  ne  meditate  a  traverso 
gli  abbarbagliamenti  degli  occhi  o  le  nebulosita  della  mente  provo- 
cati  dai  languori  del  triste  sacco.  E  ci  sciacquammo,  ci  sciorinammo 
e  mangiammo;  poi  suirimbrunire  si  uscl  per  le  vie  delFaffocata 
cittadina,  aspettando  dinoccolati  Fora  canonica  d'andare  a  letto. 
La  quale  venne;  ma  fu  notte  bianca,  o  quasi,  a  cagione  del  caldo, 
delle  zanzare,  delle  pulci  e  di  due  letti  scelleratamente  affricani. 

Alle  5  in  punto  del  domani  mattina,  due  favignanesi  vennero, 
giusta  il  fissato,  a  trarci  dalF  alb  ergo,  e  fatta  prima  una  visita  infrut- 
tuosa  al  forte  di  San  Giacomo,  prendemmo  Terta  che  mena  a  quello 
di  Santa  Caterina.  L'aurora  splendida,  non  per6  fragrante  pel  fe- 
tore  della  tonnara  che  costeggiammo,  ci  fu  arnica  per  poco,  perch6 
il  sole  ci  sfavil!6  in  un  batter  d'occhio  alle  spalle  sorgendo  spavalda- 
mente  di  dietro  i  monti  di  Trapani.  Pareva  un  demonio  borbonico 
(gli  chiedo  scusa  della  comparazione  insultante)  che  presumesse 
inibirmi  di  andare  a  frugare  fra  quei  rottami  della  fosca  dinastia 
marchiata  della  frase  rovente  di  « negazione  di  Dio  ».2 

Trecentoquaranta  metri  sul  livello  del  mare  non  sono  un  gran 
che;  Flmalaia  e  piu  alto,  s'intende;  ma  pure  quella  salitaccia  trac- 
ciata  a  spinapesce  per  attenuarne  Tasperita,  non  veniva  mai  a  fine, 

i.  Vantro  di  Trifonio :  credo  sia  mero  errore  del  proto  o  lapsus  memoriae 
del  Barboni.  L'allusione  sarebbe,  in  tal  caso,  al  celebre  antro  (oracolare) 
di  Trofonio  a  Lebadea  in  Beozia.  2.  negazione  di  Dio  (e  cfr.  p.  945) : 
questa  definizione  del  governo  borbonico  divenne  universalmente  celebre 
grazie  allo  statista  inglese  William  Gladstone  (vedi  la  nota  i  a  p.  561)  nelle 
sue  Two  Letters  on  the  State  Prosecutions  of  the  Neapolitan  Government 
(1851)  indirizzate  a  Lord  Aberdeen.  Cfr.  Gleanings  of  Past  Years  (1851- 
77),  iv,  London,  Murray,  1879,  p.  7. 


932  LEOPOLDO   BARBONI 

e  alFatto  di  porre  il  piede  sul  primo  gradino  della  scala  esterna  che 
mette  nel  castello,  grondavo  addirittura. 

Vincenzo,  un  giovinotto  dell'isola  ch'era  venuto  ad  aprirci  e  che 
aveva  dimestichezza  grande  col  reo  edifizio,  mi  fece  attraversare 
la  stanzuccia  d'ingresso,  e  mi  trovai  subito  in  un  cortile  angusto 
a'  cui  lati  si  dilungano  due  corridoi,  a  volta,  bassi,  dalFintonaco 
macerato  dalFumidore  e  ricoperto  d'una  muffa  d'un  verde  che  da 
in  nero.  Tuttoche  il  piii  vivo  sole  siciliano  splendesse,  e  dalla 
strombatura  delFatrio  venisse  un  sorriso  di  cielo  azzurrissimo, 
Foscurita  silenziosa  di  quei  corridoi  mette va  nelFanimo  una  infinita 
mestizia.  Feci  tre  o  quattro  passi  sulla  mia  destra,  e  Vincenzo  mi 
disse : 

— •  Ecco,  questa  e  la  cella  di  Nicotera  .  . . 

Ne  avevo  letto  tanto  e  ne  avevo  sentito  dir  tanto,  da  presumere 
che  fosse  come  veramente  me  Fero  immaginata;  ma  qualunque 
fervidezza  di  fantasia  si  fa  scolorita  nel  conspetto  di  quella  sepol- 
tura  scavata  nel  vivo  macigno.  «Non  v'ha  esagerazione  iperbolica 
che  possa  sorpassare  questa  realta»  direbbe  il  Kane1  a  proposito 
delle  spelonche  degli  esquimesi. 

Sopra  la  porticciola,  alta  un  metro,  larga  uno  e  ottanta,  si  legge 
un'iscrizione  a  mano.  £  in  poesia;  anzi  e  un  delitto  di  lesa  poesia; 
ma  le  muse  non  tengano  il  broncio  a  chi  os6  caninamente  attentare 
al  loro  pudore  (ben  piii  canini  e  pretensiosi  attentati  poetici  sono 
esse  use  oggimai  a  patire,  e  per  le  stampe);  egli,  lo  zoppicantissimo 
verseggiatore,  aveva  buono  e  generoso  il  cuore,  come  aveva  fasciato 
di  lattuga  il  cervello.  Dice  cosi: 

Qui  giacquero  le  spoglie  d'un  tale 
a  cui '/  Borbon  redder  voile  Vale; 
ma  Vale  crebbero  a  suo  dispetto 
e  di  lui  rimase  che  il  cataletto; 
I'anima  spazid  nel  bel  paese 
criora  sprona  a  buone  imprese. 
Vita  lunga  alVanima  sua. 

E  anche  alia  mia.  Del  resto  e  cosi  gentile  Fintenzione,  e  quelFan- 
tro  mi  parlava  cosi  eloquentemente  in  nome  del  martire  della  li- 
berta,  ch'io  mi  guardai  bene  di  dare  la  via  a  una  sghignazzata  fra- 
gorosa.  Penetrai  nella  spelonca  frugando  invano  con  1'occhio.  Un 

i.  Elisha  Kent  Kane  (1820-1857),  esploratore  americano  che  in  una  spedi- 
zione  (1853-1855)  fece  important!  osservazioni  sulla  Groenlandia. 


GENI   E    CAPI   AMENI   DELL'OTTOCENTO  933 

filo  di  luce  scialba  rischiarava,  si  e  no,  un  breve  tratto  delfumida 
parete  in  faccia  alPuscetto;  tutto  il  resto  era  involto  in  un  buio 
profondo,  reso  piu  sinistro  da  un'aria  irrespirabile. 

—  Ma  e  possibile  —  domandai  —  che  qui  sia  vissuto  per  mesi  e 
mesi  un  uomo,  senza  sentire  il  bisogno  di  sfracellarsi  il  cranio  con- 
tro  le  pareti  ?  £  dunque  proprio  questa  la  galera  di  Nicotera  ? 

—  £  questa,  e  questa  —  mi  rispose  Vincenzo. 

Ah,  Carlo  Pancrazi!1  pensai  fra  me.  Dio,  nella  sua  smisurata  mi- 
sericordia,  non  tenga  conto  delPinsulto  che  lanciasti  al  glorioso 
ferito  di  Sapri  chiamandolo  «un  volgare  audace»!  E  mi  parve  che 
Tombra  del  tozzo  e  guercio  e  cresputo  e  panciuto  direttore  della 
morta  «Gazzetta  d' Italia  »  mi  comparisse  davanti  con  quel  suo 
sogghignetto  mefistofelico,  in  compagnia  del  suo  farisaico  Enrico 
Montazio,2  e,  piccato,  mi  ripetesse  quel  che  tante  volte  mi  aveva 
detto  a  Firenze:  «I1  Nickotera»  (pronunziava  cosi)  «il  Nickotera 
e  un  traditoreU 

Fu  acceso  un  pezzo  di  candelotto,  e  la  spelonca  mi  si  rive!6  a 
poco  a  poco  in  tutta  intiera  la  sua  tetraggine.  Nulla  di  piu  spaven- 
toso.  Dante  nella  sua  tragica  fantasia  medioevale,  ne  avrebbe  preso 
Pidea  per  una  fra  le  piu  incresciose  bolge  del  suo  Inferno.  L'oftal- 
mia,  le  febbri,  Panchilosi,  i  gonfiori  di  glandole,  lo  spasimo  del 
mal  di  denti,  i  vomiti  di  sangue,  la  soffocazione,  la  disperazione 
delPanima,  ecco  a  che  cosa  equivaleva  quella  cella.  D'inverno,  ac- 
qua  putrida,  limacciosa,  asfissiante,  e  il  freddo  che  assidera,  e  la 
funga  che  ricuopre  i  muri,  i  talponi,  i  lombrici,  i  ragnoli  schifosi; 
d*  estate,  il  caldo  che  prostra,  le  tarantole,  le  formiche,  il  lezzo  pesti- 
fero  che  poteva  portarsi  via  Puomo  con  una  violenta  tifoidea,  le 
zanzare  a  sciami,  le  piattole3  immonde. 

Sicuro;  anco  le  piattole  immonde.  E  mi  garba  ripeterlo,  perch6 
quando  questo  scritto  comparve  sulla  «Gazzetta  livornese»,  quel 
professore  di  scienze  naturali,  che  ho  ricordato  piu  sopra,  schiamaz- 
z6  come  una  gallina  quando  ha  fatto  Puovo,  appunto  contro  quelle 
povere  piattole,  o  per  dir  meglio  contro  la  mia  penna,  credendomi  per 
awentura  un  indigeno  delle  isole  Rossell4  presumente  scrivere  in 

i.  Carlo  Pancrazi,  nato  a  Cortona  nel  1836,  datosi  al  giornalismo,  prima,  con 
il  Bonghi  (vedi  la  nota  2  a  p.  483),  fu  redattore  nella  «  Stampa»  di  Torino, 
poi  cre6  a  Firenze  la  «  Gazzetta  d'ltalia »  (1865),  organo  del  partito  modera 
te.  Polemizz6  contro  gli  atteggiamenti  di  Nicotera  e  ne  nacque  un  processo, 
verso  la  fine  del  1876.  2.  Enrico  Montazio :  vedi  la  nota  i  a  p.  910.  3.  piatto 
le  :  qui  per  scarafaggi.  4.  isole  Rossell :  isole  del  mar  dei  Coralli  nell' Oceania. 


934  LEOPOLDO   BARBONI 

italiano,  anziche  un  toscano  nato  proprio  sull'Arno.  Quel  profes- 
sore  asseriva  che  piattole  e  piattoni1  (con  rispetto  parlando)  sono 
tutt'una  cosa,  e  nel  sacrario  della  coscienza  pudibonda  trovava  di- 
sonesto  ch'io  avessi  ricordati  e  dati  a  Giovanni  Nicotera  insetti, 
a  udire  il  nome  dei  quali  monsignor  Della  Casa  sarebbe  stato  colto 
da  una  febbre  a  quarantadue  gradi.  E  anche  trovava  temerario  che 
io,  prima  di  scrivere,  non  avessi  attinto  alle  pure  fonti  della  sua 
dottrina  zoologica,  e,  a  giudicarne,  perfino  filologica. 

Ah  no;  piattola,  piattola  dunque;  non  piattone,  signor  dottore 
e  professore!  Piattola:  animaluccio  grosso  quanto  il  polpastrello 
di  un  dito  mignolo,  gelido,  schiacciato,  nero,  che  prolifica  e  vive 
beatissimamente  in  luoghi  sozzi  ed  oscuri. 

E  ritorno  nelFantro. 

Lo  misurai  rigorosamente.  Lunghezza,  sei  metri  e  40 ;  larghezza, 
due;  altezza,  tre  e  25.  NelPangolo,  a  destra,  una  finestrella  alta 
settantacinque  centimetri  e  larga  trentacinque  fu  murata,  mi  di- 
cono,  per  aggiunta  di  supplizio,  quando  vi  fu  chiuso  il  Nicotera. 
Subito  sotto,  scritte  col  carbone,  si  leggono  anc'oggi  poche  parole, 
le  quali  fino  a  non  molto  fa  si  leggevano  per  intiero  e  suonavano 
cosi :  «  Qui  fu  sepolto  vivo  lo  sventurato  ergastolano  politico  Gio 
vanni  Nicotera».  Presso  a  questa,  sulla  parete  in  vicinanza  dell'an- 
golo,  quest 'altre  che  sono  quasi  sempre  leggibilissime :  «  O  tu  che 
avrai  la  sventura  di  stare  in  questo  luogo,  preparati  a  sofFrire  tutti 
i  tormenti.  Sarai  punzecchiato  da  milliaia  di  zanzare,  oppresso  dal 
fumo ;  quando  piove  vedrai  sorgere  Tacqua  dal  suolo ;  sarai  afHitto 
da  forti  dolori  a  causa  delFumidita  che  ti  fara  trovare  tutto  bagna- 
to ;  sarai  appestato  dal  f etore  del  vicino  luogo  immondo  ». 

Io  sapeva  che  quest' ultima  iscrizione  era  veramente  di  proprio 
pugno  del  Nicotera,  e  ch'egli  lo  aveva  afTermato  a  chi  gliene  ri- 
chiedeva  dopo  qualche  anno.  —  Ma  non  e  credibile  ne  che  la  scri- 
vesse,  ne  che  lo  affermasse. 

Un'altra  iscrizione  a  mano  si  legge  pure  sul  muro,  di  fronte  alia 
fmestrella,  e  dice  cosi:  «  Fu  questa  la  tremenda  segreta  dove  giacque 
Giovanni  Nicotera,  vittima  di  quelFinfame  dinastia  sbalzata  piu 
tardi  dal  trono  di  Napoli  per  sua  cooperazione  ».  Sotto,  si  nota  una 
scassinatura  dove  senza  dubbio  doveva  essere  infisso  il  pancaccio,  il 

i.  piattoni:  una  particolare  specie  di  pidocchi. 


GENI   E    CAPI   AMENI   DELL'OTTOCENTO  935 

quale  si  stendeva  a  un  cinquanta  centimetri  al  di  sopra  di  una  specie 
di  terrapieno,  cordonato  di  pietra  viva,  largo  due  metri,  lungo  uno  e 
80,  alto  50  centimetri.  Un  altro  terrapieno  identico  e  alia  destra  della 
cella;  e  tramezzo  ad  essi  il  solaio,  che  nelTinverno  s'empiva  d'acqua 
fetida  e  micidiale.  Sempre  nella  cella,  a  sinistra  di  chi  entra,  una 
nicchietta  scavata  nel  muro,  fonda  15  centimetri  e  alta  20,  serviva 
per  la  candela  o  la  lanterna  che  fosse,  durante  qualche  visita  offi- 
ciale.  Finalmente,  nel  tetro  corridoio,  quasi  in  faccia  alia  spelonca, 
notasi  una  nicchia  scavata  nel  tufo,  e  d'onde  una  sentinella  armata 
di  fucile  teneva  giorno  e  notte  1'occhio  alia  porticciola  ferrata  che 
chiudeva  il  terribile  rivoluzionario. 

Faceva  paura  davvero  quel  galeotto  al  bieco  re  di  Napoli  Ferdi- 
nando  II,  dapprima,  a  Francesco  II,  o  Franceschiello,  o  bombi- 
cello,  dappoi;  «  miserable  ventenne»,  quest'ultimo,  comelo  chiamb 
Victor  Hugo,1  che  nell'eta  in  cui  si  arna,  in  cui  si  crede  e  si  spera, 
torturava  e  ammazzava;  quel  fanciullo  coronato  che  seguiva  scru- 
polosamente  la  politica  del  suo  bisavolo,2  il  quale  affermava  sog- 
ghignando  che  i  popoli  si  reggono  con  tre  efFe:  Feste,  Farina, 
Forca! 

Eppure,  ne  trenta  libbre  di  ferro  ai  piedi,  ne  1'orrendo  buiore, 
n6  1'acqua  putrida,  ne  le  febbri  continue,  n6  gli  sbocchi  di  sangue, 
n6  1'occhio  vigile  della  sentinella  domavano  il  Nicotera.  Egli  che, 
ferito  e  sanguinante,  il  giorno  dopo  1'eccidio  di  Sapri,  a  una  turba  di 
contadine  imbestiate  che  volevano  obbligarlo  a  gridare  «  Viva  il  re  di 
Napoli»,  rispondeva  con  fierezza  antica  romana:  —  Morte  al  re!  — ; 
egli  che  nel  tribunale  di  Salerno  tirava,  con  muta  ma  eloquente 
•forza  d'argomentazione,  un  calamaio  di  bronzo  nella  testa  al  pro- 
curatore  generate  che  gli  aveva  parlato  irreverentemente;  egli  che 
al  cancelliere  dello  stesso  tribunale  che  gli  aveva  letto  la  condanna 
a  morte,  gridava  sul  viso,  ovverosia  sul  muso:  -  Grazie  a  voi  e  ai 
vostri  giudici!  -;  egli,  dicevo,  ne  si  frangeva,  ne  si  piegava.  Pareva 
lui  il  re,  e  il  re  il  condannato. 

Proprio  cosl. 

Che  tempra  ferrea  di  calabrese!  Era  nato  il  1831  a  Sambiase,  in 
provincia  di  Catanzaro;  era  barone,  senza  le  infingarde  e  ciuche 

i  In  Actes  et  Paroles.  Pendant  I'exU,  pp.  244-5  (dell'ed.  Nelson).  2.  bisa 
volo:  Ferdinando  I  delle  Due  Sicilie,  gia  IV  prima  che  Napoleone  lo  spo- 
destasse;  su  Francesco  II  vedi  la  nota  2  a  p.  430. 


936  LEOPOLDO   BARBONI 

altezzosita  spagnolesche  di  quasi  tutta  Timmensa  gramigna  del  ba- 
roni  gravante  1'Italia  meridionale ;  era  nipote  del  Musolino,1  eroi 
sacrati  all'ideale  della  patria,  e,  forse  per  questo,  giovinetto  di  quat- 
tordici  anni,  aveva  posto  la  sua  firma  al  catechismo  della  ccGiovane 
Italia»  guardando  al  Mazzini  come  si  guarda  a  un  nume.  Aggiun- 
geva  fiamma  a  quella  sua  fede  negli  alti  destini  della  nazione  un 
uomo  illustre,  Luigi  Settembrini;2  un  maestro  e  un  discepolo,3  die 
dovevano  presto  provare  i  morsi  e  gli  artigli  della  rea  bestia  borbo- 
nica.  A  dicennove  anni  il  lioncello  si  getta  anima  e  corpo  nella  ri- 
voluzione  calabrese,  e  il  fatto  di  Angitola4  e  sua  prima  gloria; 
ma  soffocati  i  moti  fra  stragi  orrende,  si  esilia  sdegnoso.  Un  anno 
dopo,  Roma  e  Garibaldi  lo  chiamano,  ed  egli  accorre  col  palpito 
di  un  ventenne  accorrente  alia  voce  della  donna  amata.  £  il  30  aprile 
1849.  Mirabili  i  cento  episodii  di  quella  giornata  epica.  Scegliamone 
uno;  questo,  ch'e  la  seconda  gloria  di  Giovanni  Nicotera.  Con  un 
pugno  d'eroi,  Garibaldi  si  awenta  contro  un  pugno  di  francesi 
fulminanti  da  un  villino.  Un  cancello  di  ferro  arresta  d'un  tratto 
quella  corsa.  Due  animosi  tentano  romperlo,  e  cadono  morti;  vi  si 
provano  altri,  e  ugualmente  cadono  crivellati  di  mitraglia.  Vergo- 
gna  della  Francia  repubblicana  d'allora;  Voltaire  in  piviale  che 
assassina  Giordano  Bruno!  Garibaldi  tuona:  «Avanti!»  All'im- 
prowiso  un  giovine  scavalca  morti  e  feriti,  afferra  il  cancello,  lo 
squassa,  lo  sganascia,  lo  spalanca,  e  seguito  dai  compagni,  agi- 
tando  alto  un  pugnale,  assalta  il  villino,  vi  irrompe  e  fa  prigionieri 

i .  dei  Musolino :  il  Nicotera  era  figlio  di  una  sorella  di  Benedetto  ( 1 809- 
1885)  e  di  Pasquale  Musolino.  I  Musolino  di  Pizzo  di  Calabria  furono  tra  i 
piu  animosi  patriotti:  il  padre,  sostenitore  della  Repubblica  partenopea 
nel  1799,  fu  poi  massacrato,  inerme,  nel  1848.  Benedetto,  arrestato,  pro- 
cessato  e  poi  assolto  nel  1839  dopo  piu  di  tre  anni  di  carcere;  deputato  a 
Napoli  nel  '48,  fuggito  in  Calabria  dopo  il  15  maggio  a  suscitarvi  la  rivolta, 
esule  successivamente ;  al  seguito  di  Garibaldi  nella  difesa  di  Roma  del 
1849  e  nella  spedizione  dei  Mille,  fu  infine  deputato  dal  1861  al  1880,  e 
senatore  dal  1881.  2.  Luigi  Settembrini  (1813-1876),  patriotta  e  letterato 
napoletano,  piu  volte  imprigionato  dal  Borbone  e  condannato  a  morte  nel 
processo  della  setta  delFUnita  d'  Italia.  La  condanna  capitale  fu  commu- 
tata  nell'ergastolo  a  Santo  Stefano  (ottobre  1852)  donde  usci  il  gennaio 
1859,  per  la  liberta  in  Inghilterra  e  in  Piemonte.  3.  un  maestro  e  un  disce 
polo:  il  Nicotera  fu  allievo  del  Settembrini  nel  collegio  di  Catanzaro. 
4.  Angitola  e  un  torrente  fra  Monteleone  e  Nicastro,  in  Calabria.  In  questa 
zona,  nel  1848,  il  generale  Nunziante  trov6  una  fortissima  resistenza  da 
parte  dei  patriotti  comandati  da  Antonio  Francesco  GrifTo,  tra  i  quali 
combattevano  il  Nicotera  e  Benedetto  Musolino.  II  combattimento  cul- 
min6  nella  giornata  del  27  giugno  1848. 


GENI    E    CAPI   AMENI    DELL' OTTOCENTO  937 

i  francesi,  il  cui  capitano  gli  consegna  la  spada.  Era  lui,  il  Nicotera. 
Altri  eroismi  lo  attendono,  sempre  la,  sul  divino  Gianicolo.  Al  Ca 
sino  dei  Quattro  Venti,  mentre  lotta  con  Tanima  e  il  braccio  d'un 
personaggio  ariostesco,  due  palle  lo  colpiscono,  e  cade.  Cade  con 
lui  un  altro  glorioso,  destinato  a  gran  fama,  Goffredo  Mameli;  e  a 
lui  il  Nicotera  chiudera  gli  occhi  in  una  corsia  di  spedale,  d'onde, 
guarito,  tornera  a  pugnare,  finche  penetrando  le  orde  sagrestane  in 
Roma,  esulera  in  Piemonte.1 

Lo  chiamera  da  quell'esilio,  nel  1857,  un  altro  eroe,  il  suo  amico 
Pisacane.  Siamo  alia  Spedizione  di  Sapri;2  folle  spedizione,  secondo 
i  piu,  e  sara;  ma  vero  e  altrettanto  che  le  pagine  piu  radiose  della 
storia  dei  popoli  sono  quelle  che  una  grande  follia  occasion6.  De 
falcate  Cappellini  da  Lissa,3  ed  avrete  la  notte  e  la  vergogna,  senza 
il  giorno  e  Ponore.  Siamo  dunque  a  una  follia  che  e  quanto  dire  la 
pagina  piu  bella  della  vita  del  Nicotera.  Un  manipolo  di  ardimen- 
tosi  salpa  da  Genova  col  Cagliari\  in  alto  mare  s'impadroniscono 
della  nave,  filano  per  Ponza,  vi  appro dano,  con  le  pistole  in  pugno 
s'impossessano  delle  armi  di  che  &  fornito  quel  penitenziario,  ripi- 
gliano  il  mare  e  sbarcano  sulla  spiaggia  calabrese  presso  Policastro. 
Li  guida  Carlo  Pisacane,  fiammeggiante  dall'anima;  gettano  in- 
vano  il  grido  di  «Viva  1'  Italia !»  fra  gente  arretrata  di  duemila 
anni,  e  su  su,  sempre  sperando,  s'inerpicano  pei  monti.  A  Sapri 
sventolano  e  piantano  in  terra  la  bandiera  tricolore  ripetendo  gli 
evviva.  Chi  li  comprende?  Nessuno.  Si  risponde  loro:  «Viva  lo 
re!»,  e  quelli  sciami  di  villani  abbrutiti,  rafforzati  da  ciurmaglie  di 
soldati,  gli  attacca  e  gli  sopraffa.  Pisacane  e  fatto  a  pezzi,  e  con  lui 
cade  il  Nicotera  per  dodici  ferite  d'arma  bianca  alia  testa  e  due  di 
fucile.  Si  trascina  carpone  presso  un  ciuffblo  di  stipe  rigando  di 
sangue  il  sentiero,  ma  la  lo  raggiunge  un  nuvolo  di  contadine  sel- 
vagge,  che  vuol  finirlo;  e  lo  avrebbero  fatto,  se  i  soldati  borbonici 
non  lo  avessero  contrastato  loro  per  trascinarlo  in  un  convento  del 


1.  Qui  la  concitazione  e  la  concisione  prevalgono  in  Barboni  su  1'acribia 
cronologica.  Nicotera  assiste  il  Mameli,  bensl,  e  rimase,  dopo  la  sua  morte 
all'Ospedale  dei  Pellegrini  il  6  luglio  1849,  in  Roma  occupata  dai  Francesi 
fino  al  successive  4  dicembre.  Ma  le  truppe  dell'Oudinot  gi&  erano  entrate 
in  Roma,  dopo  la  capitolazione  della  Repubblica  mazziniana,  il  3  luglio. 

2.  Sulla  Spedizione  di  Sapri  si  veda  N.  ROSSELLI,  Carlo  Pisacane  nel  Risor  ~ 
gimento  italiano,  Torino,  Bocca,  1932,  e  ora  Milano,  C.  M.  Lerici,  1958.  II 
Nicotera  si  prese  poi  cura  come  di  figlia  propria  della  Silvia  figliola  del  Pi 
sacane.     3.  Cappellini:  vedi  la  nota  2  a  p.  905. 


938  LEOPOLDO    BARBONI 

luogo  prima,  nelle  prigioni  di  Salerno  poi.  Quivi  e  processato  e 
condannato  a  morte,  ma  dalla  nobile  Inghilterra,  arnica  sempre 
del  liberal!  italiani  (ne  informi  lord  Gladstone,  che  nell'ergastolo 
di  Nisida  visita  Pironti  e  Poerio)1  parte  una  voce  che  gli  fa  com- 
mutare  1'estremo  supplizio  nella  galera  a  vita.  Ribaditagli  al  piede 
e  al  polso  una  catena  di  trenta  libbre,  lo  seppelliscono  vivo  alia 
Favignana,  nel  forte  di  Santa  Caterina. 

Era  stato  tradotto  in  quell' antro  orribile  su'  primi  del  giugno 
1858.  Salendo  Terta  del  monte  lo  tenevano  accerchiato  gendarmi, 
poliziotti,  e  un  manipolo  di  fantaccini.  Aveva  capelli  e  barba  rasati 
come  il  piu  volgare  fra  i  condannati,  e  indossava  un  abito  di  casi- 
mirra  cenerina.  II  suo  viso  era  pallidissimo,  anzi  di  un  colore  piu 
terreo  della  terra  stessa  che  calpestava;  pareva  il  viso  di  un  agoniz- 
zante;  eppure  tutte  le  audacie  della  rivoluzione  erano  in  lui  e  sali- 
vano  con  lui  quel  calvario,  per  manifestarsi  piu  tardi  in  un  cor- 
ruscamento  epico  prodigioso,  fra  il  martellare  delle  campane  e  il 
barbaglio  della  camicie  rosse.  II  suo  passo  sicuro,  Tocchio  ardito 
rotante  in  quel  pallore  di  volto,  Timpettitura  altiera,  facevano  di  lui, 
incatenato,  un  uomo  piu  libero  di  tutto  quel  pecorume  in  divisa 
borbonica,  che  lo  guardava  curioso  e  ne  provava  soggezione. 

Non  par!6  mai,  non  gett6  mai  un'occliiata  ne  direttamente  ne"  di 
sbieco  agli  sgherri  e  ai  soldati;  soltanto  a  un  certo  punto  si  sofTerm6, 
e  quasi  studiando  la  costa  occidentale  della  Sicilia,  che  spiccava  a 
poche  miglia  lontano,  sussurr6  come  parlando  a  se  stesso: 

—  Quella  e  Trapani,  quella  la  e  Marsala  .  .  . 

I  poliziotti  n'ebbero  paura,  e  la  sera  stessa,  appena  gettatolo  e 
chiusolo  nella  spelonca,  riferivano  al  giudice  locale  quelle  parole, 
secondo  loro  misteriose;  e  il  giudice,  piu  dei  poliziotti  atterrito, 
dava  ordini  immediati  per  una  sorveglianza  speciale,  esagerata. 

i.  II  Nicotera  aveva  sposato  la  sorella  di  Carlo  Poerio  (1803-1867).  Come 
ii  Settembrini,  Carlo  Poerio  fu  arrestato  nel  1849  e  condannato  a  morte, 
ma  anch'egli  ebbe  commutata  la  pena.  Nel  1859,  dopo  1'indulto  borbonico, 
sbarcarono  insieme  in  Irlanda.  Fu  deputato  del  Parlamento  subalpino. 
Dopo  il  '60  si  ritir6  a  vita  privata;  Michele  Pironti  (1814-1885),  della 
provincia  di  Avellino,  gia  magistrato,  ebbe  la  stessa  sorte  del  Settembri 
ni  e  del  Poerio.  Liberata  1'Italia  meridionale,  fu  deputato,  alto  magistra 
to,  senatore  dal  1869  e,  nello  stesso  anno,  guardasigilli  nel  ministero 
Menabrea.  Per  un  generoso  errore,  frequente  ancora  in  Italia,  Barboni 
da  qui  (e  a  p.  943)  titolo  di  lord  al  Gladstone  che  fu  sempre  e  soltanto  un 
commoner  (o  «borghese»). 


GENI    E    CAPI   AMENI   DELL'OTTOCENTO  939 

Povero  Nicotera!  Passava  intiere  giornate  steso  lungo  sul  suo 
pagliericcio,  sostentandosi  quasi  esclusivamente  di  latte,  forse  per- 
che  i  dolori  al  petto  cominciavano  a  tormentarlo.  Ma  la  fierezza  m- 
domita  non  lo  abbandonava.  Una  sera  un  soldato  napoletano  ve- 
dendolo  con  la  fronte  appoggiata  alPinferriata  a  croce  del  piccolo 
sportello  della  porta,  gli  si  awicin6,  e  nella  sua  rozzezza  gli  chiese : 

—  Come  stai? 

—  Benissimo  .  .  . 

—  Ma  staresti  meglio  se,  invece  die  qui,  tu  fossi  a  Napoli,  'opaese 
mio. 

—  No,  —  rispose  il  Nicotera  —  perche  a  Napoli  c'e  il  tuo  re. 
E  si  ritirb. 

Venne  Fautunno  con  le  sue  giornate  fosche,  piovose;  e  la  cella, 
piu  che  mai  buia,  cominci6  a  fare  acqua  dalle  pareti,  dalla  v61ta, 
dal  solaio.  Pareva  una  cloaca.  II  condannato  era  assalito  da  forti 
attacchi  di  tosse,  aveva  frequenti  sputi  di  sangue,  e  lo  logorava  una 
bronchite  acuta.  Giaceva  in  quella  bolgia  da  oltre  un  anno,  quando 
un  giorno  il  comandante  dei  forti  o  galere  delPisoletta,  certo  Ta- 
rabba,  insospettito  che  i  detenuti  politici  comunicassero  col  di  fuori, 
ordin6  un'immediata  perquisizione.  Perquisitori  furono  il  pretore 
Nunnari  e  il  cancelliere  Carriglio.  Fra  i  gettati  in  quelle  tane,  oltre 
il  Nicotera,  anche  si  trovava  un  uomo  destinato  a  gran  fama  per 
altezza  di  mente,  TUgdulena,1  reo  anch'esso  d'amore  all'Italia,  e 
con  lui  altri,  non  gia  pari  nell'ingegno,  piu  che  pari  nelPodio  al 
servaggio. 

La  perquisizione  non  frutt6  nulla.  Anzi,  no,  sbaglio;  qualche 
cosa  frutt6:  un  sentimento  di  raccapriccio  in  cuore  al  pretore  alia 
vista  del  Nicotera  trattato  come  una  bestia.  Sulla  soglia  delForrenda 
tana  il  pretore  ebbe  un  brivido ;  tuttavia  entr6  e  frug6.  Alle  sue  spal- 
le,  affollati  all'usci61o,  otto  o  dieci  fra  sgherri  e  soldati  guatavano 
come  scimmioni.  Seduto  sul  pancaccio,  Giovanni  Nicotera  s'aun- 
ghiava  il  petto,  tossiva  e  si  contorceva.  La  catena  di  trenta  libbre 
dava  cigolii  agghiaccianti. 

—  Signore,  —  favel!6  il  rappresentante  della  legge  —  se  volete  av- 

i.  Gregorio  Ugdulena  (1815-1872),  di  Termini  Imerese,  sacerdote,  inse- 
gnante  di  ebraico  dal  1843  all'Universita  di  Palermo,  perde*  la  cattedra  nel- 
rinsurrezione  siciliana  del  1848  e  fu  chiuso  nel  career  e  di  Santa  Caterina 
a  Favignana.  Dopo  la  spedizione  dei  Mille,  fu  deputato  al  Parlamento 
italiano,  professore  di  greco  nelFIstituto  superiore  di  Firenze  (1865),  e 
successivamente  (1870),  di  greco  ed  ebraico  all'Universita  di  Roma. 


940  LEOPOLDO   BARBONI 

valervi  della  mia  presenza  qui  dentro,  se  volete  essere  tramutato 
giu  a  pie  del  monte,  nel  forte  di  San  Giacomo,  eccovi  carta  e  penna; 
scrlvete  una  supplica  al  sovrano,  ed  io  la  raccomander6  quanto 
posso  all'intendente  di  Trapani  —  (nelle  Due  Sicilie,  allora,  i  pre- 
fetti  si  chiamavano  intendenti,  anche  se  non  intendevano  nulla; 
cio  che  non  e  infrequente,  nonostante  ribattezzati). 

Giovanni  Nicotera  si  drizzo  fieramente. 

—  Che  dite  voi  ?  Vi  ringrazio ;  ma  io  non  sono  uso  a  supplicare 
tiranni. 

I  due  s'inchinarono  e  uscirono  di  fretta,  quasi  pestandosi  nel- 
1'attraversare  la  soglia  e  guardandosi  di  scancio  alle  spalle,  nel  so- 
spetto  che  quelFeroe,  risollevandosi  dal  pancaccio,  su  cui  subito 
s'era  lasciato  ricadere,  gli  traforasse  ancora  con  un'occhiata  di 
fuoco.  Pochi  mesi  dopo  Io  tramutavano  nel  forte  di  San  Giacomo; 
non  per  pieta,  per  paura. 

II  forte,  o  bagno  penale  di  San  Giacomo,  e  subito  fuori  la  gra- 
ziosa  cittadina  di  Favignana  e  quasi  a  livello  con  essa.  Celle  e  ca- 
meroni,  aereati  e  tenuti  come  Tigiene  e  la  civilta  esigono,  sono 
sotto  il  suolo;  di  sopra,  le  stanze  della  direzione  e  i  dormitori 
delle  guardie.  E  ce  ne  vogliono!  Quand'io  Io  visitai  o  tentai  vi- 
sitarlo  nel  1894,  c'era  (e  ci  sara  ancora,  e  ci  sara  sempre  piu,  e  in 
perpetuo,  purtroppo)  il  fior  fiore  dei  coatti  e  dei  delinquent!  d'ltalia. 
Cera  fra  i  piu  emergenti,  o  « illustri »,  1'infame  che  aveva  tagliato 
a  pezzi  e  salata  Pinfelice  Giuseppina  Gazzara,  1'aveva  messa  in  un 
baule  e  1'aveva  spedita  da  Napoli  a  Roma,  con  ismanie  grandi  di 
re  Vittorio  Emanuele  II,  che  non  ebbe  requie  nel  nobilissimo  cuore 
finche  non  gli  dissero  che  il  mostro  era  stato  scoperto  e  agguantato. 

Cosi,  come  un  irresistibile  dascia  passare»,  avevo  portato  meco 
un  vecchio  viglietto  di  visita,  che  serbo  con  amore  grande,  del  Ni 
cotera  stesso,  di  quando  fu  ministro  di  Stato.  Con  quel  viglietto 
(in  cima  al  quale  era  ed  &  scritto  di  suo  pugno :  «  E  del  mio  cava- 
liere  ?...»)  recapitato  a  me  un  bel  giorno  delPottobre  '77  al  Mini- 
stero  della  Istruzione,  da  me  sfoderato  sotto  gli  occhi  o  gli  occhiali 
neri  del  buon  Michele  Coppino,1  dal  Coppino  non  degnato  nemmen 
d'uno  sguardo,  eppero  per  legittima  o  illegittima  conquista  rimasto 
nelle  mie  mani:  con  quel  viglietto,  dicevo,  speravo  farmi  largo  a 
visitare  la  cella  occupata  dal  Nicotera,  nel  forte  di  San  Giacomo, 
i.  Michele  Coppino:  vedi  la  nota  2  a  p.  501. 


GENI    E    CAPI   AMENI   DELL'OTTOCENTO  941 

dopo  il  suo  trasferimento  dagli  orrori  di  Santa  Caterina.  Quel 
Giovanni  Nicotera  Ministro  delVInterno,  litografato  in  elegantissimo 
inglese,  avevo  in  mente  facesse  un  grande  effetto  in  quel  luogo. 
Braccai  il  generalissimo  delle  guardie  carcerarie,  lo  scovai;  il  gene 
ralissimo,  un  veneziano  con  grandi  baffi,  guard6  me,  guard6  il  vi- 
glietto,  lesse,  ghigno,  scapeggi6,  borbotto  un:  «Cossa  disela?»  e  mi 
lascio  su  due  piedi. 

Sicuro ;  volevo  vedere  l'«  appartamento  »  del  Nicotera  a  San  Gia- 
como,  dove  assieme  ai  compagni  di  martirio  era  stato  portato  su' 
primi  del  glorioso  1859.  Vaghe  notizie  di  rivoluzione  e  di  prossima 
guerra  con  1'Austria  odiata  erano  penetrate  in  quelle  fosse  di  Santa 
Caterina,  suscitandovi  fremiti  d'impazienza.  Un  bel  giorno,  a  una 
data  ora,  quasi  avessero  avuto  Porologio  in  mano,  si  ammutinarono 
tutti,  patriotti  e  condannati  volgari.  Spaventato,  il  governo  vuot6 
subito  un  ergastolo  e  n'empl  un  altro,  quello  di  San  Giacomo, 
meno  spettrale,  men  rispondente  alle  crudezze  borboniche,  ma  piii 
formidabile.  A  Favignana,  cosl  mi  dissero,  non  v'e  ricordo  ne  di  una 
fuga,  ne  di  un  tentative  di  fuga.  Da  Scilla  a  Cariddi,  dunque.  II 
Nicotera  con  due  o  tre  compagni  fu  chiuso  nel  camerone,  che  e  sotto 
al  ponte  del  castello,  e  sorvegliato  giorno  e  notte  alternamente  da 
due  guardie,  Scafida  e  Incandela,  messinesi,  il  che  e  come  dire 
gente  animosa  e  di  cuore. 

Qui  entra  in  iscena  un  tale  Andrea  Livolsi,  vivente  tuttavia,  far- 
macista  allora  delPisola,  intinto  di  cospirazioni  egli  stesso  e  in  cor- 
rispondenza  col  Comitato  rivoluzionario  segreto  trapanese,  capi- 
tanato  dal  vice-console  sardo.  Lascio  a  lui  intiera  la  responsabilita 
di  quanto  mi  narrava.  Secondo  lui  il  fatto  seguente  si  svolge  nella 
cella  di  Santa  Caterina  e  non  gia  a  San  Giacomo.  Riporto  a  dilungo. 
r  'Al  Nicotera,  infermo  di  bronchite,  fu  concesso  un  medico.  Venne 
PEsculapio,  prescrisse,  scrisse,  e  se  ne  and6.  Subito  dopo,  il  Nicote 
ra  strappava  dalla  ricetta  una  strisciuola  di  carta  bianca,  vi  scriveva 
su  poche  parole  con  agro  di  limone  (unica  cosa  i  limoni  di  cui  fosse 
costantemente  prowisto),  Paccartocciava  e  attendeva  la  consueta 
visita  della  guardia  carceraria.  La  guardia,  lo  Scafida  mentovato 
piu  sopra,  alle  vive  preghiere  del  condannato  che  lo  esortava  a  con- 
segnare  al  farmacista  oltre  la  ricetta,  quel  pezzetto  di  carta,  si  arrese, 
e  corse  a  Favignana;  e  il  farmacista,  ricevendo  quella  strisciuola 
e  indovinando  che  doveva  esservi  scritto  con  agro  di  limone  (o  forse 


942  LEOPOLDO    BARBONI 

che  il  Nicotera  non  ne  aveva  fatto  mistero  alia  guardia),  vi  pass6 
sopra  la  tintura  d'iodio,  e  il  carattere  comparve.  Vi  era  scritto  cosi : 

«  Se  appartenete  alia  bandiera  della  patria  oppressa,  v'incombe 
certamente  il  dovere  di  non  ricusarmi  il  vostro  fraterno  aiuto.  Ho 
bisogno  di  far  pervenire  una  mia  lettera  al  console  d'Inghilterra  in 
Trapani  o  Palermo.  Volete,  potete  accogliere  le  mie  preghiere  ?  Gra- 
dite  i  miei  ringraziamenti  e  un  saluto  dal  vostro  fratello  Nicotera ». 

II  farmacista  scrisse  all'istante  la  risposta  con  una  soluzione 
d'amido,  vi  rinvolt6  un  boccettino  di  tintura  d'iodio,  preparo  il 
medicamento  indicato  nella  ricetta,  e  mand6  tutto  al  prigioniero. 
La  risposta  era  questa : 

<c  Mandate  quello  che  volete,  chiedete  tuttoci6  che  possa  occor- 
rervi,  fidate  intieramente  nello  Scafida,  uomo  tutto  mio,  e  nel  vo 
stro  fratello  A. » 

Tuttoci6,  questo  uscire  ed  entrar  di  viglietti  inamidati,  di  boc- 
cetterie  e  di  limonerie  e  di  guardie  non  frugate,  trattandosi  di  un 
ergastolano  politico,  reduce  da  una  passeggiatina  di  piacere  a  Sapri, 
temibilissimo  e  temutissimo,  mi  sa  un  po'  di  miscuglio  farmaceu- 
tico.  Tiriamo  avanti. 

II  domani  il  Nicotera  dava  alia  guardia  una  lettera  che  veniva 
consegnata  al  console  d'Inghilterra  da  un  fratello  del  farmacista 
stesso.  Di  li  a  sette  giorni,  due  signori  inglesi,  cosi  senza  parere, 
visitavano  Pisola  e  il  castello  e  si  affacciavano  alia  feritoia  della  cella 
del  glorioso  galeotto ;  e  finalmente  un  mezzo  mese  dopo  compariva 
a  Favignana  il  direttore  generale  di  polizia,  Maniscalchi,1  di  rea 
fama  mondiale,  il  collega  d'Ajossa,  il  «bastonatore  della  Sicilia», 
come  lo  chiam6  Victor  Hugo,2  un  parente  delPinventore  della  mac- 
china  angelica  che  stritolava  le  braccia  e  le  gambe  dei  condannati. 

Mi  assicurava  il  farmacista,  che  appena  posto  il  piede  nell'orri- 
bile  fossa,  Maniscalchi- lui!  - sussurrasse :  ((Per  "qui"  si  va  nella 
citta  dolente  ...»  Nicotera,  senza  guardarlo,  senza  fare  un  moto, 
continuava  a  starsene  lungo  e  sdegnoso  sul  suo  giaciglio.  II  direttore 
generale  di  polizia  volse  gli  occhi  in  giro.  Pareva  trasognato.  II 
giudice,  il  soprintendente  delle  carceri,  i  secondini,  le  sentinelle, 
nessuno  batteva  ciglio.  Era  una  scena  lugubre  e  solenne,  meritevole 

i.  Maniscalchi:  Salvatore  Maniscalco,  direttore  della  polizia  siciliana  dal 
1849.  Dopo  la  caduta  dei  Borboni  si  ritiro  a  Marsiglia,  dove  mori  nel  1864. 
II  Barboni  gli  attribuisce  qui  la  citazione  dantesca,  Inf.,  m,  i.  2.  Ajossa: 
fu  capo  della  polizia,  a  Napoli,  e  vi  agi  soprattutto  dopo  il  1848.  E  cfr.,  di 
Victor  Hugo,  Actes  et  Paroles.  Pendant  I'exil,  p.  243  (dell'ed.  Nelson). 


GENI   E   CAPI   AMENI   DELL'OTTOCENTO  943 

del  pennello  garibaldino  di  Girolamo  Induno.1  A  un  tratto  Mani- 
scalchi  chin6  lo  sguardo  sul  condannato  e  gli  chiese: 

—  Le  piacerebbe  cambiar  di  cella? 

—  Mi  e  indifferente  —  rispose  Nicotera. 

—  Eppure,  s'ella  volesse  presentarmi  una  sua  supplica  diretta 
alia  clemenza  del  re  perche  le  sia  fatta  grazia  di  ci6,  io  1'accetterei 
ben  volentieri  e  la  rassegnerei  a  Sua  Maesta,  caldamente  raccoman- 
dandola. 

—  II  vostro  re,  signore,  —  replico  il  galeotto  senza  alzare  d'una 
linea  la  testa  —  e  il  tiranno  della  mia  patria,  ed  io  quindi  non  chiedo 
grazia  al  tiranno.  Se  anche  di  sua  volonta  mi  arrivasse  una  grazia 
di  tal  genere,  io  la  rifiuterei ... 

Maniscalchi,  fremente,  verde  in  viso,  fece  un  profondo  inchino 
ed  usci.  Se  avesse  potuto  spiegare  i  suoi  artigli  temuti,  la  sarebbe 
stata  finita  per  il  Nicotera;  ma  1'Inghilterra,  anche  questa  volta,  e 
per  mezzo  di  lord  Gladstone,  aveva  sussurrato  qualche  parola  al 
governo  borbonico,  e  il  domani  dalla  visita  del  direttore  generale 
di  polizia,  il  fiero  rivoluzionario  veniva  tramutato  al  bagno  penale 
di  San  Giacomo. 

Come  si  vede,  e,  su  per  giu,  1'identica  scena  narrata  poco  sopra  e 
rilasciatami  in  iscritto  dal  sindaco  di  Favignana.  Identica;  soltanto 
che,  invece  di  un  pretore  e  d'un  cancelliere,  balza  fuori  il  feroce 
Maniscalchi  in  persona.  Ma  e  dunque  cosi  ardua  impresa  il  rac- 
cogliere  notizie  di  casi  storici  contemporanei  anche  sul  luogo  dove 
si  svolsero,  e  attingerle  da  chi  ebbe  occhi  che  videro,  e  orecchi  che 
intesero,  e  in  qualche  mo  do  vi  prese  parte  ? 

Torniamo  in  bassura;  a  San  Giacomo. 

Qui  la  vita  del  Nicotera  comincia  a  essere  tutt'altra  cosa.  L'uomo 
si  rifa  intieramente  leone  nelPanima,  e,  sebbene  anche  qui  guardato 
a  vista,  continua  nelle  sue  corrispondenze,  e  ha  fede,  anzi  e  certo, 
che  un  giorno  non  lontano  una  voce  di  redentore  gli  gridera: 
«Lazare,  exi  forasb)2  E  chi  ora  gli  portava  le  lettere,  scrittegli  da 
piu  parti  d7  Italia,  erano  gli  ancor  viventi  Francesco  Ancona  e  Giu 
seppe  Bussetta  carcerieri,  i  quali  (ne  ho  la  conferma  dal  sindaco) 
le  ricevevano  dal  farmacista,  che  alia  sua  volta  le  aveva  rimesse  dal 
Comitato  insurrezionale.  Ma  pare  che  nella  viva  confidenza  di  una 

i.  Girolamo  Induno:  vedi  la  nota  2  a  p.  901.     2.  Lazare,  exi  for  as:  vedi 
loan.,  n,  43. 


944  LEOPOLDO   BARBONI 

prossima  liberazione,  qualche  frase  vivace,  accennante  a  conoscenza 
delle  agitazloni  politiche,  uscisse  di  bocca  al  Nicotera,  e  la  sorve- 
glianza  diyenne  anche  piu  dura.  Giorni  tremendi,  e  notti  insonni 
piu  che  mai,  trascorsero  per  lui ;  ma  e  altresi  vero  che  giorno  e  notte 
pensava  a  lui  il  prodigioso  farmacista,  uomo,  a  quel  che  pare,  con 
piu  fantasia  che  non  ne  avesse,  e  tutto  dire!,  messer  Lodovico 
Ariosto.  Cominci6  egli,  il  farmacista  (e  me  lo  contava  egli  stesso), 
a  fare  a  Pamore  .  .  .  con  le  alte  suole  delle  scarpe  delPAncona ;  e  le 
alte  suole,  perche  eran  femmine  anch'esse  e  non  insensibili  alle 
oc<!hiate  sdolcinate  e  alle  paroline  melate  d'un  uomo,  un  bel  giorno 
capitolarono.  Che  ne  awenne?  Quali  impenetrabili  misteri  si  svol- 
sero  per  quel  fluido  amoroso,  non  sospettato  certamente  da  Paolo 
Mantegazza  quando  scrisse  e  rega!6  al  mondo  (e  avrebbe  fatto 
meglio  a  non  regalarglieli)  i  suoi  Amori  degli  uominil1 

Ecco  che  cosa  awenne.  Da  quel  giorno  le  suole  delle  scarpe 
delPAncona  venivano  aperte  dal  farmacista,  inghiottivano  le  lette- 
re,  si  lasciavano  ricucire  e  rimbullettare,  e  il  secondino  passeggiava, 
dir6  cosi,  sulle  fi-rme  di  Mazzini,  di  Garibaldi,  di  Crispi,  di  Roso- 
lino  Pilo2  e  altri,  finche  non  giungeva  il  momento  d'entrare  nella 
cella  a  far  pulizia. 

Era,  come  si  vede,  una  lotta.  Un  bel  giorno  due  fiscali  v'entra- 
rono  pure,  e  perquisirono.  Non  trovarono  nulla.  Dico  male,  tro- 
varono.  In  un  angolo  era  una  scatola  di  paglia  colorata,  tessuta 
dallo  stesso  Nicotera,  posseduta  poi,  come  prezioso  ricordo,  dal  far 
macista.  Costrettovi,  il  Nicotera  Papri,  i  due  frugarono,  e  ne  trasse- 
ro  una  camicia  da. uomo.  L'aveva  cucita  tutta  di  sua  mano  la  fidan- 
zata  del  povero  prigioniero,  che  a  quella  vista,  ripensando  alia  don 
na  amata,  lontana  e  trepidante  per  lui,  si  commosse  e  dette  in  un 
pianto  dirotto.  Ahi,  ahi,  ahi,  che  piccante  odore  di  romanzetto! 
Si  va  nel  tenero.  Come  mai  quella  camicia  aveva  potuto  sfuggire 
agli  occhi  satanici  della  fiscalita  borbonica,  anche  quando  il  Nico 
tera  stette  sepolto  nelPergastolo  di  Santa  Caterina  ? 

Comunque  sia,  pochi  mesi  dopo  da  questa  scena,  Giovanni  Ni 
cotera  s'infilava  una  ben  piu  gloriosa  camicia,  perche  da  Palermo, 

i.  Amori  degli  uomini:  uno  dei  tanti  volumi  di  fisiologia  e  igiene  del  noto 
scrittore  e  patologo  Paolo  Mantegazza  (1831-1910).  2.  RosolinoPilo  (1820- 
1860),  patriotta  siciliano,  esule  dopo  la  rivoluzione  del  1848,  torn6  segre- 
tamente  in  Sicilia  nel  1860  a  prepararvi  lo  sbarco  dei  Mille.  Capo  di  squa- 
dre  di  insorti  cercava  di  unirsi  a  Garibaldi,  quando  fu  colpito  da  una  fuci- 
lata,  presso  Palermo,  il  21  maggio.  Sul  Crispi,  vedi  la  nota  2  a  p.  503. 


GENI   E   CAPI   AMENI    DELL'OTTOCENTO  945 

fra  i  rintocchi  della  campana  della  Gancia,1  fra  lo  scoppio  delle 
bombe  e  delle  carabine,  la  voce  di  Garibaldi  gridava  effettivamente 
al  fiero  ergastolano:  «Lazare,  exi  foras!» 

Un  anno  prima,  per  le  vittorie  di  Montebello,  San  Martino,  Sol- 
ferino  e  Magenta,  per  le  osanna  e  il  tripudio  di  piu  che  mezza  Italia 
attorno  alle  prodigiose  figure  di  re  Vittorio,  Cavour  e  Garibaldi, 
per  la  certezza  infine  che  la  rivoluzione  sarebbe  divampata  anche 
nelle  Due  Sicilie  a  immediata  o  a  breve  scadenza,  la  bestia  borbo- 
nica  aveva  offerto  la  liberta  ai  detenuti  politici  di  Favignana,  a  patto 
ch'emigrassero  nella  Repubblica  Argentina.  Come  un  sol  uomo 
risposero:  No! 

Risposero  no,  sicuri  che  Pora  di  rompere  le  catene  in  ghigna  alia 
dinastia  «negazione  di  Dio»  si  avanzava  a  gran  passi.  L'n  maggio 
1860  i  Mille  sbarcavano  a  Marsala,  e,  per  logica  ripercussione,  il  po- 
polo  favignanese  guidato  da  Leonardo  Casubolo  invadeva  il  forte  di 
San  Giacomo  e  ne  portava  fuori,  in  trionfo,  Nicotera  e  i  suoi  com- 
pagni. 

Di  tra  quel  gaudio  Giovanni  Nicotera  aiferm6  subito  la  sua  riso- 
luta  tempra  di  futuro  Ministro  delFInterno,  ordinando  che  i  car- 
cerati  per  delitti  comuni  non  fossero  fatti  uscire.  E  per  poche  ore 
fu  cosi.  Poi  proced6  per  Favignana,  per  una  via  che  porta  oggi  il 
suo  nome;  form6  un  Comitato  di  Salute,  da  Diego  Gandolfo,  che 
gli  offriva  denari,  tolse  in  prestito  seicento  ducati  (2550  lire  no- 
strane)  restituiti  di  li  a  tre  giorni  come  aveva  promesso,  e  parti 
per  Palermo  a  ricevervi  il  bacio  di  Garibaldi. 

La,  poco  dopo,  da  Calatafimi,  dove  lo  avevano  trattenuto  fra  la 
vita  e  la  morte  le  cinque  ferite  di  piombo  al  petto,  giovine  bellis- 
simo  di  ventisei  anni,  anima  di  poeta  i  cui  versi  eran  piaciuti  a 
Giambattista  Niccolini,  partiva  convalescente,  e  pur  con  Fansia  di 
nuove  pugne,  Giuseppe  Bandi  per  riunirsi  anch'egli  alFEroe.  Fra 
il  Nicotera  e  il  Bandi  Pamicizia  fu  immediata,  ed  ecco  quanto  il 
primo  raccontava  al  secondo,  di  ci6  che  aveva  provato  in  cuore 
1'n  maggio. 

«Ero  lassu,  lassu,  sulle  mura,  pigliando  aria,  in  mezzo  a  due 
carcerieri.  Si  vedevano  due  piroscafi  awicinarsi  a  tutta  corsa,  e 

i.  campana  della  Gancia'.  al  monastero  della  Gancia,  a  Palermo,  nell'aprile 
del  1860,  si  era  barricato  un  gruppo  d'insorti:  furono  vinti  e  pochi  riusci- 
rono  a  sfuggire. 

60 


94-6  LEOPOLDO    BARBONI 

non  and6  molto  che  ci  furono  vicino.  Non  avevano  bandiera  di 
sorta,  ne*  sapevo,  ne  indovinavo  quali  fossero;  ma  il  cuore  indo- 
vin6  .  .  .  presagi  che  non  viaggiavano  senza  qualche  gran  perche. 
Rientrai  nella  mia  cella,  quando  Fora  della  mia  aria  fu  trascorsa; 
e  vi  rientrai  allegro,  pieno  cioe  di  speranza  buona,  e  di  felici  idee. 
Verso  mezzogiorno  poi,  udii  le  cannonate,  e  vidi  i  miei  custodi 
correre  su  e  giu,  preoccupati  non  soltanto,  ma  sgomenti,  smarriti, 
impauriti .  .  .  Mi  provai  a  interrogarne  qualcuno,  ma  parve  non 
avessero  fiato  da  rispondere  .  .  .  Passai  la  notte  senza  chiudere  oc- 
chio.  La  mattina  seguente,  il  comandante  dell'ergastolo,  mi  fece 
sferrare,  e  meco  furono  poi  sferrati  gli  altri  pochi .  .  .  Costui  e  tutti 
i  suoi  sbirri  parevano  volere  essere  fratelli  nostri,  e  far  a  gara  per 
gratificarci,  e  anche  per  raccomandarsi  a  noi .  .  .  Ma  dall'alto  della 
rocca  rividi  ancora  le  navi  borboniche  in  crociera,  e  seppi  che, 
partito  Garibaldi,  i  borbonici  erano  rientrati  in  Marsala.  Per  un 
momento  (e  quanto  lungo  fu  quel  momento!)  temetti  aver  fatto  un 
bel  sogno,  ma  un  sogno  traditore . . .  Se  non  che  m'affidava  il  buon 
augurio  che  avevo  in  cuore,  e  piu  mi  affidava  ancora  il  contegno 
benevolo  e  premuroso  dei  guardiani,  che  sembravano  raccomandar 
si  piu  che  mai  a  me.  Per  fortuna,  Tincertezza  penosa  non  dur6  tan- 
to,  perch6  la  sera  del  12  i  guardiani  partirono  tutti  alPimprowiso, 
e  noi  prigionieri  restammo  padroni  della  prigione  e  dell'isola,  da 
cui  ci  tolse'poi  una  barca  venuta  a  posta  per  ritornarci  nel  mondo. 
Giovanni  Nicotera  (&  il  Bandi  che  continua  a  narrare),1  spesse 
volte  ha  rammentato  meco  le  ansie,  i  palpiti,  le  gioie  di  quei  gior- 
ni .  .  .  Quando  dopo  tanti  anni  lo  rividi  in  Livorno,  acclamato, 
corteggiato,  in  piena  pompa  di  trionfal  sinistro  e  ministro,  la  prima 
parola  che  mi  disse,  la  sulla  spiaggia  de'  Cavalleggieri,  dove  lo  in- 
contrai  con  la  sua  corte,  fu  questa:  —  Ti  ricordi  eh,  ti  ricordi  quel 
giorno  ? .  .  . » 

Mi  duole  dover  dichiarar  subito,  che  o  il  Nicotera  parlando, 
o  il  Bandi  scrivendo,  nell'enfasi  del  ricordo  ricordarono  infelice- 
mente.  L'n  maggio  del  1860  il  Nicotera  aveva  lasciato  gli  orrori 
del  forte  di  Santa  Caterina  da  circa  un  anno  e  mezzo,  ed  era  passato 

i.  e  il  Bandi .  .  .  a  narrare:  nei  Mille  (in  Memorialisti  dett'Ottocento,  tomo 
I,  a  cura  di  G.  Trombatore,  p.  915,  in  questa  medesima  collezione),  il 
Bandi  scrive :  « Nicotera  ebbe  a  dirci  .  .  .  d'aver  provato  un  fausto  ed  in- 
dicibile  presentimento,  osservando  di  tra  le  sbarre  del  carcere  i  due  legni 
misteriosi ». 


GENI   E    CAPI   AMENI    DELL'OTTOCENTO  947 

a  San  Giacomo,  da  dove  e  possibile  vedere  il  mare,  quanto  e  possi- 
bile  scorgere  Costantinopoli  dal  piazzale  Michelangiolo  a  Firenze. 

Tutto  questo,  e  della  spiaggia  paradisiaca  del  Cavalleggieri  a 
Livorno,  e  del  qui  pro  quo  nicoteriano  o  bandiano  e  un  tantino 
anche  delle  triglie  alia  livornese,  io  ripensavo  aggirandomi  fra  i 
cento  bugigattoli  di  Santa  Caterina  nelPaspettativa  di  un  dolce  ap- 
pello  della  mia  guida  Vincenzo,  intenta  a  preparare  una  lauta  co- 
lazione  nella  saletta  del  forte  ove  in  tempi  scellerati  avevano  risie- 
duto  il  direttore  dell'ergastolo  e  consimili  ghigne  proibite.  E  per 
istrettissimo  e  logico  rapporto  d'idee,  fra  ergastoli  borbonici  e  de- 
tenuti  politici,  e  rivoluzioni  e  sbarco  dei  Mille,  appetito  o  no,  an 
che  ripensavo  un'altra  figura,  tozza  e  rude  ma  di  una  certa  impor- 
tanza,  che  mi  balzava  su  su  dalle  scogliere  della  vicina  Trapani. 

Facciamone  il  ritratto,  giacche  ci  siamo. 

La  tozza  e  rude  figura  e  il  pilota  improwisato  e  forzato  che  guido 
i  Mille  di  tra  Favignana  e  Marittimo1  a  Marsala.  Lo  avevo  cono- 
sciuto  diciassette  anni  innanzi  durante  la  mia  prima  gita  in  Sicilia, 
e  propriamente  a  Trapani,  mentr'egli,  seduto  su  uno  scalino  del 
piccolo  piazzale  ch'e  dietro  alia  casina  di  sanita,  gettava  una  lenza 
in  mare,  e  in  quel  momento  pensava  tanto  a  Garibaldi  quant'io 
pensavo  ai  peli  della  barba  di  Maometto.  Ero  in  compagnia  di 
Donato  Colombo,  per  Pappunto  uno  dei  Mille,  un  glorioso  ferito 
anch'egli  di  Calatafimi,  parmi,  o  del  titanico  assalto  di  Porta  Ter 
mini  a  Palermo,  allora  allargante  i  polmoni  sotto  il  bel  cielo  sici- 
liano  come  presentemente  li  slarga,  vispo  e  vegeto  ancora,  sotto 
il  gran  cielo  milanese. 

—  Vuoi  conoscere  il  nostro  pilota? 

—  Che  pilota? 

—  Come!  il  pilota  di  Garibaldi;  il  pilota  che  ci  guid6  di  fra  1'isola 
di  Favignana  e  Marittimo  fin  dentro  il  porto  di  Marsala. 

-Ma  chi  e?  dov'e? .  .. 

—  Eccolo  la;  quello  la  ... 

—  Eh?  tu  scherzi!  Ma  come?  quel  coso  che  pare  un  tonno2  ve- 
stito  da  uomo  ? 

—  Lui,  proprio  lui. 

i.  Marittimo:  cosl  scrive,  anche  subito  dopo  per  altre  due  volte,  il  Barboni 
neiredizione  da  noi  seguita:  ma  e  evidente  che  il  nome  esatto  deve  essere 
Marettimo.  2. pare  un  tonno:  ripete  una  immagine  del  Bandi  (op.  cit., 


948  LEOPOLDO    BARBONI 

Gli  ci  awicinammo,  e  Donate  Colombo  gli  batte  con  una  mano 
la  spalla  e  lo  chiam6  per  nome:  —  Ehi,  Strazzera!  ...  —  II  tonno  si 
volt6,  e  se  non  avesse  li  per  li  provato  col  fatto  che  anch'egli  aveva  il 
dono  della  favella  ed  era  quindi  un  animale  cosidetto  ragionevole, 
mi  sarei  confermato  nella  prima  opinione  e  lo  avrei  battezzato  per 
un  tonno  e  mezzo. 

—  Voscienza  &  cca?  .  . . 

—  Si,  son  qua,  e  con  me  c'e  uno  che  ti  vuol  conoscere. 

Mi  guard6  e  grugnl  lo  smaccatamente  sdolcinato,  pretesco  e  spa- 
gnolesco  saluto  siciliano  gia  anatemizzato  da  Garibaldi :  -—  Bacio 
la  mano. 

Credo  che  piu  di  dieci  parole  al  giorno  non  pronunciasse  mai  in 
tutta  la  sua  lunga  vita.  Era  grasso  bracato,  corto,  col  viso  color  di 
bronzo,  con  una  collottola  di  grinze  che  parevan  tagli  a  quadretti, 
vestito  di  turchiniccio  come  tutti  i  marinai  di  la,  con  movimenti 
sgraziati,  goffi,  pesanti,  da  tartaruga,  con  una  voce  roca  da  far 
fuggire  dieci  pesci-cani,  non  che  Panguille  e  i  naselli  ch'era  intento 
a  pescare. 

II  mattino  dell'ii  maggio  1860,  Antonino  Strazzera  si  trovava 
con  la  sua  barca  pescareccia  nelle  acque  delle  Isole  Egadi,  e  preci- 
samente  presso  Tisoletta  di  Marittimo.  Era  solo  come  una  passera 
solitaria.  I  due  vapori,  il  Piemonte  e  il  Lombardo  portanti  Garibaldi 
e  Nino  Bixio  e  i  Mille,  e  coi  Mille  e  il  loro  duce  glorioso  la  reden- 
zione  delle  Due  Sicilie  e  Tepopea  vera  del  popolo  italiano,  naviga- 
vano  circospetti  verso  Marsala.  II  Piemonte  si  soffermb,  e  Garibaldi 
in  persona  fej  cenno  allo  Strazzera  d'awicinarsi. 

—  Sai  dirmi  nulla  di  navi  borboniche  nel  porto  di  Marsala? .  .  . 

—  Sugno  morto!  . . .  Son  morto!  —  biascicb  il  pescatore  tarta- 
gliante  e  tremante.  Poi  guardando  TEroe,  ch'egli  scambiava  per 
un  capo  di  pirati:  —  Signorino  meo,  e  che  saccio!  che  so  io! 

—  Rispondi!  — -  tuonc-  Garibaldi. 

—  Signorino  meoy  so  che  vi  so  no  due  vapori  inglesi;  uno  e 
ly Argus  . . . 

—  Acchiana!  monta  —  gli  grid6  un'altra  voce  in  puro  accento 
siciliano.  Era  la  voce  di  Salvatore  Castiglia,1  palermitano,  cui  Ga- 

p.  917),  che  scrive:  «Pareva  costui  un  tonno,  tanto  era  corto  e  panciuto, 
ed  aveva  la  faccia  di  cuor  contento».  i.  Salvatore  Castiglia  (1819-1895), 
capitano  di  lungo  corso;  e  cfr.  la  nota  i  a  p.  904  del  I  tomo  dei  Memo- 
rialisti,  in  questa  collezione. 


GENI   E   CAPI   AMENI    DELL'OTTOCENTO  949 

ribaldi  aveva  dato  il  sotto-comando  del  Piemonte  fin  dalla  partenza 
dallo  Scoglio  di  Quarto. 

Ecco  un  uomo-tonno  che  cercava  muggini  e  murene  o  frittura 
mista,  e  improwisamente  trova  la  rinomanza!  Qualche  cosa  di  piu 
del  «  Re  del  burro »  dei  pressi  di  Parigi,  creato  tale  da  Luigi  XV. 
Affermo,  del  resto,  che  lo  Strazzera  se  ne  and6  all'altro  mondo  sen- 
za  aver  mai  capito  che  diavolo  significasse  la  parola  rinomanza, 
che  cosa  almanaccasse  Garibaldi  e  che  cosa  fosse  Htalia;  una  voce, 
quest'ultima,  di  difficile  pronunzia  per  lui,  tanto  e  vero  che  diceva 
Taglial  Ma  quello  che  e  certo  e  ch'egli  non  menti.  Quell'uomo 
rozzo,  ma  onesto,  vero  tipo  di  marinaio  nato  e  vissuto  tra  gli  splen- 
dori  delle  albe  e  dei  tramonti,  tra  gli  urli  sciroccali  e  le  bonacce  del 
suo  bel  mare,  poteva  mentire  e  non  menti,  poteva  condurre  «le 
sorti  d' Italia»  in  qualche  punto  infido,  e  non  lo  fece,  e  di  ci6  gli  va 
lode  grande. 

Al  tocco  di  quel  medesimo  giorno,  minuto  piu,  minuto  meno, 
Garibaldi  coi  suoi  Mille  era  gia  per  le  vie  della  ridente  Marsala, 
d'onde  mandava  un  bacio  e  un  saluto  a  Giovanni  Nicotera;  e  mentre 
le  navi  borboniche  Capri  e  Tancredi,  sopraggiunte  a  cosa  fatta,  si 
sfogavano  a  sforacchiare  a  colpi  di  mitraglia  il  Piemonte  e  il  Lom- 
bardo  arenati,  Antonino  Strazzera,  rintontito  e  assordito  dalle  can- 
nonate,  se  ne  scappava  a  Trapani,  di  tanto  in  tanto  attastandosi  il 
collo  per  accertarsi  se  Taveva  sempre  sulle  spalle. 

Ma  dopo  la  pugna  omerica  di  Calatafimi,  dopo  la  lotta  folgore 
al  Ponte  deirAmmiraglio,  dopo  Tassalto  sublimemente  feroce  alia 
barricata  di  Porta  Termini,  dopo  gli  immortali  due  giorni  di  com- 
battimento  per  le  vie  di  Palermo,  dopo  che  tutta  Faisola  bella» 
gridava  delirante:  ((Garibaldi!  Garibaldi!  Garibaldi!))  Puomo-ton- 
no,  owerosia  Antonino  Strazzera,  pens6  o  fu  consigliato  a  pensare 
di  fare  anch'egli  la  sua .  .  .  entrata  in  Palermo. 

E  la  fece.  La  fiera  ed  eroica  citta  era  ancor  tutta  una  rovina  per 
gli  eflfetti  spaventosi  del  bombardamento  borbonico,  e  insieme  un 
trionfo  e  un  emporio  di  bandiere  tricolori,  di  camicie  rosse,  di  fiori, 
di  festoni  di  lauro,  di  ritratti  delPEroe,  del  re  Vittorio  e  di  Santa 
Rosalia.1  La  via  Macqueda  serbava  le  ultime  tracce  delle  barricate 
e  portava  ancora  chiazze  di  sangue  raggrumato.  Per  quella  bella  e 

i.  Santa  Rosalia  e  la  patrona  di  Palermo  e  a  lei  e  dedicata  la  cattedrale 
della  citta. 


950  LEOPOLDO    BARBONI 

lunga  via,  reduce  dal  convento  di  Porta  Nuova  (dove  tutte  le  mo- 
nache,  dalla  piu  vecchia  alia  piu  giovane,  dalla  piu  brutta  alia  piu 
bella,  avevano  voluto  baciarlo,  frementi  anch'esse  di  quell'entu- 
siasmo  che  nessuna  penna,  nessuna,  potra  mai  descrivere),  Ga 
ribaldi  se  ne  ritornava  al  Palazzo  del  Comune  circondato  dal  suo 
Stato  maggiore.  Faceva  parte  di  quello  Stato  maggiore  il  bellissimo 
ed  eroico  Francesco  Nullo,  I'elegantissimo  milanese  Giuseppe  Sir- 
tori1  (che  a  Milazzo  doveva  poi  salvare  la  vita  al  duce  glorioso), 
il  formidabile  genovese  mazziniano  Antonio  Mosto,2  lo  stesso 
Giovanni  Nicotera,  il  mio  indimenticabile  amico  Giuseppe  Bandi 
e  molti  altri.  Una  schiera  di  semidei  awolti  nel  rosso,  e  preceduti 
da  Giove. 

AlPimprowiso  un  uomo  rozzo,  basso,  dalle  larghe  spalle,  dallo 
sguardo  bonaccione,  vestito  di  turchiniccio,  intrampolante  fra  i 
rottami,  si  para  davanti  a  Garibaldi,  gli  agguanta  il  cavallo  per  la 
testa,  e  con  voce  chioccia  esclama: 

—  Pep&  . . .  cca  sugno!  Beppe,  son  qua! 

Garibaldi  lo  guarda,  e  fra  accigliato  e  sorridente  gli  grida: 

—  Lascia  andare  le  briglie  . .  . 
-  Pepl . .  . 

—  Lascia  andare,  ti  dico! 

—  Pep&,  sugno  ieu!  . , .  Beppe,  son  io! 

Uno  dello  Stato  maggiore  gli  si  fa  accosto,  lo  fissa,  lo  rawisa,  e 
festosamente  grida  anch'egli: 

—  Generate,  e  il  nostro  pilota;  e  lo  Strazzera. 
Tutti  dettero  in  una  grassa  risata. 

Rise  anche  Puomo-tonno. 

—  fe  vero,  e  lui . . .  Bravo ;  hai  fatto  bene  a  venire . . .  Torna  piu 
tardi  al  Palazzo  del  Comune  dov'ho  il  mio  quartier  generate. 

Ebbe  non  so  piu  che  sommetta  e  se  ne  ritorn6  alia  sua  citta  ri- 
manendo  tonno,  arcitonno,  tonnissimo.  Varii  anni  appresso,  sa- 
puto  egli  che  uno  dei  Mille  (ed  era  appunto  Donato  Colombo) 

I.Francesco  Nullo:  vedi  la  nota  3  a  p.  390;  Giuseppe  Sirtori  (1813- 
1874),  gid.  combattente  a  Venezia,  poi  dei  Mille,  dittatore  provvisorio  a 
Palermo,  quindi  prodittatore  a  Napoli,  generale  dell'esercito  italiano,  par- 
tecipo  alia  campagna  del  '66  col  risultato  che  il  suo  critico  atteggiamento 
gli  valse  il  collocamento  a  riposo.  2.  Antonio  Mosto,  comand6  la  legione  dei 
carabinieri  genovesi  e  segul  Garibaldi  in  tutte  le  imprese  dal  1849  a  Men- 
tana.  Mori  nel  1890. 


GENI   E   CAPI   AMENI    DELL'OTTOCENTO  951 

trovavasi  a  Trapani,  lo  andc-  a  visitare.  II  vecchio  «pilota»  faceva 
pieta.  Era  stracciato  e  ridotto  inabile  a  qualunque  lavoro.  Ricord6 
Marsala  e  narr6  che  assai  tempo  dopo  s'era  buscato  un  inguaribile 
acciacco  nel  salvare  dalle  acque  la  cassa  d'un  battaglione.  Nessuno 
poi  mai  aveva  pensato  a  lui,  che  gia  aveva  tanta  benemerenza.  Che 
vergognosa  trascuratezza!  Donate  Colombo  lo  confort6  di  parole,  lo 
sowenne  come  pote,  appur6  il  caso  della  sua  disgrazia,  raccolse  do- 
cumenti  al  proposito,  mando  alia  firma  di  commilitoni  e  di  cono- 
scenti  una  petizione  da  dirigersi  al  Parlamento,  e  in  cui  era  messo 
in  piena  luce  il  «pilota»  dello  sbarco  di  Marsala;  raccomand6  la 
petizione  ad  Abele  Damiani,1  e  pochi  giorni  dopo  Parlamento  e 
Senato  decretavano  allo  Strazzera  una  pensione  annua  di  mille 
lire.  Ci  voile  il  cuore  di  un  glorioso  ferito  garibaldino,  e  per  giunta 
piemontese. 

Pep£,  cca  sugno!  . . .  Pep£,  sugno  ieu!  .  .  .  Ah,  che  tonno;  ma  per6 
che  galantuomo.  Morto,  il  Comune  intito!6  dal  suo  nome  un  moz- 
zicone  di  via.  E  la  barca?  Ah,  la  barca!  La  barca  su  cui  si  erano 
posati  gli  occhi  di  Garibaldi,  che  accodata  alia  poppa  del  Piemonte 
aveva  assistito  alia  piu  splendida  audacia  che  le  storie  ricordino, 
che,  forse,  anch'essa  aveva  servito  allo  sbarco  dei  Mille,  che,  in 
un  modo  o  nell'altro,  aveva  ricevuto  un  battesimo  di  gloria,  e  che 
gloria!,  riportata  a  Favignana  stette  qualche  anno  a  cullarsi  sul 
greto,  poi  fu  «cremata». 

Diciamolo  piu  crudamente:  da  mani  di  selvaggio  fu  fatta  a  pezzi 
e  bruciata  per  cuocere  sa  Dio  quanti  chilogrammi  di  maccheroni! 

E  anche  sa  Dio  dove  mi  sarei  andato  a  fermare  con  Passopprella- 
mento2  di  Nicotera  al  «pilota  tonno  »,  se  d'improwiso  la  voce 
soave  del  mio  cicerone  Vincenzo  non  avesse  gridato: 

—  A  mangiare!  . . . 

Certo,  se  la  mia  visita  alFantro  di  Nicotera  avesse  avuto  luogo 
un  decennio  e  piu  dopo,  ben  altre  gemme  avrei  avuto  da  riandare. 
Per  esempio  una  giornata  di  tumulto,  deliziata  dairabbruciamento 
di  Re  Vittorio  Emanuele  III  in  effigie,  e  della  dedizione  di  Trapani 
alia  Repubblica  francese! 

—  A  mangiare!  —  ripet6  Vincenzo, 

i.  Abele  Damiani  (1835-1905),  di  Marsala,  combatt6  con  Garibaldi  nel  1860, 
nel  1862,  nel  1866.  Deputato  dal  1865  al  1897,  senatore  dal  1898.  Nel  pe- 
riodo  1887-1891  fu  sottosegretario  agli  esteri.  2.  assopprellamento:  ag- 
giunta. 


952  LEOPOLDO   BARBONI 

Su  da*  fianchi  del  monte  venivano  impercettibili  crepitii  provo- 
cati  dall'incandescenza  del  cielo ;  i  mosconi  ci  passavano  rapidi  co 
me  frecce  sotto  la  punta  del  naso  con  roiusio  disperato ;  due  falchi 
rotavano  stridendo  rabbiosi  nell'ansia  della  preda;  il  fogliame  delle 
carrube  si  accartocciava  sotto  lo  stellone  di  un  agosto  affricano, 
e .  .  .  anche  il  mio  stomaco  s'accartocciava.  M'infilai  per  una  sca- 
letta  angusta,  seguito  dal  dotto  professore  naturalista  che  si  sarebbe 
fra  non  molto  impaperato  fra  piattole  e  piattoni,  e  poco  dopo  sedetti 
intorno  a  una  tovaglia  distesa  su  un  tavolino  e  un  cassone  capovolto. 
Mi  trovavo  nella  vecchia  stanza  d'ufficio  del  sopraintendente  del 
forte,  che  ho  ricordato  piu  sopra;  una  stanza  bassa,  mefitica,  il- 
lustrata  d'iscrizioni  scritte  a  carbone,  a  tinta  a  olio,  a  lapis,  tutte,  o 
piu  o  meno,  scelleratamente  spropositate  nei  verbi,  odiatissimi  in 
Sicilia,  ma  d'onde  si  dominava  una  visuale  superba.  Vincenzo, 
rindimenticabile  Vincenzo,  era  sceso  al  paese,  e  n'era  tomato  con 
un  somarello  carico  d'ogni  ben  di  Dio. 

Ahime!  mi  deliziavo  attorno  a  un  cosciotto  di  coniglio  olimpica- 
mente  cucinato,  quando  su  dal  semaforo  un'altra  voce  spietata 
ci  scompigli6. 

—  II  piroscafo!  . . .  Esce  ora  da  Marsala,  in  rotta  per  Favignana. 

Ebbi  appena  il  tempo  di  bere  ai  sacri  mani  di  Giovanni  Nicotera, 
e  precipitammo  giu  con  la  rapidita  dei  mosconi  che  poco  prima 
c'eran  passati  ronzando  sotto  la  punta  del  naso. 

Mezz'ora  dopo  eravamo  a  bordo  del  Napoli;  ed  io,  ritto  e  ap- 
poggiato  a  un  ferro  della  tenda  di  prua,  awolgendo  in  un'oc- 
chiata  il  forte  di  Santa  Caterina  e  i  paraggi  di  San  Giacomo,  pen- 
savo:  La  promessa  e  mantenuta;  ma  non  tu,  come  a'  bei  tempi,  mi 
leggerai,  o  amico  Beppe  Bandi,  o  valoroso  ferito  di  Calatafimi,  so- 
pravvissuto  al  piombo  dei  borbonici,  assassinato  dal  pugnale  di 
uno  dei  tanti  mostri  della  libera  Italia  e  della  umanita. 


FERDINANDO  MARTINI 


PROFILO  BIOGRAFICO 

FERDINANDO  MARTINI  nacque  a  Firenze  il  30  luglio  1841.  II  pa 
dre,  Vincenzo,  ebbe  important!  uffici  nel  governo  granducale,  come 
era  gia  nella  tradizione  della  famiglia,  che  il  nonno,  anch'esso  di 
nome  Vincenzo,  aveva  tenuto  nelle  sue  mani  le  redini « dello  stato  e 
della  citta  di  Siena »  come  luogotenente  di  Pietro  Leopoldo  ed  era 
divenuto  poiministro  dell'interno  sotto  Maria  Luisa,  regina  d'Etru- 
ria.  Gente  illustre,  dunque,  nella  Toscana  d'allora  e  che,  sebbene 
oriunda  di  Monsummano,  dove  aveva  ville  e  poderi,  a  Firenze 
s'era  ormai  affermata,  e  imparentata  con  famiglie  nobili:  la  madre 
di  Ferdinando,  Marianna,  era  una  marchesa  Gerini. 

Vincenzo  Martini  alternava  le  cure  di  governo  con  quelle  let- 
terarie,  ed  aveva  acquistato  fama,  a  Firenze,  di  buon  commedio- 
grafo,  specie  da  quando  Adelaide  Ristori,  gia  illustre,  ebbe  procura- 
to  grandi  applausi,  nel  1853,  nel  teatro  Cocomero,  alia  commedia 
Una  donna  di  quaranfanni,  che  e  certo  la  sua  migliore,  ma  non 
Tunica  buona  tra  quelle  che  poi  il  figlio  Ferdinando  amorosamente 
raccolse  e  stamp6. 

Questo  ambiente,  vicino  alia  corte  e  alia  letteratura,  e  perci6 
continuamente  a  contatto  con  gli  uomini  colti  e  con  gli  spiriti  piu 
vivi  della  Firenze  del  tempo,  giov6  fin  dai  primi  anni  a  Ferdinando 
Martini.  Non  molto,  invece,  egli  ricav6  dagli  studi  regolari,  che, 
del  resto,  gli  furono  presto  interrotti  dalla  sua  invincibile  awersione 
alia  matematica,  un' awersione  che,  dopo  vari  tentativi,  gli  sbarr6 
per  sempre  Taccesso  alPuniversita.  Piu  assai,  invece,  opero  su  lui 
Tamico  Enrico  Nencioni,  destandogli  Tamore  alle  letture,  che  di- 
vennero,  esse  soltanto,  la  fonte  vera  della  sua  vasta  e  vivacissima 
cultura.  Dei  suoi  primi  anni  narrano  ampiamente,  e  in  modi  assai 
coloriti,  le  pagine  di  memorie  che  abbiamo  riprodotte,  e  anche  mo- 
strano  quale  curiosa  parte  egli  ebbe,  non  ancora  diciottenne,  nella 
cronaca  di  quegli  awenimenti  che  culminarono  con  la  fine  del 
granducato.  Negli  anni  successivi,  mentre  silenziosamente  am- 
pliava  le  sue  conoscenze  di  autori  italiani  e  francesi,  egli  segui  le 
orme  paterne  con  una  intensa  attivita  teatrale  alquanto  fortunata. 
Gia  nel  1862,  all' Arena  Goldoni  di  Firenze,  la  compagnia  Gat- 
tinelli  rappresentava  un  suo  « proverbio  »  in  due  atti,  Uuomo  pro 
pone  e  la  donna  dispone\  e  1'anno  dopo,  per  giudizio  di  un'apposita 


956  FERDINANDO    MARTINI 

commissione,  divideva  un  premio  teatrale  con  un  commediografo 
ormai  molto  noto,  Tommaso  Gherardi  Del  Testa,  e  vedeva  rappre- 
sentata  con  applausi  e  consensi  la  commedia  in  tre  atti,  I  nuovi 
ricchi,  che  gli  aveva  procurato  questo  cosi  precoce  riconoscimento. 
Ne  si  fermo  a  queste  prime  vittorie,  che  presto  seguirono  altri  lavori 
teatrali  (Fede,  commedia  in  cinque  atti,  1865;  Un  bel  matrimonio, 
dramma  in  tre  atti,  1865 ;  Uelezione  di  un  deputato,  farsa  in  tre  atti, 
1867 ;  Chi  sa  ilgioco  non  Vinsegni,  proverbio  in  versi,  1871 ;  La  strada 
piu  corta,  proverbio  in  versi,  1872;  II  peggio  passo  I  quello  dell'uscio, 
proverbio,  1873),  non  tutti  ne  dovunque  applauditi,  ma  che  mostra- 
no,  comunque,  una  evidente  inclinazione  letteraria  e,  soprattutto, 
una  chiara  tendenza  verso  un  linguaggio  semplice,  colorito  d'ar- 
guzie  e  signorilmente  misurato.  Di  che  fu  anche  conferma,  mol- 
tissimi  anni  dopo,  nel  1894,  una  commedia  in  prosa,  La  Viper  a, 
con  la  quale  espresse,  se  non  altro,  la  propria  nostalgia  per  quella 
giovanile  attivita  teatrale  da  lungo  tempo  abbandonata  per  altre 
cure  letterarie  e  politiche. 

La  morte  del  padre,  awenuta  nel  1862,  gli  aveva  intanto  rivelato 
la  non  piu  salda  situazione  economica  della  famiglia  e  la  urgente 
necessita  di  occupazioni  fruttuose,  che  delle  proprieta  di  Monsum- 
mano  sola  si  era  salvata  una  villa.  Perci6  nel  1869  il  Martini  solle- 
cit6  e  accolse  la  nomina  a  insegnante  di  italiano  nella  scuola  nor- 
male  femminile  di  Vercelli,  dalla  quale  poco  dopo  fu  trasferito 
alia  normale  maschile  di  Pisa.  Esperienza  d'insegnante  ch'egli  pre 
sto  abbandon6  (1872),  ma  che  pure  gli  consent!,  alcuni  anni  dopo, 
di  affrontare,  sul  ricordo  di  osservazioni  dirette,  alcuni  problemi 
della  scuola  italiana. 

Intanto,  si  era  rivolto  al  giornalismo.  Dal  1871  era  collabora- 
tore  di  uno  dei  piu  vivaci  e  simpatici  giornali  del  tempo,  « II  Fan- 
fulla»,  e  per  molti  anni,  con  lo  pseudonimo  di  Fantasio,  vi  continue 
a  scrivere  quelle  sue  «  chiacchiere  »  e  «  bricciche  »  e  «  ritagli »,  e  an 
che  piu  impegnative  pagine,  in  cui  il  signorile  equilibrio  della  sua 
larga  cultura  si  innestava  felicemente  sul  brio  e  la  freschezza  del  suo 
parlare  toscano.  Chi  rilegga  quegli  scritti  e  ripensi  alia  sua  atti 
vita  giornalistica,  specialmente  quale  si  svilupp6  negli  anni  succes- 
sivi,  pu6  accorgersi  facilmente  di  alcune  qualita  che  gli  furono  es- 
senziali  e  che  valgono  a  spiegare,  in  parte,  le  sue  preferenze  per 
certe  forme  di  attivita,  e,  soprattutto,  la  meta  che  si  prefisse  nella 
ricerca  di  un  proprio  stile.  Giornalismo,  politica,  operosita  di 


PROFILO   BIOGRAFICO  957 

scrittore  gli  si  configurarono  sempre,  piu  o  meno  consapevolmente, 
non  gia  come  attivita  aventi  una  soddisfazione  e  un  fine  in  se  stesse, 
ma  piuttosto  quali  impegni  di  educatore,  quali  strumenti  per  un 
richiamo  a  forme  piu  alte  di  vita  e  di  civilta.  Certo,  il  pubblico 
ideale  cui  si  rivolgeva  la  sua  parola  e  su  cui  egli  contava  di  ope- 
rare,  non  era  quello  del  popolo  minuto,  abbandonato  allora  a  se 
stesso,  lontano  da  ogni  forma  anche  rudimentale  di  sapere,  e  im- 
merso  ancora  nella  miseria  e  nell'analfabetismo :  che  da  esso  lo  te- 
neva  troppo  separate  iltimbro  discretamente  aristocratico  dellasua 
stessa  cultura,  nonche  i  tempi  e  le  tradizioni  della  classe  sociale  cui 
apparteneva.  Mirava  invece  alia  borghesia  italiana,  agli  uomi- 
ni  dotati  di  una  certa  istruzione,  capaci  di  interessi  letterari  e  di 
problemi  intellettuali,  e  intendeva  agire  su  essi,  dare  un  respiro 
meno  provinciale  ai  loro  spiriti,  scuoterne  il  torpore,  rettificarne 
pensieri  e  sentimenti.  Da  questo  intento  usci  quel  settimanale, 
«I1  Fanfulla  della  Domenica»,  ch'egli  fond6  nel  1879  e  diresse  P°i 
per  tre  anni,  sostituendolo  nel  1882  con  la  «Domenica  letteraria  » ; 
e  fu  lo  stesso  sentimento  che  gli  fece  ideare  nel  1881,  e  dirigere  poi 
fino  al  1883,  il  «Giornale  dei  bambini)),  che  ebbe  tanta  diffusio- 
ne  e  si  viva  efficacia  educativa.  Quivi  Collodi  pubblico  dapprima 
quella  sua  Storia  di  un  burattino,  il  celebre  Pinocchio,  che  segn6 
veramente  una  grande  data  nello  sforzo  degli  adulti  per  compren- 
dere  ed  educare  i  ragazzi.  Allo  stesso  fine  tendeva  lo  stile  del  Mar 
tini,  tutto  proteso  verso  la  semplicita  e  la  chiarezza,  animate  sem 
pre  di  buon  senso  e  di  equilibrio,  guidato  dal  desiderio  costante  e 
vigile  di  farsi  ascoltare,  di  piacere,  di  convincere,  rifuggendo  dai 
toni  letterari  e  accademici,  in  una  mobilita  briosa,  colorita  di  aned- 
doti  e  di  ironia:  stile  che  rivelava  un  uomo,  che  il  Mazzoni  feli- 
cemente  disse  «  ariostesco  »  e  il  Pancrazi  defini  fatto  di  grazia  e  di 
misura.  Giudizi,  questi,  che  non  si  rivolgono,  certo,  alia  sua  opera 
di  giornalista  soltanto,  ma  anche  ai  suoi  racconti  letterari,  da  Pec- 
cato  e  penitenza  (1870)  a  La  marches  a  (1872),  a  Gite  autunnali,  a 
Uoriolo  (1886),  fino  a  quella  sua  ultima  «  novella  alFantica))  che  si 
intito!6  A  Pieriposa  (1923),  e  ai  suoi  libri  migliori,  costruiti  su  me- 
morie  e  ricordi,  apparsi  man  mano  dopo  i  suoi  cinquant'anni. 

Nel  periodo  stesso  del  suo  giornalismo  ebbe  inizio  la  sua  vita 
politica.  La  sua  prima  candidatura,  nelle  elezioni  del  1874,  nel 
collegio  di  Pescia,  fu  una  sconfitta.  Candidato  battuto,  rivolgeva 
allora  agli  elettori  una  arguta  e  vivacissima  prosa,  narrando  un 


958  FERDINANDO   MARTINI 

suo  immaginario  sogno  di  un'arringa  da  lui  fatta  ai  deputati  sui 
gradini  del  Parlamento  (Discorso  alVuscio  di  Montecitorio):  scritto 
significative,  anche  al  di  la  dei  suoi  pregi,  perche  rivela  quella  sua 
capacita  veramente  ariostesca  di  staccare  da  se  anche  i  casi  della 
vita  e  sorriderne:  ci6  che  fu  in  lui,  come  ha  scritto  Ugo  Ojetti, 
un  costante  «  mo  do  signorile  di  ricostruire  un  equilibrio,  di  ricom- 
porre  una  misura».  Due  anni  dopo,  nel  gennaio  del  1876,  dopo  varie 
vicende,  la  sua  elezione  a  deputato  divenne  un  fatto  compiuto,  e  da 
allora  per  quarantaquattro  anni  egli  sede  al  Parlamento,  oratore 
stimato,  e  copri  varie  cariche  e  rese  numerosi  servizi  al  nostro  paese. 
Molti  dei  suoi  discorsi  lasciarono,  anzi,  una  forte  traccia  nella  vita 
parlamentare,  come  quello  sugli  abusi  del  clero  neU'esercizio  del 
proprio  ministero  (17  gennaio  1877),  sull'insegnamento  religioso 
nelle  scuole  elementari  (6  maggio  1878),  sul  bilancio  della  pubblica 
istruzione  (2  e  8  marzo  1883),  sulla  spedizione  d' Africa  (263 
giugno  1887). 

Ne  minor  valore  ebbero  una  Relazione  sulV ordinamento  delle 
scuole  secondarie  (1889),  che  provoc6  vaste  discussioni  e  polemiche, 
e  il  volumetto  pubblicato  insieme  con  C.  F.  Ferraris  §\&V  Ordina 
mento  degli  Istituti  d'istruzione  superiore  (Milano,  Hoepli,  1:895), 
in  cui  esponeva  e  difendeva  quei  progetti  di  riforma  che  avevano 
provocato  la  sua  caduta  da  ministro  della  pubblica  istruzione. 
Perch6  in  quegH  anni  era  stato  segretario  generale  alia  istruzione 
(1884-1886)  con  il  ministro  Coppino,  e  poi  titolare  di  quel  dicastero 
nel  1892.  E  gia,  1'anno  prima  (1891),  per  la  competenza  dimostrata 
nei  problemi  coloniali,  era  stato  chiamato  a  far  parte  di  una  com- 
missione  d'inchiesta  inviata  in  Eritrea  dal  nostro  governo,  e  che 
percorse  per  vari  mesi  quella  nostra  prima  colonia,  sulla  quale 
il  Martini  scrisse  poi,  al  ritorno,  un  bellissimo  libro,  NeWAffri- 
ca  italiana,  meritamente  lodato  e  gustato  dal  Carducci.  Fu  pro 
prio  quella  sua  competenza  e  1'equilibrio  mostrato  nel  trattare 
dei  problemi  coloniali,  che  lo  fecero  nominare  alcuni  anni  dopo 
governatore  dell'Eritrea  (16  ottobre  1897  -  25  marzo  1907):  ed  egli 
dette  allora  una  prova  veramente  mirabile  di  saggia  amministra- 
zione,  di  onesta  di  intenti  e  di  umanita,  come  risulta  evidente 
dall'ampio  diario  che  egli  tenne,  precise  e  limpido,  quasi  giorno 
per  giorno,  in  tutti  quei  lunghi  dieci  anni.  Tomato  in  Italia,  e  di- 
venuto  ormai  una  figura  di  primo  piano  nella  nostra  vita  politica, 
ebbe  il  significative  incarico  (1910)  di  rappresentare  T Italia,  come 


PROFILO   BIOGRAFICO  959 

ambasciatore  straordinario,  nelle  cerimonie  con  cui  la  Repubblica 
Argentina  celebrava  allora  il  suo  primo  centenario:  e  pronunzi6 
in  quella  missione  vari  discorsi  che  documentano  anche  oggi  le  sue 
felici  qualita  di  oratore.  Quattro  anni  dopo,  nel  marzo  del  1914, 
fu  chiamato  a  reggere  il  ministero  delle  colonie  nel  gabinetto  Sa- 
landra  e  mantenne  quel  portafogHo  fino  al  giugno  del  1916,  tro- 
vandosi  in  tal  mo  do  a  far  parte  di  quel  governo  che  sollecito  la 
dichiarazione  di  guerra  all' Austria  e  ne  guid6  la  prima  fase.  Ma 
quello  fu  il  suo  ultimo  ufficio  di  governo :  che  anzi,  conclusa  ormai 
la  pace,  egli  non  fu  neppure  rieletto  deputato,  nelle  votazioni  del 
novembre  1919,  e  per  di  piu  fu  guardato  con  astio  dai  suoi  stessi 
elettori  come  colpevole  di  aver  caldeggiato  e  voluto  la  guerra.  Solo 
nel  1923  un  tardivo  riconoscimento  gli  confer!  la  nomina  a  sena- 
tore.  N£  qui  e  certo  il  luogo,  anche  se  ne  avessimo  la  competenza,  di 
giudicare  pregi  e  difetti  della  sua  attivita  politica :  ma  e  almeno  vero 
che  ogni  giudizio  dovra  sempre  tener  conto  della  prospettiva  dei 
tempi  e  delPonesta  immutabile  delle  sue  intenzioni, 

Assai  piu,  invece,  importa  qui  ricordare  la  sua  opera  di  critico 
e  le  sue  rievocazioni  di  uomini  ed  eventi  del  Risorgimento :  un* at 
tivita  cui  volse  piu  assiduamente  le  sue  cure  specialmente  dal 
1890,  ma  che  pure  era  gia  presente,  come  interesse  ben  vivo,  nel 
tessuto  stesso  dei  suoi  scritti  anteriori,  nelle  pagine  giornalisti- 
che  cosi  ricche  di  giudizi  letterari,  di  profili,  di  considerazioni  cri- 
tiche.  Basterebbe  pensare  a  un  suo  saggio  del  1874,  La  morale  e  il 
teatro,  in  cui  gia  appariva  vivissimo  quel  costante  e  limpido  buon 
senso,  che  dalPesame  delle  opere  teatrali  continuamente  traeva  mo- 
tivo  per  il  rifiuto  o  la  soluzione  dei  tanti  problemi  che  i  contempo- 
ranei  andavano  ponendo  e  dibattendo.  Certamente,  quegli  stessi 
problemi  critici,  e  i  tanti  altri  cui  successivamente  si  volse,  avreb- 
bero  potuto  essere  sollevati,  come  ha  osservato  il  Croce,  a  una  piu 
complessa  e  severa  tematica  filosofica,  ricondotti  a  principi  essen- 
ziali  di  estetica:  e  su  quel  piano  dibattiti  e  soluzioni  sarebbero  dive- 
nuti  piu  rigorosi  e  piu  esaurienti.  Ma  il  Martini  non  ebbe  ingegno 
speculative  e,  d'altra  parte,  lo  abbiamo  gia  detto,  non  si  rivolgeva 
a  una  ristretta  cerchia  di  specialisti,  bensi  a  un  piu  vasto  pubblico 
di  lettori,  dai  quali  desiderava  di  essere  compreso  e  sui  quali  in- 
tendeva  agire  con  animo  di  educatore.  E  perci6  le  molte  pagine  che 
egli  dedic6  al  Giusti,  pubblicandone  le  Memorie  inedite  (1890), 
commemorando  Tuomo  e  la  sua  opera  (1894),  rievocando  gli  anni 


960  FERDINANDO    MARTINI 

di  lui  studente  a  Pisa  (1894)  e  il  profile  di  lui  deputato  a  Firenze 
(1895),  e  quelle  equilibratissime  sul  Prati  (1892),  sul  Goldoni,  sul 
Baretti,  sono  ancora  oggi  piacevolissima  lettura  e  finissimi  ritratti, 
tali  da  resuscitare  uomini  e  tempi:  pagine  ariose,  di  critica  e  d'arte 
insieme,  con  un  loro  timbro  di  signorile  divulgazione. 

Un  discorso  assai  simile  andrebbe  fatto  per  la  sua  attivita  di 
storico,  che  gli  fece  ricercare  e  pubblicare  il  Diario  inedito  di 
Luigi  Passerini  de'  Rilli  (1918)  e,  due  anni  dopo  (1920),  il  Carteg- 
gio  inedito  intercorso  tra  il  Guerrazzi  e  il  Brofferio  nel  periodo  dal 
1859  al  1866.  Lavori,  questi,  che  gli  richiesero  ricerche  di  archivio  e 
attente  ricostruzioni  storiche,  delle  quali  sono  documento  le  precise 
annotazioni  e  le  felici  pagine  di  prefazione,  e  che  rivelano  Pone- 
sta  e  la  serieta  adoperate  da  lui  anche  in  questi  campi.  Senza 
dubbio,  a  volte  vien  fatto  di  osservare  che  da  queste  sue  fatiche 
emerge  la  cronaca  assai  piu  che  la  storia  dei  tempi  e  degli  avve- 
nimenti,  e  che  certi  episodi,  per  una  loro  piu  piena  valutazione, 
dovrebbero  forse  essere  inseriti  in  piu  vasti  quadri  complessivi.  Ma 
valga,  come  risposta,  quanto  abbiamo  detto  sulla  sua  forma  mentale. 
Anche  per  questo,  fra  i  suoi  scritti  migliori,  insieme  col  libro  Nel- 
VAffrica  italiana,  restano,  secondo  noi,  i  due  volumi  di  Confessioni  e 
ricordi,  il  primo  dei  quali,  cui  e  aggiunto  il  sottotitolo  di  Firenze 
granducale,  fu  pubblicato  nel  1922;  mentre  il  secondo,  relativo  ad 
eventi  del  periodo  fra  il  1859  e  il  1892,  e  la  cui  preparazione  fu 
interrotta  dalla  morte,  awenuta  il  24  aprile  1928,  apparve  postu- 
mo,  Panno  stesso  della  sua  scomparsa,  per  cura  delPamico  e  lette- 
rato  Alessandro  Donati,  che  riuni  i  capitoli  gia  pronti,  secondo 
il  programma  ideato  dall'autore,  e  diede  notizia,  nella  prefazio 
ne,  di  altri  solo  in  parte  composti  o  unicamente  progettati.  Nei 
due  volumi,  specialmente  nel  primo,  ai  ricordi  della  propria  vita  il 
Martini  intreccia  memorie  della  sua  citta  e  rapidi  ritratti  di  uomini 
e  cose  della  storia  italiana,  con  una  capacita  di  rievocazione  che  solo 
pochi  memorialisti  hanno  avuto  cosi  vigorosa  e  garbata.  Al  ricor- 
do  non  si  aggiunge  mai  il  rimpianto  per  la  fuga  del  tempo  e  della 
vita,  che  e  invece  motivo  cosi.  comune  a  chi  ripercorre  il  proprio 
passato :  episodi  e  uomini  tornano  invece  in  una  luce  di  sorridente  e 
garbata  ironia  o  nella  gioiosa  soddisfazione  di  rivederseli  dinanzi 
vivi  e  precisi,  fermati  nella  memoria  con  contorni  sicuri :  ma  pur 
distaccati  da  una  signorile  misura,  che  e  anche  rispetto  per  il  let- 
tore.  La  prosa  di  queste  pagine  ha  la  freschezza  del  linguaggio  par- 


PROFILO   BIOGRAFICO  961 

lato,  ma  in  realta  nasce  da  una  sapienza  stilistica  che  si  serve  di  in 
version!  nei  costrutti,  di  un  felice  alternarsi  e  fondersi  di  forme  lette- 
rarie  e  di  modi  popolari,  di  toni  propri  della  conversazione,  spigliati 
e  rapidi,  e  di  procedimenti  piu  tradizionali  allo  scrivere:  e  tutto  ci6 
per  dar  rilievo  e  mobilita  alia  narrazione,  non  stancare  mai  con  la 
levigata,  ma  monotona  correttezza  del  periodare  accademico.  An- 
che  le  frequenti  citazioni,  a  volte  ostentate  come  stemmi  nobiliari, 
giovano  a  collocare  il  discorso  in  un'ambientazione  signorile:  a 
chiudere  i  ricordi  in  una  cornice  di  dignita. 

Ne  ci  sembra  che  manchi  alia  sua  prosa  la  lirica  commozione,  ed 
essa  nasca  da  sola  finezza  d'intelletto,  come  a  qualche  studioso  e 
sembrato:  perche,  invece,  il  sentimento  circola  sempre  nelle  sue 
pagine  migliori,  anche  se  non  viene  alia  superficie :  e  quel  predomi- 
nio  dell'intelletto  sul  sentimento  e  la  fantasia  e  il  segno  di  una  di- 
stacco  e  di  una  misura  che  mai  cessano  di  dominare.  II  Carducci, 
del  volume  NelVAffrica  italiana,  diceva  di  «  non  aver  letto  da  gran 
pezzo  un  libro  italiano  scritto  cosi  bene»  e  piu  Pavrebbe  detto, 
forse,  di  Confessioni  e  ricordi.  Alessandro  Donati,  della  prosa  del 
Martini  scrisse  che  gli  sembrava  la  ccmigliore  dopo  il  i86o»  e  quasi 
stette  per  giudicarla  superiore  a  quella  stessa  del  Carducci.  Giu- 
dizi  e  lodi,  certo,  troppo  passionali;  graduatorie  difficili  sempre  e 
fallaci,  anche  perch6  non  vi  e  gerarchia  tra  creazioni  cosi  personali  e 
diverse.  Ma  e  certo  che  alia  prosa  del  Martini  spetta  un  posto  ben 
rilevato  nella  storia  letteraria  del  nostro  ultimo  secolo. 


Per  i  migliori  lavori  teatrali  di  Ferdinando  Martini  si  vedano  le  edizioni 
pubblicate  successivamente  dal  Treves,  Milano,  1895;  dal  Bemporad,  Fi- 
renze,  1906,  e  nuovamente  dal  Treves,  Milano,  1925.  Per  gli  altri  meno  for- 
tunati,  si  veda  la  bibliografia  di  G.  Saviotti,  che  citiamo  piu  innanzi.  Per  la 
narrativa,  Racconti,  Milano,  Treves,  1890;  A  zonzo,  Catania,  Giannotta, 
1899;  A  Pieriposa,  Milano,  Treves,  1923. 

Per  gli  scritti  nati  dalla  sua  attivita  politica,  che  abbiamo  ricordati,  si 
vedano:  F.  MARTINI,  Discorso  alVuscio  di  Montecitorio,  Pescia,  Vanini, 
1874;  Relazione  sulVordinamento  della  Scuola  secondaria,  Torino,  Paravia, 
1889;  Ordinamento  generate  degli  Istituti  d'istrusione  superior  e>  Milano, 
Hoepli,  1895  (in  collaborazione  con  C.  G.  Ferraris);  Cose  affricane: 
da  Saati  a  Abba  Carima,  Milano,  Treves,  1896;  //  diario  eritreo,  a  cura  di 
R.  Astuto  di  Lucchesi,  Firenze,  Vallecchi,  s.  d.,  ma  1946,  4  voll. 

Molti  dei  suoi  saggi  su  argomenti  teatrali  sono  raccolti  nel  volume  Al 
teatro,  Firenze,  Bemporad,  1895,  ampliato  successivamente,  e  poi  ristam- 

61 


962  FERDINANDO    MARTINI 

pato  a  Milano,  Treves,  I9283.  I  migliori  articoli  della  sua  attivita  giornali- 
stica  si  trovano  nei  volumi  Fra  un  sigaro  e  Valtro,  Milano,  Brigola,  1876,  e 
Di  palo  in  frascay  Modena,  Sarasino,  1891,  e  poi,  ampliato,  Milano,  Tre 
ves,  1931. 

I  saggi  sul  Giusti,  che  abbiamo  ricordati,  furono  riuniti,  con  altri,  nel 
volume  Simpatie.  Studi  e  ricordi,  Firenze,  Bemporad,  1900  e  poi,  ivi,  1909, 
e  infine  Milano,  Treves,  1927.  Nello  stesso  volume  figura  la  prefazione  dal 
Martini  premessa  all'edizione  delle  Poesie  scelte  di  G.  PRATI,  Firenze,  San- 
soni,  1892,  e  la  conferenza  su  Carlo  Goldoni  gia  apparsa  in  La  vita  italiana 
nel  Settecento,  Milano,  Treves,  1896.  Per  lo  studio  sul  Baretti,  vedi  Le  piu 
belle  pagine  di  G.  BARETTI,  a  cura  di  F.  Martini,  Milano,  Treves,  1921. 
Vedi,  infine,  F.  MARTINI,  Pagine  raccolte,  Firenze,  Sansoni,  I92O2. 

Per  le  piu  notevoli  edizioni  curate  dal  Martini,  oltre  le  gia  citate,  e  il 
volume  (rimasto  unico)  dell' Epistolario  di  F.  D.  GUERRAZZI,  Torino,  Roux, 
1891,  vedi  G.  GIUSTI,  Memorie  inedite,  Milano,  Treves,  1890;  idem,  Epi 
stolario  edito  ed  inedito,  Firenze,  Le  Monnier,  1904;  Due  delVestrema:  Guer- 
razzi  e  Brofferio.  Carteggio  inedito  1859-1866,  Firenze,  Le  Monnier,  1920; 
//  Quarantotto  in  Toscana,  I,  Diario  inedito  del  conte  Luigi  Passerini  de1  Rilli, 
Firenze,  Bemporad,  1918 ;  G.  GIUSTI,  Tuttigli scritti,  Firenze,  Barbera,  1924. 

II  volume  NelV  Affrica  italiana.   Impressioni  e  ricordi,  Milano,  Treves, 
1891,  ebbe  due  edizioni  nello  stesso  anno  e  parecchie  poi,  illustrate  e  non: 
1'ultima  cui  1'autore  mettesse  mano  e  la  cosiddetta  «quarta»  (e  prima 
illustrata),  Milano,  Treves,  1895;  Confessioni  e  ricordi  (Firenze  granduca- 
le),  Firenze,  Bemporad,  1922  (poi  Milano,  Treves,  1929);  Confessioni  e  ri 
cordi  (1859-1892),  Milano,  Treves,  1928. 

Particolare  importanza  per  lo  studio  deiruomo  e  della  sua  opera  ha  il 
volume  F.  MARTINI,  Letter  e  (1860-1928),  Milano,  Mondadori,  1934,  che 
raccoglie  un'ampia  scelta  del  suo  epistolario. 

Degli  studi  sul  Martini  citiamo  B.  CROCE,  F.  Martini,  in  La  letteratura 
della  nuova  Italia,  ill,  Bari,  Laterza,  I9434,  pp.  322-39,  ma  il  saggio  e  del 
1908;  « La  Critica»,  vi  (1908),  pp.  254-5;  ix  (1911),  p.  422;  xn  (1914), 
p.  369;  M.  FERRIGNI,  F.  Martini,  in  « Rivista  d'Italia»,  15  marzo  -  i°  apri- 
le  1920;  M.  BONTEMPELLI,  nel  «Mondo»,  19  luglio  1922;  A.  DONATI, 
F.  Martini,  Roma,  Formiggini,  1925;  A.  ZARDO,  in  « La  Fiera  letteraria », 
1927,  n.  32;  G.  MAZZONI,  in  « Nuova  Antologia  »,  16  maggio  1928;  A.  DO 
NATI,  in  «  L'ltalia  che  scrive »,  giugno  1928,  con  bibliografia;  A.  CHIAPPELLI, 
F.  Martini  scrittore,  uomo  politico  e  cittadino,  in  « Rivista  d'  Italia »,  novem- 
bre  1928,  pp.  365-91;  G.  SAVIOTTI,  in  « Leonardo",  20  novembre  1928, 
pp.  328-30,  con  la  piu  ampia  bibliografia  degli  scritti  del  Martini;  P.  PAN- 
CRAZI,  Ricordo  di  F.  Martini,  in  « Pegaso »,  aprile  1929,  pp.  477-81 ;  G.  BEL- 
LONCI,  La  prosa  di  F.  Martini,  in  Pagine  e  Idee,  Roma,  Sapientia,  1929; 
E.  MONTALE,  in  « Pegaso »,  1929,  pp.  501-3;  G.  BERTONI,  in  « Archivum 
romanicum»,  1929,  pp.  415-6;  C.  PARISET,  Ricordi  e  lettere  di  F.  Martini, 
in  «La  cultura  moderna»,  maggio  1932;  G.  MAZZONI,  LOttocento,  Mi 
lano,  F.  Vallardi,  1934;  C.  WEIDLICH,  Ritratto  di  F.  Martini,  Palermo, 
Domino,  1934  (vedi  R.  GARZIA,  in  «  Leonardo)),  1934);  P.  VARRANO,  Mar 
tini  e  la  retorica,  in  «Tempio»,  maggio-giugno  1934;  M.  VALGIMIGLI, 
Ly  epistolario  di  F.  Martini,  in  « Pan »,  n  (1934),  ristampato  in  Uomini  e  scrit- 


PROFILO    BIOGRAFICO  963 

tori  del  mio  tempo,  Firenze,  Sansoni,  1943,  pp,  167-186;  R.  TRUFFI,  F, 
Martini,  in  Precursori  deWimpero  africano,  Roma,  Edizioni  Roma,  1936, 
che  riproduce  alcune  lettere  del  Martini;  G.  BELLONCI,  F.  Martini,  in 
«Giornale  d' Italia  »,  25  luglio  1941 ;  E.  FALQUI,  La  letter atura  del  venten- 
nio  nero,  Roma,  Edizioni  della  Bussola,  1948;  C.  GIARDINI,  Undicimila 
lettere  a  F.  Martini,  in  « Gazzettino »  di  Venezia,  29  luglio  1948;  L.  M. 
PERSONE,  Gli  scrupoli  di  F.  Martini,  in  «Awenire  d'Italia»  di  Bologna, 
1 6  febbraio  1949;  F.  VALORI,  Martini  in  quarantena,  nel  «Mondo»,  26 
maggio  1949;  L.  Russo,  Inarratori,  Milano-Messina,  Principato,  1951,  pp. 
132-5;  U.  OJETTI,  F.  Martini  o  della  chiarezza,  in  «Nuova  Antologia», 
maggio,  1954,  pp.  19-28,  discorso  non  pronunziato  nel  1930  e  che  apparve 
postumo  (dopo  che  I'Ojetti  aveva  gia  spesso  e  lungamente  parlato  del  Mar 
tini  sia  nelle  Cose  viste  sia,  e  piii,  nei  postumi  Taccuini). 


DA  «NELL'AFFRICA  ITALIANA» 


MASSAUA1 

Alle  undici  in  punto,  secondo  i  calcoli  precisi  del  bravo  capitano 
Gheraldo,  il  jfosto2  gettava  Fan  cor  a  nel  porto  di  Massaua. 

Chi  viaggia  prepara  sovente  a  se  stesso  delle  delusioni.  Delle  mie 
ne  ho  ricordata  una  discorrendo  delle  Piramidi  :3  potrei  enumerarne 
altre  parecchie.  Questa  volta,  rispetto  a  Massaua,  non  era  facile 
mi  cogliessero :  su  quella  disgraziata  isola  ne  avevo  sentite  di  tutti 
i  colori.  Non  ci  si  campava;  dopo  Bagdad,  il  punto  piu  caldo  del 
globo;  insetti,  rettili,  mammiferi  tutti  in  caccia  dell'uomo;  priva- 
zioni  d'ogni  genere,  malanni  d'ogni  specie:  licheni,4  perniciose, 
colera.  Non  c'era  da  mangiare:  la  carne  pessima,  il  pesce  Dio 
guardi!  quello  del  mar  Rosso  venefico.  Di  dormire  non  se  ne  di 
sco  rra  neanche:  la  notte  o  si  scoppia  o  si  gela;  se  si  sta  a  finestre 
chiuse  si  soffoca,  se  a  finestre  aperte  si  becca  un  febbrone.  Un  amico 
accompagnandomi  a  casa  il  giorno  avanti  la  mia  partenza  da  Roma, 
mi  aveva  detto  con  affettuosa  delicatezza:  —  Dio  te  la  mandi  buo- 
na:  postacci!  gentaccia!  speriamo  che  tu  ritorni,  ma  ci  ho  i  miei 
dubbi.  —  Un  altro  prognostic6  che  partiti  in  sette  sarebbe  gala  se 
tornassimo  in  due. 

E  ora  invece  Massaua  mi  appariva  nell'aspetto  di  molte  altre 
citta  del  Levante,  bensi  piu  allegra  e  piu  linda.  Dinanzi  a  me  il  pa- 
lazzo  del  Comando,  a  destra  case  e  palazzette,  circumfusi  di  luce 
meridiana,  abbagliavano  con  splendori  nivei.  Tra  quelle  case  e 
il  solitario  cono  del  monte  Ghedem,  velato  da  una  tenue  nebbia 
rosea,  il  golfo  d'Archico,5  limpido,  tranquillo  quasi  un  lago  dei 
nostri;  donde  1'isolotto  di  Sceic-Said,  dal  composto  recinto,  pa- 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  i,  pp.  6-12.  2.  II  piroscafo  Josto,  partito  da  Napoli 
il  9  aprile  1891,  giunse  a  Massaua  il  22.  La  commissione  d'inchiesta  si 
imbarc6  a  Massaua,  per  il  ritorno,  il  17  giugno  successive.  -$.neho  ricor 
data  .  .  .  Piramidi:  nelle  pagine  precedent!,  che  abbiamo  omesse,  il  Mar 
tini  ricorda  la  delusione  provata  dopo  aver  faticosamente  raggiunto  il 
vertice  della  piu  alta  piramide.  4.  licheni:  il  lichene  tropicale  e  una  eru- 
zione  della  pelle  molto  fastidiosa,  ma  non  nociva.  5.  £  il  vasto  golfo 
dove  si  affacciano  le  citta  di  Massaua  e  di  Archico.  Vicino  a  Massaua  sorge 
1'isolotto  di  Sceic-Said.  Diciamo  una  volta  per  tutte  che  non  sara  possibile 
dare  la  posizione  geografica  e  relative  notizie  delle  tante  localita  nominate, 
anche  perche"  non  avrebbero  senso  senza  una  carta  deirEritrea:  le  indica- 
zioni  saranno  fornite  solo  quando  la  comprensione  del  testo  le  esiga  o 
consigli. 


966  FERDINANDO    MARTINI 

reva  mandate  per  le  folte  piante  effluvii  e  frescure,  ad  ammorbidire 
le  rigidezze  del  cielo  terso,  turchino  come  una  volta  di  lapislazzuli. 
Di  qua,  di  la,  da  Gherar  e  da  Taulud  cupole  e  tetti  metallic!  scintil- 
lavano  tra  ciuffi  di  verde.  Per  la  diga,  una  lunga  carovana  di  cam- 
melli,  i  cui  contorni  si  disegnavano  netti  sulPaere  luminoso,  e  un 
viavai  di  gente,  che  negli  ombrellini  di  svariatissime  forme,  nelle 
vesti  ricche  o  cenciose,  offriva  tutti  i  colori  della  tavolozza  alle  ca- 
rezze  del  sole  d'oriente,  sotto  i  cui  raggi  nulla  e  volgare.  Nel  fondo, 
ad  anfiteatro,  le  colline  del  Samhar,  le  montagne  fosche  degli  Ha- 
babj  e  degli  Assaorta. 

lo  non  sapevo  raccapezzarmi.  La  landa  sabbiosa,  misera,  insa- 
lubre  tante  volte  descritta  era  quella  ?  Mi  sforzavo  daccapo  di  ri- 
durmi  a  mente  non  soltanto  i  giudizi,  ma  le  parole  dei  giornali  e  dei 
viaggiatori.  Non  epiteto  oltraggioso  che  non  avessero  adoperato 
contro  la  povera  isola.1  E  della  bellezza  del  porto  perche  avevano 
taciuto  o  dette  a  denti  stretti  le  lodi  ?  Facile  agli  ormeggi,  quello  di 
Massaua  e  senza  contrasti  il  piii  bel  porto  del  mar  Rosso.  C'era  egli 
pericolo  che  viaggiatori  e  giornalisti  si  fossero  proposti  empirci 
la  testa  di  sperpetue2  e  di  fanfaluche  e  darci  ad  intendere  lucciole 
per  lanterne?  Mi  ero  gia  messo  in  sospetto.  Affermarono  il  caldo 
dopo  il  golfo  di  Suez  essere  tale  e  cosi  affannoso,  da  non  permettere 
ne  di  muoversi  n6  di  pensare;  e  invece  dopo  il  golfo  di  Suez  il 
Josto  fu  cullato  -  secondo  alcuni  de'  miei  compagni,  anzi,  un  po' 
troppo  -  da  un  forte  vento  di  settentrione. 

Era  ad  aspettarci  la  barca  del  Governatore.3  La  mandavano 
quattro  rematori,  vestiti  di  una  camiciola  di  cotone  rosso  focato 
aderente  al  corpo,  e  di  un  paio  di  brache  bianche  a  guaina  onde 
usciva,  dal  ginocchio  in  giu,  la  gamba  nuda,  magra,  elegante.  Mi 
dissero  ch'erano  Somali.  Somali  quelli?  Quelli  i  terribili  abitatori 
del  deserto,  i  figliuoli  della  proterva  tribu  che  si  insanguin6  in  tante 
memorevoli  stragi  ?  Piccole  mani,  piccoli  piedi,  sottili  i  polsi  e  i 
malleoli,  e  nel  portamento,  nel  fare,  nel  modo  istesso  di  parlare, 
sebbene  una  lingua  ch'io  non  capivo,  una  alterezza  mansueta,  una 
nobilta  orgogliosa  ma  non  senza  dolcezza.  Aveva  detto  bene  Aristo- 
tile:  PAffrica  &  il  paese  dell'impreveduto. 

i .  la  povera  isola :  la  citta  di  Massaua  sorge  su  un'isola.  2.  sperpetue :  terrori, 
paure.  3.  Governatore  dell'Eritrea  era  allora  il  generale  Antonio  Gandolfi 
(1835-1902),  che  resse  la  colonia  dal  1890  al  1892. 


NELL'AFFRICA    ITALIANA  967 

Scendemmo  al  palazzo  del  Governo,  al  Comando  o  al  Serraglio, 
come  lo  chiamano.  Entrai  nella  camera  assegnatami;  intanto  che 
incominciavo  ad  assestare  la  roba,  sbircio  sulla  parete  a  capo  del 
letto,  una  specie  di  tarantola  giallastra,  con  una  grossa  testa  spro- 
porzionata  e  un  paio  d'occhi  che  parevano  schizzare  dall'orbita. 
Ah!  i  rettili  non  li  avevano  inventati:  i  rettili  c'erano.  Chiamo  una 
guardia  indigena  che  passeggiava  su  e  giu,  non  ho  mai  saputo 
con  quale  ufficio,  innanzi  alia  porta,  e  con  quella  mimica  che  sara 
forse,  a  confusione  del  filologi,  la  lingua  universale  e  sbrigativa  dei 
popoli  futuri,  le  faccio  capire  vorrei  levarmi  d'attorno  queH'ani- 
maletto  schifoso  e  pericoloso.  Mi  guarda,  sorride,  da  una  scrolla- 
tina  di  testa,  se  ne  va,  ritorna  con  Finterprete.  L'animale  non  sola- 
mente  era  innocuo,  ma  preziosissimo ;  si  nutriva  d'insetti  e  gli  sper- 
perava.  Osservai  tra  me  e  me :  se  i  rettili  sono  innocui  e  sperperano 
gl'insetti,  anche  quella  dei  rettili  e  degli  insetti  congiurati  a'  danni 
delPuomo  e  una  leggenda  come  tutte  le  altre.  I  postacci  annunzia- 
timi  dalPamico  di  Roma  erano  davvero  men  tristi  di  quanto  egli 
credesse.  Rimaneva  bensi  la  gentaccia\  ci  pensai  quand'ebbi  a  ri- 
porre  nella  cassetta  del  tavolino  il  danaro  che  avevo  meco.  Non 
c'era  chiave :  la  chiesi  ad  un  uffiziale,  la  cortesia  personificata,  che  ci 
avevano  dato  per  aiuto  e  per  guida  in  quei  primi  giorni  della  nostra 
dimora  nelPEritrea,  e  che  ci  segui  poi  compagno  operoso  e  gradito 
in  tutto  quanto  il  viaggio. 

—  Se  vuole,  la  chiave  si  fara  fare:  ma  Tavverto  che  non  ce  n'e 
bisogno.  Qui  non  praticano  che  Abissini  e  gli  Abissini  non  rubano. 

-Oh! 

—  No  signore.  In  primo  luogo  nell'Abissinia  un'antica  legge, 
che  i  ras  e  segnatamente  Ras  Alula1  osservarono  sempre,  infligge  al 
ladro  la  pena  del  taglione;  al  ladro,  come  a  chiunque  abbia  com- 
messo  una  colpa  qualsiasi.  Al  maldicente,  per  esempio,  si  taglia  la 
lingua,  al  disertore  le  gambe,  al  ladro  le  mani.  Ma  non  e  soltanto  il 
timore  della  pena,  quello  che  li  trattiene :  tanto  e  vero  che  chi  sparli 
o  chi  diserti  si  trova,  e  non  si  trova  chi  rubi.  Piu  di  tutto  pu6  sugli 
Abissini  il  pensiero  deU'ignominia  a  cui  si  esporrebbero  rubando. 
Non  v'e  nulla,  tra  di  loro,  piu  obbrobrioso  del  furto. 

—  E  le  razzie  ? 

i.  Ras  Alula  (1847-1906),  avverso  all'espansione  italiana  in  Africa,  assali 
il  battaglione  De  Cristoforis  a  Dogali  (1887),  combatte  con  Menelik  nella 
battaglia  di  Adua  (1896). 


968  FERDINANDO   MARTINI 

—  Sono  un'altra  cosa.  Per  fare  la  razzia  si  combatte,  si  arrischia 
la  pelle;  le  vacche,  le  pecore,  sono  preda  di  guerra.  L'estorsione, 
la  rapina,  insomma,  all'aperto  e  armata  mano,  si;  il  furto  no. 

—  Va  benone : 

sia  d'alme  alte  rapir,  rubar  fia  d'ime; 

lo  diceva  anche  Lodovico  Martelli1  buon'anima  sua. 

Neppure,  dunque,  la  gentacda.  E  il  pesce  venefico  ?  Pessimo 
quello  del  porto,  ove  sgrondano  molte  immondizie  della  citta;  quel- 

10  del  mar  Rosso,  un  po'  scipito  ma  buono.  E  il  caldo  ?  E  il  famoso 
caldo  di  Massaua?  II  palazzo  del  Comando  che  ci  ospitava  pareva 

11  quartiere  generale  degli  zeffiri  eritrei ;  vi  spiravano  aure  deliziosis- 
sime,  e  cosi  vive  da  obbligarci  a  tener  chiuse  le  porte.  Per  farla 
breve:  Massaua  mi  sembr6  un  soggiorno  incantevole;  non  dico 
da  venirci  a  fare  i  bagni,  perche*  -  e  ci6  era  accertato  -  da  quelle 
acque  non  s'esce,  se  non  coperti  di  pustole  fastidiose  e  maligne; 
ma  da  spassarvisi  a  frescheggiare  in  estate,  con  piii  gusto  che  sotto 
le  tende  infocate  di  Pancaldi2  o  sulle  arene  brucenti  di  Viareggio 
e  di  Civitavecchia.  E  perche  io  non  mi  credessi  troppo  lontano  dalle 
spiagge  tirrene,  di  sotto  al  terrazzo  a  cui  m'ero  affacciato,  un  ra- 
gazzotto  color  di  fuliggine  mi  domandava,  con  purissimo  accento, 
da  pigliarlo  per  uno  spazzacamino  pistoiese:—  Vuole  fiammiferi 
di  cera?  vuole  sigari  toscani? 

La  giornata  se  ne  and6  nel  far  visite,  nel  disfare  bauli,  nello  stu- 
diare  itinerarii,  nello  scrivere  a  casa,  poich6  il  Josto  ripartiva  per 
Suez.  Uscii  ch'era  notte  da  un  pezzo,  verso  il  villaggio  di  Taulud. 
Durante  il  breve  tragitto,  osservando  la  mole  ora  bruna  de'  ca- 
seggiati  di  Massaua  uscente  dalle  acque  tranquille,  che  presso  la 
riva  accoglievano  ombre  fantastiche  e  riflessi  tremuli;  nel  mirare 
quel  mistero,  nelPascoltare  quel  silenzio,  rotto  di  rado  da  un  cupo 
colpo  di  remo  o  da  un  suono  arguto  di  mandolini,  mi  scappo  di 
bocca  una  parola:  Venezia!  -  Che  San  Marco  se  la  dimentichi! 

Pur  troppo  1'Affrica,  quella  parte  per  lo  meno  ch'io  ne  ho  ve- 
duta,  ha  di  questi  miraggi.  SulPaltipiano  di  Era,  ne'  Maria  Neri,3 
e  frequente  una  pianta  che  chiamano  andel  e  nelle  foglie,  nei  frutti 

i.  Lodovico  Martelli  (1503  -  fra  il  1528  e  il  '31),  fiorentino,  petrarchista, 
letterato,  autore  di  drammi  e  poemetti.  2.  Pancaldi:  spiaggia  balneare  di 
Livorno.  3.  Maria  Neri:  vedi  pp.  1000  sgg.. 


NELL'AFFRICA   ITALIANA  969 

somiglia  tale  e  quale  un  arancio.  A  chi  arriva  lassu  e  trova  tanta 
abbondanza,  par  d'essere  nell'orto  delle  Esperidi.1  Ci  corre.  II 
frutto  non  e  mangiabile :  e  la  scorza  vuotata  dalla  polpa  filacciosa 
ed  amara,  divisa  in  due  con  un  taglio  circolare  e  asciutta  al  sole, 
servi  a  fornire  di  tabacchiere  gFindigeni  quando  usavano  prendere 
tabacco  da  naso  -  uso  in  oggi  dismesso.  Ancora  nei  Maria,  un'altra 
pianta,  ilfelleh  (e  poco  ne  differisce  Ventota  dei  Mensa),2  ha  foglie 
simili  in  tutto  a  quelle  della  vite  e  grappoli  che  paiono  d'uva  e 
come  Tuva  maturando  rosseggiano.  Ma  gli  acini  non  danno  succo : 
quei  grappoli  neanche  i  cammelli  ai  quali  li  offrii  e  che  non  hanno, 
come  e  noto,  il  palato  delicatissimo,  si  degnarono  di  assaggiarli. 
E  a  chi  va  da  Debaroa  a  Gura  appaiono  lontani  villaggi  e  citta  e 
torri  e  cuspidi  e  colonne  e  palazzi  che  si  nascondono  tral  folto  dei 
giardini.  Sono  mucchi  di  pietre,  alle  quali  le  acque,  sgretolandole, 
dettero  forme  singolari  e  che  si  ergono  Tuna  sopra  1'altra  tra  i  gruppi 
delle  mimose. 
Cosi  Massaua. 

M'inoltrai:3  alia  fannullonaggine  dinoccolata  e  chiacchierona 
degli  indigeni  faceva  contrasto  la  attenta  operosita  de'  Baniani, 
in  mano  de'  quali  sta  la  parte  principale  de'  commerci  dell'isola. 
Seduti  in  tre,  in  quattro,  fra  la  caligine  di  botteghe  angustissime ;  o 
affaccendati  ad  assestare  le  merci  o  intenti  alle  proprie  scritture  in 
libroni  smisurati,  pochi  de'  quali  basterebbero  a  registrare  gli 
spropositi  intorno  all'Affrica  detti  e  creduti  in  Italia;  vi  potete 
fermare  davanti  a  loro,  trattenervi,  discorrere,  gridare,  non  c'e 
caso  che  si  distraggano.  Vengono  dall' Indie,  adorano  le  vacche,  si 
cibano  di  dolciumi  e  di  vegetali.  Ho  sentito  dire  che  han  tanto  af- 
fetto  alle  bestie,  da  non  osare  mai  di  mettersi  a  sedere  senz'aver 
spolverato  con  diligenza  la  seggiola,  per  paura  di  condannare  qual- 
che  insetto  a  morte  improwisa,  e,  siamo  giusti,  discretamente  ino- 
norata.  Se  sia  vero  non  lo  so :  so  che  quando  fu  dato  ordine  di  ac- 
calappiare  e  ammazzare  i  cani  vaganti  per  Massaua,  i  Baniani  do- 
mandarono  di  custodirli,  e  li  custodiscono  difatti  e  li  nutrono  a 
proprie  spese ;  so  che  di  bonarieta  traspare  piu  che  un  indizio  nelle 
loro  faccie  larghe,  pingui,  serene. 

i.  Esperidi:  il  favoloso  giardino,  lussureggiante  e  con  pomi  d'oro,  di  cui 
narra  la  mitologia  greca.  2.  Mensa:  tribti  del  Gheleb.  3.  Ed.  cit.,  dal 
cap.  i,  pp.  14-20. 


970  FERDINANDO    MARTINI 

Entrai  in  ima  piazzetta  alia  estremita  del  mercato.  Nel  mezzo, 
una  ventina  di  megere  sedute  in  terra  coi  ginocchi  al  mento,  nude, 
tranne  quanto  copriva  una/wta  turchiniccia,  vendevano  commesti- 
bili  da  loro  chiamati,  senza  imaginare  la  faceta  improprieta  del 
vocabolo,  mangerie.  La/wta,  diciamolo  subito  per  non  tornarci  al- 
trimenti,  e  un  ampio  grembiule  di  cotone  scendente  un  po'  piu 
o  un  po'  meno,  ma  sempre  tra  il  ginocchio  e  lo  stinco;  legato  e  av- 
volto  intorno  alia  cintola  dovrebbe,  se  i  suoi  lembi  combaciassero, 
nascondere  a  mo'  di  sottana  cosi  la  parte  anteriore,  come  la  poste- 
riore  del  corpo;  ma,  non  so  perche,  le  donne  (ch6  anche  gli  uo- 
mini  1'usano),  le  giovani  massimamente,  a  farli  combaciare  non  rie- 
scono  quasi  mai. 

Da  una  parte  presso  un  caffe  lurido,  una  gran  tavola  piena  di 
scibuk:  pipe  di  foggia  particolare,  che  non  sto  a  dire  come  sieno 
fatte  perche  i  piu  lo  sanno.  Attorno  alia  tavola,  disposte  in  qua- 
drati  concentrici,  gran  copia  di  panche,  e  sulle  panche  accoccolati 
una  cinquantina  di  musulmani  mezzi  nudi  anche  loro,  aspettanti 
con  inerte  pazienza  che  il  sole  tramontasse,  e  finisse  il  digiuno 
(s'era  in  tempo  di  ramadanf  per  sorbire  il  caffe  e  mettersi  in  bocca 
il  cannello  dello  scibuk.  Dalla  parte  opposta  piu  gruppi  di  beduini 
sdraiati  bocconi  sul  suolo,  di  neri  diventati  grigi  per  la  rena  che  nel 
loro  continue  rivoltarsi  aveva  coperto  le  spalle,  le  braccia,  le  gam- 
be,  e  il  sudore  ve  1'aveva  sopra  incollata.  Giocavano  con  pietruzze 
giochi  dei  quali  nessuno  fu  buono  a  capacitarmi.  Qua  e  la  le  acquaio- 
le,  ragazze  dai  dieci  ai  quattordici,  portavano  scalmanate  e  curve, 
1'otre  grave  sui  fianchi :  attorno  a  me  fitti  e  accerchiati  uno  sciame 
di  mendicanti  scarni,  pieni  di  piaghe.  Detti  loro  dei  soldi,  alcuni 
dei  quali  caddero :  certi  ragazzi  che  stavano  li  a  guardare  si  butta- 
rono  pronti  in  terra  e  strisciando  tra  le  gambe  de'  mendicanti  ten- 
tarono  di  agguantare  il  modesto  bottino.  Gli  altri  in  quel  mentre  e 
tutti  insieme,  piegandosi  a  raccogliere,  si  cozzarono:  uno  cased, 
trascin6  altri  nella  cascata,  e  per  un  momento  mi  vidi  attorno  ai 
piedi  un  divincolare  e  un  dibattersi  di  membra  umane  che  non 
sapevo  a  qual  tronco  appartenessero.  Bisbigliai  Pemistichio  pe- 
trarchesco : 

urtar  come  leoni  e  come  draghi 
con  le  code  avvinghiarsi:2 

1.  ramadan:  mese  deiranno  arabo  che  i  mussulmani  consacrano  al  digiuno. 

2.  Petrarca,   Trionfo  delta  Fama,  m,  94-5. 


NELL'AFFRICA   ITALIANA  971 

ma  ci  volevano  ben  altri  scongiuri :  per  fortuna  uno  zaptih,  o  cara- 
biniere  nero,  che  non  aveva  reminiscenze  classiche  per  il  capo, 
sopravvenne ;  due  colpi  di  curbasch  a  destra,  due  a  sinistra,  tutti  si 
rizzarono  piu  che  alia  lesta,  chi  scapp6  di  qua  chi  di  la  e  fui  libe- 
rato  in  un  attimo. 

II  curbasch  e  uno  scudiscio  di  pelle  di  ippopotamo ;  e  se  non  fosse 
che  questo  non  metterebbe  conto  parlarne;  ma  esso  e  altresi  in 
tutta  1J Abissinia,  non  eccettuata  la  colonia  eritrea,  una  istituzione : 
zaptie  e  guardie  ne  sono  muniti,  e  quando  bisogna  (pare,  da  quanto 
ho  veduto,  che  bisogni  assai  di  frequente)  frustano  senza  misericor- 
dia.  Si  arresta  uno,  qualche  curbasdata  e  si  rimanda;  aggiungo 
che  la  pena  del  curbasch  e  in  uso  anche  tra  le  nostre  milizie  indigene, 

—  Come?  Si  frusta? 

—  Si  frusta,  ma  per  carita  non  diamo  subito  la  stura  agli  epifo- 
nemi.1  Premetto,  perche  non  m'abbiano  a  credere  duro  come  un 
aguzzino,  che  sono  un  po'  Baniano  anch'io,  senza  i  tenerumi  bensi 
delle  Sorieta  protettrici.  Mi  sdegno  quando  veggo  tormentare  gli 
animali :  mangio  poi  una  bistecca  senza  innaffiarla  di  lacrime  per  la 
morte  immatura  del  bue,  e  non  provo  rimorso  dello  avere  con  una 
fucilata  recise  le  speranze  che  una  lepre  giovinetta  dava  di  se  agli 
aperti  greppi  natii ;  provo  invece  talvolta  il  rammarico  dello  averla 
fallita.  Quando  si  tratta  dell'animale  uomo  la  cosa  e  diversa:  e, 
dico  il  vero,  quel  costume  delle  curbasciate  da  principio  non  mi 
sdegno  solamente,  mi  adir6.  In  seguito  ...  in  seguito  ho  dovuto 
convincermi,  per  questa  e  per  tante  altre  cose,  che  e  un  errore 
marchiano  il  giudicare  dell'Affrica  con  criterii  europei.  Con  quali 
modi  si  tiene  a  dovere,  come  si  punisce  un  beduino,  un  abissino, 
un  musulmano  della  plebaglia  di  Massaua  o  d'altrove  ? 

—  O  non  ci  sono  le  prigioni  ? 

—  Ci  sono:  tali  da  far  desiderare  a  chi  c'e  dentro  quelle  della 
Gevangenpoort  alPAja,  o  della  White  Tower2  a  Londra;  se  il  tempo 
e  bello  ci  si  arrostisce,  se  piove  ci  si  marcisce;  o  forno  o  pantano. 
Ma  che  se  ne  fa  delle  prigioni  ?  Un  tempo  venne  in  mente  al  genio 
tnilitare  di  valersi  per  certi  sterri  dell'opera  dei  carcerati.  Negli  altri 
paesi  accade  che  i  guardiani  si  trovino  a  volte  con  qualche  dete- 

i.  epifonemi:  sentenze  di  forma  spesso  enfatica,  che  chiudono  retoricamente 
an  discorso.  2.  Gevangenpoort . . .  White  Tower:  famose  prigioni  che  furo- 
no  oggetto  di  lunghe  polemiche,  perch£  antigieniche  e  pessimamente  orga- 
nizzate. 


972  FERDINANDO    MARTINI 

nuto  di  meno :  a  Massaua  ne  trovavano  ogni  giorno  alquanti  di  piu. 
Uscivano  la  mattina  in  dieci,  la  sera  tornavano  in  quindici.  Nel  tra- 
gitto  dal  luogo  dello  sterro  alia  carcere,  cinque  amatori  s'erano 
intrusi  di  soppiatto  per  scroccare  la  cena:  quella  cena  che  altrove 
non  si  procaccerebbero  neppur  faticando,  se  avessero,  e  non  Phan- 
no,  voglia  di  faticare.  E  il  fatto  si  ripete  tanto  spesso,  che  fu  ricorso 
al  ripiego  di  far  camminare  i  carcerati,  a  un  dipresso,  come  la  Con- 
venzione  francese  nella  festa  del  10  agosto:1  tra  due  funi  rette  dalle 
guardie,  che  altri  non  potesse  varcare. 

Quella  gente,  in  prigione,  c'ingrassa:  piu  gliene  appioppano,  piu 
gode;  se  per  una  colpa  riusci  a  strapparne  una  settimana,  uscita 
s'ingegnera  di  commetterla  maggiore  per  buscarne  un  semestre. 

E  v'e  altro  da  dire.  In  materia  di  frustate,  la  opinione  di  coloro 
che  le  presero  o  debbono  prenderle  ha  sicuramente  gran  peso.  Or 
bene:  i  soldati  stessi  tollerano  il  curbasch  se  usato,  come  e  sempre, 
con  discrezione  meglio  di  qualunque  altra  pena.  Una  volta  lungo 
le  rive  deirObellet,  ficcatomi  col  muletto  nel  folto  di  cespugli 
tra  i  quali  non  mi  riesciva  di  andare  ne  avanti,  ne  indietro,  pregai 
un  ascaro  che  mi  accompagnava,  scamozzasse  con  la  daga  quei  rami 
e  mi  facesse  un  poj  di  largo.  Mi  rispose  che  la  daga  temeva  di  in- 
taccarla  e  che  per  cio  lo  gastigassero :  se  il  gastigo  si  fosse  ristretto 
a  una  diecina  di  curbasciate,  poco  male,  e  per  fare  un  piacere  a  me  le 
avrebbe  prese,  ma  poteva  darsi  gli  levassero  per  un  paio  di  giorni 
meta  della  paga,  e  di  perdere  quella  lira  e  mezzo  non  se  la  sentiva. 

Molto  innanzi  che  ci6  awenisse,  avevamo  interrogato  sulPargo- 
mento  il  mufti,  che  e  quanto  dire  il  vescovo  maomettano  di  Mas 
saua.  Abdallah  Serag  e  un  belPuomo,  un  po'  troppo,  se  mai,  bello 
ed  aitante:  complessione  robusta,  occhi  vivi,  barba  folta  e  nera: 
salvo  il  colore  della  pelle,  pare  un  turco  da  litografie.  Moralmente 
e  una  molto  guardinga  e  melliflua  persona ;  dapprima  divagb :  piut- 
tosto  che  rispondere  alia  interrogazione  precisa  che  gli  rivolgevamo, 
ci  espose  la  contentezza  che  gli  indigeni  provavano  «per  essere 
sotto  dominio  cosi  umano,  cosi  abile  nel  conquistare  i  cuori»  e  la 
propria  sua  contentezza  per  «trovarsi  al  cospetto  di  tanto  eccelse 
ed  eloquenti  persone».  Aveva  capito  con  quale  intento  o  meglio 


i.  festa  del  10  agosto:  la  celebrazione  delPassalto,  il  10  agosto  1792,  contro 
la  reggia  delle  Tuileries  fu  regolarmente  osservata  sino  airawento  dell'au- 
tocrazia  napoleonica. 


NELL'AFFRICA   ITALIANA  973 

con  qual  desiderio,  gli  domandavamo  il  parere  suo  intorno  alPuso 
delle  curbasdate  e  tentava  uscirne  per  il  rotto  della  cuffia,  senza 
n6  spiacere  a  noi  ne  dire  1'opposto  di  ci6  che  pensava.  Alia  fine,  posto 
alle  strette,  volse  gli  occhi  al  cielo,  mand6  dagl'imi  precordi  un 
sospiro  e  favel!6 :  «  Vi  sono  uomini  che  si  educano  per  via  di  persua- 
sione  e  di  consiglio,  altri,  e  sono  i  piu  tra  di  noi,  con  i  quali  nulla 
valgono  il  consiglio  e  la  persuasione ;  per  ammansirli  un  po'  di  fru 
sta  e  la  mano  di  Dlo  e  abolire  le  curbasdate  sarebbe  uno  sproposito 
madornale  ». 

Passammo  innanzi  ad  alcune  capanne:  come  awenne  poi  in  ogni 
altro  luogo,  le  donne  cristiane  si  accalcavano  sulla  porta  a  guardarci 
curiosamente,  osservarci  minutamente,  canzonarci  tacitamente :  le 
maomettane  fuggivano,  scorgendoci,  o  s'imbacuccavano  per  na- 
scondere  il  volto,  che,  per  quanto  intravidi,  poteva  mostrarsi  senza 
indurre  in  tentazione  nessuno.  Rasentavo  quelli  abituri  spingendovi 
dentro  piu  che  potevo  gli  occhi:  ahime  con  gli  occhi  mi  era  forza 
approssimarvi  anche  il  naso.  Non  sto  a  dire  quale  fetore  ne  uscisse; 
so  che  traversando  poco  dopo  il  mercato,  alcuni  di  quei  rivendu- 
glioli  bruciarono  su  piccole  padelle  di  ferro  mucchietti  d'incenso, 
il  che  sogliono  fare  in  segno  d'omaggio ;  non  bast6 :  a  cancellare  su- 
bito  il  ricordo  di  quelli  acri  esalamenti  (poich6  anche  1'olfato  ha  le 
memorie  sue)  tutto  1'incenso  de'  re  magi  non  sarebbe  bastato. 


IL  CAMPO  DELLA  FAME1 

II  palazzo  del  Comando  edificato  non  dal  Munzinger  ne  dal  Gor 
don,2  come  fu  creduto,  ma  da  Arakel-bey  governatore  per  PEgit- 
to,3  e  un  vasto  rettangolo  ad  archi  di  sesto  acuto  dolcissimo,  che  lo 
recingono  da  ogni  lato  e  a  terreno  si  distendono  in  portico,  nel 
piano  superiore  in  terrazza,  congiunti,  Fun  con  T altro,  da  una  balau- 

i.  Ed.  cit.,  cap.  n,  pp.  22-8.  2.  Werner  Munzinger  (1832-1875),  esplora- 
tore  svizzero,  percorse  le  region!  dell'Eritrea.  Fu  ucciso  dai  Galla.  £  note- 
vole  il  suo  volume  Ostafrikanische  Studien;  Charles  George  Gordon, 
detto  Gordon  Fascia  (1833-1885),  nel  1873  entr6  al  servizio  del  kedM 
d'Egitto.  Incaricato  di  sottomettere  il  Sudan,  ribellatosi  sotto  la  guida  del 
fanatico  Mahdi  (1884),  resiste"  a  lungo  in  Kartum  assediata.  Caduta  la 
citta  prima  che  gli  Inglesi  potessero  intervenire  con  un'apposita  spedizione 
di  soccorso,  fu  decapitato  dai  mahdisti  (vedi  anche  p.  846).  3.  Dal  1865 
le  regioni  costiere  dell' Eritrea  erano  state  acquistate  da\l3Egitto. 


974  FERDINANDO    MARTINI 

strata.  Nel  mezzo  della  facciata,  a  pochi  metri  dal  mare,  due  bran- 
che  semi-circolari  di  gradini  mettono  ad  un  pianerottolo,  su  cui 
poggia  una  scala  rettilinea,  che  imbocca  nella  terrazza  di  fronte 
alParco  mediano.  La  pianta  del  piano  superiore  ha  la  forma  di 
croce  greca.  Nel  centre  una  sala  ottagona,  a  cupola:  quattro  galle- 
rie/i  quattro  lati  della  croce,  dalla  terrazza  conducono  nella  sala; 
terminano  dalla  parte  esterna  con  porte  munite  di  battenti  mas- 
sicci,  riccamente  istoriati  d'intagli  a  rilievo ;  dall'interno  con  grandi 
archi  di  pieno  centre,  guarniti  sino  all'impostatura  di  usciali  a 
trafori.  Nei  quattro  angoli  della  croce  altrettante  stanze,  in  ciascuna 
delle  quali  dal  soffitto  al  pavimento  due  grandi  vetrate  danno  su  due 
lati  della  terrazza,  una  porta  che  da  nella  sala. 

Dicono  di  averlo  restaurato,  ma  in  realta  lo  guastarono ;  per  for- 
tuna,  corti  forse  a  quattrini,  non  poterono  sconciare  se  non  le 
forme  e  la  struttura  rimase  quella  di  prima.  L'aria  che  per  ventisei 
arcate  (sono  sette  nei  lati  piu  lunghi,  negli  altri  sei)  entra  nella 
terrazza  trova,  tra  finestroni,  porte  e  archi  interni,  venti  amplis- 
simi  aditi  a  penetrare  nelPottagono  centrale;  finche  un'aura  spira, 
anche  lieve,  ci  si  sta,  come  ho  detto,  d'incanto:  nell'aprile  conveni- 
va  guardarsi  da*  riscontri  e  dalle  correnti. 

Ero  li  una  mattina  leggiucchiando  e  fantasticando,  quando  capita 
un  amico  e  mi  domanda  a  bruciapelo: 

—  Ma  nella  piana  d'Otumlo  ci  siete  ancora  stato  ? 

—  Con  questi  bollori  ?  A  che  fare  ? 

—  A  che  fare,  lo  vedrete  da  voi.  Dalle  quattro  in  poi,  di  questa 
stagione,  non  si  bolle  piu.  Alle  cinque  vengo  a  pigliarvi.  Vi  ripeto, 
vedrete. 

E  avrei  visto  cose  da  far  fremere;  me  le  accenn6  in  poche  parole, 
che  non  aveva  tempo  di  trattenersi. 

Rimasto  solo:  come?  -  pensavo  tra  me  -  affamati,  morti,  su  la 
pubblica  strada,  un  chilometro  fuori  di  Massaua,  e  da  tre  giorni 
siamo  qui  e  nessuno  ce  ne  ha  detto  nulla? 

Mi  pareva  impossible.  Nondimeno  bisognava  crederci;  Pamico 
non  era  uomo  da  accendersi  facilmente  nella  fantasia;  e  aveva  ve- 
duto  coi  propri  occhi  e  profferto  di  condurmi  a  vedere  co'  miei. 
Venne,  alle  cinque  in  punto,  ed  andammo. 

La  piana  di  Otumlo,  e  una  sterminata  distesa  di  sabbie,  nella 
parte  verso  cui  m'avviavo  e  che  costeggia  la  baia  d'Archico,  sparsa, 
con  lunghi  intervalli,  di  radi  e  gracili  cespugli  di  tamerici.  Quel 


NELL'AFFRICA   ITALIANA  975 

giorno  la  diga  di  Taulud1  che  vi  conduce,  era,  come  sempre  verso 
il  tramonto,  gremita  di  persone  d'ogni  risma  e  d'ogni  colore: 
gente  che  dimora  ad  Otumlo,  il  giorno  sbriga  le  faccende  o  attende 
ai  commerci  in  Massaua,  e  la  sera  se  ne  torna  al  villaggio.  Passa- 
vano  a  cavallo  i  ricchi  mercanti  musulmani  raccolti  nelle  ampie 
vesti  bianche  e  col  bianco  turbante  di  mussolina:  e  dietro  a  loro 
le  mogli  velate,  anch'elleno  inforcato  il  muletto  trotterellante, 
ostentando  al  sole  la-  eleganza  degli  ombrellini  rossi  frangiati,  e  il 
luccichio  de'  piccoli  dischi  di  latta  che  vi  ricorrono  in  cerchio 
sull'orlatura;  il  pollice  del  piede  nudo  premente,  a  guisa  di  gan- 
cio,  la  stafFa;  la  veste  raccolta  per  non  impacciare  le  gambe,  o  forse 
per  pompeggiarsi  nella  mostra  delle  brache  bianche  ornate  con 
gran  sfarzo  di  fregi  rossi  in  ricamo.  Poi  la  lunga  processione  de' 
pedoni:  frati  copti2  dalPandatura  pigra,  in  lunghe  tuniche  gialle 
bisunte  e  consunte  e  il  giallo  turbante  cilindrico  sopra  la  testa :  i 
Sudanesi  neri  con  le  labbra  tumide,  sporgenti,  lustri  da  parere  in- 
verniciati,  gli  Assaortini3  bronzei,  una  breve  futa  cinta  sulle  anche, 
in  mano  la  lancia,  al  braccio  lo  scudo,  negli  occhi  torvi  e  nei  li- 
neamenti  duri  i  segni  d'una  covata  ferocia. 

Seguitavo  a  pensare:  qui  affamati,  qui  morti?  Perche,  si  parva 
licet  componere  magnis*  dire  la  diga  di  Taulud,  a  Massaua,  e  come 
dire  i  Portici  di  Po  a  Torino,  o  a  Venezia  le  Procuratie.  Dubitavo: 
ne'  racconti  uditi  strada  facendo  ci  aveva  a  essere  delPesagerato. 
Pur  troppo  innanzi  alia  realta  de'  fatti  ogni  descrizione  mi  parve 
sbiadita. 

Che  era  egli  dunque  awenuto? 

Da  cinquant'anni  le  guerre  civili  travagliano  1'Abissinia;  ne' 
recenti  vi  piombarono  sopra  calamita  d'ogni  specie:  epizoozia, 
cavallette,  colera  e  da  tante  maledizioni  un  ultimo  flagello:  la 
fame.  Gli  abitanti,  poco  propensi  per  indole  all'agricoltura  e  piu 
avvezzi  oramai  a  maneggiare  il  fucile  che  a  guidare  1'aratro,  si 
svogliarono  dal  coltivare.  Coltivare  con  che,  se  i  buoi  li  ha  uccisi 
la  peste?  Coltivare  perche"?  Perche  le  cavallette  divorino  e  i  ras 
e  i  preti  piglino  quel  che  rimane  ?  Co  si,  dopo  aver  patita  la  carestia 
piu  anni,  ora  la  cagionavano.  La  dogana  di  Massaua  rigurgitava 

i.  la  diga  di  Taulud:  e  una  delle  due  isole  che,  con  Massaua,  formano  pro 
priamente  il  centre  abitato.  Massaua  e  collegata  da  un  ponte-diga  a  Taulud, 
e  questa,  a  sua  volta,  alia  terraferma.  2.  copti:  vedi  la  nota  sap.  750. 
3.  Assaortini:  tribu  di  origine  araba,  divisa  in  numerosi  gruppi.  4.  si  par 
va  ...  magnis;  e  proverbiale  citazione  da  Virgilio,  Georg.,  iv,  176. 


976  FERDINANDO   MARTINI 

di  sacchi  di  dura,  principale  alimento  agli  indigeni;  veniva  da 
Bombay,  pareva  segno  d'abbondanza  ed  era  prova  di  miseria. 
Miseria  crescente,  minacciosa  verso  i  ricchi  medesimi,  perche  un 
sacco  di  dura  delle  Indie  che  costa  quattordici  lire  a  Massaua, 
portato  a  spalla  d'uomo  o  a  dorso  di  mulo  o  di  cammello,  ne  costa 
quarantatre  a  Cheren,  a  Adua  cento  o  poco  meno.  Lo  sbarco 
degPItaliani,  la  occupazione  delPaltipiano,  furono  occasione  a  lavori 
molti,  diversi,  urgenti;  c'era  bisogno  di  braccia,  e  in  quel  tramestio 
anche  i  piu  disadatti  trovarono  il  verso  di  guadagnare.  Di  la  dal 
Mareb1  fu  detto  e  creduto  che  Dio,  misericordioso  alle  colpe  del- 
PAbissinia,  aveva  intanto  perdonato  alPHamaseri,  dove  era  pane 
per  tutti ;  e  dal  Tigre  cominci6  e  prosegui  per  mesi  e  mesi  Pesodo 
delle  famiglie,  volgenti  a  Massaua  come  alia  terra  promessa.  Tardi. 
I  privati  alle  proprie  necessita  avevano  gia  sopperito,  la  piu  parte 
delle  opere  pubbliche  erano  ultimate,  di  altre  s'era  rimandato  il 
compimento  ad  anni  migliori.  E  intanto  dal  Tigre  arrivavano  a  cen- 
tinaia  ogni  giorno  maceri,  piagati,  rifiniti  dagli  strapazzi  e  dalle  pri- 
vazioni  del  lungo  viaggio.  Per  giunta,  venivano  da  regioni  infette  e, 
se  duravano  in  quelli  stenti,  era  da  temere  scoppiasse  qualche  ma- 
lanno.2  II  governatore  ordin6  che  quanti  mancavano  di  lavoro  quo- 
tidiano  si  sfrattassero  oltre  la  diga. 

Scacciati  dall'asilo  sospirato  per  tanto  tempo,  tra  Pinopia  piu 
squallida,  s'erano  attendati  nella  piana  d'Otumlo.  Attendati?  In 
quel  lembo  di  deserto  alcuni  s'eran  fatti  un  tucul  piu  misero,  se  e 
possibile,  del  consueto,  altri  rizzata  una  stuoia;  i  piu  fortunati  ave 
vano  per  casa  un  cespuglio,  tutti  per  letto  la  sabbia  cocente.  Qua, 
la  cadaveri  abbandonati,  coperti  da  un  cencio  la  faccia;  uno,  orri- 
bile  a  vedere,  pareva  muoversi,  tanto  brulichio  d'insetti  gli  serpeg- 
giava  per  le  membra  disformate  e  disfatte  dalla  sferza  del  sole. 
I  morti  aspettavano  le  iene,  i  vivi  la  morte.  Da  un  cespuglio  escono 
fili  di  voce,  sporgono  e  si  stendono  mani  scarne,  tremanti  delPul- 
timo  brivido.  Qui,  dalla  rena  un  moribondo  con  supremi  sforzi 
si  rizza  sul  torso,  guarda  con  gli  occhi  sbarrati,  vitrei,  non  vede, 
manda  un  rantolo,  ripiomba  sul  terreno  battendo  la  schiena  e  la 
nuca;  la  una  donna  accoccolata,  che  non  pu6  piu  parlare,  accenna 
con  un  moto  continuo  del  capo  un  bambino  di  quattro  o  cinque 
anni,  prossimo  allo  sfmimento ;  e  che  steso  a'  suoi  piedi  volgendoci 

i.  Mareb:  fiume  del  bacino  Sudanese  dell'Atbara.     2.  «Era  a  quel  tempo 
governatore  il  generate  Gandolfi»  (nota  del  Martini). 


NELL'AFFRICA    ITALIANA  977 

le  pupille  smorte  sussurra  meschin,  mesckin  convoce  languida,  rauca. 
Ci  accostiamo  per  soccorrerla  e  da'  giacigli  immondi  subito  si  leva 
una  turba  di  scheletriti,  nel  corpo  de'  quali  sotto  la  pelle  tesa,  si 
distinguono  ad  una  ad  una  le  ossa,  come  ne'  carcami  mummificati 
del  Gran  San  Bernardo.  Tentano  di  seguirci,  sussurrano  anch'egli- 
no  meschin  meschin\  esausti  di  forze  cascano,  fan  per  rialzarsi,  stra- 
piombano,  ricascano,  si  strascicano  dietro  a  noi  carponi,  chiedendo 
aiuto  con  gemiti  che  paiono  ululati.  Le  madri  alzano  a  fatica  da 
terra  i  lattanti  e  ci  seguono  con  pianti  e  con  strida,  additandoci,  la 
dove  fu  il  seno,  una  grinza.  Distribuimmo  qualche  lira,  soccorso 
risibile  in  tanta  indigenza,  inutile  a  chi  sara  morto  fra  un'ora.  E  la 
processione  de'  pedoni,  de*  muli,  de'  mercanti,  delle  donne  segui- 
tava  folta  e  chiassosa.  Mi  ritraggo  per  iscansarla  e  m'abbatto  in  fan- 
ciulli  che  frugano  nello  stereo  de'  carnmelli  a  cercarvi  un  chicco  di 
dura ;  mi  volto  raccapricciato  e  scorgo  altri  fanciulli,  che  gli  zaptib 
a  forza  allontanano  da  una  carogna  di  cavallo,  fetido  avanzo  di  iene, 
alia  quale,  abbrancati,  strappavano  co*  denti  le  interiora:  le  interio- 
ra  perche  piu  molli,  e  piu  molli  perche  piu  imputridite.  Fuggo, 
inorridito,  istupidito,  vergognoso  della  impotenza  mia,  nascondendo 
per  vergogna  la  catena  delPoriolo,  vergognando  in  me  stesso  della 
colazione  che  ho  fatta,  del  desinare  che  m'aspetta.  Lo  so,  lo  so,  ci6 
che  avete  da  dirmi:  sovvenire  e  impossibile,  non  v'e  soccorso  che 
basti,  e  se  oggi  si  soccorresse,  si  rovescerebbe  domani  qui  tutta 
PAbissinia.  Lo  so,  lo  so,  che  non  tutto  e  disgrazia  e  c'e  la  pigrizia, 
Timprevidenza,  Pincuria;  ma  chi  ha  cuore  di  rimproverare  mori- 
bondi  che  invidiano  i  morti?  Udii  per  piu  giorni  ragionamenti 
savissimi,  ma  per  piu  notti  tra  Pallucinazione  ed  il  sonno,  nel  cor- 
rompersi  e  confondersi  delle  immagini  mi  gravarono  incubi,  mi  per- 
seguitarono  visioni,  di  alcuna  delle  quali  tuttavia  mi  rammento. 
Ora  mi  svegliava  di  sobbalzo  il  contatto  di  un  corpo  gelido,  ora 
una  mano  gelida  e  ossuta  mi  premeva  sul  petto  e  mi  toglieva  il  re- 
spiro;  e  nel  sogno  afFannato,  mi  pareva  fuggire  fuggire,  sotto  un 
sole  ardentissimo,  senza  meta,  senza  scampo,  per  lande  senza  con 
fine  riarse,  inseguito  da  iene  che  mugliando  si  approssimavano, 
inseguite  alia  lor  volta  da  una  schiera  di  Sudanesi,  sopra  cavalli 
giganteschi  che  correvano  a  briglia  sciolta,  fra  torme  di  frati,  di 
mercanti,  di  donne,  di  scheletri  con  la  lancia  e  con  Tombrellino. 


978  FERDINANDO   MARTINI 


[SCUOLE  E  INCIVILIMENTO]1 

In  Egitto  -  a  Tantah,  a  Zagazig,  a  Ismailia,  a  Benha  1'Assal  -  non 
si  attacco  discorso  con  un  italiano,  che  non  venissero  in  ballo  le 
scuole.  Tutti  i  nostri  connazionali  ne  parlavano,  o  per  dichiarare  le 
ragipni  che  consigliavano  d'istituirle,  o  per  lagnarsi  della  recente 
abolizione  di  quelle  che  v'erano.  Poiche  le  strettezze  delFerario 
impediscono  di  prowedere  con  larghezza  alia  educazione  di  conna 
zionali  che  vivono  sotto  altri  dominii,  premeva  sapere  in  qual  modo 
prowedessimo  a  educare  e  istruire  le  nere  speranze  della  colonia. 
Due  le  maggiori  scuole  a  Massaua:  una  tenuta  da  monache  fran- 
cesi,2  le  quali  sowenute  dalla  munificenza  del  governo  (ebbero  un 
tempo  ventiquattro,  poi  dodicimila  lire  Fanno)  tutto  insegnano  fuor 
che  la  lingua  italiana:  Faltra  un  collegio  diretto  dal  Padre  Bonaven- 
tura  Piscopo,  frate  francescano  e  cappellano  militare.  Per  quanto 
fosse  curioso  indagare  il  per  che  dal  governo  si  spendessero  due- 
mila  lire  il  mese  a  sowenire  monache  francesi,  che  tutto  insegnano 
fuor  che  la  lingua  italiana,  lasciammo  per  piu  ragioni  intentati  i  pii 
penetrali  della  Missione,  e  ci  contentammo  di  visitare  Fistituto  del 
Piscopo,  che  s'intitola  dal  colonnello  De  Cristoforis  morto  a  Do- 
gali3  nel  gennaio  delFottantasette. 

L'istituto,  opera  e  cura  d'un  privato  che  dalla  inconsueta  parsi- 
monia  del  governo  stiracchi6  la  scarsa  modicitk  d'un  sussidio,  se  le 
buone  intenzioni  bastassero,  sarebbe  il  principe  degli  istituti;  e  se 
gli  ArTricani  avessero  il  cervello  tre  volte  piu  capace  di  quello  degli 
Europei,  gPIdris  e  i  Gabru  che  vi  si  ammaestrano  sarebbero  a 
quest'ora  accademici  di  non  so  quante  accademie.  Vi  si  insegnano 
difatti:  Fitaliano,  Farabo,  Famarico,4  Faritmetica,  la  geografia,  la 
storia  d'ltalia,  la  fisica  elementare,  la  telegrafia,  il  disegno,  la  mu- 
sica,  la  ginnastica,  Farte  del  pompiere  e  del  marinaro  e,  per  non 
passare  il  tempo  in  ozio,  vi  si  esercitano  gli  alunni  in  altri  parecchi 
mestieri. 

Manca,  a  dir  vero,  la  storia  della  Persia.  Non  furono  forse  i  Per- 
siani  i  primi  abitatori  di  Massaua?  La  filosofia  del  diritto  penso 
Fabbiano  tralasciata  di  proposito  e  con  fino  accorgimento,  affin- 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  m  (Visite  e  colloqui),  pp.  39-44.  2.  «  Sono  state  espulse 
dalla  colonia  or  e  poco  -  1895 »  (nota  del  Martini).  3.  De  Cristoforis . . .  Do- 
gali:  vedi  la  nota  i  a  p.  1156.  4.  Vamarico:  vedi  la  nota  2  a  p.  774. 


NELL'AFFRICA   ITALIANA  979 

ch6  i  Gabru  e  gPIdris,  filosofeggiando,  non  ci  dimandino  con 
quale  diritto  siamo  andati  a  prendere  la  roba  loro. 

Gli  alunni,  una  cinquantina  di  orfani,  ci  accolsero  a  suon  di  ban- 
da,  e  un  di  loro  ci  lesse  il  solito  indirizzo,  squarcio  di  prosa  reboante 
in  quel  gergo  delle  scritture  ufficiali,  che,  per  manifeste  affinita, 
suona  dolce  e  quasi  noto  alle  orecchie  etiopiche.  Vi  si  diceva,  in 
sostanza,  che  quei  ragazzi  eran  tutti  pronti  a  dare  il  sangue  per  la 
salute  e  la  grandezza  d' Italia.  Da'  padri  di  parecchi  fra  loro,  che  di 
darcelo  non  si  proponevano,  Pavevamo  gia  preso.  Questo  Vindi- 
rizzo  non  lo  diceva. 

Passammo  nelle  scuole,  ne'  dormitori:  stanze  e  baracche  mode- 
stamente  arredate,  ma  linde.  Ci6  che  piu  mi  meravigli6  fu  la  faci- 
lita  con  la  quale  quei  giovanetti  padavano,  alcuni  scrivevano  cor- 
rentemente  Pitaliano  senza  errori  n6  di  pronunzia  ne  d'ortografia. 
I  libri  di  testo  .  .  .  Aveva  ragione  lo  Schweinfurth,1  il  clima  di  Mas- 
saua  mortifica  Tintelletto.  Per  la  lettura,  un  volume  di  racconti 
intitolati  Puno  il  buon  parroco,  Paltro  la  raccolta  delle  olive,  adatta- 
tissimi  agli  Abissini  che  non  hanno  mai  visto  n6  olive  ne  parroci ; 
per  la  geografia  un  manualetto  che  da  minute  notizie  di  Albenga,  di 
Carrara,  di  Montepulciano,  di  Casalmonferrato  e  via  discorrendo : 
e  la  frase,  tratta  da  quel  manuale  e  dettata  a  Cassa,  ragazzotto  sve- 
glio  che  la  scrisse,  prontamente  e  correttamente,  sulla  lavagna  fu 
appunto  questa:  «  Casalmonferrato  e  capoluogo  di  circondario  nella 
provincia  d' Alessandria ».  Sicuro:  capoluogo,  circondario,  provin- 
cia;  denominazioni  chiare  e  notizie  utili  alia  mente  di  chi  passera 
tutta  la  vita  tra  Massaua  e  Ghinda,  nello  stesso  modo  che  sarebbero 
pel  contadino  della  Valdinievole  chiare  ed  utili  queste  altre :  il  mir 
di  Ostrov  si  compone  di  dieci  osmaks  e  di  trecento  dwors,  tutti 
amministrati  dal  medesimo  Selski  Starosta.2  Ridicolaggini  che  non 
metterebbe  conto  awertire,  se  non  valessero  a  provare  che  noi  ci 
siamo  imbarcati  nel  pelago  fortunoso  delle  colonie,  senza  prepara- 
zione  alcuna  ne  morale  ne  materiale. 

V'era  argomento  a  sorridere;  pur  io  non  sorridevo,  allorche  uscii 
dairistituto  piu  tardi. 

i.  Georg  Schweinfurth  (1836-1925),  botanico  native  di  Riga,  dimor6  a lungo 
e  torn6  varie  volte  in  Africa.  In  pagine  precedenti,  il  Martini  scrive  di  un 
lungo  colloquio  avuto  a  Massaua  con  lui  che  tornava  proprio  allora  da 
Gheleb,  dove  aveva  compiuto  indagini  scientifiche,  e  si  preparava  a  parti- 
re  per  la  Germania.  2.  mir . . .  osmaks  . . .  dwors:  partizioni  territoriali  della 
Russia  aU'epoca  zarista;  Selski  Starosta:  la  massima  autorit£  del  paese. 


980  FERDINANDO    MARTINI 

Quando  facemmo  per  licenziarci,  gli  alunni  intonarono  un  coro, 
del  quale  non  ricordo  e  mi  pento  non  avere  trascritto  tutte  le  strofe. 
Era  un  ringraziamento  alle  autorita  della  colonia,  una  glorifica- 
zione  dell' Italia,  una  enumerazione  de'  benefizi  quotidiani  che 
riversa  sull'Abissinia,  e  si  chiudeva  cosi: 

GVItaliani  son  stirpe  di  forti 
che  sepper  le  sorti 
con  le  armi  domar. 

Lasciamo  da  parte  la  vanteria  e  preghiamo  gli  echi  di  Dogali  e  di 
Metemma1  che  quei  versi  non  li  ripetano.  Tra  que'  giovanetti 
di  died,  di  dodici,  di  quindici  anni,  ve  n'era  piu  d'uno  cui  avevamo 
fucHato  il  padre,  non  d'altro  colpevole  che  di  non  volere  europei, 
neanche  apportatori  di  civilta:  come  cinquant'anni  sono  i  Lombardi 
ed  i  Veneti  non  volevano  Tedeschi,  neanche  apportatori  di  ordine. 
La  conquista  ha  sempre  tristi  e  talora  disoneste  necessita;  ma  il 
mettere  sulle  labbra  a  quegli  orfani  la  lode  de'  benefizi  nostri  mi 
parve,  mi  pare  tale  uno  oltraggio  alia  natura  umana,  che  tuttavia, 
ripensandoci,  mi  sento  il  sangue  al  capo  per  conto  mio  e  sulla  fac- 
cia  per  conto  degli  altri.  Gia,  e  bene  questa  occasione  mi  si  offra: 
se  non  dicessi  subito  quanto  ho  nelPanimo,  non  arriverei  a  finire 
questo  libro  che  vuole  e  deve  essere  in  tutto  sincero.  In  Affrica  ci 
siamo  andati,  senza  saper  bene  il  perche,  ci  siamo  voluti  restare  per 
consenso  quasi  universale,  quando  era  tempo  di  venirsene  con 
danno  minore;  ora  io,  che  pur  cosi  ripetutamente  e  vanamente 
domandai2  si  richiamassero  dalle  coste  del  mar  Rosso  i  nostri  sol- 
dati,  io,  per  il  primo,  confesso  che  il  dar  le  spalle  al  mar  Rosso 
oggi  non  e  piu  possibile,  senza  disdoro  infinite,  perpetuo.  Ma,  se  col 
mutare  degli  eventi  e  de'  tempi,  muta  la  ragione  politica,  la  ragione 
morale  rimane  qual  era;  ed  io  non  so  rassegnarmi  a  credere  che  vi 
sieno  due  giustizie,  una  bianca,  e  una  nera,  due  diritti  uno  nero  e 
uno  bianco;  nella  pochezza  mia  non  arrivo  ad  intendere  con  che 
cuore  noi  che  per  secoli  patimmo  e  lamentammo  il  giogo,  andiamo 
ora  ad  imporlo.  Ma  noi  siamo  eclettici:  richiediamo  1'Isonzo3  e  pi- 

i.  A  Metemmciy  nel  1889,  combatte  contro  i  mahdisti  e  trov6  la  morte  il  re 
d'Etiopia  Giovanni  IV,  capo  tigrino  (per  cui  vedi  p.  744).  2.  ripetuta 
mente  .  .  .  domandai:  in  vari  discorsi  tenuti  alia  Camera  e  che  sono  ripro- 
dotti  nel  volume  del  Martini  Cose  affricane:  da  Saati  ad  Abba  Carima 
(vedi  la  bibliografia).  Interessanti,  fra  gli  altri,  i  discorsi  del  263  giu- 
gno  1887.  3.  richiediamo  VIsonzo,  cioe  rivendichiamo  il  diritto  di  nazio- 


NELL'AFFRICA    ITALIANA  981 

gliamo  il  Mareb.  Quando  mi  provo  a  dirlo,  mi  rispondono  con 
un'alzata  di  spalle:  «Coteste  sono  idee  da  secolo  decimottavo ». 
Me  ne  rincresce  per  il  decimonono.  Ma  noi  siamo  ipocriti:  De- 
giacc1  Mesfin  rischia  la  vita  per  liberare  dalla  prigionia  il  padre, 
Ras  Woldenkiel,  e  il  proprio  paese  dagli  invasori;  se  costui  fosse 
nato  a  Roma  sotto  la  repubblica,  lo  proporremmo  nelle  storie  ad 
esempio  di  virtu  di  patria  e  filiale ;  nato  in  Affrica,  lo  chiudiamo  nella 
galera  di  Santo  Stefano.  Quando  mi  attento  a  dimostrare  la  contra- 
dizione,  interrompono  sogghignando:  «Non  c'e  termine  di  con- 
fronto:  noi  compiamo  in  Affrica  gli  uffici  della  civilta».  Ma  noi 
siamo  bugiardi:  non  e  vero  che  speriamo  diffondere  la  civilta  in 
Abissinia;  non  importa  aver  dimorato  anni  ed  anni  nell' Affrica 
come  lo  Schweinfurth,  per  farsi  il  suo  medesimo  convincimento : 
basta  avervi  passato  non  inutilmente  due  mesi.  Non  si  tratta  di 
tribu  selvagge  e  idolatre,  bensi  di  un  popolo  cristiano  da  secoli,  la  cui 
compagine  politica  e  secolare,  nel  cui  paese,  per  secoli,  conquista- 
tori  e  viaggiatori  tentarono  imprimere  tracce  delPincivilimento  eu~ 
ropeo ;  quel  popolo  non  ne  voile  sapere :  le  sue  capanne  sono  ancora 
quelle  dej  tempi  biblici,  i  suoi  costumi  presenti  furono  conosciuti 
da  Erodoto.2  Noi  figuriamo  di  voler  porre  un  termine  alle  guerre 
fratricide  che  spezzarono  in  quelle  regioni  ogni  molla  delFoperosita 
umana,  e  arroliamo  ogni  giorno  e  paghiamo  Abissini  perch6  si 
sgozzino  con  Abissini.  Eh!  via;  replicate  a  noi  malinconici  che  in 
Europa  stiamo  troppo  pigiati,  che  in  Etiopia  vi  son  tre  o  quattro 
abitanti  per  ogni  chilometro  quadrato,  che  oramai  le  conquiste 
coloniali  sono  un'empia  necessita,  ma  non  parlate  d'incivilimento. 
Chi  dice  che  s'ha  da  incivilire  TEtiopia  dice  una  bugia  o  una  scioc- 
chezza.  Bisogna  sostituire  razza  a  razza:  o  questo,  o  niente:  lo 
affermava  il  Munzinger  trent'anni  fa  quando  la  schiettezza  era  le- 
cita.  All'opera  nostra  Tindigeno  e  un  impiccio;  ci  tocchera  dun- 
que  volenti  o  nolenti  rincorrerlo,  aiutarlo  a  sparire,  come  altrove  le 

nalita  per  contestare  r«iniquo  confine »  del  1866  che  al  di  qua  dell'Isonzo 
separava  Fallora  Regno  d'  Italia  dalle  provincie  giuliane  della  monarchia 
absburgica,  mentre  ci  si  appella  al  diritto  di  conquista  coloniale  per  la  pene- 
trazione  in  Eritrea.  II  Martini,  d'altronde,  pur  cosl  lucido  e  acuto,  non 
sembra  aver  neppure  intraweduto  mai  la  possibilita,  oggi  praticamente 
attuata  nella  maggior  parte  del  continente  nero :  1'awento,  cioe,  delFindi- 
pendenza  nazionale  e  statale  dei  popoli  « coloniali »  d'Africa.  i.  II  titolo 
di  Degiacc,  di  origine  militare,  indica  un  alto  grado,  di  poco  inferiore  a 
quello  di  Ras,  nella  organizzazione  feudale  etiopica.  2.  Erodoto  d'Alicar- 
nasso  da  notizie  dei  territori  dell'Egitto  nel  libro  secondo  delle  sue  Storie. 


982  FERDINANDO    MARTINI 

Pelli  Rosse,  con  tutti  i  mezzi  che  la  civilta,  odiata  da  lui  per  istinto, 
fornisce:  il  cannone  intermittente  e  Tacquavite  diuturna.  £  triste  a 
dirsi  ma  pur  troppo  e  cosl.  I  colonizzatori  sentimentali  si  facciano 
coraggio :  fata  trahunt,  noi  abbiamo  cominciato,  le  generazioni  av- 
venire  seguiteranno  a  spopolare  TAffrica  de'  suoi  abitatori  antichi, 
fino  al  penultimo.  L'ultimo  no :  Tultimo  lo  addestreranno  in  col- 
legio  a  lodarci  in  musica,  dell'avere,  distruggendo  i  negri,  trovato 
finalmente  il  modo  di  abolire  la  tratta! 


[TRIBUNALI  E  GIUSTIZIA]  r 

Gli  Abissini  hanno  saldo  il  sentimento  e  vivo  il  desiderio  della 
giustizia. 

Tra  Ghinda  e  Filogobai2  c'imbattemmo  in  un  uomo  che,  vedu- 
tici,  si  pianto  in  mezzo  alia  via  e  cominci6  a  sbraitare  e  gesticolare. 
Domandammo  che  cosa  volesse.  Aveva  imprestato  a  un  tale  quindici 
talleri  e  ora,  trascorso  assai  tempo,  chiedeva  glieli  facessimo  resti- 
tuire;  quando  lo  awertirono  che  quelPaffare  non  ci  riguardava, 
si  chet6,  ma  con  gli  atteggiamenti  disse  piu  che  non  potesse  con  le 
parole.  La  meraviglia  manifesta  sulla  sua  fisionomia  esprimeva 
chiarissimo  questo  pensiero:  o  che  grandi  siete,  se  non  vi  basta 
neanche  Tanimo  di  farmi  restituire  quindici  talleri? 

E  ad  Asmara  ogni  mattina,  appena  che  cacciavo  il  capo  fuori 
della  fmestra,  vedevo  qua  e  la  uomini,  donne  seduti  tra  le  molli 
rugiade,  parecchi  venuti  di  lontano,  che  tutti  aspettavano  di  par- 
lare  con  noi,  per  esporci  i  loro  piati  particolari,  quasi  fossimo  una 
comitiva  di  pretori  ambulanti.3  Tutti,  ho  detto  male ;  i  piu :  qualche- 
duno  ci  cercava  per  offerirci  doni,  ossia  per  dare  uno  e  buscare, 
se  gli  riesciva,  dieci  in  ricambio. 

Mi  ricordo  di  una  grossa  matrona  sulla  trentacinquina,  me- 
glio  conservata  che  le  Abissine  npn  sieno  a  quelPeta,  la  quale  arriv6 
la  mattina  alPalba,  a  cavalcioni  del  muletto,  seguita  da  due  schiave 
e  con  grande  ombrellino  rosso,  aperto  sebbene  non  ci  fosse  nem- 
meno  una  spera  di  sole.  Ma  sole  o  non  sole,  Tombrellino  &  segno 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  vni  (//  tribunate  di  Asmara),  pp.  90-6.  2.  Tra  Ghinda 
e  Filogobai'.  nel  territorio  tra  Massaua  e  Asmara.  La  commissione  di  cui  fa- 
ceva  parte  il  Martini  percorse  buona  parte  dell'Eritrea,  toccandone  vari 
luoghi.  3 .  pretori  ambulanti :  i  praetor es  peregrini  istituiti  per  amministrare 
la  giustizia  nelle  province  romane. 


NELL'AFFRICA   ITALIANA  983 

di  grandezza,  e  si  apre  tanto  sul  crepuscolo  quanto  sul  meriggio, 
tanto  al  nuvolo  quanto  al  sereno.  Mi  fece  sapere  che  era  la  moglie  di 
Ligg  Engeda  Scet,  allora  in  Adua,  e  veniva  per  regalarmi  uno 
sciamma;1  non  voleva  altro:  ch'io  mi  degnassi  di  accettare  quello 
sciamma  e  darle  cosi  argomento  di  perenne  felicita.  Non  Tavevo 
mai  vista,  ne  senza  molta  vanita  potevo  imaginare  che  la  presenza 
delPinterprete  fosse  il  solo  ostacolo  alPerompere  della  sua  pas- 
sione  per  me,  e  lo  sciamma  il  dolce  pegno  di  un  amore  improwiso 
e  ahime!  non  corrisposto.  La  feci  discorrere.  Non  ci  voile  molto  a 
capire  che  Fofferta  aveva  questo  fine  meno  affettivo:  pigliarsi  il 
doppio  del  valsente  in  talleri  di  Maria  Teresa.*  La  licenziai  con  la 
cortesia  contegnosa  che  m'imponevano  Taltezza  del  grado  e  la 
maesta  delle  forme,  augurandole  quella  felicita  a  cui  i  fati  awersi 
non  mi  consentivano  di  prowedere. 

Ripigliamo  il  filo. 

Ogni  medaglia  ha  il  suo  rovescio :  il  desiderio  della  giustizia  fa  gli 
Abissini  litigiosi;  e  al  tribunale  di  Asmara  i  dibattiti  sono  animati, 
le  cause  nurnerose,  anche  perche,  spesso,  non  c'e  modo  di  schivarle. 
Un'antica  legge  di  Jazu3  statuisce,  sotto  pena  di  multe  gravissime, 
che  chiunque  sia  citato  in  nome  deirimperatore  o  del  re  segua  in- 
nanzi  ai  giudici  il  suo  contradittore,  e  legato  con  lui  per  i  polsi. 
Obtorto  collo.4  Non  importa  dire  che  la  citazione  non  si  fa  ne  per 
via  d'uscieri  n6  con  carta  bollata,  istrumenti  e  tormenti  de'  popoli 
civili ;  si  pronunziano  non  so  quali  parole  e  ci6  basta. 

Quand'anche  1'intimatore  sia  un  fanciullo,  nessuno  s'attenta  a 
trasgredire.  Mi  raccontarono  che  di  recente  nelle  vicinanze  d'Adua 
un  de'  soldati  i  quali  scortavano  il  corriere  Davico,  dopo  aver  man- 
giato  ben  bene,  neg6  di  pagare  lo  scotto  alPostessa.  Quella  lo  cito 
pronunziando  la  parola  di  rito,  e  T altro,  sebbene  soldato  e  in  armi, 
la  segul  senza  farselo  dire  due  volte. 

II  tribunale  di  Asmara,  civile  e  penale,  e  composto  di  un  colon- 
nello  che  vi  presiede,  del  capitano  dei  carabinieri,  del  comandante 
le  bande  assoldate,  degli  anziani  tra  gli  uffiziali  d'ogni  grado.  Siede 
ogni  mercoledi,  attorno  a  un  tavolino  di  legno  greggio  coperto  da 
uno  sciamma,  sotto  una  tettoia  sostenuta  da  tre  parti  con  assiti, 

1 .  sciamma :  scialle  ampio,  quasi  un  mantello :  e  voce  di  origine  abissina. 

2.  II  taller  o  era  moneta  d'argento,  assai  pregiata  in  Eritrea,  del  valore  di 
circa  cinque  lire  oro,  coniata  dalla  zecca  di  Vienna  con  I'effigie  di  Maria  Te 
resa  d' Austria.    3.  Jazu  II  fu  re  d'Etiopia  alia  fine  del  secolo  XVII.    4.  Ob 
torto  collo:  a  collo  torto,  contro  voglia. 


984  FERDINANDO   MARTINI 

dal  quarto,  quello  rimpetto  ai  giudici,  con  antenne  mozzate.  Fa  da 
interprete  Cassa,  fratello  della  signora  Naretti:  il  quale,  figlio  di  un 
tedesco  e  d'un'abissina,  ha  come  la  madre  la  pelle  nera,  come  il  pa 
dre  la  barba  e  i  capelli  biondi:  e  nel  corpo  e  neU'abbigliamento 
mezzo  europeo  e  mezzo  affricano  (calzoni  di  anchina,1  soprabito, 
berretto  da  fantino,  sciamma)  raffigura  non  so  se  la  propria  sapienza 
bilingue  o  la  unione,  meglio  la  mescolanza,  delle  due  razze  e  delle 
due  civilta. 

Dall'alto  pende  sulla  testa  de'  giudici  un  cartello,  in  cui  sta  scritto 
in  italiano,  in  amarico  e  in  arabo  «la  giustizia  e  eguale  per  tutti ». 
Veggo  un  indigeno,  il  quale  non  sa  che  di  quella  sentenza  si  or- 
nano  le  aule  di  tutti  i  tribunali  italiani,  guardarla  e  sorridere ;  pensa 
forse  che  una  cosi  marchiana  sciocchezza  non  merita  d'essere  ripe- 
tuta  in  tre  lingue.  La  giustizia  e  eguale  per  tutti!  Grazie  tante; 
astrattamente  considerata,  non  pu6  alcuno  averne  concetto  diverso 
da  quello  che  altri  ne  abbia,  ne  darne  diversa  definizione.  Non  la 
giustizia,  i  giudici  debbono  essere  eguali  per  tutti;  non  dico  che 
non  sieno  e  non  pretendo  correggerli :  vorrei  soltanto  fosse  corretto 
il  cartello. 

Da  un  de'  lati  si  adunano  i  capi  delle  diverse  regioni,  le  dignita,  i 
barambaras  e  i  ligg2"  interrogati,  via  via,  affinche  o  esprimano  il  loro 
parere  intorno  ai  diritti  de'  litiganti  o  forniscano  notizie,  quando 
occorra,  delle  costumanze  e  delle  tradizioni ;  e  a  volte  nel  rispon- 
dere  si  dimostrano  di  finissimo  acume.  Fu  trovato  suirArboroba3 
il  cadavere  di  un  ragazzo,  morto  nel  portare  ad  Asmara  un  sacco  di 
dura ;  il  padre,  naturale  erede,  domandc-  la  dura  fosse  data  a  lui  e  il 
tribunale  propendeva  al  concedere.  Un  de5  capi  si  Iev6  obiettando: 
—  E  d'ora  in  poi  dunque  quando  qualcheduno  che  porta  ad  Asmara 
roba  vostra,  di  voialtri  giudici  o  del  governo,  morira  per  istrada,  la 
roba  trovatagli  accanto  andra  ai  parenti,  agli  eredi?  —  Fu  un'osser- 
vazione  tanto  acuta  quanto  giusta:  di  fatti  si  venne  poi  a  sapere  che 
il  ragazzo  era  un  portatore  e  la  dura  non  gli  apparteneva  per  nulla. 

Gl'indigeni  tengono  in  gran  conto  la  saviezza  di  quel  tribunale,  si 
fidano  interamente  nell'equita  de'  suoi  giudizi ;  a  invocarli  vengono 
fin  di  la  dal  Mareb,  gente  di  Adigana,  di  Adua,  di  Axum.  I  capi 

i.  anchinai  tela  di  cotone,  di  colore  giallastro,  proveniente  da  Nanchino, 
donde  il  suo  nome.  2.  II  grado  di  barambaras  e  titolo  onorifico  militare  e 
significa  « capo  dei  cavalieri  armati  di  corazza  » ;  i  ligg  sono  gli  uomini  di 
stirpe  nobile,  e  la  parola  ligg  equivale  a  « figlio  ».  3.  II  monte  e  la  sella  di 
Arboroba  sono  sulla  strada  fra  Massaua  ed  Asmara. 


NELL'AFFRICA    ITALIANA  985 

del  Carmescim  e  delFOkule-Cusai,  eke  amministrano  la  giustizia 
in  primo  grado,  mandano  ad  Asmara  le  cause  di  maggiore  impor- 
tanza,  e  delle  loro  sentenze  appellano  i  litigant!  ad  Asmara.  Chi 
vuol  tentare  un'ultima  prova  pu6  ricorrere  al  tribunale  di  Massaua, 
ma  finora  non  v'e  mai  ricorso  nessuno. 

Sfogliai  il  registro  ove  sono  notate  le  cause,  e,  in  succinto,  le 
rispettive  sentenze.  Una  volta  con  una  fucilata  a  tradimento  fred- 
darono  un  giovinotto ;  chi  la  tirasse  non  fu  saputo  ne  allora  ne  poi. 
I  suoi  compaesani  si  querelarono  e  chiesero  al  tribunale  condan- 
nasse  lo  scium,  o  capo,  di  un  villaggio  vicino,  nel  quale  supponevano 
Puccisore  dimorasse,  a  pagare  ilprezzo  del  sangue.1  II  tribunale  se- 
condo  la  consuetudine  interrogo  i  capi :  posto  anche  che  quanto  af- 
fermavano  si  dimostrasse  vero,  sarebbe  egli  giusto  condannare  lo 
scium  ?  Circa  al  diritto  le  opinioni  furono  discordi.  No,  obiettarono 
gli  uni :  lo  scium  non  pu6  essere  tenuto  a  rispondere  delle  colpe  al- 
trui.  Si;  ribattevano  gli  altri:  a  che  serve  uno  scium  se  lo  esentate 
da  coteste  mallevadorie  ?  Circa  al  fatto  tutti  consentirono :  prove 
non  ce  n'erano,  pochi  indizi  soltanto.  Ma  ai  parenti  e  agli  amici 
delFucciso  quelli  indizi  parevano  piu  che  sufficient!  e  seguitavano  a 
tempestare.  Fu  ricorso  a'  vecchi  della  regione,  affinche  dicessero  se 
qualche  antica  costumanza  aiutasse  a  uscire  da  quel  garbuglio. 
Risposero :  —  La  costumanza  e  questa:  quando  sette  uomini  e  sette 
donne,  in  sette  chiese  delPHamasen,  sette  volte  in  ciascuna,  giu- 
rino  che  il  colpevole  non  appartiene  al  loro  villaggio,  gli  altri  deb- 
bono  crederlo  e  andarsene  con  Dio.  —  E  cosi  fu  fatto. 

Un'altra  causa  curiosa  fu  quella  del  Euda.  Secondo  un'ubbia 
invalsa  in  tutta  quanta  FAbissinia,  nel  Sudan,  e,  stando  al  Casati,2 
anche  nell'Affrica  equatoriale,  i  fabbri  hanno  il  segreto  e  Fabito 
dej  sortilegi.  Una  tale  superstizione  pass6  probabilmente  in  Etiopia 
dalPEgitto,  dove  fu  creduto  che  per  gl'influssi  di  Tifone3  chiunque 
lavora  il  ferro  diventi  malvagio. 

II  Buda,  dunque,  e  un  fabbro  il  quale,  bevuto  un  decotto  di  certa 
erba,  che  veramente  cagiona  Tebrieta  e,  in  forti  dosi,  perfino  il 
delirio,  piglia  di  notte  le  forme  di  iena  e  se  ne  va  in  giro  a  fare  in- 
cantesimi;  le  eclampsie,4  le  epilessie,  le  convulsion!  isteriche,  il  ballo 

1 .  prezzo  del  sangue :  vedi  anche  pp.  790  e  1003 .     2.  Casati:  vedi  pp.  845  sgg. 

2.  Tifone:  gigante  mitologico,  fulminate  da  Giove  mentre  tentava  di  scalare 
il  cielo:  e  detto  anche  Tifeo.     4.  eclampsie:  manifestazioni  convulsive  a  tipo 
epilettico,  ma  dovute  a  cause  varie,  comunque  diverse  da  quelle  che  gene- 
rano  1'epilessia. 


986  FERDINANDO    MARTINI 

di  San  Vito,  tutti  malefizi  del  Buda.  Un  di  quest!  disgraziati  fu 
condotto  innanzi  al  tribunale  di  Asmara ;  non  potevano,  s'intende, 
ne  volevano  condannarlo,  ma  bisognava  non  offendere  Taccusatore 
come  tutti  gli  Abissini  ombroso  e  orgoglioso;  non  aver  Tana  in- 
somma  di  ridergli  in  faccia;  tanto  piu  che  egli,  credendo  di  tagliar  la 
testa  al  toro,  imponeva  reciso :  dategli  da  bere  un  decotto  di  quella 
tale  erba  e  vedrete  in  quale  stato  lo  riduce  il  diavolo  che  gli  entra 
addosso.  Trovarono  modo  di  salvare  capra  e  cavoli;  disse  il  Presi- 
dente :  —  Sta  bene :  io  far6  bere  al  Buda  quell'infusione :  ma  tu  la 
farai  bere  a  due  de'  tuoi  seguaci :  se  non  produce  in  loro  gli  stessi 
effetti  che  nell'altro,  io  condanner6,  altrimenti  tu  pagherai  cento 
talleri.  —  La  scommessa,  consuetudine  antica  de'  tribunali  etio- 
pici,  non  fu  tenuta. 

Una  terza  causa  (dico  di  alcune  soltanto  le  quali  giovano  a  di- 
pingere  il  costume  o  Findole  del  popolo)  fu  per  «  ricerca  di  pater- 
nita»;  non  era  bensi  il  figliuolo  a  indagare,  egli  era  anzi  Foggetto 
della  contesa.  I  litiganti  dicevano  ambedue  di  averlo  messo  al 
mondo  e  confortavano  la  loro  tesi  di  argomenti  i  quali,  perch6  sem- 
plici,  parevano  loro  efficacissimi. 

Bisogn6  rimettersene  al  giovanotto:  ed  egli  prescelse  rimanere 
con  colui  che,  generatolo  o  no,  lo  aveva  di  certo  allevato  e  nutrito. 
Notate:  il  giovanotto  era  povero,  i  contendenti  agiatissimi;  se  lo 
contrastavano  perche  bello,  svelto,  valoroso,  perch6  si  fece  onore 
in  non  so  quale  combattimento ;  non  li  moveva  n6  cupidigia  n£  af- 
fetto,  ma  la  vanita  sola,  negli  Abissini  incommensurabile. 


BAT A  AGOS1 

Cjodofelassi,2  dove  ci  fermammo  due  giorni,  ebbe  anch'essa  le 
attrattive  sue.  Ricorder6  sempre  la  fortunatissima  cacciata  di  un 
paio  d'ore,  dalla  quale  tornammo  carichi  di  die-die,2  di  lepri,  di 

i.  Ed.  cit.,  cap.  xn,  pp.  143-57.  2.  Godofelassi:  un  grosso  villaggio  tra 
Addi  Ugri  e  Chenofena.  3.  «Piccola  antilope.  Nestragus  Saltianus  (Issel). 
Delia  nostra  avifauna  io  non  vidi  se  non  poche  specie:  il  tor  do  e  la  quaglia, 
ma  piu  piccoli,  quasi  della  meta  piu  piccoli  dei  nostri;  lodole  cappellute 
in  gran  numero  e  dappertutto ;  il  germano  reale,  il  beccaccino,  la  starna,  il 
piviere,  la  bubbola,  il  lusuiy  Vortolano,  la  capinera,  il  prispolone  (anthus  arbo- 
reus)  ed  ilprispolo  (anthus  pratensis).  Mi  fu  detto  bensl,  da  chi  aveva  avuto 
piii  propizia  e  piu  lunga  opportunita  di  osservare,  che  la  massima  parte 
dei  nostri  uccelli  palustri  si  trova  nella  colonia.  Chi  voglia  del  rimanente 


NELL'AFFRICA    ITALIANA  987 

francolini,  di  ottarde,  di  faraone.  Cibo  scipito,  come  e  la  tutta  la 
selvaggina,  ma  gradevole  a  stomach!  nauseati  dalle  conserve,  a 
ganasce  affaticate  dal  fare  a  chi  piii  tira  con  pezzi  di  hue,  vivo 
alle  otto  e  messo  in  tavola  alle  dieci. 

Sebbene  I'argomento  sia  per  me  piacevole,  non  mi  distendero 
a  discorrere  di  caccia,  la  quale  cosi  in  AfTrica  come  in  Europa  si 
compone  di  colpi  bene  assestati  e  di  colpi  sparati  a  voto,  di  animali 
die  cadono  e  d'altri  che  se  ne  vanno  piu  lesti  di  prima.  In  Europa, 
quando  non  cadono,  la  colpa  e  loro:  o  si  levarono  lontani,  o 
inaspettati,  o  s'infrascarono,  o,  feriti,  prescelsero  di  morire  altrove. 
E  se  la  colpa  non  e  loro  e  del  cane  che  die  sotto  troppo  presto,  della 
polvere  che  non  fa,  del  piombo  che  non  buca.  Un  cacciatore,  il 
quale  confessi  d'aver  mirato  troppo  basso  o  tropp'alto,  e  piu  raro  a 
trovarsi  di  una  donna  che  convenga  d'essere  brutta  come  il  peccato. 
In  Affrica,  lo  addurre  scuse  e  piu  difficile  e  forse  addirittura  impu- 
dente.  Nelle  lepri  s'inciampa,  schizzano  tre  passi  distanti  e  fattine 
dieci  si  fermano,  si  voltano  a  guardarvi,  par  quasi  vi  sfidino  o  vi 
canzonino.  A  dir  tutto  in  breve  bastera  un  aneddoto :  fra  P  Asmara  e 
Debaroa  all'approssimarsi  della  lunga  carovana,  una  brigata  di 
starne  si  Iev6  dal  bel  mezzo  della  strada  e  and6  a  ributtarsi  piu  in  la 
due  tiri  di  schioppo ;  un  di  noi  ebbe  il  tempo  di  scendere  dal  mulo, 
farsi  portare  il  fucile,  caricarlo  e  raggiungere  la  brigata  prima  che 
si  rilevasse.1 

Come  ci6  avvenga  e  facile  intendere;  nessuno  disturba  gli  uc- 
celli;  gl'indigeni  non  hanno  piombo  minuto,  senza  cui  la  caccia  a 
penna  e  impossible;  la  lepre  poi  non  e  per  loro  se  non  la  forma 
della  quale  la  iena  si  veste,  finche  e  alto  il  sole:  animale  immondo, 
s'infamerebbe  chi  ne  assaggiasse.  Cacciano  1'antilope,  la  gazzella, 
i  piu  destri  il  leopardo  e  il  leone.  La  caccia  al  leone,  a  quel  modo  che 
la  fanno  il  piu  spesso,  vuol  meno  coraggio  di  quanto  s'immagini. 
S'appostano  la  notte  vicino  alPacqua,  in  quaranta  o  cinquanta; 
quando  il  leone  assetato  vi  capita,  il  capo  della  comitiva,  che  &  quasi 

piu  ample  notizie  su  tale  argomento  consult!  un  opuscolo  del  D.  F.  Muz- 
zetti  stampato  net  1894  a  Massaua  e  intitolato  La  selvaggina  da  penna  spe- 
ciale  alia  Colonia  Eritrea »  (nota  del  Martini),  i.  «Lo  Schweinfurth  e  il 
dott.  Schoeller  nel  marzo  del  1894,  in  un  luogo  chiamato  Montai,  pochi  chi- 
lometri  distante  dallo  Sciagalgul,  uno  dei  rami  del  Barca,  trovarono  tale 
varieta  e  quantita  d'uccelli  da  superare,  secondo  scrivono,  ogni  descrizione. 
Basti  dire  che  in  un'ora  ne  uccisero  tanti  da  formare  Tintero  carico  d'un 
cammello;  cfr.  "Boll,  della  Soc.  geog.  ital.",  serie  in,  vol.  8°,  fasc.  i»  (nota 
del  Martini). 


988  FERDINANDO    MARTINI 

sempre  uno  dei  capi  del  paese,  spara  primo:  se  colpisce,  bene,  se 
sgarra,  i  seguaci  tirano  tutti  insieme;  e  difficile  che,  tra  tante, 
qualche  palla  non  colga  nel  segno:  e  se  nessuna  coglie,  I'animale, 
spaventato  dal  fracasso,  fugge.  Non  sempre  succede  cosi:  a  volte 
non  il  cacciatore,  ma  il  leone  s'apposta.  Ligg  Tedla  andando  in 
cerca  di  gazzelle  si  trovo  innanzi,  aH'improwiso,  due  leonesse: 
con  una  coppiola  le  distese  tutte  due  e  per  questo  porta  intorno  alia 
fronte  due  code.  «  Code  di  cane»  direbbero  gli  Habab:1  per  beffeg- 
giare  gli  Abissini  i  quali,  secondo  loro,  menano  troppo  vanto  di 
quelli  atti  senza  coraggio,  perche  senza  pericolo. 

Torniamo  a  Godofelassi.  Plinio2  scrive  che  Tombra  della  iena  fa 
muti  i  cani  e  immobile  qualunque  animale.  Magari  fosse  cosi! 
Si  dormirebbe  piu  tranquilli  in  Affrica.  A  Godofelassi  i  sonni  insa- 
lubri  nella  notte  fredda  e  sotto  la  tenda  bagnata  come  se  vi  fosse 
piovuto  sopra,  furono  interrotti  di  continuo  dal  latrare  di  Gherar 
e  di  Masticafumo,  due  cani  venutici  dietro  da  Massaua,  e  dallo 
scalpitare  e  dal  nitrire  dei  cavalli  e  dei  muli  che  Purlo  e  la  vicinanza 
delle  iene  impaurivano.  La  prima  notte,  pare  gli  ascari  presi  dalla 
cascaggine  lasciassero  spegnere  i  fuochi:  fatto  sta  che  una  iena  s'ac- 
cost6  alia  zeriba?  e  poco  manc6  non  entrasse  nell'attendamento; 
e  un  leopardo  azzann6  il  cavallo  del  trombetta,  sconciandolo  ma- 
lamente  in  un  femore.  La  seconda  fu  peggio :  al  campo  le  iene  non 
s'accostarono  tanto,  quanto  la  notte  innanzi;  ma  sulle  due  mi  dest6 
un  grido  acutissimo  che  mi  parve,  strozzato  a  mezzo,  seguitare  in 
un  rantolo  fioco.  I  cani  abbaiarono,  muli  e  cavalli  scalpitarono  al 
solito.  Si  seppe  la  mattina  che  la  iena  aveva  sorpreso  un  bambino, 
addormentatosi  sopra  una  massa  d'immondizie. 

La  strada  piu  breve  fra  Godofelassi  e  Gura  non  e  tale,  asseve- 
rarono,  che  potesse  passarvi  una  carovana  come  la  nostra;  ci  tocc6 
dunque  tornarcene  a  Debaroa  e  di  la  prendere  per  Adgina  e  Kor- 
bara.  Ebbi  gia  occasione  di  accennare  quali  aspetti  abbia  il  paese 
tra  Korbara  e  Gura.  Diresti  quella  la  via  trionfale  del  Tempo, 
lungo  la  quale  si  sia  compiaciuto  nel  comporre  monumenti  a  se 
stesso,  per  dimostrare  tutto  quanto  possa,  come  tutto  muti  o 

i.  Habab:  tribu  dedita  alia  pastorizia.  2.  Plinio  il  vecchio  (23-79  d.  C.), 
autore  dei  trentasette  libri  della  Naturalis  historia.  3.  zeriba:  recinto,  sie- 
pe  a  difesa  di  accampamenti. 


NELL'AFFRICA   ITALIANA  989 

distrugga.  Qui  il  fenomeno  che  gia  incomincia  ad  osservarsi  nel 
monte  Sevan,  in  faccia  a  Cheren,  si  e  gia  compiuto  da  secoli:  i 
graniti  andarono  via  via  sfaldandosi,  e  dove  fu  gia  una  montagna, 
non  sono  oggimai  phi  che  o  rupi  di  foggie  bizzarre,  o  massi  Tun 
sulPaltro  in  bilico,  che  non  sai  come  facciano  a  non  precipitare; 
e  da  lontano,  erti  tra  '1  verde  delle  mimose,  arieggiano  quale  un 
campanile  gotico,  quale  i  ruderi  di  un  castello  normanno,  quale  il 
torso  della  piu  colossale  statua  che  mai  si  scolpisse.  La  stessa  illusio- 
ne  ottica  provai  gia  nel  salire  sul  monte  Bianco  tra  Pierre  a  Vechelle 
e  i  Grands  Mulets?  dove  gli  immensi  blocchi  di  ghiaccio  appaiono 
vestigia  marmoree  di  smisurati  f6ri  ed  acropoli;  e  lo  stesso  turba- 
mento  morale:  uno  scoraggito,  disanimato,  comprendere  quanto 
piccole  sieno  le  nostre  grandezze,  quanto  umili  le  nostre  superbie. 

A  Gura  gli  Egiziani,  durante  la  campagna  del  1876,*  costruirono 
sopra  un'altura  un  ridotto,  per  nascondervi  le  munizioni  e  le  vetto- 
vaglie ;  e  chiusero  di  trincere  la  spianata  che  si  distende  attorno  at- 
torno  piu  bassa.  Entro  il  recinto,  i  nostri  rizzarono  capanne  per  i 
soldati  indigeni  postivi  a  presidio,  tucul  per  gli  uffiziali  che  li  co- 
mandano.  Questi,  per  farci  posto,  s'erano  andati  a  rannicchiare 
non  so  dove:  e,  subito  giunti,  fu  additato  a  ciascheduno  di  noi  il 
tucul  che  doveva  servirgli  d'alloggio.  Sentivo  verso  quella  maniera  di 
abitazione  una  diffidenza  invincibile ;  non  ci  fu  tempo  bensi  ne  di 
discutere,  ne*  di  esplorare;  cominciarono  gli  hellelta3  e  i  battimani 
delle  donne  e  i  salmi  de'  frati  che  ci  perseguitavano.  A  Godofelassi 
vennero  da  Abuna4  Jonas,  a  Gura  da  non  so  quale  remoto  convento. 

Delle  donne  alcune  erano  Abissine,  altre  appartenevano  a  una 
piccola  colonia  araba,  scaraventata  nell'Okule-Cusai  Dio  sa  quando 
e  perch6.  Le  Abissine  cantavano  una  canzoncina  nella  quale,  tral 
molto  lusso  delle  imagini,  traspariva  una  molto  semplice  precisione 
di  pensiero.  «Apri  la  tua  porta;  dal  tuo  palazzo  1'argento  sgorga, 
come  il  latte  dalle  mammelle  della  vacca. »  II  che,  tradotto  per 
nostro  uso,  significava:  ccmettetevi  le  mani  in  tasca  e  dateci  dei 
talleri,  voi  che  ne  avete)>.  Le  arabe  ballavano.  Scrivo  « ballavano » 
perche  non  so  come  esprimermi  altrimenti ;  ma  chi  per  questa  pa- 

i .  Pierre  .  .  .  Mulcts :  due  picchi  che  fanno  parte  del  versante  francese  e  so- 
vrastano  Chamonix.  2.  la  campagna  del  1876:  il  7  marzo  1876,  a  Gura, 
Hassan  Fascia  con  venticinquemila  egiziani  fu  sconfitto  da  re  Giovanni  IV 
di  Etiopia.  3.  hellelta:  acuti,  caratteristici  trilli  con  cui  le  donne  salutano 
e  acclamano.  4.  Abuna:  vedi  la  nota  i  a  p.  761. 


990  FERDINANDO   MARTINI 

rola  si  figurasse  non  dico  la  foga  d'un  waltzer,  ma  lo  strascichio 
di  una  grande-chaine*  andrebbe  molto  lontano  dalla  verita. 

Le  donne  si  distendono  in  cerchio  e  intuonano  una  cantilena  gut- 
turale,  stridente,  accompagnandosi  di  battimani  misurati;  una  di 
loro,  seduta  in  terra,  picchia  sul  negarity  orcio  di  rame  sulla  cui 
bocca  e  distesa,  per  via  di  corde  che  scendono  in  tirare  lungo  le 
pareti,  una  pelle  di  bue :  un  tamburo,  insomma,  eccetto  che  di  rame 
e  piu  grande,  poco  diverse  da*  nostri.  Altre  due,  le  protagoniste  di 
quel  dramma  mimico,  nel  mezzo  del  cerchio  girano  attorno  Tuna 
all'altra  con  passi  brevi,  cadenzati,  sul  ritmo  del  negarit  e  dei  batti 
mani.  Nulla,  dunque,  di  cio  che  in  Europa  si  intende  per  ballo: 
non  frequenza,  non  rapidita  di  sgambetti  o  di  giravolte.  L'arte 
della  danza  ha  in  Abissinia  canoni  addirittura  opposti  a  quelli  che 
la  governano  in  Europa;  le  gambe  debbono  muoversi  il  meno  che 
possono,  il  torso  invece  disegnarsi  e  dondolarsi ;  cosi  al  ballo  bastano 
due  metri  di  spazio  e  vi  durano  ore  ed  ore  senza  oltrepassarlo.  Ho 
parlato  di  dramma  mimico,  ed  e  tale  difatti :  delle  due  donne  una 
fa  la  parte  dell'uomo ;  e  1'avanzare  e  il  ritrarsi  e  i  moti,  o  contegnosi 
o  lascivi,  rappresentano  altrettanti  episodi  di  un  poema  d'amore. 

Poema  e  V  Orlando,  poema  I'Adamo:  tutto  sta  nel  poeta;  si  pu6 
con  fantasie  immortali  allegrare  i  secoli  come  Lodovico  Ariosto, 
o  seccare  il  prossimo  come  Giorgio  Angelini.2  Quel  ballo  veduto 
altrove  mi  sembr6  sempre  il  piu  uggioso  degli  spettacoli  e  tale  mi  sa- 
rebbe  sembrato  anche  a  Gura,  se  non  erano  la  bellezza  singolare 
di  una  delle  danzatrici  e  gl'istinti  mirabili  che  le  tenevano  vece  di 
dottrine  squisite,  indovinando  la  grazia  delle  linee,  la  nobilta  degli 
atteggiamenti  scultorii,  la  espressione  nitida  de'  sentimenti.  Nuda 
la  persona  gagliarda  fmo  alle  anche,  e  poco  vestita  dalle  anche  in 
giu,  il  capo  fiero  si  levava  incorniciato  da  catene  d'argento,  che 
pendevano  dal  collo  e  serpeggiavano  per  le  folte  trecce  pioventi. 
Gli  occhi  brillavano  fra  quello  scintillare  de'  metalli  e  tutta  la  testa 
fulgeva.  Incomparabile  e  inconsapevole  artista!  Bramosie  tormen- 
tose  e  ire  compresse  le  si  allungavano  in  solchi  sul  viso,  che  si 
spianava  poi  rasserenato  per  riapparire  emaciato  di  spasimo.  II 
tronco  ondoleggiava  in  scontorcimenti  di  serpe  dritta  sopra  la 
coda,  ora  scosso  da  tremori  improwisi,  ora  cullato  da  brividi  ca- 

i.  grande-chame:  quella  figura  della  quadriglia  in  cui  tutti  i  ballerini  si 
danno  la  mano.  2.  Quasi  certamente  allude  a  Giorgio  Angelini,  letterato 
di  Garfagnana,  nella  seconda  meta  del  Seicento. 


NELL'AFFRICA    ITALIANA  991 

rezzevoli  in  un  languore  tutto  dolcezza.  Le  Abissine  cantavano,  i 
frati  salmeggiavano  ancora.  Ma  quando,  acceleratosi  il  ritmo  del 
negarit,  la  bella  creatura,  rovesciata  la  testa  e  tese  le  braccia,  di- 
vincolandosi  in  occulte  strette,  parve  offrire  al  cielo  il  seno  palpi- 
tante  e  ricolmo ;  cessarono  i  canti,  cessarono  i  salmi,  ballarono  le 
Abissine,  ballarono  i  frati,  raddoppiarono  i  battimani  con  fragore 
piti  alto :  parve  altresi  che  in  tutti  divampasse,  moto  spiritale  senza 
posay  un  desiderio  di  godimenti  ineffabili,  salutato  con  applausi 
infiniti. 

E  dopo  ci6,  fu  curioso  il  sapere  che  quella  donna  era  vedova  da 
quarantotto  ore.  La  sera  innanzi,  sparsi  di  cenere  i  capelli  e  vestita 
della  montura  del  marito,  Almangu  Mohamed,  aveva  girato  bal- 
lando  e  cantando  di  tucul  in  tucul:  che  questo  e  la  il  miglior  mo  do 
di  onorare  i  morti . .  .  e  forse  anche  di  distrarre  i  superstiti. 

Partimmo  per  Saganeiti1  dove  Bata  Agos,  capo  dell'Okule-Cusai, 
ci  aspettava.  NelPandare  io  pensavo  tra  me :  che  sara  mai  la  strada 
tra  Godofelassi  e  Gura  giudicata  per  noi  impraticabile  ?  Quella 
per  cui  passavamo  era  tale,  che  non  sapevo  imaginarne  una  peg- 
giore.  Adito  no:  screpolatura  scoscesa  di  roccie  delFaltezza  d'un 
uomo,  bisognava  ogni  tanto  lasciar  le  staffe  e  rattrappire  le  gambe 
per  non  sbatterle  ne?  massi,  ogni  tanto  curvarsi,  come  a  confidare 
un  segreto  nell'orecchio  del  mulo,  per  non  fiaccarsi  il  collo  negli  al- 
beri,  che  la  attraversano  obliqui.  Buona  sorte  che  dura  poco :  dal 
villaggio  di  Janadocco  sino  alia  salita  di  Saganeiti,  strada  non  ve 
n'e  piu:  si  pu6  ancora  rompersi  le  gambe  ed  il  collo,  ma  in  altra 
guisa;  il  meglio  e  di  andare  a  piedi  sguazzando  fino  al  ginocchio  nel 
fondo  d'un  burrone.  La  molta  acqua  vi  aiuta  le  vigorie  delle  piante 
che,  nella  effusione  tropicale  intrecciandosi  in  archi,  vi  composero 
stupende  gallerie  di  verdura.  O  care  ombre!  Di  quel  viaggio,  le  sole. 

Bata  Agos  era  vemito  ad  aspettarci  a  mezza  strada  sul  pendio 
d'una  collina,  della  quale  gli  uomini  della  sua  banda  coronavano, 
schierati,  la  vetta.  Subito  che  scorsero  la  carovana  discesero  al 
piano,  egli  a  cavallo  in  tunica  di  velluto  rosso  e  awolto  nel  marghef? 
a  cavallo  anch'essi  e  dietro  a  lui  il  fratello  Asmacc  Singal  con  una 

i.  In  un'ampia  conca  dello  stesso  nome,  a  circa  2000  metri,  sorge  il  vil 
laggio  di  Sagan&ti,  sulla  strada  da  Asmara  a  Senaf  e.  II  luogo  &  noto  per  uno 
scontro  awenuto  nel  1888,  in  cui  una  nostra  colonna  fu  soprafTatta  da 
razziatori  abissini.  2.  marghef:  mantello. 


992  FERDINANDO    MARTINI 

camicia  di  seta  a  fondo  dorato  e  rigata  di  rosso  e  di  verde,  alterna- 
tivamente;  il  figlio  Garemedin  in  veste  bianca,  il  portascudo 
Espanghi,  bel  giovanetto,  superbo  per  un  magnifico  paio  di  brac- 
ciali  di  cuoio  con  argenti  in  rilievo  e  un  manto  di  seta  nera  tagliato  a 
foggia  di  pelle  di  leone.  Custodiva  con  lo  scudo  la  lancia  del  suo 
signore,  e  si  capiva  che  que'  bracciali  e  quel  manto  gli  avevano, 
riscaldandogli  la  fantasia,  messo  addosso  la  voglia  piuttosto  di 
adoperare  che  di  custodire. 

Bata  Agos,  sui  quarantacinque  anni,  alto  ed  asciutto  ha  una  testa 
da  fauno.  Chi  lo  vegga  la  prima  volt  a  e  nulla  sappia  della  sua  vita, 
dira:  costui  e  un  donnaiolo  e  un  furbo  trincato.  La  natura  che  tra 
molte  qualita  in  lui  diverse  aveva  da  scegliere,  s'e  compiaciuta  nello 
stampargli  sul  viso  i  segni  della  sensualita  e  della  malizia:  e  non 
v'e,  credo,  di  qua  dal  Mareb  ne  marito  piu  fedele,  ne  uomo  piu 
schietto.  Convertito  da  poco  al  cattolicismo,  convert!  la  moglie 
maomettana,  e  le  nuove  credenze  gli  sono  rigida  norma  alia  vita. 
Nessuno  ispira  agli  indigeni  maggiore  rispetto,  nessuno  e  reputato 
giusto  al  pari  di  lui.  Basta  una  parola  sua  a  troncare  qualunque 
lite:  tutti  si  rimettono  ossequenti  a  quella  sentenza.  Affabile,  ge- 
neroso,  costante  nelle  amicizie  (e  noi  Italian!  ne  avemmo  piia  d'una 
prova),  se  non  va  in  tutto  esente  dalle  borie  abissiniche,  e  meno  bo- 
rioso  degli  altri  capi,  perche  ha  mente  piu  acuta  e  piu  propensa 
alle  meditazioni  che  dimostrano  vane  le  vanita.  Un  santo  dunque  ? 
No:  un  fratricida. 

Di  una  antica  famiglia  delFOkule-Cusai,  delle  tante  che  in  Abis- 
sinia  si  studiano  di  diventare  dinastie,  Bata  Agos  perseguitato  da 
Ras  Alula  che  gli  fece  spianare  le  case,  si  rifugi6  co'  propri  fratelli 
nella  tribu  degli  Habab;  e  questi,  pastori  nomadi  non  avvezzi 
e  poco  inclinati  alle  armi,  li  assoldarono  insieme  co'  loro  seguaci, 
affinche  li  difendessero  contro  le  scorrerie  e  dalle  razzie  de*  vicini. 
Ci6  che  awenisse  in  quelli  anni  non  si  sa  bene :  non  si  sa  per  esem- 
pio  se,  nello  impedire  le  razzie  degli  altri,  ne  facessero  qualche- 
duna  per  conto  proprio;  v'e  chi  lo  crede  e  non  e  difficile  il  crederlo. 
Comunque  sia,  quando  fu  loro  permesso  di  tornare  in  patria,  uno 
de'  fratelli,  nato  ladrone,  si  propose  vivere  di  rapine,  e  piu  volte 
si  prov6  a  prepararle.  Bata  Agos  fece  ogni  sforzo  per  distoglierlo 
da  quel  proposito :  si  scalman6  a  persuaderlo  che,  riacquistata  dopo 
Pumile  e  lungo  esilio  la  patria,  bisognava  ripigliare  il  posto  a  cui  la 


NELL'AFFRICA   ITALIANA  993 

famiglia  aveva  diritto,  salire  in  autorita,  crescere  il  numero  degli 
amici  e  con  opere  buone  dimostrarsi  grati  a  Dlo  di  aver  consentito 
che  ricuperassero  la  liberta.  Ma  il  razziatore  non  si  scoteva:  anzi 
un  giorno,  quasi  seccato  da  quelle  prediche,  dispose  dentro  la  setti- 
mana  si  depredasse  non  so  quale  villaggio.  Ridotto  agli  estremi, 
Bata  Agos  lo  ammoni  con  un  dilemma:  se  persisteva,  o  lo  avrebbe 
ucciso,  o  sarebbe  andato  lui  a  farsi  ammazzare  dandosi  in  mano  di 
Ras  Alula.  II  fratello,  sebbene  convinto  che  ne  Tuna  ne  Taltra  di 
quelle  minaccie  era  vana,  rispose  ghignando:  —  II  meglio  e  che  tu 
vada  da  Ras  Alula.  —  Bata  Agos  pass6  la  notte  in  preghiere  e  uscito 
all' alba  lo  fredd6  con  una  fucilata.  Ora  il  rimorso  lo  affanna,  lo 
prostra  in  malinconie  cupe,  lo  agita  in  assalti  nervosi:  e,  mentr'e 
uso  degli  altri  capi  il  trattare  gli  uomini  delle  loro  bande  con  al- 
terigia,  egli,  quasi  a  chieder  perdono  della  colpa,  col  piu  povero 
de'  suoi  si  fa  rimesso,1  e  con  tutti  alia  mano,  padre  piuttosto  che 
capo  e  padre  preveggente  ed  affettuoso. 

Della  vita  di  Bata  Agos,  chi  potesse  conoscerle,  gioverebbe  stu- 
diare  ogni  piu  minuta  particolarita :  non  a  impratichirsi  negli  epi- 
sodi  della  storia  etiopica,  ma  a  scandagliare  ancora  gli  abissi  del- 
ranima  umana.  Quel  tanto  che  ne  sappiamo  basterebbe  gia  di  per 
s6  a  molte  indagini;  ma  io  non  posso  indugiarmi  in  lunghi  discorsi 
e  brevi  Targomento  non  ne  comporta.  Una  cosa  bensi  bisogna  av- 
vertire :  cadrebbe  in  errore  gravissimo  chi  dalla  natura  di  quelFuomo 
s'affrettasse  a  dedurre  criterii  intorno  all'indole  degli  Abissini  e 
agli  effetti  che  essa  risentirebbe  da  un  piu  alto  grado  d'incivili- 
mento  o  da  una  fede  piu  illuminata.  Io  mi  ricordo  e  faccio  mio 
pro  delPapologo  narrato  da  Alfonso  Karr:2  di  quel  tale  viaggiatore 
che  scontratosi  con  un  gobbo  sui  confini  della  Bretagna,  se  ne 
torno  indietro  a  scrivere  che  la  Bretagna  era  il  paese  dei  gobbi. 
Non  presumo  in  due  mesi  di  soggiorno  avere  imparato  a  conoscere 
gli  Abissini,  ma  reputo  potere  affermare  senza  ambagi  che  Bata 
Agos  e  un'eccezione.  Un  altro  avrebbe  annuito  di  gran  cuore 
al  desiderio  del  fratello,  sarebbe  andato  piu  che  di  passo  a  predare 
insieme  con  lui,  salvo  ammazzarlo  in  altra  occasione  o  per  altra 
ragione,  ad  esempio  per  risparmiarsi  di  spartire  la  preda  e  non 
avrebbe  ora  n6  malinconie,  ne  assalti  nervosi.  E,  giacche  ho  parlato 
di  esempi:  se  domani  noi  licenziassimo  le  bande  armate  delPOkule- 

i.  rimesso:  umile.  2.  Alfonso  Karr  (1808-1891),  critico  e  romanziere  fran- 
cese. 

63 


994  FERDINANDO    MARTINI 

Cusai  e  del  Carnescim,  Bata  Agos  si  dorrebbe  ma,  in  breve  rasse- 
gnato,  non  muterebbe  le  sue  consuetudini ;  Sabatu,  Menelik, 
Tedla1  ripiglierebbero  subito  il  loro  antico  mestiere  di  briganti. 
Poiche  ci  e  riuscito  sostituire  in  gran  parte  de'  nostri  territori 
il  tallero  eritreo  al  tallero  di  Maria  Teresa,  non  s'ha  da  credere  ci 
riesca,  con  altrettanta  facilita,  sostituire  nelPanimo  degli  indigeni 
le  nostre  opinioni  morali  alle  loro.  A  questo  non  siamo  giunti  sino- 
ra,  e  non  vi  giungeremo  mai  checche  si  faccia.  II  misticismo  di  Bata 
Agos,  la  sua  rettitudine  soccorrevole,  la  sua  pieta  non  infingarda, 
debbono  considerarsi  come  fatti  particolari.  Gli  Abissini  non  sono 
una  gente  giovane  di  fede  ingenua,  che  aspetti  di  snebbiarsi:  sono 
un  popolo  vecchio  e  corrotto  e  perci6  divoto  negli  atti,  scrupoloso 
nelle  pratiche  religiose,  ma  senza  affetto  interiore;  capacissimi  di 
ribellarsi  a  chi  tenti  di  offendere  quelli  scrupoli  o  di  mutare  quelle 
pratiche,  incapaci  e  incuranti  di  trarre  dalla  fede  insegnamenti  alia 
vita.  Popolo  di  credenti,  sta  bene;  ma  che  vuol  essere  dispensato 
dalPosservare  i  comandamenti  di  Dio. 

Nota  al  capitolo  XII  (marzo  1895). 

Cosi  scrivendo  di  Bata  Agos  nelPautunno  del  1891,  manifestavo 
non  soltanto  Fopinione  che  di  lui  m'ero  formato  soggiornando  due 
giorni  in  casa  sua,  ma  quella  piu  importante  e  autorevole  del  co- 
lonnello  Piano,  allora  comandante  la  zona  di  Asmara,  del  tenente 
Mulazzani  nostro  residente  in  Sagan6iti,  di  Leopoldo  Franchetti,2 
di  quanti  italiani  insomma  lo  avevano  conosciuto  ed  erano  stati 
seco  in  quasi  quotidiana  dimestichezza.  «Quanto  a  Degiacc  Bata 
Agos, »  scrive  da  Asmara  Luigi  Mercatelli3  in  una  lettera  che  la 
«Tribuna»  pubblica  oggi  stesso,  12  febbraio  1895  «chi  avesse  du- 
bitato  di  lui  non  sarebbe  stato  creduto  persona  sensata. »  Pur  egli, 

i.  Sabatu  era  un  degiac,  Menelik  un  barambaras,  Tedla  un  ligg;  di  loro 
il  Martini  da  un  rapido  ritratto  descrivendo  il  tribunale  di  Asmara,  dove  li 
incontra  come  esperti  a  disposizione  dei  giudici.  2.  Leopoldo  Franchetti 
(1847-1917),  fiorentino,  fra  i  primi  « meridionalisti »  e  studiosi  della  que- 
stione  sociale  nell' Italia  unita,  deputato  dal  1882,  senatore  dal  1909,  fu 
attivo  colonialista  e  intelligente  interprete  dei  problemi  economici  attinenti 
alia  penetrazione  italiana  in  Africa.  3 .  Luigi  Mercatelli,  nato  alle  Alfonsine 
in  Romagna  nel  1853,  giornalista  ed  africanista,  fondatore  e  direttore  in 
Roma  del «  Secolo  illustrate  »  (1887),  quindi  inviato  speciale  in  Africa  prima 
del  «  Corriere  di  Napoli »,  diretto  da  Edoardo  Scarfoglio,  poi  della  « Tri- 
buna»,  di  Roma,  diretta  da  Attilio  Luzzatto;  uno  dei  piu  competent!  stu 
diosi  italiani  di  problemi  colonialistici  e  di  cose  africane ;  amico  del  Pascoli. 


NELL'AFFRICA    ITALIANA  995 

com'e  noto,  si  ribel!6;  non  per  subitaneo  impeto  cTira,  o  per  im- 
prowiso  desiderio  di  vendicare  offesa  improvvisa:  ma  dopo  avere 
lungamente  meditate  il  tradimento  e  preparato  con  feroci  diligenze 
la  strage  dei  bianchi  dimoranti  in  Saganeiti,  che  lo  avevano  circon- 
dato  d'ogni  rispetto.  Egli  da  noi  stipendiato  lautamente,  da  noi 
colmo  di  doni,  alcuni  de}  quali  preziosi,  da  noi  investito  di  mag- 
giore  autorita  che  non  si  soglia  concedere  a'  capi  abissini  nella  co- 
Ionia,  mori  combattendo  contro  di  noi  presso  al  forte  di  Halai  il 
1 8  dicembre  1894;  contro  di  noi,  con  que'  medesimi  fucili  che  egli 
aveva  avuto  da  noi. 

Si  disse  che  alia  ribellione  lo  istigarono  i  Lazzaristi  francesi,  irosi 
del  vedersi  sfrattati  dall'  Eritrea.  Pu6  darsi:  dej  Lazzaristi  che  lo 
convertirono  al  cattolicismo,  Bata  Agos  era  molto  devoto;  aveva 
contribuito  a  edificare  per  loro  una  chiesa  in  Akrur,  li  visitava 
spesso,  stava  con  essi  in  carteggio  continue :  pu6  darsi,  dico,  che  i 
Lazzaristi  lo  abbiano  istigato ;  ma  non  credo  che  della  sua  ribellione 
questa  sia  stata  la  causa  sola  o  la  principale.  La  sera  nella  quale 
Bata  Agos,  messi  da  parte  a  un  tratto  gPinfingimenti  del  consueto 
colloquio,  imprigion6  il  tenente  Sanguinetti,  e  mosse  verso  Halai : 
stimando  la  vittoria  sicura  e  prossima,  die  a  divulgare  un  suo  bando 
per  tutto  FOkule-Cusai.  Diceva  cosi:  «Io  vi  libero  da  questa  gente 
venuta  dal  mare  per  spogliarvi,  per  prendere  i  nostri  terreni.  lo  so- 
no  d'accordo  con  Ras  Mangascik  che  si  avanza  con  grandi  forze:  se 
non  mi  sono  levato  prima  e  che  aspettavo  una  risposta  da  lontano  ». 

Or  ecco  qualche  notizia  che  al  bando  serve  di  commento  se- 
condo  me,  importantissimo,  e  che  nessuno,  sono  in  grado  di  asse- 
verarlo,  si  arrischiera  di  smentire. 

Come  ognun  sa  e  come  ho  riferito  io  stesso,  alle  famiglie  con- 
dotte  nelPEritrea  da  Leopoldo  Franchetti  furono  assegnati  terreni 
nel  Sarae  tra  Godofelassi  e  Gura,  in  prossimita  delFOkule-Cusai 
dove  aveva  la  sua  casa  e  la  sua  giurisdizione  Bata  Agos :  anzi  anche 
qualche  menoma  parte  dello  stesso  Okule-Cusai,  venticinque  ettari 
in  tutto,  fu  occupata  da'  nostri  coloni.  Di  questo,  Bata  Agos  si 
sdegnb :  e  tra  le  carte  trovate  da*  nostri  nella  tenda  di  Ras  Manga- 
scia  a  Senafe,  si  sono  rinvenuti  documenti  di  quello  sdegno  e  de' 
propositi  che  esso  ispir6  al  degiacc.  Tre  volte  egli  scrisse  a  Menelik, 
lagnandosi  della  occupazione  delle  terre  e  chiedendogli  il  permesso 
di  aggredire  gFItaliani  che  le  avevano  invase.  Proponeva,  se  cio 
non  gli  fosse  consentito,  che  Tlmperatore  si  facesse  interprete 


996  FERDINANDO   MARTINI 

presso  il  Governo  nostro  di  quelle  doglianze:  e  ottenesse  che  le 
terre  fossero  assegnate  a'  coloni,  soltanto  quand'essi  si  sposassero 
a  fanciulle  indigene.  Ebbe  da  Menelik  per  due  volte  questa  rispo- 
sta:  aspettasse:  anch'egli  aspettava  dalP  Italia  una  risposta:  avuta 
la  quale  gli  avrebbe  poi  detto  il  da  farsi.  E  la  risposta  che  Menelik 
aspettava  era  Fassenso  del  Governo  nostro  alia  cancellazione  del 
famoso  articolo  17  del  non  meno  famoso  trattato  d' Uccialli,  con- 
cepimento  non  so  piii  se  comico  o  infelice  del  conte  Antonelli.1  Se 
Menelik  desse  poi  la  desiderata  licenza  non  so :  e  da  crederlo  bensi, 
posto  che  egli  invi6  a  Ras  Mangascia  35000  cartucce  che  furono 

0  tutte  o  in  parte  adoperate  nelle  due  giornate  del  13  e  del  14  gen- 
naio  di  quest' anno.  Gli  awersari  della  colonizzazione  non  trala- 
sceranno  Foccasione  di  argomentare : «  Vedete  ?  Vedete  a  che  estremi 
ci  conducono  i  vostri  esperimenti,  le  vostre  utopie?  Forse  senza 
quella  occupazione  di  terreni,  Bata  Agos  non  si  sarebbe  ribellato, 
non  avrebbe  fatto  sperare  utili  aiuti  a  Mangascia,  si  sarebbero 
risparmiate  vite  umane  molte  e  danari  parecchi  che  ci  fan  costar 
care  alquanto  le  vittorie  di  Halai  e  di  Coatit». 

E  io  non  dico  di  no :  soltanto  a  mia  volta  osservo :  Se  non  si  ha 
da  occupar  Cassala  e  vincere  il  Madhismo  per  far  sicure  a'  commer- 
ci  le  vie  che  da  Taca,  dal  Galabat,  dal  Ghedaref  conducono  a  Mas- 
saua:  se  non  si  debbono  occupare  i  terreni  per  awiare  nelPEritrea 

1  nostri  emigrati  e  mutare  in  piccoli  proprietari  affricani  i  contadini 
che  in  patria  muoiono  di  fame;  se  nulla  di  ci6  ha  da  farsi,  che 
altro  stiamo  a  fare  in  Abissinia?  A  proteggere  gPindigeni  dalle 
«razzie»  dej  loro  compatriotti  ?  O  volete  che  i  milioni  spesi  e  da 
spendere  servano  ai  guadagni  di  grandi  compagnie  le  quali  valen- 
dosi  del  lavoro  degli  indigeni,  che  costa  poco,  faccian  fruttare  il 
dieci  o  il  dodici  a  quel  danaro  che  in  Italia  non  rende  loro  piu  del 
sei  o  del  sette?  Bene  spesi  nelFun  caso  o  nelP altro  i  milioni!  E 

i.  \Jarticolo  ij  del  trattato  di  Uccialli  (2  maggio  1889),  negoziato  dal  nuovo 
negus  etiopico  Menelik  II,  successore  di  Giovanni  IV,  e  dal  plenipotenzia- 
rio  italiano,  conte  Pietro  Antonelli,  diversamente  redatto  nel  testo  amarico 
e  nel  testo  italiano,  diede  al  governo  di  Roma  Pimpressione,  o  il  convinci- 
mento,  che  Menelik  si  fosse  impegnato  non  solo  a  riconoscere  il  protetto- 
rato  italiano,  ma  a  non  comunicare  con  le  potenze  estere  se  non  col  tramite 
obbligatorio  di  Roma.  II  negus  contest6  codesta  obbligatorieta,  e  ne  se- 
guirono  anni  dipolemiche  (1889-1895),  terminate  con  la  guerra  perduta  ad 
Adua  (i°  marzo  1896).  II  conte  Pietro  Antonelli  (1853-1901),  esploratore, 
diplomatic©,  deputato  e  uomo  politico,  fu  il  propugnatore  piu  risoluto  della 
cosiddetta  «politica  scioana»,  la  quale  culmin6  nel  trattato  di  Uccialli. 


NELL'AFFRICA    ITALIANA  997 

circa  alle  utopie  e  agli  esperimenti  per  ora  lasciamo  correre:  ne 
discorreremo  a  suo  tempo. 

AGORDAT1 

11  villaggio  di  Agordat,  giace  in  una  breve  conca,  tra  piu  ordini  di 
colline  che  d'ogni  parte  lo  cingono,  sulla  piu  alta  delle  quali,  mu- 
nita  di  modeste  trincee,  stanzia  il  nostro  presidio.  Si  scorge  di  lassu 
gran  tratto  di  paese:  a  settentrione  la  valle  del  Giaghe  fra  '1  Ta- 
Iett6  e  il  Debra-Sale,  il  cui  vasto  altipiano,  non  ancora  descritto 
n6  visitato  dagli  esploratori,  e  oggetto  di  perpetue  contese  de'  Baria 
e  de'  Beni  Amer,  perche  ricco  d'acque  e  di  terreni  fertili;  a  oriente 
le  sommita  che  dominano  il  piano  di  Adarde" ;  tra  occidente  e  mezzo- 
giorno  i  monti  dei  Baria  e  i  poggi  di  Biscia.  L'ampio  letto  del  Barca, 
accolto  ne'  pressi  di  Agordat  il  Giaghe,  si  nasconde  tra  foreste  di 
palme,  biancheggia  ancora,  poi  si  cela  di  nuovo  e  Pocchio  lo  perde. 

Parve  al  Munzinger  che  PAnseba  ed  il  Barca  rispecchiassero, 
ciascuno  nel  proprio  corso,  1'indole  delle  genti  le  quali  vivono  lungo 
le  sponde  loro ;  che  PAnseba  scarso  d' acque  ma  di  forte  corrente, 
rassomigliasse  alPAbissino  magro  e  nervoso;  e  il  largo  Barca  che 
delle  acque  disperde,  cammin  facendo  per  Tocar,  la  massima  parte, 
al  pingue  e  flemmatico  abitatore  della  sua  valle.  II  raffronto  mi  sa 
di  cercato  e  non  in  tutto  mi  persuade.  Direi  piuttosto  che  PAnseba 
e  altri  fiumi  minori  delPHamasen  e  del  Sara6,  per  le  rive  frasta- 
gliate  e  cupe,  i  monti  che  li  serrano  tra  gole  orride,  paiono  vera- 
mente  scenario  adatto  ai  tristi  drammi  abissinici,  intessuti  di  rag- 
giri  e  d'agguati,  precipitanti  in  catastrofi  sanguinose ;  il  Barca  invece 
sembra  destinato  ad  aiutare  coj  silenzi  delle  sue  selve,  tral  verde 
delle  palme  uniformi,  tenerezze  ed  amori:  tenerezze  molli  e  amori 
senza  lacrime. 

Ma  la  natura  ha  un  bel  vestirsi  d'incanti;  Pumanita,  carovana 
infinita  che  si  accalca  e  si  affanna  su  le  vie  del  sepolcro,  delle  paci 
che  quella  offre  non  si  appaga  ne  cura.  Ombre  quiete,  acque  nitide, 
i  vostri  freschi  riposi  non  son  fatti  per  essa :  per  ardue  sponde  senza 
tregua  sospinta,  il  fiume  che  ode  mugghiare  nel  fondo  e  fatto  di 
sangue  e  di  pianto. 

E  il  placido  Barca  fu  testimone  anche  ad  Agordat  di  battaglie  e  di 
stragi. 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  xvm,  pp.  211-5. 


998  FERDINANDO    MARTINI 

Dopo  che  a'  primi  del  1890,  il  Diglal1  del  Beni  Amer  si  fu,  in 
nome  delle  tribu  sue,  sottomesso  all* Italia,  il  Madhi2  gPintim6 
per  lettera  di  andare  a  Cassala:  e  latore  della  intimazione  fu  quel- 
TOmar  Ocut,  Don  Abbondio  de*  nomadi,  che  venutoci  incontro  ad 
Abi  Mendel  ci  accompagn6  ossequioso  fino  a  Mansura.  Obbedire 
al  Madhi,  andare  a  Cassala,  allora  focolare  della  fanatica  ribellione 
maomettana,  dopo  avere  stipulate  con  T  Italia  que'  patti,  era  non 
soltanto  un  infrangerli,  ma  votarsi  a  morte  sicura.  II  Diglal  ne 
replic6,  ne  obbedi. 

Un  giorno  del  giugno,  un  migliaio  di  Dervisci  reduci  da  Me- 
temma,3  baldanzosi  della  vittoria,  guidati  nelle  vie  mal  note  dal- 
TEmiro  Ibrahim  Faragiallah  e  comandati  da  Kater  Deemedan,  si 
gettarono  sul  Dega,  depredarono  armenti,  rapirono  cinquecento 
donne,  uccisero  parecchi,  tra  i  quali  il  Diglal  istesso  e  Seek  Egel, 
capo  della  tribu  degli  Omram:  eccidii  facili  perche  improwiso  Pas- 
salto;  compiutili,  ridiscesero  per  la  gola  del  Dantai  e  si  accampa- 
rono  alia  confluenza  del  Giaghe  e  del  Barca. 

II  capitano  Fara,4  intanto,  con  una  compagnia  d'ascari  muoveva 
da  Cheren,  con  ordine  di  spingersi  su  le  rocciose  alture  di  Biscia;5 
quando,  giunto  in  vicinanza  di  Agordat,  not6  impresse  nell'alveo 
del  flume  numerose  orme  di  cavalli  e  di  cammelli ;  sebbene  i  luoghi 
sembrassero  deserti,  retrocede  ad  occupare  i  pozzi,  dove  necessa- 
riamente  ha  da  sostare  ogni  carovana  o  colonna  che  passi  per  quelle 
vie.  Vi  comparvero  di  li  a  poco  alcuni  Dervisci,  traendosi  dietro  le 
cavalcature  stanche.  Riconoscerli  e  facile:  portano  lunghe  vesti 
bianche,  pezzate  per  simbolo  di  poverta  con  toppe  d'altri  colori :  la- 
voro  delle  Suore  che  i  seguaci  del  Madhi  tengono  tuttavia  prigioni. 

I  nostri,  arrestatigli,  gl'interrogarono  donde  venissero,  per  dove 
s'awiassero.  Non  risposero;  silenzio  significative  e  che  diceva  o 

i.  Diglal:  comandante,  capo.  2.  il  Madhi:  capo  religioso,  messia  degli 
islamiti,  animatore  della  insurrezione  dei  Dervisci  (cioe,  poveri,  rnonaci, 
fedeli)  nel  Sudan.  Centri  dell' insurrezione  furono  Kartum  e  Kassala.  I 
Dervisci  svolsero  in  varie  direzioni  una  guerra  di  razzia  e  di  sterminio. 
Vedi  anche  p.  846.  3. « Dove  rimase  morto,  nel  combattere  contro  di  loro, 
sara  bene  ricordarlo,  Johannes  negus  di  Abissinia »  (nota  del  Martini) :  vedi 
la  nota  i  a  p.  980.  4.  Gustavo  Fara  (1859-1936),  che  partecip6  nel  1911- 
1912  alia  guerra  italo-turca  e  vi  fu  decorato  di  medaglia  d'oro,  cornand6  va 
rie  divisioni  nella  guerra  1915-1918  come  generale,  ed  ebbe  successivamente 
varie  cariche  nel  periodo  fascista.  5.  «Villaggio  sulla  strada  da  Cheren  a 
Cassala:  da  Cheren  a  Cassala  255  chilometri:  da  Cheren  a  Biscia  un  po' 
piu  di  80 »  (nota  del  Martini). 


NELL'AFFRICA    ITALIANA  999 

imminente  un  pericolo,  o  recente  un  misfatto ;  ma  non  suggeriva 
i  modi  di  prowedere  o  di  riparare.  Minacciarono  di  fucilarli: 
non  fiatarono ;  il  primo  and6  a  morte  gridando :  La  Illah  Illalah 
Mohamed  rasul  Allah;  Mohamed  Ahmed  el  Madhi  Kalifa  rasul 
Allah.1  Gli  altri  tacquero  aspettando  la  loro  volta,  e,  quando  venne, 
tacendo  morirono. 

Alia  fine,  uno  schiavo,  Abdallah,  chiesta  in  grazia  la  vita, 
descrisse  la  strage  del  Dega  e  addit6  il  luogo  deiraccampamento. 
Air  alba,  i  nostri  udirono  levarsi  dalle  sponde  del  Giaghe  il  canto 
mattutino  della  preghiera,  poi  mirarono  distendersi  nella  valle 
la  lunga  colonna  d'uomini  e  d'animali,  lenta  sul  cammino  gremito 
di  palme  e  d'arbusti;  e  i  lembi  degli  stendardi  azzurri  percuotere 
le  teste  degli  uccisi,  portati  su  le  lance  a  trofeo. 

Si  mossero:  appena  che  i  Dervisci  gli  ebbero  scorti,  due  cava- 
lieri  della  retroguardia  tornarono  veloci  sul  flume  e  infissero  due 
lance  nell'alveo,  segno  di  sfida.  Bast6,  perche  Podio  antico  degli 
Abissini  verso  i  Musulmani  si  ridestasse,  si  scatenasse  in  ferocie 
impazienti.  Correre,  rispondere  alia  sfida  divellendo  le  lance  e  get- 
tandole  in  aria,  slanciarsi  verso  la  colonna,  far  fuoco,  fu  un  punto. 
Chi  vide  quel  macello  lo  ricorda  tuttavia  con  orrore ;  il  fuoco  cess6 
presto:  piu  lungo  e  piu  micidiale  duro  il  combattere  a  corpo  a 
corpo,  il  colpire  delle  sciabole  e  delle  daghe.  Tra  i  gemiti  de'  mori- 
bondi,  le  donne  rapite  ai  Beni  Amer  acclamavano  con  grida  di 
gioia  e  con  gli  hellelta  il  soccorso  insperato  e  la  liberta;  scendevano 
frettolose  dalle  cavalcature  e  tagliavano  sui  dromedari  le  corde  ai 
carichi,  perch6  cadessero  impaccio  ai  rapitori:  e  i  carichi  piomba- 
vano  con  fragor  nuovo  sul  cranio  a'  feriti.  Tral  fischiar  delle  palle,  la 
confusione  e  la  strage,  stavano  immobili,  senza  difesa  i  portasten- 
dardo:  quand'uno  piegava,  un  altro  afferrava,  rialzando  Fasta,  e 
diciotto  morirono  sotto  una  sola  bandiera.  I  Dervisci,  sebbene 
stremati,  resisterono  finche*  non  li  prese  timore  di  vedersi  sbarrato 
ogni  adito :  poi,  nella  rabbiosa  risoluzione  della  fuga,  ai  pochi  super- 
stiti  la  carneficina  prem6  piu  dello  scampo :  squarciarono  il  ventre 
alle  donne  incinte,  versarono  resine  sul  corpo  alle  fanciulle  e, 
incendiatele,  tra  quelle  orribili  fiamme,  fuggirono  verso  i  monti. 
La  i  Baria  li  trucidarono. 

i.«Non  v'e  altro  Iddio  che  Dio,  Mohamed  (Maometto)  e  il  profeta  di 
Dio ;  Mohamed  Ahmed,  il  Madhi,  e  il  Califa  del  profeta  di  Dio  »  (nota  del 
Martini). 


1000  FERDINANDO   MARTINI 

Di  piu  che  mille,  sessanta  soltanto  rientrarono  in  Cassala:  la 
vittoria  de'  nostri  si  dove  alia  valentia  degli  uffiziali,  al  coraggio 
degli  ascari  ed  anche  alPavere  i  soldati  del  Madhi  preso  abbaglio 
rispetto  alle  nostre  forze.  Stimarono  quella  compagnia  una  avan- 
guardia;  e  a  mezzo  il  combattimento  crederono  le  soprawenisse  in 
aiuto  pel  Barca  tutto  il  presidio  di  Cheren;  ne  scendeva  invece  una 
carovana  di  trenta  cammelli  a  portar  viveri  ai  nostri  da  due  giorni 
digiuni,  sollevando  nubi  di  polvere,  traverse  alle  quali  si  intravede- 
va,  ma  era  impossibile  il  discernere. 


NEI  MARIA  NERI1 

JLa  bassa  regione  de'  Maria  Neri,  segnatamente  il  tratto  che  da 
El  Auisc  si  distende  fino  alle  colline  del  Ciagarit,  ha  un  aspetto 
singolare.  Vi  crescono  gli  obel,  alberi  il  cui  fogliame  rassomiglia 
quello  del  pino,  piu  fitto  bensi,  piu  minuto  e  d'un  verde  chia- 
rissimo.  Ma  il  pino  drizza  in  alto,  insieme  con  le  foglie  rigide,  il 
fusto  ruvido  e  bruno :  I'obel,  invece,  liscio  e  biancastro  abbandona 
verso  la  terra  le  molli  smorte  foglie  ed  i  rami,  come  accasciato  dallo 
sfinimento.  Mi  ricord6  le  eroine  pallide  e  vaporose  che  languono 
ne'  romanzi  del  tempo  di  Carlo  decimo.2 

Folti  lungo  le  rive  delPObellet,  cui  danno  il  nome,  paiono  cin- 
gere  d'una  nebbia  glauca  il  paese  dei  Maria  e  separarlo  dal  mondo. 

E  pu6  dirsi  difatti  che  i  Maria  vivano  divisi  dal  consorzio  umano ; 
i  Neri  sui  pianori  di  Era,  di  Erota,  di  Rora-Ho;  i  Rossi  su  quelli  di 
Molobso  e  di  Rehi.  Salvo  un  molto  ristretto  commercio  di  dura 
con  i  Beni  Amer  e  con  gli  Habab,  non  v'hanno  fra  quella  e  le  altre 
tribu  relazioni  di  sorta.  Un  tempo,  i  Maria  guerreggiarono,  bra- 
vamente  e  volentieri,  e  delle  loro  imprese  dura  tuttavia  la  tradi- 
zione:  piu  volte  combatterono  contro  ai  Turchi,  vittoriosi  sempre; 
nel  luglio  1841,  scesi  nel  Barca,  assalirono  i  soldati  di  Ahmed 
Baxa,  minaccianti  i  Beni-Amer,  li  sconfissero,  s'impadronirono  di 
molti  cavalli  e  fucili.3  Di  razzie  tentate  da  loro,  ora  con  buono  ora 
con  funesto  successo,  serbano  ricordo  i  canti  popolari  dei  Bogos  :4 

i.  Ed.  cit.,  cap.  xxi,  pp.  238-48.  2.  Carlo  X  regn6  in  Francia  dal  1824  al 
1830.  II  Martini  allude  alle  figure  romantiche  e  clorotiche  allora  di  moda. 
3.«D'ABBADIE,  Geographic  de  I 'Ethiopie,  Paris  1890,  I,  42 »  (nota  del 
Martini).  4.  Bogos:  tribu  che  ha  il  suo  maggior  centre  a  Cheren. 


NELL'AFFRICA    ITALIANA  IOOI 

Di  mattina  al  levarsi  del  sole  not  abbiamo  combattuto  contro  i  Maria; 

la  pianura  prossima  al  tobacco  fu  coperta  di  cadaveri. 

Ad  Tembelle1  e  noi  uomini  di  Cher  en  ci  siamo  schierati  di  fronte. 

Eglino  volevano  razziarey  noi  li  abbiamo  fugati,  inseguendoli  fino  al  Megilel. 

Abbiamo  devastate  Erota  e  preso  mille  vacche  .  .  . 

Bogos  e  Maria  saremo  nemici  sempre. 

Ma  a  quej  tempi  la  tribu  era  numerosa;  oggi,  in  causa  appunto 
delle  guerre  frequenti  e  delle  carestie  che  ne  seguitarono,  i  Maria, 
tra  Rossi  e  Neri,  non  oltrepassano  i  diecimila.  Intorno  alia  loro 
origine  nulla  si  sa  di  certo :  la  tradizione  li  dice  venuti  dalF Ara 
bia,  gli  istituti  e  le  costumanze  li  fanno  invece  credere  origina- 
ri  delPAbissinia.  Da  qualsiasi  parte  migrassero,  questo  v'ha  di 
sicuro :  che  ne'  paesi  dove  oggi  vivono  vennero  circa  alia  meta  del 
quattordicesimo  secolo.  Mariu,  loro  capostipite,  dal  quale  discende 
direttamente  la  famiglia  che  ancora  domina  su  la  tribu,  piomb6  a 
quel  tempo  con  diciassette  vassalli  e  la  loro  gente  nell'altipiano 
di  Erota  e,  uccisi  in  parte,  in  parte  scacciatine  gli  abitanti,  distribui 
tra'  seguaci  le  terre  conquistate.  Un  di  que*  diciassette,  Usus, 
perche  trionfatore  nelle  solite  guerre  civili,  fu  elevato  al  grado 
di  scium:  e  i  parenti  e  soldati  suoi  fatti  sdumagalle  o  nobili.  Dei 
discendenti  loro  si  compone  tuttora  Paristocrazia  ereditale  dei 
Maria,  distinta  dai  tigrd  o  uomini  della  plebe. 

Aristocrazia,  dominio,  grandi  nomi  pronunziati  con  grande  en- 
fasi  significano  tra  i  Maria  poverissime  cose.  Gli  sdumagalle  non 
possono  possedere  terre ;  hanno  bensi  il  diritto  di  campare  a  spese 
dei  tigrd,  ai  quali  esse  appartengono  tutte.  I  patrizi  non  godono 
dunque  che  di  due  privilegi :  primo,  quello  di  non  far  nulla,  in  un 
paese  dove  tutti  fan  poco,  perche  fra  i  Maria,  se  qualcheduno 
coltivasse  una  estensione  di  terreno  maggiore  di  quanto  gli  bisogna 
strettamente  per  vivere,  o  cercasse  trarne  frutto  maggiore,  si  crede- 
rebbe  gli  avesse  dato  volta  il  cervello :  poi,  quello  di  pavoneggiarsi, 
rammentando  la  sequenza  degli  antenati.  Divertimento  questo,  nel 
quale  molto  anche  i  plebei  si  compiacciono ;  non  sanno  nulla  di 
nulla,  neanche  quando  sien  nati,  ma  hanno  tutti  a  memoria  la  ge- 
nealogia  propria  e  Paltrui.  Tranne  Fozio,  nulFaltro  distingue  nel 
vivere  gli  sdumagalle  dai  tigrd:  e  gli  uni  e  gli  altri  si  nutrono  di 

i .  « I  discendenti  di  Tembelle,  uno  dei  principi  dei  Maria  Neri »  (nota  del 
Martini). 


1002  FERDINANDO    MARTINI 

dura,  di  miele,  di  latte,  raramente  di  carne,  e  tutti  abitano  in  ca- 
panne  simili  di  forma,  di  ampiezza,  di  sudiciume. 

I  Maria,  un  tempo  cristiani,  si  fecero  maomettani  su'  primi 
del  secolo ;  e  se  non  erra  un  prelato,  il  quale  da  molto  tempo  di- 
mora  in  Affrica  ed  e  addentro  nella  storia  di  quelle  tribu,  nella 
conversione  loro  le  credenze  non  ebbero  parte  veruna  o  ve  1'eb- 
bero  abbastanza  curiosa.  Devastati  i  campi  dalle  cavallette,  no- 
bili  e  plebei  non  sapevano  piu  come  fare  per  non  morire  di  stento : 
pensarono  di  distruggere  Finsetto  distruggitore  e  mangiare  chi 
aveva  mangiato  ogni  cosa.  Poiche  correva  la  quaresima,  domanda- 
rono  al  prete  copto  se  le  cavallette  fossero  cibo  grasso  e  per  conse- 
guenza  proibito ;  e  il  prete  afferm6  peccato  grave  il  solo  assaggiarle. 
I  poveri  Maria  stavano  forse  dibattendo  quale  fosse  rodimento  peg- 
giore,  se  il  rimorso  o  la  fame,  quando  capit6  su'  loro  monti  un 
santone  musulmano,  dal  quale  impararono  che  ai  devoti  dell'islam 
non  si  vietava  quel  cibo  in  alcun  tempo  delPanno.  Senz'altro  di- 
battere,  si  votarono  tutti  quanti  a  Maometto.  Non  ebbero  chiese 
allora,  non  hanno  oggi  moschee;  non  conobbero  il  Vangelo,  non 
conoscono  il  Corano;  cristiani  o  maomettani,  la  diversita  sta  nel 
nome  soltanto. 

Alcune  delle  istituzioni  loro,  conservate  dalla  tradizione  orale, 
meritano  si  ricordino.  II  capo  o  scium  della  tribu  e  elettivo ;  ma  deve 
scegliersi,  come  ho  detto,  nella  famiglia  che  discende  direttamente 
da  Mariu :  la  giustizia  e  amministrata  dal  Mohaber,  o  assemblea  di 
anziani  che,  volta  per  volta,  si  raduna  sotto  un  albero,  e  invocato 
Dio,  uditi  i  testimoni  i  quali  giurano  per  la  vita  dello  scium,  ri- 
solve  le  liti.  Anche  le  donne,  e  ci6  e  singolare  in  Abissinia,  possono 
fare  testimonianza;  ma  la  affermazione  di  due  donne  e  bilanciata 
da  quella  d'un  uomo.  La  terra  e  la  casa  si  ereditano ;  il  pozzo  e  d'uso 
comune;  colui  che  scav6  ha  diritto  di  abbeverarvi  primo  il  proprio 
gregge,  ma  non  pu6  vietare  che  vi  s'abbeverjno  i  greggi  degli  altri. 

La  vergine  e  sacra  e,  se  appartiene  a  famiglia  di  nobili,  guai  a  chi 
la  tocca.  Poco  innanzi  che  noi  giungessimo  ad  Era,  gli  sdumagalU 
vi  avevano  strozzato  insieme  col  seduttore  una  loro  giovinetta  e 
soffocato  il  fanciullo  che  aveva  dato  alia  luce.  Non  puniscono  a  que- 
sto  modo  una  colpa:  insegnano  cosi  che  il  decoro  delle  casate  illu- 
stri  non  tollera  sfregio  di  figli  illegittimi:  non  e  il  loro  sentimento 
morale  che  affermi  la  propria  rigidezza  in  sentenze  severe,  ma  ran- 
core  di  borie  offese  che  si  sfoga  in  ferocie;  tanto  e  vero  che  in  tutte 


NELL'AFFRICA   ITALIANA  1003 

quelle  tribu  la  prostituzione  si  tiene  in  altissimo  onore  e  la  donna  che 
le  si  da  e  festeggiata  e  acclamata  con  lunghe,  pubbliche  cerimonie. 
Dura  tuttavia  tra  i  Maria  la  vendetta  del  sangue,  non  in  altro  oggi 
terribile  che  nel  nome.  Secondo  le  antiche  costumanze,  chi  ucci- 
deva  doveva  essere  ucciso  da'  parenti  del  morto.  Con  1'andare  del 
tempo,  s'inventb  una  maniera  di  vendetta  meno  fastidiosa  da 
una  parte  e  piu  proficua  dall'altra:  si  stabili  di  pattuire  il  prezzo  del 
sangue  versato  e  pagarlo  mediante  bestie  vaccine.  Mezzo  secolo  fa, 
la  vita  di  uno  sciumagalle  valeva  ottocento  vacche:  oggi  o  sia 
cresciuto  il  prezzo  delle  bestie,  o  il  sangue  de*  nobili  costi  meno, 
si  contentano  d'una  ventina.  Fatto  il  pagamento,  al  quale  contribui- 
scono  i  parenti  fino  al  settimo  grado,  la  pace  si  suggella  unendo  in 
matrimonio  un  figlio  dell'uccisore  con  una  figlia  delPucciso.  Dolci 
nozze  e  candidi  affetti!  -  Non  in  tutto  e  bensi  dismessa  Pusanza 
antica;  se  un  plebeo  ammazza  un  patrizio,  egli  ed  i  suoi  diven- 
gono  schiavi  della  costui  famiglia:  se  invece  un  patrizio  ammazza 
un  plebeo,  e  punito  .  . .  indovinate  un  po'  con  che  cosa?  con  Tucci- 
sione  di  un  altro  plebeo  che  gli  appartenga. 

Schiavo  diventa  anche  il  tigre,  il  quale  non  paghi  al  suo  signore 
quanto  gli  spetta.  Ma  bisogna  intendersi:  la  schiavitu  in  Abissinia 
non  ha  nulla  che  fare  con  la  romana  e  I'americana.  Lo  schiavo 
non  e  cola,  in  sostanza,  se  non  un  servitore  trattato  con  affabili- 
ta  e  confidenza  di  quella  che  co'  servitori  si  usi  in  Europa.  Fra  i 
Baria,  secondo  mi  narrarono,  vi  sono  schiavi  che  hanno  schiavi 
eglino  stessi.  Nei  Maria,  schiavi  e  schiave  faticano  molto  meno  degli 
agricoltori:  unica  cura  degli  uomini  e  andar  per  acqua  e  mungere 
le  vacche,  delle  donne  macinare  la  dura,  imburrare  i  capelli  alia 
padrona  e  spassarne  la  infingardaggine. 

A  descrivere  tutti  gli  usi  de*  Maria  non  basterebbero  parecchie 
pagine:  dir6  delle  nozze,  poiche  mi  &  occorso  accennarvi. 

Quando  i  parenti  dei  due  innamorati  hanno  consentito  la  unione, 
lo  sposo,  accompagnato  da  numerosa  schiera  d'amici,  rapisce  la 
fidanzata  e  la  conduce  nel  proprio  tucul\  dov'ella  resta  per  un  mese, 
sotto  la  vigile  custodia  dej  genitori  del  futuro  marito,  che  le  ver- 
sano  ogni  mattina  latte  sul  capo,  per  augurio  di  fecondita.  Durante 
quel  tempo,  attorno  al  tucul  allegre  brigate  si  ragunano  in  clamorose 
baldorie.  Le  sciarmute,  etere  deirAffrica  orientale,  fanno  la  fanta 
sia,  gli  altri  bevono  e  cantano.  Trascorso  il  tempo  di  rito,  lo  sposo 
va  alia  madre  della  ragazza  e  mediante  una  o  piu  vacche,  secondo 


1004  FERDINANDO   MARTINI 

ch'egli  e  piu  o  men  facoltoso,  compra  il  diritto  d'aver  seco  la  mo- 
glie.  La  madre  accetta  il  prezzo  o  dono  che  sia,  e  con  le  proprie 
mani  recide  il  filo  che  alia  figliuola  sin  dalla  nascita  serr6  le  vie 
della  generazione. 

Credo  anche  nei  Maria;  in  altre  tribu,  nei  Bogos  segnatamente, 
awenute  le  nozze,  la  suocera  ha  obbligo  di  non  mostrarsi  piii  al 
genero,  e  di  scansarlo  quando  lo  vede.  Parecchi  europei  lamente- 
ranno  di  non  essersi  ammogliati  fra  i  Bogos. 

II  tucul  dei  Maria  non  e  all'esterno  molto  dissimile  da  quello  degli 
abitanti  delFHamasen  o  delPOkule-Cusai.  Piu  ampio  bensi,  e  nel- 
1'interno  diviso  in  due  parti  per  una  rete  intessuta  con  fili  di  baobab ; 
in  una  dormono  i  maschi  sugli  angareb*  nell'altra  sulla  cenere  le 
femmine;  le  vesti  non  cucite,  servono  da  lenzuola;  soli  gli  sciuma- 
galtt  usano  stendere  sopra  gli  angareb  una  pelle  di  bue.  -  Nella  parte 
assegnata  alle  femmine  k,  notevole  una  buca  profonda  cerchiata  a 
fior  di  terra  da  orli  rilevati.  Le  donne,  che,  nonostante  Pislamismo 
prescriva  le  abluzioni,  con  Tacqua  non  se  la  dicono,  accendono 
in  quella  buca  non  so  qual  legno  odoroso  e  vi  si  accoccolano  sopra, 
nude,  facendosi  di  una  tela  campana,  per  modo  che  fumo  e  pro- 
fumo  non  si  disperdano ;  cosi  rimangono  qualche  volta  ore  ed  ore : 
e  quello  e  il  bagno  che,  secondo  loro,  prowede  insieme  all'estetica 
e  alia  nettezza,  conserva  insieme  la  belta  e  la  salute. 

Poco  nelle  vesti;  nella  pettinatura,  invece,  Bogos,  Beni  Amer, 
Maria  molto  differiscono  dagli  Abissini;  questi  tengono  i  capelli 
cortissimi,  quelli  li  educano  irti,  alti  ed  uniti  nella  parte  superiore 
del  cranio,  e  li  lasciano  cadere  in  lunghe  trecce  attorno  alle  tempie 
e  alia  nuca:  pettinatura  che  li  ripara  bene  dalle  offese  del  sole. 
Le  vergini  tengono  anche  tra  i  Maria  la  testa  rasa;  le  maritate  strin- 
gono,  come  le  Abissine,  i  capelli  in  molte  trecce  sottili;  ma  anzi- 
che  stenderle  come  quelle  verso  Poccipite,  le  bipartiscono  a  meta 
della  fronte,  donde  piovono  sino  alle  spalle. 

Ho  detto  altrove  quanto  i  Maria  sieno  incuriosi :  che  sono  pieni 
zeppi  di  pregiudizi  e  forse  inutile  il  dire.  Un  di  loro  capit6  nel- 
rattendamento,  mandatovi  da  Abd-el-Kader  a  portare  non  so  quale 
oggetto  o  quale  ambasciata.  Uno  de'  miei  colleghi  si  prov6  a  far- 
gli  il  ritratto  in  matita,  altri  in  fotografia.  Bisognava  vederlo!  Stra- 
lunava  gli  occhi,  nascondeva  la  faccia,  tre  o  quattro  volte  tenth  di 
scappare.  Si  capiva  che  il  lapis,  il  taccuino,  la  lente  lo  spaurivano  e 
i.  angareb:  tappeti  indiani. 


NELL'AFFRICA   ITALIANA  1005 

temeva  di  qualche  malia.  Lo  lasciammo  infine  e  se  ne  andava 
conturbatissimo,  quando  gli  dette  nelFocchio,  tra  la  rena,  una  boc- 
cetta  vuota  che  qualcuno  aveva  buttata  via.  La  raccolse,  la  contem- 
p!6,  Pammir6,  ci  guard6  con  occhi  ridenti  e  se  ne  parti  saltando 
dalla  contentezza  per  aver  trovato  tanto  prezioso  tesoro. 

Chi  viaggiasse,  io  credo,  il  mondo  intero,  passo  piii  dirupato  di 
quello  che  precipitando  dal  colle  delPAnselel  congiunge  Paltipiano 
di  Era  con  la  conca  del  Cadnet,  non  lo  troverebbe.  £  una  stretta 
gradinata  di  alti  massi,  alternata  da  ripidi  e  mobili  distese  di  ciot- 
toli,  sbarrata  a  quando  a  quando  da  piante  spinose.  Non  si  discen- 
de ;  bisogna  rovinare  pe'  ciottoli  e  di  masso  in  masso  schizzare.  In- 
nanzi  a  quei  baratri  il  mulo  stesso  si  fermava  cogitabondo,  ne  era 
solo  a  pensare  malinconicamene  ai  casi  propri.  Spesso  non  s'accor- 
geva  del  precipizio,  se  non  dopo  avere  sfondato  col  capo  oltre 
i  viluppi  prunosi,  e  si  fermava  in  mal  punto.  Parte  di  la,  parte  di 
qua  dal  cespuglio,  incerto  dell'andare,  infastidito  dello  stare  per  le 
spine  che  scorticavano  a  lui  la  groppa  e  minacciavano  a  me  le  pu- 
pille,  si  divincolava  guatando;  e  me  che  stavo  a  occhi  chiusi, 
sbatteva  tra  le  fronde  pungenti.  Cosi,  quando  si  risolveva  a  saltare, 
io  non  vedevo  n6  donde  si  movesse  n6  dove  s'andasse ;  intanto  i  ciot 
toli  smossi  ci  rotolavano  dietro,  ci  rimbalzavano  accanto,  e  la  caro- 
vana  pareva  ruinarci  addosso  con  fragore  di  valanga. 

Arrivati  in  fondo,  certificammo  con  molto  ma  insperato  pia- 
cere  che,  nonostante  il  sole  il  quale  levava  di  cervello  e  qualche 
ruzzolone  pericoloso,  nessuno  aveva  sofferto  troppo  e  il  collo  ri- 
maneva  in  tutti  al  suo  posto. 

Ma  quando  si  viaggia  in  paesi  tanto  diversi  dal  proprio  quant' era- 
no  quelli  per  noi,  i  disagi  patiti  si  dimenticano  presto  davanti  a 
nuovi  spettacoli  e  la  curiosita,  appena  rinata,  partorisce  vigori.  La 
Conca  di  Cadnet  cancel!6  subito  i  ricordi  del  colle  dell'Anselel. 

L'Abissinia  settentrionale,  specie  nella  stagione  in  cui  noi  la 
vedemmo,  di  rado  par  bella  alPocchio  nostro:  non  ha  n6  dolcezza 
di  sorrisi,  ne  benignita  di  malinconie;  ma  i  tratti  che  alternano  le 
tristezze,  o  torve,  o  smorte,  di  allegrie  brevi,  sono  veramente  stu- 
pendi.  Dominano  si  il  monotono  e  il  trito;  ma  quando,  tra  piu 
ampli  orizzonti,  le  forze  possenti  della  vegetazione  si  slanciano 
in  liberta  e  in  varieta  di  rigogli,  il  paese  si  veste  di  letizie  solenni, 


1006  FERDINANDO   MARTINI 

alle  quali  nulla  ha  di  paragonabile  il  paese  europeo.  Tali  alcuni 
punti  dell'Anseba,  le  rive  del  Barca,  delFUsch,  del  Mohaber:  tale 
la  Conca  di  Cadnet  per  la  quale  ci  awicinavamo  quel  giorno  al 
riposo  di  Scinarub. 

Folti  sicomori  e  kighelie1  ombreggiavano  da'  margini  le  arene  lat- 
tee,  e  nella  quiete  delle  fronde  accoglievano  le  tortore  silenziose; 
tra  gli  alti  fusti  il  serau,  mandorlo  affricano,  spenzolava  ciocche  di 
fiori  candidi,  accarezzati  dagli  ultimi  raggi  del  sole;  fra  la  calma 
odorata  e  le  ombrie  fresche,  il  torrente  pareva  distendersi  addor- 
mentato.  In  quelle  paci  irruppe,  dietro  a  me  pochi  passi,  la  caro- 
vana:  e  d'ogni  parte  cominciarono  movimenti  affrettati  e  clamori 
confusi.  Stormi  d'uccelli  volavano  d'albero  in  albero,  con  strida  e 
fruscii;  nell'alveo  un  andirivieni  di  cammelli  e  di  muli,  uno  stro- 
piccio  cbntinuo  di  passi  sopra  la  rena.  Per  le  rive,  colpi  d'ascia 
secchi,  di  martello  insistenti,  uno  scrocchiare  di  legname  squar- 
ciato,  un  chioccolare  di  stipe  accese,  innanzi  alle  quali,  nelPaperta 
cucina  omerica,  montoni  inter i  rosolavano,  girando  nei  massicci 
stidioni  d'acacia.  Malinconiche  a  udire  sul  tramonto,  lunghe  voci 
rispondevansi  di  lontano. 

Dopo  il  corto  crepuscolo,  velarono  il  cielo  trasparenze  di  verde 
oltramarino,  mirabili  e  non  mai  sin  allora  mirate:  i  cammelli  s'in- 
travedevano  nell'ombra  in  aspetti  fantastici,  come  animali  di  un 
bassorilievo  assiro  vivificati  dalla  magia.  .1  portatori,  distesi  ne' 
bianchi^tfZJZ)2  dormivano  sui  massi  che  fiancheggiano  1'altra  sponda 
e  che  nel  riflesso  dei  fuochi  parevano  sarcofagi  di  marmo  rosato. 
All' alba,  suonata  la  diana,  il  movimento  ricominci6 :  sparpagliato 
all'arrivo,  ora  al  momento  della  partenza  si  raccoglieva  anche  piu 
operoso  e  sollecito.  Giuntovi  primo,  volli  essere  1'ultimo  ad  abban- 
donare  il  letto  delPUsch.  La  carovana  s'accalc6  dietro  a'  sicomori, 
sfi!6  in  rumoroso  disordine  verso  altri  torrenti :  a  poco  a  poco  il  fra- 
stuono  divenne  sussurro,  i  vocii  si  mutarono  in  bisbigli  e  si  perde- 
rono  lontani.  Sulle  rive  deserte  tutto  taceva;  dopo  un  affaccenda- 
mento  rapido  e  affannato,  i  profondi  silenzi  e  gli  oblii.  Quante  cose 
si  assomigliano  nel  mondo  al  passaggio  d'una  carovana! 


i.  kighelie-.  piu  comunemente  chigelie  (Kigelia  africana):  sono  alberi  tipici 
di  quella  flora.     2.  gam :  specie  di  mantelli. 


DA  «CONFESSIONI  E  RICORDI» 

(FIRENZE  GRANDUCALE) 

TOMMASO  COGO1 

.  .  .  de  ses  bords  lointains  Venfance  me  ramene 
un  souvenir  dont  rien  ne  pent  me  detacher. 

SOULARY2 

In  che  anno  per  Fappunto  non  so,  ma  certamente  fra  il  1805  e  il 
1808,  in  una  fresca  mattina  sul  finite  di  settembre,  Sua  Eccellenza  il 
Consigliere  Vincenzo  Martini3  un  tempo  Segretario  del  Regio  Di- 
ritto,  piu  tardi  Luogotenente  generate  di  Pietro  Leopoldo4  nel  go- 
verno  dello  stato  e  citta  di  Siena,  ora  Ministro  per  Tinterno  di 
S.  M.  la  Regina  d'Etruria5  agiatamente  seduto  in  una  comoda  ber- 
lina,  partiva  da  Firenze  per  la  villa  di  Monsummano  secolare  abi- 
tazione  dei  suoi  maggiori.  Gli  avrebbero  rallegrato  cola  le  annuali 
vacanze,  gaie  conversazioni  di  amici,  gare  poetiche  di  arcadi  signo- 
rotti  ed  abati  e,  piu  gradito  allora  d'ogni  passatempo  autunnale,  la 
tesa  del  paretaio, 

la  caccia  al  raperin  fatta  e  al  fringuello, 

che  di  li  a  qualche  anno  un  altro  toscano  a  lui  non  ignoto,  il  Pa- 
nanti,6  torra  ad  argomento  di  argute  e  facili  rime. 

Era  la  berlina  prossima  ad  uscire  dalla  Porta  a  Prato  quando  il 
cocchiere,  colto  da  malore  improwiso,  stramazz6  abbandonando  le 
redini;  e  i  cavalli  lasciati  a  se  stessi,  vellicati  sulla  groppa  dalle 
briglie  non  piu  freno  ma  pungolo,  Dio  sa  dove  si  sarebbero  spinti 
a  precipitare,  se  per  fortuna  del  vecchio  ministro  e  (mi  giova  cre 
dere)  della  monarchia  etrusca,  non  li  avesse  coraggiosamente  tratte- 

i.  Ed.  cit.,  cap.  I,  pp.  1-16.  2.  Joseph  Marie  Soulary,  di  Lione  (1815- 
1891),  autore  di  varie  raccolte  di  sonetti  e  poesie  patriottiche  ed  umoristi- 
che.  3.  Vincenzo  Martini,  di  Firenze,  bisnonno  di  Ferdinando,  copri 
vari  ed  importanti  uffici  neiramministrazione  toscana.  4.  Pietro  Leo 
poldo:  vedi  la  nota  a  p.  168.  5.  la  Regina  d'Etruria:  Maria  Luisa  di  Bor- 
bone  reggeva  il  regno  d'Etruria  in  nome  del  figlio  Carlo  Lodovico,  succe- 
duto  al  padre,  Lodovico  di  Borbone,  nel  1 803 .  II  regno  di  Etruria  fu  isti- 
tuito  da  Napoleone  nel  1801,  con  la  pace  di  LuneVille,  e  cess6  di  esistere, 
col  trattato  di  Fontainebleau,  Pottobre  1807.  6.  Per  il  Pananti  e  il  suo 
poemetto  sulla  caccia  col  paretaio,  vedi  pp.  3  sgg. 


I008  FERDINANDO    MARTINI 

nuti  e  fermati  un  giovinotto  che  andava  ciondolando  per  quei  pa- 
raggi. 

La  vita  era  salva,  la  berlina  intatta;  proweduto  senza  indugio 
alle  cure  del  cocchiere,  lievemente  indisposto  ma  non  in  grado  di 
proseguire  il  viaggio,  bisognava  ora  trovarne  un  altro  sano  e  pronto ; 
che  all'Eccellenza  Sua,  stanca  forse  dello  avere  in  undici  mesi  di 
udienze  settimanali  inutilmente  combattuto  contro  la  presuntuosa 
testardaggine  di  Maria  Luisa,  doleva  il  perdere  dei  brevi  sospirati 
villerecci  riposi  anche  una  mezza  giornata. 

Ma  cosi  come  le  disgrazie,  le  fortune  qualche  volta  non  vengono 
sole;  il  giovinotto  che  ardiva  fermare  cavalli  sfuriati,  sapeva  anche 
guidarli;  offertosi  al  Martini  e  accolto  11  per  li  come  una  prowi- 
denza,  mont6  a  cassetta  e  in  quattro  o  cinque  ore  lo  condusse  inco- 
lume  a  Monsummano. 

Si  chiamava  Tommaso  Cogo ;  e  da  un  villaggio  del  Comasco  dove 
era  nato  venne  con  un  fratello  in  Toscana  per  impratichirsi  nel- 
Tarte  della  seta,  ancora  fio rente  in  Toscana.  Se  lontani  i  tempi  nei 
quali  For  Santa  Maria1  primeggiava  fra  le  arti  maggiori  e  sola  in 
Europa  sapeva  tessere  i  broccati  d'oro  e  d'argento ;  andavano  pur 
tuttavia  ancora  famose  le  filande  di  Pescia,  di  Pistoia,  di  Siena; 
a  Firenze  la  spola  correva  su  1500  telai  e  le  sete  nere  dei  Matteoni 
si  smerciavano,  braccate,2  sui  maggiori  mercati  delPOccidente.  II 
fratello  trove-  collocamento  in  una  di  quelle  manifatture ;  Tommaso, 

0,  fattone  esperimento,  il  mestiere  non  gli  piacesse,  o  di  collocarsi 
non  gli  riuscisse,  aspettando  di  trovare  o  di  trovar  meglio,  si  ferm6 
a  Firenze  piu  mesi  vagabondeggiando ;  e  intanto  innamoratosi  della 
citta,  intelligente  com'era,  voile  conoscere  quanto  pote  della  sua 
storia  e  dei  suoi  monumenti;  tutto  quanto  pote  vide  e  osservo,  lesse 
il  leggibile  e  rilesse  con  cosi  bramosa  attenzione,  da  ritenere  a  mente 
di  alcuni  libri  pagine  intere.  Se  non  che,  tutto  finisce  in  questo  terzo 
pianeta  e  molto  rapidamente  i  danari  dei  vagabondi;  sebbene  fosse 
partito  da  casa  con  un  borsellino  assai  ben  guarnito  per  un  uomo 
della  sua  condizione,  Tommaso  era  quasi  ridotto  al  verde  e  stava  per 
mettersi  a  fare  la  guida,  o  servitor  e  di  piazza  come  allora  dicevano, 
quando  gli  capit6  Toccasione  di  entrare  a  servizio  in  casa  nostra. 

1 .  For  Santa  Maria :  e  il  nome  di  una  via  di  Firenze,  e  del  rione  che  alber- 
gava  il  centre  commerciale  della  citta.     2.  braccate:  cercate  avidamente. 
Ma  e  lecito  il  sospetto  si  tratti  di  errore  di  trascrizione  per  broccate,  tes- 
sute  a  brocchi,  cioe  a  ricci  d'oro  e  d'argento. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       IOC>9 

Servo  affezionato,  volonteroso,  d'onesta  a  tutta  prova,  ricambiato 
dall'affetto  di  quattro  generazioni,  vi  rimase  quarantacinque  anni 
e  vi  mori  a  settantadue;  per  giunta  fu  mio  maestro,  uno  dei  pochi 
miei  buoni  maestri :  che  alcune  cose  insegnatemi  piu  tardi  da  altri 
mi  fu  necessaria  fatica  il  disimparare,  le  imparate  da  lui  mi  re- 
stano  tuttora  utilmente  nella  memoria. 


Naturalmente  io  non  me  ne  ricordo ;  ma  so  per  la  molto  autore- 
vole  testimonianza  di  mio  padre1  che  da  bambino  fui  capricciosa- 
mente  irrequieto ;  non  se  ne  aveva  bene ;  non  trovando  il  verso  di 
farmi  stare  tranquillo,  mi  mandarono  a  scuola  compiuti  da  poco  i 
trenta  mesi.  La  scuola  in  cui  rimasi  fino  ai  sette  anni  era  tenuta  da 
due  sorelle  Marchionni,  nubili  per  fortuna  della  razza  e  attem- 
pate:  la  signora  Gaetana  e  la  signora  Rosa.  Di  ci6  che  sapesse  e 
potesse  insegnare  la  signora  Gaetana  non  avemmo  mai  ne  prova  ne 
notizia;  anche  lei  salutavamo  «maestra»,  ma  in  sostanza  I'ufficio 
suo  era  quello  dell'aguzzino ;  appena  la  signora  Rosa  faceva  con 
uno  di  noi  la  voce  grossa,  la  signora  Gaetana,  alta  secca  allampa- 
nata,  compariva  sulPuscio  e  preso  per  un  orecchio  il  piccolo  reo, 
secondo  il  misfatto,  o  gli  amministrava  con  la  mano  stecchita  ripe- 
tuti  colpi  sulla  parte  piu  rotonda  e  carnosa  del  corpo  (quante  pa 
role  per  evitarne  una!)  o  lo  metteva  nel  «  cantuccio  »  dopo  avergli 
coperto  il  capo  con  un  berrettone  conico  di  cartone  turchino,  sul 
quale  era  disegnata  da  mano  inesperta  una  testa  di  somaro.  La  si 
gnora  Rosa  piccola,  grassotta,  era  la  vera  maestra;  e  un  po*  per 
volta  con  paziente  pazienza  ci  insegnb  tutto  quanto  sapeva:  leg- 
gere,  scrivere,  la  tavola  pitagorica,  le  prime  operazioni  delParitme- 
tica,  la  dottrina  cristiana  e  poco  piu.  A  prendere  tabacco  senza 
insudiciarsi  laidamente  la  faccia,  le  mani,  il  vestito  non  ci  insegnb, 
perch6  questo  non  riusciva  neppure  a  lei. 

Per  ornare  la  mente  di  un  tale  corredo  di  dottrine  tre  anni  basta- 

i.  mio  padre:  Vincenzo  Martini  (1803-1862)  copri  vari  ed  important! 
incarichi  nell'amministrazione  toscana;  fu  anche  autore  di  teatro  assai 
stimato.  Tra  le  sue  commedie,  ricordiamo  II  marito  e  I'amante,  II  cavaliere 
d'industria,  Una  donna  di  quar  ant' anni,  ecc.  Quest'ultimo  lavoro  fu  portato 
sulle  scene  nel  1853  da  Adelaide  Ristori,  il  che  molto  giovd  al  suo  trionfo. 
La  raccolta  delle  sue  Commedie  fu  curata  dal  figlio  (Firenze,  Le  Monnier, 
1876).  Belle  pagine  sul  padre  in  A  teatro,  Firenze,  Bemporad,  1928,  pp. 
51-106. 

64 


1010  FERDINANDO   MARTINI 

rono;  trascorsi  i  quali  io  potei  ancora  in  quella  scuola  buscarmi 
frizzanti  castighi  dalle  mani  stecchite  della  signora  Gaetana,  ma 
sperare  nella  erudizione  della  signora  Rosa  non  piu. 

Intanto  al  buon  Tommaso  prossimo  alia  settantina  ed  esonerato 
oramai  da  ogni  faccenda  all'eta  sua  incomportabile  o  grave,  era- 
no  affidate  queste  sole  cure:  condurmi  a  scuola,  ricondurmene, 
raccontarmi  la  sera  qualche  novella  e  alPora  debita  mettermi 
a  letto. 

Buon  Tommaso!  quanta  amorevolezza  la  sua!  Con  quanta  feste- 
vole  condiscendenza  consentiva  a  ripetere  la  sera  la  novella  di  Be 
linda  e  il  mostro  o  delle  Tre  melarance,  quasi  il  ripetere  fosse  piu 
per  lui  che  per  me  rinnovato  piacere ;  purche,  ben  inteso,  col  raccon- 
tare  o  col  ripetere  non  s'andasse  oltre  1'ora  canonica  da  mia  madre 
prescritta  e  che  voleva  rigidamente  osservata.  Giunta  quell'ora,  non 
valevano  preghiere  e  se  la  novella  rimaneva  a  mezzo,  pazienza. 
Tommaso  traeva  dalla  tasca  un  pezzo  di  carta,  lo  accendeva  alia 
lucernina  (i  fiammiferi  erano  di  la  da  venire)  e,  tutte  le  sere  con 
le  identiche  parole:  «le  monachine»  diceva  ccvanno  a  letto,  an- 
dremo  a  letto  anche  noi». 

Una  parentesi :  per  chi  non  lo  sapesse  le  monachine  sono,  secondo 
i  vocabolaristi,  «quelle  scintille  che  vengono  formandosi  e  dispa- 
rendo  rapidamente  lungo  la  carta  bruciata;  da  sembrare  tante  mo- 
nache  che  col  loro  lume  in  mano  scorrano  per  il  dormitorio  andando 
a  letto  ».  E  Lorenzo  Lippi,1  intitolando  il  suo  Malmantile  al  Cardi- 
nale  Leopoldo  De  Medici,  gli  scriveva  cosi. 

Mi  basta  sol  se  Vostra  Altezza  accetta 
d'onorarmi  d'udir  questa  mia  storia 
scritta  cosi  come  la  penna  getta 
per  fuggir  Vozio  e  non  per  cercar  gloria; 
se  non  le  gusta,  quando  Vavra  letta 
tornera  bene  il  fame  una  baldoria 
che  le  daranno  almen  qualche  diletto 
le  monachine  quando  vanno  a  letto. 

Torniamo  a  Tommaso. 

Uno  solo  di  quei  servizi  lo  faceva  di  mala  voglia:  il  menarmi  a 
marcire  ore  e  ore  in  una  scuola  dove  non  c'era  piu  nulla  da  appren- 

i.  Lorenzo  Lippi,  poeta  e  pittore  fiorentino  (1606-1664),  autore  del  poema 
giocoso  II  Malmantile  racquistato.  I  versi  citati  formano  la  quarta  ottava 
del  «primo  cantare»  del  poema. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       IOII 

dere  lo  impazientiva;  e  non  si  tratteneva  dal  farlo  capire  a  me  e  dal 
dirlo  alle  signore  Marchionni,  che  credo  lo  avessero  caro  come  il 
fiimo  agli  occhi.  Alia  fine  dopo  aver  borbottato  alquanto,  dal  bron- 
tolio  pass6  alia  ribellione ;  una  bella  mattina: «  Che  Marchionni  e  che 
scuola?  Perdita  di  tempo  e  scapito  di  salute.  Niente  scuola.  Aria, 
aria»:  in  giro  per  le  vie  e  per  le  piazze  a  vedere  quella  statua  di 
Donatello,  quel  tabernacolo  di  Luca,1  a  imparare  qualche  cosa 
dawero. 

Ebbe  per  quelle  scappate  Passentimento  dei  miei?  Non  era  uomo 
da  indiscipline,  e  penso  che  si ;  fatto  sta  che  da  quel  giorno  un  paio 
di  volte  la  settimana  la  scappata  si  ripete,  e  non  ci  fu  museo,  gal- 
leria,  chiesa,  non  ci  fu  angolo  della  citta  testimone  di  qualche  fatto 
notevole  della  sua  storia  ov'egli  non  mi  conducesse,  raccontando, 
descrivendo,  spiegando  con  pensiero  e  parole  adeguati  alia  mia 
intelligenza  di  fanciullo. 

Di  quando  in  quando  si  sofFermava  bensi  innanzi  a  palazzi,  si 
studiava  di  mettermi  in  mente  nomi  che  con  la  storia  di  Firenze  non 
avevano  nulla  che  fare.  Cosi,  scendendo  da  San  Miniato  e  passando 
innanzi  alle  case  de'  Serristori:2  «Qui  e  morto  Luigi  re  d'Olanda3 
fratello  di  Napoleone »  o  uscendo  da  San  Marco  nella  via  Larga 
(oggi  Cavour)  e  indicandomi  un  palazzo  sul  canto  delPaltra  via  degli 
Alfani :  «  Qui  abita  il  Principe  di  Monfort,  Girolamo  re  di  Vestfa- 
lia,4  fratello  di  Napoleone  ».  I  nomi  di  quei  regni  e  di  quei  principi 
mi  entravano  da  un  orecchio  e  uscivano  dalPaltro;  quello  di  Napo 
leone,  piu  facile  a  ritenere  e  udito  spesso  pronunziare  da  mio  pa 
dre,  restava. 

Perche"  Tommaso  Cogo  aveva  per  il  Bonaparte  una  ammirazione 
che  sapeva  di  idolatria:  quando  diceva:  «L'ho  veduto  passare  la 
rivista  delle  truppe  in  Borgo  Pinti  fra  la  Porta  e  Candeli  »s  gli  occhi 
gli  si  inumidivano;  e  Pammirazione  erompeva  ora  tanto  piu  fer- 
vida,  quanto  piu  dove"  per  alcuni  anni  essere  con  cura  guardinga 
dissimulata.  Sua  Eccellenza  il  Consigliere  Martini  non  gradiva  di 
certo  che  in  casa  sua  s'inneggiasse  ai  francesi  e,  siamo  giusti,  qual 
che  ragione  Faveva:  a  Siena,  governatore,  FAram  delegate  del 

i.  Luca  della  Robbia,  su  cui  vedi  la  nota  a  p.  452.  2.  II  palazzo  Serristori, 
grande  costruzione  del  Cinquecento,  sorge  sulla  riva  sinistra  dell'Arno. 

3.  Luigi  Bonaparte,  re  d'Olanda  dal  1806  al  1810,  mori  a  Firenze  nel  1846. 

4.  Girolamo  Bonaparte,  nato  nel  1784,  1'ultimogenito,  re  di  Vestfalia  dal 
1807  al  1813,  mori  a  Firenze  nel  1860.     5.  Candeli:  una  delle  contrade 
di  Borgo  Pinti. 


1012  FERDINANDO   MARTINI 

Direttorio  lo  minacci6  di  morte;  a  Firenze,  ministro,  Elisa  Bacioc- 
chi1  sbalz6  di  seggio  la  sua  sovrana  e  lui. 

Napoleone  era  morto  da  un  pezzo  e  il  suo  idoleggiatore  non  re- 
stava  dal  difenderne  la  memoria  o  dalFeducare  a  onorarla.  Seppi 
da  mio  padre  di  altercazioni  avvenute  diecine  d'anni  prima,  delle 
quali  egli  stesso  dove  imporre  la  fine,  fra  Tommaso  e  il  cuoco  e  la 
cameriera  di  casa,  coniugi  devoti  al  trono  e  alPaltare,  che  aretini 
ambedue,  con  le  bande  reazionarie  del  '99*  avevano,  se  non  scor- 
razzato,  simpatizzato  sicuramente  e  il  bonapartista  squadravano 
con  orrore,  dandogli  a  tutto  pasto  delPeretico  e  del  giacobino. 

Appena  gli  parve  d'avermi  bene  inchiodato  nella  testa  il  nome  di 
Napoleone,  esaltato  ogni  tanto  come  il  piu  grand'uomo  che  mai 
nascesse,  e  mi  giudic6  capace  d'interessarmi  a  narrazioni  senza  ma- 
ghi  e  senza  fate,  cominci6  a  parlarmi  di  lui ;  e  f attomi  cosi  oltre  che 
capace  disposto,  piano  piano  ogni  sera  durante  piu  mesi  mi  rac- 
cont6,  sommariamente  s'intende,  del  gran  Capitano  le  venture,  le 
vicende,  le  glorie. 

Non  saprei  oggi  dire,  per  che  neppure  oggi  arrivo  a  spiegarmelo, 
com'egli  potesse  con  linguaggio  adatto  a  un  ragazzo  delPeta  mia 
conseguire  tale  evidenza,  tanto  calda  efficacia  da  infiammarmi  e 
ispirarmi  precoci  entusiasmi;  fatto  e  che  la  gesta  di  quelPuomo  il 
quale  traeva  dietro  a  se  eserciti  dall'Europa  in  Affrica  e  in  Asia, 
piombava  sul  nemico  quando  questi  lo  credeva  lontano  le  mille  mi- 
glia  e  sempre  lo  sgominava,  mi  parve  anche  piu  meravigliosa  che  i 
prodigi  delle  fate  e  dei  maghi.  E  poi  questi  eran  favole  e  oramai  lo 
sapevo. 

C'e,  bensi,  questo  da  dire:  che  Tommaso  non  andava  immune 
dal  difetto  di  tutti  o  quasi  tutti  gli  storici:  imparziale  non  era. 
Secondo  lui,  Napoleone  non  s'era  ingannato  mai;  la  ragione  era 
stata  sempre  dalla  parte  sua;  quanto  aveva  fatto,  tutto  a  fin  di  bene ; 
i  nemici  suoi  tutti  malfattori;  e  il  «canaglia»  l'«  imbecille »  il  «bri- 
gante»  erano  nella  narrazione  distribuiti  con  certa  larghezza  ai 

i.  Elisa,  sorella  di  Napoleone,  aveva  sposato  il  principe  Felice  Baciocchi. 
Principessa  di  Piombino  e  duchessa  di  Lucca,  divenne  granduchessa 
di  Toscana,  ma  piu  di  nome  che  di  fatto,  nel  1809,  dopo  che  per  due  anni 
la  Toscana  era  stata  annessa  alPimpero  napoleonico,  e  vi  rimase  fino  al 
1814.  La  sua  nomina  non  aveva  spodestato  Maria  Luisa  ne"  il  figlio,  che" 
essi,  dall'ottobre  1807,  perduta  la  Toscana,  erano  divenuti  sovrani  dell'al- 
lora  costituito  regno  della  Lusitania  settentrionale.  2,.  le  bande  .  ,  .  del 
'99:  fecero  il  «terrore  bianco »  (antiliberale,,  antisemitico,  ecc.)  della  Re- 
staurazione,  mentre  Napoleone  era  in  Egitto. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1013 

sovrani  che  lo  awersarono;  di  guisa  che  agli  occhi  miei  appariva 
un  Napoleone  alquanto  diverse  dal  vero;  non  soltanto  un  eroe, 
ma  una  vittima  di  implacabili  invidie;  e  quei  Franceschi,  quei 
Giorgi,  quegli  Alessandri,  quei  Federighi1  che  lo  perseguitavano 
io  li  odiavo  come  avevo  prima  odiato  YOrco  di  Belinda,  la  Brutta 
delle  Tre  Melarance,  e  sempre  speravo,  andando  innanzi,  di  appren- 
dere  che  erano  cacciati  dal  trono  e  i  loro  eserciti  interamente 
distrutti. 

Amico  della  famiglia,  veniva  spesso  in  casa  nostra  un  colonnello 
Gherardi,  avanzo  della  campagna  di  Russia,  al  quale  guardavo  come 
a  un  essere  soprannaturale,  beato  delle  sue  carezze,  orgoglioso  di  se- 
dergli  sulle  ginocchia.  Di  tanto  in  tanto  mi  regalava  qualche  gio- 
cattolo.  La  vigilia  di  Natale  il  regalo  fu  piu  bello  e  piu  gradito  del 
solito;  centinaia  e  centinaia  di  minuscoli  soldatini  di  piombo  con 
relativi  minuscoli  carriaggi  e  artiglierie.  Avevano  tutti  la  stessa 
divisa,  ma  Tommaso  trov6  non  so  piu  quale  spediente  per  di- 
stinguerli:  e  sopra  una  gran  tavola  di  marmo  rosso  delle  nostre 
cave  di  Monsummano  li  disponemmo  in  ordine  di  guerra:  da  un 
lato  gli  invincibili  battaglioni  del  Bonaparte,  dall'altro  le  inique 
milizie  della  « coalizione » ;  poi  raccolti  quanti  tappi  di  sughero  si 
trovavano  in  casa  fornimmo  ai  francesi  quelle  munizioni  che  ful- 
minavano  annientandole,  colpo  per  colpo,  inter  e  legioni  prussiane 
od  austriache.  Cosi  al  racconto  d'ogni  battaglia  seguivano  manifest! 
i  micidiali  effetti  della  vittoria  e  le  monachine  andavano  a  letto 
lasciando  coperto 

da  cavalli  e  da  fanti  il  terren.2 

Bisogn6  pur  troppo,  in  omaggio  alia  storia,  confessarsi  sconfitti  a 
Waterloo;  ma  prima  di  darsi  per  vinti,  che  pioggia  di  turaccioli 
sulle  schiere  nemiche!  che  strage  nelle  falangi  britanniche,  che 
sdruci  nelle  file  del  Bliicher!3 

Trastulli  puerili  si,  ma  indizi  di  quanto  germogliava  nelPanimo. 

1.  Franceschi  .  .  .  Federighi:  cioe,  i  sovrani  d' Austria  (Francesco  II,  e  poi  I, 
d' Austria,  dal  1792  al  1835),  di  Inghilterra  (Giorgio  III,  di  cui  fu  reggente, 
dal  1811,  il  figlio,  futuro  Giorgio  IV),  di  Russia  (Alessandro  I,  zar  dal 
1801  al  1825),  di  Prussia  (Federico  Guglielmo  III,  re  dal  1797  al  1840). 

2.  Manzoni,  II  conte  di  Carmagnola,  coro,  v.  4.      3.  Bliicher:  il  maresciallo 
prussiano  che  contribul  decisamente  alia  sconfitta  di  Napoleone  a  Wa 
terloo  (18  giugno  1815),  sopraggiungendo  improwiso  in  aiuto  del  Wel 
lington. 


1014  FERDINANDO    MARTINI 

Quando  la  sera  r«ora  canonica»  sopraggiungeva  con  1'annunzio 
di  una  battaglia  imminente,  il  giorno  dipoi  accompagnavo  Napo- 
leone  sul  campo  con  tenera  trepidezza,  in  apprensione  per  timore 
d'una  sconfitta.  Waterloo  fu  un  dolore,  Sant'Elena  mi  fece  pian- 
gere  le  prime  lacrime  ch'io  abbia  dato  a  sciagure  altrui. 

Sensazioni  prime  che  non  illanguidirono  con  Pandare  del  tempo, 
n6  illanguidirono  i  sentimenti.  Quante  ne  ho  sentite  sul  conto  di 
Napoleone!  Molto  ho  letto  che  di  piu  notevole  si  scrisse  contro  di 
lui:  lo  Scott,  la  Stael,  lo  Chateaubriand,  il  Gervinus,  il  Lanfrey, 
il  Jung,  il  Michelet,  il  Taine,  il  Masson,  il  Roseberg;1  e  sempre 
leggendo  mi  sono  ricordato  di  Enrico  Heine2  e  delle  sue  conclu 
sion! :  (dmmortale,  eternamene  ammirato,  eternamente  rimpian- 
to! »  E  chi  nega  le  colpe,  chi  le  follie  ?  ma  innanzi  a  tanta  grandezza, 
a  una  espiazione  che  la  pareggia,  ai  diritti  imperiali  del  genio  e  della 
sventura  nulla  vale  ad  affievolire  i  miei  sentimenti,  nulla  ad  attu- 
tire  le  ripugnanze  e  peggio  che  alcuni  dei  suoi  nemici  mi  ispirano : 
tali  che  (lo  confesso  con  compunzione  di  sbarazzino  raweduto) 
se  venivo  al  mondo  cinquanta  anni  prima,  non  avrei  sdegnato  - 
tutt'altro  -  di  accompagnarmi  con  la  masnada  che  nelle  vie  di 
Londra  inseri  torsoli  di  cavolo  fra  gli  allori  del  piu  celebre  degli 


1.  Walter  Scott  scrisse  una  Life  of  Napoleon;  Madame  de  Stael  disse  di 
Napoleone  in  vari  suoi  lavori  (Dix  annees  d'exil;  De  VAllemagne-,  Conside 
rations  sur  la  Revolution  francaise,  ecc) ;  lo  Chateaubriand  pubblic6  nel  1814 
il  saggio  De  Buonaparte  et  des  Bourbons ;    Georg  Gottfried  Gervinus  (1805- 
1871)  fu  storico  e  critico  letterario  di  idee  liberali;    Pierre  Lanfrey  (1828- 
1877),  storico  e  uomo  politico,  scrisse  nel  1858  un  Essai  sur  la  Revolution 
francaise,  ma  qui  si  allude  soprattutto  alia  sua  Histoire  de  Napoleon  Fr, 
il  cui  primo  volume  apparve  nel  1867  e  che  fu  proseguita  fino  al  quinto 
(1875),  dove  sono  gli  studi  preliminari  sulla  campagna  di  Russia;    Henri 
Jung  (1833-1896),  generate  e  scrittore  francese,  autore  delPopera  Bona 
parte  et  son  temps  d'apres  des  documents  inedits,  1880-1881 ;    Jules  Michelet 
(1798-1874)    scrisse   1' Histoire   de  la  Revolution  francaise   (1847-1853); 
Hippolyte  Taine  (1828-1893)  e  qui  ricordato  per  le  Origines  de  la  France 
contemporaine;    Frederic  Masson  (1847-1923)  fu  entusiastico  esaltatore  di 
Napoleone  in  molte  sue  opere  (NapoUon  inconnu,  1895,  in  collaborazione 
con  Guido  Biagi;  NapoUon  et  les  femmes,  1894;  Napoleon  et  sa  famille, 
1897-1910;  Autour  de  Vile  d'Elbe,  1908,  ecc.);  Archibald  Primrose,  conte  di 
Rosebery  (1847-1929),  ritiratosi  nel   1896  dalla  vita  politica,  si  dedic6 
a  lavori  storici,  fra  i  quali  il  libro  sull'esilio  di  Sant'Elena,  cui  qui  si  allude 
(Napoleon:  the  Last  Phase,  1900).  Non  mi  e  possibile  stabilire  se  1'errata 
grafia  del  testo  (Roseberg  per  Rosebery)  sia  dovuta  all'autore  o  al  tipografo. 
Cfr.,  per  tutti  questi  storici,  P.  GEYL,  Napoleon,  London,  Cape,  1949. 

2.  Si  allude  soprattutto  ai  Reisebilder,  in  cui  lo  Heine  celebra  varie  volte  la 
figura  di  Napoleone. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       IOI5 

Arturi,  Lord  Wellesley  Duca  di  Wellington,1  o  con  coloro  che 
macchinarono  di  pigliare  a  ceffoni  Sir  Hudson  Lowe,2  malaugura- 
tamente  impediti  dalle  polizie. 


II 1848  fu  anche  per  me  Panno  della  liberta.  Toltomi  dalla  scuola 
delle  signore  Marchionni  e  aspettando  convenisse  di  mandarmi  in 
un'altra,  fu  commesso  a  un  pretonzolo  di  iniziarmi  allo  studio  del- 
ritaliano  e  del  latino  e  di  condurmi  seco  alia  passeggiata. 

Per  1'italiano  bene,  per  il  latino  benissimo ;  ma  dal  secondo  im- 
pegno  dopo  un  paio  di  settimane  Don  Antonio  (tale  il  nome  del 
Mentore)  chiese  di  essere  dispensato.  Tempi  di  rivoluzione,  la 
citta  spesso  in  subbuglio;  v'era  piovuta  e  pioveva  da  ogni  parte 
d' Italia  gente  tumultui  assueta,  come  i  Romani  di  San  Bernardo  e 
come  quelli  immitis  et  intractdbilis?  vedeva  i  preti  di  mal  occhio; 
lo  stesso  Arcivescovo,4  mesi  dopo  costretto  a  fuggire,  era  sin  d'al- 
lora  minacciato  ed  ofFeso.  Don  Antonio  tanto  piu  ammirava  i  bio- 
grafati  da  Cornelio  Nipote,5  quanto  piu  si  conosceva  fatto  di  pasta 
diversa;  di  portare  in  mostra  la  propria  tonaca  in  quei  pomeriggi 
quotidianamente  sacrati  agli  scompigli  e  alle  turbolenze  non  se  la 
sentiva,  specie  avendo  in  custodia  un  ragazzo.  Che  fare?  ch'io 
muffissi  fra  quattro  pareti  naturalmente  non  si  voleva;  mio  padre, 
segretario  generale  al  Ministero  delle  Finanze  e  deputato  per  Mon- 
tecatini,6  non  aveva  tempo  per  le  passeggiate ;  mia  madre,7  che  (come 
poi  seppi)  le  storie  della  rivoluzione  francese  avevano  fatta  paurosa 

i.  Duca  di  Wellington:  vedi  la  nota  i  a  p.  95.  2.  Hudson  Lowe  (1769- 
1844)  fu  governatore  di  SantJ  Elena,  e  I'opinione  pubblica  lo  accus6  di  ec- 
cessive  e  arbitrarie  durezze  contro  Napoleone:  specialmente  dopo  che  il 
medico  irlandese  B.  E.  O'  Meara,  il  quale  aveva  assistito  Napoleone,  pub- 
blic6  il  Napoleon  in  exile  (1822).  3.  tumultui  .  .  .  intractdbilis'.  «abituata  ai 
disordini .  .  .  senza  misericordia  e  indomabile ».  Bernardo  di  Chiaravalle 
(1090?-!  153)  combatte  fieramente  Arnaldo  da  Brescia  e  la  rivoluzione 
romana  del  1143-1144.  I  giudizi  qui  riferiti  appaiono  nel  suo  Epistolario. 
4.  Arcivescovo:  monsignor  Ferdinando  Minucci  (vedi  la  nota  2  a  p.  409). 
Le  manifestazioni  piu  gravi  contro  di  lui  si  ebbero  nel  gennaio  1849, 
quando  la  folia  invase  e  perquisi  il  palazzo  arcivescovile,  perche"  era  stato 
proibito  si  cantasse  il  Te  Deum  per  la  Costituente  italiana  promulgata  in 
Roma.  5.  Cornelio  Nipote:  lo  scrittore  latino  del  I  secolo  a.  C.,  di  cui  sono 
notissime  le  biografie  De  viris  illustribus.  6.  deputato  per  Montecatini: 
nel  1848,  su  designazione  del  Giusti  agli  elettori,  Vincenzo  Martini  fu 
eletto  alia  Assemblea  legislativa.  Ricopri  quindi,  per  breve  tempo,  1'ufHcio 
di  ministro  delle  fmanze.  7.  mia  madre:  Marianna  dei  marchesi  Gerini, 
morta  di  colera  nel  1855. 


I0l6  FERDINANDO   MARTINI 

d'ogni  sommossa,  atterrita  dalle  notizie  che  giungevano  da  Roma 
e  in  devota  trepidazione  per  le  sorti  del  Pontefice,  s'era  tappata  in 
casa  aspettandosi  il  peggio  e  di  rado  ne  usciva,  anche  perche  le 
avevano  nociuto  alia  salute  i  continui  spaventi .  .  .  Che  fare  ?  Sem- 
pre  pronto,  Tommaso  Cogo  suppli. 

Chiese,  palazzi  insigni,  opere  d'arte,  non  ce  n'erano  piii  da  ve~ 
dere;  c'erano  invece,  spettacolo  nuovo,  le  dimostrazioni ;  e  tanta 
frettolosa  premura  poneva  Don  Antonio  nello  schivarle,  tanta 
Tommaso  nell'andarle  a  cercare;  e  il  trovarle  del  resto  era  facile, 
perche  donde  venissero,  tutte  sboccavano  finalmente  innanzi  a  Pa 
lazzo  Vecchio  sede  del  Governo  e  della  Camera  dei  deputati  o 
Consiglio  legislative,  come  allora  in  Toscana  s'intitol6  Tassemblea. 

Veramente  ip  avrei  preferito  di  andare  nel  chiostro  di  San  Marco 
a  far  gli  «  esercizi »  col  Battaglione  della  Speranza  formato  di  ra- 
gazzi  dai  sette  ai  dodici  anni  se  ben  ricordo,  ai  quali  si  insegnava  il 
maneggio  del  fucile,  il  passo  ordinarioy  il  passo  accelerate  e  via  di- 
cendo ;  vi  avrei  fatto  bella  mostra  di  me,  in  quanto  che  il  maneggio 
del  fucile,  rappresentato  da  un  bastone  di  canna  d' India,  Tommaso 
me  lo  aveva  insegnato  di  gia:  ventiquattro  movimenti  per  arrivare  a 
sparare  una  cartuccia,  secondo  i  riti  delFesercito  toscano  e  le  armi 
d'allora. 

Per  contentarmi,  mi  vi  condusse  una  volta  e  anch'io  cantai  in 
coro  con  i  commilitoni: 

Siamo  piccini 
ma  cresceremo; 
combatteremo 
per  la  libertd; 

dopo  di  che  sentenzi6  che  quelle  erano  « giuccherie  »J  e  tronc6  ad 
arbitrio  la  mia  carrier  a  militare. 

Si  torn6  alle  dimostrazioni:  continuando  nel  suo  metodo  educa 
tive,  il  buon  vecchio  tentava  spiegarmi  che  cosa  quella  gente  vo- 
lesse  con  que'  vocii  e  quello  sventolio  di  bandiere;  ma  io  non  capivo 
ne  mi  premeva  di  capire.  Perche"  mesi  innanzi  gridavano  «viva 
Gioberti »  e  que'  medesimi «  abbasso  Gioberti »  qualche  mese  dopo  ? 
E  poi  Napoleone  era  morto,  il  resto  non  mi  importava.  Un  giorno 
bensi  presi  anch'io  parte  attiva  alia  dimostrazione,  ma  non  precisa- 
mente  per  esprimere  una  opinione  politica:  quando  sotto  la  Log- 

i .  giuccherie :  atti  da  gente  sciocca,  balorda ;  scempiaggini. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1017 

gia  deirOrcagna  un  tale  (ho  imparato  poi  che  si  chiamava  Fran 
cesco  Trucchi)1  schizz6  di  un  salto  presso  alia  Giuditta2"  di  Dona- 
tello  e  di  lassu  con  molto  accalorato  discorso  e  gesti  analoghi  pro- 
voc6  piu  volte  gli  applausi  della  folia  che  lo  ascoltava.  Ho  letto 
in  seguito  nej  giornali  e  nelle  cronache  di  quel  tempo  che  voleva 
si  facesse  «  piazza  pulita»  e  si  mandassero  via  Ministri  e  Granduca; 
ricordo  che  quando  ebbe  conchiuso,  leggero  cosi  com'era  salito,  in 
un  salto  discese;  la  folia  replico  gli  applausi  ed  io  ammirato  di 
quella  agilita  da  scoiattolo,  anch'io  battei  le  mani.  Tommaso  mi 
rimprovero;  giustamente;  per  esordire  nella  vita  pubblica  scelsi 
male  la  occasione,  dappoiche  i  giornali  e  le  cronache  narrino  al- 
tresi  che  quel  Trucchi,  il  quale  voleva  tolti  i  portafogli  ai  Ministri,  si 
dilettava  nel  far  collezione  di  portafogli  altrui. 

Non  capivo,  ma  non  posso  dire  che  non  mi  divertissi.  Rammento 
che  in  quelle  dimostrazioni  mi  davano  nelFocchio  e  li  guardavo 
curioso  alcuni  omaccioni  riccamente  baffuti  e  barbuti;  e  mi  da 
vano  nell'occhio  non  perche  piu  forte  degli  altri  urlassero  i  «viva» 
e  gli  «abbasso»;  ma  perch6  vestivano  il  nuovo  abito  all'italiana, 
bluse  di  velluto  nero  stretta  ai  fianchi  da  una  cintura  di  cuoio, 
calzoni  della  stessa  stoffa  e  colore,  larghissimi  al  femore,  stretti 
alia  caviglia;  e  sulla  bluse,  dalle  radici  del  collo  scendenti  per  tutta 
la  spalla  enormi  solini  rovesciati,  sotto  ai  quali  si  nascondeva  per 
uscire  in  lunghe  ampie  cocche  sul  petto  una  cravatta  nera  o  rossa, 
secondo  i  gusti,  gli  umori,  le  opinioni  del  cittadino.  In  testa  un 
cappello  alia  calabrese  ornato  deirumile  spoglia  di  un  gallinaceo. 

Un  di  costoro  (mi  pare  di  vederlo,  cosi  presente  m'e  la  sua  fac- 
cia)  venne  in  casa  nel  febbraio  del  '49  a  chiedere  la  mancia  per  gli 
operai  che  avevano  inalzato  davanti  alia  chiesa  di  San  Remigio 
nostra  parrocchia  Palbero  della  liberta;  e  chiese  con  cosi  mal  piglio 
che  la  mia  povera  madre  subito  dette  e  con  larghezza  da  colui  cer- 
tamente  insperata.  Vi  torn6  nelPaprile  ossequioso  e  scusandosi  della 
importunita,  a  chiedere  un'altra  mancia  per  gli  operai  che  quell' al- 
bero  avevano  finalmente  -  cosi  diceva  -  atterrato. 

E  cosi  grazie  al  servo  amatissimo,  correndo  oggi  1'anno  di  grazia 

i.  Francesco  Trucchi,  nizzardo,  veniito  a  Firenze  nel  1838,  fu  dei  prii  accesi 
agitatori  nel  1848  e  nel  1849.  Fu  poi  accusato  di  appropriazione  e  furto. 
Vedi  F.  MARTINI,  II  Quarantotto  in  Toscana,  Firenze,  Bemporad,  1918, 
pp.  82-3.  2.  Giuditta  e  Oloferne,  bronzo  di  Donatella  e  scolari  (1460 
circa),  si  trova,  su  una  colonna,  nella  scalinata  del  Palazzo  della  Signoria, 
e  non  nella  Loggia  della  Signoria  o  dell'Orcagna. 


I0l8  FERDINANDO   MARTINI 

1917,  io  sono  una  delle  cento  persone  (se  pure  a  tante  si  arriva) 
che  a  Firenze  ricordino  di  aver  visto  il  Gioberti  arringare  da  una 
fmestra  del  Lungarno  Guicciardini1  e,  awenuta  una  prima  rivolu- 
zione,  dalle  logge  dell'Orcagna  il  Mazzini2  predicare  la  repubblica; 
awenuta  di  li  a  due  mesi  la  seconda,  dal  balcone  di  Palazzo  Vec- 
chio  Gino  Capponi3  ammonite,  placandola,  una  moltitudine  che 
voleva  nelle  proprie  mani  vivo  o  morto  Francesco  Domenico  Guer- 
razzi4  e  piuttosto  morto  che  vivo. 

II  Guerrazzi!  Fra  le  sue  colpe,  non  tutte  bilanciate  dalle  beneme- 
renze,  ha  anche  questa:  essere  stato  cagione  -  sebbene  remota  ca- 
gione  -  della  morte  di  Tommaso  Cogo. 


II  1849  e  lontano  piu  che  i  molti  anni  trascorsi  non  dicano,  la 
cronaca  minuta  degli  avvenimenti  toscani  di  quel  tempo  ignorata 
dai  piu.  Riassumiamola  brevemente. 

Sopraffatto  dalla  rivoluzione,  il  Granduca  Leopoldo  aveva  ab- 
bandonato  la  Toscana  e  seguendo  Pesempio  del  Papa  chiesto  asilo 
in  Gaeta  al  cognato  Ferdinando  dej  Borboni  di  Napoli.5  Fattasi 
cosi  necessaria  la  istituzione  di  un  governo  prowisorio,  il  Guerrazzi 
ne  fu  anima  e  capo.  Egli  che  per  afferrare  il  potere  sollecit6  gli 
aiuti  di  gente  d'ogni  risma,  non  seppe,  dopo  averla  sguinzagliata, 
mantenerla  obbediente  ai  propri  ordini,  che'  anzi  parve  Tavessero 
posto  al  comando  soltanto  per  gusto  di  disobbedirgli.  Sconfitto 
intanto  1'esercito  piemontese  a  Novara,  fu  facile  prevedere  la  restau- 
razione  dei  vecchi  principi  e  la  Toscana  stanca  di  anarchia,  che  del 
Granduca,  a  dire  il  vero,  non  aveva  sino  allora  troppo  a  dolersi,  si 
dimostr6  per  piu  segni  proclive  ad  affrettarne  il  ritorno.  Sover- 
chiato  dalla  demagogia  e  minacciato  dalla  reazione,  il  Guerrazzi 
ordin6  venisse  a  Firenze  di  fretta  un  battaglione  di  volontari  livor- 

i.  Nel  giugno  del  1848  il  Gioberti  par!6  alia  folia  fiorentina  dalla  finestra 
dell'albergo  Le  isole  britanniche,  in  Lungarno  Guicciardini.  2.  II  Mazzini 
fu  a  Firenze  nel  febbraio  1 849,  ma  non  riusci  ad  accordarsi  col  Guerrazzi, 
poiche  quest!  non  voile  accettare  la  proposta  fusione  della  Toscana  con 
1' allora  sorta  Repubblica  romana.  3.  Gino  Capponi:  vedi  la  nota  a  p.  437. 
Su  questo  momento  della  storia  di  Firenze  nel  1849,  vedi  G.  GIUSTI,  Cro 
naca  dei  fatti  di  Toscana,  nel  I  tomo  dei  Memorialisti  dell*  Otto  cento,  nella 
presente  collezione,  e,  per  il  discorso  del  Capponi,  ivi,  p.  440.  4.  Su  Fran 
cesco  Domenico  Guerrazzi  vedi  il  brano  di  Leopoldo  Barboni,  qui  riportato 
a  pp.  893-912,  e  le  note  relative.  5.  cognato  .  .  .  Napoli:  vedi  la  nota  I  a 
p.  160. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1019 

nesi  a  lui  fidi,  affinche  -  fece  dire  -  ristabilissero  e  mantenessero 
Tor  dine  pubblico. 

A  malgrado  del  titolo,  non  di  tutti  livornesi  si  componeva: 
parecchi  ve  n'erano  d'altre  parti  della  Toscana,  ma  tutti  parimente 
e  tristemente  famosi  per  soprusi  violenze  e  ruberie  commesse  nel- 
rAppennino  pistoiese,  avvalorarono  con  nuove  gesta  in  Firenze 
la  propria  fama.  Edotti  della  ragion  vera  della  loro  presenza  nella 
citta,  guardare,  cioe,  le  spalle  al  dittatore  di  cui  erano  oramai  quasi 
unico  sostegno  e  difesa,  soprusi,  violenze,  ruberie,  ogni  turpitu- 
dine  crederono  a  se  lecite  quegli  sciagurati.  Arrivati  la  sera  del 
7  aprile,  tante  in  poco  piu  di  quarantotto  ore,  ne  fecero,  che  leva- 
tosi  lor  contro  il  popolo,  il  Municipio  ottenne  fossero  rimandati 
onde  vennero;  e  si  stabili  che  nelle  ore  pomeridiane  del  giorno  n, 
movendo  dalla  piazza  Santa  Maria  Novella  prossima  alia  stazione, 
la  non  gloriosa  coorte  se  ne  andrebbe  per  via  ferrata  a  Pistoia. 

Uscimmo  nelle  prime  ore  del  pomeriggio  alia  passeggiata;  nel 
ritorno  Tommaso  senza,  credo,  esserselo  dapprima  proposto,  ma 
voglioso  di  farmi  vedere  que'  livornesi  de'  quali  tanto  in  casa  avevo 
sentito  parlare,  dal  Lungarno,  per  la  via  de'  Fossi  mi  condusse 
nella  piazza,  dove  parte  del  battaglione  era  gia  adunata  e  molta 
folia  venuta  come  noi  a  curiosare.  Stavamo  per  entrare  nella  via 
degli  Avelli,  allora  angustissima,  quando  fu  sparato  un  colpo  di 
fucile,  da  chi  e  contro  chi  non  si  seppe  mai,  seguito  da  altri  colpi 
che  ora  i  livornesi  sparavano. 

Figurarsi  il  parapiglia  che  ne  successe!  Urla,  strida,  lamenti,  be- 
stemmie.  Chi  fuggiva  di  qua  chi  di  la  e  fuggimmo,  diciamo  cosi, 
anche  noi;  ma  e  facile  pensare  quanto  velocemente  possano  fuggire 
un  bambino  di  sette  anni  e  un  vecchio  di  piu  che  settanta,  tra  il  serra 
serra  di  gente  svelta  e  paurosaaltrettanto.  Ci  guadagnammo  d'essere 
malmenati  e  pesti  nella  calca  e  per  giunta  ributtati  da  uomini  in 
arme  che  procedendo  in  senso  opposto  si  facevano  largo  con  gli 
spintoni  e  col  calcio  dello  schioppo.  Uscimmo  finalmente  anche  noi 
nella  prossima  piazza:  ma  dove  rifugiarsi  ?  Tutti  i  portoni  sprangati. 
Fuggire  per  dove?  Nella  via  del  Melarancio  si  sparava  dalle  fi- 
nestre;  dalla  via  Sant'Antonino  sbucava  una  torma  di  popolani 
con  fucili,  forche,  zappe,  bastoni  gridando  morte  e  vendetta  .  .  . 
Eravamo  nel  bel  mezzo  di  una  mischia  in  cui  s'inferociva  tutto 
un  quartiere  e  le  pallottole  fischiavano  intorno  a  noi.  Non  ricordo 
piu  se  non  questo:  che  Tommaso  presomi  in  collo,  dopo  molti 


1020  FERDINANDO    MARTINI 

andirivieni,  infilammo  una  strada  donde  a  corsa  scendeva  un  forte 
drappello  di  soldati.  Passati  che  furono,  scorgemmo  ci6  che  le  loro 
fila  serrate  ci  avevano  nascosto :  sul  lastrico  sanguinolento  il  cada- 
vere  d'un  livornese. 

Pensate  Porrore.  Mi  trovavo  per  la  prima  volta  in  cospetto  della 
morte  e  quale!  Un'anima  buona  ebbe  compassione  del  nostro  ter- 
rore:  una  donna  che  adocchiava  da  un  uscio  socchiuso,  ce  Papri 
tutto  intero  e  ci  offri  di  ripararci  e  di  riposare. 

Riparati  eravamo,  ma  forse  Tommaso  si  angosciava  nel  pensare 
le  ansie  dei  miei.  Ripigliammo  il  cammino.  Dal  quartiere  di  Santa 
Maria  Novella  alia  via  de'  Rustici  dov'io  son  nato  e  allora  abitavamo, 
e  lungo  il  tragitto.  lo  non  mi  reggevo  in  piedi.  Tommaso  mi  ripre- 
se  in  collo  per  buon  tratto  di  strada.  Come  Dio  voile,  giungemmo 
al  Duomo.  Inorridito  poco  prima  innanzi  ad  un  morto,  inorridii 
nuovamente  innanzi  alia  barbarie  dei  vivi.  Ci  pass6  accanto  un  ra- 
gazzaccio  che  teneva  eretto  e  appoggiato  sul  ventre  come  si  suole 
Pasta  della  bandiera,  uno  stocco  con  infilzati  brani  di  cervello  e  di 
cuoio  capelluto,  e  gridava:  «  Quando  le  vogliono  bisogna  dargliele  ». 

E  furono  trenta  i  morti  e  oltre  cinquanta  i  feriti,1  i  piu  grave- 
mente. 

Arrivammo  finalmente  a  casa;  ne  eravamo  usciti  alle  due  e  tor- 
navamo  alle  sette. 


In  casa  i  domestici  tutti  sossopra;  mio  padre,  mio  fratello,  mag- 
giore  a  me  di  dieci  anni,  supponendo  ci  fossimo  rifugiati  in  qualche 
famiglia  di  parenti,  erano  usciti  a  cercarci.  Mia  madre  sola,  e  da 
ore  e  ore  in  terribili  angustie. 

Quando  entrammo  nella  sua  stanza  ci  venne  incontro  accigliata  e 
forse  Tommaso  avrebbe  dopo  tante  diecine  di  ?inni  udito  farglisi 
per  la  prima  volta  un  rimprovero,  se  ci  fosse  stato  tempo  a  pronun- 
ziarlo :  ma  fatti  pochi  passi,  cadde  accasciato  sopra  una  sedia  e  anzi- 
ch6  rimproverarlo  bisogn6  sostenerlo  con  qualche  cordiale  e  con- 

i.  trenta  .  .  .feriti:  il  Giusti  nella  sua  Cronaca  (vedi  la  nota  3  a  p.  1018) 
scrive  che  furono  venti  i  morti  e  trenta  i  feriti.  Cfr.,  nel  gia  citato  I  tomo 
dei  Memorialists,  la  p.  434,  e  quanto  narra  il  Guerrazzi,  nelF Apologia, 
a  pp.  489-92  dello  stesso  volume.  Cfr.  anche,  per  tutto  il  periodo,  il 
gi£  citato  Quarantotto  in  Toscana,  importante  per  il  Diario  del  conte  Luigi 
Passerini  de*  Rilli  (vedi  la  nota  5  a  p.  919)  che  vi  e  pubblicato,  ma  piu  an- 
cora  per  le  note  del  Martini  che  lo  illustrano. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       IO2I 

fortarlo  di  parole  amorevoli.  Nella  notte  lo  colse  una  febbre  ar- 
dentissima,  annunzio  di  una  malattia  che  lo  condusse  in  fin  di  vita 
e  che  i  medici  stimarono  effetto  delle  fatiche  e  delle  commozioni  di 
quella  tremenda  giornata.  Si  riebbe  e  pote  alzarsi,  ma  andar  fuori 
non  piu.  Abitava  a  terreno  e  quando  il  cielo  era  limpido  e  Tana 
tepida,  sedeva  nel  cortile  assolato,  col  suo  cilindro  in  testa  e  il  suo 
tabarro  color  marrone  (non  pott6  mai,  a  tempo  mio,  ne  cappello 
di  diversa  forma  ne  vestito  di  colore  diverso)  aspettando  ch'io  pas- 
sassi  nell'andare  a  scuola  o  nel  tornarne,  per  salutarmi,  dornandarmi 
dej  maestri,  dei  compagni,  che  cosa  avessi  imparato  e  via  dicendo, 
colloqui  che  sempre  si  chiudevano  con  una  carezza  e  una  pasticca 
di  zucchero  d'orzo.  Se  la  stagione  non  gli  permetteva  uscire  di 
camera,  mi  aspettava  dietro  la  finestra  e  mi  chiamava  picchiando 
con  le  dita  ne*  vetri.  Una  bella  mattina  di  settembre,  e  il  cielo  era 
limpido  e  tepida  Tana,  non  lo  trovai  nel  cortile,  non  lo  vidi  dietro 
alia  finestra  tornando,  feci  per  entrare  nella  camera,  una  suora  me 
lo  vieto.  Era  morto. 

Trovarono  in  quella  camera  la  copia  di  un  testamento  scritto  di 
suo  pugno  e  depositato  presso  un  notaro.  Nei  quarantacinque  anni 
che  fu  in  casa  nostra,  aveva  de?  propri  risparmi  messo  da  parte 
quattro  o  cinquecento  scudi.  Li  lasciava  a  mio  padre. 


FRA  TONACHE  E  GONNELLE1 

Tornato  il  granduca,  Don  Antonio  si  ripresent6 :  di  bluse  di  vel- 
luto,  di  cappelli  alia  Ciceruacchio2  neppur  Tombra  per  le  vie  di 
Firenze ;  soldati  austriaci  montavano  la  guardia  a  Palazzo  Vecchio  e 
di  dimostrazioni  clamorose  e  minacciose  non  c'era  oramai  piu  peri- 
colo.  Morto  Don  Rodrigo,  Don  Abbondio  aveva  ripreso  animo  e 
ora  si  offriva  per  1'ufficio  di  Mentore  peripatetico,  che  la  paura  lo 
aveva  costretto  a  renunziare  Tanno  prima.  Gli  fui,  ahime!  nova- 
mente  affidato. 

Obbligo  suo  condurmi  a  spasso  quattro  volte  la  settimana,  tutti 

i.  Ed.  cit.,  cap.  n,  pp.  19-30.  2.  Angelo  Brunetti  (1802-1849),  detto  Ci 
ceruacchio,  celebre  agitatore  popolano,  segul  Garibaldi  nella  ritirata  da 
Roma,  ma  a  Ca'  Tiepolo  fu  arrestato  dagli  Austriaci  e  fucilato  con  un  figlio. 
I  cappelli  alia  Ciceruacchio,  alia  calabrese^  alia  puritana,  alV  Ernani  fu- 
rono  caratteristici  dei  rivoluzionari  (vedi  F.  MARTINI,  II  Quarantotto  in 
Toscana,  cit.,  p.  430). 


1022  FERDINANDO    MARTINI 

i  giorni  durante  la  villeggiatura,  ripassare  meco  ogni  tanto  la  gram- 
matica  latina,  insegnarmi  la  Storia  Sacra. 

L/ultima  di  queste  diverse  funzioni  era  la  sola  che  non  mi  fosse 
sgradita;  non  gia  per  desiderio  di  apprendere,  ma  perche  Don  An 
tonio  aveva  frequentissimo  nel  discorso  un  intercalare:  «cosi  tra 
una  cosa  e  raltra»;  e  a  me,  sebbene  ragazzo,  non  sfuggiva  in  quel- 
Tinsegnamento  la  comicita  di  certe  locuzioni  e  mi  ci  spassavo: 
«nel  sesto  giorno,  Iddio,  cosi  fra  una  cosa  e  Taltra,  creo  Tuomo)). 

Ma  quelle  passeggiate!  Perche  bisogna  sapere  che  Don  Antonio 
era  una  specie  di  procaccia1  liturgico  sempre  in  caccia  di  messe, 
ora  per  questa  ora  per  quella  parrocchia,  ora  per  quella  festa  ora  per 
quel  funerale.  Di  qui  il  cercare  affannoso  del  tal  prete  e  del  tal  altro 
e  le  frequenti  dimore  e  i  lunghi  bisbigli  nelle  sagrestie,  mio  fasti- 
dio  e  tormento,  che  i  compagni  di  scuola  incrudivano,  descriven- 
domi  le  loro  ricreazioni  nel  giardino  di  Boboli,2  o  raccontandomi  le 
loro  gite  fuori  le  porte  della  citta.  lo,  che  mi  compiaccio  del  non 
avere  da  uomo  fatto  odiato  nessuno,  Don  Antonio  lo  odiai  da  fan- 
ciullo  di  un  odio  implacabile. 

Delle  noie  patite  in  citta  mi  vendicavo  bensi  con  acre  godi- 
mento  in  campagna.  Al  suo  piccolo  corpo  grassottello,  alia  sua  pelle 
rosea,  quel  pretonzolo  di  trenta  o  trentacinque  anni  era  affeziona- 
tissimo,  e  fin  qui  si  capisce :  difficile  invece,  se  non  a  capire,  a  scu- 
sare  in  un  uomo  sano  e  delPeta  sua  le  perpetue  irragionevoli  appren- 
sioni,  alle  quali  la  rosea  pelle  e  il  grassottello  corpo  lo  condanna- 
vano.  Per  una  leggera  sudata,  paura  di  malattia;  per  un  frutto 
mangiato  fuor  d'ora,  paura  di  indigestione ;  in  carrozza  di  rado  e 
quando  non  si  potesse  in  altro  modo  per  paura  di  ribaltamenti,  in 
barca  non  mai  per  paura  di  naufragio.  Lo  sapevo  e  in  campagna  ne 
profittavo  per  conseguire  due  fini  ad  un  tempo :  indispettirlo  e  star 
con  lui  quanto  meno  fosse  possibile. 

Nell'andare  a  zonzo  ogni  giorno  con  lui  per  i  piani  e  i  colli  valdi- 
nievolini,  appena  una  occasione  si  presentasse  subito  la  coglievo : 
prossimo,  per  esempio,  alia  strada  che  percorrevamo,  si  stendeva 
a  traverso  un  viottolo  uno  stretto  ponticello  di  legno  senza  ripari 
laterali :  subito  piantavo  in  asso  il  mio  Mentore,  balzavo  d'un  salto 
sul  ponticello  mal  sicuro,  e  lanciato  un  ironico  «venga,  venga», 
me  ne  andavo  pe'  fatti  miei;  dall'orlo  di  una  selva  per  un  molto 

i.  procaccia:  procacciante,  procacciatore.  2.  giardino  di  Boboli:  il  famoso 
parco-giardino  di  Palazzo  Pitti. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       1023 

ripido  pendio  e  tra  le  felci  e  le  stipe,  si  precipitava  meglio  che  non 
si  scendesse  nel  fondo  di  un  burro ne  e  io  giu  per  il  pendio.  Don 
Antonio  imbestialiva,  enunciava  a  gran  voce  le  mie  deficienze  mo- 
rali  con  grande  profusione  di  appellativi,  ma  quanto  a  inseguirmi 
sul  ponticello  o  tra  le  felci  e  le  stipe,  neanche  se  gli  avessero  pro- 
messo  il  cappello  cardinalizio. 

Era  dovere  suo  lo  accompagnarmi,  dovere  mio  non  allontanarmi 
da  lui.  Mancavamo  per  quelle  mie  scappate  al  nostro  dovere  ambe- 
due ;  ma  egli  non  poteva  denunziarle  a  mio  padre  senza  accusare  se 
stesso  di  timori  ridicoli  in  un  uomo  giovine  ben  pasciuto  e  saldis- 
simo  in  gambe ;  e  preferiva,  quando  mi  perdeva  d'occhio,  andare  ad 
aspettarmi  in  qualche  punto,  donde  tornando,  era  di  necessita  ch'io 
passassi;  si  che,  giunti  a  casa,  nessuno  si  accorgesse  di  quanto  era 
awenuto ;  spediente  ingegnosissimo  per  dire  una  bugia  senza  aprir 
bocca,  e  fare  se  complice  delle  mie  indisciplinatezze,  me  complice 
delle  sue  simulazioni. 

La  cosa  fini  male :  in  una  di  quelle  mie  scorrazzate,  messo  un  piede  - 
in  fallo  ruzzolai  tra  Jl  folto  di  arbusti  spinosi  e  caddi  sulFalveo 
sassoso  di  un  torrente  a  secco.  Scalfitture,  contusion!  un  po*  dap- 
pertutto ;  la  grave  scorticatura  d'uno  stinco  mi  dava  dolore  acutis- 
simo  e  m'impediva  di  camminare.  Per  buona  sorte  un  de'  nostri 
contadini  (avevamo  poderi  a  quel  tempo!)1  venne  in  soccorso  del 
padronctno]  e  postomi  sulle  spalle  a  cavalluccio,  per  una  scorcia- 
toia  mi  riport6  a  casa. 

Dopo  le  cure  di  mia  madre  e  la  sgridata  di  mio  padre  vennero  le 
interrogazioni.  —  Come  e  accaduto  ?  dove?  e  Don  Antonio  dov'era? 
—  Arrivava  in  quel  punto.  Mi  aveva  a  lungo  ansiosamente  aspet- 
tato  nel  solito  luogo,  poi,  non  vedendomi  e  cadendo  la  sera,  s'era 
risoluto  in  grande  costernazione  a  tornarsene  solo.  Nel  ritrovarmi 
cosi  malconcio  allibi.  Stretto  dalle  domande,  nelle  quali  era  impli- 
cito  il  rimprovero,  rispose:—  Creda,  caro  signor  Vincenzo,  creda 
pure  che  questo  ragazzo,  cosi  tra  una  cosa  e  Taltra,  e  un  demo- 
nio  .  .  .  —  ;  e  per  quanto  le  domande  si  facessero  via  via  piu  urgenti, 
non  seppe  dire  altro,  salvo  di  mutarmi  di  demonio  in  versiera,2 
e  di  versiera  in  terremoto.  Mentre  con  tali  inefficaci  argomenti 
s'industriava  nella  propria  difesa,  s'accorse  di  avere  dietro  di  s6  una 

i.  avevamo  .  .  .  a  quel  tempo:  i  beni  della  famiglia  Martini,  in  Valdinievole, 
dovettero  essere  tutti  venduti  alia  morte  del  padre,  nel  1862,  salvo  la  villa 
di  Monsummano.  2.  versiera:  la  moglie  del  diavolo  (da  adversaria,  per 
aferesi)  e,  figuratamente,  persona  oltremodo  cattiva. 


1024  FERDINANDO    MARTINI 

finestra  aperta  e  si  mosse  frettoloso  per  chiuderla . . .  Mio  padre 
dette  in  una  sonora  risata  e  dopo  avergli  dimostrato  die  quello  di 
Mentore  peripatetico  non  era  mestiere  per  lui,  garbatamente  lo 
Iicenzi6. 

Mi  parve  di  molto  addolcito  il  frizzio  della  scorticatura. 


Ma  fu  quello  (lasciamo  stare  per  una  volta  tanto  Scilla  e  Cariddi) 
un  cascare  dalla  padella  nella  brace.  Tornati  a  Firenze  e  man- 
cando  Taccompagnatore,  mancarono  le  passeggiate  ed  io  fui  affidato 
alia  vigilanza  e  alia  compagnia  delle  donne  di  servizio.  Tale  era  del 
resto  allora  1'usanza  (pessima  usanza!)  nelle  famiglie  di  un  certo 
ceto  e  di  una  certa  agiatezza:  i  figlioli  fuori  di  casa  col  prete,  in 
casa  con  le  cameriere;  in  casa  nostra  e  in  quel  momento  non  c'era 
altro  partito  da  prendere:  mia  madre  malazzata,  mio  padre  alPuf- 
ficio  la  massima  parte  del  giorno;  e  furono  scritte  a-danno  del  ri- 
poso  e  del  sonno  le  commedie1  che  gli  valsero  gli  applausi  del  pub- 
blico  e  le  lodi  dei  contemporanei ;  lunghe  veglie,  delle  quali  tutto 
Torganismo  si  risenti  e  la  tomba  si  schiuse  prima  che  la  vecchiezza 
giungesse. 

Due  nature  diverse  le  due  donne  alle  quali  fui  dato  in  custodia, 
fisicamente  e  moralmente  diverse :  un' Adelaide  senese,  sulla  tren- 
tacinquina,  personificava  nel  regno  animale  un'antitesi  nel  vegetale 
impossible;  era  secca  e  verde  ad  un  tempo;  una  Margherita  sui 
venti  o  poco  piu,  magnifico  fior  di  ragazza  cresciuta  tra  le  felici 
aure  montane  del  Mugello  nativo,  rosea  e  robusta,  era  il  ritratto 
della  salute:  Tuna  fantastica  e  bigotta,  Taltra  gaia  e  spregiudicata. 

L' Adelaide  era  fidanzata  a  un  sergente  dei  carabinieri  (gendarmi, 
veramente  si  chiamavano  allora)  e  doveva  sposarlo  subito  ch'egli 
ottenesse  il  congedo.  Awenne  che  una  bella  mattina  (era,  ricordo, 
di  domenica  ed  io  tornavo  dalla  messa  insieme  con  le  due  fantesche) 
entrata  in  casa  vi  trovo  una  lettera  del  suo  Timoteo  (il  nome  non 
era  poetico,  ma  1'amore  passa  sopra  a  tante  cose!).  Le  aveva  scritto 
la  notte  in  procinto  di  partire  improvvisamente  per  Orbetello. 
Scorrazzava  nella  Maremma  una  banda  brigantesca  che  scontratasi 
giorni  innanzi  e  azzuffatasi  con  la  gendarmeria  era  riuscita  a  fu- 
garla.  Timoteo  partiva  con  la  sua  compagnia,  a  rinforzo,  per  aver 
ragione  dei  malfattori. 

i.  le  commedie:  vedi  la  nota  a  p.  1009. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       1025 

Leggere,  cacciare  un  grido  e  cadere  svenuta  fu  tutt'una.  E  non 
valsero  spruzzi  d'acqua  sulla  faccia,  boccette  d'aceto  sotto  le  narici, 
per  scuoterla  da  quel  torpore.  Chiamato  un  medico,  bisogn6  di- 
scingerla  e  verecondia  impose  ch'io  fossi  allontanato  dallo  scarno 
spettacolo. 

Quella  sentimentale  trentacinquenne  possedeva  una  piccola  bi- 
blioteca  i  cui  volumi  leggeva  e  rileggeva  di  continue :  vite  di  santi, 
romanzi  italiani  o  tradotti,  famosi  a  quel  tempo  fra  la  gente  del 
suo  grado  e  della  sua  coltura:  i  Misteri  d'Udolfo  della  RatclifT,1 
Teresa  e  Gianfaldoni,  il  Ritorno  dalla  Russia,  Adelaide  e  Comingio, 
ovvero  gli  amanti  infelici,  altri  che  non  rammento,  tutti  del  mede- 
simo  conio;  di  quelli  insomma  che  Napoleone  a  Sant'Elena  defi- 
niva  «romans  d'antichambrew  (e  metteva  nel  mazzo,  Dio  lo  per- 
doni,  anche  la  Manon  Lescaut)  :z  finalmente  un  vecchio  libricciatto- 
lo,  nel  quale  si  descrivevano  con  crudele  minuzia  di  particolari  i 
castighi  sofferti  da  peccatori  impenitenti  o  da  eresiarchi.  Ricordo 
un  Leonzio  cacciatore,  che  passando  innanzi  a  un  tabernacolo  spar6 
una  fucilata  contro  1'imagine  della  Vergine,  e  fu  mangiato  da  ser- 
penti.  Sobrii  a  quanto  pare,  perche  il  supplizio  dur6  un  anno 
intero. 

NelFottimo  intendimento  di  contribuire  alia  mia  educazione 
spirituale,  1' Adelaide  ogni  sera,  prima  di  darmi  la  buona  notte,  mi 
largiva  il  succo  delle  sue  svariate  letture :  frammenti  agiografici  ed 
episodi  romanzeschi,  tragedie  sacre  e  drammi  profani,  spasimi  di 
martiri  e  disperazioni  di  innamorati.  lo,  per  dirla  col  buon  Sac- 
centi,3 

io  morivo  di  voglia  di  dormire, 

con  tutto  cid  .  .  . 

la  sarei  stata  un  secolo  a  sentire; 

e  non  di  rado  me  ne  andavo  a  letto  con  gli  occhi  gonfi,  impressio- 
nato  dal  terrore  o  dalla  pieta  di  quei  casi. 

La  Margherita  non  leggeva,  perch6  nella  sua  gioconda  spensiera- 
tezza  s'era  scordata  d'imparare  a  leggere;  ma  conferiva  anch'essa 
airaddottrinamento  del  mio  giovine  intelletto,  e  cantando  stornelli 

i.  Anna  Ward  (1764-1823),  moglie  del  giornalista  Ratcliff,  fu  romanziera 
molto  nota  nel  genere  detto  « gotico »,  pieno  di  orrori  e  misteri,  con  inter- 
vento  di  element!  spettacolari.  2.  Manon  Lescaut:  il  celebre  romanzo  di 
Antoine  Franfois  Provost  d'Exiles  (1697-1763).  3.  Giovanni  Santi  Sac- 
centi  (1687-1749),  di  Volterra,  poeta  giocoso  e  satirico,  che  fu  tra  i  «fru- 
stati»  dal  Baretti. 

6s 


1026  FERDINANDO    MARTINI 

a  perdifiato  mi  preparava  a  gustare  le  fresche  ingenuita  della  poesia 
popolare.  Gli  stornelli  erano  innocui;  non  cosi  quei  racconti  seb- 
bene  io  li  ascoltassi  con  attonito  compiacimento. 

Impia  sub  dulci  melle  venena  latent;1 

fra  le  paurose  invenzioni  della  Ratcliff,  Leonzio  divorato  dai  ser- 
penti,  Santa  Verdiana  che  arringava  le  vipere,  la  omonima  Adelaide 
che  spirava  fra  le  braccia  delPadorato  Comingio,  estasi,  suicidi, 
fantasmi,  supplizi,  sortilegi  ed  altre  diavolerie  rimuginate  fra  me  e 
me  senza  tregua,  mi  ridussi  a  non  dormire  piu,  o,  addormentatomi, 
a  svegliarmi  in  sussulto  dopo  sogni  affannosi :  n'ebbi  scossi  i  nervi  e 
confuso  il  cervello :  e  perch6  deperivo  a  vista  d'occhio,  indagatene  e 
conosciutene  le  cagioni,  mia  madre,  ormai  awiata  alia  guarigione, 
risolse  di  pigliarmi  con  s6. 

A  tempo!  di  li  a  qualche  settimana  P  Adelaide  parve,  per  qualche 
segno,  non  aver  piu  la  testa  a  posto,  la  Margherita  fu  licenziata  su 
due  piedi  e  cacciata  intrafinefatta.2  Le  ero  affezionato  e  mi  rin- 
crebbe.  Domandai :  perch6  ?  come  mai  ?  che  ha  fatto  ?  ma  nessuno 
mi  rispose.  Soltanto  molti  anni  dopo,  seppi  che  la  prosperosa  con- 
tadinotta,  indispettita  forse  del  non  poter  leggere  romanzi,  ne 
aveva  fatto  uno  per  conto  suo :  il  quale,  cominciato  con  due  perso- 
naggi,  quando  lo  scacciamento  awenne  stava  per  finire  con  tre. 


A  distrarmi  dalle  orrende  fantasticherie,  giov6  la  stanza  nella 
quale  mia  madre  abilissima  nel  ricamo  passava  parte  del  pomerig- 
gio  al  telaio  ed  io  vicino  a  lei  sbrigavo  i  miei  compiti,  prima  trascu- 
rati  per  colpa  di  Leonzio  e  di  Gianfaldoni;  quell'istesso  salotto 
ove,  sulla  tavola  di  marmo  rosso  delle  cave  monsummanesi,  le 
invincibili  armi  napoleoniche  debellarono  gia  gli  eserciti  della  Rus 
sia  e  dell' Austria.3 

Sul  parato  di  carta  di  Francia  erano  a  vivi  colori  raffigurate  riu- 
merose  specie  di  uccelli.  Mi  divertivo  a  guardarli,  a  distinguerli;  e  il 
guardarli  e  il  distinguerli  alia  lunga  mi  incuriosi:  mi  venne  voglia 
di  sapere  come  si  chiamassero,  dove  nascessero,  come  vivessero. 
Di  quella  curiosita  mio  padre  si  compiacque,  mi  venne  in  aiuto  con 
una  vecchia  ornitologia;  ed  io  un  po'  alia  volta,  con  molta  diligenza 

i .  £  un pentametro  di  Ovidio,  Am.,  i,  8,  104.     2.  intrafinefatta:  immediata- 
mente,  senza  por  tempo  in  mezzo.     3.  quell'istesso  . . .  Austria:  vedl  p.  1013. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       IO2J 

e  pazienza,  riuscii  a  determinare  degli  ammirati  volatili  le  specie  ed 
i  generi,  a  conoscerne  la  vita  e  i  costumi. 

Lontano  effetto  di  quelle  ricerche  sulP  avifauna  condotte  da  fan- 
ciullo,  o  inclinazioni  di  origine  atavica?  (in  casa  mia  tutti  cacciatori 
di  padre  in  figlio  per  parecchie  generazioni).  Fatto  sta  che  la  cac- 
cia  di  ogni  forma  e  maniera:  schioppo,  rete,  penera,1  vischio,  fu 
in  me  per  mezzo  secolo  passione  potentissima.  Sui  venti  anni 
addirittura  mania;  basti  che  mi  fece  perfino  oratore  sacro. 

Sicuro:  prossima  a  Monsummano  e  una  vasta  tenuta;  smaniavo 
d'andarvi  a  caccia  dei  pispoloni  (Anthus  arbor  eus)  in  settembre; 
ma  ci  voleva  il  permesso  del  fattore.  Era  col  fattore  in  ottimi  ter 
mini,  un  giovine  prete  ambiziosetto,  cui  piaceva  mettersi  in  mostra 
e  farsi  credere  di  grande  ingegno  e  coltura.  In  occasione  di  nozze 
paesane  avevamo  lavorato  insieme  a  un  sonetto  per  gli  sposi;  io 
lo  scrissi  ed  egli  lo  sottoscrisse ;  pensai  conveniente  ricorrere  a  lui. 
Non  m'ingannai :  si  sarebbe  volentieri  adoperato  lietissimo  di  farmi 
cosa  gradita;  se  non  che  . .  .  servizio  per  servizio,  anch'io  potevo 
fargli  cosa  gradita  e  toglierlo  da  un  imbarazzo.  S'era  impegnato 
con  i  preti  d'un  paese  vicino,  per  certa  festa  da  celebrarsi  fra  un 
paio  di  mesi,  a  recitare  il  panegirico  del  santo  protettore.  Aveva 
gia  raccolto  le  idee ;  ma  lui  organista,  lui  sagrestano,  tra  il  breviario 
la  messa  e  il  coro,  temeva  con  tante  faccende,  non  aver  tempo  di 
stenderlo.  Lungo  rigirio  di  frasi,  la  cui  conclusione  fu  questa: 
egli  avrebbe  aiutato  me  nella  venatoria,  io  lui  nelPoratoria,  egli  mi 
avrebbe  ottenuto  il  permesso,  io  gli  avrei  fatto  il  panegirico. 

Li  per  li  non  mi  parve  vero,  ma  poi,  riflettendoci,  mi  accorsi  che 
neirimbarazzo  c'ero  io.  Un  panegirico!  non  sapevo  dove  mettere  le 
mani,  da  che  parte  rifarmi  e  oramai  indietreggiare  non  si  poteva: 
non  c'erano  piu  di  mezzo  soltanto  gli  anthus  arborei,  ma  Pamor  pro- 
prio  e  la  parola  data.  Stavo  cosi  perplesso,  quando  eccoti  Pamico 
a  crescere  il  prezzo  della  mediazione.  Aveva  incontrato  molte  diffi- 
colta,  fatte  molte  gite  inutilmente,  dovrebbe  farne  ancora  molte, 
perch.6  senza  lungamente  insistere  non  si  riusciva  a  superare  quelle 
difficolta :  perdita  di  tempo  che  lo  accorava,  in  quanto  che  non  aveva 
saputo  esimersi  da  un  nuovo  impegno :  un  sermone  da  recitare  alle 
monache  d'un  altro  paese.  Ho  detto  che  la  caccia  era  a  quel  tempo 
per  me  una  mania,  mi  par  superfhio  Paggiungere:  purch<§  Paiuto 
non  mi  mancasse,  purche  il  permesso  venisse  farei  anche  il  sermone. 
i.  La  penera  e  costituita  di  laccioli  fatti  con  crini  di  cavallo. 


IO28  FERDINANDO    MARTINI 

Per  fortuna  nella  villa  di  mio  zio,  rimanevano  intatti  da  oltre  un 
secolo  i  libri  di  un  antenato  che  fu  parroco :  ne  scavai  il  Segneri  e  lo 
Zappata,  vi  feci  la  conoscenza  del  Massillon  e  del  Bourdaloue,1 
scartabellai,  compulsai,  lessi  attentamente;  e  quando,  scorso  un 
mese  o  poco  piu,  il  prete  ambiziosetto  mi  porse  la  carta  che  mi 
dava  facolta  di  stendere  le  reti  nel  prato  di  Mideo,  io  gli  consegnai 
a  mia  volta  il  panegirico  del  Santo  e  il  Sermone  su  la  modestia  per  le 
monache  di  Borgo  a  Buggiano. 

E  anch'io  in  un'afosa  giornata  di  luglio,  anch'io  andai  alia  festa. 

II  panegirico,  egregiamente  con  bella  voce  detto  dal  pergamo, 
strapiacque.  I  notabili,  usciti  dalla  chiesa  e  passeggiando  su  e  giii 
per  Tunica  strada  del  villaggio  per  far  Fora  dei  fuochi  artificial!, 
sebbene  cosi  incompetenti  in  materia  di  sacra  eloquenza  come  di 
ortografia  e  scienze  affini,  non  si  stancavano  di  levare  a  cielo  Pin- 
gegno  e  la  dottrina  dell'oratore  novizio.  Quali  speranze  da  quegli 
esordi!  L'esattore  comunale  era  addirittura  entusiasta:  sfringuel- 
lava:  «magnifico,  magnifico»  e  venutomi  incontro,  mi  abbord6  con 
un :  «  dica  lei,  dica  lei,  se  non  e  veramente  magnifico  ». 

Io  che,  quantunque  sotto  mentite  spoglie,  mi  sentivo  trattenuto 
dai  pudori  della  paternita,  —  Si,  si,  —  risposi—  ma  non  bisogna  poi 
esagerare ...  —  L'esattore  mi  dette  un'occhiata  a  stracciasacco2  che 
voile  significare  e  significb:  ecco  Tinvidia! 


Torniamo  al  salotto. 

II  rivederlo  con  gli  occhi  della  memoria  mi  riconduce,  col  pen- 
siero,  fra  molte  ore  liete  che  vi  trascorsi,  ad  alcune  duramente  pe- 
nose;  alia  prima  punizione  avuta  in  iscuola,  della  quale  molto  mi 
afflissi  e  adirai  perche  era  la  prima  e  perche"  mi  parve  e  poteva  pa- 
rermi  ingiusta  sebbene  non  fosse. 

Vi  restavamo  ogni  giorno  una  o  due  ore  del  dopo  pranzo  (si 
pranzava,  a  quel  tempo  in  Toscana,  alle  sei  d'inverno  e  alle  quat- 
tro  d'estate).  Una  sera  alcuni  amici  di  famiglia  erano  venuti  a  pren- 
dervi  il  caffe,  quando,  accompagnato  dal  servitore,  entr6  nella 

i.  Paolo  Segneri  (1624-1694),  gesuita,  celebre  predicatore,  di  cui  sono  fa- 
mose  le  trentotto  orazioni  sacre  del  Quaresimale  (1679);  Francesco  Zap 
pata  (1609-1672),  predicatore  fiorentino;  J.  B.  Massillon  (1663-1742)  fu 
vescovo  di  Clermont;  il  gesuita  Louis  Bourdaloue  (1632-1704),  grande 
predicatore,  abile  dialettico.  2.  a  stracciasacco:  di  sbieco,  biecamente. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       IO29 

stanza  un  uomo  di  mezza  eta  in  abito  piuttosto  dimesso  e  che  avevo 
veduto  altre  volte  perche  abitava  nella  Via  Nuova,  oggi  de'  Maga- 
lotti,  in  una  casa  rimpetto  alia  nostra  e  la  fmestra  della  mia  camera 
dava  appunto  su  quella  via. 

Veniva  a  chiedere  non  so  piu  quale  favore  a  mio  padre  e  intan- 
to  gli  offriva  un  nuovo  volume  delle  proprie  poesie. 

Mio  padre  che  lo  conosceva  da  un  pezzo  lo  accolse  festevolmente 
e  lo  present6 :  —  II  signor  Gaspero  Gozzi,  poeta  improvvisatore  — : 
quel  volume  conteneva  le  poesie  da  lui  improwisate  in  Accademie 
e  sui  teatri  della  Toscana.  lo  che  non  sapevo  ancora  che  cosa  fosse 
un  endecasillabo,  fui  subito  preso  da  ammirazione  per  il  felice 
uomo  che  scombiccherava  versi  a  quel  modo :  ammirazione  che  si 
fece  piu  viva  quando  lo  vidi  alia  prova. 

Lo  pregarono  di  improwisare  un  sonetto  con  rime  obbligate. 
Consent! :  dettarono  chi  una  rima,  chi  un'altra.  Invitato  a  sedersi  a 
scrivere  se  volesse,  ricus6 ;  e  dritto  con  in  mano  la  carta  ov'erano 
segnate  le  rime,  sciorin6  il  sonetto  in  minor  tempo  di  quanto  im- 
piego  io  a  raccontarlo.  Per  lui,  esercitazione  consueta,  per  gli  altri 
ascoltatori  nulla  di  straordinario ;  per  me  meraviglia  e  portento. 

Qualche  anno  dopo  una  bella  mattina  il  prete  Chiti,  maestro  di 
grammatica  e  di  umanita  nell'Istituto  Rellini  (la  grammatica  e  la 
umanita  corrispondevano  al  nostro  corso  ginnasiale)  il  prete  Chiti 
ci  detto  un  sermone  da  impararsi  a  memoria.  —  £  —  disse  —  di 
Gaspare  Gozzi.1  —  Io,  orgogliosetto  della  quasi  familiarita  con  un 
grand'uomo,  sussurrai  al  compagno  che  mi  stava  vicino :  —  I/ho 
conosciuto  bene  io,  il  signor  Gozzi. 

II  Chiti  udi  e  domandc-: 

—  Che  cosa  ha  detto  ? 

Io.  -  Che  il  signor  Gozzi  Fho  conosciuto  bene. 

Lui  (con  una  scrollata  di  spalle).  -  Non  dica  sciocchezze. 

Io  (punto).  -  Eh!  io  Tho  conosciuto. 

Lui  (alzando  la  voce  e  accigliato).  -  Le  ripeto  di  non  dire  scioc 
chezze;  Gaspare  Gozzi  e  morto  da  mezzo  secolo. 

Io  (convinto  che  di  Gaspare  Gozzi  poeti  non  ce  ne  potesse  es- 
sere  al  mondo  che  uno).  -  Ma  se  venne  tempo  fa  in  casa  mia. 

Lui  (incollerito,  battendo  col  pugno  sulla  cattedra).-Puntiglioso 


i.  Gaspare  Gozzi  (1713-1786),  autore,  fra  Taltro,  di  diciotto  Sermoni  in 
endecasillabi  sciolti. 


1030  FERDINANDO    MARTINI 

e  sfacciato !  Esca  dalla  scuola  e  copi  per  domattina  due  volte  la  tal 
favola  di  Fedro.  Esca  e  si  vergogni! 

Uscii  beffato  dai  condiscepoli,  i  quali  credendo  cocciuta  asinita 
quella  mia,  con  lo  scotere  della  testa  o  con  cenni  o  con  smorfie, 
tutti  mi  davano,  in  silenzio,  deirimbecille.  Uscii  e  piansi  e  sin- 
ghiozzai  di  dolore  e  di  stizza. 

II  Gozzi  era  forse  ancora  li  vivo  e  verde  e  abitante  in  Via  Nuova. 
Dunque  ?  Dunque  il  maestro  aveva  detto  uno  sproposito  e  piutto- 
sto  che  confessarlo,  si  accaniva  contro  di  me  che  lo  correggevo. 
Ah!  che  affizione  e  che  rabbia! 

Mio  padre,  pur  rimproverandomi  il  tu  per  tu  col  maestro,  mi 
spiego  come  qualmente  maestro  e  scolaro  avessimo  ragione  ambe- 
due :  e  dandomi  quel  tal  volume  di  poesie  da  mostrarsi  la  mattina 
dipoi,  mi  porse  mo  do  di  giustificarmi. 

Lo  mostrai;  il  Chiti  guard6  il  frontespizio  e  con  un  «Questo 
non  so  chi  sia»  mi  conged6. 

Poiche"  la  punizione  non  poteva  oramai  revocarsi,  una  parola 
buona  non  sarebbe  stata  di  troppo;  non  la  disse  probabilmente 
perche  non  ne  fosse  offeso  il  solito  (cprestigio  deH'autorita  »  il  quale, 
come  e  noto,  esige  che  i  superiori  abbiano  ragione  sempre,  e  segna- 
tamente  quando  hanno  torto. 

Ma  se  mantenne  Fautorita  sotto  un  aspetto,  meco  ne  scapit6 
sotto  un  altro;  io  durai  lungamente  a  pensare:  come  s'impanca 
costui  a  insegnare  letteratura,  quando  ignora  perfino  il  nome  di  un 
poeta  che  schicchera  sonetti  senza  mettersi  neanche  a  sedere? 


GENTE  ILLUSTRE1 

Io  soprawivo  ad  un  mondo  scomparso;  e  ove  mi  awenga  di  do- 
mandare  ad  alcuno :  —  Ve  ne  ricordate  ?  —  mi  guardano  attoniti  e 
mi  rispondono :  —  Come  e  egli  possibile  che  io  me  ne  ricordi  ?  — 
Queste  parole  di  Massimo  Du  Camp2  narrante  episodi  della  sua 
adolescenza  mi  tornano  a  mente  nel  rimuginare  fra  le  memorie 
delFadolescenza  mia;  eventi  solenni,  innovazioni  meravigliose 
hanno  mutato  la  faccia  del  mondo,  e  que'  tempi  appaiono  lontani 

i.  Ed.  cit.,  cap.  in,  pp.  33-45.  2.  Massimo  Du  Camp  (1822-1894),  gior- 
nalista  e  volontario  dei  Mille.  Di  lui  ebbero  molta  fama  specialmente  i 
Souvenirs  litteraires  e  Les  convulsions  de  Paris. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       1031 

piu  di  quanto  sieno  in  realta;  veramente  remoti  nel  senso  etimolo- 
gico  della  parola.  Se  ripenso  di  avere  udito  nel  giugno  del  '48  il 
Gioberti  da  un  terrazzino  delle  Isole  britanniche1  ringraziare  i  fio- 
rentini  delle  festose  accoglienze;  nel  marzo  del  '49  Gustavo  Mo- 
dena2  dalla  loggia  dell'Orcagna  incitarli  alia  ribellione:  se  ripenso 
d'aver  veduto  di  li  a  un  mese  in  quella  istessa  Piazza  del  popolo 
tornata  Piazza  del  Granduca  per  diventare  Piazza  della  Signoria 
dieci  anni  dopo,  accamparsi  gli  Usseri  austriaci,  allora  allora  en- 
trati  nella  citta  per  la  porta  San  Gallo;  se  nnalmente  ricordo  di 
aver  conosciuto  il  Muzzi,  il  Giusti,  il  Guadagnoli,3  il  Rossini 
mi  par  d'essere  piu  vecchio  d'un  patriarca. 


Luigi  Muzzi!  chi,  se  non  qualche  studioso,  ha  in  mente  oggi 
questo  nome  ?  Abitava  al  primo  piano  di  una  casa  in  via  Santa  Re- 
parata;  un  amico  di  mio  padre  che  abitava  al  piano  superiore  voile 
condurmi  da  lui,  avvertendomi  che  si  trattava  —  nientemeno  -  che 
di  fare  la  conoscenza  del  Principe  deW  epigrafia.  Con  quanta  tre- 
pida  reverenza  me  gli  accostai!  e  si  che  il  brav'uomo  non  aveva  nulla 
di  regale  nelPaspetto  e  neirabbigliamento ;  quasi  ottantenne,  pic 
colo  asciutto  sdentato;  avvolto  in  una  veste  da  camera  spelac- 
chiata,  le  parole  gli  uscivano  dalle  labbra  accompagnate  da  un 
sibilo,  accompagnato  a  sua  volta  da  spruzzi  che  schizzavano  ad 
aspergere  il  viso  dell'ascoltatore  vicino.  Ma  era  il  Principe  delVepi- 
grafia  e  quel  titolo,  appunto  per  che  non  bene  ne  comprendevo  il 
significato,  mi  ispirava  una  timida,  quasi  paurosa  venerazione. 

Perch6  era  di  ottimo  animo  prese  a  benvolermi;  ma  conviene 
credere  che  alia  bont&  delP animo  fosse  pari  in  lui  la  vanita,  se  per- 
deva  il  tempo  nello  esporre  a  un  bamberottolo  di  dieci  o  undici 


i.  il  Gioberti . . .  britanniche:  vedi  la  nota  lap.  1018.  2.  Gustavo  Modena: 
vedi  la  nota  3  a  p.  292.  II  Modena,  dapprima  vicino  al  Guerrazzi,  se  ne 
allontan6  poi  vedendolo  awerso  alia  fusione  della  Toscana  con  la  Re- 
pubblica  romana  (vedi  la  nota  2  a  p.  1018).  3.  Luigi  Muzzi>  di  Prato, 
morto  a  Firenze  nel  1865,  si  occup6  di  problemi  della  lingua  con  poco  co- 
strutto,  ma  ebbe  fama  per  le  sue  numerosissime  epigrafi.  Vedi  G.  MAZ- 
ZONI,  L'Ottocento,  Milano,  F.  Vallardi,  1934,  pp.  497-8;  Antonio  Gua 
dagnoli  (1798-1858),  di  Arezzo,  della  quale  citta  fu  a  lungo  gonfaloniere. 
Fu  autore  di  molte  poesie  burlesche,  che  risentono  del  Pananti  e  prelu- 
dono  al  maggiore  Giusti.  Ebbe  accusa  di  reazionario:  e  1'episodio  narrato 
piu  avanti  a  p.  1038  par  confermare  1* accusa. 


1032  FERDINANDO    MARTINI 

anni  i  propri  meriti  e  nel  vantargli  il  proprio  imprescrittibile  di- 
ritto  alia  gloria. 

Raccontava:  era  state  amico  del  Muxtoxidi,  del  Pindemonte, 
del  Foscolo  e  di  Matilde  Bonaparte  Demidoff,1  cui,  anzi,  intito!6 
un  suo  libro;  (e  io  naturalmente  a  domandargli  chi  fossero  il 
Muxtoxidi,  il  Pindemonte,  il  Foscolo  e  Matilde  Bonaparte  De 
midoff,  de*  quali  sino  allora  nulla  sapevo).  Aveva  composto  oltre 
mille  epigrafi;  e  mi  regalava  la  Decima  centuria  che  ancora  conserve, 
scrivendo  sul  frontespizio  il  suo  nome  e  il  mio.  Vanamente  il 
signor  Pietro  Giordani2  os6  contendergli  il  primato  (e  io :  —  chi  e, 
scusi,  ilsignor  Giordani?):  nella  concisione,  neirarmonia,  nell'ele- 
ganza  della  forma  epigrafica  nessuno  Io  vinceva.  Per  certi  mura- 
glioni  costruiti  a  Venezia  il  Morcelli3  (e  io :  —  chi  e,  scusi,  il  Mor- 
celli?)  dett6  questa  iscrizione:  ausu  romano  aere  veneto*  la  quale 
dissero  per  la  concettosa  brevita  insuperabile. 

—  Ma  il  Muzzi,  sai  ?  —  soggiungeva  fissandomi  con  gli  occhi 
fattisi  a  un  tratto  raggiosi  —  ma  il  Muzzi  la  super6 :  Romana- 
mente  i  Veneti:  il  Morcelli  quattro  parole,  il  Muzzi  tre. 

E  seguitava  dolendosi  degli  invidiosi  che  tentavano  menomare  la 
sua  fama:  ma  v'era  chi  tenevalo  in  pregio  altamente.  II  Guerrazzi 
delle  sue  epigrafi  ne  sapeva  a  mente  diecine;  e  quando  egli,  il 
Muzzi,  nel  '49  nominate  dal  Governo  prowisorio  ministro  di 
Toscana  a  Costantinopoli,  fu  a  ringraziarlo,  il  Guerrazzi  gli  and6 
incontro  ripetendogliene  una:  Cristina  Sveca5  -  piu  gloriosa  -  per 
la  rinunda  al  trono  -  che  tanti  con  Vusurparlo. 

Quei  colloqui,  o  piuttosto  quei  monologhi,  sarebbero  durati  ore 
e  ore  se  non  veniva  ad  interromperli  una  massiccia  giovinotta  guer- 
cia  da  un  occhio,  che  irrompeva  nella  stanza  e  in  tono  di  serva 
padrona  ammoniva: 


i.  Andrea  Mustoxidi  (1785-1860),  filologo  e  storico  di  Corcira,  fu  amico 
del  Monti,  che  aiut6  nella  traduzione  dell'J/zVufe,  e  s'invaghl  di  sua  figlia 
Costanza;  Matilde  Bonaparte,  figlia  di  Girolamo,  gia  re  di  Vestfalia  e 
fratello  di  Napoleone  I,  aveva  sposato  (1841)  il  principe  russo  Anatolio 
Demidoff  (vedi  la  nota  3  a  p.  1063).  Mori  nel  1904.  2.  Pietro  Giordani:  vedi 
la  nota  4  a  p.  901.  3.  Stefano  Antonio  Morcelli  (1737-1821),  di  Chiari, 
celebre  epigrafista  ed  archeologo.  4.  ausu  .  .  .  veneto :  «  con  romano  ardi- 
mento,  a  spese  dei  Veneti ».  5.  Cristina  Sveca:  Cristina  di  Svezia  (1626- 
1689),  figlia  di  Gustavo  Adolfo  e  a  lui  succeduta  sul  trono,  pass6  nel  1654 
dal  protestantesimo  al  cattolicesimo  e  abdic6  in  favore  del  cugino  Carlo 
Gustavo,  che  fu  Carlo  X.  Visse  a  Roma,  dal  1655,  e  vi  fondd  P  Arcadia. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       1033 

—  La  faccia  finita  con  coteste  chiacchiere,  che  a  moment!  e  Fora 
del  desinare. 

Fra  Paltro  il  Muzzi  meditava  una  riforma  deH'ortografia  e  me  ne 
dimostrava  con  lunghe  argomentazioni  Fopportunita.  Di  tutti  quei 
ragionamenti  questo  solo  ricordo:  che  cuore  dovevasi  scrivere  non 
col  c  ma  col  q.  Non  e  meraviglia  che  me  ne  ricordi ;  per  farmi  bello 
di  quella  nuova  erudizione,  ficcai  subito  nel  primo  compito  il  cuore 
e  lo  scrissi  con  la  nuova  grafia.  Non  Tavessi  mai  fatto!  II  prete 
Chiti,  maestro  di  grammatica,  mi  fece  una  ripassata  numero  uno 
e  mi  svergogn6  innanzi  ai  condiscepoli,  minacciando  di  rimettermi 
a  scrivere  sotto  dettatura.  Mi  provai  a  citare  Pautorita  del  Muzzi, 
ma  a  nulla  valse. 

—  Che  Muzzi  e  non  Muzzi!  Cuore  s'e  sempre  scritto  col  c  e 
lei  deve  scriverlo  col  c;  e  perche  s'awezzi  a  non  scriverlo  col  q,  fara 
grazia  di  copiare  le  prime  quaranta  ottave  della  Gerusalemme.  —  Uri 
terribile  misoneista  quel  Chiti! 

Copiai;  tutto  il  male  non  viene  per  nuocere:  da  quel  giorno  il 
buon  principe  delPepigrafia  pot<§,  nella  mia  memoria,  imbrancarsi 
fra  altri  principi:  i  Boemondi,  i  Guelfi,  i  Balduini  e  quanti  ebbero 

nel  pensiero  ,,. 

r  ultimo  segno 

espugnar  di  Sion  le  nobil  mura.1 


Reverenza  maggiore  avrebbe  dovuto  ispirarmi  il  Giusti  quando, 
e  un'unica  volta,  lo  vidi,  ma  non  fu  cosi.  Aveva  pubblicato  allora  al- 
lora  il  Congresso  dei  Birri2  e  in  casa  ne  sentivo  spesso  recitare  degli 
squarci:  non  capivo  nulla,  s'intende,  ma  m'ero  convinto  che  quella 
per  consenso  di  tutti  era  una  bella  cosa,  e  che  Faveva  fatta  un  poeta 
co'  fiocchi.  Smaniavo  di  vederlo,  quand'eccoti  una  bella  sera  ca 
pita  tutto  frettoloso  nello  studio  di  mio  padre;  m'aspettavo  dicesse 
Dio  sa  che;  domand6  (mi  suona  ancora  la  voce  negli  orecchi): 
—  A  pranzo  in  casa  Gerini  ci  si  va  con  la  cravatta  bianca  o  con 
la  cravatta  nera?—  Bianca—  gli  risposero:  e  allora,  appoggiato  al 
caminetto,  cominci6  a  tirarsi  i  baffi  verso  il  labbro  inferiore,  bor- 
bott6  due  o  tre  volte  quasi  piagnucolando :  —  O  Santo  Iddio,  o  Dio 
Santo,  la  cravatta  bianca!  —  poi  ammutoli,  e  di  li  a  cinque  minuti 
se  n'and6  frettoloso  com' era  venuto. 

i.  Tasso,  Ger.  lib.,  I,  33;    segno:  meta.     2.  Congresso  dei  Birri:  ditirambo 
che  risale  al  1847. 


1034  FERDINANDO    MARTINI 

Non  me  ne  seppi  dar  pace ;  che  un  celebre  poeta  discorresse  cosi 
poco  e  dicesse  quel  che  avrei  potuto  dire  anch'io  se  fossi  perve- 
mito  alPeta  della  cravatta  bianca,  non  mi  ci  entrava:  e  fu  impres- 
sione  cosi  viva  e  durevole  quella,  che  in  me,  il  quale  da  giovanotto, 
a  ragione  o  a  torto,  amai  certi  poeti,  il  Grossi1  per  esempio,  come  si 
ama  una  bella  ragazza,  le  simpatie  per  il  Giusti  non  si  destarono 
se  non  tardi;  non  potevo  prendere  in  mano  il  volume  de'  suoi  versi, 
senza  riveder  hii  a  quel  caminetto  tirarsi  muto  i  mustacchi,  ne  gli 
sapevo  perdonare  quella  mia  delusione  infantile. 


Mi  sbalordi  invece  di  primo  acchito  e  crebbe  in  seguito  nella 
mia  piu  consapevole  ammirazione  Vincenzo  Salvagnoli,2  che  mi 
parve  ingegno  veramente  portentoso.  Non  alto,  grasso,  con  un 
ciuffo  gia  grigio  a  quel  tempo,  specie  di  voluta  che  saliva  dalla  tem- 
pia  sinistra  verso  la  destra  a  deporvi  il  proprio  scartoccio,  occhi 
grandi  fulgidi  schizzanti  dall'orbita,  fu  uno  de'  principi  del  f6ro 
toscano ;  parlatore  possente,  primeggi6  nel  Parlamento  toscano,  e  in 
qualsiasi  parlamento  sarebbe  stato  o  il  piu  valente  difensore  o  il 
piu  temuto  awersario  di  un  ministero. 

Lo  udii  la  prima  volta  una  sera  in  casa  mia  sostenere  per  burla 
e  con  grave  scandalo  di  un  prete  di  Valdinievole  che  lo  pigliava  sul 
serio,  questa  tesi:  che  il  rubare  i  libri  era  non  pur  lecito,  ma  com- 
mendevole:  e  fu  tale  il  rapido  abbondante  fluire  delle  parole,  tale 
il  lusso  delle  citazioni  latine,  italiane,  francesi  che  mi  intonti: 
e  non  me  solamente. 

Aveva  la  innocua  mania  di  spacciarsi  forte  bevitore  e  mangiatore 
pantagruelico,  si  vantava  di  stravizi  vitelliani;3  alia  prova  rosicchia- 
va  un'ala  di  polio  e  bagnava  a  mala  pena  le  labbra  in  un  bicchiere 
di  vino. 

Verrd,  verrd  domani,  verrd  alle  quattro  in  punto 

e  scenderd  sul  campo,  appena  sard  giunto. 

Non  un  invito  a  pranzo,  una  sfida  ricevo: 

ebben,  dird  con  Cesar  e:  vengo,  m'assido  e  bevo* 

i.  Tommaso  Grossi  (1791-1853),  autore,  fra  Faltro,  della  novella  Ildegonda 
(1820)  e  del  poema  in  ottave  / Lombardi  allaprima  Crociata  (1826).  2.  Vin 
cenzo  Salvagnoli'.  vedi  la  nota  2  a  p.  414.  3.  mangiatore  .  .  .  vitelliani: 
Pantagruel  e  Tinsaziabile,  gigantesco  protagonista  dell'opera  omonima  del 
Rabelais;  Vitellio  fu  imperatore  nel  69  d.  C.,  famoso  per  la  sua  voracita. 
4.  con  Cesare  .  .  .  bevo :  il  motto  di  Giulio  Cesare,  qui  parodiato,  e  il  « veni, 
vidi,  vici». 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       1035 

Chi  e,  chi  e  che  ardisca  di  far  si  emulo  mio? 
Venga  domani  a  tavola,  egli  e  gia  vinto.  Addio. 

Con  quest!  versi,  rispondeva  a  mio  padre;  paiono  uno  scherzo 
ma  furono  scritti  sul  serio,  che  a  furia  di  raccontarle  s'era  fatto 
persuaso  di  quelle  prodezze.  A  pranzo  da  noi  veniva  di  quando  in 
quando ;  se  anche  gli  offrissero  venti  qualita  di  vino,  non  diceva  mai 
di  no ;  schierava  in  belPordine  i  bicchierini  innanzi  a  se  e  si  alzava 
da  tavola  senza  averli  assaggiati,  ma  figurandosi  e  glorificandosi  di 
averli  sgocciolati  tutti  quanti. 

Tanto  di  guadagnato  per  i  commensali;  che  non  mangiando  ne 
bevendo,  parlava;  e  come  eloquente  nel  f6ro,  era  nelle  conversa 
zioni  piacevole  oltre  ogni  dire.  Recitava  epigrammi  suoi  (alcuni 
sono  tuttavia  noti  comunemente),  raccontava  aneddoti  gustosis- 
simi,  uno  ne  ricordo  ancora.  Aveva  molti  anni  prima  scritta  un'epi- 
grafe,  da  apporsi  sulla  tomba  di  una  Capponi,  se  non  erro,  e  vi  si 
lamentava  la  morte  immatura  di  quella  gentile ;  poiche  per  le  epi- 
grafi  funerarie  dovevasi  ottenere  1' appro vazione  del  censore,  questi 
la  neg6 ;  gentile  aveva  tra  i  suoi  significati  anche  quello  di  pagana 
e  non  poteva  permettersi  che  alcuno  pensasse  deposte  in  un  cimi- 
tero  cattolico  le  ceneri  di  una  non  battezzata.  Bisogn6  appellarsi  al 
Rosini1  professore  di  letteratura  nelPUniversita  di  Pisa,  e  ricorrere 
con  istanze  a  Don  Neri  Corsini2  ministro  di  Stato.  Di  quella  bestiale 
inibizione  argutamente  narrata  risero  tutti  e  piu  avrebbero  riso, 
s'io  non  ero  presente.  Raccontava,  tra  Faltro,  il  Salvagnoli,  di 
un  colloquio  col  censore,  nel  quale  avevagli  dimostrato  in  quanti 
modi  possa  essere  gentile  una  donna;  ma  quel  dialogo,  soggiungeva 
ammiccando  a  mio  padre,  lo  lasceremo  nella  penna.  Allora  non  capii, 
ho  capito  piu  tardi  che  il  dialogo  non  era  roba  da  ragazzi  e  volevansi 
rispettare  le  mie  ancora  candide  orecchie. 

Altre  volte,  il  Salvagnoli  mi  parve  -  e  mi  par  tuttavia  -  addirit- 
tura  sbalorditoio.  Una  sera  si  trattava  di  confutare  il  Gioberti; 
il  solito  prete,  prete  colto  badiamo,  non  uno  scagnozzo  qualsiasi, 
esaltava  le  dottrine  del  Primato\  s'era,  se  non  sbaglio,  nel  '51,  i 
tedeschi  (come  allora  si  diceva)  montavano  la  guardia  a  palazzo  Pitti 
e  il  Salvagnoli  aveva  da  due  anni  espresso  nell'albo  di  Eleonora 

i.  Giovanni  Rosini  (1776-1855),  di  Lucignano  in  Val  di  Chiana,  insegn6 
«eloquenza  italiana»  a  Pisa  dal  1804.  Fu  anche  romanziere,  ed  e  assai  nota, 
fra  le  sue  opere,  La  monaca  di  Monza.  2.  Neri  Corsini'.  vedi  la  nota  i  a 
p.  169. 


1036  FERDINANDO   MARTINI 

dej  Pazzi  il  vaticinio  famoso:  «0ggi  10  maggio  1849  le  milizie  au- 
striache  entrano  a  Firenze :  fra  dieci  anni  il  figlio  di  Carlo  Alberto 
sara  re  d'ltalia));  per  difendere  il  Primato  era  un  po'  tardi,1  ma  il 
prete  ci  si  ostinava  a  tutt'uomo.  L'altro  lo  stette  a  sentire,  poi  af- 
ferm6  d'aver  appunto  in  que'  giorni  condotto  a  termine'im'opera  in 
confutazione  delle  teorie  giobertiane ;  e  li  in  quattro  e  quattr'otto 
espose  la  divisione  del  volume  in  libri  e  capitoli,  di  ogni  capitolo  di- 
cendo  con  chiara  parola,  con  limpido  ordine,  con  minuta  diligenza  il 
contenuto.  Quanti  ascoltarono,  crederono  che  dawero  avesse  com- 
piuto  quel  lavoro  e  fosse  in  procinto  di  darlo  alia  stampa;  due  giorni 
dopo,  quando  un  amico  gliene  ripar!6,  s'era  gia  scordato  non  sola- 
mente  del  libro  cui  non  aveva  pensato  mai,  ma  persino  della  contro- 
versia  col  prete  di  Valdinievole. 

Subito  che  lo  seppi,  sebbene  ragazzo,  credei  di  trasecolare;  tanto 
mi  aveva  lasciato  freddo  il  Giusti  e  tanto  mi  infiammai  di  entusiasmo 
per  il  Salvagnoli;  mi  pareva  che  dopo  Dante  venisse  subito  lui  e 
Dante  lo  mettevo  prima  soltanto  per  un  certo  riguardo  all'anti- 
chita;  che"  il  Salvagnoli  mi  divertiva  e  rAlighieri,  del  quale  m'ave- 
vano  letto  a  scuola  qualche  terzina  (perdono  o  gran  padre!),  mi 
seccava  a  quel  tempo  come  non  si  pu6  dire. 

Piu  innanzi  con  gli  anni  lo  vidi,  il  Salvagnoli,  arrischiarsi  in  prova 
anche  piu  ardua.  Lo  aveva  per  vizio :  gli  parlavano  di  diritto,  stava 
scrivendo  un  trattato  cosi  e  cosi;  di  storia,  giusto  si  occupava  di 
quel  tale  argomento,  da  svolgersi  in  quel  dato  modo:  e  giu  un 
flume  di  parole  e  di  dottrina.  Parlavano  al  solito  in  casa  nostra  di 
commedie,  e  lui  subito:  «ne  ho  scritta  una  anch'io,  UInvidiay>.  Ri- 
cordo  che  c'erano  delle  inverosimiglianze  tali  da  dar  nelPocchio 
anche  a  me:  ma  intanto  egli  espose  tutta  quanta  la  tela,  deline6 
i  caratteri,  li  condusse  logicamente  al  lor  fine,  e  sciolse  Pintreccio : 
non  ne  sapeva  una  parola  cinque  minuti  avanti,  cinque  minuti 
dopo  non  si  ricordava  neanche,  cred'io,  il  titolo  inventato  li  per  li 
come  il  resto. 


i.  un  po'  tardi:  il  Primato  morale  e  civile  degli  Italiani  rifletteva,  nel  1851, 
una  atmosfera  e  situazione  storica  ormai  sorpassate,  per  confessione  del- 
Tautore  medesimo  che  scrisse,  dopo  la  delusione  quarantottesca,  il  Rinno- 
vamento. 


CONFESSIONI    E    RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       1037 

Altro  oggetto  della  mia  fanciullesca  ammirazione,  il  Guadagnoli; 
sebbene  per  colpa  sua  mi  toccasse  lasciare  in  tronco  un  diverti 
mento  lungamente  desiderate. 

Nel  '52  o  '53  si  rappresent6  per  la  prima  volta  a  Firenze  il 
Profeta  del  Meyerbeer.1  Com'e  noto,  sul  finire  del  terzo  atto, 
quando  Giovanni  di  Leida2  e  i  suoi  anabattisti  intonando  Pinno 
trionfale  si  preparano  alia  battaglia,  le  nebbie  si  diradano  e  si  leva 
il  sole. 

Lo  ministro  maggior  della  natural 

sorgente  dietro  al  fondale  a  illuminare  sul  palcoscenico  della  Per 
gola4  i  dipinti  baluardi  di  Miinster,  era  per  la  Toscana  granducale 
cosi  inusitato  e  mirabile  spettacolo  che  non  solo  i  Fiorentini,  ma 
gente  venuta  da  ogni  parte  della  provincia  gremiva  il  teatro.  Quel 
sole  creato  dal  professore  Corridi  direttore  dell'Istituto  tecnico 
(le  prime  sere  la  creazione  and6  male  e  i  fredduristi  dicevano: 
ridi,  ridi  ma  di  cor  ridi)  quel  sole  mandava  in  visibilio  gli  spettatori. 

Tali  portenti  fu  promesso  che  sarebbe  anche  a  me  conceduto  una 
sera  o  Paltra  ammirarli;  e  poiche  forse  mio  padre  non  poteva  ac- 
compagnarmi  alia  Pergola  e  mia  madre  non  andava  al  teatro  che 
raramente  e  di  mala  voglia,  fu  pregato  un  amico  di  accompagnarmici 
lui.  Di  questo  amico  avr6  piu  volte  occasione  a  parlare ;  e  per6  sara 
bene  ch'io  lo  presenti  fin  d'ora. 

Cesare  Tellini  di  Pian  Castagnaio5  era  un  mazziniano  sfegatato : 
nel  1849  oratore  di  circoli,  succed6  a  Celestino  Bianchi6  nel  «Na- 

i.  Giacomo  Meyerbeer  (1791-1864),  tedesco  di  nascita,  francese  di  ele- 
zione,  musicista  allora  assai  stimato  (Roberto  il  diavolo,  V  Africana;  II 
Profeta,  ecc.).  2.  Giovanni  di  Leida:  Giovanni  Bockelson,  capo  degli 
anabattisti,  fatto  prigioniero  a  Monster  e  sottoposto  ad  orfibile  supplizio 
(1536).  6  protagonista  delPopera  //  Profeta.  3.  Dante,  Par.,  x,  28. 
4.  Pergola:  vedi  la  nota  2  a  p.  454.  5.  Cesare  Tellini  di  Pian  Castagnaio 
firm6  il  «Nazionale»,  ma  il  direttore  vero  fu  Celestino  Bianchi.  II  «Nazio- 
nale»  si  pubblic6  dal  i°  dicembre  1848.  Venuti  a  Firenze  gli  Austriaci,  il 
Tellini  fu  fatto  arrestare  (n  maggio  1849)  dal  generale  D'Aspre,  ma,  rila- 
sciato,  esu!6  a  Marsiglia,  donde  torn6  per  1'amnistia  del  23  novembre  1849. 
II  giornale  «//  Genio*  ebbe  carattere  letterario;  «LaLente»,  che  il  Tellini 
diresse  con  Bartolomeo  Fiani,  fu  un  foglio  umoristico  e  dur6  fino  al  1859. 
Tra  i  lavori  teatrali  del  Tellini  si  ricordino  /  ire  anniversari  e  Ippolito  De 
Bocarme.  Dopo  il  1859  ebbe  un  impiego  nella  prefettura,  e  mori  archivista 
in  Lucca.  Vedi  F.  MARTINI,  II  Quarantotto  in  Toscana,  cit,  pp.  450-1 
e  le  note  relative.  6.  Celestino  Bianchi  (1817-1885),  di  Marradi,  pubblici- 
sta,  collabor6  a  «La  Patria»,  al  «Nazionale»,  fondo  la  «Biblioteca  civile 
deU'italiano)).  Vedi  anche  la  nota  9  a  p.  436.  Dal  1872  diresse  il  quotidiano 
« La  Nazione »  di  Firenze. 


1038  FERDINANDO   MARTINI 

zionale»  che  sotto  la  sua  direzione  fu  il  portavoce  del  democratici 
piu  accesi.  Ristaurata  la  dinastia  granducale  ed  entrati  gli  Austriaci 
in  Toscana  stim6  prudente  riparare  a  Marsiglia;  ma  sia  che  gli 
atti  suoi  non  meritassero  car  cere  o  esilio,  sia  che  profittasse  del- 
ramnistia,  fatto  sta  che  pote  tornare  a  Firenze  e  dirigervi  col  Bian- 
chi  un  giornale  letterario  « II  Genio  »  il  quale  ebbe  redattori  molti 
ed  illustri,  lettori  pochi,  la  piu  parte  gratuiti  e  poco  dur6.  Costretto 
a  campare  la  onesta  vita  altrimenti,  s'arrabatto  nel  fare  un  po'  di 
tutto :  tra  Taltro  commedie  e  drammi  poco  meditati,  poco  pagati, 
presto  dimenticati.  Da  ultimo,  fondc-  un  giornale  «La  Lente»  di 
cui  ci  sara  tempo  a  discorrere.  Era,  come  ho  detto,  amico  di  fami- 
glia  e  poiche  ebbe  messo  su  una  tipografia,  mio  padre  per  aiutarlo 
gli  rega!6  il  manoscritto  di  alcune  fra  le  proprie  commedie  ed  egli 
le  pubblic6  raccolte  in  un  volume  che  ebbe,  segnatamente  in 
Toscana,  spaccio  fortunatissimo. 

Fu,  come  ho  detto,  pregato  di  menarmi  lui  a  vedere  il  sole  alia 
Pergola.  Stavamo  in  platea  aspettando  che  1'opera  incominciasse, 
quando,  data  intorno  un'occhiata,  —  Guarda  lassu  —  mi  disse  —  al 
quart'ordine.  Lo  vedi  quel  vecchietto  ?  £  il  Guadagnoli. 

I  suoi  versi  non  li  avevo  letti,  ma  sentivo  di  continue  in  citta  i 
venditori  ambulanti  off r ire  a  gran  voce  il  Lunario  del  Baccelli  con 
le  sestine  del  Guadagnoli;  e  in  quel  no  me  vociato  per  le  strade  e  per 
le  piazze,  consisteva,  secondo  il  mio  piccolo  cervello  la  gloria,  anzi 
quanto  della  gloria  e  piu  desiderabile.  Saputo  che  il  Tellini  lo 
conosceva,  non  lo  lasciai  piu  benavere :  lo  facesse  conoscere  anche 
a  me;  e  tanto  implorai  che  nelFintervallo  fra  il  secondo  e  il  terzo 
atto  mi  ci  condusse. 

II  poeta  m'accarezz6,  mi  domand6  dove  e  che  cosa  studiassi,  io 
risposi  balbettando  qualche  parola,  poi  i  due  presero  a  parlare  fra 
di  loro.  Sulle  prime  la  cosa  and6  liscia;  ma  s'ingarbuglio  maledetta- 
mente  quando  il  Guadagnoli  non  so  a  che  proposito  usci  a  felicitarsi 
delle  condizioni  della  Toscana  tornata  in  quiete  dopo  le  convul- 
sioni  del  '48.  II  vecchio  liberale  fra  meravigliato  e  stizzito  si  ac- 
calorava  nel  ribattere,  il  poeta  si  ostinava  con  pacatezza  nel  con- 
fermare  il  gia  detto:  da  ultimo  Puno  sussurrc-  irosamente: 

—  Ma  ci  sono  i  tedeschi,  perdio! 
El'altro: 

—  Si  ma  i  galantuommi  possono  finalmente  godere  di  un  po'  di 
pace. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1039 

II  Tellini  non  replied :  presomi  per  un  braccio  mi  scaravent6  fuori 
del  palco,  sbatacchi6  la  porta  e  invece  di  tornare  in  platea,  muto  e 
fremente  mi  trascino  seco  nella  strada  piu  che  di  passo  e  mi  ri- 
condusse  a  casa.  Cosi  mentre  il  sole  agognato  sorgeva  sul  palco 
scenico  della  Pergola,  io  per  le  buie  vie  di  Firenze  trattenevo  a 
stento  le  lacrime.  Chi  pu6  dire  oggi  che  cosa  allora  pensassi  ?  pro- 
babilmente  che,  avesse  pur  torto  il  Guadagnoli,  qualche  cosa  biso- 
gnava  pur  perdonare  a  un  poeta  il  cui  nome  suonava  sulle  labbra  di 
tutti  i  venditori  ambulanti. 


Ma  dove  lascio  il  Rossini  che  fu  mio  maestro  di  musica?  Non 
ridete  che  c'e  poco  da  ridere :  fu  mio  maestro  di  musica. 

Veniva  in  casa  spesso,  tra  Jl  1846  e  il  1847.  S'era  messo  in  capo  di 
scrivere  insieme  con  mio  padre  (ho  documenti  che  lo  attestano) 
una  commedia :  //  banchiere  e  il  giornalista,  e  di  porre  in  scena  due 
personaggi  in  Toscana  notissimi.  Se  ne  and6  poi  e  la  commedia 
rimase  alle  prime  scene. 

Lo  ritrovai  quattro  o  cinque  anni  dopo  alle  mattinate  di  Monsi- 
gnor  Ferdinando  Minucci  arcivescovo  di  Firenze  e  lontano  parente 
della  mia  famiglia.  Monsignore  era  della  musica  appassionatissimo 
e  nell'arcivescovado  capitavano  quanti  rinomati  tenori  o  baritoni 
passavano  via  via  da  Firenze.  La  domenica  da  mezzogiorno  al  tocco 
si  cantava:  ci  sentii  rivanoff,1  ci  sentii  un  terzetto  (se  non  sbaglio 
doll'Italiana  in  Algeri)  cantato  dal  Donzelli2  che  aveva  piu  di  ses- 
santa  anni  e  una  voce  freschissima,  da  Monsignore  e  dal  Rossini 
stesso,  il  quale  per  giunta  accompagnava  al  pianoforte. 

Mi  ricordo  che  una  di  quelle  domeniche,  proprio  sul  piu  bello 
delPaccademia,  entro  ratto  e  affannato  un  canonico  Landi  e  ad  alta 
voce,  interrompendo  non  so  quale  duetto  buffo,  annunzi6  la  morte 
di  Silvio  Pellico.3  Monsignore  si  alz6  e  prese  a  enumerare  con  ac- 
cento  di  grave  rammarico  i  meriti  delPestinto.  II  panegirico  andava 
per  le  lunghe  e  il  Rossini  che  non  s'era  mosso  dal  pianoforte,  forse 
seccato,  comincio  a  improwisare  li  per  li  una  marcia  funebre. 
Non  so  se  fosse  una  bella  cosa;  so  che  tutti  si  afTollarono  intorno  al 

i.  Ivanoff:  tenore  allora  molto  celebrate.  2.  Domenico  Donzelli  (1*790- 
1873),  di  Bergamo,  celebre  tenore  che  trionfd  in  tutta  TEuropa  e  per  il  quale 
scrissero,  tra  gli  altri,  Bellini,  Rossini,  Donizetti.  3.  Silvio  Pellico  morl 
il  31  gennaio  1854. 


1040  FERDINANDO   MARTINI 

maestro,  che  Tarcivescovo  segn6  le  battute  con  un  dondolio  della 
testa  e  del  povero  Pellico  nessuno  ne  par!6  piu. 

Poco  innanzi  quel  tempo  mi  menarono  a  far  visita  alia  signora 
Rossini,  Olimpia  Pellissier,1  seconda  rnoglie  del  Maestro,  di  mera- 
vigliosa  bellezza  trent'anni  prima,  quando  il  Vernet2  la  ritrasse  nella 
Giuditta  del  Museo  di  Versailles. 

C'erano  il  Maestro,  tre  o  quattro  amici  suoi  e  un  cane  barbone; 
un  cane  intignato,  schifoso,  pestilenziale,  delizia  e  cura  della  pa- 
drona  di  casa;  gli  avrebbe  sacrificato  la  fama  del  marito  senza  nean- 
che  pensarci.  Quella  bestiaccia  puzzolente  e  strinata  si  strascicava 
dai  ginocchi  di  questo  ai  ginocchi  di  quello ;  e  questi  e  quegli  con 
sguardi  saettanti  Podio  e  invocanti  Faccalappiatore  municipale, 
ma  con  garbo  carezzevole  affinchd  la  signora  non  si  adirasse,  se  lo 
levavano  d'attorno  passandoselo  Fun  Taltro,  per  modo  che  la  pena 
dell'averla  addosso  fosse,  cosi  com' era  profonda,  anche  breve  e 
comune. 

Alia  fine  la  fetida  carcassa  arriv6  fino  a  me ;  ero  accanto  alia  signo 
ra,  non  potevo  naturalmente  dirle :  se  lo  pigli  lei.  Non  ebbi  il  co- 
raggio  di  rimetterlo  in  terra  affinche  rifacesse  il  giro ;  mi  si  accocco!6 
in  grembo  sbadigliando  per  la  beatitudine  dell'insperato  riposo  e  ci 
s'addorment6!  Chi  pu6  descrivere  la  tenerezza  delle  occhiate  amo- 
rose  che  mi  Ianci6  la  signora  Rossini  ?  S'io  non  avevo  dodici  anni 
e  lei  sessanta  a  un  bel  circa,  chi  sa  come  sarebbe  andata  a  finire. 
Vero  e  che  non  me  ne  toccava  piu  di  mezza  per  volta;  comincia- 
vano  da  me  e  finivano  sul  can  barbone.  E  dopo  le  occhiate,  gli 
elogi  della  mia  compostezza  (sfido  a  muoversi),  del  mio  ingegno, 
della  mia  statura;  non  fu  cosa  che  in  me  non  lodasse. 

—  Tu  en  dois  faire  un  mudden  —  disse  volta  al  Maestro  che  non 
rispose ;  ma  lei  tre  o  quattro  volte  ripete"  lo  stesso  invito  con  la  f rase 
medesima,  sempre  interrompendo  i  discorsi  ch'ei  faceva  con  al- 
cuno  degli  ospiti.  Per  chetarla  (mi  accorsi  benissimo  che  di  sentirmi 
cantare  il  Rossini  non  aveva  nessun  desiderio)  si  alz6  e  mi  chiam6 
al  pianoforte.  Una  voce  intima  mi  diceva  che  non  mi  sarei  fatto 
onore,  nondimeno  fui  lietissimo  di  quella  chiamata  che  mi  libe- 


i.  Olimpia  Pelissier,  che  aveva  curato  il  Rossini  a  Parigi  durante  una  sua 
malattia  (1832),  visse  poi  sempre  con  lui,  gia  separate  dalla  prima  moglie, 
Isabella  Colbran.  Morta  la  Colbran,  il  Rossini  spos6  (1846)  la  Pelissier. 
La  grafia  del  Martini  e  probabilmente  mero  errore  tipografico.  2.  Ho 
race  Vernet  (1789-1863),  pittore  soprattutto  di  battaglie  e  ritratti  «eroici». 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       1041 

rava  dal  miasma,  il  quale  se  fosse  durato  mi  avrebbe  ucciso  nel  fiore 
dell'eta. 

Consegnai  alia  signora  il  dolce  pegno;  lei  se  lo  riprese,  se  lo 
accarezzo,  gli  chiese  scusa  di  averlo  svegliato,  e  forse  si  rimprover6 
in  cuor  suo  di  non  aver  preveduto  che  per  creare  Tartista  bisognava 
disturbare  il  barbone. 

Rossini  canticchio  un  motive,  una  melopea,  della  quale  non  mi 
ricordo,  e  se  anche  me  ne  ricordassi  sarebbe  tutt'una.  Mi  ricordo 
bensi  le  parole: 

Fra  Martino  campanaro 
suona  bene  le  campane 

Din,  don,  don. 

Rossini  seduto  indicava  le  note  sul  pianoforte,  io  dietro,  dietro. 
Mi  ci  provai  piu  volte ;  sentivo  (per  esser  chiari :  avevo  il  sentimento) 
che  non  s'andava  bene  e  mi  vergognavo  e  maledicevo  il  cane,  ca- 
gione  dell'infausta  prova;  guai  se  lo  avessi  avuto  fra  le  mani  o  fra 
le  ginocchia  in  quel  punto.  Ogni  tanto  il  maestro  smetteva  di  toe- 
care  i  tasti  e  mi  guardava  di  sbieco  stringendo  le  labbra:  alia  fine 
s'impazienti:  do,  do,  do,  e  picchiava  sul  tasto  e  pareva  volesse  dire: 
Ci  vuol  tanto  ?  Proviamo  piu  basso ;  e  io  una  nota  diversa,  anzi  una 
nota,  credo,  non  inventata  da  Guido  Monaco.1  Proviamo  piu 
alto:  mi  usci  di  gola  tale  un  grido  squarciato,  come  di  pappagallo 
in  furia,  che  il  Rossini  si  tur6  con  le  mani  gli  orecchi,  e  alzandosi : 

—  Tusatt  (ragazzo,  in  bolognese),  —  mi  disse  —  spero  che  tu  di- 
venga  un  brav'uomo!  ma  una  nota  giusta  non  Pazzeccherai  se  tu 
campassi  cento  anni. 

Grande  contrassegno  del  genio  la  divinazione! 

[RICORDO  DI  BRACCIO  BRACCI]* 

Cappello  di  feltro  nero  dalle  ampie  rigide  falde;  giacchetta,  pan- 
ciotto,  pantaloni  neri ;  il  panciotto  alto  abbottonato  sino  alia  gola, 
sul  quale  e  sin  quasi  alle  spalle  scendevano,  lasciando  libero  il 

i.  Guido  Monaco:  Guido  d'Arezzo  (995-1050),  monaco  benedettino,  cui  si 
debbono,  tra  1'altro,  la  denominazione  e  Tindividuazione  delle  sette  note 
musicali.  2.  Ed.  cit.,  dal  cap.  iv  (In  Parnaso\  pp.  67-80.  Braccio  Bracci 
(1830-1904),  di  Santa  Croce  sulPArno,  fu  letterato  e  poeta.  Tra  i  suoi  vo- 
lumi  di  liriche  e  rimasto  noto  quello  intitolato  Fiori  e  spine  (1856),  perch6 
diede  origine  alia  polemica  degli  «Amici  pedanti».  Ricordiamo  inoltre  le 
tragedie  Isabella  Orsini  (1851)  e  Pier  Luigi  Farnese  (1864). 

66 


1042  FERDINANDO   MARTINI 

collo,  i  larghissimi  solini,  onde  uscivano  svolazzanti  sin  verso  le 
ascelle,  le  piu  ample  cocche  di  una  cravatta  nera  anch'essa,  con  ac- 
curata  trascuranza  annodata.  Questo,  un  de'  tanti  «  modelli  del  ve- 
stire  all'italiana»  proposti  nel  1848  da  chi  aveva  tempo  da  per- 
dere,  pareva  a  Braccio  Bracci  Funico  abbigliamento  decente  per 
colui  che  vivesse  in  familiarita  con  le  Aonie  sorelle.1  Con  la  voce 
che  aveva  fortissima  e  da  quella  piazzetta  di  Orsanmichele2  giun- 
geva  fino  a'  Cerchi  da  un  lato  e  a  Calimala  dalPaltro  gridava:  — 
Livorno  ha  fmalmente  il  suo  gran  prosatore,  il  suo  gran  roman- 
ziere :  il  Guerrazzi.  Non  avra  dunque  mai  il  suo  poeta  ?  —  E  accalo- 
randosi  e  battendo  i  pugni  sul  tavolino :  —  Dovra  —  soggiungeva  — 
contentarsi  di  far  ridere  il  mondo  con  i  versi  di  Amedeo  Tosoni  ? 

Questo  Tosoni  era  un  povero  diavolo  andato  in  cerca  di  pane 
(com'egli  stesso  narr6  nelle  sgrammaticature  dej  suoi  Quaran- 
tun'anno  di  vita  trascorsi)  prima  nel  Brasile  poi  nelPAffrica  setten- 
trionale  facendo  il  soldato,  il  coltivatore  di  caffe,  il  giovine  di  banco, 
il  cameriere,  il  corista  e  non  so  quale  altro  onesto  mestiere.  Ora 
tornato  in  patria  e  «avendo  per  natura  diritto  alia  sussistenza» 
offriva  «alla  generosita  dei  concittadini,  le  proprie  benche*  tenui 
composizioni ».  I  suoi  versi  eran  passati  in  proverbio:  e  il  buon 
Antonio  Calvi3  che  nelPistituto  Rellini  tentava  impennare  le  ali 
ai  miei  estri  stitici  e  pigri,  piu  d'una  volta  nel  restituirmi  la  Can 
zone  alia  Vergine  o  VOde  alVusignolo  aveva  pronunziata  questa 
sentenza:  aroba  da  Tosoni ».  Piu  che  a'  versi  credo  dovesse  la  gio- 
conda  nomea,  se  la  frase  m'e  lecita,  a  una  epigrafe  che  migliaia  di 
Toscani  mezzo  secolo  fa  sapevano  a  memoria.  Nel  1853,  inizian- 
dosi,  presente  il  Granduca,  i  lavori  per  Tingrandimento  del  porto  di 
Livorno,  il  Tosoni  non  toller6  mancasse  alia  solennita  la  sua  «tenue 
composizione ».  Scrisse  e  stamp6  il  suo  bravo  sonetto,  e  a  mo'  di 
titolo  vi  prepose  una  epigrafe,  la  quale  io  trascrivo,  non  per  dare 
un  saggio  di  quella  letteratura,  ma  perch6  certe  cose  se  non  si  aves- 
sero  sott'occhio  non  si  crederebbero.  Eccola: 

« Nella  occasione  della  ricorrenza  del  giorno  della  festa  del  getto 
della  pietra  del  molo  del  porto  della  citta  di  Livorno.  Sonetto.» 

II  Bracci  dunque  ambiva  ad  esser  lui  (e  se  anche  men  grande 

i.  le  Aonie  sorelle:  le  Muse.  2.  quella  . . .  Orsanmichele:  i  poeti  della  Firen- 
ze  del  tempo  si  riunivano  in  una  trattoria  chiamata  Alia  Lira,  che  sorgeva 
incontro  al  lato  meridionale  della  chiesa  di  Orsanmichele.  3.  Antonio 
Calvi:  insegnante  di  eloquenza  nell'istituto  Rellini. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1043 

del  romanziere  e  prosatore,  pazienza)  il  poeta  della  citta  marittima, 
che  poeti  di  grido  non  ebbe  mai  nel  passato ;  e  scriveva  liriche  e  tra- 
gedie.  Importa  avvertire  che  in  casa  Bracci  Melpomene  non  entro 
la  prima  volta  con  lui;  avanti  ch'egli  nascesse,  fu  gia  in  relazioni 
con  la  famiglia.  II  padre,  Giovanni,  calzolaio  di  Castelfranco  nel 
Valdarno  inferiore,  aveva  scritto  e  fatto  rappresentare  alia  Quar 
conia1  in  Firenze  un  suo  Conte  Ugolino,  tragedia  in  cinque  atti  ed 
in  versi. 

La  Quarconia  era,  su  per  giu  nella  Firenze  del  1840  o  in  quel 
torno,  ci6  che  fu  a  Parigi,  ne?  primi  anni  del  secondo  impero,  il 
Petit  Lazari  che  Arturo  Meyer2  ha  or  e  poco  descritto :  un  teatro 
popolare  dove  per  due  crazie  (quattordici  centesimi)  si  trattenevano 
gli  spettatori  dalle  sette  al  tocco  dopo  la  mezzanotte.  In  una  mede- 
sima  sera  tragedia,  farsa,  ballo,  esercizi  acrobatici,  pantomima, 
concerto  di  violino  e  giochi  di  bussolotti.  L'intelletto  usciva  natu- 
ralmente  ben  nutrito  da  cosi  diverso  e  lungo  spettacolo,  ma  affin- 
ch6  lo  stomaco  non  ne  patisse  altrettanto,  si  mangiava  e  beveva  nei 
palchi  e  nella  platea  con  varieta  di  utili  effetti;  tra  F  altro,  il  pubblico 
che  recitava  clamoroso  la  parte  del  coro  antico,  poteva,  proweduto 
com' era  di  vettovaglie,  sostenere  con  1'elargizione  di  arance  belPe 
sbucciate  le  forze  deU'innocenza  in  pericolo  e  colpire  con  le  scorze 
il  tiranno  persecutore. 

Attore  acclamatissimo,  un  Ghirlanda  vi  recitava  il  Saul  cosi: 

BelValba  &  questa  in  sanguinoso  ammanto. 
(Punto  fermo.) 

Oggi  non  sorge  il  sole. 

(Altro  punto  fermo.) 

Ma  le  tragedie  dell'Alfieri  non  tanto  deliziavano,  quanto  quelle 
del  cavaliere  Filippo  Quaratesi,3  un  altro  Tosoni,  salvo  che  prosun- 
tuosissimo:  tale  da  credersi  e  spacciarsi  erede  ed  emulo  dell'Asti- 
giano.  £  tuttavia  famoso  il  suo  Crispo  nel  quale  non  voile  piti  emu- 
lare  T Alfieri,  ma  correggere  il  Racine ;  il  Crispo  ha  infatti  lo  stesso 
argomento  della  Fedra. 

i .  Quarconia :  teatro  popolare,  che  prese  poi  il  nome  di  Leopoldo  e,  succes- 
sivamente,  quello  di  Nazionale.  2.  Arturo  Meyer,  giornalista  e  scrittore 
francese,  fondatore,  verso  la  fine  del  secondo  Impero,  del  quotidiano  « Le 
Gaulois».  3.  Di  Filippo  Quaratesi  apparve  nel  1823,  a  Firenze,  unpoema 
in  diciannove  canti,  Le  nozze  di  Admeto,  giudicato  da  G.  MAZZONI  (L'Ot- 
tocento,  cit.,  p.  436)  un  «orrore». 


1044  FERDINANDO   MARTINI 

L'ancella  chiede  alia  regina  straziata  dall'intima  fiamma: 

Nomami  Voggetto 

per  cui  a  guisa  di  cera  al  fuoco  esposta 
a  colpo  d'occhio  struggere  ti  veggio. 

Un  personaggio  si  scusa  dell'essere  andato  a  letto  anzi  che  ese- 
guire  un  ordine  impartitogli : 

AL  dover  mio 

mancai  ieri,  la  causa  anteponendo 
mia  personal  di  coricar  mio  fianco. 

II  padre  al  figlio  incestuoso: 

Tumulta  sotto  il  bronzo  un  tal  misfatto 
e  quanto  aver  pud  relazione  a  questo. 

In  quel  teatro  innanzi  a  quel  pubblico  il  buon  « lavoratore  della 
scarpa»  fece  rappresentare  il  suo  Conte  Ugolino.  Nella  parte  del 
protagonista  era  un  endecasillabo : 

Ho  fame,  ho  fame,  ho  fame,  ho  fame,  ho  fame 

che  1'attore  doveva  pronunziare,  facendo  pausa  fra  1'una  e  1'altra 
di  quelle  esclamazioni,  dopo  ogni  pausa  abbassando  il  tono  della 
voce;  si  che  da  ultimo  il  quasi  estinguersi  di  quella  annunziasse 
imminente  1' estinguersi  della  vita.  Gli  uditori  si  sarebbero  certa- 
mente  commossi  a  quella  ognor  piu  fievole  doglianza  delle  angosce 
digiune,  se  (com'io  seppi  gia  da  chi  fu  presente  alia  recita)  un 
beirumore  non  avesse  scagliato  un  semel1  ai  piedi  del  Conte  pi- 
sano,  gridando :  —  Piglia,  mangia  e  chetati . .  .  —  Quell' inopinato 
soccorso  mut6  la  condizione  delle  cose  e  degli  animi :  entrato  nella 
mudcf  di  che  cibarsi,  non  c'era  piu  da  commoversi:  la  tragedia  non 
solo  perdeva  della  sua  terribilita,  ma  si  chiudeva  con  lieto  fine. 
Difatti  Anselmuccio  e  Gaddo  prima  estenuati  e  giacenti,  si  leva- 
rono  agili  e  vispi  e  il  guelfo  signore  lieto  di  farla  in  barba  all'arcive- 
scovo  Ruggeri,  tirata  una  reverenza  in  segno  di  gratitudine,  ordin6 
si  calasse  il  sipario. 

Raccontano  i  cronisti  che  al  pericoloso  endecasillabo  sostituita 
una  parafrasi  delle  terzine  dantesche,  la  tragedia  rappresentata  a 

i.  semel:  panino  di  fiore  di  farina  lievitato  con  lievito  di  birra  (dal  tedesco 
Semmel),  -z.muda:  cosl  era  chiamato  un  luogo  chiuso  dove  si  tenevano 
gli  uccelli  a  mudare,  mutare  le  penne.  Cfr.  Dante,  Inf.,  xxxm,  22. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1045 

Livorno  vi  ottenne  successo  felicissimo :  fece  versare  lacrime  co- 
piose  durante  quattro  atti  e  le  muto  al  quinto  in  singhiozzi;  co- 
munque  sia  di  ci6,  Tautore  o  pago  di  quella  rivendicazione,  o  rin- 
savito,  tor  no  dal  coturno  allo  stivaletto.  Una  cattiva  tragedia  non 
guasta  il  galantuomo,  e  perche  egli  era  tale,  educato  il  figlio  negli 
studi  che  a  lui  facevano  difetto,  lo  mand6  a  Pisa  per  addottorarvisi 
nel  giure;  e  vi  si  addottor6  non  so  come:  non  so  come,  cioe,  Brac- 
cio  fra  la  pubblicazione  di  due  volumi  di  versi  e  di  un  dramma  - 
Isabella  Orsini  -  trovasse  il  tempo  di  dare  un'occhiata  al  codice  e 
alle  pandette ;  ma  1'ingegno  talora  supplisce  a  tutto  ed  egli  aveva 
ingegno  davvero  e  fantasia  ricca  e  vena  abbondantissima  e  pranta: 
pronta  troppo  e  questo  fu  il  danno.  Non  poteva  stare  senza  far  versi ; 
fra  le  conversazioni  piu  animate  o  confuse  si  vedeva  Braccio 
astrarsi,  borbottare  pochi  minuti  e,  giu,  una,  due,  tre  strofe  facili 
e  sonore. 

Ce  n'era  de'  piu  corti  e  de}  piu  lunghi, 

ma  i  versi  mi  venivan  come  i  funghi,1 

diceva  il  Pananti  di  se  ragazzo ;  i  versi  del  Bracci  avevano  tutti  in- 
vece  la  giusta  misura,  ma  appunto  perche  venivano  come  i  funghi 
anche  a  lui,  troppo  spesso  sapevano  d'improvvisato,  con  tutti  i  di- 
fetti  deirimprowisazione;  e  tra  concetti  felici  in  eleganza  di  forme, 
rime  dozzinali  e  imagini  strampalate. 

Ne  quel  continuo  grattar  Varpa  (che  nel  Parnaso  d'allora  era  lo 
strumento  preferito)  sarebbe  stato  gran  male,  se  non  lo  avesse  se- 
guito  la  fregola  impaziente  del  dare  alle  stampe.  Chi  abbia  il  co- 
raggio  di  sfogliare  i  giornalucoli  fiorentini  del  '57  vi  leggera  il  nome 
del  Bracci  fatto  segno  alle  collere  furibonde  de'  critici  (la  cui  prosa 
meritava  collere  furibonde  ancor  piu)  a  cagione  di  certo  sonetto 
improwisato  da  lui  all'uscire  dal  teatro  dove  s'era  infanatichito  nel 
veder  ballare  la  Sofia  Fuoco  in  una  «azione  coreografica »  non  ri- 
cordo  se  del  Viganb  o  del  Cortesi  :2  sonetto  che  nonostante  il  con- 
siglio  degli  amici  egli  s'affrettb  a  pubblicare  la  mattina  dipoi.  Son 
corsi  piu  che  cinquant'anni  ed  io  Pho  a  mente  cosi  come  mi  fu 
detto  da  lui : 

i.  I  versi  appartengono  al  poema  del  Pananti  II  poeta  di  teatro  (vedi  pp. 
4  sgg.).  2.  Sofia  Fuocoy  celebratissima  ballerina,  trionfava  allora  soprat- 
tutto  nel  ballo  La  figlia  del  bandito,  che  si  rappresentava  al  teatro  dei 
Solleciti  in  Borgognissanti ;  Salvatore  Vigano  e  Antonio  Cortesi  furono 
entrambi  molto  stimati  coreografi:  del  primo  ebbe  accoglienze  trionfali 
//  Prometeo,  dato  per  la  prima  volta  a  Milano  nel  1813. 


1046  FERDINANDO   MARTINI 

Pria  che  in  te  m'incontrassi,  angelo  arcane, 
il  tumulto  del  balli  ebbi  a  disdegno; 
e  piansi  il  lauro  che  sul  crin  profano 
seppe  alia  Mima  il  mio  sever o  ingegno. 

Ma  .tremendo  e  il  %uo  genio;  esso  d'umano 
non  ha  che  il  nome;  e  prepotente  a  segno, 
ch'io,  dairempia  de*  Sofi  ira  lontano, 
se  avessi  un  regno  ti  offrirei  quel  regno. 

Baciarti  Varco  delle  ciglia  nere 
non  e  dato  ai  mortali;  hanno  i  Celesti 
coi  Celesti  supreme  estasi  vere. 
Oh!  se  dato  mi  fosse  e  al  guardo  mio 
syinchinassero  i  cieli,  i  deli  avresti 
e  a  te  prostrato  non  sarei  piu  Dio! 

Salvo  la  chiusa  pazzesca,  Vittore  Hugo  aveva  dette  le  stesse  cose, 
ma  le  aveva  dette  un  po'  meglio : 

Sij'etais  Dieu,  la  terre  et  Vair  avec  les  ondes 
les  anges  les  demons  courbes  devant  ma  loi 
et  le  profond  chaos  aux  entrailles  profondes, 
Veternite,  Vespace  et  les  deux  et  les  mondes 
pour  un  baiser  de  toil 


II  Guerrazzi  gli  voleva  molto  bene  e  sul  principio  aveva  riposte 
in  lui  grandi  speranze.  Dalla  terra  d'esilio1  gli  mandava  suggeri- 
menti,  precetti  e  rimproveri  addolciti  da  parole  amorevoli.  In  una 
di  quelle  lettere  da  Bastia,  lunghissima,  bellissima  e  tuttavia  ine- 
dita  che  il  Bracci  stesso  mi  rega!6  poco  innanzi  la  morte,  gli  scri- 
veva  tra  Paltro : 

«  S'io  dubitassi  delle  facolta  sue  tacerei ;  ma  appunto  perche  ci  fido 
parlo  e  senza  rispetto.  In  lei  mi  parve  abbondare  la  potenza  lirica:  e 
sperai  che  solo  per  buono  spazio  di  tempo  si  chiudesse  nella  lirica. 
Ora  in  tutto,  ma  nella  poesia  in  ispecie,  massima  parte  di  bellezza  e 
la  forma,  la  quale  deriva  dalla  piu  recondita  cognizione  della  fa- 
vella:  questo  poi  e  studio  lungo,  arduo,  religioso  ed  io  confesso 
che  comunque  dalla  infanzia  me  ne  mostrassi  tenacissimo  cultore, 
non  sono  riuscito  nemmeno  imperfettamente  ad  apprenderla.  Le 

i.  Dalla  terra  d'esilio:  dopo  i  fatti  del  1849  il  Guerrazzi  fu  condannato  al- 
1'ergastolo,  commutatogli  nell'esilio  a  Bastia,  in  Corsica. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       1047 

sue  scritture,  di  questo  studio  (ah!  lasci  ch'io  glielo  dica  da  padre) 
non  mi  rivelano  traccia  .  .  .  Di  un  tratto  lasciato  a  mezzo  Parringo 
lirico  ella  si  e  con  giovanile  baldanza  spinto  in  quello  del  dramma  e 
mi  accerta  aver  posto  o  voler  porre  sul  cantiere  o  Giovanna  di  Na- 
poli,  o  Baldovino  di  Fiandra,  o  Maria  di  Campo  San  Piero,  o  Al- 
boino,  o  David  ecc.  A  dirgliela  schietta  io  mi  son  fregato  gli  occhi 
pensando  di  sognare.  II  dramma  storico  in  questo  periodo  di  civilta 
in  ispecie  vuole  cognizioni  profonde  delPuomo  in  genere  e  poi 
delPuomo  individualmente  ritratto,  cognizione  dei  tempi,  dei  modi 
di  pensare,  di  vivere  epper6  di  sentire  spesso  non  pari  in  tutti  i 
tempi,  in  tutto  bensl  vari,  molteplici,  talora  a  questi  nostri  con- 
trarii ...  La  notizia  semplice  del  fatto  come  espongono  le  storie 
non  basta . .  .  Ora  se  Ella  &  tale  da  potere  con  la  dote  degli  studi 
da  me  tocchi  di  volo  trattare  tanti  e  si  vari  argomenti,  io  la  bandisco 
addirittura  il  Pico  della  Mirandola  della  eta  nostra.  Ma  no  signore, 
ella  non  ha  n£  pu6  avere  cosi  largo  tesoro :  per6  annacqui  il  suo  vino, 
e  se  la  vera  fama  le  piace,  e  questa  sola  e  desiderabile,  posi  1'animo 
e  mediti  lungamente  alia  sentenza,  nil  sine  magno  vitae  Idbore  con- 
ceditur  mortalibus.1'  Studi,  studi,  studi  e  riuscira:  in  altro  modo, 
no;  e  se  lascera  dietro  a  s6  vestigio,  sara  qual  fumo  in  aere  ed  in 
acqua  la  spumaw.2 

Di  tali  ammonimenti  facesse  o  no  tesoro  il  Bracci,  li  tenne  a  ogni 
modo  per  s£:  e  pubblic6  invece  nelPultima  pagina  di  una  nuova 
raccolta  di  liriche  -  Fieri  e  Spine  -  una  lettera  del  Guerrazzi  di  data 
anteriore.  In  essa  Pesule  cui  erano  pervenuti  alcuni  versi  di  lui 
«  come  la  penna  di  un  uccello  che  passando  lascia  cadere  dalPala » 
giudicava  quella  «  penna  d'uccello  destinato  a  gran  volo»  e  esortava 
il  giovine  concittadino  studiasse  « la  poesia  dej  poeti  alemanni  mo- 
derni  e  dei  Polacchi  e  degli  Scandinavi  e  perfino  dei  Russi »  che  gli 
aprirebbe  «nuovi  ed  immensi  orizzonti». 

Giosue  Carducci che  gia nel  '53,  tuttavia scolare nella Normale  di 
Pisa  scriveva  a  Giuseppe  Chiarini  «maledetto  infamissimo  secolo 
in  cui  nacqui,  intedescato,  infranciosato,  inglesante,  biblico,  orien- 
talista  tutto  fuor  che  italiano  e  qui  perdio!  bisogna  essere  italiani»;3 

i.  nil .  .  .  mortalibus:  1'espressione  e  in  Orazio,  Sat.,  I,  ix,  59-60,  ma  Ora- 
zio  la  usa  ironicamente  e,  inoltre,  scrive  vita  e  non  vitae.  2.  qual  fumo  .  .  . 
la  spuma :  riprende  un  verso  di  Dante,  Inf. ,  xxiv,  51.  3 .  Giosue  .  .  .  italiani : 
la  lettera  clel  Carducci,  diretta  non  al  Chiarini,  ma  al  Gargani  (vedi  la 
nota  2  a  p.  1048),  Vn  settembre  1853,  e  in  Epistolario,  i,  p.  60. 


1048  FERDINANDO   MARTINI 

che  credeva  la  ccscellerata  astemia  romantica  famigliaw1  traditrice 
della  patria  e  rammaricava  Apolline  fuggito 

dal  suol  latino 
cedendo  innanzi  a  Teutale 
ed  alVinforme  Odino, 

figurarsi  se  per  quelle  esortazioni  scatt6 ;  e  sarebbe  saltato  lui  ad- 
dosso  al  Bracci  e  al  Guerrazzi  occorrendo,  se  non  lo  preveniva  un 
amico:  Torquato  Gargani.2 

Prima  di  andar  compagno  al  Carducci  nelle  scuole  del  Padri  Sco- 
lopi,3  il  Gargani  aveva  fatto  le  classi  di  umanita  nell'Istituto  Rellini: 
e  vi  tornava  in  occasione  degli  esperimenti  a  leggervi  prose  e  versi 
di  sua  fattura,  gloriosi  esempi  proposti  airammirazione  di  noialtri 
alunni;  rammento  avervelo  udito  recitare  con  molta  enfasi  alcune 
ottave  sulla  Distruzione  di  Gerusalemme. 

II  Carducci  lo  descrisse  ccfigura  etrusca  scappata  via  da  un'urna 
di  Volterra  o  di  Chiusi  con  la  persona  tutta  ad  angoli,  e  con  due 
occhi  di  fuoco  ».4  Non  so  se  questa  sia  una  forma  caritatevole  per  si- 
gnificare  che  il  Gargani  era  brutto ;  ove  non  sia,  io  senza  fare  offesa 
n6  al  Carducci  ne  alle  urne  di  Volterra  o  di  Chiusi  debbo  dire  che  il 
Gargani  era  bruttissimo,  brutto  come  pochi  uomini  sono.  Per 
giunta  quando  io  lo  udii  declamare  quelle  tali  ottave,  teneva  la  testa 
coperta  da  una  papalina  di  incerato  nero,  su  cui  erano  visibilmente 
impresse  le  tracce  di  sudate  fatiche.  La  tigna  onde  fu  per  alcun 
tempo  affetto  prima  lo  costrinse  a  radersi  il  cranio  sino  alia  nuca, 
poi  a  nascondere  le  piaghette  onde  il  fungo  non  peranco  supposto 
gli  aveva  chiazzato  la  cute. 

i.  ascellerata  .  .  .famiglia»:  vedi  Carducci,  Brindisi  (in  Juvenilia),  w.  7-8. 
E  dalla  stessa  poesia  (w.  30-2)  sono  tratti  i  versi  citati  subito  dopo; 
Teutale,  meglio  Teutates,  sarebbe  stato,  secondo  alcuni  studiosi,  il  mag- 
giore  dio  nazionale  dei  Celti,  awicmato  poi  e  identificato  con  varie  divinita 
romane;  Odino,  o  Wotan,  era  la  maggiore  divinita  della  mitologia  germani- 
ca.  2.  Giuseppe  Torquato  Gargani  (1834-1862)  fu  Tautore  della  Diceria 
suipoeti  odiernissimi  (1856).  La  Giunta  alia  derrata,  apparsa  subito  dopo,  fu 
invece  quasi  interamente  opera  del  Carducci.  Belle  pagine  sul  Gargani  si 
leggono,  oltre  che  nelle  carducciane  Risorse  di  San  Miniato,  in  B.  Cico- 
GNANI,  Vetafavolosa,  Milano,  Garzanti,  1943,  pp.  47-72.  3.  compagno  .  .  . 
Scolopi:  il  Carducci  frequent6  le  scuole  degli  Scolopi  dal  1849  al  1852. 
Cfr.  P,  VANNUCCI,  Carducci  e  gli  Scolopi,  Roma,  Signorelli,  1936,  pp.  14 
sgg.  4.  //  Carducci .  .  .  fuoco :  vedi  le  Risorse  di  San  Miniato,  composte 
nel  1882  (ora  in  Opere,  xxiv,  edizione  nazionale,  pp.  24  sgg,).  II  Carducci 
aveva  gia  scritto  del  Gargani,  alia  morte  deH'amico,  nelle  Veglie  letterarie 
(ristampate  in  Opere,  xix,  edizione  nazionale,  pp.  311-8). 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1049 

«  Anima  degna  »  dlsse  il  Carducci  di  lui :  il  corpo  non  fu  dunque 
degno  dell'anima;  ch'egli  ebbe  tutti  gli  aspetti  del  pedante  arci- 
gno,  del  barbassoro  intollerante  ed  intollerabile :  ed  io  non  posso 
ripensare  il  Granger  di  Cyrano  di  Bergerac1  senza  ricordarmi  il 
Gargani. 

Subito  che  conobbe  il  libercolo  delle  poesie  braccesche  questi 
si  pose  a  farne  la  recensione:  la  quale  poi  con  ampiezza  mag- 
giore  e  intendimenti  piu  larghi  divenne  la  Diceria2  famosa:  Di 
Braccio  Bracci  e  degli  altri  poeti  nostri  odiernissimi,  segnacolo  in 
vessillo  di  coloro  che  intitolatisi  Amid  pedanti  (il  Gargani  stesso, 
il  Carducci,  Giuseppe  Chiarini,  Ottaviano  Targioni-Tozzetti)3 
pubblicarono  quell'opuscolo  a  Firenze  neir estate  del  1856.  Se- 
condo  il  frontespizio  a  spese  loro:  ma  il  vero  e  che  i  quattro,  piii 
ricchi  d'ingegno  e  di  coraggio  che  di  pecunia,  sowenne  largamente 
un  giovine  signore  lucchese  dimorante  alia  capitale,  Raffaello  Ceru ; 
il  quale  odiava  i  novatori  di  un  odio  che  non  si  sarebbe  pensato 
annidarsi  in  uomo  di  sembianze  cosi  dolci  e  quasi  serafiche;  e  che 
pur  di  vaccinarsi  contro  all'infezione  romantica  spendeva  tutto  il 
suo  tempo  nel  tradurre  e  frequentare  i  latini :  tutto  il  giorno  a  Ca- 
tullo,  e  a  Lesbia  tutta  la  notte. 

Evocare  le  grandi  tradizioni  delFarte  paesana,  armarsi  contro 
all'irruzione  dello  scempiato  neoromanticismo  forestiero,  rilevare 
Pignoranza  de'  dilettanti,  frustare  i  versaioli  faciloni,  insegnando  la 
dignita  della  dottrina  e  la  gravita  degli  studi ;  questi  i  propositi  degli 
Amid  pedanti,  e  savi  propositi ;  ma  il  Gargani,  e  gli  altri  che  a  lui 
assentivano,  passarono  in  quel  libercolo  ogni  limite  segnato  dal 
buon  senso  e  dalla  decenza :  non  solo  accomunativi  con  verseggiatori 
e  novellieri  di  niun  conto,  ma  insieme  col  Bracci  sbertucciati  quale 
piu,  quale  meno,  il  Prati,  il  Bonghi,  il  Grossi,  il  Carcano,  il  Cantu,4 
il  Tommaseo,  il  Guerrazzi,  il  Manzoni.  Sicuro:  anche  il  Manzoni, 

i.  Hercule  Savinien  de  Cyrano  de  Bergerac  (1619-1655),  poeta  e  scrittore 
francese,  la  cui  figura  e  stata  trasfigurata  nel  notissimo  dramma  di  Edmond 
Rostand.  Tra  i  suoi  lavori  e  una  commedia,  Le  pedante  joue,  il  cui  protago- 
nista  si  chiama  Granger.  2.  la  Diceria:  su  di  essa  si  veda  O.  BACCI, 
G.  Carducci  e  gli  Amid  pedanti,  nel  volume  La  Toscana  alia  fine  del  gran- 
ducato,  Firenze,  Bemporad,  1909,  pp.  235  sgg.  3.  Giuseppe  Chiarini:  vedi 
la  nota  2  a  p.  911;  Ottaviano  Targioni-Tozzetti  (1833-1899),  di  Mercatale 
di  Vernio,  insegnante  a  Livorno  e  letterato.  4.  Ruggero  Bonghi:  vedi  la 
nota  2  a  p.  483;  Giulio  Carcano  (1812-1882),  autore  di  novelle  in  versi 
e  di  romanzi  (celebre  la  sua  Angiola  Maria,  del  1839) ;  Cesare  Cantu:  vedi 
la  nota  2  a  p.  362  e  le  note  a  p.  364. 


1050  FERDINANDO    MARTINI 

nonostante  la  sconfinata  ammirazione  che  gli  professava  il  Gior- 
dani,  dagli  Amid  pedanti  acclamato  e  venerate  duce  ed  oracolo. 
Ma  quando  si  trattava  di  Don  Alessandro  i  discepoli  si  ribellavano : 
non  ebbe  infatti  il  Giordani  discepolo  piu  amoroso  e  reverente  di 
Ferdinando  Ranalli,1  V ultimo  de*  puristi  come  lo  chiam6  il  De 
Sanctis.  Ebbene:  il  Giordani  stimava  i  Promessi  sposi  «uno  stu- 
pendo  lavoro  senofonteo »  e  il  Ranalli .  .  .  Ma  e  inutile  citare  i 
giudizi  che  ce  ne  da  nei  suoi  Ammaestramenti:  piu  spicciativo  ram- 
mentare  le  parole  da  lui  dette  a  Carlo  Francesco  Gabba2  suo  col- 
lega  nell'Universita  pisana:  «Pare  impossibile  che  con  cosi  piccolo 
ingegno,  il  Manzoni  abbia  potuto  far  tanto  male  alia  nostra  lettera- 
tura  ». 

Nella  Firenze  d'allora  placida  e  chiacchierina  la  Diceria  fu  un 
awenimento:  stampata  in  duecentocinquanta  esemplari  avresti 
detto  ne  fossero  usciti  dai  torchi  a  migliaia;  tutti  la  leggevano  o 
Favevano  letta,  e  come  nei  cafPe  cosi  nei  salotti  non  si  tenne  per  un 
pezzo  altro  discorso.  Non  ho  da  rifare  la  storia  delle  polemiche 
cui  essa  porse  occasione  e  che  durarono  -  nientemeno  -  dal  '56 
al  '58.  Basti  dire  che  non  vi  fu  giornale,  serio  o  faceto,  il  quale  non 
tartassasse  gli  Amid  pedanti ';  lo  «  Scaramuccia »  pubblico  settima- 
nalmente  il  bollettino3  della  salute  del  Gargani  che  fingeva  ricove- 
rato  nei  manicomio  di  San  Bonifacio. 

Ne  le  cose  potevano  andare  diversamente.  Pare  impossibile  che, 
fatta  astrazione  da  quant'era  d'iperbolico  nella  esposizione  delle  loro 
dottrine,  giovani  di  quell'ingegno  e  tutti  mazziniani  per  giunta,  non 
s'accorgessero  dell'errore  politico  che  commettevano.  Gridare  nei 
'57  contro  agli  uomini  del  « Conciliatore  »,4  bistrattare  il  Carcano 
nei  '48  legato  del  governo  prowisorio  milanese  a  Parigi,  il  Bonghi, 
il  Guerrazzi,  il  Tommaseo,  il  Prati  vaganti  per  le  vie  delPesilio,5 

i.  Ferdinando  Ranalli  (1813-1894),  di  Nereto  degli  Abruzzi,  professore 
all' University  di  Pisa,  autore  soprattutto  di  opere  storiche,  classicista  e  pu- 
rista.  Ha  lasciato  un  volume  di  Memorie  (vedi  E.  MASI,  Memorie  inedite  di 
F.  Ranalli,  I' ultimo  dei  puristi,  Bologna  1899).  2.  Carlo  Francesco  Gabba 
(1835-1920),  di  Lodi,  awocato,  giurista,  professore  all'Universita  di  Pisa. 
3.  Chi  faceva  quel  bollettino  era  lo  stesso  Martini.  4.  gli  uomini  del « Con 
ciliatore*:  i  romantici,  di  cui  il « Conciliatore »  era  stato  il  maggior  giornale. 
5.  il  Bonghi  .  .  .  esilio:  Ruggero  Bonghi,  gia  emigrato  da  Napoli  a  Firenze,  si 
rifugi6  in  Piemonte,  alternando  la  sua  dimora  fra  Torino  e  Stresa;  Fran 
cesco  Domenico  Guerrazzi,  dopo  r esilio  in  Corsica,  si  stabili,  nei  1857, 
a  Genova;  Niccol6  Tommaseo,  caduta  Venezia,  and6  esule  a  Corfu  e,  nei 
1854,  si  trasferl  a  Torino;  Giovanni  Prati,  espulso  dalla  Toscana  per 
ordine  del  Guerrazzi,  ripar6  in  Piemonte. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       1051 

1'Hugo  vittima  deH'impero  napoleonico1  considerate  allora  co 
me  il  massimo  impedimento  alia  liberta  dell' Italia,  era  difatti  un 
errore  politico  che  nessun  legittimo  desiderio  di  rirmovamento 
letterario  bastava  a  giustificare;  cio  e  tanto  vero,  che  mentre  i  fogli 
liberali  il  flagellavano,  gli  Amid  pedanti  noveravano,  senza  saper- 
lo,  tra  i  loro  partigiani,  il  Granduca.  Intrattenendosi  un  giorno 
Leopoldo  con  un  alto  impiegato  che  pizzicava  di  lettere,  intavo!6 
una  conversazione  circa  la  Diceria  e  Iod6  «  quei  giovanotti »  intenti 
ad  impedire  «  si  imbastardisse  la  nostra  bella  letteratura  ».  Non  po- 
teva  spiacergli  che  qualcheduno  dicesse  male  del  Guerrazzi:  se 
non  che  il  Guerrazzi  si  rideva  di  quelle  censure  e  di  lui :  e,  letta  che 
ebbe  la  Diceria,  scrisse  al  Bracci :  « II  signor  Gargani  ci  caccia  via 
dal  Paradiso?  Bene!  Ci  penseremo  quando  lo  promo veranno  sosti- 
tuto  a  San  Pietro:  per  ora  non  vedo  motive  di  affannarsene » 
(Lettere  inedite). 


Gli  anni  passarono,  le  passioni  sbollirono,  gli  studi  e  1'esperienza 
fecero  il  resto.  II  Chiarini  il  quale  allora  apostrofando  il  Lamartine 
fremeva 

che  pur  qui  v'dbbia  di  virtu  si  scemo 
chi  t'ammiri  e  rei  sensi  alle  tue  sorba 
indegne  carte, 

fu  poi  de'  primi  a  darci  notizia  di  scrittori  stranieri  e  tradusse  da 
par  suo  VAtta  Troll  e  la  Germania  del  Heine;  il  Carducci,  che  senza 
nulla  conoscere  del  Byron  e  del  Goethe,  nel  difendere  la  Diceria 
domandava:  «che  e  egli  cotesto  Faust}})  e  nelle  sonettesse  inveiva 
contro  alia 

schiuma  di  baironiani  e  goeteschi 
che  tuttavia  ginrate  in  su  i  tedeschi 
Inghilesi  e  Franceschi;2 


i.  Victor  Hugo,  proscritto  subito  dopo  il  colpo  di  Stato  di  Napoleone  Bo 
naparte,  visse  esule,  soprattutto  nelle  Isole  Normanne,  fino  alia  caduta  del 
secondo  Impero.  2.  I  versi  citati  sono  tolti  dalla  Sonetteria  seconda  in 
persona  di  Benedetto  Menzini.  Aipoeti  nostri  odiernissimi,  w.  52-4  (vedi  G. 
CARDUCCI,  Opere,  i,  edizione  nazionale,  p.  318). 


1052  FERDINANDO   MARTINI 

indottosi  finalmente  per  le  istanze  di  Enrico  Nencioni1  a  leggere  il 
Mannering  dello  Scott2  e  il  Tell  dello  Schiller,  ammir6  subito :  e  una 
volta  avviato  su  quel  carnmino  non  tard6  molto  a  persuadersi  che  il 
Boald3  (uso  1'ortografia  del  Gargani)  era  un  seccatore  e  VUgb*  un 
poeta,  nei  cui  volumi  potevano  magari  attingersi  ispirazioni  ed  ima- 
gini.  E  gli  animi,  che  erano  gentili,  si  riconciliarono.  Trent' anni 
dopo  quelle  contese  Braccio  Bracci  si  presentava  a  Michele  Cop- 
pino5  ministro  dell'istruzione  pubblica  con  una  lettera  di  Giosue 
che  dal  Coppino  passata  a  me  suo  segretario  generale6  tuttora  con- 
servo  :  e  la  pubblico  qui  affinche  ne  sia  rivendicato  il  nome  del  buon 
livornese,  d'ingegno  e  di  coltura  assai  diverso  da  quello  che  gli 
Amid  pedanti  raffigurarono. 

Livorno,  8  aprile  188$ 
Onorevole  sig.  Ministro, 

Mi  permetta  di  raccomandare  all'attenzione  dell'E.V.  il  desi- 
derio  del  mio  amico  aw.  Braccio  Bracci  il  quale  aspira  ad  ottenere 
per  titoli  un  diploma  d'insegnante  lettere  italiane  per  le  scuole 
secondarie. 

L'aw.  Bracci  e  autore  di  drammi  e  di  poesie  che  furono  lodate  dal 
Guerrazzi  e  nel  quale  Fingegno  florido  e  vigoroso  fu  aiutato  da 
un'amorosa  coltura  e  dallo  studio  dei  migliori  modelli  a  rappresen- 
tare  popolarmente  verita  e  sentimenti  civili  e  patriottici.  Ha  una 
gran  conoscenza  ed  un  ottimo  gusto  dej  poeti  classici  italiani,  con 
tutte  le  cognizioni  di  storia  e  filosofia  che  afforzano  gl'ingegni  na- 
turalmente  eletti  a  produrre  e  a  giudicare  nell'arte  rettamente. 

Come  letterato  e  come  cittadino  il  Bracci  e  degno  di  benevola 
attenzione  e  come  tale  lo  raccomando  a  Lei  cosi  buono  e  liberate 
giudice. 

dev.mo  suo 
GIOSUE  CARDUCCI 


i.  Enrico  Nencioni:  vedi  la  nota  2  a  p.  913.  2.  II  romanzo  Guy  Mannering, 
di  Walter  Scott,  narra  le  vicende  di  una  banda  di  zingari  nella  Scozia  del 
Settecento.  3.  Boald:  Nicolas  Boileau  Despre*aux  (1636-1711),  il  poeta  e 
critico  francese,  rappresentante  e  sostenitore  dei  principi  classicistici,  so- 
prattutto  nella  sua  Art  poetique.  4.  Ugd:  Victor  Hugo.  5.  Michele  Cop 
pino:  vedi  la  nota  2  a  p.  501.  6.  una  lettera  .  .  .  generale:  per  la  lettera  del 
Carducci,  vedi  Opere,  xv  (edizione  nazionale),  p.  147;  segretario  generale: 
oggi  si  direbbe  sottosegretario. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1053 

Lodi  sincere:  che  dove  il  Carducci  stim6  da  lodare  non  fosse, 
lascic-  al  Guerrazzi  la  cura  e  la  responsabilita  degli  encomi.  Ne 
per  certo  ci6  dispiacque  al  Bracci  oramai  ridesto  da  ogni  sogno  di 
gloria,  e  che  neirammirazione  vivissima  per  il  grande  poeta,  suo 
antico  censore,  trovava  argomento  a  giudicare  dirittamente  F  opera 
propria;  la  quale  impetuosa  e  negletta  dapprima,  la  meditazione  e  la 
pazienza  fecero  poi,  bisogna  pur  dirlo,  migliore  e  talora  non  senza 
pregio. 

Povero  Bracci!  lo  rividi  a  Livorno  non  molto  innanzi  che  egli 
morisse.  Gioviale  sempre  per  lo  innanzi,  s'era  fatto  triste  negli 
ultimi  anni.  Mi  provai  a  rallegrarlo,  ridicendo  alcuni  dei  versi  uditi 
anch'essi  da  lui  nella  stanzetta  di  via  del  Cocomero  do v' egli  abitava 
ai  tempi  della  Diceria  e  della  Lira. 

Ma  tu  chi  sa  se  volgerai  la  mente 
di  questa  rupe  alle  solinghe  time, 
qui  dove  insiem  passammo,  ove  sovente 
ci  scosse  il  suon  di  boscarecce  rime  .  .  . 

D'una  in  un'altra  cosa,  riandammo  i  tempi  lontani,  rammemo- 
rammo  i  compagni  ahim&!  la  piii  parte  perduti:  e  non  io  riuscii  a 
racconsolare  Famico,  anzi  il  rimpianto  dei  giorni  irrevocabili  ci 
fece  tristi  ambedue.  Gli  s'inumidivano  gli  occhi  e  il  capo  si  curvava 
sotto  il  cumulo  delle  memorie,  quando  rialzandolo  a  un  tratto : 

— -  Ohe!  —  esclam6  —  ci  dimentichiamo  che  a  quei  giorni  FItalia 
non  e'er  a. 

E  gli  occhi  brillarono  e  il  sorriso  torn6  sulle  sue  labbra  ancora 
una  volta. 

[IMPROVVISATORI   SERI   E  FACETl]1 

Usciti  da  scuola,  verseggiando  non  piu  ogni  settimana  per  com- 
pito,  ma  per  divertimento  quasi  ogni  giorno,  eravamo  riusciti,  se 
accompagnandoli  con  lenta  cantilena,  a  improvvisare  versi  -  im- 
maginatevi  quali  -  non  privi  di  significato ;  per  farci  poi  in  quelli 
esperimenti  piu  franchi  e  piu  destri,  ci  spassavamo  nell'infilzare 
parole  rimate,  nel  rapido  schiccherare  strofe  in  settenari  o  deca- 
sillabi,  di  giusta  misura  s'intende,  e  magari  di  rima  opulenta, 
ma  senza  senso  veruno.  Sollazzo  che  a'  giovanetti  d'oggi  parra 

i.  Ed.  cit.,  dal  cap.  vm  (Dalfaceto  al  serio),  pp.  109-19. 


1054  FERDINANDO   MARTINI 

insipido  alquanto ;  ma  noi  non  avevamo  ne  biciclette  ne  ricreatorii, 
n6  giornali  quotidiani,  ne  cinematografi,  ne  riviste  illustrate;  la 
sigaretta  (o  spagnoletta  come  si  chiam6  dapprima)  non  era  ancora 
inventata;  il  tempo  bisognava  passarlo  e  ci  bastava,  di  quando  in 
quando,  modesto  si  ma  giulivo  trastullo,  quell'esercizio.  Nel  quale 
(che  par  facile  a  prima  giunta  e  non  e,  e  chi  non  lo  crede  si  provi) 
alcuni  si  fecero  via  via  addirittura  sbalorditoi ;  primo  fra  tutti  Ar- 
nolfo  Zei,  giovane  carissimo  e  coltissimo  morto  poco  piu  che  tren- 
tenne. 

Raccontai  gia,  anni  sono,  un'audace  sua  prova:  ma  perche  la 
morte  di  lui  era  recente,  tacqui  il  suo  nome,  feci  anzi  di  tutto 
affinche  non  si  indovinasse.  La  cosa  and6  realmente  cosi.  Nel  '60 
o  nel  '6 1,  una  sera,  o  meglio  sara  dire  una  notte  d'estate,  entrammo 
insieme  in  un  caff&  di  Piazza  del  Duomo,  gremito  di  popolani, 
fiaccherai  specialmente,  che  avevano  in  pratica  lo  Zei  abitando  egli 
in  que'  pressi.  Nel  giorno  precedente  era  giunta  notizia  da  Roma 
non  so  piu  se  di  sentenze  promulgate,  di  scomuniche  lanciate  o  di 
eccidi  perpetrati;  so  che  que'  popolani  1'avevano  maledettamente 
col  Papa  e  subito  circuirono  Tamico,  quale  chiedendo  notizie  mag- 
giori,  quale  bestemmiando  a  perdifiato,  urlando  tutti.  A  un  tratto, 
fral  tumulto,  una  voce  grid6: 

—  Via,  sor  Arnolfo,  la  ci  faccia  su  una  poesia. 

Urli  daccapo  e  daccapo  bestemmie  per  dar  vigore  all'invito.  Lo 
Zei  tent6  lungamente  di  esimersi,  ma  alia  fine  per  levarsi  quel  bac- 
cano  d'attorno,  si  tir6  in  disparte  e  si  prov6  a  buttar  giii  sopra  un 
pezzo  di  foglio  i  primi  versi  d'un  ideato  epigramma  o  sonetto: 
ma  o  che  li  per  11  non  gli  venissero  o  gli  seccasse  il  riflettere,  o  gli 
fosse  impossibile  tra  '1  baccano  che  seguitava,  s'alz6  col  foglio  in 
mano  e  grave  nell'aspetto  finse  di  leggere,  improvvisando  ci6  che 
scritto  non  era.  Rammento  oggi  piu  esattamente  del  sonetto  la 
chiusa: 

Piange  V Italia  come  debil  canna 
e  Pio  tra?  vaticani  antri  fuggente 
co*  simulacri  di  Pompeo  tracanna. 

Non  sto  a  dire  gli  applausi;  scrosciarono  fragorosi  e  lunghi,  non 
tanto  lunghi  bensi  da  permettere  allo  Zei  di  svignarsela;  ch6  ap- 
pena  fece  per  muoversi  le  acclamazioni  cessarono  e  quattro  o  cin 
que  gli  furono  intorno  a  fermarlo.  La  poesia  era  troppo  bella,  vole- 
vano  si  stampasse;  e  sempre  intorno  quattro  o  cinque  alia  volta  a 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       1055 

dimostrargli  la  opportunita  che  i  torch!  gemessero,  con  argomenti 
fatti  il  piu  spesso  di  appellativi  ingiuriosi  per  il  pontefice  e  di  escla- 
mazioni  che  li  oltrepassavano.  Poiche"  stringendosi  addosso  allo 
Zei  minacciavano  di  portargH  via  il  «  manoscritto  »,  egli  brandito  il 
foglio  immacolato  lo  levava  col  braccio  in  alto  sul  groviglio  delle 
mani,  gesticolanti  nel  tentar  la  rapina;  da  ultimo,  visto  che  da  quelle 
strette  non  poteva  liberarsi  altrimenti,  si  disimpacci6  con  uno 
scherzo  felice.  Lasci6  cadere  il  foglio  e : 

—  Se  siete  buoni  di  rammentarvelo  —  disse  —  stampatelo  pure ; 
io  vi  do  carta  bianca. 

II  foglio  fu  ansiosamente  raccolto,  il  groviglio  si  dipan6  .  .  .  Ri- 
masero  male;  risero  ma  a  denti  stretti;  poi  Pammirazione  per  un 
poeta  capace  di  improwisare  versi  cosi  belli  si  dest6  tanto  reverente 
ed  accesa,  che  gli  applausi  scrosciarono  piu  fragorosi  e  piu  lunghi 
di  prima, 

* 

Nel  sonetto  io  non  m'arrischiavo;  era  superiore  alle  mie  forze; 
ma  nei  decasillabi  la  sfangavo,  nei  settenari  e  negli  ottonari  me  la 
cavavo  discretamente;  e  qualche  anno  innanzi  avevo  fatto  anch'io 
la  mia  prova  davanti  a  pubblico  non  di  fiaccherai  ma  di  laureati, 
in  occasione  che  merita  si  ricordi. 

Mi  pare  nel  '58,  ma  non  posso  asserirlo:  certamente  dopo  il  '56 
e  prima  del' 5  9  venne  a  Montecatini  Massimo  d'Azeglio. 

Fermiamoci  un  momento.  Chi  si  figurasse  il  Montecatini  di  ses- 
santa  anni  fa  quale  e  di  presente,  andrebbe  con  rimmaginazione 
molto  lontano  dal  vero.  Tanto  oggi  il  frastuono  ed  il  moto,  quanto 
allora  il  silenzio  e  la  quiete.  Ho  veduto  io  coi  miei  propri  occhi  una 
mandata  di  capiscarichi  usciti  dal  bagno  con  Paccappatoio  ballare  il 
ronde  in  un  pomeriggio  di  luglio  sul  gran  viale  del  Tettuccio,1  me 
unico  spettatore.  Governavano  ramministrazione  delle  Regie  Ter- 
me  tre  deputati  scelti  dal  Granduca  fra  i  cavalieri  di  Santo  Ste- 
fano,  ognuno  dei  quali  per  turno  aveva  obbligo  di  risiedere  un  mese 
a  Montecatini  nei  tre  della  stagione  balneare;  cio&  dal  giugno  al- 
Pagosto,  ch6  alia  fine  d'agosto  il  Direttore,  Pottimo  professore  Fe- 
deli  clinico  delPUniversita  di  Pisa,  chiudeva  bottega  e  se  ne  andava 
in  villeggiatura.  Compenso  alle  cure  amministrative  della  Deputa- 

i.  Tettuccio:  e  il  nome  d'una  delle  sorgenti  mineral!  e  della  localita  rela- 
tiva. 


1056  FERDINANDO    MARTINI 

zione,  di  cui  fu  per  molti  anni  presidente  Domenico  Giusti  padre 
del  poeta,  un  quattrino  (un  centesimo  e  mezzo)  per  ogni  firma  ap- 
posta  al  cartellino  onde  awolgevasi  il  tappo  de'  fiaschi  a  garantire 
la  genuinita  delle  acque.  Un  migliaio  di  persone,  o  poche  piu, 
quasi  tutte  toscane  o  dimoranti  in  Toscana,  vi  cercavano  ristoro 
agli  stomachi  o  agli  intestini  malati;  tutte  accolte  nella  Locanda 
maggiore  che  maggiore  poteva  facilmente  intitolarsi,  visto  che  era  la 
sola,  gli  altri  ricettacoli  non  meritando  nome  di  locanda.  Per  tre 
paoli  (L.  1,68)  Giuseppe  Valiani  pistoiese  forniva  il  desinare:  cibi 
copiosi  e  gustosi  e  vino  finche  lo  stomaco  ne  contenesse,  cosicche 
i  liquidi  si  alternavano  abbondanti  del  pari ;  otto  bicchieri  di  Tet-  t 
tuccio  la  mattina,  altrettanti  di  vino  la  sera  e  gli  stomachi,  pare,  si 
giovavano  dell'una  e  delPaltro.  Per  tutto  divertimento  una  trot- 
tata  sul  cadere  del  giorno  verso  i  paesi  circonvicini,  dopo  il  pranzo 
una  partita  a  tombola  nella  sala  del  Casino,  toscanamente,  cioe 
con  molta  parsimonia,  illuminata. 

Scarsa  clientela,  ma  tra  i  consueti  frequentatori  dei  Bagni,  al- 
cuni  illustri;  non  ancora  Verdi  che  vi  fu  poi  per  trenta  anni  di 
seguito;  ma  il  Rossini  il  quale  desiderava  gli  amici  sapessero  che 
beveva  il  Tettuccio  alia  loro  salute :  e  sebbene,  come  awertiva  in 
una  lettera  al  Fabi,  « la  vita  di  Montecatini »  non  fosse  « molto  bril- 
lante »,  egli  tuttavia  trovava  modo  di  passar  bene  la  giornata  «  fa- 
cendo  musica  con  la  Granduchessa ». 

Nel  luglio  del  '43  Gino  Capponi  scriveva  da  Montecatini  al 
Vieusseux:  «I1  Capei1  sta  bene  e  cosi  il  Salvagnoli  il  Giusti  e  il 
Guerrazzi  che  abbiamo  qui  dove  cerca  di  addolcire  la  bile;  e  sia 
Tacqua  del  Tettuccio  o  gli  anni,  mi  pare  un  poco  ammansito». 
Pareva,  ma  il  f egato  era  quello  di  prima  e  di  poi ;  tanto  che  venuto 
a  disputa  col  Salvagnoli  intorno  alle  armi  dei  Soderini2  per  saper 
«se  facessero  palme  o  corna  di  cervo»,  incollerito  dalla  contradi- 
zione  si  sfogava  rabbiosamente  in  lettere  a  Niccol6  Puccini,3  con 
aspre  parole  tacciando  il  Salvagnoli  d'insolenza  e  di  petulanza. 

i.  Vieusseux:  vedi  la  nota  2  a  p.  436;  Pietro  Capei  (1791-1868),  storico 
del  diritto,  professore  nelPUniversita  di  Siena  e  poi  di  Pisa.  Fu  tra  i  collabo 
rator!  dell'«  Antologia»  e  deir«Archivio  storico  italiano»,  e  tra  i  primi  a  far 
conoscere  in  Italia  1'opera  storica  del  Niebuhr  e  del  Mommsen.  2.  armi 
dei  Soderini:  stemma  nobiliare  dei  Soderini.  Alia  famiglia  appartenne 
Pier  Soderini,  gonfaloniere  di  giustizia  della  Repubblica  dalla  morte  del 
Savonarola  al  ritorno  dei  Medici  nel  1512.  3.  Niccolo  Puccini:  vedi  la 
nota  3  a  p.  901. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       1057 


Chiudiamo  la  digressione. 

Venne,  dunque,  a  Montecatini  Massimo  d'Azeglio.  A  Monsum- 
mano  -  quattro  chilometri  distante  -  soleva  passare  Testate,  nella 
propria  villa  un  mio  zio,  Giulio  Martini1  il  quale,  ministro  di 
Toscana  alia  Corte  di  Sardegna  dal  '48  al  '51,  aveva  seguito 
Carlo  Alberto  al  campo  di  Lombardia,  e  stretta  poi  amicizia  col 
D'Azeglio  a  Torino,  quando  questi  fu  presidente  del  Consiglio3 
e  ministro  degli  AfTari  esteri.  Ora  non  vecchio,  ma  quasi  cieco  e 
tormentato  da  molta  varieta  di  malanni  se  ne  stava,  come  ho  detto, 
una  buona  meta  dell' anno  in  campagna,  e  il  D'Azeglio  quando 
capitava  a  Montecatini  veniva,  durante  il  breve  soggiorno,  a  visi- 
tarlo  piu  volte. 

Seduti  sotto  un  platano  centenario  frondeggiavano3  a  tutto  spiano 
ambedue :  1'uno  quantunque  tutt'altro  che  liberale,  nel  senso  che  si 
da  oggi  a  questa  parola,  scontento  del  modo  onde  la  Toscana  era 
governata;  Taltro  contento  del  manifestare  a  un  amico  discreto  la 
cordiale  antipatia  per  colui  che  egli  chiamava  nelle  proprie  lettere 
«quel  birichino  del  Cavour». 

In  quel  medesimo  anno,  al  tempo  stesso  che  il  D'Azeglio  furono 
a  Montecatini  Luigi  Alberti4  scrittore  di  commedie  a  quel  tempo 
poco  noto  fuor  di  Toscana,  ma  in  Toscana  notissimo,  Piero  Puc- 
cioni,5  che  allora  praticante  nello  studio  Salvagnoli,  preparantesi, 
cioe,  alFesame  di  avvocatura,  fu  poi  un  de*  principi  del  foro,  depu- 
tato,  senatore  del  regno  e  ministro  no,  perche  non  voile:  finalmente 
Leopoldo  Cempini  awocato  di  grido,  del  quale  si  lodava  un  vo 
lume  di  versi  Fieri  e  Foglie6  edito  a  Torino,  in  Toscana  distribuito 
clandestinamente,  oggi  dimenticato;  versi  facili,  in  quella  sonante 
indeterminatezza  di  forma  che  lusingava  le  orecchie  e  gPintelletti 
degli  Italiani,  ma  caldi  di  affetto  patrio  e  tutti  inneggianti  a  Casa 
Savoia: 

i.  Giulio  Martini  (1806-1873),  di  Monsummano,  fratello  del  padre  di 
Ferdinando,  fu  ministro  della  istruzione  pubblica  dal  gennaio  all' ap rile 
1859.  2.  D'Azeglio  . .  .presidente  del  Consiglio :  dal  maggio  1849  al  novem- 
bre  1852.  3.  frondeggiavano:  sfogavano  il  loro  sentimento  di  oppositori 
alia  politica  ufficiale  dei  loro  paesi.  4.  Luigi  Alberti  (1822-1898),  di  Fi- 
renze,  commediografo  (Commedie  varie,  1876).  5.  Piero  Puccioni:  vedi 
la  nota  i  a  p.  921.  6.  Fiori  e  foglie  fu  edito  a  Torino,  Fontana,  1853; 
su  Leopoldo  Cempini  vedi  la  nota  8  a  p.  436. 

67 


1058  FERDINANDO   MARTINI 

Se  di  dolenti  musiche 
me  Dio  talor  consola, 
se  de'  concenti  V Angela 
talor  discende  a  me, 

questo  mio  cor  sui  margini 
del  Po  con  gli  estri  vola, 
inni  e  corone  a  spargere 
sopra  I'avel  d'un  re. 

LJ Albert!  era  amico  di  casa;  gli  altri  due  avevo  conosciuto  nelle 
redazioni  de'  giornali  umoristici  ne'  quali  essi  di  tanto  in  tanto  scri- 
vevano  e  ov'io  gia  bazzicavo.  Quando,  ottenutane  licenza,  da  Mon- 
summano  filavo  a  Montecatini  per  arrischiare  il  mio  obolo  sulla 
cartella  della  tombola,  sempre  si  divertivano  a  farmi  fare  il  gio- 
chetto  degli  improwisi,  sempre,  ben  inteso,  senza  senso  comune. 
Una  volta  mentr'io  tiravo  giu  decasillabi  capit6  nel  crocchio  il 
D'Azeglio:  e  tanta  fu  la  soggezione  che  non  potei  piu  spiccicare 
parola.  Ma  perche  egli,  incuriosito,  con  molta  garbatezza  preg6  che 
mi  riprovassi,  la  soggezione  messa  da  parte,  ricominciai.  E  il 
D'Azeglio  a  riderne  prima,  poi  a  dire  che  quantunque  non  si  fa- 
cesse  che  accozzare  parole  come  viene  viene,  tuttavia  il  farlo  con 
rapidita,  senza  intaccare,  il  trovare  la  rima  speditamente,  non  era 
forse  consentito  se  non  ai  Toscani  ai  quali  suona  in  bocca  tutto 
quanto  il  vocabolario;  e  via  via  una  dissertazione  piacevolissima 
in  difesa  di  quelle  che  erano  e  non  ancora  si  chiamavano  le  teoriche 
manzoniane.1 

Poco  dopo,  riapertasi  al  D'Azeglio  la  ferita  buscata  nel  '48  sui 
Colli  Berici,2  gli  tocc6  stare  in  casa  piu  giorni ;  e  insieme  col  do  lore 
che  quella  gli  cagionava,  sopportare  le  lunghe  visite  quotidiane  di 
uno  dei  piu  pervicaci  fra  quanti  innumerevoli  seccatori  vennero  al 
mondo.  Era  un  tale  Stra  . . .  veneto,  dottore  non  so  se  di  medicina 
o  di  legge,  alto,  grosso,  biondastro,  sulla  cinquantina;  il  quale  im- 
battutosi  nel  D'Azeglio  a  Montecatini  e  awicinatolo,  come  facil- 
mente  awiene  nei  luoghi  di  bagni,  gli  s'era,  per  cosl  dire,  appicci- 
cato  e  non  lo  lasciava.  Ignorante,  a  malgrado  della  laurea,  appal- 
tone,3  borioso,  non  si  accompagnava  al  D'Azeglio  per  ascoltarlo 
(che  era,  tra  1'altro,  parlatore  piacevolissimo),  per  imparare  qual- 

i.  quelle  che  .  .  .  teoriche  manzoniane:  il  considerate  come  sola  vera  lingua 
italiana  il  fiorentino  parlato  dalle  persone  colte.  2.  la  ferita  .  .  .  Berici:  il 
D'Azeglio  rimase  ferito  il  10  giugno  1848  alia  difesa  di  Vicenza.  3.  appal- 
tone:  attaccabottoni :  e  voce  toscana. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1059 

che  cosa,  per  procurarsi  in  quelle  conversazioni  un  godimento  in- 
tellettuale;  no:  gli  bastava,  ostentando  quella  conoscenza,  farla  cre 
dere  intrinsichezza  e  vantarsene.  Subito  che  lo  seppe  ammalato 
—  Vado  a  farghe  compagnia  a  Massimo  —  sfringuello  tra'  bagnanti 
(e  bisognerebbe  io  potessi  descrivere  gli  atteggiamenti  suoi).  «  Vado 
a  farghe  compagnia  a  Massimo  »  e  gli  si  cacci6  in  camera  dalla  mat- 
tina  alia  sera.  La  gente  che  lo  conosceva  meravigliava  della  sua 
sfacciataggine  e  della  sua  balordaggine :  e  meravigliava  altresi  della 
pazienza  del  D'Azeglio  che  non  metteva  quel  seccatore  alia  porta. 

Mio  zio  s'informava  giornalmente  della  salute  dell'illustre  amico 
suo ;  un  giorno  mand6  me  a  prendere  notizie.  Chiestele  al  cameriere 
della  Locanda  Maggiore  e  questi  al  D'Azeglio  stesso  in  mio  no  me, 
fui  fatto  entrare  in  camera  sua.  Se  ne  stava  disteso  sopra  una  chai- 
selongue  presso  alia  finestra:  sui  ginocchi  un  fascio  di  lettere  e  mezzo 
aperto  un  numero  del  « Journal  des  Debatsw.1  In  faccia  a  lui,  in 
poltrona,  Timportuno  dottore. 

Non  ricordo  ora  appuntino  come  andassero  le  cose,  n6  ho  a  mente 
tutti  i  particolari  della  conversazione.  Fatto  sta  che  dopo  avermi 
incaricato  di  ringraziare  lo  zio  e  dirgli  che  sarebbe  tornato  a  ve- 
derlo  prima  di  andarsene  da  Montecatini,  postami  una  mano  sulla 
spalla  e  rivolto  al  dottore: 

—  Vede  ?  —  soggiunse  —  questo  ragazzo  e  un  portento. 

E  qui  lodi  abizzeffe,  e  la  narrazione  de'  miei  prodigi.  Io  capivo  che 
canzonava  qualcheduno,  ma  non  ero  sicuro  che  canzonasse  quel- 
1'altro  e  me  ne  stavo  chiotto,  a  testa  bassa,  senza  fiatare.  Alia  fine: 

—  Via,  —  disse  —  ci  improwisi  qualcosa. 

Dopo  tanti  anni  chi  pu6  con  verita  esprimere  ci6  ch'io  provai 
per  quelle  parole?  Ma  c'&  da  figurarselo.  Lo  guardai,  egli  mi  incit6 
novamente  e :  —  Le  dar6  io  il  soggetto :  Napoleone  —  e  cosi  dicendo 
mi  guardo  fisso  a  sua  volta:  mi  parve  leggergli  nella  fisonomia:  non 
abbia  paura,  si  fidi  di  me. 

La  scelta  deH'argomento  non  fu  fatta  a  caso ;  allora  non  ci  pensai 
e  neppure  in  seguito  avrei  ricordato,  se  non  soccorreva  la  memoria 
altrui.  Mio  zio,  che  malato  d'occhi  da  se  non  poteva,  pregava  me  ed 
altri,  ma  piu  spesso  me  di  leggergli  gli  ultimi  volumi  del  Thiers,2 

1.  « Journal  des  D&atsvn  celebre  quotidiano  francese,  fondato  nel  1792, 

2.  Adolphe  Thiers  (1797-1877),  storico  e  uomo  politico,  ritiratosi  a  vita 
privata  dopo  il  colpo  di  Stato  del  1852,  attese  a  terminare  la  storia  del  primo 
Impero.  Fu  poi  fondatore  e  sostentatore  della  terza  Repubblica. 


IC)6o  FERDINANDO    MARTINI 

Histoire  du  Consulat  et  de  VEmpire^  pubblicati  di  fresco.  II  D'Aze- 
gHo  venendo  giorni  innanzi  a  fargli  visita  aveva  trovato  appunto  me 
a  leggere,  lo  zio  ad  ascoltare :  consider6  che  Napoleone  lo  conoscevo 
e  avrei  perci6  potuto  piu  facilmente  improwisare  «qualcosa». 

Mi  fidai :  in  fondo  che  cosa  rischiavo  ?  Era  uno  scherzo  e  il  dot- 
tore  accortosi  che  era  uno  scherzo  ne  avrebbe  sorriso  lui  per  il 
primo. 

Altro  che  scherzo!  via  via  sfilavo  il  rosario  delle  parole  unite  a 
caso,  TAzeglio  ammiccava  al  dottore  come  a  dire:  «Eh?  che  roba! », 
e  Paltro  rispondeva,  con  movimenti  del  capo  e  delle  mani  signifi- 
cando  la  propria  soddisfazione.  Al  termine  d'ogni  strofa  1'Azeglio 
sussurrava  « benissimo  » :  e  il  dottore  gridava  «Ma  belo!  belissimo! 
meravilgioso ! ». 

Non  sapevo  piu  in  che  mondo  mi  fossi.  Dette  poche  strofe,  mi 
fermai;  una  tale  specie  di  improwisi  ha  questo  di  buono,  che  strofa 
piu  strofa  meno  non  monta:  si  pu6  sempre  smettere  quando  ci 
accomoda. 

E  qui  venne  il  bello  per  me ;  ero  stato,  non  senza  qualche  trepida- 
zione,  sul  palco  scenico,  m'era  ora  permesso  di  divertirmi  in  platea. 
II  D'Azeglio  provocate  con  nuove  lodi  le  nuove  manifestazioni 
entusiastiche  dell'altro  uditore,  prese  a  domandargli  replicata- 
mente : 

—  Lei  ha  capito  tutto,  non  e  vero? 
E  il  dottore: 

—  Caspita!  capito,  capitissimo. 

— -  Ha  capito  (mettiamo,  ch'io  non  intendo  riferire  le  parole  pre 
cise)  Paccenno  al  18  brumaio1  e  al  Congresso  di  Vienna? 

—  Eh!  eccome! 

E  cosi  di  seguito ;  finche  quegli,  il  quale  non  aveva  capito  che  non 
si  poteva  capire,  forse  temendo  qualche  domanda  piu  categorica,  si 
arrischi6  a  dire: 

—  Solo  le  ultime  strofe  le  me  pareva  un  poco  scurete. 

—  Oscurette  ?  Chiare  invece  come  la  luce  del  sole.  —  Aiutandomi 
il  marchese,  riuscii  li  per  11  a  ricordarle:  ed  egli,  fattosi  dare  un 
lapis,  sul  mezzo  foglio  rimasto  bianco  di  una  delle  lettere  che  teneva 
sulle  ginocchia,  le  scrisse  di  proprio  pugno;  singolare  autografo, 
lo  conserve  tutto ra. 

I.  18  brumaio:  cioe,  il  9  novembre  1799,  quando  Napoleone,  di  ritorno  dal- 
PEgitto,  rovesci6  il  Direttorio. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDTJCALE)       Io6l 

Le  strofe  dicevano: 

Tu  dal  talamo  nemico 
discendevi  ai  rii  gemmati 
nel  fulgor  di  Federico, 
quando  i  prenci  collegati 
di  Boulogne  alia  vendetta 
ispiraron  la  saetta 
che  S  ant' Elena  feri. 

Tu  le  scizie  ispide  grotte 
alia  storia  hai  consacrato, 
ma  t'attendon  Montenotte 
Dego  Rivoli  e  Lonato; 
tu  pontefice  gagliardo 
copri  Varpa  e  accenni  il  bardo, 
spengi  gli  astri  e  annunzi  il  di. 

Che  gioco  del  Sibillone  ?  II  Goldoni,  che  si  vanta  d'essersi  fatto 
in  quello  grande  onore  a  Pisa,1  pu6  andare  a  riporsi.  Non  mai, 
credo,  fu  adoperato  tanto  sforzo  d'ingegno  e  tanto  sfoggio  di  dot- 
trina  per  dimostrare  la  profondita  del  pensiero  dove  pensiero  non  e. 
L'Azeglio  dopo  un  «zitto  lei»  (burlesco  ammonimento  a  me  ch'ei 
sapeva  non  aver  alcun  desiderio  d'aprir  bocca)  illustr6  ad  uno  ad 
uno  quei  versi;  non  ricordo,  e  me  ne  dispiace,  tutti  i  curiosi  arguti 
commenti:  so  che  il  talamo  era  nemico  perch6  vi  giaceva  la  figlia 
deirimperatore  d' Austria,2  che  i  rii  gemmati  erano  i  fiumi  della  Prus 
sia,  gettatavi  da  Napoleone  la  corona  degli  eredi  di  Federigo  se- 
condo :  che  cuopri  Varpa  e  accenni  il  bardo  era  una  limpida  allusione 
al  Mack  e  alia  battaglia  d'Ulm,3  che  spegni  gli  astri  e  annunzi  il  dl 
significava  chiudersi  con  Napoleone  un'era,  e  sorgerne  per  lui  una 
piu  fausta.  Tutto  ci6,  s'intende,  dimostrato  senza  ridere,  e  a  furia  di 
ragionamenti  e  di  storia.  E  il  dottore  interrompeva:  —  Ma  bene, 
benone,  ciaro,  lampante,  chiarissimo! 

lo  me  ne  tornai  intontito  a  Monsummano ;  il  dottore  uscito  di  la 
se  ne  and6  alia  Torretta,  proprieta  a  quel  tempo  di  un  Conte  Ban- 
dini,  orgoglioso  di  spifferare  che  aveva  passato  un'ora  deliziosa  «  da 

i.  II  Goldoni  .  .  .  a  Pisa:  veramente  il  Goldoni  a  Pisa  non  compose  poesie 
sibilline,  ma  soltanto  improwis6  un  sonetto  e  scrisse  molte  altre  poesie  per 
la  colonia  arcadica  della  citta  cui  fu  iscritto.  Vedi  Memoires,  parte  i,  capp. 
XLIX  e  L.  2.  la  figlia  .  .  .  Austria:  Maria  Luisa,  andata  sposa  a  Napoleone  I 
nel  1810.  3.  A  Ulm  Napoleone  vinse,  nel  1805,  il  generale  austriaco  Mack. 


I062  FERDINANDO    MARTINI 

Massimo  »  dove  il  Tale  del  Tali,  «  un  ragazzo  che  xe  un  miracolo  » 
aveva  improvvisato  versi  stupendi  su  Napoleone.  Raccontato  il 
fatto,  fu  presto  intesa  e  propalata  la  burla.  Ventiquattr'ore  dopo  il 
dottore,  intesala  finalmente  anche  lui,  fece  fagotto  e  parti  in  fretta 
e  furia  da  Montecatini. 


A  PALAZZO1 

S  io  potessi  farmi  persuaso  che  i  miei  lettori  han.no  i  medesimi 
gusti  del  De  Vigny, 

(Qu'il  est  doux,  qu'il  est  doux  d'ecouter  des  histoires, 
des  histoires  du  temps  passe)? 

sarei  meno  trepidante  nel  raccontarle  queste  storielle  di  tempi  lon- 
tani;  a  ogni  modo,  una  volta  cominciato  bisogna  finire;  e  poiche 
parlo  delFultimo  decenrdo  della  signoria  granducale,  qualcosa  6 
necessario  io  pur  dica  dell'ultimo  principe. 


Non  so  piu  quale  cronista  racconti :  una  gentildonna  che  aveva 
conosciuto  Enrico  III3  re  di  Polonia  e  di  Francia  e  ammirati  in  lui 
il  portamento  regale  e  1'aitante  eleganza  della  persona,  condotta 
innanzi  a  Enrico  IV4  di  mezzana  statura  e  non  bello,  mormor6: 
« Veggo  il  re,  ma  non  veggo  sua  Maesta».  Chi,  dopo  il  1849,  guar- 
dava  Leopoldo  II,5  vecchio  nelPaspetto  oltre  gli  anni,  il  capo  recli- 
nato  cosi  da  posare  sul  petto  le  fedine  biancastre,  il  labbro  inferiore 
sporgente  scendente,  il  corpo  infagottato  in  vestiti  troppo  ampi  e 
dimessi,  poteva  a  sua  volta  e  a  ragione  esclamare :  veggo  il  grandu- 
ca,  ma  non  veggo  il  sovrano. 

Quell'aria  di  barbogio  assonnato,  onde  con  tanti  nomignoli 
dispregiativi6  Io  beffeggiarono  sudditi  faceti  e  ribelli,  Paveva,  dis- 
sero,  anche  da  giovane ;  ma  il  vero  e  che  la  fisonomia  Io  calunniava. 

i.  Ed.  cit.,  cap.  x,  pp.  143-56.  2.  Sono  i  versi  dell'ultima  quartina  di 
La  neige  (6d.  de  la  Pl&ade,  i,  p.  135).  3.  Enrico  III  (1551-1589),  eletto  re 
di  Polonia  nel  1573,  dopo  tre  mesi  di  regno  Iasci6  il  trono  e  successe  in 
Francia  al  fratello  Carlo  IX.  Mori  pugnalato  dal  domenicano  Giacomo  Cle"- 
ment.  4.  Enrico  IV  (i553-*6io)  di  Navarra  successe  a  Enrico  III  sul 
trono  di  Francia;  morl  pugnalato  dal  Ravaillac.  5.  Leopoldo  II:  vedi  la 
nota  5  a  p.  159.  6.  nomignoli  dispregiativi:  i  fiorentini  chiamavano  Leo 
poldo  II  con  vari  nomignoli:  Morfeo,  Canapone,  il  babbo  (facetamente),  ecc. 


CONFESSIONI   E   RICORDI   (FIRENZE    GRANDUCALE)       1063 

Leopoldo  II  uno  sciocco  non  fu;  lettere  sue  pubblicate  di  recente, 
aneddoti  riferiti  da  testimoni  autorevoli,  dimostrano  che  se  molti  lo 
canzonarono,  sapeva,  al  bisogno,  canzonare  anche  lui.  Se  da  ragazzo 
avessi  preveduto  che  un  giorno  scriverei  dell'Altezza  Sua,  quei  pa- 
recchi  aneddoti  mi  sarebbero  tuttavia  nella  memoria.  Due,  ben- 
si,  ne  ricordo  perche  uditi  alquanto  piu  tardi;  1'uno  da  Matteo 
Bittheuser,1  del  granduca  per  lunghissimi  anni  segretario  parti- 
colare,  Taltro  da  Marco  Tabarrini,2  de'  fattarelli  di  quei  tempi  e  di 
quella  Corte  espositore  argutissimo. 

Nel  1838  o  in  quei  torno,  lo  straricco  principe  Anatolio  Demi- 
doff3  che  abitava  ne'  pressi  di  Firenze  la  magnifica  villa  di  San  Do- 
nato,  tornandovi  da  una  gita  a  Parigi,  men6  seco  Giulio  Janin,4 
uno  degli  scrittori  del  «  Journal  des  Debats  »,  e  di  molta  fama  a  que' 
giorni.  Questi  profittb  dell'occasione  per  mandare  al  giornale  un 
seguito  di  lettere  col  proposito  di  descrivere  Firenze  e  di  narrare 
gli  avvenimenti  piu  notevoli  della  sua  storia;  lettere  che  poi  ri- 
pubblico  raccolte  in  volume.5 

Come  pu6  capacitarsene  chiunque  prenda  a  leggere  quei  Voyage 
en  Italie,  il  Janin  erudl  i  propri  compatriotti  intorno  alia  storia  fio- 
rentina,  raccontando  loro  le  gesta  di  un  Emanuele6  de'  Medici 
detto  il  Magnifico,  le  venture  di  Bianca  Cappello7  amante  di  Co- 
simo  I,  avvelenata  dal  cognato  Don  Francesco,  e  citando  Dante 

cosi: 

Non  ragionem  del  lor!  .  .  .  ma  guarda  ij  passa? 

Nauseato  per  quelli  e  altri  parecchi  strafalcioni  altrettanto  sbar- 
dellati,  e  piu  per  la  impudente  presunzione  con  cui  si  spacciavano, 

i.  Matteo  Bittheuser:  vedi  p.  171  e  la  nota.  2.  Marco  Tabarrini:  vedi 
la  nota  4  a  p.  901.  3.  Anatolio  Demidqff  (1812-1870)  apparteneva  a  una 
ricchissima  famiglia  di  industrial!  russi,  ma  era  nato  a  Firenze,  dove  il 
padre  era  venuto  come  ambasciatore,  e  vi  mori  nel  1828.  Spos6  nel  1841 
la  figlia  di  Girolamo  Bonaparte,  contessa  Matilde  de  Monfort,  dalla  quale 
presto  si  separ6.  La  villa  di  San  Donato  era  stata  acquistata  dal  padre  Nicola, 
che  vi  aveva  raccolto  una  grande  galleria.  4.  Giulio  Janin  (1804-1874), 
critico  drammatico,  dal  1836,  del  (Journal  des  Debats»,  autore  di  una 
Histoire  de  la  litte'rature  dramatique  (1853-1858),  di  saggi,  novelle,  ecc.,  si 
occup6  varie  volte  di  scrittori  italiani.  5.  lettere  .  .  .  in  volume:  il  Voyage 
en  Italie,  citato  subito  dopo.  6.  Emanuele'.  invece  di  Lorenzo.  7.  Bianca 
Cappello  (1542-1587)  fu  amante  e  poi  sposa  (1578)  di  Francesco  I  de'  Me 
dici,  granduca  di  Toscana  dal  1547  al  1587.  Una  leggenda,  ormai  sfatata, 
accus6  della  morte  di  Francesco  e  di  Bianca  (seguita  a  distanza  di  un  gior 
no)  una  torta  avvelenata  che  la  stessa  Bianca  avrebbe  preparata  per  il  co 
gnato  Ferdinando.  8.  Invece  di  «Non  ragioniam  di  lor,  ma  guarda  e  pas- 
sa»  (Inf.,  in,  51). 


1064  FERDINANDO    MARTINI 

un  padre  scolopio,  Numa  Tanzini,1  riprese  nel  «  Giornale  di  com- 
mercio  »  con  parole  mordaci  il  Janin  e  quanti  forestieri  s'impanca- 
vano  con  balorda  leggerezza  a  scrivere  e  giudicare  delle  cose  nostre, 
senza  nulla  intenderne,  nulla  saperne. 

Nella  dormicchiante  Firenze  di  allora,  lo  scritto  del  frate  Iev6 
rumore  inconsueto;  il  fiorentino  spirito  bizzarro  si  divert!  al- 
quanto  alle  spalle  del  francese  e  del  russo;2  tanto  che  questi,  a  farla 
finita  con  i  chiacchiericci  e  le  satire,  chiese  e,  perche  era  ben  ac- 
cetto  alia  Corte,  facilmente  ottenne  il  Granduca  ascoltasse  dalla 
viva  voce  del  Janin  spiegazioni  e  lagnanze. 

E  il  Janin  and6  a  Palazzo  e  fu,  come  desiderava,  ascoltato  lun- 
gamente,  pazientemente ;  ma  quando,  per  difendersi  dall'accusa  di 
leggerezza  mossagli  dal  Tanzini,  si  arrischi6  fmo  a  dire  che,  in 
fondo,  per  imparare  la  storia  di  Firenze,  quanto  potesse  importarne 
a  un  Francese,  tre  giorni  bastavano: —  Oh!  bastano  due—  inter- 
ruppe  Leopoldo  —  e  avanza  il  terzo  per  raccontarla. 

Un'altra  volta  accadde  fatto  di  maggiore  rilievo.  Durante  un 
ballo  a'  Pitti  il  cocchiere  del  ministro  di  Russia  presso  la  Corte  di 
Toscana,  venuto  a  diverbio  con  una  sentinella  la  tratt6  di  canaglia. 
La  sentinella  che,  come  si  dice  da  noi,  ne  aveva  pochi  degli  spic- 
cioli,  per  tutta  risposta  appiopp6  al  cocchiere  col  calcio  del  fucile 
un  colpo  nello  stomaco  e  lo  Iasci6  boccheggiante.  Bruttissimo  acci- 
dente,  caso  gravissimo,  offesa  la  livrea  di  un  plenipotenziario,  anzi 
offeso  lo  Zar  nella  livrea  del  suo  ambasciatore.  Ne  nacque  un  dia- 
voleto :  proteste  del  diplomatico,  ingiunzioni,  minacce  di  peggio  se 
non  si  desse  e  presto  la  dovuta  soddisfazione.  Poiche  n6  proteste,  n6 
ingiunzioni,  ne  minacce  di  peggio  valevano  a  scuotere  Tastuta 
flemma  di  Don  Neri  Corsini  ministro  segretario  di  Stato,  Pamba- 
sciatore,  che  era  un  signor  De  Bouteneff,  ebbe  ricorso  al  Granduca. 
Non  si  parlasse,  diceva,  di  provocazione :  il  cocchiere  non  s'era  nem- 
meno  sognato  d'insultare  la  sentinella:  aveva  pronunciato  una  pa- 
rola  russa  (e  il  ministro  la  ripeteva)  che  nel  suono  somigliava  a 
canaglia,  ma  il  cui  significato  non  era  affatto  ingiurioso. 

Leopoldo  Iasci6  che  si  sfogasse  e  poi,  come  al  solito,  sommesso  e 
lento  soggiunse: 

1.  Domenico  Tanzini  (1801-1848),  delle  Scuole  Pie,  che  nel  suo  Ordine 
aveva  preso  il  nome  di  Numa  Pompilio,  e  che  spesso  scrisse  col  pseudonimo 
di  Anton  Maria  Izunna.  Compose  molti  lavori  di  carattere  educative. 

2.  del  russo:  del  Demidoff. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1065 

—  Confesso  che  la  istruzione  de'  nostri  soldati  6  difettosa:  il 
russo  non  glielo  insegniamo :  non  sapendolo,  quando  si  sentono  ri- 
volgere  una  parola  che  pare,  al  suono,  canaglia,  adoperano  il  cal- 
cio  del  fucile.  Non  c'e  che  un  rimedio :  finche  i  soldati  toscani  non 
sappiano  il  russo,  quella  parola  che  ha  detta  Lei,  i  cocchieri  della 
Legazione  bisogna  si  astengano  dal  dirla  alle  sentinelle. 

E  lo  licenzio. 


I  due  aneddoti  raccontati  a  me  da  chi  era  in  grado  di  accertarne 
e  guarentirne  Tautenticita  provano  che  Tultimo  Granduca  di  Tosca- 
na,  che  vollero  far  passare  per  un  imbecille,  tale  non  era.  Ma  di  lui 
non  ancora  fu  scritto  equamente:  fra  il  Baldasseroni1  ministro,  che 
incensando  il  Principe  incensa  se  stesso,  e  il  Montazio,2  volontaria- 
mente  credulo,  acrimonioso  per  antichi  rancori,  oggi  sbollite  le  pas- 
sioni  di  cinquant'anni  fa,  c'e  posto  per  un  biografo  sereno;  il  quale 
fatta  ragione  de'  tempi  e  di  particolari  condizioni,  sapra  essere  a 
Leopoldo  fino  a  un  certo  punto  indulgente. 

Di  lui  sono  meglio  noti  gli  errori,  alcuni  enormi,  che  Tanimo: 
gli  errori  cagionati  talora  dalF essere  egli  un  Absburgo,  Panimo  diffi 
cile  a  penetrare.  Poiche  a  indagarlo  gli  aneddoti  aiutano,  un  altro 
ne  dir6  che  seppi  gia  da  mio  padre  e  di  cui  forse  in  neglette  carte 
d'archivio  rimangono  documenti. 

Sul  finire  del  1849,  a  comandare  il  corpo  austriaco  d'occupazione 
in  Toscana,  venne  a  Firenze  da  Vienna  il  generale  Principe  di 
Liechtenstein.  V'era  giunto  da  poco,  quando  un  bel  giorno  arrivano 
per  lui  dalla  Germania  alcune  casse  di  sigari.  Naturalmente,  in 
Dogana  esigono  si  paghi  il  dazio  onde  la  legge  grava  i  tabacchi  fore- 
stieri ;  ma  il  Lichtenstein,  taccagno  sebben  principe,  per  non  met- 
tere  mano  alia  tasca  invoca  a  suo  pro  la  franchigia  conceduta  ai  di- 
plomatici  rappresentanti  di  Sovrani  esteri.  I  doganieri  lietissimi 
che  Tossequio  alia  legge  imponesse  di  fare  un  dispetto  al  tedesco, 
gli  negano  la  qualita  di  diplomatico.  L'altro  s'impunta,  sbraita: 
fiato  gettato.  Si,  no,  un  viavai  di  messi  altezzosi  del  palazzo  della 
Crocetta  che  il  generale  abitava,  al  palazzo  del  Buontalenti,  ove  la 

i.  Giovanni  Baldasseroni  (vedi  la  nota  sap.  170)  fu  autore  del  volume  Leo 
poldo  II  gran duca  di  Toscana,  edito  nel  1871  (cfr.  pp.  1085-6).  2.  Enrico 
Vantancoli,  o  Montazio  (vedi  la  nota  i  a  p.  910),  autore  de  U ultimo  gran- 
duca  di  Toscana>  Firenze,  Spudrie,  1870. 


I066  FERDINANDO    MARTINI 

Dogana  stava  a  quel  tempo.  Finalmente,  ostinato  e  imbizzito  per 
Postinazione  altrui,  il  Liechtenstein  scrive  al  Granduca;  e  i  doganieri 
subito  awertono  mio  padre,  allora  amministratore  generale  delle 
regie  rendite,  cioe  delle  gabelle  a  delle  privative,  e  cui  perci6,  a 
doppio  titolo,  spettava  risolvere  quella  vertenza.  La  risolse  come 
doveva,  ordinando  che  i  sigari  non  si  consegnassero  fino  a  che  il 
dazio  non  fosse  pagato. 

II  Granduca  voile  essere  informato  appuntino  del  come  stessero 
le  cose,  e  chiamo  a  Pitti  mio  padre ;  il  quale  non  dur6  molta  fatica  a 
persuaderlo  che  il  Lichtenstein  non  aveva  alcun  diritto  a  godere 
della  franchigia.  La  legge  era  quella;  se  il  sovrano  volesse  mutarla, 
poteva:  ma  finche"  era  quella,  conveniva  osservarla  e  farla  osservare. 

A  Modena,  a  Parma,  Duchi  e  Duchesse  avrebbero  probabilmente 
destituiti  i  doganieri  e  magari  mandato  a  casa  P amministratore  ge 
nerale:  Leopoldo  lo  conged6  dicendogli  facesse  sapere  a*  suoi  im- 
piegati  che  era  contento  di  loro ;  che  di  leggi  adpersonam  non  si  do 
veva  neanche  parlare ;  avrebbe  indotto  il  Lichtenstein  a  riconoscere 
il  proprio  torto,  awertendolo  che  non  potendo  defraudarsi  Pera- 
rio,  se  egli  non  pagava,  avrebbe  pagato  lui  Granduca. 

E  cosi  fece;  e  il  Lichtenstein  pag6. 

Padrone  di  se*  e  degli  atti  propri,  era  e  voleva  altri  ossequente  alia 
legge ;  in  soggezione  dell' Austria  aboliva  il  giurato  statuto  costitu- 
zionale.  Per  questi  due  tratti  si  delinea,  a  mio  credere,  intera  la  fi- 
gura  delPuomo  e  del  principe. 

Al  principe  nocque  non  tanto  1'origine,  la  stretta  parentela  con 
Tlmperatore,  quanto  la  fede  cieca  nelle  sorti  degli  Absburgo  e  nel- 
Ponnipotenza  delP  Austria,  che  aveva  vista  dal  '15  al  '48  imporre 
alPEuropa  la  propria  politica  e  dallo  sfacelo  del  '49  risorgere  come 
per  lo  innanzi  temuta:  nocquero  al  principe  e  alPuomo  Paspetto 
sonnolento,  il  contegno  impacciato,  lo  scilinguagnolo  impedito  a 
pronunziare  un  paio  di  lettere  delPalfabeto,  la  erre  particolarmente, 
e  fin  la  miopia.  Una  sera,  a*  Pitti,  tenendo  circolo,  a  una  signora 
che  vedeva  per  la  prima  volta  domandb : 

—  Lei  quanti  figli  ha? 
E  1'altra: 

—  Tre,  Altezza. 

Imbattutosi  di  11  a  poco  nella  medesima  signora  e  non  rawisan- 
dola,  le  si  rivolse  ancora,  e 

—  Lei  quanti  figli  ha? 


CONFESSION!    E    RICORDI   (FIRENZE    GRANDUCALE)       1067 

—  I  soliti  tre,  Altezza  Reale.  Non  ho  avuto  -tempo  di  fame  altri 
da  dianzi  in  poi. 

E  si  rise  dell'equivoco,  si  rise  della  risposta,  si  rise  del  Granduca: 
e  a  un  sovrano  non  giova  che  si  rida  di  lui. 


Con  tutto  ci6  e  a  malgrado  dei  difetti  propri  e  degli  epigrammi 
altrui,  Leopoldo,  avanti  il  1848,  era  e  si  sapeva  amato  in  Toscana 
dai  phi;  anche  da  molti  fra  coloro  che  egli  ebbe  irreconciliabili  ne- 
mici  dappoi  e  piu  macchinarono  per  rovesciarlo.  E  perche  si  sa 
peva  amato,  si  compiaceva  del  farsi  vedere,  delFandare  fra  la  gente, 
passeggiando  per  la  citta  o,  durante  un  veglione,  aggirandosi  in 
mezzo  alle  maschere  nella  platea  della  Pergola.  Non  lo  os6  piu 
dopo  il  ritorno  da  Gaeta,  quando  gli  austriaci  montavano  la  guar- 
dia  a  Palazzo  Vecchio  e  nemmeno  quando  se  ne  furono  tornati  ai 
loro  paesi;  che  anzi  parve  allora  nascondersi.  Parecchi  mesi  ogni 
anno  pass6  nelle  tenute  dell'Alberese,  nelle  ville  di  Pratolino,  di 
Castello,  della  Petraia:  e  quando  a  Firenze,  la  quotidiana  trottata 
fece  il  piu  spesso  fuor  delle  mura  in  luoghi  appartati:  si  che  la  citta- 
dinanza  non  lo  vide  se  non  di  rado  in  occasione  di  pubbliche  feste 
(misere  feste,  immeschiniti  rimasugli  di  splendidezze  medicee)  e 
quando  lo  vide,  spesso  non  gli  bad6. 

Nella  processione  del  Corpus  doming  per  esempio,  che  percorreva 
gran  tratto  della  citta,  egli  vestito  con  la  bianca  cappamagna,  da 
gran  maestro  dell'ordine  di  Santo  Stefano,1  seguiva  il  Santissimo. 

Prima  del  '48  lo  fiancheggiavano,  strascicando  faticosamente  la 
gloria,  le  cicatrici  e  la  sciabola  i  generali  Trieb,  Caimi,  Ceccherelli, 
il  colonnello  Gherardi,  vecchi  avanzi  deiresercito  napoleonico :  ora 
invece  un  drappello  di  guardie  nobili,  nelle  divise  rosse  fiammanti. 
E  ora  non  lui  la  gente  si  mostrava  a  dito,  ma  un  conte  Galli  che  gli 
stava  dappresso  reggendo  1'ombrellino:  e  perch6  il  Galli  in  quel 
giorno  sfoggiava  sul  giubbone  grossi  bottoni  di  diamanti,  celebri 
nella  Firenze  di  quel  tempo  come  straordinariamente  preziosi;  e 
perch£  era  odiato  dal  popolo  minuto ;  il  quale,  vero  o  no  che  fosse, 
credeva  e  rammentava  come  in  un  anno  in  cui  per  la  eccessiva  ab- 
bondanza  del  raccolto  il  vino  si  pag6  un  soldo  il  fiasco,  il  Galli, 
posseditore  di  molte  vigne,  piuttosto  che  venderlo  a  quel  prezzo,  die 

i.  L'ordine  cavalleresco  di  Santo  Stefano  fu  istituito  da  Cosimo  I  de' 
Medici  nel  1562. 


1068  FERDINANDO    MARTINI 

la  via  alle  botti  e  mut6  in  purpurei  rigagnoli  i  grigi  viali  del  proprio 
giardino. 

Cosi  per  San  Giovanni,  quando  la  Corte  giungeva  sul  palco  eret- 
tole  in  piazza  Santa  Maria  Novella,  affinche  godesse  del  palio  del 
cocchi,  nel  primo  mostrarsi  delle  loro  Altezze  non  al  Granduca  si 
guardava,  ma  alia  granduchessa,  anzi  al  vestito  della  grandu- 
chessa. 

I  palii  furono  per  secoli  spasso  dai  fiorentini  desideratissimo : 
lo  dimostra  il  costume  di  festeggiare  co*  palii  la  ricorrenza  di  giorni 
solenni  nella  storia  della  citta.  Palio  per  Santa  Reparata  in  ricordo 
della  sconfitta  di  Radagasio1  re  dei  goti  nel  405 ;  palio  1'  1 1  giugno 
in  ricordo  di  Campaldino  ;2  palio  il  29  luglio  per  commemorare  la 
battaglia  di  Cascina  vinta  contro  a1  Pisani  nel  1364,  e  altri  e  altri: 
persino  un  palio  di  asini  a  dileggio  servile  della  memoria  di  Fi- 
lippo  Strozzi,3  fatto  prigione  dal  Medici  a  Montermurlo  e  ricon- 
dotto  sopra  un  somaro  a  Firenze.  Quando  papa  Leone  X4  fu  a 
Firenze  nel  1515  ne  fece  correre  innanzi  al  proprio  palazzo  in  via 
Larga  ogni  giorno  e  sino  a  tre  in  un  giorno:  corse  di  vecchi,  di 
ragazze,  di  bufale,  di  cavalli.  Questo  dei  cocchi  fu  corso  la  prima 
volta  per  ordine  di  Cosimo  I  nel  1563.  «Era»  (mi  servo  delle  parole 
d'un  erudito)  «sulPandare  de'  giochi  del  circo  massimo  in  Roma  e 
con  gli  stessi  colori :  il  veneto  (celeste)  il  prasina  (verde)  il  russato 
(rosso)  Valbato  (bianco);  e  perch6  tutto  fosse  romano,  soggiunge 
Cesare  Guasti,5  s'inalzavano  sulla  piazza,  a  forma  di  mete,  due 
guglie  che  nel  1608  furono  fatte  di  marmo  mistio  di  Serravezza,  quali 
oggi  ancora  si  veggono.  Dalla  guglia  piu  vicina  al  tempio  comin- 
ciava  la  carriera  dei  cocchi  che  tre  volte  giravano  ellitticamente  la 
piazza,  schivando  le  guglie,  sicche  la  bravura  dei  guidatori  era 
ammirata  per  la  maestria  del  piegare  i  cavalli  alle  svolte,  come  coloro 
di  cui  Orazio  cantava,6  gloriosi  di  aver  corso  nello  stadio,  senza 
toccare  le  mete  con  le  ruote  infocate  dal  veloce  girare ». 

i.  L'ostrogoto  Radagasio  fu  sconfitto,  presso  Fiesole,  da  Stilicone.  2.  Cam 
paldino  :  e  il  luogo  della  battaglia  combattuta  dai  Fiorentini  contro  gli  Are- 
tini,  I'n  giugno  1289,  cui  partecipo  Dante.  3.  Filippo  Strozzi,  fuoruscito 
antimediceo,  fu  sorpreso,  vinto  e  fatto  prigioniero  nel  1538  a  Montemurlo 
dalle  milizie  imperiali  condotte  da  Alessandro  Vitelli  e  da  Cosimo  I. 
Rinchiuso  nella  fortezza  fiorentina  di  San  Giovanni  Battista,  una  mattina 
fu  trovato  cadavere.  4.  Giovanni  de'  Medici,  pontefice  col  nome  di 
Leone  X  dal  1513  al  1521.  5.  Cesare  Guasti  (1822-1889),  di  Prato,  scrit- 
tore,  storico,  letterato,  segretario  dell'Accademia  della  Crusca.  6.  di 
cui  .  .  .  cantava:  vedi  Orazio,  Carm.,  I,  i,  3-6. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       1069 

Questo,  ben  inteso,  a  tempo  dei  Medici,  quando  il  palio  fu  destra- 
mente  conteso  in  gara  animosa,  e  secondo  cant6  con  modestia  di 
rime  Domenico  Poltri1  accademico  della  Crusca: 

Coloro  die  in  que'  carri  erano  entrati, 
ai  cavalli  perche  piu  camminassero 
tiravan  colpi  come  disperati, 

e  correan  quelli  accio  presto  arrivassero> 
ma  non  parean  cavalli  che  corressero, 
par  eon  piuttosto  uccelli  che  volassero. 

Ma  ai  tempi  dei  quali  discorro,  cioe  dal  '49  al  '59  le  cose  anda- 
vano  diversamente :  Tordine  non  era  gia  di  sferzare  e  d'incitare 
i  cavalli ;  se  mai,  di  trattenerli.  La  sicurezza  dello  Stato  non  permet- 
teva  vincessero  i  corridori  piu  veloci  e  si  premiasse  Tauriga  piu 
abile.  Non  si  permetteva  mica  a  Siena  giungesse  prima  il  cavallo 
dell'Oca  .  .  .  \JOca  era,  si,  la  contrada  di  Santa  Caterina,  ma  il  suo 
fantino  vestiva  giacca  bianca  e  verde  rigata  di  rosso;  tricolore: 
e  al  tricolore,  con  tutto  il  rispetto  per  la  Santa,  cavallo  spedato. 
Cosi  nel  palio  de'  Cocchi  a  Firenze :  non  il  verde,  amore  dei  costitu- 
zionali,  non  il  rosso,  caro  ai  repubblicani,  la  vittoria  era  imposta  al 
bianco  o  al  celeste,  secondo  che  bianco  o  celeste  fosse  in  quel  giorno 
Tabito  della  Granduchessa:  perci6  a  lei  e  non  al  Granduca  si  ba- 
dava  quando  comparivano  nel  palco. 

Poich6  ci6  era  noto  e  si  sapeva  simulata  la  gara,  la  corsa  perdeva 
alquanto  d'interesse:  ma  non  si  potevano  immolare  -  che  diavolo!  - 
alle  attrattive  di  uno  spettacolo  popolare  Tautorita  del  governo  e  le 
sorti  della  dinastia.  E  se  al  prasina  e  al  russato  sconfitti  plaudissero 
le  tibie  di  polio,  la  polizia  prenderebbe  nota  dei  plausi  e  sorveglie- 
rebbe  i  plaudenti. 

Perche  alle  persecuzioni  contro  ai  cappelli  airitaliana  e  agli  scac- 
dapentterifstimzti  simboli  rivoluzionari  e  contrassegni  di  congiura- 
ti  qualche  anno  prima,  ora  succedeva  la  persecuzione  contro  le  tibie 
di  polio  accomodate  alPuso  di  bocchini  da  sigari :  e  chi  si  faceva  ve- 
dere  in  pubblico  con  quell'osso  fra7  denti  rischiava  d'andare  a  fu- 
mare  nel  carcere  delle  Murate. 


i.  Domenico  Poltri,  poeta  e  accademico,  vissuto  tra  i  secoli  XVII  e  XVIII. 
Su  lui,  ormai  poco  noto,  si  veda  G.  NEGRI,  Istoria  degli  scrittori  fio- 
rentini,  Ferrara  1722,  p.  557.  2.  Per  i  cappelli,  vedi  la  nota  2  a  p.  1021; 
lo  scacciapensieri  e  un  piccolo  istrumento  musicale  a  bocca,  di  suono  assai 
acuto. 


1070  FERDINANDO    MARTINI 


II  governo  pavido  e  sospettoso  dava  argomento  di  riso  con  queste 
piccinerie,  la  Corte  con  le  gretterie.  Parsimoniosa  era  stata  sempre, 
ne  ci6  dispiaceva  a*  fiorentini  nati  homines  ad  frugalitatem  secondo 
uno  storico :  ma  dal  '46  la  parsimonia  accennava  a  divenir  tirchieria. 
Da  quando  si  par!6  di  riforme,  la  prima  riforma  si  fece  sulle  spese  di 
casa:  si  davano,  si,  a  palazzo  Pitti  i  soliti  pranzi,  i  soliti  balli  nel 
carnevale,  i  soliti  appartamenti1  in  quaresima;  ma  gli  invitati  osser- 
vavano  che  pranzi,  cene,  rinfreschi  non  eran  piu  quelli  d'una  volta. 
In  carteggi  del  '47  che  ho  sott'occhio,  una  mala  lingua  scrive  che  il 
Granduca  si  rifa  sul  buffet  e  sulle  acque  tinte  delle  elargizioni  per 
I'armamento  della  guardia  civica.  E  del  rimanente  non  c'e  bisogno 
di  altri  testimoni,  basto  io.  lo,  sicuro. 

Fra  le  feste  carnevalesche  della  corte  ci  era  anche,  ogni  anno,  un 
ballo  di  bambini.  Compagni  miei  maggiori  d'eta  me  lo  avevano 
magnificato,  facendomi  venire  1'acquolina  in  bocca,  con  1'enumerare 
e  descrivere  le  scatole  di  dolci  loro  in  quel  ballo  a  larga  mano  distri- 
buite.  Quando  -  avevo  cinque  o  sei  anni  -  venne  il  mio  turno  .  .  . 
ahime!  uscii  da  Palazzo  con  due  piccolissime  giberne  di  cartone 
ognuna  delle  quali  conteneva  pochi  cioccolatini  e  null'altro! 

Fu  quella  la  mia  prima  delusione;  non  me  ne  sowerrei  certa- 
mente  ora,  se  a  serbarne  memoria  non  avessero  aiutato  un  fatto 
per  se  stesso  indimenticabile  e  il  nome  d'una  donna  della  quale  udii 
in  seguito  parlare  assai  spesso ;  nome  che  dalle  licenziose  cronache 
parigine  del  secondo  impero  veggo  oggi  passare  nella  storia.  Nel 
correre  da  un  punto  alPaltro  della  sala,  inciampai,  e  sentendomi 
cadere  mi  aggrappai  alia  spalla  d'una  bambina ;  ma  anzi  che  soste- 
nermi  per  quell' appoggio,  feci  a  lei  perdere  1'equilibrio  e  la  tra- 
scinai  meco  nel  ruzzolone.  Quella  bambina,  che  allora  si  chiamava 
la  «Nicchia»  Oldoini,  divenne  poi  la  «divina»  contessa  Virginia 
Verasis  di  Castiglione,  agente  segreta  del  Cavour  alle  Tuileries,2 
cara  al  «fosco  figlio  d'0rtensia»;3  e  dopo  la  cacciata  de'  Napoleoni- 

i.  appartamenti:  ricevimenti.  z.  Virginia  Oldoini  (1837-1899),  nobile  to- 
scana,  sposanel  1854  di  Francesco  Verasis,  conte  di  Castiglione,  gentiluomo 
della  corte  di  Vittorio  Emanuele  II.  Bellissima  e  di  molta  abilita,  fu  dal  Ca 
vour  inviata  a  Parigi,  perch6  agisse  su  Napoleone  III  a  favore  della  causa 
italiana.  Nicchia  e  diminutivo  di  Virginia  («Virginicchia»).  3.  «fosco  fi 
glio  d'Ortensia*:  Napoleone  III  era  figlio  di  Luigi  Bonaparte  re  d'Olanda  e 
di  Ortensia  Beauharnais.  La  frase  e  del  Carducci,  nelPode  barbara  Per  la 
morte  di  Napoleone  Eugenio,  v.  17. 


CONFESSIONI    E   RICORDI   (FIRENZE    GRANDUCALE)       IOJI 

di  accorta  e  preveggente  ma  inascoltata  consigliatrice  del  Duca 
d'Aumale  e  del  Conte  di  Parigi.1 

La  vidi  due  o  tre  volte  dal  suo  nonno  materno  Ranieri  Lampo- 
recchi  avvocato  di  grido,  che  abitava  nel  proprio  palazzo,  adiacente 
lungo  TArno  a  quello  de'  Masetti  ove  TAlfieri  mori.2  II  Lamporec- 
chi  nei  brevi  riposi  che  Temi  gli  consentiva  sacrificava  a  Callio- 
pea3  e  scriveva  un  poema  in  ottave:  Napoleone.  Finite  un  canto  lo 
mandava  a  mio  padre  per  averne  consigli  ed  emende ;  di  qui  qual- 
che  rara  visita  di  mio  padre,  al  giureconsulto-poeta ;  e  durante  i 
loro  colloqui,  i  miei  con  la  «Nicchia»;.  colloqui  non  desiderati, 
perch.6  consapevole  sin  d'allora  della  propria  veramente  meravigliosa 
bellezza,  trattava  me  e  gli  altri  ragazzi  con  un'alterigia  che  le  pro- 
cacciava  le  nostre  piu  cordiali  antipatie. 

Ma  il  ruzzolone  non  fu  Pawenimento  piu  rilevante  in  quel  mio 
primo  entrare  fra  i  danzatori  e  nelle  aule  regali.  L'innalzarsi  ahime! 
fu  grave  assai  piu  del  cadere. 

Ballavamo  nella  stanza  del  trono :  un'alta  pedana  alia  quale  si 
ascendeva  per  tre  gradini  coperti  di  un  ricco  tappeto  e  ai  cui  lati  si 
ergeva  un  baldacchino  di  velluto  rosso ;  nel  mezzo  dejla  pedana  un 
poltroncione  della  stoffa  medesima.  Rosso  il  tappeto,  rosso  il  bal 
dacchino  con  frangie  d'oro,  rossa  la  poltrona,  incorniciati  da  legno 
dorato  la  spalliera  e  i  braccioli.  Mi  parve  che  di  lassu  tutti  quei 
bambini  affollati  nella  sala  dovessero  fare  un  bell'effetto :  e  per  con- 
vincermene,  salii  audace  e  m'assisi  irriverente  sulla  sedia  che  aveva 
accolto  i  fianchi  di  tre  granduchi  di  Toscana,4  arciduchi  d'Austria, 
principi  imperiali  d'Ungheria  e  di  Boemia,  in  cospetto  di  sudditi,  di 
ministri,  d'ambasciatori. 

Ah!  veggo  ancora la mia povera madre partirsi  dall'angolo  opposto 
della  sala,  farsi  largo  quanto  piu  rapidamente  potesse  fra  la  calca  in 
fantile,  scansando,  scartando  con  le  mani  a  destra  e  a  sinistra  le  testo- 
line  stupefatte  per  quel  suo  irrompere  improwiso,  e  venirmi  contro 


i.  Henri  d'Orl&ms,  duca  d'Aumale  (1822-1897),  quarto  figlio  di  Luigi  Fi- 
lippo,  esule  dopo  la  rivoluzione  del  1848,  pote  tornare  in  Francia  solo  dopo 
il  1870,  quando  (1872)  fu  eletto  deputato;  Louis  Philippe  Albert  d' Or- 
le"ans,  conte  di  Parigi  (1838-1894),  proclamato  re  di  Francia  nel  1848,  regn6 
mezz'ora,  ch£  la  rivoluzione  lo  esili6.  Ritorn6  in  Francia  nel  1871,  ma  fu 
costretto  a  ritirarsi  di  nuovo  in  Inghilterra.  2.  ove  .  .  .  mori:  1*8  otto- 
bre  1803.  3.  Temi  e  la  dea  della  giustizia,  Calliope  la  musa  della  poesia 
epica.  4.  tre  .  .  .  Toscana:  Pietro  Leopoldo  (vedi  la  nota  a  p.  168),  Ferdi- 
nando  III  (vedi  la  nota  i  a  p.  415),  Leopoldo  II. 


1072  FERDINANDO    MARTINI 

con  occhi  che  promettevano  terribili  reprimende  e  non  ancor  patiti 
castighi.  Mi  accorsi  di  aver  fatto  qualcosa  di  grosso  e  scesi;  e  da  ca- 
stighi  e  reprimende  fui  sovranamente  salvato.  II  Granduca  ch'era  li 
presso,  seguendo  lo  sguardo  di  mia  madre  si  volse,  mi  vide,  capl  e 
presomi  in  collo  e  carezzandomi  e  scusandomi,  implor6  e  mi  ottenne 
il  per  do  no. 

Forse  la  memoria  di  quel  pietoso  interporsi  mi  sollecita  a  raffi- 
gurare  Leopoldo  quale  fu  veramente,  non  quale  lo  dipinsero  le  fa- 
zioni  e  le  sette  e  ad  essergli  fino  a  un  certo  punto  indulgente. 


E  qui  sento  gridarmi  da  piu  d'uno:  indulgente  con  chi  tent6 
bombardare  Firenze  dalla  fortezza  di  Belvedere? 

Ecco:  qui  non  si  scrive  storia:  se  si  scrivesse,  molte  narrazioni 
sarebbero  da  rettificare  con  la  scorta  di  documenti,  molte  opinioni 
da  correggere.  6  tempo  di  mettersi  in  testa  che  la  storia  del  nostro 
risorgimento  politico  e  da  fare  e  da  rifare,  se  storia  si  scriva  non  per 
adulare  passioni,  ma  per  conoscere  la  verita.  Le  colpe,  gli  errori 
dell'ultimo  Granduca  di  Toscana  li  so  anch'io  e  non  li  assolvo: 
sono  molti  e  non  c'e  bisogno  di  aggiungerne.  Che  Leopoldo  ordi- 
nasse  di  bombardare  fu  spacciato  nel  '59,  subito  dopo  la  sua  par- 
tenza  da  chi  voile  atteggiarsi  a  salvatore  della  patria  ed  essere 
ricompensato  dall'averla  salvata;  ma  non  e  vero. 

Si  bombarda  una  citta  per  soggiogarla  e  rimanervi  dominatore. 
Leopoldo  era  risoluto  a  partire  da  Firenze  e  sperava  di  ritornarvi. 

Bettino  Ricasoli,  Celestino  Bianchi,  Giovan  Battista  Giorgini1 
che  tanta  parte  ebbero  negli  avvenimenti  toscani  del  '59,  da  me  piu 
volte  interrogati  non  mai  affermarono:  il  Ricasoli  e  il  Bianchi  si 
strinsero  nelle  spalle  e  risposero :  « si  disse »,  il  Giorgini  tacque  e 
sorrise. 

Ma  v'ha  di  piu.  Quando  per  proposta  di  Lorenzo  Ginori2 
Tassemblea  toscana  decretb  la  decadenza  della  dinastia  Lorenese, 
pur  non  tacendo  nella  propria  deliberazione  le  antiche  benemerenze 
del  Granduca,  ricordb  Ponta  e  il  danno  delPoccupazione  straniera, 
le  molteplici  violazioni  del  diritto  pubblico,  Pabbandono  dello 

1.  Bettino  Ricasoli:  vedi  la  nota  2  a  p.  429;    Celestino  Bianchi'.  vedi  la 
nota  6  a  p.  1037;    Giovan  Battista  Giorgini:  vedi  la  nota  i  a  p.  1132. 

2.  Lorenzo  Ginori,  nobile  fiorentino,  creatore  della  fabbrica  di  porcellane 
di  Doccia. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1073 

stato,  il  rifugio  cercato  nel  campo  nemico,  la  incompatibility  di  un 
principe  austriaco  col  sentimento  nazionale,  con  Tordine  e  la  feli- 
cita  della  Toscana;  del  comandato  bombardamento  neanche  un  ac- 
cenno :  e  sarebbe  stato  argomento  non  trascurabile  da  chi  parlava 
all'Europa  e  dall'Europa  chiedeva  assentimenti  o  acqulescenze. 

E  ancora:  Ferdinando  Andreucci1  cui  fu  commesso  di  riferire 
intorno  alia  proposta  Ginori,  si  esprimeva  cosi:  «Di  odio  personale 
ci  sentiamo  libero  1'animo  affatto:  altrettanto  possiamo  affermare 
del  popolo  nostro  generalmente :  il  contegno  suo  nobilissimo  nello 
stesso  27  aprile  mostro  apertamente  che  le  persone  egli  non  odiava: 
ma  anzi  anche  mentre  mostravansi  piuttosto  ostili  che  amiche  alia 
causa  nazionale,  ei  sapea  rispettarle ». 

Ora  di  chi  tent6  bombardare  non  si  citano  benemerenze ;  le 
quali  un  tale  proposito  tutte  cancella;  a  chi  tent6  uccidere,  se  anche 
si  dica  cristianamente  «noi  non  vi  odiamo»  si  soggiunge  per  lo 
meno  «  sebbene  ci  abbiate  fornito  ragioni  di  odiarvi ». 

Non  e  vero.  £  questa  una  delle  solite  fandonie  che  si  spacciano 
in  tutte  le  rivoluzioni.  NelP89  a  Parigi  inventarono  che  il  conte 
d'Artois2  voleva  dando  fuoco  a  una  mina  far  saltare  in  aria  1'As- 
semblea  nazionale :  sessanta  anni  dopo  a  Firenze  un  ufficiale  di  non 
bella  nomea  se  ne  ricord6  e  adatt6  la  leggenda  ai  nuovi  casi.  E 
pazienza  per  il  conte  d'Artois:  il  futuro  Carlo  X  se  -  com'e  oramai 
provato  -  non  ebbe  mai  nel  pensiero  il  disegno  attribuitogli,  era 
pur  tuttavia  uomo  da  concepirlo:  non  era  uomo  da  bombarda 
mento  Leopoldo  II,  bonario  e  frollo :  due  volte  in  procinto  di  per- 
dere  il  trono,  non  seppe  altro  che  battere  il  tacco  e  raccomandarsi 
alPaiuto  dell* Austria  e  alia  misericordia  di  Dio. 

Non  e  vero. 

Ma  fu  creduto  da  molti!  Eh!  se  tutto  ci6  che  si  cred6  fosse  vera- 
mente  da  credere  .  .  .  Le  madri  tedesche,  scrive  Enrico  Heine,  istu- 
pidite  dal  terrore  si  cacciavano  disperatamente  le  mani  nei  capelli, 
quando  sentivano  raccontare  che  Tantropofago  Niccol6,3  impera- 

i.  Ferdinando  Andreucci  (1806-1888),  di  Siena,  gi£  ministro  dell'istruzione 
nel  gabinetto  Ridolfi  (vedi  la  nota  4  a  p.  159),  fece  parte  della  Consulta 
durante  il  governo  prowisorio  del  1859  in  Firenze,  favorendo  la  soluzione 
unitaria.  Fu  poi  deputato  (1860-1871)  e  senatore.  2.  Fratello  di  Luigi  XVI, 
il  conte  d'Artois  (1757-1836)  fu  tra  i  primi  ad  emigrare  (17  luglio  1789). 
Sali  al  trono  nel  1824  con  il  nome  di  Carlo  X,  e  perd6  il  trono  nella  rivo- 
luzione  del  luglio  1830.  3. Niccold:  Nicola  I  (1796-1885),  zar  dal  1825.  Fa- 
mosa  la  sua  durissima  repressione,  nel  1831,  della  insurrezione  polacca. 

68 


1074  FERDINANDO    MARTINI 

tore  di  Russia,  mangiava  tutte  le  mattine  a  colazione  tre  fanciulli 
polacchi,  e  li  mangiava  crudi  in  salsa  di  acetosella. 


LE  MIE  PRIGIONI1 

Nell' estate  del  1858  venne  a  Firenze  la  Laura  Bon2  .  .  .  Laura 
Bon  . .  .  Chi  e  costei  ?  domanderanno  parecchi,  udendo  per  la  prima 
volta  quel  nome.  Potrei  soggiungere  «figlia  di  Francesco  Augusto  », 
ma  non  basta,  e  forse  non  giova ;  temo  che  oramai  un  medesimo  oblio 
awolga  la  figliola  ed  il  padre.  Per  farla  conoscere,  ricorrer6  ad  un 
maresciallo  austriaco,  il  cui  nome  non  dovrebbe  essere  ancora  in 
Italia  dimenticato. 

In  un  libro  del  Friedjung  -  Benedek' s  nachgelassene  Papiers-3 
libro  che  certamente  non  ebbe  molti  lettori  fra  noi  -  e  un  curioso 
documentor  una  lettera  che  il  feld-maresciallo  Benedek,4  coman- 
dante  la  piazza  di  Verona,  mandava  a  Vienna,  al  conte  di  Cren- 
neville  il  26  febbraio  1864.  -  Ne  riferisco  tradotta  una  parte  (pag. 
329-332). 

((Caro  e  molto  importunato  amico, 

L'attrice  italiana  Laura  Bon,  alta,  grossa,  di  fisonomia  non 
troppo  attraente,  ma  che  nonostante  i  suoi  trentacinque  anni, 
pochi  piii  pochi  meno,  pu6  ancora  dirsi  un  "bel  pezzo  di  donna" , 
pare  voglia  seguire  1'esempio  della  Ristori;  e  per6  si  propone  di 
recitare  sui  teatri  di  Vienna.  Saputo  ch'io  partivo  per  Vienna, 
venne  a  pregarmi  di  prepararle  il  terreno  cola;  tomato  io  a  Verona, 
torn6  lei  da  me  per  consigliarsi,  per  sapere  se  quel  suo  proposito 
poteva,  si  o  no,  essere  mandate  ad  effetto  con  speranza  di  buon 
successo.  Le  risposi  che,  poco  pratico  del  mondo  teatrale,  non  m'era 
riuscito  raccogliere  notizie  sufficient!;  a  ogni  modo,  s'ella  volesse 
conoscerla,  la  mia  opinione  era  questa:  per  la  musica,  per  Popera 
italiana  Vienna  ottima  piazza:  non  altrettanto  buona  per  la  com- 

i.  Ed.  cit.,  cap.  xn,  pp.  191-204.  2.  L'attrice  Laura  Bon  (1825-1904) 
fu  amata  da  Vittorio  Emanuele  II  e  da  lui  ebbe  un  figlio,  Emanuele  (1853). 
3.  Heinrich  Friedjung  (1851-1920),  storico  austriaco,  professore  airUni- 
versita  di  Vienna.  La  grafia  esatta  e  Papiere.  4.  Ludwig  August  von 
Benedek  (1804-1881)  combatt6  nelle  guerre  del  '48-49  e  in  quella  del  '59. 
Fu  lo  sfortunato  comandante  supremo  delPesercito  austriaco  nella  guerra 
del  1866  contro  la  Prussia. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1075 

media,  perche  v'e  troppo  esiguo  il  numero  delle  persone  die  sap- 
piano  la  lingua  e  una  compagnia  comica  correrebbe  rischio  di  reci- 
tare  alle  panche. 

La  signora  parti  per  Torino.  Giorni  sono,  rieccola  a  Verona  e  a 
chiedermi  con  insistenza  un  colloquio.  La  ricevei,  ed  essa  mi  affer- 
m6  essere  mandata  dal  re  Vittorio  Emanuele  a  portarmi  il  suo  ri- 
tratto  in  fotografia  e  i  suoi  saluti ;  soggiunse  che  aveva  da  farmi  in 
tutta  segretezza  una  ambasciata. 

£  necessario  tu  sappia  che  la  Bon  nella  sua  prima  gioventu  fu  in 
affettuosissima  relazione  con  Vittorio  Emanuele,  allora  principe  ere- 
ditario;  con  Pandare  degli  anni,  Tamante  d'un  tempo  divenne  la 
buona  arnica,  che  in  memoria  dei  giorni  lieti,  porta  con  ostentazione 
una  broche,  nella  quale  e  racchiusa  1'effigie  di  Sua  Maesta. 

Cominci6  dal  raccontarmi  che  il  Re,  saputo  come  la  compagnia 
piemontese  ottenesse  qui  il  favore  del  pubblico  e  la  stessa  Bon  fosse 
da  me  garbatamente  accolta,  pens6  di  affidare  all'antica  innamo- 
rata  una  missione  diplomatica.  Bisognava,  primo  punto,  io  le  cre- 
dessi:  ed  ella,  a  persuadermi  della  verita  di  quanto  asseriva,  mi 
narrb  una  quantita  di  particolari :  ricord6  che  a  Mortara1  io  tentai  far 
prigione  il  Duca  di  Savoia,  ma  non  riuscii  se  non  ad  afferrare  le 
briglie  del  suo  cavallo,  ecc.,  ecc. :  ripete"  frasi  complimentose  dette 
dal  Re  sul  conto  mio  e  finalmente  butt6  fuori  la  parte,  imparata, 
come  dice  lei,  faticosamente  a  memoria  . .  . 

In  sostanza  il  Re  ha  il  vivo  desiderio  di  stringersi  in  alleanza  con 
P Austria,  e  ottenere,  a  tempo  opportune,  la  Venezia  mediante 
compensi  da  determinarsi.  Mi  faceva  domandare  se  ero  disposto  a 
riferire  alPImperatore  le  sue  opinioni  e  le  sue  proposte  e  ad  assu- 
,  mere  Pufficio  di  intermediario.  Tutto  ci6  esposto  dalPattrice  con 
elegante  vivacita  di  parola. 

Giunse  anche  per  me  la  volta  dei  complimenti :  lodai  le  sue  atti- 
tudini  alia  diplomazia,  la  sua  voce,  i  suoi  denti  bellissimi,  e  risposi : 
che  io,  car  a  signora,  la  creda,  o  no,  in  facolta  di  dirmi  quanto  m'ha 
detto,  e  cosa  che  poco  importa;  le  faccio  soltanto  osservare  che  se 
un  generale  piemontese  s'impegnasse  a  fare  ci6  che  mi  si  propone, 
tutti,  compreso  il  re  Vittorio  Emanuele,  direbbero:  "Costui  e  un 
imbecille,  anzi  un  asino". 

La  signora  ascolt6  la  risposta  con  la  "buona  grazia"  e  la  disinvol- 

i.  A  Mortara,  il  21  marzo  1849,  ebbe  luogo  una  battaglia  tra  Piemontesi  e 
Austriaci. 


I0y6  FERDINANDO   MARTINI 

tura  propria  (Tun'italiana  e  si  accomiat6,  chiedendomi  una  com- 
mendatizia  per  il  direttore  del  teatro  di  Vienna.  Volli  dimostrar- 
mele  ancora  cortese ;  -  le  detti  una  lettera  di  cui  ti  acchiudo  la  co- 
pia,  per  il  barone  Mecseny,  e  Tindirizzo  del  consigliere  Lewinsky, 
direttore  della  stampa  al  Ministero,  che  conobbi  molti  anni  sono 
durante  il  mio  soggiorno  in  Galizia.  Giudica  tu  quanto  del  collo- 
quio  sia  opportune  far  noto  al  Ministro  di  Polizia. » 


Fatta  la  conoscenza,  riprendiamo  il  racconto. 

La  Bon  venne  dunque  nel  1858  a  Firenze,  e  dette  al  Teatro 
Nuovo,  oggi  demolito,  alcune  rappresentazioni.  Quantunque  non 
ancora  distratta  dai  negoziati  internazionali,  recitava  piuttosto  male ; 
con  enfasi  monotona,  fatta  piu  noiosa  da  un  continue  gesticolare; 
ci6  nonostante  gli  applausi  scrosciavano ;  credo  nessuna  attrice  ne 
ottenesse  mai  de'  piu  caldi,  meritando  meno.  Se  non  che,  gli  ap 
plausi  non  andavano  a  lei,  ma  a  quello  spillo  che  sei  anni  dopo 
dava  nelPocchio  al  maresciallo  Benedek:  alia  miniatura  di  un 
Vittorio  Emanuele  biondo  ricciuto  paffuto,  che  spiccava  ora  sulla 
tunica  di  Clitennestra,  ora  sul  manto  di  Maria  Stuarda. 

Di  fresco  aveva  ottenuto  successo  felicissimo  sui  teatri  di  Fran- 
cia  e  d' Italia,  merce  la  Ristori,  una  mediocre  Medea  del  Legouve:1 
venne  in  mente  alia  Bon  di  esumare  la  Medea  del  Niccolini.2 
Figuratevi!  una  tragedia  dell'autore  del  Procida,  recitata  da  un'at- 
trice  protetta,  anzi  benvoluta  dal  Re  di  Sardegna!  Ai  liberali, 
auspice  Vincenzo  Salvagnoli,  parve  quella  la  piu  favorevole  delle 
congiunture,  per  una  delle  tante  manifestazioni  allegoriche  che 
piacevano  ai  toscani  d'allora  e  le  quali,  pur  intese  a  significare  mol- 
tissime  cose  Tuna  piu  sowersiva  dell'altra,  permettevano  al  go- 
verno  scansafatiche  di  far  le  viste  che  nulla  fosse. 

Da  anni,  il  Niccolini  non  usciva  di  casa  se  non  per  fare  una  trot- 
tata  in  carrozza  chiusa  ne*  viali  delle  Cascine.  Dico  «trottata» 
perche  cosl  usa  a  Firenze,  dove  fa  una  «trottata»  chiunque  si 
lascia  strascicare  per  diporto  in  carrozza,  anche  se  i  cavalli  vanno 

i.  Ernest  Wilfred  Legouvt  (1807-1903),  poeta  e  drammaturgo  francese, 
autore  di  scritti  educativi  e  di  memorie  (Soixante  cms  de  souvenirs,  1855- 
1887).  Aveva  composta  la  Medea  nel  1854,  per  la  Rachel.  La  tragedia  fu  in- 
yece  rappresentata  per  la  prima  volta  a  Parigi,  nel  1856,  in  traduzione  ita- 
liana  e  neirinterpretazione  di  Adelaide  Ristori.  2.  Niccolini:  vedi  la  nota 
lap.  438.  La  sua  Medea  fu  composta  tra  il  1810  e  il  1815. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1077 

di  passo ;  e  a  passo  di  lumaca  andava  quello  del  Niccolini,  coetaneo, 
credo,  del  cocchiere,  del  cocchio  e  del  poeta,  tutti  venuti  al  mondo 
sullo  scorcio  del  secolo  decimottavo.  Mi  ricordo  averlo  veduto  il 
Niccolini  la  prima  volta,  poco  innanzi  che  awenissero  i  fatti  i 
quali  sto  per  raccontare.  Di  lui,  sebbene  gia  si  stampasse  suj  gior- 
nali  la  mia  prosa  barbara  e  pretensiosa,  avevo  forse  letto  una  lirica 

0  due;  ma  i  vecchi  lo  dicevano  grande  autor  tragico  e  bastava 
perch'io  lo  ammirassi.  Allora,  a  diciassette  anni,  non  si  provava  il 
prurito  che  assilla  oggi  gli  adolescenti  di  dir  sempre  bianco  quando 

1  vecchi  dicono  nero  e  viceversa;   si  giurava  in  verba  magistri. 
Eccesso  per  eccesso,  meglio  gli  spropositi,  la  presunzione,  le  awenj 
tatezze;  sono  difetti  dei  quali  col  tempo  e  lo  studio  si  guarisce; 
ma  quelPassuefarsi  ad  accogliere  le  opinioni  belle  e  fatte,  quel 
vestire,  sia  pure  senza  volerlo,  la  infingardaggine  da  reverenza,  di- 
sawezza  dal  pensare,  impigrisce  talmente  lo  spirito  che  a  scoterlo 
poi  ci  vogliono  anni  e  anni  e  non  sempre  ci  si  riesce.  Dunque  il 
Niccolini,  a  detta  de'  vecchi,  era  un  grand'uomo  ed  io  smaniavo  di 
vedere  come  fosse  fatto  Pautore  di  tante  opere  stupende,  che  nes- 
suno  mi  aveva  posto  fra  mano  ed  io  mi  ero  senza  rammarico  aste- 
nuto  da  leggere.  Un  giorno,  passando  da  via  Larga,  veggo  muovere 
faticosamente  una  bastardella  (cosi  chiamavano  certe  carrozze  chiuse 
di  forma  particolare),  e  da  un  crocchio  sento  uscir  queste  parole: 
«Ecco  il  Niccolini  che  va  alle  Cascine!» 

Augusto  Barbier1  raccontc-  d'aver  fatto  di  corsa  a  Napoli  tutta  la 
via  Toledo  per  raggiungere  la  catiche  di  Walter  Scott;  io  feci  piu 
lungo  tragitto ;  e  di  carriera,  infilando  strade  e  vicoli,  esperto  delle 
scorciatoie,  arrival  alle  Cascine  prima  della  carrozza. 

Me  lo  figuravo,  a  dire  il  vero,  molto  diverso.  Basso  di  statura, 
rinfagottato  in  una  palandrana  color  marrone,  con  una  parrucca 
che  gli  calava  sotto  gli  orecchi  e  un  cappello  a  cencio  che  copriva 
gli  estremi  lembi  della  parrucca,  il  Niccolini,  a  chi  non  poteva 
mirarne  lo  sguardo,  sfavillante  sempre,  pareva  un  potesta  ripo- 
sato2  che  svernasse  alia  capitale. 

Invitato  ad  andare  al  Teatro  Nuovo,  rispose  da  principio  e  brusco 

i.  Augusto  Barbier  (1805-1882),  g&  commemorate  dal  Martini  in  un  arti- 
colo  che  gli  merit6  elogio  dal  Carducci  (vedi  Opere,  xxin,  edizione  na- 
zionale,  pp.  296,  301,  309),  scrittore  francese,  tra  le  cui  raccolte  poetiche 
resta  notevole  quella  intitolata  //  pianto  (1833),  ispiratagli  da  un  viaggio 
in  Italia.  2.  riposato:  andato  a  riposo,  in  pensione. 


1078  FERDINANDO    MARTINI 

un  bel  no ;  ma  gli  altri,  senza  sgomentarsi,  tanto  fecero,  tanta  gente 
misero  in  moto,  che  riuscirono  a  vincere  la  repugnanza  del  vec- 
chio  poeta  e  a  condurlo  alia  quarta  o  quinta  replica  della  Medea, 
in  un  palco  del  primo  ordine,  a  destra  della  bocca  d'opera.1  Awe- 
nimento  cosl  solenne,  che  mio  padre  permise  io  andassi  al  teatro 
senz'altra  accompagnatura  che  quella  d'un  amico,  il  quale  aveva  la 
stessa  eta  mia:  non  ancora  diciassette  anni. 


Della  gente  infanatichita  ne  ho  vista  piu  volte  in  vita  mia,  ma 
non  come  in  quella  sera.  La  tragedia,  sto  per  dire,  non  fu  neanche 
ascoltata;  il  pubblico  la  sapeva  oramai  a  mente  e  rompeva  in  ap- 
plausi  a  un  verso,  a  un  emistichio,  prima  ancora  che  uscisse  dalle 
labbra  degli  attori.  Io  che  non  avevo  letto  la  Medea  ne  capii  poco  o 
nulla;  e  perch6  era  difficile  Pattenzione  tra  quel  continue  frastuono 
di  battimani  e  di  grida,  e  jperche  sulle  prime  mi  distrassero  le  mera- 
vigliose  braccia  della  Laura,  le  prime  belle  braccia  femminili  che 
io,  cupido  adolescente,  avessi  agio  di  contemplare. 

Cosi  s'and6  fino  al  termine  del  quarto  atto.  NelPintervallo  dal 
quarto  al  quinto,  quella  che  poteva  apparire  onoranza  al  poeta  si 
mut6  in  una  vera  e  propria  manifestazione  politica.  Cominci6  una 
contessa  Bobrmska,  vecchia  russa  dimorante  a  Firenze,  a  buttare 
in  platea  da  un  palco  del  second'ordine  manciate  di  fogliolini,  con 
su  stampata  questa  invocazione : 

SORGESTI  CON  LA  MEDEA 
TRAMONTERAI  CON  L'ARNALDO? 
L»  ITALIA  ANCO  NELLE  TENEBRE 

ASPETTA  UN  TUO  RAGGIO 
IL  MARIO2 

Roba  innocua;  ma  fogliolini  s'eran  buttati  undici  o  dodici  anni 
innanzi  nella  platea  della  Pergola,  per  chiedere  al  Granduca  non  so 
piu  se  la  guardia  civica  o  la  costituzione.  La  gente  ricondotta  col 
pensiero  a  que*  tempi  s'infiamm6;  fino  allora  s'era  gridato  «Viva 
il  Niccolini»;  da  quel  punto  si  grid6  «Viva  il  poeta  italiano»,  poi 
con  abile  trapasso  « Viva  la  gloria  d' Italia »,  finalmente,  senza  tante 
cautele,  «Viva  ritalia». 

i ! bocca  d'opera:  boccascena.     2.  II  dramma  Mario  e  i  Cimbri,  iniziato  nel 
1858,  rimase  un  abbozzo. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1079 

Una  volta  preso  Paire,  non  fu  piu  possibile  fermarsi.  Giuseppe 
Bandi  (che  perde  quella  sera  Poccasione  di  farsi  mettere  in  car- 
cere,  ma,  come  succede  agli  uomini  di  buona  volonta,  la  ritrovb 
di  li  a  poco)1  distribui  stampato  un  suo  carme  in  isciolti,  nelle 
forme  esteriori  un  inno  al  Niccolini,  nella  sostanza  un  inno  alia 
liberta;  ed  egli  stesso  ne  offri  al  poeta  una  copia  in  carta  bianca  rossa 
e  verde.  Perche  questo  mi  scordavo :  che  Fillustre  vecchio  non  fu 
lasciato  in  pace  un  minuto;  nel  suo  palco  un  continue  andirivieni 
di  persone  che  gli  s'accalcavano  intorno,  e 

Chi  il  pie  chi  il  manto  di  baciar  godea, 

come  alia  Giuditta  dello  Zappi.2  Rammento  che  mentr'io  ficcavo 
il  capo  fra  le  gambe  del  Bandi  per  chiappare  una  mano  del  Nicco 
lini,  il  Biadi,  mio  compagno,  gli  copriva  di  baci  la  parrucca;  e  il 
Niccolini,  infastidito  da  quelle  espansioni,  brontolava:  «basta,  via, 
grazie,  basta». 

Intanto  un  tale  scorge  al  terzo  ordine  la  improwisatrice  famosa  a 
que'  giorni  e  grida:  «  C'e  la  Milli!  »3  Fu  come  dar  fuoco  a  una  polve- 
riera:  subito,  e  da  ogni  parte:  «la  Milli,  la  Milli,  giu,  giu,  versi, 
versi,  giu,  giu».  Inutilmente  la  povera  donna  si  rincantucci6 ; 
Pandarono  a  prendere  e  la  portarono  quasi  di  peso  sulla  scena  e  vol- 
lero  improwisasse  un  sonetto  con  rime  date  dagli  spettatori.  O 
caso  o  malizia,  la  prima  di  quelle  rime  fu  amore ;  poi  via  via  le  altre 
e  ogni  rima  un  applauso.  Mancava  una  rima  in  ore  a  compiere  la 
seconda  quartina;  una  voce  (ne  si  capi  donde  partisse)  ur!6: 
tricolor  e.  Succed6  un  silenzio  di  tomba.  L'awocato  Leopoldo  Cem- 
pini,4  un  de'  caporioni  del  partito  liberale  e  che  era  vicino  a  me  ne' 
posti  distinti,  borbottb:  «addio»;  quasi,  arrivate  le  cose  a  quel 
punto,  temesse  inevitabile  Fintervento  della  polizia.  Ma  nessuno  si 
mosse ;  oramai  la  rima  era  data  e  a  mutarla  si  sarebbe  fatto  peggio ; 
d'altra  parte  «tricolore»  non  e  tale  epiteto  che  si  possa  appiccicare 
a  molti  sostantivi ;  di  guisa  che  la  Milli,  regnante  in  Toscana  Leo 
poldo  II  e  sedente  Pio  IX  sulla  cattedra  di  San  Pietro,  salut6  in 

i.  Giuseppe  Bandi  (vedi  la  nota  3  a  p.  438),  gik  arrestato  per  pochi  giorni 
nel  marzo  1858,  fu  poi  nel  luglio  successive  condannato  a  un  anno  di  reclu- 
sione  e  rinchiuso  a  Portoferraio.  2.  Giambattista  Felice  Zappi  (1667- 
1719),  arcadico  autore  del  sonetto  Giuditta,  di  cui  il  Martini  cita  il  sesto 
verso.  3.  Giannina  Milli  (1827-1888),  di  Teramo,  celebre  improwisa 
trice,  nota  per  i  suoi  sentimenti  patriottici.  4.  Leopoldo  Cempini:  vedi  la 
nota  Sap.  436. 


I080  FERDINANDO   MARTINI 

pubblico  teatro  innanzi  a  parecchie  centinaia  di  persone  la  bandiera 
nazionale,  present!,  accettanti  e  stipulanti  i  poliziotti  di  S.  E.  il 
commendatore  Leonida  Landucci,1  ministro  delFinterno;  se  Pa- 
vesse  fatto  a  Roma,  sarebbe  andata  a  improvvisare  le  terzine  a 
Civita  Castellana,2  se  a  Modena,  le  avrebbero  mozzato  d'un  colpo 
solo  il  sonetto  e  la  testa.  Ma  ne  a  Roma  ne  a  Modena  si  sarebbe  per- 
messa  quella  recita;  in  Toscana  il  governo  non  soltanto  la  consent!, 
ma  dette  ordine  ai  sottoposti  di  lasciar  correre.  E  cosi  fu  fatto. 
Dopo  il  «tricolore»  parve  bensi  ai  poliziotti  troppo  meschina  fi- 
gura  lo  star  li  piantati  con  le  mani  in  mano ;  chiesero  istruzioni  ed 
ebbero  questa  risposta :  provvedessero  affinche  non  oltre  si  trasmo- 
dasse  e,  alPoccorrenza  arrestassero  i  piii  esaltati. 

Ma  ormai  la  festa  era  fmita,  1'intento  raggiunto  anzi  oltrepassato ; 
sfidata  la  polizia  con  la  temerita,  giovava  ora  canzonarla  con  la 
prudenza.  Difatti  durante  il  quinto  atto  applausi  strepitosi  all'au- 
tore  e  all'attrice,  non  una  sillaba  che  desse  argomento  a  richiami. 


II  Niccolini  usci  per  un  androne  che  dava  sulla  piazza  del  Duo- 
mo,  ove  s'era  adunata  per  accompagnarlo  a  casa  gran  folia.  Chi 
gridava  «  Viva  Pautore  della  Polissena  »,  chi «  Viva  Pautore  del  Fosca- 
riniv:  le  perifrasi  pericolose  le  avevano,  indettati,  messe  da  parte. 
Mi  meravigliavo  che  nessuno  ricordasse  VArnaldo  da  Brescia. 
Notiamo  bene:  avevo  fatto  i  miei  studi  in  un  istituto  nel  quale 
Tinsegnamento  della  storia  cominciava  con  Agamennone  e  finiva 
con  Carlo  Magno;  dove  poteva  tenersi  dotto  nella  letteratura  ita- 
liana  chi  avesse  a  memoria  il  canto  d'Ugolino  e  lardellasse  i  com- 
ponimenti  di  frasi  racimolate  nel  Galateo2  di  monsignor  Della 
Casa.  Arnaldo  da  Brescia  non  sapevo  chi  fosse:  lo  credevo  un  feu- 
datario;  nondimeno  sapevo  cio  che  a  Firenze  non  era  possibile 
ignorare,  cioe  che  I' Arnaldo  si  stimava  universalmente  il  capolavoro 
del  poeta. 

i.  Leonida  Landucci,  senese,  dopo  essere  stato  tra  i  piu  accesi  propugnatori 
di  liberta,  awenuta  la  restaurazione  granducale  nel  1849,  fu  ministro  del- 
1'interno  di  Leopoldo  II  fino  alia  caduta  della  dinastia  lorenese:  « ministro 
odiatissimo  e  al  principe  conciliatore  funesto  di  ogni  piii  rigido  e  retrivo 
prowedimento » (vedi  F.  MARTINI,  //  Quarantotto  in  Toscana,  cit.,  p.  12  e  la 
nota  2).  Vedi  anche  p.  170,  la  nota  3,  e  pp.  1086-7.  2-  A  Civita  Castellana 
sorgeva  il  piu  noto  ergastolo  dello  Stato  pontificio.  3.  II  Galateo  di  Gio 
vanni  della  Casa  (1503-1556)  era  allora  considerate  modello  di  lingua. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       Io8l 

Confidai  al  Biadi,  quello  della  parrucca,  e  che  gia  mio  condisce- 
polo  era  colto  come  me,  la  intenzione  di  far  Perudito  e  di  urlare 
«Viva  Pautore  ddl'Arnaldo ».  La  trovata  parve  naturalmente  stu- 
penda  anche  a  lui,  e  mentre  il  Niccolini  montava  in  carrozza,  pre- 
se  insieme  le  mosse,  insieme  cacciammo  il  grido  funesto. 

Non  avevamo  fatto  piii  di  died  passi  Puno  a  braccetto  delPaltro, 
quando  una  mano  poderosa  piomb6  sulla  nuca  del  Biadi.  Fermatosi 
lui,  fui  costretto  a  fermarmi  anch'io.  Mi  volto  e  veggo  un  ufficiale 
de'  gendarmi, 

-Che  c'e? 

—  C'e  che  lor  signori  faranno  il  piacere  di  venir  con  me. 

—  Dove?  perche"? 

—  II  dove  e  il  perch6  lo  sapranno  poi.  Ve  lo  voglio  dar  io,  PAr- 
naldo,  monelli .  .  . 

E  soggiunse  non  so  piu  quale  aggettivo  onde  il  mio  compagno  si 
senti  offeso;  e  volgendosi  con  molta  dignita: 

—  Badi  come  tratta  —  disse. 

—  Se  tu  rifiati  —  replico  Paltro  —  ti  do  uno  scapaccione  che  il 
muro  te  ne  renda  due. 

Ci  persuademmo  subito  che  Panimo  di  quelPuomo  era  chiuso 
alia  serenita  delle  disquisizioni  pacate  e  procedemmo  con  lui  verso 
il  Palazzo  nonftnito*  dove,  un  trecento  passi  distante,  aveva  sede  la 
Prefettura.  Noi  zitti.  L'ufficiale  mugolava. 

—  L/avrebbero  a  fare  a  me!  Lascia  correre,  lascia  correre,  se 
n'awedranno  loro  quei .  . .  (e  qui  un  altro  aggettivo  sostantivato, 
vera  mancanza  di  rispetto  ai  superiori).  Si  canzona!  quattr'ore  di 
questo  fracasso  .  .  .  se  mi  davano  carta  bianca  ne  impiccavo  uno 
per  quinta  .  .  .  Pur  di  dar  noia  non  vanno  a  scavar  questo  vec- 
chio  .  .  .  ?  (terzo  aggettivo  e  mancanza  di  rispetto  al  Niccolini). 

Arrivati  alia  prefettura  ci  fece  salire  al  primo  piano,  domand6 
i  nostri  nomi,  notizie  della  famiglia  e  ci  piant6  al  buio.  Torno  di  li 
a  poco  per  condurci  in  un  bel  salotto  che  suppongo  fosse  il  salotto 
di  ricevimento  del  commendatore  Petri,  prefetto  di  Firenze  e  pro- 
vincia.  E  se  ne  riand6. 


i .  Palazzo  non  finito :  a  Firenze,  in  via  del  Proconsolo,  sorge  un  palazzo 
del  Cinquecento,  costruito  per  un  ramo  della  famiglia  Strozzi,  e  detto 
non  finito  p crone"  lasciato  incompiuto  dairarchitetto  Bernardo  Buontalenti 
e  dai  suoi  aiutanti. 


1082  FERDINANDO    MARTINI 

Era  di  luglio  e  dalle  finestre  spalancate  entrava  un  fresco  deli- 
ziosissimo.  Per  carcerati  non  si  stava  male;  nondimeno  avremmo 
preferito  essere  altrove;  ci  angustiava  il  pensiero  che  i  nostri  non 
vedendoci  tornare  potevano  immaginare  qualche  brutto  caso,  o, 
a  meglio  dire,  qualche  caso  piu  brutto,  che  il  trovarsi  li  non  era,  in 
ultima  analisi,  un  divertimento.  Anche  ci  angustiava  Fincertezza 
della  nostra  sorte:  che  un  castigo  dovesse  toccarci  pareva  sicuro: 
quale  ?  Per  giunta  avevamo  sete  ambedue,  il  mio  compagno  d'acqua 
gelata,  io  di  dottrina.  Volevo  sapere  che  cosa  avesse  fatto  quell' Ar- 
naldo  da  Brescia,  che  a  nominarlo  soltanto  si  finiva  in  prefettura. 

Passa  un'ora,  due,  tre,  non  si  vede  nessuno;  m'ero  appisolato 
da  poco  sopra  un  bel  canape  coperto  di  raso  verde  a  righe  alterna- 
tivamente  opache  e  lucide,  quando  entr6  nella  stanza  (saranno  state 
le  cinque)  il  prefetto  in  persona:  un  vecchietto  piccolo,  asciutto, 
pallido,  lindo. 

E  qui  il  dialogo  merita  d' essere  trascritto  tal  quale  m'e,  dopo  tanti 
anni,  nella  memoria,  genuino  e  vivo  come  se  di  ieri  sera. 

IL  PREFETTO.  —  Buon  giorno  a  loro. 

Noi  DUE  INSIEME.  -  Felice  giorno,  signor  commendatore. 

IL  PREFETTO  (leggendo  in  un  foglietto).  -  Loro  si  chiamano  ? 

Io.  —  Ferdinando  Martini. 

QUELL 'ALTRO.  -  Michele  Biadi. 

IL  PREFETTO.  -  Lo  sanno  perch6  son  qui  ? 

Io.  —  No  signore. 

IL  PREFETTO.  -  Come  no  signore  ?  Non  facciano  il  nesci.  Non 
hanno  gridato  ieri  sera? 

Io  (smanioso  di  far  1'enidito).  -  Viva  Tautore  dell' Arnaldo  da 
Brescia. 

IL  PREFETTO.  --Ah!  dunque  loro  leggono  VArnaldol 

A  dir  di  si,  rischiavamo  una  bugia  pericolosa,  a  dir  di  no  ci  si 
faceva  canzonare;  per  conseguenza,  zitti. 

IL  PREFETTO  (seguitando).  -  E  chi  glielo  ha  dato  a  leggere?  II 
babbo  no  di  certo ;  son  figli  di  persone  rispettabili .  .  .  Qualche 
amico,  gia  s'intende.  Ci  ho  dato  eh  ?  Un  amico  ?  .  .  .  Facciano 
grazia  di  rispondere. 

Rispondere  che  ?  II  Biadi  fece  un  cenno  afFermativo  col  capo. 

IL  PREFETTO.  —  Ah!  Io  dicevo  io  .  .  .  E  chi  e  questo  amico  ? 

La  cosa  si  faceva  seria;  non  potevamo  inventare  un  complice. 
Per  buona  sorte  il  prefetto  mut6  discorso. 


CONFESSIONI   E  RICORDI   (FIRENZE   GRANDUCALE)       1083 

IL  PREFETTO.  -  Ma,  domando  io,  che  cosa  ci  trovano  di  bello  nel- 
YArnaldo  ?  L' Italia  eh  ?  la  solita  Italia!  E  poi  ?  Ah!  ragazzi  senza  giu- 
dizio,  vi  par  egli  questo  il  modo  di  contenersi?  Pigliar  parte  ai  sub- 
bugli,  dar  dei  dispiaceri  alle  famiglie  . . .  E  se  vi  facessi  mettere  in 
prigione  ? 

Pausa.  -  II  prefetto  ci  guardava  per  veder  Teffetto  che  ci  fa- 
ceva  quella  minaccia.  Noi  sostenevamo  lo  sguardo  imperterriti, 
sicurissimi,  per  il  modo  onde  era  fatta,  che  in  prigione  non  ci  si 
andava. 

IL  PREFETTO.  -  Se  almeno  vi  riscaldaste  per  qualche  cosa  che  ne 
mettesse  il  conto!  ma  per  il  Niccolini! . . .  Italia  Italia  Italia,  e 
nient'altro.  E  con  tutta  la  sua  Italia  non  e  mai  riuscito  a  fare  un 
sonetto  come  quello  del  bisnonno.  Ve  ne  ricordate? 

Ne  te  vedrei  del  non  tuo  ferro  cinta  .  .  . 
Noi  INSIEME  (felicissimi  di  poter  fare  finalmente  gli  eruditi). 

Pugnar  col  braccio  di  straniere  genii 
per  servir  sempre,  vincitrice  o  vinta.1 

IL  PREFETTO.  -  Sicuro.  Per  servir  sempre  y  vincitrice  o  vinta. 
Questi  son  versi!  Ma  quelli  del  Niccolini  vi  pare  che  sieno  versi 
da  tragedia?  Si,  belle  immagini,  una  certa  fluidita,  ma  versi  da 
tragedia  neanche  per  sogno  . . . 

U  angel  di  Dio 

quella  parola  che  non  men  dal  core 
nel  suo  libro  non  scrive,  o  scritta  append 
la  cancella  col  pianto. 

Troppe  parole,  troppa  lirica,  poca  azione . . .  troppe  lungag- 
gini . . .  Non  vi  pare  ?  Scommetto  che  non  vi  pare.  No  ?  Ma  P Al- 
fieri,  ragazzi,  Tavete  letto? 

Io  (contentissimo  di  dire  questa  volta  la  verita).  -  No. 

IL  PREFETTO  (al  Biadi). -E  lei? 

IL  BIADI.  -  Nemmeno  io,  signor  Commendatore. 

IL  PREFETTO  (cascando  dalle  nuvole).  -  Non  avete  letto  PA1- 
fieri  ?  Ma  chi  e  stato  il  vostro  maestro  ?  Aspettatemi  un  momentino. 

Usci  e  torn6  in  un  battibaleno  con  un  libro  in  mano  e  li,  direi 
seduta  stante  se  non  fossimo  stati  tutti  tre  in  piedi,  lesse  e  illustrb 

i.  Sono  i  celebri  versi  finali  dell'allora  famosissimo  sonetto  Italia,  Italia, 
o  tu  cuifeo  la  sorte  di  Vincenzo  da  Filicaia.  Vedi  anche  p.  414  e  la  nota  i. 


1084  FERDINANDO    MARTINI 

squarci  del  Filippo,  della  Virginia,  fermandosi  ogni  tanto  per  guar- 
darci  con  Tocchio  canzonatore  e  ripetere:  «Questi  son  versi!  Que- 
sta  e  tragedia!» 

Arrivato  al  discorso  di  Virginio : 

O  gregge  infame  di  malnati  schiavi,1 

non  lesse  phi:  pos6  il  libro  e  declamo  addirittura.  Quand'ebbe  fi- 
nito,  ci  batte  la  mano  sulle  spalle  e: 

—  Andate  a  casa,  ragazzi,  che  i  vostri  saranno  in  pensiero ;  ab- 
biate  giudizio  e  non  vi  compromettete.  E  leggete  PAlfieri,  leggetelo 
bene,  leggetelo  tutto  e  vedrete  che  i  furori  per  il  Niccolini  vi  passe- 
ranno.  Ci  vuol  altro  che  Arnaldtl  Addio,  figlioli,  e  state  bene. 


L'epilogo  tragicomico  lascio  che  altri  racconti. 

«  Quando  awenne  la  predetta  dimostrazione » (cosi  in  un  suo  libro 
Aristide  Provenzal)3  <c  alcuno  da  Londra  scrisse  a  me  dimorante  al- 
lora  a  Torino  per  domandarmi  pronte  ed  esatte  informazioni  sulla 
sorte  del  giovine  che  era  stato  arrestato.  Scrissi  immediatamente 
al  professor  Bianciardi3  a  Firenze  e  alia  signora  Palli  in  Livorno,  ma 
invano.  La  causa  delle  premurose  ricerche,  ignorate  forse  dal  Mar 
tini  medesimo,  era  che  una  signora  inglese,  probabilmente  la  si 
gnora  Mignaty,  cosi  benemerita  delle  lettere  italiane,  o  la  signora 
Teodosia  Garrow,  che  tradusse  YArnaldo  in  versi  inglesi,  scrisse 
ad  un  giornale  di  Londra  che  un  giovane  di  nobile  aspetto  era  stato 
arrestato  e  chiuso  chi  sa  dove,  giacche  non  v'era  traccia  di  lui  in 
nessun  carcere,  e  ci6  per  aver  osato  gridare  "Viva  Tautore  del- 
FArnaldo"  in  un  paese  soggetto  interamente  al  papa». 

«  Chi  sa  dove! »  Quante  lugubri  ipotesi  in  quelle  tre  parole!  Chi  sa 
in  quale  tetra  spelonca  pensarono  illanguidisse  il  mio  nobile  aspetto, 
intristisse  il  fibre  della  mia  gioventu.  E  delle  ipotesi  c'era  pur  que- 
sta,  la  piu  semplice:  che  in  carcere  non  si  riuscisse  a  trovarmi, 
perch6  non  mi  ci  avevano  messo :  ma  questa  pare  non  venisse  in 
mente  alle  pietose  signore! 

Felice  prigionia  di  una  notte  d'estate!  Se  non  produsse  tutti  gli 

i.  Alfieri,  Virginia,  atto  v,  scena  IV.  z.  « Italian  Readings.  Nuova  antolo- 
gia  della  prosa  italiana  moderna  compilata  e  tradotta  in  inglese  da  Aristide 
Provenzal,  Pisa,  G.G.A.  Uebelhart,  1884 »  (nota  del  Martini).  3.  Bian 
ciardi  i  vedi  la  nota  i  a  p.  433. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1085 

effetti  che  il  Commendatore  Petri  ne  sper6,  uno  tuttavia  ne  pro- 
dusse :  una  parte  della  mia  educazione  intellettuale  la  devo  a  quel 
buon  uomo  di  prefetto  toscano,  il  quale  alle  cinque  della  mattina 
declamava  la  Virginia  a  due  ragazzacci,  e,  per  guarirli  delYArnaldo, 
li  consigliava  a  curarsi  con  VEtruria  vendicata.1 

UN   GRANDUCATO  IN  EXTREMIS2 

NelPanno  di  grazia  1858,  regnando  inToscana  S.A.I,  il  Granduca 
Leopoldo  II  arciduca  dj Austria,  principe  reale  d'Ungheria  e  di 
Boemia,  il  Ministero  era  cosi  composto :  presiedeva  al  Consiglio  e 
insieme  airamministrazione  delle  finanze,  de'  iavori  pubblici  e 
della  guerra,  Giovanni  Baldasseroni;  teneva  il  portafogli  dell'in- 
terno  Leonida  Landucci:  Niccol6  Lami  quello  della  Giustizia 
e  degli  affari  ecclesiastici ;  Ottaviano  de'  Marchesi  Lenzoni3  era 
ministro  degli  affari  esteri  e  -  per  interim  -  dell'istruzione  pubblica. 
II  Baldasseroni,  nato  nel  piano  di  Pisa  di  modesta  famiglia  cam- 
pagnola,  salito  a  grado  a  grado  sino  ai  massimi  uffici,  fattosi  per  il 
lungo  tirocinio  espertissimo  nelle  materie  amministrative  e  ministro 
fin  dal  '45,  era  un  integro,  infaticabile  impiegato  che,  in  paese  pic 
colo,  in  tempi  prosperi,  fra  popolazioni  tranquille,  poteva  essere,  e 
fu  prima  del  '48,  utile  strumento  di  governo ;  ma  se  abile  abbastanza 
per  navigare  in  mare  queto,  per  andar  contro  alle  burrasche  tutto 
gli  mancava,  a  cominciare  dalla  bussola.  Persuaso  che  le  antiche 
benemerenze  bastassero  alia  sicurta  della  dinastia,  la  mitezza  del 
Governo  e  la  facilita  del  vivere  alia  parca  e  floscia  contentezza  del 
sudditi,  il  desiderio  di  novita  che  andava  ogni  giorno  piu  mani- 
festandosi,  per  apertissimi  segni,  nel  Granducato  non  era,  se- 
condo  lui,  che  un  armegglo  di  pochi  ambiziosi,  incoraggiti  dal- 
1'esempio  e  istigati  dall'ambizione  piemontese.  Cosi,  nulla  di 
quanto  avrebbe  dovuto  spaventarlo  lo  intimoriva.  II  Congresso  di 

i.  Etruria  vendicata:  poemetto  di  Vittorio  Alfieri,  del  1789,  in  cui  si  cele- 
bra  1'uccisione  (1537)  di  Alessandro  de'  Medici  da  parte  del  cugino  Lo- 
renzino.  Questa  uccisione  fu  per  molto  tempo  erroneamente  considerata 
come  una  affermazione  di  spiriti  di  liberta.  2.  Ed.  cit.,  cap.  xiv,  pp.  223-33. 
3.  Giovanni  Baldasseroni:  vedi  le  note  3ap.i7oeiap.  1065 ;  Leonida  Lan 
ducci:  vedi  la  nota  i  a  p.  1080;  Niccolo  Lami:  oltre  le  molte  notizie  date  nel 
presente  brano,  un  agile  profilo  del  Lami  pu6  leggersi  nel  saggio  di  F.  MAR 
TINI,  //  Giusti  studente,  nel  volume  Simpatie  (vedi  la  bibliografi a) ;  Ottaviano 
Lenzoni  era  gia  stato,  nel  1848,  ministro  diToscana  aNapoli,  e  copri  la  stessa 
carica,  dopo  poco,  a  Vienna.  Dal  1856  ministro  degli  esteri  di  Leopoldo  II. 


1086  FERDINANDO   MARTINI 

Parigi?  Bellissime  chiacchiere,  ma  chiacchiere.  II  Convegno  di 
Plombieres?  Che  cosa  vi  si  fosse  detto  e  pattuito  non  lo  sapeva: 
ma  sapeva  che  mai  e  poi  mai  quel  Bonaparte,  memore  della  cordiale 
mimifica  ospitalita  data  a  se  ed  ai  suoi,  lascerebbe  torcere  un  ca- 
pello  al  Granduca  di  Toscana.  II  Mazzini?  Ah!  un  secondo  qua- 
rantotto  le  Potenze  non  lo  avrebbero  permesso  e,  se  mai,  sarebbe 
finito  come  quelFaltro.  I  «Tedeschi»  non  li  amava  neppur  lui; 
delle  molestie,  de'  sopraccapi,  durante  1'occupazione  gliene  ave- 
vano  dati  parecchi :  ma  quando  poche  centinaia  di  facinorosi  osas- 
sero  turbare  la  pubblica  pace,  bisognava  pur  che  qualcuno  mettesse 
loro  giudizio;  e  questo  qualcuno  non  poteva  essere  che  P Austria, 
FAustria  sempre  pronta,  FAustria  possente,  FAustria  invincibile. 

Con  tale  conoscenza  degli  uomini  e  tale  sentore  dei  tempi,  la 
pretendeva  a  uomo  di  stato ;  e  credeva  forse  darsene  Fimpostatura, 
egli  di  statura  mediocre  e  grassoccio,  camminando  maestoso  col 
petto  sporgente,  la  testa  alFindietro  e  Focchio  alFempireo.  II  po- 
polino,  per  quel  suo  atteggiamento,  non  Sua  Eccellenza  Baldasse- 
roni,  lo  chiamava,  ma  Sua  Baldanza  Eccellenzoni. 

Nonostante  questa  albagia,  gli  spirava  nella  faccia  una  tal  quale 
bonarieta;  diverso  in  ci6  dal  collega  ministro  delFinterno,  la  cui 
fisonomia  era  cupa,  anzi  truce.  II  Landucci,  carbonaro  nel  '31, 
nel  '48  liberalissimo,  senatore,  compilatore  dello  Statute  e  ministro 
delle  finanze  nel  Gabinetto  presieduto  da  Gino  Capponi,  mutati  i 
tempi  e  awenuta  la  restaurazione,  era  corso  de'  primi  a  Gaeta.1 
AlFopposto  del  Baldasseroni  che  aveva  Feloquio  abbondante,  egli 
parlava  succinto,  con  certa  intonazione  d'imperio,  volentieri  lar- 
dellando  il  discorso  con  emistichi  latini  e  ricordi  classici.  Quando 
nel  '49  entr6,  ministro  delFinterno,  in  Palazzo  Vecchio,  a  un  amico 
che  gli  raccomandava  indulgenza  verso  i  compromessi  nei  rivolgi- 
menti  politici  di  quell'anno,  rispose  con  grottesca  magniloquenza: 
—  lo  non  sar6  il  Seiano  di  nessun  Tiberio  —  ;2  e  Seiano  non  fu,  an- 
che  perch6  fra  Tiberio  e  Leopoldo  II  qualche  differenza  correva; 
ma  fu  consigliatore  di  angherie,  tanto  piu  biasimevoli  quanto  piu 
inefficaci  e  di  rigori  sino  allora  in  Toscana  inusati,  che  lo  fecero 
odioso  alFuniversale.  Una  mattina  di  levata,3  uscendo,  trov6  scritto 
sul  muro  di  casa  sua: 

1.  a  Gaeta:  a  richiamare  il  granduca  Leopoldo  II  che  vi  si  era  rifugiato. 

2.  Seiano  fu  il  noto  ministro  deirimperatore  Tiberio  ed  ebbe  turpe  fama  per 
i  suoi  delitti  politici.     3.  di  levata:  presto,  all'ora  in  cui  ci  si  alza  dal  letto. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1087 

Per  screditar  col  nome  le  Termopoli 

venne  un  altro  Leonida  nel  mondo; 

chiamate  Serse  e  ditegli 

che  ci  ammazzi,  per  grazia,  anche  il  secondo. 

Niccol6  Lami  era,  lo  ho  gia  detto,  guardasigilli.  Se  e  vero  quanto 
il  Carducci  affermo  :*  che  cioe,  come  nella  Francia  despotica  le 
lettere  di  imprigionamento  e  la  Bastiglia  formarono  Voltaire  e 
Mirabeau,2  cosi  nella  patriarcale  Toscana  le  ingiurie  di  un  birro 
dettero  la  mossa  alle  poesie  civili  del  Giusti,  il  Lami  merit6  tutta  la 
nostra  riconoscenza :  fu  lui  infatti  che,  auditore  di  Governo  a  Pisa 
nel  '33>  ((in  riga  di  paterna  cura  copri  di  contumelia  »3  il  futuro  au- 
tore  del  Gingillino.4  Ministro  nel  '58,  s'era  serbato  tale  quale  quello 
di  venti cinque  anni  prima:  rozzo  ne'  modi  cosi  da  sgradire  perfino 
alia  Corte  dove,  perch.6  native  di  Empoli,  lo  chiamavano  il  navi- 
cellaio',5  nomignolo  che  gli  stava  bene  anche  per  ci6,  che  egli  stu- 
diava  barcamenarsi,  riannodando  o  coltivando  amicizie  contratte  in 
altri  tempi  con  awocati  liberali,  specie  con  Vincenzo  Salvagnoli 
suo  compaesano.  Sempre  pauroso  di  sentirsi  mancare  il  terreno 
sotto  i  piedi,  sempre  guardingo  di  non  compromettersi  troppo,  si 
sgolava  a  rammentare  la  sua  qualita  di  magistrate  e  a  dire  che  la 
politica  non  era  affar  suo;  cercando  insomnia  di  fare  in  modo 
che  nel  caso  di  naufragio,  lo  stipendio  o  la  pensione  rimanessero 
a  galla. 

Era  particolarmente  antipatico  alia  Granduchessa  la  quale,  vin- 
cendo  in  acume  il  marito,  stimava  Puomo  per  ci6  che  valeva.  E  la 
sovrana  antipatia  si  traduceva  in  gerghi  e  in  giochi  di  parole  delle 
dame  di  Corte.  Quando  S.E.  il  Guardasigilli  andava  a'  Pitti6  le  sere 
di  ricevimento,  o  di  appartamento  come  allora  dicevano,  al  suo  pas- 
sare,  una  dama  domandava  alia  compagna:  —  L'ami?  —  E  1'altra: 
—  Non  so  che  farmene. 

i.  Cfr.  Opere,  xvrn  (edizione  nazionale),  p.  275.  2.  Le  lettres  de  cachet 
erano  in  Francia  rescritti  regi  che  ordinavano  arbitrariamente  1'arresto; 
Onorato  Righetti,  conte  di  Mirabeau  (1749-1791),  fu  tra  le  maggiori  figure, 
anche  come  oratore,  nella  Assemblea  costituente,  durante  la  Rivoluzione. 
3.  «tn  riga  .  .  .  contumelia »:  sono  ripresi  i  w.  17-8  del  componimento  del 
Giusti  Rassegnazione  e  proponimento  di  cambiar  vita  (1833).  4-  Gingillino'. 
celebre  poesia  del  Giusti,  composta  nel  1845.  5.  il  navicellaio:  presso 
Empoli,  in  una  accentuata  insenatura  della  riva  delPArno,  esisteva  (ed  e 
esistito  fino  a  pochi  anni  fa)  un  cantiere  per  la  costruzione  di  battelli,  navi- 
celle  e  barche.  Di  qui  il  soprannome.  6.  Palazzo  Pitti  era  la  residenza 
del  Granduca. 


I088  FERDINANDO    MARTINI 

Tanto  rozzo  il  Lami,  quanto  nel  tratto  amabilmente  signorile  il 
Lenzoni ;  tanto  Puno  usualmente  rinfagottato  nelle  vesti  casalinghe 
ed  annose,  quanto  1'altro  elegante  di  quella  eleganza  disinvolta  che, 
appunto  perche  non  ostentata,  rivela  1'assuefazione  e  il  buon  gusto. 
Bello  e  fresco  uomo  anche  da  vecchio,  giustificava  con  la  simpatica 
nobilta  dell'aspetto  le  molte  fragilita  onde  per  le  vie  di  Amatunta  e 
di  Pafo1  s'era  condotto  da  giovine  sull'orlo  del  sepolcro, 

si  che  trasserlo  di  bora 
bagni  e  latte  di  somara, 

come  cant6  in  certa  licenziosissima  Litania  fiorentina  V abate  Giu 
seppe  Borghi,2  riposandosi  dall'inno  AlV Eucaristia  e  meditando 
I9  Ode  allo  Spirito  Santo. 

Nel  '58,  era  il  solo  de*  governanti  toscani  che  frequentasse  i  sa- 
lotti  delle  belle  signore,  e  le  male  lingue  asseveravano  che,  tuttavia 
indomato,  non  sempre  gli  era  meta  il  salotto.  Ministro  di  Tosca- 
na  a  Napoli  prima,  in  seguito  a  Vienna,  aveva  imparato  ed  usava 
il  linguaggio  vago  delle  Cancellerie,  che  serve  mirabilmente  a  custo- 
dire  i  segreti  quando  ci  sono,  e  quando  non  ci  sono  a  lasciar  cre 
dere  che  ci  sieno.  Ma  non  si  dava  1'aria  di  grand'uomo  e  sulle  spalle 
ancor  dritte  contro  alia  spinta  degli  anni,  portava  il  carico  delle  rela- 
zioni  internazionali  senz'ombra  di  sussiego  o  di  boria.  Forse  s'ac- 
corgeva  egli  stesso  che  boria  e  sussiego  non  gli  stavano  a  viso ;  nono- 
stante  la  sua  devozione  al  Principe,  pensava,  tra  scettico  e  fatalista, 
che  sino  a  tanto  le  cose  andavano  per  il  loro  verso,  le  faccende  di  un 
ministro  degli  affari  esteri  in  Toscana  si  sbrigavano  con  poco  in- 
gegno,  minor  tempo  e  fatica;  se  poi  un  giorno  -  certamente  re- 
moto  -  la  volonta  o  i  consensi  dell'Europa  minacciassero  di  mutare 
lo  Stato  e  ponessero  in  pericolo  la  dinastia,  non  la  diplomazia  gran- 
ducale  avrebbe  potuto  contrastare  a  quelle  minacce  e  scongiurare 
que'  pericoli. 


Questi  in  Toscana,  correndo  il  '58,  i  Ministri,  i  quali  non  che  so- 
spettare  di  prossime  rivoluzioni,  neppure  temevano  di  nuove  som- 

i.  Amatunta  e  Pafo  si  chiamavano  due  citta  dell'isola  di  Cipro,  entrambe 
famose  per  il  culto  di  Venere.  2.  Giuseppe  Borghi  (1790-1847),  di  Bibbiena, 
fu  collaborator  deir«Antologia»  del  Vieusseux  (vedi  la  nota  2  a  p.  436), 
storico  e  autore  di  ventiquattro  Inni  sacri  (1829-1831). 


CONFESSIONI    E    RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1089 

mosse,  poi  che  quella  scoppiata  Tanno  innanzi  a  Livorno  per  opera 
di  mazziniani  fu  cosi  prontamente  e  facilmente  compressa.1 

In  tali  pigre  illusion!  si  cullavano,  ne  fatti  di  grande  significa- 
zione  valsero  a  scuoterli  dalla  lor  cocciutaggine  cieca. 

Veniva  in  Toscana  in  quell'anno  Filippo  Gualterio.2  A  qual  fine 
e  con  quali  uffici,  lo  raccontava  egli  medesimo  nel  1866  a  Firenze 
in  casa  del  conte  Augusto  De'  Gori  Pannilini,  insieme  con  me  ascol- 
tatori  Giovanni  Prati  ed  Enrico  Nencioni. 

Raccontava  averlo  il  Cavour  mandate  al  Governo  Toscano  con 
missione  segreta,  nel  1857,  latore  di  queste  proposizioni :  matrimo- 
nio  della  Principessa  Clotilde,  figlia  di  Vittorio  Emanuele,  con  PAr- 
ciduca  Carlo  secondogenito  del  Granduca,  alleanza  fra  Piemonte 
e  Toscana:  questa,  se  la  guerra  awenisse,  fornirebbe  alPalleato 
12,000  uomini  e  li  comanderebbe  1'Arciduca  medesimo;  ove  la  vit- 
toria  arridesse,  Modena  e  il  suo  territorio  si  aggregherebbero  al 
Granducato,  Le  proposte  furono  tutte  scartate,  non  solo;  ma  il 
presidente  Baldasseroni,  risaputo  che  il  messo  piemontese  frequen- 
tava  gli  «agitatori»  phi  accesi,  lo  invit6  a  tornarsene  donde  era 
venuto;  invito  al  quale  1'altro  rispose :  —  Vado,  matornero  presto, 
quando  se  ne  sara  andata  Vostra  Eccellenza. 

Ci6  che  udii  riferisco ;  so  che  di  quanto  il  Gualterio  narrava  non 
hanno  traccia  storie  o  document!  noti  sin  qui;  aggiungo  che  al- 
cuni  degli  uomini  che  furono  al  Cavour  cooperatori  ed  amici,  da 
me  interrogati  piu  tardi,  stimarono  quelle  proposte  suggerite  al- 
Pumbro  marchese  dalla  fantasia  incontinente ;  comunque,  certo  e 
che  a  Firenze,  nel  '57  mandatovi  dal  Cavour  il  Gualterio  ci  fu: 
lasciamo  stare  se  egli  avesse  facolta  di  profferire  alleanze  e  di  com- 
binare  matrimoni;  poniamo  pure  che  il  suo  mandato  fosse  quale  lo 
cred6  il  Ricasoli,  e  si  rileva  dai  carteggi  di  lui;  che,  cioe,  dal  Ca 
vour  gli  fosse  commesso,  unico  ufficio,  il  consigliare  al  Governo 
Toscano  di  ristabilire  la  costituzione  del  1848,  e  ai  liberali  di  con- 
tentarsi,  per  allora,  di  quel  prowedimento ;  dovevano  pur  tuttavia 
bastare  quel  consiglio,  quella  istessa  missione  segreta  a  fare  accorti 

i.  quella  .  .  .  compressa:  il  30  giugno  del  1857,  a  Livorno,  era  scoppiata  una 
insurrezione  mazziniana,  diretta  da  Maurizio  Quadrio  (1800-1876).  La  som- 
mossa,  contemporanea  al  moto  di  Genova  e  alia  spedizione  di  Sapri,  fu  ra- 
pidamente  domata.  2.  Filippo  Antonio  Gualterio  (1818-1874),  di  Orvieto, 
uomo  politico,  collaborator  del  Cavour,  preparatore  dei  moti  umbri  del 
1860,  fu  poi  deputato,  senatore,  ministro  delPinterno  (1867-1868)  e  mmistro 
della  Real  Casa.  Si  occupd  anche  di  studi  storici. 


69 


IOQO  FERDINANDO    MARTINI 

il  Baldasseroni  e  i  colleghi  che  le  cose  non  stavano  precisamente 
come  a  loro  piaceva  di  immaginarle,  e  che  qualche  novita  si  prepa- 
rava  o  si  maturava. 

Ma  non  intesero  e  non  si  persuasero ;  neanche  le  famose  parole 
di  Napoleone  III  alFambasciatore  austriaco1  li  smossero.  Al  solito, 
pensarono,  bellissime<  chiacchiere,  ma  chiacchiere.  I  rivoluzionari 
si  confortassero  pure  con  gli  articoli  delle  gazzette:  il  Governo 
non  per  nulla  manteneva  legazioni  nei  principali  Stati  di  Europa; 
aveva  notizie  sicure.  Infatti  il  Tanay  de'  Nerli  ministro  di  Toscana  a 
Parigi  assicurava  che  guerra  la  Francia  non  ne  farebbe,  tutt'al  piu 
si  sarebbe  andati  a  finire  in  un  congresso;  e  da  un  congresso  il 
Granduca  non  aveva  nulla  a  temere.  II  Provenzali,  ministro  di 
Toscana  a  Torino,  nelle  note  ufficiali  ripeteva  le  affermaziom  me- 
desime;  e  per  quella  miopia  della  passione,  la  quale  non  scorge 
oltre  il  desiderio,  pronosticava,  in  privati  carteggi,  che  la  cupida 
irrequietezza  del  Piemonte,  anzivche  aiutata,  sarebbe  infrenata  una 
volta  per  sempre. 

Turbo  finalmente  quella  placida  confidenza  il  discorso  di  Vit- 
torio  Emanuele,  inaugurante  il  10  gennaio  1859  la  nuova  sessione 
parlamentare.  II  «  grido  di  dolore  »2  intron6  li  per  li  quelle  orecchie 
e  subito  si  giudicb  opportune  dare  un  po'  di  tinta  liberate  al  Go 
verno;  ma,  ripensandoci  meglio  e  poich6  timori  non  se  ne  avevano 
e  nulla  urgeva,  fecero  le  cose  senza  fretta  e  con  pace.  Soltanto  due 
mesi  dopo,  il  26  di  marzo,  un  decreto  del  granduca  nomin6  Sera- 
fino  Lucchesi  ministro  degli  affari  ecclesiastici,  Giulio  Martini3 
ministro  dell'istruzione  pubblica. 

Ho  detto  « tinta  liberale)).  Intendiamoci.  II  Lucchesi  da  giovine, 
una  trentina  d'anni  prima,  s'era  dimostrato  « inchinevole  a  novitk  », 
e,  nel  '53,  procuratore  generale  alia  Corte  Regia,  eletto  a  far  parte 
della  Consulta  cui  fu  commessa  la  revisione  del  codice  penale, 
si  adoper6,  come  scrive  un  suo  biografo,  «nel  temperare  le  asprezze 
della  legge».  II  Martini,  dal  '48  al  '52  ministro  di  Toscana  presso 
Carlo  Alberto,  lo  aveva  seguito  sui  campi  di  Lombardia  e  ottenuta, 
dopo  Novara,  la  benevolenza  del  nuovo  Re,  s'era  legato  in  stretta 
amicizia  con  insigni  uomini  del  Piemonte,  col  d'Azeglio  segnata- 
mente. 

In  ci6  consisteva  il  liberalismo  dei  nuovi  ministri;  ambedue  di- 

I.  le  famose  .  .  .  austriaco:  vedi  p.  373  e  la  nota  3.     2.  « grido  di  dolors  »: 
vedi  p.  373  e  la  nota  4.     3.  Giulio  Martini:  vedi  la  nota  i  a  p.  1057. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE) 

sposti,  se  si  provassero  necessarie,  a  larghe  riforme  amministra- 
tive,  ma  per  lo  sperimento  di  died  anni  innanzi  poco  favorevoli  a 
innovazioni  nell'ordine  politico  dello  Stato;  ambedue,  per  ultimo, 
persuasi  che  il  mutar  dinastia  sarebbe  stato  alia  Toscana  danno 
gravissimo,  il  rimanere  « Toscana »  benefizio  inestimabile ;  con- 
cordi  in  ci6  con  molti  fra  i  liberali,  dei  maggiori  per  condizione 
sociale,  per  ingegno,  per  autorita. 


Giulio  Martini  era  mio  zio.  Sebbene  avesse  di  poco  varcato  la 
cinquantina,  molti  acciacchi  lo  tormentavano.  <c  Spiritus  promptus 
caro  autem  infirma)).1  Una  oftalmia  sopraggiuntagli  verso  la  meta 
delPaprile  lo  costrinse  in  casa:  e  dove  il  consiglio  de'  Ministri, 
adunarsi  in  un  palazzo  de'  Mozzi  nella  via  de'  Bardi  presso  di  lui. 

Mio  padre  era  anch'egli  malato  in  que'  giorni;  e  ogni  sera  mi 
mandava  in  via  de'  Bardi  per  dare  di  se  e  aver  notizie  del  fratello. 

Gli  avvenimenti  incalzavano,  la  guerra  era  ormai  certa;  alle  in- 
giunzioni  dell' Austria  che  imponeva  il  disarmo,  il  Conte  di  Cavour 
rispondeva  con  sdegnosa  ripulsa.  II  26  d'aprile,  passeggiando  sul- 
rimbrunire  nella  piazza  di  San  Marco  con  Enrico  Nencioni,  ci  im- 
battemmo  nella  piii  singolare  delle  « dimostrazioni ».  Precedeva  il 
generale  Ferrari  Da  Grado,2  di  nome  italiano,  austriaco  di  nascita, 
dall'esercito  austriaco  passato  a  comandare  il  piccolo  esercito 
toscano;  e  al  quale  per  1'alterigia  onde  trattava  i  subalterni,  i  fio- 
rentini  avevano  affibbiato  il  nome  di  « Generale  Tacete».  Lo  se- 
guiva  a  distanza  di  qualche  diecina  di  metri  una  moltitudine  silen- 
ziosa,  e  appunto  per  quel  silenzio,  terribile.  Chi  disse  piu  chi  meno: 
ma  anche  oggi  ripensando  allo  spazio  che  quella  gente,  ordinata 
quasi  militarmente  in  colonna  occupava,  io  calcolo  fossero  circa 
tremila  persone.  Seguirono  il  Generale,  sempre  in  quel  cupo  silen 
zio,  per  buon  tratto  della  citta  e  fino  alia  Piazza  de'  Giudici, 
Lung'Arno  delle  Grazie,  ove  aveva  sede  il  Comando  e  ov'egli  di- 
morava. 

Le  dimostrazioni  non  sogliono  farsi  in  silenzio,  e  quella,  a  chi  non 
la  vide  e  non  sa  quali  ne  fossero  il  movente  e  lo  scopo,  pu6  parere 
oggi  curiosa  e  sto  per  dire  ridicola.  Bisogna  spiegare.  In  primo 
luogo  i  non  molti  che  la  pensarono  e  la  iniziarono  raccolsero  die- 

i .  « L'animo  e  pronto,  ma  il  corpo  e  debole »  (Marc.,  14,  38).     2.  Ferrari  da 
Grado:  vedi  p.  423  e  la  nota. 


1092  FERDINANDO    MARTINI 

tro  a  se  quelle  migliaia  di  persone  non  chiamate,  ne  informate,  per- 
che  tutte  capirono  subito  di  che  si  trattasse,  e  manifestarono  cosi 
altrettanto  salda  quanto  spontanea  la  concordia  degli  animi.  Inol- 
tre,  si  faceva  cosa  palesemente  ostile  al  soldato  austriaco,  arma 
corta1  della  reazione,  senza  pur  offenderlo ;  e  ci6  significava  volere 
il  popolo  che  alia  guerra  contro  P  Austria  la  Toscana  partecipasse ; 
ma  ammoniva  con  le  buone,  prima  di  ricorrere  alle  cattive.  Final- 
mente  si  ingiungeva  al  governo  di  pensare  ai  casi  suoi ;  pochi  giorni 
innanzi  quella  dimostrazione  si  sarebbe  potuto  facilmente  impe- 
dirla  o  disperderla,  ordinando  a  un  battaglione  di  uscire  dalla  ca- 
serma;  ora  no,  perche  la  guarnigione  di  Firenze  aveva  gia  fatto  causa 
comune  col  popolo. 

Scioltosi  il  muto  e  minaccioso  corteo,  me  ne  andai  al  solito  alle 
case  de'  Mozzi;  il  cammino  era  brevissimo,  e  vi  fui,  per  cosi  dire, 
in  un  salto. 

II  consiglio  de'  Ministri  era  adunato;  poiche  si  costumava  in 
Toscana  di  fare  le  cose  alia  buona,  la  presenza  del  Governo  non 
aveva  nulla  mutato  alle  consuetudini  della  famiglia  del  Martini, 
la  quale  soleva  accogliere  ogni  sera  parenti  ed  amici;  si  che  nella 
stanza  precedente  a  quella,  ove  a  porte  chiuse  si  discuteva  forse 
intorno  alle  sorti  del  Granducato,  certamente  intorno  a  quelle  del 
Ministero,  erano  amici  e  parenti,  che  la  speranza  di  attingere  noti- 
zie  a  limpida  fonte  vi  aveva  condotti  in  numero  maggiore  del  con- 
sueto.  Raccontai  quanto  mi  era  occorso;  dall'altra  stanza  si  udirono 
alcune  delle  mie  parole,  e  la  voce  dello  zio  chiamo:  —  Ferdinando. 

Entrai,  come  si  capisce,  molto  timidamente.  La  stanza  era  a  mala 
pena  illuminata  da  due  lucerne,  sino  a  meta  delle  quali  scendeva  una 
tendina  di  drappo  verde.  Nulla  di  solenne;  i  Ministri  sedevano 
Puno  qua  Taltro  la;  piuttosto  che  a  consiglio  si  sarebbe  detto  fos- 
sero  a  crocchio.  II  solo  guardasigilli  poggiati  i  gomiti  sul  tavolino 
che  gli  stava  dinnanzi  e  il  capo  sulla  palma  delle  mani,  pareva  spro- 
fondato  in  pensieri  gravissimi.  Sopra  il  canap6,  eretto  il  torso  ed 
alta  come  sempre  la  testa,  che  s'incorniciava  nelle  volute  d'un  gran 
ciuifo  bianco,  il  presidente  Baldasseroni.  Mi  interrogb: 

—  Che  cosa  diceva  di  la?  Che  cosa  ha  visto? 
Ripetei  il  racconto  per  filo  e  per  segno. 

—  E  quando  e  successo  tutto  questo  ? 

—  Mezz'ora  fa,  Eccellenza. 
i.  arma  corta:  pugnale. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (FIRENZE   GRANDUCALE)       1093 

Segui  un  silenzio.  II  ministro  deirinterno  interrogo  a  sua  volta: 

—  E  quante  persone  ci  saranno  state,  secondo  lei  ? 

—  Non  saprei  precisamente  .  .  .  circa  tremila. 

II  ministro  enfio  lievemente  le  guance  e  Iasci6  andare  un  «  bum  » 
incredulo  e  dispregiativo. 

lo,  che  pensavo  essermi  tenuto  nel  giusto,  mi  accinsi  a  provare 
esatto  il  mio  calcolo. 

—  Eccellenza  .  .  . 
Mio  zio  mj  inter ruppe : 

—  Bene,  bene,  va'  va'. 

Ero  andato  timido,  me  ne  venni  risentito.  A  diciassette  anni, 
non  ancora  temprato  contro  alle  impudenze  de'  linguaggi  partigia- 
neschi,  mi  sarei  lasciato  confutare  senza  rammarico  da  una  di  quelle 
sentenze  di  Seneca  che  il  Landucci  aveva  care;  ma  quel  bum 
mi  offese;  e  augurai  di  tutto  cuore  le  dimissioni  del  Ministero. 

Le  quali  furono  appunto  deliberate  in  queirultimo  Consiglio 
dei  Ministri  del  Granducato  di  Toscana,  cui  posso  dire,  in  certo 
modo,  d'essere  stato  presente. 


Di  li  a  poco  i  Ministri  uscirono,  primo  il  Baldasseroni ;  rammento 
che  volgendosi  ai  colleghi  con  certa  intonazione  ironica  esclam6 : 
«  Vedremo,  vedremo». 

Ci6  ch'egli  attendesse  e  sperasse  non  so;  so  ci6  che  tutti  videro 
il  giorno  dopo  e  lo  racconter6  in  un  altro  capitolo. 


VENTISETTE  APRILE1 

Mio  padre  era  malato  ed  io  dormivo  nella  stessa  sua  camera  per 
assisterlo,  se  di  assistenza  avesse  bisogno. 

Alle  quattro  della  mattina  il  vecchio  servitore  Pasquale  mi  desto. 

-  C'e  di  la  il  signor  Tellini.* 

—  A  quest'ora?  Che  vuole? 

—  Parlarle  per  cosa  urgentissima, 

—  Stamani  —  mi  disse  —  facciamo  la  rivoluzione.  £  gia  pronto 
un  Governo  provvisorio.  Ubaldino  Peruzzi,  Vincenzo  Malenchini 

i.  Ed.  cit.,  cap.  xvi,  pp.  251-60.     2.  Tellini:  vedi  la  nota  sap.  1037. 


1094  FERDINANDO    MARTINI 

e  un  altro  che  si  trovera.  Prefetto  di  Firenze,  Tommaso  Corsi,  il 
Bartolommei1  gonfaloniere. 

E,  leggendomi  in  viso  che  non  capivo  il  perche  venisse  a  dare  a 
me  quelle  notizie,  riprese: 

—  II  Comitato  vuole  si  avvertano  i  Ministri  che  non  vadano  a 
Palazzo  Vecchio.  Sarebbero  un  impiccio.  L'awocato  Cempini  av- 
vertira  il  Baldasseroni,  il  dottor  Somigli  pensera  al  Landucci  che 
e  suo  casigliano.  Dal  Lenzoni  e  da  tuo  zio  Martini  non  si  sa  chi 
mandare.  Ho  pensato  di  mandarci  te. 

—  Ma  come  posso  fare  io  ?  .  . ,. 
Non  mi  Iasci6  seguitare  e  soggiunse : 

—  Via,  via,  che  non  ho  tempo  da  perdere.  Lo  zio  e  lo  zio,  il  Len 
zoni  lo  conosci  benissimo,  non  facciamo  chiacchiere.  Va*  e  fa'  presto. 

Volt6  le  spalle  e  se  ne  and6. 

Avevo  fatto  finta  di  obiettare  ma  in  fondo  ero  lietissimo  che  il 
Tellini  mi  avesse  troncato  la  parola  in  bocca ;  il  mandato  commes- 
somi  non  soltanto  non  mi  dispiaceva,  mi  lusingava.  Non  mi  sono 
mai  dato  in  vita  mia  «aria  d'importanza »,  ed  ho  avuto  ed  ho 
in  uggia  chi  se  la  da ;  ma  quel  giorno  la  tentazione  fu  grande.  Andar 
io  ad  annunziare  ai  Ministri  la  rivoluzione!  Mi  parve,  lo  confesso, 
di  diventare  un  personaggio  storico  tutto  ad  un  tratto. 

Ottenuto  il  permesso  di  mio  padre,  mi  avviai.  Abitavo  in  via  de' 
Rustici  e  mi  era  prossimo  il  palazzo  de'  Lenzoni  in  piazza  Santa 
Croce.  Cominciai  dunque  dal  «Signor  Ottavianow,  come  allora 
nel  bel  mondo  fiorentino  chiamavano  il  ministro  degli  afFari  esteri. 

Albeggiava  appena  e  la  piazza  era  deserta.  Dopo  molte  scam- 
panellate,  venne  ad  aprirmi  un  cameriere  tedesco  che  il  ministro 
aveva  portato  seco  dalla  Legazione  di  Vienna  e  poco  o  punto  masti- 
cava  d'italiano.  Ci  voile  del  buono  e  del  bello  per  indurlo  a  sve- 
gliare  il  padrone  a  quell'ora.  Mi  conosceva;  s'arrese  alia  fine,  e 
annunziatomi,  m'introdusse  nella  camera  di  Sua  Eccellenza. 

II  Ministro,  al  quale  il  messo  della  rivoluzione  interrompeva  i 
sonni  tranquilli,  postosi  sul  letto  a  sedere,  si  stropicci6  gli  occhi  e 
sbarrandomeli  in  faccia  domand6: 

i.  Ubaldino  Peruzzi  (1822-1891),  capo  del  governo  provvisorio,  successiva- 
mente  ministro  dei  lavori  pubblici  nei  minister!  Cavour,  Ricasoli  e  Min- 
ghetti;  Tommaso  Corsi  (1814-1891),  di  Livorno,  liberale,  col  quale  il  Cavour 
intess6  accordi  nel  1859.  Dopo  il  27  aprile  prefetto  di  Firenze.  Fu  deputato, 
ministro  col  Cavour,  senatore  dal  1873  ;  per  Vincenzo  Malenchini  e  Barto 
lommei  vedi  rispettivamente  le  note  yap.  183  63  ap.  421. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1095 

—  Che  diavolo'c'e? 

Riferii  tale  e  quale  il  discorso  del  Tellini.  II  «  signer  Ottaviano» 
mi  stette  a  sentire,  poi  come  seccato  e  scrollando  le  spalle: 

—  Ma  non  sono  piu  ministro,  non  ci  sono  piu  ministri,  ci  siamo 
dimessi  ieri  sera. 

E  dopo  una  pausa: 

—  E  suo  zio  che  cosa  dice  ? 

—  Non  lo  so,  non  ci  sono  ancora  stato. 

—  E  allora  vada,  lo  senta  e  ritorni.  Faro  quel  che  fa  lui. 

Si  stropicci6  gli  occhi  una  seconda  volta  e  stesa  la  mano  sopra  la 
tavola  da  notte  ne  prese  un  libro  di  piccolo  formato  che  dalla  rile- 
gatura  (dorso  di  pergamena,  piatti  di  color  marrone)  mi  accorsi  ap- 
partcnere  al  gabinetto  Vieusseux.  Lo  apri  e  si  pose  a  leggerlo.  Uscii. 

Strada  facendo  mi  domandavo  quale  potesse  mai  essere  il  libro 
che  il  ministro  degli  affari  esteri  leggeva,  nel  momento  in  cui  stava 
per  scoppiare  la  rivoluzione;  e  la  domanda  riconduceva  il  pen- 
siero  alia  battaglia  della  quale  io  era,  in  certo  modo,  uno  degli 
araldi.  «Stamani»  aveva  detto  il  Tellini;  e  in  piazza  Santa  Croce, 
nel  bel  centro  di  Firenze,  all'alba,  non  c'erano  che  tre  o  quattro 
persone,  le  quali  se  ne  andavano  pacatamente  pei  fatti  loro.  Fresco 
della  lettura  della  Histoire  de  dix  ans  del  Blanc,1  sulla  quale  moltis- 
simi  in  Italia  fecero  la  loro  educazione  politica  -  io  non  sapevo 
immaginare  una  rivoluzione  senza  cannoni,  barricate  e  moltitudini 
in  armi.  Invece,  nulla  di  tutto  ci6.  Presso  al  Ponte  alle  Grazie  vidi 
venirmi  da  lontano  incontro  un  vecchietto  frettoloso,  il  quale  alle 
acque  d'Arno  che  lo  ascoltavano  sole  gridava:  «£  finita  la  cucca- 
gna».  Nel  passarmi  accanto  e  ripetendo  quel  grido,  da  un  fagotto 
che  aveva  in  mano  trasse  uno  stampato  e  me  lo  porse :  il  manifesto 
che  il  Comitato  de'  popolari2  mandava  fuori  in  quel  giorno ;  anche 
questo  conserve: 

«Toscani! 

L'ora  e  sonata.  La  guerra  della  Indipendenza  gia  si  combatte. 
Voi  siete  italiani ;  non  potete  mancare  a  queste  battaglie.  E  italiani 

i.  Louis  Blanc  (1811-1882),  sostenitore  di  una  economia  collettivistica, 
autore  dell'  Histoire  de  dix  ans  (1830-1840),  in  cinque  volumi,  apparsa 
nel  1841-1844.  Molta  fama  ebbe  anche  la  sua  Histoire  de  la  Re'vo- 
lution  franpaise  (1847-1862).  2.  Comitato  de'  popolari:  due  erano  i  comi- 
tati  rivoluzionari :  quello  del  liberali  moderati,  che  faceva  capo  a  Ridolfi, 
Peruzzi  ecc.,  e  quello  liberale  avanzato  o  popolare,  guidato  dal  Dolfi  (vedi 
la  nota  sap.  420)  e  dal  Bartolommei. 


1096  FERDINANDO   MARTINI 

siete  anche  voi,  prodi  soldati  dell'esercito  toscaho,  e  voi  aspetta 
1'esercito  italiano  sui  campi  di  Lombardia.  Gli  ostacoli  che  impe- 
discono  1'adempimento  de'  vostri  doveri  verso  la  patria  devono 
togliersi;  siate  con  noi  e  questi  ostacoli  spariranno  come  la  neb- 
bia.  Fratellanza  della  milizia  col  popolo.  Viva  1' Italia!  guerra  al- 
T  Austria! 

Viva  Vittorio  Emanuele,  primo  soldato  della  indipendenza  ita- 
liana! » 

In  quel  manifesto  si  esprimevano  desideri,  si  davano  eccitamenti; 
ma  non  v'era  punto  detto  che  i  desideri  fossero  appagati  e  accolti 
gli  eccitamenti.  E  allora  perche  il  vecchietto  gridava:  «6  finita  la 
cuccagna»?  Che  cosa  potevano  significare  quelle  parole  se  non 
che  la  rivoluzione  era  fatta?  Ma  come  fatta,  se  non  si  vedeva  nes- 
suno  ?  Travolto  nel  mare  delle  dubbiezze,  vi  naufragavo. 


Mio  zio  ando  sulle  furie  e  mi  fece  tale  una  risciacquata,  che 
sciup6  alia  prima  la  mia  figura  di  personaggio  storico. 

((Come,  io,  suo  nipote,  accettavo  di  fare  il  procaccino  de'  Co- 
mitati?  Come  osavo  di  venirgli  a  proporre  una  vigliaccheria  ?  Si- 
euro,  una  vigliaccheria.  Appunto  perche  "quei  signori"  volevano 
che  non  s'andasse  in  Palazzo  Vecchio,  appunto  per  questo  si  do- 
veva  andarci.  E  le  dimissioni  date  la  sera  innanzi  non  bastavano 
ad  esimere,  perche  non  si  sapeva  che  il  Granduca  avesse  nominato 
altri  ministri.  Bisognava  andare,  e  se  ci  andava  lui,  mezzo  cieco,  ci 
poteva  e  doveva  andare  chi  era  sano  e  ben  portante. »  Questa  era 
la  sua  risposta. 

Dalla  inviolabile  dignita  di  araldo  sceso  aH'ufficio  di  procaccino 
strapazzato,  mal  volentieri  sarei  tornato  in  piazza  Santa  Croce, 
se  non  m' avesse  spinto  la  curiosita  di  sapere  che  libro  il  ministro 
leggesse.  Poiche  al  mio  entrare  nella  camera,  il  volume  era  tornato 
alia  prima  sede  sulla  tavola  da  notte,  nel  riferire  al  Lenzoni  le  pa 
role  del  collega,  figurando  di  gingillarmi  distrattamente,  presi  il 
libro  e  vi  lessi  sulla  costola:  Madame  Gilblas. 

Era  un  romanzo  di  Paolo  Feval.1  Cominciai  a  capire  che,  quando 

i.  Paul  Henri  Corentin  Fdval  (1817-1887),  autore  di  romanzi  popolari 
come  Les  mysteres  de  Londres  (1844),  Lesfils  du  didble  (1846),  ecc. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       IOQ7 

i  ministri,  a  quell'ora,  si  pigliavano  di  quei  passatempi,  la  rivolu- 
zione  poteva  risparmiarsi  le  barricate. 

* 

Ma  se  non  le  barricate,  almeno  qualche  altra  cosa  che  preparasse 
una  sommossa,  un  tumulto,  un  trambusto,  magari  un  tafferuglio. 
Niente.  In  quelle  prime  ore  della  mattina  vagai  per  le  strade  tepide 
e  luminose  del  sole  di  primavera,  senza  nulla  awertire  di  mutato 
o  di  nuovo  nelle  consuetudini  cittadine.  Nel  Gaffe  Vitali,  in  Mer- 
cato  Nuovo,  dove  ogni  sera  intorno  a  Raffaello  Foresi,1  dottissimo  e 
argutissimo  direttore  del  «Piovano  Arlotto»,  s'adunava  un  mani- 
polo  di  liberali  ipercritici,  che  non  stavano  ne  co'  moderati  ne  co' 
popolari,  alcuni  di  loro  parlavano  accalorati  e  sommessi.  Stando  in 
orecchio,  mi  parve  intendere  qualcosa  si  macchinasse  nella  piazza  di 
Barbano,  che  il  popolo  non  s'adatt6  mai  a  chiamare  col  nome  borbo- 
nico  di  Maria  Antonia,  e  fu,  per  quel  27  d'aprile,  battezzata  dipoi 
«deirindipendenza».  La  abitava  il  ministro  dell'interno,  la  forse 
succedeva  qualche  scompiglio.  Vi  corsi.  Erano  le  sette;  gente  sulla 
piazza  ce  n'era,  ma  poca  e  quieta;  presso  alia  casa  del  ministro  due 
carrozze,  nelle  quali  la  numerosa  famiglia  del  Landucci  si  stipava 
sparuta  e  spaurita,  fra  la  silenziosa  curiosita  e  forse  la  commisera- 
zione  dej  presenti. 

Impersuaso  tornai  sui  miei  passi.  Da  un  secondo  piano  di  via 
della  Robbia  (oggi  via  Nazionale)  una  voce  mi  chiam6  a  nome;  la 
voce  di  un  amico,  Giulio  Cavaciocchi,  colto  giovane  che  dava  nelle 
lettere  liete  speranze  di  s6,  dagli  amici  tenuto  in  gran  conto  anche 
perche"  Giosue  Carducci  gli  aveva  intitolato  una  delle  proprie  odi.2 

Ebbi  da  lui  tutte  le  notizie  lungamente  e  inutilmente  cercate. 
Non  c'era  bisogno  ne  di  tumulti  ne  d'armi:  la  «  fratellanza  della  mili- 
zia  col  popolo  »  era  un  fatto  compiuto.  Alle  nove  una  gran  dimostra- 
zione,  movendo  dalla  vicina  piazza  Barbano,  andrebbe  sino  a'  Pitti 
a  manifestarvi  non  desideri  ma  volonta. 

Scendemmo  insieme,  e  subito  fuori  dell'uscio  c'imbattemmo  in 
un  giovinotto  che  saluto  il  Cavaciocchi  e  prese  a  parlare  con  1m. 
Di  mediocre  statura,  bruno,  non  bello,  ma  con  certa  fierezza  nel- 
raspetto;  i  cui  piccoli  occhi  parevano,  nel  discorso  ch'egli  teneva 


i.  Raffaello  Foresi  (1820-1876),  di  Portoferraio  ,^on^'  ^J?rf 
(cPassatempo))  e  poi  nel  «Piovano  Arlotto».  2.  L'ode  dal  Carducci  dedi- 
cata  al  Cavaciocchi  e  la  xxxiv  del  libro  II  del  Juvenilia. 


1098  FERDINANDO    MARTINI 

concitato  con  Famico,  alternativamente  sorridere  d'allegrezza  e  sfa- 
villare  d'orgoglio.  L'amico  ci  presento.  Martini:  Carducci.  Questi 
mi  salut6  con  un  «  buon  giorno  a  lei »  secco  e  brusco. 

II  Carducci  io  lo  ammiravo  di  gia;  e  parecchi  dei  versi  editi  a 
San  Miniato  nel  '57  li  sapevo  a  memoria;  ma  ora  sapevo  a  memoria 
anche  versi  dell'Hugo  e  del  Lamartine,  che  mi  parevano  non  meno 
belli  de*  suoi:  leggevo  i  romanzi  della  Sand;  Sand,  Hugo,  Lamar 
tine,  tutti  quanti  sbertati  nella  Diceria  degli  amid  pedant?  pubbli- 
cata  sotto  il  patrocinio  di  lui ;  qualche  anno  prima  in  certo  giorna- 
letto2  avevo  canzonato  il  Gargani  e  la  su'  diceria,  e  delle  morbose 
condizioni  cerebrali  delPautore  di  quella,  davo  in  altro  giornaletto3 
un  bollettino  settimanale.  Cosi  stando  le  cose,  fu  grazia  dal  Car 
ducci  d'allora  ottenere  un  «buon  giorno  a  lei»  per  secco  e  brusco 
che  fosse:  da  meravigliarsi  anzi  che,  in  quelFincontro,  non  mi 
buscassi  il  secondo  rabbuffo  della  giornata. 

Facemmo  insieme  pochi  passi ;  poi  ci  perdemmo  di  vista  tra  la 
gente  che  in  mezz'ora,  venuta  da  ogni  parte  della  citta,  aveva  gre- 
mito  la  piazza. 


Accordatasi  col  popolo  la  milizia  e  tolto  cosi  al  Granduca  il 
mezzo  efficace  della  repressione  e  della  difesa,  tutto  si  riduceva  or- 
mai  nel  conoscere  quanto  egli  fosse  disposto  a  concedere  per  conser- 
vare  il  trono  a  se*  o  alia  sua  Casa;  il  resto  un  di  piu;  infatti  la  «di- 
mostrazione »  non  fu  che  una  passeggiata.  Alle  nove  migliaia  di  per- 
sone  mossero  ordinatamente  da  Barbano,  capitanate  da  Giuseppe 
Dolfi  e  da  Enrico  Lawley,4  precedute  da  una  bandiera  bianca  rossa 
e  verde  e  da  una  fanfara  che  suonava  Finno  del  '48. 

O  giovani  ardenti 
d'italico  amore, 
serbate  il  valore 
pei  di  del  pugnar. 

Nel  tragitto  per  le  vie  di  Sant'Apollonia  e  via  Larga  (oggi  via 
27  Aprile  e  Cavour)  i  «Viva  F  Italia »  si  avvicendavano  coi  «  Viva  la 

i.  Diceria  .  .  .  pedanti:  vedi  la  nota  2  a  p.  1048.  2.  in  certo  giornaletto: 
con  molta  probabilita  nel  giornale  « La  Lente »,  fondato  da  Cesare  Tellini. 
3.  in  altro  giornaletto :  lo  « Scaramuccia »  (e  cfr.  p.  1050).  4.  Enrico  Lawley : 
vedi  la  nota  i  a  p.  421. 


CONFESSIONI    E    RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)       1099 

guerra»,  seguiti  gli  uni  e  gli  altri  da  battimani.  Presso  al  convento 
degli  Scolopi  a  San  Giovannino,  replicati  «Viva  Pesercito»  provo- 
carono  applausi  piu  fragorosi  e  piu  caldi.  Salutava  i  «  dimostranti » 
ritto  sul  montatoio  d'una  carrozza  da  nolo,  un  tenente  Saint- Seigne 
che,  awolto  il  dorso  in  un  drappo  tricolore,  copriva  cosi  la  montura 
de'  Cacciatori,  piu  invisa  d'ogni  altra,  perche  di  tinta  e  di  foggia  si 
mile  a  quella  dei  Tirolesi^  delle  cui  prepotenze  durava  iroso  il 
ricordo. 

Per  la  piazza  del  Duomo  e  la  via  dej  Calzaioli  e  Vacchereccia 
s' arrive  sino  allo  sbocco  di  via  Lambertesca,  ove  fermatisi  coloro 
che  le  erano  a  capo  e  la  guidavano,  la  folia  fu  trattenuta.  Intanto 
che  alcimi  tra  la  calca  impazienti  gridavano  «avanti,  avanti!,  aj 
Pitti »,  sopra  un  tavolino  tratto  dal  prossimo  Cafjb  Panone,  monto 
quell'abate  Stefano  Fioretti,1  istoriografo  della  chiesa  di  San  Giu 
seppe  e  direttore  di  balli  al  teatro  Pagliano;  del  quale  ho  gia  detto 
altrove.  Brandito  un  bastone  di  canna  d'India  col  porno  d'avorio 
(mi  par  di  vederlo)  e  mulinandolo  come  un  capotamburo,  arringo : 
« Cittadini,  il  principe  delibera,  lasciamolo  deliberare  in  pace ». 

La  gente  obbedi;  non  alPesortazione  dell'abate,  ma  all'ordine 
che  s'indovin6  del  Comitato;  parte  andarono  in  Borgo  Pinti  a 
plaudire  sotto  le  finestre  della  Legazione  di  Sardegna,  i  piu  ad 
attendere  ansiosamente  notizie  sulla  piazza  per  poco  ancora,  ma 
tuttavia  «del  Granduca».  lo  fra  questi:  e  insieme  col  conte  En 
rico  Fossombroni,2  poi  deputato  per  Arezzo  e  senatore  del  Regno, 
sotto  la  Loggia  de'  Pisani  che  fronteggiava  il  vecchio  palazzo  della 
Signoria,  udimmo,  se  m'6  lecita  Pimmagine,  descritti  i  sussulti  nei 
quali  agonizzava  una  dinastia,  che  aveva  retto  la  Toscana  per  oltre 
cento  anni. 

Passo  primo  in  carrozza  il  Ferrigni  ( Yorick)3  e  band! :  licenziati 
i  vecchi  ministri,  chiamato  Don  Neri  Corsini  marchese  di  Laiatico 
a  for  mare  il  nuovo  Ministero,  alleanza  della  Toscana  col  Piemonte 
nella  guerra  contro  all' Austria;  a  guerra  finita,  costituzione  del 
1848.  La  folia  applaudl,  ma  non  si  mosse  h6  si  scosse,  quasi  incre- 
dula  aspettasse  conferma  di  quelle  notizie  o  notizie  diverse.  E  di 
verse  le  port6  di  li  a  poco,  anche  lui  in  carrozza,  il  mio  amico 
Tellini.  Guerra  subito,  costituzione  piu  tardi ;  ma  Leopoldo  abdi- 

i.  Stefano  Fioretti:  vedi  la  nota  z  a  p.  410.  2.  Enrico  Fossombroni  (1825- 
1893)  fu  deputato  di  Arezzo  dal  1865  al  1880,  senatore  dai  1886.  3.  Fer 
rigni:  vedi  la  nota  2  a  p.  424. 


IIOO  FERDINANDO    MARTINI 

cava:  si  proclamava  Ferdinando  IV  granduca  di  Toscana.  E  la  folia 
applaudi.  Venue  ultimo  Pawocato  Puccioni.1  Tutto  a  monte,  il 
Granduca  partiva.  E  la  folia  applaudi. 

Come  si  sa,  tutte  quelle  notizie  furono  vere  nella  fugacita  d'un 
momento.  Leopoldo,  disposto  a  consentire  alleanza,  guerra,  fran- 
chigie,  financo  ad  abdicare,  quando  Fabdicazione  gli  fu  imposta  si 
risenti :  e  stimando  meglio  tutelare  il  decoro  delPuomo  e  del  prin- 
cipe,  preferi  lasciare  lo  Stato;  non  accorgendosi  che  il  patto  gli  si 
imponeva  indovinando  il  rifiuto,  e  per  cacciare  non  lui  solo  ma  i 
suoi  dalla  Toscana,  dov'egli  invece  si  riprometteva  tornare  come 
dieci  anni  prima. 

Consigliatosi  co'  Ministri  circa  il  luogo  piu  conveniente  alia 
nuova  dimora,  suggerirono  Bruxelles  ed  egli  assenti:  ma,  perche 
gli  spropositi  sono  come  le  ciliege,  che  una  tira  Paltra,  dimentico 
per  istrada  suggerimenti  ed  assensi  e  fece  rotta  per  Vienna. 

L'Arciduca  ereditario2  nel  congedarsi  da  Giulio  Martini  e  strin- 
gendogli  la  mano :  —  Lei  —  disse  —  che  ha  tanti  amici  in  Pie- 
monte,  faccia  sapere  cola  ch'ioinon  ho  voluto  salire  al  trono  pas- 
sando  sul  corpo  di  mio  padre. 


Dalla  fortezza  di  Belvedere  ove  s'era  condotto  abbandonando  la 
reggia,  e  donde  per  la  bugiarda  accusa  di  un  paltoniere,  fu  creduto 
ordinasse  di  bombardare  Firenze,3  il  Granduca  usci  con  la  fami- 
glia  in  carrozza  verso  le  sei  del  pomeriggio,  e  costeggiate  le  mura 
dalla  Porta  Romana  alia  Porta  San  Gallo,  si  diresse  alle  Filigare. 
Lo  scortavano  ufficiali  e  uno  de'  membri  piu  operosi  del  Comitato 
Bartolommei :  Stefano  Siccoli,4  fiorentino  di  nascita,  maggiore  nel- 
Tesercito  peruviano,  che  ferito  nella  guerra  col  Cile  e  amputate, 
cavalcava  con  una  gamba  di  legno. 

Al  passare  del  vecchio  sovrano,  parecchi  si  levavano  il  cap- 
pello,  come  se  quelle  carrozze  lo  conducessero  alia  solita  trottata 
delle  Cascine.  Quel  giorno  mi  domandai :  e  compassione  o  rispetto  ? 
Oggi  penso:  riconoscenza.  Negando  1'abdicazione,  ostinato  nel 
credere  alle  sicure  vittorie  delP Austria,  la  rivoluzione  1'aveva  fatta 
principalmente  egli  stesso. 

i.  Puccioni:  vedi  la  nota  i  a  p.  921.  2.  L'Arciduca  ereditario:  vedi  lanota 
4  a  p.  410.  3.  bombardare  Firenze'.  vedi  pp.  1072-3.  4.  Stefano  Siccoli: 
vedi  la  nota  2  a  p.  422. 


CONFESSIONI    E    RICORDI    (FIRENZE    GRANDUCALE)        IIOI 

Ma  da  chiunque  e  comunque  fatta,  la  rivoluzione  toscana  del 
27  aprile  1859  non  avrebbe  avuto  i  meravigliosi  effetti  che  ebbe, 
senza  le  pertinaci  intrepidezze  e  le  magnanime  audacie  di  Bettino 
Ricasoli.  Poco  importa  egli  si  convertisse  aH'unita  un  po'  prima  o 
un  po*  dopo:  e  importa  anche  meno  che,  trascorso  mezzo  secolo, 
ancora  le  passioni  partigiane  stentino  a  rendergli  giustizia,  quando 
non  gliela  negano  addirittura. 

Le  passioni  vaniscono ;  a  ricompensare  secondo  i  meriti  pensa  e 
provvede  la  storia. 


DA  (cCONFESSIONI  E  RICORDI  (1859-1892).) 


IN  CASA  VON  WITTELSBACH1 

NelPottobre  del  1867  scioglievo  un  voto  se  non  antico,  fervido,  e 
varcavo  per  la  prima  volta  i  confini  della  Germania.  M'ero  muni- 
to  di  una  quantita  portentosa  di  lettere  di  raccomandazione  per  pa- 
recchi  e  letterati  e  commediografi  (pur  troppo  anche  in  Germania 
gli  uni  debbono  essere  distinti  dagli  altri)  i  quali  io,  di  facile  con- 
tentatura  a  quel  tempo,  avevo  giudicati  grandissimi  e  predetti 
immortali.  Era  quello  piuttosto  che  un  viaggio,  un  pellegrinaggio. 
Una  cortese  e  colta,  anzi  erudita  signora,  la  marchesa  Florenzi,2 
arnica  e  traduttrice  dello  Schelling,3  che  aveva  lungamente  dimorato 
a  Monaco,  e  vi  aveva  maritato  la  propria  figliuola,  voile  aggiungere 
a  quel  voluminoso  epistolario  un  biglietto;  destinato  ad  aprirmi 
le  porte  del  palazzo  di  Wittelsbach  e  a  condurmi  innanzi  a  S.  M. 
Luigi  I,4  per  volonta  un  po'  sua,  un  po'  della  nazione,  ex  re  di 
Baviera. 

Ringraziai  a  denti  stretti :  quella  gentilezza  mi  parve  un  fastidio ; 
che  avrei  potuto  dire  io  al  vecchio  re,  che  avrebbe  egli  potuto 
dirmi?  Se  egli  aveva  renunziato  la  corona  per  non  essere  seccato 
da'  sudditi,  perche  dovevo  andare  a  seccarlo  io  con  un  colloquio  inu 
tile  ?  Sciupio  di  tempo  e  di  cravatte  bianche.  Mi  proposi  di  fer- 
marmi  a  Monaco  due  giorni  soli :  al  ritorno  mi  sarei  scolpato  colla 
illustre  esibitrice  della  commendatizia,  adducendo  in  iscusa  la  man- 
canza  di  tempo  sufficiente  a  domandare  e  ottenere  Pudienza:  una 
bugia  in  sostanza,  ma  da  essere  provata  e  dimostrata  come  una 
verita. 

Le  cose  andarono  diversamente :  a  Monaco  imparai  a  conoscere 

i.  Ed.  cit.,  cap.  in,  pp.  37-48.  2.  La  marchesa  Marianna  Florenzi  Baci- 
netti  (1802-1870),  di  Perugia,  ammiratissima  dal  re  di  Baviera  Luigi  I, 
favori  i  patriotti  dell' Italia  centrale  presso  quel  re,  che  li  protesse  presso  il 
governo  pontificio.  3.  Friedrich  Wilhelm  Joseph  von  Schelling  (1775-1854), 
il  filosofo  dell'idealismo  tedesco,  professore  all' University  di  Monaco,  trov6 
nella  Marianna  Florenzi  un' intelligent  e  discepola,  interprete  e  traduttrice 
italiana  (in  ispecie  del  suo  dialogo  Bruno}.  4.  Luigi  I  di  Wittelsbach  (1786- 
1868)  regn6  in  Baviera  dal  1825  al  1848,  anno  in  cui  abdic6,  sia  per  ragio- 
ni  politiche,  che  gli  si  opposero  conservatori  e  radicali,  sia  per  la  passione 
che  Io  legava  alia  ballerina  irlandese  Lola  Montez  (vedi  anche  p.  223  e  la 
nota  2),  invisa  al  popolo,  al  clero,  alia  corte,  anche  per  le  sue  inframmet- 
tenze  negli  affari  politici.  Gli  successe  il  figlio  Massimiliano  II,  che  regno 
fino  al  1864,  e  fu  sostituito  da  Luigi  II  (1864-1886). 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1103 

il  Rubens,1  il  quale  si  studia  la  cosi  bene  come  a  Bruxelles  e  ad 
Anversa,  e  il  grande  fiammingo  tanto  mi  meravigli6  con  la  sua  foga 
varia,  potente,  feconda;  tanto  m'innamor6  di  se,  che  io  rimasi  a 
Monaco  due  settimane:  per  quel  morto  dimenticai  tutti  i  vivi;  non 
recapitai  neppur  una  delle  famose  lettere,  ma  dovei  domandare 
Fudienza:  la  scusa  pensata  non  valeva  piu;  bisognava  trovarne 
un'altra,  ed  io  sono  stato  sempre  povero  d'immaginazione. 


Inoltre,  nella  mia  breve  ma  operosa  dimora,  addentratomi  al- 
quanto  nella  storia  del  paese,  quel  re  il  quale,  sceso  una  bella  sera 
dal  palazzo,  s'era  cacciato  tra  la  folia  e  il  tumulto  per  offrire  il 
braccio  alia  propria  amante  oltraggiata  dal  popolo;  che  nel  1848, 
costretto,  aveva  ieri  consentito  a  mutare  gli  ordini  dello  Stato  e 
abdicate  domani,  parendogli,  dopo  ceduto  alia  violenza,  di  non 
aver  piu  autorita  di  principe  o  stimando  che  a  quel  patto  non  met- 
tesse  piu  conto  di  rimanere  sul  trono;  quel  re  mi  attraeva.  Chi  sa? 
forse  era  legge  per  lui  il  voto  dall'avo  Massimiliano  I2  fatto  inci- 
dere  sopra  una  colonna  commemorativa  di  non  so  quale  battaglia : 
«Rem,  regem,  regimen,  regionem,  religionem  Conserva  Bavaris, 
Virgo  Maria,  tuis».3 

E  mi  attraeva  quel  re,  che  evocata  e  adunata  una  legione  d'artisti, 
s'era  piaciuto  nell'edificare  una  citta  intera  e  nelPinsegnare  al  suo 
popolo  le  meraviglie  dell'arte  greca  e  gli  splendori  del1  rinascimento 
italiano.  Certamente  in  me  fiorentino  non  suscitavano  grandi  en- 
tusiasmi  n6  la  Biblioteca,  copia  del  Palazzo  Riccardi,  n£  la  Feld- 
herrnhalle,  copia  'della  Loggia  delFOrcagna,  n6  il  Koenigsbau, 
copia  del  Palazzo  Pitti,  anche  perche,  se  le  sago  me  sono  le  stesse, 
non  sono  le  stesse  le  proporzioni ;  e  a  chi  ha  presenti  gli  edifici  fio- 
rentini,  quelli  di  Monaco  rimpiccioliti  e  ridotti  appaiono  meschini, 
piuttosto  enormi  giocattoli  che  monumenti. 

Ma  palazzi  e  basiliche  e  logge  e  musei,  e  le  statue  profuse*  ad 
ornarli  e  i  freschi  che  ne  istoriano  le  pareti,  compongono  a  Luigi  I 
il  piu  splendido  e  il  piu  desiderabile  de'  monumenti ;  attestano  della 
sua  operosita  intellettuale,  dei  suoi  nobili  fini,  degli  impulsi  fecondi 

i.  Peter  Paul  Rubens  (1577-1640),  molte  opere  del  quale  sono  nella  Pinaco- 
teca  di  Monaco.  2.  Massimiliano  I,  della  casa  di  Wittelsbach,  fu  duca  di 
Baviera  durante  la  guerra  dei  Trent' anni  e  capitand  la  lega  cattolica.  LaBa- 
viera,  prima  ducato,  divenne  regno  nel  1806.  3. «  Conserva,  o  Vergine  Ma 
ria,  ai  tuoi  Bavari  i  beni,  il  re,  la  forma  digoverno,  il  territorio,  la  religione. » 


1104  FERDINANDO    MARTINI 

che  per  lui  vennero  alParte  tedesca,  per  lui  risorta  e  rinnovata. 
Monaco  che  nel  1808  aveva  42,000  abitanti,  quand'egli  mori  nel 
1869, x  ne  aveva  oltre  180,000.  L'Overbeck,  il  Cornelius,  lo  Schwan- 
thaler,  il  Forster,  il  Klenze,  lo  Schnorr,  PHess,  il  Gartner,  il  Kaul- 
bach2  e  cento  altri  formano  una  legione  d'artisti,  quale  nessuno 
altro  paese  d'Europa  vide  la  simile  nella  prima  meta  di  questo  se- 
colo,  e  che  Luigi  I  suscito,  incor6,  guido,  sostenne.  Egli  che  gia 
vecchio  sorridendo  affermava  d'essere  stato  V ultimo  de'  re,  perche 
aveva  rinunziato  il  trono,  anzich6  piegarsi  alia  diminuzione  della 
potesta  reale,  fu  dawero  1'ultimo  dei  re  che  dettero  nome  ad 
un'epoca  gloriosa  nella  storia  dello  spirito  umano :  si  dira  in  Baviera 
il  secolo  di  Luigi  I  come  si  dice  in  Francia  il  secolo  di  Luigi  XIV. 

* 

Consegnai  la  lettera  a  un  aiutante  di  campo  e  chiesi  Pudienza,  che 
mi  fu  subito  conceduta;  presso  re  Luigi,  nessun  migliore  introdut- 
tore  della  signora  umbra  la  quale,  un  tempo  bellissima,  aveva  desta- 
to  in  lui  un  affetto  cosi  profondo,  che  ne  erano  durevoli  i  rimpianti 
e  dolci  i  ricordi  lontani.  Una  sera  piovigginosa  delPottobre  entrai 
nel  palazzo  di  Wittelsbach,  fosco  e  severo,  come  tutti  gli  edifizi 
di  quello  stile  che  prese  nome  dai  Tudor  in  Inghilterra;  il  re,  di 
mezzana  statura,  vecchio,  ma  di  una  vecchiezza  ancora  verde  ed 
arzilla,  era  in  uniforme  di  generale  bavarese:  tunica  celeste,  cal- 
zoni  bianchi;  m'accolse  con  quell' alterezza  principesca  che  non 
esclude  Paffabilita  e  che  differisce  dalPalterigia  tanto,  quanto  Por- 
goglio  dalla  superbia.  Era  un  poj  sordo;  forse  piu  che  un  po',  ma 

i.  Luigi  I  mori,  piu  esattamente,  a  Nizza  il  28  febbraio  1868.  2.  Johann 
Friedrich  Overbeck  (1789-1862),  pittore  tedesco,  capo  della  scuola  dci 
Nazareni;  Peter  Cornelius  (1783-1867),  pittore  e  disegnatore,  dimor6  a 
Roma  (1811-1819),  legato  ivi  all'Overbeck,  insegn6  all'Accademia  di  Mo 
naco,  fu  amico  di  Luigi  I,  per  il  quale  esegui  numerosi  affreschi ;  Ludwig 
von  Schwanthaler  (1802-1848),  scultore,  insegnd  dal  1835  aH'Accademia 
di  Monaco;  Ludwig  Forster  (1797-1863),  architetto  classicista,  bavarese  di 
nascita,  Viennese  e  absburgico  per  attivita,  studi6  all'Accademia  di  Monaco 
e  insegn6  all'Accademia  di  Vienna,  dove  fra  Paltro  edific6  la  sinagoga; 
Leo  von  Klenze  (1784-1864),  architetto  neo-classico,  costrui  in  Monaco 
la  Pinacoteca,  la  Gliptoteca,  i  Propilei;  Julius  Schnorr  von  Carolsfeld 
(1794-1872),  pittore,  illustrd,  tra  1'altro,  scene  dell' Orlando  furioso  nella 
villa  Massimi  a  Roma.  Fu  dal  1827  professore  all'Accademia  di  Monaco; 
Peter  von  Hess  (1792-1871),  pittore  di  paesaggi  e  di  quadri  di  genere; 
Friedrich  von  Gartner  (1792-1847),  architetto,  esegui  a  Monaco  Tedificio 
della  Biblioteca,  la  chiesa  di  San  Luigi,  PUniversita.  Lavor6  anche  ad 
Atene  (Palazzo  reale);  Wilhelm  von  Kaulbach  (1805-1874),  pittore,  dal 
1848  direttore  dell'Accademia  di  Monaco,  citta  in  cui  lavorava  gia  dal  1826. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1105 

alFopposto  de'  sordi  che  sogliono  parlare  a  voce  bassa,  egli  stril- 
lava,  quasi  non  lui  ma  1'interlocutore  avesse  il  timpano  offeso. 
Mi  parlo  in  italiano  (lo  parlava  correntemente  e  correttamente)  e 
delPItalia.  —  Quanto  le  debbo!  —  mi  disse.  —  Quand'ero  ragazzo  mi 
facevano  prendere  lezioni  di  disegno  tutte  le  mattine  dalle  dieci 
alle  undid.  Era  un  supplizio  quello  per  me.  Disegnavo,  disegnavo, 
ma  senza  profitto  e  senza  desiderio.  Andai  finalmente  in  Italia! 
Vede,  se  fossimo  a  Firenze,  io  le  mostrerei  il  luogo  precise,  nel 
quale  per  la  prima  volta  gli  occhi  mi  si  aprirono  alia  luce,  in  cui  capii 
che  cosa  significasse  questa  parola  «arte»,  che  avevo  udito  tanto 
ripetere,  in  cui  sentii  per  la  prima  volta  la  volutta  che  si  prova  mi- 
rando  un  capolavoro.  —  Mi  domandb  se  ero  ancora  stato  a  vedere 
la  chiesa  di  San  Luigi  da  lui  fatta  costruire  sui  disegni  del  Gartner 
e  per  la  quale  parve  sentisse  un  affetto  particolare;  si  dolse  ch'io 
non  potessi  visitare  non  so  quale  villa  perch6  vi  soggiornava  Tex 
regina  di  Napoli;1  in  compenso  avrebbe  dato  ordine  mi  si  mostrasse 
il  castello  di  Possenhofen,  vietato  al  pubblico. 

—  £  la  sola  delle  bellezze  —  soggiunse  sorridendo. 

Oggi  quella  sala  e  aperta  a  tutti;  allora  per  vederla  ci  voleva  il 
permesso  che  non  si  otteneva  ne  facilmente  ne  sempre.  Contiene 
trentasei  ritratti  di  donne  bellissime  dipinte  dallo  Stieler:2  la  leg- 
genda  vuole  che  quelle  donne  sieno  state  tutte  amanti  di  re  Luigi, 
tranne  una,  la  figlia  d'un  calzolaio  di  Monaco,  la  quale  avrebbe 
resistito  a  tutte  le  promesse,  a  tutte  le  lusinghe,  a  tutte  le  sedu- 
zioni  reali ;  bella  cosi,  che  il  diniego  ostinato  non  le  tolse  di  vedere 
la  propria  imagine  accolta  in  quel  pantheon  della  formosita  mu- 
liebre. 

Sara  vero  o  non  sara  vero;  certamente  quando  il  Cornelius  nel 
gran  fresco  del  giudizio  universale  dipinto  dietro  F  altar  maggiore 
della  Ludwigskirche3  dette  a  Luigi  un  posto  fra  gli  eletti,  egli  fi- 
do  o  nella  misericordia  divina  o  nel  pentimento  dell'ora  estrema; 
perch6  pochi  uomini  al  mondo  furono  tanto  quanto  quel  re,  con- 
taminati  dal  terzo  peccato  mortale.  Io  inclino  a  credere  alia  verita 
della  leggenda  per  questo:  che  nel  sorriso  onde  il  vecchio  Luigi 
accompagn6  la  offerta  di  farmi  vedere  quella  sala,  balen6  un  com- 

1. 1' ex  regina  di  Napoli:  Maria  Sofia  di  Baviera,  moglie  di  Francesco  II  di 
Borbone.  Mori  nel  1925.  2.  Joseph  Karl  Stieler  (1781-1858).  £  di  lui  il 
ritratto  della  marchesa  Florenzi  nel  palazzo  della  Residenza,  a  Monaco. 
3.  Ludwigskirche:  la  chiesa  di  San  Luigi,  di  cui  fu  architetto  il  Gartner. 


II06  FERDINANDO    MARTINI 

piacimento  memore,  velato  poi  da  un'intima  malinconia;  non  gli 
pass6  per  la  testa,  ne"  poteva,  il  pensiero  (Tuna  vantazione;  gli  sfa- 
vil!6  nelFanimo  un  ricordo  che  si  mut6  subito  in  un  rimpianto,  o 
mi  parve. 

L'udienza  era  durata  quasi  tre  quarti  d'ora.  Alia  fine,  domanda- 
tomi  s'io  sarei  restate  ancora  qualche  tempo  a  Monaco  e  saputo  che 
vi  rimanevo  quattro  o  cinque  giorni,  il  re  interpose  un  breve  silen- 
zio,  poi  fatto  un  saluto  col  capo  soggiunse:  —  Spero  di  rivederla. 

Dove  e  come  ?  La  cosa  mi  pareva  difficile ;  e  nondimeno  il  collo- 
quio  era  stato  cosi  facile  e  schietto ;  deirargomento  unico  della  con 
versazione,  1'arte  e  la  letteratura  d'ltalia,  il  re  aveva  discorso  con 
tanto  acume,  con  tanta  cognizione  di  causa,  con  tanta  effusione 
d'affetto,  che,  almanaccando  su  quelle  parole,  uscii  dal  palazzo  di 
Wittelsbach  desiderando  di  ritornarvi. 

La  mattina,  avanti  d'uscire,  una  lettera  dell'aiutante  di  campo  mi 
annunziava  che  sua  Maesta  m'invitava  a  pranzo  per  la  sera  dopo. 


Ahime!  non  bis  in  idem.  II  re  m'accolse  cortese,  al  solito,  ma  con 
minore  cordialita.  Sedemmo  a  tavola  in  tre,  egli,  Faiutante  di 
campo  ed  io :  il  re  taceva,  tacevamo  naturalmente  anche  noi.  Stavo 
sorbendo  un  bicchiere  di  Jesuitengarten,  vino  bianco  e  saporoso  del 
Palatinato,  per  il  quale  nonostante  il  nome1  e  Foccasione  in  cui  lo 
gustai  per  la  prima  volta,  serbo  tuttavia  il  rispetto  che  merita, 
quando  il  vecchio  Luigi,  brusco  e  improvviso,  mi  domand6  se 
avessi  notizie  delFItalia .  .  .  Risposi  «no,  sire»  e  furono  quelle  le 
sole  parole  che  avessi  modo  di  pronunziare  in  quel  pranzo  trista- 
mente  memorando  per  me. 

Che  cos'era  accaduto  ?  Nientemeno  che  questo :  alle  prime  notizie 
contradittorie  venute  dall' Italia  in  quei  giorni,  erano  succedute 
notizie  sicure.  Era  proprio  vero.  Garibaldi  aveva  varcato  il  confine 
pontificio  e  i  giornali  della  sera,  ch'io  non  avevo  ancora  letti, 
annunziavano  il  combattimento  di  Bagnorea.2  Re  Luigi  il  quale 
amava  Roma,  ma  la  voleva  del  Papa;  che  amava  V Italia  di  Raffaello 
e  del  Brunelleschi,  ma  odiava  la  rivoluzione  della  quale  era  vittima, 
quella  sera,  al  sentir  Roma  minacciata  da'  volontarii,  non  seppe  fre- 

i.  Jesuitengarten  significa  «giardino  dei  gesuiti».  2.  Bagnorea'.  oggi  Ba- 
gnoregio,  in  provincia  di  Viterbo.  Vi  awenne  uno  scontro  di  esigua  im- 
portanza  durante  la  spedizione  garibaldina  del  1867  nell'Agro  romano. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (1859-1892)  1107 

narsi.  E  contro  Garibaldi  e  Rattazzi1  parlo,  par!6,  par!6,  temperato 
nella  forma,  ma  cosi  severe,  cosi  assoluto  nella  sostanza,  che  io,  a 
ricordare  quella  sera  e  quel  pranzo,  mi  sento  ancora  rabbrividire. 

Pensai  a  che  cosa  dovessi  e  potessi  fare;  non  mi  riusci  di  spic- 
cicare  parola.  Lo  so,  il  discorso  era  facile:  «  Vostra  Maesta  e  molto 
intelligence  ed  ha  fama  d'essere  uno  dei  piu  squisiti  gentiluomini 
d'Europa.  Doveva  proprio  toccare  a  me  il  brutto  guaio  di  pranzare 
da  lei  una  sera  in  cui  non  capisce  nulla,  e  manca  ai  piu  rudimentali 
dettami  delPeducazione.  Vostra  Maesta  e  re,  sebbene  abdicatario, 
ha  ottant'anni  ed  e  in  casa  sua:  tre  ragioni  sufficient!  perch6  io  non 
raccolga  tutte  le  insensatezze  e  tutte  le  insolenze  che  parte  appaiono, 
parte  si  nascondono  nelle  sue  parole.  Non  potendo  altro,  piglio  il 
cappello  e  me  ne  vado  ». 

Questo  era  discorso  savio,  logico,  meritato :  Favrei  dovuto  fare  ? 
pu6  darsi:  fatto  sta  che  non  lo.feci;  forse  perche  il  re  era  vecchio, 
ed  io  penso  che  a'  vecchi,  a'  bambini  e  alle  donne  isteriche  bisogna 
perdonare  ogni  stranezza;  forse  per  altre  ragioni  che  non  seppi  e 
che  non  so  neppur  oggi  discernere :  fatto  sta  che  non  Io  feci.  E  se 
questo  no,  che  altro  avrei  potuto  fare?  Narrando  un  aneddoto  io 
propongo  anche  un  quesito.  Ho  gia  detto  che  sono  povero  d'imagi- 
nazione :  e  per  mostrare  i  sentimenti  deiranimo  mio,  per  protestare 
in  un  qualsiasi  modo,  non  trovai  nulla  di  meglio  che  astenermi  du- 
rante  tutto  il  pranzo  dal  mettermi  in  bocca  un  briciolo  di  pane  o 
dal  bevere  un  sorso  di  vino.  Mi  pareva  che  questo  bastasse  a  signi- 
ficare:  «Ci  sono  e  per  forza  ci  sto». 

Forse  bast6  difatti:  perch£  il  re  tacque  alia  fine  e  stette  zitto 
finche"  non  ci  alzammo  da  tavola.  Allora  mi  s'accost6  e  battendomi 
familiarmente  sulla  spalla,  mi  domand6  se  mi  sarei  trattenuto  lun- 
gamente  in  Germania. 

—  Qualche  settimana,  —  risposi  —  soffro  di  nostalgia,  alia  lunga. 

—  Ha  ragione,  —  soggiunse  —  ognuno  ama  il  proprio  paese. 

—  E  ognuno  Tarna  a  modo  suo  —  interruppi. 

Questa  frase  che  in  sostanza  non  significava  nulla,  mi  parve  un 
poema. 

Ma  il  re  capl  Tintenzione  e  conchiuse : 

—  Naturalmente. 

Poi  mutando  tuono,  e  col  manifesto  proposito  di  mutare  discorso : 

—  Non  parta  prima  di  domani  Paltro;  danno  al  teatro  di  Corte  il 
i.  Rattazzi:  vedi  la  nota  i  a  p.  501. 


II08  FERDINANDO    MARTINI 

Tannhduser  del  Wagner.  La  rappresentazione  si  fa  a  spese  del  re 
mio  nipote.1  Le  procurer6  un  invito.  Ci  verr6  anch'io ;  e  uno  spet- 
tacolo,  creda,  il  quale  merita  che  vi  s'assista. 

lo,  con  quelPaltra  idea  fissa  nella  testa,  risposi  impicciato : 

—  Se  anche  Vostra  Maesta  v'interviene,  ella  che  e  cosi  compe- 
tente  nelle  cose  d'arte  . . . 

—  Ah!  io,  —  esclamo  sogghignando  —  io  ci  vengo  perche  son 
sordo. 

Aveva  detto  male  degritaliani,  e  ora  mi  sacrificava  un  tedesco. 
Forse  a  lui  parve  d'esser  pari;  a  me  no;  e  uscii  da  quella  cupa  ma- 
gione  di  Wittelsbach  arrabbiato,  vergognoso,  digiuno,  maledicendo 
alia  mia  pusillanimita,  imprecando  contro  i  re,  i  cortigiani  e  le  corti. 
Se  mi  fossi  imbattuto  neirAlfieri  gli  avrei  buttato  le  braccia  al 
collo.2 

* 

fi  vero  ci6  che  il  Brillat-Savarin3  assevera,  che  anche  lo  stomaco 
ha  la  memoria  sua:  il  mio,  dopo  tanti  anni,  sente  ancora  grave  il 
peso  di  un  pranzo  che  non  mangiai.  Forse  per  questo,  quando,  in 
occasione  delle  feste  centenarie  di  Luigi  I,  lessi  telegrammi  studio- 
samente  sibillini  di  borgomastri  tedeschi  e  articoli  mendaci  di  gior- 
nalisti  italiani,  a  dar  retta  ai  quali  quel  re  sarebbe  stato  sviscerato 
amatore  della  nostra  unita,  io  non  potei  non  provare  un  senso  di 
dispetto  e  non  ripetere  anch'io  la  frase  abusata  di  quel  personag- 
gio  di  Scribe:4  «Ecco  come  si  scrive  la  storia! » 

LA  MIA  CARRIERA  D'INSEGNANTES 

Nel  novembre  1869,  Pasquale  Villari,6  segretario  generale  del 
Ministero  dell'Istruzione  Pubblica,  mi  mand6  a  Vercelli  a  insegnar 

i.  La  rappresentazione  .  .  .  mio  nipote:  Luigi  II  di  Baviera  fu  entusiastico 
protettore  di  Wagner,  e  per  la  rappresentazione  delle  sue  opere  fece  costrui- 
re  un  apposite  teatro  a  Bayreuth,  il  Festspielhaus,  inaugurate  ncl  1876. 
Come  e  noto,  Luigi  fu  una  strana  e  discussa  figura  di  sovrano,  impazzl 
e  fu  deposto:  mori  annegato,  sembra  suicida,  nel  1886.  2.  Se  .  .  .  al  collo: 
e  noto  che  VAlfieri  fu  fieramente  avverso  ad  ogni  autorita  regia.  3.  An- 
thelme  Brillat-Savarin  (1755-1826),  magistrato  francese,  scrittore.  Cele- 
bre  il  suo  libro  La physiologie  dugout  (1825),  ricco  di  osservazioni  briose  e 
di  ricette  culinarie.  4.  Eugene  Scribe  (1791-1861),  notissimo  autore  dram- 
matico  francese.  5.  Ed.  cit.,  cap.  iv,  pp.  51-77.  6.  Pasquale  Villari 
(1827-1917),  il  noto  storico,  era  allora  segretario  generale  (oggi  si  direbbe 
sottosegretario)  al  ministero  della  pubblica  istruzione. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (1859-1892)  1109 

lettere  nella  scuola  normale  femminile.1  Sebbene  di  quei  giorni  e 
di  quelle  mie  alunne  io  serbi  memoria  carissima,  e  nelPanimo  grato 
viva  il  ricordo  di  cortesie  singolari,  non  posso  in  coscienza  affer- 
mare  che  Vercelli,  cinquanta  e  piii  anni  fa,  offrisse  soggiorno  desi- 
derabile  a  me,  che  venivo  da  Firenze,  tuttavia  capitale  del  Regno. 

Chi  non  s'intendesse  di  risaie  e  di  riso ;  chi  non  facesse  commer- 
cio  «di  questo  oltre  1'Occaso  addotto  seme»  (per  dir  come  disse 
Gian  Battista  Spolverini,3  buona  anima  sua,  che  lo  cant6  in  piu  che 
cinquemila  endecasillabi)  di  rado  trovava  occasione  e  argomento  al 
conversare.  Al  conversare,  intendiamoci,  non  ho  detto  al  discorrere. 
Gli  insegnanti  dei  diversi  istituti,  quasi  tutti  piemontesi,  e  ammo- 
gliati  quasi  tutti,  facevano  ognuno  vita  da  se;  unici  conforti  del- 
rintelletto,  dunque,  qualche  non  frequente  discussione  col  conte 
Mella  intorno  alle  pitture  di  Gaudenzio  Ferrari,3  o  alParchitettura 
gotica  nella  quale  era  intendentissimo ;  qualche  visita  di  quando  in 
quando  al  vecchio  Levi,  libraio,  altrettanto  erudito  ed  arguto 
quanto  acerrimo  nemico  delPacqua  fresca;  il  quale,  vaticinate  si- 
cure  nel  1870  le  vittorie  della  Francia,  piangeva  1'anno  dipoi  la- 
crime  variamente  colorate  per  la  caduta  dell'Impero  napoleonico; 
unico  divertimento  la  tombola,  giocata  la  sera  in  silenziosa  gravita 
nel  caffe  Barberis,  sotto  i  portici  della  piazza  (se  ben  rammento) 
Cavour. 

Cio  nondimeno,  a  Vercelli,  io  stetti  sin  da  principio  assai  volen- 
tieri:  della  mancanza  di  distrazioni  e  di  passatempi  non  m'accor- 
gevo  neppure:  il  passatempo  me  1'ero  trovato  da  me,  prendendo  a 
scrivere  un  racconto  (Peccato  e  Penitenza)*  che  ebbe  poi  troppo 
maggior  fortuna  di  quanto  meritasse,  e  al  quale  davo  tutte  le  ore 
che  mi  lasciavano  libere  le  lezioni  di  letteratura,  di  storia  e  di 
geografia. 

i.  mi  mando  .  .  .femminile:  dopo  la  morte  del  padre,  il  Martini  aveva  avuto 
un  rovescio  di  fortuna  (vedi  la  nota  tap.  1023), ele  condizioni  economiche 
lo  avevano  indotto  a  chiedere  un  posto  d'insegnante.  Ampia  e  interessante 
traccia  di  questo  periodo  della  sua  vita  si  trova  in  lettere  da  lui  dirette  a  Pie- 
ro  Puccioni  (vedi  Lettere,  cit.,  pp.  7-3 1).  2.  Gian  Battista  Spolverini  (1695- 
1763),  di  Verona,  autore  del  poema  didascalico  La  coltivazione  del  riso. 

3.  II  conte  Edoardo  Arborio  Mella,  di  Vercelli  (1808-1884),  fu  apprezzato 
architetto  specie  nel  nativo  Piemonte,  dove  costrui,  o  ricostrui  e  restaur6, 
varie  chiese  insigni,   specialmente  a  Casale  e  ad  Alessandria;    Gaudenzio 
Ferrari  (1484-1550),  il  pittore  piemontese,  che  Iavor6  anche  in  Lombardia. 

4.  II  racconto  Peccato  e  Penitenza  apparve  dapprima  in  appendice  sul  quo- 
tidiano « La  Nazione »,  a  Firenze ;  poi  in  volumetto  per  i  tipi  del  Le  Monnier 
(1873);  infine  fu  inserito  nel  volume  Racconti  (vedi  la  bibliografia). 


IIIO  FERDINANDO    MARTINI 

Anche  di  storia  e  geografia;  che  alia  fine  furono  commessi  a  me 
anche  quelli  insegnamenti.  Dico  « alia  fine  »  perocche  ci6  non  si  ot- 
tenne  senza  vincere  curiose  difficolta;  non  indignae  referri. 

Titolare  di  quella  cattedra,  quando  io  giunsi  a  Vercelli,  nella 
scuola  normale  non  c'era;  la  storia  e  la  geografia  qualcuno  doveva 
pure  insegnarle.  Chi?  II  provveditore  che  stava  a  Novara,  ed  era 
malato,  se  ne  rimesse  al  sottopref etto ;  e  questi  interrog6  il  presi- 
dente  del  Consiglio  direttivo  che,  per  gli  ordinamenti  di  allora, 
sopraintendeva  alia  scuola.  II  presidente,  dott.  Carlo  Pisani,  molto 
autorevole  e  colta  e  simpatica  persona,  propose  me;  e  si  cred6 
che  la  proposta  sarebbe  mandata  al  Ministero  e  approvata  in 
quattro  e  quattr'otto.  Invece,  s'and6  per  le  lunghe,  le  settimane 
passarono,  sino  a  che  il  presidente,  che  di  quelle  tardanze  non  sa- 
peva  capacitarsi,  scopri  che  il  sottoprefetto  traccheggiava,  tratte- 
nendo  sulla  propria  scrivania  il  relativo  « incartamento  ». 

II  dottor  Pisani  possedeva  tutte  le  belle  qualita  che  ho  detto ;  ma, 
oltreche  aveva  grande  amore  alia  scuola,  e  lo  seccavano  quegli  indugi 
de*  quali  gia  si  lagnavano  le  alunne,  non  era  il  piu  sofferente  degli 
uomini;  sicche"  un  giorno,  piu  che  mai  infastidito,  and6  a  scuotere 
le  accidie  delFautorita  circondariale  ;J  e  dalPegregio  cavaliere  (mi 
rincresce  non  ricordarne  i  cognomi,  ch'erano  due  o  tre)  il  quale  si 
scusava  dimostrandosi  perplesso,  udi,  tra  le  altre,  queste  parole: 
«I1  signor  Martini  sara  un  bravissimo  giovine;  io  per6  non  Pho 
ancora  veduto». 

Quel  perb  fu  il  filo  d' Arianna,  guida  attraverso  i  traccheggiamenti 
sottoprefettizii ;  e  si  convenne  che  il  giorno  dopo,  insieme  con  lo 
stesso  dottor  Pisani,  sarei  andato  a  riverire  il  rappresentante  del 
regio  Governo. 

Lo  trovammo  che  stava  per  uscire,  vestito  di  nero  da  capo  a  piedi, 
coperta  la  testa  dal  piu  torreggiante  e  lucido  dei  cappelli  a  cilindro. 
Non  s'aspettava  quella  visita  e  ne  parve  piu  che  meravigliato,  scom- 
bussolato.  Forse,  perch6  essa  succedeva  cosi  sollecita  alle  sue  la- 
gnanze,  indovin6  che  io  conoscevo  la  ragione  del  suo  procrastinare ; 
pens6  che  non  avrebbe  potuto  giustificarlo,  accusandomi  di  aver 
violato  canoni  di  etichetta  inventati  da  lui.  Tanto  per  rompere  il 
ghiaccio,  mi  domand6  se  avessi  nulla  stampato :  risposi  che  avevo 
scritto  articoli  nei  giornali  e  nelle  riviste,  qualche  commedia,  una 

i.  circondariale:  le  province  erano  allora  divise  in  circondari,  a  capo  dei 
quali  stava  un  sottoprefetto. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (1859-1892)  IIII 

delle  quali  premiata  nel  concorso  governativo  di  Firenze.  Delle 
fischiate  o  quasi,  naturalmente,  tacqui  compunto.1 

Cosi,  via  via  discorrendo  dell'una  e  dell'altra  cosa,  m'accorsi  che 
egli  cercava  il  modo  di  arrendersi  con  dignita :  non  per  i  meriti  miei, 
ma  per  non  dispiacere  al  Pisani  che  m' aveva  proposto  e  che  comin- 
ciava  visibilmente  a  perdere  la  poca  pazienza  della  quale  era  do- 
tato.  II  modo  lo  trov6  da  ultimo  e  fu  questo :  aver  1'aria  di  darmi  un 
esame;  superato  il  quale,  si  potesse  tranquillamente  incaricarmi  di 
insegnare  la  storia  e  la  geografia. 

Socchiusi  gli  occhi,  corrugata  la  fronte  e,  dopo  un  attimo  di  medi- 
tazione,  levandola  con  una  tal  quale  alterezza,  mi  domand6 :  —  Che 
cosa  pensa  lei  del  bello? 

A  quella  domanda  bizzarra,  per  non  dir  altro,  vedendomi  in- 
nanzi  queH'ometto  basso,  paffuto  e  panciuto,  col  cilindro  tenuto 
in  testa,  forse  simbolo  d'autorita,  forse  simbolo  di  cattiva  educa- 
zione,  pensai  avrei  potuto  ragionevolmente  rispondere :  « II  bello  e 
Popposto  di  Vossignoria».  Non  lo  dissi,  s'intende;  e,  capito  con  chi 
avevo  da  fare,  dato  Taire  allo  scilinguagnolo,  in  una  chiacchierata 
senza  capo  ne  coda,  citai  subito  Platone  e  il  Gioberti:  in  seguito, 
perch6  uscivo  fresco  dalla  lettura  di  scrittori  francesi  e  tedeschi,  ci 
feci  entrare  il  Cousin,  il  Goethe,  il  Wieland,  PHegel  e  Gianpaolo.2 

NelPudire  quella  filastrocca  di  nomi  esotici  le  labbra  del  Pi 
sani  s'increspavano  in  un  leve  mal  dissimulato  sorriso,  gli  occhi 
del  sottoprefetto  si  spalancavano  di  sbalordimento. 

M'accorgevo  che  la  mia  erudizione  lo  soggiogava:  e  ormai  avrei 
potuto  citare  il  Burchiello,3  e  descrivere  il  Marrobbio  che  men  di 
Barberia  e  le  mucchia  del  mar  di  Laterina,  che  ei  m'avrebbe  lasciato 
dire,  giudicando  tra  se  e  se  soverchiamente1  modesta  la  propria 
cultura. 

i.  una  .  .  .  compunto:  nel  1863  era  stata  premiata  a  Firenze  la  commedia  del 
Martini  /  nuovi  ricchi.  Nel  1865,  veramente,  aveva  anche  ottenuto  un  pre- 
mio  il  suo  lavoro  teatrale  Fede,  ma  poi  egli  aveva  voluto  ritirarne  il  copio- 
ne,  sebbene  la  commedia  fosse  stata  gi&  replicata  nove  volte  con  successo. 
La  farsa  in  tre  atti  L'elezione  di  un  deputato  era  stata  fischiata  a  Firenze 
nel  1867.  2.  Victor  Cousin  (1792-1867),  filosofo  francese,  tradusse  i  dia- 
loghi  di  Platone,  e  teorizz6  un'estetica  eclettico-spiritualista ;  Christoph 
Martin  Wieland  (1733-1813),  detto  «il  Voltaire  della  Germania»,  tra  le  cui 
opere  ebbe  fama  il  poema  Oberon\  Gianpaolo  Richter  (1763-1825),  lette- 
rato  e  pedagogista  tedesco.  Tra  le  sue  opere  e  famoso  il  volume  Levana  oder 
Erziehungslehre.  3.  il  Burchiello'.  Domenico  di  Giovanni  (1404-1449),  di 
Firenze,  barbiere  e  poeta;  celebri  i  suoi  sonetti  con  accoppiamenti  di 
espressioni  senza  senso,  di  cui  sono-qui  due  esempi  tipici. 


III2  FERDINANDO   MARTINI 

Finalmente  addirittura  intontito,  interrompendomi,  sentenzio 
che  nessuno  poteva  meglio  di  me  impartire  alle  alunne  della  scuola 
normale  i  due  insegnamenti.  A  dir  vero  la  relazione  fra  Gianpaolo 
e  la  geografia  non  era  patente  e  la  illazione  non  procedeva  a  fil  di 
logica:  ma  la  logica  avrebbe  aspettato  il  suo  turno:  quel  giorno 
1'egregio  uomo  1'aveva  ormai  consacrato  all'estetica. 


lo  m'ero  dunque  a  Vercelli  amicate  le  autorita  politiche  e  ammi- 
nistrative;  e  dej  cittadini  i  piu  ragguardevoli  che  usarono  meco 
(mi  piace  ripeterlo,  a  soddisfacimento  deiranimo  grato)  ogni  ma- 
niera  di  cortesie.  Ci  stavo  perci6  volentierissimo.  A  un  tratto  e 
quando  meno  c'era  da  aspettarselo,  eccoti  un  telegramma  del  Mi- 
nistero  ad  annunziare  decretato  il  mio  trasferimento  nella  scuola 
normale  di  Pisa  e  ad  impormi  di  «  raggiungere  la  nuova  residenza  » 
con  la  sollecitudine  maggiore. 

Un  trasferimento  a  anno  rotto  e  con  tanta  furia  ?  Che  diavolo  era 
mai  successo  nella  citta  di  San  Ranieri1  e  di  Galileo  ? 

Era  accaduto  un  fatto  difficile  a  credersi  e  pur  vero :  e  che  mette 
il  conto  di  raccontare  anche  perche"  prova  che  antiche  doglianze  e 
replicati  richiami  degli  insegnanti  delle  scuole  medie  non  furono 
senza  fondamento  di  ragione ;  e  che  se  piu  tardi,  con  leggi  farragi- 
nose  ed  oscure,  troppo  si  tolse  al  Ministero  delFIstruzione  delle  sue 
facolta,  tutto  e  meglio  che  il  governo  delFarbitrio  e  del  privilegio. 

Un  insegnante  di  aritmetica  nella  scuola  tecnica  di  Treviglio 
chiese  di  essere  mandato  in  Toscana.  Gli  risposero  che  non  si  po 
teva;  e  non  si  poteva  veramente,  le  scuole  tecniche  in  Toscana  per 
gli  ordinamenti  d'allora  essendo  municipali.  Non  si  sgoment6: 
fatti  meglio  i  suoi  calcoli,  si  rivolse  al  proprio  deputato  che  era  uno 
dej  pezzi  grossi  delFopposizione.  Si  sa  che  ne'  governi  parlamentari 
non  c'e  ministro  che  aunpezzo  grosso  della  opposizione  osi  negare 
favore  qualsiasi:  difatti,  bast6  una  parola  e  il  ripiego  fu  subito  tro- 
vato:  il  maestro  d'aritmetica  della  scuola  tecnica  di  Treviglio  fu 
mandato  a  insegnar  lingua  e  letteratura  italiana  nella  scuola  nor 
male  maschile  di  Pisa. 

Finche  si  tratt6  di  prendere  il  treno,  Tuomo  and6  di  gamba  lesta: 
quando  poi  di  far  apprendere  ad  altri  ci6  che  non  sapeva  egli  stesso, 
fece  dura  fatica  per  reggersi  in  piedi,  intanto  che  degli  ardui  giochi 
i .  San  Ranieri  e  il  protettore  di  Pisa. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1113 

d'equilibrio  gli  scolari  un  po'  sogghignavano,  un  po'  si  stizzivano. 
II  gran  padre  Alighieri  gli  dette  al  ruzzolone  Pultima  spinta. 

I  programmi  prescrivevano  la  lettura  e  la  illustrazione  di  alcuni 
canti  della  Comedia\  1'infelice,  che  non  aveva  mai  aperto  quel  libro 
in  vita  sua,  tento  dapprima  rimandare  di  giorno  in  giorno  quel  risico ; 
ma  gli  scolari  pregando,  chiedendo,  insistendo,  dove  fmalmente  af- 
frontare  il  cimento  e  sfidare  il  destino.  Lesse  e  illustr6  il  canto  di 
Ugolino:  ahime!  giunto  al  verso: 

muovansi  la  Capraia  e  la  Gorgona 

commento:  ache,  come  sanno,  sono  due  affluenti  delPArno». 

Non  sto  a  dire  ci6  che  successe,  e  il  baccano  degli  alunni  i  quali  a 
Pisa  sapevano  tutt'altro.  Poiche  ormai  non  era  comportabile  che  lo 
sciagurato  chiosatore  risalisse  la  cattedra  in  quella  scuola,  il  Mini- 
stero  escogito  un  nuovo  ingegnoso  provvedimento :  mando  me  a 
prendere  il  posto  che  quegli  lasciava,  e  lui  a  Vercelli  che  mi  surro- 
gasse,  anche  nelPinsegnamento  della  geografia,  senza  neppure  in- 
comodare  Fadiposo  sottoprefetto  a  conferirgli  un  certificate  d'ido- 
neita. 


L'ufficio  di  insegnante,  fra  i  non  pochi  tenuti  in  vita  mia,  e 
quello  che  esercitai  con  affetto  piu  confidente  e  piu  caldo.  Con  tutto 
ci6  non  ebbi  fortuna:  segretario  generale  e  ministro  dell'Istruzione 
Pubblica,  non  mi  sono  mai  dato  cura  di  rovistare  negli  archivi 
per  conoscere  ci6  che  di  me  pensassero  e  riferissero  ai  loro  superiori 
i  miei  superiori  di  una  volta;  temo  che  pur  attestando  (ne  avreb- 
bero  potuto  altrimenti  senza  mentire)  del  mio  zelo  efficace,  non 
abbondassero  nelle  lodi;  e  nelle  «note  caratteristiche »  qualche 
punto  nero  ci  sia.  La  mia  disdetta  fu  di  imbattermi  in  tre  prowedi- 
tori  agli  studi,  bravissime,  egregie  persone,  tutti  tre  letterati,  dei 
quali  stimavo  mediocremente  gli  scritti  e  avevo  per  eresia  le  dot- 
trine.  II  primo  scriveva  versi,  e  me  li  mandava  con  lettere  umilis- 
sime  nelle  quali  li  diceva  brutti  da  se,  affinche  io,  nel  ringraziarlo, 
glieli  dicessi  stupendi;  io  nel  ringraziarlo  non  glielo  dicevo,  egli 
ebbe  ragione  di  pensare  che  pigliavo  sul  serio  la  sua  simulata  mo- 
destia  e  non  mi  annover6  fra  i  santi  del  suo  calendario. 

II  secondo  era  un  guerrazziano  sfegatato,  che  intorno  al  Guerrazzi 
aveva  scritto  un  libro,  e  del  Guerrazzi  tutto  ammirava,  principal- 


III4  FERDINANDO    MARTINI 

mente  Panimo  e  lo  stile,  le  due  cose  per  Tappunto  ch'io  nel  Guer- 
razzi  non  ammiravo.  Discussone  una  prima  volta,  avrebbe  dovuto 
bastare;  ma  no:  sempre,  quando  mi  vedeva,  tornava  cocciuto  a 
battere  sullo  stesso  argomento,  per  persuadermi  che  ero  dalla  parte 
del  torto,  che  il  Guerrazzi  era  la  bonta  fatta  persona,  anima  di  fan- 
ciullo  lattante,  il  primo  degli  scrittori  italiani  dal  Machiavelli  in 
poi.  lo  tenevo  duro  nel  non  credere  ne  all'una  cosa  ne  all'altra; 
e  ne  seguivano  discussioni  cosi  accalorate  da  sembrare  alterchi, 
le  quali  'finivano  poi  sempre  ad  un  modo ;  ci  lasciavamo  cioe  sorri- 
denti,  con  parole  cordiali  che  suonavano  rispetto  alia  liberta  delle 
opinioni,  ed  erano,  invece,  una  reciproca  mancanza  di  rispetto: 
nascondevano  il  convincimento  —  io  per  lo  meno  ero  convintissimo 
-  che  Tinterlocutore  non  capiva  nulla  ne  degli  uomini,  n6  dello  stile. 
Fu  mandate  altrove  e  cosi  quelle  dispute  ebbero  termine.  Ma  si 
casc6  nel  peggio:  quegli  che  subentr6  nell'ufficio,  uomo  d'inge- 
gno,1  aveva  qualita  di  scrittore  ma  era  un  esageratore  accanito 
delle  teoriche  manzoniane,  la  vera  personificazione  di  quel  « man- 
zonismo  degli  stenterelli  »2  che  dava  tanto  sui  nervi  al  Carducci. 
Ogni  tre  parole  un  ribobolo  ;3  e  di  riboboli  poi  infarciva  traduzioni 
dei  comici  latini,  e  certe  novelle  faticose  a  leggere,  e  incomprensi- 
bili  a  chi  non  fosse  nato  e  domiciliato  a  Firenze  fra  le  trecche4  di 
via  deUJAriento.  Anche  lui  sentiva  il  bisogno  di  far  con  me  opera 
d'apostolo  e  convertirmi  alia  intollerante  adozione  dei  modi  popo- 
lari  e  del  vernacolo;  piu  temperato,  bensl,  del  suo  predecessore 
avremmo  finito  a  vivere  non  in  concordia  ma  in  pace,  se  il  suo  apo- 
stolato  si  restringesse  alia  materia  della  lingua;  ma  quel  benedetto 
uomo  s'era  fatta  una  religione  che  aveva  anch'essa  la  sua  trinita: 
ribobolo,  tressette  e  programma  ministeriale,  tutti  tre  venerati 
con  reverenza  amorosa  del  pari.  Con  i  professori  che  non  andavano 
ogni  tanto  a  far  la  partita  con  lui  metteva  broncio,  e  se  n'aveva  per 
male  come  d'una  sgarbatezza;  i  programmi  poi  Dio  guardi  a  toe- 
carglieli.  Io  alPutilita  de'  programmi  scolastici  troppo  particolareg- 
giati  non  ci  credevo  allora  e  nemmeno  oggi  ci  credo.  Credo  che 
quando  avete  detto  a  un  insegnante,  mettiamo  di  storia:  —  Voi 


i.  quegli . . .  d'ingegno :  Temistocle  Gradi  (1824-1887),  di  Siena,  autore  di  rac- 
conti  e  di  traduzioni  da  Terenzio  e  da  Plauto.  2.  « manzonismo  degli  sten 
terelli  » :  e  una  punta  polemica  del  Carducci,  in  Davanti  San  Guido,  v.  84. 
Stenterello  e  una  maschera  fiorentina.  3 .  ribobolo :  parola,  frase,  espressio- 
ne  della  parlata  popolare  fiorentina.  4.  trecche:  vedi  la  nota  i  a  p.  926. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (1859-1892)  III5 

dovete  insegnare  agli  alunni  la  storia  d' Italia  —  non  ci  sia  bisogno 
di  aggiungere:  racconterete  questo,  esporrete  quest* altro.  Se  Pin- 
segnante  sa  e  vuole,  camminera  e  fara  camminare,  senza  che  lo 
guidino  per  mano  a  ogni  passo.  Cosi  pensando,  usavo  nelle  mie  le- 
zioni  di  una  tal  quale  liberta:  il  proweditore  lo  riseppe,  mi  chiam6 
al  redde  rationem,  e  mi  fece  una  strapazzata  numero  uno. 

Ribattei :  gli  scolari  studiavano  e  profittavano ;  non  v'era  dunque 
argomento  a  lagnanze  o  a  rimproveri. 

Ma  il  proweditore  (mi  pare  ancora  di  sentirlo)  col  suo  eloquio 
prediletto : 

—  Stia  al  chiodo :  —  rincalzc-  —  non  pretenda  di  vendermi  gatta 
in  sacco.  Stia  al  chiodo,  faccia  il  dover  suo,  che  e  di  osservare  scru- 
polosamente  i  programmi  ministeriali :  che  altrimenti  le  daranno 
1'erba  cassia  e  sara  peggio  per  lei. 

Dar  1'erba  cassia  significava  licenziare:  si  che  io,  sentendomi 
punto  e  volendo  essere  impertinente,  risposi : 

—  Che  posso  farci?  i  programmi  non  mi  vanno  a  fagiolo,  e  mi 
sono  accorto  che  con  Posservarli  scrupolosamente  non  si  da  ne 
in  tinche  ne  in  ceci.1 

O  s'accorgesse  di  quel  tanto  che  nella  forma  della  risposta  era  di 
canzonatorio  per  lui,  o  si  adirasse  per  il  mio  giudizio  sulle  prescri- 
zioni  governative,  fatto  sta  che,  pur  tacendo,  col  guardarmi  in  una 
certa  maniera,  mi  dimostr6  tutto  il  suo  malumore  meglio  che  se 
m'avesse  scaraventato  addosso  una  dozzina  di  modi  proverbiali: 
e  dopo  breve  silenzio,  mi  congedb  con  un  «va  bene,  va  bene», 
per  il  quale  intesi  che  si  andava  malissimo. 

Era  un  brav'uomo;  e  mi  piace  dir  subito  che  anni  dopo,  non  es- 
sendo  io  piu  suo  dipendente,  fummo  in  relazioni  quasi  amichevoli; 
ma  allora  quella  sua  ccerba  cassia »  mi  rest6  sullo  stomaco,  e  sin  da 
quel  giorno  capii  che  I'insegnamento  pubblico  non  era  affare  per 
me.  Non  me  ne  andai  li  per  li,  forse  perche,  saturo  di  proverbi,  mi 
rammentai  di  quello  che  insegna  «a  lasciare  c'e  sempre  tempo »; 
ma  Toccasione  a  risolversi  non  tard6  lungamente. 


Una  delle  finestre  della  Scuola  normale  di  Pisa,  a  Sant' Antonio, 
dava  verso  un  orticello  nel  quale  avevo  visto  piu  volte,  in  mattine 

i.  non  si  da. .  .  in  ceci:  vedi  la  nota  i  a  p.  621. 


IIl6  FERDINANDO    MARTINI 

assolate,  passeggiare  lentamente  un  vecchietto  di  mediocre  statura. 
Fortuna  voile  che  una  sera  delPinverno  1872  uscissi  dalla  scuola, 
dove  nel  pomeriggio  non  avevo  occasione  di  andar  quasi  mai, 
mentre  passava  per  quella  strada  accompagnato  da  un  servo  il 
vecchietto  medesimo.  Non  lo  conoscevo,  e  per  conseguenza  era  non 
pisano :  che  a  Pisa,  dopo  un  paio  di  mesi  di  soggiorno,  la  gente  della 
propria  condizione  si  conosce  tutta,  ed  io  ci  stavo  da  un  anno 
ormai ... 

Nonostante  la  cera  malaticcia,  il  viso  macilento  e  non  bello,  c'era 
nella  bella  fisionomia  di  queH'uomo  tanto  di  pensosa  gravita  malin- 
conica,  che  mi  fece  impressione ;  e,  improvvisati  fra  me  e  me  i  rudi- 
menti  di  una  biografia,  dedussi  che  quegli  era  certamente  un  fore- 
stiere  o  francese  o  inglese;  forse  uno  scienziato  venuto  in  Pisa  per 
salute.  Volt6  in  via  della  Maddalena,  ed  entro  nella  casa  di  n.  38.  Chi 
stava  in  quella  casa  ?  Non  lo  sapevo,  e  li  per  li  incuriosito,  mi  propo- 
si  di  informarmene :  ma  come  sempre  avviene  di  cosiffatti  proponi- 
menti  subitanei,  trascorso  quel  momento,  non  me  ne  detti  piu  cura. 

Qualche  settimana  dopo,  nel  ripassare  per  la  stessa  strada,  m'im- 
battei  nel  medico  Rossini1  che  stava  appunto  uscendo  da  quella 
casa. 

—  Oh!  giusto  lei,  dottore:  chi  ci  sta  al  n.  38? 

—  I  signori  Rosselli. 

—  Ci  vidi  tempo  fa  entrare  un  signore  smunto,  bassotto;  deve 
essere  un  forestiere. 

—  £  il  mio  malato.  Lo  lascio  ora:  il  signor  Brown.2 

—  Ah!  un  inglese!  Ci  ho  indovinato. 

—  Eh!  no.  Anch'io  dal  cognome  credei  cosi  da  principio:  ma  poi, 
praticandolo,  «come  pu6  essere  inglese »  pensai  «se  parla  1'ita- 
liano  meglio  di  me  ?  .  .  . »  Difatti,  accortosi  della  mia  incredulita, 
fu  lui  a  dirmi,  senza  che  io  mi  permettessi  di  domandarglielo,  che 
abita  da  quarant'anni  in  Inghilterra,  ma  e  italiano,  di  Genova. 

—  Lo  avevo  preso  per  un  inglese  e  per  uno  scienziato. 

—  No,  no :  e  un  negoziante,  ma  ne  sa  piu  di  molti  scienziati ;  e 
quando  comincia  a  parlare,  si  starebbe  tutta  la  giornata  a  sentirlo. 

—  E  che  male  ha  ? 

1.  II  medico  Giovanni  Rossini  scrisse  un  resoconto  della  malattia  del  Maz- 
zini,  pubblicato  in  parte  da  F.  Falco  in  «  Giornale  d'  Italia »,  31  luglio  1923. 

2.  II  Mazzini  nel  1872  si  trasferi  a  Pisa,  accettando  1'ospitalita  di  Pellegri- 
no  Giuseppe  Rosselli  e  di  sua  moglie  Giannetta  Nathan,  e  ivi  si  ce!6  sotto 
il  nome  di  dottor  Giorgio  Brown. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  IlIJ 

—  Ha  sofferto  nei  giorni  scorsi  di  uno  spasmo  esofageo,  doloroso, 
di  cui  e  quasi  guarito ;  ma  ha  avuto  in  Svizzera,  nel  dicembre  ul 
timo,  una  bronchite  capillare  ed  e  giu  di  forze:  a  po'  per  volta  le 
ripigliera,  spero :  non  so  che  cosa  darei  per  vederlo  presto  rimesso, 
perche  e  proprio  una  brava  e  simpatica  persona. 

E  parlammo  d'altro. 

* 

Una  mattina  del  marzo  successivo  me  ne  stavo  tranquillamente  a 
casa  in  piazza  San  Niccola,  leggendo  una  prosa  del  Giordani1  (i 
menomi  particolari  di  fatti  solenni  si  conglutinano  alia  mente  e  non 
se  ne  distaccano  piu),  quando  un  facchino  trafelato  mi  recapito 
un  biglietto  del  direttore  della  scuola,  il  buon  Ulisse  Tacchi; 
conteneva  queste  sole  parole :  «  C'e  bisogno  di  te :  vieni  senza  per- 
dere  un  minuto ».  Non  lo  perdei,  scesi,  traghettai  P  Arno  nella  barca 
del  navalestro  (il  nuovo  ponte  non  era  ancora  costruito  e  si  usava 
quel  modo  per  abbreviare  il  cammino)  e  in  due  salti  fui  a  Sant'An- 
tonio. 

Mi  avvidi  subito  al  brusio  che  si  trattava  di  cosa  seria.  Gli  alunni, 
disertate  le  aule,  s'erano  radunati  nel  cortile,  per  gruppi:  e  in  quel 
gruppo  si  mormorava,  in  questo  si  vociava,  in  tutti  si  gesticolava. 
NelFipotesi  che  avessero  commesso  qualche  molto  riprovevole  atto 
d'indisciplina,  non  mi  fermai  a  interrogarli,  e  salite  in  fretta  le 
scale,  trovai  i  colleghi  nella  maggiore  delle  costernazioni. 

—  Che  cos'e  stato? 

—  Come?  non  lo  sai? 

—  lo  ?  Non  so  nulla. 

—  6  morto  Mazzini. 

—  Dove?  Quando? 

—  Poche  ore  fa,  a  due  passi  di  qui,  in  casa  Rosselli  in  via  della 
Maddalena. 

—  Ah!  —  gridai  battendomi  la  mano  sulla  fronte  —  che  mi  dite? 
I  colleghi  verisimilmente  crederono  io  manifestassi  cosi  il  mio 

dolore;  ma,  per  essere  sinceri,  codesta  mimica  della  quale  Fuomo 
si  serve  il  piu  spesso  per  dare  a  se  medesimo  deirimbecille,  man- 
tenne  quella  volta  il  suo  usuale  significato.  Un  genovese  che  si  chia- 
mava  Brown,  vissuto  quarant'anni  in  Inghilterra,  accolto  in  casa  de* 
Rosselli,  stretti  parenti  dei  Nathan,3  che  ne  sapeva  piu  d'uno  scien- 

i.  Giordani:  vedi  la  nota  4  a  p.  901.     2.  Nathan-,  vedi  la  nota  sap.  1122. 


Hl8  FERDINANDO    MARTINI 

ziato,  e  si  stava  a  sentire  per  incanto,  come  non  avevo  capito  alia 
prima  che  non  poteva  essere  altri  che  Mazzini  ?  -  Non  ci  fu  bensi 
tempo  a  spiegarsi;  sicch6,  diviso  mentalmente  col  dottor  Rossini 
Fepiteto  del  quale  una  parte  spettava  anche  a  lui,  ascoltai  i  colleghi 
che  tutti  mi  s'erano  fatti  d'attorno. 

Ho  detto  che  erano  costernati;  non  vorrei  che  i  lettori  s'ingannas- 
sero  sul  conto  loro,  com'essi  s'ingannarono  verosimilmente  sul 
conto  mio.  Ottimi  cittadini,  la  morte  del  gran  ligure  li  addolorava; 
ma  la  cagione  deU'abbattimento  era  un'altra. 

Gli  studenti  universitarii,  piantati  in  asso  i  professori  e  batta- 
gliando  contro  guardie  e  delegati,  erano  riusciti  a  chiudere  in  segno 
di  lutto  le  porte  della  Sapienza;  i  nostri  alunni  chiedevano  nella 
Scuola  normale  si  facesse  altrettanto. 

Tutto  sarebbe  andato  per  le  lisce,  se  il  Direttore  avesse  potuto 
accomodare  le  cose  da  s6;  era  disposto  a  concedere,  ma  non  os6 
e  domand6  istruzioni  al  Prefetto;  il  quale,  stizzito  per  lo  scacco 
sofferto  da*  suoi  agenti  aH'Universita,  intim6,  secco,  che  gli  inse- 
gnanti  facessero  il  loro  dovere  e  tenessero  a  dovere  gli  alunni. 
Presto  detto :  ma  perch6  i  predicozzi  non  avevano  prodotto  fin  al- 
lora  effetto  veruno  e  sarebbe  stato  peggio  che  vano  il  replicarli, 
il  Direttore  preg6  mandassero  un  delegate,  qualche  guardia  al- 
meno  per  mostra,  a  passeggiare  su  e  giu  innanzi  al  cortile ;  forse  in 
presenza  dei  questurini  qualcosa  si  sarebbe  ottenuto :  forse :  a  ogni 
modo,  provare.  II  Prefetto,  piu  stizzito  che  mai,  rispose  meravi- 
gliando  si  dovesse  ricorrere  ai  delegati  e  alle  guardie,  che  in  quel 
giorno  avevano  altro  da  fare,  per  tenere  a  freno  quattro  ragazzi. 

Ma  gli  alunni  non  erano  n6  ragazzi  n6  quattro:  oltre  settanta,  e  i 
piu  giovanotti  dai  sedici  in  la;  i  quali,  appena  capito  che  guardie 
non  ne  verrebbero,  o  fingessero  o  dicessero  per  dawero,  minac- 
ciarono,  ove  non  si  appagasse  il  loro  desiderio,  di  fare  addirittura 
subbuglio. 

Bisogna  awertire  che  alia  scuola  era  unito  il  convitto :  vi  soprin- 
tendeva  il  maestro  di  calligrafia;  beU'uomo  sulla  sessantina,  alto 
dritto,  baffi  e  pizzo  bianchi:  alia  sua  figura  di  colonnello  in  ritiro, 
toglieva  alcun  che  della  simulata  severita  e  dell'ostentato  sussiego 
una  papalina  riccamente  ricamata  con  tanto  di  nappa,  della  quale  la 
calvizie  lo  costringeva  a  tener  coperta  la  testa  dalla  mattina  alia 
sera:  papalina,  argomento  continue  ai  ftizzi  della  scolaresca.  Aveva 
scarsa  autorita  e  lo  sentiva  -  e  pensando  che  alia  fine  sarebbe  stato 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892) 

lui  a  trovarsi  nelle  peste  per  quei  sessanta  indiavolati  capaci  di 
metter  tutto  a  soqquadro,  invocava  da  ogni  parte  sostegni  e  soccorsi. 
In  que'  frangenti,  mandarono  a  chiamare  me  per  rinforzo. 

E  si  tenne  consiglio  per  tentare,  se  vi  fosse,  una  via  di  accomoda- 
mento. 

Per  Fappunto  chi  doveva  primo,  a  regola  d'orario,  salir  sulla  cat- 
tedra  in  quel  giorno  era  il  prete  Cardella  insegnante  di  storia  sacra, 
il  quale  gia  aveva  annunziato  parlerebbe  di  Giuditta;  e  fu  anche  il 
primo  a  riconoscere  che  a  metter  pace  Pargomento  in  bocca  sua 
non  si  prestava,  e  che  la  sua  lezione  meglio  sarebbe  saltarla;  ma  gli 
alunni,  che  lui  non  avrebbero  di  sicuro  ascoltato,  soggiunse  cortese- 
mente,  avrebbero  ascoltato  me:  e  perche  pare  gli  stesse  molto  a 
cuore  di  dar  loro  notizia  dei  casi  di  Oloferne,  propose  che  la  lezione 
la  facessi  io  e  leggessi  la  Betulia  Liber  at  a1  del  Metastasio ;  cosi,  di- 
ceva,  non  si  deroga  troppo  ai  programmi,  si  ottempera  agli  ordini 
e  tra  la  lettura,  le  dichiarazioni,  i  raflronti,  il  sonetto  dello  Zappi2 
e  via  via,  si  arriva  a  mezzogiorno,  cioe  al  termine  normale  delle  le- 
zioni  mattutine. 

La  Candida  proposta  non  ottenne  favore;  e  intanto  che  noi  al 
primo  piano  scartavamo  Giuditta,  in  cortile  gridavano  «Abbasso 
Nabucodonosor! »  Nessuna  offesa  al  vecchio  testamento,  nessun 
odio  per  TAssiria:  quello  era  il  soprannome  dai  pisani  imposto  al 
Prefetto  Lanza,  non  ho  mai  saputo  a  quale  proposito :  certo  e  che 
non  gli  s'addiceva,  poich6  il  pover'uomo  tutt'altro  aveva  che  terri- 
bilita  nelFaspetto;  e  quando  compariva  in  Lungarno  cavalcante  un 
maggiorenne  bucefalo  bianco-sporco,  tutt'altri  ricordava  che  il 
Mucro  doming  la  spada  di  Jehova,  acclamata  dalle  credule  speranze 
di  Geremia. 

Misi  innanzi  io  una  proposta.  Que'  giovanotti,  in  sostanza,  si 
preparavano  a  far  baccano  per  onorare  la  memoria  di  Mazzini. 
E  che  ne  sapevano  del  Mazzini  ?  La  maggior  parte  quel  tanto  che  ne 
lessero  di  quando  in  quando  ne'  giornali.  Dico  la  maggior  parte  per 
ch^  uno  o  due,  andati  piu  a  fondo,  s'erano  fin  d'allora  fatta  legge  e 
norma  delle  sue  dottrine  e  le  professano  da  vecchi  tuttora.  Ma  del 
Mazzini  letterato,  dej  suoi  saggi  su  Dante,  sul  Goethe,  su  Carlo 
Bini,  su  Zaccaria  Werner,3  quanto  avevano  letto  ?  Nulla.  Persuadia- 

1.  Betulia  Liberata:  e  un'opera  sacra  del  Metastasio,  composta  nel  1734. 

2.  Zappi:  vedi  la  nota  2  a  p.  1079.     3.  Carlo  Bini:  vedi  la  nota  2  a  p.  613 ; 
Zaccaria  Werner  (1788-1823)  fu  poeta  drammatico  caro  ai  giovanili  entu- 


1120  FERDINANDO   MARTINI 

moli,  conchiusi,  che  il  miglior  modo  di  onorare  la  memoria  del 
Genovese  e  1'imparare  a  conoscerlo  pienamente :  riuniamo  le  classi, 
parlero  loro  degli  Scritti  d'un  italiano  vivente.1  Que'  volumi  la 
piccola  biblioteca  della  scuola  non  li  possiede:  non  importa:  li 
so,  sto  per  dire,  a  memoria. 


Qui  mi  sia  lecita  una  parentesi.  Sino  allora  non  avevo  frequentato 
che  monarchici  e  de'  piu  smoderatamente  moderati.  Ora  al  Maz 
zini  si  erigono  monumenti  a  spese  dello  Stato  e  per  desiderio  del  re ; 
ma  sessant'anni  fa!  In  que'  crocchi  di  rado  il  suo  nome  si  pronun- 
ziava,  se  non  preceduto  da  un  aggettivo  ingiurioso  o  seguito  da  un 
improperio ;  e  a  furia  di  udir  ripetere  quei  giudizi  oltraggiosamente 
sintetici,  forse  non  avrei  serbata  serenita  di  giudizio  intorno  a  lui 
e  agli  atti  suoi,  se  non  lo  avessi  amato  fin  da  ragazzo,  appunto  in 
grazia  di  quegli  Scritti  d'un  italiano  vivente  che,  stampati  a  Lugano 
nel  1847,  Enrico  Nencioni,*  guida  amorevole  a'  miei  nuovi  studi, 
mi  regald  molti  anni  dopo,  e  dopo  avermeli  fatti  assaporare  in  al- 
cune  delle  nostre  peripatetiche  conversazioni :  tre  volumi  dai  quali 
imparai  parecchie  cose,  e  questa  sopra  ogni  altra  utilissima:  che 
a  scuola  m'avevano  insegnate  parecchie  castronerie. 

Torniamo  a  Sant' Antonio. 

Si  seguitava  a  discutere  e  a  cercare  una  via  di  uscita  inutilmente. 
II  maestro  di  calligrafia,  terrorizzato  dalle  reprimende  prefettizie, 
sognava  sospensioni,  licenziamenti,  perdita  della  pensione  che  era 
prossimo  a  conseguire.  Non  trovava,  come  suol  dirsi,  basto  che 
gli  entrasse.3  Via  via  che  Tuno  o  Taltro  de'  colleghi  suggeriva  questo 
o  quello  spediente  egli,  per  non  compromettersi,  non  diceva  ne 
si  ne  no :  a  esprimere  la  propria  trepidazione  ora  mandava  la  papa- 
lina  sin  verso  la  nuca  ora  la  respingeva  fin  sopra  gli  occhi,  e  la 
nappa  con  le  sue  oscillazioni  simboleggiava  le  disperate  perplessita 
di  queH'animo  angosciato. 

Intanto  nel  cortile  il  baccano  s'era  fatto  piu  confuso  e  piu  alto. 
Alunni  d'altre  scuole  eran  venuti  ad  accrescere  lo  scompiglio:  le 

siasmi  romantici  del  Mazzini.  i.  Scritti  letter ari  d'un  italiano  vivente  e 
il  titolo  dei  tre  volumi  in  cui  Mazzini  raccolse  le  proprie  pagine  anteriori 
all'apostolato  strettamente  politico.  2.  Enrico  Nencioni:  vedi  la  nota  2,  a 
p.  913.  3.  basto  .  .  .  entrasse:  soluzione  che  gli  andasse  bene. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (1859-1892)  II2I 

nostre  irresolutezze  invogliavano  a  perturbazioni  maggiori.  Ri- 
petei  la  proposta  .  .  . 

—  SI  ...  ma  .  .  .  Mazzini .  .  .  Che  dira  il  Prefetto  ? 

—  Nulla  —  soggiunsi.  —  Se  non  e  riuscito  a  lui  con  tutti  i  suoi 
delegati  e  le  sue  guardie  di  piegare  alia  propria  volonta  gli  studenti, 
non  potra  rimproverare  a  noi  di  avere,  senza  n6  guardie  ne  delegati, 
ricondotto  nella  scuola  1'ordine  e  la  tranquillita. 

E  senza  attendere  obiezioni  o  sollecitare  consensi,  riunii  nella 
piu  ampia  aula  delPIstituto  tutte  le  classi:  parlai  loro  per  un'ora  e 
mezza  del  Mazzini  letterato:  la  lezione  fini  tra  gli  applausi. 


Li  avevo  meritati. 

Ero  stato  tutto  quel  tempo  sui  carboni  ardenti;  e  con  1'inchio- 
darmi  sulla  cattedra  per  sei  quarti  d'ora  avevo  fatto  il  maggiore  de' 
sacrifizi  al  mio  dovere  d'insegnante.  Pensate:  da  un  anno  scri- 
vevo  nel  ((Fanfulk)):1  a  que'  giorni  non  usava  spedire  articoli  per 
telegrafo;  i  reporters  e  i  telefoni  di  la  da  venire;  a  Pisa  ne  quello, 
n£  altri  fogli  della  capitale  avevano  corrispondenti ;  la  salma  del 
Mazzini  era  11  a  due  passi,  potevo  essere  io  il  primo  a  raccogliere  e 
mandare  ragguagli  che  il  pubblico  indubbiamente  attendeva  con 
ansieta,  e  il  tempo  fuggiva .  .  .  Fuggii  anch'io. 

Volai  in  casa  Rosselli;  ordine  era  dato  che  non  si  lasciasse  pas- 
sare  nessuno,  sino  a  che  non  giungessero  il  Bertani  ed  il  Mario  ;a 
n<§  parvero  da  principio  propensi  a  revocarlo,  specie  per  un  giornale 
di  salda  fede  monarchica,  e  per6  avverso  alle  dottrine  mazziniane; 
ma  tanto  pregai,  tanto  insistei  che  potei  entrare  nella  camera  e 
inginocchiarmi  presso  al  letto  ove  il  gran  morto  giaceva. 

Qui,  chi  volesse  e  sapesse,  potrebbe  incastrare  una  bella  e  com- 
mossa  pagina  di  prosa,  ch6  innanzi  al  cadavere  del  Mazzini  c'era 
veramente  da  commuoversi;  tanto  piu  mirando  le  lacrime  che  scen- 

i  « Fanfulla » :  vedi  la  nota  i  a  p.  504.  2,  Agostino  Bertani  (1812-1886),  di 
Milano  medico,  patriotta.  Aveva  combattuto  nelle  Cinque  giornate,  par- 
tecipato  alia  difesa  di  Roma  nel  1849,  alia  guerra  del  1859  come  medico 
dei  Cacciatori  delle  Alpi,  alia  spedizione  dei  Mille  come  organizzatore,  alle 
azioni  di  Garibaldi  nel  Trentino  durante  la  campagna  del  1866.  Mazzi- 
niano,  fu  nella  Camera  a  capo  dell'estrema  sinistra,  ma  avyers6  il  trastor- 
mismo  del  Depretis;  Alberto  Mario  (1825-1883),  di  Lendmara,  combatt* 
nelle  campagne  del  Risorgimento ;  dapprima  mazziniano,  successivamente 
aderl  alle  idee  del  Cattaneo:  scrittore  repubblicano,  oper6  assiduamente 
per  i  suoi  ideali. 


1122  FERDINANDO   MARTINI 

devano  dagli  occhi  spent!  di  Enrico  Mayer1  venuto  a  dar  Fultimo 
bacio  alPamico,  al  compagno  ne*  pericoli  di  sfortunate  sante  con- 
giure;  ma  io  dovrei  lavorar  di  maniera  e  mentire:  la  commozione 
la  provai  anch'io,  si,  ma  piii  tardi  ripensando  1'altezza  di  quell'ani- 
mo  e  di  quelFintelletto,  la  perseveranza  intrepida  di  quella  fede 

meravigliosa  ad  ogni  cor  sicuro;2 

li  per  li,  in  quella  camera  ove  non  m'era  lecito  rimanere  che  pochi 
minuti,  sia  pur  detto  a  mia  vergogna,  io  pensai  principalmente  al- 
ljarticolo:  a  notare,  cioe,  la  coperta  di  lana  a  quadrellini  bianchi  e 
neri,  donata  a  Mazzini  da  Sara  Nathan3  e  che  gli  stava  ora  distesa 
sul  letto ;  e  la  camicia  di  tela  a  righe  sottili  alternativamente  bianche 
e  violette  che  copri  il  petto  affannoso  del  moribondo,  e  su  cui  aveva 
appuntato  un  nastro  tricolore  quella  stessa  mano  femminile  che 
depose  sul  guanciale  una  fronda  d'alloro. 

E  dalla  casa  Rosselli  in  un  attimo  alia  prossima  casa  dove  il  Maz 
zini  aveva  precedentemente  abitato.  Seppi  la  che  le  signore  Cassoli 
le  quali  Io  ospitavano,  per  certi  discorsi  e  certe  vigilanze  della  poli- 
zia,  ebbero  qualche  sospetto  che  colui  il  quale  si  dava  per  Brown, 
negoziante  israelita,  fosse  invece  tutt'altri:  e  glie  Io  dissero. 
—  Mazzini?  —  rispose  sorridendo  —  Dio  volesse!  Chi  sa  dov'e  a 
quest'ora,  certamente  non  tormentato  come  me  dalla  tosse. 

Cosl  I'articolo  buttato  giu  rapidamente  e  perci6  scritto  alia  peg- 
gio,  spedito  quel  giorno  medesimo,  fu  primo  a  fornire  gli  aspettati 
ragguagli;  e  perch6  fu  primo,  anche  ristampato  in  moltissimi  gior- 
nali  e  d'Europa  e  d' America. 


1.  Enrico  Mayer  (1802-1877),  di  Livorno,  di  padre  tedesco  e  madre  fran- 
cese.  Educatore  e  patriotta,  collaborator  dell'«  Antologia »  del  Vieusseux, 
promosse  1'educazione  popolare  in  Toscana,  fu  in  intimi  rapporti  col  Lam- 
bruschini,  il  Vieusseux,  il  Capponi,  cur6  Pedizione  delle  opere  del  Foscolo. 
Volontario  nella  guerra  del  1848,  amicissimo  del  Mazzini  anche  quando  non 
ne  condivise  le  idee,  fu  dei  patriotti  piu  ammirati  del  nostro  Risorgimento. 

2.  Dante,  Inf.,  xvi,  132.     3.  Sara  Levi  (1819-1882),  parente  dei  Rosselli 
di  Livorno,  sposa  e  poi  (1859)  vedova  Nathan,  aveva  protetto  il  Mazzini 
esule  a  Londra,  e  successivamente  aveva  ospitato  e  favorito  patriotti  a  Fi- 
renze,  a  Milano,  a  Lugano,  dove,  nella  sua  villa  della  Tanzina,  accolse  e 
cur6  il  Mazzini.  A  Pisa  il  grande  genovese  ebbe  appoggio  ed  affetto  dalla 
figlia  di  Sara,  Giannetta  Nathan  maritata  Rosselli.  Quando  il  Mazzini  fu 
vicino  a  morte,  Sara  Nathan  accorse  al  suo  capezzale. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1123 

Avevo  parlato  nel  «Fanfulla»  del  Mazzini  con  ammirata  vene- 
razione:  mi  stavano  traducendo  in  svedese  e  in  rumeno,  potevo 
esser  contento.  Ahime!  vennero  a  turbare  gli  intimi  compiacimenti 
una  chiamata  e  i  riboboleschi  rimproveri  del  Proweditore. 

—  S'accomodi,  risponda  e  non  pretenda  di  farmi  vedere  la  luna 
nel  pozzo,  perche"  so  tutto.  Lei  prese  parte  al  consiglio  dei  professori 
il  giorno  della  morte  di  Mazzini:  lei  conosceva  gli  ordini  e  fu  lei 
a  proporre  che  si  trasgredissero  .  .  . 

—  Ma  non  e'er  a  mo  do  di  eseguirli . .  . 

—  Sicche"  lei  e  innocente  come  Pacqua  fresca? 

—  No.  Ho  anch'io  la  mia  brava  parte  di  responsabilita  e  metta 
pure  la  maggiore;  ma  che  cosa  c'era  da  fare  ?  Gli  alunni  non  ci  da- 
vano  retta  e  non  potevamo  prenderli  per  il  collo  . .  .  E  se  mai  non 
toccava  a  noi .  . . 

—  Ecco  fatto :  oh!  non  c'e  pericolo  che  la  parola  le  muoia  in  boc- 
ca:  ma  ha  da  sapere  che  quando  il  suo  diavolo  nacque,  il  mio  an- 
dava  a  scuola  .  .  . 

—  Ma  scusi .  .  . 

-  L'elogio  di  Mazzini!  ...  Una  bella  trovata.  Senta,  lei  vuol 
far  di  testa  sua,  e  io  non  posso  lasciarla  fare.  L'ho  gia  awertita  al- 
tre  volte,  ma  e  stato  come  dare  1'incenso  ai  morti.  Ora  il  Ministero 
vorra  sapere  .  . .  e  s'io  scrivo  come  sono  andate  le  cose  per  filo  e 
per  segno,  lei  non  ci  guadagnera.  S'e  anche  messo  a  scrivere  nel 
«Fanfulla»,  e  ogni  tanto  punzecchia .  . .  Io  glielo  dico  per  suo 
bene.  Si  ricordi  che  tanto  va  la  gatta  al  lardo  ... 

-  Che  ci  lascia  Io  zampino  .  .  .  Faccia  conto  che  ce  Io  lasci  fin 

d'ora. 

E  cosl  la  fine  d'un  proverbio  segn6  la  fine  della  1012.  camera  di 
pubblico  insegnante:  fermo  e  annunziato  quel  giorno  il  proponi- 
mento  di  andarmene,  sui  primi  del  nuovo  anno  presi  commiato,  e 
ripresi  -  non  senza  rammarico  -  la  mia  liberta. 

Ho  detto  carrier  a:  ma  la  parola  di  cattivo  conio  male  s'adatta  ai 
miei  casi.  In  tre  anni  e  mesi  avevo  fatto  il  cammino  del  gambera  e, 
anzich6  vantaggiarmi,  scapitato  negli  assegnamenti ;'  ch6  a  Pisa 
perdei  1'incarico  della  storia  e  della  geografia,  in  grazia  del  Wieland 
e  dell'Hegel,  conferitomi  da  un  sottoprefetto ;  col  quale  mcanco  il 
Ministero  gratific6  il  mio  successore  nella  scuola  di  Vercelli,  per 
ricompensarlo  dell'incomodo  sofferto  negli  sconvolgimenti  tellu- 
i.assegnamenti;  assegni,  emolument!,  stipendi. 


1124  FERDINANDO    MARTINI 

rici,  onde  si  mutavano  per  lui  in  affluenti  dell'Arno  le  isole  del  mar 
toscano. 


IL  ((FANFULLA))1 

S'era  nel  1868:  Francesco  De  Renzis,2  capitano  di  State  Mag- 
giore,  aitante  ed  elegante  ufEciale  di  ordinanza  del  re  Vittorio  Ema- 
nuele,  abitava  a  Firenze,  da  poco  e  per  poco  capitale  del  regno. 
Abitava  nel  Lungarno  Corsini,  al  piano  terreno  di  un  palazzo,  il 
quale  una  gentildonna  di  antichissima  famiglia  fiorentina,  Aurora 
Guadagni,  maritata  a  un  belga,  il  barone  D'Hogwoorst,  aveva  com- 
prato  dagli  eredi  di  Ranieri  Lamporecchi,  awocato  famoso  nel  f6ro 
toscano,  de'  piu  pronti  e  abbondanti  parlatori  che  mai  venissero  al 
mondo;  men  che  mediocre,  ma  pertinace  verseggiatore  a  tempo 
avanzato.  Caldo  ancora  de'  recenti  felici  successi  del  suo  piu  ap- 
plaudito  proverbio :  «  Un  bacio  dato  non  e  mai  perduto  »,  il  De  Ren 
zis  scriveva  con  operosita  infaticata  nuovi  proverbi  e  commedie, 
cullandosi  anch'egli  -  e  quanti  allora  ci  cullammo  con  lui!  -  nella 
fiducia  di  contribuire  al  risorgimento  del  teatro  italiano;  e  a  udir 
la  lettura  de'  propri  lavori  invitava  di  quando  in  quando  alcuni 
amici,  rifocillandoli  poi  di  colazioni  modeste  ma  squisite,  per  di- 
mostrare  forse  che  se  non  tutte  le  lezioni  del  Moliere  gli  erano 
state  profittevoli,  aveva  tutti  a  memoria  i  precetti  del  Grimod  de 
La  Reyniere  e  del  Brillat-Savarin.3 

A  me  gradiva  assai  1'essere  di  frequente  suo  commensale;  anche 
perche*  alia  mensa  non  di  rado  sedeva  Amata  Desclee,4  attrice  della 
compagnia  Meynadier,  che  recitava  al  Niccolini:  attrice  sin  d'allora 
grandissima,  e  cui  gli  applausi  del  pubblico  italiano  promettevano 
i  sicuri  trionfi  che  ella  ottenne  sulle  scene  parigine  poco  dipoi. 

Quanti  disegni  si  vagheggirono,  in  quel  pianterreno,  per  venire 
in  soccorso  al  derelitto  teatro  nazionale!  Disegni  uno  piu  bello  del- 
Paltro,  ma  dei  quali  non  uno  appro d6.  Una  sola  cosa  riuscimmo  a 

i.  Ed.  cit.,  cap.  v,  pp.  81-108.  2.  Francesco  De  Renzis:  vedi  la  nota  6  a 
p.  525.  3.  Autori  di  famosi  trattati  di  gastronomia.  Per  il  Brillat-Sava 
rin,  vedi  la  nota  3  a  p.  1108.  4.  Amata  Desclee:  Aim6e  Olympia  Desclee 
(1836-1874),  acclamatissima  attrice,  nel  carnevale  1868-1869  rappresentd 
al  Teatro  delle  Logge,  in  Firenze,  La  lettre  de  Bellerophon  di  Francesco  De 
Renzis.  La  Desclee,  condotta  in  Italia  dalla  compagnia  di  Eugene  Meyna 
dier,  che  ne  aveva  scoperte  le  qualita,  torn6  poi  in  Francia  dove  ebbe  grande 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (1859-1892)  II2S 

fare,  e  fu  buona:  a  serbare  sulla  scena  Claudio  Leigheb,1  che 
avrebbe  dovuto  lasciarla  per  andare  soldato,  egli  il  quale  nell'arte 
propria  dava  gia  di  se  ottime  prove. 

II  De  Renzis,  Francesco  D'Arcais2  ed  io  tanto  almanaccammo, 
tanto  importunammo  il  prossimo  nostro,  da  giungere  a  mettere 
insieme,  come  suol  dirsi,  una  serata  al  teatro  delle  Loggie,  Tincasso 
della  quale  bast6  a  pagare  il  cambio  (allora  consentito  dalla  legge) 
al  Leigheb,  che  sarebbe  stato  un  cattivo  bersagliere,  e  pote  cosi, 
perseverando  nello  studio,  divenire  queirattore  che  fu,  de'  piu 
compostamente  e  schiettamente  comici,  fra  quanti  nella  seconda 
meta  del  secolo  scorso  ebbe  il  nostro  teatro.  A  quell'opera  buona 
la  Descl6e  voile  anch'essa  partecipare,  recitando  un  proverbio 
francese  dello  stesso  De  Renzis  (il  men  noto  e  forse  il  piu  garbato 
de'  suoi) :  La  lettre  de  BelUrophon. 


Dopo  una  di  quelle  colazioni,  durante  il  chilo,  proprio/nz  un  si- 
garo  e  Valtro?  il  De  Renzis,  che  pareva  essersi  fatta  legge,  come 
Emilio  De  Girardin,4  di  metter  fuori  ogni  giorno  una  nuova  idea, 
m'espose,  molto  raccomandandomi  di  custodire  il  segreto,  il  suo 
piu  fresco  disegno. 

Bisognava  fare  un  giornale :  scritto  con  brio,  scritto  tutto  da  cima 
a  fondo,  senza  aiuto  di  forbici,  signorile,  arguto,  vivace,  di  piace- 
vole  lettura;  non  legato  a  partiti,  anzi  libero  da  ogni  impaccio, 
per  poter  dire  a  tutti  il  fatto  suo,  con  temperanza  si,  ma  con  pari 
franchezza,  e  senza  portare  barbazzale5  per  nessuno. 

Idea  magnifica:  danari  non  ce  n'erano  e  collaborator!  neanche; 
ma  tanto  per  cominciare,  il  De  Renzis  offriva  a  me,  generosamente, 
la  direzione. 

II  disegno  fu  esaminato,  discusso  piu  giorni;  proposti  per  il  nasci- 

i.  Claudio  Leigheb  (1848-1903),  figlio  del  piu  celebre  Giovanni,  fu  indi- 
menticabile  comico  (La  zia  di  Carlo,  Narciso  il  parrucchiere,  ecc.)  ed  anche 
estroso  e  vivace  disegnatore  di  macchiette  e  pupazzetti.  2.  Francesco 
D'Arcais:  vedi  la  nota  i  a  p.  532.  3.  fra  un  .  .  .  e  I'altro:  e  il  titolo  di  un 
volume  dello  stesso  Martini,  in  cui  sono  raccolti  articoli  da  lui  scritti  per 
vari  giornali  e  riviste  (vedi  la  bibliografia).  4.  Emilio  De  Girardin  (1806- 
1881),  famoso  giornalista  e  uomo  politico  francese,  piu  volte  deputato. 
Fond6  e  diresse  «La  Presse»  (1836-1856),  «  La  Libert6»  (dal  1866),  «Le 
petit  journal)),  «La  France »  (dal  1874).  A  lui  attribuisce  il  motto  «una 
nuova  idea  ogni  giorno »  lo  stesso  Martini,  in  un  capitolo  (A  Parigi) 
del  volume  da  cui  e  tolto  questo  brano.  5.  barbazzale:  freno,  pastoia. 


1126  FERDINANDO   MARTINI 

turo  una  ventina  di  titoli,  de*  quali  non  uno  ci  persuadeva;  ma  il 
giornale  sarebbe  a  ogni  modo  uscito  alia  luce,  se  Vittorio  Ema- 
nuele  (e  fu  il  solo  e  inconsapevole  oltraggio  che  il  gran  re  facesse 
alia  liberta  della  stampa)  non  lo  avesse  impedito. 

Fra  i  tanti  lavori  drammatici  ai  quali  il  De  Renzis  aveva  dato 
mano  in  quel  tempo,  uno  singolarmente  gli  era  caro  e  parevagli 
destinato  a  singolari  fortune.  Intitolato  dapprima  La  figlia  del 
Serpente,  comparve  sulla  scena  del  Niccolini,  n6  so  perche",  con  ti- 
tolo  diverso :  II  medico  del  cuore.1  II  primo  atto  and6  bene,  e  1'au- 
tore  fu  chiamato  al  cosiddetto  «onore  della  ribalta»;  il  secondo 
cosi  cosi,  al  terzo  si  udl  sibilare  nella  platea,  anche  piii  forte  di 
quanto  avrebbe  potuto  il  serpente  padre  della  protagonista. 

L'autore  era,  come  ho  detto,  ufficiale  d'ordinanza  di  Vittorio 
Emanuele ;  il  quale,  opinando  che  a  chi  gli  stava  vicino  non  fosse 
lecito  di  farsi  fischiare,  condann6  il  povero  De  Renzis  a  due  mesi  di 
arresto  nella  fortezza  di  Alessandria.  Forse  chi  sa?  il  re  pens6  che 
anche  quello  di  chiudere  in  fortezza  gli  autori  di  commedie  cattive 
era  un  mezzo  violento,  si,  ma  efficace  di  provvedere  alle  sorti  del 
teatro  nazioriale. 

Badiamo :  che  il  motivo  delle  collere  auguste  fosse  quello  che  ho 
detto  si  asseri  allora  e  cred6;  cronisti  maliziosi2  sostengono  bensi, 
che  non  d'una  commedia  fischiata,  ma  si  tratt6  di  un'attrice,  se 
non  applaudita,  bellissima  e  dilettissima  a  Vittorio  Emanuele:  la 
quale,  affinch6  nessuno  osasse  penetrarle  nel  cuore  giurato  a  lui, 
ci  aveva  messo  di  guardia  un  capitano  di  Stato  Maggiore. 


Chi  fu  scottato  dalPacqua  calda  teme  la  fredda;  e  quando  PufH- 
ciale  d'ordinanza  usci  dalla  cittadella,  per  riprendere,  oramai  ri- 
benedetto,  il  suo  servizio  a  palazzo  Pitti,  di  arte  e  di  letteratura 
si  astenne  fin  dal  parlare,  del  giornale  non  fece  piu  verbo.  Ne*  avrei 
ad  ogni  modo  potuto  dirigerlo  io,  che  gi&  m'ero  avviato  sui  flo- 
ridi  sentieri  del  pubblico  insegnamento,  donde  mi  ritrassi  fortuna- 
tamente  a  tempo. 

i.  Intitolato  .  .  .  cuore:  Ugo  Pesci  (Firenze  capitals,  Firenze,  Bemporad, 
1904,  p.  252)  scrive,  ma  dubitando  dell'esattezza,  che  si  intitolava  11  Dio 
milione.  Ma  il  Pesci  inverte  anche  1'ordine  cronologico  tra  questa  comme 
dia  e  la  piii  celebre  Un  bacio  dato  non  &  mai  perduto,  che  secondo  lui  sareb 
be  stata  composta  dopo  1'arresto.  2.  cronisti  maliziosi:  tra  gli  altri  il  Pesci, 
che  narra  (op.  cit.,  pp.  251-2)  un  episodic  comico  di  questa  relazione  a  tre. 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (1859-1892)  II2J 

Con  tutto  ci6  il  De  Renzis,  sebbene  non  osasse  manifestarlo, 
non  aveva  dismesso  1'antico  proposito.  Alia  fine,  non  potendo  piu 
stare  alle  mosse,  se  ne  apri  con  due  giornalisti  provetti,  che  da  To 
rino  avevano  seguito  a  Firenze  la  vagante  capitale  del  regno: 
Giovanni  Piacentini  e  Giuseppe  Augusto  Cesana.1  II  disegno  stra- 
piacque:  bisognava  non  perder  tempo  e  mandarlo  subito  ad  effetto. 
Se  non  che,  altre  cose  bisognavano:  danari  prima  di  tutto;  poi, 
un  titolo  che  dicesse  Pindole  del  giornale,  finalmente  un  direttore; 
che*  dei  tre,  chi  per  una  ragione,  chi  per  un'altra,  nessuno  era  in 
grado  di  assumere  queirufficio :  al  De  Renzis  non  conveniva  mettersi 
in  mostra;  il  Piacentini  era  occupato  nella  compilazione  della  «  Gaz- 
zetta  Ufficiale  » ;  il  Cesana  dirigeva  il  «Corriere  italiano». 

II  titolo  lo  trov6  il  Cesana:  danari  ne  lui  ne  altri  fu  buono  a  tro- 
varne;  sicch6,  messa  con  prodiga  spensieratezza  mano  alia  tasca, 
sborsarono  in  tre  la  cospicua  somma  di  novecento  lire,  quante  ce 
ne  volevano  a  pagare  per  tre  mesi  la  pigione  di  alcune  povere 
stanze  in  via  Ricasoli  e  a  comprare  una  tavola,  qualche  seggiola  e  un 
calamaio. 

Non  mancava  oramai  che  il  direttore.  Poco  innanzi  era  uscito  in 
luce  a  Firenze  un  giornaletto  umoristico:  «I1  Barbiere»,  ch'ebbe 
vita  brevissima,  e  nel  quale  aveva  pubblicato  articoli  graziosamente 
arguti  un  giovinotto  genovese,  -  Baldassarre  Avanziniz  -  segreta- 
rio  particolare  del  prefetto  conte  Cantelli.3  II  Piacentini  che  lo 
conosceva  si  rivolse  a  lui;  e  il  giovinotto,  ch'era  facoltoso  e  teneva 
TufScio  unicamente  per  aver  qualcosa  da  fare,  piant6  la  prefettura 
e  si  pose  a  capo  della  gioconda  brigata. 

Cosl,  assestate  le  faccende,  il  16  giugno  1870  si  stampb  il  primo 
numero  del  «Fanfulla».  Non  soltanto 

seguitaron  gli  effetti  alle  speranze^ 

i.  Giovanni  Piacentini:  awocato,  giornalista,  direttore  della  «Gazzetta  Uf 
ficiale  »;  Giuseppe  Augusto  Cesana  (1821-1903),  di  Milano,  patriotta  (Cin 
que  giornate).  Fondatore  di  vari  giornali  (l'«  Espero »,  1853;  il  «Fischiet- 
to»,  satirico;  il  «Pasquino»,  1856;  «La  Gazzetta  di  Torino »;  il  «Corriere 
italiano»,  1860,  ecc.).  Nel  1870,  a  Firenze,  con  altri,  cre6  il « Fanfulla », 
che  poi  segul  a  Roma.  Ha  lasciato  due  volumi  di  memorie:  Ricordi  di 
giornalista,  1890-1892.  2.  Baldassarre  Avanzinv.  vedi  la  nota  i  a  p.  505. 
3.  Girolamo  Cantelli  (1815-1884),  di  Parma,  della  quale  agevo!6  1'annessio- 
ne  al  Piemonte.  Deputato  nel  1860,  prefetto  poi  di  Firenze,  fu  successi- 
vamente  ministro  dei  lavori  pubblici  e  ministro  dell'interno  col  Menabrea 
e  col  Minghetti.  4.  Riecheggia  un  verso  del  Tasso :  « seguiteran  gli  effetti 
a  le  speranze»  (Ger.  lib.,  iv,  24). 


1128  FERDINANDO   MARTINI 

ma  awenne  quanto  sarebbe  stato  follia  lo  sperare.  Alia  fine  del  mese 
i  proprietari  depositavano  alia  Banca  Nazionale  dodicimila  lire, 
guadagno  assicurato  del  primo  semestre  :  che  gli  abbonamenti  dilu- 
viavano,  e  la  minuta  vendita  sopperiva  di  per  se  alle  spese  del  nuovo 
e  awenturato  giornale. 

Al  Piacentini  (Silmus),  al  Cesana  (Tom.0  Canelld),  al  De  Renzis 
(F.  Scapoli),  all'Avanzini  (E.  Caro\  si  aggiunsero,  via  via,  altri 
scrittori:  Carlo  Lorenzini  (Collodi),  Pietro  Ferrigni  (Yarick),  Ugo 
Pesci  (Ugo),  Oreste  Baratieri1  (Fudle)\  del  quale  ultimo  gli  articoli 
intorno  alia  guerra  scoppiata  in  quei  giorni  tra  la  Francia  e  la  Ger- 
mania,  che  dotti  e  sagaci,  presagirono  sin  dal  principio  la  vittoria 
delle  armi  tedesche,  molto  giovarono  alia  fortuna  del  giornale: 
per  modo  che  quando  il  «  Fanfulla  »  pose  di  li  a  poco  le  proprie  tende 
a  Roma,  pot6  vantarsi,  fra  i  giornali  d'allora,  d'esser  quello  che 
aveva  il  maggior  numero  di  lettori. 

E  quali  lettori!  De'  piu  assidui,  Papa  Pio  nono,  che  dalle  facezie 
del  giornale  traeva  non  di  rado  occasione  ad  altre,  e  ahim&!  non 
felici  facezie,  pur  citate  e  divulgate  ad  attestare  sempre  vivace  la 
mente,  sempre  sereno  1'animo  suo.  II  Pesci  che,  come  ho  detto, 
firmava  col  nome  di  Ugo,  suo  battesimale,  i  propri  articoli,  uno  ne 
scrisse  pigliando  in  ischerzo  non  so  quale  delle  tante  proteste  vati- 
canesche.  Al  Monsignore,  che  sdegnato  gli  mostr6  quelParticolo, 
Pio  IX  rispose:  —  Di  che  vi  meravigliate  ?  Costui  e  un  Ugo  notoz 
(Ugonotto). 


Una  mattina  d'estate,  nel  1871,  sulla  rotonda  del  Pancaldi  a 
Livorno  m'imbattei  nel  De  Renzis,  non  riveduto  da  anni.  Aveva 
abbandonato  il  servizio  militare,  preparava  la  conquista  di  un  col- 
legio  elettorale,  intanto  si  compiaceva  delPottimo  successo  del  gior 
nale  ideato  da  lui.  Mi  domandc-  ci6  che  ne  pensassi:  io  glie  ne  dissi, 
naturalmente,  tutto  il  bene  che  meritava;  ma  perche*  tanto  pensavo 
allora  a  divenir  deputato,  quanto  a  fare  una  spedizione  al  polo 
antartico,  e  avevo  la  politica  in  uggia  (m'accorgo  ora  -  un  po'  tardi 
a  dir  vero  -  di  non  averla  amata  mai),  soggiunsi  che  il  «  Fanfulla  » 
non  era  per6  il  giornale  vagheggiato  al  pianterreno  del  palazzo 

i.  Carlo  Lorenzini:  vedi  la  nota  i  a  p.  919;  Pietro  Ferrigni:  vedi  la  nota  2 
ap.424;  Oreste  Baratieri:  vedi  la  nota  i  ap.sos.  2.  Ugo  noto  :  vedi  anche 
p.  418  e  la  nota  2. 


CONFESSIONI    E    RICORDI    (1859-1892)  II2<) 

d'Hogwoorst  a  Firenze;  giornale  che,  cosi  come  lo  avevamo  allora 
immaginato,  doveva,  si,  trattare  di  politica;  ma  non  darle  come  il 
«Fanfulla»  tanto  posto,  che  non  ce  ne  rimanesse  un  po'  piu  per  la 
letteratura  e  per  1'arte.  E  mentre  io  cominciavo  a  esporre  quanto 
facevano  i  giornali  francesi  ed  inglesi  della  stessa  indole,  1'amico 
m'interruppe  e: 

—  Non  ti  perdere  in  chiacchiere  inutili ;  —  soggiunse  a  sua  volta 
—  scrivi  tu  quel  che  ti  piace,  manda  tu  quello  che  vuoi,  e  noi  sa- 
remo  lietissimi  di  pubblicare. 


Cosi  cominci6  -  due  giorni  dopo  quel  colloquio  -  la  mia  colla- 
borazione  al  «Fanfulla»,  continuata  poi  lunga,  frequente,  talora 
quotidiana.  Trascorsi  oramai  quaranta  anni,  pu6  esser  lecito  a  me, 
unico  superstite  de'  suoi  redattori,  considerare  se  veramente  meri- 
tasse  il  favore  che  ottenne,  la  fama  che  tuttavia  ne  dura  come  di 
giornale  che  segni  un'epoca  nella  storia  della  stampa  periodica  ita- 
liana.  E  credo  di  si;  la  corretta  spigliatezza  della  scrittura,  fra  le 
pesanti  o  sciatte  gazzette  d'allora;  il  brio  di  buona  lega,  lontano 
dalle  triviali  arguzie  e  dalle  sconcezze  anfibologiche1  alle  quali  siam 
ritornati,  e  pare  con  delizia  del  pubblico ;  il  combattere  nelle  scher- 
maglie  con  quelle  armi  cortesi  che  sfiorano,  o  pungono  tutt'al  piu, 
non  lacerano  mai;  il  buon  senso  tenuto  guida  suprema;  lo  assegna- 
re  a  ogni  manifestazione  della  vita  pubblica  la  parte  che  le  spetta: 
oggi  il  primo  posto  alia  esposizione  finanziaria,  o  al  dibattito  par- 
lamentare,  il  primo  posto  domani  al  libro,  al  quadro,  alia  statua; 
queste  le  giuste  ragioni  della  fortuna  che  al  «Fanfulla»  tocc6,  la 
maggiore  che,  dati  i  tempi,  toccasse  a  giornale  italiano. 

Quanto  cammino  abbiamo  percorso  in  cinquanta  anni!  se  verso 
meta  piu  degna,  non  so ;  a  ogni  modo  chi  vorrebbe  oggi  d'un  gior 
nale  da  leggersi  da  capo  a  fondo,  che  (awertite)  non  dava  notizie  e 
potrebbe  tutto  esser  contenuto  in  una  pagina  della  «Tribuna»? 
Io  solo,  forse,  riapro  ogni  tanto  quelle  ingiallite  pagine  evocatrici, 
con  un  senso  di  tenerezza  ineffabile  riveggo,  leggendole,  passarmi 
dinanzi  le  imagini  ancor  sorridenti  dei  compagni  perduti,  riascolto 
suonarmi  nelPanima  gli  echi  lontani  della  gioventu. 


i.  anfibologiche:  a  doppio  senso. 


1130  FERDINANDO   MARTINI 

II  titolo  non  era  nuovo :  con  grande  rammarico  del  Cesana  che  si 
gloriava  d'averlo  trovato  lui,  ce  ne  awerti  Girolamo  Amati,1 
frugatore  e  raccoglitore  di  carte  vecchie,  tornando  un  giorno  da 
Campo  di  Fieri,  dove,  tra  un  mucchio  di  fogliacci,  aveva  scovato  il 
numero  di  un  « Fanfulla»  escito  a  Roma  nel  '46 :  cosi  poco  noto,  del 
rimanente,  che  egli  stesso,  PAmati,  il  quale  nel  '46  era  gia  uomo 
fatto,  non  ricordava  che  a  Roma  si  pubblicasse  un  giornale  cosi 
intitolato. 

L'Amati,  da  giovanissimo,  segretario  di  Pellegrino  Rossi,2  era 
un  di  quegli  eruditi  dei  quali  si  va  perdendo  la  stampa;  ed  e  pec- 
cato  che  della  erudizione  abbia  lasciato  scarsissimi  saggi :  il  piii  noto 
certe  Letter  e  romane  da  lui  date  fuori  come  « esperimento  del  frutto 
che  si  pu6  avere  razzolando  per  i  nostri  archivi».  Veniva  tutti  i 
giorni,  nel  pomeriggio,  al « Fanfulla»  e  li,  quando  se  ne  offriva  Pop- 
portunita,  senza  pompeggiarsi,  quasi  parlando  tra  s6  e  s,e,  dava  la 
stura  alle  notiziole  piu  curiose  e  recondite,  I  miei  quaderni  d'ap- 
punti  son  pieni  di  aneddoti  cosi  imparati  e  notati.  Qualcheduno, 
mettiamo,  si  doleva  che  i  deputati  perdessero  il  tempo  in  una  di- 
scussione  vana  e  ciarliera  e  PAmati  subito : 

—  Ci  vuol  pazienza:  aleggia  ancora  in  quelle  aule  lo  spirito  di 
Pier  Soderini  che  nel  1511  abit6  a  Santo  Biagio  di  Montecitorio, 
proprio  la  dove  ora  e  la  Camera. 

Una  volta  raccontavo  io  come  un  signore  fiorentino,  il  quale 
ebbe  anche  uffici  nel  Comune,  dedito  ai  lavori  manuali,  si  divertisse 
tra  Paltro  a  fare  la  ceralacca:  e  come  in  certa  solennita  nella  quale 
i  parenti  s'erano  raccolti  a  pranzo  in  casa  sua,  mostrasse  a  figli  e 
nipoti,  presi  subito  da  superstizioso  terrore,  parecchi  chilogrammi 
di  ceralacca  da  lutto  . .  .  E  diceva  compiacendosi :  —  Ce  n'ho  per 
tutta  la  vita! 

Ed  ecco  PAmati  raccontare  a  sua  volta  la  storia  della  cera  da  let- 
tere ;  e  che  i  Duchi  di  Fiorenza  la  usavano  di  color  rosso,  di  color 
verde  i  Duchi  di  Urbino,  bianco  quei  di  Ferrara  ai  quali  Ottone  I 
imperatore  conced6  si  servissero  di  cera  bianca  nel  suggellare  le  let- 
tere,  in  segno  della  sincerita  delPanimo  loro. 

1.  Girolamo  Amati,  nipote  deiromonimo  erudito  ed  epigrafista  di  Savigna- 
no  in  Romagna,  e  continuatore  delle  tradizioni  letterarie  della  famiglia. 

2.  Pellegrino  Rossi, ( 178?- 1848),  gia  economista  e  insegnante  a  Ginevra  e  a 
Parigi  sotto  la  Monarchia  di  Luglio  (che  lo  cre6  Pari  di  Francia),  quindi, 
perduti  posto  e  onori  con  Pawento  della  Seconda  repubblica,  ministro 
di  Pio  IX  dal  settembre  del  '48  al  suo  assassinio  il  successive  25  novembre. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1131 

Un'altra  volta  il  discorso  cadde  sulla  Nona  dello  Zola,  pubbli- 
cata  di  fresco:1 

—  Messere  Emilio  ha  letto  gli  Ecatonmiti2  del  Giraldi;  e  dalla 
novella  di  Saulo  e  Nana,  non  soltanto  ha  tratto  il  nome  della  prota- 
gonista,  ma  parecchie  coserelle  delle  quali  s'e  giovato  per  il  suo 
romanzo. 

II  giudizio  sara  stato  giusto  o  no ;  ma  quei  rawicinamenti  erano 
occasione  e  spinta  a  controversie  piacevolissime.  Perche  io  credo 
che,  per  lo  meno  a  quel  tempo,  nessuna  redazione  di  giornale 
udisse  conversazioni  piu  colte  o  piu  amene;  e  non  per  merito  dei 
redattori,  badiamo,  che  tutfal  piu  vi  incastravano  di  tanto  in  tanto 
qualche  po'  di  gaiezza ;  bensi  per  merito  di  coloro  che  piu  o  meno 
assidui  frequentarono  il « Fanjfulla »,  negli  anni  delle  sue  maggiori 
fortune. 

Giuseppe  Massari,3  sebbene  fornisse  al  giornale  le  informazioni, 
sicure  sempre  perch'egli  era  in  grado  di  attingerle  ad  alta  e  pura 
sorgente,  vi  capitava  di  rado  e  il  piu  delle  volte  per  borbottare. 
II «  Fanfulla»,  quantunque  Baldassarre  Avanzini  che  lo  dirigeva  fosse 
il  moderatissimo  fra  gli  uomini  di  parte  moderata,  non  si  peritava, 
quando  occorresse,  nel  dir  la  sua  anche  al  Sella  e  al  Minghetti  ;4  e 
il  Massari  fedele  ai  ministri  con  fedelta  schifiltosa  ed  ombrosa, 
quando  si  trattava  di  loro,  non  tollerava  censure,  per  garbate  che 
fossero,  scherzi  neanche;  e  se  dava  di  sfuggita  una  capatina  al 
giornale,  ce  la  dava  per  mugolare  lagnanze,  e  mugolatele  se  ne  par- 
tiva.  N<§  egli  era  solo  a  lagnarsi:  mentre  da'  giornali  di  opposta  opi- 
nione  il  «  Fanfulla»  era  accusato  di  servilita  al  governo  e  alia  destra 
parlamentare,  governo  e  destra  si  dolevano  spesso  del  contegno  suo. 
Ci6  che  dimostra  come  avesse  ragione  quell5  acutissimo  osservatore 
che  fu  il  cardinale  de  Retz:5  «L'on  a  plus  de  peine  dans  les  partis 
a  vivre  avec  ceux  qui  en  sont,  qu'a  agir  contre  ceux  qui  y  sont 
opposes  ». 


i.  II  romanzo  Nana  di  fimile  Zola  (1840-1902)  apparve  nel  1880.  2.  Eca 
tonmiti:  raccolta  di  novelle,  pubblicata  nel  1565,  del  ferrarese  G.  B.  Giraldi 
Cinzio  (1504-1573),  famoso  anche  per  una  tragedia,  VOrbecche  (1541). 
3.  Giuseppe  Massari:  vedi  la  nota  i  a  p.  515.  4.  Per  Sella  e  Minghetti, 
vedi  rispettivamente  le  note  2  a  p.  456  e  3  a  p,  445.  5.  Jean-Fran9ois  Paul 
de  Gondi,  cardinal  de  Retz  (1614-1679),  il  celebre  autore  dei  Mdmoires. 


1132  FERDINANDO   MARTINI 

Piu  spesso,  anzi  molto  spesso,  vi  veniva  Giovan  Battista  Gior- 
gini1  e  vi  rimaneva  ore  intere.  Che  cosa  non  sapeva  quelPuomo  ? 
e  chi  mai  lo  vinse  nella  perspicua  semplicita  onde  esponeva,  par- 
lando,  il  proprio  pensiero  ?  Era  la  cronaca  vivente  degli  anni  vis- 
suti ;  la  sua  ferrea  memoria  un  archivio  di  preziosi  document!  della 
nostra  storia  recente ;  ed  ei  via  via  ne  traeva,  in  apparenza  con  fati- 
cata  pigrizia,  episodi,  biografie,  testimonianze  del  valore  morale  e 
intellettuale  di  questo  o  quel  letterato,  di  questo  o  quel  personaggio 
politico.  Quale  conversatore!  Ho  conosciuto  in  vita  mia  tre  uomini 
che  non  mi  sarei  mai  stancato  d'ascoltare,  e  che  sempre  lasciai  col 
rammaricato  desiderio  di  nuovi  e  piu  lunghi  colloqui:  Girolamo 
Bonaparte,  Enrico  Cialdini2  e  Giambattista  Giorgini.  II  Giorgini 
aveva  maggior  numero  di  corde  al  proprio  arco:  e  al  «Fanfulla», 
se  di  parlare  non  avesse  voglia,  tanto  facevamo  che  alia  fine  s'indu- 
ceva  a  recitare  qualche  suo  felice  epigramma,  o  altri  versi3  di  sua 
fattura,  italiani,  francesi,  latini,  stampati  allora  in  quattro  o  cin 
que  esemplari  da  distribuirsi  agli  amici  e  non  piu  ristampati  da 
allora  in  poi . .  . 

Parlatore  forbito  e  festivo  a'  suoi  bei  tempi  fu  anche  Giu 
seppe  Revere;4  ma  nell'invecchiare  s'era,  a  dir  cosi,  inacidito;  e  al 
«Fanfulla»,  dove  capitava  di  quando  in  quando,  faceva  il  paio  col 
Massari :  questi  brontolava  per  le  licenze  del  giornale,  quegli  per  la 
sconoscenza  degli  italiani.  Non  gia  che  invidiasse  la  fama  degli  emu- 
li,  dell'Aleardi,  del  Prati,  del  Carducci,  dei  quali  e  delle  opere  loro 
si  manifestava  pur  tuttavia  temperato  estimatore;  non  lo  avrebbe 
afHitto  Tesser  loro  posposto ;  lo  sdegnava  Fesser  dimenticato,  come 
diceva,  da  tutti:  dimenticato  poi  in  un  bugigattolo  del  Ministero 
degli  Affari  Esteri,  ad  accozzarvi  in  odio  alle  muse  un  « Bollettino 
consolare»  che  nessuno  leggeva;  -  forse  nemmeno  il  suo  stesso 
accozzatore. 

i.  Giovan  Battista  Giorgini  (1818-1906),  di  Lucca,  professore  di  diritto 
nell'Universita  di  Siena  (1840)  e  di  Pisa  (1843),  ebbe  attiva  influenza  nella 
vita  politica  del  granducato,  specie  nel  1859,  quando,  ormai  convertito  al- 
Tidea  unitaria,  ne  favorl  la  realizzazione.  Fu  deputato  e,  dal  1872,  senatore. 
Genero  del  Manzoni,  ne  condivise  e  divulgd  le  idee  sulla  lingua  (prefa- 
zione  al  Novo  vocabolario,  1870-1897,  redatto  insieme  ad  E.  Broglio);  fu  at- 
tivissimo  cultore  di  studi  letterari  e  storico-politici.  2.  Girolamo  Bonaparte : 
vedi  la  nota  4  a  p.  ion ;  Enrico  Cialdini:  vedi  la  nota  i  a  p.  432.  3.  epi 
gramma  .  .  .  versi:  sulla  produzione  del  Giorgini,  vedi  V.  CIAN,  Giovan 
Battista  Giorgini,  in  « Nuova  Antologia »,  i°  luglio  1908.  4.  Giuseppe  Re 
vere  (vedi  la  nota  2  a  p.  300)  era  allora  impiegato  al  ministero  degli  esteri, 
a  rivedere  il  bollettino  consolare. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1133 

Volevamo  bene  al  Revere;  quelle  amarezze  ci  amareggiavano  e 
facevamo  di  tutto  per  addolcirgliele ;  e  chi  ricordava  /  Piagnoni 
e  gli  Arrabbiati  o  il  Sampler o  da  Bastelica1  o  alcun  altro  del  drammi 
di  lui  lontanamente  famosi;  chi  il  diletto  provato  nella  lettura  dei 
Bozzetti  alpini'?  chi  (tanto  per  mutare)  recitava  enfaticamente  il 
sonetto  a  Fanny  Sadowski,3  atroce,  forse  troppo  atroce,  vendetta  di 
poeta  e  d'amante. 

E  allora,  d'un  subito,  la  faccia  del  Revere  si  rasserenava,  si  illu- 
minava,  gli  spuntava  sulle  labbra  un  sorriso,  e  gli  occhi  si  inumidi- 
vano  di  lacrime  liete. 

Perche*  fra  tante  buone  qualita,  in  tanta  altezza  d'ingegno,  il  buon 
Revere  aveva  anche  lui  il  suo  difetto;  era  nato  a  dimostrare  la 
verita  della  sentenza  di  Carlo  Quinto;  che,  cioe,  I'uomo  di  tutto 
si  sazia,  si  disgusta  alia  lunga,  fuorche  della  lode.  E  gli  si  procurava 
il  compiacimento  medesimo  sia  lodando  il  Lorenzino  de'  Medici 
e  i  versi  delYOsiride,4  sia  il  candore  de'  capelli  e  il  taglio  dej  panta- 
loni.  Girolamo  Alessandro  Biaggi,5  che,  non  so  bene  se  precettore 
od  amico,  accompagnb  Emilio  ed  Enrico  Dandolo  nel  viaggio  in  Pa- 
lestina,  e  fu  poi  e  sino  alia  morte  professore  di  estetica  nelPIstituto 
Musicale  di  Firenze,  mi  raccont6  questo  aneddoto :  una  notte  del 
'45  o  '46,  salvo  il  vero,  il  Revere  con  alcuni  amici  s'attardarono  in 
un  caffe  di  Milano,  discorrendo  del  piu  e  del  meno  e  centellinando 
il  ponce  o  la  birra.  Gli  amici  che  sapevano  di  quel  difetto  colsero 
Toccasione  per  divertirsene ;  uno  cominci6  a  lodare  al  poeta  la  for- 
tezza  del  bicipite,  un  altro  1'ampiezza  del  torace,  un  terzo  la  linea 
del  femore,  ognuno  invitandolo  a  mostrare  libera  da  indumenti  la 
parte  magnificata;  cosi  che,  il  Revere  consentendo,  riuscirono  a 
farlo  salire  sopra  un  biliardo  e  mostrarvisi  nudo  come  Dio  Paveva 
fatto. 

II  Biaggi,  che  si  affermava  testimone  di  quella  scena,  era  tal 
uomo  da  non  dire  una  cosa  per  un'altra:  nondimeno  chi  racconta 

i .  I  Piagnoni  .  .  .  da  Bastelica :  due  drammi  del  Revere,  il  primo  dei  quali, 
lunghissimo,  diviso  in  tredici  parti,  e  solo  parzialmente  rappresentato,  fu 
pubblicato  nel  1858.  2.  Bozzetti  alpini:  pubblicati  nel  1857,  hanno  toni 
umoristici  e  arguti.  3.  Fanny  Sadowski,  di  Mantova,  nata  nel  1827, 
fu  attrice  drammatica  e  direttrice  di  varie  compagnie.  II  sonetto  che  le  di- 
resse  il  Revere,  durissimo,  finiva  col  verso :  «  Molti  paghi  farai,  nessun  fe- 
lice».  4.  Lorenzino  de'  Medici:  il  dramma,  uscito  alia  luce  del  1839,  lun 
ghissimo,  fu  recitato  una  sola  volta,  ridotto,  nel  1850;  Osiride  e  il  titolo  di 
una  raccolta  di  sonetti,  apparsa  nel  1879.  5.  Girolamo  Alessandro  Biaggi 
(1819-1897),  di  Milano. 


1134  FERDINANDO   MARTINI 

spesso  abbellisce ;  ed  io  pensando  che  in  quel  racconto  qualche  fran- 
gia  il  Biaggi  ce  Favesse  messa  di  suo,  passeggiando  un  giorno  col 
Revere  m'arrischiai  a  domandargli  se  proprio  le  cose  fossero  andate 
come  quegli  le  riferiva.  Non  neg6 ;  scrol!6  sorridendo  le  spalle  ed 
esclam.6 :  delicta  iuventutis. 


Arnaldo  Vassallo1  descrisse  la  stanza  di  Bino  (cosi  chiamavano 
il  lor  compaesano  Baldassarre  Avanzini  i  genovesi  amici  di  lui), 
e  disse  dej  molti  uomini  politici,  deputati  ed  ex  ministri  ne'  quali 
vi  s'imbatte:  e  il  Sella  e  il  Minghetti  e  lo  Spaventa,  e  il  Bonghi2  e 
non  so  quanti  altri  mai :  ma  tutti  costoro  entrarono  in  quella  stanza 
come  tanti,  condotti  da  particolari  necessita,  entrano  nella  stanza 
di  un  direttore  di  giornale;  di  deputati,  oltre  al  Giorgini,  uno  solo  - 
ed  ex  ministro  -  v'entrb  e  vi  si  ferm6 :  Emilio  Broglio,3  non  pure 
frequente,  ma  quotidiano  visitatore,  la  cui  dimestichezza  con  PA- 
vanzini  nocque,  anzi,  alle  sorti  delFavventurato  giornale. 

* 

Brutto  come  pochi  furono,  Emilio  Broglio  a  malgrado  della  faccia 
di  fauno  arrabbiato,  era  un  bravo  e  cortese  uomo.  Segretario  del 
governo  prowisorio  di  Milano  nel  '48,  esule  in  Piemonte  nel  de- 
cennio  della  preparazione,  deputato  al  Parlamento  subalpino  prima, 
poi  alPitaliano,  fu  nel  1861  fra  i  sottoscrittori  dell'ordine  del  giorno 
che  afferm6  Roma  capitale.  II  Menabrea,4  quando,  nel  '67  durante 
la  campagna  garibaldina  nelFAgro  romano,  ebbe  a  comporre  li 
per  11  un  Gabinetto  con  gente  sicura,  gli  affido  il  portafogli  della 
pubblica  Istruzione. 

Aveva  una  passione  terribile:  il  gioco;  la  quale  cacci6  una  volta 
la  polizia  in  tale  impaccio,  da  cui  le  fu  poi  molto  difficile  il  distri- 
carsi.  La  capitale  era  a  Firenze,  e  il  Broglio,  come  ho  detto,  mi 
nistro.  Si  giocava  forte  in  una  bisca  in  via  Maggio  e,  quando  non 
c'era  Consiglio,  non  passava  sera  che  quegli  non  vi  corresse.  II 
Menabrea  al  quale  era,  e  s'intende,  sgradevole  ammonire  il  collega, 
pens6  uno  spediente:  mandare  il  Broglio  altrove  e,  nel  frattempo,  i 
delegati  di  pubblica  sicurezza  nella  bisca  di  via  Maggio.  Quel  fatto 
avrebbe  ammonito  meglio  d'ogni  parola.  Se  non  che  il  Broglio, 

i.  Luigi  Arnaldo  Vassallo:  vedi  la  nota  i  a  p.  532.  2.  Per  Spaventa  e 
Bonghi  vedi  rispettivamente  le  note  2  a  p.  496  e  2  a  p.  483.  3.  Emilio  Bro 
glio:  vedi  la  nota  a  p.  552.  4.  Menabrea:  vedi  la  nota  sap.  457. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  H35 

che  doveva  prendere  il  treno  la  sera,  per  non  mancare  alia  partita, 
rimise  la  gita  alia  mattina  dipoi;  e  quando  i  delegati  irruppero  nella 
bisca,  il  primo  che,  a  loro  sconosciuto,  acciuffarono  fu  il  supremo 
reggitore  degli  studi,  che  teneva  banco  di  lansquenet.1 

II  Manzoni  se  non  lo  guari,  lo  distrasse;  non  precisamente 
Don  Alessandro,  ma  le  sue  teoriche  intorno  alia  lingua  fiorentina. 
II  Broglio  se  ne  infatub,  e  il  libro  dalle  cinquantadue  carte  fu  di- 
menticato  per  un  altro  libro:  un  Nuovo  vocabolario  della  lingua  ita- 
liana.  Decretatane  la  compilazione  (il  Giorgini  se  ne  occup6  da 
principio  e  vi  prepose  la  stupenda  lettera  al  Sella),2  il  ministro, 
dalla  propria  sede  ch'era  nell'antico  convento  di  San  Firenze, 
Tannunzi6  con  una  pubblica  lettera  agli  italiani. 

Non  era  quella  faccenda  per  lui;  la  lettera,  prova  manifesta  della 
sua  incompetenza,  sollev6  clamori  tutt'altro  che  benevoli  e  provoc6 
un  epigramma  di  Giuseppe  Rigutini;3  feroce,  ma  i  linguaioli  sono 

senza  pieta: 

Fior  di  trifoglio, 

da  San  Firenze  s'e  sentito  un  raglio, 
era  un  sospiro  del  ministro  Broglio. 

Ma  Yomo,  per  dir  come  diceva  lui,  non  si  sgoment6 :  « tengo  duro 
contro  il  fato»,  scriveva:  e  da  quel  giorno,  affaticato  come  il  Conte 
della  Secchia  rapita 

.  .  .  nel  trovar  voci  elette 
di  quelle  che  i  Toscani  chiaman  prette* 

le  bische  lo  videro  meno,  le  botteghe,  i  mercati,  i  Camaldoli  di 
Firenze  assai  piu.  Trasferitosi  il  governo  a  Roma,  e  con  esso  il 
«  Fanfulla»,  prese  a  venirvi  ogni  giorno,  quando  gli  saltb  in  mente  di 
scrivere  una  Vita  di  Federigo  secondo:  e  vi  veniva  sperando  di  tro- 
varvi  me  ed  Ugo  Pesci,  toscani,  anzi  fiorentini  ambedue.  E  ogm 
giorno  si  cavava  di  tasca  un  foglietto  cui  aveva  gia  confidato  le  pro- 
prie  dubbiezze,  e  interrogava:  «come  si  dice  a  Firenze  cisoie  o  ce- 
sole,  parrochi  o  parroci,  ginocchi  o  ginocduai ...  e  la  midolla  del 
pane  come  la  chiamano  mbllica  o  molllca  ? .  .  . » 

i.  lansquenet:  vedi  la  nota  3  a  p.  664.  2.  La  prefazione  al  Now  Vocabolario 
(1870-1897)  ha  appunto  la  forma  di  una  lettera  diretta  a  Quintmo  Sella, 
ed  e  tra lemigliori pagine  di prosa  del  Giorgini.  3-  GlU^rRl^^a 
1903),  di  Lucignano,  lessicografo,  note  soprattutto  per  ilVocabolario della 
lingua  ,'tofifliifl,  eseguito  in  collaborazione  con  Retro  Fanfam.  4:  H  Conte 
dTculagna  e  tra  le  figure  piu  bizzarre  e  comiche  della  Secchia  rapita  (1622) 
di  Alessandro  Tassoni.  I  versi  citati  sono  nel  canto  x,  ottava  o. 


1136  FERDINANDO    MARTINI 

La  Vita  di  Federigo  si  accrebbe  piu  tardi  con  //  Regno  di  Fede- 
rigo  secondo,  detto  ilgrande,  Re  di  Prussia:  in  tutto  quattro  volumi, 
che  pochi  ban  letto,  oggi  non  legge  nessuno,  e  pur  sono  sotto  certi 
aspetti  divertentissimi,  e  istruttivi  per  questo:  che  dimostrano  a 
quali  termini  ridurrebbe  la  dignita  del  discorso  storico  il  parlor 
fiorentino,  usato  senza  criterio  e  fuor  d'ogni  misura.  E  appunto 
perche  nessuno  li  legge,  mette  conto  che  un  brevissimo  saggio  di 
quelle  scritture  lo  dia  qui  io  che  li  ho  letti. 

A  non  andar  per  le  lunghe  e  dare  un  senso  qualsiasi  al  discorso 
Iavorer6  di  mosaico  sottolineando  le  frasi  testuali  del  Broglio. 

Federiguccio  era,  pare,  bellino:  una  bocchina  stretta,  il  nasino  volto 
alVinsu.  II  re  che  si  levava  all'alba  dey  passerotti,  e  non  curava  di 
vigilare  la  educazione  del  figliolo,  lo  affido  ad  un  aio,  rottimo 
Duhan.  La  fu  un'ottima  scelta.  II  re  vietava  a  Federiguccio  di  stu- 
diare  il  latino,  e  lui  lo  studiava  di  contrabbando  dicendo  sproposlti  da 
can  barboni.  Una  volta  il  re  lo  rimprover6.  E  Federigo?  Acqua  in 
bocca  e  zitto  come  un  olio.  Eppure  Dio  sa  quante  risposte  col  pepe  e 
col  sale  gli  saranno  venute  sulla  lingua. 

Bastera  mi  pare:  quando  io  abbia  aggiunto  che  una  di  coteste 
supposte  peregrinita  toscane  fummo  il  Pesci  ed  io  a  risparmiargliela. 

Ci  voile  un  giorno  leggere  la  descrizione,  se  la  memoria  non  mi 
tradisce,  di  un  combattimento :  e  detto  che  i  Prussiani  stavano  per 
avere  la  peggio,  soggiungeva:  «  Federigo  arriv6  a  buco  per  riafferrar 
la  vittoria ».  Gli  esponemmo  le  ragioni  anche  d'indole  delicata,  per 
le  quali  la  frase,  tutto  che  fiorentina,  non  era  conveniente  a  una 
biografia  fedele  di  Federigo  II;  e  a  malincuore  la  tolse. 


Fra  gritaliani  d'una  sessantina  d'anni  e  piu  si  trova  anche  oggi 
chi  del  «Fanfulla»  rammenta  facezie,  articoli  ne'  quali,  da  giovane, 
si  delizi6 :  de'  giornali  ci6  non  awiene  sovente,  ed  e  memoria  della 
fortuna  che  quello  ebbe  e  dell'autoritk  che  esercit6  sulla  generazione 
fra  cui  nacque.  La  fortuna  dove"  al  brio,  alia  scioltezza  singolare  fra  i 
plumbei  giornali  nostri  d'allora;  Pautorita  al  non  portare,  come 
dissi,  barbazzale  per  nessuno,  all'ascoltare,  sopra  ogni  altra  voce, 
quella  del  buon  senso:  quando  da  tali  che  furono  sin  da  principio 
le  norme  sue  tralign6,  fortuna  e  autorita  si  perderono  insieme. 

Per  quella  che  fu  detta  rivoluzione  parlamentare  del  18  mar- 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1137 

zo  1876,  la  sinistra  assunse  il  potere,  Agostino  Depretis  presi- 
dente  del  Consiglio,  Giovanni  Nicotera  ministro  dell'Interno,  Giu 
seppe  Zanardelli  dei  Lavori  pubblici,  Pasquale  Stanislao  Mancini 
della  Grazia  e  Giustizia.1  II  Gabinetto  era  composto  da  pochi 
giorni,  quando,  il  primo  d'aprile,  il  «Fanfulla»  pubblico  questa 
inaspettata  dichiar axiom: 

« II  mutamento  awenuto  nelle  cose  politiche  non  ha  trovato  tutti 
i  proprietari  e  i  redattori  del  giornale  d'accordo  nella  linea  di  con- 
dotta  che  il  "Fanfulla"  dovrebbe  seguire.  La  maggioranza  avendo 
per6  deciso  che  1'indirizzo  attuale  abbia  ad  essere  mutato,  la  Dire- 
zione  avverte  i  suoi  lettori  che  si  ritirano  E.  Caro  (Avanzini), 
Silvius  (Piacentini),  Tomaso  Canella  (Cesana),  Ugo  (Pesci)». 

In  sostanza  si  lasciava  intendere  che  il  giornale,  da  giudice  alle- 
gramente  imparziale  nelle  contese  delle  parti  politiche,  diveniva 
ora,  ad  un  tratto,  ossequiente  difensore  del  nuovo  governo.  Apriti 
cielo!  Lo  scandalo  fu  tale,  che  la  sera  stessa  Antonio  Labriola,2 
a  quel  tempo  conservatore  e  battagliero  come  sempre  fu,  con  af- 
fetto  deferente  amicissimo  di  Silvio  Spaventa,  uno  dei  ministri 
caduti,  salito  sopra  una  sedia  del  Gaffe  Guardabassi  a  Montecitorio, 
prima  imprec6  alia  codardia  de'  redattori  che  se  ne  andavano  e  alia 
impudenza,  forse  venale,  di  coloro  che  rimanevano :  poi  strappate 
a  un  rivenditore  quante  copie  del  « Fanfulla »  aveva  in  mano,  ne 
fece  tutto  un  fa!6. 

Se  non  che,  in  quei  subiti  furori  nessuno  pens6  che  correva  il 
primo  d'aprile ;  il  giorno  dipoi,  la  imagine  di  un  gran  pesce  occupo 
buona  parte  della  prima  parte  del  giornale;  e  il  «  Fanfulla »  rintuzz6 
i  pronti  denigratori,  colti  al  laccio  di  quello  scherzo,  asseverando 
che  i  partiti  potevano  bene  alternarsi  al  governo  della  cosa  pubblica, 
esso  si  serbava  quale  fu  per  lo  innanzi,  awezzo  e  risoluto  a  pen- 
sare  con  la  testa  propria:  che  perci6  sbagliava  tanto  chi  lo  suppo- 
neva  capace  di  voltafaccia,  quanto  chi  lo  voleva  in  tutto  servil- 
mente  devoto  agli  uomini  della  destra  parlamentare :  esso  che 
aveva  censurato  gli  arresti  di  Villa  Ruffi,3  gli  ordinamenti  militari 
del  ministro  Ricotti,4  i  prowedimenti  scolastici  del  ministro  Bon- 

i.  rivoluzione  .  .  .  Giustizia:  per  1'awento  della  Sinistra  ed  i  ministri  qui 
ricordati,  vedi  pp.  496-505  e  le  relative  note.  2.  Antonio  Labriola  (1843- 
1904),  il  filosofo  e  sociologo  meridionale,  professore  airUniversita  di  Ro 
ma,  fu  poi  noto  studioso  delle  dottrine  di  Carlo  Marx.  3.  gli  arresti  .  .  . 
Ruffi:  arresti  di  uomini  e  fautori  della  Sinistra  repubblicana  awenuti  il  2 
agosto  1874.  4-  Ricotti:  vedi  la  nota  4  a  p.  894. 


1138  FERDINANDO    MARTINI 

ghi;  e  conchiuse:  «I1  partito  parlamentare  il  quale  pu6  asserire 
che  noi  siamo  suo  organo  si  faccia  avanti». 

Ahime!  di  li  a  non  molto  non  avrebbe  potuto  dire  altrettanto. 

Fra  gli  scrittori  del  «  Fanfulla »  erano  alcuni  di  principii  stretta- 
mente  conservator!,  altri  persuasi  della  necessita  di  rinnovamenti 
amministrativi  e  politici.  Per  la  grande  liberta  conceduta  ad  ognu- 
no,  il  giornale  si  mantenne  un  pezzo  in  un  equilibrio  che  gli  era  caro 
vantare.  Ma  I'equilibrio,  perfetto  fino  alle  elezioni  generali  del 
'74,  divenne  bilico  arduo  a  sostenere  dopo  di  quelle.  La  destra  che 
fu  quel  grande  e  glorioso  partito  che  fu,  s'era  fatto  a  lungo  andare 
un  corpo  chiuso;  e  chi  lo  tacci6  di  consorteria  non  si  pu6  dire  lo 
calunniasse;  oppugnava  con  acerbita  candidature  politiche  di  uo- 
mini  temperati,  quasi  petrolieri  e  comunardi,1  sol  perche"  non  bat- 
tezzati  e  cresimati  da  lei. 

Nel  '74  un  de'  proprietari,  il  De  Renzis,  in  seguito  alcun  altro 
fra  gli  scrittori  del «  Fanfulla »,  entrarono,  a  malgrado  del  Minghetti, 
nel  Parlamento.  Contrastati  da  lui  si  disponevano  a  contrastargli : 
nondimeno,  merce"  la  liberta  consentita,  poterono  ancora  dar  1'opera 
loro  al  giornale,  che  per  TAvanzini  mantenevasi  amico,  al  solito 
franco  e  sereno  amico,  del  Ministero.  Ma  costoro,  trattenuti  da 
cure  diverse,  vi  lavoravano  di  rado  ed  a  stento :  e  via  via  se  ne  disco- 
stavano,  altri  prendeva  il  loro  posto,  altri  consigli  prevalevano: 
un  po'  alia  volta,  manc6  il  contrappeso  e  fmalmente  le  elezioni  del 
1876  vennero  a  dare  il  tracollo. 

II  Broglio  che,  deputato  per  sette  legislature,  fu,  nel  collegio  di 
Lonato,  vinto  dal  competitore ;  il  Massari  che  vide,  in  un  impeto  di 
follia,  elettori  italiani  cacciare  dalla  Camera  il  Minghetti,  il  Bonghi, 

10  Spaventa,  onore  del  parlamento  e  del  paese,  ruppero  i  freni  e  im- 
posero :  o  di  qua  o  di  la.  «  E'  bisogna  deciders! »,  sfringuellava  il  Bro 
glio  crogiolandosi  ne'  pleonasmi  fiorentineschi.  «  Gli  e  un  errore  il 
tentennare. »  D'altra  parte,  la  enorme  maggioranza  nicoterina,  tra 
non  molti  valentuomini,  accogliendo  generali  fedifraghi,  borbonici 
riverniciati,e  uomini  privi  d'ogni  men  che  modesta  coltura,  prestava 

11  fianco. «  Fanfulla  »,  nato  sagittario,  tinse  di  acri  umori  le  f recce  sue ; 
e  ceduto  a  funesti  suggerimenti,  sacrific6  ad  una  delle  parti  politi 
che  la  stessa  ragione  del  proprio  essere :  la  equanime  giocondita. 

i.  petrolieri:  neologismo  politico  venuto  allora  in  voga  per  allusione  al  pe- 
trolio  degli  anarchici  e  pifr  ancora  agli  incendi  e  distruzioni  nella  Parigi 
della  Commune  (donde  comunardi)  il  marzo-maggio  1871. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1139 

Fors'anche  nell'Avanzini,  ottimo  d'animo  e  generoso,  molto 
pot<§  ilplacuit  caussa  victa  Catoni,1  e  nella  difesa  de'  vinti  lo  inaspri 
la  strapotenza  dei  vincitori.  Comunque,  il  decadimento  comincib 
sin  d'allora. 

Danno  altrettanto  grave  venne  al  «Fanfulla»  dalla  sua  stessa 
fortuna;  perch6  -  anche  ci6  e  da  dire  -  fu  quello  in  Italia  il  primo 
giornale  la  cui  proprieta  valesse  danaro.  II  De  Renzis,  che  fu  il  piu 
sollecito  a  vendere  la  propria  quota,  ne  trasse  parecchie  decine  di 
migliaia  di  lire;  gli  altri,  naturalmente,  seguirono,  si  che  pote 
impadronirsi  del  giornale  chi  doveva  volerlo  e  lo  voile  governato 
da  altri  spiriti,  strumento  di  proprie  Industrie,  e  lo  ebbe  da  ultimo 
travolto  con  esse  a  miserrima  fine. 

Ma  nonostante  la  fine  miserrima,  cosi  dissimile  dai  prosperi  inizi, 
il  «Fanfulla))  segna  un'epoca  nella  storia  del  giornalismo  italiano, 
ed  io  mi  glorio  dell'avergli  dato,  quale  che  fosse,  1'opera  mia. 
Bei  tempi,  fausti  vigori!  quando  m'era  possibile,  come  nell'autunno 
del  '73,  tutti  i  colleghi  in  villeggiatura,  scrivere  io  solo,  chiuso  nella 
stanzetta  di  via  San  Basilio,  io  solo  da  cima  a  fondo  piu  numeri  del 
giornale.  Bei  tempi!  e  quando  alcuno  dei  vecchi  ai  quali  accennai 
poc'anzi  mi  si  rivolge  con  un  «  Caro  Fantasio  »2  mi  compensa  del 
fastidio  che  altri  mi  da  apostrofandomi :  «Eccellenza»., 

PARLAMENTUM  INDOCTUM3 

Firenze  era  tuttavia  capitate  del  regno.  I  deputati  legiferavano 
nel  salone  del  Savonarola.4  Quel  giorno  discutendosi  di  lavori  pub- 
blici,  il  rappresentante  di  un  collegio  del  mezzogiorno  continentale 
prese  a  dimostrare  insufficienti  al  traffico  le  vie  di  comunicazione 
fra  la  sua  e  le  province  limiitrofe.  Descriveva  minutamente  il  terri- 
torio.  Dopo  una  breve  pausa,  soggiunse: 

i.  placuit .  .  .  Catoni:  riecheggia  il  celebre  verso  di  Lucano,  Phars.,  I,  128: 
« Victrix  causa  deis  placuit,  sed  victa  Catoni » :  agli  dei  piacque  la  causa  del 
vincitore  (Cesare),  ma  a  Catone  quella  del  vinto  (Pompeo).  2.  Fantasio: 
lo  pseudonimo  usato  dal  Martini  nel  «Fanfulla».  3.  Ed.  cit,  cap.  vi, 
pp.  ni-21.  4.  II  salone  al  primo  piano  del  palazzo  della  Signoria  fu  co- 
struito  dal  Cronaca,  secondo  una  proposta  del  Savonarola,  come  sede  del 
Consiglio  maggiore  della  repubblica.  Inaugurate  il  26  aprile  1496,  nella 
prima  adunanza  (20  agosto)  il  Savonarola  vi  tenne  una  memorabile  orazio- 
ne.  Divenuta  Firenze  capitale  d' Italia,  il  salone  assunse  il  nome  di  « salo 
ne  dei  Cinquecento »,  perche"  ospit6  la  Camera  dei  deputati,  che  erano  in 
numero  di  cinquecento. 


1140  FERDINANDO    MARTINI 

—  Qui  la  strada  si  forbisce  .  .  . 

Omeriche  risate  lo  interruppero.  Fra  un  generate  confuso  mor- 
morio  qualche  voce  si  Iev6  non  alta  abbastanza: 

—  Biforca,  biforca. 

L'oratore,  meravigliato,  si  guard6  attorno,  protese  il  capo,  come 
offrendo  1'orecchio  a  un  invocato  interprete  di  quel  brusio :  ma  ora 
tutti  tacendo,  riprese. 

—  Come  ho  detto  . . . 

Ricordandosi  d'essere  a  Firenze,  la  citta  delle  supposte  continue 
pedanterie  linguaiole :  «  fra  i  negozianti  di  nominativi »,  come  il  col- 
lega  suo  Sambiase  duca  di  San  Donato1  chiamava  i  fiorentini,  ima- 
gin6  fosse  Finterruzione  cagionata  da  parole  non  comprese  o  mal 
comprese:  e,  trovata  alFoscurita  del  testo  primitive  variante  di  si- 
cura  evidenza,  sorridente  continu6 : 

—  Come  ho  detto,  qui  la  strada  si  forbisce ;  o  se  per  meglio  in- 
tendersi  si  vuole  ch'io  mi  esprima  altrimenti,  dir6  che  la  strada  qui 
si «  desvia  ». 

Un'altra  volta,  esaminandosi  un  progetto  di  nuovi  ordinamenti 
militari,  Ponorevole  Mellana3  deputato  per  Casale  propose  si  man- 
dasse  un  saluto  all'esercito.  — -  Onoriamo,  onorevoli  colleghi,  il 
soldato  italiano  che,  stretto  nel  pugno  il  vessillo  della  patria,  con 
in  mano  il  fucile  pronto  a  difenderla,  quando  una  sciagura  lo  chiami 
stende  la  mano  pietosa . .  . 

Qui  fu  il  Presidente  a  interrompere : 

—  Onorevole  Mellana,  il  soldato  italiano,  per  valoroso  che  sia, 
non  ha  anche  lui  che  due  mani  sole. 

La  Camera  sorrise,  ma  della  spiritosa  prontezza  del  Presidente : 
agli  scerpelloni  del  rappresentante  di  Casal  Monferrato  c'era  assue- 
fatta.  Un  giorno,  agli  albori  del  nuovo  regno,  quando  si  attendeva 
ansiosamente  di  sapere  se  la  Russia  riconosceva  o  no  il  ccfatto 
compiuto»,  egli  annunziando  1'arrivo  a  Genova  dello  zar  Niccol6: 
—  Rallegriamoci  —  esclam6  —  che  la  Russia  ci  invia  intanto  sua 
madre  — ;  un  altro,  al  finir  d'un  discorso  e  preparandosi  a  confuta- 
re  un  collega  che  sedeva  al  banco  superiore  al  suo,  e  del  quale  ave- 
va  dimenticato  il  cognome,  soggiunse:  —  E  ora  la  Camera  mi 

i.  Gennaro  Sambiase,  duca  di  San  Donato  (1823-1902),  awerso  ai  Borboni, 
nel  1847  esule  in  Francia  e  in  Piemonte,  colonnello  dei  Cacciatori  delle 
Alpi  nel  1859,  fu  poi  deputato  e  sindaco  di  Napoli.  2,  L'awocato  pie- 
montese  Filippo  Mellana  (1810-1874). 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (1859-1892)  114! 

conceda  cinque  minuti  per  rispondere  al  mio  onorevole  di  dietro. 
E  notiamo.  II  Mellana  era  un  uomo  di  buon  consiglio :  e  tra  quel 
fraseggiare  trasandato  come  il  suo  abbigliamento,  quei  periodi  arnif- 
fati  come  la  sua  capigliatura,  un  suggerimento  savib,  una  proposta 
opportuna,  scaturivano  di  quando  in  quando;  tanto  e  vero  che  in 
un  certo  momento  ebbe  anche  lui  il  suo  «gruppo»  e  lo  capitano 
e  lo  condusse  a  combattere  contro  ai  «consorti»  toscani  e  lombardi, 
bersagliato  di  fianco  dalle  frecce  di  Giovan  Battista  Giorgini: 

Spropositando  a  iosa 
lo  scapigliato  e  truce 
Mellana  in  grigia  cappa, 
portabandiera  e  duce, 
seco  di  tappa  in  tappa 
mena  le  sue  reclute 
ubbidienti  e  mute. 

Quando  nelPaprile  .  .  .  ahime!  del  1876,  entrai  per  la  prima  volta 
nelPaula  di  Montecitorio,  questi  aneddoti  li  conoscevo  per  averli 
uditi  raccontare  le  tante  volte  da  testimoni  auricolari.  Pur  tuttavia 
appena  seduto  al  posto,  che  fu  poi  mio  per  quarantacinque  anni  di 
seguito,  ebbi  data  un'occhiata  in  giro,  mi  sentii  preso  da  un  grande 
sgomento.  Era  presidente  del  Consiglio  il  Depretis;  sedevano  a 
destra  il  Ricasoli,  il  Lamarmora,  il  Minghetti,  lo  Spaventa,  il  Sella, 
il  Lanza,  il  Pisanelli,  il  Peruzzi,  il  Bonghi,  il  Visconti  Venosta;  a 
sinistra  il  Crispi,  lo  Zanardelli,  Giuseppe  Ferrari,  il  Cairoli,  il 
Fabrizi,  il  Bertani,  il  Cavallotti,  il  Farini.1  Che  cosa  ero  venuto  a 
fare,  o  meglio  (che  per  verita  non  vi  entrai  volentieri)  che  cosa  mi 
avevano  mandato  a  far  li  gli  elettori  del  collegio  di  Pescia?  Mai 
e  poi  mai  non  avrei  osato  di  aprir  bocca  innanzi  a  cosi  alto  e  solenne 
consesso.  Per  piii  giorni  ascoltai  i  principi  della  parola  con  reveren- 
za,  i  men  felici  parlatori  con  deferenza,  fermo  ognor  piu  in  quel 
mai  e  poi  mai,  che  la  naturale  modestia  consigliava  ai  miei  inesperti 
pudori.  Quegli  aneddoti,  ripeto,  li  conoscevo,  ma  erano  corsi  ormai 

i.  Ricasoli:  vedi  la  nota  2  a  p.  429;  Lamarmora:  vedi  la  nota  5  a  p.  446; 
Lanza :  vedi  la  nota  4  a  p.  457 ;  Giuseppe  Pisanelli  (1812-1879),  esule  dopo 
il  1848,  deputato  dal  1860  per  collegi  del  Mezzogiorno,  ministro  di  grazia 
e  giustizia  con  Farini  e  Minghetti,  provvide  alia  prima  redazione  organica 
del  codice  civile  e  di  procedura  civile;  Peruzzi:  vedi  la  nota  zap.  1094; 
Visconti  Venosta:  vedi  la  nota  3  a  p.  293 ;  Crispi:  vedi  la  nota  2  a  p.  503; 
Giuseppe  Ferrari:  vedi  la  nota  I  a  p.  1 144;  Cairoli:  vedi  la  nota  4  a  p.  503 ; 
Fabrizi:  vedi  la  nota  4  a  p.  505 ;  Cavallotti:  vedi  la  nota  a  p.  916;  Fari 
ni:  vedi  la  nota  2  a  p.  438. 


1142  FERDINANDO    MARTINI 

i  dieci  e  i  quindici  anni,  la  Camera  s'era  rinnovata  piu  volte,  e  a 
ogni  modo  non  era  da  meravigliarsi  che  un'assemblea  di  cinque- 
cento  persone  accogliesse  due  parlatori  spropositati.  Una  rondine 
non  fa  primavera  e  due  neppure. 

Solo  un  punto  fu  quel  che  mi  vinse  e  mi  snebbio.  Quando  dal 
banco  del  Governo  udii  un  Ministro  dell'Agricoltura  rispondere  a 
un  interpellate,  che  dei  fatti  narrati  da  lui  il  Ministero  non  aveva 
notizia,  sebbene  si  fossero  sovvertiti  gli  archivi  e  compulsati  tutti  i 
capi  di  divisione. 

Fu  una  delusione  e,  perche"  non  dirlo?,  un  conforto.  Potevo 
discorrere  anch'io. 

Le  delusioni  si  susseguirono  rapidamente.  Fu  presentata  in  quei 
medesimi  giorni  alia  Camera  una  relazione  rimasta  lungamente  fa- 
mosa,  circa  un  disegno  di  legge  inteso  a  disciplinare  la  pesca  nelle 
nostre  acque  marine  e  fluviali.  Diceva:  « I  nostri  mari  fiumi  e  laghi 
tanto  ricchi  un  giorno  di  ogni  specie  di  pesci,  ora  da  tutti  se  ne  sente 
la  scarsezza ».  Era  lecito  supporre  eleganza  di  anacoluti  alia  Benve- 
nuto;1  ma  disgraziatamente  la  relazione  continuava  awertendo  che 
le  nostre  barche  pescarecce,  frequentavano  da  tempo  immemorabile 
«le  coste  dell' Africa  e  dell' Algeria »,  e  lamentando  «la  deficienza 
di  uomini  adatti  al  mestiere  del  corallo». 

Agostino  Bertani  si  Iev6,  e  dal  suo  seggio  delPestrema  sinistra 
propose  la  nomina  d'una  Giunta  che  esaminasse  ed  emendasse  le 
relazioni  parlamentari,  prima  della  loro  divulgazione :  si  che  non  ne 
ricevesse  offesa  la  dignita  della  Camera. 

Peggio  forse  il  rimedio  del  male:  comunque,  la  proposta  non 
trov6  favor  e  e  il  male  si  aggrav6:  di  li  a  poco  in  un'altra  relazione 
sulla  legge  provinciale  e  comunale  si  lesse,  non  sto  a  dire  con  quanta 
giocondita,  che  una  pianta  trasportata  da  uno  in  un  altro  continente 
pub  divenire  esotica. 

II  troppo  stroppia  e  soverchio  rompe  coperchio.  Ogni  giorno  ce 
n'era  una.  Guido  Baccelli3  parla  di  iperemia  cerebrale.  S'alzano  da 
sinistra  sdegnosi  richiami  e  il  Presidente  prega,  costretto,  il  depu- 
tato  di  Roma,  clinico  illustre,  a  usare  parole  che  sieno  alia  portata  di 
tutti.  Soverchio  rompe  coperchio :  degli  spropositi  e  delPignoranza 
dei  parlamentari  si  sorride  ne'  giornali,  ne'  crocchi  si  sghignazza. 
Parlamentum  indoctum.  Chi  fu  che  primo  propugn6  Pamara  sen- 

i .  Benvenuto  Cellini,  la  cui  autobiografia  e  ricca  di  anacoluti,  spesso  artisti- 
camente  efficaci.     2.  Guido  Baccelli:  vedi  la  nota  6  a  p.  548. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1143 

tenza?  Alia  opinione  pubblica  non  parve  ingiusta.  Parlamentum 
indoctum.  Bollata  con  quel  motto  latino  pass6  ingloriosamente  alia 
storia  quella  xma  legislatura,  la  prima,  occorre  notarlo,  dopo  1'as- 
sunzione  della  Sinistra  al  potere. 

* 

Certo  il  primo  trionfo  della  Sinistra,  nelle  elezioni  del  1876, 
non  fu  un  trionfo  della  coltura  nazionale.  Rimasero  tuttavia  nella 
Camera  tutti  gli  illustri  superstiti  della  rivoluzione,  il  senno  e 
la  dottrina  che  avevano  instaurato  il  nuovo  regno.  Vi  entrarono  si, 
in  schiera  numerosissima,  gli  spropositanti :  ma  una  cosa  era  da 
considerare :  che  a  costoro  il  seggio  in  Parlamento  era  premio  lun- 
gamente  agognato  e  duramente  conquistato.  Gli  autori  di  quelle 
relazioni  e  di  quelle  sentenze  irretiti  da  giovani  nelle  congiure, 
combattenti  in  Lombardia,  sugli  spalti  di  Marghera1  e  sulle  mura  di 
Roma,  condannati  alPesilio  o  alia  prigionia,  erano  tornati  in  patria 
o  usciti  dal  carcere,  in  eta  nella  quale  a  studiare  di  rado  si  prosegue, 
ma  non  s'incomincia. 

Se  duravo  fatica  nel  seguire  a  balzelloni  il  farraginoso  discorso  di 
Benedetto  Musolino,2  se  mi  spiaceva,  anzi  mi  disgustava  la  volgarita 
dell'abbondante  retoricume  nelle  vacue  invettive  di  Luigi  Mirelli, 
m'era  pur  sempre  presente  al  pensiero  Fopera  loro  valorosa  di  citta- 
dini  e  di  soldati.  Potevano,  e  vero,  astenersi  dallo  scrivere  e  dal  par- 
lare;  ma  nessuno  a  questo  mondo  e  perfetto;  e  forse  a  farsi  in- 
nanzi,  a  mettersi  in  mostra  li  sollecitava,  li  istigava  la  fortuna  del- 
Tuomo  che  fu,  come  oggi  direbbesi,  Vesponente  della  loro  coorte: 
Giovanni  Nicotera.3 

* 

6  un  dimenticato :  e  fu  oggetto  di  amori  e  di  odii,  gli  uni  e  gli  altri 
indomati.4  Capitoli  di  storia :  ma  io  nella  storia  non  raccolgo :  raci- 
molo  nella  cronaca. 

Ricordo:  il  Depretis  durante  quel  suo  primo  ministero  soleva 
ogni  tanto  trastullare  la  sua  maggioranza,  adunandola  alia  Minerva5 
nella  sala  che  udl  la  voce  di  Galileo :  per  «  coronare  Pedifizio  »,  di- 
ceva  lui  con  frase  pomposa:  in  realta  per  rintonacarne  le  crepe. 

i.  Marghera:  il  forte  divenuto  celebre  nella  difesa  di  Venezia  del  1849. 
Z.Benedetto  Musolino:  vedi  la  nota  i  a  p.  936.  3.  Giovanni  Nicotera: 
vedi  la  nota  i  a  p.  439  e  il  brano  del  Barboni,  qui  a  pp.  930-52.  4.  amo 
ri ...  indomati:  riecheggia  il  Manzoni,  II  cinque  maggio,  w.  59-60.  5.  Mi 
nerva:  il  palazzo  dove,  nel  1632,  fu  interrogato  e  processato  il  Galilei, 
poi  sede  del  ministero  dell'istruzione. 


1144  FERDINANDO    MARTINI 

Una  sera  il  Nicotera,  Ministro  delFinterno,  vi  prese  a  parlare; 
incominci6 :  —  Sebbene  un  ministro  deirinterno  abbia  poco  tempo 
da  dare  ai  libri,  ho  voluto  leggere  in  questi  giorni  la  storia  di  Napo- 
leone. 

Da  un  angolo  della  sala  lo  interruppe  con  voce  stentorea  Giu 
seppe  Ferrari1  che,  per  molti  anni  professore  nella  Universita  di 
Strasburgo,  usciva  spesso  inawertito2  a  esprimersi  in  francese : 

—  C'est  un  peu  tard,  mon  ami! 

Ricordo  un  episodio  piu  significante  e  piu  grave,  del  quale  gli  atti 
parlamentari  non  conservano  traccia :  mani  tutrici  della  dignita  mi- 
nisteriale  ve  la  cancellarono. 

II  partito  di  sinistra,  compatto  e  concorde  finch<§  dur6  a  combat- 
tere,  in  Parlamento,  partito  di  opposizione,  salito  al  potere  si  sgre- 
tolo.  Come  sempre  awiene  i  «rimasti  fuori))  bofonchiavano ;  tra  gli 
altri  uno  dej  suoi  migliori,  il  generate  Clemente  Corte,3  il  quale, 
secondo  dicevasi,  desiderava  Pufficio  di  segretario  generate  al  Mi- 
nistero  della  guerra  e,  vero  o  no  che  fosse,  della  propria  esclusione 
accagionava  una  ingiunzione  del  Nicotera ;  e  perche"  era  parlatore  fa 
cile  e  arguto,  si  divertiva  o  si  sfogava  nel  punzecchiarlo  di  continue. 
Gli  aveva  rivolto  una  interpellanza  circa,  se  non  erro,  un  comizio 
da  tenersi  nel  Veneto,  e  dal  Nicotera  vietato.  II  segretario  partico- 
lare  del  Ministro,  Gennaro  Minervini,4  allora  giovane  e  che,  sin 
d'allora  aweduto  e  colto,  divenne  poi  prefetto  e  senatore,  provvide 
armi  per  la  battaglia:  e  poiche  il  Corte  che  visse  i  lunghi  anni  del- 
Tesilio  in  Inghilterra  usava  ne'  suoi  discorsi  riferirsi  spesso  alle 
leggi  e  alle  consuetudini  inglesi,  in  quelle  pesco  e  trov6  ci6  che  fa- 
ceva  al  suo  caso. 

Awenne  quanto  aveva  preveduto.  II  Corte  accenn6  ripetuta- 
mente  all' Inghilterra,  paragon6  leggi  con  leggi,  costumanze  con 
costumanze,  e  del  confronto  fece  argomento  di  censura  al  Ministro. 
Intanto  ch'egli  svolgeva  la  sua  interpellanza,  il  segretario  dalla 
tribuna  dove  stava  in  ascolto,  mand6  al  Nicotera  alcune  righe  scritte 
con  la  matita,  ove  era  citata  una  legge  dei  Tudor,  dalle  cui  prescri- 

i.  Giuseppe  Ferrari  (1811-1876),  di  Milano,  filosofo  e  uomo  politico  notis- 
simo.  Esule  in  Francia  nel  1838.  Entr6  nella  vita  parlamentare  nel  1860, 
prepare  1'awento  della  Sinistra,  senatore  nel  1876.  Tra  le  sue  opere,  ap- 
prezzatissime :  Filosofia  della  rivoluzione  (1851);  Histoire  des  revolutions  d'l- 
talie  (1856-1858) ;  Corso  sugli  scrittori politici  d*  Italia  (1862).  Vedi,  in  que- 
sta  collezione,  Romagnosi,  Cattaneoy  Ferrari,  a  cura  di  E.  Sestan.  2.  inav- 
vertito:  senza  accorgersene.  3.  Clemente  Corte:  vedi  la  nota  2  a  p.  505. 
4.  Gennaro  Minervini  (1847-1916),  di  Trani,  senatore  dal  1911. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1145 

zioni  si  sarebbe  detto  ispirato  il  Ministro  italiano  nel  decretar  quel 
divieto.  II  Nicotera  stim6,  ragionevolmente,  avere  in  quegli  ap- 
punti  armi  formidabili:  si  alz6,  rettific6,  addusse  ragioni  d'ordine 
pubblico  e  serb6  per  ultimo  la  recente  erudizione  -  strumento  di 
sterminio  delle  forze  awersarie.  Se  non  che  egli,  che  dei  Tudor 
non  aveva  mai  sentito  parlare  in  vita  sua,  lesse  male :  e  innanzi  alia 
Camera  attonita  sfodero  un  re  Teodoro  non  mai  daun  episodic  grot- 
tesco  della  Storia  di  Corsica*  e  dai  melodrammi  giocosi  dell'abate 
Casti2  passato  a  sedere  sul  trono  di  Enrico  VIII.  E  non  si  content6  di 
nominarlo  di  volo,  ma  se  mi  e  lecita  la  parola,  ci  si  sdraio.  Re  Teo 
doro  aveva  detto,  re  Teodoro  aveva  fatto,  e  chiunque  sappia  quale 
autorita  aveva  re  Teodoro  . . .  e  via  di  questo  passo  parecchi  minuti. 

Ne"  basta :  al  Corte  che,  interrompendolo  con  ironica  compunzio- 
ne,  confessava  di  non  aver  trovato  notizia  di  questo  re  nelle  storie 
lette,  rispose  con  convinta  baldanza:  — Le  rilegga  meglio. 

La  Camera  stupefatta  non  fiat6 ;  un  solo  deputato  -  Silvio  Spa- 
venta  -  fece  un  atto  di  sdegno  ed  usci  dalPaula.  II  Nicotera  rimase 
al  suo  posto  di  Ministro  e  non  perde  delFautorita  sua.  Perch6,  nono- 
stante  quelle  ed  altre  troppe  e  troppo  palesi  prove  d'ogni  difetto 
di  coltura,  fu  un  buon  ministro  delPinterno :  esperto  con  accorgi- 
mento,  accorto  con  energia:  senza  la  «fame  canina  della  popolarita» 
che  il  Jefferson  rimproverava  al  Lafayette,3  e  che  fu  la  debolezza  e 
il  danno  di  molti  Ministri  in  Italia  -  e  fuori  d' Italia. 


UN  PRESIDENTE4 

Una  sera  del  luglio  1885,  Agostino  Depretis,5  Presidente  del  Con- 
siglio  e  Ministro  delPInterno,  awolto  nelPampia  veste  da  camera  a 
scacchi  rossi  e  neri,  ordinava  nella  propria  stanza  di  studio  le  pro- 

i.  un  episodic  ,  .  .  Corsica:  nel  1736  la  Corsica,  ribellatasi  a  Geneva,  trovo 
per  breve  tempo  un  capo  in  Teodoro  di  Neuhoft,  e  lo  proclam6  re.  2.  Giam- 
battista  Casti  (1724-1803),  noto  letterato  (Poema  tartaro,  1787;  Gli  animali 
parlanti,  1802),  compose  un  Teodoro  in  Venezia,  dramma  eroicomico  in 
due  atti,  che  gli  era  stato  richiesto  dal  Paisiello  giunto  a  Vienna  nel  1784, 
quando  vi  era  il  Casti.  3.  Thomas  Jefferson  (1743-1826),  terzo  presidente 
degli  Stati  Uniti  d' America  (1801-1805 ;  1805-1809);  Jean  Marie  Gilbert, 
marchese  di  Lafayette  (1756-1834),  comand6  da  giovanissimo  i  volontari 
combattenti  per  Tindipendenza  degli  Stati  Uniti  d' America.  4.  Ed.  cit., 
cap.  xi,  pp.  191-205.  5.  Sul  Depretis  vedi  la  nota  Sap.  496,  e  G.  CA- 
ROCCI,  Agostino  Depretis  e  la  politica  interna  italiana  dal  i8j6  al 
Torino,  Einaudi,  1956. 


1146  FERDINANDO    MARTINI 

prie  carte,  preparando  cosl  la  prossima  partenza  per  restive  sog- 
giorno  di  Stradella;  riposato  soggiorno  che  gli  facevano  piu  deside 
rate  e  piu  caro  le  piu  lunghe  fatiche  della  sessione  parlamentare 
chiusa  da  poco,  e  la  dura  battaglia  sostenuta  nel  difendere  contro  agli 
assalti  di  una  opposizione  forte,  ardimentosa,  implacabile  le  con- 
venzioni  ferroviarie.1 

GH  amici  soliti  passar  la  sera  da  lui  se  n'erano  andati,  awicinan- 
dosi  la  mezzanotte,  ed  egli  me  aveva  trattenuto,  affinche  lo  aiutassi 
a  rinvenire  questa  o  quella  carta,  tral  confuse  ammassamento 
ond'erano  ingombrati  la  scrivania,  le  sedie  e  perfino  rimpiantito. 

Interruppero  il  noioso  lavoro  alcune  lettere  del  Mazzini  che  gli 
vennero  sotto  mane ;  intanto  ch'ei  le  scorreva  con  rapide  occhiate, 
m'incominci6  a  raccontare  delle  sue  relazioni  col  gran  Genovese; 
e  come,  seguace  un  tempo  delle  dottrine  di  lui,  frequentasse  conci- 
liaboli,  prendesse  parte  a  congiure  di  repubblicani ;  e  come  piu 
tardi  e  perch£  si  riconciliasse  con  la  monarchia. 

Que'  frammenti  autobiografici  mi  attraevano,  mi  incuriosivano ; 
con  qualche  discreta  domanda  procurai  Pautobiografia  continuasse; 
e  il  Depretis,  che  probabilmente  aveva  voglia  quella  sera  non  di 
raccontare  a  me,  ma  di  rammentare  a  se  stesso,  continu6.  II  rac- 
conto  proced£  a  sbalzi,  sospinto  ora  da  un  nome,  ora  da  una  data, 
ora  da  una  associazione  d'idee;  cangiando  di  volta  in  volta  insieme 
col  tone  della  voce  la  fisionomia  del  raccontatore ;  gioconda  nel 
riandare  le  scappate  dello  studente  del  collegio  Ghislieri,  cupa  nel 
rammemorare  la  sconfitta  di  Lissa,  awenuta  quand'egli  era  Mi- 
nistro  della  marina. 

E  cosl  via  via;  da  ultimo  il  racconto  si  mut6  in  uno  sfogo.  I  nove 
anni  durante  i  quali,  tranne  brevi  inter valli,  maggioranze  a  tutta 
prova  fedeli  lo  avevano  mantenuto  alia  Presidenza,  non  gli  lascia- 
vano  che  tristi  ricordi:  ricordi  di  amarezze,  di  difficolta  tentate  e 
non  vinte,  di  cure  faticose  in  opere  vane.  Dove  aveva  sperato  aiuti, 
trov6  pretese  prepotenti  e  irrequiete;  i  maggiori  uomini  di  parte 

i.le  convenzioni  ferroviarie:  conforme  alle  conclusion!  della  commissione 
parlamentare  d'inchiesta,  presieduta  dall'on.  Brioschi,  il  ministro  dei  la- 
vori  pubblici  nel  gabinetto  Depretis,  on.  Francesco  Genala,  stipulava  le 
convenzioni  ferroviarie,  divenute  legge  dello  Stato  italiano  il  27  aprile  1885. 
Ai  termini  delle  convenzioni  stesse,  la  rete  ferroviaria  italiana  era  pratica- 
mente  ripartita  in  tre  settori  dati  rispettivamente  in  appalto  e  in  gestione 
alia  Societa  strade  ferrate  meridionali  (Rete  adriatica),  alia  Societa  strade 
ferrate  del  Mediterraneo,  di  nuova  costituzione  (Rete  mediterranea),  e  alia 
Societa  strade  ferrate  della  Sicilia,  pure  di  nuova  costituzione  (Rete  sicula). 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1147 

sua  ora  gli  erano  awersi;  e  intanto  la  finanza  in  dissesto,  il  paese 
malcontento  . .  . 

—  Ah!— disse  alzandosi  —  caro  Martini,  Iascer6  ai  miei  suc- 
cessori  una  brutta  eredita. 

Tacqui.  Scorsi  alcuni  secondi,  soggiunse  malinconico :  —  E  poi  ? 

Strettami  la  mano,  mi  conged6. 

Forse  nel  pronunciare  quell'cc  E  poi  ? »  egli  mir6  con  occhio  si- 
euro  nell'awenire,  ed  espresse  insieme  il  presagio  e  il  rammarico 
dei  solleciti  oblii.  Vivono  ancora  nella  memoria  degli  Italiani  il 
Minghetti,  il  Rattazzi,  il  Lanza,  il  Sella,  il  Crispi;  ma  chi  pensa  piu 
ad  Agostino  Depretis,  che  pur  tenne  onnipotente  nelle  proprie 
mani  per  un  decennio  il  governo  dello  Stato  ?  E  perch6  cosi  presto 
dimenticato  il  Depretis,  quando  Paver  durato  nella  presidenza  del 
Consiglio  per  tratto  di  tempo  cosi  lungo  e  «  nel  bello  italo  regno  »x 
inconsueto,  e  prova  manifesta  che  non  difettarono  in  lui  doni  e 
qualita  d'uomo  di  Governo? 

Corsi  oramai  piu  che  venti  anni,  da  che  egli  scomparve  dalla 
scena  politica  e  da  quella  del  mondo,  e  lecito  anche  a  me  che  gli  fui 
sinceramente  affezionato,  il  giudizio  che  di  se  medesimo  e  dell'opera 
sua  egli  forse  pens6  in  quella  sera. 


Carlo  Nodier2  narro  che  in  un  giorno  del  1815,  nota  a  Parigi  la 
catastrofe  di  Waterloo,  mentre  il  Fouche"3  macchinava  tradimenti, 
le  Camere  dei  deputati  e  dei  pari  preparavano  le  vergogne  e  le 
codardie,  e  il  popolo  acclamava  con  aselvaggio  entusiasmo»  Fim- 
peratore  sotto  le  finestre  delPEliseo,  Rouget  de  Lisle4  entr6  in  casa 
d'amici,  trafelato,  ansante,  in  faccia  sconvolto.  Chiestogli  il  per- 
ch6  del  suo  turbamento  e  come  andassero  le  cose,  —  Male  perdio!  — 
replic6  —  cantano  la  Marsigliesel 

L'aneddoto  mi  torna  alia  mente  ogni  qualvolta  ripenso  ad  Ago 
stino  Depretis.  Eletto,  dopo  la  morte  del  Rattazzi,5  a  capitanare  la 
sinistra  parlamentare,  port6  seco  al  Governo  i  concetti  e  i  disegni 

1.  «  nel  bello  .  .  .  regno » :  e  riecheggiato  un  verso  del  Foscolo,  Sepolcri,  v.  143. 

2.  Carlo  Nodier  (1783-1844),  scrittore  francese,  direttore  della  Bibliotheque 
de  V Arsenal,  autore  del  romanzo  Les  proscrits,  e  di  vari  altri  romanzi  e 
novelle.     3.  Joseph  Foucht  (1754-1820),  dopo  essere  stato  ministro  di  Na- 
poleone  I,  fu  ministro  di  Luigi  XVIII.     4.  Claude  Joseph  Rouget  de  Lisle 
(1760-1836),  ufficiale  francese,  aveva  musicato  i  versi  di  quell'inno  che  fu 
poi  chiamato  la  Marsigliese.     5.  Rattazzi:  vedi  la  nota  i  a  p.  501. 


1148  FERDINANDO    MARTINI 

del  proprio  partito ;  primo,  fra  questi,  la  riforma  della  legge  elet- 
torale.1  La  voile,  la  propose,  la  ottenne;  ma  ottenutola  (lo  sa  chi  lo 
udi  da  lui  stesso)  si  spavent6  degli  effetti ;  tem6  che  la  partecipa- 
zione  del  «  nuovi  strati  sociali »  alia  vita  pubblica  avesse  per  logica 
conseguenza  profondi  sowertimenti  negli  ordini  dello  Stato;  ed 
egli  pose  d'allora  in  poi  ogni  cura  maggiore  nel  prowedere  ai  ri- 
pari,  nelFopporre  argini  robusti  alle  paventate  fiumane. 

Cosi,  stimando  se  necessario  alia  salute  del  paese,  anche  stim6 
dover  suo  il  raccogliere  maggioranze  comunque  composte;2  Iasci6 
gli  amici  tepidi  o  reputati  mal  fidi,  e  chiese  aiuti  ad  uomini  parla- 
mentari  dej  quali  fu  per  lo  innanzi  accanito  awersario,  per  poi 
tornare  sui  proprii  passi  e  ricercare  sostegno  la  donde  prima  era 
uscito  con  abbandoni  che  parvero  apostasie.  Tra  i  continui  ondeg- 
giamenti,  le  trepide  sollecitudini  e  in  quel  tutto  e  sempre  sacrifi- 
care  alia  custodia  delle  maggioranze,  non  e  meraviglia  il  Depretis 
smarrisse  alcuni  dej  requisiti  delPuomo  di  Stato.  Badiamo:  non 
soltanto  le  faticose  e  sterili  abilita  giornaliere;  ma  dal  mirare  alto  e 
lontano,  dal  considerare  la  parte  che  alia  terza  Italia  spetta  fra  i 
nuovi  elementi  di  civilta,  lo  faceva  alieno  la  sua  stessa  natura  essen- 
zialmente  borghese,  nel  significato  che  i  francesi  danno  a  questa 
parola.  La  politica  estera,  per  esempio,  lo  seccava;  «Dopo  i  pro- 
fessori, »  soleva  dire  « la  gente  che  odio  di  piu  sono  i  diplomatici » ; 
-  e  odiava  la  diplomazia  probabilmente  per  la  stessa  ragione  per  la 
quale  io  da  giovane  odiai  il  ballo :  perch6  ballavo  male. 

Quando  ventiquattro  anni  or  sono,  per  improvviso  sollevamento 
di  popolo,  la  Rumelia  orientale  si  uni  con  la  Bulgaria,3  il  Depretis 
che  reggeva  interinalmente  il  Ministero  degli  affari  esteri,  era  a 
Stradella.  II  Direttore  generale  degli  affari  politici,  sorpreso  da  un 
awenimento  impreveduto  e  tale  che  I'Europa  poteva  andare  a 
fuoco  e  fiamma,  gli  telegraf6  per  avere  istruzioni.  II  Depretis  non 
rispose;  Paltro  daccapo,  e  il  Depretis  zitto.  Per  una  settimana  alia 
Consulta,  dove  Ministri  ed  ambasciatori  andavano  di  continue  a 
domandare  e  proporre,  non  si  seppe  che  replicare.  Capit6  finalmente 
a  Stradella  il  conte  di  Robilant4  venuto  da  Vienna  e  col  quale  si 

i.  la  riforma .  .  .  elettorale:  il  20  dicembre  1882  fu  approvata  la  nuova 
legge  elettorale  che  quadruplic6  il  numero  degli  elettori.  2.  maggioranze 
. .  .  composte:  il  Depretis  inizi6  queH'indirizzo  politico  che  si  chiam6 
« trasformismo ».  3.  la  Rumelia  .  .  .  Bulgaria:  Tunione  awenne  nel  1885. 
4.  Carlo  Felice  Nicolis,  conte  di  Robilant  (1826-1888),  di  Torino,  generale  e 
uomo  politico.  Nel  maggio  1871  era  stato  inviato  a  Vienna  come  ministro 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1149 

facevano  appunto  uffici  affinche  egli  si  addossasse  la  direzione  della 
politica  estera. 

Riferisco  il  dialogo  tale  e  quale  a  me  lo  ridisse  lo  stesso  conte  di 
Robilant,  ed  io  fedelmente  lo  scrissi,  appena  terminata  una  conver 
sazione  con  lui. 

—  Senta,  conte,  —  incominci6  il  Depretis  —  parleremo  poi  del 
resto :  ma  intanto  mi  faccia  il  piacere  di  dirmi  die  cosa  posso  ri- 
spondere  a  Roma  circa  questa  noiosa  faccenda  della  Bulgaria. 

—  Ma,  Eccellenza,  io  sono  venuto  qui  appunto  per  dirle  che  sono 
grato  delPofferta  fattami,  ma  che  per  molte  ragioni  non  sono  dispo- 
sto  ad  accoglierla. 

—  Di  questo,  ripeto,  parleremo  poi,  ma  intanto  La  prego  di 
dirmi .  .  . 

—  Ma,  Eccellenza,  ella  intende  che  delle  risposte  se  ne  possono 
dare  piu  e  diverse.  Dal  prendere  una  strada  o  un'altra  dipendera 
poi  il  contegno  delPItalia  nelle  cose  d'Oriente,  ed  io  non  posso  ne 
suggerire  risposte,  n<§  dare  consigli  che  violino  la  liberta  del  futuro 
Ministro  degli  affari  esteri . .  .  Non  ho  veste  per  farlo  e  .  . . 

—  Non  importa,  sono  responsabile  io. 

—  In  primo  luogo,  bisognerebbe  sapere  molte  cose  che  io  non  so ... 

—  Ma  basta  una  risposta .  .  .  cosi .  .  .  sulle  generali. 

—  Che  cosa  posso  dire  ?  F  Italia  &  in  buone  relazioni  con  T Au 
stria  e  con  la  Germania;1  P Austria  pu6  avere  in  questa  questione 
desideri  e  interessi  diversi  dai  nostri ;  la  Germania  invece  non  desi- 
dera  se  non  il  mantenimento  della  pace.  Si  potrebbe,  per  non  com- 
promettere  nulla,  dare  istruzioni  affinche  i  rappresentanti  del- 
Pltalia  procedano  d'accordo  con  quelli  della  Germania. 

—  Benissimo;  ed  ora  mi  faccia  un  altro  piacere.  Scriva  Lei:  io 
poi  mander6  a  Roma. 

E  il  conte  di  Robilant  si  sed6,  prese  carta  e  penna  e  butt6  giu  la 
nota  che,  sottoscritta  dal  Depretis,  fu  poi  pubblicata  nel  Libra 
Verde.2 

plenipotenziario,  e  nel  1876  vi  era  stato  accreditato  come  ambasciatore, 
rimanendo  in  tale  carica  fino  al  1885.  II  6  ottobre  1886  fu  chiamato  al  mi- 
nistero  degli  esteri  dal  Depretis.  Negli  ultimi  mesi  di  vita  fu  ambasciatore 
a  Londra,  dove  morl.  i.  /' Italia  ,  .  .  Germania:  nel  1882  era  stata  stipu- 
lata  la  Triplice  alleanza.  2.  Libro  Verde:  in  Italia  si  chiamano  libri  verdi, 
dal  colore  della  copertina,  i  rapporti  politici  e  le  relazioni  diplomatiche  che 
il  Governo  presenta  al  Parlamento.  In  altri  Stati  il  nome  di  simili  libri  cor- 
risponde  al  diverso  colore  tradizionale  delle  copertine  (azzurro  in  Inghil- 
terra,  'bianco  in  Francia,  ecc.). 


1150  FERDINANDO    MARTINI 


Inoltre  il  Depretis  appartenne  a  quella  schiera  di  uomini  parla- 
mentari,  numerosa  troppo  in  Italia  a'  suoi  tempi  e  dipoi,  i  quali  una 
volta  datisi  alia  politica,  non  han  piii  pensiero  che  non  sia  suo,  che 
di  essa  vivo  no  trecentosessantacinque  giorni  delPanno  e  diciotto  ore 
almeno  di  ciascun  giorno,  a  tutto  che  di  politica  non  sia,  chiudendo 
gli  occhi  e  gli  orecchi.  Egli  stesso  confessava  di  essere  stato  al  tea- 
tro  in  trent'anni  tre  volte:  una,  spontaneo,  per  sentire  Ferravilla,1 
due  costretto  perche" ,  ministro,  dove  accompagnare  il  re  a  «  spetta- 
coli  di  gala».  lo  non  sto  ad  esaminare  se  abbiano  ragione  coloro  i 
quali  affermano  che  la  varieta  della  coltura  nuoce  anziche"  giovare 
airuomo  di  governo;  come  quella  che,  ponendogli  innanzi  i  di- 
versi  aspetti  delle  cose,  lo  fa  piu  incline  al  considerare,  al  parago- 
nare  che  al  risolvere,  e  ingenera  dubbiezze  e  titubanze  che  sono  in 
chi  governa  un  difetto  e  un  pericolo.  Sara :  io  penso  bensi  che  non  si 
possa  bene,  cioe  con  alti  intendimenti,  governare  un  paese,  se  non 
si  abbia  nozione  certa  delle  forze  intellettuali  delle  quali  dispone. 

Orbene:  mi  ricordo  che  nelPSo  o  nelPSi,  salvo  il  vero,  men- 
tre  andavo  girando  per  POberland,  mi  pervenne  un  telegramma  di 
Teodorico  Bonacci,2  allora  segretario  generale  del  Depretis,  col 
quale  mi  si  pregava  di  non  indugiar  troppo  il  mio  ritorno  a  Roma. 
Tornai ;  si  doveva  comporre  la  giunta  giudicatrice  nel  concorso  per 
il  monumento  a  Vittorio  Emanuele,  e  il  Depretis  desiderava  che  io 
gli  indicassi  architetti,  scultori,  pittori  da  eleggere  a  far  parte  della 
giunta  medesima.  Gli  proposi  tra  gli  scultori  il  Dupre".3  Egli  mi 
guard6  di  sopra  gli  occhiali  e  domandb: 

—  Quale  Dupre"  ? 

—  Non  ce  n'e  che  uno.  Quello  dell'Abele. 

—  Buono? 

—  Ma!  .  .  .  per  quel  che  fa  la  piazza  .  .  . 

—  Dupre  .  .  .  Dupr6  .  .  .  aspettate  un  momento  .  .  .  quello  che  ha 
fatto  il  monumento  a  Cavour  a  Torino? 

—  Precisamente  lui. 

—  Allora  va  bene. 

i.  Edoardo  Ferravilla.  (1846-1915),  attore  e  auto  re  del  teatro  dialettale 
milanese,  creatore  felicissimo  di  tipi  e  macchiette.  2.  L'onorevole  Teo 
dorico  Bonacci  (1838-1905),  di  Jesi,  fu  poi  ministro  di  grazia  e  giustizia 
(1892-1893  e  1898).  3.  Dupre:  vedi  p.  920  e  la  nota  3.  La  morte  di  Abele 
fu  eseguita  nel  1842. 


CONFESSIONI   E  RICORDI   (1859-1892)  1151 

E  scrisse  il  nome  del  Dupre,  del  quale  non  conosceva  se  non  una 
delle  opere  meno  felici ...  Si  pass6  ai  pittori: 

—  Domenico  Morelli,1 
-ChiMorelli? 

—  Morelli . . .  non  saprei  dir  altro.  Morelli. 

—  Mai  sentito  nominare. 

—  Me  ne  dispiace. 
-Didov'e? 

—  Di  Napoli. 

—  Uhm!  questo  andrebbe  bene,  perch6  qualche  napoletano  biso-  • 
gna  metterlo ;  ma  non  bisogna,  caro  Martini,  lasciarsi  guidare  dalle 
'simpatie.  Qui  ci  vuol  gente  conosciuta.  Basta,  m'informero. 

Inutile  dire  che,  per  suggerimento  di  quanti  egli  interrog6,  il 
Moreili  fu  chiamato  a  far  parte  di  quella  Giunta;  deve  invece  ram- 
mentarsi  che  piii  tardi  entr6  nella  Camera  vitalizia  per  proposta 
dello  stesso  Depretis;  ma  il  fatto  £  che  questi  nell'So  e  nelPSi  igno- 
rava  che  fossero  al  mondo  il  Morelli  e  il  Dupr6;  e  1'ignorarlo  era 
tanto  piu  grave,  quanto  maggiore  la  estimazione  in  cui  italiani  e 
stranieri  tenevano  i  due  valentissimi  artisti  nostri. 

Non  dico,  intendiamoci,  che  un  Presidente  del  Consiglio  dei  mi- 
nistri  abbia  1'obbligo  d'intendersi  di  quadri  e  di  statue;  ma  deve 
sapere  che  c'e  nel  proprio  paese  uno  scultore  famoso,  un  pittore 
famoso,  un  fisiologo  famoso,  un  astronomo  famoso  e  via  dicendo: 
se  no  egli  non  sa  quanto  il  proprio  paese  valga,  quanto  possa,  in 
qual  conto  meriti  di  esser  tenuto. 

Ma  egli  non  d'altro  si  curava  che  della  Camera.  La  Camera, 
la  Camera!  Quando  sapeva  o  sentiva  d' aver  la  in  pugno,  il  resto 
non  aveva  importanza  per  lui.  Per  dime  una:  di  quanti  Con- 
sigli  di  ministri  si  tennero  sotto  la  sua  presidenza,  non  si  fece 
se  non  raramente  processo  verbale.  Nel  salotto  di  via  Nazionale, 
dove,  specie  sugli  ultimi,  il  Consiglio  si  adun6,  non  c'era  che  un 
piccolo  tavolinetto  tondo,  spesso  senza  carta  n6  calamaio.  Una 
volta,  entrandovi  subito  dopo  che  i  ministri  vi  erano  usciti,  vi  tro- 
vai  un  solo  pacco  di  buste  messe  li  per  figura,  con  due  delle  quali 
qualcheduno  s'era  divertito  a  fare  delle  oche.  Non  potei,  vedendole, 
trattenere  un  sorriso.  II  Depretis  se  ne  accorse  e  sorridendo  anche 
lui: 

i.  Domenico  Morelli:  vedi  la  nota  i  a  p.  442. 


1152  FERDINANDO    MARTINI 

—  Veramente  le  oche  dipendono  dal  Ministro  dell'istruzione, 
ma  quelle  le  ha  fatte  il  Ministro  delPagricoltura. 


Questa  noncuranza  per  tutto  ci6  che  non  si  attenesse  alia  poli- 
tica  parlamentare  traluceva  dai  suoi  stessi  discorsi.  Nel  Depretis 
lo  stile  fu  veramente  Tuomo.  Tral  monotone  succedersi  delle  pa 
role,  mai  non  scatt6  un  pensiero  o  una  frase  originate .  Si  disse  e 
crede"  egli  fosse  lettore  e  lettore  assiduo,  quanto  le  cure  del  governo 
lo  permettevano,  di  classici  italiani  e  latini.  Novelle!  Le  citazioni 
oraziane  e  dantesche  ch'egli  intercalava  ne'  suoi  discorsi  non  erano 
fresche  di  letture  recenti,  bensi  vizze  reminiscenze  di  scuola. 
Non  gi£  ch'egli  non  si  fosse  nutrito  da  giovane  di  coltura  classica ; 
ma  Pesagerazione  di  quello  che  chiamano  «spirito  pratico»  lo 
aveva  fatto  sdegnoso  degli  ornamenti  della  parola.  Ogni  frase  alta 
e  potente  era  inutile  fronda  per  lui ;  e  a  furia  di  odiare  le  fronde,  era 
arrivato  a  recidere  il  ramo.  Presidente  del  Consiglio  avrebbe  vo- 
luto,  se  possibile,  non  parlare  nemmeno.  Suo  studio  precipuo  e 
costante  era  ingaggiar  la  battaglia  con  una  legione  di  aderenti  nu- 
mericamente  maggiore  della  falange  avversaria;  poi  disposte  le 
schiere,  Farringarle  gli  pareva  un  di  piu.  Parlava  perch6  gli  era  ob- 
bligo,  perche" parlamento  viene  da  parlare;  che  altrimenti,  udite  le 
concioni  altrui,  avrebbe  crollato  le  spalle  e  compendiato  il  dibat- 
tito  in  questo  imperativo:  Votiamo. 

E  Peloquio  modesto  ebbe  anzi  vanto  di  sobria  semplicita,  ed  egli 
pote*  sembrare  oratore  efficace,  sin  tanto  si  rivolse  a  maggioranze  le 
quali  non  desideravano  che  di  essere  persuase,  e  per  un  certo  tempo 
e  in  particolari  circostanze  disposte  a  seguirlo,  anche  se  non  per 
suase.  Ma  quello  trascorso,  e  queste  mutate,  quante  scaltrezze, 
quante  lusinghe,  quanto  travagliarsi  in  affannosi  armeggii  per  riac- 
cozzare  le  torme,  che  non  strette  da  comunanza  di  principii  e  d'in- 
tendimenti,  si  sbandavano  in  cerca  di  miglior  capitano!  Quante 
astute  promesse  per  addolcire  gli  oppositori!  Nel  novembre  delP86, 
tornando  a  Roma,  lessi  in  ferrovia  che  il  Depretis  aveva  giorni 
innanzi  promesso  a  Ruggero  Bonghi  e  a  Guido  Baccelli  di  proporre 
un  disegno  di  legge  per  la  passeggiata  archeologica  che  questi  idea- 
va  e  vagheggiava  da  tempo.  Appena  arrivato,  andai,  come  solevo,  a 
salutare  il  Presidente :  lo  trovai  che  stava  per  montare  in  carrozza. 

—  Avete  qualcosa  da  dirmi  ? 


CONFESSIONI    E   RICORDI    (1859-1892)  1153 

—  No.  Venivo  per  salutarla. 

—  Vado  al  Senate.  Accompagnatemi. 
Strada  facendo: 

—  £  vero  —  domandai  —  che  ha  promesso  la  passeggiata  archeo- 
logica  P1 

-Si. 

—  I  giornali  dicono  che  costera  venticinque  milioni. 

—  Cosi  pare. 

—  Ma  e  allora?  Come  si  puo,  nelle  condizioni  present!  della  fi- 
nanza,  spendere  venticinque  milioni  per  un'opera  bella,  non  c'e 
che  dire,  ma  non  urgente? 

—  Se  il  bilancio  non  lo  permette,  non  si  fara. 

—  Ma  lei  ha  promesso. 

—  Sicuro:  e  se  avessi  promesso  di  fare  una  cosa  che  costasse 
centomila  lire,  mi  troverei  impicciato ;  ma  per  una  spesa  di  venticin 
que  milioni,  eh!  lasciate  stare,  ci  sara  chi  proweda,  nonostante  le 
mie  promesse.  lo  ho  promesso,  sicuro:  ma  se  non  ci  sono  denari, 
capirete  bene,  ad  impossibilia  nemo  tenetur.z 

Lusinghe  furbesche,  condiscendenze  costrette,  tutte  debolezze 
delPuomo  di  governo,  furono  in  gran  parte  a  lui  forza  e  fortuna 
parlamentare ;  il  resto  gli  venne  dagli  eccessi  de'  suoi  awersari; 
ragguardevoli  e  stimati  uomini,  uno  per  uno,  ma  tutti  insieme  in 
sospetto  di  troppo  intime  relazioni  co*  partiti  estremi.  Bast6  che 
uno  di  quegli  uomini,  il  piu  vigoroso  e  pronto,  si  staccasse  dagli 
altri ;  baste-  che  il  Crispi  si  facesse  innanzi,  e  dimostrasse  voler  spez- 
zare  i  vincoli  che,  vero  o  no,  si  credeva  lo  stringessero  aj  radicali, 
perche  la  borghesia  egoista  e  paurosa,  cosi  bene  rappresentata  nella 
Camera  (la  Camera  d'allora,  s'intende),  buttasse  tra'  ferri  vecchi  il 
Depretis  venuto  a  noia,  e  si  prostrasse  alPidolo  nuovo. 

* 

E  oggi  chi  si  ricorda  piu  di  Agostino  Depretis?  Eppure  Tho  gia 
awertito  ed  e  chiaro ;  non  si  tiene  per  dieci  anni  nelle  proprie  mani 
il  Governo,  senza  aver  doti  e  qualita  d'uomo  di  Governo.  Senza  dire 
della  rettitudine  incontrastata,  del  profondo  e  vivo  amore  della  pa- 
tria,  il  Depretis  doni  e  qualita  ebbe  difatti.  Quali?  Fine  accorgi- 

i.  passeggiata  archeologica:  il  viale  alberato  che  dalle  pendici  del  Celio,  del 
Palatino  e  deH'Aventino,  e  dalla  zona  del  Circo  Massimo,  conduce  ai  ru- 
deri  delle  Terme  di  Caracalla  e  all'imboccatura  della  via  Appia.  2.  « Nes- 
suno  e  tenuto  a  far  ci6  che  e  impossible. » 

73 


1154  FERDINANDO    MARTINI 

mento,  animo  pacato,  operosita  infaticabile,  contezza  ampla,  lim- 
pida  di  ogni  congegno  della  pubblica  amministrazione,  conoscenza 
altrettanto  ampia  e  certa  di  quella  che  chiamano  la  scacchiera  par- 
lamentare,  ossia,  senza  metafora,  delle  passioncelle,  delle  ambizioni, 
delle  rivalita,  dei  rancori  vicendevoli  e  delle  reciproche  gelosie; 
abili  artifizi  nel  barcamenarsi,  prontezza  di  trovate  nei  momenti 
pericolosi,  fecondita  di  giornalieri  espedienti.  Ottimi  requisiti  anche 
questi:  preservativi  eccellenti  per  la  conservazione  de'  portafogli, 
sbarre  con  le  quali  si  chiudono  piu  o  men  lungamente  ad  altri  le 
porte  dej  Ministeri,  ahime!  non  chiavi  per  aprire  a  se  stessi  quelle 
della  posterita  e  della  storia! 


GUERRA  DI   SUCCESSIONE1 

11  cardinale  Bellarmino2  nel  libro  De  romano  pontifice  sentenzi6 : 
«  Se  il  papa  cadesse  in  tanto  errore  da  prescrivere  i  vizi  e  proscri- 
vere  la  virtu,  la  Chiesa  dovrebbe  credere  che  i  vizi  sono  meritevoli 
e  le  virtu  da  fuggire».  Una  sommissione  cosi  docile,  come  quella 
che  secondo  il  teologo  di  Montepulciano  e  imposta  ai  fedeli,  fu 
legge  a  una  schiera  parlamentare,  in  gran  parte  composta  di  pie- 
montesi,  la  quale,  eletto  a  proprio  capo  Agostino  Depretis,  per 
dieci  anni  con  ogni  sforzo  lo  sostenne  e  lo  mantenne  al  potere. 
Non  gia  ch'essi  fossero  tanti  da  formare  maggioranza,  ma  senza  di 
loro  maggioranza  non  si  formava. 

Schiera  tetragona  a  ogni  argomento,  a  ogni  seduzione,  a  ogni 
insidia,  per  la  costante  ubbidienza  sua  il  Depretis  usci  spesso  vitto- 
rioso  da  terribili  conflitti;  e,  vinto,  pot6  quanto  nessuno  aveva 
prima  potuto  -  neanche  il  Cavour  -  offrire  cioe  via  via  le  dimissioni 
del  Ministero  sapendo  sempre  d'essere  chiamato  a  ricomporlo  se 
condo  il  proprio  capriccio :  e  dopo  un  voto  della  Camera  che  bol- 
lava,  mettiamo,  il  Ministro  degli  affari  esteri,  ripresentarsele, 
avendo  licenziato  invece  e  soltanto  il  Ministro  dei  lavori  pubblici 
o  quello  della  marina. 

Dibattimenti  poderosi,  assalti  memorabili:  talora  tutti  i  maggiori 
uomini  della  Sinistra  contro  di  lui.  Ci6  nonostante  egli  ebbe  nel 

i.  Ed.  cit.,  cap.  xn,  pp.  209-24.  2.  Roberto  Bellarmino  (1542-1621),  ge- 
suita,  cardinale,  legato  di  Sisto  V  in  Francia,  autore  del  Catechismo  ro 
mano.  Beatificato  il  29  giugno  1930. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1155 

parlamento  awersari,  nemici  no,  tanta  cur  a  poneva  nello  smussare 
gli  angoli,  nel  levigare  le  asperita :  a  cattivarsi  Panimo  dell'assemblea 
non  era  ingegnoso  spediente  ch'ei  non  usasse;  e  il  suo  discorso, 
umile  nella  forma,  talora  quasi  pedestre,  era  per6  opera  d'artista, 
non  soltanto  per  certa  bonarieta  condita  di  malizia  che  conquistava 
le  simpatie,  ma  principalmente  per  il  modo  onde  era  detto,  per  gli 
atteggiamenti  di  colui  che  lo  profferiva. 

Perfino  la  gotta,  che  lo  tormentava  assai  di  frequente,  gli  era 
valido  aiuto.  Subito  che,  fiutando  il  vento,  presagiva  si  sarebbe 
mutato  in  bufera,  egli  mutava  a  sua  volta  le  scarpe  di  cuoio  in  am- 
plissime  scarpe  di  panno,  e  entrava  nell'aula  incurvato  a  passi  lenti 
e  dolenti.  Si  sedeva  con  ostentato  disagio  al  banco  dei  Ministri,  si 
alzava  con  apparente  disagio  maggiore,  e  cosi  fioco  che  i  piu  vi- 
cini  lo  udivano  a  malapena,  incominciava :  «  Onorevoli  colleghi ».  - 
«Piu  forte,  piu  forte »  si  gridava  da  ogni  lato:  ed  egli  postesi  le 
mani  al  petto  e  volgendo  intorno  gli  occhi  imploranti  misericordia, 
col  gesto  faceva  intendere  ch'era  ammalato  e  come  non  potesse 
piu  di  quanto  faceva  e  le  sue  forze  gli  permettevano.  A  discorso 
finito,  i  commenti  fioccavano,  faceti,  aspri,  secondo  gli  umori :  co- 
munque,  gli  oppositori  potevano  strillare  a  lor  piacimento :  la  cen- 
sura  dei  meno  non  toglieva  forza  al  suffragio  dei  piu,  che  gli  con- 
fermavano  la  propria  fiducia  per  la  centesima  volta.  aPovero  vec- 
chio!  Tanti  servigi  ha  resi  allo  State!  Perch6  funestargli  di  amarezze 
i  pochi  anni  che  gli  rimangono  da  vivere  ? »  E  da  ultimo  la  solita 
domanda:  «Se  mancasse  lui,  chi  verrebbe?» 


O  fragilita  delle  amicizie  politiche!  Quando  il  Depretis  nel  giu- 
gno  dell'ottantasette  parti  da  Roma  per  Stradella,  era  facile  per- 
suadersi  che  non  piu  tornerebbe.  Poca  gente  alia  stazione,  pochis- 
simi  i  deputati  accorsi,  piu  per  curiosita  che  per  aitro.  Non  era, 
del  rimanente,  piu  lui  sin  d'allora:  ed  io  tuttavia  mi  domando  se 
rawisasse  coloro  che  come  me  andarono  a  stringergli  Fultima  volta 
la  mano  nel  vagone-salone  in  cui  lo  avevano  a  fatica  deposto,  ed 
egli  stava  immobile,  muto,  cerea  la  faccia,  gli  occhi  insonnoliti 
e  semichiuse  le  palpebre. 

Moriva  -  dissero  i  medici  -  per  Patonia  dello  stomaco.  Tale  il 
fenomeno.  Ma  la  verita  e  che  la  piazza  che  a  Roma  intitolammo  dei 


1156  FERDINANDO    MARTINI 

Cinquecento  caduti  a  Dogali1  poteva  esser  detta  del  Cinquecentuno. 
Fra  le  vittime  di  quell'eccidio  fu  anche  Agostino  Depretis. 

Alia  spedizione  di  Massaua,2  impostagli  da  vario  ordine  di  casi, 
si  rassegno:  non  la  ide6  ne  la  voile,  come  non  voile  malaugurata- 
mente  piu  tardi  la  occupazione  dell'Harrar,  che  il  Bismarck3  sugge- 
riva,  appunto  perche  questi  la  suggeriva.  Breve :  alia  impresa  affri- 
cana  il  Depretis  si  Iasci6  piuttosto  trascinare  che  condurre:  nella 
conquista  delle  maggioranze  attraverso  Tarcipelago  dei  gruppi  e  dei 
gruppetti  parlamentari,  si  sentiva  esperto  e  si  compiaceva;  la  con 
quista  di  territorii  in  continente  ignoto  lo  tormentava  fra  paurose 
perplessita.  Inoltre,  quando  la  impresa  stava  per  essere  preparata 
e  iniziata,  dov6  di  ci6  lasciare  la  cura  ad  alcuni  dei  suoi  colleghi, 
perche  una  grave  bronchite  lo  colse :  ed  io  lo  rivedo  dopo  tanti  anni 
come  se  mi  fosse  davanti.  Perche  la  lunga  Candida  barba  gli  era 
d'impaccio  a  sorbire  i  medicamenti  prescrittigli,  se  Pera  fatta  as- 
settare  in  trecciole.  Silenzioso,  cogitabondo,  poggiando  sui  cuscini 
or  Puno  or  1'altro  gomito  e  con  Tuna  o  1'altra  mano  sorreggendo  la 
testa,  faceva  venire  in  mente  Pallegoria  di  un  Arno  o  di  un  Tevere 
immaginata  da  uno  scultore  barocco  e  disegnata  da  un  princi- 
piante.  Ordine  era  dato  che  di  Affrica  non  gli  si  parlasse. 


Dogali  fu  un  triste  episodic:  ma  non  tale  da  meravigliarne :  la 
storia  delle  imprese  coloniali  ne  novera  di  simili  a  centinaia.  II 
Depretis  ne  fu  sbalordito,  sbigottito,  atterrito.  «  Disastro  irrepara- 
bile»,  disse  al  Nicotera  cui  primo  dette  notizia  di  quella  strage: 
ed  io,  che  il  Depretis  vedevo  quotidianamente,  anche  questo  ricor- 
do :  non  tocc6  cibo  in  quel  giorno ;  a  sera  tar  da,  affranto,  invecchiato 
di  dieci  anni  ad  un  tratto,  cedendo  a  replicate  preghiere  di  congiunti 
e  di  amici,  consent!  a  mangiare  in  un  angolo  del  salotto  poche  fette 

i.  Dogali:  la  battaglia  awenuta  in  Eritrea  il  26  gennaio  1887,  in  cui  un 
nostro  reparto  di  cinquecentododici  uomini,  comandato  dal  tenente  co- 
lonnello  Tommaso  De  Cristoforis,  fu  circondato  dagli  abissini  di  ras  Alula, 
venti  volte  superiori  di  numero  e  favoriti  dall'imboscata.  2.  La  spedizione 
di  Massaua  awenne  nel  1885,  e  fu  1'inizio  della  formazione  della  colonia 
Eritrea.  3.  Bismarck:  vedi  la  nota  i  a  p.  673.  II  Martini  (Cose  affricane, 
Milano,  Treves,  1896,  pp.  145-6)  riferisce  dal  diario  di  un  amico  queste 
parole  del  Depretis:  « Bismarck  e  un  grand'uomo  e  un  prezioso  alleato,  ma 
e  anche  un  egoista,  e  i  consigli  suoi  bisogna  meditarli  e  vagliarli.  Se  per  fare 
comodo  a  se  gli  e  necessario  mettere  nell'impiccio  noi,  sono  persuaso  che 
non  esita  un  minuto ». 


CONFESSIONI    E    RICORDI    (1859-1892)  1,157 

di  prosciutto,  fra  un  boccone  e  Taltro  chiedendo  ansioso  una  carta 
dell'Affrica  invano  cercata  in  tutte  le  librerie  della  capitale:  e  da 
ultimo  in  un  vecchio  atlante,  non  so  da  chi  ne  come  portato,  inda- 
gando  affannosamente  dove  Dogali  stesse;  Dogali  non  c'era:  e 
non  c'era  perche  non  esiste  mai  nelPEritrea  un  luogo  chiamato  cosi, 
prima  che  Ponorevole  Raffaele  Cappelli1  gl'imponesse  quel  nome. 

Era  infatti  il  Cappelli  segretario  generale  del  Ministro  degli  affari 
esteri,  conte  di  Robilant.  Tocco  a  lui  decifrare  il  telegramma  che 
recava  i  primi  affrettati  ragguagli.  Tutto  v'era  chiaro,  tranne  la 
indicazione  del  luogo  ove  lo  sterminio  avvenne.  La  gravita  del- 
Tevento  non  tollerava  annunzi  indugiati :  d'altra  parte  la  determina- 
zione  del  luogo  non  aveva  essenziale  importanza:  se  incorresse 
errore,  c'era  tempo  a  correggere.  Parve  al  Cappelli  che  con  le  let- 
tere  denotate  dalle  cifre  un  nome  potesse  comporsi :  Dogali,  e  Do 
gali  scrisse;  e  con  quel  nome  1'infausta  collina  fu  consegnata  alia 
storia. 

Da  quella  scossa  il  Depretis  non  si  riebbe:  si  senti  fiaccato 
1'animo  e  il  corpo,  quando  ad  affrontare  gravi  prossimi  aweni- 
menti  era  necessita  di  animo  risoluto  e  di  forze  maggiori,  Per 
serbare  il  potere  e  lasciarlo  poi  in  mani  fidate,  chiamo  a  far  parte, del 
Gabinetto  il  Crispi  che  gli  era  stato,  come  a  me  disse  piu  volte, 
«buono  e  docile  compagno»  nel  Ministero  del  1878:*  e  lo  chiamb 
sperando  di  dominarlo  ancora.  Sowengono  le  parole  delFApocalis- 
se :  « Aperuit  puteum  abyssi  et  ascendit  fumus  putei  et  obscuratus 
est  sol».3  Subito  che  il  Crispi  fu  Ministro,  nessuno  bad6  piu  al 
Depretis :  tutti  capirono  che  autorita  e  vigoria  non  erano  piu  in  lui, 
che  chiamava  in  soccorso  Pavversario  d'ieri,  ma  nell'awersario  che 
degnava  di  venirgli  in  aiuto.  Assuefatto  a  reputarsi  indispensable,  il 
vecchio  Presidente  s'accorse  poco  mancava  non  lo  reputassero 
inutile  addirittura.  Fu  un  nuovo  colpo :  e  tanto  piu  gravemente  lo 
percosse,  quanto  men  preveduto.  II  fisico  se  ne  risenti:  i  settanta- 
quattro  anni  fecero  il  resto. 

i.  II  marchese  Raffaele  Cappelli,  nato  nel  1848,  fu  deputato  e  ministro, 
e  nel  1905  Ieg6  per  testamento  alia  biblioteca  dell'Istituto  nazionale  d'agri- 
coltura  un'importante  raccolta  di  libri  e  testi,  soprattutto  sulla  storia  del- 
Pindustria  e  dell'agricoltura  in  Italia.  Fu  presidente  della  Societa  geogra- 
fica  italiana.  2.  chiamd  .  .  .  1878 :  il  Crispi  era  stato  nel  ministero  De 
pretis  dal  27  dicembre  1877  al  7  marzo  1878.  Ora  il  Depretis  lo  chiamava 
di  nuovo  al  dicastero  degli  interni.  3.  «  Apri  il  pozzo  dell'abisso  e  si  sollevd 
il  furno  del  pozzo  e  il  sole  ne  fu  oscurato  »  (Apoc.t  9,  2).  Ma  la  citazione  ab- 
brevia  1'originale  togliendo  alcune  parole  dopo  putei. 


1158  FERDINANDO   MARTINI 

Estremi,  tristissimi  giorni  amareggiati  dalla  delusione  e  dal  ram- 
marico,  facile  a  indovinarsi  nella  caparbieta  con  cui  egli,  allettato, 
nonostante  le  insinuazioni  della  stampa,  le  preghiere  del  senatore 
Saracco,1  amico  e  consigliere  fino  allora  ascoltato,  e  i  mal  celati  desi- 
deri  augusti,  si  ostin6  nel  non  cedere  ad  altri  il  portafoglio  degli 
Affari  esteri,  quando  per  le  sommosse  cretesi,  le  condizioni  della 
Bulgaria,2  la  convenzione  anglo-turca,  volevasi  al  Ministero  degli 
esteri  vigile,  quotidiana  prontezza  di  esame  e  di  risoluzione. 

Poco  innanzi  la  sua  partenza  da  Roma,  fummo  a  fargli  visita  An 
tonio  Mordini3  ed  io.  Ci  accolse  con  mesta  affabilita,  e  in  voce  la- 
mentevole  disse  come  Carlo  II  ai  suoi  cortigiani :  —  Abbiate  pazien- 
za  se  metto  troppo  tempo  ad  andarmene. 

Al  Mordini  parve  quello  stato  d'animo  propizio  alle  amich^voli 
esortazioni. 

—  No,  no;  tutti  si  curano  della  tua  salute,  il  solo  che  non  se  ne 
curi  sei  tu.  Va*  a  Stradella,  riposati  e  tornerai  guarito  a  presiedere 
il  Consiglio:  per  ora  il  meglio  6  che  tu  lasci  il  portafoglio  degli 
Esteri,  che  cosl  malato  come  sei,  e  peso  soverchio  per  te. 

II  Depretis  probabilmente  suppose  che  in  quelle  parole  suonasse 
1'eco  delle  altrui  impazienze:  e,  sdegnoso,  alzando  con  palese  sforzo 
la  voce: 

—  Ma  che  vogliono  insomma  —  domand6  —  che  mi  impicchi  ? 

—  No,  amico  mio  .  . . 

—  E  dunque  s'impicchino  loro. 

E  furono  quelle  le  ultime  parole  che  udii  dalle  labbra  sue. 


Correva  il  luglio  1887. 

Non  c'erano  oramai  piu  speranze.  I  medici  avevano  accertata 
imminente  la  fine:  non  si  attendeva  oramai  che  un'ultima  lugubre 
notizia;  e  giunse  infatti  a  me  il  ventinove  nelle  prime  ore  della  mat- 
tina.  Agostino  Depretis,  il  vecchio  vinattiere  di  Stradella*  come  lo 
chiam6  il  Carducci,  destatosi  la  sera  innanzi  da  un  lunghissimo 

i.  Saracco;  vedi  la  nota  i  a  p.  903,  2.  le  condizioni  della  Bulgaria:  la 
Bulgaria,  eretta  in  principato  nel  1878  col  trattato  di  Berlino,  ebbe  nel 
1886  una  grave  crisi  per  1'abdicazione  del  suo  principe,  Alessandro  di 
Battenberg,  voluta  dalla  Russia.  Solo  nel  giugno  1887  fu  eletto  principe 
Ferdinando  di  Sassonia  Coburgo-Gotha.  3.  Antonio  Mordini;  vedi  la 
nota  7  a  p.  445.  4.  Riecheggia  il  verso  « irto,  spettrale  vinattier  di  Stra 
della  »  delTelegia  Roma  (nelle  Odibarbare). 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1159 

assopimento  per  chiedere  «un  po'  di  vino»,  s'era  poi,  appena  be- 
vutolo,  riaddormentato  placidamente  e  per  sempre.  Mi  era  stato 
molto  e  per  molti  anni  benevolo:  anche  quando  avevo  pubblica- 
mente  con  la  parola  o  col  voto  disapprovato  alcun  suo  prowedi- 
mento,  anziche  tenermi  broncio,  s'era  contentato  di  rimproverarmi 
con  paterna  bonarieta.  Quello  ch'ei  giudicava  il  mio  grande  difetto : 
Tindisciplina;  difetto  del  quale  nonostante  le  sue  ammonizioni  non 
sono  mai  pur  troppo  riuscito  a  correggermi :  a  volte,  anzi,  mi  vien 
voglia  di  vantarmene.  La  memoria  di  tale  parzialissima  indulgenza 
-  rara  negli  uomini  politici  -  e  Paffetto  bastavano  a  suggerirmi  ci6 
che  d'altra  parte  mi  imponeva  in  quella  occorrenza  il  dovere.  Corsi 
senza  indugio  a  Stradella.  Verano  gia,  o  vi  arrivarono  poco  dopo, 
altri  deputati:  grintimi.  Gran  parte  della  giornata  pass6  nello  atten- 
dere  la  risposta  del  Vescovo  di  Tortona,  cui  spettava  permettere  o 
inibire  al  clero  di  prender  parte  al  trasporto  funebre.  E  aspettammo 
seduti  intorno  al  fico  leggendario,  alPombra  del  quale,  secondo  i 
giornali  di  allora,  il  Depretis  in  vacanza  sbrigava  le  faccende  di 
Stato :  in  quell'orto  ch'egli  si  compiaceva  nel  chiamare  molto  im- 
propriamente  giardino,  andando  bensi  sulle  furie  ogni  volta  che 
alcuno  tentasse  di  sostituire  ai  meli  e  alle  pergole  tigli  o  mimose. 
Con  quale  veemenza  aggredi  una  volta  il  botanico  Briosi  del- 
TUniversita  di  Pavia  che  os6  consigliargli  di  svellere  la  siepe  di 
bossoli  onde  Porto  era  cinto: 

—  Mi  avete  distrutta  la  spalliera  di  sparagi,  ora  volete  svellere  i 
bossoli,  sciocchissimi  devastatori. 

Perche"  quel  capo  e  duce  dei  « progressisti »  il  quale  ardiva  di 
scompaginare  i  tributi  con  Pabolizione  della  tassa  di  macinato,  e 
ardiva  ancor  piu  con  lo  imporre  nuovi  gravami  affmch6  Perario 
non  soffrisse  dissesto;  e  sfidando  le  ire  della  Destra,  proponeva 
e  otteneva  Pestensione  del  suffragio  elettorale,  era  poi,  quando  si 
trattava  delle  proprie  abitudini  o  di  usanze  domestiche,  il  piu  coc- 
ciuto  dei  conservatori.  Che  non  ci  voile  per  fargli  mutare  un  vestito 
che  mostrava  le  corde  ?  Gridava  che  non  era  un  « darner ino »,  non 
voleva  abiti  nuovi,  e  quando  stanco  alia  fine  ced6,  fu  un  lungo 
sbraitare  contro  la  «moda  imbecille».  E  il  nuovo  vestito  era  dello 
stesso  panno,  dello  stesso  taglio,  dello  stesso  colore  di  quello  che 
gli  avevano  levato. 


Il6o  FERDINANDO    MARTINI 

La  risposta  del  Vescovo  pervenne  la  sera  a  ora  tarda.  II  prelato 
non  aveva  voluto  da  se  ne  permettere  ne  proibire.  Telegrafato  a 
Roma,  Roma  rispose  vietando  al  clero  le  esequie :  inibizione  della 
quale  non  si  riusci  a  sapere  il  perche  e  fu  cagione  di  meraviglia 
anche  per  questo :  die  il  deputato  Valsecchi,1  il  quale  era  nato  e  vil- 
leggiava  da  quelle  parti,  ottenne  di  li  a  qualche  giorno  che  i  sacer- 
doti  di  un  villaggio  vicino  vi  celebrassero  in  suffragio  del  Depretis 
un  funerale;  e  non  di  soppiatto,  ma  palesemente:  tanto  che  scrissi 
io,  per  desiderio  del  Valsecchi  stesso,  Pepigrafe  da  apporsi  sulla 
facciata  della  povera  chiesa. 

Accompagnamento  funebre  non  fu  mai  meno  solenne  e  men 
triste :  ai  pochi  amici  per  i  quali  la  morte  del  Depretis  era  sincero 
cordoglio,  esso  parve  triste  per  ci6  solo,  che  ogni  segno  di  tristezza 
mancava.  Non  preghiere  perche  vietate,  non  parole  di  rimpianto 
perch6  guidava  il  corteo  il  duca  d'Aosta  rappresentante  re  Um- 
berto,  e  Tetichetta,  che  impone  anch'essa  divieti,  non  tollera- 
dissero  -  si  rimpiangano  morti  in  presenza  di  sovrani  o  di  prin- 
cipi.  I  soli  vigneti  avevano  aspetto  di  malinconia :  i  pampini  macu- 
lati  e  corrosi  dalla  peronospera  cadevano  a  ogni  alitare  di  vento. 
«Lamentano  la  perdita  dell'enologo »  qualcuno  osserv6.  Facezia 
disdicevole  in  quel  luogo,  a  quelFora.  Non  raccoglimento,  neanche 
una  simulata  mestizia:  ma  un  andare  frettoloso  e  distratto,  in  ciar- 
lio  non  abbastanza  sommesso,  di  gente  che  profittava  dell'occasione 
per  discorrere  degli  interessi  propri  ed  altrui:  al  morto,  insomma, 
non  pensava  nessuno;  i  piu,  invece,  all'erede. 

L'erede,  il  Depretis  lo  aveva  gia  designate  piu  mesi  innanzi  con 
1'affidare,  come  ho  detto,  al  Crispi  il  portafoglio  dell'interno ;  ma 
non  tutti  erano  disposti  a  tenere  valido  il  testamento.  Padrone, 
pensarono  e  dissero,  padrone  il  Depretis  di  indicare  il  successore, 
ma  padroni  anch'essi,  il  Re  e  il  Parlamento,  di  scegliere  chi  meglio 
loro  convenga.  E  poi  il  Crispi!  II  Crispi  e  un  mongibello,2  il  Crispi 
e  pericolosissimo :  radicaleggiante,  metterebbe  tutto  a  soqquadro. 
Lo  averlo  designate  successore,  basta  a  provare  che  il  povero  De 
pretis  non  stava  piu  li  con  la  testa. 

Queste  e  altre  cose  furono  dette:  con  prudenza  minore  e  con 

i.  Pasquale  Valsecchi  (1828-1900),  ingegnere,  deputato  dal  1876,  senatore 
dal  1885.  Si  occup6  di  problemi  ferroviari.  Era  stato  sottosegretario  ai  la- 
vori  pubblici.  2.  un  mongibello :  un  vulcano :  Mongibello  e  il  nome  usato 
per  indicare  1'Etna.  II  Crispi  era  stato  mazziniano  attivo  e  vivace  fino  al 
1865,  ma  aveva  poi  accettato  la  monarchia. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  Il6l 

maggiore  sincerita  un  tale  si  Iasci6  strappare  di  bocca  che,  insom- 
ma,  a  capo  del  governo,  doveva  starci  un  settentrionale. 


Quello  infatti  era  il  punto.  Quello  il  movente  delle  macchina- 
zioni  che  si  andavano  preparando  dalla  falange  di  cui  era  in  quel 
giorno  oratore  e  duce  il  senatore  Pissavini,1  prefetto  di  Novara. 
Costui  andava  afFannosamente  da  questo  a  quello,  sbracciandosi 
a  dimostrare  che  per  la  morte  del  Depretis,  una  questione  era 
proposta  la  quale  non  poteva  costituzionalmente  risolversi  che  in 
un  modo  solo:  «I1  Ministero  ha  per  se  le  maggioranze,  non  pu6 
dunque  essere  licenziato;  rimanga  qual'e;  ognuno  al  suo  posto. 
Gli  manca  il  presidente  ?  Si  trovi.  Fuori  del  Ministero  medesimo  » ; 
egli,  il  Pissavini,  ne  offriva  uno :  Giacomo  Durando2  piemontese  di 
Mondovi. 

II  generale  Durando  ebbe  parte  notevole  negli  awenimenti  del 
1848,  e  fece  onorevolmente  la  sua  parte  di  cittadino  e  di  soldato, 
nel  i862.3 

Urbano  Rattazzi  gli  affid6  il  portafoglio  degli  Esteri:  il  Durando 
era  zoppo,  del  Rattazzi  dicevasi  che  fmgesse  co'  suoi  di  volere  e 
preparare  la  conquista  di  Roma,  pur  sapendo  quanto  vano  fosse 
allora  il  tentarla  e  quanto  il  proporsela.  Onde  Pepigramma  di 
Giovan  Battista  Giorgini: 

Quaerebat  comitem  properans  Urbanus  ad  urbem. 
Et  claudum  inveniens:  hie  meus,  inquit,  homo  est. 

Da  lui  stesso  tradotto : 

Posto  a  Roma  Urbano  brama 
un  compagno  aver  con  sd. 
Vede  un  zoppo  e  lieto  esclama: 
questo  e  Vuom  che  fa  per  me. 

1.  Luigi  Pissavini  (1817-1898),  awocato,  deputato  di  Mortara  dal  1865 
al  1878,  senatore  dal  1879,  prefetto  di  Novara  dal  1880.  Decadde  dalla  ca- 
rica  di  senatore  per  sentenza  dell'Alta  Corte  di  giustizia,  del  21  aprile  1888, 
dalla  quale  fu  condannato  a  sette  mesi  di  carcere.  Oltre  che  di  incitamento 
alia   corruzione,   il   Pissavini   era   accusato   di   appropriazione   indebita. 

2.  Giacomo  Durando  (1807-1894),  esiliato  dal  Piemonte,  nel  1831,  come 
cospiratore,  visse  a  lungo  a  Parigi.  Nel  '48  comando  un  corpo  di  volontari. 
Dal  1856  al  1861  fu  ambasciatore  in  Turchia;  nel  1862  resse  il  ministero 
degli  esteri;  dal  1884  al  1887  ebbe  la  presidenza  del  Senato.     3.  nel  1862: 
cioe,  ad  Aspromonte. 


Il62  FERDINANDO    MARTINI 

Ora  vecchio  e  acciaccato,  trascorso  un  quarto  di  secolo  senza  che  si 
parlasse  di  lui,  non  era  davvero  il  Durando  1'uomo  di  quei  fran- 
genti,  e  la  trovata  del  Pissavini  parve  ai  suoi  stessi  congregati  infeli- 
cissima.  Egli  allora,  disfacendosi  conrapida  sveltezza  delle  sue  teori- 
che  costituzionali,  si  volse  a  istigare  il  Brin,1  Ministro  della  marina 
e  il  Saracco,  Ministro  dei  lavori  pubblici,  affinche  Puno  o  Paltro 
ponesse  innanzi  la  propria  candidatura.  II  Brin  (lo  seppi  da  lui)  ri- 
spose:  « tempo  perso»:  due  parole  le  quali  significavano  piu  che  un 
rifiuto ;  ci6  che  rispondesse  il  Saracco  non  so :  comunque  non  sfug- 
gi  ad  alcuno  che  mentre  la  massima  parte  dei  senatori  e  deputati 
convenuti  al  funerale,  solleciti  della  partenza,  s'awiavano  alia  sta- 
zione,  quei  tre  datosi  appuntamento  nelPorto  di  casa  Depretis, 
si  adunavano  alPombra  del  solito  fico,  destinato  ad  avere  piu  di  una 
pagina  nella  storia  politica  del  regno  d' Italia. 


Giunti  a  Pavia  dovevamo  mutare  di  treno  e  scendemmo.  Anche 
il  Crispi  scese  e  parecchi  con  me  gli  si  accostarono :  tra  gli  altri  il 
deputato  Maggio  che  subito  gli  domand6: 

—  E  ora  che  cosa  succede  ? 

—  Non  lo  so  —  rispose  brusco  —  ne  me  ne  euro.  E  dopo  un  breve 
silenzio,  soggiunse  anche  piu  brusco :  —  Quei  signori  lassu  congiu- 
rano,  non  sanno  chi  e  Francesco  Crispi.  Ma  c'e  a  Roma  chi  lo 
sa  .  .  .  Non  oseranno. 

E  ci  volte-  sdegnoso  le  spalle. 

Era  il  30  luglio.  II  sette  di  agosto  il  Crispi  assunse  la  presidenza  del 
Consiglio.  Di  quanti  o  volenti  ebbero,  o  nolenti  furono  creduti  aver 
parte  in  quella  congiura  di  un  giorno,  il  Brin  e  il  Saracco  rimasero 
Puno  Ministro  della  marina,  Paltro  dei  lavori  pubblici;  i  minori 
si  affrettarono  a  fare  omaggio  al  nuovo  Presidente,  sebbene  mongi- 
bello,  sebbene  pericoloso,  sebbene  radicaleggiante.  II  Pissavini  fini 
male.  Deputato  per  piu  legislature,  s'era  fatto  alia  Camera  il  pa- 
trocinatore  de'  maestri.  Di  11  a  qualche  tempo  PAlta  Corte  di  Giu- 
stizia  lo  condann6  per  le  troppe  tenerezze  usate  con  gli  scolari. 

Alcuni  giorni  dipoi  si  bisbigli6  di  casi  di  colera  a  Napoli;  ed  io, 
che  a  Napoli  avevo  la  famiglia  andai  dal  Crispi  per  attingere  notizie 

i.  Benedetto  Brin  (1833-1898),  economista,  ingegnere  navale,  rinnovatore 
della  nostra  marina  militate,  fu  per  quattro  volte  ministro  della  marina  c 
nel  1892-1893  tenne  il  dicastero  degli  esteri. 


CONFESSIONI   E   RICORDI    (1859-1892)  1163 

a  pura  e  fresca  sorgente.  Avutele,  mentre  stavo  per  congedarmi 
da  lui: 

—  Ve  Pavevo  detto  —  esclam6  —  che  non  oserebbero  ?  ~  e  se- 
guit6  con  parole  che,  subito  notate,  fedelmente  trascrivo. 

—  II  tentative  fu  fatto,  ma  Re  Umberto  non  voile  saperne^  6 
un  uomo  che  ascolta  molto,  pondera  molto,  e  risolve  bene.  Lo 
escludere  me  che  pur  ero  designate  alia  Presidenza,  sol  perche  me- 
ridionale,  sarebbe  stato  un  errore.  Bisogna  finirla  coi  regionalismi. 
Dalle  Alpi  al  mare  non  ci  sono  che  italiani.  E  poi,  via,  c'e  egli  qual- 
cheduno  che  possa  vantarsi  piu  unitario  di  me  ?  Per  me,  tutta  la  mia 
vita  lo  attesta,  tanto  e  Palermo,  tanto  e  Torino.  Sono  qui  a  lavo- 
rare  per  il  paese,  a  dargli  tutto  il  mio  tempo,  tutta  Tenergia  che  mi 
rimane.  Spero  che  qualcosa  di  buono  far6.  Sono  tutto  dell'Italia, 
credetelo;  mi  pare  di  essere  tornato  al  1860. 

E  gli  occhi  gli  luccicavano  di  lagrime  trattenute. 


NOTA  AI  TESTI 


FILIPPO  PANANTI 

I  due  titoli  tradizionalmente  usati  per  1'opera  del  Pananti  (Avventure  e  os- 
servazioni  sopra  le  costs  di  Barberia,  e  Relazione  di  un  viaggio  in  Algeria) 
non  indicano  «una  cosa  stessa»,  con  «nome  mutato)),  come  appare  dalla 
tradizione  critica  (vedi  A.  D'ANCONA  e  O.  BACCI,  Manuale  della  letteratura 
italiana,  v,  Firenze,  Barbera,  1928,  p.  116,  e  le  bibliografie,  gia  citate,  di 
P.  Gori  e  di  L.  Andreani).  Le  Avventure  apparvero,  per  la  prima  volta,  a 
Firenze,  nel  1817,  presso  L.  Ciardetti,  in  2  volumi.  Questa  edizione  e 
molto  scorretta,  sia  per  la  irregolarissima  interpunzione,  che  a  volte  travisa 
il  senso  del  periodo,  sia  per  le  deformazioni  frequenti  di  vocaboli  e  per 
I'uso  insistente  di  forme  dialettali  toscane:  ma  e  la  base  cui  si  rifece  il  Pa 
nanti  nelle  successive  edizioni  delle  Avventure,  e  gia  in  essa  figurano,  in 
fondo  al  secondo  volume,  quelle  amplissime  note  che  sono  una  miniera  per 
chi  volesse  ricostruire  alcuni  episodi  della  vita  delPautore  e  le  molteplici 
fonti  della  sua  cultura.  Attentamente  riveduta  e  corretta,  ma  sostanzial- 
mente  immutata,  e  la  seconda  edizione  delle  Avventure,  apparsa  a  Mi- 
lano,  presso  A.  F.  Stella,  nello  stesso  anno  1817,  in  3  volumi,  coi  tipi 
di  G.  Pirotta,  In  essa  le  note,  anziche  raccolte  in  fondo,  figurano  intercalate 
via  via  nel  testo.  La  tradizione  (vedi  le  bibliografie  di  P.  Gori  e  di  L.  An 
dreani)  cita  una  successiva  edizione  delle  Avventure,  pubblicata  a  Milano, 
nel  1822,  presso  G.  Pirotta,  in  un  volume,  in  16°;  ma  nessuno  degli  stu- 
diosi  che  la  nominano  e  riuscito  a  vederla,  ne  io  sono  stato  piu  fortunato, 
per  quante  ricerche  abbia  compiuto.  Vi  sono,  del  resto,  motivi  che  fanno 
dubitare  delPesistenza  di  questa  edizione:  ma  non  e  qui  il  luogo  per  tale 
problema.  Nel  1829,  a  Milano,  presso  Teditore  L.  Sonzogno,  e  sempre  con 
i  tipi  di  G.  Pirotta,  apparve  una  nuova  edizione  delle  Avventure,  in  2  vo 
lumi,  che  fanno  parte  della  «  Raccolta  dei  viaggi  piu  interessanti  eseguiti 
nelle  varie  parti  del  mondo  ».  In  questa  edizione  non  figurano  le  note  del 
Pananti;  il  testo  e  identico  a  quello  delP edizione  milanese  del  1817;  e 
1' edizione  e  indicata  come  «  quarta».  Ultima,  tra  le  edizioni  delle  Avventure 
eseguite  durante  la  vita  del  Pananti,  e  certamente  la  napoletana  (Napoli, 
R.  Marotta  e  Vanspandoch,  1830,  in  3  volumi,  con  figure  miniate),  che 
fa  parte  della  « Raccolta  delle  storie  dei  viaggi »  ed  e  indicata  come  « prima 
edizione  napolitana ».  II  testo  di  questa  edizione  riproduce  quello  dato  nel 
1817  da  A.  F.  Stella. 

Per  quanto  si  riferisce  alia  Relazione,  essa  consiste  in  un  testo  notevol- 
mente  ridotto,  specialmente  per  la  parte  che  narra  il  viaggio,  la  cattura,  la 
prigionia  e  la  liberazione.  Questo  testo,  col  titolo  Relazione  di  un  viaggio  in 
Algeria,  apparve  primieramente  nella  gia  citata  edizione  delle  Opere  in  versi 
einprosa,  Firenze,  Piatti,  1824-1825,  dove  occupa  il  in  volume,  pubblicato 
nel  1825. 

L'opera  fu  poi  riprodotta,  senza  mutamenti,  ma  col  titolo  Relazione  di  un 
viaggio  in  Algeri,  a  Genova,  coi  tipi  di  A.  Pendola,  1830,  in  3  volumi,  ed 


Il66  NOTA  AI   TESTI 

e  indicata  col  nome  di  «quinta  edizione  corretta  dall'autore »,  senza  che 
sia  tenuto  conto,  percid,  della  differenza  tra  questo  testo  e  quello  delle 
Avventure.  Da  un  confronto  tra  questa  e  1'edizione  Piatti,  appare  evidente 
la  minore  cura  usata  in  quella  genovese,  dove  appaiono  saltate  o  aggiunte 
vane  parole,  in  modo  da  rendere  incomprensibili  alcuni  luoghi.  E  quindi 
legittimo  dubitare  che  Tautore  abbia  curato  e  corretto  questa  ristampa. 

Per  la  nostra  scelta,  in  base  all'esame  dei  vari  testi  sopra  indicati,  c'e 
parso  consigliabile  riprodurre  le  pagine  delle  Avventure  anziche"  della  Rela- 
zione:  e  ci  siamo  serviti  dell'edizione  milanese  del  1817,  che  e  certamente  la 
piu  corretta  ed  e  Tunica  in  cui  risulta  evidente  un'attenta  revisione  del- 
1'autore.  In  quanto  alle  note,  raramente  ci  siamo  serviti  di  quelle  del  Pa- 
nanti,  che  esse  non  giovano  n6  a  chiarire  il  testo  n6  a  identificarne  le  ci- 
tazioni  e  le  allusioni,  tanto  diverse  e  il  loro  carattere:  sono  sfoghi  autobio- 
grafici,  aggiunte  di  aneddoti,  ampie  divagazioni.  Ne"  sempre  e  stato  possi- 
bile  individuare  le  fonti  da  cui  il  Pananti  ha  tratto  alcuni  versi  e  aneddoti, 
se  pur  essi  non  sono  stati,  come  a  volte  e  sospettabile,  creati  di  volta  in  volta 
dalla  fantasia  dello  stesso  autore. 

GIUSEPPE  PECCHIO 

Per  le  Osservazioni  semi-serie  di  un  esule  sulV  Inghilterra  abbiamo  seguito  il 
testo  della  seconda  edizione,  pubblicato  dal  Ruggia,  a  Lugano,  nel  1833. 
Esso  e  risultato,  al  nostro  esame,  molto  piii  attentamente  curato  in  con 
fronto  alia  prima  edizione  (Lugano,  Ruggia,  1831),  Ma  un  confronto  tra  i 
due  testi  e  riuscito  utilissimo,  per  correggere  errori,  che  appaiono  in  vari 
luoghi  della  seconda  edizione.  II  testo  dato  dal  Prezzolini  (Lanciano,  Ca- 
rabba,  1913)  riproduce  Tedizione  Lugano  1833,  ma  conserva  vari  errori, 
dovuti,  in  parte,  al  mancato  confronto  con  la  prima  edizione.  £  inoltre  da 
correggere,  nell' edizione  Prezzolini,  1'errato  titolo  (le  edizioni  Ruggia 
scrivono  sulV  Inghilterra;  1'edizione  Prezzolini  in  Inghilterra). 

II  testo  del  Pecchio  presenta  varie  imperfezioni,  che  non  e  dato  cor 
reggere.  Esse  in  parte  nascono  dal  linguaggio  stesso  del  Pecchio,  guasto 
da  inglesismi  e  francesismi,  ma  in  qualche  caso,  forse,  derivano  da  errori 
tipografici,  che  1'autore  stesso  probabilmente  avrebbe  corretto,  se  avesse 
potuto  seguire  personalmente  la  stampa:  il  che  sospettiamo  non  sia  av- 
venuto.  Vari  nomi  propri,  ad  esempio,  hanno  subito  evidenti  deforma- 
zioni  (Thompson  per  Thomson,  Ramuzzini  per  Ramazzini,  Moura  per 
De  Mora,  ecc.),  come  di  volta  in  volta  abbiamo  corretto  nelle  note,  lasciando 
intatto  il  testo,  sul  quale  siamo  intervenuti  solo  per  alcune  consonanti  dop- 
pie  (carrozza  per  carozza,  capelli  per  cappelli  ecc.)  e  per  alcuni  errori  eviden- 
temente  dovuti  alia  starnpa. 

LEONETTO  CIPRIANI 

Per  le  Adventure  della  mia  vita  abbiamo  seguito  1*  edizione  in  2  volumi  che 
ne  ha  curato  L.  Mordini  nel  1934  presso  lo  Zanichelli  di  Bologna.  £  questa 
la  prima  e  unica  edizione  delle  Avventure,  ed  e  merito  del  Mordini  averle 
tratte  dalPautografo  del  Cipriani,  corredate  dinote,  di  un'appendice  di  do- 
cumenti  e  fatte  conoscere  agli  studiosi  italiani. 


NOTA  AI   TESTI  1167 

Le  Avventure  furono  scritte  dal  Cipriani  a  Centuri  negli  anni  dal  1869 
al  1876,  su  fogli  staccati,  raccolti  in  6  volumi.  Nel  rivolgersi  Al  lettorey 
airinizio  del  suo  lavoro,  il  Cipriani  si  proponeva  di  narrare  quello  che 
aveva  «  osservato,  ascoltato,  veduto,  toccato  con  mano  nel  lungo  periodo 
di  quarant'anni  dal  1830  al  1870)),  ma  in  realta  egli  distese  in  ordinata 
narrazione  solo  gli  eventi  fmo  al  1853.  Per  il  periodo  posteriore  le  memorie 
risultano  discontinue  e  spezzate  in  appunti,  diari  e  narrazioni  di  momenti 
isolati.  Anche  nella  stesura  della  prima  parte,  fino  al  1853,  il  Cipriani  si 
giovo  certamente  di  sue  precedent!  parziali  memorie:  egli  stesso  ricorda 
nel  capitolo  xxi  (vedi  ed.  cit.,  vol.  II,  p.  21)  di  avere  occupato  Testate  del 
1849,  a  Piombino,  nello  scrivere  « una  parte  di  questi  racconti,  e  particolar- 
mente  i  fatti  piu  recenti  del  1848  e  18495),  e  gia  aveva  stampato  nel  1848 
(Firenze,  Le  Monnier)  una  Narrazione  della  sua  missione  a  Livorno  (vedi 
la  nota  2  a  p.  221  del  presente  volume),  di  cui  si  servl  poi  evidentemente 
nella  redazione  delle  sue  Avventure. 

II  manoscritto,  secondo  le  notizie  che  ne  fornisce  il  Mordini,  non  era  pre- 
parato  per  la  stampa:  alcune  parti  vi  figurano  scritte  a  matita,  altre  in  fran- 
cese,  e  molti  luoghi  infme  risultano  alquanto  trascurati  nella  forma,  tanto 
che  il  Mordini,  nel  pubblicarlo,  ha  sentito  la  necessita  di  intervenire  con 
una  revisione.  L'autografo  cui  il  Mordini  ha  fatto  capo  e  conservato 
nelTarchivio  della  famiglia  Cipriani. 

Delle  Avventure,  prima  dell'edizione  Mordini,  era  noto  un  solo  epi- 
sodio,  e  cioe  il  racconto  della  prigionia  del  Cipriani  a  Mantova  nel  1848, 
perche  pubblicato,  dallo  stesso  Mordini,  nella  « Rassegna  storica  del  Ri- 
sorgimento »,  vi  (1917). 

ANTONIO  GHISLANZONI 

Per  la  Storia  di  Milano  dal  1836  al  1848  abbiamo  avuto  presente  il  testo 
che  apparve  nel  secondo  volumetto  dei  Capricci  letter -an,  Bergamo,  Sta- 
bilimento  tipografico  Cattaneo,  1886-1889,  e  che  e  I'ultimo  curato  dal- 
1'autore.  La  Storia  di  Milano  era  gia  nel  volume  Racconti  politici,  Milano, 
Sonzogno,  1876,  ed  e  stata  varie  volte  ristampata  anche  isolatamente :  Mi 
lano,  Rosa  e  Ballo,  1945,  e  Lecco,  E.  Bartolozzi,  1954. 

GIOVANNI  VISCONTI  VENOSTA 

Per  i  Ricordi  di  gioventii  abbiamo  seguito  la  terza  edizione  non  illustrata, 
pubblicata  a  Milano,  presso  Cogliati,  nel  1906.  II  titolo  complete  dell'opera 
e:  Ricordi  di  gioventii.  Cose  vedute  o  sapute.  1847-1860. 

Lievissimi  interventi  abbiamo  compiuti  nella  punteggiatura. 

UGO  PESCI 

Per  Firenze  capitale  (1865-18^0).  Dagli  appunti  di  un  ex-cronista,  abbiamo 
seguito  1'edizione  Firenze,  Bemporad,  1904;  per  /  primi  anni  di  Roma 
capitale  (1870-1878),  V edizione  Firenze,  Bemporad,  1907. 


Il68  NOTA   AI   TESTI 


ETTORE  SOCCI 

Per  la  scelta  dal  volume  Da  Firenze  a  Digione.  Impressioni  di  un  reduce  ga- 
ribaldino,  abbiamo  seguito  1'edizione  di  Pitigliano,  Tip.  ed.  «della  Lente» 
di  O.  Poggi,  1898.  L'edizione  precedente,  che  e  la  prima,  fu  stampata  a 
Prato,  Tip.  sociale,  nel  1871. 

II  testo  delle  due  edizioni  appare  quasi  identico,  «  se  ne  togli »,  come  disse 
il  Socci  nella  prefazione  all'edizione  di  Pitigliano,  «  Taver  soppresso  alcune 
lungaggini  che  avrebbero  stancato  il  lettore». 

Abbiamo  compiuto  qualche  lieve  intervento  nella  grafia  e  nella  pun- 
teggiatura,  per  ragioni  di  uniformita  e  di  chiarezza:  ma  abbiamo  lasciati 
immutati  i  nomi  di  luoghi,  anche  se  a  volte  nelle  note  essi  sono  stati  ri- 
condotti  alia  grafia  piu  regolare. 

GUGLIELMO  MASSAJA 

Le  pagine  del  Massaja  sono  riprodotte  dalla  seguente  edizione:  G.  MASSAJA, 
I  miei  trentacinque  anni  di  missione  nelVAlta  Etiopia,  in  12  volumi,  Roma, 
Tip.  Poliglotta,  e  Milano,  Tip.  S.  Giuseppe,  1885-1895.  Ricordiamo  inol- 
tre  1'edizione  Roma,  Coop.  tip.  Manuzio,  1921-1923,  che  appare  come 
appendice  a  « II  Massaja »,  bollettino  dei  cappuccini.  Questa  seconda  edi 
zione,  assai  piu  accessibile,  riproduce,  senza  mutamenti,  salvo  qualche 
errore  di  stampa,  la  precedente  edizione.  Questa,  di  grande  formato,  e  fornita 
di  interessanti  incisioni  e  di  carte  geografiche  disegnate  dal  geografo  ed 
esploratore  francese  Antoine  D'Abbadie. 

Da  quanto  scrive  Carmelo  da  Sessano  nell: '  Enciclopedia  Cattolica,  alia 
voce  « Massaja »,  risulta  che  il  manoscritto  originale  delP opera  e  conser- 
vato  nell' Archivio  segreto  vaticano :  ed  e  interamente  « vergato  di  propria 
mano»  dal  Massaja,  che  lo  scrisse  negli  anni  1880-1885,  e  non  gia,  nep- 
pure  parzialmente,  da  padre  Giacinto  da  Trojna,  come  si  era  creduto.  Piu 
importante  e  la  notizia,  data  sempre  dal  Sessano,  di  un  grande  divario 
esistente  fra  il  testo  del  manoscritto  e  quello  della  stampa,  in  cui  sarebbero 
intervenute  trasformazioni  notevoli,  con  1'intento  di  dare  all'opera  una  for 
ma  romanzata  e  divulgativa.  Allo  stato  attuale,  comunque,  non  si  pu6  che 
rifarsi  alia  stampa.  Nel  testo  siamo  intervenuti  riducendo  Puso  eccessivo 
delle  maiuscole. 

GAETANO  CASATI 

Abbiamo  seguito  1'unica  edizione:  Died  anni  in  Equatoria  e  ritorno  con 
Emin  Pascia,  in  2  volumi,  con  50  illustrazioni  e  4  carte  geografiche,  Mila 
no,  Fratelli  Dumolard,  e  Bamberga,  Libr.  editrice  di  C.  C.  Buchner,  1891. 

LEOPOLDO  BARBONI 

Per  le  pagine  scelte  da  Geni  e  capi  ameni  delVQttocento.  Ricerche  e  ricordi 
intimi,  abbiamo  seguito  T edizione  Firenze,  R.  Bemporad  e  figlio,  1911, 


NOTA   AI   TESTI  1169 

che  e  Tunica  esistente,  almeno  a  nostra  conoscenza.  I  nostri  interventi  si 
limitano  ad  alcuni  segni  d'interpunzione,  consigliati  dal  desiderio  di  una 
piu  agile  lettura.  I  capitoli  sono  stati  riprodotti  nella  loro  integrita,  fuorche 
il  secondo  da  cui  abbiamo  soppresso  un  brano  che  al  nostro  gusto  e  sem- 
brato  banalmente  irreligioso. 

FERDINANDO  MARTINI 

Per  il  testo  di  NeWAffrica  italiana.  Impressioni  e  ricordi  y  che  ebbe  nel  1891 
due  edizioni  presso  il  Treves  di  Milano,  ci  siamo  serviti  della  quarta 
edizione,  Milano,  Treves,  1895.  Per  Confessioni  e  ricordi  (Firenze  grandu- 
cale)  abbiamo  seguito  1'edizione  Firenze,  Bemporad,  1922.  In  quello  stesso 
anno  e  presso  lo  stesso  editore  il  volume  ebbe  tre  edizioni,  che  in  realta 
potrebbero  considerarsi  ristampe.  Nel  1929  Fopera  fu  nuovamente  edita 
dal  Treves  a  Milano.  Per  Confessioni  e  ricordi  (1859-1892)  abbiamo  avuto 
presente  1'edizione  Milano,  Treves,  1928. 


INDICE 


INTRODUZIONE  ix 

FILIPPO  PANANTI 

Profilo  biografico  3 

DALLE  «  AVVENTURE  E  OSSERVAZIONI  SOPRA  LE  COSTE  DI 
BARBERIA  » 

Ammutinamento  1 1 

Le  navi  sospette  12 

Sbarco  alia  prima  terra  d' Italia  13 

L'isola  di  San  Pietro  14 

Imprudente  uscita  dal  porto  15 

I  neri  presentimenti  17 
L'orrida  apparizione  della  squadra  algerina  18 
Caduta  in  man  dei  pirati  20 
Comparsa  alia  presenza  del  Rais  20 
La  prima  notte  fra  i  barbari  21 

II  secondo  giorno  22 
La  tempest  a  -                           23 
Battaglie  marine  24 
Riunione  coi  compagni  dell'infortunio  26 
La  dura  vita  sulle  navi  dei  Barbereschi  27 
Addolcimento  29 
Le  speranze  32 
II  Rais  Hamida  34 
Vista  d'Algeri  36 
Sbarco  in  Algeri  37 
Comparsa  avanti  ai  capi  del  governo  africano                                         37 
La  prigione  degli  schiavi  38 
II  primo  giorno  di  schiavith  39 
L'impiego  40 
Le  ore  del  riposo  42 
I  lavori  pubblici  43 
Liberazione  44 
I  cristiani  schiavi  nei  regni  di  Barberia  45 

GIUSEPPE  PECCHIO 

Profilo  biografico  53 

DALLE  ((  OSSERVAZIONI  SEMI-SERIE  DI   UN  ESULE 
SULL'INGHILTERRA )) 

Case  di  Londra  63 

Giardini  del  te  (Tea-gardens)  69 


1174  INDICE 

GAETANO  CASATI 

Profile  biografico  845 

DA  «DIECI   ANNI   IN  EQUATORIA  E  RITORNO   CON 
EMIN  PASClA)) 

[Alia  corte  di  re  Ciua]  849 

[Ostilita  del  re  Ciua]  852 

[Cerimonie  mostruose]  854 

[Organizzazione  e  attivita  del  regno  dell'Unioro]  858 

[Minacciose  pressioni  su  Casati]  865 

[Casati  sfugge  alia  prigionia  e  alia  rnorte]  867 

LEOPOLDO  BARBONI 

Profile  biografico  887 

DA  «GENI    E   CAPI   AMENI   DELL'OTTOCENTO  - 
RICERCHE   E   RICORDI    INTIMD) 

In  villa  da  F.  D.  Guerrazzi  893 

Figure,  figurini  e  figuri  di  Firenze  capitale  912 

L'anima  eroica  di  Giovanni  Nicotera  930 

FERDINANDO  MARTINI 

Profile  biografico  955 

DA  «  NELL'AFFRICA  ITALIANA  » 

Massaua  965 

II  campo  della  fame  973 

[Scuole  e  incivilimento]  978 

[Tribunali  e  giustizia]  982 

Bata  Agos  986 

Agordat  997 

Nei  Maria  Neri  1000 

DA  ((CONFESSIONI  E  RICORDI   (FIRENZE   GRANDUCALE) )) 

Tommaso  Cogo  1007 

Fra  tonache  e  gonnelle  1021 

Gente  illustre  1030 

[Ricordo  di  Braccio  Bracci]  1041 

[Improvvisatori  seri  e  faceti]  1053 

A  Palazzo  1062 

Le  mie  prigioni  io?4 

Un  granducato  in  extremis  1085 

Ventisette  aprile  1093 


INDICE  1175 

DA  ((  CONFESSIONI  E  RICORDI  (1859-1892))) 

In  casa  von  Wittelsbach  1102 

La  mia  camera  d'insegnante  1108 

Il«Fanfulla»  1124 

Parlamentum  indoctum  I3C39 

Un  presidente  I][45 

Guerra  di  successione  i*54 

NOTA  AI  TESTI  Il65 


IMPRESSO    NEL   MESE  DI    MAGGIO    MCMLVIII 

DALLA    STAMPERIA   VALDONEGA 

DI    VERONA 


102  930 


CD  < 

5m 

£*!