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MEMORIALISTI
DELL'OTTOCENTO
TOMO II
A CURA
DI CARMELO CAPPUCCIO
RICCARDO RICCIARDI EDITORE
MILANO • NAPOLI
TUTTI I DIRITT1 KISERVATI • ALL RIGHTS RKSKRVKI)
PRINTED IN ITALY
MEMORIALISTI DELL'OTTOCENTO
TOMO II
INTRODUZIONE IX
FILIPPO PANANTI 3
Avventure e osservazioni sopra le coste di Barberia 1 1
GIUSEPPE PECCHIO 53
Osservazioni semi-serie di un esule sulPInghilterra 63
LEONETTO CIPRIANI 12?
Avventure della mia vita 135
ANTONIO GHISLANZONI 255
Storia di Milano dal 1836 al 1848 259
GIOVANNI VISCONTI VENOSTA 281
Ricordi di gioventti 291
UGO PESCI 395
Fircnzc capitals (1865-1870) 401
I primi anni di Roma capitate (1870-1878) 475
ETTORE 80CCI 575
Da Fircnsse a Digione. Impression! di un reduce garibaldino 583
GUGUELMO MASSAJA 737
I miei trcntacinque anni di missione nell'alta Etiopia 749
CAETANO CASATI 845
Dieci anni in Kquatoria e ritorno con Emin Fascia 849
LEOPOLPO BARBONI 887
Geni e capi ameni dell'Ottocento 893
FERDINANDO MARTINI <)55
NeU'Affrica italiana 9^5
Confession! e ricordi (Fircnzc ^randucale) 1007
Confession! e ricordi (1859-1892) 1102
NOTA AI TKSTI
INDICE
INTRODUZIONE
Nessuno dci secoli precedent! vide cosl vasta fioritura di «memorie »
quanto 1'Ottocento. Lo straordinario rilievo assegnato dal romanti-
cismo all'individuo, al personalissimo mondo dei suoi sentimenti,
spronava a iscrivere, piu che fosse possibile, nel tempo e nella me-
moria dei posteri il proprio nome e le proprie azioni. L'intensa
partecipazione agli eventi risorgimentali, se in parte scaturiva da
questa ansia di perennita, incitava, a sua volta, alia propaganda e
alia difesa dei propri ideali, delle imprese compiute: testimonianze,
a tacer d'altro, di un dilatarsi della vita individuale nella piu vasta
sfera della societa nazionale. Intanto, uomini ed eventi si solleva-
vano, per Fardore delle passioni, in un'atmosfera leggendaria, si che
era un caro orgoglio cssere stati vicini a quegli eroi, aver vissuto
quei giorni di riscatto, poterli narrare. Del resto, lo stesso balzare,
sulla scena della storia, di strati sociali che a lungo ne erano stati
assenti, spiega anch'esso, per un gioco di proporzioni, tanto infit-
tirsi di pagine di memorie.
Chi scriveva le proprie memorie restava assai spesso, anche per
1'impegno civile da cui era animato, a mezza strada fra il docu-
mcnto e Farte, tra 1'ansia di fissare la vcrita degli avvenimenti e
1* impulse a riviverli liberamente in una trasposizione fantastica.
Un atteggiamento, questo, che alternamente accentua della sua
duplice istanza le pagine dei memorialisti, e sul quale torneremo
in vari profili, ma che, anzitutto, giovava a sottrarre gli autori dal
timore riverenziale che sempre incute 1 'opera decisamente e deli-
beratamente artistica; a renderli, perci6, piu franchi, meno control-
lati stilisticamentc; ad avvicinarli, infine, anche attraverso questa
via, alle suggestion! «popolari» della poetica romantica. D'altra
parte, il carattere documentario delle memorie, continuamcnte
fuso con i sentimenti, le convinzioni, gFideali dello scrittore, questo
incessante oscillare fra la letteratura c la cronaca, tra il fatto e la sua
ricvocazionc appassionata, creava una forma narrativa che e un
tramitc, assai piu che non si pensi, verso il contemporanco romanzo
storico e, piu ancora, verso la produzione successiva del verismo,
Proprio per questi motivi, ci sembra che i memorialisti del nostro
Ottocento premano sugli orientamenti della nostra letteratura, sul
gusto e le preferenze del secolo, non meno di quanto abbiano fatto
X INTRODU2IONE
gli artisti maggiori: dci quali, comunque, divulgano, su un piano
piu uinile, temi c ideali, concezioni e scntimenti.
Esiste, dunquc, nclla produzione memorialistica una evidente
« nutazionc » dal piano documentario, cronachistico o embrional-
mentc storico, a qucllo letterario e artistico. Hntro questo ideale
spazio, a volte Pautore pone in picno rilievo gli event i di cui e stato
testimone, lasciando nelPomhra la sua persona, la cui presenza c
soltanto implicita nella scelta e> ancor piu, nelle idee, nel eolore,
nel sentimento che piu o meno circolano tra le pagine delPopcra:
una inclinazione, percio, prevalentemente storiografka. A volte,
invece, il centro delFinteresse e autohiografico, si che gli avveni-
menti storici si ritirano nello sfondo e sono richiamati solo in
quanto si intrecciano aH'esistenza delPautore, ne chiarsscono k
opere e i giorni. Piu raro e, invece, che si incontri un inipegno di
rklaborazione fantastica, su un piano disgiunto da ogni intento
storiografico. La volonta di non tradire Tesattezza, mentre evtta
ogni falsijRcazione, frcna pero anche la fantasia, ne limita la liherta.
Ne deriva un timbro letterario, non artistico: o tale raramente,
in moment! di Felice equilibrio, come a volte succede in Ferdinando
Martini.
Ma accanto a quegH scrittori che piu comunemente si sogliono
chiamare memorialist!, e che traggono dagli avvenimenti naziona-
li lo stimolo a scrivere, ve ne sono altri in cui la storia politica
e assente, mentre e vivo e operoso il ricordo delle esperienze e
battaglie morali, delle correnti artistiche, letterarie, iilosofiehe, del
graduate e pur amaro spegnersi di antichi usi e costurni di frontc al
trionfare dei nuovi. Ne sorgono opere perplesse fra im ithtrra-
rium mentis e un itinerarium cordis: storiche anch*esse, certaniente,
pcrch6 testimoniano e rievocano la vita di un tempo: ma soprattutto
letterarie ed artistiche, perch^ assai spesso testimonialize e rievoca-
zioni si accompagnano, con rnaggiore o minore intensita, alia com-
mossa nostalgia c al rimpianto di luoghi e di tempi e di cose e di
uomini irrevocabilmente scomparsi: o, anche, ritraggono situa-
zioni immediatamente presenti, ma con Tansia e Tattesa di vederlc
mutare e farsi vicine a un piu alto ideate,
I/Ottocento ha avuto una ricchissima abbondanza di memorie:
non solo di quclle intimamente legate al nostro risorgere a nazione,
ma di quclle altre cui ora acccnnavamo: memorie di patriotti,
fra le quali gli esempi piu vivi sono dati dagli scrittori garibaidini, e
INTRODUZIONE XI
memorie di ambienti, come quelle del D'Azeglio errabondo pit-
tore lungo la campagna romana; di usi e costumi, come e nella Cala
bria ritratta dal Padula; di spensierate esistenze e di pugnaci batta-
glie artistichc, quali le rievoca Telemaco Signorini; di un laborioso
salire verso 1'arte, nella narrazione del Dupre; di un cristiano,
eroico apostolato, nclle fervide pagine del Massaja. Gli esempi po-
trebbero essere numerosissimi, se fossero necessari. Ma piu im-
porta aggiungere che anche dalle memorie meno legate agli eventi
risorgimentali si delinea spesso vivissima, dinanzi al lettore, Tat-
mosfera del secolo, il respiro e le vibrazioni del tempo, di una vec-
ehia Italia che risorge in un suo alone favoloso. £ proprio questo
ehe rende care le tante memorie deli'Ottocento: questa ricerca
di un tempo perduto, Una ricerca che era gia nello scrittore c che si
rinnova nel lettore: non gia rivolta, come sara nel Novecento, alle
proprie personalissime e quasi incomunicabili esperienze di vita,
ma a quelle di un piu vasto mondo, nei quale & caro sentirsi citta-
dini cd attori e in cui si iscrivono, sentendo che ne e il naturale
afondo, le proprie ansie e le proprie lotte.
Nella scelta di scritti per il presente volume, £ stata nostra in-
tenzione dare la preferenza a memorie legate alia storia politica
dcirOttocento. II volume successive, che e in programma, acco-
gliera invece, in prevalenza, memorie meno apertamente ancora-
te alle vicende del Risorgimento, ma pur sempre, come abbiamo
detto, testimonianze della vita del secolo. Certo, ii confine tra le
une e le altre resta assai incerto, come e sempre di cio che e vivo,
e non tollera, perci6, schemi e classification!. II lettore infatti non
trovera, gia nel presente volume, una effettiva coincidenza tra gli
scrittori ruccolti e il nostro intento: pure, Tintenzione vi e stata.
II Mediterraneo del Pananti, corso dai pirati barbareschi, ci e
sembrato un antecedente significative dei risorgimenti nazionali
europei, tutti animati da un sentimento di liberta e di csaltazione
dei diritti deiruomo. Di fronte, 1'Inghilterra vista e clescritta dal
Pecchio sembra contrapporrc un escmpio ideale di vivere civile,
cui tante volte si rivolsero gli sguardi degli Italiani, e non di essi
soli. Su questo sfondo si svolgono con maggior rilievo le memorie di
Leonetto Cipriani, cosi animoso e irruente, cosi inconsapevolmentc
garibaldino pur nella sua infatuazione monarchica: dalla presa di
Algcri agli invisi contatti con i mazziniani, dalla rievocazione avven-
turosa del '48 all'insurrezione popolare di Livorno, dalle esperienze
XII INTRODUZIONE
<T America alia sdegnosa solitudine dinanzi a un'Italia che egli piu
non comprendeva: una serie di quadri attraverso i quali tornano
tanti aspetti del Risorgimento, affettuosamente o polemicamente
rivissuti.
La vita di Milano prima delle Cinque giornate riappare estro-
samente e bizzarramente descritta nelle pagine, pur assai posterio
ri, del Ghislanzoni: e ci sembra possano dar rilievo, anche nella
loro anacronistica collocazione, alia Milano patriottica ed eroica
di Giovanni Visconti Venosta, piano e commosso narratore degli
eroismi e della resistenza tenace della sua citta. Firenze gran-
ducale, la sua liberazione, la fierezza e i disagi del suo divenir ca-
pitale, i primi tempi di Roma italiana, 1'impacciato awiarsi della
vita del giovane regno si specchiano nelle pagine di Ugo Pesci,
cosi cronachisticamente minute, ma proprio per questo efficacis-
sime nel ritrarre ambienti e situazioni. Certo, Tango lo visuale da
cui e guardato il Risorgimento, tanto nel Pesci come negli altri
autori, e unilaterale: un Risorgimento totalmente incarnato nella
monarchia piemontese, in cui le correnti mazziniane sembra-
no soltanto un impedimento e un danno, e i problemi sociali,
che pure gia si imponevano, sono assenti. Soprattutto per que
sto, a tacere di particolari deformazioni, gli storici hanno trova-
to molto a ridire su queste rievocazioni del nostro Otto cento
politico. Ma, comunque, esse corrispondono al panorama che
del Risorgimento tracci6 una non piccola parte della letteratu-
ra: e perci6 questa rievocazione andra integrata con altre voci,
ma non respinta : voci che sono gia in programma per altri volumi
di questa stessa collezione. Pure, a correggere in parte il quadro
deiritalia ufficiale e monarchica, concorrono, anche nel presente
volume, gli stessi insistenti spunti polemici del Cipriani e del Pesci,
e soprattutto le pagine di Ettore Socci, garibaldino dei Vosgi e fiero
repubblicano. Gli ultimi due scrittori, Barboni e Martini, rappre-
sentano gia un ripensamento a distanza dell'eta risorgimentale :
il primo con un suo timbro retorico da celebrazioni ufficiali, esem-
pio di infinite opere scritte nella stessa chiave; il secondo, nella sua
scaltrita e aristocratica compostezza, con una felice mescolanza
di sorridente ironizzazione e di commosso rimpianto.
Stanno, infine, a parte, anche se inseriti tra le memorie risorgi-
mentali, il Massaja e il Casati, che testimoniano, sotto due diversi
aspetti, 1' opera svolta dall'Italia in Africa: e trovano un loro com-
INTRODUZIONE XIII
pletamento nella scelta che abbiamo dato dal libro NelVAffrica
italiana del Martini. II Massaja, fra Paltro, pone in rilievo quello
spirito di apostolato cattolico che si diffuse dall'Italia anche nel-
rOttocento, e sottolinea, cosi, un aspetto non secondario della
nostra civilta, che, pur nell'insistente anticlericalismo del Risorgi-
mento, indispensabile a raggiungere Tunita politica, conserve sem-
pre la sua tradizionale fede religiosa e se ne fece propagatrice. II
Casati, invece, ricorda quale intensa partecipazione diedero gPIta-
liani alle esplorazioni geografiche delP Africa, alia creazione di con-
tatti ed accordi con i suoi popoli : e con quante soff erenze e vittime
pagarono questa opera.
Rivisti a distanza, questi autori, pur nei loro diversi atteggia-
menti, hanno tutti, se si eccettuino, per evident! ragioni, il Pa-
nanti e il Massaja, un'aria di famiglia: vivono di ideali comuni,
la patria, la liberta, 1'attesa di un mondo migliore, il culto del-
Peroismo, delle glorie passate, 1'entusiastica offerta della propria
vita per questi ideali. L'atmosfera di un mondo che a volte pu6
sembrare ingenuo e troppo giovanilmente fiducioso e convinto,
ma che e fondamentalmente onesto e inconsapevolmente eroico.
Questi nostri memorialisti non hanno tale rilievo da apparire
veramente significativi nello svolgimento della nostra letteratura.
Unica eccezione, Ferdinando Martini, le cui pagine hanno un
taglio inconfondibile. Ma gli altri, piu o meno, si muovono tutti
inuna sfera modesta: restano lontani da ogni diretto influsso let-
terario, non curano ne sorvegliano le loro espressioni, adoperano
la lingua comune al secolo, senza imprimervi un suggello vera
mente personale. Piu che dai libri di altri scrittori, sembra che
abbiano attinto le loro forme dal dialogo con i contemporanei,
dai modi della lingua parlata, assai piu che scritta. Se si pensi alia
prosa di un Mazzini, di un Gioberti, di un Nievo, di un Tom-
maseo, dello stesso Manzoni, a quel loro scrivere cosi ricco di in-
flussi, scaltrito e lavorato anche quando mira alia semplicita, su-
bito i nostri memorialisti si isolano in una sfera di elementarita
stilistica. II Pananti, ad esempio, richiama certo ad una tradizione
classicheggiante toscana, ma con innesti di certa agilita di origine
largamente illuministica, su cui hanno indubbiamente influito
esempi francesi ed inglesi; e il Pecchio risente di esperienze lom-
barde, dal « Caffe » al « Conciliatore », di moduli barettiani e, piu
ancora, di una certa scioltezza e incuria letteraria venutagli dalle
XIV INTRODUZIONE
letture di economisti. Ma, specie per il Pecchio, si ha rimpres-
sione che gli influssi letterari siano giunti indirettamente, attra-
verso il timbro della lingua comunemente parlata. Un'osserva-
zione che diviene ancor piu indubbia, e decisamente esemplare,
quando si ripensi alle pagine del Cipriani, che scrive senza alcuna
istituzione letteraria, senza altra cultura se non quella venutagli
dal vivere stesso e dal parlare e sentir parlare, in giro per il mondo,
da toscani, da francesi, da italiani d'America, da gente d'ogni li-
vello, in un confluire di mille rivoli imprecisabili. Certo, nessuno
vorrebbe negare che il Visconti Venosta abbia subito 1'influsso del
Manzoni e che di tale influsso sia traccia nelle pagine del Pesci,
e ancora ne risentano il Barboni e il Martini, sebbene nel primo
appaiano piu ford, se mai, le suggestion! carducciane, e nel se-
condo lo stile raggiunga un suo timbro complesso e vigoroso.
Ma questi influssi manzoniani, in sostanza, a che si riducono, nel
Visconti e nel Pesci, se non a uno scrivere piano e semplice, cioe,
in conclusione, a quei modi stilisticamente piu popolari, meno lette-
rariamente filtrati, che la poetica romantica aveva caldeggiato e dif-
fuso? Ne il Massaja ne" il Casati, cosi evidentemente lontani da
ogni istituzione letteraria, tendono, nelle loro memorie, ad altra
forma espressiva che gli autori or ora ricordati. E percio il manzo-
nismo di cui dicevamo, si dissolve, ad un'attenta osservazione, in un
orientamento comune al secolo e in parte anteriore alPepoca del
Manzoni. Lo stesso Socci, che pur accoglie, nella sua prosa, into-
nazioni stilisticamente romantiche accanto a modi gia simpatica-
mente veristici, si serve, in effetti, di una prosa che e essenzial-
mente modellata su una forma media di lingua parlata.
Ma questo restar lontani da ogni suggestione letteraria, scrivere
senza preoccupazioni ne" di lingua ne di stile, ha, anzitutto, un in-
teresse storico non trascurabile. Vogliamo dire che questi nostri
memorialisti rispecchiano piu immediatamente, che non gli scrit-
tori letterati e gli artisti, il linguaggio del loro tempo, e realizzano,
in tal modo, un piano linguistico, stilistico, di origine meno dotta,
ma tale da raccogliere, in una espressione piu unitaria e piu facil-
mente attingibile, gli uomini di media cultura deU'intera penisola.
Una delle tante vie, perci6, attraverso cui si accelerava Tunifica-
zione nazionale e si ponevano le basi perche una sempre piu ampia
collaborazione giovasse al diffondersi di convinzioni e ideali co-
muni. A questo pregio storico si aggiunge, per noi, anche Paf-
INTRODUZIONE XV
fettuoso interesse con cui ci e caro sentir narrare dalla loro voce gli
awenimenti di cui furono testimoni ed attori, rileggere fra quante
lotte, speranze, delusioni, gioie e amarezze essi trasformarono in
realta il loro limgo sogno di liberta e indipendenza: ripercorrere,
cioe, attraverso le loro pagine, il duro lavoro del Risorgimento,
di cui, anche se a volte immemori, siamo i fortunati eredi.
Ma al di la di questi motivi storici e nazionali, e delle meditazioni
e degli ammonimenti che ne derivano, i nostri memorialisti hanno
un loro fascino poetico. Contenuto, lingua, stile appaiono a volte
elementi esteriori, tali da fermare 1'attenzione solo in una ricerca
anatomica delle loro pagine: il lettore, invece, trascura spesso questi
elementi, trascinato dalla vita che circola nei loro ricordi, dalPaf-
fetto e dalla nostalgia e dal rimpianto che li anima; specie quando
lo scrittore dimentica se stesso e le sue intenzioni patriottiche e
politiche e si abbandona a un caro, disinteressato rimembrare.
L'efficacia e tanto maggiore in quanto non e cercata ne voluta, nasce
dalPintimo: allora lingua e stile, pur semplici e comuni, acqui-
stano una loro nobilta, che sempre, sebbene per breve durata, sale
verso la sfera della poesia. Come awiene, ad esempio, in alcune
pagine del Cipriani sui volontari del '48, sulla sua missione a Li-
vorno, sulle faticose carovane che egli guida in America; nelle Cin
que giornate descritte dal Visconti Venosta ; nei ricordi della vecchia
Firenze di Ugo Pesci ; nella tentata fuga del Socci dal porto di Li-
vorno. Un fascino che diventa evidente, quando si tratti del Mar
tini, nelle nitide stampe che egli disegna della Firenze granducale,
nei suo commosso, e pur composto, ricordo della morte del Maz-
zini. In verita, la poesia mostra il suo caro viso, senza che lo scrittore
lo sappia e lo voglia, tutte le volte che la vita spirituale si fa fervida
e nobilmente disinteressata.
CARMELO CAPPUCCIO
Di quasi nessuno degli scrittori che figurano nella presente scelta era
stato mai eseguito un commento. Nell'annotare il testo abbiamo perci6
dovuto, in molti luoghi, chiarire accenni e dar notizia di uomini ed awe
nimenti che appartengono alia cronaca, assai piii che alia storia del Risor
gimento. Ci6 valga a scusare eventuali sviste e lacune che il lettore possa
trovare nelle nostre note. Per alcuni autori, inoltre, e stato particolarmente
difficile rintracciare notizie biografiche e materiale bibliografico che vera-
XVI INTRODUZIONE
mente giovassero a stenderne un profile non poggiato unicamente sulla
loro produzione. Anche questo valga a giustificare Finsoddisfazione che
potra destare qualche parte del nostro lavoro.
Perch6 il volume non divenisse troppo ampio, abbiamo limitato il com-
mento al minimo indispensabile, e in genere abbiamo evitato di ripetere nel
corso dell'opera le note gia poste a brani precedenti: ma si sono eseguiti i
necessari rinvii fin dove si e potuto. Le notizie bibliografiche sono poste
in fondo ad ogni Profilo biografico.
Dei testi adoperati da notizia la nota posta in fondo al volume. Nel ri-
produrli abbiamo conservato, piu che fosse possibile, la grafia in essi usata.
Qualche discrete intervento si e invece talvolta compiuto sull'interpunzione.
Aggiungiamo infine che ci e sembrato opportune accogliere in questo
secondo tomo una scelta delle memorie di Ettore Socci, sebbene degli scrit-
tori garibaldini abbia gi£ dato una felice antologia Gaetano Trombatore
nel primo tomo dei MemorialistidelVOttocento. Le pagine degli scrittori ga
ribaldini piu noti si presentano, in genere, al lettore, come rievocazioni e
commemorazioni di un'eta gloriosa ormai tramontata, mentre il volume del
Socci nasce da una immediata contemporaneity con 1'impresa dei Vosgi
ed e dominato da una decisa polemica contro gli orientamenti monarchici
e conservatori della nuova Italia. Sottolinea, perci6, il perdurare del gari-
baldinismo oltre 1'occupazione di Roma, la sua attiva presenza nella vita
italiana, le istanze internazionali del suo credo democratico: lieviti evi-
denti della successiva storia d' Italia. Ne, d'altra parte, le pagine del Socci
mancano, anche letterariamente, di qualita positive.
Non dispiacera, quindi, al lettore la presenza, in questo secondo tomo,
di un ultimo scrittore garibaldino.
FILIPPO PANANTI
PROFILO BIOGRAFICO
FILIPPO PANANTI nacque a Ronta, nel Mugello, il 19 marzo del
1766. Mortogli il padre, Giuseppe, quando era ancora fanciullo
(1768), si occup6 della sua prima educazione lo zio materno Angio-
lo Gatti (morto nel 1798), che fu medico, e professore di medicina a
Pisa (1750-1778): un uomo allora molto stimato, che fece lunghi
viaggi e fu vivacissimo sostenitore della inoculazione del vaiolo.
Dal 1777 al 1785 Filippo stette in collegio, nel seminario vescovile
di Pistoia, dove lo zio lo aveva posto con 1'intenzione di fame un
prete. Ma il giovinetto, invaghitosi, se pur la notizia e vera, di una
cantante, si accorse in tempo di non avere nessuna vocazione per il
sacerdozio: lasciato allora il collegio e presto abbandonato dal-
Famante, si trasferi a Pisa, a studiarvi giurisprudenza, sia pure di
malavoglia, e vi si laureo nel 1789.
Non si sa bene che facesse negli anni immediatamente successivi,
ma certo egli si volse fin da allora alia poesia, che sono gia di quel
tempo alcuni suoi epigrammi e un poemetto didascalico, II pare-
taio (1798), dove agli insegnamenti del cacciatore si inframezzano
allusioni e motti salaci, secondo una tendenza che gli fu poi sempre
caratteristica. Nel 1798 e nelPanno successive fu spesso a Firenze,
partecip6 a banchetti repubblicani, caldeggio Pistituzione della
guardia nazionale, scrisse articoli sul «Monitore fiorentino », pro-
nunzio brindisi e discorsi: si che, ritiratisi momentaneamente i
Francesi nel '99, gli parve prudente partire da Firenze (fine giu-
gno o primi di luglio del 1799) e rifugiarsi in Francia: n6 vide male,
perche il restaurato governo del granduca gli confisco allora i beni,
come a giacobino. Ma se furono gli eventi politici a costringerlo a
esulare, pure dettero 1'awio a quella passione per i viaggi che egli
aveva gia nell'animo e gli dur6 per molti anni. In Francia fu inse-
gnante d'italiano, dal 1799 al 1802, nel collegio di Soreze, allora
famoso, ma interca!6 alle sue occupazioni professorali un viaggio
in Spagna, reso amaro, pare, da un assalto di briganti, che lo spo-
gliarono di tutto, e pur colorito dallo spettacolo dei Pirenei, di cui
sorpass6 nelPottobre del 1801 le piii alte cime. Lasciato il collegio
di Soreze, il Pananti era gia a Londra nel 1803 e vi rimase fino al
1813. Un periodo, questo, di grande attivita, nella sua vita: si
occup6 di speculazioni commerciali, insegn6 la lingua italiana a
4 FILIPPO PANANTI
nobili giovanetti e a illustri personaggi, divenne poeta del Teatro
regio italiano, che metteva in scena opere musical!, fondo nel
1813, con altri italiani di Londra, un giornale politico letterario,
«L'Italico», e, a quanto egli narra, trasse da tutta questa attivita
una discreta ricchezza. Pure, bisogna riconoscere che sappiamo
ben poco di preciso su questi anni di vita londinese, e special-
mente della sua attivita teatrale; che accurate ricerche e lunghe
discussioni di studiosi non sono riuscite a stabilire se egli abbia
effettivamente composto lavori per le scene, ne resta altra traccia,
se non il titolo, di una sua commedia, Gli amanti rivali, che gli
viene attribuita, in un'antica biografia, dal Ciampolini. Ma certa-
mente in quegli anni apparvero per la prima volta alle stampe le
sue maggiori composizioni poetiche, da aggiungere alle poche gia
pubblicate negli anni precedent!. Numerosi gli epigrammi, in gran
parte editi nell'cc Italico », insieme con varie odi e canzoni e saggi
di vario argomento ; ma soprattutto notevole, perche ad esso e affi-
data la sua fama, Pampio poema in sestine, II poeta di teatro,
che apparve primieramente a Londra nel 1808, e al quale il poeta
rivolse le sue cure, correggendo e mutando, fmo agli ultimi anni
della sua vita.
Stanco forse della dimora a Londra e desideroso di impiegare
in Italia, con Pacquisto di terre, il denaro che in quegli anni fortu-
nati era riuscito a raccogliere, e anche con 1'intenzione di effettua-
re success! vamente un viaggio nelle region! oriental! del Mediter-
raneo, il Pananti nel settembre del 1813 si imbarcb a Londra su un
brigantino siciliano, VEroe, portando con se molt! suoi manoscritti
e gran parte del capitale accumulato in Inghilterra. II brigantino,
contro i patti conclusi col capitano, anziche" appoggiarsi a un convo-
glio di navi inglesi, percorse i mari isolate, con temeraria baldanza,
e fu perci6 facile preda di una nave corsara, che trascind schiavi ad
Algeri il Pananti, i suoi compagni di viaggio e la ciurma, depredan-
doli di tutto il bagaglio : ed era sventura allora frequente nel Medi-
terraneo, continuamente battuto dai corsari di Tunis! e di Algeri,
staterelli ferocemente rival! fra loro ma ugualmente dediti alia bar-
bara attivita di pirati. II povero poeta, perduti denaro e manoscritti,
giunse schiavo atterrito ad Algeri, con la prospettiva di uno scia-
gurato awenire, e fu soltanto per il generoso intervento del console
inglese che pote esser subito sottratto alia sorte riservata ai suoi
compagni di sventura. Libero, sembra che abbia potut.o visitare,
PROFILO BIOGRAFICO 5
almeno in parte, le terre delP Africa settentrionale, escluso 1'Egitto,
che allora si indicavano col nome complessivo di Barberia: cosl
sembra dai suoi scritti, se pure le notizie che egli ci da non sono
ricavate di seconda mano dai molti viaggiatori che gia avevano
descritto le regioni africane. Al principio del gennaio 1814 il
Pananti approdava finalmente in Sicilia, senza piu denaro ne
manoscritti, ma tornato libero e padrone di se. Si trattenne a Pa
lermo quasi sei mesi e, a quel che egli scrive in una lettera (n. 60,
delPedizione Andreani), vi fu « estensore della gazzetta ministeriale
del governo d'allora». Subito dopo torno in Toscana e visse il
resto dei suoi anni quasi sempre a Firenze, se si eccettua un viaggio
che egli compi nel 1819 a Londra e in Germania e del quale sono
testimonianza alcune sue lettere. Mori a Firenze il 14 settem-
bre 1837 e fu sepolto in Santa Croce, dove dieci anni dopo gli fu
eretto un monumento con una iscrizione di G. B. Niccolini.
Nel 1828 il Pananti aveva presentato alia Crusca, per parteci-
pare al concorso quinquennale indetto dalPAccademia, le sue Opere
in versi e in prosa, da lui stesso raccolte e stampate in Firenze nel
1824-1825. Era quello stesso concorso cui, come e noto, parte-
cip6 il Leopardi con le Operette morali, e nel quale fu invece
premiato Carlo Botta, II relatore, G. B. Zannoni, nel «rapporto»
conclusivo da lui letto nelPadunanza del 9 febbraio 1830, disse
parole di elogio per gli scritti del Pananti, sebbene non tacesse i
biasimi e le censure espresse da alcuni degli accademici, dei quali
peraltro tacque i nomi. I volumi presentati al concorso contenevano,
in sostanza, la parte essenziale della produzione che ci ha lasciato
il Pananti. Anzitutto, una vasta scelta dei suoi epigrammi. Si puo
dire che egli e rimasto a lungo famoso soprattutto come epigram-
mista, e che era questa la sua vena principale : in quasi tutti i suoi
scritti, anche nei poemetti e nelle prose, spunta spesso il brio,
il gioco verbale, il motto scherzoso, Taneddoto arguto: ed e fre-
quente anche Pallusione licenziosa. Tra i tanti epigrammi che com
pose, ve n'e infatti un buon numero di osceni, apparsi in edizioni
subito vietate e perseguite dai vari governi, e divenute per questo
ormai quasi introvabili. I molti comunque da lui stesso riuniti, e che
hanno continuato a circolare in successive raccolte, sembrano meri-
tare, accanto alle lodi, anche le due principali accuse che gia aveva
espresso qualche accademico della Crusca, di prolissita e di scarsa
originalita. Prolissi, e perci6 senza nervo, sono certamente moltis-
6 FILIPPO PANANTI
simi, ma non tutti. In quanto all'accusa che egli abbia attinto
da varie fonti i suoi scritti, si potrebbe ripetere quanto osserv6
argutamente il Pancrazi, che « gli epigrammi e le facezie sono ogni
volta di chi li dice meglio». E percio un buon numero di quelli
del Pananti avrebbero ancora diritto ad essere letti e ammirati.
Accanto agli epigrammi, si presentavano al concorso due poemetti
didascalici in sestine, La civetta e // paretaio, che gia apparsi in
prima edizione rispettivamente nel 1799 e nel 1803, ora il poeta
aveva rielaborato, piuttosto che ristampato. L'avvio, in entrambi, e
dato dalParte e dalla passione della caccia, ma gli insegnamenti
scivolano continuamente in sapide allusioni alle donne e alle reti
amorose, dando luogo addirittura a novellette galanti, con briose
figurine da commedia. II che accade anche nelPampia composi-
zione di centonove canti in sestine, II poeta di teatro, che il Pa
nanti stesso non sapeva se chiamare romanzo o poema, tanto aveva
«un po* dell'uno e un po' deiraltro)). Che II poeta di teatro con-
tenga moltissimi elementi autobiografici, non vi e dubbio: ma
quanti di essi siano stati romanzescamente travestiti, e fino a che
punto, non e facile stabilire. Anche questo poema, che gli fu parti-
colarmente caro e che, come abbiamo gia detto, rielabor6 a lungo
durante tutta la vita, pecca di prolissita; disperde i suoi pregi in
sovrabbondanze verbose: ma, come i poemetti, ha parti vive, an
che se non sapremmo vedervi quei « quadri fiamminghi » di cui lo
elogi6 nella sua relazione lo Zannoni, trascrivendo, peraltro, il
« rapporto » presentatogli da G. B. Niccolini, che era uno degli ac-
cademici della Crusca. Comunque, a parte i pregi di briosita e le
figurine rapidamente sbozzate, resta al Pananti un merito non
trascurabile : di essere stato 1'immediato ed efficace predecessore
della poesia giocosa sorta in Toscana nell'Ottocento, e di averle
preparato alcuni temi e atteggiamenti, anche se, ripetiamo col
Pancrazi, «il meglio del Pananti and6 al Giusti, il peggio fini nel
Guadagnoli ».
Nei volumi presentati alia Crusca figuravano anche poesie varie,
quasi tutte di scarso valore, e molte prose, spesso su temi bizzarri,
come // riso, II rossetto, La consunzione, Chi piii ama, Vuomo o la
donna?, I valetudinari. Bizzarri gli argomenti, ma fiacca la tratta-
zione. Si potrebbe concludere che il Pananti fu poco felice prosa-
tore, e che solo la sua poesia ha ancora diritto alia nostra attenzione.
Ma tra le prose & anche il suo Viaggio in Algeri: ed esso merita
PROFILO BIOGRAFICO 7
piu attento giudizio, anche perche del Pananti giocoso dovrebbe
dare una scelta il II tomo dei Poeti minor i delV Ottocento della pre-
sente collezione, mentre tocca proprio a noi presentare un saggio
del Viaggio in Algeri.
Tomato in patria nel 1814, dopo la cattura algerina e la fortu-
nata liberazione, il Pananti pubblico sull'« Italico » (1814) di Lon-
dra un articolo intitolato / quattro piii orribili mesi della mia vita;
quasi preludio di quella piu distesa narrazione die apparve primie-
ramente a Firenze nel 1817 col titolo Avventure e osservazioni sopra
le coste di Earberia. L'opera ebbe poi varie altre edizioni e fu anche
tradotta in inglese, in tedesco e in francese. Ma i rifacimenti die
ne esegui lo stesso Pananti, per esempio nella gia ricordata edi-
zione fiorentina da lui presentata alia Crusca, mutarono profonda-
mente la primitiva stesura, tagliando e riducendo proprio le parti
die erano, certo, meno curate letterariamente, ma assai piu vive e
immediate. Tanto die a noi e sembrato preferibile, senza dubbio,
tornare, sostanzialm&ite, alia redazione originale. In essa Popera e
divisa in due parti: dapprima vi e il racconto della navigazione, del-
1'apparizione dei corsari, delParrembaggio, della schiavitu e della
liberazione in Algeri; segue poi la descrizione dei paesi, delle popo-
lazioni, dei costumi, delle flore e delle faune di tutte le coste di
Barberia. Le pagine piu vive sono senza dubbio nella prima parte;
la seconda, invece, ha spesso Faspetto di una compilazione su opere
altrui: e di questo e stata molte volte accusata. Ne, d'altro canto, le
osservazioni sulla regione hanno carattere di memorie: bensi di
relazione geografica. Vi e anche da aggiungere die nelle prime edi
zioni il racconto era fornito di copiosissime note, cosl ricche di
sfoghi autobiografici e talmente diffuse, da costituire esse stesse
un nuovo libro: note che, invece, il Pananti soppresse nei rifaci
menti e, in particolare, nella edizione presentata alia Crusca. Chi
legga per intero queste avventure, di cui abbiamo dato solo alcune
pagine, resta a volte sconcertato dalla verbosita dello scrittore, dal
suo frequente inerpicarsi verso ostentazioni letterarie, dal suo uso
eccessivo di citazioni poetiche, dalFaffollarsi di aneddoti, e anche
da una certa incuria nelPinterpunzione e nelPortografia, che sara
stata in parte del tipografo, ma anche dello stesso Pananti. Pure, vi
sono pagine efficaci: il terrore dei passeggeri, le balordaggini del
capitano, le figure tra feroci e umane dei pirati, il rais dei corsari,
la barbaric algerina, la pietosa situazione degli schiavi spiccano
8 FILIPPO PANANTI
vivissimi nel racconto, rinnovano dinanzi agli occhi coloritissime
scene. Sara forse eccessivo dire, come fa il Pancrazi, che il racconto
del Pananti « sta tra le piu belle awenture della nostra letteratura ».
Abbiamo, in tutti i secoli, ben piu ammirevoli pagine da preferirgli:
ma non e neppur detto che le maggiori montagne debbano far
dimenticare le colline, che hanno anch'esse una loro bellezza e un
proprio significato. Ne credo abbia poco interesse per il lettore mo-
derno il vivo qxiadro che ci ha lasciato il Pananti della situazione
dolorosa in cui si trovava il Mediterraneo un secolo fa, battuto da
navi corsare, e della presenza sulle coste africane, a poche miglia dal
rriondo civile, di un'atroce barbaric a cui gli Stati europei solo tardi
si decisero a porre fine. Le Avventure del Pananti si chiudono con
un caldo appello ai popoli europei perche bandissero una crociata
contro le infamie della schiavitu: un appello che si unisce ai tanti
di cui si onorarono allora tutte le letterature, e che merita anch'esso
il nostro ricordo, per evident! ragioni morali. Pure, noi ci siamo
limitati, nella nostra scelta, alia prima parte, quella che veramente
merita il nome di Avventure: anche perche essa e, letterariamente,
la piu viva.
Per le opere del Pananti citiamo due edizioni, che possono considerarsi
fondamentali : Opere in versi e in prosa, Firenze, Piatti, 1824-1825, in
3 volumi (e 1'edizione presentata al concorso bandito dalla Crusca);
Versi e prose, Firenze, All'insegna della Speranza, 1831-1832, in 10 tomi.
Entrambe le edizioni contengono : // poeta di teatro, La civetta, II pare-
taio, Poesie varie, Epigrammi e novellette, Prose diverse, ma presentano diver-
genze dovute alia revisione dell'autore. Molto importanti, fra le edizioni
parziali piu recenti, debbono considerarsi: Le rime e prose di Filippo Pa
nanti, per cura di P. Gori, Firenze, Salani, 1882, che oltre La civetta e
II paretaio contiene poesie e prose scelte, e soprattutto la piu ampia rac-
colta di epigrammi e novellette, in numero di settecento; e gli Scritti minori
inediti o sparsi, con notizie della vita e delle opere sue, raccolti e pubblicati da
L. An'dreani, Firenze, Bemporad, 1897, che oltre una notevole quantita di
versi contiene numerose lettere del Pananti e di suoi corrispondenti. Per
notizie esaurienti su altre edizioni, anche di scritti minori da noi non ricor-
dati, restano fondamentali le bibliografie di P. Gori e di L. Andreani, che
figurano, rispettivamente, nei due volumi qui sopra citati.
Nessuna delle edizioni suddette riproduce le Avventure e osservazioni
sopra le coste di Barberia, fuorche* Pedizione Piatti, in cui esse figurano, ma
ridotte e rielaborate, con il nuovo titolo di Relazione di un viaggio in Algeria.
In quanto all'edizione fiorentina del 1831-1832, giacitata, appaiono in essa
PROFILO BIOGRAFICO 9
solo pagine scelte, totalmente separate fra loro, della Relazione. La ste-
sura completa delle Avventure apparve per la prima volta a Firenze, nel
1817, presso L. Ciardetti, in 2 volumi, ma e consigliabile tener pre-
sente, come diremo nella Nota ai testi, 1'edizione milanese di A. F. Stella,
pubblicata nello stesso anno 1817, e attentamente ricorretta dall'autore.
Una traduzione in inglese apparve nel 1818; seguirono due in francese
(1820 e 1830) e una in tedesco (1823), ma di nessuna mi e stato possibile
avere visione.
Le piu esaurienti notizie biografiche sul Pananti sono date da L. An-
dreani nell'Introduzione al citato volume di Scritti minori inediti o sparsi,
dal quale e indispensabile muovere per ulteriori informazioni. Meno utili,
perche non sufficient emente controllate, sono invece le notizie esposte da
P. Gori nel saggio che precede la sua citata edizione di Le rime e prose
di Filippo Pananti: ma e ugualrnente consigliabile tenerle present!. La
biografia del Pananti lasciataci da L. CIAMPOLINI, e della quale facciamo
cenno nel nostro Profilo, si trova in Biografia degli italiani illustri nelle
scienze, letters ed arti del secolo XVIII . . ., a cura di E. De Tipaldo, v,
Venezia, Alvisopoli, 1837, PP- 154-8. Per altre biografie, rimandiamo al
volume dell'Andreani, ricchissimo di indicazioni.
Gli studi sul Pananti non hanno compiuto alcun progresso dai tempi
di L. Andreani, che nel suo volume da un'ampia bibliografia di tutti gli
scritti che si erano gia occupati del Nostro: e ad essi rimandiamo. Dei po-
chissimi saggi successivamente apparsi, bastera qui ricordare un articolo
di A. SIMONETTI, nel « Giornale d' Italia », 26 dicembre 1911, che richiama le
vicende africane del Pananti, ma ha carattere occasionale; lo studio di
E. DEL CERRO, Pananti giornalista, in «Rivista dj Italia », 31 dicembre 1915 ;
il saggio Pananti e Giusti di G. RABIZZANI, nel suo volume Sterne in Italia,
Roma, Formiggini, 1920, pp. 155-61; e infine, particolarmente interes-
sante, un articolo di P. PANCRAZI, // dimenticato Pananti, in « Corriere della
Sera», 30 dicembre 1937, sul quale e utile vedere un giudizio in «Giorn.
stor. d. lett. it. », cxi (1938), p. 170.
DALLE «AVVENTURE E OSSERVAZIONI
SOPRA LE COSTE DI BARBERIA»
AMMUTINAMENTO I
Sarebbe stata prudenza rimanere alcuni dl in Gibilterra a fine
d'unirci ai convogli inglesi, dei -quali ogni settimana qualcuno solea
partire per le isole del mediterraneo. Erasi ricevuto Pawiso che
erano in mare le squadre dei Barbareschi ;z e i marinari nostri, che
tutti o per trista fama o per dolorosa esperienza conoscean gli
orrori ed i patimenti nei ferri di schiavitu, protestarono ad alta
voce che non volean proseguire il viaggio se il nostro legno3 non
si poneva sotto la scorta delle fregate che proteggean la navigazione.
Ma il capitano, che si sarebbe fatto fare a pezzi piuttosto che spender
quattro carlini di piu prolungando la dimora in quel porto,4 usci
fuor dei gangheri, chiamo le proteste dei marinari insubordina-
zione, rivolta, crimen lesae majestatis\ e giur6 che arrivato in Si-
cilia, farebbe i conti, e tutti come ribelli li farebbe mettere in una
camera ove non vedrebber piu lume. Ripeteva pomposamente che
un capitano e un re sul bastimento ; che la sua volonta e la legge, e
che i sottoposti debbon chinare il capo e tacere. lo, che mi trovava
nella stessa barca e negli stessi pericoli, pensai potermi rivolgere
al re sul bastimento, e parlargli fuori dei denti. — Voi — gli dissi —
dovete stare ai patti; diro quello che Seneca disse a Nerone:
« I limiti della vostra possanza finiscono la ove termina la giustizia ».s
Signor re sul bastimento, voi sarete un re di coppe e di picche;
arate diritto e non fate il fanfarone, perche se Dio ci fa grazia
d'arrivare in Sicilia, vedrem chi dovra pianger e chi andera in
camera buia. — Ma i passeggieri, in luogo di sostenermi, mi tiravan
pel vestito, mi davano sulla voce, e ripetean le trite sentenze:
i. Questo brano corrisponde alle pp. 48-50 del volume i dell'edizione da
noi seguita. 2. Barbareschi: e aggettivo sostantivato, da Barberia: cioe,
abitanti delle regioni costiere dell' Africa del Nord, escluso TEgitto, che
avevano appunto il nome di Barberia. 3. il nostro legno: come gia abbia-
mo detto a p. 4, la nave si chiamava VEroe. 4. « Gli Inglesi di Gibilterra ci
consigliarono a procurarci una patente inglese per proteggerci dai corsari
di Barberia; ma il capitano non voile far quella spesa» (nota del Pananti).
5. Nel Pananti citazioni, aneddoti, accenni eruditi raramente provengono
dai testi originali, ma sono piuttosto ricavati da raccolte, antologie, repertori
difficilmente precisabili.
12 FILIPPO PANANTI
— Non bisogna entrar nella folia a farsi pigiare ; comandi chi puo,
obbedisca chi deve; 1'asin legate ove vuole il padrone; nelle case
debb'essere a comandare un pazzo solo. — Erano tutti bravissime
persone, ma di poca risoluzione. Quello che manca piu agli uo-
mini nelle gran circostanze non e il talento e il giudizio, ma il
carattere e la volonta; e spesso piu danno viene dalla debolezza e
dalla troppa diffidenza di se medesimo, che da presunzione e da
estrema vivacita. Quei buoni amici, confidando nel capitano, ve-
devan tutto color di rosa, e andavan lieti e felici come se andassero
a un par di nozze e ad una festa di ballo. Cosi un certo uomo di
Pisa in una gran piena dell'Arno, avendo voluto afferrare una trave
che giu veniva per la torbida onda, fu trascinato egli stesso dai vor-
tici, e andava a perdersi nelle spelonche del mare. Tutta Pisa
affacciata alle spallette del ponte gemeva ed inorridiva a questo
tristo spettacolo. — Oh pover'uomo, — gridavan tutti affannosi —
sarete pasto dei pesci; chi sa ove Pacqua vi porta a finire; chi sa i
pianti che fara la vostra povera moglie! — . . . E colui abbracciata
la sua bella trave, alzando la fronte e il guardo sereno, diceva alia
turba commiserante : — lo per me spero bene.
LE NAVI SOSPETTE1
Navigavamo presso alle coste della Sardegna, allorche una mat-
tina dietro a certe isolette o grandi scogli, appellati il Toro e la Vac-
ca, scorgemmo cinque o sei vele che ai maliziosi lor movimenti,
al mostrarsi e nascondersi che faceano, ci dieron molte cagioni di
dubitare. II capitano sosteneva che era il convoglio inglese, e volea
far forza di vele per raggiungerlo ; ma noi gridammo che erano Bar-
bereschi belli e buoni, e che in bocca al lupo non ci volevamo
andare; e colui gridava che noi non avevamo tutti i nostri giorni,z
e volevamo insegnar leggere ai dottori. Fortunatamente il piloto
Roberto Catania, uomo probo e di abilita, assicur6 che era la squa-
dra algerina, e bisogn6 che il capitano cedesse al grido comune e
andasse a dar fondo nella vicina isola di san Pietro :
ma cedendo quelVanima superba,
fe' una bocca di biascia sorba acerba;
i. Questo brano e i tredici seguenti corrispondono alle pp. 72-100 del vo
lume I dell'edizione da noi seguita. 2. non avevamo , . . giorni: eravamo
scemi di cervello.
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 13
ed era sconcertato a si gran segno,
che pareva un Ebreo che ha perso il pegno.1
Arrivato quindi al porto di sicurezza, parlava del corso rischio come
una certa dama, che narrando d'essersi trovata a solo a solo con un
ardito e amabile uffiziale, e d'esserne uscita salva per miracolo, o
per il rotto della cuffia, come suol dirsi, si servia di questa espres-
sione: — L'ho scampata bella!
SBARCO ALLA PRIMA TERRA D'lTALIA
Non cosi lieto e sollecito si gett6 Giunio Bruto a baciare Pantica
madre;2 non cosi pronto al suolo si lancio Giulio Cesare, come
trasportati dal piu vivo e tenero sentimento ci gettammo noi sulla
"spiaggia di quella cara isoletta. Delle lagrime di gioia e di tenerezza
scorsero dai nostri occhi nel rivedere, toccare, abbracciare, dopo
tanti anni d'assenza, le prime italiche rive, nel respirar le aure dolci
che veniano dalla parte della nostra terra natale. Qual diletto dopo
un penoso viaggio, dopo la vita solitaria e monotona delle lunghe
navigazioni, dopo non aver visto per tanti giorni che cielo e acqua,
e acqua e cielo, di rivedere del mondo abitato, di poter premer la
terra, di correr sopra 1* arena! II mal di mare e quel gran mal della
noia, che fu appellata la micrania deH'anima, subito si dileguarono;
come Anteo, toccando la terra, tutte ci parve le nostre forze
riprendere;3 ci rinfrescammo, ci riavemmo con'buoni vini, con
saporose frutta, e particolarmente con una qualita d'uva che era
dolce come la manna, e i grappoli erano grossi come quelli del
paese di Canaan. Eravamo veramente contenti, ci pareva esser
giunti sopra la terra di Promissione.4 Per motivo della peste di
i. Non e state possibile scoprire 1'autore di questi versi, ma e legittimo il
sospetto che siano dello stesso Pananti, ' che spesso amava introdurre nei
suoi brani di prosa alcuni suoi versi occasional!. 2. si gettd . . . madre:
Lucio Giunio Bruto, figlio di una sorella di Tarquinio il Superbo, accompa-
gnati i figli di Tarquinio a Delfi, avendo 1'oracolo detto che il governo di Ro
ma sarebbe toccato a chi per primo avesse baciato la madre, comprese il
significato del response e baci6 la terra, madre comune degli uomini. B una
delle leggende create intorno al personaggio che Iiber6 Roma dal governo dei
re e instaur6 la repubblica. Vedi E. PAIS, Storia di Roma, i, Torino, Clausen,
1898, p. 359. 3. come Anteo . . . riprendere: il gigante Anteo, secondo la mi-
tologia, riprendeva le forze toccando la terra, che era sua madre. Perci6
Ercole lo sollev6 in aria e lo soffoco. 4. la terra di Promissione: la terra
promessa, la Terra santa, la Palestina.
14 FILIPPO PANANTI
Malta e della febbre gialla di Cadice non ci fu permesso internarsi
nelFisola, ma ci fu assegnato un luogo da passeggiar sulla riva. I
signori del paese vennero a farci amichevole compagnia, scesero a
passeggiar lungo il mare tutte le Belle. Si gode di conoscer 1'uomo
«qui mores hominum multorum vidit et urbes));1 si brama udire
le storie meravigliose narrate dal pellegrino. Ognun di noi benedice
questa terra di salvezza, di riposo e di refrigerio, scorre col lieto
sguardo tutta la bella isoletta,
. . . e intanto oblia
la noia e il mal della passata via.2
L'ISOLA DI SAN PIETRO
L'isola di San Pietro e piccola e poco ubertosa, ma fa un esteso
commercio con le isole Baleari e con Caglieri. Vi si raccoglie poco
grano, ma vi son molte vigne; i monti son pieni di selvaggiume, il
mare abbondantissimo di pesce ; la pesca del tonno e la prima di
tutto il mediterraneo. Gli abitanti sono della piu buona indole,
garbati, cortesi, sinceri e pieni di quella benevolenza che e la vera
gentilezza. Vivono in dolcissima pace, e sarebbero pienamente fe-
lici se non dovesser sempre tremare per le continue minacce dei
pirati di Barberia. La squadra di Tunisi quaranta anni fa deso!6
tutta 1'isola. Non sono piu di sette anni che, sopraggiunti una notte
i ladri algerini, sorpreser quella infelice popolazione, e la condussero
tutta a gemere incatenata nei tristi lidi dell'Africa. La storia delle
passate catastrofi e il quadro dei patimenti sofferti sono sempre
present! alia immaginazione atterrita di quegli isolani, e son da
loro dipinti coi colori della passione e del turbamento. Dei mali non
ignari, eran sensibili ai nostri pericoli. Ci awertirono esser erranti
in quei mari le squadre d'Algeri e di Tripoli; ci narrarono che nelle
scorse notti era stato fatto uno sbarco in una remota parte dell'isola,
e portato via del bestiame e un ragazzo ; ci disser la trista awentura
del consiglier Seratti, caduto schiavo dei Tunisini;3 ci pregaron,
i. Riecheggia Orazio, Epist., I, n, 19-20. Ma Orazio scrive: «qui domitor
Troiae multorum providus urbes / et mores hominum inspexit». 2. Pe-
trarca, Rime, L, 10-1. Ma il Petrarca scrive: « ov'ella oblia ». 3. « II cav. Se
ratti, primo ministro in Toscana, poi consigliere di Stato in Palermo, . . .
quando fu fatto governator di Livorno » domandd « al Granduca la libera-
zione degli schiavi tunisini ch'erano stati condotti in quel porto. Chi gli
avrebbe detto che ne' suoi vecchi anni sarebbe ei stesso condotto schiavo e
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA IfJ
ci scongiurarono a rimaner qualche giorno nel porto, e a non esporci
a si imminente pericolo. L'isola era assai ben guardata. Vi avean
costruita una piccola fortezza, e cinto d'un muro il borgo. Pregam-
mo il capitano a trattenersi alcuni giorni; il promise. Tornammo
la sera sul bastimento lieti del giorno passato e della speranza di
scendere il di seguente sopra 1'amica spiaggia. Ognuno ideava i
suoi cari e semplici spassi, ognuno sperava fra quei buoni abitanti
infino a tanto almen fame soggiorno,
che agevoli for tuna il suo ritorno.1
IMPRUDENTE USCITA DAL PORTO
La natura ancor si copriva del suo ricco manto di stelle, e la Dea
delle notti placidamente pei cieli muoveasi sul suo carro d'ebano,
quando fummo svegliati da un rumore confuso, da un general mo-
vimento in tutta la nave. Ci alzammo agitati, e con sorpresa e
sdegno e dolore vedemmo che il brigantino aveva messo alia vela,
e ci trovammo in mezzo al vasto e periglioso elemento. Tornava
intanto da terra con la barchetta lo scrivano : avea gli occhi stralu-
nati, pallido il volto ; il capitano gli accennava di tacere. Si sentivan
colpi di cannone alPoriente ed al mezzogiorno: erano segni di so-
spetto e d'allarme che si davan 1'isola di San Pietro e la penisola di
Sant'Antioco. — Ma to mate indietro, — diceamo al capitano atter-
riti — non vi esponete a tanto cimento. — lo — rispondea bru-
scamente — sono partito per la Sicilia, ed in Sicilia vado. — Ma i
patti sono di navigar col convoglio. - Mostratemi i patti. - La
scritta. - La scritta voi non Pavete. — Meritato avrebbe che sorges-
simo nel calore dell'ira e della vendetta, e che qualche uomo fer-
vido e risoluto, come 1'Emilio di Rousseau in una pari occasione,2
vendicasse i suoi compagni d'infortunio, liberando il genere umano
da un traditore, e il mare da uno de' suoi mostri: ma . . . «nolo
mortem peccatoris: convertatur et vivat».3
Eravamo quasi giunti al termine del viaggio, non v'eran piu che
tre o quattro giornate per arrivare al desiato porto, e ci andavamo ad
finirebbe in Tunisi la travagliata sua vita ? » (nota del Pananti). i . Tasso,
Ger. lib., vn, 14. 2. come . . . occasione: non si cornprende a quale episodic
dell'fimile possa riferirsi il presente accenno. 3. Cfr. Ezech., 33, n, e la
nota zap. 27.
l6 FILIPPO PANANTI
esporre a cosi gran naufragio! Meritavam sorte migliore. I nostri
marinari erano pieni di ansieta di rivedere le loro mogli e le dolci
famigliuole. Riportavano tutti un piccol peculio, frutto di loro
industria e risparmio; il giorno che sarebber giunti al paese, sa-
rebbe stata una festa. Non si poteva trovare gente piu buona. I
passeggeri tutti eran persone di merito. II cavaliere Giuliano Rossi
si distinguea per la nobilta deiranimo e per coraggioso carattere.
Riportava dallTnghilterra utili notizie, e una sposa, dama di gran
virtu, talento e perspicacia, con due graziose bambine, frutto di
loro tenera unione. Un abile e onesto negoziante di Livorno, il
sig. Carlo Terreni, recava merci di gran valore, e sperava il frutto
raccogliere di giudiziosa speculazione. II sig. Antonio Terreni,1
pittore di grandissimo nome e sapere, andava a fare un viaggio pit-
torico nella Sicilia, sul modello di quello bellissimo che avea com-
posto per la Toscana. Un Calabrese che nella marina britannica
servito avea con onore, tornava in sua patria a goder del riposo
e delle comodita che si era procurate negH anni delPassenza e della
fatica. Vi era una bella donna che andava a ritrovar suo marito che
ritornava anch'egli in Sicilia dalle regioni d'oriente; dopo molte
strane vicende la sorte era vicina a riunirli; come d'Ulisse e Pene
lope ha detto Omero, dopo d'essersi incantati d'amore, si sareb-
bero incantati del racconto di loro pene.2 Eravi infine una gioyi-
netta bella come il primo raggio del sole, e fresca come la rosa di
primavera. Amava un virtuoso giovine, ed era corrisposta d'un
pari amore. Non potea dar quella dote che ne} suoi disegni ambi-
ziosi esigeva il padre del giovinetto. La sua ricchezza era nella sua
belta, tutta la nobilta nel suo cuore. Ma quel che 1'amore ha stretto,
difficilmente umana forza pu6 sciorre. L'amore alia bella giovine
die del coraggio e delle ale. Fu a ritrovare a Londra due vecchi e
ricchi parenti; la bellezza ha tanto potere, i pianti parlan si dolce
linguaggio, che i buoni vecchi donarono molte centinaia di ducati
alia giovinetta, che lieta tornava ad offrirli con la sua mano al-
Pamico del suo cuore. Sempre era a ricontarli per la via, cosicche
i. Antonio Terreni, di Livorno, ha lasciato circa duecento disegni della To
scana, i cui rami formano tre volumi con eleganti didascalie di Domenico
Fontani. Una parte dei suoi lavori si trova nella Galleria degli Uffizi, a
Firenze. 2. come ... pene: non vi e traccia di simili sentimenti, del
resto cosi poco omerici, neH'ultimo libro d&lVOdissea. Probabilmente il
Pananti ha avuto presente, nel ricordo, qualcuno degli infmiti rifacimenti
e divulgazioni del poema.
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA IJ
noi la chiamavamo per ischerzo, 1'avara per amore. Contava an-
cora le ore e i minuti che la separavano dal suo amante, si figurava
vederlo che a braccia aperte Pattendeva sopra la riva: ahi! 1'attendea
veramente al mar riguardando, come Paolo stava attendendo Vir
ginia:1 ahi! non la rivedra piu, e maggior disgrazia la vergine avra
che di perir fra i flutti adirati ; ella cadera schiava dei Turchi, e come
Angelica bella,
. . . oh troppo eccelsa preda
per si barbare genti e si villane!2
I NERI PRESENTIMENTI
Navigammo tristi, pensosi e pieni d'atri presentiment!. Lo sguar-
do fisso sul mare, non alzavamo un suono, una voce: i gran dolori
son muti. II nostro legno bisognoso di molti ripari si movea con
isforzo e difficolta. Era imprudenza con un legno cosi malconcio
solcare i neri flutti.
O navis referent in mare te novi
fluctus? oh quid agis? fortiter occupa
portum; nonne vides ut
nudum remigio lotus
antennaeque gemunt, ac sine funibus
vix durare carinae
possint?3
Subitamente 1'albero di trinchetto si ruppe e precipito. Fu nella
sua caduta per fracassar la testa del capitano. Una volta, mentre
M. di Calonne4 restava adagiato nelle sue molli piume, gli cadde
sopra il cielo del letto, e se dopo un'ora non arrivava gente, Pex-
ministro rimanea sofTocato e andava tra quei piu. Un signore che
lo vide in quello stato, esclam6: — Giusto Cielo! — Non avrei vo
lute che il capitano pagasse il fio della sua imprudenza ed ostina-
zione; ma dovea prender quello per un awiso del cielo che gli dicea
i. V attended . . . Virginia-, si allude all'epilogo del famoso romanzo Paul
et Virginie (1787) di Bernardin de Saint-Pierre (1737-1814). 2. Ariosto,
Orl. fur., vin, 62. 3-11 Pananti cita qui, applicandola forzatamente alia
sua situazione, un'ode di Orazio (Carm.y I, xiv, 1-8) universalmente nota;
ma salta il quinto verso dell'ode e scrive gemunt in luogo del corretto « ge-
mant ». 4. Carlo Alessandro di Calonne fu rninistro per le finanze di Lui-
gi XVI, dal 2 novembre 1783 al 9 aprile 1787: e rimasto famoso per la sua
corruzione e per i danni della sua amministrazione.
l8 FILIPPO PANANTI
di tornare indietro, e d'andar di nuovo all'isola di San Pietro oppur
nel porto di Caglieri. Resto pertinace, e senz'albero di trinchetto
seguit6 a far muovere il brigantino spaventosamente barcollato dagli
schiumanti flutti e dai venti. L'aria intanto oscuravasi, si rattri-
stava; un cupo muggito si facea intendere da lontano; un sordo
tuono uscia dalle nubi che s'ammassavano ; la nera notte scendeva
sopra 1'oceano.
L'ORRIDA APPARIZIONE DELLA SQUADRA ALGERINA
Passammo una notte agitata e trista. lo cominciava a chiuder gli
occhi un momento, quando il cavalier Rossi, che si era alzato col
sole, venne a destarmi, e mi disse che si scoprian le vele medesime
vedute gia 1'altro giorno. Sbalzo dal letto, salgo sul ponte, e trovo
su tutto il vascello 1'angoscia e la confusione. Interrogo i marinari,
il piloto, e non rispondon che con tremebonda voce e in tronche
e meste parole. Non appariano allora le sei vele che quasi impercet-
tibili punti sul vasto campo delle onde; ma erano spaventose al
guardo e alia mente, e sembravano ingrandirsi, sollevarsi, avanzarsi
come la piccola nube cosl temuta dai naviganti, che a poco a poco
cresce, s'inalza, s'agglomera e forma il burrascoso tifone, la turbi-
nosa tromba delle tempeste dei mari. Fecero quelle navi un sinistro
giro che le loro ostili mire ci pales6. I marinari nostri alzarono
un grido di affanno e di raccapriccio. Nel loro turbamento si mes-
sero a correre, ad affaticarsi, a far cento sforzi, che nulla valevano
per la tattica e per la salvezza; Pagitazione non e attivita, e le ope-
razioni senza disegno non sono che confusione e sconcerto. Per
una orrenda fatalita, il vento che fino allora avea soffiato con
violenza, tutto ad un tratto cesso, e ci trovammo inchiodati in
mezzo al vasto elemento. II capitano era mutolo e sbalordito, nulla
operava; e il peggio che possa farsi, e non far nulla. Tentiam, di-
ceam noi, con tutte le vele; e se non si puc- con le vele, coi remi ten-
tiamo di guadagnar la costa dei Sardi; e se altro non si pu6 fare,
montiam sulla lancia, salviamo almen le persone ; ma il capitano ci
mostrava col dito un legno nemico che stavaci sottovento e ci chiu-
deva la ritirata. Non so che peso avesser le sue ragioni; ma so
che nulla opr6 o per difendersi o per fuggire. I nemici, la prima
volta che li discoprimmo, eran diciotto miglia lontani; la Sardegna
non era da noi discosta tre miglia. Ci hanno poi detto i pirati essere
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 19
il nostro un cattivo Rais;1 che se ci avesser veduto fare un piccolo
movimento verso la costa, non si sarebbero essi n6 men rivolti verso
di noi, ma che vedutici rimanere immobili, anzi moverci verso di
loro, ci avean creduti incantati, e, secondo la loro enfatica espres-
sione, strascinati dal nero spirito della nostra inevitabil ruina.
Tutto fu sulla nave sicula scoraggiamento e abbandono. Non
so qual gelida mano alFapparir dei legni turchi opprima il cuor dei
Cristiani; sembrano come impietriti dal teschio orribile di Me
dusa. Allora awenne quello che accade nei gran disastri: in luogo
d'incoraggiarsi, di sostenersi mutuamente, gli uomini si detestano,
1'ira divampa fra i compagni della sventura, e Pintestina guerra si
desta nella pubblica desolazione. Un marinaro che era stato schiavo
dei Salettini,2 e ne serbava nelPanimo la rimembranza e 1'orrore,
presb da disperata doglia, con gli occhi di fuoco ed un pugnale
alia mano venne alia gola del comandante, e senza la mia difesa
gli facea versare il sangue e 1'anima. Un altro, irato come una
furia, avea preso un tizzone ardente, e andava a dar fuoco alia Santa
Barbera. Chi voleva immergersi un ferro nel seno, chi precipitarsi
nei vortici del mare. Quindi in un subito, un cupo e orribil silenzio.
I marinari ad uno ad uno disparvero, e nel fondo della nave an-
darono a seppellirsi: noi passeggieri restammo soli sul ponte, mi-
rando a gradi a gradi giungere la nostra ruina. II capitano che non
solea mai stare al timone, allor vi si pose, e profittando della picco-
lissima aura che alitava, adagio adagio si awicinava ai pirati; giac-
ch6 fummo noi che andammo verso di loro, non essi verso di noi.
Sei ore restammo in quel tremito, in quelPorrenda perplessita;
si bewe a sorsi la morte. Quando furon prossimi i barbari, si udi-
ron gli orridi gridi, si vide apparire ed alzarsi Timmensa turba dei
Mori; allora ogni speranza abbandon6 ancora i men pavidi; tutti
fuggimmo al tetro spettacolo, ci andammo a rinserrar nelle nostre
piccole celle, attendendo della gran tragedia la dolorosa catastrofe.
Quando e inutile ogni sforzo, ogni tentative, ogn'ingegno, si cade
in quello stupore, in quella fredda tranquillita che e 1'ultimo grado
d'un cupo ed eccessivo dolore. Cosi un selvaggio del Canada, se-
duto stando nella sua barca presso alia gran cascata di Niagara,
vide da un suo nemico il canapo sciolto che tenea la barca alia riva,
e se strascinato dall'invincibil corso dell'onda. Fece ogni sforzo
i. Rais: voce araba, che equivale a « comandante, capo». 2. Salettini'. po-
polazione del Marocco, che prendeva nome dalla citt£ di Saleh.
20 FILIPPO PANANTI
di remi, impiego tutti i mezzi deH'abilita, del coraggio, del sangue
freddo e della risoluzione; ma vista inutile ogni sua opera, e ve-
dendosi e sentendosi senza scampo sopra del gran precipizio, pos6
tranquillamente il suo remo, si distese dentro il suo canot, si copri
gli occhi e la fronte e rovin6 nelPabisso.
CADUTA IN MAN DEI PIRATI
Eccoci al grande istante arrivati, eccoci alia piu nera vicenda che
possa ottenebrar la vita degli uomini. Si odono gli alti gridi degli
Africani vicini, escono a sciami, a nuvoli i barbari, e con le scia-
bole nude e un truce aspetto di guerra vengono alParrembaggio,
all'assalto. Si udi un gran colpo di cannone, che come scoppio di
fulmine agli orecchi ci rimbombo. Credemmo che cominciasse
1'attacco, che andasse il nostro legno a distruggersi : era il segnale
di buona preda. Un secondo colpo annunzi6 la conquista e il pos-
sesso del bastimento. Saltano i Barbereschi sul nostro legno, ci
fanno scintillar sugli occhi e sul capo i taglienti cangiar e il roteante
attagan* ci ordinan di non far resistenza e sottometterci. Che far
potevamo ? obbedimmo. Prendendo un'aria men truce, cominciano
i Barbereschi a gridare : — No paura, no paura ; — ci domandaron
rum, ci chieser le chiavi dei nostri bauli, ci distribuirono in due
divisioni, a porzione dei passeggieri ordinaron d'uscire e di salir
sulla lancia per essere trasportati sulla fregata algerina; una parte
rimase sul brigantino, di cui molta truppa moresca aveva preso il
possesso. lo fui tra quelli che uscirono e che dovetter partire. Diem-
mo un doloroso sguardo al nostro bastimento e ai compagni,
montammo sulla lancia e partimmo.
COMPARSA ALLA PRESENZA DEL RAIS
Cruda fatalita! AlFistante in cui cominci6 a vogar la lancia che
ci trasportava, il vento che aveamo tanto e si vanamente invocato
nelle sei ore che dur6 la nostra agonia, e che un'ora avanti sorgendo,
forse ci avrebbe tratti a salute, si Iev6 allora subitamente e comincio
a soffiar con grand'impeto. Si copri il cielo di nuvole, 1'acqua ca-
i. cangiar . . . attagan: nomi di sciabole usate dagli Arabi. Caratteristico e
lo yatagan, sciabola corta, con lama a un solo taglio, ricurva alle due estre-
mita.
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 21
deva a torrenti, n'eravam tutti inzuppati. I Mori, con noi mescolati
confusamente sopra la lancia, parlavano, ridevano, gridavano; re-
stavam noi in mesto e cupo silenzio.
Al giunger nostro sulla fregata i barbari alzarono il feroce grido
della vittoria, e una crudele gioia baleno nei loro sguardi sinistri,
S'apriron le strette file, e a traverse dei Turchi armati e dei Mori
fummo condotti alia presenza del gran Rais, supremo comandante
delParmamento algerino. Stava seduto fra i comandanti delle altre
quattro fregate, che tutti a consiglio s'eran ristretti per determinar
le misure da prendersi sul nostro conto, per combinare le suc
cessive opere di guerra, e per inebriarsi dei fumi della loro orrenda
celebrita. Fummo interrogati in brevi e altere parole. Non vi fu
pero ne insulto ne contumelia. Ci chiese il Rais il denaro, gli
oriuoli, gli anelli e ogni altra preziosa cosa che aveamo indosso,
per custodirla, dicea, dalla rapacita degli uomini del mar Nero che
formavan parte del suo equipaggio, e che chiamava col proprio
termine ladrL Distribui le nostre respettive proprieta in una cas-
setta, promettendoci che tutto ci sarebbe restituito al nostro uscir
dalla nave, e dicendo:— Questo per ti, questo per ti, quest'altro
per ti — ; e dicea forse in suo cuore, «e tutto questo per mi».
Ci fu detto di ritirarci; fummo fatti sedere sopra una stuoia nel-
ranticamera, ove fummo abbandonati al nostro dolore.
LA PRIMA NOTTE FRA I BARBARI
Ci fu dato da cena. Consisteva in certa cattiva pasta che dovem-
mo mangiare in un gran tegame, stesi sul pavimento, senza tavola,
senza sedie, misti a un branco di Mauri e di Neri che con noi facevan
vita comune, e che eran si lesti, si villani e cosi di buon appetito,
che non lasciavan nulla a noi altri afflitti, tremanti, complimentosi,
che ci accostavamo al piatto come un animale debole, mentre che al-
tro piu forte mangia. Poco dopo del tramontar del sole fummo fatti
scendere in una buca che pareva un trabocchetto o una sepoltura.
Ci dovemmo distendere o piuttosto romperci tutte le ossa sui cor-
dami, le vele, le gomene, che facevan del nostro letto un vero letto
di spine: si affogava in quell'aria riscaldata dal fiato di venti per-
sone; sembrava d'essere in una fornace. I piu tristi pensieri op-
pressero il nostro cuore. Quando eravamo vicini ai nostri paterni
lidi, dove anderemo, chi sa? Noi nati fra i culti popoli, noi si
22 FILIPPO PANANTI
lungamente awezzi agli usi, alle leggi, alia saggia liberta dell'im-
pero britannico, noi andremo ad essere schiavi del piu vili schiavi,
noi trarremo i di delPaffanno nelle barbare terre delF Africa? I
poveri marinari siculi, tutti padri di famiglia e bonissimi uomini,
ma di poco spirito e poco cuore, pensando ai lor tristi casi e alle
misere loro famiglie die perdeano in essi ogni consolazione, ogni
appoggio, non si potevan salvare dalla disperazion del dolore.
Noi passeggieri sosteneva un poco di forza d'anima e di filosofia;
ma chi pu6 serbarsi imperterrito in una sorte si nuova e si dolorosa ?
Non potemmo chiudere un occhio.
. . . il sonno,
simile al guasto mondo,
fugge dagl'infelici, a vol trapassa
dove gemere ascolta, e sopra gli occhi
non bagnati di pianto ei si riposa.1
Che fantasmi turbaronci fra quelle ombre! quali ore, oh dio, furon
quelle!
Que la nuit par ait longue a la douleur qui veille!2
IL SECONDO GIORNO
Appena un raggio del sole comparve, uscimmo fuora di quell'or-
rendo sepolcro. Andammo qua e la girando sopra la nave algerina,
ignari del vero stato di nostra sorte, e cercando leggere il nostro
destino negli sguardi e nelle voci dei barbari: ma nulla poteam
conchiuder di positivo, e rimanevamo in una incertezza, il peggiore
di tutti i mali. Non e il momento in cui cade il colpo della sventura
quello ch'e il piu doloroso: e il momento che gli succede. Cosi
sentiam piu vivo il dolore della ferita quando cess6 il calor della
zuffa e il gorgogliante flusso del sangue. Si rimane scossi, storditi
il primo giorno d'una funesta awentura ; poscia la riflessione arriva,
e tutto scopre il grande abisso dei mali. Si oppone in un primo
urto e combattimento il coraggio e la resistenza; ma quando poi si
e dovuto succumbere, hanno perduta la lor forza tutte le molle
deiranima.
i. Non mi e riuscito di trovare la fonte di questa citazione. 2. Piti esatta-
mente: «Qu'une nuit parait» ecc., dalla scena v delFatto v di Blanche et
Guiscardt tragedia di Bernard Joseph Saurin (1706-1781).
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 23
Al nostro passar per la nave s'affollavano i Mori pieni di curio-
sita. Involti nei nostri pensieri, niuna curiosita aveam noi se non di
sapere quel che eravamo in quella nuova casa, in quella nuova esi-
stenza. — Che cosa piu vi sorprende a Versailles ? — fu domandato
al doge di Genova, costretto ad andare con quattro senatori a chie-
dere scusa al superbo re della Francia. Rispose : — Di vedermi qui.
LA TEMPESTA
Ecco subitamente il cielo imbrunirsi, solcar le nuvole nere la torta
luce dei fulmini, mugghiare i flutti, e sopra i flutti il tuon rimbom-
bare. Monti ed abissi di acqua, tenebre, lampi, urli, silenzio, con-
fusione orribile, tema di morte. I Barbereschi perderon la testa e la
tramontana, e tutti a terra distesi stavan gridando «allah, allahb.
Inesperti delle nautiche operazioni, vili nei gran pericoli e poco
pratici delle coste, diventarono d'un'ammirabil mansuetudine; eb-
ber ricorso ai nostri marinari, ed al consiglio e all'opra lor si affi-
darono. In mezzo alia generale costernazione un non so che di
gioia e di speme si sollevb nei mio cuore, e grate mi erano quelle
tenebre spaventose e la burrascosa agitazione delle acque. Piu che
la pazienza, la rassegnazione e la stoica imperturbabilita, possono
1'egro spirito sollevare il concepimento di fiero disegno, il desio di
giusta vendetta, e la speranza di riuscire in forte e generosa intra-
presa. Tre volte mi levai fra 1'ombra notturna, e al baglior dei
lampi e dei fulmini, brancolando sopra il vascello, pervenni in
mezzo ai nostri uomini, e volli persuaderli a profittar della propizia
occasione per uscir dei loro dolori. — Spingete — io dicea — la nave
verso la costa della Sardegna, impadronitevi del timone; arrivere-
mo ad un porto, o in un basso fondo, e oggi siam noi prigionieri,
domani i Turchi il saranno; oggi siam dei viventi i piu miseri,
sarem domani i piu lieti. — Oh, — rispondevano quelli — chi vede
in mezzo a queste ombre 1 questa e la spiaggia dei naufragi. —
Era grande, e vero, il pericolo; ma qual pericolo piu grande che di
restare nei ferri; si puo esser cosl miseri, e tanto amare la vita?
And there what brave what noble
let do it after the high Roman fashion
and make death to take us. (Shaksp.)1
i. Shakespeare, Antony and Cleopatra, atto iv, scena xv, w. 86-8. La tra-
duzione e data dallo stesso Pananti nelle righe immediatamente succes-
24 FILIPPO PANANTI
Facciamo quello che e nobile e coraggioso, secondo il sublime
operar del Romani, e che la morte sia orgogliosa di prenderci.
O la fin d'ogni male un ben pud dirsi,
o V ultimo del mali e il mal minor eJ1
Ma quegli uomini del siciliano equipaggio non voller tentare un si
grande cimento, non crederono al coraggio ed alia fortuna, non
sepper pensare che nelle grand! intraprese e il vil che perisce,
1'uom coraggioso attra versa il nero sentier della morte: non videro
che il pericolo, che e la sola cosa che vedono i vili.
Ritornai tristamente in fondo alia nave, e non isperai piu che nei
vend e nel furor del mare. Ma 1'occasione appare un istante, e piu
non ritorna. I flutti si acquetarono, il ciel si rasseren6. lo vidi con
duolo il ciel rischiarato, e sui volti dei barbari ritornata la gioia e la
sicurta. II mare era in calma, ma la tempesta fremeva ancor nel
mio cuore.
BATTAGLIE MARINE
Dallo spavento a subitanea gioia pass6 la ciurma africana; si
scoperse un bastimento, ma cosi piccolo e si lontano, che non potea
vederlo che Tocchio linceo delPavarizia. Si spiegan tutte le vele, si
puntan tutti i cannoni, si promettono a quelli che morranno le
delizie del Corckhan? e gPineffabili godimenti delle Houris? E cos!
gran fracasso i Barbereschi fanno per un piccolo legno greco ? Rasso-
migliano a colui che chiedeva la clava ad Ercole per ischiacciare
un piccolo ragno, e a quel piccolo diavolo di Rabelais che mostrava
la sua forza grandinando sopra il prezzemolo.4 II legno greco fu
raggiunto; e benche picciolo e debole, pure mostro valore e fece
bella difesa. Poi, per far men lieta la vittoria degli Algerini, i
Greci gettarono in mare quanto di ricco carico aveano. Questi
sive, ma i versi, oltre che incompleti, sono trascritti con grafia errata.
Diamo il testo esatto e complete: « We'll bury him; and then, what's
brave, what's noble / let's do it after the high Roman fashion, / and
make death proud to take us. Come, away». i. Vedi la nota i a p. 22.
2. Corckham: il Corano. 3. gVineffabili . . . Houris: le uri sono le vergini
del paradiso mussulmano, che daranno infinite delizie ai guerrieri morti
per la loro fede. 4. quel . . . prezzemolo: di una siffatta virtu, ma in modo
leggermente diverse e, comunque, incidentale, si trova un cenno nel Pan-
tagruel, libro iv, cap. XLV.
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 25
quand'ebbero conquistato quel legno, e vi si gettaron pieni di
avidita, restaron burlati e neri come Gilblas, quando sciogliendo il
sacchetto del Fraticello, in luogo delle monete che si figurava, ri-
trovo tante medaglie e tanti agnusdei.1 Per vendicarsene caricarono
d'improperi e di bastonate i poveri Greci; fecer come Arlecchino
nella commedia, che volendo rubare un pastrano, e colui che lo
avea indosso, nel ritenerlo, avendolo strappato, Arlecchino co-
mincic- a dargli colpi da ciechi, dicendo: «Ah birbante, mi strappi
il mio pastrano ». Mentre eran cosi bastonati, il Rais algerino an-
dava dietro facendo loro una predica. — O bastonate, o predicate;
ma non bastonate e predicate a un tempo medesimo. — £ stato
detto che gli awenimenti si succedono per Puomo ordinario,
s'incatenano per Puomo di genio. Si succedono e s'incatenano le
disgrazie e le fortune per tutti gli uomini. Comparve una corvetta
tunisina. La guerra ardeva feroce tra le due reggenze africane.
Cominci6 un ostinato combattimento. Un uffiziale scriveva a un
suo amico : « II tale e il tal altro son morti, questi sono arTari loro
e non mi riguardano; io sto benissimo». Non avremmo potuto
scrivere cosi noi. Le palle non rispettavano alcuno, e no! non eravam
punto a noire aise. £ bello il combattere per la Fede, per la patria,
pel suo re; ma morire pei Turchi, pei ladri sarebbe duro. Cosi pro-
curammo di non essere ne attori ne spettatori, e facemmo come
quel Genovese, che mentre il vascello su cui era passeggiero, batte-
vasi con un altro, si tenne sempre sotto coperta; e quando udi ces-
sato il suon del cannone, rimesse la testa fuora, dicendo: — Siam
prenditori, o presi ? — II legno di Tunisi, cedendo alia maggior
forza, fu superato. Allora si esercito in tutto il suo rigore la vendetta
d'un nemico senza generosita. I Tunisini furono caricati di ferri;
al bravo lor comandante fu troncata la testa; e posta sopra una
picca, fu portata in trionfo per la fregata algerina, e poi fu esposta
in un eminente sito, spettacolo lurido e spaventoso. Fu tutto sulla
fregata esultazione e trionfo. II Rais dal piacere non entrava piu
nei suoi panni, benche fossero larghi; gli parea d'aver fatto quanto
Carlo in Francia. Tutti gli faceano applausi e congratulazioni ;
dovemmo farlo anco noi, benche quasi quasi in cuore piuttosto si
fosse presa passione pei Tunisini. Ma «gaudete cum gaudentibus;
i. come Gilblas . . . agnusdei: T episodic e appunto nel Gil Bias de Santil-
lane (libro I, cap. vm), romanzo di ispirazione picaresca del Lesage (1668-
1747).
26 FILIPPO PANANTI
flete cum flentibus».x E bisognava usar di tali riguardi per esser
trattati meglio, oppur meno male. I grand! sono come quei mulini
eretti sulle montagne che non danno della farina se non si da loro
del vento.
RIUNIONE COI COMPAGNI DELL'INFORTUNIO
La nostra piu grande inquietudine non era per noi, ma pe' nostri
compagni rimasti sul brigantino. Vedemmo quel bastimento nella
notte della gran tempesta qua e la sbalzato dalle onde, scender lo
rimirammo dentro le aperte voragini e piu nol vedemmo. Vi ave-
vamo i compagni del viaggio e deirinfortunio. Ma quattro giorni
dopo il brigantino riapparve, le navi si awicinarono, e il resto del-
Pequipaggio siculo e toscano fu trasportato ancor esso sulla fregata
algerina. Fu grandissima consolazione il ritrovarsi, il vedersi in vita,
1'essere insieme congiunti, il poter correr tutti la sorte medesima.
Parve che la sventura perdesse di sua acerbita. Cosi sempre ac-
cade ove son molti insieme a faticare e soffrire. La gaieta e fra gli
uomini nei piu gran lavori della campagna; i soldati brillan del
fuoco delPardimento quando combattono in masse; desolata e
Tanima dell'infelice abbandonato nella solitudine.
Rivedemmo ancora il capitano, contro del quale ogni mattina,
destandoci, come nelle notturne tenebre, s'alzava il nostro lamento.
Ma tutto allor fu obliato: non rimirammo piu Pautore, ma il com-
pagno della nostra sventura, e faceva veramente compassione quel
re del bastimento caduto in tanta bassezza. E il capitano parea
sinceramente afflitto e mortificato, e forse non avea errato che per
imprudenza e temerita. La confessione del proprio fallo ristabilisce
in tutto il lume dell'innocenza, e il pentimento 6 cosi bello che la
virtu. Dice un bel passo delVAnia* antico libro degli Hindous:
« Un uomo buono dee non solo perdonare, ma ancora al suo nemico
i . « Gioite con quelli che gioiscono, piangete con quelli che piangono ».
II precetto e in Rom., 12, 15, ma con le forme «gaudere . . . flere». 2.
Ania : non esiste un poema con questo titolo nell'antica letteratura india-
na. La sentenza si trova nella raccolta Indische Spruche. Sanskrit und
Deutsch, pubblicata da Otto Bohtlingk, St. Petersburg 1870-1873, in
parte (1870), p. 512, sentenza 7099. Probabilmente Tequivoco e nato, nel
Pananti (ed altri poi Thanno ripetuto), dal fatto che anyad in sanscrito si-
gnifica «inoltre», ed e modo usato, come premessa, per introdurre via via,
dopo la prima, successive sentenze di uguale argomento. Le indicazioni
e Tipotesi sono dovute alia cortesia del professor F. Belloni Filippi.
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 27
desiderate il bene. Simile e alFalbero del Sandal, che nel memento
in cui e abbattuto, copre di profumi la scure che lo ha colpito».
«Apprendi,» dice il poeta persiano HanV «apprendi dalla con-
chiglia dei mari a riempier di perle la mano stesa per nuocerti.
Vedi tu quelPalbero assalito da un nuvolo di pietre ? Ei non lascia
cadere su quei che le lanciano, che dei frutti deliziosi e dei fieri ».
LA DURA VITA SULLE NAVI DEI BARBERESCHI
« Ah, )> diceva il povero pievano Boschi, di cui lo spiritoso e satiri-
co pievano Landi* avea scritta la vita « ah la mia vita sara la mia mor-
te! » Udite che vita da morire era la nostra sulle fregate algerine. Si
miri la compagnia. Uomini d'ogni setta, d'ogni razza, d'ogni colore;
dei banditi di Levante, dei Mori, figli di quei cacciati di Spagna,
che a udir nominare un Cristiano si facevano di color verde; dei
Neri come 1'inchiostro, appellati in Africa i Fertit\ degli uomini
col naso schiacciato come le scimie, altri col capo lanuto come le
pecore: credo vi fossero ancora degli ourang-outang e dei him-
panzag. Si vedevano alcuni di quegli esseri spaventosi e bizzarri ad
uno ad uno rannicchiarsi in certe buche Tuna dall'altra discoste,
come nella repubblica dei castori;3 altri appollaiarsi su certe travi
come Puccello del mal augurio, e tutti poi venir fuori come esce
dalla tana il lupo affamato. La schifa ciurma era tutta coperta da
capo a piedi di lebbra, d'elefantiasi e d'eserciti d'animali divora-
tori. Ci teneva il cuor sollevato il timor della peste che ivi ci figura-
vamo dovere starci di casa; e non facendo quegli stupidi fatalisti
i. II poeta persiano Hafiz, detto «l'usignuolo di Siraz», dotto studioso
del Corano, mori nel 1389: di lui rimane una breve raccolta di versi, so-
prattutto di tono anacreontico. 2. Don Carlo Landi, aretino, morto nel
1794, maestro del Pignotti, ha lasciato un poemetto e altre poesie giocose.
Su lui, vedi N. VIVIANI, Curiosita aretine, Arezzo 1921, pp. 239 sgg. Del
pievano Landi narra alcuni aneddoti lo stesso Pananti in nota al presente
brano: « Verso la fin de' suoi giorni egli stesso bruti.6 la maggior parte
delle sue rime. Ne conservaron per6 alcuni cittadini d' Arezzo. Credo
che esistano ancora molti canti della Boscheide, poema satirico contro un
Boschi pievano di Subbiano, che fu veramente percid tribolato. Essendo
questi andato dal vescovo per pregarlo di far chetare il Landi, e dicendo
che la vita di questo sarebbe la sua morte, il vescovo prego il Landi a per-
donare al povero Boschi, se non voleva farlo morire. II Landi rispose: —
Nolo mortem peccatoris; convertatur et vivat». 3. repubblica dei castori'. i
castori vivono in societa, costruendo 1'una accanto alPaltra le loro tane.
28 FILIPPO PANANTI
che coi lumi accesi e la pipa in bocca andare e venire per quella
casa di legno, ci aspettavamo ad ogni istante d'udir lo scoppio e di
saltar nelle nuvole. lo potrei star nella botte di Diogene, purche
nessuno non mi parasse il sole. Ma la stanza ove coi miei compagni
io stava sepolto, come la bolgia delPinferno di Dante,
oscura era, profonda, nebulosa,
tanto che, ancor ch'io ficchi Vocchio a fondo,
non vi potea distinguer niuna cosa.1
Stavamo stretti come le sardelle, e parea che si dovesse fare il
mosto : era quello il vero letto di Procuste, o quello su cui gettavasi
Sant' Antonio quando il nemico infernale veniva a tentarlo sotto
la figura d'una donzella. Mangiar distesi sul pavimento e seduti
alia maniera dei Turchi e dei cani ; tutti a un gran vaso correre come
le galline alia crusca; non aver che cucchiai di legno come i cap-
puccini, e dovere aspettare che se ne fosser prima servite le belle
bocche dei Negri e dei Mori ; poi bever tutti in comune a un gran
secchione,
dove avevano pria cento neri Jarba
ficcato il naso, la bocca e la barba.2
E sempre cuscussit?, non altro che cuscussii, e se ci prendea qualche
fantasia, se si avea gola d'un aglio, d'una cipolla, si dovea far cento
prieghi e cento memoriali a un avaro credenziere, di nome Solyman,
che non dicea do ut des, ma « date prima, e poi si dara » ; ma noi come
avevamo a dare i primi il nostro denaro ? II Rais 1'avea preso in de-
posito, e si avea dato il lardo a custodire alia gatta; e quando il de
naro certa gente 1'ha visto, non si rivede piu; cosi noi eravamo ri-
masti asciutti come 1'esca, e a porci col capo all'ingiu e a scuoterci
e scuoterci, non ne sarebbe uscito un mezzo baiocco. Un giovine
uffiziale chiese al suo principe un aumento di paga, dicendo che
con il poco che avea non si potea sostentare ; ma il principe riguar-
dandolo e vedendolo vegeto e fresco con una faccia da impera-
tore, gli disse che a stentare non si faceva quella bella faccia che
schizzava il grasso. L'ufHziale rispose : — Altezza, non e mio questo
1. Dante, Inf., iv, 10-2. Ma la citazione e inesatta. II Pananti ha defor-
mato i versi di Dante, che scrive: « Oscura e profonda era e nebulosa /
tanto che, per ficcar lo viso a fondo, / io non vi discernea alcuna cosa ».
2. Vedi la nota tap. 13. 3. cuscussii: vivanda araba di assai mescolati
ingredient!.
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 29
bel viso, ma della ostessa, che e una buona donna e che mi da da
mangiare a credenza. — Ma con 1'avaro Solyman non si facevano
conti lunghi, ed era scritto sulla porta del suo magazzino, come su
quella d'un'osteria : «Domani si da da mangiare a credito, oggi si
paga». Ci potevamo paragonare a certe monache povere derelitte
della citta d'Arezzo, alle quali il faceto pievano Landi rega!6
una bella gabbia con entro un vaghissimo cardellino. Era accompa-
gnato il dono da graziosi versi, nei quali lo spiritoso poeta fa parlar
le monache che avevan con Puccelletto grandissima analogia. — Tu
sei in gabbia rinchiuso, — diceano al cardellino le buone suore —
e in gabbia siamo noi pure; tu saluti il di coi tuoi canti, e noi can-
tiam mattutino; tu pigoli sempre a' tuoi ferri, e noi siamo spesso a
pigolare, e a far pissi pissi alia grata; ma piu di noi tu felice, tu vedi
sempre di panico o miglio la tua cassetta ripiena, e noi spesso a
tavola non viviamo che di sospiri. — E terminava cosl:
quanta, o vago augellin, la nostra vita
della tua si pud dir piu sventurata;
a te non s'impedisce che Vuscita,
e not siam senza uscita e senza entrata.
ADDOLCIMENTO1
Le cose di questo mondo son fatte a faccette. Presentan diversi
aspetti, e la piu trista situazione puo aver qualcosa di dolce, o al-
meno assai raddolcito. Noi non ci lasciammo abbattere dal dolore:
e quando I'inquietudine e Tagitazione non farebber che piu awi-
luppare Tintralciate fila della nera sorte, e prudenza il rassegnarsi
e cedere alia corrente delle inevitabili vicissitudini. Si pu6 esser se
non felici, almeno tranquilli in ogni piu duro stato. Un uomo di
spirito rinchiuso alia Bastiglia confesso che non furon quelli i giorni
suoi piu infelici; MenzicofT2 sapea consolarsi nella povera capanna
in mezzo ai ghiacci del polo ; Robinson Crusoe trov6 Toccupazione
e il diletto nella sua deserta isola ; Cervantes cominci6 il suo grazioso
romanzo nelle prigioni d'Agamanzillas.3 Non mostrammo nem-
i. Questo brano corrisponde alle pp. 102-6 del volume I dell'edizione da noi
seguita. 2. Menzicoff: Alessandro MentsikorT (1674-1729) fu consigliere di
Pietro il Grande, di Caterina II, e si impadronl del governo sotto Pietro II, in
nome del quale esercit6 il potere. Potenti nemici ne provocarono il crollo
e Pesilio in Siberia, dove mori. 3. Cervantes . . . Agamanzillas: Miguel de
Cervantes (1547-1616), il famoso autore del Don Chisciotte, fu catturato nel
30 FILIPPO PANANTI
meno alcun'aria d'abbattimento ; fummo quasi fieri, quasi orgo-
gliosi; col capo alto, come Cesare, minacciato avremmo i corsari.1
Del resto non era la cuccagna, ma non era poi la sperpetua;2 non
si viveva bene, ma si poteva vivere ; non aveamo un letto sprimac-
ciato, ma vi trovavamo il sonno; sempre cuscussii, e vero, ma la
fame non si pativa; eravamo presi dai Turchi, ma non eramo inca-
tenati; qualche fortuna non ci mancava. Avevam fra noi due
graziosissime bimbe, figlie del cavaliere e madama Rossi; e il cielo,
che 1'innocenza protegge, in lor riguardo accordava protezione anco
a noi. Non si avea che a mandarne in giro la Luigina, e queH'ama-
bile creatura tornava sempre col grembiulino pieno di fichi secchi,
d'uva passa e di datteri, ed era per noi altri poveri penitenti quello
che fu la colomba pei santi anacoreti della Tebaide. Molti dei
Turchi e dei Mori erano gente di bonissima pasta, e la lor tenerezza
pe' bambini e una prova. Rammenterem con piacere Mehemet
figlio d'un principe arabo, uomo pieno di buon senso e di virtu,
il giovine Acmet segretario del Rais, che avea viaggiato nei porti
d'Europa e parlava Titaliano e il francese perfettamente, e 1'Aga3
della milizia turca che era quello che si chiama in Levante un Turco
gentile. Nessuna offesa non ci fu fatta, e soprattutto rispettate furon
le nostre donne, e con loro parlando i Turchi, parevan tanti no vizi
dei cappuccini. C'invitava il Rais alle sue stanze, ci regalava di
qualche novella araba, e, quel che valeva piu delle novelle, ci dava
qualche buona tazza di caffe dell'Yemen, e un bicchierino ancor
del suo rum, cioe del nostro rum che ci avea tolto sul brigantino;
ma non sono i piu cattivi ladri quelli che pigliano da una mano, e
che poi rendon qualcosa dalPaltra.
Ma chi crederebbe che sopra un legno corsaro, in mezzo ai fieri
Africani, avessimo le nostre conversazioni, le nostre accademie, i
nostri rout* e quasi la nostra opera in musica ? Assistevamo ai rozzi
canti e alle goffe danze dei Mauri e dei Neri; e pregati a cantare,
1575 dai pirati turchi, e per cinque anni soffri la prigionia come schiavo ad
Algeri. La prima parte del Don Chisciotte fu pubblicata nel 1605, la se-
conda nel 1615 : non fu iniziato in prigionia. i. col capo . . . corsari: Giulio
Cesare, mentre si recava a Rodi, cadde in mano ai pirati (75 a. C.), con i
quali rimase trentotto giorni, in attesa che fosse pagato il prezzo del riscatto.
Plutarco nella sua Vita di Cesare (2) narra del disprezzo con cui il futuro im-
peratore trattava i pirati suoi carcerieri. 2. sperpetua: moite, rovina. II
vocabolo deriva da una deformazione popolare di luxperpetua, che e espres-
sione frequentemente ripetuta dai sacerdote nell'officio funebre. 3. Agd:
comandante. 4. rout: adunanze serali.
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 31
non volemmo essere scompiacenti : « Cantabit vacuus coram latrone
viator)).1 Fummo tanti Orfei sulla nave degli Argonauti,2 e gli
African! parvero ammansiti dalla nostra voce soave, come il sicario
dalla dolce musica di Stradella,3 e come lo spaventoso Tlalaba
dall'aereo suono che partia dall'arpa del re di Caradoc.4 Si vede che
in Africa e ancora fra i barbari bisogna divertire per farsi amare, e
farsi amare per essere stimati ; si trova tutto il merito in colui che sa
dilettare, e Puomo amabile passa per I'uomo abile. La natura pro
duce dei fiori prima di dare dei frutti. Un giovine present6 una
supplica ad un ministro per ottenere un piccolo impiego nelle do-
gane, o sul bollo. II ministro rispose con quelle promesse che non
promettono nulla. Prima di ritirarsi il giovine disse al ministro che
quella supplica 1'aveva messa anco in versi. II ministro, che avea
quel giorno mangiato bene e bevuto meglio, rispose, ridendo, che
era curioso di rimirare come una supplica sulle dogane si prestasse
al ritmo e alia rima. II giovine recito i suoi versi, e il ministro che
s'intendeva di poesia, e in versi avea scritto qualche biglietto ga-
lante dove confessare che v'era gusto e facilita. — Giacche Vo-
stra Eccellenza ha tanta compiacenza, — riprese il giovine postu-
lante — sappia che questi versi gli ho messi ancora in musica. —
Oh questa e nuova di zecca; — disse il ministro — le parole bollo,
dogane, frodo, tariffa, sbirri debbono essere tenere e cantabili. —
Ma il giovine si mise ad un cembalo, e canto come un usignuolo.
— Bravo, da capo — disse Sua Eccellenza. II postulante animato
da' suoi successi — Se ella non si annoia, — disse al ministro —
i. Giovenale, Sat., x, 22: «I1 viandante povero potra cantare, passare can-
tando, dinanzi al ladrone». 2. Orfei . . . Argonauti: il leggendario poeta
e musico Orfeo accompagn6 gli Argonauti nella prima mitica navigazione
alia conquista del vello d'oro. 3. In nota il Pananti narra che il cele-
bre compositore Alessandro Stradella (1645 circa- 1682) aveva sposato
una «nobil donzella e con essa si era fuggito»; il padre di lei, irato, aveva
inviato due sicari perch6 lo uccidessero, ma essi, ascoltato un concerto
eseguito dallo stesso Stradella, furono cosi commossi che si gettarono ai
suoi piedi confessando la loro intenzione e chiedendo perdono. 4. co
me ... Caradoc: allusione a un episodic del canto xi (The Capture) di
Madoc in Aztlan, poema epico di Robert Southey (1774-1843). II gio-
vane re Caradoc dorme sull'alba in una caverna semi-scoperchiata. Qui e
sorpreso da Ocellopan e Tlalala (non Tlalaba, come scrive, per evidente
lapsus memoriae, il Pananti). Per due volte Tlalala si slancia con 1'asta pro-
tesa contro il re di Cambria, e Tuna e Taltra volta spaurito si ritrae, come
dinanzi al miracolo d'una manifesta protezione divina, perche la brezza del
mattino sfiora Tarpa invisibile di Caradoc e ne deriva « aerial music »,
anzi « so sweet a harmony, that sure / it seem'd no earthly tone ».
32 FILIPPO PANANTI
di questa supplica ne ho fatto ancora un balletto, e I'eseguir6. —
Deve essere veramente eroico ; — disse il ministro — ballate, io
vi suoner6. — II giovine ballo con una sveltezza ed una grazia am-
mirabile. — Voi — disse il ministro — siete un soggetto da non
perdersi per lo Stato; avete spirito, gran varieta di talenti e di cogni-
zioni, mi avete divertito moltissimo, io faro la vostra fortuna. —
E non gli dette un piccolo posto nelle dogane, ma lo fece uno dei
primi suoi segretari, lo porto di peso e lo fece volare; e cosi molti
gran posti si ottennero spesso, non col capo, ma con la gamba.
LE SPERANZE1
Non si poteva conoscere il nostro vero destino, non vi erano dati
certi da fissare il nostro giudizio. I Barbereschi non ci avevano in-
catenati, non ci poneano ai lavori, ma ci avean presi e ci riteneano;
rispettavan le nostre persone, ma della nostra roba si era fatto un
chiappa chiappa. Cosl non eravamo ne" carne ne pesce, ne nel rigo
ne" nello spazio ;2 e vedendo tante contraddizioni, avremmo potuto
dire come il contadin della favola, cui era stato tolto Tasino di
sotto, lasciando il cavaliere sulla sua sella:
ma sono io veramente, o diventato
sono un altro uom? Questa sarebbe bella.
Se sono io, dove Vasino e volato?
Se non io, per che c'e questa sella? 3
Ma nello stato d'incertezza e prudente e vantaggioso il farsi un
bel prospetto prima che crearsi dei fantasmi:
. . . B follia dei mortali
I'arte crudel di presagirsi i mail.
Sempre e maggior del vero
Videa d'una sventura
al credulo pensiero
dipinta dal timor.
Chi stolto il mal figura,
accresce il proprio affanno,
ed assicura un danno
che non e certo ancor*
i. Questo brano e il seguente corrispondono alle pp. 108-15 del volume I
dell' edizione da noi seguita. 2. ne . . . spazio: si allude al pentagramma,
dove le note sono sul rigo o nello spazio. L'espressione vuol significare che
essi, come prigionieri, non erano piu nulla. 3. Vedi la nota i a p. 13.
4. Metastasio, Attilio Regoloy atto I, scena xi.
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 33
Cominciammo dunque a farci animo, a rasserenarci, a riguardare
il nostro caso come una di quelle strane vicende a cui van soggetti i
viaggiatori, una di quelle passeggiere disgrazie che si gode poi di
narrare nei giorni della calma e della felicita. I cavalieri erranti, dice
Sancio Panza, sono sempre in procinto di divenire imperatori,
o d'essere fracassati dalle legnate. Ci abbandonammo a dolce lu-
singa; ci fissammo in testa che al nostro sbarco in Algeri usciremmo
di gabbia e ci lascerebber padroni d'andare e stare dove ci piacesse;
ci rallegrammo quasi d'aver potuto cosi vedere i regni dell'Africa,
si facean fino dei bei progetti e dei sogni. II mercante Terreni fa-
ceva cento superbe speculazioni, volea comprare venti cassoni di
tappeti di Barberia; il pittore volea dipingere una sala del Dey;1
le signore nostre si voleano abbellir di scialli e di boccette d'acqua
di rose: che felice tendenza degli animi a dissipar le nuvole della
tristezza e a farsi dolce illusione! A chi non e accaduto, dice mada-
ma di Stael, in mezzo alle sue pui grandi afflizioni, di sentire in
fondo al suo cuore una forza, una confidenza che fa sperar vicino
il termine de' suoi mali, come una celeste musica si facea intendere
ai pii anacoreti della Tebaide per annunziare che la fonte salutare
andava a sgorgar dal sen della rupe? La speranza, dice Chateau
briand, non abita fra gli esseri fortunati, il suo posto e in mezzo
degli infelici. Collocata presso deiruomo, come una madre vicina
al letto del suo figlio malato, lo culla fra le sue braccia, lo nutre d'un
latte che calma tutti i dolori : ella veglia accanto al suo guancial so-
litario, lo addormenta con dei canti magici. — Voi, — diceva una
dama al suo vecchio amico — voi in quei giorni si lieti e si fortunati
eravate bello come la speranza. — La speranza da un'ala al godi-
mento, toglie una spina al dolore: e il piacere in fiori e in foglie.
i. Dey: principe, governatore. L' Algeria e la Tunisia erano allora provincie
delFimpero ottomano, che vi teneva appunto dei propri governatori, di-
venuti in realta autonomi.
34 FILIPPO PANANTI
IL RAIS HAMIDA
II Rais, nelle cui mani avemmo Tonore di cadere, appellavasi Ha-
mida, Aveva bruna faccia e truce fisonomia: era pero d'assai cortesi
maniere. Benche sia Puso e quasi la legge di conferire tutte le prime
cariche agli uffiziali delle Orte dei Giannizzeri? Hamida era per-
venuto al grado di grande ammiraglio, quantunque Moro ed anco
della razza ignobile dei Cubail.2 Dovea la sua fortuna a un merito
eminente e ad una brillante riputazione. Questi titoli lo aveano
conservato in posto, a fronte della cabala turca che cercava tutte le
strade di abbatterlo: Hamida aveva veramente abilita, coraggio, ed
era soprattutto fecondissimo in artifizi, ai quali doveva i suoi piu
grandi successi. Da giovane avea servito coi Portughesi, e pass6
per uno dei loro migliori uffiziali. Comandante d'uno sciabecco al-
gerino, fece moltissime prede e diede prova di perspicacia e va-
lore. Estese le sue crociere fmo alle alture delFisola di Madera ed
ai banchi di Terranuova, e prese alcuni ricchi legni d'America.
Ma la piu grande impresa che rese il di lui nome strepitoso in
tutte le coste delP Africa, quanto quello di Sinan e di Dragut,3
fu la conquista d'una gran fregata di Portogallo, che era quella
che il Rais mont6 di poi, ed era divenuta come la nave ammira-
glia della Potenza Algerina. Dovette per6 un tal successo alia sua
astuzia ed alia inavvertenza del capo squadra dei Portughesi. II
i. Orte: i reggimenti, ciascuno, in genere, con proprio numero, ves-
sillo e nome, che costituivano le tre classi in cui erano ripartiti i gian-
nizzeri (soldati scelti, della guardia dei prlncipi). 2. Cubail: ovvero la
tribu berbera dei Cabili, abitanti nell'Atlante algerino, una provincia
che da essi prese poi il nome di Cabilia. II Pananti parla di razza ignobile
probabilmente perche" spesso in armi contro Arabi e Turchi (come successi-
vamente contro i Francesi) e per il frequente mercato delle donne, pratica-
to dagli stessi congiunti e capi delle tribal indigene. 3. Sinan: generica
allusione, per la frequenza del nome, a un autorevole personaggio otto-
mano segnalatosi nella guerriglia corsara del Cinquecento, in ispecie il
Sinan Pascid, la cui flotta conquistd Tripoli nel 1551 e che mori il 24 gen-
naio 1578, e, piu probabilmente (dato il contesto del Pananti), il Sinan
Pascia, detto il Grande, che fu a capo della spedizione per la conquista di
Tunisi nel 1574 e mori a Costantinopoli nel 1596; Dragut: fu celebre cor-
saro turco, gia catturato nel giugno 1540 da Giannettino Doria, ma libe-
rato poco di poi e divenuto il maggior organizzatore d'incursioni e razzie
nel Mediterraneo, nonostante la spedizione collettiva delle potenze cristia-
ne, il 1550, contro la sua base di Mehedia. Al servizio del sultano Solimano,
partecip6 alle imprese di Tripoli, della Tunisia e contro Malta, nel corso
della quale ultima decedette il 25 giugno 1565.
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 35
legno di Portogallo aveva incontrata una fregata inglese ; compar-
ve un momento dopo una fregata algerina, che i Portughesi crede-
rono la stessa inglese fregata, e non presero alcuna saggia pre-
cauzione. II Rais barberesco si accosto come per volere parla-
mentare, e spiegando bandiera arnica; e quando fu vicinissimo,
incrocicchi6 le ancore respettive, fece subitamente salire i Mori al-
1'assalto, e si rese padrone del legno portughese senza che avesser
tempo quegli ufiiziali d'armarsi e presentare alcuna difesa. Una
volta vicino alPisola della Pantelleria fece dei segni1 amichevoli, e il
comandante dell'isola venuto sopra una barca a sentir le domande
di colui che credeva un britannico Commodor, fu perfidamente
ritenuto e posto in catene. II difetto del Rais Hamida era di credere
d'aver molta virtu. II merito grande si vede in piccolo, il piccolo
merito si vede in grande; gli occhi non ci furono dati per rimirarcL
II Rais era anco ingiusto con gli altri, ed a se solo attribuiva tutti i
successi, si vantava d'avere egli tutto fatto e dover fare ogni cosa.
Era come quel colonnello che diceva: — lo sono il mio colonnello,
il mio tenente, il mio foriere. — E il vostro trombetta — gli fu ri-
sposto. Un altro difetto: non era punto rigoroso con i soldati, e
soprattutto sui furti serrava gli occhi; anzi diceva che un buon
generale non deve badare a queste bagattelle, e che egli non vo-
lea far la fine di due suoi predecessori, che per aver voluto tener
troppo in freno i Giannizzeri, aveano ricevuta una fucilata nelle
spalle, e cosi distesi morti sul cassero. Non girava quasi mai sulla
nave ; ma tre o quattr'ore del giorno riposando sopra una sedia, in
una parte eminente con le gambe incrociate, fumando e lisciandosi
le basette, girava gli occhi e dava i suoi ordini. NelPazione poi,
benche mostrasse intelligenza e valore, faceva perdere a tutti la
testa con la sua impazienza, i suoi urli e le sue maledizioni. II
cardinale di Dubois1 bestemmiava come un Turco, e diceva ai suoi
segretari che non facevano nulla, e bisognava che ne prendesse altri
trenta per veder terminar qualche cosa. Uno dei segretari tranquil-
lamente rispose:-— Prendetene uno solo che bestemmi per voi, e
tutto andra con ordine e celerita.
i. Guglielmo Dubois, cardinale francese, fu consigliere di stato e poi mi-
nistro degli esteri, durante la reggenza di Filippo d'Orleans (1715-1723),
prima che salisse al trono Luigi XV.
36 FILIPPO PANANTI
VISTA D'ALGERI1
Uscimmo dalla baia di Bona, e seguitammo a costeggiare le are-
nose piagge di Libia, facendo lo stesso cammino, mirando i me-
desimi oggetti che quei cavalieri della Croce, Carlo ed Ubaldo,
quando andavano a torre il giovin guerriero dal vil riposo in cui
dormia il suo valore e si perdea la sua gloria.2
Si vide da lunge all'estremita degli azzurri campi delle onde
qualche cosa di biancheggiante : era il gran centro della pirateria,
nido Algeri di ladri infame ed empio 3
La citta da lungi bella appariva in un vago e lucido semicerchio.
Mille case di campagna e giardini sopra un anfiteatro di collinette,
mille vigne e boschetti d'olivi, d'aranci e di giuggioli presentano
un aspetto campestre e pacifico, poco analogo all'indole truce e
alia feroce vita di quei tiranni dell' Africa. Un grido di gioia fu sopra
le fregate algerine, e noi pure ci rallegrammo per esser giunti al ter-
mine del noioso viaggio e delle nostre lunghe perplessita; e quasi
salutammo Algeri con la letizia con cui i cavalieri della prima guerra
di Terra Santa salutaron Gerusalemme. Eramo come un infermo,
che non potendo piu sostenere il gran dolore d'una piaga, si sotto-
pone con lieto animo ad una penosissima operazione: speravamo
ancora che col fine del viaggio andassero a finir le nostre inquietu-
dini. L'infelicita, dice Bernardin S. Pierre, rassomiglia alia mon-
tagna Nera di Beruber ai confini del regno ardente di Lahor;4
finche si ascende non s'incontran che sterili rupi e spaventose vo-
ragini; quando si e giunti sopra la cima, si ha il ciel sereno sopra
la testa, e a' piedi il bel reame di Cachemir.
i. Questo brano e i sette seguenti corrispondono alle pp. 135-51 del volume
I dell'edizione da noi seguita. 2. quei cavalieri. . . gloria: Carlo ed Ubaldo
spno i due guerrieri che il Tasso, nella Gerusalemme liber -ata, immagina si
siano recati a sottrarre Rinaldo d'Este dai lacci amorosi d'Armida. 3. Vedi
la nota i a p. 22. Una espressione simile aveva usato il Tasso (Ger. lib.,
xy, 21) : « Trovar Bugia ed Algeri, infami nidi / di corsari ». 4. Lahor : nome
di una citta e di un antico regno dell' India.
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 37
SBARCO IN ALGERI
Per me si va nella citta dolente:
per me si va nelVeterno dolor e:
per me si va fra la perduta gente,1
sembro dire il Rais Hamida, ordinandoci di seguitarlo. Fummo
fatti montare sopra due lance, noi passeggieri col Rais, i marinari
siculi con PAga. II Rais scese a terra, conducendosi dietro i prigio-
nieri italiani, col fasto che potea avere Sesostri2 che quattro re de-
bellati avea avvinti al suo carro, e il feroce Timur3 che conducea
Bajazet chiuso dentro una gabbia di ferro.
Una popolazione immensa stava adunata alia spiaggia per festeg-
giare il trionfante arrivo dell'armata navale. Non fummo pero spo-
gliati e insultati, come si dice succedere ai Cristiani schiavi che
scendono in quelPinospito lido. Si fece un lungo viaggio per arri-
vare al palazzo ove s'aduna il consiglio per fare i grandi esami e
pronunziar le sentenze. II Rais passo nel palazzo della marina, e
noi restammo alia porta. — Che facevate voi sotto quelle am pie
mine ? — fu domandato alia duchessa di Popoli rimasta tre giorni
in vita sotto le volte d'un gran palazzo diruto nei terremoti delle
Calabrie. Ella rispose:— lo aspettava.
COMPARSA AVANTI AI CAPI DEL GOVERNO AFRICANO
S'alzo una gran tenda, 1'atrio si apri della casa della marina, e se-
duti in barbara pompa e in orrida maesta ci comparvero i membri
della Reggenza, gli Ulemas4 della legge e i primi Aga del Divano.5
Subito senza cirimonie e senza preamboli si domandaron le nostre
carte, e se ne fece Pesame. Si fa uso di tale apparenza e formalita
per far prendere un'aria di giustizia agliatti della violenza e della
rapina. Furono presentate le nostre carte al console inglese,6 che
i. Dante, /«/., in, 1-3. 2. Ramsete II, re d'Egitto, che i Greci chiamarono
Sesostri e cui dettero Tappellativo di Grande. Fu 1'oppressore degli Ebrei:
durante il suo regno nacque Mose. 3. Timur Leng o Tamerlane, re mon-
golo, conquistatore di quasi tutta 1'Asia ad est del mar Caspio. Nel 1402
vinse e fece prigioniero ad Ancira il sultano Bajazet. Mori nel 1405.
4. Ulemas: dottori della legge. II nome e d'origine turca. 5. Divano: qui
significa tribunale, ma piu spesso con questo vocabolo si indico il consiglio
dei ministri dell'impero turco. 6. console inglese: si chiarnava Macdonel;
il vice-console aveva nome Francovich.
38 FILIPPO PANANTI
era stato appellate per fame la verificazione. Vide 1'insufficienza dei
nostri fogH; ma spinto dalla bonta del suo cuore, e da pieta per
tanti infelici, fece ogni generoso sforzo per farci tutti uscir salvi
da quel tremendo pericolo. L'appartener noi a paese unito alia
Francia, non trattenne il console da sue affettuose cure: eravam
sventurati, e perci6 sacri al cuor d'un Inglese. Ma il Rais Hamida
sostenne le feroci leggi della pirateria, fece distinzioni finissime fra
il domicilio e la nazionalita, e si mostr6 un giuspubblicista abilis-
simo secondo il codice africano.
— Buona presa, prigionieri, schiavi — si udl suonar nel consiglio
e mormorar fra le turbe, che adunate sulla gran piazza sembravan
coi loro gridi domandare cotal decisione. II console domand6 allora
la dama inglese, e le sue due piccole figlie: accordato. II cavalier
Rossi marito della dama si avanz6 con coraggio e con dignita; fece
valere i suoi titoli come sposato a femmina inglese, come padre
d'inglese prole, e fu dichiarato libero anch'esso, e alia sposa e a*
figli and6 a ricongiungersi. Un altro tentative fu fatto dal console
per la salute di tutti. Fu inutile. — Schiavi, schiavi — : quest'orride
voci con piu gran fracasso sonarono nella sala, furono ripetute dalla
moltitudine. I ministri della Reggenza si alzarono; il consiglio fu
sciolto; il console, il vice-console inglese, e con loro la famiglia
Rossi, partirono; e noi restammo immobili, stupefatti, come chi
udl dappresso il fragore e involto si ritrovo nell'alta vampa del
fulmine.
LA PRIGIONE DEGLI SCHIAVI
Fummo fatti mettere in cammino sotto la direzione del Grande
Scrivano e del Guardian Bachi degli schiavi. Si attravers6 la meta
d'Algeri tra un'immensa folia di spettatori. Era venerdl, giorno di
riposo e di festa pei Mussulmani; e grinfedeli uscendo dalle mo-
schee, correano a godere dello spettacolo degli oppressi ed awiliti
Cristiani.
Arrivammo al Pascialick, o al palazzo del Fascia, oggi abitato dal
Dey. II primo oggetto che colpl i nostri sguardi, e ci fece raccapric-
ciare, furono sei recise e sanguinolente teste distese intorno alia
soglia, e bisognava il pie sollevare per penetrar nel cortile. Erano i
teschi d'alcuni torbidi Aga che aveano mormorato contro del prin-
cipe. Le credemmo teste di Cristiani esposte cola per atterrire i
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 39
nuovi ospiti di quella funesta regione. Un cupo silenzio regnava
fra quelle mura ; il sospetto errava per ogni dove ; su tutti gli sguardi
era dipinto il terrore. Fummo fatti distendere in fila davanti alle
finestre del Dey per dilettar la vista del despota. S'affacci6 al bal-
cone; ci riguardo con alterigia e disprezzo, sorrise d'una feroce
gioia. Fece un cenno con la mano, e ci fu dato 1'ordine di partire.
Facemmo un gran giro per le tortuose strade della citta. Arrivam-
mo a un ampio e oscuro casamento, ove per naturale orrore, al-
Pentrare, il piede ricalcitro. Era il gran Bagno, o la casa di reclusion
degli schiavi. La chiaman cola Bafios os esclavos, e in Italia, senza
tanto indorar la pillola, si chiamerebbe galera. Le gambe ci vacil-
larono, tutto il nostro corpo trem6, traversando 1'orrido limitare.
Lo scrivano grande ci disse per le sue prime parole : — Chi e tratto
in questo albergo, e schiavo. — Pareva scritto su quelle soglie fu-
neste, come su quelle della magion del dolore,
uscite di speranza, o voi che entrate.1
• Traversammo il sordido e cupo cortile tra la moltitudine degli
schiavi e la misera turba degli esseri abbandonati. Eran laceri,
scarni, sparuti; la fronte bassa, Pocchio stralunato, le gote percorse
dai lunghi solchi della tristezza, e in cotal modo, pei lunghi pati-
menti e per le amare sventure, disseccata era la loro anima, e di-
strutto nei loro cuori ogni dolce palpito della vita, che indifferent!
e stupidi ci rimirarono senza darci veruno dei dolci segni di pieta.
Nel giorno in cui non andavano ai lavori, chiusi restavan gli schiavi,
e si aggiravano come pallidi spettri in quella casa di tenebre e di
dolore.
IL PRIMO GIORNO DI SCHIAVIXtl
Montammo le nere scale della prigion degli schiavi, come colui
che monta quella per cui si ascende al patibolo. Ma come alPuomo a
morte vicino si concede qualche soddisfazione, quel primo giorno
il guardian degli schiavi ci trattb con dolcezza e riguardo: ci fece
passare nelle sue camere, e voile che dividessimo il suo desinare, e
ristabilissimo il nostro stomaco estenuato dall'astinenza del di pas-
sato e dalle agitazioni tremende di quella gran mattinata. Erano
stati riuniti alia mensa tre antichi schiavi, persone di nascita ed
i. Dante, Inf., in, 9. Ma la lezione esatta scrive: « Lasciate ogni» ecc.
40 FILIPPO PANANTI
educazione, tra i quali il signer Artemate di Trieste, il cui spirito
era ornato, e il carattere formato dalle lunghe riflessioni e dalla
sventura. Ci port6 le voci dell'amicizia e della pieta. Come Attilio
Regolo ci ritrovavamo servi in quella stessa feroce Africa. Felici se
poteamo conservare la stessa intrepida anima, e se poteam dire:
non perdo la calma
fra i ceppi o gli allori,
non va sino alValma
la mia servitu.1
I cibi vennero in tavola. Benche di cibo estremamente bisognosi,
poca noi ci sentivamo volonta di gustarne. Ma prevalse il bisogno
di conservar 1'esistenza:
peseta piit che '/ dolor pote '/ digiuno.2
L'IMPIEGO
Tutto quel giorno corrispondemmo col consolato inglese, coi no-
stri amici al di fuori, e con alcuni Ebrei di grande influenza e ma-
neggio. Per me particolarmente prendea la cosa aspetto men tristo.
I miei buoni amici cavaliere e madama Rossi avevano vivamente in-
teressato in mio favore il console inglese, e quel ministro generoso e
filantropo tutto tentava per trarmi dalla mia penosa situazione. Si
diceva nel Bagno che io era stato formalmente chiesto ai ministri di
Sua Eccellenza il Fascia; ma che mi avevan quei ricusato, e che
uno solo avrebbe condisceso a liberarmi, ma per cinquemila pa-
tache chiche? che formano tremila dei nostri zecchini d'oro so-
nante : e questo gran prezzo, perche sapeva il governo ch'io era un
gran poeta e ricchissimo. Poeta e ricchissimo e strana associazione
d'idee. Io valere cinquemila patache chiche ? Non si valuta tanto in
Europa un poeta. Aggiungevasi poi che non si curavan restituirmi,
perche era intenzione di Sua Eccellenza il Pascia di servirsi dell'ope-
ra mia in commissioni di grande importanza. Che mai vorrebbesi
farmi ? Poeta di corte, virtuoso di camera ? musico di Sua Altezza ?
Oh questo non mi fa punto girar la testa, e le catene io non amo
perche son d'oro. Ma il guardian Bachi mi prese sotto il braccio, e
imprese meco grave sermone. — Voi— mi disse— siete nato vestito;
i. Metastasio, Attilio Regolo, atto i, scena vui, arietta finale. 2. Dante,
7w/., xxxin, 75. 3. patache chiche: nome deformato di una moneta araba.
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 41
voi avete le fortune che vi piovon sopra: venite schiavo in Algeri, e
il giorno dopo rischiate di salire a un posto dove altri non arriva in
cento anni. — Or' ora io mi aapettava che mi paragonasse a Giu
seppe Ebreo : cominciava la fortuna dai sogni. — Ma voi — seguiva
il Bachi — dovreste saltare dalPallegrezza, e state costi che parete
un mortorio. — Non ho — io risposi — grande cagion di dolermi?
cosa puo sollevar dal peso dei ferri ? — Errori della debole mente
umana — ei soggiunse. — La schiavitu e il naturale stato degli uo-
mini. Tutti (ecco le sue precise parole), tutti dipender dai principi,
dai piu forti, dalle circostanze, dalla necessita; tutti stare schiavi
degli usi, delle convenience, delle passioni, delle malattie, della
morte; ma chi salire al potere, non star piu schiavo: vedere anzi
schiavi al suo piede ; servire ad uno per comandare a mille : ti star
buona cavezza (buona testa) : ti aver buona lingua : star buono acqui-
sto per noi; ti poter far 1'interpetre e il segretario del Dey, e allora
ti nuotare nelPoro, divenir lampada di sapere, e aver giardini di
volutta: ti divenir grande persona, e tutti fare salamelek. — Troppo
onore, troppo onore : — rispondeva — io non credo di meritar tanto.
Ma io non so come Sua Eccellenza il Fascia abbia potuto degnarsi
di gettare un guardo sopra di me. — Rispose: — Star questo co
stume d'aver segretario uno schiavo. Questo Dey avere avuto primo
suo segretario un Cristiano, e questo can d'Infedele aver tradito:
e Dey far testa tagliara. Altro Cristiano venuto, star questo un furbo
che portar lettere a consoli europei, e Dey far morire sotto le verghe.
Aver preso un Ebreo che non pensare che a far denari, e Dey
spogliare Ebreo e poi far bruciare. Dey aver preso un Arabo e un
Moro; ma nulla saper fare, e Dey rimandare; ma poi testa tagliara,
perche saper cose. Ora il Fascia voler tornare a prender Cristiano,
e saper che ti star buona cavezza. — Ma dimmi per curiosita, — re-
plicai — quanto hanno durato i due Cristiani, PEbreo, PArabo e il
Moro ? tre, sei, dieci mesi ? a un anno niuno arrivo ? — No, — mi
rispose — ma vita corta e buona. — Gli onori — - io dissi — sareb-
bero grandi, ma portano troppi oneri. Oh grazie grazie: i signori
Fascia son buoni e cari, ma si disgustano facilmente delle persone,
e vengono troppo presto alle brutte. Oh io non sono come quel car-
dinale che diceva:
. . . vorrei sentirmi dire
segretario di Stato, e poi morire.1
i. Vedi la nota i a p. 13.
42 FILIPPO PANANTI
Signer marchese, diceva al ministro della guerra Argenson1 un gio-
vine gentiluomo che volean mandare alia guerra a seguire le lumi-
nose tracce degli avi, signer marchese, vi chiedo in grazia la vita,
piuttosto che Pimmortalita. — lo mi posi quindi a riflettere a que-
sta bella fortuna che mi si presentava. Se avessi io dovuto scegliere
un posto, sarebbe stato quello che ottenne un giovine inglese della
contea di Sallop. Costui si era recato a Londra per domandar
qualche posto, che sperava ottenere per la protezione del ministro
d'allora ; ma non si vedeva mai verun risultato, e il giovine gettava
i passi, il denaro, e sperando si disperava, Un di finalmente and6
dal ministro, e gli disse che aveva ottenuto un posto. — Ne godo
molto, — disse il ministro— e che posto e?— Un posto nella dili-
genza di Shrewsbery, che ho fissato per questa notte; — rispose il
giovine postulante — perche sono stanco di piu gettare il mio
tempo per credere alle lusinghe della fortuna e alle vane parole dei
suoi favoriti.
LE ORE DEL RIPOSO
Mentre si andava cosl discorrendo con il guardian Bachi degli
schiavi, e passeggiavamo pei neri corridori, ove sul nudo terreno
o sopra strato di paglia giaceano ramassate2 le vittime della cru-
del servitu, venne 1'ora per me della cena, e quella poi del riposo.
Un momento prima era venuto al Bagno il vice-console inglese
che avevami raccomandato alle attenzioni dello scrivano grande e
del guardiano Bachi, e mi avea fatti sapere i passi che faceva il con
sole in mio favore, e come a quella tarda e nera ora di notte pel
motive medesimo saliva le scale del palazzo del Dey. Mi diceva il
grande scrivano che la mia sorte allora si decideva per sempre,
che forse il credito e Peloquenza del console avrebbero persuaso il
Fascia: ma che se era data una negativa, mai piu, mai piu, per can-
giar di tempo e di pelo, non isperassi riaver la liberta primiera;
che detto una volta No, questo gran No mai piu non si revocava;
che le stesse premure del console se non eran felici, sarebbero
i. Marc Pierre de Voyer conte d' Argenson (1696-1764) fu ministro della
guerra nel 1743. A lui Diderot e D'Alembert dedicarono I* Encyclopedic
(175 1). 2. ramassate: ammassate. II Pananti adopera il yocabolo incrocian-
dolo con il francese ramasse, scop a, granata. Usa invece pid esatta grafia
a p. 46.
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 43
state la piu gran disgrazia per me. Fui, come si puo supporre, in
una terribile agitazione una gran parte della notte. Lo scrivano
grande mi avea ceduta la sua camera ed il suo letto, ma io non vi
trovava il mio sonno. Pure le massime dei filosofi vennero un poco
a calmarmi, e m'insegnarono a rendermi indipendente dalla for-
tuna, mettendomi al di sopra di lei. Interrogate il giovine Dionisio
a che gli era servita la filosofia, rispose: «A rimirare senza sorpresa
i cangiamenti della fortuna, e a sopportarli senza lamento)).1 Quan-
do, dicea Callistene a Lisimaco, quando io sono in una situazione
che domanda del coraggio e della forza, mi sembra d'essere al mio
posto. Se gli Dei non mi avessero messo sopra la terra che per me-
nare una vita di dolcezza e di volutta, io crederei che inutilmente mi
avessero dato un'anima grande e immortale. Noi non possiam co-
mandare alia fortuna; no'i possiam far di piu, noi possiam meritare
d'essere stati felici.a
I LAVORI PUBBLICI
Non appariva ancora il primo raggio del giorno, gli uomini e gli
animali stanchi
sotto il silenzio degli amid orrori
sopiano i sensi e raddolciano i cuori:^
ma non dorme la tirannia, e invidia ai miseri il sonno, il solo bene
che loro rimane. Siamo subitamente svegliati e scossi da un rumor
di voci e colpi, da uno strisciar di ferree catene : si togliean gli schia-
vi alPoblio delle pene per far loro ricominciare la loro penosa vita.
II custode della prigione grido a noi pure : — Levatevi — ; e con noi
pur gia prendeva il duro tuon del comando. « Vamos a trabajo cor-
nutos»4 era 1'espressione villana con cui si udian gli aguzzini chia-
i . Interrogate . . . lamento : la sentenza e attribuita a Dionisio il giovane,
tiranno di Siracusa, da Plutarco nei suoi Apoftegmi di re e capitani (Mor.,
176 D). 2. Quando . . .felici: Callistene (370 circa - 327 a. C.)> filosofo e
storico, parente e discepolo di Aristotele, segui Alessandro Magno nelle
sue imprese, ma fu poi da lui condannato a morte. Non dai frammenti dei
suoi scritti, a noi pervenuti, ma dal pseudo Callistene, vissuto verso il
300 d. C. e autore di una vita romanzata di Alessandro, deve aver tratto
il Pananti la sua citazione : o, meglio ancora, da qualcuno dei numerosi ri-
facimenti e divulgazioni che ne furono fatti dal Medioevo in poi; Lisi
maco (355-282 a. C.) fu generale di Alessandro Magno e uno dei diadochi.
3. Tasso, Ger. lib., u, 96 ; ma il testo ha « de' secreti » e « gli affanni » in luogo
di degli amid e di i sensi. 4. « Andiamo al lavoro, cornuti. »
44 FILIPPO PANANTI
mar con orrido grido gli schiavi, a ripetuti colpi di verga mettendo
in moto i piu lenti. Giunse nel carcere PAga nero. Avea portati certi
anelli di ferro che doveano porsi al nostro sinistro piede, e la ri-
manere in perpetuo, segno della nostra condizione di schiavitu.
Erano anelli sottili; ma che orribil peso hanno gli anelli di servitu!
II nero Aga messe Panello ai miei compagni, e a me lo pose in mano,
dicendomi che Sua Eccellenza il Fascia mi concedea la grazia di-
stinta di pormelo al piede da me medesimo. Era simile alia distin-
zione usata dal gran Padishah Ottomanno, quando a qualche Visir
invia il fatal cordino con 1'ordine di strozzarsi. Mi strinsi al pie Por-
ribile anello, come un Bassa1 di Levante si stringe al collo il tefta.2
Nel pormi al piede il segno di servitu e d'ignominia un sudor freddo
scorse sulla mia fronte; il mio cuore per Pangoscia si fece grosso
e nero; i miei occhi s'aprivano e non vedevano piu; la mia bocca
volea parlare, e non poteva articolare alcun suono: chinai la testa
e lo sguardo, e taciturno e cupo cedetti al mio destino ferreo.
LIBERAZIONE
Eravamo dugento nuovi infelici di varie nazioni presi dai Barbe-
reschi nelPultima loro crociera. Fummo posti in cammino con
guardie davanti e guardie di dietro: una turba immensa ci segui-
tava, e un profondo e mesto silenzio regnava in mezzo di noi. Ve-
devamo innanzi passar le turbe degli antichi schiavi, che i carnefici
seguitavano con le verghe gridando : — A trabajo cornutos ; can
d'infedele a trabajo. — Arrivammo ai forni della marina, e ci furon
gettati due neri pani di crusca, come si gettano ai cani. Gli antichi
schiavi gli afferravano per aria, e se li divoravano con una avidita
spaventosa. Giunti al grand'atrio della marina, vi trovammo assisi
in orrida maesta e in tutto Papparato della possanza tirannica i
membri del governo, gli Aga della milizia, i primi Rais della flotta,
il grande Almirante, il Cadi, il Mufti,3 gli Ulema della legge e i
giudici secondo il Koran. Siam posti in fila, numerati, scelti e con-
siderati, come suol farsi in oriente alia vendita degli Icoglani,4 e
i. Bassa: pascia. 2. tefta: sciarpa di seta, dal persiano tafteh. 3. Almi
rante . . . Cadi . . . Mufti: ammiraglio, giudice, dottore delle leggi. 4. « Si
chiamano Icoglani in oriente i giovani schiavi posti in case d'educazione a
spese del Gran Signore, e destinati ad uscire di la per cuoprir le cariche
delPimpero » (nota del Pananti).
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 45
come era il costume in America al gran mercato dei Neri. 6 fatto
un profondo silenzio : i nostri sguardi eran fissi, i nostri cuori bat-
tevano. S'alzo una voce, era quella del ministro della marina, primo
segretario di Stato. Domanda un nome: era il mio. Son fatto avan-
zare. Mi son fatte varie interrogazioni sul mio soggiorno in Inghil-
terra, su le mie occupazioni, i miei rapporti cola. Indi mi dice il
ministro queste maravigliose parole: — Ti star franco. — Si e
detto che il piu bel suono alle orecchie ed alPanima e quello della
meritata lode; che la piu grata voce e quella delPamata persona.
No, la voce che piu dolcemente scuote le fibre del cuore, e quella
che rende un uomo alia sua natia liberta. Aver gia gli occhi bendati,
la fatal bipenne aver sul collo inalzata, e udir subitamente voci di
grazia e di vita, possono essere un'immagine di quel ch'io fui, di
quel ch'io provai in una rivoluzione si felice e si subitanea. II mio
caso era unico negli annali d'Algeri; non v'era esempio d'un uomo
liberate senza riscatto il primo dl di sua prigionia : i decreti di quei
barbari sono i decreti della tremenda fatalita. Fu ordinato a un sol-
dato di levarmi dal piede Panello di ferro. Quegli obbedi, e mi
disse d'andar a ringraziare il ministro, che la mano mi strinse,
dicendomi varie obbliganti cose, e ordino poi al Dragomanno di
condurmi alia casa del console d'lnghilterra. La gioia avea inon-
dato il mio cuore allorche libero e franco ho potuto muovere il
piede; ma il secondo pensiero non fu per me, fu pe' miei infelici
compagni che, dietro alPesempio mio, a una soave lusinga s'erano
abbandonati ancor essi. Anch'io Pavrei bramato e lo sperava, e an-
dava con lentezza e mi soffermava a ogni passo per veder se anch'es-
si mi seguitavano ; ma Pordine usci di trarli tutti ai lavori : le diverse
opere furono loro assegnate, e venner fatti partire. Li vidi che col
capo basso e gli occhi gonfi di pianto mettevansi tristamente in
cammino. Si volsero una volta indietro, la man mi strinsero, addio
mi dissero e sparvero.
I CRISTIANI SCHIAVI NEI REGNI DI BARBERIA1
Chi non e stato in Algeri, chi non ha vista la sorte alia quale son
condannati i Cristiani che in quelle orrende contrade cadono schiavi
dei barbari, non conosce quello che la sventura ha di piu amaro e
i. Questo brano corrisponde alle pp. 169-75 del volume i delPedizione
da noi seguita.
46 FILIPPO PANANTI
piu tristo, e in quale stato d'affanno e d'abbattimento pu6 cader
Panima degl'infelici figli degli uomini. lo stesso, che il vidi e il
provai, non potrei coi detti dipingere quel che si sente e si soffre
quando si precipita in quelPorrenda sventura.
Dacche un uomo e dichiarato schiavo, e spogliato dei suoi panni,
coperto d'una ruvida tela, e per lo piu lasciato senza scarpe, senza
calze e la testa nuda sotto la sferza del sole. Molti si lascian crescere
orribilmente la barba in segno di desolazione e di lutto, e vivono
in una schifezza che fa compassione e ribrezzo. Una parte di quei
miseri sono destinati a filar le corde e a cucir le tele nelParsenale,
e sono sempre sotto lo sguardo e la verga degli aguzzini che strana-
mente abusano di loro barbara autorita, e ne tirano tutto il lor
poco denaro per temperare il rigore delPinflessibil comando; altri
sono schiavi del Dey, o a ricchi Mori venduti, e servono a piu vili
usi; altri in fine come giumenti son condannati a trasportar le le-
gna e le pietre, a lavorare alle opre piu dure, e strascinan ferree ca-
tene; e degli schiavi son questi i piu miseri. Che continuazion di
terrori, che serie d'angosce, che monotonia di giorni dolenti! Non
hanno letto per riposarsi, non vesti per ricoprirsi, non cibo per so-
stentarsi. Due pani neri come fuliggine si gettano loro come si get-
tano ai cani ; questo e tutto il loro sostentamento : chiusi la sera nel
bagno, come i forzati nella galera dei malfattori, si corcano ram-
massati in corridori aperti ai turbini, alle procelle, a tutte le ingiurie
dell'aria e della stagione ; alia campagna dormono a cielo scoperto,
o rinchiusi in buche profonde, nelle quali si scende per una scala;
ed una grata di ferro chiude la bocca delPantro. Son risvegliati all'al-
ba in tumulto con le ingiuriose voci «a trabajo cornutos»; e come
animali da soma sono spinti al lavoro a colpi di verga e suon di be-
stemmie e maledizioni. Molti, condannati a scavare i pozzi ed a
votar le cloache, stanno le intere stagioni con Pacqua fino alia cin-
tola, e respirano un'aria mefitica; altri, obbligati a scendere in pre-
cipizi terribili, la morte han sempre sul capo, la morte sotto dei
piedi; altri, legati al carro coi muli insieme con gli asini, portan
la maggior parte del carico, e ricevono la maggior copia di basto-
nate; molti rimangono schiacciati sotto le immense ruine; molti
discesi nelle oscure profondita, piu non riveggon la luce; cento,
dugento ec. muoiono ogni anno per gli scarsi cibi, le cattive cure,
le percosse, i rammarichi, Pabbattimento di spirito e la disperazion
del do lore. E guai se ardissero mormorare e alzare un solo lamento!
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 47
Per la piu piccola trascuratezza hanno fino a dugento colpi di verga
sulla pianta del piedi e sulla spina dorsale; per la piu piccola resi-
stenza, la morte. Quando un povero schiavo per 1'eccesso della fa-
tica, per la gravezza dei colpi diventa inabile a proseguire il cam-
mino, e abbandonato in mezzo alia via, ove esposto all'atroce di-
sprezzo dei Mauri e anche infranto dai carri. Ne tornan dalle mon-
tagne tutti grondanti di sangue, solcato il corpo dai lividi ; cadono
di stanchezza e d'inanizione; e non v'e un cuore pietoso, non una
man soccorrevole. Una volta sulPimbrunir della sera mi sono udito
appellare da una fioca voce: mi accosto, e veggo un infelice a terra
disteso, tutto pieno i labbri di spuma, e col sangue che gli uscia
gorgogliando dalle narici e dagli occhi. Mi arresto pieno di doglia
e di raccapriccio. — Cristiano, Cristiano, — disse una mesta voce —
abbi pieta del mio spasimo, e termina questa esistenza ch'io non so
piu sopportare. — Chi sei, misero uomo ? — io gridai. — Sono uno
schiavo, — ei rispose — sono bene infelici gli schiavi! — Pass6 al-
1'istante un Oldak1 della milizia, e gridando al moribondo : — Can
d'infedele, non ingombrar la strada allorche passa un Effendi2 —
dette un calcio al misero schiavo, lo getto giu da un dirupo, e lo
fece piombar nella morte. Un altro giorno un piu infelice schiavo
di piu gran ribrezzo mi riempie, e lacero piu fortemente il mio
cuore. Era seduto tristamente al pie d'un antico muro; era ai suoi
piedi un enorme peso, sotto cui sembrava aver soccombuto: il suo
volto era pallido, macilente; il guardo torbido e fisso, e sparsa la
faccia dei solchi delPafHizione e delle tracce d'una prematura vec-
chiezza. Si agitava con violenza, si batteva il petto e la fronte, e
cocenti sospiri gli uscivano dai profondo del cuore. — Che fai, —
gli dissi — o Cristiano ? qual tua crudele sventura ti mette a questa
disperazione ? — Poveri Cristiani, — ei rispose — nessun li soccorre
sopra la terra, e non si ascoltano i loro gemiti in cielo. Napoli e la
mia patria; ma che patria ho io? Niun mi soccorre, nessun si ri-
corda di me. Io era ricco, nobile, illustre nel mio paese: vedi come
la miseria e la schiavitu cangian la faccia dell'uomo. Sono undici
anni ch'io soffro, ch'io peno, ch'io mi raccomando; ma io piu non
gemo, piu non mi raccomando. In che piu sperare, a che piu volgere
i voti, a che piu attaccar la mia fede ? Che ho io fatto per dover esser
si oppresso, per dover tanto soffrire? — Meglio ch'io seppi gli con-
i. Oldak: graduate delle truppe mussulmane. 2. Effendi: voce turca, che
significa padrone, signore, e si da come titolo a determinati funzionari.
48 FILIPPO PANANTI
sigliai la pazienza, la rassegnazione ; gli parlai delle alte speranze,
del premio eterno della virtu. Sorrise d'un sorriso amaro, mi getto
un guardo pien di tristezza e mi prego di lasciarlo. lo mi scostai
dolente ed inorridito. lo lo vidi che sul terreno si ruotolava con
violenza, e Pudii che gettava un ululo cupo e mormorava acerbe
parole. lo mi allontanai col cuore serrato, e seguitai ad udir da lunge
il fremito orrendo e il lugubre mormorio dello schiavo.
Dalla speranza d'uscire di tante pene fossero almeno sostenuti
gli schiavi : ma il modo di liberarsi quasi nessuno non ha. Se otte-
nendo d'esercitare qualch'arte si forman qualche peculio, non con-
fidin con questo gli schiavi la loro liberta ricomprare; il Dey le
offerte lor non accetta, perche di tutte le ricchezze del suo schiavo
e Perede, e spesso, per farsene piu presto signore, anticipa sulla
morte. Cosi soffrono interminabili pene i Cristiani, e non ne ve-
dono il fine. E rassomiglian quei miseri alle anime disperate del-
Porrenda magione del pianto, i quali,1 un missionario predicando
diceva, sempre domandan che ora e: ed una terribil voce risponde
sempre:— -L'eternita.— Gemessero solo gli schiavi sotto il peso delle
fatiche e delle percosse; ma son derisi, vilipesi, calpestati; e questa
e la piu gran pena ai cuori ben fatti. « Cornutos can senza fede» son
le ordinarie espressioni accompagnate spesso da un guardo sprez-
zante e da una spinta villana. La compassione dei barbari si risve-
gliasse almeno quando le infermita, i patimenti hanno abbattuto
un povero schiavo: ma senza la carita della Spagna, che fondo e
mantiene un piccolo spedaletto, i poveri schiavi ammalati sarebber
lasciati nudi sul suolo, e alcuna assistenza non avrebbe Pumanita
lagrimosa. Potessero almeno in pace morire, e nelFatto di abban-
donare questo soggiorno d'affanno essere sostenuti dalle speranze
d'un'altra vita in piii felici regioni: ma la pieta religiosa non pu6
liberamente esercitare il suo zelo; non v'e che un solo prete cri-
stiano che possa sollevare Pinfermo sul letto suo di dolore e ricevere
la sua anima fuggitiva. £ il sacerdote attuale un altro Vincenzio de'
Paoli; si spropria di tutto per dar soccorso ai languenti; apparisce
loro come 1* Angelo della pace e della consolazione : ma che pu6 un
unico prete per tremila Cristiani, dei quali la piii gran parte, sparsa
per le campagne e pei monti, non ha per lustri interi assistito a
I. i quali: la concordanza esigerebbe « le quali », ma la forma maschile com
pare nelle edizioni fiorentina e milanese del 1817 e ritorna nella milanese
del 1829 (vedi la Nota al testo).
AVVENTURE SOPRA LE COSTE DI BARBERIA 49
nessuna delle nostre auguste funzioni, e mille volte udi invece
dagPinfedeli bestemmiare il nome del Nazzareno ? Non sono dieci
anni che non v'era riposo e sicurta nel silenzio medesimo della
tomba; non aveano gli schiavi tre palmi di terra per riposar le lor
ceneri; i loro nudi cadaveri senza cristiane preci, senza onore di
sepoltura, restavan sopra la terra orrido pasto del cani; passava il
barbaro, Tinfedele, e insultava alle nude ossa; faceva ruotolare i
crani insepolti. Con molta difficolta Carlo IV1 re di Spagna ottenne
un pezzuolo di terra, che dovette pagare con tante piastre sonanti
quante ne bisognarono a ricoprire l'intero spazio. Quello strato di
terra sulla aquilonare spiaggia del mare serve oggidi di cimiterio
ai Cristiani; ma non vi s'alza una croce, non vi si ascolta una prece,
nessun rispetto circonda il taciturno campo dei morti. Cosi dai
Cristiani si vive, cosl si muore in Algeri.
i. Carlo IV di Spagna, salito al trono ne liySS, dove poi abdicare, dapprima
in favore del figlio Ferdinando, e, subito dopo, di Napoleone (1808). Mori
esule, a Roma, nel 1819.
GIUSEPPE PECCHIO
PROFILO BIOGRAFICO
GIUSEPPE PECCHIO nacque a Milano il 15 novembre del 1785.
Suo padre, il conte Antonio, apparteneva alia nobilta milanese.
Giovinetto, studi6 nei collegi di Merate e di Bellinzona, che erano
tenuti dai frati somaschi, ed ebbe perci6 a maestro, anch'egli come
Alessandro Manzoni, il celebre padre Francesco Soave. Successi-
vamente, frequent6 rUniyersitk di Pavia, e vi divenne dottore in
giurisprudenza, ascoltandovi anche le lezioni di Vincenzo Monti,
delle quali egli, pur dopo molti anni, conservava un commosso,
entusiastico ricordo, come appare dal capitolo vil della sua Vita di
Ugo Foscolo. Erano i tempi turbinosi del dominio napoleonico, in
cui si mescolavano insieme, anche a Milano, le ideologic illumi-
nistiche e le imposizioni del rinnovato assolutismo, mentre gia ser-
peggiavano, e preparavano Fawenire, le nuove concezioni e idealita
romantiche. II Pecchio, per Tinclinazione stessa del suo ingegno,
si volse a quei problemi di economia e di finanza che avevano ca-
ratterizzato rilluminismo milanese fin dai tempi del « CaflFe » e de-
stato ad una fervida operosita molti patrizi, dai Verri al Beccaria.
L'ufficio cui fu eletto il 26 luglio 1810, e che tenne per quattro
anni, di assistente al Consiglio di Stato «per le sessioni delle finanze
e deirinterno» del Regno Italico, accentu6 quella sua tendenza
nativa e la fortific6 con Pesperienza. Caduto poi Napoleone e tor-
nata T Austria in Lombardia, fu nominato (1819) deputato della
congregazione provinciale di Milano, ma con funzioni puramente
nominali, nella ormai totale subordinazione dei popoli al risorto
antico assolutismo. Del duro affermarsi della reazione il Pecchio
stesso ebbe, del resto, una assai chiara prova, quando si vide vie-
tata (1818) la stampa della sua prima opera, il Saggio storico sulla
ammnistrazione finanziera dett'ex-regno d' Italia dal 1802 al 1814,
di cui 1'anno precedente aveva inviato il manoscritto alia censura
di Vienna.
Per questi motivi, appare naturale che egli si sia unito a quei no-
bili spiriti che piu vivamente soffrivano per la dominazione reazio-
naria dell'impero austriaco e, particolarmente legato al Confalo-
nieri, abbia collaborate al « Conciliatore » e sia stato membro della
setta segreta dei Federati. Scoppiata la rivoluzione in Spagna, nel
gennaio 1820, e poco dopo, nel luglio, a Napoli, dovettero sembrare
54 GIUSEPPE PECCHIO
possibili e prossimi, ai patriotti milanesi, una liberazione della
Lombardia dair Austria e un suo rinnovamento attraverso le forme
costituzionali. Troppo pochi anni, del resto, erano trascorsl dalla
caduta del Regno Italico perche i liberal! non scorgessero nel pas-
sato e nel presente sufficient! addentellati per una nuova mutazione.
II Pecchio fu allora pieno di fiducia e di speranze, partecipo ai
progetti dei liberali suoi amici, raggiunse il Confalonieri che si era
recato a Firenze per incontrarsi con spiriti affini e vi aveva awicinato
Gino Capponi, divenne tra i piu ardenti animatori: e anche, am-
malatosi il Confalonieri, tocc6 a lui di andare in Piemonte ad ab-
boccarsi con Carlo Alberto. £, questo, un periodo piuttosto oscuro
della sua vita. Dai verbali del processo Confalonieri appare evi-
dente che il Pecchio promise allora mari e monti sia ai Pie-
montesi che ai Lombardi, abbagli6 gli uni e gli altri con i suoi
ragionamenti e con fantasiose notizie, spingendoli cosi, su false
basi, ad una impresa che presentava pochissime possibilita di riu-
scita. Peggio ancora, si mise in salvo a tempo, assente da Milano
fin dal 10 marzo 1821, lasciando i suoi compagni esposti alia rea-
zione: e oltre la propria persona, anche tent6 di salvare i propri
beni, con una vendita simulata a uno dei Federati, il barone Si-
gismondo Trechi. N6 parve opportuna e dignitosa una sua lettera,
inviata all'inizio delPesilio, e nella quale si umiliava a piatire in-
dulgenza e perdono perche" gli fosse concesso di tornare in patria.
Prima ancora di essere arrestato e processato, il Confalonieri, scri-
vendo a Gino Capponi, il 30 aprile del 1821, giudicava il Pecchio
« inetto del pari . . . al fare e al sopportare » e ormai « coperto , . . di
ludibrio» (F. CONFALONIERI, Memorie e lettere, a cura di G. Ca-
sati, ii, Milano, Hoepli, 1890, p. 109).
Accuse non molto diverse, di imprudenza e leggerezza, furono
ripetute allora da vari liberali : e anche nel nostro tempo hanno dato
di lui un severo giudizio alcuni studiosi, il Prezzolini e il Tommasini
Mattiucci. Ma, in realta, di generosa imprudenza peccarono allora
quasi tutti i congiurati: e tutti sperarono e fantasticarono, appog-
giandosi assai piu sui loro desideri che sulla effettiva situazione.
Anche perci6 agli accesi entusiasmi seguirono assai spesso pro-
fonde delusioni : cosi che avviene frequentemente di incontrare, nei
primi patriotti, « molta immaginazione, molta sensibilita . . . e un'ir-
ritabilita e inquietudine in estremo grado », come osserv6 lo stesso
Pecchio (vedi qui a p. 94). Ne i verbali del processo Confalonieri,
PROFILO BIOGRAFICO 55
sia per le finalita perseguite dai giudici, sia per le esigenze della
difesa, possono sempre accettarsi in pieno, senza qualche esita-
zione. Cio non toglie che la condotta del Pecchio sia stata ben poco
prudente prima e tutt'altro che eroica dopo il fallimento della ri
voluzione.
II 21 gennaio del 1824 veniva bandita pubblicamente per le vie
di Milano la condanna a morte, in contumacia, del Pecchio e di
altri fuggiaschi, mentre il Confalonieri e i patfioti arrestati con lui,
fatta loro grazia della vita, si preparavano alle gravi sofferenze dello
Spielberg. Ma il Pecchio era allora gia in Inghilterra. Fallita, in-
fatti, la rivoluzione in Piemonte, egli aveva raggiunto la Svizzera,
e di la, in compagnia e per invito del ministro spagnolo Bardaxi,
si era trasferito in Spagna. Sei mesi stette in Spagna, fino ai primi
di febbraio del 1822; quattro mesi successivamente in Portogallo;
poi ancora in Spagna nel giugno, mentre ormai la rivoluzione spa-
gnola si awiava al suo epilogo. Dopo aver visto con pena, a Ca-
dice, il governo costituzionale che vi si era rifugiato, il Pecchio,
crollata ogni speranza, si imbarc6 per Lisbona: e ne salp6 poi, il
1 6 luglio del 1823, alia volta della ospitale Inghilterra. Durante la
dimora nella penisola iberica aveva per6 composto e pubblicato due
suoi lavori, Sei mesi in Ispagna nel 1821 e Tre mesi in Portogallo,
entrambi in forma di lettere che si immaginano dirette a una dama,
Lady Giannina Oxford, e che contengono descrizioni, ritratti,
giudizi sui luoghi, sulle popolazioni, sui rivoluzionari, in una into-
nazione letteraria che ricorda, pur con tanto minore pregio d'arte,
le lettere composte dal Baretti sulla Spagna e sui Portogallo.
L'Inghilterra, come scrisse poi lo stesso Pecchio, era allora il
«rifugio degli oppressi», e vi avevano trovato ospitalita esuli di
tutti gli Stati e non soltanto delPEuropa: ma vi vivevano stentata-
mente. II Pecchio ebbe, per6, presto fortuna, che, dopo una breve
dimora a Londra, si sposto a Nottingham, a ricevervi dal conte
Porro gli scolari che il Santarosa gli aveva lasciati partendo per la
Grecia. Cominci6 cosl, col 1824, la sua attivita di insegnante di
lingua italiana, e di ci6 si trova un simpatico ricordo in alcune
pagine delle sue Osservazioni semi-serie di un esule sulV Inghilterra.
A Nottingham la sua vita doveva scorrere abbastanza tranquilla,
ne egli aveva perduto il contatto con gli ambienti liberali, se pro-
prio nel 1824 pubblic6 a Londra una lettera da lui indirizzata ad
Henry Brougham e che dava un quadro delle condizioni dell'Italia
56 GIUSEPPE PECCHIO
dal 1814 al 1822: e pote inoltre vedere accolto nell'« Edinburgh
Review)) un suo articolo, Qu'est que c'est VAustrie?, vera denun-
zia della tradizionale awersione dell'Austria contro ogni aspi-
razione dei popoli alia liberta. Del resto, una evidente stima doveva
riscuotere il Pecchio se, dopo poco, il Comitato filellenio di Londra
affido a lui e ad un amico del Byron Pincarico di portare 60.000
sterline al governo degli insorti greci. Partito dall'Inghilterra ai primi
di marzo 1825, egli giunse col suo compagno a Nauplia, sede del
governo, il 21 aprile, dove assolse la sua missione. Ne si trattenne a
lungo, che" il 10 giugno gia si imbarcava verso PInghilterra, deluso
e amareggiato dallo spettacolo di ccuniversale disfacimento » che
offrivano gli insorti. Frutto di questo viaggio, pubblico al ritorno
una Relazione degli avvenimenti della Grecia nella primavera del
1825, ritenuta allora interessantissima e tradotta in varie lingue, e
dalla quale emerge soprattutto quanto il Pecchio considerasse im-
maturi i Greci a quella liberta per cui combattevano, e come gli
apparissero invece, nel contrasto, veramente forti e radicate nel
costume le libere istituzioni dell'Inghilterra. Perche, a intendere
certi atteggiamenti di inerzia e assenteismo rimproverati successi-
vamente al Pecchio dai suoi compagni di esilio, giova tener present!
le esperienze delusive che egli venne facendo e lo scetticismo suo
sulle possibilita dell' Italia a realizzare 1'indipendenza e liberi siste-
mi di governo: non tanto per la situazione generale dell'Europa,
ma per rimmaturita del popolo italiano, che gli appariva ancora
lontano dal livello di civilta raggiunto dall'Inghilterra. A creargH
tale scetticismo concorsero certo in lui vari fattori: il crudo falli-
mento della sua giovanile e troppo immaginosa esperienza rivolu-
zionaria, 1'abitudine che gliene era venuta di considerare molto
realisticamente le situazioni e le forze in gioco, lo spettacolo della
vita inglese e, per antitesi, i ricordi della Spagna, del Portogallo
e quelli recenti della Grecia: non ultima, infme, la sua scarsa ten-
denza all'eroismo e al martirio, che non riusciva a comprendere.
Tornato a Nottingham, all'insegnamento, gli si presento in quel-
Panno un interessante spettacolo, con le elezioni dei nuovi rappre-
sentanti della citta e della relativa contea: ed egli segul non solo le
vicende esteriori della lotta, ma anche le astuzie e i retroscena che
Taccompagnarono, e narr6 il tutto in un libretto, che intito!6
Urielezione di membri del Parlamento in Inghilterra, e pubblic6 nel
1826. Alia fine del 1826 Iasci6 Nottingham, chiamato, per interes-
PROFILO BIOGRAFICO 57
samento di un amico, ad insegnare 1'italiano e il francese in un
collegio di York. In questo tempo si iniziarono le sue relazioni con
gli Holland e con queirambiente intellettuale che ne frequentava
la casa, la famosa Holland House, dove fu presentato dallo scrit-
tore Sydney Smith, uno dei fondatori della ((Edinburgh Review)),
Nel 1827 apparve a Lugano un suo saggio di indagine economica,
Uanno mille ottocento ventisei delV Inghilterra, in cui studiava la
crisi che aveva scosso in quelPanno le finanze inglesi, e ne attri-
buiva la causa a un f enomeno di superproduzione delle industrie :
segno, questo lavoro, di un suo graduale ritorno a quegli studi eco-
nomici con i quali aveva iniziato la sua attivita.
Nella contea di York il Pecchio sposo la figlia, Filippa, di un
ricco inglese, Beniamino Brooksbank. Le nozze furono celebrate
nel settembre 1828, e gli sposi si stabilirono in una villa sul mare,
vicino a Brighton. Le condizioni economiche della moglie libera-
rono il Pecchio dall'insegnamento, ed egli da allora visse una vita
riposata, tra i suoi studi e le molte amicizie che contrasse in quella
spiaggia affollata di villeggianti ad ogni nuova estate, tra i quali gli
Holland, il romanziere Horace Smith, il poeta Rogers. Gioviale,
brillante nelle conversazioni, sicuro nelPuso delFinglese e del fran
cese, il Pecchio attrasse facilmente le simpatie degli amici: unica
nube, la sua salute minata lentamente dalla debolezza dei pol-
moni. Assalito infme da ripetuti sbocchi di sangue, nonostante le
molte cure, mori a soli cinquant'anni il 4 giugno del 1835, nella
sua villa di Hove, accanto a Brighton.
Nel periodo che va dal suo matrimonio alia morte, in varie oc-
casioni il Pecchio si mostr6 assai tiepido e riluttante di fronte alle
ripetute pressioni degli altri esuli italiani perche anch'egli parteci-
passe alle loro iniziative. Dalla sua condotta e dalle sue lettere ap-
pare evidente ch'egli desiderava tenersi lontano da loro e dai loro
programmi. Scrivendo ad Antonio Panizzi giudicava degni dello
« staffile che si da ai ragazzi » gli ideatori della spedizione di Savoia,
incapaci di «agire secondo le circostanze e non contro le circo-
stanze» (vedi L. PAGAN, Lettere ad A. Panizzi, Firenze, Barbera,
1882, p. 120). Quando, divenuto Luigi Filippo re di Francia, si
riaccesero le speranze degli esuli e molti di essi lo invitavano ad
andare a Parigi neirimminenza delFazione, il Pecchio in ripetute
lettere li tacci6 di visionari, e considero « donchisciottate, fanciul-
laggini, imprudenze» i loro progetti (ivi, pp. 87-9). Si reco, infme,
58 GIUSEPPE PECCHIO
cedendo alle insistent! pressioni, a Parigi, con la moglie, ma visito la
citta piu che ascoltare le vane speranze degli amici (ivi, p. 103): e
prestissimo se ne torno a Brighton. In verita il Pecchio, sia per
propria esperienza, sia per influsso della moglie e degli amici in-
glesi, guardava con scetticismo alle audacie rivoluzionarie : era dive-
nuto, nelPanima, un riformatore prudente, un moderate whig in-
glese assai piu che un acceso e romantico esule italiano. Egli e un
esempio tipico della profonda assimilazione che un nuovo am-
biente, il rifugio straniero, pu6 operare su un esule. La redenzione
dell'Italia gli sembrava lontana, e pensava che solo si potesse pre-
pararla con gli scritti, con un'opera di pensiero, e non con le azioni
frettolose. Ma questo atteggiamento, se nasceva in parte da sincera
convinzione, era anche dettato da un desiderio di godersi tran-
quiilamente la sua vita serena e i suoi agi.
Gli anni trascorsi a Brighton furono dedicati dal Pecchio alia
composizione di alcune nuove opere: la Storia deW economia pub-
blica in Italia (1829); la Vita di Vgo Foscolo (1830); il Catechismo
italiano (1830); le Osservazioni semi-serie di un esule suir Inghilterra
(183 1) ; il saggio Sino a qualpunto le produzioni scientifiche e letter arie
seguono le leggieconomichedellaproduzione ingenerale (1832); i quat-
tro volumi della Storia critica della poesia inglese (1833-1835), in-
terrotta dalla morte. Rimase appena iniziato, in un manoscritto,
un Dizionario politico, di cui alcune voci indicano chiaramente le
intenzioni divulgative e propagandistiche cui 1'opera mirava.
Alcune di queste opere, come il Catechismo italiano e il Diziona-
rio politico, intendevano concorrere a quella formazione di un'opi-
nione pubblica che il Pecchio additava agli esuli come Punica azio-
ne possibile per preparare Pindipendenza italiana. Altre nacquero
dairinteressamento del Pecchio per gli studi di economia, gia da
lui coltivati in Italia, ma allora fiorentissimi soprattutto in Inghil-
terra. La Storia dell9 economia pubblica in Italia e una serie di pro-
fili di economist! italiani, in cui il Pecchio condensa la vasta rac-
colta dei « Classic! economist! italiani » eseguita da Pietro Custodi
in cinquanta volumi, ma vi aggiunge, oltre una notevole Introdu-
zione storica e il profile di economist! posteriori alia raccolta Cu
stodi, un parallelo tra gli scrittori italiani e gli scrittori inglesi che
si sono occupati di economia politica. Si tratta, comunque, di un
lavoro essenzialmente di compilazione, sebbene al suo apparire
fosse molto lodato anche da economist! tedeschi. Piu interessante
PROFILO BIOGRAFICO 59
il saggio Sino a qualpunto ecc., se non altro per la tesi paradossale
che il Pecchio vi sostiene, di una stretta subordinazione dei pro
dotti letterari, come quantita, alle leggi economiche della domanda
e delPofferta, e, in certo senso, anche come qualita, per un ac-
crescersi, con il numero, delle probabilita favorevoli al nascere dei
capolavori: i quali, del resto, egli esamina quasi fossero costituiti
dalFincontrarsi di vari elementi componenti. Incapacita critica di
fronte alia letteratura, di cui e riprova la Storia critica della poesia
inglese, che si arresta al Milton e al Dryden, e si svolge attraverso
concezioni e giudizi insostenibili anche per i suoi tempi.
II Pecchio mancava di gusto e di penetrazione critica di fronte
alle op ere d'arte : dinanzi ad ogni profondita spirituale e fantastica
si trovava disarmato, incapace a veramente comprendere. II suo
mondo era in una sfera minore, sotto questo aspetto, e percio gli
riuscivano piu accetti gli scrittori mediocri, le opere che non lo
portassero in un'atmosfera per lui irrespirabile. Era un economista,
uno studioso del costume, non un letterato. Bisogna tener present!
questi suoi limiti per giudicare la Vita di Ugo Foscolo e lo strano
modo con cui ritrasse il suo compagno d'esilio, il poeta dei Se-
polcri. Lo vide attraverso una mentalita misera, pettegola, alia
quale si aggiunse una insistente malignita, che deformava ogni epi-
sodio e lo adombrava di insinuazioni. Se qualche pagina della Vita
di Ugo Foscolo e di grata lettura, si tratta di brani descrittivi o di
divagazioni politiche, per le quali il Foscolo e solo un pretesto.
Diverso giudizio deve farsi delle Osservazioni semi-serie, che sono
la sua opera migliore. Le compose nel 1827 e<^ apparvero prima-
mente nel 1831, a Lugano, presso Peditore Ruggia, come molte
altre sue opere. In esse il Pecchio ritrae, in una serie di capitoli
tra loro separati, molteplici aspetti della vita inglese delPepoca,
della mentalita, del costume, delPeducazione, delle istituzioni che
aveva trovato nelPisola ospitale. Si sente dovunque Pammirazione
che egli provava dinanzi alia civilta inglese, anche se il timbro gaio,
o gioviale e leggermente ironico di certe pagine, attenua Pammira-
zione e le toglie ogni carattere adulatorio. II Pecchio scrive con
semplicita, in un tono, come e stato detto (G. PREZZOLINI, nella
Intro duzione alle Osservazioni semiserie di un esule in Inghilterra,
Lanciano, Carabba, 1913, p. 32), da buon giornalista. In un suo
articolo del « Conciliatore » (vedi ed. Firenze, Le Monnier, 1948-
1954, 1, p. 193) egli aveva sostenuto che bisognava affrancarsi dalle
60 GIUSEPPE PECCHIO
leggi della Crusca nell'uso dei vocaboli : nelle Osservazioni mette in
pratica questa ribellione, anche perche la sua lingua accoglie spes-
so inglesismi e francesismi e lombardismi venutigli da una scarsa
preparazione letteraria. Pure, le Osservazioni si leggono con gusto
per la scioltezza con cui egli disegna il mondo inglese, e per la li-
berta di tipo illuministico, e a volte barettiano, con cui subordina
le parole allc cose.
Le opere del Pecchio sono divenute, in massima parte, inaccessibili, anche
perch6 di molte si e avuta un'unica stampa e sempre fuori d' Italia. N£
esiste una ordinata notizia dei suoi scritti, la quale pu6 solo ricavarsi
dalle sparse indicazioni date dall'Ugoni nel suo volume piu sotto citato.
Per questo riteniamo utile dare notizia delle prime edizioni non solo delle
Osservazioni semi-serie, ma anche delle altre sue opere : Saggio storico sulla
amministrazione finanziera delVex-regno d'ltalia dal 1802 al 1814, Lu
gano, Ruggia, 1820 (una seconda edizione, con data di Londra, apparve
nel 1826); Sei mesi in Ispagna nel 1821. Letter e di Giuseppe Pecchio a Lady
Giannina Oxford, Madrid, per D. Michele Burgos, 1821 (contiene dician-
nove lettere) ; Tre mesi in Portogallo. Lettere a Giannina Oxford, Lisbona
1821 (contiene undici lettere); [U Austria in Italia} A Letter to Henry
Brougham Esq. M. P. by Joseph Pecchio, London, Partridge, 1824; Qu'est
que c'est VAustrie?, in «The Edinburgh Review », LXXX (luglio 1824),
pp. 298-316; Relazione degli avvenimenti della Grecia nella primavera del
1825, Lugano, Vanelli, 1826 (e questa la stampa deH'originale italiano,
ma fu preceduta dall' edizione in inglese col titolo A Picture of Greece in
1825, London 1825, in cui le si accompagna una relazione sulla Grecia
di James Emerson, e dalla traduzione in francese apparsa a Parigi nel
« Globe » dell'ottobre-dicembre 1825; la Relazione contiene, tra 1'altro,
Pultima lettera di Santorre di Santarosa, che e diretta al Pecchio) ; Un'ele-
zione di membri del Parlamento in Inghilterra, Lugano, Vanelli, 1826;
Vanno mille ottocento ventisei delV Inghilterra, con osservazioni, Lugano,
Vanelli e C., 1827; Storia delV economia pubblica in Italia, ossia Epilogo
degli economisti italiani, Lugano, Ruggia, 1829; Vita di Ugo Foscolo,
Lugano, Ruggia, 1830; Catechismo italiano, ad uso delle scuole, dei caffe,
delle botteghe ecc. (ignore Teditore, ma la data e 1830); Sino a qual punto
le produzioni scientifiche e letterarie seguono le leggi economiche della produ-
zione in generate, Lugano, Ruggia, 1832; Storia critica della poesia inglese,
Lugano 1833-1835, 4 voll. A queste indicazioni bisogna aggiungere i vari
articoli del Pecchio nel « Conciliatore » (vedi « II Conciliatore », a cura di
V. Branca, Firenze, Le Monnier, 1948-1954, 3 voll.); una sua collaborazio-
ne, costituita da alcuni articoli, alia « Revue encyclopedique » di Parigi, cui
accenna TUgoni senza precisare (vedi C. UGONI, nell'opera piu avanti citata,
p. 273); le sue lettere sparse in carteggi, tra le quali particolarmente im-
portanti quelle dirette ad Antonio Panizzi (vedi L. FAGAN, Lettere ad An-
PROFILO BIOGRAFICO 6l
tonio Panizzi, Firenze, Barbera, 1882), a Ugo Foscolo (vediF. VIGLIONE,
Ugo Foscolo nel centenario del suo insegnamento all' Universitd di Pavia,
Pavia, Mattel, 1910), e quelle di cui da notizia C. SEGRE, in Relazioni let
ter arie tra Italia e Inghilterra, Firenze 1911.
La Vita di Ugo Foscolo oltre che dal Ruggia, a Lugano, nel 1841, e stata
ristampata, con introduzione e note, da P. Tommasini Mattiucci, Citta di
Castello, Lapi, 1915, Per 1'ampia introduzione, anche sul Pecchio in gene-
rale, e per le ricchissime note questa ristampa e molto importante. Per le
Osserv axiom semi-serie di un esule sull 'Inghilterra, che sono Top era migliore
del Pecchio, si deve tener presente che esse furono composte nel 1827 e che
la prima edizione apparve a Lugano, nel 1831, a cura dell'editore Ruggia.
Nel 1833 lo stesso Ruggia ne stamp6 una seconda edizione. L' opera fu
tradotta in varie lingue e si diffuse specialmente in Inghilterra e in Fran-
cia. L? edizione prii recente e piu accessibile e quella curata da G. Prezzo-
lini per gli «Scrittori nostri», Lanciano, Carabba, 1913.
Per la vita del Pecchio, per le sue vicende politiche, per I'economista e lo
scrittore, si rinvia alle seguenti opere: C. UGONI, Vita e scritti di G. Pec
chio, Parigi, Baudry, 1836, che e la maggiore fonte di notizie sul Pecchio;
M. MAGGIONI, in Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere edarti
del secolo XVIII. . ., a cura di E. DeTipaldo, iv, Venezia, Alvisopoli, 1837,
pp. 244 sgg. ; P. ORANO, Ilprecursore di Carlo Marx, Roma, Voghera, 1899,
saggio di scarso valore; M. LUPO GENTILE, G. Pecchio nei moti del y2i e nel
suo esilio, in «Rivista d'Italia», agosto 1910, e in Voci d'esuli, Milano 1911 ;
e le Introduzioni alle due citate edizioni a cura di G. Prezzolini e di P. Tom
masini Mattiucci. Vari errori del Pecchio nella sua Storia dell' amminis tra-
zionc finanziera ecc. sono indicati e corretti da E. TARLE, Le blocus conti
nental et le Royaume d' Italic, Paris 1938 e, in traduzione italiana, Torino,
Einaudi, 1950. Un particolare della vita del Pecchio studente a Pavia ha
comunicato G. GALLAVRESI, in « Giorn. stor. d. lett. it. », LX (1912), p. 268,
e di una lettera inedita di lui e data notizia nella stessa rivista, XLVII (1910),
pp. 261-2. Per le relazioni tra il Pecchio e gli Holland, vedi C. SEGRE, II
salotto di Lady Holland, in « Nuova Antologia », i e 1 6 gennaio 19106, dello
stesso autore, vedi anche Relazioni letterarie tra Italia e Inghilterra, cit.
Per la parte avuta dal Pecchio a Milano nella congiura dei Federati sono
fondamentali / Costituti di F. Confalonieri, a cura di F. Salata, Bologna 1941 ,
3 voll., ma da essi e naturalmente necessario risalire a un quadro comples-
sivo delle agitazioni e della situazione generale dell'Italia del tempo. Indi-
cazioni in tal senso sarebbero qui fuori luogo, e perci6 rinviamo a C. SPEL-
LANZON, Storia del Risorgimento e delVunita d* Italia, I, Milano, Rizzoli, 1933 •
e alia relativa bibliografia, che pu6 essere aggiornata tenendo present! i saggi
e le note bibliografiche del volume Questioni di storia del Risorgimento e
delVunita d' Italia, a cura di E. Rota, Milano, Marzorati, 1951.
DALLE «OSSERVAZIONI SEMI-SERIE DI UN ESULE
SULL'INGHILTERRA»
CASE DI LONDRA1
Oe il cielo e fosco, non men tetro e il primo aspetto di Londra per
chi vi entra dalla via di Douvres.* II colore affumicato delle case le
da Taspetto di una citta incendiata. Se poi vi si aggiunge il silenzio
die regna in una popolazione di forse un milione e quattro cento
mila abitanti, tutta in moto (sicche sembra di essere a teatro di
ombre chinesi),3 e la stucchevole eguaglianza delle case, quasi
tutte fabbricate nello stesso stile, come fosse una citta di castori,4
sara facile l'immaginarsi che al primo entrare in questo oscuro al-
veare il sorriso muore nella meraviglia. Questo era Tantico stile
inglese che campeggia ancora piu in provincia. Ma dopo che gl'In-
glesi hanno sostituito al suicidio le blue pills,5 o meglio ancora un
viaggio a Parigi, e invece delle Notti di Young6 leggono i romanzi
di Walter Scott, hanno rallegrato anche le loro case colPimbian-
carle, ed hanno ora fabbricato la parte occidentale della capitale
(West End) con un'architettura piu variata e piu gaia. Non dico
per questo che gPInglesi sieno divenuti saltellanti e ridenti al pari
di un parigino di diciott'anni. Essi si dilettano ancora di spettri,
di streghe, di cimiterii, e simili tetraggini. Guai a chi scrivesse un
romanzo senza qualche apparizione da far arricciare i cappelli in
testa!
Le case sono piccine e fragili. La prima sera che alloggiai in
una casa d'affitto mi sembrava ancora d'essere a bordo del basti-
mento ; le mura erano egualmente sottili, e in gran parte di legno ;
cameruccie piccole, ed una scala che parea quella che mette sul
1. Questo brano corrisponde alle pp. 20-31 dell'edizione da noi seguita.
2. Douvres: e la 'forma francese di Dover, il porto d'approdo in Inghilterra
sullo stretto di Calais. IlPecchio vi sbarco nel 1823, venendo dal Portogallo.
3. teatro . . . chinesi: spettacolo realizzato proiettando su un telone Tombra
di antichissime marionette cinesi, fatte di pelle d'asino o di pecora, fme-
mente dipinte e rese trasparenti da apposita concia. Si rappresentavano
antiche leggende e storie popolari cinesi. 4. una citta di castori: vedi la
nota 3 a p. 27. 5. blue pills: pillole mercuriali, allora molto usate in medi-
cina. 6. II poeta inglese Edward Young (1683-1765), celebre per il poema
Night Thoughts (1742-1745), la cui sensibilita influi su tutte le letterature
delPeta romantica.
64 GIUSEPPE PECCHIO
ponte. Le mura per lo piu sono cosi sottili che lasciano passare i
suoni intatti. Gl'inquilini si udirebbero Tun Paltro, se non avessero
1'abitudine di parlar sotto voce. lo udiva il mormorio della conver
sazione del mio vicino perpendicolare al rnio capo, come il mio
zenit, e quella delFaltro mio vicino a me sottoposto, come Paltro
punto nadir. Sentiva di quando in quando le parole very fine
weather . . . indeed . . . very fine . . . comfort . . . comfortable . . . great
comfort . . / parole che occorrono si spesso ne5 loro disco rsi come
i punti e le virgole. In una parola, sono case ventriloque. Come
poi dissi, sono tutte eguali. In una casa di tre piani vi sono tre
camere da letto perpendicolari una sopra Paltra, e tre salette (par
lours) egualmente Tuna alPaltra sovrapposte. In guisa che la popo-
lazione vi e come immagazzinata, cioe, disposta a strati come merci,
come i formaggi nei magazzini di Lodi e di Codogno. GPInglesi
non hanno scelto a caso questa, dir6 cosi, architettura navale.
Ecco i vantaggi che ritraggono dall'abitare in case piccole e di non
molta durata. D'ordinario una casa non e fabbricata che per 99
anni. Se soprawive a questo termine rimane al padrone del suolo
su cui e edificata. Accade dunque di rado che giungano a una gran
longevita, ma per lo contrario alcune volte si sfasciano prima della
lor fine naturale. GPInglesi che sono migliori aritmetici che ar-
chitetti hanno ritrovato che con questa labile architettura impie-
gano un minor capitale, e quindi Pannuo interesse e suo deperi-
mento annuo sono anche minori. Awi un altro vantaggio. In
questo modo non si vincolano ne tiranneggiano i posteri. Ogni
generazione pu6 scegliere e fabbricarsi la sua abitazione a proprio
capriccio, e secondo i suoi bisogni. E benche in gran parte com
post e di legno, tutte le case sono come incombustibili merce le com-
pagnie di assicurazione che garantiscono il valor della casa, dei
mobili e di ogni cosa. Un incendio non e una disgrazia, ma soltanto
un incomodo per Pinquilino, un colpo d'occhio pel passaggiere, e
un articolo di varieta pel giornalista. Inoltre la casa per un inglese
e il suo Gibilterra.2 Non solo vuol esser inviolabile, ma anche asso-
luto3 senza rumori e senza pettegolezzi. Preferisce di vivere in un
guscio, come Postrica, piuttosto che avere in un palazzo tutte le
seccature d'un pollaio. L'aura vitale d'un inglese e Pindipendenza.
i . « Molto bel tempo . . . veramente . . . molto bello . . . conforto . . . con-
fortevole . . . grande conforto. » 2. il suo Gibilterra: la sua roccaforte.
3. assoluto: indipendente da tutti.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 65
Quindi tosto che un figlio si marita, esce di casa, e a guisa dei polipi
che tagliati in pezzi diventano altrettanti polipi, va a sviluppare
altrove un'altra famiglia. Le numerose e patriarcali famiglie si ri-
trovano presso i popoli agricoli. Presso le nazioni commerciali
che hanno fattorie e colonie in tutti i punti del globo, ricevuto
che abbia il figlio una conveniente educazione, abbandona il nido
paterno, e simile agli uccelli, va altrove a fabbricarsene un proprio.
Hail! Independence, hail! Heaven's next best gift
to that of life and an immortal soul!
The life of life! That to the banquet high
and sober meal gives taste; to the bow'd roof
fair-dream' d repose and to the cottage charms.
«Salve! Indipendenza, salve! Dono del cielo, secondo solo a
quel della vita e d'un'anima immortale! Vita della vita! Che fai
saporita Populenta e la povera mensa; riposo pieno di ridenti sogni
per le arcate volte, e delizie delle capanne. »
L'amor delPindipendenza, questa vita della vita, come ben la
chiama Thompson1 nel suo poema sulla liberta, si manifesta per
sino nelle chiese, dove ogni famiglia inglese ha un banco proprio e
chiuso alPintorno da uno steccato. Chi viaggia per 1'Inghilterra
osservi nei piu piccioli villaggi come i piu meschini abituri sono
separati 1'uno dalPaltro per mezzo d'una siepe, o d'un muricciuolo,
o d'uno steccato. Non vi e impero che abbia termini piu marcati,
ne che apprezzi con tanta gelosia la propria indipendenza.
Perche gl'Inglesi non sono esperti ballerini ? Perche non si eser-
citano : le case sono tanto piccole e deboli che se uno spiccasse una
capriola al terzo piano, arrischierebbe di sprofondare come una
bomba sino in cucina che e posta sotto terra.2 Perche gPInglesi ge-
stiscono cosl poco e hanno quasi sempre le braccia incollate al
corpo? Per la stessa ragione, io credo: le cameruccie sono tanto
piccole che non vi si puo quasi gestire senza rompere qualche og-
getto, od incomodare qualche persona.
i. James Thomson, e non Thompson, poeta inglese (1700-1748), famoso
soprattutto come autore di The Seasons (Le stagioni) e del poema Liberty
(1736), da cui sono tratti i versi precedentemente citati dal Pecchio (parte v,
vv. 124-8). Di questo poema esiste una traduzione italiana: La Liberta, tra-
duzione di A. Castelfranco, Trieste 1867. 2. «Non e un'iperbole mia.
Ben sovente fra le condizioni d'affitto delle case in Londra v'e quella di
non ballare» (nota del Pecchio).
66 GIUSEPPE PECCHIO
Alcuni sono stupiti del silenzio che domina fra gli abitanti di
Londra. Ma come potrebbero un milione e quattro cento mila
abitanti vivere insieme senza silenzio ? II brulichio della gente e
dei carri e carrozze e cavalli e tale dalla contrada di Strand alia
Borsa di Londra, che si dice, che nelPinverno vi sieno due gradi di
differenza del termometro di Fareneith tra 1'atmosfera di questa
lunghissima strada e quella del West End. Non 1'ho verificato; ma
a cagione dei molti cammini che vi sono in Strand e assai proba-
bile. Da Chering Cross alia Borsa di Londra e un'enciclopedia
del mondo. Vi domina un'apparente anarchia, ma senza confusione
e senza disordini. Le regole che il poeta Gay prescrive per cammi-
nare con sicurezza per questo tratto di quasi tre miglia mi sem-
brano inutili.1 L'abitudine di passare attraverso di questo vortice
rende a ciascuno il passaggio facile, senza dispute, senza accidenti,
senza puntigli, come se non vi fossero imbarazzi di sorta. Sup-
pongo che a Pekin dovra essere lo stesso. II silenzio adunque dei
passeggieri e la conseguenza della gran farragine degli affari. Non
lo dico per fare un epigramma; se mai Napoli diventasse una po-
polazione di un milione e mezzo, converrebbe pure che quelle
trachee napoletane si frenassero anch'esse. Non v'e che in Ispagna
ove il silenzio sia compagno dell'ozio. £ forse la perfezione delPozio,
Fozio spinto al suo apice. In Londra io mi sono piu volte alzato di
buon mattino per assistere allo spettacolo della risurrezione di
quasi un milione e mezzo d'abitanti. Questo gran mostro di capi-
tale, simile a uno smisurato gigante che si sveglia, comincia a dar
segni di vita nelle sue estremita. II moto principia alia circonferenza,
e a poco a poco va crescendo e incalzando verso il centro sinche
alle died ore comincia il brulichio e va fervendo sempreppiu sino
alle quattro dopo mezzodi ch'e Tora della Borsa. La popolazione
pare che segua le leggi della marea. Sino a quest'ora il suo flusso
va ingrossando dalla periferia alia Borsa. Alle quattro e mezzo,
ch'e Pora in che la Borsa si chiude, succede il riflusso, e cor-
renti di gente, carrozze e cavalli retrocedono dalla Borsa alia pe
riferia.
Presso un popolo industrioso, incessantemente occupato, anelan-
i. « II suo poema e intitolato Trivia, ossia, 1'arte di camminare per le strade
di Londra. In tre canti» (nota del Pecchio). John Gay, poeta inglese (1685-
X732), pubblic6 nel 1716 questo poema, che ha il titolo originale Trivia, or
The Art of Walking in the Streets of London.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 67
te alia ricchezza, Puomo, ossia, la forza fisica e un capitale prezioso.
L'uomo e caro, e se ne deve far quindi un'estrema economia. Non
e come nei paesi dell'indolenza, ove 1'uomo e la terra hanno del
pari poco o nessun pregio. Un Signore, un Effendi1 turco passeg-
gia sempre con un codazzo di servi inutili. Cosi un nobile polacco,
un Grande di Spagna fanno un gran consumo d'uomini die d'al-
tronde sono improduttivi. Mi fu detto che il duca di Moedina
Coeli in Ispagna ha al suo soldo quattro cento persone di servizio,
e va al Prado2 in una carrozza ch'e peggiore d'una patache2 di
Parigi. In Inghilterra succedeva lo stesso quando non v'era ancora
commercio forestiero, ne alcuna bella manifattura. Non sapendo
come consumare il soverchio delle loro rendite, gli antichi pro-
prietari inglesi mantenevano un centinaio, e talvolta un migliaio
di dipendenti. Ora le phi grandi case non hanno che dieci o dodici
servi, e lasciando stare gli opulenti che sono sempre un'eccezione
presso ogni nazione, e prendendo il massimo numero,4 si puo dire
che in Inghilterra, e specialmente in Londra, si fa grande risparmio
di tempo e di servi. Ma come si concilia questo cogli agi degP In
glesi tanto vantati? Ecco come. II latte, il pane, il butirro, 1'acqua,
la birra, il pesce, la carne, il giornale, le lettere tutto e recato alle
case ogni giorno, alia stessa ora, senza fallo, dai bottegai e dagli
uffiziali della posta. Si sa che tutte le porte delle case sono chiuse
com'e il costume di Firenze e di altre citta di Toscana. Per non
turbar il vicinato si e convenuto che questi fornitori dieno un
sol picchio di battente alia porta, o un sol tratto di campanello
che corrisponde nella cucina sotto terra dove stanno le fantesche.
Le visite hanno un altro segno di convenzione che consiste in
una rapida succession di picchi ch'e piu romorosa e rimbomban-
te, secondo che la persona e piu di moda, e d'un tuono imper-
tinente. Cosi Parini fa parlare il suo eroe ad alta e sgangherata
voce in pubblico perche ognuno lo senta, e riverisca quegli ac-
centi come fossero quei del Gran Tonante.5 Anche in Londra i
magnanimi eroi della moda si annunziano agli ottusi sensi della
i. Effendi'. vedi la nota 2 a p. 47. 2. Prado: grande parco di Madrid.
3. patache: vettura di poco pregio, senza sospensione, da trasporto piti che
da viaggio. II vocabolo, qui nella forma francese, si trova anche in altre
lingue : e di origine incerta, e indicava un tempo una piccola imbarcazione.
4. il massimo numero: la maggioranza. 5. Gran Tonante: Giove. Per 1'al-
lusione al Parini, cfr. // vespro, w. 486 sgg.
68 GIUSEPPE PECCHIO
plebe con eccheggianti colpi simili a quei del martello di Bronte.1
Quest'uso esige esattezza ne' servi, e la loro immancabile pre-
senza. II prezzo d'ogni cosa e fisso, quindi non v'e luogo a mercati,
a dispute, a cicaleggi. Tutto questo andare e venire di venditori e
compratori non e che una scena muta. Molti fornai viaggiano per
Londra in carri cosi rapidi, elastici, eleganti, che un damerino
in Italia non sdegnerebbe di comparire in essi al corso. I macellai
di frequente si vedono portare al gran trotto su baldanzosi de-
strieri la carne alle case lontane de' loro awentori. Un tale sistema
richiede altresl un ordine impreteribile, una division di tempo
sempre eguale. Percio vi sono orologi e pendoli dappertutto; su
ogni campanile, talora su tutte quattro le facciate d'un campanile,
in tasca di ognuno, nella cucina del piu misero operaio. £ questa
una nazione operante a battute di orologio come un'orchestra che
precede a battute del direttore, come un reggimento che marcia
a suon di tamburo. 6 ingegnosissima la division del tempo che
gl'Inglesi hanno applicato a molti usi. In alcune macchine, per
esempio in quella de' pizzi, ad ogni certo numero di maglie la mac-
china suona da se stessa un campanello per awertire 1'operaio. II
molino (Trade-Mill) introdotto per castigo e occupazione nelle
case di correzione suona esso pure un campanello dopo un numero
fisso di rivoluzioni. Nella manifattura dei cardatoi in Manchester
havvi una specie di orologi per verificare se il Watchman* pagato
per invigilare contro 1'incendio si e tenuto sveglio nella notte. Se
ogni quarto d'ora non tira una cordicella che pende dalle mura al
difuori, 1'orologio al di dentro marca e denunzia le negligenze del
Watchman nella mattina.
Un bottegaio quindi supplisce in Londra per quaranta o cm-
quanta servi ; le botteghe possono essere lontane, e in luogo remoto
senza alcun inconveniente ; i bottegai non rimangono oziosi ; invece
d'uomini si possono impiegare per alcuni uffici fanciulli o giovi-
netti. I giornali per due soldi Pora circolano di casa in casa. II latore
e un fanciullo di 10 o 12 anni, agile come un folletto, esatto come il
tempo, che li porta e li riporta via.
Con questo sistema i servi rimangono in casa senza distrazioni, e
i. Bronte: uno dei tre ciclopi (gli altri sono Sterope e Argo) ricordati nella
Teogonia di Esiodo come figli di Gea e Urano. La tradizione successiva
vuole che i ciclopi fabbricassero i fulmini a Zeus. 2. Watchman: sorve-
gliante; ed e detto specialmente di guardiano notturno.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 69
soprattutto le fantesche ben di rado sortono in tutto il corso della
settimana, finche non giunga la dornenica che le mette in liberta
per tre o quattro ore. Ne segue pure che le famiglie inglesi non
hanno bisogno di avere grandi prowigioni in casa; in conseguenza
meno impiego di spazio e di denaro, meno cura, meno guasti,
meno puzza, meno dilapidazioni.
GIARDINI DEL TE1
(Tea-gardens)
£j un gran problema come passare la noiosissima e mestissima do-
menica delPInghilterra. Questo paese tutto moto, tutto vita negli
altri giorni, e come colpito da un attacco di apoplessia nella dome-
nica. II forestiere per fuggire questa solenne mestizia suole arram-
picarsi alle dieci del mattino su una delle immancabili vetture a
quattro cavalli di Chering- Cross o di Piccadilly, e si fa trascinare
fuori di Londra. Va a Richemond,2 passeggia silenzioso in quel
bel parco, ammira il tortuoso giro del Tamigi, che gli parra torbido
od aureo secondo e di umor prosaico o poetico, e paga carissimo
un pranzo condito dagPinchini di servi in calze di seta e vestiti a
bruno in tutto punto come un awocato di Torino. Owero va a
Greenwich3 ad ammirare un altro bel parco, quell'osservatorio,
i. Questo brano corrisponde alle pp. 32-51 dell'edizione da noi seguita.
Precedono il testo i seguenti versi, e la traduzione, del Childe Harold's Pil
grimage (I, LXIX) di Byron : « The seventh day this ; the jubilee of man, /
London! Right well thou know'st the day of prayer: / then thy spruce
citizen, wash'd artizan / and smug apprentice gulp their weekly air: /
thy coach of Hackney, whiskey, one-horse chair, / and humblest gig
through sundry suburbs whirl, /to Hampstead, Bentford [rectius: Brent
ford], Harrow make repair, / till the tirede (sic) jade the wheel forgets
to hurl / provoking envious gibe from each pedestrian churl » («6 que-
sto il settimo giorno, il giubileo delPuomo, o Londra: tu ben conosci il
giorno della preghiera, in cui i tuoi attilati cittadini, i tuoi artigiani ripu-
liti, il lindo garzone, tranguggiano lieti la loro aura settimanale: i tuoi
cocchi da nolo, i rapidi calessi a un cavallo, e Tumile gig percorrono i molti
tuoi sobborghi, e fanno meta Hampstead, Bentford o Harrow, finche lo
stanco ronzino dimentica di far girare le ruote, provocando le risa invi-
diose del pedestre volgo»). 2. Richmond: parco a sud-ovest di Londra.
3. Greenwich: sobborgo ad est di Londra, oggi incorporato nella citta.
II suo osservatorio e divenuto famoso, perche il suo meridiano e stato
adottato come meridiano iniziale. L'edificio, gia destinato a ospedale dei
marinai, e oggi una parte del R. Collegio Navale.
70 GIUSEPPE PECCHIO
quel magnifico ospizio de' marinai invalidi, e pranza alia vista del
veleggianti vascelli che ritornano dalla China e dalle Indie. Se poi
ama di fare una gita piu economica se ne va sbadigliando sui bei
colli di Hampstead,1 compiangendo Londra avvolta in un nugolone
di fumo, e quasi rallegrandosi d'esserne scampato fuori. Tutti que-
sti sono buoni palliativi contro la noia della domenica, ma non e in
nessuno di questi belli ma anch'essi melanconici luoghi, ne alia
brillante e seria passeggiata di Hyde Parke2 che il forestiere cono-
scera la nazione. John Bull3 non va a pavoneggiarsi all'Hyde Parke,
o a Kensington Garden, ne a pascersi di bellezze poetiche e a fare
idilli nella foresta di Windsor.4 Se volete vedere questo meravi-
glioso personaggio che fa stupire e ridere di se tutta 1'Europa da
piu di un secolo, che veste quasi tutto il mondo, che guadagna bat-
taglie per terra e per mare senza molto vantarsene, che lavora per
tre e mangia e beve per sei, ch'e il pignoratario e 1'usuraio di tutti i
re e di tutte le repubbliche, ed e quasi fallito in casa propria, e
qualche volta a guisa di Mida muore di fame in mezzo alPoro,5
voi dovete cercarlo altrove. NeH'inverno dovete scendere nelle ta-
verne sotto terra. Ivi intorno a un fuoco di avvampante bragia tro-
verete seduti ben vestiti e ben calzati gli operai inglesi fumando, be-
vendo, tacendo e leggendo. Le scuole di mutuo insegnamento,6
e quelle della domenica che gratuitamente si tengono da tutti i
dissident!7 pei fanciulli poveri della loro setta, hanno reso il popolo
inglese istrutto nel leggere, nello scrivere e neiraritmetica. In
Iscozia anche prima del mutuo insegnamento v'erano le scuole
parrochiali in cui oltre al leggere e scrivere, s'insegnarono sempre
i. Hampstead: a nord-ovest di Londra. 2. Hyde Parke: Hyde Park e un
parco dietro Westminster, che si prolunga poi con il Kensington Garden.
3. John Bull: soprannome dato al popolo inglese in seguito a un libro sa-
tirico di John Arbuthnot, History of John Bull (Storia di Giovanni Toro)>
pubblicato nel 1712. 4. foresta di Windsor: grandissimo parco a ovest di
Londra. 5, e quasi, . . oro: nel 1826 Plnghilterra fu colpita da una grave
crisi commerciale dovuta a una superproduzione delle Industrie. II Pecchio
studi6 il fenomeno in un suo saggio, Uanno mille ottocento ventisei del-
VInghilterra (vedi la bibliografia). 6. Le scuole. . .insegnamento: si al
lude alle scuole lancasteriane, cosi dette da Joseph Lancaster (1778-1838),
pedagogista inglese, che istitul la prima nel 1798. In esse gli alunni mi-
gliori facevano da guide e maestri ai piu tardi. II Pecchio, come il Confa-
lonieri, si interess6 in Milano alia creazione di due di queste scuole, che
poi FAustria ebbe in sospetto e soppresse (vedi R. CICCHITTI, Federico Con-
falonieri e la Societdfondatrice delle scuole gratuite di mutuo insegnamento in
Milano ecc., in «La rassegna nazionale», CLXVII, 16 maggio e i° giugno
1909). 7. dissidenti: non seguaci della Chiesa anglicana.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 71
i rudiment! della grammatica latina, e il canto pel servizio della
chiesa. 6 no to che da queste scuole scozzesi uscirono molti poeti,
fra i quali James Beattie1 povero fittaiuolo, autore del poema il
Minstrel, e Burns2 pur esso nato misero fittaiuolo che divenne Pim-
pareggiabile Teocrito de' secoli moderni. Per questa classe di let-
tori si pubblicano espressamente dei giornali della domenica, i
quali contengono in nassunto tutte le notizie e gli aneddoti an-
nunziati dagli altri giornali nel corso della settimana. Cosi il ferraio
e il tessitore sono al fatto delle vicende del mondo al pari dei piu
eminenti oratori del parlamento. Non e cio una cosa di picciol mo-
mento. £ in queste taverne, e tra il fumo della pippa e la schiuma
della birra che nasce e si forma il primo stato delPopinion pubblica.
fe qui che si pesa la condotta d'ogni cittadino; e questa la via che
mena al Campidoglio, o al Tarpeo ;3 che si prende amore alia patria,
alia gloria; che si conoscono i servigi resi al pubblico dai zelanti
cittadini; che nasce la lode o il biasimo; il trionfo di Burdett4
quando usci dalla Torre di Londra, o le maledizioni su Castelreagh5
quando discese nella tomba; la censura o Papprovazione di una
legge ; che si preparano le ricompense o le reprovazioni pel tempo
delle elezioni. La taverna e il Foro degPInglesi, colla differenza
che qui non vi sono risse ne contese. Sia il clima, sia Peducazione,
sia il temperamento, sia qualsivoglia la ragione, certo e che in que
ste taverne regna piu quiete, silenzio e decenza che nelle nostre
chiese. E questi uomini di stato dopo essere ricolmi di liquori e di
birra invece di cercar brighe, cadono assopiti sul pavimento « come
corpo morto cade».6
NelPestate John Bull ama nel dopo pranzo ricrearsi la vista col-
Paspetto della campagna e del verde. Questo popolo ha un'afezione
particolare per gli alberi e pe' fiori. Non v'e tugurio in Inghilterra
i. James Beattie (1735-1803), scozzese, poeta e cultore di studi filosofici.
II suo poema The Minstrel (1771-1774) gli diede molta fama tra i roman-
tici. 2. Robert Burns (1759-1796), poeta scozzese. Ammiratissirni i suoi
poemetti, canzoni, ballate in dialetto scozzese : ebbe vivo sentimento della
natura. 3. la via . . . al Tarpeo : la via della gloria o dell'infamia. Dalla ru-
pe Tarpea si gettavano a Roma i traditori. 4. Sir Francis Burdett (i779~
1843), uomo politico, awersario del ministro Pitt (vedi la nota 5 a p. 84),
e difensore dei diritti del popolo. Fu arrestato due volte, nel 1810 e nel
1820. Sostenne tra i primi il sufTragio universale, ma con esclusione delle
donne. 5. Castelreagh: Robert Stewart Castlereagh (1769-1822), il famo-
so ministro inglese, amico e seguace di William Pitt, combatte la Francia
rivoluzionaria e Napoleone, ed ebbe parte notevole nella politica della re-
staurazione. Fu assai mal visto perche reazionario. 6. Dante, Inf., v, 142.
72 GIUSEPPE PECCHIO
che non abbia dinanzi un pezzetto di terra coltivato a fiori. II
milord ha ne' suoi parchi delle quercie di miiranni intatte dalla
scure, dei serbatoi a stufe ripieni di piante esotiche, di frutti squi-
siti, dei fiori i piu rari; e il povero artigiano lavora al suo telaio alia
vista di vaselli di fiori posti contro I'mvetriata della finestra (con
animo non meno ospitale dei milordi), acciocche anche il passeg-
giero goda di quella vista. L'amor de' fiori e un gran segnale di ci-
vilizzazione. Da tempo immemorabile esistono in tutta ITnghil-
terra dei sentieri per uso comune attraverso i campi dej privati.
Da alcuni anni in qua i proprietari, in ogni paese quasi sempre in-
saziabili, tentarono di chiudere questi passaggi, e privare il pub-
blico di questo sano ed innocente diporto. Che ne awenne? In
tutte le contee si e formata una societa in difesa dei diritti e della
ricreazione del popolo. Cio indica abbastanza quanto questo po-
polo abbia a cuore i suoi diritti, e quanto ami altresi le passeggiate
campestri.
Nelle vicinanze di Londra adunque vi sono dei giardini con
grandi alberi ombreggianti, chiamati Tea-gardens, dove gli operai
colle loro famiglie vanno a prendere il te nel dopo pranzo, o a tra-
cannare la nut-brown ale, la birra del color della noce bruna. Uno
de' piu belli e quello di Cumberland Garden vicino a Waxhall
lungo il Tamigi. II giardino e sparso di tavolini tersissimi, intorno
ai quali vari gruppi di quattro o sei operai, stanno fumando in
lunghe e bianchissime pippe di terraglia che 1'oste fornisce colme
di tabacco per un soldo, riposando, e gettando fuori col fumo di
quando in quando qualche tronca frase, appunto come leggiamo
nel Tristram Sandi1 che facevano il caporale Trim e il capitano.
Chi non ha provato quanto sia dolce il riposo dopo una fatica di
cinque o sei giorni non pu6 comprendere che tali uomini poco
parlanti, e meno moventisi, sieno in quella loro forma di statue
felicissimi. Non si ode un istrumento, non si ode una sol nota mu-
sicale; altro non si sente che un bisbilio di gente che parla sotto
voce; i battelli pieni di gente vanno e vengono intanto pel Tamigi.
Sui nostri laghi si sogliono udire stromenti, cori, canzoni villerec-
cie. In ci6 non ha colpa ITnglese che ama appassionatamente la
i. Tristram Sandi: Popera principale di Laurence Sterne (1713-1768), il
cui titolo esatto e The Life and Opinions of Tristram Shandy. L'opera,
rimasta incompiuta, fu ammiratissima per il suo umorismo. Toby e lo zio
paterno del piccolo Tristram, ed e un ufficiale (il capitano) reso ormai in-
valido da una ferita; Trim e il suo fido cameriere, anch'egli invalido.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 73
musica e la poesia; ma gia si sa che la religione protestante non
ammette divertimenti nella domenica; la vuole consacrata alia
contemplazione, al raccoglimento, all'esame di se stesso, senza per6
proibire il conforto della bottiglia. In Iscozia dove domina la reli
gione del feroce Calvino la domenica e ancor phi taciturna e tetra.
II sorriso e quasi riputato una profanazione. In questo giorno di
assoluta inazione si permette a stento ai barbieri di esercitare il loro
mestiere sino alle nove ore del mattino. Credo per conseguenza che
nessuno si tagli le unghie in domenica. £ noto a tutti, che un severo
calvinista impicc6 il lunedl il suo gatto perche era stato a caccia
di topi la domenica. In molti luoghi il pedaggio delle barriere (per
le carrozze private) e doppio in questi giorni. Si parla molto sul
continente del bestemmiar degl'Inglesi, ossia del loro god . . . mf
ed io credo che un gondoliere di Venezia, o un vetturino bolognese
bestemmia piu che mille Inglesi. D'altronde ho visto appesa in
tutte le bettole la minaccia dei magistrati di condannare alPammen-
da colui che pronunzia una bestemmia.
Chi si e formato un'idea degl'Inglesi dal piu bel poema di Vol
taire,2 che non voglio nominare quantunque ognuno de' lettori
1'abbia letto, sarebbe meravigliato di vedere cangiate quelle guan-
cie fiorite, e quelle robuste atletiche forme in pallide faccie e me-
schine gambe che si vedono negli operai che popolano questi giar-
dini. La marra abbellisce una popolazione, e il telaio la guasta. Che
differenza infatti tra un montanaro scozzese (un Highlander) e un
tessitore di Glascow! II primo conserva ancora le ben tornite e
robuste forme descritte nei guerrieri di Ossian;3 le gambe somi-
glianti alle marmoree colonne del Lena,4 il petto alto ed ampio
a guisa di corazza, suite guance il color del vigore, in tutto il porta
mento il brio e la baldanza della salute, L'operaio invece e smunto,
i. Turpe bestemmia inglese. 2. piu . , . Voltaire: allude a La pucelle d* Or
leans (1755) di Voltaire. 3. Ossian: leggendario bardo ed eroe gaelico
vissuto presumibilmente nel III secolo d. C. A lui vennero attribuiti i
canti a carattere epico noti col nome di «ciclo di Ossian » e difrusi dai
bardi gaelici d'Irlanda e di Scozia. II poeta scozzese James Macpherson
(1736-1796) ne pubblic6, sulla base di manoscritti dal XII alXVI secolo,
delle sedicenti traduzioni (Fragments of Ancient Poetry, ij6o;Fingal, 1761 ;
Temora, 1763) che risultarono poi essere libere versioni, con parti di sua
invenzione. 4. marmoree . . . Lena : quasi certamente si tratta delle famose
colonne, dette stolbi, del fiume Lena: colossali pilastri calcarei, alti piu di
seicento metri.
74 GIUSEPPE PECCHIO
invecchiato prima del tempo, malfatto nella persona, e mal reggen-
tesi. Che disparita tra un cocchiere inglese e un filatore di Man
chester! II primo e il vero ritratto d'un turgido Bacco, il secondo
di un prigioniero in vita. II deterioramento della popolazione e uno
svantaggio degli stati manifattori che non si e per anco considerate
abbastanza. Andai in traccia di statistiche delle classi manifattrici
onde conoscere le loro diverse longevita, e malattie, ma non mi
venne fatto di ritrovarne, e credo che non se ne sieno ancora fatte,
e difficile sia il fame, attesa la continua traslocazione da un luogo
airaltro degli operai. Alcuni medici di Manchester hanno preteso
far credere che la longevita & maggiore in quelle citta dove le mani-
fatture sono aumentate. Peccato che Moliere non viva. Avrebbe
qui avuto un soggetto da farci ridere ancora a spese di alcuni empi-
rici.1 A questa loro asserzione non hanno punto prestato fede que'
filantropi, che persuasi pur troppo del danno che la vita sedentaria
e rinchiusa reca ai manifattori si studiarono di ripararvi. Alcuni
di questi, quali il sig. Brougham e il sig. Hume,2 hanno promosso
delle scuole di ginnastica, dove nelle ore di riposo gli operai pos-
sono addestrare le loro membra in piacevoli esercizi ; e il piu per-
severante di tutti, il sig. Owen,3 dopo avere introdotto nella sua
stupenda filatura di cotone in New Lenark tra Edimburgo e
Glascow persino la danza, ide6 un nuovo piano di lavoro alternato
di occupazioni agricole e manifattrici, e and6 in America a fame
Pesperimento. Le classi degli operai sono piu o meno brutte se
condo la qualita de' mestieri. La popolazione di Birmingham e di
Sheffield impiegata in gran parte nelle fucine e nelle manifatture di
metalli e molto piu appariscente e robusta di quella di Manchester
e di Glascow quasi tutta imprigionata ne' filatoi.
i. Peccato . . . empirici: e noto che Moliere satireggi6 i medici in varie sue
commedie. 2. Henry Brougham (1778-1868), membro della Camera dei
Comuni, capo dell'opposizione, awerso al ministro Castlereagh, e sosteni-
tore di riforme democratiche. In un discorso (3 febbraio 1824) denunci6
alia Camera dei Comuni 1'oppressione esercitata dagli Austriaci in Italia.
A lui e diretta la lettera, L' Austria in Italia, che il Pecchio pubblic6 a
Londra nel 1824 (vedi la bibliografia) ; Joseph Hume (1777-1815), 1'uomo
politico che sostenne alia Camera dei Comuni, per amore della liberta,
riforme democratiche e prowedimenti di legislazione sociale. 3. Ro
bert Owen (1771-1858), industriale, ptomotore di riforme sociali, fu tra i
primi teorici inglesi del socialismo. Nella sua fabbrica attu6 riduzioni di
orario, escluse i fanciulli dal lavoro, cre6 scuole laiche, casse-pensioni,
elargl sussidi ai disoccupati. Sogn6 e tent6 un socialismo associazionistico
di piccoli nuclei, e ne fece esperimento, ma senza frutto, anche in America.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 75
Facendo io in Liverpool alcune di queste osservazioni ad uno
dei tanti intelligent! e ben istrutti commercianti di quella citta,
mi rispose che nell'ultima guerra contro la Francia i reggimenti
reclutati fra gli operai di quella industriosissima contea si distinsero
fra gli altri per valore. Sara benissimo. Dacche piu non si guerreggia
all'arma bianca non vi e piu ragione di credere che gli artefici sieno
inetti soldati, come tali li reputavano i romani, o quali si mostraron
i fiorentini del Medio Evo. In Persia dove ancora il nerbo dell'ar-
mata consiste in cavalleria ch'esige forza e singolare destrezza, gli
abitanti delle citta manifattrici non riescono buoni soldati. Ma la
guerra dei nostri tempi si fa col valore e colla disciplina ; le armate
inglesi che sono in cio esemplari sono per un buon terzo composte
di operai.
La division del travaglio tanto utile alia rapidita e perfezione
delle manifatture, e tanto praticata in Inghilterra, nuoce alPintel-
ligenza ed allo sviluppo delle facolta mentali dell'artigiano ; anzi
le spegne. Di che idee volete che arricchisca la sua mente quella
spola, o quella ruota, quel fuso che gli passa dinanzi agli occhi
dodici ore per giorno? «I1 en resulte» dice il sig. Say1 «une de-
generescence dans 1'homme considere individuellement. C'est un
triste temoignage a se rendre que de n' avoir jamais fait que la dix-
huitieme partie d'une epingle». Se Toperaio non avesse rincalco-
labile vantaggio della societa de' suoi compagni che nelle ore di
riposo lo sveglia, lo anima, lo elettrizza insieme coi variati oggetti
che presenta sempre il soggiorno d'una citta, diverrebbe in capo ad
alcuni anni un vero automa. Infatti invece di dire che un fabbri-
cante impiega un tal numero di operai, comunemente si dice che
impiega un tal numero di hands, cioe, di mani, quasi gli operai
non avessero la testa. I Brougham, gli Hume, i Burdett, gli Allen,2
infine i protettori e protetti da queste classi ben conobbero questo
inconveniente, e col loro infaticabile zelo si diedero a cercarne
i rimedii. Immaginarono adunque delle biblioteche pei manifat-
tori da stabilirsi in ogni citta. Esse non sono aperte che due ore nel-
la sera; contengono storie, viaggi, disegni di macchine. La sotto-
i. Jean Baptiste £#3; (1767-1832), economista francese, malvisto da Na-
poleone per il suo liberalismo. Dopo il 1814 visse alcun tempo in Inghil
terra per studiarne le condizioni economiche. II passo citato e nel Traite
d'economie politique (1814), libro I, cap. vm (nella traduzione italiana, To
rino, Pomba, 1854, P- 67). 2. II filantropo quacchero William Allen (1770-
1843).
76 GIUSEPPE PECCHIO
scrizione per un trimestre non costa che diciotto soldi inglesi. Non
paghi di questo, istituirono nelle citta piu popolose delle cattedre
di chimica applicata alle arti, e di meccanica. In Londra piu di
mille e cinquecento operai contribuiscono una ghinea all'anno per
assistervi. Un calzolaio quest'anno riporto il premio di dieci ghinee
per uno scritto di geometria. Alcuni mesi sono si e formata una
societa per la diffusione dei lumi utili, che va pubblicando e distri-
buendo ogni mese un gran numero di opuscoli elementari su tutti
i rami del grand'albero del sapere umano. I giornali della domenica,
e le frequenti pubbliche assemblee a cui concorrono gli operai, e
dove le persone piu eloquent! istruiscono la multitudine negli af-
fari pubblici, sono un alimento ed uno stimolo alle menti loro. II
sig. Hume nella seduta del 13 dicembre 1826 rappresento che la
tassa del bollo sui giornali era troppo grave in Inghilterra. Negli
Stati Uniti, la cui popolazione eccede di poco la meta di quella
della Gran Brettagna, vi sono 590 giornali, mentre nella Gran
Brettagna non ve ne sono pel peso delle tasse che 484. Annunzi6 che
proporrebbe una riduzione almeno pei giornali settimanali destinati
per gli artigiani. II sig. Brougham, che ambisce di erigere al suo
nome un monumento nell'istruzione popolare da lui meravigliosa-
mente incoraggiata colla sua solita eloquenza, secondo la proposta.
Possa ella essere appro vata! 6 incalcolabile (lo ripeter6 un milion
di volte) P influenza che devono esercitare i giornali negli stati dove
hawi liberta di stampa. Oserei dire che ne debbono esercitare piu
della religione. L'opinione pubblica scaturisce da queste fonti. Essa
sola basta a correggere tutti gli errori d'una legislazione, e tutti gli
abusi del potere. £ una vera panacea. I giornali sono il pane quoti-
diano della mattina e della sera per ogni Inglese. II pubblico n'e
cosl famelico che il « Times » non contento di stampare a vapore
mille e cento copie aH'ora, perfezion6 la macchina a segno che in
oggi stampa quattro mila copie all'ora, cioe settanta copie al mi-
nuto, pero da una sola parte.
Ortes,1 il nostro economista troppo lodato e troppo censurato,
pretende che il commercio non arricchisca che le classi superiori,
ammassando in pochi i guadagni, e lasciando la massa de' lavoranti
i. Giammaria Ortes (1713-1790), economista veneziano, fu accusato di
errori di metodo e di restare incerto fra vecchie e nuove posizioni dottri-
nali. II Pecchio scrisse di lui nella sua Storia delV economic pubblica in
Italia (vedi la bibliografia).
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 77
sempre nella stessa miseria. I Tea-gardens, che sto descrivendo,
sono di cio una piena confutazione. Chi li visita osserva con istupore
tutti questi artigiani bene sbarbati, vestiti di buon panno, calzati
in stivali, con camiscia di bucato, con oriuolo in tasca, con fazzo-
letti di seta al collo, alloggiando in polite case, dormendo in nitidi
letti, prendendo te due volte al giorno, mangiando sempre pan
bianco e scelta carne ogni di delPanno. Erano essi nelPeguale con-
dizione quando il commercio delPInghilterra non era ne cosi flo-
rido, ne cosi esteso ? Gli anziani del paese, le memorie, le case su-
perstiti, molti testimoni irrefragabili vi sono, che case, letti, mobili,
vestito, nutrimento, tutto era di gran lunga inferiore. La ragione
di questa differenza e evidente. Quando il commercio e in uno
stato progressivo, la domanda di merci sempre maggiore e favo-
revole agli operai; essi possono sostenere la loro man d'opera. Egli
e oramai una verita dimostrata che lo stipendio degli operai non e
solo in ragion del prezzo della sussistenza, ma anche del rapporto
tra la domanda e Pofferta del lavoro. Oltre di cio, la division del
lavoro, e le macchine avendo abbassato il prezzo di molti oggetti
consumati un tempo soltanto dalle classi agiate, questi divengono
di un consume generale. II vestiario attuale di un operaio, sebbene
migliore di quello che usava di portare 60 anni fa, forse non costa
in oggi altrettanto valore intrinseco.
£ per6 vero che gia a quest'ora Pintroduzione delle macchine a
vapore ha tolto ad alcune classi d'operai il vantaggio nella concor-
renza, e gli ha respinti nello scarso necessario di molti anni addietro.
Queste macchine facendo il lavoro di phi milioni d'operai, sono
altrettanti giganti rivali degli uomini. Infatti mentre le altre classi
di artigiani, come fabbri, falegnami, tintori, vetrai, ec. ec. gua-
dagnano dai trenta sino ai sessanta e piu scellini la settimana, i fila-
tori e tessitori lavorando 12 ore al giorno appena possono guada-
gnarne dai 15 ai 18 nei tempi di commercio attivo. Essi non sono
solamente inferiori nel fisico agli altri operai, ma sono esseri infelici.
In un'adunanza tenuta nel gennaio del 1825 in Manchester dai
filatori di cotone onde deliberare sui mezzi di raddolcire la loro
sorte, uno di loro si alzo a dire che nei primi tempi dei filatoi di
cotone, i lavoranti godevano di un maggior agio e d'una maggior
liberta, ma che in questi ultimi quindici anni i padroni per Pintro
duzione delle macchine a vapore avevano ammassate ricchezze, ac-
cresciuti i loro agi, mentre i lavoranti gradatamente erano discesi
78 GIUSEPPE PECCHIO
nella ruota dej viventi,1 il loro salario diminuito, il lavoro accre-
sciuto. Poscia dopo avere descritta la sciagurata vita che menano
in una calda soffocante atmosfera, e le varie malattie a cui sono
soggetti esclam6: — Guardate intorno e mirate questi squallidi
volti, e questi scheletri di corpo. Guardate me stesso che ho appena
venticinque anni, e sono gia piii vecchio di questi che mi sta qui a
lato, il quale e un marinaio di cinquant'anni. Vedete a che triste
condizione siamo condannati. DalPeta di sei anni la maggior parte
di noi e sepolta nel polverio del cotone in una soffocante malsana
atmosfera; sofferenti per gli estremi del caldo e del freddo, privati
del sonno per le addolorate nostre membra oppresse da estrema
fatica; ed a 35 anni di eta noi tocchiamo gia una misera vecchiaia.
I nostri figli appena possono crescere, e la nostra indipendenza
sostenuta da un'onesta industria si riduce in alcuni a chiedere la
limosina sull'angolo della contrada col cappello in mano al piu
meschino de' passeggieri!
Questo lamento (in cui v'e molta esagerazione, come ve n'ha
sempre nelle arringhe dei capi-popolo antichi e moderni) di operai
morenti di fame in mezzo a una nazione rigurgitante di oro, mi
fece risowenire quello dei nudi romani che per bocca di Gracco
si querelavano di non avere, dopo tante provincie conquistate alia
repubblica, un palmo di terra ove seppellire le loro ossa.2
E voi, romani,
voi che carchi di ferro a dura morte
per la patria la vita ognor ponete;
voi, signori del mondo, altro nel mondo
non possedete (perche tor non puossi)
che Varia e il raggio della luce. Erranti
per le campagne e di fame cadenti,
pietosa e mesta compagnia vi fanno
le squallide consorti e i nudi figli
che domandano pane.
MONTI, Caio Gracco, atto in.3
i. nella ruota de* viventi: nella graduatoria sociale. 2. quello . . . ossa: aTi-
berio Gracco, e non Caio, come parrebbe dalla successiva citazione, sono
attribuiti da Plutarco (Tib. Gr., 2) questi lamenti, che il tribuno avrebbe
pronunziato in un'orazione in difesa della legge agraria da lui proposta
nel 133 a. C. 3. atto HI: e precisamente i w. 428-37.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 79
Pare die gPimperii sieno come gli uomini die si somigliano nelle
virtu e ne' difetti.
Alcuni economist! inglesi piu curanti della ricchezza che della
vera felicita osservano a proposito di queste lagnanze, che se e vero
che questa parte di popolazione non vive in una felice condizione,
e altresi vero che senza le macchine a vapore non esisterebbe nep-
pure. Certo e che Arkwright1 coll'mvenzione delle macchine per la
filatura del cotone nel 1765, e Watt2 colPapplicazione del vapore
alle macchine nel 1779 hanno dato alia loro patria una superiorita
sopra Pindustria delle altre nazioni, quantunque allo stesso tempo
abbiano deteriorate la sorte di forse un milione d'operai e dato
causa a una produzione molte volte eccedente la domanda. Senza
queste due meravigliose scoperte, forse PInghilterra avrebbe per-
duto la superiorita ne' mercati esteri a motivo delle alte mercedi,
effetto in parte delPalto prezzo del vitto.
Se poi alcuni lavoranti, come gia dissi, deteriorano la loro salute
ne' filatoi, alcuni altri si struggono per soverchia brama di gua-
dagno che gli spinge a lavorare piu che la loro salute comporterebbe.
Smith nella sua grand'opera osservo, che dove le mercedi sono
alte, si trovano sempre gli operai piu attivi, diligenti e destri, che
dove sono basse; in Inghilterra, per esempio, piu che in Iscozia;
nella vicinanza delle grandi citta piu che in remote parti della cam-
pagna.3 Alcuni operai, per verita, quando possono guadagnare in
quattro giorni abbastanza da mantenersi per tutta la settimana,
amano di rimanere oziosi per gli altri tre. Nondimeno cio non av-
viene presso il maggior numero. Per lo contrario, gli artigiani
quando sono liberalmente pagati a fattura,4 sono disposti per lo
piu a lavorare eccessivamente, e a rovinar la loro salute e costitu-
zione in pochi anni. Un falegname in Londra (dice Smith) e in
alcuni altri luoghi, si calcola che non continui nel suo massimo vi-
i. Richard Arkwright (1732-1792), industriale e inventore inglese, bre-
vett6 nel luglio del 1769 la sua prima macchina per filare il cotone, sebbene
gia Tavesse in uso dall'anno precedente, in una fabbrica da lui impiantata.
Ma il suo brevetto piu importante, dati i perfezionamenti introdotti nella
macchina, e del 16 dicembre 1775. 2. James Watt (1736-1819), ingegnere
scozzese, noto inventore della macchina a vapore. 3. Smith . . . campagna:
Adam Smith (1723-1790), economista scozzese, autore dell3 Inquiry into the
Nature and Causes of the Wealth of Nations (1776). II passo citato dal
Pecchio e nel libro I, cap. vni (nella traduzione italiana, Torino, Pomba,
1851, pp. 51-2). 4. a fattura: secondo la quantita di lavoro compiuto.
8o GIUSEPPE PECCHIO
gore piu di otto anni. A un dipresso succede in alcune altre pro-
fessioni in cui gli operai sono pagati a fattura, ed anche nei lavori
di campagna ogni ora che lo stipendio sia piu alto del solito.1 Ho
cercato di leggere, ma non 1'ho trovato, il libro che il medico ita-
liano Ramuzzini espressamente scrisse nel secolo scorso sopra le
particolari malattie cagionate dall'eccessiva applicazione in una
particolare specie di lavoro.2
PARTITO DELL'OPPOSIZIONE NELLA CAMERA
DE» COMUNI3
Fra la Camera de' Comuni in Inghilterra, e quella delle altre rap-
presentanze nazionali di Europa che mi accadde di vedere, passa
quella differenza che vi e tra la casa di un nuovo ricco (d'un par
venu), e quella di un antico signore. Nella prima tutto e nuovo,
lucente, di buon gusto, d'ultima moda. Nell'altra ogni cosa e an-
tica, ma solida, massiccia, immedesimata colle pareti e col secolo
in cui fu eretta. Nella prima traspare sempre 1'ostentazione di una
cosa nuova, nella seconda scorgesi la negligenza della ricchezza,
1'abitudine del possesso. La Camera de' Deputati di Parigi, le
Cortes di Spagna, quelle di Lisbona erano nuove al pari dell'isti-
tuzione stessa. La Camera de' Comuni d' Inghilterra e vecchia co
me la liberta che vi abita. Felice quel paese dove la liberta puo
vantare i secoli de' suoi avi, ed abita da secoli e secoli in gotici edi-
ficii. Fosse pur la Camera de' Comuni cosl antica come i druidi,
quand'anche i membri del parlamento dovessero abitare nel tronco
delle quercie come quegli antichi sacerdoti. Chi entra nella sala del
parlamento inglese coll'idea di vedere un teatro di Milano o di
Napoli, rimane deluso nella sua aspettazione. Non vi e coro o re-
fettorio di frati francescani che non sia tanto e forse piu elegante e
maestoso di questa sala. Ma se vi entra al contrario coll'idea che va
i. Un falegname . . . solito: vedi A. SMITH, op. cit., p. 56. 2. il libro . . .
lavoro: sebbene il nome sia lievemente alterato, si allude certo a Ber
nardo Ramazzini da Carpi (1633-1714) e alia sua opera De morbis arti-
ficum (Modena 1701), ricordata dallo Smith nel passo citato alia nota i, e
nella quale sono studiate per la prima volta le malattie professionali e le
esigenze igieniche del lavoro. 3. Questo brano corrisponde alle pp. 88-
101 dell'edizione da noi seguita.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 8l
a visitare uno de' tempii piii antichi della liberta, mirera ogni cosa
con quella venerazione che si osservano le tozze colonne del tempio
di Peste,1 o le catacombe di Roma.
La moda, il lusso, i piaceri, il bello di convenzione* sono potenti
anche in Inghilterra, ma non trionfanti; la ricercatezza non ha per
anco guasta la naturalezza ch'e il gusto dominante della nazione.
L'abito, lo stile, i complimenti, i saluti, le chiuse delle lettere, tutto
sente la semplicita. GPInglesi sono forse i migliori cavalcatori del
mondo, cioe i piu fermi in sella, e non ne fanno vista;3 sono i piu
svelti di tutti nella ginnastica, quasi tutti sono capaci, al pari de'
loro cavalli, di saltar barriera, e siepi e fossi, nondimeno quando
ballano appena alzano i piedi da terra. Sono forse, ed anche senza
forse,4 i primi oratori del mondo all'improvviso, e nessuno studio
pongono sia ne' gesti, sia nella declamazione. Tutti sappiamo che i
romani studiavano la declamazione, come noi studiamo la musica,
e che Caio Gracco teneva dietro di se un suonatore di flauto che
lo awertiva di modulare la voce a seconda del bisogno.5 I nostri
attori vanno spesso a studiare nelle statue degli antichi oratori le
attitudini e il panneggiamento. Cesare cadendo trafitto non si di-
mentico la nobilta della positura. Quantunque gli Spagnuoli non
fossero abituati alle pubbliche arringhe, bello era il vedere Telo-
quente Martinez de la Rosa6 nobilmente gestire, e muovere i suoi
grandi occhi neri, e 1'udirlo cambiar con arte di tuono nella sua
robusta sonorissima voce. Galiano7 poi, altro degli eloquenti mem-
i. Peste'. Pesto. 2. il bello di convenzione: cio che si considera bello in una
data epoca, per diffuse consenso. 3. vista: mostra, ostentazione. 4. «In
febbraio del 1828 il sig. Brougham pronunzi6 nel parlamento un discorso,
sulle riforme della legislazion civile da farsi in Inghilterra, che dur6 sei
ore e quattro minuti. Pongasi mente che si calcolano quattro colonne di un
giornale inglese per ora. Non v'e esempio ne presso gli antichi ne presso i
moderni d'un discorso estemporaneo di tale durata in genere deliberative »
(nota del Pecchio). Vedi la nota 2 a p. 74. 5. Caio Gracco . . . bisogno: e
notizia tramandata da vari scrittori antichi. Vedi Plutarco, C. Gr.} 22; Ci
cerone, De orat.j in, 225; Quintiliano, Inst. orat., I, 10, 27. 6. Francisco
Martinez de la Rosa (1787-1862), uomo politico, poeta lirico e drammatur-
go spagnolo. Uomo di idee liberali, come si oppose all'invasione napo-
leonica, cosi fu awerso aH'assolutismo di Ferdinando VII. Dopo 1'insur-
rezione del 1820, fece parte delle Cortes ; restaurato Ferdinando VII dalle
baionette francesi, il Martinez fu esule in Francia, dal 1823 al 1831. Del
Martinez il Pecchio traccio un ritratto nel volume Sei mesi in Ispagna nel
1821 (vedi labibliografia). 7. Antonio Alcala Galiano (1789-1865), orato-
re, scrittore, liberale spagnolo. Awerso al dispotismo di Ferdinando VII,
82 GIUSEPPE PECCHIO
bri delle Cortes, si atteggiava cosi teatricalmente,1 che i suoi nemici
dicevano che provava le sue arringhe in prima allo specchio. E
perche no ? Cicerone prendeva lezione da Roscio,2 e Roscio pren-
deva lezione dal suo specchio (o equivalente di specchio) come
fanno tutti i buoni attori. - Nulla di quest'eleganza, o di quest'af-
fettazione, come piu piace chiamarla, negl'Inglesi. Vestiti come
il caso lo porta, s'alzano, gestiscono come un molino a vento, o
non gestiscono punto, quasi fantasma, e per piu ore non cambiano
modulazione di voce piu di quel che faccia la piva scozzese. II
ministro Canning3 nel calore dell'arringa soleva battere colla destra
su una cassetta di legno che gli stava dinanzi come un fabbro fer-
raio farebbe alzando e abbassando il martello. II suo emulo Brou
gham alto, sottile, convulso nei muscoli del suo volto incrocicchia
parlando e gambe e braccia, non punto dissimile dai nostri disossati
burattini. Neppure i loro attori, per esempio il loro prototipo Kean,4
non impiegano quelle architettate attitudini che usano gli attori
delle altre nazioni; il loro artificio consiste non gia nel seguire i
dettami dell'arte, ma quelli della natura. Tuttavia confesso che i
membri del parlamento dovrebbero qualche volta abbellir la na
tura.
£ noto che nel parlamento inglese 1'oratore non legge mai, ma
improwisa. Tutto cosi e spontaneo, tutto ritrae Tuomo, tutto ap-
partiene all'oratore. Ma ci6 che forse a tutti non e noto si e, che gli
oratori non hanno la ridicola ripugnanza di ritrattare ci6 che loro
malgrado 6 sfuggito nella furia del discorso. Non e una vergogna
per un inglese il disdire un'ingiuria che non ebbe Tintenzione di
dire. £ un atto di giustizia che lo onora in faccia agli amici ed ai
nemici. L'inglese non riguarda il duello che come Tultimo e dispe-
rato rimedio deH'inesorabile onore. Nella famosa seduta del par
lamento del 12 dicembre 1826 intorno alia guerra tra il Portogallo
membro delle Cortes ristabilite dopo i moti del 1820, si rifugid poi (1823)
in Inghilterra. II Pecchio ne parla piu difTusamente a pp. 96-7. i. tea
tricalmente : teatralmente. II Pecchio usa una forma di derivazione inglese
(theatrical) aggiungendovi il suffisso degli awerbi italiani. Tracce inglesi,
e pru francesi, sono frequenti nel suo linguaggio. 2. Quinto Roscio di
Lanuvio, celebrate attore, fu amico e maestro di Cicerone. 3. George
Canning (1770-1827), uomo politico inglese, seguace di William Pitt e
ministro degli esteri nel 1822, fu tra i principali sostenitori del «non
intervento» in Spagna, favorl i Greci insorti contro il dominio turco.
4. Edmund Kean (1787-1833), forse il maggior interprete shakespeariano
deU'eta sua.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 83
e la Spagna,1 Canning si era lasciato trasportare dal torrente della
propria facondia oltre certi confini; pochi giorni dopo voile egli
stesso correggere la pubblicazione del suo discorso, ed omette-
re cio che a sangue freddo non avrebbe per awentura proferito.
Questa ritrattazione mi sorprese tanto da prima, che mi lasciai sfug-
gire dinanzi ad un signore inglese, che io credeva che solo i filosofi
e gli ubbriachi si ritrattassero. Quel signore colPimperturbabilita
nazionale rispose : — Dovete agghmgere anche i membri del parla-
mento. — Questi pentimenti sono giusti, perche rimprowisatore
& in uno stato di eccitamento e di passione che lo trasportano spesso
fuori di se.
Chi la prima volta arriva in Inghilterra e va alle sedute del Parla-
mento arrischia di farsi un'idea poco giusta del partito delPoppo-
sizione, come a me pure accadde. Tutte le circostanze apparent!
cospirano ad indurlo in errore. Primieramente vede 100 o 120
membri delPopposizione contro 400 o 450. Pare adunque che vi sia
una barriera aritmetica insuperabile. Si ode un bel discorso, ma
nulla ottiene se non i sarcasmi del partito contrario. Deboli e
sempre sopraffatti dal numero contrario, sono anche i membri del
Popposizione condannati a servire la nazione senza pubblici onori,
e senz'autorita. II coro che li deride & quello poi che sempre fa plau-
so ai ministri. £ dunque un martirio inutile, volontario e pazzo,
come quelli che s'infliggono i Bonzi.2 A che siede il partito delPop-
posizione, pel piacere di dire di no? £ una cattedra d'eloquenza
tutt'al piu. Ecco cio che ciascuno dice a se stesso al primo vedere il
partito delPopposizione. Ma ben presto cangia opinione, se studia
piu profondamente Porganizzazione sociale delPInghilterra, e s'in-
terna nella storia del Parlamento. Primieramente egli si accorge
che se Popposizione non vince, impedisce almeno al nemico (qua-
lunque egli sia, liberate o no) Pabuso della vittoria, o un'ingiusta
conquista. 6 simile alle dighe di un flume, le quali non possono
arrestare la corrente, ma la frenano, e la costringono a seguire il suo
letto. II vantaggio delPopposizione non consiste tanto nel bene
i. Nella famosa . . . Spagna: si allude alia decisione presa allora dalP In
ghilterra di intervenire militarmente in Portogallo a favore della Reggenza
di Lisbona, affidata al principe Michele dal fratello don Pietro a nome della
propria figlia Maria: situazione, questa, malvista dalla Spagna e dai porto-
ghesi che vi si erano rifugiati. 2. un martirio . . . Bonzi: allusione ai sup-
plizi che si infliggevano i bonzi sino-giapponesi ad espiazione dei peccati
altrui.
84 GIUSEPPE PECCHIO
reale che fa, quanto nel male che risparmia. Ella tiene desto il
patriottismo, 1'attenzione, la diffidenza del popolo. Ella propaga il
piii sovente le rette opinioni; ella e il protettor nato dell'offeso e
delPoppresso ; essa precorre a tutti i miglioramenti, a tutte le li-
berali istituzioni. Supponete che per accidente Popposizione sia
composta di persone ligie al potere assoluto; per acquistar uditori,
per avere il sostegno della moltitudine saranno obbligate a masche-
rarsi, ad assumere il linguaggio della giustizia e della liberta. Simili
a quegli orgogliosi e tirannici patrizii romani, come gli Appii, e gli
Opimii1 che per guadagnare i suffragi, e divenir Consoli si fram-
mischiavano e adulavano la plebe. Simili a Dionisio2 che quando
era sul trono calpestava, e dissanguava la plebe, e rovesciato dal
trono buffoneggiava col popolaccio, e si ubbriacava con lui alia
taverna. - Ma Pazione della minorita non e immediata. Non si
forma, non si propaga, non si rende popolare un'opinione in pochi
mesi, ne talvolta in pochi anni. L'abolizione del traffico degli schiavi
cost6 venti anni di fatiche, di perseveranza al sig. Wilberforce.3
Ogni anno respinto, ogni anno tornava airassalto; stampando opu-
scoli, convocando assemblee provincial! di filantropi, raccogliendo
notizie, documenti sulle barbare sevizie usate a bordo dei vascelli
trafficanti, scaldando cosi Timmaginazione e il cuore de' suoi con-
cittadini, irruppe alia fine colla folia nel tempio della giustizia e
trionfo. L'Irlanda non poteva un tempo fare il commercio diretto
colle colonie inglesi. Quanti e quanti inutili attacchi ebbero luogo
prima che Grattan nel 1779 facesse abolire questa ingiusta esclu-
sione?4 La liberta del commercio che dal ministero si comincia
in oggi a seguire, quante volte fu invano da Adam Smith in poi
patrocinata dalPopposizione ? Cosi la riforma parlamentaria, pro-
posta in prima da Pitt5 fin dai primi anni della sua camera politica
i. gli Appii, e gli Opimii: si allude ad Appio Claudo il decemviro (451-
450 a. C.) e al console L/ucio Opimio, awersario di Caio Gracco e colpevole
della sua morte (121 a. C.). 2- Dionisio il giovane, tiranno di Siracusa.
Vedi Plutarco, TimoL, i, 4-5; 14, i sgg. 3. William Wilberforce (1759-
I§33)> uomo politico inglese. Dal 1787 dedic6 la sua vita a ottenere Faboli-
zione della schiavitu, e ne vide finalmente approvata la legge nel 1807.
4. Henry Grattan (1746-1820), uomo di Stato irlandese, Iott6 a lungo
per ottenere alia sua patria una autonomia di azione di fronte all'Inghil-
terra: ma nel 1800, nonostante la sua opposizione, fu decretata 1'unione
fra le due terre. 5. William Pitt il giovane (1759-1805), uomo politico
e oratore, domin6 a lungo in Inghilterra. Primo ministro subito dopo la
pace con gli Stati Uniti ormai indipendenti (3 settembre 1783), man-
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 85
quando trovavasi tra le fila delPopposizione, comincia a far pro-
seliti nel parlamento dopo averli fatti fuori. Cosi I'emancipazione
de' cattolici e forse sul punto d'essere concessa in capo a tanti in-
fruttuosi tentativi.1 Cosi 1'abolizione della schiavitu nelle colonie
e un'altra palma non lontana che Popposizione fra non molto co-
gliera.2 Sotto questo aspetto Popposizione inglese (pongasi ben
mente a cio) e un esempio a tutti i popoli, a tutte le sette, a tutti i
partiti, a tutti i filosofi, a tutti gli scrittori, che senza costanza v'han-
no pochi felici successi:
La constancia Ella sola es el escudo
donde el cuchillo agudo
la Adversidad embota.
Ella sola convierte
en deleito el dolor, ruina en gloria.
Ella fija el dudoso torbellino
de la fortuna y manda la vitoria.
«La Costanza, Ella sola e lo scudo contro cui il pugnale acuto
delPAwersita si spunta; Essa converte in diletto il dolore, e la
ruina in gloria. Essa arresta Pincerto vortice della fortuna e da la
vittoria» (Ode sulla battaglia di Trafalgar di QuiNTANA3 poeta spa-
gnolo).
Quando un principio, una causa e giusta, non bisogna mai di-
sperare per quanto replicati sieno i rovesci. Sotto i colpi della Co-
stanza cadde PAristotelismo degli Scolastici, cadde la Tortura,
cadde 1'Inquisizione ec., e sotto gli stessi colpi cadra il dispotismo
dappertutto, senza eccezione alcuna. Non e neppur vero che Pop-
posizione rimanga sempre senza premio. GPIrlandesi fecero al loro
compatriotta Grattan un presente di 50 mila lire sterline. Fox4 ebbe
tenne 1'alta carica fino alia morte, salvo un breve periodo, dal 1801 al
1804, in cui trionf6 una politica di pacificazione con Napoleone (pace
di Amiens, marzo 1802), cui egli era decisamente ostile. La riforma
parlamentare maturo lentamente e fu emanata solo nel 1832. i. « Con
cessa nel 1829, sotto il ministro Wellington » (nota del Pecchio). II me-
rito dell3 Emancipation Act votato nel 1829, per la rimozione delle in-
terdizioni contro i cattolici, fu opera in gran parte del ministro delTintemo,
Robert Peel (vedi la nota 2 a p. 87). 2. Vabolizione . . . coglierd: Paboli-
zione della schiavitd nelle colonie fu decretata daH'Inghilterra nel 1833.
3. Manuel Jose Quintana (1772-1857), poeta e ardente liberale madrileno,
volse la sua poesia a fini politici e patriottici, conobbe carcere ed esilio.
4. Charles James Fox (1749-1806), uomo politico, statista, oratore. Di
86 GIUSEPPE PECCHIO
statue, anniversarii, e un partito che celebra ogni anno con lieti
pranzi e brillanti discorsi il giorno della sua nascita. Quando il
general Wilson1 fu private del grado di generale dal governo, il suo
partito lo indennizzo con una pensione vitalizia in testa di suo
figlio. Sir Francis Burdett2 quando usci dalla torre, dopo sei mesi
di prigione, trovo preparato dal popolo un trionfo molto piu invi-
diabile di quello degli antichi romani. Quando il sig. Wilberforce
passa attraverso la folia, il primo giorno delPapertura del Parla-
mento, ognuno mira quest* omicciuolo, consunto dall'eta, e col
capo inclinato suH'omero, come una reliquia, come un Washington
deirUmanita. Ecco un premio degno di quest'uomo, e ben supe-
riore ai Tosoni d'oro,3 e a tutti i piu strani animali brillantati. Molte
volte poi (senza bisogno di disertare come fece Burke)4 gli eventi
portano al potere i membri dell'opposizione. Quando si dovette
fare la pace cogli Stati Uniti nel 1783, il ministero che aveva so-
stenuta e prolungata la guerra dovette cedere il luogo a quelli che
vi si erano sempremai opposti.5 Parimenti alia pace di Amiens col
Primo Console francese, Pitt, il fortunato e fecondissimo Pitt, do
vette cedere la sedia curule a' suoi oppositori.6 La resistenza del-
Popposizione non e utile soltanto alia nazione, ma al governo stesso.
sentimenti liberali, fu il grande avversario di Pitt: sostenne, tra 1'altro, la
necessita di concedere la liberta alle colonie americane insorte, e fu membro
del ministero che firm6 con esse la pace (settembre 1783). Guardd con sim-
patia alia Rivoluzione francese e, divenuto primo ministro alia morte di Pitt,
avvid segrete trattative con Napoleone, interrotte dalla sua fine immatura.
i. Sir Robert Thomas Wilson (1777-1849), militare e uomo politico ingle-
se, notissimo tanto per la sua attivita antinapoleonica quanto per il suo
appoggio al ministero Canning. II 14 agosto 1821, durante i funerali della
regina Carolina Amelia, moglie divorziata di Giorgio IV, egli comandava
la cavalleria: vi fu uno scontro sanguinoso fra la truppa e la folia, senza che
egli riuscisse a impedirlo. In conseguenza di questo episodio fu radiato
dall'esercito, e non vi fu riammesso fino al 1830. 2. Burdett: vedi la nota
4 a p. 71. 3. Tosoni d'oro: il Toson d'oro e la massima onorificenza spa-
gnola. 4. Edmund Burke (1728-1797) ebbe una notevole parte nella po-
litica inglese del suo tempo. Amico e guida di Fox, rappresent6 in In-
ghilterra rindirizzo liberale: fu tra i sostenitori della liberta deirAmerica.
Ma, scoppiata la Rivoluzione francese, le fu decisamente awerso, si stacc6
dai suoi compagni, ruppe col Fox (1791): parve allora che avesse disertato,
abbandonando i principi liberali. 5. Quando . . . opposti: caduto il mini
stero presieduto da Lord Shelburne (1782), sali al potere il gabinetto
North-Fox, liberale, che firmd la pace con gli Stati Uniti (3 settembre
1783). 6. alia pace . . . oppositori: la pace di Amiens avvenne nel marzo
1802, mentre era al governo Addington: ma il Pitt si era gia dimesso nel
1801.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 87
Senz'essaben presto ogni governo si corromperebbe, degenererebbe
in tirannia, e la sua esistenza sarebbe minacciata o da languore, o
da una violenta distruzione. Napoleone, quando tutte le volonta
piegavano dinanzi alia sua, per fare scaturire la verita era costretto
qualche volta nel suo consiglio di state a far egli la parte delPop-
posizione contro Pawiso de* suoi consiglieri. Veggasi la seduta del
1809 intorno alia liberta della stampa.1 Nel decembre 1826 quando
il sig. Brougham informo il ministero che disegnava di proporre
Pemenda della legge sui libelli, il giornale del ministero (in allora
nemico del proponente) se ne rallegro dicendo che tra le due opi-
nioni contrarie di due egregi uomini di stato, quali il sig. Brougham
e il ministro Peel,2 uscirebbe una terza che concilierebbe Pinteresse
della liberta della stampa con quello che ha la Giustizia di reprimere
gli abusi. Fin tanto che la nazione prospera coi principii del mi
nistero, Popposizione non fa che impedire gli errori e i traviamenti.
Quando poi sofTre e decade sotto un'amministrazione, la nazione
ritrova pronti altri principii, e il governo altri uomini e un altro
partito gia preparato e istrutto a guidare la nave dello stato in altra
direzione. Tutte le repubbliche antiche e moderne furono sempre
agitate quasi da due contrari yenti, dal partito aristocratico e de-
mocratico ; quantunque il potere ad ogni tratto passasse dalle mani
di una fazione in quelle di un' altra, per piu secoli andarono tutte
prosperando nelPoscillazione di questi cambiamenti. In un go
verno libero 1'urto di due partiti, e Papparente discordia non e
che una gara per render felice la patria. Filangieri dice che questa
emulazione non e in fondo che Pamor del potere,3 sia; ma siccome
questo potere non pu6 ottenersi ne conservarsi che promovendo il
bene generale, cosi non sara una generosa concessione il chiamarla
patriotismo. Queste due forze opposte che obbligano i govern! li-
beri a percorrere una linea intermedia, sono simili a quelle che re-
golano i corpi celesti. L'opposizione pare che produca gli stessi
i . Veggasi . . . stampa : non ci e stato possibile chiarire questo accenno del
Pecchio a una seduta del Consiglio di Stato francese nel 1809. 2. Sir
Robert Peel (1788-1850), uomo politico inglese, del partito tory, ma aperto
ad accogliere e proporre riforme liberali. La sua fama politica cominci6
dal 1 8 10, ma egli si afferm6 soprattutto nel periodo 1840-1850. 3. Fi
langieri ... potere: Gaetano Filangeri (1752-1788), rilluminista napo-
letano autore della Scienza della legislazione. II passo cui si allude e in
Delle leggi politiche ed economiche, cap. XV (dell'ed. Torino, Pomba, 1852,
p. 707).
GIUSEPPE PECCHIO
buoni effetti anche nel mondo morale. Nel modo che i governi
degenerano in tirannia, che sarebbero le scienze, le arti senza la
critica ch'e il loro partito d'opposizione ? Noi saremmo ancora
sotto il dispotismo dei commentator! di Aristotile, cogli atomi di
Epicure in fisica, coi cieli di cristallo di Tolomeo in astronomia. Se
i Winkelman, se i Mengs, se i Milizia1 non avessero frenato il cat-
tivo gusto, la pittura sarebbe divenuta una caricatura, 1'architet-
tura un complesso di arzigogoli. Senza i critici, primeggerebbero
ancora i Gongora in Spagna, i Mariveau in Francia, i Marini in
Italia;2 senza la frusta letteraria di Baretti forse 1'arcadia di Roma
sarebbe ancora stimata in oggi piii delFaccademia di Francia, e
gPItaliani sarebbero divenuti tanti pastori arcadi colla zampogna al
collo. Senza la lotta tra il dovere e i sacrifici vi sarebbe alcuna virtu
od eroismo nel mondo? Cos'e Tlnghilterra stessa riguardo alPEu-
ropa, se non il partito delPopposizione che si getta quasi sempre
dalla parte dell'oppresso e del debole per conservare Tequili-
brio?3
i. Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), il principe degli archeologi,
vissuto a lungo, dal 1755, a Roma, di cui illustr6 magistralmente i monu-
menti classici; Anton Raphael Mengs (1728-1779), boemo, pittore, visse a
lungo e mori a Roma. E considerate esponente della reazione al barocco e al
rococ6, in nome del neoclassicismo ; Francesco Milizia, scrittore d'arte,
nato a Oria (Otranto) nel 1725, morto a Roma nel 1798. Sostenitore del
neoclassicismo contro 1'arte del Sei e Settecento. Tra le sue opere ebbero
fama La vita dei piu celebri architetti (1768) e Princlpi di architettura civile
(1781). 2. Luis de Gongora y Argote (1561-1627), poeta spagnolo assai
noto, cui si attribuisce di aver fatto trionfare in Spagna quello stesso
preziosismo che in Italia e rappresentato dalla poesia di G. B. Marino-
Pierre Carlet de Marivaux (1688-1763), il prezioso autore della Vie de
Marianne e del Paysan parvenu. 3. per . . . V equilibria: il Pecchio, da
ecpnomista, scorge nell'atteggiamento inglese soprattutto un calcolo po
litico. r
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA
L'INGHILTERRA RIFUGIO DEGLI OPPRESSI1
In Londra, ed in quasi tutte le citta capitali delle contee, hawi una
societa che ha per iscopo di procurare un alloggio a chi e senza
tetto, agli houseless. Che meraviglia se Plnghilterra stessa e Pospizio
di tutti grinfelici ? Venezia ne' suoi gloriosi giorni era 1'asilo sacro
di tutti gli oppressi, dei re, degli antipapi, dei repubblicani, dei
papi, dei principi, degli esuli d'ogni sorta. L'Inghilterra che per
Tampiezza del commercio e il dominio de' mari e la Venezia dej
nostri tempi, esercita la stessa ospitalita con tutti. Sia per giustizia,
sia per politica, sia per sentimento di generosita e di potenza, ella
accoglie sotto la sua grand' egida il vinto, il naufrago, qualunque
egli sia. Non v'e quasi nazione in Europa che non le sia debitrice
delPospitalita accordata a un gran numero delle sue famiglie.
Quando il commercio decadde in Italia, e i principi usurpatori
perseguitavano i ricchi negozianti, molti di questi si rifugiarono in
Inghilterra, e nella citta di Londra hawi ancora la contrada perci6
detta dei Lombardi, dov'essi abitavano. Dopo la revoca dell'editto
di Nantes (piu fatale alia Francia che la battaglia di Blenheim)2
molte migliaia di Ugonotti francesi si rifugiarono in Inghilterra,
e vi portarono fra le altre manifatture appena in prima conosciute,
quella delle stoffe di seta.3 Chi non disdegna di studiare la storia
delle umane vicende nei quartieri del sucidume e della poverta
vada in Spitelfield, e trovera ancora fra le famiglie di que' tessitori
molti nomi francesi, ed una contrada ancora chiamata Fleurs de Lys
i. Questo brano corrisponde alle pp. 102-21 delPedizione da noi seguita.
Precedono il testo i seguenti versi, e la traduzione, di A Panegiric to my
Lord Protector (vv. 25-8) di Edmund Waller: « Whether this portion of
the world were rent / by the rude ocean by [rectius : from] the continent /
or thus created, it was sure design'd / to be the sacred refuge of mankind »
(« O stata sia questa parte del mondo dal furioso oceano svelta dal conti-
nente, o sia stata cosi creata, certo e che fu destinata ad essere il sacro
rifugio degli uomini»). Edmund Waller (1606-1687), g& fautore di Crom
well, in onor del quale scrisse nel 1655 il Panegiric, non esit6 peraltro nel
1660 ad acclamare in una sua poesia la restaurazione di Carlo II. 2. la
battaglia di Blenheim: e la battaglia, piu nota col nome di Hochstadt, in
cui i Francesi furono gravemente sconfitti durante la guerra di successione
spagnola. 3. Dopo . . . seta: Veditto di Nantes (1598) fu revocato da Luigi
XIV (1685). I calvinisti francesi si rifugiarono allora in Olanda e Inghil
terra e vi portarono il primato nelle Industrie da essi gia esercitate in
Francia.
90 GIUSEPPE PECCHIO
(Fleurs de Lys ben spinosi per que' poveri emigrati). Nelle ultime
tempeste politiche della Francia, essa ricovero quasi tutta la no-
bilta francese co' suoi principi; e pochi anni dopo, i seguaci di
Napoleone, o i repubblicani, o i costituzionali perseguitati a vi-
cenda. E si osservi che siffatto asilo che, non per grazia, non per
capriccio, ma per legge costante dagli stati liberi, si accorda agli
oppressi, e un altro atto benefico della liberta, la quale a guisa di
madre comune degli uomini asciuga con mano imparziale a tutti i
suoi figli le lagrime, e cosi rattempra la ferocia umana, che colla
disperazione diverrebbe ancor piu crudele. Presso le repubbliche
italiane del Medio Evo 1'ospitalita era una virtu cosi comune, che
fece pronunziare a Macchiavelli la massima « che laddove gli esigli
privano le citta d'uomini, di ricchezze e d'industria, uno stato
ingrandisce con esser Pasilo della gente cacciata e dispersa».
Nel 1823 Londra era popolata d'esuli d'ogni specie e d'ogni
paese; costituzionali volenti una sola Camera, costituzionali vo-
lenti due Camere, costituzionali alia francese, altri alia spagnuola,
altri alPamericana; generali, presidenti dismessi di repubbliche,
presidenti di parlamenti sciolti a baionetta in canna, presidenti di
cortes disperse dalle bombe; la vedova del re negro Cristoforo
colle due principesse sue figlie,1 negre negrissime di legittimo
sangue reale; Iturbide, imperator detronizzato del Messico,2 e uno
sciame di giornalisti, poeti, e uomini di lettere. Londra era PEliso
(un satirico direbbe il Botany-Bay)3 d'uomini illustri e di eroi
manquts.
Per chi avesse veduto il parlamento di Napoli, il salone delle
corti di Madrid, le corti di Lisbona, quale non doveva essere la
i. la vedova . . .figlie'. il negro Cristoforo (1767-1820) fu animatore della
insurrezione dell'isola di Haiti contro i Francesi (1790), ed ebbe, man mano,
il titolo di generale, presidente della repubblica, imperatore (1811). In-
sorti i sudditi contro i suoi eccessi, fu costretto a darsi la morte (1820).
La vedova e la figlia si rifugiarono in Inghilterra. 2. Agustin de Iturbide
(1783-1824), patriota messicano, principale artefice dell'indipendenza del
Messico dalla Spagna, nel 1821. II Congresso costituente, da lui convocato,
lo elesse imperatore (maggio 1822), ma dopo poco (19 marzo 1823) fu
costretto ad abdicare dalla opposizione repubblicana, e and6 esule in Ita
lia, e poi in Inghilterra. Tomato inerme nel Messico, per ofTrirvi i suoi ser-
vigi, fu imprigionato e fucilato (1824). 3. Botany-Bay: e il nome d'una
baia dell' Australia, dove si stabill nel 1788 una colonia inglese guidata dal
capitano Arthur Philipp; ma rappresent6 anche un domicilio coatto per
condannati, alcuni dei quali gia facevano parte della colonia guidata dal
Philipp.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL' INGHILTERRA 91
sua sorpresa di trovarsi all* op era italiana in Londra col generate
Pepe, col generale Mina, cogli oratori Arguelles e Galiano, col
presidente Isturiz, Moura1 ec., urtati urtare nella folia cogli am-
basciadori de' loro govern! awersi! Era per verita una specie di
visione magica degna del gran Merlino.2 Piu volte il teatro italiano
di Londra mi fece risowenire in quell'inverno del palazzo incan-
tato delPAriosto, ove tanti paladini amici e nemici fra loro corro-
no su e giu per le scale senza poterne uscire, e senza poter com-
battere.3
Ne' primi momenti del loro arrivo alcuni di questi cavalieri er-
ranti attrassero 1'attenzione del pubblico inglese. Tutti i popoli
sono popoli, cioe, allocchi, badauds. I giornalisti correvano alle loro
case per farsi dare uno scorcio almeno della loro vita con qualche
aneddoto. Le societa amavano di mostrare qualche nuovo lion,
leone. Cosi si chiama in Inghilterra la persona di qualche celebrita
ch'e invitata a qualche serata in Londra per essere mostrata come
i. Guglielmo Pepe (1783-1855), dopo il fallimento della rivoluzione napo-
letana del 1820 e la restaurazione delPassolutismo borbonico, si rifugi6
in Inghilterra, dove rimase, salvo alcune dimore a Parigi, fino al 1848;
Francisco Mina y Espoz (1781-1836), generale spagnolo, Iott6 con leg-
gendario eroismo contro 1'invasione francese della Spagna. Caduto Na-
poleone, non voile accettare I'assolutismo di Ferdinando VII, e fuggi
in Francia. Tornato in patria nel 1820, prese parte all'insurrezione costi-
tuzionale; si rifugi6 poi in Inghilterra, dove rimase dalla fine del 1823 fino
al 1830; Agustin Arguelles (1776-1844), uorno di Stato spagnolo, uno
dei maggiori compilatori della costituzione del 1812, oratore ammiratis-
simo. Ferdinando VII lo perseguito per le sue idee liberali. Chiamato al
governo col ripristino della costituzione, nel 1820, poco dopo si rifugio
in Inghilterra, donde torno in patria solo nel 1834. In Inghilterra fu bi-
bliotecario di Lord Holland, da cui riceve* una pensione annua. II Pecchio
aveva gia dato un ritratto di lui nel suo volume Sei mesi in Ispagna nel
1821 (vedi la bibliografia) ; Galiano: vedi la nota i a p. 81; Francisco
Javier de Isturiz (1790-1871), politico spagnolo. Spirito liberale, come si
distinse nella guerra di indipendenza contro i Francesi, cosl fu awerso a
Ferdinando VII. In casa sua si prepare la rivolta del 1820. Fu presidente
delle Cortes allora ristabilite. Fuggi poi in Inghilterra, donde torno in
patria solo nel 1834; Moura: si tratta certamente di Jose Joaquin de
Mora (1783-1864), letterato e politico spagnolo. Nel periodo 1820-1823
fu tra i piii accesi liberali spagnoli. Ristabilito Tassolutismo, fuggi in
Inghilterra, dove scrisse in giornali, pubblic6 opere, tradusse da varie
lingue. Dopo il 1826 si reco in America a lottare per la liberta dell' Argen
tina, il Cile, il Peril, la Bolivia. 2. Merlino: figura di mago e profeta, ori-
ginaria del ciclo bretone. 3 . palazzo . . . combattere : vedi Ariosto, Orl. fur.f
xii, 1-33-
92 GIUSEPPE PECCHIO
la meraviglia del giorno a duecento o trecento persone, stivate in
una sala come acciughe in un barile, che non possono ne moversi
ne parlare. Questo divertimento si chiama un rout',1 alcuni chia-
mano queste conversazioni « Anatomic viventi)).
Ma ben presto la curiosita passo, gli articoli, i leoni, tutto fu
sepolto nelPobblio. Non v'e tomba tanto vasta come Londra che
ingoi i nomi piu illustri per sempre. £ un omnivoro oceano. La
celebrita d'un uomo in Londra splende e sparisce come un fuoco
d'artifizio. Gran chiasso, grandi inviti, grandi elogi, grandi esage-
razioni per pochi giorni, poi un silenzio perpetuo. De Paoli,2 Du-
mourier,3 dopo avere alia prima comparsa rumoreggiato come il
tuono, quando morirono non fecero piu romore d'una foglia che
cade. II general Mina quando sbarco a Plymouth fu portato in
trionfo alPalbergo, assordito d'applausi al teatro; in Londra per
un mese continuo fu piu celebre del Leon Nemeo.4 Ma che ? Cadde
ben tosto nelPobblio e Pavello si chiuse sopra il suo nome. II po-
polo inglese e ghiotto di novita; in ci6 solo fanciullo, non distingue
gran fatto tra il buono e il cattivo, ma vuole il nuovo. Egli paga e
paga bene la lanterna magica, ma vuol sempre figure nuove. Per
nutrire questa balena insaziabile che sta sempre a fauci aperte
e dopo il pasto ha piu fame che pria5
lavorano giornalisti, incisori, storici, viaggiatori, scienziati, awo-
cati, letterati, poeti, i ministri coi progetti di legge, il re coi pro-
getti di fabbriche, i liberali coi progetti di riforma parlamenta-
ria, ec. ec. ec.
Una lode che nessuno potra ricusare agli esuli costituzionali6
si e la poverta in cui si ritrovavano, anche tutti quej di loro che
avevano occupato cariche eminenti, e maneggiato il denaro pub-
blico. II sig. Galiano ch'era stato intendente di finanza a Cordova,
e Poratore del governo per un anno, fu da me piu volte incontrato
i. rout: vedi la nota4 a p. 30. 2. De Paoli: allude certamente a Pasquale
Paoli (1725-1807), 1'eroe della Corsica, esule in Inghilterra dal 1796 e ivi
morto da parecchi anni quando vi giunse il Pecchio. 3. Dumourier: allude
quasi certamente a Charles-Francis Dumouriez (1739-1823), il generale
francese, vincitore a Valmy contro i Prussiani e poi passato ai Borboni
con improwiso tradimento (1793). Esule in Inghilterra, vi mori nel 1823.
4. Leon Nemeo : il leone di Nemea, ucciso da Ercole nella sua prima fatica.
5. Dante, In/., i, 99. 6. costituzionali'. perche avevano voluto introdurre
nei loro paesi la costituzione.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 93
in cammino che aveva fatto quattro miglia per dare una lezione
di lingua. Per conservare la sua mente e il suo animo indipendente
aveva avuto la fierezza spagnuola di ricusare la pensione offertagli
dal ministero inglese. Un amico mio sorprese un giorno il sig.
Arguelles nella sua camera che stava cucendo i suoi calzoni, quel-
1'Arguelles ch'era stato membro due volte delle corti, nel 1812,
e nel 1823, niinistro degli affari esteri, dalle cui labbra divine1 si puo
dire che pendesse la Spagna, tant'era la sua sapienza politica e la
sua scorrevole facondia. lo aveva veduti questi due rappresentanti
del popolo spagnuolo, all'uscir delle corti in Madrid il giorno che
risposero alle minacciose note della santa alleanza portati in car-
rozza sulle braccia del popolo inebriato d'ammirazione e di gioia.
Nella successiva primavera mori in Londra la vedova del general
Riego2 piu consunta dal dolore che dal clima inglese troppo aspro
per la di lei debole salute. Tutti gli emigrati furono invitati ad assi-
stere al suo funerale ch'ebbe luogo nella chiesa cattolica di Moor-
field nella citta di Londra. Compii con un sentimento di pieta
quest' estremo ufficio verso una famiglia con cui era stato legato in
amicizia. Mi ricorder6 sempre con compiacenza d'aver recate let-
tere da Cadice a questa virtuosa donna che le scrisse il suo sposo,
1'eroe e il martire della rivoluzione spagnuola. Quattro ministri
dell'ex-governo costituzionale sostenevano i nappi del drappo fu-
nereo! Fra tante centinaia di esuli che qui erano, ben pochi si tro-
varono in grado di avere un abito di lutto - in Inghilterra dove i
piu pezzenti del popolo hanno di che soddisfare a questo grand'atto
di decenza e virtu nazionale! In quest' occasione pero la poverta
degli astanti, se si mira alPorigine, era il piu bello e magnifico treno
di queste eseqiiie.
Per operare una rivoluzione si esiggono tali sacrificii, tali atti di
coraggio, tale entusiasmo, che le persone che la intraprendono de-
vono per lo piu essere dotate di un'immaginazione, o sensibilita
non comune. Quindi e che in questi grandi awenimenti che sono
come convulsioni generali di un popolo, si vedono apparire tanti
i. « Quest'epiteto gli fu dato dagFinglesi quando 1'udirono parlare nelle
corti di Cadice nel i8i2» (not a del Pecchio). Z.Raphael de Riego y
Nunez (1785-1823), il generale spagnolo iniziatore della rivoluzione del
1820, sospettato poi dai rivoltosi quale possibile suscitatore di un regime
repubblicano, e imprigionato. Caduto il Trocadero, fu condotto a Madrid,
condannato a morte e giustiziato. II Pecchio aveva gia scritto di lui nel suo
volume Sei mesi in Ispagna nel 1821 (vedi la bibliografia).
94 GIUSEPPE PECCHIO
diversi e prominent! caratteri. Senza rivoluzioni i lineament! delle
grand! famiglie che si chiamano nazioni sarebbero piu uniform! e
mancanti d'espressione. Le fisionomie piu marcate di queste fa
miglie appariscono nelle grand! tempeste. La rivoluzione della ri-
forma in Germania, quella del parlamento in Inghilterra, 1'ultima
di Francia, ec. ec. hanno fornito gallerie intiere di caratteri affatto
nuovi, original!. lo ebbi campo di verificare questa osservazione
fra i miei compagni d'esiglio che conobbi. Piu o meno si ritrova
nelle persone che hanno tentato una rivoluzione, molta immagina-
zione, molta sensibilita, molt'ambizione, vanita ancor piu che vera
ambizione, e un'irritabilita e inquietudine in estremo grado. Non
e dunque meraviglia se dove tali element! sono in abbondanza, si
vedano discordie, querele e dispute senza fine, continui lamenti,
tratti d'eroismo, tratti di straordinaria virtu, e delitti inauditi, e
passaggi repentini inesplicabili dalla virtu al tradimento. - Ab-
bozzerb qui alcuni dei caratteri piu singolari che ho conosciuto
ancor meglio nell'avversita in Londra che mentre fervevano le
passioni.
II sig. Franco di Valencia1 e un patriota spagnuolo che per es-
sere utile alia sua patria, e per acquistare sopra i suoi concittadini
queirinfluenza che ne" la nascita, ne le ricchezze, ne straordinari
talent! gli davano, consacro la sua vita alia virtu e
sotto Vusbergo del sentirsi puro2
portava in trionfo la sua poverta. Povero si, ma decente sempre ne'
suoi abiti, sobrio, quantunque spesse volte seduto a mensa di un
qualche opulento amico, e quantunque altrui commensale, ardito
e inesorabile giudice. Sei anni d'esiglio consumati in tentativi e
stratagemmi per preparare la mina che doveva nel 1820 rovesciare
il governo assoluto di Ferdinando VII, furono rimunerati dalle corti
con una pensione ch'era il solo suo patrimonio. Onorato nelle sue
parole, religiose ne' secreti, scrupoloso all' estremo nell'offendere
1'altrui riputazione, era sovente citato come un testimonio autore-
vole persino da' suoi nemici, era scelto talvolta come arbitro da
due opposte fazioni ; e quando si trattava del bene della patria, fu-
rioso come un frate Savonarola fulminava nelle sue filippiche an-
che i suoi piu teneri amici. Invasato d'amor patrio, egli arringava
i. Franco di Valencia: non ci e state possibile trovare notizie di questo
esule spagnolo. 2. Dante, Inf., xxviu, 117. Ma Dante scrive «pura».
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 95
a pranzo, in teatro, nelle piazze, nelle botteghe, instancabile, ine-
sauribile. E siccome la passione della liberta era il solo genio die lo
agitava, scevro sempre d'ogni ambizione, d'ogni seconda mira, cosi
i suoi discorsi erano scintillanti di frasi original!, pittoresche, di
fuoco. Egli che conosceva la tenacita del principe, fin dalla guerra
delFindipendenza, aveva consigliato i suoi compatriotti a offrire
il trono della Spagna al duca di Wellington,1 producendo Tesempio
della Svezia che nello stesso momento chiamava sul suo trono un
maresciallo di Francia.2 Per evitare Ferdinando egli si rec£> a
Roma ad offrire in nome de' suoi concittadini a Carlo IV3 di ri-
prendere la corona di Spagna a rette condizioni. Col suo spirito
catonico solo egli era cosi pervenuto a un'importanza fra' suoi
concittadini, alia quale molti altri piii ambiziosi, e con mezzi su-
periori non avevano potuto arrivare. - Dopo la caduta del sistema
costituzionale in Ispagna lo rividi in Londra colla folia degli altri
emigrati, non punto awilito. Nulla lo colpiva in Londra. La sua
anima pareva rimasta in Ispagna. Correva per le strade di Lon
dra come se fosse ancora nella Calle de la Montera di Madrid.
Mendico senza mendicare, senza talvolta il denaro di pagare il
letto e una scodella di latte, quasi unico suo nutrimento, costretto
a giacere in letto nell'inverno, alcune volte per non avere con che
pagare il fuoco, questo virtuoso tribune del popolo non credeva
ancora finita la sua missione; arringava quanto e quando poteva.
La sua eloquenza era ancora piu colorita dagli eventi e dalle sven-
ture. Ma quando da questi sublimi rapimenti o estasi, rientrava in
se, e che ritiratosi dal teatro del mondo ove la sua fantasia ad ogni
momento lo trasportava, girava Pocchio sopra il suo abito, alle
nude fredde pareti della sua camera, ed era costretto a stendere la
mano al meschino sussidio del ministero inglese per vivere, fero-
cemente egli allora esclamava: — Ringrazio la religione che mi or-
dina ogni sacrifizio, e di tutto mi compensa. Senz'essa avrei gia
dato un calcio alia virtu; ecco dove questa sirena mi ha per la se
conda volta condotto - naufrago di una rivoluzione, senza amici,
senza soccorso, senza fama neppure - in mezzo a un popolo stra-
niero rigurgitante di ricchezze, e solo apprezzatore delPopulenza,
i. duca di Wellington: il generale e uomo di Stato (1769-1851), detto «duca
di ferro », che fu protagonista della battaglia di Waterloo. 2. Vesempio . . .
Francia: allude all'elezione (1810) del maresciallo francese Bernadotte
come erede della corona di Svezia. 3. Carlo IV: vedi la nota a p. 49.
96 GIUSEPPE PECCHIO
e del felice successo. Senza la religione io avrel forse mille volte
vacillate nel sentiero del dovere. La virtu sola non era una bussola
sufficiente per dirigere il corso delle mie azioni in questo pelago di
sozzure.
Per maggiormente interessarsi per quest'uomo singolare con-
viene sapere che prima della rivoluzione era frate. Era uscito dalla
prigione del claustro, perche gliene avevano aperte le porte, ma
aveva conservato la fedelta ai voti e a Dio. Viveva in mezzo ai pro-
seliti di Rousseau e di Voltaire senz'astio, senza diffidenza, senza
rimproveri, ma non arrossiva di vantare in faccia loro i sentimenti
religiosi di cui sentivasi penetrate. Egli avrebbe fatto Pelogio della
religione innanzi a Diagora, a Spinosa, a Diderot.1 Mi ricordo di
un'altra commovente riflessione che fece un di in mezzo alle an-
gosce della sua poverta. — Bello — diceva — e il patire su un gran
teatro, dove gli applausi degli spettatori, la tromba della fama v'in-
coiraggiscono a soffrire. Ogni privazione, ogni tormento allora va
congiunto al conforto e alia ricompensa; ma i veri, acuti, purissimi
patimenti, non temperati da alcun sollievo, non sono gia quelli de
gli eroi o dei martiri illustri, ma bensi quelli degli atomi oscuri,
com'io, che tanti crepacuori soffrono per la liberta, nelPoscurita
e nelPobblio di tutti gli uomini.
Quelli che sogliono ammirare Pimpassibilita stoica che si lascia
svenare senza gettare un sospiro, ritroveranno questi lamenti scon-
venevoli al decoro filosofico. Quelli invece che amano gli eroi di
Omero, e delle tragedie greche, che or piangono come fanciulli,
or combattono come Dei, troveranno naturali questi sfoghi del-
Tumana natura, e forse piu interessante chi in mezzo alle spine del
dolore, grida si, ma trionfante compie il suo dovere.
La prima volta che vidi in Madrid 1'aureo-parlante G . . .3 era
vestito d'un camelottino verde, con un cappello di paglia in testa,
con un paio di scarpette color di polvere, e che so io ? Pareva che
avesse copiato la toeletta di un papagallo. Andai al Salon de las
Cortes a udirlo, e mi parve un Cicerone. Egli parla alPimprowiso
colla stessa eleganza e facilita con cui un membro dell'accademia
i. Diagora. . .Spinosa. . .Diderot: i tre filosofi sono citati come esponenti
di un atteggiamento antireligioso. Diagora, discepolo di Democrito, fu
chiamato PAteo. 2. V aureo-parlante G.: nonostante qualche difficolta,
credo possa identificarsi con Alcala Galiano, di cui il Pecchio ha gia detto
nelle pagine precedent! (vedi p. 81 e la nota 7).
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULl/INGHILTERRA 97
spagnuola scriverebbe. L'incontrai per la seconda volta al Prado,1
Tesaminai, e lo trovai un uomo piccino, magruzzo, mal sulle gam-
be, con occhi loschi . . . - le Didble boiteux* Andai la sera a sentirlo
dalla tribuna popolare, e mi parve un gigante che colla tuonante
sua eloquenza avrebbe potato scuotere 1'olimpo. Dopo due mesi
Tincontrai in Londra incorrotto, inaccessibile ad ogni seduzione,
invariato, invariabile; mi parve un Catone. Quest'uomo e una
specie di Sfinge ; e un misto di belle e difettose parti. Vanaglorioso
alPestremo, ma pronto sempre a fare il sacrificio del suo amor pro-
prio per la patria. Dedito ai piaceri, e pero libero di mente, e puro
d'ogni delitto. II ministero inglese accord6 una pensione a tutti
i membri delle corti; egli fu il primo a ricusarla. Intanto onesta-
mente vendeva la sua penna ai giornali letterari. Uno de' primi
corifei della Spagna fu il primo in Londra a sottomettersi al giogo
della sorte, e a divenire un maestro di lingua, piuttosto che sotto
mettersi al giogo degli uomini. Vantator di se stesso, non Pudii mai
vantarsi di aver fatto alcun sacrifizio per la sua patria. II darsi alia
patria e per lui un dovere e non una virtu. Non Pudii mai ne la-
gnarsi, ne sospirare gli agi da lui goduti un tempo in questa
assai piu oscura vita che serena,
vita mortal, tutta d'invidia piena.3
Pare invulnerabile dagli accidenti e dagli uomini.
Un altro esule con cui ebbi lunga familiarita e il conte Santorre
di Santa Rosa.4 II suo nome risuon6 nella rivoluzione piemontese,
ma la nazione che ammiro i pochi atti del suo ministero non ebbe
tempo di apprezzare le sue virtu come cittadino, e i suoi talenti
come uomo di stato. Chi avesse vissuto con lui sotto lo stesso tetto
non poteva che divenir migliore. Quegli stessi giudici che pronun-
i. Prado: vedi la nota 2 p. 67. 2. le Diable boiteux: e il deforme prota-
gonista del romanzo omonimo di -Alain Rene Lesage (1668-1747). 3. A-
riosto, Orl. fur., iv, i. Ma 1'Ariosto scrive: «in questa assai piu oscura che
serena / vita mortal, tutta d'invidia piena». 4. Santorre di Santarosa
(1783-1825) fu 1'animatore del moto piemontese del 1821. Scoppiata la
rivoluzione fu nominate ministro della guerra, ma l'immediato crollo d'ogni
speranza di successo lo obblig6 ad andare in esilio. Si rifugi6 in Inghil-
terra nell'ottobre 1822, a Londra e a Nottingham dove visse dando lezioni
d'italiano e di francese. II 5 novembre 1824 parti per la Grecia: 1*8 mag-
gio 1825 cadde ucciso, semplice soldato, in un piccolo scontro nelPisola
di Sfacteria, ne" il suo corpo fu piu ritrovato.
98 GIUSEPPE PECCHIO
ziarono la sentenza di morte sul suo capo, se avessero conosciuto
la santita del suo cuore, Pavrebbero rivocata. Era uno di quegli uo-
mini nati per infiammare tutto quanto li circonda e per fare de'
seguaci. Colto, eloquente, educato nei primi suoi anni giovanili
nel campo sotto gli occhi del suo genitore colonnello,1 amante della
solitudine per darsi allo studio e alia contemplazione, riuniva la
franchezza militare all'entusiasmo d'un solitario. Buon compagno,
buon amico, ospite sempre festivo, spargeva egli.piu allegria e ca-
lore non bevendo che acqua, che gli altri colFispirazione della
bottiglia. Sebbene non avesse nell'esercito che il grado di tenente
colonnello, pur tutti avevano gli occhi rivolti in lui come ad un uo-
mo che avrebbe operate all'uopo cose inaspettate. La sua mente
era pura come la sua vita. Egli amava la liberta non solo pe* suoi
effetti, ma anche come un ente poetico e sublime. Nonpertanto egli
amava nello stesso tempo la monarchia; egli voleva, per cosi dire,
adorar la liberta in questo tempio, e voleva che un re ne fosse il
Gran Pontefice. In Costantinopoli egli avrebbe adorata la liberta
per se stessa, come in Filadelfia avrebbe fatto voti per un re.
Amava un re per amor della liberta stessa, perche lo credeva una
guarentigia di un'ordinata liberta. Egli era innamorato della storia
della sua patria, ed un caldo ammiratore della monarchia militare
piemontese; non gia che non bramasse di correggere i gotici di-
fetti, ma la vagheggiava come si ammira un'antica armatura di
fino acciaio, che non e piu utile, ma abbaglia. Egli sentiva per la
ristretta monarchia in cui era nato quell'amore che provano i citta-
dini delle piccole repubbliche. Cosicch6 sebbene parlasse 1'italiano
e il francese con un'eleganza singolare, discorreva volontieri co'
suoi compatriotti nel dialetto piemontese. Era il suo rants des va~
ches? Non fara quindi sorpresa s'egli fosse inclinato per una co-
stituzione aristocratica. Quando la prima volta avanti la rivoluzione
lo vidi in Torino, egli era in favore d'una rappresentanza in due
camere; io gli dissi: — Differiamo questa contesa dopo il trionfo;
intanto abbiate per fermo, che senza il talismano della costituzione
spagnuola, la maggiorita italiana non si movera. — Dopo una breve
pausa rispose in tuono risoluto: — Quand'e cosi diflferiamo que
st 'importante quistione a miglior tempo, e afferriamo la costituzione
i. educato . . . colonnello: era alfiere nel 1796, a Mondovi, a fianco del padre
colonnello dell'esercito piemontese. 2. rants des vachesi le arie che i man-
driani svizzeri suonano sulle cornamuse.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 99
spagnuola, solo come la leva che dee sollevare 1' Italia dalPumiliante
servaggio in cui e sprofondata. — Pochi esempi vi sono d'un sacri-
fizio cosi franco e generoso delle proprie opinioni alPopinione della
maggiorita. L'Inghilterra era per lui un campo inesauribile d'os-
servazioni. Egli ne studiava le istituzioni come gli antichi studia-
vano le leggi di Greta. E le istituzioni e il governo tanto piu gli
andavano a grado ch'essendovi in esso potente 1'elemento aristo-
cratico, il suo felice esempio era una splendida conferma delle sue
opinioni politiche. Ne avrebbe forse abbandonato questa terra di
liberta, se quel fuoco che non muore mai nei cuori elevati di ope-
rare per la fama, non lo avesse destato dalla vita tranquilla che me-
nava in Nottingham per ir a combattere per la liberta della Grecia.
II suo entusiasmo per la liberta era infiammato anche da una tinta
d' entusiasmo religioso. Egli ando in Grecia col coraggio e coi sen-
timenti d'un vero Crociato. Se avesse saputo parlar greco avrebbe
trasmesso il suo entusiasmo a* suoi seguaci. Egli aveva una croce
sempre appesa al collo, e rotando la sciabola con una mano, e
mostrando la croce colPaltra, faceva tradurre ai palicari1 con cui si
recava a Navarino il verso di Tasso:
Per la fe, per la patria il tutto lice.21
Mori qual visse da valoroso coH'armi alia mano faccia a faccia
cogli Egiziani che sbarcavano nell'isola di Sfacteria. Non poteva
avere piu onorata morte, ne piu onorata tomba. La strage dei Tur-
chi e degli Egiziani soprawenuta di poi alia battaglia di Navarino
del 20 ottobre 1827 fu un'ecatombe ch'espio la sua morte, e Fin-
cendio di quella flotta de* barbari e il piu bel rogo che si potesse
innalzare alle sue ossa insepolte.
i. palicari: detti anche armatoli. Guerrieri della Grecia del nord, orga-
nizzati in bande, avevano da tempo costretto il governo turco a riconoscerli
e affidare loro mansion! di polizia, sebbene fosse continue il tentativo di
ridurre la loro potenza. Nell'insurrezione, alia quale parteciparono, det-
tero un forte contribute di uomini e di azioni audaci. 2. Ger. lib., IV, 26.
100 GIUSEPPE PECCHIO
STRADE1
In cento modi si puo giudicare della prosperita e civilta di una na-
zione. Alcuni la misurano dalla popolazione; altri dalla quantita
e circolazione del denaro ; chi dallo stato della letteratura, chi dalla
lingua. David Hume diceva che dove si fa del bel panno si sa bene
Pastronomia, e si coltivano le scienze. Sterne dall'iperbole del bar-
biere che gli acconciava la parrucca, e dai vezzi della guantiera pa-
rigina2 desunse due qualita della nazion francese, una amabile e
Faltra ridicola. Pangloss3 quando fece naufragio sulle coste di Por-
togallo al vedere molti teschi d'impiccati congetturo ch'era arrivato
in un paese incivilito . . . Perche non si potra anche congetturare la
coltura d'un paese dalla condizione delle sue strade ? Dove non vi
sono strade, o poche, quantunque magnifiche, si puo dire che vi
sono pochi o nessun libro, poche o nessuna manifattura, molte e
cattive leggi, e pochi o un sol legislatore, molti frati e pochi dotti,
molti miracoli e pochi denari ec. ec. Chi ha viaggiato in Europa
avra veduto cogli occhi proprii la verita di questa asserzione. La
Russia, la Polonia, la Turchia europea, la Grecia, la Transilvania,
TUngheria, la Croazia, la Buccovinia, la Spagna, il Portogallo che
sono per certo i paesi meno inciviliti, sono anche quelli che hanno
meno strade. Nel Pelopponeso dove, quando si scrivevano poemi,
tragedie e storie, v'erano tante strade e corse di carri, non v'ha piu
una strada carreggiabile, neppur in tutto il regno del re dei re
Agamennone
i. Questo brano corrisponde alle pp. 122-9 e 136-43 dell'edizione da noi
seguita. Precedono il testo i seguenti versi, e la traduzione, del Don Juan (X,
LXXVIII) di Byron: « What a delightful thing's a turnpike road! / So smooth,
so level, such a mode of shaving / the earth, as scarce the eagle in the
broad / air can accomplish with his wide wings waving: / had such been
cut in Phaeton's time the god / had told his son to satisfy his craving /
with the York mail» (« Che deliziosa cosa e una strada postale! Cosi piano,
cosi liscio, un certo modo di radere la terra, che quasi 1'aquila non prova
eguale colle sue larghe agitanti ali attraverso il vasto cielo ; se un tal cam-
mino fosse stato aperto in tempo di Fetonte, Febo avrebbe detto a suo fi-
glio di compiacere alia sua richiesta colla diligenza diYork»). 2. Sterne
. . .parigina: nel Viaggio sentimentale (cap. xxxi) lo Sterne (vedi la nota a
p. 72) narra di un barbiere parigino che gli consigli6 di tuffare nell'« ocea-
no » la parrucca per tenerne fermo un riccio. Nella stessa opera (capp. xxxn-
xxxiv) narra di una vezzosa e gentile venditrice di guanti. 3. Pangloss ". la
figura satirica di un maestro immutabilmente ottimista che appare nel Candi-
de di Voltaire, in cui per6 non si trova Tosservazione attribuitagli dal Pecchio.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA IOI
. . . di molte
vaste contrade correttor supremo
ottimo re, fortissimo guerriero*
che aveva Automedonte, il piu bravo cocchiere di tutta la Grecia.
Da Velez-Malaga a Granata, in quei gia ricchi regni delle dinastie
arabe, non v'e altra strada che un dirupato sentiero pej muli. Dalla
citta del Messico a Guatimala non v'e quasi strada. Per fare le
mille e duecento miglia che vi so no di distanza, i deputati di Gua
timala, quando questa repubblica era unita al Messico, impiega-
vano quattro mesi di disastroso viaggio. Da Omoa a Guatimala
non v'e quasi strada. Per percorrere trecento cinquanta miglia, le
merci impiegano qualche volta a dorso di mulo sei e persin sette
mesi. Lo stesso era nelle altre antiche colonie spagnuole d' America,
pochissime strade e moltissima miseria, moltissima ignoranza, mol-
tissima superstizione. AlPincontro la Francia, la Germania, F Italia
hanno piu strade e piu civilta; 1'Inghilterra ha piu strade e canali
di ogni altra parte d'Europa, ed ha anche piu civilta di tutte. Mi
ricordo d'aver veduto nell'opera del signor Dupin3 sull'Inghilterra,
che la lunghezza totale delle sue strade e canali, in ragion di super-
ficie territorial, e grandemente maggiore di quella delle strade e
canali in Francia. Non stanno forse nella stessa proporzione la ci-
vilizzazione rispettiva di questi paesi! Facciasi lo stesso confronto
tra le strade e i canali del nord dell' Italia con quei del regno di
Napoli, e sortira la stessa proporzione, lo stesso risultamento.
Non e gia una coincidenza casuale. 6 un effetto immancabile
d'una causa infallibile. Per la mancanza di comunicazioni facili,
gli uomini rimangono disgiunti ed isolati, la loro mente si raffredda,
il loro spirito si addormenta, non sentono emulazione, non provano
10 sprone dei bisogni, dei desiderii ; quindi poco o nessun sviluppo
morale, poca energia, poca attivita. Ecco perche il repubblicano, o
11 cittadino d'uno stato libero e d'animo fervido, attivo, intrapren-
dente, siccome quegli che vive e si agita nella moltitudine; invece
il suddito d'una monarchia assoluta, dove per lo piu la popolazione
e rara e gettata su una immensa superficie, riesce svogliato e son-
nacchioso non meno pel terrore che per 1'isolamento in cui vive.
i. Omero, //., in, 234-6 della traduzione del Monti. 2. Frangois-Pierre
Dupin (1784-1873), economista e ingegnere francese. II Pecchio allude,
quasi certamente, alia sua opera Voyages en Grande-Bretagne de 1816 a
p, pubblicata nel 1820-1824.
102 GIUSEPPE PECCHIO
Riawicinate gli uomini, mediante strade, canali, bastimenti a va-
pore, ponti a catene, rail-roads1 (e volesse la sorte anche con palloni
volanti), ed essi si sveglieranno, i loro bisogni, le loro idee, i loro
desiderii si moltiplicheranno, e in proporzione la loro energia e i
loro lumi. Perche un contadino e naturalmente meno attivo e meno
intelligente di un cittadino ? Perche un abitante di una piccola citta
10 e meno di quello di una grande capitale ec. ? Perche la mesco-
lanza, Pattrito degli uomini e minore. Pare die lo sviluppo della
mente e delPenergia umana sia in ragione composta della massa
degli uomini e della velocita del loro commercio . . .
Le strade rette, e le citta simmetriche fanno supporre un potere
dispotico poco o nulla curante del diritto di proprieta. La rettilinea
e simile alia spada di Alessandro che taglia il nodo gordiano invece
di scioglierlo. Le due citta piu simmetriche di Europa, Torino e
Berlino sorsero sotto il bastone di due monarchic militari.2 Chi
non vede nelle interminabili strade rettilinee della Francia e della
Polonia una mano prepotente che le ha tagliate cosi ? Per lo con-
trario in Inghilterra, in questa anziana terra della liberta, le strade
sono tortuose con volte e rivolte, e molte delle sue citta sono
mucchi di abitazioni nati dal caso secondo il capriccio ed il bisogno,
anziche" essere composte di filari di case schierate come altrettanti
battaglioni di soldati. Eppure Pinglese ama Pordine, la celerita, il
risparmio di tutto ; verissimo ; ma piu di tutto finora pare che abbia
amato ancor piu il diritto della proprieta. £ tale e tanta la tortuosita
delle vie pubbliche in Inghilterra, che dalla proporzione stabilita
dal signor Dupin di cui poc'anzi ho parlato, si dovrebbe fare una
deduzione in favore della Francia.
II marciapiedi che sempre fiancheggia ogni contrada nelle citta, e
11 piu sovente anche le strade nella campagna, mostra che il popolo
e rispettato e si fa rispettare. Le mercanzie hanno i canali, i viaggia-
tori in carrozza il mezzo della strada, i pedoni il marciapiedi. II
marciapiedi e il trionfo della democrazia ; il minuto popolo non e
come altrove intieramente diseredato, ha la sua legittima, piccola
si, ma inviolabile. Sul continente invece le strade non sembrano
fatte che pei ricchi e pei cavalli . . .
Appena le strade sono divenute comode e belle, le carrozze, i
i. rail-roads: strade ferrate, ferrovie. 2. Le due citta . . . militari: Torino
e citta di origine romana e si e sviluppata su rettilinei per opera di Car
lo Emanuele I e II e di Vittorio Amedeo II. L'osservazione appare meno
esatta per quel che si riferisce a Berlino.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 103
carri cangiano forma, si fanno piii leggieri, piu eleganti; si puo
far uso di cavalli piu belli, piu fini, perch6 le strade non li faticano
piu tanto. Si fabbricano degli alberghi piu comodi, forniti di prov-
vigioni sempre fresche, perche il passaggio e il consume aumentano :
vi vorranno delle stalle meglio riparate, dei palafrenieri piu istrutti
e piu attenti. Una diligenza inglese che carica di 18 persone vola
trascinata da quattro bei cavalli, con un cocchiere vestito come un
gentiluomo, fa palpitare e meravigliare allo stesso tempo lo spetta-
tore che vede passarsi dinanzi agli occhi quella montagna di gente
e di merci appena appena in equilibrio. Supponete delle strade
cattive invece delle buone, tutto deve cangiare, la scena da me di-
pinta sparisce ; perche in una cattiva strada quella vettura cosi carica
si romperebbe, o si rovescerebbe ad ogni tratto, Fattrito aumente-
rebbe, bisognerebbe sostituire dei cavalli pesanti ec. Tutti i mi-
glioramenti sono una catena che pende dall'anello principale che
sono le strade. Tutti quei che viaggiano in Ispagna si arrabbiano
sulle prime, e poi finiscono a ridere nel sentirsi burattati1 in una
carrozza che ha dei travi per timone, per assi e per molle, tirata da
sei muli, quasi trascinassero un cannone da 24. La moda di quelle
carrozze fatte a guisa di bastimenti non dipende dal cattivo gusto
spagnuolo, ma dalle diroccate strade dell'Arragona, delPEstrema-
dura, della Gallizia ec. Divenute adunque liscie e solide le strade
cogli altri successivi miglioramenti, le relazioni tra provincia e pro-
vincia, tra parenti, tra amici, diventano frequenti, intime, i matri-
monii, le awenture, gli aneddoti, tutto moltiplica e crea un nuovo
mondo. In Inghilterra si va alia caccia alia distanza di 300 miglia;
merce di questi comodi gli amici si rendono visita a 100, 200, 300
miglia di distanza; i vecchi, le damigelle, i bambini da latte colle
loro madri viaggiano senza noia, senza inconvenient!, senza disagi.
Ad ogni albergo sulle strade la colazione, il pranzo, o la cena sono
sempre pronti; il fuoco arde in ogni camera; Facqua pel te, pel
caffe e sempremai bollente. Dei letti soffici con cammini accesi in-
vitano a riposarsi. I giornali coprono le tavole per disannoiare il
passaggiere. Gli alberghi inglesi sarebbero veri palazzi incantati,
se poi il conto delFoste non distruggesse Pillusione. In quest'isola,
il re, i ministri, i membri del parlamento, tutti sono in continuo
moto, a cavallo, in gig,2 in carrozza, recantisi a pranzi, a corse di
i. burattati: scossi, sbattuti, come la farina nel buratto. 2, gig: vettura
leggera a due ruote.
104 GIUSEPPE PECCHIO
cavalli, ad assemblee, a concert!, a balli. Ai balli che si danno tre
o quattro volte Tanno in ogni contea intervengono le famiglie che
dimorano a venti, trenta, quaranta miglia discosto, soltanto per
passarvi tre o quattro ore. Per mezzo di questi veicoli, di questi
va-e-vieni, gli agi, le ricchezze, le invenzioni, tutto si livella in giusta
proporzione su tutta la superficie dell'isola. Non sono solo i fluidi
che tendono a livellarsi; rompete le dighe delPinquisizione, della
polizia, delle dogane, dello spionaggio, lasciate sgorgare e scorrere
Tumano sapere, ed anche la filosofia, le lettere, le costituzioni, ve-
drete che tendono esse pure a mettersi a livello sulla superficie
delPEuropa. In mezzo a quest'affluenza di viaggiatori i ladri spa-
riscono. £ noto che solo 60 anni fa si^usava fare in Inghilterra la
borsa pei ladri;1 tanto n'erano in allora infestate le strade. Ora
sono rarissimi gli esempi d'aggressione. £ mestieri che un ag-
gressore di strada faccia tanto presto a svaliggiare una carrozza
quanto un borsaiuolo a rubare un orologio. Nella notte ad ogni ora
arrivano e partono diligenze piene di viaggiatori con trombe che le
annunziano, con fiaccole (talvolta anche di gaz) che gettano una
luce di cento piedi all'intorno, correndo a rompicollo.2 £ impos-
sibile il calcolare quanto tempo risparmi T Inghilterra, e quanto
abbia raccorciate le sue distanze, mediante le strade, in confronto
di solo 40 anni fa. Da York a Londra, cioe per 200 miglia, s'impie-
gavano 6 giorni. Ora la diligenza delle lettere v'impiega 20 ore;3
le altre vetture 24. Da Exeter a Londra cinquant'anni fa si annun-
ziava: «.Viaggio sicuro e spedito per Londra in quindici giorni !»
Ora anche le diligenze particolari fanno le 175 miglia che vi sono
da quella citta alia capitale in 18 ore.4 Prima dell'invenzione dei
bastimenti a vapore la posta delle lettere impiegava da Dublino a
Londra almeno 6 giorni: soltanto 12 anni fa, e nella procellosa sta-
i. la borsa pei ladri: una borsa da consegnare ai ladri, mentre il denaro e
nascosto altrove. 2. « Questa parola non e oziosa. Perch6 succede non di
rado che, per la gran rapidita, il cocchio si rovescia, e alcuni de' viaggiatori
si rompono il collo alia lettera'» (nota del Pecchio). 3. « Ad ogni momento
vi e un nuovo miracolo in quest'isola. Nel mese di marzo del 1828 una so-
ciet& di cacciatori che doveano celebrare un pranzo a Cheltenam, da Lon
dra a quella citt£ trascorsero (o volarono) cento miglia in poco piu di 8
ore in diligenze a 4 cavalli » (nota del Pecchio). 4. «In una gara tra due
diligenze di Liverpool che andavano a Manchester, una di esse non impie
gava pel cambio de' cavalli che 32 minuti secondi. Ad ogni cambio v'erano
8 uomini pronti ad attaccare e staccare i 4 cavalli » (nota del Pecchio).
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 105
gione d'inverno qualche volta ritardo sino 42 giorni. Ora non im-
piega mai piu di tre giorni, qualunque sia la stagione. Ultimamente
un bastimento a vele giunse in sedici giorni dagli Stati Uniti a Li
verpool, e port6 della cacciagione fresca dell'altro mondo. Quando
i bastimenti a vapore varcheranno, forse non andra molto, PAtlan-
tico, il selvaggiume americano non sara piu un piatto raro. Tutta
questa velocita di comunicazioni si accrescerebbe ancora, se 1'In-
ghilterra volesse nelle strade adottare la dispotica linea retta che
passa e fora come una palla di cannone, case, parchi, giardini ec.
Un matematico potrebbe divertirsi a ridurre la superficie dell'In-
ghilterra alia proporzione in cui sta la velocita presente di viaggiare
a quella di 40 anni addietro. Forse risulterebbe che Plnghilterra si
e ridotta a un decimo di quel che era. Exeter era una volta (in ra-
gion di tempo) 16 volte piu distante da Londra che ora non e.
Tutto adunque si compensa. A misura che colle scoperte della
Nuova Olanda e deirinterno delP Africa il mondo si allarga e si
estende per Pocchio, colla velocita delle comunicazioni le sue parti
riawicinandosi si ristringe e si rimpicciolisce.
Mi fa ridere il dispotismo che vuol respingere la liberta, mentre
questa a suo dispetto entra da mille parti per mezzo della civiliz-
zazione. Mi pare simile allo stupido villano di Metastasio che corre
affannoso da tutte le parti per frenare il torrente
ma disperde in sull'arene
il sudor le cure e I'arti,
che, se in una lo trattiene,
si fa strada in cento parti
il torrente vincitor.1
Se egli inceppa la liberta della stamp a, le verita penetrano per mezzo
delle universita. Se perseguita e imprigiona un professore di uni
versita, la civilizzazione entra per mezzo del commercio estero. Se
adotta il sistema proibitivo per diminuire questo inconveniente,
le strade, le strade sole bastano per mettere in contatto e fermento
le menti. Non v'e dispotismo conseguente ne' suoi mezzi e ne* suoi
fini, e, s'e lecito dir cosi, illuminate, che il dispotismo turco, il
quale non ha ne stampa, ne universita, ne commercio, ne strade.
Pure anche cola le sole botteghe di caffe in Costantinopoli basta-
vano ancora a creare un'opposizione al sultano, quantunque fra-
tello della luna e del sole,
i. Metastasio, Artaserse, atto n, scena vii.
106 GIUSEPPE PECCHIO
LE GIOVANI INGLESI1
Mentre io dopo avere perduto e beni e patria esercitava il mestiere
che aveva fatto Dionigi2 dopo aver perduto la corona, e mi andava
confortando in questa noiosa professione, e procurando di nobili-
tarla ai miei occhi coU'esempio di Milton che prima di divenire
uno dej secretari di Cromwell aveva fatto il maestro di scuola, e
coiresempio ancora di Macchiavelli che dopo essere stato il se-
gretario della repubblica fiorentina, e molte volte ambasciatore, vi-
desi quasi ridotto ad abbracciare questa professione in un qualche
viilaggio di Toscana,3 ricevetti una lettera gentile d'un ministro
della Chiesa anglicana con cui mi pregava di dar lezione di lingua
italiana a tre delle sue figlie. Non esitai ad accettare, ed eccomi un
bel mattino sur un cavallo da nolo (che poteva competere coi Bri-
gliadoro d' Italia)4 girmene a trotto serrato per dieci miglia a un
borgo (che gl'Inglesi un poco enfaticamente chiamano citta), ove
la famiglia del ministro abitava. Questa citta per iperbole non e
abitata che da piccioli fittabili. Le case sono del color rosso naturale
del mattone cosi disaggradevole agli occhi, ma pur cosi generale in
Inghilterra ed in Iscozia, tranne le osterie che sono imbiancate, e
la casa del ministro che perci6 si poteva dire il sole di quel borgo.
Smontai a un albergo polito e fornito di tutti i comodi, qual non si
ritroverebbe in una delle piu superbe citta d' Italia. Quando si parla
di case in Inghilterra e impossibile di non imitare Puso di Omero
di ripetere costantemente lo stesso epiteto di polito. II fuoco ardeva
da gran tempo nella sala de* forastieri, la gazzetta sul tavolo pro-
1. Questo brano corrisponde alle pp. 173-83 dell'edizione da noi seguita.
2. il mestiere . . . Dionigi: Dionisio il giovane, tiranno di Siracusa. La noti-
zia e in Plutarco, Timol.t 14. 3. « ... "Starommi adunque cosi tra i miei
cenci, senza trovare uomo che della mia servitu si ricordi, o che creda
che io possa esser buono a nulla. Ma egli e impossibile ch'io possa star
molto cosi, perch6 io mi logoro, e vedo, quando Iddio non mi si mostri pKi
favorevole, che sard un dl forzato ad uscir di casa, e pormi per ripetitore,
o cancelliere d'uno connestabile, quando io non possa altro, o ficcarmi in
qualche terra deserta ad insegnare a leggere ai fanciulli, e lasciar qui la mia
brigata che faccia conto ch'io sia morto ..." Cosi scriveva il 3 agosto 1514
a Francesco Vettori, questo ottimo e grande italiano» (nota del Pecchio).
In verita la lettera e datata io giugno 1514. 4. coi Brigliadoro d' Italia:
cioe, con i migliori cavalli italiani da sella. Brigliadoro era il cavallo del pa-
ladino Orlando.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA IOJ
metteva un compenso pel lungo silenzio che osservano quei che
viaggiano in carrozza; in uno scaffale v'erano delle spazzole per
essere sempre immaculati; in un altro v'era un libro di morale re-
ligiosa, e quanto occorre per scrivere ; tutto terso e lucente. Mi ri-
posai a mio bell' agio guardando le stampe di trenta o quarant'anni
fa che dalle grandi citta e dalle eleganti sale, al par degli eroi in-
felici, sogliono passare gli ultimi lor giorni in qualche umile vil-
laggio. II mio riposo non fu punto sturbato da quelle inospitali
offerte, che gli osti ti fanno in Italia ad ogni momento per ismaltire
le loro vecchie rancide provvigioni condite con panegirici tanto
sinceri quanto soglion essere tutti i panegirici. Suonai il campanello,
quando mi piacque; compari subito una fantesca; ordinai la co-
lazione; compari subito la colazione; suonai di nuovo, fimto ch'eb-
bi, e la fantesca compari di nuovo; ordinai di sparecchiare, e
subito ogni cosa disparve. II tutto con pochi magici monosillabi. -
Battono le undici ore. Era Pora fissata della lezione. In Inghilterra
tutto il tempo e distribuito; non v'e margine; la puntualita e piu
che un dovere. Esatto adunque anch'io come Torologio della chiesa,
entrai in quel punto nel giardino che fronteggiava la casa del mi-
nistro, tutto coltivato a fiori, ad arbusti, coi sentieri non ingombri
della piu picciola paglia, con ombreggianti e spessi alberi sul da-
vanti, non tanto per difendere la casa dal sole e dai venti, quanto
per nasconderla alia curiosita importuna dei passeggieri. Qui il pu-
dore regna dappertutto. Ne le persone ne le case non si presentano
mai con quelPardire e confidenza, che gl'ItaKani e le case degl'Ita-
liani per lo piu si presentano, biancheggianti e proprio sulPorlo
della pubblica strada. Tutto era silenzio come nell'ora della siesta
in Ispagna. Ma nelle famiglie inglesi non e Morfeo che regna, ma
solo il Dio del silenzio, Arpocrate.1 Le persone vanno su e giu
per le scale cosi leggiermente come farebbero i fantasmi se esistes-
sero. Se e vero che il silenzio e un contro-stimolo che abbatte il
temperamento e lo spirito, io vorrei credere ch'esso e una delle
cause per cui le passioni sono deboli e compresse in Inghilterra.
Bussai alia porta con replicati colpi per dare ad intendere ai servi
ch'era un visitatore, e non un qualche mercenario operaio o vendi-
tore, a cui non e lecito d'annunziare la loro venuta che con un
i. Arpocrate: dio egiziano - 1'Horus fanciullo- penetrate nel mondo greco-
romano. Rappresentato con un dito alle labbra, in gesto fanciullesco, di-
venne percid simbolo del silenzio.
108 GIUSEPPE PECCHIO
solo e moderate colpo. Un servo con calzoni di velluto e calze
bianche di cotone (non pero incipriato) mi apri la porta e m'intro-
dusse nella sala da pranzo, lasciandomi ivi solo, mentre che andava
ad annunziarmi al padrone di casa. Un fuoco da auto-da-fe splen-
deva nel mezzo di questa sala. Ogni cosa era al suo luogo, come se
si dovesse passare una rivista generale. Un paniere di latta inverni-
ciata di verde giaceva dinanzi a una delle lunghe fmestre, ripieno
di vasi di fioriti gerani, educati nella serra, e circondato aH'intorno
da molti altri vasellini di bellissimi fiori, che a vicenda escono dalla
serra ad adornare la sala destinata per gli ospiti. Dopo pochi minuti
ecco il Reverendo . . . che entra nella sala con un affabile sorriso.
Non ebbi fatica ad indovinare ch'era il padrone di casa, avendo
veduto pendere da una delle pareti un ritratto di lui somigliantissi-
mo. Bel tempo! . . . Bellissima giornata! (quantunque avesse pio-
vuto due o tre volte nel mattino) - questo eterno quotidiano ceri-
moniale delPInghilterra fu Tesordio del nostro dialogo. II Reve
rendo . . . era un uomo di circa 45 anni, di una florida salute. La
felicita del suo stato era dipinta sul suo volto vivace ed ilare. La
sua fronte non era offuscata da nessuna di quelle rughe, di quelle
nubi che Passiduo studio, o le sciagure imprimono. I suoi bian-
chissimi denti, il suo umore lieto dinotavano che la sua digestione
era sempre felice. Seppi poi che il secreto di tutto cio, che il suo
elixir di lunga vita, la sua acqua di Ninon de Lenclos,1 era il con-
tinuo esercizio che faceva alia caccia della volpe, alia caccia del
fucile, alia pesca, col seguito ed appendici di buoni pranzi e bot-
tigHe. II suo abito corto e fatto alia foggia degli abiti da viaggio
ch'usano gl'Inglesi, era di velluto, che dai re sino ai mulattieri at-
trae sempre maggior rispetto di qualunque altra stoffa. Questo era
il solo remotissimo indizio di sacerdozio che avesse indosso. Pochi
momenti dopo entr6 la moglie del Reverendo . . . il quale senza
allontanarsi punto dal fuoco a cui stava rivolto col dorso alPuso del
continente, stese il braccio indicandomi che cola era la signora . . .
Intanto ch'io col frustino in mano, incurvandomi alia guisa d'un
ballerino francese, piegando un poco il capo a destra, stringendo
le labbra, e con tutte le smorfie comiche della moda borbottava
tra i denti un complimento in francese coi soliti charme e enchant^,
i. Ninon de Lenclos: la galante awenturiera, vissuta dal 1620 al 1705, che
conservd a lungo un aspetto giovanile, si che si diceva possedesse il segreto
di un' acqua di giovinezza.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA K>9
la signora . . . con passo freddo e svogliato, con un contegno indif-
ferente s'awiava verso il cammino, torcendo intanto il capo verso di
me. Essa era alta, ben fatta, e senza essere altiera, mostrava avere di
se quella stima die certamente ella meritava. Mi si disse ch'era stata
una bellissima donna; questa volta m'avvidi che le frequenti esage-
razioni inglesi sul bello e sul meraviglioso non eccedevano il vero.
Dopo alcuni momenti ella uscl e monto di nuovo le scale ad awerti-
re le figlie che avessero tutto in pronto. Intanto il Reverendo ... mi
fece una disgressione su gli storici antichi, mi fece intendere ch'era
legato in amicizia con lord Byron, m'invito a rimaner seco a pranzo,
e mi fece mille altre cortesie. Vidi da questo screziato discorso ch'era
familiare col ceto nobile, ch'era ricco, e che ad onta della caccia era
versato negli studi classici. Quei pochi cenni furono per me il blaso-
ne di famiglia. In un tuono facile e disinvolto soggiunse poscia ch'io
poteva ascendere, ed egli stesso mi precedette indicandomi il cam
mino. Trovai la sala di compagnia al solito ingombra da molti ta-
volini, da un cembalo, da libri e da lavori donneschi. Le scuolare
erano ritte in piedi colla solita aria fredda e modesta inglese che
farebbe agghiacciare sulle labbra un complimento anche al piu
spensierato parigino. La maggiore era una giovine di 19 anni svelta
di corpo, piuttosto magra, brunetta di carnagione, con capelli neri,
occhi neri, e con denti eguali e bianchissimi, ch'e un pregio piut
tosto raro in Inghilterra tanto fra gli uomini che fra le donne. II
suo sorriso era soave, e 1'espressione del suo volto angelico-italiana.
Aveva tutti i requisiti per rendermi un Saint-Preux.1 La seconda
era uno scherzo di natura, un'albina; ben fatta, candidissima di
carnagione, con capelli, sopraccigli e cigli affatto bianchi, e con oc
chi tiranti al rosso. Ogni suo moto, ogni sua parola era un zefiro,
era tutta dolcezza. Cortissima di vista, mi sembrava piu avanzata
negli studi della sorella maggiore, cio ch'e sempre il compenso d'un
po' meno di belta. La terza era una fanciulla di 13 anni, bellina, so-
migliante a sua sorella la prima, vivacissima ne' suoi sguardi, cui
ora di soppiatto lanciava a me, mentre io leggeva, ora verso la so
rella maggiore, quando si trattava di darmi qualche risposta. La
madre durante la lezione Iavor6 sempre, parlando di tratto in tratto
sotto voce con alcuna delle sue figlie in riposo, o rispondendo per
le sue figlie, quando interrogate da me su ci6 che sapevano di fran-
i. un Saint-Preux: un innamorato pieno di passione. Saint-Preux e il pro-
tagonista del romanzo La nouvelle Heloise di J. J. Rousseau.
110 GIUSEPPE PECCHIO
cese e d'italiano chinavano gli occhi e non ardivano fare le proprie
lodi. II fatto sta ch'esse erano bene istrutte, intendevano a mera-
viglia il francese, e con tutto candore manifestavano le difficolta
che incontravano nella lettura di Metastasio, di cui si deliziavano.
La mia situazione, quasi direi anfibia, era di un divertimento a me
stesso. Ora mi sembrava di essere realmente nato per fare il maestro
e cercava di dissertare su gli articoli, sulle concordanze ec.; ora
mi sembrava d'essere il conte d'Alma Viva nel Barbiere di Siviglia,
quando soprattutto la milk-white hand,1 la bianco-lattea mano della
prima di quelle damigelle (ch'era la mano descritta dall'Ariosto),2
seguiva col dito le righe del libro. Ora poi correndomi alia memoria
tutte quelle sudicie allusioni a cui i termini grammaticali danno
luogo in Italia, stava per iscoppiare dalle risa quando mi toccava di
parlare del preterito ec. ec. Nelle cose piu indifferenti, anche nelle
famiglie di sangue men che celeste, la primogenitura e sempre
rispettata. Perci6 le mie scolarine venivano sempre in ordine di eta
alia lettura. Terminata che fu la lezione scendemmo nella sala da
pranzo dov'era imbandito un lautissimo launchon? La signora mi
ofTri replicate volte e con molta cortesia del bue freddo, della torta
di riso e latte ec. ec., ma siccome non v'e piacere nel cibo che non
e condito dairintima amicizia e dalla spensierata allegria, ricusai e
me ne ritornai all'albergo. Mentre stavano sellando il mio cavallo,
diedi un'occhiata alia chiesa del borgo, antica e di apparenza ancora
phi antica per la forma gotica che quasi in ogni dove hanno le chiese
della religione anglicana, e dopo avere ricevuto un inchino delPoste
che sentiva ancora del vassallaggio antico, spronai il mio cavallo,
e partii al galoppo attraverso quelle deserte contrade . . .
i. «Le mani delle inglesi e irlandesi sono cosi belle che Ossian apostrofa
spesso le giovani irlandesi "Blanche mani d'Erina!" 6 peccato che in que-
sto paese non vi sia 1'uso del baciar la mano. Gl'Italiani chiamano spesso le
loro amanti "Begli occhi del mio ben!" I Francesi potrebbero apostrofare
le loro dicendo "Cari amati piedi!"» (nota del Pecchio). 2. la mano . . .
Ariosto : « e la Candida man spesso si vede / lunghetta alquanto e di lar-
ghezza angusta, / dove ne" nodo appar, ne vena escede» (Orl.fur., vn, 15).
3. «Sostanziosa refezione tra colazione e pranzo » (nota del Pecchio).
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA III
LA PROMESSA SPOSA1
V oleva dedicare questo capitolo ai cavalieri serventi, agli spasimanti
eterni, ai tiranni di famiglia, e a quelle madri che credono che uno
sguardo contamini le loro figlie, e che, ansiose di smaltire la loro
merce, ad altro non aspirano che a maritarle una volta, qualunque
sia per essere lo sposo, o un calandrino,2 o un babbuino, o un vec-
chio lib ... no ; ma ho poi pensato ch'e meglio essere tollerante,
e lasciar vivere ciascuno a suo mo do.
La damigella K . . . era una giovine di 19 anni alta, svelta, di belle
maniere, festevole senz' essere troppo gaia ne vispa, di bianchissime
carni, con uno sguardo lento e soave, ma non languente, con una
copiosa capigliatura biondo-scura a larghe anella, tale insomma da
essere ammirata dalla doppia schiera di giovani in mezzo a cui
guizzano via le belle italiane che entrano nel teatro della Scala di
Milano. In una visita ch'essa rese ad una famiglia di sua cono-
scenza, lontana dalla sua citta ben cento miglia, piacque a un gio
vine di quella famiglia. La richiese in isposa; ebbe il consenso della
giovine e de' suoi parenti. Ma lo sposo non essendo ancora bene
awiato nella sua professione di awocato, si convenne da ambe le
parti di differire il matrimonio per due anni. Intanto lo sposo di
quando in quando veniva a visitare la sua promessa moglie; era
accolto dalla famiglia con un'intimita piu che amichevole, consi-
derato e onorato dagli amici come il marito futuro della giovine.
Cosi i due sposi invece di andare all'altare ad occhi bendati, ave-
vano campo (ed un'invidiabile pazienza) di studiare il loro carat-
tere, di awezzarsi a rispettarsi in presenza degli altri, di correggersi
i. Questo brano corrisponde alle pp. 192-201 dell'edizione da noi seguita.
Precedono il testo i seguenti versi, e la traduzione, di George Crabbe:
« For who more blest than youthful pair remov'd / from fear of want, by
mutual friends approv'd, / short time to wait, and in that time to live / with
all the pleasures Hope and Fancy give; / their equal passion rais'd on just
esteem / when reason sanctions all that Love can dream ? » (« Chi piu felice
d'una giovane coppia esente dal timor del bisogno, da comuni amici com-
mendata, che breve tempo attende, ed in quel tempo vive fra tutti i piace-
ri che danno la speranza e rimaginazione ; la cui egual passione e giustamen-
te pregiata quando la ragione approva tutto quanto amor pu6 sognare?»).
George Crabbe (1754-1832), celebre poeta inglese, cant6 i villaggi e costumi
degli abitanti del suo Suffolk nativo, senza vero impegno sociale, ma non
senza un gusto bozzettistico che prelude al realismo del romanzo ottocen-
tesco. 2. un calandrino: uno sciocco, dal noto personaggio del Decameron.
112 GIUSEPPE PECCHIO
se mai avevano qualche difetto. Per piu stringere la conoscenza e
Tamicizia delle due famiglie, una sorella dello sposo rimase per
piu mesi in casa della giovine, trattata piu come una parente che
come un' arnica. Cosi invece di ritrovare una cognata gelosa un
giorno, e maledica, la giovane si preparava un'amica nella nuova fa-
miglia, una pronuba delle sue nozze, e una protettrice in ogni
evento per la riconoscenza che genera un'amichevole ospitalita.
Or bene; questa giovine ch'era da me conosciuta prima di questa
promessa di nozze non altero punto ne le sue maniere, ne il suo
tratto amichevole con me. Bene spesso ella era la prima a invitarmi
ad ire seco lei a passeggio. Come forastiero aveva qualche volta
Tonore di darle il braccio. II passeggio era sempre un passeggio
petrarchesco1 - tra solitarie piaggie - tra deserti campi -, com'e il
gusto inglese. Due o tre volte essa venne di buon mattino a farmi
visita, in mia propria casa, accompagnata per6 da una sua cara e
vivace sorellina. Entrava giuliva; Poggetto della visita era qualche
grazioso invito di pranzo o di te. Si fatte visite non sono un'irrego-
larita, ne un fenomeno in questo paese. Siate pur celibe, siate pur
giovine (ma non siate scapestrato, almeno in apparenza), e se cadete
ammalato avrete la visita di tutte le nubili e maritate di vostra co
noscenza. Piu ; ella seppe che la mia biancheria era trascurata, sic-
come quella di un orfano senza patria e vagabondo sulla faccia della
terra; si offerse, e con una soave violenza voile aggiustar essa ogni
cosa. Quindi con quella cura e con quell'affezione che una tenera
sposa, o una sviscerata amante in un quarantesimo quarto grado di
latitudine farebbe, ella mend6 il mio lacero equipaggio,2 e segn6
col mio nome i miei fazzoletti e le mie camisce. Se a un quarante
simo quarto grado di latitudine una giovine mi avesse fatto solo
un borsellino, la mia cieca vanita mi avrebbe fatto credere che in
quel borsellino v'era il suo cuore. Ma il cuore di K . . . era gia
dato ad un altro, e sarebbe morta mille volte piuttosto che commet-
tere uno stellionato3 di tal sorta. La sacra parola da lei data non
le proibiva per6 secondo Pusanza lodevole della sua nazione, di es-
sere meco e con altri affettuosa e cortese. Ella sapeva fare sempre
del regali adattati, eleganti, e di buon gusto. Quando partii per
1. un passeggio petrarchesco: il Pecchio allude alia preferenza che il Petrarca
spesso manifesta per i luoghi campestri e solitari. Le due espressioni che
seguono richiamano due luoghi del Petrarca (Rime, cxxix, 4, e xxxv, i).
2. equipaggio: corredo. 3. stellionato: e il reato di chi vende come libero
da ogni ipoteca un possesso di cui non gli e lecito disporre a suo arbitrio.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 113
la Grecia, mi rega!6 una nitida edizione del Child-Harold di lord
Byron, e quando ne ritornai avendo traspirato1 che non aveva
nel mio nuovo alloggio ne carta ne calarnaio da scrivere, s'introdusse
di furto nel mio studio, mentr'era fuori di casa, con una sua cugina
complice di quello scherzo magico, e depose sul mio tavolino un
elegante portafoglio,2 un calamaio, della finissima carta; e poi per
nascondere il suo dono generoso finse che due delle Fate che da
tanti secoli abitano PInghilterra, e carolano nella notte nei boschi,
e nei campi incolti d'Inghilterra, avevano recato quel regalo. lo
(e qualunque altro nato sotto un sole ardente) io che in Italia, in
Francia, ec. avrei concepita la speranza di un colpevole amore a
una sola benigna occhiata che una ragazza avesse lasciato cadere
sopra di me, ho io mai nutrito il piu lieve indecente pensiero su
questa graziosa giovine? Da uomo d'onore, no. Ecco 1'effetto della
confidenza accordata alPuomo, e della coscienza della propria virtu
nella donna. Le promesse di matrimonio molto tempo prima della
celebrazione sono qui molto frequenti nel medio ceto. Se mai il
giovane manca di parola, i parenti della figlia lo citano innanzi ai
tribunali; se non giustifica il suo pentimento, e condannato a una
multa adeguata alle circostanze. Alcune ammende montano a cin
que e sino a dieci mila lire sterline. Vero e che questo sistema
puo dar luogo ai perfidi agguati di un Lovelace.3 Ma quanti pochi
Lovelace sono da temersi, quando la soddisfazione di un capriccio
deve costare tanto tempo, tante cabale, tante bugie e tanti pericoli!
Io credo che un giovine farebbe piuttosto il giro del mondo a piedi
che di assoggettarsi a tutte le pene del Lovelace di Richardson per
ottenere una Clarisse per tradimento. D'altronde Puomo che tra-
disce una giovine in Inghilterra va incontro alPabbominio dell'opi-
nione pubblica al punto che quel sig. Wakefield che 1'anno scorso
tent6 d'ingannare la damigella Turner era piu detestato da ogni
persona, che se avesse ucciso Giorgio IV.
Riferir6 un altro esempio di questa innocente liberta. - Una da
migella scozzese, grande, ben fatta, robusta al pari delle eroine di
Ossian,4 con guance rosee, fresche come mele, era venuta da Edim-
burgo alia distanza di 200 miglia per annoiarsi per due mesi e per
i. avendo traspirato: avendo avuto sentore. 2. portafoglio'. una cartella da
tavolo, da tenervi dei fogli. 3. un Lovelace: un seduttore, dal nome del
protagonista del romanzo Clarissa Harlowe (1747-1748) di Samuel Ri
chardson (1689-1761). 4. Ossian: vedi la nota 3 a p. 73.
114 GIUSEPPE PECCHIO
disannoiare una vecchia avola che solitaria viveva nella solitaria
citta di Tadcastle in una solitariissima casa. Per una italiana, o una
spagnuola quella casa sarebbe stata una tomba; si sarebbe creduta
una sepolta viva. Avrebbe fatto suonar alto colle sue amiche il sa-
grifizio che faceva alia parentela, e quei due mesi le sarebbero sem-
brati due secoli. La scozzese invece adempiva al suo pietoso ufficio
colla piu generosa naturalezza. Le feci due visite, sempre di sor-
presa, e la trovai sempre ben pettinata ed elegante, come se fosse
per ricevere visita da alcune sue invide rivali. Questo e molti altri
esempi m'hanno convinto che le inglesi si vestono non tanto per gli
altri quanto per se; sono quindi sempre ben vestite. Generalmente
non vi sono alti specchi nelle loro camere, non hanno nemmeno
quel dolce compenso di gettare furtivo uno sguardo sulla propria
immagine passandogli dinanzi con frequenti pretesti. Non vi sono
balconi. Non v'e Puso di mettere il capolino fuori della finestra per
vedere che tempo fa e che gente passa; e nelle strade non vi sono
n6 babbei ne cicisbei. John Bull1 lavora, guadagna, ammassa denaro,
e poi si marita senz'altre manovre di fazzoletti, di finestre socchiuse,
od altri segni telegrafici. lo la trovava per lo piu al tavolino leggendo
o scrivendo; tutto lucente, scrittoio, calamaio, penna con Hbri ben
stampati, ben legati e ancor meglio scritti. Nessun imbarazzo, nes-
suna confusione nella conversazione. Le giovani hanno 1'abitudine
della societa, e la lettura suggerisce loro interessanti argomenti.
Quindi gli amici comuni, la letteratura, la differenza de' costumi
erano i soggetti de' nostri discorsi. I ladri domestic! sono pochi in
paragone del gran numero de' servi che abbiamo, io credo, perche
la confidenza e il loro freno. Cosi anche il maresciallo di Richelieu2
sarebbe stato forse onesto a suo malgrado in questo t@te-d-tete. E
poi per un uomo intraprendente, per un conquistatore, un tamer-
lano3 del bel sesso (com* era il maresciallo) non avrebbe forse per la
facilitk rinunziato alia conquista, quando ella mi invit6 a passeggiar
seco lungo il flume vicino alia sua casa per un sentiero quasi solita-
rio che ci condusse a un colle petroso, coperto di annose quercie e
folti cespugli? Ma il maresciallo si sarebbe ingannato; avrebbe
i. John Bull: vedi la nota sap. 70. 2. Louis Frai^ois duca di Richelieu
(1696-1788), maresciallo francese, famoso per i suoi intrighi amorosi e la
sua fortuna con le donne (due sue amanti si batterono a duello per lui),
ma che fu, per queste sue awenture, varie volte imprigionato. 3. un tamer -
lano: un conquistatore, dal noto personaggio storico: vedi la nota 3 a
P- 37-
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 115
disprezzato comme une bicoque ce qui etait une fortresse tout-d-fait
digne de Vauban.1 Passammo vicino a un antico campo romano. Si
vedono ancora i rialzi di terra dentro cui que' conquistatori del
mondo chiudevano le loro legioni. Ella mi fece da Cicerone, e per
vero eccesso di cortesia mi parlava de' romani quasi fossero gli
antenati degPItaliani. Per reciprocita io le parlai di Walter-Scott,
quasi fosse 1'Ariosto scozzese. La conversazione non langui mai,
a segno che sarei passato dinnanzi a una bella casa di campagna
che sorgeva sull'altra riva del fiume senza awedermene, s'ella non
me ne faceva accorto. Giunti a casa, le fu imbandito il pranzo.
Ella m'invito a prendere una refezione (la zia fu sempre invisibile
perch.6 confinata da un infreddore nella sua camera). Terminato il
pranzo, a un chinar di capo che mi fece, segnale dei brindisi inglesi,
sorbimmo insieme un bicchier di vino composto di estratto di fiori
di zucchero e di un po* d'acquavite, detto vino inglese, bevanda
gradevole e concessa anche alle giovani donzelle di quando in quan-
do: mi mostro la collezione delle romanze e poesie spagnuole di
Bohl de Fabre.2 M'aveva gia detto che la religione e il conforto
delle anime, e la felicita delle famiglie, cosi mi addit6 alcune reli
giose odi di Leon da Ponzio,3 sue favorite, e veramente sublimi. Mi
fece leggere uno squarcio delPOda sulla Santa Soledad\ colla ma-
tita erano gia segnati i passi piu belli e conformi ai sentiment! della
sua anima. Ben era tempo di prendere congedo dopo una visita di
quattr'ore ch' erano passate velocemente al pari delle ore piu felici
d'amore. Ribattei al galoppo le dieci miglia che aveva fatte ve-
nendo; non agitato, non sbalordito, ma imbalsamato da un piacere
simile a quello che si prova alia veduta di un bel quadro del Poussin4
con belle ninfe e ameni paesaggi.
i. Sebastian Le Preste, marchese di Vauban (1633-1707), ingegnere mili-
tare francese, rimase famoso per i sistemi di fortificazione, che egli rin-
nov6. 2. la collezione , . . di Bohl de Fabre: Juan Nicolas Bohl de Faber
(1770-1836), scrittore spagnolo di origine tedesca, cui si deve una raccolta
(collezione) di rime: Floresta de rimas antiguas castellanas (1821-1825).
3. Leon da Ponzio: Frey Luis Ponce de Leon (1528-1591), poeta, religioso
e scrittore spagnolo. 4. Nicolas Poussin, pittore francese (i594~I665),
vissuto lungamente a Roma e formatosi sulla pittura italiana.
Il6 GIUSEPPE PECCHIO
[FANCIULLI INGLESI ]r
Non vi sono nel mondo fanciulli piu belli degl'inglesi, se non forse
quei del Correggio o dell'Albani.2 Sono lucidi, freschi, veri fiori
di primavera. Simili appunto ai fiori, che la natura li crea belli, ma
la mano e Findustria li fanno ancora piu belli. L'estrema pulizia,
il vitto sano, metodico ed abbondante, la compiacenza, la dolcezza
inalterabile de' parenti, 1'assenza totale dei dispiaceri contribui-
scono a rendere sereni i loro volti e sani i loro corpi. Se in Inghil-
terra i quadrupedi hanno leggi ed oratori nel parlamento che li
proteggono, quanta cura, quale amorevolezza non si deve avere pe'
fanciulli! Essi sono lavati due o tre volte il giorno. Ogni giorno
cambiano almeno due volte di abiti. Due volte almeno si petti-
nano. Chi vide mai teste piu rilucenti di quelle dei bambini inglesi ?
Sono auree teste. La eleganza non e una vanita in loro, ma un'abi-
tudine. Non ho mai inteso una madre vantare al suo figlio un abito
nuovo, promettergli per premio un cappellino nuovo. Quindi non
ho mai veduto un fanciullo pavoneggiarsi per gli abiti, ne mostrare
con iattanza le scarpette. II loro cibo e semplice, latte, frutta cotte,
butirro, pane, e carne senza salse, non mai contrastati, ne misurati.
Siedono a tavola a guisa degli altri; ho assistito molte volte al
pranzo di soli fanciulli, tagliano, si servono, sono composti, acqui-
stano senza fatica, senza rimproveri, senza lagrime lo stesso conte-
gno, la stessa gentilezza di modi, la stessa disinvoltura delle per-
sone adult e. Quei pani grossi inglesi, quelle cataste di patate, quei
i. Questo brano corrisponde alle pp. 207-23 delPedizione da noi seguita.
Precedono il testo i seguenti versi, e la traduzione, dell' Ode on a Distant
Prospect of Eton College (w. 41-50) di Thomas Gray (1716-1771), uno dei
maggiori poeti del Settecento inglese, egualmente celebre per le sue Odes
« oraziane » che per la famosa Elegy Written in a Country Churchy ar d (1750) :
«Gay hope is theirs by fancy fed, / less pleasing, when possest; / the tear
forgot as soon as shed / the sunshine of the breast, / their buxom health of
rosy hue, / wild wit, invention ever new, / and lively cheer of vigour born ; /
the thoughtless day, the easy night / the spirits pure, the slumbers light /
that fly the approach of morn» (« La gaia speranza alimentata dalla fantasia
ti e men gradita se giugni al possesso; si dimenticano le lagrime appena
sparse, Pallegrezza del cuore, la dolce salute di color di rosa, 1'indomito
genio sempre nuovo neU'invenzioni, le leggeri gioie figlie del vigore, il
giorno senza cure, Tindolente notte, i puri spiriti e i leggeri sonni che
fuggono all'awicinarsi del mattino»). 2. quei . . . deWAlbani: cioe, di-
pinti dal Correggio e dall'Albani. Francesco Albani, bolognese (1578-1660),
fu pittore di una grazia piuttosto leziosa.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 117
monti di carne paiono fatti apposta per prevenire 1'avidita, e per
saziar piu presto colla loro vista i ghiottoncelli. Tutta questa ab-
bondanza non lascia luogo a querele e a dispute. I fanciulli si asten-
gono tutti dal vino, e sino ai died o dodici anni anche dal te e dal
caffe. Non e per loro una privazione quella del vino ; perche le loro
madri, le loro sorelle se ne privano quasi ogni giorno volontaria-
mente. Ma poi si sa che divenuti grandi se ne compensano con
usura.
Ma se sono belli i fanciulli inglesi sono ancora piu felici. Non
sono ne schiavi, ne tiranni; quindi ne insolenti, ne gementi. Non
avendo mai inteso lunghi vagiti e piagnistei nelle case signorili, volli
verificare se questo era un vantaggio solo riser vato alle classi agiate.
Scorsi le straduccie piu sucide, visitai i casolari piu poveri nelle
citta, nelle campagne, trovai che i fanciulli non tiranneggiati, non
disprezzati, non irritati, e soprattutto non mai beffati menano
. . . i giorni
della tenera eta lieti ed adorni.1
Quante volte compiansi la sorte dej miei compatriotti, che tormen-
tati, inquietati, torturati dalle leggi, dagli uomini, dal governo,
per un invincibile istinto della natura umana, si sfogano e si vendi-
cano contro i piu deboli, e divengono a vicenda i tiranni delle loro
famigliel II padre qui non s'immischia punto dell'educazione de*
figH. Essi sono assorti negli affari, e per6 gli abbandonano alle cure
della madre, che ben di rado esce di casa, ed esercita questo sacro
ministerio con una costante soave equanimita. NelPeducazione do-
mestica e escluso il castigo, al pari del premio, stimolo di rivalita.
I fanciulli non abborriscono la lettura, perche vaghi sempre d'imi-
tare, vedendo sempre i tavoli seminati di libri, e che tutti gli altri
leggono per lo meno lo smisurato giornale, o un inevitabile ro-
manzo del profluvio che se ne stampano, leggono anch'essi volen-
tieri qualche libricciuolo della loro libreria. In questi ultimi qua-
rant'anni e immenso il numero dei libri che si sono composti in
Inghilterra per istruzione dei ragazzi e della gioventu. lo ne darei
qui a piedi di pagina una lista d'alcuni, che meriterebbero d'essere
tradotti e adottati anche dalle altre nazioni, ma sarebbe un catalogo
troppo lungo.
L'ordine e la distribuzione del tempo in una famiglia facilitano
i. «Tasso» (nota del Pecchio), e precisamente Ger. lib., IX, 33.
Il8 GIUSEPPE PECCHIO
ogni cosa. Stabilito una volta un ordine impreteribile, diventa come
una legge inesorabile di natura a cui ogni individuo obbedisce senza
renitenza. Diviso, dico, che sia il giorno in porzioni assegnate, non
v'e piu d'uopo di esortazioni e di comandi. Ognuno si sottomette
al suo dovere, come ognuno si sottopone senza dolersi alle vicende
del giorno e della notte. La giornata inglese a questo rispetto e
simile al sistema celeste. La famiglia si leva, fa colazione, pranza
ec. ec., sempre allo stesso minuto. £ un pianeta che segue la sua
orbita senza bisogno di ulteriore impulso. La taciturnita e il timor
reverenziale de' servi fa si ch'essi non comunicano i loro vizi o le
loro passioni ai fanciulli, come in altri paesi succede.
Tre cose piu d'ogn'altra mi hanno fatto senso nell'educazione
inglese; il rispetto che i parent! mostrano ai loro figli; la cura di
non fomentare Tiracondia; gli esercizi di corpo che compensano la
perdita di forze per gli esercizi mentali.
II rispetto del padre verso i figli comincia di buon'ora, e non
cessa mai. Questa concessione istituisce il diritto di reciprocita in
favore del padre. Una contumelia non cade mai dalle labbra del
padre. L'onore del figlio deve giungere immaculato nella societa,
e quando e immaculato si ha sempre il coraggio di difenderlo. Qui
non parlo delle madri; perch6 esse possono fare ci6 che vogliono,
la loro collera e sempre Pira di un amante. Sovente il padre, quando
riceve lettere, se pur non sono lettere d'affari, le comunica e le fa
circolare in tutta la famiglia. Sfugge per lo piu di far uso di nomi ac-
carezzativi, che sono diminutivi che alia fine fanno supporre anche
una diminuzione di merito. Anzi molte volte trapassano in un'af-
fettazione opposta di chiamare il figlio col nome di famiglia . . . il
sig. Tizio . . . per la ragione per cui madame de Lotenville1 non
voleva che George Dandin chiamasse sua moglie « ma femme » ma
« madame Dandin ». Un signore inglese mio amico ascoltava con at-
tenzione ed interesse le lezioni d'idrostatica che suo figlio leggeva
dinanzi a una brigata. Un altro gentiluomo inglese che aveva in-
segnato egli stesso il latino a sua figlia, prendeva lezioni d'italiano
in presenza di lei dopo aver fatto colazione insieme. Anche ne? col-
legi i giovanetti sono sempre trattati da eguali dai loro superiori,
e stimati e trattati da uomini. II frutto di questa ragionevolissima
etichetta e, che Finglese (forse nato con facolta non cosi pronte
i. madame de Lotenville: madame de Sotenville, corne veramente deve scri-
versi, e personaggio assai noto della commedia George Dandin di Moliere.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA Il<)
come quelle d'un italiano) diventa uomo piu presto. Non brillano
con facezie, non sono mai prodighi di spirito, ma sono sempre
sensati e non dicono mai scipitezze. Non sapranno far sonetti, ma
sanno far affari. La nazione inglese ha ridotto il tempo a capitale;
quindi la vita di un uomo e un capitale piu fruttifero quanto piu
di buon'ora comincia a rendere.
Quei che ammirano o deridono la freddezza inglese credono che
sia effetto del clima e del loro temperamento. Si suol dire che non
hanno sangue nelle vene. Ma non avevan sangue nelle vene quando
tanto ne sparsero nelle guerre civili della Rosa rossa e Rosa bianca I1
Quando sotto il regno di Maria2 perseguitarono e incrudelirono
contro tante migliaia di loro concittadini per dispute teologiche ? E
quando nella guerra tra il parlamento e Carlo I3 per piu anni segui-
tarono a trucidarsi con proscrizioni, con patiboli, con battaglie?
Se gl'inglesi de' nostri giorni sono tanto tranquilli e freddi da pa-
rerci uomini di ghiaccio, forse e perche sono pentiti di quelle loro
antiche pazzie, fors'anche perche non hanno occasione da riscal-
darsi, ma il piu probabile si e che la loro educazione comprime in
loro quei fuochi fatui che noi crediamo sempre segnali di volcani,
e spesso all'atto poi c'ingannano. Fatto si e che nella loro educa
zione la loro anima non e mai disturbata da passioni
venti contrarii alia vita serena.4
Non v'e Fuso delle beffe, e delle satire nelle famiglie, che tanto
esaspera gli animi dei fanciulli. La madre evita tutte le occasioni
di eccitare lo sdegno de? suoi figli; se mai essi s'infuriano, s'acci-
gliano, essa tosto con un vezzo li disarma, o li prega in tuono au-
torevole di non andar in collera. Non andate in collera ed otterrete
tutto. - Questo e il firmano5 che le madri pubblicano ad ogni
i. guerre. . .bianca: la guerra civile, per motivi dinastici, tra le famiglie
di Lancaster e di York, e i loro seguaci, si svolse dal 1455 al 1485 e fu
sanguinosissima. Fu detta delle «due rose» dalle insegne nobiliari delle
due famiglie: una rosa bianca i Lancaster, una rossa gli York. 2. il re
gno di Maria: Maria Tudor, figlia di Enrico VIII e di Caterina d'Arago-
na, regn6 dal 1553 al 1558. Educata al piu fervido cattolicesimo, tent6
di imporre la sua fede nello Stato e vers6 in questa lotta molto sangue.
3. guerra.. . Carlo I: Carlo I, figlio di Giacomo I, regnc- dal 1625 al 1648.
II suo tentative di imporsi al Parlamento provoc6 una guerra civile (1642-
1646), che fini con la sua decapitazione (30 gennaio 1649). 4. Petrarca,
Rime, cxxvin, 105. 5. firmano: decreto, editto (dal persiano firman).
120 GIUSEPPE PECCHIO
momento nel loro impero. L'esser padroni di se - to Keep the
temper - e una tal legge d'educazione che pare quasi divenuta una
legge fondamentale dello stato. Non e permesso 1'escir de* gan-
gheri (come i toscani ben esprimono) neppur co' servi, neppur col
piu fangoso facchino. Un risentimento grave espresso in decorose
parole e la divisa del gentiluomo in Inghilterra. Nel parlamento
stesso quegli oratori che non sanno frenarsi, sono generalmente
biasimati, e giudicati inetti al maneggio dei grandi affari. Un duello
fatto precipitosamente e stimato tanto ignominioso quanto un duel
lo codardamente ricusato. II sig. Hamilton Rowan (padre del Co-
modoro Hamilton) credette due anni sono di essere stato offeso
nel disco rso pronunziato da un membro in parlamento. Sebbene
carico di 75 anni, parte immediatamente da Dublino per doman-
dare uno schiarimento a Londra alPoratore. Segue un carteggio;
le due parti scelgono ciascuna un amico per decidere la cosa; il
sig. Hamilton non sapeva rinvenire Tinsulto, e non sapeva d'altron-
de ritirarsi. Alia fine sottomette il caso a un antico giudice, e uomo
delicato negli affari d'onore. Tosto che questi ebbe profferito che
se avesse insistito di piu avrebbe avuto il torto, e la disapprovazione
de' suoi amici, il coraggioso vecchio se ne ritorn6 a Dublino a con-
tinuare i suoi lavori nelle belle arti. Se per6 esiste Poffesa, il duello
diventa legittimo ed inevitabile : cosi accadde molti anni sono quan-
do il duca d'York, fratello del re, a una rivista diresse un troppo
pungente rimprovero a un colonnello. II colonnello prima di chie-
dere soddisfazione al principe interpello i suoi ufficiali se lo crede-
vano ingiuriato. Avendo questi risposto di si, mand6 la sfida, e il
duello si effettu6.
Non e gia Teducazione inglese simile al sistema di Pitagora che
con cinque anni di continue silenzio e col solo vitto di vegetabili
rendeva i suoi discepoli altrettanti frati della Trappa.1 Non e nep
pur simile allo stoicismo, secondo il quale, in mezzo alle ruine del
mondo, Tuomo doveva conservarsi imperturbabile come una statua.
L'educazione inglese e un sistema inglese che non si somiglia a
null'altro, nato in Inghilterra, prodotto da molte circostanze, forse
dall' essere una nazione commerciale e guerriera ad un tempo, che
comprime le passioni nelle cose frivole, e lascia loro la briglia nelle
i. frati della Trappa: i trappisti appartengono a un ordine che, soppresso
con la Rivoluzione francese, fu ricostituito con la Restaurazione. La regola
esige il silenzio, un vitto di pane e vegetali, un assiduo pensiero della morte.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 121
rilevanti. In famiglia, nel tratto socievole, nella discussione degli
affari, vuole calma, freddezza, ponderazione. Nelle grandi intra-
prese, nella guerra, nei pericoli della patria, vuole coraggio ed en-
tusiasmo. Quello stesso inglese che a stento risponde al vostro sa-
luto, e che siede a tavola con voi come un Pagoda,1 lo vedreste in
un giorno di combattimento in mare, o in tempo di un'elezione
parlamentaria, spiegare il piu sfrenato entusiasmo. Qual'e quel-
Timpresa dove ci sia d'acquistar gloria ove Tinglese non si getti a
capo chino (headlong) ? Mungo Park2 s'interna solo nei deserti del-
P Africa; non atterrito dalle sciagure del primo viaggio, ritenta il
secondo, e perisce. II capitano Cokrane3 ritorna a piedi da Kamst-
ska a Pietroburgo per sei mila miglia, solo soletto come fosse una
passeggiata dell'Hyde Park; indi va in America per fare un'altra
passeggiata attraverso le Cordiliere, e vi muore. Lord Byron ab-
bandona il caro ozio delle Muse, il sorriso ancor piu caro delle belle
italiane, per morire in suolo straniero in difesa della liberta stra-
niera.4 Lord Cokrane5 dopo aver combattuto nell'Atlantico e nel
Pacifico per 1'Indipendenza dei nuovi Stati d' America, vola nel-
FArcipelago a dividere la gloria con un pugno di Greci che lottano
da sei anni col mostruoso impero che gli opprime. Leggete la vita
di sir Robert Wilson6 e vedrete quanti pericoli volontariamente ha
corsi in favore sempre degli oppressi, o fossero re (in seguito in-
grati), o popoli (poco grati), o semplici individui (ingratissimi). Eb-
bene; tutti costoro che mostrarono un fanatismo da cavalieri er-
i. un Pagoda', si chiamano cosi, oltre che i templi indiani e cinesi, anche
gl'idoli che vi sono adorati. 2. Mungo Park, celebre viaggiatore inglese,
si rec6 in Africa sulle sponde del Niger nel 1795, e poi, tomato in pa
tria e pubblicata una relazione del suo viaggio, rinnovo la sua impresa
(1805) per scoprire le sorgenti dello stesso fiume. Solo nel 1810 si seppe
che era stato trucidato con i suoi compagni. 3. // capitano Cokrane: John
Cochrane, esploratore inglese (1780-1825). Nel 1820 cerc6 di raggiungere
1' America del Nord attraverso 1'Asia e lo stretto di Bering, ma, per le diffi-
colta incontrate, si fermd (1821) a Kamtschatka, donde torno a Pietroburgo
a piedi: e narr6 in un libro questa sua impresa. Si stabili poi nell' America
del Sud, in Columbia, dove mori. 4. per morire . . . straniera: e noto che
Byron mori (1824) in Grecia, a Missolungi, dove si era recato per com-
battere insieme con i Greci insorti. 5. Lord Cokrane: Thomas Cochrane
(1775-1860), ammiraglio inglese, combatte a lungo nell' America meridio-
nale, in aiuto del Peru e del Cile. Nel 1827, proprio mentre il Pecchio
componeva queste pagine, parti per la Grecia a combattere in favore degli
insorti, ma negli anni successivi ebbe varie traversie in conseguenza del suo
stesso carattere. 6. Robert Wilson: vedi la nota i a p. 86.
122 GIUSEPPE PECCHIO
ranti, nella vita sociale non si sarebbero resi colpevoli di un atto
d'impazienza, neppur con un servo.
Pare che Rousseau avesse tolte dagP Inglesi, in mezzo a cui visse
qualche tempo, le idee principali dell'educazione fisica del suo
Emilia.1 La ginnastica degPInglesi e quasi tutta applicata a cose
utili. In quella guisa ch'essi non studiano il diritto pubblico e lo
stile lapidario, perche li credono studi inutili, non imparano la
scherma, n6 il salto mortale, ne i capitomboli dei grotteschi, ne* le
capriole dei ballerini; ma invece imparano a correre a briglia sciolta
a cavallo, a saltar siepi e fosse, a nuotare, a saltare a piedi giunti, ad
arrampicarsi su gli alberi. Noi impariamo con tanta fatica la scher
ma, tanto inutile, se non per chi vuole uccidere o essere ucciso in
regola. In guerra pure e di poco vantaggio. GPInglesi invece im
parano a boxer che (ridasi pur quanto si vuole) e utile ad ogni mo-
mento della vita. Noi siamo destri nel bigliardo, destrezza di nessun
applicazione nella vita, simile a un dipresso al giuoco delle palle
degPIndiani. GPInglesi invece dalPinfanzia sino alia vecchiaia sono
awezzi a giuocare al criket, giuoco alParia libera che richiede forza,
destrezza, velocita e qualche po' d'intrepidezza nelPaspettar la pe-
sante palla che Pavversario lancia a tutta forza contro alcuni stecchi
di legno che Paltro ribatte con una specie di clava. La caccia della
volpe, quella del fucile, le corse a cavallo, il nuoto, il remigare, il
guidare un cocchio, il criket, lo sdrucciolare sul ghiaccio (patiner)
sono esercizi che tengono in continue moto quasi tutte le eta. Si-
mili ai Greci, gPInglesi credono che la ginnastica non disconvenga
ne a nessuna eta, n£ a nessuna professione. Alia caccia, al criket e
allo sdrucciolar sul ghiaccio mi sono trovato piu volte con fanciulli,
preti e uomini in eta avanzata, tutti misti insieme. In tutti questi
esercizi la mira non e di abbellire ma di fortificare, to steel, cioe,
dare una tempra d'acciaio al corpo. Per esempio alia caccia della
volpe a cavallo, pochi Tartari sarebbero capaci di sopportare la fa
tica che alcune volte soffrono con ilarita i giovani inglesi. II primo
giorno del corrente anno (1828) vi fu una caccia vicino a York in
cui i cavalieri inseguendo un'astutissima volpe scorsero 52 miglia in
sei ore e mezza, e non fecero alto che una sola ,volta per 10 minuti.
i. Pare . . . Emilio: Rousseau si rec6 in Inghilterra, accettando Tinvito e
1'ospitalita di Hume, nel 1765, quando gi£ aveva pubblicato Vfimile (1762).
Ci6 non toglie che egli abbia potuto trarre dagli Inglesi, ad esempio da
Locke, qualche idea sull'educazione fisica.
OSSERVAZIONI DI UN ESULE SULL'INGHILTERRA 12$
Nessuno spaventa mai i ragazzi coll'idea de' pericoli. Gli Spar-
tani dicevano, quando gettavano nel burrone i figli nati storpi,
ch'e meglio che un figlio muoia, di quel che cresca un cittadino
inutile alia patria. Quando gPInglesi lasciano scivolar sui fiumi ap-
pena agghiacciati i loro figli, pare che anch'essi molto saviamente
giudichino ch'e meglio correre il pericolo di perdere il figlio per
un infelice accidente, che d'aver un pusillanime e tremebondo per
tutta la vita. Non ammollito quindi da soverchie carezze, non at-
territo da irati sopraccigli, o da tuonanti minacce, il fanciullo in-
glese e libero ne' suoi movimenti, si siede per terra, balza in piedi
a sua voglia, si sdraia sul sofa o sulFerba; purche non turbi la pace
degli altri, egli puo fare ogni suo innocente capriccio. In questo
modo fa continue esperienze da s6, si abitua ad osservare, a giudi-
care da se, paragona i suoi mezzi colle difficolta da vincersi, scan-
daglia i pericoli, e acquista vigore e confidenza nelle proprie forze.
All' eta di sei o sette anni il fanciullo e gia capace di andare da solo
a scuola per le afTollate strade di Londra, in quel trambusto di
carri, carrozze e cavalli. 6 pero vero che gl'inviolabili e inviolati mar-
ciapiedi di tutte le citta inglesi sono una specie di guida pei ragazzi.
Nondimeno essendo rarissimi gli sfortunati accident! di alcun di
loro pesto od offeso dalle carrozze, la giustizia vuole che non sieno
defraudati del merito del precoce loro buon senso. La paura natu-
rale all'uomo e gia un mentore sufficiente contro i pericoli, senz'ac-
crescerla con un'eccessiva timida previdenza. Mi ricordo (e con
sospiro me ne ricordo) di aver veduto sul lago di Como parimenti i
fanciulli dei pescatori o dei montanari, abbandonati in balia di se
stessi, scherzare in riva del lago, commettersi in piccioli battelli al
capriccio delFonde, giuocare sull'orlo dei pozzi, arrampicarsi su
precipizi, pendere come camozze da altissime rocche, senza mai ca-
dere o farsi male. Ed e uopo anche confessare che le popolazioni de'
nostri laghi sono le piu dotate di coraggio e di talento. Tutti i fan
ciulli in quest'isola sanno cavalcare, perche sin dalla piu tenera eta
vi sono awezzi. Nessuno gli accompagna. Vanno, girano, vagano
da se, trattano il loro pony1 come un compagno ; lo nutrono, lo pu-
liscono essi stessi, lo lasciano riposare a tempo; non abusano dell a
sua docilita, perche e il commilitone delle loro awenture. Leggasi
i.«Razza di cavallini docili e forti ch'e molto coltivata in Inghilterra»
(nota del Pecchio).
124 GIUSEPPE PECCHIO
a questo proposito la graziosa novelletta di Light-food di miss
Edgeworth.1
La liberta e la maestra d'ogni cosa in Inghilterra. Ad imitazione
del governo che pubblica ordini e leggi meno che puo, cosi non vi
sono che pochi e indispensabili legami in ogni cosa, Gli alberi non
sono storpiati, ne contorti, ne recisi da forbici, ma crescono rigo-
gliosi, fronzuti a loro voglia ne' parchi e nelle campagne; i giardini
non sono simmetrizzati, ma imitano la natura; le case non sono ar-
chitettate ne simmetrizzate di soverchio a dispendio de' comodi
interni, ma sono ora corpulente, ora in isghembo, ma sempre ben
divise e comode nell'interno. I cavalli non sono irritati, o storpiati
con esercizi inutili e movimenti mimici, ma sono forti, nerboruti
e velocissimi. Qui in somma 1'educazione e piuttosto una norma,
una guida, che una violenta compressione. II popolo inglese e
il popolo incivilito che meno si scosta dalla natura.
i. Maria Edgeworth (1767-1849), scrittrice anglo-irlandese, autrice di rac-
conti di vita irlandese (Belinda, 1801; Leonora, 1806) e di narrazioni mo-
rali per fanciulli. I suoi scritti influirono in Italia su Pietro Thouar e Bianca
Milesi.
LEONETTO CIPRIANI
PROFILO BIOGRAFICO
JLEONETTO CIPRIANI nacque a Ortinola, una frazione di Centuri,
in Corsica, il 10 ottobre 1812. La famiglia, oriunda di Firenze,
mescolata nel Medioevo alle lotte comunali, e percio varie volte
esiliata come ghibellina, si era poi rifugiata - almeno il ramo che
piu ci interessa - dalla Toscana in Corsica nel 1427, fissandosi
precisamente ad Ortinola. Da secoli si occupava di commerci, e lo
stesso padre di Leonetto, Matteo Cipriani, aveva forti interessi
in America, a Trinita, dove si era varie volte recato. La prima in-
fanzia di Leonetto si svolse in Corsica, ma, stabilitosi il padre a
Livorno, la famiglia lo raggiunse nel 1822. Dopo due anni, Leo
netto fu posto col fratello Pietro nel collegio di Santa Caterina a
Pisa, per farvi i suoi studi; ma ben poco vi imparo e, ribelle e vio-
lento, si fece cacciare clamorosamente dopo soli quattro anni (1828).
Da allora non ebbe piu un regolare insegnamento, e perci6 quel
che apprese fu conquista da autodidatta, anche se per alcun tempo
frequento poi (1834-1835), come libero uditore, senza affrontare
esami, alcune lezioni delPUniversita di Pisa, specialmente di scienze
naturali e di medicina. La sua formazione non venne, dunque,
dai libri, ma dalle sue intense e molteplici esperienze di vita: e
ci6 spiega il forte rilievo della sua personalita e il colorito vivace
delle sue pagine, come anche certe sue strane sordita e Tirregolare
architettura del suo stile.
Giovanissimo, nel 1830, partecipo con uno zio alia spedizione
francese di Algeri, mostrando audacie da guerriero in germe, ma
anche un precoce ardore passionale; che, tornando a Livorno,
port6 con se una giovinetta tratta fuori dalPharem del Dey, e fu
si preso da questo suo primo romanzo d'amore che la giovane donna
si uccise, ed egli fu a lungo malato e vicino a morire. Appena gua-
rito, il padre lo invi6 in America (1831), a Trinita; e di li, fra molte
plici awenture, Leonetto visito gran parte delle zone centrali del
continente americano, risalendo poi, lungo il Mississippi, fino a
Washington, a Baltimora, a Nuova York, donde si imbarco, il
i° maggio del 1834, per tornare a Livorno, che raggiunse nel lu-
glio del 1834, dopo aver visitato Parigi, il Belgio e TOlanda. Fu
questo il suo primo viaggio in America, cui ne seguirono altri
sei, con dimore, varie volte, di parecchi anni, tra esperienze sem-
128 LEONETTO CIPRIANI
pre piu complesse e awenture spesso straordinarie. E gia nel set-
tembre del 1835, dopo breve dimora a Livorno, egli ripartiva per
Tisola di Trinita, per risolvere senza danno, nei possessi del pa
dre, Pemancipazione degli schiavi, voluta dalla nuova legge in-
glese (1834) e sempre piu vivamente sostenuta dalPopinione pub-
blica. Fu questo un breve viaggio, che Leonetto torno presto a
Livorno (maggio 1836) e per lungo tempo (fino al 1851) non si
mosse dair Italia, trattenuto dapprima dalla morte del padre
(16 aprile 1837) e dalla propria nomina a tutore della famiglia, e
successivamente dagli eventi politici ai quali partecip6 con Pim-
peto che era proprio del suo carattere.
Negli anni immediatamente anteriori all'elezione di Pio IX,
due importanti esperienze influirono nell'orientare Patteggiamento
politico del Cipriani. Anzitutto il contatto, che divenne presto ami-
cizia, con la famiglia Bonaparte, e particolarmente con Tex re
Girolamo e il di lui figlio principe Napoleone. Questa amicizia
avvi6 il Cipriani verso posizioni decisamente monarchiche, an-
che nei confront! del problema italiano. Contemporaneamente, le
difficolta creategli da alcuni elementi mazziniani, ai quali si era
legato suo fratello Alessandro, e i colloqui da lui avuti in tale occa-
sione, lo resero aspramente avverso e intollerante di fronte alia
corrente repubblicana e gli fecero giudicare il Mazzini come il
maggiore nemico del nostro Risorgimento. II Cipriani non riusci
mai a riesaminare questa sua posizione, non dico per schierarsi
con i mazziniani, il che sarebbe stato impossibile per il suo tempe-
ramento e le sue convinzioni, ma almeno per considerare con mag
giore obbiettivita il pensiero e Pazione del Mazzini.
I primi veri interventi del Cipriani nella politica ebbero inizio
subito dopo 1'elezione di Pio IX, con un suo viaggio a Roma e vari
colloqui con alcuni cardinali. Di questi colloqui egli da un reso-
conto abbastanza ampio nelle sue «memorie», ma le idee che egli
attribuisce ai prelati con i quali si svolsero i suoi incontri sono, in
realta, poco credibili: n6 dovettero sembrare possibili allo stesso
Carlo Alberto, dal quale il Cipriani si rec6, subito dopo, a riferire,
a Torino. Promulgate le costituzioni e scoppiata la guerra, egli,
che era gia tomato in Toscana, si diede da fare perche Leopoldo II
lasciasse partire i volontari; si uni ad essi, combatte valorosamente
a Curtatone, e divenne poi prigioniero degli Austriaci, per un'errata
missione affidatagli dal comandante De Laugier dopo la battaglia.
PROFILO BIOGRAFICO I2Q
Concluso 1'armistizio, il Cipriani torn6 in Toscana, rifiut6 di assu-
mere il dicastero della guerra nel mmistero Capponi, e venne poco
dopo inviato a Livorno (15 agosto 1848), a sedarne la rivoluzione,
con la carica di colonnello di stato maggiore. Fu questa una mis-
sione sfortunata, che ebbe poi un lungo strascico di polemiche.
II Cipriani non riusci a piegare gli insorti e dove abbandonare la
citta, ormai totalmente dominata dagli elementi mazziniani. Un
episodic, questo, che accentub il suo odio per i repubblicani e lo
volse sempre piu verso una soluzione monarchica. Nei mesi suc-
cessivi fu inviato dal governo toscano a Torino, perche Carlo Al
berto intervenisse a Livorno; a Parigi, poi, per acquistarvi delle
artiglierie. E a Parigi rimase, sia pure senza veste ufficiale, dopo che
il Guerrazzi successe al Capponi nel governo della Toscana. Da
allora si inizio quell'opera che forse fu la piu importante tra quelle
svolte dal Cipriani: perche, eletto Luigi Napoleone presidente
della repubblica francese, egli awi6, con alcune gite fra Torino e
Parigi, quella politica di awicinamento tra il Piemonte e il Bona
parte che doveva dare poi i suoi frutti, per merito di ben piu abili
uomini, dieci anni dopo. Si pu6 dire che da questo tempo il Ci
priani non si considero piu suddito della Toscana, ma totalmente
alle dipendenze della dinastia di Savoia. Alia ripresa della guerra
entro a far parte delPesercito piemontese, come addetto allo stato
maggiore del generale Bes, combatte alia Sforzesca, vide la scon-
fitta di Novara, soffri dell'abdicazione di Carlo Alberto.
Tomato in Toscana, si rinchiuse nella piu sdegnosa solitudine,
che la situazione italiana e la presenza degli Austriaci nel Grandu-
cato gli parvero intollerabili e tali da lasciare poca speranza di un
migliore futuro. Invio allora al granduca le sue dimissioni da colon
nello di stato maggiore, e si occupo unicamente degli interessi della
propria famiglia: ai quali aggiunse una curiosa attivita archeolo-
gica, tutto preso da certi scavi che voile fare in un suo possesso
a Cecina. Non bastandogli queste occupazioni, progett6 allora un
viaggio in California, che fu certamente il piu importante dei tanti
da lui fatti in America. Parti da Le Havre il 19 novembre del 1851,
giunse a New York, vi si imbarc6 per 1'istmo di Panama, risali
di li a San Francisco e vi si insedio come console sardo, rizzando
quella ardimentosa casa smontabile che lo aveva intanto raggiunto
dallTtalia con alcuni compagni e numeroso bagaglio. Poi, da
San Francisco, messa insieme una vera e propria carovana, con un
130 LEONETTO CIPRIANI
migliaio di buoi, vacche e cavalli, traverse (1853) ^ continente ame-
ricano da Westport al South Pass e di 11 al Lago Salato e al frame
Humboldt, superando non poche difficolta, tra 1'orrido della na-
tura e le minacce delle tribu indiane in rivolta.
Tre anni e pm rimase in America, che solo il 27 maggio del 1855
sbarcava a Liverpool. Subito corse a Parigi, fissandovi la propria
dimora: aH'ombra dei Bonaparte, ma non dimentico dell' Italia.
NelPottobre del 1855, infatti, si recava a Pollenzo per un impor-
tante colloquio col re Vittorio Emanuele, e si impegnava con tutto
il suo zelo per quel matrimonio tra il principe Napoleone e la prin-
cipessa Clotilde, che fu considerate tra i piu forti vincoli che avreb-
bero dovuto legare la dinastia francese alia piemontese. Ma quando
si inizi6 la guerra del '59, Leonetto era di nuovo in America, da
pochi mesi: richiamato in Europa dal principe Napoleone, sposo
in fretta Maria Worthington (che mod nel 1860, senza che egli la
rivedesse), e torn6 subito a Parigi: tanto fascino esercitava su lui
la speranza di veder libera 1' Italia. II 22 giugno era gia a Torino
ed entrava a far parte dello stato maggiore di Napoleone: certo,
ubbidendo alle sue sirnpatie per i Bonaparte, ma anche convinto di
potere, con tale carica, giovare meglio alia causa italiana. Dopo
Villafranca, infatti, si dimise da quell'ufficio e accetto la nomina
(16 agosto 1859) agovernatore della Romagna: incarico che dopo
tre mesi, nei primi di novembre, egli lasciava, sostituito dal Fa-
rini. Anche allora la sua opera fu molto discussa: le accuse fattegli
erano certo ingiuste, e perfetta la sua buona fede e yivissimo il suo
zelo : ma e anche veto che egli non fu mai un politico, ed era nato
soltanto per 1'azione, Suo massimo desiderio fu, allora, di ottenere
un riconoscimento di ci6 che aveva fatto per 1' Italia: quella lettera
di elogio, inviatagli da Vittorio Emanuele (29 aprile 1860), che egli
consider6 come la massima onorificenza da lui ottenuta, e che poi,
nel suo testamento, chiese fosse letta in senato quale unica comme-
morazione alia sua morte.
In realta, dopo il 1859, ^ Cipriani rimase lontano dalle successive
vicende del nostro Risorgimento. Gia nel luglio del 1860 ripartiva
per la California, e non ne tornava che nel 1864; di nuovo era in
America nel 1866, e ancora, per un ultimo viaggio, nel 1871. Ma
gia negli intervalli tra questi viaggi egli aveva fissata la sua dimora
a Centuri, nonostante gli onori che gli erano stati tributati dalF Ita
lia, con la nomina a conte, senatore (1865), gran croce dei santi Mau-
PROFILO BIOGRAFICO 13!
rizio e Lazzaro, generale onorario. Troppo lo avevano amareggiato
i dissidi tra Francia e Italia, che egli sentiva entrambe care al suo
animo, pur essendo e considerandosi cittadino italiano. E a Cen-
turi si ritir6 definitivamente dopo il 1871, intento a curare il pro-
prio patrimonio e occupandosi dei figli, uno (Leonetto) nato dalle
prime nozze in America, e altri cinque da un successive matrimo
nio in Italia. Finche il 10 maggio 1888, nella sua Corsica, si chiuse
la sua awenturosa esistenza.
II Cipriani, durante la sua vita, scrisse e pubblico solamente una
narrazione dei fatti awenuti a Livorno mentre egli vi era commis-
sario : un opuscolo che non sorgeva certo da intenti letterari, ma
voleva essere soltanto una difesa. Le «memorie» che egli lascio
manoscritte e che apparvero quasi cinquant'anni dopo la sua morte,
nel 1934, per cura di Leonardo Mordini, nacquero anch'esse senza
fini letterari, soprattutto dal desiderio, che egli ebbe fortissimo,
proprio perche si sentiva dimenticato, di lasciare, almeno ai pro-
pri figli, il ricordo di quanto aveva fatto per T Italia e di quelle
grandi qualita virili che egli stesso si riconosceva. Ma questi in
tenti furono poi vinti e travolti dalla passione con cui risorgeva-
no dinanzi alia sua memoria, vivamente coloriti, episodi, uomini,
paesaggi. Narra lo stesso Cipriani (vol. II, p. 21) che, tornato in
Toscana dopo Novara, « nella lunga estate, in Piombino, per non
stare inoccupato scrisse una parte di questi racconti [le « memo-
rie»], e particolarmente i fatti piii recenti del 1848 e 1849)). Ma gli
anni veramente dedicati alia stesura delle « memorie » furono quelli
dal 1869 al 1876: in forma distesa per il periodo che arriva fino al
1853, in brani ancora slegati, e a volte come semplici appunti,
con ampie lacune, per quel che si riferisce agli anni successivi,
non oltre Tultimo viaggio in America. II Cipriani scrive in terza
persona, fingendo che sia un immaginario « vecchio mentore» a nar-
rare la vita di Leonetto, dopo che questi era morto: e il racconto
si rivolge al primo figlio del Cipriani, che si chiamava Leonetto
come il padre. Una finzione che a volte riesce d'impaccio al let-
tore, ma che pure permette spesso allo scrittore di esaltare la pro-
pria persona senza apparire troppo scopertamente vanitoso.
II Cipriani non e uno scrittore nel senso che si da tradizional-
mente a questa parola: troppi vocaboli, troppe forme sintattiche
sono lontani dalla proprieta e correttezza che si vorrebbero, ne le
132 LEONETTO CIPRIANI
pagine si sviluppano in una misurata linea architettonica. Solo in
parte queste deficienze possono attribuirsi alia mancata revisione
del manoscritto da parte sua: piu spesso appare evidente che egli
si muove come im irregolare e un ribelle, ubbidendo soprattutto
a se stesso. Ma il fascino che esercitano le sue pagine, anche per il
loro procedere un poj capriccioso e arbitrario, e ugualmente grande.
Anzitutto, per il rilievo con cui vi si scolpisce la sua personalita,
asciutta e vigorosa come il suo stile; egli e sempre al centro d'ogni
episodio, domina nella Firenze del '48, nella battaglia di Curta-
tone, nella rivolta di Livorno, sullo sfondo delle Montagne rocciose
d' America, quasi gli eventi e i paesi divenissero il suo piedestallo.
GPindiani stessi non vedono che lui, lo onorano come un grande
capo : le donne poi se ne innamorano perdutamente al primo incon-
tro. Non ha mai un momento di esitazione : sicuro di se, tagliente
nei giudizi, certo d'esser nato per comandare. Giustamente il Baldi-
ni (vedi Tarticolo citato nella bibliografia) ha sentito in lui la stoffa
di un Cellini: ridimensionato, certo, dalla diversa civilta delF Otto-
cento, ma non meno manesco e violento : di che il suo stesso stile
diventa una prova, cosi drammatico e rapido, senza gli abili chiaro-
scuri di tanti suoi contemporanei. A Livorno, basta che egli guardi
una vecchia che da un uscio gli ha gridato « assassino » : e quella
fugge atterrita per le scale, e si spezza una gamba: « impassibile
nei piu grandi pericoli, acquistava in essi una lucidita d'intelletto
che ne faceva un uomo eccezionale » (vedi qui a p. 218). Basta ri-
pensarlo scatenato, in lotta con maestri e compagni in collegio,
« come Orlando furioso », o altero e aggressive dinanzi a Radetzky.
Non vi e dubbio che gli storici non potrebbero accogliere senza
ampi ritocchi e spostamenti le sue testimonialize. Ma quei suoi
personalissimi quadri del Risorgimento hanno una vitalita che si
impone al disopra dell'esattezza storica. I volontari toscani e Pat-
mosfera di quei tempi, il tono un po' flaccido e casalingo della
vita politica del granducato di Leopoldo II, dei suoi ministri e go-
vernatori, le colorite e stravaganti divise, gPimpensabili armamenti
dei piu accesi liberali, la stessa variopinta uniforme inventata per se
dal Cipriani; questi e tanti altri quadri delPepoca trascendono con-
tinuamente il documento storico e divengono il «romanzo» del
Risorgimento, per il mordente stesso della narrazione. Come la sua
carovana del 1853 in America, del cui viaggio non abbiamo potuto
riprodurre che solo una parte, e Tepopea della marcia di un pio-
PROFILO BIOGRAFICO 133
niere, una rude leggenda della conquista dell'Ovest, da aggiungere,
scarna e vigorosa quale e, alle tante di cui e ricca la letteratura ame-
ricana. Certo, tra questi riconoscimenti e il dire che le «memorie»
sono un* opera di primo piano, corre un'enorme differenza. Ma cio
non toglie che le pagine del Cipriani meritino maggior numero di
lettori e maggior fortuna di quanto, in realta, fmora abbiano avuto.
Le Avventure della mia vita apparvero per la prima volta, ad opera e con
note di L. Mordini, in 2 volumi, a Bologna, Zanichelli, 1934, e su esse
vedi quanto diciamo nella Nota ai testi, in fondo al presente volume.
Nel 1872 il Cipriani pubblico a Roma un opuscolo Sul risanamento e colo-
nizzazione delVagro romano, che non ho visto, ma che viene qui ricordato
per maggior compiutezza di notizie.
Per la vita del Cipriani, oltre quanto si ricava direttamente dalle Avven
ture, si veda L. FERRARI, Onomasticon, repertorio biobibliografico degli scrit-
tori italiani dal 1501 al 1850, Milano, Hoepli, 1947; F. PERA, Quarta serie
di nuove biografie livornesi, Siena, tip. Pontif. S. Bernardino, 1906 ; 1'articolo
di L. MORDINI, in M. Rosi, Dizionario del Risorgimento nazionale, Mi
lano, F. Vallardi, 1930, e quello di M. MENGHINI nell'Enciclopedia Ita-
liana.
Alia pubblicazione delle Avventure si ebbero varie recensioni, tra le quali
citiamo: A. BALDINI, in «Corriere della Sera», 28 dicembre 1933; C. ZA-
GHI, in «Nuovi problemi di politica storia ed economia», fasc. 5-12 (mag-
gio-dicembre 1933), pp. 551-7; G. MAZZONI, in «Archivio stor. ital. », xxi
(1934), p. 164; P. GADDA, in «Pan», n. 5 (1934); M. MORANDI, in «Civilta
fascista», 1934, pp. 762-3; E. M. Fusco, Gli usignuoli e un viandante, Mi
lano, I.T.E., 1934.
Fra i contributi per lo studio della personalita del Cipriani, vedi M. Ros-
SELLI CECCONI, Ualbero genealogico della famiglia Cipriani del Capocorso,
in «Archivio stor. di Corsica », 1933, pp. 564-6; G. LETI, II duello Malen-
chini-Cipriani nel 1851 a Parigi, in «La cultura moderna», Milano, ago-
sto 1931, pp. 481-5 ; G. MAZZONI, II duello fra L. Cipriani e V. Malenchini,
in «L'ape», Firenze, Barbera, aprile 1934; A. GUERRIERI, Leonetto Ci
priani a Livorno e il miracolo del Sant* Antonio, in « Corsica antica e mo-
derna», gennaio-febbraio 1934, pp. 32-41; L. BULFEKETTI, Leonetto Ci
priani console sardo in California (1851-1853), in «Archivio stor. di Cor
sica)), 1939, pp. 94-132.
DALLE «AVVENTURE BELLA MIA VITA»
L'INFANZIA DI LEONETTO FIND ALL'ETA DI DIECI ANNI1
Leonetto2 e nato il 16 ottobre 1812 nella casa paterna nel villag-
gio di Ortinola, in Centuri di Corsica, allora dipartimento del-
rimpero francese.
Nella prima infanzia fu di una tale vivacita, che teneva in conti-
nua apprensione la madre.3 All'eta di tre anni si batteva con tutti -
correva solo sui monti - non incontrava bestia, cavallo, mulo o
somaro che fosse, senza arrampicarcisi sopra - e percio arrivava
sempre a casa ferito o con la testa rotta.
A cinque anni andava a scuola da un vecchio curato ignorante,
che non sapeva dare che lezioni di nerbo.
Una volta Leonettino, per una nerbata affibbiatagli, arrivo a
casa con un occhio insanguinato. Sua madre voleva correre a strap-
pare gli orecchi alia bestia tonsurata, ma il padre4 disse : — Ci
penso io. — Infatti la sera tardi ando alia canonica con un grosso
bastone di fico fresco e gliene dette tante, che stette per un mese a
letto e poi se ne ando alia malora.
A sei anni, dovendo passare la processione del Corpus Domini
sotto casa sua, erano stati preparati diversi mortaretti carichi di
polvere. A Leonetto, che stava li coi fratelli e i cugini, venne 1'idea
di darvi fuoco. Detto fatto, ando in cucina, prese un tizzo, e sof-
fiandoci su, lo awicino ai mortaretti.
Allo scoppio scapparono tutti chi da un lato chi dall'altro, fuor-
che i piccini, che rimasero gridando e piangendo, senz'avere nessun
male. Gli altri furono trovati appiattati piu o meno lontani.
Ma gira e cerca tutto il giorno, Leonetto non si trovava, e la
povera madre lo piangeva ferito o morto. II padre organizz6 delle
battute con tutta la popolazione, e finalmente a mezzanotte lo tro-
varono nascosto sotto la paglia in un casolare assai distante. Non
i, Ed. cit., vol. i, cap. IV, pp. 23-6. 2. Leonetto'. come abbiamo detto nel
Profilo biografico, il Cipriani finge che le sue Avventure siano narrate da un
« vecchio mentore». 3. la madre: discendente della famiglia dei prlncipi
Caracciolo di Napoli, la madre aveva sposato Matteo Cipriani a Centuri,
nel 1810. Mori a Livorno il 14 marzo 1869. 4. il padre: Matteo Cipriani
era nato a Centuri il 30 novembre 1770. Ebbe una vita molto awenturosa:
combatte1, navig6, commercio in America. Mori a Pisa il 16 aprile 1837.
La famiglia Cipriani, originaria di Firenze, si era stabilita in Corsica dalla
meta del Quattrocento.
136 LEONETTO CIPRIANI
dormiva; ignorando cosa era seguito dei fratelli e dei cugini, si
aspettava Dio sa che, e sapeva che il padre gli avrebbe dato una
lezione da non dimenticarsela piu.
Lo condussero a casa, e il padre non disse nulla. Gli dette da
cena, lo mise a letto, e, tratto caratteristico di quelPuomo, il
giorno dopo proibi si facesse mai piu parola delPaccaduto in pre-
senza del figlio. Ma, d'allora in poi, quando voleva incutergli ti-
more, bastava che gli dicesse con quel suo cipiglio:— Leonetto,
rammentati — e Leonetto diventava un agnello.
Un'altra volta, ando alia fonte col servitore che conduceva a
bere il cavallo. Voile montarvi sopra, strapp6 la cavezza dalle mani
del servo e via al galoppo verso casa. Ma arrivato davanti alia stalla
il cavallo ci entrb, e Leonetto fu stramazzato in terra e rimase come
motto per diverse ore.
Un'altra volta essendo solo, ballava e cantava sopra una tavola
in mezzo al giardino. II padre lo vide e gli ordino di scendere.
Salto giu, ma cadde sopra un sedile di lavagna e si taglio le due
labbra. II padre gliele cuci, ma egli ne porto sempre la cicatrice.
Ma la piu grossa di tutte fu questa. Egli si trovava con la fa-
miglia a prendere i bagni di mare alle Mute.1 Vi era un battello
nel porto. Vi and6 a nuoto e si arrampicd come un gatto in cima
alPalbero. II padre se ne accorse, e col famoso nerbo in mano si
diresse verso la barca. Ma Leonetto che essendo nudo sentiva
frizzarsi sulla pelle le nerbate, non si sgoment6 - dalPalbero si
getto in mare e fuggi come un pesce, finche il padre non lo raggiunse
e gli salvo la vita al momento che, perdute le forze, stava per af-
fogare.
La sua piu gran passione era la guerra, che si sarebbe detto sen
tiva per istinto da bambino, come la fece da adulto.
Allora le guerre si combattevano fra i ragazzi del villaggio di
sopra e di quello di sotto. Degli ultimi era lui il capo e sembra che
degnamente li comandasse, perche era quello che piu spesso tor-
nava con la testa rotta.
I proiettili erano sassate - e la posizione strategica di quelli di
sopra essendo migliore, chi ne toccava sempre era lui coi suoi.
Furibondo di non essere mai vincitore, immagin6 una sorpresa.
Fece impegnare una lotta dai compagni, e lui con quattro altri dei
piu arditi, prendendo a dritta per le ripe, nascosti dalle vigne, sali-
i. Mute i e il nome del porto di Centuri.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 137
rono il monte e piombarono alle spalle del nemici, che pagarono
in una volta tutte le passate vittorie, perche ve ae furono diversi
malamente feriti, ed a loro scorno furono inseguiti fin dentro il
villaggio.
II padre, non riuscendo a frenare questa temerita eccessiva e pe-
ricolosa, che in fondo non gli dispiaceva, ma teneva in continuo
allarme la madre, cerc6 di darci sfogo mandandolo a caccia, senza
fucile, s'intende bene, e con un cacciatore fidato, alia pesca, facen-
dogli fare limghe corse a piedi o sopra un disgra2iato ciuco, e invian-
dolo spesso solo a notte oscura con un pretesto qualunque dalPava
materna a Morsiglia, distante tre buone miglia di sentieri da capre
in mezzo ai boschi.
Ma tutto inutilmente. Fino ai sette anni fu indomabile ; e la ma
dre raccontava che a quelPeta era nello stato di un f ebbricitante fu-
rioso : il giorno faceva il diavolo a quattro, e la notte sognava e
smaniava nel letto.
Finl col cadere malato di una curiosa malattia.
Una notte la madre lo senti gridare piu del solito, e nello stesso
tempo senti piangere il fratello Pietro1 che dormiva in un letto ac-
canto a lui. Era Leonetto che aveva preso il povero fratello per le
gambe, e correva per la stanza strascinandoselo dietro e sognando
di essere sopra il suo somaro.
Non fu possibile svegliarlo. Non riconosceva nessuno - non sa-
peva quel che diceva - e duro in quello stato tre giorni e tre norti
gridando sempre e non mangiando che per forza.
II quarto giorno un medico venuto da Bastia gli somministro
una forte dose di oppio. Si addorment6, dormi ventott'ore - e
quando si svegli6 era guarito; in una parola, non era piu lo stesso.
Nel 1822 il padre essendo gia in Italia, scrisse alia madre che lo
raggiungesse coi due figli Leonetto e Pietro.
Partirono sopra una feluca napoletana che era nel porto di Cen-
turi, ma presi da fiera tempesta furono spinti nella notte nel golfo
della Spezia, e naufragarono sulla spiaggia. Leonetto che nuotava
come un pesce fu il primo a prendere terra, e senza guardare ad
altro corse alle prime case a chiedere aiuto — e i pescatori arriva-
rono a tempo per salvare la madre che, col figlio Pietro attaccato
al collo, stava aggrappata ad una banda della feluca.
i. Pietro: uno dei fratelli di Leonetto. Mori a vent'anni a Livorno, nel
1834, cadendo da cavallo.
138 LEONETTO CIPRIANI
DAI DIECI AI DICIASSETTE ANNI1
A Livorno, Leonetto ebbe da principio per maestro un frate do-
menicano che teneva pubblica scuola.
Profittando poco, il padre prese in casa un precettore di nome
Tortora, rifugiato corso e antico maestro di scuola ; e poi un abate
Pietri che fu costretto a mandar via, perche aveva la cattiva abitu-
dine di picchiare, qualche volta con ragione, ma piu spesso a torto.
Con loro imparo a leggere e a scrivere ; e un poco, ma molto poco,
di grammatica italiana e francese.
A dodici anni fu messo col fratello Pietro nel collegio di S. Ca-
terina a Pisa, e vi stette quattro anni, studiando bene il latino, e
meno 1'italiano e il francese. Cio perche il maestro di latino - il
vice-rettore - lo aveva saputo prendere colle buone, solleticando
il suo amor proprio e non facendogli mai rimproveri che lo awilis-
sero; ed anche perche Leonetto era appassionato per tutto quello
che era romano, il padre avendogli sempre parlato dei grandi uo-
rnini di Roma, e i primi libri letti essendo stati la storia romana e
Plutarco.
Invece, dei maestri d'italiano, uno era un certo prete Rocchi -
orgoglioso e bilioso-al quale aveva messo nome bulina perche"
camminava di traverso (a Centuri di un bastimento che va con un
solo quarto di vento e con le vele traverse si dice va di bulind).
Un giorno, interrogate in classe, non seppe rispondere, e il Roc
chi gli disse : — Lei sara sempre un asino. — Non aveva finito di
dirlo, che Leonetto gli scagliava il calamaio in viso. - Gran rivo-
luzione - e punizione a pane ed acqua per otto giorni.
L'altro maestro era un tal Cardella - sgarbato, noioso, antipa-
tico e ridicolo; e quello di francese un Giannoni ancor piu sgar
bato e ridicolo. E con questi maestri e facile capire come col suo
carattere Leonetto non prendesse passione alPitaliano come Paveva
al latino; ed ecco perche 1'italiano lo seppe sempre poco.
L'ultimo anno di collegio (aveva gia sedici anni e intelligenza e
fisico sviluppati piu delPordinario), gli riapparvero i segni delPan-
tica vivacita ed irrequietezza.
Avendo imparato assai bene il disegno, faceva di tutti, maestri e
compagni, caricature sconce e ridicole, e le seminava passando per
i. Ed. cit., vol. i, cap. v, pp. 27-34.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 139
i corridoi e nelle scuole, facendo ridere chi non vi era interessato,
ma accumulando sul suo capo Todio e i rancori dei messi in ri-
dicolo.
Tre di questi, i piu arditi, vollero vendicarsi assalendolo nel
corridoio dei camerini. Ma lui come Orlando furioso dette di
mano ad una granata, e giu botte da orbo. Alle loro grida accor-
sero i compagni e il prefetto Bachi, e Leonetto batte in ritirata fino
al camerino dove erano schierati una ventina di recipient! che but±6
addosso agli assalitori, facendoli fuggire fino al salone della ri-
creazione.
Conosciuta la causa di tanto baccano, il vice-rettore, pur non
dandogli apertamente ragione, avrebbe voluto infiiggergli una pu-
nizione leggera, e punire invece severamente i tre provocatori;
ma il Bachi ricorse al rettore, il quale diede a Leonetto il piu se-
vero gastigo e nulla ai tre compagni.
Quanto tale ingiustizia inasprisse il suo carattere e facile im-
maginarsi. Divenne taciturno ; sfuggiva la compagnia di tutti e guar-
dava tutti con occhio bieco e sprezzante.
Una volta ch'egli andava a passeggiare con la camerata fuori
della porta a Lucca, un barocciaio per poco non invest! suo fra-
tello Pietro. Leonetto mise mano a un mucchio di sassi e con uno
colpi' il barocciaio sopra una tempia cosi malamente che quello
cadde tramortito, e ando a ruzzolare sotto una ruota del carro. Fu
raccolto, ed in realta non aveva gran male ; si trattava di una sem-
plice graffiatura alia tempia, cio che dava a supporre che fosse ca-
duto piu dalla paura che dal dolore; e il baroccio ch'era scarico
non gli aveva fatto nulla.
Leonetto aveva senza dubbio ragione, ma involontariamente la
sua punizione era riuscita eccessiva e quella sassata era andata
troppo diritta in una parte cosi delicata. II dovere del prefetto era
pesare equamente la ragione e il torto, e se non fosse stato cosi mal
disposto verso lui, probabilmente Y avrebbe fatto. Invece, non con-
tento di caricarlo di schiafE e pugni, se lo mise sotto i piedi, pe-
standogli crudelmente le mani, e poi lo fece condannare dal ret
tore a otto giorni di reclusione in camera a pane ed acqua.
Accetto rassegnato 1'isolamento ed il pane ed acqua, ma non
pote dimenticare gli schiaffi. E cerco vendicarsi senza essere sco-
perto.
Una sera, quando tutti i giovani furono chiusi nelle loro stanze,
140 LEONETTO CIPRIANI
Leonetto dal buco della chiave vide il prefetto, che stava leggendo
al suo banco in mezzo al salone, alzarsi e prendere il lume, e senti
aprire e chiudere una porta. Siccome la camera del prefetto era
un'alcova chiusa da una semplice tenda, gli venne in mente la ven
detta che cercava. Con un chiodo storto preparato da rnolto tempo
apre la sua porta - cosa pur troppo in uso nel collegio - corre alia
porta che aveva sentito chiudere, da una volta alia chiave, la prende
e la butta dalla finestra. Era la porta del camerino; e il prefetto
dove passarvi tutta la notte, perche ebbe un bel gridare e bussare;
chi non senti, chi non capi di dove venisse il rumore, e tutti poi
essendo chiusi a chiave, quelli che avevano il chiodo di contrab-
bando non avrebbero osato convenirne aprendo.
La mattina il cameriere libero il prigioniero mezzo soffocato da
quell'aria pestifera e che capiva bene da chi fosse venuto il tiro.
Ma senza prove era impossibile punirlo - e la causa della prigionia
fu attribuita dal rettore ad uno scatto di molla della toppa.
II Bachi pero che non aveva dubbii sul colpevole, gli aizzo con-
tro tutta la camerata e gli mise il soprannome di corsaro. Segui
quel che doveva seguire: a uno Speciale genovese che lo chiam6
cosi e che egli come corso odiava piu di tutti,1 gli gonfi6 la faccia
dai pugni; e peggio fece per lo stesso motivo a Giuseppe Monta-
nelli, nipote del rettore. E fu chiuso in camera per un mese a pane
ed acqua.
Con queste continue punizioni e 1'isolamento, il suo carattere
s'inaspriva sempre piu - ed un giorno, preso come da delirio, co-
mincio ad urlare spaccando e buttando all'aria quanto gli capitava
tra le mani.
II prefetto, vedendo dal finestrino quello spettacolo, e non
osando entrare perche temeva il saldo degli schiaffi, mand6 a
cercare il rettore, il quale fece aprire, e, buon'uomo in fondo, lo
calmo, e gli domando perche aveva ridotto la camera in quello
stato. Egli rispose che il caldo lo aveva fatto ammattire, e che se
non ci fosse stata Pinferriata alia finestra, si sarebbe buttato dalla
disperazione nel giardino.
II rettore gli fece dare una camera piu grande delle altre - quella
alPangolo che guarda la corte della cisterna - e da mangiare come
i. che egli . . . tutti: la Corsica aveva a lungo manif estate la sua aspirazione
all'indipendenza da Geneva. Col trattato di Versailles, il 15 maggio 1768,
era stata ceduta alia Francia.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 141
agli altri, permise che il fratello gli andasse a tener compagnia,
e gli condono dieci giorni.
Questo sistema di dolcezza sarebbe riuscito bene col suo ca-
rattere; ma il Bachi voleva tutt'altro. Quando Leonetto termino la
punizione, trovo i compagni piu freddi che mai - e disperato per
essere trattato cosi inumanamente, decise di fuggire dal collegio.
Persuase il fratello a seguirlo;-e un giorno essendo con la
camerata a passeggiare verso Coltano, si appiattarono in un fosso,
e quando i compagni furono lontano, si dettero a correre verso
Livorno a traverse il padule. Ma erano stati visti da dei contadini,
e furono trovati accovacciati tra le canne, grondanti di acqua e tre-
manti dal freddo, e ricondotti al collegio sopra un baroccio.
La scappata era grossa. Ne fu awisato il padre; egli venne, e,
ammoniti i figli, che gli promisero di essere buoni, prego il rettore
di usare dolcezza con Leonetto. Ma il Bachi, che era stato severa-
mente rimproverato, continue ad essere con lui piu cattivo che mai.
Una volta lo sorprese in camera mentre stava facendo la sua
caricatura, da diavolo con le corna e la coda. Accecato dalla collera,
gli dette uno schiaffo cosi forte, che gli pareva che un occhio gli
uscisse dal posto. - Leonetto prese un chiodo che aveva affilato
alia pietra della finestra, gli si awent6 contro, e gli diede una chio-
data nelle parti molli.
Urla «son morto, aiuto!»-cola il sangue - sviene - si leva un
grido: — II corsaro ha assassinate il prefetto!
Accorre tutto il collegio - e fu tale lo spavento generale nel ve-
dere un sacerdote svenuto in un lago di sangue, che credendolo
in fin di vita gli fu portata 1'estrema unzione.
Tutto questo avrebbe dovuto far sentire a Leonetto I'enormita
della colpa commessa. Ma 1'insulto ricevuto fece tacere Tistinto
della pieta al punto, ch'egli confessava poi d' essere stato quello
uno dei momenti in cui piu aveva sentito il piacere e la soddisfa-
zione di lavare col sangue il piu grave degli insulti - e non aveva
mai potuto dimenticarlo, benche fosse allora cosi giovane.
II Bachi intanto, che era svenuto piu dalla paura che dal dolore,
poiche il chiodo non gli aveva fatto che una ferita insignificante in
una parte del corpo quasi insensibile, rinvenne poco dopo di aver
ricevuto 1'estrema unzione, e il medico assicuro che tutto si ridu-
ceva al dovere per qualche giorno star seduto sopra una sola parte
del mobile che serve a tale scopo.
142 LEONETTO CIPRIANI
Leonetto, che si aspettava a tutto, si barrico in camera. Ma il
rettore arrivato sul luogo ed accortosi dei suoi preparativi di difesa,
ordino di lasciarlo tranquillo. A mezzanotte poi, mentre dormiva,
aprono la porta, rovesciano la barricata, gli saltano addosso e gli
legano mani e piedi.
La mattina fu sciolto e condotto dal rettore, il quale prima con
calma gli fece una gran predica, ma poi perdendo la misura gli
disse : — Non vuole che lo chiamino corsaro - ma lei e peggio di un
corsaro - e una bestia feroce, un assassino.
A queste parole Leonetto prese una seggiola e gliela scagli6 tra
capo e collo. II rettore, uomo robusto, gli salto addosso agguan-
tandolo per la gola, ma Leonetto gli dette un maledetto calcio in uno
stinco che gli fece subito allargare la mano e gridare aiuto. Ac-
corse una dozzina di preti, e il rettore disteso sopra una poltrona,
alzando le braccia al cielo, esclam6 : — Curavimus Babiloniam, non
est sanata - derelinquamus earn.1
E senza perdere un momento fu ordinata una carrozza - e Leo
netto accompagnato dal prete Pecori fu scacciato dal collegio e
rimandato dal padre.
Riflessioni sulFeducazione.
Ripensando alia sua pessima educazione, ed al poco profitto
tratto da quattro anni di collegio, Leonetto si domandava se tutta la
colpa fosse sua, e non esitava un momento a darla per la maggior
parte al sistema, che piu o meno era ed e lo stesso in tutti i collegi.
II primo dovere di un precettore e quello di studiare il carattere
del giovinetto che gli e affidato. Quando si e accertato che il cuore
e buono - che il carattere e dolce - che non ha cattivi istinti - la
migliore correzione delle piu gravi colpe e rammonizione fatta con
calma e dolcezza.
Un precettore non deve aver sangue nelle vene - deve essere sem-
pre padrone di se stesso - deve, prima di punire severamente, ten-
tare ogni mezzo di persuasione - e quando non basti, anche pu-
nendolo severamente, non deve mostrare verso il giovane ne col-
lera ne disprezzo, e tanto meno umiliarlo.
Leonetto ammetteva che, quando per i cattivi istinti le ammoni-
i. Ierem.y 51, 9: «Abbiamo curato Babilonia, ma non e rinsavita - abban-
doniamola ».
AVVENTURE BELLA MIA VITA 143
zioni e le punizioni non bastassero, si dovesse ricorrere, come
all'unico rimedio, alia sferza, s'intende bene prima dell'eta della
ragione.
Ma se il giovine perdona la sferza piu severa al padre, non la per-
dona ad altri. Odia chi lo batte - e 1'odio nella prima gioventu
e la sorgente di tutte le cattive qualita.
E vero che non tutti i figli possono essere educati dal padre -
ma anche nei collegi, per i casi eccezionali in cui sia necessaria la
sferza, non dovrebb'essere mai il precettore ad applicarla, ma uno
non conosciuto dal giovinetto, e che gli infliggesse non piu di dieci
nerbate, sempre sulle parti molli senza nudarle.
£ un errore il credere che prima dell'eta della ragione produca
maggiore effetto la punizione pubblica, o come si suol dire, 1'ef-
fetto morale. Se il punito ha molto amor proprio, ne rimane of-
feso, ma se non ne ha, vi si awezza - e in ogni caso il carattere gli
rimane inasprito e degradato.
E anche un errore il credere che la punizione corporale abbia
un effetto morale; essa ha soltanto un effetto fisico, cioe il dolo-
re prodotto dalle nerbate.
Un giovine commette la prima volta una maricanza che merita la
sferza ? fategli dare col sistema esposto due nerbate. Prima di ri-
cadere nello stesso fallo riflettera bene, perche si ricordera il do-
lore provato, e stara savio per un mese. - Lo commette la seconda
volta ? - fategli dare sei nerbate. - Vedrete che stara due mesi
senza ricadere in fallo. - Lo commette la terza volta ? - fategli dare
dieci nerbate, e siate certi che saranno le ultime.
Qual mezzo impiegate per correggere un difetto fisico, come lo
star piegato o il servirsi della mano sinistra ?
Legate per uno, due, tre mesi la mano sinistra in modo che ne
sia impedito 1'uso, - mettete un busto per obbligare il torso a star
dritto: e siete certi che in pochi mesi avrete guarito quei difetti.
Seguira senza dubbio nel morale cio che segue nel fisico.
Uscito di collegio a diciassette anni, si sarebbe detto che Leo-
netto avesse cambiato natura.
II padre se ne serviva per sorvegliare i suoi beni di campagna,
gli faceva tenere la corrispondenza di affari, e rimane va incantato
vedendolo calmo, intelligente, attivo, riflessivo, modellandosi in
tutto su lui.
144 LEONETTO CIPRIANI
Aveva in Leonetto un'assoluta fiducia: quando aveva bisogno di
denaro, gli dava la chiave della cassa, e lui prendeva o per il padre
o per la madre quello che chiedevano. E non si rammentava d'aver
mai preso uno scudo per se senz'awisarne il padre, abituandosi cosl
fin da giovinetto ad una scrupolosa delicatezza, che divenne per
tutta la sua vita una seconda natura.
Alia fine del 1829 arrive in famiglia dalla Trinita1 il cugino Ci-
priano Cipriani, colla moglie Amelia e i figli.
Vi stettero sei mesi, ed Amelia, giovine e bella, fu la prima donna
che feri la sua immaginazione - un vero amor platonico.
Arrive il 1830, e i preparativi della spedizione di Algeri.2 Leo
netto, avendo per padrino il generale barone Juchereau de Saint-
Denis,3 capo di stato maggiore del corpo di spedizione, chiese al
padre di essere mandato in Africa sotto la protezione del Juchereau.
II padre acconsentl; e scrisse al generale, che rispose che colla
flotta francese non era possibile, ma che poteva raggiungerla al-
Tisola di Palma4 con un bastimento particolare, e che allora lo
avrebbe sistemato.
Fu noleggiata una paranzella napoletana, e fornita di tutto il
necessario. La madfe piangeva vedendo tutti quei preparativi della
partenza del diletto figlio, speranza della famiglia, ma il padre la
consolava facendole coraggio, ed essa piego la fronte, colla sua fi
ducia cieca in chi sapeva pensare per se e per lei.
i. Trinita: una delle Antille inglesi, gia spagnole, a poca distanza dal
Venezuela. 2. spedizione di Algeri: « Da un pezzo erano tese le relazioni
tra la Francia e il dey di Algeri, quando quest' ultimo, nella primavera del
1827, termino una vivace discussione col console francese colpendolo in
viso. Essendo rimaste infruttuose le pratiche fatte per ottenere soddisfa-
zione di quest'insulto, il governo borbonico, malgrado 1'opposizione del-
1' Inghilterra, decise la spedizione di Algeri. Gli ordini relativi comincia-
rono ad essere dati nel febbraio del 1830; e cosi venne inaugurata quella
pplitica, che dopo pifc di ottant'anni di lotte sanguinose e di abili trattative
diplomatiche ha reso la Francia padrona deH'Africa settentrionale, dal
golfo delle Sirti all'Atlantico, e dal Mediterraneo al Sudan » (Mordini).
3. « Antonio Juchereau de Saint-Denis (1778-1842), dopo aver servito pa-
recchi anni nelTesercito turco, entro nel 1808 in quello francese col grado
di colonnello del genio, e fu capo dello stato maggiore nella spedizione di
Spagna (1823) e sotto capo in quella di Algeri » (Mordini). 4. alVisola di
Palma: «Non all'isola, ma nella baia di Palma, nell'isola di Maiorca, la
maggiore delle Baleari» (Mordini).
AVVENTURE BELLA MIA VITA 145
LA PRESA DI ALGERI1
Partite da Livorno il 10 maggio 1830, il 15 era alia baia di Palma,
dove aspett6 la flotta francese. Arrivata quella, ando sul vascello
ammiraglio ov'era il generale Juchereau, die lo accolse come un
figlio e lo presento al generale Bourmont,3 il quale lo autorizzo
ad an dare di conserva colla flotta.
II 13 giugno giunsero in vista di Algeri, e fatta mostra di quella
gran riunione di vascelli in numero di cento legni da guerra, e di
non meno di quattrocento trasporti, volsero a levante e dettero fon-
do davanti alia pianura di Sidi Feruk, dov'era una piccola torre ar-
mata di due cannoni. Quella pianura, posta a levante della citta,
da cui la divide, un'alta catena di colli, era destinata, nel piano della
spedizione, allo sbarco delPesercito, per assaltare dalla parte di
terra la citta, che la non era che debolmente fortificata.
L'indomani furono immediatamente disposti i preparativi di
sbarco, mentre uno dei soli due vapori che vi fossero nella flotta,
la Sfinge> ebbe Tordine di andare a far tacere e smantellare il
piccolo forte, che con poche cannonate mal dirette, pm che of-
fendere si sarebbe detto salutare la flotta francese. Fu prestissimo
ridotto al silenzio, e si videro gli Arabi fuggire verso il monte.
Leonetto impaziente di mettere il piede in terra, ottenutone il
permesso, sbarco dalla suaparanzella in un piccolo seno all'imbocca-
tura del torrente, e fu cosi il primo a calcare la terra d5 Africa. Nello
stesso tempo si awicino al lido uno stormo di lance cariche di sol-
dati che, coll'ordine che poteva permettere il mare agitato, sbarca-
rono e si formarono immediatamente in compagnie, battaglioni e
reggimenti. E quando, sul far della sera, la meta almeno del-
Tesercito era schierato sulla spiaggia, arrivo la lancia ammiraglia
collo stato maggiore ed il generale Bourmont.
Ma prima che fossero sbarcati, Leonetto, impaziente di fare una
galoppata nella deserta pianura lungo il torrente, arrivato ad un
punto dove la valle faceva un seno, vide un numeroso corpo di ca-
valleria, e staccarsi da quello un drappello di Arabi, che come ful-
mini si diressero verso di lui. Esimio cavaliere fmo dalla prima gio-
ventu, voltare il cavallo, fuggire come il vento, e rifugiarsi nelle
i. Ed. cit., vol. I, cap. vi, pp. 35-40. 2. II generale Augusto Vittorio
conte di Bourmont (1773-1846), comandante la spedizione di Algeri.
146 LEONETTO CIPRIANI
linee francesi fu tutt'uno - e li, per istinto di soldato, raccontb al
Juchereau cio che aveva veduto. II Bourmont, che era vicino,
disse con un sorriso al suo capo di stato maggiore : — Notre pre
miere reconnaissance est faite par un gamin. — Ed egli stesso dette
or dine che si facesse una gran perlustrazione di cavalleria.
Awicinatasi la sera, furono prese tutte le disposizioni per non
essere sorpresi, continuando lo sbarco fino a notte avanzata.
La mattina dopo all'alba si sentirono le prime fucilate. Erano
cavalieri arabi che si accostavano alle nostre linee, sparavano e fug-
givano. Coperti dal bianco burnus* e il giorno non essendo chiaro,
sembravano ombre che apparivano e sparivano dalPorizzonte. Si
vedevano intanto le colline coronarsi di armati dai mille colori, che
facevano bella mostra di s6 ai primi raggi del sole.
Ma, da prudente ed esperto generate qua? era, il Bourmont stette
fermo sulla spiaggia aspettando il nemico, che inesperto e pieno di
ardore piu che di tattica militare, doveva scendere nel piano.
Infatti, come nubi spinte dal vento in una stretta valle, gli Arabi
scendevano, con la fanteria al centro e due numerosi corpi di ca
valleria alle ali. Ma non si sa per qual ragione, forse per consiglio
di un ufficiale inglese che si disse essere nello stato maggiore del
Beylerbey o comandante supremo degH Arabi, arrivati al piede
delle colline, si fermarono, con gran soddisfazione del Bourmont,
che a causa del mare grosso non aveva ancora potuto disporre del-
Tartiglieria e di parte della cavalleria, che stavano in quel mentre
sbarcando.
Verso mezzogiorno, gli Arabi, vedendo 1'esercito francese im
mobile, e supponendo che esso non si credesse in forza da impe-
gnare la lotta, si decisero a fare un movimento in avanti. Awici-
nati a tiro di cannone, le batterie francesi si smascherarono e co-
minciarono a coprire di mitraglia il nemico.
Come sempre usano gli orientali, che hanno gran fiducia nella
cavalleria, si vide quella araba in numero non minore di diecimila
uomini piombare sulla fanteria francese che, formata in quadrati
inespugnabili, la riceve sulla punta delle sue baionette - e mentre gli
Arabi si ritiravano per formarsi a nuove cariche, i quadrati si apri-
rono come ventagli e rartiglieria, coprendoli di mitraglia, ne fece
grande strage.
Rallentatosi Tardore degli Arabi, il Bourmont, che aveva fatto
i. burnus: e parola araba e indica un mantello con cappuccio.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 147
situare due batterie a ridosso di un colle alia sua diritta, dette or-
dine di salire su quello e fulminate la fanteria nemica, che investita
dalle colonne di attacco al passo di carica, fu rovesciata e si dette
alia fuga, protetta malamente dai due corpi di cavalleria. Quella
francese Tinsegui facendo numerosi prigionieri - ma era in troppo
piccol numero, in confronto della nemica, per allontanarsi troppo;
e verso sera il nemico era sparito per incanto, come per incanto era
comparso.
L'esercito francese riprese il suo accampamento, e fu una di
quelle gioie che non si descrivono. Tutti sembravano impazziti,
e Tintera notte, malgrado il severo ordine di riposare, fu una gran
baldoria dei soldati mascherati, colle spoglie nemiche.
Leonetto aveva intanto fatto sbarcare venti casse di vino vec-
chio del Capo Corso, e due barili di biscotti e paste dolci d'ltalia.
Ne offri al Bourmont che gradi il dono con una parola ascoltata da
tutti: — Voila un gamin qui promet! — e divise il resto fra i sol
dati e soprattutto fra i due reggimenti di cavalleria che avevano
tutte le sue simpatie. Passo con loro una parte della notte finche,
sentendosi stordito da quel vino generoso e dalla strepitosa allegria,
fu accompagnato al suo piccolo bivacco vicino a quello del generale
Juchereau. Poche ore di sonno bastarono per dissipare cio che per
lui, non abituato, era stato un vero stravizio.
Allo spuntar del giorno 1'esercito si mise in marcia in ordine di
battaglia, ed alle otto era sulla cresta delle colline, dominando il
golfo di Algeri a levante, e quello dello sbarco a ponente.
Si vedeva a poca distanza un gran forte chiamato dell'Impera-
tore. - Fatto un movimento in avanti, ed arrivati a tiro di cannone,
furono ordinati in batteria i pezzi da 16 e comincio il fuoco. II
forte rispondeva, - e da principio sgomento non poco, perche aveva
pezzi di piu forte calibro, ma questi essendo mal serviti, i piu dei
proiettili passavano alti, mentre i Francesi col tiro giusto riuscirono
a fame tacere la piu gran parte.
II fuoco ben nutrito dei Francesi, fiacco degli Arabi, duro fino
alia notte. Allora furono awicinate le batterie in luogo piu adatto a
battere il lato nord del forte, che presentava maggior facilita per
Passalto.
AlPalba tutta Tartiglieria francese tuonava, ed alle otto il forte
smantellato taceva. Le colonne di attacco si ayanzarono, ma fu
rono costrette a retrocedere, perche dovendo scendere in una piega
148 LEONETTO CIPRIANI
del terreno dove Tartiglieria non poteva proteggerle, erano prese di
fianco dalle cariche della cavalleria nemica situata in una gola di-
fesa da scoscese colline.
Alia destra vi era un alto colle che dominava d'infilata quella
gola. Ne era difficile Taccesso per Partiglieria, ma non impossi-
bile; e una batteria francese, facendo un lungo giro sulla cresta dei
colli, riuscl ad arrivarvi piu facilmente di quello che si supponeva.
A mezzogiorno giunse sulla cima e subito fulmin6 la cavalleria ne
mica, che fu costretta a ritirarsi, una piccola parte nel forte, il
resto verso la citta.
Ordinate di nuovo le colonne di attacco, si awicinarono al
forte, difeso da quindicimila uomini di fanteria, con poca caval
leria, e da duecento cannoni, molti dei quali per6 erano gia fuori
di servizio.
Una vera breccia non si era ottenuta, e non poteva ottenersi
con pezzi da campagna, ma le troniere1 erano smantellate, ed in un
punto si vedeva una larga apertura piu bassa. Da quel lato fu ordi-
nato Passalto. La prima colonna con un ordine ammirabile si ac-
costo fino a ridosso del forte, e quantunque decimata dalle fucilate,
vi appoggio bravamente le scale.
Dalla collina dove era il generale in capo con tutto lo stato mag-
giore, e fra questo Leonetto, si vedeva ad occhio nudo quel sublime
spettacolo di uomini che salivano, cadevano e si ammassavano
morti e feriti a pie delle scale, quando ad un tratto si scorse svento-
lare la bandiera francese sulla troniera, con uno stormo di valorosi
che la seguiva. Fu come un precipitoso torrente che rompe una
diga - colonna sopra colonna invasero il forte.
Gli Arabi non credendolo possibile, bast6 un momento di sor-
presa per sgomentarli. Ma non essendovi scampo, la difesa fu dispe-
rata nell'interno del vastissimo forte. Nulla per6 resistendo al-
rimpeto francese, i difensori furono in gran parte massacrati, e se
ne videro molti che per salvarsi si gettavano dalle mura sfracellan-
dosi a terra.
Prima del calar del sole la bandiera francese dai gigli borbonici
sventolava sulPalta torre nel centro del forte, e siccome questo do
minava la citta, la presa di Algeri poteva dirsi un fatto compiuto.
Assicurate le sorti della spedizione, fu ordinato alia flotta di
sospendere lo sbarco dei viveri e del materiale, di lasciare soltanto
i. le troniere: le feritoie per i cannoni.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 149
i due vapori, e di trovarsi il giorno dopo davanti ad Algeri fuori del
tiro dei forti, aspettando i segnali convenuti per bombardarla.
Nello stesso tempo fu armato il forte, dal lato che guardava la
citta, con i migliori pezzi rimasti (gli Arabi non avevano inchio-
dato1 neppure un cannone, e vi erano tante munizioni da sostenere
dieci anni di assedio), e air alba del 4 luglio fu lanciata una pioggia
di bombe sulla citta.
II sole non era ancora alzato, che si vide la bandiera della mezza-
luna abbassarsi sulla torre della Casba, ed al suo posto sventolare
una bandiera bianca. - La citta si arrendeva - il fiero Dey2 era
vinto.
Nella giornata arrivarono come parlamentari il suo primo mi-
nistro, napoletano rinnegato, ed altri funzionari con pieni poteri.
U* ultimatum della Francia fu: 1'abbandono della citta con tutto
quello che conteneva; la citta e il suo territorio proclamati colonia
francese; il Dey colla famiglia esiliato in Italia o in Spagna.
Fu un colpo di fulmine per i plenipotenziari, che insieme al Dey
credevano placare lo sdegno francese con qualche milione, e non
avevano mai potuto supporre tanta sciagura.
Chiesero di riferire al Dey; ebbero tempo sei ore a decidere; e la
sera portarono Paccettazione.
Fu convenuto che fosse immediatamente licenziato Tesercito
arabo, e che i Francesi occupassero la citta e i forti.
L'esercito fu diviso in tre corpi: uno doveva entrare dalla porta
Bab-Oued al nord - uno dalla porta Bab-Azun al sud - ed il terzo
rimanere al forte delHmperatore sorvegliando i forti della Casba.
La flotta nello stesso tempo doveva awicinarsi in ordine di battaglia,
pronta a fulminare, nel caso di tradimento, la lunga linea di forti
che difendevano Algeri dalla parte del mare.
II generale in capo stava a poca distanza dalla citta su di una
collina che dominava la Casba ossia il palazzo e la fortezza del Dey.
Quando vide sventolare la bandiera francese su quella e su tutti i
forti del littorale, scese verso la porta Bab-Oued, e traversando tutta
Algeri sali alia Casba abbandonata la mattina3 dal Dey con parte
della famiglia.
i. inchiodato: si rendevano inservibili i cannoni piantando un chiodo nel
focone. 2. il fiero Dey: « Hussein-ben-Hussein, dey di Algeri dal 1818 al
1830, morto ad Alessandria d'Egitto nel 1838)) (Mordini). 3. la mattina:
4 luglio 1830.
150 LEONETTO CIPRIANI
KATIM1
Leonetto collo stato maggiore ed il generale Juchereau capo di
quello, prese alloggio nel serraglio del Dey. Erano saloni dorati con
bei pavimenti di marmi preziosl - fonti di acqua perenne - profu-
sione di specchi, divani e guanciali - tappeti orientali - stoie finis-
sime delle Indie - lusso asiatico - ma mancanza assoluta di tutto
quello che e indispensabile ad un Europeo.
Ma industria omnia vincit - e la era facile vincere, perche non
mancavano ne il materiale ne lo spazio. Senza nessuna veste-
senza, si puo dire, esperienza - ma solo per istinto e per quelPatti-
tudine a far tutto che Leonetto dimostrb sempre durante la sua vita,
egli era il factotum, e lo zio (cosi chiamava il Juchereau), che aveva
per lui aifezione di padre, lo lasciava fare ed anzi lo incoraggiava.
Scelse per lo zio la piu bella sala - con dei divani vi fece un buon
letto e vi port6 quello che trovo di piu prezioso nelle altre stanze.
In un gran salone accanto fu organizzato il gabinetto dello stato
maggiore - ed egli scelse per suo nido un piccolo chiosco nel cor-
tile, unito alia camera dello zio da un corridoio vetrato ; uno di quelli
dove il Dey riceveva la favorita del giorno.
Se quelFatmosfera di essenza di rose, e di quel tale odore di gio-
vine donna bella come lo erano le schiave georgiane, delle quali si
sapeva avere il Dey una splendida collezione, inebbriasse i sensi
di Leonetto, e facile immaginarlo. Aveva diciotto anni! -E come
un bracco puro sangue che sente Todore della pernice, egli sentendo
quello delle odalische, le cercava frugando in ogni angolo del
serraglio.
Lo zio, uomo gia di sessant'atmi, ma che era stato esimio cac-
ciatore di simile gibier, gli domando : — Che cerchi che stai sempre
correndo per tutto il serraglio ?
— Mio buon zio, — gli rispose Leonetto — sento un odore . . .
cerco da dove viene, e non lo trovo!
— Che odore?
Non rispose, e si mise a ridere arrossendo.
— Ho capito, mauvais garnement! Ci6 che cerchi non e qui. Vedi
quella villa isolata guardata da sentinelle? Quelle che ha lasciate il
Dey sono tutte la, e non sappiamo che fame.
i. Ed. cit., vol. i, cap. vn, pp. 41-51.
AVVENTURE BELLA MIA VITA 151
— 6 mai possibile ? — rispose Leonetto che non ha mai dubitato
di nulla— - Lasciatemi andare a sceglierne sei -je m'en charge!
Questa risposta fece il giro del quartiere generate, e fece nascere
Tidea di dare a chi la desiderava una delle belle odalische, col loro
consenso, s'intende bene.
II primo a scegliere doveva essere il generale in capo, che declino
tale onore. II secondo, il capo dello stato maggiore, che accetto e si
fece la parte del leone per se e per Leonetto. La mattina allo spuntar
del giorno ando con lui e il suo dragomanno maltese nell5 harem,
dove le donne, awisate la sera, eran pronte a riceverli.
Erano settanta - venti delle quali gia avanzate in eta, pingui e
sfigurate - venti giovani e belle, more o abissine - e trenta geor-
giane e greche con qualche italiana e spagnuola rapite da bambine
dai corsari ed allevate per il Dey.
Avevano preparato il caffe con ogni sorta di dolci, i narghile
e le pipe. Seduti che furono, lo zio domando in greco, lingua che
parlava correntemente, se tra loro vi fossero delle greche.
La piu bella di tutte rispose : — Sono greca.
— Volete venire a stare con me ?
-Si.
— Sceglietene un'altra per tenervi compagnia.
La scelse, - era una sua sorella. Allora lo zio ordino che si met-
tessero insieme per nazione. Fu come un alveare di api ai primi
raggi del sole - chi correva da un lato, chi dalPaltro, ridendo e gri-
dando in tutte le lingue; sembrava la torre di Babele.
Fra quei gridi Leonetto ne senti uno « Sono taliana, sono taliana! ».
- Si alzo guardando da qual bocca uscisse quel dolce grido, e vide
un viso che era un sorriso divino. Come per corrente magnetica, i
loro sguardi s'incontrarono ; e quando lo zio gli disse: — Scegli —
non corse, no, volo precipitevolissimevolmente gridando : — Sono
italiano! — e Tabbraccio strettamente.
E lei - fosse il dolce nome di patria - una lontana visione dei
suoi - Tistinto della salvezza - svenne e cadde tra le sue braccia.
Fu una scena commovente che inteneri perfino quelle arnme pur
troppo educate ad essere insensibili.
Ripresi i sensi, si scelse per compagna una bellissima abissina.
E intanto lo zio fece chiedere a tutte se volessero restare ad Algeri o
ritornare ai loro paesL
Tutte decisero di rimanere in Algeri. In giornata molte trovarono
I£2 LEONETTO CIPRIANI
protettori - alle altre fu data liberta di andare in citta a cercarsene.
E il giorno dopo neH'harem non rimanevano che Sofia la bella
greca, Katim (Caterina) la bella italiana, e le loro due compagne.
Lo zio s'impadroni della graziosa villa, e vi si stabilirono tutt'e due
con delle serve more.
Ma lo zio essendo molto occupato, non si faceva mai vedere du-
rante il giorno, e Leonetto rimaneva solo colle donne. Segui quel
che doveva succedere. - Un giovine di diciott'anni, bello e robusto
come Leonetto, doveva essere spesso messo in confronto col gene-
rale, vecchio consumato da vita dissoluta, da quelle povere menti,
che della specie umana non conoscevano e non apprezzavano che la
forza fisica. Finirono per essere innamorate tutt'e quattro di lui - e
lui, al quale sei nonavrebbero fatto paura-fini per awicinarle tutte.
Ma questo gioco non piaceva a Katim, che si era appassionata-
mente innamorata di lui - e piaceva anche meno allo zio che, fa-
cendo vista di non sapere n6 vedere nulla, vedeva tutto e sapeva
tutto-e si accorgeva che Leonetto deperiva ogni giorno di piu.
In quel mentre arriv6 come un fulmine a ciel sereno la notizia
della rivoluzione di Francia e della caduta dei Borboni.1 II Bour-
mont e il Juchereau furono sostituiti dai generali Clauzel e Delort,2
e partirono per la Francia.
Leonetto rimase, ma non essendovi piu ragione per restare alia
Casba, affitto una casa in via Bab-Oued vicino alia piazza d'armi e
vi si stabili colla bella Katim, ma con lei sola, occupandosi intanto
di vendere con gran benefizio le merci che gli spediva il padre.
Ma, giunto il novembre, questi lo richiam6 a casa, colPordine
espresso di essere a Livorno prima della fine dell' anno.
Leonetto, conoscendo il puritanismo del padre e della famiglia,
non sapeva qual partito prendere colla sua Katim - e questa giu-
rava che, se la lasciava, si sarebbe affogata in sua presenza al mo-
mento della partenza.
A diciott'anni si crede tutto, e 1'idea di vederla sparire nelle onde
lo fece raccapricciare. Decise di condurla seco. Le tagli6 i capelli,
i. rivoluzione . . . Borboni: come e noto, rinsurrezione contro Carlo X
di Borbone comincio a Parigi il 27 luglio 1830 e si concluse con 1'ascesa al
trono di Luigi Filippo d'Orl&ms. 2. « II conte Bertrando Clauzel (1772-
1842), in aspettativa durante la Restaurazione, governatore dell* Algeria
dal 1830 al 1832, e dal 1835 al 1836, maresciallo di Francia nel 1831; il
generale Giacomo Delort (1773-1846), distintosi in Ispagna e nella campa-
gna del 1814, in aspettativa durante la Restaurazione » (Mordini).
AVVENTURE BELLA MIA VITA 153
la vesti da uomo, e la condusse a bordo come se fosse un suo servi-
tore. Ma era il vero caso di dire « 1'abito non fa il monaco » e Pequi-
paggio fin dal primo giorno capi cosa fosse il servitore.
Arrivarono il 20 dicembre a Livorno, al lazzaretto di S. Rocco.
Scontata una quarantena di venti giorni, Leonetto usci dal lazza
retto accompagnato da tutta la famiglia; e Katim, vestita da donna
europea, and6 a stare in una locanduccia in un luogo appartato della
citta.
E tempo ora di dire chi era Katim, e come era capitata nel serra-
glio del Dey.
Da quanto si rammentava aver sentito dire dalla madre, era di
Genova, e doveva esserlo, perche il poco che parlava d'italiano era
dialetto genovese. I suoi genitori, partiti da Genova per andare a
Malaga, erano stati spinti dalla tempesta sulle coste d' Africa e fatti
schiavi. II padre era morto poco dopo, e la madre, incinta, essendo
bellissima, era stata venduta al Dey, ed era morta quando la figlia
poteva avere sei o sette anni. E Katim era stata educata da una
vecchia genovese di buona famiglia, schiava da molti anni, e inca-
ricata d'insegnare la musica alle bambine del serraglio, finche a
quindici anni era entrata nelPharem.
Era Katim un tipo raro di bonta e di dolcezza, e aveva un istin-
tivo senso morale ed un pudore infantile. Nel fisico era la Venere del
Campidoglio - alta - ben formata - pelle fmissima e vellutata - ca-
pelli neri lucidi come le penne del corvo - bocca di paradiso -
sguardo velato e sorriso di sirena. Di carattere era triste e malinco-
nica - parlava poco, come se il parlare fosse una fatica per lei. E
raccontava che il Dey non P aveva mai distinta fra le altre per la sua
malinconia e la sua freddezza.
Se Leonetto alia sua eta amasse una donna simile, e facile im-
maginarlo, - ed e facile capire quanto lei lo contraccambiasse, poi-
che non aveva che lui in questo mondo, e senza di lui non sapeva
immaginare 1'esistenza. Ignorando poi in gran parte le difficolta
che Leonetto aveva da vincere, viveva tranquilla, sempre chiusa
nella sua camera ad aspettarlo. Ma egli, per allontanaie i sospetti,
non poteva vederla che poco e di rado, e mai la notte.
Era arrivato appena da una settimana, quando una mattina il
padre lo sveglia e gli dice: — Alzati - si parte subito per Firenze.
Con quel padre non era possibile far Tombra di un'osservazione.
Non restava che obbedire e partire.
1^4 LEONETTO CIPRIANI
QuelFimprowisa partenza era cagionata senza dubbio dal fatto
che il padre vedeva deperire il figlio ogni giorno piii, e supponeva
che cio provenisse da cattive abitudini contratte in Algeri. E penso
percio di condurlo in una villa isolata che aveva in affitto nelle vi-
cinanze di Firenze, sicuro che Leonetto, allontanato dalle tenta-
zioni, sotto la sorveglianza di un vecchio e fido servitore si sarebbe
presto ristabilito.
Sei giorni dopo 1'arrivo alia villa, il padre parti per Livorno,
ordinando al figlio di stare nella villa finche non tornasse e di
non mettere piede in citta, ma permettendogli di fare lunghe passeg-
giate a cavallo sui colli.
La sera Leonetto usci per fare una passeggiata col cavallo arabo
All che aveva portato da Algeri, ed infilo la via di Livorno. Fece
sessanta miglia in dodici ore, fermandosi soltanto un'ora alPOste-
ria Bianca,1 e la mattina al far del giorno entro in citta.
Mise il cavallo in una stalla vicino alia posta dei cavalli, ed and6
alia locanda della Pace, dirimpetto alia stalla, dove aveva lasciato
Katim. Entro inaspettato nella sua camera, e la trovo seduta sul
letto con un Cristo nelle mani, piangendo come una Maddalena
penitente.
La sera a notte oscura, dopo averle promesso di tornare ogni
quattro giorni a vederla, risali a cavallo, ed arrivb la mattina alia
villa, dove disse al servitore di aver passato il giorno prima da un
arnico, in una villa vicina.
Due giorni dopo riparti, e cosi di seguito per quattro volte. E
malgrado il freddo, la pioggia, la neve e le dodici ore in compagnia
di Katim, la sua costituzione di ferro era tale che pote reggere a cosi
dura fatica.
Ma la quinta volta, mentre era con Katim, lo prese un tremito
con febbre. Impossibile partire la sera - rimase con lei la notte e il
giorno dopo. La sera, sentendosi meglio, voile partire, prevenen-
dola che, se non lo rivedesse per molti giorni, stesse tranquilla ad
aspettarlo.
E lei che nata in Algeri non era stata battezzata, e della religione
cristiana non aveva che poche nozioni insegnatele dalla vecchia
genovese, gli chiese in grazia di permetterle di farsi battezzare, e
gli domando a chi doveva rivolgersi. Egli la consigli6 di andare
i. Osteria Bianca: « Vicino ad Empoli» (Mordini).
AVVENTURE BELLA MIA VITA 155
dal vescovo,1 che era un sant'uomo, e di fare tutto quello che le
avrebbe suggerito. - La religione che e la consolazione delle anime
afHitte, doveva essere la sua.
Leonetto parti col presentimento che era Tultima volta che la
vedeva, ed arrivato alia villa, cadde malato di febbre cerebrale.
I genitori, informati da un espresso, accorsero, e trovarono il
figlio morente, fuori di se - e chiamando sempre Katim, Katim.
II padre, informato dal servo che il figlio di quando in quando
faceva delle grandi scappate a cavallo, e quasi sempre con quello
arabo, supponendo che vi fosse sotto un grande amore, voile co-
noscere la causa del male per pond rimedio.
La sera, all'ora che Leonetto soleva partire, ordino la sua car-
rozza, e la fece precedere da un palafreniere montato su Ali, ma a
briglia libera, affinche il cavallo potesse prendere la via che era
abituato a seguire. Prese la via di Livorno e arrivato alPOsteria
Bianca verso la mezzanotte, si fermo alia posta. Proseguirono dopo
due ore di riposo, e arrivati la mattina a Livorno, il padre mand6
la carrozza alia villa, sali sopra Ali, ed entrato in citta lo Iasci6 an-
dare da se stesso, ed il cavallo ando diritto alia solita stalla accanto
alia posta.
Scese, consegno Ali allo stalliere, e gli domando se conosceva
quel cavallo. Rispose che veniva spesso alia sua stalla.
— Sapete di chi e?
— Sissignore - me Tha detto il Bacci - e del Cipriani.
Ando dal Bacci, che era seduto sulla porta, e gli chiese se avesse
veduto qualche volta il figlio arrivare a cavallo.
— Sissignore - arriva spesso la mattina, scende a quella locanda
e riparte la sera.
Per il momento ne sapeva abbastanza. Ando alia villa a ripo-
sarsi, e dopo mezzogiorno si diresse alia locanda e chiese al pa
drone : — Potreste dirmi chi avete alia locanda ?
— C}e un prete di Pisa - un fattore di Lucca - e poi c'e una
ragazza che e qui da quasi due mesi.
Gli mise in mano uno zecchino, e gli disse: — Voglio sapere
tutta la verita.
— Sissignore, ma non occorre che lei s'incomodi — rispose, met-
tendosi per6 i due francesconi2 in tasca.
i. vescovo: «Monsignor Angelo Gilardoni, vescovo di Livorno dal 1821
al 1834* (Mordini). 2. due francesconi formavano vino zecchino toscano.
156 LEONETTO CIPRIANI
— Chi e la ragazza die dite?
— Non lo so, ma dev'essere una forastiera, perche parla male
toscano.
— £ giovine ?
— Se e giovine! dica una bimba - bella come il sole - e buona
buona - mi aiuti a dir buona.
— £ sola?
— Sissignore, sempre sola.
— - Non vede mai nessuno?
— Veramente, nessuno e troppo. C'e un bel giovine! Ma per
carita non mi comprometta. Sono un pover'uomo carico di famiglia,
che faccio i miei affari per strappare il pane.
— State tranquillo - non solo non vi comprometto, ma vi ricom-
pensero come meritate.
— Ma scusi, lei e della polizia ?
— No, sono un padre che cerca suo figlio.
— Dio buono! Ma che sarebbe il babbo di quel bravo giovine
che vuol tanto bene alia signora Katima?
— SI, sono precisamente lui. Ditemi ora quando mio figlio e
venuto qui?
— Sara due mesi. In sul principio ci veniva tutti i giorni - poi,
di quando in quando, arrivava la mattina e se ne andava la sera.
Ora sono diversi giorni che non si vede, e la signorina piange
giorno e notte che fa proprio compassione. - Se sapesse come e
buona! Lo sa? Paltro giorno mi ha portato dal vescovo - c'e stata
un'ora e poi mi sono sentito chiamare - Tha battezzata e sono stato
il su' compare. Si vede che non era cristiana. Dopo d'allora e sem
pre, giorno e notte, con un Cristo in mano, e piange, piange che
non smette mai.
— Chi vi paga la locanda? avanzate nulla?
— Oh! Dio liberi! la signorina mi paga puntualmente tutte le
settimane come un botteghino del lotto. Dev'essere ricca, sa! Ha
tante gioie! N'ha un baule pieno. La mia Betta dice ch'e piu ricca del
Bartolommei,1 - e poi, vuol che gli dica tutto ? leri mi mand6 a
vendere un anello con un brillantone. Andai dal Pini~sa, qui
vicino - perche lui e un galantuomo - lo peso - e sa quanto mi
i. Bartolommei: « Famiglia c6rsa stabilitasi a Livorno per ragioni di affari,
e divenuta rapidamente una delle piu ricche della citta» (Mordini).
AVVENTURE BELLA MIA VITA 157
dette ? 800 francesconi tondi tondi. - Glieli portai puntualmente, e
mi ha regalato uno zecchino come lei.
Dopo aver riflettuto sul da farsi, fece awisare Katim che c'era
il padre di Leonetto che desiderava parlarle. Era tanto il dolore di
queirinfelice, che non esito un momento e lo fece entrare. Con le
lacrime agli occhi gli fece cenno di sedere, e gli domandd : — Voi
siete il padre di Leonetto?
-Si.
— 6 malato ?
— Si, e gravemente malato.
Non pianse, ma rimase impietrita. Datole il tempo di riaversi,
il padre le domand6 : — Di dove e lei ?
— - Non lo sapete?
— No - non so niente - ed ho bisogno che lei mi dica tutto, se
vogliamo salvare Leonetto.
Gli raccont6 come Paveva conosciuto in Algeri - come si tro-
vava a Livorno - come da due giorni soltanto si era fatta battez-
zare dal vescovo - e come, dopo Dio, il suo solo protettore e salva-
tore fosse Leonetto.
II padre, gia meravigliato di vedere quelPangiolo di bellezza con
tanta espressione di bonta, rimase intenerito da tanto amore; -
e per quel giorno non ebbe coraggio dl dirle altro. Si alzo, le doman-
do se poteva tornare il giorno dopo, e usci, lasciando Katim incan-
tata dalla bonta di quel vecchio venerando, che alia severita pa-
terna sapeva unire la carita cristiana.
Torn6 Findomani, e lei piu bella che mai, perche nella notte
aveva probabilmente fatto sogni ridenti pieni di speranze nell'awe-
nire, gli bacio la mano e gli disse: — lo sono un'infelice che non
e degna neppure di baciarvi la mano, ma, per 1'amor di Dio,
ditemi dov'e, e se e in pericolo.
Le raccontc- tutto per filo e per segno - e senza darle tempo a
rispondere, aggiunse : — Per quanto io vi ammiri e sia incantato
della vostra bonta - voi non potete essere nulla per Leonetto. Voi
stessa convenite della vostra triste condizione, dellsinfelice vostra
sorte. Scusate la mia franchezza per il vostro bene e quello di mio
figlio. - Non e possibile che, uscita dal serraglio di un turco -
buttata nelle braccia di Leonetto da un vecchio libertino, nel
quale non mi perdoner6 mai di aver avuto cieca fiducia - voi vi-
viate con lui in qualsiasi modo; - non puo essere in questo paese,
158 LEONETTO CIPRIANI
e molto meno nella mia famiglia. - Dite voi cosa vi resta da fare.
— Salvare prima di tutto Leonetto, — rispose Katim — e vi do
la mia parola d'onore, se onore s'intende che abbia un'infelice
come me, - vi giuro su questo Cristo, che quando lo avro veduto
sano e salvo, spariro per sempre.
Al vecchio padre queste parole fecero gelare il sangue nelle vene,
perche sapeva di cosa e capace una donna che ami con passione.
Ma malgrado quel che sentiva internamente, dove essere crudele, e
parti dicendole soltanto che le credeva, e che ogni giorno le avrebbe
scritto le nuove del figlio.
Tornato alia villa, lo trovo migliorato nel fisico, ma peggiorato
molto nel morale. Non conosceva piu nessuno - non parlava che
di guerra, di arabi, di francesi, - e sempre Katim, Katim. Ma per
calrnare il suo delirio, basto che il padre ripetesse quel nome, ag-
giungendo: — L'ho veduta-ti aspetta.
Da principio spalanco gli occhi, e tese gli orecchi come per udire
una voce lontana - poi a poco a poco fisso lo sguardo sul padre -
gli prese la mano - e finalmente gli si butto al collo, e pianse dirot-
tamente.
Era salvo. La malattia fu lunga, ma il ventunesimo giorno cesso
la febbre e cominci6 la convalescenza.
II padre, scrupoloso osservatore della parola data, ogni giorno
mandava a Katim le notizie del figlio, e appena questi fu in grado
di farlo da se, glielo permise. E quando fu completamente rista-
bilito, gli ordino di scriverle che fra due o tre giorni sarebbe an-
dato da lei per dirle addio.
Infatti, arrivato a Livorno, il padre gli disse: — Andrai dalla si-
gnora Katim e le dirai che domani parti per rAmerica.
Leonetto abbasso la fronte perche sapeva che, se il padre era
stato buono e pietoso, era pero inesorabile, ed assoluto nella sua
volonta.
Ando alia locanda, ma Katim era partita il giorno innanzi con
tutta la sua roba, lasciando una lettera per lui. L'apri - c'era una
treccia di capelli, e queste sole parole: « Addio, ti rivedro in cielo! ».
Corse tutta la citta - alia locanda, alia polizia, aH'ufficio dei pas-
saporti, al porto - nessuna traccia di Katim.
Torno alia locanda, e seppe che era partita con una timonella1
condorta da un certo Conti. Riusci a trovarlo, e gli domando se il
i. timonella'. «Carrozza a quattro ruote e ad un cavallo» (Mordini).
AVVENTURE DELLA MIA VITA 159
giorno innanzi aveva preso una signora alia locanda della Pace.
— Sissignore.
— Dove 1'avete condotta?
— Mi ordino di andare da un ebreo che comprasse roba vec-
chia - la portai in via degli Ebrei - fece scaricare i bauli - ci stette
mezz'ora e risali in carrozza senza la roba, fuorch6 un baulino ros
so (era quello delle gioie). - Mi disse di andare dal vescovo -
scese, mi fece portare dentro il baulino, e ci stette piu di un'ora. -
Torno senza il baulino, e mi ordino di andare all'Ardenza, e li
stette seduta sopra uno scoglio fmo a notte avanzata. Si torno in
citta, scese alia marina dei Mori,1 mi pago bene e se ne ando.
Mentre il vetturino diceva queste ultime parole, Leonetto vide
una quantita di popolo che correva allo scalo dinanzi ai Mori.
Come per istinto si diresse da quel lato - traverso la folia e vide
Katim morta annegata!
Cadde svenuto e fu dallo stesso vetturino portato alia villa,
dove Iott6 due mesi tra la vita e la morte.
[LA TOSCANA E LA CAMPAGNA DEL 1 848]*
Primo il re di Napoli proclamo la costituzione. Lo segui il Gran-
duca, e dopo loro Carlo Alberto e il Papa.3
II 24 febbraio scoppi6 la rivoluzione in Francia. I Milanesi in-
sorsero e scacciarono gli Austriaci, Carlo Alberto pass6 il Ticino
con Tarmata piemontese e si diresse su Mantova.
I Toscani gridavano per le strade armi ed armati per scendere in
Lombardia, ma nessuno oso prendere Piniziativa dirigendosi al
presidente del consiglio dei ministri, il marchese Ridolfi,4 e al
Granduca.5
i. marina dei Mori: cosi detta perche* vi sorge il monumento a Ferdinando I
di Lorena, opera del Tacca, dove figurano, nel piedestallo, quattro mori
incatenati. 2. Ed. cit., vol. I, dal cap. xm, pp. 115-61. 3. Primo ...
Papa: «2O gennaio, 15 febbraio, 4 e 14 marzo i848» (Mordini). 4. «I1
marchese Cosimo Ridolfi (1794-1865), valentissimo agronomo, aio dei figli
del Granduca e uno dei capi del partito liberale moderato in Toscana, fu
ministro delT interne nel 1847, presidente del Consiglio e incaricato di una
missione diplomatica a Parigi e Londra nel 1848, ministro degli esteri nel
'59 dopo la rivoluzione del 27 aprile, e senatore Tanno seguente. Non fu
per6 che il 4 giugno 1848 che egli successe al Cempini come presidente del
Consiglio» (Mordini). 5. Granduca: Leopoldo II (1797-1870) governd
la Toscana dal 1824 al 1859.
l6o LEONETTO CIPRIANI
Fu tuo padre che senza dir niente a nessuno si presento al
Ridolfi, e gli disse: — Lei sa che io sono awerso alle dimostra-
zioni di piazza. Per non prendervi parte neppure indiretta sono
fuggito lontano. Ma oggi le dimostrazioni debbono finire per dar
luogo a propositi di uomini che pensano seriamente al risorgi-
mento italiano. - I Milanesi hanno scacciato gli Austriaci, e Carlo
Alberto ha passato il Ticino. I Toscani debbono partire immedia-
tamente per la Lombardia, organizzati o non organizzati; il primo
movimento deve essere tutto di effetto morale sul resto d5 Italia.
fe necessario che oggi stesso il Granduca dichiari guerra all' Austria
e con un proclama chiami i Toscani sotto la bandiera tricolore.
II buon Ridolfi rimase spaventato, e rispose il solito « vedremo -
mi ci lasci pensare - si fara».
Ma non era piu il tempo di contentarsi dei vedremo e dei si fara.
Leonetto gli rispose con tuono risoluto : — Se lei entro oggi non
mi da Pordine di partenza dei volontari e delle truppe regolari,
partiremo domani tutti in massa strascinando o con le buone o con
le cattive armi ed armati regolari.
II Ridolfi, con quella rara lealta che lo distingueva rispose:
— Voglion che sia cosi, e cosi sia. Non domando di meglio. Vado dal
Granduca. - Torni a mezzogiorno, le daro la risposta.
Torno a mezzogiorno. La risposta fa che il consiglio dei mi-
nistri si sarebbe riunito a palazzo Pitti per le due. Gli disse che il
Granduca si mostrava favorevole, ma voleva il consenso di tutti
i ministri; ed aggiunse : — Venga a palazzo Pitti alle tre e mi aspetti
nel salone davanti al gabinetto del Granduca.
Alle tre Leonetto era seduto in quel salone, quando vide appa-
rire la Granduchessa1 che gli disse con tuono secco :
— £ lei il Cipriani ?
— Altezza si.
— Aspetti - tra un momento sara contento. Ma Dio voglia che
finisca bene! — E se ne and6, lasciando tuo padre con un naso piu
lungo di quello del Paganini.2
Poco dopo entro il Ridolfi con in mano un piego non sigillato.
Era il proclama manoscritto che permetteva ai Toscani di partire
per la Lunigiana.
i. la Granduchessa: Maria Antonia, dei Borboni di Napoli, aveva sposato
Leopoldo II nel 1833. Mori nel 1896. 2. Allude al celebre violinista
Niccol6 Paganini (1784-1840).
AVVENTURE DELLA MIA VITA l6l
Non era tutto, ma era molto e bastava. Era il caso di dire:
// rfy a que le premier pas qui coute.
Chiese un treno espresso per Pisa e Livorno. L'ottenne - ed
andando alia locanda a prendere il suo fagotto incontr6 Rinaldo
Ruschi1 al quale disse cio che aveva ottenuto e che invito a partire
con lui.
Partirono. Alia Rotta, traversando la via maestra, la locomotiva
dette contro un baroccio tirato da muli, e li massacre. Fu salvo
il barocciaio, il quale comparve il giorno dopo a Livorno a chie-
dere un'indennita. Leonetto gli regalo venti zecchini, e fu quello il
primo sacrificio pecuniario, come fu il primo sangue sparso in
Toscana per 1'indipendenza italiana.
Arrivarono a Pisa ad ora tarda. Molti cittadini e tutti gli ufE-
ciali della guardia nazionale eran riuniti in casa del colonnello
Dal Borgo.2 Comunico il proclama, che fu mandato per espresso a
Lucca, e parti per Livorno, ove arrivo sul far del giorno.
Ando dal Bargagli3 governatore della citta, che abitava allora il
palazzo del Granduca. Era a letto - ma se Leonetto aveva passato
la notte in viaggio, poteva bene alzarsi lui alle cinque!
Con un tuono da dittatore lo fece svegliare. Si alzo, ed in veste
da camera lo riceve in un salotto dove Leonetto non aveva mai messo
piede ne ve lo mise mai piu, pero lo rammentava vent'anni dopo,
come se lo avesse veduto il giorno innanzi - tappezzerie giallo
arancio, tende e mobili di damasco arancio.
Comunico al Bargagli il proclama, con la lettera aperta del pre-
sidente del consiglio che gli ordinava di farlo stampare ed affig-
gere sulle canto nate.
Lesse e rilesse il proclama e poi la lettera - si strofino gli occhi
credendo sognare - rilesse - e non essendo ancora convinto che
quel che leggeva era una realta, domand6 : — Questo e il proclama —
questa e la lettera del Ridolfi ?
— Sissignore - bisogna subito farlo stampare.
— Come, subito? Vedremo!
i. « Rinaldo Ruschi (1817-1891), patriotta pisano, deputato all'Assemblea
toscana del 1859, e poi al Parlamento italiano dalla 7a alia 9a legislatura, se-
natore nel 1868 » (Mordini). 2. « Giovanni Saladino Dal Borgo (1807-
1861), di nobile famiglia pisana, membro del Senato toscano nel 1848))
(Mordini). 3. « II cav. Scipione Bargagli, governatore civile e militare di
Livorno dal 15 gennaio al 24 marzo 1848, e prima e dopo ministro di
Toscana presso la S. Sede» (Mordini).
162 LEONETTO CIPRIANI
— Come, vedremo ? Le dico : subito, senza perdere un minuto —
e cosi dicendo si alzo, gli levo di mano il proclama, e suono forte il
campanello.
Comparve lo stesso servitore che di pessimo umore gli aveva
aperto il portone, e di pessimo umore rispondeva ad una chiamata
imperativa, alia quale non erano abituati in quel palazzo. — Chia-
mate il segretario di Sua Eccellenza — - gli disse Leonetto.
— Non dorme in palazzo.
— Correte.a cercarlo in casa sua e conducetelo subito qui.
Sua Eccellenza non fiatava, assorto nel pensiero di cio ch'era per
lui la fine del mondo. Ma Leonetto, al quale il viaggio e Pinsonnia
avevano aguzzato Tappetito, gli domando se poteva fargli preparare
un po' di colazione.
— Sissignore, ma bisogna svegliare il cuoco.
— Lo svegli.
— Non so dove sta.
— Suoni tutti i campanelli, qualcheduno deve corrispondere al
piano superiore dove dorme la servitu.
E Sua Eccellenza corse a suonare i campanelli con tanta buona
volonta da strappar tutto, finche comparvero uno dopo Paltro una
mezza dozzina di giovani e vecchi sciancati mezzi vestiti - i piu
fiorentini, perche vecchi servi addetti al palazzo. — Icche c'e egli ? -
c'£ iffoco ? - Oh eccellenza la scusi, i9 sono in camicia — e cosi tutti
nello stesso tono, da far crepare dalle risa il GoldonL
Ma T Eccellenza, furiosa di trovarsi a contatto con quella gente,
esclamo : — Dov'e il cuoco ?
— Eccellenza, iccoco e' un c'e - un dorme a ippalazzo - e' gli
e un livornese che dorme accasa sua.
— Nessuno di voi sa fare un po' di colazione, il caffe ?
— Eh diamine, Eccellenza - i' 1'ho fatto per ippadron Ferdi-
nando1 bon'anima,
— Ebbene, fate del caffe, delle ova - portate quel che trovate in
dispensa.
Poco dopo era imbandita una splendida colazione con i resti
del pranzo del giorno prima; ma resti che meritavano- esser prin-
cipio di un altro pranzo: un fagiano arrosto ripieno di tartufi-
una galantina intatta - un fricand6 e diversi piatti di dessert inci-
gnati.
i.Ferdinando III, padre di Leopoldo II e suo predecessore sul trono.
AVVENTURE BELLA MIA VITA 163
II personale di servizio era al complete e in livrea - ed avendo
senza dubbio preso Leonetto per un principe di casa d' Austria,
un vecchio domand6 alPorecchio di Sua Eccellenza : — La ordina
vini forestieri ?
Fu Leonetto che rispose con un si sonoro : — Una bottiglia di
sciampagna non fara male.
Fu stappata e versata, e Leonetto fece il primo brindisi - ewiva
il Granduca, ewiva 1'Italia - al quale 1'Eccellenza rispose balbet-
tando, non essendo ancora ben certa che tutto quello che seguiva
fosse una realta.
Cosa mangio tuo padre non e credibile. Spari il fagiano, spari
la galantina e sarebbe sparito il resto, se non arrivava il segretario.
Leonetto si alzo, e dando il proclama al Bargagli, gli disse: —
Tocca a lei dare gli ordini.
Lo rilesse daccapo, e finalmente disse al segretario : — Porti
questo proclama alia stamperia. — E Leonetto aggiunse:— Lo
aspetti, e appena pronto ne porti cinquanta copie ~ e poi cinque-
cento. Aspetto qui.
Voleva rimettersi a tavola - se non lo fece, fu per pudore. Prese
il caffe ritto, e prego I'Eccellenza di andare a fare la sua toilette,
mentre lui avrebbe fatto un sonno sopra il sofa. E partito il Barga
gli, si sdrai6 e attacco un sonno cosi profondo che per svegliarlo ci
vollero le grida di migliaia di matti che sotto le finestre urlavano:
— Viva Leopoldo, viva Pio IX, viva 1'Italia!
La voce si era sparsa dalla stamperia, e prima che fosse affisso
il proclama ne giravan gia molte copie.
Arrive il segretario coi proclami, e Leonetto disse al Bargagli: —
Ne butti qualche copia dal terrazzo.
— La mi faccia il piacere - glieli butti lei.
Cosi fece Leonetto, e senza dir addio alia ridicola Eccellenza,
infilo 1'uscio, e ando alia sua villa a dormire e digerire il copioso
pasto fatto ad ora insolita. Alle due ando in citta da Gian Paolo
Bartolommei maggiore della guardia nazionale, ove eran tutti riu-
niti per prendere i prowedimenti per la partenza.
Racconto il fatto, e raccomando di non perdere tempo. — In
ogni mo do domani deve partire il primo battaglione.
— Si, si,— risposero tutti— domani partiremo colla sola camicia,
se occorre, ma partiremo.
Dopo aver messo in moto la cosa pubblica, Leonetto pensd a
164 LEONETTO CIPRIANI
quella privata. - Sistem6 gli affari di famiglia in modo da esser
tranquillo sull'awenire della madre e del fratello, se la guerra gli
fosse stata fatale. - Si equipaggio di tutto quanto poteva occorrergli,
e non essendo neppure della guardia nazionale si fece fare un'uni-
forme di sua invenzione - tunica verde a mostreggiature rosse con
una fila di bottoni lisci, calzoni verdi foderati di pelle, berretto
verde orlato di rosso, cinturone di cuoio e bar datura completa di
cavalleria. Non uno stemma, non un filo di oro o di argento.
Per armi porto due sciabole, due pistole a cartuccia a doppio
colpo, una carabina Lepage1 ed un fucile da munizione di Saint-
fitienne.2
Non sapendo come avrebbe servito e cosa avrebbe fatto, parti
in una carrozza con due buoni cavalli, e condusse seco il suo vec-
chio cameriere Jacopo.
E finalmente prese alia banca Adami una credenziale di 100.000
franchi sopra il banchiere Laurent di Parma.
Avendo tutto preparato, raccomando la madre allo zio Carac-
ciolo, la tranquillizzo sulle sorti della guerra, Pabbraccio e parti.
A Pietrasanta raggiunse i volontari livornesi. Ne aveva il co-
mando il maggiore Baldini,3 delParmata regolare, suo intimo ami-
co; e ne era stato nominato commissario straordinario, per sugge-
rimento da lui dato al Ridolfi, 1'altro suo intimo amico, il professore
Matteucci.4
Quella riunione di armati veniva chiamata volontari, ma in
realta la maggior parte e i migliori di essi erano le guardie nazionali
delle citta. Gli altri volontari che partirono con quella erano in
generale un'accozzaglia di giovani poco atti alle fatiche perche
quasi tutti - tranne pochi contadini, vere eccezioni - operai irre-
quieti, ciarlatani, bestemmiatori - qualcuno di buona volonta, i piu
vagabondi, per i quali le parole liberta ed indipendenza si traduce-
vano in licenza, T Italia un'occasione di far baccano, e la guerra,
alia quale i piu non arrivarono, un mezzo di mangiare e bere senza
lavorare. A questi furono dati ufficiali improwisati, i piu giovani
desiderosi di far bene e combattere.
i. carabina Lepage: il nome indica il tipo di carabina. 2. fucile . . . Saint-
j&tiennei Saint-Etienne, in Francia, e citta famosa per la sua fabbrica d'armi.
3. «I1 maggiore Pietro Baldini, del i° reggimento di linea, si distinse e fu
fatto prigioniero a Montanara» (Mordini). 4. Carlo Matteucci, di Forli
(1811-1868), professore di fisica all'Universita di Pisa.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 165
L'elemento della guardia nazionale essendo migliore, quelli che
liberi di se stessi poterono partire fecero miracoli, ma la maggior
parte dovette rimanere, perche padri di famiglia o in eta avan-
zata.
Lo stato maggior e della guardia nazionale era composto di quel
che vi era di piu onesto e di piu patriottico nelle citta, e di piu
distinto nella classe agiata e colta, medici, legali ed artisti.
Dei Pisani Pelemento volontario era migliore - piu quieto, piu
docile, meno esigente, piu abituato alle fatiche, perche la maggior
parte del contado. La guardia nazionale poi eccellente, e lo stato
maggiore perfetto.
Ma quel che fece la meraviglia di tutti fu il vedere Puniversha
intera di Pisa chiedere come un sol uomo di partire per la santa
guerra, studenti e professori. — I giovani erano quel che sono tutti
gli studenti - pieni di ardore e di buona volonta, ma troppo gio
vani e con abitudini contrarie al fare un buon soldato. - Malgrado
ci6 si piegarono con rassegnazione alle lunghe marce, dormirono da
bravi sulla paglia, e da bravi vuotarono con avidita. le gamelle. Ma
quel che onora grandemente la loro memoria, fu che da bravi stet-
tero al fuoco, e parecchi lasciarono la vita alia battaglia di Curta-
tone. - E i professori, tutti insigni italiani, partirono con loro perche
nell'animo italiani, e perche non vollero affidare a nessuno la dire-
zione e le cure di quella falange, preziosa speranza della patria,
della scienza e della famiglia.
Fra i militi dell'universita vi era Giuseppe Toscanelli,1 il piu ori
ginate e il piu ciarlone di quanti volontari varcarono PAppenni-
no, compresi i fiorentini che lo sono in modo sfrenato. Originale
perche piccolissimo di statura, marciava bravamente, carico come
un somaro di ogni sorta di roba. Oltre al fucile, alia sciabola, al
sacco, al cappotto e alia coperta, e due pistole e uno stile alia cm-
tola, portava una carniera da caccia, una fiaschetta ed un impermea-
bile che lo copriva tutto da capo a piedi nei tempi piovosi. In testa
un berrettino, sopra quello un cappellone di paglia, e sopra il cap-
pellone un elmo romano, d'ordinanza della guardia nazionale, e
vero, ma un arnese impossibile, permesso solo ai pompieri, e che il
i. «Giuseppe Toscanelli, pisano, valentissimo agricoltore ed enologo, de-
f,,putato dalla vn alia xvi legislatura, prii che oratore, intermttore pieno di
'brio e di arguzie, morto settantenne a Roma il 27 febbraio 1891)) (Mor-
l66 LEONETTO CIPRIANI
Toscanelli era Punico dei volontari che se lo trascinasse dietro.1
E quando il caldo lo soffocava, si attaccava quello scaldaletto dietro
le spalle, restando col cappellone, che fu battezzato il parafulmine
di Beppe.
£ strano come la maggior parte della gioventu faccia le cose non
perche le piacciano, non perche le siano utili, ma per essere osser-
vati. Siano o no ridicoli, non importa: son contenti quando due
occhi curiosi si posano su di loro. - Cos! il Toscanelli che ne sentiva
di tutti i colori, e rispondeva: — Bene, bene - cantate pure, ma in-
tanto a me non mi manca nulla — ; e come Diogene, fiero della sua
botte, duro finche pote, seminando a poco a poco tutta la sua roba
per la strada, finche cadde malato.
Con tutto questo ridicolo addosso per6 egli era uno dei pochi
che capisse quel che faceva, dove andava e perche ci andava. Aveva
ricevuto un'educazione sbagliata nella forma, ma completa per
Pistruzione, poich6 aveva una tintura generale di tutto, come a torto
si da alia gioventu ricca in Italia. Ma era gia molto che sapesse quel
che si faceva, perche pochi potevano dire altrettanto, ed egli ha
mostrato di saperlo fino in fondo, poiche oltre al far quello che
gli permisero le forze nella prima campagna, si trov6 nella secon-
da a Venezia assediata dagli Austriaci, ove si distinse in modo
speciale.
Peccato che quel giovane avesse Penorme difetto di una parlan-
tina senza principio ne fine - perche parlava con se stesso quando
non trovava altri che avessero la pazienza di ascoltarlo, - e doveva
parlare anche dormendo - e di tutto e di tutti, uomini e cose, con
parole scelte, e vero, con cognizioni di fatti speciali e spesso con
buon senso, ma perdendo il merito di tutto per il modo di esporre,
per il tuono stridente, e soprattutto per voler sempre lui la parola e
la ragione.2
i. e che . . . che se lo trascinasse dietro : si incontrano spesso nel Cipriani im-
perfezioni sintattiche e stilistiche. Qui bisognerebbe sopprimere il primo
chey oppure trasformare 1'ultima relativa in una forma implicita: a trasci-
narselo dietro. 2. « Se ci permetteremo di quando in quando, con parsi-
monia, di questi schizzi biografici, e ben lontana da noi Pintenzione di voler
mettere in ridicolo o biasimare quelli che su su facendo strada incontre-
remo piu adatti a far toccare con mano le conseguenze di educazioni sba-
gliate, scopo principale di questi nostri racconti. La prova della nostra
buona intenzlone e che coloro che metteremo in scena saranno sempre amici
e parenti. Giuseppe Toscanelli e figlio di una nostra cugina .germana, nata
Cipriani » (nota del Cipriani).
AVVENTURE DELLA MIA VITA 167
I Lucchesi pure erano buoni element!, tanto nella guardia na-
zionale che nei volontari. I Senesi avevano eccellenti guardie na-
zionali e migliori volontari, perche fra questi molti erano giovani di
campagna awezzi alle fatiche. I Fiorentini, Pistoiesi, Pratesi ed
Aretini formavano un corpo separate che si riuni cogli altri a
Fivizzano.
Da Pietrasanta la colonna si diresse a Massa di Carrara, dove si
fece gia sentire prepotente il bisogno di uno spurgo e di una orga-
nizzazione, che non furon pero fatti alia meglio, che molto dopo,
sotto Montanara.
Gia arrivando a Pietrasanta, Leonetto che non era nulla e non
aveva nessuna veste datagli da nessuno (Puniforme stessa che por-
tava, era uniforme sua personale), aveva preso Finiziativa e la re-
sponsabilita in tutto, dirigendo, ordinando, e quando occorreva pa-
gando del suo le cose piu urgenti. Era il factotum, e tutti finirono
per dirigersi a lui, che i semplici militi chiamavano con tutti i ti-
toli, da sor caporale a sor comandante e sor commissario. Ed egli
ascoltando con calma tutti, grandi e piccoli, ufficiali e soldati, se
non contentava tutti perche era impossible, a tutti diceva una buo-
na parola, che spesso vale la cosa richiesta.
A questo contribuirono moltissimo la conoscenza che i piu ave-
van di lui, del suo carattere, della sua attitudine a tutto e delle sue
facolta pecuniarie; e i suoi intimi rapporti cogli uffiziali e soprat-
tutto col comandante Baldini e col Matteucci, i quali gli lasciavan
far tutto e approvavano tutto, ben fortunati di trovare in lui Tin-
telligenza e Tattivita adatta a sbrigare quanto era possibile I'arruf-
fata matassa, e mandare innanzi quelle turbe composte di element!
cosi diversi.
La prima prova d'istinto militare che diede fu nell'entrare a
Massa. Ci arriv6 prima della colonna e subito fece una ricognizione
in citta per vedere dove sistemarla. - II Baldini era gia sceso al
palazzo del Governo, ove aveva probabilmente fatto una copiosa
seconda o terza colazione ;r e da antico soldato dell'impero facendo
i. una copiosa . . . colazione: «"Se e vero che il Radetzky e la prima spada
d' Italia, noi possiamo dire senza superbia che il Baldini e la prima forchetta
del mondo, e che per intendere come mai il governo 1'abbia messo alia testa
della spedizione, bisogna credere che abbia preso i tedeschi per roba da
mangiare." Cosi scriveva alia moglie Giambattista Giorgini il 5 aprile 1848
da Pontremoli (GIORGINI, XXVII letter e dal Campo, Pisa, Nistri, 1912, p.
19) » (Mordini).
l68 LEONETTO CIPRIANI
con ripugnanza quel mestiere di conduttore di volontari, se ne
stava a panda all'aria sul terrazzo, aspettando che le mandre di
pecoroni, come li chiamava, arrivassero e se la sbrogliassero da loro
stessi. E con lui era il Matteucci, pure a pancia alParia, sua posi-
zione preferita, che non intendendosi di nulla lasciava fare.
Leonetto intanto corse incontro alia colonna, ed ordino al Bar-
tolommei di sfilare sulla piazza e di schierarsi di fronte al palazzo
del Governo. Cosi fu fatto, con gran sorpresa del Baldini. £ vero
che al comando chi si volto a destra e chi a sinistra, ma ove sarebbe
stato il merito, se avessero manovrato come vecchi soldati ?
Furono accasermati, e gli uffiziali sparsi nelle locande ed in case
particolari.
II giorno dopo Leonetto seppe che a Pietrasanta vi erano due
pezzi di artiglieria senza i cavalli. Domando al Baldini perche non
li avesse presi, e questi rispose che non avendo ordini non voleva
compromettersi.
Qui e necessario dire qual fosse il contegno del Granduca in
quella circostanza ed in seguito. - Leopoldo II, nipote del gran
Leopoldo,1 era prima di tutto principe di casa d' Austria e come tale
awersava, per educazione e conformemente alle parole d'ordine che
riceveva da Vienna, tutte le innovazioni, la liberta, 1'indipendenza
e molto piu la guerra al Tedesco. E, si capisce, non poteva essere di-
versamente. Ma quando una cosa ripugna alia coscienza, il dovere
di un galantuomo e quello di dirlo francamente, di voltare le spalle
e di andare ove spingono i propri interessi, e le proprie simpatie.
Leopoldo II lo fece nel 1859 - ma allora barcamenava. Aveva
per ministri degli uomini di opinioni diverse, ma dei quali aveva la
responsabilita il marchese Ridolfi, italianissimo, che godeva la
stima universale, pieno di capacita ed attitudine a tutto, che non
aveva e non ebbe in quei tempi che un difetto e una colpa - la de-
bolezza e un poco di leggerezza, difetto comune a quasi tutti i To-
scani. Questi sono tutti pieni d'ingegno e molti di loro son capaci
di tenere i posti piu difficili, ma, salvo poche eccezioni, son tutti
mancanti della forza di carattere, senza la quale non vi e uomo
di stato possibile. - Credo che in loro il carattere se ne vada in con-
sunzione a forza di parlare, di ridere, e di mettere tutto in burletta.
i. gran Leopoldo: Pietro Leopoldo ( 1747- 1792) go verno laToscana dal 1765
al 1790, quando divenne imperatore di Germania, per la morte del fra-
tello Giuseppe II, In Toscana gli successe Ferdinando III.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 169
II ministro della guerra era il marchese Nerino Corsini,1 lui
pure italianissimo quanto e piu del Ridolfi, se era possibile, ma
incomparabilmente piu di lui uomo di state, formato alia scuola
dello zio don Neri, tipo dei veri uomini di stato sul taglio del
Guizot,2 e non e poco dire. Nerino che aveva preso molto dallo zio,
aveva fatto buoni studi sul serio, sapeva a fondo tutto quello che
sapeva, e sapeva molto. - Mori troppo presto. - Fu per P Italia una
perdita enorme, non sentita abbastanza dai nostri farfalloni, ma
sentita profondamente da chi pensa e riflette. Dopo Cavour, era il
solo uomo di mente, di cuore e di braccio che avesse P Italia.
Anche lui in quell'epoca ebbe il torto del Ridolfi, di far parte di
un ministero la cui maggioranza era awersa al movimento ita-
liano. Lo vedeva, lo sentiva, ne soffriva, ma per timore di peggio
rimaneva, per non cadere dalla padella nella brace.
Ebbe un altro torto - di prendere il ministero della guerra. Non
se n'intendeva, e nelPamministrazione della guerra piu che in qua-
lunque altra chi non se n'intende non ci capisce nulla, soprattutto
uno che come lui era circondato da codini, tutti nemici dal primo
alPultimo. Aveva un bel dare ordini, raccomandare prontezza e
zelo ; era fiato buttato via. II vero ministero della guerra era al co-
mando generale presso il comandante in capo Parmata, il generate
conte d'Arco Ferrari,3 la piu gran coda della Toscana, ignorante,
borioso, vile - come lo proveremo a suo tempo - e cieca creatura
del Granduca. - Che volete sapesse Nerino del Fra^ois ?4 Per lui
era un commissario alle sussistenze, - ma per il Ferrari era Paffa-
matore dei poveri volontari.
Corsini solo sarebbe stato uomo da tener testa a tutto il consi-
glio, e Pavrebbe tenuta, se avesse toccato con mano il barcamenare
del Granduca. Ma egli, che era Ponesta e la lealta personificate,
i. Nerino Corsini: «Neri Corsini marchese di Lajatico (1805-1859), mini
stro della guerra e degli esteri nel 1848, inviato toscano a Londra nel 1859,
era nipote di don Neri Corsini (1771-1845), rappresentante della Toscana
al congresso di Vienna, ministro dell'interno col Fossombroni, e dopo la
sua morte (13 aprile 1844) primo ministro col portafoglio degli esteri »
(Mordini). 2. « Francesco Guizot (1787-1874), professore e storico, piu
volte ministro, fu 1'ultimo presidente del consiglio di Luigi Filippo»
(Mordini). 3.«Ulisse d'Arco Ferrari, pisano, veterano di Napoleone,
aveva fatto, come capitano, le campagne di Spagna e di Russia e si era di-
stinto all'assedio di Danzica. Venne nominato generale il 23 gennaio 1848 »
(Mordini). 4. «Alessandro Francois, commissario di guerra a Portofer-
raio, Firenze e Livorno, partecipd in tale qualita alia campagna del 1848,
fu giubilato nel marzo 1857 e mori il 9 ottobre 1859 » (Mordini).
170 LEONETTO CIPRIANI
non poteva immaginare che il Granduca giocasse ai burattini.1
II giorno che ne fa certo, non voile piu sentirne parlare - si ribel-
lava al pensiero che la sua lealta era stata sorpresa.
Non lo abbiamo mai veduto in uno stato di orgasmo come in
nostra presenza a Milano la sera del 14 luglio 1859, al palazzo reale,
dopo il pranzo con PImperatore* e il re Vittorio Emanuele. -
L'Imperatore stava solo in un gabinetto in fondo al gran salone.
Senti parlare a voce alta - guardo, e vide Leonetto che discorreva
con Corsini ed altri.
Lo chiam6 con un cenno della testa e gli chiese di che cosa discu-
tesse con Corsini.
— Della probabilita del ritorno di casa Lorena in Toscana.
— Che cosa ne pensa?
— Pensa che e impossibile e che non sara mai - che se tornano
troveranno Firenze un deserto. Quanto a lui, con tutta la sua fami-
glia scappera fino in China. Non ne puo sentir parlare - diventa
furioso.
— Ditegli che venga qui.
Ando - e mentre con noi s'infuriava, coll'Imperatore prese quel
tono freddo, calmo e stringente, che da la convinzione di una buona
causa in un animo leale. Nessuno meglio di lui conosceva la que-
stione, persone e cose, e seppe trattarle in modo da impressionare
vivamente 1'Imperatore, come ce ne accorgemmo il giorno dopo a
Torino. - Per ora basta.
E il Granduca profittava della stima che avevano il Corsini e il
Ridolfi della onesta tradizionale di casa Lorena e della loro defe-
renza per lui, per tirare tutto in lungo e cercare il modo di salvare
capra e cavoli. La Toscana era una bella vacca da mungere, e non
era facile decidersi a darle un calcio e scappare; - e cosi ai Toscani
si dava la costituzione e la bandiera italiana, ed a Vienna si scriveva :
«lasciateli sfogare, son ragazzi scappati da scuola - a suo tempo le
nerbate ce li faranno tornare». E dopo il consiglio dei ministri
costituzionali, nel quale, grazie a quei codoni che avevan nome
Landucci, Baldasseroni3 ed altri si prendevano risoluzioni an-
i. giocasse ai burattini: agisse fmtamente, recitando - e facendo recitare
agli altri, inconsapevolmente - una commedia. 2. rimperatore : Napo-
leone III. 3. «Leonida Landucci, senatore e prefetto di Firenze, e poi
ministro delle finanze col Capponi e ministro deirinterno dal 1849 ai
1850; Giovanni Baldasseroni, ministro delle finanze e poi presidente del
consiglio dal 1849 al 18593) (Mordini).
AVVENTURE BELLA MIA VITA iyi
nacquate, combattute invano dal Corsini, e piu debolmente dal
Ridolfi, che si stancava e finiva col cedere, si riimiva il consiglietto
di palazzo Pitti: il Granduca, la Granduchessa, Matteo Bittheuser,1
il Landucci e il Baldasseroni.
Ai Toscani si diceva : « partite per la Lunigiana » — ma non si di-
ceva: « partite per la guerra contro 1' Austria)). E non si dava loro
ne armi ne munizioni, ne una coperta, ne un cappotto. - E, bene
inteso, partivano i volontari soltanto - non un soldato dell'armata
regolare e a stento due o tre uffiziali come comandanti.
Cosi si poteva scrivere a Vienna: « e un branco di matti che son
partiti per fare una passeggiata nei nostri Stati. £ stata una mano di
Dio levarseli di torno - lo spurgo di tutti i ladri e vagabondi della
citta. - Lasciateli andare; creperanno di fame, di stenti e di malat-
tie, e saran tanti di menol Vedete bene che son partiti senza un
soldato dell'armata regolare, senza un cannone, con fucili che son
siringhe che non faranno mai fuoco, senz'approwigionamenti,
senza un francescone in cassa. Commissari militari alle sussistenze
si, ma amici nostri. E i livornesi, la peggio canaglia del paese, sono
raccomandati bene, hanno il Fra^ois - lasciate fare a lui per farli
morir di fame!».
E cosi era. Quel Francois e un rimorso di Leonetto. Lo annuso
fin dal primo giorno, e si e sempre pentito di non aver trovato modo
di farlo scappare. Gli schizzava il tradimento da tutti i pori.
Queste cose spiegano come non vi fosse ne capo ne coda, come
sprowisti di tutto, a tutto si cercasse prowedere con mezzi arbi-
trari, e come i pochi che avessero autorita legalmente conferita e
Favessero accettata in buona fede, con aspirazioni italiane e volonta
di andare innanzi, o per carattere o per abitudini contratte al ser-
vizio, non osando assumere responsabilita di nessuna sorta, la
lasciassero volontieri assumere al solo che ne aveva il coraggio e,
se vogliamo, anche, il toupet. E per questo al Baldini che non voleva
assumersi la responsabilita di prendere Partiglieria a Pietrasanta,
Leonetto disse:— Ci ander6 io.
— Non te la daranno.
— Questo riguarda me.
— Bene, bene - prova. Ma bada non ti chiudano in fortezza.
Ando dal Matteucci, gli racconto il fatto e gli chiese un ordine
scritto. Stintign6 un poj per la solita ragione della responsabilita,
i. « Matteo Bittheuser, segretario intimo del Granduca » (Mordini).
1 72 LEONETTO CIPRIANI
ma fini per darglielo. Con questo ando alia posta dei cavalli, fece
sellare le sei coppie che vi erano, e le condusse seco a Pietrasanta,
dove prese altre cinque coppie alia posta. Si awio poi con tutti i ca
valli alia fortezza, seguito da gran gente che gridava : — Viva F Italia,
viva la guerra! — eran scamiciati, e vero, ma in quei tempi qualche
dozzina di mascalzoni faceva calar le brache ai codini, ed era quel
che lui voleva. S'insacco nel forte con tutti i cavalli - al rumore
arrive il comandante, un buon uomo che era stato con Napoleone
in Russia. Capi subito, e senz'aspettare che gli mostrasse Tordine,
fece attaccare i due cannoni ed i due cassoni da munizioni.
Ma quando voile visitarli, Leonetto si accorse che i cassoni eran
vuoti. II comandante gli fece un monte di scuse, e lo fece accompa-
gnare dal sergente maggiore in polveriera.
Ma per Leonetto era buio pesto - era la prima volta che vedeva
munizioni di artiglieria. Fortunatamente, venutagli alia mente la
parola assortimento, come se ne avesse chiesto uno di ortaggi, or-
dino di mettere rassortimento completo ad ogni pezzo. Lascio
fare stando zitto, per non fare un arrosto1 - gran segreto quello di
tacere! uno che e inutile nominare ha vissuto ed e morto colla ripu-
tazione di uomo colto, ed era una bestia calzata e vestita.
Quando fu tutto pronto, diede una stretta di mano al comandante,
al quale dimentico di lasciare 1'ordine scritto, ed entro trionfalmente
in Massa, ricevendo da tutti grandi elogi per la fortunata spedizione,
e facendo ridere come un matto il Matteucci quando gli rimise in
mano 1'ordine.
Ma i cannoni senza cavalli e senza artiglieri erano in realta piu
un impiccio e una spesa che altro. Non importa - era una lezione
ai codoni di Firenze; - e poi tutto sta cominciare, e facendo strada
si trova il resto.
Leonetto non credeva di ragionare cosi giusto, ne di realizzare
tutto il resto il giorno dopo. - Mentre faceva colazione, gli porta-
rono un biglietto del tenente di artiglieria Rinaldi, che gli dava
appuntamento alle scuderie dell' artiglieria. Ci ando, e il Rinaldi
gli disse che in citta ci erano due cannoni e ventiquattro cavalli di
artiglieria del Duca2 (era scappato da cosi poco tempo che si par-
lava sempre in nome suo), e lo consiglio di chiederli al governo
i. fare un arrosto: fare un guaio. 2. del Duca: « Francesco V d'Austria-
Este (1819-1875), duca di Modena dal 1846 al 1859 » (Mordini). Era fug-
gito da Modena il zi marzo del 1848.
AVVENTURE BELLA MIA VITA 173
prowisorio di Massa, e in caso di rifiuto di prenderli colla forza. -
II Rinaldi, uscito dalla scuola di artiglieria di Modena, buon ufn-
ciale, e buon italiano come tutti i modenesi, voleva far la guerra,
e Poccasione era troppo bella per levarsi da Massa con tutto il ma-
teriale che era stato a lui affidato.
A Leonetto 1'idea piacque moltissimo, e voile fare il tiro senza
dime parola a nessuno. Era in buona vena, e non bisognava per-
derla con passi inutili.
Aveva gia conosciuto i membri del Municipio, convertiti in go-
verno prowisorio ; e se nel mimero vi erano delle code, vi eran pero
il giovine Medici1 ed un suo compagno di studio, il Fabbricotti,2
tutti e due italianissimi.
Ando, li trov6 riuniti - e chiese e cavalli e cannoni. — Ma gli
pare! non e possibile. L'artiglieria non e nostra, e del Duca — disse
un vecchio Guerra.3
— Del Duca?! Ma che qui regna sempre il duca di Modena?
— Nossignore - ho voluto dire del governo di Modena; e noi
siamo responsabili.
— La loro responsabilita e al coperto con una ricevuta del com-
missario toscano.
— Oh! allora— soggiunse il Medici— tutto e in regola e non
c'e piu responsabilita. Gia quei cannoni qui non ci fan nulla, e'se il
governo prowisorio di Modena li reclamera, glieli restituiranno
passando.
Ma molti continuarono a dire: — No, non e possibile - 1'artiglie-
ria e in Massa e deve stare in Massa — (seppe poi che fra i piu
renitenti vi era il fornitore dei foraggi).
— Signori, poche parole, ma buone. Se li voglion dare cosi con
una ricevuta nostra, bene: se no, partendo me ne impadronisco,
e li faccio intanto guardare da cento volontari livornesi — (i li-
vornesi erano il terrore dei govern! prowisori).
II Medici e il Fabbricotti intervennero e la causa fu vinta. —
Ma — c'e sempre un ma — per noi la ricevuta del professore Mat-
teucci non conta nulla - meglio quella di lei che ha qualcosa da
i. il giovine Medici: «Forse il conte Andrea Dal Medico Staffetti, elogiato
col Cipriani nel rapporto del Matteucci in data 27 marzo, e che fu poi
nominate dal ministero Montanelli R. Delegate per la provincia di Mas-
sa-Carrara» (Mordini). 2. «I1 conte Giuseppe Fabbricotti (1827-1914),
deputato dal 1870 al 1890 » (Mordini). 3. « II conte Carlo Guerra, prirno
assessor e del municipio di Massa » (Mordini).
174 LEONETTO CIPRIANI
perdere. — E Leonetto senza difficolta prese la penna, e firm6 la
ricevuta che deve essere sempre nelParchivio del municipio di
Massa; e in cambio riceve Tordine di consegna dei cannoni, che
firmarono tutti, ma con molta ripugnanza, perche parecchi ave-
vano paura del ritorno e delle bastonate del Duca.
Fu un colpo magistrate. Quando gli fece vedere Pordine, il
Rinaldi non ci credeva. Dette la consegna a lui e ad un vecchio
sergente modenese, e poi and6 a raccontare tutto al Matteucci,
che non sapeva capacitarsene.
Questi due falti ripetuti ed ingranditi fecero credere che Leo
netto portasse in tasca poteri dittatoriali, e non vi fu piu nulla che
resistesse alia sua volonta, mentre in realta lui non faceva che pren-
dere lezione da tutto e da tutti, non essendo nulla, ma facendo vista
di essere e saper tutto.
II giorno dopo, partenza. - Essendo Tartiglieria sua creatura,
Leonetto s'incarico di spingerla innanzi. E siccome il tanto corre-
re gli aveva scorticato i piedi, e d'altra parte andare alia guerra in
carrozza cominciava a puzzare di Dulcamara,1 si decise per la pri-
ma volta ad assumere un vero aspetto militare, sballando la barda-
tura,2 armandosi di sciabola, che fin allora non aveva messa, perche
a piedi gl'imbarazzava le gambe, e di pistole, ed inforcanda un
bel cavallone da guerra ; - e vi riusci facilmente, perche era un
bel giovine alto e snello con fisonomia marziale, ed anche esimio
cavaliere.
Riflettendo poi che la strada era lunga e difficile, e che i cavalli
non essendo stati attaccati da diversi mesi avrebbero tirato male in
montagna, chiese ed ottenne dal Baldini dieci uomini scelti per
pezzo, e sessanta di scorta, scegliendoli non tra i piu intelligent!,
ma tra i piu forti, coll'idea di servirsene ad uso trazione.
Usciti dalla citta, c'era una piccola scesa, e con le scarpe3 ando a
meraviglia. Ma dopo veniva una salita, in certi tratti dal sette al-
1'otto per cento, e in altri anche piu; e li bisogno che cannonieri,
scorta e curiosi spingessero alle rote. Alia scesa, tutti i santi aiu-
tano, e sul far della notte s'entro in Carrara.
i. Dulcamara: e il nome del cerretano, venditore di strani specifici, che
nelT£/ttzr d'amore di Donizetti appare sulla scena in carrozza. 2. sbal
lando la bar datura: tirando fuori le bardature complete da cavalleria, che
aveva portato con se. 3. le scarpe: le staffe di ferro che agiscono da freno
alle ruote durante iina discesa.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 175
Arrivati, trovarono Taffamatore Fran?ois, partito la mattina per
preparare le razioni, che con una faccia di bronzo disse: — Non c'e
pane.
— Come non c'e pane?
— I fornai non volevano cuocere che a contanti, e contanti non
ne ho.
Senza perder tempo, Leonetto salto come un cervo al muriicipio,
e fattosi accompagnare da quello stesso Medici di Massa, che era
cittadino di Carrara e faceva parte del muriicipio, ando in giro dai
fornai, e pagando a contanti trov6 presto il pane necessario. Alle
sei la distribuzione era fatta.
Per evitare la ripetizione di questi casi spiacevoli, si fece man-
dare da Livorno da Francesco Pacho all'Avenza, il porto dei mar-
mi di Carrara, ventimila libbre di biscotto. Scrisse poi subito al
Corsini, che ne rimase indignato, ed ordino di spedire immediata-
mente al Fran9ois cinquantamila lire. Era poco - ma la vena era
aperta.
Si dira: ma che campavano di solo pane? Purtroppo fu cosi nei
primi giorni, per la ragione semplicissima che era impossibile far la
distribuzione della carne e del vino, non essendovi recipienti ove
cuocerla e ove metterlo.
Ma da principio tutti avevano qualche paolo in tasca e mangia-
vano alle osterie. Se vi era qualche povero, vi era anche della gente
ricca che spendeva per tutti. Non poteva durare - ma da principio
fu Funico mezzo per evitar disordini e saccheggi.
Da Carrara si ando in una tappa a Fornovo, piccolo castello, ove
non era possibile procurarsi nulla. Ci fu proweduto mandando il
necessario da Carrara. - Da Fornovo in due tappe a Pontremoli,
grosso borgo, capitale della Lunigiana.
Una volta a Pontremoli, non si sente piu parlare di partenza.
II Baldini ed il Matteucci non avevano ordini.
Ma duemila volontari in una piccola citta son come la grandine -
guai dove casca. Cominciarono le risse, i furti e qualcosa di peg-
gio - e il municipio non rispondeva di nulla se non partivano.
II Matteucci scrisse lettera sopra lettera al Ridolfi. Dopo molto
aspettare, perche il Granduca teneva forte quanto poteva, per non
lasciar passare la frontiera, venne finalmente la risposta: star fermi
a Pontremoli durante le trattative di cessione dei territori fra Mo-
dena e Toscana. - Era una vera canzonatura.
176 LEONETTO CIPRIANI
La sera che arrive la risposta, Leonetto era a letto con la feb-
bre. II Matteucci gliela lesse, e gli disse : — lo me ne vado. Si
burlan di noi, e con questi matti - e ne avranno mille ragioni -
finira male.
Leonetto penso un momento, e rispose : — Ho un febbrone, ma
non importa : passera tanto in carrozza come in letto. Tu stai fermo
fino al mio ritorno da Firenze.
Parti immediatamente a rotta di collo colla posta, e arrivato, sali
dal Ridolfi, e gli espose in poche parole la situazione e la necessita
assoluta di dar Tordine di partenza per Parma.
— Ha ragione - che vuol che le dica ? mi son sfiatato e con me
Nerino, ma il Granduca sta fermo, appoggiato dagli altri mi-
nistri.
— Vada dal Granduca e gli dica che da un momento alPaltro
puo nascere una carneficina tra volontari e paesani ; e la responsa-
bilita, a torto o a ragione, cade tutta sopra di lui. - Una delle due,
o li sciolgano o li mandino avanti - e a scioglierli immagini lei il
ritorno e le conseguenze.
— Ci vado subito. Lei intanto mi aspetti da Nerino.
Ando dal Corsini e trovo un uomo scoraggiato che non ne po-
teva piu. Si lamento del Ridolfi che non lo appoggiava abbastanza
per ottenere dal Granduca una modificazione di ministero per
potere andare avanti francamente. Del Granduca non disse parola,
ma fino d'allora doveva esserne stufo.
Intanto arrivo il Ridolfi, che aveva persuaso il Granduca a
lasciar partire i volontari, non per Parma ma per Fivizzano, dove
riuniti ai volontari fiorentini sarebbero scesi a Reggio. Non era
tutto, ma era qualcosa. La ragione poi del cambiamento di dire-
zione era che il Granduca non disperava fin li di vedere il Ra-
detzky prendere la rivincita e tornare a Milano, e percio tirava in
lungo piu che poteva, aspettando questa desiderata notizia.
Leonetto riparti coll'ordine del ministro della guerra. Arrivo a
Pontremoli, e due ore dopo la colonna si mise in marcia per Fiviz
zano. E per tranquillare i malcontenti, fu sparsa voce che, male
organizzati come erano, non era possibile scendere a Parma, dove
si trovava sempre un reggimento di cavalleria tedesco. Era vero,
ed era credibile.
Arrivati a Fivizzano, borgo meno grande di Pontremoli ma che
offriva le stesse risorse, vi trovarono i volontari fiorentini, con pochi
AVVENTURE BELLA MIA VITA 177
pistoiesi, pratesi ed aretini comandati dal maggiore Belluomini1
delTarmata regolare.
In massa erano buoni element!, con pochissime eccezioni — la
piu bella gente dopo i lucchesi, ma piu tenuta, piu contegnosa.
Parlavan molto, e vero, ma il loro parlare non faceva male anessuno.
Predominavano per numero la classe ricca e quella colta.
A giudicare dal passato, si doveva credere che a Fivizzano il
Granduca gli avrebbe fatto passar Testate. Ma gli awenimenti non
andarono a seconda dei suoi desideri, poiche gli Austriaci furono
costretti ad abbandonare la Lombardia ed il Veneto, e a rifugiarsi
nel Quadrilatero ;2 e Carlo Alberto si porto sotto Verona sempre vit-
torioso. II Granduca comincio a disperare, e spinto dai gridi di
piazza fu obbligato a dichiarare la guerra all' Austria,3 e a dar Tor-
dine di partenza delTarmata regolare toscana, comandata dal ge-
nerale d'Arco Ferrari.
QuelTarmata consisteva in pochi battaglioni di cattivi soldati, due
compagnie di artiglieria meno cattive, uno squadrone di cavalleria
pessimo, e peggiori ufficiali. - II seguito giustifichera il severo giu-
dizio.
Partirono da Firenze, e per Castelnuovo scesero a Reggio ove,
arrivati che furono i volontari da Fivizzano, si trovarono riunite
tutte le forze toscane, regolari ed irregolari.
Tra gli uffiziali, i colonnelli de Laugier e Giovannetti4 eran due
eccezioni alia regola. II primo, vecchio soldato delTImpero, co-
noscendo a fondo il suo mestiere, coraggioso, leale, di virtu inte-
merata, aveva riputazione di buon italiano; riputazione che perse
in seguito, essendogli state contrarie le circostanze; ma siamo con-
vinti che si penti amaramente di essersi buttato, alia Restaurazione,
i. Giacomo Belluomini (1798-1861) aveva partecipato col Murat alia cam-
pagna di Russia. Dal 1847 entro nelTesercito toscano e fu capo di stato mag
giore dopo Curtatone. 2. a rifugiarsi nel Quadrilatero : cioe, nelle fortezze
del quadrilatero, composto delle citta di Peschiera e Mantova sul Mincio,
di Verona e Legnago sull'Adige. 3. II Granduca . . . Austria: Leopoldo II
aderi a malincuore alle pressioni dei liberali, e dichiar6 anch'egli la guerra
all' Austria. 4. « Cesare de Bellecour, conte de Laugier (1789-1871), nato a
Portoferraio da famiglia originaria francese, ministro della guerra durante la
Restaurazione; Giuseppe Giovannetti, lucchese, si distinse nelle guerre
dell'Impero, comando a Montanara, ed al ritorno in Toscana fu ucciso a
tradimento a Pecorile il 14 luglio 1848 dai suoi soldati, ai quali era inviso per
la grande severita ed i modi eccessivamente bruschi e talvolta anche ma-
neschi. Era nato nel 1783 » (Mordini).
178 LEONETTO CIPRIANI
nelle braccia del Granduca. - II Giovannetti poi era una vera
perla, come soldato e come italiano.
Discreti i capitani della linea Magrini, Baldini e Fortini1 il quale
se non era un fanatico italiano, era pero certamente di buona fede, e
disposto a dare la sua vita alia patria. - Nella cavalleria, tutti pessi-
mi. - L'artiglieria aveva due buoni capitani, Niccolini e Contri:3
il primo coraggioso e italianissimo ; il secondo molto istruito e di
bastante coraggio, ma di carattere debole ed incerto. - Due buoni
maggiori eran rimasti in Toscana, il Manganaro comandante i
carabinieri ed il Reghini.3
In Reggio cesso il mandate del commissario straordinario Mat-
teucci. Al colonnello Laugier fu dato il comando di tutti i volontari,
ed il Belluomini fu capo di stato maggiore.
AReggio,Leonetto,nonavendogrado,feceilmorto.Ma ilpoco che
aveva fatto arrivo alle orecchie del Laugier e del Ferrari, che vollero ,
tutt'e due averlo con loro. Gli era piu simpatico il Laugier, ma dette
la preferenza al Ferrari, per che al quartier generale tutto e possibile.
Gli fu conferito a voce il grado di capitano, senza specificare di
cosa, e siccome era a cavallo, si battezzo da se di cavalleria,4 conser-
vando la sua uniforme che aveva qualcosa della cavalleria toscana.
Restituito il cavallone preso a Massa tra quelli delPartiglieria
modenese, bisognava equipaggiarsi. Ma essendo impossibile tro-
vare cavalli, ed avendo saputo che a Parma le scuderie del Duca5
i.«Il capitano Bartolomeo Fortini, promosso maggiore il 12 giugno»
(Mordini). 2. « Giuseppe Niccolini, uno degli eroi di Curtatone ove fu
gravemente ferito, colonnello e governatore dell'Elba nel 1859; Alessan-
dro Contri, in seguito comandante il reggimento di artiglieria toscano»
(Mordini). 3. « Giovanni Manganaro, successo nel marzo '48 al Reghini
nel comando dei carabinieri, fu nominato maggiore il 20 giugno se-
guente; Michele dei conti Costa Reghini, nato a Pontremoli il 26 no-
vembre 1791, fece la campagna di Russia come sottotenente di fanteria,
fu promosso tenente sul campo di battaglia di Dresda, e fatto prigionie-
ro poco dopo dai cosacchi. Ammesso col suo grado nell'esercito tosca-
no, organizzo e comando dal 1840 al principio del 1848 il corpo dei ca
rabinieri. Colonnello alia fine dell'anno, dopo la Restaurazione divenne
governatore dell'Elba e generale. Mori a Pistoia il 18 febbraio 1876"
(Mordini). 4. si battezzo . . . cavalleria: « II decreto ufficiale di nomina a
capitano onorario di cavalleria non fu firmato che il 20 maggio 1848"
(Mordini). 5. Duca: « Carlo Lodovico, gia duca di Lucca, poi di Parma
dopo la morte di Maria Luisa, abdico in favore del figlio il 14 marzo 1849,
e mori piu che ottantenne a Nizza il 16 aprile 1883. - Prima di partire da
Parma il 9 aprile 1848, il duca infatti, racconta il Sardi (Lucca e il suo Du-
catot Firenze 1921), vende i molti suoi cavalli, compresi quelli inglesi, al
prezzo medio di 300 lire l*uno» (Mordini).
AVVENTURE DELLA MIA VITA 179
erano piene di bei cavalli da tiro e da sella, and6 da lui che conosceva
personalmente, e per una miseria, 25.000 franchi (il Duca temeva
che da un momento all'altro glieli portassero via), compro dodici
cavalli da sella e due ungheresi da tiro per se e gli amici, venti da
tiro per rartiglieria, e poi una gran quantita di bardature, furgoni e
roba simile.
II Ferrari, che non sapeva stare a cavallo e montava una calia1
di truppa degna di girare un bindolo, e che con lui a cavallo sareb-
bero state due, non voile approfittare per se della compra, ma Tap-
prove per conto dell'armata, e dette un ordine di pagamento, che
non fu eseguito che tre mesi dopo a Firenze con molte difficolta.
E cosi Leonetto si trovo ad avere carrozza, otto cavalli da sella,
quattro uomini di scuderia e un buon cuoco. - Aveva capito che
colla sua attivita infaticabile e con molti cavalli avrebbe potuto cor-
rer molto e trovarsi dappertutto, e cosi distinguersi in tutte le azio-
ni, e non s'inganno, per che non fu tirata fucilata ch'egli non si
trovasse presente.
Intanto i toscani passarono il Po ed arrivarono alle Grazie,2
ove fu stabilito il quartier generale per il blocco di Mantova.
I volontari fiorentini, lucchesi e senesi insieme ad un reggimento
di linea napoletano, il solo che il re di Napoli consentisse a mandare
alia sacra guerra, occuparono la posizione di Montanara. I livornesi
e i pisani col battaglione universitario occuparono il ponte di Curta-
tone, con poche compagnie della truppa regolare toscana, della
quale la maggior parte guardava il quartier generale, che non aveva
bisogno di essere guardato. Santa paura!
La mattina del 3 maggio gli Austriaci attaccarono il campo di
Montanara a S. Silvestro. - I volontari si condussero bene, benis-
simo i Napoletani, e gli Austriaci furono respinti.
Leonetto era a Goito. Tomato verso le tre, seppe il fatto e lesse
il rapporto del Giovannetti. Domando al generale se era stato sul
luogo. — No, — rispose — cosa vuol che vada a fare ora che tutto e
finito?
— Mi pare che farebbe buon effetto, se non altro di visitare i
feriti.
— Ebbene, andiamo. Ma a cavallo, e lontano. Andremo col suo
legno.
i. calia: cavalla di poco pregio. 2. alle Grazie: pochi chilometri ad ovest
di Curtatone.
l8o LEONETTO CIPRIANI
Era ancora attaccato ; partirono. - Altro che buon effetto occor-
reva! C'era uno spavento generale - il primo fuoco, il primo san-
gue - si capisce.
Arrivato al posto avanzato di San Silvestro, dove era il Belluo-
mini, questi chiese assolutamente di ritirarsi a Montanara. Disse di
sapere con certezza che gli Austriaci sarebbero tornati il giorno dopo
con maggiori forze, che sarebbero stati fatti tutti prigionieri, che
non aveva piu munizioni, che non c'era piu un fulminante, e via
dicendo.
II Ferrari rispose che il dovere di un buon mflitare e di stare al
posto : ma il Belluomini, al quale la stizza aveva sciolto la lingua,
replic6 : — Ebbene, faccia venire del rinforzo, e resti qui con noi.
Leonetto chiam6 da parte il generale, che sembrava tutt'altro
che persuaso della proposta, e gli disse : — Che male ci sarebbe se
noi si restasse qui o a Montanara fino a domani ? Se gli Austriaci
attaccano, si sapra che noi eravamo awisati e ce ne siamo andati.
II generale secco secco rispose : — Resti lei, se vuole - io me ne
vado!
— Ed io resto.
E rimase infatti la notte a S. Silvestro. Ma quella posizione es-
sendo pessima, prese sopra di se di levarla e concentrare tutti a
Montanara. Era grossa - ma il Ferrari appro vo, per che gli bruciava
la coda di paglia.
Ora alcune rifiessioni. - 1 volontari in Lombardia per la loro
cattiva o nulla organizzazione, e per la loro poco lusinghiera riputa-
zione - a torto, perche se fra i livornesi vi era realmente della ro-
baccia, il resto, se non soldati, era certamente gente onesta - erano
il cauchemar di Carlo Alberto, che a nessun costo li voleva vicini a se.
Da un certo punto di vista aveva ragione, perche il contatto coi
volontari, sempre indisciplinati, in tutti i paesi, e fatale alle truppe
regolari e disciplinate come Io erano i Piemontesi, e perche non
essendo essi istruiti a manovre di nessuna specie, sono, bisogna pur
convincersene, piu d'imbarazzo che di utilita in una battaglia.
Son queste le ragioni che gli fecero assegnare ai Toscani un
posto isolato sotto Mantova, lontani venti miglia almeno dalPar-
mata piemontese, lasciandoli percio abbandonati a se stessi.
In Mantova, per poco che vi fosse, vi erano diecimila uomini,
due reggimenti di cavalleria, e cinquanta cannoni, senza contare i
depositi; ed i Toscani, regolari ed irregolari, erano in tutto al piu
AVVENTURE DELLA MIA VITA l8l
quattromila,1 con otto pezzi di artiglieria, e un cattivo squadrone di
cavalleria.
Era questo il corpo d'armata che s'intendeva dovesse fare il
blocco di Mantova! - Era un'assurdita, che metteva in bocca al
lupo, quando avesse avuto fame, quattromila vittime.
E alTosservazione che se vi stettero due mesi senz'essere slog-
giati, non vi era poi tanta assurdita, la risposta e facile : la verita e
che gli Austriaci non sapevano che farsi di quattromila prigionieri -
altrimenti bastava una passeggiata militare. Se gli Austriaci con
cinque o sei mila uomini e un reggimento di cavalleria avessero la
notte passato il Mincio a Governolo, marciando per Castellucchio,
ce li saremmo trovati alle spalle, e con poche fucilate dalla parte di
Mantova e poche alle spalle, la retata era fatta.
Di questo conveniva anche il Laugier. E cio che non era seguito
fino allora poteva seguire da un momento all'altro. Percio Leonetto
scrisse una lettera molto seria al Ridolfi, awertendolo dell'enorme
responsabilita che pesava sul ministero toscano. Ma non contento di
questo e in vista anche della nessuna stima che godeva il Ferrari,
si decise a partire per Firenze, ove espose al Ridolfi e al Corsini
la situazione con colori cosi vivi, che ne rimasero visibilmente im-
pressionati. E dopo aver riferito al Granduca, il Corsini ebbe Tor-
dine di partire pel campo con pieni poteri.
Arrivo P 1 1 maggio - e convenne subito che la nostra organizza-
zione era ridicola, e la nostra posizione una trappola. Ma non es-
sendo possibile cambiare la posizione, perche Carlo Alberto non
voleva sentirne parlare, si limito da principio a procedere ad uno
spurgo di bocche inutili, circa duecento, quasi tutti livornesi. Fu
la prima volta che si fece qualcosa sul serio.
La mattina del 13 erano alle Grazie quando si sentirono delle fu
cilate. Leonetto fu il primo a cavallo con Corsini ed un giovine
Alberti. II Ferrari faceva la sua toilette, e per metterlo a cavallo
ci voile un'ora.
i . i Toscani . . . quattromila : « Ufficialmente i Toscani sarebbero stati 6972,
ma il 29 maggio i combattenti furono soltanto 4867, 2422 dei quali a Cur-
tatone e il resto a Montanara. - Cosi il Laugier nel suo Racconto storico
pubblicato senza nome di autore nel 1854. Nelle sue Milizie toscane nella
guerra (1849), e nelle Osservazioni al suo rapporto ufficiale, da lui inviate al
governo granducale, e pubblicate dall'Oxilia in appendice a La campagna
toscana del 1848 in Lombardia, egli da pero cifre alquanto diverse (4485
combattenti nelle prime, 4585 nelle seconde) » (Mordini).
l82 LEONETTO CIPRIANI
Partirono al gran galoppo. Arrivati a poca distanza dal ponte di
Curtatone, che le cannonate austriache prendevan d'infilata, PA1-
berti esclamo: — Eccellenza, la badi, fischian le palle!
E il Corsini gli rispose: — Ma che alia guerra crede ci fischin le
cicale? Si cheti, stupido!
Dopo poche cannonate i Tedeschi se ne andarono. Si sarebbe
detto che erano venuti a tirare al bersaglio.
II Ferrari non comparve. Lo incontrarono al ritorno vicino alle
Grazie, al piccolo passo della sua calia. Corsini non lo saluto - e
non voile neppure pranzar con lui la sera, II giorno dopo parti,
e appena tomato a Firenze lo richiamo e nomino al suo posto il
Laugier, e Leonetto suo aiutante di campo col grado di capitano
di cavalleria.
II 29 maggio allo spuntar del giorno si senti tuonare spesso
il cannone verso Curtatone e Montanara. - II dies irae era arri-
vato.
II Laugier parti subito con tutto lo stato maggiore ed il capo di
quello, Chigi,1 lasciando Leonetto al quartier generale coll'ordine
di prendere tutte le disposizioni per la ritirata e poi raggiungerlo.
Eseguiti gli ordini e disposto che i suoi equipaggi fossero pronti a
partire, Leonetto vo!6 a Curtatone.
Come si e detto, i Toscani ascendevano a circa 4000 uomini,
con otto cannoni e uno squadrone di cavalleria. La loro linea,
di fronte a Mantova, si estendeva alia sinistra del ponte di Curta
tone per trecento metri fino al mulino sulla sponda del lago,2 e per
altrettanti alia destra.
La strada maestra che veniva da Mantova in linea retta per un
miglio, e poi per mezzo del ponte andava alle Grazie, era chiusa
da una trincera in terra con quattro pezzi da otto e il ponte3 alle
spalle a cinquanta metri.
Montanara, a destra, distante dal ponte due miglia, e un piccolo
villaggio nascosto tra gli alberi. Vi erano un 2500 uomini, fra i quali
i napoletani, e due pezzi di artiglieria davanti alia chiesa.
L'armata austriaca mosse da Mantova in numero di 25.000 uo
mini, quattro reggimenti di cavalleria, e cento cannoni, comandati
i. « Carlo Corradino Chigi, nato e morto a Siena (u settembre 1802-
26 marzo 1881), ferito gravemente a Curtatone, poi generale e senatore del
Regno» (Mordini). 2. alia sinistra . . . del lago: e la parte, detta «supe-
riore», del lago che intorno a Mantova forma il Mincio. 3. e il ponte:
e avendo il ponte.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 183
dal maresciallo Radetzky.1 Una divisione si diresse verso Mantova,
il resto verso Curtatone, colla diritta appoggiata al lago, il centro
alia strada, e la sinistra scaglionata, collegandosi colla divisione di
Montanara.
Riserva toscana nessuna. Al quartier generale c'era il solo squa-
drone di cavalleria, e Parmata piemontese era a venticinque miglia
di distanza. - Gli Austriaci avevano invece la fortezza di Mantova
alle spallel
Precisate cosi le posizioni e le forze dei due combattenti, e fa
cile capire come la lotta, piii che lotta, fosse il giuoco di un gigante
contro un pigmeo.
Allo spuntare di un bel sole di maggio gli Austriaci attaccarono2
su tutta la linea, coprendo di proiettili Curtatone - e cosi continua-
rono fermi nelle stesse posizioni fino al mezzogiorno.
Stettero bravamente al loro posto i Toscani scambiando fucilate
coi Croati al mulino, e coi Tirolesi alia sinistra, e sostenendo il
fuoco dei quattro cannoni al centro, incoraggiati dal Laugier, che,
trovandosi dappertutto, dava un belFesempio -di valore.
Difendevano la sinistra i volontari pisani e il battaglione univer-
sitario. Si distinsero in questo i professori Montanelli, Ferrucci3
e Studiati;4 e fra quelli Ruschi5 e Michelazzi.6 Vi lasciaron la vita
molti, vite preziose, speranze della patria.
Al centro i livornesi non furono da meno. Si distinse fra loro in
modo speciale il capitano Malenchini.7 II comandante Partiglieria,
capitano Niccolini,8 si copri di gloria. II Castinelli9 gia avanzato in
1. « II f eld-mares ciallo conte Giuseppe Venceslao Radetzky di Radetz (1766-
1858), dal 1831 comandante in capo delle truppe austriache in Italia, vin-
citore dei Piemontesi nel 1848 e nel 1849, e dopo Novara governatore gene-
rale e comandante militare del Lombardo-Veneto fino al 1857)) (Mordini).
2. Allo spuntare . . . attaccarono : la battaglia di Curtatone e Montanara
ebbe luogo il 29 maggio 1848. 3. Michele Ferrucci, di Lugo (1801-1881),
latinista molto stimato, fa professore di letteratura latina alTUniversita
di Pisa. Nel 1848 partecipo con i suoi studenti alia guerra e combatte a
Curtatone. 4. « Cesare Studiati, professore di fisiologia, maggiore nel
battaglione civico pisano-senese » (Mordini). 5. Ruschi: vedi la nota i
a p. 161. 6. « Francesco Michelazzi, capitano nel battaglione civico pi
sano-senese » (Mordini). 7. Vincenzo Malenchini^ di Livorno (1813-
1881), combatte a Curtatone nel '48, a Novara nel '49, a Milazzo nel '60;
partecipo alia campagna del '66 e alia presa di Roma. Deputato di Livorno
per varie legislature, fu nominate senatore nel 1876. 8. Niccolini'. vedi
la nota 2 a p. 178. 9. « Ridolfo Castinelli, ingegnere in capo del comparti-
mento pisano, capitano comandante il genio, deputato al parlamento to-
scano, nato e morto a Pisa (21 novembre 1791-27 marzo 1859) » (Mordini).
184 LEONETTO CIPRIANI
eta, ma pure infaticabile, sostenuto da forza morale e da sviscerato
amor di patria, fu ammirabile d'intelligenza e sangue freddo.
Dopo il mezzogiorno, gli Austriaci, coprendo di racchette incen-
diarie1 i Toscani, misero la desolazione fra quella gioventu ardita
ma non awezza a scene di sangue. Gli artiglieri presi dalla paura
sparirono, e i cannoni avrebbero taciuto, se non si fossero moltipli-
cati a servirli i giovani di buona volonta.
Si distinse fra tutti un cannoniere dell'Elba di nome De Gasperi,
che nudo ed abbruciato da capo a piedi continu6 a servire il suo
pezzo finche le carni staccandosi a pezzi e gli occhi chiudendosi
dairirifiammazione, il dolore vinse il valore.2
Ad un tratto si videro i Croati arrivare al mulino. Fosse Pef-
fetto delle racchette, fosse quello della presenza delle piu crudeli
truppe dell' Austria, vi fu un momento di panico - ed il battaglione
universitario piego verso il ponte. Era su quello tuo padre che,
come gli scrisse il Ferrucci,3 impavido sotto quella grandine di
proiettili si mise a traverso del ponte e con parole non di comando
ma di amore di patria riusci a fermare i fuggenti, che ripresero i
loro posti e non li lasciarono finche non fu ordinata la ritirata.
Intanto il Laugier, che si prodigava insieme col Chigi e col
Villamarina,4 avendo visto il nemico che si avanzava sulla diritta
per attaccare i Toscani di fianco, ordino a Leonetto di prendere una
forte compagnia di artiglieria di piazza., comandata dal capitano
Contri, una compagnia di linea ed un pezzo di artiglieria, e difen-
dere la diritta mentre egli avrebbe ordinato la ritirata.
Dura verita: le due compagnie avanzarono a passo di formica,
facendo due passi avanti e uno indietro, ma ad ogni mo do avanza
rono, e Leonetto, ordinatele sulla strada in modo da ingannare il
i. racchette incendiarie: razzi incendiari. 2. Si distinse . . . valore: «Per la
sua eroica condotta, il caporal foriere De Gasperi ottenne la medaglia al
valore tanto dal Granduca che dal re Carlo Alberto) (Mordini). 3. co
me . . . Ferrucci: la lettera di Michele Ferrucci, cui allude il testo, e ri-
prodotta nelTedizione Mordini a p. 204 del n volume. II Ferrucci vi ricorda
ed esalta il valore di Leonetto Cipriani, e del di lui fratello Giuseppe, con
parole di grande ammirazione, e aflerma che nessuno aveva meritato in
quella battaglia la decorazione di « cavaliere di san Giuseppe » quanto i due
fratelli Cipriani. Giuseppe Cipriani, nato a Livorno il 29 ottobre 1826,
accompagno il principe Napoleone in Crimea nel 1854, fu con lui in To-
scana nel 1859, collaboro col fratello nel governo della Romagna dall'agosto
al novembre dello stesso anno. Mori a Firenze 1'8 novembre del 1912.
4. Villamarina: « Capitano di stato maggiore piemontese addetto a quello
del Laugier » (Mordini).
AVVENTURE DELLA MIA VITA 185
nemico sul numero, riusci a tener fermo finche le truppe toscane
avessero passato il ponte, e fu 1'ultimo a ritirarsi, quando gia gli
Austriaci eran sotto le trincere, e con poche o punte perdite.
Tutto il corpo toscano essendo in piena ritirata sulle Grazie, gli
Austriaci per inseguirlo dovevano passare lo stesso ponte, ma te-
mendo che fosse minato (cio che era stato dimenticato di fare per
ignoranza inesplicabile) si fermarono. E i Toscani dalle Grazie,
riunitisi al quartier generale in un disordine indescrivibile, presero
la via di Goito.
II generale ordino a Leonetto di coprir la ritirata collo squadrone
di cavalleria e le due compagnie formica. Coprir la ritirata! Era
frase cosi ridicola che dicendola mosse il sorriso del Laugier e del
suo aiutante di campo.
Rimase sulla piazza delle Grazie, e quando all'angolo della via
che dal ponte conduce a Castellucchio vide apparire degli ulani
austriaci a tutta camera, crede fosse un corpo di cavalleria, e si
rassegno a passare qualche mese prigioniero in Boemia. Fortunata-
mente erano solo pochi ulani, che infilarono la via di Castelluc
chio, e sparirono; e i Toscani furono tranquillamente lasciati an-
dare a Goito, dove arrivarono la sera.
Intanto a Montanara avevano ricevuto il nemico a sangue freddo.
Avevano scambiato fucilate per quattr'ore senz'avanzare ne retro-
cedere, e fatto infine quel che potevano, comandati com' erano dal
Giovannetti, dal Bernardi e dal Rodriguez.1 Verso il mezzogiorno
furono circondati, fatti quasi tutti prigionieri, e diretti a Mantova.
Secondo tuo padre, la spiegazione di quanto precede era la se-
guente. II Radetzky, cacciato dalla Lombardia e dal Veneto, si era
ritirato nelle fortezze, aspettando rinforzi dalla via del Tirolo, la
sola che gli fosse rimasta aperta.
Rinforzi numerosi P Austria non poteva mandarne, avendo alle
spalle la rivoluzione ungherese; pure mando un 20.000 uomini.
Con questi, e colParmata di Lombardia, in gran parte demoraliz-
zata dalla precipitosa ritirata, formo due corpi: uno di 60.000 uo-
i. «I1 colonnello Vincenzo Bernardi, comandante i civici livornesi, e poi
il battaglione invalidi e veterani; il tenente colonnello Rodriguez, del
10° reggimento di linea napoletano, comandava il distaccamento di Goito,
e non prese percio parte alia battaglia. II comandante dei napoletani a
Montanara era il maggiore Spiligato, che si batte bravamente e vi rimase
ferito» (Mordini).
l86 LEONETTO CIPRIANI
mini da stare a fronte dei Piemontesi che minacciavano la posizione
di Rivoli, Faltro di 25.000 per tentare le sorti della guerra.
II suo piano era di attaccare il corpo toscano la mattina del 29,
nella convinzione che i Toscani avrebbero mandati awisi sopra
awisi chiedendo soccorso al Re ed al generale Bava,1 che non avreb
bero potato fare a meno di accorrere essi stessi con parte dell'ar-
mata. Se le sue previsioni si fossero awerate, il Radetzky sperava
di dare una gran battaglia a Curtatone ; ed i Piemontesi essendo di-
visi, e lontani e fuori dalla loro base di operazioni, egli con Mantova
alle spalle aveva tutte le probabilita di vincere.
Prova di cio e che quando il Laugier dette 1'ordine di preparare la
ritirata alle Grazie, Leonetto volgendo lo sguardo sul lago all'an-
golo dove sbocca il Mincio, vide brillare una massa di baionette.
Fattolo osservare al Belluomini, questi disse : — Quelle sono per
metterci in gabbia! — ed era vero. Quel corpo era destinato a pas-
sare il Mincio quando i soccorsi piemontesi avrebbero impegnato
la lotta, a prenderli alle spalle, e a dare all'aquila austriaca una
vittoria certa.
Ma la sorte d' Italia voile che quel giorno tale sventura non awe-
nisse. I Toscani non chiesero soccorsi,2 ed il Re ed il Bava non gli
mandarono perche certamente si accorsero del laccio che quella
volpe di Radetzky tendeva loro. Meglio sacrificare i Toscani che
compromettere le sorti d' Italia.
II Radetzky, non ricevendo awiso del movimento dei Piemontesi,
si decise ad avanzare e a prendere il corpo di Montanara come
trofeo di guerra per ritemprare Panimo delle sue truppe, che erano
state costrette a fuggire da tutte le citta della Lombardia dinanzi
alia furia del popolo. Non si euro poi di far prigionieri tutti i
Toscani per tre ragioni: perch6 avendo il giorno dopo bisogno di
tutte le sue forze, voleva lasciare in Mantova soltanto la guarni-
gione strettamente necessaria ; perche tremila volontari anche disar-
mati potevano provocare un'insurrezione ; e finalmente per eco-
nomia di razioni.
Due miglia dopo le Grazie, quando fu oramai certo di non essere
i. «Eusebio Bava (1790-1854), comandante il i° corpo, generale d'armata
dopo Goito, poi comandante in capo Fesercito, ispettore generale e mi-
nistro della guerra » (Mordini). 2. / Toscani . . . soccorsi: «Veramente il
Laugier quel giorno chiese ripetutamente soccorso al Bava, ma senza risul-
tato» (Mordini).
AVVENTURE BELLA MIA VITA 187
inseguito, Leonetto propose al Laugier di andare dal generale
Bava a riferirgli Paccaduto e a prendere i suoi ordini.
II generale approve, ed egli parti con un magnifico cavallo
arabo, veloce come il vento, che aveva comprato a Firenze. Giunto
al quartiere generale piemontese, fu subito ricevuto dal Bava, che
udito il racconto della battaglia, gli diede Pordine verbale di dire al
Laugier che il giorno dopo all' alba lasciasse Goito e si dirigesse a
marcia forzata a Castellucchio.
Riparti immediatamente. Arrivato a Goito, riferi, e furon dati gli
ordini opportuni, disponendo egli stesso tutto nella notte senza
prender riposo. AlPalba erano sulla strada che porta a Castelluc
chio, ove arrivarono la sera.
II giorno stesso gli Austriaci assalirono i Piemontesi, che in nu-
mero di 25.000 si erano radunati a Goito. Gli Austriaci fecero pro-
digi di valore, ma tutto fu inutile contro le posizioni migliori,
Tincrollabile fermezza dei Piemontesi e la bonta della loro artiglie-
ria. La vittoria fu completa, e il duca di Savoia1 si copri di gloria.
La sera del 30, il Laugier, che arrivato a Castellucchio si era
dovuto mettere a letto malato, avendo sentito tuonare tutto il
giorno il cannone a Goito ed ignorando il risultato della battaglia,
incarico tuo padre di disporre un cordone di sentinelle avanzate a
mezzo miglio del paese, per non essere sorpresi. Leonetto passo
tutta la notte andando da una sentinella alPaltra, e la mattina si
reco a riferire al generale, che trovo a letto con intorno una quantita
di ufHziali, fra i quali quelli di una batteria di artiglieria piemontese
che arrivava da Torino.
Appena vedutolo, il Laugier gli disse:— Giusto ti aspettavo. -
Mi assicurano che abbiamo i Tedeschi a poca distanza. Se i Pie
montesi non avessero vinto ieri, lo sapremmo gia - vuol dire che e
stata una vittoria. I Tedeschi vicini a noi han da essere un corpo
staccato. Bisogna farli prigionieri. Anderai come parlamentario, e
grintimerai di arrendersi.
Quelle parole furono per tuo padre un fulmine a ciel sereno.
Osservazioni ne avrebbe fatte se eran soli, ma non eran possibili in
presenza degli ufHciali piemontesi, che si sarebbero fatto un
meschino concetto dei rapporti che in Toscana esistevano tra gene-
rali e subalterni; e poi capi che 1'ombra di un'osservazione avrebbe
i. il duca di Savoia: il primogenito di Carlo Alberto, il futuro re Vittorio
Emanuele II.
l88 LEONETTO CIPRIANI
fatto dubitare del suo ardire. Si limito a domandare: — Subito? —
Subito — rispose il Laugier.
Quel subito non era tuo padre che 1'aveva detto; era il suo sto-
maco. Ventre vuoto non ragiona - e il suo era vuotato dalla lunga
trottata passata a ciel sereno.
Scendendo le scale, si rammento che i parlamentari dovevan por-
tare un ordine scritto - alia guerra phi che altrove verba volant,
scripta manent - e che dovevano essere accompagnati da un drap-
pello di cavalleria.
Ma il tornar di sopra a chiedere 1'ordine scritto poteva essere
preso per poca voglia d'imbarcarsi in quell' impresa; e lo sguardo
dei Piemontesi che non lo conoscevano e non sapevano di che cosa
era capace, gli faceva una paura maledetta. D'altronde riflette che
avendo preso tanta autorita che poteva ordinar tutto e da tutti essere
ubbidito, non aveva bisogno che la scorta gliela desse il generale.
Si cambio, fece spazzolare la vecchia uniforme che aveva ad-
dosso da tre mesi, scelse una cavalla quieta e calma come si addice
ad un parlamentario, prese con se quattro cavalieri ed un caporale
di scorta, e parti.
Passato 1'ultimo posto avanzato toscano, vide a un tiro di fu-
cile appoggiata a un albero la vedetta austriaca che dormiva. Lo
scalpitar dei cavalli la sveglio, e come un lampo spiano il fucile.
Leonetto si fermo sventolando una pezzola bianca, e gridando : —
Parlamentario! — La tregua era stabilita.
Senti dietro a se un galoppo di cavalli. Si volto - era la scorta,
meno il caporale, che scappava! - Era un pensiero di meno, ed
ordino al caporale di andarsene anche lui.
La sentinella lo accompagno ad un forte posto avanzato, da
dove, bendato, fu diretto al generale Wimpffen.1 Sceso da cavallo,
e salita una scala, fu sbendato, e si trovo in un gran salone in pre-
senza del generale e del suo stato maggiore.
— Chi siete?
— Sono Paiutante di campo del generale de Laugier, comandante
i Toscani.
— Chi vi manda ?
— II mio generale.
i. Wimpffen-. « Secondo il Laugier e lo Schonhals era invece il generale
barone d'Aspre (1789-1850), che si distinse a Novara, e comand6 il corpo
austriaco che nel maggio seguente occupo la Toscana» (Mordini).
AVVENTURE DELLA MIA VITA 189
— Con qual veste ?
— Con la veste di parlamentario.
— Datemi il mandate.
— Non ho mandate scritto.
— Cosa avete da dirmi?
— II generale de Laugier v'intima di arrendervi. L'armata au-
striaca e stata disfatta a Goito, Peschiera e presa. Siete circondati
dai Piemontesi e dai Toscani, e non avete ritirata possibile.
Se il generale fosse stato bilioso e di cattivo carattere, la risposta
certa eran sei palle nello stomaco, perche in realta tuo padre non
rivestiva nessuno dei caratteri del vero parlamentario. Poteva es-
serlo, ma la supposizione piu plausibile era che fosse invece una
spia o un subornatore, perche un generale austriaco non poteva e
non doveva ammettere che il de Laugier sapesse cosi poco le rigo-
rose formalita militari da aver dimenticato le piu essenziali. Ma il
Wimpffen era prima di tutto un gentiluomo, e di carattere cavalle-
resco e leale, senza quella rozzezza di forme e di parole, che molti
militari credono a torto necessaria coi sottoposti. Con un mezzo
sorriso impercettibile rispose : — Vi dirigo al quartier generale del
Maresciallo — saluto con la testa ed usci.
Tuo padre fu condotto in una sala terrena, dove un ufficiale gli
domando se gli occorresse niente. Chiese di mangiare un boccone,
e gli fu servita una buona colazione. Dopo aver bevuto una tazza di
caffe si distese su un canape di paglia, senza levarsi ne il berretto ne
la sciabola, e dormi saporitamente sei ore, finche fu svegliato per
partire. Monto a cavallo, fu bendato, e alle sei arrive a Roverbella.
Scese, gli fu levata la benda, e fu introdotto nel vasto salone ter-
reno, dove tante volte aveva pranzato col Bartolommei. Vi era il
maresciallo, con molti ufficiali, tra cui dalla faccia giovine e bionda
riconobbe gli arciduchi di Austria, uno dei quali era Tattuale Im-
peratore.1
Con tuono brusco il Radetzky gli domando perche fosse entrato
nelle linee austriache, e Leonetto ripete quanto aveva gia detto al
Wimpffen, protestando di non essere stato trattato come un parla
mentario, contro tutti i diritti e gli usi della guerra.
Colla bile negli occhi per le batoste ricevute il giorno prima, il
i.Vattuale Imperatore: « Francesco Giuseppe I (1830-1916), imperatore
d' Austria il 2 dicembre 1848 in seguito all'abdicazione dello zio Ferdi-
nando I» (Mordini).
IQO LEONETTO CIPRIANI
maresciallo rispose : — Ma voi non siete un parlamentario - siete
una spia.
A quelle parole tuo padre senti un brivido da capo a piedi, e colla
testa alta e gli occhi fuori, esclamo : — lo, una spia ? Prima d'insul-
tarmi, domandate chi sono, e vi pentirete di aver insultato un
uomo che non puo difendersi che con la parola.
Rimasero attoniti, e mentre da principio avevan tutti facce da
de profundis, a quelle parole si rischiararon tutte come per incanto,
ed il maresciallo, detto qualcosa in tedesco che Leonetto non capi,
si ritiro con i generali.
Rimasero molti ufficiali che lo circondarono con fisonomie ri-
denti, facendogli mille domande su Firenze e sul Granduca. Era fra
questi un bell'uomo che gli disse essere colonnello del reggimento
Leopoldo Granduca di Toscana,1 essere stato recentemente a Fi
renze, ed avervi sentito parlare di lui.
— O come mai, — gli chiese tuo padre — se sapete chi sono, avete
permesso che io fossi cosi crudelmente insultato ?
— Sono soltanto un colonnello, — rispose — ed e il maresciallo
che vi ha diretto la parola; ma state tranquillo, le vostre parole han-
no fatto effetto su di lui e sugli arciduchi.
Comparve in quel momento un ufficiale, del quale non conobbe
ne Funiforme ne il grado, ma che doveva essere un pezzo grosso,
perche tutti gli fecero largo. Ordino a tuo padre di depofre la scia-
bola, il che egli fece protestando di nuovo, e di seguirlo. Montarono
a cavallo, scortati da un drappello di ussari, e a notte arrivarono a
Mantova, dove Leonetto fu rinchiuso nelle prigioni in una cella
sotterranea da spaventare ogni altro che quell'uomo di ferro.
II carceriere che lo accompagno gli domando se voleva mangiare.
-Si.
— A quest'ora non c'e che pane e vino.
— Portatelo.
— Bisogna pagarlo.
Si guard6 in tasca - non aveva un soldo. Aveva del denaro
nascosto, ma non voleva dirlo; sicche al carceriere, che stava colla
mano stesa, rispose: — Non vedete che non ho un soldo?
— Vi faro credito.
— Vi ringrazio.
i. un belTuomo . . . Toscana: «II conte Zichy Ferraris, comandante il 4°
reggimento dragoni Leopoldo II di Toscana » (Mordini).
AVVENTURE DELLA MIA VITA IQI
Port6 il pane e il vino - gli augur6 la buona notte - e se ne andava
col lume.
— Non mi lasciate lume ?
— £ proibito, al numero uno.
— Lasciatemi almeno vedere dove ho da buttarmi a dormire.
Era un pancaccio umido e sporco da far rizzare i capelli a un
morto. Non pote fare a meno di esclamare portandosi le mani al
volto: — Oh! santa patria!
La candela trem6 in mano al carceriere. Volto le spalle, usci e
dette tre giri di chiave.
Rimasto nell'oscurita, a stento pote trovare il pane e il vino.
Lo divor6 - perche non confessarlo ? - piangendo e pensando a sua
madre.
Cerc6 poi un mobile indispensabile ; non ce n'era- ne fece a
meno. Si butto sul pancaccio, e tante erano la stanchezza e le fati-
che di quei tre mesi, che benedi quasi il riposo di quella tomba.
Dormi tutta la notte malgrado i topi che gli camminavano sul
corpo, ma era tanto il bisogno di dormire che lascio fare e non si
mosse.
La mattina, svegliandosi, dalla scarsa luce che penetrava da un
pertugio obliquo si accorse che era giorno. Arrivo il carceriere, e
gli chiese cosa voleva mangiare, aggiungendo che gli avrebbe fatto
credito.
— Datemi una tazza di caffe la mattina, una bistecca a mezzo-
giorno con mezza bottiglia di vino ed altrettanto la sera.
— Vi basta?
— Si, ma che la bistecca sia di due libbre con buon pane.
La giornata fu triste. Quando si tende ad un alto scopo, i peri-
coli, le privazioni, il disgusto non si sentono - ma sotterrato in
quella cloaca immonda non vi era illusione possibile.
La notte i topi, presa confidenza, non si contentarono piu della
passeggiata. Gli morsero le mani - se le mise in tasca - gli morsero
gli orecchi. Erano affamati, e chi ha fame, bestia o cristiano, prende
il mangiare dove lo trova. Ma quel che piu gli fece ribrezzo, fu sen-
tirsi nella mano qualcosa di freddo fermo immobile. Non capiva
cosa fosse, e nonosava muovere la mano, ma quel freddo salendo su
pel corpo Palz6 preso da moto convulso, e senti cadere in terra qual
cosa che saltellava - era un rospo.
Animale schifoso, ma inoffensive e meno noioso del topo. - Fatta
192 LEONETTO CIPRIANI
questa riflessione, si addormento. - £ incredibile come Puomo ri-
soluto a tutto, dando spiegazione a tutto, e sopportando tutte le
tribolazioni come se fossero un nulla, sa trovare la calma in qua-
lunque stato si trovi - e certo quello di tuo padre non era brillante.
II giorno passo come il primo e la notte peggio della seconda a
causa dei topi. « Pazienza, dormiro il giorno e staro sveglio la notte »,
pensava il tuo povero padre. Chiese al secondino che gli portava i
pasti - non era piu il carceriere - un certo Stockhausen - cinque
libbre di carne cruda. La domanda era cosi strana, che quelPuomo
si scosse, e domando : — Per che fare ?
— Per dar da mangiare ai topi.
Gli volto le spalle borbottando in tedesco - senza dubbio lo prese
per matto.
La notte, solita storia - calci, pugni, lotta continua con i poveri
affamati. Sul mattino si addormento profondamente, quando tutto
ad un tratto si sveglio sentendo un topo dentro lo stivale.
Mandare un grido, buttarsi giu dal pancaccio e saltare come un
ossesso fu tutt'uno. Non senti piu muovere nulla, ma sent! qual-
cosa di umido al piede, e capi subito - un topicidio!
Si levo lo stivale - lo scote - non c'era nulla da pulirlo - chiuse
gli occhi e la bocca, infilo il piede e salto finche Pimpressione non fu
passata.
Non trovando poi profitto a dormire il giorno, perche tanto la
notte i topi lo tormentavano lo stesso, stette sveglio tutto il giorno.
La sera si addormento, e se lo svegliavano ad intervalli quando lo
morsicavano, alle loro passeggiate aveva fatto 1'abitudine. Ma al-
Palba si sveglio sentendo un rosicchio - era una dozzina di topi che
avevano dato addosso alle suole degli stivali. Allora si che salto dal
pancaccio, e per una ragione diversa dalle altre.
Partendo per la guerra si era fatto fare da un Crispino Rizzani
del piano di Pisa due stivaloni di vacchetta con cinquanta napoleoni
dentro ogni suola. A camminare erano pesotti, ma a cavallo face-
vano stare piu fermi in sella. I topi avevano gia intaccato le cuciture,
ma fortunatamente non vi era gran male.
La sera gli porto il pranzo lo Stockhausen. Lo rivide con piacere,
gli domando se era stato malato.
— No - ho avuto da fare - e voi come siete stato ?
— Come pu6 stare un povero prigioniero in questa fossa. I
topi non mi lasciano dormire, mi mordono le mani e gli orecchi -
AVVENTURE BELLA MIA VITA IQ3
guardate quest 'orecchio insanguinato - e poi i rospi che mi sal-
tano addosso, quello si che e un gusto! Ma pazienza - tutto ha un
fine - e Napoleone a S. Elena sofferse mille volte piu di me.
A queste parole quel vecchio si scosse da capo a piedi, e perso ogni
ritegno gli strinse le mani, dette una guardata alia porta ed esclamo :
— Napoleone, il grand'uomo ! — e tremando che qualcuno sen-
tisse, gli disse all'orecchio : — Sono Ungherese, amico degPIta-
liani!
II prigioniero politico deve sempre e poi sempre diffidare, ma
Pemozione di quell'uomo era tale, e fino dal primo giorno ne aveva
dato segno, che il dubitarne era insultare al bene. Tuo padre gli
accosto la bocca alPorecchio, e disse: — Zitto per amor di Dio -
non vi perdete.
Commosso da quelFuomo che prima di pensare a se pensava a
lui, il buon vecchio gli disse: — State tranquillo. Ma ditemi, siete
proprio innocente ?
— Sono dawero un parlamentario, e vedrete che non passano
otto giorni che saro liberate.
— Iddio lo voglia. Ma passerete prima un . . . — e si fermo.
— Cosa volete dire ? siate pure franco - non temete spaventarmi.
— Fra qualche giorno vi sara il consiglio di guerra che deve giu-
dicarvi.
— Tanto meglio - e una buona notizia - saro assolto.
— Povero capitano, non conoscete i Tedeschi. Ma non parlia-
mone piu. - Stanotte vi faro dormire in una buona stanza. Vi verro
a prendere un poco piu tardi, tenetevi pronto.
— Che Iddio vi benedica e benedica la vostra famiglia se ne avete.
— Si, ne ho. Mia moglie e con me alia prigione, e mi tormenta
che vuole vedervi - e di Milano.
Se ne ando, torn6 un'ora dopo e lo condusse al numero venti-
quattro, dove vi era un buon letto e tutto il necessario per lavarsi.
Gli augur6 la buona notte, e gli disse : — lo dormiro alia vostra por
ta, sopra'una seggiola. Se verra la ronda, che non viene tutte le not-
ti, e c'e gia stata ieri sera, vi sveglier6, e tornerete al numero uno.
Leonetto si lavo, si fece la barba, si cambio e dormi saporita-
mente. La mattina il carceriere lo ricondusse al numero uno, e gli
disse: — Ho chiesto per voi il permesso di scrivere a casa vostra, e
se volete al governatore della fortezza. A colazione vi portero la
carta, il calamaio, un tavolino e il lume.
194 LEONETTO CIPRIANI
Decisamente c'era un angelo che lo proteggeva, e per istinto capi
che c'era lo zampino di una donna. La donna, quando e buona, e la
consolazione del poveri afflitti.
Scrisse alia madre, e poi una bella lettera dignitosa al gover-
natore, della quale si penti non aver tenuto copia perche, a giu-
dicare dal risultato, doveva essere un capolavoro. II risultato fu
che a mezzogiorno venne Pordine di metterlo al numero 24. Ne
prese subito possesso, mise tutto al suo posto come se fosse stato
a casa sua, ed a finestra spalancata stette tutto il giorno a re-
spirare Faria a pieni polmoni colle mani appoggiate alPinfer-
riata; ed i passerotti che saltavano nel cortile gli sembravano il
piu bello spettacolo della natura che avesse mai osservato sotto il
tropico.
La sera ebbe un buon pranzo, con un piattone di ciliege che in-
goio tutte col nocciolo.
Ripensando poi che quel salto dal numero i al 24 non poteva
essere effetto della sola sua lettera, rimmaginazione ando lontano,
e penso che Carlo Alberto e i numerosi amici che aveva in Italia e
fuori si eran tutti coalizzati per salvarlo.
II giorno dopo comparve un aiutante del governatore Gorz-
kowski, che gli domando se voleva fare tratta su banchieri, e se gli
occorreva vestiario, libri, carta e via dicendo. Accetto, e chiese
un'udienza dal governatore, ma questa gli fu ricusata. La sera lo
Stockhausen lo invito a pranzo, e lo presento a sua moglie, una mi-
lanese di mezza eta, grassoccia, belloccia, assai comune, ma buona
donna che chiacchierava di tutto, ma s'intende bene, nei limiti che
esigevano il luogo e le persone.
La mattina dopo venne Faiutante colPebreo Basevi banchiere,
che accetto una sua tratta di duemila franchi su Parma.
Tutti gPisraeliti in quella provincia erano piu o meno liberali,
per due ragioni: Pistruzione, che era tra essi obbligatoria, e Pop-
pressione che gravava su di loro. La liberta era una speranza d'e-
mancipazione - per quella molti fecero onorati sacrifizi e Potten-
nero. Ma bisognava dissimulare per non cadere negli artigli della
polizia, e vi riuscivano facilmente, essendo per natura e per educa-
zione diffidenti di tutto e di tutti ed avendo disposizioni particolari
a giocare a doppio giuoco.
II Basevi era uno dei fornitori delParmata austriaca, e con loro
era il piu arrabbiato tedesco. Con i liberali era Pagente piu segreto
AVVENTURE DELLA MIA VITA 195
e piu attivo, ma non aveva rapporti con nessuno fuorche con un
intermediario, il duca di . . ,x
Nella nuova camera, con dei buoni pasti, libri, carta da scrivere,
e la simpatia delPungherese, la prigionia era sopportabile, e se non
si fosse sentito rodere dal bisogno di notizie, 1'avrebbe presa come
una sosta necessaria alia sua infaticabile esistenza.
Due giorni dopo venne il Basevi, che dopo essersi assicurato
bene che le sue parole non potevano venire ascoltate, gli disse: —
Avete molti amici - non temete piu nulla. Volevano fucilarvi e il
consiglio di guerra era gia nominato, quando e venuto un contror-
dine del maresciallo ; e ieri si diceva che Carlo Alberto minacciava
rappresaglie contro i prigionieri austriaci che aveva, se non vi resti-
tuivano sano e salvo.
— Potreste darmi notizie della guerra?
— Per oggi no - basta — e se n'ando.
Tuo padre si mise a scrivere una memoria diretta al maresciallo.
Come sai, non ha mai avuto pretension! di scrittore, ma la penna in
mano sapeva tenerla, e se spesso non metteva virgole e punti al loro
posto, aveva per6 il merito raro di sapere esporre i fatti con colori
cosi vivi e con tanta verita da impressionare gli animi piu mal
disposti. Puoi immaginare dunque se in quel momento fu ispirato,
e se la memoria gli venne fatta bene. La mando poi al governatore,
ma non seppe mai se pervenne al maresciallo.
Intanto i suoi rapporti con il buon ungherese e la moglie eran
divenuti intimi. II marito era fanatico di Napoleone, che conside-
rava come la piu gran figura delPepoca. - Sotto certi rapporti aveva
ragione, ma e morto da troppo poco per giudicarlo.
La moglie faceva la cucina e stirava. Tuo padre, che nelle cose
materiali particolarmente sapeva far tutto quel che voleva, si mise
bravamente ad aiutarli in cucina, e fece un pasticcio di pasta frolla
e maccheroni che divorarono. Ma la giornata campale fu quella
della stiratura. - Dette di mano ad un ferro, e li colpi da sfondare
il tavolino sui canovacci che aveva avuto per imparare ; e la sera poi
stir6 una camicia della buona milanese.
II 28 giugno Paiutante del generale venne a prenderlo. - Strinse
la mano allo Stockhausen, ma le forme si opponevano a che chie-
desse di dire addio alia moglie. Volse per6 lo sguardo verso la porta
che in fondo al corridoio delle prigioni metteva al loro quartiere,
i. il duca di . . .: «Nome illeggibile nel manoscritto » (Mordini).
196 LEONETTO CIPRIANI
e vide da uno spiraglio un par d'occhi che scintillavano. Aspetto
che 1'aiutante s'incamminasse avanti collo Stockhausen, si volto,
e le mando un bacio colla mano - e senti chiudere forte la porta.
Salirono in carrozza e traversarono tutta la citta, tuo padre zitto,
e il tedesco zitto ed immobile. Arrivarono in un gran cortile. Oh
sorpresa! la carrozza era circondata dai prigionieri di Montanara,
che lo credevano morto fucilato, e che vedendolo salvo fra di loro
lo volevano divorare dai baci.
Fu una scena cosi commovente che non la dimentico mai, e che
in un momento gli pago centuplicato il poco che aveva fatto per loro
durante tre mesi.
Gli raccontarono come era arrivata la notizia del suo arresto ille-
gale - ed esagerando le cose come sempre awiene - della sua fucila-
zione e delle rappresaglie di Carlo Alberto, che aveva fatto fucilare
un prigioniero preso sotto Peschiera, il colonnello principe di Ben-
theim.1 Ma nelle notizie, se non e lupo e can bigio, qualcosa di vero
c'e sempre.
Trovo tra i prigionieri tre amici lasciati a Castellucchio, Ri-
naldo Ruschi, il professore Studiati e il Michelazzi, che partiti da
Brescia, ov'erano stati concentrati i volontari per riorganizzarsi, per
vedere 1'assedio di Peschiera, sbagliarono strada, e furono fatti pri
gionieri da una pattuglia austriaca e mandati a Mantova. Per loro
come per tuo padre vi erano intercession! potenti.
Tutti e quattro furono chiamati dinanzi al governatore, che gli
disse che eran liberi, se giuravano di non prendere piu parte alia
guerra.
Come era convenuto tra loro, tuo padre prese la parola e fece
osservare che, quanto a se, essendo un parlamentario arrestato ille-
galmente, doveva essere rilasciato senza condizioni ; e che gli altri,
essendo stati arrestati mentre passeggiavano senza armi, ignorando
di trovarsi nelle linee austriache, non potevano essere considerati
come prigionieri di guerra; e che il fatto di essere loro quattro sol-
tanto restituiti in via eccezionale fra tanti prigionieri era la prova
che non si trovavano nelle stesse condizioni di quelli.
Queste osservazioni eran giuste, ma gli ordini del maresciallo
i.«Il principe Guglielmo di Bentheim (30 aprile 1814-2 luglio 1849),
maggiore nel 17° reggimento fanteria austriaco, poi tenente colonnello,
fatto prigioniero il 30 maggio a Goito e rimesso poco dopo in liberta»
(Mordini).
AVVENTURE BELLA MIA VITA 197
essendo precisi, il governatore rispose che o accettavano o sareb-
bero partiti per il Tirolo coi loro compagni.
Era dura - era un'enormita per tuo padre particolarmente, ma
bisognava piegare la fronte alia violenza. Chiesero un giorno per ri-
flettere - e decisero di accettare perche, se non potevano essere utili
alia guerra, potevano esserlo in Toscana, perche Leonetto sperava
essere sciolto dal giuramento presentandosi a Radetzky, ed infine
perche i compagni lo scongiuravano ad accettare nelFinteresse di
tutti.
La separazione fu dolorosa, perche fra pochi giorni i prigionieri
dovevan partire pel Tirolo, da dove furono internati in Boemia.
I facoltosi avrebbero potuto anche li procurarsi tutti gli agi della
vita, ma i poveri, ed eran molti, avevano in prospettiva una caserma,
un tozzo di pane e trattamenti brutali.
Non potendo aiutar tutti, tuo padre divise fra gli amici e i co-
noscenti il resto dei cento napoleoni del Basevi e gli altri cento
levati dagli stivali. E non bastando, chiese al Basevi di scontargli
un'altra tratta di 5.000 franchi. Questo accetto, e licenziandosi gli
diede di soppiatto una lettera, e gli disse di awisare Carlo Alberto
che si stava preparando una spedizione segreta di 25.000 uomini
verso il Po a Cremona, e che i dettagli erano nella lettera.
La mattina del 30 giugno partirono accompagnati da due parla-
mentari, il capitano Cavriani1 degli usseri per tuo padre, e un capi-
tano tirolese per gli altri, e agli avamposti furono consegnati al mu-
nicipio, non essendovi autorita militare. Leonetto parti per Brescia,
ove era il quartier generale del corpo toscano.
II Laugier gli venne incontro a braccia aperte, ed egli gli espose
come era stato costretto a dare la sua parola d'onore di non servir
pm contro F Austria, come cio fosse per lui una catena insopporta-
bile, e come egli, Laugier, avendo la colpa di tutto, doveva pro-
mettergli di chiedere al Radetzky di scioglierlo dal giuramento e
occorrendo accompagnarlo dal maresciallo. II generale che aveva
squisito sentire e cuore generoso, accettb, aggiungendo: — Se do-
vessi chiedere la tua grazia in ginocchio, lo faro.
Racconto poi a tuo padre le ansie mortali provate non vedendolo
tornare, e come, accortosi dello sbaglio commesso, mando al Ra
detzky un parlamentario con missione regolare, che non fu nean-
i. « II conte Ladislao Cavriani, del ramo austriaco della famiglia omonima»
(Mordini).
198 LEONETTO CIPRIANI
che ricevuto; come fossero riusciti inutili per liberarlo tutti gli
sforzi del re Carlo Alberto, che aveva invano offerto di scambiarlo
col principe di Bentheim, del Granduca, del principe Girolamo, del
principe Napoleone1 e di lord Palmerston2 interessati dal Matteuc-
ci; e come finalmente il ministro della guerra Franzini,3 antico
amico del Radetzky, avesse chiesto la sua liberazione in nome della
loro vecchia amicizia al maresciallo, che aveva consentito colla let-
tera seguente: « Je vous accorde la grace de Cipriani sans echange
ne pouvant prejuger au droit de la guerre. Votre ancien ami
Radetzky».
Dice il proverbio che con i santi si va in paradise. Ma la verita
e che con tanti santi tuo padre sarebbe stato fucilato, se non era il
Franzini.
Non e facile dire qual riconoscenza provasse per tante prove d'in-
teresse dategli. Senti il bisogno di esprimerla subito al Re ed in
modo speciale al Franzini, e convenuto col Laugier del da farsi,
parti per il quartier generale piemontese, ove fu ricevuto dal Re
con tanta benevolenza, che non lo dimentico mai. Gli rammento
la visita a Torino,4 e gli disse: — Vede? qualcosa si e fatto, e se la
Prowidenza ci aiuta, faremo il resto. Ma ci vuole il concorso di
tutti, e per ora il resto d* Italia ha fatto poco : — e sorridendo — il re
di Napoli manda un reggimento! La Toscana ha fatto quel che po-
teva, ma — col solito sorriso — non son soldati! I volontari sono un
grande imbarazzo - lei deve esserne persuaso! - Ha corso un gran
pericolo - che sbaglio quello del Laugier! Senza Franzini era sem-
pre a Mantova; vada a ringraziarlo ; deve tutto a lui!
E fece cenno di licenziarlo. Tuo padre allora gli fece la commis-
sione del Basevi e gli dette il foglio. II Re rimase sorpreso, e stette
i. Girolamo Bonaparte (1784-1861), gia re di Vestfalia; il principe Na
poleone Girolamo (1820-1891), che spos6 nel gennaio del 1859 la princi-
pessa Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele. 2. « Enrico Giovanni Temple,
visconte Palmerston (1784-1865), ministro degli esteri (1830-1834 e 1846-
1851), e primo ministro (1855-1858 e 1859-1865). - Con dispaccio del
17 giugno 1848, lord Palmerston incaricava infatti lord Ponsonby, amba-
sciatore inglese a Vienna, d'interporre i suoi buoni ufficii presso il governo
austriaco per ottenere la liberazione del Cipriani e dei suoi tre amiciw
(Mordini). 3. «I1 conte Antonio Franzini (1788-1860), nel 1848 ministro
della guerra e presidente del consiglio permanente di guerra » (Mordini).
4. la visita a Torino: nel 1847 il Cipriani si era recato a Torino, per riferire
al re Carlo Alberto il contenuto di alcuni colloqui da lui avuti a Roma con
il cardinale Luigi Amati.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 199
due minuti pensando; poi fece venire il Sonnaz,1 comandante il
secondo corpo, e gli ripete quanto aveva esposto tuo padre. II
Sonnaz si mostro molto scettico, dicendo che non vedeva lo scopo
di simil piano. — Ebbene, io lo vedo, — rispose il Re — ne ripar-
leremo.
Una gran riverenza, come sapeva farla il Sonnaz che era arri-
vato a quella posizione a furia di riverenze, nelle quali era dottis-
simo. Cosi avesse saputo di tattica militare come sapeva di tattica
pedestre! ,
— Posso ingannarmi, — soggiunse il Re a tuo padre — ma lei ci
ha reso un gran servizio. Mi rammentero di lei! — E se ne rammento
sempre, fmo alPultimo momento della sua partenza da Novara.
Tuo padre ando poi a ringraziare il Franzini che lo accolse affet-
tuosamente, e gli mostro la minuta della sua lettera al Radetzky,
e la risposta di questo. E quando si alz6 per licenziarsi, gli disse: —
Ma sa che non credo che vi sia in Italia un uomo che abbia piu
amici di lei, e quel ch'e piu in questi tempi, che sia tanto stimato?
Non puo immaginare le lettere che mi son piovute da tutte le parti I
Anche una bella signora! Arrivo troppo tardi, ma se Radetzky
avesse ricusato a me, son certo che a quella signora non avrebbe
resistito. - Addio - vada dal Bava, ci trovera Bartolommei che le
vuol piu bene che se fosse un suo fratello.
Ci ando subito e fu appunto ricevuto dal Bartolommei, il suo
piu grande amico, e non avendo segreti per lui, conoscendo per
prova la sua discrezione, gli confido Tawiso del Basevi. Prese
fuoco, e voleva comunicarlo subito al Bava, ma tuo padre non voile,
perche una confidenza fatta al Re non doveva esser fatta ad altri. —
Hai ragione, — rispose il Bartolommei — ma vedrai che lo man-
dera a chiamare.
II Bava comandava Parmata piemontese sotto gli ordini del Re.
Ma questi sottoponendo tutti i piani ad un consiglio composto
del Bava, del Franzini, del Sonnaz e di altri, accadeva, come sem
pre in simili casi, che tutti i consiglieri preferissero la strategia di-
fensiva a quella arditamente offensiva.
Gli elementi delParmata piemontese erano perfetti sotto tutti
i rapporti. Buoni soldati, buoni quadri, buonissima la cavalleria,
eccellente 1'artiglieria. Se difettava in qualcosa, era nello stato mag-
i. «I1 conte Ettore Gerbaix de Sonnaz (1787-1867), ministro della guerra
nel 1849, cavaliere dell' Annunziata » (Mordini).
200 LEONETTO CIPRIANI
giore, anima della guerra. Ma in complesso i Piemontesi erano,
benche pochi, cosi buoni e cosi compatti, che era il caso di poter
tutto osare nelle condizioni in cui si trovava TAustria.
Osare osare osare - ed osare in quel momento voleva dire abban-
donare 1' Italia e per il Tirolo piombare sopra Vienna. L'Ungheria
insorta avrebbe fatto altrettanto, e 1'Austria era vinta.
Ma una dozzina di vecchi generali a questo piano si sarebbero
spaventati, esclamando : e la base di operazioni - e la ritirata - e
gli appro wigionamenti - e 1$ munizioni - e cento e mille, ma da
fame uscir la voglia al piu ardito.
Un generale in capo non deve prender consigli da nessuno; o
e o non e all'altezza della situazione: se non lo e, vada a casa sua,
se lo e, i consigli non gli fanno far nulla di buono. I piani troppo
studiati provano timidita e poca fiducia nel successo ; e la fiducia nel
successo e quasi sempre vittoria.
Carlo Alberto non era all'altezza della sua responsabilita. Pas-
sando il Ticino fu il coraggioso iniziatore dell'emancipazione ita-
liana, e per quel motive sara venerate dai posteri come redentore
d'ltalia,. Ma PItalia non Than fatta ne la prima, ne la seconda, ne
la terza, ne la quarta campagna, che Iddio perdoni a chi le diresse.
L'ltalia Pha fatta laProwidenza - chiamatela prowidenza, destino,
fortuna o terno al lotto; son variant! che vogliono dir tutte lo stesso.
GP Italian! han fatto di tutto per disfarla, non per farla. Ma rin-
graziamone Iddio: PItalia e fatta, e fatta per sempre appunto per-
che chi non ebbe stomaco a farla neppur ha stomaco a disfarla.
Se Carlo Alberto fosse stato un principe Eugenio,1 con qualche
pugno di buoni Piemontesi, prima che finisse il '48, era re di tutta
Italia, compresa Roma; spazzati gli Austriaci, i Lorena a casa loro,
il Borbone di Napoli a casa del diavolo, e il papa al Vaticano ponte-
fice spirituale. La vittoria e il prestigio avrebbero fatto tutto. Ai
Lorena ed ai Borboni bastava uno scappellotto. Col papa, se mai vi
fu momento da arrivare ad accordi, sarebbe stato quello.
A Pio IX, gia disgustato dalla cattiva prova di papa costituzio-
nale, ma sempre inebbriato dagli applausi della strada, Carlo Al
berto tornando da Napoli vittorioso, ed entrato in Roma doveva
dire : — Ci sono e ci sto — ; e fattosi proclamare in CampidogHo
dalParmata imperatore degPItaliani, domandargli ossequiosamente
i. Francesco Eugenio di Savoia Carignano (1663-1736), celebre generale
delle armate imperial! contro la Francia e i Turchi.
AVVENTURE BELLA MIA VITA 201
di essere incoronato. Se aderiva, bene - se non aderiva e ricorreva
alia grande arma di Roma, la scomunica, farlo imbarcare a Civi
tavecchia con tutti i cardinali, e mandarli a Gerusalemme.1
Chi vi si sarebbe opposto? Chi avrebbe protestato? - LJ Italia
avrebbe applaudito, 1'Inghilterra e la Russia avrebbero applau-
dito anche piu, la Francia era in quel momento quel die non sara
mai piu riguardo a Roma,2 la Spagna non contava nulla, e non con-
tera mai nulla. Ma e indubitato che Pio IX e i cardinali, al primo
soffio di libeccio, presi dal mai di mare tornavano indietro e chie-
devano in grazia a Carlo Alberto di tornare a Roma rinunziando a
tutti i diritti del potere temporale.
Questa lunga digressione venne fatta da tuo padre, perche di
quando in quando aveva bisogno di sfogarsi.
Bartolommei lo present6 al Bava che, gia informato dell'acca-
duto, disse corna di Laugier, e gli chiese cosa intendeva fare. Tuo
padre rispose che dipendeva dalla risposta che avrebbe data Ra-
detzky alia domanda di Laugier per ottenere lo scioglimento del-
rimpegno contratto.
— Crede che 1'otterra?
— Ne son certo - ho veduto la minuta della lettera che, pur es-
sendo decorosa, e pero concepita in termini tali, che Radetzky
non puo rifiutarsi.
— Me ne fido, — soggiunse il Bartolommei — per scrivere lasci
fare a lui. Chi sa che diamine ha detto!
— Bartolommei lo conosce bene. Fra le altre cose aveva messo
da principio : « se non restituisce la parola a Cipriani, mi costituisco
io prigioniero a Mantova».
— Eh, diavolo!
— Cosi e - ma glielo feci levare, perche era un'esagerazione che
non giovava allo scopo.
— Ebbene, quando sara libero, venga con noL Lei non e uomo
da stare con dei volontari.
— La ringrazio, generale. Avevo Pintenzione di chiedere a suo
tempo questa grazia al Re, e con la sua protezione ci posso con-
tare.
i. A Pio IX . . . Gerusalemme: e forse superfluo osservare quale fantasiosa
immaginazione guida questiprogetti, ricalcati in parte sulle vicende napoleo-
.niche. 2. la Francia . . . Roma: nel giugno del 1848 la Francia era ancora
in plena rivoluzione repubblicana e fortemente agitata da moti di tendenza
socialista.
2O2 LEONETTO CIPRIANI
Seppe poi che Bartolommei aveva dato al Bava le notizie avute dal
Basevi, e che questo lo aveva messo in grande agitazione, perche
ne riconobbe subito Timportanza. Infatti Tindomani fu chiamato
dal Re, e fu deciso Pattacco del forte di Governolo sul basso Min-
cio, tagliando cosi corto alle velleita del Radetzky. Si seppe poi
indubitatamente che la spedizione era pronta, e che non fu preve-
nuta che di pochi giorni.
Fu a Governolo che Bartolommei si distinse fra tutti entrando
il primo nel forte.
Tuo padre torno a Brescia. La risposta del Radetzky facendosi
aspettare ed avendo bisogno di un poco di riposo, an do dalla madre
aLivorno, ove gli pervenne la lettera del Laugier, che gli annunziava
esser libero,1 e nello stesso tempo gli dava le infauste notizie del di-
sastro di Custoza2 e dell'armistizio di Milano.3
Terminata cosi la prima campagna, tuo padre si mise ad occu-
parsi delle cose sue, trascurate nella lunga assenza, sperando che
durante Parmistizio lo lasciassero in pace.
MISSIONE A LIVORNO4
11 15 agosto 1848 Leonetto ando alle acque di Montecatini per
curarsi un'affezione al fegato. - Era li da diversi giorni tranquillo,
scrivendo sul passato appunti che han servito a mettere insieme
questi racconti, quando arrivo per staff etta un dispaccio del mini-
stero della guerra,5 che gli ordinava di partire immediatamente per
Livorno, dove era nominate capo di stato maggiore.
i . la lettera . . . libero : il Mordini rip reduce in nota la lettera inviata dal
Radetzky al Laugier, ricavandola dall'opera: LAUGIER, Le milizie toscane
nella guerra delVindipendenza italiana, Pisa, Pieraccini, 1849, p. 42. Ecco
il testo della lettera: ((Excellence, Je profite de cette occasion pour vous
temoigner mon estime toute particuliere, en rendant au Capitaine Cipriani
la parole que S. E. le Gouverneur de Mantoue se fit donner en le rela-
chant. Agreez F expression de ma consideration. RADETZKY - Quartier ge
neral de Verone le 16 juillet 1848)). 2. disastro di Custoza: i Piemontesi
furono vinti a Custoza il 25 luglio 1848 e dovettero ripassare il Mincio.
3. armistizio di Milano: allude alia tregua di Milano, conclusa il 5 agosto
e in base alia quale la citta di Milano doveva tornare agli Austriaci. L' ar
mistizio fu invece stabilito 1*8 agosto, a Vigevano, dal generale piemontese
Salasco e dall'austriaco Hess, ed e appunto noto col nome di « armistizio
Salasco». 4. Ed. cit., vol. I, cap. xv, pp. 171-91. 5. minister o della guerra:
nel ministero toscano, presieduto aUora dal Capponi, era ministro della
guerra il colonnello Belluomini, sul quale vedi la nota zap. 177.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 203
Prima di raccontare uno dei piu important! episodi della sua
vita politica, e necessario dire poche parole sulla citta ove questo
ebbe luogo, sulle sue cause e sui suoi effetti.
La citta di Livorno, la piu popolata della Toscana dopo Firenze,
era stata fin dal principio del '47 la piu inquieta, la piu irragione-
vole, quella che infine aveva dato maggior pensiero al governo.
La spiegazione e facile a darsi: Livorno, citta commerciale, aveva
una classe di popolo per dir cosi disponibile, cioe pronta sempre a
scendere in piazza, che le altre citta non avevano.
Questa classe era composta dei giovini di banco, cioe impiegati
di commercio, e dei capi facchini, che trascinavano dietro a loro la
turba di tutti quelli che in un modo o nell'altro vivevano alia gior-
nata del movimento materiale del commercio. Eran gia questi
diverse migliaia, ed a loro si univano i mestieranti di tutte le profes-
sioni, numerosi pur quelli, ed infine i navicellai e i contrabbandieri,
fra i quali alcune menti sveglie con qualche educazione, e perci6
influenti sopra gli altri.
La classe agiata e ricca, sia proprietari, come negozianti, era in
genere apatica, irresoluta, timida, disposta piuttosto a maledire che
a benedire il movimento italiano, che dalPelezione di Pio IX in poi
si accentuava sempre piu.
Fino da molti anni prima, Livorno era la citta ove la setta della
Giovine Italia aveva maggiori radici, ed ove aveva sviluppato i suoi
migliori rampolli, fra i quali pochissimi eran gli uomini distinti per
mente e per cuore.1 Alcuni di questi ultimi erano della classe ricca,
i piu della classe colta, medici o legali - tutti ardenti italiani, tutti
pronti a qualunque sacrifizio per raggiungere il grande scopo.
Come sempre awiene in simili sconvolgimenti, i pochi cattivi
in cui prevaleva Finsana rabbia delPambizione, eran quelli che do-
minavano le masse popolari, che ne dirigevano le esigenze e ne lusin-
gavano gPistinti, facendo loro gridare: — Abbasso la regia del sale!
e pane e lavorol — per avere pane senza lavoro, e come variante: —
Guerra! — per farla a casa loro, e: — Abbasso il governatore! ab-
basso il ministero!
Dal marzo all'agosto 1848 in quella citta si erano consumate le
riputazioni di diversi governatori, in parte per colpa loro, in parte
i . fra i quali , . . cuore : il Cipriani fu sempre aspramente awerso al Maz-
zini e alia Giovine Italia, e perci6 sono numerosi nelle sue memorie i giu-
dizi severi e le ingiuste condarme contro il mazzinianesimo.
204 LEONETTO CIPRIANI
perche Livorno era divenuta ingovernabile. Al governatore Bar-
gagli1 era succeduto il Guinigi;2 e quando alia fine di agosto il mi-
nistero3 si decise a mostrarsi energico, nomino governatore di Li
vorno don Neri Corsini,4 dandogli come primo consigliere Vin-
cenzo Malenchini5 e come capo di stato maggiore Leonetto Ci
priani.
Appena ricevutone Pordine a Montecatini, Leonetto parti, ed a
Livorno trovo Malenchini, ma Corsini non compariva.
La citta era in gran fermento, le autorita tutte esautorate, la
guarnigione tremante, la guardia nazionale ridotta ad influenza ne-
gativa, perche il suo maggiore elemento era tra gl'impazienti e peg-
gio - in una parola, il disordine e la confusione al piii alto grado.
La nomina di lui e del Malenchini, mancando il Corsini, era
lettera morta. Decisero di andare a Firenze per avere istruzioni, ed
andando furono incaricati di presentare le seguenti domande del
popolo :
1. preparativi per riprendere la guerra dell'indipendenza;
2. aumento della marina da guerra;
3. amnistia generale;
4. riordinamento della guardia civica;
5. tariffe fisse per le spese di giustizia, e revisione delle pensioni;
6. diminuzione del prezzo del sale.
Poche ore prima della loro partenza il Guinigi fu crudelmente in-
sultato da una masnada di giovani di infima classe che avevano in-
vaso il palazzo governativo. Partirono sotto quella triste impres-
sione, che non era fatta dawero per decidere due giovani come
tuo padre e Malenchini a prendere parte a quel governo.
Arrivarono e si presentarono. - Corsini aveva saviamente ricu-
sato e non ne voleva sentir parlare. - II posto di governatore fu al-
lora offerto a Leonetto. E per farlo accettare, quel venerando vec-
chio del Capponi invoco la salute pubblica e la necessita di quiete
per prepararsi con calma a nuova lotta contro 1'Austria.
i. Bargagli: vedi la nota 3 a p. 161. 2. « II generale marchese Lelio Gui
nigi, lucchese, nominate governatore di Livorno il 24 marzo 1848. Ben-
che in pratica avesse cessato di esserlo fin dall'agosto, le sue dimissioni
vennero accettate soltanto il 27 settembre successive)) (Mordini). 3. il
minister o : come abbiamo gia detto, questo ministero era presieduto da Gino
Capponi, e governo dal 16 agosto al 26 ottobre del 1848. 4. don Neri Cor
sini: vedi la nota i a p. 169. Si tratta, naturalmente, del nipote, che aveva
allora 43 anni. 5. Vincenzo Malenchini'. vedi la nota yap. 183.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 205
Eran parole che arrivavano al suo cuore. - Accetto, ma a queste
condizioni :
che la sua missione non sarebbe durata che il tempo necessario
per riportare la tranquillita negli animi esacerbati e per dar sod-
disfazione a giuste esigenze, come quella dell'organizzazione rego-
lare dei volontari;
che gli fossero accordati pieni poteri;
che fosse messo a sua disposizione un reggimento di fanteria,
comandato dal Reghini,1 trecento carabinieri comandati dal Man-
ganaro,2 due squadroni di cavalleria e mezza batteria di artiglieria.
La prima condizione 1'accordarono facilmente, trattandosi di sole
parole. Accettarono le altre due, ma la seconda non dipendendo dai
ministri, promisero di chiederla alia rappresentanza nazionale riu-
nita allora inFirenze. Ed infatti furono chiesti airAssemblea i pieni
poteri e votati d'urgenza il 27 agosto.
Per tutto questo occorsero diversi giorni. - Intanto arrivo da Li-
vorno una commissione affacciando assurde pretese. Non fu rice-
vuta. Ma, tornata che fu a Livorno, il popolo insorse, s'impossesso
di tutte le armi, e fu padrone della citta. II Guinigi fuggi - altret-
tanto fece la maggior parte delle autorita - ed il municipio debol-
mente rappresentato divenne lo zimbello di quelle turbe sfrenate,
inebriate dal facile trionfo.
Fu in quella circostanza che Leonetto assumeva 1'ardua impresa.
- Non si trattava piu di governare, e di rendere la calma ad una
citta; si trattava di levarla dalle mani degl'insorti. Ma piu 1'im-
presa diventava difficile e piu ritemprava quel carattere di ferro.
Non si sgoment6, non disper6, ebbe fiducia in se e negli amici che
aveva a Livorno - e infatti se non riusci, non fu per colpa sua.
Prima di partire aspettava, com' era naturale, che il ministro
della guerra Belluomini3 gli desse un grado superiore, corrispon-
dente alle esigenze di quella posizione, e che lo mettesse al disopra
dei militari che dovevano essere sotto i suoi ordini immediati.
Ma non vedendo capitar nulla, prendendo commiato all' ultimo
momento gli disse : — Faccia stendere il brevetto di colonnello di
stato maggiore e lo porti alia firma del Granduca. Finche non torna,
non parto.
i. Reghini: vedi la nota sap. 178. 2. Manganaro: vedi la nota sap. 178.
3. Belluomini: vedi la nota zap. 177.
206 LEONETTO CIPRIANI
Non era piu tempo di desideri, ma di ordini - e cosi fanno gli
uomini che si sentono all'altezza delle circostanze.
II decreto fu steso - portato alia firma - firmato. - E cosi tuo
padre si fece colonnello da se stesso.1
Parti per Pisa, ove si concentravano le forze richieste. Mancando
pero parte della linea, la cavalleria e tutti i carabinieri, il nerbo
migliore per 1'urEciale che li comandava e per gli elementi che li
componevano, voleva aspettarli. Ma alcuni amici di Livorno lo
scongiurarono a non perder tempo a venire, perche se allora era pos-
sibile prendere aH'imprevista gl'insorti non ancora organizzati ne
preparati a seria difesa, in pochi giorni tutto poteva mutare, la citta
essere esposta al saccheggio, e la vita degli onesti dipendere dal
popolo infuriato. Aggiungevano di avere sicure intelligence af-
finche le porte si aprissero, e di prevedere, per quanto era possibile,
che si sarebbe evitato spargimento di sangue.
Le ragioni e le riflessioni eran cosi giuste che lo persuasero.
La mattina del 30 agosto fece interrompere le comunicazioni
telegrafiche con Livorno, per impedire awisi e fare della sorpresa
Pelemento essenziale del successo. Ordin6 nello stesso tempo un
treno di quanti vagoni erano disponibili, compresi quelli delle mer-
canzie e le piattaforme, con diverse locomotive, e senza metter nes-
suno a parte del piano che aveva immaginato, alle tre dopo mezzo-
giorno parti col treno e colle truppe, mandando nello stesso tempo
la mezza batteria per la via maestra, con Tordine di andare al gran
trotto e di fermarsi alia fonte di S. Stefano (aveva la fortuna di co-
noscere quella localita come casa sua, perche la gran pianura che
circonda Livorno da quel lato era stata proprieta della sua famiglia).
II treno parti - lui era sulla macchina. - Arrivati al capannone2
fece fermare, e condusse le truppe per una via sterrata alia fonte di
S. Stefano. Aveva calcolato bene il tempo e la distanza: Partiglie-
ria arriv6 poco dopo. Formo sulla larga via maestra la colonna per
compagnie di fronte - e senza perdere un minuto, a passo ?cce-
lerato si diresse verso la citta, lontana poco piu di un miglio e
mezzo.
Arrivato a poca distanza dal punto ove la via maestra si biforca,
i. si fece . . . da se stesso: « Con decreto del 27 agosto 1848 il Cipriani, allora
semplice capitano di cavalleria onorario, fu nominate colonnello addetto
allo Stato maggiore generale » (Mordini). 2. capannone: «Manca una pa-
rola illeggibile nel manoscritto » (Mordini).
AVVENTURE BELLA MIA VITA 207
un braccio dirigendosi verso Tantica porta a Pisa, a trecento metri
di distanza, e Faltro alia porta S. Marco a mille metri, incontro due
suoi intimi amici, capitani nella guardia nazionale, il dottor An
drea Giovannetti e Federico Conti, i quali gli consigliarono di
entrare per la porta a Pisa, perche non vi avevano veduto nessun
preparative di difesa e perche vi erano scaglionati amici pronti a
dargli mano.
Non era questo il suo piano, perche dalla porta a Pisa alia piazza
d'armi vi era quasi un miglio da percorrere in citta, in un sobborgo
male abitato, mentre dalla porta San Marco, il sobborgo essendo
deserto per duecento metri dentro le mura, non vi era die un pic
colo spazio da percorrere per arrivare lungo i fossi alia piazza, per
una via tutta di palazzi e magazzini, senza una bottega; e perche
infine, nel caso che la citta fosse stata prevenuta, come lo era stata
difatti, e avesse voluto prepararsi a disperata difesa, Tavrebbe pre-
parata alia stazione della via ferrata davanti la porta S. Marco, ove
non vedendolo comparire ma sentendo il rumore dei tamburi e
della musica che appositamente suonava, i popolani armati do-
vevano credere si fosse diretto alia porta a Pisa, e accorrervi ab-
bandonando quella di S. Marco.
Per queste ragioni ricuso, e a piedi, in testa alia colonna, volto
a destra verso S. Marco, pregando gli amici di non accompagnarlo,
perche non erano al loro posto, e potevano essergli molto piu utili
andando nella piazza d'armi.
II Conti lasciandolo gli disse : — Non si sa cosa pub seguire —
e sotto mano gli porse un paio di pistole corte, colle quali hai gio-
cato tante volte da bambino.1
Arrivati davanti alia porta che era chiusa, grido: — Aprite!
— Chi siete ?
— Amici.
— Aspettate che vengano gli ordini dal municipio.
— Non si aspetta. Aprite o apro a cannonate — e fece mettere i
pezzi in batteria. Diversi scamiciati che erano arrampicati sulle
mura gridavano sotto : — Aprite, aprite - han le micce accese.
Per influenza di un sergente capoposto, gia volontario protetto
da tuo padre, decisero di aprire. Furono spente le micce - entra-
i. colle quali . . . da bambino: come gia abbiamo detto, le Awenture si im-
maginano narrate da un « vecchio mentore » al figlio di Leonetto Cipriani.
208 LEONETTO CIPRIANI
rono - e siccome guerra nella citta contro il popolo non e guerra in
campagna contro i nemici, Leonetto voleva essere il primo ad avere
contatto o cozzo che fosse col popolo, tanto piu ch'egli solo col suo
prestigio era in grado di esercitare una buona influenza, mentre
un'avanguardia poteva al primo apparire irritare gli animi. Ordino
percio la colonna per mezze compagnie colPartiglieria al centro, e
messosi alia testa, per gli scali di S. Marco arrive davanti al teatro
di S. Marco. Li incontro Luigi Fabbri1 con altri che vollero fer-
marlo pregandolo di non andare in piazza., ove sarebbe stato rice-
vuto a fucilate, se prima non prometteva amnistia generale; e il
Fabbri presentandogli un foglio gli disse : — Firma per carita, Leo
netto, ed aspetta.
Tuo padre gli strappo il foglio di mano, e grido ai tamburi che
si eran fermati: — Avanti, avanti — a passo di carica!
In un momento furono sulla piazza. Stupore generale - non una
fucilata - non un grido - diremo di piu : terrore generale. - Dispose
le truppe sulla piazza — i cannoni davanti al palazzo governativo,
dove sali per dare gli ordini necessari.
Eran le nove - gia notte. Era pericoloso mandare la truppa nelle
caserme - irritante far la bivaccare in piazza. Tra i due mali, pre
fer! evitare il pericolo piuttosto che la provocazione. Furono prese
tutte le precauzioni necessarie contro una sorpresa notturna; -
e per poco che la gente riflettesse e che il suo prestigio prevalesse,
vi eran tutte le probabilita di vedere la mattina la citta calma come
se non vi fosse mai stato disordine.
Cosi fu - la notte non si senti un alito - la mattina ognuno an-
dava per i fatti suoi - i demagoghi scamiciati erano spariti - gli
ambiziosi rientrati - e tutto faceva ritenere un risultato insperato.
Ma tuo padre, ben lontano dalPaddormentarsi in quell'apparente
quiete, si occupo di prevenire con tutti i mezzi il ripetersi dei disor-
dini passati, dando ordini severi d'isolare il soldato dal cittadino -
di non permettere che i soldati si facessero vedere in citta - di far
uscire la mattina le truppe dalle caserme per andare a fare gli eser-
cizi a fuoco alPArdenza, portando il rancio e tornando la sera.
La turba degli irrequieti era molta, ma i caporioni pochi, e di
i. Luigi Fabbri: « Allora uno dei priori, poi gonfaloniere di Livorno quasi
ininterrottamente dal settembre 1848 al dicembre 1857. Aveva fatto la
campagna del '48 come capitano nel battaglione livornese comandato dal
Bartolommei. Mori sessantacinquenne nel 1876)) (Mordini).
AVVENTURE BELLA MIA VITA 209
questi i piu usciti dai volontari. - Vi era poi una serpe velenosa,1
divorata dalla rabbia di non esser mai potuta arrivare a nulla, che
dominava tutti, e della quale era organo sibillino il « Corriere Li-
vornese», e Pistrumento piu attivo il redattore di quello, un essere
miserabile chiamato Giannini.2
Leonetto fece chiamare uno dopo Paltro i caporioni gia volontari,
e valendosi del proprio prestigio, e di quello che su alcuni di loro
aveva maggior potenza - il francescone -3 con buone parole e con
dolcezza assicuro loro formalmente che aveva accettata la missione
con 1'unico scopo di migliorare le loro condizioni; e che se aveva
chiesto i pieni poteri era per poterli organizzare completamente,
dando ai piu capaci il grado che meritavano, e cosi sciolto dalle
pastoie delFamministrazione militare centrale far di loro in poco
tempo un corpo omogeneo, che poteva esser pronto a muoversi non
come bande, ma come battaglioni e reggimenti sul piede di guerra.
Queste idee che erano giuste, e dall'applicazione delle quali sol-
tanto poteva ottenersi un effetto utile, 1'unico, a quella pienezza di
vita, furono accolte da loro con estrema gioia, e tutti promisero di
appoggiarlo, influenzando i buoni e facendo tacere i cattivi.
Egli chiese poi loro la restituzione delle armi, fra le quali vi era un
cattivo pezzo di artiglieria. II contrabbandiere Petracchi4 capitano
dei volontari, promise ogni cosa, ma osservo che una parolina detta
bene da Leonetto a tutti avrebbe facilitato la restituzione ; e fu con-
venuto di fare un awiso al popolo che lo invitava a depositare le
armi al Municipio.
Fu mal fatto, perche suscito diffidenze. Meglio era aspettare,
tanto piu che molti le avevano gia vendute, e molti non le avrebbero
restituite. E quando una misura governativa come quella, che non e
un ordine assoluto ma soltanto un invito, non deve avere un ef
fetto immediato e completo, non ha ragione di essere - e tanto piu
in quel caso, quando le due ragioni sopraddette dovevano essere
prevedute. Tuo padre in quella circostanza s'illuse, e si lascio se-
durre dalle promesse di chi non aveva facolta di mantenere.
i. una serpe velenosa: il Cipriani indica cosi Giuseppe Mazzini, del quale
non comprese la grandezza e la nobilta. 2. « Silvio Giannim, letterato e
giornalista (Bastia i8i5-Torino i86o)» (Mordini). 3. il francescone: cioe,
il denaro. Un francescone valeva circa L. 5,60. 4. « Antonio Petracchi,
capo-popolo livornese, prima awersario, poi partigiano fanatico del Guer-
razzi, e quasi onnipotente a Livorno quando il Pigli vi era governatore »
(Mordini).
210 LEONETTO CIPRIANI
Fu affisso 1'awiso. Alcune armi furono depositate - quanto al
cannone, il Petracchi venne a pregarlo di lasciarglielo perche vole-
vano andare il giorno dopo in processione alia Madonna di Monte-
nero e strascinarlo fin sul monte per salutare i giorni migliori che
prometteva la presenza sua. - Egli acconsenti.
In quel giorno vi fu riunione di cittadini influenti, alcuni uo-
mini di buon consiglio, come Andrea Padovani, il nipote Giovanni
Fabrizi1 e Andrea Giovannetti, e si parlo della guardia nazionale.
Era questa comandata dal colonnello Bernardi,2 antico soldato,
ma che avendo con Peta perso tutte le qualita militari, non era piu
che un buon uomo vestito da colonnello.
Per le ragioni gia dette replicatarnente la guardia nazionale non
esisteva piu. I graduati avevan dato in gran parte le loro dimissioni
- e se non le avevan date tutti, e perche non eran present!. Riorga-
nizzarla su nuove basi richiedeva tempo - ed il tempo mancava. Le
discussioni ed i consigli non approdarono a nulla - e Leonetto dove
accorgersi che senza guardia nazionale, con poca truppa cattiva e
ufficiali peggiori, quel che non riusciva ad ottenere personalmente
non lo avrebbe ottenuto coi mezzi dei quali disponeva.
A giudicare dallo stato della citta quando vi entr6, e dal modo
come vi entro, si dovrebbe credere che si guardasse bene dall'esporsi
isolate nelle vie. Al contrario: - non vi era ombra di pericolo, ma
quand'anche vi fosse stata, doveva mostrarsi e passeggiar solo nelle
vie piu popolate come un semplice cittadino inoffensive.
Cosl fece. - Al mezzogiorno - in borghese, s'intende bene - dalla
piazza percorreva due volte la via grande, rientrando un giorno per
gli scali della Fortezza Vecchia e la Venezia, Paltro per gli scali di
San Marco e via Nuova.
La sua presenza faceva piacere - e le parole che lo accoglievano,
« guarda guarda il sor Leonetto », indicavano simpatia. Se incontrava
un volontario che avesse conosciuto alParmata, lo fermava, gli do-
mandava le sue nuove: — Cosa fai? ti occorre nulla? vieni a tro-
varmi — e se non fosse dipeso che da quei giovini, lo scopo che si
era prefisso sarebbe stato certo raggiunto.
1. « Andrea Padovani, di famiglia c6rsa stabilita a Livorno; Giovanni Fa
brizi, nato a Bastia nel 1811, awocato, giornalista, scrittore, professore a
Pisa, inviato nel 1859 dal Ricasoli a Torino, deputato alFassemblea toscana
e al parlamento italiano, morto a Livorno il 31 dicembre 1871 » (Mordini).
2. Bernardi: vedi la nota a p. 185.
AVVENTURE BELLA MIA VITA 211
Vi era un club al teatrino degli Strozzi, ove si riunivano la sera,
diretto, come accade sempre nei clubs, da chi sa parlare e con le
parole lusingare le passion! dominant!. In esso si era rifugiata la
schiuma delle cattive passioni, da esso per la prima volta la velenosa
serpe aveva mostrato la testa, e, per la prima volta forse in Italia,
era uscita la parola repubblica. Era infine il solo ostacolo alia paci-
ficazione dell'intera citta.
Ne ordin6 la chiusura.1 Ma fu forse troppo presto, perche in
simili casi toglier tutto ad un tratto lo sfogo delle parole e come voler
fermare artificialmente la corrente di un precipitoso fiume, men-
tre o bisogna sviarlo, o lasciarne abbassare le acque e chiuderlo al-
lora tra argini insormontabili. - II chiuderlo ad un tratto quando e
in furore, lo fa straripare e piu precipitoso scendere al piano, tra-
volgendo con se uomini e cose. — E fu quello che awenne.
II primo settembre fu affisso 1'ordine che vietava i clubs. -
Fin prima del mezzogiorno i tristi effetti di questa misura furono
patenti. La gente si aggmppava a leggerlo, disapprovava - e il pre-
stigio di Leonetto spariva. — Lo senti, ma lo sbaglio era fatto, e il
tornare indietro sarebbe stato esautorarsi.
Nel dopo pranzo, dalla disapprovazione si pass6 alle dimostra-
zioni ostili. Fu strappato 1'affisso dalle cantonate, e le sentinelle
della gran guardia ed anche del palazzo che vollero impedirlo, fu
rono insultate.
Sul far della sera cominciarono le grida di pochi dinanzi al pa
lazzo «abbasso il dittatore!». Era la parola d'ordine della serpe
nascosta. - E tra quelli che gridavano, tuo padre, stando dietro le
persiane delle finestre di palazzo, osservo tre individui, due briachi
ed un giovine col cappello che gli copriva gli occhi - un tal Lilla -
che come maestri di cappella davan Tintonatura alForchestra.
Chiamo il capitano dei carabinieri Gori, che era in palazzo, e gli
ordino che uscisse dalla porta di dietro con qualche carabirdere,
facesse il giro dalla via del Granduca, traversasse la piazza, e scan-
sando il corteo di ragazzi arrivasse alPimprowiso sui tre, H arre-
stasse e li conducesse in palazzo. - Se Fordine fosse stato bene ese-
guito, dai briachi avrebbe facilmente saputo chi gli aveva pagato il
vino, e dal Lilla, con le cattive o piu facilmente con una manata di
francesconi, chi lo pagava per dirigere quell' orchestra. Ma il Gori
i. Ne ordino la chiusura: « In seguito ad ordine categorico del ministro del-
rinterno Samminiatelli » (Mordini).
212 LEONETTO CIPRIANI
era una bestia, ed avendo probabilmente la colica,1 esegui 1'ordine
cosi male che dette loro tempo a fuggire.
La sera vennero a palazzo Andrea Padovani ed il nipote a pre-
venirlo di cio che gia sapeva, che il popolo si preparava a cose
nuove. - Prowedesse e si guardasse bene.
Egli non si era finora occupato della guardia nazionale per le ra-
gioni gia esposte, ma aveva pero studiato la formazione di una guar
dia del commercio, nella quale i negozianti, che pel commercio pa-
ralizzato soffrivano piii di tutti, avrebbero fatto entrare i loro capi
facchini e quelle centinaia di facchini, ai quali quello stato di cose
minacciava di togliere i mezzi di campare. Questa guardia doveva
essere pagata generosamente giorno per giorno.
La mattina del 2 settembre riuni a palazzo la camera di commer
cio, della quale, se la memoria non m'inganna, era presidente il Ber
ghini,2 con altri primari negozianti, ed espose loro il progetto gia
formulato in carta. Lo approvarono alPunanimita, promisero coa-
diuvarlo con tutte le loro forze - e fu convenuto che avrebbero com-
pilato la lista degli uomini dei quali ognuno di essi rispondeva,
avrebbero fatto fare altrettanto a tutti i negozianti, e le avrebbero
al piu presto sottoposte al governatore. I capi facchini sarebbero
stati nominati capisquadra con dieci paoli al giorno di paga, e i
componenti le squadre avrebbero avuto tre paoli, ed un cappotto
e un berretto per ciascheduno.
Non vi e alcun dubbio che, se si avesse avuto il tempo di realiz-
zare simile progetto, la citta era in mano di tuo padre. Ma la serpe
nascosta vegliava, e si accorse, che se dava tempo a formare quella
guardia, le sue tristi aspirazioni eran fallite.
£ tempo dire quali fossero la serpe nascosta e le sue aspirazioni.
Era il Mazzini che per mezzo dei suoi pochi agenti, resti della Gio-
vine Italia, avendo visto fallita la sua scellerata ed insana trama a
Milano3 la notte delFarmistizio, voleva profittare dei torbidi di Li-
i. avendo . . . la colica: cioe, avendo paura. 2. «Pasquale Berghini (1798-
1881), sarzanese, affiliate alia Giovane Italia, condannato in contumacia
a morte nel 1833, esule in Corsica e in Francia, pote poi fissarsi a Lucca,
occupandosi di ferrovie, e nel 1848 fu deputato al parlamento sardo. -
Presidente della camera di commercio di Livorno era non il Berghini, ma
Eduardo Lloyd, facoltoso commerciante inglese cola stabilito » (Mordini).
3. la sua ... Milano : si allude alle dimostrazioni contro Carlo Alberto
awenute la sera del 5 agosto 1848 a Milano, e delle quali il Cipriani consi-
dera artefici gli element! mazziniani.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 213
vorno per seminare Pidea che e stata e sara finche vivra il sogno della
sua vita - la repubblica.
Durante il giorno gli awisi di rivolta imminente si ripeterono. -
Tutti gli ordini furono dati e le disposizioni prese in conseguenza.
Mezzo squadrone di cavalleria col tenente Alessandro Cappellini1
era nella piccola caserma vicino al palazzo. Fu raddoppiata la guar-
dia di palazzo e rinforzata da 50 carabinieri (200 con il Manganaro
dovevano arrivare la sera con Pultimo treno). Tutto cio coram po-
puloy affinche questo sapesse come sarebbe stato ricevuto.
In casi simili Postentazione e sana politica - Papparato della forza
intimidisce, fa riflettere, e spesso previene spargimento di sangue e
repression! cittadine sempre deplorabili.
Sul far della sera, a poco a poco, come marea montante, si ag-
grupparono migliaia d'individui dinanzi al palazzo, come se aspet-
tassero la parola d'ordine, e tutto ad un tratto si accostarono gri-
dando « morte al dittatore » e tentarono di disarmare le due senti-
nelle, che si rifugiarono dentro.
Leonetto, vedendo dalle fmestre quel movimento in avanti,
e non fidandosi di nessuno, scese e da se stesso dispose dinanzi
alia porta i carabinieri a baionetta abbassata. - II cosiddetto po-
polo gridava gridava - ma dalla porta non si entrava, alle finestre vi
erano inferriate, ed il palazzo non aveva che una doppia piccola por
ta di dietro.
Profittando di un momento di sosta, ordino ai carabinieri co-
mandati dal solito poltrone Gori, non avendo altri sotto la mano, di
piombare su quella folia e disperderla facendo arresti se era possi-
bile - con i fucili carichi, ma guardandosi bene dal far fuoco. Nello
stesso tempo mando ordine al Cappellini di salire a cavallo e prender
posizione davanti alia dogana, ed al Reghini di tenere pronta la
fanteria coirarme al braccio e Partiglieria coi cavalli attaccati.
II Gori esegui il movimento ma senza insieme, alia sparpagliata.
Egli fu il primo a fuggire in palazzo - i carabinieri isolati furon cir-
condati e alcuni disarmati e maltrattati. Quando si sentirono le
prime fucilate degPinsorti, al canto della via della Posta, non era piii
tempo da mezze misure, e Leonetto ordino al Cappellini di caricare
il popolo.
Fu disperse e la piazza rimase sgombrata. Ma le fucilate contro
i. « Alessandro Cappellini, poi maggiore comandante i cacciatori a cavallo,
e nel 1859 colonnello del reggimento cavalleggeri di Firenze» (Mordini).
214 LEONETTO CIPRIANI
la cavalleria piovevano a grande e piccola distanza dagli sbocchi
di tutte le vie - e la fanteria e I'artiglieria, che avevan ricevuto Tor-
dine di portarsi in piazza al passo di carica, non arrivavano.
II Reghini mando ordini sopra ordini, e non vedendole compa-
rire, disse : — Ci andero io stesso. — Parole degne di un uomo di
cuore e di un soldato coraggioso. - Un giovane tenente di artiglieria,
ufficiale d'ordinanza del governatore (il nepote del Fabbri di Fi-
renze) disse : — Ci andero io e 1'artiglieria almeno le garantisco che
verra. — E parti.
Grinsorti armati agli sbocchi delle vie Grande, delle Galere,
della Posta e di S. Giulia aumentavano, e facevano fuoco nutrito
contro il palazzo, perche la cavalleria in piccol numero si era messa
al sicuro nel cortile dello spedale.
Finalmente comparve Partiglieria comandata dal tenente Mazzei
delPisola dell'Elba, e si port6 dinanzi al palazzo. Tuo padre scese
in piazza e fece tirare qualche colpo a polvere - le cariche erano gia
state preparate per suo ordine - e questo bast6 per vederli fuggire
dal canto del Consiglio e della Posta. Dispose I'artiglieria in mezzo
alia piazza con un cannone rivolto a S. Giulia e un altro che infi-
lava via della Posta da dove era apparso il maggior numero degli
insorti - e furono tirate due sole cannonate a polvere nelle due
direzioni.
Cominciarono le fucilate dalle finestre di casa d'Angiolo.1 Cadde
un cannoniere - tutti gli altri fuggirono.
GFinsorti si awicinavano — la fanteria non arrivava. II momento
era supremo. O lasciarsi scannare da quella turba, o fame macello.
Egli ordin6 a voce alta: — A palla— e lui stesso col Mazzei ed un
cannoniere caricando i pezzi, furon tirati due colpi a palla e due a
mitraglia.
In quella, vide apparire dalla via della Posta il Manganaro coi
carabinieri addossati alle case di fronte a quel lato del palazzo del
Granduca che si prolunga fino a mezza strada. Lo riceve a braccia
aperte, e gli ordino di fermarsi davanti al palazzo. - Onore al Man
ganaro ed a quelli che comandava e che, scesi alia stazione, accor-
sero ove piu infuriava il pericolo.
Sopraggiunse alfine la fanteria a passo di formica, quando, si
pu6 dire, era tutto finito, perche se fu tirata qualche fucilata, Io fu
i. «Michele D'Angiolo, gonfaloniere prowisorio di Livomo nell'agosto
1848, e gonfaloniere effettivo dal dicembre 1857)) (Mordini).
AVVENTURE DELLA MIA VITA 215
dal canto di via S. Giulia, e pochissime dalle finestre. La fanteria ne
tiro qualcuna a caso senz'ordine, dominata dalla paura. Fu ordi-
nata in quadrate sulla piazza.
Fu cambiata la guardia al palazzo; e Leonetto, cercando 1'uffi-
ciale che la comandava, lo vide uscir di sotto una tavola. Gli strappb
le spalline e gli levo la sciabola.
And6 poi alia gran guardia, che era chiusa. Aprirono - ed en-
trando furioso vide il tenente appiattato sotto i pancacci. Lo tiro
per le gambe, e non avendo ne spalline ne sciabola da strappargli,
a calci lo mise fuori; e la guardia fu cambiata.
II fuoco intanto era cessato, gl'insorti spariti. Fece raccogliere i
pochi feriti e portarli allo spedale vicino - e rientro in palazzo.
Vi trov6 un giovine in uniforme di tenente della guardia nazio-
nale che si mise a sua disposizione. Domand6 il nome - Sirio
Fazzi -1 si rammento di averlo veduto all'armata, ma non lo co-
nosceva personalmente.
Sorpreso gli disse : — E lei ha avuto il coraggio di uscir di casa,
traversare la citta e salire queste scale in simile momento ?
— E perche no ?
Gli strinse fortemente la mano. — Non lo rivide che diciassette
anni dopo; e per circostanze poco ordinarie il Fazzi fu il suo mi-
gliore amico e quello che phi di ogni altro prese a cuore i suoi in-
teressi. - E di lui fece menzione onorevole nel suo rapporto.
Vi trovo pure Francesco Cipriani, suo cugino, che non vedeva
da molti anni a causa di questioni d'interessi. Non faceva parte della
guardia nazionale - non era nulla. La sua presenza fu un balsamo
per Leonetto, che lo abbraccio e lo ringrazio commosso.
Degli altri suoi numerosi intirni amici - si, teneri amici a parole
nella prospera fortuna - non vide nessuno - neppure il suo predi-
letto Gian Paolo2 per il quale avrebbe dato mille volte la vita.
Lo aveva conosciuto da giovinetto e si era stretto con lui con
una di quelle amicizie che rammentano Oreste e Pilade. Quel che
aveva Funo aveva Faltro - quel che voleva uno lo voleva Faltro -
comuni le aspirazioni e i desideri. E aveva fatto per lui miracoli di
devozione quando gli affari dissestati lo minacciavano di fallire diso-
i. «I1 notaio Sirio Fazzi, nato a Livorno il 17 gennaio 1819, fu nel 1859
consigliere aggiunto di quel governo prowisorio, e consigliere comunale,
e mori a Livorno il 2 marzo 1893 » (Mordini). 2. Gian Paolo Bartolommei
(1810-1853) aveva comandato nel 1848 i volontari livornesi.
2l6 LEONETTO CIPRIANI
norato. Aveva salvato lui e la sua famiglia dalla rovma - ed egli,
al momento di provare la sua riconoscenza per tutto quello che Leo-
netto aveva fatto per lui in tante circostanze, non comparve! Si era
rifugiato il 25 agosto alia villa di Limone con tutta la famiglia; -
e neppure gli scrisse una parola per giustificare la sua assenza!
Ma fece anche peggio. II tre settembre la vecchia madre di Leo-
netto, temendo essere insultata nella sua propria villa dal po
polo-re, pens6 di rifugiarsi nella vicina villa Foa, ma il Foa non
voile riceverla. Si diresse allora a Limone, sicura di essere accolta a
braccia aperte - ma invece lo fu cosi freddamente, e cosi chiara-
mente a malincuore, che non reggendo a quelPatmosfera glaciale,
dopo soli tre giorni se n'ando dalla sorella a Montalto.
Furon colpevoli tutti i Bartolommei? Iddio mi guardi dal cre-
derlo. Ma uno solo che fosse dominate dalla paura bastava per
influenzare piu o meno tutti gli altri.
Gian Paolo non parlo mai a Leonetto di questi fatti. Colpevole
non era lui, ma responsabile si. Quanto al colpevole - gliene rimase
la macchia sul volto finche visse - ed a lui nella miseria Leonetto
levo piu volte la fame.1
Tornando, dopo questa dolorosa digressione, al nostro racconto,
la ribellione era vinta? No, perche gli elementi che la componevano
eran sempre in liberta. E Leonetto decise percio di fare operare
nella notte stessa due o trecento arresti.
La polizia aveva compilato una lista dei piu facinorosi, e si sapeva
dove abitavano. Ma come eseguire gli arresti? La truppa aveva
fatto cattiva prova, ed i carabinieri eran pochi per eseguire gli ar
resti nella notte, e quasi tutti contemporaneamente per non dare la
sveglia.
Penso a un resto di guardia nazionale, contando sul patriottismo
degli ufficiali che avevano date le dimissioni. Mando a chiamare il
Bernardi e gli domando se credesse possibile riunire un drappello. -
Ma alle prime osservazioni del Bernardi si accorse che era un'illu-
sione, una di quelle idee false che vengono alia mente in casi dispe-
rati come quello. E capi che bisognava fare gli arresti con cio che
aveva sotto mano.
i. Quanta al colpevole ... fame: non si capisce a quale membro della fa
miglia Bartolommei il Cipriani alluda, se non a Luciano, che fu con lui
alle Antille.
CHAMBER MUSIC 223
Ex. I ('Theme from the "49th Parallel" '), so marked, is given
out by the viola to be answered at once by the other strings in
octaves playing 'con sordini', *sul ponticello', and tremolando.
Next the other strings, still in octaves, take over Ex. i while the
viola embarks on a new idea, a tune in double stops marked
'cantabile':
which as it unfolds itself becomes increasingly chromatic. A re
statement of Ex. i, echoed by the other strings in octaves, leads
to the onset of continuous triplet motion and still another, more
wide-ranging theme from the viola:
""- i -rffTf-nftrrffiFff
This is in turn taken up by the other strings in octaves — while
the viola keeps triplet motion going. The climax to which all
this leads is crowned by the abandonment of octaves and the
substitution of four different rhythms for a few bars which lead
into the section dominated by Ex. 9. It may be observed that the
four fiats in the signature of Ex. i and all the first part of the
Scherzo proclaim F minor but in feet produce a very flat form of
G minor. Now that we come to the trio (if trio it is) we have G
minor in name as well as practice. This section however is short
(fourteen bars) and is linked by a short cadenza for the viola to a
recapitulation of Exx. i and 9. As in the other movements this
recapitulation is much condensed and is content to recall the
principal themes with the merest hint of Exx. 10 and 1 1. The last
few bars, coda if you like but very organic with the rest of the
movement, are but an expansion in diminution of the viola's
cadenza.
Epilogue
The short epilogue has a subtitle 'From Joan to Jean', Joan being
Joan of Arc. The opening tune (Ex. 12) had at one time been
2l8 LEONETTO CIPRIANI
assaliti a pugni; alcuni furono disarmati, altri scapparono e scap-
pando seminarono le uniform! e le armi. - Arrive alia fortezza sano
e salvo, senz'aver provato ombra di emozione.
Fu un tratto di coraggio che si puo raccontare, ed in Livorno
Pho sentito raccontare io stesso con ammirazione. Ma per lui non
era nulla, perche impassibile nei piu grandi pericoli, acquistava in
essi una lucidita d'intelletto che ne faceva un uomo eccezionale.
Ho sempre pensato che se si fossero presentate le circostanze, sa-
rebbe diventato gran generale. Non si presentarono, e rimase quello
che era, commiserando le riputazioni militari usurpate che furono
la vergogna dei nostri eserciti.
Chiusa la fortezza, si occupo a metterla al sicuro da un colpo di
mano, disponendo diversi cannoni verso la via della Darsena ed il
borgo dei Cappuccini.
Dovendo poi render conto delPawenuto al ministero, scrisse un
dispaccio confidenziale e lo consegno ad un carabiniere vestito in
borghese, con un biglietto per la stazione di Pisa che lo mandasse
per treno espresso a Firenze. Ma il soldato invece di prendere lungo
le mura, come gli aveva ordinato, attraverso la citta. Fu ricono-
sciuto, fermato - e il dispaccio portato al Petracchi che lo lesse e lo
strappo senza dir nulla a nessuno, forse per riconoscenza dei cin-
quanta zecchini che gli aveva regalati, o piu probabilmente per non
intimidire il popolo-re, che si preparava a grandi imprese e al sac-
cheggio. - In quel dispaccio chiedeva di essere autorizzato a bom-
bar dare Livorno.
Distese allora un lungo rapporto, e il console americano Binda*
s'incarico di portarlo a Firenze.
II giorno, il popolo, come se aspettasse il bombardamento, ve-
niva sotto le mura e gridava ai cannonieri «siam tutti fratelli-
non fate fuoco».
Verso sera fece un giro pel forte, e trovo il servizio mal fatto.
Alia troniera poi che guarda la darsena c'era una scala appoggiata
dal di fuori, dalla quale avevano disertato tutti i cannonieri; e il
cannone che aveva ordinato di caricare a mitraglia era scarico.
Fece chiamare il capitano Ulacco e gli disse : — Lei e il respon-
sabile - dove sono i cannonieri di questo pezzo, dov'e la carica a
i. « Giuseppe Binda, lucchese, visse lungamente in Inghilterra e poi negli
Stati Uniti, dei quali fa console a Livorno dal 1841 al i86i» (Mordini).
AVVENTURE DELLA MIA VITA 219
mitraglia ? — Quel vile, insolente come tutti i vili, rispose : — O sa
lei un po' come Te? Noi non ci vogliamo far assassinate per lei.
Siamo padri di famiglia!
— Mi esca davanti e si costituisca prigioniero — e siccome 1'altro
voile replicare : — Escimi davanti, o ti butto dalla troniera. — Fuggi
e non lo vide piu.
Nella notte, vedendo di non potersi fidar di nessuno, per non
esser sorpreso - non per lui ma per la responsabilita che gli pe-
sava addosso - monto esso stesso la guardia andando dalPuna al-
Faltra delle troniere che guardano la strada.
II giorno dopo riceve la visita del Codrington,1 comandante della
fregata inglese Thetis, che gli offri Pospitalita sulla sua nave nel
caso che si decidesse a ritirarsi. Ricuso per il momento, e parlando
con lui gli disse la condotta che avevan tenute le truppe toscane.
Ed il Codrington, che era gia stato informato di tutto dal console
inglese Mac Bean,2 deplorando che un uomo di cuore avesse do-
vuto contare su tali soldati, aggiunse : — Ce ne sont pas des soldats,
ce sont des moutons plus laches que les moutons.
Nulla essendo possibile con quella truppa che si ricusava a tutto,
dovette abbandonare qualunque idea di sottomettere la citta.
Proponendo poi il bombardamento, egli aveva inteso di buttare
qualche bornba per svegliare gl'interessi materiali, e far nascere
un po' di vigor e nelle anime intimidite dei negozianti e dei proprie-
tari, il che poteva forse essere un mezzo potente per riprendere
Poflfensiva. Nelle guerre civili Pelemento militare e ben presto de-
moralizzato, ma se e appoggiato e coadiuvato da quello civile ar-
mato, si ritempra e non cede.
Ma mancandogli le braccia, e non potendo da se solo far tutto,
decise la ritirata - la truppa partendo la notte dal lazzaretto
San Rocco per la via Maremmana, e lui coi carabinieri per mare
fino alia spiaggia del Gombo.
II colonnello Reghini, desiderando salvare per quanto era possi
bile Fonore delPuniforme, perche se fra i soldati i piu si eran con-
i. « Enrico Giovanni Codrington (1808-1877), contrammiraglio nel 1857,
ammiraglio nel 1877, era figlio deirarnmiraglio Codrington, comandante
la flotta anglo-franco-russa a Navarino, e fratello del generale Codrington,
successo al Simpson nel comando dell'esercito inglese in Crimea » (Mor-
dini). 2. «Alessandro Mac Bean, console inglese a Livorno dal 1843 fino
al 27 febbraio 1883, giorno della sua morte a Roma» (Mordini).
220 LEONETTO CIPRIANI
dotti vilmente, qualcheduno ve n'era che aveva fatto e si sentiva
il coraggio di fare il suo dovere, propose di riunire in consiglio di
guerra tutti gli ufficiali e domandar loro se eran pronti ad ubbidire
ai suoi ordini e a riprendere Poffensiva.
Al sicuro nella fortezza risposero tutti di si (e potevano giurarlo,
perche sapevano che i soldati non li avrebbero seguiti. Fu una vera
commedia, alia quale Leonetto non prese parte, tanta era la ripu-
gnanza che gPispiravano). Ed affinche rimanesse traccia del loro
valor e alia posterita, vollero tutti firmare apposita dichiarazione.
Quando il Reghini gliela presento, sorrise e gli disse:— Sarei
tentato di dirgli che mi seguano tutti in citta!
— Non lo faccia, — rispose il Reghini — non ci vien nessuno.
II giorno dopo, prevenuto il Codrington, una lancia inglese lo
condusse a bordo della fregata.
Arrivato a bordo, fece chiamare il capitano Bargagli1 comandante
il vapore da guerra toscano il Giglio, ed in presenza del Codrington
gli ordino di accendere i fuochi, di mettersi a traverso della fre
gata e ricevere i carabinieri per condurli con lui e il suo stato mag-
giore al Gombo. Ma il Bargagli spaventato rispose che i marinai
avrebbero ricusato, che le barche che stavano sempre intorno al va
pore ne avrebbero dato awiso in citta ed egli si esponeva ad essere
maltrattato ; e che del resto egli non dipendeva da tuo padre, ma
dal ministero di guerra e marina.
Leonetto lo squadro da capo a piedi, e gli disse: — Scriva subito
al suo primo ufficiale di accendere i fuochi e di venire per banda alia
fregata.
- Ma ...
— Scriva, le dico!
II Bargagli si rivolse al Codrington, e gli chiese: — Cosa ne pensa,
comandante ?— II Codrington lungo lungo abbassava la testa e
sembrava riflettere, e il Bargagli, con quella imperdonabile legge-
rezza e quel poco tatto toscano che da sui nervi, gli domando dac-
capo : — Ma dunque cosa ne pensa ?
II Codrington, con i denti stretti, e alzando solo le palpebre senza
cambiare la posizione di uomo che pensa a testa bassa, e scolpendo
le parole ad una ad una rispose: — Lorsque - on - me - demande -
mon - opinion - je - reflechis - avant - de - la - donner. — Ab-
i. « Carlo Bargagli, capitano di fregata, nato a Siena nel 1803, morto nel
1858 a Livorno dove fu a lungo capitano del porto» (Mordini).
AVVENTURE DELLA MIA VITA 221
basso di nuovo gli occhi, e rialzandoli disse: — A - votre - place -
je - signer ais.
E il Bargagli firm6. E dopo si dirigeva verso la scala, ma tuo pa
dre all'orecchio gli disse: — Mi aspetti qui. — Non sapeva dove dar
colla testa: — Oh! e vero - dimenticavo - che testa! - scusi Ec-
cellenza.
£ questo il fare dei vili. Orgoglio ed insolenza finche non incon-
trano chi li fa stare umili e striscianti. - Schifosi!
II Codrington dette a bassa voce un ordine a un ufficiale, e due
lancioni furono calati in mare e si diressero tra il Giglio e la bocca
del porto. E tuo padre, che passeggiava sul ponte, capi che era una
manovra per prevenire il caso che il vapore, una volta pronto, ten-
tasse di entrare diritto nel porto. - Ma cosi non fu; il secondo1
era un isolano di poche parole ma di molti fatti, e il Giglio arrivo
per traverso alia Thetis.
II comandante inglese mando otto lance a caricare i carabinieri.
Quando furono sul Giglio, Leonetto si congedo dal Codrington.
Non lo ringrazio - una semplice stretta di mano basto perche si
capissero.
Sali sul Giglio. La mattina sbarcarono al Gombo e la sera erano a
Pisa. Tuo padre parti per Firenze ed ebbe una prima conferenza
col Capponi, che si mostro soddisfatto del suo operato, deplorando
che per ragioni indipendenti da lui non fosse riuscito. Cosi pure si
espressero gli altri ministri ed in ispecial modo il Belluomini, mi-
nistro della guerra.
La stampa di opposizione, e piu ancora quella che gia si atteg-
giava a repubblicana, si scatenarono contro di lui. Se si fossero sca-
tenate soltanto perche aveva fatto il suo dovere, le avrebbe lasciate
abbaiare, ma non poteva permettere che mentissero, travisando i
fatti. Scrisse una relazione sui fatti di Livorno e, dopo aver rice-
vuto 1'approvazione del Capponi, la fece stampare a mille copie.2
i.il secondo: il secondo ufficiale del Giglio y cui era diretto Fordine.
2. Scrisse . . . mille copie: «Narrazione dei fatti che si riferiscono alia mia
missions come Commissario straordinario nella citta di Livorno, Firenze,
Lemonnier, 1848. - Una lettera del Cipriani al principe Girolamo sui fatti
di Livorno venne pubblicata nella ri vista "II Risorgimento italiano",
1912, vi, p. 894.- Interessanti poi in proposito, e poco conosciuti, sono i
rapporti ufficiali del Codrington inseriti nel Blue book sugli affari d' Italia
dal luglio al dicembre 1848, presentato nel 1849 al parlamento inglese »
(Mordini).
222 LEONETTO CIPRIANI
I card arrabbiati, non potendo piu mordere, si chetarono. E
Leonetto lascio Firenze e raggiunse la madre nella villa di Montalto.
DA LE HAVRE A NUOVA YORK1
I vapori che traversano 1'oceano sono citta ambulanti che hanno
per monumenti da ammirarsi le potenti macchine, per passeggiate
i lunghi corridoi e il ponte, per le riunioni gli eleganti saloni, e per
gli alloggi le cabine, che in lingua povera sono armadi a due o tre
palchi, dove il passeggere e costretto a passare la notte, fortunate
quando il mal di mare non ve lo tiene inchiodato anche il giorno.
Ma a tutto si fa 1'abitudine. Per poco che in quei viaggi s'incontri
buona compagnia, specialmente riguardo al bel sesso, la vita in co-
mune diventa non solo sopportabile, ma spesso piacevole, ed il
giorno dell'arrivo non e sempre un giorno di gioia.
II primo giorno ognuno si squadra da capo a piedi per giudicare
dalla fisonomia, dai modi, dall'abito, a qual paese ed a qual classe
appartiene. Arriva Fora dei pasti - e il primo scalino delle cono-
scenze, e non solo coi vicini, perche la conversazione si fa generale,
e all'alzarsi continuando nel salone o sul ponte le conversazioni gia
cominciate, i viaggiatori, senza intenzione e senza saper perche, si
trovano riuniti in gruppi a ridere ed a scherzare. E il secondo o
terzo giorno ognuno si trova nel suo centro, anche i piu riservati,
e cio che si chiarna intimita di viaggio e un fatto compiuto.
In quel viaggio poi le donne essendo in maggioranza anglosas-
soni di sangue e di costumi, ed abituate a viaggiare sole, s'incon-
trano molte belle mogli senza il marito, e ragazze adorabili che
vanno a prenderlo, accompagnate soltanto dalla loro innocenza.
La liberta completa produce affiatamento, e da questo nascono
spesso relazioni improwise, che si precipitano al fine a causa della
vita in comune da mattina a sera, e forse anche del viaggio lirnitato
e del tempo misurato che fanno mettere in pratica il proverbio: il
tempo perso non si ritrova piu.
Tuo padre mi raccontava che in una traversata, avendo avuto
brevi ma intimi rapport! con una giovine inglese che andava a
Boston a sposarvi un cugino, ricco negoziante, le chiese poco prima
di sbarcare a quale locanda volesse andare. Lei,fredda come se non
i. Ed. cit., vol. u, cap. xxv, pp. 53-8.
AVVENTURE BELLA MIA VITA 223
Pavesse mai conosciuta, rispose: — Perche mi fate questa do-
manda?
— Per accompagnarvi.
— Oh no! dove vado io non potete andar voi.
-Perche?
— Perche da questo momento non vi conosco piu, e se v'incon-
trassi in societa, sareste per me uno sconosciuto.
Tuo padre la prese per un polso, la fece sedere sopra una panca,
e le disse:— Spiegatemi, vi prego, questo modo di agire dopo i
rapporti che abbiamo avuti insieme.
— Oh! e molto facile, ed a voi che mi avete fatto passare qualche
bel momento voglio dare una lezione che vi serva in casi simili.
Per noi donne inglesi ed americane le intimita come la vostra son
come la sete del viaggiatore che trova una sorgente ; si leva la sete,
le volta le spalle e non ci pensa piu.
Ed e proprio vero quel loro modo di fare e di sentire. In un viag-
gio da San Francisco a NuovaYork Leonetto conobbe una bella
americana in gran lutto, vedova da pochi mesi. II terzo giorno erano
strettamente legati, e lo furono fino a Nuova York. Li essa spari,
e non la vide piu.
Dieci anni dopo si trov6 con lei sullo stesso vapore da Nuova
York a Liverpool. L'accosto e le stese la mano chiamandola per
nome; lei si scanso, come se le avesse detto una grossa insolenza.
Tuo padre non si sgoment6, e profittando di una tempesta in cui
pote esserle utile, riusci presto ad ammansirla come un agnello.
Ma non voile mai convenire che era la stessa di dieci anni prima -
tanto era vera la massima della bella inglese: sorgente che mi hai
dissetato, non ti conosco piu.
Sul Vapore Arago, sul quale era imbarcato1 Leonetto, vi era fra
le altre una donna elegante, giovine e bella, dai movimenti riso-
luti, accompagnata da un uomo di mezza eta, che si vedeva bene
non esserle ne" padre ne marito ne protettore. Era la celebre
Lola Montes,2 accompagnata da un impresario che la conduceva a
Nuava York per speculare, piu che sul suo modesto talento, sulla
curiosita del pubblico americano, avido di vedere una donna che
i. era imbarcato: il Cipriani si era imbarcato a Le Havre il 19 novem-
bre 1851 insieme a Giorgio Magnani e ad un servo. Era, questo, il suo terzo
viaggio in America. 2. « Lola Montes (1820-1861), ballerina e awenturiera
irlandese, favorita del re Luigi I di Baviera, che fu costretto a scacciarla
in seguito ad una sommossa popolare » (Mordini).
224 LEONETTO CIPRIANI
aveva fatto tanto parlare di se alia corte di Baviera. Ma, saputo chi
era, Leonetto Pevito come si evita nei campi 1'ortica.
Vi era pure una celebrita europea, il celebre dittatore Kossuth1
accompagnato da uno state maggiore di profughi ungheresi, e dal
Lemmi2 di Livorno, intimo amico del Mazzini, che lo aveva pro-
babilmente messo a lato del dittatore nel tentative che il triumvi-
rato repubblicano di Londra, Kossuth, Mazzini e Ledru-Rollin3
voile fare sulla borsa americana. Senza dubbio il Lemmi, che co-
nosceva benissimo Leonetto, lo addito ai compagni come uno degli
anti-repubblicani piu accaniti della recente rivoluzione italiana,
ragione per cui lo evitarono come la peste.
A pranzo Leonetto si trovo accanto,ad una signora che era alia
diritta del capitano e per la quale il medesimo aveva riguardi spe-
ciali. Quella buona vecchia malinconica lo interesso ed il terzo
giorno era diventato il suo cavalier servente, e non vi era piccola
attenzione che non le prodigasse. Era la signora Franklin, e fino
aH'arrivo Leonetto crede che fosse una delle tante Franklin delFIn-
ghilterra. Ma all'arrivo a Nuova York seppe daU'amico Pastacaldi4
che era lady Franklin, la vedova del celebre esploratore.5
Questo piccolo episodic prova fino alia evidenza che cosa siano
le intimita che si contraggono sui vapori. Credete aver fatto la
conoscenza di una signora per bene - ed era una donna pubblica;
di un Catone - ed era un falsario, se non un galeotto liberato.
La maggioranza dei viaggiatori in quella traversata era, come ac-
cade generalmente nei viaggi da Le Havre in America, di commessi
viaggiatori francesi, di negozianti americani e di americani della
Nuova Orleans di origine francese. Se i primi sono sfacciati e ru-
morosi, lo sono maggiormente gli ultimi, ed i mercanti americani
mettendosi al diapason, la traversata diventa un baccanale conti
nue, tanto piu che si conoscono quasi tutti, sia per i loro rapporti
economici, sia per incontrarsi ogni anno sugli stessi vapori.
i. (cLuigi Kossuth (1802-1894), dittatore dell'Ungheria dall'aprile al-
Pagosto 1849)) (Mordini). 2. «Adriano Lemmi (1822-1906), patriotta ed
uomo d>affari, gran maestro della massoneria» (Mordini). 3. «Alessan-
dro Ledru-Rollin (1807-1874), uno dei capi dell'estrema sinistra francese
durante la seconda repubblica, esiliato dopo il 2 dicembre» (Mordini).
4. « Michele Pastacaldi, livornese stabilito a Nuova York, amico intimo del
Cipriani, morto nel i862» (Mordini). 5. celebre esploratore: « Giovanni
Franklin (1786-1847), ammiraglio inglese, inviato alia ricerca del passaggio
del Nord-Ovest, rimase coi compagni vittima dei ghiacci polari » (Mordini).
AVVENTURE DELLA MIA VITA 225
Un vlaggiatore che come tuo padre si trova per la prima volta
in quella torre di Babele, ne rimane stordito, e come il micio si rag-
gomitola su se stesso credendo di non essere veduto. Ma e impossi-
bile difendersi da relazioni, sia pure momentanee e senza conse-
guenze. Quattro pasti al giorno, dei quali uno solo con posto asse-
gnato, e il poter fumare soltanto in una stanza determinata, fanno
si che per amore o per forza bisogna barattare qualche parola con la
gioconda brigata. E siccome quelli che la compongono hanno buon
naso e san distinguere i ricchi ed i signori, sono per essi ossequiosis-
simi; ma mentre i francesi ed i creoli si dan per quel che sono,
gli americani con Pabito, con le forme, con i modi studiati, fan di
tutto per farsi credere quel che non sono.
In quella turba Leonetto osservo un omaccione panciuto ben
piantato, con un faccione da imperatore romano, con belle mani e bei
piedi, e sempre in giubba. - Sembrera strano a molti che tuo padre
osservasse la mano o il piede del primo venuto. Ma la mano essendo
quasi sempre la spia della condizione sociale e della professione
delle persone, e la prima cosa che un osservatore guarda. Nelle
donne poi quello che risveglia spesso rimmaginazione dell'uomo
e, piu che una bella testa, una bella mano e soprattutto un bel pie-
dino ben calzato. E Tabitudme fa si che anche squadrando un
uomo gli occhi si fermano sopra i piedi.
Quell'americano dunque aveva bei piedi, ma quel che colpi di
piu tuo padre fu il vedergli cambiare scarp e tre o quattro volte al
giorno, e qualche volta parlando con altri farsele ammirare e discu-
terne il prezzo. - Era conosciuto da tutto Pequipaggio. I came-
rieri per lui volavano - il maitre d'hotel non gli ricusava mai nulla.
Se qualcuno si lamentava, era lui che ne esponeva le lagnanze; per
le signore tutte indistintamente era poi in moto continue , e sem
pre e con tutti aveva modi distinti e decorosi. Si chiamava Mr. By
ron, e anche il nome sotto cui si pavoneggiava contribuiva a farlo
osservare.
Arrivato a Nuova York, Mr. Byron si awicino a tuo padre e gli
dette un biglietto. Credendo lo facesse per eccesso di cortesia,
Leonetto tiro fuori il portafoglio, e gli dette il suo. Poi lesse il bi-
glietto: «Mr. John Byron - Shoemaker ». Era un calzolaio!
Tra le donne vi era poi un gruppo interessante, un donnone
di forme maschili con due belle ragazzine bionde che sembravano
sorelle. Eran sempre insieme e non parlavano mai con nessuno.
226 LEONETTO CIPRIANI
Le ragazzine eran sempre vestite elegantemente, ma modesta-
mente, coi bei riccioli sciolti. La virago sempre in nero col capo
coperto da quella cuffia, che usano in campagna le americane della
classe agricola, e che somiglia molto a quella delle nostre monache;
un gran par d'occhialoni turchini e imbacuccata in una sciarpa,
dimodoche nessuno avrebbe potuto riconoscerla. Le ragazzine la
trattavano come se fosse stata la loro madre. Leonetto le sorprese
spesso a legger con lei la Bibbia; e la domenica le vide assistere
compunte aU'ufHzio divino.
Al momento delParrivo, poco dopo la mistificazione del calzolaio,
la virago in gran toilette, con un cappellone a penne e le due ragazze
una a dritta e 1'altra a sinistra, si awicino a Leonetto, ed ex abrupto,
voltando la testa a dritta ed a sinistra, gli dice : — Miss Kate - Miss
Peg— gli pianta in mano un biglietto e gli volta le spalle.
Leonetto stordito si volta a Pastacaldi e lo vede reggersi la pan-
cia dalle risa. Mistificato piu che mai, guarda il biglietto, e legge
« Madame Helena Washington - Pension de demoiselles - via tale,
numero tale».
Cosa fossero lei e loro e facile a capirsi. I commessi viaggiatori
americani vanno in Francia e in Inghilterra a raccogliere campioni
per invogliare i compratori paesani. Le commesse viaggiatrici ame
ricane vanno in Inghilterra a prowedersi esse stesse della mercan-
zia che alimenta il loro commercio, e purche sia bella e fresca, la
pagano a caro prezzo ai genitori bisognosi che la vendono, e la con-
segnano ad una virago che per pudore e presentata come una ricca
zia vedova senza figli che desidera adottare le piu belle ragazze
della famiglia per maritarle in America.
L'uomo che viaggia per dire che ha viaggiato, senza rendersi
conto di cio che ha veduto, e un baule che torna come e partito.
I viaggi debbono essere uno studio continuo di osservazione delle
cose e degli uomini; ed e cosi che dai viaggi si ritrae un insegna-
mento utile a se stesso, e, per quelli che son destinati alia vita pub-
blica, utile alia generalita, poiche si giovano delle osservazioni fatte
e dell'esperienza acquistata.
£ per questa ragione che tuo padre si lascia trascorrere di quando
in quando a raccontare impressioni ed episodi che al primo aspetto
possono sembrare intempestivi, ma che in realta, dando un'idea
severa ma imparziale di carattere e di costumi, potranno interes-
sare te ed altri, se questi racconti vedranno la luce.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 22y
DA NUOVA YORK A CHAGRES1
Una volta arrivato a Nuova York, le informazioni avute dal Pasta-
caldi e da altri sulla California furono maravigliose per il favoloso
movirnento di affari, e per la sua inesauribile ricchezza minerale,
ma spaventose per il costo della vita. Questo fece si che tuo padre si
trattenesse a Nuova York piu di quello che aveva progettato, per
dar tempo alia Distruzione2 di arrivare, e con quella aver subito a
San Francisco alloggio e personale pronti. Finalmente nel gen-
naio 1852 parti sul vapore Georgia per Pistmo di Panama.
Benche nei due anni da che era stata scoperta la ricchezza aurife-
ra della California, vi avessero emigrato dalla sola America duecen-
tomila persone, pure 1'afHuenza di coloro che vi si recavano era
sempre grande, ed era rara la traversata dove non vi fossero a bordo
piu di mille passeggeri, i due terzi dei quali di terza classe.
II Georgia era un vapore di quattromila tonnellate, ma per
grande che fosse, non era facile trasportare millecinquecento pas
seggeri, sia pure stretti come sardine, e le prowiste necessarie per
un viaggio di ventiquattro giorni tra 1'andata e il ritorno. E il
momento dell'imbarco fu qualcosa da far scappare uno che non
fosse determinate ad andare avanti ad ogrd costo.
Per quante precauzioni fossero prese per evitare ingombro e
disordine, Pingombro e il disordine erano al sommo grado. Dal
ponte quattro passatoi3 erano appoggiati allo scalo, uno per classe
e 1'ultimo pei bagagli. Ad ognuno stavan di guardia due robusti
marinai, che lasciavan passare solo chi ne aveva il diritto e caccia-
vano via gli altri a spintoni da farli traballare. Per evitare d'ingom-
brare il vapore, non era permesso portar con se che una piccola
valigia, e bauli, casse e sacchi venivan buttati nella stiva come balle
di fieno, e se andavano in pezzi, peggio per chi non era stato pre-
venuto del modo brutale, ma forse il solo possibile, d'imbarcare
se e la sua roba.
Ma lo spettacolo piu drammatico era al passatoio della terza
i. Ed. cit., vol. n, cap. xxvi, pp. 59-64. 2. Distrusione: il piroscafo sul
quale si erano imbarcati a Geneva tre compagni del Cipriani, che parteci-
pavano a questa sua spedizione in America. Avrebbero portato, tra Taltro
bagaglio, una casa in legno precostruita e smontata in milleduecento pezzi,
ricomponibili con settecento grappe e ventiseimila viti. Questa costruzione
era stata ideata dal Cipriani. 3. passatoi: passerelle.
228 LEONETTO CIPRIANI
classe, dove oltre ai marinai vi era una dozzina di agenti di polizia
pronti ad intervenire. Arrivavano quelle turbe di uomini, donne e
ragazzi, stracciati, scamiciati, i piu briachi. Se avevano in mano il
loro biglietto, una spinta, e salivano - se lo cercavano in tasca,
una spinta , e fuori per dar posto agli altri - se qualcuno voleva
accompagnare sul vapore un parente, un amico, una spinta, e via.
E mentre passeggeri, amici, parenti e curiosi gridavan tutti come
energumeni, i marinai avevan la bocca murata. Le loro parole erano
spinte, nulPaltro che spinte; ed anche per il bagaglio di troppo,
non dicevano neanche « lasciatelo », perche il dirlo portava alia
discussione, ma lo strappavan di mano e lo buttavano via.
La partenza era fissata per le undici di mattina. Un quarto d'ora
prima sona la campana e fischia il vapore - e Tawiso di sgombrare
il bordo per chi non parte. Allora si che la confusione prende pro-
porzioni inverosimili! Gli uni si affrettano a scendere, mentre i
passeggeri arrivati in ritardo temendo non essere in tempo, si
precipitano per salire, formando cosi nei passatoi due correnti op-
poste che si urtano e si spingono, e le donne spesso anche belle e
ricche gridano scapigliate come furie infernali. Un ultimo fischio -
la macchina comincia a mettersi in moto - si ritirano i passatoi - e
finalmente il gigantesco cetaceo si allontana lentamente tra le grida
universali, mentre quelli che non sono arrivati a tempo rimangono
con un naso lungo come quello del Paganini.1
Intanto i camerieri, meno bestiali dei marinai, accompagnano i
viaggiatori alle loro celle e danno loro le indicazioni necessarie.
Ognuno, data un'occhiata a quelle catacombe e deposta la sua roba,
sale sul ponte. Spariscono a poco a poco le rive del flume2 che si al-
larga alia foce, e un moto ondulatorio annunzia che dal regno delle
acque dolci si entra in quello delle acque salse. Quando il mare e
calmo, la differenza e poco sensibile, ma quando e grosso, in un
batter d'occhio la meta dei passeggeri sparisce ingolfandosi nei
corridoi, ognuno cercando in fretta la sua cabina per buttarsi sul
letto.
Ma 1'arrivarci, per quelli che hanno le cuccette superiori, e un'im-
presa tutt'altro che facile. E col mal di mare, guai per chi sta sotto.
6 vero pero che nei mal comune raramente ci son dispute. Ognuno
si difende come pu6 dalle innaffiature sgradite - ma ognuno ca-
i. Paganini: vedi la nota 2 a p. 1 60. 2. le rive delfiume: il fiume Hudson
o North River, sulle cui rive sorge New York.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 22Q
pisce che cio che segue e forza maggiore, contro la quale non si puo
resistere; e il torpore poi prodotto dal mal di mare neutralizza la
collera piu feroce. £ difficile poi che uno non soffra, perche in
tutti i vapori si respira piu o meno un'aria viziata che rivolta lo sto-
maco, e quando vi si aggiunge il puzzo di vomito, meno male an-
cora nell'inverno, ma nell' estate e qualcosa da levar di corpo le
budella.
Come ti ho detto, tuo padre era accompagnato da Giorgio Ma-
gnani1 e da un servitore. Avevano avuto per loro una cabina in-
tera, pagando solo due posti e mezzo (1250 scudi), col patto che il
servitore dormisse con loro e mangiasse coi servi.
Leonetto ha sofferto terribilmente del mal di mare fino ad una
certa eta. Ma dopo i trentacinque anni, sia Pabitudine, sia un'altra
ragione, non soffriva piii che nelle grandi tempeste, e solo come sof-
frono molti marinari di professione, cioe potendo far tutto quello
che vogliono.
Non cosi il Magnani, che dal primo momento divento un sacco
di stracci. Con gran difficolta Leonetto riusci a strascinare quel
voluminoso corpaccio nella cabina e a rotolarlo nella cuccetta piu
bassa, dove fece di tutto per tre giorni senza che fosse possibile
smuoverlo. II terzo giorno, il mare essendo calmo, lo spoglio but-
tando in mare tutti i suoi vestiti, lo condusse al bagno e di la sul
ponte, mentre i camerieri portavan via materasse, lenzuoli e coper-
te divenuti un monte di sugo, e ripulivano e fumigavano la cabina.
Intanto Leonetto aveva fatto amicizia col capitano del vapore, il
signor Porter, tenente nella marina americana, che simpatizzando
con lui anche per 1'odio comune contro 1' Austria, lo colmo di
cortesie, mettendolo a tavola alia sua diritta e offrendogli il libero
accesso nella sua cabina sul ponte, eccezione invidiata da tutti.
II quinto giorno arrivarono all'Avana, porto e capitale dell'isola
di Cuba, ove dovevano fare scalo per rinnovare le prowiste di car-
bone e di acqua.
i. Giorgio Magnani. . . servitore: in un capitolo precedente delle Avventure
(vol. n, cap. xxm, p. 43) si dice di lui che era « ricco e giovine scapestrato
al quale tuo padre s'interesso per cercare di fame qualcosa, lontano dalle
occasioni che gli facevano sciupare gioventu e fortuna ». A p. 67 del volume
II, in nota, il Mordini informa che « Giorgio Magnani, di Agostino e di Ca
milla Lucchesini, nato a Pescia il 20 luglio 1826*, rnori «a Firenze il 4
agosto 1879, dopo aver dissipato in bagordi e stravizi il vistosissimo patri-
monio ereditato dal padre ». II servo che accompagnava il Cipriani si
chiamava Gostxx
230 LEONETTO CIPRIANI
Leonetto aveva per il governatore Pepe Concha1 una lettera di
raccomandazione del suo intimo amico Gomez.2 Gliela mando, e
un'ora dopo riceve un gentile invito di scendere a palazzo.
I tre fratelli Concha alia caduta di Maria Cristina3 erano stati
esiliati e si erano rifugiati in Toscana, raccomandati a Giuseppe
Gomez, gia stabilito in Livorno da dieci anni. Da lui Leonetto li
aveva conosciuti, e simpatizzando molto col generale Pepe,4 nel-
Tmverno del 1843 lo condusse a passare due mesi a caccia nella sua
tenuta in Maremma. Otto anni dopo, ritrovandolo capitano gene-
rale all'Avana, e facile capire come il generale fosse lieto di ricam-
biargli le gentilezze avute quando era emigrate. Lo accolse con tutti
gli onori, e per due giorni non furono die pranzi e feste.
II resto del viaggio fino a Chagres fu una deliziosa passeggiata,
tanto piu che durante la traversata Leonetto aveva fatto diverse
conoscenze.
Fra queste vi era una ricchissima famiglia americana, composta
dei genitori e di un'unica figlia di venti anni, bellissima di viso,
ma somigliante per le forme ad una corpulenta baccante di Rubens.
Era istruitissima, ma essendo erede di una immensa fortuna, aveva
avuto una pessima direzione morale; era oltremodo superba, e
guardava dall'alto dei suoi milioni il resto del genere umano, come
Giove guardava i miseri mortali ; e malgrado il desiderio dei geni
tori, non aveva trovato ancora chi credesse degno di essere suo ma-
rito, ideale che nelle lunghe conversazioni avute con tuo padre
descriveva da capo a piedi cosi al fisico che al morale, con una li-
berta di pensiero e di espressione che mal si addiceva a giovane
donna.
Venti anni fa Leonetto era sempre giovine e bell'uomo. Le cor-
tesie usategli dal capitano Porter e piu dal Governatore, fecero
nascere in lei il desiderio di conoscerlo piu da vicino - e qual fu
i. Pepe Concha: «I1 generale Giuseppe (Beppe) della Concha, marchese
delTAvana (1812-1895), fu governatore di Cuba dal 1849 al 1852, dal 1854
al 1856 e dal 1872 al 1875, ambasciatore a Parigi, ministro e presidente
del Senato. Suo fratello primogenito, il generale Emanuele, marchese del
Duero (1808-1874), fu ucciso alia battaglia di Muro, ove comandava Teser-
cito opposto ai carlisti» (Mordini). 2. « Giuseppe Valeriano Gomez, con
sole generale di Spagna a Genova dal 1849 al 1855, morto a Nizza nel mar-
zo i86o» (Mordini). 3. alia caduta di Maria Cristina: Maria Cristina di
Borbone (1829-1878), moglie di Ferdinando VII re di Spagna, alia cui
morte (1833) divenne reggente del trono per la figlia Isabella. Fu cacciata
dal regno nel 1854. 4. II generale Pepe Concha, di cui alia nota i.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 231
la sua sorpresa, mentre era dal Concha, di ricevere dalla bella Giu-
none un biglietto, nel quale lo invitava a passare tre mesi in campa-
gna con lei! Capi finalmente trattarsi di una commedia che spesso
finisce con un matrimonio o con delle bastonate, come nelle nozze
di Pulcinella. Chiese consigHo al generale, e questo gli rispose laco-
nicamente: — Mejor es que Usted vaya a ahogarse.1
Segui il consiglio. - Dodici anni dopo, andando da Le Havre
a Nuova York, vide nel vapore una donna enorme che sembrava
avere sessant'anni. Gli parve di riconoscerla, ma non riusciva a ri-
cordarsi chi fosse, e le informazioni poco lusinghiere avute sul
suo conto non gli diedero nessuna indicazione in proposito,
Diversi giorni dopo si accorse che quella foca terrestre lo guar-
dava fisso. Si senti venir freddo, e in un lampo riconobbe la gio-
vine americana che aveva conosciuta sul Georgia. Lei gli si awi-
cino e con molta sfrontatezza gli disse : — Non siete voi un italiano
che ho conosciuto molti anni fa andando all'Avana?
— Si - ed ora riconosco voi pure.
Con un crescendo di sfrontatezza gli prese le mani e stringendo-
gliele forte esclamo : — Oh! mon cher ami, que je suis heureuse de
vous rencontrer! Quel malheur que vous nous ayez quittes a la
Havane!
E si mise a piangere. Leonetto le chiese le nuove dei suoi geni-
tori. — Ils-sont morts a temps. - Mais je vous raconterai mon hi-
stoire a terre - ici il y a trop de monde. A quel hotel descendez-
vous?
— Au New York hotel.
— C'est bien, j'y descendrai aussi. Oh! mon cher ami, que je suis
heureuse de vous avoir rencontre! C'est peut-etre la Providence qui
vous a dirige vers moi!
Leonetto non capiva nulla a quelle tenerezze. Ma la sua fisono-
mia di donna consunta dal vizio, la sua esaltazione, e le informa
zioni avute gli davano un senso di ribrezzo.
Arrivati a Nuova York venne come al solito a prenderlo a bordo
Pamico Pastacaldi, che accortosi della conoscenza, gli disse: —
Ma che conosci quel demonio?
Leonetto gli racconto tutto, e gli chiese informazioni. E il Pasta
caldi rispose : — La voce pubblica 1'accusa di avere assassinato tre
mariti. Per il primo a forza di denaro la cosa fu abbuiata all' Avana.
i . « £ meglio che Lei vada ad affogarsi. »
232 LEONETTO CIPRIANI
Per il secondo fu processata, ma assolta per mancanza di prove.
II terzo marito e sparito e non si e mai potuto sapere quel che ne sia
stato. E quel che e peggio, e anche sospettata d'infanticidio. Era
poi ricchissima, ed ora e ridotta a vivere di stoccate. Dammi retta,
vieni da me e domani parti subito per Baltimora.
E cosi fu fatto.
L'esperienza insegna molto, ma non insegna mai abbastanza.
£ tristo il dirlo, ma e pur vero e necessario, diffidare, diffidare
sempre di tutto e di tutti e il solo modo di difendersi da tutto e da
tutti.
Un altro episodio curioso successo in quel viaggio e il seguente.
Vi erano a bordo tre signore, due di una certa eta, e una giovanis-
sima, di quindici anni al piu con i capelli sulle spalle. Erano belle,
distinte, e modeste - gli avresti dato la comunione senza confes-
sione. Nessuno le conosceva.
Una sera, dopo PAvana, mentre prendeva il fresco sul ponte,
Leonetto se ne trovo una accanto. Le cadde il fazzoletto, glielo
raccolse, ed essa gli disse: — Merci.
— Vous parlez fran9ais ?
— Oui, Monsieur, mon pere est fran9ais.
— Vous allez en Calif ornie ?
— Oui, Monsieur.
— Et les dames qui sont avec vous aussi?
— Oui, Monsieur. Monsieur est fran9ais?
— Non, je suis italien, et je vais en Californie comme consul de
Sardaigne.1
— J'en suis charmee. Vous aurez pour collegues mon mari qui
est consul de Suisse, et le mari de mon amie qui est consul de
Prusse.
La conoscenza era fatta. Le mogli dei collegia son colleghe, e in
pochi giorni furono intimi, intimita pero riservata, e con tutte le
forme del piu gran rispetto. - Seguitando il viaggio sapremo cosa
fossero le consolesse.
i. comme consul de Sardaigne: nel capitolo xxin delle Avventure (vol. n,
p. 38) e narrate che per desiderio di Massimo d'Azeglio il Cipriani aveva
accettato la nomina a console sardo in California. II decreto di nomina fu
fatto in data 10 settembre 1850, come annota il Mordini.
AVVENTURE BELLA MIA VITA 233
DA CHAGRES A PANAMA E SAN FRANCISCO1
Sbarcato a Chagres, piccola citta della Repubblica di Granada2
airimboccatura del fiume omonimo, Leonetto ando subito a ve-
dere quali erano i mezzi di trasporto per risalire il fiume. Non c'era
che un cattivo vapore che doveva rimorchiare delle chiatte senza
tende, con quanti passeggeri potevano contenere, messi su pancac-
ce in fila, come nelle chiese, e stretti come sardine.
Ne rimase spaventato. Torno al villaggio - e mentre stava con-
trattando con dei mori abitanti del luogo, che gli offrivano di tra-
sportarlo in una buona piroga ma chiedendo un prezzo esagerato,
gli si awicino un uomo di fisonomia simpatica, evidentemente eu-
ropeo, che sentendo il Magnani parlare italiano, esclamo : — Ma
loro sono italiani?
— Sissignore.
— Vanno in California ?
— Sissignore.
— Mi fa grazia del suo nome ?
— Sono il colonnello Cipriani, console sardo in California.
— Son piemontese anch'io. Abbia la compiacenza di venire a
casa mia.
La sua casa, in confronto delle misere capanne che la circonda-
vano, era una reggia. Era un quadrato a terreno in legno, circondato
da balconi, e in mezzo ad un gran giardino di aranci e palme, con
un gran magazzino, una spezieria, camera e salotto decenti e
comodi.
L'italiano prowidenza di Chagres era il dottor Donalisio, di
Alessandria, che cumulava in quel paese le profession! di nego-
ziante, medico, chirurgo e speziale. In un'ora fece allestire un ec-
cellente pranzo, con buoni vini e squisita cioccolata; e quando Leo
netto lo prego di trovargli una buona piroga per rimontare il fiume,
rispose come se fosse una cosa naturale : — 6 tutto pronto, e domat-
tina allo spuntar del giorno partiranno. La piroga e mia; ai quattro
mori arrivati a Cruces dara dieci scudi a ciascuno. Ecco una lettera
i. Ed. cit., vol. n, cap. xxvii, pp. 65-71. 2. Repubblica di Granada: No
va Granada, o Repubblica di Colombia. La citta di Chagres, o Chargres,
alVimboccatura del fiume omonimo, dal 1 903 entro a far parte della Repub
blica di Panama. Questa parte del viaggio del Cipriani si svolge nella zona
dove fu poi aperto il canale di Panama.
234 LEONETTO CIPRIANI
per il mio corrispondente di Cruces, che le dara le mule per prose-
guire fino a Panama. II prezzo e fissato dieci scudi Tuna. A Pa
nama e probabile che non si fermino, ma nel caso eccole un'altra
lettera per il padrone della locanda La Pace. 6 piemontese, amico
mio, e fara per lei tutto quello che le puo occorrere.
Fra gl'incarichi dati a Leonetto dal governo piemontese vi era
quello di nominare prowisoriamente degli agenti consolari ove lo
avesse creduto utile agl'interessi nazionali. Essendovi gia alcuni
italiani a Chagres, e piu a Panama e nei dintorni, la prima nomina
fu quella del Donalisio, che in seguito fu promosso al grado di con
sole generale, e decorato.
La mattina dopo si misero in viaggio, inalberando alia poppa
della grande e comoda piroga la bandiera italiana, la prima che sven-
tolasse sulPistmo di Panama.
Erano sedici anni che Leonetto mancava dalP America, e quan-
tunque avesse sempre presente la prodigiosa vegetazione del tro-
pico, le sponde del flume e il canto e la varieta degli uccelli lo en-
tusiasmarono, rammentandogli gli anni felici della prima gioventu
passata alle Antille.1
La processione delle chiatte con un migliaio e piu di passeggeri
era partita la sera innanzi, ma le acque essendo basse in quella sta-
gione, ora il rimorchiatore, ora una delle chiatte che serpeggiando
lo seguivano, faceva fondo, dimodoche tutta la notte e il giorno dopo
fu un battagliare continue andando avanti a spinte. Questo fece si
che verso le due pomeridiane Leonetto incontro quelPinfelice con-
voglio arenato, con tutti i passeggeri sbarcati, per permettere alia
flottiglia alleggerita di passare le secche, mentre la bella piroga
bene armata e ben diretta risaliva facilmente il flume. Leonetto
che capiva come il confronto doveva irritare quei disgraziati, ordino
di far forza di remi per lasciarli indietro. Quando ad un tratto si
senti chiamare: — Colonel! colonel! — , si volto, e vide sulla riva le
due consolesse e la giovinetta che passava per nipote di quella di
Prussia, che gli dissero: — Si muor di fame - avete nulla da darci ?
Approdo - le fece entrare nella piroga - e mentre divoravano, da
un gruppo di americani di terza classe che si erano fermati a guar-
darli, si alzo una voce che chiamava— Joan, Joan! — A quel nome
i. gli anni . . . Antille: il Cipriani, nel suo primo viaggio in America, dal
1831 al 1834, era stato nelle Antille, dove, a Trinita, il padre aveva forti
interessi commercial!.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 235
Leonetto vide la consolessa di Prussia che alzava la testa, ma un
feroce sguardo di quella di Svizzera gliela fece subito abbassare.
L'americano continue a chiamare— Joan, Joan ! — e poiche nessu-
no rispondeva, prese una manata di ghiaia e la scagH6 sulla piroga.
L'insulto era grave e intollerabile per tutti; ma quello che phi
feri Tamor proprio di Leonetto fu Pinsulto alia bandiera. Aveva un
fucile sotto la mano, si alzo, lo imbraccio — ma la consolessa sviz-
zera, pronta quanto lui, con un rovescio di sotto, alzo le canne e il
colpo parti in aria.
Leonetto ordino subito ai marinai di far forza di remi per arri-
vare alPaltra sponda, prevedendo un assalto di quei cannibali.
Ma invece per fortuna prevalse la ragione, e i compagni presero
a pugni Timprudente che aveva lanciato la ghiaia, gridando : —
£ briaco - scusate, scusate!
In quelPepoca Leonetto conosceva poco il carattere americano;
ma dopo la lunga esperienza acquistata in quindici anni di rapporti
avuticonloro, diceva:— Se fossi stato per essi uno sconosciuto, sarei
stato massacrato, avessi avuto pure mille ragioni. Cio che mi salvo
furono i precedent! - il capitano Porter1 e il capitano generale di
Cuba.2
Riportate le tre signore sulla sponda destra, seguito ii suo viaggio.
Non essendo possibile navigare la notte in quel flume a causa degli
scogli e dei rapidi, scelse un bel sito deserto, ove fu piantato il bi-
vacco, e fatta un'eccellente cena colle prowiste avute dal Donalisio.
Dopo cena Leonetto chiamo in disparte Giorgio Magnani. fe
necessario dir tutto in una volta cosa fosse quest'individuo, e come
si conducesse durante il viaggio, anticipando, per lui soltanto, il se
guito per non parlarne piu.
Ricchissimo, e col padre morto poco dopo la sua nascita, era
stato educato dalla madre, che debole ed imbevuta della falsa mas-
sima che la ricchezza e tutto in questo mondo, ne aveva fatto un
asino, orgoglioso, insolente, crudele con i sottoposti e per conse-
guenza vile con quelli che la sua baldanza non intimidiva. Come mai
Leonetto si fosse appiccicato un essere cosi disprezzabile, e stato
detto3 - ma fu soltanto durante il viaggio che ebbe la certezza di
quel che fosse realmente.
Passando sopra alle stravaganze ed alia vita scandalosa di lui a
i. il capitano Porter: vedi p. 229. 2. il capitano . . . Cuba: cioe, Pepe Con
cha; vedi la nota i a p. 230. 3. come . . . stato detto: vedi la nota a p. 229.
236 LEONETTO CIPRIANI
Parigi, a Londra ed a Nuova York, vi era sul Georgia fra i passeg-
geri un giovine inglese, giocatore, scialacquatore, briacone, che
si era fatto scacciare da tutti i collegi e dalla marina per i suoi
cattivi istinti e le sue perverse abitudini. II padre come ultimo tenta
tive gli faceva fare un viaggio di diversi anni, accompagnato da un
vecchio precettore. Avevano visitato tutti gli Stati Uniti e si erano
incontrati sul Georgia per recarsi nelle repubbliche del Sud. La
mala erba fa presto amicizia. Giorgio ed il giovine inglese si annu-
sarono, e furono presto intimi, passando il loro tempo a bere ed a
giuocare. Leonetto trovando diverse volte il Magnani briaco, lo
ammoni prima dolcemente e poi sever amente, minacciandolo di
scrivere in Italia la sua vergognosa condotta, sola minaccia che
faceva su di lui un qualche effetto.
Una sera il vecchio precettore, col quale tuo padre passava vo-
lentieri qualche momento, perche era un uomo distinto ed istruito,
gli disser — II Magnani mi ha incaricato dirvi che non intende
star piu con voi, e vi manda questa lettera perche gli restituiate le
sue lettere di credito ed il suo passaporto. Arrivati a Panama, con-
tinuera il viaggio con noi.
Leonetto freddamente rispose : — Voi siete il mentore pagato del
vostro allievo - io lo sono volontario del giovine Magnani. - Che
cosa direste se fossi stato incaricato dal primo di dire a voi quello
che voi dite a me ?
Un francese, un italiano, uno spagnuolo, si sarebbero ofTesi di
questa lezione severa, benche data con termini cortesi, e probabil-
mente gli avrebbero risposto senza riflettere. Ma gli anglosassoni
hanno sulla razza latina la gran superiorita del sangue freddo e della
riflessione. II vecchio inglese abbasso la testa, stette un poco a pen-
sare, e disse come parlando a se stesso: — I am stupid! — E poi,
rivolgendosi a Leonetto in cattivo francese : — Je vo demande par
don -je etre stupide-vo avoir raison!1
Leonetto ando in cerca del Magnani. Lo trovo nella cabina del-
Pinglese che giocavano a carte accanto ad una bottiglia di rum
ammezzata.
Con un to no da intimidire ben altri che quel pecorone, gli chiese :
— Sei tu che hai scritto questa lettera ?
— Si - gua - scusa - credevo . . .
i. La frase rispecchia le sgrammaticature di uno straniero.
AVVENTURE DELLA MIA VITA 237
— Vieni subito nella nostra cabina.
— O se volessi star qui?
Per risposta lo prese per un braccio, gli fece fare mezzo giro e con
una manata se lo spinse innanzi. Intanto Tinglese, ben lontano dal
prendere le sue parti, vedutolo cosi disfatto, dette in una gran ri-
sata, e duro a ridere finche lo vide fra gli artigli di Leonetto.
Arrivati nella cabina, lo mando con una spinta sul sofa, e la chiuse
a chiave. Informo poi di tutto il capitano, che approvo, e disse:
— Se fa il cattivo, minacciatelo di metterlo ai ferri. Intanto pre-
verro i camerieri che non entrino a far la cabina senza avvisarvi.
Per due giorni stette zitto e cheto. Ma la sera, mentre Leonetto
era a pranzo, fu awertito che urlava e cercava di sfondare la porta.
Ando, apri, ed ordino al cameriere: — Andate dal capitano, e di-
tegli da parte mia che mandi il custode della prigione per mettere
ai ferri il signore.
Impallidire - buttarsi in ginocchio - e stringer e le gambe di
Leonetto chiedendogli scusa, fu tutt'uno. E Leonetto, che non vo-
leva dawero essere con lui rigoroso e crudele, gli disse, come si dice
ai ragazzi: — Se sarai buono io saro buono con te. - Alzati, vestiti
e vieni a pranzo. Ma rammentatelo bene - guai se mi fai la se-
conda.
La lezione fece il suo effetto, e per diversi giorni non diede piu
motivo a lagnanze, occupandosi anche con zelo, allo sbarco a Cha-
gres, delle molte cosarelle che in viaggio bisogna far da se.
Rimontando il flume, tuo padre cercava di svegliare la sua intelli-
genza e la sua immaginazione facendogli ammirare la vegetazione,
insegnandogli i nomi delle piante e degli uccelli, e raccontandogli
i suoi primi viaggi ed il profitto ricavatone. Ascoltava, ma si vedeva
bene che era fiato sprecato.- Intelligenza apatica, e d'istinti bestiali,
non sentiva e non sapeva altro che quello che solleticava material-
mente il suo corpaccio.
Al momento in cui fu lanciato il pugno di ghiaia sulla piroga,
vi erano a poppa tre fucili carichi, e mentre tuo padre dava di mano
ad uno ed il servitore faceva altrettanto, sapete cosa faceva il Ma-
gnani? Si sdraio lungo disteso sulla piroga, e quando si alzo, lui
sempre rubicondo, era pallido come un morto. E la signora sviz-
zera che aveva la lingua lunga, esclamo : — Voila un defenseur de la
patrie!
Leonetto non disse nulla, ma ne rimase stomacato, e si riservo
238 LEONETTO CIPRIANI
di farglielo sentire in un altro momenta. II momenta era arrivato -
e nel silenzio della notte in quel sito deserto gli disse : — A bordo
della Georgia hai voluto fare il gradasso credendo trovare appoggio
in uno straniero. Sulla piroga hai provato che sei un vigliacco.
Ne convieni?
— Si, ne convengo - ho avuto paura. Sono un porcone.
Per il resto del viaggio sino a San Francisco non ci fu nulla da
dire. Ma dopo pochi giorni dalParrivo, poiche spendeva piu di
quello che poteva, e tuo padre, come doveva, lo teneva a corto di
denari, fini col mettersi sotto la protezione - ve lo do a indovinare
in mille - del console austriaco! - E tuo padre, stanco di avere in-
torno a se uno che non aveva ombra di onore ne di pudore, lo ab-
bandono alia malora e non lo vide piu.
Passata una fresca notte al bivacco, partirono la mattina e verso
mezzogiorno arrivarono a Cruces. Ripartirono subito a cavallo per
Panama, viaggiando tutta la notte, e vi giunsero all'alba, scendendo
alia locanda indicata dal Donalisio.
II giorno dopo arrivarono i primi passeggeri, e loro pure scesero
alia locanda aspettando gli altri ed il convoglio dei bagagli e delle
mercanzie che non potevano esservi prima deirindomani.
Nelle ore calde, mentre Leonetto stava facendo la siesta, senti
delle grandi risate nella stanza accanto. Annoiato si alzo, ed awi-
cinandosi alia porta chiusa che metteva in comunicazione le due
camere, conobbe le voci delle consolesse, e grida ed espressioni
tutt' altro che di consolesse.
Mise Pocchio ai buco della chiave e vide le tre, scapigliate e nude
come pesci sullo stesso letto, che correvano una dietro 1'altra a
quattro zampe, ridendo e bestemmiando come usseri briachi. Capi
allora tutto. - Le consolesse erano due famose cortigiane di Nuova
York, che andavano a portare in California Telemento che piu vi
mancava.
II resto del viaggio fu piacevolissimo, grazie alia raccomanda-
zione del Porter per il capitano del Golden Gate, che era uno dei
rari americani che possano chiamarsi gentiluomini.
Arrivati a San Francisco, era gia notte quando scesero a terra,
ed il capitano consiglio Leonetto a pernottare sul vapore. Ma la gran
curiosita di vedere la citta lo invoglio a far prima una passeggiata
accompagnato da una guida.
Passando davanti a una trattoria, che aveva fra le altre cose molta
AVVENTURE DELLA MIA VITA 239
selvaggina del paese, tra cui cervo e orso, furono tentati di festeg-
giare il felice arrive con delle costolette d'orso.
Entrarono - era un gran salone con piu di cento tavolini -
presero posto (erano quattro: Leonetto, Magnani, la guida e il
servo).
II filetto d'orso al Madera era squisito - i fagiani dell' Oregon1
deliziosi - i vini di Francia e una bottiglia di champagne prelibati.
II conto - sessanta dollari!
Leonetto pago. Ma Dio sa le riflessioni che fece tornando a bordo
- e nella notte svoltolandosi nel duro letto pensava ai sessanta
scudi, e almanaccava sul modo di vivere in quella voragine senza
rovinarsi in otto giorni.
L'ARRIVO A SAN FRANCISCO
LA CALIFORNIA2
La mattina dopo Leonetto ando in giro per la citta cercando una
locanda ove potesse stare al coperto e mangiare con spesa relativa-
mente sopportabile.
Nelle locande americane 1'alloggio col vitto costava trenta scudi
al giorno, e quindici per il servo. Fuggi come da un appestato, e si
fece condurre ad una locanda italiana, indicatagli dal cocchiere,
tenuta da un certo Martin di origine genovese.
II proverbio dice che un genovese e un ebreo con dieci pelli di
giudeo. Ma, rifletteva Leonetto, « annunziandomi come il console
generale di Sardegna, il Martin ci pensera bene prima di scorticar-
mi, perche potrebbe temere di cadere un giorno nelle mie mani e
che io gli facessi altrettanto - e del resto potra anche credermi ge
novese, e i lupi non si mangiano fra di loro ».
Per6 Leonetto confessava poi che in tutti i rapporti avuti in
California con genovesi, questi dal primo fino all'ultimo diedero
la piu solenne smentita alia rapacita che si attribuisce loro. II
Martin poi gli diede buone camere e li tratt6 splendidamente alia
trattoria della locanda per un prezzo relativamente minimo, venti
scudi al giorno per loro tre, tutto compreso.
II giorno dopo port6 una lettera di raccomandazione del barone
i. II paese delTOregott, confinante con la California, gia dal 1819 possesso
degli American!, divenne nel 1859 uno dei « territori» che compongono gli
Stati Uniti. 2. Ed. cit., vol. II, cap. xxvm, pp. 73-7.
240 LEONETTO CIPRIANI
Brenier1 al signer Dillon, console di Francia, e ne fu accolto con
graridissima cordialita. Tomato alia locanda, trovo ad aspettarlo
il signor Gover, console generale d'Austria, e i signori Nicola
Lauro ed Ottavio Cipriani.
II Gover gli si presento non tanto come collega quanto come in-
glese nato a Livorno, intimo dei Bartolommei e conoscente vita e
miracoli di tuo padre. Gli amici degli amici sono amici. Come tale
Leonetto gli strinse la mano, ma come console non mise mai piede
in casa sua, ragione per cui non si videro piu.
Nicola Lauro era il piu ricco negoziante italiano della citta -
uomo alia buona, ma franco e tutto cuore. Ottavio Cipriani era il
figlio unico del primogenito di Francesco Cipriani, fratello del pa
dre di Leonetto. Entrambi sono stati nello stesso tempo la prowi-
denza e la causa della cattiva fortuna di tuo padre in California.
Non vi furono cortesie e cordialita che non gli prodigassero ; ma
d'altra parte, e pensando far bene, lo dissuasero dal suo progetto di
comprar terreni a scopo di speculazione, impedendogli cosi di ac-
cumulare in pochi anni un'immensa fortuna.
La California fu scoperta nel 1542 dal portoghese Cabrillo, che
ne prese possesso per la Spagna. Fu. per molto tempo un possesso
nominale, perche, lontana dalle altre colonie spagnuole, non of-
friva nessun profitto alia madre patria, e percio, a differenza del
resto del continente americano, le numerose tribu indiane che Tabi-
tavano continuarono a vivere felici lontane dalla civilizzazione spa-
gnuola, che per i loro consimili si convertiva in distruzione efret-
tiva. Erano d'indole pacifica e vivevano tra loro in buona armonia,
essendovi spazio, e caccia e pesca sufficient! per tutti.
Ma appunto la sua lontananza la fece scegliere come luogo di re-
legazione per i condannati militari. Questi, aumentati di numero,
ed accasatisi colle indiane, in un periodo di cinquant'anni forma-
rono quella popolazione che oggi si chiama indigena, e che gli
American! hanno dovuto combattere per impossessarsi del paese.
La Spagna, vedendo cosi sorgere un principio di colonia, fondo
sulla costa le stazioni di San Francisco, Monterey e San Diego, la
seconda delle quali ebbe il titolo di capitale e fu sede di un gover-
natore e di una piccola guarnigione.
i. «I1 barone Anatolio Brenier (1807-1885), console di Francia a Livorno..
poi direttore della contabilita al ministero degli esteri, e dal 1855 al 1860
ministro a Napoli» (Mordini).
AVVENTURE DELLA MIA VITA 241
Dopo averla organizzata politicamente, la Spagna vi mando,
come nelle altre sue colonie nascenti, dei missionari francescani
per civilizzare gP Indian! e convertirli alia fede di Cristo. Al prin-
cipio del XVIII secolo i missionari, con perseveranza ed abnega-
zione grandissime, avevano fondato dodici centri nelle posizioni
piu belle del paese, e, cosa meravigliosa, col solo aiuto degl'In-
diani avevano fabbricato chiese capaci di duemila persone e vasti
edifizi, dei quali alcuni esistono ancora ed altri abbandonati sono
mucchi di rovine.
Ma sembra ormai un fatto provato che le razze selvagge deperi-
scono al contatto della civilta. In meno di un secolo spari la meta
degPIndiani della California, malgrado che in quel paese, a diffe-
renza degli altri, gli Europei non facessero nulla per distruggerlL
I primi missionari facevano ascendere la popolazione indiana dal
mare alle Montagne Nevose e dal Rio Colorado al Sacramento1
a 200.000 abitanti, che nel 1848 eran ridotti a non piu di 20.000,
E se si pensa che quest' enorme diminuzione awenne senza guerre
n6 tra loro ne cogli Europei, senza epidemic e senza contagi, e
pur forza convenire che la sola civilta, o per meglio dire Pabban-
dono della vita nomade, fu la causa della loro distruzione. Essi poi
non contribuirono airincremento della colonia che con Pincrocio
delle loro donne cogli Europei, e solo poche famiglie di sangue puro
indiano si dettero alPagricoltura o, per essere piu esatti, alia pasto-
rizia.
Come e facile capire, la proprieta del suolo era della madrepa-
tria, rappresentata dal vicere del Messico, GPIndiani non ne ave
vano che 1'uso, e venivano respinti da un luogo alFaltro a misura
dell'avanzarsi degli Europei. A questi la concessione dei terreni
veniva data dal vicere, in misura non maggiore di dodici leghe qua
drate, e in seguito a domande trasmesse dal governatore e che non
venivano mai rigettate, cosicche nel 1848 le piu belle valli apparte-
nevano a Calif orniani, che vi facevano pascolare del bestiame allo
stato semiselvaggio, come nelle maremme toscane e romane.
La California subi essa pure le conseguenze della gran rivolu-
zione delle colonie spagnuole, e rimase unita alia repubblica mes-
sicana, della quale formava Testremita settentrionale fino al flume
Oregon. Nel 1848 poi gli Stati Uniti vittoriosi ottennero dal Mes-
i. Sacramento: e il fiume della California che sbocca nella baia di San
Francisco.
16
242 LEONETTO CIPRIANI
sico la sua cessione, dal Rio Colorado fino ai possess! inglesi della
Colombia, e dal mare alle Montagne Rocciose.
In realta quella cessione non aveva allora nessuna importanza
politica od economica, non essendo il paese popolato che da poche
tribu indiane e non producendo nulla che potesse alimentare il
commercio americano. Ma ne aveva un'immensa per 1'awenire,
estendendo i confini degli Stati Uniti dall'Atlantico al Pacifico.
Fra gli Europei che gli Americani trovarono in California ve ne
erano alcuni venuti in quel lontano paese per passione di awen-
ture. Uno di questi . . .* che aveva servito come capitano nella guar-
dia svizzera in Francia ed era emigrato in America dopo la caduta
di Carlo X,2 da Nuova York traversando tutto il continente arrive
nel 1842 sulla sponda del Sacramento, dove ottenne una conces-
sione, e si stabili defmitivamente sposando un'indiana. Uomo che
sapeva fare un po' di tutto, in pochi anni, coadiuvato dagPIndiani
che aveva saputo affezionarsi, riusci a mettere insieme tutti i co-
modi della vita e ad esercitare diverse Industrie fino allora cola
sconosciute.
Fra queste, impianto una segheria con motore idraulico per se-
gare il legno, messo in azione dall'acqua presa ad un vicino af-
fluente del Sacramento. Pochi giorni dopo, essendo il canale ripieno
di terra e ghiaia trasportata dalla corrente, lo svizzero incarico
degl'Indiani di ripulirlo e vide che si mostravano dei pezzi di me-
tallo color giallo lucente senza sapere che cosa fossero.
II capitano riconobbe immediatamente il prezioso metallo - eran
pezzi di oro. Ne fece raccogliere quanto ne pote trovare e scese im
mediatamente il fiume fino a San Francisco, dove si trovavano gia
alcuni Americani, che, saputa la gran notizia, si affrettarono ad
abbandonare la nascente citta per correre in cerca dell'oro.
Le comunicazioni cogli Stati deH'Atlantico essendo lente e dif-
ficili, occorrendo allora quattro mesi per la via di terra e forse piu
per quella di mare, la notizia ufficiale e i primi pezzi d'oro non
arrivarono che al principio del 1848. II governo federale mando
allora immediatamente truppe per terra ed una squadra per mare
a prendere possesso materiale dei territori ceduti dal Messico.
Nello stesso tempo la febbre aurifera essendo scoppiata come con-
i. Uno di questi . . . : « II nome e rimasto in bianco nel manoscritto » (Mor-
dini). 2. II re Carlo X, conte di Artois, era stato deposto nel 1830;
vedi la nota i a p. 152.
AVVENTURE BELLA MIA VITA 243
tagio, migliaia di emigranti partirono dagli Stati Uniti, dagli altri
stati di America e poco dopo dall'Europa per la California.
Alcuni giorni dopo Leonetto, la Distruzione arrivo a San Fran
cisco. Essendo aumentata di quattro persone la famiglia,1 non era
piu possibile stare alia locanda ; ed affittarono una casetta di legno
smobiliata, dove dormivano sui materassi di bordo facendosi la
cucina da se".
Intanto fu sbarcato il carico e trasportato sul lotto di terreno
comprato. Cio fatto, vi montarono le loro tende, e vi si stabilirono
cominciando la montatura della casa.2
II salario giornaliero dei muratori essendo di venti scudi, dei
legnaiuoli quindici e dei braccianti dieci, bisogno rassegnarsi a far
tutto da se. - E cosi Leonetto, il Garbi, il Del Grande, Crespino
Bizzarri colla moglie e Gosto, alzati all'alba, lavoravano fmo alia
notte, lavoro faticoso ed al quale nessuno di loro era abituato.
Finalmente agli ultimi di giugno 1852 la casa era montata, mobiliata
ed abitata.
ESCURSIONI NELL'INTERNO DELLA CALIFORNIA3
Dove e or a la citta di San Francisco, non vi erano nel 1848 che
due povere case e poche capanne d'indiani, trovandosi la missione
che porta quel nome a tre miglia nell'interno. Dopo la scoperta del-
1'oro, San Francisco fu subito costituito in municipio secondo I'uso
americano, ma da principio il suo sviluppo non fu grande, perch6
Foro trovandosi da cento a trecento miglia nelFinterno e vicino a
fiumi navigabili, gli American! piu pratici, e Dio sa se lo sono in
i. la Distruzione . . .famiglia: Giuseppe del Grande, Alessandro Garbi e il
servo Crespino Bizzarri con la moglie, che accompagnarono il Cipriani in
questa spedizione in America, erano partiti prima, verso la fine di maggio
del 1851, con il bastimento la Distruzione, mentre il Cipriani, il Magnani
e 1'altro servo Gosto si imbarcarono sul vapore Arago a Le Havre, il 19 no-
vembre 1851, come gi£ abbiamo detto (vedi la nota zap. 223). Era sta-
bilito che i due gruppi si incontrassero a San Francisco. Giuseppe Pieral-
lini del Grande, che era stato nel 1849 tenente dei veliti, mori nel 1861
nelT Africa occidental Alessandro Garbi, nato a Firenze Fix marzo
del 1828, combatte come volontario nel 1848, si distinse come urBciale
dell'esercito piemontese nelle campagne del 1860-61 e del 1866. Collocato
a riposo nel 1871 col grado di maggiore, mori a Firenze il 5 febbraio 1902.
Le notizie sul Pierallini e sul Garbi sono date dal Mordini nelle note a
p. 39 del volume il delle Avventure. 2. la montatura della casa: vedi la
nota 2 a p. 227. 3. Ed. cit., vol. II, cap. xxrx, pp. 79-87-
244 LEONETTO CIPRIANI
modo meraviglioso, si lasciarono ingannare dai precedent! degli
stati dell'Atlantico, dove le grandi citta commerciali son poste sui
fiumi e non sulla costa; e perche per un anno e piu coloro che arri-
vavano a San Francisco si affrettavano a partire per Tinterno, te-
mendo di non arrivare in tempo a prendere parte all'aurea raccolta.
Anche gli equipaggi disertavano, e nel 1850 vi erano nella baia piu
di mille bastimenti abbandonati.
Ma a poco a poco la citta comincio a popolarsi; e a misura che
venivano fabbricati case ed edifizi pubblici, cresceva il valore dei
terreni del centre, che in breve tempo centuplicarono parecchie
volte il loro valore. Ma alia periferia i terreni continuavano ad
avere un prezzo insignificante, perche nessuno credeva nel prodi-
gioso incremento che ebbe in seguito la citta. D'altra parte vi erano
stati dei forti alti e bassi sui terreni, che avevano rovinato molti
speculator!.
Nicola Lauro ed Ottavio Cipriani,1 che da due anni esercita-
vano il commercio a San Francisco, erano rimasti anche loro scot-
tati da quel genere di speculazione, e percio, quando Leonetto fece
loro noto che lo scopo del suo viaggio era appunto quello di com-
prar terreni, tanto fecero e tante gliene dissero che riuscirono a
dissuaderlo. Cosi egli non compro che un solo lotto per piantarvi
la sua casa, pagandolo mille scudi.
Leonetto penso allora di comprare vicino alia citta delle vaste
estensioni di terreno a scopo agricolo. Ma non ci riusci, non avendo
potuto mettersi d'accordo coi proprietari per il prezzo; e fu un
vero peccato, perche una tenuta, per la quale non voleva dare che
8.000 scudi invece di 12.000, fu venduta quindici anni dopo
200.000 scudi; e un'altra, per la quale ne chiedevano 16.000, fu
venduta dieci anni dopo 300.000 scudi!
Falliti questi tentativi, Leonetto penso di fame altri nell'in-
terno, ed una sera parti a cavallo per visitare il rancho del Gabilan,
sopra un altipiano della sierra di California, accompagnato da un
indiano che il proprietario della tenuta gli aveva dato per guida.
Viaggiarono tutta la notte per monti e per piani, e la mattina tuo
padre, vedendo che 1'indiano non parlava di fermarsi, gli domando
dove intendeva far colazione.
— Aqui cerquito — 2 rispose.
1. Nicola Lauro ed Ottavio Cipriani: vedi il brano precedente a p. 240.
2. ftQui intorno, qui vicino. »
AVVENTURE DELLA MIA VITA 245
II cerquito era cosi cerquito che solo verso mezzogiorno ar-
rivarono in una bella valle piena di bestiame con una casuccia
sulla quale fumava un cammino. Era un altro rancho del mede-
simo proprietario, e appunto in quel giorno vi era rodeo e gran
baldoria.
Per rassicurare i viandanti affamati, erano stati appesi agli al-
beri quarti di bove e di cervo. Di pane e di vino non se ne discor-
reva. Ognuno sceglieva Tanimale che preferiva, ne toglieva il pezzo
che piu gli piaceva, lo infilava in una bacchetta di legno, lo ar-
rostiva sulla brace dei fuochi accesi qua e la e lo divorava anco-
ra sanguinante. Tuo padre fece come gli altri, e divoro anche lui
quelle carni sanguinanti che non facevano sentire il bisogno di
dissetarsi.
Dopo quel pasto di cannibali, gl'indiani e gli altri intervenuti -
eran piu di cento - si misero a far delle corse a cavallo e a giostrare
fra di loro, finche arrive la notte. Ognuno si awolse nella sua co-
perta e si sdraio per terra. Leonetto, stanco da diciotto ore di ca
vallo e una nottata persa, dormi saporitamente dalle sette di sera
alle otto di mattina.
Dopo una copiosa colazione fatta colla solita carne, Tindiano
and6 alia macelleria, affetto come salsicce un trenta libbre di carne,
I'amrnatasso e la lego dietro la sella del cavallo. Era la prowista per
due giorni, pel caso difficile che non si trovasse selvaggina.
La sera a ora molto tarda giunsero in una gran valle, e Pindiano
esclamo : — Siamo arrivati. — E cosi dicendo scese, impastoio i ca-
valli, accese un gran fuoco e fece arrostire una parte delle salsicce
che si potevan considerare gia cotte dal sole e dal sudore del ca
vallo, e Pofrri a tuo padre, vantandone il sapore. Egli esitava -
non era la carne mezzo cruda che lo spaventava - era il puzzo dei
peli di cavallo che vi si erano attaccati e che erano stati arrostiti
insieme. II suo stomaco si rivoltava, ma le budella ballavano, e dice-
vano « siarrio vuote » - sicche senza rispondere ne prese un pezzo,
chiuse gli occhi - e dopo la prima impressione fini col mangiarne
piu delFindiano.
Verso la mezzanotte, sul primo sonno, fu svegliato dai salti dei
due cavalli che giravano intorno ad un fuoco, acceso non senza ra-
gione dalFindiano. Alz6 la testa, e visto al chiaror della fiamma al-
cune ombre che si muovevano lentamente, dette mano alia cara-
bina, ma 1'indiano rapido come un lampo gliela levo di mano di-
246 LEONETTO CIPRIANI
cendo: — For Dios que hace Usted? Mirelos - non son hombres -
son osos. Dejelos pasear y duerma.1
Era il consiglio dell'esperienza. Quelle bestie lasciate tranquille
non vi e mai caso che si awicinino al fuoco, ma una palla che li fe-
risca soltanto, li rende feroci e pericolosi.
Leonetto, nuovo in quel genere di societa, non dormi in tutta la
notte e pote studiare a suo belPagio le loro abitudini in quelle cir-
costanze speciali. Erano sei, quattro grossi e due piccoli, messi in
triangolo, che tutta la notte fecero la ronda intorno al fuoco, fer-
mandosi quando Pindiano vi gettava su della legna, finche allo spun-
tare del giorno sparirono uno dopo Paltro nelle folte erbe.
L'indiano allora, che aveva osservato la ripugnanza di Leonetto
per quella sudicia carne, si alzo, prese la carabina e si allontano.
Torno dopo poco, con un mezz'orsacchiotto sulle spalle ed un quar
to di cervo in mano, e si mise subito a dar prova della sua abilita
di cuoco selvaggio.
Taglio la testa dell'orso, Pawolse con erbe ancora umide di
guazza, la copri di cenere e la mise a cuocere con carboni ardenti
sopra e sotto. Infilo poi il cervo in un palo ficcato obliquamente
in terra e vi accese sotto un gran fuoco.
Mezz'ora dopo 1'arrosto era pronto - bruciato al di fuori, ma
delizioso al di dentro. La testa delPorso poi non solo era deliziosa
ma era bianca come le teste di maiale che si pelano a forza di acqua
bollente, ed aveva un odore aromatico da far venire fame a un mo-
ribondo.
Tutto il giorno percorsero a cavallo Paltipiano. Era uno di quei
siti alpestri che innamorano. Abbondanza di acque perenni, un
piccolo lago limpido come il cristallo con trote enormi, numerosis-
simi branchi di selvaggina, lepri e pernici a migliaia, folti boschi di
pini sulle vette, nella valle prati ove i cavalli sparivan mezzi tra
Perba, con delle enormi quercie sparse qua e la come nei parchi di
Europa, e da lontano la vista della sierra Nevada colle sue nevi
eterne, ed ai suoi piedi nell'immensa pianura il flume S. Gioac-
chino, il piu grande della California - era uno spettacolo magnifico.
Chi avesse detto a tuo padre che in quella pianura soltanto avrebbe
trovato col tempo la ricompensa delle sue fatiche!2
i. «Per Dio, che fa? Guardi: non sono uomini, sono orsi. Li lasci passeg-
giare e dorma. » 2. in quella pianura . . .fatiche: «I1 18 novembre 1867
vi trov6 dell'oro» (Mordini).
AVVENTURE DELLA MIA VITA 247
Alle due, dopo aver percorso il Gabilan in tutta la sua lunghezza
dal nord al sud, si diressero verso Foriente per tornare al rancho,
dove Tindiano sperava arrivare la sera stessa. Ma verso le sette il
cavallo di Leonetto si fermo dalla stanchezza. L'indiano parti solo
promettendo tornare quanto prima con un altro cavallo ; Leonetto
10 aspetto fino alle dieci, poi si rimise in viaggio, finche stanco lui
e piu di lui il cavallo, si fermo, accese due gran fuochi, divoro un
pezzo d'orso e si addormento awolto nella sua coperta come un
uomo a cui la societa orsina aveva impedito di dormire la notte pre
cedence.
Verso le due senti degli urli. Crede fosse Pindiano, ma invece vide
11 cavallo che si difendeva a calci contro una dozzina di lupi.
La lezione della sera innanzi doveva servirgli a qualcosa. Si
affretto ad attivare i fuochi intorno alPalbero al cui piede era sdraia-
to, e prese la carabina e le pistole, vi si arrampico su, e messosi a
cavallo ad un ramo colle spalle appoggiate al tronco, pote studiare
da quell'osservatorio la societa lupesca, come la notte prima aveva
studiato quella orsina. I lupi occupati a lottare col cavallo, e poi a
divorarlo, furono di una villania senza nome verso tuo padre; non
se ne occuparono, come se non ci fosse stato. Finche ci fu carne, ri-
masero tra loro in buona armonia, ma quando furono agli ossi,
comincio la discordia: urlavano e si mordevano strappandosi la
preda di bocca. Finalmente spunto il giorno, e i lupi fuggirono al-
Papparire di alcuni rancheros che accompagnarono Leonetto al
rancho.
Arrivati li, e raccontato 1'awenuto, chi passo un brutto quarto
d'ora fu il povero indiano. II maggiordomo senza tanti compli-
menti prese un'accetta e gliela scaglio addosso, spaccandogli una
spalla, gridando: — Perro selvaje sin verguenza!1
Un poco lo meritava, perche non doveva lasciar solo in quella val-
le infestata da lupi il signore che il padrone gli aveva affidato, e lo
meritava forse piu per non essere tornato la notte stessa. Ma Leo
netto, vedendo che il maggiordomo dopo Paccetta aveva dato di
mano allo schioppo, intercede per lui che ne aveva avuto assai.
II giorno dopo torno a San Juan, dove il proprietario gli chiese
cinquemila scudi del Gabilan. Accetto, riservandosi di far esami-
nare i titoli di proprieta dal suo awocato. Ma avendo trovato che la
i. «Cane selvaggio senza vergogna!»
248 LEONETTO CIPRIANI
concessione era stata bensi chiesta, ma non aveva avuto la sanzione
del vice-re del Messico, non ne fece nulla.
Un mese dopo, una volta riposato dalle fatiche e dalle emozioni
della prima escursione, tuo padre ne fece un'altra al nord della
California per visitare diversi ranches che gli si offrivano a prezzi
discreti, fra i quali il Clean Lake, distante duecento miglia da
S. Francisco.
Cogli amici Megas e Tintenmaker che vollero accompagnarlo,
ando col vapore fmo a Napa, e di li si misero in viaggio a cavallo,
con due americani pratici del paese per guide.
La prima sera pernottarono al rancho disabitato de las putas,1
che aveva preso quel brutto nome da una tribu d'indiani vivente
nei dintorni allo stato di brutale natura. La seconda, pernottarono
alle Sorgenti calde, acque sulfuree a quaranta gradi, che hanno
acquistato poi grande celebrita come bagni antiscrofolosi ed antireu-
matici ; e la terza arrivarono alle sponde del lago, ove trovarono una
buona casa abitata da un americano che faceva da dottore alle tribu
indiane dei dintorni.
II giorno dopo, seguendo la riva settentrionale del lago, giunsero
in una valle cosi bella che Leonetto la battezzo valle del paradiso,
nome rimastole in seguito e col quale e segnata sulle carte.
Era un semicerchio posto ad oriente, nel quale si entrava da una
stretta gola, da dove un precipitoso torrente sboccava nel lago dopo
aver traversato la valle. Questa era un prato di una lega quadrata,
diviso in tante parti da ruscelli, sulle sponde dei quali vegetavano
enormi platani e lecci dai rami pendenti, come quelli dei salci pian-
genti, e qua e la un maestoso cedro che li dominava tutti. Intorno
vi erano piccole colline, coperte da boschetti di meravigliosi ciliegi,
peri e meli selvatici, non piu alti di mezzo metro, ma carichi di
frutti. Ma quello che piu stupi gli esploratori furono branchi di
piccoli daini, somiglianti alle gazzelle africane, che senza spaventarsi
continuavano a pascolare, guardandoli con espressione di confi-
denza e awicinandosi loro come sogliono fare le pecore la mattina
aH'arrivo della pastorella che le guarda. Eran tutti armati, ma a nes-
suno venne in mente di tirare - tanto e vero che sugli uomini an-
che crudeli (e tutti lo sono verso le bestie selvagge) predomina
ristinto della bonta verso gli esseri simpatici ed inoffensivi. - Quella
valle era una riserva delle tribu indiane, che venivano a prov-
i . « delle puttane. »
AVVENTURE BELLA MIA VITA 249
vedervisi di selvaggina, quando non potevano pescare nel lago a
causa della tempesta.
Traversando il torrente, i cavalli si rifiutarono ad un tratto di
avanzare.— Ce un orso! — esclamo il dottore, ed infatti giunti sulla
riva opposta videro a piccola distanza una dozzina di orsi, alcuni
sui rami di un'antica quercia, altri sotto, che stavano mangiando
le ghiande. Ognuno si affretto a sparare. Tre orsi rimasero morti,
gli altri fuggirono. Fu quella la prima volta che tuo padre vide ai
suoi piedi un orso colpito dalla sua carabina - era un animale
enorme, che pesava non meno di mille libbre.
Esplorata la valle, uscirono dal canon1 da dove erano entrati,
e costeggiando il lago, ad un certo punto trovarono sei piroghe
d'indiani fatte preparare dal dottore per traversarlo.
Leonetto nei suoi primi viaggi in America si era spesso imbar-
cato su piroghe fatte con un grosso tronco scavato, che sono sicure
quanto un bastimento a tre ponti. Ma queste nuove piroghe eran
fatte con paglia awoltolata e stretta come le trecce da cappelli,
unita a tre o quattro strati sopra un'armatura di salci simile a un
paniere. £ difficile a capirsi, ma il fatto e che quelle piroghe portano
benissimo due o tre persone.
Fu una bella passeggiata; e la sera arrivarono alia casa del dot-
tore, vicino alia quale erano accampate due tribu indiane intorno
a grandi fuochi.
La notte fu un tamburinare e uno spifferare continui. La mat-
tina gli uomini andarono alia caccia ed alia pesca per offrire ai bian-
chi i regali di uso, e ricevere in cambio il cento per uno. Ed intanto
il dottore fece disporre sotto un folto ciuffo di lecci i regali destinati
agPIndiani e consistent in tabacco, coperte, fazzoletti, chincaglie-
rie e roba simile di poco prezzo.
Sei corrieri a cavallo, coperti di mantelli di penne nere e bianche
annunziarono Tarrivo delle tribu che si avanzavano coi capi alia
testa, montati su bei cavalli e seguiti da tutti i guerrieri. Venivano
dopo le piu belle e giovani indiane con grandi panieri in capo pieni
di pesce, cacciagione, e frutti selvatici, e finalmente i vecchi e la
marmaglia con uno stormo di card, amici indivisibili degPIndiani.
Deposti in beH'ordine i regali, i capi fecero uno dopo Paltro dei
discorsi che per Leonetto ebbero due gran meriti, di essere brevis-
simi, e di non capirci nulla. II dottore rispose per tutti, e allora,
i. canon: gola.
250 LEONETTO CIPRIANI
cosa strana, i due capi andarono da tuo padre a dargli una stretta di
mano, saluto americano, ed a fregargli il naso colla punta del loro,
saluto indiano.
Fu commedia preparata, o Tessere Leonetto piu alto e di aspetto
piu militare dei compagni, e 1'avere una gran sciarpa di seta cele
ste alia vita, feri rimmaginazione di quei selvaggi ? II fatto si e che
lo presero per un capo, ed a lui fecero il piu bel regalo.
Era un'indiana giovine e bella, nuda come un pesce, ma con una
chioma nera lucente che la copriva da capo a piedi. Gli s'inginoc-
chio davanti, ed una vecchia che era la sacerdotessa della tribu
le verso sul capo un vaso d'acqua - era il solenne attestato che era
immacolata.
Tuo padre non si aspettava tanto onore ne un simile regalo, ma
non perse la bussola. Si levo il mantello, la copri e la fece sedere ai
suoi piedi.
Fu un grido universale di gioia - sembravan duemila indemoniati
- finche i capi fecero suonare le trombe, ossia i pifferi di canna, e i
giuochi cominciarono, mentre le vecchie facevano arrostire la sel-
vaggina portata in regalo. Per i guerrieri a cavallo il giuoco consi-
steva nel corrersi incontro di camera e nel cercare, incrociandosi,
di rovesciarsi da cavallo - per tutti gli altri, balli e capriole al suono
discordante dei loro strumenti.
Quando Parrosto fu pronto, le vecchie cominciarono a gridare
una parola che somigliava molto al piro piro, col quale le nostre
massaie sogliono chiamare le galline. Tutti accorsero, e gli esplora-
tori da una parte, gl'indiani dall'altra si misero a divorare. Quelle
squisite carni, le trote da dieci a quindici libbre awolte in erbe aro-
matiche ed arrostite sulla brace, che non cedevano per nulla a quanto
di piu squisito sanno preparare i piu celebri artisti di Francia, e gli
ottimi frutti selvatici, fecero di quello spettacoloso banchetto uno
degli episodi che abbiano maggiormente impressionato Leonetto.
Dopo vi fu la distribuzione dei regali per ordine gerarchico, e
finalmente arrivo la notte, che doveva essere Tora del riposo, se
non fossero stati quei duemila indiavolati, briachi di allegrezza, che
non fecero che saltare e strepitare fmo alia mattina.
Leonetto, che non sapeva cosa farsi della sua Indiana, chiese al
dottore il modo di sbarazzarsene senza offendere la suscettibilita
della tribu. E il dottore lo consiglio di cederla ad un indiano che
ne era innamorato, e che avrebbe dato la vita per possederla, preve-
AVVENTURE BELLA MIA VITA 251
nendolo pero di versarle in sua presenza un bicchier d'acqua sulla
testa per provargli che gliela dava immacolata come Paveva rice-
vuta. Cosi fu fatto con gran gioia di tutti.
La mattina dopo partirono, ed il terzo giorno erano di ritorno a
San Francisco.
Benche Leonetto fosse rimasto innamorato di quel rancho, non
lo compro, per la troppa lontananza dalla citta, che non lasciava
sperare un prossimo aumento di valore, e perche gl'Indiani erano
un cattivo vicinato tanto come amici che come nemici. - Ma nel
1870 raccontandomi quanto sopra, mi diceva che nel 1866, cioe
quattordici anni dopo, nella valle del Clean Lake vi erano una pic-
cola citta di 3000 anime, piu di trecento case coloniche, ed una
miniera di borace che rendeva annualmente diversi milioni!
ANTONIO GHISLANZONI
PROFILO BIOGRAFICO
ANTONIO GHISLANZONI nacque a Lecco il 25 novembre 1824. II
padre, Giovanni, desideroso di awiarlo alia sua stessa professione,
lo mando a Pavia, a studiare medicina in quella universita. Ma il
figlio, mal disposto a tale studio, si volse ben presto alle scene, che,
dotato di una buona voce baritonale, gli sembro quella la sua vera
strada. A ventidue anni (1846) debutto a Lodi nella stagione car-
nevalizia, e poco dopo passo al Carcano di Milano e nei teatri di
Piacenza, di Codogno, di Arezzo, acquistando notevole rinomanza.
Di idee liberali, come aveva partecipato alle Cinque giornate di
Milano, cosi voile poi accorrere a Roma per la difesa della repub-
blica, e vi si rec6 con una giovane arnica, guidato da uno spirito
awenturoso che non gli faceva vedere ne ostacoli n6 difficolta. I
Francesi, che gia assediavano Roma, lo fermarono quasi alle porte
della citta e, liberata la sua compagna, lo chiusero prigioniero nel-
Fisola di Santa Margherita e lo trasferirono poi in Corsica, a Bastia.
Solo dopo quattro durissimi mesi pote riavere la liberta e recarsi,
con il denaro offertogli da un ammiratore, in Francia, a continuarvi
la sua attivita lirica. E gia cantava a Parigi nel Teatro italiano,
quando la sua fortuna fu troncata dagli awenimenti politici. La
sera del 2 dicembre 1851 egli interpretava la parte di Carlo V nel-
VErnani allorche gia Parigi si agitava per il colpo di Stato: i tumulti
del giorno successive provocarono la chiusura del teatro e posero
sul lastrico anche il nostro baritono. Periodo, questo, di miseria
e di fame, cui egli tento di reagire nel marzo del 1853 con la for-
mazione di una propria compagnia teatrale, con la quale inizio al-
cuni giri in provincia. Ma, ammalatosi gravemente a Nimes, anche
quella sua debole speranza di risollevarsi si concluse in un falli-
mento. Tra 1'altro, la sua voce se ne andava rapidamente, e tocco
proprio a Milano di togliergli ogni speranza teatrale, con un subisso
di fischi, al teatro Carcano, nel 1855. Tutte queste esperienze, tea-
trali e politiche, italiane e francesi, il Ghislanzoni rievoco poi con
brio e ironia in due suoi scritti (Memorie politiche di un baritono e
In chiave di baritono), dove gli awenimenti infelici sono guardati
ormai con la noncuranza di chi li ha superati e allontanati da se.
Dato un addio alTarte teatrale, il Ghislanzoni passo, dal 1853, alia
letteratura. Da allora fu un succedersi di romanzi, novelle, articoli,
256 ANTONIO GHISLANZONI
epigrammi, poesie satiriche, bizzarrie, commedie e di una cinquan-
tina di libretti per opere liriche. Ne minore fu Pattivita giornalistica,
che per vario tempo egli scrisse nel « Secolo », il quotidiano milanese
sorto in quegli anni, diresse la « Gazzetta musicale» creata da Giu-
lio Ricordi, fondo la «Rivista minima », e poi «II capriccio» e
infine « La posta di Caprino » : questi tre ultimi, in verita, di diffu-
sione e di vita stentatissime, Nella Milano di quegli anni il Ghislan-
zoni ebbe certo una sua fama e i suoi scritti piacquero e si cercarono
e ristamparono. Un suo romanzo, Gli artisti da teatro (1858), che
univa a una trama fantasiosa un quadro assai nero delle miserie
e degli intrighi e delle turpitudini del mondo teatrale, quasi a dis-
suadere i giovani dal volgersi alle scene, ebbe particolare fortuna, e
cosi i suoi Racconti, e il romanzo Abrakadabra, immaginosa storia
dell'awenire, e soprattutto i libretti, tra i quali / Lituani musicato
dal Ponchielli, V Aida dal Verdi, I promessi sposi dal Petrella,
VEdmea dal Catalani. Ma forse, piu assai che i suoi scritti, la mag-
gior parte dei quali sono giustamente dimenticati, meriterebbe una
particolare attenzione la sua vita, che fu quella di un bohemien,
sempre in lotta con la miseria, pronto a spendere disordinatamente
ogni guadagno, generoso con gli amici, facile agli entusiasmi, inetto
alia vita pratica, festoso nelle comitive, bizzarro e paradossale sem
pre. In realta, la sua biografia, 1'ambiente in cui visse, le sue ami-
cizie, le sue follie creano un quadro che per tanti lati anticipa e
prepara la Scapigliatura milanese e sotto alcuni aspetti ne e gia un
documento: e ne possono essere riprova, tra Paltro, anche la sua
simpatia e amicizia verso Iginio Tarchetti e le lodi da lui ri volte
a Emilio Praga e i contatti che ebbe con Arrigo Boito. Gli aneddoti,
i particolari biografici che di lui ha lasciato Salvatore Farina, co-
struiscono un ritratto che meriterebbe di essere completato sullo
sfondo di un ambiente cosi caratteristico quale fu quello dei lette-
rati e musicisti e giornalisti della Milano del tempo.
A un tratto, pochi anni dopo il 1870, con la spensieratezza che
gli era propria, il Ghislanzoni lascio Milano e voile ritirarsi nel
paesello di Caprino bergamasco, convinto di potervi vivere e lavo-
rare serenamente per i tanti musicisti che, certo, avrebbero conti-
nuato a chiedergli libretti da musicare. Calcolo, questo, troppo in-
genuamente roseo. A Caprino rimase solo, dimenticato a poco a
poco da tutti, in una miseria sempre piu grave : uno squallore aggra-
vato dalle sue malattie e dalla paralisi della moglie, e soltanto a fa-
PROFILO BIOGRAFICO 257
tica diradato, di quando in quando, dagli aiuti di qualche amico.
Anche la ristampa in volumetti di antichi suoi lavori, caldeggiata
da Salvatore Farina, non dette alcun frutto, se non la somma che
il Farina stesso voile anticipargli sui futuri guadagni.
II 1 6 luglio 1893 sopraggiungeva la fine. Qualche giorno prima
aveva voluto intorno a se i fanciulli poveri del paese, per distribuire
loro manciate di ciliege, e aveva raccomandato che anche dentro la
sua bara vi fossero moltissimi fiori : ultime romantiche manifesta-
zioni della sua vita.
Tra i tanti scritti del Ghislanzoni, riproduciamo la sua breve e
bizzarra Storia di Milano dal 1836 011848? una rievocazione estrosa
di quel periodo, condotta per rapide linee, attraverso episodi di
cronaca, accenni fugaci, schizzi brevissimi: Tinteresse nasce dalla
successione, dal susseguirsi di immagini che passano mobilissime
come in una lanterna magica e, pur slegate fra loro, creano un
effetto d'insieme che piace. Certo, come ha osservato il Croce, non
storia e la sua : ne, puo aggiungersi, cronaca. Ma, al di fuori di ogni
classificazione, quelle sue pagine sembrano salvare alia vita alcuni
coloriti frammenti di un mondo tramontato.
Molti degli scritti del Ghislanzoni apparvero dapprima in giornali e ri-
viste, e furono poi, almeno in parte, inseriti in varie raccolte dallo stesso
autore. Manca una esatta ricostruzione bibliografica della sua produzione,
della quale facciamo cenno solo per alcune opere. Gli artisti da teatro,
pubblicati dapprima (1858) nella rivista «I1 cosmorama pittorico», fu
rono poi (1921) ristampati in volume dal Treves di Milano; Abrakadabra,
apparso in edizione parziale, a Milano, nel 1865, fu edito integralmente
dal Brigola, a Milano, nel 1884, e ristampato ancora dal Sonzogno, Mi
lano 1924; Le donne brutte, romanzo-, gia apparso a Milano nel 1867,
fu ristampato dal Sonzogno nel 1894. Nel 1878 apparve il Libro proibito,
Milano, Tip. Ed. Lombarda, dove il Ghislanzoni raccolse gran parte dei
suoi piu che duecento epigrammi; nel 1882 il Libro bizzarro, Milano, Bri
gola, che raccoglie alcuni suoi racconti: tra i due libri, gli altri della stessa
serie, Libro allegro, libra serio. La raccolta piu completa dei suoi racconti,
scritti bizzarri ecc. e rappresentata dai sei volumetti intitolati Capricci let-
terari, Bergamo, Stabilimento tipografico Cattaneo, 1886-1889, dove riap-
paiono racconti ed epigrammi gia editi nelle raccolte or ora citate, e presen-
ti, in buona parte, in altri volumi precedentemente stampati.
Manca una accurata ed esauriente biografia del Ghislanzoni, ma sono
ancora oggi utilissime, per notizie sulla sua vita e le sue opere, le pagine
che M. CERMENATI ha posto come prefazione all* edizione 1924 di Abraka-
17
258 ANTONIO GHISLANZONI
dabra, e quanto scrive S. FARINA, La mia giornata (dalValba al pomeriggio),
Torino, S.T.E.N., 1910, passim, eLa mia giornata (care ombre), ivi, 1913,
pp. 100-17.
Per un giudizio sulla sua opera, vedi B. CROCE, La letteratura della nuova
Italia, v, Bari, Laterza, I9432, pp. 113-8, e L. Russo, / narratori, Milano-
Messina, Principato, 1951, pp. 53-4.
Dato il carattere delle pagine del Ghislanzoni, abbiamo ridotto al mi-
nimo indispensabile le note esplicative del testo.
STORIA DI MILANO
dal 1836 al I8481
Sotto 1'oppressura di una indigestione solennemente cattolica, io
mi accingo ad un lavoro altrettanto grave quanto proficuo : a scri-
vere la Storia di Milano dalFanno 1836 al 1848. Voi tosto compren-
derete che io scrivo dietro incarico di un editore,2 al quale preme,
se non mi inganno, di aggiungere due nuovi volumi alle opere del
Verri3 e del De-Magri,4 oggimai screditate completamente. Con-
viene adunque, che io raccolga i pensieri a capitolo - Timpresa e
molto arrischiata, ma io solo conosco Palta mercede che mi attende.
Raduniamo i materiali. Io detesto gli sgobboni che fabbricano
la Storia sui libri altrui, sulle testimonianze poco attendibili dei
giornali e sulle postume adulazioni delle medaglie e dei marmi se-
polcrali. - D'altronde, non Fho io veduta coi miei propri occhi la
Storia di Milano dal 1836 al 1848 ? - Questa riflessione mi fa inca-
nutire venti peli della barba, ma in ogni modo mi conforta e mi
infonde lena al lavoro.
Aduniamo le nostre reminiscenze - senza ordine - senza me-
todo - come vengono. - Cosa era Milano dal 1836 al 1848? -O
piuttosto: qual'era Milano? - A tale interpellanza, mi si affaccia il
caos . . . Dodici anni mi si affollano intorno, urtandosi, sospingen-
dosi, assordandomi 1'orecchio di grida diverse. L'immortale que-
sturino di Siviglia non si trovo a peggior condizione della mia, al-
lorquando sali in casa di don Bartolo per rimettervi Pordine.5
Se non m' inganno, fu nelPanno 1838 che S. M. Apostolica Pirn-
peratore Ferdinando d' Austria6 venne a Milano per farsi incoro-
nare Re d' Italia. A quelFepoca, per ricordare Faugusto, si diceva
i. Questo scritto comprende le pp. 87-120 del volume II dei Capricci let-
terari delTedizione da noi seguita. 2. Voi tosto . . . editore: e evidentemente
una finzione, che nasce da un intento ironico. 3. Pietro Verri (1728-1797)
pubblicd il solo primo volume della sua Storia di Milano (Milano 1763),
condotta fino al 1523; nel 1798 il canonico Anton Francesco Frisi vi
aggiunse un secondo volume, proseguendo la narrazione fino al 1564;
solo in seguito P opera fu continuata da Pietro Custodi (1824). 4. Allude
alia Storia di Milano di B. Corio, edita « sulPedizione principe del 1503
ridotta a lezione moderna con prefazione, vita e note del prof. Egidio de
Magri», Milano, Colombo, 1855-1857, voll. 3. 5. L'immortale . . . ordine:
allude alia fine del primo atto dell' op era II barbiere di Siviglia (1816) di
Rossini. 6. Ferdinando dy Austria: vedi la nota 5 a p. 292.
260 ANTONIO GHISLANZONI
generalmente : il «nostro imperatore », taluni, piu ingenui: il «no-
stro buon imperatore » ; - molti nobili lombardi si recavano ad onore
•di vestire la divisa di ufRziali tedeschi . . . C'erano, all'entrata di
S. M., delle guardie italiane sfolgoranti d'oro e di perle; . . . una
meraviglia di splendore, di pompa, di beatitudine generale. Non ri-
cordo se il cholera ci abbia fatto la sua prima visita, innanzi, o dopo
rincoronazione di Ferdinando. II perfido morbo si die a cono-
scere verso quell'epoca,1 ed anche allora si rinnovarono scene atroci
e balorde, non molto dissimili da quelle che il Manzoni descrisse
nel suo sublime romanzo. II popolaccio e sempre uguale in ogni
tempo - e sempre la gran bestia.
Di politica nessuno fiatava. - Le contrade erano illuminate da
lampade ad olio, e i riverberi delle fiamme acciecavano affatto il
passeggiero. - I Milanesi menavano gran vanto della loro pulitezza,
e i marciapiedi, frattanto, erano attraversati da rigagnoli che non
sentivano di muschio. La cattedrale, ammirata dagli stranieri, ser-
viva da pisciatoio ai piu civilizzati, i quali, per maggior vilipendio
deU'edificio, erano in buon numero. - La citta si svegliava verso le
undici del mattino ; i veri lions non apparivano in pubblico che alia
una dopo mezzodi. - Si incontravano al Corso dei giovanotti di
sedici ed anco di diciotto anni, vestiti colla giacchettina corta, pro-
filata alle natiche, accompagnati dal tutore o dal pedagogo, il quale
ordinariamente era prete. II cappello a cilindro torreggiava sulla
testa degli eleganti a porta Renza2 ed ai pubblici giardini; ma c'era
pericolo ad affrontare, con quel simbolo in testa, i terraggi3 di porta
Ticinese e i rioni di porta Comasina.4 - Quando al Corso passavano
in cocchio 1'arcivescovo o il vicere, non c'era alcuno che non levasse
il cappello. L'arcivescovo era tedesco e si chiamava Carlo Gaetano
conte di Gaisruk; il vicere si firmava Raineri.5 Nel 1840, i figli di
i. il cholera . . . epoca: vedi la nota 4 a p. 292. 2. porta Renza: delle porte
di Milano quella volta verso la Brianza, detta anche porta Orientale e,
dopo la pace di Villafranca (1859), porta Venezia. Sulla fine del Sette-
cento, quando Ferdinando d' Austria comincio la costruzione della Villa di
Monza, il borgo e la contrada di porta Renza mutarono il loro aspetto di
campestre abbandono in cui apparvero a Renzo (Promessi sposi, cap. xi),
divenendo zona di residenze signorili e di elegante passeggio. 3. terrag
gi: nome delle contrade sorte, sulla sponda interna del Naviglio, lungo la
cinta del terrapieno o bastione medievale. 4. porta Ticinese . . . porta Co
masina: la prima aperta in direzione del Ticino, Paltra verso Como, ribat-
tezzata sulla fine del secolo scorso in porta Garibaldi. Zone di quartieri
popolari. 5. Rainerii vedi la nota 2 a p. 310.
STORIA DI MILANO DAL 1836 AL 1848 26l
quest 'ultimo, due figuri lunghi e rasi sotto la nuca, venivano salu-
tati al corso con qualche affettazione di rispetto e berteggiati dietro
le spalle a voce bassa. - Gli uffiziali austriaci portavano 1'abito bor-
ghese. - II governatore, il conte Pachta, il Torresani, il Bolza,1 go-
devano di una autorita illimitata. - C'era un casino di Nobili e un
casino di Negozianti, rivaleggianti di supremazia.
L'aristocrazia e il commercio si guardavano biecamente. I giova-
notti di buon genere si ubbriacavano di Porto o di Madera, e da
ultimo si suicidavano coll'absenzio. Questa atroce bevanda si intro-
dusse a Milano verso il 1840. - La moda dei mustacchi e della
barba completa incontrava degli oppositori pertinaci e accanitL
Molti padri di famiglia tenevano il broncio ai figliuoli od ai nipoti
per una leggiera insubordinazione di peli. Due fratelli Clerici rap-
presentavano le piu belle e piu complete barbe di Milano. I vecchi,
gl'impiegati, e in generale, tutti i cosi detti uomini seri, si radevano
scrupolosamente dal naso al gozzo. Gli studenti che portassero
barba o mustacchi rischiavano compromettere il loro awenire; or-
dinariamente venivano rinviati dalFesame, od anche eliminati dalla
scuola.
Tre quarti della popolazione non conosceva altro mondo, fuori
di quello rinchiuso entro il circuito dei bastioni. La attivazione
della ferrovia fra Monza e Milano2 fu un awenimento colossale,
che parve prodigio. Si udivano dei vecchi esclamare : — Ora che ho
veduto questa meraviglia, sono contento di morire! — e parecchi
morirono infatti. L'apertura del caffe Gnocchi in Galleria De Cri-
stoforis ispirava due lunghi articoli alia «Gazzetta di Milano »;
quasi altrettanto rumore levo Fapertura del caffe dei Servi, e piu
tardi Pinaugurazione della bottiglieria di San Carlo.
I Cafe-restaurants non esistevano prima del i84o-nel 1847 si
contavano sulle dita. La colazione di lusso consisteva in un caffe e
panera3 con due chiffer o pannini alia francese. - Questa lauta co
lazione costava otto soldi di Milano. Non era permesso fumare in
alcun luogo pubblico, e, innanzi al 1844, erano guardati di mal oc-
chio e tacciati di malcreanza i pochi scioperati che osavano inol-
trarsi, collo zigaro in bocca, sui bastioni di porta Renza, o dentro i
i . Pachta . . . Torresani . . . Bolza : capi della polizia austriaca nel Lom-
bardo-Veneto ; cfr. p. 309 e la nota 3. 2. ferrovia fra Monza e Milano :
inaugurata nel 1840. 3. panera: panna montata.
262 ANTONIO GHISLANZONI
pubblici giardini durante il trattenimento della banda. Le signore,
all'appressarsi di uno zigaro, fingevano il deliquio : alia vista di una
pipa inorridivano del pari il gracile e il forte sesso.
In materia culinaria, I'istinto pubblico tendeva al grasso e al
pesante.
Gli Ambrosiani non avevano ancora degenerate al punto da pro-
scrivere il cervelaa1 dal risotto. II buon vino, il vino corroborante e
stomatico doveva innanzi tutto essere un liquido opaco. Si man-
giava eccessivamente ad ogni ricorrenza di solennita ecclesiastica;
nel resto dell'anno una parte del popolo digiunava per compenso.
Questo popolo non aveva giornali, ne libri - la sua letteratura erano
le bosinate2 - la sua politica si riassumeva nel motto : Viva nun e
porchi i scioriP - Porta Comasina e poita Ticinese si detestavano ;
esistevano, dentro i bastioni, antagonismi feroci, come fuori, tra
villaggio e villaggio. A porta Ticinese, verso I'imbrunire, una per
sona civilmente vestita rischiava la fine di santo Stefano.
La «Gazzetta di Milano», il solo foglio die trattasse estesamente
la politica, usciva in formato modestissimo; il suo primo articolo
verteva ordinariamente sulle questioni della China. Al compleanno
ed al giorno onomastico di S. M. 1'imperatore dj Austria, il foglio
usciva stampato a caratteri d'oro e tutto ornato di rabeschi. In
quelle ricorrenze, la boemia4 dei poetastri gracidava dalla « Gaz-
zetta» i suoi inni pindarici. I poeti e i letterati, meno qualche ecce-
zione, passavano per spie.
La calunnia non rispettava le grandi intelligenze, e imperversava
sulla turba degli scribacchiatori. Qualunque letterato non avesse
una posizione determinata, qualunque non fosse in grado di esporre
al pubblico il bilancio attivo e passive delle proprie finalize, cadeva
in sospetto di agente dell' Austria. A Milano, come si vede, gli
uomini di lettere furono in ogni tempo assai corteggiati dall'opi-
nione pubblica.
i. cervelaa: la « cervellata» o « cervellato » e una specie di salsiccia di colore
giallastro composta di midollo di bue, grasso di maiale, aromatizzata con
zafferano, spezie e parmigiano. 2. Le bosinate erano composizioni poeti-
che in dialetto o cantate su motivi popolari dai bosini, tipici cantastorie, e di
solito traevano argomento da fatti del giorno. 3. «Viva noi» e «porci i
signori». 4. boemia: disordinata poverta. La voce deriva dal nome di
bohemienS) dato in Francia agli zingari. Divenne comune a indicare 1'irre-
golare e misera e spensierata vita degli artisti, dopo che Henri Murger
(1822-1861) pubblic6 il romanzo Scenes de la vie de Boheme (1851).
STORIA DI MILANO DAL 1836 AL 1848 263
II « Pirata », foglio teatrale del dottor Francesco Regli, era letto
avidamente. Luigi Roman! istituiva il « Figaro » ; Pietro Cominazzi
la «Fama» che esiste tuttora; il signor Pezzi dettava critiche lette-
rarie e teatrali nel Glissons:1 c'era un « Bazar » diretto dal Boniotti.
Da Torino giungeva fin qui il «Messaggere torinese» diretto dal
Brofferio; Firenze, piu tardi, ci mandava una «Rivista» redatta dal
Montazio. In fatto di letteratura periodica non si andava piu in la.
- Erano per la massima parte fogli teatrali, ma in allora il teatro
costituiva la massima preoccupazione della societa colta; eppero il
« Pirata», il « Figaro » e la « Fama» erano aspettati avidamente e letti
da quanti sapevano leggere.
II caffe del Duomo, emporio di letteratura e di letterati, offriva
anche il « Politecnico », e la « Rivista europea », il « Debats», la « Rivi-
sta piemontese », P« Allgemeine » ed altri pochi periodici provenienti
dall'estero. Nei principal! caffe di Milano, all'infuori della « Gaz-
zetta» e del « Pirata », nessun foglio stampato. I pedanti muovevano
guerra al Manzoni, e stampavano libelli da fare raccapriccio. Tom-
maso Grossi, aggredito accanitamente dalla critica pe' suoi Lom-
bardi? abbandonava iracondo il campo delle lettere per rifugiarsi
nel notariato.
La satira inferociva coi grandi. Tutte le ire, le contumelie, le
calunnie che oggidi si disfogano nella lotta politica, si addensavano
allora sulle teste dei poeti e degli artisti, e su quelle andavano a ro-
vesciarsi furiose e mortifere. £ la storia del passato, sara la storia
deH'awenire. Esistera sempre una lega di inetti, di mediocri e di
impotenti, per combattere le intelligenze superiori, per contristare
la esistenza di chi opera ed emerge.
Si mangiava a buon patto, e un vino detestabile si smaltiva dai
brugnoni3 per otto, per sei soldi al boccale. All'osteria della Foppa,
si pranzava al prezzo di una lira austriaca. Quel pranzo si compo-
neva di tre piatti, minestra, vino, giardinetto. Nell'osterie ed anco
negli alberghi di lusso, la mensa era rischiarata da candele di sego.
i. Francesco Pezzi, Testensore delle appendici letterarie della « Gazzetta
di Milano », che avevano per epigrafe il motto Glissons, n'appuyons pas.
Fu tra i piu accaniti oppositori dei Romantici e tra i piu costanti bersagli
della satira anticlassicista del Porta (vedi II Romanticismo, Apoll desbirolaa
de la veggiaja, ecc.) 2. J Lombardi alia prima Crociata, poema in quindici
canti di Tommaso Grossi (1791-1863), era stato pubblicato negli anni 1821-
1826. 3. brugnoni: osti (voce milanese).
264 ANTONIO GHISLANZONI
Ad ogni mutamento di piatto, il piccolo andava in giro collo smoc-
colatoio - la fuliggine pioveva nelle zuppe.
I secchi dei lattivendoli giravano scoperti nelle vie, o solo coperti
da uno strato di mosche. In ogni via aprivasi un macello ; i suini ed
i vitelli, trascinati brutalmente sui carri, intronavano dei loro ge-
miti le vie. - 1 monsignori del Duomo si distinguevano per la ro-
tondita dell'addome : gli altri ministri del culto, meno qualche pro-
fessore damerino, facevano gara di collaretti bisunti. Delia decenza
pubblica si teneva poco conto. Mentre i fianchi del Duomo veni-
vano liberamente usufruttati per sfogo di una secrezione meno
pura; presso gli scalini, in sul far della notte, si davano convegno
barattieri e ruffiani d'ogni specie, i quali senza scrupolo di sorta,
offrivano ai passanti la merce proibita. Nel centro della citta, a
poca distanza della cattedrale, esistevano case di vizio. A tutte le
ore del giorno, le piu sozze femminaccie scendevano in sulla porta,
o afPacciavansi alle fmestre, e colla voce o con gesti laidissimi invi-
tavano a salire. Ai veglioni della Canobbiana e del Carcano,1 eb-
brezza e dissolutezza inenarrabili. In una notte di sabbato grasso,
al teatro Fiando,2 si dovette sospendere il veglione, e i poliziotti
fecero sgombrare la sala, perche i cavalieri danzanti s'erano spo-
gliati infmo alia camicia.
Risaliamo alle region! elevate. Marchesi godeva fama di scultore
eminentissimo ; Canella e Bisi emergevano nel paesaggio; Sabba-
telli era insuperabile negli affreschi, Molteni chiamato Timperatore
dei ritrattisti, Sanquirico, scenografo della Scala e cavaliere di piu
ordini, riceveva, con alterezza principesca, principi visitatori. Ros
sini, Bellini e Donizetti fornivano il repertorio musicale ai grandi e
piccoli teatri. Piacevano due o tre opere di Mercadante. Pacini, gia
quasi obliato, nel 1842 riviveva glorioso colla Saffo.3 Alia Scala si
1. Canobbiana . . . Carcano: teatri dove, specie durante il carnevale, si svol-
gevano balli mascherati. II teatro della Canobbiana, costruito dal Pier-
marini e inaugurate nel 1799, fu chiamato cosi perche sito sull'area delle
antiche scuole di Paolo da Canobbio. Piu volte danneggiato e modificato
nelle successive ricostruzioni e 1'attuale Teatro Lirico. II teatro Carcano,
inaugurate nel 1805, soprawive ancor oggi in corso di Porta Romana.
2. Fiando : teatro scomparso gia sulla fine del secolo scorso ; era sito nel
pretorio dell'antica piazza dei Mercanti. 3. La Saffo di Giovanni Pa
cini (1796-1867) da Catania era stata rappresentata la prima volta a Na-
poli, nel 1840. II Pacini aveva gia avuto molti applausi a Milano, nel 1813,
con 1'opera Annetta e Lucinda,
STORIA DI MILANO DAL 1836 AL 1848 265
rappresentavano con successo i Falsi Monetari del Rossi,1 lo Sca-
ramuccia e la Chiara del Ricci,2 il Furioso3 di Donizetti, il Buon-
tempone del Mandanici,4 tutte opere in oggi obliate o dannate al
ludibrio dei piccoli teatri. La Malibran era morta, la Pasta abban-
donava la scena; Rubini, Lablache, Tamburini, Galli e gli altri
creatori illustri delle opere di Rossini e di Bellini, emigravano al-
Pestero per cogliere paghe favolose nei teatri di Londra e di Parigi.
Salvi, Moriani, Ronconi, la Tadolini, la Strepponi, la Schober-
lechner, Poggi, la Frezzolini, Guasco, Debassini, Ferri, aprivano,
con altri pochi valenti, 1'epoca nuova. Fervide, accanite polemiche
suscitavano la Cerrito e la Taglioni; una pantofola della Cerrito fu
pagata duecento franchi. LaElssler, apparsa piu tardi, faceva obliare
le due antagoniste awenturate ; il pitale della Elssler fu comperato
da un fanatico al prezzo di lire seicento. - Nella quaresima del
1842, coll'opera il Nabucco, si palesava un nuovo atleta delParte
musicale, il maestro Giuseppe Verdi. Tutti i dotti si scatenarono
atrocemente contro lui, ma il pubblico non tardo un istante a ren-
dergli omaggio. Gustavo Modena recitava al Lentasio5 la Zaira, il
Luigi XI, YOreste, il Filippo? e di la passava al Carcano ed al Re,7
dove la sua forte e poetica declamazione produceva insoliti effetti.
Al teatro Re, nella stagione di quaresima, recitava periodica-
mente la Compagnia Sarda, che conto, fino all'ultimo, attori di-
stintissimi. La Ristori, al fianco della Marchionni, rappresentava
le parti ingenue ed amorose, tipo ideale di bellezza. NelParte dram-
matica emergevano il Vestri, attore unico nel suo genere, il Bon,
il Taddei, il Gattinelli, il Ventura, la Robotti, la Romagnoli, il
Dondini - Ernesto Rossi, Tommaso Salvini, la Sadowski, il Ma-
i. Lauro Rossi (1812-1885) di Macerata, direttore del Conservatorio di
Milano dal 1856 al 1871, aveva dato alle scene 1'opera La casa disabitata
o ifalsi monetari, la prima volta a Milano nel 1834. 2. Luigi Ricci (1805-
1859), di Napoli Piu nota la Chiara di Rosemberg (Milano, 1831) che lo
Scaramucda. 3. L' opera teatrale II furioso alVisola di San Domingo di
Gaetano Donizetti fu data primieramente alle scene nel 1833. 4. Pla-
cido Mandanici (1798-1852) di Barcellona di Sicilia, diresse a Milano una
rinomata scuola di ballo e composizione. Autore di molte opere in musica,
compose, tra 1'altro, // buontempone di porta Ticinese, dato alia Scala il
16 giugno 1841. 5. Lentasio: altro teatro milanese, di carattere popolare,
sul corso di Porta Romana. 6. Zaira e una tragedia di Voltaire; il Luigi
XI e un dramma storico di Casimir Delavigne (1793-1843); I'Oreste e il
Filippo sono due note tragedie delTAlfieri. 7. Dal nome dell'impresario
Carlo Re si chiam6 il teatro che sorgeva nei pressi delTattuale piazza San
Fedele. Inaugurate nel 1813, fu abbattuto nel 1872 nei lavori di sistema-
zione della zona contigua alia nuova Galleria del Mengoni.
266 ANTONIO GHISLANZONI
ieroni, e quasi tutti gli attori piii illustri dei tempi nostri, aggregati
alia Compagnia di Gustavo Modena, si ispiravano alle lezioni ed
agli esempi di quel grande. La Compagnia Lombarda, istituita da
Giacinto Battaglia e diretta dal Morelli, arruolava sotto le sue ban-
diere il fiore delle giovani reclute, iniziando, pel teatro drammatico,
un'era novella. Scrivevano per la scena italiana il Bon, il Nota, il
Brofferio, il Giacometti ed altri pochi. Giacinto Battaglia e Giu
seppe Revere1 fornivano qualche dramma storico non si tosto ap-
plaudito che obliato. Goldoni era sempre gustato. II repertorio
di Scribe e d'altri autori francesi godeva pieno favore. Si tentarono
per la prima volta le tragedie di Shakespeare e di Schiller; YOtello,
recitato dal Modena, fu al teatro Re male accolto; assai bene il
Wallenstein. Una tragedia di Manzoni, recitata parimenti dal Mo
dena,2 ottenne fredda accoglienza. Si leggevano avidamente i versi
milanesi del Raiberti.3 II primo dramma di Revere, Lorenzino de'
Medici, levo qualche rumore. Rovani, a dicianove anni,4 pubbli-
cava un romanzo storico, il Lamberto Malatesta. Uberti5 esordiva
alle lettere con un frammento di poema in versi sciolti, Le quattro
stagioni. Tutti i romanzi storici e le novelle storiche apparse dopo i
Promessi Sposi e il Marco Visconti, arieggiavano lo stile di Manzoni
e di Grossi. La povera tosa6 metteva il capo dappertutto. Correva
manoscritta una mesta poesia in morte di Silvio Pellico, ne vi era
alcuno che non sapesse recitarla a memoria. Quella poesia comin-
ciava coi versi : « Luna, romito aereo, tranquillo astro d'argento . . . »7
i. Giuseppe Revere: vedi la nota 2 a p. 300. 2. Una tragedia . . . Modena:
il Modena recito al teatro Re, presente il Manzoni, il brano del diacono
Martino (Adelchi, atto iv, scena n) e non 1'intera tragedia. Vedi R. BAR-
BIERA, Vite ardenti ?iel teatro, Milano, Treves, 1931, p. 222. 3. Giovanni
Raiberti (1805-1861) di Milano, notissimo per le sue pagine sul gatto (//
gatto e la coda, 1846), aveva scritto molte poesie dialettali (Le strade ferrate,
Elpover Pill, I fest de Natal, ecc.). 4. a dicianove anni: Giuseppe Rovani
(1818-1874), not° soprattutto per il suo romanzo / cento anni (1868-1869),
pubblic6 il Lamberto Malatesta nel 1843, a venticinque anni. 5. Giulio
Uberti 'di Brescia (1806-1876) pubblico, nel '41 e nel '42, L'inverno e La
primavera, poemetti satirici in versi sciolti. 6. povera tosa: povera ragazza
(tosa e voce milanese). I romanzi narravano allora assai spesso i casi sventu-
rati di fanciulle perseguitate dalla passione amorosa di prepotenti signori.
7. Correva . . . d'argento: la poesia, fortunatissima, si diffuse anonima fino
al 1848, quando pote essere stampata col nome dell'autore, che era Giunio
Bazzoni (1801-1849) di Milano, il quale partecipo attivamente ai moti delle
Cinque giornate. La lirica era stata scritta nel 1825, allorche si era diffu-
sa la falsa notizia della morte del Pellico allo Spielberg: per la sua tra-
smissione orale subi varie trasformazioni, anche nei primi versi (« romita,
aerea»), che qui il Ghislanzoni riproduce invece nella loro forma genuina.
STORIA DI MILANO DAL 1836 AL 1848 267
I romanzi del Guerrazzi, superato il confine, passavano da mano
a mano, divorati ansiosamente dai giovani. Giusti e Leopardi erano
poco noti ; del Giusti erano lette furtivamente le prime poesie che
giravano manoscritte. Le donne idolatravano Prati, e si inteneri-
vano alle amorose peripezie di Ermenegarda.1 I professori di ret-
torica ed i giovani poetanti inveivano acerbamente contro il gentile
e melodioso poeta, ma tutti poi lo imitavano, e, come al solito,
lo superavano nei . . . difetti. Le opere delPingegno fruttavano poco
ai mediocri, ma i distinti ne coglievano frutti, comparativamente
lautissimi. Tommaso Grossi dai Lombardi alia prima Crociata ri-
trasse da quindici a ventimila lire; Cesare Cantu colla Storia Uni-
versale e con altre opere istoriche pubblicate dippoi, arricchi. Ma
anche allora c' erano poeti e letterati che facevano pieta a vederli,
quando non ispirassero terrore. Faccie smunte, soprabiti scuciti, e
colli da stnizzo. La letteratura piu affamata pranzava alia trattoria
del Popolo, dove non pochi cantanti e ballerini gareggiavano di
appetito coi poeti. Le appendici letterarie e teatrali della « Gazzetta
di Milano» portavano alternativamente i nomi di Lambertini,
Piazza, Biorci, Cremonesi. Scrivevano libretti d'opera Felice Ro-
mani, Rossi, Bidera, Cammarano, Sacchero e Giorgio Giachetti.
Nei palchetti della Scala, durante la rappresentazione dell'opera, si
giuocava a tarocco e qualche volta si cenava. Nei massimo teatro
le panche della platea erano coperte di una grossa tela giallastra;
le scale nude di tappeti, la scena illuminata tetramente. Alessandro
Guerra, famoso equitatore, godeva una fama napoleonica. - Era
gustata la birra Tarelli, e qualche signora suggeva deliziosamente
la gazosa di fambros.2 II caffe Mazza3 era rinomato per la confezione
dei sorbetti, il caffe di Brera per gli squisiti tortelli, la chiesa di San
Marco per i suoi predicatori. - II vicere Rainieri, la sera del gio-
vedi santo, si prestava gratuitamente a lavare i piedi di dodici vec-
chioni dello stabilimento Triulzi:4 tutte le dame e i gentiluomini di
buon gusto facevano ressa per assistere a quello spettacolo. La
contessa Samayloff si rendeva celebre per una mascherata di gatti,
i. Ermenegarda: la novella in versi del Prati si intitola Edmenegarda e fu
pubblicata a Milano nei 1841. L'errore del testo e quasi certamente do-
vuto alia stampa. 2. fambros: da framboise (lampone). 3. caffe Mazza:
posto all'angolo del Coperto dei Figini, verso la Corsia dei Servi, ora corso
Vittorio Emanuele. 4. stabilimento Triulzi: ricovero di vecchi fondato nei
1771 dai principe Antonio Tolomeo Trivulzio, nei suo palazzo di via della
Signora.
268 ANTONIO GHISLANZONI
e faceva celebrare con pompa inaudita i funerali di una cagnolina.
Uno zigaro di Virginia costava due soldi di Milano. - II conte
Giulio Litta1 scriveva delle opere musicali applaudite, su libretti
del poeta Rotondi suo pensionato. Alia Scala piaceva Ylldegonda,
musica e poesia di Temistocle Solera.2 - I matrimoni dell'aristo-
crazia coll'arte erano rari come quelli della nobilta col commercio.
Levo immenso rumore il matrimonio della contessa Samayloff col
Pery, un oscuro baritone che rappresentava al teatro di Como la
parte di Carlo V ntlVErnani. - Al corso, nella prima domenica di
quaresima, non apparivano che carrozze ed equipaggi di lusso.
Non esistevano ancora gli ignobili broughams.3 Una dozzina di car-
rozzoni sepolcrali facevano il servizio della intera citta. - La pro-
cessione del Corpus Domini costituiva uno degli spettacoli piu gran-
diosi e piu popolari dell'epoca; rampolli di illustri famiglie figura-
vano da angioli nel corteggio. Uomini di censo e di una serieta in-
discutibile si contendevano Fonore di sostenere il baldacchino. -
Nelle grandi arsure dell'estate c'era un espediente sicurissimo e
poco complicato per ottenere la pioggia ; si esponevano alia pubblica
venerazione due angiolotti di legno. Le fanciulle da marito filavano
Pamore sentimentale nei boschetti di porta Renza, ai Servi ed al
Carmine, durante la messa, e al teatro Filodrammatico. Le chiese
erano affollatissime in ogni ricorrenza di triduo serale; giovinotti
dai venticinque a trent'anni assistevano alle cerimonie religiose
col ginocchio piegato, col libro delle preghiere nella mano destra.
Questi devoti solevano impiegare abbastanza vantaggiosamente an-
che la mano sinistra. - Alia Corona, slYAgnello, al Falcone, ai Cap-
pello, e in tutti gli alberghi di tal rango, si alloggiava al prezzo di una
lira al giorno. I cittadini erano gai: nelle famiglie si giuocava all'oca
ed alia tombola e qualche volta si faceva un po' di musica e si bal-
lava all'oscuro. Lotterio e Battezzati, un baritono ed un basso di
lettanti, venivano festeggiati nei salotti. II principe Emilio Bel-
gioioso era un tenore stupendo, il conte Pompeo, basso profondo
di primo ordine, cantava a Bologna lo Stabat Mater di Rossini. -
i. Giulio Litta (1822-1891) compositore di varie opere teatrali, tra cui
Bianca di Santafiora (1843), Sardanapalo, Editta di Lormo, ecc. 2. Te
mistocle Solera (1817-1878) di Ferrara, compositore e librettista, scrisse
rildegonda (1840), // contadino d'Agliata (1846) ecc. Compose vari libretti
per opere di Giuseppe Verdi. 3. broughams: carrozze a quattro ruote e a
due posti. Dal vocabolo pronunciato correttamente brum derivo la voce
milanese brumisti, cioe vetturini.
STORIA DI MILANO DAL 1836 AL 1848 269
Una libbra di manzo si pagava diciasette soldi, e meta della popo-
lazione non assaggiava carne che alia domenica o alle grandi solen-
nita della Chiesa. Si parlava meneghino su tutta la linea. Al Corso
di Porta Renza tutti portavano i guanti; sulla porta delFHagy sta-
zionavano ancora parecchi milionari. Saper nulla era lusso, moda
Tinerzia e la ciocca.1
La contessa Samayloff era la lionne di Milano. Una sera, al teatro
Re, ella recito con molto garbo una parte principalissima nel
dramma francese Le prime armi di Richelieu.2 La rappresentazione
aveva scopo benefico, e il canonico Ambrosoli sedeva nelPatrio
del teatro a sorvegliare il bacile. Le dame, per invidia, detestavano
la contessa ; i poveri ne dicevano il maggior bene. - La moglie del
vicere Rainieri,3 dal suo palchetto alia Scala, dardeggiava col bi-
noccolo i giovinotti piu alia moda. Uno dei lions piu avidamente 6c-
chieggiati dalla arciduchessa, si compiaceva di imbarazzarla colle
sue pose stranissime e non affatto decenti. - Produsse gran sensa-
zione un incendio awenuto a Corsico,4 che divoro buona parte del
paese. - Un fallimento dava materia a discorrere per parecchi anni,
e la famiglia di un fallito vestiva a lutto o spariva dal consorzio cit-
tadino. - In fatto di equipaggi, non era permesso il tiro a sei che a
S. A. I. R. il Vicere, ed a Sua Eminenza monsignor PArcivescovo. -
II vicolo delle Ore e il sottopassaggio che dalPinterno del Duomo
metteva alPArcivescovado erano i punti prescelti pei convegni amo-
rosi. Verso le estremita del boschetto pubblico prospicienti la strada
Isara,5 si presentavano, sul far della notte, dei gruppi mostruosi . . .
L'osteria dei Tre Scranni si rese celebre per una awentura degna
di figurare nel Decamerone, e lo sgraziato protagonista, che fini
imprigionato, per disdoro della curia era un prete. - In estate, le
bande tedesche chiamavano al cafFe Cova una folia mista di buon-
temponi e di fanciulle da marito. L'ingresso al caffe costava mezza
lira e questa dava diritto alia consumazione di un gelato. I Baconi,
i Paumgartten ed i Kaiser fornivano le migliori bande musicali. -
i. la ciocca: Tubriacatura. 2. Les premieres armes de Richelieu, ((vaude
ville » in due atti, rappresentato per la prima volta in Parigi al Theatre du
Palais Royal, la sera del 3 dicembre 1839, di Jean-Fra^ois- Alfred Bayard
(1796-1853) e di Philippe Francois Pinel Dumanoir, o Du Manoir (1806-
1865). 3. La moglie ... Rainieri: Maria Elisabetta di Carignano (1800-
1856), sorella di Carlo Alberto. 4. Corsico: sobborgo di Milano. 5. la
strada Isara: Fattuale via Palestro, tra la piazza Canonica (oggi piazza
Cavour) e il borgo di porta Orientale (corso Venezia).
270 ANTONIO GHISLANZONI
La varieta delle monete era notevolissima e qualche volta imba-
razzante, contuttocio il popolo ambrosiano non pote mai divezzarsi
dal contare in lire milanesi. Esistevano spezzati di ogrd valore: il
centesimo, il sesino, il tre centesimi, il soldo, il carantano, la par-
pagiuola, il tre e mezzo, il quartino, il nove meno un quattrino, il
diciasette e mezzo, il dicianove soldi (tre lire di Parma), il venti
soldi. II valore della svanzica ando gradatamente elevandosi dai
ventitre ai venticinque soldi di Milano. Fino al 1848, ebbero gran
voga i crocioni e i quarti di crocione. II Trentanove1 ebbe gli onori
di una brillante poesia dettata da Ercole Durini,2 gentiluomo ama-
bilissimo e ricco di ingegno.
Fra le monete d'oro, figuravano ancora le pezzette, gli zecchini,
le colombie, le sovrane, le papaline, le messicane, le genove, i luigi,
le panne. - II duca Litta, recandosi a Lainate con legno di posta, a
ciascun postiglione gettava per mancia un marengo. I ballerini
ed i mimi, notevoli per la loro chioma raffaellesca, stazionavano
sulla porta del caffe della Cecchina, detto dei virtuosi. Effisio Catte
faceva colazione nella retro bottega del salsamentario Morandi;
Cumirato, un tenore in perpetua disponibilita, pranzava tutti i
giorni deiranno col caffettiere del teatro Re, pagandolo di facezie
e di epigrammi. - Non esistevano giornali umoristici ; il « Cosmo-
rama Pittorico », istituito dallo Zini, contava settemila abbonati. -
In piazza Castello si giuocava al pallone. - In una bottega sulla
Corsia del Duomo, si offerse per circa sei mesi uno spettacolo di
pulci ammaestrate, le quali eseguivano diversi esercizi ginnastici;
tutta Milano corse ad ammirarle. - II Meneghino Moncalvo3 re-
citando alia Stadera ed alia Commenda, si faceva imprigionare re-
golarmente due volte alia settimana per Parditezza delle sue allu-
sioni antiaustriache. II teatro Santa Radegonda, a cui si ascendeva
per una scala di legno, era piu angusto, piu sudicio e piu tetro che
non sia al presente. - Merelli, impresario del teatro alia Scala,
possedeva una superba villa a Lentate, e dava commission! ai piu
celebri pittori e scultori. - Rovaglia, vestiarista degli imperiali regi
i. // Trentanove: detto piu esattamente trentanoeuv-men-on-quattrin e lo
stesso che il quarto di crocione. 2. Ercole Durini: vedi la nota i a p. 338.
3. Giuseppe Moncalvo, nato nel 1781, fu detto Meneghino dalla maschera
rappresentata. Spesso trascorreva le notti in guardina: a volte i poliziotti lo
liberavano per le ore della rappresentazione e lo riconducevano poi in pri-
gione. Ha lasciato una breve autobiografia (Autobiografia del vecchio artista
Giuseppe Moncalvo, Milano, L. Brambilla, 1858).
STORIA DI MILANO DAL 1836 AL 1848 271
teatri, sfoggiava sul corso un magnifico equipaggio, - L'agente
Burcardi veniva giustamente considerate il piu magro cittadino
di Milano. - L'abate Gianni, un colossale gigante, regalava pub-
blicamente due schiaffi al figlio di Radesky, che lo aveva insultato,
e n'aveva dal generale felicitazioni ed encomii. - Di duelli non si
udiva parlare ; le quistioni piu complicate si scioglievano col metodo
estemporaneo dei pugni e delle reciproche bastonature. - Le teste
dei poliziotti, nei quartieri di porta Ticinese e di porta Comasina,
furono piu volte sprofondate nel vano dei loro keppy torreggianti. -
I barabba1 portavano gli orecchini e si radevano la nuca; i garzoni
da macello si distinguevano per due enormi ricci poco simmetrici,
striscianti sull'orecchio. - Prima del 1840, il tabarro costituiva Pin-
dumento invernale piu usitato. Vi erano tabarri da quattro, e per-
sino da otto a dieci pellegrine. II paletot veniva generalmente adot-
tato verso il 1841. - II giorno di Pasqua, fosse pioggia o bel tempo,
meta della popolazione indossava arditamente gli abiti estivi. II
pantalone di nankin2 godeva in estate il massimo favore. Sul Corso
si incontravano ad ogni passo delle dame seguite da un domestico
in livrea. I cani favoriti dalle signore appartenevano alia razza dei
carlini o dei maltesi. - Balzac soggiornava per alcun tempo a Mi
lano,3 e durante quella breve dimora, notava che le figlie delle nostre
portinaie avevano 1'aspetto di altrettante regine. II celebre roman-
ziere veniva derubato di una preziosa tabacchiera che ben tosto gli
era restituita per cura delPimperiale regio direttore di polizia. - II
baritono Varesi cantava alia Scala nel Corrado d'Altamura e nella
Saffo di Pacini. - Dal Conservatorio uscivano famosi istromentisti,
il Piatti, il Bottesini, PArditi, il FumagallL
Gli allievi del Conservatorio portavano un'uniforme poco dis-
simile da quella dei comrnissari di polizia, vale a dire una marsina
verde scuro con bottoni dorati e cappello a barchetta. II giovedi e
la domenica, quei giovani musicisti delPawenire passeggiavano
a schiera sui bastioni e sul Corso. L'alunno Antonio Cagnoni scri-
veva la sua prima opera Don Bucefalo* mentre a Giuseppe Verdi
i. / barabba: i bravacci, i mafiosi. 2. di nankin: di anchina, una tela di
color giallo, che proveniva da Nanchino, cioe dalla Cina. 3. Balzac . . .
a Milano: si allude quasi certamente alia presenza di Balzac a Milano
nel 1837. 4. Antonio Cagnoni (1828-1896) diede il Don Bucefalo nel 1847
al teatro Re di Milano. A questa prima opera molte altre ne seguirono
(II testamento di Figaro, 1848; Amori e trappole, 1850, ecc.).
272 ANTONIO GHISLANZONI
era negata Tammissione nel Conservatorio, dietro verdetto di un
professore di pianoforte onnipotente.1 II maestro Triulzi, orribile
a vedersi, dava lezioni di canto alia bella Finoli ed alia Lotti. Rolla,
e piu tardi Cavallini, dirigevano 1'orchestra della Scala, che contava
fra i suoi migliori istromentisti TErnesto Cavallini solista di clari-
netto, il Daelli oboista, Rabboni professore di flauto e Merighi pro
fessore di violoncello. Ferrara creava eccellenti allievi nel violino.
Angelo Mariani, bellissimo giovane, dirigeva il concerto e 1'orche-
stra del teatro Carcano nell'autunno dell'anno 1846 e nella prima-
vera del 1847. - Alberto Mazzucato2 scriveva pel teatro delle opere
piu o meno accette, e dettava articoli di arte nella « Gazzetta Mu-
sicale»,3 edita dal Ricordi. Anche il Lucca, editore di musica, isti-
tuiva un giornale artistico letterario, l'« Italia Musicale», dove il
Cattaneo, il Raiberti, il Rovani, il Ceroni, il d'Azeglio, il Vitali ed
il Piazza scrivevano articoli svariatissimi. II cavaliere Andrea Maffei
donava all' Italia le sue splendide traduzioni di Schiller e di Moore,4
e il prevosto Riccardi, con un libro nel quale si prediceva vicinissi-
ma la fine del mondo, destava il piu vivo alParme nel pubblico.
Correvano trascritte brillanti poesie di Ottavio Tasca in onore della
Cerrito e della Taglioni. Tutte le strenne che uscivano in Milano
portavano una ode od una novella di Pier Ambrogio Curti.5 II
maestro Bonino giungeva desiderato nelle sale della piu eletta so-
cieta pel brio delle sue narrazioni, per lo spirito inventive delle
sue celie. Nelle case della borghesia furoreggiava il Rabitti, con-
traffacendo il ronzio della vespa, lo stridore della sega, la tosse ed il
rantolo dei morenti. Nelle osterie si giuocava alia mora fragoro-
samente. Sulla porta del caiFe Martini brillava il vecchio Catena,
protettore di cantanti e ballerine, che viveva da signore colla ren-
dita di un capitale non piu ingente di lire diecimila. Alia Scala si
rappresentava un Don Carlo del Bona,6 ed a Genova un Ernani
i. a Giuseppe Verdi ... onnipotente: cio era awenuto nel 1832. 2. Al
berto Mazzucato (1813-1877) di Udine esordi come operista nel 1834,
a Padova, con Lafidanzata di Lammermoor, e continue con numerose opere.
Fu insegnante, dal 1839, al Conservatorio di Milano, del quale divenne poi
(1872) direttore. 3. « Gazzetta Musicals*', ne fu poi redattore lo stesso
Ghislanzoni. 4. Di Thomas Moore (1779-1852), poeta irlandese, il MafFei
tradusse le Melodie irlandesi e Gli amori degli angioli. Dello Schiller, invece,
aveva tradotto tutti i drammi: ed e questo il suo lavoro migliore. 5. Pier
Ambrogio Curtt, awocato, ebbe fama a Milano per le sue novelle, ma il suo
nome resta piuttosto legato al volume Tradizioni e leggende di Lombardia
(1857). 6. Pasquale Bona (1816-1878) di Cerignola, compositore e inse
gnante di canto.
STORIA DI MILANO DAL 1836 AL 1848 273
del maestro Mazzucato. L'attore Giovanni Ventura1 destava fa-
natismo nel Torquato Tasso2 e nel Vagabondo? e pubblicava una
raccolta di poesie in dialetto milanese, scritte col miglior garbo.
Sulla piazzetta di S. Paolo, le botteghe del parrucchiere Miglia-
vacca e del calzolaio Brivio rivaleggiavano di lusso e di celebrita.
II Brivio, nelPatto di prender la misura ad un piedino elegante di
donna, si compiaceva di esplorare a mezzo di uno specchio accol-
lato al fondo del suo cappello e deposto ai piedi della cliente, i
contorni d'altre polpe piii intime, le quali non reclamavano la
scarpa. — Lo stabilimento di educazione diretto dal signor Racheli
era nel massimo fiore, e quivi si educavano liberalmente i giovanetti
delle famiglie piu cospicue. II professore abate Pozzone4 pubbli
cava delle liriche manzoniane, splendide nel concetto e nella forma.
Giuseppe Barbieri5 teneva il primo posto fra gli oratori ecclesia-
stici, e un altro Barbieri, credo Gaetano,6 traduceva, oltre i ro-
manzi di Walter Scott, non saprei quante centinaia di altri romanzi.
L'omeopatia suscitava polemiche accanite, e il Raiberti vi pren-
deva parte colle sue satire piene di attico sale, Un Lanfontaine
venuto di Francia dava i primi saggi di magnetismo al ridotto
della Scala. La fotografia sulla carta non era peranco inventata od
almeno si ignorava: i ritratti al dagherrotipo su lamina di zinco
preparato, costavano da dieci a venti £ ranch! cadauno, riproducendo
una immagine sbiadita e molto spesso enigmatica.
La grande invenzione degli zolfanelli fulminanti data dal 1834.
Un mazzetto di quegli zolfini greggi, che in oggi si vendono a un
soldo la dozzina, in sulle prime costava dodici soldi. Per piu mesi
i. Giovanni Ventura (1800-1869) fu considerate allora poco inferiore a
Gustavo Modena. Per le sue poesie, vedi G. VENTURA, Poesie milanesi e ita-
liane, Milano, F. Vallardi, 1859. 2. II Torquato Tasso cui si allude e
certamente il dramma in versi di Paolo Giacometti (1816-1882), che fu
composto nel 1855. II lavoro piu farnoso .del Giacometti resta La morte
civile. 3. Vagabondo: si tratta probabilmente della commedia Un vaga-
bondo e la sua famiglia, composta nel 1835 da Francesco Augusto Bon
(1788-1858), autore e attore drammatico, che ha lasciato anche un libro
di memorie, intitolato Avventure comiche e non comichey ed ebbe ai suoi
tempi molti ammiratori. 4. Giuseppe Pozzone (1792-1842) di Trezzo,
di cui furono molto lodati i versi (anche dal Cattaneo) e che oltre a varie
poesie (L?immortalita\ I versi a mensa; A mia madre; Per messa novella,
ecc.) raccolse anche i suoi Sermoni sacri e morali. 5. Giuseppe Barbieri
(1774-1852) di Bassano, celebre come oratore sacro, ma anche poeta, e di
idee liberali che gli procurarono persecuzioni. 6. Gaetano Barbieri, che
era professore di matematica, tradusse anche drammi di Shakespeare.
274 ANTONIO GHISLANZONI
si vendettero al prezzo di soldi sei, quindi scesero gradatamente
fino al carantano. Molti vecchi inorridivano di quel trovato; per un
momento si ebbe a temere, che in seguito ai tanti reclami, alle
tante proteste della popolazione antiquata, lo zolfanello venisse
proscritto dalle leggi. Gli istinti del pipistrello e del gufo son propri
della maggioranza, e questa fece sempre una brutta smorfia ad ogni
sprazzo di luce. L'inventore dello zolfino fulminante non lascio
traccie del suo nome, e cosi al Prometeo del secolo nostro manco
Fapoteosi dei carmi e dei quadri coreografici.
L'arcivescovo Gaisruck e il conte Mellerio1 si detestavano, fau-
tore quest'ultimo delle fraterie, Taltro nemico e oppositore perti-
nace. I liceisti e i forestieri delle provincie assistevano, in piazza
del Duomo, al concerto quotidiano della banda che suonava sotto il
palazzo del vicere. Vaccai,2 1'autore della Giulietta e Romeo e d'altre
opere teatrali, presiedeva alia direzione del Conservatorio. Do
nizetti era maestro di Corte a Vienna, e scriveva, per quel teatro
italiano, la Linda e la Maria di Rohan? Ogni anno egli tornava alia
Bergamo nativa per abbracciare il suo vecchio maestro Simone
Mayr,4 il quale, cieco d'occhi e affranto dagli anni, si era esclusi-
vamente dedicate alle composizioni di chiesa. - Ignazio Marini, il
celebre basso, veniva per sempre rinviato dal teatro delPopera di
Vienna, per avere, ad una rappresentazione di gala a cui assisteva
Pimperatore, emessa una nota troppo profonda che nessuno pote
illudersi gli fosse uscita dal petto. - A quelPepoca, gli artisti si
prendevano delle strane licenze, e il governo, purche non si trat-
tasse di licenze politiche, si mostrava tollerantissimo.
Temistocle Solera, viaggiando col basso Marini da Milano a
Stradella in legno di posta, involto nella zimarra teatrale di Fa-
i. Giacomo Mellerio, membro della Reggenza milanese alia caduta del
Regno d' Italia, anima della Restaurazione religiosa dopo il ritorno del-
1' Austria. 2. Nicola Vaccai (1790-1848) di Tolentino fu professore di
composizione e censore del Conservatorio di Milano dal 1838 al 1844.
L'opera Giulietta e Romeo, considerata il suo migliore lavoro, e del 1825.
3. Donizetti ... Rohan: Gaetano Donizetti fu nel 1841-1842 a Vienna
« maestro direttore dei concerti privati» di Corte. Nel teatro Viennese di
Porta Carinzia ebbero grande successo le sue opere Linda di Chamonix
(1842) e Maria di Rohan (1843). 4. Giovanni Simone Mayr (1763-1845),
bavarese, fu maestro di cappella nella chiesa di S. Maria Maggiore di Ber
gamo e direttore, ivi, della Scuola di musica. Gia autore di musica sacra,
di molti oratori, scrisse circa settanta opere, tra cui la Saffo, rappresentata
a Venezia nel 1794.
STORIA DI MILANO DAL 1836 AL 1848 275
Hero,1 trinciava benedizioni a quanti villani si trovavano sul di lui
passaggio, e questi a inginocchiarsi e fare il segno della croce.
L'autore di questo frammento storico, partito da Codogno dopo
una rappresentazione dQlYAttila,2 con indosso 1'armatura e le ma-
glie di Ezio3 romano, in tale abbigliamento scendeva alPAncora, e
quivi prendeva alloggio. - Un giovane scapato e di mano pronta
applicava due schiaffi sonori alia moglie d'un celebre impresario
nelFatrio del piu vasto teatro. Un tale awenimento fece parlare il
mondo milanese per dieci anni di seguito. - Per quanto mi dolga
recar sfregio alia tanto vantata moralita di quei tempi, non debbo
tacere di una festa da ballo privata, ove convennero in buon numero
persone di ambo i sessi, abbigliate nel semplicissimo costume di
Eva e di Adamo. La polizia austriaca non si commosse dello scan-
dalo - quei danzatori cosi succinti nelle vesti non erano persone
da cospirare contro la sicurezza dello Stato. Un Congresso di scien-
ziati chiamo gran folia a Milano nel 1846. II popolo profitto del-
Foccasione per testimoniare il suo rispetto alia scienza. Nelle trat-
torie si gridava al cameriere: — Un piatto di scienziati! — e quegli
a recar tosto un piatto di zucche o di patate. Anche i somarelli
vennero in quell' epo ca salutati col medesimo titolo. -Nobili istinti
delle masse!
Uomini che pensassero all' Italia, che fremessero del servaggio
straniero, che abborrissero 1' Austria, erano in numero assai scarso.
I piu ignoravano che un' Italia esistesse. Eppure, qualcheduno agiva
in secreto, qualcheduno scriveva, qualcheduno assume va Fincarico
pericoloso di propagare i fogli di Mazzini. Allora c' erano rischi
tremendi a parlare di politica, foss'anche col piu intimo degli amici.
Taluni che troppo osavano, cadevano in sospetto di spie. Le Prigioni
di Silvio Pellico erano ritenute un libro ultrarivoluzionario. Qual
cheduno, tremando, osava declamare le liriche concitate del Ber-
chet, in circolo ristretto di conoscenti. Tali ardimenti cominciavano
verso Fanno 1842.
Si impiegavano sei ore per trasferirsi in vettura da Milano a Pa-
i. II Marin Falierot opera di Gaetano Donizetti, apparsa sulle scene nel
1838. 2. L' opera musicale Attila di Giuseppe Verdi apparve sulle scene
nel 1846, a Venezia. 3. II generale romano Ezio nella battaglia dei Campi
Catalaunici (451 d. C.) vinse gli Unni guidati da Attila e ne fronteggio
ranno successivo Finvasione in Italia. Fu ucciso nel 453 in una congiura
di palazzo voluta dalFimperatore Valentiniano III.
276 ANTONIO GHISLANZONI
via; non era permesso di varcare senza passaporto i confini della
Venezia.
Le maschere carnevalesche erano insulse e indecenti. Ai veglioni
della Scala non era permesso lo accedere senza Tabito nero e un
piccolo domino alia spagnuola, che ordinariamente si prendeva a
nolo per dieci o venti lire. La guerra dei coriandoli, al giovedi e al
sabbato grasso, assumeva proporzioni intollerabili. - Recandosi in
autunno alle ville, le famiglie patrizie trasportavano enormi ba-
gagli. - Gli stradali da Milano a Varese, e quelli della provincia di
Lodi e Cremona erano infestati di ladri. II brigantaggio scomparve
lentamente colPestendersi delle comunicazioni e colla coltivazione
dei terreni boschivi. - La Valtellina, la Brianza, i colli del Vare-
sotto producevano dei vinetti esilaranti. II Monterobbio e V Inferno1
rivaleggiavano coi piu famosi vini dell'estero. Ogni anno, gli ele-
ganti di Milano facevano regolarmente la loro comparsa alia sagra
di Imbevera2 ed ai mercati autunnali di Lecco. I signori, boriosi e
stolidissimi, dopo aver vissuto famigliarmente in campagna con
persone del ceto medio, negavano a queste il saluto, scontrandole
pochi di dopo sul lastrico di Milano. - I Bergamaschi alloggiavano
alTAgnello, i Lecchesi alia Corona, i Pavesi a Sant* Ambrogio alia
Palla ed al Pozzo, i Lodigiani al Cappello ed al Falcone. Fra quei di
Bergamo e quei di Milano duravano livori e rappresaglie. - La
Pasta e la Taglioni comperavano ville sul lago di Como. II poeta
Ottavio Tasca sposava la Taccani cantante. II poeta awocato Baz-
zoni3 si annegava nelle acque del Lario ; tutti gli anni qualche po-
vero innamorato si gettava dal Duomo.
Alia morte delParcivescovo Gaisruk, e poco dopo, alia entrata
trionfale del suo successore Romilli,4 si manifestavano nelle vie i
primi segnali della insurrezione latente. In piazza Fontana, in una
serata di luminaria fatta ad onore del nuovo arcivescovo, echeggia-
i. Monterobbio . . . Inferno: vini rinomati; il primo, prodotto dai vigneti di
Montarobio (in milanese Monterobbi), colle presso Merate (Como); 1'altro
della Valtellina. 2. sagra d" Imbevera: Bevera e il nome di un fiumicello
della Brianza che nei pressi di Brenno si riversa nel Lambro. Da esso ha
nome la Madonna d* Imbevera, che il Cherubini (Vocabolario milanese-
italiano) dice «santuario di poca appariscenza, ma assai frequentato dai
Brianzuoli . . . e 1'8 di settembre anche da molte persone del bel mondo
della citta di Milano, di Bergamo e di Como, le quali v'accorrono per quella
specie di festa di cui il Cantu ha difrusa la celebrita colla sua Madonna
d* Imbevera ». 3. Bazzoni: vedi la nota sap. 266. II Bazzoni mori nel 1 849,
cadendo da una balza delle montagne sopra L&zzeno, e non affogato nelle
acque del Lario. 4. Gaisruk . . . Romilli: vedi la nota i a p. 314.
STORIA DI MILANO DAL 1836 AL 1848 277
rono le prime grida di Viva Pio IX. I dragord, prorompendo a ca-
vallo nel mezzo della folia, misero in fuga i dimostranti, e un povero
fabbricatore di mobili, certo Ezechiele Abate, rimase morto sul
terreno . . .
E qui, lettori miei, pongo fine al mio riassunto, giacche mi pare
di aver adunata materia sufficiente per riempire i due volumi com-
messimi dall'editore. Certo e che, descrivendo gli awenimenti in
ordine di date, e riproducendo le circostanze di luogo e di persone
con tratti piu larghi, ben altro mi sowerra alia mente, che qui venne
omesso per oblio. Ma questo breve ed informe sommario non potra
a meno di suggerire dei confronti e di provocare vivaci discussion!
fra gli insanabili adoratori del passato e i fanatici dell' era presente.
In poche parole esprimero Pawiso mio. AlPepoca teste descritta,
la citta di Milano contava i milionarii in maggior numero, ma Pagia-
tezza era minore assai nelle classi borghesi e nelle masse che vivono
d'arte o d'industria. II patriziato e 1'alto commercio sfoggiavano
un lusso abbagliante, ma il cilindro obbligatorio del calzolaio, del
salumiere, del pittore, del letterato e delPimpiegato, brillava di un
lucicore miserevole che ricordava allo sguardo le traccie bavose del-
la lumaca. II vestito di seta non era sceso alia donna del popolo;
e la sartorella sollevando la gonna per trapassare i frequenti riga-
gnoli, metteva in mostra delle calze e delle sottane piu atte a de-
primere che a suscitare i salaci istinti di un ammiratore. In lettera-
tura, emergevano delle individuality piu distinte, ma la massa del
popolo era quattro volte piu idiota. C'erano persone serie, che si
occupavano di sen studi, che pubblicavano seriissimi lavori, ma le
crasse maggioranze ne pensavano, ne studiavano, ne leggevano. La
musica era in fiore, ma assai meno compresa che oggigiorno : si ap-
plaudivano con fanatismo degli insigni capolavori ma altresi veni-
vano acclamati degli aborti oggidi intollerabili. II ceto lavorante
spendeva meno per vivere, ma era meno retribuito. Notevolissima,
in ogni modo, esemplarissima e degna della massima ammirazione
era a quei tempi la rassegnazione a pagare il testatico, a sopportare
i balzelli, a subire i prestiti forzosi, a sopportare i rabuffi e le fru-
state degl'imperiali regi commissarii di polizia, ed anche la basto-
natura dei sergenti croati.
E questa rassegnazione, questa pazienza nel subire tanti malanni,
si chiamava amore del quieto vivere.
Lecco - iSo.
GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
PROFILO BIOGRAFICO
GIOVANNI VISCONTI VENOSTA nacque a Milano il 4 settembre
1831 da Francesco e da Paola Borgazzi, secondo di tre figli maschi,
che Emilio, il primogenito, aveva tre anni piu di lui, e altrettanti
ne correvano dal minore, Enrico.
La famiglia era oriunda della Valtellina e i suoi maggiori vi ave-
vano dimorato costantemente, legati a Tirano e, specialmente, a
Grosio da ampie proprieta terriere, ed anche dalla attivissima parte
sostenuta nelle vicende storiche della regione. Era stato il nonno,
Nicola, a fissarsi per primo a Milano, dal 1823, e vi era morto nel
1828. Da allora la famiglia alternava le sue residence con le sta-
gioni, che Testate e buona parte deH'autunno si spostava in Valtel
lina, per passare poi a Milano gli altri mesi delTanno.
I Visconti Venosta, di origine nobile, erano legati di amicizia a
varie famiglie aristocratiche milanesi, soprattutto a quelle di spiriti
liberali, che erano allora le piu numerose. I fanciulli iniziarono i
loro studi nelFistituto Boselli, che era il piu stimato degli istituti
privati di Milano, ma piu ancora trovarono una intelligente guida
nel padre, uomo colto e aperto ai problem! del tempo. Risentirono
percio anche piu fortemente della sua morte immatura, awenuta
nel 1846. Da allora continuarono gli studi un po' disordinatamente,
con maestri privati, spesso distratti dagli awenimenti politici che
rapidamente si susseguirono in quegli anni fortunosi e che li tra-
scinarono presto, come elementi attivissimi, nel turbinoso pro-
gredire del nostro Risorgimento. Pure, la loro vita intellettuale si
svolse ugualmente vigorosa: frequentavano assiduamente la casa
di Cesare Correnti, cui il padre, morendo, li aveva raccomandati,
e che raccoglieva intorno a se molti degli ingegni e degli spiriti piu
vivaci del tempo: da quelle conversazioni Emilio e Giovanni trae-
vano stimolo a nuove idee e a sempre nuove letture, soprattutto
degli scrittori risorgimentali, e Giovanni ricorda nelle sue memorie
la passione con cui allora scopri D'Azeglio, Guerrazzi, Giusti,
Gioberti, Balbo, Mazzini e 1'influenza che esercitarono su lui i versi
del Berchet.
In realta, Giovanni era allora in troppo tenera eta perche aweni
menti e letture potessero gia far sorgere da lui notevoli frutti, come
invece aweniva per Emilio. Fin da quei tempi egli viveva aH'ombra
282 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
del fratello maggiore, ne seguiva le orme: e fu questa, anche dopo,
la sua sorte, tanto fu il rilievo che acquisto Emilio nella vita italiana.
Sicche spesso gli studiosi, postisi a ricostruire la figura di Giovanni,
hanno finito col narrare ad un tempo, almeno per il periodo che va
fino al 1859, la comune esistenza dei due fratelli. II che awenne
allo stesso Giovanni nel ripercorrere i suoi ricordi. Insieme essi ap-
plaudirono a Pio IX e alle sue riforme, si dolsero della morte del
Confalonieri, parteciparono alle dimostrazioni in onore del nuovo
vescovo di Milano, il Romilli, succeduto al tedesco Gaisruck, in-
dossarono giacche di velluto, ostentarono cappelli alia calabrese.
Vissero, insomma, i notissimi episodi della Milano del tempo, fino
alle Cinque giornate, pur sostenendovi, naturalmente, una assai
diversa parte, come comportava la loro eta. Cosi, mentre Emilio,
gia studente universitario, si arruolava tra i volontari di Garibaldi
nel '48, Giovanni, ancora diciassettenne, era costretto a restare con
la madre ed Enrico, e a rifugiarsi poi con essi nel Canton Ticino,
a Bellinzona.
Ma tracciare la vita di Giovanni in quei tempi significherebbe
ripercorrere le vicende del Risorgimento : anch'egli ascolto, entu-
siasta, a Lugano, il Mazzini; soffri della presenza dei Croati in
Milano e in Valtellina; si riempi di amarezza per la sconfitta di
Novara, il dramma di Brescia, la caduta di Venezia e di Roma. Se-
guirono anni di grigiore e di raccoglimento, ma anche di viva
resistenza al dominio straniero. Le universita restavano chiuse, il
Teatro alia Scala era affollato di ufficiali austriaci, le sale di scherma
e le palestre ginnastiche erano state serrate. Non vi erano giornali,
se non quelli governativi. NeU'ombra, veramente, si ricostruivano
i comitati mazziniani, ma gia i fratelli Visconti si venivano allon-
tanando dai repubblicani e si orientavano verso altre concezioni
politiche. Giovanni organizzo con altri amici nel palazzo dei suoi
cugini Parravicini una sala di scherma con sciabole di legno, e una
palestra ; divenne assiduo nel salotto della contessa Maffei, in casa
di Carmelita Manara, di Emilio Dandolo ; fu tra i collaborated del
«Crepuscolo» insieme col fratello Emilio. Intanto la repressione
austriaca diventava piu dura, i nuclei mazziniani erano scompagi-
nati da arresti e condanne (Antonio Sciesa, don Giovanni Griola
ecc.), si iniziavano i processi di Mantova, falliva miseramente la
rivolta mazziniana del 6 febbraio del '53, trascinandosi dietro come
funebre scia nuove forche ed altri martiri. Giovanni ed Emilio
PROFILO BIOGRAFICO 283
guardavano ormai al Piemonte, speravano nel Cavour, si esaltavano
per la spedizione di Crimea, seguivano ansiosi il Congresso di Pa-
rigi. Una vita, in sostanza, cosi intimamente scandita nel ritmo
degli awenimenti storici, da non potersi distinguere da essi, da
formare una inscindibile unita. Di veramente personale, in quegli
anni, vi fu solamente il lungo viaggio che nel 1853 Giovanni effettuo
col fratello Emilio fino in Sicilia, dal luglio al settembre: ma a ben
guardare, anche quel viaggio fu compiuto con occhi sempre vigili
e intenti a scoprire se vi fossero speranze per 1* Italia.
Pure, sarebbe in errore chi ripensasse quei giovani come alfie-
rianamente tesi in una lotta senza riposo. Anche la lotta aveva le
sue pause di sorriso, che la mostrano, proprio per questo, piu
umana. Nel '55, a Tirano, Giovanni rallegrava se stesso e gli amici
con quei versi senza senso, alia Burchiello, che faceva declamare a
un sarto, attore dilettante, nel teatro del luogo; nello stesso anno
metteva in scena, in casa di donna Giulia Carcano, a Milano, una
commediola scherzosa, Nicolb o la questione d' orient e, in cui gli at-
tori recitavano imitando le marionette, e rappresentando la guerra
russo-turca, allora iniziata, con una buffonesca parodia, che la po-
lizia austriaca si afrretto a proibire; nel '56 componeva quello
scherzo poetico, La partenza del crodato, che ebbe tanta fortuna.
Ed erano gli stessi anni in cui le citta della Lombardia ofFrivano
ognuna un cannone alia fortezza di Alessandria, e alia patriottica
manifestazione partecipava anche la Valtellina, auspice Giovanni
Visconti. Del resto, anche la resistenza organizzata due anni dopo,
nel '58, contro le blandizie di Massimiliano d' Austria, nuovo go-
vernatore del Lombardo-Veneto, mostra un miscuglio di durezza
e di scherzo: nacque in un salotto, come una bravata, 1'idea di
sfidare a duello chiunque si awicinasse all'arciduca austriaco, ma
la bravata cre6 poi impegni e pericoli non lievi.
Momento culminante delle manifestazioni antiaustriache in Mi
lano fu per i fratelli Visconti il funerale di Emilio Dandolo. II loro
atteggiamento, soprattutto quello di Emilio, mette in moto la po-
lizia. Diviene necessaria la fuga: quella di Giovanni oscilla fra il
tragico e il comico, come si puo leggere nelle pagine dei Ricordt
che abbiamo riprodotto. A Torino si ritrovano insieme i due fratelli,
poco prima della dichiarazione di guerra. Giovanni si iscrive tra i
volontari comandati dal Mezzacapo, fa parte col fratello della com-
missione consultiva di lombardi chiamati a proporre i decreti am-
284 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
ministrativi da emanare appena occupata la Lombardia. Iniziata
Poperazione militare, Emilio diviene commissario regio al campo
di Garibaldi, Giovanni e nominate commissario regio per la Val-
tellina. Da questo momento la vita dei due fratelli si svolge su vie
diverse. Emilio andra a Modena a raggiungere il Farini, vi lavorera
dopo Villafranca per le annessioni, correra a Napoli nel 1860 e si
awiera rapidamente a quelle funzioni di primo piano che lo ve-
dranno per ben sette volte ministro degli esteri del Regno d' Italia,
nel periodo dal 1863 al 1901. Giovanni, finite il suo commissariato
in Valtellina, sopraggiunto Parmistizio di Villafranca, tornera a
Milano. Da allora, la sua esistenza si svolgera su un piano che po-
tremmo chiamare municipale. Presidente del comitato di soccorso
per Pemigrazione veneta, vi compira a lungo un'azione benefica,
preparazione lontana delPannessione della Venezia nel 1866; scri-
vera per un anno di argomenti letterari nel giornale « La perseve-
ranza», dopo che il « Crepuscolo » avra interrotto la sua pubblica-
zione; diverra assessore della Giunta di Milano nel 1860, in seguito
alle prime elezioni di quel municipio, e sara attivo collaborator,
con questa carica, del primo sindaco di Milano, Antonio Beretta.
Sono gli anni in cui egli diresse al comune la pubblica istruzione,
e poi i servizi urbani, sempre continuando a far parte della com-
missione scolastica. Nel 1865 fu eletto deputato per il primo col-
legio di Milano. Divenne presidente delPAssociazione costituzio-
nale milanese, presiede per undici anni PAssociazione generale de
gli operai, fu posto a capo della Societa autori ed editori dal 1886 al
1906. Aveva compiuto da poco settantacinque anni, quando soprag-
giunse la morte, il i° ottobre del 1906.
Ma piu che il succedersi delle molteplici cariche interessa in-
vece, per tracciare un suo profilo, Pattivita letteraria che egli svolse,
gli scritti da lui pubblicati dopo il 1870.
Nel suo primo gruppo di Novelle, raccolte in volume dal Le
Monnier di Firenze nel 1884, figurano tre lunghi racconti, Una
scappata fuori del nido^ Lo scartafaccio delVamico Michele^ L'avvo-
cato Massimo e il suo impiego : il secondo dei quali riapparve succes-
sivamente, in volume separato, presentandosi con Paspetto di ro-
manzo piu che novella. In realta, se non per la loro ampiezza, certo
per la varieta delle vicende, dei personaggi, degli ambienti, tutti e
tre i racconti si potrebbero considerare dei romanzi. II primo, che
reca il sottotitolo Memorie di Alberto, narra in prima persona di un
PROFILO BIOGRAFICO 285
giovane provinciale trascinato e illuso da comitati rivoluzionari,
in cui e evidente la parodia degli agitator! mazziniani: e anche ir-
retito, a Milano, dalla sua stessa vanita, per cui si fa credere nobile
e di ricchissima famiglia. Naturalmente, come non dura la sua
finzione, cosi Alberto si awede fmalmente dell'ingannevole vani-
loquio e del meschino imbroglio dei suoi compagni cospiratori:
sicche se ne torna al paese rinsavito, e subito dopo anche purificato
dalla guerra del '66, cui partecipa da valoroso. Racconto, evi-
dentemente, a tesi, con una sua morale, che vorrebbe ammonire
a non uscire dal proprio guscio, a non lasciarsi illudere da fanatismi
rivoluzionari, ma rimanere ben fermi nella scia ufEciale, monarchica
del nostro Risorgimento, senza eccessive ambizioni e pericolose
vanita. L'intento morale e sociale appare cosi scoperto che a volte
il racconto ne e fortemente turbato, anche se la sincerita degli
ideali, il candore delle intenzioni, la fluidita della prosa ne ren-
dono ancora piacevole la lettura. Ne diversa impressione suscita
il secondb racconto, in cui un anziano personaggio, Michele,
dopo avere intensamente operate per il Risorgimento nazionale,
ormai convinto d'esser vecchio e malato, ed ancor piii amareg-
giato e deluso di non ritrovare nella realta quella patria ideale per
cui ha combattuto, decide di ritirarsi da ogni attivita e rifugiarsi
nel suo piccolo paese natio. Ma lo spettacolo di ingiustizie e di
intrighi, di prepotenze e di corruzione che gli si presenta nel suo
Borghignolo, lo trascina a riprendere la sua operosita civile, a in-
tervenire nella vita del suo comune, a divenirne il sindaco. Un
chiaro invito, in sostanza, alia generazione che aveva lottato fino
alia proclamazione del Regno d* Italia, perche non si mettesse da
parte e mantenesse invece nelle sue mani oneste e sicure Pammi-
nistrazione del paese, minacciata dalla gente nuova. E un racconto
a tesi e anche il terzo, che Pawocato Massimo lascia il suo paesello
di Castelrenico, dove vive agiatamente, aspirando a un alto impiego
che un amico deputato gli ha fatto vagamente sperare : e se ne va a
Milano, e consuma ogni suo avere nelPattesa di quell'impiego e si
affanna a mantenere se stesso, e la famiglia che si e creata, in un
tenore di vita insostenibile, ma che gli appare necessario perche
queirimpiego gli sia finalmente concesso. Ma quando la nomina
viene, si tratta di un cosi misero posticino, che solo la contempo-
ranea rovina economica lo induce ad accettarlo : e si trascina allora
per lontani paesi, fra difficolta e pericoli, e perde infine la moglie e
286 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
Timpiego stesso, finche la mano affettuosa di un amico, che ha avuto
la saggezza di restare a lavorare a Castelrenico e vi ha fatto fortuna,
10 rialza da tanto awilimento e rovina, e lo riconduce al paese verso
una nuova vita.
Letteratura, dunque, con intenti civili, che si propone di conti-
nuare, in diverse modo, quell'operosita e queirapostolato patriot-
tico gia svolti dal Visconti nel periodo precedente. Era questo, del
resto, un orientamento alquanto diffuse, che in quei medesimi anni
11 De Amicis scriveva le sue varie opere per educare gli italiani ai
suoi ideali. Ma, certo, assai minore era nel Visconti la capacita
architettonica, che i suoi racconti, anche quelli che compose negli
anni successivi, sembrano spesso incompleti, e le vicende restano
abbandonate alia fantasia del lettore, appena la tesi che lo scrit-
tore si era proposta ha raggiunto una sufficiente dimostrazione.
In compenso, e molto piu dominata la sentimentalita, che nel De
Amicis invece tende ad effondersi senza freno : e vi e maggior cura
nel ritrarre uomini e cose della provincia, quasi per un parziale
affermarsi degli orientamenti veristici. Certi personaggi - il far-
macista, il fornaio, la ragazza di paese, Martin matto, i cospiratori
di provincia — sono gia curati con un gusto delP ambient e, che fa
da contrasto all'intento civile e a volte lo travolge in una creazione
piu disinteressata. Manzoniana, invece, e ancora la prosa, con quel
suo fluire pacato e il piacere dell'ironia: ma tanto piu fresca e agile
quanto meno profondo, infmitamente, e lo spirito da cui e nata.
Molte di queste osservazioni potrebbero ripetersi per // curato di
Orobio (1886), dove 1'influsso del Manzoni e anche piu evidente
nella stessa trama. Enrico e Cristina, due giovani di diversa condi-
zione sociale, il cui amore e awersato dalla nobildonna Flavia, zia
e tutrice della giovinetta, ma e fortemente protetto dal curato don
Cornelio, giungono dopo molteplici peripezie a potersi unire in
matrimonio. -L'interesse del racconto, piu che sui motivi sociali,
si appoggia tutto sulla contrapposizione di un clero fortemente
evangelico, liberale, patriottico, che ha la sua idealizzata figura in
don Cornelio, e un clero zotico, calcolatore, meschino. Si coglie
Fansia di una riforma morale del sacerdozio, il desiderio di vederlo
rinnovato da un ritorno alia purezza evangelica : atteggiamenti che
certo precorrono, sebbene in modo vago, quelli di cui sara dopo
pochi anni vivace esponente Antonio Fogazzaro, ma che in buona
parte derivano anche dal ricordo dei tanti sacerdoti caldamente
PROFILO BIOGRAFICO 287
impegnati nelle lotte risorgimentali e cosi diversi da quelli ormai
chiusi e diffident! dopo Poccupazione di Roma e la contemporanea
ventata anticlericale.
Molto inferiori, sotto ogni aspetto, i Nuovi racconti del Visconti
Venosta, che il Treves raccolse in volume nel 1897. Sono tre rac
conti — La settima medaglia, II matrimonio d'Eloisa, Urf ascensione
al Zebru - e in essi riappaiono temi e procedimenti gia apparsi nelle
prime Novelle, ma senza il vigore di un tempo, e anzi con sbanda-
menti e incertezze di disegno e lungaggini ingiustificate, che non
invitano a un attento esame.
L'opera migliore del Visconti Venosta sono certamente i Ricordi
di gioventii, che gia precisano il loro carattere nel sottotitolo : cose
vedute o sapute, 1847-1860. Non sono, dunque, i ricordi di un
uomo, ma di un popolo; le vicende milanesi di un periodo ecce-
zionale, quali le aveva viste e vissute Pautore, che le sente ormai
tutt'uno con la propria giovinezza. Non vi e dubbio che queste
memorie siano un documento notevolissimo per gli storici : il Lisio
le giudico esattissime, pienamente concordi con altre fonti, e ricche
di aneddoti anch'essi oltremodo attendibili. Ne puo togliere valore
storico ai Ricordi 1'osservazione che essi disegnano il Risorgimento
da un solo angolo visuale: quello che attribuisce ogni merito al
Cavour e al Piemonte, svalutando Mazzini e la sua azione. Anzi,
e proprio tale parzialita che fa dei Ricordi una fonte per lo storico,
anziche una «storia» gia tracciata. Ma non e certo questo il loro
pregio maggiore. I Ricordi ricostruiscono un ambiente, Panimo di
un'epoca con affettuosa nostalgia, in un tono simpaticamente in-
termedio tra il rimpianto di quegli anni e la gioia di averli vissuti :
e non vi e mai posa eroica, ma anzi spesso un sorriso indulgente e
una sottile vena di umorismo, quasi che con le memorie tornasse
ancora la giovinezza spensierata e audace di quei tempi lontani.
Nessuna traccia di una tesi, di una polemica o di una propaganda
politica : eroi veri ed eroi da melodramma, martiri d'una idea e fa-
natici paradossali sono ugualmente rivisti con affetto, rievocati con
obbiettivita serena, in uno stile tranquillo, senza eccessi di lirismo,
senza spunti epici : e se anche a volte scoppia la frase di esaltazione,
essa resta fuori dal tessuto del racconto, come una didascalia o un
commento morale facilmente isolabile.
Certo, chi guardi prevalentemente alia forma, alia tecnica stili-
stica, potra restare deluso dalPandamento prosastico del racconto :
288 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
ma quella noncuranza formale e il segno genuine di ima ricchezza
interiore, della serieta morale di tutta una vita, si che, se la pagina
isolata puo sembrare sbiadita, i capitoli nella loro interezza lasciano
ben altra impressione. Basterebbero, a provarlo, il quadro vivissimo
delle Cinque giornate, cosi ricco di chiaroscuri misuratissimi, o
certi rapidi scorci del viaggio a Napoli e in Sicilia, o, infine, per non
citare ulteriormente, la commossa rievocazione dei funerali di Emi-
lio Dandolo e la successiva fuga eroicomica dell' au tore dalla Lom-
bardia verso il libero Piemonte. Ed e stato per noi motivo di insi-
stente cruccio il non poter offrire una scelta piu ampia di queste
vivissime tra le memorie del nostro Ottocento.
Di Giovanni Visconti Venosta, detto anche Gino, non esiste una compiuta
ed esauriente biografia. Per il periodo fino al 1860 la si puo ricostruire ser-
vendosi dei suoi Ricordi di gioventu, per gli anni successivi giovano parzial-
mente allo scopo: L. FERRARI, Onomasticon: repertorio biobibliografico degli
scrittoriitalianida.il 501 al 1850, Milano, Hoepli, 1947; A. DE GUBERNATIS,
Dictionnaire international des ecrivains du monde latin, Rome-Florence
1905-1906, e, naturalmente, YEnciclopedia Italiana e V Enciclopedia Cat-
tolica. Notizie sparse si possono ricavare anche dai saggi e dagli articoli
di giornale che citeremo piu innanzi.
Per gli scritti minori di Giovanni Visconti Venosta citiamo le edizioni
che abbiamo presenti: Novelle, Firenze, Le Monnier, 1884; // curato di
Orobio, Milano, Treves, 1886; Nicolo o la questione d'oriente, Milano,
Treves, 1886; Nuovi racconti, Milano, Treves, 1897; Lo scartafaccio del-
V arnica Michele, Milano, Cogliati, 1899. La prima edizione dei Ricordi di
gioventu apparve a Milano, presso Cogliati, nel 1904, ma dopo pochi giorni,
data Tenorme richiesta, 1'editore ne pubblico una seconda edizione. Nel
1906 il Cogliati stesso starnpd una terza edizione (da noi seguita) in due
tipi, con illustrazioni e senza illustrazioni. L' edizione piu recente, col no-
me di 5a, risale al 1925, sempre a Milano, presso il Cogliati. Non ho visto
n6 ho notizia della 4a edizione. I due scherzi poetici, di cui ho fatto cenno
nel Profilo, sono riprodotti in note poste dallo stesso autore ai suoi Ri
cordi di gioventu.
Non sono molte, e tutt'altro che esaurienti, le pagine dedicate dagli stu-
diosi alle opere del Visconti Venosta. Ricordiamo quelle che abbiamo visto :
G. MAZZONI, in Rassegne letter arie, Roma 1887, pp. 28 sgg. (sul Curato
di Orobio); G. ZOCCHI, Scadimento del romanzo, Roma, Uff. della « Ci-
vilta cattolica», 1901, pp. 176-9; G. STIAVELLI, Poesia senza sensoy Roma
1904; O. BRENTANI, Giovanni Visconti Venosta, in «Corriere della Sera»,
2 ottobre 1906 (in occasione della morte); L. PULLE, A raccolta, Milano
1911, pp. 318 sgg.; G. CRESPI, Le caricature poetiche di Giovanni Visconti
Venosta, in « La lettura», giugno 1913. Si occupano piu particolarmente dei
PROFILO BIOGRAFICO 289
Ricordi di gioventu i seguenti scritti : A. D*ANCONA, Dalle Cinque giornate al
«grido di dolor e^, in « II giornale d' Italia », 15 maggio 1904; D. CHIATTONE,
Le memorie di un patriotta, in « II Piemonte» (pubblicato a Saluzzo), 2,1
maggio 1904; F. LAMPERTICO, in «Rassegna nazionale», i° giugno 1904,
PP- 474-8; G. Lisio, in «Archivio storico lombardo », in (1905), serie 4%
pp. 192-210; G. STIAVELLI, Ricordi d'altri uomini e d'altri tempi: Giovanni
Visconti Venosta, Frascati 1905; M. SCHERILLO, Visconti Venosta minor 'e,
in «La let±ura», maggio 1915, pp. 395-405.
DAI «RICORDI DI GIOVENTtl»
[PRIMI RICORDI]1
Se spingo il mio pensiero, lontano, nei tempi della mia infanzia a
cercarvi qualche fatterello, o piuttosto qualche impressione, mi si
affacciano dei vaghi ricordi, che mi dicono quanto fossero diverse
le abitudini e la vita di quei tempi. La prima e massima linea di
separazione tra quei tempi e i tempi nuovi fu segnata dal 1848.
Da allora tutto muto rapidamente, nelle abitudini domestiche,
. nella vita cittadina, nelle usanze, nelle menti, direi quasi come se
fosse passato un secolo, non un breve tempo. Ripensando ai tempi
di prima, tutto mi si affaccia come in un mondo diverso ; un mondo
piu semplice, piu rispettoso, e piu uniformemente tranquillo, come
uno stagno. Noi ragazzi, nella nostra famiglia, come dissi, eravamo
educati con una grande dolcezza, ma nelle famiglie degli altri fan-
ciulli, nostri amici, Peducazione era piu severa; si ragionava poco,
e si ubbidiva molto. In una famiglia di quei tempo non si sarebbe
mai udito « si fa la tal cosa, o non si fa, perche nostro figlio, od anche
solo la nostra bambina, vogliono o non vogliono»! Una simile pre-
tesa avrebbe fatto ridere come una incredibile stranezza. I balocchi,
i divertimenti, erano pochi e semplici. Nelle famiglie signorili si
pranzava tra le quattro e le cinque del pomeriggio, e dopo pranzo
si andava in carrozza al Corso, che si svolgeva tra la Porta Orientale,2
ora Porta Venezia, e i bastioni vicini, sotto la direzione d'un Com-
missario di polizia a cavallo, seguito da due ussari. Le carrozze che
vi intervenivano erano molte, e tutte a due cavalli. Una signora
non sarebbe andata mai in un legno a un sol cavallo, e non usciva
a piedi che seguita da un domestico in livrea.
Non c' erano vetture pubbliche, come ora; c'erano solo dei fiacres
a due cavalli in alcune piazze della citta, e servivano specialmente
pei forestieri. I cosi detti broughams5 non comparvero che dopo il
1850, e gli omnibus assai piu tardi.
La prima signora che a Milano sfoggib un elegante brougham, a
un cavallo, venuta da Parigi, fu la marchesa Ippolita d'Adda Sal-
vaterra Pallavicino. Di questo fatto allora si parlo molto a Milano.
Alle ville, in campagna, ci si andava coi cavalli propri, perche
i. Ed. cit., dal cap. I, pp. 10-28. 2. Porta Orientale: vedi la nota zap.
260. 3. broughams: vedi la nota sap. 268.
292 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
non c'erano ferrovie, alFinfuori del breve tronco di dodici chilo-
metri tra Milano e Monza, aperto nel 1842.* Noi andavamo nelle
nostre case in Valtellina, distant! da Milano da 1 60 a 170 chilometri,
col nostro legno e coi nostri cavalli, impiegandoci tre giorni. L'il-
luminazione a gaz per le vie di Milano non principi6 che nel 1845.
Alle volte il babbo e la mamma ci conducevano al teatro alia
Scala, ove si diceva che c'erano dei grandi maestri e de' grandi
cantanti; ma cio che m'interessava soprattutto era il balletto co-
mico, che chiudeva lo spettacolo dopo il hallo grande.2
Qualche volta poi nostro padre ci conduceva a sentire il Modena,3
e ci diceva : — Quando sarete grandi, vi fara piacere ricordarvi di
questo attore.
Una delle impressioni, che mi rimase viva per parecchi anni, fu
lo spavento che aveva messo in tutti la prima invasione del colera
in Lombardia.4 Mio padre si conservava calmo, come di solito, ma
mia madre era spaventata, e voile lasciare Milano. Si ando a To
rino, ma prima di passare il Ticino si dovette fare una quarantena
di parecchi giorni in una villa, che mise a nostra disposizione il
conte Francesco Annoni, amico e parente di mio padre. Alcune
stampe di quel tempo raffiguravano il colera in forma d'un dia-
volo, anche piu brutto del solito, che percorreva i paesi spar-
gendo un veleno. Per me dunque il colera non era altro che quel
diavolo, e mi guardavo sempre in giro per scansarlo, caso mai
comparisse.
Dopo il colera, ci fu nel 1838 Pingresso solenne in Milano di
Ferdinando I,5 il nuovo Imperatore d* Austria, ch'era successo al
padre. Fui condotto anch'io su un terrazzino del corso di Porta
Orientale a vedere lo spettacolo della fastosa sfilata di cavalieri in
ricchi costumi, di araldi, e di cocchi dorati. Quando arrive la car-
rozza, tutta oro e cristalli, nella quale c'erano T Imperatore e rim-
1. nel 18421 la ferrovia Milano-Monza fu inaugurata il 17 agosto 1840.
2. «Alla Scala Popera veniva interrotta a meta dal ballo, detto "grande";
finita 1'opera c'era il ballo "piccolo", o "balletto comico". Di questi "bal-
letti" ne fu celebre uno, che rappresentava in caricatura tutti i giovani ele-
ganti milanesi piu noti a quel tempo » (nota del Visconti Venosta). 3. Gu
stavo Modena (1803-1861), uno dei piu famosi attori tragici italiani; fu
anche fervido patriotta. Sono rimaste celebri le sue interpretazioni del-
PAlfieri. 4. la prima . . . Lombardia: la prima epidemia colerica si diffuse
in Italia negli anni 1835-1837; in Lombardia divampo nel 1836. 5. Fer
dinando I d'Austria (1793-1875) sali al trono nel 1835, succedendo al padre
Francesco I, e abdico a favore del nipote Francesco Giuseppe nel 1848.
RICORDI DI GIOVENTt 293
peratrice, parecchi lungo la strada incominciarono ad applaudire
ed a sventolare i fazzoletti. lo guardavo con tanto d'occhi, e bisogna
dire che in quel momento avessi levato di tasca il fazzoletto anch'io,
perche a un tratto mi sentii prendere fortemente pel braccio da un
giovinotto piu alto di me, che mi era vicino, e che mi disse bru-
scamente: — Guardati bene dalPapplaudire quando Plmperatore
passera qui sotto!
Fissai quel giovane stupefatto, e senza capire nulla, ma mi guar-
dai bene dall'applaudire. Poco dopo domandai alia mamma la spie-
gazione di quel comando ; essa mi rispose che quel giovanotto aveva
avuto ragione, ma che certe cose le avrei capite piu tardi. Era questa
una risposta che sentivo sovente, e non chiesi altro. Quel giova
notto si chiamava Guido Susani,1 che rividi molti anni dopo, e
col quale entrai in amicizia; un'amicizia che fu spesso attraversata
da nuvole e da temporali, poiche quelFarroganza, sotto i cui auspici
avevo fatto la sua prima conoscenza, lo accompagnava sempre, sia
che avesse torto, sia che avesse ragione, come in quel giorno del-
Tentrata dell'Imperatore.
Ma siccome i bambini molte volte vanno ruminando tra se nel
pensiero sulle cose udite e non capite, soprattutto quando si dice
loro che son cose che capiranno piu tardi, cosi ho poi ruminato
anch'io sulle parole del Susani, e a poco a poco, pigliando a volo
una parola qua, una parola la, sentendo parlare da mia madre della
storia pietosa di Teresa Confalonieri,3 e del Pellico da mio padre,
imparai che gli austriaci erano una cosa detestabile. In casa nostra
non erano mai venuti ne ufiziali, ne alti funzionari austriaci.
Bisogna dire che la parola diplomatico avesse colpito, a que£
tempi, la fantasia di mio fratello Emilio,3 poiche ricordo che quando
gli domandavano, come si fa coi bambini: — Che cosa vuoi fare
i. Guido Susani (1824-1892), nato a Mantova. Giovanissimo al tempo di
questo episodic, si laureo poi in ingegneria ed ebbe fama e onori. Deputato
di Sarnico e poi di Sondrio, dove dimettersi, nel 1864, perche risulto coin-
teressato nella Societa delle ferrovie meridionali, proprio mentre era rela-
tore di una legge a favore di questa Societa. Visse, da allora, soprattutto
in Francia, e mori a Parigi. 2. Teresa Confalonieri: Teresa Casati (1787-
1830), moglie di Federico Confalonieri (1776-1846). 3. Emilio Visconti
Venosta (1829-1914), fratello maggiore di Giovanni, fu poi tra i piu no-
tevoli ministri degli esteri del Regno d' Italia, e copri tale carica per ben
sette volte, dal 24 marzo 1863, quando entr6 a far parte del gabinetto Min-
ghetti, fino al 15 febbraio 1901, in cui lascio tale portafoglio, che aveva
tenuto nel gabinetto Saracco.
294 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
quando sarai grande ? — rispondeva : — Voglio fare il diplomaticol —
e si rideva. Una volta pero, quando fu piu grandicello, il babbo gli
disse: — Sta bene, se tu dici cio come un proposito di studiare se-
riamente; ma ricordati che nel nostro paese c'e un governo che non
dobbiamo servire!
L'anno dopo la venuta delPImperatore fui mandate a scuola per
far la prima classe elementare, ma un caso disgraziato, che poteva
essermi fatale, mi fece interrompere le lezioni per alcuni mesi. Un
giorno fui preso dalla curiosita di sapere che cosa ci fosse nelPar-
madio di una stanza di servizio, che vedevo sempre chiuso : Papersi,
e in mezzo a molte bottigliette ne trovai una sulla quale era scritto
« Malaga vecchio » : ne tracannai un sorso ; mi sentii come una flam-
ma in bocca, e caddi a terra. Era acido solforico.
Fui in grave pericolo per parecchi giorni, soffrendo molto ; guarii
lentamente, e ne risentii per un pezzo.
Mio fratello Emilio, che andava a scuola gia da tre anni, aveva i
suoi piccoli amici, ch'eran parecchi, ma i tre piu intimi erano i figli
del marchese Antonio Trotti,1 Lodovico e Lorenzo, che poi mori
giovane, e Saule Mantegazza. Queste amicizie erano naturalmente
accompagnate da quelle dei rispettivi parenti ; in casa Trotti poi ci
andavano altri ragazzi, e di carnevale c'erano delle lezioni di ballo,
delle belle festicciuole anche in costume, e delle recite. Era un
grande divertimento, e i miei genitori conducevano anche me. Una
sera per6 Emilio ebbe un dispiacere, ed uno lo ebbi anch'io.
Emilio ballava con una bambina d'Azeglio, vestita alia Bernese2 con
una gran cuffia; urtati nel ballare, caddero tutt'e due; fecero per
rialzarsi, ma in grazia del cuffione della bambina e delle maglie
strette che aveva Emilio, non ci riuscirono ; ruzzolarono sotto una
tavola, e ci voile un po' di tempo per levarneli.
Emilio, da quel giorno, non voile ballar piu.
II mio dispiacere Febbi alcune sere dopo. Mia madre aveva com-
binato con la marchesa Fanny d'Adda De Capitani ch'io ballassi
i. i figli . . . Trotti: Antonio Bentivoglio Trotti (1798-1879), nobile mila-
nese, pur non svolgendo parte attiva, fu tra i sostenitori della causa nazio-
nale. Attivissimo, invece, fu il figlio Lodovico (1829-1914), combattente
tra gli insorti milanesi nelle Cinque giornate, e poi nelle guerre del '48,
del '59, del '66. Fu tra i milanesi che sostennero la soluzione monarchica
del problema italiano. Vedi A. MALVEZZI, II Risorgimento italiano in un
carteggio di patrioti lombardi, Milano 1924. 2. alia Bernese: secondo il
costume delle Alpi bernesi.
RICORDI DI GIOVENTt 2Q5
una quadriglia con la sua bambina Lauretta. La quadriglia and6
disastrosamente, e non seppi piu neanche dove fosse andata a finire
la mia ballerina. Per un pezzo, anche dopo quella sera, io continuai
a incolparne quella bambina, mentre essa continu6 a prendersela
con me.
Chi mi avrebbe detto allora che quella bambina sarebbe un
giorno diventata mia moglie!1 Eppure la nostra prima conoscenza
e datata da quella sera, e comincio con un disaccordo che doveva
essere il primo e rultimo.
Da bambini, noi tre fratelli eravamo gracili, nervosi, vivacissimi.
Percio nostro padre non voile mandarci a scuola, e neanche farci
insegnar Falfabeto, che dopo i sette anni compiuti. Cosi, fino a
quelPeta, non si fece che giocare, saltare e passeggiare, accompa-
gnati dal babbo, ch'era sempre con noi, e prendeva occasione da
ogni piccola cosa per interessarci a tutto cio che si vedeva.
Allora non c'erano scuole di ginnastica, ed in casa nostra non
c'era un giardino ; percio nostro padre ne aveva preso uno in affitto,
dove ci conduce va ogni giorno a far il chiasso, mentre lui se ne
stava sotto una pianta con un libro in mano.
Le scuole pubbliche elementari a quei tempi erano scarse, e
non buone. Nei Ginnasi e nei Licei c'era qualche bravo professore,
e anche celebre, ma si studiava poco, e superficialmente. A Milano
c'erano diversi Istituti d'insegnamento private, e tra questi il Bo-
selli2 e il Racheli erano i due piu importanti, che accoglievano i
figliuoli di molte tra le migliori famiglie.
Noi fummo mandati all'Istituto Boselli, ove c'erano alcuni tra i
migliori professori d'allora, tra i quali Achille Mauri,3 noto lette-
rato, e che piu tardi nella Camera Piemontese, nei Senato italiano
e nei Ministero della Pubblica Istruzione lascio un nome caro ed
onorato.
i. Lauretta . . . mia moglie: Giovanni Visconti Venosta spos6 Laura D'Adda
Salvaterra, dopo che essa rimase vedova del suo primo rnarito, il nobile
Scaccabarozzi. 2. Antonio Boselli (1803-1848), direttore delTIstituto, cadde
tra i primi nella insurrezione delle Cinque giornate (cfr. p. 318). Vedi A.
VANNUCCI, I martiri della liberta, Milano, Bortolotti, 1887, n, pp. 340-1.
3. Achille Mauri (1806-1883), letterato (traduzione del Messias di Klopstock;
una Vita di son Carlo Borromeo ; il romanzo storico Caterina Medici di Broni
ecc.), insegn6 per alcuni anni, fino al 1847, nell'istituto Boselli. Attivissi-
mo nella insurrezione di Milano del '48, esule in Piemonte, deputato,
torno a Milano nei '59. Senatore dal 1871. Gli era stato offerto dal Rat-
tazzi, dopo Villafranca, il ministero dell'istruzione, rna non lo accetto,
per modestia.
296 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
Nell'Istituto Boselli la prima classe elementare era tenuta da un
certo maestro Pozzi, uomo di moltissimo ingegno, il quale, dopo
aver fatto il professore di matematica in un Liceo, aveva voluto de-
dicarsi ai fanciulli, per esperimentare certi suoi metodi che dove-
vano condurli a imparare rapidamente il leggere, lo scrivere, un
po3 d'aritmetica, ed altre belle cose.
I metodi del maestro Pozzi, dawero ingegnosissimi, consistevano
in una serie continua di giochi traverse i quali si imparava in fretta,
senza fatica, anzi divertendoci moltissimo. De' suoi sistemi alcuni
sono rimasti, e sono in uso, senza che alcuno rammenti chi primo
li introdusse. Tra i suoi scolaretti il Pozzi poi ne sceglieva alcuni, e,
sempre a furia di giochi, insegnava loro cose che facevano sbalordire
i buoni genitori, quando presentava i suoi piccoli allievi agli esami,
come cagnolini ammaestrati.
Ma non c'erano solo i giochetti, c'era di serio nella scuola del
Pozzi che 1'insegnamento diventava facile, attraente, rapido, senza
stancare mai la mente tenera dei bambini, e senza far nascere quelle
ripugnanze precoci che ispiravano molte volte le vecchie scuole.
II maestro Pozzi lascio la scuola pochi anni dopo, e mori gio-
vane. Tra gli ultimi suoi scolari ci fu mio fratello Enrico, a cui
prodigo cure affettuose e pazienti, che non dimentichero mai.
Mio fratello Enrico, a cagione d'una malattia cerebrale avuta da
bambino, era giunto fino agli otto anni senza quasi poter profferire
le parole. Si temette da principio che fosse muto ; ma non era sordo,
e dava segni d'intelligenza svegliata. Mio padre s'intese col maestro
Pozzi, il quale a poco a poco, in un paio d'anni, riusci a snodar la
lingua ad Enrico, e a farlo parlare, con un seguito di espedienti
ingegnosi e amorevoli.
Mio fratello Enrico divento un uomo di mente svegliata e acuta ;
ebbe Fanimo buono e giocondo, lo spirito pronto e arguto.
Tutto amore pei suoi fratelli, le sue preoccupazioni, i suoi
pensieri, eran tutti, e sempre, rivolti a loro, con un affetto quasi
figliale.
Finche visse, le abitudini mie furono le sue; eravamo sempre in-
sieme, in casa, in campagna, nelle conversazioni, nei divertimenti ;
non ci lasciavamo mai.
II suo carattere aperto e leale, la grande bonta del suo animo lo
rendevano caro ai molti che lo conobbero e che ne cercavano con
premura 1'amicizia. Mori a 46 anni, nel 1881, e la sua perdita, che
RICORDI DI GIOVENTtl 2Q7
rimpiango ogni giorno, mi lascio privo quasi d'una parte di me
stesso.
II maestro Pozzi aveva per assistente un chiericotto, che pareva
awiato a divenir prete ; ma quel chierico abbandono presto il collare
e 1'insegnamento delPalfabeto. Piu tardi lo ritrovai, quando fui alia
Universita; si chiamava Taw. Antonio Mosca e fu mio professore
di legge. Dopo il 1859 divento deputato, e fu un' illustrazione del
Foro Lombardo.
II direttore, Antonio Boselli, aveva dato molta riputazione al suo
Istituto circondandosi sempre di ottimi professori. Quanto valesse
lui non lo so, ma nej suoi alunni non desto 1'impressione simpatica
lasciataci dai suoi maestri e professori. Ne avevamo paura: era duro,
severo, e distribuiva con grande facilita ingiurie e scappellotti, spe-
cialmente a quelli che teneva in pensione.
Le prime confidenze su queste abitudini manesche del Boselli
le ebbi da alcuni condiscepoli dejla prima classe ginnasiale. Era-
vamo in tre sul medesimo banco, e io ero nel mezzo. Fin dal primo
giorno feci una grande amicizia coi miei due compagni, e incomin-
ciarono le confidenze mentre si mangiavano i due panini concessi
nella mezz'ora della ricreazione. Due panini, nulla di piu; i rego-
lamenti scolastici, allora, non permettevano altro, e la concessione
d'un po' di companatico era un affare non facile. II mio vicino di
sinistra era un giovanetto magruccio, pallido, timido; aveva due
gran mani, gonfie, rosse pei geloni, e sanguinolenti. Era un con-
vittore, e mi raccontava che il Boselli li faceva alzare col lume nel-
rinverno prima di scuola, e li metteva a studiare in camerotti freddi,
distribuendo poi con facilita fior di ceffoni senza economia; e mi
diceva che quando i convittori erano irrequieti, il Boselli, chia-
mando morbosa 1'irrequietudine, sornministrava loro dei purganti.
Non so dei purganti , ma dei ceffoni ne pigliava parecchi anche
il mio povero compagno. Poverino! e infatti aveva Faria intimi-
dita e malinconica. Ma non lo era di natura, poiche quando piu
tardi, divenuto io amico in casa sua, ci ritrovammo, in mezzo ai
suoi fratelli, lo rividi vispo, allegro, e tutt' altro che timido. Ma allo
ra mi faceva tanta compassione! Solo mi pareva che un giovinetto
cosi mingherlino, cosi timido, avesse un nome troppo solenne,
troppo da uomo grande; si chiamava Malachia De Cristoforis.1
i. Malachia De Cristoforis (1832-1915), medico, partecip6 alia guerra del
1859, fu al Volturno nel '60, combatte nella guerra del '66. Grande gineco-
298 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
II mio compagno di destra era molto diverse; aveva dodici anni,
era tarchiato, aveva il fare risoluto, e lanciava anche qualche be-
stemmia, specialmente contro il latino. Suo padre 1'aveva messo
nella Pensions Boselli solo per alcuni mesi, cioe mentre era assente
con parte della famiglia, lasciata in Spagna. Pero, diceva questo mio
compagno, se nel frattempo il signor Boselli mi somministrasse un
qualche ceffone, allora farei una « conspiracion in collegio, e poi un
pronunciamientOy e occorrendo una revolution, come si fa in
Spagna ».
— Sei spagnuolo ? — gli domandai.
— No, sono di Val Seriana,1 ma mio padre e cittadino onorario
di Saragozza, ove e chiamato el Dio del do di petto!
lo non capivo niente. Ma il mio amico mi racconto che suo padre
in trepiazze dove fece tre stagioni, in Spagna, era ricevuto come un
Rey.
Basti dire che a Toledo gli §tudenti gli staccarono i cavalli e
trascinarono essi la carrozza; a Valladolid illuminarono la citta per
lui. Quando poi c'era la sua serata, allora fioccavano inviti, poesie,
serenate, regali, e si lanciavano pel teatro dei canarini: e il mio
amico non la finiva piu nel raccontare cose meravigliose, intanto
che si sbocconcellavano que' due panini. lo e gli altri compagni lo
ascoltavamo pieni di meraviglia e quasi d'invidia ; ci pareva proprio
il figlio d'un Re.
Due mesi dopo venne a prenderlo un belPuomo, senza barba,
che cantarellava, intanto che il signor Boselli gli faceva vedere
1'Istituto.
Era il cittadino di Saragozza, che veniva a prendere suo figlio
per ricondurlo in Spagna. Tutti salutammo affettuosamente il no-
stro amico, facendo mille propositi per 1'anno dopo. Ma 1'amico
non ritorno piu, e non seppi piu nulla di lui.
Si andava alia fine d'ogni mese al Ginnasio di S. Alessandro
(ora Beccaria) a fare un breve esame, chiamato « esperimento », su
qualcuna delle materie della classe, insieme agli alunni del Gin
nasio pubblico. Ci trovavo press'a poco sempre gli stessi scolari,
ch'erano molto birichini e insolenti, soprattutto con noi delle scuole
logo e ostetrico, fu a lungo primario dell'Ospedale Maggiore di Milano.
Era rimasto orfano del padre nel 1838, con altri sette fratelli. Ha lasciato
moltissime pubblicazioni nel campo medico, i. Val Seriana: e la valle
del flume Serio, affluente dell'Adda.
RICORDI DI GIOVENTtl 299
private; per cui correvano spesso delle busse. Parecchi mi canzo-
navano perche avevo i capelli rossi, e mi lanciavano dei proverbi
popolari poco lusinghieri. Per un po' fingevo di non badarci; poi
ne pigliavo qualcuno, e gli davo una buona strigliatina. Mi dice-
vano in milanese: — Guardet de la tos e di cavei ross, Qui ross in
difficil de conoss.1
Tra questi scolari ne avevo notato specialmente due, che stavano
sempre tra loro, col fare brusco e con la faccia accigliata. D'uno
seppi piu tardi ch'era il figlio d'un Commissario di Polizia; Paltro,
ch'era anche il piu altezzoso dei due, per un pezzo non sapemmo
chi fosse; ma qualcuno tra noi disse che doveva essere il figlio d'un
generale, perche una volta venne a prenderlo suo padre con in capo
una feluca.
Un giorno, nelPuscir di scuola, gli domandarnmo : — E tu chi
sei ? Chi e tuo padre ? — Mio padre — rispose in tono fiero il ra-
gazzo — e Commissario di Sanita del Municipio.
Ma siccome noi avevamo Faria di non aver capito, e si rideva, il
ragazzo replico, con fare d'importanza e di compassione per la
nostra ignoranza: — Mio padre e il Capo che sta al disopra di chi
accalappia i card!
Rammento ancora un grosso guaio ch'ebbe una volta mio fra-
tello Emilio nella scuola BosellL Non so per qual ragione, la sua
classe era stata un giorno messa tutta in castigo e privata della ri-
creazione. Che fecero allora gli scolari ? C'era su una stufa grande,
e fatta a colonna, un busto in gesso dorato, ch'era il ritratto delFIm-
peratore d' Austria; gli scolari, approfittando d'un momento in cui
il professore era uscito dalla classe, buttarono una cor da al collo
del busto, e con una forte tirata lo rovesciarono a terra, mandando
tutto in frantumi Tinfelice Imperatore.2
Apriti cielol I sospetti piu gravi caddero su mio fratello Emilio,
come ispiratore e principale esecutore del delitto. Boselli, a buon
i. « Guardati dalla tosse e dai capelli rossi. Chi e rosso e difficile a conoscer-
si. » 2. « Nella Cronistoria di Alessandro Gianetti edita da L. F. Cogliati,
si legge: "II Direttore dell'Istituto Boselli, in obbedienza delle ricevute
ingiunzioni, dispose per 1'insegnamento de' suoi allievi del canto dell'inno
austriaco. Ma non pochi di questi allievi vi si rifiutarono, e non lo canta-
rono. Tanto era il sentimento di italianita che quegli scolaretti avevano
gia assorbito nelPambiente delle loro famiglie. Quei giovanetti erano i fra-
telli Mancini, i fratelli Guy, i fratelli De Cristoforis, i fratelli Visconti-
Venosta, Carissimi, Emilio Bignani-Sormani, ed altri" » (nota del Visconti
Venosta).
3OO GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
conto, gli diede una terribile lavata di capo, accompagnata da pa
role ingiuriose; mio fratello allora mise i suoi libri sotto il braccio,
e se ne ando a casa. II giorno dopo, mio padre accomod6 la faccenda
alia meglio.
Boselli, quando ci strapazzava, soleva dedurre dalle nostre scap-
patelle le piu terribili conseguenze : « Si incomincia colla disobbe-
dienza, poi di questo passo si finisce sulla forca!))
Molti anni dopo, nel 1853, vennero i processi di Mantova, le
forche furono rizzate dawero, e mio fratello Emilio corse un grave
pericolo.1 — Che Boselli 1'avesse indovinata? — mi disse un giorno
Emilio. Infatti c'era mancato poco.
Ma i vecchi alunni del signor Boselli dovevano presto perdonar-
gli le strapazzate, gli scappellotti, i purganti, e i suoi pronostici,
poiche venute le Cinque Giornatey egli fu tra i primi ad accorrere
al Broletto, che fu uno dei punti di ritrovo delPinsurrezione, e vi
rimase ucciso.
Devo pero dire che, a quei tempi, il migliore dei miei maestri e
stato mio padre. Egli ci faceva, dopo la scuola, delle ripetizioni,
ch'erano vere lezioni, e con grande amorevolezza e chiarezza c'in-
segnava ben piu di quanto avevamo sentito, e talvolta non capito,
a scuola.
Con mio fratello Emilio, maggiore di me, come dissi, e che era
dotato di molta precocita d'ingegno e di molta volonta di studiare,
le lezioni eran lunghe, ed erano seguite poi da discorsi istruttivi
durante le passeggiate che si facevano dopo le lezioni. Molte volte
ci accompagnava nelle passeggiate il poeta Giuseppe Revere,2 anzi
ricordo che parecchi de' suoi bei sonetti li scrisse in casa nostra.
Uno dei modi di educazione di mio padre era quello di stare coj
suoi figli piu che poteva, di esigere da noi una confidenza illimitata,
ricambiandocene molta, e di considerarci come persone un po'
superiori alia nostra eta; cosi ispirava in noi il sentimento della
responsabilita e del dovere. Eravamo trattati da piccoli uomini,
cosa che ci lusingava assai ; per cui era grande il nostro impegno per
tenerci a quel livello.
i. mio fratello . . .pericolo: Emilio era stato dapprima mazziniano e caro
al Mazzini. Percio aveva avuti frequenti contatti con quei mazziniani lom-
bardi che furono arrestati e condannati nei processi di Mantova, special-
mente con Antonio Lazzati. 2. Giuseppe Revere (1812-1889), di Trieste,
noto per i suoi drammi storici (Lorenzino de' Medici, 1839; / Piagnoni e
gli Arrabbiati, 1843 ecc.) e i suoi sonetti lirici e paesistici.
RICORDI DI GIOVENTtl $01
In Valtellina, ove passavamo le vacanze, mio padre alle volte
interrompeva 1 miei spassi, non di rado un po5 sfrenati, colPafE-
darmi qualche incombenza campestre, in cui ci volesse delFassi-
duita e dell'attenzione. Non e a dire come ne fossi superbo, e con
quanta serieta mi ci mettessi. Cio aweniva specialmente nel tempo
delle vendemmie, che mio padre, buon agricoltore e buon enologo,
dirigeva in casa sua diligentemente, introducendo metodi allora
nuovi, e prendendo Emilio e me come suoi aiutanti.
Mio padre amava i contadini e ne era fortemente riamato; vo-
lontieri s'intratteneva con loro, s'occupava dei loro affarucci, e il
suo studio era sempre frequentato da contadini che venivano a chie-
dergli aiuti e consigli. Specialmente affezionata gli era Pintera po-
polazione di Grosio, colla quale la nostra famiglia aveva avuto da
parecchi secoli tradizionali legami di interessi e di affetti.
Sentimenti riaccesi anche piii vivamente da non lontane me-
morie, quelle che si riannodano al mio avo, don Nicola, il quale,
anche in mezzo alle gravi occupazioni della sua vita operosa, non
aveva mai dimenticato i suoi grosini, ed era stato in ogni occasione
difensore e consigliere amorevole degli affari loro e del Comune.
Cerano in quel tempo in Tirano parecchie buone e distinte fa-
miglie, ora in parte scomparse ; e noi ci avevamo anche dei parenti,
poiche mio padre aveva tre sorelle che si maritarono in Valtellina,
nelle famiglie Cattani, Quadrio e Merizzi. Tra i parenti voglio
ricordarne specialmente due, che lasciarono nel mio animo una
cara e indelebile memoria; e questi furono un cognato di mio
padre, don Antonio Merizzi; e un suo cugino germano, don Luigi
Quadrio, prete e parroco nel paesello di Bianzone.
Don Luigi Quadrio era un sacerdote severe nella condotta, di-
gnitoso nella persona; aveva ingegno, coltura, idee larghe e liberali,
come molti a quel tempo nel clero lombardo. Modestissimo, nemico
di ogni rumore mondano, non voile cariche, che lo avrebbero con-
dotto a diventar Vescovo, e passo la maggior parte della sua vita nei
paeselli di Bianzone e di Mazzo in Valtellina, amatissimo dal po-
polo, venerato dal clero, dedito ai suoi studi e alle cure intelligent!
e solerti della sua piccola parrocchia, spendendo tutto il suo in be-
neficenza. Tra lui e mio padre c'era un grande accordo di senti-
menti e di pensieri; c'era un legame d'affetto quasi fraterno, che il
buon sacerdote continue con noi pure, fin che visse.
Dopo il 1840, una prima e lieve aura di risveglio nazionale aveva
302 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
cominciato a spirare in Italia coi Congressi scientific!, ch'erano
stati awiati in alcune citta.1
Al Congresso, che si doveva tenere in Milano nel 1844, si voleva
dare una speciale importanza, e percio se ne cominciarono i prepa-
rativi fin dall'anno prima. Vi prendevano parte le persone piu no-
tevoli e piu colte di Milano; si preparavano temi e studi di argo-
menti patri e cittadini. C'era in tutti un ridestarsi di attivita, di in-
tendimenti patriottici, e di vaghi presentimenti.
II Cattaneo, che preparava il suo libro sulle Condizioni morali
e civili delta Lombardia? s'era rivolto a parecchi studiosi per avere
delle notizie economiche, statistiche, morali, riguardanti le diverse
provincie lombarde. Si rivolse a mio padre per aver quelle della
provincia di Sondrio.
Mio padre si mise al lavoro, e fece una completa monografia
della Valtellina, che per la sua importanza non fu trasfusa nel libro
del Cattaneo, ma fu per intero pubblicata negli «Annali di stati-
stica».3 Presentata al Congresso, ne ebbe grandissime lodi, e mise
allora in vista mio padre, che viveva di solito in un modesto riserbo,
e gli diede molta notorieta. Fu allora che entro in relazione piu
intima con quel gruppo di studiosi, fra i quali Cesare Correnti,4
che poco dopo dovevano diventare uno dei nuclei piu important!
delPazione e della lotta politica.
Mio padre era socio, e assiduo frequentatore, della Societa d'ln-
coraggiamento delle scienze, lettere ed arti, che aveva una ricca
biblioteca, ed era un ritrovo di studiosi, ma che per la natura dei
i. Dopo . . . citta: numerosi i congressi scientific! che si svolsero durante il
Risorgimento e agevolarono il trionfo della causa nazionale. Quello di Mi
lano, cui qui si accenna, ebbe luogo dal 12 al 27 settembre 1844. 2. //
Cattaneo. . .Lombardia: quest'opera, di cui il Cattaneo esegul il solo pri-
mo volume, nel 1844, e tra le sue piu note: una sintesi della storia geologi-
ca, economica, culturale e politica della Lombardia. Per le notizie sul Cat
taneo, vedi il volume che ne accoglie gli scritti (comprese anche le Notizie
naturali e civili su la Lombardia) nella presente collezione, Romagnosi, Cat
taneo, Ferrari, a cura di E. Sestan. 3. Gli « Annali universali di statistica,
economia pubblica, storia, viaggi e commercio », iniziati nel 1 824, erano una
rivista mensile, fondata da Francesco Lampato, e poi proseguita da Giu
seppe Sacchi. Tra gli animatori vi furono Gian Domenico Romagnosi,
Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Cesare Correnti. Gli « Annali » cessaro-
no la loro pubblicazione nel 1871. 4. Cesare Correnti (1815-1888) era gia
collaborator degli « Annali », dove nel '42 aveva pubblicato una Teoria
della statistica. Fu tra gli animatori del congresso di Milano del '44, dove
desto molta lode una sua relazione sul lavoro dei fanciulli. Su lui, vedi C.
MORAKDI, L 'azione politica di Cesare Correnti nel '48, in « Annali di scien
ze politiche» di Pavia, xm (1940), pp. 1-56.
RICORDI DI GIOVENTft 303
tempi limitavasi ad essere poco piu (Tun casino di lettura. Nell'oc-
casione del Congresso si penso di risollevarla e di fame un centre
di studi attivi e fecondi. Si nomino una Commissione incaricata di
stendere il programma; mio padre ne £u il presidente, e lesse una
prima relazione suH'argomento. lo allora ero un giovanetto, e non
saprei dire quali fossero gli intenti di mio padre e della Commis
sione; solo ricordo ch'egli ne discorreva calorosamente col Cor-
renti, col Revere, e col conte Carlo Porro,1 in un locale munici-
pale ove il Porro si occupava dei primi ordinamenti del nascente
Museo di storia naturale. Vi si radunavano parecchi, che non
conoscevo, e mio padre, che ci aveva sempre con se, vi conduceva
Emilio e me. Piu volte vi sentii parlare della Societa Palatina,2 ono-
re in passato di Milano, e augurio di speranza per Pawenire.
II conte Porro doveva morire subito dopo le Cinque Giornate,
come vedremo, ucciso da un soldato, mentre era condotto prigio-
niero ed ostaggio. E ben presto doveva morire mio padre.
Mio padre era pure tra i frequentatori della casa di donna Anna
Tinelli,3 signora colta, e nota a Milano pel suo talento artistico e
per le sue belle miniature. Nel suo salotto conveniva un piccolo
mondo politico, quale era compatible coi tempi, ed erano avanzi
di gente complicata nei movimenti del 1831. II marito di lei era
stato processato e condannato in contumacia, e s'era riparato in
America. Anche donna Anna era stata inquisita dallo Zaiotti,4 e se
n'era liberata con fermezza e presenza di spirito. Durante il pro-
i. II conte Carlo Porro, divenuto, ancor giovane, provetto naturalista, fu poi
tra gli ostaggi che il Radetzky trascino con se nel '48 sgombrando Milano.
A Melegnano, la sera del 23 marzo, un colpo di fucile, tirato contro gli ostag
gi, ferl mortalmente il Porro, che spir6 due giorni dopo, senza che si potesse
stabilire chi fosse il responsabile di quella fucilata. Un commissario di
polizia, Maurizio De Betta, in un suo libro, Gli ostaggi milanesi alia fortezza
di Ruf stein, Vienna 1850 (citato da C. SPELLANZON, Storia del Risorgimento
e delVunita d'ltalia, in, Milano, Rizzoli, 1936, p. 953), narra che si tratt6
di un colpo sfuggito disgraziatamente dal fucile di un caporale. Vedi
PP- 337-8. 2. La Societa Palatina era stata fondata a Milano, nel 1721,
da un gruppo di nobili, tra i quali primeggiava il principe Alessandro Teo-
doro Trivulzio, per la stamp a e la pubblicazione dei Rerum Italicarum
Scriptores del MuratorL 3. Anna Tinelli Zannini (1805-1885), moglie
del dottor Luigi Tinelli, che fu arrestato nel 1833 e condannato a morte
nel 1835: condanna commutata in venti anni di carcere e poi nell'esilio.
Donna di molto talento, si applico all'arte della miniatura. Nel suo salotto,
in via Santo Spirito, convenivano numerosi patriotti. Concluso il Risorgi
mento, si dedico alTeducazione e alTistruzione della donna. 4. Paride
Zaiotti) di Trento (1793-1843), fu giudice istruttore assai spietato nei pro-
cessi contro i liberali, dal 1831 fino al 1842, quando fu trasferito a Venezia.
304 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
cesso Paride Zaiotti soleva inter rornpersi con qualche storiella, poi
ripigliava il filo, per confondere gli inquisiti. Una volta avendo ri-
cevuto una lettera, s'interruppe ridendo : — Ecco uno che mi scrive
« al Signor Adone Zaiotti » ; le pare che io sia un Adone ? — E donna
Anna prontamente : — Non e un Adone, ma non e neanche un Pa-
ride! — Zaiotti riprese il fare brusco.
Da donna Anna andavano pure assiduamente Arese,1 Belcredi,
il marchese Gaspare Resales,2 i genitori miei e di mia moglie, e
parecchie altre persone appartenenti a famiglie cospicue, liberali
ed anti-austriache.
Ai primi di settembre del 1846, finite le scuole, che allora du-
ravano tutto il mese d'agosto, si parti per Tirano.
Le vacanze di quell'anno incominciarono con auspici che si sareb-
bero detti piu lieti del solito. Mio padre aveva incominciato uno stu
dio economico sulla Beneficenza religiosa e la Beneficenza civile, e
correggeva le bozze d'una seconda edizione, di molto ampliata, del
suo libro sulla Valtellina. Queste occupazioni, le sue nuove amicizie,
il nuovo campo d'attivita intellettuale che presentiva, erano argo-
mento in quei giorni d'una viva soddisfazione nelPanimo suo, e lo
distraevano da una preoccupazione malinconica che lo turbava da
parecchio tempo in seguito a un caso disgraziato che gli era awenuto.
II caso era stato che nel ritornare dalla Valtellina, una notte, la
diligenza in cui si trovava era ribaltata da un'alta ripa, tra Sondrio
e Morbegno. Un certo Scala, di Grosotto, che si trovava nella di
ligenza, era rimasto morto; e a mio padre, in seguito alia scossa
avuta, era andata mano mano indebolendosi la vista d'un occhio,
fino ad offuscarsi completamente. Questo fatto lo impensieriva as-
sai, e gli aveva lasciato dei presentimenti dubbiosi e mesti.
Ora, il mutamento improwiso delle sue abitudini solite veniva
con molta opportunity a sviarlo dai pensieri molesti, e a ridargli la
calma serena delPanimo e Pattivita geniale della mente.
Mia madre, che lo adorava, ne gioiva ed era in vena di vivacita
e di spirito piu che mai.
i. Francesco Arese Lucini (1805-1881) fu nel '48 un sostenitore dell'inter-
vento di Carlo Alberto in Lombardia. Data la sua amicizia, fin da giovane,
con Luigi Napoleone, molto giovo al Piemonte nel favorire i rapporti con
Napoleone III, prima e dopo la guerra del '59. 2. Gaspare Ordono de
Resales (1802-1887), milanese, di famiglia d'origine spagnola, arrestato
nel 1832 come mazziniano, esule poi in Svizzera, organizzatore della spedi-
zione di Savoia, condannato in contumacia, era poi potuto tornare in Mi-
lano dopo dodici anni di esilio.
RICORDI DI GIOVENTt 305
lo poi avevo dentro di me una secreta gioia, die mi faceva pa-
rere quell'autunno il piu bello di tutti. Mio padre, per non so quale
disgusto che aveva avuto col direttore Boselli, aveva fissato di farci
continuare gli studi in casa, alia ripresa delle scuole.
S'era fatto intanto un programma di escursioni sui monti e di
scarrozzate, e si principio con una gita a Poschiavo in una nume-
rosa compagnia. A Poschiavo allora s'andava per una strada appena
carreggiabile, a cavallo o su carrette. La brigata non poteva essere
piu allegra; e ricordo che mia madre fu in quel giorno (e doveva
esserlo per 1' ultima volta nella sua vita), della piu gioconda festivita.
Nel ritornare, sulla sera, fummo sorpresi da un temporale e da
un forte acquazzone. Per un tratto di strada non breve non trovam-
mo ove ripararci, e intanto soffiava un vento gelato che veniva dalle
gole del monte Bernina.
Nella notte mio padre si senti male; gli si sviluppo un violento
malore, e tre giorni dopo spirava ai 24 settembre del 1846.
Presente a se fino agli ultimi momenti, voile salutarci tutti, rac-
comandando 1 suoi figli a quanti erano accorsi in casa nostra. A me
disse : — Sii d'aiuto in ogni cosa alia mamma, e seguine sempre i
consigli . . . te ne troverai contento per tutta la vita.
I ricordi di mio padre e i consigli di mia madre dovevano essere
infatti una delle fortune della mia esistenza.
Mia madre era caduta in terra svenuta, e fu in delirio per parec-
chi giorni. lo e i miei fratelli fummo condotti quella sera in casa
di mio zio Merizzi ; il giorno dopo venne a prenderci il cugino don
Luigi Quadrio, e ci voile presso di se nel suo paesello di Bianzone,
ove fu condotta poi anche mia madre.
Saputasi a Grosio la morte di mio padre, tutta la popolazione in
massa scese a Tirano, che dista dodici chilometri, e voile averne la
salma per accompagnarla la, dove riposavano tanti della nostra fa-
miglia.
Mio padre aveva da poco compiuti i 48 anni. Egli ebbe la sven-
tura di passare la maggior parte della sua vita nel periodo di quella
morta gora in cui visse 1s Italia tra il 1815 e il 1848. La sua mente,
i suoi studi, la riputazione che s'era acquistata gli avrebbero cer-
tamente riservata una parte politica importante nei grandi aweni-
menti che seguirono da poco la sua morte; ma questa immatura-
mente lo tolse alle speranze del paese, e alPaffetto di quanti lo co-
nobbero. Di questi sentimenti si rese interprete Cesare Correnti in
306 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
una Commemorazione che lesse alia Societd d'lncoraggiamento, e
che fu uno de* suoi scritti piu ispirati e gentili.
[PRODROMI DELLE ((CINQUE GIORNATE » DI MILANO]1
ll Governo, le Autorita militari e la Polizia di Milano comincia-
vano a perdere la bussola, e la pazienza. Da Vienna venivano alle
Autorita locali ordini rigorosi ingiungenti la resistenza e la forza;
i militari e la Polizia anelavano a menar le mani.
La prima occasione, o, meglio, il primo pretesto, 1'ebbero dalla
dimostrazione del non fumare. Questa comincio, come ho detto, il
primo gennaio. La prima giornata passo lietamente. La gente scen-
deva in strada, passeggiava, per vedere la dimostrazione, e i citta-
dini, incontrandosi, si ammiccavano anche senza conoscersi, per
congratularsi reciprocamente che nessuno, proprio nessuno, avesse
il sigaro o la pipa in bocca. La sera, in tutte le case, in tutti i caffe
non si parlo d'altro ; e non si fum6.
Ma il giorno dopo, ch'era una domenica, la faccenda cominci6
a farsi seria. Le strade erano percorse da ufficiali e da soldati in
gran numero, che fumavano, fin con due sigari in bocca per cia-
scuno, per aver Taria ancor piu provocatrice ; e una folia, che andava
crescendo, li seguiva, e tratto tratto li fischiava.
Un ufficiale, il conte Neipperg, figlio di Maria Luigia2 Duchessa
di Parma, il quale con aria provocante se ne stava fumando sulla
porta del caffe Martini, di fronte al Teatro la Scala, dopo una collut-
tazione con alcuni aveva ricevuto uno schiaffo. II Podesta Casati,3
che si dava d'attorno per raccomandare ai cittadini la prudenza,
e alle guardie di Polizia la moderazione, s'era trovato in mezzo
a un gran tafferuglio, e sulle prime era stato arrestato anch'esso.
Quelle prime awisaglie non dovevano essere che il preludio dei
fatti ben piu gravi che seguirono poi.
La sera del 3 gennaio mi trovavo in casa della nonna, con mia
madre. Vi si discorreva del fumare, e delle dimostrazioni della
i. Ed. cit., dal cap. in, pp. 53-60. 2. il conte . . . Luigia: il conte Adam
di Neipperg (1775-1829), padre deU'officiale qui ricordato, dopo avere a
lungo convissuto con Maria Lirisa, separata ormai da Napoleone relegato a
Sant'Eleha, la sposo morganaticamente e ne ebbe tre figli. 3. II conte Ga-
brio Ctfsaft (1798-1873), podesta di Milano dal 1837, fu nel 1848 presiden-
te del govemo prowisorio creato durante le Cinque giornate, e si orient6,
politicamente, verso la fusione della Lombardia col Piemonte.
RICORDI DI GIOVENTtl 307
giornata. Ne i miei zii, ne altri, in casa della nonna, avevano mai
fumato ; la nonna, che si awicinava ai novant'anni, diceva di credere
che due de' suoi figli avessero fumato quand'erano ufficiali nel-
1'armata Napoleonica, ma ne parlava come d'una scappata giova-
nile, scusabile tra gli orrori della campagna di Russia: approvava
quindi la dimostrazione del non fumare, ma non capiva perche mai
il Governo non fosse dello stesso parere. Quando entra mio fratello
Emilio, col fare concitato, e con gravi notizie. Veniva dal centro
della citta per awisare la mamma, e per tranquillarla, sul proprio
conto, nel tempo stesso.
Bande di soldati si erano sparse per la citta, ubbriachi, fumando
e provocando quanti incontravano. Qua e la la folia H circondava,
ed essi sfoderavano le sciabole, gettandosi sui cittadini inermi.
C'erano gia stati parecchi feriti, e vicino alia Galleria De Cristoforis
era stato ucciso, con un colpo di sciabola sulla testa, il vecchio Con-
sigliere d'Appello Manganini. In ogni punto della citta accadevano
atti di violenze soldatesche, e fatti di sangue; si parlava gia di pa
recchi morti, e d'un centinaio di feriti tra i cittadini.
II giorno dopo si seppe che quella sera stessa un gruppo di cit
tadini, tra i quali c' erano Carlo d'Adda, Cesare Giulini, Enrico
Besana, Manfredo Camperio1 e il Podesta Casati, erano entrati nel
Palazzo Marino, dove alloggiava il Ficquelmont,2 per esporre lo
stato della citta, e protestare con vive parole contro 1'eccidio che vi
i. Carlo d'Adda (1816-1900), prima della rivoluzione milanese delle Cin
que giornate, fu scelto dai patriotti perche si recasse da Carlo Alberto a
sollecitarne aiuti, e fu poi rappresentante a Torino del governo prowisorio
milanese. Ebbe molta parte nel decennio di preparazione. Vedi su lui
EMILIO VISCONTI VENOSTA, Carlo D'Adda, Firenze 1904; Cesare Giulini
Della Porta (morto nel 1862), preparatore e animatore delle Cinque gior
nate, dopo il ritorno degli Austriaci (agosto 1848) fu esule a Torino. Tomo
a Milano nel 1850, ma conserv6 frequenti rapporti con il Cavour e ne age-
vo!6 molto 1'opera fino alia guerra del '59; Enrico Besana (1814-1878),
gia esule a Lugano, vivamente attivo nella insurrezione milanese, combatte
nel '48-49. Viaggio poi lungamente in Asia e in America; ma fu presente
nelle campagne del '59 e del '66; Manfredo Camperio (1826-1899) nel
gennaio del '48 fu arrestato e condotto a Lienz: ricondotto a Milano per il
processo, il popolo insorto lo Iiber6, e partecipo cosi alle Cinque giornate.
Combatte nel '48, nel '59, nel '66. Viaggid a lungo. Fu deputato. Ha lasciato
una autobiografia (Milano, Quintieri, 1917)- 2. -Karl Ludwig von Fic
quelmont (1777-1857), gia generale, e poi ambasciatore austriaco in yari
stati, era allora in Milano con la vaga missione di impedire che gli Italiani
si distaccassero sempre piu dall* Austria. Come e noto, scoppiata la rivolu
zione e allontanato il Metternich, subito il Ficquelmont fu chiamato a Vien
na come ministro degli esteri: cio alia vigilia delle Cinque giornate, ch6 egli
parti da Milano il 9 marzo.
308 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
accadeva. II Governatore, alia sua volta, ne incolpava le provoca-
zioni, e il D'Adda gli aveva risposto : — Forse che il cuoco del conte
di Ficquelmont, ch'e tra gli uccisi, era d'accordo con noi per pro-
vocare gli austriaci?
La citta rimase sdegnata, ma non atterrita. Le proteste d'ogni or-
dine di cittadini, e le dimostrazioni si succedettero con maggiore
insistenza e con maggiore entusiasmo, fino a che il 22 febbraio il
Governatore Spaur pubblico la legge marziale, che iniziava un pe-
riodo di severe repression! e legalizzava le violenze militari.
Giovanetto qual ero, e di solito non uscendo di casa solo, avevo
pero veduta qualcuna delle dimostrazioni, e m'ero trovato anche in
mezzo a qualche tafTeruglio ; ma poi tornavo a casa, per non tenere
in agitazione mia madre. Mio fratello Emilio ci prendeva invece
una parte attivissima. Egli faceva il primo anno degli studi legali
universitari privatamente in Milano; i suoi professori pero sole-
vano dire a mia madre, e al nostro tutore, lo zio don Giovanni Bor-
gazzi, che questo loro scolare era un giovane di molto ingegno, ma
che non aveva la testa a casa, e che pensava molto piu alia rivolu-
zione che alia filosona del diritto.
Le notizie di quei giorni, e i propositi pei giorni seguenti, le
discussioni sulle idee e sui fatti che si andavano svolgendo, li sen-
tivo in casa Correnti, dove andavo con mio fratello quasi ogni sera.
Ricordo ancora vivamente quelle serate, interessanti, talora com-
moventi, piene di entusiasmo e di fede, che furono la mia prima
scuola di patriottismo e di politica.
Nello studio del Correnti, in via della Spiga, ch'era tutto un di-
sordine di libri ammucchiati e di carte sparse, c'era ogni sera un
andirivieni di molte persone, che venivano a portar notizie, a ri-
ceverne, a discutere sui fatti d'ogni giorno, a preparare le dimo
strazioni, e a raccogliere la parola d'ordine per gli altri crocchi
d'amici, che si radunavano in altre case o in altri ritrovi. In mezzo a
tutti Cesare Correnti era, come gia dissi, un vero capo di Stato
Maggiore; era, nel gruppo de' suoi amici, la mente direttiva, ed
aveva su tutti un assoluto predominio. Egli lo esercitava nello spin-
gere alPazione e nel mantenere la concordia tra le diverse correnti
d'opinioni che si agitavano intorno a lui. Occorreva che un'alta
idealita patriottica predominasse in tutti alle singole opinioni ed ai
partiti; e verso questa idealita il Correnti infiammava gli animi
costantemente.
RICORDI DI GIOVENTtl 309
In questo suo lavoro di propaganda e di disciplina, che possiamo
dire rivoluzionarie, aveva trovato un forte contradditore in Carlo
Cattaneo.
II Cattaneo era certamente, a quei tempi, uno dei cittadini piii
cospicui di Milano. I suoi studi economici, studi non coltivati allora
da molti a Milano, e il suo « Politecnico »,* gli davano notorieta
ed autorita; la sua casa era un centro di studiosi, filosofi, econo-
misti, giuristi, della scuola del Romagnosi.2 Aveva il carattere
altero e sdegnoso, e, per un certo orgoglio d'intelletto, si teneva
lontano dalle opinioni dei piu. Pregato piu volte di prender parte
alle manifestazioni patriottiche che si andavano apparecchiando
nei primi mesi del 1848, egli vi si era sempre rifiutato, conside-
randole quasi come ragazzate. Le sue opinioni lo conducevano
per una strada affatto diversa, sulla quale, a dir vero, era pres-
soche solo.
Era repubblicano, federalista. Sognava un* Italia divisa in varie
repubbliche, per arrivare alle quali era disposto ad intendersi coi
Principi italiani, e anche forestieri, salvo a strappar poi loro a una
a una tutte le liberta. Credeva possibile di accomodarsi a questo
modo anche con 1' Austria pel Lombardo-Veneto, e sognava un'au-
tonomia amministrativa e in parte militare, come esiste oggi in
Ungheria.3 Seguendo questa Utopia, egli aborriva soprattutto dal-
Tidea di chiamare Carlo Alberto a farsi condottiero della guerra
per Pindipendenza italiana, la cui conseguenza sarebbe stata la for-
mazione di un forte stato monarchic© nelPalta Italia. Repubblicano
e democratico, non vedeva in tale concetto che una cospirazione
di nobili e di conservatori.
Udii dire in casa Correnti che Alessandro Manzoni, interrogato
su questo disparere, rispose: — Oggi tutto e Utopia, ma tra Tutopia
bella delFunita e quella della federazione, sto per T Utopia bella.
Piu volte il Correnti, col mezzo di amici comuni, aveva cercato
i. Carlo Cattaneo fondd il « Politecnico » nel 1837, quale «repertorio men-
sile di studi applicati alia coltura e prosperita sociale ». Ne apparvero sette
volumi fino al 1844. La rivista risorse alia fine del 1859 e cesso le sue pub-
blicazioni nel 1865. 2. Gian Domenico Romagnosi (1761-1835), giurista e
nlosofo, collaboratore del « Conciliatore », fu tra gli arrestati dalla polizia
austriaca nel 1820 e, sebbene liberate, subi sempre sorveglianza e perse-
cuzioni come liberale. 3. un'autonomia . . . Ungheria: si allude alia costi-
tuzione dualistica deirirnpero austro-ungarico, attuata con la cosiddetta
«legge di decembre» (21 dicembre 1867).
310 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
di persuadere il Cattaneo, e di smoverlo ; ma sempre inutilmente.
Egli guardava d'alto in basso i giovani cospiratori, e questi, natu-
ralmente, se ne lagnavano, e non lo amavano. Molti anzi lo criti-
cavano aspramente, e il Cattaneo li chiamava « ragazzi ».
Le intelligenze colla parte aristocratica il Correnti le coltivava
col mezzo di amici suoi, ch'erano Cesare Giulini, Carlo Porro,
Carlo d'Adda, Anselmo Guerrieri.1 Vedeva di frequente il Podesta
Casati, essendo professore d'uno dei figli; Taltro figlio era all'Ao
cademia militare di Torino. Le adesioni erano larghe, e risolute. Le
famiglie aristocratiche milanesi, che nel 1815 avevano accolto con
qualche favore il governo austriaco, sia per la poca simpatia verso il
regime napoleonico, sia pei buoni ricordi tradizionali lasciati in
Lombardia dal Governo di Maria Teresa, ora, disilluse ed irritate,
se ne staccavano sempre phi, si schieravano risolute nelfopposi-
zione, e guardavano al Piemonte.
La rivoluzione di Parigi del 24 febbraio, e il movimento liberale
che andava manifestandosi in ogni punto d'Europa, spingevano
anche Milano alia rivoluzione.
L'eccitazione degli animi cresceva ogni giorno, e parecchie fa
miglie di impiegati e di ufficiali austriaci, sbigottite, si disponevano
alia partenza.
Primi a partire, sul principio del marzo, furono il de Ficquelmont
e il Vicere,2 colle famiglie, diretti a Bolzano. Ficquelmont, mandato
come un fine diplomatico, aveva scoperto che i Milanesi si annoia-
vano. Era vero, ma non era tutto. II Vicere Raineri, zio dellTmpe-
ratore Ferdinando, aveva due figlie, di cui una era andata sposa al
Principe di Piemonte Vittorio Emanuele, e cinque figli maschi. Noi
giovanetti quando s'incontravano a passeggio i cinque arciduchi,
impalati, seri, con una gran tuba, e conun gran precettore, si rideva,
e ci parevano anche molto brutti.
i. II marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga (1819-1879) aveva studiato lette-
re a Pavia, ma aveva allora un impiego negli uffici fiscali di Milano. Mem-
bro del governo prowisorio, nel marzo del '48 fu inviato a Parigi a favo-
rire la causa italiana presso il ministro Lamartine. Rimase, poi, a lungo
esule a Torino. Fu deputato, dopo il '59, di Mantova. Appartenne alia
destra. Ha lasciato varie traduzioni d'opere tedesche. 2. il Vicere: 1'ar-
ciduca Ranieri d' Austria fu vicere del Lombardo-Veneto dal 1818 al 1848.
Una sua figlia, Maria Adelaide, sposo nel 1842 Vittorio Emanuele 1'allora
duca (che il Visconti Venosta definisce impropriamente Principe di Pie
monte) di Savoia, e mori nel 1855. II vicere lascio Milano il 17 marzo del
1848, in seguito alia rivoluzione di Vienna, quando ancora la notizia era
ignorata dai Milanesi.
RICORDI DI GIOVENTtr 3!!
In compenso era molto bella la madre, Parciduchessa Elisabetta,
sorella di Carlo Alberto. Sulla bella Viceregina, e sul brutto Vicere,
correvano vari pettegolezzi di Corte, di cui giungeva Peco fino a noi
ragazzi.
Anche il Governatore Spaur, dopo aver proclamato la legge mar-
ziale, se n'era andato.
«Fanno fagotto, fanno fagotto » diceva la gente, tutta ilare, e
fregandosi le mani. Ma rimanevano Radetzki, con PHiibner,1 col
Vice Governatore O'Donnel2 e col barone Torresani,3 direttore
della Polizia. - Non avevano quindi fatto fagotto i personaggi piu
importanti. A Radetzki, che da parecchio tempo aveva dato Pal-
larme a Vienna, erano stati a mano a mano rinforzati i presidi in
Italia fino a 80.000 uomini, e con lui c' erano i generali Walmoden,
Carlo Schwarzenberg, Clam Gallas, Wohlgemuth, Wocher, Schon-
hals. La guarnigione di Milano era stata portata a diciottomila
uomini.
C'era da riflettere, ma per fortuna nessuno rifletteva. Non riflet-
teva che Carlo Cattaneo, il quale ad alcuni amici che s'erano recati
ancora da lui la sera prima della rivoluzione perche si unisse a loro,
aveva dato un reciso rifiuto.4 Egli si disponeva invece a pubbli-
i. Radetzki'. vedi la nota i a p. 183 e questi Ricordi a pp. 360-1; Joseph
Alexander Hubner (1811-1892) era a Milano, inviato dal principe di Met-
ternich, con una missione presso il vicere Ranieri. Rimase poi per cento-
sei giorni in ostaggio dei milanesi: periodo che egli stesso ha narrato
(Une annee de ma vie, Paris, Hachette, 1891). L'Hiibner fu poi ambascia-
tore presso Napoleone III e, dopo il '65, per un paio d'anni, presso
Pio IX. 2. Heinrich O'Donnel, vice-governatore di Milano, si trov6 a capo
della citta, essendo partito il conte Spaur, che ne era il governatore.
3. Carlo Giusto Torresani Lanzelfeld (1779-1852), tirolese, era dal 1822
direttore di polizia a Milano. D'accordo col Radetzky, contro Topinione
del vice-governatore, avrebbe voluto energiche misure allo scoppio della
sommossa. Sfuggi agli insorti seguendo le truppe austriache che lascia-
vano la citta, ma la moglie fu. trattenuta a Milano come ostaggio. Caduto
in disgrazia per gli eventi milanesi, si ritir6 a vita privata. 4. « Ecco come
il Cattaneo racconta la visita avuta da alcuni giovani la mattina del 18 mar-
zo: "La sera del 17 marzo, uno degli amici rniei, che veniva airistante dalla
casa del conte O'Donnel, Vicepresidente del govemo, avendomi annunziato
che una nuova sedizione in Vienna ci apportava 1'abolizione della Censura,
deliberai tosto, di por mano pel di seguente alia pubblicazione d'un gior-
nale. Parevami propizio il momento d'indirizzare i cittadini a estorcere
immantinente all'attonito governo quanto piu si potesse di armamenti o di
liberta ; e recarci soprattutto in poter nostro i nostri soldati. Conveniva met-
terci in grado di dar principio alia lega italica con mani guarnite, sicche
il vicino regnante, fattosi costituzionale da troppo pochi di e solo per nostro
amore, ci fosse alleato se voleva, ma non padrone. Ricordo nuovamente che
312 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
care un giornale, il ((Cisalpino));1 nel nome c'era il programma
C'era, invece, in tutti il presentimento di grandi novita e di
grandi awenimenti, che nessuno sapeva precisare, ma di cui tutti
parlavano. A un tratto si sparse intorno la notizia d'una rivoluzione
scoppiata a Vienna il 13 marzo. La commozione fu grande e gene-
rale in Milano, e sebbene non si sapesse nulla di precise, pure tutti
si agitavano e si chiedevano : — E noi cosa si fa ? — Ma poco dopo
corse la parola d'ordine, che si dovesse fare una grande dimostra-
zione per chiedere le riforme, sostenendola, dicevano i piu animosi,
anche con le armi.
Fimpresa dei cittadini comprendeva il conquisto dell'indipendenza insieme
e della liberta. Una indipendenza servile, una indipendenza all'austriaca
o alia russa, non mi pareva cosa da farsi se non per disfarla da capo.
Per siffatte mezze imprese non mi pareva lecito insanguinare la patria.
Avevo appena finite di scrivere in fretta il mio primo foglio, quando poco
dopo 1'alba due amici vollero entrare da me, ragguagliandomi che il podesta
Casati dopo mezzodi doveva recarsi dal Municipio al governo, per diman-
dare a nome del popolo alcune concession!; volevano essi avere 1'awiso mio
su cio ch'era per loro a farsi, nel quasi inevitable evento di un conflitto.
Questa smania di correre immantinente alia forza, quando nulla si era fatto
per possederla e ordinarla, mi pareva troppo favorevole al nemico, che
sapevamo presto e bramoso. — II Podesta fara mitragliare i cittadini: — io
dissi — egli va da cieco dove lo spingono ; ma voi con che forze volete assa-
lire una massa di ventimila uomini, che si e preparata di lunga mano a fare
un macello, e lo desidera ? Quanti combattenti avete ? — Quei giovani non
avevano a mano che qualche dozzina d'altri cacciatori. — Non vedete —
risposi — che vi vogliono parecchie migliaia d'uomini bene armati e ben
comandati ? — Mi dissero che tutta la citta si sarebbe mossa, e che si ave
vano pronti quarantamila fucili. — Questi quarantamila fucili li avete visti ?
— Non li abbiamo visti ; ma sappiamo che il comitato direttore li aspettava
di Piemonte. — Andate dunque prima a vedere se sono arrivati; andate al
comitato-direttore. E siete poi certi che questo comitato vi sia ? — Senza
dubbio; tutti ne parlano. — Ebbene, vedrete che infine non avremo ne
comitato, ne fucili. Io conosco da un pezzo codesti ciambellani; hanno una
fede cieca in Carlo Alberto, e saranno corrisposti come al solito. Carlo Al
berto non ama la liberta; e non puo amarla. Bisogna pigliar tempo per
armarci, e perche tutta PItalia si metta in grado d'aiutarci; non ci vuol meno
che tutta 1' Italia. Andiamo adagio; non cacciamo in bocca al cannone
un popolo disarmato, finche almeno non ci mettono alia assoluta necessita
della difesa. — Li amici se ne andarono poco di me content!. Ne vennero al-
tri; e si fecero li stessi discorsi; altri m'invitarono a non so quale adunanza,
a due ore, nella Galleria; io intanto portavo a uno stampatore il mio
manoscritto" DelV insurrezione di Milano nel 1848, e della successiva guerra,
Memorie di C. Cattaneo, Bruxelles, Societa Tipografica, 1849, pp. 29-31"
(nota del Visconti Venosta). i . il « Cisalpino » : il giornale non arrive- alia
luce, che gli eventi travolsero 1'iniziativa del Cattaneo.
RICORDI DI GIOVENTtl 313
[RICORDI DELLE « CINQUE GioRNATE))]1
La mattina del 18, tra le dieci e le undici, una gran folia, stipata
in piazza del Duomo, si metteva in colonna per recarsi al Broletto,
sede del Municipio, a chiedere al Podesta e alle autorita cittadine
che si mettessero alia testa del popolo per muovere insieme al pa-
lazzo del Governatore, e chiedere le Riforme.
E la colonna, ossia un'innumerevole folia, si mosse, inondando
le vie, e levando un alto mmore, come un mare in burrasca.
Con questo primo atto incomincia la rivoluzione delle Cinque
Giornate] rivoluzione che ha i suoi episodi in ogni via della citta,
gia narrati e descritti da testimoni oculari e dai molti che hanno
scritto su quel grande awenimento. Non e quindi la storia delle
Cinque Giornate che io rifaro ; io mi propongo soltanto di scrivere
alcuni episodi veduti da me, che, si noti, era un giovanetto, e quello
che in quei giorni sentivo dire intorno a me.
Fin dalle prime ore del mattino mio fratello Emilio, ch'era ri-
tornato da Correnti, rientrando aveva detto alia mamma e a me
che in quel giorno ci sarebbe stata una grande dimostrazione, la
quale avrebbe potuto finire anche con la rivoluzione. La povera
mamma raccomando a Emilio la prudenza, e le si velaron gli occhi
di lacrime. Principio da quel giorno nel suo cuore, ch'era grande,
la lotta tra Pamor di patria e 1s amor infinite per i suoi figli; la
lotta che per tanti anni doveva essere piena di dolorosi contrast! e
costarle molte ansieta e molte lacrime. Povera mammal
AlPannunzio datomi da Emilio pensai di mettermi subito anch'io
in istato di guerra. Uscii di casa un po7 di soppiatto, poiche fino
allora, secondo gli usi del tempo, io non avevo che una liberta
limitata, e corsi a comperarmi due piccole pistole innocue, e un
gran cappello alia calabrese. Poi, rientrato, tolsi da un cassette una
coccarda tricolore, alquanto vistosa, che mi aveva regalata pochi
giorni prima una cuginetta, e la cucii in secreto sul davanti del
cappello.
Con cio, dal canto mio, ero pronto agli awenimenti. E gli awe-
nimenti non tardarono a presentarsi.
Era mezzogiorno. Un rumore, da prima cupo e lontano, ma che
awicinandosi pareva quello d'una folia in festa, che battesse le
i. Ed. cit., dal cap. in, pp. 63-8.
314 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
mani e gridasse degli ewiva entusiastici, clamorosi, ci chiam6
tutti, noi e i vicini, ai balconi e alle finestre, le quali si andavano
spalancando in ogni casa. Era la dlmostrazione che arrivava, pre-
ceduta dalle carrozze dell'Arcivescovo,1 del Podesta e del Muni-
cipio, awiandosi al palazzo del Governo.
Noi abitavamo in via della Cerva, al primo piano della casa che
fa angolo con quella parte di via Monforte che conduce alia chiesa
di S. Babila.
Spinto dalla curiosita e dal desiderio di far qualcosa anch'io,
scesi in istrada e mi awiai verso la folia che procedeva in colonna
serrata.
Nell'uscire, m'ero trovato sul pianerottolo con un inquilino del
secondo piano, il dottor Restelli, il quale scendeva le scale insieme
ad un altro giovane medico, il dottor Angelo Tizzoni; Puno e
1'altro avevano il fucile in ispalla, e furono i due primi armati che
vidi unirsi alia dimostrazione cosi detta pacifica.
M'ero appena messo tra la folia, quando alcuni vedendo questo
giovanetto con una cosi grande coccarda tricolore (nessuno ancora
1'aveva al cappello), cominciarono ad attirare Pattenzione su me
con qualche « bravo ragazzo! » e con qualche « ewiva la coccarda! ».
Detto fatto, parecchi tra quelli che m'eran vicini mi presero tra le
braccia e mi sollevarono in alto, provocando una piccola dimostra-
zione speciale in mio favore. Anziche stare in alto io mi sarei spro-
fondato. Mi dibattevo, e pregavo mi si lasciasse andare. Ma fu
inutile, e fui portato in trionfo per un centinaio di passi. Una sola
faccia riconobbi in quel momento tra le moltissime che vedevo ri-
volte a me, ed era la faccia di Carlo Tenca,2 che rideva e mi am-
miccava con benevolenza.
Quando, ad un tratto, a liberarmi venne il rumore d'un colpo di
i. Arcivescovo: era arcivescovo di Milano Bartolomeo Romilli, di Bergamo
(1794-1859), che aveva preso possesso della diocesi il 6 settembre 1847,
tra il giubilo del popolo, poiche un prelate italiano veniva a sostituire Par-
civescovo precedente, Gaetano Gaysruck (morto il 19 novembre 1846), di
origine tedesca. Vedi C. CASTIGLIONI, Gaysruck e Romilli, arcivescovi di
Milano, Milano 1938. 2. Carlo Tenca (1816-1883) era gia giornalista e
critico letterario molto stimato : dal '45 al '47 aveva diretto la « Rivista eu-
ropea ». Dopo le Cinque giornate diresse il « Ventidue marzo », giornale del
governo prowisorio, e poi, awerso alia fusione della Lombardia col Pie-
monte, scrisse nell'« Italia del popolo ». Tomato a Milano dopo una lunga
dimora in Toscana, diede vita al piti importante dei suoi periodici, « II
crepuscolo» (6 gennaio 1850-31 maggio 1859). II Tenca fu poi deputato
RICORDI DI GIOVENTtT 315
fucile; mi si lascio cadere, e ruzzolai per terra. II mio trionfo era
finite; ero salito e caduto precipitosamente, come succede nelle
rivoluzioni.
La folia si era arrestata. Si senti dapprima un rumore assordante
di voci, anzi di urli, che venivano dalle vicinanze del palazzo del
Governo; poi la folia comincio a retrocedere, come presa da un
panico; poi quegli urli diventarono piu vicini e distinti, e non
s'udiva piu che il grido: «Airarmi! airarmi!».
Mi tirai dietro la porta d'una casa, per non farmi travolgere
dalla folia. Poco dopo vidi rovesciare, presso il ponte di S. Da-
miano, un carro di botti vuote che vi stava fermo, e si principio
la prima barricata tra un baccano indiavolato. Poi sentii suonare
a stormo le campane della vicina chiesa di S. Damiano; poi il
rumore secco di alcune fucilate; poi un grido: «Ewiva i morti!»
alto, terribile, che parmi ancora di riudire oggi mentre scrivo, dopo
tanti anni.
In breve la via Monforte rimase deserta, e rasente al muro mi
diressi in fretta verso la chiesa di S. Babila, fino alia colonna da cui
ha principio il corso Venezia, chiamato allora di Porta Orientate, e
popolarmente Porta Renza.
Mi fermai alquanto a contemplare lo spettacolo cosi nuovo, e
che tanto entusiasmava, delle bandiere tricolori che ornavano ogni
finestra.
Erano bandiere improwisate quella mattina, bandiere fantasti-
che, fatte di coperte, di scialli, di cenci, purche fossero bianchi,
rossi e verdi. E dalle finestre le signore gettavano alia folia, che ap-
plaudiva, coccarde e nastri tricolori.
Tra quella folia agitata parecchi erano gia armati con fucili da
caccia; alcuni avevano delle carabine o qualche fucile militare in-
trodotto dal Piemonte. Tra quegli armati riconobbi parecchi gio-
vani miei amici, o di mia conoscenza, tra i quali Lodovico Trotti,1
i fratelli Mancini,2 Enu'lio Morosini, i fratelli Dandolo, Luciano
Manara, Carlo De Cristoforis,3 e mio cugino Minonzio, che di-
di Milano, dal 1860 al 1876, e copri important! cariche. Vedi i suoi scritti,
in due volumi, raccolti da Tullio Massarani, Milano, Hoepli, 1888.
i. Lodovico Trotti: vedi la nota i a p. 294. 2. Per uno del fratelli Mancini,
Lodovico, vedi la nota i a p. 355. 3. Emilio Morosini (1831-1849) parte-
cip6 giovanissimo, con gli amici fraterni Dandolo e con Luciano Manara,
alle campagne del '48 e del '49 ; e insieme con loro alia difesa di Roma, dove
316 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
vento poi, quasi vent'anni dopo, colonnello e capo di stato mag-
giore del generate Cialdini.
Questi giovani, in unione con altri, sotto la guida di Luciano
Manara, avevano fatto venir secretamente dei fucili dal Piemonte,
e durante 1'inverno si erano esercitati tutt'insieme e di nascosto al
maneggio delle armi ed avevano preparate munizioni e cartucce.1
Quei giovani valorosi, entusiasti d'amor patrio, ed ispirati nel tempo
stesso a idee mistiche e religiose, prima di scendere in istrada ar-
mati, erano andati, circa in trenta, in una chiesa a ricevere Passo-
luzione quali morituri da un buon prete, il coadiutore Sacchi.2
Li conduceva un barnabita, il padre Piantoni, e il precettore dei
Dandolo, il prof. Angelo Fava.3 Corsero poi alle barricate, e furono
primi tra i piii audaci nei principali combattimenti per cinque
giorni.
Educatore ed ispiratore di alcuni di quei giovani, specialmente
mori il i° luglio, e dove caddero anche Enrico Dandolo (1827-1849) e il
Manara (1825-1849); Carlo De Cristoforis (1824-1859), fratello del gia ri-
cordato Malachia (vedi lanota a pp. 297-8), partecipo alia insurrezione delle
Cinque giornate, combatte nel battaglione Manara la guerra del '48 ; fu esule
da Milano, perche ricercato dopo gli eventi del 6 febbraio 1853, ai quali
del resto non aveva partecipato, e accorse volontario nel 1859: cadde
a San Fermo, il 27 maggio 1859. Fu studioso di problemi economici e
militari, e su tali argomenti ha lasciato alcune pubblicazioni. i . « "Riu-
niti in piccola brigata," scrive Emilio Dandolo, nel suo libro sui Volon-
tari Lombardi "passavamo delle ore ad imparare gli esercizi militari. La
notte ci trovava raccolti in qualche cameretta rernota a fondere palle e a
preparare cartucce. Ogni nostro giardino, ogni nostro cortile racchiudeva
in fosse casse di munizioni procacciate dai nostri risparmi, a quella no-
stra eta oltremodo penosi." Tra quei giovani ricordiamo i fratelli Croff,
i fratelli Broggi, Gerolamo e Alessandro Borgazzi, Manara, i fratelli Dan
dolo, Fioretti, Testa, i fratelli Mancini, Lodovico Trotti, Saule Mante-
gazza, Carlo De Cristoforis, Bussi, e qualche altro che non rammentiamo.
Tutti furono alle barricate. - Era sempre con loro Angelo Fava. - In via
Rugabella, nel giardino di casa Valerio, i fratelli Lazzati ed altri avevano
nascoste delle armi. Carlo Alberto vi mando un carico di polveri nelle Cin
que Giornate, che non fu possibile far penetrare in citta » (nota del Visconti
Venosta). 2. Sacchi: di questo sacerdote liberale il Visconti Venosta diede
una trasfigurazione nel suo romanzo // curato d'Orobio, dove don Cornelio
Sacchi, protagonista del romanzo, diviene simbolo di un sacerdozio ideale.
Qualcuno pensa che al prete del romanzo abbia dato non pochi colori
don Cesare Ajroldi, su cui vedi la nota a p. 322 (cfr. M. SCHERILLO,
Visconti Venosta minore, in «La lettura», maggio 1915, p. 399). 3. Angelo
Fava (1808-1881), sebbene dottore in medicina, si dedico all'educazione
dei giovani, tra i quali i Dandolo e il Morosini gli furono carissimi. Al ri-
torno degli Austriaci a Milano emigr6 in Piemonte. Rese poi notevoli ser-
vizi al Regno d' Italia, presso il ministero della pubblica istruzione.
RICORDI DI GIOVENTtl 317
del Dandolo e del Morosini, era il Fava, che divento poi, durante
il Governo Prowisorio, capo della pubblica sicurezza in Milano,
e piu tardi Segretario Generate al Ministero delPIstruzione Pub-
blica in Torino. Quella mattina era sceso in istrada coi suoi alunni;
io lo intravidi dal piazzale di S. Babila in mezzo a una folia che ad
im tratto sbuco precipitosa dalla via Bagutta. Quella folia veniva
dalla via Monte Napoleone sospinta dalla tnippa, che poco prima
aveva fatto fuoco su di essa.
Molti anni dopo, ricordando col Fava alcuni fatti delle Cinque
Giornate, e dicendogli che Favevo visto sbucare da via Bagutta
dopo le fucilate di via Monte Napoleone, egli mi racconto questo
episodio: — In via Bagutta mi ero imbattuto pochi minuti prima in
Carlo Cattaneo. Io ero stato fra quelli che nei giorni prima della
rivoluzione avevano cercato di persuaderlo ad essere con noi. Egli
mi aveva opposto un costante rifiuto. Avevo a lungo discorso con
lui, rimanendo e 1'uno e 1'altro nelle nostre opinioni e nei nostri
propositi. La rivoluzione, secondo lui, era un errore, e sopra tutto
un'impresa impossibile. Ma ora la rivoluzione era scoppiata, e non
c'era piu da discutere. «Dove vai, Cattaneo ?» gli dissi «vieni con
me! » « Dove vado ? » mi rispose « Quando i ragazzi hanno il soprav-
vento, gli uomini vanno a casa! » e mi volto le spalle.
Ma a quello scatto improwiso segui poi la riflessione : il Cattaneo
aveva la mente troppo alta per ostinarsi in un rifiuto sdegnoso e
inerte. Chiamato dopo tre giorni in Municipio, lo vediamo a capo
d'un Comitato di difesa con Enrico Cernuschi, con Giorgio Clerici,
con Giulio Terzaghi1 prender parte risoluta ed energica alia ri
voluzione.2
Intanto la rivoluzione era incominciata e da per tutto sorgevano
1. Enrico Cernuschi (1821-1896) fa tra i piu arditi nelle Cinque giornate,
e tra 1'altro si dove a lui 1'organizzazione del Martinitt come messaggeri
(cfr. pp. 331-2). Tornati gli Austriaci, combatte alia difesa di Roma. Ca-
duta la Repubblica, si stabili a Parigi, rimanendo lontano dagli awenimenti
italiani, fedele alle sue convinzioni repubblicane federaliste; di Giorgio Cle
rici « la cronaca poco informa, tranne che era egli eccellentepatriotta e uomo
d'azione » (cosi C. PAGANI, Uomini e cose in Milano, dalmarzo all'agosto 1848,
Milano, Cogliati, 1906, p. 178); il marchese Giulio Terzaghi, secondo le Me-
morie del conte Enrico Martini, era stato fino allora austriacante e « maestro
di danza alle arciduchessine austriache» (cosi C. PAGANI, op. cit., p. 34).
2. « II Comitato di difesa si trasform6 in un Comitato di guerra di cui era
presidente il conte Pompeo Litta, gia capitano d'artiglieria al seguito di
Napoleone I, e ne erano membri Cattaneo, Cernuschi, Clerici, Terzaghi,
Carnevali, Lissoni, Cerani, Torelli» (nota del Visconti Venosta),
318 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
barricate; dai portoni delle case uscivano carrozze ch'erano subito
rovesciate ; dalle fmestre venivano gettate tavole, sedie, materasse e
masserizie d'ogni sorta; il selciato e le pietre del marciapiedi ve
nivano messi sossopra, tutto era ammucchiato con febbrile attivita,
e ogni strada in pochi momenti era asserragliata da barricate che
sorgevano a poca distanza 1'una dall'altra.
Ero fuori di casa ormai da parecchie ore, e pensai di rientrare
per non lasciare troppo a limgo in agitazione la mia buona mamma.
Emilio non rientro che a notte inoltrata ed eravamo in non poca
agitazione per lui: egli era stato lungamente trattenuto con Lodo-
vico Trotti in una delle vie che fiancheggiano la piazza del Duomo,
poiche sulla Cattedrale c'erano i cacciatori tirolesi che facevano
fuoco su quanti cercavano di attraversare la piazza.
Emilio ci racconto i fatti a cui aveva preso parte, o che aveva udito
da altri ; ci narro che gli austriaci avevano assalito e preso il Brolet-
to, facendo molti prigionieri tra i nostri e conducendoli in Castello
quali ostaggi ; ci disse i nomi di alcuni di questi, e i nomi dei primi
caduti, tra i quali il nostro antico Direttore di scuola, il Boselli, che
era stato ucciso a colpi di baionetta sulla porta del Broletto.
All'alba1 del giorno seguente, una domenica, Emilio era uscito di
casa di buon'ora, ed anch'io ero sceso, e m'ero fermato sul lirnitare
del pottone, socchiuso come tutti gli altri portoni.
Pioveva; nella via della Cerva non si vedeva nessuno; tutt'in
giro era un profondo silenzio, non interrotto che dal suono conti-
nuo delle campane a stormo, e da qualche colpo di cannone. Tutte
le persiane eran chiuse, o socchiuse. Mi spinsi piano piano fino allo
sbocco della strada, e vidi che anche la via Monforte era abbando-
nata e silenziosa. La barricata del ponte era stata distrutta dagli
austriaci durante la notte e gettata in parte nel canale detto il
Naviglio. Al di la del ponte, in vicinanza del palazzo del Governo,
si vedevano dei soldati, che ora procedevano guardinghi, ora si
ritiravano tenendosi ai lati della strada, sotto le gronde, coi fucili
in direzione delle finestre, e pronti a far fuoco appena vedessero
una persiana semiaperta.
A un tratto vidi venire dal piazzale di S. Babila, rasente il muro,
un giovane armato di carabina; egli si fermo al vicolo Rasini, e si
apposto dietro Tangolo. Questo valoroso, che doveva morire poche
i. Ed. cit., cap. rv, pp. 73-88.
RICORDI DI GIOVENTt 319
ore dopo, era Giuseppe Broggi.1 Dal punto in cui s'era messo, in-
comincio a far fuoco contro i soldati che erano nelle vicinanze del
ponte, e ogni suo colpo ne faceva cadere uno. Cosi, solo, in meno
di mezz'ora ricaccio fino al bastione i soldati che avanzandosi len-
tamente si preparavano ad occupare la via Monforte. II Broggi,
quando vide che tutta la via era sgombra, si avanzo fino al ponte, e
presa la strada del Naviglio si apposto di nuovo, facendo fuoco,
all'angolo del Corso. Qui ebbe, sulle prime, il medesimo fortunato
successo, finche una palla di cannone, rimbalzando dallo stipite di
una porta, che ne conserva ancora la traccia, gli squarci6 il petto.
Per alcune ore tutto fu quiete e silenzio nelle vie Cerva e Mon
forte. Di tanto in tanto qualcuno si affacciava alle finestre, o con
passo prudente usciva dalle porte, e allora si awiava in istrada un
po' di conversazione, per chiedersi e scambiarsi qualche notizia.
Non tutti, naturalmente, erano eroi; chi aveva 1'aria spaventata;
chi sommessamente arrischiava qualche parola di prudenza o di
biasimo; chi si millantava; chi, senza allontanarsi dalla porta, pru-
dentemente, faceva progetti e propositi terribili. Tutti, anche i
migliori, erano esaltati, e ben diversi del solito.
Tra le persone piu agitate del quartiere osservai un certo inge-
gnere Alfieri, che abitava nella stessa nostra casa; uomo di solito
tranquillo e di poche parole, diventato ora loquacissimo e di ma-
niere strane. Egli s'era trovato il giorno prima in via Monte Na-
poleone nel momento di quel gran parapiglia in cui la folia, che
ritornava dal palazzo del Governo, veniva accolta a fucilate da una
compagnia di soldati. Vivamente impressionato, aveva avuto tutta
la notte, come mi disse poi il suo servitore, una gran febbre, e
improwisamente era impazzito. Ma nessuno lo sospetto allora, e
parve soltanto un patriota dei piu ardenti.
L'ingegnere Alfieri, a un tratto, chiamo tutto il vicinato e pa-
recchi delle case vicine a raccolta in una corte ; dichiaro che da quel
momento egli prendeva il comando del quartiere e che tutti avreb-
bero dovuto obbedire a lui solo sotto la piu severa disciplina. La
cosa parve a tutti naturalissima, e Fingegnere cominci6 a dare i suoi
comandi. Ordin6 che si preparassero dei pannolini bagnati per spe-
i. Giuseppe Broggi (1814-1848) aveva disertato dall'esercito austriaco e,
fuggito ad Algeri, si era armolato nella legione straniera. Tomato a Mi-
lano, fu lasciato libero dagli Austriaci, dopo breve prigionia. Sembrava lon-
tano da interessi politici e fu invece tra i primi a combattere e a cadere
(19 marzo) nelle Cinque giornate.
320 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
gnere le bombe, e che si mettessero delle caldaie al fuoco per get-
tare acqua ed olio bollente sui soldati; poi mando alcuni nelle can-
tine, e sui tetti, per sorvegliare le spie e i nemici nascosti. Anche su
cio non si ebbe nulla da ridire. A me, che avevo le pistole, diede 1'or-
dine di tenermi accovacciato dietro Tabbaino d'un tetto, ove mi
condusse egli stesso, per sorprendere un nano che, a suo dire, fa-
ceva dei segnali dai tetti, ai soldati. A nessuno, dico, venne il so-
spetto che a quel nostro comandante avesse dato di volta il cervello.
Erano tutti esaltati da un bisogno di fare e di credere; piu un co-
mando era misterioso, e piu ci trovava devoti. Si viveva alPinfuori
della realta; la realta era il complesso dei sentimenti e delle spe-
ranze di tutti; era un amore infinite per T Italia; era la sicurezza
della vittorial
Rimasi parecchie ore sui tetto, dietro il mio abbaino, osservando
innanzi tutto se compariva il nano, e poi le linee dei soldati, che
tratto tratto sfilavano sui bastioni, a passo rapido, e guardando i
campanari che picchiavano a martello le campane sulle torri di
tutte le chiese. Tutto ci6, tra un rumore continue di grida, di fu-
cilate, di cannonate, che assordavano 1'aria, e tra il sibilo tetro delle
racchette1 e delle bornbe.
Nel guardare lungo la via, vidi presso il ponte sui Naviglio di
S. Damiano, stesi sui lastrico, due cadaveri, che vi giacevano pro-
babilmente dal giorno prima. E infatti seppi poi che i soldati ve-
nuti dal bastione a rioccupare il palazzo del Governo, appena n'era-
no usciti O'Donnel e le Autorita milanesi, nel caricare la folia e
nel risospingerla al di la del ponte, erano entrati in alcune case, e
saliti sui tetti, avevano gettato in istrada quei due infelici che vi
stavano appiattati, e di cui vedevo i cadaveri.
In quel momento mi sentii risuonare nell'anima, con una pro-
fonda pieta, quel grido: «Ewiva i morti !» con cui avevo sentito il
giorno prima la folia salutare le prime vittime.
I morti erano la. E non ristavo dal guardarli da lontano, con
quella specie di fascino che ci tiene awinti alle cose che ci fanno
meditare. Chi erano quei morti ?
Venne la sera, e il nano non compariva; per di piu avevo una
gran fame, e cio contribui a persuadermi che la mia missione fosse
pel momento finita. Cercai la scaletta per la quale ero venuto, ed
i. racchette: razzi incendiari (cfr. p 331).
RICORDI DI GIOVENTtl 321
ebbi Pingrata sorpresa di vedere che Puscio era chiuso a chiave.
L'aveva forse chiuso il mio stesso comandante, per assicurarsi me-
glio che avrei eseguito la consegna datami.
Che cosa fare ? Non mi rimaneva che di aggirarmi pei tetti, come
un gatto, di fumaiolo in fumaiolo, col pericolo di finire in istrada,
in cerca d'im'altra soffitta aperta e d'un'altra scaletta.
Le trovai ; scesi ; ed eccomi in una casa, e in mezzo a gente che
non conoscevo. In altri tempi sarei stato accolto come un ladro,
ma in quel giorno fui accolto come un amico, come un figliuolo di
casa. Narrai la mia awentura a quella buona famiglia, in mezzo
alia quale ero capitato ; mi si fece una gran festa, si parlo del nano,
e si voleva anche trattenermi a cena, se non avessi avuto fretta di
rivedere mia madre.
Non e facile descrivere 1'ospitalita che in quei giorni si trovava in
ogni casa. I pericoli, e le vicende della lotta, obbligavano spesso a
cercar rifugio nella prima casa che capitasse. Tutti trovavano dap-
pertutto un'accoglienza fraterna e festosa. Pareva che Milano fosse
una sola famiglia. Si era in quei giorni tutti amici e fratelli; tutti
si soccorrevano a vicenda, si abbracciavano, si davan del tu. Dalle
strade si saliva nelle abitazioni, e vi si trovava un letto per ripo-
sare, un bicchier di vino, un boccone per rifocillarsi. Cio alle volte
diventava una vera necessita. In alcune vie tutte le botteghe eran
chiuse, e le comunicazioni erano difficilissime. Qualche cuoco, o
qualche servitore che si era azzardato ad andare in cerca di com-
mestibili, era stato ferito o ammazzato. La citta era bloccata, e al
quarto giorno i viveri cominciarono a scarseggiare. La larga ospi-
talita, che metteva in comune le prowiste di quelli che ancora ne
avevano, diventava una vera prowidenza.
I ricchi e le persone agiate distribuivano, nelle strade e nelle
case, viveri e soccorsi a quanti si presentassero loro, fossero o non
fossero poveri. I signori distribuivano larghi soccorsi ai popolani
e agli operai, che in quei giorni della rivoluzione si trovavano ne-
cessariamente disoccupati. Soccorrevano in ogni maniera anche le
loro famiglie, ed essi volonterosi e coraggiosamente si adoperavano
in ogni piu audace azione, e volonterosi ubbidivano a chi li diri-
geva e li comandava.
Nessun furto awenne in quei giorni, mentre tutte le case erano
aperte a tutti e non guardate da nessuno. Milano era una famiglia
sola; tale fu la fisionomia morale della rivoluzione.
322 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
La mattina del lunedi, di buon'ora, qualcuno venne ad awi-
sarci die i soldati si avanzavano, che avevano oltrepassato il ponte,
e che pareva si disponessero ad occupare tutta la via. Sarebbe
stata da parte loro una bella mossa, che avrebbe potuto condurli
a pigliare alle spalle le barricate del corso di Porta Orientale.
L'allarme fu grande tanto nella casa nostra quanto nelle case
vicine, e tutti si misero ad asserragliare le porte per timore d'una
invasione. II figlio del nostro portinaio, certo Cecco Migliavacca,
giovanotto alto e robusto, detto fatto, principle a disselciare il
cortile, e a portar sassi su un balcone della casa dal quale si domi-
nava rimboccatura della strada. lo lo aiutai in questo lavoro, e ifi
pochissimo tempo ci fu su quel balcone una abbondante prowista
di sassi. Quando, ad un tratto, che cosa vediamo ? I soldati si avan-
zano rapidamente, coi fucili puntati alle finestre, e quattro zappa-
tori colle asce alzate, comandati da un ufficiale, principiano a menar
colpi a tutta forza contro il portone della casa del duca Visconti di
Modrone, che fa angolo tra via Monforte e via della Cerva.
Quella casa era zeppa di gente, venuta a ricoverarsi dalle case
piu minacciate di via Monforte, e trattenuta con una generosa ospi-
talita dal Duca.
II mio giovanotto comincio a lanciar sassi furiosamente : io Taiu-
tai del mio meglio, e i soldati qua e la retrocedevano, senz'accorger-
si sulle prime da qual parte venisse quella grandinata. Tutto cio
fu 1'affare d'un minuto.
Intanto il portone di casa Visconti stava per cedere ed era im-
minente una qualche grave sciagura; quand'ecco aprirsi la finestra
d'una casa vicina, che fa angolo col vicolo Rasini, e nella quale
abitavano alcuni canonici della chiesa di S. Babila. A quella finestra
si affaccia un prete, il quale, tra le fucilate che gli tirano dalla strada
i soldati, spiana un fucile, prende di mira I'ufficiale e lo colpisce.
Questo fatto improwiso atterrisce i soldati, che rapidamente
fuggono al di la del ponte, portando seco il ferito. La casa Visconti
era salva.
Chi era quel prete ? II vicinato disse subito che era don Cesare
Ajroldi.1 Io lo vidi, quel prete, mentre lanciavo i sassi, ma nella
i. Cesare Ajroldi Aliprandi (1800-1891) aveva studiato lettere e filosofia,
ma, sebbene sacerdote, non gli era stato concesso di insegnare, proprio per
le sue idee liberali. Al ritorno degli Austriaci si ritiro, o fu obbligato a riti-
rarsi, nel paesello di San Giovanni, presso Sesto, e non torno a Milano se
non dopo la liberazione del 1859.
RICORDI DI GIOVENTfl 323
commozione del memento non potei rawisarlo. Sul nome di quel
prete si fecero poi correre voci disparatissime, con Fevidente in-
tenzione di non richiamare una speciale attenzione su nessuno. Pa-
recchi avevano anche Findiscrezione di domandare air Ajroldi stesso
se fosse stato lui Feroe di questo episodio, ma egli si schermiva
sempre. Uomo d'ingegno e distinto predicatore, FAjroldi, dopo il
ritorno degli austriaci, fu tenuto per dieci anni in una specie di
esilio ; lo mandarono curato in un paesello di poche centinaia d'ani-
me; dopo il 1859 ritorno a Milano, divento Monsignore del Duo-
mo, ed occupo diverse cariche cittadine nella beneficenza, tra la
stima generale.
Dopo quel fatto venne Fordine, non so da chi, di erigere una
forte barricata di fianco a S. Babila, per difendere il Corso, e per
proseguire poi, con altre barricate, di mano in mano fino al ponte.
Eccoci, dunque, tutti quelli del vicinato, a costruire in gran fretta
una barricata, servendoci di masserizie e di materiali che genero-
samente ci venivan dati dalle case vicine. Don Cesare Ajroldi, sceso
in istrada esso pure, aveva preso a dirigerne la costruzione.
La barricata era finita, e gia si pensava a costruirne un'altra,
quando gli austriaci avanzarono di nuovo fino al ponte con due
pezzi d'artiglieria, e ci tirarono alcune cannonate. La nostra bar
ricata si sfascio, e in breve fu messa sossopra. Ci mettemmo in
fretta a ricostruirla, ma mentre stavamo collocando dei sacconi e
delle materasse per difenderla meglio, una palla di cannone Fat-
travers6, schiacciando e recidendo la testa d'uno ch'era in mezzo a
noi, un certo Perelli. Don Cesare e il Migliavacca trasportarono il
morto nella vicina chiesa di S. Babila, e tiratici tutti in disparte,
commossi, assistemmo una seconda volta allo sfacelo della nostra
barricata. Non tentammo allora di rizzarla nuovamente, e poco
dopo anche gli austriaci ritirarono i loro cannoni, e pel momento
non fecero piu nessuna mossa in avanti.
Nullameno i fatti di quella mattina avevano messo in allarme
tutto il quartiere. II duca Visconti comincio a raccogliere gente per
fame dei difensori della sua casa, e questi furono il primo nucleo
d'un reggimento di volontari, che poi equipaggio a sue spese e
condusse al campo. II duca in quei giorni era sempre in mezzo alia
strada, con un sacchetto di lire austriache, dette svanziche, che
vuotava e poi riempiva, distribuendo sussidi agli operai, ai popo-
lani, alle donne del quartiere e dei quartieri vicini.
324 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
Intanto le case di via Monforte e di via Cerva venivano in parte
abbandonate dagrinquilini, che cercavano di rifugiarsi in vie meno
esposte, in punti meno minacciati. Correva la voce che gli austriaci
si preparassero ad un nuovo e piu vigoroso assalto, scendendo dalla
via Monforte.
La mattina del terzo giorno Emilio, capitato a casa, dopo averci
narrato le sue vicende, ma in modo da non spaventare la mamma,
la persuase a lasciar la casa, e a portarsi altrove con me e col fratello
Enrico. Mia madre penso allora di recarsi nella vicina via Durini
presso una certa madame Garnier, ch'essa conosceva e ch'era la
direttrice d'un Collegio di fanciulle situato nel palazzo Durini.
Non e a dire con quanta festa ci accogliesse quella buona signora,
la quale aveva gia messo a disposizione di altri, ch'erano venuti a
chiederle ospitalita, i locali delle sue scuole. C'era percio, in quel
Collegio, un andirivieni continuo di amici e di amiche della Diret
trice, di giovanotti armati e di combattenti che venivano a portare
e a sentir notizie, a veder le sorelle, o le madri che v'erano accorse,
a rifocillarsi, a riposarsi, o a farsi medicare se feriti. Tutto cio in
un Collegio di fanciulle! Ma chi ci badava allora? Tutti rispettosi,
tutti fratelli; la gente aveva ben altro pel capo.
Dopo che ci fummo collocati alia meglio nella nuova abitazione,
mi venne la curiosita di ritornare in via Cerva, e di dare una capa-
tina in via Monforte per vedere se gli austriaci avanzassero. In via
Cerva trovai un assembramento di persone, e pareva anche che ci
fosse un po' di parapiglia, precisamente dinanzi alia casa Perelli,
dove noi abitavamo. Che cosa era awenuto ? In quella casa abitava
pure un certo De Simoni, console pontificio; ora un messo, scor-
tato da alcuni cittadini armati, era venuto ad invitarlo a un ritrovo
dei Consoli che, come si seppe poi, volevano chiedere un abbocca-
mento al maresciallo Radetzki. Ma il messo e la pattuglia erano
stati bruscamente fermati dalPingegnere Alfieri, il quale gridava
che senza il suo permesso il Console non sarebbe uscito di casa.
II Console intanto s'era affacciato alia finestra, ed era principiato
un curioso colloquio tra lui, 1* Alfieri, il messo e quelli della strada.
Finalmente il Console, in uniforme, scese, e allora 1' Alfieri si
mise a gridare : — Vedete quest'uomo ? Questa e la spia che tutti
andiamo cercando da due giorni . . . ammazziamolo !
II povero Console, che non ne capiva nulla, si agitava, tremava;
ma per fortuna le smanie dell' Alfieri furon tali e tante che tutti
RICORDI DI GIOVENTt 325
finalmente si accorsero, cosa non facile in quei momenti, che aveva
smarrita la ragione. Dopo un chiasso indiavolato, TAlfieri cadde a
terra dibattendosi.
Raccolto da alcuni pietosi fu condotto alPOspedale, dove pochi
giorni dopo mori delirando. Non fu in quei giorni il solo caso di
pazzia improwisa.
La mattina del 21, sull'albeggiare, dopo parecchie ore dormite
saporitamente su una branda, nelPanticamera del Collegio Garnier,
non ostante lo scampanio continue di quasi tutti i campanili della
citta, scesi in istrada e m'imbattei subito in alcuni che, con una
sciarpa tricolore a tracolla, si affannavano a dar ordini in nome del
Comitato di difesa e a disciplinare Tinsurrezione : non fosse altro,
ne avevano la buona intenzione. Caduto anch'io nelle mani d'uno
di questi capi, fui messo subito di sentinella ad una innocua bar-
ricata, che chiudeva la via Durini dalla parte del Verziere. II mio
comandante, dopo aver osservato le mie pistole, non trovandole
forse abbastanza micidiali, voile aumentare il mio armamento, e
mi mise in mano un fioretto da scherma, poi mi diede la parola
d* or dine : « Papa Pio ».
Poco dopo venne un altro capo, il quale trovo opportune di rin-
forzare il posto, e mi diede un compagno, ch'era un buon vec-
chietto, armato di una lancia antica. Gli confidai la parola d'ordine,
e fummo subito amici.
Venne una pattuglia: — Alt! — grid6 il vecchietto— la parola
d5 or dine!
— Concordia, coraggio — rispose il capo della pattuglia.
— Veramente, — osserv6 il vecchietto — la parola d'ordine sa-
rebbe un'altra . . . pero, siamo tutti italiani, e passino pure . . .
Rimanemmo appoggiati alia barricata chiacchierando, io e il mio
vecchietto, ch'era un impiegato in pensione, per un paio d'ore. II
vecchietto mi racconto che il Podesta era stato «promosso a Go-
verno Prowisorio » ; e mi confido le ingiustizie che aveva subite du-
rante la sua camera, concludendo che se «arriveremo a diventar
noi i tedeschi . . . »*
Alia fine cominciammo a domandarci che cosa facevamo noi li.
II nemico non si lasciava vedere; si combatteva in tutt'altre parti
della citta; intorno a noi tutto era silenzio; la curiosita chiamava
i . Cioe, comandare al posto dei tedeschi, essere liberi.
326 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
tutti altrove; e anche noi due, dataci la buona sera, ce ne andammo
pei fatti nostri.
Riacquistata la mia liberta individuale, mi portai alia Corsia dei
Servi (ora Corso Vittorio Emanuele), e poi mi spinsi innanzi verso
il Corso di Porta Orientale.
Vidi con stupore la barricata dei chierici del Seminario,1 la piu
formidabile di quante ce ne fossero in tutta Milano; una barricata
tutta fatta coi lastroni di granito dei marciapiedi, che sbarrava il
Corso, ed era alta parecchi metri, Vidi sventolare sulla piu alta
guglia del Duomo la bandiera tricolore, messaci, seppi poi, dal
Torelli, un amico di mio padre, che vedevo in casa nostra a Mi
lano e a Tirano. Vidi poi alzarsi i palloncini,2 fatti dai seminaristi,
per mandar fuori di citta i bollettini e i proclaim del Governo Prov-
visorio.3
Vidi cose serie e cose buffe, ma che allora a me e a tutti, pare-
vano serie anch'esse; vidi le barelle su cui erano trasportati feriti e
morti; e vidi dei bellimbusti, con corazze lucenti, sciarpe e cappelli
con penne d'ogni colore, con spado ni antlchi, che passeggiavano,
come cantanti sul palcoscenico. Ammiravo anche loro.
Ritornato sul tardi al mio quartiere generale, presso mia madre,
in casa Garnier, ove continuava 1'andirivieni di conoscenti e non
conoscenti, seppi le nuove di tutti i fatti che s' erano andati svol-
gendo nella giornata.
Seppi ch'era stato costituito il Governo Prowisorio, e che il
conte Martini4 aveva potuto penetrare dalle mura in citta, recando
i . la barricata . . . Seminario : la barricata costruita dai seminaristi nel
corso di Porta Orientale. Tra i suoi difensori merita particolare ricordo
Tallora chierico Antonio Stoppani (vedi sotto la nota 3). 2. i palloncini:
narra il Cattaneo che « li Austriaci, accampati sui bastioni, stavano attoniti
mirando quelli aerei messaggeri sorvolare alle loro linee, e li bersagliavano
con vani colpi » (Dell'insurresione di Milano nel 1848, in Romagnosi, Catta
neo, Ferrari, a cura di E. Sestan, Milano-Napoli, Ricciardi, 1957, p. 894).
Con questo sistema di comunicazione si diffuse e rincoro 1'insurrezione
fuori della citta. 3. «La costruzione della barricata, e la costruzione dei
palloncini, erano state dirette, come seppi piu tardi, da uno dei chierici
anziani, Antonio Stoppani, che aveva allora 23 anni. Lo Stoppani [1824-
1891] divento poi sacerdote, e fu il celebre geologo e scrittore a tutti no-
to » (nota del Visconti Venosta). 4. Enrico Martini di Crema ( 1 8 1 8- 1 869) ,
cognato di Luciano Manara, incaricato, poco prima dell'insurrezione, di
chiedere aiuti a Carlo Alberto. Dal 1848 visse esule in Piemonte, fu depu-
tato di Genova. Dopo il '59 rappresento per varie legislature la sua citta al
Parlamento.
RICORDI DI GIOVENTfr 327
da Torino Tassicurazione datagli da Carlo Alberto che le truppe
piemontesi avrebbero varcato il Ticino. Seppi che i consoli s'erano
recati dal maresciallo Radetzki, e che il giorno prima un maggiore
austriaco si era presentato al Governo Prowisorio per proporre un
armistizio.
A quella notizia, il viso di Madame Gamier, che in cuor suo co-
minciava ad essere inquieta per randirivieni crescente degli ospiti,
si illumino d'un breve raggio di speranza. Ma subito chino gli occhi,
rassegnata, perche, tra gli applausi degli astanti, si senti che il Go
verno Prowisorio aveva respinto la proposta. Questa notizia veniva
a mano a mano ripetuta festosamente da quanti venivano, e tutti
la ripetevano a un modo ch'era evidentemente quello della verita.
II Governo, cioe, aveva riunito il Comitato di difesa, e i principal!
'comandanti delle barricate. La discussione era stata breve. II conte
Durini e il conte Pompeo Litta,1 ex militare Napoleonico, avevano
osservato che 1'armistizio poteva esserci utile per lasciare a Carlo
Alberto il tempo di giungere a Milano e prendere gli austriaci alle
spalle. Ma gli altri, unanimi, dimostrarono le ragioni prevalent! per
respingere la proposta, la quale era stata pur respinta dai Comitati
di guerra e di difesa, recentemente nominati. Del Comitato di
guerra, nominate il terzo giorno, aveva accettato di far parte anche
il Cattaneo.2
1. II conte Giuseppe Durini (1800-1850) fu ministro degli affari esteri nel
governo prowisorio, sostenne la tesi delTannessione al Piemonte, tenne il
ministero delPagricoltura, industria e commercio nel gabinetto Casati dal
27 luglio al 15 agosto 1848; Pompeo Litta (1781-1852) aveva combattuto
nelle guerre napoleoniche (Ulm, Austerlitz), e si era poi, per una siogatura,
ritirato a vita privata, occupandosi di quegli studi di araldica e genealogia
cui e legato il suo nome. Fu tra le guide politiche nelle Cinque giornate
e solo brevemente si rifugi6, al ritorno degli Austriaci, in Piemonte.
2. « Piu tardi, quando alia verita si sovrappose la leggenda, molti vollero
attribuirsi il merito d'aver respinto rarmistizio; si disse, tra 1'altre cose,
che il Governo Prowisorio lo accettasse, e che il solo Cattaneo lo respin-
gesse: la verita e piu semplice. lo mi atterro a quanto ne scrisse Luigi To-
relli, presente a quel Consiglio, nei suoi Ricordi delle Cinque Giornate,
cronaca esattissima d'ogni fatto della Rivoluzione: "Essendo presente
anch'io a quel Consiglio, posso darne qualche ragguaglio. Riuniti in nu-
mero non minore al certo di quattordici o quindici, poiche, oltre il Go
verno Prowisorio, v'era il Comitato di guerra ed il Comitato di difesa
(del quale io facevo parte), il presidente Casati espose la domanda di
sospensione d'armi del generate Radetzki. Chi prendesse primo la parola
non rammento; certo il signer Cattaneo fu uno di quelli che parlarono con-
tro, ma sul numero di present! tre soli opinarono per 1'accettazione; gli
328 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
I felici e important! success! ottenuti dagli insorti nella quarta
giornata, la presa della Caserma del Genio (1'attuale palazzo della
Cassa di risparmio) e di altre caserme, nelle quali s'eran fatti dei
prigionieri, avevano nei piu accresciuto Tentusiasmo e la fede, e
dissipato in parecchi i dubbi e la paura.
Dopo la presa delle caserme e dei vari posti militari, il numero dei
cittadini armati era di molto cresciuto, e si facevano piu fitte le fu-
cilate, di cui giungeva 1'eco dai vari punti della citta.
C'era gia nell'aria il presentimento della vittoria, e si pareva tutti
mezzo matti per Pesaltazione e per la gioia: non si vedevano che
facce stravolte per la fatica, per 1'insonnia, e per Tebbrezza della
lotta e del pericolo : tutti avevano la voce rauca, tutti avevan fame,
e cercavano di rifocillarsi, sicche pareva un boccone ghiotto anche
il pezzo di pane secco che veniva offerto da chi ne aveva ancora
un poco in serbo.
Gli austriaci, sia per indecisione, sia per un certo sprezzo militare
di fronte a dei borghesi quasi senz'armi, s'eran lasciati sorprendere
il primo giorno, e poi non avevan saputo riaversi con una offensiva
risoluta e audace. Al quarto giorno la lotta era diventata difficile,
ma nei primi due giorni, con un'azione vigorosa, le truppe avreb-
bero potuto soffocare la rivoluzione senza molta difficolta, prima
che fosse proclamato Pintervento di Carlo Alberto. Radetzki giu-
stifico la sua ritirata con buone ragioni ; ma le ha trovate dopo.
Alia fine, le barricate, le tegole che piovevano dai tetti, e quel-
1'incessante sonare a stormo di tutti i campanili della citta, avevano
sbalordito, scoraggito i soldati. I generali, tra le notizie incerte, al-
larmanti, di Vienna, di Torino, e delle citta lombarde, pressoche
tutte insorte, erano rimasti dubbiosi e inerti. Le truppe stettero
altri, senza aver d'uopo di sforzi di rettorica di nessuno, la ripudiarono riso-
lutamente, perche era evidente che, in ogni modo, era piu utile a Radetzki
che a noi. Quando venne il mio turno, senza ripetere le ragioni degli altri,
aggiunsi solo: che nella mia qualita di capo delle pattuglie, dovevo poi
dire che si andava ben errati, se mai si credeva che quand'anche si avesse
accettata la sospensione, i combattenti Tavrebbero rispettata; di disciplina
non vi era nemmen I'ombra. Inoltre potrei anche appellarmi ai molti che
spero ancora esistano, per rammentar loro come, durante il breve tra-
gitto da casa Vidiserti a casa Taverna, si gridasse ad alta voce, no, no, non
accettiamo sospensione; e questo fu ripetuto perfino nella sala maggiore
di casa Taverna, che precede quella dove si tenne il Consiglio. Voi ve-
dete dunque che senza nulla detrarre al merito reale del signor Cattaneo,
non e quella circostanza che si puo addurre come di gran servizio reso al
paese" » (nota del Visconti Venosta).
RICORDI DI GIOVENTfr 329
quasi sempre sulla difensiva, certamente ostinata e valorosa, ma i
loro assalti alle barricate furono pochi, e poco vigorosi.
La sera del quarto giorno gli austriaci avevano perduto quasi tutti
i posti e tutte le caserme dell'interno della citta; erano ancora pero
padroni del Castello e dei bastioni che circondano la citta, e delle
porte.
Tra i posti perduti nell'interno della citta c'era stato, come ho
detto, il palazzo del Genio militare, ove ora si trova la Cassa di
Risparmio. Ne aveva diretta la presa Augusto Anfossi,1 che aveva
militato all'estero. Dirigeva il fuoco da un balcone d'una casa di-
rimpetto, quando una palla lo colpi in fronte. Ma Tassalto era con-
tinuato, per opera del manipolo d'insorti capitanati dal Manara, in
cui erano il Dandolo, il Morosini, Manfredo Camperio, i Mancini,
il Minonzi,2 ed altri; finche un ciabattino sciancato, Pasquale Sot-
tocornola,3 si porto ad appiccare il fuoco alia porta delta caserma,
incendiandola, cosi fu costretta alia resa.
«LJassalto a una porta »-fu il pensiero, fu la parola d'ordine
dei combattenti, del Governo Prowisorio e del Comitato di difesa,
nella notte tra la quarta e la quinta giornata. Con cio si sarebbe
rotto quelPanello che circondava la citta ; gli armati accorsi dai paesi
vicini sotto le mura4 sarebbero entrati in Milano, e con essi i viveri
che cominciavano a scarseggiare.
L'impresa era certamente grave e difficile, ma in quel momento
tutto pareva possibile nelPebbrezza delle prime vittorie.
i. Augusto Anfossi (nato a Nizza nel 1812, morto il 21 marzo 1848),
ufficiale piemontese, costretto a esulare dopo le repression! del 1831, si era
recato in Francia. Si era poi arruolato nell'esercito egiziano, che allora inva-
deva la Siria. Era a Milano da pochi giorni, quando scoppiarono i moti.
Per la sua esperienza militare fu organizzatore degli insorti. Cadde mentre
guidava, ferito, 1'attacco al Palazzo del Genio. 2. Minonzi: e quello stes-
so Minonzio (Carlo Minunzi) di cui Tautore ha fatto cenno a pp. 315-6.
3. Pasquale Sottocorno (1822-1857) non solo incendio la porta, ma anche,
appena invasa la caserma, i fienili. Al ritomo degli Austriaci, esulo a Tori
no, dove continue il suo mestiere di ciabattino : e a Torino mori. 4. « Da
principle si decise di tentare 1'assalto della citta entrando dal bastione
di Porta Comasina (oggi Porta Garibaldi). Se ne incarico Gerolamo Bor-
gazzi alia testa di alcune centinaia di persone ch'egli aveva condotte dalla
campagna. Ma durante Passalto rimase morto. Questo era fratello d'un
Alessandro Borgazzi che, durante le dimostrazioni, insultato da un uffi
ciale, nipote del Ficquelmont, lo aveva bastonato. La "Gazzetta d' Augu
sta" aveva stampato che un "nobile milanese aveva aggredito un Thurn, e
ch'era stato arrestato". Questi Borgazzi erano cugini di mia madre» (nota
del Visconti Venosta).
330 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
Sentivo1 dire che s'era pensato di dare Passalto a Porta Comasina,
ma che colla morte del Borgazzi2 1'impresa fosse fallita ; e che poi si
progettasse un assalto alia Porta Ticinese, ma la resistenza vigorosa
che vi si trovo, e varie altre circostanze che rendevano difficile
1'impresa, facessero mutar consiglio. Alia fine era prevalso il pro-
getto delPassalto a Porta Tosa.
Questo fatto, che e certamente uno dei piu importanci della ri-
voluzione, fu preparato e diretto con molte cautele, con ordine,
e con un piano predisposto. Ci furono un'ala destra e un'ala smistra
di combattenti di fianco al corso, che si avanzavano attaccando le
truppe dei bastioni per distrarle dal punto centrale, ch'era la porta;
e contro la porta furono dirette, lungo il corso, le barricate mobili
con le quali si doveva alia fine prenderla d'assalto. I meglio armati,
e i piu risoluti, avevano il comando dei vari gruppi di combattenti,
ai quali era affidata I'esecuzione di questo piano.
Le barricate mobili erano grandi cilindri, fatti di fascine legate
con corde, che venivano sospinte innanzi rotolandole, e dietro le
quali stavano i nostri combattenti. Le aveva pensate, e fatte se-
guire, Antonio Carnevali,3 gia professore alia scuola militare di Pa-
via durante il Regno napoleonico. Furono queste barricate che re-
sero possibile Pavanzarsi dei nostri sotto le fucilate d'un reggi-
mento di fanteria, e sotto la mitraglia d'una batteria, che difende-
vano la porta.
Trovandomi sulla piazza del Verziere assistetti alia costruzione
d'una di tali barricate ; e piu tardi, verso il mezzogiorno, spinto dalla
curiosita e dal desiderio di far qualcosa anch'io, mossi verso il ponte
di porta Tosa, per arrivare almeno fino all'imboccatura del corso.
Da lontano, nella direzione del bastione e della porta, si sentiva
il rumore continue delle fucilate dei soldati, e dei colpi di carabina
i. Ed. cit., cap. v, pp. 91-102. 2. Girolamo Borgaszi (1808-1848), educa
te da giovane in Francia, legato ai mazziniani, aveva partecipato alia spedi-
zione nella Savoia (1834), era stato nella legione straniera in Algeria e tra
gli insorti costituzionali in Spagna. Tomato a Milano nel 1843, era ispet-
tore della strada ferrata che si costruiva in Lombardia, e perci6 pote portare
aiuti dentro la citta. Mori nell'assalto a porta Comasina (vedi la nota 4 a
p. 329). 3. Antonio Carnevali (1791-1866) aveva combattuto, nel 1813,
in Germania, nelTarmata napoleonica. Prigioniero a Wittemberg, era tor-
nato a Milano nel settembre del 1814. Insegnava matematica al collegio
militare di San Luca e al collegio delle Filippine. Durante le Cinque gior-
nate fece parte del comitato di difesa. Esule in Piemonte, continue ad
insegnarvi, e torno in Lombardia solo nel 1860.
RICORDI DI GIOVENTtl 331
dei nostri; e a brevi intervalli la mitraglia, rimbalzando sul selciato,
giungeva fino al Naviglio.
II ponte, tra il Verziere e il tratto di strada che conduce al corso
di porta Tosa, era asserragliato da una forte barricata, alia cui cu-
stodia stava un drappello di cittadini armati. Quand'io mi presen-
tai (ero un giovanetto mingherlino), non mi fecero neanche Ponore
di domandarmi dove volessi andare. Uno diede un'occhiata, sor-
ridendo, a me e al fioretto di cui ero armato, e mi fece un gesto
che voleva dire di lasciare il passo ad altri, e di tornare indietro.
Infatti non si lasciavano passare che persone armate di carabine
o di fucili, oppure popolani robusti, che venivano con fascine, con
pali, con corde, per rafforzare le barricate mobili.
Passare il ponte voleva dire andare al fuoco sotto la mitraglia,
voleva dire gettarsi in una mischia terribile, e affrontare la morte.
Mentre ero rimasto li sui due piedi, un po' mortificato, per essere
stato tacitamente dichiarato inabile, e guardavo Paffaccendarsi af-
fannoso di chi andava e di chi veniva, vidi che al di la della barri
cata stava ritto un prete: aveva un crocifisso in mano, e dava Passo-
luzione in articulo mortis ai combattenti, che si inginocchiavano
dianzi a lui prima di andare al fuoco. Quello spettacolo, grave e
solenne nella sua semplicita, e tanto caratteristico di quei giorni e
di quel tempo, non si cancello piu dalla mia memoria.
Passai quasi tutta la giornata nella piazza del Verziere e nelle
strade vicine, facendo anch'io un po' di tutto, per quel che potevo
nel limite delle mie forze, aiutando a portar travi ed assi, sacconi e
masserizie per rinforzare le barricate. Poi c'era sempre qualche no-
tizia o qualche or dine da portare; o si era chiamati in un'osteria, o
in un caffe, o in qualche casa a fonder palle e a far cartucce. In-
tanto venivano a mano a mano i feriti, portati nelle case o all'ospe-
dale. Vidi tra questi, su una barella, un bel giovane, squarciato dalla
mitraglia; mi si disse ch'era Pingegnere Stelzi. Di tanto in tanto
cadevano anche nella piazza dei razzi, o « racchette » come le chia-
mavano allora, che erano ancora in uso nelPartiglieria austriaca.
Questi razzi molte volte riuscivano innocui; ma in quel giorno
vidi parecchi cittadini rimanerne feriti.
Andavano e venivano dal ponte dei piccoli e coraggiosi messag-
geri, che avevano libero il passo, e ch' erano gli alunni dell'Orfano-
trofio, detti dal popolo i « Martinitt ». Col loro mezzo i combattenti
del corso di porta Tosa comunicavano coi vari punti della citta, e
332 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
col Comitato della difesa. Questi valorosi figlioli della beneficenza
cittadina erano argomento deH'ammirazione di tutti.
E tutti, ogni tanto, alzavano gli occhi in alto, nella direzione
della piu alta guglia del Duomo, sulla quale sta la statua della Ver-
gine, con cui i milanesi sono in grande confidenza, come col genio
tutelare della casa, e la chiamano la « Madonnina ». Essa vede da
tanti anni le nostre gioie e i nostri dolori; situata si in alto, pare piu
vicina al cielo, al quale i milanesi amavano sperare che dicesse in
quei momenti una buona parola per loro. Quando, nella terza gior-
nata della rivoluzione, si vide sventolare in mano alia « Madonnina))
la bandiera tricolore,1 nessuno dubito piu della vittoria. Da tutta la
citta si levo un grido di trionfo e di gioia, come se la « Madonnina »
avesse fatto causa comune con noi, e avesse preso Milano sotto la
sua protezione.2 E ogni tanto si guardava in su, per assicurarsi che la
bandiera della « Madonnina » sventolasse ancora.
Verso la sera della quinta giornata, le grida « vittoria, vittoria »,
fecero accorrere e affollare verso il ponte quanti erano in piazza,
e questa volta la barricata e i suoi custodi non valsero piu a tratte-
nere la gente. Potei anch'io passare il ponte, e avanzarmi fino al-
1'imboccatura del corso.
La mitraglia non rimbalzava piu; tutto il combattimento s'era
ridotto alia porta. Era stata presa, poi incendiata, poi ripresa dagli
austriaci, poi ancora dai nostri; ora bruciava. Gli austriaci si erano
ritirati, lateralmente, sui bastioni, e facevan fuoco sulla folia che
correva verso la porta. Le prime case del corso, in vicinanza al
bastione, ardevano, e le fiamme si elevavano alte nelPoscurita, ere-
pitando; il terrore di quello spettacolo era accresciuto dalle grida
della vittoria, dagli urli degli assalitori, e dai lamenti acuti dei
feriti, o di donne fuggenti. Ogni tanto qualche panico ricacciava e
disperdeva la folia, che poco dopo ritornava con nuovo furore.
i. sventolare . . . tricolore: a piantare sul duomo di Milano la bandiera fu
Luigi Torelli, che narro poi (1876) I'insurrezione di Milano. Vedi L. To-
RELLI, Ricordi intorno alle Cinque giornate di Milano, Milano, Dumolard,
1883. 2. «Durante i primi due giorni della rivoluzione il terrazzo piu
alto del Duomo era occupato dai cacciatori tirolesi, che colle loro carabine
tenevano sgombre la piazza del Duomo e le vie vicine. Appena cesso il
fuoco nel terzo giorno, Luigi Torelli, che fu poi ministro e senatore del
regno, accompagnato da un altro cittadino, ebbe 1'idea felice e coraggiosa
di salire sul Duomo per assicurarsi che i cacciatori si fossero ritirati, e di
piantarvi la bandiera tricolore per indicare ai cittadini che si era padroni
del centro della citta; fatto che non solo rialzo gli animi in tutta la citta,
ma anche nei paesi circonvicini » (nota del Visconti Venosta).
RICORDI DI GIOVENTt 333
Corsi a casa a confermare anch'io la gran notizia della presa di
Porta Tosa, chiamata da quel momento dal popolo Porta Vittoria
(Decreto 6 aprile 1848), e trovai mia madre agitatissima, perche
ormai da ventiquattro ore non s'era pill veduto Emilio. Non lo rive-
demmo che la mattina seguente, e allora ci narro le varie peripezie
della giornata, che gli avevano impedito di venire in via dei Durini.
Calata la notte, e cessato il fuoco a Porta Tosa, si principle a
sentire un cannoneggiamento lontano, che pareva venisse dalle
vicinanze del castello. Ed ecco subito giungere ordini nelle case di
sorvegliare attentamente i tetti, le soffitte, i fienili, poiche pareva
che incominciasse un bombardamento piu vigoroso.
Ecco mi ancora di guardia su un tetto, questa volta della via dei
Durini, passandoci una notte umida, fredda, appoggiato ad un fu-
maiolo, e rawolto in una coperta di lana; ne la stanchezza ne il
sonno mi avrebbero potuto vincere dinanzi allo spettacolo spaven-
tevole di quella notte. Dalle parti del castello e lungo un tratto dei
bastioni si vedeva una grande striscia di fuoco, che in vari punti
si elevava con fiamme alte e sinistre nella notte nerissima.
Erano incendi di case e colonne di rumo, era il fuoco dei batta-
glioni austriaci e delle artiglierie, che assieme tiravano contro la
citta, senza tregua, con un rumore indiavolato, che scoteva 1'aria e
la terra.
Era uno spettacolo cupo, grandiose, che la notte rendeva piu mi-
sterioso e spaventevole.
Tutti, come seppi poi, erano rimasti in piedi quella notte, com-
presi da un muto terrore; tutti s'erano domandati ansiosamente se
un corpo d'insorti, o una avanguardia piemontese, fossero venuti
a dar Passalto alle mura; o se principiassero Fincendio e il saccheg-
gio della citta. Tutti erano trepidanti, silenziosi. Anche le campane
a martello in alcuni punti tacevano.
— Alt! chi sei tu? — chiesi a un tratto ad un'ombra bianca che
si avanzava verso di me pian piano, e facendo scricchiolare le tegole
del tetto.
— Sono una sentinella, viva Pio IX!
— Parola d'ordine!
— Augusta Anfossi.
E chi mi rispose cosi venne a sedersi accanto a me, tutto rawolto
in una coperta di lana bianca e con uno spadone antico a due mani
sulla spalla.
334 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
Riconobbi in lui quel guerriero che avevo gia osservato piu volte
il giorno prima al ponte di Porta Tosa, e che, pur accorrendo dove
si sentivano le fucilate, procurava che la sua coperta di lana facesse
sempre delle pieghe bizzarre con una certa pretesa artistica. Era
un giovanotto sui vent'anni.
Si principio, io e lui, con Palmanaccare su quello strepito diabp-
Hco e su quei fuochi. II mio collega ne sapeva quanto" me, ma so-
prattutto ammirava le tinte purpuree incandescent! del cielo. E
intanto prese a narrarmi, con la voce rauca, e con un linguaggio
un poj slegato e fantastico, i mille episodi della presa di Porta
Tosa e di altri fatti ai quali aveva preso parte, prima con un fucile
che gli si era rotto, poi con lo spadone, uno spadone antico, che
diceva essere una bellezza. Alia fine gli domandai :
— Sei uno studente ?
— Ma che! — mi rispose con una certa alterigia. — Sono un ar-
tista, un pittore!
— Ed hai fatto molti quadri ? — gli domandai.
— No, ma ne ho gia in mente tre . . . ed ora penso a un quarto . . .
la scena di questa notte veduta da un tetto, la luce delValba, e il bom-
bardamento della cittd! che contrasto! . . . una cosa magnifica! ve-
drai! che bellezza!
— Come ti chiami ?
— Sebastiano De Albertis.1
QuelPamicizia, incominciata sul tetto, continue; egli fece pa-
recchi quadri, non la scena veduta da un tetto, che gli diedero una
certa fama; fu garibaldino nel '59 e dipinse delle scene militari;
rammentammo piu volte la notte passata insieme, appoggiati ad un
fumaiuolo. La rammentammo anche pochi giorni prima che mo-
risse, trovandoci in una Commissione che preparava pel 50° anni-
versario delle Cinque Giornate quei festeggiamenti ch'egli non
doveva vedere,
Alle tre dopo la mezzanotte tutto quel rumore diabolico improv-
visamente cesso. Segui un silenzio profondo, ansioso, che duro un
paio d'ore; poi ad un tratto si sentirono delle grida lontane, che pa-
i. Sebastiano De Albertis (1828-1897), pittore, partecip6 attivamente alle
Cinque giornate. L'accenno dell'autore alia coperta corrisponde al modo
con cui gli insorti se lo indicavano: 1'uomo « della coperta di lana». Parte-
cipo successivamente a tutte le campagne d' Italia, al seguito di Garibaldi.
Tra i suoi quadri, La morte di Francesco Ferruccio ; Carica di carabinieri del
1848 • Ricordo di Bezzecca ecc.
RICORDI DI GIOVENTt 335
revano degli ewiva; poi alcuni campanili incominciarono a so-
nare non a martello, ma a festa; poi un rumore nuovo, come di voci
allegre e di gente festosa, scoppiava da ogni ptinto, cresceva, e saliva
distinto fino a noi.
— Che c'e ? Che sara ? — esclamammo noi due, e corremmo ra-
pidamente in strada.
In istrada la gente scendeva da tutte le case. Non si sentiva piu
che un grido:
— Sono andati! Sono andati!
Tutti si ripetevano Tun Taltro la grande notizia, tutti si abbrac-
ciavano, si baciavano, piangevano; le porte, le finestre si spalanca-
vano; da ogni finestra sventolava una bandiera fatta coi tre colori;
molti vi accendevano dei lumi. Sono andati! Sono andati!
Oh, come descrivere a chi non 1'ha veduta la gioia, la frenesia
di quell'ora!
Chi aveva sopportato i dolori e la vergogna della schiavitu pro-
vava ora la fierezza del sentirsi libero, la confidenza nelle proprie
forze, la fede nel proprio awenire. Nessuno avra fatto Panalisi di
tutto ci6 in quel momento, ma pure c'era tutto cio in quel grido
unanime, pieno di gioia e di ebbrezza - « sono andati, sono an
dati!)) - che erompeva come una voce sola.
— Giovanin Bongee1 e vendicato! — fu la prima parola che mi
disse il Correnti quando lo incontrai in quel giorno.
Dopo avere scambiato anch'io molti abbracci e molti baci, non
solo con mia madre, ma con quanti c'erano in casa Garnier, ritornai
in fretta a girandolare per le strade, spingendomi verso tutti quei
posti dove sentivo che c'erano stati i principal! combattimenti.
Dappertutto era il medesimo spettacolo ; dappertutto sventolavano
drappi, tele, cenci d'ogni qualita, purche fossero bianchi, rossi e
verdi; e la gente noncessava dal contemplare, dalTinebbriarsi quasi
di quei colori, simbolo di tante speranze e di tanti dolori. Tutti
portavano grandi coccarde d'ogni foggia ai cappelli e sui vestiti;
e dalle coccarde pendevano medaglie col ritratto di Pio IX e col
motto: « Italia libera, Dio lo vuole».
Nelle strade era uno scambiarsi continue di saluti, di rallegra-
menti, di abbracci, tra conoscenti e non conoscenti. A ogni passo
i. Giovanin Bongee: e il nome del protagonista d'una celebre composizione
poetica di Carlo Porta, Desgrazzi de Giovannin Bongee, che rappresenta un
popolano milanese angariato e offeso dai dominatori francesi.
336 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
c'era qualche crocchio in cui si scambiavano notizie, o si narravano
i fatti, gli episodi di quei giorni ; seppi allora che con quel grande
strepito, che ci aveva colpiti nella notte, gli austriaci avevano pro-
tetto la loro ritirata.
Sentii anche che nelle corti del Castello si vedevano cose racca-
priccianti, pozze di sangue, cadaveri di uomini e di donne, fucilati,
mutilati.
« Sono andati! Sono andati! » E in tutti era una festa, un entusia-
smo che pareva un delirio ; tutti eran mossi da una smania di espan-
dersi, di affratellarsi, di affaccendarsi. Molti continuavano il lavoro
alle barricate, specialmente quelli che ne erano stati lontani nei
giorni antecedenti; le rinforzavano, e persino le abbellivano, glo-
riosi di quelPopera cittadina, che in quel giorno pareva il presidio
eterno della comune liberta.
Non mancavano, anzi abbondavano, i tipi comici, che furono poi
chiamati gli « eroi della sesta giornata », che andavano in giro facendo
pompa dei piu strani costumi; con corazze antiche sul petto, con
cappelli piumati o morioni, con stivali di cuoio giallo, con armature
ed abiti da teatro. Queste strane fogge di « abbigliamenti patriot-
tici» continuarono, pur troppo, per molto tempo ancora; e anzi
comparve una moda nel vestire, chiamata alia «lombarda», e che
consisteva in un camiciotto, o blouse, di velluto nero, di fabbrica na-
zionale, stretta alia vita da una cintura di pelle da cui pendeva una
daga o una spada; colletto bianco, grande, rovesciato sulle spalle;
calzoni corti di velluto nero ; stivali che arrivavano fino al ginocchio ;
cappello alia calabrese con pennacchio ; e una collana che scendeva
sul petto, e da cui pendeva un medaglione, ch'era di solito il ri-
tratto di Pio IX.
Anche ad alcuni uomini seri non era sembrato strano, in quei
primi giorni, il vestire a un di presso cosi. E non era sembrato
strano neppure a Cesare Correnti, secretario generale del Governo
Prowisorio, che appunto in quei giorni vidi anche lui vestito di
velluto, alia (dombarda», con la fusciacca tricolore a tracolla, e una
sciabola al franco.
Anche parecchie eleganti signore adottarono sulle prime questo
strano genere di abbigliamento, e trovarono modo di adoperare,
quali ornamenti delle toilettes, fusciacche tricolori, cappelli alia
calabrese, pistole, e persino, Dio glielo perdoni! spade e sciabole
di cavalleria.
RICORDI DI GIOVENTtl 337
La festivita, mezzo seria e mezzo comica, che segui in Milano la
ritirata degli austriaci, si protrasse per parecchi giorni. Nessuna
stranezza stupiva, o pareva tale, usciti tutti come eravamo da quel
grande awenimento, che superava cio che di piu strano poteva
figurarsi la nostra immaginazione.
Ci furono anche-, ad onor del vero, delle manifestazioni e degli
atti piu seri. II 24 marzo un manipolo di giovani, ch'erano stati tra
i piu valorosi durante la rivoluzione, sotto il comando di Luciano
Manara, uscivano dalla citta inseguendo la retroguardia austriaca.
Quei giovani furono il primo nucleo di quel battaglione lombardo
di circa otto cento, che, dopo avere valorosamente combattuto a
fiance dell'esercito piemontese sui campi di Lombardia, e piu tardi
alia Cava1 in Piemonte, chiudeva la sua breve e gloriosa vita militare
decimato sugli spalti di Roma.3
Un altro gruppo di cittadini milanesi s'awiava intanto penosa-
mente, dietro i carriaggi austriaci, verso Verona: erano gli ostaggi.
In seguito all'assalto e alia presa del Broletto, eseguiti per ordine
del generale Wallmoden, sulPimbrunire del 18 marzo, erano stati
presi circa cinquanta cittadini, e condotti prigionieri in castello.
Tra questi, n'erano stati scelti una ventina quali ostaggi, al mo-
mento in cui Parmata si ritiro, nella notte del 22 marzo.3
Le truppe giunsero la sera del 23 marzo a Melegnano, condu-
cendo seco gli ostaggi, affidati alia custodia d'un Commissario di
Polizia, un tal De Betta. Furono rinchiusi in un camerone oscuro,
ove poco dopo si vide una luce sinistra, seguita da un colpo, e da
un grido; uno degli ostaggi cadde mortalmente ferito; era il conte
Carlo Porro.4 Ne fu incolpato il Commissario De Betta, che poi se
ne scolpo, e attribui il colpo a un soldato, e a un caso fortuito. II
Porro mori il giorno dopo, e fu una grave perdita. Cultore di scienze
naturali, fu uno dei fondatori del museo di Milano; cittadino auto-
i. Cava: e il nome di un paese sulk via provinciale Pavia- Alessandria.
Nel '49, in conseguenza dell'errore compiuto dal generale Ramorino, il
battaglione Manara vi sostenne Turto di quattordicimila austriaci, ritardan-
done 1'avanzata. Per quell' episodic Cava ebbe poi (1863) il nome di Cava
Manara. 2. sugli spalti di Roma: nella difesa della Repubblica romana
del 1849. Vedi la nota 2 a p. 339. 3. «Fu dato 1'ordine di prendere il
Palazzo del Broletto, ove risiedeva il Municipio, a qualunque costo, al co-
lonnello Perrin che comandava un reggimento boemo. Lo Schonhals pero,
nella storia sulla campagna d' Italia, attribuisce la presa del Broletto al co-
lonnello Doll [rectius: Doll] comandante del reggimento Paumgater [rect ius :
Paumgartten] » (nota del Visconti Venosta). 4- Carlo Porro: vedi la nota
i a p. 303.
338 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
revolissimo, era stato in quei giorni uno dei dirigenti il movimento
del paese, di cui era un onore e una speranza.1
Gli ostaggi furono condotti a Klagenfurt, e piii tardi vennero
scambiati con prigionieri austriaci.
Cosi si chiudeva quel primo giorno di trionfo. I gridi di gioia
coprivano molti gemiti, e molte lacrime, come segue la sera d'ogni
trionfo ; ma la gioia era tanta, che perfino gli afHitti gioivano, o al-
meno erano piu rassegnati nel dolore.
Intanto giungevano notizie da ogni parte della Lombardia e del
Veneto. Dappertutto era la stessa cosa; come in una polveriera
dove si fosse dato fuoco a una miccia nel tempo stesso, in ogni
citta, in ogni borgata, in ogni villaggio, ognuno a suo modo aveva
fatto la sua rivoluzione, quasi vi fosse stata un'intesa, e con gli stessi
caratteri di concordia, di entusiasmo, e talora di imprevidenza
generosa e ingenua.
Le lezioni delPesperienza vennero poi, inesorabili e dure; ma
non turbiamo quei momenti felici.
[VIAGGIO PER L'lTALIA]2
In principio di luglio,3 fatti i nostri esami universitarii, io e mio
fratello Emilio ci sentimmo presi da una grande smania di pren-
dere una boccata d'aria fuor di paese, e di sollevarci un po' Tanimo
dopo tanti giorni di sciagure, e dopo i pericoli corsi, specialmente
da Emilio.4 Ci decidemmo per un viaggetto a Roma, a Napoli, e in
Sicilia: Favere un passaporto per quei paesi, incatenati al pari di
noi, non era difficile; e poi ci sorrideva di vedere una parte d' Italia,
i . « Gli ostaggi erano : Antonio Bellati delegato (Prefetto) di Milano, conte
Giuseppe Belgiojoso assessore municipale, conte Ercole Durini, nob. Pie-
tro Bellotti assessore municipale, marchese Giberto Porro, conte Giulio
Porro, nob. Filippo Manzoni, nob. Carlo De Capitani, nob. Francesco Gia-
ni, Enrico Mascazzini, nobile Alberto De Herra, dottor Antonio Peluso,
Enrico Obicini, Mascheroni, Citterio, ing. A. Brambilla, Carlo Crespi,
Carlo Pozzi, Guglielmo Fortis, nobile Carlo Porro. Lungo la strada ne
furono aggiunti altri sedici, arrestati tra i notabili dei paesi che le truppe
attraversavano nella ritirata. Carlo Porro era fratello del conte Alessandro
Porro, che divenne poi Senatore e Presidente della Cassa di Risparmio di
Milano » (nota del Visconti Venosta). 2. Ed. cit., cap. xvii, pp. 263-83.
3. In principio di luglio: del 1853. II viaggio durd dal luglio al settembre.
4. sciagure . . . Emilio : allude ai processi di Mantova e ai pericoli corsi al-
lora da Emilio. Vedi la nota i a p. 300.
RICORDI DI GIOVENTtl 339
di questa nostra Italia a cui si dedicavano tanti pensieri e tanti
dolori. Partimmo per Geneva, ove dope un paio di giorni passati
in compagnia di parecchi amici emigrati, o fuggiti dai recenti pro-
cessi, ci imbarcammo, e si ando a Civitavecchia.
Sbarcati, fummo condotti nell'uffizio della Dogana, ove ci fu-
rono aperti i bauli, e un commissario di Polizia li perquisi minuta-
mente. Ne tolsero i libri, un Macchiavelli, un Moliere e un paio di
romanzi, dicendoci che qualsiasi libro veniva sequestrate, e che
avremmo potuto cercarli poi alia Polizia centrale in Roma. Ma in
fatto non li riavemmo piu. Questa prima impressione non fu pia-
cevole, e meno piacevole ancora fu il viaggio da Civitavecchia a
Roma in una vecchia diligenza sgangherata, che Emilio diceva tro-
vata tra le masserizie di Torquemada.1
In Roma rimanemmo quindici giorni, girando da mattina a sera,
nella canicola del luglio, trafelati, ma non stanchi di vedere e di
ammirare. Visitammo anche minutamente quei luoghi a cui le re
centi memorie della difesa di Roma davano uno speciale interesse:
le mura, il Vascettoz e la breccia, ove erano caduti Manara, Enrico
Dandolo, Morosini, e tant'altri amici e giovani valorosi in nome
di una grande idea la quale pareva non si potesse effettuare che in
tempi ben lontani. Quando incontravamo per le strade i soldati
francesi esclamavamo in cuor nostro : « Che cosa fate voi qui ? II
vostro posto sarebbe stato sui campi di Lombardia da amici, e
non qui da nemici!»
Chi m'avrebbe detto allora che questa logica del sentimento
avrebbe avuto tra pochi anni il suo trionfol E per di piu, per opera
di colui che, in quei giorni, per essere dei patriotti in tutta regola,
bisognava chiamare con ira Tccuomo del 2 dicembre»!3
Francia e francesi nei nostri animi giovanili erano associati al-
1'epopea della rivoluzione, e del regno italico; erano associati a ogni
piu alta idea di liberta e di progresso! E ora invece vedere i francesi
i. Metaforica allusione a Tomas de Torquemada (1420-1498), inquisitore
di Spagna. 2. La villa del Vascello> a porta San Pancrazio, dove i gari-
baldini, comandati da Giacomo Medici, combatterono strenuamente, nel
1849, contro le truppe francesi, in difesa della Repubblica romana. Nella
difesa di Roma morirono, tra i tanti, Luciano Manara, a Villa Spada;
Enrico Dandolo a Villa Corsini; Emilio Morosini in seguito alle ferite
riportate al bastione del Merluzzo. 3. II 2 dicembre 1851 Napoleone
Bonaparte, presidente della seconda Repubblica francese, intraprese il
colpo di stato che gli schiuse la via al trono.
340 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
in Roma, accanto agli svizzeri del Papa, venuti a sostenere colle
armi il governo temporale papalino!
Un'altra cosa che ci offendeva la vista e il sentimento era il tro-
vare, in ogni ufficio ove s'andasse, dei preti; dei brutti preti che,
col piglio di frequente rozzo e sgarbato, adempivano a incarichi
che proprio non avevan nulla a che fare colla sacristia. E ci stupiva
poi tanto il sentir bestemmiare contro i preti e dileggiarli, senza ri-
tegno e generalmente ; noi, che eravamo abituati a rispettare i nostri
bravi preti di Lombardia. E che cosa poi non si diceva del governo
dei preti! Era un subisso di imprecazioni, che vorremmo per un
momento solo far udire a quelli che lo invocano . . . per passatempo.
Un giorno, mentre in piazza di Monte Cavallo stavo osservando
Pobelisco e i cavalli greci, vidi uscire dal palazzo del Quirinale
una gran carrozza a vetri tutta dorata. In quella carrozza c'era un
bel vecchio,1 tutto vestito di bianco, che benediceva dagli sportelli :
il suo viso pareva circondato da un'aureola di santita e di pace;
sulle sue labbra c'era un fine sorriso pieno di bonta; quel dolce sor-
riso col quale forse aveva pronunziate un giorno quelle parole che
risuonarono dall'Etna alle Alpi: « Gran Dio, benedite 1' Italia !».
Pensamrno di recarci a Napoli, attraversando gli Appennini, pas-
sando poi per Capua e per Caserta. II primo giorno s'ando a Tivoli
e ad Arsoli, un ameno paesello presso il confine del regno di Napoli,
con un viaggio di parecchie ore di polvere e di afa in una vetturaccia,
in compagnia d'un frate che russava e d'una balia che allattava. Ad
Arsoli ci dissero che non c'eran locande per « galantuomini » : in quei
paesi si chiamano galantuomini quelli che noi chiameremmo persone
civili. Ci fu pero indicato un palazzotto il cui proprietario, un certo
signor Marcello, offriva Pospitalita ai forestieri, e ai « galantuomini ».
II signor Marcello era un uomo gentile e gioviale. Ci alloggio as-
sai bene, e la sera ci diede un'ottima cena. Ci disse ch'era di Roma,
e che dopo i fatti del 1849 passava parte dell' anno in quella sua villa;
poi mi racconto molte storielle della sua gioventu, nelle quali c'en-
trava anche il principe Luigi Napoleone. Ci disse pure che nella
villa c'eran sua moglie e le sue figlie, ma non ce le lascio vedere. E
avendogli noi lodata la cena, ci informo ch'era stata cucinata da una
sua giovane cuoca; ma anche questa non fu visibile. E quando prima
di partire la cercammo per darle la mancia, si presento invece sua
un'altra persona di servizio, ch'era un maschio.
i. un bel vecchio: Pio IX.
RICORDI DI GIOVENTt 341
II signer Marcello ci procure una guida e tre muli per attra-
versare PAppennino. Si viaggio tutta una giornata, valicando un
monte arido e dirupato, per una strada mulattiera che conduceva
a Tagliacozzo, per scendere poi ad Avezzano. La strada che noi fa-
cemmo era appunto quella che, circa dieci anni dopo, veniva per-
corsa dalle bande dei briganti che entravano dallo Stato romano
negli Abruzzi ; e su quelle baize era preso e fucilato il carlista spa-
gnolo Borjes,1 venuto in Italia a capitanare il brigantaggio, a ricat-
tare e a tagliar orecchie, da dilettante.
Verso sera, prima di arrivare ad Avezzano, fummo raggiunti da
un signore, pure a cavallo, il quale con molta cortesia ci diede delle
indicazioni utilissime, e ci procure un buon alloggio. Non contento
di questo, la mattina seguente venne a prenderci e ci condusse
a vedere il lago di Fucino e Temissario di Nerone:2 poi ci voile ac-
compagnare fino a Sora e a Capua. Sulle prime ci eravamo tenuti
•con lui in molto riserbo, ma a poco a poco smettemmo la diffidenza.
Egli ci disse che in seguito agli awenimenti del '48 era stato rele-
gato in provincia; e ci diede una infinita di particolari su cose e
persone che sapevamo d'altra parte veritieri.
Questo cortese signore si chiamava Altobelli, e mio fratello Emi-
lio lo rivide a Napoli nel 1861, quando v'ando con Farini. LJ Al
tobelli gli racconto che dopo la cavalcata e la gita con noi era stato
arrestato dalla Polizia, la quale voleva sapere quali macchinazioni
avesse fatte con quei due forestieri venuti dal confine romano ; e, a
buon conto, Tavevano tenuto in prigione alcuni mesi.
Accomiatatici a Sora dal signor Altobelli, si ando in vettura a
S. Germane, poi a cavallo alPAbbazia di Montecassino. Eravamo
neiragosto, e si pensi che caldo facesse. II portmaio del convento,
indovinando i nestri desideri, ci condusse subito in un salottino da
i. Jose Borjes (nato nel 1803) aveva combattuto in Ispagna tanto alia morte
di Ferdinando VII come nel 1847. Ingaggiato segretamente dai Borboni
spodestati, avrebbe dovuto sollevare la Calabria contro il Regno d'ltalia:
sbarco infatti con un pugno di spagnoli in Calabria (15 settembre 1861),
ma circondato dalle truppe italiane, e contando solo su alcune centinaia di
briganti, cadde prigioniero e fu fucilato a Tagliacozzo 1'8 dicembre 1861.
Vedi B. CROCE, Uomini e cose della vecchia Italia, u, Bari, Laterza, I9432,
pp. 325 sgg., e vedi anche G. SCHMITT, Briganti celebri, Napoli, S. Roma
no, 1905, pp. 68-78. 2. il lago . . . Nerone: il lago di Fucino, negli Abruzzi,
era stato fornito, nell'antichita, da Claudio imperatore, di un emissario che
ne impediva gli straripamenti, portando le acque nel Liri: emissario che
successivamente si ostrui del tutto. II Fucino fu interamente prosciugato
con i lavori compiuti dal 1854 al 1875.
342 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
toeletta ove potemmo lavarci, rinfrescarci, e toglierci di dosso tutta
la polvere che ci rawolgeva. Quel bravo portinaio ci porto anche
delle buone limonate, e ci disse a nome del Priore, al quale ave-
vamo mandate i nostri biglietti da visita, che eravamo pregati di
accettare in refettorio una colazione. Accettammo con piacere, e la
colazione fu ottima. Alle frutta vennero due monaci benedettini,
uno dei quali credo fosse il Priore, a farci visita; poi il piu giovane
dei due ci condusse a visitare il convento, la chiesa, e la biblioteca;
visita che duro parecchie ore, e che quel monaco ci rese anche piu
interessante colla sua molta erudizione. Era di Napoli, e si chia-
mava Carfora; aveva maniere distinte e gentili da signore.
Lasciammo con dispiacere quello splendido asilo, ove avevamo
trovato un'ospitalita tanto cortese ; ove tutto era dedito alia fede,
alia coltura, all'arte: e ove tutto faceva dimenticare «li pretacci» di
Roma, come dicevano allora i romani.
Viaggiando tutta notte in una diligenza, si arrive la mattina dopo
a Capua. Di quel viaggio ricordo che un gendarme, incaricato di
scortare la diligenza, non trovando altro posto, venne a sedere in
mezzo tra me ed Emilio schiacciandoci sui fianchi del legno. Cer-
cammo di protestare, ma fu inutile. Che cosa non era lecito a un
gendarme ? Anzi voleva essere ringraziato. Prima ci frugo indosso
per assicurarsi che non avevamo qualche arma nascosta, poi voltosi
a Emilio, che aveva un paio di giovanili baffetti biondi, gli disse:
— lo vi dovrei far tagliare li mostacci, perche nel Regno sono proi-
biti, ma veggo che siete inglesi e per rispetto alia vostra nazione
non ci faccio caso. Ma ringraziatemi, perche vi faccio una grazia.
Ma pure mi dovete ringraziare se sto assettato in mezzo a voi, e vi
proteggo contro li malfattori, che ce ne stanno tanti . . . che se ve-
nissero nella notte avranno da fare con me . . . sangue di! . . . Rin
graziatemi, ringraziatemi ... — Poco dopo, col fucile tra le gambe,
si addormento, e russo fino alia mattina.
Da Capua s'andava a Napoli con la strada f errata,1 una strada
ferrata di carattere pacifico e conciliante, su cui il treno andava con
la velocita d'una vettural i passanti lo facevano fermare per salire o
per scendere a loro volonta.
A Napoli alloggiammo in un albergo, in vicinanza di via Toledo,
i. Da Capua . . .ferrata: il tronco ferroviario Capua-Caserta era stato inau
gurate nel 1844, come prolungamento della linea Caserta-Napoli, comple-
tata nel 1843.
RICORDI DI GIOVENTtl 343
che si chiamava, mi pare, del Commercio. II proprietario e direttore
era un vecchio francese, Monsieur Martin, venuto a Napoli ai
tempi di Murat, e che quando non brontolava, come faceva quasi
sempre, canticchiava sottovoce continuamente una canzone fran
cese che aveva per ritornello: «Aux armes, aux armes, que vient
le Due de Parme».
Appena arrivati trovammo alcuni amici che furono poi i nostri
compagni per tutto il tempo che si rimase a Napoli, ossia una
quindicina di giorni. Questi erano Carlo Casalini veneto, compagno
di studi di Emilio, il conte Sassatelli di Bologna e Cristoforo Ro-
becchi milanese, che divento molti anni dopo Console generate del
Regno d' Italia.
Se volessi dire tutte le impressioni di maraviglia da cui passavo
da mattina a sera, non la finirei piu; quella Bella Napoli m' aveva
ubriacato. Ma pur troppo accanto alle maraviglie del cielo, della
natura e dell'arte, c'eran le impressioni brutte che lasciava nell'ani-
ma la gente bassa, che e appunto quella parte di popolo che chi
non e del paese vede di piu.
Per noi che ci sentivamo italiani, cittadini di una Italia da farsi,
e che come tutti i liberali di quel tempo circondavamo il popolo di
tanta poesia e di tante speranze, era penoso il veder quella plebaglia
cosi priva di dignita e talora d'onesta. Allora c' erano ancora i tra-
dizionali (dazzaroni)), scomparsi poi coi Borboni loro protettori. I
forestieri se ne divertivano, ma noi ne arrossivamo. Quello sciame
di pitocchi, di oziosi, che a ogni passo s'aveva tra' piedi, che piom-
bavano addosso come locuste, che ingannavano, truffavano, e che
bisognava nunacciare, o peggio, per liberarsene, era uno spettacolo
insoffribile, tristissimo. Ci confortavamo col dire tra noi che quel
popolo era tenuto ad arte nelPignoranza e nell'abbiezione; ma bi
sognava pur confessare che i risultati del sistema non potevano
essere piu completi.
Tutta questa bordaglia faceva contrasto e vero con le classi alte,
e soprattutto coi molti eletti per ingegno e per cultura di cui non
era, e non fu mai, scarso quel paese. Ma allora molti di questi si
tenevano in disparte, e quasi appiattati, per non dar nell'occhio
alia Polizia, la quale non era meno feroce, ma era piu vessatoria e
pm stupida della Polizia del Governo militare di Lombardia.
Un giorno io e Emilio, tornati dalla gita del Vesuvio stanchi, ac-
caldati, ci buttammo sul letto mezzo vestiti, e ci addormentammo
344 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
profondamente, senza aver chiusi gli usci delle nostre camere. Ci
svegliammo verso Tora del pranzo, e si pensi con quale spiacevole
maraviglia ci accorgemmo ch'eran scomparsi tutti i nostri abiti,
compresi quelli ch'erano negli armadi. Chiamammo il carneriere,
chiamammo il signor Martin, furono interrogate le persone di ser-
vizio dell'albergo, ma dei nostri abiti non se ne seppe piu nulla;
e per quel giorno si dovette pranzare in camera in maniche di cami-
cia, e poi andare a letto.
II signor Martin ci giuro in francese, in italiano, e sulla sua testa,
che avrebbe scoperto il ladro. Per un paio di giorni lo sentimmo
strepitare e bestemmiare ; poi tutto torno in quiete, ed egli riprese
a canticchiare « aux armes, aux armes, que vient le Due de Parme».
Cio che di buono fece intanto il signor Martin fu di chiamar
subito un bravissimo sarto, che con una rapidita ammirabile, cioe
in un paio di giorni, ci riforni di quanto c'era stato rubato, portan-
doci degli abiti assai ben fatti e di ottimo gusto. C'eran state ru-
bate anche le « marsine », e avevamo un invito a pranzo proprio in
quei due o tre giorni. II sarto con un sorriso benevolo ci rassicur6,
e un'ora prima del pranzo ci porto le « marsine)), i calzoni, e le
sottovesti che andavano a pennello.
Quando partimmo da Napoli il signor Martin, nel metterci in
carrozza, ci disse aH'orecchio che il ladro dei nostri abiti era stato
il servitore d'un generale, venuto per la festa di Piedigrotta, e che
aveva le sue camere accanto alle nostre; ma che trattandosi di per
sona dipendente da un pezzo grosso, era prudenza tacere.
II pranzo, pel quale ci occorrevano le « marsine », era in casa
Gargallo. Ai discendenti del traduttore d'Orazio1 eravamo stati
presentati pochi giorni prima ; ed essi, tutta una famiglia composta
di fratelli, sorelle, nuore e nipoti, ci avevano invitati pel giorno
della festa di Piedigrotta a veder la «parata» la mattina, cioe la
grande rivista militare e il passaggio del corteo dei Sovrani, e poi
a pranzo la sera.
Ci trovammo in casa Gargallo con altri invitati, che dovevano
essere dei borbonici della piu belFacqua. Ce ne accorgemmo quan-
do pass6 la carrozza del Re seguita dalle carrozze di Corte. Emilio
mi diede subito un'occhiata, per domandarmi se dovevamo ritirarci
i. traduttore d'Orazio: Tommaso Gargallo (1760-1842), marchese di Ca~
stel Lentini, autore di liriche, epigrammi, novelle, poemetti, e traduttore
di Orazio.
RICORDI DI GIOVENTfr 345
dal balcone, come si faceva a Milano quando passava un generale
austriaco. M'aspettavo in buona fede che su quei balconi si facesse
altrettanto, ma nessuno si mosse. lo avevo gia atteggiato il viso a
una sdegnosa severita patriottica, ma ecco che i miei vicini inco-
minciano a batter le mani, a gridar viva il Re, e a salutare ammic-
cando con gli occhi le persone del seguito.
Durante il pranzo poi i discorsi si aggirarono unicamente su
notizie di Corte ; e dal mio vicino ricevetti le congratulazioni perche
anche in Lombardia fossero stati ristabiliti Pordine e la tranquillita!
Due giorni dopo facemmo la nostra visita di congedo in casa Gar-
gallo. Credevamo d'esser sulle mosse per andare in Sicilia; ma un
improwiso incidente venne a trattenerci ancora per una settimana.
L'amico Cristoforo Robecchi desiderava fare il giro della Sicilia
con noi, e avevamo quindi mandato alia Polizia i nostri tre passa-
porti chiedendo il « visto» per la partenza. Ma eccoci, dopo un'atte-
sa di alcuni giorni, una lettera che ci chiama alia Legazione d' Au
stria. A quei tempi gli italiani, sudditi austriaci, viaggiando evi-
tavano di presentarsi alle Legazioni o alle Ambasciate austriache
per cansarne le cortesie. Questa volta eravamo chiamati, e biso-
gnava andarci.
Alia Legazione fummo ricevuti dal prirno secretario, poiche il
ministro era in congedo. Questo secretario, certo signor Rajmond,
ci accolse molto gentilmente, e ci awiso che alia Polizia di Napoli
era arrivata una relazione, piena di sospetti sul nostro conto, in
causa della strada insolita che avevamo percorsa venendo da Roma,
e in causa delle « persone con le quali » (il signor Altobelli) ci era
vamo abboccati.
Non ci fu difficile dimostrare al signor Rajmond 1'innocenza delle
nostre azioni, ed egli si assunse di persuaderne la Polizia napole-
tana, e di domandare per noi quei passaporti speciali che occorre-
vano per andare in Sicilia. Noi non sapevamo che il nostro passa-
porto per le Due Sicilie non bastasse, e che per una sola Sicilia
ce ne volesse uno rilasciato anche dal Governo di Napoli.
Dopo due giorni siamo chiamati di nuovo alia Legazione, e il
signor Rajmond ci comunica la risposta del Governo il quale ci
concedeva «due» passaporti ma non «tre»; bisognava quindi sce-
gliere tra noi chi poteva partire e chi dovesse rimanere. II signor
Rajmond pero, sempre gentile, si offerse di interporsi ancora per
ottenerci la <cgrazia» di partire in tre.
346 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
La grazia venne, ma un personaggio del Governo voile vederci
e interrogarci alia presenza del secretario della Legazione. Questo
personaggio, di cui non rammento il nome, era un ometto asciutto
e sbarbato; ci fece un lungo interrogatorio, squadrandoci da capo
a piedi a ogni domanda ; poi alia fine con molta solennita ci disse :
— Ebbene, si concede a tutti e tre il passaporto per la Sicilia, ma
si concede soltanto per un riguardo alia loro bandiera! — E cosi
dicendo accennava con la mano al secretario della Legazione
d' Austria.
«Per la nostra bandiera! » cioe per la bandiera austriaca.
Cosi potemmo andare quella volta in Sicilia grazie a un funzio-
nario austriaco, il quale per di piu ci raccomando di tenerci molto
in guardia per cansare le vessazioni della Polizia borbonica, ch'egli
pure si permetteva, sorridendo, di riconoscere eccessive.
Partii pieno d'entusiasmo per il bel paese che avevo veduto, ma
ne venivo via con tre dispiaceri nel fondo delPanimo : quello cioe
d'aver perdute anche qui, e piu che mai, molte illusion! su quel
popolo che Mazzini mi aveva insegnato a mettere accanto a Dio;
d'aver trovati, nelle classi educate, dei borbonici; e d'aver avuto
un protettore nella Legazione austriaca.
Ci imbarcammo per Messina, e la traversata fu poco felice: il
mare era burrascoso, il battello procedeva male e quasi a stento;
a Paola si dovette fare una lunga fermata. Quando si giunse a Mes
sina era sera, e si dovette passar la notte a bordo; la conclusione fu
che si rimase sul battello chiquant'ore. Nel frattempo ci furono
tutti quegli episodi che si possono immaginare pensando a un bat
tello durante una burrasca. lo e Emilio per fortuna non pagammo
quel tributo che il beccheggio e il rullio fecero pagare agli altri,
Tra i passeggieri, ch'eran molti, c'era tutta una compagnia comica;
la compagnia Domeniconi che andava a Messina. L'avevo veduta
altre volte sulle scene, e allora la vidi tutta col mal di mare, che ruz-
zolava sul ponte o nel salotto, in pose ora tragiche ed ora comiche.
Tra gli altri viaggiatori c'erano delle donne, e anche qualche uo-
mo, che parevano impazziti per la paura; strillavano, pregavano,
invocavano tutti i santi napoletani e siciliani ; e ad ogni nuovo colpo
di vento, o ad ogni ondata piu violenta, facevano un nuovo voto.
Ne fecero di cosi smisurati (fra gli altri quello d'un organo a tre
tastiere con sessanta canne), da scommettere che non furon man-
tenuti tutti.
RICORDI DI GIOVENTti 347
A Messina ci fermammo tre o quattro giorni, poi si ando a Ca
tania, dopo aver passata una giornata a Taormina; nella meravi-
gliosa Taormina I
Dopo aver gironzolato per alcuni giorni nella bella citta di Ca
tania, ci accingemmo alia salita delTEtna. Ma 1'Etna, ci si disse, non
e sempre cortese coi viaggiatori, e difatti non lo fu neppure con noi ;
sicche dovemmo contentarci di leggere sulla Guida la descrizione
dello spettacolo che vi si contempla dalla vetta. La prima fermata
fu a Nicolosi, ove, com' era di prammatica allora, si ando a far visita
al professore Gemellaro,1 1'illustratore delTEtna, di cui egli parlava
come un buon babbo parla di un suo figliolo, che fa qualche scap-
pata, e vero, ma che gli da pure molte consolazioni.
Dopo Nicolosi il tempo si fece cosi cattivo che dovemmo ripararci
in una grotta e starci forse un paio d'ore, intanto che un vento impe-
tuoso, accompagnato da una fitta gragnuola, schiantava gli alberi
e faceva rotolar sassi giu della montagna. Usciti dalla grotta giun-
gemmo, dopo altre sette ore di cammino, a un rifugio chiamato la
casa degli inglesi. Ci si passo la notte, mezzo assiderati, poiche in
quella casina anche il vento e la pioggia avevano libero 1'ingresso.
A11J alba tentammo la salita del cono, ma dopo una mezz'ora di
strada fummo ricacciati indietro da una « tormenta » di lapilli e di
neve, venuta a dirci bruscamente che anche il cono non voleva sa-
perne di noi.
E cosi si dovette rifar la strada giungendo a Catania stanchissimi
per la fatica, pel freddo e pel caldo, poiche dalla neve e dai ghiacci
dell'alta zona del monte eravamo passati, al piano, a 36 gradi cen-
tigradi.
Ad onta di tutti questi demeriti che 1'Etna ebbe verso di noi, io
ne ho conservato un grande e indimenticabile ricordo. Per quanto
la mia aspettativa fosse molta, essa fu superata; e ripensandoci,
dopo tanti anni, lo spettacolo vario e grandiose delPEtna mi riempie
ancora la mente di maraviglia.
Ma altri spettacoli grandiosi ci si presentarono subito dopo, prin-
cipiando da Siracusa. Non parlero della citta moderna che se ne sta
accanto al piccolo porto, come un signore decaduto sta in un quar-
i. Carlo Gemellaro (1787-1866), scienziato molto lodato, e soprattutto vul-
canologo. Numerosi i suoi scritti sulla struttura e le eruzioni dell'Etna,
anche sotto 1'aspetto storico e botanico. II fratello Mario, maggiore di lui,
e che si era ugualmente occupato dell'Etna, era rnorto nel 1839.
348 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
tierino modesto; ma ricorder6 la landa che, arida e maestosa, si
diparte dalPattuale citta, e su cui si distendeva la Siracusa antica,
la grande citta greca, di cui non ci son piu neppure le rovine.
Percorremmo quella landa per parecchie ore a cavallo, non tro-
vando che qualche raro frammento di pietre spezzate, la dove per
piu secoli si agito la vita d'oltre un milione d'abitanti. Durante
quella lunga cavalcata non trovammo, noi tre, una parola da dire.
Certi spettacoli rendono silenziosi e meditabondi anche a vent'anni.
Da Siracusa si ando a Girgenti, passando per Noto, Modica,
Ragusa, Vittoria, Terranova, Licata, viaggiando ogni giorno per
sei o sette ore a cavallo. Da Girgenti si ando a Sciacca, con una
cavalcata di tredici ore filate; poi, a Selinunte, a Castelvetrano, a
Mazzara, a Marsala, sempre su cavalli, o su muli.
Ripensandoci, dopo tanti anni, mi si ridesta ancora Timpressione
di quelle ore calde, faticose, di quelle sabbie infocate sulle quali
le nostre cavalcature camminavano a stento sprofondandovi. Le
vedo ancora quelle terre arse e sabbiose, e quel cielo, che face van
pensare al deserto, e alPOriente. La fatica e gli stenti erano grandi,
ma era cosi grande tutto cio che vedevamo che alia fatica non si
badava piu. Quel mare azzurro, quelle spiaggie vaghissime, quegli
avanzi greci, romani, saraceni, normanni che riuniti su una mede-
sima terra ci parlavano di tanti popoli e di tante vicende, traspor-
tavano i nostri pensieri in una sfera cosi alta e vasta che Teco dei
nostri disagi e dei nostri piccoli guai non ci poteva arrivare.
DeJ piccoli guai, e degli incomodi, oltre la fatica, il caldo e la
stanchezza, a dir vero ce n'eran parecchi. I tre maggiori erano la
fame, la sporcizia e i poliziotti.
Di solito si faceva anche allora il giro della Sicilia con vaporetti
che ne toccavano i punti piu interessanti. Ma il giro della costa per
terra, che bisognava fare a cavallo non essendoci strade per lun-
ghissimi tratti, non veniva di solito intrapreso da chi viaggiava per
divertimento, se non da qualche inglese. Perci6 eravamo presi
sempre per inglesi anche noi. E degli inglesi veri ne trovammo in-
fatti alcuni che facevano la nostra medesima strada, ma la facevano
con maggior previdenza e con minori disagi di noi : portavano con
se prowisioni di acqua, di vino, di viveri; e avevano le tende per
riposare di giorno, e occorrendo anche di notte, quando non tro-
vavano locande decenti.
Oggi in quasi tutti quei paesi della costa si trovano buone lo-
RICORDI DI GIOVENTfr 349
cande, e strade; ma non era cosi a quei tempi, e val la pena ram-
mentare come si viaggiasse al tempo del Governo borbonico.
Dicendo che parecchie volte abbiam sofferto la fame non rendo
che un doveroso omaggio alia verita. In quelle bettole ignobili che
si trovavano lungo la strada non c'era il piu delle volte che del pane
secco, del cacio ammuffito, o qualche altro commestibile che ro-
vesciava lo stomaco. Se ci fermavamo a qualche cascinale ci si tro
vavano al piu delle ova: se ci son le ova, argomentavamo tra noi,
ci dovrebbero essere anche le galline; ma siccome la logica non reg-
ge sempre le cose di questo mondo, cosi le galline non c'eran mai,
ed era impossibile di scovarle per quanto si ofTrissero dei prezzi
principeschi.
Nei piccoli paesi le cosi dette locande eran bettolacce da mulat-
tieri. Sul limitare s'era subito accolti da un puzzo che vi diceva di
non entrare ; e il piu delle volte infatti non ci si entrava, e si dor-
miva sotto la volta del cielo, con la sella del mulo per guanciale.
Se volessi parlare degnamente del sudiciume che ho ammirato in
alcune di quelle locande, e in qualcuno di quei paesi, ci sarebbe da
fame un poema. II concetto d'un po' di nettezza non c'era nep-
pure nello stato embrionale. Bisogna dire che la nozione della pu-
lizia sia tra quelle che penetrano per le ultime in certi cervelli
umani, i quali comprendono piu facilmente il soprannaturale che
il sapone.
Una volta (mi si perdoni cio che sto per dire), mio fratello avendo
detto alia padrona della locanda di pulirgli un coltello, su cui c'era
stratificata una lunga storia di usi diversi, la locandiera sputo sul
mat tone del pavimento, ci frego sopra la lama, la risciacquo in un
catino d'acqua sporca, e Pasciugo ne' suoi capelli; tutto cio con una
rapidita e con una premura che dimostravano la miglior volonta
di servirci bene.
Al primo arrivare in un paese si era subito pigliati da un gen
darme, il quale prima di lasciarci andare alia locanda ci conduceva
all'uffizio della Polizia; dove ci si frugava nei bagagli, e perfm
nelle tasche, e ci si facevano i piu strani interrogator!, ch'eran spesso
un divertimento. Alia fine ci domandavano una buona mancia.
Dappertutto eravamo poi sempre Fargomento d'una grande cu-
riosita. Forestieri ne vedevan di raro, era dunque ben naturale che
tutti avessero un gran desiderio di awicinarci e di parlarci. Ma
devo anche dire ch'eran tutti molto cortesi ed ospitali, e che spesso
35° GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
si durava fatica a cansare certe cortesie eccessive, come quelle d'of-
ferte di doni che ci venivan da persone che vedevamo per la prima
volta. A Vittoria, avendo noi lodati i vini di parecchi che ci avevano
condotti a vedere le loro cantine, tutti volevano che ne accettassimo
dei fiaschi e persino dei barili da portar con noi; un tale ci voleva
donare un gran pacco di cremor di tartaro non sapendo che cosa
darci di meglio.
I discorsi, le domande che questa brava gente ci facevano, di-
mostravano sovente una ben scarsa nozione degli awenimenti mo-
derni, mentre poi dinotavano in loro quasi sempre una certa cul-
tura classica e soprattutto archeologica. Ne c'era da stupirsene,
poiche negli stessi «gabinetti di lettura e di conversazione)), come
li chiamavano, non ci abbiamo mai visto di moderno che il Gior-
nale ufEciale delle Due Sicilie. II tenere isolate le popolazioni della
Sicilia da ogni contatto intellettuale col rimanente del mondo era
allora una delle principali preoccupazioni del governo borbonico.
Non era piccolo lo stupore di chi ci interrogava a sentirsi rispon-
dere che non eravamo inglesi, ma italiani e lombardi. Allora ci ve-
nivano rivolte, con una grande curiosita patriottica, infinite do
mande che dimostravano quanto in quei paesi la gente fosse tenuta
all'oscuro su tutto cio che riguardava gli altri paesi d'ltalia.
A Girgenti, mentre stavamo contemplando gli avanzi d'un tem-
pio greco, un ufEciale, che ci parve di quelli addetti alle piazze,
dopo averci osservati per un pezzo, non reggendo piu alia curiosita,
ci si awicino e ci diresse parecchie domande. Si capiva ch'era un
buon uomo ; per farsi poi perdonare le sue interrogazioni egli le
intercalava con una infinita di scuse e d'offerte di servizi. Le nostre
risposte accrescevano sempre piu la sua curiosita, ma ogni tanto
rimaneva cosi impigliato nelle sue sorprese che non sapeva piu
raccapezzarsi.
II maggiore de' suoi imbarazzi fu quando gli dicemmo che era
vamo italiani lombardi. Non era forte nella geografia, e si ostinava
a voler mettere la Lombardia nella Svizzera. Ad onta di questo
disinganno che gli dovemmo dare, voile incaricarsi egli stesso di
procurarci le cavalcature per andare a Sciacca, e di farci il contratto
coi mulattieri. Era un contratto che si poteva sbrigare con poche
parole, ma quel buon uomo era verboso e voleva mostrarci tutto
Tinteressamento che prendeva per noi. Alia fine, parlando ai mu
lattieri, conchiuse con questa perorazione : — Sentite, questi si-
RICORDI DI GIOVENTtl 351
gnori sono cavalieri prestantissimi che sanno scrivere! da Sciacca
mi manderanno due righe scritte di loro pugno, sulla carta, capi-
te? . . . e se mi scriveranno che siete stati dei bricconi, io vi faro
dare tante bastonate che ve ne ricorderete per un pezzo! . . . — e
qui fece una faccia minacciosa e terribile, ma poi rabbonendosi su-
bito continue : — Ma voi siete dei bravi figlioli, vi conosco . . .
questi signori cavalieri saranno contenti di voi, vi daranno una
buona mancia . . . e voi avrete la mia protezione! — E alzo il brac-
cio in atto quasi di benedirli.
Con quei mulattieri si fece una lunga cavalcata, arrivando la sera
a Sciacca. Su quelle strade, in uno dei punti piu deserti, ci imbat-
temmo in due individui a cavallo che potevano essere contadini, o
guardiani, e che avevano i fucili ad armacollo. Questi, dopo averci
squadrati ben bene, tirarono in disparte i nostri due mulattieri e
rimasero per qualche tempo a confabulare con essi, poi scompar-
vero, mentre noi proseguivamo lentamente per la nostra strada.
Poco dopo i nostri mulattieri vennero a dirci che quei due avevano
fatto loro la proposta di pigliarci alle spalle, di ammazzarci e di
dividersi il bottino. I nostri mulattieri soggiungevano d'essersi op-
posti, dicendo, per meglio dissuaderli, che noi eravamo terribil-
mente armati, e che per di piu avevan veduti a poca distanza i
gendarmi.
Quella proposta sara stata vera? 0 i nostri mulattieri ce Tave-
vano inventata per farsi raddoppiare la mancia, e per assicurarsi
meglio quelle due righe di benservito da portare alTuffiziale ? Le
due ipotesi sono possibili del pan.
Quest' episodic fu il solo che ci rammentasse la poca sicurezza di
quelle strade. Noi le abbiamo percorse di giorno e di notte, senza
nessuna precauzione, e senza darcene pensiero; fortunatamente
nulla venne a turbare questa nostra serenita.
A Marsala ci fermammo una giornata per riposarci. Sul taccuino,
ove scrissi allora i miei appunti giornalieri, trovo scritto: aOltre
le fattorie del vino e qualche avanzo dell'antica grandezza c'e poco
da ricordare». Chi m'avrebbe detto allora che cosa ci sarebbe stato
da ricordare, sette anni dopo!1
Da Marsala andammo a Trapani per mare, in una barca di pesca-
tori, poi un po' a cavallo e un po' in vettura si arrivo in tre giorni
i. sette anni dopo: allude allo sbarco dei Mille, a Marsala, I'll maggio del
1860.
352 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
a Palermo, passando per Calatafimi, Segesta, Alcamo e Monreale.
A Palermo, ove eravamo arrivati il 6 ottobre, rimanemmo otto o
dieci giorni, il tempo appena necessario per dare un'occhiata a quel
paese di maravigliosa bellezza, e alle cose pin notevoli della citta.
Una lettera di nostra madre ci aveva consigliati di affrettare il ri-
torno, e ci diceva che a Geneva avremmo trovate altre sue lettere.
Carlo Tenca ci aveva date delle lettere per alcune persone col-
1'incarico di chiedere delle corrispondenze pel « Crepuscolo »,x o
almeno delle informazioni di tanto in tanto ; cio per stabilire una
relazione intellettuale e morale tra i lettori del « Crepuscolo » e la
Sicilia, come gia aweniva con molte altre provincie d' Italia.
Trovammo delle distinte persone che ci accolsero con molta
cortesia, ma tutte ci diedero un'eguale risposta, e cioe che mandar
delle lettere, anche non politiche, sulla Sicilia era un affar serio e
quasi impossibile, poiche quelle lettere sarebbero state certamente
aperte dalla Polizia e sequestrate; chi poi le mandasse avrebbe
avute perquisizioni e vessazioni senza fine. Ci dissero per di piu
che sarebbe stato poco prudente anche il lasciarsi veder troppo
insieme con noi per le strade, poiche chi bazzicava con forestieri
diventava per la Polizia un cittadino sospetto.
Valga cio a dare un'idea delle condizioni in cui si trovava a quel
tempo la Sicilia e del modo con cui era governata.
Dopo aver percorsi gli Stati del Papa e del Re di Napoli, nel
ritornare in Lombardia, bisogna confessare che, ad onta dello stato
d'assedio e dei rigori del Governo militare, si provava un senso di
sollievo; si sentiva d'essere in un paese le cui condizioni erano
meno socialmente retrive, e che aveva un Governo meno stupida-
mente tirannico. II Governo austriaco era sempre stato, quanto alia
politica, pedantescamente assoluto ; allora poi era in un periodo di
violenta reazione; ma era un governo civile del secolo decimonono,
mentre il papalmo e il napoletano erano ancora in parte governi
d'altri tempi, e giustamente ritenuti tra i peggiori del mondo civile.
Da Palermo partimmo per Geneva, con un battello a vapore,
toccando solo per poche ore Napoli, Civitavecchia e Livorno.
A Genova trovammo le lettere che nostra madre ci aveva an-
i. « II crepuscolo », fondato e diretto da Carlo Tenca (vedi la notaa a p. 314),
fu un giornale settimanale di letteratura, arte e scienze economiche: ebbe
molta importanza nella vita culturale di Milano e, pur non occupandosi
apertamente di politica, giov6 notevolmente alia causa nazionale.
RICORDI DI GIOVENTfr 353
nunziate; lettere important!,1 che ci lasciarono pensierosi e per-
plessi.
[L'IMPERATORE D'AUSTRIA A MILANO] 2
La causa italiana riceveva dal Cavour un impulse gagliardo e un
nuovo awiamento. Egli voleva toglierla dalFambito puramente ri-
voluzionario in cui era rimasta negli ultimi tempi ; voleva staccarla
dall'azione del Comitato di Londra,3 terreno su cui era facile alle
Potenze il combatterla. Cavour aveva accusato P Austria di mante-
nere T Italia in uno stato rivoluzionario, mentre dimostrava che Tor-
dine era rappresentato dal Piemonte; e per di piu accusava 1' Au
stria d'avere sconfinato nell'interpretare i poteri datigli in Italia
dagli stessi trattati di Vienna. Era dunque in nome dei principii
conservator! che Cavour difendeva Pltalia dinanzi ai gabinetti; ma
era recente il 6 febbraio,4 bisognava dunque dare alia politica ita
liana un indirizzo diverse, togliendola dalle mani del partito rivo
luzionario.
L' Austria vide questo pericolo; quindi la venuta dell'Imperatore
Francesco Giuseppe a Milano5 non fu soltanto un fatto di politica
interna, ma soprattutto era un atto di politica estera; era evidente-
mente una concessione alle preoccupazioni di alcune potenze eu-
ropee, specialmente delPInghilterra; la quale voleva bensi che le
i. lettere importanti: in esse la madre li awertiva dell'arresto di Pietro
Fortunate Calvi, che era entrato in Valtellina per suscitarvi un moto
progettato dal Mazzini. Con lui furono arrestati Ulisse Dalis, Antonio Za-
netti e Gervasio Stoppani. Una accurata perquisizione era stata anche ese-
guita dalla polizia nella casa dei Visconti Venosta. Gli arrestati furono
processati a Mantova, e il Calvi sail sul patibolo il 4 luglio 1854. 2. Ed.
cit., dal cap. xxm, pp. 363-72. 3. Comitato di Londra: il comitato d'a-
zione rivoluzionaria presieduto da Mazzini. 4. II 6 febbraio 1853, secondo
un piano predisposto dal Mazzini, doveva scoppiare in Milano una rivolta
dell'ampiezza gia avuta dalle Cinque giornate. Ma la sommossa si risolse
in un fallimento: pochissimi scesero in piazza, e solo qua e la si ebbero
degli scontri con sentinelle o soldati isolati. Pure, gli arresti, i prowe-
dimenti militari e polizieschi che ne seguirono, furono numerosi e gravi:
e molte anche le condanne a morte. SulF episodic, cfr. p. 282; A. BARGONI,
II 6 febbraio 1853, Memorie di Giuseppe Piolti-De Bianchi, in « Rivista
storica del Risorgimento », 1897, e G. MONDAINI, Nuova luce sul moto
milanese del 6 febbraio 1853, in «Boll. della Soc. pavese di storia patria»,
dicembre 1905. 5. la venuta . . . a Milano: Francesco Giuseppe (1830-
1916) era salito al trono imperiale d' Austria nel 1848, dopo Tabdicazipne
di Ferdinando I (cfr. la nota sap. 292). II suo Arrive a Milano, per il viag-
gio di cui scrive 1'autore, awenne il 15 gennaio del 1857.
354 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
condizioni dei paesi italiani fossero migliorate, ma non voleva che
ci6 fosse argomento di complicazioni europee, ed era quindi in
sospetto per 1'attitudine sempre piu energica del Piemonte e quella
sempre meno tranquillante di Napoleone.
Le persone influenti, e che avevano una direzione dell'opinione
patriottica, non tardarono a richiamare Tattenzione pubblica sul-
rimportanza che avrebbe avuto il viaggio delPImperatore, solle-
citati anche da informazioni e da consigli autorevoli che venivano
da Torino.
La parola d'ordine fu subito che si dovesse cospirare di nuovo,
e lavorare attivamente, per mandare all'aria i progetti imperiali, in
modo che in faccia a tutto il mondo il viaggio delPImperatore man-
casse allo scopo, ed apparisse un fiasco.
Bisognava dunque, quando 1'Imperatore fosse in Italia, fare il
vuoto intorno a lui, ai suoi ministri e a tutto il suo seguito ; bisogna-
va che tutte le persone piu notevoli delle classi dirigenti, delle classi
piu in vista, si tenessero in disparte; che nessuno cedesse ne a lu-
singhe, ne a pressioni; bisognava insomma rendere piu evidenti e
piu clamorose 1'astensione e la resistenza.
A tali scopi erano dirette in quei giorni la propaganda e I'agita-
zione in tutte le societa, in tutti i ritrovi. Le signore piu alia moda,
piu eleganti, piu belle, insomma tutte le oche,1 come si diceva, erano
nella cospirazione : il non essere nella Fronda, era non essere alia
moda. Quanto bene non fecero allora quelle signore!
In ogni ritrovo cittadino non si parlava d'altro, e di salotto in
salotto correva la « parola d'ordine » sul contegno da tenersi, e sulle
dimostrazioni di resistenza che la citta avrebbe dovuto fare durante
tutto il tempo del soggiorno dell'Imperatore in Milano. Guai a chi
avesse mancato alia disciplina; e coi timidi e cogli incerti non si
lasciavano mancare anche certe minacce ; si minacciava cioe di non
ricevere nelle case, ove solevano andare, e di non salutar piu, quelli
che avessero accettati gli inviti a Corte, o avessero fatto qualsiasi
atto di deferenza alFImperatore e a chi era con lui. In casa Maffei,3
1. le oche: in un altro capitolo (xxi, p. 337) dei suoi Ricordi di gioventii,
1'autore scrive che questo nomignolo fu dato dagli ufficiali austriaci «alle
signore milanesi della societa elegante, che nei loro salotti tenevano alta
Vintonasione del patriottismo. Le chiamavano le oche, parodiando quelle
del Campidoglio, perche tenevano sveglio nella gioventu 1'odio alia domi-
nazione austriaca ». Per i patriotti quel nomignolo divenne un titolo d'onore.
2. casa Maffei: il salotto di Clara MafTei (1814-1886) fu tra i piu illustri e
RICORDI DI GIOVENTfr 355
in casa d'Adda, in casa Dandolo e Carcano, in casa del marchese
Luigi Crivelli, e in molte altre frequentate da giovani, Peccitazione
era grandissima: pareva che tutti si preparassero a una battaglia.
Si pensi quanto fossero frequentate e vivaci le serate di casa
Maffei. Mio fratello Enrico che, sebbene da poco avesse fatto il
suo ingresso in societa, gia la frequentava piu di Emilio e di me,
e vi era desiderate per la schiettezza del suo carattere e pel suo spi-
rito buono e fmamente gioviale, capitava ogni sera in casa Maffei
col bollettino delle notizie e delle prime awisaglie. « Ci va ? o non
ci va?» (a Corte, s'intende), era una delle domande che s'udivano
piu spesso, e su cui si facevano discussioni accanite e perfino delle
scommesse a proposito di qualche signora in « pericolo » ; in pericolo
s'intende di cedere alia pressione di qualche suocero timido, che
volesse mandarla a un ricevimento di Corte. Mio fratello portava
le notizie intime, le piu accreditate, le piu sicure.
Non meno eccitate erano le autorita austriache; condnuamente
in faccende a spiarci, a far pressioni con ordini e con circolari ora
lusinghiere e dolci, ed ora minacciose.
Alcune settimane prima della venuta delPImperatore, la Poli-
zia, per dare un awiso alia gioventu milanese, ne mando parecchi
dei piu in vista a domicilio coatto. Tra questi rilego Emilio Dandolo
ad Adro, Massimiliano Stampa Soncino a Bormio, Lodovico Man-
cini1 a Edolo, Costanzo Carcano a Mariano, e in altri luoghi altri di
cui non rammento i nomi; e ci dovettero stare finche PImperatore
rimase a Milano.
Un gran da fare della Luogotenenza e della Polizia era pur quello
di indurre almeno qualche signora delParistocrazia a presentarsi a
piu attivi del nostro Risorgimento. Figlia del conte G. B. Carrara Spinelli,
la contessina Clara aveva sposato nel 1832 Andrea Maffei, ma se ne era
separata nel 1846. Specialmente da allora essa dedico la sua vita alia causa
italiana. Vedi R. BARBIERA, II salotto della contessa Maffei e la societa mila
nese (1834-1886), Milano, Treves, 1895, P°i numerose volte ristampato. II
Barbiera da notizia anche degli altri salotti milanesi che 1'autore ricorda su-
bito dopo. i. Massimiliano Stampa Soncino (1825-1876) gia nel gennaio
del 1848 era stato arrestato, come Gaspare Resales (vedi la nota 2 a p. 304),
e trasferito a Lubiana. In quanto alia sua relegazione a Bormio, nel 1857,
pare che essa sia awenuta dopo Parrivo dell'imperatore, per un episodic
verificatosi alia Scala: era rimasto seduto all' ingresso di Francesco Giusep
pe. Vedi E. MICHEL, in M. Rosi, Dizionario del Risorgimento nasionale,
Milano, F. Vallardi, 1930, iv, p. 316; Lodovico Mancini: gia -comb attente
nelle Cinque giornate, ufEciale poi nel battaglione Manara, ferito alia di-
fesa di Roma il 3 giugno 1849.
356 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
Corte. Citero, tra i molti, un episodic che ancora ricordo, e che pu6
dare un esempio dei piccoli maneggi che si usavano per trovare
una qualche recluta per la Corte.
II marchese Carlo Ermes Visconti,1 marito da poco d'una bella
e colta sposa, la contessa Teresa Sanseverino Vimercati, si trovava
un giorno in casa d'uno zio di sua moglie, il principe Porcia.
Questo signore aveva dei beni feudali in Austria, e vi divent6 poi
membro della Camera dei Signori; viveva a Milano, ove in eta
avanzata sposo la contessa Vimercati, vedova Bolognini, sorella del
conte Ottaviano e madre della futura duchessa Eugenia Litta. II
giovane marchese Visconti durante la sua visita, si trov6 di fronte
al barone Burger, ch'era il luogotenente austriaco della Lombardia,
venutoci casualmente dopo. II Burger condusse a poco a poco il
discorso sulla prossima venuta delPImperatore a Milano, e disse
al Visconti a bruciapelo: — Spero bene che lei condurra a Corte
sua moglie, che sara una delle gemme dei ricevimenti imperiali. —
II Visconti, senza esitare, rispose francamente: — Barone, non ci
calcoli. — II Barone insistette, prima con modi cortesi e insinuanti,
poi con 1'aria altera e brusca. Alia fine il Visconti gli rispose: — Se
andassi a Corte, farei un atto contrario alle mie convinzioni, e con-
tro il mio paese; dopo un atto simile non mi resterebbe che di
espatriare. — II Burger non disse altro, e cosi cesso la conver
sazione.
Tra i prowedimenti della Polizia, di cui molto si parl6 in Mi
lano, ci fu la chiamata di Carlo Tenca per una speciale ammoni-
zione. II direttore di Polizia gli disse che la luogotenenza sperava di
vedere nel « Crepuscolo » annunziata degnamente la venuta del-
ITmperatore. II Tenca rispose che il suo giornale per massima non
si occupava dei fatti interni dell' Austria, e quindi non trovava ra-
gione per occuparsi del viaggio dellTmperatore. II direttore, un po'
colle buone, un po' colle brusche, cerco dimostrargli come questo
viaggio fosse un awenimento di cui s'occupava 1'opinione pubblica
di tutta Europa, e come il tacerne avrebbe avuto un carattere di op-
posizione che il Governo non poteva tollerare. II Tenca, ch'era
i. Carlo Ermes Visconti (1834-1911) si occupo successivamente, ai primi
accenni della guerra del '59, di awiare molti giovani al di la del confine,
perche si arruolassero nell'esercito piemontese. Si calcola che diecimila
lombardi fossero gia passati in Piemonte prima dello scoppio della guerra
del '59.
RICORDI DI GIOVENTtl 357
uomo dall'aspetto freddo e di poche parole, non aggiunse altro,
e se ne ando.
Una simile intimazione gli fu ripetuta alia vigilia della venuta
dell'Imperatore, con la minaccia, questa volta, della soppressione
del giornale, visto die il « Crepuscolo » era assai noto all'estero, e
ch'era salito in fama tra le persone colte; circostanza che avrebbe
reso piu grave il suo silenzio. Tenca ripete la sua prima risposta,
rimase fermo, non si piego.
II giorno 15 gennaio 1'Imperatore Francesco Giuseppe fece il
suo ingresso solenne in Milano. Prima si fermo sul piazzale di Lo-
reto ove era atteso, sotto un padiglione, dal Podesta, conte Sebre-
gondi, e dalle altre autorita. Poi, proseguendo entro in citta dalla
Porta Orientale, detta comunemente Porta Renza, ed ora Porta
Venezia, e per il Corso Francesco,1 ora Vittorio Emanuele, si rec6
al palazzo di Corte.
L'intesa tra i cittadini era che lungo le vie, che dovevano essere
percorse dal corteo imperiale, non solo non ci fossero addobbi, ma
rimanessero chiuse anche le persiane.
Poco prima che incominciasse Fentrata m'ero recato dalla piazza
del Duomo alia Porta Orientale per vedere se Fintesa era mante-
nuta. Vidi che in gran parte lo era, ma vidi anche dei commissari
di Polizia che entravano mano mano nelle case a far aprire le fi-
nestre, e a farle addobbare con tappeti o con drappi. Per le strade
non c'era molta gente; un po' di popolani, ma le persone piu civili
evitavano il Corso. Mi recai subito dalla contessa Dandolo, che abi-
tava in casa del marchese Luigi Crivelli, appunto sul Corso di
Porta Orientale al secondo piano verso strada, sicuro di trovarci
degli amici, e anche per vedere di nascosto Fentrata dell'Imperatore
spiando traverso le persiane, ch'eran chiuse. Trovai infatti dalla
contessa parecchi amici, tutti lieti per le buone notizie che ci scam-
biammo sulFastensione della miglior parte dei cittadini.
A un tratto il servitore della contessa entra in sala ad annunziare
un commissario di Polizia. Costui veniva a intimare che si apris-
sero subito le persiane, e che si addobbassero le finestre con stoffe,
tappeti, od altro. La contessa Ermellina lascio partire il commissa-
i. « II Corso Francesco, denominazione ufficiale, era comunemente chiamato
Corsia de* Servi, poiche sulk attuale piazza di San Carlo esisteva una chiesa
detta di Santa Maria dei Servi, essendo congiunta a un Convento di ServitL
La chiesa di San Carlo fu inaugurata nel 1847 » (nota del Visconti Venosta).
358 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
rio, poi prese una pelle di tigre, che stava dinanzi a un divano, e la
mise alia finestra per addobbo, come drappo. Chi passava guardava
in su, rideva, e principiava a far crocchio. Ma ecco di nuovo il com-
missario con tanto d'occhi fuori, scalmanato, investendoci tutti e
ordinando che fosse subito levata quella pelle, mentre la contessa
dichiarava di non aver altri addobbi. Tolta la pelle, il commissario
ridiscese in strada, e intanto arrivava il corteo che precedeva e se-
guiva la carrozza delPImperatore. Non un applauso, non un ewiva,
neppure tra quella plebe che applaude a tutti. Solamente, e proprio
presso casa Dandolo, alcuni ragazzacci vociarono qualcosa che pote-
va esser preso per degli « ewiva »; allora Giulio Venino,1 ch'era
con noi, mando un sonorissimo fischio che fece rivolgere il viso in
su a tutti i componenti il corteo. II corteo intanto procedeva attra-
versando una folia fredda e silenziosa.
Nella giornata corse la voce che all'Imperatore, appena arrivato
al padiglione di Loreto, fosse giunta la notizia che il Municipio
di Torino aveva, quella mattina stessa, accolta Pofferta del monu-
mento alTesercito sardo,2 presentata da una deputazione milanese.
Cio forse spiegava il malumore delPImperatore, e Paccoglienza
asciutta fatta al Podesta, che i presenti avevano osservato.3
Alcuni giorni prima, mio fratello Ernilio aveva ricevuto, secre-
tamente, un pacco di fotografie di quel monumento, ch'era ancora
nello studio del Vela.4 Ci mettemmo in parecchi a distribute quelle
fotografie, in modo che fossero recapitate principalmente alle per-
sone del seguito dell'Imperatore, e che i ministri le trovassero, arri-
vando, nei loro alloggi, e sulle loro scrivanie. Si seppe poi che
quella distribuzione aveva avuto un esito felicissimo.
Pochi giorni dopo ci fu il ricevimento e la presentazione a Corte
delle autorita e degli invitati. Era una giornata interessante, poiche
i. II conte milanese Giulio Venino , che entro poi nell'esercito piemontese
come ufficiale di artiglieria. 2. monumento . . . sardo: il monumento, opera
di Vincenzo Vela (vedi sotto la nota 4), che celebrava 1'esercito sardo per
Timpresa di Crimea, era ancora in modello nello studio dello scultore, ma
le fotografie che se ne difrusero ebbero ugualmente un grande effetto.
3. «La prima idea del monumento all' Esercito Sardo era stata comunicata
dal Correnti, forse d'intesa con Cavour, che in quei giorni cercava d'ina-
sprire i rapporti coir Austria, mentre questa, seguendo i consigli delTIn-
ghilterra, era disposta a riprendere i rapporti col Piemonte » (nota del Vi-
sconti Venosta). 4. Vincenzo Vela (1822-1891), nato nel Canton Ticino,
scultore molto noto (Napoleone I morente, VEcce homo ecc.), aveva com-
battuto tra i volontari lombardi nel 1848.
RICORDI DI GIOVENTtl 359
si sarebbero conosciuti e contati quelli che ci andavano. II ricevi-
mento a Corte awenne di giorno, Molti giovani della migliore so-
cieta, molte signore, quasi tutti invitati, si diedero ritrovo in piazza
del Duomo, e dinanzi al palazzo di Corte, facendo ala per vedere chi
ci entrava, e per assistere allo sfilare delle carrozze. Passavano tra
Pindifferenza quelle delle autorita austriache ed italiane, e della
societa ufficiale; ma la curiosita e i sorrisi ironici degli spettatori
eran rivolti verso le carrozze, che in verita furon poche, degli in
vitati. Alcuni cercavano nascondersi nel fondo della carrozza, o ca-
lavano le tendine, per non essere veduti.
La sera in tutte le riunioni, in tutti i salotti, non si par!6 che del
ricevimento delPImperatore e della famosa sfilata, ed era un con-
tinuo scambiarsi di notizie. Le notizie erano buone; le diserzioni
erano state pochissime e parecchie di queste venivano scusate con
qualche circostanza attenuante.
Cose piccole possono sembrar queste a chi le guarda a tanta di-
stanza di tempo ; ma pure furono cose grandi, se si pensa alia meta
che si voleva raggiungere, e che fu raggiunta.
Quel primo ricevimento era fallito ; era riuscita una cosa misera.
Le autorita austriache non se lo dissimulavano, e ne erano furenti:
in citta si gongolava di contentezza, perche quella prima battaglia
era stata vinta.
Per molte famiglie delParistocrazia, Pastensione fu un atto co-
raggioso, e veramente meritorio. In alcune di esse c' erano tradi-
zioni di antiche relazioni personali, in altre legami di parentela con
famiglie, e con personaggi militari o politici austriaci; in altre gio
vani e vecchi rappresentavano due correnti diverse, e ora si erano
fuse in una sola. Nel secolo antecedente, PImperatrice d' Austria
Maria Teresa, che si occupava anche delle faccende private delle
famiglie dei suoi sudditi, aveva combinati, e talora imposti, dei vin-
coli matrimoniali tra famiglie austriache e lombarde delParistocra-
zia: da cio eran venute delle relazioni di parentela e d'amicizia.
Nel 1848 queste relazioni furono rotte; certe fiere ripulse, anche
negli anni successivi, meritano quindi d' essere menzionate nella
storia del patriottismo lombardo.
360 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
[MASSIMILIANO E LA RESISTENZA MILANESE]1
L'anno 1858, al pari delPanno antecedente, principiava a Milano
con una viva preoccupazione nelle classi che chiamero « dirigenti » ;
nella parte voglio dire piii eletta e patriottica delle classi aristocra-
tiche e borghesi che allora veramente dirigevano Popinione pubblica
cittadina. L'anno prima trattavasi della venuta delPImperatore,
ora trattavasi dell'arciduca Massimiliano2 giunto da poco e gia in-
sediato tra noi.
L'arciduca era un bel giovane alto, biondo, e che vestiva di so-
lito Puniforme di ufficiale di marina. Lo aveva preceduto la fama
di uomo intelligente, attivo, pieno di buona volonta, di maniere
affabili, e di intenzioni larghe e liberali a favore dei paesi di cui
doveva prendere il governo. Voci ufficiose cercavano di accreditare
1'opinione ch'egli avesse dei poteri piu larghi di quanto apparisse.
A queste voci, o, diro meglio, a queste speranze, aveva partecipato
Parciduca stesso. In cuor suo egli andava esagerando la sua mis-
sione, e credeva di cavarne quei risultati che gli prometteva la sua
fantasia. Non privo di coltura, ma utopista, di mente fantastica e
un poj leggiera (come Pha provato la tragica awentura del Messico),
egli non si era accorto che a Vienna le cose erano intese ben diver-
samente : la sua missione era una lustra. Egli aveva creduto di di-
ventare il Principe d'uno Stato quasi autonomo, mentre da Vienna
era stato mandato a riprendere la tradizione delPantico Vicere, os-
sia di quel fantoccio che c'era prima del quarant'otto : perche PAu-
stria mutasse ci volevano prima Solferino, poi Sadowa.3
La morte di Radetzki, awenuta il 5 gennaio 1858, aveva contri-
buito a rinforzare le illusioni delParciduca. II vecchio maresciallo
dal 1848 aveva avuto il governo civile e militare delle provincie
Lombarde e Venete,4 da lui riconquistate alP Austria, rappresen-
tandovi colla durezza delle armi e del governo la politica della rea-
i. Ed. cit., cap. xxiv, pp. 385-96. 2. Federico Carlo Massimiliano (1832-
1867), fratello di Francesco Giuseppe, governatore della Lombardia fino
al 1859, fu poi imperatore del Messico (1864), e fini fucilato a Queretaro.
3. II 24 giugno 1859 i franco-piemontesi vinsero a Solferino gli Austriaci;
il 3 luglio 1866 gli Austriaci furono sconfitti dai Prussiani a Sadowa.
4. 77 vecchio . . . Venete: dopo Novara, il Radetzky fu nominato governa
tore generale del Lombardo-Veneto, e rimase in tale carica fino al 28 feb-
braio 1857, allorch6 fu collocate a riposo.
RICORDI DI GIOVENTtl 361
zione e delFassolutismo; ossia il governo di Metternich peggiorato.
Radetzki era uomo di mente mediocre e di poca coltura; cieca-
mente devoto al suo Imperatore, buon militare, bonario tra i suoi
soldati, dai quali era amatissimo, duro, severe cogli awersari e
nelPesercizio del governo. «Tre giorni di sangue assicurano tren-
t'anni di pace)), aveva detto alia vigilia delle Cinque Giornate, e
nella sua mente angusta e tenace n'era convinto. Investito di poteri
illimitati, governo il paese per quasi dieci anni senza pensare al
domani; lo governo come un paese occupato in tempo di guerra,
dimenticando che questo paese era una delle parti piu important!
della monarchia ch'egli difendeva; e dimenticando che con un go
verno imprevidente, colPodio che lo circondava, e ch'egli accre-
sceva, poteva preparare, per Pawenire, alia monarchia austriaca
le piu gravi e minacciose questioni politiche. E cosi awenne. Le sue
lettere alPamata figlia Federica, pubblicate dopo la morte di lui,
sono piene di affetto paterno e di tenerezza; ma di ferro, di fuoco
e di forche pei sudditi italiani malcontent!.
La sua morte capitava in buon punto : pareva segnasse la fine
d'un fosco passato, e che col suo successore, il giovane arciduca,
ora, sorgesse un'alba promettente.
Massimiliano si mise subito all'opera, e per alcuni mesi da Vienna
lo lasciarono fare, e si lascio che si impigliasse nell'equivoco. Egli
si trovo da principio come in un deserto, e cerco d'attirarvi gente
che piantassero delle tende intorno a lui. Penso di conoscere un po'
di quei sudditi che doveva governare; cerco di attirarli a se, e di
crearsi delle simpatie e de' partigiani, nulla risparmiando fin da
principio per raggiunger tale scopo. Ma era tardi.
Un primo addentellato, per incominciare, gli era offerto da una
Convenzione stipulata a Vienna per una grande Societa Ferroviaria,
che aveva tra gli altri scopi Fesercizio delle ferrovie, fatte e da
farsi, nel Lombardo Veneto.1 Fra i firmatari della Convenzione
i .« Convenzione 14 marzo 1856, stipulata in Vienna, approvata colla
Sovrana Risoluzione 17 aprile successive, tra gli II. RR. Ministri Austriaci
di Finanza e del Commercio, e i signori: Principe Adolfo di Schwarzen-
berg, Presidente e rappresentante dell' I. R. Istituto privilegiato di Cre-
dito per il commercio e per 1'industria a Vienna; Conte Francesco Zichy
juniore; Barone A. S. de Rothschild, Vice-presidenti e rappresentanti del-
1'Istituto suddetto; La casa bancaria S. M. Rothschild, in Vienna; Mar-
chese Raffaele de Ferrari, duca di Galliera, in Bologna; Duca Lodovico
Melzi, in Milano; S. E. Conte Giuseppe Archinto, in Milano, rappresentato
362 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
c'era stato il duca Lodovico Melzi,1 e Parciduca lo fece chiamare
offrendogli un'alta influenza nella amministrazione. II Melzi ac-
cetto, a condizione che fossero nominate nei vari uffici le persone
ch'egli avrebbe indicate: ma piu tardi il direttore di Polizia osservo
che i proposti dal duca erano tutte persone compromesse o sospette.
Infatti molti dei giovani ammessi allora negli uffici delle ferrovie
militavano nel campo patriottico, alcuni erano reduci da poco dal-
1'esilio e dalle prigioni; anzi, poco dopo, v'ebbe un impiego anche
il Lazzati. Massimiliano tuttavia li nomino tutti dicendo: «Ora
spero che questi almeno verranno da me ». Ma anch'essi trovarono
dei pretesti per non andarci, e non ci ando nessuno. L'arciduca
dovette accorgersi, fin da principio, che non otteneva neanche la
riconoscenza comandata.
Fra i suoi progetti c'era stato anche quello di fondare un gran
giornale, che doveva chiamarsi la « Gazzetta Italiana)): si concedeva
a quella gazzetta il nome di « italiana » purche fosse sottinteso quello
di « austriaca ». Alcuni dicevano che la direzione del nuovo giornale
dovesse venir affidata a Cesare Cantu,2 che Tarciduca aveva voluto
conoscere; ma altri asserivano che il Cantu fosse destinato a in-
carichi ben piu alti. II Cantu smentiva queste dicerie, soprattutto
la prima. II fatto provo ch' erano dicerie tutte.
II giornale doveva essere il portavoce dell'arciduca Massimiliano
e della sua politica, ma il solo annunzio datone desto nel pubblico
una forte opposizione, e gia si preparavano delle dimostrazioni. La
« Gazzetta Italiana » doveva in realta essere diretta da un giornalista
di professione, il Menini, circondato da altri redattori, tra i quali
dai sigg. Sebastiano Mondolfo e C. F. Brot; Pietro Bastogi, in Livorno;
Fratelli de Rothschild, in Parigi; E. Blonnt e C., in Parigi; Paolino Ta-
labot, in Parigi; N. M. de Rothschild e figli, in Londra; Samuele Laing,
in Londra; M. Uzielli, in Londra; mediant e la quale viene concesso ai sud-
detti signori: i. 1'esercizio ed il godimento di tutte le II. RR. strade fer
rate situate nel Regno Lombardo-Veneto, con eccezione del tronco che da
Verona s'inoltra verso il Tirolo meridionale, con tutti i diritti ed obblighi
alle medesime inerenti; 2. la costruzione e Fattuazione di nuovi tronchi»
(nota del Visconti Venosta). i. Lodovico Melzi d'Eril (1820-1886) si av-
vicind a Massimiliano sperando che si preparassero, in tal modo, migliori
condizioni alia Lombardia. Ma dopo una missione a Parigi, resosi conto
degli indirizzi politici di Napoleone III e del Cavour, si dimise dalle cari-
che afEdategli da Massimiliano, e and6 a stabilirsi a Geneva. Conclusa la
guerra del '59, torn6 alia sua Milano. 2. Cesare Cantu (1804-1895), il
letterato e storico assai noto, non sembra, ad alcuni studiosi, che veramente
favorisse Popera di Massimiliano.
RICORDI DI GIOVENTtl 363
Emilio Treves,1 un giovane triestino assai promettente, che doveva
farvi la parte letteraria. Ne fu preparato il primo numero, quale
saggio, e si mando a Vienna: ma ne venne subito la proibizione.
Cosi il gran giornale mori prima di nascere, e Parciduca veniva
gia sconfessato; come implicitamente si faceva per ogni atto di
qualche importanza della sua politica, tutta fondata, come dicem-
mo, su degli equivoci.
Ma Farciduca intanto procedeva impavido, e tra le prime per-
sone a cui si rivolse ve ne furono alcune, tra le piu notevoli, di
parte clericale. Vi trovo alcuni seguaci, e gli argomenti coi quali
cercavano di giustificarsi potevano essere speciosi: dicevano che
bisognava una buona volta chiudere il passato ; ch'era tempo di sol-
levare il paese da quello stato di inerzia e di prostrazione in cui gia-
ceva da tanti anni, per metterlo sulla via del progresso economico ;
che ormai si dovevano mutare gli scopi e le speranze per 1'awenire;
essere ormai un'utopia 1'ostinarsi a sperare nel Piemonte, impo-
tente qual'era: dicevano, che le potenze a ogni modo non volevano
la guerra; che bisognava quindi preparare una soluzione nuova,
giovandosi delParciduca Massimiliano, venuto appositamente per
assecondarla ed effettuarla; che bisognava infine cercare 1'autono-
mia e la liberta per altre vie.
Tale miraggio messo innanzi a un paese che da tanti anni, o lan-
guiva nell'attitudine rigida d'una astensione passiva, o combatteva
senza speranze vicine contro il suo governo, era un pericolo grave.
Da quasi dieci anni il paese aspettava invano la riscossa, e ormai
principiava a dar qualche segno di stanchezza. II contegno e il
linguaggio di Massimiliano divennero in breve seducenti per molti,
che gia principiavano a discutere apertamente se si dovesse appog-
giarlo e seguirlo. Dico subito pero che tra questi non ce n'era nep-
pure uno che avesse appartenuto al patriottismo militante; erano
persone che in passato avevano seguita Fonda dei piu, ma che non
avevano partecipato all'azione attiva, e che pur nutrendo senti-
menti di italianita non s'erano compromesse di fronte al governo
austriaco. Gente mediocre, alTinfuori di pochi, che poi non fece
piu parlare di se, e che scomparve sommersa dall'alta marea degli
anni che seguirono.
i. Emilio Treves (1834-1916), venuto a Milano dalla nativa Trieste, yi
fond6 poi, nel 1861, la nota casa editrice che prese il suo nome e fu tra le
maggiori che abbia avuto V Italia.
364 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
Si lasciava credere come dissi, che tra i fautori di Massimiliano
ci fosse anche Cesare Cantu. II Cantu, lavoratore indefesso, non
viveva che nella cerchia ristretta dei suoi intimi, e di alcuni ammira-
tori. Da giovane era stato egli pure imprigionato1 dagli austriaci,
ma poi non era piu entrato nel secreto consorzio dei patriotti, non
s'era unito a nessuno di loro, e viveva solitario tra i suoi libri e i
suoi lavori.
II Cantu era egli pure un awersario del Governo austriaco, ma
sdegnoso delle opinioni altrui, non segui nel '58 il movimento d'op-
posizione a Massimiliano, e il pubblico a cui doleva di non avere
con se, in quei giorni di lotta, un cittadino illustre, gli si mostrava
severo e credette anche cio che non era.2
La societa milanese di solito si occupava ben poco dei personaggi
governativi e politici austriaci ; anzi c'era quasi Paffettazione di non
parlarne mai: ma di Massimiliano, dopo solo due mesi ch'era a
Milano, si parlava gia molto. Era questo un risultato a cui nessun
Principe, nessun Governatore austriaco, prima di lui, era arrivato
mai. Egli amava far parlare di se, e occupare di se Topinione pub-
blica: non essendo quindi possibile lasciar cadere lui e la sua
missione nel silenzio, bisognava combatterlo tanto piu vivamente,
bisognava rendergli impossible Fesecuzione di qualsiasi suo di-
segno, di qualsiasi sua buona intenzione.
Massimiliano, per la causa dell'indipendenza, era un pericolo. I
suoi sforzi, Popera sua assai probabilmente non avrebbero condotto
a nulla, sarebbero riusciti alia fine a un disinganno per lui e pei
suoi aderenti; ma nel frattempo potevano illudere, potevano attra-
versare la politica nazionale del Piemonte. Le lusinghe di Massimi
liano potevano indurre molti a sperare in lui e ad abbandonare
quella resistenza che durava da dieci anni e che, rendendo vani
i. imprigionato: il Cantu era stato arrestato a Milano il 15 ottobre 1833 e
sottoposto a processo dall'inquisitore Paride Zaiotti. Avevano destato
sospetto i suoi scritti suir« Indicatore », che raccoglieva intorno a s6 molti
giovani romantici. Non trovandosi prove contro di lui, e poiche egli ne-
gava costantemente ogni addebito, fu liberato Pn ottobre 1834. 2. «I1
Cantu piii tardi, nella sua Cronistoria delV Indipendenza Italiana, disco-
nobbe gli uomini piu alti e piu cari del risorgimento nazionale, e ci6 gli fu
poi d'ostacolo a entrare in Senato, onore a cui Pavrebbero chiamato i suoi
titoli di scrittore e di storico. Crispi, essendo ministro delPinterno, pro
pose al Re Umberto la nomina di Cesare Cantii a Senatore. Domenico Fa-
rini, presidente del Senato e figlio delPex Dittatore dell'Emilia, saputo cio,
si reco dal Re e vivamente lo sconsiglio di nominare senatore Pautore della
Cronistoria. II Re non firm6 il decreto» (nota del Visconti Venosta).
RICORDI DI GIOVENTtl 365
tutti i tentativi delP Austria, aveva data tanta forza alia politica na-
zionale del Piemonte.
Bisognava dunque combattere Massimiliano piu che i marescialli
che ci avevano governati cogli stati d'assedio, colle prigioni e colle
forche. « Combattere Massimiliano in ogni modo, e ad ogni costo »,
fu la parola d'ordine che allora corse imperiosa tra i patriotti mi-
lanesi.
Quindici anni dopo, quando Vittorio Emanuele ando a Vienna
a far visita all'imperatore Francesco Giuseppe, un ministro au-
striaco, discorrendo di Milano con mio fratello Emilio, che accom-
pagnava il Re,1 ricordo gli anni corsi tra il '49 e il '59, e rammento
le nostre resistenze e le nostre lotte. Pareva al ministro austriaco
che le classi dirigenti italiane avessero avuto sotto mano una co-
spirazione formidabile per mantenere il paese, con tanta disciplina,
in quello stato di lotta continua. Mio fratello gli rispose: — Non
c'era nessuna cospirazione pennanente; ci fu qualche speciale co-
spirazione, ma breve e di pochi; ma c'era la grande cospirazione di
tutti, naturale, spontanea: la fermezza e la disciplina erano mante-
nute nelle nostre file dai metodi di governo di quel tempo ; erano
mantenute dai vostri governanti, dai vostri generali, dalle vostre
Polizie. Una volta sola la nostra cospirazione divento difficile, e ci
mise in pensiero . . . fu quando ci mandaste Parciduca Massimi
liano.
Uno dei ritrovi, ove piu gagliardamente ed efficacemente si pre-
parava e dirigeva la lotta contro Parciduca, era il salotto della con-
tessa Maffei: nella storia di quel salotto Pinverno del 1858 segna
forse la data piu memorabile. L'antica tinta repubblicana di alcuni
anni prima era scomparsa: il patriottismo andava sempre piu di-
sciplinandosi intorno a una nuova fede, la fede in Vittorio Ema
nuele e in Cavour. « Casa Maffei » voleva dire in Milano una societa
politica e battagliera; alcuni la credevano un ritrovo arcigno di
letterati e di pedanti; ma era tutt'altro.
Nel piccolo appartamento di via Bigli, dove la contessa Maffei
riceveva ogni sera, si incontravano persone serie, vecchi patriotti,
uomini di studio e di bella fama, ma vi intervenivano anche signore
del mondo elegante, artisti, giovani che vedremo poi nel 1859 var-
i. Quindici . . . Re: il viaggio di Vittorio Emanuele II a Vienna ebbe luogo
nel settembre del 1873. Emilio Visconti Venosta accompagnava il re come
ministro degli esteri.
366 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
care il Ticino e arruolarsi tra i volontari. Nelle serate in casa della
contessa si discorreva piacevolmente di cose serie e di cose liete ; si
discorreva di politica, di letteratura, d'arte, e dei fatterelli cittadini;
si scherzava e si rideva, ma 1'intonazione generale era sempre alta-
mente patriottica. La contessa MafFei, di natura indulgente e mite,
diventava fiera e intransigente ogni volta che fosse in questione il
Governo straniero. Si pensi con quanto entusiasmo essa e i suoi
amici prendessero parte, in queirinverno del 1858, alia lotta contro
Parciduca Massimiliano che ferveva nella societa milanese.
Chiarina Maffei esercitava sempre molto fascino intorno a se, il
fascino della gentilezza e della bonta. Intelligente e colta, senza
essere ne una letterata ne una dotta, aveva Tentusiasmo d'ogni cosa
buona e bella, Pentusiasmo della patria soprattutto. Era sempre in
faccende per far del bene; e quando i suoi mezzi, ch'eran modesti,
non le permettevano di fare quanto il suo cuore avrebbe voluto,
allora ricorreva agli uomini ricchi, o influenti, ricorreva special-
mente al conte Cesare Giulini,1 la cui carita e generosita erano
inesauribili.
II Giulini era sempre in Milano una delle persone piu note e di-
stinte; ricco, generoso, di mente alta, di sentimenti nobilissimi,
aveva Tanimo buono e caritatevole. La sua cultura era vastissima
e la sua memoria era straordinaria, mentre poi era altrettanto straor-
dinaria la sua distrazione, a proposito della quale si raccontavano
tra gli amici i piu divertenti episodi. II dovere e la patria erano per
lui una religione, e la parte ch'egli ebbe negli awenimenti patrii,
dal '48 al '59 in Milano, fu grande, pure svolgendosi con quella
semplicita e con quella modestia ch'erano nella sua natura. Quando
il paese fu libero, il conte di Cavour voleva fare di lui un Gover-
natore, un Ministro; ma egli non accetto, e nel 1862 moriva non
avendo che 47 anni.
II Giulini, che aveva conservato dei legami d'amicizia col Cavour
e coi principali uomini politici del Piemonte, trovava modo di fare
di tanto in tanto delle gite, ora palesi ora secrete, a Torino ; e di la
portava alia contessa e agli amici piu intimi quelle notizie ch' erano
Falimento delle nostre speranze. Non aveva mancato d'andarci in
i. II Giulini (vedi la nota i a p. 307) nel periodo '48-50, da lui trascorso
a Torino, era divemito intimo del Cavour e di molti uomini politici pie-
montesi, come era amico dei patriotti lombardi: fu percid attivo messag-
gero tra le due parti e molto giovo a preparare I'unione della Lombardia
al Piemonte.
RICORDI DI GIOVENTtl 367
quel giorni, e col Cavour aveva discorso di Massimiliano e della
nuova situazione che 1'arciduca cercava di preparare in Milano : e
ci aveva riferito che Cavour, come conclusione del discorso, gli
aveva detto airorecchio : — £ urgente che facciate mettere di nuovo
Milano in istato d'assedio!
Questo motto, che diventava una parola d'ordine, corse rapida-
mente di bocca in bocca, con patriottiche indiscrezioni, e servi ad
infondere in una cerchia di persone, che si faceva ogni giorno piu
larga, un nuovo ardore e una maggiore audacia.
Emilio Dandolo era stato chiamato a Torino da Cavour, che gli
disse:— Caro Dandolo, ci siamo: Napoleone mi promise, che se
gli austriaci mettono piede sul territorio Piemontese, egli verra in
nostro aiuto. A farci invadere penseremo noi. A Milano fate cogli
amici, e cogli amici del paese, del vostro meglio per tener viva la
fiaccola del patriottismo e per tener viva Fagitazione.
II marchese Luigi Crivelli,1 quel medesimo che fu in prigione
dopo il 6 febbraio in grazia della barba, e sua moglie, la marchesa
Carolina, nata Medici di Marignano, riunivano in casa loro una
societa numerosa di persone, tra le quali predominava la gioventu.
Si rideva, si ballava, e si faceva del patriottismo risoluto e chias-
soso : il punto verso cui convergevano anche in casa Crivelli tutti i
discorsi era Farciduca Massimiliano ; si puo immaginare quale ef-
fetto vi facessero le parole di Cavour, ripetute alTorecchio in gran
secreto ... ma da tutti.
L'arciduca Massimiliano, a cui non era ancora riuscito di dare
a Corte ne una festa ne un ricevimento, adoperava tutte le arti della
sua seduzione personale per fare delle conoscenze, e per chiamar
gente intorno a se: si rivolgeva a persone notevoli per ingegno, per
studi o per pratica amministrativa, ogni volta che gli si presentava
qualche affare di pubblico interesse; e faceva chiamare, sotto i piu
futili pretesti, anche dei semplici gentiluomini per .aver gente a
Corte. In tal modo, ogni tanto, si veniva a sapere che qualche nuovo
pesciolino era stato preso alPamo, e che qualche nuova recluta era
entrata in palazzo reale a far visita all'arciduca. Era appunto ci6
che non si voleva.
i. Luigi Crivelli: dopo la mancata rivolta del 6 febbraio 1853 (yedi la nota 4
a p. 353), la polizia austriaca cercava il capo della cospirazione, che era
il mazziniano G. Piolti De Bianchi, di cui non conosceva ancora il nome,
ma sapeva solo della sua lunga barba rossiccia. Per questa particolare rasso-
miglianza era stato dapprima arrestato il marchese Luigi Crivelli.
368 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
« Bisogna finirla», s'era detto; bisogna arrestare queste diserzioni
dal campo intransigente, che a un poj per volta possono creare una
situazione nuova, pericolosa, contraria ai nostri disegni, contraria
alia politica che con tanta abilila e con tanta fortuna seguiva il
Piemonte. Finirla, e presto detto, ma in qual modo?
La sera, dopo il teatro, andavo frequentemente coi miei amici
dalla contessa Dandolo, e chiacchierando e fumando fino ad ora
tarda, si facevano le nostre discussioni e le nostre piccole cospi-
razioni politiche. La contessa, intelligente, animosa, ardente di
sentimenti giovanili come noi, era Panima della conversazione. Alle
volte, essa ci faceva imbandire qualche cenetta, improwisandola, e
si passavano in casa sua delle ore deliziose.
Una sera, mentre si parlava delParciduca e di quelli che abboc-
cavano al suo amo, qualcuno di noi, forse Emilio Dandolo stesso,
salto su a dire che, per impedire le visite a Corte, bisognava pur
pensarne qualcuna, se non bastava la pubblica riprovazione, se non
bastavano il negare il saluto e il troncare i rapporti d'amicizia con
chi ci andava.
Nei nostri discorsi, ch'erano Peco dei discorsi e dei pensieri di
persone piu serie di noi, c'era una preoccupazione, c'era il senti-
mento secreto d'un pericolo che cominciava a manifestarsi. Quale
potra essere il risultato, pensavano gia parecchi, dell'azione conti-
nua, instancabile dell'arciduca ? Riescira egli ad aprire una breccia
nel patriottismo disciplinato, rigido, ch'era durato fino allora?
quanti mano mano non andranno cedendo alle lusinghe governa-
tive ? quali nuovi interessi non verranno per awicinare il paese al
Governo ? II pubblico, il gran pubblico, dicevano i patriotti, fino a
quando ci seguira nella resistenza inflessibile anche dinanzi a un
regime che si annunzia mite e largo di promesse ? E una tregua dei
lombardo-veneti nella resistenza non avra delle conseguenze fatali
per la politica di Cavour?
E dunque ? Dunque che cosa si fa ? ... Dunque si potrebbe far
qualcosa di chiassoso . . . sfidare a duello, per dime una, quelli che
d'ora innanzi senza esserne obbligati andranno volontariamente a
Corte, o si awicineranno in qualsiasi modo alia politica dell'arci-
duca!
L'idea fu accolta con entusiasmo : questa bravata ci parve bel-
lissima, ed era infatti al livello della temperatura delle nostre teste,
e di quella in mezzo a cui si viveva.
RICORDI DI GIOVENTtl 369
Dopo cio, quella sera ci separammo, colle teste calde di progetti
e di duelli.
L'arciduca1 Massimiliano continuava imperterrito, e talora anche
con qualche buon risultato, a usare le sue arti seduttrici; quando
eccoci ad un nuovo episodic, capitato proprio qualche giorno dopo
1'intesa del duelli, in casa Dandolo.
Era assai noto a quel tempo, in Milano, come amatore di cavalli
ed esperto cavallerizzo, un .marchese Luigi d'Adda Salvaterra,
fratello del marchese Gerolamo, letterato, scrittore d'arte, e noto
bibliofilo.2 II d'Adda compariva quasi ogni giorno sui bastioni della
citta, ch'erano a quel tempo il luogo della passeggiata pubblica e
il ritrovo del mondo elegante, cavalcando 1'uno o Paltro dei suoi bei
cavalli arabi. Correva, caracollava, e lo avevano soprannominato il
Mazeppa?
Un giorno Massimiliano, che di tanto in tanto cavalcava egli pure
sul bastione, mando il suo aiutante a dire al d'Adda che desiderava
ammirare il suo belParabo. II d'Adda gli si awicino, 1'arciduca
gliene fece gli elogi e lo preg6 di mandare i suoi cavalli alia caval-
lerizza di Corte, desiderando cavalcarli. Dopo di cio, sotto vari
pretesti, lo fece andare a Corte piii volte, e lo invito a colazione.
II d'Adda accett6 gli inviti.
Questo fatto, che in altre circostanze sarebbe passato inosservato,
allora fece parlar molto; e a qualcuno, tra quei deH'«intesa», parve
venuta Poccasione di dar principio al programma dei duelli. « Si
incominci dunque dal d'Adda!» Trattandosi d'una persona tanto
nota in Milano, come il d'Adda, il caso era opportune, sebbene vio-
lento, per una dimostrazione chiassosa.
Ragazzate! potra esclamare qualcuno nel leggere questi fatti; ma
i giovani d'allora erano cosi; e si puo essere indulgenti con questi
i. Ed. cit., dal cap. xxv, pp. 399-405. 2. Luigi d'Adda Salvaterray nato
nel 1829, aveva partecipato alle guerre del '48 e del '49 come sottotenente
di cavalleria: partecipd anche alia guerra del '59. II fratello Girolamo
(1815-1881) fu realmente notissimo bibliofilo ed erudito, e molto scrisse in
tale campo: non ebbe parte, invece, nel Risorgimento italiano, che visse
raccolto nei suoi studi. 3. Mazeppa: romanzieri e poeti hanno trasfigu-
rato il personaggio storico di Jvan Stepanovic Mazepa, vissuto tra il 1644
e il 1709, che tento di dare 1'indipendenza all'Ucraina. II personaggio
leggendario appare in un poema di Puskin, in Byron, in Victor Hugo.
NelPaccenno del Visconti, si allude soprattutto alia sua eccezionale abili-
ta di cavaliere.
370 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
ragazzi, quando si pensi che pochi mesi dopo, tra mille pericoli,
lasciavano la casa loro per prender le armi; e che molti alle loro
case non ritornarono piu.
Alcune sere dopo ci fu un veglione alia Scala e Alfonso Carcano,
ch'era il piu giovane della compagnia di Casa Dandolo, ci ando
in maschera, e detto fatto si diresse verso il d' Adda, e dopo un breve
colloquio, alludendo alia visita fatta alPArciduca, lo insulto; poi
levatasi la maschera gli diede il suo biglietto di visita. II d'Adda
era in un palchetto con due forestieri,,dei quali e facile immaginarsi
lo stupore. Corse subito la voce del fatto per tutto il teatro, e per
alcuni giorni in Milano non si parlo d'altro.
La mattina seguente vennero da me donna Giulia e Costanzo
ch'eran la madre e il fratello dell' Alfonso Carcano, dicendomi che
questo si teneva nascosto, e pregava me e il marchese Massimi-
liano Stampa Soncino a fargli da padrini. La buona donna Giulia
piangeva, ma mi pregava d'assistere suo figlio.
Due giorni dopo ci fu un ritrovo tra i padrini; pel d'Adda furono
quei due che s'eran trovati nel palco, venuti alia Scala per dwertirsi
al veglione; ed erano un Della Rocca, ex ufficiale spagnolo, e un
Cervis di Novara. Nel frattempo ebbi una chiamata alia Polizia.
II Direttore mi ricevette tenendosi ritto in piedi e parlandomi
in tono brusco e severo.
— So tutto: — prese a dirmi— il marchese Luigi d'Adda e stato
Faltra notte insultato in teatro da un giovinastro mascherato . . .
sappiamo chi e . . . e sappiamo anche la causa deirinsulto! ... Si
parla di un duello, e si dice che lei sara uno dei padrini . . . ma io
le dico che questo duello non si fara! Ha capito ? . . . Questo duello
sarebbe uno scandalo! Questo duello mi obbligherebbe a far arre-
stare lei e i suoi due amici, e a far aprire contro di loro una duplice
inquisizlone, cioe pel delitto di duello, e pel delitto politico! Ha
capito ? . . . Ora le domando formalmente di darmi la sua parola
d'onore che il duello non si fara . . . o almeno che lei non vi pren-
dera parte. Mi risponda!
— Del duello di cui lei mi parla, — risposi — finora non so nulla.
Ma devo pero dirle che io non le potrei dare la parola d'onore che
mi domanda. Lei e un gentiluomo, e comprendera che, se un amico
mi chiedesse di assisterlo in un caso simile, io non potrei rifiutare.
Si discusse per alcuni minuti, fermi Tuno e Paltro nei nostri ar-
gomenti; egli alzando la voce e in tono sempre piu minaccioso; io
RICORDI DI GIOVENTt 371
con 1'aria rassegnata, come una vittima, caso mai, deiramicizia.
In quella stessa mattina il marchese Soncino aveva avuta una
eguale chiamata dal Direttore di Polizia, e aveva sentite le stesse
minacce, e aveva data la stessa risposta, poiche le avevamo com-
binate.
Nel nostro abboccamento era parso, ai padrini del d'Adda, sulle
prime che un diverbio di veglione dovesse venire accomodato con
qualche bottiglia di champagne, ma presto capirono che sotto il
diverbio apparente c'era una questione politica, e che il duello era
quindi inevitabile.
Si convenne un duello alia pistola, da farsi al di la del Ticino,
presso la frontiera. Ma il difficile era Pandarci, sorvegliati come
eravamo dalla Polizia.
Si combin6 di partire quella stessa sera, e per non svegliar so-
spetti s'ando tutti al teatro della Scala, mostrandoci nei palchi fino
alTora convenuta.
Dal teatro, poi scomparimmo improvvisamente, e andammo di-
filato in piazza Fontana, dove ci attendevano due carrozze.
Per attraversare il Ticino, a quel tempo, non c'erano ferrovie;
eravamo in febbraio, nevicava e faceva un gran freddo; io era in
giubba, con la cravatta bianca, le scarpette lucide e le calze di seta:
gelavo! Non avevo il passaporto, indispensabile a quei tempi; per
questo, quando si arriv6 alia frontiera, montai a cassetta d'uno dei
due legni, e il Della Rocca mi fece passare pel suo cameriere.
In un villaggio, al di la del confine, trovammo un ufficiale di
cavalleria piemontese, che, prevenuto dal mio collega, il marchese
Soncino, aveva portato le pistole. L'ufficiale ci condusse in una
boscaglia distante circa un chilometro, che facemmo in mezzo al
fango e alia neve. Oh le mie scarpette! e che freddo! Con noi era
venuto Scipione Signoroni, un giovane nostro amico medico, e gia
ufficiale di Manara.
I due awersari furono messi di fronte, a venti passi di distanza.
La sorte indico il Della Rocca pel comando del duello, che doveva
essere «al segnale». Puntarono; «uno, due, tre»; i due colpi par-
tirono insieme, ma le due palle andarono a conficcarsi negli alberi
vicini; avevano avuto piu giudizio di noi. Ma a nostra discolpa ri-
peter6 ancora una volta che a quel tempo noi ci consideravamo co
me gia in guerra, e che se allora la gente si fosse condotta sempre
con certe buone regole di prudenza e di giudizio, gli austriaci forse
372 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
passeggerebbero ancora per le vie di Milano. Si ricaricarono le
pistole, ma allora i padrini awersari si awicinarono a noi dicendo
che, avuto riguardo alia causa che ci aveva condotti sul terreno, si
poteva far cessare lo scontro e riconciliare i due awersari. Fummo
tutti del medesimo parere : la dimostrazione politica era fatta, e sa-
rebbe stato assurdo il continuare il duello. II d'Adda ci teneva a
giustificarsi; ci scambiammo delle strette di mano e delle parole
cortesi, poi partimmo subito per Milano.
Qualche ora dopo, viene da me il Soncino, che aveva avuto una
nuova chiamata dal Direttore di Polizia: questi era stato con lui
ancora piu brusco del giorno prima; ma con sua gran sorpresa il
mio amico s'era accorto che il Direttore non sapeva ancora che il
duello fosse avvenuto!
— Sento ripetere che lei dovrebb'essere uno dei padrini, ma
questo duello non si fara! Se tentassero di farlo, li faro sorprendere
in flagrante\ li far6 arrestare tutti, e manterro la mia parola . . .
duplice processo! Glielo dico di nuovo ... ha capito?
II Soncino aveva taciuto, stringendosi nelle spalle, come chi e
rassegnato alia fatalita, solo ripetendo ancora che, pregato, non
avrebbe potuto rifiutarsi a un amico : non aggiunse altro, poi corse
da me. — Oh che commedia! — si disse tra noi. — Ma come la
finira?
In Milano per alcuni giorni non si par 16 che del duello,1 e se ne
fece un gran chiasso. lo e i miei due amici, non sapevamo che fare :
parecchi ci consigliavano di prender il largo; ma noi, d'accordo
anche coi nostri awersari, si decise di non muoverci, e di negare
che ci fosse stato il duello, non essendocene le prove, caso mai ci
arrestassero.
Non fumrno arrestati. Piu tardi venni a sapere che al nostro ar-
resto s'era opposto il luogotenente Burger, il quale aveva giusta-
mente osservato al Direttore di Polizia che, non essendo egli riu-
scito ad impedire il duello, era meglio che fingesse di non saperne
nulla; tanto piu che il processo avrebbe sollevato un chiasso enorme
su un fatto ch'era meglio mettere in tacere. Cosi la passammo liscia.
i. duello: a questo duello ne seguirono molti altri. Tra i duelli awenuti a
Milano in quegli anni, prima della seconda guerra di indipendenza, 1'au-
tore ricorda quello di Manfredi Camperio con il capitano Schonhals,
a proposito del quale riproduce una lettera dello stesso Camperio.
RICORDI DI GIOVENTt 373
[MORTE DI EMILIO DANDOLO - LA FUGA IN piEMONTE]1
II 1859 s'apriva con una bella giornata, serena come le nostre spe-
ranze; e principiava anche lietamente. Alcune bande musicali an-
date sulle prime ore del mattino a far omaggio pel capo d'anno,
come d'uso, alle autorita, nel far ritorno, percorrendo parecchie vie
della citta, salutavano Fanno nuovo con allegre sonate. Tra queste,
ogni tanto ripetevano, tra gli applausi della folia che le seguiva, una
canzone popolare, venuta fuori da poco, chiamata la Bella Gi-
gogin.
La musica della canzone era facile e vivace, le parole erano sci-
pite e quasi senza senso, ma tra esse c'era un ritornello che diceva:
« dagliela avanti un passo, delizia del mio cor »; parole a cui il pub-
blico dava un significato patriottico sottinteso, accogliendole con
entusiasmo.
La Bella Gigogin percorse quella mattina Milano trionfalmente,
tra infiniti applausi, accolta come un augurio, e rinnovando in tutti,
col buon umore, le speranze.
Quella canzone fu per qualche tempo popolarissima; talche,
quando Napoleone entr6 in Milano dopo la battaglia di Magenta, z
le musiche militari francesi sonavano la Bella Gigogin, che chia-
mavano la milanaise. Ma il miglior augurio pel nuovo anno ci
doveva venire prima da Parigi, poi da Torino. Napoleone nel ri-
cevimento di capo djanno del corpo diplomatico, rivolgendosi al-
Tambasciatore d' Austria, Hiibner,3 gliaveva detto:— Mi duole che
le nostre relazioni non siano cosi buone come per Taddietro. — Quel-
le parole del silenzioso Imperatore avevano avuto un'eco formida-
bile in tutta Europa, come se fossero gia un annunzio di guerra.
LJ Austria rispose mandando subito in Lombardia un nuovo corpo
d'Armata, e sei battaglioni di «confinari» croati.
Pochi giorni dopo, il 10 gennaio, Vittorio Emanuele nel discorso
d'apertura della sessione del Parlarnento, pronunziava le parole:
« Non sono insensibile al grido di dolore che verso noi si leva da
ogni parte d' Italia »; parole che si seppe erano state dette d'accordo
con Napoleone.4
i. Ed. cit., cap. xxvi, pp. 417-41. 2. La battaglia di Magenta awenne il
4 giugno, e 1'ingresso di Napoleone in Milano 1*8 giugno 1859. 3. Hiibner:
vedi la nota i a p. 311. 4. La citazione testuale (presso G. MASSARI, Vita
374 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
Ne giunse la notizia a Milano la sera del giorno stesso in cui
erano state pronunziate. Ero al teatro della Scala; a un tratto si
vide un parlarsi Tun 1'altro, con ansieta, con commozione, come di
persone che si comunicano una grande notizia, parve scorresse in
tutti un fremito ; e una sorpresa insolita si osserv6 anche nei palchi
delle autorita e dei generali austriaci.
Queirelettricita, per cosi dire, ch'era nell'aria, che era in tutti,
doveva, poche sere dopo, scoppiare rumorosamente in quella sala
stessa del teatro.
Si rappresentava la Norma, e appena i sacerdoti druidici intona-
rono il coro possente del « guerra, guerra », tutto il pubblico scatto
in piedi : dai palchetti le signore sventolavano i fazzoletti, e tutti a
una voce, anzi con un urlo formidabile, si grido « guerra! guerra »!
II coro fu fatto ripetere piu volte tra un entusiasmo frenetico.
Gli ufficiali della guarnigione, che, come di solito, occupavano le
due prime file della platea a loro riservate, non capirono sulle prime
la ragione di quel chiasso. Esterrefatti, guardavano, quasi interro-
gando, nei due palchetti riuniti di prima fila, ove stava il generale
Giulay,1 con parecchi ufSciali superiori.
Questi capirono ben presto di che cosa si trattasse e si misero ad
applaudire essi pure il « guerra guerra >\ Anzi Giulay stesso ne diede
il segnale, battendo replicatamente la sciabola sul pavimento. Chi
gli avrebbe detto quella sera che la guerra sarebbe proprio scop-
piata, e che cinque mesi dopo egli vi avrebbe perduta a Magenta
una grande battaglia!
II segnale dato da Giulay fu subito seguito da tutti gli ufficiali
che si rizzarono in piedi, e fissando il pubblico, applaudirono
fragorosamente.
Si pensi che baccano! Da una parte si gridava entusiasticamente
« viva la guerra! », si sventolavano i fazzoletti, e si chiedevano nuove
ripetizioni del coro; dalPaltra si battevano, con grande strepito e
in modo parimente provocante, le sciabole in terra.
II teatro fu attorniato dalla truppa chiamata in fretta, e Giulay
usci circondato dallo stato maggiore e da ufficiali, quasi accorsi in
sua difesa.
II baccano quella sera duro lungamente; era la esplosione d'una
di Vittorio Emanuele, Milano, Treves, 1878, 1, p. 367) reca: « Non siamo in-
sensibili al grido di dolore che da tante parti d' Italia si leva verso di noi ».
i. II generale Giulay ebbe il comando degli Austriaci nella guerra del '59.
RICORDI DI GIOVENTfr 375
aspirazione repressa, di veder spuntare il giorno desiderate, il giorno
della guerra. Le parole di Vittorio Emanuele avevano messo il
fuoco alle polveri.
Intanto si andavano disponendo i mezzi, seriamente e in grande,
per mandare quanti piu giovani si poteva ad arruolarsi in Piemonte.
Le citta e le borgate di Lombardia dovevano awiare questi giovani
a Milano, e da Milano, per varie strade prestabilite, sarebbero stati
poi diretti ai confini del Ticino, della Svizzera e del Po. Lungo tali
strade ci sarebbero stati dei punti indicati, ove chi arrivava avrebbe
trovato carrozze, alloggio airoccorrenza, e guide per proseguire il
cammino in modo rapido e sicuro. Tutto cio era pagato da una
Cassa centrale in Milano. Chi partiva riceveva degli scontrini
ch'erano carte da gioco tagliate, o bastoncini che combaciavano,
noti a chi li doveva raccogliere ai punti di ritrovo.
Con questi contrassegni, se occorrevano, o accompagnati da soc-
corsi in denaro quand'era opportune, i giovani che partirono giun-
sero presso che tutti in Piemonte rapidamente e senza contrattempi.
In tre mesi ve ne giunsero circa dieci mila.
Alle spese prowedeva una cassa secreta fatta con contribution!
fiduciarie. La cassa e gli scontrini erano affidati ad un gruppo di
cittadini che se li passavano Fun Faltro, tenendoli pochi giorni,
poiche era un deposito pericoloso. E infatti presso chi Taveva c'era
subito un andirivieni di giovani che doveva destare i sospetti della
Polizia, e che procur6 spesse visite, chiamate e perquisizioni.
Non tutti i diecimila certamente andarono in Piemonte coi mezzi
e coi soccorsi della cassa secreta, poiche chi lo poteva andava a pro-
prie spese, ma ce n'andarono moltissimi. In tutto ci6 ebbe una gran
parte quella cospirazione generale, spontanea, di tutti, che s'era
veduta nel quarantotto; e, come allora, le classi elevate contribui-
rono con una grande generosita, tanto piii notevole questa volta
perche secreta.
II pensiero d'andare in Piemonte ad arruolarsi comincio presto
a farsi strada tra i giovani e tra gli antichi volontari del '48.
Gia nei primi giorni del gennaio, nei ritrovi, nei caffe, tra gli
studenti, si susurrava: ccQuando si va?»
Una sera mi trovavo in casa del marchese Luigi Crivelli, e si
parlava appunto delle speranze ch* erano sulle bocche di tutti, e del
progetto di passare in Piemonte per arruolarsi. — Quando si in-
cominciera?— domandavano alcuni. — E se si andasse subito? —
3?6 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
salt6 su Giulio Venino, che allora era studente di matematica, e
che poi divento capitano d'artiglieria. — Se io, per esempio, partissi
tra un paio di giorni, farei bene ?
Tutti lo applaudirono, e pochi giorni dopo seppi ch'era partito,
e che s'era arruolato a Torino come soldato semplice nelPartiglieria.
Ho voluto ricordare il suo nome, perche in quei giorni il nobile
esempio del Venino trov6 un'eco simpatica e vivissima tra i gio-
vani milanesi.
Un giorno, il padre di Gaetano Negri,1 ch'era un vecchio amico
di casa nostra, venne a confidare a mia madre che il suo unico figlio
maschio Gaetano, giovane di vent'anni, partiva per arruolarsi. Ave-
va le lacrime agli occhi, ma nel tempo stesso era superbo della
decisione di suo figlio. Gaetano Negri, dopo un anno era sotto-
tenente di fanteria, e aveva gia guadagnato una prima medaglia al
valor militare.
Questi esempi furono presto seguiti da molti, e ormai ogni giorno
s'udivano ripetere i nomi di giovani appartenenti alle piu alte fa-
miglie milanesi che si erano furtivamente recati in Piemonte per
arruolarsi. L'esempio, cominciato dall'alto, si diffuse in ogni classe;
prima che finisse il febbraio si contavano gia a migliaia gli arruolati.
I pochi che, potendolo, non partivano, non si lasciavano vedere.
Tra gli arruolati si annoveravano anche i piu bei nomi delle pro-
vincie lombarde e delle venete. Nessuno resisteva a quelPentusia-
smo generale che chiamava la gioventu ad espatriare per arruolarsi
e ad esporsi alle piu gravi sventure, se gli awenimenti fossero fi-
niti male.
Questa grande dimostrazione patriottica merita veramente d'es-
sere ricordata come uno dei fatti piu seri, piu generosi che conti
la storia del nostro risorgimento. Le autorita austriache, civili e
militari, solite a burlarsi delle nostre dimostrazioni, questa volta
rimasero stupite; e pur fremendo ammiravano un tal fatto cosi
nuovo, e che non giungevano a frenare.
Ciascuno di noi, di quel gruppo di giovani, voglio dire, che vi-
veva in continua dimestichezza, aveva fatto i propri preparativi per
passare in Piemonte, ma se ne voleva differire Pesecuzione per poter
i. Gaetano Negri (1838-1902) combatte nella guerra del '59, partecipo dopo
il '60 alia campagna contro il brigantaggio nell* Italia meridionale. Lettera-
to, saggista e sindaco di Milano. Deputato nella seconda legislature, fu se-
natore dal 1891.
RICORDI DI GIOVENTfr 377
intanto accrescere la cassa, e sorvegliare i contrassegni di fronte a
qualche improwiso contrattempo, o a qualche scoperta della Po-
lizla.
Eran questi di solito gli argomenti del nostri discorsi in quei
giorni in casa Dandolo, seduti presso la poltrona su cui giaceva il
povero Emilio, affranto dalla tisi che faceva rapidamente i suoi ul-
timi progress!. Egli era affettuosamente assistito dalla madre Er-
mellina,1 dal padre, dal barnabita padre Piantoni, dagli amici, e
tra questi, soprattutto, dal medico Scipione Signoroni, suo antico
compagno d'armi nel battaglione Manara, e gia attaccato lui pure
dalla tisi che doveva spegnerlo, sul fiore dell'eta, pochi anni dopo.2
Emilio Dandolo non s'illudeva da parecchio tempo sulla gravita
del suo male, e nei discorsi di quei giorni le nostre liete speranze
facevano un penoso contrasto colla inesorabile fatalita che spegneva
1'amico. Dandolo nondimeno si lusingava di poter vivere ancora al-
cuni mesi; non sperava di poter rivestire la sua antica divisa di
ufficiale dei bersaglieri, ma Cavour gli aveva assicurato un posto
nello Stato Maggiore. I suoi pensieri erano tutti rivolti alia guerra
e si aggiravano sempre intorno alia speranza di morire su un campo
di battaglia. Ma il male inesorabile doveva ben presto dissipargli
crudelmente anche questo ultimo sogno.
In uno di quegli ultimi discorsi intimi egli mi confidava alle volte
alcune informazioni che gli giungevano, e ch'egli trasmetteva a Ca
vour, sulle forze e sui movimenti delle truppe austriache. Fin dal-
Pautunno erano secretamente venuti in Lombardia due capitani
piemontesi di Stato Maggiore, Incisa e Govone.3 II capitano Al
berto Incisa della Rocchetta, nominate innanzi, e che divenne poi
generale come il suo collega Govone, aveva a Milano parenti ed
i. Ermellina Maselli era la matrigna di Emilio. II padre, Tullio, perduta
(1835) la prima moglie, Giulietta Bargnani, aveva sposato Ermellina nel
1844; ed essa fu affezionatissima ai figliastri. 2. «Tra gli amici intimi che
avevano in passato fatte liete le serate di casa Dandolo, e che ora circonda-
vano il povero amico che si spegneva, rammento, oltre al dottor Signoroni,
i fratelli Mancini, i Carcano e i Caccianino, Pingegnere Pirovano, Alfredo
Ulrich, Costantino Garavaglia, il conte Ignazio Lana, Ignazio Crivelli,
il marchese e la marchesa Crivelli, il pittore Chialiva, le famiglie Piola e
Fontana» (nota del Visconti Venosta). 3. Alberto Incisa della Rocchetta
(1824-1888) aveva lasciato Milano nel 1848 ed era entrato nelPesercito
piemontese: aveva percio conoscenze e legami notevoli nella Lombardia;
Giuseppe Govone (1825-1872) aveva gia partecipato alle guerre del '48-
49 e di Crimea. Nella guerra del '59 e poi nel '66 prest6 altri servizi. Nel
1869 fu ministro della guerra.
378 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
amici, oltre il Dandolo, che I'aiutarono nella sua pericolosa mis-
sione: tra quest! Lodovico Trotti, Carlo d'Adda, Cesare Giulini,
Carlo Ermes Visconti.
Piu tardi Cesare Giulini, con quei due ufficiali, compiva una
missione ancora piu ardita. Conoscendo strade e paesi tra Milano,
il Ticino e il Novarese, per averci dei possessi, quando, dopo la
dichiarazione della guerra, le truppe austriache entrarono in Pie
monte, essi ne seguirono a poca distanza le mosse, e via via ne
facevano giungere le informazioni al Lamarmora.
La mattina del 20 febbraio Emilio Dandolo tranquillamente spi-
rava nelle braccia del padre e della madre, circondato da alcuni
amici.
La notizia corse rapida per la citta, e corse anche la parola d'or-
dine che tutti dovessero accorrere a rendere gli estremi onori al gio-
vane e valoroso patriotta. Intanto la famiglia e gli amici vegliavano
il cadavere, e prendevano gli accordi per la giornata dei funerali.
Si voleva che sulla tomba parlasse mio fratello Emilio, ma in quella
mattina egli doveva essere padrino d'un duello di Gerolamo Fadini
con un ufficiale austriaco ; cosi egli cedette il mesto incarico al conte
Gaetano Bargnani,1 parente dei Dandolo, il quale in poche ore
prepare un caloroso e coraggioso discorso. Carmelita Manara ed
Ermellina Dandolo deposero il cadavere nella bara: Carmelita gli
mise sul petto la coccarda tricolore, che suo marito Luciano aveva
portata durante le campagne; Ermellina vi colloc6 una ghirlanda
di fiori dai tre colori.
Ma non contenta di cio, la contessa Ermellina incaricava uno
degli amici, Ignazio Crivelli, di procurargli delle camelie bianche
e rosse per intrecciarle con foglie verdi e fame una corona, ch'essa
pensava di far collocare sul feretro nel momento del trasporto. E,
fissa in questo pensiero, faceva conficcare nel coperchio del cofano
i. Gaetano Bargnani (nato nel 1810), di Brescia. Organizzatore mazziniano,
fu costretto a esulare in Svizzera nel 1833; nell'anno successive partecip6
alia spedizione di Savoia, fallita la quale si trasferi in Francia. Da Parigi fu
successivamente allontanato e cosl da Bruxelles, per le sue manifestazioni
politiche: riparo in Inghilterra nel 1840. L'amnistia generate, concessa dal-
Pimperatore Ferdinando, gli permise di tornare in Italia. Nel marzo 1848,
uscito da Milano travestito, sollevo con i suoi discorsi Bergamo e Brescia.
Esul6 poi in Piemonte; di 11 corse a Roma, dove era riuscito a trasferire il
battaglione Manara. Caduta la repubblica, torn6 in Piemonte. Una nuova
amnistia lo aveva riportato a Milano da poco, sempre attivo propagandista:
finche le parole dette al funerale di Emilio Dandolo non lo costrinsero a
nuovo esilio in Piemonte.
RICORDI DI GIOVENTtl 379
dei chiodi sporgenti per assicurare la sua corona. Ma qui stava il
difficile, perche la Polizia Pavrebbe sequestrata al suo primo appa-
rire. Penso dunque, d'accordo cogli amici, di far collocare la corona
sul feretro solo quando il corteo sarebbe uscito dalla chiesa, dopo
le esequie. Cosi tutti 1'avrebbero veduta, e alia Polizia sarebbe
riuscito piu difficile sequestrarla.
II trasporto funebre fit fatto la mattina del 22, e il feretro fu
portato alia chiesa di San Babila dalla casa Crivelli, posta sul corso
di Porta Orientate, ove, come gia dissi, abitavano i Dandolo.
Durante le esequie, la folia, che presto non pote piu trovar posto
nella chiesa, ando rapidamente agglomerandosi sulla piazza, oc-
cupando a mano a mano fin le strade vicine e una parte del corso.
Era una folia serrata, silenziosa, imponente. La Polizia se ne al-
larmo, e non potendo disperderla, mando Tordine alia chiesa di
sospendere il trasporto del feretro al cimitero. Appena si seppe
quest5 ordine, si sollevo nella chiesa un vivo rumore di impazienza e
di protesta che decise alcuni amici di casa Dandolo, tra i quali Co-
stantino Garavaglia e Lodovico Mancini,1 a recarsi subito nella sa-
crestia, dove c'era un Commissario di Polizia, per persuaderlo a la-
sciar compiere il trasporto. Dopo un lungo e inutile battibecco, il
conte Tullio Dandolo2 e la duchessa Giovanna Visconti di Modro-
ne andarono dal luogotenente Burger per persuaderlo come, nel-
Tinteresse stesso dell'ordine pubblico, fosse miglior partito lasciar
compiere il trasporto. II Burger, fatte molte raccomandazioni, ac-
consenti.
II feretro, portato a spalla, si mosse, e la folia che era in chiesa
si precipito fuori dalle porte laterali. Alia porta centrale stava il
gruppo degli amici di Emilio Dandolo, in mezzo ai quali c'era il
portinaio di casa Crivelli, un ometto, patriotta anche lui, che teneva
nascosta sotto un ampio mantello la corona. Mentre il convoglio
stava per uscire dalla chiesa, Lodovico Mancini, giovane alto della
persona, prese la corona e rapidamente la colloco, non veduto, sul
feretro assicurandola ai chiodetti.
i. Costantino Garavaglia: banchiere milanese, che nel 1860 consegn6 al
D'Azeglio, allora governatore di Milano, una ingente somma, richiesta
dal Cavour e che sembra certo servisse per la spedizione dei Mille. Un
documento in proposito si trova in questi Ricordi di gioventu, alle pp. 585-
7 deU'edizione da noi seguita. II Garavaglia, non essendo riuscito a fuggire,
fu tra gli arrestati dopo il funerale di Emilio Dandolo; Lodovico Mancini:
vedi la nota i a p. 355. 2. Tullio Dandolo: il padre di Emilio Dandolo:
vedi la nota i a p. 377.
380 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
Appena comparve dinanzi all'immensa folia quel feretro, su cui
stava la bella corona tricolore, ci fu un fremito in tutti e si Iev6 un
urlo infinite, frenetico, spaventoso, che si ripercosse a lungo e lon-
tano tra quelle migliaia di persone accorse a dar Pultimo saluto al
valoroso patriotta precocemente morto.
In mezzo a quella folia stipata non fu facile formare il corteo ; al-
lora i feretri non venivano collocati sulle carrozze, ma erano portati
a spalla. Dodici tra noi, amici intimi del povero Emilio, ci eravamo
prefissi di adempiere a questo ufficio, dandoci il cambio tratto
tratto, e tenendoci intorno al feretro. Accanto a noi c'era il padre
Piantoni, un dotto barnabita, amico dei Dandolo. Dietro, al posto
d'onore, veniva un drappello di antichi soldati ed ufEciali, avanzi
del battaglione Manara, alcuni dei quali erano mutilati.
II commovente drappello accresceva la commozione e il fermento
della moltitudine di persone che si stipavano intorno. II feretro
procedeva lentamente, fendendo a stento quella folia agitata, so-
spinta. Tutti volevano veder la corona tricolore che ad ogni passo
sollevava grida di entusiasmo ; grida che facevano uno strano con-
trasto col sentimento di dolore che pur vedevasi in tutti.
Quel trasporto funebre pareva un trionfo. Era infatti il trionfo
d'un patriotta, il trionfo di quella concordia cittadina ch'era Pomag-
gio piu caro allo spirito di lui.
La ressa era tale che piu volte, essendo io pure tra gli amici che
sjawicendavano nel portare il feretro, temetti che fossimo rove-
sciati e calpestati. I gendarmi, le guardie, gli agenti della Polizia,
erano scomparsi. Non sarebbe stato possibile aifrontare quella folia
esaltata e risoluta; cosi essa rimase padrona del campo dalla chiesa
fino al cimitero, detto di San Gregorio, ora soppresso, e ch'era
fuori la Porta Orientale.
II feretro e la folia, giunti alia dolorosa meta, trovarono il cimi
tero occupato e circondato dalla truppa. II feretro e parte di quelli
che lo seguivano poterono entrarci, ma i piu furono respinti. La
cassa fu sepolta prowisoriamente in una fossa comune, e su di essa
pronunciarono parole patriottiche e coraggiose il conte Bargnani,
come era stato stabilito, e Antonio Allievi.1
i.Antonio Allievi (1824-1896) fu tra i fondatori, con Carlo Tenca, del
cc Crepuscolo », e successivamente della « Perseveranza ». In seguito alle pa
role da lui dette sul feretro di Ernilio Dandolo, fu costretto a fuggire in Pie-
monte. A Torino fu addetto al gabinetto di Cavour: fu poi deputato, se-
natore, presidente delle Ferrovie meridionali.
RICORDI DI GIOVENTIJ 381
II giorno dopo il conte Tullio ottenne di far trasportare la salma
del figlio nella sua villa di Adro, in provincia di Brescia e fu disse-
polta secretamente, alia presenza di agenti di Polizia. Vi accorse la
contessa Ermellina, che pote, non veduta, ritrovare la corona, na-
sconderla sotto il mantello, e riportarla a casa.
Nei giorni seguenti il conte Tullio era chiamato a Torino per
assistere a un ufficio funebre che, per iniziativa di Cavour, veniva
celebrato in sufFragio del figlio. Tra i promotori di quelle onoranze
si leggevano, accanto al nome di Cavour, quello di Lamarmora,
Azeglio, Durando, Lanza, Sella ed altri.
Era da aspettarsi che il Governo noa avrebbe tardato a far pa-
gare a qualcuno quella grande dimostrazione, contro la quale era
stato impotente, e ch'era parsa quasi uaa sollevazione.
Infatti, nella giornata seguente a quella del funerale, alcune faccie
poliziesche si presentarono in casa Bargnani a chiedere del conte.
Avvisatone, egli si reco subito da mio fratello Emilio, che gli diede
una lettera per un signore di Pavia, 1'aw. Caravaggio,1 divenuto
poi prefetto e senatore, e che allora si adoperava a far passare il
confine ai compromessi e ai volontari. II Bargnani, prima di partire,
ritorno a casa sua per pochi mornenti, e n'era appena uscito di
nuovo che capitarono gli agenti della Polizia. Dopo averlo cercato
invano, fecero nella casa una minuta perquisizione; e frugando fin
nelle tasche dei vestiti di lui, nel vestito che aveva mutato poco
prima trovarono la lettera di mio fratello, che nella fretta egli vi
aveva dimenticato.
La contessa Bargnani, ch'era stata presente alia perquisizione,
appena usciti i poliziotti, corse a casa nostra per awisare Emilio
che la sua lettera era stata trovata e sequestrata. Emilio ne awis6
1'Allievi, pensando che la Polizia avesse voluto arrestare il Bargnani
in causa dei discorsi pronunciati al cimitero ; e lo esorto a partire.
L'Allievi infatti parti.
Alia mia volta esortai molto mio fratello perche partisse egli pure,
parendorni che dopo il sequestro della sua lettera 1'aria di Milano
non facesse piu per lui; ma Emilio, che fu sempre ritroso a pren-
dere delle precauzioni per se, prefer! differire.
La sera del giorno seguente, ch'era il 24 febbraio, dopo la rap-
presentazione del teatro della Scala, ci trovavamo io e Emilio in
i.Evandro Caravaggio (1836-1913) era allora studente di giurisprudenza
alTUniversita di Pavia. Fu nominate senatore nel 1901.
382 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
tin crocchio di amici al caffe Cova. Emilio racconto 1'awentura
della lettera, poi disse che poco prima s'era incontrato, in un cor-
ridoio del teatro, col Direttore di Polizia, il quale lo aveva fissato
in un certo modo che pareva volesse dire: «Ah, sei ancora a Mi-
lano ? Ci rivedremo tra poco ! »
Gli amici esortarono Emilio, e anche me, a pigliare il largo, al-
meno a non rincasare quella sera, offrendoci Tospitalita in casa loro.
Pregato vivamente anche da me, Emilio si persuase a seguire un
amico che voile condurlo in casa sua. Emilio voleva che ci andassi
anch'io, ma un impegno me lo impediva. Sapevo che la mattina
seguente, di buon'ora, dovevano venire alcuni giovani bresciani
indirizzatici da Giuseppe Zanardelli,1 per avere gli scontrini neces-
sari per passare il confine. Di piu dovevo consegnare la Cassa se-
creta, che tenevo in quei giorni, alPamico Carlo Cagnola2 che mi
succedeva nelFincarico.
Rincasai ma non andai a letto subito. Avevo il presentimento,
naturale del resto, che potesse capitare anche in casa nostra una
visita della Polizia da un momento all'altro, forse quella stessa notte.
Diedi un'occhiata alia scrivania di Emilio e alia mia, e bruciai alcune
carte. Nel frattempo, sempre seguendo i presentimenti, mi venne
un pensiero che doveva tornarmi molto utile, e cioe di chiudere
la camera di Emilio, e di nasconderne la chiave. Poi andai a letto.
Un po' prima delPalba fui svegliato di soprassalto da un rumore
di passi nella stanza vicina, ed ecco spalancarsi la porta ed entrare
il mio servitore, che teneva un lume con mano tremante, ed era
seguito da alcune persone. Queste circondarono subito il mio letto ;
spalancai gli occhi e vidi due Commissari e quattro guardie di Po
lizia. Uno dei Commissari mi disse che mi dovevano fare una per-
quisizione, e che mi alzassi.
Mentre frugavano tra le mie carte e tra i miei libri, in ogni angolo
della camera, e persino nelle tasche degli abiti, mi vestii, apersi le
finestre e diedi un'occhiata in istrada. Giu, presso il portone, c'eran
1. Giuseppe Zanardelli (1826-1903), partecipo, giovanissimo, agli eventi del
'48-49, distinguendosi nelle dieci giornate di Brescia. Deputato dal 1860,
fu ministro dei lavori pubblici col Depretis (14 marzo 1876 - 14 novem-
bre 1877), degli interni col Cairoli, nel 1878, e poi a lungo ministro di
grazia e giustizia: a lui si deve la preparazione del nuovo codice penale
(1890). Fu poi presidente del Consiglio (15 febbraio 1901-29 ottobre 1903).
2. Carlo Cagnola (1828-1895) apparteneva anch'egli al gruppo di patriotti
milanesi che faceva capo a Emilio Dandolo. Dopo la liberazione fu depu-
tato per varie legislature e, successivamente (1876), senatore.
RICORDI DI GIOVENTfr 383
due guardie e una carrozza. La carrozza voleva dire, a quei tempi,
che si trattava delParresto,
Uno del Commissari mi domando se eravamo due fratelli. Gli
risposi ch' eravamo tre. Mi parve che questa risposta lo imbaraz-
zasse, perche si mise a confabular piano coiraltro ; poi mi disse di
condurlo nella camera del fratello maggiore.
Quando si trovarono dinanzi a un uscio chiuso e senza cliiave, i
miei personaggi montarono in furore. Mi fecero un monte di do-
mande alle quali risposi che non sapevo nulla, e alia fine ingiunsero
al mio servitore di chiamare un fabbro. II servitore ando, si fece
aspettare un pezzo, poi ritorno dicendo che le botteghe eran chiuse,
e che di fabbri non ce n'era. Nuovi furori dei Commissari, che
finirono colPordinare alle guardie di abbattere Puscio.
— Come mai ? — esclamarono vedendo un letto ancor fatto —
Ma . . . suo fratello ieri sera era in teatro!
— E ne siamo usciti insieme — risposi. — Poi io venni difilato a
casa, ed egli ando al caffe.
II non aver trovato Emilio, e Paver sentito che eravamo tre fra
telli, due fatti non preveduti, fecero confabulare di nuovo i miei
Commissari. Poi, uno se ne ando per chiedere, evidentemente, nuo-
ve istruzioni, e dicendo infatti che sarebbe tornato tra poco; Paltro
principio a fare la sua perquisizione nella camera di Emilio. Intanto
10 m'ero messo a chiacchierare colle guardie, dando loro dei sigari,
passeggiando per le stanze attigue e meditando il mio piano.
A un tratto sento il campanello delPuscio che metteva sul piane-
rottolo. Mi viene un sospetto, e accompagnato da una guardia corro
ad aprire. Vedo tre giovani, capisco ch'erano i tre bresciani mandati
da Zanardelli. Ricordo ancora quelle tre facce che, sbalordite per
aver vedute le guardie in strada, ora si trovavano dinanzi a un altro
poliziotto: devono aver creduto in quel momento d'esser caduti in
trappola. Dissi piano, ammiccando loro : — A piu tardi — e loro giu
in fretta per le scale.
Seppi poi, molto tempo dopo, che li accolse mio fratello Enrico,
11 quale sapeva dove tenevo nascosti gli scontrini e la Cassa, e che
penso lui a tutto.
AlPappartamento che occupavamo allora, si accedeva anche da
una scaletta di servizio, e nella casa c'eran due corti, una che met
teva nella via Cerva e Paltra nella via Monforte. La Polizia era ve-
nuta da via Cerva. Ora, mentre passeggiavo per le stanze, e scam-
384 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
biavo colla massima indifferenza alcune chiacchiere colle guardie,
mi decisi pel mio piano, ch'era di svignarmela prima che arrivasse
il secondo Commissar io. E, detto fatto, approfittando d'un istante
di distrazione delle guardie, passai di soppiatto da un uscio a muro
in una stanza attigua, presi la scaletta, scesi in fretta nella seconda
corte, apersi lo sportello del portone di cui poco prima avevo preso
la chiave, e in un attimo fui in via Monforte.
Albeggiava; le strade erano ancora deserte, e io potei principiare
la mia ritirata con una certa velocita, senza destar sospetti, perche
non incontrai anima viva.
E ora dove vado ? Fu questo il mio primo pensiero, dopo aver
fatto un paio di strade, mentre rallentavo il passo per riavere il
fiato. Dove vado ?
Andr6, pensai, in casa di qualche arnico dove potr6 prowedere
ai casi miei. Mi diressi, di buon passo s'intende, verso la casa
delPamico Costantino Garavaglia; e giuntovi, trovai sul portone
il portinaio smorto, allibito. Mi conosceva, e fattosi vicino mi disse
piano: — II signor Garavaglia e stato arrestato, 1'hanno condotto
via mezz'ora fa.
Mi diressi allora verso casa Carcano, e fu la stessa scena. — Quelli
della Polizia son venuti a prendere don Costanzo questa notte ; —
mi disse tremando il portinaio — ha ben cercato lui di svignarsela,
ma 1'hanno ripreso.
E ora dove vado ? dissi ancora tra me. Faccio pochi passi, ed ecco
il servitore di casa Dandolo che mi disse d'essere in giro per ordine
della contessa, per awisare i Carcano, me ed altri, che nella notte la
Polizia era andata in casa Dandolo a fare una perquisizione, arre-
stando poi il moro Latif.
Lath0 era un giovane negro, che Emilio Dandolo aveva condotto
con se dal suo viaggio in Egitto. La Polizia lo aveva arrestato spe-
rando di sapere da lui come fosse awenuta, in casa Dandolo, la
cospirazione del funerale, e quali fossero i cospiratori. Ma il povero
moretto, come vedremo piu innanzi, rimase in prigione qualche
tempo quasi senza aprir bocca, rispondendo a monosillabi : sapeva
qualche parola di milanese, e ad ogni domanda rispondeva: — Mi
soo nient.
II poveretto mori poco tempo dopo, etico anche lui come il suo
padrone, a cui era grandemente affezionato.
Al servitore di casa Dandolo diedi quelle poche notizie che ho
RICORDI DI GIOVENTU 385
qui riferite; lo incaricai di salutare la contessa, e di dirle che speravo
di non lasciarmi acchiappare.
Mi venne intanto il pensiero di andare, per strade un po' fuor
di mano, dalla contessa Maffei, sicuro che vi avrei trovato tutti
quegli aiuti che mi potevano occorrere. Piu tardi seppi che in quella
notte la Polizia aveva fatti altri arresti, ed altri ne ordino poi tra le
persone che credeva complici nella dimostrazione pel Dandolo.
Tra questi c'erano il marchese Luigi e la marchesa Carolina Cri-
velli, e il marchese Lodovico Trotti, che fuggirono in Piemonte.
La contessa Maffei, che feci svegliare dalla cameriera, mi rice-
vette subito, immaginandosi che ci fosse qualche cosa d'importante
se venivo a quell'ora. In poche parole le raccontai 1'accaduto, ed
essa penso di far chiamare subito il Tenca.
Mentre la contessa si vestiva, e il servitore andava a chiamare il
Tenca, mi ricordai ch'ero uscito di casa senza un soldo in tasca,
circostanza sfavorevole per chi si prepara a una fuga. La contessa,
li per li, non ne aveva molti. A pochi passi, cioe alia Croce Rossa,
abitava donna Laura Scaccabarozzi d'Adda, che avrebbe potuto
supplire, e in due salti fui da lei. Mi ricevette, e mi diede quanto
mi poteva largamente abbisognare, poi si assunse di far awisare
Emilio, e di andare da mia madre per dirle quanto era awenuto,
appena mi sapesse fuori della citta. Ritornato dalla contessa vi trovai
il Tenca, il quale ando a chiamare un comune amico, Tingegnere
Achille Villa, che aveva cavalli e carrozze.
In meno di mezz'ora il Villa fu alia porta di casa Maffei con un
legnetto e un buon cavallo. Partii con lui, di gran trotto, e uscimmo
da Porta Nuova senza che le guardie si occupassero di noi, in
mezzo airandirivieni dei carri e delle carrette che a quell'ora en-
trano in citta. Strada facendo il Villa mi disse che m'avrebbe con-
dotto in una cascina, a due miglia dalla citta, ove abitava un tale, di
cui non rammento piu il nome; mi diede il suo biglietto da visita,
con cui dovevo presentarmi, e quel tale si sarebbe incaricato di
mandarmi al di la del Ticino.
Si giunse alia cascina, ci salutiamo, e in un attimo il legnetto e
1'ingegnere scomparvero.
Eccomi dunque solo, nella vasta corte d'un cascinale, dinanzi a
un cane che abbaiava, e a un branco di oche che scappavano.
Ma poco dopo mi venne incontro anche un uomo, un cavallaro.
— C'e il signor . . . — gli domandai subito.
25
386 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
— II signer . . . ? mio padrone non c'e. £ andato ieri a Milano, e
per alcuni giorni non tornera.
Cio detto il mio cavallaro mi volto le spalle e se ne ando in una
stalla.
Si incomincia male, pensai tra me. E ora che cosa si fa? ...
Dar6 una buona mancia al cavallaro e lo mandero a Milano con un
biglietto per Fingegnere Villa raccontandogli il mio contrattempo.
II cavallaro mi fisso con una cert'aria scrutatrice, poi mi disse
sottovoce: — Lei sarebbe per caso uno di quei giovanotti che vanno
via ... che vanno per di la? — e fece un gesto nella direzione d'oc-
cidente, ossia verso il Ticino.
— Precisamente — risposi.
— Allora, quand'e cosi, aspetti un momento ; attacco un legnetto,
e si parte subito. Eh, ne ho condotti in questi giorni, de* giovanotti
che vanno ad arruolarsi!
— Vedo che siete un brav'uomo.
Poco dopo ero nel legnetto, che s'awio per strade comunali, e
fuor di mano, evitando le strade principali ch'erano per corse da
pattuglie. II cavallaro-cocchiere mi disse che m'avrebbe condotto a
un paesello, di cui non ricordo il nome, ove avrei trovato un altro
legnetto per proseguire.
Cosi viaggiai fin quasi a sera, mutando tre volte il vetturale, il
legno e il cavallo, somministratimi da persone che non conoscevo,
senza spiegazioni, come cosa intesa, e andando sempre per stradette
tortuose e fuor di mano. Che brava gente!
Suirimbrunire, Tultimo dei miei vetturali prese a dirmi: — Vede
quel paese ? £ Lonato Pozzuolo. £ la che lo conduce, e ci siamo. —
Poi interrompendosi di botto, m'indico poco distanti certe punte
di elmi che luccicavano - allora i gendarmi avevano gli elmi alia
prussiana-e mi disse sotto voce:— I gendarmi! scenda subito,
passi la siepe, attraversi in fretta quel campicello . . . vedra in prin-
cipio del paese una vecchia casa . . . ci entri. — Cosi dicendo, volto
il legnetto; io scesi, attraversai la siepe, e via tutt'e due, uno da
una parte, uno dalPaltra.
In pochi minuti giunsi alia vecchia casa, e entrai in un portone.
— Chi e la ? Chi cerca ? — mi chiese una vecchia fantesca facen-
dosi innanzi.
— C'e il padrone di casa? — risposi franco come se lo conoscessi.
— Entri per quell'uscio in cucina, e ve lo trovera.
RICORDI DI GIOVENTtl 387
Seduto sotto la cappa (Tun gran camino, attizzando colle molle
le legna, e fumando la pipa, se ne stava un ometto sulla cinquantina,
che vedendomi mi squadro, si alz6, e mi venne incontro.
— Con chi ho il piacere di parlare ? — mi disse con un fare bo-
nario che ispirava confidenza.
— Con uno — gli risposi — che viene a domandare ospitalita.
II mio ospite mi squadro ancora, e diede una occhiata interroga-
tiva al mio cappello. Bisogna sapere che nel fuggire di casa, quella
mattina, nella fretta m'ero messo in testa un cappello a tuba. Quel
cappello aveva piu volte attirato lo sguardo curioso e un poco
sospettoso dei miei vetturali e di quanti incontravo per le stradette
di campagna.
— lo sono — presi a dire — un giovane che vorrebbe andare di
la ... — e feci quel tal gesto colla mano e col braccio. — Ma c'e di
piu; la Polizia questa mattina e venuta per arrestarmi, e son fug-
gito da Milano. Ora poi, poco fa, una pattuglia di gendarmi po-
trebbe avermi veduto, mentre attraversavo unasiepe e me la davo
a gambe . . .
— Ha fatto bene a dirmelo ; vado a chiudere il portone, e allora
non ci pensi piu, lei e al sicuro.
— Eccomi da lei — continue poco dopo, ritornando in cucina, e
fregandosi le mani. — Dunque lei avra le notizie di Milano . . .
— Innanzi tutto le diro chi sono ... — e andavo cercando nel
portafogli un biglietto da visita.
— Non importa, non importa. Volevano arrestarla? Basta cosi.
Siamo tutti patriotti, e viva Fltalia!
£ cosi che si parlava allora. lo non sapevo chi fosse lui, egli non
sapeva chi fossi io; ma un sentimento reciproco di fiducia, una spe-
ranza, una fede comune ci legava tutti; bastava che si parlasse lo
stesso linguaggio, per sentirci amici, fratelli.
— Dunque a Milano grandi novita ? Si park che ci fu un grande fu-
nerale, che ci fu una grande dimostrazione! — Mi dica, mi racconti.
— Eh, sicuro ; ci ho preso qualche parte anch'io, e forse per questo
mi volevano pigliare. Se desidera delle novita, gliene porto un sacco.
— Benone, benone. Sa che cosa faremo ? Vado a chiamare due
miei amici, ghiotti anche essi di notizie . . . un ingegnere e un
prete, due bravi giovanotti a cui piace la compagnia. Lei ci raccon-
tera le notizie, e passer emo la sera insieme. Ma, a proposito, mi dica
un po* come stiamo a appetito ?
388 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
— Benissimo, — risposi — ho pranzato appunto ventiquattr'ore
fa; poi ho sbocconcellato oggi per strada qualche pezzo di pane . . .
e basta.
— Peccato che lei sia capitato proprio quando avevo finito di ce-
nare. Ma guardiamo nella credenza, forse qualcosa ci sara.
Poco dopo, sulla tavola d'un salottino, accanto alia cucina, il mio
ospite mi imbandi un mezzo piccione, del salame e del cacio; poi
usci a chiamare i suoi due amici. Prima che il padrone tornasse,
la serva aveva collocato sulla tavola quattro bicchieri e sei bottiglie!
Cio, evidentemente, doveva far parte, oltre i discorsi, del program-
ma della serata.
L'ingegnere e il prete, che vennero poco dopo, erano due buoni e
allegri compagni, che amavano la patria, il vino buono e la com-
pagnia.
Se ne fecero delle chiacchiere! Si continue fino a notte inoltrata,
fmche il vino, la stanchezza, i discorsi, m'ebbero rifinito. Non ne
potevo piu; finalmente il mio ospite, che per suo conto avrebbe
continuato a chiacchierare e a bere, mi condusse in una camera
ove e'er a un gran letto, e datami la buona notte mi raccomand6 di
non uscire prima che venisse lui a prendermi.
Quando venne, il sole era gia alto e io dormivo placidamente
ancora. Egli mi disse d'aver fatto intanto un giretto d'esplorazione
nei dintorni, e d'aver osservato che il passaggio del Ticino era di-
venuto ormai quasi impossibile. Le rive del flume erano continua-
mente percorse da pattuglie di ussari ; i barcaiuoli, minacciati con-
tinuamente dai gendarmi, non osavano piu muovere le barche; a
voler passare c'era da prendersi una schioppettata.
— Per 6 lei passera — concluse il mio ospite. — Ne ho fatti pas
sare dei giovanotti! . . . e lei, sangue freddo, e faccia franca!
Poco distante c'era un ufficio di Dogana, con un Commissario di
Polizia. II mio ospite conosceva il Commissario, gli aveva fatto visita
poco prima, e gli aveva detto ch'era arrivato Pingegnere capo d'una
ferrovia progettata, di cui si parlava in quei giorni. Io, dunque, do-
vevo essere Pingegnere, venuto a visitare le vicinanze della Dogana.
Eccoci dunque sulla strada che conduce all'ufficio della Dogana,
ed ecco poco dopo il Commissario, che avendoci veduti mi veniva
incontro a complimentarmi. In quel momento il mio cappello a
tuba tornava opportunissimo, come se Io avessi preso apposta per
la circostanza.
RICORDI DI GIOVENTtl 389
— Dunque e vero che si sta studiando il prolungamento della
ferrovia a cavalli di Tornavento ? — mi chiese il Commissario.
— Si studia, si studia — risposi col fare circospetto di chi non
vuol entrare in particolari.
II Commissario amava discorrere, ed era molto ossequioso; io
serbavo un contegno pieno di dignita.
— Dicevo questa mattina al signor Ernesto, venuto gentilmente
a salutarmi, — prese a dire il Commissario — che sarebbe questa
una bella occasione per me, se potessi impiegare mio figlio nella
Societa, di cui sento ch'ella e I5 Ispettore . . . Non avrei osato rac-
comandarglielo, ma . . . il signor Ernesto Tirinanzi mi ha fatto
coraggio . . .
Sentivo in quel momento, per la prima volta, che il mio ospite
si chiamava il signor Ernesto Tirinanzi.
Accolsi con benevolenza la raccomandazione del Commissario;
gli feci alcune interrogazioni sul figlio ; e levato di tasca il portafogli
presi degli appunti, incoraggiando il mio ossequioso interlocutore
a mandarmi, col mezzo del signor Tirinanzi, un'istanza regolare e
documentata.
Mentre il Commissario si profondeva in ringraziamenti, il signor
Tirinanzi gli domando se il signor Ispettore, cioe io, avrebbe potuto
portarsi per una mezz'oretta sulla riva destra del Ticino per certi
studi che stavo facendo.
— Veramente, — rispose il Commissario — in questi momenti
non si potrebbe . . . pero . . .
— Oh, ma io — soggiunsi — non ho alcuna fretta . . . al caso, piu
tardi, un'altra volta . . .
— No, signor ingegnere, cioe signor Ispettore, se vuol portarsi
sulPaltra riva, per darci un'occhiata, e meglio che ci vada subito,
intanto che non ci sono i soldati. Lasci fare a me, signor ispetto-
re . . . — e chiamo quattro guardie di finanza.
Poco dopo, colle guardie e col signor Tirinanzi, entrai in una
barca della finanza; il Commissario si scuso di non poterci accom-
pagnare, per non abbandonare il posto; e in pochi minuti toccammo
la sponda piemontese.
Cosi io potei compiere la mia fuga, attraversando il Ticino sotto
la scorta delle guardie di finanza.
Fattici i reciproci complimenti per aver bene rappresentata la
nostra commedia, dissi al signor Tirinanzi : — Io sono al sicuro, ma
390 GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
lei deve tornare a casa . . . come Paccomodera col Commissario ?
— II Commissario capira che 1'ho canzonato, ma gli converra di
tacere. Ora, lei dovra andare a Oleggio, poi a Novara, ove prendera
la strada ferrata per Torino. Bisognera per6 che fino a Oleggio
Faccompagni io, diversamente traverso le boscaglie c'e da perdere
la strada.
Si and6 insieme a piedi a Oleggio, poi da Novara mandai subito
un telegramma a Milano per tranquillare mia madre e mio fratello
Enrico.
A Oleggio salutai, abbracciandolo, il signor Tirinanzi, e cercai
alia meglio di esprimergli tutta la mia riconoscenza. Ci scrivemmo
di tanto in tanto per parecchi anni, e ci vedemmo pure qualche
volta. Di lui rammentero sempre la cordialita con cui mi ospit6, e
il sentimento patriottico con cui protesse me, che gli ero scono-
sciuto, come se fossi un suo figlio.
Da Novara1 a Torino mi trovai in vagone con parecchi giovani,
che avevano da poco passata la frontiera, e che tutti narravano le
loro peripezie di quella mattina, o del giorno innanzi. Cantavano
come coscritti, e il « dagliela avanti un passo » era il ritornello co-
mune.
Tra quei giovani c'era un bergamasco, il Caroli,3 allegro e chias-
soso piu di tutti. Povero giovane! chi gli avrebbe allora predette le
terribili vicende a cui era destinato! Dopo la campagna, implicato
in una questione delicata con Garibaldi e percio mal veduto dai ga-
ribaldini, and6 in Polonia col Nullo ;3 prese parte all'insurrezione,
fu fatto prigioniero, e condannato alia fucilazione. II nostro am-
i. Ed. cit., dal cap. xxvn, pp. 443-4. 2. Luigi Caroli, di Bergamo, dopo
aver partecipato alia guerra del 1859, come volontario, si invaghi della
marchesina Raimondi, che doveva sposare Garibaldi. Questo suo idillio
gli suscit6 contro molte inimicizie, che invano egli cerc6 di vincere, sia
combattendo al seguito di Garibaldi nel 1860 e poi ad Aspromonte, sia
ponendo le sue grandi ricchezze al servizio della causa nazionale. Segui
Nullo (vedi la nota 3) in aiuto dei Polacchi insorti: mortogli accanto
Nullo, e fatto prigioniero dai cosacchi, fu dapprima condannato a mor-
te, poi deportato in Siberia, nella prigione di Kadaja, insieme con due
compagni italiani: e ivi mori (8 giugno 1864) e fu sepolto. Di lui e delle
sue vicende, scrisse belle pagine G. C. ABBA, in Ritratti e profili, Torino,
S.T.E.N., 1912, pp. 175-87. 3. Francesco Nullo, di Bergamo (1826-1863),
prese parte alia rivoluzione delle Cinque giornate, alia spedizione dei
Mille, a quella di Aspromonte con Garibaldi. Chiamato come generate
nella Polonia, che combatteva per la sua liberta, mori combattendo a
Krjykavoka.
RICORDI DI GIOVENTtl 3QI
basciatore, Pepoli, gli salvo la vita; ma il Caroli fu deportato in
Siberia, ove poco dopo mori.
Tra i canti e 1'allegria si giunse sul far della sera a Torino. Scesi
all'albergo Europa, ove la fortuna voile che trovassi anche mio fra-
tello Emilio, arrivatoci quella stessa mattina. Ci raccontammo le
nostre awenture, lieti d'essere giunti felicemente alia Mecca, come
si diceva allora, e senza il menomo timore che quello potesse essere
il primo giorno d'un esilio ; tanta era in noi, come in tutti, la fede
che presto casa nostra sarebbe stata libera per sempre.
UGO PESCI
PROFILO BIOGRAFICO
II PESCI stesso, nelle prime pagine che di lui abbiamo riprodotto,
ripercorre gli anni della sua fanciullezza, trascorsa col nonno a
Mercatale, villaggio del comune di San Casciano, e quelli della sua
adolescenza, vissuti a Firenze, dove fu acceso spettatore dei vari
eventi che decisero la fine del granducato e Tannessione della To-
scana al Piemonte. Ugo Pesci era nato a Firenze nel 1842, e gia
dalla famiglia, come poi dagli awenimenti stessi di quel tempo,
aveva tratto sentimenti ed entusiasmi liberali. Proprio per questi
suoi ideali si awio alia camera militare, e, frequentata la scuola di
Modena, ne usci ufficiale nel 1865. La sua statura, la sua solida
complessione lo fecero assegnare ad un reggimento di granatieri,
e come ufficiale dei granatieri partecipo alia guerra del '66 e fu
presente alia battaglia di Custoza. Alia fine della guerra, quando
era appena passato tra i bersaglieri, awenne a lui ci6 che quasi nello
stesso tempo accadde al De Amicis: la passione del giornalista e
dello scrittore lo allontano dalla vita militare e diede un nuovo
orientamento alia sua esistenza. Ma, in realta, dell'esperienza vis-
suta nell'esercito gli rimase non poco: tra Paltro, quel suo costante
lealismo monarchico che gli si presentava come un impegno d'onore
e di disciplina, e che, mentre dette un particolare colore alle sue
pagine, gli impedi anche, assai spesso, di comprendere pienamente
altri atteggiamenti della vita politica italiana. Entrato nella reda-
zione del «Fanfulla», a Firenze, ne fu tra i principali collaborator^
elegante ed arguto : e proprio per questo, oltre che per il suo pas
sato militare, fu prescelto dal giornale perche seguisse, come in-
viato speciale, le truppe italiane che nel '70 movevano alljoccupa-
zione di Roma. E gia il 20 settembre era anch'egli dentro le mura
della citta, a vederne le prime ore di nuova vita: spettacolo per lui
indimenticabile, e che sembra ancora lo commuova e lo esalti nelle
belle pagine del volume in cui fisso i ricordi di quelPawenimento
storico : il volume Come siamo entrati in Roma, pubblicato molti
anni dopo, nel 1895, e che tanto piacque al Carducci.
Come altri giornali, anche il <cFanfulla» si trasferi nella nuova
capitale: e il Pesci, che ne divenne redattore capo, si spost6 an-
ch'egli da Firenze a Roma. Fu, questo, il periodo migliore della
vita giornalistica del Pesci : al « Fanfulla » egli si sentiva animatore ed
396 UGO PESCI
arbitro, anche piu dello stesso direttore, Bino Avanzini, cui del
resto era particolarmente affezionato. Gli ambient! politici, quelli
militari, la stessa Corte erano aperti a lui: re Vittorio prima, re
Umberto poi, gli mostravano benevolenza e simpatia, deputati e
ministri gli erano amici. Ma sapeva anche conservare frequenti con-
tatti con popolani : lieto e fiducioso verso quella Roma che si spro-
vincializzava gradualmente e faticosamente, pur conservando il
fascino delle sue feste e dei suoi costumi: spesso, d'altra parte, tur-
bato dalle prime agitazioni sociali e dal risorgere di moti repub-
blicani.
Quando 1' Avanzini lascio la direzione del « Fanfulla », il Pesci
abbandono il giornale e si trasferi a Milano, a collaborarvi per al-
cuni anni al « Corriere della sera », e poi al « Caffe » e alP« Illustra-
zione italiana». A Milano sposo una figlia del pittore Formis e ne
ebbe una figliuola, Vittoria, che divenne il suo costante pensiero.
Nel 1888, chiamato a dirigere la «Gazzetta dell' Emilia », si sposto
a Bologna, che gli fu poi cara come seconda patria, ne piu se ne
allontano. Furono gli anni d'oro di quel nuovo giornale, tanto vi-
gore, e vivacita d'ingegno e abilita di scrittore, vi profuse il Pesci,
sostenendovi, con i suoi articoli, instancabilmente, il liberalismo
moderato, fino al 1901, quando, sospesa temporaneamente la pub-
blicazione del giornale, egli ne lascio la direzione. Da allora, pur
continuando una sua attivita giornalistica, come collaborator assi-
duo del cc Giornale d' Italia », della « Perseveranza», del « Secolo XX »,
dell' cc Illustrazione italiana», rivolse piuttosto la sua attenzione a
raccogliere in volumi i molti ricordi della sua vita, che per gran
parte si intrecciavano alle vicende italiane svoltesi dalla prima
guerra di indipendenza sino alia fine del secolo. II ripensamento
della sua esistenza gli destava contemporaneamente interessi e cu-
riosita fra storiche e cronachistiche. La sua stessa vita di quegli anni
ne e un segno, che entro a far parte del comitato romagnolo della
Societa nazionale per la storia del Risorgimento e fu tra gli assidui
frequentatori della libreria Zanichelli, dove si riunivano, in po-
meridiane conversazioni, il Carducci, il Panzacchi, il Guerrini,
ripercorrendo ricordi letterari e memorie patriottiche, lamentando
a volte il presente ed esaltando il passato. In quegli anni egli com
pose quasi tutti i suoi volumi: una rievocazione dei molti bolognesi
che avevano combattuto nelle guerre del Risorgimento, una vita del
generale Carlo Mezzacapo, che era stato suo comandante a Custoza,
PROFILO BIOGRAFICO 397
una biografia di Umberto I, una narrazione dei tempi in cui Fi-
renze era stata capitale, e di quelli in cui Roma aveva iniziata la sua
nuova esistenza come centro politico della vita italiana. Ma gia la
sua salute cedeva: nel 1905 dove sottoporsi alPamputazione di un
piede per cancrena diabetica, negli anni successivi non usci piii di
casa: il 13 dicembre del 1908 cesso di vivere.
Nei libri di memorie cui il Pesci dedico gli ultimi anni della sua
vita, si incontrano due tendenze dello scrittore: Tabitudine, ac-
quistata nei lunghi anni di giornalismo, di riferire gli awenimenti
con ampiezza e precisione di particolari, e il desiderio di richia-
mare in vita 1'atmosfera di anni ormai lontani, con i sentimenti, gli
ideali, gli uomini che Pavevano animata. Due tendenze spesso con-
trastanti, che Puna lo fermava ai particolari della cronaca e ad un
procedimento minuto e analitico, mentre Paltra lo invogliava a
panorami piu vasti, e piu liberi da riferimenti particolari. Non sem-
pre egli seppe contemperare o, meglio, fondere in unita le due esi-
genze. Una difficolta, questa, che gia aveva incontrato nel volume
Come siamo entrati in Roma, composto vari anni prima, e nel
quale a pagine nuove e colorite gia si alternavano notizie precise e
minute, fino agli elenchi, posti in appendice, di tutti i reparti pre-
senti airimpresa, e dei morti e dei feriti e dei decorati al valore.
Documento, certo, da servire allo storico, ma che nella sua opera,
non certo storica, apparivano contrastanti con le saporite pagine
sulle dimostrazioni festose del popolo romano. Questo strano im-
paccio riapparve in Firenze capitale, non tanto nel primo capitolo
(Un decennio di prefazione), dove si alternano toni vivi e arguti con
elenchi di uomini illustri venuti da ogni parte d* Italia nella capitale
del granducato, ma soprattutto nei successivi, dei quali solo in pic-
cola parte abbiamo dato un saggio nella nostra scelta. E riapparve,
in forma e misura piu grave, nelPaltro volume da cui abbiamo tratto
alcune pagine che ci son sembrate piu felici e piu significative, e che
si intitola I primi anni di Roma capitale. In esso il Pesci rievoca fi-
nanche le feste, i balli della Corte e delle famiglie aristocratiche
nella Roma di Vittorio Emanuele II, con dovizia eccessiva di par
ticolari, dando non solo minuti elenchi degli invitati, ma anche
descrizione degli abiti stessi delle dame intervenute: e cio vuol es-
sere soltanto un esempio, sia pure il piu significative, del procedi
mento cronachistico di tante delle sue memorie, Ne bisogna tacere
398 UGO PESCI
che questa stessa minuteria pesa sulla prosa del Pesci, ne sgretola
e distrugge non poche pagine, tanto Pingombro dei particolari cro-
nachistici fiacca il suo stile, ne annulla il brio e la disinvoltura,
quella « semplicita e famigliarita calda e non affettata» di cui lo
lodava il Carducci.
Ma questi sono i difetti, i limiti delle sue opere, che pure hanno,
in compenso, non pochi pregi. Da un diverso angolo visuale,
questi pregi, in sostanza, hanno la medesima sorgente di quei di
fetti. Cera nel Pesci, e lo abbiamo gia accennato, un'ansia evi-
dente di rievocare il passato, gli uomini, gli eventi, i luoghi tra cui
era vissuto, di fermare per sempre, nelle sue pagine, il tempo
che se ne era corso via cosi rapido e tumultuoso : di salvarne le linee
maggiori, ma anche le briciole, quelle che il tempo cancella e di
strugge totalmente. Era, del resto, la stessa ansia che guidava molti
studiosi di quel periodo, il quale era ancora, nei piu anziani,
quello del realismo e del positivismo, intento a rianimare il pas
sato anche nei suoi piu minuti particolari. Ne bisogna dimenti-
care che con questo orientamento dei tempi si incontrava il pe-
renne gusto dei vecchi, e tale ormai si sentiva il Pesci, di riandare
lungo i propri ricordi, di stringerli ancora alia propria vita.
Da questi atteggiamenti, molteplici ma concordi, nascono le
pagine migliori del Pesci, quella sua capacita di rendere vivi e pre-
senti gli anni lontani : e ne sono un esempio le pagine sulla caduta
del granducato, quelle delPannunzio a Firenze della presa di Roma/
le altre sulPawento della Sinistra al potere, la morte di Vittorio
Emanuele, di Pio IX, il conclave di Leone XIII. E, piu ancora,
certi rapidi quadri di ambiente fiorentino, certi scorci di vita ro-
mana: stampe ottocentesche disegnate con commossa simpatia,
senza insistenza, ma piuttosto con quelPimplicito distacco che
nasceva dal sentirle, ad un tempo, care ed irrevocabili.
Certo, lo storico del Risorgimento che legga le sue memorie non
puo non restare troppe volte perplesso : in quella folia di piccoli
fatti, di impression! e di passioni labili, la prospettiva dell'insieme
puo apparire falsata; e quelle vicende, contemplate e giudicate con
il costante metro delle sfere ufficiali monarchiche, debbono neces-
sariamente destare, e di continue , il desiderio di panorami meno
unilateral! e piu completi. Vogliamo dire che i ricordi del Pesci
non sono ancora la storia, come, del resto, gia osservava il Carducci
per i ricordi della occupazione di Roma; ma, certo, sono un docu-
PROFILO BIOGRAFICO 399
mento storico tra i piu vivi; e la loro stessa unilateralita, Concorde,
d'altra parte, con tanta parte dell'opinione pubblica di quei tempi,
accresce il loro valore documentario, tanta e la sincerita e la fede
dello scrittore. E in cio appunto, oltre che nei molti pregi letterari,
trova il suo appoggio la resistente vitalita che ci e sembrato di scor-
gere nelle sue pagine.
Per le opere del Pesci, si veda anzitutto: UGO PESCI, Come siamo entrati in
Roma: ricordi, con prefazione di G. Carducci, Milano, Treves, 1895. Una
nota edizione popolare dell'opera pubblic6 il Treves nel 1911. Recente-
mente il libro e stato ristampato, con la prefazione di G. Carducci e una
presentazione di A. Trombadori, Firenze, Parenti, 1956. Si vedano inol-
tre: II re martire: la vita e il regno di Umberto I: date, aneddoti, ricordi
(1844-1900), Bologna, Zanichelli, 1901, ristampato in edizione economica
nel 1902; Firenze capitale (1865-1870). Dagli appunti di un ex-cronista,
Firenze, Bemporad, 1904; I bolognesi nelle guerre di indipendenza nazionale,
Bologna, Zanichelli, 1906 ; Iprimi anni di Roma capitale (1870-1878), Firen
ze, Bemporad, 1907; II gener ale Carlo Mezzacapo e il suo tempo. Da appunti
autobiografici e da lettere e documenti inediti, Bologna, Zanichelli, 1908. Delia
sua produzione minore, oltre alia collaborazione ai giornali e a lie riviste di
cui abbiamo dato notizia nel Profile, e utile ricordare tre brevi lavori:
Vittorio Emanuele, il re liber atore, numero umco (per 1'inaugurazione del
monumento a Vittorio Emanuele II a Milano, il 24 giugno 1896), Milano,
Treves, 1896; Uassociazionepro esercito ai coscritti, Milano, Tip. A. Codara,
1907; G. Carducci e I' esercito (commemorazione fatta al Circolo ufEciali in
Bologna), Bologna, Tip. P. Neri, 1907, i quali scritti documentano la sua
costante fede militare e monarchica.
Non esiste una biografia esauriente del Pesci. Notizie su lui si possono rac-
cogliere, anzitutto, da una rapida nota premessa alia citata edizione 1911
del volume Come siamo entrati in Roma, e poi da giornali e riviste, special-
mente in occasione della sua morte: e di alcuni di essi diamo successiva-
mente Pindicazione.
Sul Pesci scrittore e giornalista danno giudizi e informazioni : G. CARDUC
CI nella citata prefazione, ristampata in Opere, xix (edizione nazionale),
pp. 45 sgg. (le relazioni fra il Carducci e il Pesci sono ancor meglio docu-
mentate dal copioso epistolario del poeta); A. D. V. in una recensione al
volume Firenze capitale, in «Archivio storico italiano», xxxvn (1906), serie
5% PP- 479-8o; la redazione del « Corriere della sera», 14 dicembre 1908; la
redazione dell'« Illustrazione italiana», 20 dicembre 1908. Si veda, infine,
il saggio, gia citato, di A. Trombadori, che, pur non fermandosi diretta-
mente sul Pesci, esprime, di scorcio, alcuni giudizi su lui e la sua opera.
DA ccFIRENZE CAPITALS (1865-1870) »
UN DECENNIO DI PREFAZIONE1
(1855-1865)
I primi ricordi chiari e precisi della mia vita, che escono daU'am-
bito ristretto delle pareti domestiche, si riferiscono al 1854, vale
a dire ai primi tempi della guerra di Crimea.2 Mio nonno, lasciando
la biblioteca Magliabechiana,3 dove aveva reso utilissimi servigi a
molti eruditi e studiosi del tempo suo, s'era ritirato dal 1850 a vi-
vere in un villaggio della Val di Pesa, dove io passavo con lui tutto
il tempo delle vacanze scolastiche. In quel villaggio - Mercatale,
nel comune di San Casciano - capito neir estate del 1854 un vendi-
tore girovago di libri, storie e carte geografiche. Mio nonno ne
compro una grande, a colon, del «teatro della guerra d'Oriente»,
contornata da piccole vedute di citta e da ritratti dei generali belli-
geranti, fra i quali colpi pill di tutti la mia fantasia di fanciullo -
non avevo ancora otto anni-quello di Omer pascia;4 probabil-
mente a causa del fez rosso che portava in testa.
A Mercatale arrivava giornalmente, per mezzo del procaccia, una
copia del «Monitore Toscano»,s nel quale, a comodo suo e con il
permesso dei superiori, P abate Casali riportava le notizie della guer
ra, tagliandole dalla «Gazzetta di Genova».6 Quella copia, diretta
alia farmacia, faceva il giro delle case de' notabili. II nonno era uno
de' primi ad averla nelle mani, e mi pare ancora di vederlo occu-
i. Questo brano corrisponde alle pp. 5-57 dell' edizione da noi seguita.
2. guerra di Crimea: Francia e Inghilterra, alleatesi con la Turchia, iniziaro-
no ufficialmente la guerra contro la Russia alia fine d'aprile del 1854. La par-
tecipazione del Piemonte fu approvata dal Senate il 3 marzo dell'anno suc
cessive. 3. la biblioteca Magliabechiana : Antonio Magliabechi (1633-1714)
aveva stabilito per testamento che la sua ricchissima biblioteca privata fosse
aperta al pubblico : e cosi, nel 1747, si inaugur6 la Magliabechiana, che, gra-
dualmente arricchitasi, entro poi a far parte (1861), come nucleo essenziale,
dell'odierna Biblioteca nazionale di Firenze. 4. Omer pascia: generale
turco, che poi acquisto particolare fama per avere sostenuto e respinto
1'attacco dei Russi a Eupatoria, nel febbraio del 1855. s.«Monitore
Toscano»: questo quotidiano, organo ufEciale del governo granducale, si
era cominciato a stampare il 6 novembre 1848, come continuazlone della
«Gazzetta di Firenze », e dur6 fino al 31 dicembre 1862. Ne fu direttore,
fino al 1859, 1' abate Giulio Cesare Casali. 6. La ^Gazzetta di Geneva*
fu tra i piu important! giornali del Risorgimento. Nata con questo no-
me nel 1805, fu dapprima napoleonica; poi, caduto Napoleone, divenne
organo ufBciale del governo piemontese, adeguandosi man mano ai suoi
orientamenti politici. Gesso di esistere nel 1878.
26
402 UGO PESCI
pato a cambiar posto agli spilli con banderuoline di varii colori,
che gli servivano ad indicare, chi sa con quanto ritardo, la posizione
degli eserciti combattenti su la famosa carta distesa e fermata sopra
un tavolino.
Non capivo nulla della «questione d'Oriente»: ma il vedere as-
sorto nella strana operazione un uomo abitualmente dedito a tutt'al-
tri studii, mi faceva intravedere che awenisse qualche cosa di straor-
dinario. In tale supposizione indefinita mi confermo 1'udire alcune
mezze parole di speranza e di desiderio, delle quali ho capito molto
piu tardi il vero significato, a proposito dei piemontesi, della loro
partenza per la guerra e della battaglia della Tchernaja.1
In quel villaggio di mille anime, come in tutti gli agglomeramenti
di popolazione, si muoveva e si agitava un microcosmo, un piccolo
mondo, con tutti i pregi ed i mancamenti del mondo grande. La
maggioranza si componeva di un gruppetto di piccoli possidenti
e bottegai, indifferenti a quanto non aveva relazione immediata col
prezzo delle derrate ed i loro affari. II medico condotto, di principii
avanzati,2 non aveva fiducia nella politica del Piemonte perche
politica «regia». II priore, come quasi tutti i preti toscani d'allora -
se pur non dediti esclusivamente al paretaio ed alia calabresella3 -
esercitava caritatevolmente e con tolleranza il suo ministero, pre-
dicando piu con Tesempio che con la parola, rispettando scrupolosa-
mente il governo costituito,4 ma non nascondendo sentimenti ed
aspirazioni italiane. Nessuno a Mercatale pensava certamente ad
una rivoluzione, e tanto meno alFunita dj Italia: ma pure posso
affermare che nella farmacia di Sandrino Montecchi, giu a sinistra
in fondo alia piazza, ho intraveduto vagamente, ad otto o nove anni,
che la parola « Italia » era qualche cosa piu di una espressione geo-
grafica.
In me, come in tutti i ragazzi di quel tempo, quelPembrione
di sentimento di nazionalita germoglio lentamente, con Feta e con
gli studi fatti alle scuole pubbliche. Prima d'aver compiuti i nove
anni, da una scuola privata, in piazza Madonna, tenuta da due si-
i . a proposito . . . Tchernaja : il corpo di spedizione piemontese contribul
molto valorosamente, insieme con i Francesi, all'esito vittorioso della bat
taglia della Cernaia (16 agosto 1855). 2. avanzati: cioe, repubblicani,
mazziniani. 3. al paretaio ed alia calabresella: alia caccia e al gioco. II pa
retaio e il terrene destinato a stendervi le reti per prendere gli uccelli;
la calabresella e un gioco di carte, con tre giocatori, simile al tressette.
4. il governo costituito: il governo del granduca Leopoldo II di Lorena, che
regno in Toscana dal 1824 al 1859.
FIRENZE CAPITALS (1865-1870) 403
gnore con i metodi degli Asili Infantili gia da un pezzo in onore
a Firenze, ero passato alia prima classe ginnasiale del Liceo Fio-
rentino.1 L'istituto, fondato con la legge del 1852^ che toglieva
ai padri Scolopi la esclusivita dell'insegnamento secondario, aveva
la sua sede in quel palazzo, che, in piazza Santa Croce, sta dirim-
petto alia Chiesa, allora proprieta del conte Luigi Serristori gen-
tiluomo fiorentino d'antica stirpe, stato generale in Russia ai tempi
napoleonici, e padre del conte Alfredo che faceva allora la campa-
gna di Crimea nell'esercito Sardo, e fu poi, per molte legislature,
deputato per il collegio di Pontassieve.3
L'istruzione che s'aveva nel Liceo non si sarebbe potuta dire
liberale, dando a questa parola il significato che le si da moderna-
mente: si poteva bensi ritenere liberalissima tenendo conto de'
tempi e del governo d'allora, che, per necessita ligio all' Austria,
era bensi tollerante non soltanto per i sudditi ma anche per gli esuli
di altri stati italiani. I maestri - allora non v'era Pusanza di dare del
« professore » a tutto pasto - sinceramente affezionati al loro paese,
s'ingegnavano senza ostentazione ad educare a buoni sentimenti
Panimo dei discepoli, che di loro hanno generalmente conservato
grata memoria.
Nei primi anni c'insegnava grammatica inferiore don Niccola
Anziani,4 giovine prete della Garfagnana, poi divenuto biblioteca-
1. Liceo Fiorentino'. questo primogenito liceo di Firenze fu istituito con
decreto del 30 settembre 1853 e si apri nel novembre. II 4 marzo 1865
il governo italiano gli assegn6 il nome di Liceo Dante. Vedi F. MAG-
GINI e G. MISCHI, Cenni storici sul Liceo-Ginnasio Dante, Firenze 1925.
2. la legge del 1852 : la legge granducale del 30 giugno 1852 riconosceva la
liberta dell'insegnamento privato, stabiliva che vi fossero licei nelle princi-
pali citta della Toscana, e che fossero mantenuti dairerario con 1'apporto di
vari altri contributi. Vedi G. BALDASSERONI, Leopoldo II granduca di Toscana
e i suoi tempi, Firenze 1871, p. 474. 3. II conte Luigi Serristori (1793-
1857) si reco in Russia nel 1819, entr6 al servizio dello zar, raggiunse il
grado di colonnello. Partecipo alia guerra del 1828-29 contro la Turchia.
L'accenno ai tempi napoleonici e dunque inesatto. Sulla figura del Serri
stori, i suoi viaggi, la parte da lui avuta nelle vicende toscane dal 1847
al 1849, vedi A. SAPORI, Luigi Serristori, Firenze 1925; Alfredo Serri
stori partecipo alia guerra di Crimea come aiutante di Omer Fascia. Com-
batt6 poi nell'esercito sardo, nelle guerre del 1859, del 1 860-61, del 1866.
Fu deputato del collegio di Pontassieve per cinque legislature e, successiva-
mente, di uno dei collegi di Firenze. 4. L'abate Nicola Anziani insegn6
grammatica nel Liceo fiorentino dal 1853 al 1861. Su lui e sugli altri maestri
qui sotto ricordati, vedi anche le belle pagine di rievocazione (I primi
tempi del Liceo fiorentino)^ in T. GUARDUCCI, Studi e ricordi, San Casciano
1902.
404 UGO PESCI
rio della Laurenziana; geografia e storia, Silvio Pacini,1 liberalis-
simo, che ha raccomandato la propria fama a parecchi libri scola-
stici reputatissimi; aritmetica il prof. Merlo,2 oggi Accademico
della Crusca, e fino a pochi anni sono ancora insegnante nel Liceo
Dante ; umanita e rettorica don Marcello Fornaini,3 romagnolo -
Marcellus Fornainuspraesbyter, come egli firmava - latinista di bella
fama. Era direttore del ginnasio e liceo un altro prete, il canonico
Girolamo Carloni,4 uomo mite, pieno di affettuose premure per
tutti noi; e prete, naturalmente, era il catechista, don Giovanni
Metzger, che ogni giovedi ci faceva una lunga ma non seccante
lezione, prendendo per testo il Catechismo di perseveranza del
Gaume.5
La prevalenza numerica degli ecclesiastici non dava all'insegna-
mento ed alia nostra educazione alcun carattere di bigottismo; e
quantunque la legge del Granducato, citata sopra, dasse ai vescovi
un diritto di vigilanza sugli istituti secondari, nessuno si accorse mai
che tale diritto fosse realmente esercitato. L'insegnamento reli-
gioso era impartito con giusta misura: il regolamento imponeva
di compiere tre o quattro volte alFanno alcune pratiche religiose;
ma, piu che ad alcun mezzo di coercizione, Posservanza del regola
mento era affidata alia buona fede degli allievi e delle loro famiglie.
II governo granducale perdurava nel seguire il metodo del vi-
vere e lasciar vivere, del quale pare si trovasse contento: ed il
metterlo in pratica gli riusciva agevole per Pindole dei tempi e del
popolo toscano. La ricchezza pubblica era scarsa; ma pochi i bi-
sogni e pochi i gravami: per conseguenza alto il valore del denaro.
Semplice e non fastoso anche per i signori, era facile e senza gravi
i. Silvio Pacini , laico, patriotta, autore di manual! di storia e geografia,
e anche di antologie e racconti ad uso delle scuole. 2. Francesco Merlo
insegn6 matematica nella sezione ginnasiale del Liceo fiorentino dal 1853
al 1859, e poi nel Liceo fino al 1901. 3. L'abate Marcello Fornaini in-
segn6 «retorica inferiore» nel Liceo fiorentino dal 1853 al 1870. 4. II
canonico Girolamo Carloni (1800-1882) era gia stato professore di discipline
filosofiche nel liceo militare «Arciduca Ferdinando». Presiede il Liceo
fiorentino dal 1853 al 1859, quando si ritir6 e gli fu sostituito F. S. Or-
landini (vedi la nota 6 a p. 432). II Carloni pubblic6, tra 1'altro, una gram-
matica latina svolta in forma di dialoghi. 5. Jean-Joseph Gaume (1802-
i879)> teologo e scrittore francese, noto soprattutto per la sua polemica
contro lo studio dei classici, che considerava causa dei mali morali, politici
e sociali del proprio tempo. Tra le molte sue opere, la piu popolare fu il
Catechisme de perseverance, apparso a Parigi nel 1838, ristampato nume-
rose volte, e assai diffuso, in traduzione, anche in Italia.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 405
fasti dii il vivere per chi, appena discretamente proweduto, si
contentava del proprio stato ; ed era ignota allora quella eccitabilita
morbosa che adesso, da un momento alPaltro, per cose da nulla,
suscita o deprime le masse, le quali restano poi indifPerenti ed apa-
tiche, per awenimenti di molto maggiore importanza.
Come s'erano rassegnati, quantunque molti contro voglia, a
veder richiamare il Granduca nel 1849, e Per fc>rza anche ad avere
gli Austriaci in casa, i Toscani si rassegnarono filosoficamente, dal
1852 al 1857, al flagello della crittogama, che prima intristi, poi
distrusse intieramente le vigne toscane; con danno grandissimo dei
possidenti e d'una popolazione awezza a comprare con 304 crazie
- 21 o 28 centesimi - un fiasco di vino buonissimo e non intrugliato.
Con stoica serenita sostituirono al vino strane bevande artificiali o
pipiona di Spagna; e con la stessa serenita si rassegnarono al colera
che, nel 1855, fece nel granducato 26.000 vittime sopra 1.800.000
abitanti.
Benche visitassero Firenze e vi dimorassero fmo da allora molti
stranieri, portandovi gli agii e le abitudini dispendiose di paesi
molto piu ricchi del nostro ; benche vi si trovassero parecchi ita-
liani d'altre parti della penisola, ne vi fosse penuria nel patriziato
fiorentino di famiglie ricche e signorilmente ospitali, Firenze con-
servava grande parsimonia e sempHcita nelle consuetudini, nei
gusti, nei desiderii; e v'era comune piu che altrove la grande virtu
di non fare un passo senza aver misurato prima se la gamba era
lunga abbastanza.
Delia semplicita, si potrebbe anche dire della ingenuita dei gusti
della Firenze dj allora davano saggio le pubbliche solennita e gli
spettacoli graditi alia popolazione. A ripensarci oggi, pare impossi-
bile che, nella seconda meta del XIX secolo, in una citta reputata
colta e gentile, nella quale fiorivano eletti ingegni ed era vivo
Pamore e schietto il gusto per 1'arte, il pubblico di ogni ceto, non
la sola plebe, si potesse divertire alia corsa de7 barberi,1 a quella de'
cocchi, alia fiera delle rificolone2 in via de' Servi, ed alia processione
del Corpus Domini.
i. corsa dey barberi: di questo divertimento, che si ripeteva a Firenze varie
volte nell'anno, si pu6 vedere una vivace descrizione in G. CONTI, Firenze
vecchia, Firenze, Bemporad, 1900, pp. 587-99- 2. fiera delle rificolone:
grande festivita del 7 settembre, nata dalle vivaci canzonature che i
Fiorentini facevano alia gente del contado e della montagna accorsa in
citta per partecipare alia festa religiosa del giomo dopo, II vocabolo nacque
406 UGO PESCI
Ho rivisto dopo il 1870 la corsa de' Barberi a Roma, e m'e
sembrata uno spettacolo barbaro per i nostri tempi e per una citta
civile, ma pur singolare e non senza attrattive. Per lo meno, a
Roma, partendo da piazza del Popolo, i cavalli corridori infilavano
per una strada diritta fino al palazzo di Venezia, dove erano fer-
mati alia (cripresa de* Barberi »: sicche gli spettatori ben situati
potevano seguirne con lo sguardo, per lungo tratto, la corsa sfre-
nata. A Firenze, invece, i barberi partivano dalla porta al Prato,
e dopo aver percorso sul Prato ed in Borgognissanti un tratto di
strada diritto ed abbastanza largo, penetravano per via della Vigna
Nuova nel laberinto di viuzze delPantico centro di Firenze, da
pochi anni scomparse, e di li, traversata via Calzaioli, proseguivano
per il Corso, il canto de' Pazzi, Poscuro e stretto Borgo degli Al-
bizi, il mercatino di San Piero, il canto alle Rondini, via Pietra-
piana, e borgo la Croce fino alia porta: percorrevano cioe tre buoni
chilometri di strade strette e contorte, con sbocchi mal guardati da
tutte le parti, e lungo quelle strade la popolazione fiorentina e
quella del contado si affollavano pigiandosi contro le case, sulle so-
glie delle botteghe, alle finestre e sui tetti, in modo tale, da far
credere rimasti a casa i soli ammalati.
Si correva il palio per le feste di San Giovanni Battista, protet-
tore di Firenze, cioe nel giorno del Santo ed in quello di San Luigi;
poi in quello di San Vittorio.1 La corsa era preceduta dal corso di
gala, nel quale le famiglie patrizie fiorentine od infiorentinate fa-
cevano sfoggio di quei ccservizi di gran gala)) de* quali si sarebbe
perduto il ricordo se la corte italiana non li adoperasse nelle so-
lenni occasioni.
Una berlina tutta a cristalli, foderata di damasco o di raso, do-
rata e dipinta al di fuori, con ornamenti d'argento o di bronzo do-
rato agli angoli ed agli sportelli, era tirata da due ed anche da quat-
tro poderosi cavalli, guarniti di fiocchi, di cordoni e di nappe di
seta, con i finimenti quasi coperti da pesanti ornamenti di metallo.
Le redini erano grossi cordoni di seta, e le adoperava abilmente
un cocchiere, con cappello a tre punte e parrucca bianca a coda, li-
da una storpiatura popolare di « fierucolone ». Si chiamarono cosi anche i
fanali di carta con dentro un lumino, che arieggiarono dapprima figure di
popolane, e si portavano in giro su una pertica con gran chiasso. Vedi
G. CONTI, op. cit., pp. 606-10. i. le feste . . . Vittorio: rispettivamente,
il 24, il 21 giugno e il 21 maggio.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 407
vrea gallonata su tutte le cuciture, calze di seta carnicina, e scarpe
con fibbie d'argento, troneggiante in mezzo ad un alto sedile co-
perto da ricco panneggiamento a frangie d'oro e d'argento con lo
stemma della « eccellentissima casa». Dietro la berlina stavano ritti
su di ima predella, reggendosi a larghe stafTe di cuoio coperte esse
pure di galloni e di frangie, tre staffieri vestiti come il cocchiere;
e quando la vista di quei sei polpacci allineati e coperti di seta invo-
gliava qualche monello a punzecchiarli con uno spillo fermato ad
un leggiero bastoncino, provocando movimenti subitanei quanto
grotteschi, anche le persone serie si permettevano una risatina,
senza paura di scapitare in reputazione.
La maggioranza della popolazione si divertiva ad ammirare i
« servizi » ed a riconoscere le faccie note di chi era dentro le berline,
o quelle, ancor piu note al popolino, de' cocchieri delle grandi case,
od altri segni esteriori meno variabili; come i grandi stemmi d'ar
gento con il bove e la corona reale dei Poniatowsky,1 le tre lune
crescenti di casa Strozzi, il cacdatore barbuto e spennacchioso del
principe Demidoff, le livree ricchissime e vistose del marchese Pan-
ciatichi Ximenes d'Aragona, di casa Corsini, di casa Alberti; e
molti spettatori si scambiavano un'occhiata espressiva quando com-
parivano le livree del cavalier priore Emanuele Fenzi,2 verdi, a
risvolte rosse guarnite di larghi galloni d'argento.
II Granduca, dopo aver percorso in carrozza con Timperiale
reale e numerosa famiglia un breve tratto di strada dal ponte alia
Carraia al principio di via del Prato - tutto il giro del corso di gala
lo faceva in altre occasion! -andava a veder passare i barberi da una
bella loggia vicino all'antica Porticciola,3 quasi di rimpetto alia casa
rossa, di stile gotico, eretta in quel tempo dall'architetto e scultore
milanese Ignazio Villa, con grande meraviglia e scandalo de5 bon-
gustai fiorentini. Per ospitare due o tre volte alPanno il Granduca
e la Corte, era stata costruita quella loggia - su disegno del cav.
Luigi de Cambray Digny, padre del senatore ed ex ministro conte
Luigi Guglielmo ~4 tutta in pietra serena, con alte e svelte co-
i . la corona reale dei Poniatowsky : per ricordare che Stanislao Poniatowski
aveva regnato in Polonia (dal 1764 al 1795)- 2. Emanuele Fenzi (1784-
1875), banchiere fiorentino, eletto nel 1849 alia Costituente toscana.
Nel 1860 fu nominate senatore. La livrea deUa sua casa richiamava al pen-
siero la bandiera tricolore. 3. antica Porticciola: di questo e di tutti gli
altri luoghi ricordati, qui e altrove, non e possibile dare notizia. 4. Luigi
Guglielmo di Cambray Digny (1820-1906) era figlio del sopraricordato
408 UGO PESCI
lonne, ornata nell'interno da pitture murali del prof. Luigi Ade-
mollo; ora incorporata nella casa attigua che serve ad uso di al-
bergo, e dallo spirito pratico moderno divisa in tre o quattro ca-
mere da cinque lire al giorno.
Di li il granduca, la granduchessa e gli arciduchi stavano a
veder sgombrare la strada prima della corsa, e gli impiegati delle
pubbliche amministrazioni, da alcuni palchi riservati ad essi, eretti
fra la casa Villa, ed il « panorama di Napoli» oggi officina dello
scultore in legno Barbetti, potevano compiacersi dello spettacolo
della corte che si divertiva. Lo scoppio di un mortar etto dava il se-
gnale della partenza : subito dopo passavano rapide come un lampo
sette od otto rozze, con i fianchi tormentati dalle perette* ed un
gran numero scritto malamente con il gesso sul quarto posteriore.
Appena passate le rozze, il pubblico si affollava sotto la loggia
granducale da dove il granduca e la granduchessa si « benignavano »
di lasciar cadere su quella folia i loro elenchi de' cavalli corridori,
stampati su carta distinta dalla tipografia Cambiagi in Condotta,
per il gusto di vedere centinaia e centinaia di braccia protendersi
in alto, e centinaia di persone darsi degli spintoni, e quasi azzuf-
farsi contrastandosi il possesso di quei due pezzi di carta.
La corsa de' cocchi parrebbe oggi spettacolo troppo primitive
anche in una modesta borgata. Piazza Santa Maria Novella si
trasformava in anfiteatro, circondata da rozzi palchi di legno, dove
si prendeva posto pagando un prezzo variabile secondo che gli spet-
tatori erano piu o meno lungamente esposti al sole. Addossati al
porticato di San Paolo, sul prolungamento di via della Scala,
v'erano, in mezzo, il palco della corte granducale, a destra ed a
sinistra quelli destinati ai magistrati, ufficiali, impiegati ec. ec. ed
alle loro famiglie. All'imboccatura di via della Scala si schierava
una compagnia di veliti ; di fronte, su gli sbocchi di via del Sole e
di via dei Fossi, uno squadrone di cacciatori a cavallo, con Telmo
eguale a quello della cavalleria pesante Sarda. Sotto i palchi di
cav. Luigi, molto noto come architetto. II figlio ebbe parte attiva nelle
vicende del Risorgimento. Fu nominate senatore, subito dopo il plebiscite,
il 23 marzo 1860. Trasferita la capitale a Firenze, fu sindaco della sua citta.
Nel gabinetto Menabrea fu ministro delle finanze, dairottobre 1867 fino a
che al Menabrea fu sostituito il Lanza (15 dicembre 1869). i. La_pe-
retta e una « pallottola di metallo, fornita di alcune punte, la quale si pone
sul dorso o sulla groppa del cavallo, che corre il palio, acciocch6 sia piu
celere al corso» (Tommaseo-Bellini).
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 409
fianco al granducale stavano le guardie nobili, con la uniforme di
gala color rosso scarlatto, pantaloni di pelle e stivali; bei giovanotti
di famiglie nobili o facoltose, ben montati, che si compiacevano
di stimolare la irrequietezza dei loro cavalli, ed agli occhi di noi ra-
gazzi apparivano - ahi, spesso vana apparenza! - il nee plus ultra
dell'ardimento e della baldanza militare. Nella piazza intieramente
sgombra, intorno alle due guglie fattevi inalzare a bella posta, gi-
ravano quattro bighe alia romana - i cosiddetti cocchi - inorpel-
late sconciamente e tirate ciascuna da due cavalli sbilenchi, guidati
da un uomo ritto nella biga. Ciascun uomo aveva in testa la classica
galea . . . di cartone, e sulle spalle uno sciatto paludamento ro-
mano del colore della biga e della bardatura de' suoi cavalli, cioe
azzurro, verde, rosso o bianco. Le quattro bighe facevano in gara
tre giri, senza affannarsi troppo ; qualche volta si urtavano con le
mote o trabaltavano volendo fare la voltata troppo stretta: ma
generalmente la gara non aveva tragico fine, ed il popolino ne de-
duceva che i quattro fossero d'accordo riguardo al resultato.
Per San Giovanni v'erano anche i fuochi artificiali sul Ponte alia
Carraia : per P Ascensione i fiorentini andavano a torme a far cola-
zione su i prati delle Cascine ed a cercarvi il ccgrillo canterino));1
per la festa del Corpus Domini una numerosa processione faceva un
lungo giro per le principali ma ancora strette strade della citta,
coperte da tendoni tirati da una casa alPaltra per riparare dai mole-
sti raggi del sole di giugno il granduca Leopoldo II che, a capo sco-
perto, e indossando la cappa magna di gran maestro del «Sacro
militare ordine equestre di Santo Stefano papa e martire» seguiva
il baldacchino sotto il quale monsignor Minucci2 arcivescovo di
Firenze portava il Santissimo. Seguivano il granduca altri cavalieri
in cappa magna, ed il gonfaloniere di Firenze, marchese Dufour
Berte, in zimarrone di damasco rosso e teletta d'oro, che spingeva
la venerazione per il suo sovrano fino a rassomigliarlo nell'andatura
dinoccolata: poi le guardie nobili, la magistratura, e altri ecclesia-
stici e militari.
I fiorentini di quel tempo preferivano economicamente agli altri
spettacoli quelli che si potevano godere gratis et amore Dei. Uno
i. il «.grillo canter mov. tradizionale festa di Firenze, che ancora si celebra
nel giorno dell' Ascensione. 2. Ferdinando Minucci fa arcivescovo di Fi
renze dal 1828 al 1856, anno della sua morte. Gli successe F arcivescovo
Giovacchino Limberti, fino al 1876.
4IO UGO PESCI
speculator e azzardoso, tal Nanni, chiese ed ottenne di circondare
con palchi, solidamente costruiti senza risparmio, la nuova piazza
di Barbano, o Maria Antonia dal nome della granduchessa1 - oggi
piazza delPIndipendenza - per dare in quella piazza spettacoli di
passeggiate storiche, con centinaia e centmaia di persone, cavalli e
carri tirati da buoi, con i costumi e le bandiere delle antiche Capitu-
dini fiorentine o corporazioni d'arti e mestieri, con movimenti co-
reografici ed altri giuochi i quali dovevano, secondo i suggerimenti
delTimaginoso abate Fioretti,2 rinnuovare in qualche modo o per
10 meno ramrnentare gli spettacoli pubblici fiorentini del XIV e
XV secolo. L'impresario aveva probabilmente fatto assegnamento
sulPamore dei fiorentini per le tradizioni patrie ; ma non seppe calco-
lare il rapporto aritmetico fra quell'amore e la voglia di spendere.
11 vasto recinto si riempi due o tre volte di spettatori attratti dalla
nuovita; poi il pubblico non si lascio piu vedere, e Pimpresario
ando a finire malamente i suoi giorni nelPArno.
II 24 maggio 1855 termino Poccupazione delle truppe austria-
che. Ricordo i ramoscelli di mortella e quercia che i soldati infila-
vano sugli shakd3 nei giorni di parata; le sciarpe gialle a lunghe
nappe che, in servizio e nei giorni di gala, gli ufficiali giravano piu
volte attorno alia vita sulle bianche ed attillate divise, con le quali
stavano volentieri a pavoneggiarsi sul marciapiede del caffe Doney,
o quasi di rimpetto a poca distanza, su la porta del Casino dei No-
bili. Ricordo i pantaloni celesti de' reggimenti boemi ed ungheresi,
stretti alia gamba e chiusi negli stivaletti alti, che avevano fatto dare
il nome dipolpini ai soldati di quelle nazioni, dei quali si componeva
la guarnigione di Firenze; e mi ricordo d'aver creduto io pure a
quel tempo alia leggenda popolare secondo la quale quei poveri dia-
voli si nutrivano usualmente di candele di sevo.
Nei novembre del 1856 Parciduca ereditario Ferdinando4 spos6
la principessa Anna di Sassonia, figlia del dantista re Giovanni,5
i. Maria. . .granduchessa: vedi la nota i a p. 160. 2. L* abate Stefano
Fioretti, direttore artistico deirAccademia filodrammatica dei Fidenti, or-
ganizzatore attivissimo di rappresentazioni e spettacoli. 3. shako: vedi la
nota a p. 217. 4. Ferdinando di Lorena (1835-1908), figlio di Leopoldo
II, abbandono col padre la Toscana il 27 aprile 1859. Si considero erede
e successore col nome di Ferdinando IV, assunto nei luglio, all'abdicazione
del padre; ma, nonostante trame e tentativi, non rivide piu la Toscana.
5. II re Giovanni di Sassonia (1801-1873), salito al trono nei 1854, fu uomo
di vasta cultura, soprattutto famoso per i suoi appassionati studi dante-
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 411
e sorella della principessa Elisabetta, gia vedova del duca di Ge-
nova, e madre della principessa Margherita1 e del principe Tom-
maso di Savoia, de' quali Parciduca divento zio. Egli aveva ventun
anno ; la principessa venti. Ferdinando non aveva saputo emergere
in nulla e non era amato : la principessa, invece, arrivando, trovo la
popolazione benevolmente disposta verso di lei, e la benevolenza
aumento quando i fiorentini Pebbero veduta, awenente, pallida,
con le apparenze di non florida salute. L'arciduchessa ereditaria
parve predestinata a non esser felice, e quando mori,2 dopo soli
ventisei mesi, il compianto fu universale.
Si fecero grandi feste per quelle nozze. L'illuminazione di Fi-
renze fu veramente splendida. Le finestre del palazzo Ferroni, a
Santa Trinita, allora sede del Municipio, erano tutte illuminate a
trasparenti dipinti maestrevolmente da reputati pittori. Allo sguardo
di chi riusciva ad affacciarsi al Lung'Arno appariva uno spettacolo
veramente fantastico ed incantevole. Non v'era straducola ne chias-
suolo, anche nei piu remoti quartieri, che non avesse le case quasi
tutte illuminate. Nelle vie principali tale era la folia, da parere im-
possibile il cavarsene fuori evitando di rimanere soffocati. Non
s'era mai visto a Firenze nulla di simile, ne si puo dubitare della
spontaneita di quella dimostrazione : ma bisogna pur anche riflettere
come dal 1848 non fosse piu stata usata quella forma di pubblica
letizia, della quale piu tardi si e invece molto abusato. D'altra parte
il cessare della occupazione straniera aveva levato un gran peso
dallo stomaco a tutti, ed ogni mezzo pareva buono per dimostrare
la compiacenza del provato sollievo.
II governo granducale, per tenere allegri i sudditi e non farli
pensare a melanconie, permise nuovamente nel carnevale 1855-56
Puso della maschera, proibito nel 1850 da un ordine del coman-
dante generale dell' I. e R. corpo d'occupazione. I fiorentini profit-
tarono del permesso con vero entusiasmo. Si puo dire senza iper-
bole «i fiorentini)) perche tutti i non piu lattanti e non ancora va~
schi. Tradusse in tedesco la Divina Commedia, con ampio commento (1828-
1849). Vedi G. A. SCARTAZZINI, Dante in Germania, Milano 1881-1883,
I, pp. 50-3; II, pp. 69-70. i. Margherita: la futura regina, moglie di
Umberto I. 2. La principessa Anna di Sassonia, arciduchessa ereditaria,
mori il 10 febbraio 1859, a Napoli, dove si era recata con il marito e il
suocero per assistere alle nozze di Francesco di Borbone, principe eredita-
rio del Regno deUe Due Sicilie (vedi la nota 2 a p. 420).
412 UGO PESCI
letudinari infilarono un domino di cambrl? o un « costume » dzpierrot,
da arlecchino, o da debardeur? Nei giorni de' corsi mascherati si
poteva andare in maschera dalle 3 pomeridiane in poi. Assai prima
di quelPora le vie di Firenze rimanevano deserte, e quando 1'ora
s'appressava, in tutte le case, dietro i portoni e le porte, si udiva
un confuso e strano bisbiglio, come di gente trattenuta a stento ed
impaziente d'uscire. Finalmente, quando Porologio di palazzo Vec-
chio batteva il primo tocco delle tre, porte e portoni si spalancavano
e le strade si empivano in un attimo d'una folia multicolore, vestita
in strane foggie, che gridava, agitava bubboli e sonagli, suonava
trombette, si studiava di far baccano in tutti i modi possibili, e si
awiava correndo verso le strade per le quali passava il Corso. Le
carrozze facevano il giro della piazza di Santa Croce, poi andavano
per via del Fosso, via del Palagio oggi via Ghibellina, via del Pro-
consolo ; girando dietro la cupola del Duomo, continuavano lateral-
mente alia basilica ed al « bel San Giovanni » seguitando per le vie
Cerretani, Rondinelli e Tornabuoni, fino alia colonna di Santa Tri-
nita ; senza lo spreco di fiori e di dolci che s'e poi veduto per qualche
anno, ma con una allegria schietta e attaccaticcia, punto ostentata
ne incoraggiata da comitati; senza prendere il carnevale come pre-
testo a violenze ed a prepotenze, e senza mancar di rispetto ne
al prossimo ne alle buone creanze. Molta gente si divertiva di
gusto, prendendo parte a quel correre e quel gridare: moltissima
si divertiva un mondo a stare a vedere, senza invidia e senza ram-
marico, con non minor sodisfazione di quelli che andavano in car-
rozza, giacche, grazie al Cielo, non era ancora di moda Pinvidiare e
Podiare quanti apparentemente sembrano privilegiati dalla for-
tuna.
Nelle mattinate di Berlingaccio (giovedi grasso) e degli ultimi
due giorni di Carnevale, v'era gran raduno di maschere sotto il por
tico degli Uffizi - dove si terminava allora di collocare le statue
d'illustri Toscani3 erette con elargizioni private e col ricavo di
pubbliche tombole - e nello spazio intermedio, dove si stipavano
come in una gran sala migliaia e migliaia di persone. II Gran-
duca, la Granduchessa, gli Arciduchi piu grandi facevano due o
i. cambrt: tela di cotone fine, fabbricata in Francia, a Cambrai. 2. da de
bar deur: da scaricatore di porto. 3. si terminava . . . Toscani: le statue
dei grandi fiorentini, in numero di ventotto, si cominciarono a collocare
nelle Logge degli Uffizi dal 1842.
FIRENZE CAPITALS (1865-1870) 413
tre giri in mezzo a quella gran calca, die si apriva rispettosamente
per lasciarli passare, ma non li salutava, essendo sottinteso lo
« strettissimo incognito ». Vale la pena di notare come, quantunque
in simili occasioni non si prendesse alcuna precauzione, almeno
apparente, non sia mai accaduto neppur 1'ombra di un disordine.
Fra principe e popolo non vi era certamente molto buon sangue,
specie dopo il 1849: ma non v'era neppure alcun pericolo di atti
criminosi, oggi divenuti frequenti ; e tutt'al piu la vena satirica del
popolo minuto - che aveva per rapsodi e rappresentanti, il Lachera
venditore di ciambelle, Miciolle ciabattino sul canto fra via de'
Pucci e via de' Servi, ed altri simili - si sfogava chiamando Cana-
pone il granduca, e non risparmiando, ne a lui ne alia granduchessa,
qualche epiteto o soprannome plebeamente scurrile.
Nel pomeriggio del 30 giugno 1857 andavo, con un compagno di
scuola, da casa al Parterre, fuori di porta a San Gallo, ritrovo favo-
rito di noi ragazzi per il giuoco della sbarra1 o per fare a rincorrersi.
Al quadrivio di Candeli2 vedemmo molte persone ferme a leggere
un manifesto attaccato di fresco. Annunziava la promulgazione
di una specie di stato d'assedio, conseguenza di un moto mazzi-
niano awenuto quel giorno stesso a Livorno, in relazione con quello
di Genova e con la partenza di Carlo Pisacane e dei suoi compagm
per la spedizione terminata con Teccidio di Sapri. II moto di Li
vorno fu subito sedato, non avendo avuto il favore della popola-
zione; ne poteva averlo un atto di ribellione del quale non si ca-
piva lo scopo. A Firenze, nel ceto medio, la prima impressione fu
di sgomento ; la seconda di sdegno contro i promotori del disordine,
parendo quello il miglior modo per far tornare i Tedeschi appena
partiti. Ricordo la meraviglia che, dentro di me, provai nel vedere
alcuni cittadini, vestiti bene, leggere il manifesto e poi darsi una
fregatina alle mani, come per dire:
— Per questa volta glie Fabbiamo fatta!
Si afFermava generalmente che gli Inglesi avessero messo uno
zampino nella faccenda di Livorno, per avere un pretesto di sbarco
e di occupazione: la voce non aveva probabilmente alcun fonda-
mento di verita; ma offri occasione a qualche nostro maestro, di
ripetere sottolineandoli con particolare enfasi i versi della canzone
i. sbarra: Pasta di ferro, fissata orizzontalmente, che serve per esercizi
ginnastici. 2. « II quadrivio dove oggi s'incrociano la via Pintle la via
degli Alfani, prima di entrare in via dei Pilastri» (nota del Pesci).
414 UGO PESCI
del Filicaia;1 e quel «servir sempre o vincitrice o vinta» cominciava
a parerci una colossale ingiustizia.
Nella seconda meta d'agosto dello stesso anno 1857, Firenze
ebbe la visita di Pio IX. Arrivo il 18 da Bologna, per la strada delle
Filigare. Gli Arciduchi Tandarono ad incontrare fino al confine la
sera innanzi ; pernottarono con lui nella villa Gerini alle Maschere,
poi fecero sosta alia villa Guicciardini, dove il Papa trovo il Gran-
duca mossogli incontro, e con il Granduca entro in Firenze per
la porta San Gallo, e ando fino a palazzo Pitti, dove gli era stato
preparato un quartiere sontuosamente arredato, che il pubblico fu
ammesso a visitare dopo partito il Pontefice.
Queiringresso del Papa con il Granduca ispiro allo spirito biz-
zarro di Vincenzo Salvagnoli2 un epigramma che, dopo ventiquat-
tr'ore, tutti i fiorentini sapevano gia a memoria. Diceva:
Esempio di virtu sublime e raro,
entro Cristo in Sion su di un somaro;
per imitarlo, il nostro Padre Santo
entro a Firenze col somaro accanto.
A Firenze non esiste, e tanto meno esisteva allora, il pregiudizio
della iettatura : ma taluni disgraziati incidenti che precedettero ed
accompagnarono la dimora di Pio IX nella reggia toscana parvero
fatti apposta per confermare la fama di iettatore affibbiata gia da un
pezzo a Pio IX dalla plebe romana.
Una breve malattia aveva ucciso poco prima, quando si comincio
a parlare del viaggio del Papa, Farciduchessa Maria Luisa3 so-
rella di Leopoldo II, rimasta nubile per la deformita del corpo, ad
onta della quale era dal popolo la piu ben voluta fra tutti i compo-
nenti della famiglia granducale. La chiamavano comunemente « la
i. i versi . . . del Filicaia: fu per lungo tempo famosa la canzone che il poeta
fiorentino Vincenzo da Filicaia (1642-1707) aveva dedicate all' Italia (E
pure, Italia, epure); ma le parole che il Pesci ricorda subito dopo apparten-
gono all'ultimo verso («per servir sempre o vincitrice o vinta») di un so-
netto del Filicaia (Italia, Italia, o tu cui feo la sorte), anch'esso caro agli
uomini del Risorgimento. 2. Vincenzo Salvagnoli (1801-1861), awocato,
giurista, uomo politico. Fu dapprima vicino al Guerrazzi, ma se ne stacc6
nel 1848-49. Dopo il ritorno del granduca and6 esule a Torino: favori la
causa italiana sostenendo la politica unitaria del Piemonte. Si ricordano,
fra i suoi scritti, il Discorso sullo stato politico della Toscana (1847) e Del-
Vindipendenza d* Italia (1859). Fu tra i fondatori del giornale «La Patria»
(1847). 3. Farciduchessa Maria Luisa, nata nel 1798, mori nel giugno
del 1857.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 415
gobbina» ma senza alcuna intenzione dispregiativa: ne apprezza-
vano anzi molto 1'ingegno, che aveva fatto desiderare a Ferdinan-
do III1 di poter lasciare a lei e non al «toscano Morfeo»2 la corona
del granducato: ed apprezzavano gli atti di beneficenza e di carita
da essa continuamente compiuti, fino al punto di rimaner sprowe-
duta qualche volta del necessario.
Ai funerali della « gobbina » era stato grandissimo il concorso del
popolo sinceramente addolorato, quantunque si fossero sparse voci
allarmanti di possibili tumulti, che trovavano facile ascolto dopo
quanto era accaduto ai funerali dell'arcivescovo Minucci,3 egli
pure morto in quelPanno. Non si e mai saputo chi ringraziare; ma
mentre il corteo funebre delParcivescovo, mosso da piazza del
Duomo, sfilava per via Rondinelli ed era quasi giunto al palazzo
Antinori, cominci6 un fuggi fuggi generate. Dalla folia dei curiosi
il panico si propago al clero, alle confraternite, a quanti formavano
il corteo, compresi i soldati ; ed il feretro, portato a spalla, fu lasciato
cadere piii che deposto in mezzo alia strada; mentre quelli che lo
portavano si misero a correre all'impazzata, senza saper dove ne
perche, non sospettando neppure di essersi forse ccprestati gentil-
mente » a favorire qualche tiro birbone, preparato da emeriti bor-
saiuoli.
Per la visita di Pio IX a Firenze vi furono, come per le nozze
dell'Arciduca ereditario, fuochi, bellissima illuminazione, e dune
elettriche »4 uno dei primi elementari tentativi di elettrotecnica : e
fu eseguita una trilogia musicale del cav. Raimondi, romano, nel
Salone dei Cinquecento,5 che dette una bella prova di solidita re-
sistendo incrollabile a quella musica. Infinito fu Paccorrere di gente
da ogni parte della Toscana, gente non tutta chiamata dalla curiosita
e dalla voglia di divertirsi, ma anche da un sentimento di venera-
zione per il capo della Chiesa. II '49 e gli anni successivi avevano
fatto dimenticare intieramente Tinarrivabile prestigio goduto dal
i . Ferdinan do III: figlio di Pietro Leopoldo e padre di Leopoldo II, fu
granduca di Toscana dal 1790 al 1824, salvo la lunga parentesi francese
e napoleonica (1799-1814), durante la quale si rifugio in Austria. 2. «fc>-
scano Morfeo»: cfr. Giusti, Ulncoronazione, v. 25. 3. quanto . . . Minucci:
nel 1856, durante i funerali dell' arcivescovo Minucci, erano awenuti
gravi disordini. 4. lune elettriche: globi per illuminazione. 5. Ilsalone,
che e nel palazzo della Signoria, si chiamo dei Cinquecento solo quando fu
sede della Camera dei deputati (in nurnero di Cinquecento, donde il nome),
dal 1865 al 1871, allorche Firenze divenne capitale del Regno d'ltalia.
416 UGO PESCI
Papa nel '47 e nel '48 : non di meno le masse lo rispettavano e lo
veneravano. Pio IX, che nel 1857 aveva soli 65 anni e ne dimostrava
dieci di meno, era veramente un bel Papa, e pareva fatto apposta per
piacere alle moltitudini. Seducevano in lui la fisonomia sempre sor-
ridente e lo sguardo vivace, mobile, penetrante: le mani erano pic-
cole, belle, tenute con molta cura; lo zucchetto di raso candidissimo
- ne cambiava uno e qualche volta due al giorno - Fabito talare
bianco lindissimo, guarnito ai polsi di magnifiche trine antiche,
indicavano in lui Puomo di gusti signorilmente raffinati.
Ebbi occasione di vederlo molto phi da vicino di quanto poteva
essere possibile ad un ragazzo della mia eta, perche fino da quando
ne fu preannunziata la venuta a Firenze, il canonico Carloni, diret-
tore del Liceo Fiorentino, si mise in moto per potergli presentare la
scolaresca. II buon canonico aveva anche scritto un componimento
poetico da recitarsi da uno di noi al cospetto del Santo Padre. La
scelta cadde su di me. Attribuisco la preferenza alia bonta del di-
rettore che, fra tanti ragazzi, giovanetti ed anche giovinotti,
avrebbe potuto molto facilmente trovare chi, per ingegno e per
condizione della famiglia, fosse adatto piu di me a rappresentare
Tistituto. Chiunque altro egli avesse preferito non sarebbe stato
almeno, come ero io e son rimasto, privo di qualunque attitudine
alia declamazione ed al «bel porgere».
Fatto sta che, a furia di ripetere i versi del canonico - i quali
formavano una specie di ode, con il metro ed il movimento lirico
degli Inni manzoniani - arrivai ad impararli a mente e a dirli ab-
bastanza male. II canonico mi faceva andare la sera a casa sua, die-
tro il Duomo, dove ripetevo Tode tre o quattro volte. La faccenda
della presentazione degli alunni al Sommo Pontefice, aveva messo
il Carloni in grande orgasmo, il quale aumento quando si seppe
definitivamente che Pio IX avrebbe ricevuto professori e scolari
del Liceo Fiorentino nella sagrestia di Santa Croce, il 21 agosto,
dopo aver collocata la prima pietra della facciata di quel tempio,1
costruita poi intieramente a spese di un ricco inglese, il signor
Sloane.
Venuto il gran giorno, si stette un gran pezzo nella sagrestia ad
aspettare; e durante la lunga aspettativa il canonico Carloni, fra
Pamorevole e Tagitato, mi ripeteva le istruzioni gia datemi tante
i. facciata . . . tempio: la facciata di Santa Croce, opera di Nicola Matas,
fu eseguita dal 1857 al 1863.
FIRENZE CAPITALS (1865-1870) 417
volte: recitare la poesia a voce alta, franca e spedita; poi presentare
al Papa la copia scritta in bella calligrafia, genuflettermi e baciare
il piede di Sua Santita e precisamente la croce ricamata sulla
scarpa.
A farla apposta, dovetti, per dire come dicono, « svolgere il pro-
gramma)) in tutt'altro modo. II Papa, dopo un gran pezzo entro
finalmente, benedicendo, nella sagrestia gia affollata, e ando a se-
dere sul trono eretto in fondo, di faccia alPingresso. II Granduca
venne a metterglisi vicino, in piedi, con la testa reclinata verso la
spalla destra, secondo la sua abitudine: e due guardie nobili in
grande uniforme, con la spada sguainata, si posero una da una parte
ed una dall'altra deirultimo gradino del trono. Furono prima pre-
sentati al Papa alcuni preti e frati ; poi il canonico Carloni mi prese
per mano, e lasciando tutti i miei compagni disposti in bell'or-
dine di fronte al trono, m'incamminai con lui verso il Papa. Men-
tirei se dicessi che non sentivo la imponenza di quel momento e di
quella scena, della quale ero indegnamente un attore : mi atterriva
particolarmente la paura di aver dimenticato i versi e le istruzioni
del direttore. Questi, presentato a Pio IX, si genuflesse commosso,
gli bacio il piede e, dopo aver detto poche parole, si ritrasse dietro
di me che mi trovai faccia a faccia con il Pontefice, con il granduca
e le due guardie nobili, immobili ed impettite. Non vedevo altro.
II sorriso di Pio IX, pur leggermente canzonatorio, mi incoraggio
a cominciare speditamente la recitazione dei versi: ma dopo tre o
quattro strofe, Pio IX, quasi presentendo che ne venivano dietro
circa un'altra ventina, m'interruppe dicendo:
— Bravo giovinetto! bravo! e come ti chiami? — E quando ebbi
risposto : — Di chi sei figlio ?
Dopo qualche altra breve domanda, vedendomi imbarazzato per
non sapere se dargli o non dargli il foglio dell5 ode, m'indico di
porgerlo ad un signore vestito alia spagnola, tutto di nero - un
cameriere di cappa e spada - che s'era fatto innanzi in quel mentre.
Avendo poi fatto Patto d'inginocchiarmi per baciare il piede, Pio IX
mi trattenne dolcemente col gesto e mi porse invece a baciare il
grosso cammeo rappresentante la Vergine, che portava nelPanu-
lare della mano destra. Quando ho riveduto Pio IX a Roma, dopo
il 1870, era sempre florido, sempre lindo, ma Pespressione del suo
volto non era piii gioviale come a Firenze, ed il sorriso aveva assai
piu del sarcastico. Certamente, anche dedicandomi un poco felice
27
418 UGO PESCI
scherzo sulle parole ugonotto ed ugo noto, Pio IX non seppe mai che
il giornalista buzzurro1 di Roma e lo studente del Liceo fiorentino
erano la stessa persona.2
Pio IX se n'ando per la via di Siena, lasciando il tempo che aveva
trovato; e se la sua visita fu gradita non desto certamente entu-
siasmo, non suscito quella esultanza e quelle acclamazioni con le
quali furono, dopo non molto tempo, salutati i liberatori della pa-
tria. Fino da allora, non ostante Tapparente indifferenza per le
cose pubbliche, i prossimi futuri eventi erano attesi ed aspettati
con il desiderio di molti e con Popera di parecchi patrioti, che
tendevano continuamente 1'orecchio e lo sguardo verso il Pie-
monte. Era generale, in ogni ceto, una vaga aspirazione ad un
mutamento politico, ma oltre al temere un secondo 1849, i piu non
sapevano precisamente quale governo avrebbero sostituito a quel-
lo del granduca, o credevano questo non inconciliabile con un
regime piu liberale, e con la intiera liberazione delPItalia dagli
stranieri.
Le correnti della opinione pubblica si formavano allora - mi sia
permessa la frase - in mo do molto di verso da quelle del tempo pre-
sente. Oggi a nulla si pensa per piu di otto giorni consecutivi . . .
forse a qualche delitto di quelli chiamati celebri. Allora invece la
folia che oggi discute a vanvera problemi politici e sociali, si ap-
passionava, forse per mancanza di vita pubblica, a cose alle quali
non si da ora alcuna grande importanza; ai teatri anche di se-
cond'ordine, ai pettegolezzi, ed a molte altre cose.
In quelli anni i fiorentini, per dime una, durante i mesi d'estate,
parteggiavano come tanti guelfi e ghibellini per questo o quel giuo-
catore di pallone, e la citta si divideva in due fazioni; quella dei fau-
tori del Maestrelli, giuocatore abilissimo ed elegante, e quella dei
fautori del Puccianti, giuocatore di maggior forza, famoso per le
volate. II giuoco del pallone era lungo il lato esterno alle antiche
i . buzzurro : con questo epiteto, che equivale a « uomo zotico », i romani chia-
marono i forestieri,venuti a Roma dalle altre parti d' Italia, dopo il 1870 (cfr.
pp. 510 sgg.). II vocabolo, gia in uso a Firenze prirna di allora, indicava gli
svizzeri oUscesi d'inverno in Italia a vendere castagne e castagnacci. 2. « Po-
co dopo il 1870, essendo io andato a Roma per il "Fanfulla" ed avendo in
quei primi tempi acquistata una certa notorieta giornalistica come Ugo,
Pio IX che si dilettava di calembours, disse un giorno che ero un ugo-noto,
parendogli di dire a quel modo che ero un eretico. II motto allora fece il
giro dei giornali » (nota del Pesci).
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 419
mura, subito fuori della porta a Pinti, ora scomparsa, vale a dire in
fondo a Borgo Pinti, a sinistra di chi guarda la collina di Fiesole
nello spazio occupato adesso dal viale Principe Amedeo.1 Costi,
.ed altrove, fra le mura e la strada erano de' vasti rettangoli piu
bassi del piano stradale, chiamati ghiacciaie, perche d'inverno vi si
lasciava andare Pacqua fino ad una certa altezza per farne ghiaccio
e magari pattinarvi sopra. Una di codeste ghiacciaie, quella subito
fuori di porta, serviva ds estate al giuoco del pallone. II vasto ret-
tangolo non bastava a contenere i numerosissimi spettatori, e molti
dovevano restar fuori dello steccato ad aspettare le notizie della
partita ed i palloni sbagliati. Ad ogni bel colpo, un grido di arnrnira-
zione prorompeva da mille bocche e trovava eco tutt'alPintorno.
Finita la partita, una vera folia rientrava in citta discutendo ani-
matamente, con vera passione, come non si discute piu adesso
neanche un voto del Parlamento. Ne s'appassionava il solo popolo
minuto : vj erano, fra i piu esaltati, anche patrizi, professionisti, ar-
tisti, regi impiegati, ed il nostro professore di retorica,2 sacerdote
ed uomo serio e posato, scriveva distici di sapore oraziano per cele-
brare le volate del Puccianti, del quale era partigiano.
Sulla fine del 1858 e il principio del 1859 comincio a ribollire piu
evidentemente il fermento del patriottismo. II ribollimento si ma-
nifestava in mille modi, specie dopo che Vittorio Emanuele ebbe
accennato al « grido di dolore» inalzato a lui da tante parti d' Ita
lia.3 Per esempio al teatro Pagliano,4 ai primi del 1859, si rappresen-
tava La Muta di Portici delPAuber.5 Mio padre mi condusse una
sera a quel teatro, e credo non senza secondo fine. Quando Masa-
niello, seguito dai popolani di Napoli, si avvento addosso ai soldati
i . viale Principe Amedeo : oggi viale Giacomo Matteotti. 2. il nostro . . .
retorica: il gia nominate don Marcello Fomaini. 3. dopo che . . . Italia:
allude alle famose parole pronunziate da Vittorio Emanuele il 10 gen-
naio 1859, al Parlamento subalpino (cfr. p. 373 e la nota 4). 4. teatro
Pagliano : oggi teatro VerdL II vecchio nome gli era venuto dal proprieta-
rio e fondatore, Girolamo Pagliano, largamente noto anche come inventore
di uno sciroppo cui Ieg6 il suo nome e che gli procuro non piccola fortuna.
Era tra le figure piu originali e umoristiche della Firenze del tempo.
5. II musicista francese Daniel Francois Esprit Auber (1782-1871) music6,
tra le altre op ere, La muette de Portici, in cinque atti, su libretto di Scribe e
Delavigne. La prima rappresentazione ebbe luogo a Parigi, il 29 febbraio
1828. La protagonista, Fenella, la muta, e sorella di Masaniello: tradita
per una nobile, Elvira, dal fratello del vicere" di Napoli, ne salva generosa-
mente la vita nella rivolta : ucciso poi Masaniello dalla folia, si inabissa nella
lava del Vesuvio.
420 UGO PESCI
spagnoli strappando la bandiera di mano alPalfiere, tuono tale un
grido fragoroso e potente dal loggione e dalla platea, che, non avendo
mai udito nulla di simile, io rimasi confuse e quasi atterrito, anche
perche vedevo straordinariamente commossi quei pochi, che non
applaudivano e non gridavano.
Nel febbraio mori a Napoli PArciduchessa ereditaria,1 andata in
quella citta con i suoceri ed il marito per assistere alle nozze di
Francesco II,2 allora duca di Calabria. La di lei salma, trasportata in
Firenze per essere sepolta nella Cappella Medicea di San Lorenzo,
fu ricevuta con segni di universale e sincere compianto. Quella
morte, pur non avendo intrinsicamente alcuna importanza poli-
tica, alieno sempre piii gli animi della popolazione dalla famiglia
regnante, ed a ragione od a torto, non saprei dirlo, TArciduchessa
fu considerata come una vittima del marito, di gusti e di sentimenti
grossolani e poco delicati.
Intanto si parlava dovunque, continuamente, ad alta voce di
guerra per I'mdipendenza. Noi ragazzi se ne bisbigliava anche du-
rante le lezioni, cominciando ad assistervi un po? distratti da quanto
accadeva fuori. Sentivamo dire sommessamente che alcuni de' piu
anziani delle classi Hceali erano sulle mosse per andare ad arruolarsi
in Piemonte, e domandavamo se avrebbero preso noi piccoli per
suonare il tamburo. Volontari d'ogni ceto e condizione ne partivano
ogni giorno corampopulo, senza mistero. Oggi non si vedeva piu alle
Cascine il tal giovinotto elegante, solito a comparirvi ogni giorno
guidando la sua pariglia, e si sapeva subito dopo che era andato a
Pinerolo ad arruolarsi nei lancieri di Novara. Parecchi partivano
direttamente per conto loro : chi non aveva mezzi andava alia bot-
tega del fornaio Dolfi3 in Borgo San Lorenzo, od a bussare alia
porta del mezzanino del palazzo Aldobrandini in piazza Madonna,
i. Nel febbraio . . . ereditaria: vedi la nota 2 a p. 411. 2. Francesco II di
Borbone, nato nel 1836, divenne re delle Due Sicilie alia morte del padre,
Ferdinando II (22 maggio 1859). Le sue nozze con Maria Sofia di Ba-
viera erano state celebrate a Napoli P8 gennaio 1859. Dopo laresa di Gaeta
(febbraio 1861), perduto il trono, visse a Roma. Mori ad Arco, nel Tren-
tino, nel 1894. 3. Giuseppe Dolfi (1818-1889) ebbe grande influenza sui
moti e le vicende risorgimentali a Firenze. La sua bortega di fornaio fu
punto di incontro fra i patriotti : parte decisiva egli ebbe nella pacifica ri-
voluzione fiorentina del 27 aprile 1859. Repubblicano e legato a Mazzini,
pure agevold runificazione monarchica. Dopo il '60 si interesso vivamente
di problemi sociali.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 421
dove abitava Enrico Lawley,1 oriundo inglese nato in Italia e vero
italiano d'educazione e di sentiment! ; e li era proweduto di quanto
gli occorreva per andare a Livorno e presentarsi a Vincenzo Ma-
lenchini,2 che pensava ad imbarcarlo per Genova.
E risaputo che quelle partenze erano favorite e regolate da chi,
nel tempo stesso, dirigeva il movimento liberale contenendolo ne'
voluti confini; cioe da un gruppo di cittadini che si riunivano spesso
in casa del marchese Bartolommei,3 sul canto di via Lambertesca.
II marchese Ferdinando era conosciuto da tutti i fiorentini per la
semplice e squisita signorilrta de} suoi modi, e per la salda fermezza
del suo carattere. Tutti sapevano che, dopo il 1850, era stato con-
finato, per ordine del Granduca, nella sua tenuta delle Case, vicino
a Monsummano: poi arrestato e portato nelle carceri del Bargello
dopo le fucilate tirate in Santa Croce il 29 maggio del 1851. Esi-
liato fuor di Toscana, vi era tornato nel 1854, immutato ; dan do aiuto
d'opera, di denari e di consiglio, a qualunque impresa potesse gio-
vare alia causa italiana, coadiuvato sempre dalla moglie, la marchesa
Teresa, nata Morelli Adimari, signora di nobili sentimenti, affe-
zionatissima al marito, affascinante per la schietta gentilezza delle
maniere ed il pronto ed acuto ingegno ; di virili propositi per quanto
risguardava Pindipendenza italiana. Per dare un'idea di quanto ef-
i. Enrico Lawley, di famiglia oriunda inglese, fu poi deputato di Pisa du-
rante 1'xi legislatura, ma, per circostanze di famiglia, rinuncio al mandate.
La Camera ne prese atto nella seduta del 4 giugno 1873. 2. Vincenzo Ma-
lenchini: vedi la nota 7 a p. 183. 3. Ferdinando Bartolommei (1821-1869)
fu dei piu colti e attivi liberali fiorentini: come opero per il risorgimento
politico dell' Italia, cosi dette il meglio di se al rinnovamento delle con-
dizioni economiche e civili della Toscana. Le notizie date dal Pesci non
sembrano del tutto esatte. Dopo il ritorno di Leopoldo II nel '49, il Barto
lommei si era volontariamente ritirato nelle sue terre in Val di Nievole:
nelPanniversario della morte di Carlo Alberto, il 28 luglio 1850, organizzo
una manifestazione di lutto, dopo la quale la polizia, saputo della sua inten-
zione di recarsi a Siena in occasione del palio, lo consiglio di non muoversi
di villa; il 29 maggio 1851 organizzo a Firenze, in Santa Croce, onoran-
ze in memoria dei caduti di Curtatone e Montanara, ma, scoppiati dei
tumulti, fu confinato nella sua villa presso Monsummano. Tornato a Fi
renze, avendo la polizia saputo che aveva in casa una stamperia clandestina,
gli perquisi il palazzo, sia pure invano: ma fu ugualmente arrestato ^e
condannato a sei mesi di reclusione, commutati in esilio. Viaggio allora in
Francia, Belgio, Olanda, Inghilterra. Torno a Firenze nel 1854 e vi ri-
prese la sua attivita politica. Vedi M. GIOLI, // rivolgimento toscano e
Vazione popolare (1847-1850). Dai ricordi famigliari del marchese Ferdi
nando Bartolommei, Firenze, Barbera, 1905.
422 UGO PESCI
ficacemente operassero allora il marchese e la marchesa Bartolom-
mei, bastera dire che furono spese da loro 46.000 lire per la par-
tenza e 1'arruolamento di volontari; parte delle quali raccolte fra gli
amici, ma per tre quarti offerte dal Bartolommei stesso, oltre 50 ca-
valli da lui mandati in dono al Piemonte.
Gli awenimenti precipitavano ; il 27 aprile1 si awicinava. Da
alcuni mesi era tomato a Firenze Stefano Siccoli,2 figlio di tin re-
putatissimo awocato. Esiliato dalla Toscana «per insormontabile
awersione al governo austriaco» era andato nell' America del Sud
ed aveva combattuto nel Peru per Fabolizione della schiavitu, per-
dendovi una gamba e guadagnandovi il grado di maggiore. Era un
bel giovine, biondo, alto di statura, d'aspetto militare, e Fessere
rimasto zoppo combattendo per una idea, gli dava agli occhi nostri
singolar pregio. II maggiore Siccoli aveva due fratelli, uno de*
quali studente al ginnasio. Due o tre di noi suoi compagni anda-
vamo spesso a studiare da lui, che abitava con la famiglia al se-
condo piano del palazzo Fossi, vicino al ponte alle Grazie. Ma in
quei giorni, sulk meta d'aprile del 1859, nessuno studiava piu.
Le nostre visite a casa Siccoli s'erano fatte bensi piu frequenti,
perche ci davano occasione di vedere da vicino il valoroso amputate,
uno dei piu zelanti nel preparare quanto accadde e doveva acca-
dere pochi giorni dopo. Avendo bisogno di stare continuamente
in corrispondenza con altri liberali, il Siccoli si accorse presto che
rammirazione dei compagni di suo fratello poteva essergli utile a
qualche cosa. Chi poteva sospettare di noi ? Cominci6 a mandarci,
ora Funo ora Faltro, a portare dei minuscoli bigliettini misteriosi,
con precisa e perentoria raccomandazione di consegnarli esclusiva-
mente alia persona indicataci. Credendoci inalzati alia dignita di
cospiratori, ci pareva di non toccar piu terra, e correvamo di volo
i. il 2j aprile 1859, data deirallontanamento dei Lorena. 2. Stefano Sicco
li (1834-1886), fiorentino. Dopo una prima giovinezza irrequieta, emigr6 in
America, ove si pose al seguito di Garibaldi come mozzo e medico dilettan
te. Dopo la mutilazione, subita combattendo nel Peru per Fabolizione degli
schiavi, fu a Parigi, in Inghilterra, in Germania ecc. Verso la fine del 1858
torn6 in Italia. Ebbe poi Fincarico di scortare i Lorena fuori dai confini
della Toscana. Partecip6 nel 1860 alia diversione Zambianchi, e raggiunse
successivamente Garibaldi in Sicilia. Repubblicano di idee, propugn6 alia
Camera, come deputato, varie riforme sociali, che parvero allora rivoluzio-
narie. Mori a Roma quasi dimenticato. Vedi M. PUCCIONI, II Risorgimento
italiano nett'opera, negli scritti e nella corrispondenza di P. Puccioni, Fi
renze, Vallecchi, 1932.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 423
alia bottega di Giuseppe Dolfi, fornaio e capopopolo in Borgo
San Lorenzo, o sul ponte Vecchio dai fratelli Tanagli, orafi, che
con i loro cappelli a larghe falde, le corporature colossali, i baffi ti-
rati su alia sgherra ed il pizzo all'imperiale, arieggiavano a moschet-
tieri ritiratisi dal servizio.
Nel pomeriggio del 26 aprile ero stato ad accompagnare mia
madre fino a casa di mia nonna, in via San Sebastiano, ora Gino
Capponi, poi, con un compagno di scuola, m'ero awiato al Par
terre. Quando si fu per la via interna lungo le mura, vicino alia
torre del Maglio - tutta roba scomparsa e quasi dimenticata - ci
arriv6 all'orecchio un lontano rumore come di grida, e vedemmo
correr gente verso via Larga, ora via Cavour. Subito corremmo an-
che noi ed arrivammo trafelati in piazza San Marco, dove una gran
folia era ferma davanti alia caserma della gendarmeria, situata dove
fu poi il ministero della guerra ed ora risiede il comando dell'vin
corpo d'esercito. Sulla porta due ufficiali sembravano volessero
persuadere la gente ad andarsene per i fatti suoi; ma la folia rispon-
deva alle esortazioni gridando «Vogliamo la guerra all' Austria !»
poiche nella caserma era stato persuaso a ritirarsi il generale Fer
rari da Grado,1 comandante austriaco del piccolo esercito toscano,
dopo avere sfidato impassibile, per lungo tratto di strada, un vero
uragano di fischi. Seguito da centinaia e centinaia di persone, cam-
minava, secondo il solito, rigidamente impettito, dando prova di
un coraggio persooale che, in quel momento, pareva una sfida inop-
portuna.
Raggiunsi piu tardi mia madre che, avendo saputo della dimo-
strazione, era agitata ed inquieta conoscendo la mia smania d'an-
dare a curiosare da per tutto, specie in quei giorni. Ebbi timore che
la mattina dopo non mi sarebbe stato permesso Puscire di casa,
mentre sapevo gia che la popolazione fiorentina si sarebbe radunata
in piazza Barbano. A buon conto, la mattina del 27 fed lo gnorri,
ed alPora solita, radunati i miei libri, non incontrando alcun osta-
colo o proibizione, scesi le scale a salti e me n'andai difilato, senza
voltarmi indietro, verso piazza Santa Croce, non con il proponi-
mento d'andare a scuola, ma con la speranza d'incontrare de5 com-
pagni ed unirmi con loro per «fare la rivoluzione ».
i. Federico Ferrari da Grado, austriaco di nascita, era comandante del-
Fesercito toscano, da quando (1851) il De Laugier aveva lasciato la carica di
ministro della guerra.
424 UGO PESCI
Compagni ne trovai quanti volli, poiche sulla porta socchiusa del
Liceo Fiorentino, un burbero custode, con le campanelle d'oro agli
orecchi - era un umbro stato gendarme del Papa - annunziava
bruscamente a quanti si presentavano che per quel giorno le lezioni
erano sospese. Allora noi ragazzi via a gambe, con i libri sotto brac-
cio, correndo per la lunga strada fra piazza Santa Croce e Barbano.
In Borgo Pinti, alia porta della casa dove abitava il cav. Carlo
Bon- Compagni1 ministro Sardo - precisamente dirimpetto al Li
ceo Militare « Arciduca Ferdinando » - erano ferme parecchie car-
rozze. Traversate le piazze deirAnnunziata e di San Marco, ancora
poco popolate, in via degli Arazzieri trovammo altri compagni, con
i quali ci affrettammo temendo sempre di non arrivare a tempo.
A che cosa ? Non lo sapevamo dawero : ma sapevamo e capivamo
che qualche cosa doveva pure accadere.
Molta gente d'ogni fatta era radunata. Alcuni cittadini si rivolge-
vano ai varii capannelli, raccomandando di astenersi per il momento
da qualunque grido, e distribuivano coccarde tricolori da mettersi
fuori piu tardi. Ciascuno di noi ebbe la sua. L'attitudine dei conve-
nuti era molto pacifica, ne poteva essere altrimenti, nessuno avendo
armi oltre il temperino. Parecchi guardavano non senza inquietu-
dine dalla parte della fortezza da Basso, ed assicuravano di vedere un
cannone, collocato in maniera da prendere d'infilata il breve tratto
di strada diritta, che divide la piazza dalla fortezza.
Ad un tratto Tawocato Pietro Coccoluto Ferrigni (Yorick)2 il
quale, poco dopo, doveva, in casa Bon-Compagni, scrivere con la
sua bella calligrafia rotonda e regolarissima le domande da presen-
tarsi a Leopoldo II in nome del popolo,3 comparve in una car-
rozza di piazza con attrici ed attori della compagnia Meynadier
i. Carlo Bon Compagni (1814-1880), dopo aver ricoperto alte cariche poli-
tiche in Piemonte (ministro nel 1848 e nel 1852; presidente della Camera,
1853-1856), fu inviato (1856) dal governo sardo come proprio rappre-
sentante a Firenze. Sollecitato dal Cavour a vincere i suoi scrupoli morali,
prepare con i liberall di Firenze quegli awenimenti che culminarono con la
liberazione della Toscana. Dopo Villafranca torno in Piemonte, ma poco
dopo fu nuovamente a Firenze come commissario per 1'Italia centrale, fino
ai plebisciti e aU'annessione. 2, II Ferrigni (1836-1895), pKi noto col nome
di « Yorick figlio di Yorick », fu tra i piu vivaci, arguti giornalisti, e scrittore
piacevolissimo. Nel *6o ando in Sicilia con Garibaldi. 3. le domande . . .
popolo: le richieste che don Neri Corsini (vedi la nota zap. 169) ebbe in-
carico di presentare al granduca, e che esigevano, tra 1'altro, la sua abdica-
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 425
che recitava al Cocomero;1 e seguivano la prima carrozza altre
con altri attori ed attrici, che il popolo comincio ad applaudire fra-
gorosamente per la loro qualita di francesi, come forse non aveva
mai tanto applaudito per il loro talento artistico. Non bisogna di-
menticare che il giorno avanti una prima divisione francese era
sbarcata a Genov£, per venire a combattere a pro delFindipendenza
italiana.
Quelli applausi ruppero il ghiaccio. Subito dopo s'incomincio a
gridare tutti: « Viva Pltalia, guerra all' Austria!)) Pareva un delirio.
Comparvero delle bandiere tricolori a qualche finestra: tutte le coc-
carde tricolori uscivan di tasca. La bandiera tricolore che era gia
stata inalberata sul forte di Belvedere, dava ormai come cosa certa
che la truppa non avrebbe tirato sul popolo.
Come ando la pacrfica rivoluzione fiorentina del 27 aprile 1859
e stato piu volte narrato anche da chi vi ebbe parte principale. Nulla
potrei aggiungere se non che tornando a casa rosso e scalmanato,
quando Fora di tornare era passata da un pezzo, trovai la mamma ed
il babbo ch'erano stati in pensiero, ma non ebbi la strapazzata che
mi aspettavo. Mio padre aveva cominciato a rimproverarmi, senza
sdegno ma con severa gravita di espressione, quando si udirono
nuove grida, e tutti, egli compreso, corremmo alia finestra a ve-
dere. Una immensa folia seguiva acclamando alcuni che portavano
sollevato in alto un busto di Vittorio Emanuele - dove erano andati
a prenderlo ? - circondato da bandiere tricolori. Dalle finestre tutti
si spenzolavano, battendo le mani e sventolando i fazzoletti. Su la
piazza Santa Croce quella folia si scopri il capo e s'inginocchi6 !
II granduca aveva fatto sapere che se n'andava, ed il popolo era
fuor di se dalla gioia. In quel momento udii gridare per la prima
volta « Viva Vittorio Emanuele re d' Italia! ! » e la paternale rimasta
sospesa non e piu stata continuata.
La curiosita e la quasi sicurezza delTimpunita mi spinsero, nel
pomeriggio, verso il ponte Rosso, fuori porta a San Gallo, per ve-
der passare il granduca e la famiglia granducale che, in parecchie
carrozze, s'awiavano per la via Bolognese verso Pesilio. Benche
non lasciassero alcun rimpianto e si dimenticassero, in quell'ora,
anche le molte cose buone compiute in 120 anni2 dalla dinastia
i . Cocomero : il maggior teatro di prosa nella Firenze del tempo : oggi, tea-
tro Niccolini. 2. in 120 anni: la dinastia dei Lorena successe a quella
medicea nel 1737, ma I'ingresso in Firenze del primo granduca lorenese,
426 UGO PESCI
Austro-Lorenese, i partenti furono rispettati e salutati, come dai
popoli veramente civili si rispetta e saluta chiunque e colpito dalla
sventura.
L'aspetto di Firenze era allora molto diverse non soltanto dal
presente, ma anche da quello che la citta aveva gia preso nel 1870,
quando cess6 di essere la capitale del Regno. II Buomo non aveva
facciata,1 e da poco tempo si lavorava a quella di Santa Croce. Via
de' Martelli era una strada strettissima, come lo erano via de' Cerre-
tani e via de' Panzani, via Tornabuoni non arrivava ad essere larga
un terzo di quanto e attualmente. II Lung'Arno nuovo, come si
chiamava allora, era terminato soltanto dal ponte alia Carraia al-
1'antica porticciola, vale a dire poco al di la del palazzo Arese, stato
costruito allora dal marchese Manfredi Calcagnini Estense; e da
non molto tempo era scomparsa Pantica farmacia del Granchio con
le case che andavano da Borg'Ognissanti al ponte alia Carraia,
allora ripido e stretto chiudendo quello che si chiama adesso
Lung'Arno Amerigo Vespucci, ed occupando lo spazio dove ora si
erge la statua di Carlo Goldoni. Al di la della piazza d'Ognissanti,
ora Manin, le strade fra Borgognissanti, il Prato e il nuovo Lung'Ar
no erano ingombre di casupole abitate da gente che passava la vita
sull'uscio di casa da marzo a dicembre, bisticciando e pettegolando.
Stavano ancora in piedi le vecchie mura e non esistevano i viali ne
la passeggiata dei Colli. Fuori porta a San Gallo, dove ora si apre
circondata da grandiosi portici la piazza Cavour, si stringeva con-
tro alParco trionfale e alia cancellata del Parterre uno strettume di
casupole, e a sinistra di chi usciva dalla citta, molte stalle sulle quali
spiccava, dipinta a grandissime lettere nere su fondo bianco, la
scritta Stallatico Minoccheri^ ricoveravano settimanalmente il molto
bestiame che veniva al mercato di Firenze dal Mugello e dal Bo-
lognese.
Erano strettissime via degli Avelli, di fianco a Santa Maria No
vella; come via Buia, dietro il Duomo. Dove fu poi edificato il
nuovo quartiere della Mattonaia si estendevano ortaglie e campi,
irrigati con 1'antico sistema del bindolo con la ruota girata da un
vecchio asino ciampicante: 1'edifizio piii memorabile di quella plaga
Francesco Stefano, ebbe luogo all'inizio del 1739: da cio il compute di
centoventi anni. i. II Duomo . . .facciata: la facciata, opera dell'architet-
to fiorentino Emilio de Fabris (1808-1883), iniziata nel 1876, fu compiuta,
dopo la sua morte, da Luigi Del Moro, e inaugurata il 12 maggio 1887.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 427
era una vecchia casa, in una stradella come quelle di campagna,
nella quale abitava con le sue numerose pariglie Pamericano Li
vingstone. In piazza, di Barbano o Maria Antonia sorgevano alcune
case - fra le altre quella che aveva acquistato il tenore Baucarde;1
ma nei dintorni della piazza, erano poche costruzioni, e in talune
parti vi si raccoglievano ancora i carciofi e Pinsalatina.
In piazza della Signoria detta «del Granduca», fino al 27 aprile,
di fronte a palazzo Vecchio, dove e adesso il palazzo Lavison, eravi
un basso edificio con una tettoia sporgente, chiamata il tetto de'
Pisani, sotto la quale si aprivano grandi finestre con inferriate tanto
robuste e massicce da bastare ad un luogo di pena per giganti
condannati alia reclusione. Era Tufficio postale per la distribuzione
delle lettere. Sotto la tettoia, vicino alPultimo fmestrone dalla parte
di Vacchereccia stava un soldato di sentinella, mandato dalla gran
guardia, che risiedeva al terreno del palazzo Vecchio, nelle stanze su
la facciata, comandata da un ufficiale. Un'altra sentinella stava
sotto le loggie de' Lanzi, dove non erano ancora ne il gruppo del
Fedi,2 ne le lapidi commemorative,3 ne gli strumenti metereolo-
gici;4 e faceva sentinella alia porta di Palazzo Vecchio anche il
David di Michelangelo, poi trasportato nella Accademia di Belle
Arti.
Non esisteva il Lung'Arno Torrigiani, ne quello Serristori; ed in
piazza delle Travi, sulla riva destra del fiume, si vedeva ancora uno
strano edifizio di legno, i cosi detti Tiratoi, dove i tintori della citta
mettevano ad asciugare le pezze di panno e le matasse di lana e
di seta.
I primi lampioni a gas si erano veduti a Firenze nel 1846: ma
dieci anni dopo v'erano ancora dei lampioni a olio. Per accenderne
uno ci volevano spesso e volentieri almeno dieci minuti e poi da-
vano luce talmente scarsa ed incerta, da far credere alcune strade
lasciate in piene tenebre. Vari altri servizi pubblici si facevano in
modo assolutamente rudimentale; ma non per questo si trovavano
meno contenti del soggiorno di Firenze gli stranieri e gli italiani
d' altre parti della penisola che vi affluivano.
i. Carlo Baucarde (1825 circa- 1883), celebre tenore di famiglia oriunda
francese. 2. il gruppo del Fedi: allude al Ratio di Polissena, dello scultore
Pio Fedi da Viterbo (1825-1892), eseguito nel 1866 e collocato nella Loggia
dei Lanzi 3. le lapidi commemorative', le lapidi che ricordano i plebi-
sciti di Venezia (1866) e di Roma (1870). 4. gli strumenti meter eologici:
oggi tolti dalla Loggia.
428 UGO PESCI
Con il 27 aprile comincio una sequela non interrotta di aweni-
menti che tennero per lungo tempo in continue sussulto la popo-
lazione di Firenze. Poche ore erano hastate perche si esplicasse in
tutta la sua potenza il sentimento patriottico rimasto fino'allora allo
stato latente, e scomparisse qualsiasi traccia di quella esitazione
che aveva potuto sembrare indifferenza.
Dopo la meta di maggio, cioe una ventina di giorni dopo la
partenza del Granduca, arrivo a Firenze una divisione del v corpo
francese, sbarcata a Livorno, con una brigata di cavalleria e le ri-
serve d'artiglieria e genio. Furono accolti con entusiasmo; ma par-
vero indisciplinati e sporchi a chi li metteva a confronto con i bei
soldati attillati e lindi che si vedevano da un mese nelle battaglie in
litografia, di fabbrica francese, delle quali rigurgitavano le vetrine
dei venditori di stampe. II dolman* bianco degli ussari deH'Impera-
trice era diventato grigio durante la traversata da Marsiglia a Li
vorno! Accamparono sul gran prato delle Cascine - quello delle
corse al galoppo - ed entrando in citta a drappelli, schiamazzando e
bociando, con un fare altezzoso e prepotente, non seppero farsi
voler molto bene, e quando ne n'andarono nessuno li pianse.
Poi giunse il principe Napoleone Girolamo,2 comandante del
v corpo. Altre acclamazioni, altre feste, altre luminarie, perche
ad ogni nuovo awenimento era venuto di mo da il mettere fuori i
lumi. II principe era cugino di Napoleone III e genero di Vittorio
Emanuele: che cosa non si sarebbe fatto per lui, quantunque tutta
la sua buona volonta non bastasse a dare un'aria marziale al suo
viso sbarbato di donna vecchia? Quando si mormoro bensi di
velleita imperiali, di ricostituzione di un regno d'Etruria per darne
al principe la corona, anche T entusiasmo per lui ando scemando e
comincio a garbar poco che la divisione toscana, la quale si stava
sollecitamente ordinando, fosse aggregata come divisione di riserva
al v corpo francese.
Al giubilo per la vittoria degli alleati segui presto lo sgomento
per la pace di Villafranca :3 ma esso fu causa di nuova concordia
i . II dolman era una cappa con maniche larghe e rotonde, che indossavano
gli ufficiali. II vocabolo, d'origine turca (dolimari), giunse nell'Occidente at-
traverso gli Ungheresi. 2. Napoleone Girolamo: vedi la nota i a p. 198.
3. la pace di Villafranca: Fn luglio 1859 furono stabiliti fra Napoleone III
e Francesco Giuseppe soltanto i « preliminari » della pace, che fu invece fir-
mata a Zurigo il 10 novernbre.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 429
nella grande maggioranza dei liberal! fra i quali - altrimenti non
saremmo italiani! - si era cominciato a manifestare prima qualche
dissenso. Si formava intanto la Guardia nazionale, vestendo i mi-
liti con camiciotti estivi di rigatino, che davano un aspetto molto
dimesso e casalingo al «palladio delle pubbliche liberta» e faceva
mettere in caricatura le guardie nel «Lampione» del Matarelli,1
giornale umoristico illustrate, perche si scambiavano con gli accen-
ditori del gas. II giorno n settembre, il barone Bettino Ricasoli
governatore generale e dittatore della Toscana,2 passo in rivista alle
Cascine - a cavallo, in abito nero e cappello a cilindro - le quattro
legioni florentine comandate dal generale Belluomini -3 un veterano
delle guerre napoleoniche - e consegno loro le bandiere nazionali.
NelPottobre, venuto a Firenze, quale ministro della guerra in
Toscana, il colonnello Raffaele Cadorna,4 il piccolo esercito toscano
fu portato a 22 mila uomini e si vide in citta un insolito movimento
di soldati e d'ufficiali, che mano a mano costituivano i corpi de*
quali il governo aveva decretata la formazione.
La gendarmeria toscana, invisa al popolo, s'era epurata e trasfor-
mata in un corpo di carabinieri, ordinati, vestiti e disciplinati alia
piemontese, con alcuni ufficiali venuti dal Piemonte: e, per rendere
airarma autorita e dignita vi entrarono volontariamente come sotto-
tenenti, alcuni signori liberali, non sospetti dawero d'andare in
cerca d'un posto; come Giovanni Frassi5 di Pisa, amico intimo e
i . II « Lampione », giornale umoristico fiorentino, pubblicato dapprima nel
periodo 1848-49, risorto poi dal 1860 al 1865, e di nuovo dal 1866 al
1868 e dal 1869 al 1877. Ne fu principale caricaturista, durante il secondo
periodo, Adolfo Matarelli, artista veramente geniale. Vedi G. RONDONI,
I giornali umoristici fiorentini del triennio glorioso (j#59-'6j), Firenze, San-
soni, 1914, pp. 151-78. 2. il barone . . . Toscana: dopo la partenza dei
Lorena, appena costituita la Consulta di Stato, Bettino Ricasoli (1809-1880)
divenne la figura piu eminente della Toscana. Quando il principe Eugenio
di Carignano creo commissario per 1* Italia centrale Carlo Bon Compagni,
questi ebbe a suo rappresentante, per le zone al di qua delTAppennino
Bettino Ricasoli, e per quelle al di la Luigi Carlo Farini. 3. Giacomo
Belluomini: vedi la nota i a p. 177. Nel 1859 fece parte deU'Assemblea
toscana e voto per la decadenza della dinastia dei Lorena. 4. Raffaele Ca
dorna (1815-1897) aveva gia partecipato, nell'esercito sardo, alia guerra del
'48-49, alia spedizione di Crimea, alia guerra del '59. II governo prowisorio
della Toscana lo chiarno, nell'ottobre del '59, perche riordinasse le truppe:
a Firenze fu nominato generale, e fu anche ministro della guerra. II suo
nome e soprattutto legato all'occupazione di Roma il 20 settembre 1870.
5. Giovanni Frassi (1806-1860), studioso di matematiche, filantropo. Par-
430 UGO PESCI
biografo di Giuseppe Giusti, Enrico Lawley che ho rammentato
di sopra, suo fratello Francesco, poi reputatissimo enologo e pre-
sidente del comitato ampelografico, il conte Prini-Aulla di Pisa,
il Maggi gia guardia nobile, e parecchi altri, dando esempio di ab-
negazione troppo raramente imitato.
Di bandiere tricolori non ve n'erano mai abbastanza: le signore
erano continuamente affaccendate a cucirne delle nuove, per met-
terle alle finestre; oggi per la convocazione dell'Assemblea Tosca-
na;1 domani per il voto unanime che proclamava la dinastia di
Lorena decaduta dai suoi diritti sulla Toscana;2 domani Paltro per
il voto d'annessione al Regno di Vittorio Emanuele II.3
Non mancavano episodi, per intramezzare le esultanze patriotti-
che con impeti di sdegno contro i nenuci della liberta: come le
bombe fatte scoppiare nell'atrio del palazzo della Crocetta - dove
e ora il museo archeologico - una sera nella quale il Bon-Compagni,
tomato a Firenze in qualita di R. Commissario, dava una festa;4
e quelle scoppiate pochi giorni dopo nel palazzo Ricasoli, e nel ter-
reno della casa del Salvagnoli in via Ghibellina.5 Mezz'ora dopo lo
scoppio, duemila guardie nazionali, spontaneamente, si trovarono
radunate senza alcuna chiamata nei loro quartieri, pronte a repri-
mere qualunque tentative reazionario ; mentre i popolani, mettendo
in burletta i cospiratori retrivi, cantavano per le strade:
tecipo alia guerra del '48, fu esule in Piemonte, torn6 in Toscana nel '59
ed entrd nel corpo del carabinieri. Scrisse la Vita di Giuseppe Giusti
e ne raccolse V Epistolario (1859). i. la convocazione . . . Toscana: 1'As-
semblea toscana, eletta il 7 agosto 1859, fu convocata il giorno u a
Palazzo Vecchio. 2. il voto . . . Toscana: la decadenza dei Lorena fu vo-
tata dall'Assemblea, su proposta del marchese Ginori Lisci, il 16 ago
sto 1859. 3. il voto . . . Emanuele II: il 20 agosto, su proposta del mar
chese Girolamo Mansi, fu votata dairAssemblea 1'unione della Toscana
al regno di Vittorio Emanuele. II plebiscite ebbe poi luogo I'll e 12 mar-
zo 1860. 4. le bombe . . .festa: lo stesso Bon Compagni nel diario «an-
nunziava . . . che una festa da ballo data la sera del 2 gennaio da lui nel suo
palazzo » era stata turbata « da ... due mortaletti, col cui sedizioso sparo
una mano misteriosa aveva tentato di spandere » agitazione. Vedi E. RUBIERI,
Storia intima della Toscana, Prato, Alberghetti, 1861, p. 299. 5. quelle . . .
Ghibellina: «la sera del 17 gennaio, verso le ore sei, due mortaletti, della
specie di quelli che erano stati incendiati nel tempo del ballo offerto dal
comm. Bon Compagni, ma piu madornali, furono fatti scoppiare nell'an-
drone della porta laterale del palazzo Ricasoli, e due minori in quello
della casa dove abitava il ministro Salvagnoli » (E. RUBIERI, op. cit., p.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 431
Codini andate a letto!
Ib* Babbo un torna piu!
II 28 di marzo del 1860 fecero il loro ingresso le truppe piemon-
tesi, sbarcate il giorno precedente a Livorno. La brigata granatieri
di Sardegna sfilo per via del Prato e Borgo Ognissanti sotto una
pioggia di fieri, ammirata dai fiorentini che paragonavano invo-
lontariamente il contegno corretto, dignitoso, irreprensibile, quasi
severo, di questi soldati italiani, con quello un po' sguaiato de'
soldati francesi. Gli ufficiali apparivano tutti persone di seria e per-
fetta educazione. Rispondevano agli applausi,agli ewiva, sorridendo
e salutando, commossi da quella accoglienza; ma composti, senza
alcuna delle smancerie che s'erano vedute pochi mesi prima. Con
i granatieri arrivo anche una compagnia di zappatori del genio,
comandata dal capitano Geymet, poi deputato, tenente generale e
senatore del Regno : ed i fiorentini, che si son sempre piccati d'aver
buon gusto, non sapevano capacitarsi per che sulla testa di quei sol
dati si fosse potuto mettere un cappello di forma talmente strana,
come quello portato allora dalParma del genio.
II giorno seguente entro in Firenze il principe Eugenio di Savoia
Carignano, stato nominate luogotenente del Re in Toscana.1 La di
lui carrozza, circondata da una selva di bandiere, fu in un momento
talmente ripiena di fiori, da obbligare gli aiutanti a buttarne via,
perche il Principe non ne rimanesse addirittura soffocato.
Non ci vuol molto a capire che, durante quei mesi di agitazione
incessante, s'andava a scuola distratti, per obbligo ma con la mente
rivolta a tutt'altro ; e pare quasi un miracolo il non avere disimparato
addirittura il leggere e scrivere correntemente ; tanto piu conside-
rando come nella pubblica istruzione incominciasse fino d* allora la
variabilita di nor me, di programmi e di metodi, ormai malattia
cronica ed incurabile dello Stato italiano.
Gli awenimenti pubblici avevano naturalmente avuto altresi
un'influenza diretta anche su la scuola. Non si facevano piu distici
latini per un giuocator di pallone, ma si dedicavano componimenti
poetici di tutti i generi, che nella sua infinita misericordia il Signore
Iddio ci avra perdonati, a tutti gli eroi del giorno, specie a Vitto-
i. il principe . . . Toscana: Eugenio di Carignano (1816-1888) fu legato reg-
gente di Vittorio Emanuele in Toscana, ma vi si fece rappresentare da un
commissario regio, il Bon Compagni (cfr. la nota 2 a p. 429).
432 UGO PESCI
rio Emanuele ed a Garibaldi. Dopo di loro, il generate Cialdini1 era
il phi preso di mira. IL professor Vescovi,2 venuto ad insegnarci
retorica nel 1859, ci faceva imparare a memoria una sua ode a
Vittorio Emanuele, della quale ricordo ancora due versi che forma-
vano una specie di ritornello :
Ma sicuro su libero soglio,
non vuol servi mo figli d^ amor I
Nelle classi liceali insegnava lettere latine il professore Dal Rio ;3
greco il professore Eugenio Ferrai,4 poi per trent'anni insegnante
stimatissimo alia Universita di Padova: filosofia il canonico Al-
bertosi, morto nel 1861, cui succedette Pietro Siciliani;5 fisica il
professor Del Beccaro. Al canonico Carloni era succeduto nella
direzione del Liceo Fiorentino il prof. Francesco Silvio Orlandini,6
letterato di bella fama e provato patriota; mancante pero della espe-
rienza necessaria a far sentire ai giovani « la mano di ferro sotto il
guanto di velluto» come sarebbe stato necessario particolarmente
in quei giorni.
Lasciando le classi ginnasiali in piazza Santa Croce, quelle li
ceali, aspettando di essere dennitivamente trasferite al palazzo
Da Cepparello, nel Corso, si erano prowisoriamente accampate al
piano terreno del palazzo Borghesi in via del Palagio ; con la classe
di fisica alPIstituto tecnico fondato nel 1857 in via San Gallo. Le
Cascine, le strade di San Domenico, di Settignano e del pian di
i. Enrico Cialdini (181 1-1892), combattente per la liberta nei moti del 1831,
quindi in Portogallo e in Ispagna, poi con i volontari lombardi nel '48 e
con Garibaldi nel '59, comando fra il '60 e il *6i 1'esercito regio vincitore
a Castelfidardo e a Gaeta. Senatore dal 1864, ambasciatore a Madrid e a
Parigi, sedate le aspre polemiche con Lamarmora per il piano strategico
e gli svolgimenti operativi della campagna del '66. 2. II professor Raf-
faello Vescovi insegno retorica nel ginnasio del Liceo fiorentino dal 1859
al 1 86 1. 3. Dal Rio: il nome esatto e Pietro Del Rio. Insegno retorica nelle
prime classi del Liceo fiorentino dal 1853 al 1856. 4. Eugenio Ferrai (1833-
1897), aretino, letterato e umanista, per limghi anni insegnante di greco
all' Universita di Padova, traduttore dei dialoghi di Platone (Padova 1873-
1883)- 5- Pietro Siciliani (1835-1885), filosofo e pedagogista. Dapprima
medico, si dedico poi alia filosofia, ,e fu positivista. Nel 1876 passo all'Uni-
versita di Bologna come insegnante di filosofia teoretica. 6. Francesco Silvio
Orlandini (1805-1865), letterato fiorentino, di ideali ghibellini come Gio-
van Battista Niccolini, fu ammiratore e raccoglitore degli scritti del Foscolo.
Tenne per cinque anni, dal 1859 al 1865, la presidenza del Liceo fioren
tino. Awers6 gli inizi poetico-letterari del Carducci.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 433
Giullari sanno quanto favorisse lo sbandamento degli scolari code-
sta necessita di correre da un punto alFaltro della citta per andare
a lezione.
Non ostante tali inconvenient! il numero degli alunni era straor-
dinariamente aumentato, e venivano continuamente a Firenze per
far gli studi liceali giovani d'altre provincie d' Italia, specie della
Sicilia e del Mezzogiorno, dove il novus or do non era ancora nato
dal caos. In una oscura e incomoda sala del palazzo Borghesi piu di
cento assistevano alle lezioni di filosofia del Siciliani, od a quelle
del Bianciardi1 che comentava e spiegava la Divina Comedia. E
fra i tanti mi par di avere ancora davanti agli occhi, quali erano
allora, Andrea e Cino Corsini figli di Neri, marchese di Laiatico,
morto alia fine del 1859 a Londra, dove era oratore del Governo
Toscano; Tommaso Cambray Digny,2 stato poi per molti anni
deputato di Firenze e rapito, come i due Corsini, da morte im-
matura; Giorgio e Sidney Sonnino,3 venuti da poco con il pa
dre a stabilirsi a Firenze; Ettore Socci,4 ora deputato dell'estre-
ma sinistra; Alessandro Bardi, morto pochi anni sono a Pechi-
no, dove era ministro d' Italia; due fratelli Branchi, uno dei quali
e ora console generale a New York; due fratelli Ascenzo Spa-
dafora, siciliani, de' quali oltre il nome ci avevano colpito la
fisonomia stranamente espressiva ed i pince-nez montati in tarta-
ruga, allora rarissimi fra i giovanotti di quella eta : e tanti e tanti
altri che si sono poi fatta strada nelle pubbliche amministrazioni
e nelle profession! liberali, ed ora sono quasi vecchi . . . o scom-
parsi.
II 15 marzo del 1860 fu rinnuovato a Firenze, con qualche va-
riante, il miracolo fatto da Giosue per vincere la battaglia di Ga-
i. Stanislao Bianciardi (1811-1868), educatore, desideroso di veder realiz-
zata una concordia fra Chiesa e Stato. Scrisse molti articoli nelle « Veglie»
e nelP« Esaminatore », giornale, quest'ultimo, da lui fondato a Firenze
nel 1864. 2. Tommaso Cambray Digny, figlio del gia ricordato Luigi Gu-
glielmo, nacque a Firenze nel 1845, mori nel 1901. Fu gtornalista e scrit-
tore, autore di opere teatrali, deputato di Firenze per sei legislature.
3. Sidney Sonnino (1847-1924), di padre italiano e di madre inglese, notis-
simo uomo politico, fu poi presidente del Consiglio (nel 1906 e nel 1909-
10) e ministro degli esteri (dal 1914 al 191 9); Giorgio era il fratello primo-
genito, nato nel 1844; studio scienze naturali. Vedi G, BIAGI, Sidney Son
nino, in a La lettura», luglio 1915, pp. 603-12, dove figurano molte notizie
sulla farniglia. 4. Ettore Socci: vedine a pp. 575 sgg. il Profile biografico.
28
434 UGO
baon. II barone Ricasoli non ferm6 il sole, che era tramontato da un
pezzo, ma fece dar ordine all'orologiaro di Palazzo Vecchio di ritar-
dare il suono della mezzanotte fin quando la Suprema Corte di
Cassazione non avesse finito lo scrutinio de' voti del plebiscito di
tutti i comuni della Toscana, per il quale scrutinio era solennemente
adunata fino dalla mattina.
Enrico Poggi,1 guardasigilli del Governo della Toscana, omet-
tino piccolo di statura ma di grande ingegno, e tutto pieno di atti-
vita e d'energia, impaziente per la lentezza con la quale lo scrutinio
procedeva, aveva gia mandato a dire piu volte al presidente di solle-
citare. Finalmente egli, che aveva preparato ed ordinato tutte le
operazioni del sufTragio universale, pote comparire alia ringhiera di
palazzo, e promulgare con «alta, chiara ed intelligibile voce» al-
rimmensa moltitudine affollata sulla piazza, sotto il portico degli
Uffizi e nelle vie circostanti, il resultato della votazione; con la
quale 366.571 toscani proclamavano la loro unione alia monarchia
costituzionale di Vittorio Emanuele. Gli araldi del comune, in co
stume del 400, girando su carri espressamente addobbati, divulga-
rono a suon di tromba la notizia per tutte le vie della citta festante
ed illuminata, mentre i cannoni del forte di Belvedere sparavano
cent'un colpo in segno di gioia.
Quattordicimila toscani votarono per un « regno separate », for
mula indeterminata ed astratta di voto, la quale poteva voler dire
molte cose, compresa la restaurazione degli Austro-Lorenesi, che
Napoleone III faceva mostra di desiderare. 6 stato fatto poi rile-
vare che, in nessun'altra regione d'ltalia si ebbe un tal numero di
voti contrari alia annessione; ma cio non vuol dire che in Toscana
il sentimento nazionale fosse meno forte che altrove. Quando i
Toscani furono chiamati a decidere la loro sorte politica, se Punita
d* Italia era nel desiderio dei piu, appariva ancora a molti come una
bella Utopia difficile a realizzarsi. II considerare come insormonta-
bile tale difficolta fu, probabilmente, una delle cause principali dei
14.000 e tanti2 voti contrari, che non si sarebbero potuti raccogliere
nelle Marche, nelFUmbria, nelle provincie del Mezzogiorno ed in
Sicilia, dove la formula del plebiscito fu piu precisa, consistendo in
i. II fiorentino Enrico Poggi (1812-1890) fu giurista, storico e uomo poli
tico. Ministro di grazia e giustizia nel governo prowisorio toscano del 1859.
Ha lasciato, tra Paltro, Memorie storiche del governo della Toscana nel
1859-60, Pisa 1867. 2. e tanti: precisamente, 14925.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 435
un semplice e concise dilemma, cioe: « annessione o non an-
nessione ? »
S'ingannerebbe chi dal numero di quei voti volesse trarre il-
lazioni contrarie alia sincerita ed alia diffusione dell'idea nazionale
in Toscana. Si puo anzi affermare che, alPinfuori del Piemonte
dopo il 1849, in nessuna altra regione esisteva praticamente Pita-
lianita come in Toscana, dove anche il governo granducale, pur
ligio all5 Austria, sembrava favorirla, tollerando e qualche volta acco-
gliendo onorevolmente esuli d'altre parti d' Italia, e chiamando ad
insegnare nel granducato uomini nati e venuti in fama fuori de*
confini di esso. Prima del 1848 molti non toscani s'erano stabiliti
in Toscana: molti altri v'erano stati sbalzati dagli awenimenti po-
litici del 1848 e 1849, e ^i non picc°la parte del movimento in-
tellettuale della Toscana erano stati precursori italiani di altre
provincie.
Avevano insegnato od insegnavano ancora da cattedre toscane;
il Pilla di Venafro,1 professore di geologia a Pisa, caduto a Curta-
tone alia testa d'una compagnia del battaglione universitario ; Mau-
rizio Bufalini di Cesena; Carlo Matteucci di Forli; il Puccinotti
d'Urbino; il Mossotti di Novara; Leopoldo Nobili2 di Reggio Emi
lia, compromesso nei moti del 1831. Era di Palermo il professore
Parlatore3 direttore dell'orto Botanico: di Modena Tastronomo
i. Leopoldo Pilla (1805-1848), dal 1841 occup6 la cattedra di geologia e
mineralogia nell'Universita di Pisa, donde parti con i suoi studenti per la
prirna guerra di indipendenza, e cadde a Curtatone. 2. II medico Mau-
rizio Bufalini, nato a Cesena nel 1787, visse soprattutto a Firenze, dove fu
professore di medicina dal 1835, e mori nel 1875. Sostenne nei suoi molti
lavori metodi analitici e sperimentali contro il «vitalismo» allora domi-
nante. Fu elegante scrittore: lascio, tra 1'altro, degli interessanti Ricordi;
Carlo Matteucci: vedi la nota 4 a p. 164. Partecipo agli eventi del 1848-
1849 e ai successivi. Senatore e poi ministro della pubblica istruzione
(1862) del Regno d' Italia; Francesco Puccinotti (1794 -1872), medico, sto-
rico della medicina, insegno nelle Universita di Macerata, Pisa, Firenze,
dedicando i suoi studi soprattutto alia medicina sociale; Ottaviano Fa-
brizio Mossotti (1791-1863), fisico, matematico, astronomo, insegno a
Buenos Aires, a Corfu e, dal 1840, a Pisa. Combatte con i suoi studenti,
nel 1848, a Curtatone e Montanara; Leopoldo Nobili (1784-1835), fisico
assai stimato, dov£ abbandonare il ducato di Modena dopo il 1831, e
ottenne allora a Firenze una cattedra al Museo di fisica e storia natu-
rale. 3. Filippo Parlatore (1816-1877) fu tra i piu stimati botanici del
suo tempo. Nel 1842 venne a Firenze. Per sua proposta, in Firenze
sorse Torto botanico, di cui egli fu il primo direttore per nomina di Leo
poldo II.
436 UGO PESCI
Amici1 direttore della Specola; d'Oneglia il Vieusseux,2 il cui ga-
binetto letterario, a Santa Trinita, £u per tanti anni il centre del-
Fattivita intellettiva e della cultura liberale non della sola Firenze
ma di gran parte dj Italia. Era di Padova Eugenio Alberi,3 che ebbe
per alcuni anni bella fama come scrittore e la compromesse poi
impacciandosi di cospirazioncelle reazionarie. Era piemontese Ga-
spero Barbera,4 che, fattosi presto largo come editore, pubblicava
ancor prima del 1859 opere di scrittori italiani di fuor di Toscana, e
nel 1859 incomincio la ccBiblioteca civile deiritaliano», dando fuori
nelPaprile, con i nomi del Ricasoli, del Salvagnoli, del Peruzzi,5
di Cosimo Ridolfi,6 di Tommaso Corsi,7 di Leopoldo Cempini8 e
Celestino Bianchi il volumetto Toscana ed Austria? che per la
dinastia lorenese fu peggio d'una sommossa . . .
i. Giovanni Battista Amici (1786-1863) dal 1831 visse a Firenze, quale
astronomo al Museo di fisica e storia natural e. Grandi i suoi meriti nel-
Pottica, per il perfezionamento dei microscopi, grandissimi nella storia na-
turale per i suoi studi e le sue scoperte sulla fecondazione dei vegetali e
sulla patologia vegetale. 2. Gian Pietro Vieusseux (1779-1863), di One-
glia, ma ginevrino di origine, notissimo animatore della vita intellettuale
fiorentina, fondatore di un' Gabinetto scientifico-letterario, della famosa
« Antologia », soppressa nel 1833,6 dell'« Archivio storico italiano ». 3 . Euge
nio Alberi (1817-1878) ebbe fama soprattutto per 1'edizione da lui attuata,
sugli autografi, di tutte le opere del Galilei e, inoltre, delle relazioni degli
ambasciatori veneti del secolo XVI. Era venuto a Firenze nel 1838. Vicino
dapprima al Vieusseux e, in un certo periodo, neoguelfo giobertiano (Del
Papato e dell* Italia), divenne poi legittimista rigido e nemico dell'unita
italiana. 4. Gaspero Barbera (1818-1880), venuto a Firenze, vi lavoro dap
prima presso 1 'editore Fumagalli, poi presso il Le Monnier. Successivamen-
te si associ6 con i fratelli Bianchi, tipografi, dei quali fu assai noto Celestino,
come letterato. II Barbera fu tra gli editori piu intelligent! ed attivi del suo
tempo e giovo con le sue edizioni al Risorgimento italiano. Ha lasciato
un libro di interessanti memorie (Memorie di un editore, Firenze, Bar
bera, 1883). 5. Ubaldino Peruzzi (1822-1891) fu sindaco di Firenze ca-
pitale. 6. Cosimo Ridolfi'. vedi la nota 4 a p. 159. 7. Tommaso Corsi
(1814-1891), di Livorno, liberale, col quale il Covour intesse accordi nel
1859. Dopo il 27 aprile prefetto di Firenze. Fu deputato, ministro col Ca-
vour, senatore dal 1873. 8. Leopoldo Cempini (1824-1866), fiorentino, uo-
mo politico. Partecipo alia campagna del 1848. Awerso al governo demo-
cratico restaurato in Toscana nel 1849, riparo in Piemonte. Si adoper6 nel
'59 per la cacciata del granduca. Fu poi deputato del Regno d' Italia. 9. II
volumetto Toscana ed Austria, che faceva parte della collezione « Biblioteca
civile dell' italiano », e apparve alia luce il 22 aprile 1859, era, in realta,
opera di Celestino Bianchi (1817-1885), sebbene gli altri patriotti ricordati
dal Pesci lo avessero sottoscritto per rendersi solidali con lui. II volumetto
mostrava i danni della politica lorenese continuamente succube alia volonta
dell' Austria. Per le vicende di questa pubblicazione, si veda G. BARBARA,
op. cit., pp. 151-6.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 437
Vittorio Emanuele entro la prima volta in Firenze nel pomerig-
gio del 1 6 aprile 1860. Percorse a cavallo le vie principali della
citta che meritava dawero il nome di citta dei fiori, tanti ne erano
abbondantemente sparsi dovunque; con archi trionfali, statue, tro-
fei, pennoni, stendardi profusi con grande sfarzo. Accanto al Re,
ma un passo indietro, cavalcavano il pingue principe di Carignano
in uniforme di ammiraglio, e lo stecchito barone Ricasoli, con il so-
lito abito nero a coda di rondine, cravatta bianca, cappello a gibus
in testa ed una sciarpa tricolore cinta intorno alia vita. Arrivato al
Duomo, Vittorio Emanuele scese da cavallo e v'entro, ricevuto dal-
Tarcivescovo Giovacchino Limberti, che aveva gia cantato il Te
Deum per il plebiscite. Ma poco dopo il secondo saggio di propositi
conciliativi, dato andando incontro al Re eletto, monsignore ri-
cevette dal Vaticano ordini perentorii di non prendere piu alcuna
parte a cerimonie di carattere nazionale.
Non si puo descrivere, pure avendola bene in memoria, Pacco-
glienza fatta a Vittorio Emanuele in Firenze. Enorme la quan-
tita di gente accorsa da ogni parte della Toscana: eloquentemente
evidente il contrasto fra la semplice curiosita che P aveva rictdamata
in occasioni recenti, e Pirrefrenabile entusiasmo suscitato in quei
giorni dalla presenza del Re Galantuomo, anche negli animi delle
persone piu posate, piu serie, piu riguardose nelPesprimere i loro
sentimenti. La sera precedente al giorno delParrivo, quantunque si
sapesse alPincirca Fora dello sbarco del Re a Livorno e della sua
partenza da quella citta per Firenze - due cose che dovevano acca-
dere il giorno seguente - due terzi della popolazione non si decide-
vano ad andare a casa, quasi temendo qualche sorpresa; e rimasero a
fare di notte giorno per le strade affollate, nelle quali si dava solle-
citamente P ultima mano agli addobbi, mentre nelle case si prepara-
vano altre bandiere ed altre coccarde, quasi non ve ne fosse abba-
stanza.
Gino Capponi,1 gia cieco, si fece accompagnare alia stazione per
essere uno dei primi a salutare il Re, dolente della sua cecita che
non gli permetteva di contemplare i lineamenti delPadulto figlio
i. II marchese Gino Capponi (1792-1876) era il personaggio piii ammirato
e venerate nella Toscana del tempo. Dopo la promulgazione dello Statute
toscano e dopo il ministero Ridolfi, fu a capo del governo dal 17 agosto al
27 ottobre 1848. Di idee moderate, si venne awicinando alia causa nazio
nale con sempre maggiore convinzione. Dopo Tannessione della Toscana
fu senatore e collare deU'Annunziata.
438 UGO PESCI
di Carlo Alberto, che egli aveva veduto bambino al Poggio Impe-
riale trentotto anni prima.
Giovan Battista Niccolini,1 il poeta di Giovanni da Prodda e di
Arnaldo da Brescia, che da qualche anno pareva preso da cupa me-
lanconia, si ridesto ad un tratto e fattosi accompagnare a Palazzo
Pitti per presentare a Vittorio Emanuele le sue tragedie, come vate
ispirato disse al Sovrano i versi del Prodda:
Qui necessario estimo un Re possente:
sia di quel Re scettro la spada, e Velmo
la sua corona . . .
con quel che segue.
Da Firenze, Vittorio Emanuele accompagnato dal Farini2 ando
per la via delle Filigare a Bologna, dove il i° maggio il conte di
Cavour, tomato subito a Torino dopo una breve comparsa a Fi
renze, raggiungeva frettoloso il Re; ed in una stanza terrena della
gia villa legatizia di San Michele in Bosco, dove il Re risiedeva, dopo
un lungo ed animato colloquio fu stabilito di non impedire se non
di favorire la spedizione dej Mille. Ricordo che alcuni fiorentini e
toscani facevano parte di quella spedizione e delle seguenti partite
per la Sicilia, e Pansia con la quale erano attese e richieste loro
notizie. Ricordo la commozione provata da tutta Firenze quando
nel giornale « II Lampione» fu pubblicata una lettera diretta ad un
amico da Beppe Bandi3 per annunziargli d'essere stato ferito a Ca-
latafimi. Chi avrebbe pensato allora che il povero Beppe sarebbe
stato poi direttore d'un giornale, e gli anarchici lo avrebbero assas
sinate per che diceva la verita con lo stesso coraggio con il quale
aveva afrrontato le palle borboniche?
i. Giovan Battista Niccolini (1782-1861), drammaturgo tra i piu noti
del nostro Risorgimento. Visse e mori a Firenze. Fra le sue tragedie ebbero
grande fama il Giovanni da Prodda (composto nel 1817, reso pubblico
nel 1830) e V Arnaldo da Brescia (1843), in cui e vivacemente condannata
ogni forma di teocrazia. I versi citati appartengono al Giovanni da Procida,
atto n, scena m. 2. Luigi Carlo Farini (1812-1866), dittatore, resse il go-
verno delTEmilia, da Villafranca fino al plebiscite e alPannessione al
Piemonte, che ebbe luogo nel marzo del 1860. Vedi su di lui il i tomo
dei Memorialisti delVOttocento, a cura di G. Trombatore, in questa stessa
collezione, pp. 533-92. 3. Giuseppe Bandi (1834-1894) combatte a Cu-
stoza nel '59 con 1'esercito regolare, in Sicilia con Garibaldi. Lasciato
Tesercito, si volse interamente al giornalismo. Mori pugnalato da anarchici.
£ autore, fra Taltro, de I Mille (1886), in cui rievoca la spedizione garibal-
dina. Su lui vedi il i tomo dei Memorialisti deW Ottocento, qui sopra ci
tato, pp. 895-1003.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 439
Ricordo anche la ressa con la quale tanti giovanotti fiorentini
andarono ad arruolarsi nella brigata garibaldina che Giovanni Ni-
cotera1 stava formando a Castel Pucci, vicino a Firenze - luogo
assegnatogli dal governo - ed il putiferio prodotto dall'arresto del
Nicotera, awenuto in pieno giorno, in piazza della Signoria, e del
quale non si seppe ne si e mai saputo chi avesse dato Pordine. II
Ricasoli dette quello di rilasciarlo, prowedendo nel tempo stesso
alia sollecita partenza della brigata, sicche i fiorentini arruolati non
poterono neppure correre a casa ad abbracciare i parenti, ma arri-
varono a prender parte alia battaglia del i° ottobre al Volturno.
Anche il Principe di Piemonte ed il Duca d'Aosta2 venuti a Fi
renze nel gennaio del 1861, vi furono accolti cori molta festa.
Amedeo era allora esile ed aveva 1'aspetto malaticcio; ne quello
d'Umberto prometteva la maschia fisonomia che egli ebbe poi da
giovinotto e da uomo mature. Ambedue erano un po' timidi ed
impacciati: spesso con uno sguardo chiedevano consiglio al loro
severo governatore, il generale Rossi: ma, quantunque sulle prime
avessero destato un po' lo spirito critico e mordace dei fiorentini,
lasciarono ottima impressione per la serieta del loro contegno.
Nella primavera dello stesso anno 1861 fu mandate a Firenze un
battaglione mobilizzato della Guardia nazionale di Napoli. A pa-
ragone delle nostre, che avevano per uniforme il solo cappotto gri-
gio chiaro, le guardie nazionali di Napoli, in tunica attillata con
mostre color amaranto, erano stupendamente vestite. II batta
glione era proweduto di un gran numero di tamburini e di zappa-
tori, con grembiuli bianchi di pelle dal collo ai ginocchi, e barbe
piu lunghe di quella del Mose di Michelangelo. I fiorentini, un
i. Giovanni Nicotera (1828-1894), fuggito dalla nativa Calabria, fu esule
a Malta e a Corfu. Partecipo nel '49 alia difesa di Roma; compagno del
Pisacane nella spedizione di Sapri, fu ferito, graziato della vita, chiuso in
carcere e liberato nel 1860. Inviato da Mazzini, comandava a Castel Pucci
una brigata garibaldina in via di formazione, che appariva arruolata per
portare aiuti a Garibaldi, ma che si preparava, nell'intenzione dei mazzi-
niani, a invadere lo Stato pontificio. Un proclama del Nicotera desto so-
spetto nel Cavour, che invitd il Ricasoli a prowedere. Dopo rarresto, la
cui responsabilita apparve poco chiara, i volontari furono imbarcati e
condotti a Palermo. II Nicotera lascio allora il comando di quella forma
zione, ormai sfuggita al programma mazziniano. 2. il Principe . . . Aosta :
Umberto di Savoia (1844-1900), allora principe ereditario; Amedeo duca
d'Aosta (1845-1890), secondogenito di Vittorio Emanuele II, fu poi re di
Spagna dal novembre 1876 all'u febbraio 1873.
440 UGO PESCI
po* increduli per abitudine, sospettavano artificialmente arricchito
quelPonore del mento, ed i monelli studiavano ogni modo per con-
vincersi della autenticita. Un gigantesco capotamburo con un
enorme cappello peloso sormontato da un grosso e lungo pennac-
chio, ed una mazza da guardia portone, ch'egli gettava in alto per
ripigliarla a volo, era ammirato da tutti i bighelloni, che anche allora
non erano pochi.
I napoletani piacquero per la loro loquace vivacita, il gesticolare
continue e frequente, e per tutto il complesso delle loro qualita
esterne, delle quali, essendo stata breve la loro dimora, i fiorentini
non ebbero tempo di essere sazii.
La morte del conte di Cavour, awenuta il 6 giugno, produsse in
Firenze un profondo cordoglio, espresso con tutte le possibili ma-
nifestazioni esterne di lutto. Quasi tutti avevano un velo nero al
braccio o al cappello. II doloroso fatto dette anche occasione ad un
incidente che avrebbe potuto avere conseguenze molto piu gravi
di quelle che ebbe. II 7 di giugno ricorreva 1'ottavario del Corpus
Domini, ed in quel giorno si celebrava in Duomo una funzione reli-
giosa, con Passistenza dell'Arcivescovo, ed una processione in chiesa
ed intorno alia chiesa. I fautori di reazione e di restaurazione gran-
ducale non seppero o non vollero avere 1'accorgimento di differire
almeno la processione: parve invece che volessero darle inconsueta
apparenza di pompa, con il maligno proposito di offendere in qual-
che modo il sentimento di dolore della maggioranza. Vi fosse o no
rintenzione, 1'atto per lo meno inconsiderate suscit6 lo sdegno di
molta parte della popolazione. I processionanti, fra i quali erano ex
ministri e dignitari della corte granducale, furono prima solenne-
mente fischiati; poi, essendo piu facile il muovere gli impeti di
passione che il trattenerli, a parecchi furono strappati di mano e
sbattuti in faccia i torcetti di cera, dal che quella prese il nome di
giornata delle «torcettate». II tumulto ed il fuggi fuggi si sparsero
in un baleno per la citta: la Guardia nazionale - sia pace alia sua
belPanima - fu quel giorno veramente benemerita dell'ordine pub-
blico. Seppe impedire che fosse insultato 1'Arcivescovo, accompa-
gnandolo al suo palazzo : trattenne i piu scalmanati che inseguivano
in Duomo i processionanti awiati di corsa a rifugiarsi nella sa-
grestia; e termin6 le sue fatiche a sera avanzata, accompagnando
fino di la d'Arno i seminarist!, che, al primo scompiglio, erano an-
dati a rimpiattarsi dovunque avevano trovato ricovero.
FIRENZE CAPITALS (1865-1870) 441
II 15 settembre, Vittorio Emanuele, venuto di nuovo a Firenze,
v'inaugurava, all'antica stazione della ferrovia di Prato e Pistoia,
fuori porta al Prato, adattata alia meglio per Poccasione, la prima
Esposizione nazionale,1 deliberata nel giugno del 1860, dal primo
Parlamento Italiano. La cerimonia inaugurate fu veramente so-
lenne, e non meno lo furono le feste che la seguirono. La celebre
Marietta Piccolomini,2 da poco ritiratasi dai trionfi delle scene dopo
il suo matrimonio con Francesco Caetani marchese della Fargna,
cugino del duca di Sermoneta, canto alia Pergola come si cantava
a que' tempi, Pinno a La Croce di Savoia, scritto da Giosue Car-
ducci3 nel 1859 e musicato dal maestro Romani.4 Molti ancora ri-
cordano d'aver veduto manifesti i segni della comrnozione su la
faccia maschia e soldatesca del Re, quando alle parole
Bianco, croce di Savoia,
Dio ti salvi e salvi il Re
dette dalla Piccolomini con voce calda ed appassionata, rispose un
grido d'irrefrenabile entusiasmo dai petti dello sceltissimo pubblico
scattato in piedi.
L'Esposizione del 1861 fu per la maggior parte dei fiorentini,
de' toscani, degli italiani d'allora una inaspettata rivelazione di
cose sconosciute : fu un mezzo efficacissimo per far si che, procla-
mato il regno dj Italia, gli Italiani si cominciassero a conoscere fra
loro, e ad apprezzare quanto valevano. L'antica stazione, accomo-
data come si poteva meglio, raccolse quanto la ristrettezza del
tempo permise di mandare ai fabbricanti, agli agricoltori, agli artisti
d'un paese da due anni in rivoluzione ed in guerra, e costituito da
pochi mesi. Ma non soltanto si mettevano in evidenza, in quella
mostra, i prodotti della operosita artistica ed industriale italiana:
i. La prima Esposizione nazionale, proposta da Quintino Sella, fu organiz-
zata da un comitato di cui furono animator! Cosimo Ridolfi e Francesco Ca-
rega di Livorno. Le si attribui un grande significato politico. II Carega ha
lasciato un volume, La esposizione italiana agricolay industriale e artistica
tenuta in Firenze nel 1861, Firenze 1862. 2. Maria Piccolomini, senese, fu ai
suoi tempi tra le cantanti piti celebri, ed ebbe trionfi anche a Parigi, a
Londra, in America. 3. Vinno . . . Carducci: 1'inno a La Croce di Savoia
figura nel libro VI dei Juvenilia. Di esso scrisse il Carducci nel 1880, nella
prefazione alia raccolta dei Juvenilia : cfr. Opere, xxiv (edizione nazionale),
pp. 71 sgg. 4. Carlo Romani (1824-1875), di Avellino, compositore,
aveva studiato a Firenze e vi si era fermato.
442 UGO PESCI
vi si trovavano a contatto, si guardavano, si studiavano scambievol-
mente, gli abitanti variamente parlanti di tutte le regioni del nuovo
State italiano.
Davanti ai quadri di Domenico Morelli, dell'Ussi e del Celen-
tano,1 al cannone a retrocarica inventato dal generale Cavalli2 e
gia adoperato contro Gaeta, al pantelegrafo dell'abate Caselli,3 ai
primi pianoforti fabbricati a Torino sulle tastiere de' quali scorre-
vano le agilissime dita del pianista Tito Mattel ;4 davanti alle por-
cellane del Ginori, ai prodotti agricoli delle Puglie e della Sicilia,
ai damaschi di Como, ai velluti e alle trine di Genova e della Li-
guria, alia Victoria Regia3 che il prof. Parlatore era riuscito a far
nascere per la prima volta in Italia nelPorto botanico di Firenze, alia
Leggitrice scolpita dal Magni,6 ed a tante e tante altre opere dell'in-
gegno italiano, si udivano parlare tutti i dialetti della penisola,
ed uomini con i capelli grigi, per i quali Viareggio od Arezzo erano
stati fmo a quel giorno I'ultima Thule, cominciarono a comprende-
re dawero la Italia grande e forte, da loro vagamente intraveduta
come in un sogno ; mentre i musaici ed i vetri di Venezia e di Mu-
i. Domenico Morelli era nato a Napoli nel 1823 e vi mori nel 1901. Nella
esposizione del 1861 ebbero grande successo i suoi quadri Gli iconoclasti
(1854), II conte di Lara e Bagno pompeiano-, Stefano Ussi, nato a Fi
renze nel 1822, morto ivi nel 1901, combatte" a Montanara, tra i volon-
tari, e vi rimase prigioniero. Liberate, visse a Firenze, ma viaggi6 in
Egitto (1869) e in Marocco (1874, con il De Amicis). Tra le tante sue
ppere qui si allude soprattutto a La cacciata del duca d'Atene, finita
in quel tempo; Bernardo Celentano, nato a Napoli nel 1835, morto a
Roma nel 1863, ebbe compagno e consigliere Domenico Morelli. La sua
maggiore opera e il Consiglio dei Died, dipinta nel 1862. Caratteristico,
tra le sue prime opere, VAutoritratto. 2. cannone . . . Cavalli'. Giovanni
Cavalli (1808-1879), ufficiale di artiglieria, direttore della Fonderia di
Torino, ideo i cannoni a retrocarica, che da lui presero il nome. 3. pante
legrafo . . . Caselli: telegrafo elettrico, inventato nel 1856 dalPabate Gio
vanni Caselli (1815-1891), per mezzo del quale si potevano trasmettere
scritti e disegni. 4. Tito Mattel (1841-1914), celebre pianista e com-
positore. Fu anche, per qualche tempo, pianista alia corte reale d' Italia.
Dal 1865 si stabili a Londra, dove fu direttore d'orchestra del Teatro
delT opera italiana e scrisse varie opere (Maria di Gand, Londra 1880,
ecc.). 5. La Victoria Regia e una particolare specie di pianta acquatica,
di vaste dimensioni, con grandi foglie verdi scure di sopra e rosse di sotto,
propria del Rio delle Amazzoni. La sua cultura fu realizzata dal professor
Parlatore con particolari accorgimenti, in vasi posti in bacini di stufe a
temperatura accuratamente regolata. 6. Pietro Magni (1816-1877) fu per
lunghi anni insegnante all'Accademia di Brera. La Leggitrice, il David, il
Socrate sono tra i suoi primi lavori. 6 opera sua la statua di Leonardo da
Vinci in piazza della Scala a Milano, la fontana nell'atrio del museo Re-
voltella a Trieste, la Storia di santa Prassede nel duomo di Milano.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 443
rano, le oreficerie romane, e molti quadri di soggetto patriotico,
tenevano sempre piu vivo negli animi il desiderio di veder presto
compiuta Punita nazionale.
Disgraziatamente cominciarono i dissensi fra le parti politiche.
Gli impazienti tentarono di vincere la mano ai prudenti e temperati,
che non sempre poterono esser tali quando furono obbligati a fre-
nare le impazienze generose ma inopportune. La stampa politica
quotidiana aveva gia acquistato difTusione ed autorita, ma non man-
cavano i giornali che stimolavano ed aizzavano le passioni, rammen-
tando al popolo i diritti e non i doveri. Oltre il « Monitore Tosca-
no))1, rimasto giornale officiale del governo anche dopo il 27 aprile,
si pubblicava in Firenze fino dal luglio 1859 « La Nazione»,2 allora
diretta da Alessandro D'Ancona: ma per le mani del popolo minuto
andavano dei giornaletti d'idee avanzate,3 scritti un po' alia becera,
che volevano screditare Topera del governo ed il principio d'au-
torita. Nel 1862, dopo gli awenimenti di Sicilia e d'Aspromonte,
anche a Firenze furono suonati i tre squilli, e soldati italiani do-
vettero per la prima volta inastare le baionette per disperdere la folia
che li fischiava. Non v'e peggio che incominciare. Lo spettacolo,
doloroso sempre, dolorosissimo in un paese non ancora solidamente
costituito ne intieramente libero dagli stranieri, si ripete molte
volte. I giornali dimenticarono sempre piu la coscienza della loro
grave responsabilita, le lotte partigiane s'inasprirono e diventarono
offensive e d'indole personale. Se negli ultimi dieci anni la trasfor-
mazione di Firenze era stata notevole, sia nella parte materiale della
citta sia nelle abitudini e nel modo di vivere dei cittadini, la liberta
improwisamente acquistata cambio anche piu sollecitamente il
modo di apprezzare, di giudicare, di sentire, e di esprimere senti-
menti e giudizi. A rendere turbolento lo spirito di una parte della
popolazione — che non era dawero la maggioranza - cooperarono
il dottrinarismo del partito liberale, ed un malinteso risentimento,
conseguenza di un grave errore politico. Ai Toscani prima del-
Pannessione, per desiderio poco giustificato dei loro governanti, e
i . « Monitore toscano » : vedi la nota 5 a p . 40 1 . a. II quotidiano « La Nasione »
apparve il 14 luglio 1859, subito dopo Tannunzio dei preliminari di Villa-
franca. Dapprima ne £u direttore Leopoldo Cempini e poi Alessandro
DyAncona (1835-1914), notissimo successivamente come uno dei maggiori
critici letterari della corrente positivista. 3. giornaletti ... avanzate'. tra
essi il Pesci allude certamente a « Lo zenzero », quotidiano repubblicano,
diretto da Emilio Torelli e sorto nel marzo del 1862.
444 UGO
per imprudente condiscendenza, allora bensi necessaria, del go-
verno di Torino, era stata promessa e concessa Fautonomia legisla-
tiva ed amministrativa. Ma, poiche - come scriveva il conte di Ca-
vour al colonnello Carini1 nell'ottobre del 1860 -ale annessioni
condizionate portano al sistema federative », e Fautonomia legisla-
tiva e manifestamente incompatibile con il sistema unitario, si do-
vette considerare quella concessione come lettera morta, offrendo
ai malcontenti un pretesto del quale si servirono per un pezzo gli
agitatori politici.
Ma, si puo affermarlo e proclamarlo senza temere contradizioni,
ogni qual volta gli agitatori tentarono di opporre i pregiudizi del
toscanesimo alia schiettezza del sentimento nazionale, non riusci-
rono nel loro malvagio intento, e pochi anni dopo 1'annessione non
si sarebbe potuta trovare in tutta la Toscana la minima traccia di
aspirazioni separatiste o federaliste.
Questo era Fambiente nel quale, ai primi di settembre del 1864,
appena terminata Fagitazione artificiale prodotta dalla proibizione
d'un comizio, che si voleva tenere per chiedere lo scioglimento
della Camera, s'incomincio a parlare anche a Firenze della Con-
venzione stipulata fra i governi di Torino e di Parigi, in forza della
quale si sarebbe dovuta trasportare a Firenze la capitale del Regno,
come aveva gia consigliato Massimo d'Azeglio, che allora abitava
molto a Firenze, nel suo opuscolo sulle Questioni urgenti, pubbli-
cato dal Barbera nel i86i.2
i. come . . . Carini: Giacinto Carini (1821-1885), combattente nel '48 nella
Sicilia insorta e poi al seguito di Garibaldi nella spedizione dei Mille.
Entr6 successivamente nell'esercito regolare, fu deputato di Palermo per
varie legislature. La lettera di cui qui si fa cenno si trova a pp. 55-6 del
volume iv di C. CAVOUR, Lettere edite ed inedite, a cura di L. Chiala, To
rino, Roux e Favale, 1884-1887. 2. trasportare . . . 1861: vedi Topuscolo
citato, a pp. 51-2.
FIRENZE CAPITALS (1865-1870) 445
[LA CONVENZIONE DI SETTEMBRE - IL RE A FIRENZE]1
Non occorre narrare la storia delle origin! della Convenzione di
settembre, stata scritta anche da chi ebbe parte principalissima nel
concluderla.2 Basta rammentare che il ministero Minghetti,3 ac-
cettando la proposta di stipularla, non fece che conformarsi ad
una idea gia avuta dal conte di Cavour,4 e la parte della Conven
zione particolarmente relativa al trasporto della capitale a Firenze
fu conseguenza immediata d'uno stato di cose che non poteva es-
sere cambiato; ma nessun fiorentino v'ebbe ne colpa ne peccato.
II generale Manfredo Fanti5 aveva gia espresso da tempo il suo pa-
rere intorno alia necessita di tale trasferimento in caso di guerra
con P Austria; guerra che presto o tardi si doveva combattere per
liberare la Venezia. Per molte altre ragioni, oltre quelle militari
addotte dal Fanti, Massimo d'Azeglio, come ho accennato,6 aveva
scritto fino dal 1861, che come sede del governo italiano, stimava
Firenze preferibile ad ogni altra citta d' Italia.
Della probabile effettuazione del trasferimento si era parlato
sino dal maggio senza che a Torino se ne offendessero : il Mor-
dini,7 che sedeva allora all'estrema sinistra, aveva proclamato alia
i. Ed. cit., dal cap. i (Da Torino a Firenze), pp. 59-65. 2. stata . . . conclu
derla: il Pesci allude a Marco Minghetti e al suo volume La Convenzione di
settembre, Bologna, Zanichelli, 1899. 3. Marco Minghetti (1818-1886),
studioso di problem! economici e agrari, nel '48 fece parte del primo mini
stero laico in Roma, ma dopo 1'allocuzione pontificia del 29 aprile, lasciata
Roma, raggiunse Carlo Alberto. Combatte nel '48 e nel '49. Collaborator del
Cavour, fu poi ministro degli intern! nel gabinetto Lanza (vedi la nota 4
a P- 457)- Ministro delle finanze col Farini, divenne poi presidente del Con-
siglio (31 marzo 1864) e stipulo la Convenzione di settembre. Fu di nuovo
presidente dal 10 luglio 1873 all'awento della Sinistra (1876). I suoi antichi
rapporti con Pio IX e la sua moderazione politica lo fecero apparire ai piu
accesi poco energico nelk auspicata politica anticlericale. 4. una idea . . .
Cavour : il Cavour aveva gia lavorato per un accordo con la Francia sulla
questione romana: ritiro da Roma delle truppe francesi, e obbligo del-
T Italia a garantire da ogni aggressione il territorio del papa e ad accetta-
re la formazione di un piccolo esercito pontificio. Vedi L. CHIALA, Dal 1858
ali8g2. Pagine di vita contemporanea, Torino 1892-1898, pp. 211 e 214.
5. Manfredo Fanti (i 808- 1865), gia combattente per la liberta delle Romagne
nel 1831 e della Spagna dal '35 al '48. Comando i regolari piemontesi in
Crimea e nella guerra del '59, quindi le forze dell' Italia centrale e fu allora
nominate ministro della guerra. 6. come ho accennato: vedi p. 444 e la
nota 2. 7. Antonio Mordini (1819-1902), dapprima mazziniano, aveva
poi accettato la soluzione monarchica. II 15 novembre 1864 sostenne alia
Camera il trasporto della capitale a Firenze.
446 UGO PESCI
Camera la impossibilita di governare da Torino. Consenziente
Vittorio Emanuele, non con entusiasmo, ma con plena coscienza
di fare atto prowido, il trasferimento era stato deliberato in massi-
ma, e sanzionato anche da un Consiglio di generali,1 presieduti
dal principe di Carignano, die escludendo Napoli troppo esposta
dalla parte del mare, dette la preferenza a Firenze, secondo 1'opi-
nione del Fanti e dei fratelli Mezzacapo.2 II Re, pure addolorato di
lasciare Torino dove era nato, rassegnandosi anche al nuovo sa-
grifizio per Punita d'ltalia, s'era gia dichiarato in favore di Firenze.
II 15 settembre fu firmata la Convenzione: il 21 e il 22 accaddero
a Torino i dolorosi fatti a tutti noti.3 II governo aveva commesso dei
gravi errori, non si puo metterlo in dubbio: prima di tutti quello di
lasciar partire la guarnigione di Torino per il campo di San Mau-
rizio precisamente quando, o per moto spontaneo, o perche v'era
chi soffiava nel fuoco, cominciavano le prime dimostrazioni. Molto
peggio del trattenere le truppe fu il doverle richiamar subito, e il
non adoperarle come la prudenza avrebbe voluto: ma non puo far
meraviglia che cio awenisse, considerando quanto fosse contrario
alia Convenzione ed ai ministri il generale Delia Rocca4 che le co-
mandava. Cosi molto si irritarono i Torinesi i quali, sempre dispo-
sti ad ogni sacrificio per il bene della patria, avrebbero trangugiato
con disinvoltura Tamaro calice, se fosse loro stato presentato con
maggior garbo.
Al ministero La Marmora,5 succeduto a quello Minghetti dopo
i. un Consiglio di generali: la riunione ebbe luogo il 18 settembre 1864,
cioe dopo la firma della Convenzione di settembre, ma prima che il Parla-
mento fosse chiamato ad approvarla. Vi presero parte Cialdini, Durando,
Delia Rocca, De Sonnaz e 1'ammiragHo Persano. 2. fratelli Mezzacapo:
Carlo Mezzacapo (1817-1905) e il fratello Luigi (1814-1885), entrambi
generali, provenivano dall'esercito borbonico, ma erano presto passati in
quello nazionale. Vedi U. PESCI, II generale Carlo Mezzacapo e il suo tempo,
Bologna, Zanichelli, 1908. 3. il 21 . . . noti: a Torino, alle prime notizie
sulla Convenzione, il 21 settembre si ebbero dimostrazioni, che nel giorno
successive si trasformarono in vere violenze, quando in piazza San Carlo
si verified uno scontro sanguinoso tra la folia e gli allievi carabinieri.
4. Enrico Morozzo Della Rocca (1807-1897), generale, uomo politico e uomo
di corte, assai vicino a Vittorio Emanuele II, che spesso si servi della sua
opera. 5. Alfonso La Marmora (1804-1878), generale piemontese devo-
tissimo alia dinastia sabauda, piu volte ministro, nel '55 comandante in
capo del corpo di spedizione in Crimea, presidente del Consiglio, dopo
Parmistizio di Villafranca e dopo i fatti di Torino, il 24 settembre 1864.
Negozio cosi con la Prussia Talleanza antiaustriaca per la campagna del
'66, il cui esito infelice fu per gran parte dovuto alia sua inefficienza stra-
tegica.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 447
i disordini di Torino, tocco il non ambito ufficio di far approvare
la Convenzione dal Parlamento. Ma il dilemma era semplice e
chiaro. Vittorio Emanuele Faveva accettata senza entusiasmo, ma
ormai nulla al mondo Favrebbe indotto a disdirla: ed i ministri ai
quali egli affidava il governo, o non dovevano accettare Fufficio, o
dovevano approvare incondizionatamente quanto il Re li incaricava
di sottoporre all' appro vazione del Parlamento,
La Camera, come ognun sa, nella seduta del 18 novembre, con
296 voti contro 63 e 3 astenuti, delibero di passare alia discussione
degli articoli della proposta di legge; e nella stessa seduta, con
270 voti contro 70, approve 1'articolo i°, il quale diceva:
« La capitale del Regno sara trasferita a Firenze dentro sei mesi
dalla data della presente legge ».
La proposta di legge m approvata con grande maggioranza an-
che dal Senato ai primi del dicembre; e subito dopo sanzionata
dalla firma del Re.
A Firenze, la promulgazione della legge non fu accolta con quel-
Fentusiasmo che, forse, a Torino s'inunaginavano. II primo atto
spontaneo della popolazione di Firenze, dopo i fatti di settembre
fu anzi la manifestazione di un sentimento di rammarico per quanto
era awenuto. Se alcuni cittadini di Firenze pensarono di poter tro-
vare il loro tornaconto nel trasferimento della capitale; se altri,
dolenti di aver veduto discendere al grado di citta di provincia Fex
capitale del granducato, credettero che la deliberazione del Parla
mento fosse un onore conferito o restituito alia loro citta, la mag
gioranza dei fiorentini sospetto subito che 1'onere potesse esser
maggiore delFonore. Spavento principalmente Fidea della inevita-
bile e quasi immediata sovrapposizione di un troppo abbondante
numero di abitanti venuti di fuori alia popolazione fiorentina o
infiorentinata. Ho notato come gli Italiani di altre regioni fossero
sempre stati accolti in Firenze cortesemente, senza preconcetti ostili
e senza pregiudizi di campanile; ma non era mai awenuta la im-
migrazione simultanea di parecchie migliaia di persone, la quale
poteva portare e porto un cambiamento radicale e troppo repen-
tino nelle abitudini cittadine, alle quali i fiorentini erano molto
attaccati.
Se Fimprevidenza del governo era stata una delle cause princi-
pali dei fatti di Torino, non si era fatto nulla intanto per attenuarne
il ricordo. Anzi! La discussione awenuta nella Camera sulla in-
448 UGO PESCI
chiesta ordinata intorno a quei fatti, quantunque terminasse con
1'approvazione di un patriottico ordine del giorno1 d'oblio, pro-
posto dal barone Ricasoli, aveva rinfocolato risentimenti in appa-
renza sopiti. Vi furono tumulti nelle sere del 25 e 26 gennaio 1865 ;
si ripeterono il 27, ed il 28 fu necessaria Pintromissione della Guar-
dia nazionale, sullo zelo della quale era prudente aver alcun dub-
bio in tale occasione. Uomini autorevoli, che avrebbero dovuto
adoperarsi pro bono pads, usavano invece della loro autorita per
tener viva 1'agitazione, non calcolandone le conseguenze.
La sera del 30 gennaio le sale del palazzo Reale si aprirono per
la prima festa di quell'inverno. Alcune centinaia di persone, riu-
nite in gruppi - alia testa d'uno de' quali v'era un deputato - ac-
colsero ed accompagnarono con fischi e grida di scherno le car-
rozze degli invitati al loro comparire in piazza Castello. Furono an-
che tirate delle sassate, e ne busc6 una il cocchiere d'un ministro
straniero. Molte carrozze tornarono indietro, non osando chi v'era
dentro attraversare la piazza dove i tumultuanti spadroneggia-
vano non disturbati ; altri invitati awertiti, non si mossero da casa ;
ed alia festa manco la maggior parte delle signore invitate.
Atteso invano, per due giorni, un atto del municipio di Torino
che valesse a separare nettamente la responsabilita del popolo to-
rinese da quella dei tumultuanti, la mattina del 2 febbraio i mi-
nistri si adunarono alia presenza del Re -che dietro ai cristalli
d'una finestra del palazzo reale aveva assistito alle sconvenienti
scenate - ed in quell' adunanza fu risoluto - quattro ministri erano
piemontesi, nessuno toscano - che Vittorio Emanuele partirebbe
la mattina seguente per Firenze. «La Gazzetta Ufficiale» del 3
dava 1'annunzio della partenza con le seguenti parole :
« Questa mattina alle ore 8, S. M. il Re e partito da Torino per
Firenze, accompagnato da S. E. il presidente del Consiglio dei
ministri, generale La Marmora ».
II conte Giuseppe Pasolini,3 che aveva gia chiesto di essere
dispensato dall'ufficio di Torino, scriveva quello stesso giorno al
Minghetti : «... ecco il frutto di aver lasciato che ognuno faccia
quel che vuole per cinque o sei giorni! »
i. L3 'ordine del giorno fu presentato dal Mordini, dopo un suo patriottico
discorso, il 15 novembre 1864. 2. Giuseppe Pasolini (1815-1876), senatore
dal 1860, gia ministro degli esteri dal dicembre 1862 al marzo 1863, era
allora prefetto di Torino, alia quale carica era stato chiamato due anni
avanti.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 449
Vittorio Emanuele passando per Piacenza e Bologna e per la
ferrovia Porrettana da poco aperta,1 giunse alia stazione di Firenze
lo stesso giorno alle 10% di sera, accompagnato dal generale
La Marmora, dal barone Natoli2 ministro della istruzione, e da
quasi tutti i component! delle sue case civile e militare. La sta
zione, orribile come e rimasta da quarant'anni, era sfarzosamente
illuminata e addobbata. Vi si trovavano tutti i senatori e deputati
di Firenze, le autorita civili, militari e municipali, moltissimi fra i
piu ragguardevoli cittadini. Partito da Torino piu dispiacente che
sdegnato dal torto fattogli, Vittorio Emanuele fu gradevolmente
sorpreso e commosso della affettuosa accoglienza che, specie a
quell'ora, non si aspettava; e manifesto eloquent emente la propria
commozione abbracciando, con insolita effusione, quegli che senza
contrasto era il piu onorando fra i presenti e fra i cittadini di
Firenze, il vecchio e cieco senatore Gino Capponi.
Altre sorprese aspettavano il Re. Subito fuori della stazione una
gran folia lo saluto con entusiastiche acclamazioni. Le vie che con-
ducono dalla stazione al palazzo Pitti - alcune delle quali molto
anguste - erano illuminate, imbandierate e gremite di gente ; e non
ostante Fora notturna vi stavano schierate le legioni della Guardia
nazionale, numerosissime. In via Tornabuoni, la carrozza del Re
che procedeva a stento fra tanta ressa, fu circondata dai soci del
Club deH'Unione e del Casino Borghesi, vale a dire dai rappresen-
tanti della nobilta e della migliore borghesia, con torcetti di cera,
che Taccompagnarono fino al palazzo. Costretto dalle insistent!
acclamazioni del popolo, il Re dovette piu volte affacciarsi al bal-
cone; e la mezzanotte era gia suonata da un pezzo quando tacquero
i festosi rumori di quella spontanea ed affettuosa accoglienza . . .
i. la ferrovia . . . aperta: la ferrovia della Porrettana, che univa Firenze a
Bologna, attraverso la Porretta, era stata inaugurata nel 1864. 2. Giu
seppe Natoli (1815-1867) ebbe molta parte nella rivoluzione siciliana del
1848; esule in Piemonte, fu deputato di Messina dopo il 1860. Ministro
gia con il Cavour nel 1861, reggeva il dicastero dell' istruzione nel secondo
gabinetto La Marmora.
450 UGO PESCI
[LA CRISI DEGLI ALLOGGI • IL MALUMORE DEI FIORENTINl]1
I fiorentini, awezzi al fare casalingo del governo granducale,
sotto al quale bastava per tutti i ministeri palazzo Vecchio e n'avan-
zava per chi n'avesse voluto; persuasi che si potesse governare
Pintiera 1' Italia e qualche altra parte del mondo aumentando qual-
che dozzina d'impiegati, erano stupefatti vedendo arrivare dal
a piccolo paese a pie delle Alpi » tale e tanto esercito di « funzionari »
e di cavajer? e non lietamente sorpresi dalla occupazione di tanti
palazzi, di tanti conventi, di tanti edifizi pubblici.
Ma questo era il minore dej mali. II maggiore consisteva nella
necessita di prowedere ipso facto un decente ricovero a tutte quelle
migliaia di persone venute, da un giorno all'altro, ad unirsi ai
118.000 abitanti che vivevano nella cerchia delle mura di Firenze,
non ancora atterrate. I fiorentini non proprietari di case, non ave-
vano motive di rallegrarsi di quell'inatteso aumento di popolazione :
ne furono anzi disturbati se non spaventati; non tanto perche il
sopraggiungere di 25 o 30.000 persone di modi, d'abitudini, di
parlare differente, sconvolge necessariamente il regolare anda-
mento di una citta quieta e quasi metodica nelle sue abitudini;
quanto perche Taumento non desiderate costava alia maggior parte
molto di tasca, invece di procurare un guadagno. II solo annunzio
del trasporto della capitale aveva talmente aumentato il prezzo degli
affitti, da far rimanere molte persone, alia lettera, senza casa; ed il
Municipio non sapendo piu a quale santo votarsi, per prowedere un
ricovero alle famiglie piu bisognose, fece un contratto con la Societa
edificatrice di case operaie, la quale, mediante la garanzia di un
prestito di tre milioni, si assunse la costruzione di 3000 stanze, prese
subito in affitto, come era da prevedersi, da famiglie del medio ceto.
II Municipio ebbe anche la melanconica idea di spendere circa
un milione e mezzo, per edificare fuori delle porte alia Croce ed a
San Frediano, delle case di legno e ferro, diventate presto un inqua-
lificabile ricettacolo di sporcizia, che un incendio fortunatamente
distrusse nelPanno 1872.
Ma questi prowedimenti avevano, di fronte al bisogno, PefHcacia
che avrebbe Popera di chi pretendesse vuotare il mare con una
i. Ed. cit., dal cap. I (Da Torino a Firenze), pp. 69-74. 2. cavajer: e la forma
dialettale piemontese di « cavaliere », adoperata qui con una punta di ironia.
FIRENZE CAPITALS (1865-1870) 451
secchia! Piuttosto che bene, urgeva far presto, e vero! Ma le citta
s'improwisano in sei mesi soltanto nel West End1 e nelP Africa
Australe!
Naturalmente i nuovi venuti, non trovando da accasarsi, s'irri-
tavano e se la prendevano ingiustamente con chi non aveva al-
cuna colpa; i giornali sbraitavano a vanvera contro 1'inerzia del Mu-
nicipio, quantunque in pochi mesi avesse fatto il possibile per com-
pilare piani edilizi e procurare, se non altro, aree fabbricabili, chie-
dendo perfino 1'aggregamento al Comune di Firenze di alcune parti
di Comuni suburban!.
II Governo, fmo dal gennaio, tempestava da Torino con tele-
grammi e lettere, per che con il i° di maggio fossero pronte quante
abitazioni occorrevano agli impiegati da trasferire : le proposte degli
speculated fioccavano; si progettava di coprire di case non il solo
Parterre, rna le Cascine addirittura. Nessuno era contento, ed i
fiorentini meno di tutti, per paura che quel cataclisma cambiasse
addirittura la fisonomia di Firenze.
Con la capitale venivano, o Pavevano -accortamente preceduta,
parecchi negozianti di Torino, pieni di attivita e di pratica della
loro clientela, di attitudine a far bene il loro mestiere, ed a saper
vendere, come si dice, il loro cerotto. Si accaparrarono i migliori
locali, nelle posizioni piii belle o destinate a divenir tali, ornandoli
con sfarzo non mai veduto, stimolando a quel modo Pemulazione
dej negozianti fiorentini, e mandando presto in disuso il fare bona-
rio e patriarcalmente semplice delle botteghe di Calimara, porta
Rossa e Mercato Nuovo, dove ancora alcune conservavano la porta
con il muricciolo rialzato da un lato, gli sportelloni verdi coperti di
grossi chiodi, e il gran chiavistello che riuniva gli sportelli attraver-
sando a sghembo da una parte all'altra.
Scomparvero presto anche le abitudini piu che semplici delle
« mescite di minestre » e delle « canove di vino » dove si poteva fare
un discrete pasto bevendo un paio di bicchieri di vino buono,
con una spesa di sette od otto crazie - 49 o 56 centesimi - senza
tovaglia, s'intende, e con posate di ferro.
Vedendo scomparire quella semplicita, anche molte persone
intelligent! e d'idee moderne in tante altre cose, esclamavano
con grande rammarico, come Diego Martelli,2 quando il vinaio
i. West End: il Pesci intendeva forse scrivere Far West. 2. Diego Martelli
(1838-1896), giornalista e critico d'arte fiorentino: vedi la scelta dei suoi
452 UGO PESCI
Melini dette una prima ripulita alia sua bottega in via Calzaioli :
— Oh! mia buona e vecchia Firenze, dove sei tu?
Tutto sommato fra gli antichi abitanti, nati e vissuti all'ombra
del cupolone, ed i nuovi venuti - ora si puo dirlo francamente,
giacche acqua passata non macina piu - un po' di broncio vi fu
realmente; e come accade sempre in simili casi, un po' per colpa
degli uni, un po' per colpa degli altri : o per dir meglio ne per colpa
degli uni ne degli altri, ma per necessita degli eventi.
I nuovi venuti, sbalzati ad un tratto lontano dai loro paesi,
costretti a rinunziare contro voglia alle loro consuetudini materiali
e morali; attribuendo erroneamente, per una serie di malintesi,
tutti questi loro disturbi a cause molto differenti dalla causa vera,
ed airinframettenza dei fiorentini; credendo di essere soli a pa-
tire i danni per tornaconto degli altri, arrivavano mal prevenuti
contro Firenze; dicevano male anticipatamente di tutto e di tutti;
male delle usanze, dei fabbricati, della cucina, dei caffe, delle pas-
seggiate, del vino, delPacqua, della lingua parlata . . . sicuro : anche
della lingua! Lamentavano la mancanza di agii e di svaghi: avreb-
bero voluto a Firenze, i portici di piazza Castello, il monte dei
Cappuccini, le botte di Barbera, il caffe Fiorio, le totine, e tante altre
belle cose, molte delle quali vennero presto a raggiungerli.
Abituati a vivere in una citta relativamente moderna, mette-
vano in canzonatura il rispetto affettuoso dei fiorentini d'ogni ceto
per le glorie artistiche cittadine, ed il loro culto per le tradizioni
locali, non persuadendosi, ad esempio, che si potesse esprimere il
desiderio di non allargare una strada pur di non toccare un palazzo
delFAmmannato od un tabernacolo di Luca della Robbia.1
I fiorentini, dal canto proprio, seccati da tante nuovita frago-
rose che turbavano la loro apatica tranquillita; seccati - diciamolo
pure - dal vedere allargarsi ad un tratto il loro stretto orizzonte ;
risentendo i piu danno e non profitto dal rincaro delle pigioni e
della mano d'opera; sentendosi lacerare le ben costrutte orecchie
dalle orribili favelle degli immigranti, si ribellavano e rispondevano
salato alle critiche, correndo rischio di perdere la fama di mitezza
e di gentilezza goduta da secoli. Per esser giusti, bisogna dire pero
Scritti d'arte, a cura di A. Boschetto, Firenze, Sansoni, 1952. i. un palazzo
. . . della Robbia: numerose in Firenze le opere di architettura e scultura di
Bartolomeo Ammannati da Settignano (1511-1592). Ugualmente nume
rose le opere di Luca delta Robbia (i399?-i482), capostipite della celebre
famiglia di plasticatori.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 453
che i fiorentini non accolsero con premeditata animadversione i
nuovi venuti, come si legge in qualche storia, di quelle scritte con
prosopopea ed in molti volumi; ricambiarono bensi con la natu-
rale e pungente arguzia le canzonature di chi si credeva lecito di
dileggiarli, quasi per diritto di conquista: come si vede chiaro in
quanto fu scritto e stampato su tale argomento nei giornali del
tempo; specie in una assennatissima lettera, in data del 25 hi-
glio 1865, mandata all'a Opinione » dall'editore Gaspero Barbera,1
torinese di nascita, stabilito fino dal 1840 a Firenze dove era ben-
voluto e stimato.
I giornali - sia detto anche questo - seguitarono a tirare per le
lunghe le polemiche intorno a tale dissenso, che in fin de' conti
non meritava di sprecar tanto inchiostro. Le cause di esso erano in
realta superficiali. Non poteva durare e non duro molto tempo.
Le reciproche prevenzioni non erano del resto mai state unanimi,
ed erano svanite intieramente assai prima che gli awenimenti del
1870 portassero definitivamente la capitale da Firenze a Roma.
Presto Firenze si allargo, si trasformo,2 mostro di non sdegnare
le modernita; si ripulirono e si adornarono i caffe, le trattorie e
molti altri negozi; si moltiplicarono le mescite di liquori prima
quasi sconosciute ; i nuovi venuti cominciarono presto a trovarsi a
loro agio nella nuova capitale ; ad accorgersi che il caffe e latte equi-
valeva al bicierin? che il Chianti, la Rufina e il Pomino potevano
sostituire il Barolo, il Barbera, ed il Grignolino; che Fiesole, Ca-
reggi, il Romito valevano le colline di Torino e il Rubatto; e si
persuasero che tutto il mondo e paese. Tanto e vero, che molti pie-
montesi venuti a Firenze con la capitale nel 1865 per ragione di
ufficio, brontolando ed anche imprecando, vi sono poi rimasti a
godersi in santa pace la loro pensione, o vi sono tornati da Roma;
e nessuno sarebbe capace di persuaderli a cambiar domicilio per
tutto 1'oro del mondo.
i. una assennatissima. . . Barbera: la lettera e riprodotta dallo stesso Barbera
(per cui cfr. la nota4 a p. 436), nelle sue Memorie, a pp. 301-6. In appendice,
nello stesso volume (p. 562), figura Tinteressante lettera che Giosue Car-
ducci indirizzo al Barbera in quella occasione ; e cfr. Opere, xxvi (edizione
nazionale), pp. 327-8; Lettere, IV, pp. 290-1. 2. Presto.. . trasformo: sulle
molte opere pubbliche eseguite allora a Firenze, soprattutto dairarchitetto
Giuseppe Poggi, vedi G. POGGI, Relazione sui lavori per Vingrandimento di
Firenze, Firenze 1882. Tra 1'altro furono creati allora i viali di circonval-
lazione, il viale dei ColH, il piazzale Michelangelo. 3. bicierin: bicchie-
rino. L'espressione del dialetto piemontese giova al colore del brano.
454 UGO
[ALLEGRIA, PATRIOTTISMO E DISORDINI
NELLA NUOVA CAPITALE]1
L'anno 1866 cominci6 allegramente nella nuova capitale d' Ita
lia, dove Paffollarsi degli uomini parlamentari, dei loro clienti, di
migliaia d'impiegati dello Stato, dei rappresentanti delle potenze
straniere, e di molti italiani e stranieri attratti dalla curiosita di
vedere una capitale nuova e dalla voglia di divertirsi, produceva un
movimento nuovo e continue. La musoneria dei nostri giorni non
permette neanche di imaginare quale e quanta varieta di passatempi
si trovavano allora a Firenze. Erano aperti nove o dieci teatri : molte
famiglie fiorentine o straniere facevano a gara nell'invitare a feste e
ricevimenti. La baldoria carnevalesca durava qualche settimana ed
era assordante. Si faceva di notte giorno, ed alle 4 o le 5 della mat-
tina, chi usciva da una festa da ballo o da un veglione ed aveva an-
cora voglia e fiato di darsi bel tempo, poteva andare in qualcuno
dei nuovi caffe, aperti da piemontesi - specie al caffe delle Alpi in
piazza Santa Maria Maggiore - dove si mangiava, si beveva, e ma-
gari si ballava disperatamente fino a giorno fatto.
Ne i soli giovanotti erano scapestrati e chiassoni: si univano a
loro volentieri anche uomini che, per la loro eta ed il loro ufficio,
avrebbero dovuto essere od almeno parere serii ed assennati. Ri-
cordo che una notte, uscendo verso 1'alba da un veglione della Per
gola,3 con una brigata di spensierati d'ambo i sessi, mi trovai non
so come insaccato dentro un fiacre, il solo ancora disponibile, con
altre quattro o cinque persone ; mentre che 1'onorevole Pier Carlo
Boggio,3 il quale protestava di non voler fare la strada a piedi, spinto
da otto o dieci mani sul cielo della carrozza, vi adagiava la sua pic-
cola persona grassa e rotonda, e stando lassu veniva dalla Pergola al
caffe di Parigi aperto dal Boudrandi di Torino fra via Cerretani e
via de' Panzani, dove e ora il negozio di musica Brizzi e Niccolai.
Chi avrebbe pensato, vedendo in quello strano atteggiamento Telo-
quente oppositore del ministero, Pautore delle lettere ad Emilio 01-
i. Ed. cit., dal cap. n (La campagna del 1866), pp. 87-9. 2. Pergola: il
teatro tuttora esistente, in Firenze, con lo stesso nome. 3. Pier Carlo
Boggio (1827-1866), professore di diritto costituzionale, deputato di Cuneo,
pubblicista, fu per vari anni il piii vivace oppositore del ministero La Mar-
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 455
livier1 intorno ai fatti di Torino, che pochi mesi dopo egli sarebbe
scomparso a Lissa, nei gorghi dell'Adriatico, con gli avanzi del
Red* Italia?2
Se molti spendevano allegramente e Fantica parsimonia fioren-
tina era facilmente dimenticata, le strettezze finanziarie dello Stato
davano invece molto da pensare a chi governava. Ai primi del 1866
fu promossa una generosa Utopia, vale a dire una sottoscrizione na-
zionale con la quale si sarebbe dovuto estinguere niente meno che il
debito pubblico del Regno dj Italia, salito in cinque anni alia rispet-
tabile cifra di cinque miliardi e un terzo, con un disavanzo medio
annuo di circa 250 milioni e con la rendita pubblica scesa al di
sotto del 50 per cento.
Eppure, il sentimento patriottico era allora tanto schietto e sin-
cero, e tanto grande la fiducia di tutti neirawenire, che Tidea del
«Consorzio Nazionale» fu accolta generalmente con entusiasmo.
Vittorio Emanuele sottoscrisse per un milione: furono offerte, da
chi poteva, molto ragguardevoli somme. Gli stipendiati dello Stato
offrirono tutti, piu o meno spontaneamente, una giornata del loro
stipendio, ed ogni ordine di cittadini contribui a seconda dei pro-
prii mezzi. Ma occorreva altro! Firenze non stette in dietro alle al-
tre citta d' Italia, e quantunque si pretendesse di riempire il mare
con un cucchiaino da caffe, Funanimita di quel tentativo, quantun
que inadeguato al fine, ebbe in se qualche cosa di bello e di generoso.
I partiti estremi cercavano intanto, fino d' allora, di sfruttare ogni
occasione a loro profitto, e s'ingegnavano a promuovere tumultL
Una delle occasioni preferite era, da qualche anno, il 19 marzo,
giorno dedicate dalla Chiesa a San Giuseppe. II Mazzini profugo,
il Garibaldi ferito ad Aspromonte, avendo tal nome, la parte esal-
tata raccoglieva quel giorno turbe di gente ignara a gridare in
piazza.
Per il San Giuseppe del 1866, le truppe della guarnigione erano
•L.Emilio Ollivier (1825-1913) allo scoppio della guerra franco-prussiana
del 1870 era presidente del Consiglio. Fu assai stimato scrittore politico.
2. Re d? Italia-, cosl chiamavasi la nave aminiraglia del conte Carlo di Per-
sano nell'infausta battaglia di Lissa, il 19 luglio 1866. II Persano all'inizio
della giomata si trasferi, senz'awertire tempestivamente gli equipaggi,
dalla Re d'ltalia alia corazzata a torri VAffondatore. Sfuggi quindi alia
catastrofe delFincrociatore che, speronato dalla ammiraglia austriaca Fer
dinand Max, al comando del Tegetthoff, s'inabisso rapidamente col fianco
squarciato.
456 UGO PESCI
state consegnate in quartiere fino dal giorno innanzi, e dovettero
poi uscire la sera a ristabilire Tordine in piazza della Signoria, in via
Calzaioli, e davanti al palazzo Riccardi. Pareva che fosse per acca-
dere una vera rivoluzione ; la cavalleria dovette caricare piu volte in
via Calzaioli, in piazza della Signoria ed in Vacchereccia. Fu al-
lora, se non m'inganno, che uno dei plotoni di lancieri era coman-
dato dal luogotenente Francesco Martini Bernardi, fiorentino, poco
uso a lasciarsi posare mosche sul naso. In Vacchereccia era ed e
ancora un Carle Cavour, lungo e stretto come un corridoio, che
va a riuscire in Calimaruzza. Mentre il Martini passava e ripassava
al passo per Vacchereccia, di dentro al caffe, i dimostranti che vi
s'erano rifugiati lo salutavano con fischi ai quali non abbadava.
Quando ai fischi ed alle contumelie lanciategli contro si aggiimse
anche un bicchiere, il Martini volto improwisamente il cavallo, e
seguito dal trombettiere, traverso tutto il caffe uscendone per la
porta sull'altra strada, distribuendo piattonate durante il non breve
tragitto, felicemente compiuto non ostante i tentativi di cacciare
sgabelli e tavolini fra le gambe del cavallo per farlo cadere. II
caffe, uscitone il Martini, si vuoto subito : ed il giorno dopo, con il
comodo sistema della stampiglia, adoperata probabilmente da chi
era rimasto a casa quando il Martini, nel 1859, era andato ad arruo-
larsi volontario per la guerra, si leggeva su tutte le cantonate di
Firenze: Morte a Cecco Martini austriaco!
Tutto questo pero, in fin de' conti, non faceva paura a nessuno,
perche non poteva allora neanche passare in mente che vi fossero
Italiani capaci di voler disfare 1'Italia, non ancora finita di mettere
insieme. A noi giovanotti poi non premeva punto di sapere perche il
Ministero avesse ottenuto un voto di fiducia dalla Camera, chie-
dendo altri due mesi di esercizio prowisorio;1 ne a quale scopo
da Antonio Scialoja, succeduto al Sella,2 fosse stato presentato
un completo progetto di riforma tributaria. Consideravamo nella
i. il Ministero . . . prowisorio: 1'esercizio prowisorio, gia concesso al
terzo ministero La Marmora nel febbraio 1866, fu poi prolungato di tre
mesi, pur avendo la maggioranza della giunta per le finalize stabilito di
concederne solo due. 2. Antonio Scialoja (1817-1877) fu ministro delle
finanze nel terzo ministero La Marmora (31 dicembre 1865 - 20 giugno
1866) e nel secondo ministero Ricasoli (20 giugno 1866 - 10 febbraio
1867); Quintino Sella (1827-1884) era stato ministro delle finanze nel
secondo gabinetto La Marmora (dal 28 settembre 1864 al 31 dicembre
1865); torno a quel dicastero nel gabinetto Lanza (14 dicembre 1869 -
10 luglio 1873).
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 457
politica un solo aspetto ; cioe la speranza di un sollecito compimento
delPunita e della indipendenza nazionale mediante una guerra vit-
toriosa.
IL 1870 FIND AL 20 S^TTEMBRE1
Tanto per mutare, il 1869 era finite con un cambiamento di mi
nistero;2 ed al generale Menabrea,3 al Cambray-Digny ed ai loro
colleghi, erano succeduti dopo molti contrast! ed ostacoli, il Lanza4
ed il Sella, con il Visconti-Venosta, il Govone, il Raeli, il Gadda, il
Correnti, P Acton ed il Castagnola. Ormai, abituati ai frequenti
cambiamenti di scena, i fiorentini avevano accolto anche questo
con la solita indifferenza ; non curandosi neppure di riflettere che
nessun toscano faceva parte del nuovo gabinetto. Se ne poteva fare
anche a meno ; ma Pinfluenza de' loro uornini politici ne veniva in-
dubbiamente dirninuita.
Firenze s'abbelliva e s'ingrandiva : ricchi stranieri od italiani
d'altre regioni venivano tutti i giorni a stabilirvi la loro dimora.
Gli inconvenienti rnanifestatisi subito dopo il trasferimento erano,
in cinque anni, quasi scomparsi; mentre dalle nuove condizioni
della citta emergevano grandi benefizi per tutti. La popolazione
andava consider evolmente aumentando: era giunta a 191.000 abi-
tanti alia fine del 1868, e a circa 200.000 alia fine del 1869. II mu-
i. Ed. cit., dal cap. vn (// iSjofino al 20 settembre), pp. 215-35. 2. un cam
biamento di minister o: il 19 novembre 1869, il terzo ministero Menabrea,
in seguito alPesito della votazione per la nomina della presidenza della Ca
mera, rassegno le dimissioni. I nuovi component! del ministero Lanza,
elencati dal Pesci, ebbero, rispettivamente, i dicasteri delle finanze, esteri,
guerra, grazia e giustizia, lavori pubblici, istruzione, marina ed agricoltura.
3. Luigi Federico Menabrea (1809-1896), deputato della Savoia, senatore
dal 29 febbraio 1860, generale devotissimo a Vittorio Emanuele II, ebbe da
quest'ultimo Pincarico di costituire il governo nei giorni critici di Mentana,
e fu presidente del Consiglio dal 27 ottobre 1867 al 14 dicembre 1869.
Collare dell'Annunziata dopo 1'annessione delle provincie venete il 4 no
vembre 1866, fu ambasciatore ^Londra (1876-1882) e a Parigi (1882-
1892), prima di rientrare a vita privata. 4. Giovanni Lanza, di Casal
Monferrato (1810-1882), ministro dell' istruzione e poi delle finanze col
Cavour, dal 31 maggio 1855 fino a Villafranca; presidente della Camera dal
2 aprile al 17 dicembre 1860; ministro degli intemi nel secondo gabi
netto La Marmora (28 settembre 1864 - 25 agosto 1865), presidente della
Camera (9 dicembre 1867-8 agosto 1868; 18 novembre - 14 dicembre
1869), e presidente del Consiglio (14 dicembre 1869 - 10 luglio 1873).
458 UGO PESCI
nicipio, non potendo prevedere il caso che la capitale fosse traspor-
tata a Roma da un giorno all'altro, faceva le cose alia grande, e fa-
ceva bene: giacche, dato il caso che per forza di eventi il governo
avesse dovuto rimanere ancora per qualche anno a Firenze, era
necessario fare sparire definitivamente ogni aspetto di precarieta
nella sua residenza. *
Quantunque le contingenze politiche e fmanziarie del regno
non fossero molto liete,1 alia capitale v'era, almeno apparente-
mente, un largo benessere. Se « Teconomia fino all'osso » e la « lente
dell'avaro))2 erano la base del programma economico del governo:
se v' erano ancora molti cittadini i quali risentivano piu danno che
benefizio dall'essere aumentati i bisogni ed i prezzi di tutto, senza
un corrispondente aumento delle loro scarse entrate, e si trovavano
per cio obbligati a stare a stecchetto, quattrini ne correvano molti
ed allegramente, non mancavano per parecchi i subiti e facili gua-
dagni, e la tradizionale parsimonia e semplicita fiorentina si anda-
vano adagio adagio dimenticando.
Negli ultimi mesi del 1869 v* ^u Per Firenze un gran passaggio
di vescovi e di preti awiati a Roma per il Concilio Ecumenico,3
che fu aperto 1*8 dicembre; ed anche quei sacerdoti, quantunque
poco favorevolmente disposti verso la nuova Italia, apparivano
molto sodisfatti di quanto vedevano nella capitale prowisoria del
regno, che secondo loro avrebbe dovuto essere la definitiva.
Si trovano sempre degli uomini di buona volonta, ed il giorno
dell'apertura del Concilio se ne trovarono di quelli disposti a fare
una dimostrazione contro Tarticolo primo dello Statute.4 Riusci
meschina e risibile, e non poteva riuscire diversamente essendone
i. Quantunque... liete: tra le principal! preoccupazioni del ministero
Menabrea vi era la situazione finanziaria: il ministro delle finanze, il
fiorentino Guglielmo Cambray Digny, aveva fatto approvare dalla Ca
mera e dal Senate importanti prpwedimenti, tra i quali la tassa del ma-
cinato, che fu definitivamente abolita solo dieci anni dopo, il i° gen-
naio 1884. a. La frase economiafino alVosso fu pronunziata da Quintino
Sella nel suo discorso del 10-11 marzo 1870; la necessita di considerare le
spese con la lente delVavaro fu indicata dal presidente Lanza nel suo
discorso del 15 dicembre 1869. 3. II Concilio Ecumenico, apertosi 1'8 di
cembre 1869, con la presenza di seicentottantatre vescovi, si chiuse con
la proclamazione, awersatissima, del dogma dell'mfallibilita papale (18
luglio 1870). 4. Ij'articolo primo dello Statute stabiliva: «La religione
cattolica, apostolica e romana e la sola religione dello Stato. Gli altri culti
ora esistenti saranno tollerati conformemente alle leggi».
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 459
stati promotori pochi esaltati, ed alcuni compromessi ne' recenti
process! per gli strascichi delPaffare della Regia;1 come il Burei,
TEller, il Caregnato, ecc. ecc.
Piu che di quelle inconcludenti dimostrazioni, chi vedeva un
palmo piu in la della punta del proprio naso si dava pensiero del-
Pagitarsi dej partiti estremi2 in alcune provincie. Al palazzo Ric-
cardi, dove si era insediato Ponorevole Lanza, giungevano spesso,
troppo spesso, brutte notizie dalla Romagna. Un giorno era il ge-
nerale ExcofHer, reggente la prefettura di Ravenna assassinate dal-
Pispettore di p. s. Cattaneo traslocato a Grosseto perche si aveva
bisogno di mandarvi un uomo operoso e perspicace - lo disse il
Lanza alia Camera - e che voleva invece rimanere a Ravenna per
continuare una pratica con una donna di mal affare ; un altro giorno
erano tentativi di tumulti a Bologna, o scassi o violenze per portar
via i fucili della Guardia nazionale in qualche paese della Romagna.
Fino dal 1867, quando si rumoreggiava contro il governo perche
non faceva passare alle truppe il confine dello Stato Romano, era
cominciata una continuata propaganda repubblicana, che Giu
seppe Mazzini dirigeva da Londra, rivolgendola particolarmente
alPesercito. Non vje da stupirsi se, fra i tantissimi militari leali os-
servatori del giuramento, si trovassero pochi sconsigliati, immemori
dej loro doveri fino al punto di diventare felloni.3
Non per questo, tanto era grande e dolorosa la nuovita, rimasero
meno stupiti i fiorentini la mattina del di 24 marzo, quando sep-
pero che, durante la notte, la caserma di San Francesco a Pavia era
stata assalita da una banda di un centinaio di persone, armate di ri-
voltelle sottratte in Castello con la complicita di tre sottufficiali
i. affare della Regia: P8 agosto 1868 la Camera aveva approvato una legge
con la quale lo Stato concedeva ad una societa il privilegio della manifattura
e vendita dei tabacchi. Vi furono allora, e si rinfocolarono e complicarono
man mano, accuse di cornizione ad uomini politici, e ne sorsero querele,
duelli, process! e una inchiesta parlamentare, che il 12 luglio 1869 emise
un verdetto che liberava da ogni colpa i sospettati. Ma intanto, in margine
alia questione, si erano verificate varie forme di reato, come una simula-
zione di tentato assassinio, per cui furono condannati il maggiore on. Lob-
bia e i suoi complici Martinati e Caregnato, e un furto' epistolare per cui fu
process ato e condannato un tal Burei, impiegato alia Questura della Ca
mera. II monopolio dei tabacchi torno allo Stato col 1884. 2. agitarsi . . .
estremi: vedi E. CONTI, Le origini del socialismo a Firenze, Roma, Edizioni
Rinascita, 1950, specialmente le pp. 90-7, dove sono accenni anche al-
1' Emilia. 3. Non v*e . . .felloni: indipendentemente da ogni giudizio sulla
propaganda repubblicana e sugli awenimenti, e necessario tener present!
le convinzioni politiche di Ugo Pesci decisamente antimazziniane.
460 UGO PESCI
d'artiglieria, e che gli assalitori erano d'accordo con alcuni sottuf-
ficiali e caporali, i quali, stando dentro, avrebbero dovuto secondarli
ed impadronirsi del quartiere, dove era un distaccamento della bri-
gata Modena, di stanza a Piacenza. La fermezza del giovine uf-
ficiale di picchetto, sottotenente Vegezzi, che quantunque ferito
da un colpo di fucile tirato da quei di dentro rimase al suo posto ;
e la imperturbata fedelta de' soldati, che rinchiusero in una stanza
alcuni dei sottufficiali del complotto, e furono pronti a rispondere
senza esitanza al fuoco con il fuoco, resero vano il folle e criminoso
attentato. Otto felloni poterono fuggire: il sergente Pernice ed il
caporale Barsanti,1 arrestati e sottoposti a processo, furono condan-
nati, il prirno a vent'anni di reclusione, il secondo alia pena di morte
per aver fatto fuoco contro i compagni.
Mentre si assaliva a Pavia la caserma di San Francesco, a Pia
cenza accadeva qualche cosa di simile alia caserma di Sant'Anna
dalla quale erano stati sottratti 34 fucili; ed a Brisighella si riuniva-
no due o trecento giovanotti romagnoli repubblicani, una quaran-
tina dej quali erano raggiunti ed arrestati a Riolo.
Questi fatti impressionavano dolorosamente Popinione pubblica :
tanto piu perche il ministero Lanza che piu tardi seppe acquistarsi
molte benemerenze, aveva, in quei primi tempi, contro di se quasi
tutta la stampa della capitale: particolarmente la «Nazione» e la
«Gazzetta djltalia»,2 giornali d'origine e d'indole fiorentina, che lo
accusavano d'incapacita ; oltre la « Riforma », il « Diritto »3 e gli altri
giornali che lo combattevano per sistematica opposizione al governo
non composto dai loro amici della sinistra. Non si puo neanche
1. II caporale lucchese Pietro Barsanti, capo della rivolta, era ardente se-
guace del movimento mazziniano. E utile precisare che, al momento del-
Fassalto alia caserma di Pavia, era ancora minorenne, perche nato il 30
luglio del 1849. Questo e gli altri moti cui accenna il testo nacquero, in
parte, dalla persuasione che il governo monarchico non intendesse risolvere
la questione romana e che fosse necessaria, a questo fine, 1'instaurazione
della repubblica. Ma alcune agitazioni si originarono da esigenze sociali.
2. La « Gazzetta d* Italia », quotidiano di destra, rappresento una antitesi alia
«Nazione». Fu anch'essa diffusissima : sorse a Firenze il 16 dicembre 1866,
vi si pubblicd fmo al 31 dicembre 1871, seguito poi a Roma, fino al 1889.
Tra i collaborator! fu anche il Pesci; per la «Nazione», vedi la nota 2 a
p. 443. 3. Organo del partito democratico, il quotidiano la «Riforma»,
fondato da Francesco Crispi e altri, sorse in Firenze e vi si pubblico dal
4 giugno 1867 al 30 agosto 1871: e continue poi a Roma fino al 1887;
il <t Diritto », fondato a Torino nel 1854, trasferito a Firenze nel 1865, a
Roma nel '71, fu organo di sinistra.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 461
dire che quel ministero godesse il favore della opinione pubblica
fiorentina, la quale faceva volentieri eco agli uomini politic! piii
noti a Firenze, molti de' quali ancora in buone relazioni con i mi-
nistri caduti. Essi ritenevano il Lanza poco adatto a governare un
paese nelle condizioni del nostro; gli rimproveravano di non aver
dato mente agli awisi del complotto pavese arrivati a palazzo
Riccardi, e di non aver saputo metter le mani sugli autori del com
plotto salvatisi con la fuga. D'altra parte, poiche il pagare non e
gradito ad alcuno, si brontolava volentieri contro le proposte finan-
ziarie del Sella, ed il ceto de* cosi detti uomini d'affari rimproverava
a lui ed al Lanza d'aver consentito alia richiesta deirestrema si-
nistra di pubblicare i nomi dei possessori d'azioni della Banca Na-
zionale, quando fu proposto di trasformarla in Banca d' Italia,
affidandole il servizio di tesoreria dello Stato; cio che poi e av-
venuto trent'anni dopo.1
Nel maggio, con il fiorir delle rose, fiorirono nuove velleita di ri-
bellioni repubblicane, in Calabria, nella provincia di Pisa, a Lucca,2
in Sardegna. I due figli di Garibaldi, Menotti e Ricciotti, si trova-
vano allora a Catanzaro, avendo ottenuto, con il concorso di qualche
capitalista e non senza il tacito favore del ministero precedente,
Tappalto per il traforo della galleria di Stalletti, sulla strada ferrata
che costeggia il mare Jonio. Socio delPimpresa era Achille Fazzari,3
di Catanzaro, che venuto a Firenze nel 1867 dopo aver toccato una
grave ferita a Monterotondo, vi era stato accolto e curato amorevol-
mente da una famiglia arnica; poi, fattosi largo, con la sua franchezza
e le sue maniere disinvolte, era riuscito senza sforzo a trasformarsi
in uomo in evidenza ed importanza di personaggio politico, e ad
1. quando . . . dopo: il decreto del 23 ottobre 1865 aveva stabilito la fusione
della Banca nazionale con la Banca nazionale toscana, per formare un unico
istituto bancario, cui si sarebbe dovuto affidare il servizio di tesoreria. Ca-
duto questo decreto insieme con il ministero, per il voto sfavorevole del
19 dicembre 1865, la fusione e 1'istituzione della Banca d5 Italia, con ser
vizio di tesoreria, si pote attuare solo con la legge del 16 agosto 1893.
2. a Lucca: la rivolta di Lucca fu particolarmente importante, perche
organizzata e guidata dal repubblicano Tito Strocchi (1846-1879). L'am-
nistia seguita alia presa di Roma salvo lo Strocchi dal processo e gli per-
mise di combattere a Digione con Garibaldi. Lo Strocchi fu commedio-
grafo e giornalista stimato. 3. Achille Fazzari (1839-1910) partecipo alia
spedizione dei Mille e a quella dell'Agro romano, dove fu ferito a Monte-
libretti. Fu deputato nella xin e xvr legislatura, durante la quale si dimise,
non vedendosi seguito in un suo progetto di conciliazione tra Italia e pa-
pato.
462 UGO PESCI
acquistarsi benevolenza in tutte le classi, compresa quella, pare
impossibile, del banchieri e capitalist!.
Essendo stato detto che i figli di Garibaldi avevano partecipato
alia ribellione calabrese,1 il Lanza, interrogate alia Camera, non
soltanto smenti la notizia, ma, non bene informato, aggiunse che
Menotti Garibaldi s'era offerto spontaneamente alle autorita di
Catanzaro per dare la caccia ai ribelli. Apriti Cielo! Menotti Gari
baldi scrisse una lettera pubblicata da un giornale mazziniano, nella
quale accusava il Lanza di aver mentito e diceva che non si sarebbe
mosso dawero per far piacere ai governo italiano, «mucchio di
canaglia e di ladri».
A Firenze, molti risero alle spalle del ministro. Poi risero anche
alle spalle d'una banda di ribelli che scorrazzava nella provincia di
Pisa, guidata da un cuoco disoccupato, che si chiamava Galliano.
Ironia della sorte che da lo stesso nome ad un ciarlatano e ad un
eroe!2
Intanto le agitazioni mazziniane continuavano : a Milano acca-
devano tumulti e si sequestravano fucili e bombe alFOrsim.3 Si
sapeva che il Mazzini era venuto da Londra a Geneva con il nome
d'Enrico Zammith, e che quel prefetto se Pera lasciato scappare,
temendo di fare atto illegale arrestandolo, non ostante i ripetuti or-
dini del ministero. Lo stesso accadde al prefetto di Napoli, mar-
chese d'Afflitto: non al generale Medici, prefetto a Palermo, pronto
i. ribellione calabrese: a Maida, in provincia di Catanzaro, e poi nella vicina
Filadelfia, si svilupp6 dal 6 al 10 maggio 1870 un moto insurrezionale,
che in piccola parte si estese anche a Cosenza. Fu presto represso, e si tro-
varono addosso agli arrestati stampe ed elenchi col motto « Dio e popolo,
alleanza repubblicana universale». La «Gazzetta Ufficiale» delPn mag
gio diede notizia di un'offerta d'aiuto fatta da Menotti Garibaldi, allora in
Calabria; ma il 14 maggio apparve nel «Gazzettino rosa» una lettera ad
Achille Bizzoni, che ne era il direttore, in cui Menotti smentiva la notizia,
affermando che egli non avrebbe mai dato il suo « appoggio al piu schifoso
dei governi». 2. un eroe: allude al colonnello Giuseppe Galliano (1846-
1896) che combatte in Africa e, particolarmente, nella guerra del 1895-
1896 difese il forte di Makalle. Mori nella battaglia di Adua. 3. bombe al-
rOrsini: espressione quasi proverbiale nella letteratura e pubblicistica del-
I'Ottocento italiano, tanto in senso proprio quanto in senso metaforico,
per denotare fabbricazione di esplosivi e attivita dinamitardo-sowersiva
nella scia, o ad imitazione, delPagitatore romagnolo Felice Orsini, decapi-
tato il 13 marzo 1858 in Parigi, per avervi, il 13 gennaio, attentato, ap-
punto con lancio di bombe, alia vita dell' imperatore Napoleone III, men-
tre, con 1'imperatrice Eugenia ed il seguito, questi si recava oil' Opera.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 463
ad arrestarlo il 13 aprile1 prima di lasciarlo sbarcare, ed a farlo tra-
sportare dal piroscafo postale sul Fieramosca, dove il grande agita-
tore, trattato con tutti i riguardi, rimase qualche giorno, prima d'es-
sere rinchiuso in uno dei forti di Gaeta.
Firenze rimaneva tranquilla, e le manifestazioni repubblicane
alia capitale si limitavano a qualche manifestino, strappato prima
d'essere finite d'attaccare ai muri. Altri e ben piu gravi eventi pre-
mevano; mentre la Camera, sempre affollata di spettatori, discu-
teva i prowedimenti per la finanza, e la parte piu agiata della popo-
lazione pensava se dovesse andare sui monti o al mare in cerca d'aure
piu miti. La scelta di un Hohenzollern a candidate al trono di Spa-
gna metteva il mondo a soqquadro, ofTrendo a Napoleone III Toc-
casione di una guerra contro la Prussia,2 e la possibilita di una tal
guerra animava insolitamente anche la capitale d' Italia. Vittorio
Emanuele, solito ad allontanarsi da Firenze al principio delP estate,
vi si trattenne fmo al 3 luglio, avendo frequenti colloqui con i mi-
nistri. Tutti pensavano con inquietudine in quali condizioni si
sarebbe trovata V Italia se, anche suo malgrado, si fosse trovata per
forza di eventi impegnata in un confiitto, dopo avere tanto ridotto
1'esercito!
Tutti sapevano che Vittorio Emanuele, per istinto di cavalleresca
generosita, in lui piu forte della fredda ragione di Stato, avrebbe vo-
luto correre in aiuto del suo antico alleato, e della nazione alia quale
ormai apparteneva sua figlia Clotilde; mentre nella maggioranza
del consiglio dei ministri prevaleva il programma di una assoluta
neutralita. Si sapeva da alcuni, se non dai piu, che il La Marmora ed
il Sella prevedevano le vittorie prussiane, contro Topinione piu
generalmente diffusa la quale riteneva favorevole ai francesi Tesito
della guerra; e che il Sella, volendo persuadere Vittorio Emanuele
della superiorita militare della Prussia, non era mai stato ascoltato.
Quale criterio politico fosse seguito nelle risoluzioni del governo
italiano apparve chiaramente soltanto quando la guerra fu gia di-
chiarata, e da Parigi venne a Firenze il signor Witzhum, mandato
i. il 13 aprile: la data deve essere corretta in 13 agosto. 2. La scelta . . ,
Prussia: la candidatura del principe Leopoldo di Hohenzollern-Sigrna.rin-
gen, congiunto del re di Prussia, al trono di Spagna, grazie alle abili ma-
nipolazioni diplomatiche del Bismarck e alia sua truccata versione del
dispaccio di Ems, fu causa occasionale delTincidente diplomatico che
provoc6 la guerra franco-prussiana nel luglio 1870.
464 UGO PESCI
dal presidente del consiglio austriaco conte de Beust per negoziare
una triplice alleanza fra 1' Austria, la Francia e P Italia. Era ormai
troppo tardi!1
II 1 6 fu fatta a Firenze - era il giorno seguente alia dichiarazione
di guerra -2 una prima dimostrazione a favore della Prussia, preci-
samente da quel partito che ha poi tanto fieramente biasimato 1'al-
leanza dell' Italia con gli imperi centrali.3 Ma allora era un altro
paio di maniche! In. odio a Napoleone III - che certamente aveva
fatto il possibile perche gli Italiani dimenticassero ogni obbligo di
gratitudine verso di lui - non soltanto i deputati della sinistra e
delTestrema sinistra pendevano dal labbro del signer Brassier de
Saint- Simon, ministro prussiano a Firenze; ma si gridava per le
strade « viva la Prussia)) dagli stessi che gridavano « viva Garibaldi,
vogliamo Roma» ed anche qualche volta «viva Mazzini».
I dimostranti, invitati a raccolta da un manifestino stampato e
firmato da un « comitato » anonimo, si riunirono alle 7 di sera in
piazza del Duomo, vicino al cosi detto « Sasso di Dante))4 con qual
che bandiera: di li si awiarono in piazza della Signoria a gridare
sotto il Ministero degli esteri; poi, per via Cerretani e via Torna-
buoni, alia Legazione prussiana in via del Sole. Dalla Legazione
prussiana, sempre aumentando il numero dei curiosi, andarono al
N. 1 1 del corso Vittorio Emanuele, passato il Politeama, alia lega-
zione Francese, dove furono suonati i tre squilli al primo grido di
«abbasso la Francia ». Allora dimostranti e spettatori presero la
fuga, meno due signori che entrarono nel palazzo. Erano il barone
di Malaret, ministro francese, che andava a pranzo ed il suo segre-
tario signor De Villestreux che lo accompagnava. II ministro arri-
i. Era . . . tardi: la Francia aveva dichiarato guerra alia Prussia il 19 luglio,
e gia il giorno prima 1' Austria aveva proclamato la propria neutralita. Le
trattative per un'alleanza franco-italo-austriaca erano, percio, gia cadute,
non soltanto quelle efFettuate durante il 1869, ma anche quelle proposte
da Napoleone nel 1870, prima della dichiarazione di guerra, al ministro
Lanza. Anche 1' Italia proclamo la propria neutralita, il 23 luglio. 2. II
1 6 . . . guerra: la guerra fu dichiarata formalmente il 19 luglio, ma gia il 15
il ministero francese aveva chiaramente annunziato la decisione al Corpo
legislativo e al Senato. -$.precisamente . . . centrali: bisogna tener pre-
sente che a molti Napoleone III appariva non solo un sovrano antiliberale,
ma il maggiore impedimento alia soluzione della questione romana. La
triplice alleanza - Italia, Austria, Germania - fu stipulata dodici anni dopo
con il trattato segreto del 10 maggio 1882. 4. Sasso di Dante: a Firenze,
in piazza del Duomo, esiste una lapide che indica il posto in cui, secondo
una tradizione popolare, Dante andava d'estate a «godere il fresco ».
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 465
vava con un po' di ritardo perche aveva voluto seguire i dimostranti,
persuaso che avrebbero preso la strada di casa sua.
Riunitisi di nuovo piu tardi, i dimostranti andarono a gridare
sotto le finestre del palazzo Riccardi. Per un quarto d'ora li lascia-
rono sfogare: alle 10 furono suonati ancora una volta i tre squilli di
prammatica ; fu sequestrata unabandiera, una guardia di sicurezza
ebbe la solita pugnalata nella schiena, e meno quel povero diavolo,
tutti andarono a letto content! come pasque e convinti d'aver reso
un grande servigio alia patria e alPumanita.
Le due correnti di opinione manifestatesi allora con molta con-
vinzione si urtavano, si cozzavano ogni momento ; con la solita intol-
leranza ed ingiustizia degli atti subitanei ed irreflessivi. Vi furono
duelli, accaddero alterchi e furono scambiati pugni e bastonate fra
prussianofili e francofili. I prussianofili rimproveravano ai non po-
chi francesi allora a Firenze di non esser partiti subito per difen-
dere la loro patria : ma nessun rimprovero poteva essere piu ingiusto
perche la guerra scoppio quando pareva ormai scongiurata, ed ap-
pena fu dichiarata i francesi corsero a far ressa alia cancelleria della
legazione per richiedere il passaporto, senza il quale non si poteva
in quei giorni passare il confine per entrare in Francia. Appena po-
tevano averlo partivano per arruolarsi : partivano quasi tutti, anche
uomini fatti che avevano per le mani aziende importanti; per esem-
pio il signor Lalouette, uomo sulla cinquantina, direttore dell'of-
ficina del gas.
Vittorio Emanuele, partito per Valsavaranche ai primi di luglio,
quando tutto pareva ormai accomodato, torno a Firenze il 17, due
giorni dopo la dichiarazione di guerra; sempre convinto in cuor
suo che i francesi avrebbero vinto, e sempre risoluto, come egli
confessava francamente piu tardi, ad aiutare Napoleone III quando
caso mai si fosse trovato in cattive acque.
II Re passava la sera al teatro Principe Umberto,1 che preferiva
agli altri potendovi fumare a suo comodo. Vi andava abitualmente
con il conte di Castellengo: ve lo raggiungevano il generale Ber-
tole-Viale, il generale Maurizio de Sonnaz,2 il generale Eleonoro
i . L/anfiteatro Principe Umberto sorgeva in piazza. D'Azeglio e fu inaugurate
il i° luglio 1869. Fu poi distrutto da un incendio. 2. II generale Ettore
Bertole-Viale (1829-1892), deputato di Crescentino, erastato ministro della
466 UGO PESCI
Negri, il dottore Adami, il conte Aghemo e qualche altro. Vittorio
Emanuele aveva ordinato die gli fossero portati al teatro i tele-
grammi che riceveva direttamente da Parigi dal conte Ottavio Vi-
mercati.1 Qualche telegramma arrivava ogni sera: ed in quella an-
siosa aspettativa di notizie molti speravano d'indovinarne il conte-
nuto, studiando 1'effetto prodotto, sulle varie fisonomie dei radu-
nati nel palco, dalla lettura di quei telegrammi, fatta solitamente
dal generale Bertole-Viale. Ma non si arrivava a saper nulla, e
neanche il Re era sempre, per quel mezzo, sollecitamente informato :
tanto e vero, che ebbe dal Sella la notizia della sconfitta dei fran-
cesi a Weissemburg e dal Ministero degli esteri quella della scon
fitta di Worth.2
Dopo questa ultima, il 7 agosto, Napoleone III mando a Vit
torio Emanuele un lungo telegramma invocando i sentimenti ca
valier eschi del Re d' Italia. Vittorio Emanuele interrog6 i ministri
e fece interrogare il La Marmora: gli uni e 1'altro furono commossi
dalle tristi ma nobili e dignitose espressioni di un Sovrano cui
P Italia doveva pur tanto: ma, come responsabili degli atti del go-
verno e come cittadini italiani, fecero riflettere al Re come 1* Ita
lia, pur esponendo se stessa a gravi pericoli, nulla poteva ormai
operare di utile per la Francia. Ed il 9 agosto il governo italiano
si accordava con quello inglese per mantenere una stretta neu-
tralita.
L'8 agosto s'era radunato il tribunale supremo di guerra e ma
rina, presieduto dal generale Giovanni Durando,3 per esaminare il
guerra nel ministero Menabrea, dal 1867 al 1869; Luigi Maurizio Gerbaix
de Sonnaz (1816-1892), gia combattente nel '48-49, nel '59 (carica di Mon-
tebello), nel '60 (presa di Perugia e assedio di Ancona), era stato nominate
primo aiutante di campo del re (10 gennaio 1870) e tenne questa carica
fine al 21 gennaio 1872. i. Ottaviano Vimercati (1815-1879) aveva preso
parte alle Cinque giornate e poi alia guerra del '48-49 come ufficiale d'or-
dinanza di Carlo Alberto. Visse lungamente a Parigi, dove, dopo la guerra
del '59, fu addetto militare di quella legazione italiana, restando in carica
fino al 1 870. 2. A Wissembourg, il 4 agosto, i Francesi subirono una pri-
ma sconfitta, che apri al nemico la via dell'Alsazia ; la sconfitta di Worth,
il 6 agosto, costrinse il maresciallo MacMahon a riparare dietro la Mosella,
abbandonando la linea dei Vosgi. 3. Gia ufficiale piemontese, Giovanni
Durando (1804-1869) comando nel 1848 Tesercito romano che dovette poi
capitolare a Vicenza. Rientrato quindi al servizio della monarchia sabauda,
fu a Novara, in Crimea e a San Martino. Senatore dal 1860, presiedette dal
1867 il Tribunale supremo di guerra e marina. Fratello maggiore del gene-
rale e politico piemontese Giacomo.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 467
ricorso presentato dal caporale Pietro Barsanti, contro la sentenza
del tribunale militare di Milano, che lo aveva condannato alia fuci-
lazione per il fatto deila caserma di San Francesco a Pavia . . .
Fra gli spettatori, piii numerosi del consueto, v'era un povero
vecchio piangente, che abbraccio il Pierantoni1 quando ebbe termi-
nata la sua difesa, nella quale s'era particolarmente rivolto alia pieta
dei giudici. Quel vecchio era il padre del caporale Barsanti.
II tribunale supremo si riservo di far nota la sua risoluzione.
Quattro o cinque giorni dopo si seppe che il ricorso era stato re-
spinto. Furono allora tentati tutti i modi per salvare quello sciagu-
rato. Si confido di ottenere dal Re la grazia della vita facendo sot-
toscrivere una istanza a quante donne si commuovevano all'idea
del sangue da versare, dimenticando quello innocente versato per
mano dei ribelli. II governo credette di dovere essere inesorabile.
E noto che la domanda di grazia firmata dalle donne doveva essere
presentata a Vittorio Emanuele dalla moglie del marchese Giorgio
Pallavicino Trivulzio,2 collare dell' Annunziata : e noto che il Lan
za, sconsigliando la grazia per alte considerazioni politiche, sug-
geri al Re di non ricevere quella signora, venuta apposta a Firenze,
ed il Re accetto quel suggerimento. II caporale Barsanti fu fucilato,
il 26 agosto, in un cortile del castello di Milano, dove era stato con-
dotto per il processo.
Nulla awenne allora di straordinario : soltanto, dopo qualche
tempo, fu sfruttato il nome del disgraziato, facendolo segnacolo in
vessillo di ribellione3 e di fellonia.
Le notizie di Francia erano intanto sempre peggiori, e sempre
attese con ansiosa curiosita. A Firenze, come in tutta F Italia, si pen-
sava ormai al miglior modo di profittare sollecitamente, ma anche
dignitosamente, delle vittorie tedesche per il compimento delTunita
nazionale. Sul fine erano tutti d'accordo: su i mezzi non lo erano
neppure i ministri. Gli spacciatori di fandonie non avevano tregua:
oggi si annunziava che il governo aveva dato 1'ordinazione di cucire
i. L'awocato Pierantoni era genero di Pasquale Stanislao Mancini (vedi
la nota sap. 501), e fu, in seguito, deputato. 2. moglie . . . Trivulzio:
Anna Kopfhiann (1819-1885), figlia del governatore austriaco di Praga e
moglie del marchese Giorgio Guido Pallavicino Trivulzio (1796-1878), il
notissimo cospiratore condannato nei processi del 1821, fu nobilissima fi-
gura di donna del nostro Risorgimento. 3.fu sfruttato . . . ribellione: molti
circoli repubblicani e intemazionalisti presero poi nome dal nome del
caporale Barsanti.
468 UGO PESCI
non so quante migliaia di camicie rosse: domani un imbroglione,
con il pretesto di arruolarli volontari per una spedizione a Roma, le-
vava dei quattrini di sotto a del giovinotti, che poi lo bastonavano
di santa ragione.
Nella seconda meta del luglio furono richiamate le classi del
1842 e 1843 con ^e quali 1'esercito si rafforzo di circa 60.000 uo-
mini: la mattina delPn agosto fu affisso il manifesto per la chia-
mata delle classi 1844 e 1845, che ne comprendevano almeno al-
trettanti. La Camera, che s'era prorogata per le vacanze estive il
31 di luglio, cioe piii tardi del solito, fu riconvocata per il 17 agosto.
II salone dei Cinquecento si vide quel giorno gremito di deputati
e di pubblico : palazzo Vecchio era attorniato di curiosi come nelle
solenni occasioni. Ne piu solenni di quella ve ne potevano essere
per 1' Italia in generale e per Firenze in particolare! II 20 agosto,
dopo una seduta tempestosissima, fu votato con 62 voti di maggio-
ranza un ordine del giorno nel quale si esprimeva la fiducia « che il
ministero prowedera alia soluzione della questione Romana, con-
forme alle aspirazioni del paese».
Nella notte dal 20 al 21 agosto arrivo a Firenze il principe Na-
poleone Girolamo, accompagnato dal colonnello del genio Ragon.
La mattina del 21, i ministri andando a palazzo Pitti per la rela-
zione degli afFari correnti e la firma dei decreti, seppero dal Re
dell* arrivo del principe, e di una lettera autografa scritta da Napo-
leone III a Vittorio Emanuele, dal campo di Chalons, portata dal
principe al suocero. II Re mostro ad alcuni ministri quella lettera,
nella quale Flmperatore, non avendo piu fede nella fortuna delle
armi francesi, invocava Tintervento diplomatico dell' Italia. II prin
cipe, dal canto suo, rinnuovo le istanze per ottenere dal suocero un
intervento armato, ed insistette nella richiesta anche con alcuni
ministri, andati a salutarlo il 24 a palazzo Pitti.
Appena arrivato, il principe non si fece vedere in pubblico. Poi
usci qualche volta in carrozza, in piccola tenuta da generale, ac
compagnato dal colonnello Ragon. Non aveva mai avuto aspetto
marziale, neppure quando undici anni prima era venuto a Firenze
a capo di un corpo d'esercito di alleati e liberatori, ed in attitudine
di aspirante al regno d'Etruria:1 il vederlo, nel 1870, vestito di quella
i. undid . . . Etruria: vedi p. 428.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 469
uniforme faceva pensare soltanto alia di lui lontananza dai campi
di battaglia della Francia invasa. Nulla poteva ottenere e nulla ot-
tenne. Si decise a partire soltanto quando, arrivata la notizia della
capitolazione di Sedan,1 il Lanza fu costretto a fargli riflettere la
poca convenienza del rimanere piu a lungo in Italia.
Intanto aumentavano le impazienze della grande maggioranza
che aspettava una decisione del governo, riguardo alia occupazione
di Roma. Erano passati da Firenze alcuni zuavi pontifici, diretti in
Francia per andare a combattere in difesa del loro paese; ed ave-
vano sparso, riguardo a Roma, notizie fantastiche e contradittorie :
erano d'accordo fra loro soltanto nel dire che ai « mezzi morali » dei
quali credevano di potersi servire alcuni ministri, Pio IX opponeva
dei cannoni, facendo barricare le porte della Citta Santa.
Continuava molto movimento di truppe e di richiamati alle ar-
mi: partivano da Firenze per la frontiera pontificia il 21° battaglione
bersaglieri ed il reggimento lancieri d* Aosta : ma intanto nel consi-
glio dej ministri, un sentimento di riguardo all'Imperatore tratte-
neva ancora da decise risoluzioni,2 e tre soli si dichiararono favore-
voli al partito di occupare subito Roma; il Sella, il Castagnola e
il Raeli.
L'aspetto della cosa cambio da un momento alPaltro, appena si
seppe proclamata la repubblica3 in Francia. I ministri, riunitisi di
nuovo, deliberarono alia unanimita di occupare lo Stato pontificio e
Roma, mandandovi prima il conte Ponza di San Martino4 con una
lettera di Vittorio Emanuele a Pio IX. Si delibero altresi di richia-
mare sotto le armi, oltre le classi gia richiamate, la seconda catego-
ria del 1848, che contava 45.000 uomini, e che poi resto a casa per
un contr'ordine dato dopo la occupazione di Roma.
L'ansiosa aspettativa della popolazione aumentava: i giornali ed i
supplement! si vendevano a ruba, sperando tutti di trovarvi qualche
i. La capitolazione di Sedan awenne il 2 settembre 1870. 2. nel const-
glio . . . risoluzioni'. il consiglio dei ministri, il 22 agosto, aveva deliberate
che, « qualora avesse luogo la proclamazione della repubblica in Francia »,
si sarebbe potuta considerare caduta la Convenzione di settembre, che non
era se non « un patto bilaterale con 1'imperatore Napoleone ». 3 . proclamata
la repubblica : Fimpero fu dichiarato decaduto il 4 settembre e si proclamo
la terza repubblica. 4. II conte Gustavo Ponza di San Martino (1810-1876),
deputato fin dalla in legislatura, ministro degli interni (col Cavour) dal 4
novembre 1852 al 6 marzo 1854, nominate successivamente senatore, fu
commissario del re nel '59 a Massa e Carrara, luogotenente a Napoli nel *6i.
Awers6 vivamente la Convenzione di settembre.
470 UGO PESCI
nuova notizia. Era un continue domandare : « Passano ? Sono pas-
sati ? ...» Si parlava di convocare un grande comizio popolare per
spingere il governo che pareva ancora esitante : ma la partenza del
conte Ponza di San Martino per Roma fece sospendere i preparativi
della riunione popolare.
II conte Ponza di San Martino, 1'antico capo della « Permanente »r
parti la sera dell'8 settembre, accompagnato dal marchese Ales-
sandro Guiccioli,2 segretario di legazione. Lo salutarono alia sta-
zione il prefetto Montezemolo, il questore Amour,3 e qualche altro
deputato ed uomo politico.
Non essendo piu sicuro il potere arrivare a Napoli passando per
Roma, e neppure il passaggio del confine romano, parecchi si-
gnori napoletani e romani che avevano passato Testate a Livorno
o nell'alta Italia, si fermarono intanto a Firenze ad aspettarvi Tepi-
logo dell'epopea nazionale.
Sul mezzogiorno del 10 settembre, vicino al solito «Sasso di
Dante» in piazza del Duomo, fu affisso un proclama nel quale gli
abitanti di Firenze erano invitati a manifestare, con una piccola di-
mostrazione, il voto che « la liberazione di Roma fosse apportatrice
di un awenire di liberta ...» ecc. ecc. Poco dopo, un manifesto
del Prefetto, di formato piu grande ma rivolto agli stessi Cittadini!
come quelP altro, li esortava alia calma piu che mai necessaria in
quei solenni momenti.
Si era radunata molta gente a leggere prima un manifesto, poi
1'altro ; quando sopraggiunse in un fiacre Francesco Piccini,4 gran
i, « Permanente »: parecchi deputati piemontesi, dopo la Convenzione di
settembre, avevano costituito un gruppo di opposizione (detto « Associazio-
ne permanente ») contro qualunque ministero avesse lasciato la capitale a
Firenze. II loro motto era « Torino o Roma ». II gruppo si sgretolo soltan-
to sotto il ministero Menabrea. 2. Alessandro Guiccioli, marchese di Ca
del Bosco, entrato nella camera diplomatica, passo al ministero degli este-
ri proprio nel 1869. Fu poi deputato, senatore, sindaco di Roma, prefetto a
Firenze, a Roma, a Torino. 3. II marchese Massimo Cordero di Monte
zemolo (1807-1879), deputato, senatore (dal 1850), collaboro a giornali e
riviste, diresse «I1 subalpino». Fu prefetto di Bologna, di Napoli, ed era
allora prefetto di Firenze; Amour, allora questore di Firenze, mori nel
1893 mentre era prefetto di Bologna. 4. Francesco Piccini, calzolaio, ar-
dente mazziniano, fu tra gli iniziatori, insieme con Giuseppe Dolfi (vedi
la nota 3 a p. 420), della «Fratellanza artigiana d'Italia», sorta a Firenze
nel dicembre 1860. Vedi. E. CONTI, op. cit., p. 58 e passim.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 471
maestro della Fratellanza Artigiana, e con poche parole persuase
ognuno ad andare per i fatti suoi, non essendo quello il momento di
stare a gridare per le strade. A que' tempi v'erano anche dei demo
cratic! di buon senso! I radunati rimasero un po' titubanti: ma poi
vedendo passare due compagnie di soldati, li applaudirono frago-
rosamente, li seguirono per qualche minuto, indi se n'andarono
ognuno per la sua strada.
La sera, al teatro Principe Umberto, la presenza di Vittorio Ema-
nuele suscito 1'entusiasmo del pubblico affollato ed ormai convinto
che, se le truppe non avevano ancora passato il confine, lo avrebbero
passato presto. Durante lo spettacolo fu fatta suonare due volte la
marcia Reale, e due volte gli spettatori, levatisi in piedi, acclama-
rono il Re che si alzo ripetutamente inchinandosi a ringraziare.
Terminato lo spettacolo, la folia corse fuori ad acclamare il Re
quando esciva, gridando «Viva Vittorio Emanuele in Campido-
glio», vi fu anche un bell'umore che grido «Viva la Repubblica
francese » ed era probabilmente uno di coloro che, un mese prima,
gridavano a squarciagola «Viva la Prussia)).
La sera del 12 la dimostrazione si rinnuovo. Questa volta le truppe
erano proprio passate: non per questo era cessata la irrequietudine,
ne il desiderio di avere continuamente notizie: desiderio sfruttato
anche da abili delinquent che, fatti stampare dei falsi « bollettini »
con notizie immaginarie, afEggendoli al muro in alcune localita cen-
trali, si divertivano poi a levare il portamonete ed il portafogli di
tasca ai curiosi che si affollavano a leggerli ; fin quando, in via de*
Panzani, uno dei derubati non ebbe afferrato per il collo Tingegnoso
quanto mal cauto borsaiuolo, e la polizia non ebbe scoperto il
trucco.
II 13 passo per Firenze il conte d'Arnim,1 che il governo di Ber-
lino rimandava sollecitamente a Roma dove era mmistro presso la
Santa Sede: belPuomo, alto, simpatico, che non aveva punto
Paspetto di una futura vittima del principe di Bismarck. II 15 arrivo
i. Harry conte di Arnim (1824-1881), ambasciatore di Prussia e poi
(1866) della Germania del nord, dal 1864 al 1870, presso il pontefice. Am
basciatore a Parigi dal gennaio 1872, venne in grave contrasto col Bismarck
per la politica ecclesiastica e per i tentativi di restaurazione monarchica in
Francia: percio fu deposto dalla carica, il 2 aprile 1874. Accusato di aver
sottratto documenti delTambasciata, fu processato, fuggi alTestero: pub
blico libelli e articoli in sua difesa e fu allora di nuovo processato, come reo
di tradimento, e condannato a cinque anni, in contumacia.
472 UGO PESCI
il signer Senard,1 che il governo repubblicano francese mandava a
Firenze in missione temporanea.
La sera del 18 — era una domenica — all 'arena Goldoni, di la
d'Arno, si sparse, non si sa come, la voce delPingresso delle truppe
italiane in Roma. II pubblico usci fuori gridando festosamente, e si
sparse per le strade vicine acclamando . . . ma era troppo presto, o,
come dicono i giornali, «la notizia era prematura )>.
Si aspetto invano qualche cosa di nuovo tutto il giorno seguente,
lunedi 19, e la sera di quel giorno i fiorentini andarono a letto di
cattivo umore, come quei bambini ai quali non e dato il regalo stato
loro promesso.
La mattina del 20 si alzarono ancora piu malcontenti ed irre-
quieti. Al Canto alia Paglia, al quadrivio del caffe di Parigi, da
Santa Trinita, sulla cantonata di via de5 Martelli, in piazza della
Signoria, si radunavano in capannelli persone che non si erano mai
viste ne conosciute, leggendo e commentando i giornali della mat
tina, nei quali naturalmente non v'era nulla di piu che in quelli
della sera precedente, visto e considerato che, generalmente, non
si occupano citta durante la notte.
Quando mezzogiorno fu suonato da pochi minuti all'orologio di
palazzo Vecchio, sbuco fuori da via Valfonda verso il centro della
citta una folia di strilloni con « Tultimo supplemento » della « Gaz-
zetta del popolo» che conteneva in poche parole Pannunzio del-
Tingresso delle truppe in Roma per la porta Pia e per la breccia
aperta poco distante, dopo quattro ore e mezzo di fuoco.
Subito tutta Firenze si agita e si muove, come Tacqua d'una
caldaia al momento di levare il bollore. Le strade si popolano, gli
operai interrompono il lavoro; le bandiere nazionali appariscono
atutte le finestre. Dovunque si formano gruppi: appena messosi in
moto, ciascuno dei gruppi diventa una folia; e le varie folle cosi
formate se ne vanno su e giu per le strade, senza una meta determi-
nata, senza uno scopo preciso, ma con Paramo riboccante del piu
spontaneo e schietto entusiasmo.
i. Jules Senard (1800-1885) era stato inviato a Firenze, nella speranza che
le sue idee liberali e la sua awersione al potere temporale agevolassero
la sua azione tendente ad ottenere un intervento militare, o almeno diplo-
matico, in favore della Francia. Nonostante tutto, la sua azione falli. Torno
allora in Francia.
FIRENZE CAPITALE (1865-1870) 473
Piazza del Duomo e zeppa di popolo, che grida « Viva il Re, Viva
Roma)) fra scroscianti ed interminabili applausi. Una diecina di gio-
vinotti, seguiti da altri venti, da altri cento, corre li vicino, a casa
del campanaio; lo portano di peso, come in trionfo, ad aprire la
porticina del campanile di Giotto, e cinque minuti dopo il suono
del campanone echeggia rimbombando festosamente sulla citta giu-
bilante. II campanile e invaso da ondate di gente ; molte signore sal-
gono fino in cima, sul terrazzino. Gli stessi giovinotti che hanno
fatto aprire il campanile si arrampicano sull'antenna, sfidando il
vento ed il giramento di capo, ed issano lassu in cima una bandiera
nazionale.
Le campane di molte chiese, suonate dal popolo ed anche dai
sagrestani, rispondono al campanone del Duorno. Un gruppo di
giovani, diretto a far suonar quelle di Santa Maria Novella, incon-
tra Quintino Sella e lo applaude: ed egli pure, tanto schivo d'ap-
plausi, risponde ad essi festosamente, tanta e grande nel suo cuore
la gioia di quel momento solenne.
Nelle vie de' Cerretani, de' Tornabuoni, de' Rondinelli, non si
puo andare ne indietro ne avanti, tanta e la calca. Alle inferriate
delle finestre al piano terreno del palazzo Franchetti, detto delle
Cento iinestre, stanno attaccati i ragazzi fitti come i chicchi d'uva
in un grappolo. Una numerosa frotta di dimostranti viene da piazza
del Duomo, diretta verso piazza Santa Trinita, applaudita dal nu-
meroso pubblico accalcato sul largo marciapiede del caffe di Parigi.
Di la dal ponte Santa Trinita, in piazza Frescobaldi, la dimostra-
zione si ferma davanti all'antico convento dei frati Barbetti, sede
del Ministero della manna, e strepita perche alle finestre non vi e
una bandiera. Lo strepito continua un bel pezzo: si ripete piu
volte in coro, ma inutilmente, il grido di «fuori la bandiera ».
Qualcuno indispettito vorrebbe tirar de' sassi nelle finestre; ma, li
per li, sassi fortunatamente non se ne trovano. In mancanza d'altri
proiettili v'e chi tira dei soldi contro le finestre del primo piano;
mentre una voce stentorea domanda se la bandiera del Ministero e
stata messa al monte di pieta. Si fa strada fra la folia un giovinotto
con una piccola bandiera presa in prestito in un negozio vicino;
ed arrampicandosi sulle inferriate e sugli ornati di pietra, arriva al
primo piano, incoraggiato dagli applausi, e pianta la bandiera fra le
stecche d'una persiana.
Arriva intanto dal ponte Santa Trinita il distaccamento di truppa
474 UGO
che va a dare il cambio alia guardia del palazzo reale, con la musica
e la bandiera. Altre molte bandiere lo precedono, compresa quella
degli emigrati romani, con Taquila trionfatrice e la lupa. Seguono i
soldati 5 o 6000 persone, e vanno per via Maggio verso piazza
Pitti.
La musica entra in piazza suonando la marcia reale, che appena
appena si arriva ad udire fra le acclamazioni e gli ewiva. Le ban
diere si vanno a mettere a destra ed a sinistra del portone principale
del palazzo, in due gruppi. Gli applausi e le grida di ewiva al Re
continuano per dieci buoni minuti. Finalmente gli staffieri met-
tono un tappeto di velluto cremisi sul davanzale del terrazzino del
primo piano, e Vittorio Emanuele si affaccia. fe vestito di nero, se-
condo il solito, con il goletto della camicia rivoltato sopra il pan-
ciotto. Ha il cappello in mano e lo agita, salutando la folia plaudente.
Nella sua fisonomia, sempre imperturbabile, traspare la commo-
zione e Fintensa gioia.
Da tutte le finestre delle case di piazza Pitti, in un batter d'oc-
chio adornate di tappeti e d'arazzi, le signore sventolano i fazzoletti
ed agitano centinaia di bandierine. Vittorio Emanuele, richiamato
dagH applausi, torna a mostrarsi due, tre, quattro volte, e le grida
d'ewiva continuano quando egli e gia scomparso da un pezzo.
In piazza della Signoria si applaudono, si circondano, si abbrac-
ciano pochi bersaglieri che, smontata la guardia, tornano al loro
quartiere del corso dei Tintori e quei bravi ragazzi non sanno phi
come sottrarsi a quell'ondata d'entusiasmo tirando avanti per la loro
strada. Si awicina la sera e pare che nessuno pensi neppure al so
lito desinare. La folia va sempre aumentando: le strade sono sti-
pate. Migliaia di persone ritornano in piazza Pitti e rinnuovano le
dimostrazioni di affetto e di gratitudine al Re, quando egli esce
dalla reggia, verso le 9, per andare al teatro Principe Umberto,
sfolgoreggiante per la luce di mille e mille fiammelle a gas. Anche
li un'altra folia acclama Vittorio Emanuele e lo fa alzare in piedi
quattro volte di seguito per ringraziare.
Molte case si illuminano; il palazzo del Municipio - in piazza
Santa Trinita - pare che abbia una facciata di fuoco. Le bande per-
corrono le strade o suonano sulle piazze, e non prima di un'ora o
due verso mezzanotte ritorna nella citta un po' di calma e un po' di
silenzio, e si puo riflettere a tutta rimportanza del grandissimo
awenimento.
DA «I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878)*
[PIAZZA SAN PIETRO E IL VATICANO]1
Torse nessuno ha veduto la piazza di San Pietro e Tester-no del
Vaticano nelle circostanze nelle quali io li vidi la prima volta, la
mattina del 21 settembre 1870.
La sera prima, dopo le n, incontrato Edmondo De Amicis nel
caffe di piazza Colonna ribattezzato quel giorno con il nome di
Cavour, trovata per caso una botte2 vicino a piazza Venezia, allon-
tanandoci dal festoso baccano delle vie principali, eravamo andati
fino al Foro Romano ed al Colosseo, passando sotto il Campidoglio,
attoniti dinanzi alia grandiosita degli avanzi di Roma antica, che
ci appariva anche piu solenne nel silenzio e nella oscurita della
notte.
La mattina dopo, uscito di buon'ora dalPalbergo d'Europa, salii
in un'altra botte in piazza di Spagna e dissi al bottaro di accompa-
gnarmi in piazza San Pietro. II bottaro mi guardo sorpreso, e con-
vintosi subito che non ero romano, mi disse in pretto abruzzese:
— Signuri . . . la ce stanno ancora li caccialepril3
Ma avendo io insistito, s'awio per via Condotti, via Fontanella
di Borghese, via delPOrso; passo davanti all'antico albergo omo-
nimo, nel quale il Montaigne4 alloggio nel 1581, e sbocco di faccia
alia mole Adriana lasciandosi dietro Pora scomparso teatro Apollo.
A ponte Sant'Angelo, sulla riva sinistra del Tevere, era di guardia
una compagnia del 21° battaglione bersaglieri comandata dal capi-
tano Boyer,5 un valoroso ufSciale piemontese, col petto coperto di
medaglie, che a Firenze, da dove era venuto il battaglione, chiama-
vano il «capitano Fanfullav. Egli aveva la consegna di non lasciar
passare il ponte a soldati nostri, e di non permettere che si awici-
i. Ed. cit., dal cap. i (// Vaticano), pp. 7-11. 2. botte: carrozzella d'affitto
in uso a Roma, cosi detta dalla sua forraa caratteristica. 3. caccialepri:
cosi il popolo chiamava i soldati del papa. Nel dialetto romano, « caccia-
lepre » e nome di un uccello di rapina. 4. Michel de Montaigne (1533-1592),
subito dopo la pubblicazione del primo e secondo libro dei suoi Essais
(1580), intraprese un viaggio in cui visito anche Venezia, Firenze, Roma e
Loreto, lasciandone relazione in un celebre diario. 5. Andrea Boyer, nato
a Nizza nel 1835, ancora semplice soldato nel 1855, era colonnello nel 1872.
Combatte nel 1839 e nel 1866, partecip6 alia presa di Roma nel 1870. II
soprannome (capitano Fanfulla) conteneva una evidente allusione al noto
personaggio del Niccolo dey Lapi (1841) di Massimo D'Azeglio.
476 UGO PESCI
nassero alia riva sinistra i pontifici, che si vedevano affollati dietro
un cancello, dall'altra parte del ponte, all'ingresso di castel Sant'An-
gelo allora forte e caserma.
II Boyer voile dissuadermi dal proseguire; ma non Tascoltai.
M'ero messo in testa di vedere che cosa accadeva nella cosi detta
citta Leonina:1 almeno in apparenza, ero un cittadino contro la cui
libera circolazione non poteva esistere alcuna consegna, poiche altra
gente andava e veniva per il ponte da una parte e dall'altra. Passai
davanti al cacciatore estero di sentinella al castello, infilai per Borgo,
incontrando soldati papalini di varie specie, e domestici in livrea
cardinalizia che parevano affrettarsi alia ricerca di un rifugio sicuro.
Le botteghe de' coronari2 erano semiaperte, e le cicoriare offrivano
la loro fresca ed umida mercanzia alle donnette che uscivano da
Santa Maria in Traspontina affrettando il passo.
Giunto in piazza Rusticucci mi si presento allo sguardo tutta la
maesta della Basilica Vaticana e del palazzo pontificio: ma da
quella prima impressione subito mi distrasse un altro spettacolo,
dawero non altrettanto maestoso, ma curioso e strano. Tutt'intorno
al porticato del Bernini e lungo la gradinata di San Pietro erano
schierati fra i 5000 ed i 6000 uomini di varie truppe, che vi avevano
bivaccato durante la notte: una batteria da campagna, con gli avan-
treni staccati ed i pezzi rivolti contro la citta, stava davanti al-
Tobelisco; il reggimento zuavi davanti al portico a sinistra di chi
guarda verso la facciata, al di la della fontana.
Le truppe a piedi avevano fatto i fasci d'armi, presso i quali si
aggruppavano disordinate; un drappello di dragoni era appiedato
con i cavalli alia mano : sotto il portico fumavano qua e la nereg-
gianti avanzi di legna bruciate, servite per il caffe od un primo
rancio. Molto avanti, verso piazza Rusticucci, erano riuniti pa-
recchi ufficiali: altri gruppi se ne vedevano qua e la dispersi nel
vastissimo spazio.
Non v'era, oltre i soldati, anima viva in tutta la piazza. II bottaro,
punto incoraggiato da quello spettacolo, aveva rallentato il trot-
tarello della sua brenna: poi si fermo addirittura col pretesto di
domandarmi dove volessi andare. Per non fare una vergognosa ri-
tirata, lo tenni li fermo a chiacchiera per due o tre minuti, durante
i. citta Leonina: cosi e chiamata quella zona trasteverina di Roma che
papa Leone IV (847-855) cinse di mura e fortified contro gli assalti dei
Saraceni. 2. coronari: venditori di corone e immagini sacre.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 477
i quali detti un'occhiata distratta alia facciata della basilica, alia cu
pola di Michelangelo, ed alia facciata del palazzo che appare di
sghembo al di la del portico del Bernini : poi dissi al bottaro di tor-
nare indietro, ed egli si affretto a voltare, frustando con entusiasmo
la povera bestia sorpresa dalPingiustificato maltrattamento.
Tornai, dopo tre o quattro giorni, in piazza San Pietro ; visitai la
Basilica nella quale entravano a frotte, e passeggiavano riverenti ed
a bocca aperta per lo stupore quei buoni ragazzi de' nostri soldati :
girai di fuori intorno al palazzo ed ai giardini come allora si poteva,
perche il quartiere dei Prati era una vasta estensione di ortaglie e
di terreni abbandonati mal praticabile. Visitai la Pinacoteca, le logge
di RafFaello, i Musei, la Sistina, entrando in Vaticano con uno dei
tanti biglietti rilasciati in quei primi giorni dal maestro dei Sacri
palazzi apostolici alle nostre autorita militari, ed intestati al tenente
colonnello Montreal del 57° fanteria, a cui non ho mai capito perche
fosse toccato d'essere il gerente responsabile di tutti i visitatori del
Vaticano.
Alcun tempo dopo potei anche procurarmi il permesso speciale
necessario per visitare altre parti del palazzo, vietate a chi e sem-
plicemente munito di un biglietto ordinario : entrai ossequiato dagli
svizzeri di guardia alia porta di bronzo, visitai i giardini, potei
accompagnarmi a comitive di pellegrini, ed assistere ad alcuni so-
lenni ricevimenti di Pio IX nella Sala Ducale.
Non ho mai verificato se esistano dawero in Vaticano 11.000
stanze ; non ho mai contato le grandi sale e neppure i cortili ; non
ho mai misurato a passi i piu lunghi corridoi come fanno le belle
americane per verificare le indicazioni delle « guide ». Ma il palazzo,
o per meglio dire quelPammasso di palazzi, costruiti e sovrapposti
Puno alPaltro in tempi tanto diversi, mi ha sempre fatto, riveden-
dolo, una maggiore impressione di grandiosita e d'imponenza. Non
ho mai veduta la residenza del Dalai Lama del Tibet - il palazzo di
Potala1 vicino a Lhassa - in fama d'essere uno dei piu grandi edi-
fizi del mondo : forse non Phanno veduto neppure tutti coloro che
hanno la pazienza di leggere questo libro. Ma senza averlo veduto,
si puo scommettere che, se pur misurandolo a metri ha dimension!
maggiori del Vaticano, non e dawero altrettanto imponente e
grandioso. Quando poi si pensa alle meraviglie delParte contenute
i. Potala e un monte del Tibet, posto in vicinanza di Lhasa, in cima al qua
le s'innalza il palazzo ove risiede il Dalai Lama.
478 UGO PESCI
nella residenza del pontefice romano; alPinfinito popolo di statue
che vi tiene stanza; ai sorprendenti monumenti di tutte le civilta
che vi hanno raccolto varii pontefici; al numero enorme di artisti
insigni che hanno collaborate ad edificarla, ad ampliarla, ad ornarla
di capolavori unici al mondo ; si finisce per acquistare la immuta-
bile convinzione che tutta questa inarrivabile magnificenza e stata
creata ed esiste in forza di una idea veramente immensa; di tale
immensita che sfugge alle nostre piccole menti critiche, e che
1'ostentato disprezzo di chi non e arrivato neppure a comprenderne
la grande importanza storica, rende anche piu gigantesca . . .
[PIO IX E IL CARDINALS ANTONELLl]1
Non mi propongo il riassumere la biografia di Pio IX: e nem-
meno il discutere gli atti politici di lui dopo il 1870. Egli ne fu cer-
tamente responsabile soltanto in parte, perche circondato da per-
sone che lo informavano a modo loro di quanto accadeva fuori. Per
molto tempo dovettero fargli credere prossimo il ristabilimento del
potere temporale, per opera di quella o di questa potenza d'Eu-
ropa. Le sue illusion! svanirono una dopo Paltra ; ma intanto erano
passati gli anni, e scemata la possibilita di rinunziare alia volontaria
prigionia, della quale era stato detto:
NelVEvangelo e scritto:
Quando la turba il Cristo voile re
egli abscondit se.
Nel Vatican si legge
che Pio, vicario suo, nasconde se
quando non e piu re.
* Quando gli parlavano della Divina Prowidenza e del prossimo
trionfo definitive del potere temporale, aveva preso 1'abitudine di
rispondere :
— Non fo il profeta ne Pindovino . . . Non vi so dire se questo
trionfo sia vicino o lontano. Se dovra venire, verra! Intanto rasse-
gnamoci!
A lasciar Roma, quantunque si parlasse spesso della sua partenza
come di un fatto imminente, e piu volte s'indicasse la meta e
Titinerario del viaggio, credo che veramente non pensasse mai. Nel
i. Ed. cit., dal cap. I (// Vaticano), pp. 15-22.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 479
1871 aveva mandate a Tolone Ylmmacolata Concezione - unico le-
gno della flotta pontificia, lasciato in sua proprieta -1 per rimetterla
in grado di tenere il mare senza pericolo, ma poco dopo la nave era
divenuta di nuovo inservibile. Nell'ottobre del 1874, quando il go-
verno della repubblica francese si decise a richiamare il famoso
Orenoque,2 lasciato dal 1870 nelle acque di Civitavecchia a dispo-
sizione del Papa, Pio IX ebbe Paria d'adirarsene; ma fu sdegno
esclusivamente ufficiale.
Con gli intimi, e con chiunque quando sentiva il bisogno d'uno di
quelli sfoghi di sincerita in lui frequentissimi ed impulsivi, parlava
in tutt'altro modo.
— Ci vorrebbero fare abbandonare Roma — diceva il 3 ottobre
1873 a circa 3°° giovani cattolici presentatigli dal cardinale Borro-
meo; e soggiungeva — Giammai! — forse con una velata ironia per
iljamais del signer Rouher.3
Che non si volesse muovere da Roma lo hanno sempre ripetuto
quanti Fawicinavano. Monsignor Pacca - che dopo la morte di
Pio IX fu dei piu caldi sostenitori della proposta d'andare a tenere
il conclave fuori di Roma - essendo ancora maggiordomo di Sua
Santita, parlando un giorno con un prelato, nel luglio del 1872, e
credendo di non essere ascoltato, esclamava:
— Non capisco come quelVuomo Id (il Papa) si ostini a volere ri-
maner qui dove siamo esposti ad umiliazioni ed a pericoli, costretti
alia nostra eta a cambiare abitudini ed a star chiusi qui dentro!
Ma lui non si vuol muovere!
Se Pio IX era inesattamente informato di quanto accadeva fuori
del Vaticano, correvano spesso sul di lui conto notizie che erano
tutto lavoro di fantasia. Non parliamo di quei giornali secondo i
quali poca paglia serviva di giaciglio al prigioniero del Vaticano.
Ogni tanto qualcuno Paveva veduto uscire per andare a visitare le
i. VImmacolata . . . proprieta: nella resa di Civitavecchia, awenuta il 15 set-
tembre 1870, fu appunto stabilito che tutto il materiale delTesercito pontifi-
cio passasse all' Italia, « facendo solo eccezione peril bucintoro papale Imma-
colata Concezione ». 2. Nell* ottobre . . . Orenoque: nell'autunno del 1874 il
governo francese richiamo dalle acque di Civitavecchia la na.veL'Orenoque3
lasciata a disposizione del pontefice per il caso ch'egli volesse abbandonare
1* Italia. La presenza della nave aveva dato luogo a lagnanze e polemiche
della stampa e dei partiti italiani. 3. iljamais . . . Rouher: si allude al duro
discorso pronunziato dal ministro jfrancese Eugene Rouher al Coipo le-
gislativo francese, dopo Mentana, in cui aveva affermato che 1' Italia non
si sarebbe impadronita di Roma jamais.
480 UGO PESCI
scuole di San Salvatore in Lauro, o vedere i restauri della chiesa
del Santi Apostoli. Fino dai primi mesi del 1871, di quando in
quando lo dicevano gravemente ammalato, mentre le condizioni
della sua salute potevano dirsi eccellenti, pensando che compi Tot-
tantesimo anno il 7 agosto del 1872. D'estate qualche volta non sta-
va bene : soffriva disturbi gastrici e dolori alle gambe, le quali, negli
ultimi anni di vita, gli si gonfiarono procurandogli non lievi sof-
ferenze. I medici avrebbero voluto mandarlo a passare i mesi piu
caldi a Castel Gandolfo, ma egli assolutamente non voile, e quando
aveva detto una cosa non era facile per nessuno il fargli cambiar pa-
rere. Alia rinfrescata si rimetteva presto in salute; tanto da salire
senza bisogno d'aiuto, dopo la passeggiata nei giardini, i due capi
di scale che portavano al suo quartiere. Un giorno, arrivato in cima
al secondo ramo, si volto verso i sediari saliti con la portantina
vuota, e disse loro col suo fine sorriso ironico : — Ci avete fatto
una bella figura!
Perche non si dice nulla di nuovo ne di irriverente ricordando
che sul trono pontificio Pio IX aveva conservato spirito sottilmente
ironico ed anche pungente, sempre pronto a vivace ed appropriata
risposta, anche nei piu solenni momenti. Testimoni autorevoli
hanno affermato che quando, appena eletto, il Cardinale decano gli
rammento, secondo il rito, che non sarebbe vissuto papa per piu di
venticinque anni — Non videbis annos Petri — egli non pote"
trattenersi dal rispondergli subito : — Hoc non est fidei — questo
non e dogma di fede. Era in lui vivo il desiderio di piacere, di fare
buona impressione sui numerosi fedeli ammessi a visitarlo : si com-
piaceva di vedersi fatto oggetto di profondo ossequio e di evidenti
dimostrazioni di affettuoso rispetto. Buonissimo e generoso, era nei
tempo stesso d'indole subitanea: non nascondeva il risentimento,
ma era incapace di serbarlo.
A prova di cio si potrebbero citare infiniti aneddoti, molti de'
quali noti, altri ignoti o dimenticati; e mi verra fatto di narrarne piu
d'uno parlando delle abitudini di Pio IX, e del suo modo non uffi-
ciale di pensare intorno alle cose accadute in Roma dopo il 1870.
Chiunque altro, al suo posto, non avrebbe fatto buon viso a coloro
che dovevano parergli usurpatori dei diritti della Chiesa e del pon
tificate, anche se gli fosse stata lasciata piena ed intiera liberta d'agi-
re a suo modo; ma la difesa delle proprie ragioni non lo faceva es-
sere sempre ingiusto nei suoi giudizi.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 481
Non meno meritevoli di studio erano le relazioni fra Pio IX ed ii
personaggio piu importante dopo di lui in Vaticano, il cardinale
Giacomo Antonelli1 segretario di State e maestro dei Sacri palazzi
apostolici. L'Antonelli aveva diretto la politica della Santa Sede
dal ritorno da Gaeta2 fino al settembre 1870, per venti anni, e sa-
rebbe ardua impresa lo stabilire quanta parte di responsabilita negli
errori politici commessi durante quel tempo spetti al sovrano tem-
porale od al suo ministro. Certo e che quelli dell' Antonelli - fra
gli altri Pessersi opposto fino alPultimo momento a che Francesco II
dasse una costituzione ai suoi popoli; e Paver respinto le pratiche
del conte Daru e del duca di Grammont3 perche il Concilio del
1870 non fosse chiamato a convertire in articoli di fede le dottrine4
riguardanti incontestabilmente Pordine politico - hanno fatto mol-
to piu bene che male all' Italia.
L'orientamento politico delPAntonelli - per dire come ora di-
cono - fu sempre verso la Francia, e dal suo punto di vista ebbe
pienamente ragione, tanto e vero che, dopo il 20 settembre, riusci
ad ottenere dal signor Favre e dagli altri repubblicani5 quanto non
avrebbe ottenuto da Napoleone III; per esempio, far mandare in
permesso il de Choiseul, ministro a Firenze, alia vigilia dell'ingresso
ufficiale di Vittorio Emanuele in Roma;6 fare arrivare qui Pincari-
cato d'affari signor Villestreux sette giorni dopo il Re ; ed insistere
i. Giacomo Antonelli (1806-1876) dal 1848 fino alia morte fu segretario di
Stato di Pio IX. 2. ritorno da Gaeta: caduta la Repubblica e occupata
Roma dai Francesi (4 luglio 1849), Pio IX era tomato da Gaeta a Roma
il 12 aprile 1850. 3. II conte Napoleon Daru (1807-1890) tenne per breve
tempo il portafoglio degli esteri nel ministero Ollivier (vedi la nota i a p.
455)> dal 2 gennaio al 13 aprile 1870. Gli successe il 15 maggio il duca di
Gramont (1819-1880), che tenne il portafoglio degli esteri fino al 10 agosto,
nell'ultimo gabinetto Ollivier. 4. il Concilio . . . dottrine: la proclamazio-
ne del dogma dell'infallibilita (per cui cfr. la nota 3 a p. 458) provoco pri-
ma e dopo il Concilio vaticano del 1869-70 lunghe e aspre polemiche.
5. Jules Favre (1809-1880), ministro degli esteri della Repubblica francese
(4 settembre 1870 - 22 luglio 1871), pur awerso al pot ere temporale, so-
stenne allora il pontefice, con grande irritazione di quegli italiani che ave-
vano visto solo in Napoleone, e non nella Francia, Postacolo alia soluzione
della questione romana. II Favre espose la sua politica nel volume Rome et
la Republique franpaise, Paris, Plon, 1871. Con 1'espressione altri repubblicani
il Pesci allude soprattutto ad Adolphe Thiers, che, divenuto primo presiden-
te della Repubblica francese, ne guido la politica fino al 24 maggio 1873.
6. ingresso . . . Roma: Vittorio Emanuele entrd ufficialmente a Roma il 2
luglio 1871. Ma, privatamente, era gia stato nella capitale il 31 dicembre
1870 e vi aveva soccorso i danneggiati dalla piena del Tevere.
482 UGO PESCI
perche P Austria ordinasse altrettanto al suo rappresentante, non
avendone voglia.
Per i servigi resi, per Pautorita acquistata, PAntonelli conserve
la sua onnipotenza anche quando rimase ministro in partibus:1 ci6
non ostante egli conservo sempre di fronte a Pio IX una attitudine
di forse apparente ma costante abnegazione, e confessava di non
presentarsi mai al Pontefice senza una qualche apprensione.
Pio IX dal canto suo, quantunque PAntonelli avesse molti nemici
e non mancasse a talun cardinale, di fama illibata, il coraggio di
lamentarsi col Papa di gravezze imposte alle popolazioni, volute
dalPAntonelli per arricchire la sua famiglia e la sua clientela, non
mosse mai alcun rimprovero al Segretario di Stato. Fra quanti da
molto tempo avevano occupato Paltissimo ufficio, Giacomo Anto-
nelli era senza dubbio il meno erudito, il meno ecclesiastico. Ar-
ricchi se stesso ed i suoi fratelli, Filippo, Angelo e Luigi, li fece
creare conti, ed al primo ottenne il privilegio della Banca Romana ;
privilegio nel quale vanno ricercate le prime origini degli imbrogli
che ebbero il loro epilogo nel i893.2 Ma i suoi difensori dicono che
parecchi predecessori delPAntonelli lasciarono il segretariato di
Stato molto piu ricchi di lui, dopo essere stati in carica per un tempo
piu breve.
Affabilissimo, particolarmente con le signore, con le quali sapeva
parlare di argomenti mondani, ed anche di abbigliamenti ; cortese
ed insinuante con tutti; dotato abbondantemente di quel saper fare
che acquistano facilmente i nativi della Ciodaria appena infarinati
d'un po* d'educazione, con la buona grazia si faceva perdonare dai
diplomatici Porribile francese nel quale rivolgeva loro il discorso.
In Vaticano non ebbe amici fedeli : erano suoi famigliari assidui
il dottor Belli - fratello di Giovacchino, Pautore dei celebri sonetti
in dialetto romanesco - amante di anticaglie e raccoglitore di marmi
preziosi; e Pex gesuita Tessieri, numismatico e dilettante di fisica e
di meccanica. Suo segretario private era Paw. Aguglia. Del Belli
i. quando . . .partibus: cioe, dopo Toccupazione di Roma. 2. imbrogli . . .
nel 1893: la Banca romana, gia Banca dello Stato pontificio (1850-1870),
che era uno degli istituti di emissione, dopo aver inondato il mercato di
carta moneta, giunse al fallimento. La vicenda provoco accuse al ministero
di corruzione e di indulgenza, e ne derive un'inchiesta, che fece molto ru-
more e danno a vari uomini politici. Vedi G. GIOLITTI, Memorie della mia
vita, Milano, Treves, 1922, i, capp. iv e v, pp. 61 e 199.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 483
si serviva particolarmente come cTintermediario per aumentare la
raccolta pregevolissima di marmi rari e pietre preziose, per la quale
era appassionatissimo, e che, lui morto, e andata probabilmente
dispersa.
Non fu un grande politico, mancandogli la larghezza di vedute
che si acquista con una particolare istruzione ed esperienza di fac-
cende di Stato: ebbe pero molta potenza assimilatrice, tempera-
mento di scettico, ed altre doti che, se non bastano a fare un uomo
di Stato, giovano a formare un ministro accorto. Quantunque Pio IX
avesse dato a lui ed ai fratelli il titolo comitale, il figlio di Domenico
Antonelli e Loreta Moriconi, agricoltori di Sonnino, aveva una
istintiva awersione per Paristocrazia, ed il suo ideale politico era la
costituzione d'uno Stato nel quale la grassa borghesia avesse molta
potenza e grandi ricchezze; contrario ad ogni nuovita politica,
ma disposto a favorire quelle tenderize che miravano ad aumentare
il benessere materiale. Nel 1852, contro il parere degli altri con-
siglieri del Papa, voile che negli Stati pontifici fossero costruite
strade ferrate, affidandone la costruzione al banchiere Salamanca.
Fu sempre contrario a chi consigliava Pio IX a lasciare il Vati-
cano e Roma, alia quale in troppi modi si sentiva legato. La sua
politica, dopo il 1870, si riassumeva in due parole: protestare1 ed
aspettare. Lo disse egli stesso a Ruggero Bonghi,2 che conosciutolo
la prima volta quando venne a Roma, nel 1848, segretario di am-
basciata della Lega Italiana, aveva poi avuto occasione di essere
ricevuto nuovamente da lui nel 1869; e mandato nel 1870 dal mi
nistro Correnti3 a visitare le biblioteche di Roma, credette suo do-
vere di andare ad ossequiarlo. Fu subito ricevuto, ed il discorso
cadde naturalmente sulla condizione di cose creata pochi giorni
prima dalFingresso delle truppe italiane in Roma. LJ Antonelli af-
i. protestare: dopo 1'occupazione di Roma, una notevole protesta, diretta
dall' Antonelli alle potenze amiche, fu innalzata il 2 gennaio 1871, ma ne
seguirono moltissime. 2. Ruggero Bonghi (1826-1895) nel 1848 accompa-
gno a Roma, come segretario, la legazione straordinaria che doveva recarsi
an che a Firenze e a Torino per prendere accordi per la lega italiana: ma Pen-
ciclica di Pio IX del 29 aprile fece crollare ogni speranza. Esule da Napoli
dopo il 15 maggio 1848, vi torno immediatamente prima del crollo dei
Borboni e favori Tannessione delle Due Sicilie al Piemonte. Professore di
letteratura greca a Torino, di letteratura latina a Firenze, di storia antica
a Milano e poi a Roma. Deputato, ministro della pubblica istruzione dal
1874 al 1876. Fondo a Torino «La Stampa»; diresse dal 1866 «La Per-
severanza». 3. Cesare Correnti (cfr. la nota 4 a p. 302) era allora (1869-
1 872) ministro della pubblica istruzione.
484 UGO PESCI
fermo la necessita che il Papa non uscisse dal Vaticano, perche
Tuscire sarebbe stato un riconoscere e sancire quanto era stato
fatto contro di lui. Da parte del Papa - egli diceva - bisognava
mantenere il diritto intatto ed incolume, perche la di lui forza sta
in quel diritto. Spiego perche, allora, secondo il Vaticano, i cattolici
non dovevano andare alle urne.1 Ed al Bonghi, che accennava alia
possibilita di trattative fra il Pontefice ed il Governo italiano, ri-
spondeva :
— Ma che trattative, mio caro signore! Con chi si tratta quando
si tratta col Governo italiano ? Prima che la trattativa sia intavolata,
il Governo e belPe cambiato! E poi, come si puo avere piu fede negli
uni che negli altri?
E concluse dicendo:
— Non vi e che una risoluzione possibile : protestare ed aspettare!
£ quanto egli f ece ed hanno fatto finora i suoi successor! ; quan-
tunque dal 1870 molte cose siano cambiate.
[PELLEGRINAGGI, RICEVIMENTI, L'UNIVERSITA PONTIFICIA,
L'ARCADIA]2
I ricevimenti solenni di numerosi pellegrini stranieri ed italiani
ricominciarono presto in Vaticano, dopo il settembre 1870. A
Pio IX piaceva ricevere gli omaggi dej fedeli, ed apparire loro, sor-
ridente, circondato dalla pompa della sua corte, quantunque con-
tradicesse in tal modo le favole intorno alia di lui prigionia messe
in giro dagli ultramontani. Roseo nel volto, con il capo coperto da
uno zucchetto di raso leggero e candido come la neve - lo metteva
nuovo ogni giorno - con 1'abito candidissimo, compariva fra le
guardie nobili ed i prelati domestici, con dignitosa afTabilita che
inteneriva molti fino alle lacrime, alzando, in atto di benedizione,
la mano piccola, morbida, e ben tenuta. Guai pero a chi, pur in-
volontariamente, non dimostrava il rispetto dovuto alia sua qualita
di capo della Chiesa cattolica!
Un giovane inglese, un tale signor Newton, veniva volentieri a
i . perche . . . urne: nel 1874 la Chiesa stabili il non expedit, con cui si vietava
ai cattolici di partecipare alle lotte elettorali e parlamentari. Don Margotti,
direttore delP« Unita cattolica », conio la formula « ne eletti ne elettori », che
ebbe Papprovazione di Pio IX. 2. Ed. cit., dal cap. I (// Vaticano), pp. 43-5 1 .
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 485
passare I'inverno a Roma, dove per riunire Futile al dilettevole, es-
sendo modestamente prowisto, si valeva della pratica acquistata
della citta, per condurre in giro giovanetti di ricche famiglie de' '
suoi connazionali. Una sera del 1876, o '77, in casa di comuni ami-
ci, arrive il signor Newton tutto mortificato. Che cosa gli era acca-
duto? Andato ad accompagnar i giovani afEdatigli ad un ricevi-
mento in Vaticano, aveva creduto che la sua qualita di accompagna-
tore non lo obbligasse a prender parte ad alcuna dimostrazione d'os-
sequio, ed anglicano convinto, era rimasto discretamente sulla so-
glia d'una porta, in piedi mentre tutti gli altri s'inginocchiavano.
Non Pavesse mai fatto! Pio IX, agli occhi del quale milk sfuggiva,
appena vedutolo, traversata la sala fra la folia dei gemiflessi, s'era
awiato verso di lui, seguito dai famigliari sorpresi, intimandogli di
inginocchiarsi.
Nel gennaio del 1871 venne a Roma un pellegrinaggio belga;
ed in quell'inverno anche una deputazione cattolica inglese della
quale facevano parte alcuni signori della prima nobilta: il duca di
Norfolk1 allora appena ventiquattrenne, un Arundel, un Douglas,
un Denbigh, un Kerry, un Campbell . . . e siccome non si e signori
inglesi per nulla, andarono subito ad un meet* della caccia alia volpe,
e vi incontrarono il principe di Piemonte. Come si potrebbe dire
particolarmente di tutti i pellegrinaggi venuti a Roma in sette anni,
anche senza contare quelli per PAnno Santo e per il Giubileo epi-
scopale del Papa? Chi puo mai sapere quanti milioni portarono
i pellegrini in quelli anni?
Nel maggio 1874 un numeroso pellegrinaggio francese, che con-
tava nelle sue file anche alcuni vescovi, assisteva al concistoro nel
quale furono creati cardinali monsignor Donnet e monsignor Re-
gnier, ed offri al Papa 254 mila franchi, - oltre 150 mila mandati
dalParcivescovo di Parigi-dopo avergli letto un indirizzo nel
quale era detto che «la salute della Francia e nel trionfo della
Chiesa».
Nel giugno ebbe psrticolari accoglienze un gruppo di Irlandesi
dj America, sbarcato a Civitavecchia il giorno dello Statute, con 14
i. Henry Fitzalan Howard, duca di Norfolk (1847-1917). Su quest! pelle
grinaggi e sui rapporti fra Stato e Vaticano, vedi Sidle soglie del Vaticano.
Dalle memorie di GIUSEPPE MANFRONI, a cura del figlio Camillo, volume I
(1870-1878), Bologna, Zanichelli, 1920. 2. meet: appuntamento, convegno
di caccia.
486 UGO PESCI
signore ed un vescovo. Dicono che, vedendo il Vaticano, qualcuno
di essi non si potesse trattenere dalTesclamare americanamente : /
' say what jolly prison!1 Presentarono danari e doni preziosi - un
vescovo della Nuova Zelanda aveva mandato in quei giorni 480.000
franchi - ed il cardinale Borromeo li invito ad un ricevimento nel
palazzo Altieri dove abitava, facendoli trovare insieme a molti si-
gnori dell'aristocrazia papalina.
Nell'anno 1875 i ricevimenti si succedettero piu frequenti e piu
numerosi in occasione deH'Anno Santo. II i° gennaio Pio IX aveva
ordinato speciali preghiere al mondo cattolico: il giorno dell'Epi-
fania, alle colonne del palazzo abitato dal cardinale vicario (allora
Costantino Patrizi) era stato affisso il manifesto col quale si bandiva
il Giubileo, awertendo che esso non si sarebbe potuto « adempiere
nelle esterne sue forme ». Lo stesso giorno, il conte Acquaderni di
Bologna presentava a Pio IX una rappresentanza della « Gioventu
cattolica »3 composta di giovani di tutte le citta d'ltalia, con I'offerta
di 100.000 lire, ed il Papa benediva 1'Italia cattolica; poi, quasi ri-
prendendosi, estendeva la benedizione a tutti gli Italiani, partico-
larmente ai traviati « perche si convertano ». II 5 maggio dello stesso
anno erano ricevuti numerosi pellegrini francesi condotti dal
visconte di Damas, che non capirono molto del discorso rivolto loro
dal Papa in italiano - agli Irlandesi aveva parlato in francese facen-
dosi capire anche meno. Pochi giorni dopo, per 1*83° anniversario
della sua nascita,3 numerosi cardinal! e prelati si awiavano con i
loro carrozzoni alPingresso dei giardini Vaticani, mentre al portone
principale sotto il portico del Bernini, si affollavano preti e frati,
signori romani, una ventina di ciociare nel loro costume originale,
un pellegrinaggio tedesco guidato dal barone Loe, una delega-
zione di contadini del Belgio, portando indirizzi ed offerte. Nel
luglio, Pio IX ricevette 700 donne affiliate alia Pia unione delle
donne cattoliche condotte dalla marchesa Antici Mattei; e 1'Anno
Santo termino con un solenne ricevimento di tutti i cardinal! e pre
lati delle sacre congregazioni ecclesiastiche, e di tutte le autorita
pontificie: poich6 erano rimasti in carica non il solo segretario di
stato, ma anche tutti gli altri ministri - eccetto monsignor Negroni,
i. «Dico: che bella prigione!» 2. La Societa della « Gioventu cattolica »,
ideata da Mario Fani Giotti nel marzo 1866, appro vata da Pio IX il 2
maggio 1868, ebbe a suo primo presidente il conte dottor Giovanni Ac
quaderni di Bologna. 3. ¥83° . . . nascita: Giovanni Maria Mastai Ferretti
(Pio IX) era nato a Senigallia il 13 maggio 1792.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 487
dimessosi da ministro delFinterno per entrare nella Compagnia di
Gesu - la consulta di fmanze, il consiglio di stato, il tribunale di
Ruota, il tribunale civile e perfino il senatore1 di Roma, marchese
Francesco Cavalletti Belloni.
In ventisei secoli i Romani, stati present! a tanti awenimenti,
hanno preso 1'abitudine di non rneravigliarsi di nulla, ed il Gran
Mogol potrebbe passeggiare nelle strade piu popolari, in tutto lo
sfoggio della sua pompa orientale, senza destarvi grande curiosita.
Per conseguenza tra i Romani non ne destavano alcuna i piu ori-
ginali preti spagnuoli accompagnati da contadini della Biscaglia;
ne i pellegrini Canadesi, ne i Dalmati, ne i Croati, ne i Portoghesi
d'ogni provincia, ne i Bretoni, accorsi a Roma per 1'Anno Santo,
o per il Giubileo sacerdotale di Pio IX, o per il suo Giubileo epi-
scopale.2 Per i nuovi arrivati, e non ancora acclimati al cosmopoli-
tismo romano, era ben altra faccenda. Quando incominciava un po'
di movimento intorno al Vaticano, specie in quei primi anni, non
potevano trattenersi dalPandare a vedere la berlina di gala del
principe Massimo, i soliti carrozzoni cardinalizi e prelatizi, i soliti
addetti alia corte pontificia od ex impiegati del Papa che, terminate
il ricevimento o la cerimonia, sul portone di bronzo, aspettando
una botte che li riportasse a casa, raccoglievano nel fazzoletto le
cornrnende di San Gregorio Magno, delFordine Piano, e d'altri
ordini equestri pontifici. Per il Giubileo episcopale, cioe per il
50° anniversario della consacrazione di Pio IX come vescovo di
Spoleto, che ricorreva alia fine di maggio del '77, la curiosita fu
grandissima, ed acuita dalla coincidenza con la festa dello Statuto.
Ricevimenti al Quirinale ed al Vaticano, rivista al Macao e funzioni
religiose a San Pietro in Vincoli si dividevano Tattenzione del pub-
blico, che accorreva nei giorni seguenti a visitare 1'esposizione dei
doni fatti al Papa in quell' occasione dai cattolici di tutto il mondo
e dai sovrani anche non cattolici, inaugurata in Vaticano il 21 di
maggio. La sola regina Vittoria d'Inghilterra aveva mandate cinque
grandi casse di roba. La ricchezza e la quantita delle cose esposte
era dawero meravigliosa : mitre, piviali, pianete, camici, trine,
1. senatore: e il titolo che aveva il sindaco di Roma fino al 20 settembre.
2. il Giubileo sacerdotale . . - episcopale: Pio IX era stato ordinato sacer-
dote il 19 aprile 1819, consacrato vescovo di Spoleto il 3 giugno 1827.
488 UGO PESCI
stoffe, velluti, pelli preziose v'erano accumulate a quintal!, in mezzo
a vasi sacri tempestati di gemme, ostensorii, calici, reliquiari, can-
delieri, croci, pastorali, quadri, statue . . . ed anche a piramidi di
bottiglie e di scatole di generi alimentari : un vero ammasso di te-
sori, che Pio IX distribui con la solita generosita agli ordini mona-
stici ed alle chiese povere, tenendo per la Cappella Sistina il calice
prezioso mandatogli in dono dal principe Amedeo duca d'Aosta.1
Gli Italiani delle altre provincie che, in quei primi anni, soprag-
giungevano giorno per giorno alia capitale, non rimanevano sor-
presi soltanto alia vista del Vaticano, ma anche a quella di tutte le
varie e diverse manifestazioni che da quel centre massimo del cat-
tolicesimo si irradiano per tutta Roma e le danno una particolare
fisonomia: dal treno di gala degli ambasciatori accreditati presso il
Papa, ai seminarist! tedeschi vestiti di rosso, che tirandosi su bra-
vamente la tonaca giuocano a tamburello a Villa Borghese; dai
pellegrinaggi alle basiliche durante PAnno Santo, - ai quali ho vi-
sto prender parte giovani elegantissimi e signore e signorine del
patriziato, ridotte in stato compassionevole dalFaver fatto a piedi
in mezzo alia folia molti chilometri di strada, salmodiando e can-
tando inni sacri in una giornata canicolare - agli allievi del collegio
Nazareno condannati a passeggiare tutto Tanno, anche quelli an-
cora bambini, in frack, tuba e cravatta bianca.
Perche il Vaticano, nel significato astratto e complesso della pa-
rola, non sta tutto in Vaticano, ma s'infiltra per tutta Roma mo-
derna in mille diversi modi. Molte sacre congregazioni ecclesiasti-
che hanno fuori del Vaticano la loro sede ; dimorano in citta i car-
dinali e i prelati non addetti ai palazzi apostolici ed alia corte : sono
sparse per tutta Roma le case generalizie, le sedi di patriarch! mel-
chiti e maroniti,2 di monache e frati di tutti gli ordini, gli istituti
ecclesiastic!, le accademie pontificie, i seminar! di ogni nazione, il
corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede ; le associazioni
politiche e non politiche fondate dopo il 1870 sotto gli auspicii del
Vaticano . . .3
i. principe . . . d'Aosta: vedi la nota 2 a p. 439. 2. I melchiti sono fedeli di
rito bizantino, ma cattolici, con un loro patriarca ad Antiochia, Gerusa-
lemme e Alessandria; i maroniti sono una societa di cristiani di rito sirio,
ma cattolici nella dottrina, che abitano nel Libano, in Siria, Palestina,
Cipro ed Egitto : hanno a capo un patriarca. 3. le associazioni . . . Vaticano :
tra queste, importantissima la « Societa primaria romana per gli interessi
cattolici », istituita per iniziativa del padre Curci (vedi la nota 3 a p. 536).
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 489
II Vaticano ebbe, per breve tempo, anche una Universita. Alcuni
dei professor! che nel settembre del 1870 insegnavano alia Sapienza,
richiesti di prestare giuramento al nuovo governo, vi si rifiutarono
ed abbandonarono i loro posti. In luogo del padre Mura, fu no-
minato rettore il prof. Clito Carlucci. Poi, nell'aprile del 1871, fu
proposto ai professor! Pinvio di un indirizzo al Doellinger,1 del-
Puniversita di Monaco, il capo dei vecchi cattolici. Parecchi si ri
fiutarono a firmarlo, e furono pensionati dal Papa con gli altri ri-
fiutatisi al giuramento. Monsignor De Merode2 si procure allora
dodici posti alPuniversita di Louvain e vi mando dodici student!
soggetti alia leva, che consentirono al rischio di essere considerati
renitenti. Poi penso di aprire uno studio nel palazzo pontificio di-
videndolo in tre facolta; fisica, matematica e giuridica: furono chia-
mati ad insegnarvi i professor! che non avevano volute giurare fe-
delta al governo italiano; vi si inscrissero 120 student! di Roma e
delle ex provincie pontificie. Ma gli student! sono sempre student! :
in Vaticano facevano troppo chiasso. II cardinale Antonelli, mae
stro dei sacri palazzi apostolici, non ve li voile piu, anche perche
ve 1! aveva portati monsignor De Merode. Quest! trasferi Puniver-
sita vaticana al palazzo Altemps, alia fine del '72; ma poi, in tutt'al-
tre faccende affaccendato, si stanco d'occuparsene e di spendervi :
si stancarono gli scolari vedendo di non concluder nulla, ed alia
fine delPanno scolastico 1874, nel luglio, i 93 ancora inscritti chie-
sero ed ottennero dal ministero dell'istruzione pubblica, di prendere
Pesame di licenza liceale per entrare nella Regia Universita di
Roma.
La cultura letteraria e scientifica Vaticana e rappresentata in
Roma da varie accademie. La Pontificia Accademia de' Nuovi Lin-
cei, che si occupa di sole scienze fisiche e matematiche, si trasferi
nel palazzo di Propaganda da quando gli accademici si divisero in
due campi, e parte di ess! costituirono il vero istituto nazionale che
oggi risiede nel palazzo gia Corsini in via della Lungara . . .
i. Ignazio Doellinger (1799-1890), teologo cattolico tedesco e storico am-
mirato. Sostenne la necessita di una Chiesa nazionale con larga autonomia,
e si oppose alia Curia romana contro il potere temporale, contro il Sil-
labp e la proclamazione del dogma deH'infallibilita. Scomunicato nel 1871,
ispird e diresse il movimento dei vecchi cattolici che, rifiutando il dogma
delPinfallibilita, crearono in Germania una Chiesa scismatica. 2. Fran
cesco Saverio De Merode, arcivescovo di Melitene, era stato da Pio IX
preposto all'edilizia di Roma, e poi nominato elemosiniere segreto. Mori
l'i i luglio 1874. Tra lui e il cardinale Antonelli esisteva un evidente dissidio.
490 UGO PESCI
Ma la piu nota urbi et orbi fra tutte queste accademie e T Arcadia,
che ha i suoi quartieri d'inverno, con biblioteca, al palazzo Altemps,
ma si raduna qualche volta durante Testate anche al Bosco Parrasio,
sul monte Gianicolo. A' tempi dei quali parlo era custode generale
d' Arcadia monsignor Stefano Ciccolini (Agesandro Tesporide),
prelate d'idee moderne, alia cui gentilezza non ricorreva mai invano
chi desiderava assistere ad «una straordinaria adunanza di libero
argomento » al Bosco Parrasio, anche non essendo in grande odore
di santita: sottocustodi del Bosco Parrasio erano il marchese Lez-
zani (Polimete Metimneo) ed il commendator Gian Carlo Rossi
(Fileno Amatunteo) e figuravano fra le pastorelle d'Arcadia la si-
gnora Sciamanna (Ippomene Neleide) e la contessa Teresa Gnoli
Gualandi (Irminda Aonia). Muniti del relativo biglietto d'invito si
poteva penetrare aH'ombra degli allori, incontrandovi monsignori
in abito paonazzo, e spesso qualche cardinale. I giovani pastorelli
arcadici andavano fino al cancello incontro alle signore e signorine
della minuta borghesia « di buoni principii » e le accompagnavano
a fare sfoggio dei loro abbigliamenti domenicali in un anfiteatro
semicircolare rialzato. Nei posti riservati si vedeva qualche addetto
alle legazioni presso la Santa Sede, obbligato a stare a Roma ad
aspettare i piu anziani di ritorno dal congedo, e ad ammazzare il
tempo in qualche modo non passivo di censure ecclesiastiche. Molti
seminaristi, preti, collegiali erano sparsi un po' da per tutto, e co-
desto pubblico molto vario e diverso applaudiva il discorso preli-
minare del custode generale, le poesie romanesche del comm.
Tolli,1 le apologie del papato fatte da monsignor Tripepi, ed i
versi della signorina Caetani e della signorina Clelia Bertini,2 la cui
musa gentile era bensi meglio ispirata dai sentimenti patriotticL
i. Filippo Tolli (1843-1924), di Roma, fu tra i maggiori esponenti della
corrente clericale, e per molti anni presidente della Gioventu cattolica.
Diresse il giornale « La Stella », fondato nel 1871, e fu tra i principal! redat-
tori de «La frusta », battagliero e violento foglio clericale. Scrisse in lin
gua dramrni, commedie, racconti, poesie. Ebbero molta fama allora le sue
poesie romanesche, raccolte in vari volumi. Vedi E. VEO, Ipoeti romaneschi,
Roma 1927. 2. Clelia Bertini Attioli, nata a Roma nel 1862, poi insegnante
nella Scuola normale Margherita di Savoia a Roma, poetessa e conferenziera
applaudita. Tra le sue raccolte di prose e di versi: Donna (1884); // mio
cuore (1889); Adua (1896); Fons amoris (1905).
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 491
[AL QUIRINALE - IL RE A ROMA]1
11 2 di luglio2 Vittorio Emanuele entrava in Roma solennemente,
ed il ministro Visconti Venosta3 annunziava ufficialmente ai rap-
presentanti d' Italia che la capitale del Regno era trasferita da Fi-
renze a Roma. Quindici giorni prima, festeggiandosi in Vaticano il
giubileo sacerdotale di Pio IX - nella quale occasione gli abitanti
di Roma dettero tale saggio di assennatezza che merito le lodi di
tutto il mondo civile - appariva alle 9 e mezzo da Borgo in piazza
Rusticucci, avviandosi difilata alia porta del Vaticano, una carrozza
di Corte con livree rosse di mezza gala, dalla quale scesero il gene-
rale Bertole Viale4 aiutante di campo ed il capitano degli Usseri
conte Michiel ufficiale d'ordinanza del Re. Gli Svizzeri e i curiosi
che si affollavano vicino alia porta per vedere arrivare le varie de-
putazioni, si guardarono in faccia trasognati. II generale, fattosi ac-
compagnare dal cardinale segretario di Stato, discese col capitano
Michiel dopo una mezz'ora. L'Antonelli aveva subito ricevuto la
visita inaspettata, mostrandosi disposto a far si che il Bertole Viale
fosse ricevuto da Pio IX, cui doveva presentare gli omaggi del
Re d'ltalia. Ma altri porporati si opposero. II colloquio fra il cardi
nale ed il generale duro piu d'un quarto d'ora, ed il cardinale scrisse
e consegno al generale una lettera nella quale dicevagli di conside-
rare come compiuta la sua missione.
Non e facile descrivere con quale entusiasmo Vittorio Emanuele
fu accolto in Roma. Gli abitanti della nuova capitale dimostrarono
di comprendere tutta rimportanza storica di un awenimento che
non ha forse Feguale nel tempo moderno, perche Tinsediamento
del primo Re dj Italia in Roma con Tassenso di tutte le potenze
d'Europa - erano presenti tutti i ministri stranieri, meno quelli di
Francia e dj Austria Ungheria, in grazia del repubblicanissimo si-
gnor Giulio Favre5 - chiudeva definitivamente il medio evo, e con-
i. Ed. cit., dal cap. n (II Quirinale), pp. 64-8. 2. // 2 di luglio: del 1871.
3. Emilio Visconti Venosta era allora ministro degli esteri: vedi la nota 3 a
p. 293. Sulla sua opera di ministro, vedi F. CATALUCCIO, Alleanza e prin-
cipio di equilibria nella politica di Emilio Visconti Venosta, in Questioni di
storia del Risorgimento e delVunita d* Italia, Milano, Marzorati, 1951, pp.
973-86, con relativa bibliografia. 4. il generale Bertole Viale: vedi la nota
2 a p. 465. 5. « II signer Giulio Favre voile negare, in una lettera pubbli-
cata il 12 febbraio 1872, di avere fatto premure perche TAustria non man-
dasse a Roma il suo ministro il 2 luglio 1871 ; dimenticando d'essersi vantato
492 UGO PESCI
sacrava solennemente, dopo undid secoli, la fine della podesta tem-
porale del Papato. Senza entrare nei particolari del ricevimento ;
senza parlare delle antenne, del festoni, delle migliaia di bandiere,
delle piu remote straducole illuminate, e lecito affermare che ogni
spirito imparziale pote apprezzare 1'universalita e la spontaneita dei
sentimenti del popolo, anche senza confronti superflui ed inutili.
Vittorio Emanuele arrivato alle 12 e mezzo, entro in citta in car-
rozza accompagnato dal Sindaco, principe Francesco Pallavicini,1
dall'on. Lanza e dal generale Maurizio de Sonnaz :2 and6 al Qui-
rinale percorrendo alcune delle vie principali sotto una pioggia di
fiori, e dovette affacciarsi piu volte al balcone. Nel pomeriggio,
alPAcqua Acetosa, assisteva airinaugurazione d'una gara nazionale
di tiro a segno : la sera vi fu pranzo di gala al Quirinale e rappre-
sentazione di gala all'Apollo, dove il Re ando e da dove ritorno fra
le acclamazioni della folia.
Nel pomeriggio del 3, Vittorio Emanuele pass6 in rivista al Pincio
le guardie nazionali di Roma e della provincia, alia presenza del
corpo diplomatico e dei sindaci delle principali citta italiane, e
scortato dallo squadrone della guardia nazionale a cavallo torno al
Quirinale, dove la sera, le societa operaie, le associazioni politiche,
i circoli, gli altri sodalizi e migliaia di cittadini, andaroao con mu-
siche, torcie e bandiere ad acclamarlo nuovamente, facendolo piia
volte affacciare al balcone. Poi, ancora accompagnato dalla guardia
nazionale a cavallo, il Re ando alia festa offertagli in Campidoglio
dal Municipio, che dalParchitetto Gabet aveva fatto unire, per
mezzo di due gallerie prowisorie, il palazzo Senatorio con quello
dei Conservatori e col Museo Capitolino. Vittorio Emanuele entro
verso le 10 e mezzo nel grande salone - dove, non si sa perche,
erano state nascoste baroccamente le statue di Paolo III, di Gre-
gorio XIII e di Carlo d'Angio - dando il braccio alia principessa
Pallavicini; assistette senza badarvi alia quadriglia d'onore, ed alle
precisamente del contrario nel capitolo xi, pp. 1 19 e segg. del suo libro Rome
et la Republique francaise, Paris, H. Plon, 1871 » (nota del Pesci). Sul Favre,
vedi la nota 5 a p. 481. i. II principe Francesco Pallavicini era gia state a
capo della Giunta municipale prowisoria nominata dal generale La Mar
mora, luogotenente del re, il 15 ottobre del 1870. Awenute poi le regolari
elezioni (20 novembre 1870), fu eletto e nominato sindaco il principe Fi-
lippo Doria: ma non molto dopo, ritiratosi il Doria e lasciati per alcun
tempo alcuni assessor! come suoi delegati, torno sindaco il Pallavicini.
2. Lanza: vedi la nota 4 a p. 457; Maurizio de Sonnaz: vedi la nota zap.
465-
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 493
ii lascio il Campidoglio, awiandosi direttamente alia stazione per
andare a Firenze.
Non ritorno in Roma prima del Novembre, pochi giorni avanti
la riapertura del Parlamento. Vittorio Emanuele non dimoro maf
stabilmente a Roma per lunghi period! di tempo. Non credo punto
che lo tenessero lontano gli scrupoli di buon cattolico, ma piuttosto
la sua irrequietezza ed il desiderio di liberta. Dal 1855 fino al 1864
aveva vissuto a Pollenzo ed alia Mandria assai piu che a Torino:
dal '65 al '70 si era abituato a Firenze, dove nel quartiere del
palazzo Pitti da lui abitato, verso il giardino di Boboli, poteva an
dare e venire senza dar neirocchio, rimanendo per giornate intiere
alia villa della Pietra od a San Rossore senza che nessuno si accor-
gesse della sua assenza.
Al Quirinale egli si trovava a disagio. Dopo il 1870 furono subito
incominciati i lavori per adattare ad abitazione privata del Re la
palazzina vicina al quadrivio delle Quattro Fontane, quasi dirim-
petto alia chiesa di San Carlo. Vi fu rifatto ed elegantemente ornato
di pitture uno scalone di marmo : al primo piano si trovo modo di
disporre una camera da letto, una stanza da bagno, una stanza da
fumare, una sala, un salone ed una sala da pranzo, che furono ben
mobiliate ed ornate di pitture del prof. Bruschi, di Cecrope Barili
e del Natali.1 Al piano terreno e nei sotterranei erano i locali per
tutti i servizi ; al secondo piano le stanze per gli addetti alia persona
del Re : un lungo corridoio riservato univa la palazzina ai locali de-
stinati alle riunioni del Consiglio de' ministri. La palazzina, cosi
rifatta sotto la direzione delParchitetto Antonio Cipolla, aveva
aspetto comodo e gaio : ma Vittorio Emanuele non voile mai starvi ;
e la palazzina fu abitata per la prima volta dalla regina Maria Pia,2
quando nel '78 venne a Roma per la morte del padre; ed ora e di-
mora abituale di Vittorio Emanuele III. II Re, quando torno a
Roma, abit6 ancora nel quartiere terreno in fondo al grande cortile,
a sinistra di chi entra dal portone principale; in quel quartiere dove
sette anni dopo esalo Pultimo respiro.
1. Domenico Bruschi, pittore, nato a Perugia (1840), morto a Roma (1910);
Cecrope Barili o Barilli, pittore, di Parma, di cui assai sono lodati i quadri
La vendemmia e La ciociara. Non ci e stato possibile trovare notizie del Natali.
2. Maria Pia di Savoia (1847-1911), figlia di Vittorio Emanuele e di Ma
ria Adelaide, aveva sposato nel 1862 Luigi I re del Portogallo. Morto il
marito (1889), ucciso in un attentato il figlio Carlo (1908) e costretto dalla
rivoluzione a fuggire il nipote Manoel (1910), Maria Pia si rifugio in Italia.
494 UGO
Sperando che Pavere prossima a Roma una vasta tenuta, adatta
alia caccia come quella di San Rossore, potesse invogliare Vittorio
Emanuele a trattenersi piu lungamente alia capitale e sapendo che
egli aveva fatto trattare dal maggiore conte Baldelli la compra d'una
tenuta al Chiarone, il governo tratto invece con il duca Grazioli
Pacquisto di Castel Porziano che il principe Umberto aveva gia vi-
sitato con i figli del proprietario, ed il contratto fu firmato dal duca
e dalPonorevole Sella, per 4 milioni e mezzo, la sera del 28 dicembre
1871. Vittorio Emanuele vi ando volentieri piu volte ma non molto
spesso. Si diceva allora che sarebbe stato adattato per lui tutto il
pian terreno della parte del palazzo lungo via del Quirinale, chia-
mato volgarmente ccbraccio lungo » o palazzo della famiglia; ma,
per sua volonta, non se ne fece nulla. II Re poi acquist6, fuori porta
Pia, fra la villa Torlonia e Sant'Agnese, una villa per la contessa
di Mirafiori,1 ne amplio il giardino ed il parco con alcuni terreni
confinanti, ed uscendo presto di citta per la via Nomentana non
era difficile incontrarlo mentre egli vi rientrava solo, in una victoria
senza livrea di Corte, con due o tre cani da caccia, la giacca e il cap-
pello a cencio, nel quale costume il Padre della Patria era general-
mente creduto un buon mercante di campagna.
[AL QUIRINALE - LA MESSA DEI PRINCIPl]2
Quando i principi3 arrivarono a Roma nel 1871, monsignor An-
zino, cappellano di Corte e preside delle cappelle Reali, si disponeva
a celebrare la messa per loro, non mancando nel Quirinale cappelle
e luoghi consacrati, oltre la cappella Paolina. II vicariato significo
a monsignor Anzino che, essendo il luogo inter detto, non vi si po-
teva ufficiare. I principi dovettero, la prima domenica dopo arrivati,
andare ad ascoltare la messa fuori, e scelsero fra le altre chiese la
basilica di Santa Maria Maggiore. Giuntivi improvvisamente, fu-
rono ricevuti rispettosamente da alcuni canonici e fu loro offerto
un inginocchiatoio con cuscini. Disse la messa monsignor Anzino.
1. Rosa Vercellana Guerrieri (1833-1885), nominata (1850) da Vittorio
Emanuele contessa di Mirafiori e di Fontanafredda, fu sposata dal re, reli-
giosamente nel 1869, e morganaticamente il 7 novembre 1877 a Roma.
2. Ed. cit., dal cap. n (// Quirinale), pp. 69-70. 3. i principi: Umberto
(1844-1900) aveva sposato, nel 1868, la cugina Margherita di Savoia (1851-
1926), figlia di Ferdinando duca di Geneva. I principi si stabilirono a
Roma nel gennaio 1871.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 495
Ma quei cuscini diventarono per alcuni giorni un vero affare di
Stato. I canonic! che avevano ricevuto i principi furono awertiti di
non permettersi simili licenze. Tornati a Santa Maria Maggiore la
domenica seguente, i principi nulla trovarono disposto, ed un po-
vero diavolo di scaccino, parendogli che non si debba mai essere
scortesi con una signora, porto alia principessa una sedia di chiesa
ed un cuscino qualsiasi.
Dopo quel giorno i principi continuarono ad assistere alia messa
che monsignor Anzino diceva alle 10 a Santa Maria Maggiore:
soltanto, per non compromettere lo scaccino di fronte ai superiori,
uno stafEere di Corte precedeva con un cuscino di velluto la prin
cipessa che s'inginocchiava in una delle cappelle laterali, dove il
principe restava in piedi. E poiche dell'incidente dei cuscini s'era
parlato per tutta Roma, molta gente andava a quelFora nella basilica
a vedere la giovane principessa che pregava Dio senza curarsi degli
sgarbi che Le erano stati fatti.
Cosi continuarono le cose durante tutto l'inverno del '71 e fino
a quando i principi non partirono per Monza. Vittorio Emanuele
aveva intanto ordinato che la piccola chiesa del Sudario, detta dei
Piemontesi, da molto tempo di proprieta di casa Savoia, allora ab-
bandonata e in cattive condizioni, fosse restaurata, come lo fu,
cominciando ad acquistarvi fama preclara, con gli affreschi dipin-
tivi, il pittore Cesare Maccari.1 II 15 novembre del '71 la chiesa del
Sudario fu nuovamente consacrata da monsignor Angelini, vice-
gerente di Roma, e vi furono trasferiti alcuni privilegi ecclesiastici
che la casa di Savoia godeva nella chiesa di Sant' Andrea al Quiri-
nale, noviziato dei Gesuiti, dove e sepolto Carlo Emanuele IV2
morto a Roma nel 1819.
Ritornando a Roma i principi poterono andare alia messa al Su
dario, in casa propria; e soltanto dopo qualche anno fu dato da
Leone XIII il permesso di ufficiare nel Quirinale, che per la cura
i. Cesare Maccari (1840-1919) visse soprattutto a Roma. Dal 1870 al 1873
dipinse la chiesa del Sudario con sette affreschi molto lodati, specialmente
quelli della volta, che rappresentano la gloria di cinque beati di casa Savoia.
Ma la sua fama e legata soprattutto alle decorazioni nel palazzo Madama
e alle pitture della cupola della basilica di Loreto. 2. Carlo Emanuele IV:
re di Sardegna nelP agitato periodo dal 1796 al 1798, quando fu costretto
dai Francesi ad abdicare: questa abdicazione, che egli ritenne non valida,
fu poi da lui liberamente rinnovata nel giugno 1802. A Roma, dove si
era ritirato, entro nella Compagnia di Gesu: mori il 6 ottobre 1819.
496 UGO PESCI
delle anime dipende dalla parrocchia dei Santi Vincenzo ed Ana-
stasio a Trevi.
[L'AVVENTO BELLA SINISTRA]1
La prima sessione della xn legislatura fu chiusa il 21 febbraio
1876. II governo aveva gia dovuto riscattare le Ferrovie Romane,
e lo Spaventa,2 convinto statolatra per eccellenza, si proponeva il
riscatto di quelle dell'Alta Italia e delle Meridionali, per costituire
una gran rete di Stato. Era il precursore dell'idea che, male o bene,
e stata effettuata dopo trent'anni.3 I Toscani,4 un po5 perche tradi-
zionalmente fautori del liberismo economico, un poj - anzi molto -
perche stanchi d'un ministero cui riusciva di far molto di buono,
e curiosi di vedere che cosa sarebbe awenuto cambiando metro,
nicchiavano, cucinando in tutte le salse quel povero Adamo Smith5
predestinato ad essere il gerente responsabile del loro passaggio
alia opposizione.
La seconda sessione della legislatura fu aperta il 6 di marzo,6 con
un discorso della Corona giudicato poco felice, nel quale la frase
alludente al riscatto delle ferrovie scoppio come una bomba. II
Biancheri7 fu rieletto presidente con 172 voti, contro 108 dati al
Depretis :8 ma nella elezione dei vicepresidenti, dei segretari e dei
questori, il centro e la sinistra presero il soprawento. Si poteva
dire dawero fata trahuntl
i. Ed. cit., dal cap. in (Governo e Parlamento), pp. 120-30. 2. Silvio Spa
venta (1822-1893) era stato condannato dal governo borbonico nel 1852
insieme col Settembrini, gli fu poi compagno di cella a Santo Stefano e
come lui raggiunse 1'Inghilterra nel 1859. Uomo politico della Destra, era
dal 10 luglio 1873 ministro dei lavori pubblici nelT ultimo ministero Minghet-
ti, con il quale cadde, all'awento della Sinistra. 3. idea . . . trent'anni: le
ferrovie, gestite fino allora da societa private, con la cointeressenza e con-
trolli van dello Stato, divennero esercizio di Stato con decreto del 15 giu-
gno 1905. 4. / Toscani: i deputati dei collegi della Toscana. 5. Adamo
Smith: vedi la nota 3 a p. 79. 6. La seconda . . . marzo : piu esattamente, il 5
marzo. II re pronunzio il discorso della corona alle ore 1 1 di quel giorno.
7. Giuseppe Biancheri (1823-1909), deputato dal 1853, ministro della ma
rina (17 novembre 1 866-10 aprile 1867), presidente della Camera nel dicem-
bre 1869, conserve tale carica fino al 3 ottobre 1876. Tornc- poi alia presi-
denza della Camera moltissime volte. 8. Agostino Depretis (1813-1887),
notissimo uomo di Stato e patriotta, dopo essere stato varie volte ministro,
sali alia presidenza del Consiglio con Pawento della Sinistra e vi rimase
fino al marzo 1878. Tomato vi nel dicembre dello stesso anno, tenne la
carica fino al luglio del 1879 e rest6 poi a lungo arbitro della vita politica ita-
liana, fino alia morte, awenuta a Stradella quando era ancora al potere.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 497
Tanto per cominciare, fu messa in discussione una proposta di
legge sulla pesca, presentata dal Finali,1 a proposito della quale
ando in giro questo epigramma:
II povero Finali non s'e accorto
che la lenza e un congegno primitive,
il qual da un lato ha un pesce semivivo
e dalValtro un ministro mezzo morto.
II 1 6, Ton. Minghetti2 fece Pesposizione finanziaria, che, con
frase non piu molto fresca, fu detta da tutti il « canto del cigno ».
II cigno stavolta cantava bene; annunziava, cosa ormai non udita
da molti anni, 15 milioni d'avanzo; e terminava il canto dicendo:
— Guai a coloro che verranno in quest'aula a dire che il pareggio
non fu mantenuto!
Ma la Camera aveva ormai deciso di sbarazzarsi di un ministero
di valentuomini. Secondo il solito, per buttarlo giu, non affronto
apertamente la questione di principio; ma, il 18, dopo che Ton.
Morana3 ebbe svolto una interpellanza sulla esazione del macinato
in Sicilia, e presentata una mozione della quale il Minghetti chiese
il rinvio dopo discusse le convenzioni ferroviarie, fu messa ai voti
la questione di priorita e respinta la proposta Minghetti con 235
voti contro lyS.4
— Lascio il paese tranquillo alPinterno, rispettato alPestero, le
finanze in buone condizioni ; — disse il Minghetti — venite pure a
questo posto; io vado via volentieri!
II lettore osservera probabilmente che tutti i ministri caduti
vanno via volentieri . . . quando non possono rimanere. Ma il Min
ghetti era in quel momento sincere. Un ministero non puo adattarsi
a vivere a quel mo do. D'altra parte, il Minghetti aveva fra le sue
qualita personali una serenita veramente serafica, che non perdeva
neppure nei momenti meno piacevoli della sua vita. Non per nulla
il conte di Cavour aveva scritto di lui nel '56 a Michelangelo Ca-
i. Gaspare Finali, di Cesena (1829-1914), studioso di problemi economic!,
umanista, amico e protettore del Pascoli, senatore dal 1862, ministro di
agricoltura, industria e commercio neirultimo gabinetto Minghetti, dal
luglio 1873 al marzo 1876. 2. Minghetti: vedi la nota 3 a p. 445. 3. Giovan
Battista Morana. (nato nel 1833), deputato di Palermo. 4. 23$ voti contro
178: in realta, i voti furono 242 contro 181.
498 UGO PESCI
stelli:1 «Quel homme charmant! quel excellent ministre il serait!»
e non per nulla Carlo Alberto lo aveva promosso maggiore di stato
maggiore la stessa sera della battaglia di Goito, per Pintrepidezza
mostrata, standogli sempre a fianco sul campo.
A Roma, poco dopo il '70, quando non era ancora ministro, una
sera uscendo da casa del principe Bariatinski, i ladri lo fermano,
gli portano via Porologio e 750 lire, ed egli rimane sereno e tran-
quillo come se nulla fosse. Durante la discussione della legge sulle
corporazioni religiose,2 si trova per caso in mezzo ad un subbuglio
in piazza Venezia: un mascalzone lo riconosce, lo ingiuria, tenta
percuoterlo ; Ton. Minghetti non perde la calma, e poi non si degna
neppure di riconoscere il suo aggressore.
La sera del 16 marzo, vale a dire la sera del giorno nel quale il
Minghetti aveva annunziato il pareggio alia Camera, verso mezza-
notte andavo verso casa - abitavo in fondo al Corso, verso piazza
del Popolo - accompaghato dalPon. conte Alessio Suardo,3 depu-
tato per Trescorre, carissimo e compianto amico. Quando fummo al
palazzo Odescalchi ne vedemmo uscire il presidente del consiglio,
stato a pranzo alPambasciata Russa.
Tornammo indietro e ci accompagnammo con lui, diretto a casa,
in piazza Paganica, palazzo Mattel. Era una serata tepida: Ponore-
vole Minghetti aveva il soprabito sbottonato; gli si vedeva a tra-
colla la fascia di un ordine russo, e di sotto la cravatta bianca gli
pendeva il collare delPAnnunziata. Era sereno e sorridente. II Mi-
nistero non era ancora caduto; ma la coalizione era gia formata e si
sapeva che i Sassoni del centro4 avrebbero disertato.
i. Michelangelo Castelli (1808-1875), dopo un primo periodo mazziniano,
rimase sempre accanto al Cavour, del quale fu amicissimo. Deputato, ebbe
la nomina a senatore nel 1860. Vedi il Carteggio politico di Michelangelo
Castelli, a cura di L. Chiala, Torino 1890-1891. La lettera qui citata e
del 17 marzo 1856, da Parigi, e figura nel volume n, pp. 416-7 di C.
CAVOUR, Lettere edite ed inedite, a cura di L. Chiala, Torino, Roux e Favale,
1884-1887. 2. legge . . . religiose: la legge per la soppressione delle cor
porazioni religiose era stata presentata al Parlamento nel 1872, provocando
una allocuzione diPio IX (23 dicembre 1872) e lunghe discussioni, di fronte
alle quali le correnti anticlericali dimostrarono una accesa impazienza. La
legge passo alia Camera e al Senato rispettivamente il 27 maggio e il 17
giugno 1873, quando il governo era presieduto dal Lanza, cui Minghetti
successe il 9 luglio del 1873. 3. Alessio Suardo, di Bergamo (1839-1900),
combattente nel 1860 con Garibaldi, poi nella guerra del '66; fu depu-
tato per molte legislature. 4. i Sassoni del centro: i deputati che sedevano
al centro, ed erano suddivisi in piccoli gruppi, si ribellarono, come gli
antichi Sassoni.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 499
Strada facendo, il Minghetti parlava di tutto questo, senza farsi
illusion!, senza rammarico, senza rampogne. Lo angustiava solo il
timore di veder mandata a male dai successori la buona condizione
finanziaria da lui creata. Diceva cio senza la minima ostentazione,
fumando il suo sigaro, con qualche leggera inflessione di pronunzia
bolognese, dalla quale non si era potuto mai liberare. Quando ar-
rivammo verso piazza Colonna, dove era piu gente, abbottono il
soprabito e tiro su il bavero per non far mostra delle decorazioni.
Andammo fino in piazza Paganica sempre ascoltandolo. Mi pa-
reva quasi che avesse 1'aspetto d'uomo soddisfatto piu del consueto,
come se gli fosse riescito di levarsi un peso di sullo stomaco. Un
momento solo, sul portone del palazzo, il sentimento deiruomo
offeso prese il disopra, e salutandoci gli scappo detto : — L'ho sol-
tanto con quel f . . . Barazzuoli,1 detto Agonial
Vittorio Emanuele il 19 chiamo al Quirinale il Depretis, capo
riconosciuto della nuova maggioranza, e gli dette Tincarico di for-
mare un Ministero che presto giuramento dopo sei o sette giorni.
Tutti sanno che, con il Depretis, lo componevano il Nicotera, lo
Zanardelli, il Mancini, il generale Mezzacapo, il Melegari, il Brin,
il Coppino, il Majorana Calatabiano.z
Taluni temevano che dovesse succedere un fmimondo, ma i ti-
mori dileguarono presto.3 Ora non si crede possibile che quel Mi
nistero potesse parere, come pur pareva a tanta gente, una com-
briccola di giacobini pericolosi, tanta e la differenza fra le idee pa-
triottiche dei presunti rivoluzionari d'allora e la volgarita delle idee
e delle azioni di tahmi rivoluzionari d'oggi! 6 vero che la sola Ion-
tana possibilita del potere modifica sensibilmente, oltre le opinion!
politiche, anche le abitudini. Parecchi anni dopo, una signora di
molto spirito, indicandomi con un gesto impercettibile, nella sala
da pranzo del Grand Hotel, un deputato delFestrema che pranzava
ad un tavolino vicino a noi, mi diceva sottovoce:
i. Augusto Barazzuoli (1830-1896), combattente a Curtatone e Montanara,
favorevole all'miita nazionale sotto i Savoia, attivo patriotta nella pacifica
rivoluzione di Firenze il 27 aprile 1859, deputato di Colle Val d'Elsa e
Siena. Fu poi ministro d'agricoltura, industria e commercio nell'ultimo
gabinetto Crispi (14 giugno 1894 - 5 marzo 1896). 2. Tutti . . . Calatabiano :
i ministri indicati reggevano rispettivamente i dicasteri dell'interno, lavori
pubblici, grazia e giustizia, guerra, esteri, marina, istruzione, agricoltura.
3. Taluni . . .presto: sugli esigui mutamenti politic! prodotti dall'awento
della Sinistra, vedi B. CROCK, Storia d' Italia dal 1871 al 1915, Ban, Laterza,
1928, pp. 4-26 e 305-7.
500 UGO PESCI
— Deve aspirare al potere!
E poiche io la guardavo con la fisonomia atteggiata a punto inter
rogative, aggiungeva:
— Non vede ? ha imparato a mangiare il pesce senza adoprare il
coltello.
Alcuni dei nuovi ministri di sinistra erano di abitudini semplici
e democratiche; ma non lo erano altrettanto molti loro predeces-
sori? II Depretis, gia ministro altre due volte, allora scapolo, faceva
mostra di qualche disprezzo per il parrucchiere, e la « classe » - co
me ora dicono - avrebbe avuto ragione di tenere un comizio di
protesta contro la sua testa arruffata e la sua barba incolta.
Giuseppe Guerzoni,1 stato da giovane suo segretario, raccontava
che un giorno, quando la capitale era ancora a Torino, il Depretis
era stato mandate a chiamare dal Re, ed egli aveva dovuto correre
sotto i portici di Po a comprargli una camicia, perche in casa non
ne aveva una stirata. Appena a capo del governo, per qualche setti-
mana si fece vedere pettinato e con la barba assestata; poi se ne
dimentico. Non cambio abitudini, e fin quando non ebbe sposato
donna Amalia, andando con essa ad abitare al secondo piano del
palazzo Caffarelli in via Condotti, rimase in via Belsiana dove aveva
una modesta camera ed un sospetto di salottino, in casa di una
francese, madame Ursula, pettinatrice de son etat. Essa aveva sem-
pre avuto molta cur a del suo inquilino, anche quando era molestato
da qualche attacco di gotta, e gli send poi anche da introduttrice
degli ambasciatori e dei sovrani: re Giorgio di Grecia, introdotto
dalla buona madame Ursule, fece visita un giorno nel salottino di
via Belsiana al presidente del consiglio, e lo trov6 con i piedi fa-
sciati di flanella nelle pantofole.
II Melegari,2 ministro d' Italia a Berna, era stato per molti anni
i. Giuseppe Guerzoni, mantovano (1835-1886), volontario nel 1859, fu poi
dei Mille, segui Garibaldi ad Aspromonte, partecipd alia campagna del 1866,
alia spedizione garibaldina del 1867, alia presa di Roma. Deputato dal 1865
al 1874, poi professore di letteratura italiana nelle universita di Palermo
(1874-1876) e diPadova(i876-i884). Oltre numerosi lavori letterari e critici
ha lasciato una Vita di Nino Bixio (Firenze 1875) e un Garibaldi (Firenze,
Barbera, 1882). Vedi in questa collezione il gia citato I tomo dei Memorialisti
dell'Ottocento, a cura di G. Trombatore, pp. 1085-107. 2. Luigi Amedeo
Melegari (1807-1881), esule dalla nativa Emilia dopo il 1831, seguace del
Mazzini (tentative in Savoia nel 1834), poi convertito alia soluzione monar-
chica, fu deputato, senatore (1862) e, dal 1867, ministro d' Italia a Berna,
dove rimase fino alia morte, eccettuato il periodo (25 marzo - 25 dicembre
1876) in cui fii ministro degli esteri col Depretis.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 50!
amico intimo del Cavour e del Rattazzi;1 Michele Coppino2 era una
perla di galantuomo, attaccatissimo alle istituzioni e alia dinastia,
modesto quanto un buon maestro di campagna. II Majorana Ca-
latabiano aveva toccato il cielo con un dito diventando ministro,
tanto piu perche questo trionfo dei Majorana Calatabiano doveva
far morir di rabbia i Majorana Cucuzzella3 loro competitor! a Mi-
litello.
II Mancini4 stava in via Gregoriana, al primo piano d'una casa
del commendator Berardi, con un piccolo atrio, poco illuminato di
giorno, in fondo al quale v'e ancora come allora una Venere di
gesso. In casa sua andava molta gente, si suonava, si cantava, e Sua
Eccellenza il guardasigilli non sdegnava talvolta di canterellare
qualche pezzo di musica rossiniana.
Di sansculottes non v'era nel Ministero proprio nessuno: il piu
scapigliato, a guardare le nove teste ministeriali, era il presidente
del consiglio. II piu temuto rivoluzionario, il Nicotera, vestiva con
corretta eleganza, era il solo che facesse uso di un titolo nobiliare5
ed avesse un brougham6 di buono stile per venire da palazzo Braschi
a Montecitorio.
Non parliamo del programma politico. Tutti i ministri si affret-
tarono a dichiarare che nulla sarebbe cambiato; che si conserve-
i. Urbano Rattazzi (1808-1873), parlamentare piemontese di centro-sini-
stra, fra i piu eminent! sin dal 1848, ministro con Cavour fino al 1857, poi
col Lamarmora; presidente del Consiglio nel 1862 e nel 1867, dovette su-
bire le ripercussioni politico-parlamentari di Aspromonte, rispettivamente,
e di Mentana. Collare dell'Annunziata, rivesti piu volte la carica di presi
dente della Camera dei deputati. 2. Michele Coppino, di Alba (1822-1901),
letterato, poeta, insegno letteratura italiana all'Universita di Torino. Depu-
tato, ministro della pubblica istruzione (10 aprile - 27 ottobre 1867) nel ga-
binetto Rattazzi e poi in tre dei minister! Depretis. Amicissimo del presi
dente, ne disse 1'orazione commemorativa a Stradella nel 1888. 3. Salva-
tore Majorana Calatabiano fu ministro deH'agricoltura, oltre che nel primo
(25 marzo 1876 -25 dicembre 1877), anche nel terzo gabinetto Depretis (19
dicembre 1878 - 14 luglio 1879). La famiglia Majorana Cucuzzella, anch'essa
di Militello, ebbe un suo membro deputato per tre legislature, nel periodo
1861-1869, e precisamente Salvatore Majorana Cucuzzella, nato nel 1800:
egli, peraltro, prese poca parte ai lavori della Camera. 4. Pasquale Stanislao
Mancini, di Castel Baronia presso Ariano (1817-1888), awocato eprofessore
a Napoli, esule in Piemonte, dove fu creata per lui la cattedra di diritto
internazionale all'Universita di Torino, professore a Roma dal 1872 e pre
sidente dell'Istituto di diritto internazionale a Ginevra(i873). Deputato dal
1860, ministro di grazia e giustizia nel primo gabinetto Depretis (1876-1877),
fu poi (1881-1885) ministro degli esteri. 5. ilsolo . . . nobiliare: 1'onorevole
Giovanni Nicotera (vedi la nota i a p. 439) riceve il titolo di barone.
6. brougham: vedi la nota 3 a p. 268.
502 UGO PESCI
rebbe il pareggio, negate quindici giorni prima; che si continue-
rebbe la stessa regola nelle relazioni con gli altri Stati : il presidente
del consiglio dichiaro anzi, nel suo primo discorso, di voler rialzare
il prestigio delle istituzioni ; ed il ministro dell'interno ribadi questo
concetto del prestigio rialzato nella sua prima circolare ai prefetti.
Riguardo poi alia morale, nessuno Taveva mai tenuta in tanto
onore! Basta dire che, una sera, appena il nuovo ministro dell'in-
terno ebbe preso possesso dell'ufficio, una signora bella ed elegan-
tissima fu vista giungere alia stazione, dove erano raccolti molti
curiosi, accompagnata da un ispettore di pubblica sicurezza che
non Pabbandono fin quando non fu partita. Era la famosa etera
Fanny Lear, espulsa per ordine del governo da Roma, dove si tro-
vava da qualche giorno alPalbergo di Roma, con il supposto pro-
posito di aspettarvi uno dei tanti granduchi di Russia. Poteva il
ministro democratico permettere una cosa simile, specie dopo aver
saputo che dispiaceva allo Zar ?
Ripeto che non ho punto la voglia di far la cronaca politica e par-
lamentare di quel periodo di tempo. Gli argomenti non manche-
rebbero; anzi sarebbero talmente abbondanti, da non sapere dove
ripiegarli. Ma appunto per questa ragione devo rinunziare a parlare
di molte cose: della seduta della opposizione, nella quale, per pro-
posta del Minghetti, fu affidata al Sella la direzione del partito, con
consenso apparentemente ma non realmente unanime ; della seduta
del Senate dove fu messa due volte in votazione la legge su i punti
franchi - che la prima volta non era stata approvata - profittando
della fretta con la quale il «mansueto» De Filippo,1 invitato a
pranzo in casa Pallavicini, tolse la seduta, poi riaperta dalPEula:2
e tanto meno delle elezioni del novembre 1876, le quali fecero ve-
ramente « passare la volonta del paese » dando occasione a gustosi
episodii, e riducendo Pantica maggioranza ad un esiguo drappello.
I piu autorevoli uomini di destra, i componenti del ministero
Minghetti, furono sconfitti nei loro collegi; lo Spaventa battuto ad
i. Gennaro De Filippo (1816-1887), awocato napoletano, imprigionato
dal governo borbonico nel 1859, inviato in esilio ai primi del 1860. Depu-
tato, ministro di grazia e giustizia, senatore dal 1872. Nel 1876 era uno dei
vicep resident! del Senato. 2. Lorenzo Eula (1829-1893), giurista e alto
magistrate piemontese. Senatore dal 1874, era in quel periodo (6 marzo -
3 ottobre 1876) uno dei vicepresidenti del Senato.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 503
Atessa da uno sconosciuto, fu portato a Sant'Arcangelo di Ro-
magna, poi eletto a Bergamo : il Bonghi, battuto a Lucera, portato
ed eletto a Conegliano, dove dal Ricasoli era invece raccomandato
agli eletto rl il maggiore Baratieri.1
Poi vennero i 70 deputati della maggioranza nominati commen-
datori tutti di un colpo, e chiamati « commendatori dello zucchero »
perche la loro nomina - quando si dice le combinazioni! -segui
quasi immediatamente la votazione d'una legge sugli zuccheri, ri-
sultata non facilmente favorevole al ministero : venne, durante le
vacanze, il viaggio del Crispi,2 presidente della Camera, alle prin-
cipali capitali d'Europa: vennero il 12 novembre le dimissioni dello
Zanardelli,3 che dopo aver fatto approvare le convenzioni ferro-
viarie, prefer! 1'abbandonare il ministero al firmarle. Furono poi
firmate, a tardissima ora, la sera del 21, al ministero dei lavori pub-
blici, dal Depretis succeduto temporaneamente allo Zanardelli, dal
comm. Balduino, dal principe Marcantonio Borghese e da altri
rappresentanti degli istituti di credito contraenti.
Le dimissioni dello Zanardelli misero in maggiore evidenza il
gruppo Cairoli4 e lo raiforzarono tanto da contare no deputati, i
quali si proponevano di stare, di fronte al ministero, in « vigilante
aspettazione» non piu benevola, ma cosparsa di «incipiente sfidu-
cia». La cosi detta situazione parlamentare era proprio amena: il
gruppo Cairoli vigilava sul ministero ; il comitato dei xv, nominate
da un gruppo di 75 ministeriali, vigilava sulla maggioranza; il
ministero sorvegliava il gruppo Cairoli. Questo scambievole vigi-
i. il maggiore Baratieri: deve essere quasi certamente identificato con Ore-
ste Barattieri (1841-1901), garibaldino, poi ufficiale delTesercito, deputa-
to, scrittore, governatore e coraandante militare delTEritrea (1892-1896)
fino alia sconfitta di Adua (i° marzo 1896), che gli valse Pesonero e il
collocamento a riposo. 2. II viaggio del Crispi aveva come fine segre-
to di saggiare le possibilita politiche dell' Italia nella situazione europea e
prepararne la alleanza con la Germania. Francesco Crispi (1818-1901),
il celebre patriotta siciliano, esule e agitatore con Garibaldi che, assunta la
dittatura dell'isola, lo nomin6 suo segretario (maggio 1860) ; ruppe con Maz-
zini e i repubblicani del partito d'azione il marzo del 1865; fu quindi piu
volte ministro e presidente del Consiglio, ritirandosi a vita privata nel 1896,
dopo la rotta di Adua e mentre dilagava la cosiddetta «questione morale ».
3. Zanardelli: vedi la nota i a p. 382. 4- H gruppo Cairoli: ne era a capo
Benedetto Cairoli (1825-1889), notissimo patriotta (Cinque giornate; '48-
49; '59; spedizione deiMille; 1866), dapprima mazziniano, poi monarchico.
Apparteneva alia sinistra, ma capitano in essa una opposizione interna al
Depretis nel 1878, e torn6 poi alia presidenza nel luglio 1879 rimanendovi
fino al maggio 1881.
504 UGO PESCI
larsi fu interrotto dalPincidente della «gamba di Vladimiro» che
narrero genuinamente, come forse non e mai stato narrato.
Verso il tocco del 9 dicembre '77 entro nelPufficio del « Fanfulla))1
il marchese Alessandro Guiccioli,2 oggi ministro d'ltalia a Belgrade,
allora deputato per San Giovanni in Persiceto, ed attivo cooperato-
re del Sella nella direzione dell'opposizione costituzionale. Bisogna
premettere che l'« Italie », il « Bersagliere », la « Nazione » di Firenze,
e la « Lombardia»3 di Milano, giornali allora tutti ministeriali, ave-
vano pubblicato, in un telegramma particolare in data del 4, che il
granduca Vladimiro, figlio dello zar Alessandro, era stato ferito gra-
vemente ad un ginocchio vicino ad Orkanie - si combatteva allora
la guerra russo-turca4 - dove si aspettava Alessandro II a visitarlo.
II Guiccioli, sorridendo e socchiudendo gli occhi come suol fare,
tiro fuori dal portafoglio e mi messe davanti un telegramma di-
retto al conte Leone Bobrinsky, dimorante in Roma, che lo aveva
ricevuto la mattina del 4. Glielo aveva spedito il fratello conte
Alessandro, che aveva un figlio alia guerra. II telegramma diceva
precisamente cosi:
« Wladimir blesse genou Orkanie. Pars avec Alexis aller le voir. »
Wladimiro era il figlio ferito; Alexis un di lui fratello: il tele
gramma era firmato Alessandro. II conte Bobrinsky, che per abi-
tudine non vedeva molte persone, aveva comunicato la notizia a due
o tre soli signori russi, parenti od amici, che non erano andati cer-
tamente a strombazzarla ne per i clubs ne per i caffe, tanto piu
perche, se per essi aveva importanza, capivano che non ne aveva
alcuna per il pubblico. Ma, a palazzo Braschi, qualcuno avendo
avuto Pingenuita di credere che lo Zar telegrafasse a quel mo do al
conte Bobrinsky i fatti suoi, aveva subito gratificato della primizia
i. II « Fanfulla », fondato nel 1870 a Firenze, si trasferi a Roma nel 1871,
dal 21 ottobre. Tra i fondatori Francesco De Renzis (vedi la nota 6 a p. 525).
II giornale aveva distinzione di forma e vivacita e varieta di contenuto. Vi
collaboro attivamente, dal 1871, Ferdinando Martini. 2. Alessandro Guic
cioli: vedi la nota 3 a p. 470. 3. L'« Italie », interarnente redatto in francese,
promosso dalla principessa Belgioioso, sorse a Milano il 2 ottobre 1860.
Passo poi a Torino (1861), a Firenze (1865) e infine a Roma, dove fu diretto
da Giuseppe Augusto Cesana ; il « Bersagliere », iniziato a Livorno il 3 novem-
bre 1860, usciva il sabato, diretto da Riccardo Ferroni. Fu molto diffuso per
la sua vivacita; la « Lombardia » nacque nel 1859 e fu per vari decenni or-
gano della democrazia lombarda. Tra i suoi direttori ebbe Emilio Broglio
(vedi la nota a p. 553). Per la « Nazione » vedi la nota 2 a p. 443. 4. la guerra
russo-turca: iniziata nell'aprile del 1877, si concluse col trattato di Santo
Stefano il 4marzo 1878.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 505
i giornali ufficiosi, il corrispondente della « Lombardia » ed il buon
Lello Erculei corrispondente della « Nazione », che poi non si ri-
guardava da confessarlo.
Mentre Ton. Guiccioli mi dava queste spiegazioni, sopraggiunse
Bino Avanzini.1 Fu presto messo insieme un articolo, e mandate
a stampare in grandi caratteri.
Alia Camera, intanto, era trapelato qualche cosa, ed in fine di se-
duta, Ton. Corte2 fece in proposito una compiacente interrogazione
al ministro, perche questi potesse dichiarare solennemente che -
man co male! - non erano stati mai comunicati a giornali dispacci
privati; e spiegare a modo suo come poteva essere accaduto il fe-
nomeno, dicendo una quantita di cose una piu carina delPaltra.
Un'ora dopo usciva il «Fanfulla» con 1'articolo, che fece molto
rumore. E poiche i grandi effetti derivano sempre da piccole cause,
tutti incominciarono a parlare della «gamba di Vladimiro». Otto
giorni dopo Ton. Parenzo3 interpellava sul serio il ministro, proprio
dal banco al quale sedeva Ton. Nicotera deputato. II ministro, si-
euro della sua maggioranza provoco un voto ; gli furono favorevoli
184 contro 162 e 10 astenuti, fra i quali lo Zanardelli e Nicola Fa-
brizi.4 II Depretis invito i colleghi a presentare le dimissioni, si-
euro di avere 1'incarico di formare un nuovo ministero. La gesta-
zione fu laboriosa: non prima del 30 dicembre il ministero fu ri-
composto5 con Francesco Crispi airinterno, sopprimendo il por-
tafoglio dell'agricoltura e creando quello del tesoro.
Dieci giorni dopo Vittorio Emanuele spirava,6 ed incominciava
il regno di Umberto I.
i. Baldassare Avanzini (1840-1905), detto dagli amici Bino, era allora di-
rettore del « Fanfulla ». 2. Clemente Corte, di Vigone (Pinerolo), dove
nacque nel 1826. Combatte a Custoza, Novara, Milazzo, sotto Capua, se-
gui Garibaldi ad Aspromonte, comando una brigata di volontari nel 1866.
Deputato per molte legislature, questore della Camera, senatore dal 1880.
Fu prefetto di Palermo (1878), di Firenze dal 1879 per molti anni, finche
si dimise dalla carica, nel 1885, per un contrasto col prefetto di Torino.
3. Cesare Parenzo (1842-1898) aveva seguito Garibaldi in Sicilia, ad Aspro
monte, nel Trentino. Deputato per varie legislature, senatore dal 1889.
Alia Camera, dove sedeva a sinistra, fu sostenitore di molte proposte di
legge (precedenza del matrimonio civile, divorzio, ecc.). 4. Nicola Fdbrizi
(1804-1885), di Modena, esule dopo il '31, amico di Mazzini, partecipo
alia spedizione della Savoia, ai moti del '48, alia guerra del '59, alia spe-
dizione dei Mille, alia guerra del '66. Deputato, appartenne alia Sinistra.
5. il ministero fu ricomposto: fu il secondo ministero Depretis, dal 26 dicem
bre 1877 al 24 marzo 1878. II portafoglio del tesoro fu affidato all'onorevole
Angelo Bargoni. 6. Vittorio Emanuele spirava: il 9 gennaio 1878.
506 UGO PESCI
[ROMANI DE ROMA - NOBILI, BORGHESIA, POPOLO]Z
Gli uomini della nobilta, particolarmente quelli in eta matura,
avevano quasi tutti - si parla in generale, s'intende, e le eccezioni
servono di conferma alia regola - ima tal quale presunzione di loro
stessi e del loro grado sociale, non ostentata ma naturalmente ac-
quistata in forza di educazione e di ambiente, e temperata da signo-
rile cortesia e correttezza di forma: ima specie di alterezza non of-
fensiva e «ben portata» come dicono i sarti degli abiti bene indos-
sati. Le relazioni fra i gran signori, e la loro clientela eran diverse
da quelle fra principi e ricchi borghesi indipendenti : per esempio,
tal principe che non avrebbe ammesso alle sue feste la moglie e le
figlie di un affittuario milionario, invitava immancabilmente le fi-
glie del suo medico e del suo awocato. Nei giovani, che avevano
subito volontariamente o involontariamente Pinfluenza delle idee
nuove, i difetti di origine apparivano assai minori. Nobili e plebei,
erano tutta bella gente, robusta, ardita, amante della caccia e d'ogni
altro esercizio del corpo: i signori quasi tutti intrepidi cavalieri:
ne disgrazie ne editti di Papi erano bastati a tenerli lontani dai pe-
ricoli della caccia a cavallo. A mantenere il bel sangue delle famiglie
patrizie valeva forse la mescolanza di razze derivante da frequenti
matrimoni con signore straniere.
La borghesia ricca era piu espansiva, piu cordiale della nobilta;
meno attaccata alle forme. Nella borghesia minuta la cordialita era
anche maggiore, spesso patriarcale. Chiunque entrasse in una casa
di quel ceto, vi era accolto con sincera festosita: si trovavano ancora
molte di quelle famiglie alia buona, delle quali la domestica era
considerata una persona come tutte le altre, perche, magari, in casa,
da quando i vecchi si erano sposati, vi aveva visto nascere i giovani.
Fra le famiglie che, per aiutarsi in qualche modo o per lo meno
sollevarsi dal peso di un affitto troppo forte affittavano qualche ca
mera, ne ho vedute molte che si affezionavano al loro inquilino come
ad un figliuolo, e conosco piu d'un inquilino che andato nel '70 ad
abitare in una camera mobiliata, v'e poi rimasto magari una diecina
d'anni e 1'ha lasciata soltanto per qualche caso di forza maggiore;
altrimenti vi sarebbe invecchiato.
Anche le donne delle famiglie borghesi erano d'indole franca,
i. Ed. cit., dal cap. IV (I «Roinani de Roma»\ pp. 174-80.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 507
espansiva, senza quelle ostentazioni di riserbo e di sentimentalismo
che hanno tanto poco del verosimile e del sincere, pronte a scher-
zare senza malizia con un giovanotto simpatico - honny soit qui mal
y pense1 - senza vergognarsi del loro prospero aspetto, ne del buon
appetite, e senza sciuparsi lo stomaco in tentativi di cure dima-
granti. Quantunque la educazione delle ragazze, prima del '70, la-
sciasse molto a desiderare, pure erano venute su fra la borghesia
molte ottime madri di famiglia, le quali avevano allevato e cresciuto
i loro figliuoli ispirando in essi sentimenti di schietta italianita.
fe da notare che fra borghesia ricca e borghesia minuta il distacco,
quasi impercettibile fra gli uomini, era molto maggiore fra le si-
gnore. Una satira messa in giro per Roma qualche anno prima del
'70, distingueva le signore della borghesia in due distinte categoric,
il « generone » ed il « generetto ». II « generone » ossia le signore della
borghesia ricca, avevano talvolta qualche contatto occasionale con
le signore delParistocrazia; le signore del « generetto » cioe le mogli
di negozianti anche ricchi, magari con carrozza e palco in terza fila
air Apollo - in prima e seconda fila erano ammessi soltanto la no-
bilta ed il corpo diplomatico - non potevano per tradizione aspirare
ad un tanto onore. E la distinzione fra « generone » e « generetto »
continue per qualche tempo anche dopo il 1870.
Tutto sommato, non si potrebbe agevolmente dire se una classe
della popolazione romana fosse, nel suo complesso, piu liberale
d'un'altra; e tanto meno stabilire quale di esse meritasse il primo
premio di liberalismo. Ma non si puo mettere in dubbio che la pic-
cola borghesia, i bottegai, gli artieri, e specie il popolo minuto, ab-
biano avuto il gran merito di accettare volentieri un mutamento,
nel quale essi, materialmente, non hanno guadagnato nulla. Subito
dopo il 1870 le loro condizioni si trovarono mutate, le loro abi-
tudini dovettero necessariamente modificarsi. II popolo si sottopose
a tutto questo con una pazienza ed una docilita senza esempio, man-
tenendosi allegro e cordiale; facendo buona accoglienza a tutti, an
che a chi andava a levargli il pane di bocca. AlFartiere romano, che
lavorava bene ma soltanto quando ne aveva voglia, mancarono ad
un tratto molte occasioni di guadagno che gli procuravano le feste
e le pompe ecclesiastiche, mentre ai piu bisognosi venivano meno
da un giorno alPaltro tutte le elargizioni e distribuzioni da parte
i . E il motto dell'ordine della Giarrettiera. L'espressione si usa anche iro-
nicamente e maliziosamente.
508 UGO PESCI
di istituzioni ecclesiastiche od ordini religiosi, le quali facevano cre
dere a molti non essere indispensabile il lavorare molto per vivere.
Intanto da ogni parte d' Italia immigravano a Roma migliaia di
disoccupati, spinti dalTappetito, ed ormai agguerriti nella lotta per
Pesistenza, e si accaparravano la maggior parte dei molti lavori
necessari al trasferimento della capitale ed alia trasformazione della
citta; ed il governo italiano imponeva delle enormi tasse, diretteo
indirette, a gente die non aveva mai dato im soldo per contribuire
alle spese pubbliche.
Ad onta di tutto questo, il popolano romano non s'inaspri, e se
manifesto talvolta il suo malcontento, lo fece con qualche innocen-
tissima pasquinata, che provocava risa e non sdegno. Quando si
pensa quali erano allora le condizioni del popolo minuto a Roma,
e si paragonano quelle liete manifestazioni di fugace cattivo umore
con le violente e feroci diatribe d'odio di classe, oggi erompenti dal-
ranimo di gente la quale non ha dawero eguali ragioni di lamen-
tarsi, rammirazione per i Romani di trent'anni sono, e piu, deve
essere giustamente grandissima. Non si puo negare che Fesempio
degli altri ha cambiato anche loro; e quantunque un tal cambia-
mento si chiami generalmente progresso, a pensarci bene si puo fare
a meno di compiacersene.
Di quei bei fenomeni morali e sociali ora indicati con i nomi di
teppa, di teppismo e di mala vita non si aveva allora neanche il so-
spetto: tutt'al piu, in una rissa, il popolano d'un rione, sopraffatto
da popolani d'un altro, era sicuro di essere aiutato da quelli del suo.
Nelle sue relazioni con persone di qualunque altra condizione so-
ciale, il popolano romano aveva allora una familiarita rispettosa ed
insieme dignitosa, che faceva in qualche modo sparire ogni distan-
za fra esso e chi sapeva comprenderlo o apprezzarlo. Guai per6
a chi si fosse messo in mente di trattarlo con aria altezzosa e spa-
valda, come lo trattano oggi taluni democratici di professione e
protettori del proletariato! Chi lo trattava invece cordialmente, da
uomo ad uomo, senza offenderne le suscettibilita rispettabili, era
sicuro di trovar subito in ogni buon popolano un amico ed, in qua
lunque caso, anche un difensore.
Una signora straniera, maritata in Italia e da alcuni anni domi-
ciliata in Roma, m'invito una volta, ad accompagnarla nella sua car-
rozza alia fiera di garofani, d'agli freschi e lumache cotte, che si fa
ogni anno nella notte fra il 23 e il 24 giugno, la vigilia di San Gio-
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 509
vanni, sul piazzale della basilica Laterana. Andai ben volentieri. Era
il San Giovanni del '72 o del '73, ne prima ne dopo. La principessa
- la chiamero con il suo titolo - aveva un abito elegante ma sem-
plice, senza cappello, con una mantilla spagnuola in testa. Le splen-
devano agli orecchi due grossi solitari. Essa era molto conosciuta a
Roma, come lo erano la sua carrozza e la sua livrea.
Ci awiammo lentamente a San Giovanni verso mezzanotte, se-
guendo la fila delle vetture. Passando davanti all'osteria del Coc-
chio, che era sulla piazza vicino allo sbocco di via Menilana, udim-
mo parecchie voci che cantavano accompagnate da mandolini e
chitarre, il canto ed il suono si facevano sentire non ostante Fas-
sordante rumore delle grida dei venditori e della folia chiassosa.
La principessa, quasi azzardando una proposta enorme, impos-
sibile, espresse il desiderio di entrare dentro ad ascoltare meglio la
musica. Piu nuovo di Roma ma piu pratico di lei delPambiente nel
quale ci saremmo trovati, le risposi che Pavrei accompagnata vo
lentieri nell'osteria, purche si adattasse a seguire le mie istru-
zioni. Le carrozza usci dalla fila e si fermo davanti alPosteria.
Scendemmo, entrammo nella prima sala e la traversammo, non
senza destarvi un movimento di benevola meraviglia. Entrammo nel
giardinetto dove cantanti e suonatori stavano sotto un pergolato,
con molta gente seduta ed in piedi intorno a loro. Mentre davo
un'occhiata intorno per vedere se v'era una sedia o una panca libera,
venti o trenta persone si alzarono in piedi per farci posto, ed un
belPuomo sulla cinquantina, una specie di capocda, datosi una
bella fregata alle labbra con la manica della camicia di bucato, odo-
rosa di spigo, s'awicino appena il bicchiere alia bocca e lo presento
alia Principessa, ancora in piedi ed appoggiata al mio braccio. La
sentii fare un impercettibile movimento di repulsione, al quale ri
sposi prontamente stringendole leggermente il braccio col mio.
Essa capi l'awertimento, prese il bicchiere con signorile buona gra-
zia, e bewe un sorso di vino; poi il bicchiere dalle mani del capoccia
passo nelle mie. Oramai eravamo in ballo e bisognavaballare: al
primo bicchiere tennero dietro parecchi altri; ognuno voleva far
onore agli insoliti commensali, mentre cantanti e mandolinisti si
studiavano di farci sentire i piu bei pezzi del loro repertorio. Come
di regola, feci portare delle fogliette1 e contraccambiai le cortesi of-
i. La foglietta e misura romana, equivalente ad un quarto di boccale,
circa mezzo litre.
510 UGO PESCI
ferte. Fu un miracolo se non scoppiarono gli applausi quando la
principessa, dopo una buona oretta, alzandosi per uscire, si awi-
cino ai suonatori ed ai cantanti lodando la loro abilita e ringrazian-
doli. Chi avesse avuto la cattiva idea di offrire una mancia, si sa-
rebbe dovuto lasciar dire delle insolenze.
Oggi forse non oserei di fare altrettanto a Roma: non ci penserei
neppure in qualunque altra delle grandi citta d' Italia. E quello che
ho narrato non era allora, come si suol dire, «un fatto isolate ».
Un mio amico, gentiluomo fiorentino, di molto spirito e di caris-
sima compagnia, maestro di cerimonie di Corte, morto da parec-
chi anni - la principessa e viva ed e ancora una bella donna a
dispetto delle indiscrezioni dell3 'Almanacco di Gotha -l era gia stato
a Roma, ma quando venne la prima volta a farvi il turno mensile di
servizio, voile che io Paccompagnassi a vedere tante cose ancora
nuove per lui. A molta indipendenza di spirito e ad un considere-
vole disprezzo per le «menzogne convenzionali » egli univa una
elegante ricercatezza nel vestire. Col proposito di girare tutta la
mattina e di far colazione in qualunque posto ci avesse colto Pap-
petito, mi veniva a prendere in redingote ed in cappello acilindro,
il che non gli ha impedito piii volte di seguirmi in qualche osteria
di codna, o nella bottega di Cucciarello, il friggitore di Trastevere,
dove ciascuno di noi si prowedeva di un belFinvolto di eccellente
pesce fritto, per andarlo a mangiare nelPosteria di rimpetto, dove
in grazia del cappello a cilindro ci distendevano un tovagliolo sulla
tavola e ci davano delle posate di ferro. O andate un po' a far que-
sto in un altro paese!
[l ((BUZZURRD) • UNA VASTA IMMIGRAZIONE]2
Con questo nome i giornali clericali indicarono i nuovi abitanti
di Roma, con evidente intenzione di sprezzo, neppure espressa con
proprieta di vocabolo ; poiche col nome di « buzzurro » da tempo
indefinito si chiamano a Firenze quelli Svizzeri del Cantone Ticino
che vi scendono nell'inverno a vendere castagne lesse e polenda di
i. Almanacco di Gotha: e il piti celebre degli almanacchi. Fondato nel 1763,
in Germania, dette di anno in anno aggiornate notizie sulle case nobiliari
di tutta 1'Europa. 2. Ed. cit., dal cap. v (I «JE?tt##zim»), pp. 199-206.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 5!!
farina dolce, ospiti particolarmente graditi ai ragazzi, e da nessuno
disprezzati perche gente attiva, proba ed incapace di dare fastidio
a una mosca.
A Roma la parola « buzzurro » per indicare PItaliano di altre pro-
vincie andatovi dopo il 20 settembre, fu usata molto per qualche
tempo, specie dalla parte meno educata della popolazione, ma senza
il significato dispregiativo che avevano voluto darle. Pero nelle
famiglie appena appena di mediocre educazione ci chiamavano « gli
Italiani », come ci avevano chiamato i Veneti nel 1866. Neppure i
clericali bene educati usavano la parola messa fuori dai loro gior-
nali, e se non volevano dire « gli Italiani » si servivano di circonlo-
cuzioni e di mezzi termini. Ho conosciuto una vecchia signora pa-
pista, la quale chiamava « loro . . . quelli . . . » i nuovi venuti, e ri-
teneva che tutti la dovessero capire alia prima.
Non staro a dire come e quanto fosse cortesissima e cordialissima
Paccoglienza fatta ai pochi entrati insieme alle truppe e nei primi
giorni successivi. Ad essi si aprirono, si spalancarono addirittura
tutte le porte dei circoli, dei clubs, delle case private, anche di quelle
case aristocratiche che non si erano mai aperte ai Romani di eguale
condizione, e forse, in altri momenti, non sarebbero state tanto fa-
cilmente accessibili a quelli stessi per i quali allora lo furono. Nel-
1'aristocratico Club della caccia, nato da poco, che aveva allora una
residenza ristretta in piazza San Carlo al Corso, dirimpetto alia
chiesa, sulPangolo di via delle Carrozze - e poi si trasferi subito
vicino a piazza Venezia fra il palazzo Doria e il palazzo Bonaparte -
i nuovi venuti non titolati furono ammessi con maggiore facilita dei
Romani, dei quali cinque e sei soli erano i soci non appartenenti
a famiglie nobili. Sul canto di via Convertite, press'a poco dove ora
e il caffe Aragno, e precisamente sopra il caffe delle Convertite che
occupava quelTangolo dell'isolato nel quale e stato poi costruito
il palazzo Marignoli, v'era un piccolo club di giovanotti della bor-
ghesia ricca, nel quale i nuovi venuti furono ammessi senza nep-
pure alcuna formalita di votazione. Non parlo degli ufficiali, per i
quali Puniforme italiana serviva di passe-partout: debbo anche con-
statare che i piu intransigent! clericali ne riconobbero subito e ne
lodarono il contegno, il tatto e Peducazione.
La cordialita della prima accoglienza continu6 immutata per
quelli che seppero non demeritarla: naturalmente non si pote esten-
dere in egual misura a tutti i nuovi venuti quando furono legione,
512 UGO PESCI
e quando aumentando la quantita peggioro in proporzione diretta
la qualita.
L'immigrazione in Roma, in conseguenza del trasporto della ca-
pitale, per la forza di attrazione della citta, e per la sua posizione
topografica, fu di due specie diverse. Da Firenze vennero, gli uni
dopo gli altri, tutti gli impiegati dello Stato gia trasferiti in quella
citta da Torino, ed i negozianti che da Torino avevano seguito la
capitale a Firenze, ed ora, per spirito d'intraprendenza, la segui-
vano a Roma: da altre provincie dell'Alta Italia, commercianti e
speculator! che nell'incremento immancabile della nuova capitale,
e nei lavori edilizi indispensabili per ottenerlo, speravano di tro-
vare ottimo collocamento ai loro capitali. Dalle provincie del Mez-
zogiorno, meno ricche e molto piii vicine alia nuova capitale, si af-
fol!6 presto in Roma una moltitudine in cerca di fortuna, o, per lo
meno, di farsi uno stato, di trovare un posticino che procurasse
tanto da sbarcare il lunario ; moltitudine rumorosa, irrequieta, pro-
cacciante, e non ostante le apparenze etniche, meno omogenea al-
Pantica popolazione romana del toscano o del piemontese infio-
rentinato.
Gli impiegati trasferiti nel 1865, improwisamente, da Torino a
Firenze, vi erano andati, come ho narrato in un altro libro,1 molto
di mala voglia; ma vi s'eran presto trovati bene, si erano facilmente
abituati ai difetti ed alle buone qualita della loro nuova residenza,
vi s'erano fatta, come si dice, la loro nicchia. Un altro trasferimento
dopo cinque anni, a parte le ragioni patriotiche, non li poteva
avere punto rallegrati. I primi trasferiti vennero a Roma mal vo-
lentieri, brontolando, lagnandosi come tanti deportati in Siberia;
e poiche, come ho detto, non essendo pronti subito i locali per tutti
i ministeri e gli altri uffici governativi, gli impiegati dovettero lasciar
Firenze a pochi per volta, quelli trasferiti dopo arrivarono anche
piu mal disposti, ed addirittura spaventati dalle notizie ricevute
dalle avanguardie, secondo le quali la vita a Roma era meno facile
e molto cara, anzi non era possibile il potervi risiedere per man-
canza d'alloggi.
Tanto chi doveva venire a Roma senza averne voglia, quanto i
Romani che avrebbero veduto volentieri la capitale defmitivamente
i. come . . . libro i il Pesci, in una nota, rinvia alle pp. 70 sgg. del suo vo
lume Firenze capitale. Si tratta di un brano che anche noi abbiamo ripor-
tato, a pp. 450-3.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 513
stabilita da un momento all'altro dentro le loro mura, se la prende-
vano con il governo perche non si dava briga di prowedere alia
mancanza d'alloggi, come se il governo potesse far sorgere da un'ora
alPaltra nuovi quartieri, con un colpo di bacchetta magica; od ob-
bligare a costruire delle case chi non ne aveva il proponimento, od
avendolo non aveva i denari per effettuarlo. Dal canto suo, il go
verno se la prendeva con il Murdcipio di Roma, un Municipio ap-
pena nato,1 ed ancora imbrogliato come un pulcino nella stoppa,
il quale pure faceva tutti gli sforzi possibili per mostrare le sue
buone disposizioni, lottando contro difficolta materiali di tutti i
generi.
Per avere una idea della sproporzione fra la richiesta ed il numero
degli alloggi disponibili alia meta del 1 871 , bastera dire che, secondo
i calcoli del governo, per gli impiegati da trasferirsi a Roma con la
capitale occorrevano 40180 stanze, ed una notificazione del Muni
cipio di Roma dette per resultato di trovarne 500. Era una canzo-
natura! ma d'altra parte, come sarebbe stato possibile Pobbligare
chi affittava delle camere a stranieri, ad alti prezzi, per sei o sette
mesi dell' anno, di cederle ad impiegati che non avrebbero potuto
pagare neppure la meta?
Un anno e mezzo dopo la data ufficiale del trasferimento, vale a
dire alia fine del 1872 - piu di due anni dopo il plebiscite - il Mu
nicipio di Roma si trovava ancora nella necessita d'intimare, per
ragioni di utilita pubblica, la riduzione di molti fienili a case abi-
tabili!
E poi, se le 40000 camere e piu, ritenute necessarie agli impiegati
dello Stato, secondo i computi del governo, trovandole, fossero ba-
state per essi e le loro famiglie, doveva pur trovare la maniera di
mettersi per lo meno al coperto anche tutto Tesercito di professio-
nisti, affaristi, disoccupati in cerca di lavoro, commercianti, solle-
citatori, speculatori, operai ed artefici, oziosi e vagabondi dell'uno
e delPaltro sesso, ed altra gente di buon conto e di mal affare, che
forma quello strato superficiale ed instabile della popolazione delle
capitali moderne, specie negli stati retti col sistema parlamentare.
Awenne nei primi tempi che operai venuti da altre provincie
con la sicurezza di trovare a Roma sovrabbondanza di lavori d'ogni
i. un Municipio . . . nato: il primo consiglio comunale di Roma fu eletto
con le votazioni del 20 novembre 1870.
33
514 UGO PESCI
genere, retribuiti meglio che altrove, furono costretti a tornare in-
dietro a centinaia e centinaia, mancando assolutamente gli alloggi
adatti alia loro condizione ed ai loro mezzi. Col tempo ne vennero
poi anche troppi! Professionisti, commercianti, industriali, trova-
rono da accomodarsi alia meglio: ma chi voile rilevare negozi in
buone posizioni, o farsi cedere quartieri gia presi in affitto da altri,
dovette rassegnarsi a subire pretese spesso realmente enormi. Tutto
il mondo e paese, quando si tratta di tornaconto!
I trasferiti per ragione d'impiego e non per volonta propria s'im-
pensierivano anche per il prezzo dei viveri, riguardo al quale per6
le loro apprensioni non erano intieramente giustificate. Dopo il
1870 vi fu un rincaro prodotto dalPaumentato numero di consu-
matori, ma non tale da fare spavento. Si sa che i dintorni di Roma,
per un raggio di alcuni chilometri intorno alia citta, non danno al-
cun prodotto meno qualche ortaggio, un po' di vino, di latte e di
formaggio ; e tutto il rimanente di quanto e necessario alia alimen-
tazione di una grande citta deve esservi portato da lontano. Oggi,
dopo 36 anni, il problema deH'alimentazione di Roma e press'a
poco allo stesso punto : si pu6 anzi dire che si e maggiormente com
plicate, perche per il grande aumento degli abitanti, e tutto rinsie-
me delle condizioni economiche del paese che ha diminuito il va-
lore del denaro, i prezzi di ogni genere di derrate sono grandemente
aumentati, meno quello dei cereali. Nei primi anni dopo il '70,
questo fu molto oscillante e soggetto a sensibili sbalzi. Dal '70 al '71
sali rapidamente ed il grano da 19 lire 1'ettolitro arrivo a 24: si
mantenne alto, ed anzi aumento fino al '74, nel quale anno si pag6
il pane fino a 62 centesimi al chilogrammo, per ribassare nel '75
e mantenersi sempre piu basso. Anche il prezzo delle carni, molto
basso fino agli ultirni mesi del '71 - poco piu di una lira al chilo -
aumento rapidamente del 50%, non solo per le bestie bovine, ma
anche per gli ovini, dej quali si faceva e si fa un gran consumo,
e per i suini.
Per queste, e forse per altre ragioni meno facilmente ponderabili
e calcolabili, Fadattamento della popolazione (cbuzzurra» trasferita
a Roma per ragioni d'ufficio, awenne assai piu lentamente che da
Torino a Firenze, anche perche molti impiegati, sempre per la man-
canza di alloggi, furono costretti ad andare al loro posto lasciando
le famiglie per qualche tempo a Firenze od altrove, aspettando il
momento di poterle sistemare alia meglio. Quando il buon Giu-
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 515
seppe Massari,1 nel marzo del '74, in un pranzo al club della
Caccia, disse in un brindisi che ormai non v'era piu alcuna diffe-
renza fra antichi e nuovi romani, espresse un nobile desiderio piut-
tosto che la vera realta delle cose. Certamente il sentimento pa-
triotico che aveva mosso gli italiani di tutti i partiti liberali, non
era affievolito neanche nelPanimo dei trasferiti di malavoglia ; ma
le necessita della vita pratica di ogni giorno prendono talvolta il
soprawento su i sentiment! , ed occorre del tempo, per che questi
e quelle possano mettersi intieramente d'accordo.
L'adattamento fu piu lento, anche perche si protrasse piu lun-
gamente la immigrazione degli impiegati. Alcune direzioni generali
vennero a Roma dopo tre o quattr'anni dal giorno del trasferimento
ufficiale, molte dopo diciotto mesi o due anni, e gli impiegati venuti
prima, agli altri lagni aggiunsero quelli per la non richiesta ne de
siderata preferenza.
Non ostante questo metodo di trasferimento a sgoccioli, la fiso-
nomia di Roma comincio a modificarsi fino dal 1871. I nuovi abi-
tanti di una citta, meno alcuni solitari misantropi, specie quando
son legati fra loro da comunanza di occupazioni e d'orario, pren
dono facilmente Pabitudine di fare come
quando le pecorelle escort dal chiuso
a una, a due} a tre . . ,2
ed a gruppetti, ed uscendo dall'ufEcio si awiano verso le strade
piu centrali e piu frequentate. Nei primi mesi dell'autunno del
'71 - in quella stagione nella quale mancano a Roma i forestieri ed
i signori della citta, e le pariglie signorili vanno al Pincio attaccate
a breaks* di scuderia, con le guardarobiere o le famiglie del cocchiere
0 del guardiaportone - incomincio fra le 6 e le 6 e mezzo a compa-
rire nel Corso il loquace ed irritdbile genus degli impiegati dello
Stato, non ancora tanto irritabile da tener comizi e reclamare il di-
ritto allo sciopero. Ho notato, particolarmente a Roma, che mentre
1 soldati, cioe gli uomini ingenui ed ignari, corrono subito ad am-
i. Giuseppe Massari (1821-1884), di Bari, deputato al Parlamento napole-
tano del 1848, esule in Piemonte dopo il 15 maggio, com'era stato prece-
dentemente esule in Francia (donde la sua amicizia col Gioberti). Deputato
e segretario nella Camera del Regno d' Italia, fu poi senatore. Scrisse la
vita di Vittorio Emanuele II. 2. Dante, Purg., in, 79-80. Ma Dante scri-
ve: « Come le pecorelle » ecc. 3. breaks: i brecchi, carrozze grandi aperte,
a quattro ruote.
516 UGO PESCI
mirare i monumenti di fama mondiale, gli impiegati, vale a dire gli
uomini di mezzana cultura, ostentano di non occuparsene e non
e mai accaduto di vederli in gran numero come i soldati ne a San
Pietro ne al Colosseo, ne sul colle capitolino davanti alia statua di
Marc'Aurelio. L'«ora del vermouth* entro presto nelle nuove con-
suetudini della capitale, anche perche i vermuttai di Torino e di
Firenze, tutti piemontesi, all'avanguardia deH'immigrazione « buz-
zurra» vennero a raggiungere i loro corregionali gia stabiliti a
Roma prima del '70.
I « FORESTIERI » I
Dal tempo del quale parlo, anche i « forestieri » sono cambiati. Al-
lora non si conosceva, o per meglio dire non era ancora in uso il si-
stema di viaggiare in carovana, affidando intieramente il proprio
benessere materiale ed intellettuale ad una Societa, che vi rilascia
tanti tickets corrispondenti alia sodisfazione d'un bisogno od al
conseguimento d'un piacere, e vi affida alia sua volta ad un capo
carovana che vi colloca in un albergo, vi somministra i pasti alle
ore stabilite, e vi prescrive i monumenti e le vedute che devono
destare la vostra ammirazione. Alcune nazioni davano allora a Ro
ma un contingente di visitatori molto minore di quello che. danno
adesso; mentre, allora come oggi, vi erano varie categoric di visi
tatori a seconda delle stagioni, pur essendo la citta sempre piu af-
follata di stranieri dalla fine di dicembre - gli Inglesi sono ancora
generalmente fedeli alFusanza di passare il Natale a casa - alia set-
timana dopo Pasqua.
D'altra parte, parlando di stranieri a Roma, bisogna cominciare
a distinguere quelli che vi hanno preso stabile domicilio - e non
sono pochi - e quelli che sono soliti a passarvi abitualmente 1'in-
verno, salvo casi eccezionali, da quelli che vi capitano una volta
durante la loro vita, o vi ritornano a molto lunghi intervalli, perche
chi e stato una volta a Roma parte generalmente col desiderio di
ritornarvi.
Quest'ultima categoria si suddivide poi in molte altre. Vi e pri
ma di tutto, come ho detto, il « forestiere » d'estate ed il « forestiere »
d'inverno. In estate vengono a Roma quelli che hanno meno da
i. Ed. cit., dal cap. vi (/ «forestieri»), pp. 229-31.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 517
spendere e sanno, in quella stagione, di potersela cavare a miglior
mercato; quelli che sono molto occupati durante il resto dell'anno,
e soltanto durante 1' estate possono prendersi qualche svago: i pro-
fessori ed i magistrati in ferie; qualche comitiva di studenti; qual
che ingenuo che spera di acquistare oggetti d'arte o di antichita
piu o meno autentici, a prezzi di « fine stagione ». In generale, i fo-
restieri «d'estate» sono francesi, belgi, o tedeschi.
Capitavano e capitano spesso anche dj estate, come d'inverno, i
component! di pellegrinaggi che vengono quasi esclusivamente per
vedere il Papa, per visitare le basiliche ed altri luoghi di devozione.
II <cforestiere)) di questa categoria fa larghi acquisti di corone e di
medaglie e di piccole riproduzioni del San Pietro della Basilica Va-
ticana, che porta seco quando e ricevuto con gli altri in udienza dal
Santo Padre. Ma ormai, questo «forestiere», meno quando va in
comitiva con la coccarda del suo pellegrinaggio, non si distingue
piu facilmente dagli altri. Non viene piu, come dopo il 1870, irri-
tato contro T Italia e gli Italian!, credendo di trovare il Papa in una
prigione. Ormai si sa in tutto il mondo come stanno le cose: molti
attriti sono quasi cessati, molti spigoli si sono arrotondati, e il
« forestiero fanatico » e addirittura scomparso. Non si saprebbe piu
dove andare a cercare due giovani signori inglesi1 come quelli che,
venuti per il giubileo pontificale di Pio IX, il 18 giugno2 1871, si
misero a rischio di far finire tragicamente una giornata solenne
trascorsa senza alcun disordine, e di terminare essi pure tragica
mente la loro esistenza. Erano alloggiati all'albergo d'Angleterre, in
via Bocca di Leone. Al balcone di una sala vicina alle loro stanze
sventolava una bandiera italiana, statavi esposta perche bandiere
nazionali erano fuor delle fmestre di tutte le case di Roma. I due
inglesi pretendevano che fosse tolta, e non volendosi i camerieri
delPalbergo prestare a quell'atto, essi tentarono di toglierla e lace-
rarla. Ne nacque un alterco, ed il proprietario dell' alb ergo fu co-
stretto a ricorrere agli agenti della forza pubblica. La bandiera fu
rimessa a posto, con la intimazione di rispettarla. Tutto pareva fi-
nito ; ma qualche notizia del fatto si era gia sparsa, ed un numeroso
gruppo di persone radunatosi davanti alPalbergo fece sentire dei
1. due . . . inglesi: facevano parte di una commissione di cattolici inglesi
con Lord Gainsborough, venuta ad ossequiare il pontefice nel suo giubileo.
2. il giubileo . . . giugno: Pio IX fu eletto pontefice il 16 (non il 18) giugno
1846, e fu coronato il 21 giugno.
518 UGO PESCI
sibili evidentemente diretti ai due stranieri, uno dei quali si affac-
cio alia finestra gridando: — Viva Pio IX papa re, abbasso Plta-
lia! — Apriti cielo! gli urli e i fischi raddoppiarono ; lo sprezzante
epiteto di puzzoni fu ripetuto con energia romanesca da centinaia
di voci, e ci voile del buono e del bello per impedire un'invasione
delPalbergo con tutte le deplorevoli conseguenze che avrebbe po-
tuto avere. I cappelli piumati de' bersaglieri, simpatia del pubblico,
e le parole concilianti delle guardie nazionali accorse in gran nu-
mero, poterono impedire un eccesso.
[BALDORIE CARNEVALESCHE]1
JMa e ormai tempo di lasciare le sale dei palazzi aristocratici2 e
scendere nelle strade, quando vi si agita e ribolle la baldoria carne-
valesca. Non pretendo di descrivere il corso mascherato di Roma
quale era una volta ed anche nei primi anni dopo il 1870: occorre-
rebbe altra forza di stile e di colorito, che io non mi abbia; e d'altra
parte non si potrebbe che ripetere quanto hanno gia detto moltis-
simi autori. Ve inoltre nelle feste pubbliche qualche cosa che nes-
sim stilista pu6 riescire a descrivere : non basta dire che dalla porta
del Popolo alia ripresa de' Barberi - cioe in quel tratto di strada
stretta oltre piazza di Venezia, fra il palazzetto di Venezia ed il
palazzo Nepoti, oggi scomparso - i marciapiedi, le botteghe, i por-
toni, le finestre, i balconi erano stipati di gente, e di gente era affol-
lata tutta la strada; ed in mezzo alia folia procedevano lentamente
due file di carrozze, piene zeppe anche quelle di persone mascherate
e non mascherate, molte delle quali tentavano ripararsi con visiere
di sottilissimo filo di ferro dai nembi di coriandoli ingessati che
piombavano giu nella strada da tutti i piani delle case, oscurando
il cielo con la loro polvere bianca, e dalle manciate degli stessi co
riandoli lanciate da chi camminava a piedi. Non basta dire che, fra
i nuvoli della polvere dei coriandoli, dalle finestre e dai balconi
scendevano e dalla strada si alzavano gettati con slancio mazzi di
fiori, scatoline di dolci, e certi grossi confetti involtati in carta sot-
1. Ed. tit, dai cap. vm (Feste private e divertimenti pubblici), pp. 317-20.
2. Ma . . . aristocratici: nelle pagine precedent!, da noi tralasciate, il Pesci
descrive a lungo, con minuzie cronachistiche, le feste date dai nobili e dai
diplomatic! in Roma durante il periodo 1871-1878.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 519
tile argentata o dorata con lunghe striscie svolazzanti, chiamati
razzi cTamore : e che al vocio giulivo, alle grida allegre e festose, ai
canti, agli strilli, alle esclamazioni di sorpresa, si mescolava lo strim-
pellio di molti strumenti primitivi e discordi, alcuni dei quali, di
provenienza partenopea, come u' putipu e uy tricca-ballacche,1 servi-
vano di accompagnamento ai lazzi dei numerosi pulcinelli, le cui
salaci scurrilita si perdevano fortunatamente in mezzo a quella con-
fusione di rumori. Non basta dire che alcune carrozze erano cariche
di ragazze, altre di artisti, altre di giovanotti eleganti, altre di fa-
miglie straniere con persone serie e di eta matura, che per una volta
nella loro vita volevano levarsi il gusto di far pazzie - semel in vita
se non in annol - e prendevano parte al baccano senza perdere
qualche cosa della loro innata serieta e compostezza.
No, tutto questo non basta 1 Bisognerebbe anche far capire come
in quella confusione, in quell' eccitamento che pareva far diventare
una citta intiera, per qualche ora, una gran gabbia di matti, nessuno
passava il segno, nessuno esorbitava, nessuno dava ad altri giusto
motivo di risentirsi, quantunque tutti i ceti, tutte le condizioni so-
ciali si trovassero mescolate, gornito a gomito, ed il popolano po-
tesse porgere un fiore alia gran dama, ed i giovani stranieri si sbrac-
ciassero a buttar mazzi e dolci a signorine ed a popolane ; e potesse
accadere spesso, in quella febbre di divertimento, di dare una go-
mitata ad un principe di sangue reale o riceverla da un trasteverino
con la giacca di velluto buttata sulle spalle, o da una ciociara col
busto messo sulla camicetta bianca ed uno stile d'argento infilato
dentro la massa enorme delle treccie corvine. Bisognerebbe saper
dire con quanto non servile, ma schietto e sincere riguardo, i popo-
lani sapevano scherzare con i signori, e con quanto garbo, senza
alterigia ne aria di protezione, akneno in quei giorni, i signori sa
pevano accettare lo scherzo familiare de' popolani e contraccam-
biarlo.
La febbre del divertimento arrivava al parossismo Pultima sera
di carnevale, quando, al segnale dell'Ave Maria che abitualmente
indica Tora della preghiera, incominciavano ad accendersi i mocco-
letti. Come si pu6 far comprendere, a chi non Tha visto, il meravi-
i. iC putipu e u* tricca-ballacche: due rozzi strumenti musicali usati dal
popolo napoletano. II primo e qualcosa di intermedio fra il tamburo e
i piatti; il tricca-ballacche e formato di tre bastoncini che hanno in cima
martelli, e, stando fermo il mediano, si fanno cozzare tra loro.
520 UGO PESCI
glioso spettacolo di centinaia di migliaia di fiammelle che, in cinque
minuti, brillavano in continue moto da un capo aU'altro d'una strada
diritta e lunga quasi due chilometri, e la inondavano di luce dai
marciapiedi alle grondaie dei tetti? Ognuno difendeva il proprio
moccolo dagli attentati di spengimento e tentava di spengere il
moccolo altrui, o d'impedire di riaccenderlo quando era spento.
Cinquantamila bocche gridavano senza moccolo! senza moccolo! Lo
straniero flemmatico lasciatosi sedurre da quel nuovo spettacolo,
sperava di proteggere il proprio moccolo mettendolo dentro il cap-
pello che teneva in mano ben stretto : ma un colpo di mano inco
gnita spengeva il moccolo e faceva cadere il cappello, Lo straniero
rimaneva un momento sbalordito e finiva per ridere. In un alto
palco eretto dentro un portone, un gruppo di belle ragazze si rite-
nevano sicure da ogni assalto ; neppure i fazzoletti legati in cima ai
bastoni erano potuti arrivare a spengere i loro moccoli: ma ecco
ad un tratto sbucar fuori da una bottega di rimpetto un drappello
di giovani armati di lunghe canne, alle quali avevano legato quelle
spazzole di penne che servono a levar la polvere dalle pareti; il
gruppo delle ragazze rimaneva al buio fra le allegre risate del pub-
blico ora spinto a ondate, ora trattenuto fermo per parecchi secondi.
Dalle finestre basse si agitavano enormi ventole per spengere i moc
coli a chi passava sotto : i ragazzi si arrampicavano alle inferriate
per spengerli a chi stava alle finestre dei mezzanini: chi era in
carrozza allungava quanto poteva le braccia, saliva in piedi sui se-
dili, si arrampicava al posto del cocchiere, ma non arrivava a di-
fendersi dalle insidie che lo minacciavano daH'alto e dal basso. Le
donne, e particolarmente le ragazze, erano esposte ai maggiori as-
salti, tanto piii frequenti ed insistenti quanto piu erano belle e
piacenti; ad ogni attentato cacciavano piccoli e brevi strilli, che
avrebbero potuto anche far supporre in esse il desiderio di restar
vinte, purche il vincitore fosse simpatico e ardito. Soltanto dopo
un'ora e anche piu, le fiammelle andavano lentamente diminuendo
di numero, e adagio adagio le tenebre della notte non erano piu
rischiarate altro che dalla fioca luce del gas della Societa anglo-ita-
liana. II Corso rimaneva deserto . . . ma molti spengimenti di moc
coli avevano piu tardi il loro epilogo in qualche festicciuola privata
od in qualche veglione.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 521
[IL TEATRO APOLLO]1
Prima del '70, il Comune di Roma teneva in affitto i due prin
cipal! teatri, di proprieta del principe Torlonia, cui pagava un gros-
so canone oltre alia dote che corrispondeva all'impresario : ma nel
1869, considerando di non poter star soggetto al beneplacito di un
privato che, negando 1'uso dei teatri poteva privare la citta dei con-
sueti spettacoli, prese in enfiteusi il teatro Argentina ed acquisto
il teatro Apollo, indicate col nome di « regio ». Poiche, quantunque
la Corte pontificia non andasse al teatro, P Apollo era considerate
come il teatro ufEciale; monsignor governatore di Roma vi aveva
un palco dove compariva talvolta, ed immancabilmente la sera
nella quale s'inaugurava la stagione d'autunno, facendo in qtiella
occasione distribuire rinfreschi a chi si trovava nei palchi di primo
e second' ordine.
L' Apollo stava abitualmente aperto dalla prima quindicina d'ot-
tobre fino a Pasqua, se pure non v'era spettacolo anche in prima -
vera: il Comune corrispondeva, come ho detto, una dote alPim-
presa, imponendole Tobbligo della mitezza dei prezzi. Dopo il '70,
il Comune non credette piu necessario di imporre tale obbligo, e
Timpresa seppe profittarne, essendo accresciuto il numero di coloro
che in qualche modo erano obbligati ad avere un palco al teatro, o
per lo meno, in alcune occasion!, ad assistere agli spettacoli. Oltre
la dote, fissata in lire 150.000 per il 1871-72, e poi mantenuta
press'a poco eguale, Timpresa disponeva di tutti i palchi, la ven-
dita dei quali rendeva altrettanto se non piu : il principe Torlonia
si era conservato soltanto Puso di un palco di proscenio in primo
ordine, dove si vedeva quasi tutte le sere in compagnia della prin-
cipessa e della figlia. Nel palco dirimpetto andava Vittorio Erna-
nuele, e i due palchi vicini a quello del Re erano a disposizione
delle Case militare e civile di S. M. La principessa Margherita
aveva per se un palco vicino al proscenio, al second'ordine: gli
altri palchi di quella fila erano tutti acquistati dai ministri stranieri
o dalle famiglie della primissima nobilta, tanto che Pandare al tea
tro in un palco di second'ordine era ritenuto un grande e difficile
onore. Alcune signore delParistocrazia dovevano contentarsi di
andare al terzo, gli altri palchi del quale erano occupati dal «gene-
i. Ed. cit., dal cap. ix (Teatri e ritrovi), pp. 343-8-
522 UGO PESCI
rone»: il « generetto »* si contentava del quarto. Cio non ostante i
palchi erano pochi, in confronto al numero dei richiedenti, e per
conseguenza i piii ricchi ne acquistavano la meta, gli altri soltanto
un quarto; vale a dire che quelli avevano diritto di andarvi ogni
due sere, questi ogni quattro, e nel manifesto le sere di spettacolo
erano indicate come di i°, 2°, 3° o 4° giro. Le serate di i° e 3° giro
erano le piu eleganti: chi voleva acquistare quel turno doveva pa-
gare qualche cosa di piu, e Paumento di spesa era compensate dal-
Pimpresa, facendo coincidere con quei due turni quasi tutte le
prime rappresentazioni.
Si andava nei palchi senza pagare biglietto d'ingresso e v'era
piu d'uno che, in corretto ed elegante abito nero e cravatta bianca,
faceva ogni sera le sue quattro o cinque visite, godendo lo spettacolo
con la spesa di 4 o 5 soldi per la guardaroba. Non v' erano barcaccie,
come vi sono in quasi tutti i teatri delPalta Italia: faceva eccezione
un palco di prima fila vicino al proscenio, acquistato regolarmente
ogni anno da una societa di antichi frequentatori, appassionati per
il teatro e platonici ammiratori di virtuose: il pubblico chiamava
quel palco ceil bagno di Susanna » alludendo ai vecchioni, fra i
quali furono, fin quando ebbero vita, il duca Mario Massimo, il
duca di Castelvecchio, il Ferretti ball delPOrdine di Malta, il cav.
Valerio Trocchi ed alcuni altri.
La cosi detta claque esisteva anche prima del '70: fu piu tardi
esercitata apertamente, come un onesto mestiere, anche da taluni
che si potevano credere a prima vista persone a modo, prima di
sapere con quale temeraria sfacciataggine essi andavano ad imporre
i loro patti agli artisti, che non accettandoli correvano pericolo di
essere fischiati.
£ naturale supporre che Pimpresario, prendendo dal Comune
una bella dote, e potendo elevare i prezzi a suo beneplacito, dovesse
ammannire al pubblico eccellenti spettacoli, ma pur troppo spesso
aweniva che il pubblico avesse ragione di lamentarsi. Eppure
Vincenzo Jacovacci, al quale non si presentavano mai concorrenti,
era un impresario abile ed un galantuomo, tanto e vero che avendo
avuto per parecchi anni una specie di monopolio di quasi tutti i
teatri di Roma, mori nel 1881 non lasciando dawero un gran pa-
trimonio, quantunque molti milioni fossero passati per le sue mani.
i. «generone . . .generation vedi p. 507.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 523
Vincenzo Jacovacci era 1'ultimo rappresentante degli impresari
di antica scuola. Aveva incominciato a 20 anni nel 1830, a posse-
dere un teatrino di marionette al palazzo Fiano, dove Cassandrino1
faceva sbellicare il pubblico dalle risa, e mandava spesso il burat-
tinaio in prigione. Fu presto impresario dell* Argentina - il miglior
teatro di Roma prima che il principe Torlonia restaurasse 1' Apollo -
ed in un periodo della sua vita ebbe nelle mani 1* Argentina, V Apollo
restaurato da poco, PAlibert bruciato nel 1863-6880 pure del
principe Torlonia, sulle cui rovine sorsero i locali nei quali ebbe
poi sede, dopo il '70, il Circolo artistico internazionale - Panfiteatro
Corea che s'apriva nelF estate con rappresentazioni drammatiche
e (cgiochi de' cavalli» e lo Sferisterio dove si giuocava al pallone.
Ossequente a tutti i governi costituiti, procure sempre di andare
d'accordo con i gusti artistici del tempo: classico con Rossini, fu
poi romantico con Gounod e con Arrigo Boito del quale rappre-
sento il Mefistofele,2 su quelle scene dell' Apollo sulle quali furono
rappresentati per la prima volta II Trovatore ed Un ballo in masche-
ra? Soltanto per i balli aveva un gusto suo particolare, ed osava
esprimerlo : romano autentico, li avrebbe voluti d'argomento tolto
dalla storia di Roma, convinto che avrebbero fatto impressione sul
pubblico, il quale invece, ingratissimo, non gli sapeva buon grado
di tale preferenza, e Pobbligo a rinunziarvi. II Municipio di Roma
capitale non era stato avaro con lui: ma, come ho detto, egli non
ebbe il talento di farsi ricco. Gli artisti gli volevano bene: i « divi» e
le « dive » qualche volta lo strapazzavano, ed egli, lasciandosi stra-
pazzare di buona grazia, finiva per farli fare a modo suo. Gli artisti
rninori, quelli addetti quasi stabilmente al teatro, vollero portare il
feretro del loro vecchio impresario dalla casa alia chiesa.
Mori, si puo dire, sulla breccia. Abitava un quartiere in via
Tordinona, nello stesso stabile del teatro Apollo, e mentre era in
agonia sentiva dal letto le prove di un ballo nuovo, VArduino
i. Cassandrino: maschera romana, creata da Filippo Teoli (1806-1844),
e che figure a lungo come protagonista nelle commedie rappresentate al
palazzo Fiano, all'angolo tra il Corso e Via in Lucina. II nome derivava dal
Cassandro della commedia dell'arte: era il tipo del corteggiatore maturo e
vanesio, deriso dalle donne. 2. II Mefistofele ebbe la sua prima rappresen-
tazione a Milano nel 1867 e, caduto, fu ripreso a Bologna nel 1875. 3. II
Trovatore fu rappresentato a Roma, per la prima volta, nel 1853. Un ballo
in maschera nel 1859. L'anfiteatro Corea divenne successivamente la sala
deH'allora distrutto Augusteo.
524 UGO PESCI
d'lvrea, tolto dalla tanto applaudita tragedia di Stanislao Morelli.1
Fu vittima di un tumore maligno alia mica, che non voile farsi
operare a tempo. Era gia ammalato quando gli abbuonati dell' Apol
lo, condannati per varii contrattempi ad un regime d'Aida2 con-
tinuato per quasi due mesi, non lasciarono una sera tirar su il si-
pario. Quei benedetti abbuonati erano la sua disperazione! e la loro
collera deve aver contribuito a far peggiorare il povero sor Cencio.
II teatro Apollo o di Tor di Nona, rifatto intieramente dal Tor-
Ionia nel 1830, con disegno del Valadier,3 restaurato nel 1862 sotto
la direzione del Carnevali,4 e demolito parecchi anni sono per re-
golare il corso del Tevere, aveva una bella sala : ma a qualche altro
difetto si aggiungeva quello della vicinanza del flume, la piu pic-
cola piena del quale faceva uscir fuori Pacqua dalle chiaviche, e
minacciava di chiudere gli spettatori dentro al teatro; tanto che
del « fa bisogno » di esso faceva parte anche un ponte di legno, pas-
sando sul quale si usciva, in caso di piena, andando fmo ad un
vicolo nella piazza di San Salvatore in Lauro, piu alta di via Tor-
dinona. Questo awenne precisamente a chi era alP Apollo la vigilia
delFinondazione del dicembre '70, dalla quale il teatro fu assai
danneggiato.
[POETI E SCRITTORl]5
Giuseppe Giovacchino Belli,6 morto nel '63, non aveva lasciato
dietro di se alcun poeta dialettale che potesse appena emularne non
che superarne la fama. Cesar e Pascarella7 era nel '70 appena un ra-
i. Stanislao Morelli, di Figline (1821-1881), combattente nelle guerre d'in-
dipendenza, direttore della «Gazzetta d' Italia » a Firenze, dal 1856 si dedi-
c6 al teatro. La sua fama e legata zll'Arduino d'lvrea (1870), che rispecchia-
va situazioni e sentiment! del Risorgimento, ed ebbe molti applausi soprat-
tutto nella recitazione di Tommaso Salvini. 2. ~L'Aida fu rappresentata
dapprima al Cairo, il 24 dicembre 1871, poi alia Scala di Milano I5 8 feb-
braio 1872. 3. Giuseppe Valadier (1762-1839), architetto neo-classico
molto lodato per la modernita delle sue concezioni, per 1'attenzione che
rivolse all'urbanistica, all'archeologia, alia restaurazioiie dei rnonumenti.
4. L' architetto Nicola Carnevali, morto a Roma nel 1872, vi lavoro a lungo
per i teatri Metastasio (1840), Argentina (1861), Tordinona (1862). 5. Ed.
cit., dal cap. x (Archeologi, letterati e scienziati), pp. 389-98. 6. Giuseppe
Gioacchino Belli (1793-1863), il maggior poeta romanesco dell'altro secolo.
7. Cesare Pascarella (1858-1940), il celebre autore di Villa Glori e de La
scoperta de V America.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 525
gazzo, e si dilettava piu di schizzare teste d'asino che di poesie
dialettali : i suoi primi sonetti furono scritti alcuni anni dopo. Au-
gusto Sindici,1 come ho detto, lasciato Tesercito, aveva dimostrato
di aver passione per il teatro drammatico, e non pensava a scrivere
in lingua vernacola. V'erano scrittori di sonetti satirici, per lo piu
di argomento politico ma non destinati a soprawivere alia effimera
occasione che li aveva ispirati. Ne pubblico un volumetto Augusto
Marini :2 e Giggi Zannazzo3 scriveva allora alcune delle sue poesie
vernacole, che furono stampate piu tardi.
Sconosciuto anche dai suoi concittadini prima del 1870, Pietro
Cossa,4 nato da un arpinate e da una torinese, emerse presto fra i
letterati romani per la vigoria delFingegno, per la impronta ga-
gliarda e potente dei suoi lavori drammatici, per la originale biz-
zarria della sua indole, schiva di quelle che Max Nordau5 chiamo
(cmenzogne convenzionali » ed altrettanto schiva di onori. Quegli
a cui Roma ha innalzato una statua, e che i suoi concittadini avreb-
bero eletto deputato, s'egli avesse voluto assoggettare la sua indi-
pendenza alia disciplina di un partito ; quegli che fu sinceramente
compianto da tutta Roma quando nel 1881 mori d'ileotifo all'al-
bergo del Giappone a Livorno, assistito da Virginia Marini, da
Francesco De Renzis,6 dairawocato Giacomo Balestra e da quel
i. Augusto Sindici (1839-1921), combattente nelle campagne del '59, '66 e
'70, comincio a pubblicare qualche saggio delle sue poesie, piu che romane,
laziali, nel 1895. Prima di allora, lasciato Pesercito (era ufficiale di cavalleria),
s'era rivolto a scrivere romanzi, novelle, non poche e ammirate commedie,
cronache mondane e letterarie. 2. Augusto Marini (morto nel 1897), ga-
ribaldino, esule, dopo il 1870 ebbe un impiego neU'amministrazione comu-
nale di Roma. Per lui e per gli altri minori poeti romaneschi, vedi E. VEO,
Ipoeti romaneschi, Roma, Anonima romana editoriale, 1927- 3- Giggi Za-
nazzo, nato a Roma nel 1860, studioso di folklore, favori il risorgere del
teatro dialettale. Fond6 nel 1887 il «Rugantino », giornale umoristico. Mori
nel 1911. 4. Pietro Cossa (1830-1881) esordi con Mario e i Cimbri (1860),
fu poeta della scuola romana, condividendone il patriottismo, e chiuse la
sua attivita teatrale con / Napoletani del 1799 (1880). 5. Max Nordau,
pseudonimo del sociologo magiaro Max Simon Siidfeld (1849-1923), il cui
libro Die konventionellen Lilgen der Kvlturmenschheit(i&&3) ebbe, anche in
Italia, vivissimo successo (la settima edizione, poi ristampata piu volte, e
di Torino, Bocca, 1912). 6. Virginia Marini (1844-1918), attrice assai sti-
mata per le interpretazioni di Dumas, Ferrari, Giacosa, Martini e, infine,
D'Annunzio; Francesco De Renzis (1836-1900), gia ufficiale dei Borbom,
entro neU'esercito italiano, combatte valorosamente a Gaeta (1860), fu um-
ciale d'ordinanza del re nel 1866, ecc. Nel 1870 uno dei fondatori, a Firenze,
526 UGO PESCI
cuore d'oro di Augusto Rotoli, non aveva mai saputo che cosa fos-
sero superbia ed orgoglio, e si era dibattuto da giovane nelle strette
della miseria, facendo il cantante e il viaggiatore di commercio,
mentre scriveva il Beethoven, il Puskine, il Monaldeschi, il Sordello,
lavori imperfetti nei quali si rivela bensi tutta la forza del suo splen-
dido ingegno. Quando era gia celebre ed a tutti noto il suo nome,
in Roma e fuori, lo conoscevano di persona appena i frequentatori
del teatro Valle, gli assidui al caff e di rimpetto al teatro ed i frequen
tatori della trattoria del Mellone.
A 19 anni Pietro Cossa fu nel '48 sotto le armi per la liberta e
Findipendenza dltalia. II suo battaglione era stato mandato a Bo
logna. Quando ritorn6, appena posato il fjicile in caserma, corse
difilato alFanfiteatro Corea, dove si recitava, dimenticando di an-
dare a farsi vedere a casa. Parecchi anni dopo egli tornava dalF Ame
rica, dove era riuscito a raggranellare qualche soldo cantando. Ma,
poiche nessuno ha mai conosciuto il valore del denaro meno di lui,
quando arrivo a Civitavecchia i quattrini messi da parte erano sfu-
mati : tanto sfumati, da dover egli fare a piedi le cinquantaquattro
miglia che dividono Tantica Centum Cellae1 da porta Cavalleggeri.
Arriv6 a Roma a notte inoltrata, passo ponte Sant'Angelo, infi!6
per via Papale,2 e di fianco all'orologio dei Filippini vide il lume an-
cora acceso nelle stanze dove abitava la sua famiglia. Mancava da
Roma da due anni; ma senza salire, tiro via fino a piazza di Spagna,
dove era stato eretto da poco il monumento dedicate da Pio IX
alia Immacolata.3 Lo guardo bene da tutte le parti ; poi esclam.6 :
— Che bricconata! — e se n'ando a casa.
Quando venne a Roma subito dopo il 20 settembre del '70, il
Cossa accetto il posto di furiere maggiore stipendiato di un batta
glione di guardia nazionale, che gli fu dato perche veterano della
difesa di Roma. Lo lascio per andare a fare il precettore d'una casa
patrizia, dove rimase brevissimo tempo, come era da imaginarsi.
Nel maggio del '71, come ho accennato, fu rappresentato al Valle
il Nerone. Da quella rappresentazione il Cossa non ebbe le so-
del « Fanfulla», ma, entrato alia Camera (1874), vende la sua parte del gior-
nale (1876) per conservare la propria liberta politica. Scrisse per il teatro,
specie proverbi, e anche pubblico novelle e prose varie. i. Centum Cellae:
oggi Civitavecchia. 2. via Papale e Podierno corso Vittorio Emanuele.
3. il monumento . . . alia Immacolata: la statua, opera dello scultore Luigi
Poletti, fu fatta innalzare da Pio IX in occasione della proclamazione del
dogma della Immacolata Concezione (8 dicembre 1854).
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 527
disfazioni che aveva diritto di attendersi : ebbe pero almeno quella
di essere nominate professore di lingua italiana e di storia alia scuola
tecnica di Santa Francesca Romana. Nella conoscenza della lingua
latina e della storia di Roma pochi potevano superarlo: ve 1'aveva
addottrinato uno zio paterno, Pabate Cossa, reputatissimo lati-
nista, che avrebbe voluto persuaderlo ad entrare negli ordini.
II Nerone fu accolto a Roma secondo il merito soltanto quando i
milanesi lo ebbero entusiasticamente applaudito. Allora fu offerto
al Cossa un banchetto al quale erano invitati anche alcuni perso-
naggi ufficiali. Si doveva andare a tavola alle 7 : alle 7 % il Cossa non
s'era ancora fatto vedere. Furono spediti emissari a cercarlo da
tutte le parti: uno fmalmente torno, annunziando d'avere incon-
trato il poeta che, sbucciando un'arancia, usciva dall'aver desinato
in una taverna sotto il portico d'Ottavia.
Per il Nerone gli furono offerte, ed egli le accetto, ottocento lire
che gli parvero un patrimonio : al patrimonio bensi fu presto dato
fondo, senza che al Cossa rimanessero neanche i danari per com-
prarsi uno Svetonio nuovo, come egli s'era proposto. Ma dei beni
materiali non si curava ne punto ne poco. Un giorno, mentre lavo-
rava non so piu a quale delle sue ricostruzioni del mondo antico,
corsero ad awertirlo che la casa in via della Torretta, dove abitava,
stava per crollare ed urgeva sgomberarla. Assorto nel suo lavoro,
il Cossa si fece ripetere un paio di volte Pinvito : poi si alzo ad un
tratto, e scese in strada.
— Ha preso tutto ? — gli domando qualcuno che presiedeva allo
sgombero della casa.
— Si, tutto ! — risponde il Cossa. Aveva in una mano il mano-
scritto, e nelPaltra il cappello a cilindro; erano rimasti in casa i
mobili, i libri, le suppellettili.
Nel '74 il muncipio di Ferrara lo incarico di un lavoro dramma-
tico su Ludovico Ariosto1 da rappresentarsi in occasione delle feste
ariostee. Ebbe accoglienza non piu che benevola a Ferrara e nelle
varie citta dove fu rappresentato, compresa Roma dove ando in
scena il 15 di febbraio 1876, quindici giorni dopo il trionfo della
Messalina. NelPagosto del '74 si rappresento Giuliano Vapostata\
nel '76 i romani elessero Pietro Cossa consigliere comunale, ma
quattro anni dopo non lo confermarono in quell'ufficio, ricono-
i. un lavoro . . . Ariosto: il titolo integrate e Ludovico Ariosto e gli Estensi
(pubblicato nel 1875).
528 UGO PESCI
scendo che egli poteva stare degnamente in Campidoglio, ma non
per discutervi il bilancio comunale od il regolamento di polizia ur-
bana: tanto e vero, che in quattr'anni, nelPaula Capitolina com-
parve non molto frequentemente ne mai vi fece udir la sua voce.
Gia per indole parlava poco, quantunque in compagnia che gli
andasse a sangue, e quando era di buon umore avesse la risposta
pronta ed arguta. Una sera si parlava di un comune amico che go-
deva di una tal quale reputazione di letterato, senza aver mai fatto
nulla per meritarsela. Ed il Cossa osservo :
— Non stampa nulla appunto per conservare la sua fama!
Raffaello Giovagnoli,1 fin da quando era ufficiale nell'esercito,
aveva tentato a Firenze, al tempo della capitale, 1'arringo dramma-
tico con esito assai lusinghiero. Ognun sa che nel 1867 combatte va-
lorosamente nelle file garibaldine a Monterotondo, dove un suo
fratello trovo gloriosa morte in faccia al nemico. A Roma, dopo il
1870, anche il Giovagnoli consacro i suoi studi alia storia antica
della citta : scrisse un dramma medioevale Marozia, ed il romanzo
Spartaco, buttato giu sera per sera al caffe del teatro Valle e pub-
blicato nelle appendici del «Fanfulla». Da Spartaco nacque Opt-
mia, da Opimia Baudilla, ed ebbero numerosa discendenza di altri
figli, figlie e nipoti, fino a Faustina pubblicata nel « Capitano Fra-
cassa», del quale il Giovagnoli, eletto deputato di Tivoli, dirigeva
poi la parte letteraria ; oggi e tuttavia deputato del primo collegio
di Roma, e insegna letteratura nella Scuola superiore femminile
di magistero della capitale.
Poeta piu che prosatore, erudito, un po' pedante, di tutt'altro
genere d'ingegno, ma pur degno di essere ricordato, fu Ettore
Novelli,2 bibliotecario della Vallicelliana, che il Giovagnoli chia-
mava in canzonatura « Dante Veliterno» inutilmente presentatosi
piu volte come candidate politico ai suoi concittadini di Velletri.
i. Raffaello Giovagnoli (1838-191 5), di Roma, combatte nelle campagne del
'59, del '60, del '66 e nella spedizione garibaldina delTAgro romano. Ebbe
ro fama le sue rievocazioni della Roma classica e medievale (Spartaco, Opi
mia, La guerra sodale, Messalina, Publio Clodio ecc.) e i suoi lavori storici
(Ciceruacchio e Don Pirlone, vol. I, 1894; Pellegrino Rossi e la rivoluzione
romana, 1898-1911). Fu professore all'Istituto superiore di magistero in
Roma e deputato piu volte. 2. Ettore Novelli (1822-1900), di Velletri,
elegante scrittore e poeta allora molto apprezzato.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 529
Non e qui il caso di parlare dei letterati di altre parti d' Italia
ventiti a Roma con la capitale, se non in quanto essi lasciarono
qualche ricordo nella vita romana. Giovanni. Prati,1 che a Firenze
fu durante gli anni dal '65 al '70 quotidiano frequentatore del caffe
Doney, divenne a Roma frequentatore assiduo del caffe del Par-
lamentoy dove teneva crocchio con il suo sigaro Virginia quasi
sempre spento, ed eternamente in bocca. Quantunque i due poeti
si detestassero cordialmente, specie dopo la nomina del Prati a se-
natore, andava spesso nello stesso caffe anche Giuseppe Revere,2
sempre malcontento del mondo, dei suoi abitanti, e dei governanti,
che avevano commesso 1'ingiustizia di nominare senatore il Prati
e non lui ; malcontento di essere relegato alia direzione del « Bul-
lettino consolare» al ministero degli esteri, quantunque da molti
gli fosse invidiato quel canonicato ; e sempre pronto, come il Prati,
a sciorinare qualche bel sonetto, magari satirico e talvolta pieno di
feroce ironia.
L'Aleardi,3 che fece alcune letture al Circolo Cavour, e detto
una iscrizione per una lapide alTingresso di Campo Verano, si ve-
deva assai meno in pubblico, ne stava a Roma da un anno all'altro
come il Revere ed il Prati. Vi dimorava invece stabilmente Ar-
naldo Fusinato,4 revisore degli stenografi al Senato, che ormai
vecchio - e lo pareva anche di piii poiche aveva perduto quasi tutti
i denti - non scriveva piu versi, ma non aveva perduto nulla del
brio e delParguzia giovanile, ne era riuscito a dimenticare il dialetto
vicentino. Sua moglie, la signora Erminia Fua- Fusinato,5 poetessa
e scrittrice, nominata direttrice della scuola superiore femminile,
si rese altamente benemerita, contribuendo efficacemente a tra-
i. Giovanni Prati (1815-1884) aveva seguito i Savoia da Firenze a Roma.
Nel 1876 fu nominate senatore. 2. Giuseppe Revere: vedi la nota 2 a p. 300.
3. Aleardo Aleardi (1812-1883), dal 1864 professore di estetica e storia
deirarte nelTIstituto di belle arti di Firenze, fu anch'egli nominate sena
tore nel 1873. 4. Arnaldo Fusinato (1817-1888), di Schio, volontario nel
'48, partecipo 1'anno successive alia difesa di Venezia. Poeta patriottico,
autore di canti popolari, e anche di composizioni satiriche, fu ai suoi tempi
molto ammirato. 5. Erminia Fua-Fusinato (1831-1876), di Rovigo, scrit
trice, poetessa, insegnante, visse a Firenze dal 1864 al 1870, e poi a Roma.
I suoi versi, ispirati all'amore della famiglia e della patria, piacquero ai
contemporanei. Molti suoi scritti ebbero finalita educative.
530 UGO PESCI
sformare di sana pianta la educazione della donna, molto trascu-
rata sotto 1'antico regime. Le allieve della scuola da lei diretta, e
n'ebbe molte dal '73 al '76, la idolatravano, e quando mori in Roma,
il 27 settembre del '76, tornatavi appena dalla campagna, fu da
tutti sinceramente rimpianta, come se qui fosse nata. II suo fu-
nerale parve un trionfo : aveva scritto di se stessa
Paga se le diran dopo la bar a:
Ella fu buona e pia;
ed il suo voto fu pienamente esaudito. Quando il consiglio diret-
tivo della scuola superiore femminile, che da lei prese nome per
deliberazione del Comune, si costitui, sotto la presidenza dell'ono-
revole awocato Marchetti,1 in comitato promotore per erigere alia
educatrice gentile un monumento al Campo Verano, sollecite e
numerose offerte gli giunsero da ognl ceto della cittadinanza ro-
mana come da ogni parte d' Italia.
Rammentero un altro poeta che, venuto a Roma nei primi anni
della capitale, con tutti gli entusiasmi siciliani della sua Melilli,
ammiratore sconfinato di Emanuele Giaraca,2 poeta dell'isola sco-
nosciuto a molti profani, ha finito per dedicarsi egli pure alia edu
cazione ed alia istruzione femminile. Parlo di Giuseppe Aurelio
Costanzo,3 che giunse a Roma preceduto da bella fama, poi confer-
mata con Gli eroi della soffitta, e con altri versi, che oggi dirige la
scuola superiore femminile di magistero.
Dal crocchio dei frequentatori del teatro Valle e del caffe vicino,
del quale diro phi tardi, nacque la «Lega dell5ortografla» auspice
Raffaello Giovagnoli ; una riunione di persone di buon umore, piu o
meno infarinate d'arte o di letteratura, le quali non si proponevano
punto, come si potrebbe credere, di riformare la ortografia italiana
i. RafFaele Marchetti, di Roma. Nel 1870 aveva fatto parte della Giunta
prowisoria di governo della nuova capitale. 2. Emanuele Giaraca (1825-
1881), di Siracusa, poeta e traduttore di classici. Awerso ai Borboni, aveva
perduto 1'impiego dopo la rivoluzione del 1848 in Sicilia. Fu professore
e poi preside del liceo di Siracusa. 3. Giuseppe Aurelio Costanzo (1843-
1913) pubblic6 nel 1869 il suo primo volume di versi. Gli eroi della soffitta
apparvero nel 1880: riprendevano un argomento di origine sociale, che il
Costanzo aveva gia trattato in un dramma, / ribelli.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 531
come il presidente Rooswelt1 si propone oggi di riformare quella
inglese in America; bensi pensavano essere necessario di sapere
scrivere « Italia » senza 1'ombra d'un g] e si vantavano di essere
arrivati fino alPortografia delParte. I primi simposii della «Lega»
furono dati alia caupona, nota volgarmente col nome di osteria del
Mellone, uno dei primissimi fu offerto al povero Giacosa dopo
1'esito felicissimo del Trionfo d'amore.2 L'osteria del Mellone non
dista molto dal teatro Valle: il tratto di strada che divide il teatro
dalla caupona fu chiamato « la via dei trionfatori ». II Cossa la per-
corse dopo la prima rappresentazione della Messalina, e quando
oltrepass6 la soglia dell'osteria, il saluto augurale gli fu rivolto dal
commendatore Ettore Novelli, e gli fu offerto, secondo il rito, un
litro d'onore mediante pubblica sottoscrizione di cinque centesimi
a testa.
Andando avanti i riti cambiarono, s'ingentilirono. Pietro Cossa
non aveva forse incominciato a pettinarsi, ad ungersi i capelli ed a
calzare guanti ? La Lega trasferi la sua residenza al Circolo Giraud,
dove ebbero luogo vari pranzi sociali, pranzi allegramente rumo-
rosi, nei quali si discuteva qualche serio argomento, come ad esem-
pio i « Rapporti ortografici ed etimologici fra la costoletta alia mila-
nese e la metafisica deirarte». L'argomento era indicate nell'invito,
sottoscritto dal dittatore, che fu per molto tempo Francesco De
Renzis. Si poteva essere invitati ad un banchetto senza essere soci,
ma Tinvito in questo caso non era scevro di pericoli, essendo fa
cile trovare un pretesto per far pagare dalle 6 alle 12 bottiglie di
Champagne all'invitato sospetto di aver sollecitato Pinvito per darsi
un po' Paria del letterato. Tutte le opinioni politiche erano am-
messe nella Lega . . . ma era vietato scrupolosamente di esprimerle.
Oltre il Giovagnoli, il piu tempestoso ed irrequieto della comi-
tiva; oltre Pietro Cossa, che qualche rara volta si ricordava di essere
stato baritono ed intuonava un pezzo delP opera allora in voga;
oltre il dittatore De Renzis; appartennero alia Lega fino dalPori-
gine, o vi entrarono piu tardi, il maestro Luigi Mancinelli, Bino
Avanzini direttore del « Fanfulla », il marchese D'Arcais, Giuseppe
Costetti, Ferdinando Martini, Luigi Arnaldo Vassallo, Giuseppe
i. Theodore Roosevelt (1858-1919), il ventesimo sesto presidente degli Sta-
ti Uniti, svolse anche un'intensa attivita pubblicistico-letteraria, seguita con
fervido interesse dai lettori italiani del primo Novecento. 2. II Trionfo
d'amore di Giuseppe Giacosa (1847-1906) fu rappresentato per la prima
volta nel 1875.
532 UGO PESCI
Turco,1 e tanti e tanti altri, la maggior parte de' quali ahime! sono
scomparsi, come sono passati quei tempi nei quali mi pare di udire
echeggiare ancora le loro allegre risate.
[IL CORTEO DI CERVARA]2
Gli artisti di tutti i paesi dimoranti in Roma solennizzano il ri-
torno della bella stagione con una festa, che gli artisti tedeschi re-
clamano il merito di avere inventata. E una festa indescrivibile;
non la penna ma la matita o il pennello di un pittore umorista, po-
trebbero darne un'idea approssimativa a chi non Tha mai veduta.
£ una processione, e un corteo di equipaggi strani, di asini, di
cavalli di sangue, di cosacchi in tuba ed egiziani mfrack, di costumi
splendidi e costumi fantasticamente ed artificiosamente miserabili ;
cavalieri di Cromwell con 1'elmo alia romana, fedeli del Campido-
glio, e guerrieri romani antichi con il kolbak alia ussara.
II corteo, scortato dalla «gendarmeria di Cervara» s'incammi-
nava di buon'ora fuori di porta Maggiore e faceva un primo alt a
Tor di Schiavi - alt che fu poi soppresso, avendo per conseguenza
il dover pagare troppi danni ai proprietari dei prati circonvicini -
poi si dirigeva a Cervara, dove nelle bellissime grotte di tufo si
faceva colazione. I principi di Piemonte, dal '71 in poi, non man-
carono mai per parecchi anni di assistere alia sfilata del corteo di
i. Luigi Mancinelli (1848-1921), di Orvieto, direttore d' orchestra e com-
positore, si affermo a Roma, all' Apollo : e inaugur6 poi le sale da concerto
di vari teatri (Costanzi di Roma, Metropolitan di New York ecc.) ; per Bino
Avanzini vedi la nota i a p. 505 ; Francesco D'Arcais (1830-1890), di Ca-
gliari, critico e compositore, fu redattore musicale, e anche drammatico,
del giornale « L'opinione », e critico musicale della « Nuova Antologia » ; Giu
seppe Costetti (1834-1928), di Bologna, commediografo. Molti i suoi lavori
teatrali (II figlio difamiglia, 1864; Gli intolleranti, 1865; // dover e, 1866;
La lesina, 1867, ecc.). Nel 1873 pubblic6 le Confessioni di un autore
drammatico. Collaboro al «Fanfulla» e al « Bersagliere » ; per Ferdinando
Martini vedine il Profilo biografico piu avanti, in questo volume; Luigi
Arnaldo Vassallo (1852-1906), di Genova, generalmente noto con lo pseu-
donimo di « Gandolin ». Scrisse nel giornale romano « Capitan Fracassa »,
nel « Don Chisciotte », da lui fondato a Roma nel 1887, e nei quaderni men-
sili del « Pupazzetto », dove bril!6 come disegnatore caricaturista ; Giu
seppe Turco, giornalista, direttore del « Bersagliere », fondato da Federico
Pugno nel 1875, mori a Napoli nel 1903. 2. Ed. cit., dal cap. xi (Pittori,
scultori, architetti e musicisti)> pp. 457-9.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 533
Cervara, che, in quel primo anno, rappresentava il trionfo d'un
Faraone - il pittore Anatolio Scifoni -1 con i carri del trionfatore
seduto in trono, della rispettiva «faraona» e del hue Api, con la ca-
valleria mista comandata dal principe di Ginnetti, e la cavalleria asi-
nina comandata dallo scultore Masini.2 I gendarmi di Cervara,
stivalati fmo all'mguine, con delle vesti di fiaschetti d'Orvieto per
spalline, e dei candelieri da pianoforte per speroni, rendevano gli
onori militari.
Troppo ci vorrebbe a parlare anche delle sole feste di Cervara de'
primi anni ; nel '74 vi figurava un bellissimo scia di Persia con tutto
il suo seguito, la gendarmeria era comandata dal bizzarro pittore
Viennese Teodoro Ethofer ;3 e la questura fece ridere alle sue spalle
volendo arrestare Raimondo Tusquetz,4 il bel pittore spagnuolo,
vestito da francescano con una tonaca piena di rattoppature mera-
vigliosamente artistiche, perche era in una botticella, sotto un im-
menso ombrellone d'incerato verde, con una pacchiana5 alia quale
ogni tanto dava un abbraccio. La questura, credendola una pac
chiana vera, credette di scorgere in quelli abbracci un'offesa al pub-
blico pudore, ma resto con tanto di naso quando nella pacchiana
dovette riconoscere il Russo . . . che era un pittore italiano.
Nel 1876, avendo cambiato proprietario la tenuta di Cervara, la
festa fu fatta alia Magliana, fuori di porta Portese, dove il magni-
fico palazzo fattovi costruire da Sisto IV della Rovere, che albergo
Leone X e la sua Corte, si reggeva appena in piedi, mutato in gra-
naio ed in dormitorio di mandriani e di butteri. Vi fu rappresen-
tato il Trionfo di Bacco, e profittando della vicinanza del Tevere,
all'esercito di terra si uni Tarmata, rappresentata dai canottieri del
Tevere, che tentarono uno sbarco respinto daU'artiglieria da costa.
Si torn6 presto a Cervara: molte altre feste sono allegramente
riuscite: debbo confessare di non averne piu vedute da un pezzo,
e non so proprio dire se valgano quelle d'una volta.
i. Anatolio Scifoni (1841-1884), di Firenze, si trasferi a Roma nel 1870 e
vi si stabili. Ebbe fama per le rievocazioni del mondo antico, specie di sce
ne e ambienti pompeiani. 2. Girolamo Masini (1840-1885) fu professore
di scultura nelTIstituto di belle arti di Roma. Tra le sue statue (Cleopatra,
Fabiola, Cola di Rienzi, ecc.) merita ricordo il monumento ad Adelaide
Cairoli, eretto a Groppello. 3. Teodoro Ethofer, nato a Vienna nel 1849.
Visse per quindici anni in Italia. 4. Raimondo Tusquetz (1837-1904), di
Barcellona, si stabili a Roma nel 1865, ed ebbe fama per i suoi quadri
storici. 5. pacchiana: popolana, contadinotta. Vocabolo romanesco, forse
da pagana, abitante di un pagus, villaggio.
534 UGO
[LIBERALI E CLERICALI]*
Quaiido un potere si sovrappone ad un altro e umanamente ne-
cessario che awengano attriti fra i sostenitori e fautori del potere
antico e quelli del nuovo ; e che tali attriti siano maggiori quando,
nella lotta fra i due poteri, entra di mezzo o si vuol farvi erttrare
anche un dissidio d'indole religiosa. Poi, a poco a poco, il tempo
calma i risentimenti, addolcisce le asprezze, smussa gli angoli troppo
acuti, e fa diventare praticamente possibile la convivenza dei due
poteri, anche se rappresentano due diversi principii, convivenza che
teoricamente si sarebbe dovuta ritenere impossible. II y a m§me
avec le del des accomodements, dicono i Francesi, e secondo un
nostro vecchio proverbio « le some si aggiustano lungo la via ».
La storia di Roma capitale d'ltalia, dal 20 settembre ad oggi, e
tutta piena di urti, di attriti e di accomodamenti fra i due poteri
che si trovano domiciliati sulle due rive del Tevere. Chi potrebbe
ridire ad uno ad uno gli incidenti, gli episodi di questa lotta, di-
venuta sempre meno aspra da una parte e dall'altra, a mano a mano
che sono scomparsi i principali attori delle prime fasi di essa, ed i
loro successori hanno dovuto accettare la realta del fatto compiuto ?
Mi sforzero di accennare agli episodi principali awenuti negli anni
de' quali si parla in questo volume.
Nel pomeriggio del 20 settembre, appena mi fu possibile, corsi
a villa Potenziani dove era stato ricoverato il tenente d'artiglieria
Giulio Cesar e Paoletti, ferito gravemente la mattina da una palla
di Remington. Era gia morto! Nella villa avevano ricoverato altri
feriti : stava ad assisterli un giovine francescano di Palestrina, non
grande di statura, esile, con una morbida barba castagna. Rividi
quel seguace del poverello d'Assisi la mattina del 2 ottobre, la so-
lenne giornata del plebiscite. Egli da una parte, il canuto cappel-
lano delPAccademia di San Luca, in abito talare e calze paonazze,
dalFaltra, camminavano accanto ad una grande bandiera tricolore,
dietro la quale marciavano in bell'ordine gli ufficiali e i sottufficiali
romani delPesercito italiano, venuti a dare il loro voto per Pan-
nessione.
i. Ed. cit., dal cap. xm (Attriti ed accomodamenti), pp. 497-509.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 535
Pochi giorni dopo, il fraticello depose il saio francescano: lo ave-
vano mandate via dalPordine e private di ogni ufficio ecclesiastico.
Frequento le conferenze didattiche tenute in Roma per prowedere
sollecitamente maestri alle scuole elementari comunali, e il conte
Guido di Carpegna 1'aiuto ad entrare nelPinsegnamento. II frati
cello che, nei primi giorni dopo il 20 settembre, era con il generate
Cadorna 1'uomo piu in vista di Roma, scomparve presto e forse
piu nessuno ora lo ricorda. Questo primo episodio non ebbe alcuna
importanza di per se stesso ; ma il suo significato non puo sfuggire
a chiunque considera non soltanto superficialmente le cose di que-
sto mondo.
II i° di novembre Pio IX lancio la scomunica a quanti avevano
cooperate alia occupazione di Roma: il governo ebbe il torto di se-
questrare i giornali che pubblicarono il documento pontificio, quasi
se ne potesse incriminare Tautore. L'occupazione del Quirinale e
quella di alcuni conventi, fatta prima di estendere a Roma la legge
sulle corporazioni religiose, suggeriva intanto al cardinale Anto-
nelli Tinvio di varie note diplomatiche, una dopo 1'altra, alle po-
tenze che mostravano di non curarsene troppo.
II 5 novembre la Giunta municipale prowisoria nominata dal
generale Cadorna, che per comporla non era andato dawero a
scegliere dei rompicolli, invio una lettera al generale La Marmora
luogotenente del Re, esponendogli quali inconvenienti potevano
derivare dal lasciare tranquillamente i Gesuiti risiedere e fare scuola
nel Collegio romano; ed Aristide Gabelli,1 proweditore agli studii,
d'accordo con Tonorevole Brioschi consigliere della Luogotenenza
per le cose delPistruzione, awertiva con una circolare della non
validita degli esami fatti nelle scuole della Compagnia di Gesu dopo
1'apertura delle scuole governative. II Circolo Cavour, il piu mo-
derato dei circoli politici di Roma, mandava al Luogotenente del
Re una petizione chiedendo che i gesuiti fossero espulsi immedia-
tamente: glie la presentarono gli stessi tre cittadini che, nel '46,
ne avevano presentata una eguale a Pio IX. II La Marmora rispose
di doversi rimettere alle decisioni del governo; ma il giorno dopo,
qualche centinaio di persone ando davanti al palazzo della Consulta
i. Aristide Gabelli (1830-1891), di Belluno, pedagogista, rinnovatore di
metodi e strutture della scuola elementare italiana. Fu proweditore agli
studi in Roma dal 1874 al 1881, e successivamente deputato di Venezia dal
1886 al 1890.
536 UGO PESCI
ad esprimere lo stesso desiderio con delle grida. Fu proibito ai ge-
suiti 1'insegnamento, e la bandiera tricolore sventolo sulla porta del
Collegio Romano, mentre la martellina degli scalpellini lavorava a
cancel lare la sigla dell'Ordine scolpita nel travertine della facciata.
I gesuiti, abbandonando quasi tutto il vasto fabbricato, occupato
dal governo per stabilirvi il ginnasio e liceo Ennio Quirino Visconti,
si riunirono nell'altro convento del Gesu, di loro spettanza, conser-
vando al Collegio Romano 1'osservatorio, il cortile ridotto a giar-
dino dal padre Secchi,1 ed alcuni altri locali.
In quei primi tempi, come e naturale, da ambedue le parti si
esorbitava. Mentre alcuni giornali clericali svillaneggiavano il go
verno ed i nuovi venuti, qualche giornale liberale perdeva talvolta
il rispetto alle cose rispettabili. Alia penna degli scrittori si aggiun-
geva la matita dei caricaturist! : TAntonelli, il generale Kanzler,2
monsignor De Merode erano particolarmente presi di mira: si usa-
va qualche riguardo a Pio IX per paura dei sequestri. Si rappresen-
tava Lafuga in Corsica, essendosi sparsa la falsa notizia che il Papa
volesse andarvi, disegnando 1'Antonelli sopra un asinello, con Pio IX
nelle braccia in sembianza di pargoletto, ed il padre Curci3 che
tirando la corda all'asino restio lo costringeva a camminare; con il
titolo di Museo archeologico> si raffigurava il Papa seduto in trono
come un idolo buddistico, con il cardinale Antonelli che invitava il
pubblico alF« ultima rappresentazione » suonando la lira.
Poi venne il carnevale del '71 e con il carnevale le mascherate
allusive. Sopra un carro don Pirlone4 assisteva « il temporale » sul
i. Angelo Secchi (1818-1878), di Reggio Emilia, dell'ordine dei gesuiti.
Astronomo di amplissima fama, insegnante nel Collegio romano: quando
nel 1873 i gesuiti ne furono allontanati, egli rimase in queH'osservatorio,
per intervento di Quintino Sella, Marco Minghetti e Antonio Scialoja.
Ha lasciato numerosissime opere. Su lui vedi G. ABETTI, Padre Angelo Sec
chi, Milano 1928. 2. II generale Hermann Kanzler (1822-1888), coman-
dante delle truppe pontificie, diresse la resistenza di Roma nel 1870.
3. Carlo Maria Curci (1810-1891), di Napoli, entro nell'ordine dei gesuiti
nel 1826. Difensore dapprima deU'ordine contro il Gioberti, e del potere
temporale, con volumi e articoli sul giornale « Civilta cattolica » (in gran
parte fondato per opera sua, a Napoli, nel 1850), sostenne successivamente
la necessita che la Chiesa rinunziasse al potere temporale, e fu percio co-
stretto ad uscire dall'ordine (1877). Pubblico allora alcuni libri notevoli:
II moderno dissidio tra la Chiesa e V Italia (1877); La nuova Italia e i vecchi
zelanti (1881); lo Scandalo del Vaticano regio (1884); // Vaticano regio
(1885), che furono condannati dalla Chiesa. Si ritratto e rientr6 nell'or-
dtne nel 1891. 4. don Pirlone: nel secondo numero di un settimanale
umoristico, « II don Pirlone », che si pubblic6 a Genova dal 23 settembre
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 537
letto di morte. Poiche si parlava altresi d'una crociata che nel Bel-
gio si preparava a rimettere il Papa sul trono, erano pronti ad ap-
parire sul Corso i « nuovi templari » inforcando degli asini, quando
la polizia sopraggiunse a proibire la mascherata.
II popolino se la godeva sfogandosi in cose puerili: all' Argentina
si rappresentava 1'opera buffa Chi la dura la vince,1 ed il pubblico
applaudiva fragorosamente un personaggio quando cantava:
O povero Giovanni,
di te che mai saral
perch£ Pio IX si chiamava, al secolo, Giovanni Mastai Ferretti.
Alia tombola, passatempo graditissimo ai romani di alcuni ceti, il
numero 58 (Papa) era accolto con urli e fischi, ed il 20 - settembre -
da prolungati applausi.
Non mancavano, dalla parte contraria, eccitamenti alia reazione.
Alle 4% dell'8 dicembre, in piazza San Pietro, alcuni cacdalepri
e vaticanisti di bassa condizione gridarono « Viva Pio IX papa Re,
morte ai liberali)>. Ad uno schiaffo datogli, un popolano rispose
con una legnata: ne nacque un tafferuglio, ed i papalini fuggirono,
non senza qualche tentative di menar le mani, si che un Francesco
Bersani fu leggermente ferito, e poi arrestato dagli agenti di pub-
blica sicurezza, insieme ad un Valentin! e ad Angelo Tognetti, resosi
poi famoso per simili e peggiori imprese. Un ufEciale ed alcuni
militi della Guardia nazionale salvarono tre individui che i borghi-
giani eccitati volevano buttare a flume. Nel processo fatto poco dopo
al Valentin! ed al Tognetti, essi furono assoluti2 per insufficienza
di prove, e non pote venir bene in chiaro chi veramente fosse stato
il provocatore.
Nel febbraio del '71 il Circolo romano rinnuovo la richiesta, gia
fatta dal Circolo Cavour, per Pespulsione immediata di tutti i ge-
1863, si spiego il titolo osservando come «girella» venga da «girare», che
equivale a pirlare ; cioe Pirlone significa « voltafaccia », mentre don identifi -
ca il personaggio con un prete e specialmente con un gesuita. Giornali di
tempi diversi (a Torino nel 1852 e a Roma nel 1848-1849 e nel 1863)
presero il titolo da questa caricatura anticlericale. i. L'opera buffa Chi
dura, vince, di Luigi Ricci (1805-1859), data per la prima volta a Roma
nel 1835, fu poi rielaborata dal musicista per il Teatro alia Scala di Milano,
e vi ebbe un vero trionfo nel 1837. I versi citati figurano nella scena vin
dell'atto n e sono di lacopo Ferretti, autore del libretto. 2. Nel proces
so . . .assoluti: il processo si chiuse il 4 gennaio 1871.
538 UGO PESCI
suiti. II 2 marzo, Pio IX indirizzo al cardinale vicario Costantino
Patrizi1 una lettera con la quale respingeva anticipatamente la legge
per le garanzie che in Firenze si discuteva alia Camera, facendo
1' apologia dei gesuiti e negando di subirne Pinfluenza: il 6, in con-
cistoro segreto, pronunziava una allocuzione vivacissima contro gli
autori di quanto era stato fatto in Roma dal 20 settembre in poi.
Nella chiesa del Gesu, verso il mezzogiorno del 9 marzo, il padre
Tommasi, della Compagnia di Gesu, stava per terminare la predica,
quando entro un tenente della Guardia nazionale, il signor Santini,
in abito borghese. Tenne un contegno non conveniente al luogo
dove era entrato ? Egli lo nego : i suoi aggressori lo affermarono, ne
gando alia lor volta di essersela presa con lui, riconoscendolo per
ufficiale. Fatto sta che lo aggredirono in parecchi, armati di bastoni,
uno de' quali raccolto in chiesa, aveva per porno una piccola ac-
cetta di metallo. II Santini si difese; accorsero le guardie ed un uf
ficiale del 62° fanteria con un picchetto di guardia al convento.
Furono arrestati, quali aggressori del Santini, Giuseppe Scevola
ex maresciallo della gendarmeria pontificia, e Camillo Costa di
buona famiglia borghese clericale. La predica era terminata in
fretta ed in furia, e quelli che uscivano dalla chiesa s'incontrarono
in molti giovani che saputo il fatto, s'erano fermati sulla piazza.
Ne nacque una nuova zuffa; usci di tasca qualche rivoltella. Cara-
binieri, guardie e soldati sgombrarono la piazza, ne chiusero gli
sbocchi, e raccolsero sul campo di battaglia parecchi revolvers e
bastoni con stocco. Gli ufficiali del 62° accompagnarono alcune
vecchie signore che non si attentavano ad uscire di chiesa. Furono
arrestate 19 persone, fra le quali due preti ed un ex ispettore della
polizia pontificia: un tale che aveva ferito una guardia di pubblica
sicurezza e s'era poi rifugiato accanto ad un altare dove si celebrava
la messa, fu arrestato soltanto quando la messa fu terminata e la
chiesa chiusa.
La sera vi fu un tentative di dimostrazione contro il convento
del Gesu, ma i dimostranti furono persuasi ad andarsene dal conte
Michelangelo Spada tenente dei carabinieri, molto ben voluto da
tutti : vi fu un po' di rumore a piazza Colonna, e si fischio credendo
i. Cardinale e senatore di Roma, Costantino Patrizi era natb a Siena il
1798, mori a Roma nel 1876.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 539
cacdalepre chi non lo era. La mattina dopo, alia predica del padre
Tommasi assistevano sole donne, e le prediche cessarono non per
ordine d'alcuno ma per volonta del capi dell'Ordine.
Altre scene spiacevoli accadevano nelle chiese. A Sant'Ignazio,
durante una predica di monsignor Annaviti, giornalista clericale
che chiamava il Renan1 « Giuda della letteratura modernaw, temen-
dosi qualche disordine, erano entrati due funzionari di pubblica si-
curezza. Terminata la predica, il marchese Baviera passa vicino ad
uno dei due, che conoscendolo faceva atto di salutarlo, gli batte
una mano sulla spalla e gli dice: — Se in Roma si credono padroni
loro, in chiesa siamo padroni noil — Nella stessa chiesa, il padre
Curci chiama i liberali «schiavi delle piu abiette passioni», ed in
Sant' Andrea delle Fratte usa parole irriverenti per indicare la prin-
cipessa Margherita, da pochi giorni arrivata a Roma: i giornali li
berali protestano vivamente, ed il padre Curci rettifica le frasi sta-
tegli attribuite. Le aveva dette?
Ho conosciuto il padre Curci in casa del signor Montgomery
Stuart,2 qualche anno dopo, quando aveva scritto II Vaticano regio
ed era per cio caduto in disgrazia. Chi lo sentiva parlare allora, non
poteva certamente crederlo capace di triviali insulti verso una au-
gusta signora. La sua conversazione era piacevolissima ed originale :
ricordo che un giorno, presente un capitano d'artiglieria, si discor-
reva di non so quali eccessi di plebaglia scatenata. Ad un tratto
il padre Curci, che non aveva mai perduto Paccento e il modo
di parlare napoletano, con gesti animati, usci fuori con questa
frase:
— Signori miei! qua non ce stanno che due rimedi: Cristo o u'
cannone! La parola di Cristo la dico anch'io: — e indicando il ca
pitano — pe* uy cannone ce sta u' signore!
Ricorrendo la Pasqua del '71, il Cardinale Vicario ordino ai sa-
cerdoti della diocesi di negare Passoluzione a quanti avevano giu-
rato fedelta al governo italiano, mettendo molte coscienze in grave
i. Ernest Renan (1823-1892), il celebre autore della Vie de Jesus, per essa,
in ispecie, oltre che per la sua mancata vocazione ecclesiastica e il suo se-
mi-razionalismo, definite Giuda della letteratura moderna, a irrisione e
condanna del successo letterario dell'opera sua. 2. James Montgomery
Stuart (1816-1889), venuto in Italia (1841), per la sua malferma salute si
fermo a Firenze, divenne amicissimo dell' Italia, favorevole al suo Risorgi-
mento. Si awicino al gruppo del Vieusseux, fondo (1855) la «Rivista bri-
tannica», scrisse su giornali inglesi a favore del nostro paese.
540 UGO PESCI
imbarazzo. Per il giuramento delle reclute chiamate sotto le armi
non fu possibile trovare un prete che dicesse la messa. Don Nic-
cola Cafiero, parroco di Santa Maria del Carmine a porta Portese,
la disse per le reclute dei bersaglieri e deH'artiglieria, rivolgendo
loro brevi parole intorno alia religione e la patria : fu subito private
della parrocchia e sospeso a divinis, e si ottenne in tal modo che la
messa e la benedizione d'un prete fossero non piu considerate ne-
cessarie per la santita del giuramento. Tali fatti non potevano pas-
sare sotto silenzio, ed eccitavano un sentimento di reazione dall'al-
tra parte: il 13 aprile, anniversario del ritorno di Pio IX da Gaeta,
in piazza di Spagna furono tirate delle sassate contro le finestre
d'una inglese fanatica, che aveva messo fuori delle lanterne di carta
bianca e gialla, sulle quali era scritto «Viva Pio IX papa re!».
Promulgata la legge delle guarentigie,1 una nota dell' Antonelli
dichiaro alle potenze che il Papa non poteva accettarla: la nota,
pubblicata da un giornale romano, fu dichiarata apocrifa dair« Os-
servatore»:2 ma la vera era quasi eguale. II 25° anniversario del-
Tesaltazione di Pio IX al pontificate fu solennizzato senza incidenti,
poiche il buon senso ed il tatto della grande maggioranza della po-
polazione romana furono sempre degni di ammirazione e di lode,
ne possono far torto ad una cittadinanza le birichinate e le aberra-
zioni di pochi. Ho gia detto come il Re d' Italia mando le sue con-
gratulazioni al pontefice, e come i suoi inviati furono ricevuti dal
cardinale Antonelli.3
Nell'agosto si celebrarono tridui e si cantarono Te Deum per
avere il Papa raggiunti e superati « gH anni di Pietro ».4 I clericali
andarono in massa a San Giovanni in Laterano, non disturbati:
ma durante la funzione, due botti ed un carretto arrivarono sulla
piazza, pieni di giovanotti con bandiere tricolori, che gridavano
aViva T Italia» ; i carabinieri li pregarono d'andarsene, e niente altro
awenne. Ma il giorno dopo, il 24, alia fine d'un triduo celebrate
nella chiesa della Minerva, i primi usciti furono accolti con fischiate
ed insulti. La forza pubblica intervenne ed arresto i caporioni, fra
i quali il solito Angelo Tognetti : i compagni allora f ecero del chias-
so per volerlo libero, e andarono per il Corso e via delle Convertite
i. La legge delle guarentigie fu promulgata il 13 maggio 1871, 2. «Osser-
vatore»: P« Osservatore romano », sorto il 5 settembre 1849 come trisetti-
manale, divenne quotidiano dal 1851. 3. Ho gia detto . . . Antonelli: vedi
p. 491, 4. per avere . . . Pietro : vedi p. 480.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 54!
fino a San Silvestro, dove allora era la questura, vociando «fuori
Tognetti, abbasso la consorteria! » Tentarono di entrare in questu
ra, ma le guardie li respinsero. Saranno stati circa 400; respinti si
sparpagliarono, sempre gridando e facendo credere a un finimondo.
Un gruppo di dimostranti, inseguito dalla truppa chiamata fuori,
infilo per via Bocca di Leone, dove era la trattoria del Rebecchino.
II cuoco, Bartolommeo Ferrero, mentre stava tagliando qualche
pezzo di carne, uditi gli urli, salto fuori per curiosita con un gran
coltellaccio in mano. Un disgraziato soldato, supponendo da tale
atteggiamento del cuoco chi sa quali malvagi propositi, gli va in-
contro, gli lascia andare una fucilata, e il Ferrero cade morto. In
piazza Colonna la folia stava tranquillamente a sentire la banda, ed
in tutta la citta era una grande calma: intanto la intemperanza di
pochi faceva due vittime, il Ferrero ed il povero soldato, poi con-
dannato a cinque anni di carcere. II doloroso episodio ebbe anche
uno strascico : la « Capitale »* apri una sottoscrizione per la vedova
del Ferrero; la «Nuova Roma»2 accuse la « Capitale » di non avere
prontamente consegnate alia vedova le somme raccolte, e la fac-
cenda ebbe il suo epilogo in tribunale.
Mentre awenivano questi urti, questi attriti inevitabili nel primo
periodo di una condizione di cose tanto anormale, quale era il sen-
timento della gran massa della popolazione di Roma? Molti indizi
facevano credere che desiderasse un pacifico adattamento, una re-
ciproca tolleranza, se non una vera e propria conciliazione, la pos-
sibilita della quale era bensi considerata senza alcun risentimento
ne alcun timore; sine ira nee metu. Vi sono fatti di per se stessi senza
alcuna importanza, che acquistano un grande significato per il mo-
mento ed il luogo nel quale awengono. Fu pubblicata ed esposta
sul Corso una litografia intitolata Un vaticinio, nella quale si vedeva
Pio IX al braccio di Vittorio Emanuele: il Re aveva la mano sinistra
appoggiata all'impugnatura della sciabola, il Papa sollevava la de-
stra in atto di benedire. Le copie di quella litografia andarono a
ruba: dove erano esposte in vendita si accalcava la folia, in mezzo
i. la « Capitate*: quotidiano democratico, che si pubblico a Roma dal 1870
al 1907, fondato e diretto da RafTaele Sonzogno (nato a Milano nel 1829,
assassinate a Roma nel 1875). 2. La «Nuova Roma* si pubblic6 dal
1871 al 1873.
542 UGO PESCI
alia quale si udivano comment! generalmente benevoli, espressioni
sincere di desiderio che quel «vaticinio» si potesse awerare.
II i° gennaio del '72 Vittorio Emanuele mandava gli augurii per
il nuovo anno a Pio IX, per mezzo del generale Di Pralormo e del
marchese Piero Corsini di Lajatico, che TAntonelli riceveva corte-
semente. Alcuni altri conventi erano espropriati ed occupati senza
difEcolta; il colonnello Garavaglia prese possesso dell'area del no-
viziato dei Gesuiti, a San Vitale, dove si fabbricava non ostante il
decreto di espropriazione, e dei locali addetti alia chiesa; non della
chiesa: l'« Osservatore Romano » levo alti lamenti. Pio IX invece
permetteva che, nel palazzo dei Sabini in via delle Muratte, si discu-
tesse fra cattolici e protestanti se San Pietro sia stato a Roma, e la
discussione era presieduta dal vecchio principe Sigismondo Chigi
maresciallo del conclave e presidente della societa per gli interessi
cattolici, assistito dalPawocato concistoriale De Dominicis Tosti,
e dal reverendo Pigott pastore della chiesa protestante di via delle
Coppelle. Lo Sciarelli, ministro evangelico, disputo con monsignor
Fabiani canonico di Santa Maria in via Lata, e con il parroco Ci-
polla, sostenendo la tesi che San Pietro non puo essere venuto a
Roma; il Ribetti, altro evangelico, confute gli argomenti del Fa
biani; il Gavazzi rispose al Cipolla: il prof. Guidi riassunse la
discussione, e ciascuna delle parti si attribui la vittoria. Gli steno-
grafi che avevano assistito alle sedute del concilio ecumenico, e
quelli della Camera dei deputati, raccolsero i discorsi che furono
poi stampati: ma altre discussioni non furono poi permesse, es-
sendo sembrato agli zelanti che il Papa non avesse dovuto permet-
tere neanche la prima. II famoso padre Giacinto Loyson1 faceva
intanto delle letture al teatro Argentina: ma la spesa di due lire per
Tingresso tratteneva molti dalT assist ervi, e dava occasione a mon
signor Annavitti di prendersela nei suoi molteplici giornali con
«il signor Loyson » . . .
i. Carlo Loyson (1827-1912), di Orleans, ordinato prete nel 1851, passo
nell'ordine dei carmelitani nel 1859, assumendo il nome di padre Giacinto.
Fu grande predicatore. Nel 1869 prese posizione awersa al Concilio ecu
menico e fa percio scomunicato. Aderi poi (1881) ai «vecchi cattolici » e
sposo una vedova americana, pur continuando a vestir 1'abito talare e a dir
messa. Nel 1878 fondo a Parigi quella che egli chiam6 Chiesa gallicana.
Mori a Parigi senza essersi sottomesso alia Chiesa.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 543
Si farebbe1 torto a Pio IX supponendo che egli non comprendes-
se facilmente che Vittorio Emanuele, nella sua qualita di monarca
costituzionale, non poteva ragionevolmente opporsi alle delibera-
zioni del Parlamento. Pio IX era stato egli pure sovrano costitu
zionale! Quando una deputazione straniera ando a presentargli,
nell'aprile del '75 ,2 una somma per Tobolo di San Pietro, la Camera
aveva appro vato ed il Senato doveva ancora discutere la legge che
sottoponeva i chierici alia leva militare. II Pontefice, rispondendo
al principe di Windischgratz, oratore della deputazione, prego indi-
rettamente Vittorio Emanuele a porre il suo veto a quella legge. Se-
condo alcuni egli avrebbe detto : « Rivolgo la parola al Re che ebbe
anche dei Santi nella sua augusta famiglia ...» Secondo altri, in-
vece, le parole testuali del Papa sarebbero state: « Rivolgo la parola
alia Maesta che regna in Roma, che ebbe gia anche dei Santi ec . . . »
- la differenza e notevole - chiedendo in sostanza di non sanzionare
la deliberazione della Camera; ma il Senato 1'approvo con 60 voti
contro 25, non ostante Topposizione del Lanzi, del Mauri e del
Tabarrini, e Vittorio Emanuele la sanziono con la sua firma reale.
Pio IX puo averne avuto rincrescimento, non risentimento con
tro il Re ; che alia sua volta approfitto della prima occasione presen-
tataglisi per accogliere un'altra domanda del Papa. La cosa non e
molto facile a raccontare, ma procurero di levarmi d' imbroglio nel
miglior modo possibile. Nel vicolo delle Vacche, di fianco al con-
vento di Santa Maria della Pace, dove era un liceo cat<-olico autoriz-
zato dalle autorita scolastiche, era stata impiantata una casa . . .
una di quelle che nel Giappone chiamano (cease da te», con tale
sontuosita di arredamento, ch'era di per se stessa un richiamo. Se
ne parlava molto, e certamente non ad edificazione de' buoni co-
stumi, e non senza forte motivo di distrazione per gli scolari del vi-
cino liceo. Pio IX invoco Tintervento di Vittorio Emanuele perche
lo scandalo cessasse: in questo caso lo statute non entrava per nulla,
ed il Re, data carta bianca ad un suo dipendente riguardo alia spesa,
indennizzo largamente la proprietaria della casa, che fu chiusa im-
mediatamente, vendendosi tutti i mobili al pubblico incanto.
Le cose di questo mondo non si accomodano mai tanto bene co-
i. Ed. cit., dal cap. xin (Attriti ed accomodamenti), pp. 523-9- 2. nell'apri-
le del*J5'. 1'episodio awenne il 13 aprile.
544 u°o PESCI
me quando si lasciano accomodare da loro stesse. Tutto quello che
si diceva e si scriveva allora per mettere d'accordo il Papa ed il Re,
il Sillabo e lo Statute, gli editti del cardinale vicario e le circolari
del prefetto di Roma non ottenne mai alcun effetto : cio non ostante,
pochi anni dopo il 20 settembre, il Papa ed il Re vivevano in pace
Puno al Vaticano 1'altro al Quirinale, cercando di contentarsi scam-
bievolmente per quanto stava in loro; Funo tenendo concistoro e
pronunziandovi allocuzioni, Paltro inaugurando le sessioni parla-
mentari con i discorsi della Corona. Le carrozze dei cardinali s'in-
contravano con quelle dei mmistri, quando questi non andavano a
piedi; scolari e soldati occupavano monasteri e conventi, mentre
frati e monache trovavano da alloggiare in palazzi e ville, stando
meglio di prima quelli e quelli altri. L'« Osservatore Romano » e la
« Voce della verita))1 usavano della liberta concessa a tutti, e se tal-
volta ne abusavano, forse non arrivavano mai ad abusarne quanto
taluni altri giornali scalmanati, che si proclamavano i soli difensori
della liberta. E questo si poteva considerare un modus vivendi non
disprezzabile, ottenuto senza sacrifizi o renunzie da una parte come
dall'altra.
Talvolta Pio IX, egli pure soggetto alle debolezze delPumanita,
non tratteneva qualche scatto repentino, come la allocuzione pro-
nunziata il 13 marzo2 1877. Quella allocuzione fu la piu violenta
di quante ne erano state pronunziate dal Papa dopo il 20 settem
bre, e fuori d' Italia provoco dimostrazioni clericali, interpellanze
alPassemblea di Versailles:3 ma a Roma non ne fu punto turbata la
pubblica tranquillita ; non la turbavano piu neanche le prediche;
anzi monsignor Mermillod,4 vescovo d'Hebron, divenuto pochi
i. la « Voce della verita*; organo cattolico intransigente, pubblicato a Roma
dal 1871 al 1904. 2. il 13 marzo: V allocuzione fu pronunziata il 12
marzo (non il 13) 1877, durante un concistoro per la nomina di undici
nuovi cardinali. Suon6 violentissima, e riepilogo tutti i torti del governo
italiano, dall'occupazione di Roma alle varie leggi emanate. Egualmente
dura apparve la circolare che subito (17 marzo) il ministro Mancini invio
ai prefetti, rawisando nell' allocuzione «oltraggi» alle leggi ed alle istitu-
zioni dello Stato. 3. interpellanze . . . Versailles: nel maggio 1877, in segui-
to ad agitazioni clericali in vari luoghi della Francia, dovute all allocuzio
ne pontificia, si svolse un dibattito alTassemblea francese, su interroga-
zione del deputato Leblond. Rispose con tono amico all' Italia il ministro
Jules Simon. 4. Gaspard Mermillod (1824-1922), svizzero, cardinale dal
1890, fu ammirato oratore: tratto con predilezione il problema sociale, di
cui sentiva 1'importanza e che pensava dovesse essere risolto con Pausilio
della religione.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 545
mesi prima Puomo alia moda per le sue prediche alia Trinita dei
Monti, ne cambiava Fora in domenica, non volendo impedire a
nessimo di andare a Villa Borghese a veder correre il Bertaccini
che, gareggiando con un cavallo, percorreva 30 chilometri in due
ore girando intorno a piazza di Siena.
Nella settimana santa del '76 v'era stata una nuovita nella basilica
di San Pietro: vi si cantarono solennemente dalla cappella alcune
strofe del Miserere, il che non era piu awenuto dalla settimana
santa del 1870. Segno dei tempi!
Segno de' tempi, anche piu eloquente e piu importante, il voto
con il quale il Senato, ai primi di maggio1 del '77, respinse la pro-
posta di legge contro gli abusi del clero, delta quale, con tanto
sfoggio di eloquenza, il guardasigilli Mancini aveva ottenuto Tap-
provazione dalla maggioranza della nuova Camera2 eletta nel no-
vembre del '76. Prevalse a palazzo Madama il parere, sostenuto da
antichi liberali quali Carlo Cadorna e Carlo Boncompagni, che ai
possibili abusi del clero bastasse il freno della legge comune e non
occorressero leggi restrittive particolari, e di fronte all'attitudine
del Senato apparve non grande la solidarieta fra i ministri, poiche
il Nicotera ed il Depretis, esortati dal Mancini a dire qualche pa-
rola, rimasero seduti senza fiatare.
La notizia del voto contro la legge, che in Vaticano era conside-
rata legge di persecuzione, fu portata subito a Pio IX dal cardinale
Simeoni, succeduto da pochi mesi alFAntonelli nelFufficio di Se-
gretario di Stato, e si dice che il Papa rispondesse laconicamente
al cardinale queste sole parole:
— Ringraziamo Iddio!
E si dice altresi che il partito degli zelanti dal quale era stata
consigliata a Pio IX Penciclica del 13 marzo, non fosse contento
di quel voto, sperando nell'approvazione della legge come in un
efficace coefficiente della reazione clericale temporalista che si era
manifestata qua e la in Europa, e contro la quale finalmente anche
il governo francese aveva preso una attitudine risoluta.
Un comitato repubblicano ed anticlericale voile protestare con
tro il voto del Senato, e convoco la cittadinanza di Roma ad un co-
mizio per il 3 giugno, giorno nel quale ricorreva contemporanea-
mente la trentesima festa commemorativa dello Statute ed il giubi-
i. ai primi di maggio: il 7 maggio. 2. la proposta . . . Camera: la Camera
aveva approvato il disegno di legge il 24 gennaio 1877.
35
546 UGO PESCI
leo episcopale di Pio IX. L'onorevole Nicotera ministro delFinterno
non proibi il comizio, ma lo fisso per il 31 di maggio. II teatro era
pieno zeppo: presiedeva il repubblicano Narratone; parlarono il
repubblicano Antonio Fratti, Armand Levy gia magna pars della
Comune di Parigi, il prof. Bovio ed Edoardo Pantano,1 non an-
cora deputati. Furono lanciati molti fulmini in «prosa robustaw
contro il Vaticano, i preti ed i pellegrini venuti a Roma per il giu-
bileo episcopale; ma il comizio arrive alia fine senza incident!, e
tutti se n'andarono allegri e contenti di aver dichiarato, forse senza
comprendere intieramente il significato di queste parole, che «il
privilegio religioso ha la sua garanzia nel privilegio politico)).
Mentre all* Apollo si « respingevano gli attentati alia liberta ed
alPunita della patria»2 a San Pietro in Vincoli incominciavano, con
immenso concorso e con 1'assistenza del corpo diplomatico accre-
ditato presso la Santa Sede, le solennita religiose per il giubileo epi
scopale. E la domenica, mentre Pio IX riceveva in Vaticano la no-
bilta romana rimastagli fedele, e le deputazioni delle societa cat-
toliche di molte citta d' Italia, Vittorio Emanuele, dopo aver passata
la rivista al Macao, riceveva le deputazioni del Senato, della Ca
mera e del municipio di Roma. Una fila di carrozze non interrotta
era diretta verso ponte Sant'Angelo e il Vaticano, mentre un'altra
fila saliva verso il Quirinale.
II ministero di sinistra quantunque composto di uomini che ave-
vano per lungo tempo censurato qualunque prowedimento preven
tive a tutela dell'ordine pubblico, e qualunque atto di riguardo
verso il Pontefice, in quella occasione non soltanto fece quanto
avrebbe fatto qualunque governo, ma esager6 le precauzioni fino
al punto di non permettere la «girandola» solita a farsi per lo Sta-
i . Domenico Narratone (1839-1899), mazziniano fervente, segul Garibaldi in
Sicilia nel 1860, e fu ferito a Milazzo. Ancora fu con Garibaldi ad Aspromon-
te, e con lui combatt6 nel 1866, nella spedizione dell'Agro romano, in Fran-
cia nel 1870; Antonio Fratti (1845-1897), mazziniano, deputato della nativa
Forli, combattente con Garibaldi nel 1866 e nel 1867, lo segui in Francia
nel 1870. Mori a Domokos, combattendo tra i volontari repubblicani accorsi
in aiuto della Grecia; Armand Levy (1827-1891), giornalista francese che,
dopo la Comune, si rifugi6 in Italia. Famoso fu un suo lavoro, La Cour de
Rome, le brigandage et la Convention franco-italienne, Paris, Vasseur, 1865;
Giovanni Bovio, di Trani (1841-1903), oratore ammiratissimo, professore
di filosona e storia del diritto all'Universita di Napoli, fu deputato di estrema
sinistra; Edoardo Pantano (1842-1932), garibaldino, deputato, senatore,
varie volte ministro. 2. Sono parole dell'ordine del giorno con cui si chiuse
il comizio all' Apollo, il 31 maggio.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 547
tuto, e di proibire . . . una dimostrazione d'affetto e di lealismo alia
monarchia, che spontaneamente si voleva fare la sera . . . pur aven-
do permesso il comizio repubblicano al teatro Apollo. La proibi-
zione del ministro non menomo pero la solennita dello spettacolo
dato da Roma alPEuropa, spettacolo che meglio di qualunque di-
scorso, di qualunque nota diplomatica valse a dimostrare il senno
magnanimo dei Romani, ed il vero amore di tutti gli Italian! per
la buona e sana liberta.
Per la domenica seguente gli elettori di Roma erano convocati
per la nomina di 12 consiglieri comunali e 6 provinciali. Non si era
ancora arrivati alia possibilita di accordi taciti o palesi fra le fra-
zioni piu temperate del partito liberale e del partito cattolico, e
quantunque gia esistesse allo stato latente nel cervello di molti Tidea
di costituire un partito conservatore, come si tento nel '79 nelle
riunioni tenute in casa del conte Paolo di Campello, esso non aveva
ne poteva avere ancora voce in capitolo. La preparazione alle ele-
zioni amministrative del '77 fu molto tumultuaria : una vera ridda
di candidati, di comitati, di accordi falliti, di negoziatori nominati
e poi licenziati. Di fronte ai cattolici concordi nel presentare una
sola lista, i liberali ne presentarono una moderata e una progressista
con dieci nomi comuni. I cattolici, rispondendo alTappello del-
FUnione Romana, presieduta da Paolo Borghese1 e sostiruita alia
Societa degli interessi cattolici nella direzione del movimento elet-
torale, furono solleciti a presentarsi alle sezioni, e su trenta seggi
ne conquistarono diciotto; sette risultarono composti di liberali
e cinque misti. Al primo appello gli elettori cattolici furono in pre-
valenza di numero : la notizia di questo incominciamento di sconfitta
richiamo una vera folia di elettori liberali al secondo appello, e fu
rono eletti tutti i candidati della lista progressista con un numero di
voti variante fra i 5877 e i 4576, mentre il principe Marcantonio
Borghese, primo della lista cattolica, n'ebbe 3472. La sera stessa in
piazza Colonna fu chiesta la Marcia reale; un centinaio di studenti
che, prima di lasciare Roma per le vacanze, si erano riuniti a banr
chetto in una osteria fuori di Porta del Popolo, tornati in citta accla-
marono, secondati dal pubblico, al Re, alia patria, all'awenire
d' Italia. La sera seguente si voile « dimostrare » ancora una volta
fischiando sotto le finestre del palazzo Borghese senza che la que-
i. Paolo Borghese (1845-1920), figlio del principe Marcantonio (1814-
1886), copri anch'egli varie cariche pubbliche in Roma dopo il 1870.
548 UGO PESCI
stura se ne occupasse, plaudendo sotto quelle dell'onorevole Seismit
Doda,1 che si affaccio a ringraziare, e provocando un discorso del
sindaco Venturi,2 brava persona, di cui non si poteva dire pero che
Feloquenza fosse il suo forte.
[LA MORTE DI VITTORIO EMANUELE II]3
Quello stesso giorno 5,4 Vittorio Emanuele che non aveva fino
allora voluto dire di non star bene, e quantunque febbricitante con-
tinuava a disimpegnare i suoi doveri di capo dello stato, fu obbligato
a rimanere in letto gravemente indisposto. Fu telegrafato subito al
prof. Bruno, che giunse da Torino alle 2 pomeridiane del giorno 6,
e trovo che la febbre malarica, la quale aveva colpito Vittorio
Emanuele da alcuni giorni, si era complicata con una pleuro-pneu-
monite acuta, la quale aveva attaccato particolarmente il polmone
destro. Era la stessa malattia avuta da Vittorio Emanuele a San
Rossore nel 1869, che aveva allora fatto molto temere per la sua
vita. Tale coincidenza fece subito pensare a chiamare da Firenze
il prof. Pietro Cipriani,5 che lo aveva curato e guarito in quella oc-
casione ; ma per motivi non facili a comprendere - pare per conve-
nienze professionali - la buonissima idea non fu messa in pratica.
Fu chiamato invece il prof. Guido Baccelli.6
Non bisogna dimenticare che nella seconda meta del dicembre
'77 il ministero Depretis aveva dovuto dimettersi in conseguenza
della famosa « gamba di Vladimiro »7 e le trattative per la formazione
del nuovo gabinetto, nel quale entr6 il Crispi come ministro dell'in-
terno, erano durate parecchi giorni. Appena terminate, Vittorio
i. Federico Seismit-Doda, zaratino (1825-1893), giornalista, economista,
poeta, romanziere, combatte nel Veneto nel 1848, alia difesa di Roma nel
'49. Fu deputato dal 1865 al 1893, ministro delle finanze nel gabinetto Cai-
roli nel 1878 e in quello Crispi nel 1889. 2. II dottor Pietro Venturi fu il
quarto sindaco di Roma, eletto nel 1875. 3. Ed. cit., dal cap. xv (Due
morti celebri), pp. 586-93 . 4. giorno 5 : il 5 gennaio 1 878. Nello stesso giorno
era morto, a Firenze, il generale Alfonso La Marmora. 5. Pietro Cipriani:
illustre clinico fiorentino, che aveva curato Vittorio Emanuele II a San Ros
sore. Nel 1870 era stato nominato senatore. 6. Guido Baccelli (1832-1916),
docente di medicina, umanista, deputato dal 1876 alia morte, ministro della
pubblica istruzione dal 1881 al 1884, dal 1893 al 1896 e dal 1898 al 1900.
Successivamente, dal 1901 al 1903, fu ministro di agricoltura, industria e
commercio. 7. « gamba di Vladimiro »: vedi pp. 503-5.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 549
Emanuele aveva fatto una rapida corsa a Torino, partendo da
Roma la sera del 26 e tornandovi il 29. I primi sintomi della ma-
lattia gli si erano manifestati durante il ritorno, ma egli non vi aveva
badato. Awezzo fino dairinfanzia alle rigidezze del clima alpino,
non usava portare indumenti di lana sotto i suoi abiti, e non sof-
friva assolutamente il freddo: ma durante quel viaggio non basta-
rono a riscaldarlo i mantelli e le coperte da viaggio dei suoi aiutanti
di campo. La sera del primo delFanno, dopo il pranzo di gala, aveva
provato invece un gran caldo, e fatte aprire le finestre della sua
camera, vi s'era trattenuto a fumare un sigaro.
Nel pomeriggio del 6 si seppe che il principe Umberto aveva
dovuto rinunziare ad andare a Firenze, come avrebbe desiderato,
per assistere ai funerali del generale La Marmora, dovendo rappre-
sentare quella sera il Re al pranzo di gala al quale erano gia invitati
da qualche giorno gli ambasciatori e gli altri rappresentanti degli
stati stranieri.
Alle 9 di sera fu pubblicato un bollettino firmato dai professori
Bruno e Baccelli e dal dottor Saglione, medico curante di Sua
Maesta succeduto in quelPufficio al dottor Adami. Esso diceva che
nel pomeriggio vi era stato aumento di febbre.
Un altro bollettino, pubblicato alle 8 antimeridiane del 7, ac-
cennava ad un nuovo aumento di febbre come ad un sintomo ine-
vitabile ed «in armonia col progresso della pleuro-pneumonite
destra ».
Tali notizie produssero un grave allarrne : si diceva, d'altra parte,
che la costituzione robusta e sanguigna di Vittorio Emanuele do-
veva necessariamente far si che i sintomi d'una malattia acuta si
presentassero in lui con straordinaria violenza. L'opinione dei me-
glio informati era che le condizioni del Re, pur essendo gravi, non
giustificavano serie apprensioni: in questa opinione confortava la
tranquillita dell'augusto ammalato. La sera del 7 egli apparve anche
piu sollevato, e parlo con le persone dalle quali era assistito in
modo da far vedere che non si dava alcun pensiero della propria
salute. Nel bollettino redatto alle n pomeridiane era constatato
un miglioramento : ma durante la notte dal 7 air 8 quel migliora-
mento non continue, come fu detto nel bollettino delle 8 anti
meridiane del giorno 8.
I bollettini erano comunicati daH'ufficiale di ordinanza di servi-
zio ed esposti nella prima anticamera del quartiere del Re, dove
550 UGO PESCI
diplomatici, senator!, deputati, persone di ogni ceto andavano a
leggerli, iscrivendo il proprio nome in apposito registro. La sera
del 7 si dettero convegno al Quirinale tutti i ministri, per vedere il
bollettino delle 9 pomeridiane che doveva essere poi telegrafato ai
prefetti. Ando a quel convegno anche Ton. Nicotera, quantunque
non piu ministro.
Pio IX, dalla sera del 6, aveva voluto essere spesso ed esattamente
informato delle condizioni del Re.1
I timori, pur troppo non ingiustificati, cominciarono durante la
giornata dell'8. Al Quirinale era continuo randirivieni di ambascia-
tori e di ministri stranieri : tutti i sovrani d'Europa chiedevano con
insistenza notizie di Vittorio Emanuele. Una fila non interrotta
di visitatori di tutti i ceti entrava per il portone del Quirinale, s'av-
viava silenziosa verso la galleria a sinistra in fondo al cortile, pas-
sava fra due corazzieri immobili, a parecchi staffieri in livrea rossa
e ad un cameriere in abito nero. Un guardaportone gigantesco
apriva e chiudeva il grande usciale a vetri per il quale si entrava dal
cortile nella galleria: uno staffiere apriva la porta dell'anticamera
dove era il bollettino e il registro. L'ufficiale d'ordinanza di ser-
vizio salutava i visitatori che scrivevano il loro nome: taluno, co-
noscendolo, scambiava qualche breve parola a bassa voce con 1'uf-
ficiale. Nel quartiere v'era un grande silenzio, non interrotto nep-
pure dal rumore de' passi soffocato dal tappeto : pareva che ognuno
temesse di disturbare quella quiete, necessaria alFaugusto am-
malato.
*
II giorno 8 fu telegrafato al duca d'Aosta, alia principessa Clo-
tilde ed al principe di Carignano di venire a Roma, a Maria Pia
regina del Portogallo si mandavano piu volte al giorno notizie tele-
grafiche del padre. Nelle prime ore pomeridiane si manifesto di
nuovo un lieve miglioramento ; ma verso le sei s'ebbe un altro au-
mento di febbre con irregolarita di polsi. Si faceva spesso respirare
al Re delPossigeno preparato dal professore Cannizzaro all'Istituto
di chimica universitario : i medici non abbandonavano piu la ca
mera del malato ; uno dei ministri si trovava sempre nel quartiere
del Re.
La mattina del 9 la malattia s'aggravo ancora; fu osservato un
i. Pio IX . . . Re: su questo interessamento, vedi quanto scrive G. MAN-
FRONI, op. cit., pp. 326 sgg.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 551
principle di eruzione migliarica, che ando rapidamente aumen-
tando. I medici espressero Topinione che essa avrebbe potuto pro-
durre una crisi favorevole. Alle 5 antimeridiane, il generale Giu
seppe De Sonnaz, awisato dai medici, aveva fatto noto al principe
Umberto il peggioramento soprawenuto nella notte. II principe,
desolatissimo, scese nella camera del padre: interrogo con insi-
stenza i medici, che dovettero dichiarare essere loro doloroso do-
vere di annunziare al principe una probabile disgrazia. II principe,
piangendo; ordino di awisare gli altri figli del Re deirimminenza
del pericolo.
Awisato del suo stato dal professore Bruno, Vittorio Emanuele,
accettando subito il consiglio di ricevere i sacramenti, fece chiamare
monsignor Anzino1 che ascolto la di lui confessione.
Uscito monsignor Anzino, Vittorio Emanuele fece chiamare il
principe Umberto, poi anche la principessa Margherita e rimase
venti minuti solo con loro. All' una dopo mezzogiorno fu ammini-
strato al Re il Viatico da monsignor Anzino, accompagnato dai
principi Umberto e Margherita, dalla marchesa di Montereno, dai
ministri Depretis e Crispi, da tutti i componenti le case militari e
civili del Re e dei principi. Entrarono nella camera, con il cero ac-
ceso, i principi, i ministri, gli alti dignitari della Corte: gli altri ri-
masti nelle stanze attigue sfilarono poi davanti al Re che, seduto sul
letto, guardava ciascuno in faccia serenamente, muovendo la testa
in atto di saluto. Terminata quella commuovente sfilata, il comm.
Aghemo chiese al principe Umberto di voler permettere al conte
di Mirafiori2 di entrare nella camera del Re: il principe acconsenti.
Mentre monsignor Anzino si preparava ad amministrare il Via
tico al Re, giungeva al Quirinale monsignor Marinelli, sagrista dei
Sacri palazzi Apostolici : Taveva mandato Pio IX appena saputo che
lo stato di Vittorio Emanuele era disperato, e che il Re si disponeva
a ricevere i sacramenti. Monsignor Marinelli fu fatto entrare nella
camera dopo la cerimonia e pote trattenersi qualche minuto col Re
d'ltalia3 ormai moribondo, ma in pieno possesso delle sue facolta
mentali.
i. monsignor Anzino: vedi p. 494- 2. Emanuele Guerrieri, conte di Mira
fiori, figlio di Vittorio Emanuele II e di Rosa Vercellana, detta «la beila
Rosina». Vedi la nota i a p. 494; 3- Monsignor . . . d'ltalia: diversa-
mente testimonia la citata opera di G. Manfroni, che narra come mon
signor Cenni e il suo sacrista monsignor Marinelli non andassero oltre la
portineria.
552 UGO PESCI
La Curia Romana voile poi far credere che Vittorio Emanuele
avesse fatte dichiarazioni contradicenti agli atti della sua vita. Egli
invece, in piena coerenza con se stesso, disse soltanto queste parole :
— lo muoio cattolico ; ho sempre avuto una particolare afFezione
e deferenza alia persona di Sua Santita: se in qualche atto da me
compiuto avessi potuto recar dispiacere personalmente al Santo Pa
dre, dichiaro che ne provo rincrescimento. Ma in tutto quello che
ho fatto ho portato sempre la coscienza di adempiere ai miei doveri
di cittadino e di principe, e di non commettere nulla contro la re-
ligione dei miei padri.
Pochi momenti dopo il Re era agli estremi. In ginocchio a pie
del letto erano il principe Umberto ed il conte di Mirafiori: piu
indietro i generali Medici, De Sonnaz e Luigi Mezzacapo, gli ono-
revoli Depretis, Mancini e Correnti, il conte Visone, il comm.
Aghemo, il colonnello Guidotti ed il tenente colonnello Carenzi,
ufficiali d'ordinanza di servizio. Alle 2,35 Vittorio Emanuele, sem
pre seduto sul letto appoggiandosi sulPanca sinistra, con un leggero
sospiro, e con faccia sempre serena, reclino leggermente la testa da
quella parte, e spiro.
II professor Bruno si awicino al letto, ascolto il petto, ed avendo
udito che il gran cuore aveva cessato di battere, disse con voce so-
lenne e commossa:
— II primo Re d'ltalia e morto! Pare che dorma e riposi, dopo
compiuto un grande lavoro.
Tante erano state le alternative di peggioramento e migliora-
mento ; tanto era Pansioso desiderio di vedere scongiurata la grande
s ventura, che fino alPultimo istante non si voile rinunziare alle piu
lusinghiere e pur troppo fallaci speranze. Anche nelle direzioni del
giornali, che tenevano in permanenza uno dei loro redattori al Qui-
rinale, era un andare e venire di cittadini speranzosi di qualche
buona notizia. Nella sala grande delPufficio del « Fanfulla » - quella
che faceva angolo fra piazza di Montecitorio e via degli Uffici del
Vicario-alle due, stavano in attesa piu di venti persone; fra esse
qualche senatore e qualche deputato. Le prevision! erano general-
mente ottimiste; Ponorevole Emilio Broglio,1 che era ministro nel
i. Emilio Broglio (1814-1892) aveva avuto parte attiva neirinsurrezione
delle Cinque giornate. Professore di economia pubblica all'Universita di
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 553
1869 quando Vittorio Emanuele fu in fin di vita a San Rossore,
narrava come anche allora il Re avesse ricevuto i sacramenti e fosse
stato creduto ormai in fin di vita. Mentre gli altri ascoltavano quella
narrazione, con il vivo desiderio di vedere rinnuovata la sorpren-
dente guarigione, si presento sulla porta per la quale si veniva dal
di fuori, il redattore del giornale che aveva dopo mezzogiorno so-
stituito al Quirinale uno dei suoi colleghi.
— Signori, — egli disse con voce tremante per la commozione —
Vittorio Emanuele e morto!
Nessuno ebbe fiato di parlare per qualche minuto : poi comincio
un sommesso scambio di parole fra i piu vicini, mentre il direttore,
Avanzini, entrato un momento nella sua stanza, vi scriveva rapi-
damente, concise ma eloquenti parole.
La bandiera italiana che sventola sulPalto del Quirinale, fu su-
bito abbrunata e calata a mezz'asta: tutti i negozi nelle vie princi-
pali si chiusero immediatamente ; alle 4 erano stati chiusi anche nelle
vie piu remote della citta, mano a mano che la notizia vi era arrivata.
Piazza del Quirinale si empi subito di una folia grandissima, silen-
ziosa: per le vie che conducono alia reggia altre migliaia e migliaia
di cittadini vi si awiavano, ma dovevano rinunziare al proposito
di giungervi, tanta era la calca. La fiera di piazza Navona fu so-
spesa. Durante la serata Roma aveva un aspetto lugubre : nelle vie
principali ed intorno al Quirinale si aggirava ancora una folia muta:
nelle vie fuori di mano pareva di essere in una citta spaventata da
una grande catastrofe ed abbandonata dagli abitanti. I giornali si
vendevano a ruba: sotto ogni lampione si formava un capannello
di gente, in ascolto dei particolari delle ultime ore del Re.
Anche le persone note per awersione al nuovo ordine di cose
instaurato in Roma dal 20 settembre 1870, deplorarono sincera-
mente la morte di Vittorio Emanuele: non si ebbe da lamentare
nessuna di quelle intemperanze di cinismo alle quali altri partiti
hanno poi tentato di abituarci.
Anche i molti stranieri che gia si trovavano a Roma non furono
indifferenti alia sciagura che aveva colpito F Italia: molti facevano
vivi ed affettuosi elogi del Re defunto ; molti ammiravano la calma,
la tranquillita, la serieta della quale Roma dava esempio, dopo un
awenimento tanto straordinario.
Torino, deputato per molte legislature, fu ministro della pubblica istruzione
dal 1867 al 1869.
554 UGO PESCI
II cielo era scuro: la serata tristissima ; le consuetudini della po-
polazione parevano turbate. Alle 7 Tannunzio ufficiale della morte
di Vittorio Emanuele fu dato da un manifesto del prefetto: poco
dopo fu affisso un manifesto del if. di sindaco, pronto gia prima
delle 5, ma del quale fu ritardata la pubblicazione per farlo prima
approvare dal capo del governo, in quei momenti non facilmente
accessibiie. Alle 10 fu pubblicata la « Gazzetta ufficiale)) con il pro-
clama di re Umberto. Si vedevano vecchi, donne, uomini fatti, pian-
gere come bambini leggendo gli annunzi della morte del Re. I de-
putati presenti in Roma, circa 120, riunitisi nel pomeriggio a Mon-
tecitorio, andarono di la a quattro a quattro, con il vicepresidente
De Sanctis1 alia testa, ad iscriversi nel registro delPanticamera
reale.
[LA MORTE DI PIO ix]2
Fino dalle 4 era stato dato ordine di non lasciare entrare alcuno
nel Vaticano, salvo i camerieri di cappa e spada. Pio IX era morto
appena da un quarto d'ora,3 quando postomi sotto il patrocinio
di una gentilissima patrizia clericale, potei penetrare non soltanto
in Vaticano, ma fino al quartiere private del pontefice defunto.
Credevo, salendo le scale insieme alia mia nobile introduttrice,
d'essere riuscito ad ottenere quasi Pimpossibile: ma presto dovetti
accorgermi della presenza di molte persone che avevano quanto
me il diritto di trovarsi in quel luogo.
Alle 9 di sera la salma di Pio IX fu trasportata dalle guardie no-
bili nella sala che precede quella del trono, andandovi dal quartiere
privato. Fu deposta sopra un piccolo letto di ferro foderato di da-
masco rosso, come le pareti della sala, e coperta con un lenzuolo
bianco. Ai due lati del letto stavano due guardie nobili; agli angoli
quattro grandi candelabri, ciascuno con un grosso cero. Alcune
poche persone furono ammesse nella giornata dell'8 a visitare la
salma. In Vaticano continue un grande andirivieni di persone estra-
nee, rimanendo ferma bensi la consegna di non lasciar passare nes-
suno, se non conosciuto personalmente. Soltanto piu tardi, quando
i. Francesco De Sanctis (1817-1883) era allora vicepresidente della Came
ra. 2. Ed. cit., dal cap. xv (Due morti celebri), pp. 612-21. 3. Pio IX . . .
ora: Pio IX mori il 7 febbraio 1878, alle ore 17,40. II governo italiano, at-
traverso 1'agenzia Stefani, dette rannunzio con un'ora di anticipo e comu-
nic6 che il decesso era awenuto alle ore 14,30: e cio provoc6 scandalo e
polemiche.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 555
era ormai inutile, si prowide ad impedire quella evidente trasgres-
sione agli ordini dati.
La sera dell ' 8 i medici curanti di Pio IX cominciarono ad imbal-
samarne la salma: Poperazione, durata parecchie ore, riusci be-
nissimo. II cadavere fu vestito di sottana bianca e camauro, con le
mani conserte ed un crocifisso sul petto. II 9, mentre al Sudario si
celebravano solenni funerali per Vittorio Emanuele nel trigesimo
della sua morte, la salma di Pio IX era visitata dalle persone addette
alia Corte pontificia e da parecchie signore. Le visite terminarono
alle 2, dovendosi preparare per le 6 il trasporto della salma in
San Pietro.
Questo awenne derogandosi in parte dalle norme stabilite nel
cerimoniale. La salma era stata rivestita alle 4 degli abrti pontificali :
la portarono quattro sediari, che sostennero di avere tale diritto,
riconosciuto dal Cardinale camerlengo; e la seguirono tutti i laici
appartenenti alia Corte, i cardinali con torcie, le guardie nobili, i
camerieri segretari, le guardie svizzere e palatine. La ricevette so-
lennemente il capitolo di San Pietro, con alia testa il cardinale Bor-
romeo, arciprete della basilica, e fu deposta nella cappella del Sa
cramento, in modo che i piedi calzati di pantofole rosse sporgessero
alquanto a traverso le sbarre della cancellata di bronzo che chiude
quella cappella.
Alle sette furono aperte le porte della Basilica e vi entro subito
una gran folia, che ando aumentando sempre durante la giornata.
Ma tutto era disposto con molto accorgimento, per prevenire ed
evitare qualunque incidente. Le carrozze dovevano accedere alia
piazza per le strade e i ponti indicati, e ripartirne per altre strade ed
altri ponti. Carabinieri, guardie di questura e municipali regolavano
Tingresso per le due porte a sinistra, e Puscita da quella di destra.
Quella parte della navata di destra che sta di fronte alia cappella del
Sacramento era chiusa da un forte impalancato, di modo che le
persone, lasciate entrare in chiesa a non molte per volta, awiatesi
fra doppia fila di bersaglieri,1 potevano awicinarsi soltanto ad una
ad una alia cancellata, e proseguire dopo avere baciato il piede del
Pontefice. II catafalco, coperto di damasco rosso, era a piano incli-
nato ; e cosi, anche da lontano, dalla meta della navata centrale si
i. bersaglieri: i soldati italiani furono fatti entrare in San Pietro su richiesta
dell'economo della basilica. Vedi G. MANFRONI, op. cit., pp. 335 sgg. e la
nota a p. 345.
556 UGO PESCI
scorgeva benissimo la fisonomia sorridente di Pio IX, molto ben
conservata. Sei candelabri erano accesi da una parte e dall'altra del
catafalco, ai quattro angoli del quali stavano immobili altrettante
guardie nobili in piccola tenuta.
Un curioso incidente dimostro subito come la morte di Pio IX
faceva presentire un cambiamento de' tempi. Un giornale umori-
stico ebbe il poco tatto di mettere in canzonatura una delle guardie
state in servizio presso il feretro di Pio IX, perche di statura colos-
sale e di persona gigantesca. La guardia - era un gentiluomo mar-
chigiano, che aveva parenti nel campo bianco ed anche al servizio
dello Stato - non voile tollerare Pinsolenza, e si rivolse ad un gior-
nalista liberale, ufficiale di complemento. La faccenda fu risoluta
come doveva, mediante il verdetto di un giuri d'onore, composto,
con il consenso della guardia nobile, di ufficiali delPesercito e di
giornalisti.
La folia fu tale, dopo mezzogiorno, da dover chiudere le cancel-
late dell'atrio, aprendo di quando in quando soltanto quella a si-
nistra. II giorno seguente continue Pesposizione della salma: agli
abitanti di Roma si aggiunsero quelli venuti in grandissimo numero
da molti paesi del Lazio. Le porte furono lasciate aperte: signore
e signori, frammisti a gruppi di contadini e di ciociari, preti, frati,
monache, soldati d'ogni arma, intieri educandati maschili e fem-
minili, ufficiali di tutti i gradi, formavano una continua corrente,
che guardie e carabinieri riuscivano a regolare con molta buona gra-
zia e longanimita. Due battaglioni di truppa stavano, per qualunque
bisogno, con le armi al fascio sotto il portico della piazza.
Alle 9 e mezzo del 12, ultimo giorno della esposizione della salma,1
la Regina ando a compiere un atto di ossequioso rispetto, visitan-
dola: i carabinieri le facevano strada, tenendo lontana la folia.
La cerimonia del seppellimento prowisorio del defunto awenne,
secondo le norme del cerimoniale, la sera del 13. Vi assistevano
circa 2000 persone: il Sacro Collegio, la Corte pontificia, il Corpo
diplomatico accreditato presso la Santa Sede ed il patriziato ro-
mano devoto al Vaticano ; v' erano anche molti bianchi, fra i quali
donna Laura Minghetti, la duchessa di Marino, il principe di Tea-
no, alcuni ufficiali in uniforme, parecchi forestieri. Al momento nel
quale il feretro si alzava fino alia tomba prowisoria, di fronte al se-
polcro degli Stuart, la contessa Mastai, nipote del Papa, si svenne;
i. U esposizione della salma di Pio IX duro dal 10 al 13 febbraio.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 557
altre signore e qualche cardinale si ritirarono davanti al penoso
spettacolo, reso anche piu impressionante dalla oscurita deU5im-
mensa basilica interrotta da soli pochi ceri, e dal mesto silenzio in
mezzo al quale si alzavano le voci, non sempre rispettosamente
basse, degli operai incaricati del funebre lavoro.
Agli aneddoti gia citati nel primo capitolo di questo libro per
dare un'idea delPindole vivace di Pio IX, ne aggiungero qui alcuni
altri, de} quali ebbi conoscenza diretta e sicura.
II giorno dello Statute, nel '72, piowe. Due o tre giorni dopo, nel
giardino del Belvedere, Pio IX incontro due o tre guardie nobili
fuori di servizio. Fermatosi, rivolse loro benevolmente il discorso,
domandando fra le altre cose se erano stati a vedere la rivista. Cre-
dendo di farsene un merito, le guardie risposero in coro:
— Santita, no!
— Bisognava andare— replico Pio IX; e poi sorridendo: — For-
se avete avuto paura dell'acqua!
Verso la persona di Vittorio Emanuele e le altre della famiglia
reale dimostro sempre deferente benevolenza. Un giorno il padre
Gatti d. C. d. G. parlava male del Re:
— Padre, — lo interruppe severamente Pio IX — non voglio sen-
tire, perche e un brav'uomo.
A tale sentimento di benevolenza univa anche un qualche cosa
di cavalleresco, rimastogli dalla gioventu e dalle prune sue aspira-
zioni. Nelljanticamera del quartiere privato, un giorno alcune guar
die nobili stavano ascoltando uno di loro che, in un giornale, leg-
geva le festose accoglienze fatte in Trastevere alia principessa Mar-
gherita, andata al Politeama, dove la signora Ristori1 aveva rappre-
sentato Giuditta.
— Come sa farsi voler bene! tutti la salutano — disse una guardia.
— lo non Tho mai salutata— replico un'altra.
— Eppure, — tuono dalla porta una voce sonora che fece scattare
in piedi e schierarsi il drappello — eppure, quando ero io guardia
nobile, si riteneva primo dovere di un ufficiale la cortesia verso le
signore.
i. Adelaide Ristori (1822-1906) aveva rappresentato allora la Giuditta di
Paolo Giacometti, suo « amico e autore prediletto » (cfr. la nota 2 a p. 273).
Vedi A. RISTORI, Ricordi e studi artistici, Torino 1887, p. 52.
558 UGO PESCI
E del conte Camillo Benso di Cavour diceva che, quantunque
avesse fatto molto danno alia Chiesa, non gli dispiaceva, perche
generoso, buono e caritatevole, e certamente convinto di fare
il bene del suo paese awersando il potere temporale del pa-
pato.
Una singolarita di Pio IX, non a tutti nota, era quella di stare
molto attaccato alia proprieta della lingua italiana. Non voleva sen-
tir dire che una lettera era stata messa alia posta; si doveva dire
mandata. Un giorno alcune bambine di un educandato, accompa-
gnate dalle signore loro protettrici, andarono ad offrirgli della bian-
cheria da altare diligentemente ricamata. Bambine e signore si
aspettavano un ringraziamento ed un elogio, quando Pio IX invece
usci fuori a dire:
— L'accetto volentieri, grazie! Ma non la chiamate lingeria: sa-
rebbe un grosso errore di lingua.
Anche nelle cose risguardanti la Chiesa, dimostrava talvolta una
serena filosofia. II duca di Castelvecchio, avendo avuto torto dal
tribunale al quale era ricorso protestando contro 1'occupazione del
convento delle Barberine allo Sferisterio, sul quale la famiglia Bar-
berini aveva diritto di patronato, ando al Vaticano facendone alti
lamenti :
— Si calmi, signor Duca, — gli disse sorridendo Pio IX — io ho
veduto di peggio, eppure mi son rassegnato. — E il buon Duca
rimase anche piu costernato dopo quella risposta.
Scherzava volentieri anche con gli acciacchi inseparabili dalla
grave eta alia quale era giunto. In occasione del cinquantenario
della sua nomina a vescovo, nel '77, quando da tutte le parti del
mondo gli furono mandati regali magnifici d'ogni specie, ricevendo
alcune persone di grado elevato, fra le quali era la principessa di
Thurn e Taxis, col suo solito sorriso Pio IX diceva:
— Eppure, fra tante ottime persone che mi hanno colmato di
preziosi doni, pare impossibile che a nessuna sia venuto in mente
di farmi il regalo che avrei gradito di piu . . .
— Santita . . . se fosse possibile . . . se fossi ancora in tempo . . .
— si affretto a dire la principessa.
-— Non credo, principessa . . .
— Ma se Vostra Santita volesse degnarsi di dirmelo . . .
— Principessa . . . badi! credo che non riuscirebbe neppure a
lei ...
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 559
E poiche la principessa insisteva, Pio IX soggiunse :
— Avrei preso volentieri un paio di gambe nuove.
Di maniere cortesissime e signorili anche con gli infimi, non riu-
sciva pero sempre a trattenere gli scatti d'impazienza. Accuratis-
simo nel vestire, aveva conservato alcune ricercatezze mondane.
Adoperava saponi finissimi, teneva nel suo spogliatoio bottiglie
di collutorii profumati e di essenze odorose, delle quali parcamente
faceva uso. Si alzava d' estate fra le 5 y2 e le 6, e con Paiuto dello
Zangolini, suo garzone di camera, vestito di una zimarra violetta,
prendeva cura della sua persona. Alle 7 entrava nella piccola cap-
pella privata, dove celebrava una messa e ne ascoltava un'altra, pre-
senti i chierici ed i cappellani di servizio, i domestici di camera, e
Pufficiale di servizio della Palatina; spesso anche il generale Kanz-
ler. Dalla cappella passava nella sala da pranzo, dove era preparata
una scodella di brodo con finissime pastine, un piccolo bicchier di
vino d'Orvieto ed alcuni biscotti. Di li passava nella sala da bagno
dove lo aspettava il prof.Ceccarelli r1 da una cura di bagni alle gambe
con 1'acqua delle terme di Civitavecchia, prescrittagli da quel suo
medico, aveva ottenuto gran giovamento.
Alle 9 era nello studio : sedeva su di una poltrona a pernio da-
vanti alia scrivania, sulla quale erano poche carte, un crocifisso e
una immagine della Concezione.
Primo a presentarglisi, fin quando visse, fu il cardinale Antonelli,
in abito cardinalizio di corte - sottana nera orlata di rosso, con
bottom rossi e mantello rosso - che Pio IX era scrupoloso nel volere
rispettate le regole d'etichetta. II cardinale presentava a Pio IX
qualche dispaccio giunto nella notte ; riceveva istruzioni e prendeva
in consegna le somme ricevute dal Papa nella giornata precedente
per Pobolo di San Pietro. Le visite del cardinale Simeoni, succe-
duto all' Antonelli, non erano quotidiane, anche perche il Papa, m-
vecchiato, desiderava di affaticarsi meno.
i. Alessandro Ceccarelli (1840-1893), gia chirurgo delTesercito pontificio, fu
dal 1870 medico e chirurgo di Pio IX. Aveva svolto a Roma, prima dell'oc-
cupazione italiana, unavasta attivita nella fondazione di ospedali, dispensari
ecc., e si era battuto perche nella Convenzione di Ginevra (1868) si consi-
derassero neutrali i feriti di guerra.
560 UGO PESCI
Dopo PAntonelli, Pio IX riceveva il suo maestro di casa comm.
Giovacchino Spagna, che gli riferiva quanto riguardava Tanda-
mento dei palazzi apostolici, e Tinvestimento di capital! nelle ban-
che straniere. Un prelato portava la posta al Papa. Con ima gran
lente da presbite, questi dava un'occhiata a qualche giornale scelto
a caso nel mazzo : poi il maestro di camera gli portava la nota delle
udienze accordate per quel giorno, ed il Papa, accompagnato da
due o tre cardinal!, riceveva qualche personaggio in udienza pri-
vata o si faceva vedere ai molti devoti adunati nella sala del Conci-
storo od in quella della contessa Matilde. Verso mezzogiorno scen-
deva in giardino con i cardinal! di curia che, per turno, gli face-
vano compagnia, con il generale Kanzler e con 1'anticamera nobile.
Secondo la stagione e le sue condizioni di salute, passeggiava in
carrozza od a piedi, oppure, seduto in qualche luogo coperto od al
rezzo degli alberi, teneva crocchio per piu di un'ora, informandosi
con curiosita degli awenimenti di Roma, e delle notizie politiche
di fuori d' Italia risapute dalle relazioni dei nunzi.
Pranzava alle 2 : la sua tavola era molto ben servita e disposta con
eleganza. Uso per molto tempo di prendere una tazza di brodo
prima della passeggiata: vi sostitui poi una tazza di latte, come piu
nutriente. II pranzo era quasi invariabilmente composto di minestra
di riso, fritto abbondante, bove, arrosto di stagione, erbaggio cotto,
frutte abbondanti e sceltissime, dolce di bigne o pasta frolla: be-
veva due o tre bicchierini di Bordeaux e prendeva il caffe. Lo
serviva lo Zangolini, ed assisteva quasi sempre al pranzo il comm.
Filippani, scalco segreto.
Preso il caffe si ritirava nella camera da letto a prendere un
breve riposo. Passeggiava poi nelle loggie, accompagnato dal fede-
lissimo generale Kanzler, e spesso dalParcheologo barone Visconti,1
che divertiva il Papa con le sue barzellette, o da qualche altro laico
della nobilta antica o nuova. Si fermava talvolta nella gran sala
della Biblioteca o nella sala degli scrittori, parlando del piu e del
meno, e non di rado anche delle discussion! awenute a Monteci-
torio. Ritiratosi nuovamente nel suo studio vi riceveva i capi ed i
segretari delle congregazioni ecclesiastiche : poi, libero ormai delle
cure pontifical! , cenava con una minestra come quella della mat-
tina, un piatto d'erba e un bicchierino di Bordeaux bianco. Prima
i. Ercole Visconti (1802-1880), nipote di Ennio Quirino Visconti, barone
per nomina di Pio IX.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 561
di ritirarsi in camera, si tratteneva nella biblioteca, ricca di libri
modern! molto ben rilegati, e con monsignor Cenni suo segretario
si divertiva ad esaminare e criticare qualche libro pubblicato da
poco, essendo dalla natura dotato di acume e di spirito vivacemente
polemico. Lo dimostro una volta ad una Deputazione di cattolici
inglesi, parlando alia quale, nel '74, citando a memoria vari periodi
di un opuscolo recentemente pubblicato dal Gladstone,1 non an-
cora amico degli irlandesi, lo confuto negando che la Chiesa catto-
lica ecciti con i suoi dogmi alia ribelHone contro i governi legal-
mente costituiti.
[ELEZIONE DI LEONE xni]2
Anche il conclave nel quale fu eletto il successore di Pio IX ap-
partiene ormai da un pezzo alia storia, e chi avesse desiderio di co-
noscerne i particolari non ha da far altro che leggere il libro di
RafTaele De Cesare.3 La deliberazione presa dal Sacro Collegio di
tenere il conclave in Roma, non ostante il parere contrario soste-
nuto gagliardamente dagli intransigent, oltre a confermare la pos-
sibilita della convivenza dei due poteri in Roma, dimostro che
il contegno della popolazione, del governo e di quasi tutta la stampa
in occasione della morte di Pio IX, era stato giustamente apprez-
zato dalla maggioranza dei cardinali stranieri ed italiani.
L'avere il cardinale camerlengo Gioacchino Pecci,4 con molta
dottrina ed eloquente parola, combattuto la proposta della mino-
ranza dei cardinali, la quale proponeva di determinare, durante la
i. William Ewart Gladstone (1809-1898) pubblico nel novembre del 1874 un
opuscolo, ispirato dai risultati del Concilio vaticano di quattro anni avanti :
The Vatican Decrees in their bearing on Civil Allegiance: a Political Expostu
lation. Per la polemica che ne segui, cfr. J. MORLEY, The Life of W. E. Glad
stone^ London, Macmillan, 1904, n, pp. 515 sgg.; D. C. LATHBURY, Letters
on Church and State of W. E. Gladstone, London, Murray, 1910, n, pp. 46
sgg. 2. Ed. cit., dal cap. xvi (Gli inizi d'un regno e d'un pontificate), pp.
647-52. 3. il libro . . . Cesare: si allude a // conclave di Leone XIII, con do-
cumenti, Citta di Castello, Lapi, 1887. Raffaele De Cesare (1845-1918) fu
uomo politico, senatore e storico : autore, altresi, de La fine di un regno,
Citta di Castello, Lapi, 1895 e di volumi di aneddoti e memorie, soprat-
tutto « meridionali ». 4. Vincenzo Gioacchino Pecci (1810-1903), sacerdote
dal 1838, nunzio in Belgio (1843-1846), vescovo di Perugia, cardinale nel
1853, camerlengo nel 1877. L'elezione a pontefice awenne il 20 febbraio
1878.
36
562 UGO PESCI
vacanza della Santa Sede, una specie di programma politico che
vincolasse in certo qual modo il futuro pontefice, dimostra come
egli avesse la speranza ed il desiderio di vedere seguita, forse anche
riguardo al Regno d' Italia, una politica differente da quella del
cardinale Antonelli, continuata dal cardinale Simeoni. II camer-
lengo prese bensi pretesto dalla proroga della Camera1 decretata
dal ministero per far rilevare, in una Nota ai nunzi pontifici, che lo
stesso governo italiano riconosceva come il funzionamento delle
istituzioni fosse contrario all'esercizio dei poteri ecclesiastici.
I cardinali entrarono in conclave il 18. La commissione formata
di tre di loro per lo scrutinio del personale non aveva voluto am-
mettere cinque ecclesiastici proposti come conclavisti; due de' cin
que furono esclusi, a quanto pare per sospetti politici.
L'esame dei cardinali sindacatori era stato rigorosissimo. II car
dinale Schwarzemberg, a nome di altri colleghi stranieri, chiese
una dilazione d'un paio di giorni alia chiusura del conclave, perche
le celle si asciugassero meglio e potessero venir prowedute di
maggiori comodita; ma tale richiesta non fu ascoltata. II giorno
fissato, in poco piu di mezz'ora, sessantadue cardinali entrarono in
conclave : le loro carrozze avevano ingresso dal portone delle fon-
damenta. Poche persone, giornalisti e preti francesi, stavano a ve
dere 1'entrata dei cardinali: ultimo fu reminentissimo Moretti,
arrivato quando i gendarmi, non vedendo arrivare altre carrozze,
stavano chiudendo il portone.
I cardinali dovettero accorgersi, e lodarono o criticarono secondo
i loro gusti, Teconomia2 rigorosa introdotta nei Sacri Palazzi dal
cardinale Pecci, e 1'energia con la quale egli aveva soppresso tutti
gli abusi e le dilapidazioni solite ad awenire, per tradizione, nel
periodo di sede vacante.
II 19, alFora della passeggiata, il Pincio e villa Borghese videro
disertare molte delle solite frequentatrici. Le loro carrozze, invece
di salire dove furono gli orti di Nerone ed avrebbe dovuto sorgere
il palazzo del Re di Roma,3 si awiavano in lunga fila per Borgo
fino in piazza San Pietro, e vi si fermavano ad aspettare la.fumata.
Borgo aveva in quei giorni un aspetto strano. Oltre alle molte bot-
i. proroga della Camera: la nuova sessione parlamentare, gia indetta per il
febbraio, fu rinviata al 7 marzo. 2. Veconomia: il Pesci ha costruito in di-
pendenza delPincidentale, anzich6 della proposizione principale. 3. Re di
Roma: il figlio di Napoleone I e di Maria Luisa, il celebre «aiglon».
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 563
teghe dei « coronari » con le vetrine piene di ritratti e di memorie
del pontefice defunto, ve n'erano altre improwisate nelle quali si
vendevano i ritratti di Pio IX e di Vittorio Emanuele, di Umberto I
e dei cardinali piii « quotati » per la elezione al pontificate. Quantun-
que fosse tradizione che il camerlengo non abbia alcuna probability
di essere eletto, non mancavano, anzi abbondavano i ritratti del-
reminentissimo Pecci, accanto alle litografie della cappella ar-
dente al Quirinale, e della cappella del Sacramento con 1'esposi-
zione della salma di Pio IX. La conciliazione era bell'e fatta . . .
almeno fra le fotografie e le litografie.
II pubblico che si era raccolto in piazza San Pietro, a piedi ed in
carrozza, non era meno multicolore; v'erano il barone di Keudell,1
e monsignor Theodol? che non aveva voluto lasciare entrare la
marchesa di Montereno nella Basilica vaticana durante la tumula-
zione di Pio IX; il generale Kanzler e qualche generale dell'esercito
italiano ; il marchese di Noailles, ambasciatore di Francia presso il
Re d'ltalia, ed il duca della Regina ministro del re di Napoli presso
la Santa Sede; la baronessa d'Uxhull ambasciatrice di Russia e
parecchie signore nere, reporters e guardie nobili, Ferdinando Mar
tini e la principessa Altieri, Ton. Spaventa ed Antonio Gallenga3
del « Times», Ferdinando Gregorovius4 ed il marchese di Monte
reno, il barone Barracco5 e la principessa del Drago. Tutti guarda-
vano in su verso il parafulmine della cappella Sistina: le signore do-
mandavano spiegazioni ; gli uomini sfoggiavano, magari improwi-
sandola, una grandissima erudizione intorno alle Constitutiones apo-
stolicae che regolano i conclavi. Una fumata s'era veduta al tocco
1. II barone di Keudell (1824-1903) era ambasciatore di Germania a
Roma dal 1873. Nel 1887, in seguito alia sua rottura col Bismarck, si
ritiro a vita privata in Roma. Ebbe vivissima passione per la musica.
2. Augusto Theodoli (1819-1892), allora monsignore, fu create cardinale
nel 1886. 3. Antonio Gallenga (1812-1895), amico dapprima e poi awer-
sario del Mazzini, deputato dal 1854 al 1856, quando fu costretto a dimet-
tersi e a ritirarsi in Inghilterra, fu corrispondente del « Times » e come tale
segui la guerra del 1859, la spedizione dei Mille, la guerra austro-prussiana
del 1866 e la franco-prussiana del '70-71. 4. Ferdinando Gregorovius
(1821-1891), venuto a Roma nel 1852 per studi storico-letterari, vi rimase
quasi ininterrottamente fino al 1874, e vi dimoro spesso anche negli anni
successivi. Nel 1876 ebbe dal municipio di Roma la cittadinanza onora-
ria, in riconoscimento della sua Storia di Roma nel Medioevo (1859-1873).
5. II barone Giovanni Barracco, senatore, lego nel 1905 al municipio di
Roma il museo di antichita da lui amorosamente raccolte, che oggi porta
il suo nome.
564 UGO PESCI
e mezzo; quella dopo lo scrutinio del pomeriggio tardava a farsi
vedere, e molti se n'erano gia andati o se n'andavano, quando alle
6 y% un lieve fumo si alzo dal tubo a cio destinato, accolto da un
oooh! dei curiosi che si allontanarono in fretta, lasciando solo, in
fondo alia piazza, un battaglione di fanteria.
La mattina seguente molti curiosi tornarono verso le 10 in piazza
San Pietro, e vi si trattennero fino a dopo mezzogiorno. Veduta
una piccola fumata se n'andarono quasi tutti. Quando, alPuna e
20 minuti, dopo il secondo scrutinio, fu aperta la vetriata di mezzo
della loggia sopra Pingresso della Basilica Vaticana, detta delle be-
nedizioni, la piazza, era quasi vuota. Comparve la croce papale se-
guita da alcuni conclavisti e cerimonieri, che sventolavano i fazzo-
letti: il cardinal Caterini, decano dell'ordine dei preti, lesse la solita
formula latina per annunziare ilgaudium magnum. La voce delPemi-
nentissimo non giungeva distinta fino alia piazza: i pochi astanti
fecero comprendere con i loro gesti di non avere inteso mzlla. Allora
uno dei prelati che accompagnavano il cardinale grid6 dalla loggia
con voce tonante : mPecci! Leone dedmoterzo ! ». Alcuni applaudirono.
La proclamazione fu poi fatta verso Finterno della chiesa ; si udi me-
glio, ma non v'era quasi nessuno.
Alle 4 di quello stesso giorno fu aperto il conclave. La piazza,
che s'era cominciata a popolare appena sparsa la voce della elezione,
era gia affollata verso le 3. Correva voce che il nuovo Papa avrebbe
benedetto il popolo mostrandosi dal gran finestrone della loggia
sulla porta maggiore della basilica;1 che al suo apparire la truppa
schierata in piazza lungo il portico di sinistra avesse ordine di pre-
sentare le armi, e che da Castel Sant'Angelo si sarebbero sparati
ventun colpo di cannone. Sette od ottomila persone stavano invece
dentro la basilica; ma quelli che erano fuori confermavano le loro
speranze vedendo molta gente afFacciata alia loggia scoperta del
Vaticano, sopra Fatrio della scala ducale, e molti preti e molti neri
che aspettavano con loro sulla cordonata esterna. Realmente, a
quell'ora nessuno in Vaticano ne sapeva piu di quanti stavano in
piazza. Dalle tre alle quattro continue Pansiosa aspettativa, fatta
piu grande quando si vide gente affaccendarsi al finestrone della
loggia verso la piazza, poi allontanarsi ed awicinarsi di nuovo. Un
i. Correva.. .basilica: su questa attesa di una benedizione esterna, in-
torno alia quale vi furono molte supposition! e discussioni, vedi G. MAN-
FRONI, op. cit.y p. 349.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 565
prelate, uscito in quel mentre dalla porta di bronzo, awiso quanti
si trovavano sul suo passaggio che la benedizione sarebbe stata data
in chiesa: ventimila persone si precipitarono in cinque minuti,
spingendosi verso la Confessione di San Pietro per veder meglio,
Se Leone XIII si fosse affacciato a benedire il popolo in piazza
sarebbe stato accolto da una ovazione; ma questa appunto si te-
meva, e non fu voluta.
Apertosi il finestrone interne, fu messo sul parapetto un tappeto
rosso ed un guanciale. Leone XIII comparve in mezzo a due car-
dinali : la croce s'inalzava dietro di lui. Le tenebre invadevano gia
la parte bassa della basilica: dalla folia si alzo un grido inarticolato ;
lo spettacolo era solenne. II pontefice con un gesto della mano si-
nistra invito a far silenzio, mentre lo stesso cenno facevano i cardi-
nali e prelati che raccompagnavano. Alzata la mano destra, il Papa
intuon6 la formula della benedizione, alia quale fecero seguito le
giaculatorie d'uso cantate dai prelati, e ad esse rispose un Amen
finale, detto da migliaia di voci.
Quando Leone XIII disparve lo saluto un'altra acclamazione:
poi, non avendo tutti perduto ancora la speranza della benedizione
verso la piazza, la folia usci frettolosa dalla basilica, alzando e vol-
tando indietro la testa appena fuori.
Si credette che un'altra benedizione al popolo raccolto nella ba
silica sarebbe data dal Papa dopo la cerimonia della incoronazione
awenuta il 3 marzo nella cappella Sistina; e gli ordini erano gia
dati, prese le necessarie precauzioni per prevenire qualunque in-
cidente, quando Leone XIII, a cui s'era detto che il governo non
garantiva la quiete pubblica, rinunzio a quella cerimonia dicendosi
stanco.
Al nuovo Papa, ed a quanti lo circondavano e vedevano di mal
occhio I'attitudine benevola delTopinione pubblica verso di lui, non
era facile il far comprendere che lo Statuto non consentiva d'im-
pedire riunioni contro il papato simili al comizio del 24 febbraio
delPanfiteatro Corea, nel quale si predico la distruzione della
Chiesa;1 e tanto meno di persuaderli come quelle tirate lasciassero
i. comizio . . . Chiesa: nel comizio, tenuto all5 'anfiteatro Corea,, si condann6
la politica ecclesiastica del governo. Piii grave apparve la dimostrazione
awenuta a Roma, la sera del 3 marzo, poche ore dopo Tincoronazione di
Leone XIII : i dimostranti, gridando contro il papa e il governo, scagliarono
sassi contro le finestre festosamente illuminate delle famiglie clericali.
566 UGO PESCI
il tempo che avevan trovato. In Vaticano, dove la legge delle gua-
rentigie era stata respinta, domandavano che cosa avrebbe servito
Taccettarla se permetteva di dire pubblicamente della Chiesa e del
suo Capo quanto non si sarebbe potuto dire di qualunque istitu-
zione del Regno.
[ANTICHI RicoRDi]1
Ricordo sempre lo strano effetto prodotto in me dallo spettacolo
delle passeggiate del Gasparoni per Roma. Tutti sanno che Antonio
Gasparoni fu un famoso brigante, ed a capo di una banda, piii o
meno numerosa secondo le stagioni e la energia dei gendarmi man-
dati a combatterla, esercito il suo mestiere dal '15 al '27 sulla strada
percorsa dai viaggiatori da Roma a Napoli. Alcuni scrittori stra-
nieri, venuti in Italia quando il bandito non poteva piu far danno
ad alcuno, crearono intorno al suo nome una leggenda postuma di
gesta cavalleresche, facendone una specie d'eroe di strada maestra,
pronto tanto a combattere valorosamente contro la forza pubblica,
quanto a lasciare nobilmente andare per i fatti loro gli stranieri che
sapevano ispirargli sentimenti di benevolenza. Egli stesso raccontava
di aver riconsegnato, senza alcun compenso, e senza torcer loro un
capello, signorine straniere per le quali avrebbe potuto chiedere ed
ottenere un lauto riscatto, commosso dalle lagrime delle madri:
raccontava anche di essere stato un brigante benefico, come asse-
riva di avere parentela con il cardinale Antonelli ; parentela della
quale non esiste e non e mai esistito alcun documento.
Fatto sta che, se i gendarmi e i dragoni pontificii non erano mai
riusciti a mettergli le mani addosso - ed avranno avuto le loro buo-
ne ragioni per non esporre a troppo gran repentaglio la loro vita -
Parciprete Rappini di Sezze riusci a persuadere il Gasparoni, con
la promessa di una amnistia, a costituirsi con la sua banda alle
autorita. Appena ebbe deposte le armi, il Gasparoni, con la sua
banda ormai resa inoffensiva, contrariamente alle promesse fu rin-
chiuso nel bagno di Civitavecchia, dal quale alcuni anni dopo lo
trasferirono, sempre con i suoi compagni, nel forte di Civita Ca-
stellana, dove lo vidi2 gia vecchio pochi giorni prlma del 20 settem-
i. Ed. cit., dal cap. xvm (Roma scomparsa), pp. 697-705. 2. lo vidi: il Pesci
ne scrive nel suo volume Come siamo entrati in Roma (vedi la bibliografia).
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 567
bre 1870, come lo videro, visitando il forte facilmente espugnato,
molti ufficiali d'ogni grado del corpo d'esercito del Cadorna.
Ebbi allora opportunity di parlare a lungo con il capobanda,
persuadendomi ch'egli era un rozzo ed ignorante ciodaro, dotato di
tenderize megalomani, ma sprowisto di quei pregi statigli attribuiti
dalla fantasia di alcuni scrittori: lessi anche una specie di diario de'
tempi ne? quali la sua banda batteva la campagna, tenuto dal let-
terato della compagnia, segretario e confidente del capo, nel quale
diario vidi registrati con pompose parole molti reati comuni, ai
quali mancava proprio qualunque parvenza di cavalleresco e di
nobile.
Occupata Roma, il governo italiano penso che il Gasparoni e i
suoi compagni non potevano legalmente esser trattenuti in carcere,
dove non stavano poi tanto male, se e vero che sotto il governo pon-
tificio li lasciavano qualche volta anche andare a spasso, sapendo
che oramai non avevano piii alcuna velleita di scappare. Un processo
contro di loro non era mai stato fatto, ne si poteva ormai fare es-
sendo passati quarantacinque anni da quando erano caduti nel-
1'agguato ; e trent'anni fanno cadere in prescrizione qualunque de-
litto. II Gasparoni ed i suoi furono messi in liberta: alcuni lascia-
rono il capo, il <cprincipe dei monti» come lo chiamavano, per tor-
nare ai loro paesi dove avevano forse ancora qualche lontano con-
giunto: il capobanda venne a Roma, col suo segretario, che si dice
fosse stato prete, ed altri due o tre compagni; in quella Roma che
non aveva veduta mai, ma dove i rapsodi popolari, ciechi o veg-
genti, ne avevano per tanti anni cantato, nei trivii e nelle osterie,
le imprese illustrate altresi dalPoriginale bulino di Bartolommeo
Pinelli.1
Quando vi giunsero, cominciarono a girare per la citta; spesso
erano uniti, talvolta il Gasparoni solo, con il cappello a pan di
zucchero, il mantello sbiadito e rappezzato, le ciocie e la lunga
barba bianca. Avrebbe potuto passare per un modello: ma quan-
tunque fosse ormai lontano il tempo delle sue gesta, fu presto rico-
nosciuto ed ebbe subito un numeroso codazzo di ammiratori. Dico
ammiratori per ossequio alia verita; il capo brigante non ispirava
i. Bartolomeo Pinelli (1781-1835), disegnatore, incisore, scultore, e rimasto
famoso soprattutto come interprete di tipi e costumi popolari di Roma,
che egli ritrasse in creta, in rame e nella fortunatissima serie di acqueforti
detta dei Buffi caricati. Vedi R. PACINI, Bartolomeo Pinelli e la Roma del
suo tempo, Milano 1935.
568 UGO PESCI
evidentemente alcun disprezzo, ma una curiosita rispettosa ed an-
che ammiratrice : i ragazzi gridavano qualche volta «Viva Gaspa-
roni », senza neppur sospettare come e quanto offendevano il senti-
mento morale e il galantomismo : v'era ancora neHJanima della folia
un istinto di reazione contro antichi sistemi di governo che facevano
stimare dai compaesani il giovane che si dava alia macchia piii di
quello che andava ad arruolarsi soldato nelle milizie papali, e ri-
tenere onorevole il mestiere del brigante, considerando i brigand
in lotta con il governo. Aberrazioni, pregiudizi fin che volete, ma
in gran parte giustificati od almeno scusati dai fatti.
II Gasparoni continue a girellare a quel modo per alcune setti-
mane nelle vie di Roma, invitato spesso a bere ed a mangiare nelle
osterie, sempre seguito da numerosi gruppi di popolo - un giorno,
in una strada vicino a piazza Navona, ho veduto le carrozze obbli-
gate a tornare indietro dalla folia che impediva il passo - fino a
quando Pautorita di pubblica sicurezza, per togliere quello scan-
dalo, decise di mandare il Gasparoni, con i compagni rimastigli,
alia Pia Casa d'Abbiategrasso, dove egli mori ad 89 anni nel 1882.
A Roma gia era stato dimenticato.
II Gasparoni passeggiava le strade di Roma nel '71, quando
ancora gli zampognari suonavano la novena del Natale sotto le im-
magini per le strade ; e le trasteverine e le abitanti del rione Monti
si riconoscevano per alcune singolarita del vestirsi e del portare lo
scialle, e gli uomini dei due rioni si guardavano spesso e volentieri
in cagnesco : quando un palno vestito bene non si sarebbe facil-
mente lasciato indurre a passare, specie di sera, per alcune strade
del rione Regola abitate dai vaccinari, dove probabilmente nessuno
gli avrebbe detto un'insolenza, ne mandato una maledizione, ne
torto un capello, s'egli andava per i fatti suoi senza impicciarsi di
quelli altrui, ma dove . . . i casi ed i malintesi son tanti! . . . poteva
capitargli anche qualche guaio. In quelle strade, ne in quelle del
rione Monti, ne in Trastevere, si arrischiavano dawero i soldati
francesi durante la occupazione, se non in forti drappelli, ed anche
questi vi furono talvolta presi a sassate.
Quelli delle passeggiate del Gasparoni erano i tempi nei quali i
lavoranti delPAscolano e del Teramano, che venivano a portare il
contribute della loro mano d'opera nei latifondi della campagna
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALE (1870-1878) 569
romana per la mietitura, passando per la citta, dormivano a frotte
sulle scalinate di Santa Maria Maggiore, e perfino nell'atrio del
palazzo Massimo, buscandovi le febbri, per poi tornare dopo qual-
che giorno a curarsele nei nostri spedali. Piazza Farnese era ancora
ripiena di banchi ogni domenica mattina, per comodo dei contadini
che venivano quel giorno in citta : molte donne vi stavano accocco-
late in terra negli angoli, mentre i loro uomini facevano compre o
combinavano qualche affare; gli asini si riposavano intorno alle
due fontane, e la massa imponente del palazzo, abbandonato dai
Borboni di Napoli e non ancora occupato dalla legazione di Francia,
.giganteggiava muta e solitaria con i finestroni chiusi. A piazza
Montanara, dove anche a tempo del governo pontificio le botteghe
potevano rimanere aperte in giorno festivo fin dopo mezzogiorno,
accorrevano egualmente i contadini in gran numero, ed erano la
pronti ad ingarbugliarli venditori ambulant! d'ogni generi, riven-
duglioli di roba usata, ebrei e battezzati. La trovavano i caporali,
sub-appaltatori di lavori campestri, che venivano a reclutarli; fa
cevano prowiste di pan duro e baccala secco ; la trovavano cappelli
a pan di zucchero, cappotti foderati di verde, fiaschette di legno e
ghette di cuoio : la era 1'albergo della GhifTa dove si spendevano 8
e perfino 10 baiocchi per dormire una notte «con tutt'er comido»,
vale a dire soli in un letto, mentre con 5 baiocchi si poteva avere un
posto in un letto dove erano o potevano venire altre due persone,
in una stanza dove erano altri tre di quei letti. Vi si faceva la barba
all'aria aperta, per un soldo, mettendo a sedere il cliente sopra una
delle cinque o sei seggiole di paglia poste Tuna accanto alTaltra, e
nel soldo erano comprese mdicazioni talvolta sincere e disinteres-
sate sul prezzo corrente della mano d'opera; vi si trovavano con
il loro tavolino due o tre scrivani pubblici, pronti a mettere il
loro intelletto, la loro pratica d'affari ed il loro stile a benefizio di
chiunque, mediante il compenso di tre « baiocchi » compresa la
spesa viva d'inchiostro e carta. I frati zoccolanti, dopo aver por-
tato Tinsalatina fresca alle loro « poste » poiche gli orti d'alcuni
conventi non ancora soppressi ne prowedevano mezza Roma, ca-
pitavano in piazza Montanara a chiedere 1'elemosina per Panime
del purgatorio, e quei poveri diavoli che lavoravano tutta la setti-
mana sotto la canicola per guadagnare poco piu d'un centinaio di
baiocchi, non si facevano pregare a metterne uno nella bisaccia del
frate. Ora lo danno alia Camera del lavoro: chi sa poi se ot-
57° UGO PESCI
tengono la stessa calma deiranimo che procurava loro la fede.
D'intorno a piazza Montanara, negli altri giorni della settimana,
gironzavano gli «anticagliari», piccoli ed ignari pirati di antichita,
sbocconcellatori vandalici di monumenti, o ricettatori di roba sca-
vata di nascosto dai burrini o coltivatori di vigne, che vendevano le
loro cc anticaglie » al minuto portandole in giro in una cesta come le
ciambelle dolci, ed offrendo ai forestieri statuette di bronzo fabbri-
cate a getto due giorni prima, pezzetti di musaico e diti o nasi di
statue rubati, e piccole lastre di marmi che chiamavano « pietrelle »
raccattate alia Marmorata od al Foro Romano allora incustodito,
o fatte con ritagli di grossi pezzi lavorati dai marmisti: ed al posto
di questi «anticagliari» spariti, che si annunziavano con un grido
tradizionale come i venditori di semi di zucca abbrustoliti e le ven-
ditrici di cicoria, successero poi in quella stessa localita i mercanti
di roba scavata e sottratta dalla melma secolare del Tevere, quando
incominciarono i lavori di sgombro delFalveo e di sistemazione del
tronco urbano del fiurne.
Le strade lungo i fianchi del Palatino, fra il Palatino ed il Circo
Massimo, ed intorno alia Bocca della Verita, erano fiancheggiate da
fienili invece di case; e quei fienili due o tre volte 1'anno rinnova-
vano la loro prowista. Allora carri enormi stracarichi di fieno, tirati
da due paia di grossi bovi, sul giogo de' quali si ergeva quasi sempre
in un quadretto la immagine di Sant' Antonio, ostruivano quelle
strade; e dai carri si sprigionavano a nuvoli, insieme ad altri insetti
alati, quelle zanzare alle quali la scienza moderna ha riconosciuto il
merito di essere il mezzo diretto di trasmissione delle febbri ma-
lariche.
Si vedeva allora frequentemente il Santo Bambino, che si custo-
disce e si venera nella chiesa di Santa Maria d'Ara Coeli, trasportato
a casa degli ammalati ormai condannati dai medici - spes ultima
Dea — in una carrozza prestata dai principe Alessandro Torlonia
alia sacra immagine ed ai frati che Paccompagnavano : giacche
tutti sanno che la piu bella carrozza del Papa, regalata nel '49 al
Santo Bambino dai triumviro Armellini,1 per salvarla dai furor
i. Carlo Armellini (1777-1863), magistrate e giurista, sostenitore di riforme
nello Stato pontificio, form6 con Mazzini e Aurelio Saffi il triumvirato
della Repubblica romana nel 1849. Mori esule in Belgio.
I PRIMI ANNI DI ROMA CAPITALS (1870-1878) 571
della plebe che bruciava quelle del Papa e dei cardinal!, ritorno
nel 1850 nelle rimesse pontificie, ed 1 frati che non si erano peritati
di sedervisi per portare Fimmagine alle case degli infermi ebbero
da Pio IX una buona lavata di capo.
Allora come adesso le persone metodiche ed amanti di stare in
regola con le autorita costituite e col tempo medio, aspettavano con
Porologio alia mano il segnale delPosservatorio del Collegio ro-
mano - un pallone che cadeva dalla cima ai piedi d'una grande asta -
al quale rispondeva fino dal 1848 un colpo di cannone, annunziando
il mezzogiorno, ora salutata dal 1457 dal suono delle campane, per
ordine di papa Calisto III,1 in memoria dell'essere stata liberata
dall'assedio di 150.000 turchi comandati da Maometto la citta di
Belgrade, antemurale d'Europa contro rislamismo.
Da prima il colpo si tirava dalPalto del castello, ma per consiglio
del padre Secchi,2 affinche le onde sonore non si disperdessero
troppo in alto, fu tirato con un cannone sui bastioni piu bassi del
castello oggi scomparsi, ed un drappello di artiglieri italiani con-
tinuo questo servizio incruento nel quale rartiglieria papalina aveva
acquistato incontestata esperienza.
Chi rincasava la sera tardi, trovava a piazza San Carlo sul canto
di via della Croce, sul canto del palazzo Chigi, sull'angolo di via
Cacciabove, ed in qualche altro punto della citta il « sigararo » non
ancora soppresso dalla Regia de* tabacchi, che rivendeva sigari con
licenza de' superiori; ma non trovava le luride e disgraziate creature
dalle quali a qualunque ora di notte sono ora battuti i marciapiedi
del Corso e delle vie principal^ durando ancora la tradizione della
Roma pontificia, nella quale aweniva quanto awiene in tutto il
mondo, ma con maggior riguardo per le apparenze: riguardo ipo-
crita finche si vuole, ma I'ipocrisia, se non e dawero un omaggio
reso dal vizio alia virtu, come ha scritto il La Rochefoucauld,3
& per lo meno un omaggio reso dalla sudiceria alia decenza.
i. Alfonso Borgia, di Valenza, fu pontefice col nome di Calisto HI dal
1455 al 1458. 2. padre Secchi: vedi la nota i a p. 536. 3. II duca Fran-
9013 de La Rochefoucauld (1613-1680), autore delle Maximes.
ETTORE SOCCI
PROFILO BIOGRAFICO
ETTORE Socci nacque a Pisa, da Giuseppe e da Elettra Badanelli,
il 25 luglio 1846, ma dopo i primissimi studi passo a Firenze, a fre-
quentarvi quel Liceo fiorentino, che era sorto in seguito alia legge
granducale del 1852. Ugo Pesci, nel suo volume Firenze capitals (vedi
qui a p. 433), lo ricorda tra i suoi compagni di scuola in quegli anni
fortunosi del nostro Risorgimento. Ma il Socci fu quasi da allora
convinto repubblicano, entusiasta poi della propaganda mazziniana
di Alberto Mario in Firenze: e non solo ando alia guerra del 1866
come volontario garibaldino, ma si trovo anche a Mentana. Si di-
rebbe che egli avesse nel sangue quel che di eroico e di romantico
vibrava nel garibaldinismo, quasi il gusto dell'awentura; e ne e un
segno la prefazione che egli compose per il libro Villa Glori di Pio
Vittorio Ferrari, rievocando la spedizione dell'Agro romano in pa-
gine saporitamente colorite, ma segretamente commosse.
Tornato a Firenze, ben lungi dall'abbandonarsi alia delusione e
alPawilimento, si tuffo tutto nella propaganda repubblicana e nelle
prime prove di giornalismo. Proprio con Ugo Pesci, che ne fa ricordo
in Firenze capitale (Firenze, Bemporad, 1904, pp. 446-8), fondo al
lora, nel febbraio del 1868, un foglietto settimanale di otto pagine,
che scriveva di educazione e di letteratura, di teatro e di economia
pubblica, di pittura e di morale. Si intitolava «La Verita» e forse,
come tale, ebbe pochi lettori e breve vita: ma gia indicava un
principio cui Socci non venne mai meno, che sincerita e lealta gli
parvero sempre la base certa di ogni azione ed educazione politica.
Nel 1870, accesasi la guerra franco-prussiana, proclamata a Parigi
la repubblica, accorso Garibaldi in Francia, anche il Socci parti vo
lontario, superando gli ostacoli e le traversie che egli stesso narra
ampiamente nelle pagine che abbiamo riprodotto. Nei Vosgi, sotto
Digione, in quel caleidoscopio di volontari d'ogni gente, egli visse
la sua maggiore esperienza garibaldina : e ne torno phi intimamente
convinto che solo in Garibaldi e nella repubblica stessero le sorti
future deiritalia. Percio, reduce a Firenze, entro nella Societa in-
ternazionale, fondata sotto gli auspici di Mazzini : e fu tra i firma-
tari di quei due indirizzi che salutavano le forze popolari e repub-
blicane francesi insorte contro una restaurazione monarchica in
Parigi. Fu allora che la questura invase i locali della Societa inter-
576 ETTORE SOCCI
nazionale, sequestro carte e document! e sciolse Fassociazione.
Nello stesso giorno il Socci e i suoi compagni creavano, in sostitu-
zione, 1'Unione democratica sociale.
£ questo un periodo piuttosto complesso, per i repubblicani ita-
liani. Ovunque si andava affermando il socialismo con la sua Inter-
nazionale, e di fronte ad esso si aprivano dissidi entro le file repub-
blicane : Mazzini, in nome della sua visione ideale, condannava il
materialismo, ma Garibaldi guardava con altri occhi alle nuove
istanze sociali. I repubblicani si dividevano, incerti tra i due orienta-
menti : se accogliere le nuove voci sociali o restar fermi alia lotta
istituzionale. II Socci fu di quelli che cercarono di eliminare i dis
sidi tra le forze popolari, di awicinarle in un'opera unitaria. And6
a Roma a dar vita a «L' Italia nuova», il giornale gia fiorentino che,
acquistato da Emilio Sequi, e collocatosi a Roma nel palazzo Mon-
serrato, svolse per breve tempo una battaglia radicale, con collabo-
ratori gia assai noti (Francesco Pais, Tito Strocchi, Mario Paniz-
za ecc.). Ma il tentative fu vano e il Socci torn6 a Firenze.
A Firenze, assunse la direzione del «Satana». £ facile intuire
quanto il giornale fosse malvisto e come si cercasse un'occasione
per sopprimerlo. L'occasione fu data da una lettera del Guerrazzi,
che il giornale pubblico, e nella quale il repubblicano livornese,
con parole di fuoco, plaudiva ai disordini awenuti a Pisa, da cui il
popolo aveva cacciato padre Curci e i gesuiti, giuntivi, pare, per
riaprirvi una casa dell'Ordine. La sera stessa il Socci fu arrestato e
il « Satana » cess6 le pubblicazioni. Stette due mesi in carcere in at-
tesa del processo, fmche la Corte d'Assise lo assolse. Da allora fu
un succedersi di arresti e di assoluzioni : i biografi del Socci elencano
tredici arresti e altrettante assoluzioni. Noi non li seguiremo nel-
Pelenco : bastera ricordare che, sequestrato, appena uscito, un suo
nuovo giornale, « II grido del popolo », egli ebbe un altro processo ;
awenute in Italia, e anche a Firenze, dimostrazioni perche si abo-
lissero tutte le corporazioni gesuitiche, stette in prigione un mese ;
organizzata in Firenze TAvanguardia repubblicana, fu ancora arre
stato. Soprattutto, per6, merita particolare ricordo il suo arresto
YS agosto 1874.
A Villa RufE, a Roma, erano awenuti disordini, moti insurrezio-
nali erano scoppiati a Caprara: i democratici fiorentini temevano che
a Prato si preparasse un simile sommovimento, e vole vano evitarlo.
Mandarono il Socci a persuadere gli operai pratesi delPinutilita di
PROFILO BIOGRAFICO 577
moti incomposti, piii dannosi che utili: la missione riusci, ma il
Socci, appena tornato a Firenze, fu chiuso alle Murate e vi stette
tredici mesi, in attesa del processo. La polizia aveva arrestato con
lui trentadue estremisti, repubblicani e socialisti, considerati fra
loro conniventi. Fu un processo celebre, con ventisette awocati,
trentasette volumi di document! processuali, duecento testimoni di
accusa e trecento di difesa: tra questi ultimi Aurelio Sain, Menotti
Garibaldi, e lo stesso Giuseppe Garibaldi, che, infermo, invio per
iscritto la sua deposizione, tutta di vivo elogio per il Socci. Lo stesso
Pubblico Ministero, nella requisitoria, ritiro Taccusa per lui e per
alcuni altri; la Corte poi assolse turti la sera del 31 agosto 1876,
fra grandi manifestazioni di gioia di buona parte della citta.
II processo si era risolto in un fiero colpo per I'organizzazione
repubblicana ed aveva invece accentuato Porientamento delle classi
popolari verso rinternazionalismo. Anche per questo il Socci lascib
Firenze e si stabili a Roma. La caduta della Destra storica e Pascesa
al potere della Sinistra gli facevano sperare una maggiore possibility,
di diffondere i suoi ideali. A Roma egli fu tra i creatori del Circolo
repubblicano, con Domenico Narratone, Raffaello Petroni, Luigi Ca-
stellazzo, Alfredo Comandini; quando i dissidi interni sgretolarono
Pesistenza del Circolo, die vita con alcuni amici alPAssociazione
repubblicana dei Diritti delPuomo; e successivamente, nel 1878,
entro nella Lega della Democrazia e nella redazione del giornale
omonimo (1880-1883), diretto da Alberto Mario. Sono i tempi in
cui il Socci lotta per Pallargamento del diritto al voto, per Peman-
cipazione della donna, per la tutela dei fanciulli, per Pirredentismo
(donde la partecipazione del Socci alia fondazione della « Dante
Alighieri))). Nascono, anche per opera sua, due giornali, «I1 fascio
della Democrazia » (1883-1885), « La Democrazia » (1886) : con il suo
vivo appoggio sorge nel 1889 il Circolo radicale, che dovrebbe unire
socialisti e repubblicani e raccoglie uomini come Ferri, Caldesi,
Bizzoni, Cavallotti, Gattorno : aU'unanimita ne e eletto presidente.
Col novembre del 1892 la sua attivita giornalistica divenne se-
condaria, che, eletto deputato per il collegio di Grosseto, tutte le
sue cure furono da allora rivolte alFesercizio del mandate. La Ca
mera, da quel momento fino alia morte, lo ebbe tra i suoi compo-
nenti piu assidui e piu stimati, e di legislatura in legislatura la sua
affermazione elettorale divenne sempre piu significativa. Quan
do sopraggiunse la fine, in un ospedale di Firenze, il 19 luglio
37
578 ETTORE socci
1905, la sua scomparsa suscitb dolore non soltanto nel partito re-
pubblicano, ma in tutti i settori del Parlamento, non soltanto
a Grosseto, che vedeva in lui il proprio difensore, ma a Firenze,
a Pisa, fra tutte le molteplici categorie di lavoratori per le quali
aveva sostenuto coraggiose battaglie.
Non fu certo un grande uomo politico. Ma pochi seppero, come
lui, dedicare tutta la vita ai propri ideali senza ostentazioni e al di
la d'ogni utilita personale, subordinando lo stesso proprio partito
a quelli che gli parvero gli interessi del popolo. I suoi discorsi alia
Camera, i suoi scritti ne sono documento : da quelli per Tespro-
priazione dei latifondi a quelli per la bonifica della Maremma, per
la difesa delle liberta di stampa, di riunione, di propaganda : instan-
cabile Iott6 per Pinfanzia abbandonata, per la riduzione delle ore di
lavoro, per Pemancipazione della donna, contro lo sperpero del
denaro pubblico, il «fermo» di polizia, la subordinazione dello
Stato alia Chiesa, Pinsegnamento religioso nelle scuole. Anche a
non accoglierne le idealita, si resta ammirati della fede con cui
sempre sostenne il suo pensiero, della sincerita e lealta d'ogni sua
azione. Era appena entrato alia Camera e gia dava una lezione di
vita morale col suo intervento sulla risposta al discorso della Co
rona. Si parlava in esso ambiguamente di grandi opere idrauliche
e invece era gia noto il decreto che le avrebbe rinviate di tre anni.
« A me ripugna» disse il Socci ache si cominci una legislatura con
asserire una cosa che non sara mantenuta: quanto a me, ultimo ve-
nuto tra voi, permettetemi di dire che, quando le Assemblee poli-
tiche mancano di sincerita, non hanno piu diritto al rispetto, e io
penso che, appunto da questa mancanza di sincerita, dipenda lo
scredito in cui noi vediamo purtroppo cadere di giorno in giorno
il parlamentarismo ».
Si direbbe che assai piu di un politico egli fu un moralista : ogni
problema gli si presentava anzitutto sotto Paspetto morale, diveniva
un'esigenza di giustizia: e percio difendeva con identico ardore le
telegrafiste dello Stato e i principi di eguaglianza democratica, un
agente della polizia e il diritto alia liberta di stampa. Non c'erano,
per lui, problemi grandi e piccoli, ma prowedimenti giusti o in-
giusti.
Non fu un oratore, nel senso che si da comunemente alia parola.
Ma la convinzione con cui parlava, la semplicita e la chiarezza dei
suoi discorsi, la dote, che sempre ebbe, di ridurre nei loro termini
PROFILO BIOGRAFICO 579
essenziali le question!, quel suo continue ritornare al problema, per
lui fondamentale, di educare le masse, come sola via sicura del pro-
gresso, destavano ammirazione e consenso, e fanno ancora persua-
siva la sua parola. Chi lo ascoltava, conosceva la sua lealta e la sua
poverta, sentiva che vi era in lui qualcosa di perennemente giovanile
ed eroico, di garibaldino : anche certe sue ingenuita, se abbassavano
il politico, sollevavano 1'uomo.
Ne vero politico, ne oratore: e neppure veramente scrittore. I
suoi romanzi (Una signoraper bene; La devota; Ilgrido delta rivolta;
Uno che li ha finiti; Un amore nell* ergastolo) sono giustamente di-
menticati, anche se vivi documenti non solo del suo animo, ma del
suo tempo. Gli scritti essenzialmente politici (Del partita democra-
tico; Uassalto a Montecitorio; I misteri di Montecitorio), autobio-
grafici e sociali (Un anno alle Murate; Da giornalista a deputato), le
conferenze (Evoluzione o rivoluzione?; La donna; I bambini; Gu-
glielmo Ober dan; Antonio Fratti; Felice Cavallotti, ecc.), sonotroppo
legati ai tempi, interessano la storia o la cronaca politica italiana
e non gia la letteratura. Lo stesso puo dirsi della sua assidua col-
laborazione ai giornali, durata per tutta la vita: fra 1'altro, egli
fu redattore per lunghi anni deir«Etruria nuova», un giornale che
si pubblicava a Grosseto e che conserve la sua attivita nobilissima,
anche quando egli era gia scomparso : che la sua opera aveva vera
mente stabilito una tradizione.
Pure, a noi sembra che almeno due dei suoi lavori .meritino di
essere ricordati, sia pure per ragioni diverse. Anzitutto un vo
lume per la gioventu e per il popolo, Umili eroi della patria e del-
Vumanita, che ebbe ben cinque edizioni e si diffuse ampiamente,
anche nelle scuole primarie. Rievocava, in una galleria di profili,
figure, certo secondarie, del nostro Risorgimento, ma di quelle che
egli pensava non dovessero essere dimenticate, perche in esse
Teroismo, Tattaccamento alia patria, la resistenza e la battaglia con-
tro il dominio straniero erano stati cosi puri e istintivi da poter
valere di esempio e documentare gli aspetti eroici del nostro Ri
sorgimento. E percio apparivano dawero intimamente commosse,
in quel libro, le pagine su Elbano Gasperi, Pasquale Sottocorno,
don Giovanni Verita, Carlo Zima, Giorgio Imbriani, ecc. Perche
un libro vale anche per 1'erEcacia avuta su una generazione e non
soltanto per i suoi pregi puramente letterari.
Piu interessante, per motivi diversi, e 1'opera sua Da Firenze a
580 ETTORE SOCCI
Digwne, dalla quale abbiamo tratto una larga scelta. Queste sue
impressioni, segnate come appunti durante la campagna di Francia
e sistemate poi in volume, nel 1871, appena ritorno in Italia, si
affiancano ad altre che sulla stessa impresa scrissero Achilla Biz-
zoni, Tito Strocchi, Giuseppe Beghelli, Jessie White Mario. Questi
volumi di memorie hanno certamente una loro importanza anche
documentaria : e proprio su un episodic, pur senza esagerarne il
valore, che ha un alto significato. Poiche molti dei volontari gari-
baldini sentivano veramente che bisognava accorrere in aiuto della
sorgente repubblica francese, dare la propria vita per un ideale che
non poteva rimanere soltanto nazionale, ma farsi europeo, e pre-
pararsi a divenire universale. E di questa atmosfera tra eroica e
romantica, di questo garibaldinismo, che e Paspetto piu grande
del nostro Risorgimento e quasi un atteggiamento perenne d'ogni
forte ideale, le pagine del Bizzoni e del Socci, piu che le altre, sono
una felice rievocazione. Certo, il Bizzoni ha maggiore ampiezza di
visione, nelle sue memorie: ufficiale nello Stato maggiore delPeser-
cito dei Vosgi, segue gli eventi intendendone i fmi strategici, corre
da un luogo alPaltro e ritrae perci6 piu numerosi quadri, e piu
vari, dell' impresa: e forse anche piu esatti. Mentre il Socci,
angolato in un suo reparto, soldato fra soldati, scorge un piccolo
settore, vede soltanto il battaglione nemico che gli sta dinanzi, i
suoi compagni, la sua awentura. Una differenza che andrebbe cer
tamente a favore del Bizzoni, se qui si trattasse di cercare documenti
piu ampi e sicuri. Ma il lettore si stanca delle preoccupazioni docu-
mentarie del Bizzoni, dei suoi ritorni sui precedenti di una battaglia,
della sua cura nelPindicare lo schieramento delle truppe: mentre
gli sono grate le pagine episodiche, tutte spensieratezza ed estrosita
giovanile, di cui pure Popera e ricca. Proprio per questo crediamo
possano piacere le impression! del Socci: hanno molti dei pregi
del Bizzoni, senza i difetti.
Lo Stuparich, alcuni anni or sono, giustificando la sua preferenza
per il Bizzoni, lamentava che il Socci, molto colorito, avesse un suo
tono « popolaresco », fatto di «vivacita toscana»: noi pensiamo in-
vece che questo sia un pregio del volume. Si leggano, ad esem-
pio, le pagine sul primo tentative di imbarcarsi a Livorno per la
Francia. Sono pagine d'una vivacita piacevolissima: quella spensie
ratezza e ingenuita giovanile assetata di awentura; il buffo gioco
di astuzia tra guardie e volontari, ritratti le une e gli altri con un'iro-
PROFILO BIOGRAFICO 581
nia cosi felicementetoscana; il brio indiavolato sul piroscafo ; quella
madre stizzosa e disperata e buffa che viene a riprendersi uno dei
volontari; e il figliolo che corre per la tolda inseguito, mentre le
guardie dalle barche si divertono allo spettacolo e gridano e aizzano
alia corsa; e poi quel chiudersi delljawentura in un'ombra di ama-
rezza, quasi da ragazzi imbronciati, per cui la politica e la stessa
prigione restano a mezzo tra un serio e grave impegno morale e la
sconfitta in un gioco di fanciulli: tutte queste pagine, libere da
ogni preoccupazione letteraria, hanno la vitalita delPanimo dei
Socci, forte, certo, ma giovanilmente sereno.
Non vi e dubbio che in vari luoghi puo dar noia al lettore qualche
sprazzo di patriottismo e idealismo espressi in forme assai fruste e
lontane dal nostro gusto. Ma non si tratta di retorica: o, meglio, e la
retorica di quei tempi, che ogni generazione ha la sua, senza che per
questo si 'possa dire insincera. Ingenua, se mai, come ingenui appa-
iono nel Socci certi vagheggiamenti di donne, riecheggianti temi
allora di moda : ma egli non tanto li prende dalla letteratura, quanto
piuttosto li ha neiranimo, che si e formato in quel clima spirituale:
il che poi, intorno al 1870, era gia un vivere, letterariamente, in
ritardo, ancorati troppo piu a motivi romantici che non alPormai
avanzante verismo. Ma ogni collocazione storica e necessariamente
da ripudiarsi, per la natura stessa delle pagine del Socci, nate senza
intenzioni, nel puro bisogno di ricordare e di raccontare.
Per la vita e Top era di Ettore Socci esiste un volume abbastanza esauriente,
il migliore che abbiamo: G. BADII, Ettore Socci, Grosseto, M. Minucci,
1923. Ma altre notizie si possono vedere in M. Rosi, Dizionario del Ri-
sorgimento nazionale, Milano, F.Vallardi, 1930 e nett'Enciclopedia biogra-
flea del Tosi, Milano 1936 sgg. Molti articoli commemorativi apparvero
su lui in quasi tutti i giornali per la sua morte: ed e da vedere, specialmente,
r« Etruria nuova », anche per la celebrazione delTanniversario della scom-
parsa.
Per le opere di cui non ci siamo particolarmente occupati, non potendo
fornire una bibliografia completa, si ricordino almeno le seguenti edi2ioni:
Evoluzione o rivoluzione? La donna per ETTORE Socci, Roma, Capaccini e
Ripamonti, 1879; Del partito democratico in Italia, Roma, Stab. tip. ital.,
1886; / misteri di Montecitorio, Citta di Castello, Lapi, 1887; // grido
della rivolta, Citta di Castello, Lapi, s. a., e di esso una nuova edizione
a Pitigliano, Paggi, 1897; Un amore nelVergastolo, Roma, Stab. tip. de
« La Tribuna», 1887; Una signora per bene, Pitigliano, Paggi, 1896; La de-
vota, Pitigliano, Paggi, 1897; Umili eroi della patria e deU'umanita, Milano,
S§2 ETTORE SOCCI
Libr. ed. naz., 1903, e poi Firenze, Bemporad, 1913 e, in quinta edizione,
1930. Per la citata prefazione di Ettore Socci, si veda P. FERRARI, Villa
Glori, ricordi e aneddoti dett'autunno 1867, Roma, Soc. ed. Dante Alighieri,
1899. Per la sua attivita giornalistica si vedano le raccolte dei giornali ci-
tati e, in particolare, deir« Etruria nuova », cui egli collaboro dal 1 895 alia
morte.
Per il volume Da Firenze a Digione. Impressioni di un reduce garibal-
dino, si vedano le due edizioni: Prato, Tip. sociale, 1871, e Pitigliano,
Paggi, 1898. Per una piu completa visione della campagna dei Vosgi, ci-
tiamo: A. BIZZONI, Impressioni di un volontario aWesercito dei Vosgi, Mi-
lano, Sonzogno, s. a. ma 1874; T. STROCCHI, Igaribaldini volontari in Fran-
da, Lucca, « II Serchio», 1871; J. WHITE MARIO, I garibaldini in Francia,
Roma, Polizzi, 1871; G. BEGHELLI, La camicia rossa in Francia, Torino,
Civelli, 1871.
Per un quadro delle operazioni militari, vedi P. MARAVIGNA, La campa
gna di Francia 1870-1871, in Garibaldi condottiero, pubblicato dalTUfficio
storico del Ministero della guerra, Roma 1932.
Notizie su molti dei volontari abbiamo tratte da G. CASTELLINI, Eroigari-
baldini, a cura di C. Agrati, Milano, Treves, 1931, oltre che dal Dizionario
del Risorgimento nazionale del Rosi.
DA FIRENZE A DIGIONE - IMPRESSIONI DI
UN REDUCE GARIBALDINO
— Bada bene che domani ti aspettiamo a Livorno.
— Non ne dubitate . . . Brucio anche io dal desiderio di lasciar
queste lastre.2
— Allora siamo intesi?
— Intesissimi.
— A domani dunque! . . .
E tutti e tre ci stringemmo vicendevolmente la mano, e si stava
per congedarci, quando tutto ad un tratto un prolungato mormorio
ci giunge all'orecchio : e un accorrere di gente, uno spalancarsi im~
prowiso di finestre e di usciali3 di botteghe vicine, un domandare e
un rispondere, un incomposto gridio di ragazzi, un esclamare di
donne, continue e in tuono di spavento.
— Che ci sia la rivoluzione ? — domando un mio compagno che
da circa quindici giorni non sognava che sangue e trambusti.
Senza rispondere alia strana supposizione, mossi dalla curiosita
uscimmo tutti dalla bottega di caffe, nella quale eravamo seduti.
Qual magnifico spettacolo non ci si offerse alia vista!
Era terminate di piovere ed il cielo era tutto rosso, infuocato,
quasiche fosse awolto in un lenzuolo d'amianto; i popolani, tutti
a bocca spalancata tenevano la testa alPinsu, e distornavano gli
sguardi dalPalto, solamente per occhieggiarsi tra loro, lambiccando
il cervello e arrapinandosi,4 per spiegare il fenomeno, che per la
prima volta vedevano, e di cui non erano mai giunti a farsi un'idea.
I lettori si rammenteranno dell* Aurora boreale che apparve ai ven-
ticinque dell'ottobre decorso; e la sera appunto del venticinque
d'ottobre era I'ultima che, a nostro giudizio, dovevamo passare in
Firenze.
— Anche il cielo si tinge di rosso — grido il solito compagno,
i. Questo e i brani seguenti riproducono via via i capitoli dell'edi-
zione da noi seguita, senza interruzioni. Daremo percio notizia, di volta
in volta, solo dei tagli che abbiamo operati. 2. queste lastre: questo lastri-
cato : cioe, questa citta. II Socci usa di frequente modi di dire prettamente
fiorentini o almeno toscani. 3. usciali: usci a vetri. 4. arrapinandosi: ar-
rovellandosi, dandosi molto da fare.
584 ETTORE SOCCI
provocando un'occhiataccia dal padron di bottega, il quale dacche
aveva raggruzzolato la miseria di un mezzo milione si era buttato,
anima e corpo, nella categoria dei ben pensanti. — Allegri, ragaz-
zi, — continue collo stesso tuono di voce lo scapato — gli auguri
non potrebbero essere migliori . . . Ewiva il rosso!
— Ewiva! — rispondemmo noi tutti, contenti come pasque per
la nuova distrazione che ci dava quel caso inopinato e maraviglioso
che faceva inorridire dallo spavento il superstizioso fellak1 e la
donnicciola dei nostri camaldoli ;3 due selvaggi in questo secolo in
cui non si fa che ragionare di civilta.
Dopo pochi minuti, lasciai i miei compagni, e prima di ridurmi
a casa, ebbi vaghezza di vedere, forse per F ultima volta, il lungarno.
Era deserto! Non sto a ripetere tutti i pensieri che, ispirati dalla
solitudine, si accavallavano e si cozzavano nel mio cervello in ebol-
lizione : finalmente si poteva partire, e partire per la repubblica . . .3
finalmente era venuto il momento di far vedere ai nostri nemici
che non si era buoni soltanto a declamare per i cafFe e per le bettole,
finalmente si realizzava quel sogno che da tanto tempo vagheggia-
vamo nel phi segreto dei nostri pensieri. E dire che i pezzi grossi
della democrazia, tutti, come un sol uomo ci avevano sconsigliato.
Ma che vogliono dunque - ripeteva tra me - questi vecchi che coi
loro scritti, colle loro opere sono stati i primi a farci amare la re
pubblica ? - Lasciar solo la, tra un popolo straniero, Garibaldi, e
farci sfuggire una si bella occasione . . . Ma che vogliono dunque
costoro ? . . . Alia fine, soccorrendo la Francia, noi non adempiamo
che al nostro dovere ; si soccorre la nostra sorella maggiore, la patria
delle grandi iniziative, quella che-ci ha istruito colle sue opere, che
ci ha dato sollazzo coi suoi romanzi, che ha fatto le spese dei nostri
teatri, che dal campo sereno e grandioso della scienza a quello fri-
volo della moda ci ha dato ogni cosa; se ci e di mezzo quel male-
i . fellak : contadino (voce araba). 2. camaldoli: in senso generico per « mon-
ti». Camaldoli e una localita delPAppennino casentinese, in provincia di
Arezzo. 3. la repubblica: dopo la sconfitta e la capitolazione di Sedan,
a Parigi era stata proclamata la repubblica (4 settembre 1870), soprattutto
per opera di Leon Gambetta. Garibaldi aveva allora offerto alia Francia
repubblicana il suo aiuto e, dopo varie vicende, era giunto in Francia
e aveva avuto 1'incarico di organizzare i corpi volontari nella regione dei
Vosgi. Vedi P. MARAVIGNA, La campagna di Francia i8jo-i8ji, in Gari
baldi condottiero, Roma, Ufficio storico del Ministero della guerra, 1932,
PP- 353-411-
DA FIRENZE A DIGIONE 585
detto affare di Mentana,1 che colpa ce ne ha la Francia, che colpa
ce ne hanno i discendenti di Voltaire e di Danton, i figli di quella
Nazione che ha proclamato per prima in faccia alPattonito mondo
i diritti delFuomo? . . . Oh! la sarebbe bella, se i nostri soldati fos-
sero mandati in China o in qualunque parte del mondo a puntel-
lare un monarca imbecille e codardo, oh! la sarebbe bella, che se ne
avesse a fare un carico a noi! . . . Eppoi andare contro un re per la
grazia di Dio, noi che non crediamo in Dio e non abbiamo i re
nelle nostre simpatie; aiutare un governo che ha i palloni volanti
per posta2 e per soldato chiunque e buono di portare un fucile;
utilizzare a pro di causa santissima una vita noiosa e disutile, tra-
versare il Mediterraneo, veder citta e paesi che tante volte abbiamo
sentito nominare nei libri, e che tante volte abbiamo desiderato
vedere, riabbracciare i vecchi compagni con cui in altro tempo si e
diviso i pericoli e Pemozioni delle battaglie; inebriarsi di nuovo
tra la polvere, il fumo e Passordante rumore dei combattimenti ; e
udire le grida dei prodi, che si lanciano, come un sol uomo, alia
carica e unirsi a loro e vederli . . . vederli da vicino i terribili soldati
che fan tremare PEuropa,3 misurarsi con essi, picchiarsi, vincere,
morire forse anche pel nostro ideale . . . Oh! le care fantasie che
mi carezzavano Pimmaginazione, sotto quel cielo di fiamme, sul
quale proprio davanti ai miei occhi staccava, superbamente mo-
desto, il tempio di San Miniato! — Anche la son morti dei repub-
blicani,4 — io dissi con compiacenza a me stesso — anche la fu com-
battuta Paspra tenzone che da tanto tempo agita Pumanita . . . Essi
son morti, ma vivono eterni nella memoria del popolo. Oh! toccasse
a noi la lor sorte!
Insomma, d'idea in idea, di fantasticaggine in fantasticaggine,
chi sa dove sarei andato a cascare, se, piu macchinalmente che altro,
non mi fossi ritrovato sulla piazzetta, dove era la mia abitazione.
i. quel . . . Mentana: il ricordo doloroso dell'intervento francese nel 1867,
mentre Garibaldi tentava la sua spedizione nell'Agro romano, che culmino
nella battaglia di Mentana (3 novembre 1867). 2. i palloni ... posta:
Leon Gambetta usci da Parigi assediata, il 7 ottobre 1870, su un pallone
volante. Successivamente, Parigi comunico, mediante questo mezzo, con le
altre region! della Francia non ancora occupate. 3 . i terribili . . . Europa :
i soldati prussiani, intorno ai quali gia si era creato il mito deH'invincibilita.
4. il tempio . . . repubblicani: sul colle di San Miniato sorge la chiesa omo-
nima di architettura romanica, al di la della quale Michelangelo creo quelle
fortificazioni che giovarono alia difesa di Firenze repubblicana contro i
Medici, nel celebre assedio del 1530.
586 ETTORE SOCCI
— Eccolo — esclamo una voce ben nota, appena spuntai dall'angolo
della via.
— Eccolo! — ripresero altre voci.
I miei due amici, a cui se ne erano aggiunti altri due, avevan
fatto un capannello davanti al mio uscio e mi awidi alia prima
che mi aspettavano.
— Abbiamo creduto bene di venir tutti da te; cosi domani sa-
remo sicuri di svegliarci e non recheremo disturbo ai nostri padroni
di casa . . .
— Lo recherete al mio — interruppi . . .
— Non importa; gia ora siamo liberi; abbasso i padroni . . .
— Specialmente quelli di casa, che se si tarda a pagarli, diven-
tano peggio di iene.
— Su . . . su — gridarono tutti.
— Su! — gridai anche io, facendo di necessita virtu; che oramai
bisognava mi convincessi o di girellare tutta la notte, o di portare
in casa mia quell'indiavolati.
S'immagini il lettore, che cosa divenisse in pochi minuti quella
camera; tutti fumavano come camini, ed io in un cantuccio davo
fuoco a certi appunti, coi quali sera per sera confidavo alia carta
le impressioni provate durante il corso della giornata. II mio letto
era piccolo per uno solo e in lunghezza non aveva niente da invi-
diare a quello celebre di Procuste; eppure cotesta sera ci entrarono
in quattro, e non potendo dormire, come e piu che naturale, co-
minciarono a tirarsi spinte e pedate tra loro, facendo un baccano da
mettere in sussulto il vicinato : ora uno stivale colpiva negli stinchi
qualcuno, provocando certi moccoli da fare arrossire un vetturino;
ora si sentiva un urlaccio, che traeva Torigine da un gentil pizzi-
cotto ; ora un guanciale cadeva, a mo* di bomba, sul tavolino, ro-
vesciando il calamaio sul tappeto, che, se non era turco, non era
meno diletto al padrone di casa che ci passava davanti intiere mez-
z'ore in arnrnirazione ; e ad accrescere il diavoleto, risate omeriche,
grida incomposte, esclamazioni piu o meno frizzanti, ma non cer-
tamente autorizzate dal Galateo di Monsignor della Casa.
II piu rivoluzionario dei miei amici si awolse dignitosamente nel
lenzuolo, quasiche fosse un peplo ; ma le forme del futuro difensore
della Repubblica Frances e non erano greche di certo ; i suoi stinchi
potevano benissimo scambiarsi per fusi, e tutto 1'insieme ti dava
un'idea esatta di un Cristo del Cimabue.
DA FIRENZE A DIGIONE 587
— Cantiamo la Marsigliese — grido.
E tutti, con certe voci da birboni, che non le puo immaginare
aH'infuori di chi Pabbia sentite, cominciarono il celebre inno di
Rouget de Flsle: « Aliens, enfants de la patrie », con quel che segue.
— Signori, per carita — urlava con voce piu delle nostre stuo-
nata, la padrona di casa dall'uscio vicino.
— Questa e una vera porcheria — di rimando aggiungeva Fin-
quilino della stanza di contro. — Quando si ha la sbornia la si va a
digerire in campagna.
— A chi lo dice briaco? — protestava offeso, nella sua dignita,
il Romano dal letto.
— Misuri i termini — vociavano gli altrL
— Per chi la ci ha preso ?
— Bellino lui! . . . Fa il feroce, perche e dietro la porta.
— Giu la porta.
— Alle barricate! . . .
— Alle barricate! . . .
Descrivervi la pioggia di proiettili d'ogni genere che fu scara-
ventata su quelFuscio, sarebbe cosa impossibile; era un turbine di
stivaletti, di libri, di guanciali, di spazzole ; il malcapitato se ne and 6
battendo a piu riprese la porta e protestando che andava a far rap-
porto alia delegazione vicina.
— E ora, saranno soddisfatti! — proferi la padrona, sempre dietro
le scene,
Per nostra buona fortuna il chiarore bianchiccio dell'alba si fece
vedere tra gli spiragli delle nostre finestre, ed i miei compagni
partirono allegri e contenti, dopo averci scambiato la promessa di
vedersi tra otto ore in via Grande a Livorno, che le mie occu-
pazioni esigevano che io mi dovessi trattenere tutta la mattina a
Firenze.
Andai per dormire, ma avevo fatto i conti senza Foste, e questa
volta la parte delPoste doveva esser sostenuta dalla mia vecchia
padrona di casa, la quale mi carico di rimprocci, mi torturo coi
suoi omei, mi secco colle sue geremiate - Noi si cercava di rovinarla,
il nostro non era agire da persone educate. - Io presi pretesto da
tutte queste lamentazioni, per restituire la chiave, uscii, senza ascol-
tare scusa veruna, disbrigate in fretta e furia le mie faccenduole mi
awiai, diritto come un fuso, alia stazione, ed aspettando il magico
fischio che doveva annunziarmi la partenza dalla moribonda capi-
588 ETTORE SOCCI
tale del felicissimo regno degli analfabeti,1 mi rincantucciai in un
vagone.
— Era tempo! — esclamera il lettore e non avra tutti i torti.
Ci moviamo: quale felicita! Eppure credevo di dover provare un
poj piu d'allegrezza: il cielo era d'un colore plumbeo e, per quanto
si aguzzasse lo sguardo, non si scorgeva un solo strappo che facesse
sperare il sereno: eppoi, non lo so, partendo non si puo fare a meno
di risentire una certa malinconia . . . son troppe le reminiscenze che
vengono a assalirti, tutte di un colpo! II minimo nonnulla prende
le proporzioni delle cose piu grandi; ci si rammenta i piu incon-
cludenti discorsi, si ripensa alle passeggiate gradite, ai geniali con-
vegni, alle conversazioni che eravamo soliti di frequentare; gli
stessi dispiaceri che abbiamo provato ci sembrano meno crudeli;
e nelle nostre fantasie si affollano invece le gentili esibizioni degli
amici, gli affettuosi conforti delle nostre belle, i favori che ci fu
dato ricevere, frequentando la societa; le vie per le quali eri solito
passeggiare ti sfilano davanti, coi loro negozi, colle loro gentili pas-
seggiatrici che ti sono divenute familiari, quantunque tu non le
abbia mai awicinate: e davanti ai tuoi occhi che distrattamente si
affissano sugli alberi, i quali sembra che fuggano indietro impauriti
a veder passare la macchina, sfilano ad uno ad uno, quasiche fossero
figure di lanterna magica, i volti di tutti coloro che ti conoscono,
che tu conosci, o che hai veduto anche soltanto una volta: le occu-
pazioni che poco fa riguardavi come un martirio, ora ti sembrano
care . . . E quando tornero ? . . . E se non tornassi ? . . . Quante cose
saranno cambiate, nel primo caso . . . chi mi compiangera nel se-
condo? . . . Oh! in questi momenti si comprende Feroismo di chi
per una idea puo lasciare una madre!
— Livorno — grida la guardia.2
«Gia ... a Livorno » pensai tra me e me. - Ed io che credeva
di essermi mosso da pochi minuti! Chi avevo avuto per compagni
di viaggio ? io non me lo ricordo ; probabilmente mi devono aver
preso per matto.
Scendo e vado di corsa in via Grande, ove avevo Fappuntamento
i. capitate . . . analfabeti: Firenze era allora capitale del Regno d' Italia,
qui detto regno degli analfabeti, non tanto per I'effettiva gravissima piaga
delPanalfabetismo, allora molto estesa, quanto perche al Socci appari-
vano politicamente analfabeti gli Italiani sordi alle idee repubblicane. 2. la
guardia: il controllore; e cfr. Carducci, Alia stasione in una mattina d'au-
tunno, v. 1 4.
DA FIRENZE A DIGIONE 589
a Livorno ; il Consolato francese doveva darci modo di pervenire
sicuramente a Marsiglia; che la questura livornese, diretta dal ce-
lebre Bolis, stava con tanto d'occhi sgranati, affinche nessuno salisse
sui vapori francesi, importunando e viaggiatori, e marinari, e fac-
chini di porto, fino a tanto che quest! non avessero dati schiarimenti
piu che lampanti sulFesser loro, o sulle faccende che li facevano
stare sul mare; anche muniti di biglietto, si correva rischio di esser
mandati, e con cattivo garbo, di dove si era venuti, e i passaporti non
si volevano piu concedere ad alcuno.
Sicuro che gli amici avessero fatto le pratiche, che ci era stato
consigliato di fare, io sentii sollevarmi un gran peso dal cuore,
appenache poteimuovere unpasso nella citta; incontrai quasi subito
gli altri, ma ahime qual delusione! . . . Le loro ridenti fisonomie
erano diventate oscure; nessuno di loro osava indirizzare una pa-
rola al compagno, e tutti mi accolsero con quella musoneria con cui
i popoli accolgono un re, dopo un manifesto del Sindaco, che invita
a rimettere anche un tanto di tasca per le spese del ricevimento.
— Che ci e di nuovo ? — domandai con ansia a quelli che mi ave-
vano fatto un cerchio all'intorno.
— Che ci e di nuovo ? — proferi con rabbia, il piu secco e piu
bisbetico. — Perdio! . . . Vieni al Consolato e vedrai . . . E avrebbe
a andar benino dawero!
«
— Andra come doveva andare — soggiunse un altro. — Quando
alia testa ci si vuol mettere certa gente . . . Quando si vuol proceder
sempre con certa maniera . . . Gia lo dicevo io . . . tutte le volte che
ci siam fidati dei Francesi si e fatto un bel bollo.1
— Ma insomma che cosa ci e? . . . si parte? . . .
— Si ... per Firenze, o per dir meglio per le Murate!2
— Ma . . . come?
— Vieni . . . vieni con noi e ti si ripete, vedrai.
Non intendendo alcuna cosa, ma volendomi per lo meno since-
rare su una sventura, che non conoscevo e che ci minacciava, seguii
colla coda tra le gambe i bravi ragazzi.
Arrivammo in due salti alia sede del Consolato; in faccia alia
porta una folia innumerevole di popolani chiassava, si agitava, ge-
stiva; qualcuno, senza far tanti disco rsi, si era gia messa la camicia
rossa sotto la giacchetta; un andare e venire, un rimescolarsi con-
i. un bel bollo: una sciocchezza. £ frase popolaresca. 2. le Murate: e il
nome del carcere di Firenze.
59° ETTORE SOCCI
tinuo, un accalcarsi intorno a qualche povera vittima che esciva dal
portone, un vociar di ragazzi che a capannelli osservavano la scena,
e gridavano incessantemente : —Viva Garibaldi ... — Per una spedi-
zione fatta in tutta segretezza il principio non poteva esser migliore!
— Ma che vi e dunque ? — domandai a un mio compagno.
— II console non si fa vedere, il cancelliere, nuovo Pilato, dice
che se ne lava le mani, e tutta questa gente e rimasta come la ce-
lebre statua di Tenete.
— E che abbiamo da fare ?
— Va tu, che sai alia meglio bestemmiare un po' di francese,
scongiura quella gente a prendere una decisione; lo vedi meglio di
me, qui, se non si schizza tutti in domo Petri1 e un vero miracolo.
Con quale animo andassi, se lo puo di leggieri immaginare il
lettore; chi ben comincia e alia meta dell'opera, dicevano i nostri
nonni che non eran baggei, e cominciare peggio di noi, credo, sa-
rebbe stata cosa impossibile.
Mi feci annunziare al cancelliere e poco dopo venivo introdotto.
II cancelliere era un bel giovinotto ; aveva una fisonomia distinta
ed aristocratica e mi accolse con tutta Teducazione possibile; pure
sin da bel principio mi awidi che la mia presenza gli riusciva in-
cresciosa piii di quella di un creditore, e rimasi convinto che la
camicia rossa non era di certo una delle'simpatie piu sentite di quel-
Pimpiegato. Difatti il nuovo governo della Repubblica Francese
aveva lasciato al suo posto tutti i vecchi funzionari, i quali in quel
trambusto non sapendo a qual santo votarsi cercavano di restare in
bilico, come meglio sapevano, fermi pero nella idea di non compro-
mettersi ; metteteci anche un poj d'affezione alia dinastia che aveva
loro dato quel posto . . . eppoi ditemi, se questa trascuraggine del
governo repubblicano non ha certo influito a che fosse si scarso
il numero degli Italiani, che mossi da un'idea generosa, hanno pu-
gnato e gloriosamente pugnato sui campi di Francia.
— Capisco di gia, perche viene — mi disse pel primo e facendomi
segno di sedere, il cancelliere. — Con mio gran rincrescimento pero,
sono obbligato di dirle che non possiamo far niente per loro.
— Ma, se a Firenze ci hanno inviato qui! ...
— A Firenze hanno perduto certamente il cervello . . . Le pare,
che noi vogliamo suscitare una questione di diritto internazionale!
i. in domo Petri: in carcere.
DA FIRENZE A DIGIONE 591
— Ma anche noi, le ripeto, siamo stati spediti direttamente e a
colpo sicuro: di piu sappiamo che 1'altra sera partirono altri volon-
tarii, mandati da loro, e si ha diritto d'andare anche noi.
— Per me, si figuri, li manderei subito ~ aggiunse 1'altro con un
sorriso, ed io credendo immediatamente a quest'ultimo desiderio
di colui che mi parlava, ma non volendo darmi per vinto, esclamai:
— Ma e cosi che PAmbasciata Francese di Firenze mantiene le
proprie promesse?
— Noi non abbiamo ricevuto ordini dalPAmbasciata . . .
— Ma pure 1'altra sera partirono . . .
— Non glielo nego ... ma sapesse le rimostranze della que-
stura . . .
— Ebbene : su noi puo fidare, noi non la comprometteremo . . ,
ci dia 1'imbarco ... lei vede lo scopo pel quale partiamo.
— Si prowedano dei loro passaporti . . .
— Se non li vogliono dare.
— Prenda un mio consiglio ... lei mi pare un giovane a modo,
torni a casa . . . Metz, se non ha capitolato, poco puo stare a far-
lo1 . . . accetti un mio consiglio, glielo ripeto, torni a Firenze.
— A Firenze poi no! ...
— £ la meglio!
— Mi meraviglio che un Francese . . .
— Allora faccia lei — secco, secco ed alzandosi, per farmi veder
che Tuggivo, mi proferi il cancelliere.
Disanimato, e non volendo attaccare una briga che poteva man-
dare a voto tutti i nostri disegni, salutai appena il mio consigliere,
e gabellandolo per imperialista e anche peggio, scesi di corsa la scala,
e preso a braccetto un mio amico, partii con gli altri dalla piazzetta
del Consolato.
Andare bisognava andare: a dispetto del mondo e delle circo-
stanze; una nuova poesia si aggiungeva a quella immensa che ci
aveva sostenuto fmo a quel punto; sfuggire i questurini, farla in
barba alle autorita costituite, sfidare un nuovo pericolo, raggiungere
il nostro scopo, giusto appunto, quando i pusilli, scoraggiati sa-
rebbero tornati indietro ... era troppo bella, troppo attraente la
prospettiva, per poter stare un soFattimo dubbiosi su cio che do-
vevamo intraprendere.
i. Metz . . .farlo: la citta di Metz, dove il maresciallo Bazaine (vedi la nota
2 a p. 612) era assediato, capitolo il 27 ottobre 1870.
592 ETTORE SOCCI
10 esposi queste idee agli amici, e, godo dire, che queste idee fu-
rono accolte con entusiasmo : ma a che parte rivolgersi per ottenere
I'intento ? Quali passi potevamo tentare con sicurezza ? Quali spe-
ranze ci sorridevano ? Quali probabilita di successo ? Noi non lo sa-
pevamo, il romanticismo di una awentura, che offriva in se stessa
tanti pericoli, ci sorrideva certamente e noi eravamo contenti : con-
tenti come il povero diavolo, abbandonato da tutti, che, incerto
dell'indomani, si addormenta tranquillamente sull'erba di un viot-
tolo, sotto un cielo sereno e popolato di stelle, sognando pace, agia-
tezza, fortuna . . . Oh! 1'idea di un dovere che si compie, malgrado
gli ostacoli che frappongono gli uomini e la sorte, fa piovere in seno
una consolazione che intender non la puo chi non Pabbia provata.1
Andammo all'Agenzia dei vapori della compagnia Valery, e per
quanto scongiurassimo 1'agente, ci fu impossibile ottener da lui,
anche pagandolo il doppio, un biglietto di imbarco. Gli ordini della
questura erano precisi.
— Noi glielo daremmo anche gratis, — ci ripetevano quegli im-
piegati — ma . . .
Quel ma era tanto eloquente, che noi non aggiungemmo parola.
Con un po' di sconforto nelPanima, dopo aver girellato a casaccio
un'altra mezz'ora, affiacchiti e cascanti ci buttammo sulle panche
di un caffe di Via Grande; un tavoleggiante, giovinetto che avra
avuto appena appena quindici anni, dopo averci ben bene sbirciato,
venne da me e chiamommi dapparte.
— Lei vuole imbarcarsi per la Francia ? — mi sussurro a bassis-
sima voce.
— Si — risposi io francamente, che non potevo credere in si gio-
vane eta nequizia veruna.
— Ebbene . . . le do il mezzo d'imbarco.
— Non scherzi ?
— Sulla mia parola d'onore . . . Aspetti un momentino e le porto
Puomo per la quale! . . .
— Bravo, e se farai bene ti prometto una buona mancia.
11 giovinetto se ne ando saltellante e fece poco dopo ritorno,
accompagnato da un barcaiuolo, un pezzo di diavolone, tarchiato e
traverse, che era un piacere a vederlo ; intanto io aveva messo i com-
i. che intender . . .provata: e una evidente reminiscenza del v. n del so-
netto di Dante Tanto gentile e tanto onesta pare.
DA FIRENZE A DIGIONE 593
pagni a parte della peregrina scoperta e, quando questi ultimi vi-
dero awicinarsi quel colosso in giacchetta, gli si fecero incontro
con una grazia e con certe fisonomie cosi gentilmente ridenti, che
si poteva credere che non un omaccio, ma la piu vaga figlia di Eva
fosse entrata in quel mentre nel nostro caffe.
— Dunque loro vogliono andare ? — dandomi una seconda stretta
di mano, comincio a dirmi il barcaiolo.
— Sicuro! — rispondemmo noi tutti — ma vediamo tante dif-
ficolta.
— Si fidino di me, che non fo per dire, ma lo puo domandare a
tutta la piazza, sono uno di quei buoni ... si figurino, ho fatte tutte
le campagne e anche Aspromonte e Mentana e se non fosse perche,
perche . . . e questo non e nulla : quello che ho fatto per salvare i
compromessi politici! Le son cose che forse non le crederebbero . . .
Hanno fatto bene a rivolgersi a me, perche ci e gran canaglia tra i
barchettaiuoli e ... e ...
— E insomma t'impegni di farci entrare in un bastimento, delu-
dendo la vigilanza delle guardie? . . .
— Se me ne impegno . . . Faccian conto di esserci sopra . . .
— Tu potrai contare sulla nostra riconoscenza.
— Oh! io per il partito darei un bicchier del mio sangue.
— Dopo ti daremo qualche cosa . . .
— Oh! mi contento di un trentino per uno.
— Cosi poco! — esclamammo noi, credendo che ragionasse di
centesimi.
— Sicuro . . . vedono che mi adatto : per lor signori cosa son
trenta franchi?
Ammirammo tutti insieme lo spirito patriottico che ci faceva pa-
gare 150 lire, quello che nella stagione dei bagni si ottiene, a dir
molto, con ottanta centesimi; pure, stringemmo la mano al gene-
roso, dicendo che ci saremmo riveduti phi tardi: poiche eravamo
decisi, con nostro gran sacrifizio, ad appigliarci a quest' ultimo par
tito, se gli altri ci fossero falliti.
Ci movemmo dal caffe, e vedemmo un insolito brulichio in quella
contrada, sempre brulicante di popolo : che e, che non e ? . . . Han-
no arrestato un maggiore garibaldino : la questura si era avveduta,
e non ci voleva una gran fatica, che molti giovanotti volevano par-
tire per la Francia e cominciava a allungar le sue grinfe. Lo scon-
forto cominciava a impossessarsi anche di noi.
38
594 ETTORE SOCCI
— Ettore — sento gridarmi vicino. Mi voltai e vidi il colonnello
Perelli.2
— Dunque si parte ? — gli domandai immediatamente.
— Parli a bassa voce . . . che io son tenuto d'occhio, guardi, ecco
subito due musi proibiti che ci osservano . . .
— Ma dunque?
— Dunque venga stasera alia locanda della Luna.
— Ma ci e speranza?
— Credo che ci sia sicurezza ... A rivederci.
— A rivederci a stasera.
— Allegri amici, — dissi subito appena ebbi lasciato il mio inter-
locutore — allegri amici, le speranze, non che diminuire, prendono
tutte le probabilita di un vicino successo . . . Andiamo a mangiare
all'Ardenza.2
Senza rispondere alle mille domande colle quali mi oppressero
gli altri, accesi un sigaro, e andammo all'Ardenza.
II
II sole, awolgendosi in un lenzuolo di porpora, si era coricato
dietro le ultime linee del tranquillissimo mare ; non la piu piccola
nube nel cielo, non il piu leggiero maroso in quella superficie az-
zurra, e dolcemente increspata dal venticello della sera che ci ca-
rezzava la faccia. L'isola della Gorgona appariva modestamente su
quel sereno orizzonte, nel quale cominciava qua e la a apparir qual-
che stella; tutto ispirava una calma e una pace divina; il creato ti
sembrava quasi un'arpa sterminata, da cui si elevasse un canto gran-
dioso; il canto dell'accordo e dell'armonia delle sfere. Pranzammo
stupendamente.
Esatto piu di un impiegato il giorno della riscossione della paga,
lasciai la trattoria e mi awiai in via Grande esaminando distratta-
mente il bello spettacolo che mi si offriva davanti e le nuvolette
grigiastre che mi uscivano di bocca a causa del sigaro.
Arrivai alia Locanda della Luna, e dopo essermi fatto annun-
ziare dal cameriere, passai in un salotto, dove, intorno ad un tavo-
lino nel quale erano varie bottiglie stappate, se ne stavano a chiac-
chiera tre o quattro individui che formavano una specie di Stato
i. Luigi Perelli, garibaldino, gia ferito a Bezzecca. 2. Ardenza: sobborgo
balneare di Livorno, oggi incorporato nella citta.
DA FIRENZE A DIGIONE 595
maggiore del colonnello Perelli. Con mia gran meraviglia vidi tra
loro una giovine donna.
II colonnello era piu brusco del solito e, appena mi vide, si af-
fretto a parlarmi in tal modo: — Anche lei vorra sapere qualche
cosa . . . me lo immagino . . . ma per ora, purtroppo, siamo sem-
pre alle solite : vede, qui siamo in un piccolo consiglio di famiglia
e cerchiamo . . .
— Se fossi un uomo io! . . . — salto a dire la giovine donna, la
quale era la rnoglie di quel Gagliano, arrestato poco tempo avanti
ed ora nascosto in casa, perche tenuto d'occhio dalla questura e
deciso a partire con noi.
— Se foste uomo voi! — borbotto il colonnello — quando non
ci son mezzi . . .
— Garibaldi, quando ha voluto e riuscito.
— Se si andasse avanti colle chiacchiere! . . .
— Eppoi tutti questi giovani che so no qua?
— Li ho fatti partire io , . . forse ?
— Non dico questo : ma e un fatto che non hanno avuto che
cinque lire : quattro e novantacinque ne hanno spese pel viaggio e
cominciano a far chiasso, perche non si sono anche sdigiunati1 e
qua non conoscon nessuno . . .
Quello che udivo era Vangelo! . . . Se certi comitati avessero
agito un poco piu sul serio, non si avrebbero avuto a deplorare tanti
scangei2 e nelFarmata dei Vosgi avremmo avuto piu soldati e piu
buoni.
— E dunque, cosa facciamo ? — ripeterono tutti guardandosi.
A tale interrogazione mi cascaron le braccia; anche qui dunque
non si sapeva a qual gancio attaccarsi, anche qui si passava il tempo,
cullandosi tra le illusion! e le ipotesi, come nel nostro modesto cer-
chio di amici.
Dopo essere stati un poco in silenzio, entro quasi di corsa nella
stanza un tale che gia si era accomodato a fare da ordinanza al
colonnello : proferi sommessamente alcune parole al padrone ; que
sti ci parve soddisfatto ed infatti poco dopo con tuono brioso ci
disse: — Signori, domani arriva il Var, chi e buono di salirci va in
Francia . . . Confido nella vostra accortezza e nel vostro corag-
gio . . . Io tento di salire pel primo ... A domani 1
i. non . . . sdigiunati: non hanno ancora mangiato. 2. scangei: sinistri, in-
cidenti che impediscono il buon procedere di un'azione.
596 ETTORE SOCCI
Non dormimmo in tutta la notte e appena fu giorno, andammo al
porto e prendemmo una barca. Un forte libeccio aveva cominciato
a soffiare ; il mare era agitatissimo ed i cavalloni sbalzavano di qua e
di la, di sotto e di sopra la nostra barchetta, spruzzandoci piu o
meno impetuosamente il volto, e procurandoci quel malessere in-
terno che e il primo principio del mal di mare.
— Oggi me li guadagno — ci diceva il barcaiolo. — E vogliono
girar molto tempo ? . . .
— Fino a che non arriva il vapore!
— Non casca un cencio! . . .* Se arrivera a mezzogiorno! ... 0
anche loro vogliono andare in Francia? ... A me, via, lo possono
dire.
— Ebbene ... si ... vogliamo andare in Francia.
— Me Favevano a far sapere! . . . Guardino, due barche piene
di guardie.
— 6 vero . . . e ora che cosa si fa ?
— Non si sgomentino . . . Figureranno di pescare . . . Prendano
le lenze!
Noi prendemmo questi ordigni e, tramutati li per li in pescatori,
cominciammo con una serieta unica un'operazione che dentro di
noi ci faceva scompisciar dalle risa. lo credo che i pesci fossero i
primi a canzonarci; e' si vedevano guizzare a fior d'acqua, proprio
vicini alFesca fatale; poi face van cilecca e ci lasciavano con un
palmo di naso.
Non so quanto durasse questo divertimento ; mi rammento pero
che ci venne un appetito diabolico: il nostro Caronte, da uomo
saggio capi per aria Fantifona e ci condusse a dei vicini barconi,
dove per lo piu mangiano i marinari e i facchini del porto. Uno
stoccafisso rifatto colle cipolle, ci sembro piu gustoso di un mani-
caretto apprestato da Tomson;2 ci bevemmo due fiaschi di vino, e
ci sentimmo raddoppiati in coraggio e in costanza. Intanto il libec
cio seguitava a infuriare; il mare era divenuto addirittura cattivo;
si troncavano gli alberi delle piccole navi vicine, si vedeva volare
dei cappelli, che appartenevano agli imprudenti che troppo si erano
accostati alia riva ... la cosa comincia ad essere non troppo gra-
ziosa: in quella aspettativa i minuti ci sembravano ore; non aveva-
1. Non casca un cencio: non c'e nulla da obiettare: e frase popolaresca.
2. Tomson-. il piu elegante dei ristoranti di Firenze, Doney, era stato aperto
dall'inglese Thompson.
DA FIRENZE A DIGIONE 597
mo alcuna notizia del moltissimi nostri compagni e non il piu pic
colo indizio ci faceva sperare che si awicinasse il tanto desiderato
bastimento.
Ecco una striscia di fumo! . . . Un oggetto nero, che ingrandisce
a vista d'occhi, si approssima . . . e il Var, si grida tutti con un urlo
di contentezza che si sprigiona dalle piu intime viscere; e il Var,
il momento supremo e venuto, coraggio!
II battello si accosta ad un brigantino, che ha bandiera greca;
in un fiat e circondato dalle guardie. Cominciano le difficolta, noi
siamo decisi a superarle.
— Se non li metto su, che Santa Lucia benedetta mi faccia perder
la vista degli occhi! — grida il barcaiolo, divent?to entusiasta dopo
P ultimo fiasco.
Traversammo arditamente la fila dei bastimenti, e, allorch6 fum-
mo vicini alle guardie, ci sdraiammo nel fondo del nostro piccolo
schifo, Puno sull'altro, proprio alia maniera dei fichi secchi; poi,
scongiurato il pericolo, si giro dietro a una tartana che combaciava
perfettamente col brigantino : i questurini, che non sono mai stati
ritenuti per aquile d'intelligenza, non avevan posto attenzione a
quella manovra che poteva far cominciare a credere la nostra intra-
presa principiasse ad avere molte probabilita di sicuro successo.
— Ed ora come si sale ? — domandai io, molto imbarazzato nel
non vedere alcuna fune.
— Si va per la catena delPancora — aggiunse immediatamente e
con tuono esaltato lo Stefani, il compagno piu secco e piu sussur-
rone tra tutti coloro che erano venuti con noi da Firenze.
La proposizione fu accettata di subito, e io che non ho mai bril-
lato per la mia sveltezza e molto meno per le mie movenze ginna-
stiche, mi aggrappai alia catena di ferro e a forza di urti e di spinte
arrivai ad andar ruzzoloni e facendo un gran tonfo, sul cassero delia
tartana. Riavuto appena dal colpo mi awidi che ero molto al di-
sotto del livello dei miei amici, saliti dietro di me; infatti caduto
sopra un monte d'avena, per quanti sforzi facessi, non giungevo a
capo di trarmi d'impaccio, che ogni sforzo ad altro non era valevole
che a farmi affondare di piu. Dopo essere stato ripescato alia me-
glio dagli altri, saltammo tutti insieme sul brigantino. Pochi passi
piu ed i nostri voti sono esauditi: un maledetto cagnaccio comincla
a abbaiare e finisce coll'attaccarsi alle polpe di mio fratello.
Si tenta Fultimo colpo: il mio fratello lascia al famelico cane uno
598 ETTORE SOCCI
straccio del suoi pantaloni . . . E dire che sperava con questi di far
tanta figura, quando sarebbe sceso a Marsiglia!
II salto riesce, siamo a bordo del Var: i marinari ci accolgono
tra le loro braccia, la gioia ci rende frenetici e tutti insieme confon-
diamo le nostre aspirazioni, le nostre speranze, i nostri voti piu
cari, al magico grido di «viva la repubblica».
— Giu, giu — ci gridarono quei bravi figli del mare, appena che
fu terminate quello slancio di esultanza, e ci buttarono a viva forza
nella carbonaia.
S'immagini un po' il lettore la nostra situazione, in quelPatmo-
sfera soffocante, e con quella polvere, che ci ridusse in pochi mo-
menti in uno stato veramente deplorevole; di piu si aggiunga lo
spettacolo non troppo gradito che ci si presentava alia vista dell'uni-
co finestrino, pel quale prendeva aria questa stamberga; un andare
e venire di barche su cui facevano bella mostra di loro tutte le fac-
cie piu proibite della Cristianita, e pennacchi di carabinieri e mon-
ture di guardie di pubblica sicurezza . . .— Fortuna che siamo pro-
tetti dalla bandiera francese — si diceva tra noi — e qui il Reale
Governo Italiano non conta un bel corno.
Ogni poco veniva a noi qualcheduno delP equip aggio e ci esortava
a soffrire con pazienza. L'equipaggio, composto quasi tutto da ori-
ginarii di Linguadoca, naturalmente par lava provenzale; per cui
grande imbroglio nei nostri, i quali per farsi capire francesizzavano
Fitaliano, creando una lingua ibrida, bastarda, che ci faceva crepar
dalle risa: lingua che si perfezion6 in Francia e che ha fatto dire,
bene a ragione, ultimamente al Bizzoni1 che, se fosse continuata la
campagna, il mondo avrebbe annoverato un idioma di piu; quello
dei volontarii.
Da un paio d'ore si era in quei triboli, quando si vide arrivare
il Perelli che nelPascensione aveva perduto il suo cappello a cilin-
dro. . .
— Cosa fanno qui loro ? — ci disse.
— Lo vede: siamo nascosti.
— Vengano su nelle cabine . . . ci siamo tutti noi . . .
Contenti, come uno che abbia beccato2 un terno, salimmo. Quale
i. Achilla Bizzoni, di Pavia (1841-1904), giornalista e scrittore, partecip6
alia campagna dei Vosgi. Nel suo libro Impressioni di un volontario alVeser-
cito dd Vosgi, Milano, Sonzogno, s. a. ma 1874, e 1'osservazione, qui ri-
cordata, sulla nascita di un ibrido idioma italo-francese. 2. beccato: af-
ferrato, acchiappato.
DA FIRENZE A DIGIONE 599
non fu la nostra sorpresa, quando vedemmo quasi tutti i nostri
amici! - O tutte le guardie cosa facevano li intorno? . , .
La questura ci dava 1'idea di quei mariti che stanno in fazione
di faccia alPuscio di casa, mentre il cicisbeo della moglie passa dalla
finestra.
Una gran risata echeggia da un capo alPaltro del ponte . . . Che
e, che non e ? . . . £ comparso un individuo in perf etto costume di
Adamo. Per risparmiare la spesa del barchettaiolo, oppure per non
esporsi al pericolo di perder qualche cosa, come noi tutti, aveva
preferito di buttarsi a nuoto nel mare. Era un bel giovinotto e ci
riusci subito simpatico per lo strano modo con cui a noi si presen-
tava. Povero diavolo! . . . lo lo dovea rivedere, ma col cranio fra-
cassato da una palla prussiana, sulla gran via di Parigi, sotto Talant,
e mi rincresce di non sapere il suo nome, perche rammentandolo,
forse a lui darebbe un pensiero pietoso qualche anima buona!
Mi conforta, pero, la persuasione che chiunque lo abbia veduto in
quel giorno, non potra cosi facilmente obliarlo, e, leggendo queste
modeste mie righe, capira alia prima di chi voglio parlare.
— Signori, mi rincresce — venne a dirci il capitano — ma per
stasera e impossible la partenza - il libeccio e tremendo ed io non
ho intenzione di mettermi in sicuro pericolo.
— Ma noi . . . saremo sicuri ? — domando uno.
— Sulla mia parola d'uomo onesto, nessuno potra farsi bello di
avere insultato la bandiera francese, qui dove sono io . . . Se non
viene il console a bordo, e se egli pel primo non mi ordina di assi-
stere ad una flagrante violazione del diritto delle genti, i questurini
prima di toccare uno solo di loro, dovranno passare sul mio ca
daver e.
— Grazie, capitano — gridammo noi tutti. — Voi siete un vero
Francese.
— E a che ora si mangia? — chiese sbadigliando uno dei nostri:
a cui le idee non facevano dimenticare di essere uomo.
— Alle cinque . . . ci e il pranzo dei viaggiatori . . .
— Noi veniamo tutti a quello . . . non e vero compagni ?
— Si — risposero gli altri alFunisono.
Io mi azzardai allora di salire : e rincattucciato dietro il parapetto
del bastimento, diedi un'occhiata alia riva vicina: qualche facchino
passeggiava distrattamente in su e in giu, nessuno osservava il no-
stro battello; tutto a un tratto uno scialle rosso e uno nero, compa-
600 ETTORE SOCCI
riscono sulla via ; due donnine dalla taglia svelta si appoggiano al-
rimpalancato che circonda il porto ed aifissano i loro occhi sul Var.
« Chi sieno queste due creature ? » pensai tra me e me e cominciai
a figurarmele bellissime, e mi parvero gli angeli del buon augurio
che fossero venute li a darci il buon viaggio ; ma poi un altro pen-
siero mi sopraggiunse : Povere donne! . . . Devono essere di certo
parenti , ami che di qualcuno che e insieme con noi, e sfidano questo
vento, e questa indiavolata stagione, purche loro sia dato vederlo,
fosse anche per Tultima volta: povere donne! . . . Per noi uomini
la gloria, le improwise e belle emozioni, lo stordimento che ci pro-
curano e i nuovi piaceri e le nuove occupazioni, le gioie dell'orgo-
glio soddisfatto; per esse la solitudine, la lontananza delle care per-
sone, la continua ansia di saperle in pericolo.
Tornai giu e dopo poco ci movemmo tutti per il pranzo ; nel ri-
passare io vidi i due fantastici scialli.
II trovarci tutti insieme a mangiare sul Var, dopo le belle cose
che ci erano accadute, non poteva fare a meno di darci un brio,
una parlantina, un'ebbrezza, che, chiunque ha in zucca un po' di
mitidio,1 comprendera perfettamente alia prima. I nostri appetiti
erano qualche cosa di classico, ed il cameriere di bordo ci guardava
con certi occhi stralunati, pensando certamente che, se ogni giorno
gli fossero capitati di tali awentori, prudenza avrebbe voluto, che
Pordinario2 fosse a dir poco raddoppiato.
Cominciarono i brindisi; i ricordi piu cari s'intrecciavano coi
piu generosi propositi : ora uno parlava degli occhi celesti della gra-
ziosa biondina che aveva lasciato a Firenze, ora un altro giurava di
non aver comprato un revolver perche era sicuro di prenderlo al
primo ufficiale prussiano, che gli si fosse presentato davanti e che
avrebbe ucciso certamente.
— Ewiva, ewiva.
Che c'e?
Entra nella stanza Gagliano! Un altro fiasco che hanno fatto le
guardie!
. — leri passo da Firenze Ricciotti ;3 la — dice — trover emo anche
lui!
i. mitidio: giudizio, senno: & voce familiare toscana, usata per celia (forse
dal greco JITJTIS). 2. Vordinario: le prowiste ordinarie, i pasti usuali.
3. I figli di Garibaldi, Ricciotti e Menotti, combatterono valorosamente
nell'esercito dei Vosgi.
DA FIRENZE A DIGIONE 6oi
— Ewiva Ricciotti — gridano tutti.
— E Menotti, e Garibaldi e tutti i bravi Italian! che ci han pre-
ceduto !
Dopo poco entra Tito Strocchi,1 giornalista repubblicano e va~
loroso soldato, che tanto onore si e fatto dappoi.
— Ma dunque ci siamo tutti!
— Tutti — urlano entrando alia lor volta il Rossi e il Piccini.
— Anche tu! — dicemmo a quest' ultimo — E come hai fatto,
stronco come sei, ad arrampicarti ?
— Eh! ... Le guardie di finanza son dalla nostra e ci hanno in-
segnato la strada. Figuratevi che noi siamo passati per la scaletta,
proprio come se si fosse viaggiatori!
— Ma le guardie ci son sempre?
— Se ci sono! . . . E bisogna vederli quei poveri diavoli a questo
brezzone . . . infilan le pispole,2 come se si fosse in pieno gennaio!
— Anche voi pero . . .
— Non ve lo neghiamo, il freddo ci e entrato nelPossa.
— Del cognac, del cognacl
E il cameriere ci porto una bottiglia polverosa di vecchio cognac.
E qui bevi; bevi in un modo incredibile: in un momento il tavolo
fu pieno di bottiglie, e quando andai per distendermi nella mia
cabina vedevo tre o quattro colonnelli, una ventina di lumi e un
centinaio di persone, tra le quali apparivano, circondati da un'au-
reola, i due scialli che mi avevano fatta tanta impressione pochi
momenti innanzi.
Tale era il mio sonno e, diciamolo pure, 1'alterazione in me pro-
dotta dal vino, che quando mi destai il sole era gia alto. Salii a
poppa della nave dove trovai il povero Rossi, che contemplava
astrattamente rimmensa superficie del mare, divenuto di nuovo
tranquillissimo ; tutto era celeste e Fonde venivano a baciare colla
loro spuma bianchiccia la carena del nostro battello: si sarebbe di
momento in momento aspettato che qualche Nereide sbucasse a
1. Tito Strocchi: vedi la nota 2 a p. 461. Egli ha lasciato, tra I'altro, un libro
di memorie, I garibaldini volontari in Francia, Lucca, «I1 Serchio», 1871;
che insieme coi volumi del Bizzoni, del Socci e del Beghelli forma un inte-
ressante quadro di quell'impresa. Su di lui interessanti pagine nel volume
di E. Socci, Umili eroi della pallia e delVumanita (vedi la bibliografia).
2. infilan le pispole'. stanno al freddo e tremano. L'espressione e del lin-
guaggio familiare toscano. La pispola e un uccelletto che frequenta le pia-
nure e gli scopeti.
602 ETTORE SOCCI
fior d'acqua per rammentare ai mortali le dolcezze del buon tempo
antico.
II colonnello Perelli non se ne stava con le mani in mano ma dava
prova di una instancabile attivita; gia aveva costituito le squadre,
nominandone i capi, gia aveva pensato al mo do di prowedere il
vitto per tutta quella gente (che nella nottata il numero dei volontarii
era asceso fino a cento) ed aveva in serbo per tutti buone speranze
e conforti. La salle a manger era stata trasformata in ufficio di stato
maggiore, ed io fui incaricato di compilare il primo or dine del
giorno.
Cominciavo a scrivere, quando scesero nella stanza Tagente della
compagnia accompagnato dal capitano; mi domandarono dove si
trovasse il colonnello ed io mi mossi per andarlo a chiamare.
Salii immediatamente, e trovai il Perelli a tu per tu con una vec-
chietta, tutta pepe e tutta piangente.
— Queste sono infamie e il governo dovrebbe mandarli in ga-
lera . . . non si strappano cosi i figliuoli alle povere mamme che
hanno fatto tanti sacrifizii per mantenerli.
— L'ho forse chiamato io il suo figliuolo ? — borbottava 1'altro
stizzito.
— Non Io so, ma Io voglio!
— Ebbene, se Io trova, che se Io riprenda!
— Loro me T hanno nascosto, ho girato per tutto e non mi e stato
possibile di trovarlo.
— E allora?
— E allora ? ! allora me Phanno a rendere, e mi meraviglio di lei
che non e piii delFerba d'oggi e che dovrebbe avere un po' di cuore
e un po' di cervello.
— Ma se il nome del suo figliuolo non comparisce nel ruolo! . . .
— Quel briccone ne avra dato uno falso . . .
— Colonnello, — interruppi io — c'e il capitano e Pagente che la
desiderano.
— Vado ... mi sbrighi lei questa donna.
Cercai di persuadere e di consolare alia meglio quella povera
madre che mi rispondeva con impertinenze da levare il pelo : feci
guardare nei buchi piu ascosi della nave, ma non potei rintracciare
suo figlio. Allora la donnicciola impallidi e non potendo resistere
alia pena e allo stringimento di cuore mi cadde fra le braccia sve-
nuta. Un vecchio che 1'aveva accompagnata in barchetta e che
DA FIRENZE A DIGIONE 603
seppi dopo esser marito di lei, salto infuriate sul ponte facendo
un baccano indiavolato, minacciando tutti e bestemmiando peggio
di un turco. La mia posizione, se era interessante, era anche noiosa.
I volontarii si erano affollati intorno all'energumeno e di momento
in momento stava per nascere una pubblicita spaventevole. Ria-
vutomi un pochino dallo stupore, fui preso da rabbia indicibile e
mi venne voglia perfino di scaraventare in mare I'incomodo far-
dello che mi gravava le braccia.
— Oh! andremo in questura! . . .— proferi il vecchio strascinan-
dosi dietro la moglie che s'era riavuta e che urlava a squarcia-
gola: — Birbanti, ladri, assassini, il giusto Dio verra anche per voi!
Appena rimessi da quella brutta impressione, vedemmo capitare
altre due donne. Capimmo, pur troppo, per aria, quello che vole-
vano anche esse. lo incominciai a credere di assistere ad una pro-
cessione di streghe e mi persuasi che il nostro orizzonte comin-
ciava ad oscurarsi dawero.
Una delPultime venute vide il suo figliuolo e noi glielo restituim-
mo. Ecco un altro scandalol II figliuolo non voleva andare a nessun
costo e si mise a correre come uno spiritato offrendo un gradito
spettacolo alle guardie che ci circondavano e che si erano tutte riz-
zate per goder meglio la scena, urlando ad ogni poco : — Piglialo
piglialo.
Non si creda calunnia il contegno che io attribuisco alle guardie :
chiunque e stato sul Var puo fare ampia testimonianza che esse fino
dal bel principio della mattina erano completamente ubriache.
A viva forza spingemmo il ricalcitrante figliuolo giu dal battello;
appena pero egli si assise nella barchetta che aveva accompagnato
sua madre, fu circondato dai carabinieri i quali non curando i
pianti, i lamenti, le disperazioni della disgraziatissima donna, lo
condussero verso le carceri.
— Si nascondano, si nascondano per carita, Pha raccomandato
anche il signor colonnello — venne a gridarci con voce angosciosa
il cameriere di bordo.
— Che c'e dunque ?
— C'e che la polizia vuole acchiapparli . . .
— £) una storiella! . . .
— £ la verita, se lo assicurino.
— Ma il colonnello ?
— - £ nascosto.
604 ETTORE SOCCI
— E tutti gli altri ?
— Hanno seguito Fesempio del comandante ... si nascondano
anche loro . . . o die vorrebbero comprometterci tutti col rimanere
in cosi pochi sul ponte ?
Ci guardammo difatti e con nostra sorpresa il brulichio che ci
eravamo abituati a vedere, era scomparso e tutti i nostri compagni,
come per incanto, si erano dileguati.
Anche noi ci buttammo gattoni verso la carbonaia e poco dopo i
miei amici vi erano gia scesi: ero per seguitarli quando sentii bus-
sare dietro la porta della vicina cabina e la voce del colonnello mi
disse : — Noi siamo qui, venga anche lei. — La porta si schiuse ed
io entrai.
Eravamo sette in una stanzuccia dove a mala pena ci si poteva
rigirare in tre! La grotta di Monsummano1 era al paragone una
cantina in tempo d'estate! Mai bagno a vapore ha ottenuto reffi-
cacia diretta che produceva in noi quelFambiente! i nostri abiti e
le nostre camicie sembravano inzuppate nell'acqua: se le autorita
costituite avessero saputo i nostri tormenti, benevole come sono
verso noi scavezzacolli, scommmetto che invece di arrestarci ci
avrebbero lasciato diverse ore in quel bagno, se non per altro onde
avere il gusto di aprire la porta e trovarci in uno stato di liquefazione
completa.
— Ma cos'e accaduto di nuovo ? — dimandai a bassa voce.
— £ accaduto che la questura lasciava liberamente partire noi
sette o otto, purche prima le avessimo consegnato tutti questi bravi
ragazzi . . . Io ho sdegnosamente rifiutato questa proposta.
— Bravissimo! - E ora?
— Ora credo che sieno andati a riportare la mia risposta al que-
store.
— O guardiamo, se Bolis e tanto birro da violare anche la ban-
diera francese ?
— Prima di farlo vorra pensarci due volte.
— E perche ? . . . I ciuchi hanno sempre dato pedate ai leoni
morenti ... ma per qual causa stiamo nascosti ?
— II capitano e sceso a terra; se gli rilasciano le patenti, in meno
di un'ora si prendera il largo.
i. A Monsummano, in Val di Nievole, esiste una celebre grotta sudorifera,
detta « grotta Giusti », perch6 appartenente a terre della famiglia del poeta.
DA FIRENZE A DIGIONE 605
— Speriamolo . . . perche qui non siamo di certo in un letto di
rose.
Passa mezz'ora, un'ora e nessuna notizia: si comincia a udir qual-
che rumore ; poi sotto la fortezza ci giunge all'orecchio un sussurro
inusitato ; poniamo 1'occhio al finestrino della cabina : il mare e po-
polato di barche, e le barche son popolate d'angioli custodi in
lucerna; affollatissima e tutta la spiaggia: sul cassero un calpestio
concitato e in senso diverse, poi reclamazioni a cui si risponde
dalla parte del popolo con fischiate non interrotte; un battere di
sciabole, uno sbattacchiare di porte . . . pur troppo non vi era piu
dubbio alcuno, il grande atto si era consumato, e gli eroici cam-
pioni del Regio Governo Italiano potevano annoverare una gloria
di piu tra tutte le altre che li ha resi famosi.
Sprangammo la porta; ci rannicchiamo nelle cuccette e, ratte-
nendo il respiro, facendoci piccini piccini colPansia e la trepida-
zione nelPanima, collo sconforto nel cuore, incerti di cio che ci sa-
rebbe accaduto tra pochi minuti ma decisi a giocar di tutto, atten-
devamo di momento in momento di veder saltare la porta.
Trascorre un'altra mezz'ora; si ascolta il rumore dei disgraziati
che sono stati awinghiati pei primi dai falchi del Bolis: si corn-
piangono, ma quale fortuna, se noi potessimo uscir loro dalle un-
ghie! ... II vapore e in movimento . . . Che si parta dawero? Non
si osa credere a noi stessi, ma alia fine ci si persuade che si va . . .
Si va, ripetiamo tutti tra noi, e sentiamo tra ciglio e ciglio Tumor di
una lacrima.— Ci si ferma di nuovo! — esclama un nostro com-
pagno, e pur troppo, ci si convinse di subito della triste verita.
Una testa comparisce al nostro finestrino ; era la testa di un birro,
che da abile esploratore, si era arrampicato al difuori del bastimento,
ed aveva scoperto il nostro nascondiglio.
— Signori, non resistano — ci disse con voce rauca.
Nessuno rispose; egli se ne ando . . . Oh! avessimo avuto un
revolver I
— Lei deve aprirci la porta— ripeteva intanto sul cassero una vo-
cina melliflua, a cui rispondeva Paccento ben cognito del capitano :
— Mi rincresce, ma fu perduta la chiave . . . Passicuro pero che
quello e il mio spogliatoio . . .
— lo ho 1'ordine di perquisire ogni cosa ... si mandi pel ma-
gnano del porto.
Intanto una tempesta di colpi si sprigionava su quel povero uscio.
606 ETTORE SOCCI
— £ impossible trovare il magnano — diceva poco dopo un'altra
voce.
— Signori — gridava allora al buco della nostra serratura quello
che poco fa parlava col capitano. — Signori, io li prego a non com-
mettere imprudenze, si arrendano colle buone; partite e impossi-
bile, non facciano perdere un tempo prezioso al capitano.
Che fare? Qualunque resistenza sarebbe stata inutile e non ci
poteva riuscir che dannosa; ci guardammo in faccia (che facce! il
condannato che vien trascinato al patibolo ne pu6 dare un'idea!)
e con mano tremante il piu vicino alia porta tiro la stanghetta.
Un'ooA prolungato e di soddisfazione ci accolse, appena che
comparimmo.
Dalla scena che si presento allora ai nostri occhi, un pittore
avrebbe potuto prendere argomento per un bellissimo quadro ed
un letterato per una magnifica descrizione. Una lunga fila di cara-
binieri e di questurini occupava tutto il lato del bastimento che
• era dicontro alia nostra cabina; piu avanti il giudice d'istruzione
colla ciarpa1 turchina. Bolis raggiante di contentezza, e un nuvolo
di delegati e d'applicati di Pubblica Sicurezza che si davano un
moto, un daffare indicibile, e si pavoneggiavano, esponendo al ri-
spettabile pubblico ed aH'inclita guarnigione le fasce tricolori che
avevano a tracolla, come segno indiscutibile della loro autorita. II
capitano serio serio rivolgeva delle parole concitatissime al console,
che appoggiato ad un tavolino, con una faccia di tramontana2 guar-
dava distrattamente il cancelliere che redigeva il processo verbale.
Tra le squarciate nuvole3 si era fatta strada la luna; e pareva che
ci mandasse un compassionevole sguardo ; sulla spiaggia uno scin-
tillio di baionette, sulle quali si ripercoteva il malinconico raggio
della poetica face dei cuori sensibili e degli innamorati, ci abbar-
bagliava la vista e ci rendeva sicuri che molta truppa era sotto
Tarmi, e che la questura di Livorno non aveva trascurato verun
prowedimento, perche i pesciolini non le scappassero di rete. Una
lunga processione di bar che solcava le onde tranquille del mare
sulla cui superficie una miriade di atomi luminosi, frequenti piu
delle stelle del cielo, avrebbe fatto nascer la voglia di intonare un
bel canto alia natura, se natura ed uomini non si fossero mostrati
i. ciarpa: sciarpa. 2. faccia di tramontana: fredda, insensibile, come se
fosse intirizzita dalla tramontana. 3. Tra le squarciate nuvole: remini-
scenza del v. 115 del manzoniano coro di Ermengarda nell' Adelchi.
DA FIRENZE A DIGIONE 607
cosi accanitamente contrarii ad una impresa che tanto avevamo so-
spirato e che, purtroppo, cosi miseramente finiva.
Le trombe che suonavano la ritirata sui bastioni della vicina for-
tezza ci suonavano in cuore meste, come il pensiero che manda in
quell'ora il coscritto alia madre, alia casetta paterna, alle occupa-
zioni di un tempo : meste come quella luna, come quei visi lunghi
dei nostri compagni che ci passavano davanti colla rispettiva ac-
compagnatura, come i popolani che vedendo la loro impotenza a
salvarci ci guardavano da riva con occhi stralunati e pregni di
lacrime.
— Ma Gagliano . . . Gagliano dove e? . . . Noi credevamo che
fosse tra loro !...—- esclamo Bolis, dopo averci ben bene sbirciati.
— E perche han fatto resistenza? — ci domando con un sorrisetto
volpino il giudice d'istruzione.
— Perche! ... — rispondemmo noi tutti a una voce e in tuono di
meraviglia.
— Si ... quando sapranno tutto, chi sa che non sieno i primi a
ringraziarci.
— Ringraziarlo di averci arrestati?
— Sissignori . . . Oggi e venuta la notizia della capitolazione di
Metz.
Quest'ultima sassata, che cosi benignamente ci si scagliava nel
nostro infortunio, ci fece nascere li per li una tal rabbia contro
quegli arnesacci di una bottega fallita, che loro volgemmo disde-
gnosamente le spalle. Gia . . . e egli possibile che le idee di sacri-
fizio, di abnegazione, di generosita, possano esser comprese anche
alia lontana, da un birro ?
— L'ho, Tho preso! ... — saltando come un burattino, e fregan-
dosi le mani, strillo con la sua vocina da pettegola il Fassio, awi-
cinandosi a noi. Questo Fassio e uno dei piu famigerati ispettori di
Pubblica Sicurezza che si abbia in Italia; garibaldino nel 1860,
come succede di tutti gli apostati, ora e diventato la piu gran co-
lonna della sbirraglia italiana.
« Che qualcuno di noi avesse in tasca una mitragliatrice ? » pensai
tra me e me. « O che tra i nostri compagni si sia mescolato sotto
mentite spoglie qualche gran malfattore ? ! »
Difatti 1'aria del Fassio me lo faceva sperare: Cristoforo Colombo
che dal ponte del suo bastimento vede baluginare qualche cosa,
che ha sembianza di terra; Moltke a Sadowa che riceve Fannunzio
608 ETTORE SOCCI
delParrivo del corpo d'armata del bon Fritz,1 ci possono dare a
malapena un'immagine della beatitudine che provava in quel mo-
mento il rinnegato democratico.
Dietro di lui si vide arrivare lemme lemme il Gagliano in uno
state tale, che, se ne avessimo avuta la voglia, ci avrebbe fatto crepar
dalle risa. Nero, per lo meno come uno spazzacamino, stizzito come
un giocator di Mako che fa Pultima cista,2 senza azzardarsi nemme-
no di farci un saluto, il povero uomo passo a capo basso davanti alle
autorita e fu fatto immediatamente scendere in una barchetta, dietro
la quale in un'altra fummo messi io, mio fratello, il colonnello ed
un giovinetto, che ancora non conoscevo.
— Viva la liberta d' Italia! — si gridava tutti come pazzi per via,
ed i carabinieri non ardivano di dirci una sillaba; anzi dalle loro
fisonomie si vedeva chiaramente che avrebbero lasciato quell'in-
carico alle guardie di questura, che tutte impettite, boriose si te-
nevano delParresto di giovani inermi nello stesso mo do che avreb
bero fatto, se avessero vinto la battaglia piu aspra che si sia com-
battuta, dacche mondo e mondo,
Giunti vicini alia Sanita, dove vedevamo sbarcare tutti gli altri,
un carabiniere mi tocco dolcemente nel braccio e mi accenn6 un
vaporino, la cui caminiera3 faceva fumo.
— Vede quello la ? — mi disse — Era preparato per loro, qualora
avessero preso il largo.
Guardai, e quello spauracchio mi fece sorridere; il grande edi-
fizio navale non aveva che due cannoni, uno per parte e di un ca-
libro cosi modesto, che sembravano piuttosto giocattoli da bimbi
che utensili da guerra. Oh! . . . se si fosse usciti dal porto, se si
avesse cominciato a flare . . . se erano buoni ad acchiapparci con
quel trabiccolo, sarei stato contento di perder la testa! . . .
La barca si fermo : noi scendemmo. Diedi un ultimo sguardo al
porto, vidi il camino del Var che fumava, e il battello che era in
movimento! Oh come in quelFistante il mio pensiero ricorse alle
i. Moltke . . . Frits: la vittoria di Moltke a Sadowa (3 luglio 1866) fu age-
volata dal sopraggiungere dell'armata del principe ereditario Federico Gu-
glielmo. Helmut von Moltke (1800-1891), capo dello Stato maggiore prus-
siano di re Guglielmo I, elaboro nel 1868 e attuo nel 1870 il piano strategic©
della guerra franco-prussiana cui soprattutto si dovettero le strepitose vit-
torie tedesche. 2. Mako . . . cista: il macao e un gioco di carte in cui la
cista, rappresentata dal dieci o da una figura, equivale a un punto nullo.
3. caminiera: ciminiera.
DA FIRENZE A DIGIONE 609
cabine, dove ci eravamo sdraiati la sera avanti alia medesima ora:
oh! come desiderai che il tempo ritornasse indietro di poche ore
soltanto per non essere sicuro della barbara realta, che ci opprimeva
in quel mentre.
Moltissima gente si era affollata ar due lati della porta che condu-
ceva alFurHzio della delegazione del porto. Tra questa gente io vidi
di nuovo i due scialli . . . Ma dunque, non ci abbandoneranno piii
queste donne?
Un vecchietto, con li occhiali d'oro piu giu che a meta del naso,
rincantucciato in uno sgabbiolo di legno che faceva le veci di scrit-
toio, via via che si passava ci chiedeva il nostro nome, quello dei
nostri parenti, il nostro domicilio e la nostra professione.
— Possono partire — grido poco dopo con voce tonante il Bolis,
Giove Tonante di quell' Olimpo di birracchioli e di guardie di tutte
le qualita e di tutte le dimensions
Un applauso prolungato fece eco a queste parole ; i giovanotti ere-
devano di essere liberi . . . Poveri grulli! . . . Quale storia ci ha mai
fatto sapere che il gatto si lasci scappare il sorcio dalle unghie?
— Avanti I ... — urlarono con mala grazia a loro volta le guar
die ...
— O dove si va ? — cerco qualcheduno.
— Loro non lo devono sapere.
A noi, come presi insieme col colonnello, fu fatto il favore di
farci passare nella caserma dei carabinieri ; ci si disse, in attesa di
ordini superiori.
Intanto gli altri traversavano via Grande, tutta gremita di po-
polo che li accompagnava con applausi frenetici ; ci voile del buono
e del bello per sconsigliare i popolani a non far qualche pazzia,
ed essi allora, non potendo fare altro, si mostrarono generosissimi
con quei poveri diavoli che venivano trasferiti alle carceri ; e fu una
pioggia continua di sigari, di pezzi di pane, d'involti di compana-
tico, e persino di foglietti da mezzo franco e da un franco. II popolo
e generoso, e al primo indizio di lotta vicina, come un uomo solo
corre al suo posto. Oggi protesta con gli urli alle guardie e colle
battute di mano ai prigionieri, domani muore, santificando il prin-
cipio democratico, sulle barricate. Perdendo lo vedrete marcire
nelle carceri, e soffirire per le vie; vincendo, voi lo vedrete al la-
voro!
I carabinieri ci accolsero con tutta la gentilezza immaginabile,
6lO ETTORE SOCCI
ci domandarono se avevamo bisogno di qualche cosa, e noi che,
come uomini, dopo tante ore di disagio si aveva diritto ad avere
appetito, ordinammo del salame, del prosciutto e un poco di vino.
Incontrammo in quella stanza lo Strocchi; anche egli aveva ri-
cevuto lo strano favore di essere trattato un po' meglio del rima-
nente della spedizione.
Chi era stato la causa diretta delPinvasione del Var ? lo non lo
saprei dire. Hanno qualche carattere di verita le accuse che si son
palleggiati 1'uno con Taltro e a vicenda diversi individui che face-
vano parte della nostra mandata? lo credo di no: credo soltanto
che il governo Italiano, il quale ha sempre in serbo un granello
d'incenso per chi trionfa ed e forte, siccome e uso di tutti i codardi,
sia sempre disposto a tirar sassate da orbi a tutti quelli che per
propria disgrazia si trovano a terra; e cosi, mentre or non sono
pochi anni, per non violare la bandiera Imperiale di Francia si la-
sciavano tranquillamente a bordo dell'Authion i fratelli La Gala:1
in pieno 1870 si aveva il coraggio di buttar giu porte, scassinar
serrature e strappare a viva forza dei giovani generosi, che dovevano
essere sacri, perche protetti dallo stendardo di una nazione arnica,
di un governo che si era riconosciuto, ma che versava in pericoli
immensi.
— E dove ci mandano ? — domandammo al brigadiere dei cara-
binieri, dopo che avemmo veduto un soldato, latore di un piego,
che fu letto attentamente dal capoposto.
— lo devo trasmetterli ai Domenicani.
— Sicche proprio in prigione?
— Pur troppo!
Un lungo silenzio tenne dietro a queste parole. Creder di andare
i. Cipriano La Gala, gia condannato dal governo borbonico a venti anni
di galera per furto con violenza, fuggi dal carcere nel 1860 e si pose a capo
di una banda sowenzionata dagli spodestati Borboni, che molto contavano,
per una restaurazione, sul brigantaggio nell' Italia meridionale. Vinta e
scompaginata la banda, il La Gala si rifugi6 nello Stato pontificio e di 11, col
fratello Giona e alcuni compagni, si imbarc6 sul piroscafo francese Aunis
(non Authion). A Geneva, durante la sosta della nave, col consenso del con
sole di Francia, il prefetto fece arrestare i fratelli La Gala e i loro compagni,
ma ne nacque un incidente diplomatico, in nome della extraterritorialita
del piroscafo. L' Italia dove restituire gli arrestati, chiedendone successiva-
mente alia Francia Pestradizione, e, ottenutala, dove* mutare la condanna a
morte di Cipriano La Gala nei lavori forzati a vita, secondo la condizione
impostale dalla Francia. Vedi A. PIERANTONI, // brigantaggio borbonico-
papale e la questione dell* Aunis, Roma, Soc. ed. Dante Alighieri, 1900.
DA FIRENZE A DIGIONE 6ll
in Francia e sgusciare diritti come fusi in prigione, era una cosa che
non ci si aspettava di certo, e, per quanto tutti, chi piii chi meno,
ci si piccasse di esser filosofi, e malgrado che dopo Parresto questa
soluzione fosse Tunica prevedibile, una tal notizia dettaci li a bru-
ciapelo, mentre il ritardo ci aveva fatto rinascere in cuore un po'
di speranza, ci mise a tutti un diavolo per capello.
— Si facciano coraggio, — ci diceva il brigadiere — prendano le
cose con calma . . . tutt'al piu sara il male di qualche settimana!
Qualche settimana! - E gli pareva di dir poco al buon uomo! . . .
Rinunziare alia vita, alle nostre speranze, non goder piu di quella
liberta, che e primo attributo di ogni essere, ma sia pur per un'ora,
per chi sente qualcosa e sempre un supplizio.
— Entri, entri, ma mi raccomando non faccia scene — cosi di
ceva, introducendo nella stanza la moglie di Gagliano, un carabi-
niere.
— Veramente! ... — borbotto alzandosi il brigadiere . . .
— Lasci correre; — ci affrettammo a proferire noi tutti— nessuno
parlera di questo colloquio.
— Ti hanno messo le manette, questi vili, eh? - E tu non hai
avuto cuore di bucar loro la pancia ? — gettandosi al collo del ma-
rito, e frammischiando al suo dire qualche singhiozzo, esclamava
la donna.
La presenza di una donna in quell'ora tristissima, in mezzo ai
carabinieri, dopo tutte le emozioni che si era subito durante il corso
di quella giornata memorabile, ci procure un sollievo e uno stringi-
mento di cuore, che non mi provo nemmeno a descrivere.
— Le carrozze son pronte!
— Partiamo!
— Meno male che marciamo en grands seigneurs.
— Di' piuttosto, come i malfattori che vanno alia Corte d'As-
sise . . .
— Eh I . . . loro ed i principi sono i soli che hanno diritto di avere
una scorta! Gli estremi si toccano . . .
— E si rassomigliano!
Si monto nelle carrozze e dopo un breve tratto di via ci fer-
mammo : sentimmo cigolare una porta . . .
Eravamo giunti ai Domenicani.
6l2 ETTORE SOCCI
III1
La prigione! ... £ mai vissuta creatura umana, diro con Guer-
razzi, che sollevando le pupille verso il soffitto di una di quelle
mude nelle quali, per rawederlo, s'incretinisce il colpevole, non
abbia esclamato esser questa 1'invenzione piu barbara, che mai sia
mulinata nel cervello deiruomo? Quattordici passi di lunghezza;
sei di larghezza: una finestra alta cinque piedi da terra, e dalla cui
ferriata a quadrelli vedi sempre quel medesimo strappo di cielo,
quella medesima tettoia delPedifizio difaccia, quella medesima
stella che sera per sera, par che venga a darti un saluto canzonato-
rio; un pagliericcio per sdraiarsi: una brocca d'acqua per bere; in
quanto a mangiare . . . ci sono le mani che paiono fatte apposta
per questo! ... II rumore del mondo, in mezzo al quale ti trovi
ma che, almeno per ora e morto per te, viene a colpirti gli orecchi
nella tua solitudine; ed ora qualche allegra canzone ti rammenta i
bei tempi delle scampagnate gioconde: ora i concerti di una mu-
sica militare t'inebriano, ti rapiscono in pensieri Tuno piu delPaltro
impetuosi: ora il frastuono della via, le urla dei venditori, il con-
tinuo passare delle carrozze ti riportano ai momenti in cui tu pur
passeggiavi, in cui tu pure davi alia sfuggita un'occhiata alle belle
signore che come Dee ti passavano innanzi agli occhi, trasportate
da' loro cocchi: insomnia un cumulo di reminiscenze che ti stra-
ziano 1'anima. E un martirio che fa deperire e qualche volta impaz-
zire Puomo d'ingegno e di cuore, e che indurisce vieppiu chi e
incallito nel vizio. Aggiungete a tutto questo Pobbligo di restare li
chiuso, mentre, alia semplice idea di esser costretto a fare una cosa,
fosse pure la piu gradita, si prova la piu gran repugnanza.
Grazie alPamabilita del capo guardiano dello stabilimento, fu
cercato di renderci meno dura che fosse possibile la prigionia. Ci
misero in cinque in una stanza, lasciarono che si fumasse a nostro
belPagio : ci si passavano i giornali, dove tra le altre cose appren-
demmo Pinfame tradimento del generale cortigiano Bazaine:2 non
i. In questo capitolo abbiamo soppresso due brani. 2. II maresciallo Fran-
$ois-Achiile Bazaine (1811-1888) aveva capitolato il 27 ottobre, aprendo ai
Prussian! la fortezza di Metz. La capitolazione fu considerata colpevole, il
Bazaine fu processato e condannato a morte. II Mac-Mahon, allora presi-
dente della Repubblica (vedi la nota 2 a p. 660), gli commut6 la pena nel
carcere a vita. Ma il Bazaine riusci a evadere dal forte dell'isola di Sainte-
Marguerite e a rifugiarsi in Ispagna.
DA FIRENZE A DIGIONE 613
ci era fatta alcuna restrizione nel mangiare e nel here : ci si trattava
insomma coi guanti, e inservienti e guardiani, lungi da far pompa
di quelle mosse scortesi di cui si spesso e si volentieri fanno pompa
coi carcerati di bassa estrazione,1 si perdevano in scappellature ed
inchini e venivano due o tre volte per ora a domandarci, se si
abbisognava di qualche cosa. Non era compassione questa: no
dawero! Anche la avendoci veduti insieme col colonnello e per
questo scambiandoci forse per uno Stato Maggiore, si cercava en-
trare nelle nostre buone grazie, perche si aveva la ferma credenza
che eravamo pezzi grossi . . . Quell'ingegno ferace, che tanto pre-
dominava sugli altri per lo spirito d'osservrazione e che cosi presto
doveva esser rapito alTItalia, intendo parlare di Carlo Bini,2 nelle
sue riflessioni sui prigionieri ha dettato delle pagine meravigliose
per la verita sulle distinzioni sociali, che con scrupolo sono vene
rate ancora nelle carceri . . .
Dunque, come ho detto, eravamo in cinque in una prigione.
Gagliano, il colonnello, il mio fratello, io ed un giovinetto peru-
gino, che per la prima volta si moveva da casa, e che era innamorato
come un ciuco di una ballerina cui aveva promesso per quanto prima
Tanello nuziale.
II primo giorno non vedendo alcuna probability di un interro-
gatorio, non facemmo che scrivere. Scrivemmo al console, a una
dozzina di deputati, a una mezza dozzina di giornalisti, e perfine al
Lanza:3 in tutti i nostri scritti si protestava contro la patente in-
giustizia, di cui eravamo stati le vittime, e si scongiurava, affinche
fosse troncato quello stato penoso, che temevamo si prolungasse
ancora per un lasso di tempo non indifFerente.
Uno dei nostri, che era stato diverse volte in prigione sempre per
afTari politici, ci inizio nei misteri della vita non troppo geniale del
carcere, e c'insegno tra le altre cose un mezzo sicuro, per comuni-
care con gli altri infelici, quantunque fossero in stanze dalla nostra
lontane : il nome tecnico di questo nuovo sistema di comunicazione
e il cavallo ; si attacca ad un sasso o a un pezzo di legno una carto-
lina, in cui si scrive quello che vogliamo; si awolge poi tutto
i. di bassa estrazione: di umile classe sociale. 2. Carlo Bini (1806-1842),
di Livorno, mazziniano, autore del Manoscritto di un prigioniero> di cui
una larga scelta si puo leggere nel tomo I dei Memorialisti delVOttocento,
in questa collezione. 3. Giovanni Lanza (vedi la nota 4 a p. 457) era allora
presidente del Consiglio.
614 ETTORE SOCCI
ad un filo e dalla finestra si lancia dove si ha intenzione di farlo
recapitare; i ptigionieri nella solitudine aguzzano tanto Fingegno,
addiventano tanto maestri nella precauzione, che se s'ingannano
una volta sola, in questo nuovo bersaglio, si pub assicurare che e
una fatalita. Inutile il dire, che noi ci servimmo di questo mezzo
spessissimo, e sul principio facemmo delle matte risate alle spalle
di qualcheduno il quale piu che si piccava ad essere gran tiratore,
piu ne mandava di fuori.
Come son lunghe, eterne
Pore del prigionier!
canta il tenore nel secondo atto del Pipelet,1 e se noi non cantavamo
queste parole, se ne comprendeva pero in quei momenti tutta la
desolante verita. Addormentarsi colle galline, essere in piedi ai
primi chiarori dell'alba; appena desti, eccoti ad assalirti la spaven-
tevole idea di quattordici o quindici ore d'inerzia forzata; oh; al-
meno oggi tuonasse, infuriasse una gran tempesta . . . sarebbe una
distrazione! ... Oh! se si avesse nel cuore la mansuetudine peco-
resca del Pellico,2 che potremmo passare ore intiere, facendo asce-
ticamente delle contemplazioni sulle tele di ragno, che in si gran
numero e, a mo' di tendoni, adornano la volta della nostra abita-
zione! Oh! venisse un nuovo carceriere gobbo, sbilenco, rachitico,
o per lo meno tartaglione: si potrebbe ridere qualche tempo alle
sue spalle . . . Ma no signori, sempre i medesimi volti, sempre il
medesimo cielo ne sereno, n6 brusco, sempre qualche pezzetto di
ragnatelo che ci da fastidio, cadendo ed appiccicandosi sui nasi re-
spettivi . . .
Passammo altri due giorni in questa completa atonia; gia tre
giorni che eravamo separati da tutti, gia tre giorni col timore che i
nostri compagni avessero bruciato delle cartuccie contro i Prus-
siani! . . . Finalmente venne 1'interrogatorio : un interrogate rio pro
forma, dove ognuno rispondeva a casaccio tutto quello che gli ve-
niva alia bocca, dove s'inventavano scuse cosi magre e storie cosi
bambinesche, che sarebbero cadute al primo soffio di un accusatore,
i. Pipelet: commedia lirica ispirata alia figura di un personaggio dei Misteri
di Parigi di Eugenic Sue. Su libretto di RafTaele Berninzone, musicato da
Serafino Amedeo De Ferrari (1824-1885), il Pipelet fu rappresentato la
prima volta a Venezia il 25 novembre 1855. 2. la mansuetudine . . . Pellico:
la religiosa rassegnazione del Pellico, da cui sono animate Le mie prigioni,
fu giudicata dagli spiriti piu ardenti come ignavia e colpa.
DA FIRENZE A DIGIONE 615
fosse anche il piu dozzinale. Entrammo dal giudice colla speranza:
si credeva che finite I'interrogatorio ci avrebbero rimandato: in-
vece quale non fu la nostra sorpresa, quando ci vedemmo di nuovo
rinchiudere nell'aborrita stamberga, che ci aveva accolto fino a
quel giorno?
— Non ci mandano via che a guerra finita — borbotto stizzosa-
mente uno di noi.
Chinammo tutti la testa, che tale cominciava a diventare 1'uni-
versale credenza.
E passo un altro giorno, eppoi un altro: era il tre di novembre;
la vigilia eravamo stati di un umor perfidissimo ; senza provare al-
cuno dei sentimenti dettati dalla religione, quelle campane che in-
vitavano a andare a commemorare i defunti, ci facevano pensare
ai nostri poveri morti, a quelli che caddero per le nostre idee,
a quelli che cadevano in quel mentre per far scudo coi loro corpi
a una pericolante repubblica, per opporre un argine airirrompente
valanga dei venduti soldati della monarchia degli Hokenzollern . . /
Noi eravamo mesti, e si passava intere mezz'ore difaccia alle qua-
drelle delFinferriata, tanto per vedere quel miserabile lembo di
cielo : orizzonte rimpiccolito come quello delFidee che ci bollivano
in testa e che non si potevano espandere.
II tre novembre fu un gran movimento pei corridoi, un via vai
continuato e un accorrere di guardiani. Qual nuova awentura era
giunta a disturbare la quiete monotona di quel sepolcro di vivi ? . . .
II caso era nuovo.
Rossi, Piccini, Stefani ed altri fiorentini avevano avuto Tidea
bizzarra di commemorare i caduti a Mentana; ne correva Panni-
versario,2 e loro, come avanzi degli Chassepots di De Failly,3 vollero
degnamente onorarlo ; coi pagliericci improwisarono un catafalco,
ci posero sopra una camicia di flanella rossa, lo circondarono con
venticinque candele steariche, comprate la sera avanti, eppoi at-
taccarono un cartello nel quale a parole cubitali era scritto:
Ai Martiri di Mentana
i superstiti Repubblicani.
i . Hokenzollern: naturalmente Hohenzollern. 2. V anniversario : era dunque
il 3 novembre 1870. 3. II generale francese De Failly aveva vinto a Men
tana i volontari di Garibaldi. I suoi soldati avevano usato i nuovi fucili
chiamati Chassepots, ed egli telegrafo al governo francese che le armi cosi
collaudate avevano fatto «meraviglie».
6l6 ETTORE SOCCI
S'immagini un poy il buon letter e, quando i guardiani entrarono
nella prigione, per portare il becchime a quegli uccelli ingabbiati.
Vedere tutti quei lumi, poi quel catafalco . . . c'era da fare andare
in bestia il secondino piu mansueto che abbia mai esercitato questa
nobile professione! Subito un reclame dal direttore, il quale seguito
dal capo guardiano, dallo stato maggiore e da un nuvolo di carce-
rieri si presenta maestosamente sulle soglie delle profanata stan-
zuccia.
— Questo e troppo! . . . lo sono buono, ma non lo sono tre
volte . . . Impongo loro di tor via quel cartello rivoluzionario . . .
— Ma noi non diamo noia a nessuno, e poi qui chi lo vede ?
— Non importa . . . Lascino pure il catafalco ma levino il car
tello!
— Ma se nessuno puo leggerlo! . . .
— lo ho usato troppe gentilezze con loro : - questo scandalo non
lo subisco . . .
— Ma se non v'e scandalo!
Insomma, per il buon della pace, fu necessario tor via quel disgra-
ziato cartello. - £ un fatto, chiaro, lampante e arci che provatissimo :
i governi che pericolano hanno paura dei morti, eguali in tutto e
per tutto alFinfermo incurabile che fa il viso serio solamente a
sentir parlare di morte.
In premio di non aver preso parte alle dimostrazioni sowertitrici
dei nostri amici, quel giorno noi fummo mandati a prender aria
un'ora piia presto.
Una dolce sorpresa ci attendeva sulla terrazza: arrampicandoci
suirinferriata, e spenzolandoci come meglio si poteva, si vide se-
dute sulla spalletta di un fosso che attraversava la via, le due fate
dai magici scialli, che tanto mi avevano dato a riflettere sul Var : esse
guardavano in su; era certo che qualche prigioniero aveva portato
con se molta parte di cuore di quelle creature che credevamo vez-
zosissi'me e che le ci apparivano,1 come una visione, nei momenti
piu climaterici di quella intrapresa.
Ci si perdeva, come di solito, in congetture su quelle apparizioni,
quando venne un custode e con ilare fisonomia ci disse: — Giu,
giu nella stanza del capoguardiano.
-— Ci son novita?
i. che le ci apparivano: sgrammaticatura propria del linguaggio parlato
toscano (e cfr. a p. 633: «che ne andavano in solluchero »).
DA FIRENZE A DIGIONE 617
— Become! - Loro son liberi.
— Liberi! — urlammo noi e ci stringemmo Pun Faltro la mano.
Scendemmo a rotta di collo le scale, entrammo nel corridoio,
dove di subito fummo circondati dal nostri compagni, che ci ab-
bracciavano, ci baciavano, ci opprimevano di mille domande; chi
troverebbe parole per descrivere Temozione di quel momento so-
lenne? Xon era il tornare a vivere che ci sorridesse soltanto: era
Pidea che prima o poi avrernmo raggiunto nostro padre, che tale
deve considerarsi da un giovane Teroe leggendario della liberta e
del progresso, che tale deve essere riguardato da tutti coloro che
soffrono, il prode general Garibaldi.
Fassio, incaricato dalla questura ad assistere alia nostra libera-
zione, voile farci sospirare, piu che fosse possibile, un tanto ago-
gnato momento. Eravamo una lunghissima fila, ognuno che usciva
dalla stanza provocava in tutti un sospirone che si poteva tradurre
in queste parole : <? Lui felice . . . ed io pure, che mi awicino alia
liberazione! »
Venne la mia volta. Entrai. II commissario mi abbordo subito
con queste parole: — Lei e di Firenze?
— Sissignore!
— Vuol fare il viaggio a spese sue o a conto della questura ?
— Ma io voglio restare in Livorno.
— £ impossible!
— Se ci ho i miei interessi!
— Non importa: lei e di Firenze e deve tornare a Firenze!
— Ma questa e bella!
— O bella, o brutta . . . tali son gli ordini.
Strana logica invero questa della polizia! Se nel mio interrogato-
rio avessi detto di essere del Missisipi chi sa che la questura non
mi avesse spedito gratis fino a quelle lontane regioni! . . . Ah!
averlo pensato! !
A tutti gli altri fu fatta la medesima proposizione : tutti accet-
tammo di andare a spese nostre, decisi di tentare ogni via per sfug-
gire ai questurini.
— Domani si presenteranno al questore in Firenze — disse allora
il Fassio con tuono burbanzoso, e poi volgendosi al Piccini aggiun-
se : — Lei mi par piu serio degli altri, fara da capo squadra . . * Alia
stazione li accompagneranno le guardie, ne li lascieranno fino a che
non avranno preso il biglietto.
6l8 ETTORE SOCCI
LValtra speranza che si dileguava. Bisognera tornare per forza
donde eravamo partiti con tutta allegrezza.
— Possono andare , . . e si sbrighino perche il vapore1 parte a
momenti.
Dei picchi ripetuti all'uscio della nostra antica carcere, richia-
mano Puniversale attenzione verso quel posto. £ Gagliano che pro-
testa airingiustizia e alFinfamia: e il rumoroso Gagliano che solo
vien rilasciato ai Domenicani per conto della questura. — Scrivete
sui giornali, — egli vociava — fate nota la nuova ingiustizia, dite
che mi si vuol rovinare da questa canaglia. — Nessuno porgeva
ascolto alle di lui querele, qualcuno rideva: Tuomo che esce da un
pericolo diventa egoista.
— Via» via — ci disse il nostro accompagnatore, una specie di
Don Checco,2 scalcinato come un poeta, e zoppicante, come un verso
sciolto di qualche genio incompreso.
Demmo un ultimo sguardo alia stanzuccia che ci aveva racchiusi
quei giorni, e, cosa strana, provammo un certo dispiacere ad abban-
donaria. Quanti pensieri, quanti generosi proponimenti, quanti ri-
cordi, quante speranze non ci avevano agitato la dentro!
Quando io esco di prigione, e lo dovevo imparare benissimo
dopo, grazie al benigno nostro governo, io provo il medesimo ef-
fetto di quando esco da un bastimento. Mi gira la testa e le gambe
mi reggono appena . , . quella sera mi pareva di essere addirittura
ubriaco. Ed anche senza parere ubriaco, io credo che la nostra co-
mitiva avesse in se tanto di umoristico da farsi guardare da chiun-
que passava.
Figuratevi : prima Don Checco con una mazza gigantesca, su cui
si appoggiava, ma che non era valevole a farlo passar per meno
zoppo di quello che era: poi il colonnello in cappello a cilindro
coi due tubi di latta, in cui erano le carte geografiche, ma che di
notte gli davano un'idea di Sesto Caio Baccelli,3 con gli annessi
cannocchiali; dietro a loro il giovinetto innamorato con due vali-
gione, che erano vote, ma che egli aveva portato con se per dar
polvere negli occhi alia polizia; in coda noi altri urlando, chiassan-
i. iltapore: il treno; e cfr. Tultimo verso dell'ode carducciana Allefonti del
Clitumno. 2. Don Chfcco: commedia lirica su libretto di Almarindo Spa-
dettm, musicata da Nicola De Giosa (1820-1885). La prima rappresenta-
zione awenne a Napoli I'n luglio 1850. 3, Sesto Caio Baccelli: I'imma-
ginario astrologo, la cui bizzarra immagine figura sulla copertina dei lunari
che hanno il suo nome.
DA FIRENZE A DIGIONE 619
do, facendo le fiche a quel povero diavolo, che tentava attaccar di-
scorso con tutti, senza che nessuno gli rispondesse: in poche pa
role egli sembrava un precettore che conduce a passeggiare una
mandata di birichini, e scommetto che in quell'ora, avvedutosi della
parte ridicola che sosteneva, avrebbe mandato in quel paese Bolis,
la Francia, il Ministero e gli eroi della liberta.
Arrivati alia ferrovia, le guardie ci fecero ala, ne si allontanarono,
fino a che non avemmo presi i biglietti.
— Dunque a rivederli, signori ~- traendo un sospiro di conten-
tezza ci disse il delegato.
— Dica addio! — riprendemmo noi tutti.
— Grazie dell'accompagnatural — proferiva uno in tuono di burla.
— La ci saluti Bolis . . .
— Al piacere di non riverirla mai piu . . .
E via di seguito con espressioni piu o meno frizzanti, tutte ail'in-
dirizzo di quell'mfelice che, impappinato come un pulcino nella
stoppa, voltandosi ad ora ad ora per darci una sbirciata piu o meno
benevola, se ne ando quatto quarto e colla coda tra le gambe.
Entrammo nella stazione: quelli che viaggiavano a conto della
questura erano stati ficcati in due vagoni di terza classe, e cantava-
no: cantavano dalla rabbia o dal piacere? Xon saprei dirlo dawero,
ma e un fatto che un uomo che si trova in una situazione eccezio-
nale, prova un refrigerio, stuonando un'arietta; i ragazzi che hanno
paura a andar soli in una stanza canticchiano, i poveri coscritti
cercano alle canzoni montagnoie e ai patriottici inni quel coraggio
che invano cercherebbero al cuore.
Ecco i due scialli! . . . Ecco le due donne che ci hanno fatto tanto
almanaccare colla testa sul Var e in prigione! - Oh! finalmente ci
e dato awicinarle! — Sono la madre e la sorella di un arrestato — mi
sussurra uno, che ho accanto. Mi approssimo a loro. Qual delusio-
ne! La madre e sbilenca, le mancano due denti davanti ed ha una
bazza, come quella del barone Ricasoli.1 E la figlia ? Mi risparmino i
lettori rorrore di descriverla! . . . Un viso da leticare il giallo alle
carote,2 un personale impossible, due mani che certamente non
sarebbero state sproporzionate per il Biancone3 di piazza. Mi fecero
i RicasoU: vedi la nota 2 a p. 429- 2. Un viso . . . carote: riecheggia un
verso di Giuseppe Giusti, nella poesia La scritta. 3- «' Bia"c°™'' COS1 e
chiamato dai Fiorentini, con intenzione spregiativa, il Nettuno dell .\mman-
nati che sorge sulla fontana di Piazza della Signona.
620 ETTORE SOCCI
mille complimenti, mi volevano presentare il figliuolo e il fratello,
io con una scusa qualunque voltai loro gentilmente le spalle, che
amavo credere il nostro compagno di sventura, gobbo, sciancato,
ridicolo: per potere almeno avere il vanto di aver conosciuta la fa-
miglia piu brutta che in questi tempi borgiani1 passeggi sotto la
cappa del cielo!
Pochi minuti dopo entrammo tutti nel convoglio: Piccini che
doveva essere il capo squadra, ci sfugge : il treno & in movimento e
noi ci troviamo, spinte e sponte2 trasportati a Firenze.
IV3
Essere in Firenze, e ricominciare a studiare le strade per tornare
in Francia fu tutt'una. II male si era, che le nostre piccole risorse
avevano avuto un colpo tremendo, e che la questura aguzzava,
come Argo, cento occhi per spiare i nostri movimenti piu piccoli,
le nostre piu segrete conventicole. Non si credano esagerate le mie
parole: per il malaugurato afFare di Livorno si era imbastito un
processo, e si adopravano nelle sfere go ver native a tutt'uomo per
mandarlo avanti o di rifFe o di rafFe : si voleva infatti far vedere alia
Prussia come in Italia fossero ligi al principio di neutralita e come il
governo non dividesse per nulla le idee piazzaiole di quello scomu-
nicato di Garibaldi.
Noi dal canto nostro non stavamo con le mani in mano, e, tra le
altre cose (vedete, come eravamo poeti) si cerco di organizzare in
Firenze una compagnia tutta Toscana, che si sarebbe chiamata dei
carabinieri delP Arno. Un tal disegno ci porto per le lunghe : e tra
proposte, decision], consigli si perse un tempo prezioso.
II colonnello non lo vedemmo piu: gia non e fuor di luogo il
notare che egli apparteneva alia fioritura di quei colonnelli ga-
ribaldini, il cui nome non si e mai conosciuto sui campi di battaglia,
che non hanno mai comandato nemmeno un plotone ma che sono
i. tempi borgiani: tempi di tradimento e delitti. La famiglia Borgia (Ales-
sandro VI, Lucrezia Borgia ecc.) era divenuta, attraverso una produzione
letteraria soprattutto franeese, documento di ogni piii grave infamia. Ma
qui il Socci ripete Tespressione che Garibaldi adoper6 in un suo messag-
gio di solidarieta al deputato Lobbia il 22 giugno 1869, in occasione della
aggressione che quegli pare avesse subito. 2. spinte e sponte: in parte
forzatanaente e in parte spontaneamente : sponte e av\'erbio latino, su cui e
scherzosamtente costruita, con valore avverbiale, la forma spinte. 3. In
questo capitolo e stato soppresso un episodio marginale.
DA FIRENZE A DIGIONE 621
sempre in prima linea in tempo di pace. Buon uomo in fondo!
Discrete ingegnere idraulico, dopo avere almanaccato tutte le ore
del giorno suIPacqua, pigHava, la sera, certe sbornie che parevano
castighi di Dio! Mori poco dopo per congestione cerebrale. Pace
alPanima sua!
Mentre nelPAtene dell'Arno, quantunque muniti delle piu belle
intenzioni, non si dava ne in tinche, ne in ceci,1 il coraggioso e
bravo Ricciotti compieva la rornanzesca impresa di Chantillon.2
La democrazia e tutti coloro che sentono amore per P Italia, ap-
plaudivano il giovane condottiero, che con un pugno di uornini,
sorprendeva, notte tempo, ottocento Prussiani, ne faceva piu che
quattrocento prigionieri, e toglieva loro buon numero di cavalli e
di armi.
Garibaldi, dopo aver costituito il suo microscopico esercito a
Dole, si era portato ad Autun, e dopo avere ottenuto splendidi re-
sultati a Lantenay, si era spinto fin sotto Dijon, ed avrebbe certa-
mente occupato questa citta, se la imperizia e la codardia della
guardia mobile non lo avesse obbligato a ritirarsi fino nella citta da
dove si era partito con tanta speranza nel cuore. I Prussiani ave-
vano cercato di sorprenderlo, capitando airimpensata in Autun, ma
grazie alPesattezza dei tiri delle batterie da montagna che Pillustre
generale aveva sotto i suoi ordini, ed al valore dei giovani volontari,
i tremendi soldati che facevano paura a tutta PEuropa, dopo averne
buscate come ciuchi, si erano refugiati a rotta di collo dentro Dijon,
dove il general Werder aveva piantato il suo quartier generale.3
Queste notizie che leggevamo sui giornali erano tante stilettate
per noi; gia varii dei nostri compagni erano partiti alia spicciolata
per la Francia. lo mi rammento che in quei giorni mi vergognavo
ad uscir soltanto di casa: mi pareva che tutta quella gente che era
conscia della mia prima partenza mi ridesse sul muso, e che dentro
1. non si . . . ceci\ non si concludeva nulla: e frase popolaresca toscana.
2. Nella notte tra il 18 e il 19 novemfare 1870 Ricciotti Garibaldi con mille
franchi tiratori, spintosi entro le linee nemiche, sorprese il presidio di
Chdtillon sur-Seine, presso Digione, gli inflisse gravi perdite e torn6 in-
dietro con molti prigionieri e grande bottino. L'episodio e narrato ampia-
mente da A. BIZZONI nel capitolo xv delle sue Impressioni di un volontario
air esercito dei Vosgi, cit. 3. / Prussiani . . . generale: dopo la capitolazione
di Metz, da lui assediata, il generate von Werder (vedi la nota 3 a p. 651)
pote volgere tutti i suoi sforzi contro il corpo dei volontari. In realta, il
Socci da eccessivo rilievo all'episodio di Autun (i° dicembre 1870), che pure
mostro il valore dei garibaldini.
622 ETTORE SOCCI
di s6 mi rimproverasse queH'inerzia, che cTaltronde era la conse-
guenza logica della mia situazione.
Finalmente un giorno capit6 da me, che in quel momento avevo
gia dimesso il pensiero di poter prender parte alia campagna di
Francia, il Bocconi, e, senza che io proferissi nemmeno una parola,
mi disse:— Sei sempre deciso di venire in Francia?
— Sicuro! — gli risposi.
— Allora domani Taltro partiamo.
— Xon burli?
— Ti parlo del miglior senno possibile . . . ci stai sempre ?
— Se ci sto! . . .
— Allora siamo in cinque.
E nssammo di vederci due sere dopo al Caffe Ferruccio ; che Tora
della nostra partenza era alle quattro del mattino ; saremmo andati
a Geneva per via di terra, non essendo cosa ben fatta il tentar di
ripassar da Livorno, dove il questore Bolis comandava tutt'ora a
bacchetta.
La sera che dovevamo partire me ne andai solo solo al teatro
Principe Umberto;1 chiacchierai cogli amici, mi mostrai piu di
buon'umore di quello che ero realmente, dissi male degli Italiani
che erano andati in Francia, e protestai di riconoscer di avere io
fatto malissimo a partire la prima volta. Che volete ? I casi che mi
erano accaduti antecedentemente mi rendevano sempre piu con-
vinto, che a voler che un'impresa vada per il suo verso, e necessaria
un poj di gesuiteria, e che una persona che crede di andare avanti
colla buona fede, e collo spifferare tutto quello che ha sullo sto-
maco, in generale finisce colPavere il male, il malanno e Fuscio ad-
dosso.
Salutai gli amici e verso mezzanotte mi ridussi al caffe Ferruccio.
I miei quattro compagni non avevano mancato airappello e co-
minciavano a sussurrare della mia tardanza; alcune nostre cono-
scenze fiorentine, colle quaii potevamo fidarci a occhi chiusi, si
erano assise al nostro tavolino, e sotto voce ci davano qualche con-
forto, o si lamentavano di non poterci seguire.
II caffe si chiuse alle due, ed i nostri amici partirono. Qui comin-
ciarono le dolenti note. Sembra una cosa incredibile, ma in Fi-
renze capitale d* Italia, fu impossibile di trovare un locale che fosse
aperto in quell'ora. Un nevischio impertinente ci filtrava nell'ossa,
i. teatro Principe Umberto: vedi la nota zap. 465.
DA FIRENZE A DIGIONE 623
e ci batteva sulla faccia, procurandoci dei brividi che erano salutati
da veementissime apostrofi. Come furono lunghe quelle due ore! . . .
E con qual gioia non si saluto Paprirsi dei cancelli della stazione!
Gli Ebrei che giunsero finalmente a mettere il piede nella terra pro-
messa, dovevano forse aver provato la medesima gioia . . . mag-
giore e impossibile.
— Prudenza, ragazzi — ci disse a bassissima voce il Materassi,
uno dei nostri.
•— Che c'e ? — proferimmo tutti spaventati.
~ Guardate! — e ci accenno colla mano una delle piu celebri
guardie di sicurezza fiorentine, che prendeva il biglietto.
Soprapensieri, come eravamo noi tutti, cominciammo a temerel . . .
Ci si butto in un vagone, e dopo un'ora eravamo a Pistoia. Altro
intoppo! . . . Viene una guardia e ci annunzia che dovremo restar
li fermi, a dir poco due ore. La neve impediva che il treno proce-
desse, fino a che una macchina non fosse andata ad esplorare la
ferrovia. Difatti per quanto tu stendessi lo sguardo, non ti era dato
di vedere che un bianco lenzuolo: bianchi erano i monti lontani;
bianche le collinette vicine; gli alberi piu alti sembravano pianti-
celle di giardino, ed invece di essere in quella localita cosi ricca di
vegetazione tu avresti, a buon diritto, creduto di essere ai piedi
delle Alpi.
Per digerire il male umore, e per farci passare il freddo dalle ossa,
bevemmo un par di bicchieri di cognak, che era proprio un castigo
del cielo, ma che fu da noi bevuto con quella filosofia con cui si
trangugia una medicina.
Le due ore si tramutarono in piu di tre: finalmente torn6 la in-
vocata locomotiva: rimontammo nei nostro vagone, e insieme con
noi rimont6 la guardia di pubblica sicurezza. — Che si avesse a
fare la seconda di cambio ? — si pensava tutti tra noi, ma nessuno
ardiva dirlo al compagno.
Maggiore il nostro desiderio di sbrigarsi, minore la velocita con
la quale si andava: la neve infatti piu che ci si awicinava alPAp-
pennino prendeva delle proporzioni imponenti ; a tutte le stazioni
intermedie bisognava fermarsi una buona ora: ad ogni fermata si
trangugiava un bicchierino d'acquavite.
— Aqua vitae* lo chiamavan gli antichi, — declamava il Mate-
I. Aqua vztae: acqua di vita, che da vita. L'espressione latina e deformazio-
ne intenzionale di « acquavite *.
624 ETTORE SOCCI
rassi, vecchio soldato — per mettere anima in corpo par fatta ap-
posta.
Si comincio a traversare gallerie e a percorrer viadotti! . . . Quali
considerazioni non vengono in mente al maestoso spettacolo, che
scienza ed arte offrono innanzi ai nostri occhi! . . . E pensare che
un secolo fa sarebbe stato trattato da pazzo, chiimque avesse pre-
detto la magica impresa, e pensare che il primo Napoleone, il genio
della tirannide, rise sulla faccia a colui che gli proponeva il sublime
ritrovato delPumana potenza! . . . Ma cosi e; disgraziato chi trionfa
alia prima: Tumanita e codarda coi grandi, e ne attua solamente
i grandiosi disegni allorquando essi non sono che polvere! Gio
vanni Uss,1 Galileo, e tanti e tanti altri ce ne possono e ce ne
potranno dare un esempio. Corri adunque, o macchina apportatrice
di civilta e di grandezza: corri, che tu ci rappresenti il progresso
che non cura gli intoppi o che li debella; gli ostacoli cadono a te
davanti : tu ti fai strada tra le impraticabili montagne, in mezzo alle
piu folte boscaglie: superi fiumi, traversi estese pianure, riunisci
e fai conoscer tra loro popoli diversi di costumanze, di tradizioni,
e generalized Tidee generose, a dispetto del prete che ti stigmatizzd
quando nascesti ; a dispetto del retrograde che in te vide Tannun-
zio di sua prossima morte.2
A Pracchia ci dovemmo trattener altre due ore , . .
... Mi sembra inutile descrivere ai miei buoni lettori il lungo viag-
gio che avemmo a fare da Bologna a Genova. Le famose awenture
in ferrovia, che sono cosi spesso tirate in ballo dai romanzieri, per
me sono fa vole belle e buone; noi fummo trasportati, nelFidentico
modo con cui sono trasportati i bauli. Avemmo a compagni dei
mercanti, dei contadini e dei soldati in congedo; ci fermammo per
far colazione, come tutti gli altri a Piacenza; mangiammo di nuovo
a Tortona; bevemmo una buona bottiglia di vino a Novi, non
potemmo fare a meno di ammirare la magnifica vallata di Serra-
i. Giovanni Huss (1369-1415), rinnovatore religiose boemo, seguace di
Wycliffe, fu arso vivo il 6 luglio 1415, a Costanza. 2. Quest'esaltazione
progressistico-giacobina delle strade ferrate, quant'e comune a molta lette
rs tura europea dell'Ottocento (cfr. A. GERBI, La disputa dd Nuovo Mondo,
Milano-Napoli, Ricciardi, 195 5, p. 571, 575, 584), tanto piu trionfa in con-
temporanee scritture italiane di autori politicamente afftni o vicini ai Socci
(per es. Tlmw a Satana di Carducci; e cfr. la nota i a p. 618).
DA FIRENZE A DIGIONE 625
valle,1 schiudemmo i cuori alle piu liete speranze, osservando Tin-
finito numero di fabbriche di San Pier dj Arena, e scendemmo a
Geneva nelle prime ore della notte.
La luna illuminava il monumento di Cristoforo Colombo che e
sulla piazza della stazione. Xoi volgemmo un saluto a quel grande,
che in ricompensa di un nuovo mondo si ebbe le catene da un re,
e ci persuademmo, che per volger di secoli e per variare di avveni-
menti Fumanita non e punto cambiata.
Xostro primo pensiero fu di recarci da un certo individuo, che
ci doveva dare il mezzo sicuro, perche si potesse muovere senza di-
sturbi alia volta di Francia. Ci aveva dato una lettera di racco-
mandazione per questo genio benefico, Andrea Fieri, uno dei no-
stri buoni amici fiorentini, giovane egregio e provato patriotta, di
cui la democrazia piange a lacrime amare la perdita. Trovammo
quasi subito la tanto desiderata persona, e secolui ci riducemmo in
una bettoluccia non molto distante dal teatro Carlo Felice, bettoluc-
cia frequentata soltanto da marinari, e da qualche facchino di
porto.
— Noi si vuol partir subito — fu il primo discorso che facemmo.
— Non dubitate . . . domani sera voi partirete . . . Domattina . . .
uno di voi verra con me e combineremo ogni cosa.
— Va bene!
— Ma saremo disturbati qua in Geneva ? . . . — dimandai io che
avevo sempre fisse in mente le persecuzioni con cui ci onorava il
Bolis a Livorno.
— Loro possono an dare tranquillamente ... Si figurino, in
quest'ultimo mese ne ho gia imbarcati piu di duecentocinquanta.
Mi rincresce non poter nominare questo giovane che con tanta
abnegazione si prestava per procurare dei difensori alia francese
repubblica; egli in oggi e uno dei miei amici piu cari, ma, se lo
nominassi, domani forse non avrebbe piu pane e, quello che e
peggio, non 1'avrebbe nemmeno la sua numerosa famiglia.
Si dormi in un albergo, a cui c'indirizzo il nostro amico ; il pro-
prietario, i earner ieri la pensavano come noi e terminammo la se-
rata cullandoci tra le piii belle illusion! e facendo i piu attraenti
progetti per Pawenire.
Al mattino Materassi ando a fissare per la partenza; noi andam-
i. vallata di Serravalle: la valle del torrente Scrivia dal confluente padano
ai valico appenninico dei Giovi.
40
626
ETTORE SOCCI
mo a vedere i magnifici giardini dell'Acquasola ed ammirammo
tutta la poesia di una splendida giornata; il mare, la terra, il cielo
erano ridenti, ridenti come il nostro pensiero, che spaziava in quel-
Poceano di luce, in quel verde sterminato delle miriadi di piante
che ci circondava, e che traeva da tanta magnificenza di natura
nuova forza per tentare Pimpresa, e certa speranza di sicura riu-
scita.
— Stasera alle otto si parte! — ci disse a pranzo il Materassi.
— Ma come ?
— Andremo ad uno ad uno al battello . . . lo vo per il primo : voi
mi seguirete.
SulFimbninire ci avviammo al porto ; il porto di Genova e senza
dubbio il primo d'ltalia: il continue movimento, Paffaccendarsi di
migliaia di persone, lo sterminato numero di navi che vi sono an-
corate, lo svariato numero di vapori che s'incrociano arrivando e
partendo, disegnando sull'orizzonte una lunga striscia di fumo, ti
rendono certo di essere in uno degli emporii commerciali tra i piu
accreditati in Europa. A terra hai il lavoro, in mare hai il vapore:
le due leve che rialzeranno Pumanita fino all'altezza dei suoi glo
ries! destini; Pattivita individual e la scienza!
Se i barcaioli di Livorno ci si erano mostrati usurai e sordidi,
quelli di Genova ci sorpresero per il loro galantomismo.
— Lei va in Francia ? — mi domando quello che guidava la mia
barca.
— Si — gli risposi.
E lui, zitto come un muro.
— Quanto devi avere ? — gli domandai quando fui giunto alia
scala del bastimento.
— Mi dara mezzo franco.
— Soltanto! — esclamai io con sorpresa.
— £ il mio avere.
Io gli diedi due franchi, egli mi pose in mano il resto e si offese
quando gli dissi che del resto io intendeva fargli un regalo.
A bordo, mi buttarono giu tra le cabine dei marinari. Dove erano
gli altri ? Sul bastimento di certo, e se non li vedevo quella sera,
li avrei veduti quando Tana fosse piu liberal
Noi eravamo nientemeno che sul Conte Cavour, vapore italia-
nissimo e appartenente alia compagnia Aquarone. Mi sdraiai alia
meglio in una cabina, quando entro nella stanza un tale, che mi fu
DA FIRENZE A DIGIONE 627
presentato con queste parole da un marinaro: — - Anche lui, viene
in Francia.
— E di dove viene ? — io gli richiesi.
— Vengo da Milano, ed ho fatto a piedi fin qui tutta la strada . . .
— E come mai ?
— lo ero nei cavalleggeri Monferrato e son disertore!
lo lo guardai e sentii compassione di lui ; io non ho mai creduto
che Timpresa di Francia potesse riuscire, e, se andavo, era sola-
mente perche reputavo un delitto per un repubblicano il non ac-
correre la dove si pugnava e si moriva eroicamente intorno al glo-
rioso vessillo delPumana emancipazione. Morire e nuila per chi ha
un poco di cuore : ma andando alia guerra ci son maggiori proba-
bilita di restare che di andare tra i piu, e se quel povero diavolo
Pavesse scampata, che avrebbe fatto? In Italia non poteva tornare
di certo, in Francia non sapendo una parola di lingua francese
sarebbe morto di fame . . . Oh! quanti eroi vivono e muoiono igno-
rati, in questo secolo falso in cui si inneggia aireffetto scenico dei
bugiardi eroismi!
Questa volta ci si moveva dawero ; allorche io ne fui proprio si-
euro mi addormentai profondamente.
Quando al mattino mi destai noi eravamo fermi.
— Venga pur su dai suoi compagni — mi disse un mozzo.
— Ma perche ci siamo fermati?
— Siamo a Savona: ci fermiamo fino a stasera.
— E avremo altre soste avanti di arrivare a Marsiglia ?
— Oh! ... sissignore! Per lo meno resteremo dieci ore a Porto
Maurizio.
I miei compagni, secondo il solito, piu fortunati di me, erano
stati messi nelle cabine di prima classe. Io li trovai nel cosi detto
salone, nel quale ci si rigirava appena, tanto era piccolo! ... ma
pure lo avevano battezzato come salone.
Prendemmo un caffe, e si assise con noi un polacco, che bistic-
ciava alia peggio un po' di francese: egli ci disse che veniva in
Francia, e che era gia stato ufficiale di cavalleria neiPesercito au-
striaco e prussiano, e per convalidare cio che diceva, ci mostro
una fotografia, che aveva in tasca, dove era rappresentato in alta
montura di ussero. Alia nostra domanda se avesse intenzione di
arruolarsi con Garibaldi, fece una smorfia e protestandoci di amare
i volontari, ma di trovarsi al suo posto soltanto tra tmppe discipli-
628 ETTORE SOCCI
nate, ci fece noto il suo divisamento di entrare nell'esercito di
Bourbaki/ allora in formazione, io credo, a Chalons.
Era Intanto sceso giu da noi il macchinista, un be! tipo di Fran-
cese meridionale, un repubblicano a prova di bomba, che faceva
parte del Comitato di Marsiglia e che anzi s'incaricava di condurre
piu gente che gli fosse possibile in quest'ultima citta. La testa di
quest'uomo era molto espressiva; fronte spaziosa e barba foltis-
sima; con un berretto frigio sul capo ti rassomigliava perfettamente
uno di quei celebri convenzionali2 che tanto impaurirono ed entu-
siasmarono la Francia sullo scorcio del secolo decimottavo. Franco
e leale egii cantava le cose come le sentiva, per cui alle parole del
polacco, che aveva terminato il discorso con mille elogi degli eser-
citi permanent!, sola speranza di una nazione in pericolo (sic) alzo
furiosamente le spalle, e fini borbottando : — Xoi non andiamo
d'accordo.
— E come e vestita la cavalleria in Francia?— gli domando il
discendente di Sobieski,3 che persino in viaggio era di un'eleganza
ineccezionabile.4
— Da soldato! — rispose Taltro bruscamente e volgendosi a noi
ci disse a bassa voce e in genovese : — Dev'essere un imbecille, un
soldato di ventura.
Tale opinione ci fu poco dopo convalidata; il nostro compagno
di viaggio comincio a parlarci delle sue conquiste, dei cavalli che
aveva lasciato a Vienna e degli illustri parenti che aveva lasciato a
Berlino, e termino mostrandoci il ritratto della sua mattresse, una
bella bionda che non in fotografia, ma in carne ed ossa avremmo
desiderato avere davanti. Durante tutta la campagna non vidi piu
questo polacco; probabilmente come tanti altri avventurieri aven-
do veduta la malaparata sari, andato in cerca di fortuna migliore;
che la campagna di Francia ebbe questo di buono: pochi volontarii,
i. II generale Charles Bourbaki (1816-1897) aveva combattuto in Crimea
e neSIa campagna del 1859. Dopo aver partecipato alia difesa di Metz,
assunse il comando della seconda armata della Loira: avrebbe dovuto
sbloccare Belfort, operando dietro le linee nemiche con una vasta manovra
aggirante, ma, battuto alia Lisaine e incalzato dal Manteuffel, la sua azione
si concluse in un fallimento, nel tentato suicidio del generale e nello scon-
finamento in Isvizzera dei suoi soldati. 2. convensionali: con tale nome
furono indicati i membri delta Convenzione nazionale francese, che duro
dal 21 settembre 1792 al 26 ottobre 1795. 3. Giovanni Sobieski, il libe-
ratore di Vienna (1683), fu re di Polonia dal 1674 al 1696. 4. ineccezio
nabile*. ineccepibile.
DA FIRENZE A DIGIONE 629
ma i pochi ispirati e che dicevano e facevano davvero . . . ne diano
prova luminosa le centinaia dei cadaver! che abbiamo lasciato lassu.
A mezzogiorno preciso il vapore si mosse; tutti salimmo in co-
verta. La giornata era superba, il panorama mcantevole. II nostro
batteilo, che si poteva chiamare un guscio, tanto era piccolo, co-
steggiava la bella riviera che e una delle prime bellezze della bel-
lissima Italia; noi non ci scostammo mai piu di cinquanta passi
da riva: si passava adunque vicinissimi a quei seni, a quei golfi
che s'intersecano nelle montagne, ora ridenti per il verde delle
piante, ora tristi per il cenerognolo dei molti uliveti, ora orride
per il colore rossiccio delle pietre e per la rnancanza di abitazioni ;
i cento villaggi, i pittoreschi castelli che si vedevano spuntare qua
e la, e dominare superbi sulle vette delle colline e dei monti; le
capannuccie dei pescatori a cui ad ora ad ora si scorgeva legata
qualche barchetta, le onde leggermente increspate dal venticello
che rapiva i profumi dalle piante del lido, e li offriva a noi ricrean-
doci, gli alcioni che apparivano a fior d'acqua, che si tuffavano e
riapparivano scuotendo le ali immense, e il cielo tutto sereno, ce
leste come Pestesa superficie del mare ci facevano credere di essere
in primavera, e ci ispiravano un saluto dal profondo dell^anirna alia
terra deiramore e della poesia, a quelFItalia che si biasimava, si
vituperava vivendoci, ma che ora si sentiva di amare piu di noi
stessi. E a farlo apposta sembrava che Pltalia, quasi amante che si
voglia tradire, si facesse bella di tutti i suoi vezzi per renderci piu
amara la dipartita.
Ci fermammo di nuovo a Porto Maurizio, e fu forza il pernot-
tarci. Mi condonino i lettori la noia di tutti questi ragguagli: ne
soffrimmo tanta noi della noia . . . che possono pazientare anche
loro, poich6 poco piu ora manca alia fine di questa escursione ma-
rittima.
II mare si fece cattivo: un colpo di vento port6 via tutte le panche
che erano a poppa e dove ci eravamo seduti il di innanzi : il nostro
stato era deplorevole: lascio da parte certe descrizioni che urtereb-
bero il delicato sentire dei miei lettori e delle mie buone lettrici;
lo stesso capitano non sapeva piu che pesci si prendere: 1'equipag-
gio giurava per tutti i santi del calendario cartolico di non essersi
mai ritrovato in acque si brutte. A Tolone si sobbalzava tanto
nelle nostre cabine che si arrivava a picchiare capate terribili nelle
asse del soffitto; e per sopramercato si era anche nel colmo della
630 ETTORE SOCCI
notte. £ impossible descrivere Pirritazione di cui eravamo in pre-
da; lo sconforto si era impossessato di noi, e ci si aspettava di mo-
rnento in momento di trovar la tomba, ora che si era arrivati in
Francia.
Ma il tempo si calm6; altre cinque ore di viaggio; - poi il ca-
pitano ci chiam6 sul ponte. Corremmo tutti. Un bosco d'antenne
occupava tutto il porto; una magnifica citta ci si stendeva davanti
in mezzo a due picchi, sul primo dei quali si vedeva il campanile
di una chiesuola.
— Quella e; la Madonna della Guardia — l ci disse il capitano. —
Loro sono a MarsigHa.
Finalmente si era giunti!
Andammo subito al Comitato: non vi era nessuno: se ne do-
mandd la ragione e ci risposero che era domenica; si cominciava
benino!
Facendo di necessita virtu, deliberammo di tornarci il giorno
dopo, e intanto andammo a passeggiare per la citta. Non posso
negare che piu che mi inoltravo in quelle magnifiche strade, piu
osservavo il chiasso, il movimento, il lusso, il fare spigliato di quella
popolazione, piu mi sentivo in preda d'impressioni bruttissime.
Nonch6 essere in una nazione, tanto bistrattata, tanto awilita,
tanto depressa come era allora la Francia, tu avresti creduto tro-
varti in un paese dove tutte le cose vadano a meraviglia, dove non
si sia nemmeno alk lontana sentito parlare di guerra. Molti gio-
vanotti avevano il berretto da guardia nazionale, ma molti ancora
se la passeggiavano tranquilli e contend, a braccio di signore di
virtu piu o meno problematica, e occupavano cianciando, chias-
sando e ridendo i tavolini che sono al difuori dei molti caffe, che
si trovano nella magnifica strada della CanMere.2
Ai caf& ch&ntcmte^ si cantava la Marsigliese, le chant du depart,3
tutte canzoni patriottiche . . . naa ptir si cantava; alia Mmson dorfa
si Wkva sempre patriotticameiite il cmcon: tutte le cocottes di
I. la Madonna della G*t&r&&: il cciebre santuario di Notre Dame de k
Ganie, che da cst sovrasta la citti e il porto di MarsigHa. 2. La forma
coiretta ^, naturalniantc, C&nebi&e. 3. le chant du dlpwrt : vedi la nota a
p, 671,
DA FIRENZE A DIGIONE 63!
Parigi, allontanate da quella cittk a causa dell'assedio, erano pio-
vute la a Marsigiia, dove abbassando le loro pretese, avevano tro-
vato ammiratori a iosa; erano aperti tre teatri; sui boulevards tutte
le sere suonava la banda; unico indizio di vita belligera noi lo tro-
vammo in certi cartetli che erano attaccati a tutte le cantonate;
cartelli ove era scritto a lettere cubitali : « Parigi non si arrendera
mai ». Del resto, come ho detto, un'indifferenza da fare schifo, una
corruzione che non ci faceva mai presupporre che un Trochu1
avesse la sfacciataggine di qualificark all'Assemblea per italiana.2
Se si fa un paragone tra qualunque delle nostre citta nel 1866 e
Marsigiia nel 1871, bisogna in coscienza affermare che noi, quan-
tunque corrotti, siamo molto, ma molto superiori, se non altro nel-
Famore di patria, alia citta piu spinta del mezzogiorno delia Francia.
Ne" solamente le classi agiate se la spassavano ; bastava andare sul
porto per potere esser certi se quel popolo li, aveva intenzione di
concorrere alia guerra! Le infinite baracche dei saltimbanchi, i
giuochi improwisati lungo la strada, la folk che si assiepava in-
torno ad un vaporino che faceva il giro del porto, i cantastorie am-
bulanti, se offrivano un bel colpo d'occhio, ci raffermavano sempre
piu nella nostra opinione. - £ vero che tra gli altri sollazzi vedemmo
anche un tiro al bersaglio e in questo servivano di niira due Prus-
siani piu grandi del naturale; ma a che pro sciupare la polvere
contro i Prussian! di carta, quando si fuggiva a rotta di colio davanti
a quelli di carne?
La molta gente che interrogammo, ci rispose facendo voti per la
pace; il commercio incagliato, i guadagni diminuiti parlavano nel
cuore di tutti quegli uomini, piu delk voce della patria tradita.
Noi pensammo che era ben difficile che k Francia potesse pigliare
una rivincita.
In mezzo alia folk vedemmo qua e la confusi ed incerti alcuni
Turcos ed alcuni Zuavi,3 zoppicanti e con volti emaciati. Erano
feriti; erano avanzi gloriosi di Wissembourg, di Woert, di Gra-
i. II generale Louis - Jules Trocku (1815-1896) combatt£ nel 1859 a Magenta
e a Solferino. Nel 1870-1871, quale governatore militare di Parigi, fece parte
del Govemo della difesa nazionale. 2. quaUficarla . . . itaUana:cfm questa
qualifica il Trochu intendeva spiegare, in inaniera evidentemente offensiva,
k leggerezza e Tindifferenza di Marsigiia. 3. Turcos . . . Zuavi: corpi spe-
ciali deiTesercito francese. I Turcos erano una formazione analoga ai nostri
bersaglieri; gli Ztiavi, originarianiente formati di truppe algerine, poi
soltanto nazionali, erano anch'essi truppe veloo.
632 ETTORE SOCCI
velotte,1 Abituati a vedere questi fieri soldati, allorche* nel cinquan-
tanove baldanzosi e trionfanti traversarono Y Italia, noi provammo
un senso di dolore nel vederli ridotti in tale stato. I ragazzacci del
popolo non di rado li accompagnavano colle loro fischiate, o fa-
cevano loro dei brutti scherzi da far rivoltare lo stomaco agli uo-
mini piu abboccati3 del mondo: la sventura dovrebbe esser sacra.
La popolazione di Marsiglia Paveva maledettamente con Tesercito ;
mentre uomini, donne, fanciulli si affollavano lungo le vie e guar-
davano con ammirazione la guardia Nazionale, che faceva crepar
dalle risa; tutti avevano sempre un frizzo, un insulto per quei po-
veri diavoli del 60° reggimento, che allora si ricostituiva in quella
citta: li chiamavano i soldati di Napoleone, e tutti erano all'unisono
per dichiarare quest'ultimo come un traditore, come Tunica causa
di tutti i disastri che avevano ridotto al lumicino la patria degli eroi
del novantadue3 e degli espugnatori di Malakoff.4
Un po' sconcertati continuammo a girellare, ma e un fatto che
quella varieta, quei movimento ci stordiva in modo, che queste cose
le quali, or ripensando mi danno fastidio, terminarono col non
farmi n6 caldo ne freddo e col darmi gusto. Rintoppammo5 sul porto
il nostro compagno di viaggio, disertore dalPesercito italiano.
— Vadano al Comitato — ci disse — perche fra poco si parte.
— Dici dawero?
— Sul mio onore.
E noi ci awiammo al celebre Comitato che aveva la sua sede
sulla piazza della Prefettura.
Un gruppo di giovani dal portamento spigliato, era sulla canto-
nata e faceva pervenire ai nostri orecchi il dolce suono della gentile
favella del si. Saranno stati alPincirca una cinquantina ed erano
tutti Italiani, qualcuno aveva il berretto rosso: tutti vestivano an-
cora con abiti cittadineschi. Fummo accolti da loro come fratelli :
i. Per le battaglie di Wis^embmarg e di Worth, vedi la nota 2 a p. 466; la
battaglia di Gravelatte ebbe luogo il 1 8 agosto 1 870. Veramente a Grave-
lotte i Frances!, guidati da Bazaine, resistettero, e fu Jnvece nel vicino vil-
laggo di Saint Privat che i Prussian! riuscirono a sfondare. Pure, la batta-
giia rimase nella storia col n<Hne di Grmvelotte. 2. abboccati ': pronti a
rnangiare qualunque cibo. 3. eroi dei n&vemtadue: i Francesi che il 20 set-
tembre 1792, guidati dal generale Kellermann, respinsero le truppe prus-
siane a Valmy. 4. La torre di Malakoff, ultimo baluardo della fortezza
di S«b®slc^>oH, fu espugnata dai Fnmcesi, guidati dal Mac-Mahon, 1*8
settembre 1855. 5. Rmtoppammo: ci imbattemmo di nuovo.
DA FIRENZE A DIGIONE 633
in quei momenti s'improwisano le amicizie, e il tu alia quacquera
di primo acchito,1 soave reminiscenza dell'Universita, predomina
su tutta la linear ne si creda che queste amicizie che si concludono
in un quarto d'ora, sfumino come tutte le amicizie del mondo, no,
sono esse le piu inalterabili, perche dope molti anni quando 1'uo-
mo vive nel passato e chiede un conforto e una lacrima al sacro
patrimonio d'affetto che ha raccolto qua in terra, ripensa a questi
amici di gloria e di sventura, come Pesule o il prigioniero ripen-
sano alia casetta paterna.
Tutti erano allegri ... si andava incontro a un nernico forrnida-
bile, si era certi della difficolta di vincere, si sapeva che probabil-
mente meta di noi avrebbe pagato col sangue le idee che ci bollivano
in testa; ma che c'importava? Anche il sacrifizio ha le sue volutta
e sono piu inebrianti di quelle della gioia.
— Stasera non possono partire — venne a dirci un coso sbilenco,
che doveva essere addetto al Comitato.
— Daccapo — urlarono i giovard e proruppero in fischi.
— Domani sera partiranno di sicuro — proferi a malapena quel
corvo del malaugurio e se la svigno alia chetichella.
— Pazienza ragazzi — bisogna assuefarsi alle disillusioni ; venite
con me alia vicina taverna e la faremo passare la malinconia, tran-
gugiando un buon bicchiere di vino caldo.
Quello che parlava era un bel tipo di soldato; era gia vestito da
garibaldino e camminava un po' zoppo.
— Ewiva il Mago! — gridarono tutti.
— Venite con me sempre, o ragazzi, e vedrete che anche al fuoco
non vi faro scomparire.
— Eh! lo sappiamo che tu sei un eroe . . .
— Che eri alPattacco di Dijon . . .a
— E che ci fosti ferito.
— Ewiva i prodi soldati!
— Ewiva.
E cantando patriottiche cantiche ce ne andammo tutti alia vicina
taverna, dove due fior di ragazze dispensavano bibite e sorrisi agli
awentori, che ne andavano in solluchero a questo connubio co-
tanto attraente.
1. il tu . . . acckito: sono i w. 53-4 delle Memorie di Pisa del Giusti.
2. all'attacco di Dijon: la prima battaglia di Digione o, meglio, di Prenois,
awenne alk fine di novernbre e culmino il i" dicembre 1870.
634 ETTORE SOCCI
A Marsiglia, il vin caldo e il cognak costano la miserable som-
ma di 10 centesimi, e si not! bene che le bibite non si amministrano
omeopaticamente come da noi.
— Se ci fossero certi amici! — esclam6 il Materassi, quando
giunse a cognizione di questa consolante notizia.
— Mago, su . . . giacche4 non sappiamo come passare il tempo,
raccontaci i fatti gloriosi di cui e gia stato eroe Garibaldi . . . Noi
ci istruiremo e le ore ci trascorreranno come se fossero minuti.
— Che volete . . . che dica . . .
— Di quello che sai : raccontaci come si portano i nostri, quale e
la nostra organizzazione, e infine se i soldati Prussiani sono poi
quella gente famosa da far tremare tutto il mondo . . .
— In quanto a questi vi assicuro che non fanno di noccioli1 e
che tirano diritto, e che son duri come montagne, ma, poich6 vo
lete sapere proprio ogni cosa, vi spiffero tutto dall'a alia si pregan-
dovi a scusarmi se non parlo in punta di forchetta.
Tutti fecero silenzio e il sergente (il Mago era sergente) inco-
minci6 : — Figuratevi che si era in Autun. II clima di Francia e
pazzo come gli abitanti. A Dole non aveva fatto che piovere, a Au
tun era un freddo che pareva di essere in Siberia. Noi stemmo sei
giorni all'avamposti e vi assicuro di aver provato certi brezzoni, che
al solo ricordarli mi sento gelato. Riunita tutta la legione, si parti
col nostro Vecchio2 per Arnay le Due.
— O in che legione eri ? — interruppe uno.
— lo ero con Tanara;3 un bravo uomo, ragazzi, un uomo, del
genere del quale ce ne vorrebbe molti nelk democrazia, uno di quei
pochi insomma che si seguono volentieri, quando cominciano a fi-
schiare le palle! . . . Tornando a bomba: vi dir6 che da Arnay le
Due, girammo come FEbreo errante, per tutti quei paesuoli, sempre
in cerca dei Prussiani che non si vedevano mai . . . Che marcie,
figliuoli! . . . Non dubitate, che chi potri raccontare questa cam-
pagna, potri esseme altero e potri dire di esser sfuggito alle unghie
del diavolo. II gk>rno ventiquattro4 entrammo in Malin, abban-
donato poco priina dai Prussiani; pernottammo alia stazione, e
i. mm f tamo tK noccioli: cio^T farmo sul serio; e frasc dimlettale, 2. nostro
Vfcckio: Giuseppe GariWdi. 3. Faustino Tanara (1836-1876) dal 1859
aveva p«rte<np«to a tuttc le azkmi militari di Garibaldi, acquistando larga.
tasm. Nei Vo^ri fu a capo ddk piii eroica legione di volontari, che com-
batt£ m zaodo mirabile nella secooda battaglia di EHgione. 4. // gwmo ven-
tiquattro: il 24 novembre 1870.
DA FIRENZE A DIGIONE 635
Garibaldi, il bravo uomo, era la ... in mezzo a noi, a farci co-
raggio, a prometterci che ci saremmo fatti onore. II freddo era in-
tenso, acutissimo e il nostro Vecchio era sorridente, sereno, come
se fosse stato nella stanza piu Bella e piu riscaldata del suo quartier
generale. Gli abitanti cercavano di renderci meno dure le priva-
zioni colle loro gentilezze : e si affannavano a portarci da mangtare
e da bere; le donne, anche le donne delle classi non basse, ci por-
tavano il pane ed il vino e ci stringevano la mano, L'era una cosa
da far piangere i sassi . . . ve Tassicuro. AH'alba parti mmo e ci fra-
stagliammo, compagnie per compagnie, nei borghi diversi adia-
centi a Malin. Cosi passammo Fintera giornata: sul far della sera
venne ordine immediate di partenza, e difatti tutti insierne si and6
a Lantenay. Qui ritrovammo una infinita di guardie mobili,1 qual-
che pezzo di artiglieria, un mezzo squadrone di Chasseurs d'Afrique2
e varii corpi di volontari. Garibaldi alloggi6 al castello; noi ci
fermammo proprio sotto di lui e per riscaldarci facemmo degli
immensi/a/o. I Prussiani erano al di la di una foresta che si stende
sulFalture del Nord Ovest del castello: in linea retta tra noi e loro
non ci correva nemmeno un chilometro. La mattina del ventisei
oltre la paga ci diedero dei pezzi di capretto che erano stati requi-
siti : ma sul piu bello, allorche si corninciava ad assaporare questa
vivanda cosi patriarcale, suon6 Tassemblea, e in un minuto bisognd
correre ai ranghi, lasciando sul terreno e nelle case piu di meta di
quel cibo, che con tanta veemenza veniva reclamato dai nostri sto-
machi vuoti. Appena arrivati al castello, vedemmo Garibaldi a
cavallo: era seguito da Menotti, da Bordone, da Canzio.3 II Vec
chio diede qualche ordine, poi seguito dai suoi e da alcune guide ci
precedette, inoltrandosi al trotto verso Pestremita della foresta;
dopo brevi istanti noi ci avanzammo. Pigliammo una viuzza e in
i. guardie mobili: tutti i francesi celibi, dai diciotto anni in su, atti alle arnii,
erano stati frettolo&amente mobilitati e formavano delle brigate, ancora, in
realta, male organizzate. Sono i moblots di cui poi discorre piii volte il
Socci. 2. Ckassfiers d'Afriqtie: truppe di colore provenienti dalF Algeria.
3. Filippo Toussaint Giuseppe Bord&ne (1821-1892), nato ad Avignone
di famiglia piemontese, chirurgo di marina fino al 1848, partecipd con
Garibaldi alia guerra del '59 e alia spedizione dei Mille. Nel 1870, pre-
sentatosi a Caprera, condusse il generale in Francia, e fu suo capo di Stato
maggiore nell*esercito dei Vosgi ; Stefano Canzio, di Geneva (1873-1909),
aveva gia cotnbattuto a nanco di Garibaldi, dai '59 in poi, in tutte le
imprese. Nel 1861 sposo una figlia di Garibaldi, Teresita. Nei Vosgi
comandd la 5* brigata e si distinse soprattutto nella giornata di Pouiily.
636 ETTORE SOCCI
poco tempo raggiungemmo lo stato maggiore. Allora si ordino a
due compagnie del primo battaglione, tra Ie quali alia mia, di occu-
pare Taltipiano e di stenderci in catena. Nell'eseguire quest'ordine
voltai i miei occhi a destra e vidi in terra sdraiato il prode Garibaldi.
Egli si riposava: li a cento passi da noi . . . lo non so no un poeta,
sono un ignorante, un soldataccio cresciuto tra le bestemmie della
caserma, ma che volete, non ve lo nascondo, a veder quel vecchio,
malato, quelFuomo della cui fama e pieno il mondo e che si 6 gia
conquistata Pimmortalita, a vederlo, dico, li sdraiato come uno di
noi, con quella faccia di santo, a pochi passi dalla morte, io sentii
inumidirmi le ciglia e piansi come una donnicciuola.
Due batterie, una da campagna e Paltra da montagna, presero
posizione accanto a noi. Poco distante tuonava il cannone; erano
Ie truppe di Bossak1 e di Ricciotti, almeno io credo, che distur-
bavano le mosse del nemico. Che magnifico spettacolo ci si pre-
sent6 agli occhi quando principiammo a guardare! Una vallata
ubertosissima di vegetazione si stendeva sotto di noi; i battaglioni
bavaresi e prussiani formavano un'estesa e ben compatta colonna ;
gli ulani correvano da un estremo alPaltro di quella linea, che sem-
brava di ferro, tanto era nera: ma colle nostre complessioni e coi
nostri comandanti si ammacca anche il ferro! . . . Venne Tordine
infatti di avanzarsi. II terreno che dovevamo percorrere era pieno
d'intoppi : era un awicendarsi di piccoli scaglioni che qualche volta
ci facevano andare a gambe levate. I Francs Tireurs2 si erano inter-
nati nella foresta e appoggiavano i nostri movimenti. Dopo poco
trovammo dietro uno dei tanti rialzi gli Chasseurs d'Afrique che
erano in esplorazione. Una scarier a bruciapeio eseguita dai Prus
siani li fece retrocedere ; allora occupammo noi la sommita abban-
donata dalla nostra cavalieria. II rombo del cannone si fece sentire
da tutte e due le parti, i Prussiani rispondevano ai nostri con acca-
nimento : le jmile, le bombe ci piovevano di sopra, di sotto, intorno
al capo, alle gambe : ogni poco i superior! ci ordinavano di sdraiarci
per terra. Una racchetta3 port6 via la coscia del bravo luogotenente
i. II generate Bouak comarxiava una brigata di volontari. Era di nobile fa-
rniglia poiacca; dopo aver partecipato alia insurrezione (1863) della sua
patria ccmtro roppressione dello zar Alessandro III e il lungo esilio in
Imzxem, cadde il gomaio de! '71 a Digione. 2. Francs Tireursi volon-
tari francesi a^regati all*esercito del Vosgi, simili, sotto molti aspetti,
ai vd<Kitari garibaldini. 3. raccketta; vedi la nota a p. 320.
DA FIRENZE A DIGIONE 637
Deirisola aiutante di Menotti . . . Egli e morto1 da eroe. II nostro
capitano Morelli era sempre alia testa della compagnia e di£ prova
di un sangue freddo, che, come vecchio soldato, io vi dichiaro ra-
rissimo. Pigliammo d'assalto un paesetto, lo traversammo a baio-
netta calata, in mezzo agli applausi di quei buoni abitanti. I Prus-
siani si ritiravano colle loro artiglierie: apriamo il cuore alia gioia,
guardiamo e si vede in capo alia strada il Generale . . . Ma dunque
quest'uomo e per tutto, quest'uomo e miraeoloso, quest'uomo e
invulnerabile! . . . gridano i volontari, e poi, tutti prorompono in
acclamazioni all Jil lustre condottiero. Garibaldi ci salutava col suo
solito sorriso, poi, chiamata una tromba,2 si fece dare un poco da
bere, e be we 1'acqua di una vicina pozzanghera. Intanto il cielo
aveva aperto le sue cateratte, ed una pioggia diabolica c'inzuppava
maledettamente i vestiti, e ci rendeva assai malagevole il camminare
a causa del fango.
Facemmo alto3 in un luogo disabitato e scoperto; quivi sfilo in-
nanzi ai nostri occhi tutto il piccolo esercito che aveva sotto di se
Garibaldi. Passato che fu, venne anche per noi Fordine di avanzarsi
senza sapere ove si andasse e senza nemmeno curarsene: che il
buon soldato non deve mai discutere, ne sofisticare su quanto or-
dinano i superiori. Dope aver camminato un poco, arrivammo in
un piccolo villaggio situato al Nord di Lantenay, e qui dalla bocca
stessa dei villici sapemmo che i Prussiani, prima di partire, avevan
fatta man salva di tutto il bestiame.
Di cibo non ci era da parlarne, e noi si aveva un appetito numero
uno; una sola botteguccia era aperta, ma anche in questa non si
trovavano che pochi pezzucci di pane; li dividemmo da buoni
fratelli, ma appena si cominciavano a divorare, eccoti di nuovo Tor-
dine d'immediata partenza. Ragazzi rniei, non e il fuoco che co
st ituisce lo amaro di una campagna, che anzi ne e la festa da bailo;
sono le privazioni e gli stenti, a cui per6 di buon grado deve assog-
gettarsi il soldato dell'idea. Noi eravamo stanchi, le gambe non ci
reggevano piu, i respiri si elevavano a mala pena dal petto, ma il
nostro lavoro non era terminato, bisognava finirlo, come voleva
Garibaldi, e, o male o bene, noi lo facemmo ed ecco come and6 . , .
II Generale voleva sorprendere Digione, ed era sicuro d'impa-
dronirsene con uno dei suoi colpi di mano e vi garantisco che sa-
i . e morto : come sara detto successivamcsnte (vedi p. 654), la notizia era ine-
satta. z. trombai trombettiere. 3. alto: alt, sosta.
638 ETTORE SOCCI
rebbe riuscito . . . Oh! mille valorosi di piu o duemila vigliacchi di
meno, e avreste vedutoi Noi ci inoltrammo silenziosi lungo la
strada; avevamo avuto il comando di non scaricare il fucile; quatti
quatti senza respirare nemmeno, col cuore che ci batteva forte forte,
procedevamo in. mezzo a quel buio d'inferno; nessun rumore si
sentiva all'mtorno ; un acquazzone tremendo ci percoteva da tutti
i lati. Noi marciavamo per primi insieme ad una compagnia di
Francs tireurs^ dietro a noi venivano diversi battaglioni di guardie
mobili e rartiglieria.
Cosi giungemmo fino a un chilometro dalla citta; pareva che i
Prussiani non si fossero anche accorti di noi; un subitaneo schiop-
pettio di fucilate ci rese sicuri che la nostra avanguardia era alle
prese cogli avamposti deirinimico.
I nostri superior! ci diedero Pordine che ad ogni scarica ci buttas-
simo nei fossi che fiancheggiavano la strada; quest i era no pieni
d'acqua, e allorche il lampo annunziatore delle palle vicine si fa-
ceva vedere in quel buio, noi prendevamo dei bagni, ne" troppo
comodi in quella stagione, n£ troppo puliti. Pero di tratto in tratto
ci si avanzava, tra quel diavoleto: le nostre trombe suonavano
avanti; avanti, gridavano gli ufficiali; avanti si grida noi tutti, e
come un sol uomo, ci spingevamo, ci accalcavamo, per quella strada
che poco dopo doveva essere ingombra da mucchi di deformati ca-
daverL Gia qualche ferito emetteva grida strazianti, gia Paria s'im-
pregnava di quel simpatico odore di polvere che suole accompa-
gnare i combattenti, gia il lontano ruilo del tamburo, il subito
gulzzo che pari a lingua di fuoco si percoteva per tutta quella
estensione, e il fechio non interrotto mai delle micidialissime palle
nemiche, ci rendeva sicuri che assistevamo ad un'imponente bat-
taglk.
Le scariche dei Prussiani di minuto in rninuto crescevano d*in-
tensita, eppure noi fedeli ai nostri ordini non ci azzardavamo di far
uso delle nostre armi, quando quei vili delle guardie mobili co-
mmciarooo a sca^mre e a tirar fucilate airindietro, fucilate che col-
pivano noi, noa i Prussiani. L'impresa a quel momento si poteva
chiainare fallita; un uomo prudente, uno che va col successo si sa-
rebbe ritirato, ma Garibaldi era H in prima fila, e noi che si vedeva
fiiggire i Frances! volevamo far vedere quanto piu di loro valessero
i calunniati Italiani, eppercid con Fentusiasmo di chi sa di sacri-
fearsi per UBS idea generosa restammo fermi al nostro posto. E li
DA FIRENZE A DIGIONE 639
mori il povero tenente Anzillotti;1 li mori il bravo Del Pino, uno
dei ragazzi piu buoni e piu coraggiosi che io m'abbia conosciuto
e certo uno del migliori della mia compagnia. Non vi sto a dire il
numero dei feriti, i Carabinieri Genovesi furono decimati . . . gli
Italiani si batterono, e si batterono da eroi.
Fu giocoforza il ritirarsi; mai ritirata poteva cominciare con
tanto disordine; si correva airimpazzata pei campi, ogni poco si
cadeva per terra, ogni poco ci si trovava a mezza garnba nell'acqua
e tutto questo sotto un fuoco continuo di mitragliatrici, di cannoni,
di moschetteria. Giunto a capo di una viuzza fui scaraventato per
terra: tentai di rialzarmi, mi fu impossibile; poco dopo io era fuori
dei sensi: non so quanto dur6 il mio sbalordimento, quando rni
riebbi mi trovai sopra un barroccio che mi port6 ail'ambulanza
d'Autun, da dove fui trasferito a Lione. Una impertinentissima
scheggia di mitraglia mi aveva forato una coscia. Ottenuto un per-
messo di convalescenza, ho fatto un mesetto di villeggiatura a Niz-
za, ed ora me ne torno lassu, che, grazie al Cielo, della forza per
battermi coi Prussian! ne ho sempre, perche*, sappiatelo ragazzi, una
battaglia e uno di quei divertimenti che non capitano ad ogni canto
di gallo ; si pu6 morire, ma dove volete trovare una cosa piu bella
di morire, in mezzo al fuoco, al ramore, alle trombe e alia gloria . . ,
eh! via dunque, venite con me, e vi farete onore, il vecchio Mago
ha veduto troppe volte da vicino la morte, perch6 vi possa far fare
una figuraccia indecente.
— Ewiva il Mago! — gridarono tutti e tutti picchiarono il bic-
chiere tra loro.
Dopo aver discorso un'altra buona mezz'ora, dopo aver doman-
dato tutto il domandabile al brav'uomo che aveva gia veduto i
Prussian!, ci congedammo da queirallegra compagnia e ci awiam-
mo alPalbergo.
— Ma se ci mandassero con Frapolli ?2 — esclamo uno di noi per
la strada.
i. Carlo AnzUotti, di Pescia, nato nel 1851, aveva seguito Garibaldi nel '66
e nel '67. Sottotenente nelk legione Tanara, mori sotto Digione il 26 no-
vembre 1870. 2. Lodovico FrapoUi (1815-1878), milanesc, disertore del-
Tesercito austriaco, esule in Francia, Inghilterra, Germania, incaricato di
missioni diplomatiche in Francia nel periodo 1 848-^49, vicino al Farini,
a Modena, nel 1859 (vedi la nota 2 a p. 438), fu deputato alia Camera per
varie legislature. Era gran maestro della massoneria. Durante la campagna
del 1870-71 si era posto ad organizzare volontari neEa xona di Lione,
creando un forte attrito fra la sua azione e queila di Garibaldi. Nelk prefa-
640 ETTORE SOCCI
— Sei matto! . . . Parleremo ben chiaro al Comitato, noi inten-
diamo di batterci e non di fare il framassone a cento miglia dal
teatro della guerra.
— E spiegatevi bene! . . . — ci disse uno che per buona fortuna
era venuto dalla taverna con noi. — Perch£ quei signori che spe-
discono sono tutti una zuppa e un pan molle con quelli arfasatti1
e, se voi state zitti, vi troverete di certo mistificati.
Noi ringraziammo il gentile consigliero e ci addormentammo
decisi di raggiungere tra poche ore il generale e PArmata dei Vosgi.
VI
II giorno seguente, appena fu un'ora da persone educate, an-
dammo a! Comitato. Dopo molta anticamera, ch6 anche nella de-
mocrazia quando si comincia a salire si assumono tutte le belle e
gentili maniere le quali distinguono Faristocrazia, fummo intro-
dotti in quel sinedrio di senno e di patriottismo, e ci trovammo da-
vanti al presidente Panni, un omettino tarchiato colla barba lunga,
nato a Firenze ma domiciliato da vario tempo a causa d'affari a
Marsiglia. Tanto lui come il segretario Lalli, si davano tutto il tuono
di persone important!, ci squadrarono dall'alto in basso con una
prosopopea da commissari di polizia, e parlarono della guerra colla
medesima autorita, che avrebbero adoperato se fossero stati gene
ral! d'armata o per lo meno capi di stato maggiore.
Adempiute le formalita di quella specie di arruolamento che si
firmava presso di loro, noi facemmo noto a quella gente il nostro
proposito di andare diretti al quartiere generale di Garibaldi.
— Loro possono andare anche con Frapolli — ci disse il segre
tario. — Tutte le vertenze sono accomodate e i due generali, glielo
assicuro io, camminano verso la medesima meta.
— Sono belle assicurazioni, ma noi abbiamo deciso di raggiungere
Garibaldi e vogliamo andare a Digione.
— Facciano come vogiiono; stasera partono una cinquantina di
vokmtari . . , potranno andare anche loro — borbotto il presi
dente, non nascondeado un senso di malumore e di contrariety :
poi, rivoltosi ad Omero Piccini, fratello di quello che era sul Var
zioo-e ftfi'uhimft edkionc del suo lifaro, quella da noi seguita, il Socci
nobtimente ritratta le accuse contro il Frapolli (finito matto e siricida)
e la ina^ofjeria. i. arfe&atti; volgari raggiratori.
DA FIRENZE A DIGIONE 641
e in prigione con noi, gli proferi in tuono brusco: — Lei non pud
andare.
— E perche"?
— Non lo vede . . . e un ragazzo.
Difatti il nostro compagno aveva 17 anni.
— Eppure — interrompernmo noi — e gik stato a Mentana.
— Allora faccia lei ... Stasera alle dieci sieno qui . . . se vogliono
partire.
Cosa dovemmo fare per giungere alle dieci! . . . Entrammo nella
taverna della sera avanti . . . Ah! cosl ci fosse venuto un granchio
alle gambe! . . , Rivedemmo le simpatiche Ebi1 che con tanta grazia
porgevano il nettare agli awentori, entusiasti delle loro bellezze, le
rivedemmo e ci attaccammo discorso; si parlo della guerra, della
Francia, delle donne italiane, che esse dicevano bellissime, delle
prossime emozioni del campo, della moda, dei vestiti corti, del
ciuco ammaestrato che facevano vedere sul porto, della guardia
mobile, delPeserdto di Bourbaki e dei pasticcini di Strasburgo, che
non arrivavano piu. Erano discorsi le piu volte senza senso comune,
ma che servivano mirabilmente per farci ammazzare alia meno
peggio qualche ora. II male si fu, che le parole erano accompagnate
dalle libazioni : le libazioni c'indussero a fare il dtfuner, questo tiro
dietro di se lo Champagne ... Si era cominciato a sdrucciolare su
una sgamba viuzza ed ormai bisognava mzzoiare a rotta di collo
per tutta la china. II piacere di esser giunti finalmente in quella
Francia, che da tanto tempo agognavamo, il trovarsi accanto a quelle
vaghe ragazze, la generosita dei vini che avevamo trincato, la gio-
ventu che ci bolliva nel cuore, ci avevano sprigionato tale un'alle-
grezza dalle piu intime fibre, che, non sapendo piu quello che si
faceva, ridevamo senza alcuna ragione, folleggiavamo come se fos-
simo tornati bambini e si facevano le piu strane proposte e tutte
venivano approvate.
— Andiamo tutti in barca sul porto.
— Si ... si ... sul porto.
E prese a braccetto le due silfidi, ci awiammo verso il mare, e
traversata la popolosa citta poco dopo eravamo in barchetta,
lo ero di venuto il cavaliere servente o per dir meglio il consi-
gliere intimo della piu giovane delle due vezzose sorelle. Essa chia-
i. Ebi: Ebe, la dea della giovinezza, mesce, nella mitologia greca, il nettare
agli dei d^limpo.
642 ETTORE SOCCI
mavasi Aissa, e nella sua vita disordinata, aveva veduto TAfFrica,
la Spagna, T Italia, sempre con nuovi amanti, e cercando soltanto
la volutta vertiginosa delForgia; senza curarsi n£ punto ne poco
del mondo, delle convenienze social! e di quel buon nome che si
acquista soltanto col rispetto dell'apparenze, la capricciosissima
figlia d'Eva, siccome farfalla, di fiore in fiore, aveva libato in tutte le
loro forme svariate 1'emozioni e i piaceri ed ora, annoiata di tutto
e di tutti, continuava la sregolata sua vita, per far fronte alle spese
pazze che sono la logica conseguenza degli sbalordimenti procac-
ciati per obliare il presente e per non pensare airawenire. La ta-
verna non era che un pretesto; la vecchia padrona teneva quelle
ragazze per accalappiare i merlotti, e mentre ritraeva da ioro dei
lucri non indifferenti, mentre non lesinava il denaro per vestirle
con tutto il lusso immaginabile, mai era larga con esse dell'oro che
cosi indegnamente guadagnava.
Aissa del resto era simpaticissima; aveva in se qualche cosa di
orientale ; i suoi occhi nerissimi ed umidi sempre indicavano chia-
ramente la di lei voluttk; due labbra tumide che reclamavano un
bacio; due mani da principessa; un piedino da vera Andalusa;
insomma un boccone da fare escire dai gangheri un anacoreta!
II mare era tranquillo : la campana della Madonna della Guardia
sonava lentamente; era Tora poetica delle ricordanze; cento bar-
chette in qua e la solcavano le onde. Noi ci sentivamo commossi ;
su di un piccolo schifo, un sonatore girovago, uno di quei Napole-
tani che strascinano per i caffe il biblico strumento degli antichi
profeti,1 fece echeggiare per Paere una canzonetta patetica, molle,
meridionale e noi rammentarnmo Tltalia, le sue belle costiere pro-
fumate d'aranci, il movimento delle nostre citta, le amate fisonomie
dei nostri amici, e dei nostri congiunti ... la commozione era al
colmo e il bello si & che al pan di noi erano inteneiite le nostre com-
pagne . . . E perch<§ ci6 ha da es&ere strano ? . . . Le reminiscenze
sono il patrimonio degli sventurati, e pari alia rugiada del cielo vi-
vificano i cuori . . . quelle povere donne erano certamente sven-
turate, e piu stimabili di tante che scroccano il nome d'oneste nel
mondo, sentivano la santa volutli di una lacrima, e trovavano una
scusa ai loro trascorsi, immerse nelHmponente, nel sublime spetta-
colo delk calma natura.
La nostra escursione si prolungc* per piu di due ore ; il momento
I. U biblico . . . profeti: forae una piccola arpa a braccio.
DA FIRENZE A DIGIONE 643
della partenza si awicinava a gran pa&si; era mestieri dirci ad-
dio . . .
Riaccompagnammo a casa le donne.
— Vi prometto di raggiungervi — mi disse Aissa, stringendomi
forte forte la mano.
10 la guardai e sorrisi; non credevo punto al coraggio di quel-
Feroina . . . Col tempo pero, come vedranno i lettori, fui completa-
mente disingannato ; e solo per tal causa ho riportato questo epi-
sodio della nostra breve dimora a Marsiglia: episodio che sarebbe
stato proprio un di piu, se non fosse collegato con altri che si svol-
geranno a Digione . . .
— Bisogna pagare il conto — disse un di noi.
Oh! la crudele parola! . . . Oh! la bmttissima prosa dopo tante
ore di non interrotta poesia! . . . Ci guardammo in faccia I'uno col-
Taltro . , . Che una donna gravida non vegga mai, per Pamore dei
suoi futuri nati, delle fisonomie come avevano in quel momento i
miei compagni . . . Le nostre risorse erano tanto limitate, che se
noi ne fossimo usciti puliti, ci era di che attaccare un voto!
11 conto era di 102 franchi: tra tutti ne avevamo 104: se ci fos
simo trattenuti un'ora di piu, si rescava in pegno a Marsiglia! E
la bella prospettiva che avevamo davanti : intraprendere un viaggio
di due giorni con due franchi in saccoccia . . . o negatemi che in
Francia il divertirsi non costi salato!
Baci, saluti, strette di mano, e poi di galoppo al Comitato.
— E se non si partisse . . . che facciamo senza quattrini ?
— Ma! ... — proferi filosoficamente il Materassi, e noi a nostra
volta ripetemmo la filosofica esclamazione.
Per buona fortuna queila sera pareva che si dovesse partire cer-
tamente: erano gia stati distribuiti i berretti rossi ed i Garibaldini,
schierati in due file lungo la strada, attendevano il luogotenente che
doveva accompagnarli fino a Digione. I volontari erano allegri,
cantavano a squarciagok, e negli intermezzi clanciavano, poiiti-
cavano, facevano inline un brusio indiavolato; un milanese po-
nendosi ambe le mani alia bocca imitava perfettamente il fischio
del vapore, un altro faceva da cane, abbaiando e guaendo con
tanta naturalezza da chiamar per la strada tutti i cani che giravano
per quei dintorni. Era ii^omma una scena deliziosissima e il te-
nente non si vedeva.
Ognuno che abbia frequentato per poco i volontari, sa quanto sia
644 ETTORE SOCCI
sussurrone e incontentabile questo elemento, quando e lontano dal
fuoco; quindi facilissimo & immaginarsi quali recriminazioni, quale
sussurro provocasse questa inopinata tardanza. Prima furono pro-
teste, poi fischi acutissimi: fmalmente calci e pugni alia porta.
— Noi non si vuol fare il comedo di nessuno!
— Si comincia male!
Tali erano a un dipresso le espressioni di quella gente stizzita, e
a rinforzare la dose il Mago dava degli schiarimenti sul Comitato e
sulle spilorcerie ed angherie da questo commesse per il passato.
— Figuratevi — diceva — che a me diede a portare venti uomini a
Dole, e mi diedero una lira per uomo . . . Di qui bisognava andare
a Mouchard, ventiquattro ore di strada, 1& bisognava dormire e poi
partire il giorno dopo per la destinazione . . . vi raccomando quello
che dovevo fare . . . E lo stesso che a me & succeduto a tutti i capi
squadra . . . Oh! harmo un gran talento quei signori di su! . . .
— Abbasso . . . Abbasso questi grulli ... — urlavano tutti. — Son
Frapollini . . . Giu i traditori!
Chi sa dove avremmo finito, se fortunatamente non avessimo
udito degii altri rumori e piii intensi dei nostri sulla piazza vicina.
Cosa era accaduto ? . . . Noi non vedevamo che delle guardie mo-
bili, che venivano via a rotta di collo. Rompemmo le righe ed an-
dammo a vedere che cosa era. Un faattaglione delle guardie mobi-
Hzzate delle Bouches du Rhdn1 aveva rifiutato partire, ed aveva la-
sciato soli, sulla piazza, il maggiore e tre o quattro altri ufficiali di
buona volonta; uno di questi si mordeva le mani e piangeva . . .
Oh! ne avea ben ragione! A vedere quel branco di vili che fuggi-
vano piuttosto di andare a difender la patria, vi era bene da ese-
crare Pumanita, da vergognarsi di esser uomini per non avere a
compagm quella canaglia.
Vedendo 1'inutilitk della nostra presenza, tornammo indietro, e
dopo pochi minuti fummo consolati dalla venuta del tenente. II
nostro accompagnatore era grasso e rubizzo, avrebbe fatto miglior
figura vestito da canonico che da garibaldino. Lo accompagnava
una bella ed elegantissima signora, che sapemmo essere la di lui
indivisible compagna; non si creda che quella donna divenisse
un'eroina, giacch^ quel tenente in tutta la campagna avra forse ve-
duto il fumo del caminetto, quello dei combattimenti no certo, li-
i. Bouckes du Rhone: il dipartimento di cui Marsigiia e il capoluogo.
DA FIRENZE A DIGIONE 64$
mitandosi i suoi incarichi ad accompagnare i volontari da Marsiglia
al quartier generale. Non nego con questo che certi irnpieghi non
sieno indispensabiH, ma sarebbe piii giusto vederli affidati a soldati
d'avanzata eta e non a giovani tarchiati e robusti, come appunto era
il nostro duce provvisorio.
Fu fatto Pappello, eppoi a quattro a quattro ci movemmo alia
volta della stazione. Che Pltalia sia la terra del canto, non pub esser
certo impugnato. Chiunque ha fatto anche una sola campagna lo
sa; il soldato Itaiiano appena si muove canta, canta andando all'at-
tacco, come quando e in ritirata, canta nei malinconici stanzoni
della caserma, come in mezzo alle strade, quando sa di partire;
parta per una guarnigione, o parta per andare alia guerra.
Non piangert mio
forse ritomero,
cantavamo in coro noi tutti. Le finestre si spalancavano, si illumi-
navano, offrendoci leggiadri visetti, ed occhi superbi che ci lancia-
vano sguardi tanto benigni da farci veramente commuovere. II
nostro contegno non poteva sottrarsi al paragone con quello delle
guardie mobilizzate delle Bouches du Rhon, e chiunque ha un po*
di senno puc» di leggeri comprendere quanto un tale esame resul-
tasse per noi favorevole.
II lunghissimo tratto di via che e tra la prefettura e la stazione
ci pass6 in un baleno; in una carrozza sul piazzale delia ferrovia
vedemmo la simpatica Aissa che ci butt6 un bacio sulla punta delle
dita. Se quel bacio non era precisamente il castissimo bacio degli
angeli, e innegabile che per noi era assai caro. Salutammo gentil-
mente quella donna.
— Avanti, marchs — grid6 con voce stentorea il lillipuziano se-
gretario del comitato . . . e tutti noi lo seguimmo nella stazione.
Vedendo otto vagoni a nostra disposizione fummo colpiti da
una dolce maraviglia. Fin allora avevamo veduto i soldati ammon-
ticchiati Puno sull'altro nei vagoni di terza classe: noi tutt'al piu
eravamo quattro per scompartimento ; ci era posto di sdraiarsi e di
attaccare anche un sonnellino. Ah! . . . quanto sono fallaci le spe-
ranze del mondo! . . . Ah! ... la speranza meretrice della vita, dir6
con Francesco Domenico! . . -1 La nostra gioia, il nostro benessere
i. Francesco Domenico Guerrazzi.
646 ETTORE SOCCI
doveva protrarsi fino alia prima stazione, e questa £ appena a venti
minuti di distanza da Marsiglia.
Vienna/ Avignone, Remoully dovevano vomitare sul nostro di-
sgraziatissimo treno una congerie di mobilizzati. L'educazione pare
che non entrasse nella teoria che s'insegnava a questi campagnoli
del mezzogiorno delFantica terra dei Druidi. Infatti entravano in
frotta, e senza garbo ne grazia, in quei vagoni che avevamo avuto
Fillusione di credere nostra proprieta; entravano pestandoci i piedi,
sedendosi sulle nostre ginocchia con Tindifferenza di una donna
del mondo galante, non per6 colla di lei grazia n6 colla di lei legge-
rezza.
Fra tutte le sventure che possono capitare a un viaggiatore, io
credo non esserne alcuna che possa stare a confronto colla com-
pagnia di un inobilizzato della campagna. Se lo immaginino un
poco i lettori: questi eroi avevano sulle spalle un magazzino, una
vera montagna d'involti, di fagotti e di fagottini ; erano muniti di
due o tre paia di scarpe; pretendevano di stare a baionetta in canna
anche tra noi, anche in quelli sgabuzzini ; avevano chi il cane, chi
un uccello in gabbia, tutti poi indispensabilmente delle pagnotte
stragrandi ; si piantavano a sedere, e per quante gomitate, per quanti
urtoni loro si somministrassero, non ci era verso di farli muovere
un solo centimetro ; i phi attaccavano sonno e russavano come con-
trabbassi; quei pochi che erano desti non ci rispondevano, e si
lamentavano tra loro del governo che li strappava alle ordinarie
occupazioni.
I nostri compagni di viaggio erano vestiti in mille maniere; ve ne
erano col cappello alia spagnola, col basco e col berretto; ve ne
erano dei bigi, dei neri, dei verdi, dei turchini; avevano tutti il fa
cile aU'antica ed in pessimo stato. Siarao giusti! . . . Se le guardie
mobili hanno fatto nella campagna del 1871 una figura non invidia-
bile, non ne sono del tutto colpevoli. Comandate dal nipote del
Sindaco, dallo Speziale del luogo, dal beniamino della moglie del
sotto-Prefetto, insomma da tutti ufficiali creati per dato e fatto
deirimpero, e che non ne sapevano un acca: armate con certi fucili
die avevano piii apparenza di schizzettoni che di armi micidiali:
disiiluse di tutto, persuase di esser tradite e condotte al macello,
d0fenti di dover trascurare i loro interessi per una patria che finora
i. Vienna: Vienne sul Rodano.
DA FIRENZE A DIGIONE 647
non conoscevano, esse non potevano fare eroismi: Feroismo ri-
chiede la convinzione: Feroismo nasce dalla virtu cittadina.1
Appena spunt6 1'alba cominciammo a scorgere le colline eirco-
stanti a Lione; colline che nelle belle stagioni sono amenissirne;
ubertose per viti delFaltezza di un palmo, cosi fitte tra loro da far
sembrare i campi un'estesa brughiera, bagnate da un'infinita di
ruscelletti e di canali che scorrono placidamente, per perdersi poi
nella Loira o rtel Rodano, presentano proprio uno sguardo incan-
tevole.
A tutte le stazioni eravi un movimento indicibile: un andare e
venire di soldati e di guardie nazionali : uno stringersi di mano, un
baciarsi tra loro nei vari gruppi che facevano ressa intorno a quei
che parti vano.
Finalmente si comincib a vedere un'infinita di camini di orHcine
industrial}, poi una miriade di case e di palazzi; finalmente si tra-
scorse in mezzo ad immensi magazzini . . . Eravamo arrivati a
Lione.
Sotto la magnifica stazione ci ponemmo al rango2 e il tenente ci
fece un'arringa che non aveva certo nessuna parentela, neppure
alia piu lontana, con quelle di Demostene o di Napoleone primo.
Fece Feroe, magnified le gesta dei Garibaldini nostri predecessori,
sfoggi6 di tutti i luoghi comuni che si sono inventati dal quaran-
totto a questa parte, e tutto questo per dirci che bisognava rimanere
fino a sera a Lione, e che coloro i quali non sarebbero partiti, sa-
rebbero restati!
Questa peregrina scoperta del nostro duce ci fece acquistare
una grande opinione sul di lui talento; lo salutammo perci6 con
rispetto, e content! di vedere anche questa nuova citta e di para-
gonarla con quella che avevamo lasciato da cosi poco tempo, scen-
demmo la gradinata che e davanti all'edifizio e ci trovammo nella
magnifica piazza con due fontane, che gli sta dicontro.
i. cittadina: cioe, « civics » e « civile *. 2. al rango: in fila (e cfr. p, 648)*
648 ETTORE SOCCI
VII1
. . . Noi eravamo giunti a Digione, a quella Digione che poco dopo
doveva essere illustrata dal sangue di tanti prodi Italiani e che al-
lora ci appariva in mezzo alia nebbia coi suoi gotici campanili, colla
sua semplice guglia di San Benigno, come apparisce un'oasi a chi
si e perso neirampio deserto, come apparisce la meta allo stanco
auriga che gia comincia a disperar del trionfo.
La stazione era ingombra di cannoni, di casse delFambulanza,
di bagagli di tutte le dimension! che appartenevano alle tnippe ed
ai battaglioni che di poco ci avevano preceduto. Due o tre sentinelle
di guardie mobili passeggiavano per lungo sulPambulatorio, fa-
cendo sfoggio di una prosopopea, che te li avrebbe fatti gabellare
per eroi; d'altronde eravamo in prima linea, e quando il nemico
non attacca, ci si pu6 prendere la scesa di testa2 di farla da gente
feroce e terribile.
— In rango — grid6 il nostro ufficiale con una voce da baritono
molto sfogato, e sfoderando per la prima volta la durlindana.
Questo movimento in altre circostanze ci avrebbe fatti scorn -
pisciare dalle risa: in quel momento eravamo troppo felici per aver
raggiunto lo scopo delle nostre fatiche, e dei nostri dolori, per poter
nemmeno prestare attenzione a questa spacconata.
Per quattro fianco destroy avanti marchs!
E mertendoci alia peggio per quattro, escimmo dalla stazione
dietro all'ardente condottiero, infilammo il viale dei platani che vi
conduce, e passando di sotto all'Arco che fu innalzato ad onore
dello strenuissimo Principe di Conde",3 entrammo nel capoluogo
della Cote d'Or.
Traversammo la citta e nella nostra traversata non ci fu dato ve-
dere alcun amico, n6 tampoco alcuno che rivestisse la divisa di
Garibaldino ; in quelPora cosi mattinale, i componenti delF Armata
dei Vosgi, o erano occupati in recognizioni ed esercizi, oppure se
la dormivano saporitamente. Felici questi ultimi . . . noi casca-
i» Del capitolo vn abbiamo soppresso la massima parte, riunendo le pagine
prescelte col successive capitolo vnr. II presente brano corrisponde, in tal
modo, alle pp. 97-116 detfedizione da noi seguita, 2. scesa di testa: ca~
priceio, ghiribixzo, pazzia: ^ espressione delPItalia meridionale, 3. Luigi
di Borbooe, Prmcipe di Condi (1621-1686), il famoso generale francese, vin-
citore degli Sp^noli nella « manzoniana » battaglia di Rocroy,
DA FIRENZE A DIGIONE 649
vamo dal sonno! Ci portarono al quartier generale che era proprio
in fondo della citta al lato opposto della ferrovia; il generale Ga
ribaldi abitava il palazzo della Prefettura, dove erano stati anche
impiantati gli uffizi dello stato maggiore. Vedemmo alia porta in
fazione un carabiniere genovese ed una guardia nazionale.
II rivedere la simpatica camicia rossa, ci fece nascere in cuore
un'emozione dolcissima; i nostri timori di non arrivare in tempo
eransi dileguati: entrammo nel cortile ilari c svelti, proprio come
se uscissimo allora da un morbido letto.
II tenente ando a prendere ordini; poco dopo torno e ci disse:
possono andare in citta: per ora non e stata data alcuna disposizione
per loro; a mezzogiorno sulla piazza della Maine io faro le paghe.
Dopo queste poche parole, se ne andarono tutti, e si stava per
fare altrettanto anche noi delFesigua combriccola fiorentina, quan-
do ci sentimmo chiamare su, di verso il terrazzo, e avemmo appena
il tempo di voltarci che si era abbracciati e baciati . . .
— Ne eravamo sicuri!
— Credevamo di trovarvi quassu . . .
Guardammo e vedemmo il Piccini e lo Stefani gia vestiti da
Garibaldini, che ci salutavano cosi affettuosarnente.
— O Rossi ? . . . domandammo noi altri.
— Rossi e a lavorare . . . Riatta i fucili della compagnia , . . Lo
vedremo piii tardi!
— E come mai siete arrivati a raggiungere Garibaldi ?
— £ una cosa lunga!
— Allora ne riparlererno stasera, perched noi abbiamo un appetite
birbone, e si ha una voglia matta di dorrnire.
— Per dormire non ci e bisogno d'andare alPalbergo.
— Dawero?
— Sicuro! . . . Venite con noi dal moire ed avrete un biglietto
d'alloggio . . . qui in Francia, in tempo di guerra, i militari hanno
questo diritto.
— Ewiva la Francia! . . . — gridammo noi, sedotti ed entusiasmati
dalFidea di non spendere quei pochi piccioli1 che ci erano rirnasti.
— Venite dunque con me — disse il Piccini e tutti noi Io seguim-
mo verso la piazza maggiore della citta.
Durante il nostro tragitto cominciammo a farci un'idea del corpo
i. piccioli: denari. II picciolo e un'antica moneta fiorentina: il vocabolo e
rimasto nelTuso familiare.
650 ETTORE SOCCI
d'armata che era stato affidato aireroe dei due mondi ; vedemmo i
Franchi tiratori, I Mobilizzati, gli Spagnoli, la Croce di Nizza, le
Guide: i costumi, gli abbigliamentl di questi giovani soldati della
liberta, forma vano un contrasto cosi bizzarramente artistico, che
faceva credere di essere in preda di un sogno ; ad ogni cantonata tu
vedevi un nuovo vestiario: pareva quasi di avere in faccia agli occhi
un caleidoscopio continue ; chi aveva in cuore un po' di sentimento
di artista, lo si poteva facilmente conoscere dal modo con cui por-
tava le piume al cappello e la svelta casacca; una collezione di penne
di tutte le qualita; dairaristocraticissima penna di pavone, alia
plebea di gallina, che forse rammentava un allungamento di mano
non permesso dal Codice, tu vedevi brillare sui cappelli di questi
amabili matti, ogni specie di questi arnesi indispensabili agli ani-
mali che s'elevano dal suolo.
I Franchi Tiratori ci offrivano resattissima riproduzione dei vo-
lontari Italiani del 1860 e del 1866; tra loro spiccavano delle distin-
tissime fisonomie: tra loro figurava in mezzo ai figli della montagna
Partista, in mezzo all'uomo del lavoro abbronzato dal fumo delPof-
ficine, il generoso milionaro abbronzato dal sole: tutti erano rappre-
sentati in quelle file, ch6 Tamore di liberta affratella nel momento
supremo, in cui la liberta versa in pericolo, tutti i magnanimi.
Una tal vista rallegro i nostri spiriti : il sonno e lo strapazzo si
era dileguato, si era dileguata la fame. O divini entusiasmi di chi
affronta la morte per un'idea generosa, perch£ siete svaniti, e cosi
presto svaniti ? . . . Siamo forse diventati vecchi in due mesi ? . . .
Le nostre fibre non si commuovono forse tuttora alia corrente ma-
gnetica, che infonde la voce del dovere, della patria, della societk
conculcata? Chi sa . . . L'atonia in cui viviamo ci ripiomba in uno
scetticismo che voglio credere temporaneo . . . Tornino i giorni fe-
lici, torni il santo momento di una rivoluzione, e scettici o no, ci
troveremo al nostro posto! Utilizzare la vita a pro di chi langue:
ecco quale deve essere in tanta tristezza di tempi, il programma per
chi ha cuore e coscienza.
Andammo alk Maine e volendo render meno dura che fosse
possibile la situazione, che ci si preparava, approfittandoci dei no
stri abiti cittadineschi, demmo a bere airimpiegatoxhe eravamo uf-
ficiaii, e ci fu sul tamburo1 steso un biglietto d'alloggio per uno dei
primari palazzi di Digione, nientemeno che il palazzo di Beverant.
i . ml tamburo : H per U, immediatamente.
DA FIRENZE A DIGIONE 651
Qui fummo accolti gentilissimamente da una vecchia signora,
che ci condusse in un magnifico appartamento e ci addito uno
stanzino tutto pieno di legna, dicendoci che con quel freddo ci
avrebbero fatto assai comedo! Eppoi la simpatica vecchia si intrat-
tenne con noi in amichevole conversazione; la ci disse le cose le piu
gentili, ci saluto come gli angioli salvatori di quel disgraziato
paese . . .
L'ospite nostra ci raggxiagH6 su certe prodezze che avevano com-
messo i soldati di re Guglielmo nella prima occupazione della citta;
il comando generale gliene aveva messi in palazzo cinquantasei : e
tutti spadroneggiavano peggio che se fosse ro in una caserma; ac-
cendevano il fuoco e facevano da cucina nelle magnifiche camere;
avevan ridotto il giardino a maneggio per i cavalli: pretendevano
le legna, e qualche giorno persino il vino e la carne. L'amore na-
zionale avra forse fatto esagerare un poco quella signora, ma e un
fatto che molti tra i soldati della grazia di Dio1 ne fecero di quelle
di pelle di becco.2
Sapemmo anche per mezzo della no&tra interlocutrice, quanto fu
lo spavento da cui fu colto il generale Werder,3 allorche* Garibaldi
tent6 di sorprenderlo la sera del 26 novembre: tutti i cariaggi erano
stati preparati, tutte le disposizioni per una ritirata erano state or-
dinate in men che si dice; i soldati avevan fatto fagotto: i battaglioni
di riserva erano adunati nelle piazze, e, di momento in momenta,
altro non si attendeva che 1'ordine deila partenza.
La signora ci rese informati di un' episodic, che poi ci fu dato
raccogliere anche da tutti gli altri cittadini che awicinammo; epi-
sodio ben meschino a paragone di quelli che si svolsero in quel
maraviglioso periodo di storia che fara stupire i nostri posteri,
ma che ci si dava come ragione principale dello sgombro della citta
da parte dei soldati germanici.
i . i soldati della grasia di Dio : e un'espressione che il Socci ripeterlt varie
volte. 6 probabile che egli, oltre a dare airespressione un senso ironico,
intenda dire che erano soldati di un re e alludere alia formuk allora in uso:
« re per grazia di Dio e voloatii della nazione » ; formuk la cui prima parte
spiaceva particolarmente agli element! repubblicani, come residuo di cooce-
zioni assolutistiche (e cfr. p. 668). 2. quelle . . . becco: sporcbe e vergogno-
se. 3. August voo Werder? generale prussiano (1808-1887), fu tra i mag-
giori condottieri nelia guerra del 1870-1871, vincitore del Bourbaki. Era
il comandante delle truppe badesi che avevano occupato Digione contro
rAnnata francese delFEst.
652 ETTORE SOCCI
Dicevasi dunque che il buon Werder, che e un cattolicone coi fioc-
chi, dope un lungo colloquio che aveva avuto col vescovo di Dijon,
degno servo di Dio, avrebbe preso le sue carabattole e cheto come
un olio, spaventato dalle minaccie dei fulmini delPira divina, aveva
trasferito le sue tende ben lontano da quella citta, dove sarebbe
piovuto acqua bollente se egli si fosse piccato di continuare un'oc-
cupa2ione in odio alle tremende divinita che reggono il mondo.
Dopo aver bevuto dell'eccellente wermuth, lasciammo il pa-
lazzo, che cominciavamo a riguardar come nostro, e rientrammo in
quelle strade, dove un continue via vai di soldati, di cavalieri, di
carri, d'artiglierie produceva un chiasso, una confusione che c'ine-
briava.
Arrivati appena nella rue Condi, via principale della citta, degli
applausi entusiastici ci colpiron gli orecchi; poi un correre con-
citatc* di ragazzi e di donne; uno spalancarsi di finestre; un affol-
larsi rcpente lungo i marciapiedi, ed un gridio unanime, pieno,
che ci produsse immediatamente una commozione indicibile. Vive
Galibardi (I)1 Vive k premier dtfenseur de la France. II primo soldato
della liberta dei popoli passava per quella strada, ed il popolo che
in tutto il mondo fa sempre sentire la generosa sua voce in favore
dei generosi che alia liberta dedicano la loro intiera esistenza, ac-
coglieva come si conveniva, ben differente dai grandi del mondo
che dispregiano sempre, chi e grande davvero.
Garibaldi! . . . Chi pu6 rammentare questo nome, chi le gesta
famose delFeroe divenuto gia leggendario, senza sentirsi di subito
rapito in una commozione divina? . . . Eccolo la, questo vecchio
figlio della rivoluzione, sempre giovine quando si tratta di rispon-
dere ai di lei magnanimi appelli! Eccolo la quelPuomo, che nel suo
splendido passato dalPultima Montevideo alia vicina Mentana e
stato sempre in prima fila per la causa divina delFUmanita! . . .
A che mi si rammentano i grandi, a che mi si rammentano gli
eroi ? Pari ai sole che quando sorge col suo Oceano di luce fa oscu-
rare le stelle, quest'uomo ha fatto oscurare la fama di tutti quelli
che lo precedettero. I posteri lo crederanno un mito: perch6 la
forturaa ha dato a questi tempi un Garibaldi, quando non ci ha dato
un Flutarco per rammentarne degnamente le gesta? Ma i buoni
popohni sono per6 sempre pronti a rammentarlo degnamente ai
i. I Fraacesi storpiavano regolarmente il nome di Garibaldi: ne da testi-
monianza anchc iJ Bizzoni.
DA FIRENZE A DIGIONE 653
loro figli, ad insegnar loro a venerarlo come quello da cui dipende
la felicita, rawenire di quanti soffrono! lo per me, le poche volte
che mi e stato dato incontrarlo mi son sentito le lacrime agli occhi
ed egli mi e trasvolato davanti come un eroe dei tempi sublimi, in
cui i Cincinnati e i Fabbrizi3 lasciavano la spada dopo aver salvato
la patria, per tornare alle glebe, o alle officine. Benedetto da tutti
quelli che soffrono ; terribile ai tiranni ; sempre presente agli schiavi ;
invano tenteranno d'abbatterlo i Giuda politici, i pennaioli che si
inspirano ai fondi segreti del ministero.
II Generale era in carrozza con 1'indivisibile Basso;2 ambedue
erano vestiti in borghese; Garibaldi aveva un cappello alia cala-
brese bigio ed il punch3 che lo ha accompagnato in tutte le campa-
gne; dietro alia carrozza venivano a cavallo il maggiore Fontana
dello stato maggiore, e il capitano Galeazzi delle Guide, aiutante
di campo. II Generale sorrideva a quei popolani che 1'applaudivano
con tanto entusiasmo, e li salutava gentilrnente con le mani. II
popolo di Digione accompagnava sempre con dimostrazioni d'af-
fetto il Generale, e quello che or si vcdeva, si doveva d'ora in la ri-
petere ogni giorno davanti ai nostri occhi,
Poco dopo che noi ci eravamo commossi ad un tale spettacolo,
dovevamo esser sorpresi da un incontro non meno gradito. Tro-
vammo Rossi, nostro compagno sul Veer, ingrassato in una tal ma-
niera, che noi durammo fatica a riconoscerlo : sembrava piii un Do-
menicano che un Garibaldino; gli si leggeva in volto la contentezza
delFuomo che, dopo tante fatiche, ha potuto raggiungere uno scopo
per tanto tempo da lui vagheggiato.
Andammo tutti insieme a pranzo : 11 sapemmo a un'incirca tutto
Tandamento precise deirArmata dei Vosgi: questo mucchio di uo-
mini, abbastanza omeopatico, a cui superbamente si regalava il
titolo d'armata, era allora diviso in quattro brigate: la prima sotto
il comando del generale Bossak, aveva il suo quartier generale a
Fontaine, paesetto a circa due chilometri di distanza da Digione:
i. Cincinnati . . . Fabrizi: Garibaldi medesimo, tanto piu dopo ii suo esilio
agreste a Caprera, amd paragonarsi (e ne rimane traccia nei suoi scritti)
agli antichi romani della tradizione repubblicano-plutarchea, II rafFronto
« classicistico » pass6, quindi, nella letteratura garibaldina, specialmcnte in
Abba e in Guerzoni. 2. Giovanni Basso (1824-1^84), nizzardo, segui Ga
ribaldi dair America alia Cina e di li in Italia; fu sempre al suo fianco e
dopo il 1860 ne divenne 1'indivisibile segretario. 3, il pumch: il mantcllo
tutto d'un pezzo, con un'apertura in mezzo per la testa: fu caratteristico di
Garibaldi. La voce deriva dallo spagnolo poncho.
654 ETTORE SOCCI
la seconda, anticamente comandata da Delpeche,1 ed ora comandata
dal Lobbia,2 si era avviata verso Langres, e non si sapevano notizie
precise sul di lei conto: la terza, generate Menotti, era a Talant,
e ne formavano parte le due legioni italiane sotto gli ordini di
Tanara e Ravelli : Ricciotti con la quarta brigata era dalla parte di
Foully,3 lato Nord Est della citta.
Grata notizia fu per noi tutti il sapere che il bravo tenente
Dairisola, datoci per morto dal Mago nel suo racconto della bat-
taglia di Prenois, era vivo e verde, quantunque gii fosse stata am-
putata una gamba.
La notizia della morte di lui era talmente diffusa che il buon
Giorgio Imbriani ne mandc- la necrologia delFeroe caduto al « Po-
polo d' Italian, giornale di Napoli di cui era corrispondente . . .
Dairisola invece era in casa del curato di Prenois, che lo assisteva
colla pieta gentile di un padre. La Jessie Mario, con Narratone e
Giorgio Imbriani,4 sfidando gravi pericoli andarono a trovarlo, ed
ecco come la signora Mario narrava la scena commovente :
« II curato ci fece un'accoglienza entusiastica e subito c'introdusse
i. Louis Delpeche, ingegnere e uomo politico della sinistra repubblicana
francese, legatissimo a Gambetta, fu poi prefetto di Marsiglia e deputato
anti-boulangista. 2. Cristiano Lobbia (1832-1876) aveva gia preso parte a
tutte le imprese garibaldine. Nei 1869, deputato al Parlamento, aveva su-
scitato queH'inchiesta sulIa Regia, di cui abbiamo detto alia nota i di p. 459.
£ utile ricordare che molti dubitarono delle accuse di simulazione rivolte-
gli da una parte deH'opinione pubblica e ripetute nei tribunal!. 3. Foully.
la forma corretta e Pouilly. 4. Jessie White Mario (1832-1906), la scrit-
trice inglese che consacrd se stessa alia causa italiana fin dal 1856. Sposd
(1858) Alberto Mario, il noto repubblicano e federalista, lo segul nelle varie
spedizioni, fu rinfermiera dei garibaldini. Morto il marito (1883), visse fra
Lendinara e Firenze, dove fu poi insegnante di lingue, continuando a pub-
blicare i suoi lavori intorno a Mazzini, Garibaldi e i repubblicani. Tra l*al-
tro, I gar&aldm m Francia, Roma, Polizzi, 1871 ; cfr. il necrologio che di
lei scrisse, nel 1906, G. C. ABBA, in Ritratti e profili, Torino, S.T.E.N.,
1912, pp. 95-8, dove anche si legge: «Pochi mesi or sono, vecchia, amma-
lata, affranta, benedisse della sua presenza le ceneri di Ettore Socci, umile
fedele che solo, perche fedele a un*idea, parve a lei un gigante»; Dome-
nico Narratone (vedi la nota i a p. 546) aveva organizzato a Lione un
btttaglione di volontari e Taveva condotto nei Vosgi a Garibaldi ; Giorgio
Imbriam, figlio di Paolo Emilio, aveva gi& combattuto nel 1866. Nato nel
1848, cadde, come qui e detto, il 21 gennaio 1871. Sull'Imbriani si ricprdi-
BO le parole del Carducct nella prefazione alle sue Poesie, Firenze, Barbara,
1871 (trascritte dal Socci medesimo a pp. 265-6 deU'edizione citata del
suo volume), riprodotte in Opere (edizione nazionale), xxiv, pp. 610-29;
e cfr. ibid., xix, pp. 29-30. Veggasi anche il profilo che ne traccia lo stesso
Socci nel volume Uimli erci della patria € deW wnanita. Nonch^ qui a
xx * *
pp. 665-6.
DA FIRENZE A 0IGIONE 655
nella camera di DalFIsola. L'incontro fra questi e Plmbriani fu
toccantissimo; si baciarono, si abbracciarono, e fu un fuoco di fila
di domande e di risposte,
II curato, che pendeva piu a! soldato che al prete, ci narr6 tutta
la storia delle giornate. Benestante e allegro era Panima di quel
piccolo villaggio, che sempre fece buon viso ai nostri, e fu, per
quanto gli e venuto fatto, molestissimo ai Prussian!,
II curato la mattina del 26, preso quale ostaggio, potette fuggire,
raccolse tutti i feriti in casa sua; i trasportabili fece trasportare a
Dijon.
Rimasto il solo DalFIsola, lo confortd d'un medico tre volte la
settimana, prestandogli egli medesimo gli offici assidui d'infer-
miere, vegliandolo la notte e nei momenti disperati imboccandolo
come un uccello; accomodandogli i guanciali con mano leggera di
donna, e poscia trasportando dal letto al sofa e da questo a quello
il malato, con un braccio solo a foggia d'un bimbo. Si mostr6 beato
della prowigione dei sigari, come Isola dei libri che io avevo por-
tati meco.
Ci reiter6 le profferte di ospitalita pur consigliandoci di non dif-
ferire il ritorno, a cagione delle quotidiane scombande del nemico
in quei dintorni.
In quelPora passata al letto di DalPIsola compresi perch£ egli
fosse tanto amato da' suoi amici. Messe in oblio le sue sofferenze
non pens6 che a dimandar notizie della legione italiana. II combat-
timento di Autun, narratogli da Imbriani, gli gonfiava il petto d'or-
goglio; e voile sapere degritaliani se sono sen, se si conducono
bene. Mostrossi affitto che non ci fosse Ferraris,1 altro fra i suoi
prediletti: e certo egli non presentiva allora che entro un mese
Puno e Paltro2 di quei santi e nobilissimi giovani avrebbero perduto
la vita sul campo degli stranieri! »
Le traversie che ebbero a subire Rossi e Piccini, SquagHa e
Baldassini per giungere in Francia, ci furono raccontate a quel de-
sinare e meritano, credo, Pattenzione dei lettori, se non altro perch6
questo serva ad assicurarli del come, quando si vuole, si affronta
e si supera qualunque pericolo.
Rossi e gli altri, dopo il nostro arresto restarono in Livorno e
i. Adamo Ferraris, chirurgo, entr6 nelle file dei combattenti al seguitowdi
Garibaldi, Mori mentre portava un messaggio di Garibaldi e fu sepolto nei
cimitero di Digione. 2. Ttmo e Valtroi I' Imbriani e il Ferraris.
656 ETTORE SOCCI
riuscendo ad eludere queiroculatissima polizia, poterono giungere
al memento bramato di imbarcarsi su una piccola barca, colla quale
si accingevano a intraprendere una traversata che mette in pensiero
chi deve farla in piroscafo. Perseguitati dalla polizia che non si
ristava un momento da pedinarli, con un tempo indiavolato essi
poterono imbarcarsi verso mezzanotte, due miglia lontani da Li-
vorno. II mare metteva spavento: ognuno potra ricordarsi quanto
furono sconsacrate1 le giornate che resero celebre Tinverno 1870-
1871; perfido il clima, continue le pioggie, mai interrotte le bur-
rasche; ma i bravi giovani erano decisi a giocare di tutto per rag-
giungere il loro scopo, e possedevano tempra da reputarsi piu che
miracolosa in quei tempi di universali debolezze. Certo che chiun-
que avesse veduto quel piccolo legno, sbattuto in mezzo agli spa-
ventevoli cavalloni, sempre a un pelo per far cufEa,2 sernpre fri-
sando3 gli scogli, sempre a pochi passi dalla morte, non poteva
fare a meno di esser colpito da tanto coraggio ... II vento impetuo-
sissimo, i marosi che avevano raggiunto tutto quanto pu6 esservi
di piu temibile per il marinaro, Talbero maestro troncato costrin-
sero i nostri giovani amici a fermarsi a Vada, piccolo paese della
Maremma, distante a dir molto mezza giornata di cammino da
Livorno.
Attorniati immediatamente dai carabimeri, essi dovettero ai sen-
timenti generosi dei buoni popolani di lassu, il potersi ridurre in
salvo: si rifugiarono difatti in un abbaino, alia cui finestra non
erano imposte, n6 vetri, e che aveva tanto basso il soffitto da co-
stringere chiunque v'entrasse, ad andarvi carponi. Vi doverono
star sette giorni : senza un pagKericcio, senza un brodo che loro rav-
vivasse le forze gia esauste; costretti a dormire 1'uno 1'altro abbrac-
ciati, per s<x>ngiurare la veemenza del freddo, confortandosi e
prendendo animo all'idea del santissimo sacrificio che per santis-
simo intento essi in quel momento facevano, passarono in quella
dolorosa situazione degli istanti diviru.
Riattato il piccolo navicello, essi a notte inoltrata poteron ripar-
tire: a bordo vi erano viveri, ma essendo durato il viaggio per altri
sedici giorni, i futuri difensori della repubblica soffrirono anche la
fame ed arrivarono sfiniti, cascanti, dopo cento altre peripezie, a
Bastia.
i. sconsacrate: maledette. 2. far cuffia: sprofondare di prua, affondare.
: rasentando: fc voce francese.
DA FIREN2E A DIGIONE 657
Nella capitale della Corsica1 trovarono una ostile accoglienza:
tutti narrarono che gli abitanti, devoti alia causa napoleonica, ap-
pena ebbero odorato, che quei giovinotti, sbarcati dal navicello,
stracciati, ed in cattivissimo stato, erano dei Garibaldim, li guar-
davano in cagnesco, non risparraiando loro certi atti villani, che
sarebbero stati degnamente rintuzzati, se in quel momento ragioni
potentissime non avessero consigliato sangue freddo e prudenza.
Ricevuti come cani alia Prefettura, trattati quasi come pazzi al
comando di piazza, guardati con diffidenza dal Moire, essi non si
perdettero di coraggio e fiduciosi nel proverbio che riniportuno
vince Favaro, tanto almanaccarono, tanto si diedero da fare, usando
ora buone maniere, ora sgarbi, pregando e protestando, che alia
fine furono imbarcati sopra un piroscafo, e inviati a Marsiglia, dove
si erano gia costituiti i due celebri comitati garibaldini.
Credendo di aver toccato il cielo con un dito, i bravi amici salu-
tarono Marsiglia, come il fanciullo che si e perduto nel bosco, saluta
il camino della casa paterna. E furono accolti a braccia aperte dal
Comitato, ed i membri di questo furono loro cortesi d'incoraggia-
menti e di belle parole; ne quando accamparono il loro desiderio
di partir prontarnente, fu fatta la plu piccola obiezione . . . Meno
male che la fortuna qualche volta corona felicemente gli sforzi di
chi ha sofferto! Cosi pensavano i nostri ... Oh si che la pensavano
bene! Essi non erano giunti che alia prima stazione del Calvario
che doveva menare qualcuno di loro alia morte.
Frapolli aveva in quell'epoca il suo quartier generale a Cham-
b£ry, e gia stava istituendo un primo battaglione di fanteria a
Montmelian neU'estrema Savoia. La furono diretti i nostri amici,
i quali, non sapendo ancora quanto fosse discorde il celebre grande
Maestro della Massoneria dai disegni del Generale, andarono alia
loro destinazione, allegri e content!, con la ferma convinzione di
raggiungere tra pochi giorni Pinvitto capo delParmata dei VosgL
Arrivati alia loro destinazione, essi trovarono tra i component!
del battaglione lo Stefani, venuto via pochi giorni avanti da Fi-
renze. Quattrocento giovinotti erano gia adunati, ma nessimo di
loro aveva arme, nessuno aveva il piu piccolo distintivo che po-
tesse contrassegnarli, come soldati. I superiori, si sfogavano a ram-
mentare ogni giorno, che presto sarebbero anche loro andati in
i. La capitale della Corsica e, veramente, Ajaccio, dove altresi erano e SOIK>
piii vive le memorie napoleonic^e.
42
658 ETTORE SOCCI
prima linea, e intanto esortavano i dipendenti a fare delle esercita-
zioni, le quali tutte si compendiavano in gite di 15, 16 e persino di
20 chilometri, su quei monti, dove la neve si alzava 7 od 8 metri dal
suolo. I continui strapazzi, tutti infruttuosi, il rigido clima di quelle
alpine regioni influirono maledettamente sulla salute di quei poveri
diavoli di cui molti ne andarono allo spedale, mentre gli ufficiali
passavano allegre serate, rawivati da cene lucullesche, che il loro
capo scroccava ai buoni Massoni di quelle montagne : ragione que-
sta per cui ogni ufficiale che dipendeva dal buon Frapolli si faceva
di subito iniziare ai misteri della Massoneria!
Fu dato il comando del battaglione al Perla,1 a quest'eroe che ora
e una delle piu belle figure nel Pantheon dei martiri della liberta:
Perla valoroso soldato delle nostre guerre dell'Indipendenza, co-
mandando una frazione del microscopico esercito del Frapolli, non
si rese certamente complice dei bassi intrighi del suo superiore, e
lo mostrc- chiaramente quando tra i primi raggiunse le legioni di
Garibaldi, ove doveva incontrare cosi gloriosamente la morte.
Rossi, Piccini, Stefani, in ricompensa d'aver servito altre volte,
furono fatti sergenti, ma il tempo passava (erano gia scorse due
settimane) e ancora non si veniva a capo di nulla; unica cosa fatta,
fu rabbigliamento dei volontari: i giovani cominciavano a mor-
morare: le notizie degli scontri che aveva sostenuto Garibaldi erano
giunte fin la, e troppo repugnava a giovine gente restare in un de-
posito, mentre i fratelli si misuravano coll'inimico e spargevano di
nobile sangue gli ubertosi vigneti della Borgogna.
Tutte le sere in caserma succedevano concitatissime conversa-
ziioni; si proferivano gridi che non erano certo di ammirazione per
i comandanti ; si fischiavano gli accaniti difensori degli ufEciali, era
insomma una confusione da metter pensiero a chi era incaricato di
condurre tutta quell'accolta di gente : una di queste sere, proprio
airimpensata, capitc- a MontmeKan Frapolli ed ordin6 una rivista
per il giorno dipoi.
Dopo aver squadrato, cosi per pretesto, ad uno ad uno i suoi
dipexidenti, il Frapolli fece formare il quadrato, e piantandosi in
mezzo alle file, sciorino tutto d'un fiato un lungo discorso, dove
chi capi un'acca pot6 chiamarsi ben fortunato. Parl6 di trame e di
cospirazioni, protesto di esser calunnkto, di andar d'accordo con
i . Lutgi Perla% bergama&co, era stato <iei Mille. Mori a Digiane,
DA FIRENZE A DIGIONE 659
Garibaldi, ma che per6 non bisognava sposarsi a quest'ultimo,
poiche* dei guerrieri bravi ce ne erano anche piu di lui, poich6
era succeduta la rivoluzione anche nelFarmi e nella strategia e che
perci6 ci voleva gente nuova.
Un lungo mormorio e anche qualche fischio accolsero le stram-
palate parole del generale, che alzando bruscamente le spalle e
borbottando non so quali impertinence, si ritiro seguito dal suo
stato maggiore.
Giunto il battaglione alia caserma, Piccini scrisse una lettera a
Garibaldi, nella quale si metteva chiaramente a nudo la situazione
e si chiedevano consigli su cio che era da operarsi: qualora non
fosse pervenuta alcuna risposta, i tre amici avevano deciso di di-
sertare.
Come furono lunghi i cinque giorni d'aspettativa! Quante po-
lemiche, quante questioni anche serie non accaddero in quel breve
lasso di tempo! I soldati cominciavano a perdere la fiducia nel
loro capo, dacche" subodoravano che tra lui ed il grande Italiano
non ci era piu quelPaccordo, che solo puo produrre buoni resul-
tati; finalmente venne il colpo di grazia, e questo colpo fu giusto
appunto la lettera con cui Canzio a nome del Generale rispondeva
a Piccini.
Frapolli vi tradisce, Frapolli e un inviato del Governo Italiano,
che tenta di seminare la zizzania nel campo degli eroi della liberta. -
Tale era a un dipresso il sunto dello scritto di Canzio. Un fulmine
e questa lettera potevano produrre il medesimo efTetto. I volontari
si ragunarono tumultuosamente: « siamo traditi : abbasso i traditori :
viva Garibaldi: vogliamo partire ...» ecco le grida che sorgevano da
tutti quei petti, ecco le convinzioni che tutti quei giovani espri-
mevano proprio all'unisono: invano gli ufficiali con preghiere, con
moine, con minaccie pretendono di far rientrare in caserma i sotto-
posti e di ridurli a dovere; invano si rammenta loro la causa che so-
stengono e che pu6 essere compromessa con moti intempestivi e
con deliberazioni improwise: oramai tutti son rimasti troppo scot-
tati dalle buone parole, oramai tutti sono stanchi di lasciarsi abbin-
dolare di piu; gli ufficiali sono obbligati ad andarsene scorbacchiati
e confusi; n£ potevano quei bravi avanzi delle guerre della libert^
disapprovare in cuor loro Timpazienza generosa di quei bravi ra-
gazzi: difatti la maggior parte de^li ufficiali raggiunse poco dopo
Tesercito e si porto croicamente: rimasero solamente quegli eroi
66o ETTORE SOCCI
che fuggono al fuoco, ma che sono i primi ad attaccarsi i ciondoli
del valor militate sul petto.
Dalla rivoluzionaria assemblea, fu conchiuso d'inviare una com-
missione al Generale e fargli noto, come idea ferma di tutti, fosse il
raggiungere I fratelli che si trovavano in faccia al nemico. Eletti a
far parte di questa commissione furono appunto i tre nostri amici
Rossi, Piccini, Stefani. Essi portaronsi immediatamente a Cham-
be1 ry, dove si abboccarono col colonnello Pais,1 uno dei repubblicani
distinti che era rimasto acchiappato dalle reti del Frapolli. Pais
cominci6 col fare qualche appunto al quartier generale, deploro le
parole del Canzio, esorto i nostri giovani a non volere attizzare
quel fuoco, che divampando avrebbe distrutto la reputazione di
patriotti distinti e forse anche Fesito della intrapresa repubblicana.
I tre furono irremovibili : vedendo allora il colonnello come qua-
lunque parola sarebbe stata vana a trattenerli, permise loro di al-
lontanarsi dal battaglione, anzi li preg6 a presentarsi al quartier
generale, allora in Autun, ed a scongiurare coloro che comanda-
vano Tarmata dei Vosgi a prendere una definitive risoluzione, af-
finche cessasse quel fatale dualismo che poteva condurre a cos!
tristi, e cosi deplorevoli conseguenze.
Accompagnati alia stazione dagli applausi di tutti i compagni, ed
imbarcatisi, dopo un viaggio lungo anzichen6 a causa delPinterru-
zioni ferroviarie, i nostri amici arrivarono al capoluogo del Giura,
alia citt£ che fu culla del noto Mac-Mahon,2 e senza por tempo di
mezzo, si recarono alia sede del quartier generale.
Lobbia e Canzio accolsero i nuovi venuti piu che se fossero amici,
proprio come se fossero stati fratelli. Tutti erano indignati per il
contegno tenuto dal Frapolli: difatti nessuno poteva farsi una ra-
gione del come quest'uomo d'accordo coi Comitati accaparrasse
per s£ tutta la miglior gioventu che veniva d* Italia, e la forzasse
i. Francesco Pa«-Serra (1835-1924), colonnello garibaldino, piu volte de-
putato per collegi della nativa Sardegna, fondo nel 1872, e diresse, il quo-
tkiiano bolognese « La voce del popolo », poi risorto, sotto la medesima di-
rexione del Pais e col medesimo indirizzo democratico-repubblicano, sotto
i! nuovo titolo di * L'epoca ». GH fu amico il Carducci che del Pais park so-
vente nell'opera sua, ^>prattutto nell'epistolario. 2. II maresciallo Patrice
de Mac-Mahem, nato ad Autun nel 1808, aveva acquistato fama, in Italia,
cofi la battaglia di Magenta (4 giugno 1859). Durante la guerra franco-prus-
siana fu fatto prigicmiero a Sedan. Diresse poi la lotta contro la Comune,
fta presidente (1873) delk Repubblica francese, si dimise nel 1879.
DA FIRENZE A DIGIONE 66l
alFinazione, alia vita corruttrice della caserma e della guarnigione,
rnentre il generate Garibaldi non faceva che raccomandarsi a tutte
le parti, perche gli inviassero degli uomini.
Canzio in special modo era irritatissimo: disse ai nostri amici
che a giorni sarebbe partite, come infatti parti, per condurre via
tutti gli uomini che erano adunati a Chambery e a Montmelian.
I giovani generosi non vollero tornare donde erano venuti, quan-
tunque loro si facessero balenare delle prospettive di avanzamenti
sicuri; troppo content! di aver finalmente raggiunto Garibaldi, di
aver potato riabbracciare i vecchi compagni d'arme e di trovarsi
con loro, essi si strapparono i galloni di sergente ed entrarono
semplici soldati nella Compagnia dei Carabinieri Genovesi, com-
pagnia che si ricostituiva allora sotto gli ordini del distinto capitano
Razzeto.
Dopo due o tre giorni il quartier generale erasi trasferito a Di-
gione ed i tre nostri amici, insieme al prode comandante deirarmata
dei Vosgi (che la compagnia dei Carabinieri Genovesi mai si stac-
cava da lui) erano venuti in questa citta.
Tale a un dipresso fu la narrazione che a pezzi e boccom strap-
pammo durante il desinare ai nostri compagni, che si mostravano
di un buon'umore e di una gaiezza invidiabile. Entrarono nella
trattoria e si unirono con noi Macheri e Ghino Polese, appartenenti
ambedue alle Guide, e gia in Francia ambedue fino dai primi prin-
cipii della campagna. E qui furono lunghi discorsi, domande spesse,
ripetute, alia maggior parte delle quali era impossibile dare una
risposta, tanto rapidamente le si succedevano; era una conversa
zione briosa, scapigliata, attraente.
Noi secondo Pabitudinaccia nostra si diceva male di tutto e di
tutti, si prendevano in burletta certe cose che, convengo pel primo,
sarebbe stato assai meglio pigliare sul serio. II Rossi soltanto non
prendeva parte alcuna alle nostre maldicenze; anzi con fare affet-
tuoso e paterno ci faceva delle reprimende che per lo piu termina-
vano in lirismi ed in voti di esagerate speranze per Tawenire. II
Rossi, popolano del Pignone aveva la fede e Fenergia di un apostolo,
la fermezza di un cospiratore, il fanatismo del martire. Sempre
uguale a se stesso: nella sua officina a Firenze, nelle prigioni che
spesse volte aveva assaggiato per non esser troppo devoto al pre-
sente ordine di cose, nei combattimenti dove aveva a incontrare
poco dopo tanto gloriosarnente la morte, egli avrebbe creduto di
662 ETTORE SOCCI
peecare smentendo se stesso, anche cosi per far chiasso in una con
versazione <Tamici. A sentir lui era certo il trionfo della repubblica,
non solamente in Francia ma in un altro paese dove egli era sicuro
che Garibaldi ci avrebbe portato appena districati gli ultimi conti
coi fedeli alleati della Grazia di Dio, Figuratevi in quella combric-
cola di scapestrati, quale effetto facessero le parole calme, dolci di
questo giovine, la cui perdita ha lasciato tanto vuoto nelle file del-
Fesiguo partito democratico della mia bella Firenze.
£ inutile; il Rossi parlava come un santo, ma quella sera doveva
essere baccano : si festeggiava il nostro arrivo e non poteva essere a
meno! . . . Squaglia, Baldassini, una caterva di Livornesi ci rag-
giunsero, e tutti insieme rammentandoci le vaghe colline della no-
stra Toscana, il nostro bel cielo, il volto delle nostre ragazze, idea-
lizzato dalla lontananza, le chiassose baldorie e le ribotte di un
tempo, incominciammo a intuonare quelli stornelli, che si sentono
tante volte sulle labbra gentili delle nostre donne del popolo: stor
nelli d'amore, malinconici come il ricordo di una svanita illusione,
modesti e simpatici come i fiorellini dei campi che Fhanno ispirati,
poeticamente rozzi, come coloro che senza alcuna istruzione Fhanno
composti.
Dagli stornelli passammo alle ardenti canzoni ed agli inni: la
Rondinella di Mentana^ VInno di Garibaldi, la Marsigliese . , . Era la
voce delFUmanita e della Patria, che sorgeva gigante ad oscurare
quella della citta e della famiglia, e che in mezzo alia orgia ci faceva
ricordare di essere uomini.
Escimmo cantando: quella sera ci si sentiva felici: i popolani si
accalcavano al nostro passaggio e ci accompagnavano coi loro ap-
plausi: noi Italiani in Francia abbiamo molta fama musicale, molta
piu di quella che ci si merita: qualcuno di noi per esempio stuonava
piu di un secondo tenore del teatro Nazionale,1 eppure sentimmo
ripetere che mai coro piu accordato del nostro erasi sentito in Di-
gione . . . Chi si contenta gode!
L'orologio batt6 mezzanotte: Fora era piu che canonica: biso-
gnava ritirarsi : Rossi che voleva saper Fandamento generale delle
cose d'ltalia, e i progressi che vi aveva fatto Fidea, e come il popolo
accogliesse le notizie di Francia, voile in tutti i modi accompagnarci
a casa.
Nasionale: un teatro popolare di Firenze.
DA FIRENZE A DIGIONE 663
Povero Rossi! . . . Venue con noi, cominci6 a domandare . . ,
rna noi con poco rispetto attaccammo un sonno da paragonarsi so-
lamente a quello di un lettore novellino della « Perseveranza »/
ed egli continu6 a gestire, e scalmanarsi per una buona mezz'ora,
in mez2o alle note piu o meno sfogate deile nostre trachee, cambiate
11 per li in contrabbassi.
VIII [X]2
... La vita di quei primi giorni per noi non fu di certo una vita co
lor di rose : il freddo era a ventotto gradi, tre sentinelle geiarono agli
avamposti ; moiti volontarii erano negli ospedali assiderati in qual-
che parte del corpo e di piu ogni giorno noi eravamo sconcertati dal
tristo spettacolo di una infinite di bare e di casse da raorto: il vaiolo
ed il tifo infierivano> e, come se fosse poco la guerra, diradavano le
file dei generosi campioni della liberta. — Se si torna e un miraco-
lo ; — ripetevamo tra noi — qui ci e il tifo, il vaiolo e i Prussiani. —
Era tanto spaventevole Tidea di morire di malattia, che tra i nagelli
che ci minacciavano si ponevano in ultima linea i Prussiani: la
sorte voleva ben esperimentare la tempra dei giovani soldati e questi
hanno resistito alia prova.
Basti il dire che si era tutti infreddati ... Oh! la prosa desolante
di una ostinata infreddatura! In certi momenti invece di essere tra
i seguaci di Marte, si poteva creder benissimo di essere in un ospe-
dale di tisici al terzo stadio. Ma non cessavano per questo le bur-
lette, ed era un ridere continuato alle spalle di qualcuno che se la
prendeva, un awicendarsi di prognostic! di cattivissimo augurio
che terminavano con una bevuta alia salute di tutti noi altri . . .
anche questi erano mezzi per cacciare la noia di quei giorni mono-
toni! Eppoi Digione offriva delle distrazioni anche in tempo di
guerra e coi nemici alle porte. Nel palazzo ducale vi e un museo,
nel quale non facevano difetto artistici capolavori; 1'arte italiana
vi era degnamente rappresentata da alcuni quadri di Guido Reni,
da una Sacra famiglia di Andrea del Sarto, e da piccole pitture del
i . * Perseveranza » : il giornale * codino » o « benpensante », diretto da Rug-
gero Bonghi (vedi la nota zap. 483), che si pubblicava a Mikno. 2- Ab-
biamo soppresso il capitolo ix e una prima parte del x: il brano riportato
corrisponde alle pp. 128-31 deiTedizione da noi seguita.
664 ETTORE SOCCI
Caracci e del Francia; alcune battaglie del Borgognone,1 una bel-
lissima collezione di litografie all'acqua forte, delle statue moderne
di qualche valore, diversi busti di uomini celebri, tra cui quello di
Piron,2 celui qui nefut rien, pas mime academicien, i superbi mauso-
lei dei duchi della Borgogna offrivano a chi desiderava di ammaz-
zare il tempo un divertimento geniale e istruttivo. Un bellissimo
quadro di una battaglia era sfondato . . . ci dissero che autori di
tale barbaric erano stati i Badesi nella prima occupazione ; i soldati
delle monarchic, quando vincono, diventano vandali.
Una biblioteca, assai fornita di libri, dava un altro passatempo a
chi voleva far Tuomo grave: per gli scapati ci era il Caffe di Parigi,
dove si beveva e si giocava: II era il convegno del fior fiore delPar-
mata: 11 vedevi Pelegante ufEciale di stato maggiore, lo svelto Franc
tireur, il mobilizzato sornione, lo scapigliato volontario, tutti af-
fratellati davanti a un banco di lansquenet? o in una partita al ca-
rambolo.
Le prime ore della sera noi le passavamo al Restaurant, ciancian-
do tra noi e mangiando e bevendo. Dopo si andava in una bottega
di tabaccaio, vicina al nostro palazzo, cioe al palazzo della nostra
ospite: bottega dove avevamo rinvenuto una gentile donnina, che
ci incantava per il suo spirito e per la sua educazione.
Questa graziosa ragazza che la nostra buona fortuna ci aveva
fatto incontrare, era figlia di un colonnello che era stato fatto pri-
gioniero a Sedan; suo zio generale, era pur egli prigioniero e ferito
gravemente ad una coscia; ora la stava in casa della tabaccaia che
Paveva veduta bambina e che Pamava come una mamma. Parlava
di piani di guerra con la medesima facilita con la quale un'altra
donna parlerebbe di crochet , d'orli o di ricami ; non aveva alcuna
fiducia del Bourbaki, disperava delle sorti della Francia e attendeva
un combattimento per poter recar soccorso ai feriti, tra Pimperver-
sare della mitraglia. Un tipo curioso, ma piena d'ardimento. Una
volta diede in presenza nostra uno schiaffo ad un mobilizzato della
Provenza, perche* le aveva detto che era arnica dei Prussiani; cor-
reva tutto il giorno per gli ospedali, spendeva le sue piccole risorse
in quelle ghiottonerie che son tanto gradite ai convalescenti e si
i. Jacques Courtois (1621-1675), pittore francese, in Italia detto il Bor-
gogmme. Ebbe grandissima fama come pittore di battaglie. 2. Alexis Piron
(1689-1773), celebre commcdiografo francese. 3. lansquenet: hnziche-
, zeccfaiaetta: & an gioco d*azzardo.
DA FIRENZE A DIGIONE 665
sdegnava se qualcuno le proponeva di accompagnarla in queste
pietose escursioni: presto divenimmo di lei amici . . . era tanto ca-
rina che non avremmo meritato scusa veruna a trascurarla!
Dopo cinque o sei giorni, dace he eravamo arrivati, fummo ral-
legrati dai concenti piu o meno armoniosi di trombe che suona-
vano marcie italiane: era la legione Tanara, che veniva per fermarsi
qualche giorno in citta. I volontari marciavano come vecchi soldati
e avevano un piglio guerresco da renderli cari ; il primo battaglione
era comandato da Ciotti; il secondo da Erba; questo aveva una
bandiera tutta rossa sulla quale in lettere d'oro stava scritto : Pa-
tatrac. I cittadini ogni poco ci fermavano per domandarci che si-
gnificava quella arcana parola, e noi rispondevamo loro che signi-
ficava ci6 che era tanto bramato da noi,1 ci6 che ora il procuratore
del re non mi permette di far sapere ai Jetton.
La maggior parte dei component! delle legioni appartenevano
alle provincie settentrionali d'ltalia; tra gli ufficiali erano molti dei
comproinessi negli afFari di Pavia,2 commilitoni e fratelli d'idea del
martire Barsanti. Dietro pochi passi da loro io vidi I'lmbriani . . .
Povero Giorgio! . . . Come eri contento per aver raggiunto final-
mente le schiere dei generosi difensori di quel principio che avevi
sempre adorato! . . . Con quale affetto tu mi stringesti la mano, ve-
dendo che io pure non avevo mancato airappello! Eri giovane e
forte: Tawenire ti si dipingeva davanti con i colori piu rosei, ep-
pure un presentimento vago, indefinite, ad ora ad ora ti sorgeva
nell'anima: «chi sa per quanti di noi sara tomba questa citta » tu
mi dicesti; e Io doveva essere anche per te; ed in mezzo al com-
battimento mi doveva giungere la novella della tua fine; che, ar-
dimentoso come eri, tu dovevi morire tra i primi ed io non era a
te vicino per poterti dare Pultimo bacio delFamicizia, per poter
raccogliere il tuo estremo sospiro!3
Erano due anni che non ci si vedeva: ci eravamo lasciati ad un
banchetto, dove si era irmeggiato alia Repubblica e alle barricate,
ora ci si doveva ritrovare per essere eternamente divisi. Eterna-
mente! . . . Oh! la dura parola per chi ti ha conosciuto!
i. rid ... da noi\ il crollo, il patatrac della monarchia c 1'avvento della re-
pubblica in Italia. 2. qffari di Pavia: siiirinsurrezione di Pavia e lafud-
lazione del Barsanti, vedi pp. 459-60 e la nota i a p. 460. 3. Povero . . .
tospiro: si osservi cc«ne la sincera e nobile comrnozione si atteggi nel Socci
secosndo i modi gia allora ccmsunti del romanticismo. £ un'o&servazione che
dovremmo ripetere per molti luoghi della sua narrazlone.
666 ETTORE SOCCI
Insieme ad Imbriani, poeta come lui, biondo, bello e di gentile
aspetto, come il Manfredi di Dante, era Antonio Fratti di Forll.1
Non lo conoscevo ma lo amai subito. II suo fare gentile, le sue
movenze aristocratiche, la bonta innata che da ogni suo gesto, da
ogni suo atto traspariva, mi dissero subito che egli alia dolcezza
della fanciulla accoppiava un cuore da leone. I due giovani non si
abbandonavano mai, non avevano accettato alcun grado, quantun-
que avessero gia fatto due campagne ; erano insomma due cavalieri
errand delPideale.
ix [xi]
Riceiotti arrivava in questo frattempo a Digione, dopo aver so-
stenuto diversi piccoli scontri con recognizioni nemiche, scontri in
cui aveva sempre ottenuti indiscutibili vantaggi. II di lui arrivo fu
per noi una vera festa: il giovine ed ardito condottiero che gia erasi
acquistata tanta gloria in questa campagna, troppo ci aveva fatto
temere per il suo spensierato coraggio ed era di troppa utilita al
nostro esercito, perch6 non ne valutassimo Parrivo come un lieto
awenimento. Dipiu nella sua brigata noi avevamo amici carissimi :
10 Strocchi, POrlandi Cardini erano nei Francs Chevaliers de Cha-
tillon, squadrone di cavalleria che il prode e simpatico figlio di
Garibaldi aveva organizzato dopo la memorabile impresa che ag-
giunse non poco lustro alle armi italiane.
Quasi nel medesimo tempo veniva da Chambery il simpatico
Canzio, portando seco circa duecento uomini, che uniti a quelli
del deposito, a cui eravamo stati ascritti in principle, formarono
un battaglione sotto gli ordini del maggiore Perla, battaglione che
fu denominato dei Cacdatori di Marsala. Cavallotti,2 Rossi di Lodi
e tanti altri generosi si trovavano in quelle file: essi avevano lasciato
11 Frapolli per essere in prima linea.
La gioia di questi arrivi fu per noi un po' amareggiata dalla no-
i, Antvmo Fratti: vedi k nota I a p. 546. 2. Giuseppe Cavallotti, nato a
Milano nel 1841, aveva combattuto come garibaldino nel 1860 a Capua> e
ncU'csercito regolarc durante k guerra del 1866. Arrestato con molti altri
per cospirazione repubblicana nel 1869, appena fu Uberato, nel novembre
<kl 1870, da un'amnistia, corse in Francia. Faceva parte del battaglione
Perla. Mori il 21 gennaio 1871 sotto Digione. II fratello Felice, poeta e de-
putato repubblkano, compose in sua memoria il canto intitokto Dtfon.
DA FIRENZE A DIGIONE 667
tizia che i famosi cavalli che dovevano arrivare con Canzio, sareb-
bero arrivati due o tre giorni dopo . . . Se ci avessero detto che non
dovevano arrivare mai, saremmo usciti dai gangheri e chi sa quale
determinazione avremmo preso!
Ai nuovi volontari furono distribuite delle carabine Wtincester*
bellissime armi che forse esigevano un po* troppo perizia in chi le
adoperava; avevano esse diciotto colpi di riserva, erano elegantis-
sime e quando se ne vedcva una in mano di qualche Garibaldino,
ci si affollava intorno a lui, e con noi si affollavano a bocca spa-
lancata i buoni popolani della citta; difatti nelle piazze, nelle vie
principali tu non avresti veduto che gnippetti di gente, e in
mezzo a questi un volontario che dava tutte le spiegazioni pos-
sibili e immaginabili in mezzo allo stupore e alia soddisfazione ge-
nerale.
Bisogna esser giusti: neirultimo periodo della campagna i vo-
lontari non erano armati male : i Carabinieri Genovesi avevano per
esempio delle buone carabine Spencer, con sette colpi di riserva nel
calcio : unico danno, come dicevo poco anzi, era la difficolta con cui
potevano adoperarsi da mani inesperte; per cui avrei reputato cosa
molto migliore il dispensare fino dal bel principio quei Remingtons
che furono dispensati, come sempre succede, quando non ce ne era
piu alcun bisogno.
Ai nostri soldati non si distribuiva alcun rancio : si dava loro un
franco il giorno, se erano di fanteria; uno e venticinque centesimi,
se di cavalleria: questo prowedimento, molto noio&o quando le
truppe si trovavano in marcia o nei paesetti, era assai comodo quan
do si trovavano in Digione. I cittadini non si potevano infatti mo-
strare ne* piu ospitali, ne* piu generosi: accoglievano a braccia aperte
nelle loro case i giovani loro difensori e H trattavano cavalleresca-
mente. — Gran bella citta Digione : — mi diceva un mio amico — an-
che con pochi soldi ci e da farsi un peculio! . . . — £ un fatto che
gli abitanti della Cote d'Or ci volevano un ben delFanima; bastava
che le trombe del Tanara suonassero la ritirata perch6 s'improwi-
sasse una dimostrazione con grandi ewiva a Garibaldi e all' Italia;
allorche" fu data onorata sepoltura nel cimitero alia salma del bravo
tenente Anzillotti, tutta la popolazione prese parte alk cerimonia
pietosa, ed assist^ religiosamente ai discorsi del Tanara e di Canzio,
quantunque fossero proferiti in lingua Miana: si erano troppo
i. Weincester: Winchester.
668 ETTORE SOCCI
assaggiati i soldati della grazia di Dio per non far buon viso ai
soldati della Liberia.
La concentrazione di truppe continuava; giungeva pure in Di-
gione Faltra legione italiana comandata dal Ravelli: questa era co-
stituita di tre battaglioni, della forza di circa quattrocento uomini
per ciascheduno; se il nome del comandante giungeva a tutti nuo-
vissimo, vi erano sotto di lui bravi soldati e bene esperimentati
patriotti. I rnaggiori Pastoris, Rav£ e Mereu, i capitani Becherucci,
Romanelli, Narratone e Sartori, il tenente Ademollo e tanti altri
che non cito, perch6 ci6 mi trarrebbe fuori dal seminato. La legione
era organizzata militarmente piu di ogni altra; aveva anche una
piccola fanfara, n£ eccellente, n£ perfida, ma lassu applauditis-
sima.
II trovarsi tutti riuniti produsse un brio generale: mai le strade
della capitale della vecchia Borgogna hanno assistito a un rnovi-
mento, a un brusio simile a quello di quelle belle serate: ogni poco
si riconosceva qualcuno : ogni poco uno schioppettio di baci ti sol-
leticava dolcemente Porecchio; e conforti reciproci, e auguri di fu
ture vittorie, e strette di mano e ricordi del passato s'incrociavano,
si avviceridavano tra i varii individui. Oh! . . . Chi ci rende quei
moment! felici in cui non si pone mente al domani, in cui, tanto
vicini alia morte, si ritrova la caima e Pallegria del fanciullo, e la-
sciata ogni maschera di convenience sociali, si parla col cuore sulla
bocca, e si da Fultimo soldo alfamico, persuasi di non fare nemme-
no una gentilezza, ma di adempire un dovere! . . . E ancora qui
dal tavolino della mia camera, raffazzonando questi appunti, io vi
veggo sfilare a me davanti, o simpatici volti dei miei compagni d'ar-
me, e mi par d'essere tomato in mezzo alle vie rallegrate dal vostro
chiasso e dalle vostre canzoni: molti di voi non sono piu, ma se
sokanto chi lascia credit^ d'affetto ha gioia dairurna,1 voi vivrete
eternamente nella memoria del popolo, come vi giuro che eterna-
mente vivrete nella mia.
Airoscuro, come eravamo, sui movimenti del nemico, tutti era-
vamo convinti che Garibaldi avesse intenzione di tentare un gran
colpo. fe pur la bnitta cosa esser soldato! . . . Non saper mai nulla
su quello che hanno intenzione di fare i superiori ed avere in capo
una curiosita, come avevo io!
i. soltanto , . . dall'uma: & un evidente richiamo ai w. 41-2 dei
foseoliani.
DA FIRENZE A DIGIONE 669
La nostra perplessita non poteva durar molto a lungo: la dorne-
nica, 15 gennaio, una guida che doveva portare un dispaccio al
maggiore Farlatti, torn6 quasi subito, annunciandoci che a poco
piu di tre chilometri dalla citta vi erano i Prussian!. In questa stessa
domenica, passeggiando lungo il viale del Parco> bellissima pas-
seggiata con un getto d'acqua da ammirarsi, mi sentii toecar leg-
germente sulle spalle. Mi voltai immediatamente, e non potei fare
a meno di proferire un grido di stupore.
Quella mano che mi aveva cosi gentilmente toccato, era la mano
d'Aissa. La gentile ragazza indossava un bellissimo costume da
vivandiera, tutto in velluto nero ; il suo piedino aristocratico faceva
mostra di tutta la sua eleganza, in virtu della corta sottana; un pic
colo revolver le stava alia cintola . f * era insomma un bel tipo.
— Voi qui ? — le dissi.
— Mi credevate incapace di mantenere una promessa.
— No . . . ma . . . e con chi siete ?
— - Sono con i mobilizzati dell'Isere . . . non vedete, son vivan
diera!
— Mi rallegro con voi . . . E ci potremo vedere ?
— Chi sa . . . ora vi lascio!
— Restate un pochino . . .
— £ impossible . . . son la col mio ... col mio . . . non so come
chiamarlo . . . e geloso come una iena ... A ri vedere i.
Le strinsi la mano, e guardai questo . . . non so come chiamar
lo ... e vidi un capitano della guardia mobile, brutto come un bri-
gadiere delle guardie di sicurezza o poco meno; piccolo e grasso
come una botte. Capii la di lui gelosia . . . e lo compiansi : egli non
era che un pas per tout1 per la awenente fanciulla, che aveva trovato
modo di distrarsi rendendosi utile a quella societa, dalla quale aveva
ricevuto tanti sgarbi e alia quale aveva fino allora arrecati tanti
danni.
Avevo appena veduta questa vecchia conoscenza (dico vecchia
perche una conoscenza di un mese in quegli eccezionali momenti
si pu6 dichiarare antichissima) quando comincid a cadere a larghi
fiocchi la neve, e questa persist^ ostinatamente fino alia sera. Ci
alzammo al mattino dipoi e continuava la poco gradevole sinfonia :
i. pas per tout (cioe, naturalmente, passe -par tout): il Socci vuol dire che
qiiel capitano era per Aissa un mezzo per raggiungere Tesercito dei Vosgi.
670 ETTORE SOCCI
il negait, il negcdt^ il negcdt* proprio come nella ritirata di Russia, cosi
ammirabilmente dipinta da Victor Hugo nei suoi Ch&timents. Fi-
guratevi quale allegria non fosse per noi il vedere tutti quei tetti
acuminati, candidi come Panima di una verginella; il passeggiare
quelle vie, quelle piazze dove si affondava fino a mezza gamba, Pam-
mirare i nasi dei nostri compagni di sventura rossi come peperoni,
seccati chi sa da quanti anni! , . .
x [xn]
Cosi giimgemmo al di 17 gennaio delPanno di grazia 1871.
II cielo si era un po' rischiarato: ci destammo un poco piu tardi
del solito, poich£ in dormiveglia ci sentivamo solleticare gli orecchi
dal monotono tic tac delPacqua che sgocciolava dai tetti, su cui
si sfaceva la neve.
Andammo al quartiere, nulla di nuovo: allora lasciati i compa
gni, me ne tornai a casa a tener compagnia al Materassi che avendo
mandato ad allargare uno stivale, si trovava nella dura situazione
o di marciare a pi& nudo, o di aspettare il comodo del cittadino cal-
zolaio; era sdraiato in poltrona, ed in faccia ad un caminetto le cui
fiammate eloquentemente addimostravano le prodigalita. . . dei
nostri padroni di casa. Materassi aveva prescelto quest'ultimo par*
tito, e con una posa tra i! Pacha e il cuor contento aspirava volut-
tuosamente le boccate di fumo di una pipa da dieci soldi, che
riteneva come un ricordo di Lione.
lo era sdraiato su di un'altra poltrona davanti a lui. Parlammo
per due ore buone: si parld delle nostre padroncine di casa che tutti
elogiavano e che noi non avevamo per anche vedute: si fecero un
centinaio di progetti per giungere ad ammirare queste famose belta :
si parlo di una nuova mitragliatrice che avrebbe ottenuto portento-
sissimi effetti : questo nuovo ordigno di guerra, invece di mitraglia,
doveva vomitar dei inarenghi, e le truppe delFinimico sarebbero
state sbaragliate piu presto . , . ma sul piu bello della discussione,
sentimmo un gran rumore per le scale: Puscio s'apri improwisa-
mente, la nostra padrona, con una feonomia da metter paura in
corpo alPuomo piii sconclusionato del mondo, si butt6 ai nostri
piedi, gridando a squarciagola: — Les Prussians, les Prussiensl
. . . il megmt: ciofe il neigeait, quasi il lugtibre ritornello iniziale
v% xin) nei Ch&iments vittorughiani.
DA FIRENZE A DIGIONE 671
— Les Prussiem?/ — grida il Materassi. — Che siano giu per le
scale?!
— Ma dove . . „ ma come . . , ma quando ?
— Per carita, partite,
— Oh! non abbiamo bisogno delle vostre preghiere! Prendo le
scale e vado . . .
— \V . . . prima a pigliarmi lo stivale . . . eppoi partiremo in-
sieme.
— Ma ora . , .
— Permetteresti che io non venissi con voi ?
— Hai ragione: in due salti, vado e torno.
Scendo in strada: un movimento da dar le vertigini: un correre
da tutte le parti: un ritirarsi continuo dei cittadini dentro le porte;
a tutte le cantonate squilli di tromba che chiamavano a raccolta;
e un chiudersi di botteghe, un vocio di donne che dalle finestre si
raccomandavano . . . insomma una desolazione, uno spavento tale
da non farsene idea; spavento e desolazione che non hanno altro
riscontro alPinfuori di quello prodotto da false notizie nella serata
del ventitre*.
Via via che mi inoltravo verso la piazza, vedevo battagiioni
di guardia mobile che s'indirizzavano verso le porte della citta;
il contegno di queste genti non era bellicoso di certo e sembravano
piu montoni condotti al macello, che difensori di un sacrosanto
principio. Difaccia alia Maine incontrai la legione Tanara: i Ga-
ribaldini cantavano Addio ima bella addio e interrompevano Tinni,
soltanto per prorompere in acclamazioni entusiastiche alia Re-
pubblica e a Garibaldi, Eppoi mi trasvolarono difaccia agli occhi
due batterie con i cavalli a trotto serrato; quindi venne la volta
della brigata Ricciotti; il simpatico giovine era alia testa, e i suoi
Francs tireurs, col volto raggiante di gioia, colla testa alta, col passo
accelerato, quasiche" loro tardasse il trovarsi a fronte coll'oppressor
della Francia, avevano intuonato il magnifico inno dello Ch6nier :*
c'est la repmMique* qm no/us appdle
Un Frattfms doit vwre pour ette
et pour elle un Francois doit motmr,
I.Joseph Marie Chemer (1764-1811), fratello del piu celebre Andrea.
famoso di lui questo Chant du depart.
672 ETTORE SOCCI
«Dunque ci siarno per dawero?» dicevo tra me e me, esaltato
anche io dalla febbre generale, trascinato dal potentissimo fascino
dell'entusiasmo. - A rivederci a fra poco, o giovani soldati della
liberta, o eroica falange del pochi che tra 1'ignavia dei piu vogliono
essere gli apostoli, e i rivendicatori delFumanita conculcata! . . .
molti di voi stasera non risponderanno alPappello, le vostre file
diradera la mitraglia: siete giovani, ardenti, pieni di salute ... tra
poco sarete mutilati . . . e che importa ?...!! vostro nome rested
eterno sulle labbra dei reietti e dei diseredati, unica gente che ha
cuore: essi insegneranno ad adorarvi, siccome martiri, ai figlir e
voi non morirete del tutto . . .
Ai generosi
giusta di gloria dispensiera 2 morte.1
Arrival dal ciabattino : lo stivale era nell'identico stato di quando
era entrato in bottega: lo agguantai non senza stiacciar qualche
moccolo e a passi di corsa ripresi la via.
O . . . sentite un po* cosa mi va a capitare per dato e fatto di quei
baggei di mobiiizzati, allucinati, secondo il solito, da una paura
birbona! . . .
II vedere un individuo, vestito meta da cittadino e meta da sol-
dato, vederlo andare di corsa ed esaminando la di lui fisonomia che
certo non era francese, fece nascere in quei cervelli balzani Pidea
che Findividuo in questione non fosse che una spia dei Prussian!.
Chi sa da quanto tempo io era pedinato da coloro che invece di
correre in faccia ai nemico preferivano restare in citta ad arrestare
chi voleva andarci ; io non mi era minimamente avveduto di nulla.
Allo svolto di Rue Piron, mi trattiene nella disordinata fuga un
braccio che mi avvinghia alle spalle : mi volto per rispondere per le
rime al viilano che cercava fermarmi e mi veggo, in men che si
dice, circondato da una folia di gente, che mi squadrava in cagne-
sco, e che emetteva grida tutt'altro che rassicuranti.
— Cosa volete? — proferii io maravigliato.
— C*e$t %m espion ... - c*est un Prussten!
— Ma no . . . io sono un Garibaldino! — risposi in francese.
— Non e vero . . . non e vero! — urlava piu che mai indemoniata
k folia . . .
— Ma vi dico di si . . . ve lo garantisco.
i. Foscok>» Stpokri, \*v, 220-1.
DA FIRENZE A DIGIONE 673
— Alia Mcdrie, alia Mcdrie.
— Dalli alia spia! . . .
— Abbasso i Prussian! !
— Caput a Bismarkl1
Non ci e che dire: io doveva esser proprio una spia; garantisco
che in tre campagne,2 e tra le mille peripezie che hanno agitato la
mia esistenza, garantisco di non aver mai passato un momento
piu brutto di quello. La folia aumentavasi a vista d'occhio e di
momento in momento diventava piu minacciosa: mi aspettavo di
udir gridare : a la lanterne e di sentirmi appiccare ad uno dei pros-
simi lampioni.
Per buona fortuna passo il nostro tenente, che attirato dal chias-
so, si awicin6 per curiosita al gruppo tumultuante; non sto a de-
scrivere lo stupore dal quale fu preso, vedendomi in mezzo a quei
disperati ; il tenente era in alta montura e tutti gli fecero largo.
— Che c'e? — mi domando.
— Si figuri, che mi hanno preso per una spia!
— Baie!
— Sul mio onore.
II tenente, che ne avea pochi degli spiccioli,3 fece allora una pa-
ternale numero uno a quei mobilizzati che pretendevano di fare il
sopracci6 a tre chilometri dal campo di battaglia: questi accettarono
la reprimenda a viso basso e confuse e ci lasciarono passare.
Appena scongiurato il pericolo, io mi rivolsi al mio salvatore e
gli domandai : — Ma dunque ci si batte sul serio ?
— Sembra di si . . . Anzi venga con me al quartier generale, che"
presto partiremo anche noi!
— A piedi ?
— Ben'inteso: quando non ci sono cavalli!
— Vado ad awertire Materassi e vengo subito.
— Gli raccomando sbrigarsi!
— Non dubiti: vado e torno!
Materassi mi accolse con un diluvio d'imprecazioni, a causa del
ritardo: rimprecazioni arrivarono poi al grado superlativo, quando
io gli mostrai lo stivale, preciso come Taveva dato al mattino. Che
i . Otto von Bismarck* il cancelliere prussiano, proprio in quei giorni faceva
proclamare in Versailles la costituzione dell'Inipero germanico. Caput ^ cioe,
tedescamente, Kaput, « abbasso ». 2. in tre campagne: nel Trentino (1866),
nell'Agro romano (1867), nei Vosgi. 3. che ne . . . spiccioli: che non era di-
sposto a pazientare e a lasciar correre (locuzione |K>polareggiante toscana).
43
674 ETTORE SOCCI
fare ? Tempo da perdere non ce ne era dicerto : bisogn6 prendere un
eroico proponimento, e con un rasoio spaccarlo sopra la fiocca . . .
Se Materassi avesse saputo che doveva terminare la campagna con
quello spacco non troppo elegante, chi sa, se avrebbe avuto il
braccio tanto fermo!
In due salti si arriva al quartier generale, i nostrl compagni erano
gia partiti : si domanda alle sentinelle per dove hanno preso ed esse
c'indicano la vicina strada della stazione; allunghiamo il passo e
tentiamo raggiungerli : per la strada non s'incontra nessuno : tutto
e calma alFintorno ed un combattimento non pu6 essere ancora
incominciato : meno male, pensiamo tra noi, sentiremo il primo
saluto, ma piu ci si avvicina, maggiore e il silenzio.
Fatto appena un chilometro sempre per una strada fiancheg-
giata da campi che ci sembrano incolti, e da estese pianure, su
cui si alzavano, a poca distanza da noi, i due promontori di Fon
taine e Talant, cominciammo a vedere dei Franchi tiratori, del-
le Guardie mobili, dei Garibaldini, tra cui qualche Guida. Do-
mandiamo il perche se ne tornano, ed essi ci rispondono che tra
poco tutte le truppe rientreranno in Digione: che i Prussian! che
erano alle viste, nonch6 avanzare, si sono ritirati, e che gli Chasseurs
han preso due cavalli ai cavalier i nemici. Quest e informazioni erano
piu che veritiere: pochi momenti dopo, passava il Generale e lo
stato maggiore; noi rientrammo in citta, insieme alia legione Ta-
nara, le cui trombe suonavano gioiosamente. Non si era trattato
che di un falso allarme. Un falso allarme equivale ad un appunta-
mento al quale manchi la bella dei nostri pensieri: io preferisco
cinque battaglie, ad una sola delle ore penose dell'aspettativa.
Quella sera la citt£ fu rawivata da un chiasso dei piu clamorosi :
o male o bene si era veduto che dei Prussiani ce ne era dintorno
a noi, e cosi avevamo acquistato la certezza di potersi levare il piz-
zicore dalle mani; non mi provo nemmeno a raccontare tutte le
strampalerie che furono proferite : tutti volevano dir la sua su quella
sorpresa deirinimico: chi diceva che era un corpo sbandato, chi
che avevano avuto paura, chi che credevano pigliarci airimpensata:
In tutti per6 era certezza, che poco poteva tardare una battaglia.
La mattina dipoi, mentre eravamo a chiacchierare sul piu sul
meno sulk piazza della Mame, vedemmo il colonnello Bossi con
due guide, e dietro a loro una diecina di prigionieri prussiani. Ap-
parteoevano tutti al 61° reggimento, e procedevano stupidi e mogi
DA FIRENZE A DIGIONE 675
in mezzo a due file di popolo che non risparmiava di tanto in tanto
qualche espressione poco gentile al loro indirizzo. Cercammo awi-
cinarli : ia maggior parte di loro bisticciava alia peggio il francese :
ci parlavano delle loro famiglie, come ne parlerebbe un ragazzo
lontano: ci chiesero con infantile curiosita dove li avrebbero man-
dati, e ci domandarono se era loro permesso di accender la pipa
e fumare. lo ho osservato che nessuna altra categoria di persone e
disposta a bamboleggiare, come i soldati: il pifferaro scozzese tra
rimperversare della mitraglia a Waterloo ripeteva le canzonette
delle montagne native; il coscritto bacia i ragazzi che incontra e ii
porta in braccio con quella delicatezza con cui non son use a por-
tarli le serve: il prigioniero, tra le schiere nemiche, spesso tra i
fischi del popolo, si perde in chi sa quali vaneggiamenti, e fuma
imperrurbabile. Cosi e: i regolamenti rnilitari o sviluppano la ma-
linconia in modo da render gli uomini stupidi, o li rendono feroci
piu delle belve. Quanto saremo civili quando avremo abolite le
caserme, questo ricettacolo di gente che divora la parte piu grossa
del benessere di tutti, a beneficio di quello di un solo!
Questo piccolo incidente ci rallegro un pochette, ma la nostra
allegria crebbe a mille doppi per una buona notizia che ci fu comu-
nicata al quartier generale. In un piccolo villaggio poco distante
da Fontaine una recognizione prussiana si era impadronita di cen-
toventi capi di bestiame, e poi se ne era andata zitta zitta e quasi di
corsa. II coraggioso colonnello Lhoste1 dei Franchi Tiratori da al-
cuni paesani era stato informato del furto che avevano commesso
i campioni della Grazia di Dio e della legittimitk.2 Appiattatosi con
mold suoi uomini in una boscaglia, attese al varco i predoni, e
mentre questi se ne andavano sicuri e canticchiando a bassa voce
certe canzoni che se erano tedesche, non avevano niente che fare
colle ispirate melodic che si sentono sulle rive del Danubio e del
Reno, una searica a bruciapelo provocd una confusione universale.
Chi cadde nei fossati, chi ur!6 come uno spiritato, qualcuno rimase
ferko, i morti furono pochissimi . . . chiunque era in grado di
1. II cot&mellQ Lhoste, comandante dei franchi-tiratori, fu raortalmente fe-
rito il giorno dopo (22 gennaio). Bbzoni lo descrive rnentre * gemeva mori-
bondo nel suo letto di dolore» che non doveva abbandonare se non cada-
vere* (Impressiom di un volontario all* esercito dei Vosgi, cit., p. 314).
2. ddla Ugtit&mta: del Jegittimismo, deirinalienabile diritto dei sovrani a
mantenere il tixmo ereditario; vedi la nota i a p. 651,
676 ETTORE SOCCI
farlo, se 1'era battuta senza rifiatare nemmeno, Cosi fu ripreso il
bestiame, e il bravo Lhoste coi bravissimi suoi volontari torn6 nel
villaggio in mezzo alle benedizioni e agli applausi di quei paesani.
Non ci era che dire : i Franchi Tiratori non potevano fare a meno di
addiventare gli enfants cheris delle popolazioni: gik si sapeva come
essi nel novembre avevano ritolto ai Prussian! , piombando loro ad-
dosso alFimpensata, un centinaio di Garibaldini che traducevano
prigionieri: gia si sapeva con quanto ardimento essi dissemina-
vansi nelle boscaglie e dietro le siepi, da dove con un fuoco alia
spicciolata scombuiavano i nemici, piu che se si fossero trovati in
aperta battaglia: gia a tutti era noto come i Prussiani ripetessero
sempre, che non avrebbero dato quartiere a questi bravi figli di
Francia ed ai Garibaldini, mentre trattavano da buoni figliuoli gli
appartenenti alia Guardia mobile; insomma il nome di Franc tireur
ispirava in tutti rispetto, e tutti si fermavano a veder passare questa
eletta della gioventu francese che per guerreggiare poteva dare dei
punti alia truppa piu agguerrita d'Europa. Erano cosi svelti, cosi
simpatici, cosi pieni di vita che c'era da andarne matti per Pentu-
siasmo!
Del battaglione condotto da Canzio e che era stato battezzato col
glorioso nome di Cacciatori di Marsala, fu affidato il comando allo
strenuissimo Perla. I Cacciatori di Marsala, i Carabinieri Genovesi
e alcuni battaglioni di mobilizzati delPIsere, formarono la quinta
brigata, al cui stato maggiore Canzio chiam6 tra gli altri il Canessa.
Questi erano graditissimi awenimenti per noi; ma il dolce ci
doveva essere amareggiato e non poco.
Ahi sventurat sventura^ sventura.1
Quei celebri cavalli che si attendevano a braccia aperte, che do-
vevano esser per noi la realizzazione di tanti e si prolungati desi-
derii, i celebri cavalli sfumarono. Tironi era rimasto a Remoully,
dove organizzava uno squadrone di cavaJleria per la nuova brigata,
e noi rimanevamo a piedi ... A piedil . . . Oh la desolante parola!
Dunque saremo d'ora in & un corpo ibrido di nuovo genere ? Squa
drone, speroni, grandi stivali e niente altro. Fortuna che per chi
to vuol trovare, un fucile ci e sempre e noi fin d'allora proponemmo
d'attenerci a questo fmrtito, che fu di poi attuato a puntino.
i . £ il v, 57 della Battaglia di Maclodio, coro del manzoniano Conte di Car-
magnola.
DA FIRENZE A DIGIONE 677
XI [XIIl]
II 19 gennaio, sul far giorno, tutte le truppe che erano in Di-
gione presero la campagna: i Carabinieri Genovesi furono mandati
d'avamposto, a circa tre chilometri dalla porta Sant'Apottinare,
px>co distante da ima piccola borgata, Essi piazzarono le loro ve
dette dietro un muricciolo, e poi si buttarono distesi nel campo,
come loro era stato ordinato. I Cacciatori di Marsala presero po-
sizione sulla loro destra sempre dietro quel piccolo muro che cin-
geva quelle coltivazioni. In faccia, dietro le case, eravi una fitta
boscaglia. II Generale si era portato tra i primi lassu . . . tutto in-
fine annunziava per quel giorno un combattimento ; ma anche per
questa volta la speranza degli animosi doveva esser delusa.
Noi fummo consegnati al quartier generale e passamrno tre o
quattro ore di noia, di pena, di continua ansieta ; interrompeva so-
lamente la monotonia di queirangosciosa situazione, Pordine di
portare qualche dispaccio al comando d'artiglieria, alia Maine, a
qualche caserma. Non si pu6 immaginare, non che descrivere quale
voglia ci prendesse tante volte, di dissigillare quei dispacci, e di
giunger cosi a capire qualche cosa anche noi ... in quel momento
si sentiva rifluire nelle nostre vene il pretto sangue di quell'Eva
che per vera curiosita si giuoco il Paradiso Terrestre. Lo stare inat-
tivi, mentre si presume che i nostri amici agiscano come si con-
viene, per chi ha un poco di cuore e un vero supplizio di Tantalo. -
Nel cortile dove eravamo, comincio a farsi un sussurro : questo sus-
surro prese delle proporzioni imponenti, in tal modo imponenti
che, lasciati due o tre pel servizio, il Ricci ci disse di seguirlo, e
tutti content! prendemmo con lui il primo viottolo che e fuor
della porta, sicuri con ci6 di accorciare la via.
Arrivammo difatti in poco piu di mezz'ora alle prime linee dei
nostri: vedemmo il Generale e Canzio che, ritto in mezzo alia via,
osservava tranquillamente col suo cannocchiale le mosse del ne-
mico : si distingue vano infatti in lontananza sopra una piccola spia-
nata diversi cavalieri prussiani (certo uno stato maggiore) e al prin-
cipiare della foresta ogni tanto abbarbagliava la vista il luccichio
di qualche fucile o baionetta: la fanteria prussiana doveva essere
ricoverata la entro.
Ci dissero di buttarci, come tutti gli altri, per terra: la cosa era
678 ETTORE SOCCI
un po' incomoda a causa del fango prodotto dalla neve che si disge-
lava, ma d la guerre comme d la guerre: quella non era certo 1'ora di
pretenderla a damerini. Cominciammo poco dopo a sentir fischiar
delle palle. I nostri avamposti risposero . . . poi tutto fini e fu un
silenzio lungo, ostinato fino sulPimbrunire: quella gente a cavallo
che ci aveva colpito la vista, appena che eravamo arrivati, si era di-
leguata. Una guida di Ricciotti, il quale con tutta la sua brigata era
alia nostra sinistra, si avanz6 arditamente per esplorare, e venne
ricevuta da una potentissima scarica: la credevamo morta, quan-
do la vedemmo apparire trionfante, avendo perduto soltanto il cap-
pello.
Garibaldi torn6 verso la citta e noi lo seguimmo : i Genovesi ri-
masero d'avamposto fino al mattino di poi.
Quando rientrammo in Digione eravamo in uno stato compassio-
nevole: impiastricciatJ di fango dalla punta del capelli a quella degli
stivall . . , eppure le belle donnine ci salutavano e ci sorridevano
con grazia: la vezzosa fata che passava le sue giornate dalla tabac-
caia, ci voile offrire per forza dei sigari scelti, e ci mostro, con fie-
rezza romana, una cappa d'incerato, alia manica della quale faceva
uno stacco molto sentito la fascia bianca colia croce rossa del soc-
corso ai feriti, Giunti a casa trovammo sul caminetto una bottiglia
di vecchio Borgogna che in quel momento ci apparve piu cara di
tutte le moine. Oh! non erano sconoscenti i buoni abitanti della
Cdte d'Or! Le gentilezze di cui ci erano prodighi infondevano nuo-
vo ardore nei nostri petti, e tutti noi anelavamo un combattimento
per mostrare che non eravamo indegni delia fiducia che in noi
riponevasi.
E i! combattimento poco poteva tar dare: la era questione non
di giorni, ma d'ore: se per due volte di seguito avevamo tenuto la
difensiva, alia fine attaccheremo noi - si pensava. Garibaldi non e
uomo da lasciarsi posar mosche sul nasol - Erano i&tanti di febbrile
ansieti: specialmente la notte; ad ogm rumore ci si alzava dal letto,
si correva alia finestra, si tendeva Forecchio: poi quasi dubitando
delle nostre facoha auricoiari, ci s'infilava alia peggio la giubba,
si soendeva in strada, si correva alia piazza . . . tutto silenzio . . .
tutti dormivano . . . e allora a rifare i nostri passi, ed a darsi del
bambino, del gnillo, deiruomo che s'impressiona per niente, e a
giurare di non muoversi piii sino a che non venissero le trombe a
s©0nare sotto le finestre di casa . . . Si . . . bei proponimenti, su-
DA FIRENZE A DIGIONE 679
perbi disegni! Batte una porta, una folata di vento agita gli alberi
del giardino, i cavalli delia vicina scuderia urtano nella mangiatoia
colla testa, o scalpitano sulle pietre del pavimento . . . ed eccoci di
nuovo in balia delle nostre fisime. - E se ritornassi fuori ? . . . La-
sciare il calduccino delle lenzuola per andare a scivolare sul diaccio
e a battere i denti, mentre vi sono tutte le probability che non ci sia
milla di serio! . . . Gia i Prussian! di notte non hanno mai attac-
cato . . . ma se questa volta attaccassero ? Se si facesse sul serio ? . . ,
Permetter6 che i miei compagni si ammazzino, compiano il loro do-
vere, ed io star6 qui, poltrone, a sciogliere un inno alia beatitudine
del dolce far niente? . . . Oh! no, sarebbe troppo egoismo, confes-
siamolo pure, troppa vigliaccheria . . . se non dormo stanotte, dor-
mir6 domani, non son mica venuto quassu per stare in panciolle!
Bisogna andare . . . - E via un'altra volta giu in strada, e via a cor-
rere come un matto, ad arrapinarsi, a ficcare per tutto il naso, che
era divenuto un vero pezzo gelato . . . e allora addio di nuovo belle
volonta, addio proponimenti di passar Pintera nottata ad aspettare
quelli che non venivano, e di nuovo nel letto colFidea fissa di non
addormentarsi : e invece appisolarsi di subito, destando&i per6 ad
ogni momento, e tendeado Porecchio . . .
La nottata passo, e nulla di nuovo ci annunzifr il giorno seguente :
i Carabinieri Genovesi tomarono dagli avamposti, le legioni italiane
non si mossero neppure ; per ora tutto annunziava riposo. Che gior-
nata triste, uggiosa, pesante! il cielo era oscuro, la neve caduta nei
giorni decorsi era ghiacciata, da un lato all'altro delle vie si poteva
patinare e furono fatti sdruccioloni tremendi. Ci dissero di star
pronti per il domani; noi trascorremmo cinque o sei ore a chiac-
chierare davanti il caminetto fumando, ragionando di Firenze, che
ci appariva come un sogno lontano e delle feste da hallo in cui sa-
ranno stati imrnersi i rtostri amici, allora nel pieno sviluppo del
carnevale.
Andammo a desinare e trovammo la trattoria gremita addirit-
tura; si assisero al mio tavolino Rossi, Squaglia, Piccini e Stefani:
eravamo tutti uggiosi : p^reva quasi si divinasse che erano Tultime
ore che si ragionava con qualcuno di quelli che erano tra noi.
Venne a noi vicino il maggiore Pastoris,1 accompagnato da una
elegantissima signora: Pastoris ci disse che, quantunque in per-
messo, egli non aveva potuto resistere all'idea che di ora in ora po-
i. Pastom: era maggiore nella legiortc Ravelli.
680 ETTORE SOCCI
tesse esserci qualche attacco e che non poteva star piii lontano
da noi.
Bevemmo allegramente tutti ; eravamo sul piu bello degli anni,
tutti ci si sentiva bollire nel sangue Tenergia e Tattivitk . . . non do-
vcvano passare venti ore, e Pastoris, Rossi, Squaglia, dovevano
esser cadaveri!
xn [xiv]1
. . . Brillava ancora qua e la per il cielo qualche Stella, che man
mano sbiancandosi andava a svanire nelPinfinito come un generoso
proposito di un'anima debole, e noi eravamo al quartier generale.
Passammo li moke ore senza alcuna novella, quando ci fu detto
che anche in quel giorno non eravi alcuna cosa di nuovo; ma che
per6 stessimo pronti per il domani che nel domani avremmo avuto
una grande, una decisiva battaglia. Rossi, Piccini, gli altri nostri
amici della Compagnia Genovese, ci confermarono 1'esattezza di
ci6 che si udiva.
Sul mezzogiorno per6 a tutti i canti della citta suonarono le
trombe; i soldati furono in fretta e in furia mandati fuori della
citt£ . . . il cannone tuonava : questa volta ci si era dawero.
Tutti si corse, come un sol uomo, al palazzo della prefettura:
la trovammo il nostro tenente Ricci. — Si vuole andare — gridammo
a coro pieno. — Andremo, — rispose lui — anche senza arme — e po-
co dopo tutti ci movemmo, senza curarsi nemmeno di avere un fu-
cile.
Passammo dalla Porta sant'Apollinare dove trovamrno Bordone
con tutti i suoi ufficiali: prendemmo a passo di corsa un viottolo,
desiosi di anticipare il momento, che anelavamo da si gran tempo.
Ad ogni minuto il rimbombo delPartiglieria rassembrava una voce
potente che ci accusasse di essere lontani dal pericolo: i circostanti
campi erano ghiacciati: ghiacciati i fossi che fiancheggiavano la via,
eppure si sudava, eppure il cuore ci batteva forte forte nel petto
e noi avevamo la lingua fuori. Ad ogni colpo un sol grido elevavasi
da noi, un sol grido che chiaramente mostrava la nostra animazione,
la nostra bramosia, il grido di: «Avanti!»
A mezzo chiloroetro dalla citta, incominciammo a trovare delle
i. Abtriamo sopprssso la parte iniziale del capitolo xiv, e precisamente le
p$>. 150-1 deiredizione da noi seguita.
DA FIRENZE A 0IGIONE 68l
guardie mobili, o appiattate, o che si ritiravano: noi non facemmo
loro alcun rimprovero, ma invece con la piu buona maniera del
mondo, si richiedevano del Joro fucile1 e delle loro cartucce. Molti
lo diedero assai volentieri; molti altri, inorridisco a dirlo, ce lo
venderono: pochi, messi su dalPesempio, ci seguitarono. E intanto
pochi passi ci mancavano per arrivare a Fontaine ; una salita, molto
erta, e ci si era; facemmo quella salita di corsa.
AlFingresso del paese, due palle attraversarono la via; i piu gio-
vani abbassarono istintivamente la testa, noi godemmo per aver
raggiunto finalmente la meta. Fontaine era desolato: chiuse tutte
le case, non un abitante per le due o tre vie che costituiscono questa
borgata.
Prendemmo la prima strada che ci si paro innanzi alia vista, ed
arrivammo ad una piazzetta, che e proprio sotto alia piccola collina,
suIla quale e situata la chiesa. La mitraglia imperversava al nostro
arrivo: i piccoli rnuri che custodiscono i vicini giardini, erano bat-
tuti, scalcinati, rovinati addirittura da quest'uragano di nuovo ge-
nere : andare in mezzo alia spianata sarebbe stato impossibile ; meno
male che fu Paffare di pochi secondi! . . . Addossati a una cancel-
lata di un giardino, trovammo Kane, Niklatz e le altre due guide
che erano al seguito del generale Bossak.
Kane mi trasse in disparte, e mi sussurro negli orecchi : — Si
crede morto Bossak: e da stamani che noi non Tabbiamo ve-
duto . . .
Montammo su alia chiesa, una sezione d'artiglieria stava ai due
lati della modesta parrocchia; il colonnello Olivier2 assisteva alle
operazioni dei suoi cannonieri : e a pochi passi da lui, con un sangue
freddo invidiabile, col suo breviario sotto il braccio, se ne stava il
priore di Fontaine. II fuoco degli assalitori era diminuito ; di tanto
in tanto qualche nuvoletta di fumo appariva improvvisamente sul-
Porizzonte, e qualche scaglia veniva a cadere ai nostri piedi.
— - Datemi un po* il cannocchiale — domand6 un mio compagno
a un artigliere, un bellissimo giovane.
— Tenete — egli disse, e non fu capace di darlo, che" una palla
gli faceva schizzare il cervello . . . Fu Tunica palla di fucile che
sentimmo ronzare in Fontaine.
Intanto un vivissimo fuoco di moschetteria comincid a sentirsi
i. si richiedevano del lorojuctie; si chiedeva il loro fucile. 2. II cok&mello
Otemer comainkva I^artiglieria.
682 ETTORE SOCCI
dalla parte della vicina Talant. Talant e Fontaine, come ho gia
detto, son due collinette isolate, che si elevano in una estesa pia-
nura, frastagliata qua e la da piccoli rialzi, e nel cui fondo e il piccolo
paese di Daix, che era stato sgombrato al mattino da due batta-
glioni di guardia mobile che Tavevano in custodia. I Prussiani si
erano spinti verso Fontaine, poi ritirandosi con una mossa improv-
visa, si erano ricostituiti dietro il villaggio di Daix, per piombare
in grandi masse sopra Talant: per conseguenza il fuoco di fronte
a noi potea dirsi quasi cessato; mentre cominciava, e senza posa,
sulla nostra sirustra.
— Che facciamo ? — domandammo al Ricci.
— Andiamo laggiii . . .
E tutti scendemmo la strada e per far piii presto entrammo nei
campi: 11 cominci6 la belk sinfonia delle palle! . . . Addio Italia,
pensammo tra noi, addio occupazioni della nostra vita scapata . . .
Un grido ci tolse alle riflessioni . . . il povero Gaido, colpito in mez
zo al cuore, cadeva a pochi passi da noi.
Si precede . . . riscontriamo un ferito che vien trasportato a
braccia alia vicina ambulanza ... — Ciao ragazzi, — ci dice — viva la
Repubblica — e noi si procede ancora e vediamo il prode capitano
Vichard, capo di stato maggiore del Bossak, dilaniato da cinque
ferite.
— Portalo airambulanza — mi grida il tenente.
- Ma ...
— Poi ci raggiungerai . . , tu sai dove siamo!
E io e il Bocconi, preso a braccetto il Vichard, rifacemmo quella
via sempre in mezzo all'imperversar delle palle, almanaccammo
una buona mezz'ora per trovare questa benedetta ambulanza, e
quando ci fummo arrivati, fummo dolorosamente sorpresi nel-
rosservare, che punto piu esposto di quello alle palle era impossi-
bile il ritrovare; li ci era addirittura una grandine e molti feriti,
credo, vi ricevessero il colpo di grazia.
E>opo poco raggiungemmo i compagni . , .
E ci spingcmmo sotto Talant, dove aveva da essere la sublime
ecatombe, dove Garibaldi in persona, a cavallo, in prima linea
capitanava il combattimento. Nei campi e sulla destra del paese
avevano preso posizione, e si accingevano a rintuzzar Fassalto dei
Prussiani, k Compagnia Genovese (capitano Razzeto), i Caccia-
tori Spagnoli, del cui capitano sono dolente di raon sapere il nome,
DA FIRENZE A DIGIONE 683
e gli Egiziani, comandati da Zauli. I Cacciatori di Marsala erano
in sostegno di queste compagnic. La legione Tanara era dall'altro
lato della via, mentre Ravelli coi suoi era in riserva nel paese. Tutta
la terza e quinta brigata erano insomma lassu.
Dai vigneti, dalle ville poco distanti i Prussiani cominciarono un
fuoco d' inferno: gli alberi erano scheggiati ad ogni minuto; le siepi
si stroncavano, producendo un fracasso indescrivibile: ogni poco
si spengeva per sempre una generosissima vita: ogni poco erano
gemiti, strida, imprecazioni ; gli strazianti lamenti degii uomini
avevano riscontro in quei dei cavalli . . . povere bestie innocenti,
che ad ogni poco cadevano stramazzoni per terra in quella grandi-
nata di proiettili, che di minuto in minuto raddoppiava d'intensitii.
I nostri erano imperterritl come vecchi soldati : gli Spagnoli am-
mirabili; nelle legioni italiane non mancavano spiritosaggini, n£
arguzie.
— Guarda se con quegli elmi non paiono civiconi del quaran-
totto!1 — diceva uno.
— Mirali bene . . . che vadano a godere delia loro grazia di Dio!
— Coraggio amici ... si giuoca ruitima carta ... o si sballa o sa-
remo eroL
Conforti reciproci, incoraggiamenti non mancavano certo in
quelle file che decimava la morte. I Prussian! avevano fatto delle
feritoie in un muro di faccia e con tutta la sicurezza possibile
miravano come se fossero al bersaglio.
Nella prima mezz'ora, Squaglia ebbe una palia in bocca che poco
dopo lo rese cadavere: povero Squaglia! . . . Quasich6 presentisse
la morte, aveva dato a tutti i compagni la sua carta di visita con
rindirizzo precise della sua famiglia.
Canzio, PAiace del Garibaldinismo, come sempre elegantissimo,
se ne stava in capo alia via, puntando i nemici col cannocchiale, in-
differente come se puntasse una bella donna al teatro. Canessa era
a pochi passi da lui. Menotti, Bizzoni, Tanara, Erba, Gattoroo,
Pasqua, Sant'Ambrogio,2 traversavano recando ordini, incorag-
giando col loro contegno i piu timidi in mezzo a quel turbine di
palle di ogni qualita, che ci aveva ridotti, alia lettera, sordi. Garibal
di espc^to come tutti gli altri, piu di tutti gli altri alle micidialissime
i. dvicom del quarantotto: guardie nazicmali del 1848. 2. Erba . . . San-
t'Ambrogw: tutti appartenenti alio Stato ma^iore di Garibaldi e gii provati
neile precedent! imprese garibaldine.
684 ETTORE SOCCI
scariche del nemico, era sorridente, tranquillo e faceva nascere nel
cuore d'ognuno un sentimento tale di dignita e di rispetto che credo
sarebbe stato per chiunque impossibile il mancare al proprio do-
vere.
I nostri furono spinti due volte alia baionetta, le cariche furono
ricevute accanitamente dal nemico . . . Quante nobili vite non fu
rono spente! ... II terreno era chiazzato di sangue, ad ogni passo
impediva Fandare un cadavere, via via che si procedeva i morti era-
no ammonticchiati 1'uno sulFaltro.
E intanto si awicinava la sera; e un'acqua fine fine ci filtrava
neH'ossa; fu dlora che vidi Miss White Mario passeggiare intrepida-
mente ii proprio in prima fila con un sangue freddo da fare invidia
a un vecchio soldato ; chiunque ha preso parte alle tremende gior-
nate di Digione, deve serbare eterna memoria di questa eroina,
che abbiamo veduta trasvolarci davanti, come un esempio vivente
di quanto pu6 fare una donna animata da generosi propositi; lei
hanno ammirata al proprio fianco i combattenti, lei hanno salutata
come afFettuosa sorella i feriti; lei hanno riverito gli stessi nemici,
in mezzo ai quali passava dalle nostre file, per poter recare un sol-
lievo a chi era in angustie, per potere avere informazioni sicure su
certe cose che rimanevano al buio.
Mai k morte ha mietute tante vite magnanime in pochi mo-
menti, come quella sera a Talant. Gli Spagnoli erano ridotti un
piccolo nucleo ed avevano perdu to i loro ufficiali, lo stesso potea
dirsi degli Egiziani il cui prode tenente Zauli giaceva ferito ; morto
il bravo tenente dei Genovesi Gnecco, ed esanimi al suolo giace-
vano gi& Salomone, Imbriani, Settignani e Pastoris.
L'ecatombe stava per compiersi : a quelli in prima linea mancava-
no le munizioni, e Postinatezza dei Prussian! raddoppiava: mentre
difatti essi avevano sgombrato quasi tutto Pesteso terreno che ci
stava di contro, si agglomeravano in faccia a Talant, a Talant i di
cui difensori oramai potevansi calcolare a poche centinaia. Ave
vano i nostri avversari occupata una cascina al disotto del paese,
e si avanzavano a pelettoni1 serrati, e tirando su noi con una conti-
nuita straordinaria.
Vien dato al battagltone dei Cacciatori di Marsala Fordine di
avanzarsi e di caricare il nemico. Lo strenuissimo Perla col volto
I. pclfttom: plotoni II Socci usa la foonm dcrivata dal francese pdoton.
DA FIRENZE A DIGIONE 685
raggiante, con pigllo da infonder coraggio ad un morto, si pone alia
testa, Genovesi, Bgiziani, Spagnoli, quelli delle altre legioni, tutti
si raggranellano dietro di lui, tutti sono ansiosi di morire da forti o
di veder rinculare il nemico. Molti non hanno piu cariche, molti
sono sfiniti dalla stanchezza, molti non resistono piu in mezzo a
quella desolazione e vanno incontro a una palla tanto per finirla
una volta con questo mondo codardo; avanti gridano gli ufficiali,
avanti ripetono i piu animosi, avanti grida nel cuore Tamore del-
1'umanita e della repubblica, avanti la voce del dovere e tutti,
come un solo uomo, si accingono alia titanica impresa. Cinque-
cento cori battono in quelPistante aH'unisono! . . .
« Viva la Repubbiica, viva Garibaldi ...» giu la baionetta ed a
passo di corsa contro i soldati di re Guglielmo. II fumo impedisce
la vista: in quella penombra, prodotta anche dalFora divenuta tarda,
ad ogni secondo si vedono guizzare immense strisce di fuoco; si
precede pestando i cadaveri e seminando a ogni poco di nuovi ca-
daveri il suolo; i Prussian! essi pure si avanzano, ma lentamente;
il cozzarsi e divenuto inevitable e sara un cozzo tremendo.
Lo slancio dei nostri e impetuoso . - . troppo impetuoso : Perla, il
veterano di tutte le campagne dell'indipendenza stramazza per
terra mortalmente ferito: Cavallotti e morto: moribondo il tenente
Rossi di Lodi: i soli Cacciatori di Marsala hanno 17 ufficiali fuori
di combattimento. I Prussiani si asserragliano in due casette; vien
dato anche ai nostri Tordine di ritirarsi; rimanendo la sola legione
Ravelli a guardia di Talant.
— Vieni via — grida il Piccini al Rossi, quando tutti si erano
ritirati.
— Fammi utilizzare anche le ultime due cariche che mi sono
restate — questi rispose . . . e si avanzo verso il nemico. Un vi-
vissimo fuoco di moschetteria, 1* ultimo che si eseguisse in quel
punto, uccise il nostro amico diletto, il nostro compagno di tante
sventure e di tante peripezie. Nessuno piu lo rivide; il giorno dipoi
sapemmo da una guida che egli era morto in conseguenza di tre
ferite : due nel petto ed una nella faccia.
Ci ritirammo; il cielo era ingombro qua e la da densi mivoloni;
gli alberi sembravano giganteschi; al fragore prolungato di poco fa
era succeduto un silenzio cupo, lugubre, interrotto solamente a
lunghi intervalli da qualche colpo: rientrammo nella gran strada e
qui un viavai di carri, d'ambulanze, sopra uno dei quali scorsi la
686 ETTORE SOCCI
simpatica donnina che avevamo veduto dalla tabaccaia, e trasporti
di feriti, e imprecazioni di morenti, e un chiamarsi ad alta voce tra i
carri e un domandarsi informazioni, accolte ora da bestemmie, ora
da un « meno male >» proferito in senso stizzoso e soddisfatto. Nei
campi adiacenti si vedevano a quell'incerto chiarore molti cada-
veri ; la lima si mostrava timidamente in mezzo alle nubi. Mi venne
in mente la leggenda popolare che sostiene Caino esser stato rele-
gato nella luna; le macchie di questo pianeta mi sembravano in
quella sera proprio gli occhi di questo primo fratricida, che ora
allegravasi a quella strage fraterna.
Su un carrettone vedemmo insieme a tanti altri lo Stefani che
era stato ferito in un braccio. C'inoltravamo serii serii in mezzo a
quella confusione; nessuno avrebbe potuto scherzare: un giovi-
netto si azzard6 di intuonare sottovoce una cantilena, fu acremente
ripreso: erano troppi i morti che avevamo veduti a quell'ora, eran
troppe le perdite che ci facevano sanguinare Panima a tutti, ce lo
perdonino gli spiriti forti, si sentiva quasi voglia di piangere. lo
comprendo in certi momenti Pindispensabilitk di una guerra, com-
prendo che nel fervore delle pugne ci s'inebri piu che se prendes-
simo parte a una scena d'amore e di ardentissimo amore, ma, quan-
do tutto ritorna nella solita calrna, quando girando gli occhi non
vedi che informi ammassi di carne che saran putrefatti tra poco,
e che poco tempo fa sentivano, amavano, speravano; quando ri-
pensi al dolore, alia disperazione di migliaia di madri e di vedove,
se non detesti questa macelleria di innocenti, questa violazione delle
piu care affezioni e dei legami piu sacri, bisogna dire che la natura
ti ha dotato di un cuore di pietra! ... I Chinesi, che noi abbiamo
avuto il coraggio di chiamare barbari sino a questi ultimi tempi,
fino dalPeta piu lontane, come dice Laotsu,1 imponevano ai loro
generali di mettersi in lutto, appenach6 avevano vinto una bat-
taglia: noi che ci si becca il titolo di umanissimi e di civilizzati
inalziamo sulle nostre piazze monument! ai generali, anche quando
hanno pcrduto, purche* abbiano tirato a far ciccia. Ewiva la civilta!
Entrati in Digione, con grandissJma nostra sorpresa, trovammo
aperte tutte le botteghe; andammo alk solita trattoria era quasi
deserta. Quanti di quelli che erano soliti a frequentarci non ave-
vano ksciata k vita, nel breve volgere di otto o dieci ore! . . .
Ogni persona che entrava, erano domande, grida di meraviglia,
i. Laotsu: Lao-Tseo, fijkwofo e poeta cinese del VI secolo a. C.
DA FIRENZE A DIGIONE 687
strette di mano ; e solamente allora si cominciava a forza di racconti
a sapere gli episodi gloriosi del combattimento, le perdite che ave-
vamo subito, Tandamento preciso della battaglia. — II tale . . . ? —
domandava qualcuno. — £) morto — gli si rispondeva; — e il tale
altro ? . . . — Morto anche lui . . . — e tutti a sforzarci a sorridere per
far gli uomini forti, ma il sorriso moriva sul labbro e ci si sentiva
invece un groppo alia gola che ci faceva discorrere stentatamente.
Le guide del generale Bossak ci annunziarono la morte di questo
eroico figlio della Poloaia; come erano commosse via via che pro-
cedevano nel loro racconto! Non era un superiore quello che ave-
vano perduto, era un fratello: Bossak aveva voluto dar loro di sua
tasca ogni giorno il doppio della paga che ricevevano dal corpo;
ogni giorno le voleva a mensa con lui; il primo delPanno fe* loro
presente di qualche marengo : una volta che la brigata mancava di
viveri prowide, sempre a sue spese, affinch6 nessuno soffrisse la
fame. La democrazia faceva una perdita irreparabile con la morte
di lui; figlio di una delle piu illustri famiglie polacche, si era posto
a capo della rivoluzione nel 1864,* ed esule in Svizzera confezionava
le cartoline da spagnolette,2 tanto per tirare avanti onoratamente
la sua famigliola. Appenache" seppe esser la Francia divenuta re-
pubblica, si mise a di lei servizio, e nella mattina di quel giorno
glorioso, spintosi alia testa di una ventina di guardie mobili, piu
arditamente di quello che sogliono fare tutti i generali, aveva in-
contrato la morte, suggellando col sangue la sua vita esempiare.
Verso le dieci io volli ridurmi a casa: la stanchezza mia era in-
descrivibile ; appena in strada incontrai i Carabinieri Genovesi:
saranno stati una trentina; gli Spagnoli che li seguivano erano
tutt'al piu venticinque: quante vittime in quella giornata! quante
nazioni non affratelkva quel sangue generoso sparso in pro di una
repubblical
Arrivato a casa mi scinsi la sciabola: non guardai nemmeno
una vecchia bottiglia che ci aveva apprestato la padrona di casa,
meditai molto, riandai tutti i piu piccoli episodii della strage a cui
avevo assistito, poi cominciai ad appisolarmi e un benefico sonno
mi tolse alle ansie, alle dolorose ricordanze, alle considerazioni
piu o meno filosofiche.
i. rivoktsicme nd 18641 la rivoluzione polacca contro Toppressione russa
nel 1863. 2. cartolme da spagnolette: cartine da sigarette.
688 ETTORE SOCCI
La gioia dfi projani
e un fumo passeggier.
Mi desto di soprassalto e sento di miovo suonar delle trombe;
credo sul principio che ci6 non sia che un giuoco della mia alterata
immaginazione : aguzzo Porecchio, vo alia finestra, la schiudo . . .
Non ci e che dire . . , sono trombe che ci chiamano un'altra volta a
raccolta. - Ci siamo, dico tra me e non senza imprecazioni, mi ri-
cingo la durlindana e scendo in mezzo alia via. Doveva esser suo-
nata e da molto la rnezzanotte. I soldati si avviano verso la stazione ;
io tenni lor dietro.
-Chec'i?
— I Prussian! si avanzano . , . hanno avuto rinforzi.
— O non si erano ritirati ?
— Si ... ma ora ritornano.
— E noi?
— Battiamo in ritirata.
— E impossibile . . . Garibaldi si fark ammazzare ma non vorra
dar loro questa soddisfazione.
— Eppure vedrete . . . vi dico che si va a Lione.
— Smettete, pazzo!
— Non e vero!
— Se hai paura, va' a letto.
— 6 impossibile! . . .
Insomnia a forza di queste discussion!, si era giunti al cimitero
che e quasi difaccia alia ferrovia. Li trovammo Garibaldi in car-
rozza, tutto lo stato maggiore ed alcuni battaglioni schierati. Alia
porta della citta colla sua compagnia era Domenico Narratone,
rottimo amico, il repubblicano integerrimo. DegU scorridori1 pren-
devano la via onde attinger notizie, o recar dei dispacci. II freddo
era tremendo. Tutti si batteva i denti, ci si strusciava le mani, si
passava infine un quarto d'ora phi climaterico di quello di Ra
belais.*
Fortunatamente, dopo informazioni ricevute, il Generate ci ri-
mand6 tutti a dormire.
I. $£0rri£fori: staffette. 2. un quarto . . . di Rabelais: un aneddoto narra che
Fnni£0is Rabelais (1483 ?-i553), il celebre autore di Gargantua e Pantagruel,
trovaiuiosi senza soldi in un albergo, trascorse un brutto quarto d'ora e
riusci a disimpegiiam facerKk)si arrestare e trasportarc perci6 gratuitamente
a Parigi, dove si rise del suo stratagemma.
DA FIRENZE A DIGIONE 689
A qual cosa dovevamo attribuire questa sorpresa che ci colpiva
cosi in plena notte ed in tanta stanchezza?
Vale la pena di narrarlo.
Garibaldi, poco dopo che era giunto al quartiere generale, ricev6
un bigliettino dalla Jessie Mario che era rimasta sul campo di
battaglia e aveva occupata quella casina, sotto Talant, nella quale
ritirandoci avevamo lasciato i Prussiani.
La egregia donna chiedeva aiuti di uomini e fanali per racco-
gliere i feriti. Dava poi al generale questa buona notizia: «i nemici
si sono ritiratia.
Garibaldi, cui un sorriso illumin6 la ampia fronte serena, inca-
ric6 Gattorno che quelk notte gli faceva la guardia, di rispondere
alia Mario che si sarebbe proweduto. Poi si corico tranquilla-
mente.
Dopo pochi minuti per6 eransi presentati al quartiere generale,
il Maire, TArcivescovo, il Giudice di pace e il generale Pelissier,1
Dovevano parlare e subito a Garibaldi. Canzio non voleva farli
passare a nessun costo. Fu giocoforza introdurli.
II generale si alz6 sul letto sorridente.
II Maire disse con voce tremante che si risparmiasse una nuova
occupazione a mano armata della citta, II nemico, piu numeroso
che mai, avrebbe airindomani attaccato, si trattasse la resa, salvo
potendosi chiamare Fonore delle armi italiane.
E il vescovo aggiunse che ci6 voleva la umanita, descrivendo con
foschi colori le nefandezze che avrebbe commesso Tesercito in-
vasore.
II generale Pelissier per ragioni strategiche uruvasi alle preghiere
degli altri.
Garibaldi ruggiva, di tanto in tanto, e guardava.
Quando tutti tacquero si rivolse affabilmente al Maire e gli dis
se: — £ giusto che voi, signor Maire, vi occupiate della sicurezza
della vostra citt£, come e giusto che Voi, signor vescovo, uorno di
chiesa, usiate Popera vostra per scongiurare massacri che non av-
verranno certo; ma voi generale,— volgendosi con piglio severo
al Pelissier aggiunse il nostro duce — ma voi generale che venite
a perorare una resa, io non vi posse n£ vi debbo comprendere.
i. Pelissier: il generale che comandava i mobilizzati della zona. II Giudiee
di pace (altri scrittori lo dicono un notaio) era inviato dal generale tedesco
Ketkr.
690 ETTORE SOCCI
Del resto vi garantisco che non avete nulla a temere e potrete an-
darvene tranquilli . . .
I quattro se ne andarono, come se fossero cani frustati.
Ma Garibaldi non si riaddormentb: nella notizia delPaumento
delle forze Prussiane e del prossimo attacco, vi poteva essere qual-
che cosa di vero. Eppoi bisognava provare alia citta, forse terroriz-
zata, che Garibaldi ed i suoi vegliavano su lei.
Fece attaccare la carrozza ed usci.
E si suono a raccolta.
E noi con quel freddo maledetto si era andati alia porta della
citta.
— Accident! alle autorit& di Digione — dicemmo noi tutti, quan-
do si seppe appuntino la cosa.
xni [xv]
Quattro ore di sonno, e poi via di corsa in quartiere: quelli erano
giorni che si poteva affermare di essere esempii viventi della teoria
di la da venire, del moto perpetuo. La nostra scuderia aveva due
nuovi ospiti ; due cavalli che Mecheri e Ghino Polese avevano preso
sul campo: questi due giovani, il giorno innanzi, distaccandosi con
tre o quattro altri da noi, erano corsi in prima fila, ed avevano ot-
tenuto dai present! gli elogi piu ampi per il loro sangue freddo e il
loro coraggio: Ghino, da quel capo ameno che era, tra una scarica
e Taltra, nel turbinio delle palle faceva un minuetto, destando una-
nimi sorrisi d'ammirazione . . . non dico di piu, perch£ non si abbia
a dire che Tamicizia ha potere di convertir noialtri scapati in societa
di mutua ammirazione; chi li ha veduti non potra dire che come
me: con loro fu ferito assai gravemente il nostro caporal furiere
Pianigiam, gipvinetto livornese quasi bambino, ma che per fer-
mezza poteva dar dei punti a un vecchio militare; il Mattei, guida
pur egli, ebbe trapassata una coscia da un colpo di mitragliatrice,
mentre si disponeva ad aadare alFattacco.
Raggranello ahri ra^uagli del giorno innanzi: delle quindici
guide dbe si erano mosse a piedi col tenente Ricci, due erano
mofte e sette ferite: il nostro drappello avea dato il suo contingente
albi carneficina.
NeHa nottata due m^tri caporali, Luperi e Ariteud, avevan fatto
DA FIRENZE A DIGIONE 691
prigioniero il nipote del generale Werder,1 che si era addormentato
in una casetta.
In prima fila, alle prime fucilate, Giorgio Imbriani era morto
da prode, gridando — Viva Tltalia!
Mi si parla di un Romagnolo, Salvadore Caimi, che, giacente in
letto all'ospedaie, e dato per spacciato dai medici, e&sendo afflitto
da perfidissimo vaiolo, alPudire il cannone salt6 giu, si rimpannuc-
ci6 alia meglio, e corse in prima fila, ove mori, ma non colpito dalle
palle: tutti hanno da raccontare qualche eroismo che hanno veduto,
qualche atto di valore di cui furono parte: manco male, non avran-
no piu il coraggio di dire che gli Italiani non si battono! I preti,
strano a dirsi,2 erano stati pel contegno loro ammirabili; alcuni
signori dei paesi a noi vicini si erano mescolati ai soldati, ed alcuni
erano caduti vittime del loro amore di patria. Se la perdita di molti
nostri compagni ci faceva essere di malumore, ci era anche di che
rifarsi la bocca!
Ci pongono in liberta, raccomandandoci di non scostarsi tanto
dal quartier generale: approfitto di quest'intermezzo per recarmi a
far visita al ferito Stefani; la ferita era leggerissima, e lo avevano
di nuovo portato nella sua casa, che serviva anche d'ambulanza. Ci
trovai mio fratello con diversi della Compagnia Genovese. Tutti
seduti intorno al fuoco facevano piani di guerra, discutevano i
comandi del giorno avanti, rammentavano i morti, godevano ed era-
no sorpresi di averla scapolata e giuravano che fuoco indiavolato
come quello sotto Talant era piu che impossibile avesse di nuovo
a farsi sentire. Vollero di rifFa che io facessi una corrispondenza per
un giornale di Firenze e tutti ci misero Io zaxnpino . . . immagina-
tevi che brodo lungo la venne a riuscire, e come mostrasse eloquen-
temente che chi la scriveva non era un Montecuccoli3 n£ un Na-
poleone . . . pure ci sembr6 un capolavoro di descrizione, una vera
pagina di dottrina strategica , , . ci si contentava di tanto poco, dopo
una batosta cosi indiavolata!
i. Werderi il generale prussiano che aveva occupato Digk^ie. Vedi la i>ota
3 a p. 651 . 2. I preti . . . a dirsi: i repubblicani furono sempre fkramente
antidericali. 3. Raimofido Mtmtecuccofo (1608-1681), di Modena, comaiKl6
le tru{^>€ imperiali cootro gli Svedesi, i Turchi, i Fraucesi, e vinse varie
vohe anche questi ultimi, sebbene guidati dal Turenne e dal CoiKie. Scxis-
se Memorie delVarte Mia guerra, considerate un classico della letteratura
militare.
692 ETTORE SOCCI
A interrompere la nostra ammirazione, capita in mezzo a noi,
come una bomba, il PiccinL Aveva Pamico un viso di tramontana
da metterci i brividi addosso e non aveva torto; partito a bruzzico1
insieme al Baldassini per rinvenire il cadavere del suo gia indivisi-
bile Rossi, per quanto avesse frugato, gli era stato impossibile ef-
fettuare questo disegno; nelle sue investigazioni il giovine Garibal-
dino erasi spinto tanto in avanti, che si era in una strada incontrato
con una squadra di Prussiani, che gli aveva fatto una scarica ad
dosso, scarica alia quale con favoloso coraggio aveva risposto con
due o tre colpi, rimanendo illeso proprio per uno di quei miracoli
del caso che non si sanno spiegare. A quel che ci diceva, anche in
quel giorno avremmo avuto battaglia sicura; conferm6 quest'idea
anche Pamico Mecheri, che andato a Fontaine a restituire quel ca-
vallo che si era appropriate il di innanzi, aveva udito un rumore
vivissimo di fucileria agH estremi avamposti. Bisogna confessare
che queste notizie non furono accolte con molto entusiasmo da noi ;
quel giorno avremmo bramato di riposare ... si ripos6 anche Dio,
a detta degli Ebrei e dei cristiani: ma pure se ci fosse Fordine, se
Garibaldi si fosse battuto, senza essere onnipotenti come il Dio
dei Cattolici, ci sentivamo tomi da cacciar la stanchezza e da fare
quello che dovevarno fare. Andammo per62 alia prefettura.
II cortile di questa dava Pesattlssima idea del vestibolo dell'In-
ferno di Dante; non mancavano le diverse lingue, le favelle orribili,
le voci alte e fioche3 di chi dava schiarimenti, di chi chiedeva infor-
mazioni, di chi narrava i fatti del giorno innanzi, n€ manco il suon
di mani, quando comparve la nobile figura di Garibaldi sorridente
piu deirordinario. Monto in carrozza svelto, come ai suoi bei tempi
e mont6 insieme con lui, secondo i! solito, Basso. Ci salut6 affet-
tuosamente; poi ci disse: — Oggi avremo vittoria. — Parl6 spa-
gnuolo con due o tre figli d'lberia che erano poco distanti dal nostro
gnippo, e si rallegro con loro per lo splendido contegno che essi
avevano tenuto il di innanzi: poi i cavalli si misero al trotto, il ge-
rterale si tolse il cappello in mezzo alle acclamazioni, e parti seguito
da alcuni ufficiali di stato maggiore. Aveva appena oltrepassata la
porta che un colpo di cannone ci annunzib che anche per quel
giorrto continuava la musica bella.
I Prussiani, mentre potevano attaccare Digione al Nord Ovest,
i. m. bruxzico: la mattma di buon'ora. 2. perd: perci6. 3. diverse . . . e
jwcke: richiama le parole di D«nte, Inf., in, 25-7.
DA FIRENZE A DIGIONE 693
la dalla Ferme de Foully,1 pianura senza la minima ombra di forti-
ficazione, commettendo un errore che non si sa comprendere nei
vincitori di Sadowa e di Sedan, si ostinarono a tornare airattacco
di Talant, precisamente, come il giorno avanti. La brigata Menotti
aveva a sostenere adunque Fattacco e ii degno figlio dell'eroe dei
due mondi ebbe tutti gli onori di quella giornata; diverse compa-
gnie di Franchi tiratori e qualche pezzo d'artiglieria avevano du-
rante la notte rinforzate le file che dipendevano da lui.
Le legioni Italiane rimasero in seconda fila; ma varii se la svi»
gnarono alia chetichella dai ranghi, e corsero tra il fischiar delle
palle e Timperversare della mitraglia, presentendo quasi che la
vittoria annunziata da Garibaldi dovcva avere la piu ampia realiz-
zazione.
I colpi deirartiglierie si succedevano senza tregua; i cittadini
non se ne addavano;2 quel giorno tutti avevan fiducia. Materassi e
Polese erano al seguito del generate, io, Mecheri, e Bocconi pigliam-
mo a piedi la via e ci incamminammo verso Talant. Al principiar
della strada incontrammo il maggior Sartorio che prowedeva a che
fossero presto recate a compimento molte barricate che s'inalza-
vano da operai, requisiti a tale scopo.
Era una vera giornata di primavera: il sole splendido, senza
una nuvola il cielo : i paesetti di Fontaine e Talant, con le due vaghe
colline, staccavano sul fondo azzurro del cielo e invitavano piu a
godere di quelParia purissima, e ad inebriarsi in queU'oceano di
luce che ad andare a scannarsi. Splendi pure, con tutta la potenza
degli animator! raggi, o ministro maggiore della madre natura, oggi
almeno rischiarerai il trionfo della Liberta!
A poco piu di mezzo chilometro dalla citta, vedemmo cinque o
sei cavalli morti ; da uno di questi si parti va una striscia di sangue,
che, come la mistica colonna che guidd nel deserto gli Israeliti, do-
veva guidare i nostri passi fino a Talant. A pie della scala di una
casuccia era steso morto un giovine Garibaldino; un campagnolo
ci mostr6 una lettera che aveva trovata nelle di lui tasche. . . Era
una lettera della sua mamma; la povera donna sperava di riabbrac-
ciare suo figlio nelle feste di Natale: la data di queila lettera era di
novembre ed il giovine 1'aveva tenuta sul cuore tutto quel tempo!
Arrivammo alle nostre batterie; il fumo ci impediva di poter
i. Foully : vedi la nota sap. 654 (e vedi pp. 698, 708), 2. non
V€tno: non se ne curavano.
694 ETTORE SOCCI
scorgere cio che aweniva nel versante a noi sottoposto; un ronzio
impertinente di palle ci rendeva avvertiti che i nemici non erano
molto lontani. Garibaldi, Menotti, Bizzoni, Sant'Ambrogio in quel
momento eran la. Troviamo lo Strocchi che ci avevano dato per
ferito, lo abbracciamo e si unisce a noi. II Generale era sceso di
carrozza, esaminava i tiri deirartiglieria e dava consigli agli arti-
glieri. Uno di marina, che faceva il servizio ai pezzi, punt6 due
volte il cannone e fece due tiri ammirevoli : le nostre perdite erano
fin allora pochissime e i nostri nemici, non che avanzare, perdevano,
di momento in momento, il terreno; allora fu comandata la carica
alia baionetta.
I Franchi tiratori si lanciarono, come leoni, aH'attacco: due zuavi
li precedevano di qualche passo, agitando, a mo' di bandiera, i gui-
doni1 delle compagnie a cui erano stati ascritti. II momento era su
blime! II fumo si era dileguato ed il sole ripercotendo i suoi raggi
sugli elmi dei nostri awersari, faceva apparire qua e Ik dei subiti
guizzi di luce, che parevano lampi. Un gridio continue, entusia-
stico, un prorompere di fucilate . . . eppoi i soldati di re Guglielmo,
pestati, inseguiti colla baionetta alle reni, abbandonavano a rotta
di collo il campo di battaglia, seminando il terreno di fucili, di elmi,
di feriti e di rnorti, e ritirandosi per tre chilometri buoni: tra gli
altri trofei furono presi sette furgoni d'ambulanza del valore di cir
ca novantamila franchi.
II bravo colonnello Lhoste per6, caricando arditamente alia testa
dei suoi audaci Franchi tiratori, veniva mortalmente ferito. La bat
taglia era compiuta, la vittoria aveva sorriso airindomito coraggio,
allo slancio piu che umano dei volontari della repubblica.
Tornammo subito indietro per annunziare la grata novella; ma
quale non fu la nostra maraviglia, quando, fatti pochi passi dal
campo, incontrammo delle signore che si erano spinte arditamente
fin lassu; signore che infangavano nelle pozzanghere i loro stiva-
letti aristocratici e che ci salutavano sventolando i loro fazzoletti
e sorridendoci con angelica grazia,
Non era gioia, non era entusiasmo quello da cui era presa Di-
gtone k sera del ventidue , . . era ebbrezza, delirio : a mezzo chi-
tometro dalla citt& era gi& affollata la via; donne, vecchi, ragazzi ci
sakavano al collo, ci prendevano tra le mani la testa, ci sollevavano
dal peso delle armi, ci iBsegnavano Fun Faltro, gridando a squar-
x. gmdoni: banderuole triangolari di piccoli reparti.
DA FIRENZE A DIGIONE 695
ciagola: Vive les Galibardiens, vive GaUbardi^ vim VltaUe. Ci por-
tavano quasi in collo dal mezzo di strada nelle trattorie, e li ci offri-
vano da here, ne ci era versi di rifiutarlo; da ogni parte strette di
mano, da ogni parte baci : « come sono giovani » si sentiva ripetere
da un canto; «son dei bravi soldati» si ripeteva dall'altra . . .oh!
divini momenti, oh! dolci soddisfazioni di chi compie un dovere,
capaci di riabilitare la persona piii turpe, capaci di fare un eroe del
piu pusillanime.
Ma echeggia un grido potente, non interrotto, che fa rintronare
da un capo all'altro la strada; le finestre si spalancano con forza;
le vecchie, rimaste uniche in casa, si affacciano, si spenzokno,
agitano le loro pezzole; un fremito nuovo di gioventu rianima queile
fibre affralite dagli anni: non e il vincitore d'ingiuste battaglie
quello che passa, h Fapostolo delle cause giuste, e il propugnatore
delPumanita, e Peroe leggendario, Fuomo incorrotto che con un
pugno di ragazzacci fa retrocedere i soldati che han fatto tremare
1'Europa . . . & Garibaldi.
— Viva Garibaldi — gridano tutti, e popolani, e soldati si but-
tano verso di hii, vanno quasi sotto i cavalli e le ruote delia car-
rozza: tutti vorrebbero stringergli la mano, tutti vorrebbero divo-
rarlo dai baci!
— Gridate: viva la Repubblica — urk il buon veechio, e non
sa riparare a salutare, e sorridere.
I soldati che tornano hanno tutti un elmo, un fucile preso ai
Prussian! ; un giovinetto ha un piffero e fischia un'arietta in mezzo
agli applausi di tutti. Passano dei prigionieri; tutti li guardano,
ma nessuno alza un grido . . . il popolo sente la generosita per
istinto! Per tutte le piazze b baldoria; per tutto si canta, si grida, si
applaude: sulla piazza del teatro si da fuoco persino a dei morta-
letti: la fiducia generale i rinata; gli elmi dei Prussiani coirannesso
parafulmine fanno le spese di tutta la sera; contento delFo^i nes
suno cura il domani e tutti dimenticano Tieri.
Si va a portare il fausto annunzio allo Stefani; sul principio cre-
deva che si scherzasse: gli avevano dato nientemeno a bere che si
trattava di una capitolaziorte e che i Prussiani si avanzavano verso
Digione a marcia forzata.
lo era stanco morto: tutte queile emozioni, tutte queile fatiche
mi avevano prostrato: mi pareva che la vita mi sfuggisse ed in ca
mera del mio amico ferito ebbi un trabocco di sangue.
696 ETTORE SOCCI
— O guardiamo, se dope che ti han risparmiato le palle, vieni
qui a far la morte della Signora delle Camelie P1 — mi disse il Ma-
terassi, che non si reggeva piu dalla fatica, essendo stato in giro
tutta la notte, e a cavallo tutto il giorno.
Non gli risposi, perch£ quest' ultimo incidente mi faceva uscire
proprio dai gangheri. Cheto, cheto me ne andai e neppur mezz'ora
dopo mi sdraiavo sul letto.
xiv [xvi]
Per quanto facessi, mi fu impossibile in quella nottata di pro-
vare un poco di sonno. La testa mi ardeva, la febbre in certi mo
ment! mi procurava il delirio; ora mi pareva di essere in mezzo alia
mischia, di vedere i nostri giovani battagHoni avanzarsi, sgominare
le schiere nemiche, ed annusavo a piene narici il simpatico odor
della polvere, e m'inebriavo ai mille episodi di un combattimento
e di una vittoria; ora mi pareva di essere tomato in mezzo ai miei
cari, e li vedevo a me d'intorno, raccolti, pendere ansiosi dai miei
labbri, interessarsi alle vicende delle battaglie, alle storie che rac-
contavo: e vedevo brillar deile lacrime, spuntar dei sorrisi . . .
Finalmente venne il mattino, e parve che la luce, come fugava
le tenebre, fugasse da me i vaneggiamenti della immaginazione
malata. Mi alzai ed uscii ; quelli non mi sembravano giorni da pol-
trir sulle piume.
A tutte le cantonate della citta era affisso un ordine del giorno
di Garibaldi; ordine del giorno nel quale Tillustre comandante dei
volontari, nonch6 inorgoglirsi ai fumi delle vittorie e proclamare i
suoi soldati per eroi, raccomandava a loro di moderare la foga dei
di passati, di non attaccare in massa il nemico, ma bensi in pochi
e alk spicciolata, e spronava in special modo gli ufficiali ad adem-
piere tin poco di piu al loro dovere.
Alk porta del quartiere delle Guide, vidi il Materassi che scen-
i. la morte della Signora delle CameUe: Alexandra Dumas fils (1824-
1895) ebbe i! suo primo successo letterario col romanzo La Dctme aux ca-
mekas (1848), da cui trassc il dramma di uguale titolo (1852). La protago-
nista, cc^n'e noto, muore di tisi. Questo tema, della donna di facili costumi
redenta da un gnmde amore, divenne pc^oiarissimo, e influi potenteniente
sulla lettermtura e sul costume dell'Ottocento : nel capitolo successivo il
Socci ne presenta una ennesima incarnazioaie, modificata per6 dalla fine
in battaglia, ndU figuni di Aissa.
DA FIRENZE A DIGIONE 697
deva da cavallo; mi accolse a braccia aperte e mi mostrd delle bot-
tiglie di vino generoso, urlando: — Ecco lo specifico per la tua ma-
lattia!
Quel vino era stato trovato nelle ambulanze Prussiane e doveva
far le spese di un mattiniero banchetto che imbandimmo li sul
tamburo. Era mezzogiorno e, malgrado tutte le dicerie, si comin-
ciava a credere che per quel giorno gli oppressor! della Francia
non ci avrebbero molestato. Finite il pasto, ce ne andammo tutti a
trovare lo Stefani; dopo poco che eravamo entrati nella di lui ca
mera, mi si comincio ad abbagliare la vista, sentii al palato un sa~
pore di sangue, tossii a piu riprese e caddi sfmito sopra il divano.
Non so quanto stessi in quello stato in cui piu non sentivo la
vita: quando cominciai a comprender qualche cosa, tuonava il can-
none, e lo Stefani, mezzo vestito, stava per alzarsi da letto.
— Si son riattaccati ? . . . — domandai.
— Altro che riattaccati! . . . Affacciati alia finestra e guarda.
Guardai . . . confesso di non aver mai assistito a un cosi scon-
fortante spettacolo! ... La gente scappava a rotta di collo per tutte
le vie ; le porte si chiudevano ermeticamente ; le finestre erano pure
ermeticamente tappate; ogni poco qualche guardia nazionale, o
senza fucile, o senza cappello, traversava a passo accelerato da-
vanti a noi, battendosi il capo, proferendo gridi di lamento o d'im-
precazione; donne piangenti che si portavano dietro i bambini,
carri che si caricavano, ufficiali d'intendenza che a gran passi si
awiavano in direzione del quartier generale . . . « Ma dunque
siamo in completa disfatta?* dissi tra me, e impaziente, colla
piu dolorosa angoscia nelFanima, col dubbio che mi torturava il
cervello, presi la mia sciabola, ed andal anche io per strada, deciso
di correre alia prefettura, e di la portarmi sul campo. Sulla piazza
del teatro, vidi quattro batterie di cannoni guardate da due o tre
guardie mobili. Erano nuove artiglierie arrivate allora allora dalle
fabbriche di Lione e del Creusot . . ,l osservandole bene . , . !o si
sarebbe agevolmente compreso, ma in quel momento, in quel-
Pesitazione lo credei anche io, come il popolo, un indizio di ritirata.
Ma donde venivano queste paure ? I nostri avevan forse perduto ?
No; come vedremo tra poco: ma alcuni battaglioni di guardia na
zionale presi dal panico a quel terzo assalto dei nostri nemici, at-
i. Le Creitsot & citt& del dipartimento di Sadne et Loire: centre metallur-
gico fra i pih attivi.
698 ETTORE SOCCI
territi anche dal numero con cui questa volta si erano presentati,
non ascoltando piu alcun comando, avevano retrocesso, e, come
valanga, erano piombati per le vie della citta, travolgendo coloro
che volevano impedire questa ignobile fuga e facendo nascere Pal-
larme e lo spavento per ogni dove.
I Prussiani, awedendosi del grave err ore che avevano commesso
nei giorni antecedent!, e pensando forse che le nostre truppe fos-
sero, almeno per la maggior parte, agglomerate in Fontaine e Talant
(posizioni contro le quali essi si erano rotte le corna) si concentra-
rono in grandi masse e prendendo la strada di Langres si spin-
sero infino al castello di Foully. Garibaldi aveva ordinato alia bri-
gata Canzio di avanzarsi verso la direzione da cui venne difatti il
nemico, il quale, fugati ben facilmente i mobilizzati, che sparsero
poi tanta desolazione in citta, erano giunti persino ad accerchiare
in una prossima masseria Tardito Ricciotti, che coi suoi bravi Fran-
chi tiratori faceva una resistenza eroica, seminando la morte tra
quelle schiere che non si azzardavano ad assalirlo e tenute a rispet-
tosa distanza dal ben nutrito fuoco di fila, che a loro opponevano
dalle finestre, dalle feritoie, dalle siepi questi giovani soldati della
Hberta. I figli di Garibaldi si mostrarono degni del loro genitore, e
la Francia ha da serbar eterna memoria del loro coraggio, della loro
abnegazione, della loro bravura.
Quando arrival le bombe solcavano Paria, gia impregnata di
fumo: il sibilo delle palle non aveva tregua alcuna; i Carabinieri
Genovesi, i Cacciatori di Marsala (tutta la quinta brigata), sdraiati
pei campi o nelle vicine praterie non facevano uso alcuno delle
armi. Canzio osservava impassibilmente le masse nemiche, ed ogni
tanto andava da Garibaldi, con cui confabulava. Tutto ad un
tratto guizza, come un lampo dall'uno alPaltro dei militi, una no-
tizia; un fremito geraerale si comunica di fila in fila, come se tutti
quegli uomini subissero 1'influenza di una pila galvanica: Canzio
coiHStato, col viso raggiante, si alza, grida a tutti i suoi uomini: —
Ricciotti & circondato, salviamolo — e, come Pultimo dei suoi su-
balterni, si lancia eroicamente alia carica.
La cavalieria Pmssiana si schiera in ordine di battaglia difaccia
ai aostri ; due tiri di cannone bene aggiustati bastano a metterla in
fuga, prima aacora che si ponga al trotto contro di noi; altri colpi
a iBitragBa ^mragliario i tetaglioni nemici che si ammassano, si
urtano, si Mrangono contro k masseria, le cui mura sembrano di
DA FIRENZE A DIGIONE 699
fuoco; i Genovesi, i cacciatori di Marsala, gli Egiziani, gli Spagnoli
e persino due battaglioni di mobilizzati di Saone-Loire anirnati dal
nobile esempio dei volontari, si spingono dietro il prode Canzio
alia baionetta, gridando viva la Repubblica, viva la Francia, viva
Garibaldi e intuonando la Marsigliese e Tinno d'ltalia.1 Che spet-
tacolo imponente . . . al solo pensarci si provano le vertigini, e
quasi si crede di avere assistito a una fantasmagoria.
La brigata Ricciotti si spinge eroicamente fuori della masseria
e arditamente da di cozzo nelle file Pmssiane: da tutte le parti e
una carneficina terribile; i cadaveri si addensano sopra i cadaver! ;
& affusti di cannoni stroncati, qua siepi distrutte, alberi sbarbicati
dal terreno; per terra frantumi di bombe, pozze di sangue, ossa
scheggiate, rimasugli schifosi di corpi umani ; i Prussian! non pos-
sono piu reggere; e troppo formidabile Purto dei nostri soldati e
non che compatte colonne di uomini, sfonderebbe le rnuraglie d'ac-
ciaio. Le file a noi di contro, piegano, indietreggiano, si sparpa-
gliano, eppoi si danno a disperatissima fuga.
Canzio e il primo dei primi, Gattorno a cavallo trascorre qua e la
velocemente, Ricciotti, gli ufficiali tutti sono eroi. £ una scena
degna delPAriosto.2
Tito Strocchi e il capitano Rostain di Grenoble raccolgono in
mezzo ai cadaveri, sempre tra Tinfuriare delle palle nemiche, lo
stendardo del 61° Reggimento Guglielmo; reggimento che in quel
giorno fu quasi disfatto.
Garibaldi corse subito sul luogo dove era stata definita la tre-
menda tenzone, e dove era accaduto rorrendo macello; tutti gli
furono intorno; tutti vollero dire qualche cosa . . „ pochi e ben
pochi furono capaci di articolare un monosillabo; la gioia di quel
momento e inesprimibile; nessuno sentiva piu la fatica; eravamo
tra mucchi immensi di morti, si sentiva qualche fucilata lontana,
indizio che i soldati della grazia di Dio erano molto, ma molto di-
stanti da noi e che se la battevano disperatamente : avevamo preso
una bandiera: piu bella vittoria noi non la potevamo sperare, ed
ora se ne aspirava a pieni polmoni tutta la volutta. Perche" non po-
i. Vffino d1 Italia: Tinno di Garibaldi. 2. degna ddTArw&toi awkiziamento
che a noi pu6 sonbrare strano, ma corrisponde a un giudkio del Fziriofo
ccnne poema essenzialmente eroico : a Findividuo per coraggio e virtii d*ani-
mo, forza di muscoli e maestria d'anni sul cofnune degli uonxini si kra e
grandeggia », scrisse il Gioberti nel Primate (vol. in, p. 25, ddPed. a cura
di G. Balsamo-Crivelii, Torino, U.T.E.T., 1920),
7QQ ETTORE SOCCI
terono dividere le nostre letizie tanti generosi che ora giacevano
cadaver! , perche non le doveva dividere il buon Ferraris,1 il medico
del Generale, che recandosi a portare un ordine insieme a Gattorno,
colpito, forse per errore dalle guardie mobili, doveva essere Pultimo
del nostri morti nella campagna di Francia?
Mentre Garibaldi, dopo aver risposto ai piu vicini, stava per
congedarsi da noi e tornare in Digione, una scarica quasi a brucia-
pelo c'involse tutti in un turbine di proiettili che fortunatamente
non colpirono alcuno. Fu fatta voltare la carrozza e il generale si
ritir6 immediatamente. Da chi ci veniva fatta quella sorpresa ? lo
non lo so;2 certo che gli autori ne ebbero poco gusto: i volontari
si gittarono con rabbia verso la parte da cui cosi stranamente era-
vamo stati salutati, e probabilmente altri cadaveri si aggiunsero ai
molti che ingombravano il terreno.
I Genovesi e i cacciatori di Marsala dovevano pernottare nelle
loro posizioni: salutai caramente i miei amici, ed appoggiato al
braccio di uno dei Francs chevaliers de Chantillon,3 piano piano, me
ne tornai verso la citta, persuaso di assistere, se pur era possibile,
ad una dimostrazione e ad un entusiasmo maggiore di quelli pre
cedent! .
Avevo sbagliato i miei calcoli! ... Si ebbe un bel dire ai cittadini
che avevamo conquistata una bandiera, che la nostra era stata una
completa vittoria, che i Prussian! erano lontani chi sa quante miglia,
oramai lo spavento si era loro infiltrato nel cuore, oramai vedevano
le cose dietro il prisma della paura. Poche botteghe si riaprirono ;
pochissime donne ardirono di far capolino dalle finestre; difaccia
alia Prefettura e alia Mairie vi erano i soliti capannelli susurroni,
insistenti : fu insomnia necessario che il Moire facesse battere i tam-
buri a tutte le cantonate, ed ivi dal banditore annunziare ai Digio-
nesi che potevano andare a letto, e prender sonno tranquilli, poiche*
i Prussiani erano stati respinti su tutta la linea. - Dietro questa
confortante pubblicazione, ricominciammo a veder del movimento
i. U buon Ferraris', vedi la nota i a p. 655. z. una scarica . , . lo so: narra
il Bizzoni (Impression* di un vohntario att'esercito dei Vosgi, cit., p. 306)
che « erano pochi prussiani » nascosti in un fossato, i quali speravano rag-
giuugere i loro reparti in ritirata durante la notte : ma « vistisi awicinare
da akuni soldati . . . e credendosi scoperti, tirarono quasi a bruciapelo su
di loro: e le palle vennero a battere tutt'intorno al generale e qualche
soldato cadde feritoa. 3. Ckanttfhm: ChStillon.
DA FIRENZE A DIGIONE 701
per le strade; si riaprirono i caffe e la citta riprese il suo aspetto
normale.
xv [xvn]
Alia mattina del ventiquattro la bandiera Prussiana fu mostrata
a tutte le truppe e suscito ovunque 1'entusiasmo piu vivo; quella
bandiera era nuovissima, tutta in setat magnifica. La popolazione
Digionese, accortasi dell'errore meschino in cui I'avevano fatta ca-
dere la sera precedente alcuni vigllacehi, non si ristava dal magni-
ficare il nostro coraggio ed aumentava verso di noi le dimostrazioni
afFettuose e gentili; sapemmo che causa principale dello sgomento
e deirallarme era stato il colonnello dei mobilizzati dell'Alta Sa-
voia, che al primo rumore del combattimento era corso con diversi
suoi uomini alia ferrovia, pretendendo che di riffe o di raffe si met-
tesse in pronto un convoglio, onde partire alia volta di Lione.
Tutto ci faceva sicuri che i Prussian! non avrebbero riattaccato ;
i nostri amici erano alPavamposti; pensammo bene di far Joro una
visita e intanto dare un'occhiata al terreno, dove poche ore avanti
erasi combattuta la sanguinosa battagHa; alia quale eravamo stati
presenti.
Qual tremendo spettacolo non ci offersero quei campi! Se io
avessi la potenza descrittiva di poterli ritrarre al vero, farei inorri-
dire i lettori ... II piu sfegatato paladino della guerra non avrebbe
potuto fare a meno di fremere davanti a quella carneficina autoriz-
zata dalle cosi dette genti civilL In qualche punto i cadaveri erano
a strati; pochi i nostri, moltissimi quelli Prussian!; i Tedeschi si
erano battuti come eroi : nel posto dove f u rinvenuta la bandiera si
contavano, uno accanto all*ahro, piu di novanta cadaveri, tra i quaii
quello di un maggiore; la prateria, la strada, i viottoli erano ingoni-
bri di elmi, di fucili, di sacchi; ad ogni passo eravamo sicuri d*in-
ciampare in un morto . . . Quanta gioventu, quanta vita dileguata
in un soffio! . . . Erano imberbi adolescenti, uomini tarchiati; tutti
avranno lasciato nelle proprie case una sposa, una moglie, una ma-
dre: queste povere donne ogni giomo saranno accorse al giungere
della posta, avranno divorato dai baci le righe, che fra le fastidiose
occupazioni del campo scrivevano i loro cari : le avranno aspettate
anche il domani quelle benedette righe, che loro facevano spuntare
tra ciglio e ciglio una lacrima e 1'avranno aspettate invano, e invano
J02 ETTORE SOCCI
anche domani, e cos! via di seguito per chi sa quanto tempo! . . .
poi finiranno col vestirsi a bruno, col piangere, col pregare, col-
Fimprecare a chi ordin6, a chi voile, a chi fece la guerra: ma re
Guglielmo sara salutato imperatore di Germania,1 ma Napoleone
godra in santa pace nei beati ozi di Londra2 i milioni carpiti alia
disgraziatissima Francia!
Oh! avessi avuto la virtu d'Ezzecchiello! Oh! avessi potuto tra-
sfondere la vita in quelli esanimi corpi! . . ,3 Sorgete, avrei voluto
gridare con voce tuonante, sorgete ed imprecate alle arpie coronate,
ai potenti del mondo; tornate nelle vostre citta, nei vostri villaggi,
ncllc vostre famiglie, predicate che si ha da esser tutti fratelli, che
non si deve sprecar piii tanto coraggio per soddisfare Pambizione
di quelli che ci opprimono, che si deve abolire il macello di creature
innocenti, create per amarsi tra loro, Tune alFaltre simpatiche, per-
ch£ legate dal santo vincolo della sventura . . . Se Traupmann con
otto omicidi fece rabbrividire tutto il mondo civile, perche" si de-
vono dar ghirlande d'alloro a chi, a sangue freddo, fa sgozzar cen-
tomila?
E mi pareva difatti che quei morti si levassero giganti, e colle
braccia poderose scaraventassero nei vano i tarlati troni delle ti-
rannidi umane.
Garibaldi travers6 la via in carrozza con Canzio; i due illustri
e prodi soldati, arrivati che furono al posto di cui parlo, furono
pur essi commossi.
Poco distante da B avevano passata tutta la notte i Carabinieri
Genovesi. Piccini ci accoke ridendo . , . — Oh! la bella storia che
ho da contarvi!
— Raceontacek.
~~ In pochc parole vi sbrigo . . . Vedete quella casetta ? . . . Ter-
minata la mia guardia, sono andato li per riposarmi . . . Ci erano
tre Prussian! morti ed io mi sdraiai in mezzo a loro; appena steso
per terra, e inutile che vi dica, che attaccai un sonno birbone: mi
ero addormentato di poco, quando mi parve sentirmi girellare d'in-
ton&>, non mi volli scomodare ad aprire gli occhi, e il calpestio non
i. re GttgUelmo.. . Germama: vedi la nota i a p. 673. A Gugiielmo I fu
cofifcrito il titolo di imperatore di Germania il 18 gennaio 1871. 2. Na-
polcane . . . Lomdra: Napole<Mte III dope la pace di Francoforte (1871)
visse m Qiklehurst, presso Loodra, fino alia sua morte, il 9 gennaio 1873.
3. Is mrtu , . . forp$: il profeta ebreo Ezediiek non ebbe la virtii qui attri-
buitagli, &t invece, la vistooe della resorreziooe dei morti.
DA FIRENZE A DIGIONE 703
che cessare, accresceva: una mano poco delicatamente si poso sul
mio petto, mentre un'altra si awicinava con gran celerita alia mia
tasca ; mi alzo allora, come di soprassalto, e do un grand'urlo : — Chi
£ ? . . . Non sono mica morto io, perche mi abbiate a frugare! . . . — -
Un grido disperato e una fuga generale tenne dietro alie mie pa
role: seguii i fuggitivi e trovai due della mia compagnia che eserci-
tavano questo mestiere proficuo si, ma schifoso . . .
— E domandaste loro, se avevano trovato molta roba?
— Si ... mi risposero anzi che tutti quell i che avevano frugato
avevano in tasca la bibbia, e moltissimi la carta geografica.
Era verita: nessun basso uffiziale1 era sproweduto della carta
di Francia. £ cosi che si vincono le battaglie, e non come si fece
nei beatissimo regno d' Italia nelia vergognosissima guerra del J66,
ove le carte non erano conosciute nemmeno di vista dai colonnelli
di stato maggiore.
Dopo avere scambiato qualche altra parola partimmo dalle linee
dei Genovesi e andammo per tornare a Digione: avevamo fatti
appena pochi passi, che sentimmo dei gemiti poco distant! da noi :
questi gemiti venivano da una specie di casaccia che era al princi-
piar di una viottola: quella casaccia non doveva servire di abita-
zione ad alcuno, nemmeno in tempo di pace; era bassa, piccola, e
non aveva finestre. II desiderio di giovare a qualcuno, Fidea che
forse si poteva trovare qualche amico, ci fecero entrare risoluta-
mente in quella catapecchia.
Sopra una barca di concio2 vedemmo airincerta luce che veniva
dalk piccola porta, un involucro di carne; da questo partivano i
lamenti e, cosa strana, questi lamenti non ci parvero d'uomo ; ma
che li dentro ci fosse una donna? - Accesi con mano tremante un
fiammifero, mi appressai . . . un urlo mi parti dalla strozza, il lume
mi cadde di mano ; era, purtroppo, una povera donna colei che si
lamentava in tal guisa e in quella povera donna io riconobbi Aissa.
— Aissa, Aissa — le dissi e fui incapace di proferire altre pa
role.
La moribonda mi guardo attentamente, direi quasi con ostina-
zione : si pose una mano sul cuore, come per repriraerae i f^lpiti,
stette un poco senza articolare parola, poi faticosamente, senza
riconoscermi, sussurr6 a bassissima voce: — Portateini fuori!
i . basso iqffizialc : ufficiale subaltemo, di grado inferiore. 2. barca di condo :
mucchio dt letame.
704 ETTORE SOCCI
Interrogai con un'occhiata i compagni; vedendo com'essi erano
propensi ad esaudire quest'ultimo voto di quella bella creatura, la
presi amorevolmente pel capo, mentre gli altri, adagino adagino,
la sollevarono pei pledi, e la deponemmo su di un praticello, dove
Terbetta era tutta ingemmata dalle stille della mattiniera rugiada,
e dove ripercuotavasi un vagabondo raggio di sole, che si era fatto
strada tra le nuvole che tutto ingombravano il cielo.
Aissa era rimasta prostrata; gli occhi le si erano chiusi; come
era bella! . . . Soffusa di un pallore che faceva apparire le di lei
carni di cera; coi magnifici capelli neri disciolti lungo le spalle, tu
Tavresti creduta Tangelo della grazia e della bellezza, morto esso
pure in tanto turbinio di barbaric! Poco piu sotto del cuore, uno
straccio nell'abito, delle goccie di sangue rappreso indicavano dove
Pavesse colpita il piombo nemico! In quelPistante la si sarebbe
detta gia morta, se un anelito frequente muovendo ad ogni poco
il busto di lei non avesse ispirato la certezza, che ancora non si era
dileguato il soffio animatore di quella materia.
La discinsi; feci portare da uno dei nostri dell'acqua: con que-
sta le bagnai ambe le tempia, e poi colla faccia proprio sopra la sua,
mi misi a spiare il momento, in cui ella sarebbe tornata ad essere
in se.
— Chiamino un medico! ... — sentii esclamare una voce.
— Bravo — gridai io in tuono d'assentimento, ma senza muo-
vermi . . . e uno in fretta e furia and6 per il medico.
L'aria fresca rianimb la bella dolente; Aissa apri le sue luci;
gir6 lo sguardo per le circostanti campagne e addiventfr pensierosa:
in quel momento forse le tornarono in mente i molti fatti del lu-
gubre dramma, a cui ella aveva assistito negli ultimi giorni, mi
osserv6 lungamente, un sorriso sfior6 le di lei labbra sbiancate . . .
elk mi aveva riconosciuto.
— Vedete se ho bene adempiutx) alia promessa che io vi feci a
Marsiglia,
— Ma dove siete stata ferita?
— Qui ... — la rispose, aceennandomi dove avevo veduto il san
gue rappreso.
— Ed & grave?
— Io credo che sia mortale . . . lo spero.
Restai annichilito; sperar nella morte in quell'eta, con quella
bellezxa, con quel carattere ardente e leggiero che tanto mi aveva
DA FIRENZE A DIGIONE 705
sorpreso fino dal giorno che la conobbi! . , . Un fremito mi aveva
invaso ogni fibra, volevo persuadermi di assistere ad una alluci-
nazione mentale ed avrei dato la mia vita, pur di non assistere a
questo tristissimo episodic, che doveva avere lo scioglimento in fac-
cia ai miei occhi.
— A che mi guardate cosi stranamente ? — con voce sempre piu
tremula continuo la rnoribonda. — Oh! lo so cosa pensate tra voi . . .
Me lo immagino . . . ma se sapeste quanto mi sorride il lasciar que-
sta vita, che mi opprime come la camicia di forza del galeotto . . .
Oh! quante volte ho proposto di faria finita per sempre e sul piii
bello mi e mancato il coraggio!
— Ma voi non morrete:— internippi io— voi siete sul fiorire
degli anni, siete robusta, la vostra ferita non & tanto grave . . .
— £ mortale . . . lo sento! . . . Non sprecate le vostre cure per
me . , . sentite ... la ... come urla quel povero soldato ferito . . .
vedete, scommetto che lui ha o una mamma, o una sposa . . . al-
lora si soffre a lasciare la terra, ma io . . . io . . .
— Voi potrete trovar degli amici.
— Degli amici?! Ma dove? . . . Ma come? . . . Ma chi? . . .
— Io, per esempio!
— Voi traverserete il mare, tornerete in mezzo ai cari vostri, e
presto, come tutti gli altri, vi dimenticherete di me . . . Noi donne
galanti, alia moda, non sappiamo, non c'immaginiamo neppure
Pamicizia; Pamicizia richiede del cuore e a noi ce Phanno strappato
i signori di cui siamo i giocattoli.1 Chi ci ha mai inculcata la santa
religione delPaffetto, della fede ? Chi ci ha mai rammentato di esser
donne? L'artigiano che ci disprezza perch6 non giungera mai ad
aver col lavoro la nostra ricchezza, ci addita alle sue figlie come
vampiri, come mostri, e queste ci salutano colle loro fischiate; i
nostri protettori quando si sono sbizzaniti con noi vanno a cer-
carne delle altre; noi ricorriamo a spese matte, a piaceri che ab-
bruciano: i denari van via, e viene Peta: la prima grinza fa fuggire
Pultimo adoratore e . . . e . . . se non morissi qui, se continuassi a
vivere, tra pochi anni, obliata da tutti, morirei nel fondo di uno
spedale . . . Fortuna che questa palla ha troncato tanta colpa e
tanta miseria! . . . Ve lo ripeto, ve ne scongiuro . . . andate a soc-
correre quel povero soldato . . . forse potrete risparmiare un gran
i . Not donne . . . i gtocattoli: per la figura di Aissa, vedi la nota a p. 696.
45
706 ETTORE SOCCI
dolore ad una povera madre, pensate alia vostra che ora prega per
voi in Italia.
Le mani d'Aissa cominciavano ad agghiacciarsi, e posandosi sulle
mie, mi producevano la medesima impressione, che provasi quando
si tacca una serpe. — Oh! . . . un tempo . . . io ve lo voglio dire . . .
un tempo io non era cattiva! — la prosegui con tuono piu flebile.
— Amai troppo, credei troppo . . . e ne ho scontato anche troppo
la pena. Ah! avessi dato retta alia mamma . . . fatemi il piacere, le-
vatemi dal seno la crocellina che & attaccata a questo piccolo na-
stro . . . Febbi da lei, una sera, una beila sera di estate: eravamo
sulFaia, e ci era stato il prete a benedire il ricolto; rimmagine
della madonna era illuminata, un andirivieni di lucciole faceva
scintillare le siepi, i contadini cantavano le litanie, io accarezzavo
il vecchio Bibi perch£ non abbaiasse; la mamma, finita la preghiera,
mi venne vicina, mi baci6 e mi attacc6 al collo questa crocetta . . .
da quella sera non la ho piu abbandonata e quando ero per darmi
in braccio alia disperazione, quando dentro di me meditavo qual-
che vendetta terribile, quando avevo commesso una colpa, guar-
davo quella crocetta e mi tornavano in mente Faia, il prete, le li
tanie, il vecchio Bibi, i bei tempi insomma in cui ero giovine, in
cui ero buona: e le colpe mi sembravano meno gravi, perche mi
sembrava vedere la mamma che pregava per me, che sorridente
additavami il cielo . . .
Lo spirit o che aveva animato quella donna a proferire il lungo
discorso, via via che la parlava sembrava che Pabbandonasse; Paffie-
volita voce, il faticoso respiro che aveva preso tutte le parvenze del
rantolo, mi convinsero che ormai niente vi era da sperare, che ora-
mai gli istanti di quella vaga creatura erano contati!
La squilladelk vicina parrocchia di Fontaine si fe' modestamente
sentire; i tocchi di quella campana mi scesero in cuore mesti, sic-
come la preghiera pei moribondi : traversd il viottolo a noi vicino
una vecchia cenciosa che portava per mano un ragazzo ... — Non-
nas — disse quest'ultimo — cosa fa tutta quella gente sdraiata ? —
Povero bimbo, — rispose la vecchia — quelli che vedi son morti. —
E BOH si risveglieranno mai . . . mai piu ? — II bambino chin6 gli
occhi e poi si rimpiatt6 nel fossato . . . intanto uno stormo di corvi
volte^i6 intorno a noi! ... la nonna si mise in ginocchio e pregc- ;
il fanciullo urlava e pkngeva!
Uo prete col breviario sotto il braccio si awicinb, quasi pauroso,
DA FIRENZE A DIGIONE 707
alia moribonda; io gli additai la crocellina che essa si era portata
alle labbra, egli se ne and6 al soldato che era per morire poco di-
stante da noi, ed intuon6 ad alta voce le preci dei moribondi.
Gli stormi dei corvi raddoppiavano ; la nebbia sollevandosi a
poco a poco dall'estreme linee di quelFestesa pianura aveva offu-
scato il sole e i grandi alberi della strada maestra in queirincerto
barlume sembravano giganti che osservassero con fiero cipiglio
quella scena d'orrore; dei carrettoni traversavano innanzi a noi,
come una triste visione di mente impaurita; questi carrettoni erano
colmi di cadaveri e i carrettieri, sferzando i cavalli, fischiettavano
le ariette dei villaggi natii; ogni tanto qualche lurida faccia, tale
da farti ribrezzo solamente a pensarci, appariva in mezzo ai solchi,
nei cespugli, tra le siepi, disopra al ciglione dei fossi, ch<§ non pochi
erano quelli che giravano per frugare i cadaveri.
Aissa mi strinse forte forte la mano; parve che a furia di bad
volesse divorare la crocellina: si sforzo di richiamare sulle labbra
un somso e gli occhi invece le si empirono di lacrime, proferi
mestamente: — arrivederci — chino il capo, sembr6 addormentarsi,
e si addormentd difatti per non destarsi mai piu.
II bambino, fattosi animo, era saltato dal fosso ed era venuto a
vederla, la voile toccare con infantile curiosit&; la senti fredda come
un marmo, e rimase impietrito; il prete e la vecchia continuavano
a biascicare orazioni, e i corvi si erano tanto a noi awicinati da
sfiorarci il capo con le nerissime all.
Nello stesso tempo esalaya I'estremo respiro il soldato vicino,
susurrando a fior di labbra il gentil nome di Greetchen. Greet-
chen! . . . Mi passo innanzi alia mente la poetica creazione di
Goethe1 e vidi in un remoto abituro una bionda fanciulla che in
quel momento, fissando il cielo, pregmva per Tamioo lontano e che
gia pregustava le gioie inenarrabili di un sospirato ritorno, che:
PafFetto immenso di vergine suole ispirare fiducia; 1'amico lontano
muore invece esecrato da tutti; muore in terra straniera, in terra
che egli calpest6 vincitore e su cui batt6 prepotentemente la scia-
bola; muore proferendo il nome di lei, senza che alcuno possa por-
tarle quests notizia, che le sarebbe non lieve conforto nelle future
affiizioni. Vestiti a bruno, o bionda fanciulla, ed impara ad ese-
crare i tiranni; vestiti a bruno e grida insieme con me: «Maledet-
ta la guerra!»
i . Greetchen . . . Goethe : ck£, Gretchcn, Margfceritai, Feit^na del prime Fmtst.
JOS ETTORE SOCCI
Come erano belli quei due cadaveri! . . . Tutti e due erano morti,
ispirandosi a reminiscenze soavi . . . tutti e due, assort! nelFideale,
sorridendo eran morti! . . . lo correva dall'uno alFaltro, mi chinavo
su loro, li contemplavo, avrei voluto trasfondere nel loro corpo il
mio spirito vitale onde di nuovo animare tanta gioventu, tanta for-
za, tanta bellezza ... mi sembrava che il cervello avesse a darmi
volta: i miei compagni mi trascinaron via a forza dal triste spetta-
colo: quando rinvenni dallo stupore aveva fatto piii che mezza
strada per arrivare a Digione. La febbre mi aveva occupato tutte le
membra.
— Va* a letto — mi dissero.
— Si — risposi deciso di dare ascolto a un tal consiglio, e lasciai
gli amici.
Arrivato appena in citta trovai alia porta del quartier generale
Materassi, Piccini e alcuni altri.
— Vieni con noi — mi dissero.
— E dove ?
— Si va a vedere i morti che hanno gia portato in citta . . . chi sa
che non rinveniamo il cadavere di qualche amico, di qualche cono-
scente.
Quantunque la scena a cui ci si preparava ad assistere offrisse
una prospettiva tutt'altro che ridente, in special modo per un
ammalato, come ero io, un po* per bruttissima curiosita (ripeto
ai lettori che io non bramo di farmi meglio di quello che sono),
un po* per non sembrare da meno degli altri, un po* per una vaga
speranza di ritrovar forse una memoria da consegnare ai parenti
lontani di qualche estinto, seguii la comitiva che accingevasi a
questa visita lugubre.
Durante il tragitto, mi fu raccontata la storia luttuosissima del
capitaiK) dei Franchi Tiratori, rinvenuto cadavere e tutto bruciato
nel castello di Foully. Garibaldi aveva ordinata un'inchiesta su tale
nuova barbarie; io qui non voglio discutere, n£ avrei dati bastanti
per farlo, se sieno o no vere le spiegazioni, che pretese dare il Go-
verno Pnissiano con una nota pubblicata su quasi tutti i giornali
del mondo: quello che e certo si e che Fufficiale aveva le mani le
gate, che covoni di paglia gia incendiati erano a poca distanza da
lui e che rinfelice, come ben si pu6 osservare dalla fotografia, era
tutto coperto d'ustioni, airinfuori del capo. Con ci6 non intendo
knciare un'accusa generale a tutto il popolo germanico; il soldato
DA FIRENZE A DIGIONE 709
abbrutito nella caserma, a qualunque nazione appartenga, spesso
c volentieri cessa di essere un uomo per addiventare la belva piu
sanguinaria.
Passata di poco la porta Sant'Apollinare, avanti di giungere alia
barriera vi e il convento dei Capuccini : ivi erano stati messi i cada-
veri, forse perch6 si potessero riconoscere a belFagio dagli amici.
Prima d'entrare la nostra vista fu dolorosamente colpita da due
carrettoni, zeppi di morti Prussiani: quali di questi ciondolava una
garnba, quale una mano; 1'insieme ti offriva 1'idca di una gran mon-
tagna di carne; il pavimento era tutto cosparso di sangue, ch£ al-
cune ferite tuttora gocciavano.
Entrammo in una piccola stanza; sopra due tavoloni erano stesi
una ventina di Garibaldini, tutti privi di vita: tra questi lo Squa-
glia, sorridente come vivesse tuttora; la maggior parte mancava di
qualcosa di vestiario : gli awoltoi del la gloria avevano, come poco
fa si e veduto, fatto man bassa sulle piu piccole inezie, purche
vi fosse da ricavar qualche soldo. Noi procedevamo in silenzio:
solo il Piccini, incaponito di trovare il Rossi, esaminava ad uno ad
uno i cadaveri, passava per far piu presto disopra aile tavole, sempre
con viso imperturbabile, e con un sangue freddo assai raro.
La seconda stanza era grandissima ; avra contenuto piu di settanta
morti, disposti non colla medesima cura di quelli che giacevano
nella prima; qui vi erano Guardie Mobili, Franchi Tiratori, Ga
ribaldini ed anche qualche Prussiano; vedemmo tra gli altri il po-
vero Pastoris col cranio tutto fracassato; il prode maggiore era
stato spogliato fino dalla camicia; questa profanazione mi fece
ribrezzo.
Ci fu impossibile ritrovare il Rossi ; domandammo schiarimenti
ai guardiani e questi ci risposero che forse la salma del nostro amico
doveva essere nella stanza di quelli che erano morti di vaiolo.
Avanti di partire non potei fare a meno di rivolgere uno sguardo
a tutta quella gioventu, che si era dileguata come una meteora nel
cielo; un raggio di gloria, uno sprazzo di luce, eppoi il nulla!
Quante illusioni, quante speranze, quanti pensieri non si erano
spent! per sempre in quella clade1 sanguinosissima!
Quante madri, quante sorelle abbrunate! - pensavo dentro di
me e continuando a guardare i cadaveri, sentivo commuovermi non
tanto per loro, quanto per le care persone che avevano lasciato.
i. clade: sconfitta; e ktinismo, da clades.
710 ETTORE SOCCI
La democrazia italiana, credo bene ripeterlo, ha lasciato un de-
gno e glorioso contingente sui campi di Francia; la democrazia
italiana, come sempre, anche nel 1871 ha immolate al principio
repubblicano i cuori piu giovani e piu entusiasti, le immagina-
zioni piu fervide, le intelligenze piu belle . . .
Nel ridurmi a casa . . . ebbi la prova piu luminosa della fiducia
generale che si nutriva in Garibaldi ed in noi; dappertutto non si
faceva che domandar notizie e porgere elogi aU'eroico Ricciotti e
alia sua valorosa brigata: i nomi di Menotti, di Canzio volavano
accompagnati da lodi, per tutte le bocche; e le donne con quel
sentimento gentile, che ci rende caramente diletto quel sesso, che
sembra esser stato messo quaggiu per asciugare le lagrime e per
darci un pietoso conforto in mezzo alle disillusioni e agli affanni,
accoppiavano a questi nomi, omai resi gloriosi, quello non meno
caro, quantunque modesto, di Teresita.1
£ stato detto che la superstizione e la poesia dell'ignoranza : io,
quando vidi in capo alia strada, dove abitavo, le donne affollarsi
a pregare davanti a un'immagine, |>er Garibaldi, per noi, per la
Francia, aspirai tutto il profumo di questa ingenua poesia, e rimasi
a contemplare estatico quel gruppo, che avrebbe offerto a un pit-
tore un'invid iabile quadretto di genere, e che a me offriva un certo
qua! refrigerio di cui non so farmi ragione.
II male per6 progrediva spaventosamente : mi martellavano le
tempie; avevo perduto la voce, le gambe mi reggevano appena.
Passando dalla bottega della tabaccaia, vi entrai, e mi buttai ri-
finito su di una seggiola.
La graziosa fanciulla, affidata alle cure della bottegaia, si svestiva
in quel mentre della sua cappa di appartenente airambulanza; ave-
va gia visitato tutti gli ospedali della citta, aveva gia fatto amicizia
con tutti i feriti Prussian! : mi disse tutto questo d'un fiato, senza
cbe la potessi interrompere. Quando io commciai a parlare, la buo-
na ragazza sentendo la mia voce roca, esaminandomi fissamente
nel voho, con tono aiFettuoso mi disse : — Ma voi avete bisogno
delle mie cure . . . voi siete malato.
— Che . . . non i nulla!
— Oh voi dovete curarvi . . . andare a lettol
— Vi pare . . . qui ... in facck al nemico , . .
i. Teresita: la figiia di Garibaldi, sposa di Stefano Canzio.
DA FIRENZE A DIGIONE 711
— II nemico ne ha abbastanza da rifarsi di forze e credo che non
avrk intenzione di riattaccare.
— Ammettiamolo pure. Ma che vorreste . . . che io passassi uno,
due, forse tre giorni solo, come un cane ? . . .
— Siete ingiusto . . . voi dimenticate gli amici . , .
— Son tutti occupati . . .
— E . . . le amiche ? — ficcandomi gli occhi negli occhi proferi
la ragazza.
— Le amiche!
— Si, andate ed io vi prometto di venirvi a far visita, di passare
la maggior parte della giornata da voi.
— Dawero ?
— Sul mio onore . . . via, via andate . . . non fate il bambino . . .
il vostro sarebbe un eroismo inutile . . . — E tanti altri bei discorsi,
che uniti al male che mi sentivo in dosso, e la voglia di aver collo-
qui intimi con quella gentile infermiera, di cui avevo imparato ad
ammirare il carattere, mi persuasero a cacciarmi nel letto, deciso
per6 di non badare a prescrizione veruna del medico, o di chicches-
sia, qualora avessi udito suonare a raccolta le trombe, o tuonare il
cannone.
Dope poco ero a letto; a letto, con una tazza di tisana a me vi-
cina sul comodino, apprestatami dalla mia gentilissima ospite.
xvi [xvm]
Se il trovarsi ammalato lontano dai suoi, in terra dove siamo
sconosciuti, nella solitudine, che, a detta di Pascal,1 fa giocare per-
sino alle carte con se medesimi, in generale & una disgrazia, godo
nel dire che io feci eccezione alk regola. La solitudine che io te-
meva, non Tebbi a provare che in qualche momento: gentili pre-
niure, assistenza piu che fraterna, riguardi inconcepibili non mi
fecer difetto ed io serber6 riconoscenza indelebile per le generose
creature che, ispirandosi al santo amor della patria e deirumanitk,
con le loro attenzioni resero meno tristi le travaglkte ore di un po~
vero malato. Se questi miei ricordi varcassero le Alpi, io Tavrei
caro soltanto per mostrare ai miei pietosi assistenti che sotto la ca-
micia rossa del Garibaldino non batte il cuore di un ingrato, ma che,
i. Biaise Pascal (1623-1662), il filosofo delk Pens&s, delle Lcttres provm-
ciales, ecc.
712 ETTORE SOCCI
finch6 campa, egli serba una soave reminiscenza di chi gli fece del
bene.
Appena da un'ora ero in letto, quando capit6 la mia vaga vi-
cina in perfetto abbigliamento da infermiera: and6 al caminetto,
attizzo il fuoco e mi prepar6 della nuova tisana; poi mi disse che
piii tardi avrebbe portato il medico, e cominci6 a tirar fuori boc-
cette d'essenze, scatole di pasticche e, quel che phi m'importava,
dei libri . . . e che libri! . . . Le poesie di Alfredo di Musset e un
paio di romanzi di Walter Scott;1 un libro & un grande amico nella
solitudine ed io salutai quei libri con la medesima gioia con cui si
salutano gli amici piu can,
Per quella sera per6 non potei leggere: le palpebre mi si erano
appesantite: un sonno profondo, prodotto dalla febbre, mi rese
inerte durante la notte. Al mattino stavo un po' meglio; pregai
Materassi e Bocconi che stavano di casa con me di tenermi infor-
mato a puntino di quanto sarebbe successo, e di non por tempo in
mezzo per venire ad awisarmi, se vi fosse stata la probabilita di
un nuovo attacco. Cosa d'altronde poco probabile, dacche* i Prus-
siani ne avevano buscate anche troppe!
Erano trascorse due ore buone e nessuna notizia erami peranco
arrivata: io tentava, per passare il tempo, di legger qualchecosa,
ma, quantunque ci6 che leggevo fosse bellissimo, il mio pensiero
volava lontano lontano.
Fu bussato dolcemente alia porta. Quale non fu la mia sorpresa
quando, dopo aver detto : — Entrate — io vidi comparire, in compa-
gnia della vecchia padrona, due graziose figurine di fanciulle degne
proprio delFelegante pennello delPispirato Wattau.2
Le principesse invisibili si erano finalmente degnate di scendere
dairOlimpo per visitare un mortale . . . quelle due signorine erano
k figlie del proprietario del nostro ricco palazzo: le medesime, per
veder le quali avevamo tanto almanaccato nelle molte ore d'ozio
che avevano preceduto le tre giomate di combattimento. La fama
quests volta non era bugiarda; vi assicuro che erano proprio ca-
rine, modeste, educate, geniali. Tanta fu la mia sorpresa che non
sapevo cosa dire, e sul primo devo aver fatto la figura del collegiale
x. L£ poesie . , . Scott: sono autori e letture care alle generazioni roman-
tidbe deJT Ottocento. 2. Antoine Watteau (1684-1721), il pittore di cui
sono soprattutto famose le scene di vita mondana e galante.
DA FIRENZE A DIGIONE 713
piu candido che sia mai scappato dalFunghie dei reverendissimi
maestri.
Si trattennero una mezz'ora; dissero, secondo il solito, ira di
Dio dei Prussian!, canzonarono i moblots* inalzarono al cielo i Ga-
ribaldini, parkrono deiritalia e del desiderio intensissimo che avea-
no di vederla, mi fecero con mille moine trangugiare altri due bic-
chieri di tisana e, protestando di non volere piu oltre importunarmi,
si accomiatarono, promettendomi di tornar la sera a farmi visita.
Ero tutt'ora sotto la dolce impressione di questa visita inaspet-
tata, quando con strepito immenso entrc- Materassi, seguito da
uno sciame di Guide.
— Notizie ? — domandai subitamente.
— Nessuna.
— La cronaca del giorno?
— Ah ... La Corte Marziale ha condannato a dodici anni di
galera una guardia mobile che non ha voluto ricevere un ordine
dal suo tenente.
— Hai detto una guardia mobile? - Benissimo! . . . Meglio in
galera che averli tra i piedi!
— Appro vato — urlano tutti.
— Di piu, — continuo il Materassi — sembra che i Prussian! mar-
cine su Dole . . . tentando cosi di prenderci in mezzo . . .
— O di avere altre briscole!2
— Speriamo che debba succeder cost! Del resto per oggi puoi
restar tranquillamente a letto; da tutti i lati della citta per ben
molte miglia k impossible rintracciare un Tedesco, e noi siamo
venuti qui per far Fora di andare al trasporto di Ferraris . . . Credi
che per oggi non ci & timore di sorta! . . .
Dope poco entrarono in camera mio fratello, i due Piccim e van
altri; si poteva creder benissimo di essere in una caserma; per am-
mazzare il tempo van si posero a giuocare alle carte: alcuni altri
chiesero aiuto alle muse, e si misero a sciorinare ottave, sonetti,
rispetti con una facilita piu che arcadica. Fra le akre birbonate,
sentii un rispetto non moko bruttaccio, e lo regalo ai lettori, se oon
ahro onde mostrare cfae a tu per tu colla morte, colk corte marziale
e col linguaggio barbino dei superiori e dei regolamenti, qualcuno
alk meglio o alia peggio trovava il momento di dedicarsi alle arti
i. mobfat$: vedi la nota i a p. 635. 2. briscole; busse; ^ parola del linguag
gio familiare.
714 ETTORE SOCCI
gentili. II rispetto era dedicate ai Franchi Tiratori, a questi benia-
mini delta situazione. Eccolo:
Son della patria un Franco tiratore
e corro i monti a caccia dei Prussiani:
0 carabina, o donna del mio cuoret
1 colpi tu&i van dritti e van lontani,
gran bella festa k il di della tenzone!
Squilla la tromba e brontola il cannone,
Vengan gli idani dalVacuta lancia:
noi non moviamo pit . . . Viva la Francia!
Si avansin pure i cavalier piu baldi . . .
Vile & chi trema . . . Ewiva Garibaldi!
Ogni tanto la padrona di casa, veniva a pigliar mie notizie, dava
un'occhiata a quei gruppi e se ne andava proferendo con amabil
sorriso : — Oh les brmes garfons!
L'ora di assistere alia cerimonia pietosa in onore del compianto
Ferraris si awicinava a gran passi, e i miei amici mi lasciaron solo
di nuovo: questa partenza che li per li mi uggiva non poco, doveva
procacciarmi un paio d'ore di felicita, se almeno la felicita si valuta
dalla maggiore o minor prestezza con la quale volan gli istanti . . .
quelle due ore mi sembrarono infatti appena un minuto, ed eccone
la ragione.
Leggevo con piu attenzione del solito una delle piu belle poe-
sie del Musset: il fino contorno di una gamba elegante, ed il pic
colo piede di una figlia d'Eva, attraente come la colpa, erano ivi
tratteggiate con una finezza indicibile dal poeta piu simpatico della
Francia moderna: il mio pensiero vagava per orizzonti tutt'altro
che pktonici e la mia immaginazione esaltata riandava i bei piedini
ed i fini contorni di certe gambe, che lo zeffiro, compiacente come
un ufficiale d*ordinanza di un re, tante volte aveva svelato al po-
vero boh&me che dalla porta di un caff& vede trasvolarsi davanti,
come una visione, le belle del mondo privilegiato.
Leggera quasi farfalla, senza che io la veda, si ^ awicinata al mio
ktto la gentile infermiera, la pietosa visitatrice di tutte le ambu-
knze. Essa mi guarda in silenzio; alia mia volta io la guardo e sto
atto.
Finalmente lei rompe il ghiaccio, e colla sua vocina simpatica
comincia: — Non ho potuto portare il medico, come vi avevo pro-
messo.
DA FIRENZE A DIGIONE 715
— Non importa . . .
— Vi sentite meglio?
— Tanto meglio che domani mattina esco di casa.
— Voi non commetterete questa pazzia! Ve lo proibisco in nome
di vostra madre . . . pensate alia povera donna che forse vi aspetta.
— Mia madre e mortal — proferisco un po' commosso all'evo-
cazione di tale ricordo , . .
— A vostro padre ... — continua piii affettuosamente la cara
fanciulla.
— £ morto! — replico in tuono brusco.
— Dunque siete orfano? . . .
— Purtroppo!
— Avrete una bella pero? . . . confessatelo!
-No.
— £ impossibilel
— Ve lo garantisco.
Osservo che la mia interlocutrice arrossisce molto facilmente ed
ha un nasino retrowsS1 graziosissimo.
Altri due minuti di silenzio.
— Ebbene, vi far6 da sorelia. Come vi chiamate ?
•— Ettore . . . e voi ?
— Luisa!
— Ho appunto una sorella che si chiama come voi.
— Benissimo! . . . Allora ci faremo confidence reciproche. Va
bene?
— A meraviglia! . . . Cominciate voi, che mi avete fatto tante
domande e rispondetemi a tuono . . . E voi . . . ?
Non mi azzardo a continuare, ma 1'altra capisce alia prima e
volendo soddisfare a quel sentimento di vanita, prerogativa del
sesso debole in generale e delle francesi in particolare, si affretta
a rispondermi: — Ah! . . . lo appena sara finita la guerra ho da es-
sere sposa . * .
— E chi e il fortunato ? —
— £ , . , Ve lo do a indovinare tra mille . , .
— Non saprei . . . qui non oonosco nessuno.
— 6 nientemeno che un ufficiale Badese.
— Un vostro nemico?
— lo iK>n ho alcun nemico.
I. retrousse', rivolto
7*6 ETTORE SOCCI
— Ma . . . che so io . . . un oppressore.
— Che ci han che fare quei poveri diavolil . . . Oh! sentiste come
la pensa anche lui! . . . scommetto, che se vi avvicinaste, in pochis-
simo tempo diventereste amici del cuore. 6 tanto buono, e cosi ge-
neroso!
— Sara . . . ma dove Pavete conosciuto ?
— Qui: alPepoca delPoccupazione: egli mi chiese in tutte le re-
gole ed io acconsentii.
Cosa strana, egoistica, tutto quel che volete! Non sentivo nulla
per quella donna, ma provai dispetto ad udir quella confessione,
che cosi ingenuamente venivami fatta: per cui non potei fare a
meno di diventar brusco; Luisa se ne awide e per placarmi si chin6
su me e le di lei labbra sfioraron le mie; non Pavesse mai fatto! . . .
un fuoco di fila di baci, tutt'altro che fraterni, echeggio sotto il
padiglione nuziale che adornava il mio letto. Povero ufficiale Ba-
dese, io mi prevaleva un po' troppo dei diritti del vincitore, ma ora
ti auguro un brevetto da colonnello, una croce delPaquila nera,
un'eredita di un mezzo milione, purch6 tu renda felice la mia as-
sidua assistente!
Era tanto carina, quando parti, imbacuccata nel suo water
proof \l Giunta alia porta torn6 indietro, si Iev6 di tasca una meda-
glina, me Pattaccfr al collo . . . io la lasciai fare: era una medaglia
della vergine madre ... oh! religione! . . . Eppure non ho mai ab-
bandonato quel microscopico pezzetto d'argento: non fremano i
liberi pensatori: io tengo molto alia religione ... dei gentili ricordi!
Partita lei, tornarono !e padroncine e insieme alia vecchia vollero
servire il mio desinare da ammalato: le piu squisite galanterie, che
Parte e Pumana ghiottoneria hanno inventato pei convalescent!,
mi si portarono davanti.
Cosa beUa e mortal passa e non dura.2
La campana dei vespri mi rapi la genial compagnia: in quella fa-
miglia erano religiosissimi, come in quasi tutte le famiglie delle
classi aristocratiche e borghesi di Francia. Mai ho maledetto San
Paolino di Nola3 e la sua sconsacrata4 invenzione delle campane,
o>me Io feci in quella sera.
i . water-proof: impemieabile, 2. Petrarca, Rime, CCXLVIII, 8. 3. Paolino di
Bordeaux, vescovo di Nolat morto nel 43 1 , detto appunto « delle campane *,
oooie se ne fosse stato Pin ven tore. 4. sconsacrata: vedi p. 656 e la nota i.
DA F1RENZE A DIGIONE 717
E a rincarar la dose del mio malumore, capitarono gli amici.
Avevano accompagnato la salma del Ferraris, ma, colla teorica degli
antichi Roman!, dopo i funerali erano andati alle mense, e ci6 si
vedeva chiaramente dalle accese loro fisonomie, dal loro modo di
muovere i passi.
II Piccini entro traballando, e parlando un francese che non si ca-
piva ne da Italian! ne da Frances! : ogni poco interrompeva il bistic-
cio per vociare : — Lc saucisson de Lyon ...en avant Garibaldims . . . —
Cosa credeva di dire, non giungemmo mai a capirlo nemmeno da
lui! . . . II Dio Bacco 1'aveva inalzato, a dir poco, alia ventesima
potenza dell'ebrieta, e quando si ml&e a sedere attacc6 un tal sonno,
che per portarlo via ci vollero persino dei pugni.
Giunsi a comprendere in tanto baccano che il funebre trasporto
era stato imponenttssimo e che Canzio aveva proferito generose e
ben degne parole sulla tomba del figlio prediletto della democra-
zia torinese.
Dopo aver rimesso un polmone, o poco meno per mandar via
di camera tutti quegrindiavoiati, mi addormentai saporitamente . . .
Con poche ore di riguardo e di calma il mio male era passato.
xvn [xxi]1
. . . Spalancando la porta con una pedata, entra in camera Ghino
Polese con un viso da far rizzare i bordoni alFuomo piu grasso del
mondo.
— Che e ? — gli si grida tutti a una voce.
— 6 ... — e qui un moccolo da Livornese puro sangue. — £ ...
che si tratta nientemeno . . .
— Di assedio della citta?
— Peggio . . . potremmo morire colle armi alia mano.
— I Prussiani son entrati?
— Ma peggio!
— Ma cosa dunque . . . per carita!
— Ci & 1'armistizio! . , .2
i. Abbiamo sc^>pre&so i c^)itoli xix, xx e una prima pmrte del xxi. II brano
presente corrisponde alle pp. 220-3 dell'edizione da noi seguita. 2. f or-
mistixio: il 28 gennaio si conclusero le trattative fra Jules Favre e Bismarck
per rarmistizio. Ma nell'acx:ordo non furono specificamente cmnpresi
il temtorio dei Vosgi e quello che occupava Fesercito dell'Est, <x>man-
dato dal generale Clinchant, successore del Bourbali. II Clinchant ri-
718 ETTORE SOCCI
Un fulmine che fosse caduto in mezzo a noi poteva produrre il
medesimo effetto. Prima un silenzio di morte, poi una salva di
imprecazioni tutte allo stesso indirizzo.
— Ma sei ben sicuro di quello che dici ?
— Me lo ha assicurato un ufficiale di stato maggiore . . ,
-~ 6 impossible! Parigi si difendera fino all'ultima pietra.
— Parigi ha capitolatol . . .*
Altro silenzio, poi tutti mossi dallo stesso pensiero giu a rotta di
collo per la scala, e portarci al quartier generale.
Sulla cantonata incontriamo la vaga Luisa ... — Dites done? . . .
— proferisce ed io secco secco la congedo con un « non ho tempo
da perdere® e continuo la via. . . Dei gruppi concitati s'incon-
trano in qua e la ... la parola vile corre di bocca in bocca.
— E Favre2 che giurava che finch6 esistesse una pietra di questa
citta I'mvasore avrebbe trovato un baluardo?!
— Ed e stato lui che ha segnato la capitolazione!
— E noi che cosa faremo ? — gridava un disertore dell'esercito.
— Imparerete a servire la Francia — di rimando rispondeva un
gallofobo.
E i popolani abbassavano il capo, quando noi si passava, ch6
la maggioranza dei Digionesi era repubblicana: e lo svelto ed al
legro Garibaldino era divenuto sornione e Io vedevi trascorrere colle
mani in tasca, col berretto sugli occhi mordendosi i labbri, e ad ogni
poco udivi ripetere, commiserandoli, i nomi dei prodi caduti . . .
Solo i volti dei moblots brillavano per insueta gaiezza . . . non ci era
piu dubbio.
Colle gambe che ci facevano cilecca arrivammo alia prefettura;
una folia di gente si accalcava intorno alle due colonne che son di
fianco alia porta, e su cui si attaccavano i dispacci e le comunica-
zioni officiali : tutti si alzavano in piedi, e, quando erano pervenuti
pard in Svizzera, e Garibaldi, rimasto solo in armi di fronte alle truppe
prussiane, per non essere costretto ad arrendersi, ordin6 la ritirata del suo
esercito nella zona di Autun, compresa nell'armistizio. La manovra, pro-
tetta in retroguardia dalle brigate di Menotti e di Baghino, fu rapidissima e
riusci perfettaniente : il i° febbraio Pintero corpo volontario si era sottratto
al nemico. i. P-on^i ha copitolatoi Parigi si arrese il 28 gennaio, con la ca-
pitc^iizione firmata dai genendi Vinoy e Trochu. 2. Jules Favre: vedi la
oota 5 a p. 481. Giii costante oppositore deirimpero, airawento della re-
pubblica (4 settembre 1 870) era divenuto vicepresidente del governo della
dife&a nazionale, succcssivamente ministro degli esteri e, infine, anche degli
k^emi. Dopo aver firrnato rarmistkio, condusse le trattative che culmina-
ron«o coo la pace di Franeoforte, nel maggio 1871.
DA FIRENZE A DIGIONE 719
a leggere, si ritiravano mandando imprecazioni e grattando&i il
capo. Si sarebbe detto che le magiche parole del convito di Bal-
dassare1 fossero la, scolpite su quei marmi, e che tutti coloro che vi
si awicinavano ne risentissero i terribili effetti.
Due sole righe di scritto: due righe che contenevano per6 la piu
dolorosa notizia per chiunque preferisce la dignita al beato vivere:
«Oggi e stato concluso un'armistizio di ventun giorno^. E dire
che mani francesi non avean rifiutato di firmare un patto, che se-
gnava lo stigma sulla fronte di quella nazione che fin'ora, come il
favoloso Dio dell'Olimpo, bastava muovesse le ciglia per fare alli-
bire il mondo tutto dalla paura ; e dire che un Favre era stato tra i
manipolatori di tale infamia!
L'armistizio fu la testa di Medusa delFentusiasmo nostro; io
vidi qualcuno piangere: la maggior parte si sbizzarriva lanciando
improperii a Favre e alia Francia: quella sera non canti per le vie,
non le allegre conversazioni dei giorni passati, ma una musoneria
generate . . . Non vi era piu fede!
Un ordine del giorno di Garibaldi nel quale ci si esortava ad ad-
destrarsi nelle armi, ad attender preparati il momento della riscossa,
fece credere a diversi che non sarebbe stata cosa impossibile il po-
tersi di nuovo misurare col nemico e ci6 fece rinascere un poco
quella gaiezza di cui davano tanta prova ne' di del pericolo i Gari-
baldini. Per conto mio non mi illudevo: armistizio non poteva si-
gnificare che pace disonorante: la resa di Parigi lo dioeva troppo
chiaramente; eppoi da quando in qua i seguaci di Garibaldi po-
tranno ottenere un completo trionfo? , . . Gli unitari d'oggi non lo
relegarono nel *6o a Caprera, mentre volava alia conquista di Roma ?
Gli arfasatti che gli si caccian sempre davanti, non gli han fatto
sgombrare il Tirolo,2 quando a palmo a palmo lo aveva conquistato,
mentre a Lissa e Custoza veniva oltraggiata la bandiera italiana ? . . *
Non fu il prode Generale ferito da piombo italiano ad Aspro-
monte ? . . . Non fu, dopo la vittoria di Monterotondo, lasciato solo
i. le magicht . . . Baldass&re; Baldassarre, persona^io biblko, identifkato
cxm un re di Babilcmia, vide durante un convito una maiK» che scriveva
sulk parete le misteriose parole: Mane, Thecel, Pkares. La notte succes-
siva Baldassarre fu ucciso. Le tre parole appaiono preannunzio di sven-
tura. Vedi Dan,, 5. 2. tgQwfcrare il Tirolo: nelk guerra del 1866, Ga
ribaldi, dopo k vittoria di Bezzecca (20 luglio), puntavm su Trento,
quando fu fennato dall'armistizio e costretto all** Obbediso> » (e vedi p. 263
deli'edkioae <k noi seguita deJ libro del Sooa).
720 ETTORE SOCCI
a Mentana e non si lasciarono scannare i suoi generosi, mentre
trentamila uomini di truppa italiana erano sul confine? Non si i
sempre cercato di sfruttare i suoi trionfi, facendolo poi passare
quasi per un pazzo o per un avventuriere? Non si e avuto il co-
raggio di stampare, che lo si aveva aiutato, mentre si era tentato
ogni mezzo per awersarlo o per screditarlo? ... I repubblicani
francesi erano presso a poco gli stessi pagliacci dei consorti italiani,
ed era da prevedersi quello che era avvenuto, quello che awenne di
poi. Ma muovan pur guerra le anime vili e i livreati pigmei a que-
st'uomo che da solo basterebbe a riabilitare la societ&, tentino pure
di schiacciarlo e di awilirlo, Garibaldi vincera sempre in nome della
liberta, vincerik anche perdendo, perche" il suo nome oramai rap-
presenta una idea e le idee non si vincono.
xvin [xxn]1
Passammo il lunedi svogliatamente, senza conclusione alcuna:
fino allora il pensiero dell* Italia di rado balenava nella nostra mente,
ma dali'ora fatale in cui comincid a tenzonarci nel capo il dubbio
che non avremmo fatto pm alcuna cosa, vennero ad assalirci tutte
ad un tratto le care affezioni alle quali avevamo dato un addio,
ed un cocente desiderio di rivarcare le Alpi s'impadroni delle nostre
anime.
— Noi abbiamo finito di combattere — dicevo alia vaga Luisa
che colla testolina, chinata sempre, osava appena guardarci.
— Oh! voi siete felice . . . voi rivedrete la vostra bella . . . io me
la immagino . . . ime charm&nte petite ItaUenne.
— No, assicuratevelo, io non son punto felice!
— E perch6?
— Voi . . . Francese ... mi potete domandare il perche" ?
— Io Francese vedo che siamo traditi.
— E . . ., e . . . — gridai io dimenticandomi di parlare con una
donna.
— Ed ho pianto — sussurr& lei con le lacrime agli occhi.
— Vi ricorderete di me?
— Sempre . . . ci avete il vostro ritratto ?
-No!
i. Dd capitoio xxn dellredizk«ie da noi seguita abbiamo soppresso gli
uhimi tre capoversi.
DA FIRENZE A DIGIONE J21
— Me lo manderete?
— Ve lo prometto!
— Grazie . . . io voglio tanto bene ai Garibaldmi.
Venne il martedi, giornata che noi credevamo simile alk altre
che ci aspettavano, per monotonia e che grazie alia lealta dei gover-
nanti francesi doveva esser pregna per noi di awenimenti di nuo-
vissimo genere.
Usciti di casa incontrammo la legione Ravelli, che colla musica
in testa marciava verso la direzione della barriers del Parco.
— Dove andate ? — domandai al capitano Becherucci che si era
staccato dalla sua compagnia per salutarmi.
— Ma . . . sento un presentimento che mi dice che ci si awia
verso T Italia.
II mio amico doveva esser profeta.
Erano appena le undici e Mecheri, Ghino ed io mangiavamo
delle paste in una bottega di faccia al teatro.
Tutto ad un tratto, quando rneno lo si aspettava, vedemrno for-
marsi dei capannelli di gente che discorreva con animazione : poi ci
giunsero agli orecchi dei colpi d'artiglieria : credevamo sognare:
si pag6 il conto, si andd in strada e cercammo rmccapezzare qual-
che cosa tra le mille versioni che si davano del fatto inopinato.
— I Prussiani si avanzano . . .
— O I'armistizio ?
— Quei barbari non rispettano nientel
— No . . . & Menotti che per conto proprio ha attaccato il fuo€O.
— Ed ora espone la citta a chi sa quale disastrol
— £ impossible, — urlammo noi — Menotti sa il suo dovere.
— £ vero, e vero — ripetevano allora i popolani e davano del
grullo a chi aveva accampato un cosl sciocco discorso.
— Qui non si sapra nulla ; — disse Mecheri — andiamo alia ca-
serrna che & a pochi passi.
Era cosl giusto questo consiglio che non differimmo un istante
a metterlo in pratica.
Alia caserma il foriere aveva fatto caricare tutte le casse e i re-
gistri su di un carro a cui era gia stata attaccata la rozza piu ar-
rembata della nostra scuderia.
— Partiamo ? — si domandd appena giungemmo.
— Non Io so,
— E allora a cosa servono questi preparativi? . . .
722 ETTORE SOCCI
— Qucsti prcparativi ? . . . Gli ho fatti per precauzione . . . pero
ho mandate a prendere ordini al quartier generale . . .
— O il tenente?
— Non Tho veduto.
— E tutti gli altri ?
— Nemmeno per sogno!
Frattanto le trombe della compagnia delle mitragliatrici, com-
pagnia che aveva stanza poco distante da noi, suonavano a raccolta
e poco dopo i soldati della medesima si muovevano in completo
assetto di marcia. Poco appresso gli Usseri, nostri vicini di ca-
serma, montavano a cavallo e partivano a mezzo trotto.
Decidemmo di prendere la stessa direzione allorche" vedemmo
venire a noi il sottotenente Mussi e il caporale Luperi, che essen-
dosi portati fuori della citta per recare una lettera al colonnello
Tanara, ci ragguagliarono, essere cominciato un fuoco abbastanza
lento tra le due artiglierie. Ci dissero essere ottimo lo spirito dei
volontari, ma che nessuno sapeva farsi ragione, del come i Prus-
siani, violando i trattati si avanzassero verso di noi con colonne
strapotentissime. Tra gli altri Garibaldini in faccia al nemico si
trovava quel giorno il bravo Pais, che deposto il berretto da co
lonnello e messosene uno di pelo, marciava come un semplice
soldato, munito di carabina. Dopo essere stato destituito da Fra-
polli, 1'onesto repubblicano era corso la dove aveva spedito tanti
uomini che non si volevano far partire, esponendosi fino d'allora ad
essere destituito e a subire un consiglio di guerra.
Si ando alia prefettura; v'incontrammo Ricci che ci ordin6 di
star pronti; domandammo ragione di quel diascoleto ed ei ce lo
spieg6 in poche parole.
II governo della difesa Nazionale, non ultima disgrazia della di-
sgraziatissima Francia, non aveva compreso, nel patto proposto, i
dipartimenti della Cote d'Or, del Doubs e del Jura. Quindi so-
spensione d'ostilita per tutti gli eserciti fuori che per il nostro; si
voleva avere il gusto di vedere sconfitti anche i pochi cialtroni che
sapevanofamamrnazzare^perch^nonavevanonientedaperdere . . .
a detta di lorol — Nessuno awiso era stato comunicato a Garibaldi
su questa clausok delPiniquo contratto: cosi si ricompensava Teroe
generooo, che unico aveva vinto, che unico aveva strappato una
bandiera ai Prussian!; cosl si ricompensava Fardente figlio della
che pur di porre il suo braccio a disposizione della repub-
DA FIRENZE A DIGIONE 723
blica aveva dimenticato le prodezze francesi del 1849, le rnaravi-
glie degli Chassepots che il generate De Failly aveva provato contro
i petti dei generosi figli d' Italia a Mentana.
Sorpresi da imponenti colonne nemiche nelle loro posizioni, i
nostri sarebbero caduti vittirae dell'infame tranello e gia i Prus
sian! triplicati di numero pregustavano le gioie di una facile vitto-
ria, ma i traditori francesi e i generali avevano fatto i conti senza
Garibaldi: quel giorno apparvero le sue virtu militari, ed egli fu
piu grande nella precipitosa ritirata dalla Borgogna che nelle tre
celebri giornate che tanta gloria aggiunsero alia nostra povera
Italia.
I nemici furono tenuti a bada tutto il giorno dai nostri cannoni ;
Menotti ed i suoi ufficiali facevano i puntatori, e in questo tempo
le truppe si awiavano verso Chagny.
— Ma sicche dobbiamo proprio partire ? — domandammo al no-
stro tenente che ci dava tutti quest! ragguagli.
— Purtroppo.
Andammo a casa e facemmo in pochi momenti il nostro modesto
bagaglio, e senza avere il coraggio di salutare i nostri ospiti, scen-
demmo a rotta di collo le scale.
— Oil allez vous? — ci domand& allorch£ ci vide passare la Luisa,
sorpresa in vederci in perfetta tenuta di marcia.
— Andiamo a batterci — rispondemmo noi tutti.
— Vraiment?
— Sulla nc^tra parola.
— Soyez prudents — sussurrd a mezza bocca e volk a ogni costo
baciarmi alia presenza di tutti. Gli angioli del Signore, favoleggiati
dai buoni credenti, non avrebbero avuto di che veiarsi la faccia, e
quel bacio doveva esser Tultimo che io riccvcva dalla vezzosa fan-
ciulla,
Arriviamo al quartier generate : il j^rtire dei carri aveva prodotto
un'adunanza insolita di gente davanti alia porta: tra le molte per-
sone scorgo le due gentili figliuole della nostra padrona di casa:
cerco sfuggirfe: mi chiamano: non vi £ dubbio, esse pure mi ripe-
terono Fimportuna e doterosa richiesta.
— Dove andate?
— Partiamo,
— Sul serio?
— Cod non fosse!
724 ETTORE SOCCI
— Ma la ragione ? . . .
— Chiedetela a Favre . . .
Le ragazze mi guardaron fisse negli occhi, poi chinarono i proprii
e si tacquero: e in questo tempo mille altre domande sullo stesso
tenore si rivolsero a noi, e noi ci sfogammo a dire tutto il male pos-
sibile degli eroi da commedia che disonoravano in quel momento
la Francia, ed i Digionesi facevano eco alle nostre invettive.
Arriva il Piccini tutto sonnacchioso. — Che ci e di nuovo ? —
proferisce con uno sbadiglio.
— Ce di nuovo che partiamo.
— E perche"?
— Perche non siamo compresi neirarmistizio.
— O la mia compagnia?
— Sar£ partita.
-Edio?
— Vieni con noi!
— Vengo subito : vo a dire addio a due bambine e vi raggiungo.
E via a gran camera.
— Le Guide alia Stazione : — grida poco dopo il Ricci -— la tromba
vada suonando per chiamar gli sbandati.
A quattro a quattro, con accompagnamento di tromba e di be-
stemmie, traversando la cittk le cui botteghe eransi chiuse ad un
tratto, arrrivammo al gran piazzale, dove si doveva attendere quei
pochi che avevano un cavallo e che dovevano ricevere ordini sul-
ritinerario da percorrere per recarsi a Chagny.
Sul piazzale vi era una confusione indicibile: cariaggi, cannoni
trasvolavano tra Tincerto chiarore (era sorta la notte) a noi davanti,
provocando esclamazioni che io non oporto per non fare arrossire
la mia lettrice: tutti eravamo stizziti e non si cercava che un pre-
testo qualunque onde dar sfogo alia bile.
I moblots si erano addossati ai lati della piazza, mettendo in fasci
i loro fucili e intuonando la Marsigliese . . . Ci voleva il loro co-
raggio! . . . Questi canti che mai eransi da loro uditi, durante il pe-
ricolo, fecero saltare a qualcuno dei nostri pm bizzoso, il pulcino,1
e quindi lotte con scambi di pugni, subito appacificate dai superior! ;
qualcun altro per far la burletta si divert! va a vociare : — Les Prussians,
les Pntssiew — e i moblots scappavano, poco curandosi dei loro arma-
mentl: ma allorche" potemmo ammirare una fuga dirotta, si fu,
i» fecero . . . il pulcino: fecero stizzire, saltare la mosca al naso.
DA FIRENZE A 0IGIONE 725
quando un cavallo del treno, ia&ciato in balia di se stesso si di& a
saltare a scavezzacollo in mezzo alia piazza. Un grido immenso,
un urtarsi, un rovesciarsi addosso ai fasci di armi, una Babilonia
insomma da far perder la testa,
Ricciotti era vicino all'Arco di trionfo, battendo i piedi e sbuf-
fando: poco piii in la un volontario consolava in italiano un bel
fior di ragazza che si struggeva in lacrime ; a poca distanza una guida
per smaltire il malumore si divertiva a pestare i calli di alcuni mo-
bilizzati che si erano sdraiati. II nimore del cannone era cessato:
la notte era fredda, ma tranquillissima; un bel chiaro di luna faceva
spiceare sul fondo stellate, nel quale errava qua e la qualche vaga-
bonda nuvoletta bianca e diafana, le purissime linec della guglia di
San Benigno . . . Le case non apparivano che incerte masse nere,
ad ora ad ora intramezzate da un lumicino, o dall'argenteo riflesso
dei raggi ripercossi sui vetri : un chiarore confuso s'innalzava sui
tetti.
O Digione, o Digione come mi apparivi cara in quel tristo mo-
mento! . . . Come mi si strinse il cuore al pensiero di doverti la-
sciare! II sangue generoso dei nostri compagni morti nelle fertili
pianure che ti ricingono, ti ha legata all' Italia! . . . Le gentilezze che
tu facesti ai suoi cari, le cure assidue, piii che fraterne, che hanno
da te ricevuto i nostri feriti, hanno a te legato Tltalia, sOh! venga
il nemico, » io pensava tra me neH'esaltazione del dispiacere « ven
ga e mi uccida qui, proprio sotto quest'arco . . . Oh! che io possa
morire piuttostoehe' di accingermi a questa dipartita fatale, che mi
fa sprezzare Pumanita, che mi fa vergognare di essere uomo »,
— Su . . . su . . . non ci e tempo da perdere, ~ mi grida il fo-
riere — alia stazione.
— Partiamo col treno? . . .
— Si, nello stesso convoglio del Generale.
Con uno sforzo sovrumano arriviamo a varcare i cancelli : un'in-
finita di mobilizzati ed anche qualche Italiano, o di rifle o di raffe,
pretendevano forzare la consegna e risparmiarsi, assoggettandosi
a degli urtoni o al pericolo di qualche partaccia, una trentina di
kilornetri da farsi colk ca\-alcatura di San Francesco.
Arriviamo sotto la stazione: li troviaxno qualche aiutante del
Generale, diversi ufHciali di stato maggiore e un convoglio . . .
quel convoglio per& non era per noi, esso era stato serbato ai feriti.
Garibaldi non era anche giunto : il generoso eroe dei due mondi
726 ETTORE SOCCI
voleva partire soltanto ailorch£ sarebbe stato sicuro che nessuno
dei suoi cari, sofferente, potesse cadere nelle mani deirinimico.
Appena partito il treno, cominciano ad arrivare nuovi stroppi :
si buttano sulle panche della stazione gemendo ed urlando ; alcune
donne prestano loro qualche soccorso o qualche conforto.
Si appresta un altro convoglio : — Speriamo sia il nostro — dice
qualcuno; si domanda al capo stazione, o a una guardia qualunque
e ci rispon.de negativamente. Allora la solita storia delle mille chiac-
chiere imitili.
— O sta a vedere, che ci prendono come salami!
— Sentite . . . ma certe ostinazioni non le si capiscono . . .
— E se andassimo in quel treno li ?
— Ma noi si ha Tor dine di star qui.
— Eppoi abbandonereste il nostro vecchio?
— E se fosse partito?
Un grido di disapprovazione copriva queste ultime parole, e il
disgraziato che sbadatamente le aveva proferite, ebbe dicatti1 a
rincantucciarsi e a non farsi piu vivo durante tutto il viaggio.
Qualcuno piu furbo di lui, ma con la stessa tremarella, mentre
gli altri si perdevano in chiacchiere, facendo lo zoppo od il monco,
entr6 in qualche vagone, gabbando le guardie e anticipando il mo-
mento di scappar di mano a quei Prussian! che Pesaltata immagi-
nazione faceva vedere a pochi passi.
La locomotiva da un fischio, ed il triste convoglio dei feriti si
dilegua ai nostri occhi.
La stazione resta un po' piu liberal ... Si attacca la carrozza del
Generale; & un vagone di prima, a cui fa seguito uno di seconda
per lo stato maggiore; e preceduto da due carri per i bagagli.
Entrano il colonnello Bossi e il Capitano Galeazzi.
— Guide: — dice quest'ultimo — che nessuno monti in questo
convoglio ... ad eccezione di voi . . .
— E dove andremo?
— Su . . . tra i bagagli.
Prendiamo d'assalto i due carri, dove ci accomodiamo alia meglio.
Dope pochi minuti subito una questione in capo del carro . » .
-— Giii . . . sacramento!
- Che
i. ebbe dicatti: si pot£ dichiarare fortunate. L'espressione k toscana e de-
riva dal latino de capto, «per guadagnato ».
DA FIRENZE A DIGIONE 727
— Siamo Italiani come voi, Dio , » .
— C'e Tordine di non far salire che Guide.
— E noi siamo della legione Tanara . . . della legione di ferro . . .
— 0 di ferro o di rame noi rispettiamo gli ordini.
— E noi siamo qui . . .
— Giu . . . giu.
E qui qualche colpo di mano e qualche pedata: quindi gran di-
scussione di ufficiali, a cui finiamo col prender parte noi tutti.
— Diamogli ragione — mi dice un Livornese, — Non vedi che
fiasca di vino hanno a tracolla . . . per strada fa comodo.
Si urla, si strepita . . , molti scendono, poi risalgono e i due non
van via ...
— II Generale! ... — grida una voce.
Tutto tace e nessuno piii pensa al meschino incidente.
All'udire che vi e Garibaldi, mi si prende uno stringimento al
cuore, e mi spenzolo dal carro onde meglio vederlo. Povero eroe ! . . .
Garibaldi era serio, ma, come sempre, serene, e come sernpre
spirante dal volto una bonta che i impossible descrivere: lo ac-
compagnava il generale Bordone, che non parti con noi; a poca
distanza da lui venivano i maggiori Fontana e Gattomo e il tenente
Grossi.
Tutti quelli che erano sotto la stazione si levarono il cappello:
il Generale, appoggiandosi su un bastoncello, stii un po* fermo e
gir6 uno sguardo malinconico alFintorno. Parl6 a lungo cx>n un
signore tutto vestito di nero, o>n barba (credo il sinda^o od il
prefetto), poi si mc^se per montare nel vagone.
Un vecchio venerando gl'impedisce Fandare per serrargli la
mano. II Generale to guarda, poi ricambia affettuosanaente la stret-
ta. Non &o perch6; ma ho voglia di piangere.
Tutti ci sentiamo comimjssi : un guardatreno grida : — Vive GaK-
bardi ... — nessuno risponde: in quell'istante ogni ewiva era su-
perfluo: la vera grande^a disdegna le facili manifestazioni del
volgo.
II Generale £ in carrozza: la locomcdva fischk: mm* in
vimento . . ,
728 ETTORE SOCCI
XIX [XXVIIl]1
. . . Macon e il capoluogo del dipartimento di Saone et Loire; in
tempi di pace e celebre per il buffet della stazione e per le mode ori-
ginali delle sue donne del popolo; in tempo di guerra noi vi tro-
vammo delle gentilissime signore che rivolgevano ogni cura per
sollevare i feriti e per recar conforto ai soldati di passaggio: in
tempo d'armistizio, come ci si capitava ora, non rinvenimmo che
bei caff^ delle donne eleganti e un giornale buonapartista ad ol-
tranza, che ci screditava facendo di noi certe biografie impossibili
e piene di una filza di menzogne.
Non sto a dire qual folia di gente invadessero i pacifici uffizi
della MairUy appena fummo arrivati. II Moire protestava, sbuf-
fava, sudava: tutti volevano esser serviti alia prima ed egli non ser-
viva nessuno: per temperamento fu deciso di dare solamente i
biglietti d'alloggio agli ufficiali : mi fo prestare il berretto dal tenente
Mussi e in poco tempo non che uno mi trovo con quattro biglietti
in saccoccia. II primo di quest! era per un marchese, il secondo
per un droghiere, il terzo per un macchinista di ferrovia, Preferii
quest'ultimo: piccato ad osservare, volevo conoscere intimamente
i sentiment! del popolo e di piii provavo il bisogno di ritemprar
la mia anima in una atmosfera serena.
Ne mal mi ero apposto: una fanciulla dalFaria ingenua, dal ve-
stitino d'indiana mi ricev6 con aria franca, poi and6 a chiamare la
mamma: questa era una vecchiarella che si perse in inchini, che
mi sgrano in faccia due occhioni grossi come pani tondi quando
seppe che io ero nato in Italia e che per andare da Macon ai confini
d'ltalia ci erano piu di duecento miglia: le due donne mi prepara-
rono una cameretta pulita, modesta, degna di accogliere una ver-
gine: non so perche\ ma quell'aria mi purificava, e non trovavo
verso di staccarmi da quelle due donnnicciole che parlavano il
linguaggio dell'ignoranza, Punico che parte veramente dal cuore.
Eravarno andati a Macon per discioglierci ;2 pure ci tennero due
i. Abbiamo soppresso i capitoli xxm-xxvn e il primo capoverso del capi-
toio xxvni. II brano presente corrisponde alle pp. 273-6 delPedizione da
noi seguita, cio& ad una prima parte del capitolo xxvm. 2. per discioglifrci:
i'armata dei Vosgi fu sciolta il io marzo, e disarmata. I volontari furono
rimpatriati. Garibaldi fu eletto deputato a Parigi, a Nizza, a Digione, ecc.
c«m due milkmi di voti, ma, accolto ostilmente airAssemblea nazionale di
DA FIRENZE A DIGIONE 729
giorni in un ozio increscioso: a romper la monotonia di quelle lun-
ghe ore venne il § Journal de Macon t. In un articolo pieno di bile
la piu velenosa, il venduto imbrattator di carte si scagliava su r*oi
in un modo veramente indecente. Dopo aver detto ira di Dio di
Garibaldi e Gambetta, I'articoUsta aveva lo spudorato coraggio di
chiamarci i cavalieri erranti della repubblica, i fannulloni Italiani
che erano andati in Francia a fare i signori, gli spavaldi guerrieri
che non avevano mai veduto il fuoco, ma che trattavano il diparti-
mento di Saone e Loire come se fosse un paese conquistato.
Mettere una mano in un alveare e scrivere quella robaccia fu la
medesima cosa! In poche ore piu di trecento Garibaldini corsero
alFufficio del malcapitato giornale. Un pagliaccio qualunque, alli-
bito dalla paura, si scusava, si profondeva in milk proteste, dava
insomma tal prova di vigHaccheria, che nessuno dei nostri voile
sporcarsi le mam col daglierle sul muso.
II giorno dopo il giornale esci fuori colle due prime colonne in
bianco: piu sotto vi era una protesta, in cui si dichiarava che la
libera starnpa deve tacere la dove regna la sciabola. £ un fatto: i
giornalisti venduti son come i rospi, bisogna schiacciarli.
Dopo tale incidente cominciava a rinascere in noi il malumore.
A che ci trattengono ? si cominciava a ripetere : forse la guerra non
& fmita ? . . . Non veggono dunque come noi cominciarno a trovarci
in una situazione abbastanza anormale ? . . . E qui gli stessi lamenti,
e gli stessi lunghi discorsi, da cui, stringi stringi, non si poteva ri-
levare che rimmenso desiderio che tutti dormnava di rivedere al
piu presto 1* Italia.
Arriva finalmente la legione Ravelli per essere disarmata; lo stes-
so giorno disarmano noi, promettendoci pel dl dopo due mesi di
paga e il congedo.
Pure quella sera fu baldoria: si trattava di tornare in Italia, di
riveder la famiglia, gli amici, e non osavamo misurare col pensiero
quelle poche ore che ci dividevano dalfistante bramato, tanta era
la nostra bramosia d'arrivarvi, M&i ho sentito Tamor di patria,
come quando ne sono stato lontano: so anche io che Tidea falsa
Bordeaux, che voile escluderio col pretesto dclla noo cittadinanza francese,
si dimise e parti per Caprera. Unka voce a lui favorevole quella di Victor
Hugo, che, mentre i deputati tumultuavano, awersi a Garifcildi, si Iev6 ad
esaltarne il valore e la generositi, dimettendosi, quiitdi, per solidarieti,
alk sua volta. Cfr. di V. HUGO, appunto, Actes et Paroles. Depuis VexU,
I, pp. 133 sgg. (delPed. Nelson).
730 ETTORE SOCCI
della nazionalita deve o prima e poi cedere in faccia a quella santis-
sima deirumanita, ma che volete? Noi, che abbiamo avuto la di-
sgrazia di nascere in un periodo di transizione, che siamo stati tirati
su colle idee vecchie, che abbiamo veduto il sacrifizio di tanti
martin, che abbiamo assistito alle lotte generose dai giovani piu
magnanimi intraprese contro i governi e contro gli eserciti stranieri
per affermare il principle della nazionale unita, noi siamo affezio-
nati piu che alia madre a quella patria che ci hanno insegnato a
rispettare piu di noi stessi gli scritti di tanti filosofi ed il sangue di
tanti eroi. Capisco tutta Timmensa poesia del futuro e mi sento
capace di sacrificarmi per la causa della liberta in qualunque luogo
la vegga afTermarsi o la vegga in pericolo, ma a conti fatti, se a
qualche straniero saltasse il ticchio di voler venire a spadroneggiare
di qua dalPAlpi, mi sento pure capace d'impugnare un fucile an-
che colla monarchia e forse collo stesso entusiasmo, con cui lo
facemmo nel 1866. Non vi nego che in ci6 si possa riscontrare della
contradizione, ma a certi sentimenti non si comanda ed il cuore,
vero rivoluzionario, non si pu6 piegare alle disquisizioni dei dot-
trinarL
Furono disarmate le legioni itaiiane (mi dimenticavo di dire che
era arrivata anche quella del valoroso Tanara), furono disarmati i
Francs Tireurs: molti di questi ultimi non volevano depositare le
loro armi: gli Spagnoli minacciarono un ammutinamento ; «con
queste armi vogliamo passare i Pirenei e mandare a spasso Tuomo
che FEuropa ha voluto regalarci per re»;r tali a un dipresso erano i
loro discorsi. E quando, ridotti a buon partito dai consigli dei su-
periori, si decisero di sciogliersi pacificamente, ci vollero stringer
la mano e dicendoci addio avevano le lacrime agli occhi . . .
i.Vuomo . . .per re; Amedeo di Savoia, secondogenita di Vittorio Eina-
nuele II t era state eletto re di Spagna dalle Cortes costituenti (16 novem-
barc 1870) e aveva a<xettato Tarduo incarico (4 dicembre). Inviso ai repub-
biicafM e mal sostenuto dai suoi, fu costretto ad abdicare Tn febbraio
1873-
DA FIRENZE A DIGIONE 7JI
XX [XXVIIl]1
A rivedercil
MiquelP ci chiama in fretta e furia, ci da i due mesi di paga e ci
ordina di partire il giorno dopo col treno delle quattro e quaran-
ta antimeridiane.
Decidiamo di non andare a dormire: vo a casa, faccio alia meglio
il mio piccolo involto, bacio tutta la famiglia dei miei ospiti, torno
dagli amici, che sono au Soldi cmich&nt,
A mezzanotte si chiuse la trattoria; girellammo come persi,
un'oretta nelle deserte vie di Macon; per passare ie altre tre, ed
essendo abbastanza assonnati, credemmo che non sarebbe stato
cosa malfatta riposare un pochino, ma quasi tutti avevamo detto
addio a coloro che ci avevano ospitato; per cui ci riducernmo in
dodici nella camera di un nostro amico: la notte antecedente alia
mia partenza di Firenze avcva un degno riscontro nelPultima che
passavamo lassu. Quattro saltarono sul letto, gli altri, me compreso,
si buttarono per terra facendo un diavoleto indescrivibile. Nes-
suno pot6 dormire; tutti ci perdevamo in congetture piu o meno
umoristiche sulle accoglienze che avremmo avuto in Italia.
Suonarono le tre e ci awiammo alia stazione : si bewe per Tultima
volta una buona bottiglia di vieux Macon e poi ci buttammo nei
vagoni a noi destinati.
La macchina fischia: il treno e in movimento: ci spenzoliamo,
quantunque sia sempre buio, per dare un ultimo saluto alia citta,
e non posslamo a meno di ripeter tra noi: Povera Francia! Si cam-
mina, si cammina per tutta la mattinata: passlamo TEst della
Francia: si arriva alia Savoia: passiamo i suoi monti, siamo colpiti
dairimmensa poesia che fanno piovere nel cuore le folte boscaglie,
gli scoecesi macigni, il verde cupo degli alberi, tutt'a un tratto in-
tramezzati da estese pianure di neve. La ferrovia va per lungo spa-
zio sul lago di Chautilbn:3 quel kgo stretto, monotono, lungo:
i. H prcsente brano cormponde a una seconda parte del capitolo
ddTedkkme da noi scguita, e precisamente alle pp. 277-82. ±. M
un sottoCencnte franccse dello squadrone di guide cui apparteneva il Socci.
Veramente lo squadrmie era comandato dal tenente Ricci di Forll, un
garit^ldino gii ferito ad AsproiKHite: ma, fuorch^ nei combattimeinti,
sp^drcme^iava il Miquelf. 3, logo di Chmtttiloni oc»i errore di grafia e di
geografk il Socd inteiade qui riferirsi al lago di Bourget, sulie cui
732 ETTORE SOCCI
quella neve, quella solitudine cosi bella nella sua orridezza ha qual-
cosa d'imponente: quanto volentieri me ne anderei sul muricciolo
di quella chiesetta che sbuca sulla cima del promontorio! La e cir-
condata da pini : una cascata che va a versarsi nel lago scaturisce a
pochi passi da lei e di lassu ci dev'essere un incantevole colpo
d'occhio. Delle mandre di pecore s'inerpicano sui sassi che le fanno
ghirlanda : il montanino vi corre per dare un pensiero ai suoi morti
e poi ne ritorna cantando le ispirate canzoni che suol dettare nej
vergini cuori la poesia dell*aperta campagna ... ah! come sarei
felice di viver lassu, lontano dal rumore del mondo, solo con le mie
meditazioni, salutando con un inno il sole che nasce, ritrovando
una lacrima, quando la squilla della sera che invita a pregar pei
morti ripercuotesse quell'aure calme, che t'incitano a esser buono
e a sperare! . . .
Mi aweggo che io, fumatore per eccellenza, ho da due ore il
sigaro spento e che non ho importunate alcun amico per avere un
fiammifero.
Giungiamo a Chambery; ci tratteniamo alcuni minuti: tanto,
perche le gentili signore della capitale della Savoia ci offrano una
refezioncella, a cui facciamo onore con un appetito invidiabile.
Altre montagne, altri boschi, Montm61ian in lontananza: ecco
cosa ci oifre il breve tragitto che da Chambe'ry ha da farsi per arri-
vare a Saint Michel. Qui ci si ferma una buona mezz'ora: fa un
freddo indiavolato: ci sembra di esser ritornati ai primi giorni
della campagna: si sale nel treno Fell,1 e ci si accinge a traversare
le Alpi.
II passaggio delle Alpi colla ferrovia Fell e una cosa imponente:
il pauroso che si affaccia al vagone in tal traversata, son persuaso
che passa un cattivo momento : ma per noi, che tanto poco curiamo
i pericoli, vi assicuro che e uno dei piu attraenti spettacoli. Tro-
varsi in cima a burroni tanto scoscesi da perder gli occhi per volerne
rintracciare la fine, vedere ogni tanto qualche picco, passare in
mezzo ad una neve perenne, osservare le centinaia di croci che in
ricordo di disgrazie awenute son seminate lungo la via, ti da un'eb-
sorge il castello di Chltillon. i. John Fell (1815-1902), ingegnere ingle-
se, venne in Italia nel 1852 e ottenne la concessione per una linea ferro-
viaria attraverso il valico del Moncenisio: e per tale scopo ide6 e fece
oostruire una speciale locomotiva per binari a dentiera. Ma la linea fu sosti-
tuita dalla costruztone del traforo del Frejus. Saint-Michel e, in Moriana,
una stazione di quella linea.
DA FIRENZE A DIGIONE 733
brezza da farti pigliare la vertigine. Ah! potenza del progresso! . . .
Quell'Alpi che Annibale e Napoleone giunsero solamente a valicare
con tanta iattura dei loro, or si sorpa&sano in poco piu di quat-
tro ore, e, quando sara compiuto il foro del Moncenisio,1 i cui la-
vori non possiamo a meno di ammirare anche trasvolando quassu,
il piu imbecille dei commessi viaggiatori superera i baluardi della
natura, fino ora detti insuperabili, nel medesimo tempo che agli
eroi ci voleva per muovere solamente di un passo una balestra o
un cannone.
Traversiamo Modane: Modane e un grazioso, bizzarre e pitto-
resco paesucolo di case di legno, di capanne fatte alia peggio, ove
abita la gran quantita degli operai che so no occupati ai la vori della
ferrovia. Ci si beve una grappa eccellente: le donne vi posson
trovare a qualunque ora un buon bicchiere di iatte.
II nostro guardatreni scende e ne sale uno nuovo, il quale fa pre
sto amicizia con noi ; ci dice in buona lingua italiana che alia mat-
tina ha accompagnato tre ufficiali dello stato maggiore italiano e
che uno scese piu avanti |>er studiar quelle posizioni. Gran me-
raviglia da parte nostra: tre ufficiali di stato maggiore che studiano,
ma dunque in Italia voglion morire?!
Vediamo il forte d'Esilles.2
— Ora siamo in Italia — mi dice il guardatreni.
Sento allargarmi il cuore: un sense di dolcezza mi corre di fibra
in fibra e ripeto, entusiasta, agli amici ; — Siamo in Italia.
— E ora ? — mi risponde uno in tono di dubbiosa ansieta.
— E ora che ? . . . — di rimando rispondo.
— Come ci tratteranno i nostri padroni?
Restai pensieroso, ma un araico, certamente piu giovine e per
conseguenza piu poeta di me, prese la parola e schiccherd questo
bel discorsino : — Come vuoi che ci trattino ? . . . lo lassu in Fran-
cia ho letto i giornali e tutti dicevano bene di noi e celebravano le
vittorie di Garibaldi: la nostra gloria, assicuratevelo, ha avuto
un'eco potente nelle nostre citta, quantunque awilite e prostrate
sotto il falso sistema che le corrompe; non siamo fu^iti; afc^>iamo
i. il foro del Moncemsio: il traforo del Fr^jus, impropriamctite detto del
Cenisio, fu inaugurate nel 1871 : allaccid con n^>ida comunkazione Bardo-
necchia a Modane. 2, Uf&rU d'Esilles: nei pressi del villaggio alpino di
Esille (francess Exilles) sorge un famoso forte sabaudo, o^i ^dibito a pri-
giooe miiitare.
734 ETTORE SOCCI
vinto: la morte ha falciato nelle nostre file con piu animazione di
quella con cui il colono falcia le spiche: poveri siamo partiti, piu
poveri siamo tornati: abbiamo affrontato fatiche che a narrarle
soltanto possono sembrare impossibili, abbiamo fatto sempre il
nostro dovere . . . come vuoi che ci accolga il nostro popolo, come
vuoi che ci accolga il nostro governo ? Abbiamo forse fatto disonore
airitalia? le glorie della camicia rossa non sono state oscurate: il
nostro debito di gratitudine verso la Francia e stato pagato; ab
biamo vinto, abbiamo tolto una bandiera al nemico, ah! non temete :
il governo Italiano non si dara per inteso del nostro arrivo, e non ci
farJt dei soprusi ... £ impossibile! ... La gloria italiana si e ar-
ricchita di una nuova pagina, e chiunque si sente balzare nel petto
un cuore che risponda degnamente a* sentimenti italiani, non potri
che applaudirci e ci applaudira nelPintimo del cuore anche il
governo!
— Va bene — gridammo noi tutti solleticati a tale speranza. —
Va bene. - Viva I'ltalia!
— Ewiva tutti coloro che non son mai mancati al proprio do
vere! . . .
— E che gli awersarii onesti sono in obbligo di rispettare . . .
— Come far& il governo Italiano!
— Susa! ... — grida in perfetto accento piemontese la guardia
della stazione.
— Ci siamo! — si grida noi tutti, emettendo un sospiro di con-
tentezza.
Scendiamo, anche avanti che il treno si fermi ; calpestiamo con
compiacenza la terra italiana; le parole semibarbare di due o tre
paesani che ci stringono la mano, ci sembrano una musica paradi-
siaca . . .
— Facciano il piacere di venire con noi — mi dice battendomi
sulk spalla, un carabiniere.
— E dove si ha andare? . . .
— Dal sor Delegato . . .
— Ho capito . . .
Povero amico! . . . Come hai speso bene il tuo fiato! . . . Segui-
tiamo i carabinieri e andiamo dal sor Delegato . . .
GUGLIELMO MASSAJA
PROFILO BIOGRAFICO
GUGLIELMO (al secolo Lorenzo) MASSAJA nacque il 9 giugno 1809
in una frazione (La Braja) di Piova d'Asti, da Giovanni, proprieta-
rio di un piccolo podere che coltivava egli stesso, e da Maria Bar-
torelli. A diciassette anni, il 6 settembre 1826, entrb neirordine dei
cappuccini e vi assunse il nome di un suo fratello prete: ed £ con
questo nome ch'egli e passato alia storia. L'anno dopo promise i voti
e, compiuto a Moncalieri il corso di teologia e fiiosofia, il 16 giugno
1832 fu ordinato sacerdote a Vercelli. Superata una grave malattia,
fu assegnato (1833), come cappellano, alFospedale Mauriziano di
Torino e ivi apprese, neiPassistenza quotidiana ai malati, quelle
nozioni pratiche di medicina che poi molto gli giovarono nella sua
opera di missionario. Aveva girato per van conventi deirordme,
quando fu chiamato (1836) a Testona (Moncalieri) come lettore
difilosofia e teologia: e rimase in quelPufficio, anche quando lo stu-
dentato si trasferi (1845) a* convento del Monte (Torino), molto
stimato e carissimo ai suoi discepoli.
Non sappiarno quasi nulla dei suoi studi in quel periodo, anche
perche egli par!6 sempre poco di se stesso. Certo, doveva essere gia
noto e apprezzato fra i cappuccini, se ne fu eletto (1844) «defini-
tore provinciates, e se nel gennaio del 1846 era in Roma, chiama-
tovi, d'ordine del pontefice, per ricevere il vicariato di una missio-
ne. Ma, piu che la sua cultura, debbono essere apparse ammirevoli
le sue doti morali, il vigore del suo carattere. Dal gennaio attese in
Roma le decision! della Curia: solo a Pasqua gli fu rivelato che gli
si affidava Tincarico di istituire una nuova missione tra i popoli
Galk, abitanti fra le sorgenti del Nilo Axzurro e del Nilo Bianco.
Era stato uno scienziato francese, Antoine D*Abbadie, vissuto a
lungo in Abi^inia, a proporre e caldeggiare quelk nuova missione,
in una sua lettera alia Sacra Congregazione De propaganda Fide:
e la scelta deiruomo cui affidare Tapostoiato era caduta sul Mas-
saja. Sebbene riluttante per umilta, fu consacrato (24 maggio 1846)
vescovo di Cassia, in part&m infideUum^ e, assegnatigli tre compa-
gni del suo ordine e un frate kico, parti il 4 giugno 1846 da Ci
vitavecchia verso quelle terre d' Africa che poi lo videro compiere,
per trentacinque anni, un'opera cosl alta e rnirabile da sembrare,
in roiltit, una miracolosa epopea.
47
738 GUGLIELMO MASSAJA
II Massaja partiva dall* Italia quando Gregorio XVI spirava, dopo
aver detto parole d'incoraggiamento, sul letto di morte, all'umile
cappuccino missionario. Solo al Cairo seppe dell'elezione di Pio IX
e delle grandi speranze che aveva subito destate fra i liberali: ma
ormai egli volgeva lo sguardo non piii ai problemi dell'Europa,
bensi a quelli dell* Africa. E del resto le sue idee, rigidarnente con-
servatrici, lo tenevano lontano dai problemi che il Risorgimento
agitava fortemente in Italia.
Chi segua e ripensi il suo grande apostolato in Africa, per com-
prendere e ammirare Tuomo, il religioso, il missionario, deve ri-
mmziare ad inserirlo nei movimenti e nelle correnti ideali del
nostro paese, anche in quelle di opposizione. Egli svolse un'opera
che sotto vari aspetti ha il suo vero sfondo soltanto negli aweni-
menti di quella parte dell'Africa ove compi6 il suo apostolato: al
resto del mondo e della storia lo legavano solamente la sua fede reli-
giosa, la sua aha morale cristiana, la sua obbedienza totale alia
Chiesa. Anche se poi ebbe contatti con le maggiori personalita po-
litiche europee e la sua conoscenza delPAfrica orientale fu utilizzata
a fini politici e commercial i, bisogna riconoscere che ci6 fu soltan
to frutto indiretto della sua azione e che egli, invece, mir6 unica-
mente a difFondere in quelle terre lontane la religione e la morale
cattolica.
Questa osservazione credo possa giovare anche a riconoscere
i limiti e caratteri della sua cultura, interamente poggiata sui testi
religiosi : e altresi a intendere molti aspetti del suo stile, lontanissi-
mo da influssi letterari, disancorato, almeno come consapevolezza,
dalle correnti deila prosa del tempo.
Le sue prime esperienze in Africa furono assai dure. Soltan
to il 25 ottobre del 1846, dopo itinerari faticosissimi, giunse a
Massaua, ove si incontro col grande missionario Giustino De Ja-
cobis, venutogH incontro da Gual£ neirAgamien, che era il cen
tre della propaganda religiosa in Abissinia, e dove il Massaja si
rec6 intanto con lui, per studiare quale fosse la migliore via di
raggiungere i Galla. La situazione dell* Abissinia era in quel mo-
npento difficilissima: ras AJy, vero capo, in quel momento, della
jnegione, era in guerra col degiac Ubi^ che gli si era ribellato. Ca
po dei copti era da poco il vescovo Abuna Salama, uomo corrotto
e politicante, timoroso delParrivo di un vescovo cattolico, e che
subito, alFannunzio delFingresso del Massaja in Afric^ gli aveva
PROFILO BIOGRAFICO 739
lanciato contro la scomunica chiamandolo ironicamente Abuna
Messias, e minacciando d*interdetto ogni popolo e principe che
gli dessc aiuto e ospitalita. Gia da allora la posizione del Mas&aja
si rivelo irta di difficolta e pericoli, compiicata da ripetute fughe e
travestimenti, fra persecution! e minacce. Solo alia fine del 1849,
dope dolorose vicende, egli pote giungere al campo di ras Aly e
riccvervi Fordine di andar a chiedere la protezione della Francia,
condizione necessaria perche 1'opera missionaria potesse ottcnere
appoggio e libera azione attraverso il territorio dell'Abissinia. Nel
gennaio del 1850, il Massaja si nascose tra i pastori Zellan, rag-
giunse Ifagh, si port6 nel Waggara, fu di nuovo a Massaua nel
marzo, ne parti per Aden, il cui vicariato gli era stato aggiunto a
quello di Cassia, ritorn6 in Europa.
La sua prima esperienza africana e finita. In Francia e accolto
con ammirazione ed entusiasmo: uomini politici, militari, associa-
zioni lo cercano, lo ascoltano, chiedono a lui cx>nsigli e pareri; lo
stesso Luigi Napoleone, allora pre&idente della seconda Repubbli-
ca, lo vuol conoscere. Gli vien chiesta una rclazione riservata sulla
situazione in Abissinia, e insieme una pubblica, che col titolo La
propaganda mwsulmana m Africa e nelk IwMe, venne effettivamen-
te stampata (vedi G. FAIUNA, Le lettere del cardinal? G. Massaja*
Torino, Berruti, 1937, nn. 123-48), ed apparve densissima di pen-
siero e di giudizi. L'esattezza e la chiarezza con cui egli penetrava
nei problemi dell' Africa e dell'Qriente sembrarono tali agli uomini
politici francesi, che furono fatte molte pressioni su lui perche^
rimanesse in Europa, a farsi guida e consigliere sui problemi afri-
cani e orientali. Naturalmente, rifiut6, ansioso di tornare a svol-
gere la sua opera missionaria, di raggiungere il territorio assegna-
togli dei Galla. In reaita, egli vedeva quei problemi con animo e
fini da missionario, timoroso della penetrazione mussulmana in
Africa soltanto per le sue conseguenze religiose e morali: unica-
mente per mera coincidenza, piu che naturale del resto, le sue
preoccupazioni e i suoi giudizi illuminavano anche Faspetto poli
tico dei problem! rrtediterranei e africani.
Le accoglienze di Londra, i o>lloqui con Lord Palmerston, col
ministro ii^lese della marina rinnovarono i trionfi parigini. II pe-
ricolo di essere trattenuto in Europa al Massaja sembro allora,
man mano, piu grande, ed aifrett6 la partenza. II 4 aprile 1851 parti
da Marsiglia, il 13 era di nuovo ad Alessandria.
740 GUGLIELMO MASSAJA
Questo secondo viaggio in Africa si svolge in modi anche piu
complessi del primo. Anzitutto, scioglie un voto e appaga un an-
tico desiderio: si reca a Gerusalemme, sale ii Calvario, quasi a
chiedere la protezione soprannaturale per Timpresa che doveva af-
frontare. E sul Calvario, dagli alberi che videro il sacrificio di Cri-
sto, come egli stesso scrisse, si taglia il bordone che lo accompa-
gnera e sosterra per tutta la vita, ed e ora conservato nel convento
di Frascati, cimelio della sua altissima impresa. Tornato ad Ales
sandria, si traveste all'araba, col rosso fez dei mussulmani, assume
il nome di Giorgio Bartorelli (il casato materno), si finge mer-
cante. Da questo momento si inizia la lunga lotta, fatta di coraggio
e di astuzia, per giungere tra i Galla, nonostante il divieto di Abuna
Salama. II 24 giugno 1851 parte in una barca sul Nilo, visita il mo-
nastero copto di Sant* Antonio, ne fa fuggire un giovane allievo
della missione De propaganda Fide che vi era stato rinchiuso, ri-
prende la via del fiume tra mille disagi, cerca di raggiungere i Galla
girando ad ovest delFAbissima, per Metamma, Doca, Gadaref,
Kiri. Una via impossibile, pericolosa, interrotta da incontri mi-
nacciosi, da scoppi di fanatismo, da malattie: e obbligato a tornare
indietro, a ritentare. Riprende speranza. Viaggia come «un pic
colo mercante di aghi e di forbici », ma la sua qualita di cristiano e
sempre motivo di pericolo: un intero mercato, a Luka, lo assale.
A stento salva la vita, ma e costretto a tornare a Metamma. Ne
basta, che, ad aggiungere ostacoli, sopraggiungono le guerre interne
in Abissinia: comincia la ribellione del degiac Kassa (il futuro
Teodoro) contro ras Aly, e la implacabile guerra rende ancor piu pe-
ricolosi i viaggi. Eppure, proprio ora il Massaja decide di raggiun
gere i Galla per la via piu difficile, attraverso PAbissinia e il Gog-
giam, sempre piu a sud, fino alle terre del suo vicariato. £ una ri-
soluzione ardita, forse temeraria, ma « awenga ci6 che Dio vuole »,
come scriveri in una sua lettera, si awia per il viaggio. Nel-
1'agosto ^ a Ifagh dove le piogge lo fermano: il melasnti (capo
del villaggio) Maquonen gli e generoso di aiuti, ed egli intanto, pur
conservando Tincognito, svolge la sua propaganda cattolica, spe-
cialmente fra le vicine tribu dei Zelkn. II 23 agosto 1852, sempre
col nome di Bartorelli, accompagnato da un figlio di Maquonen
come porta-parola, dal servo Giuseppe e dal portatore Tokk6, ri-
prende il cammino. Per via altri giovani vogliono seguirlo. Varca
Pansa settentrionale dell^bbai (Nilo Azzurro), giunge a 2^emie,
PROFILO B1OGRAFICO 741
vi ritrova il cappuccino padre Cesare, e accolto generosamente dal
fitorari Workie-Jasu, riposa firialmente del lungo viaggio. Poi, il
21 novembre 1852, nprende la strada e passa infine Fan&a meri-
dionale delFAbbai, il 27 novembre, entrando nelle terre della sua
missione. £ il momento piu solenne delFimpre&a: abbandona il fez
e gli abiti arabi, veste il saio religiose, innalza al cielo il Te Deumt
fra lo stupore dei compagni. Ormai pud iniziare il suo apostolato.
Nel Gudru, presso Asandabo, sorge lentamente, con Faiuto di
un ricco capo, Gama-Moras, la sede della missione, quasi un intero
villaggio con capanne, cappella, officine, un'ampia chiesa rudimen-
tale dove gia nel gennaio del 1853 si pu6 celebrare la messa. E a
raggiungerlo, intanto, giungono padre Felicissimo da Cortemilia
e Tindigeno padre Michele Hajlu. Per tre anni il Massaja svolge
un'altissima opera di apostolato nel Gudru : e Fanimatore e il pre-
dicatore, la sua parola trova le vie piu efficaci per giungere alFani-
mo dei giovani, il suo esempio esercita una meravigliosa attrazione.
Cura i malati, innesta il vaiolo, pacifica e consiglia, studia e possiede
la lingua degli indigeni : e, siccome essa e soltanto parlata e non
scritta, rende con precisione, mediante Falfabeto latino, tutti i suo-
ni della lingua galla, fino a comporre una grammatics oromonica
(galla) in lingua latina, ad uso dei missionari : un'opera che saiii
poi stampata a Parigi nel 1867. Intanto invia piii a sud alcuni
sacerdoti, per compiere Topera di apostolato: nell'Ennerea^ dove
ha grande autorita Abba Baghibo, a Lagamara dove un capo loca
le, Abba Gallet, invoca 1'arrivo dei missionari.
Ai primi di settembre del 1855 il Massaja lascia I*orrnai salda
rnissione del Gudru e si awia a Lagamara. Un viaggio che dur6
tre mesi, fra le accoglienze festose degli abitanti di Kobbo, di
Loja, di Gomb6, di Giarri, traversando la palude Cioma che egli
chiamo il lago Verde: e ovunque predica, cura, innesta il vaiolo,
fa proseliti, pacifica, battezza. Quattro anni dur6 il suo apostolato
a Lagamara; un periodo di grandi frutti, ma anche di dolori e lotte,
carestie ed epidemie, ch'egli affront6 con altissimo spirito.
II 4 aprile 1859 parte per FEnnerea e vi o>macra vescovo padre
Felicissimo Cocino, gi^ inviato da lui in quelle terre. Dope essersi
fermato ad Afallo, il 2 ottobre 1859 entra nel tenitorio dei Kaffa,
che sara la zona piu meridionale della sua missione, e vi svolge
una intensa opera di apostolato: due anni di mirabile kvoro,
tra sacrifici e predi^zione, assistenza materiale e morale. Non
742 GUGLIELMO MASSAJA
diffonde soltanto la fede, ma la civilta: e il messaggero e il maestro
di piu alte forme di vita. Opera con la finezza e discrezione di un
grande diplomatico, ma in realta & guidato soltanto da amore e
comprensione umana, da un'acuta intuizione deiranimo di quei
popoli ai quali vuol portare la luce. Ne studia la lingua e tenta
di fare per il koffino cio che ha fatto per il galla; si interessa di
zoologia e di botanica, di meteorologia e di agraria, tentando col-
tivazioni nuove. Non ha carta su cui scrivere, e se la crea con le
foglie di cocao, la pianta indigena del pane; non ha inchiostro, e lo
fabbrica con Forzo carbonizzato e la gomma arabica; non ha penna,
e si serve di quelle degli uccelli. Ci6 che stupisce e la continua in-
ventivita del suo spirito, il suo far tesoro deU'esperienza, il suo spi-
rito d'osservazione, al di sopra d'ogni cultura.
Ma la mutabiliti dei capi locali lo fa cacciare in esilio. II 7 set-
tembre 1861 e costretto a ripartire per TEnnerea e, di li, morto il
suo protettore Abba Baghibo, a ritornare a Lagamara, alia fine del
gennaio 1862. Dovunque e accolto trionfalmente nei villaggi in cui
gia vastissima e stata la conversione, e quasi leggendaria e divenuta
la sua figura. Risale lentamente da Lagamara verso il Gudru, verso
la grande stazione missionaria di Asandabo, verso il protettore
Jndigeno Gama-Moras. Pure, nello sfondo, ad atterrire i capi abis-
sini di ogni terra, si e ormai sollevata la figura di re Teodoro, che,
conquistate vaste zone, e divenuto il terribile e crudele signore di
tutta TEtiopia. Per restarvi a continuare Papostolato, e necessario
il suo consenso. E percio il Massaja si avvia verso il nord. Nell'alto-
piano di Nagala e incatenato dai soldati di Teodoro, trascinato,
fra durissime sofferenze, alia presenza del sovrano. Tutto sem-
bra perduto: forse anche la vita. Ma il cappuccino, nelPincontro
col tiranno feroce, appare piu forte di lui, ne vince 1'animo ostile.
II re lo trattiene con se* fino al 20 luglio 1863, poi lascia che muova
verso la costa dell'Eritrea, dove finalmente egli arriva fra disagi,
pericoli e malattie che lo hanno ridotto Pombra di se stesso.
II secondo viaggio e apostolato africano e ormai finite. II 2 feb-
braio 1864 il Massaja e al Cairo e, dopo una visita a Gerusalemme,
torna in Europa nelFaprile dello stesso anno. Certo, quei suoi
coatimii viaggi, tra il 1864 e il 1866, dal Piemonte alia Francia e
vkeversa, il suo colloquio con Napoleone III, debbono aver mi-
rato allora ad ottenere aiuti, di danaro, di sacerdoti e di educatori,
per la sua missione. Ma forse aveva anche sperato che gli uomini
PROFILO BIOGRAFICO 743
politici agevolassero la sua azione con accordi ed inte&e che gli ren-
dessero favorevole, per la sua opera, Teodoro. £ solo una ipotesi,
in quanto ancora molti aspetti della vita e dell'azione del Massaja
restano oscuri: e precisamente i suoi contatti con i governi europei,
e anche molti di quelli che ebbe col Vaticano. Ma forse T ipotesi
pu6 trovare appoggio nella brevita del suo terzo viaggio in Africa:
tomato a Massaua nel 1866, nel 1867 era gia di nuovo in Europa,
a Roma prima, per due mesi, e poi, brevemente, a Parigi, a Lio-
ne, a Marsiglia.
Sappiamo che a Massaua aveva trovato lettere da Roma e da
Marsiglia K che richiedevano la » sua « presenza in quelle due citta % e
che in conseguenza fu ® obbligato a mutare disegni ed apparecchiar-
si a quel nuovo e lungo viaggio ». Ma anche piu important! delle
lettere ricevute a Massaua, furono le rx>tizie che vi apprese sulla
situazione abissina. Teodoro, spezzato ogni rapporto con gli Ingle-
si, imprigionati i loro rappresentanti, si era tirata addosso la spe-
dizione punitiva di Sir Robert Napier ; lo Scioa, il Tigre, gli Uollo
Gaila gli si erano ribellati; il terribile sovrano si ritirava ormai
nella fortezza di Magdala. Era una situazione di versa, che sconvol-
geva forse tutti i progetti delineati dal Massaja nel suo precedente
viaggio in Europa, e ne richiedeva di nuovi.
Le ragioni e le finalita di questo improwiso ritorno in Europa
restano, comunque, poco chiare, anche perche non si hanno a
disposizione lettere e documenti di quel periodo. II 6 settembre
1867, del resto, gi& ripartiva da Marsiglia. In Egitto ricevA let
tere da Menelik, il diciannovenne sovrano dello Scioa, che lo in-
vitava a raggiungerlo attraverso la via meridionale di Zeila, dove
avrebbc potuto affidarsi a un capo locale, Abu Bekr, per 1'orga-
nizzazione di una carovana, e dove gli sarebbe andato incontro
un emissario di Menelik, Ato Mekev. Le ruberie e le astuzie di
Abu Bekr e poi d'un suo figlio, il camrnino penoso della caro
vana, finalmente, dope lunghi indugi, partita da Ambabo, presso
Gibuti, il i° febbraio 1868, alleggerita e depredata dei suoi bagagli
fino all'mverosimile, taglie^iata in ogni modo, resero il viaggio
awenturoso, pieno di o>ntinui pericoli. Dopo tanta sete, fame, di-
sagi e minacce, il Massaja giunge a Licc^, al ghebl di Menelik, ^
ricevuto dal sovrano il 6 marzo 1868, con grandi profferte di aiuti
e favori. Ma intanto il dramma di Texxloro si compie, Magdala
cade in mano agli Inglesi, i quali trovano che il terribile
744 GUGLIELMO MASSAJA
si £ gi& ucciso. Certo il Massaja fu allora consigliere e guida del re
dello Scioa, il medico e Fapostolo delle genti di quelle terre, e istitui
a Licce stesso, a Finfinni, a Gilogov, nuovi centri della missione.
Pure, la situazione generale della missione divenne assai presto
preoccupante. Scomparso Teodoro, un nuovo signore si andava ra-
pidamente affermando nella zona settentrionale, quel Besber Kas-
sa, capo del Tigre, cui gli inglesi di Lord Napier avevano lasciato
gran parte delle loro armi e che, gi£ riuscito vincitore di un avver-
sario locale, si faceva coronare sovrano nella citta sacra di Aksum,
col titolo di Giovanni IV. Menelik stesso, dopo varie speranze e
tentativi di contrapporglisi, sara costretto a riconoscere il nuovo
signore, a rendergli omaggio.
Vittime di questa nuova situazione politica furono il Massaja e il
suo apostolato. Sembra certo che il Massaja abbia sperato di raf-
forzare Findipendenza di Menelik, di fame il baluardo delle missio-
ni: possono esserne prova, in campo politico, Fambasceria di Mene
lik al re d'ltalia, Farrivo nello Scioa della spedizione Antinori e, piu,
del capitano Martini e di Antonio Cecchi; in campo religioso, gli
aiuti e gli appoggi dati assiduamente da Menelik al Massaja e alle
missioni, le sue lettere al pontefice. Un periodo, questo, che rima-
ne ancora non ben precisato, per la mancanza e Finaccessibilita di
molti documenti. Ma, se anche vi furono speranze, la situazione
precipitd rapidamente. Piegatosi ormai Menelik a Giovanni IV, fu
necessario sacrificare le missioni alia volonta del nuovo sovrano.
Un congresso religioso copto nello Scioa (settembre 1878) rinnego
Fopera del Massaja; il re stesso lo invitb a recarsi dalFimperatore.
Lungo il viaggio, iniziato il 27 giugno 1879, Fapostolo dei Galla
vede crollate ad una ad una le sue missioni, distrutta la sua ope
ra di tanti anni, dispersi i centri di civilta che aveva faticosamente
creati. Non e facile immaginare quali sofferenze ed umiliazioni
accompagnarono il suo cammino. II 5 agosto giunge a Debra
Tabor: Giovanni IV lo riceve duramente, ordina a lui e ai suoi di
aspettare in un vicino villaggio la fine delle piogge e di ritornare
subito dopo nei loro paesi d'Europa. II 9 ottobre 1879 comlncia
Fesodo: da Metamma a Gadaref a Kassala, sul percorso del Sen-
naar, e una via di dolori e patimenti. II Massaja 6 ridotto uno sche-
letro: viaggia ormai dentro una cassa legata su un cammello. Ar-
riva a Massaua il 6 febbraio, quasi ridotto agli estremi, in un tor-
fisico e morale che fa pena anche agli infedeli.
PROFILO BIOGRAFICO 745
Non rivedra piu TAfrica. Da Suez si fa trasportare a Gerusalem-
me: sul Calvario, all' Agnus Dei* perde i sensi e cade a terra. Dope
aver visitato alcune localita dell'Oriente, T8 luglio del 1880 sbarca
a Marsiglia, 1*8 settembre e a Roma, chiamatovi dal pontefice
Leone XIII: un incontro e un abbraccio in cui la commozione lo
vince. La sua vita gli sembra veramente conclusa, come egli stesso
dice poggiando la fronte sulla tomba degli apostoli in San Pietro :
cursum consummate. Eppure la sua fibra sembra fatta di acciaio:
vivra e operera per altri nove anni ancora.
Nel 1884 il Massaja fu create cardinale. A lui sembro un onore
eccessivo e immeritato, ma forse nessuno interpreto il giudizio
universale su quella nomina quanto padre Mauro Ricci delle
Scuole Pie: «Lo stesso cardinalato, la piu alta onorificenza per un
uomo di Chiesa, non fece che uguagliare a 60 e piu persone certa-
mente rispettabilissime tutte, lui, per cuore, per carattere, nei
nostri tempi, e per grandezza d'animo, solo! » (vedi G. FARINA, Le
letter e del cardinale G, Massaja, cit., n. 396).
Dapprima il Massaja dimoro a Roma, nei convento del suo or-
dine in piazza Barberini: e li, per volonta del pontefice, si pose a
comporre, sebbene stanco e sofferente, quelle memorie di tren-
tacinque anni di apostolato in Etiopia, che lo assorbirono per lun-
ghe ore del giorno e della notte, dal 1880 al 1885. Gli era accanto,
come segretario privato, padre Giacinto da Trojna, ma il inano-
scritto deU'opera fu tutto di suo pugno. Dal gennaio del 1884 si
fes& definitivamente a Frascati, nei convento della RufRnella: k
morte lo raggiunse a San Giorgio a Cremano, sul golfo di Napoli,
dove si era recato a trovar sollievo dopo un primo attacco di con-
gestione cerebrale, il 6 agosto del 1889.
£ impc^sibile dare un giudizio sicuro, e tanto piu sotto Taspetto
letterario, della sua opera : Pedizione a stampa che ne abbiamo sem
bra divergere notevoimente dal manoscritto, come precisiamo oel-
la Nota d testo, posta in fine al presente volume. Ma se ci fermia-
mo all'opera quale ci e dato di leggerla, essa i gia di natura da de-
stare la nostra ammirazione e il nostro piu vivo interesse. Nessuna
cura letteraria, certo, e anzi, a volte, parecchie imperfezioni stili-
stiche e sintattiche, le quali fanno pensare al frequente uso che, sia
del francese sia delle lingue indigene d^Africa, ebbe a fare per lun-
ghi anni il Massaja. Pure, crediamo il lettore moderno non cerchi
Farte in questo aspetto formale : vi sono pagine che creano scenari
746 GUGLIELMO MASSAJA
efficacissimi, di luoghi, di ambienti, di costumi; ritratti vigorosl di
personaggi, come quelli, ad esempio, di re Teodoro e del neofita
Gabriele; una penetrazione mirabile deiranimo degli indigeni, dai
piu elevati ai piu umili. E le vicende vi sono svolte in una loro pro-
gressione drammatica, che perde molto dalla necessita di ridurle ad
una scarna scelta antologica, Direi che Fopera, anche se letta come
un libro di awenture, si pone degnamente fra le piu interessanti
che abbiano scritto i nostri viaggiatori ed esploratori dell'Ottocento.
Ma anche piu grande ammirazione desta la pietas, Fanimo del
Massaja, costantemente rivolto a un fine di apostolato religioso.
Quel cappuccino che percorre terre inospitali, fra mille pericoli,
quasi sempre a piedi nudi, cibandosi miseramente, e si tiene stretto
alia sua fede e alia sua missione, e si fa per essa apostolo, operaio,
infermiere, agricoltore, ricorda continuamente le grandi figure apo-
stoliche dei primi tempi del Cristianesimo : le ricorda soprattutto
nella sua umilta e nella sua fiduciosa rassegnazione. Certo, le sue
idee illiberali, il suo sdegno e sospetto per le costituzioni de-
mocratiche e le riforme che si attuavano allora in Europa, fino
a lamentare come un male Fabolizione della pena di morte, tur-
bano a volte il lettore. Ma il lettore, in questo caso, guarda e
giudica con un*esperienza che il Massaja non ebbe, tanto piu che,
separate dalFEuropa fin dal 1846, egli necessariamente conserv6
gFideali della sua prima formazione, e perci6, sotto questo aspetto,
non di un settantennio, ma di piu di un secolo rimase anteriore ai
nostri tempi. D'altra parte, & oltremodo interessante vedere F Eu
ropa e i suoi awenimenti, tra i quali non ultimo il Risorgimento,
contemplati e giudicati da un religioso lontano e disgiunto per mi-
gliaia di chilometri.
Per tutte queste ragioni, e anche per il candore che le anima, ab-
biamo creduto che in una scelta di memorie delFOttocento non
potessero mancare alcune almeno delle nobilissime pagine scritte
dalPapostolo dei Galla.
Per la sua opera, vedi GUGLIILMO MASSAJA» / mid trentacinque atmi di mis-
«w»ttf mi? Aha Etiopia, in 12 voll, Roma, Tip, Poligotta, e Milano, Tip.
S. Giuseppe, 1885-1895. Piu facilmente accessible, Fed. Roina, Coop,
tip. Manuzio, 1921-1923.
i tutti i trattati di storia e geografia delF Africa danno il dovuto ri-
airazione svolta dal Massaja fra i popoli deirEtiopia: ancora insuf-
PROFILO BIOGRAFICO 747
ficienti, invece, sebbene numerosi e a volte pregevoli, ci sernbrano gli studi
direttamente rivolti alia figura e alFopera del M«ssaja. Ci6 dipende soprat-
tutto dall'essere ancora intcce&sibih o dcfinitivamente perduti qiiei docu
ment! e quelle corrispondenze che potrebbero megliochianre alcuni atpetti
dclla sua altissima opera, soprattutto nei suoi nrles&i pohtici. Molto po-
trebbe giovare allo scopo, crediamo, la pubbhcazione del Journal dt mon-
signer De Jacobis, il cui manoscritto e tuttora inedito nell'Archivio scgrcto
vaticano.
Tra i lavori dedicati al Massaja citsamo anzitutto Taccurata biblic^fra-
fia di S. CULTRERA, Gli scrittori Italians e d cardinal? Massaja, Roma» " II
Massaja-*, 1948. Degli studi, in parte elogiativi e occasional!, in parte
divulgativi della sua opera, e in parte gia awiati su un piano storico e cri-
tico, citiamo: R. BONGHI, in * Nuova Antologia*, i° settembre 1^89; G.
DA MASSA, Ungrande apostolo dftt'Afrifa, Lucca, Tip. ed, G, Gtusti, 1928 ;
L. GENTILE, Uapo$tdo dti Galla. Vita del cardinale G. Mastaja, Torino-
Roma, Marietti, 193 13, opera che e stata anche tradotta in tedesco; R, Di
LAURO, Elogio del cardinal* Mastaja, Xapoli, Clet» 1932; E. GIANAZZA, G.
Massaja missionario ed esploratore neU^Alta Etiopia* Torino, Paraviaf 1932,
iQ39r 1941; G. GALBIATI, // cardinal Massafa, Roma 1936; C. SALIGSM-
MI, Un grande italiano in Abitnma^ Firenze 193^; G, FARINA, Le letter e
del cardinale G. Ma$$aja, con prefazione di P. Badoglio, Torino, Berruti,
1937; E. MARTIRE, Ma$$aja da vicsn&t Roma, Ra»egna rotnana, I937J O.
BUONOCORE, Tre africamsti cla$$icit Sapeto, DeJacMs, Massafa^ in « La cul-
tura *» Napoli, gennaio 104° \ O. REALI, U opera $&c%ah del cardinale Mas&aja
tra i Galla, Roma 1940; S. CuLTRiRA, II cardinal* G. Mawaja e Vepera sua,
Roma, « II Massaja»T 1940; M.C. BISCOTTINI, L* Italia in Etiopia aU'epoca
di G. Massaja. Attmta pditica e mitriamaria, Rotna, Ed. del « Giornale di
politica e letteratura^, 1941 ; E, COZZANI, Vita di G. Mas&aja, nella colk-
zione «I grandi italiani d'Africa*, Firenze, VaJlecchi, i, agosto 1943, n,
maggio 1944; D, RuscoNi, In Africa suUe orme del Maszafa, Roma, « II
Massaja », 1952.
DA «I MIEI TRENTACINQUE ANNI DI MISSIONE
NELL'ALTA ETIQPIA*
AL MONASTERO DI S. ANTONIO1
Se fossi state un semplice viaggiatore secolare, con Tunico e solo
scopo di studiare quei luoghi, il viaggio del Nilo,2 fatto con tanta
liberta e sicurezza, mi avrebbe dato argomento a molte e variate
osservazioni ; ed ai miei lettori avrei potato offrire descrizioni e
fatti assai curiosi ed interessanti intorno a quei luoghi, che forse
non si trovano in altre narrazioni gia pubblicate. Ma, essendo io
un missionario cattolico, gli studii puramente scientific! e naturali
non potevano essere il mio principale scopo: avea a pensare a
tutt'altro che alia natura.3 Tuttavia era impossible non occupar-
mene punto: ma se tutto ora volessi dire, questa storia andrebbe
troppo a lungo; dappoiche, pel solo viaggio del Nilo sino a Kartum,
non basterebbe un volume. Inoltre, scrivendo ventinove anni dopo
che feci quei viaggio, e sperdute, per la persecuzione sorTerta in
Kaffa nel 1861, tutte le note prese intorno ad esso, ben poco po&so
ricordarmi delle cose particolari ivi osservate. Son costretto adun-
que restringere notevolmente la mia narrazione, e lasciare molte
cose che vidi e mi accaddero lungo quei viaggio, non prive forse
d'interesse; poiche n£ anco ricordo i nomi di alcuni paesi e case di
missione poste sul Nilo, e dove ci fermavarno a passare la notte. Dei
luoghi e delle fermate principal!, conservandone ancora una qual-
che reminiscenza, posso dime con precisione le particolariti e gli
accidenti piu notevoli.
2. Si era convenuto col Reis4 di continuare il viaggio anche di
notte, se il vento ci fosse spirato favorevole, e Tacqua del fiume
non si fosse trovata divisa in diverse correnti, come spesso suole
accadere nel Basso Egitto: ed i primi quattro giorni, quantunque
i. Ed. cit., vol. n, cap, n, pp. 18-32. 2. HviaggsQ&l NU&: il Massaja ini-
ziavm aliora (24 giugno 1851) il suo secondo viaggio fhiviale africaiK), dal-
TEgitto verso i luoghi del suo vkariato (vadi ii Profilo bic^rafico). 3. gX
studti . . . natura: in realti, il Massaja non indugia mai, nelk sua opera, su
problemi geografki e scientific!: pure, sooo numerosissimfi le sue osserva-
zioiii, aitche se marginal*, su questioni ctniche, giottologiche, geograBche,
botaniche, zoologiche, e dalla rtarrazione stessa si intuisce quanta ricchis-
sima e&perienza egii aequist6 anche su questi ^x^ti dei pa^si visitati.
4. Rtis: vedi k nota i a p. 19; qui, il capitano delk imbarcazione.
750 GUGLIELMO MASSAJA
si naviga&se contra acqua,1 il viaggio, sia di giorno che di notte,
fu felice ed anche celere. Ma di mano in mano che si andava piu
in alto, cominciavamo ad incontrare difficolta abbastanza gravi,
principalmente di notte. In certi luoghi 1'acqua era si bassa, e la
corrente del fiume si forte, che bisognava dalla spiaggia tirare la
barca a mani, per farla montare; e questo lavoro non poteva farsi
che di giorno. Piu, un altro pericolo rendeva impossibile il viaggiar
di notte. Lasciato il Cairo, per cinque o sei giorni di corso non si
trovano nel Nilo coccodrilli ; ma salendo piu in alto, il fiume ne e
cosi infestato, che i marinari, appena si fa buio, son costretti a
prender terra, e passare la notte al sicuro. lo inoltre non aveva fu-
cili, almeno per ispaventarli, come la si usa fare; e di uno che tro-
vavasi nella barca, non potevamo servirci per mancanza di polvere.
Per questi motivi adunque mi dovetti contentare di viaggiare sola-
mente il giorno, e passare la notte in qualche villaggio delle sponde.
II che recava molto piacere ai miei marinari, che in mezzo a quelle
popolazioni trovavano a divertirsi lecitamente ed anche illecitamen-
te, senza che io potessi dir parola; poiche", essendo solo, ed in balia
di loro, inutilmente e forse con pericolo avrei fatto rimostranze.
3. Dopo dieci giorni di viaggio, cio& il 4 luglio,2 si arriv6 ad una
citta posta sul Nilo, di cm non ricordo il nome. Vi era un coman-
dante civile ed un vescovo copto,3 ed una casa di missionarii catto-
Hci. Mi recai pertanto a visitare prima le due autorita; i quali,
vedendo le lettere di raccomandazione, di cui era proweduto, mi
accolsero ambidue con ogni riguardo; anzi il vescovo impresse
un rispettoso bacio sulla lettera del patriarca, che gli mostrai. Ma-
nifestando loro il desiderio di voler visitare il monastero di S. An
tonio,4 H pregai a darmi qualche raccomandazione particolare per
quel luogo, ed essi mi promisero ogni agevolazione. II prefetto del
piccolo convento del Cairo mi avea dato una lettera per quei mis-
i. contra acqua: contro corrente. 2. 4 luglio 1851. 3. vescovo coptoi col
noine di copti si indicano gli Egiziani e gli Abissini di religione cristiana, ma
seguaci della dottrina roonofisita (vedi la nota i a p. 772). Dipendevano dal
patriarca di Alessandria, che risiedeva al Cairo. Nella liturgia delta Chiesa
copta m. adopera ancora 1 'antics lingua omonima, non piu usata da alcun
popolo, e che fe una trasformazione dell'egiziano con larga inserzione di
dementi greci. 4. S, Antomo abate, detto « il padre dei monaci », fu Por-
ganizzatorc delle comunita anacoretiche in Egitto. Nato, secondo la biogra-
fia cfee i>e sorisse sant'Atanasio, nel Medic Egitto, si ritir6 diciottenne a
vita eremitica e, seguito presto da vari discepoli, pass6 gran parte della sua
estslmza ueJk solitudme e nelk pregiiiera. Mori nel suo eremo, presso
Afoexlflopoli, c4ti?e i! Nilo, a!Pet& di centocinque anni, nel 336.
MISSIONS NELL'ALTA ET1OPIA 751
sionarii, nella quale io era raccomandato come prete cattolico, che
mi recava con finto nome a Kartum. Mi portai pertanto alia lore
casa, ma essendo assente il missionario europeo, trovai an prete
copto indigene, il quale mi ricevette bene, e m'invito a desinare.
Sentendo la mia intenzione di voler visitare S. Antonio, disse non
esser cosi facile il penetrarvi, tranne che non mi fosse riuscito di
ottenere dal vescovo copto una particolare raccomandazione. — Vo-
lentieri — soggiunse — le presterei Jo questo servizio, ma non pos&o,
perch£ con questo sedicente vescovo non ci troviamo in buone re-
lazioni. — E riferitagli la promes&a che il vescovo mi avea fatta,
replied : — Allora non vi ha dubbio, che tutto andeii bene. Per6»
con quella raccomandazione fa d'uopo ch'Ella si porti prima ad un
villaggio appartenente ai due mona&teri, e lontano di qui un giorno
di barca, o due, se il vento non sari favorevole; lascera in quelPospi-
zio il bagaglio, e Io riprendera poscia al ritorno. — Mi fermai per
tanto un giorno in quella citta, ed andando ora dalPuno ora dall'al-
tro, ottenni quanto desiderava. II vescovo mi diede una lettera pel
superiore dell'ospizio, ed il comandante mi assegnd una persona
per accornpagnarmi nel viaggio, e poscia presentarmi allo $d£kl
del villaggio; al quale ordinava di aver ctira del bagaglio, che avrei
lasciato in quel luogo, e di trattarmi come p>crsona raccomandata
particolarmente dal vicer6.a
4. Era una di quelle sere cosi lirnpide e belk, che t*invitano a
viaggiare, la luna illuminava quasi a giorno quel deserto e quel
fiume, e un'aura fresca e soave ci diceva di partire; e partimmo su-
bito. Si viaggib tutta la notte ed il giorno appresso felicemente, e
verso Fimbrunire g& eravamo ancorati a Benesuet, viliaggio del
monastero. Mi recai tosto all'ospizio, dove fui ben accoho e ben
trattato da quei pochi monaci. II viliaggio, tutto copto eretico, tK>n
contava che un centinaio di famiglie, in gran parte appartenenti
alk classe dei contadini, e circa un quinto erano impiegati e cam-
mellieri, che ogni settimana andavano e venivano dai due monasteri
di S. Antonio e di S. Paolo. Anche questo monastero aveva un
ospizio in quel vilkggiQ; poich^ I*uno e Taltro formano uii ordine
distinto, e vivono sotto diversa regola, I! di seguente alk
1. « Cotui che fa da sindaco nei picooli pacsi o viiiaggi » (nqta ckl Massaja).
2. victrtf; FEgitto, g^ dominio arabo, era stato occupato dai Turchi &i dal
1517. Ma dal 1841, pur continuando la sovratut^ rKwninale delk Turchia,
l*Egitto aveva coaseguito uja'efietti^ iiKiipendenza, per opera di Moham
med AH.
752 GUGLIELMO MASSAJA
dello sciek dichiarai ai miei marinari ch'erano liberi per tre setti-
mane di andare con la barca ovunque avessero voluto, purche* si
fossero trovati pronti ai miei ordini alia fine di esse. Mi era preso
tutto questo tempo, perch6 aveva intenzione di visitare tutti e due
i monasteri ; quantunque poi, per mancanza di cavalcature e di com-
pagnia, non potei andare a S. Paolo.
5. In due giorni la carovana fu pronta alia partenza per S. An
tonio ; e con un giovane monaco, che faceva da capo, ci mettemmo
in viaggio. Eravamo cinque persone con sei cammelli ; uno serviva
per me, uno pel monaco, e gli altri per portare le prowiste del
monastero. Lasciato il villaggio, dopo circa un quarto djora di cam-
mino, entrammo in una pianura di finissima sabbia, di cui non si
vedeva la fine. II monaco parlava un poco la lingua franca (ritaliano
corrotto del Cairo), e sarebbe stato meglio per me se non avesse
saputo parlare altra lingua che la sua; poiche* lungo la strada non
fece altri discorsi che di cose di mondo, e spesso cosi liberi e sco-
stumati, che io mi trovava impicciato a rispondergli un po' pulita-
mente. Egli mi teneva per un secolare, n6 poteva mai credere che
fossi prete, non avendolo io manifestato a nessuno ; e perci6 permet-
tevasi simili discorsi. I cammellieri erano in verita piu modesti e
piu buoni di lui ; ma, non parlando che la loro lingua, non poteva
trattenermi con loro, come avrei voluto. Per ischivare pertanto in
qualche modo quella spiacevole conversazione, camminava sempre
con la corona1 in mano; tuttavia quel caro figlio di S. Antonio non
mi lasciava quieto : sicche finalmente, istigato a parlare, gli dissi che,
essendo un pellegrino diretto al sepolcro di S. Antonio, non con-
veniva occuparmi d'altro che di preghiere. E cosi fui lasciato un
po* tranquillo.
6. La sera poco prima della caduta del sole si arriv6 ad una pic-
cola oasi, e trovandovi delFerba, ci fermammo per passarvi la notte.
Fatta la cena con ci6 che avevamo portato dall'ospizio, ci tratte-
nemmo un poco in conversazione, studiandoci Tun Taltro di farci
intendere alia meglio. Due dei nostri cammellieri toccavano quasi
la quarantina, ed anzich6 imitare le sconce facezie del monaco,
amavano piuttosto parlare di affari. II terzo, giovane in su i venti
anni, si adattava volentieri ai gusti del monachello, il quale pareva
non avesse altra voglia che tener discorsi e fare atti per nulla conve-
aevoli alk sua condizione. Non potendone piu, gli domandai:
i. la corona: del rosario.
MISSION! NELL'ALTA ETIOPIA 753
— Avete voi voti ?
— No, — rispose — noi non facciamo voti : ma solamente, dive-
nuti monaci, non possiamo prender rnoglie.
— - E non pare a voi — soggiunsi — che sarebbe meglio prender
moglie, anzich6 fare e dire certe cose, da cui i secolari stessi abor-
riscono ?
A queste parole si mise a ridere, fmgendo di non aver capito, o
meglio mostrando di aver capito assai bene. Allora, per non isvelare
ch'io fossi, cangiai discorso, e gli dornandai se pagassero tributi ai
governo.
— Ne paghiamo pur troppo, — rispose — ma al patriarca.
— E pagate molto?
— Piu della meta di quanto si raccoglie.
— E il patriarca che ne fa?
— Paga per noi il governo, ed una parte la ritiene per se.
7. In Oriente i vescovi ed i patriarch! eretici sono veri esattori ed
impiegati civili del governo ; e se i popoli, a loro soggetti, non corri-
spondono puntualmente alle loro esigenze, mane^iano il bastone
con piu severita dei secolari. Fra gli orientali sentono piu di tutti
questa dura severita i poveri copti ; perche i loro superior! so no piu
ingordi e piu venali. II potere civile, ammettendo il clero superiore a
questa specie di governo, sembra a prima vista che lo abbia voluto
onorare: ma invece non ebbe in mira che di aggiogarlo al suo carro,
e renderselo schiavo. Questa schiavitu inoltre e antichissima, e nac-
que con rarianesimo,1 quando la parte eretica, per iscuotere il giogo
della Chiesa romana e sostenersi neik sua ribellione ed indipen-
denza, si attaccd al potere civile; il quale da parte sua lo accett6
volentieri, e gli promise protezione; non per benevolenza, ma in
verita per dominarlo, e servirsi furbescamente delk sua autoritk
presso il popolo. II governo turco, succeduto airimpero bbantino/
i. Fariantsimo: la dottrina di Ario di Alessandria (morto a Cc^tantieopoli
nel 336), che considers va Cristo generato dal Padre, e F>ercid licm coero a
Lui. Veramente, ai tempi del Massaja, IKHI si potevm piii pariare di ariani,
se nofi attribuerKio un nuovo senso al vocabdlo: per indicare, eioe, gli anti-
tiinitari in geoere, o i sostenitori della stibordinazkme del dero alio Stato,
o, senza una precisa determinazkaie, gli eretici tutti, 2. Uimpero bu^ntino
cadde definitivamente nel 1453, con Toccupaziooe di CostantinofK>li da
parte dei Turchi, ma le regioni orientali che ne avevano fatto parte erano
gi^ da seeoH palate gradualn^ente sotto il dominio arabo. In realta, il Mas
saja, con questo aocenno, iropreciso storicamente, intenck; cocidannare la
posiziooe assunta in Oriente dalla Chiesa ortodossa nei confronti delk) Stato.
754 GUGLIELMO MASSAJA
vide Putilita di siffatto connubio, ed anziche" rompere questa catena,
la strinse maggiormente : e quindi, assoggettando a si la gerarchia
ecclesiastica, scissa da Roma, ne fece una sua dipendenza, la priv6
di quell' aureola divina ch'esternamente la circondava, e la rendeva
degna di stima e di rispetto dinanzi al pubblico, e rese in questa
maniera schiavi il clero e il popolo, insomma tutta 1'eresia.
8. Ed e questo uno dei motivi per cui la Chiesa latina ha lavorato
e lavora in Oriente con pochissimo frutto. Finche la gerarchia ec
clesiastica orientale rimarri schiava del potere civile, e non riacqui-
stera la sua indipendenza, sara difficile che ritorni al seno della sua
vera mad re. Ed e questo medesimo ostacolo che fa disperare della
conversione1 della Russia. Ne" possiamo prometterci che spunti un
migliore awenire per queste sventurate nazioni ; umanamente par-
lando vi e ben poco a sperare! Ci vorrebbe un nuovo Costantino,2
che si gertasse neile braccia della Chiesa, od uno sconvolgimento so-
ciale, che spezzasse questa diabolica catena, e mettesse tutto in
iscompiglio: allora potrebbe ritornare ogni cosa alPordine ed alia
verita. N6 solo in Oriente, ma anche nelFOccidente i governi civili
hanno ambita questa supremazia,3 ed hanno tentato di ridurre la
Chiesa a questa abbietta schiavitu. I vincoli del re sagrestano Giu
seppe II4 e dei suoi predecessor!, le leggi tanucciane,5 gli articoli
organici,6 ed oggi gli sforzi di tutti i governi d'Europa, retti a
Uberali$mo> mirano a ci6. Si proclama a parole libera Chiesa in li-
i. conversione: passaggio dalla dottrina scismatica alia cattolica, donde
1'eventuale riunione con Roma, z. Costantino, imperatore dal 306 al 337,
eman6 a Milano, nel 313, il famoso editto di tolleranza verso i cristiani.
3. supremazia: dello Stato sulla Chiesa. II Massaja allude alle lotte che
si svolsero in Europa, gia prima, ma soprattutto dopo, la Rivoluzione
francese, per stabilire Pautonomia dello Stato di fronte alia Chiesa in
tutto ci& che non appartenesse alia religione. Ma egli muove, natural-
mente, da un suo punto di vista strettamente osservante. 4. Giuseppe II
fu imperatore d' Austria dal 1765 al 1700. Con 1'editto di tolleranza del
1781 diede liberti di culto a protestanti e greco-ortodossi. Soppresse or-
dini religiosij miro a creare un clero nazionale, a limitare i privilegi eccle-
siastici. Una simile politica avevano gia seguito la madre Maria Teresa e
il padre Francesco I. 5. leggi tanucciane: Bernardo Tanucci (1698-1783),
ministro di Carlo III e di Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli, con
Tintento di consolidare la monarchia aboil molti privilegi ecclesiastici e
sottrasse il Regno dalia sua dipendenza feudale al papa. 6. articoli orga-
mci: Napoleone, il 16 luglio 1801, aveva stipulate un concordato con la
S«nta Sede, ma esso trovd gravi opposizioni in Francia. Allora rimr>era-
tcce vi aggiunse i 77 articoli orgamcit con cui stabiliva il controllo gover-
Batm) sailla gerarchia ecclesiastica e salvava, in tal modo, le « liberta gal-
licaue ». La Santa Sede non ricoeobbe mai tali articoli.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 755
bero Stato: ma a fatti si vuole la schiavitu dcila Chiesa e la supre-
mazia dello Stato, per distruggere, come in Qriente, il regno di Gesu
Cristo.1
9. Ritornando alia mia storia; troncata la conversazione, ci met-
temmo a dormire al chiarore delle stelle, e con un'auretta cosi fre-
sca, che ti faceva dimenticare di trovarti in mezzo ai deserti afri-
cani. Mi ci voile pero del tempo per chiudere gli occhi, a causa del
monachello, che non ostante i miei buoni consigli, e talvolta le mie
brusche ammonmoni, non ismetteva punto le sue oscene facezie.
Coricato tra i cammellieri, faceva un baccano indiavolato con tutti,
e principalmente col piii giovane. lo non poteva capir tutto quello
che diceva, perch£ poca conoscenza aveva allora deirarabo : ma tra
le altre cose lo intesi iamentarsi che nel monastero non vi erano
uomini ma donne. Ci6 mi fece una grande impressione; e non sa-
peva comprendere come in un monastero, cosi venerato, vi fossero
donne: tuttavia mi guardai dal chiedergiiene la spiegazione. Ma
poco tempo dopo me la diede il giovane propagandista che andava
a liberare,2 ed in verita fu cosi brutta, che neppure ardisco riferirla.
Oh quali guasti orribili e mostruosi portarono Teresia e Tislamisrao
a quelle cristiane popolazioni!
10. II di appresso, svegiiatici di buon'ora, ci rimettemmo in viag-
gio, e verso mezzogiorno si arrivo ad un'altra piccola oasi, in cui
riposammo alquanto, e mangiammo il nostro modesto pranzetto.
Ripreso il cammino, verso sera scorgernmo in lontananza Aml>a
Antun ;3 e trovata un'altra oasi, ci fermammo per passarvi k iK)tte.
Un fenomeno singolare ebbi ad <^scrvare in questo luogo: non vi
era affatto acqua, ne lungo Fanno vi cadeva pioggia; tuttavia quel-
Farida sabbia era sparsa di graziosa erbetta e di fold sterpi, che in-
dicavano una bella vegetazione. Cercando tra me stesso la spiega
zione di questo fenomeno, pensai che quei mari di sabbia abbiano
in certi punti un'azione assorbente i vapori dell'atmosfera, da cui
viene agevolata la vegetazione. Piu, scavando in certi luoghi, trovai
i* Si proclama . . . Cristo: il Afassaja, seguace convinto della dottriBa ufii-
ciale delta Chiesa, fu profofidainente awerso a tutto rorientamcnto liberals
del!*Europa e non riusci mai a distinguere nella vita della Chiesa Taspetto
reiigi<^o da quello temporale. 2. U gwvwu . . . Wb&r®re\ il Massaja, recan-
dosi al rnofitastero copto di Sant*Antonio, intendeva liberare il gkyvaue Mi-
chelangelo, discepolo della Congregazione De propaganda Fidt, die vi era
trattenuto per volonta sc^>rattutto del vescovo cc^sto Abiina Salama, grande
nemico del Massaja (vedi il Profilo bio^rafico). 3. * Montmgna di S. An-
tonio* (nota del Massaja).
756 GUGLIELMO MASSAJA
a poca profondita la sabbia assai umida; il che giovo a confermare
la mia ipotesi: dappoich£ quell'umiditi. superficiale in luoghi dove
non piove giammai, non pu6 altrimenti prodursi che con 1'assor-
bimento di vapori atmosferici.
11. Mi e difficile descrivere la grata impressione che fece sulFani-
mo mio la vista di quella montagna. Essa sorge come uno scoglio
in mezzo ad un mare di sabbia, ed airimmaginazione si presenta
come un'oasi, in cui germoglid e crebbe la pianta del monachismo.
Tutto d'intomo e sterile e senza vita; la solamente pare che la
Prowidenza abbia mutato aspetto alia natura, rendendola fertile e
facendovi scaturire una sorgente, per nutrire e dissetare non uo-
mini, ma angeli in carne. E tali erano in sul principio della loro isti-
tuzione quei cenobiti. Ma oggi? Oggi quel gran monastero (e lo
stesso dicasi delPaltro di S. Paolo) e piuttosto un ergastolo di vizii,
che un asilo di santita. Quei degeneri figli del grande eremita,
fuorviati dalFeresia ed abbrutiti dalle piu abbiette passioni, non
servono che a ricordare Pantica santita e purita dello spirito evan-
gelico, che vi fioriva, come le Piramidi ricordano la prisca grandezza
deirEgitto. Quei due monasteri io oggi li rassomiglio a due scheletri
umani, non ancora totalmente spolpati, e gettati in mezzo al de-
serto; i quali par che dicano: &Noi prima eravamo uomini, oggi
non siamo che ossa e putridume®.
12. Rimessici di buon mattino in viaggio, seguitavamo la strada
sempre in direzione della montagna, ed a mano a mano che ci
awicinavamo, essa, che prima sembrava una piccola collina, gra-
datamente s'ingrandiva. Avanzandoci piu innanzi, si cominci6 a
scorgere il monastero, e ad ogni passo si rendeva piu visibile ed
ammirabile nelle sue maestose forme e speciose particolarita. Esso
& piantato alle falde della montagna, e presenta un gran quadrato,
aperto dalla parte di essa montagna, la quale sembra sorgere dal
monastero. Accostandosi di piu, si scorge non esser quel quadrato
che la cinta esterna, dentro cui s'innalza un altro quadrato, ch'e
propriamente il monastero, con in mezzo una gran torre. Nella
parte interna, che sta a' piedi della montagna, si vede un po* di
verde, che comincia a ricreare la vista, stanca di sempre guardare
quelle aride sabbie; ed un bel contrasto fa esso con queirimmensa
pianura, priva assolutamente di vegetazione. Sono principalmente
alberi di datteri, che vi nascono e crescono assai bene.
13. Finalmente si giunse al febbricato, e ci arrestammo al muro
MISS1ONE NELL'ALTA ETIOPIA 757
di cinta, alto circa sei metri e fatto di fango battuto. Rirnasi sorpreso
nel non trovarvi porta d'ingresso: ma solo uno spaccato, a gui$a
di portico, in parte ncl grosso del muro della cinta. — E per dove
si entra ? — domandai. — Ecco — e mi si addit6 una finestra quasi
circolare aperta nel centro della volta dello spaccato, e dalla quale
scendeva una grossa corda di palma, raccomandata ad un cilindro
orizzontale, simile a quelli dei nostri pozzi, i quali servono per at-
tingere Tacqua. AlFestremita della corda era attaccato un piccolo
legno, sul quale la persona mettendosi a cavallo, veniva tirata
su da due monaci, per mezzo di manubrii sporgenti dal grosso
cilindro. Veramente in sulle prime ebbi timore di affidarmi ad
essi; ma poi, fatto coraggio, mi aggrappai fortemente alia corda,
e feci la mia curiosa ascensione,
14. Introdotti per quella finestra sul muro di cinta, si resta sor-
presi nel trovarlo si largo da potervi passeggiare comodamente sei
persone di fila, avendo circa quattro metri di gros&ezza. Una stretta
scala vi porta nel cortile e nel giardino, o meglio nel quadrato
interno che serve per Fabkazione dei monaci. Ivi trovai il superiore
con molti altri, i quali mi condussero avanti la cappelk, dove in un
piccolo atrio con varie sedie si ricevevario i forestieri. La faccia
interna della cinta era in gran parte coperta d'iscrizioni in tutte le
Hngue, ksclatevi dai viaggiatori, che avevano visitato il monastero.
Mostrate le lettere di raccomandazione, divenni presto loro amico,
e mi si misero attorno, assediandomi con continue e varie iriter-
rogazioni. £ difficile che vi lascino un momento solo; hanno tanta
smania di parlare, che non solamente il giorno, ma anche la rtotte
vi terrebbero in conversazione.
15. II mio principale scopo era di liberare il giovane Michelan
gelo, allievo di Propaganda'^ e perci6 ad esso era diretto ogni mio
studio e premura. Fingendo d'intender poco la lingua araba e
franca, ch'essi parlavano, domandai se per caso non vi fosse qual-
cuno tra i monaci che parlasse un po* meglio ritaliano. Ed il supe
riore, che nulla poteva sospettare dei miei disegni (poicM feci una
tale richiesta con k massima indifFerenza), mi present6 Michelan
gelo. Era quello che io desiderava, e ringraziai Iddio che le mie ope-
razioni cominciassero cosl bene. Anche Michelangelo da parte sua
ne fu contento, molto piu quando da alcuni segni e parole, dirette-
gli furtivamente, travide i miei intendimenti. II poveretto deside
rava piu di me di essere liberate, e gli parve un'apf^rizione celeste
75$ GUGLIELMO MASSAJA
il mio arrive; tuttavia, per non suscitar sospetti, ci guardammo
bene dal mostrare questo contento.
1 6. Mi condussero poscia nelPinterno del monastero, facendomi
minutamente osservare ogni cosa: e tra le altre, mi mostrarono una
stanza, che dissero di essere stata abitata da un certo Andrea,1 gi£
monaco, ed allora vescovo dell' Abissinia. Compresi subito chi fosse
quel bravo soggetto, principalmente quando nella parete lessi il suo
nome scritto in lingua itaiiana ed inglese: ma finsi di non cono-
scerlo. Dopo fui introdotto nella torre ; essa sorge in mezzo al cor-
tile del secondo fabbricato, e di forma quadrata, alta circa quattro
metri piu del monastero, e comunica con esso per mezzo di quattro
ponti levatoi, che si tirano dai quattro lati della torre, o del mona
stero, secondo il bisogno. Anticamente, ed anche in tempi a noi
non molto lontani, era il loro rifugio, quando i Beduini,2 a guisa di
orde scorazzando per quel deserto, finivano con dar Tassalto al mo
nastero. Allora i monaci si difendevano prima, combattendo di
sopra le mura: ma poi, superate queste, per ultimo scampo si riti-
ravano nella torre, e tirati i ponti, combattevano con pietre gl'in-
vasori. Sottomessi poscia i Beduini dal governo egiziano, principal
mente per opera di Mohammed- Aly,3 il monastero non ebbe piu
a temere quei terribili nemici ; ed anche oggi e lasciato tranquillo.
Sono ammirabili queste costruzioni, sia per la loro antichita e
grandezza, sia per la loro indistruttibile solidita; e quantunque
di fango battuto, pure vi stanno da molti secoli, e pare che sfidino
la successione dei tempi.
17. Visitai poscia il refettorio, assai lungo e stretto, e con una
sola tavola di alabastro in mezzo. I monaci di S. Antonio mangia-
vano in comune, al contrario, come mi si diceva, di quelli di
S. Paolo; i quali, conservando ancora un po' di vita eremitica, in
comune non mangiano che nelle grandi solennita. Mi condus
sero poi nella chiesa; una piccola cappella, che non corrisponde
alia grandezza del monastero, ed & Punico luogo in cui si vede
qualche costruzione in calce. Accanto ad essa vi era una specie
di casotto, in cui i monaci e gPinservienti prima di dir Messa si
i. Andrea: e il nome deR'Abuna Salarna. 2. i Bedmni: i nomadi dell'Asia
arafoica e dell* Africa. 3. Mohammed- Aly, ufficiale albanese venuto in
E^gitto con Tesercito turco ai tempi della spedizione francese del 1798,
diveratte poi il creatore della effettiva indipendenza dell'Egitto, che govem6
dal 1806 alia morte, nel 1849. Vedi la nota 2 a p, 751.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 759
lavavano da capo a piedi. Esso veniva chiamato il luogo della puri-
ficazkme, ed in verita non vi si faceva che la vera purificazione se-
condo il rito mussulmano. Dalla chiesa per alcuni gradini si di-
scende nel sepolcro, che chiudeva le o&sa di S. Antonio, oggi vuoto
e senz'alcun ornamento. Una semplice stanzetta chiusa con porta,
e senza un emblema od un ricordo della sua antica destinazione,
formava la cripta del Santo anacoreta; ond'io trovatala piu pulita
della camera che mi avevano assegnata per dormire, dissi loro che
preferiva passar la notte li dentro, a fin di soddisfare meglio la mia
devozione. A dir il vero, feci questa sceita non solo per evitare le
cimici, di cui il monastero era straordinariamente infestato; ma per
avere agio di conferire piu liberamente con Michelangelo, ed anche
per potermi chiudere la notte di dentro, e cosi liberarmi da visite
poco convenient! e poco cristiane!
1 8. Poscia fui condotto nella sala di conversazione; era questa
un grande stanzone, dove i monad passavano la giomata e quasi
meta della notte a fumare, a chiacchierare e a divertirsi. Un basso
divano occupava la lunghezza delle due pareti laterali, su cui sede-
vano i monaci, ed un seggiolone con altre sedie a lato, posti nelia
parete di prospetto1 alia porta, erano riservati alPabbate ed agii altri
superiori. NelPangolo a destra della porta vi era una gran cesta
piena di tabacco da fumo, ed alia parte opposta un'altra con pipe
di diversa forma e lunghezza, in mezzo poi un gran vaso di terra
cotta con fuoco sempre acceso. Questa saia serviva anche per la
scuola e per io studio: ma in dodid giorni che mi fermai i£ mm vidi
mai nessuno, ne" a studiare, ne a fare scuola. Avendo donundato
quanti maestri vi fossero — Due soli, — mi risposero — uno per la
lingua araba ed uno per la lingua copta. — Mi venne allora il desi-
derio d'imparare con quest*occasiooe almeno Falfabeto o>pto, e
domandai chi ne fosse il maestro : ma saputo ch'era assente da due
mesi, e che la sua sdenza si limitava a saperla* appena leggere, ne
dismisi il pensiero. Non deve far meraviglia tanta ignoranza; poich6,
come essi stessi mi dicevano, non solo Tignorava Fabbate, ma anche
il patriarca ed i vescovi copti medesimi. Li pregai inoltre di farmi
vedere la biblioteca, e mi condussero in una stanza, dove quattro o
cinque cestoni contenevano disordinatamente mucchi di libri tutti
impolverati. Erano pcrgan^ne in lingua araba e copta, e varii libri
i. di prospetto: dirimpetto. 2. s&perla: la omoordanza, anzid^ gramma-
tkak ccm af/abeto, avvrac am il sottinteso « lingua
760 GUGLIELMO MASSAJA
liturgici in lingua araba. Certamente dovevano trovarsi libri pre-
ziosi tra quei vecchiumi; quantunque, secondo che essi mi dice-
vano, ne fossero stati comprati alquanti da un francese, capitato
& qualche tempo prima.
19. Per cattivarmi maggiormente la lore benevolenza e render-
meli obbligati, domandai se in monastero si fosse trovata qualche
cosa da comprare, come acquavite, carne ed altro, per offrir loro
un segno della mia gratitudine e riconoscenza delle accoglienze e
cortesie ricevute : ed avendomi tutti risposto con trasporti di gioia,
che presso il procuratore avrei potuto comprare Pacquavite : — Eb-
bene, — dissi — dimani mattina accetterete questo primo segno di
mia affezione. — Giunta Tora di cena, mi portarono pane, datteri,
uva fresca ed un piatto di maccheroni. II pane era molto buono,
perci6 mi contentai di mangiar solo quello con uva e datteri, e ri-
mandai i maccheroni, che certamente non venivano da Napoli, di-
cendo che un pellegrino & obbligato sempre a fare qualche asti-
nenza. Michelangelo, cui gia aveva potuto manifestare segretamente
i miei disegni, mentre si cenava, tra un discorso e Paltro, mi fece
intendere che desiderava confessarsi ; giacche da due anni non aveva
piti ricevuto sacramenti. Ma essendo difficile che i monaci ci aves-
sero lasciati soli, ed io non volendolo ammettere nella mia stanza,
per non suscitare gelosie e sospetti ; si convenne che quella notte,
adducendo il pretesto del gran caldo, avrei prescelto di passarla in
giardino; e cosi ad una data ora, mentre gli altri dormivano, noi
avremmo potuto comodamente far tutto.
20. Finita la lunga conversazione, alcuni monaci si ritirarono
alle loro stanze; kddove altri vollero restare con me in giardino.
II che mi mise alquanto in impiccio, non solo per ci6 che avevamo
stabilito di fare con Michelangelo, ma anche perche non piacevami
di notte la loro monacale compagnia. Quanto aveva inteso e veduto
fare al monachello lungo il viaggio per S. Antonio, mi aveva dato
sufficiente conoscenza della loro moralital Tuttavia, fatti al propa-
gandista alcuni segni convenzionali, ci mettemmo a riposare. II
buon giovane passo la notte a prepararsi, per fare bene la sua con-
fessione: e ad una cert'ora, assicuratosi che i compagni, stanchi
delk baldoria fatta sino a tarda sera, se ne stavano immersi nel
soiMK>, venne a chiamarmi; e condottomi un po* lontano, come per
a«xx>mpagnarmi ad un atto necessario, fece la sua confessione.
Poveretto! Alzatosi dai miei piedi, disse che provava una gioia
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 761
indicibile, e tutto queilo che era accaduto sembravagli un sogno :
poich6, condotto e chiusa forzatamente II dentro, aveva perduto
ogni speranza di ricevere dal Signore una simile grazia. Parlato
poscia dei nostri affari, e mes&ici d'accordo sul modo di regolarci e
sui mezzi per raggiungere Tintento, ritornammo al nostro posto,
e ci mettemmo a dormire. Prima che uscisse il sole mi alzai, e ri-
tiratomi nella cripta di S. Antonio, quieto e tranquillo potei reci-
tare il breviario e le altre mie solite preghiere.
21. Mentre mi tratteneva nella cripta in devote meditazioni, sen-
tiva fuori un baccano indescrivibile : erano i monaci che comincia-
vano a fare baldoria, perche si awicinava Pora della colazione, e gia
sentivano Todore delFacquavite. Essendo pronta ogni cosa, vennero
alcuni a bussare fortemente alia porta, invitandomi con premura di
andare nella sala, dove tutti mi attendevano. Giuntovi, venne ap-
prestato loro abbondantemente a mie spese caffe, zucchero e tre
bottiglie di acquavite : a me portarono uva, datteri e due eccellenti
pagnottelle, che mangiai con grande appetito. Queste pagnottelle,
che sono di una finezza e cottura particolare, mi si regalavano da un
vecchio monaco, chiamato Maestro gerente, il quale faceva le veci
dell'abbate Daud, mandato in Abissinia a predicare la crociata
contro Abuna Messias.1 Oh se avessero conosciuto che Abuna
Messias stava nelle loro mani! E poich6 si sapeva che oltre la cola
zione, avrei dato loro un pranzo, J monad non capivano in loro
stessi per Pallegrezza, ed era un continue gridare: — Ewiva il si-
gnor Bartorelli, ewiva il signor Giorgio.2 — lo per6 pensava che a
quegli osanna avrebbe potuto facilmente succedere il crudfige!
22. Dopo la colazione si convenne di fare quelk mattina unt gita
alia montagna, e dieci monaci mi vollero accompagnare. Ci voile
una buona mezz'ora per e^ere cakti giu ad uno ad uno dalla fin«-
stra della cinta. Finalmente ci mettemiBO in cammino, ed in mcno
di un quarto d'ora si arriv6 alia cima, donde Tocchio poteva spa-
ziare su di un vasto orizzonte, ma tutto sterile e deserto. Restai
1. Abfata M&sias: con tak IK«IIC, sernbra per dileggto e ktHik, il vescovo
copto Abtina Saiama aveva iitdkato il Mstssaja neila scomuniot che gli
aveva knckto. Tale notne rknase poi al Massaja in tutta FAbminia, ma
coo vafore di elogio e afumirazkHK. II vocabolo Aintmi equivak a * vescovo ».
2. B&rtwM . . . Gi&rgio: per superare 1'oppcmzJooe e gli ostaoc^i del ve-
scovo copto, e poter raggiungere k terra dei GaUa attra verso T Abissinia, il
Ma^aja aveva assunto il nome di Giorgio Bartorelli, fingendosi un mer-
caete. Lo pseudonimo scetto era il casato deila madre.
762 GUGLIELMO MASSAJA
meravigliato nello scorgere a levante tracce abbastanza chiare del
Mar Rosso; ed i monaci mi dicevano che in giorni piii limpidi si
vedeva in confuso, un po* piu verso il nord, anche la sommita del
Sinai. Da ci6 argomentai che la montagna di S. Antonio doveva
trovarsi piu vicina al Mar Rosso che al Nilo ; molto piu che da quel
punto non appariva traccia di sorta di questo grande fiume. La
forma di questa montagna e bislunga, da sembrare una catena,
di circa un giorno di viaggio, che si stende verso il sud, con un po*
d'inclinazione alFovest. Alia punta nord sorge il monastero di
S. Antonio, ed alia punta opposta quello di S. Paolo. Camminando
circa un quarto d'ora sulla sua cresta, si giunse ad una piccola valle,
in cui trovai della vegetazione. I monaci mi dicevano che da prin-
cipio S. Antonio aveva fissato in quel luogo il suo ritiro, ed ogni
giorno andava alia fontana per attingere Pacqua. Moltiplicatisi po-
scia i monaci, e stabilita la vita comune, ando a piantare 1'eremi-
torio vicino alia fontana, dove fu poi innalzato Tattuale monastero.
Ritornati indietro, prima di scendere la montagna volli delineare
alia meglio la pianta del monastero e del giardino, che da quel
punto si vedevano in tutta la loro maesta e grandezza.
23. Discesi e rimontai al solito per mezzo della corda, volli misu-
rare la lunghezza di un lato del muro di cinta, e contai centosessanta
passi ordinarii. Indi mi feci condurre alia fontana, e trovai una vasca
grande ed irregolare, per6 abbastanza ben fatta, avuto riguardo a
quei luoghi, che poco si curano di arte. L'acqua usciva di sotto
uno strato rossiccio di arena, simile alia pozzolana di Roma: non
potei calcolarne il getto, perche" veniva fuori sparpagliata in varie
vene; ma doveva essere un gran volume, poich6, non solamente
bastava per gli usi del monastero, ma anche per irrigare il giardino.
Presane un poco col concavo della mano, la trovai freschissima, e
riempitone poscia un bicchiere, era limpidissirna come il cristallo.
Voleva beveria: ma tutti i monaci si opposero, dicendo che mi
avrebbe fatto male. — E voi dunque quale acqua bevete ? — do-
mandai. — Questa, -— risposero — ma prima la mettiamo in alcuni
grandi vasi, vi mescoliamo una certa medicina, e dopo tre giorni
la cominciamo a bere. — E se la beveste naturale che cosa awer-
rebbe? — Allora uno di essi accostandomisi all'orecchio, mi disse
confidenzialmenfce: — Dopo qualche tempo la persona che la be-
vesse diventerebbe donna!
24. Troncai subito il discorso, ed il primo momento ch'ebbi li-
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 763
bero, domandai a Michelangelo la spiegazione di questo segreto,
ed anche della parola datma% che pure il monacheHo, rnio compagno
di viaggio, aveva pronunziato la notte che ci eravamo fermati nel
deserto, senza che io la potessi capire. Ed egli me la diede: ma,
come ho detto innanzi, si brutta, che e meglio non parlarne. Mi
racconto inoltre tante storie su questo proposito, ripetute tradi-
zionalmente da quei monaci; e tra le aitre, la credenza che S. An
tonio abbia miracolosamente infu&a una tal virtu a quell'acqua,
affinche' i suoi monaci non cercassero donne. « Povero S. Antonio,
qual figura& dissi io allora «ti fanno rappresentare questi, che me
glio dovrebbero chiamarsi figli della Pentapolib1 Pregai Miche
langelo di farmi vedere quella medicina, e portatamela, vidi non
esser altro che una certa cenere, la quale si vendeva in Cairo da
un famoso fakiro, e serviva, secondo iui ed i suoi credenzoni, ad
ecchare le passioni. II diavolo, per abbas&are e togliere Tidea della
castita in mezzo a quei popoli, divenuti simili alle bestie, inainu6
simili pregiudizii ed imposture: e per veriti non pu6 dirsi che non
sia riuscito nel suo intento. Poiche in Abis&inia giovani e vecchi
prendevano medicine per calmare le passioni e farsi monaci: in
S. Antonio in vece si faceva il contrario. Tra i Galia,* popoli non
guasti dalFeresia e dairislamismo, questi stupidi pregiudizii non si
conoscevano; e la virtu ed il vizio si chiamavano col loro vero nome,
ed erano seguiti e detestati, per quanto su^eriva loro il sentimento
della legge naturale. Ma non era cos! tra i figli deH*eresia e di Mao-
metto: anzi, capitando e^i tra i Galla, e vedendo i nostri giovani
mantenersi casti e di morigerati costumi, dicevmno che ci6 aweniva
per la virtu di certe medicine che loro davamo! ed in certo qual
modo non dicevano male; poiche1 la loro continenza dovevasi alia
pura medicina del Vangelo ed alle carni immacolate di Gesu Cristo.
i. II Massaja allude alia PemtopoU (cinque citta) di cui narrm la Bibbia
e che comprendeva le citti di Sodo^na, Grocnorra, Adamo, Scheim e
Segor. Msdedette per i loro vizi, furtmo distrutte dal fuoco celeste, fuor-
cM Segor, salvata dalle preghiere di Lot. 2. I Galla occupavaoo larghe
zone delP Africa orientale. Suddivisi in varie tribii (Gimmo, Ghera, Lim-
mu, ecc.), formavano piccoli regni ereditari. Ermno dediti prevaientefneote
alia pastorizia, Pagani o mussulmani, si convertirDno poi in gran nuraero,
I>er opera del Massaja, al cattolicesimo. Ai tempi deli*im|>er»tore Teodoro
(vedi le note sap. 77ie2ap. 772), ce^ata la loro potema politka in
Abissinia, i Galla furono assoggettati all 'au tori ta del negus, e noo acqui-
starono piii Fantica indipendenza. La attiviti missiouaria del Massaja s'in-
dirizzava a quelle tribii galk che dinioravaiiG fra k sorgeuti del Nilo Az-
zurro e del Nilo Bianco.
764 GUGLIELMO MASSAJA
25. Una sorgente simile scaturiva all'altra punta della montagna,
dove era fabbricato il gran monastero di S. Paolo. Ed io credo che,
se non i due santi anacoreti, la Provvidenza di certo miracolosa-
mente ve le facesse scaturire, per rendere abitabili quegli immensi
deserti e sterili pianure. E per verita hanno del prodigioso quelle
acque che sgorgano da una montagna secca, e giammai visitata da
pioggia. Non possono essere che vene di acqua venute su da una
profondita grandissima: ne si pu6 supporre che abbiano origini
da altre montagne vicine; poich£ le montagne che regolarmente
ricevono piogge, e danno sorgenti di acqua, distano da S. Antonio
e da S. Paolo parecchie centinaia di leghe.
DIVERTIMENTI E LIBERAZIONE1
Verso sera giunsero al monastero alcuni beduini con capre e for-
maggetti da vendere: ed i monaci corsero tosto ad awisarmi della
bella occasione per fare il pranzo promesso. Vi andai con Michelan
gelo, e trovandole ben grasse, ne domandammo il prezzo. Chiesero
dieci piastre per ciascuna capra, cioe tre per uno scudo : ed avendo
offerto loro mezza ghinea inglese per tutto, cioe, per capre e for-
maggi, da prima mostrarono non esser content! ; ma poi, ascoltando
anche le premurose insistenze dei monaci, ce le cedettero, con gran-
de gioia di quei figli di S. Antonio. Con queste liberalita io mirava
a distogliere la loro attenzione da ci6 che intendeva fare, per libe-
rare Michelangelo; a rendermeli inoltre confident!, per meglio stu-
diare la loro vita ed i loro costumi ; e nel tempo stesso ad affezio-
narmeli, per parare nel caso un qualche brutto tiro, che mi avreb-
bero potuto fare: poich6, guai a me se avessero subodorato un mi-
nimo che della missione ch'era andato a compiere; quei figli di
Dioscoro,2 dominati da brutali passioni, e senza neppur segno di ti-
more di Dio, sarebbero stati pronti a commettere qualunque ec-
cesso. Questa liberalita intanto mi fruttava da parte loro regali in
abbondanza, segnatamente di uva, di frutti del giardino e di quelle
buone pagnottelle.
z. La domenica, terzo giorno del mio arrivo, si portarono tutti
in chiesa per assistere alia Messa, celebrata secondo il rito copto,
I.Ed, cat, voL H, cap. HI, pp. 33-41. 2. figli di Dioscoro: seguad del
pastriarca Dioscsoro <li Alessandria, che nel concilio di Efeso del 449 favorl
il trioiifo deHa dottrma di Eutidie (vedi la nota zap. 772), e di conseguen-
za fu. deposto ed esiliato dal nuovo concilio, tenutosi nel 45 1 a Calcedonia.
MISSIONE N£LL*ALTA ETIOPIA 765
con qualche canto, che io aveva inteso al Cairo » e con accompagna-
niento di campanelli e del triangolo, soli strumenti musicali da loro
usati. Vi assistevano tutti in piedi col bastone in mano, come gli
ebrei; ed io dalla porta della cripta o&servava ogni co&a, avendo
accanto Michelangelo, che mi dava di tutto la spiegazione. Avrei
avuto aneh'io il desiderio di celebrar Messa, ed il buon Michelan
gelo di comunicarsi : ma oltre la difficolta di trovare un'ora libera,
vi era Faltra, di non tenere presso di me gli oggetti necessarii.
Laonde consigliai il buon giovane ad unirsi meco in ispirito, per
assistere col cuore e col desiderio alia Messa cattolica. In tutto il
tempo che dimorai in S. Antonio, non vidi altro atto religioso che
la celebrazione e Fassistenza alia Messa, se non erro, due o tre
volte; del resto nessun esercizio di pieta, non coro, non letture spi-
rituali, non orazione, neppure le preghiere della mattina e delk
sera. Finita la Messa gettarono a terra i bastoni, e corsero a ricevere
due pagnottelle per ciascuno, che solevano distribuirsi sempre dopo
la Messa; e poscia u&citi fuori, chi le mangiava, chi le vendeva, e chi
le scambiava con altri oggetti. Io ne comprai alquante, e con quelle
che mi furono regakte, ne radunai una trentma. Pesava ciascuna
circa quattro once, ed erano esse il mio preferito cibo giornaliero.
3. Un giorno niostrai il desiderio di assistere in refettorio al loro
desinare, e mi fu permesso. Come ho detto, esso era assai lungo e
stretto, e con una sola tavola di aiaba&tro in mezzo, a cui i monaci
sedevano dalFuna e daU'altra parte. Ciascuno si aveva una scodelia,
una bottiglia di acqua, un bicchiere di terra, un coltello ed un cuc-
chiaio, Sedevano divisi a dieci, ed uno di essi k faceva da capo:
al quale si portava una marmitta piena di mi&estra, che distribuiva
alia sua decina; pc^cia si dava a ciascuno un pezzo di came, ed una
pagnotta di circa una libra, e nei mercoledi e venerdi, in vece delk
carne, si pa^ava un piatto di lenticchie o di fave. Non facevano
preghiere» n^ prima n6 dopo il pranzo ; solo in principio si segnavano
col pollice alia fronte, alk bocca ed al petto senza dir nulk : n^ vi era
lettura, come costumasi in tutte le o>munita religiose; ma, man-
giando, si chiacchierava e si faceva baccano, come in una ttverna.
Finite il pranzo, tutti si alzavano, eccetto i superior! ed i capodecina.
4. Usciti di refettorio, ci recammo alia sala di ojnversazionc, Io
fui fatto scdere a^xanto al seggiolone ckiratmte, dove aveano posto
i sottosuperiori ed i piu vecchi. Alcuni giovani monaci distribuirono
le pipe, lunghe un metro, poscia il tabacco ed il faoco, e si comin-
766 GUGLIELMO MASSAJA
ci6 a fumare come tanti turchi. Quel giorno per mio rispetto vol-
lero dare un divertimento particoiare, e stese delle stuoie per terra,
presero a rappresentare una commedia. Dalle parole capiva ben
poco, ma dai gesti e dagli atti sconci, con cui 1'accompagnavano,
m'accorsi che non doveva essere per nulla morale. Si and6 tant'oltre
in quelle sconcezze, che ad un certo punto fin tentato di andarmene
via; e cio che piu mi faceva stizza era il vedere quei vecchioni ana-
coreti ridere saporitamente alle oscenita che si rappresentavano.
Sulla barca aveva veduto i marinari trastullarsi con simili atti, e
nessuna meraviglia mi aveano fatto, perch6 sapeva benissimo
ch'erano tutti mussulmani; ma vederli poi rappresentati dai figli
di S.Antonio, dagli anacoreti del deserto, non a meraviglia fui
mosso, ma a schifo ed orrore. Poveri eretici!
5. Dovendo finalmente dare il mio pranzo, dissi che desiderava
farlo piuttosto nel giardino che in refettorio, dove un fetore insof-
fribile moveva a nausea al primo mettervi il piede. Fu accettata la
mia proposta, e si fisso il giovedi seguente, Intanto i giovani pieni
di entusiasrno, scelto il luogo, cominciarono a disporre ogni cosa:
piantati grandi pali, vi misero sopra canne e foglie di palma, e for-
marono un capannone, capace di contenere tutti quanti. Stesero po-
scia per terra delle stuoie, e giunto il giorno e Fora, ci recammo a
quella tavola campestre. Non si dovea mangiare altro che carne arro-
stita sui carboni, e formaggio; seduti adunque tutti per terra, si
diede Passalto a quei pezzi di capra, con un'avidita ed ardore, che
pareva non 1'avessero mai gustata. A me diedero un piatto, un col-
tello ed una forchetta: ma essi mangiavano all'araba, cioe strac-
ciando tutto con i denti e con le mani. Consumata una capra, si
portava Faltra, e finalmente comparve Tultima, cotta intiera al for-
no, e condotta con suoni e canti si no alia capanna in processione.
In un batter d'occhio la divorarono come se nulla avessero man-
giato. In fine feci portare delPacquavite, che accrebbe maggior-
mente la loro allegria: e dopo aver fatto strazio di tutto, si concluse
il pranzo con la pipa, e con un'altra commedia piu libera e piu sto-
machevole della prima.
6. Erano gia otto giorni che dimorava in S. Antonio, e bisognava
|mrtire. I tratti di liberalita, usati con quei monaci, mi avevano cat-
tivato la loro benevolenza; onde poteva trattenermi con piu liberta
a discorrere con Michelangelo, senza destar sospetti. Egli gia avea
compito k sua confessione, e restava col desiderio di ricevere Gesu
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 767
Sacramentato. Rispetto alia fuga si convenne che in niun altro modo
avrebbe potuto riuscire, che ottcnendo di accompagnarmi sino al
villaggio: di la poi con maggior facilit£ gli sarebbe stato possibile
fuggire, e riparare al Cairo o ad Alessandria. A questo scopo pre-
parai le lettere di raccomandazione per rnonsignor Teodoro Abu-
carim, per monsignor Delegate,1 ed anche pel signer Lemoync,
console generale di Francia, affinche giunto in Cairo o ad Alessan
dria, principalmente quest'ultimo lo prendesse sotto la sua prote-
zione. Fatto ci6, non trattenendomi alcun altro affare al monastero,
risolvetti di partire : ma fui costretto fermarmi altri quattro giorni,
per aspettare la partenza della carovana, solita a portarsi al villag^io.
7. Un giorno mi si present^ un monaco dei piu vecchi, e mi do-
mand6 se per awentura conosces&i la medicina.2 Gii risposi che me
ne intendeva un poco; ma che, non avendo portato meco alcun far-
maco, non poteva occuparmene. Allora comincio a raccontarmi
una storia si lunga dei suoi malanni, che non la finiva piu. II
pover'uomo era afflitto da una brutta malattia. — Ma che posso
farvi io ? — gli dissi finalmente. Aliora gettandomisi ai piedi, e strin-
gendoli e baciandoli : — Abbiate pieti di me, — diceva — io son per-
duto, non sono n6 uomo n& donna, e tutti mi fu^ono. — Voleva
farsi osservare : ma per Jevarmelo d'attorno, gli dissi che non face-
va bisogno, e gli promisi che, giunto al villaggio, dove teneva il
bagaglio, gli avrei mandate una medicina, che immancabilmente lo
avrebbe guarito. Tuttavia non mi iasciava un momento tranquillo,
e mi tenne quattro giorni in un vero martirio. Quello poi che piu
mi faceva stizza non era la sua noiosissima insistenza : ma la sma-
nia che aveva di raccontarmi cose che io non voleva sentire, ed il
lamentarsi sempre che non era ne uomo ne" donna!
8. Finalmente giunse il giorno della partenza; e nulla ancora si
era potuto fare per Michelangelo. Tuttavia io non disperava di
averlo meco nel viaggio; poiche, quantunque egli si trovasse cotk
tra il numero di coloro ch*erano sotto vigilanza, e per raffezione
che tutti gli portavano, non lo perdes&ero mai di vi&ta; pure la stima
in cui avevano la mia persona, ed i regali loro fatti, quasi sein-
pre per mano sua, mi facevano sperare che, domandandolo per
compagno sino al Nilo, iK>n me lo avrebbero negate. Per meglio
c^tenere Tintento, pensammo di rivolgerci al monaco anomalato; e
i. monsignor Ddeg&to: era allora vicario e delegato ^o«tolico per FEgitto
Perpetuo Guasco. 2, l& medicina: 1'arte
768 GUGLIELMO MASSAJA
facendogli conoscere che, ritornando dal villaggio, non solo gli
avrebbe riportato il medicamento, ma anche la regola da tenere
nella cura, facilmente si sarebbe impegnato di ottenerci dal supe-
riore e dai suoi vecchi colleghi un tal permesso. Intanto nel dubbio
che i nostri disegni non fossero riusciti, ed egli sarebbe stato co-
stretto restare in quel luogo dopo la mia partenza, gli diedi una
sommetta di danaro per servirsene a fuggire in altra maniera, gli
consegnai le lettere di raccomandazione, e lo mandai dal monaco.
I nostri desiderii furono appagati : quel povero vecchio, contento e
riconoscente di tanta premura che ci prendevamo per la sua salute,
seppe si bene perorare presso i suoi confratelli, che il permesso fu
accordato,
9. La carovana essendo pronta a mettersi in viaggio, i monaci
raccolsero tutte le pagnottelle che aveano ricevuto nelle due se-
guenti Messe, e me le offrirono in segno di loro affezione. Ed io alia
presenza di tutti consegnai al superiore un napoleone, affinch6 lo
spendesse in carne ed acquavite per quei bravi monaci. Allora il
detto superiore mand6 a cogliere il resto dell'uva che si trovava nel
giardino, e me ne riempirono un canestro, per mangiarla lungo il
viaggio. Non credeva che dovessero provare tanto dispiacere per la
mia partenza; e ne fui commosso quando vidi che molti si sepa-
rarono piangendo. II vecchio monaco ammalato lottava fra due
affetti, quello di dolore, perch6 vedevami partire; e quello di alle-
grezza per la speranza di avere la medicina e risanare della sua ma-
lattia ; e perci6 ora stringeva i piedi miei ed ora quelli di Michelan
gelo, augurandogli un presto e felice ritorno. Piu della meta mi vol-
lero accompagnare per un lungo tratto di strada, e mi ci voile di
tutto per farli ritornare. Nel congedarmi il monaco ammalato
esckmd : — Questo signore non & n£ uomo n6 donna, — e diceva
il vero secondo il senso ch'essi davano a queste parole — ma & un
angelo venuto dal cielo, per portare la benedizione alia nostra
comunita.
10. II monastero contava circa sessanta persone; dodici dei quali
tenevano i diversi ufficii, ed amministravano le rendite; altri dodici
iibbidivano direttamente alFabate, e ricevevano un soldo partico-
lare, perche erano addetti al servizio della comunita, ed infliggevano
i castighi dati a ooloro che commettevano mancanze. Una quindi-
dm. poi vi si tenevano rinchiusi per punizione, mandativi o dai ve-
scovi o dai genitori, e questi erano invigilati severamente; tutti gli
MISSIONS NELL'ALTA ETIQPIA 769
altri in fine erano aspirant!. Da quanta potei osservare, mi ac-
corsi che neppur i'ornbra dello spirito monastico si trovava fra di
loro, e nemmeno dello spirito evangelico e cristiano. Tolta qual-
che esteriore apparenza di vita monacale, tenuta piu per conservare
la casta, o la nazione, come la si dice, nel resto erano peggiori dei piu
depravati secolari; i quali, per rispetto alia societa in mezzo a cui
vivono, hanno pure un po* di pudore e di ritegno: ma quegli
eretici in veste monacale non conoscevano ne ritegno, n& pudore.
E quindi quel luogo destinato alia santita, e fatto per allevare uo-
mini adorni di grazie e di virtu, era ridotto ad un ergastolo per
alcuni, e ad una scuola di brutali immoralita per tutti. Nessuna
meraviglia adunque se il monastero, un tempo si straordinaria-
mente popolato di cenobiti, allora contava un si sparuto numero
di monaci. L'eresia lo aveva isterilito; ed i pochi aspiranti che vi
accorrevano, vi andavano piu per ambizione, e per assicurarsi un
sostentamento ; anziche per seguire S, Antonio nella via della pe-
nitenza e della virtu.
ii. Ritornati i monaci al monastero, restammo noi due soli con
tre cammellieri che ci accornpagnavano. Non comprendendo questi
la nostra lingua, potevamo parlare liberamente: e quel viaggio in
verita fu una delizia: due giomi e due notti ci parvero due ore. II
nostro discorso si aggirava sempre sulla sua fuga, e sulle cautele da
usarsi per non mettere a rischio ogni cosa. Egli avrebbe desiderato
di venire con me; ma, dovendo io viaggiare per paesi popolati in
parte di copti, la sua compagnia sarebbe stata pericolosa per lui
ed anche per me. — II miglior partito — gli dissi — e quello di re-
carti in Egitto, e presentarti alle persone per le quali ti ho date le
lettere. Giunti alPospizio, affetterai queiia prudente indiflFerenza
che hai mantenuta al monastera, per non isvegliare sospetti, e
per esser piu Hbero a cercare un mezzo di fuga: indi, partito io,
dopo uno o due giorni, travestito, fu^irai di notte, costeggiando
sempre la sponda del Nilo; ed incontrata la prima barca, se pure
non ti riusciri di accaparrarla prima, entrerai in essa, pagando qual-
che cosa, ed anche adattandoti a fare il barcaiuolo, finche non giun-
gerai al Cairo. Poscia senza entrare in citta, dove i copti sono nu-
merosi e potenti, sopra un*a!tra barca ti porterai direttonente ad
Alessandria: ivi presentandoti con le mie lettere a monsignor De-
legato ed al console generale francese, ti lascerai guidare da essi,
e ti assicuro che tutto andera bene. — II buon giovaae, riconoscendo
770 GUGLIELMO MASSAJA
la saggezza di questi miei suggerimenti, si acquetb al mio consi-
glio, e si dispose a metterlo in esecuzione.
12. Dopo un felicissimo viaggio, la mattina del terzo giorno era-
vamo a vista del villaggio; e quei monaci avendo gia inteso rela-
zioni della mia liberalita, e deiraffezione con cui era stato trattato
al monastero, mi aspettavano con impazienza. II mio arrivo fu per
loro come quello di un fratello; poiche non mi riputavano piu come
un pellegrino od un forestiero, ma come un membro della famiglia.
Mi prodigarono quindi gentilezze di ogni sorta, e volevano assolu-
tamente che restassi a pranzo con loro: ma preferii meglio ritirarmi
nella barca che lo scitk, da me awisato, aveva fatto trovar pronta,
adducendo la scusa che, dovendo presto partire, bisognava allestire
con premura le mie cose, II primo pensiero fu quello di soccorrere
il povero ammalato del monastero; e percio, aperto il sacco da viag
gio, dove teneva la mia piccola farmacia, presi una trentina di pil-
lole, cornposte con lieve dose di sublimate, di cui mi era prowe-
duto in Torino alPospedale de' Cavalieri, e le consegnai al superiore
delfospizio. Poscia, fingendo di non fidarmi di Michelangelo, lo
pregai a scrivere esso stesso in lingua araba il metodo da tenersi
nella cura: e Michelangelo poi, ritornato al monastero, avrebbe ri-
ferito a voce altre particolarita, per6 segretamente. In quei paesi
caldi la sifilide e molto piu mite che tra noi, ed & piu facile a cu-
rarsi: si manifesta piuttosto cancrenosa che bubonica, e con una
mezza dose di sublimate si ottiene quasi subito la guarigione.
13. Essendo pronti tutti i barcaiuoli, feci trasportare il bagaglio
nella barca; e presi gli ultimi accordi con Michelangelo, che mo-
stravasi pieno di fiducia e di speranze per la sua liberazione, la sera
ci recarnmo alFospizio per congedarmi da quei monaci e dallo
$ci£k. Pagate al superiore alcune spesuccie, che aveva fatte per me,
aggiunsi qualche moneta di piu, pregandolo di comprare qualche
cosa, e mangiarla con gli altri per amor mio. Indi ci abbracciammo,
e ritomai alia barca. Verso il mattino cominci6 a spirare un venti-
celio favorevole, sicch^, leva^i Tancora, si parti, ed alb spuntar del
sole avevamo perduto di vista il villaggio. Ma 1'animo mio era in
preda md una grande agitazione, pel passo che stava per dare il giova-
nc propagandista. Temeva che non riuscisse a fuggire, o che poscia
avesse ad incontrare maggiori guai e dispiaceri. Da parte mia intan-
to non potei fiare altro che raccomandarlo al Signore ed alk Vergine
, afiinch^ lo assistessero in quei pericoloso cimento.
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA JJl
14. Solamente quattordici anni dopo potei avere notizie di lui
e della sua fuga. Egli parti di notte, come si era convenuto, cammi-
nando a piedi per due giorni continui : trovata po&cia nella citta vi-
cina una barca, si reco al Cairo, e di lii sul vapore giunse in Ales
sandria. Monsignor Delegate lo tenne qualche giorno na&co&to,
finche poi, preso dal console generak francese sotto la sua prote-
zione, pote con lui trasferirsi in Cairo. Ivi trov6 i suoi parenti, i
quali gia si erano convertiti al cattolicismo : e ricevuto in casa da
monsignor Abucarim, fu ordinato saccrdote. Ed oggi trovasi an-
cora in Cairo col nome d'Abba Potros (Padre Pietro), e lavora con
zelo nella Chiesa del Signore. Nei miei viaggi, passando dal Cairo,
sempre e venuto a trovarmi; ed ogni volta, gettandomisi ai piedi:
— Voi siete — esclama — il mio angelo Hberatore!
[FRA i PASTORI
1 6. Ifagh3 in quel tempo e sotto il regno di R&s Aly3 era il centro
di tutto il commercio dell'Abissmia. Per la sua po&izione geogra-
fica, le carovane dovevano nccessariamente dirigersi o passare pel
suo territorio, tanto quelle del sud-ovest, che per la via Goggiim
portavano i prodotti dei Galla, quanto quelle del sud-est, che ve-
nivano dallo Scioa. Quelle inoltre che dalia costa di Massauah
portavano le mercanzie straniere, e quelle che dalk via di Metam-
ma e del Sudan venivano dalFovest e dal nord, facevano necessaria-
mente stazione in Ifagh. II suo clima sempre dolce, e la sua tempe-
ratura sempre uguale lo rendevarto i! luo^> piu sano e piii amem>
di tutta TAbissima. Posto in un'altezza media, e ricco di acqua,
i suoi terreni producevano ogni sorta di cereali: onde vi era abbon-
danza di grano, di bestiami e di erba, cose tutte necessane ai
viaggiatori ed alle carovane, che devono camminare con grande
quantita di bestie da trasporto. La vicinanza poi del kgo Tsana, lo
1. Ed. cit., vol. il, dal cap. XI (La steg&me delie pi&ggis in Ifogk\ j^>. 132-5-
2. IJaghi la localiti, che si trova ad est del tego Tana, fu ra^iunta dal
Massaja nell'agosto del 1852, ed egli, fcrmato daile pi<^ge, vi dinted tcevc
tempo, pa^aB<k> anche quikfee scttimana nel vicuao territorio abitato daHe
triHi dei Zelian, 3. R& Afy, capo di una famiglia Galk cfac rktedcva
a Goodar, era allora il maggior sovrano delle terre deirAbis&tnia. Cotitro
di lui, dopo una iimurrezione presto dotnata del degiac Ubie, si kv6 (iS4i
circa) un uomo di umile origiue, Ka^a, i! futuro Teodoro, che riusci a
scoafiggeiio, a entrare trionfafite a GOCK^T (1855) e a scctomettere e uni-
ficare sotto di si quasi tutta TAbissinia,
77^ GUGLIELMO MASSAJA
prowedeva abbondantemente di pesci, cotanto necessarii a quei
popoli per i lunghi e frequent! digiuni, cui sono obbligati. Poco
lontani, si trovavano i Zellan, un popolo che attendeva alia pasto-
rizia, e che possedeva una quantita immensa di bestiame : e questi
mandavano giornalmente in Ifagh carne, latte, formaggi e butirro
per poco prezzo. Piu, il governo riguardava questo territorio come
iuogo immune, onde i soldati non potevano restarvi gran tempo;
il che favoriva molto la sua prosperita, essendo il soldato in Abis-
sinia la prima piaga dei paesi.
17. Per tutti questi motivi la citta d' Ifagh era popolatissima;
allora contava circa dieci mila abitanti, oltre un quattro mila che
andavano e venivano per ragione di commercio. In questo miscu-
glio di cristiani di nome, di pagani, di mussulmani, la piu parte arabi
fanatici ed immoralissimi, lascio considerare che sorta di corruzione
vi dovesse dominare! Era una cloaca di ogni immondezza, che ap-
pestava chiunque per awentura vi fosse capitate. Ne si trovava al-
cuno che valesse a dire una buona parola, o dare un buon esempio;
poiche* quei miserabile clero eutichiano1 era piu corrotto del popolo
medesimo. Povero Ifagh! Pochi anni dopo non esisteva piu; la bar-
bara spada di Teodoro2 lo avea totalmente distrutto: e net 1879^
passando io di la, neppure vestigio potei vedere dell'antica citta.
Le sole chiese stavano in piedi e quasi abbandonate!
1 8. In questo Iuogo centrale di commercio non doveva mancare
il traffico delta carne umana,4 e vi si faceva spudoratamente in
grande. II messelenie5 del Nagadaras mi diceva che piu di due mila
schiavi stavano registrati in dogana» ed una gran parte stipati in
I. clero eutichiano: clero copto, seguace deU'eutichianesimo. Eutiche (378-
454), monaco e teologo, aveva sostenuto la presenza, in Cristo, della sola
natura divina. I suoi seguaci, eutichiani o monofisiti, sono numerosi in
Abissinia. 2. Teodoro : vedi la nota 3 a p. 771 . Teodoro, per Tatteggiamento
preso contro i rappresentanti consolari dell'Inghilterra, provoc6 una spedi-
zione inglese, comandata da Sir Robert Napier, cui la vittoria frutt6 il titolo
di Lord Napier of Magdala. Costretto a ritirarsi a Magdala, vi fu assediato
e, quando k citta fu conquistata, si uccise ( 1 868). 3. nd iSjg : in queH'anno
ii Massaja, per volonta del nuovo imperatore, Giovanni IV (1872-1889),
fu costretto ad allontanarsi dallo Scioa e a tornare definitivamente in Euro-
pa (vedi il Profilo biografico). Si dissolvevano di conseguenza i tanti centri
di civilta cattolica da lui creati durante il suo apKistolato. 4. il traffico della
came umana : il commercio degli schiavi era allora sviluppatissimo, soprat-
tutto per opera delPelemento mussulmano. II Massaja si occup6 moltissi-
mo di cjuesto barb^ro costume, richiamando su di esso anche Tattenzione
<^i goveimi europei. 5. // meudeml^ o melasn&> & il sindaco, il rappre-
sentante deirautorita locale.
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 773
luride capanne. Volli visitare una specie di fondaco di quests mer-
canzia umana, e vi andai col confessore e col figlio dello stesso
Maquonin.1 Entrati, trovai un largo reclnto, sparso di capanne di
varia grandezza, tutte sudicie, mal costrutte, e con poca paglia per
terra. II confessore ed il giovane si accostarono al padrone, e gli
parlarono in segreto. Seppi poi che, per avere maggior liberta, gli
dissero che io era andato con intenzione di comperarne alcuni : il che
era falso. Ci fu offerto il caffe, e poscia ci mettemrno a visitare al-
cune di quelle capanne. Qual vita era costretta a rnenare in quelle
luride stalle la creatura piu nobile delPopera di Dio! Gli animali
si avevano miglior trattamento, e si usava loro piu compassione!
Finalmente mi condussero in una capanna, in cui vi stavano rinta-
nate sei o sette giovani schiave, che al nostro apparire si rannic-
chiarono in un canto, guardandoci stralunate. I miei compagni,
come se fossero due mezzani, le cominciarono ad osservare ad
una ad una con tanta libert& e spudoratezza, che rton potei tenermi
dal mostrar loro il mio disgusto; e lasciandoli soli cola, me ne uscii
tosto, e rni allontanai col cuore lacerato per la sventura di quei
miei fratelli e sorelle, ed anche stomacato del fare punto onesto ed
umano di quei due che mi tenevano compagnia. II confessore mi
racconto poscia tante cose rispetto a quelle povere disgraziate; e fra
le altre che grimmondi ed ingordi mercanti fanno un doppio nego-
zio di quelle misere creature, che hanno la sventura di capitare nelle
loro mani. O luce del Vangelo, quando illuminerai tante barbare re-
gioni, e porterai in mezzo a quei popoli la iiberta di Gesu Cristo ?
19. Restando in Ifagh, aveva un gran timore di essere ricono-
sciuto,2 molto piu che varie ragguardevoli persone indigene e fore-
stiere venivano continuamente a visitarmi, quantunque cercassi
di schivare ogni amicizia e corrispondenza con chicchessla. Ad evi-
tare pertanto questo pericolo, che mi avrebbe esposto a nuovi e
maggiori guai, risolsi di ritirarmi presso i Zellan, dove sarei stato
piu sicuro, ed avrei potuto fare una cura di latte fresco, di cui sen-
tiva gran bisogno. Intesomi col signer Maquonen, e senza neppur
r^trlarne al confessore, un giorno insieme con suo figlk) me ne par-
tii, portando meco il solo breviario, un po' di carta ed il calamaio.
Le abitazioni dei 2^ellin erano distant! circa tre ore di cammino, ed
i, M€»qucmtni k il nome dei melasmt di Ifagh, che fu ospitale e generoso
col Massaja, e il cui figlio divenne un ardente neofita» COIBC k detto neUe
pagme successive. 2. tim&re . . . nctmo&cwto: vedi la nota 2 a p. 761.
774 GUGLIELMO MASSAJA
arrivati, il giovane mi condusse in casa di un ricco pastore amico
di suo padre; dal quale fummo accolti affettuosamente, e trattati su-
bito con un vaso di latte fresco. Tosto mi prepararono una capanna,
abbastanza conxxk per me ; ed il giorno dopo il gio vane se ne ritor-
no in Ifagh, promettendomi di venire a rivedenni.
20. Una sessantina di persone tra padroni e schiavi compone-
vano quella famiglia, divise nelle varie mandre, in cui tenevano e
pa&colavano le diverse specie di animali. Di giorno non restavano
in casa che la madre ed i figli di minore eta, recandosi gli altri alia
guardia del bestiame, ed ai servizii della campagna; e la sera si riu-
nivano insieme sotto il medesimo tetto alia cena ed alia conversa
zione. Parlavano un dialetto proprio, ma conoscendo1 anche la
lingua amarica,2 poteva prender parte anch'io ai loro discorsi, II
cibo ordinario era il latte, quando sciolto, quando coagulato, e
qualche poco di carne; piu, pane di tief (della specie del miglio),
il quale inzuppato nel latte era molto buono e gustoso. Inoltre ag-
giungendo ad un cibo si semplice qualche tazza di caflfe senza zuc-
chero, che avea portato meco, me ne stava 1£ contento e tranquillo.
Questa famiglia sola possedeva circa due mila bestie bovine, oltre
le pecore e le capre : eppure con tante ricchezze vedevate in quella
casa tale ordine e semplicita, che sembrava una di quelle famiglie pa-
triarcali che leggiamo descritte nella divina Scrittura, Sembrerk in-
credibile, ma 6 pur vero, che la ma^ior parte di essi non erano mai
stati ad Ifagh. 11 padre e la madre mi dicevano che per tutto Toro
del mondo non avrebbero mandati i loro figli in citta, dove im-
mancabilmente sarebbero stati viziati e guastati da quella gente.
TalmentecM, tranne i pochi servi adcletti a portare ogni mattina il
latte, il btitirro e la came, nessuno si acaMava mai alia citli.
21. In quanto a religione pc^evaiK> chiamarsi piuttosto pagani
cbe <rktiaai. Non ricevevaao il battesimo; ma conoscevano i fatti
principal! della Bibbia, e priiidpataiente deIl*Antico Testamento,
ed aveinmo anche cogmzione delle feste cristiane, senza per6 com-
prendeme il mistero. Ttitte que^e o^se le avevano apprese dai
popoli cristimiii, vktno ai quali dimoravano, e con cui erano conti-
nuamente in commercio. Tratttndo anche con i mussulmani, si
p^ane introdotte pte^ di loro alcune pratiche maomettane:
S. cfm&tcmdo*. potchc es$a ccrK»cevano. 2. la lingua amarica ; la lingua uffi-
" ekrivata dail'antico etiopico o da un suo dialetto, e di
scfnitica» rrta coo vane infiltrazioni e miscugli.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 775
sicche* la loro religione era un misto di paganesimo, di cristianesimo
e d'islamismo. I costumi in generate corrispondevano alia sempli
cita della loro vita; e di fatto la legge del matrimonio, fonte della
prosperita delle famiglie, era fedelmente e costantemente osservata,
tanto dal padrone, quanto dai servi: ed appena si acquistava un
nuovo schiavo o schiava, subito si dava loro una compagna od un
compagno, che solo la morte poteva dividere. Vi era del guasto
nella gioventu, proveniente piuttosto da ignoranza che da malizia,
e dal non avere una voce paterna ed autorevole che insegnasse loro
sin dai teneri anni dove fosse il bene e dove il male. I cattivi esempii
poi e la coabitazione promiscua di giorno e di notte nelle medesime
capanne erano in gran parte la causa deila perdita della loro inno-
cenza: poich6, in queste occasions, apprendevano senz'accorger-
sene certe umane malizie, che svegliano innanzi tempo le naturali
passioni. Ne i genitori usavano quelia diligenza, e mostravano quel-
la severita rispetto aH'onesta dei giovani che veggiamo fra noi, e
che la legge naturale a tutti comanda. Nella loro ignoranza e forse
semplicita credevano che certe miserie si potessero permettere alia
gioventu, come puerili passatempi; e perdo, non che custodirli e
riprenderli, piuttosto li favorivano e vi prendevano sollazzo. Era
questo tutto il male che ebbi a notare fra quelia gente.
APOSTOLATO FRA I ZELLAN1
Mi accorsi sin dai primi giorni che quel guasto e quei disordini,
da me accennati piu sopra, e che deturpavano principalmente la
gioventu, non provenivano da malizia, ma da ignoranza; e quindi
giudicai che un po* di apostolato, fatto con awedutezza, con carita,
e con moderazione, avrebbe prodotto buoni effetti, moito piu che
alia semplicita univano una docilita di cuore non comune. Mi ri-
volsi pertanto pria di tutto ai genitori, e mostrai loro il danno che
ne veniva al fisico ed al morale dei loro figli, permettendo ad essi
certi atti contrarii alia modestia ed alia natura medesima. Feci loro
conoscere la sconvenienza di mettere a dormire i giovani nelle stesse
capanne in cui dormivano i maritati; ed inoltre il brutto costume di
lasciare negli stessi letti Tuno e Taltro sesso, anche quando giun-
gevano ad un'eta un po' avanzata. Narrai loro la cautela e la dili
genza che sotto questo rispetto si suole usare nei nostri paesi dai
i. Ed. cit., vol. n, dal cap. xn, pp. 136-41.
776 GUGLIELMO MASSAJA
genitori, ed il bene che se ne ricava si per la moralita, si pel florido
sviluppo materiale del giovani. Queste esortazioni, nuove per quella
buona gente, fecero una qualchc impressione sull'animo loro, e ri-
conosciutele savie e vantaggiose, mi promisero di metterle in pra-
tica; e nel tempo stesso mi pregarono d'insinuare tali buone mas-
simc non solo ai giovani, ma anche al resto della famiglia. lo non
¥olli altro, contento di trovare un terreno cosi ben disposto, mi
misi all'opra, sperandone con la grazia di Dio un copioso frutto.
2, In pochi giorni di paziente e paterno apostolato aveva gia ot-
tenuto molto ; e quei giovani non solo si mostravano docili alle mie
parole, ma mi si erano talmente affezionati, che non me li poteva
togliere da canto. II piu piccolo dei figli principalmente non sapeva
staccarsi da me un solo momento; egli aveva circa quindici anni,
grazioso d'aspetto e di mente svegliata, e di un'indole si dolce e
mansucta che potevate piegarlo dovunque si volesse. Si chiamava
Mel&k; e veramente il nome gli conveniva perfettamente: poiche'
Melak in lingua abissina vuol dire angelo, e quel caro giovane, tolta
la nerezza della pelle, si aveva di angelo le forme ed il cuore. Era
tanto avido di apprendere il bene, che non solo si mostrava assiduo
ed attento a tutte le istruzioni ch'io faceva in comune, ma voleva
che in particolare gli raccontassi esernpii di santi, e gFinsegnassi
quelle cose che avrebbe dovuto fare o tralasciare per diventar buo-
no. In pochi giorni aveva gik imparato i comandamenti di Dio, il
Pater noster, \*Ave Maria, e qualche parte del Credo; le quali cose
poscia andava a ripetere con gioia ai genitori, e si affaticava inse-
gnare ai suoi fratelli e compagni.
3. Un giorno mentre io recitava il breviario, Melak corse aifan-
nato da me, invitandomi con premura a seguirlo. Andato, trovai
un suo fratello maggiore che faceva certi atti riprovevoli: onde,
preso uii t^tstone, ini diedi a minacciarlo e rimproverarlo. Li per li
intimorito si allontand fuggendo, ma poi awicinatosi, mi disse con
arroganza : — E perch£ non posso fare io cio che fanno le pecore e le
c^pre ? — Figlk) mio, — gli risposi — fra te e le capre vi e una gran
differenza: tu parli, e le <^pre non parlano; tu ridi e piangi, e le
capre oe" ridoiK> a6 piangono : esse guardano sempre alia terra, in cui
tr0v»iK> i loro godimenti, e tu guardi al cielo, dove credi che ci sia
qualche cosa superiore a te, di cui hai bi^>gno, ed in cui spesso
tnm cxHift^to e sollievo. Esse inoltre sono stupide, ed han bisogno
di uno cbe le govern! e k guidi; laddove tu sei intelligente, e fatto
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 777
per governare non solo le capre e le pecore, ma tutti gli altri animali
ed esseri che sono sulla terra. Esse poi, fatto il loro tempo, s'in-
grassano, e poscia vengono ammazzate e mangiate dall'uomo; tu
non hai questo umile destino. Esse insomma sono bestie, e tu sei
uomo. Vorresti adunque assomigliarti alle capre ? saresti contento
se ti chiamassi caprone? ebbene, continuando ad imitare ci6 che
fanno le pecore e le capre, tu non sarai piu un uomo, sarai un ca
prone. — Melak, ch'era stato presente, ed aveva sentito tutto il di-
scorso, corse subito dal padre, gridando: — Padre mio, io non voglio
essere caprone, come pel passato, perche ora comprendo che sono
uomo. — Raccont6 poscia con ingenuita e schiettezza tutto cio ch'era
accaduto, concludendo sempre : — Io non voglio essere un caprone.
4. I genitori intanto persuasi intimamente delFutilit^ delle mie
esortazioni, e delle verita che andava ogni giorno insegnando, ave-
vano gia cominciato ad allontanare tutto ci6 che avrebbe potuto
essere d'incentivo a quelle tenere creature, ed una riforma totale
si era operata nella casa. II padre e la madre e le altre schiave ma-
ritate dormivano a parte, e si avevano tolti di letto le figlie ed i figli
grandicelli, come costumasi fra noi cristiani. I giovani poi dormi
vano separati vicini a me, e le giovanette in altra capanna con una
vecchia schiava, tenuta in casa come una seconda madre. Non si
permettevano piu quelle liberta e quelle facezie, che prima del mio
arrivo erano cose usuali fra i giovani, e si aveva cura di tener sepa
rati i piu grandetti anche di giorno, occupandoli in servizii materiali,
e piu spesso ad ascoltare le mie istruzioni, ed imparare le cose per-
tinenti alia Fede. In pochi giorni insomma era successo in quella
famiglia un mutamento tale, che chi vi fosse capitato per la prima
volta, Pavrebbe riputata una famiglia veramente cristiana.
5. Lo stesso cambiamento avrei desiderato nel loro interno; ma
ci6 non dipendendo solamente dalPopera mia, ma ben anco dal
lavoro della Grazia, faceva d'uopo pregare ed aspettare, ed insieme
attendere assiduamente ad illuminare quelle menti, e sanare quei
cuori. Non trovava ostacoli ed opposizioni in quanto a dottrina;
poich6 erano menti vergini, e non guasti, come gli altri Abissini,
dagli errori e dai pregiudizii dei mussulmani e degli eretici. Un
po' di difficolta stava nel correggere i costumi e la viziata natura;
e per ottener questo mi adoprava con modi semplici e familiari a
gettare nei loro cuori continue massime, atte a calmare le passioni ;
e awalorando sempre i miei discorsi con i dettami della legge na-
778 GUGUELMO MASSAJA
turale e con quelle ragioni che potevano essere comprese dalla loro
limitata istruzione, mi sforzava persuaderli della necessita di raf-
frenare e vincere le cattive inclinazioni. — Vedete, — diceva un
giorno — ciascun di noi abbiarno sempre a lato un angelo che
ci parla al cuore, che ci comunica la parola di Dio, e ci dice
quello che dobbiamo fare o evitare, per crescere buoni in que-
sta vita, e meritare poi i verJ godimenti che ci son preparati dopo
la morte. E dalFaltro lato ci sta a canto il demonio, il quale pure
a sua volta ci fa sentire la sua voce bugiarda, ci lusinga con pro-
messe e con piaceri, e ci parla un linguaggio tutto opposto a quel
lo dell'angelo, per indurci a commettere il male ed offendere Dio.
Or se noi diamo ascolto a quest'ultimo, e facciamo ci6 ch'esso ci
suggerisce e consiglia, 1'angelo si affligge e si allontana, e ci lascia
in compagnia del demonio, il quale per averci ingannati, tripudia
e se la ride. II nostro cuore intanto resta in pena, prova dispiacere,
si sente come in mezzo alle spine, e si accorge d'aver perduta la sua
felicita. — Vero, vero, — ripigliava subito a dire Melak — Tho pro-
vato io facendo alcune brutte azioni; prima sembrava tutto dolce
e piacevole, ma poi dopo subentrava la pena, il dispiacere, ed una
certa afHizione ed infeliclta che non sapeva spiegarmi donde fossero
venute. Ora si lo comprendo, tutto ci6 certamente proveniva dal-
l*avere offeso Iddio, e dalPessersi allontanato Tangelo,
6. Ogni giorno era solito fare una passeggiata accompagnato da
Melak, e da altri della farmglia, quando si trovassero liberi: e
spesso visitavamo or Tuna or Taltra campagna, dove i pastori tene-
vaiK) k mandrie e pascolavano gli armenti. Per istrada non si par-
lava die di Dio ; poiche\ principalmente Melak, non volevano sen-
tire die stone di santi e cose di religione. Io raccontava loro le
preglriane e le pratiche di piet^ che si facevano nelle nc^tre famiglie
cristiane, qualche esempio di santi piu popolari, e principalmente
i ^tti delia Ssu:ra Scrittura, la vita di Gesu Cristo e della Madon
na, ed altre cose che meglio mi aprivano la strada ad opportune
ktrazionL Melak stava il piu attento di tutti, e giunti alle mandrie,
pf^fideva efli la jmrola, e raccontava ai suoi compagni quello che
10 aveva des^> sia nel giorno, sia nelle <x>nferenze che soleva fare la
acfa. Insegntva quindi, con una premura che mi riempiva Tanimo
<ii consokzione, i comandamenti di Dk>, e raccomandava a tutti di
si da oeiti atti che ci fanno lasciare di essere uomini, e ci fan
otpfiofii Oh quanto avrei dato per condurre meco questo
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 779
giovane! In poco tempo e con lieve fatica ne avrei fatto un fervo-
foso missionario, cotanto necessario per quei poveri indigem : ma
non era neppure a pensarne; poich6 fra tutti i figli, esso era Tidolo
del genitori, e non 1'avrebbero ceduto per tutto Poro del mondo.
7, Intanto, senza quasi accorgermene, erano gia passati quindici
giorni che mi trovava fra quei buoni pastor i, quando venne da
Ifagh il figlio di Maquonen per ricondurmi a casa. Appena si seppe
ci6 dalla famiglia di Zellan, fu una costernazione generale, e geni
tori, figli, schiavi comindarono a scongiurarmi ed a preganni di
non abbandonarli cosi presto. Melak piu di tutti non voleva sen-
tirne di partenza, e minacciava d'inimicizia Maquonen se avesse
insistito a portarmi via. Finalmente tanto dissero e fecero pres&o di
lui e di me, che fummo costretti sospendere la partenza, e restare
ancora altri giorni in loro compagnia. II giovane d' Ifagh doveva
ripartir subito : ma vedendo quelPinsolito entusiasmo da me susci-
tato nella famiglia dei Zellan, voile restare sino al mattino seguente.
A mezzogiorno dunque si pranzo piu allegramente, e dopo si usci
per la solita passeggiata, ed andammo a visitare un'altra mandria di
pastori che non avevamo veduta. Per istrada Melak e gii altri gio-
vani erano sempre attorno al figlio di Maquonen, raccontandogli
tutto ci6 che avevano inteso ed imparato da me : ed egli n'era cosi
meravigliato che stentava a credere quanto sentiva. Giunti al luogo
che dovevamo visitare, dopo avere osservato ogni cosa, dissi anche
1£ alcune buone ed opportune parole, e poscia mi ritirai per lasciare
Melak piu libero a parlare delle cose di Dio; poich£ la sua non
sospetta parola, unita con quelPinnocente e fervido zelo, faceva
maggiore impressione della mia sull'animo di quegPindigeni.
8. Poco dopo venne a trovarmi il fratello maggiore di Melak,
quello ch'era stato sorpreso nell'atto di commettere un fallo, e quasi
piangendo : — Ella mi perdonera, — disse — e mi vorra bene, co
me a tutti gii altri, poich6 le giuro che non commetterd piu quelle
mancanze. Melak dice ch'egH era prima un caprone: ma il vero
caprone sono stato io, che ho scandalizzato tutti; per Tawenire
per6 neppure io sar6 un caprone. — Vi era tanta ingenui^ in que-
sta confessione, che me Io abbracciai, e dandogli buoni consigli,
ed assicurandolo che il Signore ed il suo angelo Io avrebbero aiu-
tato e custodito, gii feci coraggio e Io benedissi. Partito lui, venne
il figlio di Maquon6n a lagnarsi meco, che ai Zellan aveva dette ed
insegnate tante belle cose, laddove in Ifagh, che pure ne aveva
780 GUGLIELMO MASSAJA
tanto bisogno, mi era sempre trattenuto in discorsi estranei alia
religione ed al costumato vivere. — Hai ragione, — risposi — ma
questi son pagani e non hanno Kifa;1 laddove voi siete cristiani,
ed avete molti Kit* che possano istruirvi; e certamente essi si
adonterebbero se venissero a sapere che io forestiero m'impicciassi
degli affari che appartengono a loro. — Si, e vero tutto questo: —
soggiunse quel povero giovane — ma sappia che se io sono un de-
monio, il Kih, confessore di mia rnadre, e piu demonio di me,
essendo state egli che mi ha eccitato a tante brutte cose. Insegni
adunque anche a me quello che ha insegnato ai Zellan; poiche
anch'io voglio essere buono. — Senza cercarla, mi accorsi di aver
fatto un'altra conquista, e ne ringraziai Iddio. — Pero, tu domani
dovrai partire, — gli dissi— quindi e inutile cominciare sta sera;
ti basti per era quello che hai inteso : se tuo padre ti dara licenza,
ritornerai presto, e cosi vedremo di appagare il tuo desiderio. In-
tanto guardati dal far motto in Ifagh di cid che hai veduto ed in
teso, ahrimenti non saremo piu amici.
[DA ZEMIE AL GUDRd]3
Zemie^3 era per me come la sospirata meta di circa sei anni di pe-
regrinazione ; poich6 per giungere da quel paese ai Galla non mi
restava che a dare un passo. E finalmente vi arrivai il 23 settembre
del 1852, due giorni prima del Maskal abissino, ossia della festa
deirEsaltazione della Croce, che, come i lettori ricorderanno, gli
Abissini celebrano con gran solennit£, piu civile che religiosa,
perche" con essa s'intende festeggiare la chiusura dell'inverno e
1'apertura dell'estate.4
Ai cinque giovani che mi seguivano io aveva sempre detto che
mi sarei fermato a Base; onde, vedendomi inoltrare piu al sud, e
1. *Cosi chiamansi i preti nell'erctica Abissinia* (nota del Massaja).
2. Ed. cit, vol. n, dal cap. xrv (// meduo Bartorelli a Zemie), pp. 176-87.
3. II villaggio di ZffJfK/, nella parte meridkmale del Goggiam, sorge a
poca distanza dall'ansa meridicm^e dell'Abbai o Nilo Azzurro. II fiume,
in questo trmtto, segna il confine con le terre meridionali del Gudra e
dclle altre regioni abitate dai Galla. Si ricordi che il Massaja aveva avuto
I'incarico di focidajre UBa mis&iooe tra i Galla. 4. MaskM , . . estate: in
altre pagine della sea opera il Massaja descrive la festa del Mask&l, che
lift luogo al terminc delle piogge e segna, aU'equinoxio di autunno, I'ini-
zio non. dell'estate, ma della primavera abissina, anzi, tecnicamente, del
IMKWO tnno etk)pico. Una descriziooe delle feste del Maskal a Zemi£
vicnc data qui, subito dopo.
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 781
poscia sentendo che fosse mia intenzione pas&are in Gudru, te-
meva che, non sentendosi di lasciare TAbissinia, mi avrebbero
chiesto di ritornare ai loro paesi: in vece li trovai non solo disposti
a restate con me, ma risoluti di seguirmi fra i Galla, e dovunque
avessi voluto andare. A cio aveva contribuito anche il mio Morka,1
il quale in quei tre giorni ch'erano stati insieme li aveva con la sua
ingenua ed efficace eloquenza si grandemente invaghiti della nostra
vita, e delle dolcezze che Gesu Cristo e la cattolica religione apporta-
no alle anime, che non sospiravano altro se non di essere maggior-
mente istruiti, ed ammessi alia partecipazione dei Santi Sacramenti.
2. L'Esaltazione della Croce e la piii gran solennita dell'Abissi-
nia eretica. In essa il popolo £ tutto in movimento; inviti, pranzi,
fuochi, canti, ogni sorta insomma di allegria allieta il grande ed il
piccolo, la casa del povero e quella del ricco. In quei giorni il re
siede a sontuosa mensa con i Grandi della Corte e con gli altri im-
piegati;2 i capi d'esercito distribuiscono ai soldati carne, pane e
birra abbondantemente ; le autoritk delle provincie e dei paesi in-
vitano a pranzo i loro subalterni e le persone ragguardevoli dei
luoghi; in una parola feste e baldoria per tutti. Grandi fuochi
inoltre si sogliono accendere da per tutto, dove la sera che precede
la festa, e dove allo spuntar del giorno. In molti paesi cristiani
poi questi fuochi si fanno dinanzi le chiese, ma in altri per le vie e
presso le case di ciascuna famiglia; il quale uso venne poi anche
imitato da alcuni popoli galla. Ai fuochi finalmente si aggiungono
canti in lingua sacra e nei particolari dialetti delle diverse popola-
zioni, ed altri segni di allegria.
Questa festa inoltre ha una particolare importanza presso quei
popoli, primo perche dopo di essa e solito che incomincino i mo-
vimenti dei soldati, quando quelle tribu si trovano fra di loro in
guerra; ed io per questo motivo aveva anticipato la partenza da
Ifagh: secondo, perch6 Fanno abissino corninciandosi a contare
dal mese di settembre, & dopo questa festa che la corre a tutti Pob-
bligo di pagare i tributi, dovuti al re ed alle altre autorita.
3. La sera del 24 settembre adunque fui invitato da Workie-Iasu3
per assistere con lui airaccensione dei fuochi; e giunti dirimpetto
1. Morka: uno dei due indigeni (1'altro fc Berru) convertiti e battezzati dal
Massaja a Guradit, nel suo primo tentative di introdursi nelio Scioa.
2. impiegati: dignitari, ministri. 3. W&rkie-Iasu: era il fitorari di Zemi£.
Fitorari ofilcntrari e titolo onorifico militare, quasi a dire * generate ». Eti-
mologicainente, significa: colui che conduce Tavanguardia.
782 GUGLIELMO MASSAJA
alia chiesa, trovammo i tapped stesi per terra, e sedemmo, Workie-
lasu in mezzo, io ed i suoi impiegati attorno. Pochi metri lungi da
noi stava piantata una lunga pertica con un gran mazzo di fiori in
cima, ed alia quale se ne venivano continuamente aggiungendo
altre, ugualmente ornate di fiori, che i contadini portavano da varie
parti. Avendone radunate un mucchio di oltre un centinaio, usci-
rono di chiesa i preti ed i diaconi vestiti in sacro con croce, libro e
turibolo, e cominciarono alcune letture in lingua gheez,1 che a rne
sembrarono tratti di storia di S. Elena, di Costantino e di Eraclio.2
Avendo chiesto che cosa dicessero, nessuno seppe darmi risposta;
poich6 nessuno comprendeva quella lingua. Dopo queste noiose
letture, che durarono circa un'ora, un prete fece tre giri attorno a
quel mucchio di pertiche, incensandole replicatamente ; poi, co-
minciando dai Grandi, fecero tutti i loro tre giri cantando certe
strafe in lingua volgare, e poscia vi appiccarono fuoco. Intanto sino
a tarda ora seguitava a venire gente dalle borgate vicine, cantando
canzoni popolari, e portando in mano grandi fiaccole, che gettavano
nel fald benedetto. Quando poi fu tutto consumato, il popolo si
ritir6 alle proprie case.
4. Ed anche noi ci ritirammo in casa di Workie-Iasu, dove si
trovd apparecchiata la gran cena del Maskal. Alia prima tavola
sedemmo io, Workie-Iasu, un suo fratello ed un suo cugino, ed
alle altre i Grandi della Corte e gl'impiegati superior! : poscia ce-
narono i soldati particolari del fitordri, indi i servi, e finalmente gH
schiavi e la gente di casa. A noi per here fu portato idromele, agH
altri birra: tutto per6 era abbondante, principalmente la carne,
apprestata cx>tta e cruda, e condita con gPinevitabili peperoni
rossi. Si faceva un baccano indescrivibile, si stracciava carne, prin
cipalmente cruda, come tanti lupi affamati, ed i corni di birra si
succedevano Tuno all'altro senza interruzione : sicche appena a
inezzaiK>tte potei liberarmi da quella baldoria, e ritornare alle mia
capanna. Ne! giorno del Maskal non vi sono inviti, perch6 ciascuno
solennizza k festa con la propria famiglia; gli inviti poi si fanno
nei giorai seguenti,
i. ghftz: o, piii eaattamente, ge*est & k lingua dciraaitka Etic^pia, conser-
VBta »o4tam£o nelk liturgia c^>ta (vedj la nota 3 a p. 750). 2. *S. Elena fu
la pc»ci|>essa ai^iica madre dell'imperatore Costaatim, e la sua vita di
peecatrke, e di ardcnte cristiana dope la coovemorie, fe fra le piCi dranima-
tkfee d^U'agiografia cattolka; ErocHo I fu inip^atort d'Oriente dal 610
a! 641 e lott& a lungo contro Fislamismo.
MISSIONE NELL'ALTA ETIOP1A 783
5. Zemie essendo posto alPestremita sud deH'Abi&sinia, forma
la frontiera meridionale del Goggiam, bagnata e difesa dalFAbMi,
ed & Fultimo paese cristiano di quella vasta regione. Al di la del
fiume, in faccia a Zemi6 si stendono tutti i paesi galla; all'est lo
Scioa, al sud-est il Liban-Kuttai, e al sud il Gudru, che pu6 chia-
marsi la porta di tutti i paesi galla del sud e del sud-ovest. Fra questi
regni scorrono il Gemma, il Mugher, ed il Guder, i quali vanno a
scaricarsi nelFAbbai.
Zemie quindi, essendo paese di frontiera, aveva una popokzione
mista di cristiani, di mussulmani e di Galla, i quali ultimi vi si erano
stabiliti per causa del commercio che facevano con lo stesso Zemi6
ed anche con Baso. La famiglia di Workie-Iasu pertanto era com-
posta di cristiani e di Galla: il che in verita mi era di gran giova-
mento pel nuovo apostolato che stava per imprendere; poich£ par-
landosi in quella casa le due lingue, etiopica e galla, potevamo io
ed i miei giovani impararle comodameiite, e nel tempo stesso co-
noscere e giudicare gli usi e costumi di quei popoli, che il Signore
ci mandava ad evangelizzare,
6. Questo principe era di stirpe abissina per linea maschile, ma
galla per parte di madre ; poiche" la sua famiglia usava imparentarsi
con donne galk. Un tal connubio, antico nella sua casa, faceva si
ch'egli vantasse diritti tanto dalFuna quanto dall'altra parte del
fiume, avendo in ambedue eredita, donazioni e possedimenti. II
che inoltre gli giovava molto nelle sollevazioni e guerre che spesso
disturbavano quelle provincie; poiche, minacciato o assalito dal
governo del Goggiam, passava fra i Gaila; dove raccoki uomini ed
armi, dava con essi tanti fastidii ai suoi nemici ed alle stesse popo-
lazioni del Zemie*, ch'erano costrette richiamarlo e £ ar k pace.
Quanto a religione mostrayasi tabra cristiano e talora pagano, se-
condo il bisogno. Con gli Abissini esternamente era un perfetto
cristiano; e dico esternamente, perche" la vera virtu, la virtu che
adorna e santiiSca il cuore e le nostre facolta ed azioni non si co-
nosce nelFAbissinia eretica. Con i Galla poi era un perfetto pagano,
con tutti i pregiudizii e le superstizioni di quei popoli, e senza pos-
sedere quelle buone qualita che pure si trovano fra di essi, avendolo
Teresia interamente viziato. Grossolano e lurido nel parlare, k sua
conversazione faceva schifo a qualunque persona anche poco edu-
cata. Non aveva vera moglie al rnio arrivo, e mi ci voile del buono
per persuaderlo a sposarsi cristianamente; il che poi fece dopo al-
784 GUGLIELMO MASSAJA
quanto tempo. In questa casa adunque era costretto fermarmi e
passarvi circa due mesi, con quanta pena deH'animo mio il lascio
considerare; e non solo per me, ma piu per i miei giovani, i quali,
quantunque awezzi a vedere e sentire simili miserie, tuttavia non
potevano non nuocere alia loro incominciata educazione e conver-
sione. Vi era per6 Morka che vigilava su di loro, e ne coltivava e
rinfrancava i cuori, e per questo il mio timore veniva acquetato
alquanto. D'altro lato, rimanendo in quella casa, io sperava trarne
molti vantaggi ; oltre alia comodita di apprendere la lingua galla, e
conoscere da vicino gli usi e costumi di quei popoli, aveva agio di
contrarre amicizie con persone galla ragguardevoli, che venivano
a trovare Workie-Iasu, e la cui protezione mi avrebbe non poco
giovato neEa mia nuova missione: sperava inoltre che lo stesso
Workie si sarebbe indotto a darci una delle sue case, che teneva al
di Ik del fiume, per impiantarvi, almeno provvisoriamente, la Mis
sione. Insomma, quella dimora aveva il pro ed il contro per noi;
ed in fin dei conti o per amore o per forza faceva d'uopo restarvi;
poiche* per partire alia volta del Gudru bisognava aspettare Tab-
bassamento delle acque.
7. Come mi sembra di aver detto altrove, in quei paesi non si
hanno cattedre di medicina, e neppure si prende laurea di dottore :
tuttavia non mancano ne medici ne medicine per curare gli amma-
lati; il difficile poi e che curino bene, e che gli ammalati guariscano.
Presso i Galla per medico s'intende sempre un mago, e questo per
lo piu suol essere un deftera* che sa leggicchiare qualche libro, e
niente importa poi che non ne capisca un'acca. Ci6 awiene perch6
i Galla, non sapendo leggere, son persuasi che nei libri si trovi
tutto, si veda tutto, e si conosca tutto; ed ecco il motivo per cui
hanno in grande stima i maghi abissini. Questi poi, ignoranti piu
di coloro che in essi ripongono tanta fiducia, attribuiscono sempre
le malattie a cause superstiziose, e percic* a mezzi superstiziosi ri-
corrono per curarle; ed anche usando qualche rimedio empirico,
giii sperimentato e riconosciuto efficace, lo applicano sempre con
segni e modi si stravaganti e ridicoli, che muovono piu a sdegno che
a eompasslone. Ed in ci6 iK>n vi e solamente ignoranza, ma malizia
e furberia; percM cosl eredono di dare una maggiore importanza
i, defter a\ \ dcfteri socio i sapicnti deli'Abissinia, ma di una sapienza quale
apparc da dd die qui ne scrive il Ma^aja.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 785
all'opera loro, e quindi cattivarsi maggiore rispetto e trarne non
minore lucro.
Quelle popolazioni poi nel vedere un europeo, credono ch'egli
sia un mago onnipotente, e che abbia il potere di curare e guarire
qualunque malattia. Questa pcrsuasione, che in genere hanno per
qualunque forestiere, si accresce maggiormente in loro quando il
veggono leggere e scrivere, e cavar fuori dal suo bagaglio attrezzi,
gingilli e strumenti da loro non mai visti ; per essi queste cose sono
tanti talismani prodigiosissimi, con cui possa egli guarire ed anche
richiamare la gente da morte a vita. lo adunque a Zemie era tenuto
in questo concetto, non solo dalla massa del popolo, ma dallo stesso
Workie-Iasu e dagrimpiegati di sua casa. II signor Bartorelli in-
somma era un gran medico, o meglio un gran mago.
8. Un giorno Workie-Iasu mi presentb un ricco galla del Gudru,
chiamato Abba Saha (padre delle vacche), il quale credendosi am-
malato, era venuto a passare la stagione delle pioggie a Zemie, con
la speranza di trovare un medico valente, e qualche rimedio per la
sua infermita. Workie, dopo avermi esposto il bisogno di quel po-
vero ammalato, mi raccomand6 di occuparmene con premura ed
affetto, non solamente perche" suo amico, ma anche per la speranza
che, essendo assai ricco e molto potente in paese, avrebbe potuto
essermi utile quando fossi passato in Gudru. Non potendo negar-
mi, accettai quel nuovo cliente, e condottolo alia mia capanna, lo
consegnai a Morka, affinch^ lo esaminasse, e sapesse dirmi che ma
lattia e quali bisogni avesse. Morka, essendo galla, conosceva bene
tutti i pregiudizii di quei popoli, e perci6 gli era piii facile fare una
diagnosi perfetta di quella malattia! E vi riusci a meravigiia: poi-
ch6, venuto da me, mi raccontb come Abba Saha si fosse messo in
testa che una delle sue mogli per gelosia lo avesse awelenato,
dandogli a mangiare ovi di rospi ; dai quali poi essendo nati dentro
il ventre una grande quantit£ di quegli animali, se ne erano resi
padroni, e lo minacciavano di morte. Egli diceva inoltre di sentirli
muovere, camminare e gracidare; e quando gli veniva di ruttare o
fare qualche altro bisogno naturale: — Eccoli, -— gridava— ecco le
voci che mandano! — Morka mi consigli6 di non contraddirlo, ma
piuttosto, secondando questa sua sciocca persuasione, dargli una
qualche medicina innocua, ma che valesse nel tempo stesso a produr-
re un forte effetto sensibile, per farlo ricredere di quel pregiudizio.
9. Per ottenere lo scopo non ci era meglio che ricorrere al-
786 GUGLIELMO MASSAJA
Temetico ; e datogliene una forte dose, lo avvertii che una tal me-
dicina per guarirlo lo avrebbe tormentato circa un'ora ; poiche" do-
vendo prima uccidere tutti i rospi, di cui era pieno il suo ventre:
e poi, essendo morti, cacciarli fuori dai loro nascondigli, faceva
d'uopo ch'egli soffrisse tutti gli sforzi di questa interna e salutare
lotta: ma stesse pur tranquillo che tutti quegli animalacci sarebbero
stati costretti di uscire a pezzi informi, parte dalla bocca e parte
per secesso. II farmaco di fatto fece mirabilia\ ed il povero uomo
mentre lo sentiva operare dentro le viscere : — Gia mi accorgo —
diceva — che i brutti animali vanno combattendo con la morte:
ma se qualcheduno ne uscira fuori vivo, lo concer6 io! — Ed era
curioso il vederlo nei momenti deirevacuazione con un coltellaccio
in mano, pronto ad awentarsi contro quei supposti rospi, se per
case fos&ero usciti vivi dal suo interno. Riuscita bene, e con sua
grande soddisfazione la prima prova, dopo due giorni di riposo,
rcplicai una seconda dose, e fece lo stesso efFetto. Finalmente dopo
altri tre giorni gliene diedi una terza, e sentendosi gia lo stomaco
vuoto come una lanterna : — Son guarito, — mi disse — non fa piu
bisogno d'altro, i brutti animalacci sono usciti tutti fuori: ma se
quella budda1 di mia moglie ci proverb un'altra volta a farmi simili
carezze, sapro io come trattarla!
io. Un giorno Workie uscendo a passeggio con tutto il suo se-
guito, voile che lo accompagnassi, e si and6 |>er la strada che por-
tava alFAbbai. Salito un piccolo colle, ci fermammo sull'orlo di un
precipizio da cui si vedeva un lungo tratto del fiume, ed alia riva
opposta una grande estensione del Gudru. Parlando del luogo che
mi sarebbe stato piu conveniente di scegliere in quel paese, Workie,
additandomi un punto dei paesi bassi^ chiarnati in lingua abissina
Kuolla, mi disse : — Io laggjiu tengo una casa, e volentieri ve Fof-
fro: ma essendo voi roercante, certamente desiderate di stabilirvi in
un punto, dove possiate esercitare piu comodamente il vostro com-
merck>p Ebbeoe, faremo di tutto presso Abba Saha di agevolarvi
coe la sua autorit^, e principalmente d*indurre suo nipote Gama-
McH1^2 a cedervi una sua casa ; poiche* essa essendo vicina al mercato,
c il IIK^O di convegno di tutti i a>mmercianti che frequentano le
nostre contrade. — Questo {^irtito sarebbe migliore; — risposi io,
i.bvdda: incantesimo, malocchio, genio malefico. z. Gama-Morfa; un
ricco capo galla, che fu di protezione e di aiuto al Massaja e alia sua mis-
sioD« net Gtidru,
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 787
non volendo dare a conoscere i miei disegni — intanto avremo
tempo a rifletterci, e nel caso, profittero delle vostre generose of-
ferte.
11. Mentre si stava discorrendo, vedemmo venire verso di noi
alcuni soldati di Workie, i quali ritornavano dal mercato, e con-
ducevano due giovanette galla, ricevute in tribute da alcuni mer-
canti di schiavi. Giunti alia presenza di Workie, gliele presentaro-
no ; e vidi che la sua fisionornia prese un'aria di allegrezza, come di
chi riceva un gradito regalo. Tutto contento, se le fece venire vi-
cine, e senz'ombra di rossore e di riguardo prese ad osservarle mi-
nutamente dalia testa ai piedi. Poscia, dato un bacio alia piu gran-
detta, e mandata via Taltra, ordin6 di chiamare il Kits, ossia quel
prete eretico, che colk faceva da parroco; il quale dopo alquanto
tempo giunto alia sua presenza, il nostro Workie con voce som-
messa e con affettata pieta: — Tu sai — gli disse — che io son cri-
stiano, e che mai ho ammesse in casa mia donne galla senza prima
averle fatte battezzare ; diman mattina adunque si dia il battesimo
a questa e si renda cristiana, — Son pronto ai suoi voleri,— rispo-
se il Kies — ma ella sa che il battesimo si amministra nella Messa,
e che bisogna dare la comunione alia battezzata e la distribuzione
a coloro che assistono: or come potr6 in si breve tempo apprestare
le ostie per tutti ? Io lodo il suo zelo, e comprendo i suoi scrupoli ;
ma mi dia almeno un giorno di tempo per preparare ogni cosa, e
diman Faltro sara contentato. — Workie sentendo queste osserva-
zioni, che punto non si aspettava, smesso Tatteggiamento di pieta,
si alzc* adirato, e col bastone che teneva in mano fe* mostra di dare
una buona lezione al reverendo, che aveva osato fare opposizione
ai voleri di sua altezza fitarari. Dimodoch^ il povero Ktis, vista k
mala parata, abbass6 gli occhi, e dicendo ikwt, ikitn (sia, sia) se ne
parti. Workie ordin6 poscia ad un servo di consegnare la giovinetta
alia vecchia custode delle sue donne, e conged6 i soldati.
12. Indi rivolto a me: — Che ne dite, signor Bartorelli, di qu^te
scene?
— Caro mio Workie, — risposi -— stasera ho veduto cose non mai
viste in vita mia. Lasciando da parte tutto ci6 che avete detto e
fatto, principalmente col Kih (perch^ io non uso criticare le auto-
rita di un paese); mi fa per6 meraviglia la faciliti con cui voi eretici
date il battesimo, e rendete cristiani i pagani. In quanto al Kih poi
so dirvi, che se fosse stato nel mio paese, ed avesse opposta per
788 GUGLIELMO MASSAJA
unica difficolta a battezzare quella giovinetta la mancanza delle
ostie, i contadini stessi lo avrebbero preso a sassate.
— Voi siete troppo severo, — soggiunse Workie — ma fra noi si
costuma cosi; intanto fa d'uopo sapere che questi Kits fanno piu
canto delle ostie che del battesimo: se colui, che avete sentito, vo-
leva ritardare la funzione, il faceva per avere le ostie piu buone,
ed anche per carpire qualche altra mercede. Inoltre se io mi fo scru-
polo di tenere una donna pagana, posso assicurarvi che il mio Kite,
quantunque ammogliato e con figli, di questi scrupoli non ne ha
punto. Che male ci e poi a battezzarla?
— Anzi, molto bene, — risposi io — ma bisognerebbe ammetterla
a questo sacramento con le dovute condizioni ; cioe, prima istruirla,
illuminarla, renderla degna, e poi, assicurati ch'essa lo desideri,
battezzarla e farla veramente cristiana.
— Presso di noi non si ricerca tutto questo, — concluse Workie —
ed a me basta che sia battezzata ed unta.
13. Renche" conoscessi le maniere ridicole con cui quei poveri ere-
tici amministrino i sacramenti, pure mi venne voglia di assistere a
quella funzione, e molto piu voleva vedere che cosa significasse quel
la parola unta, che Workie aveva aggiunto al nome battezzata. Dissi
percio a Morka di tenermi awisato dell'ora, in cui si sarebbe dato
questo battesimo. II mattino seguente di fatto il mio Morka, reci-
tate le preghiere coi nostri giovani e famiKari, mi condusse alia chie-
sa; io presi posto in luogo a parte, ed egH, comech6 indigeno, si
frammischio con gli altri. Prima pertanto della Messa, il sacerdote,
uscito dal Sancta Sanctorum col suo clero, si diresse verso la porta,
ed ivi giunto, fece un segno di croce sulPacqua che stava preparata,
dicendo le solite parole di benedizione, e poi ritornato all'altare,
comincio a leggere la liturgia del battesimo. Finita questa lettura,
si awi6 di nuovo alia porta della chiesa, dov'era la battezzanda ac-
conip^nata dalla custode. Allora gli assistenti la circondarono in
modo che io non potessi vederla (del che non ne fui dolente, poich6
mi accorsi che la spogHarono interamente), le fecero alcuni segni
di croce con 1'olio santo, che tenevano conservato in un piccolo
corno di pecorm, e dope le versarono sopra un secchio di acqua
dicendo al solito: Btsma Ab, Ua Old, Ua Manfts Kedus.1 Indi
rasciugata dai diaconi, il Kite mosse per ritornare al Sancta Sancto-
rwflf, quando la vecchia custode fermatolo, gli manifest^ il desiderio
i . B&m® . . . Kedus : k k formula del b®ttesimo in lingua etiopica.
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 789
di Workie che venisse unta una seconda volta in parti che non
lice nominare. Ebbene, quei pecoroni in veste sacra non ebbero
il coraggio di contraddire agli stupidi capricci dello scrupoloso
fitordri, e preso percid un pezzetto di legno, le fecero la sconcia
unzione. Morka, in veder cio, non si tenne piu, e pieno di sdegno
grid6 ad alta voce: — Questa non & opera di Dio, ma del diavo-
lo — ; e gettando su di loro uno sguardo di disprezzo, se ne parti.
Essi intanto continuarono la funzione con la celebrazione della
Messa, in fine della quale si fece la distribuzione, La scappata di
Morka non tard6 giungere alPoreechio di Workie, il quale andato
in collera contro il buon giovane, quantunque prima gli volesse
molto bene, ordino che non si presentasse piu alia sua presenza:
e mi ci voile di tutto per rabbonirlo e fargli fare la pace.
14. Erano passate circa tre settimane che mi trovava a Zemie", e
le strade cominciando ad asciugarsi, pensai di man dare il servo
Giuseppe a Kartum, per riprendere alcuni oggetti ed una somma di
danaro, che ivi aveva lasciato come riserva, nel caso che mi fosse
incorso un qualche disastro lungo il viaggio. Sperando inoltre assai
neiramicizia e protezione di Workie-Iasu, voleva fargli un regalo,
e non possedendo una qualche cosa degna di lui, pensava farmi
mandare dai missionarii di Kartum due pistole, di cui egli piu volte
mi aveva esternato il desiderio, offrendosi anche di pagarne il
prezzo. Fidandomi pertanto deiraffezione e bonta sino allora di-
mostratami dal servo, lo condussi prima di partire dinanzi a Workie,
affinch£ anche questi fosse a conoscenza di tutto, e mettesse in
mezzo la sua autorita per riuscir bene ogni cosa. Workie, avendovi
pure il suo interesse, gli fece tutte le raccomandazioni possibili, e
per maggiormente incoraggiarlo, gli promise che al ritorno lo
avrebbe ricompensato col dargli un impiego nel paese. Con grandi
promesse di fedelta e di prestezza se ne parti: ma il miserabile,
dopo avere ricevuto dai missionarii oggetti e danaro, prese altra
strada, e piu non si vide. Seppi poi che regal6 le due pistole a
degiac Kassa,1 il quale gia si avanzava vittorioso nelle sue conquiste,
ed a me piu tardi non mand6 che una piccola somma, approprian-
dosi circa 150 talleri.
15. Ho detto piu volte che la poligamia ed il divorzio sono i due
principal! distruttori della famiglia in Abissinia, ed il seguente
fatto accaduto in casa di Workie-Iasu n'e una prova. Workie aveva
i . degiac Kassa : il futuro Teodoro, per cui vedi le note 3 a p. 77 1 e 2 a p. 772.
790 GUGLIELMO MASSAJA
due figli, uno chiamato Sciararu di circa diciotto anni, e Taltro
Zallaca di anni quindici. II primo era nato da una moglie galla,
che dopo alcuni anni aveva abbandonato ; ed il secondo da un'altra
moglie appartenente ad una delle famiglie del Liban-Kuttai. Con
questa seconda moglie Workie era vissuto in pace circa sette anni,
segno che le portava un grande affetto, e veramente Pamava assai:
ma un giorno, avendola trovata infedele, monto sulle furie, e la
fece battere si spietatamente, che, ammalatasi, ne mori. Per questa
morte Workie si tiro addosso il dritto del sangue, che secondo la
legge avrebbe dovuto appartenere al figlio dell'uccisa, cioe a Zal
laca : ma essendo questi anche figlio dell'uccisore, un tal dritto passo
ai piu prossimi parenti della sventurata moglie. Workie poi, ricor-
dandosi sempre del grande amore che portava a quella donna, dopo
lo sfogo delPira, si penti della crudelta usatale, e non potendovi piu
rimediare, concentrava tutti i suoi affetti sul figlio Zallaca, il quale
tanto nel volto quanto nel tratto aveva perfettamente le fattezze ed i
modi della madre.
1 6. Un giorno tutto aH'improwiso sento chiamarmi. — Corra,
signor Bartorelli, che Workie sta per ammazzare suo figlio Zalla
ca. — In un attimo giungo alia stanza di Workie, e trovatolo che,
come Saulle a Davidde, stava per tirare la lancia sul figlio, mi getto
in mezzo e li divide. Acquetato un poco quel primo furore del pa
dre, gliene domando il motivo, e sento che Zallaca era stato scoperto
di tenere illecita amicizia con una moglie di Workie. Compresi su-
bito la gravita del fatto, e come il padre si avesse ragione di mostra-
re tanto sdegno contro il proprio figlio : quindi consigliai a questo
di allontanarsi immediatamente, perche vi era tutto il pericolo che
anche alia mia presenza sarebbe stato commesso un delitto. II pa
dre intanto ne rest6 talmente offeso, che non solamente non voile
piu vederlo, ma concepi tant'odio contro il figlio, che non valsero
ragioni e preghiere per ottenergli perdono e farlo riammettere in
casa. Onde io mosso a pieta del povero Zallaca, e sperando di ri-
durlo alia fede, molto piu che di quella mancanza si sentiva vera
mente pentito, lo ammisi nella mia famiglia, e poscia lo condussi
meco in Gudru. Un anno dopo mi riusci di placare il padre e di
ottenergli perdono: e Zallaca gia sel meritava, poiche non era piu
quello di prima. Divenuto vero figlio di Gesu Cristo, aveva pianto
il suo peccato, ne aveva fatto penitenza, e la bonta di sua vita fu
compensata con la pace paterna.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA , 791
17. Una sera fui condotto a visitare un'ammalata, che si diceva
prossima a morire, perch6 il budda Taveva ammaliata, o come la si
esprimono, mangiata. La trovai distesa per terra, immobile, senza
parola, e come fosse asfissiata, ed il cui polso ora batteva con moto
febbrile, ed ora debolissimamente. Gia i miei lettori comprendono
che il budda, questo genio malefico del Goggiam, non ci entrasse
per nulla, e che la sua malattia fosse piuttosto cosa tutta naturale.
A me sembr6 a prima vista che fosse agitata da violento e continue
assalto nervoso; ma la poveretta credendo in vece di essere stata
ammaliata dal budda, e I'immaginazione accrescendo il male e la
paura, si teneva per morta. Li per li ordinai alcuni bagnuoli di acqua
fredda nelle parti piu sensibili del corpo, e le diedi ad aspirare al-
cune goccie di etere, che trovai nella mia piccola farmacia. Sembr6
riscuotersi un poco, ma tosto ricadde nello stesso letargo. GFindi-
geni mi dicevano che con una medicina da loro conosciuta ed usata,
si riusciva a far subito parlare questi ammalati: ma che, per quante
ricerche si fossero fatte, non era stato possibile trovarne. Di che
medicina parlassero non saprei dire, certo avra dovuto essere una
qualche erba fortemente eccitante, di cui abbondano quei paesi
caldi. Intanto non sapendo che mi fare (poich6 la mia scienza me-
dica era assai limitata), consigliai di spogHarla, e poi versarle ad-
dosso una grande quantita di acqua fredda. Ritornato la mattina
seguente, la trovai in migliore stato, ed avendo riacquistato la pa
rola, mi disse che il male lo avvertiva piu allo stomaco, che a qua-
lunque altra parte del corpo ; onde fatto spremere un po' di olio di
ricino, il cui frutto Ik e abbondantissimo, e datogliene una buona
dose, n'ebbe buon effetto, e mise fuori un qualche verme. Com-
presi allora la causa del male, e replicata per altri due giorni la me-
desima purga, rigett6 una quantitk si straordinaria di vermi che
tutti ne restarono meravigliati. Certamente se avesse ritenuto in
corpo tutti quegli animali, ne sarebbe morta, e tutti avrebbero
creduto che la poveretta fosse stata vittima del budda ! . . .
ENTRATA NEL CAMPO DEL MIO APOSTOLATO*
. . . Insistendo continuamente presso Workie-Iasu, finalmente
giunse il giorno tanto sospirato di volare verso la terra del mio apo-
stolato. Era il 21 novembre del 1852, festa della presentazione di
i. Ed. cit., vol. n, dal cap. xv, pp. 189-92 e 194-6.
792 GUGLIELMO MASSAJA
Maria Santissima al Tempio, e secondo il calendario abissino il 21
Eddar* festa di S. Michele. La nostra carovana contava dieci per-
sone, oltre gl'indigeni che ci accompagnavano ; cioe, io ed Abba
Fessah,2 Berrii e Morka, i cinque giovani neofiti condotti dal Be-
ghemeder, ed una vecchia donna, addetta al servizio della farina e
del pane. Eravamo prowisti abbondantemente di ogni cosa, poiche
Workie si era mostrato generoso, ed il P. Cesare3 da Basso-Jebunna
ci aveva mandato il necessario. Si parti di buon mattino, e verso le
dieci eravamo gia presso la sponda del flume ; dove il giovane Zal-
laca aspettava per tragittarlo con noi.
2. Scaricate le bestie, ci accingemmo a passare il flume, ma le
acque essendo ancora alte, fu necessario tragittarlo a nuoto. Io non
sapendo nuotare, mi legarono sotto la pancia un otre gonfio, ed
avendo ai fianchi Zallaca ed un altro bravo nuotatore, Io passai fe-
Ucemente. Segui appresso Abba F&ssah, poscia Morka, Berru, ed il
resto della famiglia con i servi ed il bagaglio. Giunti alPaltra sponda
baciai quella terra, e spogliatomi delle vesti che indossava, presi
quelle di monaco abissino. Indi accompagnato da F&ssah, da Berru
e da Morka intonai il Te Deum in rendimento di grazie al Signore,
che dopo circa sei anni di lunghi viaggi e di penosi tentativi, mi
dava finalmente la consolazione di toccare la terra, che la Prowi-
denza avevami destinata, per portarvi la luce del Vangelo, e farvi
conoscere ed amare nostro Signore Gesu Cristo. Immagini il let-
tore Io stupore di quei giovani e servi nei vedere questa mia im-
prowisa ed inaspettata trasformazione : e quanto dovettero restar-
ne nieravigliati nel trovarsi con un prete cattolico, anzi con un
vescovo, mentre credevano di aver seguito un mercante! Tuttavia,
se prima eransi affidati a me, e con gioia ed affetto, perch6 mi
riputavano un forestiero di onesti e cristiani sentimenti, venuti a
conoscenza poi della mia sacra condizione, la loro content ezza si
accrebbe smisuratamente; onde tutti insieme si dichiararono felici
di seguirmi dovunque volessi, e restate sempre come membri della
mia casa e del mio ministero.
i. Eddar: k il terzo mesc del calendario etiopico e comsponde a parte del-
I*ott€^>re e del novembre. 2. Abba Fhsah: un giovane religioso indigeno,
malamente ordinato sacerdote dal vescovo copto Salama, e che un lazza-
ms£SL ligure, il Bianchieri, aveva imprudentemente mandato al Massaja, a
Zemi^, pencil ne regolarizzasse la consacrazione. 3. P. Cesare: padre
Ce®tiT da Castelfranco, uno del cappuccini che erano stati assegnati al
Massaja fin dalla sua prima partenza per 1'Africa.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 793
3. Licenziati gli uomini che ci avevano accompagnati ed assistiti
nel passaggio del fiume, ripigliaramo il cammino. Avevamo di fronte
una salita abbastanza lunga per arrivare al primo altipiano di quella
parte del Gudru; tuttavia messici a camminare allegramente, in po-
che ore fummo lassu: e sentendoci stanchi ed anche deboli, ripo-
sammo un poco, e poscia proseguendo il viaggio, dopo altre tre
ore di cammino si giunse alia casa di Workie-Iasu. Era mia inten-
zione di fermarci in quel luogo almeno un giorno, per celebrare la
santa Messa, di cui sentiva tanto bisogno, e cosi confortare lo spi-
rito di tutti quei miei buoni allievi. E di fatto, appena arrivati,
Morka e gli altri giovani furono in moto per aggiustare alFuopo
una capanna: e mentre col corpo apparecchiavano come Marta le
cose necessarie alia funzione, attendevano con lo spirito come Ma
ria1 a disporre i loro cuori. Poscia vollero tutti confessarsi, sperando
di essere ammessi alia santa comunione : ma se con tutta convenien-
za poteva appagare il desiderio dei due antichi proseliti Berru e
Morka, non erami in verun modo permesso di contentare i nuovi
neofiti : poiche essi non solo non erano stati ancora ricevuti formal-
mente nel grembo della Chiesa, ma vi era pure per loro la questione
della validita del battesimo, amministrato dai preti eretici, Que
stione che per tanti motivi e da piu tempo mi teneva in pensiero,
e della quale faceva d'uopo attendere una decisione da Roma. Per-
ci6 risolvetti di comunicare i primi due, e fasciare gli altri nel loro
pio desiderio.
4. La mattina adunque, apprestata ogni cosa, celebrai la santa
Messa con tutta la solennita possibile in quei luoghi ed in quelle
circostanze, assistendo in cotta il solo Abba F&ssah. A mezza Mes
sa Berru, Morka ed Abba Fessah si comunicarono, e gli altri cin
que n'ebbero tanta pena nel restarne privi, che stavano li 11 per
iscoppiare in pianto. Allora per incoraggiarli e lenire in parte il loro
dispiacere, tenni un'allocuzione : dicendo che Gesu Cristo volen-
tieri sarebbe entrato nel loro cuore; ma voleva che fosse megiio
disposto, e adorno di grazie e di virtu. — Egli — soggiunsi — da
tutta Teteraita sospira e desidera di unirsi con voi ; che meraviglia
adunque se anche voi aspettiate e desideriate ancora per qualche
giorno questa felice unione? Esercitatevi perci6 giornalmente in
questo santo desiderio, poiche esso & accetto grandemente a Dio,
i. Marta e Maria, le soreile <li Lazzaro, scuio divenute i simboli rispettivi
delk vita attiva e della vita contemplativa. Vedi Luc.t u, 38-42.
794 GUGLIELMO MASSAJA
e servira a rendervi piu degni delle sue sante carni e del suo prezio-
sissimo sangue. — Cosi fini quella funzione, quanto semplice, al-
trettanto commovente, celebrata per la prima volta in terra barbara
e pagana.
5. II giorno appresso rimessici in viaggio, dopo poche ore si
giunse al vasto altipiano del Gudru, e ci avviammo ad Asandabo,1
dove ci era stata preparata una casa da Gama-Moras. Fummo ri-
cevuti con grandi dimostrazioni di affetto, e trattati con ogni ri-
guardo. In Abissinia arrivando in qualche paese forestieri ragguar-
devoli, si stende per terra una pelle nelPinterno delle capanne, su
cui s'invitano a sedere; ma fra i Galla si offre loro una sedia, sem
plice si, ma solida e comoda, e si ricevono quasi sempre alPaperto;
poich£ in casa non si entra che per mangiare e dormire. Ai padroni
viene subito oiFerto idromele, ed ai servi e compagni birra. Le don-
ne in queste occasion! raramente escono fuori, ma attendono a fare
i loro compliment! quando i forestieri entrano in casa per mangiare.
Dopo breve conversazione vengono introdotti nelle capanne loro
destinate, e tosto si preparano i letti e si ammannisce il pranzo.
La capanna principale, che ad Asandabo ci venne assegnata, era
abbastanza grande, ma non tanto spaziosa per contenere tutta la
famiglia, e darci il comodo di alzarvi una cappella: onde si dovette
dividere con cortine, poiche" di un piccolo oratorio avevamo assolu-
tamente bisogno. Per alcuni giorni Gama- Moras ci mand6 pranzo
e cena, e ci prowide di ogni cosa necessaria: ma poi, presa cono-
scenza del villaggio e delle persone, pensammo a tutto da noi . . .
8. Appena giunti in Gudru, ed assestata alia meglio quella casa,
diedi opera airapostolato, prima rispetto a coloro che formavano
la mia famiglia, e poscia pel gregge che il Signore ci aveva affidato.
Gia mi era proweduto di un piccolo manuale contenente, tradotte
in lingua galla, le preghiere del mattino e della sera, ed un concise
catechismo sulfunitk e trinita di Dio, suH'incarnazione del Verbo,
sul decalogo, sui sacramenti, ed altri punti principal! della fede,
sufficient! per disporre un neofito ai battesimo. Questo manuale
si doveva recitare in famiglia mattina e sera immancabilmente ; e
quando io poCeva, non lasciava di spiegarne il significato, e tenere
opportune conferenze. Ohre ai miei famigliari, intervenivano pure
a queste pratidbe religiose alcuni della casa di Gama- Moras e delle
f k citti principak del Gudru, fu il centre maggiore della nuova
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 795
famiglie vicine : a mano a mano poi che la Missione si stabiliva e si
allargava, Finsegnamento religioso si dava con una maggiore am-
piezza, e piii volte al giorno; ne era lecito esimersene, poich6 questa
pratica divento ben presto un punto di disciplina inviolabile, non
solo per tutte le case della Missione, ma per ciascun missionario,
anche se si fosse trovato in viaggio con uno o piu compagni e servL
Oltre a questo stabilii che in casa un allievo la facesse da catechista,
e fosse sempre pronto a ricevere ed accogliere qualunque indigeno
o forestiero che si presentasse ; e dopo avergli usato tuttl quegli atti
di carita che la religione e la civilta comandano, aveva Pobbligo
di trattenerlo su qualche punto del catechismo, a fin di esercitare
Fapostolato verso il popolo, che il Signore ci aveva mandati ad
evangelizzare. A quest'ufficio, dal quale mi prometteva molto bene,
erano destinati i giovani indigeni per turno, non appena acquistas-
sero una sufficiente istruzione.
9. Gama-Moras, come ho detto, ci aveva dato una capanna gran-
de per abitazione comune, dove gia avevamo aggiustato la cappella ;
una piu piccola per la cucina e per alloggiarvi la donna che ci do-
veva fare il pane; ed in fine, un'altra per dorrnirvi i giovani. Ma
tutte e tre non essendo sufficient! ai tanti nostri bisogni, il buon
Gama-Moras, senza che nemmeno il pregassimo, ci assegno un
pezzo di terreno, non molto lungi dal villaggio, per innalzarvi casa,
cappella, officine, tutto cio insomma che per una Missione nume-
rosa sarebbe stato necessario. Ci mettemmo tosto all'opra, e dato
a Berru e Morka la commissione di comprare i materiali, e di cer-
care persone che aiutassero al lavoro, in pochi giorni fu trovato
tutto ; onde i giovani della casa ed alcuni indigeni a noi vicini si pre-
starono con tanto zelo ed affetto, che in breve i materiali essendo
al posto, furono cominciate le o>struzioni; ed aiutati da Gama-
Moras, si lavord con tanto genio e premura, che pel Natale po-
temmo celebrare Messa nella nuova cappelia, ed in gennaio recarci
tutti ad abitare la nostra nuova e comoda casa.
10. Otto giorni dopo il nostro arrive in Asandabo, giunse Workk-
lasu. Quel buon ftt&rari sentendo dagli uornini che ci avevano ac-
compagnato ed aiutato a passare il fiurae, che il signor Bartorelli
aveva cambiato il tarb&sc di mercante nel cuav1 di monaco, e che
non era punto un medico, ma un vescovo romano, anzi il pcrsegui-
tato Abuna M^&ias, ne fu cosi meravigliato, che non voleva pre-
i. tarbiisc . . . mot?: cc^>ricapi.
796 GUGLIELMO MASSAJA
starvi fede, ne" sapeva darsi pace. Risolvette pertanto di venir presto
a trovarmi, per vedere con i proprii occhi come stessero le cose,
congratularsi meco e raccomandarmi ai suoi amici del Gudru. Di
fatto dopo otto giorni eel vedemmo comparire ; e poiche non sola-
mente era conosciuto da tutti, ma stimato e rispettato come un pa-
rente delle prime famiglie del Gudru, fu ricevuto con grandi feste e
dimostrazioni d'onore. In quest'occasione Gama-Moras voile dare
un gran pranzo, invitando le persone piu ragguardevoli del paese,
sia per onorare il principe di Zemie, sia ancora per far meglio cono-
scere 1* Abuna romano ; e riuscito quel pranzo numeroso e solenne,
in fine Workie si alzo, e alia presenza di quella illustre comitiva
comincid a dire le mie lodi. Prese a raccontare mimitamente la
mia vita tenuta a Zemie" » con concetti ed aneddoti si bizzarri e poetici
che sembrava recitasse un romanzo; si congratu!6 poscia delPac-
quisto prezioso che aveva fatto il Gudru, e fini con una serie di
augurii e di predizioni favorevoli alia Missione, che, a dire il vero,
mi consolarono grandemente. In quelPoccasione tanto era Pen-
tusiasmo suscitato dalle parole di Workie-Iasu, che la Missione del
Gudru parve tutta inghirlandata di rose ; ma sgraziatamente non vi
SOBO rose senza spine.
ii. Mentre di fatto eravamo tutti con Panimo ricolmo delle piu
belle speranze, una notizia venne a turbare la nostra allegria. Un
corriere, venuto dal Goggiam, richiamava con sollecitudine Workie-
Iasu a Zemie1, perch£ gravi avvenimenti px>litici, accaduti nelle pro-
vincie centrali, stavano per mutare le sorti delPAbissinia. II cor
riere diceva inoltre che degiac Gosci6, uno dei piu valorosi generali
di Ris Aly, e protettore di Workie-Iasu, mandate a combattere con
Pesercito del Ris contro degiac Kassa, era stato ucciso, e Pesercito
fatto prigioniero. Le conseguenze di questa sconfitta si vedranno
appresso.1
i. Le comegwenze , . . apprcs&o: come gi^ abbiamo detto, degiac Kassa^ preso
ii name di TecxJoro, divenne sovnmo assoluto dcll'Abissinia (vedi le note
3 m p. 771 e 2 a p. 772).
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 797
[L'INNESTO DEL
Dope mezzanotte, svegliati i servi, partii dal villaggio di Cioma,*
accompagnato da Avietu,3 da una guida di Gombo e d'alcuni gio-
vani della casa ; e prima che spuntasse il sole eravamo gia alia sponda
del lago, dove ci fermammo per aspettare il resto della carovana,
che sarebbe partita dopo la preghiera comune. DalPaltipiano del
Gudru sino al fondo della vallata, in cui si stendeva il lago, vi era
un pendio di circa cento metri, seminato tutto di cipressi gigante-
schi, di sicomori, di podocarpus, di mimose e di altri arbusti e
cespugli selvatici. Questo boschetto forniva quella gente delle bar-
che, o meglio delle zattere per passare dall'una all'altra sponda;
poiche abbattendo uno di quei grandi alberi, ne troncavano un cin
que metri nella sua maggiore grossezza, e poi facendovi un cavo di
circa un metro largo e profondo, e di quattro metri lungo, lo acu-
minavano da un lato, ed ecco compita la zattera. Dieci persone pote-
vano fare dentro di essa il tragitto comodamente, e piii volte vidi
caricati su di una di queste zattere due bovi con tre uomini per
guidarla. Quella mattina che io vi giunsi, ne trovai una quarantine
sparse sul lago che mi attendevano, parte della gente di Gombo, ve-
nute ad incontrarmi, e parte del Gudru per accompagnarmi sino
all'altra sponda. Veramente il tragitto su quei legni a prima vista
non sembravami tanto sicuro: ma osservando poi la franchezza e
speditezza con cui li volgevano e mandavano innanzi, mi accertai
che non vi sarebbe stato alcun pericolo di capovolgersi ed annegare.
2. DagFindigeni si dava il nome di Cidma tanto al flume ed al
villaggio, quanto al lago che vi sta vicino: ma io lo chiamava e lo
chiamo il lago verde per la sua speciale particolarita di essere copper-
to da uno spesso strato di vegetazione, da sembrare un gran prato
piano e verdeggiante come nei giorrd di primavera. Lo strato,
i. Ed. cit., vol. iv, cap. in (A G#»t6d), pp. 29-38. 2. partii daL villaggio
di Cidma: il Massaja, trovandosi nel Gudrii, e stabilito ad Asandabo il cen
tre della missions, decide di spingersi al sud, verso Lagamara. 6 un via^io
trionfale, iniziato ai primi del settembre 1885; una vera e propria carovana
traversa le terre in un cammino di tre mesi, con soste in nurnerosi villag-
gi: Kobbo, Gombd, Gobbo, Giarri, ecc. Tra essi, qudlo di Cioma: e
Cioma si chiama anche la vastissima sug^estiva palude che il Massaja de-
nomina lago verde. 3. Avutu: dipendente da un ricco cmpK> chiamato ne-
gus Sciumi, il giovane Avietu aveva sposato, dopo molte difficolta appianate
dal Massaja, la figlia di Gama-Moras, signore del Gudru.
798 GUGLIELMO MASSAJA
composto di terriccio e di radici intrecciate, era alto circa un palmo,
da cui spuntava e si elevava una folta erba sottiie delle specie pa-
lu&tri, che da vicino vedevasi ondeggiare come un campo di grano
nan ancora spigato. Era inoltre si solido e forte che, se non reg-
geva il peso di un uomo, avrebbe certamente sostenuto un oggetto
qualunque, anche pesante, ma con larga base. DalPest all'ovest, os-
sia dalla sponda del Gudrii a quella di Gombo, si apriva un canale
libero di vegetazione, che da lontano sembrava un fiume in mezzo al
prato; il quale, essendo largo circa quattro metri, serviva comoda-
mente pel passaggio delle zattere, che andavano e venivano. Questo
kgo, benche" non fosse che una bassa valle coperta dalle acque del
flume, tuttavia aveva una grande profondita, segnatamente nel cen-
tro; e secondoche mi diceva quella gente, era pieno di pesci di va-
ria grandezza e di diversa specie. Guardandolo sott'acqua nella
parte del canale, quel gran vuoto appariva diviso in due vaste
grotte, ilJuminate dalla luce ch'entrava pel canale medesimo, e per
altre lontane estremita non coperte di erba, le quali facevan le veci
di ahrettante finestre. Dali'una e dall'altra sponda del canale eravi
circa mezzo chilometro di distanza: ma tanto la parte superiore
quanto Tinferiore avevan punti molto larghi e spiaggie frastagliate.
A dritta, un cinquanta metri lontano, il lago era chiuso da un nudo
scoglio, che lo cingeva come una diga, aperta solamente in un lato,
da cui usciva Tacqua, e formava la cascata, sopra descritta. A si-
nistra poi si estendeva tanto da non potersene vedere il limite, e
finiva (secondoch^ riferivami quella gente), in un piccolo fiumicel-
b, che rimontando verso est, segnava i confini del Gudru, e di
Nunnu sino a Kobbo. Molte tradizioni raccontano grindigeni ri-
apetto a questo lago, ma in gran parte favolose : fra le altre quella
ctie un esercito nemico, marciando contro il popolo di Gomb6,
gmnse di nottc alia riva di questo lago, e per la fresca erba di cui
era coperto, credeadok) un prato, seguit6 il cammino su di esso :
ma cedendo quello strato sotto i loro piedi, miseramente perirono
affogati uomini e cavalli.
3. Arrivo finalroente il resto della carovana, portando seco altre
sei persone, giunte a Loja la mattina stessa della mia partenza per
avere inoculato il vaiolo; e non avendomi trovato cola, eranmi ve-
mrti a§^>resso, sperando di raggiungermi al lago. Contentati per-
tmnto qiiei poveretti, cominciammo ad entrare nelle zattere per fare
il tragitto : e <k>vendo qui separarmi dal caro Avietu, prima lo ab-
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 799
bracciai piu volte, e poi finalmente lo benedissi, lasciandolo in
mezzo ad una gran commozione e con gli occhi in pianto. Anche il
giovane Angelo1 si divise dal padrone piangendo e singhiozzando, e
ne aveva ragione; poich6 non solamente sino a quel giorno gli si
era mostrato come il piu affettuoso dei padri, ma mettendolo in li-
berta, avevagli fatta tal grazia, che un altro padrone difficilmente
si sarebbe indotto a concedere,
La zattere intanto lentamente si avanzavano, ed Avietu tenendo
gli occhi sempre rivolti a noi, che lo salutavamo con continui segni
di addio, non cessava corrispondere con ogni maniera di saluti,
finch6 la lontananza fini col toglierci anche il piacere di vederci,
Dopo mezz'ora di noiosa navigazione su quelle pesanti zattere, che
ad ogni momento minacciavano di capovolgersi, finalmente, come
Dio voile, toccammo la sponda del territorio di Gombo.
4. Questo paese apparteneva prima al regno di Nunnu; ma poi,
per le solite ambizioni dei capi, ottenuta con le arm! la separazione,
form6 una provincia a parte ed indipendente. Al nord confinava con
Hurru-Galla, alPovest con Sibu, al sud con Giarri, ed all'est con
Nunnu, restando il Gudrii a nord-est. Tutti questi principati, di
origine e sangue galla, appartenevano in principle alia razza par-
ticolare di Gemma, la quale poi dividendosi e suddividendosi, era-
no sorti i sopraddetti principati2 e molti altri con diversi nomi e
capi.
Noi intanto messo piede a terra, fummo ricevuti con molta cor-
tesia e benevolenza dai parenti di Avietu, che ci erano venuti in-
contro; e mentre si aspettava il resto del mio seguito, che veniva-
sene dentro un'altra zattera, la guida di Gombo, ch'era stata con noi
lungo quel viaggio, raccontava con grande ampollosita ai suoi
compaesani il bene che io aveva fatto alia gente di Cioma coll'mo-
culazione del vaiolo. Nel qual tempo senza punto badare alle me-
raviglie da lui narrate, me ne stava ad osservare il lago, che da quelia
parte vedevasi in tutta la sua maggiore lunghezza, segnatamente
verso la sorgente ; e gia si scopriva la lingua del fiuroe, che, lambendo
i confini sud del Gudru e nord di Nunnu, veniva a gettarsi nel lago.
i. Angela: un giovinetto, gia schiavo di Avietu, e battezzato dal Massaja,
ch« acxxanpagnava il padrone cc^ne porta-scudo : ma durante il viaggio
aveva chiesto al Massaja di seguirlo come discepalo, e Avietu aveva coi*-
sentito. 2. i . . . prmdpati; tutto il territorio era formato di numerosi, pk-
coli regni, cfae definitivamente scxHnp«rvero quando TEtiopia fu unificata
da Teodoro prima e poi da Giovanni IV,
800 GUGLIELMO MASSAJA
I giovani poi che guidavano le zattere divertivansi a fare giuochi
e lotte dentro 1'acqua, gettandovisi dentro, guizzando come pesci, e
nascondendosi sotto quello strato di erba, per ricomparire poi al-
rimprowiso in questo ed in quel punto della finta pianura, secon-
doche trovavano qua e la una qualche crepaccia, o la superficie li-
bera di vegetazione, o con lo strato facile a rompersi.
5. Sbarcati gli altri miei compagni di viaggio, si parti subito, e
dopo un'ora di cammino giungemmo alia casa dei parenti di Avietu,
che gia ci aspettavano e ci avevano preparato due belle capanne
per alloggio. Gombo sino a quel giorno non aveva mai veduto un
bianco passare pel suo territorio; laonde la mia comparsa fu per
quella gente un'apparizione nuova e straordinaria. Per istrada, e
giunti al villaggio, tutti correvano verso di noi, curiosi di vederci:
ma appena scoprivano la mia persona e la mia faccia, scappavano
via, principalmente le donne ed i fanciulli, come alia vista di un
orco. Quale impressione facessi sulla loro immaginazione vera-
mente non saprei dire: in un paese dove tutto e prestigio e super-
stizione, riesce difficile ad un forestiero giudicare ed indovinare le
intenzioni e le opinioni delle persone, presso cui si ritrova. Alcuni
esagerando il mio potere, e credendo che col solo sguardo potessi
uccidere la gente, od operare altre mirabili cose a loro favore, presi
da timore e da speranza, piuttosto mi guardavano con soggezione e
rispetto; laddove altri riputandomi un essere di cattivo augurio,
che portava malattie, siccita, guerre ed altri simili malanni, avreb-
bero avuto in vece piacere che non fossi capitato in quelle parti;
e molti vi erano che desideravano e consigliavano di cacciarmi via.
Un bianco pertanto che si rechi in paesi barbari, fa d'uopo che
prima procuri di mettersi sotto la protezione di un personaggio po-
tente e temuto, e giunto in mezzo a quei popoli, non si allontani
da lui, almeno fino a tanto che non sia passata la prima impressione,
e che non si abbia cattivata, con le sue maniere dolci e popolari,
Pamicizia e la benevolenza di una parte della popolazione. Altri-
menti e ben facile di essere immolato qual genio cattivo e malefico
dalla stupida ignoranza e superstizione di quella gente; come in
molti luoghi e piu volte accaduto.
6. In quanto alia mia persona non vi era certamente da temere ;
poiche essendo Gornbo vicino al Gudru, la fama del bene, che in
questo regno aveva fatto, si era sparsa pure in mezzo alle popola-
zioni dei contorni; e le stesse persone venute in Gudru, e quelle
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 8oi
che mi avevano accompagnato, gia raccontavano a chiunque le cose
vedute e sentite: quindi dopo qualche giorno tutta quella gente
immancabilmente si sarebbe mostrata favorevole e benevola, tanto
verso di me quanto verso la Missione. Tuttavia faceva d'uopo usar
prudenza, a fin di cattivarsi a poco a poco Tammo loro, e non met-
terli in sospetto con precipitose ed inaspettate novita: per la qual
cosa raccomandai ad Abba Joannes1 ed agli altri giovani di mo-
derare il loro zelo, e catechizzare solo quelli che spontaneamente
fossero venuti. Di fatto dopo pochi giorni era un andare e venire
alle nostre capanne di ogni classe e qualita di persone, per vederci,
chiederci consigli ed essere istruiti, ed alcuni per domandarci di
dar loro la medicina? come a quei di Gudru e di Cioma. II padrone
di casa poi, che piii di tutti era a conoscenza del bene fatto in quei
paesi, pensate se volesse lasciare sfuggire quella bella occasione,
senza procurare alia sua famiglia 1'inaspettato beneficio contro il
terribile flagello del vaiolo, tanto temuto in Gomb6 : e di fatto un
giorno mel ctdese spiegatamente con premurose istanze.
— Caro mio, — gli dissi — tu non ignori che la condizione del
Gudru e diversa da quella di Gombo : la, awezzi i popoli a veder
continuamente forestieri, non solo non han di loro alcun timore, ma
li guardano di buon occhio e li stimano ; laddove Gombo, non a-
vendone mai visti, si tiene verso di loro guar dingo e sospettoso. Tu
sai inoltre quanto in questo paese sia temuto il terribile flagello, e
come tre anni sono, colpita una famiglia da quella malattia, si diede
fuoco alle capanne, facendo morire abbruciati anche gl'infermi che
vi stavano dentro. Or se dopo aver inoculate il vaiolo a questa gente
ignorante, vedendo spuntare le pustole, credessero che io avessi
comunicato loro la malattia; non potrebbero per awentura metter
fuoco alia mia casa, o farmi qualche altro brutto scherzo ? Da parte
mia non nego a nessuno i benefizii della carita cristiana, ma non vo-
glio esporre me stesso e la Missione imprudentemente a pericoli.
Inoltre, dovendo vaccinare tutta questa gente, sarei costretto fer-
marmi almeno una settimana, e ritardare notevolmente il mio viag-
gio, molto piu che, passando per Giarri e per Gobbo, mi si chiedera
da quei popoli lo stesso favorer e quindi non si sa quando potrei
giungere a Lagamara. Tuttavia, poiche il Signore mi ha mandato
i. Abba Joannes: e il nome assunto, con la consacrazione a sacerdote, dal-
1' indigene Morka (vedi la nota i a p. 781). 2. la medicinal il siero contro
il vaiolo.
si
802 GUGLIELMO MASSAJA
in queste parti per far del bene, con due condizioni prometto ac-
consentire a cio che mi chiedete: la prima, che tutti i capi del paese
riuniti vengano a domandarmi d'inoculare il vaiolo ai loro soggetti;
la seconda, che si mandino persone in Gudru ed a Cioma, e dopo
aver veduto Teifetto di quello che operai cola, ritornino ed assicu-
rino il popolo deirinnocuita e vantaggio della mia medicina.
7. Queste difficolta e condizioni io le metteva innanzi, prima
per dare importanza all' opera mia, ed in secondo luogo per guar-
darmi le spalle da qualche poco gradita sorpresa, che mi avrebbero
potuto fare quei popoli ignoranti e superstiziosi : ma in cuor mio
desiderava di metter mano subito al lavoro, poco curandomi dei
pericoli e del tempo che ci sarebbe voluto per vaccinare tutta quella
gente. Mandate dal Signore a compiere Popera sua nelle regioni
dell' Africa, non mi credeva legato ne al Gudru n6 a Lagamara, ma
riputava unica e grave mia obbligazione quella di far conoscere
Gesu Cristo ed il suo Vangelo a tutti indistintamente : il fermarmi '
adunque in mezzo a quel popolo, che, appena dopo pochi giorni
di conoscenza, si belle disposizioni mostrava verso la mia persona,
era una savia risoluzione. Contentando inoltre quei poveri barbari,
mi avrei cattivato la loro aifezione, mi sarei reso popolare, e punto
sospetto ; e cosi avrei avuto agio e liberta di compiere meglio presso
di essi il mio aspostolico ministero ; non solo in quell'occasione di
breve fermata, ma anche in awenire, se il Signore mi avesse prov-
veduto di nuovi soggetti, per impiantare ivi una Missione. Certo,
per giungere ad ottenere tutti questi beni richiedevasi del tempo,
e per parte nostra lunghe noie e fatiche: ma il missionario, che la-
scia la sua patria, e si reca in paesi barbari, non vi va per passar
la vita in divertimenti ed in cerca di geniali curiosita, bensi per
lavorare, aiutare i proprii fratelli, e ricondurli a Gesu Cristo, pronto
sempre a sofFrire qualunque disagio per si santo e caritatevole sco-
po. Se io fossi andato la con altre disposizioni e per altri fini, non
avrei certamente potuto durarla tanti anni in mezzo a gente grosso-
lana, sospettosa, ignorante e talvolta crudele, circondata di miserie,
piena d'insetti, e punto scrupolosa a togliersi di torno un forestiere :
ma tostoche lasciai TEuropa e giunsi cola, tutti quei tapini diven-
nero miei figli, e per conseguenza le loro miserie ed i loro bisogni
dovevano essere la mia eredita e 1'oggetto del mio zelo. Laonde nei
pericoli, nelle dure fatiche e nelle occasioni difficiK soleva dire a
me stesso: «Alza gli occhi al cielo, e poi fa il tuo dovere e tira in-
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 803
nanzi; quando morirai, tutto sara finite, e si chiudera la tua cam-
pagna».
8. II padrone di casa intanto non cessava d'insistere, abbattendo
ogni mia difficolta; in fine mi disse: — £ vero che il nostro paese,
non awezzo a veder forestieri, non ha con essi domestichezza e
non li ama; ma voi siete un'eccezione, ed io vi accerto che tutti vi
stimano e vi portano affetto. Molti del nostro paese, frequentando
il mercato di Asandabo, vi hanno la veduto, han conosciuto la vo-
stra famiglia, han sentito parlare del bene che facevate; e ritornati
in Gomb6, avendo riferito ogni cosa a questa gente, tanto desiderio
si aveva di vedervi anche in mezzo a noi, che stavamo gia per ve
nire a pregarvi di farci una visita. Ora che il Signore vi ci ha man-
dato spontaneamente, come potremo starcene quieti senza avere
ottenuto quel bene che altrove avete fatto ? Per carita non negateci
cio che cosi generosamente avete dato ad altri; che tutto il paese
ne sarebbe dolente, e non vi lascerebbe andar via libero e tranquillo.
10 parlero ai capi, e riferiro loro quanto giorni sono mi diceste:
ma gia so che tutti risponderanno di esser pronti a far quello che
voi vorrete, purche diate anche a noi la medicina del vaiolo.
— Ebbene, — risposi allora — quand'e cosi, cominceremo in no-
me di Dio: e prima vacciner6 quei della tua famiglia, che non
hanno ancora sofTerto questa malattia. Pero ti awerto che, se fos-
sero molti, sarebbe meglio dividerli in due drappelli; poiche am-
malandosi tutti grinoculati nel settimo giorno, la tua casa, almeno
per tre giorni, resterebbe senza servizio : ed e bene che ci6 Io sap-
piano anche tutte quelle persone, che hanno famiglia numerosa,
afEnche non abbiano a soffrire poi un tale incomodo e disturbo.
9. Cominciai adunque la noiosa fatica, ed in quel giorno inoculai
11 vaiolo a quindici persone della casa del mio protettore. I primi
si accostavano tremando, sia per la ripugnanza che avevano di av-
vicinarsi a me, quasi fossi un animale feroce, sia per timore del
ferro che teneva in mano. I piccoli principalmente sembravano
tanti diavoletti, e bisognava che nel tempo delPoperazione li te-
nessero fortemente due persone per farli stare un po* fermi ; e poi
che non mancavano in fine di lasciarmi addosso qualche regalo o
d'insetti o di cose punto odorifere, fui costretto coprirmi con
una gran pelle, che legata al collo ed al cinto, mi dava Taspetto di
un macellaio o di qualche cosa simile. Una giovane, prossima a
maritarsi, non voleva punto sentire d'inoculazione ; ma i parenti
804 GUGLIELMO MASSAJA
tanto dissero e fecero, che la trascinarono alia capanna: giunta pero
davanti a me, sputommi in faccia e scapp6 via. Quantunque a poco
a poco il timore e la ripugnanza andassero diminuendo, pure nei
primi otto giorni non vi fu un gran concorso, essendosene presen-
tati circa un centinaio ; laonde quasi mi consolava che, sbrigandomi
in pochi giorni, avrei potuto presto partire : ma non fu cosi ; poiche
se la maggior parte stavasene lontana, era appunto per vedere e
provar prima sugli altri Teffetto che Finoculazione avrebbe prodot-
to. E questa maliziosa curiosita mi fece stare alcuni giorni in timo
re, non sapendo qual giudizio quegl'ignoranti e superstiziosi avreb-
bero fatto,.alPapparire della pustola e dei sintomi relativi. Di fatto,
vedendo da principio che la piccola ferita subito asseccava, giudi-
carono che fosse cosa da nulla : ma osservando il settimo giorno che
i primi quindici furono presi dalla febbre, e comincio ad apparire
sulla parte dell'inoculazione la piccola pustola, credettero che con
quel mezzo fosse venuto loro il vero vaiolo ; onde non solo si fug-
givano Tun Taltro come appestati, ma nessuno si accosto piu alia
mia capanna. Dopo i tre giorni poi, vedendo che il male si limitava
a quella piccola pustola, e che, cessata la febbre, non si sentiva altro
incomodo, rinacque la confidenza, e tutti si pentirono di non esser
venuti prima a ricevere la medicina.
10. Quindi comincio a presentarsi una folia si grande, che non
mi dava tempo n6 di mangiare, ne di pregare, ne di dormire;
fanciulli, giovani, adulti, di ogni condizione e sesso, assediavano la
capanna di giorno e di notte, si disputavano la precedenza, e mi-
nacciavano di venire alle mani. lo aveva dato ordine di non rice-
verne piu di trenta al giorno, e non insieme ed alia stessa ora: ma
furono vane parole; poiche, appena sorta Faurora, cominciava a
sfilare una processione di gente che non finiva se non a tarda sera.
Sentendomi venir meno per la stanchezza, un giorno chiamai Abba
Joannes (cui gia aveva insegnato la maniera d'inoculare) per amtar-
mi a sbrigare tutta quella gente : ma appena lo videro metter mano
all' ago, tutti quanti se ne allontanarono dicendo: — La tua saliva e
sporca come la mia. — Cosicche dovette ritirarsi, e continuare io
la noiosissima fatica. La ragione di questa espressione, o meglio
pregiudizio, era la seguente: trovando io talvolta il pus un po'
secco, soleva bagnarlo ed inumidirlo con la mia saliva; or da ci6
quella gente prese motivo a credere che la virtu della medicina
stesse piuttosto nella saliva che nel pus: e poiche Abba Joannes
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 805
non era un bianco come me, ma un nero come loro, non sapevano
quindi persuaders! che la saliva di un nero avesse la stessa virtu di
quella di un bianco. Talmente poi questo pregiudizio era entrato
nelle loro menti, che se avessi voluto inumidire il pus con acqua
anziche con la saliva, nessuno sarebbesi accostato a farsi inoculare ;
perche secondo loro la medicina non avrebbe avuto la vera e me-
desima virtu. Ecco con che sorta di gente mi toccava aver da fare!
11. II maggior concorso duro una settimana, con piu di cento
persone al giorno ; poi diminui gradatamente, e finita la prima quin-
dicina, non venivano che alcuni di lontano : cosicche, fatto conto, fu
inoculate il vaiolo a piu di mille persone. Di questi ne ritornarono
un dieci o dodici, cui non era venuta febbre, ne apparsa la pustola;
onde giudicando che per la confusione non fosse stata fatta bene
Finoculazione, replicai Pinnesto, che a due soli usci naturale, lad-
dove agli altri non fece alcun effetto. Probabilmente cio accadeva
per avere avuto nell'infanzia il vaiolo, senza ch'eglino se ne ricor-
dassero, o i parenti ne avessero conservato memoria. Fra tutti
gl'inoculati poi a circa quindici spunto un vero vaiolo con molte
pustole sparse per tutto il corpo; pero piu mite delPepidemico, e si
benigno, che dopo otto giorni restarono perfettamente guariti. At-
tribuii questa crisi piuttosto a disposizione particolare che ad in-
flusso epidemico, molto piu che i sintomi si manifestarono il set-
timo giorno, come in tutti gli altri; ne prima ne dopo, come spesse
volte mi e accaduto vedere nelle epidemic. Intanto questo caso
fu per me una prowidenza: poich6 da loro potei raccogliere una
grande quantita di pus, di cui, dopo tutte le inoculazioni fatte
dal Gudru a Gombo, aveva estremo bisogno. Le richieste inoltre
di quei paesi e villaggi, dond'era passato, awertendomi che si sa-
rebbero accresciute andando innanzi, faceva d'uopo esserne sem-
pre ben prowisto ; e gia ne aveva raccolto tanto che per piu anni
avrei potuto dormir tranquillo.
12. Fra tutti coloro ch'ebbero innestato il vaiolo, piu di un cen-
tinaio erano bambini e fanciulli sotto i due anni; or dolevami il
cuore di lasciare quelle anime innocenti senza la grazia del santo
battesimo; molto piu che tanti sarebbero morti prima di giungere
alPuso della ragione. Se vi fosse stata speranza di poter mandare
qualche missionario in quelle parti per continuare Papostolato, avrei
potuto soprassedere : ma pur troppo questa speranza dileguavasi
sempre piu; poiche ne dalla costa, ne dagli altri luoghi mi si pro-
806 GUGLIELMO MASSAJA
mettevano sacerdoti; onde mancando i ministri, quelle creaturine
sarebbero andate alFaltro mondo con Fanima pagana.
Intanto, come fare per battezzare in quelFoccasione i soli bam
bini, senza suscitare pregiudizii e sospetti negli adulti ? Poiche que-
sti, vedendo dare Facqua ai battezzandi nel tempo che s'inoculava
loro il vaiolo, certamente riputando quelFatto in relazione colFin-
nesto, tutti mi avrebbero chiesto di farlo sopra di loro ; il che era
impossibile concedere, perche non ancora istruiti e convertiti. In-
ventai perci6 uno stratagemma; cioe, diedi ordine che ciascuno dopo
Finoculazione si dovesse recare da Abba Joannes per ricevere Fac-
qua benedetta sulla testa. Naturalmente con Abba Joannes si era ri-
masti d'accordo di versare Facqua sugli adulti recitando la formola
comune di semplice benedizione, e sui bambini amministrando loro
il santo battesimo. Cosi anche a Gomb6 lasciai molti veri figli di
Dio, pronti a volarsene in paradiso se fossero morti nella sua gra-
zia; ed oltre a questi si diede anche il battesimo pubblicamente ad
alcuni giovani d'ambo i sessi, figli di mercanti cristiani delFAbis-
sinia, cola stabiliti, ed istruiti in quel mese da Abba Joannes e dagli
altri miei allievi.
GUERRA FRA LAGlMARA E CELIA1
Riposato un poco, chiamai il P. Hajlu Michele2 per darmi rela
zione di ci6 che si era fatto nella Missione, delFandamento della
famiglia, e del profitto e disposizione di quei popoli verso il catto-
licismo: e vedendo che i lavori della casa erano stati interrotti, e
che per tutta la famiglia non vi fosse comodo e nemmeno suffi-
ciente alloggio, gli domandai la ragione di questo ritardo e disor-
dine. II buon Padre, sospirando, rispose: — Non e colpa nostra il
disordine che Vostra Eccellenza lamenta, e Dio voglia che non
venga peggio! Quando si cominciarono i lavori venne scelto questo
sito, come il piu salubre ed il piu sicuro, e si andava avanti alacre-
mente: ma poi dichiarata la guerra fra Lagamara e Celia,3 la nostra
casa divenne il punto maggiormente pericoloso, perche piu esposto
alle scorrerie dei nemici; laonde, scoraggiti, cessammo ogni la-
voro, e chi sa se non saremo costretti di portare la casa della Mis-
i. Ed. cit., vol. iv, cap. v, pp. 52-69. 2. P. Hajlu Michele: sacerdote in-
digeno, consacrato dal Massaja e da lui mandate innanzi a Lagamara.
3. Celia: piccolo regno immediatamente a sud di Lagamara.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 807
sione di la del fiume ? Dimani verranno i capi di Lagamara, e sentira
da loro tutta la gravita della condizione in cui si trova il paese. E
badi ch'essi confidano molto in lei, e sperano da lei il trionfo sui
loro nemici; quindi rifletta bene prima di rispondere, e dia quei
consigli che nella sua saggezza giudichera piu convenienti.
Caddi dalle nuvole, e— Dio buono,— esclamai— quando sperava
di goder qua un riposo alle tante fatiche e persecuzioni sofferte, tro-
vo in vece nuove angustie, torbidi di guerra, ed anche il pericolo di
esser cacciato via e di aver distrutta la casa! Veramente credeva che
dimani venissero a chiedermi Pinoculazione del vaiolo, e non sa-
peva che volessero immischiarmi nei loro litigi, pretendendo aiuti,
che io non posso in verun modo prestare ; poiche, nella loro igno-
ranza e superstizione, attribuendo ogni cosa a prestigio sopranna-
turale pagano, e impossibile da parte mia secondare le loro false
idee, e contentare i loro sciocchi capricci. Ed ecco che volendo
schivare Scilla, son vemito a battere la testa in Cariddi. Dio mio,
siate, ve ne prego, la guida e lo scudo del povero vostro servo in
questi penosi cimenti ; tutta la mia speranza e riposta in voi.
2. Intanto non potei piu occuparmi d'altro; quella notizia mi
disturb6 talmente, che passommi anche la voglia di discorrere;
laonde, congedato il buon Padre, ed andato a letto per riposare,
mi fu impossibile prender sonno, o trovare un mezzo che valesse
a togliermi da quel grave impiccio. Ne poteva confortarmi col
chiedere pareri e consigli ai due sacerdoti indigeni;1 poiche sapeva
certo che a cagione della loro fede, forse un po' cieca, e della fidu-
cia ch'esageratamente riponevano in me, non mi avrebbero par-
lato spassionatamente, ne dato consigli saggi ed opportuni. E gia
quella sera e poi in ogni occasione, vedendomi sopra pensiero non
facevano altro che ripetermi: — Si faccia coraggio, si faccia corag-
gio, che Iddio aiutera. — E forse con le stesse parole e con la me-
desima fiducia spingevano i capi del paese ad insistere presso di
me, ed a sperare nella mia protezionel Intanto, abbattuto nel corpo
non meno che nello spirito, a mezzanotte mi alzai, anche per ascol-
tare la confessione di tutta la famiglia, e specialmente di quelli che
mi avevano accompagnato, desiderosi piu degli altri di ricevere
dopo tanto tempo la santa comunione.
Cosi accade ai poveri missionarii; giunti in un luogo stanchi
dal cammino e dalle fatiche, in vece di trovare riposo e materiali
i. due sacerdoti indigeni: padre Hajlu e Abba Joannes.
808 GUGLIELMO MASSAJA
sollievi, vedendosi circondati di matura messe, ecco obbligati, non
ostante gFincomodi e la corporate debolezza, a dar mano alia
falce, e spargere nuovi sudori pel bene delle anime. E come se ci6
non bastasse, volere o non volere, vedo.nsi talvolta costretti di
prender parte a question! e litigi che trovansi in paese, ed immi-
schiarsi in cose estranee al loro ministero apostolico, col pericolo
pure di restarne eglino stessi vittima.
Per 6 la mattina mi fu di non lieve conforto il vedere tutti quei
miei figli ascoltare la Messa e ricevere la santa comunione col piu
grande fervore; e dopo aver loro rivolto un caloroso discorso, si
concluse la funzione, e si and6 a mangiare un po' di pane e latte.
Ma neppure fummo lasciati liberi di finire quella modesta cola-
zione ; poich6 radunatisi attorno alia nostra casa una quindicina di
persone, continuamente mandavano messaggeri per farmi premura
di uscire ed ascoltare ci6 che avevano incombenza di dirmi. Sicche
trangugiati in fretta pochi bocconi, preso con me Abba Joannes,
per farmi in caso di bisogno da dragomanno,1 uscii alPaperto.
3. Quelle persone erano nientemeno che i capi principali del
paese, e dato loro il saluto d'uso, andammo a sederci sotto un al-
bero, tenendosi molta altra gente alquanto in distanza. Dopo pochi
minuti di silenzio, nel qual tempo tutti se ne stavano a testa bassa,
come chi pensa ad una grave sventura, cosi cominciarono a par-
lare. — Son circa quattro mesi che Lagamara si trova in guerra con
Celia, paese confmante con noi, ed in tutti gli scontri che abbiamo
avuti, Vajancf dei nostri nemici e rimasta sempre superiore alia
nostra, e siamo stati vinti. Ora Iddio ci ha mandato voi, in cui
riponiamo tutta la nostra fiducia e speranza ; poiche dove siete voi,
cade di mano la lancia al nemico, e dove arriva la vostra saliva, le
malattie piu terribili diventano mosche, e scompaiono. Con le vostre
preghiere faceste trionfare di tutti i suoi nemici Gama-Moras,3 e
lo metteste sul trono del Gudru; aiutate anche noi, che tanto ne ab
biamo bisogno nella presente guerra. Non vi domandiamo di com-
battere con noi e per noi, ma di benedire le nostre armi, affinche
sconfiggano i nemici, e pregare il vostro Dio, di essere egli in que
st* occasione la nostra ajana.
i. dragomanno: interprete. 2. ly ajana: il genio, lo spirito protettore.
3. Gama-Moras (vedi la nota 2 a p. 786) aveva sostenuto una lotta di
supremazia contro un Fufi, capo della fazione awersaria • la sua vittoria
parve, agli indigeni, dovuta alPamicizia del Massaja.
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 809
Se non avessi avuto piena conoscenza di me stesso, e del linguag-
gio ampolloso di quei popoli, vi sarebbe stato motivo d'insuper-
birmi al sentire quelle sperticate lodi verso la mia persona, e quelle
sicure speranze nella virtu ed efEcacia della mia preghiera: ma il
dico francamente che quel linguaggio, anziche farmi levare in su-
perbia, mi eccito tale stizza, che quasi quasi stava per piantarli li
e ritirarmi silenzioso nella mia capanna. Ma riflettendo fra me
stesso che faceva d'uopo usar prudenza, e cercare di aggiustare
alia meglio la faccenda, li pregai di darmi un po' di tempo per esa-
minare bene la domanda; affinche dai miei consigli e sperati aiuti
non ne venissero loro maggiori malanni.
4. Ritiratomi nella capanna, tenni subito consiglio con i miei
sacerdoti, sperando da essi qualche lume o indirizzo, che valesse
almeno a farmi trovare una scappatoia qualunque in quell' intricate
affare: ma come sopra ho detto, avendo essi in me maggior fiducia
degli stessi capi indigeni, e sperando un gran vantaggio per la
Missione, qualora i desiderii di quella gente venissero appagati,
segnatamente con una vittoria sui loro nemici, non cessavano di
consigliarmi a fare il possibile per contentarli. — Giacche Iddio —
dicevano — ha svegliato nel cuore di questi pagani tanta fiducia
verso di lei e della Missione, perche non dobbiamo coltivare e se-
condare questi sentimenti, e raccoglierne poi i vantaggiosi frutti ?
— Si, — rispondeva io — quanto voi dite e sperate sarebbe buono
e prezioso, qualora noi avessimo veramente il potere di fare ci6 che
ci chiedono, e fossimo certi del felice esito delle cose. Ma se dopo
le nostre promesse e benedizioni, in vece di vittorie toccassero scon-
fitte, il nostro credito dove andrebbe ? Non ci troveremmo piutto-
sto esposti a rimproveri, a motteggi ed anche a vendette ? Aggiun-
gete che la loro fiducia non partendo da principio soprannaturale,
o meglio da fede che abbiano nel potere di Dio e dei suoi ministri,
con animo di uniformarsi alia volonta del Signore, qualora egli di-
sponesse diversamente ; ma da principii superstiziosi e da credenze
in prestigii ed altre ridicole arti di potesta umane, noi, che siam
venuti qua per togliere dalle loro menti questi errori e pregiudizii,
acconsentendo a cio che ci domandano, non faremo che alimentarli;
il che, a dire il vero, in coscienza non possiamo permettere, ne
in qualsiasi modo agevolare.
— Avremo tempo appresso — soggiungevano — a far loro co-
noscere dove stia il vero e dove il falso, quando la Missione si sara
8lO GUGLIELMO MASSAJA
fatta conoscere ed apprezzare, ed abbia preso dominio sui loro
cuori.
5. Mi convinsi allora che nulla poteva sperare da parte del miei
compagni, e che bisognava assolutamente far da me. I capi intanto
stando fuori ad aspettare, impazienti di avere una risposta, uscii;
ed andati a sederci nuovamente sotto 1'albero, Pinterrogai del mo-
tivo che aveva dato principio alPinimicizia, e poi alia guerra fra le
due razze. — Una donna — risposero — fu la causa di questa ni-
mista: fuggita dalla casa di uno dei capi di Celia, per passione verso
un lagamarese, cerc6 ricovero presso di noi, dicendo a tutti di ave
re abbandonato il marito per maltrattamenti ricevuti; e richiesta
poi dal proprio sposo, non si voile piu restituire da chi la teneva;
onde si venne alle armi, e poco per volta prendendovi parte, come
fra noi e uso, la popol'azione dei due paesi, fu dichiarata la guerra.
Lagamara, sempre vittoriosa su Celia, credeva di vincere anche que
sta volta : ma Vajana ci volt6 le spalle, e quindi siamo stati sempre
sconfitti, con un gran numero di morti e con ispargimento di san-
gue quasi ogni giorno. Piu, molti dei nostri e dei loro soldati es-
sendo stati vittima della mutilazione,1 non ci e piu tregua, ne si da
luogo a pieta, ma siamo in piena guerra d'esterminio.
Mi accorsi intanto che quella povera gente era caduta in tale av-
vilimento d'animo, che dava chiaramente a vedere come non solo,
un tempo si forti, sentissero dopo tante sconfitte la propria debo-
lezza, ma che avessero perduto ogni speranza di trionfo. La qual
condizione non serviva che a renderli ancor piu deboli di quello
che realmente fossero; poiche cosi awiene fra i popoli barbari,
mossi e guidati da principii e motivi superstiziosi : finche la fortuna
li seconda e le loro operazioni riescono bene, viva Vajana, e vanno
avanti orgogliosi e pieni di coraggio e di ardire ; ma toccata qualche
sconfitta ed avuta la peggio, ecco perdersi subito d'animo, awilirsi
e lasciarsi con facilita sopraffare. Quel nobile sentimento, che rende
Tuomo sempre forte e coraggioso, tanto nella prospera quanto
nell'awersa fortuna, & una virtu interamente soprannaturale, la
quale ha le sue radici nella credenza che ogni awenimento o pic
colo caso proviene sempre da Dio, nostro creatore e padrone ; cre
denza che solo puo trovarsi nel cristiano, e piu viva e forte nel cat-
tolico.
i. mutilazione: Tevirazione era usanza di guerra molto diffusa tra gli indi-
geni d' Africa.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 8ll
6. Intanto, preso motive dal racconto che mi avevano fatto, e
dalla loro stessa confessione, risposi che da principio stando la ra~
gione per quei di Celia, ed il torto da parte dei Lagamaresi, giu-
stizia voleva che il Signore aiutasse quelli anziche questi: poiche
la donna essendo fuggita non per un motive giusto e ragionevole,
ma per impulso di passione peccaminosa; ed i Lagamaresi, essen-
dosi negati di restituirla, com* era loro dovere, ed avendo anzi preso
le sue difese, ne venne che deliberatamente si resero colpevoli di-
nanzi a Dio di tutto il delitto, e quindi indegni delta sua protezione.
— Stando cosi le cose, — soggiunsi — ora volete che io benedica le
vostre armi, e preghi per la vostra vittoria : ma il servo puo essere
meno giusto del padrone ? Posso io approvare e proteggere cio che
il mio Dio proibisce e riprova? Tuttavia, essendo noi ministri di
pace, e riputando come nostri figli tanto voi quanto quelli di Celia,
ecco la proposta che il Signore m'ispira di farvi. Si depongano da
parte vostra le lancie, e non si dia motivo ai nemici da qui innanzi
di lagnarsi di voi; frattanto si mandino messaggeri ad ofrrire la
pace, dicendo anche che Lagamara e disposta a dare la dovuta sod-
disfazione per 1'offesa fatta. Se Celia accettera, noi avremo rag-
giunto Io scopo senza spargere altro sangue ; se poi rifiutera la nostra
offerta e si neghera di stenderci la mano, io saro con voi, e spero che
il mio Dio volgera benigno il suo sguardo sulle vostre armi.
7. Sentita questa proposta, i capi si riunirono a consiglio, e dopo
lunga discussione, quasi si stava per risolvere di accettare il mio
suggerimento e mettersi interamente nelle mie mani, ma uno o due
dei piu forti, e forse di coloro che della brutta faccenda erano stati
gl'istigatori, fecero opposizione, e non si concluse nulla. Intanto
il popolo di Celia avendo conosciuto Tarrivo in Lagamara del Pa
dre Bianco, a cui il Gudru, Gombo, Giarri e Gobbo avevano fatte
tante feste e dati generosi regali, preso di paura, lascio passare
circa tre mesi senza fare alcun atto di ostilita: e si viveva tranquilli,
quando un giorno sentesi da un'estremita all'altra di Lagamara il
grido di guerra, e si vede un correre di gente armata da ogni parte
del paese verso i confini di Celia. Credendo che Tassalto fosse ve-
nuto da questa, tremava in cuor mio pel povero Lagamara; onde
radunata la famiglia nella cappella, cominciammo a pregare il Si
gnore di moderare Io spirito bellicose di quegli animi inaspriti, e
far presto cessare Io spargimento del sangue. Non pass6 molto
per6 che venni a sapere non essere stati quei di Celia, ma bensi
8l2 GUGLIELMO MASSAJA
alcuni bravacci di Lagamara, che, rotta la tregua, avessero preso le
armi, andando a sfidare i nemici del proprio paese ; onde il timore
di una nuova sconfitta del Lagamaresi si accrebbe maggiormente,
e quasi quasi la riputava inevitabile. La casa della Missione intanto
ben presto si riempi di vecchi, di donne e di fanciulli, che trepi-
danti aspettavano Tesito della battaglia: ma la giornata si avanzava
e nessuna notizia giungeva dal campo della lotta. Finalmente, co-
minciando a ritornare alcuni della spedizione, si seppe che avevano
combattuto tutto il giorno, che vi erano stati morti e feriti d'ambo
le parti, e che finalmente Celia era rimasta vittoriosa come pel pas-
sato. Rientrati poi la sera tutti i combattenti, il paese sembrava un
inferno; lamenti, grida, maledizioni, urli spaventevoli sentivansi
da ogni parte, per la perduta vittoria, e per le persone uccise in
battaglia. Fra gli altri un nostro cattolico, il piu zelante di tutti, ed
il primo che sposasse cattolicamente, era rimasto vittima, lasciando
la sua compagna, vedova ed incinta. lo feci di tutto per ottenere quel
cadavere e seppellirlo accanto alia Missione ; ma assolutamente non
si voile concedere, primo perche, essendo stato mutilate, riputa-
vasi immondo ; secondo perche un tale atto sarebbe stato tenuto da
tutti come un cattivo augurio per rawenire della guerra; onde si
dovette lasciare insieme con gli altri per pasto degli avoltoi e delle
iene.
8. II paese intanto dopo questa sconfitta si divise in diversi pa-
reri rispetto a me ; chi diceva non avere io quella virtu e quel potere
che tanti mi attribuivano ; chi d'essermela intesa con i nemici, e
mangiando generosi regali, aver mandata la mia ajana a proteggere
le loro armi ; chi in fine mi dava ragione, e biasimava Lagamara di
non avere ascoltato la mia parola eseguito i miei consigli. Laonde
era divenuto 1'oggetto delle dicerie di tutti, non certo a me favore-
voli, e quindi in quali panni mi trovassi il lascio giudicare ai miei
lettori.
La mattina seguente i capi del paese in maggior numero furono
di nuovo alia mia porta per sentire come avrebbero dovuto regolarsi
dopo quest' altra sconfitta: coloro che avevano gia sentita la mia
prima proposta, e che giudicandola ragionevole, si erano sforzati
di persuadere il popolo a seguirla, mi chiesero scusa di non avermi
dato ascolto, e poscia presero a pregarmi con maggiore insistenza
di non abbandonarli; promettendomi pure preziosi regali, se avessi
voluto dawero impiegare la mia magica virtu a loro favore ed a
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 813
svantaggio di quei di Celia. Allora, senza punto turbarmi, risposi
che si sbagliavano nel credere in me qualche superstizioso potere
come nei loro magbi; e che se qualche cosa avrei potuto fare a loro
vantaggio, non a me, ma alia virtu onnipotente del vero Dio era
da attribuirsi, nelle cui mani sono le sorti dei popoli, e le vicende
dei regni. In quanto ai regali, dissi che facevami male il solo sen-
tirne parlare ; poiche la mia missione non mirava ad interessi tem-
porali, ma unicamente al bene spirituale del paese, che ormai ri-
putava come paese mio. — Se son venuto fra voi, — soggiunsi —
voglio che mi stimiate come vostro fratello ; poiche non solo ho a
cuore di aiutarvi quanto piu mi sara possibile nelle angustie in
cui vi trovate, ma di dividere con voi le prosperita e le miserie.
Rispetto dunque alia presente lotta, ripeto anche oggi quello che
dissi allora, cioe, ch'essendo il torto dalla parte vostra, tocca a voi
chiedere la pace, molto piu dopo quest'ultima sconfitta, che non
solamente ha fatto maggiormente conoscere la vostra debolezza,
ma vi ha reso colpevoli di temeraria provocazione contro gente che
da tre mesi aveva deposte le armi, non dando ai Lagamaresi alcun
fasti dio.
9. I capi allora riconoscendo giuste le mie rampogne: — Avete
ragione; — risposero — ma quesfalzata di scudi non venne da noi,
bensi da chi, senza guardare alle conseguenze, si awentura nei ci-
menti delle armi. Nei nostri paesi i capi ed i vecchi comandano e
decidono su certe particolari question!, ma nel resto il popolo fa
da se; e talvolta costringe coloro, cui spetta di comandare, a fare cio
che non vorrebbero. Cosi e accaduto in quest'ultimo assalto: al-
cuni giovani, per dar prova del loro valore, e senza averne avuto
ordine da nessuno, presero le armi e si awiarono contro Celia;
potevamo noi lasciarli trucidare dagli orgogliosi nostri nemici?
Laonde fummo costretti seguirli, prender parte alia lotta, e quindi
pagar cara la loro imprudenza.
Mentre sto scrivendo questa vecchia storia, sento i lamenti della
Francia assennata per la spedizione di Tunisi,1 promossa e voluta
i. la spedizione di Tunisi: la Tunisia fu invasa dalla Francia nel 1881, con il
pretesto di difendere il territorio dell' Algeria dagli assalti delle tribu dei
Crumiri, e il bey fu costretto a firmare il trattato del Bardo (12 maggio
1881), che segno la fine temporanea dell'indipendenza del piccolo Stato.
Ma e faziosamente ingenue pensare che il governo francese, perche repub-
blicano e popolare, fosse allora espressione dell'insensatezza e superficiality
della parte « progressiva » del paese.
814 GUGLIELMO MASSAJA
da una parte del governo popolare, che regge quella nazione; e
sento anche in Italia le grida sediziose rispetto all' Irredenta,1 man
date da un pugno di gente che non ha alcun potere, e proprio men-
tre il re con due ministri trovasi in Austria per far visita d'amicizia
a quelPimperatore.2 Nazioni educate a questa maniera potranno
mai prosperare ? Sara possibile tenere nelPordinamento e nelle fac-
cende politiche del governo una norma assennata, franca e secon-
do i reali interessi della nazione, quando il cieco popolo prende la
mano a chi regge, e ne detta la via da seguire ? In tal caso necessa-
riamente si dovranno dare passi imprudent! e falsi, che poi quasi
sempre finiscono con condurre a precipizio e rovina. Ed in questa
pericolosa ed anormale condizione si trovano oggi tutte quelle na-
zioni, che vengono rette da governi popolari, principalmente se tali
forme politiche sieno nuove e non adatte ai costumi, alPindole ed
alia vita dei popoli, in mezzo ai quali si vollero introdurre. II popolo
e fatto per ubbidire,3 non per comandare ; onde il dire popolo so-
vrano, e una contraddizione palese; ma gia si sa chi in fin dei conti
di questa sovranita ne gode i vantaggi, cioe colui che sa meglio im-
brogliare, e farsi credere di essa un legittimo rappresentante ; in
conclusione poi veggiamo questi mestatori rivestiti di sovranita
reale, con tutti gli onori e corrispondenti lucrosi vantaggi, ed il
popolo formare ad essi sgabello, e sopportarne le spese e bene
spesso le beffe.
10. Intanto tre giorni dopo quella lagrimevole sconfitta, mentre
i capi stavano a discutere sul partito da prendere, un nuovo grido
di guerra si sente pel paese, ed un fuggire di donne, di uomini, di
fanciulli disperati e piangenti. Chiestone il perche, si viene a sapere
che Celia, sdegnata delPassalto improwiso dei Lagamaresi, aveva
volto le armi contro il loro paese, mettendo fuoco e facendo strage
di ogni cosa. Era il giorno di S. Luca, e noi stavamo in chiesa per
celebrarne la solennita e dare il battesimo ad un'intera famiglia; in
sentire tutto quel fracasso, finita con fretta la funzione, ci demmo
i. Irredenta: il Massaja allude airirredentismo, che aspirava a veder con-
giunte all' Italia Trento e Trieste, e che tanto piu doveva dispiacere al
Cardinale, in quanto era, allora, movimento massonico-repubblicano-po-
polare, in funzione anticattolica e francesizzante. 2. il re . . . imperato-
re: Umberto I si rec6 in visita a Vienna neU'ottobre del 1881. II viaggio
prepar6 la stipulazione della Triplice Alleanza (1882). 3. II popolo . . . per
ubbidire; superfluo sottolineare la mentalita conservatrice e retriva del
Massaja, decisamente awerso alle forme democratiche, in obbedienza al
precetto paolino dell'omnis potestas a Deo.
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 815
a trafugare oggetti e mettere al sicuro le cose piu necessarie della
chiesa. I guerrieri di Celia intanto assalito il paese dalla parte abi-
tata da coloro die avevano dato motive alia guerra, e che poi si
erano opposti alia pace, ne fecero crudele strage, combattendo sin
dopo mezzogiorno, ed abbruciando non meno di ottocento ca-
panne. La gente, mandando grida di spavento e di dolore, correva
alia parte opposta, trasportando quanto piu cose potesse, per sal-
varle dall'incendio e dalla rapina; ed anche noi, scorgendo vicino
il pericolo, fummo obbligati a fuggire, e mettere in salvo altrove
le nostre poche masserizie con gli oggetti di chiesa. Fu ima giornata
spaventevole e di agonia per tutti; oltre gl'incendii e la perdita di
animali e di prowiste, rubati dai nemici, si contavano molte per-
sone uccise e ferite, e quasi tutti mutilati. Ne io poteva dirmi meno
afflitto e piu sicuro di loro ; poiche non solamente il fuoco era arri-
vato ad un tiro di pietra dalle nostre capanne, ma da malevoli ed
ignoranti spargevansi pure contro di noi stupidi sospetti e sangui-
narie minacce ; sicche fra me stesso andava dicendo : « Pochi mesi
sono fui ricevuto come un Dio, e probabilmente saro costretto fug-
girmene di notte come un ladro».
ii. Ma il Signore, che protegge sempre chi in lui confida, an
dava disponendo gli animi diversamente. II capo di coloro che ave
vano fatto eco alia mia proposta, e che stavano per la pace, prima
di recarsi a combattere contro Celia era passato da me, chiedendo-
mi di benedirlo e di pregare il Signore per lui; il che ottenuto, non
solo tenne fronte nella battaglia con insigne valore ad un gran nu-
mero di nemici, ma uccisine due, ritorno sano e salvo con i riportati
trofei, infilzati nella lancia, fra le acclamazioni della sua casta; che
non solo al vincitore, ma al Dio dei cristiani ed al Padre Bianco
cantava inni di lode. Questo caso fortunato fece tale impressione
nel popolo, che si risolvette di mettersi interamente nelle mie mani,
senza ascoltare consigli da altri. Laonde venuti novamente da me:
— La vostra casa — presero a dire — rimasta illesa, e quelli da voi
benedetti ritornati vittoriosi, sono segni che il Signore vi protegge
ed ascolta la vostra parola; noi dunque giuriamo di sottometterci
al vostro giudizio, tanto per la pace quanto per la guerra. Se volete
la pace, eccoci pronti ad accettarla; ma pero vogliamo che sia
chiesta da persona piu potente di noi.
Mi awidi allora di essere stato posto inun nuovo impiccio ; poiche
quei capi, per la vicinanza dell'Abissinia, conoscendo 1'uso che cola
8l6 GUGLIELMO MASSAJA
si teneva di mandare sempre i preti per messaggeri di pace, senza
tante cerimonie pretendevano che questa pericolosa incombenza
me la prendessi io o i miei sacerdoti. In paese cristiano non avrei
avuto difficolta ad assumerla; che alia fine, oltre ad essere un atto
corrispondente alia missione pacifica del sacerdote, non vi sa-
rebbe stato timore di andare incontro a pericolo e di esser fatto
segno a qualche brutto scherzo; ma fra gente pagana, che nulla
conosceva di preti e di ministri di Cristo, ci era da temere, e grave-
mente. II mettere poi a cimento i due missionarii, che in Lagamara
si trovavano, era per me questione di vita o di morte, essendo pog-
giata tutta la mia speranza, pel sacro ministero in quelle parti, nel
loro aiuto e concorso. Rifletteva inoltre che acconsentendo a questo
loro desiderio, non avrei piu potuto esimermi dal parteggiare per
essi; ed in caso di rifiuto dalla parte di Celia, o di qualche danno
contro i miei missionarii, sarei stato costretto far causa comune con
quei di Lagamara, senza la certezza di poter recar loro quegli aiuti
e quei vantaggi, che da me ignorantemente speravano. Tuttavia
non fu possibile trovare una scappatoia e negarmi; volere o non
volere dovetti acconsentire, spintovi anche dai miei due preti, che
non solo mostravansi disposti di andare ad offrire e chiedere la
pace, ma lo desideravano.
12. Si stabili adunque che il P. Hajlu Michele ed Abba Joannes
la mattina seguente sarebbero partiti per Celia come messaggeri
di pace; e quei giorno tenendosi cola un gran mercato, si pensb di
mettersi in viaggio un po' presto, a fin di giungere in Celia quando
tutto il popolo fosse radunato in quei luogo di traffico. Credemmo
bene farli accompagnare da una nobile donna, nativa di Celia e ma-
ritata a Lagamara con uno dei capi; affinch6, avendo in quei paese
un'estesa parentela, potesse, in caso di bisogno, invocare il loro
aiuto e la loro protezione a favore dei miei due missionarii. La notte
si passo in apparecchi per la partenza, e poi alquante ore prima di
giorno celebrai la Messa votiva pro pace, nella quale tutta quanta la
famiglia ricevette la santa comunione. In fine tenni loro un discorso
esortandoli a pregare il Signore, e confidare in Lui pel buon esito
della spedizione; giacche tutto quello che da noi veniva fatto non ad
altro mirava che ad impedire nuovo spargimento di sangue, ed in-
sieme a cattivare affezione e stima verso la Missione, per ricondurre
piu facilmente nelPovile di Gesu Cristo quei poveri pagani. I due
preti messaggeri erano pieni di coraggio, e tutta la famiglia non du-
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 817
bitava punto che la missione non riuscisse bene; solo io dava quel
passo con trepidazione d'animo, e temeva che non ci vemssero ad-
dosso mali maggiori.
13. Appena finita la nostra funzione, trovammo quasi tutta la
popolazione di Lagamara radunata dinanzi la cappella, che impa-
ziente aspettava di veder partire coloro, da cui sperava la pace.
Uscito fuori, fui accolto da uno scoppio generale d'applausi, a cui
risposi con poche parole, e piu con segni di starsene tranquilli e di
confidare nel vero Dio. Credeva che in tali occasioni si mandassero
ai nemici alcuni regali; ma non vidi altro apparecchiato che una
pecora bianca, con un nido di uccelli appeso al collo. I messaggeri
adunque non dovevano fare altro che presentare ai nemici quel pa-
cifico animale, il quale, venendo accettato, immediatamente sarebbe
stato scannato sul loro territorio, e non si avrebbe piu parlato di
guerra. Quel nido, di forma rotonda e con piccola apertura di sopra,
era tessuto con erba finissima da certi uccelletti domestici, che come
la pecora, assai propriamente simboleggiavano la pace. Questi uc
celletti si trovano dappertutto in quelle parti, e sono piu piccoli
dei nostri passeri: la femmina e tutta grigia, ma il maschio si di
stingue nella testa di un rosso infiammato, che gradatamente va
sfumandosi sino alia meta del corpo e delle ali. £ Puccello piu do-
mestico che si conosca; entra nelle case, e se non viene spaventato,
raccoglie con premura ed ammirabile sicurezza i briccioli di pane,
che trova per terra. Talvolta scrivendo, io soleva mettere apposta
sulla carta alcuni granelli di tie/,1 e quegli animalucci, come se
fossero di famiglia, venivano a beccarselo con tutta liberta e con-
fidenza.
Rispetto alia pecora, conviene osservare che 1'uso di sceglierla
come animale di sacrifizio e comune in tutte le razze barbare e pa-
gane; il che, a mio awiso, sembra avere la sua origine nelle tradi-
zioni bibliche dei tempi anteriori e posteriori al diluvio. La legge
mosaica inoltre se stabili nuovi sacrifizii, con riti e cerimonie parti-
colari, mantenne pero Tantica scelta delle vittime, cioe gli animali
mondi; ed ogni popolo, quantunque non seguace della religione
israelitica, pure segui sempre e dapertutto quest'uso, preferendo
la specie pecorina, e talvolta la bovina. Ma piu quella che questa,
segnatamente nelle offerte e sacrifizii che avessero attinenza alia
pace, e forse anche perche Iddio nell'antica legge prescelse e con-
i. tief: una specie di miglio (vedi p. 774).
8l8 GUGLIELMO MASSAJA
sacro la pecora come vittima del sacrifizio pasquale, che figurava
la nuova pasqua pacificatrice del mondo.
14. Essendo pronti tutti e disposta ogni cosa, quei poveri igno-
ranti non vollero che si partisse senza prima compiere le loro ceri-
monie superstiziose, solite a farsi in tali occasioni : ma sapendo bene
che io non solo riprovava, ma neppure voleva vedere quelle ciur-
merie, ritiraronsi alquanto lontani dalle nostre capanne, senza
nemmeno dire che cosa volessero fare. Ivi PAbba Buku, dato di
mano al coltello, scann6 un toro, e poi col sangue ne asperse la
pecora, recitando imprecazioni e preghiere, che non mi curai di
sapere. Poscia venuti a prendere i due sacerdoti, cominci6 il popolo
ad awiarsi verso la frontiera di Celia; ed infine recitato 1'itinerario1
ed abbracciati e benedetti quei due miei cari figli, mossero anch'es-
si, circondati e seguiti dal resto della popolazione. Era il giorno
21 ottobre del 1855.
Appena partiti, mi chiusi nella cappella, e passai tutta la giornata
a pie dell'altare della Madonna, sospirando e pregando per la sal-
vezza di quelle due vittime della pace pubblica, che con si am-
mirabile abnegazione andavano volontariamente ad esporre la loro
vita in mezzo a gente barbara ed inferocita. Da parte loro si erano
messi in via senza dar segno del piu lieve turbamento : ma tutta
Tambascia era nel mio cuore ; poiche la loro perdita sarebbe stata
per me e per la Missione la maggiore sventura che il Signore avesse
potuto permettere.
15. Tutto il popolo pass6 la giornata parte sulle frontiere, aspet-
tando il ritorno dei messaggeri, e parte dinanzi la nostra casa. Final-
mente verso le tre di sera cominciarono a venire persone con notizie
sfavorevoli, e poi piu tardi giunsero i due sacerdoti, riportando la
pecora viva e intatta come era stata loro consegnata. Alle grida della
moltitudine uscii dalla cappella, e senza neppur chiedere notizie
delPesito della spedizione, mi gettai al collo dei miei due preti, e
ringraziai Dio di avermeli restituiti sani e salvi. Poscia presero a
raccontare minutamente con le seguenti parole come fossero stati
ricevuti e trattati dai nemici: — Giunti alle prime capanne, la
gente di Celia, vedendo la pecora, esult6 di gioia; perche or-
mai credeva giunto il tempo di por fine ad una guerra, cotanto
funesta per i due vicini paesi; e la stessa allegrezza si manifestb
su tutti i volti, quando entrammo nel mercato: cosicche daper-
i. Vitinerario: la preghiera per il buon cammino.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 819
tutto sentivasi ripetere: «Dio ha mandate la pace, sia ricevuta».
Noi intanto andavamo avanti content! non meno di loro, e con
la fiducia in cuore che la nostra proposta, principalmente dopo
quella popolare accoglienza, non sarebbe stata rigettata. Inol-
tre ci eravamo accorti che Celia desiderava la pace non meno di
Lagamara, primo. perche stanca di combattere e di tener sempre
in mano le armi; secondo per i danni commerciali che tutte le classi
della popolazione avevano sofferti per la si lunga durata di quella
inimicizia; e finalmente perche nell'uno e nelFaltro paese molte
famiglie erano strette con vincoli di parentela. Tuttavia, per la
malvagita di alcuni mussulmani, gelosi che fosse toccata a noi preti
la gloria di avere rappacificati quei due popoli, le nostre speranze
andarono fallite. Uno di essi in pieno mercato si mise a gridare:
«Non date ascolto a questi impostori; voi non li conoscete, sono
maghi mandati dai nemici per ispargere quelle medicine che da-
ranno la morte ai vostri soldati, e procureranno la rovina di tutto il
paese». Alle quali bugiarde parole facendo eco altri mussulmani,
bastarono esse per volgere queirignorante popolo, e principalmente
la gioventu, contro di noi. Cosicche, circondati e minacciati da
tutte le parti, ci vedemmo esposti ad ogni sorta di disprezzi e mal-
trattamenti; e se i parenti della donna che ci accompagnava, uniti
con 1'Abba Dula Ghilindi-Nonno, non si fossero interposti fra noi
e la folia, e non ci avessero scortati sino alia frontiera, certamente
saremmo rimasti vittima del cieco furore di quei forsennati.
1 6. Frattanto tutto il popolo di Lagamara, radunato attorno alia
mia casa, ed armato come se dovesse muovere per la guerra, non
aveva in bocca che parole di sdegno e di vendetta contro Torgo-
gliosa Celia; sicch6 fui costretto rivolger loro la parola per calmare
quella sete di sangue, promettendo che si avrebbero avuto giusti-
zia, anche con le armi. Vennero poi i capi e mi dissero : — Noi
abbiamo giurato di metterci nelle vostre mani; ora, la pace essendo
stata rifiutata, tocca a voi sostenere il paese con le vostre preghiere
e col potere del vostro Dio. Esso e grande, e grande pure e la po-
tenza vostra, perche suo ministro ; mettete adunque una medicina
sulla frontiera di Celia, affinche i nemici sieno vinti e cadano nelle
nostre mani.
Si sa che in quei paesi tutto ci6 che serve a produrre un effetto
straordinario vien chiamato medicina, onde credetti bene seguire
quei modo di pensare, e rispondere secondo il loro stesso linguag-
820 GUGLIELMO MASSAJA
gio. — Dappoiche — dissi — Celia non voile accettare la pace, il torto
e passato dalla parte sua, e voi ora avete il diritto di difendervi con
tutti i mezzi possibili, ma leciti ed umani. Mi chiedete intanto la
medicina per vincere, e ve ne dar6 una che ha vinto e soggiogato
tutto il mondo. Per 6 vi awerto che se voi seguiterete ad adorare,
anche in segreto, il demonio, i serpenti, gli alberi, i maghi e simili
stupide creature, la mia medicina non solo non vi dara la vittoria,
ma apportera grandi sciagure a chiunque si rendera colpevole di
simili superstizioni. Dimani adunque radunate tutto il paese, e
dopo aver pregato il mio Dio, che e il Dio delle battaglie, con
grande solennita anderete a piantare la medicina sulle vostre fron-
tiere.
17. II giorno seguente, di fatto, accorsi tutti alia nostra casa, fu-
rono benedette alquante croci; e poi, dopo avere esortato quella
moltitudine a confidare in Dio, unico padrone di dare o negare la
vittoria, attaccai allo scudo di ciascun capo il sacro segno della no
stra redenzione, cioe un quadretto di carta con la croce fatta a
penna, e con le parole: In nomine Patris, et Filit, et Spiritus Sancti\
e precedendo i miei due preti, li mandai a piantare quelle croci su
tutta la frontiera, che guardava Celia. Questo fatto, se da una parte
rianimo la scoraggita popolazione di Lagamara, mise dalPaltra in
costernazione e timore quei di Celia; i quali, non sapendo qual
effetto quei curiosi segni avrebbero prodotto, e qual sorta sarebbe
loro toccata in awenire, rimproveravansi a vicenda del mal tratta-
mento fatto ai preti, portatori della pace. Passarono intanto tre
settimane senza sentire alcun atto ostile da parte di Celia; ed es-
sendo rotta ogni comunicazione fra i due paesi, nemmeno si sa-
peva che cosa pensassero o volessero risolvere.
In questo tempo Tuno e Paltro paese non Iasci6 di ricorrere alle
consuete superstizioni, consultando principalmente ilmord* loro li-
bro prezioso per conoscere Tawenire prospero od awerso: ed i
Lagamaresi dal peritoneo di un vitello, scannato per quell'occor-
renza, si ebbero una risposta favorevolissima ai loro desiderii, lad-
dove quei di Celia dal mord di sette bovi e vacche, scannati in un
giorno, sempre si ebbero un response contrario. Si seppe inoltre
che il figlio di quei mussulmano, il quale aveva dissuaso il popolo
di accettare la pace, nel medesimo giorno era caduto in mortale in-
i . il mora : il peritoneo di un animale sacrincato, che veniva « letto » come
contenesse un responso.
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 821
fermita, e che non cessava di gridare : ~ II solo prete di Lagamara
mi potra guarire. — Piu, si diceva che, avendo il padre mandate ad
interrogate un gran mago di quei paesi sulla malattia del figlio,
avesse avuto la seguente risposta: — Non istate a venire piu da
me, perche avete Dio in collera con voi, dopo esservi negati di
accettare la pace, che i preti di Lagamara vi offrivano. — Tutte
queste notizie intanto giovavano molto a ridare coraggio ai Laga-
maresi, ed accrescere le loro speranze in una prossima vittoria.
1 8. Passati alquanti giorni, si cominciarono a sentire notizie che
Celia, istigata dai mussulmani, disponevasi a nuova battaglia con-
tro Lagamara, niente temendo il potere della medicina, posta dai
preti lungo la frontiera; e finalmente si seppe il giorno in cui
avrebbero dato Tassalto. I soldati di Lagamara quindi, parte a piedi
e parte a cavallo su focosi destrieri, si awiarono pieni di coraggio
e di fiducia verso la frontiera difesa dalle croci. Pria di partire io
aveva detto loro di non varcare il confine, ma di tenersi sul proprio
territorio, aspettando che i nemici abbattessero le croci, e venissero
ad assaltarli: e di fatto un terzo delPesercito, presentandosi alia
frontiera, si fermo alquanto in distanza dai confine, ed il corpo piu
forte e numeroso, girando inosservato una piccola catena di monti,
ando a prendere posizione dietro una collina, poco lontana, per
trovarsi pronto a volare sui nemici, non appena si fossero avanzati
contro i compagni.
L'esercito di Celia vedendo un si piccol numero di soldati, si
awicinb pieno di ardire e di baldanza, passo un torrente che divi-
deva i due territorii, e poi con grida forsennate attraversato il con
fine difeso dalle croci, stava per iscagliarsi contro i combattenti di
Lagamara; quando i compagni di questi, girando a tutta corsa la
collina, piombarono sui nemici, e ne fecero tale strage, che quasi
nessuno pote tornare indietro. La maggior parte dei morti erano
mussulmani, i nemici della croce di Gesu Cristo, e coloro che ave-
vano dissuaso di accettare la pace.
I Lagamaresi intanto, ritornati al paese trionfanti ed ebbri della
vittoria, volevano subito profittare del generate sbigottimento dei
nemici, e tornare ad assaltarli nel centre stesso del loro paese, per
sottometterli interamente: ma io non conoscendo quante forze an-
cora avesse Celia, li consigliai di soprassedere, con la speranza in
cuor mio di ottenere la pace ed evitare un altro crudele eccidio.
19. Corsa la voce a Gobbo, a Giarri ed a Gombo che Lagamara
822 GUGLIELMO MASSAJA
trovavasi in guerra con Celia, e che in piu battaglie fosse stata vinta,
mandarono a dire tutti e tre i popoli che volentieri sarebbero venuti
a prestare il loro soccorso, anche per dare a me una dimostrazione
di gratitudine e di affetto, pel bene che loro aveva fatto. Ed ecco
che, senza che io ne sapessi nulla, circa due mesi dopo la sopra ri-
ferita vittoria giunsero in Lagamara tanti combattenti, che mi spa-
ventarono. Cercai dissuadere tanto i Lagamaresi quanto quegli
avventurieri d'imprendere quella nuova spedizione, che immanca-
bilmente avrebbe distrutto lo sventurato paese: ma non valsero
ragioni ; un giorno senza nulla dire mossero da Lagamara, e varcato
il confine, entrarono in Celia. I nemici, che gia erano venuti a co-
noscenza di quel nuovo assalto, trovaronsi radunati nel piano del
mercato, e li si combatte una battaglia cosi feroce, che dei soldati
di Celia non rest6 vivo se non chi ebbe la fortuna di fuggire. Indi
i vincitori misero a sacco e fuoco il paese, mutilando morti e feriti,
dando la caccia a chi fosse rimasto salvo, e solo risparmiando le
donne ed i fanciulli. Ghilindi-Nonno, che aveva difeso e salvato
i miei due preti, non avendo voluto prender parte a quelPultima
lotta, erasi ritirato fuori del paese ; onde fu il solo Abba Dula1 che
siasi salvato da quel generale eccidio e saccheggio. Lagamara poi,
mostrandosi verso di lui generosa, gli restitui i terreni ed il bestia-
me, gia sequestrati insieme con le altre proprieta, e voile che ripi-
gliasse il comando dell'esercito come prima, a patto per6 di esserle
sempre soggetto ed amico.
20. Sottomessa interamente Celia, i vincitori ritornarono a Laga
mara, portando appesi alle lancie gli schifosi trofei della loro pro-
dezza, e conducendosi dietro il pingue bottino. I capi di Gombo, di
Giarri e di Gobbo vollero passare dinanzi la casa della Missione
per salutarmi, e rinnovare le proteste del loro costante affetto;
ed avendoli invitati ad entrare, si negarono dicendo : — Non pos-
siamo; perch6, avendo versato il sangue dei nostri fratelli, siam
divenuti immondi: per la qual cosa ne in questa ne in altre case
entreremo, se prima non sara placata nelle proprie nostre case
Yajana degli uccisi. — Datoci poscia il saluto, se ne partirono per
i loro paesi, portando infilzati alle lancie chi uno, chi due, chi tre
trofei, e cantando inni di guerra, in mezzo ai quali spesso sentivasi
ripetere il mio nome. Mi si diceva che, giunti ai loro paesi, sareb
bero stati ricevuti dal popolo e dai parenti con gran solennita ed
i. Abba Dula: capo militate, comandante.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 823
onori, e che poscia, verificati i trofei di ciascuno, avrebbero avuto
il diritto di appenderli alia porta della propria capanna in segno di
trionfo, e dopo morte, ai pali del monumento in memoria del loro
valore.
In quanto alia divisione del bottino, generalmente si segue questa
norma. Tutti i muli conquistati vanno di diritto ai capi d'esercito ;
i cavalli invece a chi e stato il primo a prenderli; e lo stesso degli
altri varii oggetti mobili che capitano nelle mani. Gli armenti poi,
trasportati in corpo,1 vengono divisi a tutti, secondo il valore di-
mostrato, e secondo gli usi particolari dei paesi. Nei terreni2 non
possono avervi parte gli eserciti stranieri ed ausiliari, ma solo il
paese che intim6 e fece la guerra, tenendoli per se, o cedendoli ai
vinti mediante un compenso. Le case e le terre che le circondano,
dopo conclusa la pace, si lasciano agli antichi proprietarii, purche
facciano atto di sottomissione al paese vincitore; i terreni coltivabili
di confine vengono divisi fra gli Abba Dula deiresercito vittorioso,
i quali ne danno pure una parte ai loro soldati ; i pascoli pubblici poi
del paese vinto restano aperti anche al popolo vincitore, che puo
condurvi i suoi armenti come fosse proprieta comune,
Ritornati adunque a Lagamara, si venne alia divisione del bottino,
prendendo ciascuno la parte che gli toccava, mentre dal popolo si
cantavano inni di guerra e di lode ai vincitori. Gli eserciti forestieri
poi, ricevuta la parte loro, ritornarono, come ho detto, ai loro
paesi, salutati dagli applausi della moltitudine.
21. Non potendosi andar subito a fare la divisione dei terreni
conquistati, perche dapertutto non si trovavano che cadaveri, il
povero paese di Celia resto deserto piu settimane, cioe sino a tanto
che le iene e gli avoltoi non ebbero divorate le sventurate vittime.
Finalmente, quando di esse non restavano che le spolpate ossa,
gli Abba Dula di Lagamara con 1' Abba Buku recaronsi a dividere il
dominio del conquistato paese. Ghilindi-Nonno, come si e detto,
fu lasciato nel grado con tutti gli onori e poteri che si aveva prima
della guerra, chiamandosi pero non piu Abba Dula di Celia, ma
di Lagamara. Tutto il resto poi fu diviso e posto sotto il dominio
dei tre Abba Dula di Lagamara, Tuuli, Gigio ed Orghessa. Per la
qual cosa ritornando gli antichi proprietarii a riprendere le loro case
e terreni, dovevano prima recarsi a fare atto di soggezione e di
i. in corpo: in massa, tutti insieme. 2. Nei terreni: nella ripartizione delle
terre tolte al nemico.
824 GUGLIELMO MASSAJA
sudditanza a quell' Abba Dula, nel cui distretto trovavasi la loro
proprieta. Tuuli poi, come capo principale delPesercito di Lagamara
in quella guerra, fu dichiarato pure primo Abba Dula di Celia.
Anche alia Missione si vollero cedere, insieme con alquanti capi
di bestiame, alcuni pezzi di terreni, quantunque, come forestieri,
non avessimo alcun diritto a beni stabili: e questa liberalita ci
giovo non poco; poiche con tale atto si venne indirettamente a
dichiarare la Missione come un ente indigene.
Cosi ebbe fine quella guerra, che prima mi fu cagione di tanti
fastidii; ma che poi rese la Missione piu indipendente e piu auto-
revole in quelle regioni. E di fatto, in tutto il tempo che mi fermai
a Lagamara, i consigli politici e militari tenevansi sempre dinanzi
la porta della chiesa; e ci6 mostrava il rispetto che si avesse per noi,
e la fiducia nel nostro potere : ma anziche il loro rispetto e la fiducia
in un immaginario potere soprannaturale, noi cercavamo le loro
anime, per liberarle dalle catene del demonio, e ridonarle a Dio.
In quanto ai capi, poca speranza nutrivamo di sicuramente conver-
tirli : Tuuli, la persona piu autorevole del paese, veniva ogni giorno
a baciare la porta della cappella, per mostrare la sua riconoscenza
verso il Dio dei cristiani, che gli aveva dato la vittoria: ma qui
finiva tutta la sua religione e tutto il suo fervore pel cattolicismo.
Tuttavia, essendo lasciati liberi nel nostro ministero, principal-
mente nell'istruzione ed educazione della gioventu, speravamo
col tempo raccogliere abbondante messe in mezzo a quel popolo.
IN MEZZO AI MAGHI1
.Lagamara, norne composto di laga (flume) ed amara (cristiano),
era un paese fondato ed abitato in gran parte da popoli cristiani
abissini, divenuti poi galla; i quali stabilitisi in questo punto della
regione etiopica, chiamata Tibie, dove scorreva un piccolo flume, vi
avevano dato il loro nome. Quella popolazione si divideva in tre
razze principali, cioe la Uara Gibbu, la Uara Gode e la Uara Ba-
desso; che vuol dire i figli di Gibbu, i figli di Gode, ed i figli di
Badesso, chiamandosi cosi i capi di famiglia, che, emigrati in quelle
parti, avevano dato principio alia costituzione delle tre suddette
razze. Oltre a queste, altre famiglie di mercanti abissini erano an-
i. Ed. cit., vol. iv, cap. vi, pp. 70-87.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 825
date posteriormente a stabilirsi in quel paese, conservando sempre
la fede eretica della loro abbandonata patria; e principale fra di
essi era quell' Abba Gallet, di cui ho parlato nei capi1 precedent!.
Tutta quanta questa colonia di emigrati contava piu di sessanta
case in Lagamara, e circa venti erano discendenti del vecchio Abba
Gallet : or la Missione sperava di raccogliere i primi e piu copiosi
frutti del suo apostolato in mezzo ad essi, che lontani dalla perfidia
dei loro preti eretici, e non ancora passati al paganesimo, erano me-
glio disposti a ricevere la fede, e mettersi sotto la nostra direzione.
E gia i due terzi dei capifamiglia venivano assidui alle istruzioni;
e gli altri, quantunque si mostrassero riluttanti ad abbracciare la
fede, pure frequentavano la nostra casa, prendevano parte alle
nostre riunioni, ci aiutavano e soccorrevano nei bisogni, insomnia
si riputavano come membri della nuova casta cristiana, formatasi
in paese dopo il nostro arrivo. Ma le migliori speranze della Mis
sione erano principalmente sulla gioventu, la quale ci stava sempre
vicina, ci amava come padri, e riceveva con docilita i salutari in-
segnamenti, che ogni giorno le si davano. E da questa gioventu, gia
a noi familiare, speravamo pure un grande aiuto per la conversione
degli altri ; poiche a mano a mano chjessa prendeva affetto alia re-
ligione, quasi istintivamente cercava di attirare alia fede, e quindi
a noi, gli altri compagni, non solo abissini, ma anche galla.
2. In quanto ad amenita, clima e fertilita, Lagamara e forse il
piu bel paese di quella regione galla. Formato di una vasta pianura,
oltre duecento metri piu bassa delPaltipiano che lo circonda, gli
scorre a ponente il flume Ghivie, ricco sempre di fresca vegetazio-
ne; a settentrione lo chiude in semicircolo Talta catena di mon-
tagne, piu addietro descritte, ed in mezzo alle quali si eleva il monte
Tullu-Amara, ai cui piedi sorge il torrente omonimo, che diede
il nome anche al paese ed alia pianura; nei resto poi e circondato
da altre montagne e colline, che fantasticamente delineano il suo
orizzonte. Difeso inoltre a nord da quella catena di montagne, con
un territorio bagnato da perenni e Hmpide acque, e con una lus-
sureggiante e variata vegetazione, gode il clima piu sano e piu dolce
di tutto quelPaltipiano. Quanto poi a fertilita, non trovasi certo
territorio in quei contorni che lo superi ; poiche ivi fioriscono tutte
le produzioni tanto dei paesi alti quanto dei bassi; ed abbondante-
i. capi: capitoli. Abba Gallet era un ricco mercante, ormai vecchio, che fu
molto favorevole alia missione.
826 GUGLIELMO MASSAJA
mente vi cresce e produce ogni albero e cereale. Onde un forestiero
che vi andasse per cercar fortuna, farebbe in poco tempo bene i
suoi interessi; poiche acquistando terreni a prezzo discretissimo, e
poi dandoli a coltivatori con meta del guadagno, non solo si assicu-
rerebbe il grano ed i legumi per vivere, ma ne potrebbe fare oggetto
di commercio. Ed appunto questa dolcezza ed amenita di clima, e
questa facilita di procacciarsi con poca industria sostentamento e
guadagni, ha attirato sempre in quel paese una grande quantita
di popoli stranieri, principalmente abissini; i quali, pur mantenen-
do certi costumi ed usi loro proprii, son sempre vissuti comoda-
mente, ed in pace ed armonia con le razze indigene, che vi trova-
rono, e che ancora vi emigrano dai paesi vicini.
3. II forestiero adunque si trovava in Lagamara come in casa
sua, non solo ben veduto, od almeno non molestato dagli indigeni,
ma neppure esposto a quelle diffidenze ed animosita, che pur troppo
s'incontrano, stando in mezzo a popoli di pura razza galla, che mai
o raramente videro stranieri. Ed appunto per questi notabili van-
taggi la classe dei mercanti aveva preso dimora in quel paese, fa-
cendone il centre dei loro affari e commerci ; cosicche poteva dirsi
che tutto il traffico del nord e del sud stesse nelle loro mani. E
quanto questa condizione favorisse noi missionarii, .non occorre
dire ; poiche con tale mezzo potevamo tenere la nostra corrispon-
denza sia al nord col Gudru, col Goggiam ed anche con Massauah,
sia al sud con Ennerea e Kaffa: onde la casa di Lagamara, anche
per questi soli rispetti, era la piii centrale, e quindi la piu adatta
alle nostre operazioni ed imprese apostoliche.
Inoltre, come sopra ho detto, essendoci lasciata ampia liberta nel
sacro ministero (cosa non tanto facile ad ottenersi in altri paesi), in
poco tempo ci eravamo cattivata la stima e Taffezione del pubblico,
ed insieme avevamo accresciuto di molte pecorelle Povile di ,Gesu
Cristo. Si sa poi che in mezzo alle rose trovandosi sempre e da-
pertutto le spine, anche fra quel popolo il nostro apostolato in-
contrava difficolta, e talvolta non lievi. Quella moltitudine, com-
posta di razze e religioni differenti, non era dawero un terreno
vergine, che si lasciasse coltivare con molta facilita, e ricevesse do-
cilmente e subito il seme della divina grazia; poiche mutare idee,
abbandonare pregiudizii, darsi ad una nuova vita, insomnia divenire
altr'uomo, non e opera di un giorno, ne di si agevole esecuzione.
Onde faceva d'uopo sbarbicare prima cio che di cattivo avesse
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 827
piantato Teresia, il paganesimo e Pislamismo, e poi cominciare
una nuova piantagione: e questo lavoro richiedeva tempo e pa-
zienza, ed insieme carita e prudenza nel vincere gli ostacoli e le
contrarieta, che talora ci si paravano dinanzi. Un poj piu di eretica
pertinacia e di orientate perfidia la trovavamo in taluni abissini, o
venuti di fresco, o della classe piu colta: ma 1'essere in paese fo-
restiero, e lontani dai loro preti, li rendeva timidi e deboli, e quindi
non tanto pericolosi e nocivi.
4. Dopo qualche anno poi la Missione di Lagamara divenne una
delle piu floride, annoverando nel suo seno molti che gloriavansi
veramente del titolo di cattolico, ascoltavano volentieri la parola di
Dio, venivano anche nel corso della settimana alia Messa, amavano
sinceramente i missionarii, e nelle occasioni li difendevano energi-
camente contro i mussulmani ed i pagani. Oltre a ci6, anche per le
pratiche della vita cristiana ci era da consolarsi; poiche molti vi si
davano con premura ed emulazione: il digiuno poi e la santifica-
zione delle feste, riputandosi da loro come i doveri piu essenziali
della religione, si osservavano con iscrupolosa esattezza. In quanto
a question! religiose, se prima poco se ne occupavano, perche igno-
ranti e lontani dai loro irrequieti Kies, dopo le nostre istruzioni
nessuno sapeva od awertiva che nella dottrina di Gesu Cristo
vi fossero contrast!, o qualcuna di quelle difficolta, che 1'eresia tien
sempre pronte per legittimare e difendere la sua apostasia. Cio
che poi a quel popolo, tutto sensuale, faceva una grande impres-
sione, era la castita dei missionarii, ed anche di tutti coloro che
componevano la nostra famiglia, e stavano a nostro servizio : questa
virtu appariva agli occhi loro tal dono straor dinar io, che riputavanci
come tanti esseri calati dai cielo. Rispetto alia frequenza dei sacra-
menti non si pote mai svegliare nei loro cuori quel desiderio e quel
fervore, che infiamma i petti dei nostri cattolici; ed appena un terzo
vi si accostava in qualche solennita: laddove gli altri, senza saperne
dire il perche, se ne tenevano lontani. Riflettendo su questa in-
vincibile indifferenza, piu volte domandai a me stesso se mai pro-
venisse da qualche avanzo di eresia; e meditandovi sopra, dovetti
concludere che in minima parte vi avesse causa la pratica dell' Abis-
sinia eretica di star lontana dai sacramenti, e che piuttosto quella
freddezza nascesse dalla passata loro corruzione, e dalla debolezza
dell'umana natura, non educata sin dall'infanzia alia fervente vita
cattolica. In punto di morte poi erano tutti solleciti a chiamare il
828 GUGLIELMO MASSAJA
prete, per ricevere gli ultimi sacrament! e spirare fra le sue braccia.
5. La casa della Missione, come ho detto, era stata innalzata ai
piedi di Tullu-Danko, un terreno appartenente a ricco proprietario
della razza Uara-Gode, chiamato Dagna-Minda; e per essere trop-
po lontana dalle varie agglomerazioni di capanne, che formavano
il paese di Lagamara, i nostri cristiani non eran contenti di quel
sito, ed avrebbero in vece desiderate che se ne costruisse un'altra
nel centre, o accosto a qualche punto del paese. Non sapendo ri-
solverci di fare questo cambiamento, il seguente tragico fatto venne
a costringerci a metterlo in esecuzione.
Vicino a noi dimorava un mercantuccio cristiano eretico, chia
mato Devel6, il quale, benche mezzo pagano nella condotta, tutta-
via aveva piacere che la sua numerosa famiglia frequentasse la chie-
sa ed i sacramenti: e per questo motive ci era molto caro. Un
giorno, essendo sparito un suo schiavo, Develo ando, come Saulle,
a consultare una celebre maga1 del paese, per sapere dove fosse
andato o chi 1'avesse rapito. Si sa che fra i Galla i responsi dei ma-
ghi sono riputati oracoli, ed hanno valore legale anche nei giudizii
dei tribunali: or quella maga nella risposta che diede incolp6 in
parte la moglie di Dagna-Minda, proprietario del luogo in cui sor-
geva la casa della suddetta famiglia. Per la qual cosa, sentito ci6
quella signora, ne resto si grandemente offesa, che voile prenderne
vendetta; ed una notte, mentre tutti dormivano, mand6 ad ap-
piccare il fuoco alia capanna. Le case galla essendo tutte costruite
di legni e paglia, e senza quell'intonaco di fango, che dentro vi
fanno gli Abissini, in un batter d'occhio la capanna ando in fiamme,
restandovi incenerita tutta quella sventurata famiglia, ad eccezione
del padre, ch'era assente, e di uno schiavo, che coraggiosamente
riusci a slanciarsi fuori per la piccola porta. Questa inumana ven
detta, nuova anche a quei popoli e paesi, mise lo spavento non solo
nella mia famiglia, ma anche in tutti i nostri cattolici ed amici;
onde ad ogni costo si voile che, abbandonato quel luogo, andassimo
a costruire un'altra casa vicino al paese. E cosi fu fatto; in poco
tempo, ricevendo aiuti da ogni parte, furono innalzate varie e co-
mode capanne sul pendio d'una collina, chiamata Tullu-Leka, a
i. come . . . maga: in / Reg., 28, si narra che Saul, prima della battaglia
di Gelboe, interrog6 in Endor una maga che gli fece apparire Samuele da
poco morto : e questi, irato e minaccioso, gli predisse la sconfitta e la morte
imminente.
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 829
destra del torrente Amara, su proprieta di un certo Abdi-Leka.
6. Venendo ora a parlare dei maghi, che tanto potere ed autorita
hanno presso quei popoli, sino a ritenersi come prove legali i loro
responsi, diro cose, che fra gente civile sembreranno incredibili,
e non sara difficile di procurarmi per questo una larga patente di
spacciatore di fandonie. Ma mi conforta il pensiero che se questa
incredulita nel soprannaturale diabolico trovavasi fra i nostri po
poli civili mezzo secolo fa, oggi per buona grazia della civilta mo-
derna e sparita quasi interamente; poiche e un fatto che da molti
si presta piu fede ai responsi degli spiritisti, dei magnetizzati e ma-
gnetizzanti, delle sonnambule, delle tavole giranti e parlanti, e di
altri impostori e ministri di Satana, che alia parola di Dio ed al
suo vangelo.
Fra i Galla dunque, ed anche fra gli Abissini, divenuti ormai
quasi tutti pagani come quelli, in ogni occasione si suole ricorrere
ai maghi; e principalmente quando, lesi nella vita, nella roba, nel-
Tonore ecc., non sanno a chi dare la colpa del danno ricevuto. Ed
il mago, o meglio il diavolo per mezzo del mago, spiega il mistero
dicendo: il tale ha rubato, il tal altro ha ucciso, per istigazione di
quello awenne il tal danno, ecc. Talvolta il padre della bugia dice
la verita, se per castigare Porgoglio umano Dio glielo permette;
ma spesso fa il suo mestiere di menzognero, rivelando fatti e cose
non mai esistite e successe. E poiche fra quei popoli, come ho detto,
questi responsi son tenuti veraci, e possono avere valore legale con-
tro i colpevoli, immagini il lettore quali disordini non seguano per
questo nella societa e nelle famiglie! Se volessi riferire i fatti orri-
bili, le discordie nelle famiglie, le guerre fra popoli e paesi, le inimi-
cizie personali, che in tanti anni vidi e sentii, appunto per le rive-
lazioni vere o false di questi ministri di Satana, non basterebbe un
libro. La vendetta della moglie di Dagna-Minda contro quella po-
vera famiglia, sopra narrata, n'e una prova; e per non citare che
fatti, basti ricordare che la guerra fra Lagamara e Celia in sostanza
ebbe origine da una maga, la quale rivelava da una parte alia donna
che fuggi le infedelta del marito, e la passione per lei del Lagama-
rese, e dalPaltra dava conoscenza a questo delle turpi inclinazioni
di essa verso di lui. E quando mandai i due preti a Celia per offrire
la pace, fu quella stessa maga ch'eccitb i mussulmani ad opporsi, e
persuadere il popolo di non accettarla, predicendo le piu terribili
disgrazie in caso contrario.
830 GUGLIELMO MASSAJA
Non bisogna per6 credere che il diavolo ed i suoi ministri riescano
sempre a riportar vittoria con questo loro satanico mestiere; anzi be-
ne spesso essi stessi ne restano scornati e vinti. Tuttavia il male che
per esso ne viene e sempre grande ; le discordie, le guerre, le rap-
presaglie, le vendette, le impudicizie ed altri simili disordini sono,
e vero, un guadagno pel principe delle tenebre, ed un motive di
lucro per i suoi ministri ; ma spesso non possono contentarsi che di
questa sola soddisfazione ; poiche finalmente il Signore, stendendo
il suo potente braccio, dice: Basta; e mentre il maligno va a rodere
la sua rabbia nel cupo regno dell'eterno dolore, i suoi ministri pa-
gano pur essi il fio delle loro imposture. Di fatto non vidi mai un
mago che finisse bene: ma tutti, o presto o tardi, si ebbero il me-
ritato castigo, o la medesima sorte di tante vittime, da loro immo
late. E per non ritornare spesso nel corso di queste memorie sopra
un tale triste soggetto, riferisco qui alcune malvagita e fatti di quei
maghi, tentati ed accaduti in diversi tempi.
7. Arrivato in Gudru sentiva parlare da tutti di una celebre ma-
ga, chiamata Dacci; la quale, operando molte stregonerie, erasi
acquistato un gran credito presso quei popoli; e che finalmente,
dopo aver dato prova del suo magico potere, entrando ignuda
nell'acqua di un laghetto, e poi uscendone con una face accesa
in mano alia presenza di tutti, era stata dichiarata la gran maga
del paese. Per la qual cosa in ogni bisogno il popolo correva da lei,
e tanti regali ed offerte le si portavano, che quando giunsi io cola
era divenuta ricchissima. Rispettata e temuta da tutti, comandava
e disponeva a suo piacere nelle caste e nelle famiglie, ed a tanto
orgoglio era salita, che facevasi chiamare con titolo mascolino, il
signor Dacci. Dopo il mio arrivo, vedendo che molti frequentavano
la mia casa ed ascoltavano la mia parola, fu presa da gelosia, quasi
volessi farle. concorrenza nel magico mestiere, e cominci6 a mo-
vermi guerra, ora di nascosto ed ora palesemente, minacciando
anche di metter fuoco alia mia casa e farmi morire abbruciato.
E poiche Gama- Moras proteggeva e favoriva la Missione, rivolse il
suo odio anche contro di lui, dichiarandosi sua nemica, ed inci-
tando ed aiutando gli Uara-Kumbi e tutti i loro partigiani a quella
guerra contro il pretendente, che raccontai nel terzo volume:1 la
quale per6, quantunque diretta e favorita dalle sue magiche arti,
fini con la sconfitta dei suoi amici e con la vittoria di Gama. Questi
i. guerra . . . volume: vedi la nota sap. 808.
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 831
allora, non temendo punto il suo decantato potere, cerco di averla
nelle mani per darle una buona lezione: ma, awertita a tempo,
fuggi travestita; la sua casa pero ed il suo villaggio andarono in
fiamme, ed i suoi beni confiscati. Dopo qualche tempo mand6 a
pregarmi d'intercedere per lei presso Gama- Moras : ma questi non
volendo in veruna maniera perdonare ad una si triste Strega, la lascio
andare raminga, e morire fuori del suo regno.
8. Alcune settimane dopo che eravamo andati ad abitare la nuova
casa di Tullu-Teka, un giorno uscito a passeggio con Abba Joan
nes, giunti ad un punto, il giovane sacerdote, additando un largo
recinto con molte capanne, da sembrare un piccolo villaggio, mi
disse: — £ quella la dimora della gran maga di Lagamara Hada-
Garos, e dal popolo chiamata gofta (signore). Si puo dire con cer-
tezza ch'essa domini tutto il paese, non esclusi anche alquanti no-
stri cristiani, non ancora spogli delle antiche loro superstizioni.
Gelosa di noi, ebbe gran dispiacere quando intese che volevamo
trasferire la casa della Missione in Tullu-Leka, e fece di tutto per
impedirlo: ma non essendovi riuscita, non lascia ora di spargere
continui sospetti e calunnie contro di noi. — Compresi che Iddio,
anche in quella nuova casa, si vicina alia residenza della signora, o
meglio del signor Garos, ci preparava altre tribolazioni; e di fatto a
poco a poco venni a conoscere che con chiunque recavasi a consul-
tare il suo oracolo, non solamente parlava male di noi, ma minac-
ciava della sua collera coloro che avessero frequentato la nostra
chiesa. Si sa che la collera di una maga e sempre qualche malattia
od altro malanno in casa: or io conoscendo gia sin dove potesse
giungere il loro magico potere, una volta mandai a dirle che i ma-
lanni e le malattie minacciate ai miei cristiani, il Signore le riser-
vava per la sua casa. E poiche quella razza d'impostori, per quanto
sieno orgogliosi e si atteggino ad invulnerabili in faccia ai poveri ed
ignoranti pagani, altrettanto si awiliscono e divengono timidi come
agnelli quando ban da fare con uno che reputano piu potente di
loro, nel sentire quella risposta e minaccia, ebbe tanta paura, che
non solo protest6 di non aver detto parola alcuna contro di noi, ma
che era e voleva restare nostra arnica.
9. Passo di fatto un po* di tempo senza sparlar di noi e recarci
molestie ; ma Todio pero, occulto nel cuore, aspettava qualche oc-
casione per isfogare esternamente, e non tardo gran fatto che 1'oc-
casione le si offrisse propizia. Giunta la stagione della semente, e
832 GUGLIELMO MASSAJA
tardando le pioggie a venire secondo il solito, cominci6 a spargere
fra il popolo che la causa di questo danno eravamo noi, che prima
in paese si avevano le stagioni e le pioggie regolarmente, e che quel
cambiamento di tempo dovevasi alPinfluenza nostra, quali astri
malefici venuti di fuori per affamare la gente. Alcuni del popolo,
e principalmente i campagnuoli, sia perche ignoranti, sia perche
tenevano i detti di quella Strega come tanti oracoli, vi prestavano
fede, ed a poco a poco concepirono tanto malanimo contro di noi,
che risolvettero levarci di torno. Una sera pertanto dopo VAve Ma
ria cominci6 a radunarsi gente, armata di lancie e bastoni, e messasi
in ordine, si awiava senza tanto strepito1 verso la casa nostra per
distruggerla. L'Abba Dula Tuuli, avendo prima subodorato qualche
cosa dei feroci disegni di quella ciurmaglia, radun6 segretamente al-
quanti suoi soldati, e fattili quella sera nascondere in un bosco vi-
cino, donde dovevano passare i ribelli, e facendo prendere un'altra
posizione ai figli di Abba Gallet, venuti anch'essi per difenderci,
stette li ad aspettare che giungessero. Appena di fatto li ebbero vi-
cini, fecero tutti insieme alPimprowiso una sortita, e stringendoli
in mezzo, e menando 1'asta delle lancie a destra ed a sinistra, li
conciarono pel di delle feste, e li misero in precipitosa fuga.
10. Dai miei difensori essendo stata chiusa la strada dond'erano
venuti, quei disgraziati, fuggendo, dovettero prendere una via, che
per burroni eprecipizii internavasi in un vicino boschetto ; e benche
pratici del luogo ed agili come fiere, pure neH'oscurita della notte
non riusciva loro si facile guadagnare il largo senza pericolo. E di
fatto mentre Tuuli ed altri stavano a raccontarmi la scena accaduta,
vengono alcuni a dirci che un poveretto dal fondo del precipizio
del bosco gridava pieta. Accesa una fiaccola corremmo verso quella
volta, e calatisi giu alcuni piu arditi, trovarono un giovane immerso
nel sangue, e che dibattevasi fra gli spasimi del dolore. Sceso allora
anch'io, benche a grande stento, per essere il pendio assai scosceso
ed ingombro di sterpi e di spine, feci accendere altri lumi ; ed osser-
vatolo, vidi che il disgraziato stava quasi appeso ad un tronco di
arbusto, ficcatoglisi nel basso ventre, mentre precipitosamente cor-
reva. Tagliato il legno, e fatto un poj di largo in mezzo a quelle
spine, potemmo liberare il paziente dalla posizione dolorosa in cui
si trovava, e trasportatolo a casa privo di sensi, lo adagiammo sopra
i. senza. . . strepito: senz'indugio, senza pensarci due volte.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 833
un letto. Per arrestare Pemorragia, in mancanza d'altro, gli feci
continui bagni di acqua fresca e di aceto d'idromele, e poi con
istrofinazioni di ammoniaca alle narici ed alle tempia, ripigliando
a poco a poco i sensi, rinvenne dallo svenimento, ed apri gli occhi.
Liberate poscia le parti offese dal sangue raggrumato, ed osservata
la piaga, pareva die la punta del legno entrata nel ventre, non
avesse toccato gPintestini; onde non giudicandolo in grave peri-
colo di morte, lo affidai al buon Abba Joannes, affinche gli conti-
nuasse i bagnuoli, e lo assistesse con gli altri giovani sino al mattino.
ii. Uscito intanto dalla capanna dell'ammalato, mi si fa innanzi
1'Abba Dula, esclamando : — Udkdjo cidlal (Iddio e piu grande).
Sapete chi sia costui, caduto nelle vostre rnani in si miserabile con-
dizione ? e il drudo della maga Hada Garos ; il quale, quantunque
suo parente, convive da piu tempo con essa, ad onta dei lamenti
e delle proteste del marito. Pare adunque che veramente il vostro
Dio sia piu potente di questi maghi. — Congedatici, andai a dor-
mire, e circa le tre dopo mezzanotte Abba Joannes venne a dirmi
che rammalato desiderava vedermi. Tosto mi recai al suo letto, e
lo trovai in pieni sensi, ma con principio di forte febbre : osservate
le piaghe, vidi che non mostravano ancora segni d'infiammazione,
ma il ventre pero era alquanto gonfio ; tuttavia, non manifestandosi
sintomi di singhiozzo, mi rassicurai che grintestini non furono1
per nulla lesi. Ordinai allora un cataplasma di malva con seme di
lino, e gli raccomandai di stare tranquillo e farsi coraggio, che sa-
rebbe guarito. Mentre i giovani preparavano il cataplasma, Tarn-
malato mostro desiderio di restare solo con me; onde, usciti
tutti, mi prese la mano, e baciandola e piangendo: — lo — dis-
se — era venuto per uccidervi e farvi del male piu che potessi;
ed intanto il Signore mi ha punito, non solo col far cadere su me
stesso il danno che voleva recare agli altri, ma col farmi incappare
fra le vostre mani. Voi potevate lasciarmi morire sulPatto, abban-
donandomi in quel precipizio ed immerso nel sangue; e pure mi
avete raccolto, trasportato in casa e curato come fossi vostro figlio;
talmenteche son tanto confuso della carita usatami, che non so qual
cosa mi dire per ringraziarvi! Se vi fosse noto quanto male ho
fatto con quella donna vostra nemica, di cui sono illegittimo ma
rito, non mi guardereste in faccia! Ma abbiate compassione di me,
i. non furono: non erano stati o, meglio ancora, non fossero. Assai spesso
la prosa del Massaja presenta forme sintattiche scorrette od anacolutiche.
53
834 GUGLIELMO MASSAJA
ed ottenetemi dal vostro Dio quel perdono, che voi si generosa-
mente mi avete dato. Dimani certamente verranno a prendermi,
perche Hada Garos, temendo che sveli tutti i mostruosi misteri
che sono a mia cognizione, non vorra lasciarmi in casa vostra : ma
10 non voglio piu separarmi da Abba Joannes, n£ da voi; poiche
restando qui, non solo spero la guarigione del corpo, ma anche
quella dell'anima.
Un cristiano avrebbe parlato con sentiment! di tnaggior com-
punzione e rawedimento di questo galla pagano ? E non doveva io
lodare e benedire la giustizia e la misericordia di Dio, che cosi vi-
sibilmente aveva punito il delitto, chiamato a resipiscenza un reo,
e preparava una nuova sconfitta al diavolo ed ai suoi impostori
ministri ?
12. Appena di fatto spunto il giorno, ecco i send della maga ve
nire a prendere Tinfelice per riportarlo a casa: ma egli tenne fermo,
e per quanto insistessero, non voile in verun conto1 muoversi di li,
dicendo che aveva bisogno delle nostre cure e della nostra assi-
stenza per guarire. La maga sentendo cio diede in ismanie, non solo
pel colpevole affetto che gli portava, ma piu pel timore che non
isvelasse i truci misteri della sua diabolica vita. Tuttavia questo
non era che il principio dei castighi, cui il Signore P aveva condan-
nata; poiche, otto giorni dopo, il suo figlio, chiamato Garos, si
ammal6 di febbre gialla; laonde, tenendosi da tutti la sua casa co
me appestata, nessuno si awicino piu ad essa. II pubblico poi aven-
do veduto la sventura toccata al suo drudo, e poscia la malattia epi-
demica entrare in sua casa, comprese finalmente non esser si grande
11 suo magico potere, se non aveva Pabilita di tener lontani dalla
sua famiglia quei malanni e quelle sventure che pretendeva di
cacciar via dalle persone e dalle case degli altri; e quindi da quel
giorno cesso di ricorrere ai suoi prestigii e di consultare i suoi ora-
coli. Cosi awerossi la minaccia da me fattale in contrapposto di
quelle, ch'essa ripeteva ai cristiani, per dissuaderli di frequentare
la nostra chiesa.
13. Un altro grande mago era pure a Lagamara, chiamato Elma
Dole (figlio di Dole), il quale perseguit6 la Missione per circa do-
dici anni; cioe dal giorno che mettemmo piede in quel paese, sino
al 1868, anno in cui quelFimpostore miseramente mori. Questo
mago non occupavasi di malattie, di medicine, di oracoli ecc., ma
i . in verun conto : per nessuna ragione.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 835
solamente della pioggia e del sole, di cui si spacciava arbitro e
padrone: talmenteche, per avere buono o cattivo tempo, pioggia
o sole, dovevasi ricorrere a lui, s'intende pagando una mancia
proporzionata alia condizione delle persone, che andavano ad im-
plorare la grazia. Riceveva poi un tributo annuale non solo dalle
famiglie di Lagamara e di Tibie, ma di tutti i paesi vicini sino a
dieci chilometri di distanza. Per la qual cosa tutto 1'anno vedevansi
in giro i suoi avidi rappresentanti, riscotendo i detti tributi in
grano, legumi, miele, butirro ed altre cose commestibili. Oltre poi
questo tributo ordinario, ogni volta che ricorrevasi al suo magico
potere, bisognava portare regali straordinarii, come bovi, pecore,
sali* tele, conterie2 ed altro: cosicche dovendo imprendere una
spedizione militare, fare un viaggio, celebrare una festa di nozze,
non si avrebbe avuto bel tempo se non si fosse andato da Elma
Dole con pingui e generosi doni. Quante ricchezze adunque avesse
accumulato quel farabutto, ciascuno puo immaginarlo.
14. Or questo matricolato impostore in tutto il tempo che dimo-
rai in Lagamara, cioe sino al 4 aprile del 1859, non m^ lasc^ un
giorno tranquillo : ma, screditando il mio ministero, ed inventando
le piu insulse calunnie, cerc6 sempre metterci in odio alia popola-
zione, e farci dare lo sfratto. Principalmente quando non si awe-
ravano le sue predizioni e promesse, cioe quando in vece della
pioggia dardeggiava il sole, o viceversa; e quando i seminati, gia
maturi, marcivano per le continue acque, vedendosi fatto segno
dal pubblico a lamenti e minacce, riversava la colpa sopra di noi,
dicendo esser io la causa di quel disordhie. Ma fortunatamente il
popolo aveva ormai imparato a conoscere e distinguere I'impostore
dal savio ; ed il grande numero dei convertiti, oltre a scolparmi da
quelle calunnie, era pronto a difendermi contro chiunque ardisse
farmi del male. Inoltre i molti servizii prestati, e che continuamente
andava prestando coll'inoculazione del vaiolo, col medicare e cu
rare grinfermi, col soccorrere vecchi e poveri in ogni loro bisogno,
avevano reso il mio nome tanto venerato, che lo sparlare di quel
malvagio riputavasi come un abbaiare alia luna.
Tuttavia una volta ebbe Tardire di presentarsi ai comizii3 del-
i. soli: il sale, foggiato in piastrelle, era in Abissinia adoperato come mo-
neta. 2. conterie: perle di vetro di diversa grandezza e di colore svariatis-
simo, molto apprezzate e desiderate dagli indigeni. 3. comizii: le perio-
diche riunioni delle tribu.
836 GUGLIELMO MASSAJA
PAbba Buku, i quali per Tibie e Lagamara tenevansi in Gudeja;
ed ivi, presa la parola, comincio ad accusarmi, dicendo : — lo vi
mando a suo tempo la pioggia, ed il prete la caccia via; se poi per i
vostri bisogni e lavori fo dileguare le nubi ed uscire il sole, il prete
fa succedere il contrario. Che vi lamentate adunque di me ? Man
date via questo prete, ed allontanata la causa, vedrete il tempo an-
dare bene come prima.
Allora uno dei capi, vecchio venerando ed assennato, si alzo, e
rivolto al mago : — Imbroglione che sei, — gli disse — tu per darci
la pioggia ed il sole prendi un pagamento, ed il prete che cosa
prende? QuaPinteresse puo avere di recare danno al popolo con
alterare le operazioni delle stagioni, come tu dici ? Non dobbiamo
anzi supporre ch'egli desideri piuttosto come noi di venire1 la
pioggia ed il sole a tempo opportune, per godere anch'egli e la sua
famiglia dei beni che ci da la terra ? Se inoltre il prete e piu potente
di te, perche tu c'inganni, promettendo quello che non e nelle tue
forze di ottenere ? II prete anzi ci dice la parola della verita, inse-
gnando che Puomo non pu6 comandare alia pioggia ed al sole,
spettando cio al gran padrone del mondo, che e Dio. Va via dunque
bugiardo, e cessa dal volerci inimicare con colui che salva il paese
dalle guerre, dal vaiolo e dalle malattie, e che e il padre dei nostri
poveri. — Dopo questa parlata, se quelPimpostore non si fosse
raccomandato alle gambe, il popolo lo avrebbe conciato per le feste.
15. Ricevuta una si solenne ed inaspettata lezione, lascio tran-
quilla la Missione sino alia mia partenza da Lagamara: ma poi,
vedendomi lontano, comincio novamente a dar fastidii a coloro
ch'erano la rimasti. II prete indigene pero non si perdette d'animo.
ed aiutato dai nostri cristiani, seppe sempre resistergli e vincerlo.
Ritornato io da Kaffa in Lagamara nel 1862, facendosi forte del-
P esilio inflittomi da quel re,2 credette piu facile sottomettermi : ma
sbaglio anche questa volta i suo'i conti ; poiche presso quel popolo
una tal persecuzione, anziche scemare, accrebbe tanto il mio cre-
dito, che tutti i Lagamaresi avrebbero voluto di non pensare3 piu
a movermi dal loro paese, che si grandemente mi amava e stimava.
Caduto io in quel tempo gravemente ammalato, un giorno si
i. di venire: che venga; vedi la nota a p. 833. 2. esilio . . . quel re: il re del
Kaffa mand6 in esilio il Massaja, spinto a ci6 dai suoi consiglieri. II Mas-
saja, riparato nell'Ennerea, di li risali, subito dopo, a Lagamara. 3. di non
pensare: che io non pensassi.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 837
sparse la voce per quei contorni che fossi morto; Elma Dole n'ebbe
tanta contentezza, che non so qual sacrifizio abbia offerto alia sua
ajana, per essere rimasta finalmente vincitrice di me: ma fu un
sacrifizio sprecato; poiche guarii, e continual alacremente nel mio
ministero. Partito1 lo stesso anno pel Gudru, e poi per 1'Europa,
seguito a dar molestie a monsignor Coccino,2 mio coadiutore, re-
sidente in Lagamara: ma finalmente, ritornando dall'Europa, per
istrada ricevetti una lettera dello stesso 'monsignore, scritta verso la
fine del 1865, nella quale mi diceva ch'essendosi queH'impostore
presentato novamente ai comizii delPAbba Buku, per perorare con-
tro la Missione, il popolo risolvette di farla finita; e prendendo mo-
tivo di voler vendicare un fatto di sangue, commesso dalla sua
casta, gli mand6 la sfida di guerra; e venuti alle armi, si ebbe la
peggio, restando ucciso sul campo insieme con molti dei suoi. Le
loro case vennero incendiate e distrutte, e cosi ebbe fine quest'altro
figlio della menzogna.
1 6. Ancora di un altro mago, ed assai celebre, voglio qui parlare,
prima di chiudere questo capo : i fatti che di lui brevemente rac-
conto non successero sotto i miei occhi, ma mi vennero narrati con
tutte le piu minute particolarita dal P. Felicissimo, il quale, dimo-
rando in Ennerea, fu presente a tutte le scene che accompagnarono
la vita e poi la trista fine di quell'impostore. Questo mago adunque
avevasi acquistato un credito ed un'autorita si grande, non solo
nel regno d'Ennerea, ma in molte altre repubbliche vicine, che
non restavagli neppur tempo di potere ricevere e contentare la
gran quantita di persone, che si recavano a consultare i suoi oracoli.
I popoli correvano da lui a carovane, e talvolta in si gran numero,
ch'erano costretti aspettare piu giorni dinanzi la sua porta per
aver Ponore di parlargli, presentare le offerte, ed ottenere le risposte
e le medicine desiderate. Per la qual cosa era divenuto cosi ricco
e potente, che tanto in casa e nel suo villaggio, quanto nel recarsi
in qualche punto del regno, teneva un lusso ed un contegno piu
nobile e piu sfarzoso del re medesimo. Camminava sempre sotto
ricco ombrello, tenuto da uno schiavo, e con gran seguito di send,
uno dei quali portava sempre e dapertutto un seggiolone, per far
i. Partito: soggetto e il Massaja. 2. monsignor Coccino: padre Felicissimo
da Cortemilia, un cappuccino che il Massaja aveva condotto con se fin
dalla sua prima partenza per 1'Africa, e che aveva poi consacrato vescovo
col nome di monsignor Coccino e col titolo « di Marocco, in partibus in-
fidelium ».
838 GUGLIELMO MASSAJA
sedere il nobile mago dovunque volesse fermarsi. Recandosi dal
re, vi andava con la medesima pompa, e giunto alia sua presenza,
dopo aver fatto un apparente inchino, senz'altre cerimonie sede-
vasi sul seggiolone, e con sovrana prosopopea mettevasi ad ascoltare
ci6 che gli si volesse dire. Abba Baghibo,1 con la mente piena di
pregiudizii, come ogni altro galla, pur esso aveva in gran concetto
la magica e potente virtu di quell' impostore ; e tanta venerazione
nutriva verso di lui, che volentieri passava sopra alia mancanza
di rispetto ed altre liberta, che prendevasi alia sua presenza. Quan-
do gmnse la Missione in Ennerea, il valent'uomo capi subito che
gli affari suoi non sarebbero andati come prima, e fece di tutto per
mettere in discredito i missionarii e farli allontanare; ma Abba
Baghibo tenne fermo, e non gli diede ascolto.
17. Un fatto per6 qualche tempo dopo fece aprire gli occhi al
credulo re sul merito di quel mago, ed e il seguente. II primoge-
genito di Abba Baghibo, chiamato Donoce, ambizioso oltre ogni
dire, era impaziente di regnare, ed andava meditando il come po-
tersi levare di torno il padre, e salire esso sul trono. Una volta,
apertosi col mago, questi non solamente appro vo i suoi disegni,
ma lo esorto a metterli presto in atto, assicurandolo di un felice
esito ; e gli dichiar6 che, se appena salito sul trono avesse cacciato
i preti cattolici dalPEnnerea, egli, oltre ad aiutarlo con la sua po-
tenza magica, si sarebbe adoprato di fare unire con lui i Grandi del
paese.
La congiura intanto essendo ordita, e tutto disposto per dare il
gran colpo, il giorno stabilito si presenta Donoce seguito dalla mag-
gior parte deU'esercito (il quale nulla ancora sapeva della trama)
alia casa del re, con Pintenzione non di ucciderlo, ma di legarlo,
e poscia dichiararsi esso legittimo sovrano. Tostoch6 Abba Baghibo
sentl Tarrivo di quella moltitudine e ne seppe il motivo, ben cono-
scendo quanto il popolo ed i soldati medesimi lo amassero, usci
fuori senza timore ; e non dando neppure tempo ai ribelli di muo-
vere una mano, rivolto alPesercito, domand6 per qual fine si fosse
presentato dinanzi alia casa reale senz'essere chiamato, e senza
esservi un qualche nemico da combattere e vincere. Poscia, mani-
festata loro la trama ordita dal figlio, concluse : — Scegliete ora fra
i. Abba Baghibo: re dell'Ennerea, favorevole al Massaja e protettore della
missione. La situazione muto alia sua morte, quando gli successe Abba
Gomol.
MISSIONS NELL'ALTA ETIOPIA 839
il vecchio vostro re, che tante volte vi ha condotto alia vittoria e vi
ha resi felici, e questo inesperto ed ambizioso pretendente, fuor-
viato piuttosto da malvagi consigli. — Quasi tutto Pesercito allora
schierandosi dalla parte del padre, Donoce ed i suoi pochi parti-
giani, dopo un'inutile resistenza, vennero legati e condotti in pri-
gione.
1 8. II figlio ribelle poi, private della successione al trono, venne
relegate in Ghera, e tutti gli altri capi e soldati, che avevano par-
teggiato per lui, furono giudicati dal tribunale di guerra. Dopo un
mese, quando tutto sembrava finito, ed il mago credeva di essersela
passata liscia, fu chiamato come altre volte dal re ; ed egli vi and6,
secondo il solito, preceduto dal seggiolone, e sotto il ricco ombrello.
Giunto alia presenza del sovrano, come se nulla vi fosse da dire
sul conto suo, fatto Tinchino, stava per sedersi: ma Abba Baghibo,
dopo avere ordinato che si riportassero in casa ombrello e seggio
lone, dinanzi a tutta la corte gli domando : — Conosci tu Pawe-
nire?
— Conosco tutto — rispose.
— E se conosci tutto, perche non hai saputo prevedere che ti ho
fatto venire qui per legarti e giudicarti come meriti ? Dunque la tua
scienza e bugiarda, il tuo mestiere e ingannare la gente, i tuoi re-
sponsi ed oracoli un mezzo di arricchirti sulla dabbenaggine altrui.
Tu seducesti mio figlio, promettendogli 1'acquisto del mio trono ;
ebbene, vediamo se avrai la potenza di non perdere il tuo, con tante
imposture e malvagita edificato. Subito, soldati, legate questo prin-
cipe dei maghi, e sia condotto nella prigione piu rigorosa.
Indi ordin6 ai soldati di recarsi alia casa del mago, e sequestrare
tutto cio che vi si trovasse di sua proprieta, cioe bestiami, grani,
talleri, sali, tele, conterie, schiavi e sinanco le mogli ed i figli.
Riportate tutte quelle ricchezze in Saka,1 vennero deposte parte
dentro il recinto reale, e parte fuori in luoghi guardati. II bestiame,
fra bovi, vacche, pecore, cavalli e muli toccava la somma di parec-
chie migliaia, e moltissimi erano pure gli schiavi e le schiave;
cosicche poteva dirsi che le sue ricchezze superassero quelle del
re medesimo.
19. Un giorno Abba Baghibo, fatto radunare il popolo nel reale
recinto, dove trovavansi ordinatamente disposte le ricchezze mo-
bili del mago, usci fuori, e rivolto alia moltitudine tenne questo
i. Saka: la citta principale dell'Ennerea, residenza del re.
840 GUGLIELMO MASSAJA
discorso: — Guarda, o Limu,1 quanti doni hai scioccamente dato
a quelFimpostore : se io ti avessi ordinato di pagarmi il decimo di
quanto haf volontariamente portato in casa del mago, saresti venuto
a gridare pieta, ed a lamentarti come di un'oppressione ; ebbene,
rifletti ora con chi ti sei mostrato cotanto liberale! Da parte mia
non voglio niente di tutta questa roba di mal acquisto : ma serva a
risarcire prima coloro che da quel malvagio furono danneggiati, e
poi il resto sia dato ai poveri. Da qui a cinque giorni sara fatta la di-
stribuzione ; percio venga chi ricevette danni nella vita, nella roba e
nell'onore, che sara compensato; venga chi non ha bestie per la-
vorare la terra, chi manca di tele per coprirsi, chi non tiene grano
per isfamarsi, ed avra una parte di tutte queste ricchezze; poiche
son sangue di poveri, ed ai poveri dovranno ritornare. — Poscia
ordino pubblicamente ai soldati di an dare a prendere il mago, le-
gargli una pietra al collo, e gettarlo nel fiume Didessa, influente*
del Nilo, e si ritiro.
20. Giunto quel giorno, il popolo di Ennerea si trovo radunato
dinanzi alia casa reale, e non essendovi famiglia o persona che non
avesse diritto su quella roba, o che non isperasse riceverne a titolo
di dono una qualche porzione, si vide li raccolta tanta gente, ch'era
una meraviglia. Uscito il re, e seduto in tribunale, dopo aver detto
che ciascuno parlasse liberamente e senza paura, perche il mago
era gia stato condannato ai coccodrilli, ordin6 a quelli che fossero
stati danneggiati nella vita di qualche loro parente, di mettersi da
una parte, e dall'altra quelli, cui erano state rubate persone per
esser vendute, o per altri turpi fini. Quindici famiglie dichiararono
di avere il diritto del sangue sul mago, avendo esso ucciso in casa
sua alcuni loro parenti ; ed allora Abba Baghibo interrogati i fami-
liari delPimpostore se realmente fossero stati commessi quei delitti,
e chi piu chi meno avendo risposto affermativamente, il loro di
ritto fu riconosciuto. Piu di cento famiglie affermarono di aver
avute rubate persone di loro casa, cioe mogli, figli, servi e schiavi di
ambo i sessi ; ed esaminati i testimonii, si venne a scoprire che non
solo era reo di questi ratti, ma che la maggior parte delle persone
rubate avevale mandate a vendere segretamente nei mercati lon-
tani. Poscia, non credendosi possibile che di tutti quei misfatti fosse
i. «Nome della razza che conquist6 ed occupa l'Ennerea» (nota del Mas-
saja). 2. influente: affluente. La Didessa e un affluente di sinistra del Nilo
Azzurro.
MISSIONE NELL'ALTA ETIOPIA 841
reo il solo mago, si venne alia ricerca del complici; ed avendo tro-
vato che dieci manigoldi suoi fidi gli erano stati compagni nel com-
piere tanti delitti, furono presi e legati anch'essi, e condotti in
prigione.
Indi Abba Baghibo, rivolto al popolo disse : — Limu, son tren-
tacinque anni che regno, e non so comprendere come di tutte
queste malvage imprese non sia mai giunta al mio orecchio alcuna
notizia. Tu sai che ho sempre governato con giustizia, e che sempre
ho difeso i poveri e gli oppressi; perche dunque nessuno e mai
venuto a ricorrere contro queirimpostore ?
Allora fattosi innanzi un vecchio venerando : — Signore, — prese
a dire — quel mago non era un uomo come tutti gli altri, ma uno
di quei genii malefici che appariscono talvolta nel mondo in veste
umana ; ne da solo sarebbe riuscito in tanti misfatti, se non avesse
avuto il diavolo pronto ai suoi cenni. Di fatto volendo far vendetta
di qualcuno, lo chiamava a casa sua, e poi dato il segno ad un dia
volo, glielo consegnava, e nulla piii sapevasi dello sventurato.
Tutti noi quindi, impauriti della sua straordinaria potenza, e cre-
dendo che anche voi il temevate come gli altri, non solamente non
osavamo parlare, ma neppure concepire un pensiero ed un senti-
mento contro di lui, poiche egli leggeva anche nei nostri cuori.
21. Tutto il popolo intanto, credendo che il mago fosse morto
e mangiato dai coccodrilli, aveva parlato senza paura, e tutti libe-
ramente avevano svelato le malvagita di queirimpostore : ma qual
non fu la loro meraviglia quando Abba Baghibo fatto un cenno ai
soldati, sel videro comparire dinanzi vivo e sciolto dalle catene!
Allora tutti si misero a gridare \-Ani bade! dni bade! (siam perduti!
siam perduti I). — Ma fatti venire poscia i dieci manigoldi: — Non
temete, — disse il re — che nessuno sfuggira i rigori della giustizia;
ma tanto lui quanto questi dieci, che voi riputavate diavoli, paghe-
ranno per mano vostra la pena di tutti i loro delitti. — Ordino quin
di che venissero mutilati dalle quindici persone che avevano su di
loro il diritto del sangue, e poscia gettati realmente nel flume per
pasto dei coccodrilli. Indi dispose che un terzo dei suoi terreni e
degli schiavi andassero in proprieta delle suddette quindici per
sone, e gli altri due terzi venissero divisi a quelle famiglie che
provarono di aver avuto rubato e venduto qualche loro parente.
Le ricchezze mobili poi, dopo essere stati compensati coloro che
in qualunque maniera avevano ricevuto danni, furono distribute
842 GUGLIELMO MASSAJA
ai poveri. E cosi ebbe fine la vita e la roba di quel celebre impo-
store.
Da parte mia non posso lodare la condanna della pubblica muti-
lazione, data da Abba Baghibo, e neppure il far gettare ancor vi-
venti quei disgraziati per pasto dei coccodrilH; poiche Tuna e Pal-
tra pena non erano negli usi di quei popoli ; essendo la mutilazione
solamente permessa in tempo di guerra, e su nemici gia uccisi.
Tuttavia potra scusarsi quel re sotto il rispetto, che, saggio ed
esperto anche negli ultimi anni, avra voluto usare quell'eccezionale
rigore per dare finalmente un colpo spicciativo al bugiardo credito
dei maghi, che ingannavano e dissanguavano il popolo, non solo
impunemente, ma come se fossero altrettanti sovrani: ed anche
per salvare dal giudizio dei present!, e piu dei posteri, Tonor suo,
quasi fosse stato complice di tutte quelle trufferie e delitti. Ed e un
fatto che, dopo quel severo ed esemplare castigo, il credito e Tau-
torita dei maghi diminuirono grandemente in mezzo agli Oromo.1
i. Oromo: i Galla.
GAETANO CASATI
PROFILO BIOGRAFICO
GAETANO CAS ATI nacque a Ponte Abbiate, una frazione di Lesmo,
in Brianza, il 4 settembre 1838. Poco piu che ventenne parte-
cipo, come bersagliere, alia guerra del 1859. Nominate ufficiale,
prese parte alia repressione del brigantaggio nelle province meri-
dionali e alia campagna del 1866. Assegnato alia squadra topogra-
fica delPIstituto geografico militate, che era allora a Livorno, con-
corse alia delineazione della grande carta militare d5 Italia, acquistan-
do in tale lavoro quella abilita di topografo che molto poi gli giovo
nella sua dimora in Africa. Abbandonato nel 1879 il servizio attivo,
quando gia aveva brillantemente superato gli esaml di maggiore,
entro nella redazione delgiornale <cL'Esploratore», diretto da Man-
fredo Camperio. Nel dicembre dello stesso anno giunse al Cam-
perio una lettera di Romolo Gessi che dalP Africa chiedeva gli fosse
mandato un giovane ufficiale esperto di rilievi topografici. II Gessi
(1831-1881), dopo aver combattuto in Crimea e fra i Cacciatori
delle Alpi con Garibaldi, si era recato nel Sudan, alle dipendenze
del generale inglese Gordon, aveva esplorato vari territori del-
PAlto Nilo e da poco aveva represso una sollevazione schiavista
nella zona di Bahr-el-Ghazal, il ccfiume delle gazzelle»: proprio da
li aveva inviato la sua richiesta. II Casati, sebbene gia quaranten-
ne, si offri di partire, e il 24 dicembre dello stesso anno 1879 si
imbarco a Genova per PEgitto. Cominciava la sua grande awen-
tura, che duro dieci anni, tra infinite peripezie,
II 26 agosto 1880, dopo un lungo viaggio, all'inizio del quale, a
Suachim, aveva avuto d'onore e la fortuna di ossequiare il vene-
rando vescovo dello Scioa» (il Massaja), cacciato in esilio da Gio
vanni IV, il Casati giunse a Vau, nel territorio del Bahr-el-Ghazal,
e si incontrava col Gessi. Era stato un percorso durissimo, tra con
tinue difficolta e pericoli, ai quali si aggiungeva ora una grave malat-
tia che a stento il Casati riusci a superare e dopo la quale - costretto
il Gessi a partire per PEgitto, dove mori nel 1881 -egli rimase
solo, fra popolazioni che si facevano ogni giorno piu infide. Nel-
Pottobre del 1880 cominci6 quel viaggio ancora piu duro, fra conti-
nui mutamenti di itinerario, che il Casati fu obbligato a compiere in
tutta la regione di Bahr-el-Ghazal e nei territori limitrofi, e che si
concluse nel gennaio 1885, quando finalmente raggiunse, a Lado,
846 GAETANO CASATI
Emin Fascia, il quale lo aveva invitato ad unirsi a lui e al suo
esercito. Solo allora il Casati ebbe notizia dei gravissimi aweni-
menti che si erano verificati in quegli anni e avevano suscitato un
vero incendio in tutto il Sudan, ripercuotendosi variamente nelle
regioni limitrofe.
Mohammed Ahmed, un santone mussulmano, gia oggetto di ve-
nerazione nelljisoletta di Abba, sul Nilo, aveva proclamato nel mag-
gio del 1 88 1 la guerra santa contro gli infedeli, in nome di una re-
staurazione religiosa che riconducesse i popoli al vero islamismo
delle origini. II movimento trovo un terreno favorevole tra le po-
polazioni del Sudan, stanche delle vessazioni e del malgoverno
egiziano, e fra i grandi mercanti di schiavi, colpiti dalle recenti
leggi di abolizione della schiavitu. La rivolta divamp6 terribile:
le truppe egiziane, a piu riprese inviate a reprimerla, subirono gra-
vissime sconfitte, gli interventi inglesi non riuscirono a mutare la
situazione: dovunque, a migliaia, furono trucidati gli awersari,
saccheggiate le citta, interi villaggi distrutti. Mohammed si consi-
derava un prof eta dello stesso Maometto, i seguaci lo chiamavano
il Mdhdi (guidato da Dio), ed erano convinti della sua invincibilita.
Neanche Gordon, inviato contro di lui, riusci a compiere la sua
missione: caduta Kartum, dove era stato assediato, fu trucidato
nel sacco della citta (26 giugno 1885). Dinanzi ad una tale situa
zione il kedive d'Egitto decise di abbandonare a se stesso il Sudan.
Ma al sud, tagliate fuori da ogni comunicazione, rimanevano le
stazioni egiziane dell' Equatorial ne fu nominate capo, come gover-
natore del territorio, Emin Fascia, un naturalista tedesco al servizio
dell'Egitto, e gli fu ingiunto di raccogliere le sue truppe e di tor-
nare per la via di Zanzibar.
Questa era la situazione, quando il Casati raggiunse Emin a
Lad6 e di li si spost6 poi con lui a Vadelai (28 giugno 1885), dive-
nuta il maggior centro deirEquatoria. La via per Zanzibar, quan-
d'anche fosse stato agevole raggiungere il mare, doveva necessaria-
mente traversare i due regni indigeni delPUnioro e dell' Uganda:
eppure questa era ormai Tunica strada possibile per messaggi
e soccorsi alle isolate truppe deirEquatoria, ad Emin, a Casati.
N6 si trattava di regni favorevoli e pacifici. Una guerra tra Unioro
e Uganda, scoppiata nel marzo del 1886, sembro tagliar fuori defi-
nitivamente gli egiziani di Emin dal mondo civile, e destinarli a soc-
combere. Perci6, sospese le operazioni, Emin si affrett6 ad inviare
PROFILO BIOGRAFICO 847
(maggio 1886) il Casati, come suo rappresentante, al re deU'Unio-
ro: doveva agevolare le comunicazioni con Zanzibar attraverso
1' Uganda e rendere ancora possibile quelPunica via di salvezza.
II Casati, attraverso il lago Alberto, si reco dal re Ciua, a svolgervi
la sua difficile missione. Quali siano state le sue sofferenze, i peri-
coli corsi, rimprigionamento, e la miracolosa fuga con cui pote
sfuggire alia morte (gennaio 1888), il Casati stesso racconta nelle
pagine da noi riprodotte, che sono certo fra le piu drammatiche
delle sue memorie.
Tornato libero, accanto ad Emin, il Casati assiste alle complicate
vicende delle stazioni militari dell'Equatoria e cerco abilmente,
ma invano, di migliorare la grave situazione che si era venuta
creando. Le truppe, disseminate lungo varie localita (Vadelai, Chiri,
Bedden, Dufile, Regiaf, Mughi, Tunguru, Msua, ecc.), erano in
piena agitazione, serpeggiava il malcontento, scoppiavano rivolte;
Emin fu imprigionato dai soldati ribelli, deposto, reintegrate poi
nella sua carica in un intricatissimo succedersi di vicende. Intan-
to, in Europa, il tragico isolamento di quell' esercito aveva destato
un'ondata di commozione, agevolata dagli stessi interessi coloniali
dell'Inghilterra: il mondo civile organizzo spedizioni di soccor-
so, tra cui unica fortunata quella affidata al grande esploratore
Henry Morton Stanley. Questi, dopo un itinerario rovinoso attra
verso la via del Congo, superata la foresta equate riale, riusci a
raggiungere Emin, ad organizzare una grande carovana per Peso do,
a portare in salvo a Bagamoio le truppe e le genti di Emin e il Ca
sati stesso. Una marcia penosa, fra terre inesplorate, popolazioni
awerse, malattie e imboscate: un'impresa che stupisce a ripen-
sarla. La grande carovana, partita il 10 aprile, giunse al mare sol-
tanto il 4 dicembre del 1889.
Tutti questi awenimenti, svoltisi in un lungo periodo di dieci
anni, furono poi descritti dal Casati nei due volumi dal titolo
Dieci anni in Equatoria e ritorno con Emin Fascia, che apparvero
nel 1891. Egli intanto, ritiratosi nella sua casetta di Monticello in
Brianza, a curare le terre ereditate dal padre, si isolava, schivo di
onori, in una vita modesta, caro ai compaesani, che gli espressero
la loro fiducia col chiamarlo alia carica di sindaco. Mori a Cor-
tenova di Monticello il 7 marzo 1902.
II Casati non fu uno scrittore: gli mancavano troppe qualita per
esserlo, e assai spesso le sue pagine mostrano Timpaccio di chi non
848 GAETANO CASATI
e padrone della lingua, dei suoi costrutti, del suoi stessi vocaboli.
Ma, pur in quello stile disadorno e malcerto, che fa pensare a vol
te a una relazione ufHciale o ad un «diario di bordo», spiccano
improwise pagine di indiscutibile efficacia: descrizioni di luo-
ghi e di popoli, di usi e costumi, in forma coloritissima, anche
se spesso appesantite da una insistente preoccupazione di minuta
esattezza. Veramente bella, ad esempio, e la narrazione della lunga
(cmarcia delPesodo», guidata dallo Stanley: ed e spiacevole che 1'of-
frirne qualche pagina ai lettori ci sia stato reso impossibile dal ca-
rattere stesso dell' opera, che solo dalla totalita delPimpervio e peri-
coloso viaggio, dalFaccumularsi delle peripezie, nasce il suo fascino,
e non gia dalle singole pagine, minutamente analitiche. D'altra parte
Parchitettura stessa delPopera ne rende a volte faticosa la lettura,
perche essa, stesa rapidamente, e sulla base dei soli ricordi, cade
spesso in deviazioni, ritorna a volte su antefatti erroneamente tra-
lasciati e rivelatisi invece indispensabili, lascia insufficientemente
chiariti alcuni awenimenti.
Ragioni tutte che avrebbero potuto dissuaderci dalPaccogliere nel
presente volume una scelta delle pagine del Casati, se fossimo stati
guidati da un intento puramente letterario e non ci fosse invece
sembrato opportuno adottare un diverse criterio phi largamente
umano e, nello stesso tempo, indicative della complessa attivita
italiana neirOttocento. In particolare, ci & sembrata di grande in-
teresse la statura stessa delPuomo, che, pur non parlando di se
medesimo, e presente, in un suo virilmente eroico rilievo, in tutte
le pagine.
*
GAETANO CASATI, Died anni in Equatoria e ritorno con Emm Pascid, Mi-
lano, Fratelli Dumolard, e Bamberga, Libr. editr. Buchner, 1891, 2
voll. All'inizio del i volume un profile di G. Casati scritto da M. Cam-
perio. Tra le pagine sul Casati si vedano quelle di L. DAL VERME, in « Boll.
della Societk geografica», 1912, ristampate da R, TRUFFI, Precursori del-
Vlmpero africano, Roma, Edizioni Roma, 1936, pp. 73-7. Vedi inoltre:
C. BERTACCHI, Geografi ed esploratori italiani contemporanei, Milano,
S. A. De Agostini, 1929; L. MESSEDAGLIA, Uomini d* Africa. Messedaglia
bey egli altri collaboratori italiani di Gordon Pascid, Bologna, Cappelli, 1935 ;
C. ZAGHI, Gordon, Gessi e la conquista del Sudan, Firenze, Centro di studi
coloniali dell'Universita di Firenze, 1947; L' Italia in Africa, a cura del
Ministero degli Affari Esteri, Roma, Istituto poligrafico dello Stato, 1955,
2 voll., e particolarmente il n volume, testo di E. DE LEONE, pp. 118-20.
Infine, L. DAL VERME, I Dervisci nel Sudan egiziano, Roma, E. Voghera,
1894; La Disfatta dei Dervisci, in «Nuova Antologia», 16 ottobre 1898.
DA «DIECI ANNI IN EQUATORIA E RITORNO
CON EMIN FASCIA))
[ALLA CORTE DI RE ciuA]1
Ciua, re dell'Unioro,2 volgarmente noto sotto il nome di Ca-
brega, nemico accerrimo del governo egiziano, per anni ed anni
tenne chiusa Fentrata settentrionale del regno, e solo, andati
alia peggio gli affari del Sudan, si ricorda ora del Dottore Emin3
effendi, che fu un tempo a visitarlo, e che oggidi e governatore
delPEquatoria. Non si era mai rammentato prima dell'awwVo, come
egli al presente lo chiama, intento com' era a raccogliere e favorire
i disertori delle provincie egiziane; ma ... Tavorio sta in copia
nella vicina stazione di Vadelai, e fucili e munizioni sono nelle
mani di quei soldati, cui fu dalla sorte preclusa ogni via di scampo.4
Ciua e un nero, quindi pauroso, sospettoso, indugiatore, di ani-
mo irresoluto, di mente piccola, bugiardo nel dire, facile alle tristi
influenze; vero impasto di malizia e di codardia. La superstizione,
il timore della iettatura sono potenti in lui, come in tutti i neri;
ma, se ha intraveduto il proprio utile, fa forza a se stesso, alle pro-
prie credenze, e corre la via che a lui si presenta.
i. Ed. cit., vol. n, dal cap. n, pp. 13-7. 2. II regno dell'Uraoro, il cui terri-
torio si stende lungo la riva orientale del lago Alberto, aveva da poco cessato
di far guerra con 1'Uganda. La regione dell'Uganda, ad oriente del regno
dell'Unioro, verso il lago Vittoria, era ormai 1'unica via rimasta aperta al go
vernatore Emin Fascia per le sue comunicazioni, attraverso Zanzibar, con
1'Egitto, dato che in tutto il Sudan dominava la potenza dei mahdisti (vedi
p. 846). Perci6 Emin Fascia aveva inviato a Ciua il Casati come suo rappre-
sentante, perch6 favorisse una stabile pace tra Unioro e Uganda e ottenesse
da quel re libero transito di messaggi e merci attraverso i due regni. Emin
Fascia occupava allora Vadelai, immediatamente a nord del lago Alberto, sul-
la riva sinistra del Nilo. 3 . L'esploratore tedesco Eduard Schnitzler (1841-
1892), entrato nel 1873 al servizio dell'Egitto, aveva preso il nome di
Emin. Dapprima diresse i servizi sanitari della regione detta Equatoria, e
poi ne divenne governatore. Come abbiamo detto nella nota precedente,
egli era ormai tagliato fuori da ogni comunicazione con TEgitto. Dopo che
fu salvato dalla spedizione Stanley (vedi la nota i a p. 872), pass6 al servi
zio della Germania (1890), con Pincarico di fondare stazioni nella regione
del Tanganica. Mori ucciso da schiavisti arabi nel territorio di Kinena
(Congo). 4. dalla sorte . . . scampo: allude alia grande rivolta mahdista del
Sudan, per cui Emin e le sue forze erano totalmente isolate. Della rivolta
da un limpido quadro il volumetto di L. DAL VERME, J Dervisci nel Sudan
egiziano, Roma, E. Voghera, 1894.
54
850 GAETANO CASATI
Lo spirito del defunto Camrasi1 aveva guidato i suoi passi nella
scelta del luogo della nuova residenza; ed egli, fedele alia religione
degli avi, si era arrestato in Giuaia, predestinata a capitale del re-
gno (i° Giugno 1886).
Si accede alia magione reale per sette porte, ciascuna delle
quali e riservata a speciali caste di persone; porta per gli abi-
tanti del distretto, dei Magnoro, dei Vahuma2 mandriani; porta
degli ospiti dei neri d'altri paesi, ora residenti nel regno, dei regni-
coli, infine porta dello mpango,3 speciale pei Mabitu, ossia mem-
bri della famiglia reale. fe in questa sezione del palazzo, la piu vasta
e la piu sontuosa, che si apprestano i sacrifizi umani.
£ costume che il re, ogni giorno, al levare del sole, in abito
tradizionale, a testa scoperta, coi piedi nudi, e awolto nelFampio
mbugu* fissato con nodo sulla sinistra spalla, riceva i complimenti
e le felicitazioni d'uso da parte de* suoi congiunti, fra lo squillo
delle trombe, e il battito dei tamburi. E il popolo lo acclama e lo
inchina prima di recarsi ai lavori giornalieri, sovrano assoluto e
potente, padre benefico, dispensatore d'ogni bene, geloso custode dei
diritti dello stato.
La prediletta occupazione di Ciua, quella che assorbe gran parte
della giornata, e che scende consolatrice nel cuore afHitto dalle cure
non sempre liete degli affari del regno, e ramministrazione delle
numerose mandrie di sua proprieta. Nella sala dei Vahuma egli
ascolta le relazioni sulle condizioni sanitarie delle sue numerose
vacche, sui bisogni dei vari riparti; dispensa ricette ed ordinazioni
per le bestie ammalate, dispone pei doni, e per le vendite ; prodiga
elogi, e sentenzia sommariamente, spesso a capriccio, sempre con
severita.
— Tu sei un pastore, io sono un guerriero ; — gli diceva il fra-
tello Cabamiro all'epoca in cui, morto il padre, il paese si agitava
per la successione al trono — lascia a me la cura del regno, e degli
affari ; io ti faccio dono di tutte le ricchezze in bestiame. — Ma
Ciua voile mandrie e trono, e la testa del fratello mercanteggi6
con Soliman Daud, il negriero. Essa cadde, e 1'esoso monarca at-
teggiandosi a simulata pietade, nego il prezzo delPorribile patto.
i. Camrasi: padre e predecessore di re Ciua nel regno dell'Unioro. 2. Ma
gnoro: vedi p. 858; Vahuma: vedi p. 863. 3. mpango: nome indigene
che significa « scure» (vedi pp. 855-6). 4. « Specie di toga» (nota del Ca-
sati); vedi anche pp. 862-3.
DIECI ANNI IN EQUATORIA 85!
Figlio ad una donna Vahuma, Ciua ha spiccate tendenze per la
pastorizia. Egli possiede circa 150.000 capi di grosso bestiame,
frutto di continue razzie nella regione del lago Ruitan;1 e alia con-
servazione di esso prodiga le piu diligenti cure. I suoi figli rice-
vono la prima educazione presso i mandriani, vestendo il tradi-
zionale costume dei Vahuma, una pelle di vitello finamente con-
ciata, che pende sulla schiena a guisa di piccolo mantello.
Occhio profano non deve fissarsi sui prediletti ruminanti, e quan-
do per le strade e annunciate con alte grida il loro arrive, i vian-
danti devono o fuggire, o fermarsi volgendo il dorso alia sacra
comitiva. II latte e raccolto da speciali persone, a cui e vietato guar-
darlo, e, accuratamente coperto, viene inviato alia casa del re.
Un mungitore, sospetto di avere stregato il regio latte, fu, senza
forma di giudizio, colpito a morte. La distribuzione del latte e
fatta secondo le norme stabilite dal re; egli assegna i reparti2 a
ciascuno de* suoi figli, delle rsue mogli. La madre del re ha man-
drie proprie che governa con entusiasmo pari a quello del figlio.
Alia porta del popolo, prospiciente un ampio piazzale, egli indice
le pubbliche adunanze, infonde ai guerrieri la fiera virtu, pronun-
cia giudizi e sentenze, dispensa modicamente Fobolo del soccorso.
II 2 Giugno (1886) io fui ricevuto in pubblica udienza dal re.
II re vestiva abiti di panno, eleganti per finezza di lavoro e di
ornamenti, la testa aveva coperta con un tarbusch3 rosso, secondo
il costume arabo. Sedeva egli in ampio seggiolone, posando gli
augusti piedi su di una bellissima spoglia di leopardo. Di forme
colossali, di statura piu che alta, dalla faccia piena ed espressiva,
con un sorriso piu sarcastico che compiacente, pronta la lingua,
corretto il gesto, Ciua desta sentimento di simpatia in chi lo av-
vicina per la prima volta. II figlio primogenito sedeva alia sua sini-
stra su di uno sgabello, collocato in basso. I grandi del regno face-
vano corona all'ingiro della capanna, seduti all'araba per riverenza,
sul suolo, coperto di papiri verdi.4 Dietro al re si trova un panneg-
giamento di seta, manifattura indiana, importato da Zanzibar, e
dietro questo panneggiamento si vedono di tanto in tanto teste di
ragazzi che Paprono per curiosita. Sei giovani delle famiglie cospi-
cue facevano corona al trono, i fucili alia mano. Io stava seduto alia
1 . £ il lago Ruitan-Nsige. A nord vi e il piccolo lago di Chio, ricco di sale.
2. i reparti: le parti, le porzioni. 3. tarbusch: fez. 4. « I papiri si cam-
biano, quando diventano secchi» (nota del Casati).
852 GAETANO CASATI
destra del re, discosto pochi passi. L'udienza fu breve, ma cordiale.
Volendo approfittare della buona disposizione d'animo di Ciiia,
esposi, in successiva udienza, lo scope della mia missione, e for
mula! le domande del governatore1 che mi aveva inviato.
Libera ed aperta la via alia trasmissione delle corrispondenze,
pronta conclusione della pace con Uganda, a conseguire il quale
scopo assicuravo il concorso del governo nel pagamento del tri-
buto, facolta di ritirare merci dall' Uganda e dai negozianti del-
FUnioro, passaggio libero agli impiegati ed ai soldati armati da
awiarsi in Egitto, alleanza con Ntali, affine di poter usufruire della
via pel territorio di Ncole2 nel caso di insuccesso nelle trattative
con Muanga,3 invio a Vadelai di tin rappresentante.
Ma Podio inveterate che domina nei Vanioro4 fino dal tempo
che Baker5 vi fece la sua apparizione armata, tiene incerto e sospeso
Tanimo del re. Invano il buon Catagora, il vecchio ministro, si
adopera a far risaltare le nostre pacifiche intenzioni; il partito rni-
litare sorretto da certo Abd Rehman, zanzibarese, si agita, e ordisce
in segreto ignobili trame6 a nostro danno.
[OSTILITA. DEL RE CIUAp
II 24 Novembre il leale amico, il vecchio ministro Catagora
moriva repentinamente. II re, facendomi annunziare con speciale
messo Finfausta notizia, mi assicurava della sua inalterable bene-
volenza. Ma la voce pubblica lo disse morto per propinato veleno ;
il re, il mattino stesso delPassassinio, aveva detto che d'ora in-
nanzi voleva governare coi piccoli, non volerne piii sapere di au-
torita di grandi. E al ministro agonizzante d'un tratto alia porta
i. governatore: Emin Fascia. 2,. Ntali . . . territorio di Ncole: la regione
compresa fra il regno di Uganda, il paese di Ruanda e il fiume Cagera
formava lo stato di Ncole, sotto il dominio del re Ntali. 3 . Muanga : il
re deirUganda. 4. Vanioro: e il nome degli abitanti delPUnioro. 5. Si
allude, quasi certamente, a Sir Samuel Baker (1821-1893), famoso esplora-
tore, che fece una spedizione militare nell'Alto Nilo (1869-1873) per conto
del kedive (vicere) egiziano Ismail, e vi scopri il lago da lui chiamato
Alberto Edoardo. II fratello Valentine fu comandante dell'esercito egiziano
dopo il 1882. 6. ordisce . . . trame: il Casati narra che re Ciua tratteneva
la corrispondenza anziche consegnarla, che mirava a distruggere le forze di
Emin Fascia, e che aveva impedito a Mohammed Biri, un arabo al servizio
delle missioni inglesi nell'Uganda, di entrare nel suo regno con un carico di
stoffe diretto ad Emin. Faceva in sostanza una doppia politica: apparente-
mente amico, copertamente awerso. 7. Ed. cit., vol. n, dal cap. n, pp. 21-3.
DIECI ANNI IN EQUATORIA 853
della reggia, faceva da una comitiva di ragazzi risuonare il mesto
cantico, in quelFistante ironico e crudele : <c Ora muore, ora muore ».
II 5 Decembre il Biri1 partiva per Uganda, con una buona quan-
tita di avorio da convertirsi in stofe, lasciando negli animi di tutti
le migliori speranze per il tempo a venire.
Ma ben diversamente correvano le cose neirUnioro. Re e sol-
dati, antichi nemici del governo egiziano, che, nella ferma con-
vinzione di farla finita una buona volta coirimportuno vicino, erano
con soverchia leggerezza, eccitati dall'avidita per Fingente copia
d'avorio e di armi, scesi a mendaci condiscendenze e ad amiche
parole, ora, impauriti per Fincontrata resistenza ai loro neri di-
segni, tentavano ritirarsi dal passo mal fatto. E tutte le piu infami
trame furono messe in azione, gran maestro e duce PAbd Rehman,
che agli occhi del re appariva Funico saggio consigliere che potesse
insinuarsi nelPanimo del governatore, e dirigere gli intrighi senza
generare sospetti. Fu richiamato certo Babedongo, capo di soldati ;
ai negozianti fu severamente proibito di venderci merci e di avere
relazioni con me; certo Abubeker, che portava da Uganda stoife
pel governo, fu maltrattato, derubato e respinto poscia ai confini;
severa proibizione fu fatta agli indigeni di vendermi grano e com-
mestibili; Pavorio donato al re, quale compenso al transito della
carovana di Biri, fu villanamente rifiutato . . .
— Le corna delle mie vacche — mi mando a dire Ciua — so no
molto piu lunghe dei denti d'elefante che mi avete inviati. Non so
che fame, teneteli per voi.
— Sono dolente — feci rispondere a mezzo del capo Bagonza
incaricato del ridicolo rifiuto — che il re prenda si futile pretesto
per turbare le nostre relazioni. Lo consiglio a non seguire i sug-
gerimenti dei tristi ; che in quanto ai pezzi d'avorio io li serbero
a sua disposizione.
Ne a questo si limitarono le ostili misure. In un conciliabolo
di grandi e di soldati presieduto dal re si and6 piu oltre.
I capi di Tunguru e di Msua2 furono chiamati a Giuaia. Chisa
i. ilBiri: il Casati, rimproverandone il re, aveva ottenuto che a Mohammed
Biri fosse concessa 1'entrata nelFUnioro e il ritorno nell' Uganda. 2. Tun-
gum . . . Msua: due localita sul lago Alberto, nel territorio delPUnioro,
dove Emin aveva stabilito presidii militari, dopo che il Casati ne aveva
strappato il consenso a re Ciua. Ora il re, chiamati i capi indigeni delle due
localita, li fa trucidare come responsabili delFinsediamento dei presidii.
854 GAETANO CASATI
e Gumangi furono trucidati miseramente, rel di avere fatto atto
di sudditanza ad Emin bey; si istigarono i neri a rifiutare grano ai
soldati; si fece segreta ed estesa propaganda di ribellione tra gli
Sciuli e tra i Lur;1 si venti!6 infine il progetto di attaccare la sta-
zione di Vadelai, una volta la rivoluzione trionfasse e si fosse pa
droni del territorio dei Cefalu2 soggetti al capo Anfma.
E contemporaneamente a simile procedere, che io nettamente
indicava al governatore, si invitava da re Cabrega, Emin, col mezzo
di inviati speciali, a visitare 1'Unioro e la sua corte, protestando
sensi di amicizia e di alleanza. Non fu agevole dissuadere il go
vernatore dalla proposta visita, e solo dopo che per altre vie fu
convinto del tradimento ordito, presto fede alle mie disinter essate
esortazioni.
Emin non venne, ed io non mossi; il nostro decoro, i nostri in-
teressi esigevano che noi tenessimo piede nelPUnioro; ritirarci,
sarebbe stata follia e stoltezza, era confessarci vinti e dar mano
a che le animosita dei Neri, finora tenute a freno, scoppiassero in
compatta ed aperta conflagrazione a danno nostro, duce il buon
re Qua.
[CERIMONIE MOSTRUOSEp
Non esito Ciua nelPattuazione del programma che si era (gen-
naio 1887) prefisso; il segnale fu dato, e gli Sciuli si sollevarono;
ma sconfitti a Fatibech, a Fatico, a Caretum dai soldati, pur sem-
pre ardenti e pronti alia lotta, pagarono con molte vittime la loro
infedelta. Protsciamma, Fanima del movimento insurrezionale e
dell'insano tentativo, cadde esso pure.
II mese di Gennaio volgeva al suo termine. — Non un soldato,
non una cartuccia avrete da noi per guerreggiare contro Uganda —
dissi un giorno al re; ed egli sollecitava la partenza di Mabuzi,
Tinviato di Muanga con doni e con proposte di pace. E 1'assenso
alia pace, che di malincuore egli dava costrettovi dalla penosa situa-
zione a lui fatta dalla patita sconfitta degli Sciuli, voile suggellare
i. Gli Sciuli occupavano una zona a nord-est del lago Alberto; i Lur, o
Luri, il territorio sulla riva occidental dello stesso lago, e anche piti a nord,
fino a Vadelai. 2. territorio dei Cefalu: si stende lungo il Nilo Vittoria.
3. Ed. cit, vol. n, dal cap. n, pp. 24-9.
DIECI ANNI IN EQUATORIA 855
con ironica pantomima. Squadre di gente Lango,1 il corpo ta-
tuato a colori, simulavano evoluzioni di combattimento, lancian-
dosi verso la ambasciata del Vaganda2 che presenziava il torneo,
in atto di colpire colle lancie, e coi lunghi coltelli. Individui dalle
finte chiome scarmigliate, si precipitavano furenti verso il re gri-
dando: «Abbiamo sete di sangue, concedici uno di questi sciagu-
rati ». E le trombe ed i cori intonavano la nota canzone : « Re Ciua e
potente, ha ridotto a servitu i Cefalu e i Vaganda; ha obbligato al
tributo i soldati, i solo invincibili sono i Lango ». A cui con canti
lena marcata e sonora rispondeva un giovane della deputazione dei
Vaganda: «Re Ciua, ammazzaci, se ti piace, gettaci al rogo, come
gia facesti con altri, poco ci cale. Cabaca e la per vendicarci, il suo
tamburo gia batte a raccolta». E per colmo di scherno, quando
Mabuzi e i suoi si mossero per partire, Ciua li fece inseguire da
questa turba briaca di selvaggi eccitati.
Una gallina sgozzata e rinvenuta nella gran sala del palazzo reale
il mattino dell'8 Febbraio ;3 gli Arabi sono sospettati di avere segreta
intelligenza con noi; due di essi sono espulsi dal regno. Prende
consistenza la voce che Biri ha avuto Tincarico di stringere alleanza
con Muanga in nome del governatore delPEquatoria; che i soldati
gia si organizzano per invadere il paese. Tali contrarieta mettono
in continue ansie Tanimo del re, gia accasciato dal disastro toccato
agli Sciuli, e facile alle superstiziose credenze ; il trono corre certo
pericolo ; lo spirito del padre,4 irato forse per sofferte trascuranze,
non veglia alia prosperita del regno come per lo passato; ma vi
getta lutto e pianto; e necessario placarlo con sacrifizi.
£ consultata la regina madre, gran sacerdotessa e maga; ed essa
decreta che si ricorra alle cerimonie mostruose dello mpango - ossia
della scure - affine di scongiurare i presenti mali e propiziarsi fa-
vore dal defunto Camrasi per un trionfo futuro.
Gli istrumenti che si impiegano nel rito sono: un tamburo,
tutto cerchiato con grosso mo di ottone ed ornato di talismani,
consistenti in pezzetti di legno, cui sono attribuite speciali virtu
i. Lango: questa tribu dei Galla abitava ad occidente del lago Rodolfo.
Da essa Ciua aveva tratto una parte dei suoi soldati. 2. Vaganda: abi-
tanti di un territorio limitrofo all'Unioro. Formavano il nerbo dell'esercito
dell'Uganda, di nuovo, per breve tempo, in guerra con TUnioro, tra il
giugno e il luglio 1887. Ma dai Vaganda re Ciua traeva spesso le sue guardie
del corpo. 3. 8 Febbraio 1887. 4. lo spirito del padre: di Camrasi; vedi
la nota i a p. 850.
856 GAETANO CASATI
magiche; una seggiola di legno, coperta con pelli di leone e di
leopardo; una lancia, tutta di ferro, di circa un metro e mezzo
di altezza, rivestita nelPasta con filo di ottone; infme una scure
- mpango - col manico in legno coperto di pelle di leopardo e con
filo di ottone nella porzione che sporge superiormente.
Corre il decimo giorno di Febbraio, il sole precipita alPoccaso ;
batte un colpo del grande tamburo, cupo e grave. Ad un tratto
cessano i canti, tacciono i suoni, si spopola il mercato, ognuno
guadagna la propria abitazione, le vie si fanno deserte e per tre
lunghi giorni mestizia e silenzio regnano tutto alPintorno. Solo
i rintocchi lenti, lugubri e intervallati del gran tamburo accen-
nano che si stanno compiendo i riti misteriosi dello mpango^ e
fanno trasalire di paura i miseri abitanti. £ popolare credenza che
la nuggara1 mandi suoni senza essere battuta, tuttavolta che lo
spirito irritato di Camrasi brami essere placato con vittime umane."
II tempo dei riti misteriosi e trascorso; il sole ne segna nel
suo cammino il termine ; la gran nuggara tuona in tutta la sua pie-
nezza. Grida di terrore miste a riverenza eccheggiano dovunque
e si propagano di villaggio in villaggio, incalzando quali onde ma
rine; e miseri viandanti, pacifici agricoltori sono afferrati, ricinti
di corde e sgozzati in olocausto al Gran Padre.
In Giuaia dieci infelici pagarono col loro sangue il tributo alia
superstizione. II rito talvolta si prolunga fino al quinto giorno.
Ma il compimento del grande sacrificio attende gli albori del
giorno seguente. II re sta ritto nella capanna dello mpango, al li-
mitare dell'ampia porta d'ingresso, vestito dell'abito tradizionale,
gran manto di stoffa di corteccia d'albero, sormontato da una pelle
di leopardo al dorso e al collo; la testa coronata da talismani; i
polsi, il collo e le caviglie dei piedi ornate di fatate conterie,2 im-
pugnando nella destra la piccola lancia; i Magnoro del Condo3 e
tutti i Grandi sono disposti in semicerchio nel gran cortile, seduti
sui loro piccoli scanni; il custode dello mpango sta a destra del re,
tenendo alzata la fatale scure; nuggara e seggiola del gran rito sono
collocati sul davanti; un'ampia coppa e a terra poco lungi. Terrore
e silenzio dominano Passemblea.
II re accenna col capo; i Grandi si alzano, e, curvi in segno
di riverenza, si awicinano a lui : egli tocca colla punta della lan-
i. nuggara: tamburo. 2. conteriei vedi la nota 2 a p. 835. 3. Magnoro
del Condo: vedi p. 858.
DIECI ANNI IN EQUATORIA 857
cia uno di essi alia spalla. Questi s'avanza, protende il collo, 1'or-
rida scure scende, il sangue e raccolto nella coppa; il re colle
dita ne asperge il fronte e le guancie proprie, poscia quelle di tutti
i Grandi; afferrando quindi il vaso, versa il rimanente sangue sul
tamburo e sulla seggiola. II sacrificio e compiuto; nuggar a, seg-
giola, lancia, scudo e coppa sono levate e trasportate alia residenza
della regina madre. Ad un cenno del re i pietosi parenti asportano
il cadavere dell'infelice Chisa, gia capo del distretto di Muenghe.
I tamburi e i pifferi suonano a festa, si scannano buoi, si sturano
vasi di birra, e sul terreno teste bagnato dal sangue della vittima,
tripudiano e ballano gli ubbriachi.
Rasserenati gli animi, mente e cuore tornati alia antica baldanza,
fiduciosi di prosperi successi, gli insani, ciechi per sicura prote-
zione superiore, ripresero il filo delle votate imprese.
Mentre Ciua crede prossima la venuta di Emin in Unioro, de
cide repentinamente Pabbandono di Giuaia.
II mattino del giorno sei di Marzo, il re, immolato di propria
mano un giovine dodicenne nelPinterno del palazzo ed una gio-
venca bianca alia porta d'uscita, in olocausto al defunto Padre,
per propiziarsi la protezione durante il viaggio, tra il frastuono
dei pifferi e dei tamburi, gli spari di moschetteria e gli urli, piu
che grida, di una folia plaudente, prende via verso sud, asportando
seco i lari paterni, gli strumenti infami dello mpango. Egli, dopo
lungo errare, si ferma a Muimba; pianta la lancia nel suolo; quivi
si edifichera il nuovo palazzo; Poracolo lo impone.
Verso il meriggio lo sgombro di Giuaia e ultimata; colonne di
fumo e di fuoco si elevano dalla abbandonata residenza reale; il
segnale della distruzione e dato. L'incendio divampa da ogni punto
crepitando, cigolando e spingendo verso il cielo immense spire
nerastre rotte da fasci di fiamme, che illuminano sinistramente il
buio di una notte nuvolosa. Per lunghi due giorni si protrae il tristo
spettacolo, poi tutto piomba nelPoscurita e nel silenzio. A ricordo
della passata grandezza non rimane che un mucchio di cenere.
858 GAETANO CASATI
[ORGANIZZAZIONE E ATTIVITA DEL REGNO DELL'UNIORO] x
Tanto esteso territorio il re dell'Unioro regge a mezzo di go-
vernatori inviati nei singoli distretti. I magnbro, cosi sono chiamati
questi amministratori, sono i capi delle diverse giurisdizioni, che
governano in nome del re, forniscono i combattenti nel caso di
guerra, pagano tribute in avorio, in animali, in ferro e in derrate
alimentari. Ad essi sono soggetti i cosi detti matungoli, che hanno
potere limitato su reparti del territorio. Le provincie devono essere
sempre rappresentate alia residenza del sovrano, o dai capi in-
vestiti, o da un loro incaricato che ha il titolo di macongo. Tra i
magnbro il re sceglie il proprio segretario, il direttore dei magaz-
zeni e delle armi, i delegati a rappresentarlo presso le provincie
tributarie, i capi delle missioni eventuali presso gli stati limitrofi,
il comandante supremo delle truppe durante la guerra. La magno-
ria pu6 essere ereditaria od elettiva - ereditaria nel caso di buoni
servigi resi dal padre defunto; elettiva in seguito a meriti personal!
0 a speciale favore e benevolenza del re. L'ereditaria per6 6 conse-
guita da quello tra i figli che offre maggiori doni alia voracita del
monarca.
I magnbro possono essere insigniti di un ordine cavalleresco, detto
del Condo, che mette a livello dei congiunti reali - essi non sono
passivi2 di sentenza capitale, godono della riverenza pubblica, sono
1 consiglieri della corona e stanno coi Mabitu.3 L'attuale re per6,
derogando agli usi consacrati dalla tradizione, pronunci6 sentenza
di morte anche dei cavalieri, usando la finezza crudele di radiarli,
in antecedenza, dall'ordine. L'ornamento che distingue gli insigniti
del Condo consiste in un nastro di pelle di bove, tempestato nella
parte esterna da cauri4 e da variate perle di conterie, il quale dalla
sommita anteriore del capo scende ai lati del viso e si allaccia sotto
il mento. II numero dei membri dell'ordine e fissato a diciasette;
tra questi e scelta, a titolo onorifico, la vittima pel grande sacrifi-
zio dello mpango.
La potenza e la grandezza del sovrano, e la felicita dei popoli
del regno si sorreggono merce Taiuto delle potenze invisibili, al
i. Ed. cit., vol. n, dal cap. in, pp. 41 -50. 2. passivi: passibili. 3. Mabitu:
vedi p. 850. 4. cauri: conchiglie, che erano adoperate come monete (vedi
P. 863).
DIECI ANNI IN EQUATORIA 859
cui dominio si e aggiunta Talma del defunto Camrasi. Ad ogni
ricorrere di lima sono sacrificati esseri umani per propiziarsi grazie
e benessere; queste immolazioni pero non sono circondate da al-
cun fasto. Per la durata di tre giorni sono sospesi gli affari ed i com-
merci, e si compiono nell'interno della reggia i riti della nuova
luna, scannando qualche vittima di propiziazione nel palazzo, ed
uccidendo, al di fuori, nella direzione da cui si vuole scacciare la
iettatura, un numero variabile di individui. Mensilmente sono pure
scannati bovi sulla tomba del defunto re; e, spesse volte, vi sono
aggiunte vittime umane.
In occasione di malattia del re, o dei membri della reale fami-
glia, i sacrifizi umani hanno una parte importantissima. II giorno
8 Maggio, lo Spirito Magico, i di cui emblemi cingono il capo della
regina madre, forse sdegnato per mancata riverenza, turb6 la di
lei mente e vi insedio malattia. Furono immolati due tori, Tuno
bianco, Faltro di pelo rosso; ma invano, il Nume non si disse
placato e a lui furono offerte vittime umane in numero conside-
revole.
Tale un costume vige da epoca rimota. Sunna, re di Uganda,
padre a Mtesa, colpito da non grave malattia, fu medico a se stesso,
ordinando che cento vittime umane di espiazione si immolassero
giornalmente a provocare la sua guarigione. E per quindici giorni,
che tanto duro il malore, ogni levare di sole miro 1'orrendo ma-
cello. Fortuna voile che quando la morte lo trasse al suo amplesso
non permise tanto eccesso di devote pratiche. II sovrano, mentre a
cavalcioni del suo primo ministro (che tale era suo costume), fa-
ceva ingresso nella sua residenza, di ritorno da un viaggio, cadde
fulminate da colpo apoplettico.
Fu durante il regno di Sunna che il primo negoziante zanzi-
barese fece la sua apparizione in Uganda. Questi annoiato senza
posa dalla richiesta di conterie, ebbe un giorno a dire al re che
poteva fare delle coltivazioni di esse. II credulo re si mise all'opera,
e non vedendo alcun utile risultato si consiglio col negoziante.
Questi che, prossimo ad ultimare i suoi affari, sperava di presto
andarsene, continue lo scherzo e propose 1'espediente di maffiare
giornalmente il campo seminato. Ma spuntato il giorno in cui il
negoziante sperava di far ritorno fra i suoi, il re nego il suo assenso.
Replico dopo breve intervallo la domanda; ma dovette sentirsi dire
che la partenza avrebbe avuto luogo solo nel giorno che le conterie
860 GAETANO CASATI
avessero germogliato. Egli non fu libero d'andarsene che dopo la
morte di Sunna, e fu fortuna che non lo incogliesse di peggio.
La corte di re Ciua non ha apparenze aristocratiche, come si
riscontra presso il sire di Uganda; ma la mano ferrea del despota
piomba inesorabile sulle persone che a torto od a ragione incorrono
nella disgrazia sovrana. I colpevoli giudicati, anche dietro sem-
plici sospetti, sono uccisi barbaramente da appositi sicari. Assi-
curato il paziente con corde, che lo recingono alle braccia ed alle
gambe, in modo da obbligarlo a piegare il dorso in avanti, con
bastoni, che portano una estremita ingrossata, viene, con sorpren-
dente destrezza atterrato con tre colpi vibrati alle tempie ed al-
Foccipite. Le salme dei giustiziati sono ordinariamente abbando-
nate sul luogo di esecuzione, pascolo alle fiere ed agli avoltoi. II
solo appressarsi, o fermarsi a contemplare i cadaveri costituisce
un delitto che pu6 essere punito di morte.
Nei primi tempi del mio arrivo a Giuaia i dintorni della mia
abitazione erano il piii delle volte scelti per teatro di queste mo-
struosita. Nel silenzio della notte si sentivano grida strazianti, Feco
dei tre colpi di grazia e un rantolo che andava lentamente soffo-
cando. Un mattino sette cadaveri giacevano, orribilmente sfigurati,
nei campi prospicienti. Ne portai lamentela al re, mi disse che io
non dovessi fame gran caso, essere quelle genti immeritevoli di
pieta. Gli feci in allora intendere il ribrezzo che il fatto produceva
sulFanimo mio; egli sorrise, ma scelse altra localita per Fufficio
orribile.
Ai ladri, ai seduttori di donne, tutta volta che egli giudica il
reato non grave di tanto da meritare la sentenza capitale, il re ap-
pHca, come mezzo correzionale, il taglio delle mani, e Fustione delle
pupille degli occhi.
La sera del 22 Febbraio (1887) una colonna di fumo si eleva in
prossimita della magione reale; la capanna di un esperto lavora-
tore in ceramica, per poca diligenza nei deporre una pipa tuttora
accesa, per le secche erbe delle quali costantemente si sparge il
suolo delle abitazioni, divamp6 ad un tratto. II fuoco fu ben tosto
spento, ma il mattino seguente era bandito un decreto di proscri-
zione contro le pipe ed i fumatori. Le guardie del re furono per ben
tre giorni impiegate a rompere pipe ed a bastonare fumatori senza
riguardo. II vasaio dove alia sua perizia nelParte, F essere sfuggito
a severissima pena.
DIECI ANNI IN EQUATORIA 86l
£ atto di somma distinzione, e di grande fiducia P essere am-
messi alia cerimonia del latte. Non tutti i membri della famiglia
reale, ne tutti i grandi capi fruiscono di un tale onore. L'avere
compiuto azioni eroiche in guerra, 1'avere addimostrato al re una
fede inalterable, e piu ancora essere entrato nelle simpatie di lui,
sono titoli che possono portare a questa somma tra tutte le prero
gative del regno. Calata la notte, levata la mensa regale, gli addetti
alia cerimonia entrano nella gran sala del palazzo ; i tamburi bat-
tono ed i pifferi strillano la marcia reale; il re prende un vaso ri-
pieno di fresco latte, e, bevuto il primo, lo passa ai presenti che,
per turno, compiono la medesima operazione.
Compiuta la cerimonia, le porte sono aperte e gli amici ed i
grandi sono ammessi al cotidiano passatempo di ubbriacarsi con
copiose libazioni, il re mecenate e maestro . . .
La superstizione si impone nell'Unioro, anche ai cibi. II re non
si nutre di carne di galline, e guai a quel capo che non si unifor-
masse ad imitarlo in simile restrizione. Egli poi limita i suoi pasti
a carne di vitello bollita con banane, a polenta di teldbun* a birra di
banane fermentata con grano germogliato, la quale ha il no me di
moenga.
II battere dei tamburi annuncia che il monarca muove verso
la sala, dove e apprestata la mensa regale. Fuga generale di donne
e di ragazzi nei cortili della reggia ; si fa deserta la via per la quale
devono essere portati i cibi al re, cucinati da persona fidata, e co-
perti accuratamente, perche" occhio maligno non abbia ad iniet-
tare loro proprieta malefiche. Durante il pasto del sovrano, il primo
ministro del regno veglia alia porta d'ingresso, volgendo il dorso al
re che mangia; e, a compenso ed onore, e destinato a nutrirsi dei
regali avanzi, seduto a terra e sempre sul posto di vigilanza.
La popolazione dell'Unioro, vivace per naturale intelligenza, de-
vota e sommessa al re piu per tema, che per affetto, poco amante di
imprese guerresche ardite, di spirito bellicoso solo nelle razzie e
nelle rapine, esplica le sue doti nelle industrie e nei commerci.
Ai luoghi di mercato accorrono numerosi i negozianti coi loro
prodotti, e vi si possono acquistare farina, sesamo, tabacco, pelli,
ferro, avorio. Un prodotto di grande consumazione e la birra fatta
con succo di banane, d'uso generale, necessaria alle abitudini della
vita degli indigeni, quanto lo stesso cibo. Sul mercato di Giuaia si
i. telabun: granturco.
862 GAETANO CASATI
vendevano giornalmente mille vasi alPincirca, di buona capacita.
Sono valenti preparatori di pellami, e con questi fanno vestiti
che in morbidezza possono eguagliare i tessuti. Le loro tiumbe sono
manti formati dalPunione di pelli di capra convenientemente pre-
parate e cucite con tale diligenza da presentare uniformita continua
di pelo ai luoghi di giuntura. Preparano pure 'tiumbe con pelli di
bove, che riducono soffici e leggiere, e che servono da vestito ai
meno ricchi. La confezione di tali stoffe richiede lavoro paziente,
che si eseguisce con somma diligenza a mezzo di raschiature succes
sive fatte con piccoli coltelli sul rovescio delle pelli, previamente
bagnate e tenute distese mediante chiodi di legno fissati nel suolo.
II costume dei vestiti di pellami e tolto dai Vahuma e costituisce
un comodo lusso, attesa 1'abbondanza, nel paese, di bestiame.
L'abito tradizionale per6, che tuttora e usato dalla maggioranza, e
che e sempre portato nella ricdrrenza di feste e di pubbliche fun-
zioni, e quello fatto colla corteccia dello mbugu, ossia delficus lutia.
Ecco come il missionario Wilson, gia sopra citato, descrive il modo
che si impiega per rendere tale corteccia atta a servire come stoffa.
« Si fa un'incisione in giro al tronco in un posto adatto e un'al-
tra a due o tre piedi piii in basso ; quindi si fa un taglio longitudi-
nale fra le due incisioni, poscia si leva la corteccia in modo da con-
servarne la forma cilindrica. Avendo uno spessore di circa mezz'on-
cia, si leva la superficie con cura e la parte anterior e, che e piut-
tosto spugnosa e piena d'acqua, si pone sopra una lunga tavola di
legno duro e molto levigato. La si fa battere allora con forza e rapi-
damente da due o tre uomini con un martello. Questi martelli pure
di legno durissimo, hanno Pestremita arrotondata con scanalature,
di modo che la stoffa riesca marocchinata.1 La stofTa si allarga sotto
questa operazione, e quando ha raggiunto la voluta consistenza, e
sospesa per farla asciugare. Dopo cio tagliano con cura i bordi, e
vengono rammendati i buchi, che per awentura avessero potuto
formarsi nel battere la corteccia. Se la pezza, che ne risulta, non e
abbastanza larga per fare un abito, se ne cuciono altre insieme.
Gli alberi, dai quali viene levata la corteccia, sono subito coperti
di foglie di banano, che vi si lasciano fino a quando si forma
una nuova scorza sulla ferita. »
Varie sono le qualita di queste stoffe di mbugu\ le piu belle e
i. marocchinata: lavorata in modo da avere 1'aspetto delle pelli dette
« marocchine ».
DIECI ANNI IN EQUATORIA 863
piu soffici, d'un colore rosso oscuro, provengono dall'Uganda e da
Msoga sulla sponda destra del Nilo Vittoria; le piu resistenti si
fabbricano a Mognara nel distretto di Mruli. Appositi artigiani at-
tendono a questa industria, che frutta, se non copiosi, certo conti-
nuati guadagni.
L'arte ceramica ha pure valenti artisti, che fabbricano vasi per
latte, recipient! per acqua, coppe, scodelle e pipe bellissime per
varieta di forme e lucidezza di superficie. La terra che impiegano
e nerastra o rossiccia, e questa differenza porta un diverse valore,
reputandosi quest'ultima di maggior pregio.
Sui mercati trovasi in copia il burro, che viene acquistato in
gran parte da speculatori che lo inviano in Uganda. 6 un cespite
di industria, propria e quasi esclusiva dei Vahuma, possessor! di
bestiame, o mandriani del re e dei grandi del regno. II burro fab-
bricato mediante 1'agitamento del latte in grosse zucche vuotate, e
conservato in casside, tegumento formato da foglie di banano rico-
perto da argilla mescolata a stereo bovino. L'uso di queste casside
e generale, e sostituisce quello dei canestri; il tabacco, i fagioli, il
sesamo, il grano, il sale, sono in esse preparati per facilitarne il tra-
sporto; il rivestimento di terra si applica solo quando si vuole
garantire la conservazione del genere.
I negozianti di Zanzibar hanno assai contribuito a sviluppare
le tendenze commerciali degli indigeni, e Tintroduzione dei cauri -
cyprea moneta - ha facilitate ed esteso le contrattazioni. Intro-
dottisi nel paese per Tincetta dell'avorio, vi fecero buoni affari
colla vendita di fucili, polvere, capsule, rame, ottone, tela e con-
terie, aprirono mercati, si misero in contatto colla popolazione,
e seppero accapararsi fiducia e confidenza. Derogando alquanto
al sentimento della propria dignita si acconciarono1 anche col re,
a cui piu volte vendettero il proprio braccio nei segreti misfatti.
Le varie tribu sparse nel paese, unificate per lingua e costumi,
e formanti il popolo dei Vanioro, dimorano in villaggi poco estesi,
ed amano erigere le loro abitazioni nei boschi di banani. Le capanne
di forma conica fatte con erbe, hanno porte alte e con tettoia spor-
gente sopra di esse. L'interno e provvisto con certa ricchezza di
utensili per gli usi domestici, ed e ripartito in varie sezioni per i
singoli bisogni. Le donne hanno la direzione della casa ed attendono
ai lavori dei campi; gli uomini per6, specie nella classe piu povera,
i . si acconciarono : si accordarono, trattarono.
864 GAETANO CASATI
non rifuggono dal partecipare ai lavori piu gravosi. Sono tutti bevi^
tori appassionati, ed un vaso di birra e preferito ad un pasto son-
tuoso. Gli uomini di rango elevate mangiano da soli; i piu sie-
dono allo stesso desco colla famiglia; tutti fanno uso di cucchiai di
legno. Amanti delle feste e dei balli, colgono tutte le occasioni per
appagare tale passione - e ballano per le nascite e pei matrimoni, e,
ultimati i riti della nuova luna, per tre giorni ballano e si ubbria-
cano.
I Vanioro hanno timore e ribrezzo per la pioggia e per la rugiada.
Non sortono di casa, se non a sole alto, e le vie nelle ore mattutine
sono completamente deserte; cosi quando piove. Hanno grande
rispetto pei dispensatori delle pioggie, che sono colmi di doni a
profusione. II gran dispensatore, colui che comanda, che ha asso-
luto, incontestato potere sulla pioggia e il re ; ma egli puo conferire
e dividere il mandate ad altre persone, affine di distribuire il bene-
ficio alle diverse parti del regno. Un giorno un uomo trafelato giun-
geva da parte del re, e gridava sui luoghi di passaggio che si desse
mano alle seminagioni, che Macama1 aveva ordinato di dar mano
sollecitamente all'operazione ne* suoi campi. La pioggia era desi
derata, e vero, da lungo tempo; ma il cielo si manteneva sereno,
Faere tranquillo ; eppure Findomani cadde pioggia in copia a raf-
fermare il potere soprannaturale del gran dispensatore.
La sepoltura degli estinti vien fatta senza lunghi pianti e con
poche cerimonie; essi vengono sotterrati in prossimita dell'abita-
zione, a custodi di essa, confortati3 dal pensiero che Pestinto veglia
a tutela della prosperita dei congiunti abbandonati. L'uso di sacri-
fizi umani non e nell'indole dei Vanioro, e se da taluno, come
vuolsi, fu usato, non e che una imitazione di una prerogativa della
famiglia reale. Quando mori Camrasi, nella reggia fu scavata una
larga e profonda fossa destinata a ricevere la salma delPestinto, ap-
pena compiuti i riti funerari. In essa furono collocate sei tra le
mogli del re defunto sedute, e sulle gambe di queste fu adagiato
il corpo del trapassato; un ragazzetto inginocchiato aj suoi piedi,
teneva la pipa e il vaso di tabacco. Composto Porrendo gruppo senza
un lamento da parte delle infelici predestinate, la fossa fu colmata
di terra; e, sulla tomba, i rivi di sangue colanti dalle umane vit-
time sgozzate, placarono la grande anima del re defunto, e la resero
i. Macama-. il dispensatore della pioggia. Tale appellative apparteneva an-
zitutto al re. ^. confortati: i parenti seppellitori.
DIECI ANNI IN EQUATORIA 865
propizia al novello despota. Egli veglia tuttora alia grandezza, alia
prosperita del regno, ed infelici vittime pagano il tribute della ve-
nerazione del popolo, e della capricciosa superstizione del dispo-
tico erede.
[MINACCIOSE PRESSIONI su CASATi]1
11 mio isolamento era oramai completo (6 Marzo 1887); io rimane-
va solo a Giuaia, colle mie genti di casa, con due soldati del governo,
e con due banassura2 del re, incaricati piii di sorvegliare i miei
atti, che di prestare i loro servigi. II dado era gettato, il re pas-
sava il Rubicone e strappava la maschera; il partito dei nefandi
progetti, suggeriti nelPadunanza del 25 gennaio, aveva vinto; ai
sotterfugi, alle mene sorde, al parlare ambiguo, stavano per sot-
tentrare Pazione, la rottura quindi d'ogni relazione, e Paggressione
sui territori del governo. La politica di Re Ciua a due faccie, ma
paurosa e circospetta, cedeva il campo a quella dei banassura, leg-
gera, rapace, sfrenata.
Pur tuttavia gli affari nostri, in mezzo a tanta malevolenza, si
svolgevano a seconda degli scopi desiderati. Sul principio delPan-
no, prevalsero nel consiglio dei grandi del regno, le ostili misure
votate in nostro odio ; fu mia prima cura di assicurare la trasmis-
sione ed il ricevimento delle corrispondenze per e da Uganda, ed
allo intento trovai prestazione coraggiosa e cordiale in certo Ahmed
Auad, arabo delPOman, stabilito nelPUnioro per ragioni di com-
mercio. Merce* sua mi fu sempre possibile trovare messi che, me-
diante compenso in avorio, si incaricassero di portare le nostre cor
rispondenze al Signor Mackay, agente delle missioni inglesi, e ri-
mettere fedelmente quelle provenienti dalPUganda. £ bens! vero
che egli, sospettato di tenere relazioni con me fu colpito da sentenza
di esiglio dal regno ; ma mi fu facile, a mezzo del tristo Abd Reh-
man, ottenere dal confidente del re la revoca di tale sentenza.
Non si pass6 alPacquisto delle stoffe e d'altri generi in quantita
rilevanti, atteso i prezzi esorbitanti domandati dai negozianti, e in
vista della carovana di Biri prossima ad entrare nelPUnioro; ma
per i bisogni piu urgenti non fu difficile deludere la vigilanza delle
i. Ed. cit., vol. n, dal cap. iv, pp. 56-8. 2. banassura: militari, guardie
del corpo di re Ciua.
866 GAETANO CASATI
guardie, poste, anche di notte, in riva al torrente, che ci separava
dal quartiere occupato dai negozianti.
Rimaneva il lato piu spinoso, e di maggiore importanza; es-
sere, cioe, al corrente delle notizie esterne, e piu ancora delle trame
e dei progetti che si ordivano e si succedevano con vece continua
nella reggia. Ma furonvi, tra gli indigeni e fra le guardie stesse del
re, i volonterosi ed i comprati che si prestarono al pericoloso uffi-
cio, sicch6 ogni progetto, non appena ventilate, era a mia cono-
scenza prima che si desse mano alia sua attuazione.
Costretto a non muovere dalla mia abitazione, sorvegliato alFin-
giro da guardie, spiato in ogni menomo atto, impiegainel difficile la-
voro un coraggioso ragazzo dinca,1 il quale, sotto veste di far acqui-
sti al mercato, trovava abilmente modo di conferire coi nostri amici,
e soddisfare ai bisogni della situazione. Awertito da lui della neces-
sita di abboccamenti, io riceveva visite notturne, dopo avere prepara-
to Pambiente alPuopo, coll'ubbriacare, Dio mi perdoni, di buona
ragione le guardie destinate alia mia sorveglianza. Ed in questo mo-
do, non solo quanto poteva essere utile ai nostri interessi, ma per-
fino i pettegolezzi e gli scandali della reggia erano a mia conoscenza.
Insediato il governo a Muimba, ebbero principio gli attentati
notturni alia mia abitazione. Ne portai lamentela al re il 28 di
Aprile, in seguito ad una visita perpetrata la notte antecedente;
ma egli, sorridendo, mi rispose: — Sparate contro i ladri, non sono
miei sudditi i lavoratori nelle tenebre. — E per conferma della di-
sapprovazione sovrana, non appena scorso il secondo giorno, la
poco grata sorpresa si rinnovava. Nel corso di parecchi mesi, ad
intervalli variati, si ripeterono i tentativi, interrotti solo nel frat-
tempo2 che dur6 Tinvasione dei Vaganda. Avuto sentore che dalla
reggia erano ispirate tali opere nefande, sia per impaurirmi, e de-
cidermi alia partenza, o forse peggio per togliere di mezzo un inco-
modo testimonio ed un creduto cospiratore e nemico, opposi in-
differenza e volto ilare davanti agli importuni curiosi, ed attivai
un regolare e serio servizio di sorveglianza durante la notte. Fu
un lavoro penoso, difficile, che amareggib i placidi ozii dei soldati
e dei send, a cui per altro io, per primo, mi sottoposi, e che port6
al trionfo, rendendo frustanei3 ben otto tentativi.
i. I Dinca sono un popolo del Sudan, abitante tra il Bahr-el-Arab e il Nilo
Bianco, a sud del Sennaar. 2. nel frattempo: nell'intervallo di tempo.
3. rendendo frustanei: frustrando, rendendo vani.
DIECI ANNI IN EQUATORIA 867
Era una notte piovigginosa ; a guardia vegliava un giovanetto,
facile a lasciarsi sorprendere dal sonno. Di solito, ad intervalli tor-
mentato com'ero dall'insonnia, e dall'incertezza continua del pro-
babile pericolo, usava sortire dalla mia capanna sia per controllo
alia sentinella appostata, sia per provare 1'attenta vigilanza. Preso
il fucile sortii all'aperto, e mi awicinai al ragazzo che seduto son-
necchiava reclinando convulsivamente il capo, e scotendold brusca-
mente lo chiamai alia vigilanza. Ad un tratto un rumore di una
massa pesante in fuga si fece intendere a pochi passi; mi volsi a
quella parte e potei confusamente distinguere le forme di parecchi
leoni; sparai il fucile, un altro colpo diressi nel vuoto, ed il silenzio
torn6 a farsi tutto all'intorno.
II mattino constatammo che la visita poco gradita ci era stata
fatta da un'intiera famiglia di leoni. II povero ragazzo, la cui esisten-
za era stata a repentaglio, e che gli era stata preservata dal mero
caso, sorrideva, ma tuttora col tremolio sulle labbra.
[CASATI SFUGGE ALLA PRIGIONIA E ALLA MORTE] l
Alle ore 6 del mattino successivo (9 Gennaio 1888) Biri ed io,
accompagnati dal mio fido ragazzo, da un caporale del Governo,
e dai tre banassura Uando, Rehan, e Singoma ci mettiamo in cam-
mino verso 1'abitazione del Gnacamatera.2 Varcato il torrente, e
saliti sulla spianata da cui si scorge in lontananza la dimora del
Visir, con grande nostro stupore ci si affaccia il luogo gremito di
numerosi armati ; il cuore ci da una stretta, ci rimiriamo mutoli, al
Biri sfugge un fioco atorniamo indietro». £ inutile, bisogna pro-
seguire; affrettiamo il passo; giungiamo alPingresso. Cessano i gri-
di, gli armati si adunano sul nostro passaggio, alcuni ci salutano ;
andiamo a fermarci in prossimita della sala delle adunanze.
Poco lungi, al piede di annosi alberi, maestosi per ricchezza
di fronde, ed elevatezza di tronco, sta seduto il gran sacerdote,
a cui fanno corona in numero i minori maghi. Ha il capo coperto
da un ricco turbante di stoffa rossa, ornato di conterie e di conchi-
glie, e ai lati della fronte si dipartono due corna di bove, cui sono
i. Ed. cit., vol. II, dal cap. vi, pp. 86-106. 2. Gnacamatera: re Ciua ave-
va nominate suo ministro questo capo gia distintosi nclla gucrra contro
i Vaganda.
868 GAETANO CASATI
appesi piccoli talisman! di legno; nella sinistra mano tiene un gran
corno ripieno della polvere magica, e colla destra impugna il pic
colo bastone degli scongiuri; veste 1'ampio abito di pelle di bove,
fermato aH'omero sinistro; siede su di un piccolo sgabello, in at-
teggiamento severo, come conviensi alia sua alta dignita.
S'apre la porta del palazzo, squilla una tromba, ed il Visir si
avanza seguito dai dignitari del regno, e da copia di armati. I ca-
panelli, disseminati sul piazzale e airintorno, si adunano, e ven-
gono a formare un cerchio compatto, a qualche distanza, tutto
alFingiro - armati di fucile, armati di lancie, e scudi, armati di
archi, e freccie; sono parecchie migliaia. Un religiose silenzio, gla-
ciale, annunziatore di atti solenni, domina Passemblea; tutti hanno
Pocchio intento alia persona del Gnacamatera, che emerge, fra lo
stuolo armato che lo rinserra, per Talta statura, e pel volume della
testa. — Ecco il tradimento, — sussurrai airorecchio di Biri — che
Dio ci aiuti; e vana ogni speranza; mostriamo coraggio.
Forse dieci minuti sono trascorsi dall'apparizione del Visir. Ad
un tratto egli stende risolutamente in alto il braccio destro. II
segnale e dato; Faere rimbomba di orribili grida, la turba sfrenata
si awenta sopra di noi; ci afferrano, ci avvingono di corde, e
siamo barbaramente legati ai grossi alberi in prossimita del gran
mago. Spogliato del tarbusch, e predato di quanto aveva nelle mani
e nelle tasche, io sono avvinto con corde al collo, alle braccia, ai
polsi, ai ginocchi, al collo dei piedi, ed assicurato ad un grosso
albero con tale diligenza atroce, da non lasciarmi libero di fare il
bench6 minimo movimento ; la corda al collo e poi tanto stretta da
impedirmi la respirazione, ed un braccio e contorto e ripiegato in
posizione dolorosa.
II povero Biri, denudato perfettamente de' suoi vestiti, e legato
ad un albero prossimo al mio, con corde ai polsi, al collo, ed ai
piedi. II mio ragazzo Oachil sta con legature al collo, alle braccia,
ai polsi; il caporale, stretto con corde alle braccia, e assicurato ad un
albero, in prossimita di Biri.
Impreco, dirigendo lo sguardo al Gnacamatera, che stava imper-
territo a pochi passi, contro la vigliaccheria di legare un fanciullo,
e lo prego di allentare i vincoli al Biri. Le sue legature sono rimesse
in piu tollerabile misura, ed al ragazzo sono tolte le corde che
stringono le braccia. Ma per contro, il banassura Uando, avendo
richiamato Pattenzione del Visir sul mo do barbaro, oltre mi-
DIECI ANNI IN EQUATORIA 869
sura, con cui io ero stato legato, quest! con inutile vampa d'ira
grid6, mi fosse anco il ventre fissato al grosso albero con una fune.
I satelliti, pronti, ebbri di gioia ad eseguire Pordine - sorrisi,
consolandomi che la corda che mi legava al collo, essendo nuova,
si allungava sotto gli sforzi tanto da permettere la respirazione meno
affannosa.
II Gnacamatera si awicin6, ancora piu, a me:
— Io mi porto— disse — d'ordine del re alia vostra abitazione;
so che ivi tenete molti armati, venuti di soppiatto, e ad intervalli
da Vadelai, e coi quali contavate conquistare il paese; guai a voi,
se io trovo in loro la menoma resistenza; voi sarete immediatamente
fatto uccidere.
— Nello stato in cui m'avete posto — risposi — d'ordine del vo-
stro re, io non posso essere responsabile di quanto sara per ac-
cadere, presentandovi alia mia abitazione. Epper6 vi consiglio di
prendere questo ragazzo con voi, il quale portera la mia parola agli
armati che vi si trovano, e sara da quelli creduto ed ubbidito.
— Sta bene, dategli allora i vostri ordini.
— I soldati del Governo consegnino le armi; e tu, ragazzo mio,
ubbidisci, senza esitazione, a tutto che sara per richiedere il Gna
camatera. Che nessuno si opponga, che nessuno pianga.
II Visir parti accompagnato dalle sue truppe, lasciando circa
trecento armati alia nostra custodia.
II dolore cagionato dalle legature, i dardi del sole che in quel
giorno sembravano piii cocenti, 1'arsura che tormentava le fauci,
Io scherno continue, non interrotto, di una folia briaca, e sitibonda
di sangue, ecco il nostro Calvario di lunghissime ore.
II povero Biri ora recitava le preghiere del Corano, piu spesso
singhiozzava rammentando i suoi figliuoli, il suo avorio perduto, e
si abbandonava alia disperazione, mirando Io spettro della morte
vicino.
Io gli facevo coraggio, Io confortavo a sperare, Io supplicava a non
dare spettacolo di vilta d'animo ; ma pur troppo mi si spezzava il
cuore, vedendoci ludibrio di un re despota, feroce e superstizioso.
— Se un piroscafo fosse stato inviato da Dufile,1 come voi avete
i. Dufile: locality sul Nile, a nord del lago Alberto. II Casati aveva ripetuta-
mente awertito Emin del tradimento che si preparava, ma non era stato
creduto.
870 GAETANO CASATI
richiesto, non ci sarebbe toccata tale sorte; il Fascia era awertito
del pericolo. — Cosi parlava il Biri, e si lasciava vincere da impeti
di ira e di sdegno.
II caporale Surur, meno infelice di noi, era confortato dalle parole
dei compaesani, che lo sollecitavano a far atto di sottomissione al
re, che lo avrebbe non solo perdonato, ma anche tenuto in pregio,
perch£ soldato; e gli somministravano tazze ripiene d'acqua a suo
piacimento.
Eppure quella folia, ebbra e fanatizzata, ondeggiava per grande
paura che dominava in fondo al loro cuore. Uno, tra i piii arditi,
dei nostri custodi, awicinatosi a me, si prov6 a sciogliere i laccioli
delle mie scarpe, probabilmente per appropriable. Sdegnato per
tale atto, e, non potendo permettermi il menomo movimento, cac-
ciai un urlo, fissando rabbiosamente Pinsolente. Questi e la folia,
presi da subitaneo spavento, in massa indietreggiarono precipitosa-
mente, urtandosi e cadendo Tun sopra Paltro.
La folia si tenne allora a distanza fino a quando uno dei capi, in
cui il dovere trionfava sopra la paura, dopo molto esitare, e con
tutta circospezione, non ebbe frugato nelle saccoccie dej miei pan-
taloni ed assicurato gli altri che non vi era incantesimo. L'oggetto
stregato doveva essere un foglio di carta. Non potei a meno di dare
in una risata, a cui rispose un chiassoso riso alPunisono di tutta la
folia; ed anche il povero Biri ebbe un lampo di ilarita.
Verso le ore tre pomeridiane il mio ragazzo fa ritorno, e, in
nome di Gnacamatera, comunica ordine di allentare le nostre le-
gature. I custodi protestano altamente contro tale concessione, non
vi possono credere, domandano che venga un banassura del Visir.
Si aggiunge cosi un sopra piu di tormenti pel capriccio di una
ciurma fanatizzata; si riaccende per un'altra buon'ora, e si rinvi-
gorisce la sequela degli improper!, degli insulti, delle minaccie.
Ritornato il ragazzo, accompagnato dalla guardia Singoma, un
grido generale di disapprovazione eccheggia da tutte le parti. La
guardia ordina di sciogliere i vincoli che stringono le mie braccia; il
capo dei lasciati a custodia rifiuta, protesta; egli non solo allentera,
ma lasciera libere le braccia, se gli verra dato irpagamento d'uso.
Mi si domanda il mio abito - acconsento -; ma lo si vuole an-
ticipatamente; non e possibile darlo prima che siano tolte le corde.
Nuove proteste, nuove insolenze.
Alia fine mi si slega, si toglie P abito, e mi si rilega, lasciandomi
DIECI ANNI IN EQUATORIA 871
perb libere le braccia; altrettanto si fa con Biri. II caporale vien
slegato completamente.
£ costumanza nelPUnioro, tollerata dal sovrano, di permettere
che i custodi degli individui messi in ceppi, mercanteggino vergo-
gnosamente una dose maggiore o minore di sevizie, a seconda della
loro voracita. Cosi se un infelice od un reo, e in grado di soddisfare
la loro ingordigia con pagamento pronto ed effettivo, possono pro-
curarsi un alleviamento di pene per breve ora, che pu6 pur anco
ripetersi od anche continuare, se i pazienti ripetono o continuano i
regali. Ma se il disgraziato & povero, e quindi impossibilitato ad of-
frire la menoma oblazione, egli, certo, subira sevizie e vessazioni
ancora maggiori di quelle state ordinate dal re.
£ in questo modo che gli impiegati regi si compensano dei loro
servigi al re, che si sottrae cosi aH'obbligo di qualsiasi retribuzione.
E questo sistema di concussione si estende ad ogni genere di ser-
vizio ; visite nei distretti, messaggi ai capi, perquisizioni domici-
liari, arresti di individui, servizi di trasporto per la casa reale, tutto,
indistintamente, viene colpito da una tassa, levata a discrezione del
funzionario.
II malcontento, in conseguenza di simile procedere, e piu che
generale ; e, se non fosse la tema che incute il numero considerevole
di armati con fucili, Tor dine pubblico neirilnioro, ad ogni istante,
correrebbe seri pericoli di turbamento.
II ragazzo brevemente mi informa di quanto e avvenuto alia
mia abitazione dopo la nostra partenza, e all'arrivo di Gnacamatera.
Al mattino, appena che noi ci allontanammo, la casa fu bloccata
tutto aH'ingiro ed a distanza da circa duemila armati fatti venire da
Mruli, da Muenghe, dai distretti del Cafu. Quando poi ii Visir fu
prossimo alia mia dimora, si arrest6 col suo esercito sul colle ante-
stante, e di 1& invi6 alcuni armati col ragazzo sempre legato. Le
armi dei due soldati, e le mie, colle cartuccie, furono portate da-
vanti al comandante; gli effetti miei e di Biri, della nostra gente e
dei soldati furono disposti sul piazzale vicino alPabitazione ; le
genti di casa furono fatte uscire e collocate in luogo appartato sotto
custodia.
Drappelli di armati entrarono allora nel recinto, perquisirono
minutamente ogni luogo, ed esplorarono, battendo coi calci dei fu
cili, il terreno punto per punto, per assicurarsi se esistessero nascon-
digli sotterranei.
872 GAETANO CASATI
Chetata la pena del cuore al Gnacamatera, poi che ebbe 1'an-
nunzio del risultato della perquisizione, a spari di fucile, e al rullo
del tamburi, scese il colle, varc6 il rio, e sali trionfante a riposarsi
alia mia abitazione. Le sevizie e i maltrattamenti usati verso le
nostre genti furono degni e conformi all'indole dei component! Tor-
da selvaggia.
Si trasportano intanto tutti i miei effetti alia residenza del Visir,
e veggo successivamente depositarsi le armi, le casse, le prowiste,
non che Tavorio di proprieta del Governo; gli effetti di Biri sono
radunati a Nparo sulla strada di Mruli. II Gnacamatera sta per far
ritorno ; raccomando al mio ragazzo fermezza, e lo consiglio a fug-
gire per portare a Vadelai la notizia che Stanley1 si trova nella
regione meridionale del lago Alberto.
Sono prossime le ore cinque del pomeriggio. Gnacamatera, cir-
condato dai sacerdoti, tenendo un fascetto d'erbe nella mano destra,
grange sul piazzale; suonano i pifferi, squilla una trombetta, rul-
lano i tamburi, sparano i moschetti, e la folia applaude fragorosa-
mente al vincitore.
Gnacamatera, gettato uno sguardo su di me, e visto che aveva
libere le braccia, esce in improperi, ed ordina di legarmi nuova-
mente ; cosa che si fa con grida di gioia da parte de' miei aguzzini.
Mutato il vestito guerresco con elegante abito di stoffa, sorte dal-
1'abitazione, e si asside su un'ampia sedia, adunando ad assemblea
intorno a lui la massa di armati e di popolo.
— Quest'uomo, — disse, accennando a me— inunione coll'altro,
— additando Biri — port6 i Vaganda nel nostro paese ; per causa di
lui furono rapiti i vostri figliuoli e le vostre mogli, furono incen-
diate le vostre case, predati i vostri averi, distrutte le vostre messi.
II re li ha, per questi delitti, colpiti colla sua giustizia, ed affidati
alia vendetta del mio braccio.
Un urlo fragoroso, pieno di minaccie e di convinzioni2 pass6
sul nostro capo: «gobia, goUay traditore, traditore».
II Gnacamatera chiam6 quindi il caporale ; cosa abbia detto a lui,
i. Henry Morton Stanley (1841-1904) aveva partecipato in America alia
guerra di secessione, e, come giornalista, in Africa, alia campagna anglo-
abissina al seguito di Sir Robert Napier (vedi p. 743). Aveva poi [avuto
1'incarico di ritrovare Livingstone. Nel 1886 fu a capo della spedizioiie che
and6 in soccorso di Emin Fascia. II Casati aveva saputo ch'egli si avvici-
nava alia zona, e che aveva gia raggiunto il lago Alberto. 2. convinzioni:
contumelie, ingiurie.
DIECI ANNI IN EQUATORIA 873
non seppi mai. Fatto poi venire innanzi il ragazzo a lui, commu-
nic6, come io dovessi essere scortato a Chibiro, e che Findomani
mi avrebbe inviato tutti i miei effetti. Ordina quindi di sciogliermi
dall'albero; altrettanto si fa per Biri; quattro banassura si impos-
sessano di me, mi legano le braccia ed il collo, e via mi trascinano.
Tento parlare al Gnacamatera per il povero Biri, ma a battiture e a
strappi di corda mi allontanano dal luogo; il mio ragazzo ed il ca-
porale mi seguono.
A ore sette attraversiamo una colonia di Sciuli, e giungiamo
al luogo dove si giustiziano i malfattori ; un recente accampamento
di armati e stabilito tutto all'intorno. Entrati nel recinto, troviamo
i due soldati del Governo colle nostre genti, le quali, mediante
dono dei loro vestiti, ottengono dai banassura che mi sieno levate
le corde. Io sono per loro un morto tornato alia vita, la mia pre-
senza li porta quasi alia gioia e dimenticano le vessazioni sofferte.
II mio ragazzo mi presenta, con nobile pensiero, un po' di carta
ed un lapis che riusci a trafugare nella confusione del saccheggio.
II luogo, in cui ci troviamo, non e di buon augurio; le nuggare
che vediamo sono intrise del sangue dei trucidati; bisogna ten-
tare una fuga. — Non vi ha che questo bosco di spine che non sia
guardato da armati — mi dice il ragazzo di ritorno da un giro di
scoverta. — Ebbene gettiamoci carponi; e via attraverso ad esso,
Detto, fatto; ne sortiamo malconci dal bosco, e ci mettiamo
sulla via; ma presto cadiamo in imboscate tese dai predoni; e im-
possibile difenderci. Abbandoniamo la via, e tra le erbe ci scostia-
mo dal cammino, battuto per lungo tratto, e ci arrestiamo.
II caporale Surur ci ha abbandonato, egli e fuggito. Udiamo
lontano, lontano Feco delle imprecazioni degli armati che hanno
perduto le nostre traccie; ma a poco a poco le voci si disperdono,
e tutto rientra nel silenzio.
Dopo tre ore di sosta riprendiamo la marcia, passiamo la con-
trada di Faragioc, e arriviamo a Chitana, dove, mediante poche
conterie che le donne si tolsero dal collo, possiamo sfamarci con
patate dolci (batata edulis).
A mezzogiorno (io Gennaio 1888) siamo alia sommita della mon-
tagna da cui si vede Chibiro, e rimmenso azzurro del lago.1 Scen-
diamo fino al primo terrazzo; quando ad un tratto, dietro i bur-
roni, lungo i vari sentieri sbucano armati, che prendono posizione
i. II lago Alberto.
874 GAETANO CASATI
tutto all'ingiro. Sono ben un migliaio, banassura armati di fucili,
indigeni con scudo, e lancia. Ci intimano di retrocedere, e al mio
rifiuto reciso, essi gridano, minacciano; non rispondo. Inviati di
Gnacamatera, di Barabra, capo di Giuaia, di Roconcona, capo di
Chitana, mi accusano di essere fuggito, e pretendono di trascinarci
a forza sulla via di ritorno. L'afTare minaccia di finire in modo
tragico - forse e P ultima fase della sciagura che ci ha colto - ogni
esitanza e certa rovina. Raduno la mia gente sbigottita, e risoluta-
mente protestando che, a costo della vita, non ricalcher6 la via per-
corsa, muovo il passo giu per la discesa, e gli altri dietro a me.
Alte grida si innalzano da ogni punto, e gli armati, lasciando le
loro posizioni, balzando di dimpo in dirupo, serrano lo spazio che li
separa da noi, decisi di correre alPaperta violenza; quando ad un
tratto ecco apparire due individui armati di lancia; sono inviati da
Cagoro, il gran capo di Chibiro ; egli reclama la mia persona, e mi
copre della sua protezione, dacch6 mi trovo sul suo territorio.
La folia irrompente si arresta; e noi scendiamo al villaggio, se-
guitati dai nostri nemici, ridotti al silenzio, ma disposti a disputare
la preda.
Cagoro ci da alloggio in comoda abitazione, ci invia due capre,
tre ceste di farina, e del tabacco.
— Prendete ristoro, — ci fa dire — non temete molestia, io non
ho ordini dal re in odio alia vostra persona.
La giornata e la notte trascorrono senza incident! di sorta; il
villaggio e gremito di armati che schiamazzano, e si ubbriacano;
la mia casa e custodita da guardie. Sento da vari capi che ven-
gono a visitarmi le piii strane notizie - io essere stato tradito dai
soldati che erano meco; essi riferire, in nome del Governatore,
cose ben diverse, e contrarie a quelle che io sosteneva in di lui
nome; la proposta dello scambio di sangue1 essere un mio capriccio ;
io congiurare segretamente con Muanga2 a danno del re; Emin
essere perfettamente d'accordo col re, e disapprovare il mio ope
rate; Abd Rehman, il negoziante zanzibarese, Famico di Babe-
dongo, il consigliero di Ciua, avere diretto e presenziato la mia
cattura dalla casa di Gnacamatera; i miei effetti e Tavorio del Go-
verno, essere confiscati, e destinati ad essere inviati a Mruli.
i. scambio di sangue: un'offerta di stringere un legame di sangue, rito di
eccezionale valore presso gli indigeni, era stata fatta al Casati dal re e poi da
Gnacamatera. 2. Muanga: vedi la nota 3 a p. 852.
DIECI ANNI IN EQUATORIA 875
II Visir, alPatto della confisca perpetrata nella mia abitazione,
ai due soldati present! aveva detto : — Voi direte al governatore di
Vadelai che la misura di rigore, che il re mi ordino di compiere, e
reclamata dalla sicurezza dello stato ; il di liii inviato aveva inalbera-
to la bandiera del Governo, e mirava a detronizzare il re, d'accordo
con Muanga; egli ha coperto di sprezzo e di ingiurie il re; egli si
accaparrava Tanimo degli indigeni per spingerli alia ribellione. II
re non intende di rompere 1'alleanza e 1'amicizia che lo legano al
Fascia, ed un inviato verra a Vadelai per confermarla maggior-
mente.
A questo stolto messaggio, bugiardo ed infame, non mancarono
credenti, tanto pu6 un insuccesso influire suH'animo dei tristi, e
dei semplici. E il cencio di bandiera fece un gran chiasso.
Inalberai la bandiera egiziana pendente1 la guerra di Uganda,
e coll'assenso del re accordato a Nparo, quando fui a visitarlo.
Cessate le ostilita, il paese era percorso da bande di Magongo che
dal Baganghese rimpatriavano in quel d'Anfina di recente conqui-
stato ; la poca sicurezza e Tabbandono completo in cui mi lasciava
il re, e le mene che si tramavano a mio danno, mi consigliarono a
tenerla innalzata a mia protezione. La mia decisione, comunicata
al re, ebbe il suo pieno consenso, che mi fu poi confermato dallo
stesso Gnacamatera.
£ alta e massima ofTesa, tra i Vanioro, il rompere Paltrui pipa;
1'ingiuria e presentata al giudizio del re colle parole : « Egli ha de-
turpata o uccisa la mia consorte» - e 1'ammenda, che e decretata,
somma a buon numero di bovi. Se 1'offeso non si acconcia alia sen-
tenza, oppure se i contendenti non intendono deferirsi ad un giu
dizio, ferimenti gravi, e molte volte la morte, ne sono il finale ri-
sultato.
A tale offesa si ricorre il piu delle volte quando, per un qualsiasi
motivo, si vuole attirare alcuno in contese.
II mattino, per tempo (u Gennaio 1888), davanti la mia abita
zione, si disputava vivamente tra una guardia di Gnacamatera, ed
uno dei dipendenti di Cagoro. II banassura aveva arrogantemente,
e di proposito, senza essere stato provocato, levato di bocca, get-
tato a terra, e spezzato la pipa ad un abitante di Chibiro. Animan-
dosi sempre piu Talterco, io mi affacciai alia porta, e subito la
guardia mi invit6 a sedere giudice della loro contesa.
i. pendente'. durante (francesismo e anglismo).
876 GAETANO CASATI
lo, che conoscendo il costume, divinai il tranello, mi scusai alle-
gando di essere sofferente in salute, e pregai, perche mi lasciassero
in pace; poco dopo si allontanarono, e andarono altrove ad assestare
i loro piati.
Verso le ore otto molte guardie si presentano domandando con-
chiglie per comprare birra; getto il mio panciotto, non possedendo
altro; non sono soddisfatti; ma se ne vanno. Poco appresso ci si da
intimazione di partire ; muoviamo seguiti da una folia di armati, che
ci accompagna alia riva del lago, e ci invitano a scendere in due
barche, gia predisposte; nella piccola pretendono che io mi im-
barchi solo, destinando Taltra al mio seguito.
Mi ribello di fronte alFinsidiosa proposta, dichiaro che dovranno
usare violenza; non ceder6 che di fronte alia superiorita di forza;
mi appello ad alcuni capi di Cagoro, che riconosco tra la folia.
Come mandria di bestiame siamo allora spinti, e cacciati al luogo
dove si depura il sale, e ivi lasciati in custodia a poche sentinelle
poste alPingiro, e ad una certa distanza; la massa si ritira, e si aduna
a consiglio davanti la casa del capo del villaggio.
Esposti al sole cocente, senza che ci sia concesso il ristoro di
prendere acqua al lago vicino, le ore si succedono senza portarci
variante di situazione. Verso le ore tre pomeridiane un servo inviato
in cerca di fuoco per distrarci col fumo del tabacco, donatoci la sera
da Cagoro, non fa piii ritorno.
Alle quattro ore due ribaldi di Gnacamatera, i presunti capi della
banda, si awicinano, e si impossessano bravamente di un cesto
contenente pochi vestiti dei due soldati. Una mezz'ora piu tardi
vediamo sfilare sulla serpeggiante viuzza della montagna, e dile-
guare Funo presso Taltro i nostri assalitori.
La rada di Chibiro rientra nella sua abituale monotonia; non
una persona per6 si awicina a noi, i maledetti del re, i colpiti da
ostracismo. Verso le ore cinque il capo mi invia un indigeno incari-
cato di servirci di guida fino al prossimo villaggio.
Arriviamo daTocongia verso le ore otto.Egli ci regala del pesce, e
ci permette di passare la notte in un'ampia capanna. Sebbene tutto
che ci circonda dinoti pace e tranquillita, pure a turno vegliamo
a guardia. Gli awenimenti strani di questi tre giorni si succedono,
e si accavallano nella mente; e in fondo ad essi sempre spunta in-
sistente, e acuto il dolore della perdita delle note di viaggio.
DIECI ANNI IN EQUATORIA 877
Al cantare del gallo prendiamo le mosse (12 Gennaio 1888)
accompagnati da Tocongia, e verso le ore sette del mattino entria-
mo nel villaggio di Ntiabo.
£ Ntiabo una delle mogli del re, e, come vuole Fuso, ha in ap-
panaggio e governa un distretto, che visita ad intervalli, e dove
risiede in date epoche. Nella sua assenza e rappresentata da un
delegate che governa in di lei nome, e che invia le derrate alia resi-
denza della regale signora. II re alle proprie consorti non solo, ma
anco a taluni favoriti assegna territori, piu o meno estesi, in feudi;
egli riscuote dai titolari un canone fisso ed ha 1'assistenza con ar-
mati in occasione di guerre. La governatrice e assente ; essa si trova
a Mruli presso lo sposo. Siamo accolti con indifTerenza e tema;
forse sanno della sentenza che ci ha colpito, e ci sfuggono quali
appestati.
Tocongia ci procura una guida, la quale ci lascia nelle prime
ore del pomeriggio dal capo Capidi, un pezzo d'uomo alto, grosso,
storpio del piede destro, un chiaccherone faceto, e astuto. Gli
chiedo di istradarmi pel paese di Bochi, non rifiuta apertamente,
ma si schermisce, allegando mancanza di gente fidata, e mostran-
domi la sua impotenza a fare lungo viaggio. Ci somministra per6
di che nutrirci, e la giornata scorre in apparente tranquillita. Ma,
poco dopo il tramonto del sole, giungono due messi di Gnacama-
tera, i quali raccontando i miei delitti ed il conseguente decreto
del re, riassumono la nostra sentenza col motto: «N6 cibo, ne
stradaw. - L'awenire ci si presenta a colori piu che mai foschi, il
feroce despota non lascia la sua preda.
Scortati da Capidi e da due suoi fidi (13 Gennaio 1888), costeg-
giando la sponda del lago, ci fermiamo poco prima di mezzogiorno
di fronte ad un isolotto, residenza di Melino, uno dei piu temuti
capi dei Magungo. Egli vuole che mi rechi alia sua dimora, ma non
mi sembra conveniente ai nostri interessi. Ci fa attendere per piu
ore, ed infine ci concede di proseguire, accompagnati da due guide.
Alle ore quattro entriamo in un piccolo villaggio, governato
da certo Amara, ma fatti pochi passi gli indigeni, in massa, si av-
ventano contro di noi minacciosi, intimandoci di retrocedere. Le
guide ci abbandonano, Timbarazzo cresce,i forsennati dalle minac-
cie passano ai fatti, ed al grido, «n6 cibo, ne* strada», a colpi di ba-
stone ci cacciano fuori strada, verso i boschi ; ci seguono per buon
tratto, quindi ci lasciano.
878 GAETANO CASATI
Rinfrancati gli animi sgomenti pel brusco congedo, attra verso
le erbe e gli sterpi, riguadagniamo la via del lago, e verso il tra-
monto ci troviamo dinanzi ad tin agglomeramento di meschini
abituri.
Mando a parlamentare uno dei soldati, in un col mio ragazzo, die
parla discretamente la lingua degli indigeni, e, tollerandolo gli abi-
tanti, ci accampiamo poco lungi dalle capanne.
Durante la notte, a nostra grande sorpresa, ci viene servito un
gran piatto di fagioli; ringraziamo di cuore il generoso anfitrione.
Una giovane dinca, sfuggita alle sevizie di un egiziano impie-
gato del Governo dell'Equatoria, e qui sposa al figlio del capo del
villaggio, amata per la sua bonta, e per attivita nelle domestiche
incombenze. Essa ci assicura della benevolenza del proprio ma-
rito, e del padre di lui, e ci da la preziosa notizia che il giorno 1 1 il
Fascia e giunto in Tunguru1 coi due piroscafi.
II coraggio riprende lena, tutti fanno promessa di ubbidienza,
e la speranza ci concilia ad un placido riposo.
II capo Melino, radunato grosso numero di armati, era giunto
durante la notte (14 Gennaio 1888). All'alba, convocati i capi dei
dintorni, bandi un'assemblea che decidesse sulla nostra sorte. I
piu arrabbiati volevano la mia morte immediata, gli altri porta-
vano opinione che fossimo scortati fino al villaggio di Roc6ra,
alia sponda del Nilo Vittoria. Dopo infinite discussioni, rotte da
vivaci contese, i due partiti, non trovando una soluzione che sod-
disfacesse al desiderio generale, votarono la nostra espulsione dal
territorio; e, dato mano a delle verghe, ci cacciarono sulla via.
I nostri persecute ri si stancarono per6 ben presto, e le file dei
furiosi poco per volta si diradarono. Rimanemmo soli.
Camminiamo per circa due ore, poi, deviando, si fece sosta in
una palude difficile, e fuori di mano. Qui ci consultammo sul da
farsi, e si convenne essere urgente procurarci una barca, per attra-
versare il lago, ed arrivare a Tunguru per chiedervi soccorso.
Dopo lunghe ricerche ci venne fatto di rinvenire una barcaccia
in deplorevoli condizioni, e per di piu senza remi. Ma il coraggioso
Fadl, un arabo di Dongola, non esit6 ad assumere il difficile in-
carico.
Usciti dal nascondiglio dopo il tramonto del sole, e camminando
i. Tunguru: il paese sorge sulla riva occidentale del lago Alberto, ed e per-
ci6 nella zona opposta a quella in cui si sta svolgendo la fuga del Casati.
DIECI ANNI IN EQUATORIA 879
fra pantani, sprofondando a ogni tratto nelle buche fatte dalle
zampe degli ippopotami, fra le alte erbe, cacciandoci fra roveti e
carme, ora deviando per comparsa improwisa di grossi anfibi, ora
coricandoci impauriti alia vista di coppie di bufali, ci riducemmo,
verso mezzanotte, ad una piccola elevazione, in prossimita del lago.
Acqua a sazieta tenne luogo di nutrimento.
Due servi dell'infelice Biri ci avevano raggiunto (15 Gennaio
1888) per istrada, e si erano accompagnati a noi. lo aveva accennato
aH'opportunita che essi, durante la notte, si recassero alia casa ospi-
tale della donna dinca, per ottenere da lei un po' di cibo. II luogo
non distava di molto ; le genti di Melino e di Amara avevano sgom-
brato dal territorio ; essi si rifiutarono.
AlFalba, in lontananza, scorgiamo quattro barche, che si dispon-
gono alia traversata del lago; sarebbe una buona occasione per noi,
forse la nostra salvezza; ma Hurscid, il soldato circasso, ha i piedi
gonfi e piagati, cammina a stento, ed a me non basta il cuore di
abbandonarlo.
La nostra situazione diventa sempre piii grave ; lo scoraggiamento
va impadronendosi dei cuori degli infelici compagni ; tutti sono nel
massimo cordoglio, ad eccezione del giovinetto Oachil.
Spunta il sole suH'orizzonte, ci ricacciamo fra gli ambasc1 ed i
canneti in cerca di radici da succhiare; quand'ecco grida ed urli
selvaggi ci avvisano delPapprossimarsi di nuovi persecutor!. Stormi
d'armati d'ogni lato vanno battendo il terreno, come usasi fare nella
caccia della selvaggina, serrando sul luogo dove ci troviamo nascosti
al grido di: ((magiungo, magiungo, il forestiero, il forestiero)).
Esco dal nascondiglio, e mi presento ai Magungo; essi sono irri-
tati per la scomparsa della loro barca; ma il loro sdegno diminuisce
vedendo ch'io non sono altrimenti partito. La mia gente che si era
sbandata ritorna.
Le imprecazioni e le minaccie cambiano di tono, ma non cessano;
le piu strane proposte sono agitate; prendersi le donne ad inden-
nizzo del danno sofTerto, legarci e condurci dal capo Melino, finire
ogni cosa con una vendetta meritata. Discutendo, facendo pro-
messe, lasciando intravedere un probabile pericolo, arrivo ad am-
mansare parecchi fra i maggiorenti, e la massa conchiude colla ri-
soluzione che usciamo, sotto scorta, dal territorio.
Lieto di essere scampato anche questa volta senza danni, stretto
i. ambasc: vegetazione del tipo delle erminiere.
880 GAETANO CASATI
la mano a taluni fra gli anziani, lentamente ci drizziamo per 1'erta
d'una collina. Camminiamo circa due ore, poi le guide ci lasciano
in prossimita di un villaggio, abitato da genti Lur e Lendu.
Essi non ci vogliono, ma, nello stesso tempo, non ci lasciano li-
beri; domandiamo commestibili, ce li mostrano, ma poi ci deri-
dono, e li ritirano; percuotono un ragazzo, faccio rimostranza, mi
regalano una bastonata. Si radunano in consiglio, ed il capo, senza
soverchio dire, propone di ammazzarmi.
— Macama1 — dice egli — ha ordinato che sia ucciso da Rocora
al di la del fiume; tanto fa che noi ci sbrighiamo di lui oggi;
e assai facile trasportarne il cadavere, e ci togliamo la noia di avere
tutto giorno rompicapo per cagione sua, e di incorrere con tutta
probabilita nella disgrazia sovrana. — Tale risoluzione mi viene tra-
dotta dal servo di Hurscid, che conosce la lingua dei Lur.
Mi avanzo, allora, verso il gruppo degli indigeni.
— Se voi — dico, rivolgendomi alPoratore — avete il coraggio di
mandare ad effetto la vostra proposta, avanzatevi, io sono pronto.
Ma ricordatevi voi tutti che il re vi ha ordinato di inviarmi al
paese di Roc6ra, e che una disubbidienza pu6 provocare misure
di punizione sul vostro villaggio.
— No, no, — gridarono in coro — noi non vogliamo uccidervi.
— Ebbene, allontanate queiruomo che vi ha fatto una proposta
ingiusta, e poi parleremo.
Grida unanime di disapprovazione eccheggiarono sul capo del
matungoli? che stim6 prudente di andarsene.
Un giovane che balbettava un poj di lingua araba, e che aveva
prestato servizio, quale interprete, con Mergian Aga Danas-
suri, gia comandante della stazione egiziana di Magongo, si presta
a servirmi d'intermediario coi Lur, e ottiene ch'io sia lasciato libero,
pur che mi obblighi a prendere via verso Rocora. Le mie genti mor-
morano, protestano, esse mi credono impazzito. Li incoraggio il
meglio che posso, li esorto ad avere confidenza; se vi sara una via
di salvamento, sapr6 trovarla. Ci trasciniamo lentamente; le genti
sono rifmite di forze, il digiuno prolungato ha rotto il vigore delle
membra, e scosse le fibre deiranimo.
— L'anima umana non muore, se non col permesso di Dio —
dico al musulmano Hurscid, che piu di tutti e agitato da dolorosa
sfiducia. Egli mestamente sorride, crollando il capo; il suo volto
i. Macama: vedi la nota i a p. 864. 2. matungoli: vedi p. 858.
DIECI ANNI IN EQUATORIA 88l
e triste e inaridito, come la brulla natura che ci circonda. Poche
bacche selvatiche di un arboscello spinoso, secche e rossiccie, disse-
minano la piccola carovana; ma Paviditk e presto interrotta. II
bruciore che producono alia lingua ed al palato aumenta le nostre
sofferenze.
Gli uomini armati che ci accompagnano ci invitano a sollecitare
la marcia; li prego ad avere pieta; man mano che inoltriamo, Pul-
timo raggio di speranza si dilegua; fra un paio d'ore saremo in po-
tere di Roc6ra, la meta del nostro pellegrinaggio al martirio.
Saliamo in silenzio 1'ultimo colle che ci separa dal Nilo, e ad un
tratto vediamo gremirsi il ciglio di armati. Prego il giovine inter-
prete a precederci, e dire a quella turba, che noi non opponiamo
difficolta, che siamo rassegnati a scendere al fiume, che abbiano
per noi almeno la compassione di non aumentare la trepidazione, gia
forte, negli animi nostri.
Egli promette, e parte. Un vivo disputare, voci alte e tonanti,
gesta minacciose, un andirivieni di armati, e uomini accorrenti da
ogni sentiero, sbucanti dalle erbe, e dietro i cespugli; e poco dopo
un disperdersi pronto, improvviso, una fuga generale.
Che e awenuto? II giovine interprete ritorna a noi trepidante
per gioia. — II vapore, il vapore! — grida scendendo dal colle, e indi-
rizzandosi a noi ; e ci spiega come siasi diffusa la novella che il pi-
roscafo del Governo sia comparso sulle acque del lago, e che in-
drizzi le sue prore a noi. Le guide che sono con noi, senz'altro si
danno a fuggire, il bravo interprete ci addita la via pel lago, e ci
lascia.
Gli ultimi raggi del sole che precipita ci invitano a sollecitare la
marcia. Spossatezza, fame, sete, tacciono come per incanto. Mano,
mano che scendiamo, tutto all'intorno si scorge un affaccendarsi
insolito degli abitanti, portanti masserizie, prowiste di cibarie, cac-
cianti innanzi loro mandrie di capre. Essi non si curano di noi, la
loro ferocia del mattino si e ecclissata; interroghiamo taluni di essi,
e per tutta risposta, affrettando la fuga, angosciosamente ci gri-
dano : — Vapore, vapore! —
Che il piroscafo sia sul lago, che la salvezza nostra sia proprio
per compiersi?
Spingiamo lo sguardo, ma il buio della notte si stende impene
trable intorno a noi. Rinati alia vita dopo angoscie prolungantesi
56
882 GAETANO CASATI
ad agonia, fatti forti dalla speranza, dimentichi delle passate scia-
gure, scherzando sulla paura che ha invaso i cuori dei baldanzosi
nostri persecutor! , giungiamo verso le ore undici della notte alia
riva del lago, e ci sediamo sulla punta sabbiosa che abbiamo fissato
a luogo di ritrovo con Fadl.
Dissetati a volonta nelle terse onde dal fondo arenoso, confortati
da un fuoco crepitante, procuratoci dalle case abbandonate del
vicino villaggio, ci addormentiamo nel tranquillo silenzio delle te-
nebre, colla certezza di un domani sorridente.
Brillano tuttora le stelle in cielo, e gia I'impazienza ci fa trovare
ritti alia spiaggia del lago, gli sguardi intenti al lontano orizzonte
occidental in cerca di un punto nero ; il sole sorge in tutto il suo
splendore dietro noi; poche barche di paurosi, fuggenti alle isole,
guizzano dalle nascoste insenature della spiaggia. II lungo attendere
ci riduce a silenzio, ci ritorna a tristi pensieri, il digiuno domina il
sentimento. Faccio raccogliere erbe acquatiche, che i neri usano
nei giorni di fame ; si mettono a fuoco in un ampio vaso tolto dalle
case del villaggio.
— Se a mezzogiorno il piroscafo non sara giunto, noi costruiremo
un'ampia zattera di ambasc, e ci affideremo alle onde; Poperazione
sara facile, giacche gli indigeni spaventati e fuggiaschi non ci distur-
beranno.
Verso le ore nove un grido interrompe la folia dei pensieri che
arrovellano la mia mente; si e vista una linea di fumo alljorizzonte;
si scorge la ciminiera del piroscafo ; si avanza, si presenta in tutta
la sua pienezza, si dirige al segnale che noi abbiamo innalzato, il
fazzoletto a colori bianco e rosso del povero Hurscid, fissato ad una
lunga asta. Lo sguardo di tutti e fisso, penetrante; il vapore si ar-
resta, e incerto sul cammino, si impicciolisce nelle forme, si allon-
tana sempre phi, scompare alia vista. Un grido angoscioso, di di-
sperazione, schianta dai petti de5 miei infelici compagni; invano
10 tento persuaderli che il piroscafo va scandagliando per una
rotta sufficiente in profondita; il magro pasto e interrotto, e cupi,
e mutoli, accovacciati, il capo inclinato sulle ginocchia, strette
dalle mani ricongiunte, i miseri offrono miserando spettacolo alia
vista.
Mi allontano da loro, facendo voti che tale stato di sofferenza
11 sollecito ricomparire del piroscafo abbia a rendere di breve du-
DIECI ANNI IN EQUATORIA 883
rata. Un'ora dopo, il Kedive1 ricompare. Precede con sicurezza, e
con buona velocita. Lo salutiamo coll'agitare del nostro stendardo ;
esso ci risponde col fischio di saluto, e noi replichiamo con gride
clamorose.
Da fondo a breve distanza; una barca ci conduce a bordo. Emin
Fascia, e molti degli uffiziali e degli impiegati erano venuti a rac-
coglierci piii per pietoso ufficio, che per certezza di riuscita. La gioia
della insperata salvezza ammutoliva tutti quasi a senso sconosciuto ;
e la paura, a gradi, andava trasformandosi ritrosa, e dubbiosa, come
in gente . . .
. . . che con lena affannata
uscita fuor dal pelago alia riva,
si volge aWacqua perigliosa, e guata.2
i. Kedive: e il nome del piroscafo. II generale Gordon fin dal 1875 aveva
disposto che fossero trasportati a Dufile i vapori Kedive e Nyanza. Con enor-
mi difficolt£ i due piroscafi, scomposti, trainati a forza di braccia per buona
parte della strada, collocati su barconi dove il Nilo permetteva la naviga-
zione, ricostruiti infine dopo la cascata di Fola, giunsero al lago Alberto.
Cosi, nel 1876, il colonnello Mason aveva potuto compiere sul Nyanza la
circumnavigazione del lago. 2. Dante, Inf., I, 19-21.
LEOPOLDO BARBONI
PROFILO BIOGRAFICO
LEOPOLDO BARBONI nacque a San Frediano a Settimo (Pisa) il
5 febbraio 1848. La sua attivita fu quella di un insegnante: dopo
aver tenuto cattedra di lettere in varie citta della Toscana, di-
venne preside e infine proweditore.
Fu la sua stessa professione a condurlo a Trapani, dove poi, or-
mai pensionato, chiuse la sua vita nel 1921, in una villetta non
lontana da quei luoghi che gli sembrava risonassero ancora delle
gesta garibaldine. Ma, in realta, quando si ripensi a lui attraverso
i suoi scritti, non lo si concepisce se non sullo sfondo della Toscana
nella seconda meta delPOttocento, soprattutto in quell'ambiente e
tra quegli scrittori e letterati che segnarono in Firenze lo spegnersi
delFultimo sprazzo di predominio culturale toscano venuto a coin-
cidere con la conclusione del Risorgimento. £ vero che gli furono
cari anche il De Amicis e il Carducci, entrambi, in diverso modo,
staccati da'i confini della cultura e della tradizione toscana: ma,
in realta, si sentl legato a loro piu da un moto affettivo del suo
animo facile alia simpatia, che da un'affinita ideale o da vera
comprensione. Dell'uno non intese se non le prime espressioni, e
rest6 sordo ai successivi interessi sociali, ch6 rimase conservatore
ed ebbe a noia il profanum vulgu$\ dell'altro gli piacquero soprat
tutto le rivendicazioni patriottiche e anche la rinomanza cui era
salito. I suoi veri legami furono col Guerrazzi, di cui si fece un
mito, ma sentendone soprattutto Fimpetuosita verbale: ch6, se il
Barboni fosse stato anch'egli sulla scena fiorentina nell'aprile del
'49, probabilmente avrebbe inveito, sotto il palazzo della Si-
gnoria, contro il « dittatore ». E piu ancora, senza che ne avesse
piena coscienza, era vicino ai dotti minori del tempo, F abate
Manuzzi, il conte Passerini, Augusto Conti, Marco Tabarrini, il
vecchio Centofanti a Pisa e lo stesso Pietro Fanfani, che pure
dileggia nei suoi scritti. Nonostante quell' apparenza di scapi-
gliatura cui sembra essersi abbandonato, e di cui segna il ricordo
nelle pagine sullo scapigliatissimo Ettore Strazza e negli accenni
a Emilio Praga e a Iginio Ugo Tarchetti, il Barboni rimase intima-
mente ancorato alle tradizioni, letterarie e di costume, della vecchia
Toscana f ra granducale e risorgimentale : gli piacquero le arguzie
e le burle, le allegre risate, il quieto vivere e lo svagato conversare,
888 LEOPOLDO BARBONI
I'aneddoto piccante e le memorie locali, le figure di Niccol6 Puc
cini, estroso signore del Villone, e del magnifico canonico di Pra-
to, Francesco Pacchiani. Brillava di entusiasmo per un sonetto
salace, dalla chiusa indovinata, scritto li per li sul tavolo di un
caffe e si doleva non lo si potesse tramandare ai posteri perche
osceno; si rigirava tra le labbra, godendone, le voci piii decisa-
mente locali, le andava anzi a cercare, non gia per una meditata
adesione alle dottrine del Manzoni, ma per quel gusto un po' cam-
panilistico che si sentiva intorno ; esaltava con sincerita, ma anche
trasformandoli in tante apoteosi da litografie, le glorie e gli eroi del
Risorgimento, i sapientini di Curtatone e Giovanni Nicotera, Gari
baldi e Vittorio Emanuele. II suo stesso anticlericalismo era un
moto passionale e incontrollato, senza effettive radici. Delle voci
nuove e dei piu vasti pensieri e degli orizzonti piu ampi che sorge-
vano in Firenze e in tutta P Italia, non si accorgeva: i tempi lo sor-
passavano ed egli restava fermo in un suo mondo concluso. Anche
per questo e rimasta tanto scarsa notizia di lui, della sua vita, e tanta
polvere intorno alle sue opere. Pochissimi si accorsero della sua
morte. Era uno scrittore minore, come scrisse il Pancrazi, di quelli
che « anche una "persona colta", un letterato o un critico, possono
ignorare o dimenticare senza vergogna».
Cominci6 la sua attivita letteraria con un romanzo, Tecla Gua-
landi, storia del secolo XIII, pubblicato nel 1869: un romanzo sto-
rico, quando gia quel genere di composizioni tramontava. Lo
mand6 al Guerrazzi e ne ebbe delle lodi : ma anche il Guerrazzi lo
ammoniva che quei lavori erano divenuti afrutti fuor di stagione»,
e si occupasse piuttosto « degli uomini e dei tempi presenti».
Sembro, per un istante, dargli ascolto, che 1'anno dopo uscirono i
suoi Pensieri sulla storia: ma poi torn6 agli antichi amori e fu un
diluvio di romanzi storici : Bona di Savoia, storia del secolo XV, nel
1872; La confessione, romanzo storico del secolo XVII, nel 1873;
Coscienza di re [Luigi XV], storia del secolo XVIII, nel 1875; H
conte Ugolino della Gherardesca, romanzo storico del secolo XIII, nel
1891 : e non li abbiamo ricordati tutti. Una passione inguaribile, di
cui n<§ il Manzoni ne il Guerrazzi hanno colpa, se non come il Pe-
trarca e il Carducci dei petrarchisti e dei carducciani.
Pure, sotto quella tenace costanza stava un interesse sincere : il
desiderio di conservare e ricordare il passato, di farlo rivivere, di
mettervi dentro i propri sentimenti e le proprie idealita. Un lievito
PROFILO BIOGRAFICO 889
insufficiente per ridestare secoli lontani, quando a lui mancavano
vigore fantastico e la stessa capacita architettonica : ma che divenne
vivace e operante appena egli si rivolse ai propri ricordi e li Iasci6
riapparire in costruzioni di non grande respiro, un po' intrecciati
fra loro come se venissero fuori da una di quelle conversazioni fra
amici cui doveva essere abituato. Nacquero cosi i suoi libri di
memorie: Sul Vesuvio (1892), ascensione tragicomica al cratere
del vulcano; Fra matti e savi (1898); Col Carducci in Maremma
(1906); e, migliore d'ogni altro, Geni e capi ameni delVOttocento,
pubblicato nel 1911, ma gia anticipato, in varie sue parti, da arti-
coli su giornali.
Quest'ultimo e il solo dei suoi libri che ottenne convinti elogi.
Veramente, il Pancrazi Iod6 anche il paesaggio e il ritratto da lui
disegnati, nella rievocazione della Maremma carducciana (G. Car
ducci e la Maremmd), e piu ancora il giro trionfale fatto nelFottobre
del 1885 col poeta fra una folia festosa di autorita e contadini, e quel
rapido schizzo della supposta « bionda Maria » che ne e il culmine
e 1'anima (Col Carducci in Maremma). Ma in quegli scritti spunta
troppo spesso il sottinteso elogio di Enotrio romano, «il Giove
olimpio)), com* egli diceva, « della nuova letter atura », e le mac-
chiette fuciniane si mescolano a volte con una volonta di apoteosi,
come il linguaggio festevolmente popolaresco con le intonazioni
letterarie.
Ma di Geni e capi ameni delVOttocento, invece, oltre che il Pan
crazi, disse bene anche Ugo Ojetti, mostrandone la briosita sempre
crescente: e finanche il « Giornale storico della letteratura italiana »,
che pure con un certo sussiego e severe limitazioni («scritto da
persona che e poco in grado di formulare giudizi di critica lettera-
ria») ne riconobbe la « vivace festevolezza toscana e 1'efficacia e
proprieta di lingua ».
Certo, al Barboni mancarono le qualita del vero scrittore. Se per
un istante lo si accosta a Ferdinando Martini, le pagine di memorie
dell'uno a quelle dell'altro, si avverte subito il diverso respiro: e
pu6 venir fatto di chiamare «nenie» quelle del Barboni, come le
disse il Martini in un momento d'impazienza. II capitolo sul Guer-
razzi, ad esempio, e tutto un frantumarsi di aneddoti, con troppo
frequenti deviazioni e ritorni: la sua prosa non riesce unitaria di
tono, passa dal felice fondo fiorentino e simpaticamente narrative
a impennate enfatiche e letterarie, a spunti epigrafici, a ventate
890 LEOPOLDO BARBONI
polemiche, con una ostentata volonta di brio. In un'analisi stilistica,
questo e gli altri capitoli del libro mostrerebbero Pincontro, e non
gia la fusione, di elementi guerrazziani, carducciani e finanche
deamicisiani entro un prevalente tessuto di lingua parlata: e an-
che questo fiorentinismo apparirebbe a volte insistentemente cer-
cato. Difetti, certo: e ancor piu evidenti, ad esempio, nelle pagine
su Giovanni Nicotera. Tanto che vien fatto di dubitare di quanto
scrisse il Pancrazi a proposito del capitolo sul Guerrazzi, che gli
sembro disegnare un ritratto certamente affettuoso, ma anche «di-
vertentissimo, dove son misti e temperati tra loro, e il suo [del
Barboni] entusiasmo di ragazzo, e le sue riserve, i suoi dubbi di
uomo»: dubitare, intendo dire, che il Barboni avesse pienamente
coscienza di questa diseroizzazione del suo idolo, o non sia essa,
piuttosto, una conclusione del lettore.
Ma, detto tutto ci6, ritengo indiscutibile che questo libro me-
riti di non essere dimenticato. II godimento che prova il Barboni
nel ricordare e cosi vivo, e sinceramente vivo, che non pu6 non
comunicarsi al lettore. Dalle sue pagine, con quei ritratti agilmente
sbozzati, del Guerrazzi, del contadinello che introduce il visitatore
alia Cinquantina, del popolano Giuseppe Pasquali, di Ettore Straz-
za, del « f anfano » Pietro Fanfani, dello Strazzera, per citare dai ca
pitoli che abbiamo riprodotti, del Cento fanti, del Rosini, del ser-
gente Masi, del Byron, di Niccolo Puccini al Villone, del canonico
Pacchiani, per alludere agli altri ; dalle sue pagine vien fuori, co-
lorita e sicura nelle linee, I'atmosfera del tempo, con i suoi entu-
siasmi e le sue miseriuole, la sua intelligenza e le sue incredibili
sordita. Veramente il Barboni ha raggiunto in questo libro, pur
entro i suoi limiti, ci6 che desiderava: far rivivere un periodo e gli
uomini insieme con esso scomparsi.
Delle opere di LEOPOLDO BARBONI ricordiamo anzitutto i romanzi: Tecla
Gualandi, storia del secolo XIII, Pisa, Vannucchi, 1 869 ; Bona di Savoia,
storia del secolo XV, Firenze, Galletti e Cocci, 1872; La confessione,
romanzo storico del secolo XVII, Milano, Battezzati, 1873 e, in n ed., ibid.,
1874; Coscienza di re, storia del secolo XVIII, Napoli, Nobili, 1875; Mar-
tirio di una donna, Firenze, Tip. della « Gazzetta d' Italia », 1876; La cogna-
ta di papa Innocenzo X, Livorno, Grazzini, 1886; // Conte Ugolino della
Gherardesca, romanzo storico del secolo XIII, Roma, Perino, 1891; Prima
del femminismo, romanzo storico, Livorno, Giusti, 1913. Al saggio Pensieri
sulla storia, Pisa, Valenti, 1871, che abbiamo ricordato, si pu6 aggiun-
PROFILO BIOGRAFICO 091
gere Spagnolismo femminino in Italia, Livorno, Meucci, 1888: entrambi di
scarso interesse.
Per i suoi scritti di narrazioni, ricordi e memorie, si vedano: Fra le
fiamme del Vesuvio (racconti), Geneva, Sambolino, 1882; G. Carducci e la
Maremma, Livorno, Giusti, 1885; Sul Vesuvio, Livorno, Giusti, 1892;
Fra matti e savi, Livorno, Giusti, 1898; Col Carducci in Maremma, n ed.,
Firenze, Bemporad, 1906; Geni e capi ameni deW Ottocento. Ricerche e
ricordi intimi, Firenze, Bemporad, 1911. Numerosi sono i suoi libri per
ragazzi e le antologie, tra cui citiamo: Antologia ricreativa delta prosa e
della poesia italiana, ad uso delle scuole, Livorno, Giusti, 1898, e poi, via
via, in vn ed., ibid., 1920; Patria: viaggio in automobile traverso ly Italia,
Firenze, Bemporad, 1906; Mucillaggine in Sicilia: viaggio in automobile
traverso V Italia, ibid., 1908; A frullo per Valta Italia, ibid., 1909; Pagine
divertenti, bozzetti e novelle, raccolti da LEOPOLDO BARBONI, Bologna,
Zanichelli, 1911; * Patria y> in Libia: racconti per la gioventu, Firenze,
Bemporad, 1914. Si tenga presente che alcuni dei suoi scritti apparvero,
in primo abbozzo, in giornali e furono poi rielaborati e raccolti in volume.
Pochissime le notizie su lui: solo qualche cenno nell' Ottocento di G. MAZ-
ZONI, brevi notizie in A. DE GUBERNATIS, Dictionnaire international des ecri-
vains du monde latin, Rome-Florence 1905-1906, un breve cenno in L.
Russo, Inarratori, Milano-Messina, Principato, 1951, p. 76, e in B. CRO-
CE, La letteratura della nuova Italia, VI, Bari, Laterza, i9452> P- 35- Pagine
scelte di lui, con breve introduzione, diede P. PANCRAZI ne I Toscani del-
r Ottocento, Firenze, Bemporad, 1924, e in Racconti e novelle delV Ottocen
to, Firenze, Sansoni, 19433, i, pp. 615 sgg. I due saggi piu impegnativi sul
Barboni si debbono a U. OJETTI, Scrittori che si confessano, Milano, Tre-
ves, 1925, che prende occasione dalla citata raccolta dei Toscani dell' Otto
cento, e a P. PANCRAZI, in Ragguagli di Parnaso, nuova ed., Bari, Laterza,
I94I, PP- *5-20> ein Scrittori d'oggi, serie prima, Bari, Laterza, 1946, pp.
241-6. II cenno bibliografico anonimo (ma di Rodolfo Renier) che abbiamo
citato, si trova nel «Giornale storico della letteratura italiana », Lix (1912),
pp. 459-60.
DA (cGENI E CAPI AMENI DELL' OTTOCENTO»
RICERCHE E RICORDI INTIMI
IN VILLA DA F. D. GUERRAZZI1
La prima volta che lessi la Battaglia di Benevento2 avevo quattor-
dici anni.3 La leggevo la sera, a voce alta, appassionata o fiera, a
seconda dei tratti, seduto accanto a una bella biondina che ne aveva
qulndici; una romantica sfegatata che non faceva se non sognare
a occhi aperti usignoli, chiari di luna, zeffiri, grilli mori, e una bar-
chettina in Arno trasportata placidamente dallo scorrer dell'acqua,
senza bisogno di remi. Melensaggini isteriche!
Fu in questo mo do che il Guerrazzi mi si ficc6 di furia nella
mente e nel cuore. Jole, Ruggiero, Ghino di Tacco ; tre figure che mi
perseguitavano ovunque con sospiri e gemiti e grida furenti che
non mi davano pace ne giorno n6 notte. Dopo la Battaglia, divorai
tutto cio ch'era uscito dalla vena di quel potentissimo ingegno, e
n'ero siffattamente invasato (il vocabolario non mi da altra parola
per render meglio 1'idea) che non battevo ciglio senza aver meco
VAssedio di Firenze, Veronica Cybo, la Vita del Ferrucci, V Isabella
Orsini, Pasquale Paoli4 od altro.
A me giovinetto, che di codesti tempi mandavano ancora in
delirio le non remote dimostrazioni pei fasti di Palestro e di San
Martino5 e pei prodigi di Garibaldi, e rombavano negli orecchi e
nelPanimo le note delFinno fatidico scritto e composto allora,6 e
commoveva il ricordo della vista di re Vittorio presentatosi la
prima volta al popolo pisano dal balcone del palazzo reale, vestito
da cacciatore, in mezzo a due cani poderosi: e avevo ancora nel
timpano il frizzio per 1'urlo di gioia che lo accolse; a me, dicevo,
quelle pagine roventi e scultorie del gran livornese, quel magnilo-
i. Ed. cit, cap. in, pp. 63-88. 2. Battaglia di Benevento: e il primo ro-
manzo storico del Guerrazzi, e fu pubblicato nel 1828. 3. quattordici
anni'. era, dunque, 1'anno 1862, esscndo nato il Barboni nel 1848. 4. As-
sedio di Firenze . . . Pasquale Paoli: le prime due opere citate, apparse,
rispettivamente, nel 1836 e nel 1839, e cosl pure la quarta, pubblicata nel
1844, sono romanzi, allora assai famosi, del Guerrazzi. La Vita del Fer-
rucci, edita nel 1863, e una biografia patriottica, con finalita risorgimentali ;
il Pasquale Paoli, storia romanzata, apparve nel 1860. 5. Palestro . . .
San Martino: due vittoriose battaglie della guerra del 1859. 6. inno . . .
allora: 1'inno di Garibaldi, scritto da Luigi Mercantini (1821-1872), fu
musicato da Alessio Olivieri (1830-1867) nel 1858.
894 LEOPOLDO BARBONI
quio «d'uomo che tenta rompere il sonno ai giacenti», come osser-
v6 Giuseppe Mazzini,1 « quegli atteggiamenti gladiatorii dello stile »,
come scrisse il Carducci,2 facevano Teifetto d'un vulcano in piena
conflagrazione udito nei suoi rugghii e mirato nei suoi acciecanti
bagliori nei cuor della notte.
Del resto io non avevo ancor visto nemmeno un ritratto di lui,
e mi sentivo divorare dalla smania di conoscere com'era fatto quel
gran mago, che con le sue sfuriate, i suoi periodi superbi, le sue
immagini sfolgoranti non mi dava piu pace.
II 1 6 ottobre del '69 ricevevo a Pisa una lettera proveniente da
Firenze. Sapeva di muschio sopraffino lontano un miglio, e sul
dietro della busta c'erano tre iniziali intrecciantisi : F. D. G.
Ah, Dio dallo stellato soglio! Era lui, era proprio lui, il gran
mago, il consolatore, il martirizzatore, il despota deiranima mia;
il mio inferno, il mio purgatorio, il mio paradiso, tutt'insieme! Mi
ero fatto ardito inviargli un mio libro, e li, dentro a quella busta,
c'era il responso. Quel libro era il mio primissimo peccato3 (non ave
vo mai dato nulla ai torchii, n6 meno il mio viglietto di visita), anzi
un peccataccio lungo la bellezza di 576 pagine, formato reale, un
romanzo storico del secolo decimoterzo, pieno via via di furori e
con certe digressioni biliose sui tempi nostri da formare uno stri-
dente contrasto, come lo formerebbe un guerriero del medio evo con
giustacore e scudo e spadone e, Dio ci liberi e scampi, la zazzera ri-
cinta da quel tegamino che ficc6 in capo ai nostri soldati di fanteria
sua eccellenza il ministro per la guerra, Cesare Ricotti,4 il 1871.
TaPe quale. Sbuzzai la busta col tremito nelle mani; mi ballavano
gli occhi, e mi sentivo come un formicolio nei midollo degli stinchi.
Se ne dicesse corna ? se mi mandasse a tutti i diavoli con qualche
i. Scritti (edizione nazionale), I, p. 77. 2. « Francesco Domenico Guer-
razzi, che nella selvaggia esuberanza delle sue forze e degli atteggiamenti
gladiatorii dello stile e nei vulcanici sfoghi della passione tutti raccolse
gl'istinti d'odio e le smanie di battaglia d'un popolo oppresso » (nei discorso
inaugurale Del rinnovamento letterario in Italia, novembre 1874, ora in
Opere, edizione nazionale, vn, pp. 392-3). 3. il mio . . .peccato: il primo
romanzo del Barboni, intitolato Tecla Gualandi, storia del secolo XIII,
fu pubblicato nei 1869. 4- Cesare Magnani Ricotti (1822-1917), generate,
deputato, senatore, fu ministro della guerra dal 1870 al 1876 e di nuovo
nei 1885. La sua riforma dell'esercito, nota col nome di « Ordinamento
Ricotti», awenne nei 1873, ma i mutamenti delle divise militari gia figura-
vano nei periodico «L'esercito», in data 21 gennaio 1871.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 895
frase delle sue da levare il fiato per quarantott'ore ? Su, via . . . chi
ha paura d'infarinarsi non vada al mulino! E spiegai la lettera.
La quale diceva, e dice, cosi : « Ricevo in questo momento il suo
volume, di cui Le avverto la recezione, ringraziandola del dono.
Mi perdoni se non lo potr6 leggere cosi presto come desidererei,
dacche mi trovo travolto in una lite snaturata che un Sanna,1 be-
stia feroce sarda, muove contro il proprio sangue, ed a me corre
obbligo di salvarlo dai suoi furori. Suo aff.mo F. D. Guerrazzi».
Ah santa lettera, quante volte ti baciai, e come t'incorniciai! Non
tennero tanto sacra i boemi la pelle di Giovanni Ziska,2 ne il
Douglas il cuore del morto Bruce,3 quant'io quella lettera del gran-
dissimo scrittore.
II response non era dunque ancora venuto, ed io stava sulle
spine, e qualche volta anche pensava : « Se, colla testa sottosopra
per la bestia feroce sarda con cui e alle prese, sfogliasse il mio
libro in un brutto quarto d'ora di mal di fegato, e mettesse me
pure fra le bestie feroci, o semplicemente bestie, e, lui ferocissimo,
mi saltasse addosso e mi sbranasse?»
Come Iddio voile, di li a non molto un'altra lettera muschiata e
antidemocratica perfino nella calligrafia (il Guerrazzzi aveva un
caratterino elegantissimo, e tale da meravigliare in un uomo che
tanto e poi tanto scrisse) mi giungeva da Livorno. Cominciava con
un « Mio caro giovane », che mi scese diritto diritto al cuore come
una voce paterna ; conteneva espressioni onestamente franche e in-
sieme benevole, e concludeva: « Su, da bravo; i romanzi storici di-
vennero frutti fuor di stagione ; si occupi degli uomini e dei tempi
presenti. Stia sano, ed abbia grato.l'amore col quale io La prosegui-
r6 sempre nei suoi studiw. E, al solito, un « affezionatissimo » che
valeva un tesoro; e questa volta senza ne" meno Fabbreviatura.
Ero fuor di me. Ma a farmi un tiro anche piu scellerato, «La
i . un Sanna : il nipote del Guerrazzi, Francesco Michele, aveva sposato una
Amelia Sanna. 2. Giovanni Ziska (1360-1424) fu a capo degli Ussiti.
Per vendicare Huss (vedi la nota i a p. 624), sollev6 i Boemi contro Timpe-
ratore Sigismondo e, sconfittolo, si fece riconoscere re di Boemia. 3. Dou
glas . . . Bruce: si allude al romanzo storico Castle Rackrent (1800) di
Walter Scott, in cui lo scozzese James Douglas, postosi al servizio di
Robert Bruce, Hber6 con lui la Scozia dagli Inglesi, onde Robert divenne
re di Scozia (1314). Morto Robert, il Douglas ne raccolse in un'urna il
cuore, che avrebbe dovuto portare a Gerusalemme: e aveva con s6 Furna
quando cadde (1330) combattendo in Andalusia contro i Mori.
896 LEOPOLDO BARBONI
Nazione», autorevole e grave giornale fiorentino, fondato sulPalba
del nostro risorgimento politico dal ferreo barone Bettino Ricasoli,1
mi faceva, nel suo numero del 25 gennaio 1870, impallidire di sug-
gezione scrivendo di quel mio primo peccataccio: «£ un lavoro
storico e classico, genere che, a mente nostra, ha fatto il suo tempo
in Italia dopo il Guerrazzi, e anco con lui . . . Se Pautore non su-
pera il suo quarto lustro » (avevo messo le mani avanti, riportando
nel frontespizio la sentenza di Focione:2 « All5 eta di vent'anni si
possono senza vergogna ignorare di molte cose»), «la sua modestia
ci permetta dirgli che vi sono pochi che in tanta gioventu sappiano
cio che egli mostra di sapere, e come egli scrive scrivano». E piu
sotto una vampata laudativa cosi maiuscola, che quando ci penso mi
vengono i brividi. Diceva : « NelPinsieme, Popera del signor ecc.
ecc. farebbe onore ad uomo gia provato nella dura palestra delle
lettere; ad un giovane basta a segnarli la meta piu alta che possa
desiderarsi ».
Grazie dal cuore di tanta cortesia. Del resto, a differenza di certi
giovincelli d'oggi, scribacchiatorelli, molto citrullini e fetenti di
pappa infortita,3 non me ne gonfiai. Ma che! quel presentarmi al
pubblico con quella po' po' di smanacciata4 mi condann6 a secon-
dare piu che mai Pindole mia di selvatico, e mi tappai in casa a
doppia mandata di chiavistello. Certo, il benevolo autore di quella
lode sara stato mosso dal sentimento delPincoraggiare. Grazie an-
cora una volta.
E ritorno al gran mago.
Dopo le prime due, continu6 una discreta processione di lettere.
Passarono mesi e mesi ; io aveva dato a luce altre panzanelle piu o
meno indigeste, egli, bonta sua, si era piaciuto accoglierle con buon
viso, e la brama di conoscerlo si faceva in me sempre piu irresisti-
bile. Ma invece d'andare io a lui, egli venne a me: in effigie, s'in-
tende. Una busta soavemente profumata, immacolata, non sgual-
cita agli angoli, quasi la posta avesse indovinato, mi portava la
fotografia del grand'uomo, e dietro al cartoncino era, ed e, scritto :
i. «jL<2 Nazione*: vedi la nota 2 a p. 443; Bettino Ricasoli: vedi la nota
2 a p. 429. 2. Focione (397 circa - 318 a. C.), il generate e uomo politico
ateniese, di parte oligarchica, che favori il predominio macedone. Per
un elogio guerrazziano di Focione, cfr. Lettere (1827-1853), a cura di
F. Martini, i, Torino, Roux, 1891, p. 465. 3. infortita: inacidita. 4. sma
nacciata: battuta di mani, applauso.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 897
« II sole mi ha adulato.1 Grazie di tanto affetto, che io procurer6 ri-
cambiarle. Mi sento meglio. Livorno, 29, x, 1872. F. D. G. ». E
sotto Fovale del ritratto, la firma intiera. Mi era morta in quei
giorni la madre adorata, e se conforto pu6 darsi negli accascianti
dolori, quel ritratto dell'uomo venerato mi rasciugo, in parte, le
lacrime e mi parve una voce che mi gridasse : « VaJ ! »
Va' ! parola breve, come breve e la via da Pisa a Livorno : venti
minuti di treno. Ma quella mia irresolutezza, e potrei anche dire
quel mio procrastinare, nasceva da questo: per me il Guerrazzi
non doveva essere, propriamente, Fuomo che
. . . mangia e bee e dorme e veste panni,2
secondo il verso di Dante ; ma Puomo di Platone, con due ale alle
tempie; epper6 se lo avessi trovato in pantofole, o in preda a una
colica, o a tavola e in lotta con un piatto di triglie alia livornese, mi
avrebbe spoetizzato. Grullerie; ma tant'e! Se poi la mia mala Stella
mi avesse spinto a salire le scale di lui in una giornata in cui egli si
fosse contorto per le punture del fegato, che non gli dava requie
quasi mai, allora potevo esser certo di trovar Tuscio di noce, o, se
pur fatto passare, di ricevere un'accoglienza mancina.
Ecco un fatterello che mette a nudo 1'umore bisbetico del gran
fegatoso. Una mattina, alia posta di Firenze, ricevo una sua lettera,
profumata e col monogramma, come sempre. Era urgente, e biso-
gnava risponder subito. Entrai nello scrittoio pubblico della posta
stessa, e risposi. Non essendovi buste quadre e bianche, bisogn6
ricorrere a una busta gialla di commercio ; ma il foglio era gia stato
da me piegato in quattro, sicche bisogn6 lo ripiegassi bislungo in
tre, e lo mettessi alia meglio nella busta gialla, modestissima. Alia
fin fine il Guerrazzi era pasta di democratico, e me la sarei passata
liscia . . .
Ma che! Mai marchiano inganno fu piu marchiano del mio! La
sera dopo, senza che necessita vi fosse, una nuova lettera in posta.
Questa volta non c'era muschio, non monogramma; era una busta
gialla, di commercio! L'apro; il foglio era stato prima piegato in
quattro, poi in tre! ((To',)) pensai «e un grand' uomo, ma & anche
un gran . . . puntiglioso ! »
Ma il ripicco mi garb6, e fu come la spinta perch6 io andassi de-
i.ll sole mi ha adulato: Fimpressione deirimmagine sulla carta avveniva
per effetto dei raggi solari. 2. Dante, Inf., xxxm, 141.
57
898 LEOPOLDO BARBONI
cisamente a trovarlo. Via dunque in volta per Cecina, dove il Guer-
razzi si trovava allora alia sua villa della Cinquantina. La mattina
era splendida, il treno volava, e il mio cervello ammattiva per la
romba della vaporiera e per le fantasime guerrazziane che mi ci
scorrazzavano per lungo e per largo. Tutte le scappatacce del gran
romanziere mi ci ballavano il fandango, la monferina, il trescone,
la sarabanda in un picchio.1
£ noto che nel '48, a Pisa, dal palazzo pretorio, arringava un
giorno alia folia. La sala del prefetto e il lungo terrazzo erano pieni
stipati. II popolo, giu dal Lungarno, interrompeva a ogni tratto
Foratore . che veramente trascinava. Ma Toratore, costretto spesso
a chetarsi e a troncare un periodo vivacemente scultorio, aveva un
diavolo per capello, tantoche finalmente strizz6 i denti e bronto!6:
«Ti potessi mitragliare, caro il mi' popolo !» Parole testualissime
che mi furono riferite da un testimone oculare e auricolare. Del
resto, uno scatto di nervi; niente piii, niente meno.
Ed altre scappatacce potrei ricordare, talune grosse dawero, se
gia non le avessi ricordate nel glorioso « Fanfulla della Domenica »
di Ferdinando Martini.3 La qual cosa forse non avrei fatto, se di
quei giorni non fossero usciti i due primi volumi delPepistolario
del grand'uomo, leggendo i quali, molto, e direi tutto, gli si perdona.
Dunque sorvoliamo.
Ed eccoci a Cecina, grosso paese arieggiante a citta, a cinquanta
chilometri da Pisa, fiero e gentile, maremmanamente schietto, no-
tabile per industrie, la patria dell'unico italiano, il vice brigadiere
di finanza Alberto Botti, che in giorni di profonda e comune vi-
gliaccheria seppe fare impallidire, ad Ala, il generate Baratieri3 che,
del resto, delFimmane sfacelo di Abba Carima non fu causa prin-
cipale. Dei disastri patiti e da patire dalle nazioni, causa princi-
palissima fu, e sara sempre, la bestiale insipienza di certi govern!.
Da Cecina alia Cinquantina (la villa, o meglio casa di campagna,
dove si trovava il Guerrazzi), corre, parmi, un chilometro e mezzo.
i . in un picchio : in un memento, quanto ce ne vuole a dare una bussata
a una porta. z. non le avessi . . . Martini: Particolo cui qui si allude, e che
fu anticipazione di questo scritto, apparve nel « Fanfulla della Domenica*
il 21 dicembre 1879; per il « Fanfulla », vedi la nota i a p. 504. E per le
« reazioni » livornesi all'articolo, F. MARTINI, Lettere, Milano, Mondadori,
1934, p. 78. 3. il generale Baratieri: vedi la nota i a p. 503.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 899
Lo feci a piedi. II mio era una specie di pellegrinaggio al santuario
di chi merit6 esser detto il « Giove olimpico della nostra lettera-
tura », e mi occorreva raccoglimento, quel raccoglimento appunto
che Tarrotio di una carrozza e il possibile scontro in un carro di
fieno, o in un branco di vacche libere, e i relativi sagrati scintillan-
temente toscani del vetturino, m'avrebbero frastornato.
Quando fui presso la villa, un contadinello, anche meglio, un
buttero, mi venne incontro di sei o sette passi frugandomi con
uno sguardo lungo tra di curiosita e compassione come a dirmi:
«Toh! o tu di dove ci piovi, e che vieni a cercare in questi fondacci,
tutto infaldato1 e inguantato, e a piedi a piedi, come un cavadenti
stoioso ? »2
Avevo le smanie addosso. La villa rusticana riposava in un si-
lenzio profondo, indorata da un vivo sole agostano; i pioppi e gli
olmi non davano fremiti, una gazza ladra volava da una proda
all'altra d'un campo spallierato di viti cariche d'agresto;3 il buttero
s'era fermato e mi guardava a bocca aperta.
E dovevo sembrargli dimolto buffo! Ero giunto sul limitare del
tempio, e il profumo dell'ambrosia stillante dal nume mi dava le
vertigini. Involsi le tredici fmestre del davanti della villa in un'oc-
chiata tremante e fuggiasca, e mi parve ne uscissero a volo, e sotto
un nimbo di luce, in forma di fantasime o sorridenti o accigliate, le
nobili o tetre o facete concezioni del grandissimo scrittore: Dante
da Castiglione, il Ferruccio, Michelangelo, Andrea Doria, il Bur-
lamacchi, il conte Cenci, Veronica Cybo, Isabella Orsini, Maria
Benintendi, e cento e cent'altre, ultima fra tutte, scoppiante ancora
in risate demolitrici le albagie francesi, il capitano Giacomo Ca-
sella dalla gamba di legno.
Dio, Dio! come mi sentii piccino e temerario! Giurerei che in
quel momento una mano invisibile mi agguant6 per le falde, e
una voce di gnomo mi soffi6 neirorecchio : «Torna indietro, sca-
rabattola impataccata d'inchiostro ! »
Ma in pari tempo un'altra voce mi confortava: «No, entra, e va',
e fagli onore. Egli & buono, egli sa amare, egli non e Torco spaven-
tevole quale lo ha pitturato la consorteria toscana e di tutta Italia ;
i. infaldato: con un abito a falde. 2. un cavadenti stoioso: un cavadenti da
fiera, dall'aspetto miserabile. La voce dialettale «stoia» o «trucia» era
adoperata a indicare grande miseria, specie con riferimento al vestito.
3. agresto: Tuva non venuta a maturita.
900 LEOPOLDO BARBONI
egli e Finclito cittadino die con TAlfieri e il Foscolo e Giuseppe
Mazzini piu si adopr6 a spazzare le tetre nebbie della tirannide of-
fuscanti, da secoli, il sole d' Italia. W, conosci Tuomo che tu adori
e da cui sei ricambiato di vivo affetto! »
Mi volsi al buttero, che mi guardava anche piu insistentemente
senza fiatare, e con tono risoluto chiesi:
— L'illustre Guerrazzi ?
— II sor Francesco ?
Fece un passo avanti stropicciandosi goffamente il dito grosso
della man destra dentro il pugno calloso della sinistra, e riprese :
— C'e e non c'e . . . fi un po' malazzato, e forse . . .
— Fagli portare questo biglietto.
Cinque minuti dopo, salite due scale aventi a capo un'ampia in-
vetriata, mi appressavo palpitante all'uscio d'un salotto, dal cui
interno veniva un rumore secco di sedia smossa e una voce robusta,
che diceva:
— Venga, venga liberamente, e, se si contenta, io non mi muovo.
Lei lo sa; son mezzo assassinato dal mal del ciglio . . .*
Ah, santi, patriarchi, angeli, arcangeli, beati, serafini, citaredi e
organisti del paradise! chi potrebbe ridire il rimescolio di sangue
che provai a quella voce ? ... Mi parve di sprofondare nelle trombe
degli stivali! Entrai piu morto che vivo dalla commozione, balbet-
tai come un bimbo che non ha bene sciolto lo scilinguagnolo, but-
tai fuori a ruzzolone un diluvio di « illustre, momento felice, ammi-
razione, Assedio! . . .», non ci vedevo a cagione dello scuro della
stanza, mi casc6 il cappello come a un imbecille qualunque, mi
sentii afferrare per le mani e buttare a sedere . . . Era lui, lui, lui! era
Francesco Domenico Guerrazzi in carne e in ossa!
Egli si accorse della mia febbre, e per troncarla mi disse di
colpo :
— A Roma, a Roma; bisogna ch'ella vada a Roma e ci pianti le
sue tende. La raccomandero io ai giornali della democrazia. E, mi
dica, ora che cos'ha a mano ?
Ero sbalordito. Quell'entrare cosi furiosamente in carreggiata,
senza farmi nemmeno riprender fiato, mi scombusso!6 piu che mai.
Mi pareva, che aprendo bocca per rispondere, avrei fatta una stec-
caccia. Come Dio voile non fu cosi.
i. mal del ciglio : dolore al sopracciglio, detto anche « colpo di sole».
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 901
— II libro di cui ella si e degnato accettare la dedica . . .* — rispo-
si bagnato come un pulcino.
— Si, si, e vero — riprese a dire il Guerrazzi. — Conosco il fatto ;
e quel briccone del canonico Pandolfo Ricasoli che ama, non se-
condo T evangelic, le belle donnette fiorentine, e vien sepolto vivo
nei sotterranei di Santa Croce. Benissimo e grazie dal cuore. Badi
pero : nella dedica tralasci tutte le vane parole ; accenni che mi vuol
bene, e mi basta.
Un'acerbissima trafittura al cigHo, un brivido, una poderosa
presa di tabacco.
A proposito di tabacco. Del grande scrittore, oltre le lettere e il
proprio ritratto da lui inviatomi, serbo religiosamente due altri ri-
cordi. Uno e la fotografia del quadro di Gerolamo Induno2 raffigu-
gurante Garibaldi ferito ad Aspromonte e trasportato dai suoi giu
giu fino a Scilla mentre le parricide canne dei fucili dei bersaglieri
luccicano a pochi passi dietro la vittima eccelsa; 1'altro e un' ele
gante tabacchiera d'argento dal coperchio istoriato di due buoi
aranti e punzecchiati dal villano.
£ dunque una tabacchiera storica, e merita un po' d'illustrazione,
anche perche si paia sempre piu che il Guerrazzi non era un man-
giacristiani. Un giorno del 1846 un signore si trovava solo per la
via che dalla Porta al Borgo di Pistoia menava, e mena, alia cele-
bre Villa di Niccol6 Puccini,3 ritrovo allora dei piu forti ingegni
d' Italia, da Pietro Giordani a Gino Capponi, Marco Tabarrini4 e
i. II libro ... /a dedica: il Barboni nel 1873 pubblic6 il romanzo La con-
fessione, romanzo storico del secolo XVII, con dedica al Guerrazzi. 2. Ge
rolamo Induno (1826-1890), di Milano, pittore di quadri storici (Uin-
contro di Garibaldi e Vittorio Emanuele II, Aspromonte, ecc.). Combatfe"
nella difesa di Roma e fu ferito a Villa Spada. 3. L'awocato Niccolo Puc
cini (1799-1852), filantropo e mecenate pistoiese, prowide alPistituzione
di centri educativi, e gliene venne pubblico elogio dal Giordani. Nella sua
villa di Scornio ricevette i migliori ingegni del tempo suo, in ispecie i let-
terati e uomini politici toscani, primissimo 1'amico' Guerrazzi. A Niccol6
Puccini e alle sue simpatiche estrosita ha dedicate il Barboni un capitolo
dello stesso libro da cui e tolto questo brano. Sul Puccini anche un discor-
so di F. Martini, che si pu6 leggere nel suo volume Simpatie (e cfr. nell'ed.
cit. delle Lettere del Guerrazzi, p. 46, nota i). 4. Pietro Giordani (1774-
1848), il letterato piacentino che primo divino il genio poetico del Leopardi,
filologo, epistolografo ed epigrafista, fu privato maestro di umanita alia
studiosa gioventu italiana dagli inizi del secolo fino alia generazione car-
ducciana degli «amici pedanti»; Gino Capponi: vedi la nota a p. 437;
Marco Tabarrini (1818-1898), illustre storico toscano di scuola neoguelfa,
902 LEOPOLDO BARBONI
cento altri. Devesi argomentare che di cotesti tempi non vi fosse un
servizio & omnibus come al presente, e forse gli intestini umani ci
guadagnavano un tanto. Sorpreso dalla pioggia, il signore si fermo
rasente una casa, guardando a destra e a sinistra se qualcuno pas-
sasse. Passo un popolano.
— Scusate, sapete dirmi se il signor Puccini sia in villa?
— II signore Niccol6 ? C'e, sissignore. Anzi, guardi, io passo pro-
prio davanti alia Villa, che e li a due passi, la vede ? . . . Venga con
me; e nel tempo stesso la parer6, perche lei non ha ombrello.
La proverbiale gentilezza toscana era allora in tutto il suo rigo-
glio ; oggi 6 un po' in decadenza, anzi piii che un po* : Puguaglianza,
che non sara mai altro che una parola vuota di senso, ha incana-
gliato tutti. Davanti al cancello della Villa il popolano domand6 al
signore :
— Che lo conosce lei il sor Niccol6 ?
— Siamo amiconi.
— Sono amiconi! Qui & un vai e vieni di cervelli fini . . . Scusi
se sono impronto ... x o lei chi 6 ?
— Io sono il Guerrazzi.
Un salto indietro, con pericolo manifesto del manico delFom-
brello, fu Fistantaneo scoppio d'ammirazione del popolano.
— Lei e il Guerrazzi! . . . Dio, Gesu, Maria, san Giuseppe! —
E si scappel!6 fino a terra.
II Guerrazzi, sorridendo, ringrazi6 della doppia gentilezza, pre-
g6 il buon popolano a ricordarsi di lui se caso mai in qualche cosa
avesse potuto essergli utile, e tutto per allora finl li.
Tre anni dopo, a cominciare dal marzo 1849, Francesco Dome-
nico Guerrazzi era il Dittatore della Toscana, e imperava da Pa
lazzo Vecchio, quando in un di quei giorni gli fu annunziato un
popolano. II Guerrazzi, a differenza di tante eccellenze d'oggi, non
era avaro di s6. C'& di piu ; mangiava a colazione una frittatina alia
svelta, sulla scrivania, e si rimetteva al lavoro. Per avere un'idea
di tanta frugalita, bisogna risalire al Cempini,2 ministro di Leopol-
do II granduca di Toscana, che faceva fiorentinescamente cola
zione con un «panino gravido», o venire molto piu prossimi a
amico di Gino Capponi ed editore dei suoi scritti, senatore e presidente
del Consiglio di Stato. i. impronto: importune, sfacciato. 2. Cempini:
vedi la nota 8 a p. 436.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 903
noi, quando a Roma il buon ministro Saracco1 faceva colazione con
quattro noci.
II popolano era un tal Giuseppe Pasquali impiegato doganale in
riposo, e abitante a Capo di Strada. Aveva egli scritto e riscritto
al dicastero delle Finanze, a Firenze, per ottenere una rivendita
di sale e tabacchi in Pistoia, ma nessuno gli rispondeva. Sistema
vecchio, a quel che pare. Allora, esasperato, si fece coraggio ripen-
sando Tesibizione fattagli dal Guerrazzi; prese la via per la capita-
le, e si presentb al Dittatore.
— - Chi sei, e che vuoi?
— Eccellenza, ho scritto quanto sant'Agostino per avere una ri
vendita di sale e tabacchi a Pistoia, ma nessuno mi ha risposto.
Fosse un giorno di mal di fegato o che, il Guerrazzi, spazientito
alle prime parole, dette un gran pugno sulla scrivania gridando:
— E che c'entro io coi tuoi sali e tabacchi?
Al povero Pasquali parve rovinasse in capo, di schianto, Tim-
mensa torre d'Arnolfo di Cambio;2 impallidl come se stesse per
morire, ma anche capi che il Guerrazzi non lo aveva riconosciuto.
Allora, prevalendo in lui Tinteresse, s'inginocchi6 quasi e balbett6 :
— Eccellenza, vedo bene che lei non mi rawisa . . .
— No, perbacco! Chi sei dunque? palesati . . .
— Non si ricorda, eccellenza, tre anni fa . . . al cancello della
Villa del signer Niccolb Puccini . . . pioveva . . . io la parai col mio
ombrello, e lei mi disse che se avessi avuto bisogno . . .
Con uno scatto, che nessuno pu6 immaginare se non ha cono-
sciuto Fuomo vulcanico, il Guerrazzi di& un secondo pugno sulla
scrivania, scampanell6, fece chiamare il sacerdos magnus dei sali e
tabacchi, assicurb il Pasquali che fra due giorni avrebbe avuto la
privativa, poi, rimasti nuovamente soli, gli attanaglio la mano, se
lo fece sedere accanto, e agguantata una tabacchiera d'argento,
tutto festoso disse:
— Avete fatto bene a ricordarvi di me, come io mi son sempre
ricordato del vostro atto gentile, cosi che potrei dirvi quante stecche
aveva, e se fosse di seta o d'incerato, il vostro ombrello. Io non ho
i. Giuseppe Saracco (1821-1907), awocato, deputato di Acqui (1849-
1865), senatore dal 1865, fu ministro delle finanze col Depretis dall'aprile
al luglio 1887. La sua competenza in materia finanziaria e amministrativa
lo condusse poi varie volte al potere e, infine, alia presidenza del Consi-
glio (dal giugno 1900 al febbraio 1901). 2. L/a torre del palazzo della Si-
gnoria in Firenze, attribuita ad Arnolfo di Cambio (1240 circa - 1302 circa).
904 LEOPOLDO BARBONI
altro da offrirvi per mio ricordo se non questa scatola da tabacco.
Prendetela, e tenetela per amor mio.
Fare la storia postuma di quella scatola sarebbe ozioso. La sca
tola e ora fra i miei ricordi guerrazziani, e mi fu donata a Pistoia
da un altro buon popolano, ricco in cuore di nobili entusiasmi per
tuttocio die e gloria italiana del passato ; ed io ne lo ringrazio pub-
blicamente, anche perche mi ha dato modo di ricordare un aned-
doto che lumeggia il gran livornese, il quale, ripeto, era tutt'altro
che un lupo mannaro.
Riaffacciamoci alia fmestra della Cinquantina, che si chiama cosi
perche, certo anno, ogni sacco di grano, che fu seminato in quel
podere, ne rese cinquanta. Mentre il Guerrazzi parlava, io lo con-
sideravo estatico. Era alto, impettito, poderoso. II corpo corrispon-
deva al solenne e gagliardo s.entire del suo animo. Aveva le guancie
accese per esuberanza di sangue sano; piu che sano, leonino; gli
occhi erano acuti e penetranti con espressione via via di schietta
bonta; e la fronte, che ora si spianava ora si corrugava come per
ispasimo nervoso, rivelava Pingegno trapotente e gli scatti del cuore.
Portava il volto rigorosamente rasato, ci6 che mi facevami e fa anco-
ra pensare dove mai, in qual fibra del suo organismo, quelPuomo
vulcanico trovasse la pazienza di farsi ogni giorno la barba, da se",
come Napoleone il grande. Consideravo quella sua parrucca, e
pensavo agli epiteti poco o punto vezzeggiativi che la sua anima
inquieta aveva dovuto affibbiare a madre natura vedendosi spelac-
chiare in quel modo.
Tutte le fasi della sua vita mi passavano per la mente, chiare,
parlanti, incalzantisi, come si vedrebbero sulla parete, di notte, le
scene colorate rese dalla lente d'una lanterna magica. Ma piu di
tutte una mi colpiva. Sapevo che aveva le braccia ricamate di cica-
trici.1 Erano colpi di stile che gli c'erano piovuti per gelosie feroci
scoppiate non per contese letterarie o politiche : per contese di gon-
nella. E si ch'egli fu in fama di misogino! . . . Piccinerie di cervelli!
perche, chi e che potrebbe ridire il fascino che lui, giovine, la
fronte gia ricinta d'alloro per le pagine superbe della Battaglia di
Benevento scritta a ventidue anni, bollentissimo nelPamore come
nell'odio, aveva sulle donne ? E appunto quei colpi di stile gli ave-
i. le braccia . . . cicatrici: per questo particolare, vedi R. GUASTALLA, La
vita e le opere di F. D. Guerrazzi, Rocca San Casciano, Lapi, 1903.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 905
vano sforacchiate le braccia per cagion di una donna, la moglie
di un mercante, bellissima quale Taveva veduta lui nei suoi sogni
di poeta e di romanziere, ma vana e « mobile qual piuma al vento »,
come dice 1'aria del Rigoletto. Si chiamava Argentina.
E cosi con questa fantasima pel capo, e guardando 1'uomo illu-
stre, quasi mi veniva voglia di domandargli : — Ma perche dedicate
a quella fatua mercantessa YAssedio di Firenze, «il poema sacro alia
rigenerazione dj Italia)), come lo chiam6 Giambattista Niccolini?1
Quale discrepanza! E YAssedio, infatti, porta questa dedica: A
N.G. A. Monogramma che fece e f a e fara sempre lambiccare il
cervello dei piii.
Dopo che per qualche tempo mi ebbe parlato di se e delle cose
sue; dopo avermi additato un bel ritratto d' Alfredo Cappellini,2
1'eroe livornese che a Lissa, «sdegnoso soprawivere alia mancata
vittoria, s6 e gli annuenti compagni sprofond6 nel mare», giusta
Pepigrafe guerrazziana; dopo cinque o sei pizzicotti nelle carni
flosce d7 Italia; dopo una meravigliosa esplosione di parole in lode
di Garibaldi, « il quale per6 aveva perduto un istante il cervello cor-
rendo in aiuto di quei tisici di francesi, che per tutta ricompensa
lo avevano insultato a Bord6»:3 il grande scrittore voile bevessi del
vino delle sue vigne, e me ne mesce egli stesso un bicchiere. Poi
menatomi alia finestra, di cui spalanc6 le imposte che teneva soc-
chiuse a mitigare le trafitture del mal del ciglio, mi mostr6 con
un gesto largo del braccio i suoi possessi.
Fu vanita? Non lo credo. Piuttosto voile dirmi: Ecco dove Puo-
mo che ha patito esilii e galere per la causa della liberta, e le ha
consacrato tutto il suo ingegno, viene di tanto in tanto a mendicare
un po' di quiete alPanimo esulcerato!
Perche se e vero ch'egli fu ambiziosissimo, e anche troppo vero
che Tltalia composta a libera nazione obli6 indecentemente che i
trenta capitoli delYAssedio erano stati formidabili awinghiamenti
della coda di Minos4 al petto e alle terga dei croati e delle altre soz-
zure del dispotismo.
Riaffacciamoci.
i. Giambattista Niccolini: vedi la nota i a p. 438. 2. Alfredo Cappellini
(1828-1866), comandante della cannoniera Palestro nella battaglia di Lissa
(20 luglio 1866), voile affondare con la sua nave e i suoi marinai. 3. a
Bordo: a Bordeaux, nell'Assemblea nazionale di cui Garibaldi era stato
eletto deputato. Vedi la nota 2 a p. 728. 4. coda di Minos: allude al Mi-
nosse dantesco. Vedi Inf., v, 4-12.
906 LEOPOLDO BARBONI
La mia occhiata avida e profonda non fu meno larga del largo
gesto del Guerrazzi. Campi e campi dovunque, limitati, in faccia,
dal fiume Cecina; a destra, in lontano, da una boscaglia di pini, da
sterpaie e ginepreti morenti nell'aridita della spiaggia del mar Tir-
reno. Un lungo stradone dirittissimo e silenzioso porta la in fondo
a quella scena fieramente silvestre e maremmana ; e per quello stra
done, fra quelle boscaglie, fra quei cumuli di arena coperti di pru-
naie frustate dai venti impetuosi, fra gli ululati delle onde flagel-
lanti quei greti, io immaginava il fiero scrittore andare su e giu
durante le febbri deiranimo e gemere e imprecare come il Pieruccio
AeWAssedio. E mentre la visione m'andava pel capo, egli mi era di
lato, e ne sentivo Falito nel collo!
Ma la sera incalzava, cosicch.6, sebbene io fossi come magnetiz-
zato innanzi a quella figura maestosa dairocchio acuto e benevolo
e dalPeloquio purissimo e incantevole, me gPinchinai dicendo:
— Ella soffre, e mi parrebbe di meritare la maledizione di tutti
gPitaliani s'io non la lasciassi; con la calda preghiera bensl di cori-
carsi per tempo e vincere cotesto mal del ciglio, che non ha diritto
di torturare una testa che chiude « la prima fantasia d'Europa ».
— Ne hanno dette tante sul conto mio! — mormor6 stringen-
domi forte forte la mano.
Quando Io lasciai gli chiesi se mi consentiva il grandissimo onore
di dargli un bacio. Egli sorrise e mi porse la bocca. Aime, fu quella
la prima, e doveva esser quella Pultima volta ch'io Io vedeva!
Qualche settimana dopo, egli scrivevami di villa: «I1 caldo stra-
grande mi d& al capo, e le molte morti qui dintorno mi hanno scon-
fortato ». E prometteva ritornare alia sua bella cittk natale, in cui il
popolo no, ma i grassi borghesi, proprio di cotesti tempi, per me-
schine lotte municipali ostentavano verso di lui, leone libico fra una
nidiata di topolini intignati, la smorfietta clorotica del ti vedo e non
ti vedo! D'onde gli accigliamenti del fiero uomo, e il suo segregarsi
fra i silenzii della Cinquantina, e i suoi lamenti con un amico : « Vedi ?
ora a Livorno quasi tutti mi hanno suj corbelli ; » (non us6 per6 que-
sto eufemismo) «ma vedrai quando sar6 morto; che gazzarra!
quanti onori mi faranno! ...»
La sera del 23 settembre 1873 il Guerrazzi desinava col nipote
Francesco Michele e con la moglie di lui Amelia Sanna. Questi
ultimi eran tornati allora da Roma; una corsa di piacere, perche"
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 907
Cecina e la Cinquantina sono appunto sullo stradale Livorno-Roma.
Fra una forchettata e Taltra il nipote raccontava: — Sai tu, zio?
lersera, in Piazza Colonna, la banda musicale suon6 Tlnno au-
striaco! . . .
Che improwiso ribollimento avvenisse nelle arterie deirimpla-
cabile nemico dell'aquila a due teste, Dio solo e lui lo seppero. Si
accese in viso piu che non lo fosse di sua natura, si rizz6 e grid6 :
— Politica d'inferno, che, del resto, fino a un certo punto intendo
anch'io; ma e un'infamia, un'infamia, un'infamia! L' Austria e
pur quella che assassinb il fiore dei nostri patriotti!
II Guerrazzi non par!6 piu. Alle u, o come oggi si dice alle 23,
egli, terribile in viso, si ritir6 nella sua camera. Alle n e minuti,
mentre stava per coricarsi, improvvisamente barcollb. Stese la mano
a uno spigolo del canterale esclamando : — Muoio ! — E mori. Mori
fulminato, come il titano della favola; in piedi, come un romano
antico. N6 Tuomo dalla vita tutta piena d'energie bollentissime
poteva e doveva morire diversamente.
Ma fu un delitto di piu delFempia aquila a due teste!
«Vedrai quando sar6 morto! che gazzarra! quanti onori mi fa-
ranno!» lo ricordo bene quei due giorni di lutto per la patria. Da
Livorno e da Pisa il popolo si affol!6 alia Cinquantina, portando
lauri bandiere e lacrime. Fu chiamato Paolo Gorini1 per la pietri-
ficazione della salma, come gia s'era fatto per Giuseppe Mazzini.
E il Gorini col pianto a gola corse a Livorno, ma un intrigo infer-
nale fece ritardare il treno per la Cinquantina, e la pietrificazione
non pot6 effettuarsi. Biechi rancori del clericalismo e del modera-
tismo! Mai uomo insigne in Italia, se si eccettui Francesco Crispi,2
ebbe quanto il Guerrazzi nemici acerrimi anche oltre la tomba.
Impudente smentita al verso foscoliano!3
Varii anni dopo, in compagnia di un suo nipote, che, bambino allo-
ra, lo aveva visto barcollare e morire, io ritornava alia Cinquantina.
Che vuoto in quella casa! e tuttavia come lo spirito del grand'uo-
mo mi compariva lumeggiato d'una luce tutta nuova!
Toccando con viva e quasi religiosa commozione lo spigolo del
canterale cui egli s'era afferrato nell'istante supremo della morte,
i. Paolo Gorini (1813-1881), naturalista, inventore di un sistema d'imbalsa-
mazione che fu adoperato nel 1872 per il cadavere di Mazzini. 2,, Fran
cesco Crispi: vedi la nota 2 a p. 503. 3. verso foscoliano: allude al «giu-
sta di glorie dispensiera e morte)) (Sepolcri, v. 221).
908 LEOPOLDO BARBONI
ripensavo alcuni tratti di quella parte del suo epistolario edita per
cura di Giosue Carducci, e d'onde si pare Tanimo suo buono.
Gia Marco Monnier1 che lo aveva visitato nel '59, s'era ricreduto
sul conto di lui sentendolo parlare « di Dio con fervore, della fami-
glia umana con amore». Ma nelP epistolario il gran livornese si isto-
ria compiutamente ; e chi ormai ne parlasse o ne scrivesse ostinan-
dosi nella credenza ch'egli fosse un cuore efferato, meriterebbe . . .
siamo generosi: un sorriso di compassione. L'aateo salmista», se,
travolto dalle intemperanze della fantasia provocata dalle angoscie
e le cupaggini di cinque anni di galere e d'esilii, ci die la fosca fi-
gura di Francesco Cenci,2 nelFintimo della sua coscienza, e pei suoi,
e per gli amici, e pei miseri, trovava affetti santi e gentili.
<c lo ho sempre amato i bambini ; anche Cristo gli amava . . . E
infatti io credo gli uomini nascano buoni e si guastino poi per gli
esempi pessimi ... II nastro della giovanetta e stato riposto, per
segno, dentro di un vecchio Evangelo, che mi hanno procurato da
un prete . . . »3 Cosi dal Mastio di Volterra, dov'era carcerato nel
'49, a un suo amico di Livorno. E, sempre allo stesso, circa la let-
tura che faceva del giornale il « Galignani » :4 «Mi scandalizza: due
pagine sono sempre occupate a riportare furti, omicidi, ecc. : simili
turpitudini disonorano Pumanita; non sarebbe meglio tacerle?»s
E al nipote Francesco Michele (il Marcello del Buco nel muro):6
« Scrivendoti questa lettera mi e forza spesso asciugarmi gli occhi ;
s'e debolezza compagna degli anni che declinano, avrei da doler-
mene; se tenerezza di cuore, che non si senti mai cosi altamente
commosso, io ho da lodarmene».7 E in altra, allo stesso: ccBisogna
che mi stacchi da te, ma col cuore son sempre teco. Dio t'abbia
nella sua santa guardia».8
i. Marco Monnier (1829-1885), letterato e pubblicista, professore airUniver-
sita di Ginevra, soprattutto benemerito della causa italiana per il suo libro
L'ltalie est-elle la terre des morts? (1859). 2. travolto . . . Cenci: il roman-
20 Beatrice Cenci fu pubblicato nel 1854: dalPi i aprile del 1849 il Guerrazzi
stette in carcere a Firenze e a Volterra, fu processato e condannato a quin-
dici anni di ergastolo, ebbe la pena commutata in esilio e si ritir6 in Cor
sica, dove rimase fino alPottobre del 1856. Sul Guerrazzi, vedi nei Memo-
rialisti delVOttocento, in questa collezione, tomo I, pp. 464-531, il Profilo
biografico che ne da G. Trombatore. 3. F. D. GUERRAZZI, Letters, cit.,
p. 356. 4. «Galignani's Messenger)), grande quotidiano in lingua inglese
fondato a Parigi, nel 1814, dal bresciano Giovanni Antonio Galignani (1752-
1821). 5. F. D. GUERRAZZI, Lettere, cit., p. 367. 6. II Buco nel muro e con-
siderato da molti il miglior romanzo del Guerrazzi. Fu pubblicato nel 1862.
7. F. D. GUERRAZZI, Lettere, cit, p. 353. 8. Lettere, cit., p. 433.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 909
Eppure era quello stesso ineffabile nepote che gia si era illustrate
divertendosi a spezzare a colpi di bastone i lumi del Caffe Ferrucdo
a Firenze, mentre il Guerrazzi era il Dittatore della Toscana; e ai
tavoleggianti che ne lo riprendevano rispondeva . . . spiritosa-
mente: — Paga lo zio!
In altra lettera il Guerrazzi scrive : « L'uomo buono gode a be-
neficare ». Non par forse una massima aurea della Tavola di Cebete,
o del manuale di Epitteto, o dei Ricordi di Marco Aurelio?1 E
alia contessa Del Rosso, a Lucca, pregandola gli inviasse una serva:
«Desidero serva campagnola, perche i vizi della citta aborro».2 E
chi lo credette aizzatore di plebi, si ricreda a queste parole ch'egli
scriveva da Livorno nel '47 : « Qui si vorrebbe una guardia civica,
e presto . . . E qui la plebe e tigre, e se fa sangue vi si tuffa fino al
mento ».3
E basta. Ma no, non basta. A quel prete Pero, che, non so piu
bene da qual giornale sanfedista, dava ai suoi pecoroni la notizia
della morte del gran cittadino cosi: «£ morto un certo Guerraz
zi ... », mando, se e crepato, all'inferno, o, se sempre vivo, nella
sua tana di troglodito, questo che e parte del prologo della splendida
lettera che il Guerrazzi dittatore inviava il 18 novembre del '48
ai prefetti, esortandoli a sowenire di denari Venezia levatasi im-
pavida e sola contro gli austriaci. Dice cosi: « . . . Se oggi le cat-
toliche nostre fronti non si vedono deturpate da bende mussul-
mane ; se invece di gemere contristati nelle tenebre del Corano noi
consola la benigna luce delPEvangelo, noi lo dobbiamo a Venezia.
Venezia abbandonata da tutti i cristiani combatt6 sola le battaglie
della cristianita)), ecc. ecc.
E questa notizia, quanto mai peregrina, ignorata da tutti e rife-
ritami da un pisano stato sei anni con lui alia Cinquantina in qualita
di sopr6mo:4 il Guerrazzi non accettava sul podere contadini che
i. Cebete fu filosofo greco, discepolo di Socrate, e appare nel Fedone di
Platone. Ma la tavola a lui attribuita non e opera sua, bens} forse del I se-
colo d. C. 6 un trattato d'insegnamento morale, che trae il titolo dal quadro
allegorico di cui il protagonista da una interpretazione ad alcuni stranieri;
Epitteto (50-138 d. C.), filosofo greco di scuola stoica, nel suo Manuale ra-
giona sulla pratica della virtu; Marco Aurelio, nato il 121 d.C., imperatore
romano dal 161 al 180, filosofo stoico, redasse in greco il celebre volume
delle massime e meditazioni morali A se stesso (impropriamente noto in ita-
liano col titolo di Ricordi). 2. F. D. GUERRAZZI, Lettere (1827-1853), a cura
di G. Carducci, i, Livorno, Vigo, 1880, p. 196. 3. Lettere, ed. Martini,
p. 196. 4. sopromo: fattore.
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non andassero a messa. «Rubano al padrone, se no!» Tiriamo via;
rubano lo stesso anche dopo un'indigestione di messe e di vespri ;
ad ogni modo c'e qui, nel Guerrazzi (sia pure a traverse un cristia-
nesimo un po' peloso), Tuomo pratico, che sa bene quanto sia fatale
predicare alia gleba che Dio non c'e.
Non mancarono sciacalli beneficati da lui, che lo morsicarono
ai fianchi . . . dopo morto. Cosi il triste Enrico Montazio1 insinuo
che sugli ultimi anni si dasse a far 1'usuraio! Usuraio lui! lui che,
salito al potere, rese conto fin delPultimo quattrino del danaro
pubblico! lui, non succhiatore della paga di ministro, che in un sol
giorno sbrigava centosettantasette faccende, si che spessissimo dor-
miva sul sofa del suo salotto in Palazzo Vecchio sdegnando andar-
sene a casa per non perdere tempo ; lui che aveva scritto : « Quando
il dio quattrino sara appiccato alle corna del Toro celeste accanto
al dio Giove, le cose cammineranno meglio. I mercanti e i grandi
proprietari sono la rogna del mondo,'e i primi peggio dei secondi».
Ma se vi furono coscienze lorde che lo insultarono nella fama,
anche ve ne furono, e ve ne sono, delle onestissime che di lui dis-
sero e dicono con reverenza. E di lui scrisse con imparzialita bale-
nante ammirazione, e, s'intende, colla solita sua forma signoril-
mente smagliante, Ferdinando Martini nel proemio alle Memorie
inedite di Giuseppe Giustif e ne scrisse Giovanni Danelli, cuore e
penna d'uomo onesto e di grande dottrina, nel suo bel libro Fronde
sparse; e Adolfo Mangini,3 felice e invidiabile per aver ricevuto fin
dalla prima infanzia i vezzi del grand'uomo, amicissimo e come
fratello del padre di lui Antonio ; e di fresco ne scrisse, a Catania,
Antonino Toscano4 nel serio suo studio La psiche di F. D. Guer
razzi.
Ma gia dell'autore deWAssedio, con tocchi franchi e devoti, il
suo e mio amico Felice Tribolati5 aveva detto cosi : « Impasto sin-
i. Enrico Montazio (1816-1886), giornalista e poligrafo, si acquistd nome
con la propria attivita demagogica nella Toscana del '49, che gli frutt6
prigionia nel mastio di Volterra e successivamente Tesilio in Francia e in
Inghilterra. Ebbe tuttavia durante 1'esilio e piu dopo il suo ritorno (a To
rino nel 1860 e a Firenze nel 1865) fama di penna venduta. 2. G. Giu-
STI, Memorie inedite, a cura di F. Martini, Milano, Treves, 1890. 3. Adol
fo Mangini 'autore di una monografia sul Guerrazzi, pubblicata a Livor-
no nel 1904. 4. II volume di Antonino Toscano usci a Catania nel 1909.
5. L'awocato Felice Tribolati (1834-1898), pisano, fu compagno del Car-
ducci alia Scuola Normale di Pisa e poi suo costante amico.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO QII
golarissimo di antico e di moderno, di frate e di tribuno; di frate
per6 simile al Savonarola; di tribuno somigliante a Giano della
Bella: poeta a cui manc6 la rima; ma in tutto, nei difetti e nelle
qualita, uomo grande, cuore ottimo, mente arguta, criterio pieno
nella pratica del mondo . . . Am6 dawero il popolo e lo desider6
libero e felice, ma disprezzo la canaglia e non la tocc6 che coi go-
miti . . . Alia sua anima ben temperata, paragonando le attuali pe-
regrinanti in Italia nei parlamenti e nei gabinetti, queste sono blan-
dule e pallide animucciole ».
Che vuoto, dunque, nelPanima, aggirandomi per la vuota casa
della Cinquantinal e tuttavia come mi pareva ad ogni istante ve-
dermi ricomparire davanti, alto e solenne, Puomo da me adorato.
Rivedevo il formidabile « Impellicciato », col qual nome lo appel-
larono i fiorentini per un gran pastrano alParmena ch'egli costum6
portare tra il '48 e il '49, con baverone e manopole di pelliccia, e
foderato di pelle di vaio; pastrano su cui si sbizzarrirono mille
volte tutti i caricaturisti del tempo, e che io vidi poi a Livorno ab-
bandonato alle tignuole, quasi del pari che i suoi cari libri che gli
eran serviti scrivendo VAssedio di Firenze, che pur vidi e sfogliai
commosso nei sovrapporre Pindice su Pimpronta che Pindice suo
aveva lasciato in calce d'ogni paginal Lo rivedeva andare su e giu
pel suo studio a rileggere a voce alta e convulsa i tratti piu « gla-
diatorii » della sua prosa scultoria, e poich6 il sangue gli fluiva a
onde alia testa, bagnarsela di tanto in tanto con una pezzuola in-
zuppata nelPacqua ghiaccia.1 Ah, il vulcano che getta fuoco, e da
se stesso s'infrena, aspergendosi delPavverso elemento!
Dodici anni dopo dalla sua morte, Livorno gli erigeva una statua.
Ricordo il buon Giuseppe Chiarini,3 ritto a pie del titano, leggerne
a voce bassa (di che non aveva colpa) Papoteosi. E anche ricordo
ehe la mattina di quel giorno vidi le carrozze di cospicui cittadini
prendere verso PArdenza o verso Montenero o verso il Fabbro
con una corsa che assomigliava a una fuga. — Perche" ? — chiesi poi
i. bagnarsela . . . ghiaccia: Paneddoto e raccontato da G. MAZZINI, in Sent-
ti, II (edizione nazionale), pp. 61 sgg. 2. Giuseppe Chiarini (1833-1908),
Pamico pid fedele del Carducci sin dagli anni della scuola, critico di lette-
rature italiana e straniere, editore del Foscolo, poeta e insegnante, ebbe, tra
1'altro, il merito (del quale non di meno si pentl tosto) di « scoprire » e di
«lanciare» D'Annunzio,
912 LEOPOLDO BARBONI
a un d'essi cospicui cittadini. — Oh, — mi fu risposto — perche*
dove si parla di lui, non voglio star io! . . . — Ma e credibile? £
autentico.
II Guerrazzi e scolpito seduto. A me quel Guerrazzi seduto, im-
bozzacchito, infagottato, mi ha dato sempre e da Fidea di un got-
toso che fa i pediluvii. In piedi, in piedi bisognava istoriarlo ; in piedi
e con la radiosa testa eretta e come in atto di «passare inflessibile
dinanzi le turbe tumultuanti ». Ma che cosi debbasi raffigurare un
pensatore, lo scrisse egli stesso. Ebbene, fu Tunica sciocchezza
ch'egli scrivesse, e non bisognava raccoglierla; anche perch6, se
fosse stato in piedi piuttosto che seduto, forse i beceri livornesi,
in una scellerata notte del 1889, con un colpo di pietra o di bastone
non gli avrebbero spezzata la penna ch'ei tiene in mano. Proprio
quella penna che tanto aveva scritto, perche anche la canaglia fosse
riconosciuta facente parte del genere umano!
A sera fatta, dando un ultimo addio alia Cinquantina divenuta
spettrale, le auguravo sollecita una pietra commemorativa che chiu-
desse con le solenni e austere parole, che il Carducci us6 nella pre-
fazione dell'epistolario,1 ricordanti il cuore ch'ebbe il grand'uomo,
«a cui il volgo degli awersari, quand'altro non seppe, negb il cuore,
solito rifugio al pettegolezzo imbecille dei piccoli».
FIGURE, FIGURINE E FIGURI DI FIRENZE CAPITALS2
Si chiamava Ettore Strazza,3 ed era milanese, awocato e venti-
quattrenne. Firenze capitale lo aveva attirato coi suoi succiatoi4
alPombra del campanile di Giotto, ed egli ci si risvoltolava beata-
mente per il lungo e per il traverso. Abitava in via Portarossa una
camera e un salottino angusti dove si radunavano confusamente
poeti, storici, romanzieri, pittori, ufficiali, giornalisti, impiegati,
baritoni, fioraie, ballerine, bevitori d'assenzio, e cerberi che di
i.l(Il Carducci raccolse 1'epistolario del Guerrazzi in due volumi: prima serie
(1827-1853), Livorno, Vigo, 1880; seconda serie (1820-1859), ibid., 1882.
La citazione del Carducci, qui riportata, e a p. vn della « awertenza » (anche
in Opere, edizione nazionale, xix, p. 67). 2. Ed. cit., cap. iv, pp. 89-113.
3. Di Ettore Strazza fa cenno il Socci, nel suo scritto Da giornalista a depu-
tato, ma con tono ben diverso da quello qui usato dal Barboni. Tra 1'altro,
lo Strazza doveva andare a Roma col Socci a farvi parte della redazione del
giornale «L'Italia nuova», ma ne fu impedito dalla fine precoce. 4. suc
ciatoi: tentacoli, come quelli di un polipo: e voce popolaresca toscana.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 913
quando in quando prendevano ipoteca sopra un soprabito andato
ai cam o su un orologio senza lancette.
La sua conversazione era burrascosa, eruditissima, mottegge-
vole, estrosa, piacevole sempre. Improwisava sonetti dal Melini
in via Calzaioli, mangiando un polio e gargarizzandosi, diceva lui,
con un fiasco di quel del Chianti o della Rufina; dormiva ogni tre
notti, dalle due antimeridiane al mezzogiorno; d'estate, metteva
sottosopra il politeama Principe Umberto\ d'inverno, il Pagliano,
la Pergola o il Niccolini'* scriveva con eleganza e con un sapore
veramente allegro come pochi hanno; s'intendeva di tutto e discu-
teva su tutto. Alia Citta tirava i tovaglioli in faccia a chi lo contrad-
diceva; sfidava per una soprano o per una mima con ugual calore
con che avrebbe sfidato un denigratore della gloria di Garibaldi, e
una sera, me presente, scaravent6 un osso di bistecca ai piedi di un
povero parroco del pistoiese perche* espettorava in un modo poco o
punto cristiano. Per quanto scusasse e compatisse anche le miserie
umane, pure quello sciaguattio gutturale non rammetteva dawero.
Per quel che ne so io, non faceva nulla, o quasi nulla. Bicordo
che, competitore di Enrico Nencioni,* doveva entrare a dirigere
l'« Italia Nuova» o «Nuova Italia », non so piu bene, del Bargoni3
(lo stesso che poco dopo fu inviato a Londra a frugare in cerca
delle ossa di Ugo Foscolo), ma poi la cosa rimase 11. E anche ricordo
che pativa soventissimo della distrazione di far sospirare la dozzi-
na alia padrona di casa, la quale sfogavasi a minacciarlo di mettergli
al monte il vestiario mentr'egli dormiva. Qualche mese si dava che
in siffatte congiunture lo soweniva la serva, una biondona cele-
brata per la puntualita con cui la mattina gli portava in camera gli
stivaletti lustrati, e per due occhi che avrebbero traforato la cupola
di Brunellesco. Si diceva che fosse stato raccomandato al marchese
Niccolini, al cui palazzo, in fatti, bussava non infrequentemente
nelle ore mattutine; quando il marchese, cioe, non teneva conver-
1. Principe Umber to: vedi la nota I a p. 465; Pagliano: vedi la nota 4 a
p. 41 9 ; Pergola : vedi la nota 2 a p. 454 ; Niccolini : vedi la nota i a p. 425.
2. Enrico Nencioni (1836-1896), critico e poeta toscano. Ferdinando Mar
tini, nel 1879, lo mise a capo della redazione del «Fanfulla della Dome-
nica ». Con i suoi saggi critici molto contribui alia diffusione in Italia delle
letterature straniere. Dal 1883 insegnante all'Istituto Superiore di Magi-
stero di Firenze. 3. Angelo Bargoni (1829-1901), di Cremona, patriotta,
volontario nel 1848, esule, direttore del « Diritto » (vedi la nota 3 a p. 460),
deputato nel 1863, senatore dal 1876, ministro della pubblica istruzione nel
1869, ministro del tesoro (1877-1878). Fu merito in gran parte suo se nel
1871 le ceneri del Foscolo furono trasportate da Londra a Firenze.
58
914 LEOPOLDO BARBONI
sazione di dame e gentiluomini, ma, chiuso nel suo scrittoio, con-
versava coi registri e coi fogli di banca.
Fra la folia d'amici che lo attorniavano, uno ve n'era di cui molti
a Firenze debbono ancor ricordarsi, certo Maurizio *** awocato
anch'egli senza clientela, bellissimo giovinotto provinciale fioren-
tino, dagli occhi neri e languidi, carnato da principessina, sempre
inguantato, infiorettato, profumato, impomatato, e percio appunto
vittima dei lazzi dello Strazza, che era fieramente bello senza lezio-
saggini. Antinoo1 in. ritardo, Maurizio *** si sentiva cotanto infa-
natichito di s£ da vantare pubblicamente i proprii trionfi amatorii.
«Non sono k»> diceva «che cado ai piedi delle belle fiorentine;
sono esse che cadono ai miei! » E questa era vanita che lo spingeva a
usare da tre a quattro mute il giorno, e a sprofondare fino alia punta
dei capelli in una gora spaventosa di debiti; anche perch6 spaccian-
dosi, coi non toscani, per conte o barone, frequentava le sale ari-
stocratiche di madama Maria Rattazzi2 in piazza Santo Spirito. E
il giuoco dur6 finche qualcuno, avendo sussurrato una parolina in
un orecchio a sua eccellenza Urbano Rattazzi, il vanesio fu preso,
dir6 cosl, delicatamente con due dita, come si farebbe a un farfal-
lone dorato, e messo alia porta. Per imbrogli d'ogni fatta, architet-
tati per suggestione della irrefrenabile vanita sua, doveva essere
processato, ma gli riuscl fuggire, e poco dopo, cosi mi dissero, o
s'impicc6 o s'affog6 o si fracass6 il cervello, anzi il cervellino, in
Alessandria d'Egitto.
In quanto a me, conobbi lo Strazza in un modo singolarissimo.
Era una di quelle serate d'acqua e vento come capitano in autunno,
e 1'umidore e Puggia infastidivano finance il Biancone e Tesoso
Ercole3 del Bandinelli. Fra la luce ancora incerta dei lampioni e la
cupaggine del cielo annottante, Palazzo Vecchio e Orsanmichele,
la torre del Bargello e i campanili delle chiese medioevali parevano
enormi dadi di bronzo e di granito, e giganti ebbri del fremito delle
tempeste che si rincorressero su pej tetti sgocciolanti, fischiando e
ruggendo una canzone d'inferno.
i. Antinoo: bellissimo giovane della Bitinia, schiavo dell' imp eratore Adria-
no. 2. Maria Rattazzi: Maria Bonaparte Whyse, vedova De Solms, mo-
glie di Urbano Rattazzi (vedi la nota i a p. 501). Di lei e dei suoi ricevimenti
scrive interessanti notizie U. PESCI, in Firenze capitals, Firenze, Bemporad,
1904, pp. 345-8. 3. II gruppo di Ercole e Caco, di Baccio Bandinelli (1487-
1560), e giudicato sfavorevolmente/ dagli intenditori; per il Biancone ,
vedi la nota 3 a p. 619.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 915
Sotto la Loggia del Lanzi e sotto gli Uffizii andava su e giii la
gente con. ritornello monotono di scarp e e stivali strusciati svoglia-
tamente, e s'intendevano tutti i dialetti d' Italia, e si vedevano sbrac-
cettamenti di lombardi e di siciliani, di piemontesi e di calabresi,
di napoletani e di veneti, e le statue marmoree dei grandi toscani
pareva ricevessero anima e, sorridendo a tutta quella promiscuanza
della famiglia italiana, mormorassero : «Finalmente! ...»
Dunque pioveva, ne ci aveva colpa il governo. II Melini, patriarca
deirumanita, apriva le sue braccia alia maggior parte degli strava-
ganti e degli sbilanciati, troneggiando fra trofei di fiaschi e di bot-
tiglie, di rifreddi e di braciole impanate, o « cotolette » come dicono
i ben parlanti! M'ero imbattuto nel vanesio a' cui piedi cadevano
di sfascio le belle fiorentine, e tutti due ce ne andavamo melensi,
rasentando li sporti di via Calzaioli. Dinanzi al Melini Panima
mia, con un raro slancio di ragionevolezza che mi fece stupire, mi
ali6 in faccia e disse al mio corpo : « Tu sei quasi allucignolato, e
domattina I'uomo potrebbe esser morto : entra 11 ». Ed entrai, ossia
entrammo. Ma non mi ero avanzato di tre passi che un tavoleg-
giante m'inciampava rovesciandomi addosso un vassoio d'intin-
goli, e . . . Dio mi perdoni! non so piu che filastrocca tirassi giu,
di quante poste, e se in versi o se in prosa; per6, questo e certo,
dovette essere arzigogolata ingegnosamente, se si pensa che un
giovine alto e in soprabito, con barba nera, ben tenuta, crespa e
degna d'un Raja dell'Indostan, si Iev6 da un tavolino, strinse la
mano al vanesio, e presentatomisi e guardatomi prima dal capo ai
piedi, esclam6 serio serio : — Le aff ermo fin da questo momento la mia
schietta ammirazione!— E mi trascin6 in mezzo a un nuvolo di ami-
ci e di fumo, abballottandomi e gettandomi a sedere su un divano.
Era lui, era Ettore Strazza, ch'era disceso allora da Fiesole,
dov'era stato scarpa scarpa1 con Edmondo De Amicis.
O giorni, o lunghe serate allegramente, poco o punto ortodossa-
mente trascorse! Serio sempre come una sfinge, Ettore Strazza
aveva nonpertanto veri estri da manicomio. Basti questo per tutti.
La mattina che giunse a Firenze il telegramma della conquista di
Roma, Ettore dormiva profondamente. Suonavano le undici alia
torre d'Arnolfo; undici colpi, cupi e lenti, che parvero il toc-
i. scarpa scarpa: insieme, camminando all'unisono. II De Amicis era a Fi
renze dal 1867.
916 LEOPOLDO BARBONI
cheggio pel funerale del papa-re; la citta era sossopra, le botteghe
si sprangavano con una specie di terremoto, le finestre si spalaaca-
vano con un certo die di spicinio, e cento e cento braccia si spenzo-
lavano per fissare negli anelli le aste delle bandiere; la folia corre-
va qua e la formando fiumane, e sotto la Loggia dell'Orcagna si met-
tevano assieme le falangi per la prima ovazione che doveva farsi
sullo spiazzale dei Pitti. Per via Calzaioli, giu giu fino in piazza
della Signoria, correva rapida e commovente la voce, che Vittorio
Emanuele misurava a passi convulsi le sale del palazzo e aspettava
mostrarsi al popolo italiano col sorriso di un galantuomo che ha
mantenuto una parola d'onore.
Volai in via Portarossa, e salite le scale del mio eroe, mi precipi-
tai in camera gridando:
— Destati! Roma e nostra . . . !
Balz6 dal letto vestito della sola epidermide, spalancb Pinvetriata
del terrazzino, e si affacci6 comodo e tranquillo senza nemmeno la
foglia di fico! Una formidabile fischiata lo accolse.
— Viva 1'esercito! — grid6 egli, e rientr6.
Ma e vero dawero ? Se e vero! vivo no ancora a Milano a Firenze
a Roma chi sa mai quanti dei suoi vecchi amici. N6 una guardia,
almeno una, sali su a contestargli la contrawenzione al pudore?
Ma che! figurarsi se in quel momento febbrile una foglia di fico o no
poteva far 1'effetto d'un'improwisa nevicata su quella po' po'
d'ebullizione di spiriti; anzi!
Questo scapigliato, questo tipo originalissimo, amabile, ardito,
fannullone, d'ingegno potente, di memoria ferrea, che non dor-
miva quasi mai, che conosceva tutti, che tutti conoscevano, e quello
stesso Ettore Strazza che «con una facezia innocente sul guarda-
portone della Scalar tirava sulle braccia del suo intimo Felice
Cavallotti1 tutto il reggimento degli ccUssari di Piacenza», cioe
causava duelli sopra duelli.
L'amicizia fraterna col Cavallotti datava da anni. "L'Osteria del
Galloj a Milano, gli aveva accolti cento e cento volte entrambi fin
dal 1867 fra le quattro pareti di una retrostanza, e con sacro terrore
aveva inteso i loro strepiti, le Ic-ro poesie, i loro disegni, le loro
i. Felice Cavallotti (1842-1898), di Milano, combatte a Milazzo, al Vol-
turno e nella guerra del 1866. Autore di drammi (/ pezzenti, 1872; Al-
cibiade, 1874, ecc.), di liriche, ecc. Oratore, polemista, deputato. Fond6
nel 1866 il « Gazzettino rosa». Avvers6 il trasformismo di Depretis e il
Crispi. Mori in duello.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 917
prose roventi. Perch6 e appunto in quella retrostanza che il Ca-
vallotti scriveva il « Gazzettino Rosa», e Giuseppe Rovani, 1'autore
della Giovinezza di Giulio Cesare? dissertava sulle virtu dell'assen-
zio con poderosi pugni sulla tavola, ed Emilio Praga e lo Strazza
mangiavano di gran piattate di gamberi, e il disperatamente inna-
morato Iginio Ugo Tarchetti2 scriveva i versi che cominciano :
Vorrei saper quanti bad fur dati
dal dl che i bacifurono inventati!
Era una specie del salottino di Victor Hugo in via Nostra-signora-
dei-campi, a Parigi, ai giorni gloriosi del dramma Hernani? quando,
cioe, nelle vene della nobile e vecchia letteratura francese veniva
iniettata un'onda di sangue nuovo e bollente. Del resto, ho detto
una specie.
Ettore smaniava presentarmi al futuro autore dell'Alcibiade, ma,
allora come allora, il poeta si dibatteva in Milano fra sequestri e
catture e duelli e latitanze quasi continui, n6 gli era facile venire a
Firenze a bere un bicchiere di Pomino e prendere una boccata d'aria
sul Viale dei Colli. Passarono varii anni prima che io potessi cono-
scere Felice Cavallotti e stringergli la mano a Livorno.
Debbo per6 allo Strazza Pincontro arruffato e la conoscenza con
F autore dei Bozzetti militant Pioveva, al solito, come Dio la man-
dava, e noi eravamo fermi sotto un portone di via della Vigna
Nuova. Possedere un ombrello pu6 parere la piu genuina cosa di
questo mondo, e non & cosl; almeno a quei tempi n6 Ettore ne io
lo possedevamo, neppure, aime, neppure d'alpaga tinto a color
caffe con Porlo rosso, come usano i curati e i cappellani di cam-
pagna. Che c'importava dell'acqua?
A un tratto il mio eroe da un guizzo, salta in mezzo alia strada,
ferma un passante intabarrato e frettoloso, poi mi chiama, e li, sotto
quella benedizione, mi presenta a Edmondo De Amicis.
Chi dalla lettura di Pagine sparse3 argomentasse che il De Amicis
i. La Giovinezza di Giulio Cesare e il titolo dell'ultimo romanzo di Giuseppe
Rovani (vedi la nota 4 a p. 266). 2. Emilio Praga (1839-1875), poeta del
gruppo degli « scapigliati », come Iginio Ugo Tarchetti (1841-1869). 3. II
dramma Hernani apparve nel 1830. 4. /' autore . . . militari: il De Amicis
andava pubblicando nell'« Italia militate » e nella « Nuova Antologia» quei
bozzetti che formarono poi il suo primo volume, La vita militare (1868).
5. Nel volume Pagine sparse (1878) il De Amicis rivolse la sua attenzione
allo studio della lingua, seguendo le teorie manzoniane.
918 LEOPOLDO BARBONI
fosse allora davvero una specie di sorcio di biblioteca, sempre af-
fannato a sfogliare il vocabolario o a interrogare la vecchia padrona
di casa sul come si dice o non si dice a Firenze, o come si chiama
o non si chiama la tal cosa o la tal'altra, prenderebbe un abbaglio.
E poi ci vuol altro che simili esercizii per chi non e nato suirArno!
Basti dire che il buon De Amicis non seppe mai liberarsi dal chia-
mare « osso » il nocciolo, ne, Dio ci liberi, capi mai il doppio signi-
ficato della parola (ctegame)),1 come die a divedere (lui cosi sempre
signorilmente rispettoso co' suoi lettori) nel SulVOceano2 deli-
neando la cameriera del transatlantic© Galileo.
Dunque no, il De Amicis non era ne fu mai, almeno fmo a che
per colpa del suo romanticismo manzoniano non si scav6 1'abisso
matrimoniale,3 un candidate al paradiso per serieta, innocenza e
lacrime. E poi non era ancora commendatore, e molto meno un
Geremia socialista;4 era invece il De Amicis dei venticinque anni,
presenza apollinea dardeggiante fuoco vivo da due occhi cerulei
affascinanti, arguto, burlettone, eccellente forchetta, cuor d'oro,
desiderate, cercato, amato da tutti.
Del cenacolo dello Strazza, primi fra gli apostoli erano lui e
Pietro Coccoluto Ferrigni, Yorik? Ricordo che quel « Coccoluto »
appiccicato alia firma di.uomo di tanto gaio ingegno, faceva andare
in bestia lo Strazza. Apostolo minore, non per inferiority d'in-
gegno, ma perch6 non dei phi assidui, il mite Enrico Nencioni,
intelletto sopraffino. Veniva poi Medoro Savini,6 che aveva tratto
in inganno piu d'un medicuzzo pubblicando di quei giorni un suo
romanzo dal titolo Tisi di cuore, cui tra breve doveva tener dietro
i. il doppio . . . tegame: la voce tegame, oltre che per indicate il comune
recipiente di cucina, e usata in Toscana in senso spregiativo a significare
una donna sfatta, di consumata prostituzione. 2. II romanzo SulVOceano,
apparve nel 1889. In esso, al capitolo Uoceano azzurro, il De Amicis scrive:
«quel tegamaccio della cameriera ». 3- per colpa . . . matrimoniale: il De
Amicis fu assai sfortunato nel suo matrimonio, e i coniugi finirono col divi-
dersi. Le nozze avevano avuto un'origine molto romantica: una giovinetta
morente aveva chiesto di poter conoscere, prima di morire, lo scrittore di
cui aveva ammirato le pagine: il De Amicis and6, la ragazza guari e si spo-
sarono. Questa vicenda ha narrate il Barboni nel primo capitolo (Edmondo
De Amicis) dello stesso libro da cui e tolto il presente brano. 4. un Gere
mia socialista; il De Amicis aderl ufficialmcnte al socialism© nel 1891, e
gli fu spesso rimproverato il tono sentimentale e lacrimoso della sua pub-
blicistica di partito. 5. Ferrigniy Yorik: vedi la nota zap. 424. 6. Medoro
Savini (1836-1888), di Piacenza, autore di numerosi romanzi (Tisi di cuore,
Giglio nero, Ave Maria, ecc.), ebbe una breve celebrita. Pare che qualche me-
dicuzzo, ingannato dal titolo, credesse Tisi di cuore un trattato di medicina.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 919
un flusso abbondante di « chineserie », direbbe il Carducci (niente-
meno che un romanzo ogni mese, tutte vere e proprie birbonate,
del resto); veniva Carlo Lorenzini,1 il geniale collaborator del
(cFanfulla)) col pseudonimo di Collodi a ricordo della madre ado-
rata ch'era appunto di Collodi presso Lucca: il fortunato genitore
di Pinocchio, un carissimo tipo che non si levava mai il cappello,
ne se lo sarebbe levato nemmeno a Sesostri o a Napoleone il grande
se gli si fossero presentati dinanzi rinviviti; e tanti e tanti altri ve-
nivano, pubblico spicciolo i piu, tranne qualcuno che accennava
ad emergere.
Bei tempi! Grazie al Guerrazzi e al Centofanti,2 io poco piu che
ventenne, bazzicavo, pu6 dirsi, quanto di piu chiaro viveva allora
in Firenze, e cosi ne aweniva che fra il mio eroe e me fosse un
continuo rimorchiarci dinanzi alle classiche conoscenze. E ne aveva-
mo! C'era Gino Capponi, il gran guelfo, ed il Tommaseo, alquale,
incontrandolo su pel Viale dei Colli a braccio di qualcuno perch6
cieco ormai e affranto, perdonavamo Taver chiamato « testa piccina»
il Giusti, anche perche tanta albagia gli era stata in qualche modo
rintuzzata molto innanzi dal Niccolini, formidabile atleta, che lo ave-
va bollato, non giustamente, di « selvaggio » e « ipocrita » e « malvagio
Schiavone))!3 E c'era 1'abate Manuzzi,4 filologo ed epigrafista, bel
vecchiotto tutto bianco e rubizzo ; il buon Luigi Passerini, potente
memorioso5 e prefetto della Biblioteca Nazionale; c'era il mio ami-
cissimo conterraneo Olinto Barsanti,6 avvocato dei primi in Fi
renze, poi senatore del regno. C'era il rigido Canestrini,7 e il piu
i. Carlo Lorenzini (1826-1890), 1'autore delle Avventure di Pinocchio, usci-
te dapprima nel «Giornale per i bambini)), fondato a Roma nel 1881 da
Ferdinando Martini. 2. Silvestro Centofanti (1794-1880), filosofo e let-
terato, collaboratore dell'« Antologia» del Vieusseux, democratico mode
rate, professore all' University di Pisa (1838-1848). Dopo il 1859 fu nomi-
nato senatore. A lui il Barboni ha dedicate un capitolo (Le passeggiate con
Silvestro Centofanti) del libro da cui stiamo trascrivendo. 3. Schiavone:
il Tommaseo era nativo di Sebenico, nella Dalmazia o Slavonia. 4. Giu
seppe Manuzzi, di Cesena (1800-1876), abate e filologo, discepolo e, per i
problemi linguistici, seguace del padre Cesari, di cui scrisse una Vita. 5, II
conte Luigi Passerini de' Rilli (1816-1877), del quale Ferdinando Martini
pubblico il Diario, fu dotto genealogista fiorentino, dal 1856 direttore del-
1'Archivio di Stato e dal 1871 della Biblioteca nazionale centrale di Firenze;
memorioso: di forte e ricca memoria. 6. Olinto Barsanti (1826-1905), stu-
dente a Pisa, partecip6, nel battaglione dei sapientini, alia battaglia di
Curtatone e Montanara. Fu illustre avvocato del foro toscano. Deputato
di Pisa e poi di Firenze, fece parte del Centro destra. Fu nominate sena
tore nel 1891. 7. Giuseppe Canestrini (1807-1870), di Trento, erudito,
920 LEOPOLDO BARBONI
che aggrondato Augusto Conti,1 abitante allora, se ben ricordo,
su per 1'Erta Canina, all'aria pura, presso il Viale del Colli, a me-
glio meditare, forse, Tinsulto atroce fatto da studente a Federigo
Del Rosso,2 luminare dell'universita di Pisa, di che si era poi
pentito al punto da vagheggiare una tonaca di cappuccino. In con-
vento non entro mai, ma che tre quarti almeno di frate in lui ci
fossero, nessuno pu6 negare; monacofilo con anima d'italiano au-
steramente incorrotto, del resto, che lo fece, e fino alia morte lo
mantenne, innamorato di Girolamo Savonarola; amore nobilissimo,
nonostante che il gran frate intimasse la distruzione dei capolavori
del genio fiorentino alia vigilia del Rinascimento! Cera Tonorando
Giovanni Dupre3 intento allora a scolpire e in pari tempo a scrivere
i suoi Ricordi autobiografici, che Augusto Conti gli andava, via via,
sapientemente rivedendo e riducendo a miglior lezione. Cera An
drea MafTei,4 alloggiante, mi pare, in un albergo di Via del Procon-
solo, il poeta traduttore, dalla copiosa chioma e dal folto pizzo can-
didissimi e coltivati sempre con amore infinito, quasi provasse pena
a dimenticare i trionfi amorosi del passato, o piuttosto lo facesse
per far dispetto alia contessa Clara5 che di dispetti glie ne aveva
fatti tanti e gliene faceva. Cera il fanfano Pietro Fanfani,6 fisono-
mia di ortolano dei sobborghi di Pistoia, dal sorriso di faina, dal-
Tocchio infido, verdognolo in viso forse per la bile viperina covata
sempre contro il Carducci, e, nelPandare, un po' barellante come se
portasse sulle spalle le centomila copie del suo Vocabolario. Cera
storico. Eletto deputato, prefer! restare bibliotecario della Nazionale di
Firenze. Cur6 1'edizione delle opere inedite del Guicciardini. i. Augusto
Conti (1822-1905), professore all'Universita di Pisa e alPIstituto superiore
di Firenze. Mir6 a restaurare 1'indirizzo tomistico. Ha lasciato molte opere,
di interesse piti stilistico che filosofico. 2. Federigo Del Rosso fu professo
re, gia prima del 1848, nella facolta giuridica dell'Universita di Pisa. Poiche
nelle lezioni esprimeva idee illiberali, gli studenti decisero di punirlo. Gli
estratti a sorte, tra cui Augusto Conti, entrarono una sera in casa sua e lo
bastonarono duramente. In conseguenza di ci6 il Conti fu arrestato e chiuso
per tre mesi nel mastio di Volterra: ne" pot6 poi ritornare a laurearsi a
Pisa. Vedi A. ALFANI, Della vita e delle opere di Augusto Conti, Firenze,
Alfani e Venturi, 1906. 3. Giovanni Dupre (1817-1882), celebre scultore.
4. Andrea Maffei (1798-1885), poeta trentino. Profondo conoscitore delle
lingue e letterature moderne, a lui si devono importanti traduzioni da
Klopstock, Schiller, Goethe, Milton, Byron, ecc. 5. Su Clara MafTei,
vedi la nota 2 a p. 354. 6. Pietro Fanfani (1815-1879), filologo, editore
di testi antichi, studioso della lingua con intenti da purista, autore di
vari vocabolari. Fu bibliotecario della Marucelliana. II Carducci lo fece
spesso oggetto di satira e polemiche. La voce fanfano^ chiacchierone e ar-
meggione, e suggerita al Barboni anche dal suo carduccianesimo.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO Q2I
Piero Puccioni,1 bella figura di gentiluomo e di valentuomo; Marco
Tabarrini, Giuseppe Civinini2 Peloquentissimo, e tanti e tanti altri.
Giusto del Civinini. Ettore si struggeva conoscerlo, mi metteva
in croce da mattina a sera; ed io a temporeggiare, perche la cosa era
seria. Giuseppe Civinini aveva fremuto di dolore ai piedi del Ga
ribaldi sull'Aspromonte, lo aveva seguito nella prigionia del Vari-
gnano e fra le rocce di Caprera, e nel '66, infilandosi di nuovo la
gloriosa camicia rossa di capitano e disertando il suo scanno di de-
putato, lo aveva seguito ancora nel Trentino, guadagnandosi fra i
greppi di Bezzecca uno splendido rapporto di Nicola Fabrizi3 e la
Croce dell'ordine militare di Savoia. Poi? poi, a giudizio dello
Strazza (e di milioni d'italiani), pareva avesse obliato 1'antico e ra-
dioso Dio.4 Per questo ne diceva corna; e siccome era un certo
tipo che le buttava fuori come se le sentiva, e dalle parole passava
subito alle sfide, e infilava le pancie umane con una sicurezza pro-
digiosa, io mi sentivo sulle spine, e mi sarei fatto piuttosto abatu-
colo di d6mo anzich6 menarlo alia « Nazione ».
Perch6 il deputato Civinini era allora appunto direttore della
« Nazione ». E mi par sempre d'averlo dinanzi agli occhi, con quella
sua catena da lucerna con in fondo un mazzetto di chiavi e chiavet-
tine, e che, agganciata al primo occhlello del panciotto, gli scendeva
giu lungo il petto, un po* frittelloso, dondolandosi insieme alle lenti.
Lo avevo conosciuto da qualche mese, auspici Olinto Barsanti e
Piero Puccioni. II Civinini era secco allucignolato, con baffi inti-
gnati, i denti schiezzati5 e neri come quelli di Napoleone I, il quale
gli aveva cosl perche tremendo, anzi feroce divoratore di sugo di
requilizia. Buono e austero e onesto Civinini! Ricordo che un gior-
no lo trovai su tutte le furie perche un bel signorino, non toscano,
era andato ad offrirgli un romanzetto da mettersi in appendice sul
suo giornale, e ad ogni costo aveva voluto leggergliene le prime
due o tre pagine.
— Detesto questo genere di letteratura, — mi diceva — eppure,
i. Piero Puccioni (1833-1898), con Leopoldo Cempini e Carlo Fenzi fond6
il giornale « La Nazione » che diresse fino al 1864. Deputato dal 1865 al
1882 nelle file della Destra. Senatore nel 1886. 2. Giuseppe Civinini (1835-
1871), uomo politico e letterato, allora deputato e direttore del quotidiano
« La Nazione ». 3. Nicola Fabrizi (vedi la nota 4 a p. 505) nella campagna
del 1866 fu capo di stato maggiore di Garibaldi. 4. Vantico . . . Dio: Gari
baldi. 5. schiezzati: scheggiati: e forma popolare toscana.
922 LEOPOLDO BARBONI
per Pufficio che ho, mi tocca quasi ogni giorno a sentirmi torturare
con simili proposte; e che roba! Non sanno se «Nazione» si scrive
con una zeta o con due, e pur son tutti scrittori ; e i non toscani ven-
gono qui alia capitale, sanno che qui si parla bene, credono oro di
zecca tutte le voci che sentono, e impinzano di porcherie le loro
prose clorotiche. Ha incontrato quel giovine ? . . . Ha voluto di riffa
assassinarmi leggendomi il principio di un suo zibaldone. Dio,
Dio! A un certo punto una signora contessa dice a un signor mar-
chese, che le faceva il cascamorto : « Signor marchese, ve ne prego,
non fate piu il . . . » (e seguiva la parola con cui anche si indicano le
chiavi dei violini). « Come ? come ? ma e una turpitudine! » « 0 non
lo dicono i toscani nel significato di sciocco, d'imbecille, di noio-
so? ...»- Eh, eh, eh!
E il Civinini si buttava via dalle risa commiserando.
Era piuttosto brutto, ma dagli occhi nerissimi e dalla fronte in-
corniciata di capelli pur neri e crespi gli traluceva Panima italia-
namente altiera nella coscienza delPingegno, della bonta e della
rettitudine. QuelPuomo che di quindici anni appena (dico quindid
anni) minacciato del carcere dalla polizia toscana aveva dovuto
sottrarvisi con la piu drammatica fuga,1 abbandonando la sua
Pistoia, e la madre e la sorella adoratissime ; che si era rifugiato a
Liverpool e poi a Genova, dove lo incarceravano per cospirazione
contro T Austria, e d'onde lo reclamava il governo lorenese per re-
stituirlo, qual minorenne, alia famiglia, ma in realta per averlo
sottomano e incarcerarlo due o tre volte, per « ragazzate », diceva
esso governo, bruciandogli il dire che si trattava invece di mazzinia-
nismo ; che per effetto di « specchietto macchiato » aveva dovuto dare
un addio agli studi universitarii, appena iniziati, da'^quali si ripro-
metteva rapidi trionfi per Pingegno svegliatissimo, e alleviamenti
sicuri ai bisogni delle eroiche madre e sorella; che fra i sedici e i
venticinque anni aveva dovuto riprendere la via delPesilio e rifu-
giarsi a Ginevra, a Parigi, a Londra e per ultimo a Costantinopoli,
precettore ventenne dei figliuoli di Adriano Lemmi,2 e, da Costan-
1. drammatica fuga: il Civinini era fuggito a Livorno e di 11 si era imbarcato
per PInghilterra. Vedi la narrazione che di questa e delle sue successive
awenture scrisse la sorella G. ARRIGHI CIVININI, La prima giomnezza di
G. Civinini, in «La Rassegna nazionale», 16 febbraio 1906, pp. 621-58.
2. Adriano Lemmi (1822-1906), patriotta livornese, mazziniano, poi au-
torevole massone. Fu lui nel 1849 a occuparsi deirimbarco a Livorno
della legione Manara diretta a Roma. Caduta Roma, torn6 a Costantinopoli.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 923
tinopoli alia grande notizia dello sbarco del Mille era volato a
Palermo divenendo in breve segretario di Garibaldi; che trentenne
appena veniva eletto «deputato a vita» della sua Pistoia; che riem-
piva della sua eloquenza la Sala dei Cinquecento ;r che travolto con
la piu nera calunnia nel processo della Regia,2 squassando la chioma
come un leone ferito s'era difeso convincendo FAssemblea che lo
dichiarava incontaminato, ed erano fra i dichiaranti Zanardelli,
Biancheri, Fogazzaro e Cairoli;3 che in un momento di supremo
cordoglio per Toffesa patita, ai pistoiesi, che lo adoravano, voleva
restituire il mandato affidatogli prorompendogli dairanima la so-
lenne frase alludente al Parlamento: «Nudo vi venni, e nudo me
ne vado » ; che gloriosamente sempre povero aveva rinunziato a f a-
vore d'istituzioni umanitarie la pensione che gli spettava per la
« Croce al merito militare di Savoia », quelPuomo, rigidamente one-
sto e fieramente italiano, non aveva, no, obliato Tantico e glorioso
Dio, Garibaldi. Con acutezza di statista aveva disapprovato Men-
tana nell'antiveggenza sicura di altre vie men rischiose che ci avreb-
bero dato Roma; e fu profeta. Ed e gloria pel Civinini, che la grande
opera dello Scherr,4 La Germania, si chiuda con ricordare il suo
nome e le parole di lui plaudenti alia nazione dotta che aveva vinto
a Sedan schiudendoci la via per la nostra capitale.
Tutto questo lo Strazza non ricordava o non voleva ricordare;
e poi, si sa che non c'e peggior sordo di quello che non vuole in-
tendere.
Dunque Ettore voleva conoscerlo; s'era impuntato, ed io dovetti
alia fine contentarlo a scanso di litigi e scorrucciamenti, ma non
prima per6 chV non mi avesse giurato sulla sua barba di Maha-
Aiut6 con denaro la spedizione di Pisacane. Rimpatri6 definitivamente nel
1860. II Civinini fu precettore dei suoi due figli, Attilio ed Emilio, dal
1857 al 1860. Vedi anche p. 224 e la nota 2. i. la Sala dei Cinquecento:
vedi la nota 5 a p. 415. 2. Per lo scandalo della Regia, vedi la nota i a
p. 459. Vedi anche, del Civinini, il disco rso da lui pronunciato alia Came
ra il 2 giugno 1869, e pubblicato a Firenze, Eredi Botta, 1869. 3. Zanar
delli: vedi la nota i a p. 382; Biancheri: vedi la nota 7 a p. 496; Ma
riano Fogazsaro, vicentino, padre di Antonio. Era deputato di Destra;
Benedetto Cairoli: vedi la nota 4 a p. 503. Vedi anche U. PESCI, Firenze
capitale, cit., pp. 163-87. 4. Johannes Scherr (1817-1886), novelliere e
storico tedesco. Dopo la rivoluzione del 1848 esule in Svizzera, dal 1860
occup6 la cattedra di storia nel Politecnico di Zurigo. Scrisse numerosi
lavori di argomento storico, animati di idee liberal!.
924 LEOPOLDO BARBONI
rajah di comportarsi come il grado e la fama dell'uomo esigevano :
— Ho bisogno di lui — mi disse — e saro serio.
E andammo dal Civinini, che in quel momenta era solo, sicch6
subito fummo fatti passare. L'illustre parlatore sapeva chi era
lo Strazza, lo conosceva di nome, sapeva a mente qualche suo epi-
gramma, eppero, quando gli mosse incontro per stringergli la mano,
fece un risolino furbo, come dire: «So chi sei! ...» Poi, dopo i
primi convenevoli, avendogli io detto che Pawocato Strazza, oltre
ambire di conoscere in lui uno dei piu begli ornamenti delPassem-
blea italiana, aveva anche bisogno di parlargli di certe cose, il
Civinini, compitissimo, interrogo :
— In che posso dunque servirla?
— Signor deputato, ella mi ha gia servito . . .
— Come? scusi, ma non capisco.
— Ora mi capira . . . Per oggi non ho nulla di che pregarla; ci6
verra poi. Mi basta aver conosciuto da vicino un uomo cui volen-
tieri taglierei la lingua per attaccarmela in fondo alia gola.
E, serio serio, mise fuori un temperino. Era un elogio p6rto un
po' arditamente, ma il Civinini ne rise di pr6, e da quel momento
Pamicizia corse.
Riuscirebbe comicissimo tutto il racconto di quando lo menai
meco alia biblioteca Marucelliana e lo presentai a Pietro Fanfani.
II Fanfani, filologo che qualche volta diceva e scriveva «esta»
invece di estate (apocope che a malapena pu6 avere il diritto di
essere usata in poesia), e diceva e scriveva cosi, forse per far piacere
al suo amico Mario Rapisardi,1 e conseguentemente per far dispetto
al Carducci, era il disordine in persona. D'inverno toccava gli estre-
mi del grottesco. Portava al collo una pezzuola di cambri,2 rossa,
stampata a fiori gialli, in capo una tuba col pelo eternamente lisciato
a ritroso, le fedine come il posa-piano Leopoldo II, ispide e briz-
zolate, un roto!6 addosso o un totterone delPuno,3 e in mano uno
scaldino da ciane,4 da due soldi, ruvido, senza culatta.
i. Mario Rapisardi (1844-1912), professore nelPUniversita di Catania, poe-
ta di ispirazione filosofica e sociale (Palingenesi, Giobbe, Lucifero, ecc.), ebbe
incitamenti e consigli letterari dal « linguaiolo » Fanfani, che forse non fu
estraneo alia polemica del catanese col Carducci. 2. cambri: vedi la nota
i a p. 412. 3. II rotolo e il mantello « a ruota » ; il totterone , un lungo cap-
potto. L'espressione delVuno equivale a «vecchissimo, consumatissimo »,
come se fosse dal primo anno della storia degli uomini Esiste la frase « roba
dell'uno, quando non c'era ancora nessuno»: e la usano ancora i vecchi
della Toscana. 3. ciane: popolane.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 925
Cosi rinchioccito1 sedeva lavorando al suo scrittoio di bibliote-
cario, da dove lanciava ingiurie ai piu specchiati e dotti uomini
d'ltalia, chiamando perfino «cane» il buono e defunto Nannucci.2
Su quello scrittoio le streghe convenivano a ballare la ridda il sabato
notte, e il diavolo vi recitava la messa nera. lo non vidi mai un ar-
senale piu arsenale di quel banco! Cera d'ogni cosa un po' ; la pol~
vere, prima di tutto, e alta un dito ; e poi cannelli di ceralacca spez-
zettati, candele stroncate a mezzo, lapis di tutti i colori, giacenti
fra le scheggette cadute nel temperarli; forbici con la moccolaia3
attaccata al taglio; coltellini, stecche, quadrelli, ostie, lettere a ri-
fascio, matassine di spago, una fogliata di pasticche di rosolacci,
mucchietti di fagioli colFocchio, bianchi, rossi, ceciati; patacconi
d'inchiostro ; Tira di Dio, insomma, rivelantesi nello scompiglio
della scrivania di un filologo malato di milza e di cuore. Per6 sia
pace ai sepolti!
Per me quel pandemonio era una novita vecchia, ma quando lo
vide lo Strazza, non si ritenne dall'esaminare tutto con un'atten-
zione quasi feroce. Poi alz6 gli occhi sul Fanfani, gli guard6 la tuba
il cui pelo pareva quello di un gatto quando soffia, gli guardb il
pezzolone, il roto!6, il caldano; torn6 a esaminare il banco, rialz6
gli occhi su lui, e, secondo il suo solito, esclam6 serio serio:
— Signor cavaliere, lei non deve avere la cova dei canarini ... I
II Fanfani, che si sarebbe aspettato magari un'ingozzatura4 ma
non mai una domanda cosl eteroclita, lo squadro alia sua volta,
e ridacchiando di quel suo riso indefinibile e fastidioso, rispose:
— Nossignore; o perch6? . . .
— Perch£ se Pavesse, qui sul suo banco ci sarebbe anche un
mazzetto di radicchio tenero!
Grasse risate del Fanfani e compostezza rigidissima dello Strazza,
che, come ho gia detto, matto com'era, pur non rideva mai.
i. rinchioccito: tutto raccolto in s6 e inebetito, come una chioccia che sta
covando. 2. Vincenzo Nannucci (1787-1857), erudito e letterato, si occup6
di provenzale, di grammatica storica e della nostra letteratura delle origini
(Manuale della letteratura del prime secolo della lingua italiana, 1837, e poi
1856 con un'invettiva contro P. Fanfani). II Carducci ne difese la memoria
contro le malignM del Fanfani (Per un filologo morto e galantuomo, in
Opere, xxv, edizione nazionale, pp. 68-75). 3- l>a moccolaia: le sbava-
ture di cera formatesi intorno al lucignolo e tolte con le apposite forbi-
cine. 4. ingozzatura: nianata sul cappello in modo da farlo entrare fino
al collo.
926 LEOPOLDO BARBONI
Vivente in una citta dove la spiritosaggine, il frizzo, Tepigramma
scottante e ingegnosissimo e la frase sboccata si sentono scoccare
a ogni passo, egli, spiritoso di suo, ma non di quella vena che e
tutta propria dei fiorentini, se ne deliziava, e provocava spesso i
monelli o le trecche1 di mercato o gli strilloni, pel solo gusto di
sentirsi dare una risposta amena da fargli dimenticar piu che mai
i debiti che aveva, o arrivare una risposta, pepata cosi, da fargli
sgallare la pelle, anco se 1'avesse avuta di tamburo.
Piu che altro lo rapiva un venditore di castagnacci, un ometto
ingrembiulato come un cuoco delle cucine reali di Stoccarda, con
una gran teglia puntata contro 1'anca sinistra e un gran coltello nella
man destra.
Alle dieci in punto, nelle mattinate d'inverno, a quelle brezze
purificanti, che scendendo giu da Fiesole trinciano il viso come
fili di rasoio, Tometto si piantava in Piazza la Signoria, proprio
sotto il Perseo di Benvenuto Cellini, e tra lo smammolarsi2 dei vet-
turini e le risate scorbellate delle serve e le smorfiette delle crestaine
e i sorrisi rassegati3 delle guardie municipali, gettava il suo grido
sfidante le crudezze invernali e magnificante il suo genere alimen-
tario : « Bolle, bolle, bolle, bolle . . . » e chiudeva con un doppio
senso, una vera gemma, che per6 sara meglio lasciare nel cala-
maio . . .
Ed ora una birichinata. Non e improbabile ci sia ancora qual-
cuno che ricordi aver visto sulle cantonate di Firenze, il 1870, una
gran quantity di copie di un punto interrogative, di mezzo metro
e piu, stampato nudo bruco in un enorme foglio di carta rossa, e
ricordi le guardie in convulsione, le centomila chiacchierate, le ipo-
tesi sbalorditoie dei giornali e PafFollarsi del popolino che a naso
a 1'aria, farneticando, arzigogolando, si pigiava e commentava ovun-
que trovasse quel misterioso gancio nereggiante in campo rosso.
In quel torno di tempo, attraversando una notte a ora tarda Piaz
za Barbano, in compagnia di un celebre cantante, mi pare il Bau-
carde,3 Ettore s'incontr6 in due signori, marito e moglie, forse,
che Pattraversavano pure. Egli, risoluto, si avvicin6 alia donna, e
salutatala, esclam6:
i . trecche : ciane, popolane del mercato (dal tedesco Trekken, riven dugliole
d'erbe e di frutta). 2. lo smammolarsi: 1'abbandonarsi interamente al pia-
cere; il ridere di gran gusto. 3. sorrisi rassegati: sorrisi freddi, controllati
e contenuti. 4. Baucarde: vedi la nota i a p. 427.
GE'NI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 927
— Signora, in nome del punto interrogative voi mi darete un
bacio . . .
Si vide un bastone alzarsi in aria minaccioso, la signora gett6
uno strillo e fuggi via, il marito le corse dietro sacramentando ; il
cantante, trasecolato, afferr6 lo Strazza per i polsi, e, un istante
dopo, rimmensa piazza tornava quieta.
Al tocco, alle due, alle tre di notte, mentre tutti dormivano, egli
affacciavasi sovente al terrazzino del suo salotto recitando luoghi
di un'amena parodia che allora faceva del canto dantesco di Ugo-
lino. Certe volte domandato dalle guardie che cosa intendesse fare
e che estri fosser quelli, — Magnetizzo — • rispose — il Porcellino di
bronzol — Abitava, come ho detto, un quartierino di due stanze a
un primo piano delPantica via Portarossa, in faccia alia Loggia di
mercato novo, dove un tempo ebbe bottega d'orafo Benvenuto Cel
lini, e dalle sue due finestre si godeva la vista del cinghiale di bronzo
(il superbo originale 6 agli Uffizi), che il popolo appunto chiama da
secoli il Porcellino. Ora li, presso quella Loggia e quel cinghiale,
molto e scomparso sotto la fregola del piccone, che, per darci vie
larghe e diritte, a Firenze (come a Roma e dovunque) proclama la
civilta rivaleggiando coi barbari di Alarico. C'eran piu bellezze so-
vraccariche di storia ai piedi della Colonna di mercato e della Tor
re dei Caponsacchi* che non in tutti gli edifizii smorfiosamente
parigineschi formanti la Piazza del Centre e inquadranti il monu-
mento al Gran Re.2
Dello Strazza serbo due sonetti, stupendi per la stretta3 spirito-
sissima, e pel verso che ha movenze felicemente dantesche. Sono
dei suoi migliori, e, puo dirsi, improwisati, perche" scritti col lapis
sul marmo di un tavolino del Melini. Forse e senza forse, la fa
cile vena di Giuseppe Regaldi (anch'egli di cotesti tempi capitava
i. NelPantico centre di Firenze, detto Mercato Vecchio, si apriva la piazza
chiamata Foro del Re: su essa, fra molte altre anch'esse demolite, si affac-
ciava la Torre dei Caponsacchi, e in un angolo si innalzava la Torre della
Dovizia o dell'Abbondanza (Colonna di Mercato}, sormontata da una sta-
tua. Oggi la Torre, con una statua, e stata ricollocata nella piazza, della
Repubblica. Vedi G. CAROCCI, Firenze scomparsa, Firenze, Galletti e Cocci,
1898. 2. il monumento al Gran Re: la statua equestre di Vittorio Emanue-
le II, opera di Emilio Zocchi (1890), era al centro della piazza detta allora
del Centro o Vittorio Emanuele, e oggi « della Repubblica ». 3. la stretta:
la chiusa.
928 LEOPOLDO BARBONI
qualche volta a Firenze, e, sebben franato,1 prendeva parte al ce-
nacolo) non ne ha che li agguaglino. Peccato che non si possano
riportare! Eppure c'e stato in Italia, pochi anni or sono, chi si e
preso T income do di regalarci un commento dei lerciumi di Niccol6
Franco,2 e con che pompa d'erudizione pitoccata e con che lusso
editoriale!
Dei due sonetti, uno s'intitola da un prete, arrestato per amori
non evangelici in un ingresso del vicolo deirOca, e scritto, come
ho detto, col lapis, su un tavolino appena giunta la notizia calda
calda, e nel tempo stesso che su un altro, non so piii bene se il
Coppola3 (il famoso e dimenticato Pompier e del «Fanfulla») ne
buttava giu un salace stelloncino di cronaca pel fortunatissimo e
piacevolissimo, in allora, giornale fiorentino, di cui, mi affermano,
era dei primi abbonati Sua Santita spiritosissima papa Pio IX.
L'altro, anche piu bello, piu signorilmente scurrile, dice li imma-
ginari trionfi amatorii di un awocato pisano, Gherardo Gherarduc-
ci, splendida vegetazione umana e cervello men che di passerotto ;
notissimo, fra Livorno Firenze e stradale, per ghiribizzi forensi,
per una clamorosa fuga su pei tetti nell'occasione, me presente, di
quando Garibaldi dopo la ferita d'Aspromonte fu trasportato per
cura a Pisa; per due lunghe biondicce fedine ondulanti al vento,
per un ritratto al naturale, vera opera fotografica del Montabone,
vanitosamente troneggiante per anni e anni sulPangolo di via Ron-
dinelli, e, piu che altro, per la copia spaventosa di ponci e d'assenzii,
si che poi ne mori. A questi bersagli poetici il Gherarducci non
era nuovo, e ricordo anche due versi inediti, di che lo bol!6 un
celebre e gaio poeta, vivente tutt'oggi a Firenze, e amico mio fin
dalla prima giovinezza. Dicevano e dicono cosi :
Fra tetti e tegoli, quadri e quadrucci
nacque quell'ebete del Gherarducci.
i. franato: rovinato, invecchiato; Giuseppe Regaldi (1809-1883), poeta e
improwisatore, viaggiatore e studioso di cose storiche, fini la sua vita pro-
fessore di storia alPUniversita di Bologna, dove gli fu critico amico il
Carducci. 2. Niccold Franco (1515-1570), poeta e avventuriero, finl im-
piccato dall'Inquisizione per i suoi libelli. Qui il Barboni allude soprat-
tutto ai suoi sonetti contro 1'Aretino (1541), ai quali il Franco fece seguire
(1542) un'oscena aggiunta intitolata Priapea. 3. Luigi Coppola, nato a
Napoli verso il 1830, era allora capo servizio del ministero deiragricoltura
e foreste, ma la sua notoriet£ deriva dai molti articoli gioviali che firmava col
pseudonimo di Pompiere.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 929
Dello Strazza andava pure di bocca in bocca un epigramma vera-
mente caustico fatto intorno a Vittorio Emanuele e chiudentesi
con la sgrammaticatura attribuita scioccamente al Lanza:1 Ita-
glia, invece d'ltalia. Ettore riseppe che il Re se lo era fatto recitare
da Quintino Sella,2 e che ridendo bonariamente con quella sua fac-
cia franca e aperta, aveva punteggiato con un cuntacc!3
Una sera quel giovane li, che pareva fatto di ferro benche bran-
colante nello sfacelo del suo animo, mi sembro avesse il pianto
alia gola. M'arrischiai fargli coraggio, ed egli mi attanaglio le brac-
cia, e, ridendo un riso stravolto, disse i versi del suo morto amico
Emilio Praga:
Vorreifarmi carnefice,
vorreifarmi becchino,
per lacerarti, o secolo,
il manto d'arlecchinol*
E due lucciconi gli cadder giu per le gote. Sempre cosi! Eppure
la colpa non e poi tutta del secolo, ma piuttosto di chi a traverso il
secolo non sa camminare. Del resto egli era buono, e lo amavano
tutti, dal piu focoso repubblicano ai compilatori del « Fanfulla ».
Mori di venticinque in ventisei anni, e, mi dissero, profetando la
sua fine con prescienza, con chiaroveggenza cinicamente inappun-
tabile, o quasi. Si trovava in una conversazione di cui egli, come
sempre e dovunque, era Panima. Quando si congedo, guard6 tutti
fissamente, e disse:
— Signore e signori, annunzio loro che domani sera a quest'ora
sar6 morto!
— Gran burlettone!
La mattina dopo, egli, che odiava il letto, non si alz6, e due
giorni dopo una violenta perniciosa lo spengeva.
Trespiano e uno dei camposanti di Firenze, e la Ettore Strazza
dorme. O amico, sono passati a diecine gli anni sulla tua fossa, ma
non gia tu mi sei passato ne" mi passerai mai dalla mente e dal
cuore!
i . Lanza : vedi la nota 4 a p. 457. 2- Quintino Sella : vedi la nota zap. 456.
3. cuntacc!: vivace interiezione dialettale, simile all'italiana «caspita, per-
bacco». 4. Sono i w. 1-4 di Spes unica.
59
930 LEOPOLDO BARBONI
L'ANIMA EROICA DI GIOVANNI NICOTERA1
(Alia cara memoria di Giuseppe Bandi)2
Era una promessa cheioaveva appunto con lui, col povero Bandi!
— Poiche vai in Sicilia, — mi diss'egli fra un bacio e Faltro — quan-
do ti piaccia, visita anche per me Forrida fossa dove tanto sofferse
Giovanni Nicotera,3 e scrivine per la mia «Gazzetta livornese ».4
Ahime, la promessa e mantenuta, ma non tu mi leggerai, o dolce
amico, o valoroso ferito di Calatafimi, nella esuberanza della vita
ferocemente assassinato dal pugnale di un vile anarchico!
L'isoletta di Favignana, Fantica Egusa, nej cui paraggi Lutazio
Catulo sbaraglic- Farmata punica nel 242 avanti Cristo, si mostra a
occhio nudo nettamente delineata in un trionfo d'azzurro di mare
e cielo, a dodici miglia da Trapani d'onde partii con la barca postale
il 3 agosto 1894, saettato dalla canicola. A bordo c'erano barili vuoti,
cestoni pieni di bottiglie di gassosa, due ragazzi stuzzicantisi con
accanimento febbrile i buchi del naso, e due donne che andavano
a rivedere i loro mariti, relegati a domicilio coatto. Anche c'era un
professore di scienze naturali, il quale veniva a Favignana per istu-
diarne, credo, cosi a scappa e fuggi, i caratteri geologici e in pari
tempo per accertarsi se le zanzare di la avessero il pungiglione da-
vanti oppure al polo opposto, e se le mosche avessero sei gambe,
come quelle del resto d' Italia, owero sette, e fossero uggiose, e
volassero e ronzassero e s'impigliassero nei ragnateli e facessero
tant'altre belle cosettine con la terminazione in assero.
Sotto il soffio del vento, la vela rigonfia pieg6 presto quasi un'ala
poderosa di gabbiano che sfiorasse il pelo delPacque, e una lunga
scia gorgogliante m'indic6 che volavamo sfidando lo stellone del
sole, che picchiava diritto e abbrustoliva.
A mano a mano che ci awicinavamo, il monte che domina Fiso-
letta mi discopriva i suoi fianchi aridi, e in cima in cima, su un grup-
po di macigni granitici, il forte di Santa Caterina, svelto di fuori,
i. Ed. cit., cap. vm, pp. 189-220. 2. Giuseppe Bandi: vedi la nota 3 a
p. 438. 3. Giovanni Nicotera: vedi la nota zap. 439. £ superfluo ripetere
quanto abbiamo detto, in generate, nel Profilo biografico del Barboni:
1'autore e portato dal suo entusiasmo a ingigantire le figure che gli sono care,
si che i fatti, certamente eroici, si colorano drammaticamente e la narra-
zione assume toni troppo enfatici. 4. II Bandi dal 1872 ebbe la direzione
della ^Gazzetta livornese^: nel 1876 acquist6 la proprieta del giornale.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 93!
spettrale nei meandri del suo interne. Lassu a quell'altezza, l'n
maggio del 1860, Garibaldi punto dal bordo del Ptemonte il suo
cannocchiale, e a varii fra i Mille che gli stavano attorno, fra cui
Beppe Bandi, accennando disse : — La, o amici, e sepolto vivo il
povero Nicotera! Fra pochi giorni lo libereremo o morremo. —
Egli ignorava che da un anno e mezzo il condannato era stato
tradotto nella bassura di San Giacomo.
Alle 3 e minuti la barca postale appro dava al piccolo molo di
Favignana, ed io e il professore scendevamo avvampati dalla cal-
dura, dirigendoci quasi di corsa all'albergo (un albergo dalPentra-
tura nata da un parto con Pantro di Trifonio1), pregustando la
poesia della tavola; perch6 le memorie patrie son belle e buone
e care e santissime, ma non vanno mai viste ne meditate a traverso
gli abbarbagliamenti degli occhi o le nebulosita della mente provo-
cati dai languori del triste sacco. E ci sciacquammo, ci sciorinammo
e mangiammo; poi suirimbrunire si uscl per le vie delFaffocata
cittadina, aspettando dinoccolati Fora canonica d'andare a letto.
La quale venne; ma fu notte bianca, o quasi, a cagione del caldo,
delle zanzare, delle pulci e di due letti scelleratamente affricani.
Alle 5 in punto del domani mattina, due favignanesi vennero,
giusta il fissato, a trarci dalF alb ergo, e fatta prima una visita infrut-
tuosa al forte di San Giacomo, prendemmo Terta che mena a quello
di Santa Caterina. L'aurora splendida, non per6 fragrante pel fe-
tore della tonnara che costeggiammo, ci fu arnica per poco, perch6
il sole ci sfavil!6 in un batter d'occhio alle spalle sorgendo spavalda-
mente di dietro i monti di Trapani. Pareva un demonio borbonico
(gli chiedo scusa della comparazione insultante) che presumesse
inibirmi di andare a frugare fra quei rottami della fosca dinastia
marchiata della frase rovente di « negazione di Dio ».2
Trecentoquaranta metri sul livello del mare non sono un gran
che; Flmalaia e piu alto, s'intende; ma pure quella salitaccia trac-
ciata a spinapesce per attenuarne Tasperita, non veniva mai a fine,
i. Vantro di Trifonio : credo sia mero errore del proto o lapsus memoriae
del Barboni. L'allusione sarebbe, in tal caso, al celebre antro (oracolare)
di Trofonio a Lebadea in Beozia. 2. negazione di Dio (e cfr. p. 945) :
questa definizione del governo borbonico divenne universalmente celebre
grazie allo statista inglese William Gladstone (vedi la nota i a p. 561) nelle
sue Two Letters on the State Prosecutions of the Neapolitan Government
(1851) indirizzate a Lord Aberdeen. Cfr. Gleanings of Past Years (1851-
77), iv, London, Murray, 1879, p. 7.
932 LEOPOLDO BARBONI
e alFatto di porre il piede sul primo gradino della scala esterna che
mette nel castello, grondavo addirittura.
Vincenzo, un giovinotto dell'isola ch'era venuto ad aprirci e che
aveva dimestichezza grande col reo edifizio, mi fece attraversare
la stanzuccia d'ingresso, e mi trovai subito in un cortile angusto
a' cui lati si dilungano due corridoi, a volta, bassi, dalFintonaco
macerato dalFumidore e ricoperto d'una muffa d'un verde che da
in nero. Tuttoche il piii vivo sole siciliano splendesse, e dalla
strombatura delFatrio venisse un sorriso di cielo azzurrissimo,
Foscurita silenziosa di quei corridoi mette va nelFanimo una infinita
mestizia. Feci tre o quattro passi sulla mia destra, e Vincenzo mi
disse :
— • Ecco, questa e la cella di Nicotera . . .
Ne avevo letto tanto e ne avevo sentito dir tanto, da presumere
che fosse come veramente me Fero immaginata; ma qualunque
fervidezza di fantasia si fa scolorita nel conspetto di quella sepol-
tura scavata nel vivo macigno. «Non v'ha esagerazione iperbolica
che possa sorpassare questa realta» direbbe il Kane1 a proposito
delle spelonche degli esquimesi.
Sopra la porticciola, alta un metro, larga uno e ottanta, si legge
un'iscrizione a mano. £ in poesia; anzi e un delitto di lesa poesia;
ma le muse non tengano il broncio a chi os6 caninamente attentare
al loro pudore (ben piii canini e pretensiosi attentati poetici sono
esse use oggimai a patire, e per le stampe); egli, lo zoppicantissimo
verseggiatore, aveva buono e generoso il cuore, come aveva fasciato
di lattuga il cervello. Dice cosi:
Qui giacquero le spoglie d'un tale
a cui '/ Borbon redder voile Vale;
ma Vale crebbero a suo dispetto
e di lui rimase che il cataletto;
I'anima spazid nel bel paese
criora sprona a buone imprese.
Vita lunga alVanima sua.
E anche alia mia. Del resto e cosi gentile Fintenzione, e quelFan-
tro mi parlava cosi eloquentemente in nome del martire della li-
berta, ch'io mi guardai bene di dare la via a una sghignazzata fra-
gorosa. Penetrai nella spelonca frugando invano con 1'occhio. Un
i. Elisha Kent Kane (1820-1857), esploratore americano che in una spedi-
zione (1853-1855) fece important! osservazioni sulla Groenlandia.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 933
filo di luce scialba rischiarava, si e no, un breve tratto delfumida
parete in faccia alPuscetto; tutto il resto era involto in un buio
profondo, reso piu sinistro da un'aria irrespirabile.
— Ma e possibile — domandai — che qui sia vissuto per mesi e
mesi un uomo, senza sentire il bisogno di sfracellarsi il cranio con-
tro le pareti ? £ dunque proprio questa la galera di Nicotera ?
— £ questa, e questa — mi rispose Vincenzo.
Ah, Carlo Pancrazi!1 pensai fra me. Dio, nella sua smisurata mi-
sericordia, non tenga conto delPinsulto che lanciasti al glorioso
ferito di Sapri chiamandolo «un volgare audace»! E mi parve che
Tombra del tozzo e guercio e cresputo e panciuto direttore della
morta «Gazzetta d' Italia » mi comparisse davanti con quel suo
sogghignetto mefistofelico, in compagnia del suo farisaico Enrico
Montazio,2 e, piccato, mi ripetesse quel che tante volte mi aveva
detto a Firenze: «I1 Nickotera» (pronunziava cosi) «il Nickotera
e un traditoreU
Fu acceso un pezzo di candelotto, e la spelonca mi si rive!6 a
poco a poco in tutta intiera la sua tetraggine. Nulla di piu spaven-
toso. Dante nella sua tragica fantasia medioevale, ne avrebbe preso
Pidea per una fra le piu incresciose bolge del suo Inferno. L'oftal-
mia, le febbri, Panchilosi, i gonfiori di glandole, lo spasimo del
mal di denti, i vomiti di sangue, la soffocazione, la disperazione
delPanima, ecco a che cosa equivaleva quella cella. D'inverno, ac-
qua putrida, limacciosa, asfissiante, e il freddo che assidera, e la
funga che ricuopre i muri, i talponi, i lombrici, i ragnoli schifosi;
d* estate, il caldo che prostra, le tarantole, le formiche, il lezzo pesti-
fero che poteva portarsi via Puomo con una violenta tifoidea, le
zanzare a sciami, le piattole3 immonde.
Sicuro; anco le piattole immonde. E mi garba ripeterlo, perch6
quando questo scritto comparve sulla «Gazzetta livornese», quel
professore di scienze naturali, che ho ricordato piu sopra, schiamaz-
z6 come una gallina quando ha fatto Puovo, appunto contro quelle
povere piattole, o per dir meglio contro la mia penna, credendomi per
awentura un indigeno delle isole Rossell4 presumente scrivere in
i. Carlo Pancrazi, nato a Cortona nel 1836, datosi al giornalismo, prima, con
il Bonghi (vedi la nota 2 a p. 483), fu redattore nella « Stampa» di Torino,
poi cre6 a Firenze la « Gazzetta d'ltalia » (1865), organo del partito modera
te. Polemizz6 contro gli atteggiamenti di Nicotera e ne nacque un processo,
verso la fine del 1876. 2. Enrico Montazio : vedi la nota i a p. 910. 3. piatto
le : qui per scarafaggi. 4. isole Rossell : isole del mar dei Coralli nell' Oceania.
934 LEOPOLDO BARBONI
italiano, anziche un toscano nato proprio sull'Arno. Quel profes-
sore asseriva che piattole e piattoni1 (con rispetto parlando) sono
tutt'una cosa, e nel sacrario della coscienza pudibonda trovava di-
sonesto ch'io avessi ricordati e dati a Giovanni Nicotera insetti,
a udire il nome dei quali monsignor Della Casa sarebbe stato colto
da una febbre a quarantadue gradi. E anche trovava temerario che
io, prima di scrivere, non avessi attinto alle pure fonti della sua
dottrina zoologica, e, a giudicarne, perfino filologica.
Ah no; piattola, piattola dunque; non piattone, signor dottore
e professore! Piattola: animaluccio grosso quanto il polpastrello
di un dito mignolo, gelido, schiacciato, nero, che prolifica e vive
beatissimamente in luoghi sozzi ed oscuri.
E ritorno nelFantro.
Lo misurai rigorosamente. Lunghezza, sei metri e 40 ; larghezza,
due; altezza, tre e 25. NelPangolo, a destra, una finestrella alta
settantacinque centimetri e larga trentacinque fu murata, mi di-
cono, per aggiunta di supplizio, quando vi fu chiuso il Nicotera.
Subito sotto, scritte col carbone, si leggono anc'oggi poche parole,
le quali fino a non molto fa si leggevano per intiero e suonavano
cosi : « Qui fu sepolto vivo lo sventurato ergastolano politico Gio
vanni Nicotera». Presso a questa, sulla parete in vicinanza dell'an-
golo, quest 'altre che sono quasi sempre leggibilissime : « O tu che
avrai la sventura di stare in questo luogo, preparati a sofFrire tutti
i tormenti. Sarai punzecchiato da milliaia di zanzare, oppresso dal
fumo ; quando piove vedrai sorgere Tacqua dal suolo ; sarai afHitto
da forti dolori a causa delFumidita che ti fara trovare tutto bagna-
to ; sarai appestato dal f etore del vicino luogo immondo ».
Io sapeva che quest' ultima iscrizione era veramente di proprio
pugno del Nicotera, e ch'egli lo aveva afTermato a chi gliene ri-
chiedeva dopo qualche anno. — Ma non e credibile ne che la scri-
vesse, ne che lo affermasse.
Un'altra iscrizione a mano si legge pure sul muro, di fronte alia
fmestrella, e dice cosi: « Fu questa la tremenda segreta dove giacque
Giovanni Nicotera, vittima di quelFinfame dinastia sbalzata piu
tardi dal trono di Napoli per sua cooperazione ». Sotto, si nota una
scassinatura dove senza dubbio doveva essere infisso il pancaccio, il
i. piattoni: una particolare specie di pidocchi.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 935
quale si stendeva a un cinquanta centimetri al di sopra di una specie
di terrapieno, cordonato di pietra viva, largo due metri, lungo uno e
80, alto 50 centimetri. Un altro terrapieno identico e alia destra della
cella; e tramezzo ad essi il solaio, che nelTinverno s'empiva d'acqua
fetida e micidiale. Sempre nella cella, a sinistra di chi entra, una
nicchietta scavata nel muro, fonda 15 centimetri e alta 20, serviva
per la candela o la lanterna che fosse, durante qualche visita offi-
ciale. Finalmente, nel tetro corridoio, quasi in faccia alia spelonca,
notasi una nicchia scavata nel tufo, e d'onde una sentinella armata
di fucile teneva giorno e notte 1'occhio alia porticciola ferrata che
chiudeva il terribile rivoluzionario.
Faceva paura davvero quel galeotto al bieco re di Napoli Ferdi-
nando II, dapprima, a Francesco II, o Franceschiello, o bombi-
cello, dappoi; « miserable ventenne», quest'ultimo, comelo chiamb
Victor Hugo,1 che nell'eta in cui si arna, in cui si crede e si spera,
torturava e ammazzava; quel fanciullo coronato che seguiva scru-
polosamente la politica del suo bisavolo,2 il quale affermava sog-
ghignando che i popoli si reggono con tre efFe: Feste, Farina,
Forca!
Eppure, ne trenta libbre di ferro ai piedi, ne 1'orrendo buiore,
n6 1'acqua putrida, ne le febbri continue, n6 gli sbocchi di sangue,
n6 1'occhio vigile della sentinella domavano il Nicotera. Egli che,
ferito e sanguinante, il giorno dopo 1'eccidio di Sapri, a una turba di
contadine imbestiate che volevano obbligarlo a gridare « Viva il re di
Napoli», rispondeva con fierezza antica romana: — Morte al re! — ;
egli che nel tribunale di Salerno tirava, con muta ma eloquente
•forza d'argomentazione, un calamaio di bronzo nella testa al pro-
curatore generate che gli aveva parlato irreverentemente; egli che
al cancelliere dello stesso tribunale che gli aveva letto la condanna
a morte, gridava sul viso, ovverosia sul muso: - Grazie a voi e ai
vostri giudici! -; egli, dicevo, ne si frangeva, ne si piegava. Pareva
lui il re, e il re il condannato.
Proprio cosl.
Che tempra ferrea di calabrese! Era nato il 1831 a Sambiase, in
provincia di Catanzaro; era barone, senza le infingarde e ciuche
i In Actes et Paroles. Pendant I'exU, pp. 244-5 (dell'ed. Nelson). 2. bisa
volo: Ferdinando I delle Due Sicilie, gia IV prima che Napoleone lo spo-
destasse; su Francesco II vedi la nota 2 a p. 430.
936 LEOPOLDO BARBONI
altezzosita spagnolesche di quasi tutta Timmensa gramigna del ba-
roni gravante 1'Italia meridionale ; era nipote del Musolino,1 eroi
sacrati all'ideale della patria, e, forse per questo, giovinetto di quat-
tordici anni, aveva posto la sua firma al catechismo della ccGiovane
Italia» guardando al Mazzini come si guarda a un nume. Aggiun-
geva fiamma a quella sua fede negli alti destini della nazione un
uomo illustre, Luigi Settembrini;2 un maestro e un discepolo,3 die
dovevano presto provare i morsi e gli artigli della rea bestia borbo-
nica. A dicennove anni il lioncello si getta anima e corpo nella ri-
voluzione calabrese, e il fatto di Angitola4 e sua prima gloria;
ma soffocati i moti fra stragi orrende, si esilia sdegnoso. Un anno
dopo, Roma e Garibaldi lo chiamano, ed egli accorre col palpito
di un ventenne accorrente alia voce della donna amata. £ il 30 aprile
1849. Mirabili i cento episodii di quella giornata epica. Scegliamone
uno; questo, ch'e la seconda gloria di Giovanni Nicotera. Con un
pugno d'eroi, Garibaldi si awenta contro un pugno di francesi
fulminanti da un villino. Un cancello di ferro arresta d'un tratto
quella corsa. Due animosi tentano romperlo, e cadono morti; vi si
provano altri, e ugualmente cadono crivellati di mitraglia. Vergo-
gna della Francia repubblicana d'allora; Voltaire in piviale che
assassina Giordano Bruno! Garibaldi tuona: «Avanti!» All'im-
prowiso un giovine scavalca morti e feriti, afferra il cancello, lo
squassa, lo sganascia, lo spalanca, e seguito dai compagni, agi-
tando alto un pugnale, assalta il villino, vi irrompe e fa prigionieri
i . dei Musolino : il Nicotera era figlio di una sorella di Benedetto ( 1 809-
1885) e di Pasquale Musolino. I Musolino di Pizzo di Calabria furono tra i
piu animosi patriotti: il padre, sostenitore della Repubblica partenopea
nel 1799, fu poi massacrato, inerme, nel 1848. Benedetto, arrestato, pro-
cessato e poi assolto nel 1839 dopo piu di tre anni di carcere; deputato a
Napoli nel '48, fuggito in Calabria dopo il 15 maggio a suscitarvi la rivolta,
esule successivamente ; al seguito di Garibaldi nella difesa di Roma del
1849 e nella spedizione dei Mille, fu infine deputato dal 1861 al 1880, e
senatore dal 1881. 2. Luigi Settembrini (1813-1876), patriotta e letterato
napoletano, piu volte imprigionato dal Borbone e condannato a morte nel
processo della setta delFUnita d' Italia. La condanna capitale fu commu-
tata nell'ergastolo a Santo Stefano (ottobre 1852) donde usci il gennaio
1859, per la liberta in Inghilterra e in Piemonte. 3. un maestro e un disce
polo: il Nicotera fu allievo del Settembrini nel collegio di Catanzaro.
4. Angitola e un torrente fra Monteleone e Nicastro, in Calabria. In questa
zona, nel 1848, il generale Nunziante trov6 una fortissima resistenza da
parte dei patriotti comandati da Antonio Francesco GrifTo, tra i quali
combattevano il Nicotera e Benedetto Musolino. II combattimento cul-
min6 nella giornata del 27 giugno 1848.
GENI E CAPI AMENI DELL' OTTOCENTO 937
i francesi, il cui capitano gli consegna la spada. Era lui, il Nicotera.
Altri eroismi lo attendono, sempre la, sul divino Gianicolo. Al Ca
sino dei Quattro Venti, mentre lotta con Tanima e il braccio d'un
personaggio ariostesco, due palle lo colpiscono, e cade. Cade con
lui un altro glorioso, destinato a gran fama, Goffredo Mameli; e a
lui il Nicotera chiudera gli occhi in una corsia di spedale, d'onde,
guarito, tornera a pugnare, finche penetrando le orde sagrestane in
Roma, esulera in Piemonte.1
Lo chiamera da quell'esilio, nel 1857, un altro eroe, il suo amico
Pisacane. Siamo alia Spedizione di Sapri;2 folle spedizione, secondo
i piu, e sara; ma vero e altrettanto che le pagine piu radiose della
storia dei popoli sono quelle che una grande follia occasion6. De
falcate Cappellini da Lissa,3 ed avrete la notte e la vergogna, senza
il giorno e Ponore. Siamo dunque a una follia che e quanto dire la
pagina piu bella della vita del Nicotera. Un manipolo di ardimen-
tosi salpa da Genova col Cagliari\ in alto mare s'impadroniscono
della nave, filano per Ponza, vi appro dano, con le pistole in pugno
s'impossessano delle armi di che & fornito quel penitenziario, ripi-
gliano il mare e sbarcano sulla spiaggia calabrese presso Policastro.
Li guida Carlo Pisacane, fiammeggiante dall'anima; gettano in-
vano il grido di «Viva 1' Italia !» fra gente arretrata di duemila
anni, e su su, sempre sperando, s'inerpicano pei monti. A Sapri
sventolano e piantano in terra la bandiera tricolore ripetendo gli
evviva. Chi li comprende? Nessuno. Si risponde loro: «Viva lo
re!», e quelli sciami di villani abbrutiti, rafforzati da ciurmaglie di
soldati, gli attacca e gli sopraffa. Pisacane e fatto a pezzi, e con lui
cade il Nicotera per dodici ferite d'arma bianca alia testa e due di
fucile. Si trascina carpone presso un ciuffblo di stipe rigando di
sangue il sentiero, ma la lo raggiunge un nuvolo di contadine sel-
vagge, che vuol finirlo; e lo avrebbero fatto, se i soldati borbonici
non lo avessero contrastato loro per trascinarlo in un convento del
1. Qui la concitazione e la concisione prevalgono in Barboni su 1'acribia
cronologica. Nicotera assiste il Mameli, bensl, e rimase, dopo la sua morte
all'Ospedale dei Pellegrini il 6 luglio 1849, in Roma occupata dai Francesi
fino al successive 4 dicembre. Ma le truppe dell'Oudinot gi& erano entrate
in Roma, dopo la capitolazione della Repubblica mazziniana, il 3 luglio.
2. Sulla Spedizione di Sapri si veda N. ROSSELLI, Carlo Pisacane nel Risor ~
gimento italiano, Torino, Bocca, 1932, e ora Milano, C. M. Lerici, 1958. II
Nicotera si prese poi cura come di figlia propria della Silvia figliola del Pi
sacane. 3. Cappellini: vedi la nota 2 a p. 905.
938 LEOPOLDO BARBONI
luogo prima, nelle prigioni di Salerno poi. Quivi e processato e
condannato a morte, ma dalla nobile Inghilterra, arnica sempre
del liberal! italiani (ne informi lord Gladstone, che nell'ergastolo
di Nisida visita Pironti e Poerio)1 parte una voce che gli fa com-
mutare 1'estremo supplizio nella galera a vita. Ribaditagli al piede
e al polso una catena di trenta libbre, lo seppelliscono vivo alia
Favignana, nel forte di Santa Caterina.
Era stato tradotto in quell' antro orribile su' primi del giugno
1858. Salendo Terta del monte lo tenevano accerchiato gendarmi,
poliziotti, e un manipolo di fantaccini. Aveva capelli e barba rasati
come il piu volgare fra i condannati, e indossava un abito di casi-
mirra cenerina. II suo viso era pallidissimo, anzi di un colore piu
terreo della terra stessa che calpestava; pareva il viso di un agoniz-
zante; eppure tutte le audacie della rivoluzione erano in lui e sali-
vano con lui quel calvario, per manifestarsi piu tardi in un cor-
ruscamento epico prodigioso, fra il martellare delle campane e il
barbaglio della camicie rosse. II suo passo sicuro, Tocchio ardito
rotante in quel pallore di volto, Timpettitura altiera, facevano di lui,
incatenato, un uomo piu libero di tutto quel pecorume in divisa
borbonica, che lo guardava curioso e ne provava soggezione.
Non par!6 mai, non gett6 mai un'occliiata ne direttamente ne" di
sbieco agli sgherri e ai soldati; soltanto a un certo punto si sofTerm6,
e quasi studiando la costa occidentale della Sicilia, che spiccava a
poche miglia lontano, sussurr6 come parlando a se stesso:
— Quella e Trapani, quella la e Marsala . . .
I poliziotti n'ebbero paura, e la sera stessa, appena gettatolo e
chiusolo nella spelonca, riferivano al giudice locale quelle parole,
secondo loro misteriose; e il giudice, piu dei poliziotti atterrito,
dava ordini immediati per una sorveglianza speciale, esagerata.
i. II Nicotera aveva sposato la sorella di Carlo Poerio (1803-1867). Come
ii Settembrini, Carlo Poerio fu arrestato nel 1849 e condannato a morte,
ma anch'egli ebbe commutata la pena. Nel 1859, dopo 1'indulto borbonico,
sbarcarono insieme in Irlanda. Fu deputato del Parlamento subalpino.
Dopo il '60 si ritir6 a vita privata; Michele Pironti (1814-1885), della
provincia di Avellino, gia magistrato, ebbe la stessa sorte del Settembri
ni e del Poerio. Liberata 1'Italia meridionale, fu deputato, alto magistra
to, senatore dal 1869 e, nello stesso anno, guardasigilli nel ministero
Menabrea. Per un generoso errore, frequente ancora in Italia, Barboni
da qui (e a p. 943) titolo di lord al Gladstone che fu sempre e soltanto un
commoner (o «borghese»).
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 939
Povero Nicotera! Passava intiere giornate steso lungo sul suo
pagliericcio, sostentandosi quasi esclusivamente di latte, forse per-
che i dolori al petto cominciavano a tormentarlo. Ma la fierezza m-
domita non lo abbandonava. Una sera un soldato napoletano ve-
dendolo con la fronte appoggiata alPinferriata a croce del piccolo
sportello della porta, gli si awicin6, e nella sua rozzezza gli chiese :
— Come stai?
— Benissimo . . .
— Ma staresti meglio se, invece die qui, tu fossi a Napoli, 'opaese
mio.
— No, — rispose il Nicotera — perche a Napoli c'e il tuo re.
E si ritirb.
Venne Fautunno con le sue giornate fosche, piovose; e la cella,
piu che mai buia, cominci6 a fare acqua dalle pareti, dalla v61ta,
dal solaio. Pareva una cloaca. II condannato era assalito da forti
attacchi di tosse, aveva frequenti sputi di sangue, e lo logorava una
bronchite acuta. Giaceva in quella bolgia da oltre un anno, quando
un giorno il comandante dei forti o galere delPisoletta, certo Ta-
rabba, insospettito che i detenuti politici comunicassero col di fuori,
ordin6 un'immediata perquisizione. Perquisitori furono il pretore
Nunnari e il cancelliere Carriglio. Fra i gettati in quelle tane, oltre
il Nicotera, anche si trovava un uomo destinato a gran fama per
altezza di mente, TUgdulena,1 reo anch'esso d'amore all'Italia, e
con lui altri, non gia pari nell'ingegno, piu che pari nelPodio al
servaggio.
La perquisizione non frutt6 nulla. Anzi, no, sbaglio; qualche
cosa frutt6: un sentimento di raccapriccio in cuore al pretore alia
vista del Nicotera trattato come una bestia. Sulla soglia delForrenda
tana il pretore ebbe un brivido ; tuttavia entr6 e frug6. Alle sue spal-
le, affollati all'usci61o, otto o dieci fra sgherri e soldati guatavano
come scimmioni. Seduto sul pancaccio, Giovanni Nicotera s'aun-
ghiava il petto, tossiva e si contorceva. La catena di trenta libbre
dava cigolii agghiaccianti.
— Signore, — favel!6 il rappresentante della legge — se volete av-
i. Gregorio Ugdulena (1815-1872), di Termini Imerese, sacerdote, inse-
gnante di ebraico dal 1843 all'Universita di Palermo, perde* la cattedra nel-
rinsurrezione siciliana del 1848 e fu chiuso nel career e di Santa Caterina
a Favignana. Dopo la spedizione dei Mille, fu deputato al Parlamento
italiano, professore di greco nelFIstituto superiore di Firenze (1865), e
successivamente (1870), di greco ed ebraico all'Universita di Roma.
940 LEOPOLDO BARBONI
valervi della mia presenza qui dentro, se volete essere tramutato
giu a pie del monte, nel forte di San Giacomo, eccovi carta e penna;
scrlvete una supplica al sovrano, ed io la raccomander6 quanto
posso all'intendente di Trapani — (nelle Due Sicilie, allora, i pre-
fetti si chiamavano intendenti, anche se non intendevano nulla;
cio che non e infrequente, nonostante ribattezzati).
Giovanni Nicotera si drizzo fieramente.
— Che dite voi ? Vi ringrazio ; ma io non sono uso a supplicare
tiranni.
I due s'inchinarono e uscirono di fretta, quasi pestandosi nel-
1'attraversare la soglia e guardandosi di scancio alle spalle, nel so-
spetto che quelFeroe, risollevandosi dal pancaccio, su cui subito
s'era lasciato ricadere, gli traforasse ancora con un'occhiata di
fuoco. Pochi mesi dopo Io tramutavano nel forte di San Giacomo;
non per pieta, per paura.
II forte, o bagno penale di San Giacomo, e subito fuori la gra-
ziosa cittadina di Favignana e quasi a livello con essa. Celle e ca-
meroni, aereati e tenuti come Tigiene e la civilta esigono, sono
sotto il suolo; di sopra, le stanze della direzione e i dormitori
delle guardie. E ce ne vogliono! Quand'io Io visitai o tentai vi-
sitarlo nel 1894, c'era (e ci sara ancora, e ci sara sempre piu, e in
perpetuo, purtroppo) il fior fiore dei coatti e dei delinquent! d'ltalia.
Cera fra i piu emergenti, o « illustri », 1'infame che aveva tagliato
a pezzi e salata Pinfelice Giuseppina Gazzara, 1'aveva messa in un
baule e 1'aveva spedita da Napoli a Roma, con ismanie grandi di
re Vittorio Emanuele II, che non ebbe requie nel nobilissimo cuore
finche non gli dissero che il mostro era stato scoperto e agguantato.
Cosi, come un irresistibile dascia passare», avevo portato meco
un vecchio viglietto di visita, che serbo con amore grande, del Ni
cotera stesso, di quando fu ministro di Stato. Con quel viglietto
(in cima al quale era ed & scritto di suo pugno : « E del mio cava-
liere ?...») recapitato a me un bel giorno delPottobre '77 al Mini-
stero della Istruzione, da me sfoderato sotto gli occhi o gli occhiali
neri del buon Michele Coppino,1 dal Coppino non degnato nemmen
d'uno sguardo, eppero per legittima o illegittima conquista rimasto
nelle mie mani: con quel viglietto, dicevo, speravo farmi largo a
visitare la cella occupata dal Nicotera, nel forte di San Giacomo,
i. Michele Coppino: vedi la nota 2 a p. 501.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 941
dopo il suo trasferimento dagli orrori di Santa Caterina. Quel
Giovanni Nicotera Ministro delVInterno, litografato in elegantissimo
inglese, avevo in mente facesse un grande effetto in quel luogo.
Braccai il generalissimo delle guardie carcerarie, lo scovai; il gene
ralissimo, un veneziano con grandi baffi, guard6 me, guard6 il vi-
glietto, lesse, ghigno, scapeggi6, borbotto un: «Cossa disela?» e mi
lascio su due piedi.
Sicuro ; volevo vedere l'« appartamento » del Nicotera a San Gia-
como, dove assieme ai compagni di martirio era stato portato su'
primi del glorioso 1859. Vaghe notizie di rivoluzione e di prossima
guerra con 1'Austria odiata erano penetrate in quelle fosse di Santa
Caterina, suscitandovi fremiti d'impazienza. Un bel giorno, a una
data ora, quasi avessero avuto Porologio in mano, si ammutinarono
tutti, patriotti e condannati volgari. Spaventato, il governo vuot6
subito un ergastolo e n'empl un altro, quello di San Giacomo,
meno spettrale, men rispondente alle crudezze borboniche, ma piii
formidabile. A Favignana, cosl mi dissero, non v'e ricordo ne di una
fuga, ne di un tentative di fuga. Da Scilla a Cariddi, dunque. II
Nicotera con due o tre compagni fu chiuso nel camerone, che e sotto
al ponte del castello, e sorvegliato giorno e notte alternamente da
due guardie, Scafida e Incandela, messinesi, il che e come dire
gente animosa e di cuore.
Qui entra in iscena un tale Andrea Livolsi, vivente tuttavia, far-
macista allora delPisola, intinto di cospirazioni egli stesso e in cor-
rispondenza col Comitato rivoluzionario segreto trapanese, capi-
tanato dal vice-console sardo. Lascio a lui intiera la responsabilita
di quanto mi narrava. Secondo lui il fatto seguente si svolge nella
cella di Santa Caterina e non gia a San Giacomo. Riporto a dilungo.
r 'Al Nicotera, infermo di bronchite, fu concesso un medico. Venne
PEsculapio, prescrisse, scrisse, e se ne and6. Subito dopo, il Nicote
ra strappava dalla ricetta una strisciuola di carta bianca, vi scriveva
su poche parole con agro di limone (unica cosa i limoni di cui fosse
costantemente prowisto), Paccartocciava e attendeva la consueta
visita della guardia carceraria. La guardia, lo Scafida mentovato
piu sopra, alle vive preghiere del condannato che lo esortava a con-
segnare al farmacista oltre la ricetta, quel pezzetto di carta, si arrese,
e corse a Favignana; e il farmacista, ricevendo quella strisciuola
e indovinando che doveva esservi scritto con agro di limone (o forse
942 LEOPOLDO BARBONI
che il Nicotera non ne aveva fatto mistero alia guardia), vi pass6
sopra la tintura d'iodio, e il carattere comparve. Vi era scritto cosi :
« Se appartenete alia bandiera della patria oppressa, v'incombe
certamente il dovere di non ricusarmi il vostro fraterno aiuto. Ho
bisogno di far pervenire una mia lettera al console d'Inghilterra in
Trapani o Palermo. Volete, potete accogliere le mie preghiere ? Gra-
dite i miei ringraziamenti e un saluto dal vostro fratello Nicotera ».
II farmacista scrisse all'istante la risposta con una soluzione
d'amido, vi rinvolt6 un boccettino di tintura d'iodio, preparo il
medicamento indicato nella ricetta, e mand6 tutto al prigioniero.
La risposta era questa :
<c Mandate quello che volete, chiedete tuttoci6 che possa occor-
rervi, fidate intieramente nello Scafida, uomo tutto mio, e nel vo
stro fratello A. »
Tuttoci6, questo uscire ed entrar di viglietti inamidati, di boc-
cetterie e di limonerie e di guardie non frugate, trattandosi di un
ergastolano politico, reduce da una passeggiatina di piacere a Sapri,
temibilissimo e temutissimo, mi sa un po' di miscuglio farmaceu-
tico. Tiriamo avanti.
II domani il Nicotera dava alia guardia una lettera che veniva
consegnata al console d'Inghilterra da un fratello del farmacista
stesso. Di li a sette giorni, due signori inglesi, cosi senza parere,
visitavano Pisola e il castello e si affacciavano alia feritoia della cella
del glorioso galeotto ; e finalmente un mezzo mese dopo compariva
a Favignana il direttore generale di polizia, Maniscalchi,1 di rea
fama mondiale, il collega d'Ajossa, il «bastonatore della Sicilia»,
come lo chiam6 Victor Hugo,2 un parente delPinventore della mac-
china angelica che stritolava le braccia e le gambe dei condannati.
Mi assicurava il farmacista, che appena posto il piede nell'orri-
bile fossa, Maniscalchi- lui! - sussurrasse : ((Per "qui" si va nella
citta dolente ...» Nicotera, senza guardarlo, senza fare un moto,
continuava a starsene lungo e sdegnoso sul suo giaciglio. II direttore
generale di polizia volse gli occhi in giro. Pareva trasognato. II
giudice, il soprintendente delle carceri, i secondini, le sentinelle,
nessuno batteva ciglio. Era una scena lugubre e solenne, meritevole
i. Maniscalchi: Salvatore Maniscalco, direttore della polizia siciliana dal
1849. Dopo la caduta dei Borboni si ritiro a Marsiglia, dove mori nel 1864.
II Barboni gli attribuisce qui la citazione dantesca, Inf., m, i. 2. Ajossa:
fu capo della polizia, a Napoli, e vi agi soprattutto dopo il 1848. E cfr., di
Victor Hugo, Actes et Paroles. Pendant I'exil, p. 243 (dell'ed. Nelson).
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 943
del pennello garibaldino di Girolamo Induno.1 A un tratto Mani-
scalchi chin6 lo sguardo sul condannato e gli chiese:
— Le piacerebbe cambiar di cella?
— Mi e indifferente — rispose Nicotera.
— Eppure, s'ella volesse presentarmi una sua supplica diretta
alia clemenza del re perche le sia fatta grazia di ci6, io 1'accetterei
ben volentieri e la rassegnerei a Sua Maesta, caldamente raccoman-
dandola.
— II vostro re, signore, — replico il galeotto senza alzare d'una
linea la testa — e il tiranno della mia patria, ed io quindi non chiedo
grazia al tiranno. Se anche di sua volonta mi arrivasse una grazia
di tal genere, io la rifiuterei ...
Maniscalchi, fremente, verde in viso, fece un profondo inchino
ed usci. Se avesse potuto spiegare i suoi artigli temuti, la sarebbe
stata finita per il Nicotera; ma 1'Inghilterra, anche questa volta, e
per mezzo di lord Gladstone, aveva sussurrato qualche parola al
governo borbonico, e il domani dalla visita del direttore generale
di polizia, il fiero rivoluzionario veniva tramutato al bagno penale
di San Giacomo.
Come si vede, e, su per giu, 1'identica scena narrata poco sopra e
rilasciatami in iscritto dal sindaco di Favignana. Identica; soltanto
che, invece di un pretore e d'un cancelliere, balza fuori il feroce
Maniscalchi in persona. Ma e dunque cosi ardua impresa il rac-
cogliere notizie di casi storici contemporanei anche sul luogo dove
si svolsero, e attingerle da chi ebbe occhi che videro, e orecchi che
intesero, e in qualche mo do vi prese parte ?
Torniamo in bassura; a San Giacomo.
Qui la vita del Nicotera comincia a essere tutt'altra cosa. L'uomo
si rifa intieramente leone nelPanima, e, sebbene anche qui guardato
a vista, continua nelle sue corrispondenze, e ha fede, anzi e certo,
che un giorno non lontano una voce di redentore gli gridera:
«Lazare, exi forasb)2 E chi ora gli portava le lettere, scrittegli da
piu parti d7 Italia, erano gli ancor viventi Francesco Ancona e Giu
seppe Bussetta carcerieri, i quali (ne ho la conferma dal sindaco)
le ricevevano dal farmacista, che alia sua volta le aveva rimesse dal
Comitato insurrezionale. Ma pare che nella viva confidenza di una
i. Girolamo Induno: vedi la nota 2 a p. 901. 2. Lazare, exi for as: vedi
loan., n, 43.
944 LEOPOLDO BARBONI
prossima liberazione, qualche frase vivace, accennante a conoscenza
delle agitazloni politiche, uscisse di bocca al Nicotera, e la sorve-
glianza diyenne anche piu dura. Giorni tremendi, e notti insonni
piu che mai, trascorsero per lui ; ma e altresi vero che giorno e notte
pensava a lui il prodigioso farmacista, uomo, a quel che pare, con
piu fantasia che non ne avesse, e tutto dire!, messer Lodovico
Ariosto. Cominci6 egli, il farmacista (e me lo contava egli stesso),
a fare a Pamore . . . con le alte suole delle scarpe delPAncona ; e le
alte suole, perche eran femmine anch'esse e non insensibili alle
oc<!hiate sdolcinate e alle paroline melate d'un uomo, un bel giorno
capitolarono. Che ne awenne? Quali impenetrabili misteri si svol-
sero per quel fluido amoroso, non sospettato certamente da Paolo
Mantegazza quando scrisse e rega!6 al mondo (e avrebbe fatto
meglio a non regalarglieli) i suoi Amori degli uominil1
Ecco che cosa awenne. Da quel giorno le suole delle scarpe
delPAncona venivano aperte dal farmacista, inghiottivano le lette-
re, si lasciavano ricucire e rimbullettare, e il secondino passeggiava,
dir6 cosi, sulle fi-rme di Mazzini, di Garibaldi, di Crispi, di Roso-
lino Pilo2 e altri, finche non giungeva il momento d'entrare nella
cella a far pulizia.
Era, come si vede, una lotta. Un bel giorno due fiscali v'entra-
rono pure, e perquisirono. Non trovarono nulla. Dico male, tro-
varono. In un angolo era una scatola di paglia colorata, tessuta
dallo stesso Nicotera, posseduta poi, come prezioso ricordo, dal far
macista. Costrettovi, il Nicotera Papri, i due frugarono, e ne trasse-
ro una camicia da. uomo. L'aveva cucita tutta di sua mano la fidan-
zata del povero prigioniero, che a quella vista, ripensando alia don
na amata, lontana e trepidante per lui, si commosse e dette in un
pianto dirotto. Ahi, ahi, ahi, che piccante odore di romanzetto!
Si va nel tenero. Come mai quella camicia aveva potuto sfuggire
agli occhi satanici della fiscalita borbonica, anche quando il Nico
tera stette sepolto nelPergastolo di Santa Caterina ?
Comunque sia, pochi mesi dopo da questa scena, Giovanni Ni
cotera s'infilava una ben piu gloriosa camicia, perche da Palermo,
i. Amori degli uomini: uno dei tanti volumi di fisiologia e igiene del noto
scrittore e patologo Paolo Mantegazza (1831-1910). 2. RosolinoPilo (1820-
1860), patriotta siciliano, esule dopo la rivoluzione del 1848, torn6 segre-
tamente in Sicilia nel 1860 a prepararvi lo sbarco dei Mille. Capo di squa-
dre di insorti cercava di unirsi a Garibaldi, quando fu colpito da una fuci-
lata, presso Palermo, il 21 maggio. Sul Crispi, vedi la nota 2 a p. 503.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 945
fra i rintocchi della campana della Gancia,1 fra lo scoppio delle
bombe e delle carabine, la voce di Garibaldi gridava effettivamente
al fiero ergastolano: «Lazare, exi foras!»
Un anno prima, per le vittorie di Montebello, San Martino, Sol-
ferino e Magenta, per le osanna e il tripudio di piu che mezza Italia
attorno alle prodigiose figure di re Vittorio, Cavour e Garibaldi,
per la certezza infine che la rivoluzione sarebbe divampata anche
nelle Due Sicilie a immediata o a breve scadenza, la bestia borbo-
nica aveva offerto la liberta ai detenuti politici di Favignana, a patto
ch'emigrassero nella Repubblica Argentina. Come un sol uomo
risposero: No!
Risposero no, sicuri che Pora di rompere le catene in ghigna alia
dinastia «negazione di Dio» si avanzava a gran passi. L'n maggio
1860 i Mille sbarcavano a Marsala, e, per logica ripercussione, il po-
polo favignanese guidato da Leonardo Casubolo invadeva il forte di
San Giacomo e ne portava fuori, in trionfo, Nicotera e i suoi com-
pagni.
Di tra quel gaudio Giovanni Nicotera aiferm6 subito la sua riso-
luta tempra di futuro Ministro delFInterno, ordinando che i car-
cerati per delitti comuni non fossero fatti uscire. E per poche ore
fu cosi. Poi proced6 per Favignana, per una via che porta oggi il
suo nome; form6 un Comitato di Salute, da Diego Gandolfo, che
gli offriva denari, tolse in prestito seicento ducati (2550 lire no-
strane) restituiti di li a tre giorni come aveva promesso, e parti
per Palermo a ricevervi il bacio di Garibaldi.
La, poco dopo, da Calatafimi, dove lo avevano trattenuto fra la
vita e la morte le cinque ferite di piombo al petto, giovine bellis-
simo di ventisei anni, anima di poeta i cui versi eran piaciuti a
Giambattista Niccolini, partiva convalescente, e pur con Fansia di
nuove pugne, Giuseppe Bandi per riunirsi anch'egli alFEroe. Fra
il Nicotera e il Bandi Pamicizia fu immediata, ed ecco quanto il
primo raccontava al secondo, di ci6 che aveva provato in cuore
1'n maggio.
«Ero lassu, lassu, sulle mura, pigliando aria, in mezzo a due
carcerieri. Si vedevano due piroscafi awicinarsi a tutta corsa, e
i. campana della Gancia'. al monastero della Gancia, a Palermo, nell'aprile
del 1860, si era barricato un gruppo d'insorti: furono vinti e pochi riusci-
rono a sfuggire.
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94-6 LEOPOLDO BARBONI
non and6 molto che ci furono vicino. Non avevano bandiera di
sorta, ne* sapevo, ne indovinavo quali fossero; ma il cuore indo-
vin6 . . . presagi che non viaggiavano senza qualche gran perche.
Rientrai nella mia cella, quando Fora della mia aria fu trascorsa;
e vi rientrai allegro, pieno cioe di speranza buona, e di felici idee.
Verso mezzogiorno poi, udii le cannonate, e vidi i miei custodi
correre su e giu, preoccupati non soltanto, ma sgomenti, smarriti,
impauriti . . . Mi provai a interrogarne qualcuno, ma parve non
avessero fiato da rispondere . . . Passai la notte senza chiudere oc-
chio. La mattina seguente, il comandante dell'ergastolo, mi fece
sferrare, e meco furono poi sferrati gli altri pochi . . . Costui e tutti
i suoi sbirri parevano volere essere fratelli nostri, e far a gara per
gratificarci, e anche per raccomandarsi a noi . . . Ma dall'alto della
rocca rividi ancora le navi borboniche in crociera, e seppi che,
partito Garibaldi, i borbonici erano rientrati in Marsala. Per un
momento (e quanto lungo fu quel momento!) temetti aver fatto un
bel sogno, ma un sogno traditore . . . Se non che m'affidava il buon
augurio che avevo in cuore, e piu mi affidava ancora il contegno
benevolo e premuroso dei guardiani, che sembravano raccomandar
si piu che mai a me. Per fortuna, Tincertezza penosa non dur6 tan-
to, perch6 la sera del 12 i guardiani partirono tutti alPimprowiso,
e noi prigionieri restammo padroni della prigione e dell'isola, da
cui ci tolse'poi una barca venuta a posta per ritornarci nel mondo.
Giovanni Nicotera (& il Bandi che continua a narrare),1 spesse
volte ha rammentato meco le ansie, i palpiti, le gioie di quei gior-
ni . . . Quando dopo tanti anni lo rividi in Livorno, acclamato,
corteggiato, in piena pompa di trionfal sinistro e ministro, la prima
parola che mi disse, la sulla spiaggia de' Cavalleggieri, dove lo in-
contrai con la sua corte, fu questa: — Ti ricordi eh, ti ricordi quel
giorno ? . . . »
Mi duole dover dichiarar subito, che o il Nicotera parlando,
o il Bandi scrivendo, nell'enfasi del ricordo ricordarono infelice-
mente. L'n maggio del 1860 il Nicotera aveva lasciato gli orrori
del forte di Santa Caterina da circa un anno e mezzo, ed era passato
i. e il Bandi . . . a narrare: nei Mille (in Memorialisti dett'Ottocento, tomo
I, a cura di G. Trombatore, p. 915, in questa medesima collezione), il
Bandi scrive : « Nicotera ebbe a dirci . . . d'aver provato un fausto ed in-
dicibile presentimento, osservando di tra le sbarre del carcere i due legni
misteriosi ».
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 947
a San Giacomo, da dove e possibile vedere il mare, quanto e possi-
bile scorgere Costantinopoli dal piazzale Michelangiolo a Firenze.
Tutto questo, e della spiaggia paradisiaca del Cavalleggieri a
Livorno, e del qui pro quo nicoteriano o bandiano e un tantino
anche delle triglie alia livornese, io ripensavo aggirandomi fra i
cento bugigattoli di Santa Caterina nelPaspettativa di un dolce ap-
pello della mia guida Vincenzo, intenta a preparare una lauta co-
lazione nella saletta del forte ove in tempi scellerati avevano risie-
duto il direttore dell'ergastolo e consimili ghigne proibite. E per
istrettissimo e logico rapporto d'idee, fra ergastoli borbonici e de-
tenuti politici, e rivoluzioni e sbarco dei Mille, appetito o no, an
che ripensavo un'altra figura, tozza e rude ma di una certa impor-
tanza, che mi balzava su su dalle scogliere della vicina Trapani.
Facciamone il ritratto, giacche ci siamo.
La tozza e rude figura e il pilota improwisato e forzato che guido
i Mille di tra Favignana e Marittimo1 a Marsala. Lo avevo cono-
sciuto diciassette anni innanzi durante la mia prima gita in Sicilia,
e propriamente a Trapani, mentr'egli, seduto su uno scalino del
piccolo piazzale ch'e dietro alia casina di sanita, gettava una lenza
in mare, e in quel momento pensava tanto a Garibaldi quant'io
pensavo ai peli della barba di Maometto. Ero in compagnia di
Donato Colombo, per Pappunto uno dei Mille, un glorioso ferito
anch'egli di Calatafimi, parmi, o del titanico assalto di Porta Ter
mini a Palermo, allora allargante i polmoni sotto il bel cielo sici-
liano come presentemente li slarga, vispo e vegeto ancora, sotto
il gran cielo milanese.
— Vuoi conoscere il nostro pilota?
— Che pilota?
— Come! il pilota di Garibaldi; il pilota che ci guid6 di fra 1'isola
di Favignana e Marittimo fin dentro il porto di Marsala.
-Ma chi e? dov'e? . ..
— Eccolo la; quello la ...
— Eh? tu scherzi! Ma come? quel coso che pare un tonno2 ve-
stito da uomo ?
— Lui, proprio lui.
i. Marittimo: cosl scrive, anche subito dopo per altre due volte, il Barboni
neiredizione da noi seguita: ma e evidente che il nome esatto deve essere
Marettimo. 2. pare un tonno: ripete una immagine del Bandi (op. cit.,
948 LEOPOLDO BARBONI
Gli ci awicinammo, e Donate Colombo gli batte con una mano
la spalla e lo chiam6 per nome: — Ehi, Strazzera! ... — II tonno si
volt6, e se non avesse li per li provato col fatto che anch'egli aveva il
dono della favella ed era quindi un animale cosidetto ragionevole,
mi sarei confermato nella prima opinione e lo avrei battezzato per
un tonno e mezzo.
— Voscienza & cca? . . .
— Si, son qua, e con me c'e uno che ti vuol conoscere.
Mi guard6 e grugnl lo smaccatamente sdolcinato, pretesco e spa-
gnolesco saluto siciliano gia anatemizzato da Garibaldi : -— Bacio
la mano.
Credo che piu di dieci parole al giorno non pronunciasse mai in
tutta la sua lunga vita. Era grasso bracato, corto, col viso color di
bronzo, con una collottola di grinze che parevan tagli a quadretti,
vestito di turchiniccio come tutti i marinai di la, con movimenti
sgraziati, goffi, pesanti, da tartaruga, con una voce roca da far
fuggire dieci pesci-cani, non che Panguille e i naselli ch'era intento
a pescare.
II mattino dell'ii maggio 1860, Antonino Strazzera si trovava
con la sua barca pescareccia nelle acque delle Isole Egadi, e preci-
samente presso Tisoletta di Marittimo. Era solo come una passera
solitaria. I due vapori, il Piemonte e il Lombardo portanti Garibaldi
e Nino Bixio e i Mille, e coi Mille e il loro duce glorioso la reden-
zione delle Due Sicilie e Tepopea vera del popolo italiano, naviga-
vano circospetti verso Marsala. II Piemonte si soffermb, e Garibaldi
in persona fej cenno allo Strazzera d'awicinarsi.
— Sai dirmi nulla di navi borboniche nel porto di Marsala? . . .
— Sugno morto! . . . Son morto! — biascicb il pescatore tarta-
gliante e tremante. Poi guardando TEroe, ch'egli scambiava per
un capo di pirati: — Signorino meo, e che saccio! che so io!
— Rispondi! — - tuonc- Garibaldi.
— Signorino meoy so che vi so no due vapori inglesi; uno e
ly Argus . . .
— Acchiana! monta — gli grid6 un'altra voce in puro accento
siciliano. Era la voce di Salvatore Castiglia,1 palermitano, cui Ga-
p. 917), che scrive: «Pareva costui un tonno, tanto era corto e panciuto,
ed aveva la faccia di cuor contento». i. Salvatore Castiglia (1819-1895),
capitano di lungo corso; e cfr. la nota i a p. 904 del I tomo dei Memo-
rialisti, in questa collezione.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 949
ribaldi aveva dato il sotto-comando del Piemonte fin dalla partenza
dallo Scoglio di Quarto.
Ecco un uomo-tonno che cercava muggini e murene o frittura
mista, e improwisamente trova la rinomanza! Qualche cosa di piu
del « Re del burro » dei pressi di Parigi, creato tale da Luigi XV.
Affermo, del resto, che lo Strazzera se ne and6 all'altro mondo sen-
za aver mai capito che diavolo significasse la parola rinomanza,
che cosa almanaccasse Garibaldi e che cosa fosse Htalia; una voce,
quest'ultima, di difficile pronunzia per lui, tanto e vero che diceva
Taglial Ma quello che e certo e ch'egli non menti. Quell'uomo
rozzo, ma onesto, vero tipo di marinaio nato e vissuto tra gli splen-
dori delle albe e dei tramonti, tra gli urli sciroccali e le bonacce del
suo bel mare, poteva mentire e non menti, poteva condurre «le
sorti d' Italia» in qualche punto infido, e non lo fece, e di ci6 gli va
lode grande.
Al tocco di quel medesimo giorno, minuto piu, minuto meno,
Garibaldi coi suoi Mille era gia per le vie della ridente Marsala,
d'onde mandava un bacio e un saluto a Giovanni Nicotera; e mentre
le navi borboniche Capri e Tancredi, sopraggiunte a cosa fatta, si
sfogavano a sforacchiare a colpi di mitraglia il Piemonte e il Lom-
bardo arenati, Antonino Strazzera, rintontito e assordito dalle can-
nonate, se ne scappava a Trapani, di tanto in tanto attastandosi il
collo per accertarsi se Taveva sempre sulle spalle.
Ma dopo la pugna omerica di Calatafimi, dopo la lotta folgore
al Ponte deirAmmiraglio, dopo Tassalto sublimemente feroce alia
barricata di Porta Termini, dopo gli immortali due giorni di com-
battimento per le vie di Palermo, dopo che tutta Faisola bella»
gridava delirante: ((Garibaldi! Garibaldi! Garibaldi!)) Puomo-ton-
no, owerosia Antonino Strazzera, pens6 o fu consigliato a pensare
di fare anch'egli la sua . . . entrata in Palermo.
E la fece. La fiera ed eroica citta era ancor tutta una rovina per
gli eflfetti spaventosi del bombardamento borbonico, e insieme un
trionfo e un emporio di bandiere tricolori, di camicie rosse, di fiori,
di festoni di lauro, di ritratti delPEroe, del re Vittorio e di Santa
Rosalia.1 La via Macqueda serbava le ultime tracce delle barricate
e portava ancora chiazze di sangue raggrumato. Per quella bella e
i. Santa Rosalia e la patrona di Palermo e a lei e dedicata la cattedrale
della citta.
950 LEOPOLDO BARBONI
lunga via, reduce dal convento di Porta Nuova (dove tutte le mo-
nache, dalla piu vecchia alia piu giovane, dalla piu brutta alia piu
bella, avevano voluto baciarlo, frementi anch'esse di quell'entu-
siasmo che nessuna penna, nessuna, potra mai descrivere), Ga
ribaldi se ne ritornava al Palazzo del Comune circondato dal suo
Stato maggiore. Faceva parte di quello Stato maggiore il bellissimo
ed eroico Francesco Nullo, I'elegantissimo milanese Giuseppe Sir-
tori1 (che a Milazzo doveva poi salvare la vita al duce glorioso),
il formidabile genovese mazziniano Antonio Mosto,2 lo stesso
Giovanni Nicotera, il mio indimenticabile amico Giuseppe Bandi
e molti altri. Una schiera di semidei awolti nel rosso, e preceduti
da Giove.
AlPimprowiso un uomo rozzo, basso, dalle larghe spalle, dallo
sguardo bonaccione, vestito di turchiniccio, intrampolante fra i
rottami, si para davanti a Garibaldi, gli agguanta il cavallo per la
testa, e con voce chioccia esclama:
— Pep& . . . cca sugno! Beppe, son qua!
Garibaldi lo guarda, e fra accigliato e sorridente gli grida:
— Lascia andare le briglie . . .
- Pepl . . .
— Lascia andare, ti dico!
— Pep&, sugno ieu! . , . Beppe, son io!
Uno dello Stato maggiore gli si fa accosto, lo fissa, lo rawisa, e
festosamente grida anch'egli:
— Generate, e il nostro pilota; e lo Strazzera.
Tutti dettero in una grassa risata.
Rise anche Puomo-tonno.
— fe vero, e lui . . . Bravo ; hai fatto bene a venire . . . Torna piu
tardi al Palazzo del Comune dov'ho il mio quartier generate.
Ebbe non so piu che sommetta e se ne ritorn6 alia sua citta ri-
manendo tonno, arcitonno, tonnissimo. Varii anni appresso, sa-
puto egli che uno dei Mille (ed era appunto Donato Colombo)
I.Francesco Nullo: vedi la nota 3 a p. 390; Giuseppe Sirtori (1813-
1874), gid. combattente a Venezia, poi dei Mille, dittatore provvisorio a
Palermo, quindi prodittatore a Napoli, generale dell'esercito italiano, par-
tecipo alia campagna del '66 col risultato che il suo critico atteggiamento
gli valse il collocamento a riposo. 2. Antonio Mosto, comand6 la legione dei
carabinieri genovesi e segul Garibaldi in tutte le imprese dal 1849 a Men-
tana. Mori nel 1890.
GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO 951
trovavasi a Trapani, lo andc- a visitare. II vecchio «pilota» faceva
pieta. Era stracciato e ridotto inabile a qualunque lavoro. Ricord6
Marsala e narr6 che assai tempo dopo s'era buscato un inguaribile
acciacco nel salvare dalle acque la cassa d'un battaglione. Nessuno
poi mai aveva pensato a lui, che gia aveva tanta benemerenza. Che
vergognosa trascuratezza! Donate Colombo lo confort6 di parole, lo
sowenne come pote, appur6 il caso della sua disgrazia, raccolse do-
cumenti al proposito, mando alia firma di commilitoni e di cono-
scenti una petizione da dirigersi al Parlamento, e in cui era messo
in piena luce il «pilota» dello sbarco di Marsala; raccomand6 la
petizione ad Abele Damiani,1 e pochi giorni dopo Parlamento e
Senato decretavano allo Strazzera una pensione annua di mille
lire. Ci voile il cuore di un glorioso ferito garibaldino, e per giunta
piemontese.
Pep£, cca sugno! . . . Pep£, sugno ieu! . . . Ah, che tonno; ma per6
che galantuomo. Morto, il Comune intito!6 dal suo nome un moz-
zicone di via. E la barca? Ah, la barca! La barca su cui si erano
posati gli occhi di Garibaldi, che accodata alia poppa del Piemonte
aveva assistito alia piu splendida audacia che le storie ricordino,
che, forse, anch'essa aveva servito allo sbarco dei Mille, che, in
un modo o nell'altro, aveva ricevuto un battesimo di gloria, e che
gloria!, riportata a Favignana stette qualche anno a cullarsi sul
greto, poi fu «cremata».
Diciamolo piu crudamente: da mani di selvaggio fu fatta a pezzi
e bruciata per cuocere sa Dio quanti chilogrammi di maccheroni!
E anche sa Dio dove mi sarei andato a fermare con Passopprella-
mento2 di Nicotera al «pilota tonno », se d'improwiso la voce
soave del mio cicerone Vincenzo non avesse gridato:
— A mangiare! . . .
Certo, se la mia visita alFantro di Nicotera avesse avuto luogo
un decennio e piu dopo, ben altre gemme avrei avuto da riandare.
Per esempio una giornata di tumulto, deliziata dairabbruciamento
di Re Vittorio Emanuele III in effigie, e della dedizione di Trapani
alia Repubblica francese!
— A mangiare! — ripet6 Vincenzo,
i. Abele Damiani (1835-1905), di Marsala, combatt6 con Garibaldi nel 1860,
nel 1862, nel 1866. Deputato dal 1865 al 1897, senatore dal 1898. Nel pe-
riodo 1887-1891 fu sottosegretario agli esteri. 2. assopprellamento: ag-
giunta.
952 LEOPOLDO BARBONI
Su da* fianchi del monte venivano impercettibili crepitii provo-
cati dall'incandescenza del cielo ; i mosconi ci passavano rapidi co
me frecce sotto la punta del naso con roiusio disperato ; due falchi
rotavano stridendo rabbiosi nell'ansia della preda; il fogliame delle
carrube si accartocciava sotto lo stellone di un agosto affricano,
e . . . anche il mio stomaco s'accartocciava. M'infilai per una sca-
letta angusta, seguito dal dotto professore naturalista che si sarebbe
fra non molto impaperato fra piattole e piattoni, e poco dopo sedetti
intorno a una tovaglia distesa su un tavolino e un cassone capovolto.
Mi trovavo nella vecchia stanza d'ufficio del sopraintendente del
forte, che ho ricordato piu sopra; una stanza bassa, mefitica, il-
lustrata d'iscrizioni scritte a carbone, a tinta a olio, a lapis, tutte, o
piu o meno, scelleratamente spropositate nei verbi, odiatissimi in
Sicilia, ma d'onde si dominava una visuale superba. Vincenzo,
rindimenticabile Vincenzo, era sceso al paese, e n'era tomato con
un somarello carico d'ogni ben di Dio.
Ahime! mi deliziavo attorno a un cosciotto di coniglio olimpica-
mente cucinato, quando su dal semaforo un'altra voce spietata
ci scompigli6.
— II piroscafo! . . . Esce ora da Marsala, in rotta per Favignana.
Ebbi appena il tempo di bere ai sacri mani di Giovanni Nicotera,
e precipitammo giu con la rapidita dei mosconi che poco prima
c'eran passati ronzando sotto la punta del naso.
Mezz'ora dopo eravamo a bordo del Napoli; ed io, ritto e ap-
poggiato a un ferro della tenda di prua, awolgendo in un'oc-
chiata il forte di Santa Caterina e i paraggi di San Giacomo, pen-
savo: La promessa e mantenuta; ma non tu, come a' bei tempi, mi
leggerai, o amico Beppe Bandi, o valoroso ferito di Calatafimi, so-
pravvissuto al piombo dei borbonici, assassinato dal pugnale di
uno dei tanti mostri della libera Italia e della umanita.
FERDINANDO MARTINI
PROFILO BIOGRAFICO
FERDINANDO MARTINI nacque a Firenze il 30 luglio 1841. II pa
dre, Vincenzo, ebbe important! uffici nel governo granducale, come
era gia nella tradizione della famiglia, che il nonno, anch'esso di
nome Vincenzo, aveva tenuto nelle sue mani le redini « dello stato e
della citta di Siena » come luogotenente di Pietro Leopoldo ed era
divenuto poiministro dell'interno sotto Maria Luisa, regina d'Etru-
ria. Gente illustre, dunque, nella Toscana d'allora e che, sebbene
oriunda di Monsummano, dove aveva ville e poderi, a Firenze
s'era ormai affermata, e imparentata con famiglie nobili: la madre
di Ferdinando, Marianna, era una marchesa Gerini.
Vincenzo Martini alternava le cure di governo con quelle let-
terarie, ed aveva acquistato fama, a Firenze, di buon commedio-
grafo, specie da quando Adelaide Ristori, gia illustre, ebbe procura-
to grandi applausi, nel 1853, nel teatro Cocomero, alia commedia
Una donna di quaranfanni, che e certo la sua migliore, ma non
Tunica buona tra quelle che poi il figlio Ferdinando amorosamente
raccolse e stamp6.
Questo ambiente, vicino alia corte e alia letteratura, e perci6
continuamente a contatto con gli uomini colti e con gli spiriti piu
vivi della Firenze del tempo, giov6 fin dai primi anni a Ferdinando
Martini. Non molto, invece, egli ricav6 dagli studi regolari, che,
del resto, gli furono presto interrotti dalla sua invincibile awersione
alia matematica, un' awersione che, dopo vari tentativi, gli sbarr6
per sempre Taccesso alPuniversita. Piu assai, invece, opero su lui
Tamico Enrico Nencioni, destandogli Tamore alle letture, che di-
vennero, esse soltanto, la fonte vera della sua vasta e vivacissima
cultura. Dei suoi primi anni narrano ampiamente, e in modi assai
coloriti, le pagine di memorie che abbiamo riprodotte, e anche mo-
strano quale curiosa parte egli ebbe, non ancora diciottenne, nella
cronaca di quegli awenimenti che culminarono con la fine del
granducato. Negli anni successivi, mentre silenziosamente am-
pliava le sue conoscenze di autori italiani e francesi, egli segui le
orme paterne con una intensa attivita teatrale alquanto fortunata.
Gia nel 1862, all' Arena Goldoni di Firenze, la compagnia Gat-
tinelli rappresentava un suo « proverbio » in due atti, Uuomo pro
pone e la donna dispone\ e 1'anno dopo, per giudizio di un'apposita
956 FERDINANDO MARTINI
commissione, divideva un premio teatrale con un commediografo
ormai molto noto, Tommaso Gherardi Del Testa, e vedeva rappre-
sentata con applausi e consensi la commedia in tre atti, I nuovi
ricchi, che gli aveva procurato questo cosi precoce riconoscimento.
Ne si fermo a queste prime vittorie, che presto seguirono altri lavori
teatrali (Fede, commedia in cinque atti, 1865; Un bel matrimonio,
dramma in tre atti, 1865 ; Uelezione di un deputato, farsa in tre atti,
1867 ; Chi sa ilgioco non Vinsegni, proverbio in versi, 1871 ; La strada
piu corta, proverbio in versi, 1872; II peggio passo I quello dell'uscio,
proverbio, 1873), non tutti ne dovunque applauditi, ma che mostra-
no, comunque, una evidente inclinazione letteraria e, soprattutto,
una chiara tendenza verso un linguaggio semplice, colorito d'ar-
guzie e signorilmente misurato. Di che fu anche conferma, mol-
tissimi anni dopo, nel 1894, una commedia in prosa, La Viper a,
con la quale espresse, se non altro, la propria nostalgia per quella
giovanile attivita teatrale da lungo tempo abbandonata per altre
cure letterarie e politiche.
La morte del padre, awenuta nel 1862, gli aveva intanto rivelato
la non piu salda situazione economica della famiglia e la urgente
necessita di occupazioni fruttuose, che delle proprieta di Monsum-
mano sola si era salvata una villa. Perci6 nel 1869 il Martini solle-
cit6 e accolse la nomina a insegnante di italiano nella scuola nor-
male femminile di Vercelli, dalla quale poco dopo fu trasferito
alia normale maschile di Pisa. Esperienza d'insegnante ch'egli pre
sto abbandon6 (1872), ma che pure gli consent!, alcuni anni dopo,
di affrontare, sul ricordo di osservazioni dirette, alcuni problemi
della scuola italiana.
Intanto, si era rivolto al giornalismo. Dal 1871 era collabora-
tore di uno dei piu vivaci e simpatici giornali del tempo, « II Fan-
fulla», e per molti anni, con lo pseudonimo di Fantasio, vi continue
a scrivere quelle sue « chiacchiere » e « bricciche » e « ritagli », e an
che piu impegnative pagine, in cui il signorile equilibrio della sua
larga cultura si innestava felicemente sul brio e la freschezza del suo
parlare toscano. Chi rilegga quegli scritti e ripensi alia sua atti
vita giornalistica, specialmente quale si svilupp6 negli anni succes-
sivi, pu6 accorgersi facilmente di alcune qualita che gli furono es-
senziali e che valgono a spiegare, in parte, le sue preferenze per
certe forme di attivita, e, soprattutto, la meta che si prefisse nella
ricerca di un proprio stile. Giornalismo, politica, operosita di
PROFILO BIOGRAFICO 957
scrittore gli si configurarono sempre, piu o meno consapevolmente,
non gia come attivita aventi una soddisfazione e un fine in se stesse,
ma piuttosto quali impegni di educatore, quali strumenti per un
richiamo a forme piu alte di vita e di civilta. Certo, il pubblico
ideale cui si rivolgeva la sua parola e su cui egli contava di ope-
rare, non era quello del popolo minuto, abbandonato allora a se
stesso, lontano da ogni forma anche rudimentale di sapere, e im-
merso ancora nella miseria e nell'analfabetismo : che da esso lo te-
neva troppo separate iltimbro discretamente aristocratico dellasua
stessa cultura, nonche i tempi e le tradizioni della classe sociale cui
apparteneva. Mirava invece alia borghesia italiana, agli uomi-
ni dotati di una certa istruzione, capaci di interessi letterari e di
problemi intellettuali, e intendeva agire su essi, dare un respiro
meno provinciale ai loro spiriti, scuoterne il torpore, rettificarne
pensieri e sentimenti. Da questo intento usci quel settimanale,
«I1 Fanfulla della Domenica», ch'egli fond6 nel 1879 e diresse P°i
per tre anni, sostituendolo nel 1882 con la «Domenica letteraria » ;
e fu lo stesso sentimento che gli fece ideare nel 1881, e dirigere poi
fino al 1883, il «Giornale dei bambini)), che ebbe tanta diffusio-
ne e si viva efficacia educativa. Quivi Collodi pubblico dapprima
quella sua Storia di un burattino, il celebre Pinocchio, che segn6
veramente una grande data nello sforzo degli adulti per compren-
dere ed educare i ragazzi. Allo stesso fine tendeva lo stile del Mar
tini, tutto proteso verso la semplicita e la chiarezza, animate sem
pre di buon senso e di equilibrio, guidato dal desiderio costante e
vigile di farsi ascoltare, di piacere, di convincere, rifuggendo dai
toni letterari e accademici, in una mobilita briosa, colorita di aned-
doti e di ironia: stile che rivelava un uomo, che il Mazzoni feli-
cemente disse « ariostesco » e il Pancrazi defini fatto di grazia e di
misura. Giudizi, questi, che non si rivolgono, certo, alia sua opera
di giornalista soltanto, ma anche ai suoi racconti letterari, da Pec-
cato e penitenza (1870) a La marches a (1872), a Gite autunnali, a
Uoriolo (1886), fino a quella sua ultima « novella alFantica)) che si
intito!6 A Pieriposa (1923), e ai suoi libri migliori, costruiti su me-
morie e ricordi, apparsi man mano dopo i suoi cinquant'anni.
Nel periodo stesso del suo giornalismo ebbe inizio la sua vita
politica. La sua prima candidatura, nelle elezioni del 1874, nel
collegio di Pescia, fu una sconfitta. Candidato battuto, rivolgeva
allora agli elettori una arguta e vivacissima prosa, narrando un
958 FERDINANDO MARTINI
suo immaginario sogno di un'arringa da lui fatta ai deputati sui
gradini del Parlamento (Discorso alVuscio di Montecitorio): scritto
significative, anche al di la dei suoi pregi, perche rivela quella sua
capacita veramente ariostesca di staccare da se anche i casi della
vita e sorriderne: ci6 che fu in lui, come ha scritto Ugo Ojetti,
un costante « mo do signorile di ricostruire un equilibrio, di ricom-
porre una misura». Due anni dopo, nel gennaio del 1876, dopo varie
vicende, la sua elezione a deputato divenne un fatto compiuto, e da
allora per quarantaquattro anni egli sede al Parlamento, oratore
stimato, e copri varie cariche e rese numerosi servizi al nostro paese.
Molti dei suoi discorsi lasciarono, anzi, una forte traccia nella vita
parlamentare, come quello sugli abusi del clero neU'esercizio del
proprio ministero (17 gennaio 1877), sull'insegnamento religioso
nelle scuole elementari (6 maggio 1878), sul bilancio della pubblica
istruzione (2 e 8 marzo 1883), sulla spedizione d' Africa (263
giugno 1887).
Ne minor valore ebbero una Relazione sulV ordinamento delle
scuole secondarie (1889), che provoc6 vaste discussioni e polemiche,
e il volumetto pubblicato insieme con C. F. Ferraris §\&V Ordina
mento degli Istituti d'istruzione superiore (Milano, Hoepli, 1:895),
in cui esponeva e difendeva quei progetti di riforma che avevano
provocato la sua caduta da ministro della pubblica istruzione.
Perch6 in quegH anni era stato segretario generale alia istruzione
(1884-1886) con il ministro Coppino, e poi titolare di quel dicastero
nel 1892. E gia, 1'anno prima (1891), per la competenza dimostrata
nei problemi coloniali, era stato chiamato a far parte di una com-
missione d'inchiesta inviata in Eritrea dal nostro governo, e che
percorse per vari mesi quella nostra prima colonia, sulla quale
il Martini scrisse poi, al ritorno, un bellissimo libro, NeWAffri-
ca italiana, meritamente lodato e gustato dal Carducci. Fu pro
prio quella sua competenza e 1'equilibrio mostrato nel trattare
dei problemi coloniali, che lo fecero nominare alcuni anni dopo
governatore dell'Eritrea (16 ottobre 1897 - 25 marzo 1907): ed egli
dette allora una prova veramente mirabile di saggia amministra-
zione, di onesta di intenti e di umanita, come risulta evidente
dall'ampio diario che egli tenne, precise e limpido, quasi giorno
per giorno, in tutti quei lunghi dieci anni. Tomato in Italia, e di-
venuto ormai una figura di primo piano nella nostra vita politica,
ebbe il significative incarico (1910) di rappresentare T Italia, come
PROFILO BIOGRAFICO 959
ambasciatore straordinario, nelle cerimonie con cui la Repubblica
Argentina celebrava allora il suo primo centenario: e pronunzi6
in quella missione vari discorsi che documentano anche oggi le sue
felici qualita di oratore. Quattro anni dopo, nel marzo del 1914,
fu chiamato a reggere il ministero delle colonie nel gabinetto Sa-
landra e mantenne quel portafogHo fino al giugno del 1916, tro-
vandosi in tal mo do a far parte di quel governo che sollecito la
dichiarazione di guerra all' Austria e ne guid6 la prima fase. Ma
quello fu il suo ultimo ufficio di governo : che anzi, conclusa ormai
la pace, egli non fu neppure rieletto deputato, nelle votazioni del
novembre 1919, e per di piu fu guardato con astio dai suoi stessi
elettori come colpevole di aver caldeggiato e voluto la guerra. Solo
nel 1923 un tardivo riconoscimento gli confer! la nomina a sena-
tore. N£ qui e certo il luogo, anche se ne avessimo la competenza, di
giudicare pregi e difetti della sua attivita politica : ma e almeno vero
che ogni giudizio dovra sempre tener conto della prospettiva dei
tempi e delPonesta immutabile delle sue intenzioni,
Assai piu, invece, importa qui ricordare la sua opera di critico
e le sue rievocazioni di uomini ed eventi del Risorgimento : un* at
tivita cui volse piu assiduamente le sue cure specialmente dal
1890, ma che pure era gia presente, come interesse ben vivo, nel
tessuto stesso dei suoi scritti anteriori, nelle pagine giornalisti-
che cosi ricche di giudizi letterari, di profili, di considerazioni cri-
tiche. Basterebbe pensare a un suo saggio del 1874, La morale e il
teatro, in cui gia appariva vivissimo quel costante e limpido buon
senso, che dalPesame delle opere teatrali continuamente traeva mo-
tivo per il rifiuto o la soluzione dei tanti problemi che i contempo-
ranei andavano ponendo e dibattendo. Certamente, quegli stessi
problemi critici, e i tanti altri cui successivamente si volse, avreb-
bero potuto essere sollevati, come ha osservato il Croce, a una piu
complessa e severa tematica filosofica, ricondotti a principi essen-
ziali di estetica: e su quel piano dibattiti e soluzioni sarebbero dive-
nuti piu rigorosi e piu esaurienti. Ma il Martini non ebbe ingegno
speculative e, d'altra parte, lo abbiamo gia detto, non si rivolgeva
a una ristretta cerchia di specialisti, bensi a un piu vasto pubblico
di lettori, dai quali desiderava di essere compreso e sui quali in-
tendeva agire con animo di educatore. E perci6 le molte pagine che
egli dedic6 al Giusti, pubblicandone le Memorie inedite (1890),
commemorando Tuomo e la sua opera (1894), rievocando gli anni
960 FERDINANDO MARTINI
di lui studente a Pisa (1894) e il profile di lui deputato a Firenze
(1895), e quelle equilibratissime sul Prati (1892), sul Goldoni, sul
Baretti, sono ancora oggi piacevolissima lettura e finissimi ritratti,
tali da resuscitare uomini e tempi: pagine ariose, di critica e d'arte
insieme, con un loro timbro di signorile divulgazione.
Un discorso assai simile andrebbe fatto per la sua attivita di
storico, che gli fece ricercare e pubblicare il Diario inedito di
Luigi Passerini de' Rilli (1918) e, due anni dopo (1920), il Carteg-
gio inedito intercorso tra il Guerrazzi e il Brofferio nel periodo dal
1859 al 1866. Lavori, questi, che gli richiesero ricerche di archivio e
attente ricostruzioni storiche, delle quali sono documento le precise
annotazioni e le felici pagine di prefazione, e che rivelano Pone-
sta e la serieta adoperate da lui anche in questi campi. Senza
dubbio, a volte vien fatto di osservare che da queste sue fatiche
emerge la cronaca assai piu che la storia dei tempi e degli avve-
nimenti, e che certi episodi, per una loro piu piena valutazione,
dovrebbero forse essere inseriti in piu vasti quadri complessivi. Ma
valga, come risposta, quanto abbiamo detto sulla sua forma mentale.
Anche per questo, fra i suoi scritti migliori, insieme col libro Nel-
VAffrica italiana, restano, secondo noi, i due volumi di Confessioni e
ricordi, il primo dei quali, cui e aggiunto il sottotitolo di Firenze
granducale, fu pubblicato nel 1922; mentre il secondo, relativo ad
eventi del periodo fra il 1859 e il 1892, e la cui preparazione fu
interrotta dalla morte, awenuta il 24 aprile 1928, apparve postu-
mo, Panno stesso della sua scomparsa, per cura delPamico e lette-
rato Alessandro Donati, che riuni i capitoli gia pronti, secondo
il programma ideato dall'autore, e diede notizia, nella prefazio
ne, di altri solo in parte composti o unicamente progettati. Nei
due volumi, specialmente nel primo, ai ricordi della propria vita il
Martini intreccia memorie della sua citta e rapidi ritratti di uomini
e cose della storia italiana, con una capacita di rievocazione che solo
pochi memorialisti hanno avuto cosi vigorosa e garbata. Al ricor-
do non si aggiunge mai il rimpianto per la fuga del tempo e della
vita, che e invece motivo cosi. comune a chi ripercorre il proprio
passato : episodi e uomini tornano invece in una luce di sorridente e
garbata ironia o nella gioiosa soddisfazione di rivederseli dinanzi
vivi e precisi, fermati nella memoria con contorni sicuri : ma pur
distaccati da una signorile misura, che e anche rispetto per il let-
tore. La prosa di queste pagine ha la freschezza del linguaggio par-
PROFILO BIOGRAFICO 961
lato, ma in realta nasce da una sapienza stilistica che si serve di in
version! nei costrutti, di un felice alternarsi e fondersi di forme lette-
rarie e di modi popolari, di toni propri della conversazione, spigliati
e rapidi, e di procedimenti piu tradizionali allo scrivere: e tutto ci6
per dar rilievo e mobilita alia narrazione, non stancare mai con la
levigata, ma monotona correttezza del periodare accademico. An-
che le frequenti citazioni, a volte ostentate come stemmi nobiliari,
giovano a collocare il discorso in un'ambientazione signorile: a
chiudere i ricordi in una cornice di dignita.
Ne ci sembra che manchi alia sua prosa la lirica commozione, ed
essa nasca da sola finezza d'intelletto, come a qualche studioso e
sembrato: perche, invece, il sentimento circola sempre nelle sue
pagine migliori, anche se non viene alia superficie : e quel predomi-
nio dell'intelletto sul sentimento e la fantasia e il segno di una di-
stacco e di una misura che mai cessano di dominare. II Carducci,
del volume NelVAffrica italiana, diceva di « non aver letto da gran
pezzo un libro italiano scritto cosi bene» e piu Pavrebbe detto,
forse, di Confessioni e ricordi. Alessandro Donati, della prosa del
Martini scrisse che gli sembrava la ccmigliore dopo il i86o» e quasi
stette per giudicarla superiore a quella stessa del Carducci. Giu-
dizi e lodi, certo, troppo passionali; graduatorie difficili sempre e
fallaci, anche perch6 non vi e gerarchia tra creazioni cosi personali e
diverse. Ma e certo che alia prosa del Martini spetta un posto ben
rilevato nella storia letteraria del nostro ultimo secolo.
Per i migliori lavori teatrali di Ferdinando Martini si vedano le edizioni
pubblicate successivamente dal Treves, Milano, 1895; dal Bemporad, Fi-
renze, 1906, e nuovamente dal Treves, Milano, 1925. Per gli altri meno for-
tunati, si veda la bibliografia di G. Saviotti, che citiamo piu innanzi. Per la
narrativa, Racconti, Milano, Treves, 1890; A zonzo, Catania, Giannotta,
1899; A Pieriposa, Milano, Treves, 1923.
Per gli scritti nati dalla sua attivita politica, che abbiamo ricordati, si
vedano: F. MARTINI, Discorso alVuscio di Montecitorio, Pescia, Vanini,
1874; Relazione sulVordinamento della Scuola secondaria, Torino, Paravia,
1889; Ordinamento generate degli Istituti d'istrusione superior e> Milano,
Hoepli, 1895 (in collaborazione con C. G. Ferraris); Cose affricane:
da Saati a Abba Carima, Milano, Treves, 1896; // diario eritreo, a cura di
R. Astuto di Lucchesi, Firenze, Vallecchi, s. d., ma 1946, 4 voll.
Molti dei suoi saggi su argomenti teatrali sono raccolti nel volume Al
teatro, Firenze, Bemporad, 1895, ampliato successivamente, e poi ristam-
61
962 FERDINANDO MARTINI
pato a Milano, Treves, I9283. I migliori articoli della sua attivita giornali-
stica si trovano nei volumi Fra un sigaro e Valtro, Milano, Brigola, 1876, e
Di palo in frascay Modena, Sarasino, 1891, e poi, ampliato, Milano, Tre
ves, 1931.
I saggi sul Giusti, che abbiamo ricordati, furono riuniti, con altri, nel
volume Simpatie. Studi e ricordi, Firenze, Bemporad, 1900 e poi, ivi, 1909,
e infine Milano, Treves, 1927. Nello stesso volume figura la prefazione dal
Martini premessa all'edizione delle Poesie scelte di G. PRATI, Firenze, San-
soni, 1892, e la conferenza su Carlo Goldoni gia apparsa in La vita italiana
nel Settecento, Milano, Treves, 1896. Per lo studio sul Baretti, vedi Le piu
belle pagine di G. BARETTI, a cura di F. Martini, Milano, Treves, 1921.
Vedi, infine, F. MARTINI, Pagine raccolte, Firenze, Sansoni, I92O2.
Per le piu notevoli edizioni curate dal Martini, oltre le gia citate, e il
volume (rimasto unico) dell' Epistolario di F. D. GUERRAZZI, Torino, Roux,
1891, vedi G. GIUSTI, Memorie inedite, Milano, Treves, 1890; idem, Epi
stolario edito ed inedito, Firenze, Le Monnier, 1904; Due delVestrema: Guer-
razzi e Brofferio. Carteggio inedito 1859-1866, Firenze, Le Monnier, 1920;
// Quarantotto in Toscana, I, Diario inedito del conte Luigi Passerini de1 Rilli,
Firenze, Bemporad, 1918 ; G. GIUSTI, Tuttigli scritti, Firenze, Barbera, 1924.
II volume NelV Affrica italiana. Impressioni e ricordi, Milano, Treves,
1891, ebbe due edizioni nello stesso anno e parecchie poi, illustrate e non:
1'ultima cui 1'autore mettesse mano e la cosiddetta «quarta» (e prima
illustrata), Milano, Treves, 1895; Confessioni e ricordi (Firenze granduca-
le), Firenze, Bemporad, 1922 (poi Milano, Treves, 1929); Confessioni e ri
cordi (1859-1892), Milano, Treves, 1928.
Particolare importanza per lo studio deiruomo e della sua opera ha il
volume F. MARTINI, Letter e (1860-1928), Milano, Mondadori, 1934, che
raccoglie un'ampia scelta del suo epistolario.
Degli studi sul Martini citiamo B. CROCE, F. Martini, in La letteratura
della nuova Italia, ill, Bari, Laterza, I9434, pp. 322-39, ma il saggio e del
1908; « La Critica», vi (1908), pp. 254-5; ix (1911), p. 422; xn (1914),
p. 369; M. FERRIGNI, F. Martini, in « Rivista d'Italia», 15 marzo - i° apri-
le 1920; M. BONTEMPELLI, nel «Mondo», 19 luglio 1922; A. DONATI,
F. Martini, Roma, Formiggini, 1925; A. ZARDO, in « La Fiera letteraria »,
1927, n. 32; G. MAZZONI, in « Nuova Antologia », 16 maggio 1928; A. DO
NATI, in « L'ltalia che scrive », giugno 1928, con bibliografia; A. CHIAPPELLI,
F. Martini scrittore, uomo politico e cittadino, in « Rivista d' Italia », novem-
bre 1928, pp. 365-91; G. SAVIOTTI, in « Leonardo", 20 novembre 1928,
pp. 328-30, con la piu ampia bibliografia degli scritti del Martini; P. PAN-
CRAZI, Ricordo di F. Martini, in « Pegaso », aprile 1929, pp. 477-81 ; G. BEL-
LONCI, La prosa di F. Martini, in Pagine e Idee, Roma, Sapientia, 1929;
E. MONTALE, in « Pegaso », 1929, pp. 501-3; G. BERTONI, in « Archivum
romanicum», 1929, pp. 415-6; C. PARISET, Ricordi e lettere di F. Martini,
in «La cultura moderna», maggio 1932; G. MAZZONI, LOttocento, Mi
lano, F. Vallardi, 1934; C. WEIDLICH, Ritratto di F. Martini, Palermo,
Domino, 1934 (vedi R. GARZIA, in « Leonardo)), 1934); P. VARRANO, Mar
tini e la retorica, in «Tempio», maggio-giugno 1934; M. VALGIMIGLI,
Ly epistolario di F. Martini, in « Pan », n (1934), ristampato in Uomini e scrit-
PROFILO BIOGRAFICO 963
tori del mio tempo, Firenze, Sansoni, 1943, pp, 167-186; R. TRUFFI, F,
Martini, in Precursori deWimpero africano, Roma, Edizioni Roma, 1936,
che riproduce alcune lettere del Martini; G. BELLONCI, F. Martini, in
«Giornale d' Italia », 25 luglio 1941 ; E. FALQUI, La letter atura del venten-
nio nero, Roma, Edizioni della Bussola, 1948; C. GIARDINI, Undicimila
lettere a F. Martini, in « Gazzettino » di Venezia, 29 luglio 1948; L. M.
PERSONE, Gli scrupoli di F. Martini, in «Awenire d'Italia» di Bologna,
1 6 febbraio 1949; F. VALORI, Martini in quarantena, nel «Mondo», 26
maggio 1949; L. Russo, Inarratori, Milano-Messina, Principato, 1951, pp.
132-5; U. OJETTI, F. Martini o della chiarezza, in «Nuova Antologia»,
maggio, 1954, pp. 19-28, discorso non pronunziato nel 1930 e che apparve
postumo (dopo che I'Ojetti aveva gia spesso e lungamente parlato del Mar
tini sia nelle Cose viste sia, e piii, nei postumi Taccuini).
DA «NELL'AFFRICA ITALIANA»
MASSAUA1
Alle undici in punto, secondo i calcoli precisi del bravo capitano
Gheraldo, il jfosto2 gettava Fan cor a nel porto di Massaua.
Chi viaggia prepara sovente a se stesso delle delusioni. Delle mie
ne ho ricordata una discorrendo delle Piramidi :3 potrei enumerarne
altre parecchie. Questa volta, rispetto a Massaua, non era facile
mi cogliessero : su quella disgraziata isola ne avevo sentite di tutti
i colori. Non ci si campava; dopo Bagdad, il punto piu caldo del
globo; insetti, rettili, mammiferi tutti in caccia dell'uomo; priva-
zioni d'ogni genere, malanni d'ogni specie: licheni,4 perniciose,
colera. Non c'era da mangiare: la carne pessima, il pesce Dio
guardi! quello del mar Rosso venefico. Di dormire non se ne di
sco rra neanche: la notte o si scoppia o si gela; se si sta a finestre
chiuse si soffoca, se a finestre aperte si becca un febbrone. Un amico
accompagnandomi a casa il giorno avanti la mia partenza da Roma,
mi aveva detto con affettuosa delicatezza: — Dio te la mandi buo-
na: postacci! gentaccia! speriamo che tu ritorni, ma ci ho i miei
dubbi. — Un altro prognostic6 che partiti in sette sarebbe gala se
tornassimo in due.
E ora invece Massaua mi appariva nell'aspetto di molte altre
citta del Levante, bensi piu allegra e piu linda. Dinanzi a me il pa-
lazzo del Comando, a destra case e palazzette, circumfusi di luce
meridiana, abbagliavano con splendori nivei. Tra quelle case e
il solitario cono del monte Ghedem, velato da una tenue nebbia
rosea, il golfo d'Archico,5 limpido, tranquillo quasi un lago dei
nostri; donde 1'isolotto di Sceic-Said, dal composto recinto, pa-
i. Ed. cit., dal cap. i, pp. 6-12. 2. II piroscafo Josto, partito da Napoli
il 9 aprile 1891, giunse a Massaua il 22. La commissione d'inchiesta si
imbarc6 a Massaua, per il ritorno, il 17 giugno successive. -$.neho ricor
data . . . Piramidi: nelle pagine precedent!, che abbiamo omesse, il Mar
tini ricorda la delusione provata dopo aver faticosamente raggiunto il
vertice della piu alta piramide. 4. licheni: il lichene tropicale e una eru-
zione della pelle molto fastidiosa, ma non nociva. 5. £ il vasto golfo
dove si affacciano le citta di Massaua e di Archico. Vicino a Massaua sorge
1'isolotto di Sceic-Said. Diciamo una volta per tutte che non sara possibile
dare la posizione geografica e relative notizie delle tante localita nominate,
anche perche" non avrebbero senso senza una carta deirEritrea: le indica-
zioni saranno fornite solo quando la comprensione del testo le esiga o
consigli.
966 FERDINANDO MARTINI
reva mandate per le folte piante effluvii e frescure, ad ammorbidire
le rigidezze del cielo terso, turchino come una volta di lapislazzuli.
Di qua, di la, da Gherar e da Taulud cupole e tetti metallic! scintil-
lavano tra ciuffi di verde. Per la diga, una lunga carovana di cam-
melli, i cui contorni si disegnavano netti sulPaere luminoso, e un
viavai di gente, che negli ombrellini di svariatissime forme, nelle
vesti ricche o cenciose, offriva tutti i colori della tavolozza alle ca-
rezze del sole d'oriente, sotto i cui raggi nulla e volgare. Nel fondo,
ad anfiteatro, le colline del Samhar, le montagne fosche degli Ha-
babj e degli Assaorta.
lo non sapevo raccapezzarmi. La landa sabbiosa, misera, insa-
lubre tante volte descritta era quella ? Mi sforzavo daccapo di ri-
durmi a mente non soltanto i giudizi, ma le parole dei giornali e dei
viaggiatori. Non epiteto oltraggioso che non avessero adoperato
contro la povera isola.1 E della bellezza del porto perche avevano
taciuto o dette a denti stretti le lodi ? Facile agli ormeggi, quello di
Massaua e senza contrasti il piii bel porto del mar Rosso. C'era egli
pericolo che viaggiatori e giornalisti si fossero proposti empirci
la testa di sperpetue2 e di fanfaluche e darci ad intendere lucciole
per lanterne? Mi ero gia messo in sospetto. Affermarono il caldo
dopo il golfo di Suez essere tale e cosi affannoso, da non permettere
ne di muoversi n6 di pensare; e invece dopo il golfo di Suez il
Josto fu cullato - secondo alcuni de' miei compagni, anzi, un po'
troppo - da un forte vento di settentrione.
Era ad aspettarci la barca del Governatore.3 La mandavano
quattro rematori, vestiti di una camiciola di cotone rosso focato
aderente al corpo, e di un paio di brache bianche a guaina onde
usciva, dal ginocchio in giu, la gamba nuda, magra, elegante. Mi
dissero ch'erano Somali. Somali quelli? Quelli i terribili abitatori
del deserto, i figliuoli della proterva tribu che si insanguin6 in tante
memorevoli stragi ? Piccole mani, piccoli piedi, sottili i polsi e i
malleoli, e nel portamento, nel fare, nel modo istesso di parlare,
sebbene una lingua ch'io non capivo, una alterezza mansueta, una
nobilta orgogliosa ma non senza dolcezza. Aveva detto bene Aristo-
tile: PAffrica & il paese dell'impreveduto.
i . la povera isola : la citta di Massaua sorge su un'isola. 2. sperpetue : terrori,
paure. 3. Governatore dell'Eritrea era allora il generale Antonio Gandolfi
(1835-1902), che resse la colonia dal 1890 al 1892.
NELL'AFFRICA ITALIANA 967
Scendemmo al palazzo del Governo, al Comando o al Serraglio,
come lo chiamano. Entrai nella camera assegnatami; intanto che
incominciavo ad assestare la roba, sbircio sulla parete a capo del
letto, una specie di tarantola giallastra, con una grossa testa spro-
porzionata e un paio d'occhi che parevano schizzare dall'orbita.
Ah! i rettili non li avevano inventati: i rettili c'erano. Chiamo una
guardia indigena che passeggiava su e giu, non ho mai saputo
con quale ufficio, innanzi alia porta, e con quella mimica che sara
forse, a confusione del filologi, la lingua universale e sbrigativa dei
popoli futuri, le faccio capire vorrei levarmi d'attorno queH'ani-
maletto schifoso e pericoloso. Mi guarda, sorride, da una scrolla-
tina di testa, se ne va, ritorna con Finterprete. L'animale non sola-
mente era innocuo, ma preziosissimo ; si nutriva d'insetti e gli sper-
perava. Osservai tra me e me : se i rettili sono innocui e sperperano
gl'insetti, anche quella dei rettili e degli insetti congiurati a' danni
delPuomo e una leggenda come tutte le altre. I postacci annunzia-
timi dalPamico di Roma erano davvero men tristi di quanto egli
credesse. Rimaneva bensi la gentaccia\ ci pensai quand'ebbi a ri-
porre nella cassetta del tavolino il danaro che avevo meco. Non
c'era chiave : la chiesi ad un uffiziale, la cortesia personificata, che ci
avevano dato per aiuto e per guida in quei primi giorni della nostra
dimora nelPEritrea, e che ci segui poi compagno operoso e gradito
in tutto quanto il viaggio.
— Se vuole, la chiave si fara fare: ma Tavverto che non ce n'e
bisogno. Qui non praticano che Abissini e gli Abissini non rubano.
-Oh!
— No signore. In primo luogo nell'Abissinia un'antica legge,
che i ras e segnatamente Ras Alula1 osservarono sempre, infligge al
ladro la pena del taglione; al ladro, come a chiunque abbia com-
messo una colpa qualsiasi. Al maldicente, per esempio, si taglia la
lingua, al disertore le gambe, al ladro le mani. Ma non e soltanto il
timore della pena, quello che li trattiene : tanto e vero che chi sparli
o chi diserti si trova, e non si trova chi rubi. Piu di tutto pu6 sugli
Abissini il pensiero deU'ignominia a cui si esporrebbero rubando.
Non v'e nulla, tra di loro, piu obbrobrioso del furto.
— E le razzie ?
i. Ras Alula (1847-1906), avverso all'espansione italiana in Africa, assali
il battaglione De Cristoforis a Dogali (1887), combatte con Menelik nella
battaglia di Adua (1896).
968 FERDINANDO MARTINI
— Sono un'altra cosa. Per fare la razzia si combatte, si arrischia
la pelle; le vacche, le pecore, sono preda di guerra. L'estorsione,
la rapina, insomma, all'aperto e armata mano, si; il furto no.
— Va benone :
sia d'alme alte rapir, rubar fia d'ime;
lo diceva anche Lodovico Martelli1 buon'anima sua.
Neppure, dunque, la gentacda. E il pesce venefico ? Pessimo
quello del porto, ove sgrondano molte immondizie della citta; quel-
10 del mar Rosso, un po' scipito ma buono. E il caldo ? E il famoso
caldo di Massaua? II palazzo del Comando che ci ospitava pareva
11 quartiere generale degli zeffiri eritrei ; vi spiravano aure deliziosis-
sime, e cosi vive da obbligarci a tener chiuse le porte. Per farla
breve: Massaua mi sembr6 un soggiorno incantevole; non dico
da venirci a fare i bagni, perche* - e ci6 era accertato - da quelle
acque non s'esce, se non coperti di pustole fastidiose e maligne;
ma da spassarvisi a frescheggiare in estate, con piii gusto che sotto
le tende infocate di Pancaldi2 o sulle arene brucenti di Viareggio
e di Civitavecchia. E perche io non mi credessi troppo lontano dalle
spiagge tirrene, di sotto al terrazzo a cui m'ero affacciato, un ra-
gazzotto color di fuliggine mi domandava, con purissimo accento,
da pigliarlo per uno spazzacamino pistoiese:— Vuole fiammiferi
di cera? vuole sigari toscani?
La giornata se ne and6 nel far visite, nel disfare bauli, nello stu-
diare itinerarii, nello scrivere a casa, poich6 il Josto ripartiva per
Suez. Uscii ch'era notte da un pezzo, verso il villaggio di Taulud.
Durante il breve tragitto, osservando la mole ora bruna de' ca-
seggiati di Massaua uscente dalle acque tranquille, che presso la
riva accoglievano ombre fantastiche e riflessi tremuli; nel mirare
quel mistero, nelPascoltare quel silenzio, rotto di rado da un cupo
colpo di remo o da un suono arguto di mandolini, mi scappo di
bocca una parola: Venezia! - Che San Marco se la dimentichi!
Pur troppo 1'Affrica, quella parte per lo meno ch'io ne ho ve-
duta, ha di questi miraggi. SulPaltipiano di Era, ne' Maria Neri,3
e frequente una pianta che chiamano andel e nelle foglie, nei frutti
i. Lodovico Martelli (1503 - fra il 1528 e il '31), fiorentino, petrarchista,
letterato, autore di drammi e poemetti. 2. Pancaldi: spiaggia balneare di
Livorno. 3. Maria Neri: vedi pp. 1000 sgg..
NELL'AFFRICA ITALIANA 969
somiglia tale e quale un arancio. A chi arriva lassu e trova tanta
abbondanza, par d'essere nell'orto delle Esperidi.1 Ci corre. II
frutto non e mangiabile : e la scorza vuotata dalla polpa filacciosa
ed amara, divisa in due con un taglio circolare e asciutta al sole,
servi a fornire di tabacchiere gFindigeni quando usavano prendere
tabacco da naso - uso in oggi dismesso. Ancora nei Maria, un'altra
pianta, ilfelleh (e poco ne differisce Ventota dei Mensa),2 ha foglie
simili in tutto a quelle della vite e grappoli che paiono d'uva e
come Tuva maturando rosseggiano. Ma gli acini non danno succo :
quei grappoli neanche i cammelli ai quali li offrii e che non hanno,
come e noto, il palato delicatissimo, si degnarono di assaggiarli.
E a chi va da Debaroa a Gura appaiono lontani villaggi e citta e
torri e cuspidi e colonne e palazzi che si nascondono tral folto dei
giardini. Sono mucchi di pietre, alle quali le acque, sgretolandole,
dettero forme singolari e che si ergono Tuna sopra 1'altra tra i gruppi
delle mimose.
Cosi Massaua.
M'inoltrai:3 alia fannullonaggine dinoccolata e chiacchierona
degli indigeni faceva contrasto la attenta operosita de' Baniani,
in mano de' quali sta la parte principale de' commerci dell'isola.
Seduti in tre, in quattro, fra la caligine di botteghe angustissime ; o
affaccendati ad assestare le merci o intenti alle proprie scritture in
libroni smisurati, pochi de' quali basterebbero a registrare gli
spropositi intorno all'Affrica detti e creduti in Italia; vi potete
fermare davanti a loro, trattenervi, discorrere, gridare, non c'e
caso che si distraggano. Vengono dall' Indie, adorano le vacche, si
cibano di dolciumi e di vegetali. Ho sentito dire che han tanto af-
fetto alle bestie, da non osare mai di mettersi a sedere senz'aver
spolverato con diligenza la seggiola, per paura di condannare qual-
che insetto a morte improwisa, e, siamo giusti, discretamente ino-
norata. Se sia vero non lo so : so che quando fu dato ordine di ac-
calappiare e ammazzare i cani vaganti per Massaua, i Baniani do-
mandarono di custodirli, e li custodiscono difatti e li nutrono a
proprie spese ; so che di bonarieta traspare piu che un indizio nelle
loro faccie larghe, pingui, serene.
i. Esperidi: il favoloso giardino, lussureggiante e con pomi d'oro, di cui
narra la mitologia greca. 2. Mensa: tribti del Gheleb. 3. Ed. cit., dal
cap. i, pp. 14-20.
970 FERDINANDO MARTINI
Entrai in ima piazzetta alia estremita del mercato. Nel mezzo,
una ventina di megere sedute in terra coi ginocchi al mento, nude,
tranne quanto copriva una/wta turchiniccia, vendevano commesti-
bili da loro chiamati, senza imaginare la faceta improprieta del
vocabolo, mangerie. La/wta, diciamolo subito per non tornarci al-
trimenti, e un ampio grembiule di cotone scendente un po' piu
o un po' meno, ma sempre tra il ginocchio e lo stinco; legato e av-
volto intorno alia cintola dovrebbe, se i suoi lembi combaciassero,
nascondere a mo' di sottana cosi la parte anteriore, come la poste-
riore del corpo; ma, non so perche, le donne (ch6 anche gli uo-
mini 1'usano), le giovani massimamente, a farli combaciare non rie-
scono quasi mai.
Da una parte presso un caffe lurido, una gran tavola piena di
scibuk: pipe di foggia particolare, che non sto a dire come sieno
fatte perche i piu lo sanno. Attorno alia tavola, disposte in qua-
drati concentrici, gran copia di panche, e sulle panche accoccolati
una cinquantina di musulmani mezzi nudi anche loro, aspettanti
con inerte pazienza che il sole tramontasse, e finisse il digiuno
(s'era in tempo di ramadanf per sorbire il caffe e mettersi in bocca
il cannello dello scibuk. Dalla parte opposta piu gruppi di beduini
sdraiati bocconi sul suolo, di neri diventati grigi per la rena che nel
loro continue rivoltarsi aveva coperto le spalle, le braccia, le gam-
be, e il sudore ve 1'aveva sopra incollata. Giocavano con pietruzze
giochi dei quali nessuno fu buono a capacitarmi. Qua e la le acquaio-
le, ragazze dai dieci ai quattordici, portavano scalmanate e curve,
1'otre grave sui fianchi : attorno a me fitti e accerchiati uno sciame
di mendicanti scarni, pieni di piaghe. Detti loro dei soldi, alcuni
dei quali caddero : certi ragazzi che stavano li a guardare si butta-
rono pronti in terra e strisciando tra le gambe de' mendicanti ten-
tarono di agguantare il modesto bottino. Gli altri in quel mentre e
tutti insieme, piegandosi a raccogliere, si cozzarono: uno cased,
trascin6 altri nella cascata, e per un momento mi vidi attorno ai
piedi un divincolare e un dibattersi di membra umane che non
sapevo a qual tronco appartenessero. Bisbigliai Pemistichio pe-
trarchesco :
urtar come leoni e come draghi
con le code avvinghiarsi:2
1. ramadan: mese deiranno arabo che i mussulmani consacrano al digiuno.
2. Petrarca, Trionfo delta Fama, m, 94-5.
NELL'AFFRICA ITALIANA 971
ma ci volevano ben altri scongiuri : per fortuna uno zaptih, o cara-
biniere nero, che non aveva reminiscenze classiche per il capo,
sopravvenne ; due colpi di curbasch a destra, due a sinistra, tutti si
rizzarono piu che alia lesta, chi scapp6 di qua chi di la e fui libe-
rato in un attimo.
II curbasch e uno scudiscio di pelle di ippopotamo ; e se non fosse
che questo non metterebbe conto parlarne; ma esso e altresi in
tutta 1J Abissinia, non eccettuata la colonia eritrea, una istituzione :
zaptie e guardie ne sono muniti, e quando bisogna (pare, da quanto
ho veduto, che bisogni assai di frequente) frustano senza misericor-
dia. Si arresta uno, qualche curbasdata e si rimanda; aggiungo
che la pena del curbasch e in uso anche tra le nostre milizie indigene,
— Come? Si frusta?
— Si frusta, ma per carita non diamo subito la stura agli epifo-
nemi.1 Premetto, perche non m'abbiano a credere duro come un
aguzzino, che sono un po' Baniano anch'io, senza i tenerumi bensi
delle Sorieta protettrici. Mi sdegno quando veggo tormentare gli
animali : mangio poi una bistecca senza innaffiarla di lacrime per la
morte immatura del bue, e non provo rimorso dello avere con una
fucilata recise le speranze che una lepre giovinetta dava di se agli
aperti greppi natii ; provo invece talvolta il rammarico dello averla
fallita. Quando si tratta dell'animale uomo la cosa e diversa: e,
dico il vero, quel costume delle curbasciate da principio non mi
sdegno solamente, mi adir6. In seguito ... in seguito ho dovuto
convincermi, per questa e per tante altre cose, che e un errore
marchiano il giudicare dell'Affrica con criterii europei. Con quali
modi si tiene a dovere, come si punisce un beduino, un abissino,
un musulmano della plebaglia di Massaua o d'altrove ?
— O non ci sono le prigioni ?
— Ci sono: tali da far desiderare a chi c'e dentro quelle della
Gevangenpoort alPAja, o della White Tower2 a Londra; se il tempo
e bello ci si arrostisce, se piove ci si marcisce; o forno o pantano.
Ma che se ne fa delle prigioni ? Un tempo venne in mente al genio
tnilitare di valersi per certi sterri dell'opera dei carcerati. Negli altri
paesi accade che i guardiani si trovino a volte con qualche dete-
i. epifonemi: sentenze di forma spesso enfatica, che chiudono retoricamente
an discorso. 2. Gevangenpoort . . . White Tower: famose prigioni che furo-
no oggetto di lunghe polemiche, perch£ antigieniche e pessimamente orga-
nizzate.
972 FERDINANDO MARTINI
nuto di meno : a Massaua ne trovavano ogni giorno alquanti di piu.
Uscivano la mattina in dieci, la sera tornavano in quindici. Nel tra-
gitto dal luogo dello sterro alia carcere, cinque amatori s'erano
intrusi di soppiatto per scroccare la cena: quella cena che altrove
non si procaccerebbero neppur faticando, se avessero, e non Phan-
no, voglia di faticare. E il fatto si ripete tanto spesso, che fu ricorso
al ripiego di far camminare i carcerati, a un dipresso, come la Con-
venzione francese nella festa del 10 agosto:1 tra due funi rette dalle
guardie, che altri non potesse varcare.
Quella gente, in prigione, c'ingrassa: piu gliene appioppano, piu
gode; se per una colpa riusci a strapparne una settimana, uscita
s'ingegnera di commetterla maggiore per buscarne un semestre.
E v'e altro da dire. In materia di frustate, la opinione di coloro
che le presero o debbono prenderle ha sicuramente gran peso. Or
bene: i soldati stessi tollerano il curbasch se usato, come e sempre,
con discrezione meglio di qualunque altra pena. Una volta lungo
le rive deirObellet, ficcatomi col muletto nel folto di cespugli
tra i quali non mi riesciva di andare ne avanti, ne indietro, pregai
un ascaro che mi accompagnava, scamozzasse con la daga quei rami
e mi facesse un poj di largo. Mi rispose che la daga temeva di in-
taccarla e che per cio lo gastigassero : se il gastigo si fosse ristretto
a una diecina di curbasciate, poco male, e per fare un piacere a me le
avrebbe prese, ma poteva darsi gli levassero per un paio di giorni
meta della paga, e di perdere quella lira e mezzo non se la sentiva.
Molto innanzi che ci6 awenisse, avevamo interrogato sulPargo-
mento il mufti, che e quanto dire il vescovo maomettano di Mas
saua. Abdallah Serag e un belPuomo, un po' troppo, se mai, bello
ed aitante: complessione robusta, occhi vivi, barba folta e nera:
salvo il colore della pelle, pare un turco da litografie. Moralmente
e una molto guardinga e melliflua persona ; dapprima divagb : piut-
tosto che rispondere alia interrogazione precisa che gli rivolgevamo,
ci espose la contentezza che gli indigeni provavano «per essere
sotto dominio cosi umano, cosi abile nel conquistare i cuori» e la
propria sua contentezza per «trovarsi al cospetto di tanto eccelse
ed eloquenti persone». Aveva capito con quale intento o meglio
i. festa del 10 agosto: la celebrazione delPassalto, il 10 agosto 1792, contro
la reggia delle Tuileries fu regolarmente osservata sino airawento dell'au-
tocrazia napoleonica.
NELL'AFFRICA ITALIANA 973
con qual desiderio, gli domandavamo il parere suo intorno alPuso
delle curbasdate e tentava uscirne per il rotto della cuffia, senza
n6 spiacere a noi ne dire 1'opposto di ci6 che pensava. Alia fine, posto
alle strette, volse gli occhi al cielo, mand6 dagl'imi precordi un
sospiro e favel!6 : « Vi sono uomini che si educano per via di persua-
sione e di consiglio, altri, e sono i piu tra di noi, con i quali nulla
valgono il consiglio e la persuasione ; per ammansirli un po' di fru
sta e la mano di Dlo e abolire le curbasdate sarebbe uno sproposito
madornale ».
Passammo innanzi ad alcune capanne: come awenne poi in ogni
altro luogo, le donne cristiane si accalcavano sulla porta a guardarci
curiosamente, osservarci minutamente, canzonarci tacitamente : le
maomettane fuggivano, scorgendoci, o s'imbacuccavano per na-
scondere il volto, che, per quanto intravidi, poteva mostrarsi senza
indurre in tentazione nessuno. Rasentavo quelli abituri spingendovi
dentro piu che potevo gli occhi: ahime con gli occhi mi era forza
approssimarvi anche il naso. Non sto a dire quale fetore ne uscisse;
so che traversando poco dopo il mercato, alcuni di quei rivendu-
glioli bruciarono su piccole padelle di ferro mucchietti d'incenso,
il che sogliono fare in segno d'omaggio ; non bast6 : a cancellare su-
bito il ricordo di quelli acri esalamenti (poich6 anche 1'olfato ha le
memorie sue) tutto 1'incenso de' re magi non sarebbe bastato.
IL CAMPO DELLA FAME1
II palazzo del Comando edificato non dal Munzinger ne dal Gor
don,2 come fu creduto, ma da Arakel-bey governatore per PEgit-
to,3 e un vasto rettangolo ad archi di sesto acuto dolcissimo, che lo
recingono da ogni lato e a terreno si distendono in portico, nel
piano superiore in terrazza, congiunti, Fun con T altro, da una balau-
i. Ed. cit., cap. n, pp. 22-8. 2. Werner Munzinger (1832-1875), esplora-
tore svizzero, percorse le region! dell'Eritrea. Fu ucciso dai Galla. £ note-
vole il suo volume Ostafrikanische Studien; Charles George Gordon,
detto Gordon Fascia (1833-1885), nel 1873 entr6 al servizio del kedM
d'Egitto. Incaricato di sottomettere il Sudan, ribellatosi sotto la guida del
fanatico Mahdi (1884), resiste" a lungo in Kartum assediata. Caduta la
citta prima che gli Inglesi potessero intervenire con un'apposita spedizione
di soccorso, fu decapitato dai mahdisti (vedi anche p. 846). 3. Dal 1865
le regioni costiere dell' Eritrea erano state acquistate da\l3Egitto.
974 FERDINANDO MARTINI
strata. Nel mezzo della facciata, a pochi metri dal mare, due bran-
che semi-circolari di gradini mettono ad un pianerottolo, su cui
poggia una scala rettilinea, che imbocca nella terrazza di fronte
alParco mediano. La pianta del piano superiore ha la forma di
croce greca. Nel centre una sala ottagona, a cupola: quattro galle-
rie/i quattro lati della croce, dalla terrazza conducono nella sala;
terminano dalla parte esterna con porte munite di battenti mas-
sicci, riccamente istoriati d'intagli a rilievo ; dall'interno con grandi
archi di pieno centre, guarniti sino all'impostatura di usciali a
trafori. Nei quattro angoli della croce altrettante stanze, in ciascuna
delle quali dal soffitto al pavimento due grandi vetrate danno su due
lati della terrazza, una porta che da nella sala.
Dicono di averlo restaurato, ma in realta lo guastarono ; per for-
tuna, corti forse a quattrini, non poterono sconciare se non le
forme e la struttura rimase quella di prima. L'aria che per ventisei
arcate (sono sette nei lati piu lunghi, negli altri sei) entra nella
terrazza trova, tra finestroni, porte e archi interni, venti amplis-
simi aditi a penetrare nelPottagono centrale; finche un'aura spira,
anche lieve, ci si sta, come ho detto, d'incanto: nell'aprile conveni-
va guardarsi da* riscontri e dalle correnti.
Ero li una mattina leggiucchiando e fantasticando, quando capita
un amico e mi domanda a bruciapelo:
— Ma nella piana d'Otumlo ci siete ancora stato ?
— Con questi bollori ? A che fare ?
— A che fare, lo vedrete da voi. Dalle quattro in poi, di questa
stagione, non si bolle piu. Alle cinque vengo a pigliarvi. Vi ripeto,
vedrete.
E avrei visto cose da far fremere; me le accenn6 in poche parole,
che non aveva tempo di trattenersi.
Rimasto solo: come? - pensavo tra me - affamati, morti, su la
pubblica strada, un chilometro fuori di Massaua, e da tre giorni
siamo qui e nessuno ce ne ha detto nulla?
Mi pareva impossible. Nondimeno bisognava crederci; Pamico
non era uomo da accendersi facilmente nella fantasia; e aveva ve-
duto coi propri occhi e profferto di condurmi a vedere co' miei.
Venne, alle cinque in punto, ed andammo.
La piana di Otumlo, e una sterminata distesa di sabbie, nella
parte verso cui m'avviavo e che costeggia la baia d'Archico, sparsa,
con lunghi intervalli, di radi e gracili cespugli di tamerici. Quel
NELL'AFFRICA ITALIANA 975
giorno la diga di Taulud1 che vi conduce, era, come sempre verso
il tramonto, gremita di persone d'ogni risma e d'ogni colore:
gente che dimora ad Otumlo, il giorno sbriga le faccende o attende
ai commerci in Massaua, e la sera se ne torna al villaggio. Passa-
vano a cavallo i ricchi mercanti musulmani raccolti nelle ampie
vesti bianche e col bianco turbante di mussolina: e dietro a loro
le mogli velate, anch'elleno inforcato il muletto trotterellante,
ostentando al sole la- eleganza degli ombrellini rossi frangiati, e il
luccichio de' piccoli dischi di latta che vi ricorrono in cerchio
sull'orlatura; il pollice del piede nudo premente, a guisa di gan-
cio, la stafFa; la veste raccolta per non impacciare le gambe, o forse
per pompeggiarsi nella mostra delle brache bianche ornate con
gran sfarzo di fregi rossi in ricamo. Poi la lunga processione de'
pedoni: frati copti2 dalPandatura pigra, in lunghe tuniche gialle
bisunte e consunte e il giallo turbante cilindrico sopra la testa : i
Sudanesi neri con le labbra tumide, sporgenti, lustri da parere in-
verniciati, gli Assaortini3 bronzei, una breve futa cinta sulle anche,
in mano la lancia, al braccio lo scudo, negli occhi torvi e nei li-
neamenti duri i segni d'una covata ferocia.
Seguitavo a pensare: qui affamati, qui morti? Perche, si parva
licet componere magnis* dire la diga di Taulud, a Massaua, e come
dire i Portici di Po a Torino, o a Venezia le Procuratie. Dubitavo:
ne' racconti uditi strada facendo ci aveva a essere delPesagerato.
Pur troppo innanzi alia realta de' fatti ogni descrizione mi parve
sbiadita.
Che era egli dunque awenuto?
Da cinquant'anni le guerre civili travagliano 1'Abissinia; ne'
recenti vi piombarono sopra calamita d'ogni specie: epizoozia,
cavallette, colera e da tante maledizioni un ultimo flagello: la
fame. Gli abitanti, poco propensi per indole all'agricoltura e piu
avvezzi oramai a maneggiare il fucile che a guidare 1'aratro, si
svogliarono dal coltivare. Coltivare con che, se i buoi li ha uccisi
la peste? Coltivare perche"? Perche le cavallette divorino e i ras
e i preti piglino quel che rimane ? Co si, dopo aver patita la carestia
piu anni, ora la cagionavano. La dogana di Massaua rigurgitava
i. la diga di Taulud: e una delle due isole che, con Massaua, formano pro
priamente il centre abitato. Massaua e collegata da un ponte-diga a Taulud,
e questa, a sua volta, alia terraferma. 2. copti: vedi la nota sap. 750.
3. Assaortini: tribu di origine araba, divisa in numerosi gruppi. 4. si par
va ... magnis; e proverbiale citazione da Virgilio, Georg., iv, 176.
976 FERDINANDO MARTINI
di sacchi di dura, principale alimento agli indigeni; veniva da
Bombay, pareva segno d'abbondanza ed era prova di miseria.
Miseria crescente, minacciosa verso i ricchi medesimi, perche un
sacco di dura delle Indie che costa quattordici lire a Massaua,
portato a spalla d'uomo o a dorso di mulo o di cammello, ne costa
quarantatre a Cheren, a Adua cento o poco meno. Lo sbarco
degPItaliani, la occupazione delPaltipiano, furono occasione a lavori
molti, diversi, urgenti; c'era bisogno di braccia, e in quel tramestio
anche i piu disadatti trovarono il verso di guadagnare. Di la dal
Mareb1 fu detto e creduto che Dio, misericordioso alle colpe del-
PAbissinia, aveva intanto perdonato alPHamaseri, dove era pane
per tutti ; e dal Tigre cominci6 e prosegui per mesi e mesi Pesodo
delle famiglie, volgenti a Massaua come alia terra promessa. Tardi.
I privati alle proprie necessita avevano gia sopperito, la piu parte
delle opere pubbliche erano ultimate, di altre s'era rimandato il
compimento ad anni migliori. E intanto dal Tigre arrivavano a cen-
tinaia ogni giorno maceri, piagati, rifiniti dagli strapazzi e dalle pri-
vazioni del lungo viaggio. Per giunta, venivano da regioni infette e,
se duravano in quelli stenti, era da temere scoppiasse qualche ma-
lanno.2 II governatore ordin6 che quanti mancavano di lavoro quo-
tidiano si sfrattassero oltre la diga.
Scacciati dall'asilo sospirato per tanto tempo, tra Pinopia piu
squallida, s'erano attendati nella piana d'Otumlo. Attendati? In
quel lembo di deserto alcuni s'eran fatti un tucul piu misero, se e
possibile, del consueto, altri rizzata una stuoia; i piu fortunati ave
vano per casa un cespuglio, tutti per letto la sabbia cocente. Qua,
la cadaveri abbandonati, coperti da un cencio la faccia; uno, orri-
bile a vedere, pareva muoversi, tanto brulichio d'insetti gli serpeg-
giava per le membra disformate e disfatte dalla sferza del sole.
I morti aspettavano le iene, i vivi la morte. Da un cespuglio escono
fili di voce, sporgono e si stendono mani scarne, tremanti delPul-
timo brivido. Qui, dalla rena un moribondo con supremi sforzi
si rizza sul torso, guarda con gli occhi sbarrati, vitrei, non vede,
manda un rantolo, ripiomba sul terreno battendo la schiena e la
nuca; la una donna accoccolata, che non pu6 piu parlare, accenna
con un moto continuo del capo un bambino di quattro o cinque
anni, prossimo allo sfmimento ; e che steso a' suoi piedi volgendoci
i. Mareb: fiume del bacino Sudanese dell'Atbara. 2. «Era a quel tempo
governatore il generate Gandolfi» (nota del Martini).
NELL'AFFRICA ITALIANA 977
le pupille smorte sussurra meschin, mesckin convoce languida, rauca.
Ci accostiamo per soccorrerla e da' giacigli immondi subito si leva
una turba di scheletriti, nel corpo de' quali sotto la pelle tesa, si
distinguono ad una ad una le ossa, come ne' carcami mummificati
del Gran San Bernardo. Tentano di seguirci, sussurrano anch'egli-
no meschin meschin\ esausti di forze cascano, fan per rialzarsi, stra-
piombano, ricascano, si strascicano dietro a noi carponi, chiedendo
aiuto con gemiti che paiono ululati. Le madri alzano a fatica da
terra i lattanti e ci seguono con pianti e con strida, additandoci, la
dove fu il seno, una grinza. Distribuimmo qualche lira, soccorso
risibile in tanta indigenza, inutile a chi sara morto fra un'ora. E la
processione de' pedoni, de* muli, de' mercanti, delle donne segui-
tava folta e chiassosa. Mi ritraggo per iscansarla e m'abbatto in fan-
ciulli che frugano nello stereo de' carnmelli a cercarvi un chicco di
dura ; mi volto raccapricciato e scorgo altri fanciulli, che gli zaptib
a forza allontanano da una carogna di cavallo, fetido avanzo di iene,
alia quale, abbrancati, strappavano co* denti le interiora: le interio-
ra perche piu molli, e piu molli perche piu imputridite. Fuggo,
inorridito, istupidito, vergognoso della impotenza mia, nascondendo
per vergogna la catena delPoriolo, vergognando in me stesso della
colazione che ho fatta, del desinare che m'aspetta. Lo so, lo so, ci6
che avete da dirmi: sovvenire e impossibile, non v'e soccorso che
basti, e se oggi si soccorresse, si rovescerebbe domani qui tutta
PAbissinia. Lo so, lo so, che non tutto e disgrazia e c'e la pigrizia,
Timprevidenza, Pincuria; ma chi ha cuore di rimproverare mori-
bondi che invidiano i morti? Udii per piu giorni ragionamenti
savissimi, ma per piu notti tra Pallucinazione ed il sonno, nel cor-
rompersi e confondersi delle immagini mi gravarono incubi, mi per-
seguitarono visioni, di alcuna delle quali tuttavia mi rammento.
Ora mi svegliava di sobbalzo il contatto di un corpo gelido, ora
una mano gelida e ossuta mi premeva sul petto e mi toglieva il re-
spiro; e nel sogno afFannato, mi pareva fuggire fuggire, sotto un
sole ardentissimo, senza meta, senza scampo, per lande senza con
fine riarse, inseguito da iene che mugliando si approssimavano,
inseguite alia lor volta da una schiera di Sudanesi, sopra cavalli
giganteschi che correvano a briglia sciolta, fra torme di frati, di
mercanti, di donne, di scheletri con la lancia e con Tombrellino.
978 FERDINANDO MARTINI
[SCUOLE E INCIVILIMENTO]1
In Egitto - a Tantah, a Zagazig, a Ismailia, a Benha 1'Assal - non
si attacco discorso con un italiano, che non venissero in ballo le
scuole. Tutti i nostri connazionali ne parlavano, o per dichiarare le
ragipni che consigliavano d'istituirle, o per lagnarsi della recente
abolizione di quelle che v'erano. Poiche le strettezze delFerario
impediscono di prowedere con larghezza alia educazione di conna
zionali che vivono sotto altri dominii, premeva sapere in qual modo
prowedessimo a educare e istruire le nere speranze della colonia.
Due le maggiori scuole a Massaua: una tenuta da monache fran-
cesi,2 le quali sowenute dalla munificenza del governo (ebbero un
tempo ventiquattro, poi dodicimila lire Fanno) tutto insegnano fuor
che la lingua italiana: Faltra un collegio diretto dal Padre Bonaven-
tura Piscopo, frate francescano e cappellano militare. Per quanto
fosse curioso indagare il per che dal governo si spendessero due-
mila lire il mese a sowenire monache francesi, che tutto insegnano
fuor che la lingua italiana, lasciammo per piu ragioni intentati i pii
penetrali della Missione, e ci contentammo di visitare Fistituto del
Piscopo, che s'intitola dal colonnello De Cristoforis morto a Do-
gali3 nel gennaio delFottantasette.
L'istituto, opera e cura d'un privato che dalla inconsueta parsi-
monia del governo stiracchi6 la scarsa modicitk d'un sussidio, se le
buone intenzioni bastassero, sarebbe il principe degli istituti; e se
gli ArTricani avessero il cervello tre volte piu capace di quello degli
Europei, gPIdris e i Gabru che vi si ammaestrano sarebbero a
quest'ora accademici di non so quante accademie. Vi si insegnano
difatti: Fitaliano, Farabo, Famarico,4 Faritmetica, la geografia, la
storia d'ltalia, la fisica elementare, la telegrafia, il disegno, la mu-
sica, la ginnastica, Farte del pompiere e del marinaro e, per non
passare il tempo in ozio, vi si esercitano gli alunni in altri parecchi
mestieri.
Manca, a dir vero, la storia della Persia. Non furono forse i Per-
siani i primi abitatori di Massaua? La filosofia del diritto penso
Fabbiano tralasciata di proposito e con fino accorgimento, affin-
i. Ed. cit., dal cap. m (Visite e colloqui), pp. 39-44. 2. « Sono state espulse
dalla colonia or e poco - 1895 » (nota del Martini). 3. De Cristoforis . . . Do-
gali: vedi la nota i a p. 1156. 4. Vamarico: vedi la nota 2 a p. 774.
NELL'AFFRICA ITALIANA 979
ch6 i Gabru e gPIdris, filosofeggiando, non ci dimandino con
quale diritto siamo andati a prendere la roba loro.
Gli alunni, una cinquantina di orfani, ci accolsero a suon di ban-
da, e un di loro ci lesse il solito indirizzo, squarcio di prosa reboante
in quel gergo delle scritture ufficiali, che, per manifeste affinita,
suona dolce e quasi noto alle orecchie etiopiche. Vi si diceva, in
sostanza, che quei ragazzi eran tutti pronti a dare il sangue per la
salute e la grandezza d' Italia. Da' padri di parecchi fra loro, che di
darcelo non si proponevano, Pavevamo gia preso. Questo Vindi-
rizzo non lo diceva.
Passammo nelle scuole, ne' dormitori: stanze e baracche mode-
stamente arredate, ma linde. Ci6 che piu mi meravigli6 fu la faci-
lita con la quale quei giovanetti padavano, alcuni scrivevano cor-
rentemente Pitaliano senza errori n6 di pronunzia ne d'ortografia.
I libri di testo . . . Aveva ragione lo Schweinfurth,1 il clima di Mas-
saua mortifica Tintelletto. Per la lettura, un volume di racconti
intitolati Puno il buon parroco, Paltro la raccolta delle olive, adatta-
tissimi agli Abissini che non hanno mai visto n6 olive ne parroci ;
per la geografia un manualetto che da minute notizie di Albenga, di
Carrara, di Montepulciano, di Casalmonferrato e via discorrendo :
e la frase, tratta da quel manuale e dettata a Cassa, ragazzotto sve-
glio che la scrisse, prontamente e correttamente, sulla lavagna fu
appunto questa: « Casalmonferrato e capoluogo di circondario nella
provincia d' Alessandria ». Sicuro: capoluogo, circondario, provin-
cia; denominazioni chiare e notizie utili alia mente di chi passera
tutta la vita tra Massaua e Ghinda, nello stesso modo che sarebbero
pel contadino della Valdinievole chiare ed utili queste altre : il mir
di Ostrov si compone di dieci osmaks e di trecento dwors, tutti
amministrati dal medesimo Selski Starosta.2 Ridicolaggini che non
metterebbe conto awertire, se non valessero a provare che noi ci
siamo imbarcati nel pelago fortunoso delle colonie, senza prepara-
zione alcuna ne morale ne materiale.
V'era argomento a sorridere; pur io non sorridevo, allorche uscii
dairistituto piu tardi.
i. Georg Schweinfurth (1836-1925), botanico native di Riga, dimor6 a lungo
e torn6 varie volte in Africa. In pagine precedenti, il Martini scrive di un
lungo colloquio avuto a Massaua con lui che tornava proprio allora da
Gheleb, dove aveva compiuto indagini scientifiche, e si preparava a parti-
re per la Germania. 2. mir . . . osmaks . . . dwors: partizioni territoriali della
Russia aU'epoca zarista; Selski Starosta: la massima autorit£ del paese.
980 FERDINANDO MARTINI
Quando facemmo per licenziarci, gli alunni intonarono un coro,
del quale non ricordo e mi pento non avere trascritto tutte le strofe.
Era un ringraziamento alle autorita della colonia, una glorifica-
zione dell' Italia, una enumerazione de' benefizi quotidiani che
riversa sull'Abissinia, e si chiudeva cosi:
GVItaliani son stirpe di forti
che sepper le sorti
con le armi domar.
Lasciamo da parte la vanteria e preghiamo gli echi di Dogali e di
Metemma1 che quei versi non li ripetano. Tra que' giovanetti
di died, di dodici, di quindici anni, ve n'era piu d'uno cui avevamo
fucHato il padre, non d'altro colpevole che di non volere europei,
neanche apportatori di civilta: come cinquant'anni sono i Lombardi
ed i Veneti non volevano Tedeschi, neanche apportatori di ordine.
La conquista ha sempre tristi e talora disoneste necessita; ma il
mettere sulle labbra a quegli orfani la lode de' benefizi nostri mi
parve, mi pare tale uno oltraggio alia natura umana, che tuttavia,
ripensandoci, mi sento il sangue al capo per conto mio e sulla fac-
cia per conto degli altri. Gia, e bene questa occasione mi si offra:
se non dicessi subito quanto ho nelPanimo, non arriverei a finire
questo libro che vuole e deve essere in tutto sincero. In Affrica ci
siamo andati, senza saper bene il perche, ci siamo voluti restare per
consenso quasi universale, quando era tempo di venirsene con
danno minore; ora io, che pur cosi ripetutamente e vanamente
domandai2 si richiamassero dalle coste del mar Rosso i nostri sol-
dati, io, per il primo, confesso che il dar le spalle al mar Rosso
oggi non e piu possibile, senza disdoro infinite, perpetuo. Ma, se col
mutare degli eventi e de' tempi, muta la ragione politica, la ragione
morale rimane qual era; ed io non so rassegnarmi a credere che vi
sieno due giustizie, una bianca, e una nera, due diritti uno nero e
uno bianco; nella pochezza mia non arrivo ad intendere con che
cuore noi che per secoli patimmo e lamentammo il giogo, andiamo
ora ad imporlo. Ma noi siamo eclettici: richiediamo 1'Isonzo3 e pi-
i. A Metemmciy nel 1889, combatte contro i mahdisti e trov6 la morte il re
d'Etiopia Giovanni IV, capo tigrino (per cui vedi p. 744). 2. ripetuta
mente . . . domandai: in vari discorsi tenuti alia Camera e che sono ripro-
dotti nel volume del Martini Cose affricane: da Saati ad Abba Carima
(vedi la bibliografia). Interessanti, fra gli altri, i discorsi del 263 giu-
gno 1887. 3. richiediamo VIsonzo, cioe rivendichiamo il diritto di nazio-
NELL'AFFRICA ITALIANA 981
gliamo il Mareb. Quando mi provo a dirlo, mi rispondono con
un'alzata di spalle: «Coteste sono idee da secolo decimottavo ».
Me ne rincresce per il decimonono. Ma noi siamo ipocriti: De-
giacc1 Mesfin rischia la vita per liberare dalla prigionia il padre,
Ras Woldenkiel, e il proprio paese dagli invasori; se costui fosse
nato a Roma sotto la repubblica, lo proporremmo nelle storie ad
esempio di virtu di patria e filiale ; nato in Affrica, lo chiudiamo nella
galera di Santo Stefano. Quando mi attento a dimostrare la contra-
dizione, interrompono sogghignando: «Non c'e termine di con-
fronto: noi compiamo in Affrica gli uffici della civilta». Ma noi
siamo bugiardi: non e vero che speriamo diffondere la civilta in
Abissinia; non importa aver dimorato anni ed anni nell' Affrica
come lo Schweinfurth, per farsi il suo medesimo convincimento :
basta avervi passato non inutilmente due mesi. Non si tratta di
tribu selvagge e idolatre, bensi di un popolo cristiano da secoli, la cui
compagine politica e secolare, nel cui paese, per secoli, conquista-
tori e viaggiatori tentarono imprimere tracce delPincivilimento eu~
ropeo ; quel popolo non ne voile sapere : le sue capanne sono ancora
quelle dej tempi biblici, i suoi costumi presenti furono conosciuti
da Erodoto.2 Noi figuriamo di voler porre un termine alle guerre
fratricide che spezzarono in quelle regioni ogni molla delFoperosita
umana, e arroliamo ogni giorno e paghiamo Abissini perch6 si
sgozzino con Abissini. Eh! via; replicate a noi malinconici che in
Europa stiamo troppo pigiati, che in Etiopia vi son tre o quattro
abitanti per ogni chilometro quadrato, che oramai le conquiste
coloniali sono un'empia necessita, ma non parlate d'incivilimento.
Chi dice che s'ha da incivilire TEtiopia dice una bugia o una scioc-
chezza. Bisogna sostituire razza a razza: o questo, o niente: lo
affermava il Munzinger trent'anni fa quando la schiettezza era le-
cita. All'opera nostra Tindigeno e un impiccio; ci tocchera dun-
que volenti o nolenti rincorrerlo, aiutarlo a sparire, come altrove le
nalita per contestare r«iniquo confine » del 1866 che al di qua dell'Isonzo
separava Fallora Regno d' Italia dalle provincie giuliane della monarchia
absburgica, mentre ci si appella al diritto di conquista coloniale per la pene-
trazione in Eritrea. II Martini, d'altronde, pur cosl lucido e acuto, non
sembra aver neppure intraweduto mai la possibilita, oggi praticamente
attuata nella maggior parte del continente nero : 1'awento, cioe, delFindi-
pendenza nazionale e statale dei popoli « coloniali » d'Africa. i. II titolo
di Degiacc, di origine militare, indica un alto grado, di poco inferiore a
quello di Ras, nella organizzazione feudale etiopica. 2. Erodoto d'Alicar-
nasso da notizie dei territori dell'Egitto nel libro secondo delle sue Storie.
982 FERDINANDO MARTINI
Pelli Rosse, con tutti i mezzi che la civilta, odiata da lui per istinto,
fornisce: il cannone intermittente e Tacquavite diuturna. £ triste a
dirsi ma pur troppo e cosl. I colonizzatori sentimentali si facciano
coraggio : fata trahunt, noi abbiamo cominciato, le generazioni av-
venire seguiteranno a spopolare TAffrica de' suoi abitatori antichi,
fino al penultimo. L'ultimo no : Tultimo lo addestreranno in col-
legio a lodarci in musica, dell'avere, distruggendo i negri, trovato
finalmente il modo di abolire la tratta!
[TRIBUNALI E GIUSTIZIA] r
Gli Abissini hanno saldo il sentimento e vivo il desiderio della
giustizia.
Tra Ghinda e Filogobai2 c'imbattemmo in un uomo che, vedu-
tici, si pianto in mezzo alia via e cominci6 a sbraitare e gesticolare.
Domandammo che cosa volesse. Aveva imprestato a un tale quindici
talleri e ora, trascorso assai tempo, chiedeva glieli facessimo resti-
tuire; quando lo awertirono che quelPaffare non ci riguardava,
si chet6, ma con gli atteggiamenti disse piu che non potesse con le
parole. La meraviglia manifesta sulla sua fisionomia esprimeva
chiarissimo questo pensiero: o che grandi siete, se non vi basta
neanche Tanimo di farmi restituire quindici talleri?
E ad Asmara ogni mattina, appena che cacciavo il capo fuori
della fmestra, vedevo qua e la uomini, donne seduti tra le molli
rugiade, parecchi venuti di lontano, che tutti aspettavano di par-
lare con noi, per esporci i loro piati particolari, quasi fossimo una
comitiva di pretori ambulanti.3 Tutti, ho detto male ; i piu : qualche-
duno ci cercava per offerirci doni, ossia per dare uno e buscare,
se gli riesciva, dieci in ricambio.
Mi ricordo di una grossa matrona sulla trentacinquina, me-
glio conservata che le Abissine npn sieno a quelPeta, la quale arriv6
la mattina alPalba, a cavalcioni del muletto, seguita da due schiave
e con grande ombrellino rosso, aperto sebbene non ci fosse nem-
meno una spera di sole. Ma sole o non sole, Tombrellino & segno
i. Ed. cit., dal cap. vni (// tribunate di Asmara), pp. 90-6. 2. Tra Ghinda
e Filogobai'. nel territorio tra Massaua e Asmara. La commissione di cui fa-
ceva parte il Martini percorse buona parte dell'Eritrea, toccandone vari
luoghi. 3 . pretori ambulanti : i praetor es peregrini istituiti per amministrare
la giustizia nelle province romane.
NELL'AFFRICA ITALIANA 983
di grandezza, e si apre tanto sul crepuscolo quanto sul meriggio,
tanto al nuvolo quanto al sereno. Mi fece sapere che era la moglie di
Ligg Engeda Scet, allora in Adua, e veniva per regalarmi uno
sciamma;1 non voleva altro: ch'io mi degnassi di accettare quello
sciamma e darle cosi argomento di perenne felicita. Non Tavevo
mai vista, ne senza molta vanita potevo imaginare che la presenza
delPinterprete fosse il solo ostacolo alPerompere della sua pas-
sione per me, e lo sciamma il dolce pegno di un amore improwiso
e ahime! non corrisposto. La feci discorrere. Non ci voile molto a
capire che Fofferta aveva questo fine meno affettivo: pigliarsi il
doppio del valsente in talleri di Maria Teresa.* La licenziai con la
cortesia contegnosa che m'imponevano Taltezza del grado e la
maesta delle forme, augurandole quella felicita a cui i fati awersi
non mi consentivano di prowedere.
Ripigliamo il filo.
Ogni medaglia ha il suo rovescio : il desiderio della giustizia fa gli
Abissini litigiosi; e al tribunale di Asmara i dibattiti sono animati,
le cause nurnerose, anche perche, spesso, non c'e modo di schivarle.
Un'antica legge di Jazu3 statuisce, sotto pena di multe gravissime,
che chiunque sia citato in nome deirimperatore o del re segua in-
nanzi ai giudici il suo contradittore, e legato con lui per i polsi.
Obtorto collo.4 Non importa dire che la citazione non si fa ne per
via d'uscieri n6 con carta bollata, istrumenti e tormenti de' popoli
civili ; si pronunziano non so quali parole e ci6 basta.
Quand'anche 1'intimatore sia un fanciullo, nessuno s'attenta a
trasgredire. Mi raccontarono che di recente nelle vicinanze d'Adua
un de' soldati i quali scortavano il corriere Davico, dopo aver man-
giato ben bene, neg6 di pagare lo scotto alPostessa. Quella lo cito
pronunziando la parola di rito, e T altro, sebbene soldato e in armi,
la segul senza farselo dire due volte.
II tribunale di Asmara, civile e penale, e composto di un colon-
nello che vi presiede, del capitano dei carabinieri, del comandante
le bande assoldate, degli anziani tra gli uffiziali d'ogni grado. Siede
ogni mercoledi, attorno a un tavolino di legno greggio coperto da
uno sciamma, sotto una tettoia sostenuta da tre parti con assiti,
1 . sciamma : scialle ampio, quasi un mantello : e voce di origine abissina.
2. II taller o era moneta d'argento, assai pregiata in Eritrea, del valore di
circa cinque lire oro, coniata dalla zecca di Vienna con I'effigie di Maria Te
resa d' Austria. 3. Jazu II fu re d'Etiopia alia fine del secolo XVII. 4. Ob
torto collo: a collo torto, contro voglia.
984 FERDINANDO MARTINI
dal quarto, quello rimpetto ai giudici, con antenne mozzate. Fa da
interprete Cassa, fratello della signora Naretti: il quale, figlio di un
tedesco e d'un'abissina, ha come la madre la pelle nera, come il pa
dre la barba e i capelli biondi: e nel corpo e neU'abbigliamento
mezzo europeo e mezzo affricano (calzoni di anchina,1 soprabito,
berretto da fantino, sciamma) raffigura non so se la propria sapienza
bilingue o la unione, meglio la mescolanza, delle due razze e delle
due civilta.
Dall'alto pende sulla testa de' giudici un cartello, in cui sta scritto
in italiano, in amarico e in arabo «la giustizia e eguale per tutti ».
Veggo un indigeno, il quale non sa che di quella sentenza si or-
nano le aule di tutti i tribunali italiani, guardarla e sorridere ; pensa
forse che una cosi marchiana sciocchezza non merita d'essere ripe-
tuta in tre lingue. La giustizia e eguale per tutti! Grazie tante;
astrattamente considerata, non pu6 alcuno averne concetto diverso
da quello che altri ne abbia, ne darne diversa definizione. Non la
giustizia, i giudici debbono essere eguali per tutti; non dico che
non sieno e non pretendo correggerli : vorrei soltanto fosse corretto
il cartello.
Da un de' lati si adunano i capi delle diverse regioni, le dignita, i
barambaras e i ligg2" interrogati, via via, affinche o esprimano il loro
parere intorno ai diritti de' litiganti o forniscano notizie, quando
occorra, delle costumanze e delle tradizioni ; e a volte nel rispon-
dere si dimostrano di finissimo acume. Fu trovato suirArboroba3
il cadavere di un ragazzo, morto nel portare ad Asmara un sacco di
dura ; il padre, naturale erede, domandc- la dura fosse data a lui e il
tribunale propendeva al concedere. Un de5 capi si Iev6 obiettando:
— E d'ora in poi dunque quando qualcheduno che porta ad Asmara
roba vostra, di voialtri giudici o del governo, morira per istrada, la
roba trovatagli accanto andra ai parenti, agli eredi? — Fu un'osser-
vazione tanto acuta quanto giusta: di fatti si venne poi a sapere che
il ragazzo era un portatore e la dura non gli apparteneva per nulla.
Gl'indigeni tengono in gran conto la saviezza di quel tribunale, si
fidano interamente nell'equita de' suoi giudizi ; a invocarli vengono
fin di la dal Mareb, gente di Adigana, di Adua, di Axum. I capi
i. anchinai tela di cotone, di colore giallastro, proveniente da Nanchino,
donde il suo nome. 2. II grado di barambaras e titolo onorifico militare e
significa « capo dei cavalieri armati di corazza » ; i ligg sono gli uomini di
stirpe nobile, e la parola ligg equivale a « figlio ». 3. II monte e la sella di
Arboroba sono sulla strada fra Massaua ed Asmara.
NELL'AFFRICA ITALIANA 985
del Carmescim e delFOkule-Cusai, eke amministrano la giustizia
in primo grado, mandano ad Asmara le cause di maggiore impor-
tanza, e delle loro sentenze appellano i litigant! ad Asmara. Chi
vuol tentare un'ultima prova pu6 ricorrere al tribunale di Massaua,
ma finora non v'e mai ricorso nessuno.
Sfogliai il registro ove sono notate le cause, e, in succinto, le
rispettive sentenze. Una volta con una fucilata a tradimento fred-
darono un giovinotto ; chi la tirasse non fu saputo ne allora ne poi.
I suoi compaesani si querelarono e chiesero al tribunale condan-
nasse lo scium, o capo, di un villaggio vicino, nel quale supponevano
Puccisore dimorasse, a pagare ilprezzo del sangue.1 II tribunale se-
condo la consuetudine interrogo i capi : posto anche che quanto af-
fermavano si dimostrasse vero, sarebbe egli giusto condannare lo
scium ? Circa al diritto le opinioni furono discordi. No, obiettarono
gli uni : lo scium non pu6 essere tenuto a rispondere delle colpe al-
trui. Si; ribattevano gli altri: a che serve uno scium se lo esentate
da coteste mallevadorie ? Circa al fatto tutti consentirono : prove
non ce n'erano, pochi indizi soltanto. Ma ai parenti e agli amici
delFucciso quelli indizi parevano piu che sufficient! e seguitavano a
tempestare. Fu ricorso a' vecchi della regione, affinche dicessero se
qualche antica costumanza aiutasse a uscire da quel garbuglio.
Risposero : — La costumanza e questa: quando sette uomini e sette
donne, in sette chiese delPHamasen, sette volte in ciascuna, giu-
rino che il colpevole non appartiene al loro villaggio, gli altri deb-
bono crederlo e andarsene con Dio. — E cosi fu fatto.
Un'altra causa curiosa fu quella del Euda. Secondo un'ubbia
invalsa in tutta quanta FAbissinia, nel Sudan, e, stando al Casati,2
anche nell'Affrica equatoriale, i fabbri hanno il segreto e Fabito
dej sortilegi. Una tale superstizione pass6 probabilmente in Etiopia
dalPEgitto, dove fu creduto che per gl'influssi di Tifone3 chiunque
lavora il ferro diventi malvagio.
II Buda, dunque, e un fabbro il quale, bevuto un decotto di certa
erba, che veramente cagiona Tebrieta e, in forti dosi, perfino il
delirio, piglia di notte le forme di iena e se ne va in giro a fare in-
cantesimi; le eclampsie,4 le epilessie, le convulsion! isteriche, il ballo
1 . prezzo del sangue : vedi anche pp. 790 e 1003 . 2. Casati: vedi pp. 845 sgg.
2. Tifone: gigante mitologico, fulminate da Giove mentre tentava di scalare
il cielo: e detto anche Tifeo. 4. eclampsie: manifestazioni convulsive a tipo
epilettico, ma dovute a cause varie, comunque diverse da quelle che gene-
rano 1'epilessia.
986 FERDINANDO MARTINI
di San Vito, tutti malefizi del Buda. Un di quest! disgraziati fu
condotto innanzi al tribunale di Asmara ; non potevano, s'intende,
ne volevano condannarlo, ma bisognava non offendere Taccusatore
come tutti gli Abissini ombroso e orgoglioso; non aver Tana in-
somma di ridergli in faccia; tanto piu che egli, credendo di tagliar la
testa al toro, imponeva reciso : dategli da bere un decotto di quella
tale erba e vedrete in quale stato lo riduce il diavolo che gli entra
addosso. Trovarono modo di salvare capra e cavoli; disse il Presi-
dente : — Sta bene : io far6 bere al Buda quell'infusione : ma tu la
farai bere a due de' tuoi seguaci : se non produce in loro gli stessi
effetti che nell'altro, io condanner6, altrimenti tu pagherai cento
talleri. — La scommessa, consuetudine antica de' tribunali etio-
pici, non fu tenuta.
Una terza causa (dico di alcune soltanto le quali giovano a di-
pingere il costume o Findole del popolo) fu per « ricerca di pater-
nita»; non era bensi il figliuolo a indagare, egli era anzi Foggetto
della contesa. I litiganti dicevano ambedue di averlo messo al
mondo e confortavano la loro tesi di argomenti i quali, perch6 sem-
plici, parevano loro efficacissimi.
Bisogn6 rimettersene al giovanotto: ed egli prescelse rimanere
con colui che, generatolo o no, lo aveva di certo allevato e nutrito.
Notate: il giovanotto era povero, i contendenti agiatissimi; se lo
contrastavano perche bello, svelto, valoroso, perch6 si fece onore
in non so quale combattimento ; non li moveva n6 cupidigia n£ af-
fetto, ma la vanita sola, negli Abissini incommensurabile.
BAT A AGOS1
Cjodofelassi,2 dove ci fermammo due giorni, ebbe anch'essa le
attrattive sue. Ricorder6 sempre la fortunatissima cacciata di un
paio d'ore, dalla quale tornammo carichi di die-die,2 di lepri, di
i. Ed. cit., cap. xn, pp. 143-57. 2. Godofelassi: un grosso villaggio tra
Addi Ugri e Chenofena. 3. «Piccola antilope. Nestragus Saltianus (Issel).
Delia nostra avifauna io non vidi se non poche specie: il tor do e la quaglia,
ma piu piccoli, quasi della meta piu piccoli dei nostri; lodole cappellute
in gran numero e dappertutto ; il germano reale, il beccaccino, la starna, il
piviere, la bubbola, il lusuiy Vortolano, la capinera, il prispolone (anthus arbo-
reus) ed ilprispolo (anthus pratensis). Mi fu detto bensl, da chi aveva avuto
piii propizia e piu lunga opportunita di osservare, che la massima parte
dei nostri uccelli palustri si trova nella colonia. Chi voglia del rimanente
NELL'AFFRICA ITALIANA 987
francolini, di ottarde, di faraone. Cibo scipito, come e la tutta la
selvaggina, ma gradevole a stomach! nauseati dalle conserve, a
ganasce affaticate dal fare a chi piii tira con pezzi di hue, vivo
alle otto e messo in tavola alle dieci.
Sebbene I'argomento sia per me piacevole, non mi distendero
a discorrere di caccia, la quale cosi in AfTrica come in Europa si
compone di colpi bene assestati e di colpi sparati a voto, di animali
die cadono e d'altri che se ne vanno piu lesti di prima. In Europa,
quando non cadono, la colpa e loro: o si levarono lontani, o
inaspettati, o s'infrascarono, o, feriti, prescelsero di morire altrove.
E se la colpa non e loro e del cane che die sotto troppo presto, della
polvere che non fa, del piombo che non buca. Un cacciatore, il
quale confessi d'aver mirato troppo basso o tropp'alto, e piu raro a
trovarsi di una donna che convenga d'essere brutta come il peccato.
In Affrica, lo addurre scuse e piu difficile e forse addirittura impu-
dente. Nelle lepri s'inciampa, schizzano tre passi distanti e fattine
dieci si fermano, si voltano a guardarvi, par quasi vi sfidino o vi
canzonino. A dir tutto in breve bastera un aneddoto : fra P Asmara e
Debaroa all'approssimarsi della lunga carovana, una brigata di
starne si Iev6 dal bel mezzo della strada e and6 a ributtarsi piu in la
due tiri di schioppo ; un di noi ebbe il tempo di scendere dal mulo,
farsi portare il fucile, caricarlo e raggiungere la brigata prima che
si rilevasse.1
Come ci6 avvenga e facile intendere; nessuno disturba gli uc-
celli; gl'indigeni non hanno piombo minuto, senza cui la caccia a
penna e impossible; la lepre poi non e per loro se non la forma
della quale la iena si veste, finche e alto il sole: animale immondo,
s'infamerebbe chi ne assaggiasse. Cacciano 1'antilope, la gazzella,
i piu destri il leopardo e il leone. La caccia al leone, a quel modo che
la fanno il piu spesso, vuol meno coraggio di quanto s'immagini.
S'appostano la notte vicino alPacqua, in quaranta o cinquanta;
quando il leone assetato vi capita, il capo della comitiva, che & quasi
piu ample notizie su tale argomento consult! un opuscolo del D. F. Muz-
zetti stampato net 1894 a Massaua e intitolato La selvaggina da penna spe-
ciale alia Colonia Eritrea » (nota del Martini), i. «Lo Schweinfurth e il
dott. Schoeller nel marzo del 1894, in un luogo chiamato Montai, pochi chi-
lometri distante dallo Sciagalgul, uno dei rami del Barca, trovarono tale
varieta e quantita d'uccelli da superare, secondo scrivono, ogni descrizione.
Basti dire che in un'ora ne uccisero tanti da formare Tintero carico d'un
cammello; cfr. "Boll, della Soc. geog. ital.", serie in, vol. 8°, fasc. i» (nota
del Martini).
988 FERDINANDO MARTINI
sempre uno dei capi del paese, spara primo: se colpisce, bene, se
sgarra, i seguaci tirano tutti insieme; e difficile che, tra tante,
qualche palla non colga nel segno: e se nessuna coglie, I'animale,
spaventato dal fracasso, fugge. Non sempre succede cosi: a volte
non il cacciatore, ma il leone s'apposta. Ligg Tedla andando in
cerca di gazzelle si trovo innanzi, aH'improwiso, due leonesse:
con una coppiola le distese tutte due e per questo porta intorno alia
fronte due code. « Code di cane» direbbero gli Habab:1 per beffeg-
giare gli Abissini i quali, secondo loro, menano troppo vanto di
quelli atti senza coraggio, perche senza pericolo.
Torniamo a Godofelassi. Plinio2 scrive che Tombra della iena fa
muti i cani e immobile qualunque animale. Magari fosse cosi!
Si dormirebbe piu tranquilli in Affrica. A Godofelassi i sonni insa-
lubri nella notte fredda e sotto la tenda bagnata come se vi fosse
piovuto sopra, furono interrotti di continuo dal latrare di Gherar
e di Masticafumo, due cani venutici dietro da Massaua, e dallo
scalpitare e dal nitrire dei cavalli e dei muli che Purlo e la vicinanza
delle iene impaurivano. La prima notte, pare gli ascari presi dalla
cascaggine lasciassero spegnere i fuochi: fatto sta che una iena s'ac-
cost6 alia zeriba? e poco manc6 non entrasse nell'attendamento;
e un leopardo azzann6 il cavallo del trombetta, sconciandolo ma-
lamente in un femore. La seconda fu peggio : al campo le iene non
s'accostarono tanto, quanto la notte innanzi; ma sulle due mi dest6
un grido acutissimo che mi parve, strozzato a mezzo, seguitare in
un rantolo fioco. I cani abbaiarono, muli e cavalli scalpitarono al
solito. Si seppe la mattina che la iena aveva sorpreso un bambino,
addormentatosi sopra una massa d'immondizie.
La strada piu breve fra Godofelassi e Gura non e tale, asseve-
rarono, che potesse passarvi una carovana come la nostra; ci tocc6
dunque tornarcene a Debaroa e di la prendere per Adgina e Kor-
bara. Ebbi gia occasione di accennare quali aspetti abbia il paese
tra Korbara e Gura. Diresti quella la via trionfale del Tempo,
lungo la quale si sia compiaciuto nel comporre monumenti a se
stesso, per dimostrare tutto quanto possa, come tutto muti o
i. Habab: tribu dedita alia pastorizia. 2. Plinio il vecchio (23-79 d. C.),
autore dei trentasette libri della Naturalis historia. 3. zeriba: recinto, sie-
pe a difesa di accampamenti.
NELL'AFFRICA ITALIANA 989
distrugga. Qui il fenomeno che gia incomincia ad osservarsi nel
monte Sevan, in faccia a Cheren, si e gia compiuto da secoli: i
graniti andarono via via sfaldandosi, e dove fu gia una montagna,
non sono oggimai phi che o rupi di foggie bizzarre, o massi Tun
sulPaltro in bilico, che non sai come facciano a non precipitare;
e da lontano, erti tra '1 verde delle mimose, arieggiano quale un
campanile gotico, quale i ruderi di un castello normanno, quale il
torso della piu colossale statua che mai si scolpisse. La stessa illusio-
ne ottica provai gia nel salire sul monte Bianco tra Pierre a Vechelle
e i Grands Mulets? dove gli immensi blocchi di ghiaccio appaiono
vestigia marmoree di smisurati f6ri ed acropoli; e lo stesso turba-
mento morale: uno scoraggito, disanimato, comprendere quanto
piccole sieno le nostre grandezze, quanto umili le nostre superbie.
A Gura gli Egiziani, durante la campagna del 1876,* costruirono
sopra un'altura un ridotto, per nascondervi le munizioni e le vetto-
vaglie ; e chiusero di trincere la spianata che si distende attorno at-
torno piu bassa. Entro il recinto, i nostri rizzarono capanne per i
soldati indigeni postivi a presidio, tucul per gli uffiziali che li co-
mandano. Questi, per farci posto, s'erano andati a rannicchiare
non so dove: e, subito giunti, fu additato a ciascheduno di noi il
tucul che doveva servirgli d'alloggio. Sentivo verso quella maniera di
abitazione una diffidenza invincibile ; non ci fu tempo bensi ne di
discutere, ne* di esplorare; cominciarono gli hellelta3 e i battimani
delle donne e i salmi de' frati che ci perseguitavano. A Godofelassi
vennero da Abuna4 Jonas, a Gura da non so quale remoto convento.
Delle donne alcune erano Abissine, altre appartenevano a una
piccola colonia araba, scaraventata nell'Okule-Cusai Dio sa quando
e perch6. Le Abissine cantavano una canzoncina nella quale, tral
molto lusso delle imagini, traspariva una molto semplice precisione
di pensiero. «Apri la tua porta; dal tuo palazzo 1'argento sgorga,
come il latte dalle mammelle della vacca. » II che, tradotto per
nostro uso, significava: ccmettetevi le mani in tasca e dateci dei
talleri, voi che ne avete)>. Le arabe ballavano. Scrivo « ballavano »
perche non so come esprimermi altrimenti ; ma chi per questa pa-
i . Pierre . . . Mulcts : due picchi che fanno parte del versante francese e so-
vrastano Chamonix. 2. la campagna del 1876: il 7 marzo 1876, a Gura,
Hassan Fascia con venticinquemila egiziani fu sconfitto da re Giovanni IV
di Etiopia. 3. hellelta: acuti, caratteristici trilli con cui le donne salutano
e acclamano. 4. Abuna: vedi la nota i a p. 761.
990 FERDINANDO MARTINI
rola si figurasse non dico la foga d'un waltzer, ma lo strascichio
di una grande-chaine* andrebbe molto lontano dalla verita.
Le donne si distendono in cerchio e intuonano una cantilena gut-
turale, stridente, accompagnandosi di battimani misurati; una di
loro, seduta in terra, picchia sul negarity orcio di rame sulla cui
bocca e distesa, per via di corde che scendono in tirare lungo le
pareti, una pelle di bue : un tamburo, insomma, eccetto che di rame
e piu grande, poco diverse da* nostri. Altre due, le protagoniste di
quel dramma mimico, nel mezzo del cerchio girano attorno Tuna
all'altra con passi brevi, cadenzati, sul ritmo del negarit e dei batti
mani. Nulla, dunque, di cio che in Europa si intende per ballo:
non frequenza, non rapidita di sgambetti o di giravolte. L'arte
della danza ha in Abissinia canoni addirittura opposti a quelli che
la governano in Europa; le gambe debbono muoversi il meno che
possono, il torso invece disegnarsi e dondolarsi ; cosi al ballo bastano
due metri di spazio e vi durano ore ed ore senza oltrepassarlo. Ho
parlato di dramma mimico, ed e tale difatti : delle due donne una
fa la parte dell'uomo ; e 1'avanzare e il ritrarsi e i moti, o contegnosi
o lascivi, rappresentano altrettanti episodi di un poema d'amore.
Poema e V Orlando, poema I'Adamo: tutto sta nel poeta; si pu6
con fantasie immortali allegrare i secoli come Lodovico Ariosto,
o seccare il prossimo come Giorgio Angelini.2 Quel ballo veduto
altrove mi sembr6 sempre il piu uggioso degli spettacoli e tale mi sa-
rebbe sembrato anche a Gura, se non erano la bellezza singolare
di una delle danzatrici e gl'istinti mirabili che le tenevano vece di
dottrine squisite, indovinando la grazia delle linee, la nobilta degli
atteggiamenti scultorii, la espressione nitida de' sentimenti. Nuda
la persona gagliarda fmo alle anche, e poco vestita dalle anche in
giu, il capo fiero si levava incorniciato da catene d'argento, che
pendevano dal collo e serpeggiavano per le folte trecce pioventi.
Gli occhi brillavano fra quello scintillare de' metalli e tutta la testa
fulgeva. Incomparabile e inconsapevole artista! Bramosie tormen-
tose e ire compresse le si allungavano in solchi sul viso, che si
spianava poi rasserenato per riapparire emaciato di spasimo. II
tronco ondoleggiava in scontorcimenti di serpe dritta sopra la
coda, ora scosso da tremori improwisi, ora cullato da brividi ca-
i. grande-chame: quella figura della quadriglia in cui tutti i ballerini si
danno la mano. 2. Quasi certamente allude a Giorgio Angelini, letterato
di Garfagnana, nella seconda meta del Seicento.
NELL'AFFRICA ITALIANA 991
rezzevoli in un languore tutto dolcezza. Le Abissine cantavano, i
frati salmeggiavano ancora. Ma quando, acceleratosi il ritmo del
negarit, la bella creatura, rovesciata la testa e tese le braccia, di-
vincolandosi in occulte strette, parve offrire al cielo il seno palpi-
tante e ricolmo ; cessarono i canti, cessarono i salmi, ballarono le
Abissine, ballarono i frati, raddoppiarono i battimani con fragore
piti alto : parve altresi che in tutti divampasse, moto spiritale senza
posay un desiderio di godimenti ineffabili, salutato con applausi
infiniti.
E dopo ci6, fu curioso il sapere che quella donna era vedova da
quarantotto ore. La sera innanzi, sparsi di cenere i capelli e vestita
della montura del marito, Almangu Mohamed, aveva girato bal-
lando e cantando di tucul in tucul: che questo e la il miglior mo do
di onorare i morti . . . e forse anche di distrarre i superstiti.
Partimmo per Saganeiti1 dove Bata Agos, capo dell'Okule-Cusai,
ci aspettava. NelPandare io pensavo tra me : che sara mai la strada
tra Godofelassi e Gura giudicata per noi impraticabile ? Quella
per cui passavamo era tale, che non sapevo imaginarne una peg-
giore. Adito no: screpolatura scoscesa di roccie delFaltezza d'un
uomo, bisognava ogni tanto lasciar le staffe e rattrappire le gambe
per non sbatterle ne? massi, ogni tanto curvarsi, come a confidare
un segreto nell'orecchio del mulo, per non fiaccarsi il collo negli al-
beri, che la attraversano obliqui. Buona sorte che dura poco : dal
villaggio di Janadocco sino alia salita di Saganeiti, strada non ve
n'e piu: si pu6 ancora rompersi le gambe ed il collo, ma in altra
guisa; il meglio e di andare a piedi sguazzando fino al ginocchio nel
fondo d'un burrone. La molta acqua vi aiuta le vigorie delle piante
che, nella effusione tropicale intrecciandosi in archi, vi composero
stupende gallerie di verdura. O care ombre! Di quel viaggio, le sole.
Bata Agos era vemito ad aspettarci a mezza strada sul pendio
d'una collina, della quale gli uomini della sua banda coronavano,
schierati, la vetta. Subito che scorsero la carovana discesero al
piano, egli a cavallo in tunica di velluto rosso e awolto nel marghef?
a cavallo anch'essi e dietro a lui il fratello Asmacc Singal con una
i. In un'ampia conca dello stesso nome, a circa 2000 metri, sorge il vil
laggio di Sagan&ti, sulla strada da Asmara a Senaf e. II luogo & noto per uno
scontro awenuto nel 1888, in cui una nostra colonna fu soprafTatta da
razziatori abissini. 2. marghef: mantello.
992 FERDINANDO MARTINI
camicia di seta a fondo dorato e rigata di rosso e di verde, alterna-
tivamente; il figlio Garemedin in veste bianca, il portascudo
Espanghi, bel giovanetto, superbo per un magnifico paio di brac-
ciali di cuoio con argenti in rilievo e un manto di seta nera tagliato a
foggia di pelle di leone. Custodiva con lo scudo la lancia del suo
signore, e si capiva che que' bracciali e quel manto gli avevano,
riscaldandogli la fantasia, messo addosso la voglia piuttosto di
adoperare che di custodire.
Bata Agos, sui quarantacinque anni, alto ed asciutto ha una testa
da fauno. Chi lo vegga la prima volt a e nulla sappia della sua vita,
dira: costui e un donnaiolo e un furbo trincato. La natura che tra
molte qualita in lui diverse aveva da scegliere, s'e compiaciuta nello
stampargli sul viso i segni della sensualita e della malizia: e non
v'e, credo, di qua dal Mareb ne marito piu fedele, ne uomo piu
schietto. Convertito da poco al cattolicismo, convert! la moglie
maomettana, e le nuove credenze gli sono rigida norma alia vita.
Nessuno ispira agli indigeni maggiore rispetto, nessuno e reputato
giusto al pari di lui. Basta una parola sua a troncare qualunque
lite: tutti si rimettono ossequenti a quella sentenza. Affabile, ge-
neroso, costante nelle amicizie (e noi Italian! ne avemmo piia d'una
prova), se non va in tutto esente dalle borie abissiniche, e meno bo-
rioso degli altri capi, perche ha mente piu acuta e piu propensa
alle meditazioni che dimostrano vane le vanita. Un santo dunque ?
No: un fratricida.
Di una antica famiglia delFOkule-Cusai, delle tante che in Abis-
sinia si studiano di diventare dinastie, Bata Agos perseguitato da
Ras Alula che gli fece spianare le case, si rifugi6 co' propri fratelli
nella tribu degli Habab; e questi, pastori nomadi non avvezzi
e poco inclinati alle armi, li assoldarono insieme co' loro seguaci,
affinche li difendessero contro le scorrerie e dalle razzie de* vicini.
Ci6 che awenisse in quelli anni non si sa bene : non si sa per esem-
pio se, nello impedire le razzie degli altri, ne facessero qualche-
duna per conto proprio; v'e chi lo crede e non e difficile il crederlo.
Comunque sia, quando fu loro permesso di tornare in patria, uno
de' fratelli, nato ladrone, si propose vivere di rapine, e piu volte
si prov6 a prepararle. Bata Agos fece ogni sforzo per distoglierlo
da quel proposito : si scalman6 a persuaderlo che, riacquistata dopo
Pumile e lungo esilio la patria, bisognava ripigliare il posto a cui la
NELL'AFFRICA ITALIANA 993
famiglia aveva diritto, salire in autorita, crescere il numero degli
amici e con opere buone dimostrarsi grati a Dlo di aver consentito
che ricuperassero la liberta. Ma il razziatore non si scoteva: anzi
un giorno, quasi seccato da quelle prediche, dispose dentro la setti-
mana si depredasse non so quale villaggio. Ridotto agli estremi,
Bata Agos lo ammoni con un dilemma: se persisteva, o lo avrebbe
ucciso, o sarebbe andato lui a farsi ammazzare dandosi in mano di
Ras Alula. II fratello, sebbene convinto che ne Tuna ne Taltra di
quelle minaccie era vana, rispose ghignando: — II meglio e che tu
vada da Ras Alula. — Bata Agos pass6 la notte in preghiere e uscito
all' alba lo fredd6 con una fucilata. Ora il rimorso lo affanna, lo
prostra in malinconie cupe, lo agita in assalti nervosi: e, mentr'e
uso degli altri capi il trattare gli uomini delle loro bande con al-
terigia, egli, quasi a chieder perdono della colpa, col piu povero
de' suoi si fa rimesso,1 e con tutti alia mano, padre piuttosto che
capo e padre preveggente ed affettuoso.
Della vita di Bata Agos, chi potesse conoscerle, gioverebbe stu-
diare ogni piu minuta particolarita : non a impratichirsi negli epi-
sodi della storia etiopica, ma a scandagliare ancora gli abissi del-
ranima umana. Quel tanto che ne sappiamo basterebbe gia di per
s6 a molte indagini; ma io non posso indugiarmi in lunghi discorsi
e brevi Targomento non ne comporta. Una cosa bensi bisogna av-
vertire : cadrebbe in errore gravissimo chi dalla natura di quelFuomo
s'affrettasse a dedurre criterii intorno all'indole degli Abissini e
agli effetti che essa risentirebbe da un piu alto grado d'incivili-
mento o da una fede piu illuminata. Io mi ricordo e faccio mio
pro delPapologo narrato da Alfonso Karr:2 di quel tale viaggiatore
che scontratosi con un gobbo sui confini della Bretagna, se ne
torno indietro a scrivere che la Bretagna era il paese dei gobbi.
Non presumo in due mesi di soggiorno avere imparato a conoscere
gli Abissini, ma reputo potere affermare senza ambagi che Bata
Agos e un'eccezione. Un altro avrebbe annuito di gran cuore
al desiderio del fratello, sarebbe andato piu che di passo a predare
insieme con lui, salvo ammazzarlo in altra occasione o per altra
ragione, ad esempio per risparmiarsi di spartire la preda e non
avrebbe ora n6 malinconie, ne assalti nervosi. E, giacche ho parlato
di esempi: se domani noi licenziassimo le bande armate delPOkule-
i. rimesso: umile. 2. Alfonso Karr (1808-1891), critico e romanziere fran-
cese.
63
994 FERDINANDO MARTINI
Cusai e del Carnescim, Bata Agos si dorrebbe ma, in breve rasse-
gnato, non muterebbe le sue consuetudini ; Sabatu, Menelik,
Tedla1 ripiglierebbero subito il loro antico mestiere di briganti.
Poiche ci e riuscito sostituire in gran parte de' nostri territori
il tallero eritreo al tallero di Maria Teresa, non s'ha da credere ci
riesca, con altrettanta facilita, sostituire nelPanimo degli indigeni
le nostre opinioni morali alle loro. A questo non siamo giunti sino-
ra, e non vi giungeremo mai checche si faccia. II misticismo di Bata
Agos, la sua rettitudine soccorrevole, la sua pieta non infingarda,
debbono considerarsi come fatti particolari. Gli Abissini non sono
una gente giovane di fede ingenua, che aspetti di snebbiarsi: sono
un popolo vecchio e corrotto e perci6 divoto negli atti, scrupoloso
nelle pratiche religiose, ma senza affetto interiore; capacissimi di
ribellarsi a chi tenti di offendere quelli scrupoli o di mutare quelle
pratiche, incapaci e incuranti di trarre dalla fede insegnamenti alia
vita. Popolo di credenti, sta bene; ma che vuol essere dispensato
dalPosservare i comandamenti di Dio.
Nota al capitolo XII (marzo 1895).
Cosi scrivendo di Bata Agos nelPautunno del 1891, manifestavo
non soltanto Fopinione che di lui m'ero formato soggiornando due
giorni in casa sua, ma quella piu importante e autorevole del co-
lonnello Piano, allora comandante la zona di Asmara, del tenente
Mulazzani nostro residente in Sagan6iti, di Leopoldo Franchetti,2
di quanti italiani insomma lo avevano conosciuto ed erano stati
seco in quasi quotidiana dimestichezza. «Quanto a Degiacc Bata
Agos, » scrive da Asmara Luigi Mercatelli3 in una lettera che la
«Tribuna» pubblica oggi stesso, 12 febbraio 1895 «chi avesse du-
bitato di lui non sarebbe stato creduto persona sensata. » Pur egli,
i. Sabatu era un degiac, Menelik un barambaras, Tedla un ligg; di loro
il Martini da un rapido ritratto descrivendo il tribunale di Asmara, dove li
incontra come esperti a disposizione dei giudici. 2. Leopoldo Franchetti
(1847-1917), fiorentino, fra i primi « meridionalisti » e studiosi della que-
stione sociale nell' Italia unita, deputato dal 1882, senatore dal 1909, fu
attivo colonialista e intelligente interprete dei problemi economici attinenti
alia penetrazione italiana in Africa. 3 . Luigi Mercatelli, nato alle Alfonsine
in Romagna nel 1853, giornalista ed africanista, fondatore e direttore in
Roma del « Secolo illustrate » (1887), quindi inviato speciale in Africa prima
del « Corriere di Napoli », diretto da Edoardo Scarfoglio, poi della « Tri-
buna», di Roma, diretta da Attilio Luzzatto; uno dei piu competent! stu
diosi italiani di problemi colonialistici e di cose africane ; amico del Pascoli.
NELL'AFFRICA ITALIANA 995
com'e noto, si ribel!6; non per subitaneo impeto cTira, o per im-
prowiso desiderio di vendicare offesa improvvisa: ma dopo avere
lungamente meditate il tradimento e preparato con feroci diligenze
la strage dei bianchi dimoranti in Saganeiti, che lo avevano circon-
dato d'ogni rispetto. Egli da noi stipendiato lautamente, da noi
colmo di doni, alcuni de} quali preziosi, da noi investito di mag-
giore autorita che non si soglia concedere a' capi abissini nella co-
Ionia, mori combattendo contro di noi presso al forte di Halai il
1 8 dicembre 1894; contro di noi, con que' medesimi fucili che egli
aveva avuto da noi.
Si disse che alia ribellione lo istigarono i Lazzaristi francesi, irosi
del vedersi sfrattati dall' Eritrea. Pu6 darsi: dej Lazzaristi che lo
convertirono al cattolicismo, Bata Agos era molto devoto; aveva
contribuito a edificare per loro una chiesa in Akrur, li visitava
spesso, stava con essi in carteggio continue : pu6 darsi, dico, che i
Lazzaristi lo abbiano istigato ; ma non credo che della sua ribellione
questa sia stata la causa sola o la principale. La sera nella quale
Bata Agos, messi da parte a un tratto gPinfingimenti del consueto
colloquio, imprigion6 il tenente Sanguinetti, e mosse verso Halai :
stimando la vittoria sicura e prossima, die a divulgare un suo bando
per tutto FOkule-Cusai. Diceva cosi: «Io vi libero da questa gente
venuta dal mare per spogliarvi, per prendere i nostri terreni. lo so-
no d'accordo con Ras Mangascik che si avanza con grandi forze: se
non mi sono levato prima e che aspettavo una risposta da lontano ».
Or ecco qualche notizia che al bando serve di commento se-
condo me, importantissimo, e che nessuno, sono in grado di asse-
verarlo, si arrischiera di smentire.
Come ognun sa e come ho riferito io stesso, alle famiglie con-
dotte nelPEritrea da Leopoldo Franchetti furono assegnati terreni
nel Sarae tra Godofelassi e Gura, in prossimita delFOkule-Cusai
dove aveva la sua casa e la sua giurisdizione Bata Agos : anzi anche
qualche menoma parte dello stesso Okule-Cusai, venticinque ettari
in tutto, fu occupata da' nostri coloni. Di questo, Bata Agos si
sdegnb : e tra le carte trovate da* nostri nella tenda di Ras Manga-
scia a Senafe, si sono rinvenuti documenti di quello sdegno e de'
propositi che esso ispir6 al degiacc. Tre volte egli scrisse a Menelik,
lagnandosi della occupazione delle terre e chiedendogli il permesso
di aggredire gFItaliani che le avevano invase. Proponeva, se cio
non gli fosse consentito, che Tlmperatore si facesse interprete
996 FERDINANDO MARTINI
presso il Governo nostro di quelle doglianze: e ottenesse che le
terre fossero assegnate a' coloni, soltanto quand'essi si sposassero
a fanciulle indigene. Ebbe da Menelik per due volte questa rispo-
sta: aspettasse: anch'egli aspettava dalP Italia una risposta: avuta
la quale gli avrebbe poi detto il da farsi. E la risposta che Menelik
aspettava era Fassenso del Governo nostro alia cancellazione del
famoso articolo 17 del non meno famoso trattato d' Uccialli, con-
cepimento non so piii se comico o infelice del conte Antonelli.1 Se
Menelik desse poi la desiderata licenza non so : e da crederlo bensi,
posto che egli invi6 a Ras Mangascia 35000 cartucce che furono
0 tutte o in parte adoperate nelle due giornate del 13 e del 14 gen-
naio di quest' anno. Gli awersari della colonizzazione non trala-
sceranno Foccasione di argomentare : « Vedete ? Vedete a che estremi
ci conducono i vostri esperimenti, le vostre utopie? Forse senza
quella occupazione di terreni, Bata Agos non si sarebbe ribellato,
non avrebbe fatto sperare utili aiuti a Mangascia, si sarebbero
risparmiate vite umane molte e danari parecchi che ci fan costar
care alquanto le vittorie di Halai e di Coatit».
E io non dico di no : soltanto a mia volta osservo : Se non si ha
da occupar Cassala e vincere il Madhismo per far sicure a' commer-
ci le vie che da Taca, dal Galabat, dal Ghedaref conducono a Mas-
saua: se non si debbono occupare i terreni per awiare nelPEritrea
1 nostri emigrati e mutare in piccoli proprietari affricani i contadini
che in patria muoiono di fame; se nulla di ci6 ha da farsi, che
altro stiamo a fare in Abissinia? A proteggere gPindigeni dalle
«razzie» dej loro compatriotti ? O volete che i milioni spesi e da
spendere servano ai guadagni di grandi compagnie le quali valen-
dosi del lavoro degli indigeni, che costa poco, faccian fruttare il
dieci o il dodici a quel danaro che in Italia non rende loro piu del
sei o del sette? Bene spesi nelFun caso o nelP altro i milioni! E
i. \Jarticolo ij del trattato di Uccialli (2 maggio 1889), negoziato dal nuovo
negus etiopico Menelik II, successore di Giovanni IV, e dal plenipotenzia-
rio italiano, conte Pietro Antonelli, diversamente redatto nel testo amarico
e nel testo italiano, diede al governo di Roma Pimpressione, o il convinci-
mento, che Menelik si fosse impegnato non solo a riconoscere il protetto-
rato italiano, ma a non comunicare con le potenze estere se non col tramite
obbligatorio di Roma. II negus contest6 codesta obbligatorieta, e ne se-
guirono anni dipolemiche (1889-1895), terminate con la guerra perduta ad
Adua (i° marzo 1896). II conte Pietro Antonelli (1853-1901), esploratore,
diplomatic©, deputato e uomo politico, fu il propugnatore piu risoluto della
cosiddetta «politica scioana», la quale culmin6 nel trattato di Uccialli.
NELL'AFFRICA ITALIANA 997
circa alle utopie e agli esperimenti per ora lasciamo correre: ne
discorreremo a suo tempo.
AGORDAT1
11 villaggio di Agordat, giace in una breve conca, tra piu ordini di
colline che d'ogni parte lo cingono, sulla piu alta delle quali, mu-
nita di modeste trincee, stanzia il nostro presidio. Si scorge di lassu
gran tratto di paese: a settentrione la valle del Giaghe fra '1 Ta-
Iett6 e il Debra-Sale, il cui vasto altipiano, non ancora descritto
n6 visitato dagli esploratori, e oggetto di perpetue contese de' Baria
e de' Beni Amer, perche ricco d'acque e di terreni fertili; a oriente
le sommita che dominano il piano di Adarde" ; tra occidente e mezzo-
giorno i monti dei Baria e i poggi di Biscia. L'ampio letto del Barca,
accolto ne' pressi di Agordat il Giaghe, si nasconde tra foreste di
palme, biancheggia ancora, poi si cela di nuovo e Pocchio lo perde.
Parve al Munzinger che PAnseba ed il Barca rispecchiassero,
ciascuno nel proprio corso, 1'indole delle genti le quali vivono lungo
le sponde loro ; che PAnseba scarso d' acque ma di forte corrente,
rassomigliasse alPAbissino magro e nervoso; e il largo Barca che
delle acque disperde, cammin facendo per Tocar, la massima parte,
al pingue e flemmatico abitatore della sua valle. II raffronto mi sa
di cercato e non in tutto mi persuade. Direi piuttosto che PAnseba
e altri fiumi minori delPHamasen e del Sara6, per le rive frasta-
gliate e cupe, i monti che li serrano tra gole orride, paiono vera-
mente scenario adatto ai tristi drammi abissinici, intessuti di rag-
giri e d'agguati, precipitanti in catastrofi sanguinose ; il Barca invece
sembra destinato ad aiutare coj silenzi delle sue selve, tral verde
delle palme uniformi, tenerezze ed amori: tenerezze molli e amori
senza lacrime.
Ma la natura ha un bel vestirsi d'incanti; Pumanita, carovana
infinita che si accalca e si affanna su le vie del sepolcro, delle paci
che quella offre non si appaga ne cura. Ombre quiete, acque nitide,
i vostri freschi riposi non son fatti per essa : per ardue sponde senza
tregua sospinta, il fiume che ode mugghiare nel fondo e fatto di
sangue e di pianto.
E il placido Barca fu testimone anche ad Agordat di battaglie e di
stragi.
i. Ed. cit., dal cap. xvm, pp. 211-5.
998 FERDINANDO MARTINI
Dopo che a' primi del 1890, il Diglal1 del Beni Amer si fu, in
nome delle tribu sue, sottomesso all* Italia, il Madhi2 gPintim6
per lettera di andare a Cassala: e latore della intimazione fu quel-
TOmar Ocut, Don Abbondio de* nomadi, che venutoci incontro ad
Abi Mendel ci accompagn6 ossequioso fino a Mansura. Obbedire
al Madhi, andare a Cassala, allora focolare della fanatica ribellione
maomettana, dopo avere stipulate con T Italia que' patti, era non
soltanto un infrangerli, ma votarsi a morte sicura. II Diglal ne
replic6, ne obbedi.
Un giorno del giugno, un migliaio di Dervisci reduci da Me-
temma,3 baldanzosi della vittoria, guidati nelle vie mal note dal-
TEmiro Ibrahim Faragiallah e comandati da Kater Deemedan, si
gettarono sul Dega, depredarono armenti, rapirono cinquecento
donne, uccisero parecchi, tra i quali il Diglal istesso e Seek Egel,
capo della tribu degli Omram: eccidii facili perche improwiso Pas-
salto; compiutili, ridiscesero per la gola del Dantai e si accampa-
rono alia confluenza del Giaghe e del Barca.
II capitano Fara,4 intanto, con una compagnia d'ascari muoveva
da Cheren, con ordine di spingersi su le rocciose alture di Biscia;5
quando, giunto in vicinanza di Agordat, not6 impresse nell'alveo
del flume numerose orme di cavalli e di cammelli ; sebbene i luoghi
sembrassero deserti, retrocede ad occupare i pozzi, dove necessa-
riamente ha da sostare ogni carovana o colonna che passi per quelle
vie. Vi comparvero di li a poco alcuni Dervisci, traendosi dietro le
cavalcature stanche. Riconoscerli e facile: portano lunghe vesti
bianche, pezzate per simbolo di poverta con toppe d'altri colori : la-
voro delle Suore che i seguaci del Madhi tengono tuttavia prigioni.
I nostri, arrestatigli, gl'interrogarono donde venissero, per dove
s'awiassero. Non risposero; silenzio significative e che diceva o
i. Diglal: comandante, capo. 2. il Madhi: capo religioso, messia degli
islamiti, animatore della insurrezione dei Dervisci (cioe, poveri, rnonaci,
fedeli) nel Sudan. Centri dell' insurrezione furono Kartum e Kassala. I
Dervisci svolsero in varie direzioni una guerra di razzia e di sterminio.
Vedi anche p. 846. 3. « Dove rimase morto, nel combattere contro di loro,
sara bene ricordarlo, Johannes negus di Abissinia » (nota del Martini) : vedi
la nota i a p. 980. 4. Gustavo Fara (1859-1936), che partecip6 nel 1911-
1912 alia guerra italo-turca e vi fu decorato di medaglia d'oro, cornand6 va
rie divisioni nella guerra 1915-1918 come generale, ed ebbe successivamente
varie cariche nel periodo fascista. 5. «Villaggio sulla strada da Cheren a
Cassala: da Cheren a Cassala 255 chilometri: da Cheren a Biscia un po'
piu di 80 » (nota del Martini).
NELL'AFFRICA ITALIANA 999
imminente un pericolo, o recente un misfatto ; ma non suggeriva
i modi di prowedere o di riparare. Minacciarono di fucilarli:
non fiatarono ; il primo and6 a morte gridando : La Illah Illalah
Mohamed rasul Allah; Mohamed Ahmed el Madhi Kalifa rasul
Allah.1 Gli altri tacquero aspettando la loro volta, e, quando venne,
tacendo morirono.
Alia fine, uno schiavo, Abdallah, chiesta in grazia la vita,
descrisse la strage del Dega e addit6 il luogo deiraccampamento.
Air alba, i nostri udirono levarsi dalle sponde del Giaghe il canto
mattutino della preghiera, poi mirarono distendersi nella valle
la lunga colonna d'uomini e d'animali, lenta sul cammino gremito
di palme e d'arbusti; e i lembi degli stendardi azzurri percuotere
le teste degli uccisi, portati su le lance a trofeo.
Si mossero: appena che i Dervisci gli ebbero scorti, due cava-
lieri della retroguardia tornarono veloci sul flume e infissero due
lance nell'alveo, segno di sfida. Bast6, perche Podio antico degli
Abissini verso i Musulmani si ridestasse, si scatenasse in ferocie
impazienti. Correre, rispondere alia sfida divellendo le lance e get-
tandole in aria, slanciarsi verso la colonna, far fuoco, fu un punto.
Chi vide quel macello lo ricorda tuttavia con orrore ; il fuoco cess6
presto: piu lungo e piu micidiale duro il combattere a corpo a
corpo, il colpire delle sciabole e delle daghe. Tra i gemiti de' mori-
bondi, le donne rapite ai Beni Amer acclamavano con grida di
gioia e con gli hellelta il soccorso insperato e la liberta; scendevano
frettolose dalle cavalcature e tagliavano sui dromedari le corde ai
carichi, perch6 cadessero impaccio ai rapitori: e i carichi piomba-
vano con fragor nuovo sul cranio a' feriti. Tral fischiar delle palle, la
confusione e la strage, stavano immobili, senza difesa i portasten-
dardo: quand'uno piegava, un altro afferrava, rialzando Fasta, e
diciotto morirono sotto una sola bandiera. I Dervisci, sebbene
stremati, resisterono finche* non li prese timore di vedersi sbarrato
ogni adito : poi, nella rabbiosa risoluzione della fuga, ai pochi super-
stiti la carneficina prem6 piu dello scampo : squarciarono il ventre
alle donne incinte, versarono resine sul corpo alle fanciulle e,
incendiatele, tra quelle orribili fiamme, fuggirono verso i monti.
La i Baria li trucidarono.
i.«Non v'e altro Iddio che Dio, Mohamed (Maometto) e il profeta di
Dio ; Mohamed Ahmed, il Madhi, e il Califa del profeta di Dio » (nota del
Martini).
1000 FERDINANDO MARTINI
Di piu che mille, sessanta soltanto rientrarono in Cassala: la
vittoria de' nostri si dove alia valentia degli uffiziali, al coraggio
degli ascari ed anche alPavere i soldati del Madhi preso abbaglio
rispetto alle nostre forze. Stimarono quella compagnia una avan-
guardia; e a mezzo il combattimento crederono le soprawenisse in
aiuto pel Barca tutto il presidio di Cheren; ne scendeva invece una
carovana di trenta cammelli a portar viveri ai nostri da due giorni
digiuni, sollevando nubi di polvere, traverse alle quali si intravede-
va, ma era impossibile il discernere.
NEI MARIA NERI1
JLa bassa regione de' Maria Neri, segnatamente il tratto che da
El Auisc si distende fino alle colline del Ciagarit, ha un aspetto
singolare. Vi crescono gli obel, alberi il cui fogliame rassomiglia
quello del pino, piu fitto bensi, piu minuto e d'un verde chia-
rissimo. Ma il pino drizza in alto, insieme con le foglie rigide, il
fusto ruvido e bruno : I'obel, invece, liscio e biancastro abbandona
verso la terra le molli smorte foglie ed i rami, come accasciato dallo
sfinimento. Mi ricord6 le eroine pallide e vaporose che languono
ne' romanzi del tempo di Carlo decimo.2
Folti lungo le rive delPObellet, cui danno il nome, paiono cin-
gere d'una nebbia glauca il paese dei Maria e separarlo dal mondo.
E pu6 dirsi difatti che i Maria vivano divisi dal consorzio umano ;
i Neri sui pianori di Era, di Erota, di Rora-Ho; i Rossi su quelli di
Molobso e di Rehi. Salvo un molto ristretto commercio di dura
con i Beni Amer e con gli Habab, non v'hanno fra quella e le altre
tribu relazioni di sorta. Un tempo, i Maria guerreggiarono, bra-
vamente e volentieri, e delle loro imprese dura tuttavia la tradi-
zione: piu volte combatterono contro ai Turchi, vittoriosi sempre;
nel luglio 1841, scesi nel Barca, assalirono i soldati di Ahmed
Baxa, minaccianti i Beni-Amer, li sconfissero, s'impadronirono di
molti cavalli e fucili.3 Di razzie tentate da loro, ora con buono ora
con funesto successo, serbano ricordo i canti popolari dei Bogos :4
i. Ed. cit., cap. xxi, pp. 238-48. 2. Carlo X regn6 in Francia dal 1824 al
1830. II Martini allude alle figure romantiche e clorotiche allora di moda.
3.«D'ABBADIE, Geographic de I 'Ethiopie, Paris 1890, I, 42 » (nota del
Martini). 4. Bogos: tribu che ha il suo maggior centre a Cheren.
NELL'AFFRICA ITALIANA IOOI
Di mattina al levarsi del sole not abbiamo combattuto contro i Maria;
la pianura prossima al tobacco fu coperta di cadaveri.
Ad Tembelle1 e noi uomini di Cher en ci siamo schierati di fronte.
Eglino volevano razziarey noi li abbiamo fugati, inseguendoli fino al Megilel.
Abbiamo devastate Erota e preso mille vacche . . .
Bogos e Maria saremo nemici sempre.
Ma a quej tempi la tribu era numerosa; oggi, in causa appunto
delle guerre frequenti e delle carestie che ne seguitarono, i Maria,
tra Rossi e Neri, non oltrepassano i diecimila. Intorno alia loro
origine nulla si sa di certo : la tradizione li dice venuti dalF Ara
bia, gli istituti e le costumanze li fanno invece credere origina-
ri delPAbissinia. Da qualsiasi parte migrassero, questo v'ha di
sicuro : che ne' paesi dove oggi vivono vennero circa alia meta del
quattordicesimo secolo. Mariu, loro capostipite, dal quale discende
direttamente la famiglia che ancora domina su la tribu, piomb6 a
quel tempo con diciassette vassalli e la loro gente nell'altipiano
di Erota e, uccisi in parte, in parte scacciatine gli abitanti, distribui
tra' seguaci le terre conquistate. Un di que* diciassette, Usus,
perche trionfatore nelle solite guerre civili, fu elevato al grado
di scium: e i parenti e soldati suoi fatti sdumagalle o nobili. Dei
discendenti loro si compone tuttora Paristocrazia ereditale dei
Maria, distinta dai tigrd o uomini della plebe.
Aristocrazia, dominio, grandi nomi pronunziati con grande en-
fasi significano tra i Maria poverissime cose. Gli sdumagalle non
possono possedere terre ; hanno bensi il diritto di campare a spese
dei tigrd, ai quali esse appartengono tutte. I patrizi non godono
dunque che di due privilegi : primo, quello di non far nulla, in un
paese dove tutti fan poco, perche fra i Maria, se qualcheduno
coltivasse una estensione di terreno maggiore di quanto gli bisogna
strettamente per vivere, o cercasse trarne frutto maggiore, si crede-
rebbe gli avesse dato volta il cervello : poi, quello di pavoneggiarsi,
rammentando la sequenza degli antenati. Divertimento questo, nel
quale molto anche i plebei si compiacciono ; non sanno nulla di
nulla, neanche quando sien nati, ma hanno tutti a memoria la ge-
nealogia propria e Paltrui. Tranne Fozio, nulFaltro distingue nel
vivere gli sdumagalle dai tigrd: e gli uni e gli altri si nutrono di
i . « I discendenti di Tembelle, uno dei principi dei Maria Neri » (nota del
Martini).
1002 FERDINANDO MARTINI
dura, di miele, di latte, raramente di carne, e tutti abitano in ca-
panne simili di forma, di ampiezza, di sudiciume.
I Maria, un tempo cristiani, si fecero maomettani su' primi
del secolo ; e se non erra un prelato, il quale da molto tempo di-
mora in Affrica ed e addentro nella storia di quelle tribu, nella
conversione loro le credenze non ebbero parte veruna o ve 1'eb-
bero abbastanza curiosa. Devastati i campi dalle cavallette, no-
bili e plebei non sapevano piu come fare per non morire di stento :
pensarono di distruggere Finsetto distruggitore e mangiare chi
aveva mangiato ogni cosa. Poiche correva la quaresima, domanda-
rono al prete copto se le cavallette fossero cibo grasso e per conse-
guenza proibito ; e il prete afferm6 peccato grave il solo assaggiarle.
I poveri Maria stavano forse dibattendo quale fosse rodimento peg-
giore, se il rimorso o la fame, quando capit6 su' loro monti un
santone musulmano, dal quale impararono che ai devoti dell'islam
non si vietava quel cibo in alcun tempo delPanno. Senz'altro di-
battere, si votarono tutti quanti a Maometto. Non ebbero chiese
allora, non hanno oggi moschee; non conobbero il Vangelo, non
conoscono il Corano; cristiani o maomettani, la diversita sta nel
nome soltanto.
Alcune delle istituzioni loro, conservate dalla tradizione orale,
meritano si ricordino. II capo o scium della tribu e elettivo ; ma deve
scegliersi, come ho detto, nella famiglia che discende direttamente
da Mariu : la giustizia e amministrata dal Mohaber, o assemblea di
anziani che, volta per volta, si raduna sotto un albero, e invocato
Dio, uditi i testimoni i quali giurano per la vita dello scium, ri-
solve le liti. Anche le donne, e ci6 e singolare in Abissinia, possono
fare testimonianza; ma la affermazione di due donne e bilanciata
da quella d'un uomo. La terra e la casa si ereditano ; il pozzo e d'uso
comune; colui che scav6 ha diritto di abbeverarvi primo il proprio
gregge, ma non pu6 vietare che vi s'abbeverjno i greggi degli altri.
La vergine e sacra e, se appartiene a famiglia di nobili, guai a chi
la tocca. Poco innanzi che noi giungessimo ad Era, gli sdumagalU
vi avevano strozzato insieme col seduttore una loro giovinetta e
soffocato il fanciullo che aveva dato alia luce. Non puniscono a que-
sto modo una colpa: insegnano cosi che il decoro delle casate illu-
stri non tollera sfregio di figli illegittimi: non e il loro sentimento
morale che affermi la propria rigidezza in sentenze severe, ma ran-
core di borie offese che si sfoga in ferocie; tanto e vero che in tutte
NELL'AFFRICA ITALIANA 1003
quelle tribu la prostituzione si tiene in altissimo onore e la donna che
le si da e festeggiata e acclamata con lunghe, pubbliche cerimonie.
Dura tuttavia tra i Maria la vendetta del sangue, non in altro oggi
terribile che nel nome. Secondo le antiche costumanze, chi ucci-
deva doveva essere ucciso da' parenti del morto. Con 1'andare del
tempo, s'inventb una maniera di vendetta meno fastidiosa da
una parte e piu proficua dall'altra: si stabili di pattuire il prezzo del
sangue versato e pagarlo mediante bestie vaccine. Mezzo secolo fa,
la vita di uno sciumagalle valeva ottocento vacche: oggi o sia
cresciuto il prezzo delle bestie, o il sangue de* nobili costi meno,
si contentano d'una ventina. Fatto il pagamento, al quale contribui-
scono i parenti fino al settimo grado, la pace si suggella unendo in
matrimonio un figlio dell'uccisore con una figlia delPucciso. Dolci
nozze e candidi affetti! - Non in tutto e bensi dismessa Pusanza
antica; se un plebeo ammazza un patrizio, egli ed i suoi diven-
gono schiavi della costui famiglia: se invece un patrizio ammazza
un plebeo, e punito . . . indovinate un po' con che cosa? con Tucci-
sione di un altro plebeo che gli appartenga.
Schiavo diventa anche il tigre, il quale non paghi al suo signore
quanto gli spetta. Ma bisogna intendersi: la schiavitu in Abissinia
non ha nulla che fare con la romana e I'americana. Lo schiavo
non e cola, in sostanza, se non un servitore trattato con affabili-
ta e confidenza di quella che co' servitori si usi in Europa. Fra i
Baria, secondo mi narrarono, vi sono schiavi che hanno schiavi
eglino stessi. Nei Maria, schiavi e schiave faticano molto meno degli
agricoltori: unica cura degli uomini e andar per acqua e mungere
le vacche, delle donne macinare la dura, imburrare i capelli alia
padrona e spassarne la infingardaggine.
A descrivere tutti gli usi de* Maria non basterebbero parecchie
pagine: dir6 delle nozze, poiche mi & occorso accennarvi.
Quando i parenti dei due innamorati hanno consentito la unione,
lo sposo, accompagnato da numerosa schiera d'amici, rapisce la
fidanzata e la conduce nel proprio tucul\ dov'ella resta per un mese,
sotto la vigile custodia dej genitori del futuro marito, che le ver-
sano ogni mattina latte sul capo, per augurio di fecondita. Durante
quel tempo, attorno al tucul allegre brigate si ragunano in clamorose
baldorie. Le sciarmute, etere deirAffrica orientale, fanno la fanta
sia, gli altri bevono e cantano. Trascorso il tempo di rito, lo sposo
va alia madre della ragazza e mediante una o piu vacche, secondo
1004 FERDINANDO MARTINI
ch'egli e piu o men facoltoso, compra il diritto d'aver seco la mo-
glie. La madre accetta il prezzo o dono che sia, e con le proprie
mani recide il filo che alia figliuola sin dalla nascita serr6 le vie
della generazione.
Credo anche nei Maria; in altre tribu, nei Bogos segnatamente,
awenute le nozze, la suocera ha obbligo di non mostrarsi piii al
genero, e di scansarlo quando lo vede. Parecchi europei lamente-
ranno di non essersi ammogliati fra i Bogos.
II tucul dei Maria non e all'esterno molto dissimile da quello degli
abitanti delFHamasen o delPOkule-Cusai. Piu ampio bensi, e nel-
1'interno diviso in due parti per una rete intessuta con fili di baobab ;
in una dormono i maschi sugli angareb* nell'altra sulla cenere le
femmine; le vesti non cucite, servono da lenzuola; soli gli sciuma-
galtt usano stendere sopra gli angareb una pelle di bue. - Nella parte
assegnata alle femmine k, notevole una buca profonda cerchiata a
fior di terra da orli rilevati. Le donne, che, nonostante Pislamismo
prescriva le abluzioni, con Tacqua non se la dicono, accendono
in quella buca non so qual legno odoroso e vi si accoccolano sopra,
nude, facendosi di una tela campana, per modo che fumo e pro-
fumo non si disperdano ; cosi rimangono qualche volta ore ed ore :
e quello e il bagno che, secondo loro, prowede insieme all'estetica
e alia nettezza, conserva insieme la belta e la salute.
Poco nelle vesti; nella pettinatura, invece, Bogos, Beni Amer,
Maria molto differiscono dagli Abissini; questi tengono i capelli
cortissimi, quelli li educano irti, alti ed uniti nella parte superiore
del cranio, e li lasciano cadere in lunghe trecce attorno alle tempie
e alia nuca: pettinatura che li ripara bene dalle offese del sole.
Le vergini tengono anche tra i Maria la testa rasa; le maritate strin-
gono, come le Abissine, i capelli in molte trecce sottili; ma anzi-
che stenderle come quelle verso Poccipite, le bipartiscono a meta
della fronte, donde piovono sino alle spalle.
Ho detto altrove quanto i Maria sieno incuriosi : che sono pieni
zeppi di pregiudizi e forse inutile il dire. Un di loro capit6 nel-
rattendamento, mandatovi da Abd-el-Kader a portare non so quale
oggetto o quale ambasciata. Uno de' miei colleghi si prov6 a far-
gli il ritratto in matita, altri in fotografia. Bisognava vederlo! Stra-
lunava gli occhi, nascondeva la faccia, tre o quattro volte tenth di
scappare. Si capiva che il lapis, il taccuino, la lente lo spaurivano e
i. angareb: tappeti indiani.
NELL'AFFRICA ITALIANA 1005
temeva di qualche malia. Lo lasciammo infine e se ne andava
conturbatissimo, quando gli dette nelFocchio, tra la rena, una boc-
cetta vuota che qualcuno aveva buttata via. La raccolse, la contem-
p!6, Pammir6, ci guard6 con occhi ridenti e se ne parti saltando
dalla contentezza per aver trovato tanto prezioso tesoro.
Chi viaggiasse, io credo, il mondo intero, passo piii dirupato di
quello che precipitando dal colle delPAnselel congiunge Paltipiano
di Era con la conca del Cadnet, non lo troverebbe. £ una stretta
gradinata di alti massi, alternata da ripidi e mobili distese di ciot-
toli, sbarrata a quando a quando da piante spinose. Non si discen-
de ; bisogna rovinare pe' ciottoli e di masso in masso schizzare. In-
nanzi a quei baratri il mulo stesso si fermava cogitabondo, ne era
solo a pensare malinconicamene ai casi propri. Spesso non s'accor-
geva del precipizio, se non dopo avere sfondato col capo oltre
i viluppi prunosi, e si fermava in mal punto. Parte di la, parte di
qua dal cespuglio, incerto dell'andare, infastidito dello stare per le
spine che scorticavano a lui la groppa e minacciavano a me le pu-
pille, si divincolava guatando; e me che stavo a occhi chiusi,
sbatteva tra le fronde pungenti. Cosi, quando si risolveva a saltare,
io non vedevo n6 donde si movesse n6 dove s'andasse ; intanto i ciot
toli smossi ci rotolavano dietro, ci rimbalzavano accanto, e la caro-
vana pareva ruinarci addosso con fragore di valanga.
Arrivati in fondo, certificammo con molto ma insperato pia-
cere che, nonostante il sole il quale levava di cervello e qualche
ruzzolone pericoloso, nessuno aveva sofferto troppo e il collo ri-
maneva in tutti al suo posto.
Ma quando si viaggia in paesi tanto diversi dal proprio quant' era-
no quelli per noi, i disagi patiti si dimenticano presto davanti a
nuovi spettacoli e la curiosita, appena rinata, partorisce vigori. La
Conca di Cadnet cancel!6 subito i ricordi del colle dell'Anselel.
L'Abissinia settentrionale, specie nella stagione in cui noi la
vedemmo, di rado par bella alPocchio nostro: non ha n6 dolcezza
di sorrisi, ne benignita di malinconie; ma i tratti che alternano le
tristezze, o torve, o smorte, di allegrie brevi, sono veramente stu-
pendi. Dominano si il monotono e il trito; ma quando, tra piu
ampli orizzonti, le forze possenti della vegetazione si slanciano
in liberta e in varieta di rigogli, il paese si veste di letizie solenni,
1006 FERDINANDO MARTINI
alle quali nulla ha di paragonabile il paese europeo. Tali alcuni
punti dell'Anseba, le rive del Barca, delFUsch, del Mohaber: tale
la Conca di Cadnet per la quale ci awicinavamo quel giorno al
riposo di Scinarub.
Folti sicomori e kighelie1 ombreggiavano da' margini le arene lat-
tee, e nella quiete delle fronde accoglievano le tortore silenziose;
tra gli alti fusti il serau, mandorlo affricano, spenzolava ciocche di
fiori candidi, accarezzati dagli ultimi raggi del sole; fra la calma
odorata e le ombrie fresche, il torrente pareva distendersi addor-
mentato. In quelle paci irruppe, dietro a me pochi passi, la caro-
vana: e d'ogni parte cominciarono movimenti affrettati e clamori
confusi. Stormi d'uccelli volavano d'albero in albero, con strida e
fruscii; nell'alveo un andirivieni di cammelli e di muli, uno stro-
piccio cbntinuo di passi sopra la rena. Per le rive, colpi d'ascia
secchi, di martello insistenti, uno scrocchiare di legname squar-
ciato, un chioccolare di stipe accese, innanzi alle quali, nelPaperta
cucina omerica, montoni inter i rosolavano, girando nei massicci
stidioni d'acacia. Malinconiche a udire sul tramonto, lunghe voci
rispondevansi di lontano.
Dopo il corto crepuscolo, velarono il cielo trasparenze di verde
oltramarino, mirabili e non mai sin allora mirate: i cammelli s'in-
travedevano nell'ombra in aspetti fantastici, come animali di un
bassorilievo assiro vivificati dalla magia. .1 portatori, distesi ne'
bianchi^tfZJZ)2 dormivano sui massi che fiancheggiano 1'altra sponda
e che nel riflesso dei fuochi parevano sarcofagi di marmo rosato.
All' alba, suonata la diana, il movimento ricominci6 : sparpagliato
all'arrivo, ora al momento della partenza si raccoglieva anche piu
operoso e sollecito. Giuntovi primo, volli essere 1'ultimo ad abban-
donare il letto delPUsch. La carovana s'accalc6 dietro a' sicomori,
sfi!6 in rumoroso disordine verso altri torrenti : a poco a poco il fra-
stuono divenne sussurro, i vocii si mutarono in bisbigli e si perde-
rono lontani. Sulle rive deserte tutto taceva; dopo un affaccenda-
mento rapido e affannato, i profondi silenzi e gli oblii. Quante cose
si assomigliano nel mondo al passaggio d'una carovana!
i. kighelie-. piu comunemente chigelie (Kigelia africana): sono alberi tipici
di quella flora. 2. gam : specie di mantelli.
DA «CONFESSIONI E RICORDI»
(FIRENZE GRANDUCALE)
TOMMASO COGO1
. . . de ses bords lointains Venfance me ramene
un souvenir dont rien ne pent me detacher.
SOULARY2
In che anno per Fappunto non so, ma certamente fra il 1805 e il
1808, in una fresca mattina sul finite di settembre, Sua Eccellenza il
Consigliere Vincenzo Martini3 un tempo Segretario del Regio Di-
ritto, piu tardi Luogotenente generate di Pietro Leopoldo4 nel go-
verno dello stato e citta di Siena, ora Ministro per Tinterno di
S. M. la Regina d'Etruria5 agiatamente seduto in una comoda ber-
lina, partiva da Firenze per la villa di Monsummano secolare abi-
tazione dei suoi maggiori. Gli avrebbero rallegrato cola le annuali
vacanze, gaie conversazioni di amici, gare poetiche di arcadi signo-
rotti ed abati e, piu gradito allora d'ogni passatempo autunnale, la
tesa del paretaio,
la caccia al raperin fatta e al fringuello,
che di li a qualche anno un altro toscano a lui non ignoto, il Pa-
nanti,6 torra ad argomento di argute e facili rime.
Era la berlina prossima ad uscire dalla Porta a Prato quando il
cocchiere, colto da malore improwiso, stramazz6 abbandonando le
redini; e i cavalli lasciati a se stessi, vellicati sulla groppa dalle
briglie non piu freno ma pungolo, Dio sa dove si sarebbero spinti
a precipitare, se per fortuna del vecchio ministro e (mi giova cre
dere) della monarchia etrusca, non li avesse coraggiosamente tratte-
i. Ed. cit., cap. I, pp. 1-16. 2. Joseph Marie Soulary, di Lione (1815-
1891), autore di varie raccolte di sonetti e poesie patriottiche ed umoristi-
che. 3. Vincenzo Martini, di Firenze, bisnonno di Ferdinando, copri
vari ed importanti uffici neiramministrazione toscana. 4. Pietro Leo
poldo: vedi la nota a p. 168. 5. la Regina d'Etruria: Maria Luisa di Bor-
bone reggeva il regno d'Etruria in nome del figlio Carlo Lodovico, succe-
duto al padre, Lodovico di Borbone, nel 1 803 . II regno di Etruria fu isti-
tuito da Napoleone nel 1801, con la pace di LuneVille, e cess6 di esistere,
col trattato di Fontainebleau, Pottobre 1807. 6. Per il Pananti e il suo
poemetto sulla caccia col paretaio, vedi pp. 3 sgg.
I008 FERDINANDO MARTINI
nuti e fermati un giovinotto che andava ciondolando per quei pa-
raggi.
La vita era salva, la berlina intatta; proweduto senza indugio
alle cure del cocchiere, lievemente indisposto ma non in grado di
proseguire il viaggio, bisognava ora trovarne un altro sano e pronto ;
che all'Eccellenza Sua, stanca forse dello avere in undici mesi di
udienze settimanali inutilmente combattuto contro la presuntuosa
testardaggine di Maria Luisa, doleva il perdere dei brevi sospirati
villerecci riposi anche una mezza giornata.
Ma cosi come le disgrazie, le fortune qualche volta non vengono
sole; il giovinotto che ardiva fermare cavalli sfuriati, sapeva anche
guidarli; offertosi al Martini e accolto 11 per li come una prowi-
denza, mont6 a cassetta e in quattro o cinque ore lo condusse inco-
lume a Monsummano.
Si chiamava Tommaso Cogo ; e da un villaggio del Comasco dove
era nato venne con un fratello in Toscana per impratichirsi nel-
Tarte della seta, ancora fio rente in Toscana. Se lontani i tempi nei
quali For Santa Maria1 primeggiava fra le arti maggiori e sola in
Europa sapeva tessere i broccati d'oro e d'argento ; andavano pur
tuttavia ancora famose le filande di Pescia, di Pistoia, di Siena;
a Firenze la spola correva su 1500 telai e le sete nere dei Matteoni
si smerciavano, braccate,2 sui maggiori mercati delPOccidente. II
fratello trove- collocamento in una di quelle manifatture ; Tommaso,
0, fattone esperimento, il mestiere non gli piacesse, o di collocarsi
non gli riuscisse, aspettando di trovare o di trovar meglio, si ferm6
a Firenze piu mesi vagabondeggiando ; e intanto innamoratosi della
citta, intelligente com'era, voile conoscere quanto pote della sua
storia e dei suoi monumenti; tutto quanto pote vide e osservo, lesse
il leggibile e rilesse con cosi bramosa attenzione, da ritenere a mente
di alcuni libri pagine intere. Se non che, tutto finisce in questo terzo
pianeta e molto rapidamente i danari dei vagabondi; sebbene fosse
partito da casa con un borsellino assai ben guarnito per un uomo
della sua condizione, Tommaso era quasi ridotto al verde e stava per
mettersi a fare la guida, o servitor e di piazza come allora dicevano,
quando gli capit6 Toccasione di entrare a servizio in casa nostra.
1 . For Santa Maria : e il nome di una via di Firenze, e del rione che alber-
gava il centre commerciale della citta. 2. braccate: cercate avidamente.
Ma e lecito il sospetto si tratti di errore di trascrizione per broccate, tes-
sute a brocchi, cioe a ricci d'oro e d'argento.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) IOC>9
Servo affezionato, volonteroso, d'onesta a tutta prova, ricambiato
dall'affetto di quattro generazioni, vi rimase quarantacinque anni
e vi mori a settantadue; per giunta fu mio maestro, uno dei pochi
miei buoni maestri : che alcune cose insegnatemi piu tardi da altri
mi fu necessaria fatica il disimparare, le imparate da lui mi re-
stano tuttora utilmente nella memoria.
Naturalmente io non me ne ricordo ; ma so per la molto autore-
vole testimonianza di mio padre1 che da bambino fui capricciosa-
mente irrequieto ; non se ne aveva bene ; non trovando il verso di
farmi stare tranquillo, mi mandarono a scuola compiuti da poco i
trenta mesi. La scuola in cui rimasi fino ai sette anni era tenuta da
due sorelle Marchionni, nubili per fortuna della razza e attem-
pate: la signora Gaetana e la signora Rosa. Di ci6 che sapesse e
potesse insegnare la signora Gaetana non avemmo mai ne prova ne
notizia; anche lei salutavamo «maestra», ma in sostanza I'ufficio
suo era quello dell'aguzzino ; appena la signora Rosa faceva con
uno di noi la voce grossa, la signora Gaetana, alta secca allampa-
nata, compariva sulPuscio e preso per un orecchio il piccolo reo,
secondo il misfatto, o gli amministrava con la mano stecchita ripe-
tuti colpi sulla parte piu rotonda e carnosa del corpo (quante pa
role per evitarne una!) o lo metteva nel « cantuccio » dopo avergli
coperto il capo con un berrettone conico di cartone turchino, sul
quale era disegnata da mano inesperta una testa di somaro. La si
gnora Rosa piccola, grassotta, era la vera maestra; e un po* per
volta con paziente pazienza ci insegnb tutto quanto sapeva: leg-
gere, scrivere, la tavola pitagorica, le prime operazioni delParitme-
tica, la dottrina cristiana e poco piu. A prendere tabacco senza
insudiciarsi laidamente la faccia, le mani, il vestito non ci insegnb,
perch6 questo non riusciva neppure a lei.
Per ornare la mente di un tale corredo di dottrine tre anni basta-
i. mio padre: Vincenzo Martini (1803-1862) copri vari ed important!
incarichi nell'amministrazione toscana; fu anche autore di teatro assai
stimato. Tra le sue commedie, ricordiamo II marito e I'amante, II cavaliere
d'industria, Una donna di quar ant' anni, ecc. Quest'ultimo lavoro fu portato
sulle scene nel 1853 da Adelaide Ristori, il che molto giovd al suo trionfo.
La raccolta delle sue Commedie fu curata dal figlio (Firenze, Le Monnier,
1876). Belle pagine sul padre in A teatro, Firenze, Bemporad, 1928, pp.
51-106.
64
1010 FERDINANDO MARTINI
rono; trascorsi i quali io potei ancora in quella scuola buscarmi
frizzanti castighi dalle mani stecchite della signora Gaetana, ma
sperare nella erudizione della signora Rosa non piu.
Intanto al buon Tommaso prossimo alia settantina ed esonerato
oramai da ogni faccenda all'eta sua incomportabile o grave, era-
no affidate queste sole cure: condurmi a scuola, ricondurmene,
raccontarmi la sera qualche novella e alPora debita mettermi
a letto.
Buon Tommaso! quanta amorevolezza la sua! Con quanta feste-
vole condiscendenza consentiva a ripetere la sera la novella di Be
linda e il mostro o delle Tre melarance, quasi il ripetere fosse piu
per lui che per me rinnovato piacere ; purche, ben inteso, col raccon-
tare o col ripetere non s'andasse oltre 1'ora canonica da mia madre
prescritta e che voleva rigidamente osservata. Giunta quell'ora, non
valevano preghiere e se la novella rimaneva a mezzo, pazienza.
Tommaso traeva dalla tasca un pezzo di carta, lo accendeva alia
lucernina (i fiammiferi erano di la da venire) e, tutte le sere con
le identiche parole: «le monachine» diceva ccvanno a letto, an-
dremo a letto anche noi».
Una parentesi : per chi non lo sapesse le monachine sono, secondo
i vocabolaristi, «quelle scintille che vengono formandosi e dispa-
rendo rapidamente lungo la carta bruciata; da sembrare tante mo-
nache che col loro lume in mano scorrano per il dormitorio andando
a letto ». E Lorenzo Lippi,1 intitolando il suo Malmantile al Cardi-
nale Leopoldo De Medici, gli scriveva cosi.
Mi basta sol se Vostra Altezza accetta
d'onorarmi d'udir questa mia storia
scritta cosi come la penna getta
per fuggir Vozio e non per cercar gloria;
se non le gusta, quando Vavra letta
tornera bene il fame una baldoria
che le daranno almen qualche diletto
le monachine quando vanno a letto.
Torniamo a Tommaso.
Uno solo di quei servizi lo faceva di mala voglia: il menarmi a
marcire ore e ore in una scuola dove non c'era piu nulla da appren-
i. Lorenzo Lippi, poeta e pittore fiorentino (1606-1664), autore del poema
giocoso II Malmantile racquistato. I versi citati formano la quarta ottava
del «primo cantare» del poema.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) IOII
dere lo impazientiva; e non si tratteneva dal farlo capire a me e dal
dirlo alle signore Marchionni, che credo lo avessero caro come il
fiimo agli occhi. Alia fine dopo aver borbottato alquanto, dal bron-
tolio pass6 alia ribellione ; una bella mattina: « Che Marchionni e che
scuola? Perdita di tempo e scapito di salute. Niente scuola. Aria,
aria»: in giro per le vie e per le piazze a vedere quella statua di
Donatello, quel tabernacolo di Luca,1 a imparare qualche cosa
dawero.
Ebbe per quelle scappate Passentimento dei miei? Non era uomo
da indiscipline, e penso che si ; fatto sta che da quel giorno un paio
di volte la settimana la scappata si ripete, e non ci fu museo, gal-
leria, chiesa, non ci fu angolo della citta testimone di qualche fatto
notevole della sua storia ov'egli non mi conducesse, raccontando,
descrivendo, spiegando con pensiero e parole adeguati alia mia
intelligenza di fanciullo.
Di quando in quando si sofFermava bensi innanzi a palazzi, si
studiava di mettermi in mente nomi che con la storia di Firenze non
avevano nulla che fare. Cosi, scendendo da San Miniato e passando
innanzi alle case de' Serristori:2 «Qui e morto Luigi re d'Olanda3
fratello di Napoleone » o uscendo da San Marco nella via Larga
(oggi Cavour) e indicandomi un palazzo sul canto delPaltra via degli
Alfani : « Qui abita il Principe di Monfort, Girolamo re di Vestfa-
lia,4 fratello di Napoleone ». I nomi di quei regni e di quei principi
mi entravano da un orecchio e uscivano dalPaltro; quello di Napo
leone, piu facile a ritenere e udito spesso pronunziare da mio pa
dre, restava.
Perche" Tommaso Cogo aveva per il Bonaparte una ammirazione
che sapeva di idolatria: quando diceva: «L'ho veduto passare la
rivista delle truppe in Borgo Pinti fra la Porta e Candeli »s gli occhi
gli si inumidivano; e Pammirazione erompeva ora tanto piu fer-
vida, quanto piu dove" per alcuni anni essere con cura guardinga
dissimulata. Sua Eccellenza il Consigliere Martini non gradiva di
certo che in casa sua s'inneggiasse ai francesi e, siamo giusti, qual
che ragione Faveva: a Siena, governatore, FAram delegate del
i. Luca della Robbia, su cui vedi la nota a p. 452. 2. II palazzo Serristori,
grande costruzione del Cinquecento, sorge sulla riva sinistra dell'Arno.
3. Luigi Bonaparte, re d'Olanda dal 1806 al 1810, mori a Firenze nel 1846.
4. Girolamo Bonaparte, nato nel 1784, 1'ultimogenito, re di Vestfalia dal
1807 al 1813, mori a Firenze nel 1860. 5. Candeli: una delle contrade
di Borgo Pinti.
1012 FERDINANDO MARTINI
Direttorio lo minacci6 di morte; a Firenze, ministro, Elisa Bacioc-
chi1 sbalz6 di seggio la sua sovrana e lui.
Napoleone era morto da un pezzo e il suo idoleggiatore non re-
stava dal difenderne la memoria o dalFeducare a onorarla. Seppi
da mio padre di altercazioni avvenute diecine d'anni prima, delle
quali egli stesso dove imporre la fine, fra Tommaso e il cuoco e la
cameriera di casa, coniugi devoti al trono e alPaltare, che aretini
ambedue, con le bande reazionarie del '99* avevano, se non scor-
razzato, simpatizzato sicuramente e il bonapartista squadravano
con orrore, dandogli a tutto pasto delPeretico e del giacobino.
Appena gli parve d'avermi bene inchiodato nella testa il nome di
Napoleone, esaltato ogni tanto come il piu grand'uomo che mai
nascesse, e mi giudic6 capace d'interessarmi a narrazioni senza ma-
ghi e senza fate, cominci6 a parlarmi di lui ; e f attomi cosi oltre che
capace disposto, piano piano ogni sera durante piu mesi mi rac-
cont6, sommariamente s'intende, del gran Capitano le venture, le
vicende, le glorie.
Non saprei oggi dire, per che neppure oggi arrivo a spiegarmelo,
com'egli potesse con linguaggio adatto a un ragazzo delPeta mia
conseguire tale evidenza, tanto calda efficacia da infiammarmi e
ispirarmi precoci entusiasmi; fatto e che la gesta di quelPuomo il
quale traeva dietro a se eserciti dall'Europa in Affrica e in Asia,
piombava sul nemico quando questi lo credeva lontano le mille mi-
glia e sempre lo sgominava, mi parve anche piu meravigliosa che i
prodigi delle fate e dei maghi. E poi questi eran favole e oramai lo
sapevo.
C'e, bensi, questo da dire: che Tommaso non andava immune
dal difetto di tutti o quasi tutti gli storici: imparziale non era.
Secondo lui, Napoleone non s'era ingannato mai; la ragione era
stata sempre dalla parte sua; quanto aveva fatto, tutto a fin di bene ;
i nemici suoi tutti malfattori; e il «canaglia» l'« imbecille » il «bri-
gante» erano nella narrazione distribuiti con certa larghezza ai
i. Elisa, sorella di Napoleone, aveva sposato il principe Felice Baciocchi.
Principessa di Piombino e duchessa di Lucca, divenne granduchessa
di Toscana, ma piu di nome che di fatto, nel 1809, dopo che per due anni
la Toscana era stata annessa alPimpero napoleonico, e vi rimase fino al
1814. La sua nomina non aveva spodestato Maria Luisa ne" il figlio, che"
essi, dall'ottobre 1807, perduta la Toscana, erano divenuti sovrani dell'al-
lora costituito regno della Lusitania settentrionale. 2,. le bande . , . del
'99: fecero il «terrore bianco » (antiliberale,, antisemitico, ecc.) della Re-
staurazione, mentre Napoleone era in Egitto.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1013
sovrani che lo awersarono; di guisa che agli occhi miei appariva
un Napoleone alquanto diverse dal vero; non soltanto un eroe,
ma una vittima di implacabili invidie; e quei Franceschi, quei
Giorgi, quegli Alessandri, quei Federighi1 che lo perseguitavano
io li odiavo come avevo prima odiato YOrco di Belinda, la Brutta
delle Tre Melarance, e sempre speravo, andando innanzi, di appren-
dere che erano cacciati dal trono e i loro eserciti interamente
distrutti.
Amico della famiglia, veniva spesso in casa nostra un colonnello
Gherardi, avanzo della campagna di Russia, al quale guardavo come
a un essere soprannaturale, beato delle sue carezze, orgoglioso di se-
dergli sulle ginocchia. Di tanto in tanto mi regalava qualche gio-
cattolo. La vigilia di Natale il regalo fu piu bello e piu gradito del
solito; centinaia e centinaia di minuscoli soldatini di piombo con
relativi minuscoli carriaggi e artiglierie. Avevano tutti la stessa
divisa, ma Tommaso trov6 non so piu quale spediente per di-
stinguerli: e sopra una gran tavola di marmo rosso delle nostre
cave di Monsummano li disponemmo in ordine di guerra: da un
lato gli invincibili battaglioni del Bonaparte, dall'altro le inique
milizie della « coalizione » ; poi raccolti quanti tappi di sughero si
trovavano in casa fornimmo ai francesi quelle munizioni che ful-
minavano annientandole, colpo per colpo, inter e legioni prussiane
od austriache. Cosi al racconto d'ogni battaglia seguivano manifest!
i micidiali effetti della vittoria e le monachine andavano a letto
lasciando coperto
da cavalli e da fanti il terren.2
Bisogn6 pur troppo, in omaggio alia storia, confessarsi sconfitti a
Waterloo; ma prima di darsi per vinti, che pioggia di turaccioli
sulle schiere nemiche! che strage nelle falangi britanniche, che
sdruci nelle file del Bliicher!3
Trastulli puerili si, ma indizi di quanto germogliava nelPanimo.
1. Franceschi . . . Federighi: cioe, i sovrani d' Austria (Francesco II, e poi I,
d' Austria, dal 1792 al 1835), di Inghilterra (Giorgio III, di cui fu reggente,
dal 1811, il figlio, futuro Giorgio IV), di Russia (Alessandro I, zar dal
1801 al 1825), di Prussia (Federico Guglielmo III, re dal 1797 al 1840).
2. Manzoni, II conte di Carmagnola, coro, v. 4. 3. Bliicher: il maresciallo
prussiano che contribul decisamente alia sconfitta di Napoleone a Wa
terloo (18 giugno 1815), sopraggiungendo improwiso in aiuto del Wel
lington.
1014 FERDINANDO MARTINI
Quando la sera r«ora canonica» sopraggiungeva con 1'annunzio
di una battaglia imminente, il giorno dipoi accompagnavo Napo-
leone sul campo con tenera trepidezza, in apprensione per timore
d'una sconfitta. Waterloo fu un dolore, Sant'Elena mi fece pian-
gere le prime lacrime ch'io abbia dato a sciagure altrui.
Sensazioni prime che non illanguidirono con Pandare del tempo,
n6 illanguidirono i sentimenti. Quante ne ho sentite sul conto di
Napoleone! Molto ho letto che di piu notevole si scrisse contro di
lui: lo Scott, la Stael, lo Chateaubriand, il Gervinus, il Lanfrey,
il Jung, il Michelet, il Taine, il Masson, il Roseberg;1 e sempre
leggendo mi sono ricordato di Enrico Heine2 e delle sue conclu
sion! : (dmmortale, eternamene ammirato, eternamente rimpian-
to! » E chi nega le colpe, chi le follie ? ma innanzi a tanta grandezza,
a una espiazione che la pareggia, ai diritti imperiali del genio e della
sventura nulla vale ad affievolire i miei sentimenti, nulla ad attu-
tire le ripugnanze e peggio che alcuni dei suoi nemici mi ispirano :
tali che (lo confesso con compunzione di sbarazzino raweduto)
se venivo al mondo cinquanta anni prima, non avrei sdegnato -
tutt'altro - di accompagnarmi con la masnada che nelle vie di
Londra inseri torsoli di cavolo fra gli allori del piu celebre degli
1. Walter Scott scrisse una Life of Napoleon; Madame de Stael disse di
Napoleone in vari suoi lavori (Dix annees d'exil; De VAllemagne-, Conside
rations sur la Revolution francaise, ecc) ; lo Chateaubriand pubblic6 nel 1814
il saggio De Buonaparte et des Bourbons ; Georg Gottfried Gervinus (1805-
1871) fu storico e critico letterario di idee liberali; Pierre Lanfrey (1828-
1877), storico e uomo politico, scrisse nel 1858 un Essai sur la Revolution
francaise, ma qui si allude soprattutto alia sua Histoire de Napoleon Fr,
il cui primo volume apparve nel 1867 e che fu proseguita fino al quinto
(1875), dove sono gli studi preliminari sulla campagna di Russia; Henri
Jung (1833-1896), generate e scrittore francese, autore delPopera Bona
parte et son temps d'apres des documents inedits, 1880-1881 ; Jules Michelet
(1798-1874) scrisse 1' Histoire de la Revolution francaise (1847-1853);
Hippolyte Taine (1828-1893) e qui ricordato per le Origines de la France
contemporaine; Frederic Masson (1847-1923) fu entusiastico esaltatore di
Napoleone in molte sue opere (NapoUon inconnu, 1895, in collaborazione
con Guido Biagi; NapoUon et les femmes, 1894; Napoleon et sa famille,
1897-1910; Autour de Vile d'Elbe, 1908, ecc.); Archibald Primrose, conte di
Rosebery (1847-1929), ritiratosi nel 1896 dalla vita politica, si dedic6
a lavori storici, fra i quali il libro sull'esilio di Sant'Elena, cui qui si allude
(Napoleon: the Last Phase, 1900). Non mi e possibile stabilire se 1'errata
grafia del testo (Roseberg per Rosebery) sia dovuta all'autore o al tipografo.
Cfr., per tutti questi storici, P. GEYL, Napoleon, London, Cape, 1949.
2. Si allude soprattutto ai Reisebilder, in cui lo Heine celebra varie volte la
figura di Napoleone.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) IOI5
Arturi, Lord Wellesley Duca di Wellington,1 o con coloro che
macchinarono di pigliare a ceffoni Sir Hudson Lowe,2 malaugura-
tamente impediti dalle polizie.
II 1848 fu anche per me Panno della liberta. Toltomi dalla scuola
delle signore Marchionni e aspettando convenisse di mandarmi in
un'altra, fu commesso a un pretonzolo di iniziarmi allo studio del-
ritaliano e del latino e di condurmi seco alia passeggiata.
Per 1'italiano bene, per il latino benissimo ; ma dal secondo im-
pegno dopo un paio di settimane Don Antonio (tale il nome del
Mentore) chiese di essere dispensato. Tempi di rivoluzione, la
citta spesso in subbuglio; v'era piovuta e pioveva da ogni parte
d' Italia gente tumultui assueta, come i Romani di San Bernardo e
come quelli immitis et intractdbilis? vedeva i preti di mal occhio;
lo stesso Arcivescovo,4 mesi dopo costretto a fuggire, era sin d'al-
lora minacciato ed ofFeso. Don Antonio tanto piu ammirava i bio-
grafati da Cornelio Nipote,5 quanto piu si conosceva fatto di pasta
diversa; di portare in mostra la propria tonaca in quei pomeriggi
quotidianamente sacrati agli scompigli e alle turbolenze non se la
sentiva, specie avendo in custodia un ragazzo. Che fare? ch'io
muffissi fra quattro pareti naturalmente non si voleva; mio padre,
segretario generale al Ministero delle Finanze e deputato per Mon-
tecatini,6 non aveva tempo per le passeggiate ; mia madre,7 che (come
poi seppi) le storie della rivoluzione francese avevano fatta paurosa
i. Duca di Wellington: vedi la nota i a p. 95. 2. Hudson Lowe (1769-
1844) fu governatore di SantJ Elena, e I'opinione pubblica lo accus6 di ec-
cessive e arbitrarie durezze contro Napoleone: specialmente dopo che il
medico irlandese B. E. O' Meara, il quale aveva assistito Napoleone, pub-
blic6 il Napoleon in exile (1822). 3. tumultui . . . intractdbilis'. «abituata ai
disordini . . . senza misericordia e indomabile ». Bernardo di Chiaravalle
(1090?-! 153) combatte fieramente Arnaldo da Brescia e la rivoluzione
romana del 1143-1144. I giudizi qui riferiti appaiono nel suo Epistolario.
4. Arcivescovo: monsignor Ferdinando Minucci (vedi la nota 2 a p. 409).
Le manifestazioni piu gravi contro di lui si ebbero nel gennaio 1849,
quando la folia invase e perquisi il palazzo arcivescovile, perche" era stato
proibito si cantasse il Te Deum per la Costituente italiana promulgata in
Roma. 5. Cornelio Nipote: lo scrittore latino del I secolo a. C., di cui sono
notissime le biografie De viris illustribus. 6. deputato per Montecatini:
nel 1848, su designazione del Giusti agli elettori, Vincenzo Martini fu
eletto alia Assemblea legislativa. Ricopri quindi, per breve tempo, 1'ufHcio
di ministro delle fmanze. 7. mia madre: Marianna dei marchesi Gerini,
morta di colera nel 1855.
I0l6 FERDINANDO MARTINI
d'ogni sommossa, atterrita dalle notizie che giungevano da Roma
e in devota trepidazione per le sorti del Pontefice, s'era tappata in
casa aspettandosi il peggio e di rado ne usciva, anche perche le
avevano nociuto alia salute i continui spaventi . . . Che fare ? Sem-
pre pronto, Tommaso Cogo suppli.
Chiese, palazzi insigni, opere d'arte, non ce n'erano piii da ve~
dere; c'erano invece, spettacolo nuovo, le dimostrazioni ; e tanta
frettolosa premura poneva Don Antonio nello schivarle, tanta
Tommaso nell'andarle a cercare; e il trovarle del resto era facile,
perche donde venissero, tutte sboccavano finalmente innanzi a Pa
lazzo Vecchio sede del Governo e della Camera dei deputati o
Consiglio legislative, come allora in Toscana s'intitol6 Tassemblea.
Veramente ip avrei preferito di andare nel chiostro di San Marco
a far gli « esercizi » col Battaglione della Speranza formato di ra-
gazzi dai sette ai dodici anni se ben ricordo, ai quali si insegnava il
maneggio del fucile, il passo ordinarioy il passo accelerate e via di-
cendo ; vi avrei fatto bella mostra di me, in quanto che il maneggio
del fucile, rappresentato da un bastone di canna d' India, Tommaso
me lo aveva insegnato di gia: ventiquattro movimenti per arrivare a
sparare una cartuccia, secondo i riti delFesercito toscano e le armi
d'allora.
Per contentarmi, mi vi condusse una volta e anch'io cantai in
coro con i commilitoni:
Siamo piccini
ma cresceremo;
combatteremo
per la libertd;
dopo di che sentenzi6 che quelle erano « giuccherie »J e tronc6 ad
arbitrio la mia carrier a militare.
Si torn6 alle dimostrazioni: continuando nel suo metodo educa
tive, il buon vecchio tentava spiegarmi che cosa quella gente vo-
lesse con que' vocii e quello sventolio di bandiere; ma io non capivo
ne mi premeva di capire. Perche" mesi innanzi gridavano «viva
Gioberti » e que' medesimi « abbasso Gioberti » qualche mese dopo ?
E poi Napoleone era morto, il resto non mi importava. Un giorno
bensi presi anch'io parte attiva alia dimostrazione, ma non precisa-
mente per esprimere una opinione politica: quando sotto la Log-
i . giuccherie : atti da gente sciocca, balorda ; scempiaggini.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1017
gia deirOrcagna un tale (ho imparato poi che si chiamava Fran
cesco Trucchi)1 schizz6 di un salto presso alia Giuditta2" di Dona-
tello e di lassu con molto accalorato discorso e gesti analoghi pro-
voc6 piu volte gli applausi della folia che lo ascoltava. Ho letto
in seguito nej giornali e nelle cronache di quel tempo che voleva
si facesse « piazza pulita» e si mandassero via Ministri e Granduca;
ricordo che quando ebbe conchiuso, leggero cosi com'era salito, in
un salto discese; la folia replico gli applausi ed io ammirato di
quella agilita da scoiattolo, anch'io battei le mani. Tommaso mi
rimprovero; giustamente; per esordire nella vita pubblica scelsi
male la occasione, dappoiche i giornali e le cronache narrino al-
tresi che quel Trucchi, il quale voleva tolti i portafogli ai Ministri, si
dilettava nel far collezione di portafogli altrui.
Non capivo, ma non posso dire che non mi divertissi. Rammento
che in quelle dimostrazioni mi davano nelFocchio e li guardavo
curioso alcuni omaccioni riccamente baffuti e barbuti; e mi da
vano nell'occhio non perche piu forte degli altri urlassero i «viva»
e gli «abbasso»; ma perch6 vestivano il nuovo abito all'italiana,
bluse di velluto nero stretta ai fianchi da una cintura di cuoio,
calzoni della stessa stoffa e colore, larghissimi al femore, stretti
alia caviglia; e sulla bluse, dalle radici del collo scendenti per tutta
la spalla enormi solini rovesciati, sotto ai quali si nascondeva per
uscire in lunghe ampie cocche sul petto una cravatta nera o rossa,
secondo i gusti, gli umori, le opinioni del cittadino. In testa un
cappello alia calabrese ornato deirumile spoglia di un gallinaceo.
Un di costoro (mi pare di vederlo, cosi presente m'e la sua fac-
cia) venne in casa nel febbraio del '49 a chiedere la mancia per gli
operai che avevano inalzato davanti alia chiesa di San Remigio
nostra parrocchia Palbero della liberta; e chiese con cosi mal piglio
che la mia povera madre subito dette e con larghezza da colui cer-
tamente insperata. Vi torn6 nelPaprile ossequioso e scusandosi della
importunita, a chiedere un'altra mancia per gli operai che quell' al-
bero avevano finalmente - cosi diceva - atterrato.
E cosi grazie al servo amatissimo, correndo oggi 1'anno di grazia
i. Francesco Trucchi, nizzardo, veniito a Firenze nel 1838, fu dei prii accesi
agitatori nel 1848 e nel 1849. Fu poi accusato di appropriazione e furto.
Vedi F. MARTINI, II Quarantotto in Toscana, Firenze, Bemporad, 1918,
pp. 82-3. 2. Giuditta e Oloferne, bronzo di Donatella e scolari (1460
circa), si trova, su una colonna, nella scalinata del Palazzo della Signoria,
e non nella Loggia della Signoria o dell'Orcagna.
I0l8 FERDINANDO MARTINI
1917, io sono una delle cento persone (se pure a tante si arriva)
che a Firenze ricordino di aver visto il Gioberti arringare da una
fmestra del Lungarno Guicciardini1 e, awenuta una prima rivolu-
zione, dalle logge dell'Orcagna il Mazzini2 predicare la repubblica;
awenuta di li a due mesi la seconda, dal balcone di Palazzo Vec-
chio Gino Capponi3 ammonite, placandola, una moltitudine che
voleva nelle proprie mani vivo o morto Francesco Domenico Guer-
razzi4 e piuttosto morto che vivo.
II Guerrazzi! Fra le sue colpe, non tutte bilanciate dalle beneme-
renze, ha anche questa: essere stato cagione - sebbene remota ca-
gione - della morte di Tommaso Cogo.
II 1849 e lontano piu che i molti anni trascorsi non dicano, la
cronaca minuta degli avvenimenti toscani di quel tempo ignorata
dai piu. Riassumiamola brevemente.
Sopraffatto dalla rivoluzione, il Granduca Leopoldo aveva ab-
bandonato la Toscana e seguendo Pesempio del Papa chiesto asilo
in Gaeta al cognato Ferdinando dej Borboni di Napoli.5 Fattasi
cosi necessaria la istituzione di un governo prowisorio, il Guerrazzi
ne fu anima e capo. Egli che per afferrare il potere sollecit6 gli
aiuti di gente d'ogni risma, non seppe, dopo averla sguinzagliata,
mantenerla obbediente ai propri ordini, che' anzi parve Tavessero
posto al comando soltanto per gusto di disobbedirgli. Sconfitto
intanto 1'esercito piemontese a Novara, fu facile prevedere la restau-
razione dei vecchi principi e la Toscana stanca di anarchia, che del
Granduca, a dire il vero, non aveva sino allora troppo a dolersi, si
dimostr6 per piu segni proclive ad affrettarne il ritorno. Sover-
chiato dalla demagogia e minacciato dalla reazione, il Guerrazzi
ordin6 venisse a Firenze di fretta un battaglione di volontari livor-
i. Nel giugno del 1848 il Gioberti par!6 alia folia fiorentina dalla finestra
dell'albergo Le isole britanniche, in Lungarno Guicciardini. 2. II Mazzini
fu a Firenze nel febbraio 1 849, ma non riusci ad accordarsi col Guerrazzi,
poiche quest! non voile accettare la proposta fusione della Toscana con
1' allora sorta Repubblica romana. 3. Gino Capponi: vedi la nota a p. 437.
Su questo momento della storia di Firenze nel 1849, vedi G. GIUSTI, Cro
naca dei fatti di Toscana, nel I tomo dei Memorialisti dell* Otto cento, nella
presente collezione, e, per il discorso del Capponi, ivi, p. 440. 4. Su Fran
cesco Domenico Guerrazzi vedi il brano di Leopoldo Barboni, qui riportato
a pp. 893-912, e le note relative. 5. cognato . . . Napoli: vedi la nota I a
p. 160.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1019
nesi a lui fidi, affinche - fece dire - ristabilissero e mantenessero
Tor dine pubblico.
A malgrado del titolo, non di tutti livornesi si componeva:
parecchi ve n'erano d'altre parti della Toscana, ma tutti parimente
e tristemente famosi per soprusi violenze e ruberie commesse nel-
rAppennino pistoiese, avvalorarono con nuove gesta in Firenze
la propria fama. Edotti della ragion vera della loro presenza nella
citta, guardare, cioe, le spalle al dittatore di cui erano oramai quasi
unico sostegno e difesa, soprusi, violenze, ruberie, ogni turpitu-
dine crederono a se lecite quegli sciagurati. Arrivati la sera del
7 aprile, tante in poco piu di quarantotto ore, ne fecero, che leva-
tosi lor contro il popolo, il Municipio ottenne fossero rimandati
onde vennero; e si stabili che nelle ore pomeridiane del giorno n,
movendo dalla piazza Santa Maria Novella prossima alia stazione,
la non gloriosa coorte se ne andrebbe per via ferrata a Pistoia.
Uscimmo nelle prime ore del pomeriggio alia passeggiata; nel
ritorno Tommaso senza, credo, esserselo dapprima proposto, ma
voglioso di farmi vedere que' livornesi de' quali tanto in casa avevo
sentito parlare, dal Lungarno, per la via de' Fossi mi condusse
nella piazza, dove parte del battaglione era gia adunata e molta
folia venuta come noi a curiosare. Stavamo per entrare nella via
degli Avelli, allora angustissima, quando fu sparato un colpo di
fucile, da chi e contro chi non si seppe mai, seguito da altri colpi
che ora i livornesi sparavano.
Figurarsi il parapiglia che ne successe! Urla, strida, lamenti, be-
stemmie. Chi fuggiva di qua chi di la e fuggimmo, diciamo cosi,
anche noi; ma e facile pensare quanto velocemente possano fuggire
un bambino di sette anni e un vecchio di piu che settanta, tra il serra
serra di gente svelta e paurosaaltrettanto. Ci guadagnammo d'essere
malmenati e pesti nella calca e per giunta ributtati da uomini in
arme che procedendo in senso opposto si facevano largo con gli
spintoni e col calcio dello schioppo. Uscimmo finalmente anche noi
nella prossima piazza: ma dove rifugiarsi ? Tutti i portoni sprangati.
Fuggire per dove? Nella via del Melarancio si sparava dalle fi-
nestre; dalla via Sant'Antonino sbucava una torma di popolani
con fucili, forche, zappe, bastoni gridando morte e vendetta . . .
Eravamo nel bel mezzo di una mischia in cui s'inferociva tutto
un quartiere e le pallottole fischiavano intorno a noi. Non ricordo
piu se non questo: che Tommaso presomi in collo, dopo molti
1020 FERDINANDO MARTINI
andirivieni, infilammo una strada donde a corsa scendeva un forte
drappello di soldati. Passati che furono, scorgemmo ci6 che le loro
fila serrate ci avevano nascosto : sul lastrico sanguinolento il cada-
vere d'un livornese.
Pensate Porrore. Mi trovavo per la prima volta in cospetto della
morte e quale! Un'anima buona ebbe compassione del nostro ter-
rore: una donna che adocchiava da un uscio socchiuso, ce Papri
tutto intero e ci offri di ripararci e di riposare.
Riparati eravamo, ma forse Tommaso si angosciava nel pensare
le ansie dei miei. Ripigliammo il cammino. Dal quartiere di Santa
Maria Novella alia via de' Rustici dov'io son nato e allora abitavamo,
e lungo il tragitto. lo non mi reggevo in piedi. Tommaso mi ripre-
se in collo per buon tratto di strada. Come Dio voile, giungemmo
al Duomo. Inorridito poco prima innanzi ad un morto, inorridii
nuovamente innanzi alia barbarie dei vivi. Ci pass6 accanto un ra-
gazzaccio che teneva eretto e appoggiato sul ventre come si suole
Pasta della bandiera, uno stocco con infilzati brani di cervello e di
cuoio capelluto, e gridava: « Quando le vogliono bisogna dargliele ».
E furono trenta i morti e oltre cinquanta i feriti,1 i piu grave-
mente.
Arrivammo finalmente a casa; ne eravamo usciti alle due e tor-
navamo alle sette.
In casa i domestici tutti sossopra; mio padre, mio fratello, mag-
giore a me di dieci anni, supponendo ci fossimo rifugiati in qualche
famiglia di parenti, erano usciti a cercarci. Mia madre sola, e da
ore e ore in terribili angustie.
Quando entrammo nella sua stanza ci venne incontro accigliata e
forse Tommaso avrebbe dopo tante diecine di ?inni udito farglisi
per la prima volta un rimprovero, se ci fosse stato tempo a pronun-
ziarlo : ma fatti pochi passi, cadde accasciato sopra una sedia e anzi-
ch6 rimproverarlo bisogn6 sostenerlo con qualche cordiale e con-
i. trenta . . .feriti: il Giusti nella sua Cronaca (vedi la nota 3 a p. 1018)
scrive che furono venti i morti e trenta i feriti. Cfr., nel gia citato I tomo
dei Memorialists, la p. 434, e quanto narra il Guerrazzi, nelF Apologia,
a pp. 489-92 dello stesso volume. Cfr. anche, per tutto il periodo, il
gi£ citato Quarantotto in Toscana, importante per il Diario del conte Luigi
Passerini de* Rilli (vedi la nota 5 a p. 919) che vi e pubblicato, ma piu an-
cora per le note del Martini che lo illustrano.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) IO2I
fortarlo di parole amorevoli. Nella notte lo colse una febbre ar-
dentissima, annunzio di una malattia che lo condusse in fin di vita
e che i medici stimarono effetto delle fatiche e delle commozioni di
quella tremenda giornata. Si riebbe e pote alzarsi, ma andar fuori
non piu. Abitava a terreno e quando il cielo era limpido e Tana
tepida, sedeva nel cortile assolato, col suo cilindro in testa e il suo
tabarro color marrone (non pott6 mai, a tempo mio, ne cappello
di diversa forma ne vestito di colore diverso) aspettando ch'io pas-
sassi nell'andare a scuola o nel tornarne, per salutarmi, dornandarmi
dej maestri, dei compagni, che cosa avessi imparato e via dicendo,
colloqui che sempre si chiudevano con una carezza e una pasticca
di zucchero d'orzo. Se la stagione non gli permetteva uscire di
camera, mi aspettava dietro la finestra e mi chiamava picchiando
con le dita ne* vetri. Una bella mattina di settembre, e il cielo era
limpido e tepida Tana, non lo trovai nel cortile, non lo vidi dietro
alia finestra tornando, feci per entrare nella camera, una suora me
lo vieto. Era morto.
Trovarono in quella camera la copia di un testamento scritto di
suo pugno e depositato presso un notaro. Nei quarantacinque anni
che fu in casa nostra, aveva de? propri risparmi messo da parte
quattro o cinquecento scudi. Li lasciava a mio padre.
FRA TONACHE E GONNELLE1
Tornato il granduca, Don Antonio si ripresent6 : di bluse di vel-
luto, di cappelli alia Ciceruacchio2 neppur Tombra per le vie di
Firenze ; soldati austriaci montavano la guardia a Palazzo Vecchio e
di dimostrazioni clamorose e minacciose non c'era oramai piu peri-
colo. Morto Don Rodrigo, Don Abbondio aveva ripreso animo e
ora si offriva per 1'ufficio di Mentore peripatetico, che la paura lo
aveva costretto a renunziare Tanno prima. Gli fui, ahime! nova-
mente affidato.
Obbligo suo condurmi a spasso quattro volte la settimana, tutti
i. Ed. cit., cap. n, pp. 19-30. 2. Angelo Brunetti (1802-1849), detto Ci
ceruacchio, celebre agitatore popolano, segul Garibaldi nella ritirata da
Roma, ma a Ca' Tiepolo fu arrestato dagli Austriaci e fucilato con un figlio.
I cappelli alia Ciceruacchio, alia calabrese^ alia puritana, alV Ernani fu-
rono caratteristici dei rivoluzionari (vedi F. MARTINI, II Quarantotto in
Toscana, cit., p. 430).
1022 FERDINANDO MARTINI
i giorni durante la villeggiatura, ripassare meco ogni tanto la gram-
matica latina, insegnarmi la Storia Sacra.
L/ultima di queste diverse funzioni era la sola che non mi fosse
sgradita; non gia per desiderio di apprendere, ma perche Don An
tonio aveva frequentissimo nel discorso un intercalare: «cosi tra
una cosa e raltra»; e a me, sebbene ragazzo, non sfuggiva in quel-
Tinsegnamento la comicita di certe locuzioni e mi ci spassavo:
«nel sesto giorno, Iddio, cosi fra una cosa e Taltra, creo Tuomo)).
Ma quelle passeggiate! Perche bisogna sapere che Don Antonio
era una specie di procaccia1 liturgico sempre in caccia di messe,
ora per questa ora per quella parrocchia, ora per quella festa ora per
quel funerale. Di qui il cercare affannoso del tal prete e del tal altro
e le frequenti dimore e i lunghi bisbigli nelle sagrestie, mio fasti-
dio e tormento, che i compagni di scuola incrudivano, descriven-
domi le loro ricreazioni nel giardino di Boboli,2 o raccontandomi le
loro gite fuori le porte della citta. lo, che mi compiaccio del non
avere da uomo fatto odiato nessuno, Don Antonio lo odiai da fan-
ciullo di un odio implacabile.
Delle noie patite in citta mi vendicavo bensi con acre godi-
mento in campagna. Al suo piccolo corpo grassottello, alia sua pelle
rosea, quel pretonzolo di trenta o trentacinque anni era affeziona-
tissimo, e fin qui si capisce : difficile invece, se non a capire, a scu-
sare in un uomo sano e delPeta sua le perpetue irragionevoli appren-
sioni, alle quali la rosea pelle e il grassottello corpo lo condanna-
vano. Per una leggera sudata, paura di malattia; per un frutto
mangiato fuor d'ora, paura di indigestione ; in carrozza di rado e
quando non si potesse in altro modo per paura di ribaltamenti, in
barca non mai per paura di naufragio. Lo sapevo e in campagna ne
profittavo per conseguire due fini ad un tempo : indispettirlo e star
con lui quanto meno fosse possibile.
Nell'andare a zonzo ogni giorno con lui per i piani e i colli valdi-
nievolini, appena una occasione si presentasse subito la coglievo :
prossimo, per esempio, alia strada che percorrevamo, si stendeva
a traverso un viottolo uno stretto ponticello di legno senza ripari
laterali : subito piantavo in asso il mio Mentore, balzavo d'un salto
sul ponticello mal sicuro, e lanciato un ironico «venga, venga»,
me ne andavo pe' fatti miei; dall'orlo di una selva per un molto
i. procaccia: procacciante, procacciatore. 2. giardino di Boboli: il famoso
parco-giardino di Palazzo Pitti.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1023
ripido pendio e tra le felci e le stipe, si precipitava meglio che non
si scendesse nel fondo di un burro ne e io giu per il pendio. Don
Antonio imbestialiva, enunciava a gran voce le mie deficienze mo-
rali con grande profusione di appellativi, ma quanto a inseguirmi
sul ponticello o tra le felci e le stipe, neanche se gli avessero pro-
messo il cappello cardinalizio.
Era dovere suo lo accompagnarmi, dovere mio non allontanarmi
da lui. Mancavamo per quelle mie scappate al nostro dovere ambe-
due ; ma egli non poteva denunziarle a mio padre senza accusare se
stesso di timori ridicoli in un uomo giovine ben pasciuto e saldis-
simo in gambe ; e preferiva, quando mi perdeva d'occhio, andare ad
aspettarmi in qualche punto, donde tornando, era di necessita ch'io
passassi; si che, giunti a casa, nessuno si accorgesse di quanto era
awenuto ; spediente ingegnosissimo per dire una bugia senza aprir
bocca, e fare se complice delle mie indisciplinatezze, me complice
delle sue simulazioni.
La cosa fini male : in una di quelle mie scorrazzate, messo un piede -
in fallo ruzzolai tra Jl folto di arbusti spinosi e caddi sulFalveo
sassoso di un torrente a secco. Scalfitture, contusion! un po* dap-
pertutto ; la grave scorticatura d'uno stinco mi dava dolore acutis-
simo e m'impediva di camminare. Per buona sorte un de' nostri
contadini (avevamo poderi a quel tempo!)1 venne in soccorso del
padronctno] e postomi sulle spalle a cavalluccio, per una scorcia-
toia mi riport6 a casa.
Dopo le cure di mia madre e la sgridata di mio padre vennero le
interrogazioni. — Come e accaduto ? dove? e Don Antonio dov'era?
— Arrivava in quel punto. Mi aveva a lungo ansiosamente aspet-
tato nel solito luogo, poi, non vedendomi e cadendo la sera, s'era
risoluto in grande costernazione a tornarsene solo. Nel ritrovarmi
cosi malconcio allibi. Stretto dalle domande, nelle quali era impli-
cito il rimprovero, rispose:— Creda, caro signor Vincenzo, creda
pure che questo ragazzo, cosi tra una cosa e Taltra, e un demo-
nio . . . — ; e per quanto le domande si facessero via via piu urgenti,
non seppe dire altro, salvo di mutarmi di demonio in versiera,2
e di versiera in terremoto. Mentre con tali inefficaci argomenti
s'industriava nella propria difesa, s'accorse di avere dietro di s6 una
i. avevamo . . . a quel tempo: i beni della famiglia Martini, in Valdinievole,
dovettero essere tutti venduti alia morte del padre, nel 1862, salvo la villa
di Monsummano. 2. versiera: la moglie del diavolo (da adversaria, per
aferesi) e, figuratamente, persona oltremodo cattiva.
1024 FERDINANDO MARTINI
finestra aperta e si mosse frettoloso per chiuderla . . . Mio padre
dette in una sonora risata e dopo avergli dimostrato die quello di
Mentore peripatetico non era mestiere per lui, garbatamente lo
Iicenzi6.
Mi parve di molto addolcito il frizzio della scorticatura.
Ma fu quello (lasciamo stare per una volta tanto Scilla e Cariddi)
un cascare dalla padella nella brace. Tornati a Firenze e man-
cando Taccompagnatore, mancarono le passeggiate ed io fui affidato
alia vigilanza e alia compagnia delle donne di servizio. Tale era del
resto allora 1'usanza (pessima usanza!) nelle famiglie di un certo
ceto e di una certa agiatezza: i figlioli fuori di casa col prete, in
casa con le cameriere; in casa nostra e in quel momento non c'era
altro partito da prendere: mia madre malazzata, mio padre alPuf-
ficio la massima parte del giorno; e furono scritte a-danno del ri-
poso e del sonno le commedie1 che gli valsero gli applausi del pub-
blico e le lodi dei contemporanei ; lunghe veglie, delle quali tutto
Torganismo si risenti e la tomba si schiuse prima che la vecchiezza
giungesse.
Due nature diverse le due donne alle quali fui dato in custodia,
fisicamente e moralmente diverse : un' Adelaide senese, sulla tren-
tacinquina, personificava nel regno animale un'antitesi nel vegetale
impossible; era secca e verde ad un tempo; una Margherita sui
venti o poco piu, magnifico fior di ragazza cresciuta tra le felici
aure montane del Mugello nativo, rosea e robusta, era il ritratto
della salute: Tuna fantastica e bigotta, Taltra gaia e spregiudicata.
L' Adelaide era fidanzata a un sergente dei carabinieri (gendarmi,
veramente si chiamavano allora) e doveva sposarlo subito ch'egli
ottenesse il congedo. Awenne che una bella mattina (era, ricordo,
di domenica ed io tornavo dalla messa insieme con le due fantesche)
entrata in casa vi trovo una lettera del suo Timoteo (il nome non
era poetico, ma 1'amore passa sopra a tante cose!). Le aveva scritto
la notte in procinto di partire improvvisamente per Orbetello.
Scorrazzava nella Maremma una banda brigantesca che scontratasi
giorni innanzi e azzuffatasi con la gendarmeria era riuscita a fu-
garla. Timoteo partiva con la sua compagnia, a rinforzo, per aver
ragione dei malfattori.
i. le commedie: vedi la nota a p. 1009.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1025
Leggere, cacciare un grido e cadere svenuta fu tutt'una. E non
valsero spruzzi d'acqua sulla faccia, boccette d'aceto sotto le narici,
per scuoterla da quel torpore. Chiamato un medico, bisogn6 di-
scingerla e verecondia impose ch'io fossi allontanato dallo scarno
spettacolo.
Quella sentimentale trentacinquenne possedeva una piccola bi-
blioteca i cui volumi leggeva e rileggeva di continue : vite di santi,
romanzi italiani o tradotti, famosi a quel tempo fra la gente del
suo grado e della sua coltura: i Misteri d'Udolfo della RatclifT,1
Teresa e Gianfaldoni, il Ritorno dalla Russia, Adelaide e Comingio,
ovvero gli amanti infelici, altri che non rammento, tutti del mede-
simo conio; di quelli insomma che Napoleone a Sant'Elena defi-
niva «romans d'antichambrew (e metteva nel mazzo, Dio lo per-
doni, anche la Manon Lescaut) :z finalmente un vecchio libricciatto-
lo, nel quale si descrivevano con crudele minuzia di particolari i
castighi sofferti da peccatori impenitenti o da eresiarchi. Ricordo
un Leonzio cacciatore, che passando innanzi a un tabernacolo spar6
una fucilata contro 1'imagine della Vergine, e fu mangiato da ser-
penti. Sobrii a quanto pare, perche il supplizio dur6 un anno
intero.
NelFottimo intendimento di contribuire alia mia educazione
spirituale, 1' Adelaide ogni sera, prima di darmi la buona notte, mi
largiva il succo delle sue svariate letture : frammenti agiografici ed
episodi romanzeschi, tragedie sacre e drammi profani, spasimi di
martiri e disperazioni di innamorati. lo, per dirla col buon Sac-
centi,3
io morivo di voglia di dormire,
con tutto cid . . .
la sarei stata un secolo a sentire;
e non di rado me ne andavo a letto con gli occhi gonfi, impressio-
nato dal terrore o dalla pieta di quei casi.
La Margherita non leggeva, perch6 nella sua gioconda spensiera-
tezza s'era scordata d'imparare a leggere; ma conferiva anch'essa
airaddottrinamento del mio giovine intelletto, e cantando stornelli
i. Anna Ward (1764-1823), moglie del giornalista Ratcliff, fu romanziera
molto nota nel genere detto « gotico », pieno di orrori e misteri, con inter-
vento di element! spettacolari. 2. Manon Lescaut: il celebre romanzo di
Antoine Franfois Provost d'Exiles (1697-1763). 3. Giovanni Santi Sac-
centi (1687-1749), di Volterra, poeta giocoso e satirico, che fu tra i «fru-
stati» dal Baretti.
6s
1026 FERDINANDO MARTINI
a perdifiato mi preparava a gustare le fresche ingenuita della poesia
popolare. Gli stornelli erano innocui; non cosi quei racconti seb-
bene io li ascoltassi con attonito compiacimento.
Impia sub dulci melle venena latent;1
fra le paurose invenzioni della Ratcliff, Leonzio divorato dai ser-
penti, Santa Verdiana che arringava le vipere, la omonima Adelaide
che spirava fra le braccia delPadorato Comingio, estasi, suicidi,
fantasmi, supplizi, sortilegi ed altre diavolerie rimuginate fra me e
me senza tregua, mi ridussi a non dormire piu, o, addormentatomi,
a svegliarmi in sussulto dopo sogni affannosi : n'ebbi scossi i nervi e
confuso il cervello : e perch6 deperivo a vista d'occhio, indagatene e
conosciutene le cagioni, mia madre, ormai awiata alia guarigione,
risolse di pigliarmi con s6.
A tempo! di li a qualche settimana P Adelaide parve, per qualche
segno, non aver piu la testa a posto, la Margherita fu licenziata su
due piedi e cacciata intrafinefatta.2 Le ero affezionato e mi rin-
crebbe. Domandai : perch6 ? come mai ? che ha fatto ? ma nessuno
mi rispose. Soltanto molti anni dopo, seppi che la prosperosa con-
tadinotta, indispettita forse del non poter leggere romanzi, ne
aveva fatto uno per conto suo : il quale, cominciato con due perso-
naggi, quando lo scacciamento awenne stava per finire con tre.
A distrarmi dalle orrende fantasticherie, giov6 la stanza nella
quale mia madre abilissima nel ricamo passava parte del pomerig-
gio al telaio ed io vicino a lei sbrigavo i miei compiti, prima trascu-
rati per colpa di Leonzio e di Gianfaldoni; quell'istesso salotto
ove, sulla tavola di marmo rosso delle cave monsummanesi, le
invincibili armi napoleoniche debellarono gia gli eserciti della Rus
sia e dell' Austria.3
Sul parato di carta di Francia erano a vivi colori raffigurate riu-
merose specie di uccelli. Mi divertivo a guardarli, a distinguerli; e il
guardarli e il distinguerli alia lunga mi incuriosi: mi venne voglia
di sapere come si chiamassero, dove nascessero, come vivessero.
Di quella curiosita mio padre si compiacque, mi venne in aiuto con
una vecchia ornitologia; ed io un po' alia volta, con molta diligenza
i . £ un pentametro di Ovidio, Am., i, 8, 104. 2. intrafinefatta: immediata-
mente, senza por tempo in mezzo. 3. quell'istesso . . . Austria: vedl p. 1013.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) IO2J
e pazienza, riuscii a determinare degli ammirati volatili le specie ed
i generi, a conoscerne la vita e i costumi.
Lontano effetto di quelle ricerche sulP avifauna condotte da fan-
ciullo, o inclinazioni di origine atavica? (in casa mia tutti cacciatori
di padre in figlio per parecchie generazioni). Fatto sta che la cac-
cia di ogni forma e maniera: schioppo, rete, penera,1 vischio, fu
in me per mezzo secolo passione potentissima. Sui venti anni
addirittura mania; basti che mi fece perfino oratore sacro.
Sicuro: prossima a Monsummano e una vasta tenuta; smaniavo
d'andarvi a caccia dei pispoloni (Anthus arbor eus) in settembre;
ma ci voleva il permesso del fattore. Era col fattore in ottimi ter
mini, un giovine prete ambiziosetto, cui piaceva mettersi in mostra
e farsi credere di grande ingegno e coltura. In occasione di nozze
paesane avevamo lavorato insieme a un sonetto per gli sposi; io
lo scrissi ed egli lo sottoscrisse ; pensai conveniente ricorrere a lui.
Non m'ingannai : si sarebbe volentieri adoperato lietissimo di farmi
cosa gradita; se non che . . . servizio per servizio, anch'io potevo
fargli cosa gradita e toglierlo da un imbarazzo. S'era impegnato
con i preti d'un paese vicino, per certa festa da celebrarsi fra un
paio di mesi, a recitare il panegirico del santo protettore. Aveva
gia raccolto le idee ; ma lui organista, lui sagrestano, tra il breviario
la messa e il coro, temeva con tante faccende, non aver tempo di
stenderlo. Lungo rigirio di frasi, la cui conclusione fu questa:
egli avrebbe aiutato me nella venatoria, io lui nelPoratoria, egli mi
avrebbe ottenuto il permesso, io gli avrei fatto il panegirico.
Li per li non mi parve vero, ma poi, riflettendoci, mi accorsi che
neirimbarazzo c'ero io. Un panegirico! non sapevo dove mettere le
mani, da che parte rifarmi e oramai indietreggiare non si poteva:
non c'erano piu di mezzo soltanto gli anthus arborei, ma Pamor pro-
prio e la parola data. Stavo cosi perplesso, quando eccoti Pamico
a crescere il prezzo della mediazione. Aveva incontrato molte diffi-
colta, fatte molte gite inutilmente, dovrebbe farne ancora molte,
perch.6 senza lungamente insistere non si riusciva a superare quelle
difficolta : perdita di tempo che lo accorava, in quanto che non aveva
saputo esimersi da un nuovo impegno : un sermone da recitare alle
monache d'un altro paese. Ho detto che la caccia era a quel tempo
per me una mania, mi par superfhio Paggiungere: purch<§ Paiuto
non mi mancasse, purche il permesso venisse farei anche il sermone.
i. La penera e costituita di laccioli fatti con crini di cavallo.
IO28 FERDINANDO MARTINI
Per fortuna nella villa di mio zio, rimanevano intatti da oltre un
secolo i libri di un antenato che fu parroco : ne scavai il Segneri e lo
Zappata, vi feci la conoscenza del Massillon e del Bourdaloue,1
scartabellai, compulsai, lessi attentamente; e quando, scorso un
mese o poco piu, il prete ambiziosetto mi porse la carta che mi
dava facolta di stendere le reti nel prato di Mideo, io gli consegnai
a mia volta il panegirico del Santo e il Sermone su la modestia per le
monache di Borgo a Buggiano.
E anch'io in un'afosa giornata di luglio, anch'io andai alia festa.
II panegirico, egregiamente con bella voce detto dal pergamo,
strapiacque. I notabili, usciti dalla chiesa e passeggiando su e giii
per Tunica strada del villaggio per far Fora dei fuochi artificial!,
sebbene cosi incompetenti in materia di sacra eloquenza come di
ortografia e scienze affini, non si stancavano di levare a cielo Pin-
gegno e la dottrina dell'oratore novizio. Quali speranze da quegli
esordi! L'esattore comunale era addirittura entusiasta: sfringuel-
lava: «magnifico, magnifico» e venutomi incontro, mi abbord6 con
un : « dica lei, dica lei, se non e veramente magnifico ».
Io che, quantunque sotto mentite spoglie, mi sentivo trattenuto
dai pudori della paternita, — Si, si, — risposi— ma non bisogna poi
esagerare ... — L'esattore mi dette un'occhiata a stracciasacco2 che
voile significare e significb: ecco Tinvidia!
Torniamo al salotto.
II rivederlo con gli occhi della memoria mi riconduce, col pen-
siero, fra molte ore liete che vi trascorsi, ad alcune duramente pe-
nose; alia prima punizione avuta in iscuola, della quale molto mi
afflissi e adirai perche era la prima e perche" mi parve e poteva pa-
rermi ingiusta sebbene non fosse.
Vi restavamo ogni giorno una o due ore del dopo pranzo (si
pranzava, a quel tempo in Toscana, alle sei d'inverno e alle quat-
tro d'estate). Una sera alcuni amici di famiglia erano venuti a pren-
dervi il caffe, quando, accompagnato dal servitore, entr6 nella
i. Paolo Segneri (1624-1694), gesuita, celebre predicatore, di cui sono fa-
mose le trentotto orazioni sacre del Quaresimale (1679); Francesco Zap
pata (1609-1672), predicatore fiorentino; J. B. Massillon (1663-1742) fu
vescovo di Clermont; il gesuita Louis Bourdaloue (1632-1704), grande
predicatore, abile dialettico. 2. a stracciasacco: di sbieco, biecamente.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) IO29
stanza un uomo di mezza eta in abito piuttosto dimesso e che avevo
veduto altre volte perche abitava nella Via Nuova, oggi de' Maga-
lotti, in una casa rimpetto alia nostra e la fmestra della mia camera
dava appunto su quella via.
Veniva a chiedere non so piu quale favore a mio padre e intan-
to gli offriva un nuovo volume delle proprie poesie.
Mio padre che lo conosceva da un pezzo lo accolse festevolmente
e lo present6 : — II signor Gaspero Gozzi, poeta improvvisatore — :
quel volume conteneva le poesie da lui improwisate in Accademie
e sui teatri della Toscana. lo che non sapevo ancora che cosa fosse
un endecasillabo, fui subito preso da ammirazione per il felice
uomo che scombiccherava versi a quel modo : ammirazione che si
fece piu viva quando lo vidi alia prova.
Lo pregarono di improwisare un sonetto con rime obbligate.
Consent! : dettarono chi una rima, chi un'altra. Invitato a sedersi a
scrivere se volesse, ricus6 ; e dritto con in mano la carta ov'erano
segnate le rime, sciorin6 il sonetto in minor tempo di quanto im-
piego io a raccontarlo. Per lui, esercitazione consueta, per gli altri
ascoltatori nulla di straordinario ; per me meraviglia e portento.
Qualche anno dopo una bella mattina il prete Chiti, maestro di
grammatica e di umanita nell'Istituto Rellini (la grammatica e la
umanita corrispondevano al nostro corso ginnasiale) il prete Chiti
ci detto un sermone da impararsi a memoria. — £ — disse — di
Gaspare Gozzi.1 — Io, orgogliosetto della quasi familiarita con un
grand'uomo, sussurrai al compagno che mi stava vicino : — I/ho
conosciuto bene io, il signor Gozzi.
II Chiti udi e domandc-:
— Che cosa ha detto ?
Io. - Che il signor Gozzi Fho conosciuto bene.
Lui (con una scrollata di spalle). - Non dica sciocchezze.
Io (punto). - Eh! io Tho conosciuto.
Lui (alzando la voce e accigliato). - Le ripeto di non dire scioc
chezze; Gaspare Gozzi e morto da mezzo secolo.
Io (convinto che di Gaspare Gozzi poeti non ce ne potesse es-
sere al mondo che uno). - Ma se venne tempo fa in casa mia.
Lui (incollerito, battendo col pugno sulla cattedra).-Puntiglioso
i. Gaspare Gozzi (1713-1786), autore, fra Taltro, di diciotto Sermoni in
endecasillabi sciolti.
1030 FERDINANDO MARTINI
e sfacciato ! Esca dalla scuola e copi per domattina due volte la tal
favola di Fedro. Esca e si vergogni!
Uscii beffato dai condiscepoli, i quali credendo cocciuta asinita
quella mia, con lo scotere della testa o con cenni o con smorfie,
tutti mi davano, in silenzio, deirimbecille. Uscii e piansi e sin-
ghiozzai di dolore e di stizza.
II Gozzi era forse ancora li vivo e verde e abitante in Via Nuova.
Dunque ? Dunque il maestro aveva detto uno sproposito e piutto-
sto che confessarlo, si accaniva contro di me che lo correggevo.
Ah! che affizione e che rabbia!
Mio padre, pur rimproverandomi il tu per tu col maestro, mi
spiego come qualmente maestro e scolaro avessimo ragione ambe-
due : e dandomi quel tal volume di poesie da mostrarsi la mattina
dipoi, mi porse mo do di giustificarmi.
Lo mostrai; il Chiti guard6 il frontespizio e con un «Questo
non so chi sia» mi conged6.
Poiche" la punizione non poteva oramai revocarsi, una parola
buona non sarebbe stata di troppo; non la disse probabilmente
perche non ne fosse offeso il solito (cprestigio deH'autorita » il quale,
come e noto, esige che i superiori abbiano ragione sempre, e segna-
tamente quando hanno torto.
Ma se mantenne Fautorita sotto un aspetto, meco ne scapit6
sotto un altro; io durai lungamente a pensare: come s'impanca
costui a insegnare letteratura, quando ignora perfino il nome di un
poeta che schicchera sonetti senza mettersi neanche a sedere?
GENTE ILLUSTRE1
Io soprawivo ad un mondo scomparso; e ove mi awenga di do-
mandare ad alcuno : — Ve ne ricordate ? — mi guardano attoniti e
mi rispondono : — Come e egli possibile che io me ne ricordi ? —
Queste parole di Massimo Du Camp2 narrante episodi della sua
adolescenza mi tornano a mente nel rimuginare fra le memorie
delFadolescenza mia; eventi solenni, innovazioni meravigliose
hanno mutato la faccia del mondo, e que' tempi appaiono lontani
i. Ed. cit., cap. in, pp. 33-45. 2. Massimo Du Camp (1822-1894), gior-
nalista e volontario dei Mille. Di lui ebbero molta fama specialmente i
Souvenirs litteraires e Les convulsions de Paris.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1031
piu di quanto sieno in realta; veramente remoti nel senso etimolo-
gico della parola. Se ripenso di avere udito nel giugno del '48 il
Gioberti da un terrazzino delle Isole britanniche1 ringraziare i fio-
rentini delle festose accoglienze; nel marzo del '49 Gustavo Mo-
dena2 dalla loggia dell'Orcagna incitarli alia ribellione: se ripenso
d'aver veduto di li a un mese in quella istessa Piazza del popolo
tornata Piazza del Granduca per diventare Piazza della Signoria
dieci anni dopo, accamparsi gli Usseri austriaci, allora allora en-
trati nella citta per la porta San Gallo; se nnalmente ricordo di
aver conosciuto il Muzzi, il Giusti, il Guadagnoli,3 il Rossini
mi par d'essere piu vecchio d'un patriarca.
Luigi Muzzi! chi, se non qualche studioso, ha in mente oggi
questo nome ? Abitava al primo piano di una casa in via Santa Re-
parata; un amico di mio padre che abitava al piano superiore voile
condurmi da lui, avvertendomi che si trattava — nientemeno - che
di fare la conoscenza del Principe deW epigrafia. Con quanta tre-
pida reverenza me gli accostai! e si che il brav'uomo non aveva nulla
di regale nelPaspetto e neirabbigliamento ; quasi ottantenne, pic
colo asciutto sdentato; avvolto in una veste da camera spelac-
chiata, le parole gli uscivano dalle labbra accompagnate da un
sibilo, accompagnato a sua volta da spruzzi che schizzavano ad
aspergere il viso dell'ascoltatore vicino. Ma era il Principe delVepi-
grafia e quel titolo, appunto per che non bene ne comprendevo il
significato, mi ispirava una timida, quasi paurosa venerazione.
Perch6 era di ottimo animo prese a benvolermi; ma conviene
credere che alia bont& delP animo fosse pari in lui la vanita, se per-
deva il tempo nello esporre a un bamberottolo di dieci o undici
i. il Gioberti . . . britanniche: vedi la nota lap. 1018. 2. Gustavo Modena:
vedi la nota 3 a p. 292. II Modena, dapprima vicino al Guerrazzi, se ne
allontan6 poi vedendolo awerso alia fusione della Toscana con la Re-
pubblica romana (vedi la nota 2 a p. 1018). 3. Luigi Muzzi> di Prato,
morto a Firenze nel 1865, si occup6 di problemi della lingua con poco co-
strutto, ma ebbe fama per le sue numerosissime epigrafi. Vedi G. MAZ-
ZONI, L'Ottocento, Milano, F. Vallardi, 1934, pp. 497-8; Antonio Gua
dagnoli (1798-1858), di Arezzo, della quale citta fu a lungo gonfaloniere.
Fu autore di molte poesie burlesche, che risentono del Pananti e prelu-
dono al maggiore Giusti. Ebbe accusa di reazionario: e 1'episodio narrato
piu avanti a p. 1038 par confermare 1* accusa.
1032 FERDINANDO MARTINI
anni i propri meriti e nel vantargli il proprio imprescrittibile di-
ritto alia gloria.
Raccontava: era state amico del Muxtoxidi, del Pindemonte,
del Foscolo e di Matilde Bonaparte Demidoff,1 cui, anzi, intito!6
un suo libro; (e io naturalmente a domandargli chi fossero il
Muxtoxidi, il Pindemonte, il Foscolo e Matilde Bonaparte De
midoff, de* quali sino allora nulla sapevo). Aveva composto oltre
mille epigrafi; e mi regalava la Decima centuria che ancora conserve,
scrivendo sul frontespizio il suo nome e il mio. Vanamente il
signor Pietro Giordani2 os6 contendergli il primato (e io : — chi e,
scusi, ilsignor Giordani?): nella concisione, neirarmonia, nell'ele-
ganza della forma epigrafica nessuno Io vinceva. Per certi mura-
glioni costruiti a Venezia il Morcelli3 (e io : — chi e, scusi, il Mor-
celli?) dett6 questa iscrizione: ausu romano aere veneto* la quale
dissero per la concettosa brevita insuperabile.
— Ma il Muzzi, sai ? — soggiungeva fissandomi con gli occhi
fattisi a un tratto raggiosi — ma il Muzzi la super6 : Romana-
mente i Veneti: il Morcelli quattro parole, il Muzzi tre.
E seguitava dolendosi degli invidiosi che tentavano menomare la
sua fama: ma v'era chi tenevalo in pregio altamente. II Guerrazzi
delle sue epigrafi ne sapeva a mente diecine; e quando egli, il
Muzzi, nel '49 nominate dal Governo prowisorio ministro di
Toscana a Costantinopoli, fu a ringraziarlo, il Guerrazzi gli and6
incontro ripetendogliene una: Cristina Sveca5 - piu gloriosa - per
la rinunda al trono - che tanti con Vusurparlo.
Quei colloqui, o piuttosto quei monologhi, sarebbero durati ore
e ore se non veniva ad interromperli una massiccia giovinotta guer-
cia da un occhio, che irrompeva nella stanza e in tono di serva
padrona ammoniva:
i. Andrea Mustoxidi (1785-1860), filologo e storico di Corcira, fu amico
del Monti, che aiut6 nella traduzione dell'J/zVufe, e s'invaghl di sua figlia
Costanza; Matilde Bonaparte, figlia di Girolamo, gia re di Vestfalia e
fratello di Napoleone I, aveva sposato (1841) il principe russo Anatolio
Demidoff (vedi la nota 3 a p. 1063). Mori nel 1904. 2. Pietro Giordani: vedi
la nota 4 a p. 901. 3. Stefano Antonio Morcelli (1737-1821), di Chiari,
celebre epigrafista ed archeologo. 4. ausu . . . veneto : « con romano ardi-
mento, a spese dei Veneti ». 5. Cristina Sveca: Cristina di Svezia (1626-
1689), figlia di Gustavo Adolfo e a lui succeduta sul trono, pass6 nel 1654
dal protestantesimo al cattolicesimo e abdic6 in favore del cugino Carlo
Gustavo, che fu Carlo X. Visse a Roma, dal 1655, e vi fondd P Arcadia.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1033
— La faccia finita con coteste chiacchiere, che a moment! e Fora
del desinare.
Fra Paltro il Muzzi meditava una riforma deH'ortografia e me ne
dimostrava con lunghe argomentazioni Fopportunita. Di tutti quei
ragionamenti questo solo ricordo: che cuore dovevasi scrivere non
col c ma col q. Non e meraviglia che me ne ricordi ; per farmi bello
di quella nuova erudizione, ficcai subito nel primo compito il cuore
e lo scrissi con la nuova grafia. Non Tavessi mai fatto! II prete
Chiti, maestro di grammatica, mi fece una ripassata numero uno
e mi svergogn6 innanzi ai condiscepoli, minacciando di rimettermi
a scrivere sotto dettatura. Mi provai a citare Pautorita del Muzzi,
ma a nulla valse.
— Che Muzzi e non Muzzi! Cuore s'e sempre scritto col c e
lei deve scriverlo col c; e perche s'awezzi a non scriverlo col q, fara
grazia di copiare le prime quaranta ottave della Gerusalemme. — Uri
terribile misoneista quel Chiti!
Copiai; tutto il male non viene per nuocere: da quel giorno il
buon principe delPepigrafia pot<§, nella mia memoria, imbrancarsi
fra altri principi: i Boemondi, i Guelfi, i Balduini e quanti ebbero
nel pensiero ,,.
r ultimo segno
espugnar di Sion le nobil mura.1
Reverenza maggiore avrebbe dovuto ispirarmi il Giusti quando,
e un'unica volta, lo vidi, ma non fu cosi. Aveva pubblicato allora al-
lora il Congresso dei Birri2 e in casa ne sentivo spesso recitare degli
squarci: non capivo nulla, s'intende, ma m'ero convinto che quella
per consenso di tutti era una bella cosa, e che Faveva fatta un poeta
co' fiocchi. Smaniavo di vederlo, quand'eccoti una bella sera ca
pita tutto frettoloso nello studio di mio padre; m'aspettavo dicesse
Dio sa che; domand6 (mi suona ancora la voce negli orecchi):
— A pranzo in casa Gerini ci si va con la cravatta bianca o con
la cravatta nera?— Bianca— gli risposero: e allora, appoggiato al
caminetto, cominci6 a tirarsi i baffi verso il labbro inferiore, bor-
bott6 due o tre volte quasi piagnucolando : — O Santo Iddio, o Dio
Santo, la cravatta bianca! — poi ammutoli, e di li a cinque minuti
se n'and6 frettoloso com' era venuto.
i. Tasso, Ger. lib., I, 33; segno: meta. 2. Congresso dei Birri: ditirambo
che risale al 1847.
1034 FERDINANDO MARTINI
Non me ne seppi dar pace ; che un celebre poeta discorresse cosi
poco e dicesse quel che avrei potuto dire anch'io se fossi perve-
mito alPeta della cravatta bianca, non mi ci entrava: e fu impres-
sione cosi viva e durevole quella, che in me, il quale da giovanotto,
a ragione o a torto, amai certi poeti, il Grossi1 per esempio, come si
ama una bella ragazza, le simpatie per il Giusti non si destarono
se non tardi; non potevo prendere in mano il volume de' suoi versi,
senza riveder hii a quel caminetto tirarsi muto i mustacchi, ne gli
sapevo perdonare quella mia delusione infantile.
Mi sbalordi invece di primo acchito e crebbe in seguito nella
mia piu consapevole ammirazione Vincenzo Salvagnoli,2 che mi
parve ingegno veramente portentoso. Non alto, grasso, con un
ciuffo gia grigio a quel tempo, specie di voluta che saliva dalla tem-
pia sinistra verso la destra a deporvi il proprio scartoccio, occhi
grandi fulgidi schizzanti dall'orbita, fu uno de' principi del f6ro
toscano ; parlatore possente, primeggi6 nel Parlamento toscano, e in
qualsiasi parlamento sarebbe stato o il piu valente difensore o il
piu temuto awersario di un ministero.
Lo udii la prima volta una sera in casa mia sostenere per burla
e con grave scandalo di un prete di Valdinievole che lo pigliava sul
serio, questa tesi: che il rubare i libri era non pur lecito, ma com-
mendevole: e fu tale il rapido abbondante fluire delle parole, tale
il lusso delle citazioni latine, italiane, francesi che mi intonti:
e non me solamente.
Aveva la innocua mania di spacciarsi forte bevitore e mangiatore
pantagruelico, si vantava di stravizi vitelliani;3 alia prova rosicchia-
va un'ala di polio e bagnava a mala pena le labbra in un bicchiere
di vino.
Verrd, verrd domani, verrd alle quattro in punto
e scenderd sul campo, appena sard giunto.
Non un invito a pranzo, una sfida ricevo:
ebben, dird con Cesar e: vengo, m'assido e bevo*
i. Tommaso Grossi (1791-1853), autore, fra Faltro, della novella Ildegonda
(1820) e del poema in ottave / Lombardi allaprima Crociata (1826). 2. Vin
cenzo Salvagnoli'. vedi la nota 2 a p. 414. 3. mangiatore . . . vitelliani:
Pantagruel e Tinsaziabile, gigantesco protagonista dell'opera omonima del
Rabelais; Vitellio fu imperatore nel 69 d. C., famoso per la sua voracita.
4. con Cesare . . . bevo : il motto di Giulio Cesare, qui parodiato, e il « veni,
vidi, vici».
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1035
Chi e, chi e che ardisca di far si emulo mio?
Venga domani a tavola, egli e gia vinto. Addio.
Con quest! versi, rispondeva a mio padre; paiono uno scherzo
ma furono scritti sul serio, che a furia di raccontarle s'era fatto
persuaso di quelle prodezze. A pranzo da noi veniva di quando in
quando ; se anche gli offrissero venti qualita di vino, non diceva mai
di no ; schierava in belPordine i bicchierini innanzi a se e si alzava
da tavola senza averli assaggiati, ma figurandosi e glorificandosi di
averli sgocciolati tutti quanti.
Tanto di guadagnato per i commensali; che non mangiando ne
bevendo, parlava; e come eloquente nel f6ro, era nelle conversa
zioni piacevole oltre ogni dire. Recitava epigrammi suoi (alcuni
sono tuttavia noti comunemente), raccontava aneddoti gustosis-
simi, uno ne ricordo ancora. Aveva molti anni prima scritta un'epi-
grafe, da apporsi sulla tomba di una Capponi, se non erro, e vi si
lamentava la morte immatura di quella gentile ; poiche per le epi-
grafi funerarie dovevasi ottenere 1' appro vazione del censore, questi
la neg6 ; gentile aveva tra i suoi significati anche quello di pagana
e non poteva permettersi che alcuno pensasse deposte in un cimi-
tero cattolico le ceneri di una non battezzata. Bisogn6 appellarsi al
Rosini1 professore di letteratura nelPUniversita di Pisa, e ricorrere
con istanze a Don Neri Corsini2 ministro di Stato. Di quella bestiale
inibizione argutamente narrata risero tutti e piu avrebbero riso,
s'io non ero presente. Raccontava, tra Faltro, il Salvagnoli, di
un colloquio col censore, nel quale avevagli dimostrato in quanti
modi possa essere gentile una donna; ma quel dialogo, soggiungeva
ammiccando a mio padre, lo lasceremo nella penna. Allora non capii,
ho capito piu tardi che il dialogo non era roba da ragazzi e volevansi
rispettare le mie ancora candide orecchie.
Altre volte, il Salvagnoli mi parve - e mi par tuttavia - addirit-
tura sbalorditoio. Una sera si trattava di confutare il Gioberti;
il solito prete, prete colto badiamo, non uno scagnozzo qualsiasi,
esaltava le dottrine del Primato\ s'era, se non sbaglio, nel '51, i
tedeschi (come allora si diceva) montavano la guardia a palazzo Pitti
e il Salvagnoli aveva da due anni espresso nell'albo di Eleonora
i. Giovanni Rosini (1776-1855), di Lucignano in Val di Chiana, insegn6
«eloquenza italiana» a Pisa dal 1804. Fu anche romanziere, ed e assai nota,
fra le sue opere, La monaca di Monza. 2. Neri Corsini'. vedi la nota i a
p. 169.
1036 FERDINANDO MARTINI
dej Pazzi il vaticinio famoso: «0ggi 10 maggio 1849 le milizie au-
striache entrano a Firenze : fra dieci anni il figlio di Carlo Alberto
sara re d'ltalia)); per difendere il Primato era un po' tardi,1 ma il
prete ci si ostinava a tutt'uomo. L'altro lo stette a sentire, poi af-
ferm6 d'aver appunto in que' giorni condotto a termine'im'opera in
confutazione delle teorie giobertiane ; e li in quattro e quattr'otto
espose la divisione del volume in libri e capitoli, di ogni capitolo di-
cendo con chiara parola, con limpido ordine, con minuta diligenza il
contenuto. Quanti ascoltarono, crederono che dawero avesse com-
piuto quel lavoro e fosse in procinto di darlo alia stampa; due giorni
dopo, quando un amico gliene ripar!6, s'era gia scordato non sola-
mente del libro cui non aveva pensato mai, ma persino della contro-
versia col prete di Valdinievole.
Subito che lo seppi, sebbene ragazzo, credei di trasecolare; tanto
mi aveva lasciato freddo il Giusti e tanto mi infiammai di entusiasmo
per il Salvagnoli; mi pareva che dopo Dante venisse subito lui e
Dante lo mettevo prima soltanto per un certo riguardo all'anti-
chita; che" il Salvagnoli mi divertiva e rAlighieri, del quale m'ave-
vano letto a scuola qualche terzina (perdono o gran padre!), mi
seccava a quel tempo come non si pu6 dire.
Piu innanzi con gli anni lo vidi, il Salvagnoli, arrischiarsi in prova
anche piu ardua. Lo aveva per vizio : gli parlavano di diritto, stava
scrivendo un trattato cosi e cosi; di storia, giusto si occupava di
quel tale argomento, da svolgersi in quel dato modo: e giu un
flume di parole e di dottrina. Parlavano al solito in casa nostra di
commedie, e lui subito: «ne ho scritta una anch'io, UInvidiay>. Ri-
cordo che c'erano delle inverosimiglianze tali da dar nelPocchio
anche a me: ma intanto egli espose tutta quanta la tela, deline6
i caratteri, li condusse logicamente al lor fine, e sciolse Pintreccio :
non ne sapeva una parola cinque minuti avanti, cinque minuti
dopo non si ricordava neanche, cred'io, il titolo inventato li per li
come il resto.
i. un po' tardi: il Primato morale e civile degli Italiani rifletteva, nel 1851,
una atmosfera e situazione storica ormai sorpassate, per confessione del-
Tautore medesimo che scrisse, dopo la delusione quarantottesca, il Rinno-
vamento.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1037
Altro oggetto della mia fanciullesca ammirazione, il Guadagnoli;
sebbene per colpa sua mi toccasse lasciare in tronco un diverti
mento lungamente desiderate.
Nel '52 o '53 si rappresent6 per la prima volta a Firenze il
Profeta del Meyerbeer.1 Com'e noto, sul finire del terzo atto,
quando Giovanni di Leida2 e i suoi anabattisti intonando Pinno
trionfale si preparano alia battaglia, le nebbie si diradano e si leva
il sole.
Lo ministro maggior della natural
sorgente dietro al fondale a illuminare sul palcoscenico della Per
gola4 i dipinti baluardi di Miinster, era per la Toscana granducale
cosi inusitato e mirabile spettacolo che non solo i Fiorentini, ma
gente venuta da ogni parte della provincia gremiva il teatro. Quel
sole creato dal professore Corridi direttore dell'Istituto tecnico
(le prime sere la creazione and6 male e i fredduristi dicevano:
ridi, ridi ma di cor ridi) quel sole mandava in visibilio gli spettatori.
Tali portenti fu promesso che sarebbe anche a me conceduto una
sera o Paltra ammirarli; e poiche forse mio padre non poteva ac-
compagnarmi alia Pergola e mia madre non andava al teatro che
raramente e di mala voglia, fu pregato un amico di accompagnarmici
lui. Di questo amico avr6 piu volte occasione a parlare ; e per6 sara
bene ch'io lo presenti fin d'ora.
Cesare Tellini di Pian Castagnaio5 era un mazziniano sfegatato :
nel 1849 oratore di circoli, succed6 a Celestino Bianchi6 nel «Na-
i. Giacomo Meyerbeer (1791-1864), tedesco di nascita, francese di ele-
zione, musicista allora assai stimato (Roberto il diavolo, V Africana; II
Profeta, ecc.). 2. Giovanni di Leida: Giovanni Bockelson, capo degli
anabattisti, fatto prigioniero a Monster e sottoposto ad orfibile supplizio
(1536). 6 protagonista delPopera // Profeta. 3. Dante, Par., x, 28.
4. Pergola: vedi la nota 2 a p. 454. 5. Cesare Tellini di Pian Castagnaio
firm6 il «Nazionale», ma il direttore vero fu Celestino Bianchi. II «Nazio-
nale» si pubblic6 dal i° dicembre 1848. Venuti a Firenze gli Austriaci, il
Tellini fu fatto arrestare (n maggio 1849) dal generale D'Aspre, ma, rila-
sciato, esu!6 a Marsiglia, donde torn6 per 1'amnistia del 23 novembre 1849.
II giornale «// Genio* ebbe carattere letterario; «LaLente», che il Tellini
diresse con Bartolomeo Fiani, fu un foglio umoristico e dur6 fino al 1859.
Tra i lavori teatrali del Tellini si ricordino / ire anniversari e Ippolito De
Bocarme. Dopo il 1859 ebbe un impiego nella prefettura, e mori archivista
in Lucca. Vedi F. MARTINI, II Quarantotto in Toscana, cit, pp. 450-1
e le note relative. 6. Celestino Bianchi (1817-1885), di Marradi, pubblici-
sta, collabor6 a «La Patria», al «Nazionale», fondo la «Biblioteca civile
deU'italiano)). Vedi anche la nota 9 a p. 436. Dal 1872 diresse il quotidiano
« La Nazione » di Firenze.
1038 FERDINANDO MARTINI
zionale» che sotto la sua direzione fu il portavoce del democratici
piu accesi. Ristaurata la dinastia granducale ed entrati gli Austriaci
in Toscana stim6 prudente riparare a Marsiglia; ma sia che gli
atti suoi non meritassero car cere o esilio, sia che profittasse del-
ramnistia, fatto sta che pote tornare a Firenze e dirigervi col Bian-
chi un giornale letterario « II Genio » il quale ebbe redattori molti
ed illustri, lettori pochi, la piu parte gratuiti e poco dur6. Costretto
a campare la onesta vita altrimenti, s'arrabatto nel fare un po' di
tutto : tra Taltro commedie e drammi poco meditati, poco pagati,
presto dimenticati. Da ultimo, fondc- un giornale «La Lente» di
cui ci sara tempo a discorrere. Era, come ho detto, amico di fami-
glia e poiche ebbe messo su una tipografia, mio padre per aiutarlo
gli rega!6 il manoscritto di alcune fra le proprie commedie ed egli
le pubblic6 raccolte in un volume che ebbe, segnatamente in
Toscana, spaccio fortunatissimo.
Fu, come ho detto, pregato di menarmi lui a vedere il sole alia
Pergola. Stavamo in platea aspettando che 1'opera incominciasse,
quando, data intorno un'occhiata, — Guarda lassu — mi disse — al
quart'ordine. Lo vedi quel vecchietto ? £ il Guadagnoli.
I suoi versi non li avevo letti, ma sentivo di continue in citta i
venditori ambulanti off r ire a gran voce il Lunario del Baccelli con
le sestine del Guadagnoli; e in quel no me vociato per le strade e per
le piazze, consisteva, secondo il mio piccolo cervello la gloria, anzi
quanto della gloria e piu desiderabile. Saputo che il Tellini lo
conosceva, non lo lasciai piu benavere : lo facesse conoscere anche
a me; e tanto implorai che nelFintervallo fra il secondo e il terzo
atto mi ci condusse.
II poeta m'accarezz6, mi domand6 dove e che cosa studiassi, io
risposi balbettando qualche parola, poi i due presero a parlare fra
di loro. Sulle prime la cosa and6 liscia; ma s'ingarbuglio maledetta-
mente quando il Guadagnoli non so a che proposito usci a felicitarsi
delle condizioni della Toscana tornata in quiete dopo le convul-
sioni del '48. II vecchio liberale fra meravigliato e stizzito si ac-
calorava nel ribattere, il poeta si ostinava con pacatezza nel con-
fermare il gia detto: da ultimo Puno sussurrc- irosamente:
— Ma ci sono i tedeschi, perdio!
El'altro:
— Si ma i galantuommi possono finalmente godere di un po' di
pace.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1039
II Tellini non replied : presomi per un braccio mi scaravent6 fuori
del palco, sbatacchi6 la porta e invece di tornare in platea, muto e
fremente mi trascino seco nella strada piu che di passo e mi ri-
condusse a casa. Cosi mentre il sole agognato sorgeva sul palco
scenico della Pergola, io per le buie vie di Firenze trattenevo a
stento le lacrime. Chi pu6 dire oggi che cosa allora pensassi ? pro-
babilmente che, avesse pur torto il Guadagnoli, qualche cosa biso-
gnava pur perdonare a un poeta il cui nome suonava sulle labbra di
tutti i venditori ambulanti.
Ma dove lascio il Rossini che fu mio maestro di musica? Non
ridete che c'e poco da ridere : fu mio maestro di musica.
Veniva in casa spesso, tra Jl 1846 e il 1847. S'era messo in capo di
scrivere insieme con mio padre (ho documenti che lo attestano)
una commedia : // banchiere e il giornalista, e di porre in scena due
personaggi in Toscana notissimi. Se ne and6 poi e la commedia
rimase alle prime scene.
Lo ritrovai quattro o cinque anni dopo alle mattinate di Monsi-
gnor Ferdinando Minucci arcivescovo di Firenze e lontano parente
della mia famiglia. Monsignore era della musica appassionatissimo
e nell'arcivescovado capitavano quanti rinomati tenori o baritoni
passavano via via da Firenze. La domenica da mezzogiorno al tocco
si cantava: ci sentii rivanoff,1 ci sentii un terzetto (se non sbaglio
doll'Italiana in Algeri) cantato dal Donzelli2 che aveva piu di ses-
santa anni e una voce freschissima, da Monsignore e dal Rossini
stesso, il quale per giunta accompagnava al pianoforte.
Mi ricordo che una di quelle domeniche, proprio sul piu bello
delPaccademia, entro ratto e affannato un canonico Landi e ad alta
voce, interrompendo non so quale duetto buffo, annunzi6 la morte
di Silvio Pellico.3 Monsignore si alz6 e prese a enumerare con ac-
cento di grave rammarico i meriti delPestinto. II panegirico andava
per le lunghe e il Rossini che non s'era mosso dal pianoforte, forse
seccato, comincio a improwisare li per li una marcia funebre.
Non so se fosse una bella cosa; so che tutti si afTollarono intorno al
i. Ivanoff: tenore allora molto celebrate. 2. Domenico Donzelli (1*790-
1873), di Bergamo, celebre tenore che trionfd in tutta TEuropa e per il quale
scrissero, tra gli altri, Bellini, Rossini, Donizetti. 3. Silvio Pellico morl
il 31 gennaio 1854.
1040 FERDINANDO MARTINI
maestro, che Tarcivescovo segn6 le battute con un dondolio della
testa e del povero Pellico nessuno ne par!6 piu.
Poco innanzi quel tempo mi menarono a far visita alia signora
Rossini, Olimpia Pellissier,1 seconda rnoglie del Maestro, di mera-
vigliosa bellezza trent'anni prima, quando il Vernet2 la ritrasse nella
Giuditta del Museo di Versailles.
C'erano il Maestro, tre o quattro amici suoi e un cane barbone;
un cane intignato, schifoso, pestilenziale, delizia e cura della pa-
drona di casa; gli avrebbe sacrificato la fama del marito senza nean-
che pensarci. Quella bestiaccia puzzolente e strinata si strascicava
dai ginocchi di questo ai ginocchi di quello ; e questi e quegli con
sguardi saettanti Podio e invocanti Faccalappiatore municipale,
ma con garbo carezzevole affinchd la signora non si adirasse, se lo
levavano d'attorno passandoselo Fun Taltro, per modo che la pena
dell'averla addosso fosse, cosi com' era profonda, anche breve e
comune.
Alia fine la fetida carcassa arriv6 fino a me ; ero accanto alia signo
ra, non potevo naturalmente dirle : se lo pigli lei. Non ebbi il co-
raggio di rimetterlo in terra affinche rifacesse il giro ; mi si accocco!6
in grembo sbadigliando per la beatitudine dell'insperato riposo e ci
s'addorment6! Chi pu6 descrivere la tenerezza delle occhiate amo-
rose che mi Ianci6 la signora Rossini ? S'io non avevo dodici anni
e lei sessanta a un bel circa, chi sa come sarebbe andata a finire.
Vero e che non me ne toccava piu di mezza per volta; comincia-
vano da me e finivano sul can barbone. E dopo le occhiate, gli
elogi della mia compostezza (sfido a muoversi), del mio ingegno,
della mia statura; non fu cosa che in me non lodasse.
— Tu en dois faire un mudden — disse volta al Maestro che non
rispose ; ma lei tre o quattro volte ripete" lo stesso invito con la f rase
medesima, sempre interrompendo i discorsi ch'ei faceva con al-
cuno degli ospiti. Per chetarla (mi accorsi benissimo che di sentirmi
cantare il Rossini non aveva nessun desiderio) si alz6 e mi chiam6
al pianoforte. Una voce intima mi diceva che non mi sarei fatto
onore, nondimeno fui lietissimo di quella chiamata che mi libe-
i. Olimpia Pelissier, che aveva curato il Rossini a Parigi durante una sua
malattia (1832), visse poi sempre con lui, gia separate dalla prima moglie,
Isabella Colbran. Morta la Colbran, il Rossini spos6 (1846) la Pelissier.
La grafia del Martini e probabilmente mero errore tipografico. 2. Ho
race Vernet (1789-1863), pittore soprattutto di battaglie e ritratti «eroici».
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1041
rava dal miasma, il quale se fosse durato mi avrebbe ucciso nel fiore
dell'eta.
Consegnai alia signora il dolce pegno; lei se lo riprese, se lo
accarezzo, gli chiese scusa di averlo svegliato, e forse si rimprover6
in cuor suo di non aver preveduto che per creare Tartista bisognava
disturbare il barbone.
Rossini canticchio un motive, una melopea, della quale non mi
ricordo, e se anche me ne ricordassi sarebbe tutt'una. Mi ricordo
bensi le parole:
Fra Martino campanaro
suona bene le campane
Din, don, don.
Rossini seduto indicava le note sul pianoforte, io dietro, dietro.
Mi ci provai piu volte ; sentivo (per esser chiari : avevo il sentimento)
che non s'andava bene e mi vergognavo e maledicevo il cane, ca-
gione dell'infausta prova; guai se lo avessi avuto fra le mani o fra
le ginocchia in quel punto. Ogni tanto il maestro smetteva di toe-
care i tasti e mi guardava di sbieco stringendo le labbra: alia fine
s'impazienti: do, do, do, e picchiava sul tasto e pareva volesse dire:
Ci vuol tanto ? Proviamo piu basso ; e io una nota diversa, anzi una
nota, credo, non inventata da Guido Monaco.1 Proviamo piu
alto: mi usci di gola tale un grido squarciato, come di pappagallo
in furia, che il Rossini si tur6 con le mani gli orecchi, e alzandosi :
— Tusatt (ragazzo, in bolognese), — mi disse — spero che tu di-
venga un brav'uomo! ma una nota giusta non Pazzeccherai se tu
campassi cento anni.
Grande contrassegno del genio la divinazione!
[RICORDO DI BRACCIO BRACCI]*
Cappello di feltro nero dalle ampie rigide falde; giacchetta, pan-
ciotto, pantaloni neri ; il panciotto alto abbottonato sino alia gola,
sul quale e sin quasi alle spalle scendevano, lasciando libero il
i. Guido Monaco: Guido d'Arezzo (995-1050), monaco benedettino, cui si
debbono, tra 1'altro, la denominazione e Tindividuazione delle sette note
musicali. 2. Ed. cit., dal cap. iv (In Parnaso\ pp. 67-80. Braccio Bracci
(1830-1904), di Santa Croce sulPArno, fu letterato e poeta. Tra i suoi vo-
lumi di liriche e rimasto noto quello intitolato Fiori e spine (1856), perch6
diede origine alia polemica degli «Amici pedanti». Ricordiamo inoltre le
tragedie Isabella Orsini (1851) e Pier Luigi Farnese (1864).
66
1042 FERDINANDO MARTINI
collo, i larghissimi solini, onde uscivano svolazzanti sin verso le
ascelle, le piu ample cocche di una cravatta nera anch'essa, con ac-
curata trascuranza annodata. Questo, un de' tanti « modelli del ve-
stire all'italiana» proposti nel 1848 da chi aveva tempo da per-
dere, pareva a Braccio Bracci Funico abbigliamento decente per
colui che vivesse in familiarita con le Aonie sorelle.1 Con la voce
che aveva fortissima e da quella piazzetta di Orsanmichele2 giun-
geva fino a' Cerchi da un lato e a Calimala dalPaltro gridava: —
Livorno ha fmalmente il suo gran prosatore, il suo gran roman-
ziere : il Guerrazzi. Non avra dunque mai il suo poeta ? — E accalo-
randosi e battendo i pugni sul tavolino : — Dovra — soggiungeva —
contentarsi di far ridere il mondo con i versi di Amedeo Tosoni ?
Questo Tosoni era un povero diavolo andato in cerca di pane
(com'egli stesso narr6 nelle sgrammaticature dej suoi Quaran-
tun'anno di vita trascorsi) prima nel Brasile poi nelPAffrica setten-
trionale facendo il soldato, il coltivatore di caffe, il giovine di banco,
il cameriere, il corista e non so quale altro onesto mestiere. Ora
tornato in patria e «avendo per natura diritto alia sussistenza»
offriva «alla generosita dei concittadini, le proprie benche* tenui
composizioni ». I suoi versi eran passati in proverbio: e il buon
Antonio Calvi3 che nelPistituto Rellini tentava impennare le ali
ai miei estri stitici e pigri, piu d'una volta nel restituirmi la Can
zone alia Vergine o VOde alVusignolo aveva pronunziata questa
sentenza: aroba da Tosoni ». Piu che a' versi credo dovesse la gio-
conda nomea, se la frase m'e lecita, a una epigrafe che migliaia di
Toscani mezzo secolo fa sapevano a memoria. Nel 1853, inizian-
dosi, presente il Granduca, i lavori per Tingrandimento del porto di
Livorno, il Tosoni non toller6 mancasse alia solennita la sua «tenue
composizione ». Scrisse e stamp6 il suo bravo sonetto, e a mo' di
titolo vi prepose una epigrafe, la quale io trascrivo, non per dare
un saggio di quella letteratura, ma perch6 certe cose se non si aves-
sero sott'occhio non si crederebbero. Eccola:
« Nella occasione della ricorrenza del giorno della festa del getto
della pietra del molo del porto della citta di Livorno. Sonetto.»
II Bracci dunque ambiva ad esser lui (e se anche men grande
i. le Aonie sorelle: le Muse. 2. quella . . . Orsanmichele: i poeti della Firen-
ze del tempo si riunivano in una trattoria chiamata Alia Lira, che sorgeva
incontro al lato meridionale della chiesa di Orsanmichele. 3. Antonio
Calvi: insegnante di eloquenza nell'istituto Rellini.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1043
del romanziere e prosatore, pazienza) il poeta della citta marittima,
che poeti di grido non ebbe mai nel passato ; e scriveva liriche e tra-
gedie. Importa avvertire che in casa Bracci Melpomene non entro
la prima volta con lui; avanti ch'egli nascesse, fu gia in relazioni
con la famiglia. II padre, Giovanni, calzolaio di Castelfranco nel
Valdarno inferiore, aveva scritto e fatto rappresentare alia Quar
conia1 in Firenze un suo Conte Ugolino, tragedia in cinque atti ed
in versi.
La Quarconia era, su per giu nella Firenze del 1840 o in quel
torno, ci6 che fu a Parigi, ne? primi anni del secondo impero, il
Petit Lazari che Arturo Meyer2 ha or e poco descritto : un teatro
popolare dove per due crazie (quattordici centesimi) si trattenevano
gli spettatori dalle sette al tocco dopo la mezzanotte. In una mede-
sima sera tragedia, farsa, ballo, esercizi acrobatici, pantomima,
concerto di violino e giochi di bussolotti. L'intelletto usciva natu-
ralmente ben nutrito da cosi diverso e lungo spettacolo, ma affin-
ch6 lo stomaco non ne patisse altrettanto, si mangiava e beveva nei
palchi e nella platea con varieta di utili effetti; tra F altro, il pubblico
che recitava clamoroso la parte del coro antico, poteva, proweduto
com' era di vettovaglie, sostenere con 1'elargizione di arance belPe
sbucciate le forze deU'innocenza in pericolo e colpire con le scorze
il tiranno persecutore.
Attore acclamatissimo, un Ghirlanda vi recitava il Saul cosi:
BelValba & questa in sanguinoso ammanto.
(Punto fermo.)
Oggi non sorge il sole.
(Altro punto fermo.)
Ma le tragedie dell'Alfieri non tanto deliziavano, quanto quelle
del cavaliere Filippo Quaratesi,3 un altro Tosoni, salvo che prosun-
tuosissimo: tale da credersi e spacciarsi erede ed emulo dell'Asti-
giano. £ tuttavia famoso il suo Crispo nel quale non voile piti emu-
lare T Alfieri, ma correggere il Racine ; il Crispo ha infatti lo stesso
argomento della Fedra.
i . Quarconia : teatro popolare, che prese poi il nome di Leopoldo e, succes-
sivamente, quello di Nazionale. 2. Arturo Meyer, giornalista e scrittore
francese, fondatore, verso la fine del secondo Impero, del quotidiano « Le
Gaulois». 3. Di Filippo Quaratesi apparve nel 1823, a Firenze, unpoema
in diciannove canti, Le nozze di Admeto, giudicato da G. MAZZONI (L'Ot-
tocento, cit., p. 436) un «orrore».
1044 FERDINANDO MARTINI
L'ancella chiede alia regina straziata dall'intima fiamma:
Nomami Voggetto
per cui a guisa di cera al fuoco esposta
a colpo d'occhio struggere ti veggio.
Un personaggio si scusa dell'essere andato a letto anzi che ese-
guire un ordine impartitogli :
AL dover mio
mancai ieri, la causa anteponendo
mia personal di coricar mio fianco.
II padre al figlio incestuoso:
Tumulta sotto il bronzo un tal misfatto
e quanto aver pud relazione a questo.
In quel teatro innanzi a quel pubblico il buon « lavoratore della
scarpa» fece rappresentare il suo Conte Ugolino. Nella parte del
protagonista era un endecasillabo :
Ho fame, ho fame, ho fame, ho fame, ho fame
che 1'attore doveva pronunziare, facendo pausa fra 1'una e 1'altra
di quelle esclamazioni, dopo ogni pausa abbassando il tono della
voce; si che da ultimo il quasi estinguersi di quella annunziasse
imminente 1' estinguersi della vita. Gli uditori si sarebbero certa-
mente commossi a quella ognor piu fievole doglianza delle angosce
digiune, se (com'io seppi gia da chi fu presente alia recita) un
beirumore non avesse scagliato un semel1 ai piedi del Conte pi-
sano, gridando : — Piglia, mangia e chetati . . . — Quell' inopinato
soccorso mut6 la condizione delle cose e degli animi : entrato nella
mudcf di che cibarsi, non c'era piu da commoversi: la tragedia non
solo perdeva della sua terribilita, ma si chiudeva con lieto fine.
Difatti Anselmuccio e Gaddo prima estenuati e giacenti, si leva-
rono agili e vispi e il guelfo signore lieto di farla in barba all'arcive-
scovo Ruggeri, tirata una reverenza in segno di gratitudine, ordin6
si calasse il sipario.
Raccontano i cronisti che al pericoloso endecasillabo sostituita
una parafrasi delle terzine dantesche, la tragedia rappresentata a
i. semel: panino di fiore di farina lievitato con lievito di birra (dal tedesco
Semmel), -z.muda: cosl era chiamato un luogo chiuso dove si tenevano
gli uccelli a mudare, mutare le penne. Cfr. Dante, Inf., xxxm, 22.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1045
Livorno vi ottenne successo felicissimo : fece versare lacrime co-
piose durante quattro atti e le muto al quinto in singhiozzi; co-
munque sia di ci6, Tautore o pago di quella rivendicazione, o rin-
savito, tor no dal coturno allo stivaletto. Una cattiva tragedia non
guasta il galantuomo, e perche egli era tale, educato il figlio negli
studi che a lui facevano difetto, lo mand6 a Pisa per addottorarvisi
nel giure; e vi si addottor6 non so come: non so come, cioe, Brac-
cio fra la pubblicazione di due volumi di versi e di un dramma -
Isabella Orsini - trovasse il tempo di dare un'occhiata al codice e
alle pandette ; ma 1'ingegno talora supplisce a tutto ed egli aveva
ingegno davvero e fantasia ricca e vena abbondantissima e pranta:
pronta troppo e questo fu il danno. Non poteva stare senza far versi ;
fra le conversazioni piu animate o confuse si vedeva Braccio
astrarsi, borbottare pochi minuti e, giu, una, due, tre strofe facili
e sonore.
Ce n'era de' piu corti e de} piu lunghi,
ma i versi mi venivan come i funghi,1
diceva il Pananti di se ragazzo ; i versi del Bracci avevano tutti in-
vece la giusta misura, ma appunto perche venivano come i funghi
anche a lui, troppo spesso sapevano d'improvvisato, con tutti i di-
fetti deirimprowisazione; e tra concetti felici in eleganza di forme,
rime dozzinali e imagini strampalate.
Ne quel continuo grattar Varpa (che nel Parnaso d'allora era lo
strumento preferito) sarebbe stato gran male, se non lo avesse se-
guito la fregola impaziente del dare alle stampe. Chi abbia il co-
raggio di sfogliare i giornalucoli fiorentini del '57 vi leggera il nome
del Bracci fatto segno alle collere furibonde de' critici (la cui prosa
meritava collere furibonde ancor piu) a cagione di certo sonetto
improwisato da lui all'uscire dal teatro dove s'era infanatichito nel
veder ballare la Sofia Fuoco in una «azione coreografica » non ri-
cordo se del Viganb o del Cortesi :2 sonetto che nonostante il con-
siglio degli amici egli s'affrettb a pubblicare la mattina dipoi. Son
corsi piu che cinquant'anni ed io Pho a mente cosi come mi fu
detto da lui :
i. I versi appartengono al poema del Pananti II poeta di teatro (vedi pp.
4 sgg.). 2. Sofia Fuocoy celebratissima ballerina, trionfava allora soprat-
tutto nel ballo La figlia del bandito, che si rappresentava al teatro dei
Solleciti in Borgognissanti ; Salvatore Vigano e Antonio Cortesi furono
entrambi molto stimati coreografi: del primo ebbe accoglienze trionfali
// Prometeo, dato per la prima volta a Milano nel 1813.
1046 FERDINANDO MARTINI
Pria che in te m'incontrassi, angelo arcane,
il tumulto del balli ebbi a disdegno;
e piansi il lauro che sul crin profano
seppe alia Mima il mio sever o ingegno.
Ma .tremendo e il %uo genio; esso d'umano
non ha che il nome; e prepotente a segno,
ch'io, dairempia de* Sofi ira lontano,
se avessi un regno ti offrirei quel regno.
Baciarti Varco delle ciglia nere
non e dato ai mortali; hanno i Celesti
coi Celesti supreme estasi vere.
Oh! se dato mi fosse e al guardo mio
syinchinassero i cieli, i deli avresti
e a te prostrato non sarei piu Dio!
Salvo la chiusa pazzesca, Vittore Hugo aveva dette le stesse cose,
ma le aveva dette un po' meglio :
Sij'etais Dieu, la terre et Vair avec les ondes
les anges les demons courbes devant ma loi
et le profond chaos aux entrailles profondes,
Veternite, Vespace et les deux et les mondes
pour un baiser de toil
II Guerrazzi gli voleva molto bene e sul principio aveva riposte
in lui grandi speranze. Dalla terra d'esilio1 gli mandava suggeri-
menti, precetti e rimproveri addolciti da parole amorevoli. In una
di quelle lettere da Bastia, lunghissima, bellissima e tuttavia ine-
dita che il Bracci stesso mi rega!6 poco innanzi la morte, gli scri-
veva tra Paltro :
« S'io dubitassi delle facolta sue tacerei ; ma appunto perche ci fido
parlo e senza rispetto. In lei mi parve abbondare la potenza lirica: e
sperai che solo per buono spazio di tempo si chiudesse nella lirica.
Ora in tutto, ma nella poesia in ispecie, massima parte di bellezza e
la forma, la quale deriva dalla piu recondita cognizione della fa-
vella: questo poi e studio lungo, arduo, religioso ed io confesso
che comunque dalla infanzia me ne mostrassi tenacissimo cultore,
non sono riuscito nemmeno imperfettamente ad apprenderla. Le
i. Dalla terra d'esilio: dopo i fatti del 1849 il Guerrazzi fu condannato al-
1'ergastolo, commutatogli nell'esilio a Bastia, in Corsica.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1047
sue scritture, di questo studio (ah! lasci ch'io glielo dica da padre)
non mi rivelano traccia . . . Di un tratto lasciato a mezzo Parringo
lirico ella si e con giovanile baldanza spinto in quello del dramma e
mi accerta aver posto o voler porre sul cantiere o Giovanna di Na-
poli, o Baldovino di Fiandra, o Maria di Campo San Piero, o Al-
boino, o David ecc. A dirgliela schietta io mi son fregato gli occhi
pensando di sognare. II dramma storico in questo periodo di civilta
in ispecie vuole cognizioni profonde delPuomo in genere e poi
delPuomo individualmente ritratto, cognizione dei tempi, dei modi
di pensare, di vivere epper6 di sentire spesso non pari in tutti i
tempi, in tutto bensl vari, molteplici, talora a questi nostri con-
trarii ... La notizia semplice del fatto come espongono le storie
non basta . . . Ora se Ella & tale da potere con la dote degli studi
da me tocchi di volo trattare tanti e si vari argomenti, io la bandisco
addirittura il Pico della Mirandola della eta nostra. Ma no signore,
ella non ha n£ pu6 avere cosi largo tesoro : per6 annacqui il suo vino,
e se la vera fama le piace, e questa sola e desiderabile, posi 1'animo
e mediti lungamente alia sentenza, nil sine magno vitae Idbore con-
ceditur mortalibus.1' Studi, studi, studi e riuscira: in altro modo,
no; e se lascera dietro a s6 vestigio, sara qual fumo in aere ed in
acqua la spumaw.2
Di tali ammonimenti facesse o no tesoro il Bracci, li tenne a ogni
modo per s£: e pubblic6 invece nelPultima pagina di una nuova
raccolta di liriche - Fieri e Spine - una lettera del Guerrazzi di data
anteriore. In essa Pesule cui erano pervenuti alcuni versi di lui
« come la penna di un uccello che passando lascia cadere dalPala »
giudicava quella « penna d'uccello destinato a gran volo» e esortava
il giovine concittadino studiasse « la poesia dej poeti alemanni mo-
derni e dei Polacchi e degli Scandinavi e perfino dei Russi » che gli
aprirebbe «nuovi ed immensi orizzonti».
Giosue Carducci che gia nel '53, tuttavia scolare nella Normale di
Pisa scriveva a Giuseppe Chiarini «maledetto infamissimo secolo
in cui nacqui, intedescato, infranciosato, inglesante, biblico, orien-
talista tutto fuor che italiano e qui perdio! bisogna essere italiani»;3
i. nil . . . mortalibus: 1'espressione e in Orazio, Sat., I, ix, 59-60, ma Ora-
zio la usa ironicamente e, inoltre, scrive vita e non vitae. 2. qual fumo . . .
la spuma : riprende un verso di Dante, Inf. , xxiv, 51. 3 . Giosue . . . italiani :
la lettera clel Carducci, diretta non al Chiarini, ma al Gargani (vedi la
nota 2 a p. 1048), Vn settembre 1853, e in Epistolario, i, p. 60.
1048 FERDINANDO MARTINI
che credeva la ccscellerata astemia romantica famigliaw1 traditrice
della patria e rammaricava Apolline fuggito
dal suol latino
cedendo innanzi a Teutale
ed alVinforme Odino,
figurarsi se per quelle esortazioni scatt6 ; e sarebbe saltato lui ad-
dosso al Bracci e al Guerrazzi occorrendo, se non lo preveniva un
amico: Torquato Gargani.2
Prima di andar compagno al Carducci nelle scuole del Padri Sco-
lopi,3 il Gargani aveva fatto le classi di umanita nell'Istituto Rellini:
e vi tornava in occasione degli esperimenti a leggervi prose e versi
di sua fattura, gloriosi esempi proposti airammirazione di noialtri
alunni; rammento avervelo udito recitare con molta enfasi alcune
ottave sulla Distruzione di Gerusalemme.
II Carducci lo descrisse ccfigura etrusca scappata via da un'urna
di Volterra o di Chiusi con la persona tutta ad angoli, e con due
occhi di fuoco ».4 Non so se questa sia una forma caritatevole per si-
gnificare che il Gargani era brutto ; ove non sia, io senza fare offesa
n6 al Carducci ne alle urne di Volterra o di Chiusi debbo dire che il
Gargani era bruttissimo, brutto come pochi uomini sono. Per
giunta quando io lo udii declamare quelle tali ottave, teneva la testa
coperta da una papalina di incerato nero, su cui erano visibilmente
impresse le tracce di sudate fatiche. La tigna onde fu per alcun
tempo affetto prima lo costrinse a radersi il cranio sino alia nuca,
poi a nascondere le piaghette onde il fungo non peranco supposto
gli aveva chiazzato la cute.
i. ascellerata . . .famiglia»: vedi Carducci, Brindisi (in Juvenilia), w. 7-8.
E dalla stessa poesia (w. 30-2) sono tratti i versi citati subito dopo;
Teutale, meglio Teutates, sarebbe stato, secondo alcuni studiosi, il mag-
giore dio nazionale dei Celti, awicmato poi e identificato con varie divinita
romane; Odino, o Wotan, era la maggiore divinita della mitologia germani-
ca. 2. Giuseppe Torquato Gargani (1834-1862) fu Tautore della Diceria
suipoeti odiernissimi (1856). La Giunta alia derrata, apparsa subito dopo, fu
invece quasi interamente opera del Carducci. Belle pagine sul Gargani si
leggono, oltre che nelle carducciane Risorse di San Miniato, in B. Cico-
GNANI, Vetafavolosa, Milano, Garzanti, 1943, pp. 47-72. 3. compagno . . .
Scolopi: il Carducci frequent6 le scuole degli Scolopi dal 1849 al 1852.
Cfr. P, VANNUCCI, Carducci e gli Scolopi, Roma, Signorelli, 1936, pp. 14
sgg. 4. // Carducci . . . fuoco : vedi le Risorse di San Miniato, composte
nel 1882 (ora in Opere, xxiv, edizione nazionale, pp. 24 sgg,). II Carducci
aveva gia scritto del Gargani, alia morte deH'amico, nelle Veglie letterarie
(ristampate in Opere, xix, edizione nazionale, pp. 311-8).
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1049
« Anima degna » dlsse il Carducci di lui : il corpo non fu dunque
degno dell'anima; ch'egli ebbe tutti gli aspetti del pedante arci-
gno, del barbassoro intollerante ed intollerabile : ed io non posso
ripensare il Granger di Cyrano di Bergerac1 senza ricordarmi il
Gargani.
Subito che conobbe il libercolo delle poesie braccesche questi
si pose a farne la recensione: la quale poi con ampiezza mag-
giore e intendimenti piu larghi divenne la Diceria2 famosa: Di
Braccio Bracci e degli altri poeti nostri odiernissimi, segnacolo in
vessillo di coloro che intitolatisi Amid pedanti (il Gargani stesso,
il Carducci, Giuseppe Chiarini, Ottaviano Targioni-Tozzetti)3
pubblicarono quell'opuscolo a Firenze neir estate del 1856. Se-
condo il frontespizio a spese loro: ma il vero e che i quattro, piii
ricchi d'ingegno e di coraggio che di pecunia, sowenne largamente
un giovine signore lucchese dimorante alia capitale, Raffaello Ceru ;
il quale odiava i novatori di un odio che non si sarebbe pensato
annidarsi in uomo di sembianze cosi dolci e quasi serafiche; e che
pur di vaccinarsi contro all'infezione romantica spendeva tutto il
suo tempo nel tradurre e frequentare i latini : tutto il giorno a Ca-
tullo, e a Lesbia tutta la notte.
Evocare le grandi tradizioni delFarte paesana, armarsi contro
all'irruzione dello scempiato neoromanticismo forestiero, rilevare
Pignoranza de' dilettanti, frustare i versaioli faciloni, insegnando la
dignita della dottrina e la gravita degli studi ; questi i propositi degli
Amid pedanti, e savi propositi ; ma il Gargani, e gli altri che a lui
assentivano, passarono in quel libercolo ogni limite segnato dal
buon senso e dalla decenza : non solo accomunativi con verseggiatori
e novellieri di niun conto, ma insieme col Bracci sbertucciati quale
piu, quale meno, il Prati, il Bonghi, il Grossi, il Carcano, il Cantu,4
il Tommaseo, il Guerrazzi, il Manzoni. Sicuro: anche il Manzoni,
i. Hercule Savinien de Cyrano de Bergerac (1619-1655), poeta e scrittore
francese, la cui figura e stata trasfigurata nel notissimo dramma di Edmond
Rostand. Tra i suoi lavori e una commedia, Le pedante joue, il cui protago-
nista si chiama Granger. 2. la Diceria: su di essa si veda O. BACCI,
G. Carducci e gli Amid pedanti, nel volume La Toscana alia fine del gran-
ducato, Firenze, Bemporad, 1909, pp. 235 sgg. 3. Giuseppe Chiarini: vedi
la nota 2 a p. 911; Ottaviano Targioni-Tozzetti (1833-1899), di Mercatale
di Vernio, insegnante a Livorno e letterato. 4. Ruggero Bonghi: vedi la
nota 2 a p. 483; Giulio Carcano (1812-1882), autore di novelle in versi
e di romanzi (celebre la sua Angiola Maria, del 1839) ; Cesare Cantu: vedi
la nota 2 a p. 362 e le note a p. 364.
1050 FERDINANDO MARTINI
nonostante la sconfinata ammirazione che gli professava il Gior-
dani, dagli Amid pedanti acclamato e venerate duce ed oracolo.
Ma quando si trattava di Don Alessandro i discepoli si ribellavano :
non ebbe infatti il Giordani discepolo piu amoroso e reverente di
Ferdinando Ranalli,1 V ultimo de* puristi come lo chiam6 il De
Sanctis. Ebbene: il Giordani stimava i Promessi sposi «uno stu-
pendo lavoro senofonteo » e il Ranalli . . . Ma e inutile citare i
giudizi che ce ne da nei suoi Ammaestramenti: piu spicciativo ram-
mentare le parole da lui dette a Carlo Francesco Gabba2 suo col-
lega nell'Universita pisana: «Pare impossibile che con cosi piccolo
ingegno, il Manzoni abbia potuto far tanto male alia nostra lettera-
tura ».
Nella Firenze d'allora placida e chiacchierina la Diceria fu un
awenimento: stampata in duecentocinquanta esemplari avresti
detto ne fossero usciti dai torchi a migliaia; tutti la leggevano o
Favevano letta, e come nei cafPe cosi nei salotti non si tenne per un
pezzo altro discorso. Non ho da rifare la storia delle polemiche
cui essa porse occasione e che durarono - nientemeno - dal '56
al '58. Basti dire che non vi fu giornale, serio o faceto, il quale non
tartassasse gli Amid pedanti '; lo « Scaramuccia » pubblico settima-
nalmente il bollettino3 della salute del Gargani che fingeva ricove-
rato nei manicomio di San Bonifacio.
Ne le cose potevano andare diversamente. Pare impossibile che,
fatta astrazione da quant'era d'iperbolico nella esposizione delle loro
dottrine, giovani di quell'ingegno e tutti mazziniani per giunta, non
s'accorgessero dell'errore politico che commettevano. Gridare nei
'57 contro agli uomini del « Conciliatore »,4 bistrattare il Carcano
nei '48 legato del governo prowisorio milanese a Parigi, il Bonghi,
il Guerrazzi, il Tommaseo, il Prati vaganti per le vie delPesilio,5
i. Ferdinando Ranalli (1813-1894), di Nereto degli Abruzzi, professore
all' University di Pisa, autore soprattutto di opere storiche, classicista e pu-
rista. Ha lasciato un volume di Memorie (vedi E. MASI, Memorie inedite di
F. Ranalli, I' ultimo dei puristi, Bologna 1899). 2. Carlo Francesco Gabba
(1835-1920), di Lodi, awocato, giurista, professore all'Universita di Pisa.
3. Chi faceva quel bollettino era lo stesso Martini. 4. gli uomini del « Con
ciliatore*: i romantici, di cui il « Conciliatore » era stato il maggior giornale.
5. il Bonghi . . . esilio: Ruggero Bonghi, gia emigrato da Napoli a Firenze, si
rifugi6 in Piemonte, alternando la sua dimora fra Torino e Stresa; Fran
cesco Domenico Guerrazzi, dopo r esilio in Corsica, si stabili, nei 1857,
a Genova; Niccol6 Tommaseo, caduta Venezia, and6 esule a Corfu e, nei
1854, si trasferl a Torino; Giovanni Prati, espulso dalla Toscana per
ordine del Guerrazzi, ripar6 in Piemonte.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1051
1'Hugo vittima deH'impero napoleonico1 considerate allora co
me il massimo impedimento alia liberta dell' Italia, era difatti un
errore politico che nessun legittimo desiderio di rirmovamento
letterario bastava a giustificare; cio e tanto vero, che mentre i fogli
liberali il flagellavano, gli Amid pedanti noveravano, senza saper-
lo, tra i loro partigiani, il Granduca. Intrattenendosi un giorno
Leopoldo con un alto impiegato che pizzicava di lettere, intavo!6
una conversazione circa la Diceria e Iod6 « quei giovanotti » intenti
ad impedire « si imbastardisse la nostra bella letteratura ». Non po-
teva spiacergli che qualcheduno dicesse male del Guerrazzi: se
non che il Guerrazzi si rideva di quelle censure e di lui : e, letta che
ebbe la Diceria, scrisse al Bracci : « II signor Gargani ci caccia via
dal Paradiso? Bene! Ci penseremo quando lo promo veranno sosti-
tuto a San Pietro: per ora non vedo motive di affannarsene »
(Lettere inedite).
Gli anni passarono, le passioni sbollirono, gli studi e 1'esperienza
fecero il resto. II Chiarini il quale allora apostrofando il Lamartine
fremeva
che pur qui v'dbbia di virtu si scemo
chi t'ammiri e rei sensi alle tue sorba
indegne carte,
fu poi de' primi a darci notizia di scrittori stranieri e tradusse da
par suo VAtta Troll e la Germania del Heine; il Carducci, che senza
nulla conoscere del Byron e del Goethe, nel difendere la Diceria
domandava: «che e egli cotesto Faust}}) e nelle sonettesse inveiva
contro alia
schiuma di baironiani e goeteschi
che tuttavia ginrate in su i tedeschi
Inghilesi e Franceschi;2
i. Victor Hugo, proscritto subito dopo il colpo di Stato di Napoleone Bo
naparte, visse esule, soprattutto nelle Isole Normanne, fino alia caduta del
secondo Impero. 2. I versi citati sono tolti dalla Sonetteria seconda in
persona di Benedetto Menzini. Aipoeti nostri odiernissimi, w. 52-4 (vedi G.
CARDUCCI, Opere, i, edizione nazionale, p. 318).
1052 FERDINANDO MARTINI
indottosi finalmente per le istanze di Enrico Nencioni1 a leggere il
Mannering dello Scott2 e il Tell dello Schiller, ammir6 subito : e una
volta avviato su quel carnmino non tard6 molto a persuadersi che il
Boald3 (uso 1'ortografia del Gargani) era un seccatore e VUgb* un
poeta, nei cui volumi potevano magari attingersi ispirazioni ed ima-
gini. E gli animi, che erano gentili, si riconciliarono. Trent' anni
dopo quelle contese Braccio Bracci si presentava a Michele Cop-
pino5 ministro dell'istruzione pubblica con una lettera di Giosue
che dal Coppino passata a me suo segretario generale6 tuttora con-
servo : e la pubblico qui affinche ne sia rivendicato il nome del buon
livornese, d'ingegno e di coltura assai diverso da quello che gli
Amid pedanti raffigurarono.
Livorno, 8 aprile 188$
Onorevole sig. Ministro,
Mi permetta di raccomandare all'attenzione dell'E.V. il desi-
derio del mio amico aw. Braccio Bracci il quale aspira ad ottenere
per titoli un diploma d'insegnante lettere italiane per le scuole
secondarie.
L'aw. Bracci e autore di drammi e di poesie che furono lodate dal
Guerrazzi e nel quale Fingegno florido e vigoroso fu aiutato da
un'amorosa coltura e dallo studio dei migliori modelli a rappresen-
tare popolarmente verita e sentimenti civili e patriottici. Ha una
gran conoscenza ed un ottimo gusto dej poeti classici italiani, con
tutte le cognizioni di storia e filosofia che afforzano gl'ingegni na-
turalmente eletti a produrre e a giudicare nell'arte rettamente.
Come letterato e come cittadino il Bracci e degno di benevola
attenzione e come tale lo raccomando a Lei cosi buono e liberate
giudice.
dev.mo suo
GIOSUE CARDUCCI
i. Enrico Nencioni: vedi la nota 2 a p. 913. 2. II romanzo Guy Mannering,
di Walter Scott, narra le vicende di una banda di zingari nella Scozia del
Settecento. 3. Boald: Nicolas Boileau Despre*aux (1636-1711), il poeta e
critico francese, rappresentante e sostenitore dei principi classicistici, so-
prattutto nella sua Art poetique. 4. Ugd: Victor Hugo. 5. Michele Cop
pino: vedi la nota 2 a p. 501. 6. una lettera . . . generale: per la lettera del
Carducci, vedi Opere, xv (edizione nazionale), p. 147; segretario generale:
oggi si direbbe sottosegretario.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1053
Lodi sincere: che dove il Carducci stim6 da lodare non fosse,
lascic- al Guerrazzi la cura e la responsabilita degli encomi. Ne
per certo ci6 dispiacque al Bracci oramai ridesto da ogni sogno di
gloria, e che neirammirazione vivissima per il grande poeta, suo
antico censore, trovava argomento a giudicare dirittamente F opera
propria; la quale impetuosa e negletta dapprima, la meditazione e la
pazienza fecero poi, bisogna pur dirlo, migliore e talora non senza
pregio.
Povero Bracci! lo rividi a Livorno non molto innanzi che egli
morisse. Gioviale sempre per lo innanzi, s'era fatto triste negli
ultimi anni. Mi provai a rallegrarlo, ridicendo alcuni dei versi uditi
anch'essi da lui nella stanzetta di via del Cocomero do v' egli abitava
ai tempi della Diceria e della Lira.
Ma tu chi sa se volgerai la mente
di questa rupe alle solinghe time,
qui dove insiem passammo, ove sovente
ci scosse il suon di boscarecce rime . . .
D'una in un'altra cosa, riandammo i tempi lontani, rammemo-
rammo i compagni ahim&! la piii parte perduti: e non io riuscii a
racconsolare Famico, anzi il rimpianto dei giorni irrevocabili ci
fece tristi ambedue. Gli s'inumidivano gli occhi e il capo si curvava
sotto il cumulo delle memorie, quando rialzandolo a un tratto :
— - Ohe! — esclam6 — ci dimentichiamo che a quei giorni FItalia
non e'er a.
E gli occhi brillarono e il sorriso torn6 sulle sue labbra ancora
una volta.
[IMPROVVISATORI SERI E FACETl]1
Usciti da scuola, verseggiando non piu ogni settimana per com-
pito, ma per divertimento quasi ogni giorno, eravamo riusciti, se
accompagnandoli con lenta cantilena, a improvvisare versi - im-
maginatevi quali - non privi di significato ; per farci poi in quelli
esperimenti piu franchi e piu destri, ci spassavamo nell'infilzare
parole rimate, nel rapido schiccherare strofe in settenari o deca-
sillabi, di giusta misura s'intende, e magari di rima opulenta,
ma senza senso veruno. Sollazzo che a' giovanetti d'oggi parra
i. Ed. cit., dal cap. vm (Dalfaceto al serio), pp. 109-19.
1054 FERDINANDO MARTINI
insipido alquanto ; ma noi non avevamo ne biciclette ne ricreatorii,
n6 giornali quotidiani, ne cinematografi, ne riviste illustrate; la
sigaretta (o spagnoletta come si chiam6 dapprima) non era ancora
inventata; il tempo bisognava passarlo e ci bastava, di quando in
quando, modesto si ma giulivo trastullo, quell'esercizio. Nel quale
(che par facile a prima giunta e non e, e chi non lo crede si provi)
alcuni si fecero via via addirittura sbalorditoi ; primo fra tutti Ar-
nolfo Zei, giovane carissimo e coltissimo morto poco piu che tren-
tenne.
Raccontai gia, anni sono, un'audace sua prova: ma perche la
morte di lui era recente, tacqui il suo nome, feci anzi di tutto
affinche non si indovinasse. La cosa and6 realmente cosi. Nel '60
o nel '6 1, una sera, o meglio sara dire una notte d'estate, entrammo
insieme in un caff& di Piazza del Duomo, gremito di popolani,
fiaccherai specialmente, che avevano in pratica lo Zei abitando egli
in que' pressi. Nel giorno precedente era giunta notizia da Roma
non so piu se di sentenze promulgate, di scomuniche lanciate o di
eccidi perpetrati; so che que' popolani 1'avevano maledettamente
col Papa e subito circuirono Tamico, quale chiedendo notizie mag-
giori, quale bestemmiando a perdifiato, urlando tutti. A un tratto,
fral tumulto, una voce grid6:
— Via, sor Arnolfo, la ci faccia su una poesia.
Urli daccapo e daccapo bestemmie per dar vigore all'invito. Lo
Zei tent6 lungamente di esimersi, ma alia fine per levarsi quel bac-
cano d'attorno, si tir6 in disparte e si prov6 a buttar giii sopra un
pezzo di foglio i primi versi d'un ideato epigramma o sonetto:
ma o che li per 11 non gli venissero o gli seccasse il riflettere, o gli
fosse impossibile tra '1 baccano che seguitava, s'alz6 col foglio in
mano e grave nell'aspetto finse di leggere, improvvisando ci6 che
scritto non era. Rammento oggi piu esattamente del sonetto la
chiusa:
Piange V Italia come debil canna
e Pio tra? vaticani antri fuggente
co* simulacri di Pompeo tracanna.
Non sto a dire gli applausi; scrosciarono fragorosi e lunghi, non
tanto lunghi bensi da permettere allo Zei di svignarsela; ch6 ap-
pena fece per muoversi le acclamazioni cessarono e quattro o cin
que gli furono intorno a fermarlo. La poesia era troppo bella, vole-
vano si stampasse; e sempre intorno quattro o cinque alia volta a
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1055
dimostrargli la opportunita che i torch! gemessero, con argomenti
fatti il piu spesso di appellativi ingiuriosi per il pontefice e di escla-
mazioni che li oltrepassavano. Poiche" stringendosi addosso allo
Zei minacciavano di portargH via il « manoscritto », egli brandito il
foglio immacolato lo levava col braccio in alto sul groviglio delle
mani, gesticolanti nel tentar la rapina; da ultimo, visto che da quelle
strette non poteva liberarsi altrimenti, si disimpacci6 con uno
scherzo felice. Lasci6 cadere il foglio e :
— Se siete buoni di rammentarvelo — disse — stampatelo pure ;
io vi do carta bianca.
II foglio fu ansiosamente raccolto, il groviglio si dipan6 . . . Ri-
masero male; risero ma a denti stretti; poi Pammirazione per un
poeta capace di improwisare versi cosi belli si dest6 tanto reverente
ed accesa, che gli applausi scrosciarono piu fragorosi e piu lunghi
di prima,
*
Nel sonetto io non m'arrischiavo; era superiore alle mie forze;
ma nei decasillabi la sfangavo, nei settenari e negli ottonari me la
cavavo discretamente; e qualche anno innanzi avevo fatto anch'io
la mia prova davanti a pubblico non di fiaccherai ma di laureati,
in occasione che merita si ricordi.
Mi pare nel '58, ma non posso asserirlo: certamente dopo il '56
e prima del' 5 9 venne a Montecatini Massimo d'Azeglio.
Fermiamoci un momento. Chi si figurasse il Montecatini di ses-
santa anni fa quale e di presente, andrebbe con rimmaginazione
molto lontano dal vero. Tanto oggi il frastuono ed il moto, quanto
allora il silenzio e la quiete. Ho veduto io coi miei propri occhi una
mandata di capiscarichi usciti dal bagno con Paccappatoio ballare il
ronde in un pomeriggio di luglio sul gran viale del Tettuccio,1 me
unico spettatore. Governavano ramministrazione delle Regie Ter-
me tre deputati scelti dal Granduca fra i cavalieri di Santo Ste-
fano, ognuno dei quali per turno aveva obbligo di risiedere un mese
a Montecatini nei tre della stagione balneare; cio& dal giugno al-
Pagosto, ch6 alia fine d'agosto il Direttore, Pottimo professore Fe-
deli clinico delPUniversita di Pisa, chiudeva bottega e se ne andava
in villeggiatura. Compenso alle cure amministrative della Deputa-
i. Tettuccio: e il nome d'una delle sorgenti mineral! e della localita rela-
tiva.
1056 FERDINANDO MARTINI
zione, di cui fu per molti anni presidente Domenico Giusti padre
del poeta, un quattrino (un centesimo e mezzo) per ogni firma ap-
posta al cartellino onde awolgevasi il tappo de' fiaschi a garantire
la genuinita delle acque. Un migliaio di persone, o poche piu,
quasi tutte toscane o dimoranti in Toscana, vi cercavano ristoro
agli stomachi o agli intestini malati; tutte accolte nella Locanda
maggiore che maggiore poteva facilmente intitolarsi, visto che era la
sola, gli altri ricettacoli non meritando nome di locanda. Per tre
paoli (L. 1,68) Giuseppe Valiani pistoiese forniva il desinare: cibi
copiosi e gustosi e vino finche lo stomaco ne contenesse, cosicche
i liquidi si alternavano abbondanti del pari ; otto bicchieri di Tet- t
tuccio la mattina, altrettanti di vino la sera e gli stomachi, pare, si
giovavano dell'una e delPaltro. Per tutto divertimento una trot-
tata sul cadere del giorno verso i paesi circonvicini, dopo il pranzo
una partita a tombola nella sala del Casino, toscanamente, cioe
con molta parsimonia, illuminata.
Scarsa clientela, ma tra i consueti frequentatori dei Bagni, al-
cuni illustri; non ancora Verdi che vi fu poi per trenta anni di
seguito; ma il Rossini il quale desiderava gli amici sapessero che
beveva il Tettuccio alia loro salute : e sebbene, come awertiva in
una lettera al Fabi, « la vita di Montecatini » non fosse « molto bril-
lante », egli tuttavia trovava modo di passar bene la giornata « fa-
cendo musica con la Granduchessa ».
Nel luglio del '43 Gino Capponi scriveva da Montecatini al
Vieusseux: «I1 Capei1 sta bene e cosi il Salvagnoli il Giusti e il
Guerrazzi che abbiamo qui dove cerca di addolcire la bile; e sia
Tacqua del Tettuccio o gli anni, mi pare un poco ammansito».
Pareva, ma il f egato era quello di prima e di poi ; tanto che venuto
a disputa col Salvagnoli intorno alle armi dei Soderini2 per saper
«se facessero palme o corna di cervo», incollerito dalla contradi-
zione si sfogava rabbiosamente in lettere a Niccol6 Puccini,3 con
aspre parole tacciando il Salvagnoli d'insolenza e di petulanza.
i. Vieusseux: vedi la nota 2 a p. 436; Pietro Capei (1791-1868), storico
del diritto, professore nelPUniversita di Siena e poi di Pisa. Fu tra i collabo
rator! dell'« Antologia» e deir«Archivio storico italiano», e tra i primi a far
conoscere in Italia 1'opera storica del Niebuhr e del Mommsen. 2. armi
dei Soderini: stemma nobiliare dei Soderini. Alia famiglia appartenne
Pier Soderini, gonfaloniere di giustizia della Repubblica dalla morte del
Savonarola al ritorno dei Medici nel 1512. 3. Niccolo Puccini: vedi la
nota 3 a p. 901.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1057
Chiudiamo la digressione.
Venne, dunque, a Montecatini Massimo d'Azeglio. A Monsum-
mano - quattro chilometri distante - soleva passare Testate, nella
propria villa un mio zio, Giulio Martini1 il quale, ministro di
Toscana alia Corte di Sardegna dal '48 al '51, aveva seguito
Carlo Alberto al campo di Lombardia, e stretta poi amicizia col
D'Azeglio a Torino, quando questi fu presidente del Consiglio3
e ministro degli AfTari esteri. Ora non vecchio, ma quasi cieco e
tormentato da molta varieta di malanni se ne stava, come ho detto,
una buona meta dell' anno in campagna, e il D'Azeglio quando
capitava a Montecatini veniva, durante il breve soggiorno, a visi-
tarlo piu volte.
Seduti sotto un platano centenario frondeggiavano3 a tutto spiano
ambedue : 1'uno quantunque tutt'altro che liberale, nel senso che si
da oggi a questa parola, scontento del modo onde la Toscana era
governata; Taltro contento del manifestare a un amico discreto la
cordiale antipatia per colui che egli chiamava nelle proprie lettere
«quel birichino del Cavour».
In quel medesimo anno, al tempo stesso che il D'Azeglio furono
a Montecatini Luigi Alberti4 scrittore di commedie a quel tempo
poco noto fuor di Toscana, ma in Toscana notissimo, Piero Puc-
cioni,5 che allora praticante nello studio Salvagnoli, preparantesi,
cioe, alFesame di avvocatura, fu poi un de* principi del foro, depu-
tato, senatore del regno e ministro no, perche non voile: finalmente
Leopoldo Cempini awocato di grido, del quale si lodava un vo
lume di versi Fieri e Foglie6 edito a Torino, in Toscana distribuito
clandestinamente, oggi dimenticato; versi facili, in quella sonante
indeterminatezza di forma che lusingava le orecchie e gPintelletti
degli Italiani, ma caldi di affetto patrio e tutti inneggianti a Casa
Savoia:
i. Giulio Martini (1806-1873), di Monsummano, fratello del padre di
Ferdinando, fu ministro della istruzione pubblica dal gennaio all' ap rile
1859. 2. D'Azeglio . . .presidente del Consiglio : dal maggio 1849 al novem-
bre 1852. 3. frondeggiavano: sfogavano il loro sentimento di oppositori
alia politica ufficiale dei loro paesi. 4. Luigi Alberti (1822-1898), di Fi-
renze, commediografo (Commedie varie, 1876). 5. Piero Puccioni: vedi
la nota i a p. 921. 6. Fiori e foglie fu edito a Torino, Fontana, 1853;
su Leopoldo Cempini vedi la nota 8 a p. 436.
67
1058 FERDINANDO MARTINI
Se di dolenti musiche
me Dio talor consola,
se de' concenti V Angela
talor discende a me,
questo mio cor sui margini
del Po con gli estri vola,
inni e corone a spargere
sopra I'avel d'un re.
LJ Albert! era amico di casa; gli altri due avevo conosciuto nelle
redazioni de' giornali umoristici ne' quali essi di tanto in tanto scri-
vevano e ov'io gia bazzicavo. Quando, ottenutane licenza, da Mon-
summano filavo a Montecatini per arrischiare il mio obolo sulla
cartella della tombola, sempre si divertivano a farmi fare il gio-
chetto degli improwisi, sempre, ben inteso, senza senso comune.
Una volta mentr'io tiravo giu decasillabi capit6 nel crocchio il
D'Azeglio: e tanta fu la soggezione che non potei piu spiccicare
parola. Ma perche egli, incuriosito, con molta garbatezza preg6 che
mi riprovassi, la soggezione messa da parte, ricominciai. E il
D'Azeglio a riderne prima, poi a dire che quantunque non si fa-
cesse che accozzare parole come viene viene, tuttavia il farlo con
rapidita, senza intaccare, il trovare la rima speditamente, non era
forse consentito se non ai Toscani ai quali suona in bocca tutto
quanto il vocabolario; e via via una dissertazione piacevolissima
in difesa di quelle che erano e non ancora si chiamavano le teoriche
manzoniane.1
Poco dopo, riapertasi al D'Azeglio la ferita buscata nel '48 sui
Colli Berici,2 gli tocc6 stare in casa piu giorni ; e insieme col do lore
che quella gli cagionava, sopportare le lunghe visite quotidiane di
uno dei piu pervicaci fra quanti innumerevoli seccatori vennero al
mondo. Era un tale Stra . . . veneto, dottore non so se di medicina
o di legge, alto, grosso, biondastro, sulla cinquantina; il quale im-
battutosi nel D'Azeglio a Montecatini e awicinatolo, come facil-
mente awiene nei luoghi di bagni, gli s'era, per cosl dire, appicci-
cato e non lo lasciava. Ignorante, a malgrado della laurea, appal-
tone,3 borioso, non si accompagnava al D'Azeglio per ascoltarlo
(che era, tra 1'altro, parlatore piacevolissimo), per imparare qual-
i. quelle che . . . teoriche manzoniane: il considerate come sola vera lingua
italiana il fiorentino parlato dalle persone colte. 2. la ferita . . . Berici: il
D'Azeglio rimase ferito il 10 giugno 1848 alia difesa di Vicenza. 3. appal-
tone: attaccabottoni : e voce toscana.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1059
che cosa, per procurarsi in quelle conversazioni un godimento in-
tellettuale; no: gli bastava, ostentando quella conoscenza, farla cre
dere intrinsichezza e vantarsene. Subito che lo seppe ammalato
— Vado a farghe compagnia a Massimo — sfringuello tra' bagnanti
(e bisognerebbe io potessi descrivere gli atteggiamenti suoi). « Vado
a farghe compagnia a Massimo » e gli si cacci6 in camera dalla mat-
tina alia sera. La gente che lo conosceva meravigliava della sua
sfacciataggine e della sua balordaggine : e meravigliava altresi della
pazienza del D'Azeglio che non metteva quel seccatore alia porta.
Mio zio s'informava giornalmente della salute dell'illustre amico
suo ; un giorno mand6 me a prendere notizie. Chiestele al cameriere
della Locanda Maggiore e questi al D'Azeglio stesso in mio no me,
fui fatto entrare in camera sua. Se ne stava disteso sopra una chai-
selongue presso alia finestra: sui ginocchi un fascio di lettere e mezzo
aperto un numero del « Journal des Debatsw.1 In faccia a lui, in
poltrona, Timportuno dottore.
Non ricordo ora appuntino come andassero le cose, n6 ho a mente
tutti i particolari della conversazione. Fatto sta che dopo avermi
incaricato di ringraziare lo zio e dirgli che sarebbe tornato a ve-
derlo prima di andarsene da Montecatini, postami una mano sulla
spalla e rivolto al dottore:
— Vede ? — soggiunse — questo ragazzo e un portento.
E qui lodi abizzeffe, e la narrazione de' miei prodigi. Io capivo che
canzonava qualcheduno, ma non ero sicuro che canzonasse quel-
1'altro e me ne stavo chiotto, a testa bassa, senza fiatare. Alia fine:
— Via, — disse — ci improwisi qualcosa.
Dopo tanti anni chi pu6 con verita esprimere ci6 ch'io provai
per quelle parole? Ma c'& da figurarselo. Lo guardai, egli mi incit6
novamente e : — Le dar6 io il soggetto : Napoleone — e cosi dicendo
mi guardo fisso a sua volta: mi parve leggergli nella fisonomia: non
abbia paura, si fidi di me.
La scelta deH'argomento non fu fatta a caso ; allora non ci pensai
e neppure in seguito avrei ricordato, se non soccorreva la memoria
altrui. Mio zio, che malato d'occhi da se non poteva, pregava me ed
altri, ma piu spesso me di leggergli gli ultimi volumi del Thiers,2
1. « Journal des D&atsvn celebre quotidiano francese, fondato nel 1792,
2. Adolphe Thiers (1797-1877), storico e uomo politico, ritiratosi a vita
privata dopo il colpo di Stato del 1852, attese a terminare la storia del primo
Impero. Fu poi fondatore e sostentatore della terza Repubblica.
IC)6o FERDINANDO MARTINI
Histoire du Consulat et de VEmpire^ pubblicati di fresco. II D'Aze-
gHo venendo giorni innanzi a fargli visita aveva trovato appunto me
a leggere, lo zio ad ascoltare : consider6 che Napoleone lo conoscevo
e avrei perci6 potuto piu facilmente improwisare «qualcosa».
Mi fidai : in fondo che cosa rischiavo ? Era uno scherzo e il dot-
tore accortosi che era uno scherzo ne avrebbe sorriso lui per il
primo.
Altro che scherzo! via via sfilavo il rosario delle parole unite a
caso, TAzeglio ammiccava al dottore come a dire: «Eh? che roba! »,
e Paltro rispondeva, con movimenti del capo e delle mani signifi-
cando la propria soddisfazione. Al termine d'ogni strofa 1'Azeglio
sussurrava « benissimo » : e il dottore gridava «Ma belo! belissimo!
meravilgioso ! ».
Non sapevo piu in che mondo mi fossi. Dette poche strofe, mi
fermai; una tale specie di improwisi ha questo di buono, che strofa
piu strofa meno non monta: si pu6 sempre smettere quando ci
accomoda.
E qui venne il bello per me ; ero stato, non senza qualche trepida-
zione, sul palco scenico, m'era ora permesso di divertirmi in platea.
II D'Azeglio provocate con nuove lodi le nuove manifestazioni
entusiastiche dell'altro uditore, prese a domandargli replicata-
mente :
— Lei ha capito tutto, non e vero?
E il dottore:
— Caspita! capito, capitissimo.
— - Ha capito (mettiamo, ch'io non intendo riferire le parole pre
cise) Paccenno al 18 brumaio1 e al Congresso di Vienna?
— Eh! eccome!
E cosi di seguito ; finche quegli, il quale non aveva capito che non
si poteva capire, forse temendo qualche domanda piu categorica, si
arrischi6 a dire:
— Solo le ultime strofe le me pareva un poco scurete.
— Oscurette ? Chiare invece come la luce del sole. — Aiutandomi
il marchese, riuscii li per 11 a ricordarle: ed egli, fattosi dare un
lapis, sul mezzo foglio rimasto bianco di una delle lettere che teneva
sulle ginocchia, le scrisse di proprio pugno; singolare autografo,
lo conserve tutto ra.
I. 18 brumaio: cioe, il 9 novembre 1799, quando Napoleone, di ritorno dal-
PEgitto, rovesci6 il Direttorio.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDTJCALE) Io6l
Le strofe dicevano:
Tu dal talamo nemico
discendevi ai rii gemmati
nel fulgor di Federico,
quando i prenci collegati
di Boulogne alia vendetta
ispiraron la saetta
che S ant' Elena feri.
Tu le scizie ispide grotte
alia storia hai consacrato,
ma t'attendon Montenotte
Dego Rivoli e Lonato;
tu pontefice gagliardo
copri Varpa e accenni il bardo,
spengi gli astri e annunzi il di.
Che gioco del Sibillone ? II Goldoni, che si vanta d'essersi fatto
in quello grande onore a Pisa,1 pu6 andare a riporsi. Non mai,
credo, fu adoperato tanto sforzo d'ingegno e tanto sfoggio di dot-
trina per dimostrare la profondita del pensiero dove pensiero non e.
L'Azeglio dopo un «zitto lei» (burlesco ammonimento a me ch'ei
sapeva non aver alcun desiderio d'aprir bocca) illustr6 ad uno ad
uno quei versi; non ricordo, e me ne dispiace, tutti i curiosi arguti
commenti: so che il talamo era nemico perch6 vi giaceva la figlia
deirimperatore d' Austria,2 che i rii gemmati erano i fiumi della Prus
sia, gettatavi da Napoleone la corona degli eredi di Federigo se-
condo : che cuopri Varpa e accenni il bardo era una limpida allusione
al Mack e alia battaglia d'Ulm,3 che spegni gli astri e annunzi il dl
significava chiudersi con Napoleone un'era, e sorgerne per lui una
piu fausta. Tutto ci6, s'intende, dimostrato senza ridere, e a furia di
ragionamenti e di storia. E il dottore interrompeva: — Ma bene,
benone, ciaro, lampante, chiarissimo!
lo me ne tornai intontito a Monsummano ; il dottore uscito di la
se ne and6 alia Torretta, proprieta a quel tempo di un Conte Ban-
dini, orgoglioso di spifferare che aveva passato un'ora deliziosa « da
i. II Goldoni . . . a Pisa: veramente il Goldoni a Pisa non compose poesie
sibilline, ma soltanto improwis6 un sonetto e scrisse molte altre poesie per
la colonia arcadica della citta cui fu iscritto. Vedi Memoires, parte i, capp.
XLIX e L. 2. la figlia . . . Austria: Maria Luisa, andata sposa a Napoleone I
nel 1810. 3. A Ulm Napoleone vinse, nel 1805, il generale austriaco Mack.
I062 FERDINANDO MARTINI
Massimo » dove il Tale del Tali, « un ragazzo che xe un miracolo »
aveva improvvisato versi stupendi su Napoleone. Raccontato il
fatto, fu presto intesa e propalata la burla. Ventiquattr'ore dopo il
dottore, intesala finalmente anche lui, fece fagotto e parti in fretta
e furia da Montecatini.
A PALAZZO1
S io potessi farmi persuaso che i miei lettori han.no i medesimi
gusti del De Vigny,
(Qu'il est doux, qu'il est doux d'ecouter des histoires,
des histoires du temps passe)?
sarei meno trepidante nel raccontarle queste storielle di tempi lon-
tani; a ogni modo, una volta cominciato bisogna finire; e poiche
parlo delFultimo decenrdo della signoria granducale, qualcosa 6
necessario io pur dica dell'ultimo principe.
Non so piu quale cronista racconti : una gentildonna che aveva
conosciuto Enrico III3 re di Polonia e di Francia e ammirati in lui
il portamento regale e 1'aitante eleganza della persona, condotta
innanzi a Enrico IV4 di mezzana statura e non bello, mormor6:
« Veggo il re, ma non veggo sua Maesta». Chi, dopo il 1849, guar-
dava Leopoldo II,5 vecchio nelPaspetto oltre gli anni, il capo recli-
nato cosi da posare sul petto le fedine biancastre, il labbro inferiore
sporgente scendente, il corpo infagottato in vestiti troppo ampi e
dimessi, poteva a sua volta e a ragione esclamare : veggo il grandu-
ca, ma non veggo il sovrano.
Quell'aria di barbogio assonnato, onde con tanti nomignoli
dispregiativi6 Io beffeggiarono sudditi faceti e ribelli, Paveva, dis-
sero, anche da giovane ; ma il vero e che la fisonomia Io calunniava.
i. Ed. cit., cap. x, pp. 143-56. 2. Sono i versi dell'ultima quartina di
La neige (6d. de la Pl&ade, i, p. 135). 3. Enrico III (1551-1589), eletto re
di Polonia nel 1573, dopo tre mesi di regno Iasci6 il trono e successe in
Francia al fratello Carlo IX. Mori pugnalato dal domenicano Giacomo Cle"-
ment. 4. Enrico IV (i553-*6io) di Navarra successe a Enrico III sul
trono di Francia; morl pugnalato dal Ravaillac. 5. Leopoldo II: vedi la
nota 5 a p. 159. 6. nomignoli dispregiativi: i fiorentini chiamavano Leo
poldo II con vari nomignoli: Morfeo, Canapone, il babbo (facetamente), ecc.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1063
Leopoldo II uno sciocco non fu; lettere sue pubblicate di recente,
aneddoti riferiti da testimoni autorevoli, dimostrano che se molti lo
canzonarono, sapeva, al bisogno, canzonare anche lui. Se da ragazzo
avessi preveduto che un giorno scriverei dell'Altezza Sua, quei pa-
recchi aneddoti mi sarebbero tuttavia nella memoria. Due, ben-
si, ne ricordo perche uditi alquanto piu tardi; 1'uno da Matteo
Bittheuser,1 del granduca per lunghissimi anni segretario parti-
colare, Taltro da Marco Tabarrini,2 de' fattarelli di quei tempi e di
quella Corte espositore argutissimo.
Nel 1838 o in quei torno, lo straricco principe Anatolio Demi-
doff3 che abitava ne' pressi di Firenze la magnifica villa di San Do-
nato, tornandovi da una gita a Parigi, men6 seco Giulio Janin,4
uno degli scrittori del « Journal des Debats », e di molta fama a que'
giorni. Questi profittb dell'occasione per mandare al giornale un
seguito di lettere col proposito di descrivere Firenze e di narrare
gli avvenimenti piu notevoli della sua storia; lettere che poi ri-
pubblico raccolte in volume.5
Come pu6 capacitarsene chiunque prenda a leggere quei Voyage
en Italie, il Janin erudl i propri compatriotti intorno alia storia fio-
rentina, raccontando loro le gesta di un Emanuele6 de' Medici
detto il Magnifico, le venture di Bianca Cappello7 amante di Co-
simo I, avvelenata dal cognato Don Francesco, e citando Dante
cosi:
Non ragionem del lor! . . . ma guarda ij passa?
Nauseato per quelli e altri parecchi strafalcioni altrettanto sbar-
dellati, e piu per la impudente presunzione con cui si spacciavano,
i. Matteo Bittheuser: vedi p. 171 e la nota. 2. Marco Tabarrini: vedi
la nota 4 a p. 901. 3. Anatolio Demidqff (1812-1870) apparteneva a una
ricchissima famiglia di industrial! russi, ma era nato a Firenze, dove il
padre era venuto come ambasciatore, e vi mori nel 1828. Spos6 nel 1841
la figlia di Girolamo Bonaparte, contessa Matilde de Monfort, dalla quale
presto si separ6. La villa di San Donato era stata acquistata dal padre Nicola,
che vi aveva raccolto una grande galleria. 4. Giulio Janin (1804-1874),
critico drammatico, dal 1836, del (Journal des Debats», autore di una
Histoire de la litte'rature dramatique (1853-1858), di saggi, novelle, ecc., si
occup6 varie volte di scrittori italiani. 5. lettere . . . in volume: il Voyage
en Italie, citato subito dopo. 6. Emanuele'. invece di Lorenzo. 7. Bianca
Cappello (1542-1587) fu amante e poi sposa (1578) di Francesco I de' Me
dici, granduca di Toscana dal 1547 al 1587. Una leggenda, ormai sfatata,
accus6 della morte di Francesco e di Bianca (seguita a distanza di un gior
no) una torta avvelenata che la stessa Bianca avrebbe preparata per il co
gnato Ferdinando. 8. Invece di «Non ragioniam di lor, ma guarda e pas-
sa» (Inf., in, 51).
1064 FERDINANDO MARTINI
un padre scolopio, Numa Tanzini,1 riprese nel « Giornale di com-
mercio » con parole mordaci il Janin e quanti forestieri s'impanca-
vano con balorda leggerezza a scrivere e giudicare delle cose nostre,
senza nulla intenderne, nulla saperne.
Nella dormicchiante Firenze di allora, lo scritto del frate Iev6
rumore inconsueto; il fiorentino spirito bizzarro si divert! al-
quanto alle spalle del francese e del russo;2 tanto che questi, a farla
finita con i chiacchiericci e le satire, chiese e, perche era ben ac-
cetto alia Corte, facilmente ottenne il Granduca ascoltasse dalla
viva voce del Janin spiegazioni e lagnanze.
E il Janin and6 a Palazzo e fu, come desiderava, ascoltato lun-
gamente, pazientemente ; ma quando, per difendersi dall'accusa di
leggerezza mossagli dal Tanzini, si arrischi6 fmo a dire che, in
fondo, per imparare la storia di Firenze, quanto potesse importarne
a un Francese, tre giorni bastavano: — Oh! bastano due— inter-
ruppe Leopoldo — e avanza il terzo per raccontarla.
Un'altra volta accadde fatto di maggiore rilievo. Durante un
ballo a' Pitti il cocchiere del ministro di Russia presso la Corte di
Toscana, venuto a diverbio con una sentinella la tratt6 di canaglia.
La sentinella che, come si dice da noi, ne aveva pochi degli spic-
cioli, per tutta risposta appiopp6 al cocchiere col calcio del fucile
un colpo nello stomaco e lo Iasci6 boccheggiante. Bruttissimo acci-
dente, caso gravissimo, offesa la livrea di un plenipotenziario, anzi
offeso lo Zar nella livrea del suo ambasciatore. Ne nacque un dia-
voleto : proteste del diplomatico, ingiunzioni, minacce di peggio se
non si desse e presto la dovuta soddisfazione. Poiche n6 proteste, n6
ingiunzioni, ne minacce di peggio valevano a scuotere Tastuta
flemma di Don Neri Corsini ministro segretario di Stato, Pamba-
sciatore, che era un signor De Bouteneff, ebbe ricorso al Granduca.
Non si parlasse, diceva, di provocazione : il cocchiere non s'era nem-
meno sognato d'insultare la sentinella: aveva pronunciato una pa-
rola russa (e il ministro la ripeteva) che nel suono somigliava a
canaglia, ma il cui significato non era affatto ingiurioso.
Leopoldo Iasci6 che si sfogasse e poi, come al solito, sommesso e
lento soggiunse:
1. Domenico Tanzini (1801-1848), delle Scuole Pie, che nel suo Ordine
aveva preso il nome di Numa Pompilio, e che spesso scrisse col pseudonimo
di Anton Maria Izunna. Compose molti lavori di carattere educative.
2. del russo: del Demidoff.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1065
— Confesso che la istruzione de' nostri soldati 6 difettosa: il
russo non glielo insegniamo : non sapendolo, quando si sentono ri-
volgere una parola che pare, al suono, canaglia, adoperano il cal-
cio del fucile. Non c'e che un rimedio : finche i soldati toscani non
sappiano il russo, quella parola che ha detta Lei, i cocchieri della
Legazione bisogna si astengano dal dirla alle sentinelle.
E lo licenzio.
I due aneddoti raccontati a me da chi era in grado di accertarne
e guarentirne Tautenticita provano che Tultimo Granduca di Tosca-
na, che vollero far passare per un imbecille, tale non era. Ma di lui
non ancora fu scritto equamente: fra il Baldasseroni1 ministro, che
incensando il Principe incensa se stesso, e il Montazio,2 volontaria-
mente credulo, acrimonioso per antichi rancori, oggi sbollite le pas-
sioni di cinquant'anni fa, c'e posto per un biografo sereno; il quale
fatta ragione de' tempi e di particolari condizioni, sapra essere a
Leopoldo fino a un certo punto indulgente.
Di lui sono meglio noti gli errori, alcuni enormi, che Tanimo:
gli errori cagionati talora dalF essere egli un Absburgo, Panimo diffi
cile a penetrare. Poiche a indagarlo gli aneddoti aiutano, un altro
ne dir6 che seppi gia da mio padre e di cui forse in neglette carte
d'archivio rimangono documenti.
Sul finire del 1849, a comandare il corpo austriaco d'occupazione
in Toscana, venne a Firenze da Vienna il generale Principe di
Liechtenstein. V'era giunto da poco, quando un bel giorno arrivano
per lui dalla Germania alcune casse di sigari. Naturalmente, in
Dogana esigono si paghi il dazio onde la legge grava i tabacchi fore-
stieri ; ma il Lichtenstein, taccagno sebben principe, per non met-
tere mano alia tasca invoca a suo pro la franchigia conceduta ai di-
plomatici rappresentanti di Sovrani esteri. I doganieri lietissimi
che Tossequio alia legge imponesse di fare un dispetto al tedesco,
gli negano la qualita di diplomatico. L'altro s'impunta, sbraita:
fiato gettato. Si, no, un viavai di messi altezzosi del palazzo della
Crocetta che il generale abitava, al palazzo del Buontalenti, ove la
i. Giovanni Baldasseroni (vedi la nota sap. 170) fu autore del volume Leo
poldo II gran duca di Toscana, edito nel 1871 (cfr. pp. 1085-6). 2. Enrico
Vantancoli, o Montazio (vedi la nota i a p. 910), autore de U ultimo gran-
duca di Toscana> Firenze, Spudrie, 1870.
I066 FERDINANDO MARTINI
Dogana stava a quel tempo. Finalmente, ostinato e imbizzito per
Postinazione altrui, il Liechtenstein scrive al Granduca; e i doganieri
subito awertono mio padre, allora amministratore generale delle
regie rendite, cioe delle gabelle a delle privative, e cui perci6, a
doppio titolo, spettava risolvere quella vertenza. La risolse come
doveva, ordinando che i sigari non si consegnassero fino a che il
dazio non fosse pagato.
II Granduca voile essere informato appuntino del come stessero
le cose, e chiamo a Pitti mio padre ; il quale non dur6 molta fatica a
persuaderlo che il Lichtenstein non aveva alcun diritto a godere
della franchigia. La legge era quella; se il sovrano volesse mutarla,
poteva: ma finche" era quella, conveniva osservarla e farla osservare.
A Modena, a Parma, Duchi e Duchesse avrebbero probabilmente
destituiti i doganieri e magari mandato a casa P amministratore ge
nerale: Leopoldo lo conged6 dicendogli facesse sapere a* suoi im-
piegati che era contento di loro ; che di leggi adpersonam non si do
veva neanche parlare ; avrebbe indotto il Lichtenstein a riconoscere
il proprio torto, awertendolo che non potendo defraudarsi Pera-
rio, se egli non pagava, avrebbe pagato lui Granduca.
E cosi fece; e il Lichtenstein pag6.
Padrone di se* e degli atti propri, era e voleva altri ossequente alia
legge ; in soggezione dell' Austria aboliva il giurato statuto costitu-
zionale. Per questi due tratti si delinea, a mio credere, intera la fi-
gura delPuomo e del principe.
Al principe nocque non tanto 1'origine, la stretta parentela con
Tlmperatore, quanto la fede cieca nelle sorti degli Absburgo e nel-
Ponnipotenza delP Austria, che aveva vista dal '15 al '48 imporre
alPEuropa la propria politica e dallo sfacelo del '49 risorgere come
per lo innanzi temuta: nocquero al principe e alPuomo Paspetto
sonnolento, il contegno impacciato, lo scilinguagnolo impedito a
pronunziare un paio di lettere delPalfabeto, la erre particolarmente,
e fin la miopia. Una sera, a* Pitti, tenendo circolo, a una signora
che vedeva per la prima volta domandb :
— Lei quanti figli ha?
E 1'altra:
— Tre, Altezza.
Imbattutosi di 11 a poco nella medesima signora e non rawisan-
dola, le si rivolse ancora, e
— Lei quanti figli ha?
CONFESSION! E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1067
— I soliti tre, Altezza Reale. Non ho avuto -tempo di fame altri
da dianzi in poi.
E si rise dell'equivoco, si rise della risposta, si rise del Granduca:
e a un sovrano non giova che si rida di lui.
Con tutto ci6 e a malgrado dei difetti propri e degli epigrammi
altrui, Leopoldo, avanti il 1848, era e si sapeva amato in Toscana
dai phi; anche da molti fra coloro che egli ebbe irreconciliabili ne-
mici dappoi e piu macchinarono per rovesciarlo. E perche si sa
peva amato, si compiaceva del farsi vedere, delFandare fra la gente,
passeggiando per la citta o, durante un veglione, aggirandosi in
mezzo alle maschere nella platea della Pergola. Non lo os6 piu
dopo il ritorno da Gaeta, quando gli austriaci montavano la guar-
dia a Palazzo Vecchio e nemmeno quando se ne furono tornati ai
loro paesi; che anzi parve allora nascondersi. Parecchi mesi ogni
anno pass6 nelle tenute dell'Alberese, nelle ville di Pratolino, di
Castello, della Petraia: e quando a Firenze, la quotidiana trottata
fece il piu spesso fuor delle mura in luoghi appartati: si che la citta-
dinanza non lo vide se non di rado in occasione di pubbliche feste
(misere feste, immeschiniti rimasugli di splendidezze medicee) e
quando lo vide, spesso non gli bad6.
Nella processione del Corpus doming per esempio, che percorreva
gran tratto della citta, egli vestito con la bianca cappamagna, da
gran maestro dell'ordine di Santo Stefano,1 seguiva il Santissimo.
Prima del '48 lo fiancheggiavano, strascicando faticosamente la
gloria, le cicatrici e la sciabola i generali Trieb, Caimi, Ceccherelli,
il colonnello Gherardi, vecchi avanzi deiresercito napoleonico : ora
invece un drappello di guardie nobili, nelle divise rosse fiammanti.
E ora non lui la gente si mostrava a dito, ma un conte Galli che gli
stava dappresso reggendo 1'ombrellino: e perch6 il Galli in quel
giorno sfoggiava sul giubbone grossi bottoni di diamanti, celebri
nella Firenze di quel tempo come straordinariamente preziosi; e
perch£ era odiato dal popolo minuto ; il quale, vero o no che fosse,
credeva e rammentava come in un anno in cui per la eccessiva ab-
bondanza del raccolto il vino si pag6 un soldo il fiasco, il Galli,
posseditore di molte vigne, piuttosto che venderlo a quel prezzo, die
i. L'ordine cavalleresco di Santo Stefano fu istituito da Cosimo I de'
Medici nel 1562.
1068 FERDINANDO MARTINI
la via alle botti e mut6 in purpurei rigagnoli i grigi viali del proprio
giardino.
Cosi per San Giovanni, quando la Corte giungeva sul palco eret-
tole in piazza Santa Maria Novella, affinche godesse del palio del
cocchi, nel primo mostrarsi delle loro Altezze non al Granduca si
guardava, ma alia granduchessa, anzi al vestito della grandu-
chessa.
I palii furono per secoli spasso dai fiorentini desideratissimo :
lo dimostra il costume di festeggiare co* palii la ricorrenza di giorni
solenni nella storia della citta. Palio per Santa Reparata in ricordo
della sconfitta di Radagasio1 re dei goti nel 405 ; palio 1' 1 1 giugno
in ricordo di Campaldino ;2 palio il 29 luglio per commemorare la
battaglia di Cascina vinta contro a1 Pisani nel 1364, e altri e altri:
persino un palio di asini a dileggio servile della memoria di Fi-
lippo Strozzi,3 fatto prigione dal Medici a Montermurlo e ricon-
dotto sopra un somaro a Firenze. Quando papa Leone X4 fu a
Firenze nel 1515 ne fece correre innanzi al proprio palazzo in via
Larga ogni giorno e sino a tre in un giorno: corse di vecchi, di
ragazze, di bufale, di cavalli. Questo dei cocchi fu corso la prima
volta per ordine di Cosimo I nel 1563. «Era» (mi servo delle parole
d'un erudito) «sulPandare de' giochi del circo massimo in Roma e
con gli stessi colori : il veneto (celeste) il prasina (verde) il russato
(rosso) Valbato (bianco); e perch6 tutto fosse romano, soggiunge
Cesare Guasti,5 s'inalzavano sulla piazza, a forma di mete, due
guglie che nel 1608 furono fatte di marmo mistio di Serravezza, quali
oggi ancora si veggono. Dalla guglia piu vicina al tempio comin-
ciava la carriera dei cocchi che tre volte giravano ellitticamente la
piazza, schivando le guglie, sicche la bravura dei guidatori era
ammirata per la maestria del piegare i cavalli alle svolte, come coloro
di cui Orazio cantava,6 gloriosi di aver corso nello stadio, senza
toccare le mete con le ruote infocate dal veloce girare ».
i. L'ostrogoto Radagasio fu sconfitto, presso Fiesole, da Stilicone. 2. Cam
paldino : e il luogo della battaglia combattuta dai Fiorentini contro gli Are-
tini, I'n giugno 1289, cui partecipo Dante. 3. Filippo Strozzi, fuoruscito
antimediceo, fu sorpreso, vinto e fatto prigioniero nel 1538 a Montemurlo
dalle milizie imperiali condotte da Alessandro Vitelli e da Cosimo I.
Rinchiuso nella fortezza fiorentina di San Giovanni Battista, una mattina
fu trovato cadavere. 4. Giovanni de' Medici, pontefice col nome di
Leone X dal 1513 al 1521. 5. Cesare Guasti (1822-1889), di Prato, scrit-
tore, storico, letterato, segretario dell'Accademia della Crusca. 6. di
cui . . . cantava: vedi Orazio, Carm., I, i, 3-6.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1069
Questo, ben inteso, a tempo dei Medici, quando il palio fu destra-
mente conteso in gara animosa, e secondo cant6 con modestia di
rime Domenico Poltri1 accademico della Crusca:
Coloro die in que' carri erano entrati,
ai cavalli perche piu camminassero
tiravan colpi come disperati,
e correan quelli accio presto arrivassero>
ma non parean cavalli che corressero,
par eon piuttosto uccelli che volassero.
Ma ai tempi dei quali discorro, cioe dal '49 al '59 le cose anda-
vano diversamente : Tordine non era gia di sferzare e d'incitare
i cavalli ; se mai, di trattenerli. La sicurezza dello Stato non permet-
teva vincessero i corridori piu veloci e si premiasse Tauriga piu
abile. Non si permetteva mica a Siena giungesse prima il cavallo
dell'Oca . . . \JOca era, si, la contrada di Santa Caterina, ma il suo
fantino vestiva giacca bianca e verde rigata di rosso; tricolore:
e al tricolore, con tutto il rispetto per la Santa, cavallo spedato.
Cosi nel palio de' Cocchi a Firenze : non il verde, amore dei costitu-
zionali, non il rosso, caro ai repubblicani, la vittoria era imposta al
bianco o al celeste, secondo che bianco o celeste fosse in quel giorno
Tabito della Granduchessa: perci6 a lei e non al Granduca si ba-
dava quando comparivano nel palco.
Poich6 ci6 era noto e si sapeva simulata la gara, la corsa perdeva
alquanto d'interesse: ma non si potevano immolare - che diavolo! -
alle attrattive di uno spettacolo popolare Tautorita del governo e le
sorti della dinastia. E se al prasina e al russato sconfitti plaudissero
le tibie di polio, la polizia prenderebbe nota dei plausi e sorveglie-
rebbe i plaudenti.
Perche alle persecuzioni contro ai cappelli airitaliana e agli scac-
dapentterifstimzti simboli rivoluzionari e contrassegni di congiura-
ti qualche anno prima, ora succedeva la persecuzione contro le tibie
di polio accomodate alPuso di bocchini da sigari : e chi si faceva ve-
dere in pubblico con quell'osso fra7 denti rischiava d'andare a fu-
mare nel carcere delle Murate.
i. Domenico Poltri, poeta e accademico, vissuto tra i secoli XVII e XVIII.
Su lui, ormai poco noto, si veda G. NEGRI, Istoria degli scrittori fio-
rentini, Ferrara 1722, p. 557. 2. Per i cappelli, vedi la nota 2 a p. 1021;
lo scacciapensieri e un piccolo istrumento musicale a bocca, di suono assai
acuto.
1070 FERDINANDO MARTINI
II governo pavido e sospettoso dava argomento di riso con queste
piccinerie, la Corte con le gretterie. Parsimoniosa era stata sempre,
ne ci6 dispiaceva a* fiorentini nati homines ad frugalitatem secondo
uno storico : ma dal '46 la parsimonia accennava a divenir tirchieria.
Da quando si par!6 di riforme, la prima riforma si fece sulle spese di
casa: si davano, si, a palazzo Pitti i soliti pranzi, i soliti balli nel
carnevale, i soliti appartamenti1 in quaresima; ma gli invitati osser-
vavano che pranzi, cene, rinfreschi non eran piu quelli d'una volta.
In carteggi del '47 che ho sott'occhio, una mala lingua scrive che il
Granduca si rifa sul buffet e sulle acque tinte delle elargizioni per
I'armamento della guardia civica. E del rimanente non c'e bisogno
di altri testimoni, basto io. lo, sicuro.
Fra le feste carnevalesche della corte ci era anche, ogni anno, un
ballo di bambini. Compagni miei maggiori d'eta me lo avevano
magnificato, facendomi venire 1'acquolina in bocca, con 1'enumerare
e descrivere le scatole di dolci loro in quel ballo a larga mano distri-
buite. Quando - avevo cinque o sei anni - venne il mio turno . . .
ahime! uscii da Palazzo con due piccolissime giberne di cartone
ognuna delle quali conteneva pochi cioccolatini e null'altro!
Fu quella la mia prima delusione; non me ne sowerrei certa-
mente ora, se a serbarne memoria non avessero aiutato un fatto
per se stesso indimenticabile e il nome d'una donna della quale udii
in seguito parlare assai spesso ; nome che dalle licenziose cronache
parigine del secondo impero veggo oggi passare nella storia. Nel
correre da un punto alPaltro della sala, inciampai, e sentendomi
cadere mi aggrappai alia spalla d'una bambina ; ma anzi che soste-
nermi per quell' appoggio, feci a lei perdere 1'equilibrio e la tra-
scinai meco nel ruzzolone. Quella bambina, che allora si chiamava
la «Nicchia» Oldoini, divenne poi la «divina» contessa Virginia
Verasis di Castiglione, agente segreta del Cavour alle Tuileries,2
cara al «fosco figlio d'0rtensia»;3 e dopo la cacciata de' Napoleoni-
i. appartamenti: ricevimenti. z. Virginia Oldoini (1837-1899), nobile to-
scana, sposanel 1854 di Francesco Verasis, conte di Castiglione, gentiluomo
della corte di Vittorio Emanuele II. Bellissima e di molta abilita, fu dal Ca
vour inviata a Parigi, perch6 agisse su Napoleone III a favore della causa
italiana. Nicchia e diminutivo di Virginia («Virginicchia»). 3. «fosco fi
glio d'Ortensia*: Napoleone III era figlio di Luigi Bonaparte re d'Olanda e
di Ortensia Beauharnais. La frase e del Carducci, nelPode barbara Per la
morte di Napoleone Eugenio, v. 17.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) IOJI
di accorta e preveggente ma inascoltata consigliatrice del Duca
d'Aumale e del Conte di Parigi.1
La vidi due o tre volte dal suo nonno materno Ranieri Lampo-
recchi avvocato di grido, che abitava nel proprio palazzo, adiacente
lungo TArno a quello de' Masetti ove TAlfieri mori.2 II Lamporec-
chi nei brevi riposi che Temi gli consentiva sacrificava a Callio-
pea3 e scriveva un poema in ottave: Napoleone. Finite un canto lo
mandava a mio padre per averne consigli ed emende ; di qui qual-
che rara visita di mio padre, al giureconsulto-poeta ; e durante i
loro colloqui, i miei con la «Nicchia»;. colloqui non desiderati,
perch.6 consapevole sin d'allora della propria veramente meravigliosa
bellezza, trattava me e gli altri ragazzi con un'alterigia che le pro-
cacciava le nostre piu cordiali antipatie.
Ma il ruzzolone non fu Pawenimento piu rilevante in quel mio
primo entrare fra i danzatori e nelle aule regali. L'innalzarsi ahime!
fu grave assai piu del cadere.
Ballavamo nella stanza del trono : un'alta pedana alia quale si
ascendeva per tre gradini coperti di un ricco tappeto e ai cui lati si
ergeva un baldacchino di velluto rosso ; nel mezzo dejla pedana un
poltroncione della stoffa medesima. Rosso il tappeto, rosso il bal
dacchino con frangie d'oro, rossa la poltrona, incorniciati da legno
dorato la spalliera e i braccioli. Mi parve che di lassu tutti quei
bambini affollati nella sala dovessero fare un bell'effetto : e per con-
vincermene, salii audace e m'assisi irriverente sulla sedia che aveva
accolto i fianchi di tre granduchi di Toscana,4 arciduchi d'Austria,
principi imperiali d'Ungheria e di Boemia, in cospetto di sudditi, di
ministri, d'ambasciatori.
Ah! veggo ancora la mia povera madre partirsi dall'angolo opposto
della sala, farsi largo quanto piu rapidamente potesse fra la calca in
fantile, scansando, scartando con le mani a destra e a sinistra le testo-
line stupefatte per quel suo irrompere improwiso, e venirmi contro
i. Henri d'Orl&ms, duca d'Aumale (1822-1897), quarto figlio di Luigi Fi-
lippo, esule dopo la rivoluzione del 1848, pote tornare in Francia solo dopo
il 1870, quando (1872) fu eletto deputato; Louis Philippe Albert d' Or-
le"ans, conte di Parigi (1838-1894), proclamato re di Francia nel 1848, regn6
mezz'ora, ch£ la rivoluzione lo esili6. Ritorn6 in Francia nel 1871, ma fu
costretto a ritirarsi di nuovo in Inghilterra. 2. ove . . . mori: 1*8 otto-
bre 1803. 3. Temi e la dea della giustizia, Calliope la musa della poesia
epica. 4. tre . . . Toscana: Pietro Leopoldo (vedi la nota a p. 168), Ferdi-
nando III (vedi la nota i a p. 415), Leopoldo II.
1072 FERDINANDO MARTINI
con occhi che promettevano terribili reprimende e non ancor patiti
castighi. Mi accorsi di aver fatto qualcosa di grosso e scesi; e da ca-
stighi e reprimende fui sovranamente salvato. II Granduca ch'era li
presso, seguendo lo sguardo di mia madre si volse, mi vide, capl e
presomi in collo e carezzandomi e scusandomi, implor6 e mi ottenne
il per do no.
Forse la memoria di quel pietoso interporsi mi sollecita a raffi-
gurare Leopoldo quale fu veramente, non quale lo dipinsero le fa-
zioni e le sette e ad essergli fino a un certo punto indulgente.
E qui sento gridarmi da piu d'uno: indulgente con chi tent6
bombardare Firenze dalla fortezza di Belvedere?
Ecco: qui non si scrive storia: se si scrivesse, molte narrazioni
sarebbero da rettificare con la scorta di documenti, molte opinioni
da correggere. 6 tempo di mettersi in testa che la storia del nostro
risorgimento politico e da fare e da rifare, se storia si scriva non per
adulare passioni, ma per conoscere la verita. Le colpe, gli errori
dell'ultimo Granduca di Toscana li so anch'io e non li assolvo:
sono molti e non c'e bisogno di aggiungerne. Che Leopoldo ordi-
nasse di bombardare fu spacciato nel '59, subito dopo la sua par-
tenza da chi voile atteggiarsi a salvatore della patria ed essere
ricompensato dall'averla salvata; ma non e vero.
Si bombarda una citta per soggiogarla e rimanervi dominatore.
Leopoldo era risoluto a partire da Firenze e sperava di ritornarvi.
Bettino Ricasoli, Celestino Bianchi, Giovan Battista Giorgini1
che tanta parte ebbero negli avvenimenti toscani del '59, da me piu
volte interrogati non mai affermarono: il Ricasoli e il Bianchi si
strinsero nelle spalle e risposero : « si disse », il Giorgini tacque e
sorrise.
Ma v'ha di piu. Quando per proposta di Lorenzo Ginori2
Tassemblea toscana decretb la decadenza della dinastia Lorenese,
pur non tacendo nella propria deliberazione le antiche benemerenze
del Granduca, ricordb Ponta e il danno delPoccupazione straniera,
le molteplici violazioni del diritto pubblico, Pabbandono dello
1. Bettino Ricasoli: vedi la nota 2 a p. 429; Celestino Bianchi'. vedi la
nota 6 a p. 1037; Giovan Battista Giorgini: vedi la nota i a p. 1132.
2. Lorenzo Ginori, nobile fiorentino, creatore della fabbrica di porcellane
di Doccia.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1073
stato, il rifugio cercato nel campo nemico, la incompatibility di un
principe austriaco col sentimento nazionale, con Tordine e la feli-
cita della Toscana; del comandato bombardamento neanche un ac-
cenno : e sarebbe stato argomento non trascurabile da chi parlava
all'Europa e dall'Europa chiedeva assentimenti o acqulescenze.
E ancora: Ferdinando Andreucci1 cui fu commesso di riferire
intorno alia proposta Ginori, si esprimeva cosi: «Di odio personale
ci sentiamo libero 1'animo affatto: altrettanto possiamo affermare
del popolo nostro generalmente : il contegno suo nobilissimo nello
stesso 27 aprile mostro apertamente che le persone egli non odiava:
ma anzi anche mentre mostravansi piuttosto ostili che amiche alia
causa nazionale, ei sapea rispettarle ».
Ora di chi tent6 bombardare non si citano benemerenze ; le
quali un tale proposito tutte cancella; a chi tent6 uccidere, se anche
si dica cristianamente «noi non vi odiamo» si soggiunge per lo
meno « sebbene ci abbiate fornito ragioni di odiarvi ».
Non e vero. £ questa una delle solite fandonie che si spacciano
in tutte le rivoluzioni. NelP89 a Parigi inventarono che il conte
d'Artois2 voleva dando fuoco a una mina far saltare in aria 1'As-
semblea nazionale : sessanta anni dopo a Firenze un ufficiale di non
bella nomea se ne ricord6 e adatt6 la leggenda ai nuovi casi. E
pazienza per il conte d'Artois: il futuro Carlo X se - com'e oramai
provato - non ebbe mai nel pensiero il disegno attribuitogli, era
pur tuttavia uomo da concepirlo: non era uomo da bombarda
mento Leopoldo II, bonario e frollo : due volte in procinto di per-
dere il trono, non seppe altro che battere il tacco e raccomandarsi
alPaiuto dell* Austria e alia misericordia di Dio.
Non e vero.
Ma fu creduto da molti! Eh! se tutto ci6 che si cred6 fosse vera-
mente da credere . . . Le madri tedesche, scrive Enrico Heine, istu-
pidite dal terrore si cacciavano disperatamente le mani nei capelli,
quando sentivano raccontare che Tantropofago Niccol6,3 impera-
i. Ferdinando Andreucci (1806-1888), di Siena, gi£ ministro dell'istruzione
nel gabinetto Ridolfi (vedi la nota 4 a p. 159), fece parte della Consulta
durante il governo prowisorio del 1859 in Firenze, favorendo la soluzione
unitaria. Fu poi deputato (1860-1871) e senatore. 2. Fratello di Luigi XVI,
il conte d'Artois (1757-1836) fu tra i primi ad emigrare (17 luglio 1789).
Sali al trono nel 1824 con il nome di Carlo X, e perd6 il trono nella rivo-
luzione del luglio 1830. 3. Niccold: Nicola I (1796-1885), zar dal 1825. Fa-
mosa la sua durissima repressione, nel 1831, della insurrezione polacca.
68
1074 FERDINANDO MARTINI
tore di Russia, mangiava tutte le mattine a colazione tre fanciulli
polacchi, e li mangiava crudi in salsa di acetosella.
LE MIE PRIGIONI1
Nell' estate del 1858 venne a Firenze la Laura Bon2 . . . Laura
Bon . . . Chi e costei ? domanderanno parecchi, udendo per la prima
volta quel nome. Potrei soggiungere «figlia di Francesco Augusto »,
ma non basta, e forse non giova ; temo che oramai un medesimo oblio
awolga la figliola ed il padre. Per farla conoscere, ricorrer6 ad un
maresciallo austriaco, il cui nome non dovrebbe essere ancora in
Italia dimenticato.
In un libro del Friedjung - Benedek' s nachgelassene Papiers-3
libro che certamente non ebbe molti lettori fra noi - e un curioso
documentor una lettera che il feld-maresciallo Benedek,4 coman-
dante la piazza di Verona, mandava a Vienna, al conte di Cren-
neville il 26 febbraio 1864. - Ne riferisco tradotta una parte (pag.
329-332).
((Caro e molto importunato amico,
L'attrice italiana Laura Bon, alta, grossa, di fisonomia non
troppo attraente, ma che nonostante i suoi trentacinque anni,
pochi piii pochi meno, pu6 ancora dirsi un "bel pezzo di donna" ,
pare voglia seguire 1'esempio della Ristori; e per6 si propone di
recitare sui teatri di Vienna. Saputo ch'io partivo per Vienna,
venne a pregarmi di prepararle il terreno cola; tomato io a Verona,
torn6 lei da me per consigliarsi, per sapere se quel suo proposito
poteva, si o no, essere mandate ad effetto con speranza di buon
successo. Le risposi che, poco pratico del mondo teatrale, non m'era
riuscito raccogliere notizie sufficient!; a ogni modo, s'ella volesse
conoscerla, la mia opinione era questa: per la musica, per Popera
italiana Vienna ottima piazza: non altrettanto buona per la com-
i. Ed. cit., cap. xn, pp. 191-204. 2. L'attrice Laura Bon (1825-1904)
fu amata da Vittorio Emanuele II e da lui ebbe un figlio, Emanuele (1853).
3. Heinrich Friedjung (1851-1920), storico austriaco, professore airUni-
versita di Vienna. La grafia esatta e Papiere. 4. Ludwig August von
Benedek (1804-1881) combatt6 nelle guerre del '48-49 e in quella del '59.
Fu lo sfortunato comandante supremo delPesercito austriaco nella guerra
del 1866 contro la Prussia.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1075
media, perche v'e troppo esiguo il numero delle persone die sap-
piano la lingua e una compagnia comica correrebbe rischio di reci-
tare alle panche.
La signora parti per Torino. Giorni sono, rieccola a Verona e a
chiedermi con insistenza un colloquio. La ricevei, ed essa mi affer-
m6 essere mandata dal re Vittorio Emanuele a portarmi il suo ri-
tratto in fotografia e i suoi saluti ; soggiunse che aveva da farmi in
tutta segretezza una ambasciata.
£ necessario tu sappia che la Bon nella sua prima gioventu fu in
affettuosissima relazione con Vittorio Emanuele, allora principe ere-
ditario; con Pandare degli anni, Tamante d'un tempo divenne la
buona arnica, che in memoria dei giorni lieti, porta con ostentazione
una broche, nella quale e racchiusa 1'effigie di Sua Maesta.
Cominci6 dal raccontarmi che il Re, saputo come la compagnia
piemontese ottenesse qui il favore del pubblico e la stessa Bon fosse
da me garbatamente accolta, pens6 di affidare all'antica innamo-
rata una missione diplomatica. Bisognava, primo punto, io le cre-
dessi: ed ella, a persuadermi della verita di quanto asseriva, mi
narrb una quantita di particolari : ricord6 che a Mortara1 io tentai far
prigione il Duca di Savoia, ma non riuscii se non ad afferrare le
briglie del suo cavallo, ecc., ecc. : ripete" frasi complimentose dette
dal Re sul conto mio e finalmente butt6 fuori la parte, imparata,
come dice lei, faticosamente a memoria . . .
In sostanza il Re ha il vivo desiderio di stringersi in alleanza con
P Austria, e ottenere, a tempo opportune, la Venezia mediante
compensi da determinarsi. Mi faceva domandare se ero disposto a
riferire alPImperatore le sue opinioni e le sue proposte e ad assu-
, mere Pufficio di intermediario. Tutto ci6 esposto dalPattrice con
elegante vivacita di parola.
Giunse anche per me la volta dei complimenti : lodai le sue atti-
tudini alia diplomazia, la sua voce, i suoi denti bellissimi, e risposi :
che io, car a signora, la creda, o no, in facolta di dirmi quanto m'ha
detto, e cosa che poco importa; le faccio soltanto osservare che se
un generale piemontese s'impegnasse a fare ci6 che mi si propone,
tutti, compreso il re Vittorio Emanuele, direbbero: "Costui e un
imbecille, anzi un asino".
La signora ascolt6 la risposta con la "buona grazia" e la disinvol-
i. A Mortara, il 21 marzo 1849, ebbe luogo una battaglia tra Piemontesi e
Austriaci.
I0y6 FERDINANDO MARTINI
tura propria (Tun'italiana e si accomiat6, chiedendomi una com-
mendatizia per il direttore del teatro di Vienna. Volli dimostrar-
mele ancora cortese ; - le detti una lettera di cui ti acchiudo la co-
pia, per il barone Mecseny, e Tindirizzo del consigliere Lewinsky,
direttore della stampa al Ministero, che conobbi molti anni sono
durante il mio soggiorno in Galizia. Giudica tu quanto del collo-
quio sia opportune far noto al Ministro di Polizia. »
Fatta la conoscenza, riprendiamo il racconto.
La Bon venne dunque nel 1858 a Firenze, e dette al Teatro
Nuovo, oggi demolito, alcune rappresentazioni. Quantunque non
ancora distratta dai negoziati internazionali, recitava piuttosto male ;
con enfasi monotona, fatta piu noiosa da un continue gesticolare;
ci6 nonostante gli applausi scrosciavano ; credo nessuna attrice ne
ottenesse mai de' piu caldi, meritando meno. Se non che, gli ap
plausi non andavano a lei, ma a quello spillo che sei anni dopo
dava nelPocchio al maresciallo Benedek: alia miniatura di un
Vittorio Emanuele biondo ricciuto paffuto, che spiccava ora sulla
tunica di Clitennestra, ora sul manto di Maria Stuarda.
Di fresco aveva ottenuto successo felicissimo sui teatri di Fran-
cia e d' Italia, merce la Ristori, una mediocre Medea del Legouve:1
venne in mente alia Bon di esumare la Medea del Niccolini.2
Figuratevi! una tragedia dell'autore del Procida, recitata da un'at-
trice protetta, anzi benvoluta dal Re di Sardegna! Ai liberali,
auspice Vincenzo Salvagnoli, parve quella la piu favorevole delle
congiunture, per una delle tante manifestazioni allegoriche che
piacevano ai toscani d'allora e le quali, pur intese a significare mol-
tissime cose Tuna piu sowersiva dell'altra, permettevano al go-
verno scansafatiche di far le viste che nulla fosse.
Da anni, il Niccolini non usciva di casa se non per fare una trot-
tata in carrozza chiusa ne* viali delle Cascine. Dico «trottata»
perche cosl usa a Firenze, dove fa una «trottata» chiunque si
lascia strascicare per diporto in carrozza, anche se i cavalli vanno
i. Ernest Wilfred Legouvt (1807-1903), poeta e drammaturgo francese,
autore di scritti educativi e di memorie (Soixante cms de souvenirs, 1855-
1887). Aveva composta la Medea nel 1854, per la Rachel. La tragedia fu in-
yece rappresentata per la prima volta a Parigi, nel 1856, in traduzione ita-
liana e neirinterpretazione di Adelaide Ristori. 2. Niccolini: vedi la nota
lap. 438. La sua Medea fu composta tra il 1810 e il 1815.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1077
di passo ; e a passo di lumaca andava quello del Niccolini, coetaneo,
credo, del cocchiere, del cocchio e del poeta, tutti venuti al mondo
sullo scorcio del secolo decimottavo. Mi ricordo averlo veduto il
Niccolini la prima volta, poco innanzi che awenissero i fatti i
quali sto per raccontare. Di lui, sebbene gia si stampasse suj gior-
nali la mia prosa barbara e pretensiosa, avevo forse letto una lirica
0 due; ma i vecchi lo dicevano grande autor tragico e bastava
perch'io lo ammirassi. Allora, a diciassette anni, non si provava il
prurito che assilla oggi gli adolescenti di dir sempre bianco quando
1 vecchi dicono nero e viceversa; si giurava in verba magistri.
Eccesso per eccesso, meglio gli spropositi, la presunzione, le awenj
tatezze; sono difetti dei quali col tempo e lo studio si guarisce;
ma quelPassuefarsi ad accogliere le opinioni belle e fatte, quel
vestire, sia pure senza volerlo, la infingardaggine da reverenza, di-
sawezza dal pensare, impigrisce talmente lo spirito che a scoterlo
poi ci vogliono anni e anni e non sempre ci si riesce. Dunque il
Niccolini, a detta de' vecchi, era un grand'uomo ed io smaniavo di
vedere come fosse fatto Pautore di tante opere stupende, che nes-
suno mi aveva posto fra mano ed io mi ero senza rammarico aste-
nuto da leggere. Un giorno, passando da via Larga, veggo muovere
faticosamente una bastardella (cosi chiamavano certe carrozze chiuse
di forma particolare), e da un crocchio sento uscir queste parole:
«Ecco il Niccolini che va alle Cascine!»
Augusto Barbier1 raccontc- d'aver fatto di corsa a Napoli tutta la
via Toledo per raggiungere la catiche di Walter Scott; io feci piu
lungo tragitto ; e di carriera, infilando strade e vicoli, esperto delle
scorciatoie, arrival alle Cascine prima della carrozza.
Me lo figuravo, a dire il vero, molto diverso. Basso di statura,
rinfagottato in una palandrana color marrone, con una parrucca
che gli calava sotto gli orecchi e un cappello a cencio che copriva
gli estremi lembi della parrucca, il Niccolini, a chi non poteva
mirarne lo sguardo, sfavillante sempre, pareva un potesta ripo-
sato2 che svernasse alia capitale.
Invitato ad andare al Teatro Nuovo, rispose da principio e brusco
i. Augusto Barbier (1805-1882), g& commemorate dal Martini in un arti-
colo che gli merit6 elogio dal Carducci (vedi Opere, xxin, edizione na-
zionale, pp. 296, 301, 309), scrittore francese, tra le cui raccolte poetiche
resta notevole quella intitolata // pianto (1833), ispiratagli da un viaggio
in Italia. 2. riposato: andato a riposo, in pensione.
1078 FERDINANDO MARTINI
un bel no ; ma gli altri, senza sgomentarsi, tanto fecero, tanta gente
misero in moto, che riuscirono a vincere la repugnanza del vec-
chio poeta e a condurlo alia quarta o quinta replica della Medea,
in un palco del primo ordine, a destra della bocca d'opera.1 Awe-
nimento cosl solenne, che mio padre permise io andassi al teatro
senz'altra accompagnatura che quella d'un amico, il quale aveva la
stessa eta mia: non ancora diciassette anni.
Della gente infanatichita ne ho vista piu volte in vita mia, ma
non come in quella sera. La tragedia, sto per dire, non fu neanche
ascoltata; il pubblico la sapeva oramai a mente e rompeva in ap-
plausi a un verso, a un emistichio, prima ancora che uscisse dalle
labbra degli attori. Io che non avevo letto la Medea ne capii poco o
nulla; e perch6 era difficile Pattenzione tra quel continue frastuono
di battimani e di grida, e jperche sulle prime mi distrassero le mera-
vigliose braccia della Laura, le prime belle braccia femminili che
io, cupido adolescente, avessi agio di contemplare.
Cosi s'and6 fino al termine del quarto atto. NelPintervallo dal
quarto al quinto, quella che poteva apparire onoranza al poeta si
mut6 in una vera e propria manifestazione politica. Cominci6 una
contessa Bobrmska, vecchia russa dimorante a Firenze, a buttare
in platea da un palco del second'ordine manciate di fogliolini, con
su stampata questa invocazione :
SORGESTI CON LA MEDEA
TRAMONTERAI CON L'ARNALDO?
L» ITALIA ANCO NELLE TENEBRE
ASPETTA UN TUO RAGGIO
IL MARIO2
Roba innocua; ma fogliolini s'eran buttati undici o dodici anni
innanzi nella platea della Pergola, per chiedere al Granduca non so
piu se la guardia civica o la costituzione. La gente ricondotta col
pensiero a que* tempi s'infiamm6; fino allora s'era gridato «Viva
il Niccolini»; da quel punto si grid6 «Viva il poeta italiano», poi
con abile trapasso « Viva la gloria d' Italia », finalmente, senza tante
cautele, «Viva ritalia».
i ! bocca d'opera: boccascena. 2. II dramma Mario e i Cimbri, iniziato nel
1858, rimase un abbozzo.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1079
Una volta preso Paire, non fu piu possibile fermarsi. Giuseppe
Bandi (che perde quella sera Poccasione di farsi mettere in car-
cere, ma, come succede agli uomini di buona volonta, la ritrovb
di li a poco)1 distribui stampato un suo carme in isciolti, nelle
forme esteriori un inno al Niccolini, nella sostanza un inno alia
liberta; ed egli stesso ne offri al poeta una copia in carta bianca rossa
e verde. Perche questo mi scordavo : che Fillustre vecchio non fu
lasciato in pace un minuto; nel suo palco un continue andirivieni
di persone che gli s'accalcavano intorno, e
Chi il pie chi il manto di baciar godea,
come alia Giuditta dello Zappi.2 Rammento che mentr'io ficcavo
il capo fra le gambe del Bandi per chiappare una mano del Nicco
lini, il Biadi, mio compagno, gli copriva di baci la parrucca; e il
Niccolini, infastidito da quelle espansioni, brontolava: «basta, via,
grazie, basta».
Intanto un tale scorge al terzo ordine la improwisatrice famosa a
que' giorni e grida: « C'e la Milli! »3 Fu come dar fuoco a una polve-
riera: subito, e da ogni parte: «la Milli, la Milli, giu, giu, versi,
versi, giu, giu». Inutilmente la povera donna si rincantucci6 ;
Pandarono a prendere e la portarono quasi di peso sulla scena e vol-
lero improwisasse un sonetto con rime date dagli spettatori. O
caso o malizia, la prima di quelle rime fu amore ; poi via via le altre
e ogni rima un applauso. Mancava una rima in ore a compiere la
seconda quartina; una voce (ne si capi donde partisse) ur!6:
tricolor e. Succed6 un silenzio di tomba. L'awocato Leopoldo Cem-
pini,4 un de' caporioni del partito liberale e che era vicino a me ne'
posti distinti, borbottb: «addio»; quasi, arrivate le cose a quel
punto, temesse inevitabile Fintervento della polizia. Ma nessuno si
mosse ; oramai la rima era data e a mutarla si sarebbe fatto peggio ;
d'altra parte «tricolore» non e tale epiteto che si possa appiccicare
a molti sostantivi ; di guisa che la Milli, regnante in Toscana Leo
poldo II e sedente Pio IX sulla cattedra di San Pietro, salut6 in
i. Giuseppe Bandi (vedi la nota 3 a p. 438), gik arrestato per pochi giorni
nel marzo 1858, fu poi nel luglio successive condannato a un anno di reclu-
sione e rinchiuso a Portoferraio. 2. Giambattista Felice Zappi (1667-
1719), arcadico autore del sonetto Giuditta, di cui il Martini cita il sesto
verso. 3. Giannina Milli (1827-1888), di Teramo, celebre improwisa
trice, nota per i suoi sentimenti patriottici. 4. Leopoldo Cempini: vedi la
nota Sap. 436.
I080 FERDINANDO MARTINI
pubblico teatro innanzi a parecchie centinaia di persone la bandiera
nazionale, present!, accettanti e stipulanti i poliziotti di S. E. il
commendatore Leonida Landucci,1 ministro delFinterno; se Pa-
vesse fatto a Roma, sarebbe andata a improvvisare le terzine a
Civita Castellana,2 se a Modena, le avrebbero mozzato d'un colpo
solo il sonetto e la testa. Ma ne a Roma ne a Modena si sarebbe per-
messa quella recita; in Toscana il governo non soltanto la consent!,
ma dette ordine ai sottoposti di lasciar correre. E cosi fu fatto.
Dopo il «tricolore» parve bensi ai poliziotti troppo meschina fi-
gura lo star li piantati con le mani in mano ; chiesero istruzioni ed
ebbero questa risposta : provvedessero affinche non oltre si trasmo-
dasse e, alPoccorrenza arrestassero i piii esaltati.
Ma ormai la festa era fmita, 1'intento raggiunto anzi oltrepassato ;
sfidata la polizia con la temerita, giovava ora canzonarla con la
prudenza. Difatti durante il quinto atto applausi strepitosi all'au-
tore e all'attrice, non una sillaba che desse argomento a richiami.
II Niccolini usci per un androne che dava sulla piazza del Duo-
mo, ove s'era adunata per accompagnarlo a casa gran folia. Chi
gridava « Viva Pautore della Polissena », chi « Viva Pautore del Fosca-
riniv: le perifrasi pericolose le avevano, indettati, messe da parte.
Mi meravigliavo che nessuno ricordasse VArnaldo da Brescia.
Notiamo bene: avevo fatto i miei studi in un istituto nel quale
Tinsegnamento della storia cominciava con Agamennone e finiva
con Carlo Magno; dove poteva tenersi dotto nella letteratura ita-
liana chi avesse a memoria il canto d'Ugolino e lardellasse i com-
ponimenti di frasi racimolate nel Galateo2 di monsignor Della
Casa. Arnaldo da Brescia non sapevo chi fosse: lo credevo un feu-
datario; nondimeno sapevo cio che a Firenze non era possibile
ignorare, cioe che I' Arnaldo si stimava universalmente il capolavoro
del poeta.
i. Leonida Landucci, senese, dopo essere stato tra i piu accesi propugnatori
di liberta, awenuta la restaurazione granducale nel 1849, fu ministro del-
1'interno di Leopoldo II fino alia caduta della dinastia lorenese: « ministro
odiatissimo e al principe conciliatore funesto di ogni piii rigido e retrivo
prowedimento » (vedi F. MARTINI, // Quarantotto in Toscana, cit., p. 12 e la
nota 2). Vedi anche p. 170, la nota 3, e pp. 1086-7. 2- A Civita Castellana
sorgeva il piu noto ergastolo dello Stato pontificio. 3. II Galateo di Gio
vanni della Casa (1503-1556) era allora considerate modello di lingua.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) Io8l
Confidai al Biadi, quello della parrucca, e che gia mio condisce-
polo era colto come me, la intenzione di far Perudito e di urlare
«Viva Pautore ddl'Arnaldo ». La trovata parve naturalmente stu-
penda anche a lui, e mentre il Niccolini montava in carrozza, pre-
se insieme le mosse, insieme cacciammo il grido funesto.
Non avevamo fatto piii di died passi Puno a braccetto delPaltro,
quando una mano poderosa piomb6 sulla nuca del Biadi. Fermatosi
lui, fui costretto a fermarmi anch'io. Mi volto e veggo un ufficiale
de' gendarmi,
-Che c'e?
— C'e che lor signori faranno il piacere di venir con me.
— Dove? perche"?
— II dove e il perch6 lo sapranno poi. Ve lo voglio dar io, PAr-
naldo, monelli . . .
E soggiunse non so piu quale aggettivo onde il mio compagno si
senti offeso; e volgendosi con molta dignita:
— Badi come tratta — disse.
— Se tu rifiati — replico Paltro — ti do uno scapaccione che il
muro te ne renda due.
Ci persuademmo subito che Panimo di quelPuomo era chiuso
alia serenita delle disquisizioni pacate e procedemmo con lui verso
il Palazzo nonftnito* dove, un trecento passi distante, aveva sede la
Prefettura. Noi zitti. L'ufficiale mugolava.
— L/avrebbero a fare a me! Lascia correre, lascia correre, se
n'awedranno loro quei . . . (e qui un altro aggettivo sostantivato,
vera mancanza di rispetto ai superiori). Si canzona! quattr'ore di
questo fracasso . . . se mi davano carta bianca ne impiccavo uno
per quinta . . . Pur di dar noia non vanno a scavar questo vec-
chio . . . ? (terzo aggettivo e mancanza di rispetto al Niccolini).
Arrivati alia prefettura ci fece salire al primo piano, domand6
i nostri nomi, notizie della famiglia e ci piant6 al buio. Torno di li
a poco per condurci in un bel salotto che suppongo fosse il salotto
di ricevimento del commendatore Petri, prefetto di Firenze e pro-
vincia. E se ne riand6.
i . Palazzo non finito : a Firenze, in via del Proconsolo, sorge un palazzo
del Cinquecento, costruito per un ramo della famiglia Strozzi, e detto
non finito p crone" lasciato incompiuto dairarchitetto Bernardo Buontalenti
e dai suoi aiutanti.
1082 FERDINANDO MARTINI
Era di luglio e dalle finestre spalancate entrava un fresco deli-
ziosissimo. Per carcerati non si stava male; nondimeno avremmo
preferito essere altrove; ci angustiava il pensiero che i nostri non
vedendoci tornare potevano immaginare qualche brutto caso, o,
a meglio dire, qualche caso piu brutto, che il trovarsi li non era, in
ultima analisi, un divertimento. Anche ci angustiava Fincertezza
della nostra sorte: che un castigo dovesse toccarci pareva sicuro:
quale ? Per giunta avevamo sete ambedue, il mio compagno d'acqua
gelata, io di dottrina. Volevo sapere che cosa avesse fatto quell' Ar-
naldo da Brescia, che a nominarlo soltanto si finiva in prefettura.
Passa un'ora, due, tre, non si vede nessuno; m'ero appisolato
da poco sopra un bel canape coperto di raso verde a righe alterna-
tivamente opache e lucide, quando entr6 nella stanza (saranno state
le cinque) il prefetto in persona: un vecchietto piccolo, asciutto,
pallido, lindo.
E qui il dialogo merita d' essere trascritto tal quale m'e, dopo tanti
anni, nella memoria, genuino e vivo come se di ieri sera.
IL PREFETTO. — Buon giorno a loro.
Noi DUE INSIEME. - Felice giorno, signor commendatore.
IL PREFETTO (leggendo in un foglietto). - Loro si chiamano ?
Io. — Ferdinando Martini.
QUELL 'ALTRO. - Michele Biadi.
IL PREFETTO. - Lo sanno perch6 son qui ?
Io. — No signore.
IL PREFETTO. - Come no signore ? Non facciano il nesci. Non
hanno gridato ieri sera?
Io (smanioso di far 1'enidito). - Viva Tautore dell' Arnaldo da
Brescia.
IL PREFETTO. --Ah! dunque loro leggono VArnaldol
A dir di si, rischiavamo una bugia pericolosa, a dir di no ci si
faceva canzonare; per conseguenza, zitti.
IL PREFETTO (seguitando). - E chi glielo ha dato a leggere? II
babbo no di certo ; son figli di persone rispettabili . . . Qualche
amico, gia s'intende. Ci ho dato eh ? Un amico ? . . . Facciano
grazia di rispondere.
Rispondere che ? II Biadi fece un cenno afFermativo col capo.
IL PREFETTO. — Ah! Io dicevo io . . . E chi e questo amico ?
La cosa si faceva seria; non potevamo inventare un complice.
Per buona sorte il prefetto mut6 discorso.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1083
IL PREFETTO. - Ma, domando io, che cosa ci trovano di bello nel-
YArnaldo ? L' Italia eh ? la solita Italia! E poi ? Ah! ragazzi senza giu-
dizio, vi par egli questo il modo di contenersi? Pigliar parte ai sub-
bugli, dar dei dispiaceri alle famiglie . . . E se vi facessi mettere in
prigione ?
Pausa. - II prefetto ci guardava per veder Teffetto che ci fa-
ceva quella minaccia. Noi sostenevamo lo sguardo imperterriti,
sicurissimi, per il modo onde era fatta, che in prigione non ci si
andava.
IL PREFETTO. - Se almeno vi riscaldaste per qualche cosa che ne
mettesse il conto! ma per il Niccolini! . . . Italia Italia Italia, e
nient'altro. E con tutta la sua Italia non e mai riuscito a fare un
sonetto come quello del bisnonno. Ve ne ricordate?
Ne te vedrei del non tuo ferro cinta . . .
Noi INSIEME (felicissimi di poter fare finalmente gli eruditi).
Pugnar col braccio di straniere genii
per servir sempre, vincitrice o vinta.1
IL PREFETTO. - Sicuro. Per servir sempre y vincitrice o vinta.
Questi son versi! Ma quelli del Niccolini vi pare che sieno versi
da tragedia? Si, belle immagini, una certa fluidita, ma versi da
tragedia neanche per sogno . . .
U angel di Dio
quella parola che non men dal core
nel suo libro non scrive, o scritta append
la cancella col pianto.
Troppe parole, troppa lirica, poca azione . . . troppe lungag-
gini . . . Non vi pare ? Scommetto che non vi pare. No ? Ma P Al-
fieri, ragazzi, Tavete letto?
Io (contentissimo di dire questa volta la verita). - No.
IL PREFETTO (al Biadi). -E lei?
IL BIADI. - Nemmeno io, signor Commendatore.
IL PREFETTO (cascando dalle nuvole). - Non avete letto PA1-
fieri ? Ma chi e stato il vostro maestro ? Aspettatemi un momentino.
Usci e torn6 in un battibaleno con un libro in mano e li, direi
seduta stante se non fossimo stati tutti tre in piedi, lesse e illustrb
i. Sono i celebri versi finali dell'allora famosissimo sonetto Italia, Italia,
o tu cuifeo la sorte di Vincenzo da Filicaia. Vedi anche p. 414 e la nota i.
1084 FERDINANDO MARTINI
squarci del Filippo, della Virginia, fermandosi ogni tanto per guar-
darci con Tocchio canzonatore e ripetere: «Questi son versi! Que-
sta e tragedia!»
Arrivato al discorso di Virginio :
O gregge infame di malnati schiavi,1
non lesse phi: pos6 il libro e declamo addirittura. Quand'ebbe fi-
nito, ci batte la mano sulle spalle e:
— Andate a casa, ragazzi, che i vostri saranno in pensiero ; ab-
biate giudizio e non vi compromettete. E leggete PAlfieri, leggetelo
bene, leggetelo tutto e vedrete che i furori per il Niccolini vi passe-
ranno. Ci vuol altro che Arnaldtl Addio, figlioli, e state bene.
L'epilogo tragicomico lascio che altri racconti.
« Quando awenne la predetta dimostrazione » (cosi in un suo libro
Aristide Provenzal)3 <c alcuno da Londra scrisse a me dimorante al-
lora a Torino per domandarmi pronte ed esatte informazioni sulla
sorte del giovine che era stato arrestato. Scrissi immediatamente
al professor Bianciardi3 a Firenze e alia signora Palli in Livorno, ma
invano. La causa delle premurose ricerche, ignorate forse dal Mar
tini medesimo, era che una signora inglese, probabilmente la si
gnora Mignaty, cosi benemerita delle lettere italiane, o la signora
Teodosia Garrow, che tradusse YArnaldo in versi inglesi, scrisse
ad un giornale di Londra che un giovane di nobile aspetto era stato
arrestato e chiuso chi sa dove, giacche non v'era traccia di lui in
nessun carcere, e ci6 per aver osato gridare "Viva Tautore del-
FArnaldo" in un paese soggetto interamente al papa».
« Chi sa dove! » Quante lugubri ipotesi in quelle tre parole! Chi sa
in quale tetra spelonca pensarono illanguidisse il mio nobile aspetto,
intristisse il fibre della mia gioventu. E delle ipotesi c'era pur que-
sta, la piu semplice: che in carcere non si riuscisse a trovarmi,
perch6 non mi ci avevano messo : ma questa pare non venisse in
mente alle pietose signore!
Felice prigionia di una notte d'estate! Se non produsse tutti gli
i. Alfieri, Virginia, atto v, scena IV. z. « Italian Readings. Nuova antolo-
gia della prosa italiana moderna compilata e tradotta in inglese da Aristide
Provenzal, Pisa, G.G.A. Uebelhart, 1884 » (nota del Martini). 3. Bian
ciardi i vedi la nota i a p. 433.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1085
effetti che il Commendatore Petri ne sper6, uno tuttavia ne pro-
dusse : una parte della mia educazione intellettuale la devo a quel
buon uomo di prefetto toscano, il quale alle cinque della mattina
declamava la Virginia a due ragazzacci, e, per guarirli delYArnaldo,
li consigliava a curarsi con VEtruria vendicata.1
UN GRANDUCATO IN EXTREMIS2
NelPanno di grazia 1858, regnando inToscana S.A.I, il Granduca
Leopoldo II arciduca dj Austria, principe reale d'Ungheria e di
Boemia, il Ministero era cosi composto : presiedeva al Consiglio e
insieme airamministrazione delle finanze, de' iavori pubblici e
della guerra, Giovanni Baldasseroni; teneva il portafogli dell'in-
terno Leonida Landucci: Niccol6 Lami quello della Giustizia
e degli affari ecclesiastici ; Ottaviano de' Marchesi Lenzoni3 era
ministro degli affari esteri e - per interim - dell'istruzione pubblica.
II Baldasseroni, nato nel piano di Pisa di modesta famiglia cam-
pagnola, salito a grado a grado sino ai massimi uffici, fattosi per il
lungo tirocinio espertissimo nelle materie amministrative e ministro
fin dal '45, era un integro, infaticabile impiegato che, in paese pic
colo, in tempi prosperi, fra popolazioni tranquille, poteva essere, e
fu prima del '48, utile strumento di governo ; ma se abile abbastanza
per navigare in mare queto, per andar contro alle burrasche tutto
gli mancava, a cominciare dalla bussola. Persuaso che le antiche
benemerenze bastassero alia sicurta della dinastia, la mitezza del
Governo e la facilita del vivere alia parca e floscia contentezza del
sudditi, il desiderio di novita che andava ogni giorno piu mani-
festandosi, per apertissimi segni, nel Granducato non era, se-
condo lui, che un armegglo di pochi ambiziosi, incoraggiti dal-
1'esempio e istigati dall'ambizione piemontese. Cosi, nulla di
quanto avrebbe dovuto spaventarlo lo intimoriva. II Congresso di
i. Etruria vendicata: poemetto di Vittorio Alfieri, del 1789, in cui si cele-
bra 1'uccisione (1537) di Alessandro de' Medici da parte del cugino Lo-
renzino. Questa uccisione fu per molto tempo erroneamente considerata
come una affermazione di spiriti di liberta. 2. Ed. cit., cap. xiv, pp. 223-33.
3. Giovanni Baldasseroni: vedi le note 3ap.i7oeiap. 1065 ; Leonida Lan
ducci: vedi la nota i a p. 1080; Niccolo Lami: oltre le molte notizie date nel
presente brano, un agile profilo del Lami pu6 leggersi nel saggio di F. MAR
TINI, // Giusti studente, nel volume Simpatie (vedi la bibliografi a) ; Ottaviano
Lenzoni era gia stato, nel 1848, ministro diToscana aNapoli, e copri la stessa
carica, dopo poco, a Vienna. Dal 1856 ministro degli esteri di Leopoldo II.
1086 FERDINANDO MARTINI
Parigi? Bellissime chiacchiere, ma chiacchiere. II Convegno di
Plombieres? Che cosa vi si fosse detto e pattuito non lo sapeva:
ma sapeva che mai e poi mai quel Bonaparte, memore della cordiale
mimifica ospitalita data a se ed ai suoi, lascerebbe torcere un ca-
pello al Granduca di Toscana. II Mazzini? Ah! un secondo qua-
rantotto le Potenze non lo avrebbero permesso e, se mai, sarebbe
finito come quelFaltro. I «Tedeschi» non li amava neppur lui;
delle molestie, de' sopraccapi, durante 1'occupazione gliene ave-
vano dati parecchi : ma quando poche centinaia di facinorosi osas-
sero turbare la pubblica pace, bisognava pur che qualcuno mettesse
loro giudizio; e questo qualcuno non poteva essere che P Austria,
FAustria sempre pronta, FAustria possente, FAustria invincibile.
Con tale conoscenza degli uomini e tale sentore dei tempi, la
pretendeva a uomo di stato ; e credeva forse darsene Fimpostatura,
egli di statura mediocre e grassoccio, camminando maestoso col
petto sporgente, la testa alFindietro e Focchio alFempireo. II po-
polino, per quel suo atteggiamento, non Sua Eccellenza Baldasse-
roni, lo chiamava, ma Sua Baldanza Eccellenzoni.
Nonostante questa albagia, gli spirava nella faccia una tal quale
bonarieta; diverso in ci6 dal collega ministro delFinterno, la cui
fisonomia era cupa, anzi truce. II Landucci, carbonaro nel '31,
nel '48 liberalissimo, senatore, compilatore dello Statute e ministro
delle finanze nel Gabinetto presieduto da Gino Capponi, mutati i
tempi e awenuta la restaurazione, era corso de' primi a Gaeta.1
AlFopposto del Baldasseroni che aveva Feloquio abbondante, egli
parlava succinto, con certa intonazione d'imperio, volentieri lar-
dellando il discorso con emistichi latini e ricordi classici. Quando
nel '49 entr6, ministro delFinterno, in Palazzo Vecchio, a un amico
che gli raccomandava indulgenza verso i compromessi nei rivolgi-
menti politici di quell'anno, rispose con grottesca magniloquenza:
— lo non sar6 il Seiano di nessun Tiberio — ;2 e Seiano non fu, an-
che perch6 fra Tiberio e Leopoldo II qualche differenza correva;
ma fu consigliatore di angherie, tanto piu biasimevoli quanto piu
inefficaci e di rigori sino allora in Toscana inusati, che lo fecero
odioso alFuniversale. Una mattina di levata,3 uscendo, trov6 scritto
sul muro di casa sua:
1. a Gaeta: a richiamare il granduca Leopoldo II che vi si era rifugiato.
2. Seiano fu il noto ministro deirimperatore Tiberio ed ebbe turpe fama per
i suoi delitti politici. 3. di levata: presto, all'ora in cui ci si alza dal letto.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1087
Per screditar col nome le Termopoli
venne un altro Leonida nel mondo;
chiamate Serse e ditegli
che ci ammazzi, per grazia, anche il secondo.
Niccol6 Lami era, lo ho gia detto, guardasigilli. Se e vero quanto
il Carducci affermo :* che cioe, come nella Francia despotica le
lettere di imprigionamento e la Bastiglia formarono Voltaire e
Mirabeau,2 cosi nella patriarcale Toscana le ingiurie di un birro
dettero la mossa alle poesie civili del Giusti, il Lami merit6 tutta la
nostra riconoscenza : fu lui infatti che, auditore di Governo a Pisa
nel '33> ((in riga di paterna cura copri di contumelia »3 il futuro au-
tore del Gingillino.4 Ministro nel '58, s'era serbato tale quale quello
di venti cinque anni prima: rozzo ne' modi cosi da sgradire perfino
alia Corte dove, perch.6 native di Empoli, lo chiamavano il navi-
cellaio',5 nomignolo che gli stava bene anche per ci6, che egli stu-
diava barcamenarsi, riannodando o coltivando amicizie contratte in
altri tempi con awocati liberali, specie con Vincenzo Salvagnoli
suo compaesano. Sempre pauroso di sentirsi mancare il terreno
sotto i piedi, sempre guardingo di non compromettersi troppo, si
sgolava a rammentare la sua qualita di magistrate e a dire che la
politica non era affar suo; cercando insomnia di fare in modo
che nel caso di naufragio, lo stipendio o la pensione rimanessero
a galla.
Era particolarmente antipatico alia Granduchessa la quale, vin-
cendo in acume il marito, stimava Puomo per ci6 che valeva. E la
sovrana antipatia si traduceva in gerghi e in giochi di parole delle
dame di Corte. Quando S.E. il Guardasigilli andava a' Pitti6 le sere
di ricevimento, o di appartamento come allora dicevano, al suo pas-
sare, una dama domandava alia compagna: — L'ami? — E 1'altra:
— Non so che farmene.
i. Cfr. Opere, xvrn (edizione nazionale), p. 275. 2. Le lettres de cachet
erano in Francia rescritti regi che ordinavano arbitrariamente 1'arresto;
Onorato Righetti, conte di Mirabeau (1749-1791), fu tra le maggiori figure,
anche come oratore, nella Assemblea costituente, durante la Rivoluzione.
3. «tn riga . . . contumelia »: sono ripresi i w. 17-8 del componimento del
Giusti Rassegnazione e proponimento di cambiar vita (1833). 4- Gingillino'.
celebre poesia del Giusti, composta nel 1845. 5. il navicellaio: presso
Empoli, in una accentuata insenatura della riva delPArno, esisteva (ed e
esistito fino a pochi anni fa) un cantiere per la costruzione di battelli, navi-
celle e barche. Di qui il soprannome. 6. Palazzo Pitti era la residenza
del Granduca.
I088 FERDINANDO MARTINI
Tanto rozzo il Lami, quanto nel tratto amabilmente signorile il
Lenzoni ; tanto Puno usualmente rinfagottato nelle vesti casalinghe
ed annose, quanto 1'altro elegante di quella eleganza disinvolta che,
appunto perche non ostentata, rivela 1'assuefazione e il buon gusto.
Bello e fresco uomo anche da vecchio, giustificava con la simpatica
nobilta dell'aspetto le molte fragilita onde per le vie di Amatunta e
di Pafo1 s'era condotto da giovine sull'orlo del sepolcro,
si che trasserlo di bora
bagni e latte di somara,
come cant6 in certa licenziosissima Litania fiorentina V abate Giu
seppe Borghi,2 riposandosi dall'inno AlV Eucaristia e meditando
I9 Ode allo Spirito Santo.
Nel '58, era il solo de* governanti toscani che frequentasse i sa-
lotti delle belle signore, e le male lingue asseveravano che, tuttavia
indomato, non sempre gli era meta il salotto. Ministro di Tosca-
na a Napoli prima, in seguito a Vienna, aveva imparato ed usava
il linguaggio vago delle Cancellerie, che serve mirabilmente a custo-
dire i segreti quando ci sono, e quando non ci sono a lasciar cre
dere che ci sieno. Ma non si dava 1'aria di grand'uomo e sulle spalle
ancor dritte contro alia spinta degli anni, portava il carico delle rela-
zioni internazionali senz'ombra di sussiego o di boria. Forse s'ac-
corgeva egli stesso che boria e sussiego non gli stavano a viso ; nono-
stante la sua devozione al Principe, pensava, tra scettico e fatalista,
che sino a tanto le cose andavano per il loro verso, le faccende di un
ministro degli affari esteri in Toscana si sbrigavano con poco in-
gegno, minor tempo e fatica; se poi un giorno - certamente re-
moto - la volonta o i consensi dell'Europa minacciassero di mutare
lo Stato e ponessero in pericolo la dinastia, non la diplomazia gran-
ducale avrebbe potuto contrastare a quelle minacce e scongiurare
que' pericoli.
Questi in Toscana, correndo il '58, i Ministri, i quali non che so-
spettare di prossime rivoluzioni, neppure temevano di nuove som-
i. Amatunta e Pafo si chiamavano due citta dell'isola di Cipro, entrambe
famose per il culto di Venere. 2. Giuseppe Borghi (1790-1847), di Bibbiena,
fu collaborator deir«Antologia» del Vieusseux (vedi la nota 2 a p. 436),
storico e autore di ventiquattro Inni sacri (1829-1831).
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1089
mosse, poi che quella scoppiata Tanno innanzi a Livorno per opera
di mazziniani fu cosi prontamente e facilmente compressa.1
In tali pigre illusion! si cullavano, ne fatti di grande significa-
zione valsero a scuoterli dalla lor cocciutaggine cieca.
Veniva in Toscana in quell'anno Filippo Gualterio.2 A qual fine
e con quali uffici, lo raccontava egli medesimo nel 1866 a Firenze
in casa del conte Augusto De' Gori Pannilini, insieme con me ascol-
tatori Giovanni Prati ed Enrico Nencioni.
Raccontava averlo il Cavour mandate al Governo Toscano con
missione segreta, nel 1857, latore di queste proposizioni : matrimo-
nio della Principessa Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele, con PAr-
ciduca Carlo secondogenito del Granduca, alleanza fra Piemonte
e Toscana: questa, se la guerra awenisse, fornirebbe alPalleato
12,000 uomini e li comanderebbe 1'Arciduca medesimo; ove la vit-
toria arridesse, Modena e il suo territorio si aggregherebbero al
Granducato, Le proposte furono tutte scartate, non solo; ma il
presidente Baldasseroni, risaputo che il messo piemontese frequen-
tava gli «agitatori» phi accesi, lo invit6 a tornarsene donde era
venuto; invito al quale 1'altro rispose : — Vado, matornero presto,
quando se ne sara andata Vostra Eccellenza.
Ci6 che udii riferisco ; so che di quanto il Gualterio narrava non
hanno traccia storie o document! noti sin qui; aggiungo che al-
cuni degli uomini che furono al Cavour cooperatori ed amici, da
me interrogati piu tardi, stimarono quelle proposte suggerite al-
Pumbro marchese dalla fantasia incontinente ; comunque, certo e
che a Firenze, nel '57 mandatovi dal Cavour il Gualterio ci fu:
lasciamo stare se egli avesse facolta di profferire alleanze e di com-
binare matrimoni; poniamo pure che il suo mandato fosse quale lo
cred6 il Ricasoli, e si rileva dai carteggi di lui; che, cioe, dal Ca
vour gli fosse commesso, unico ufficio, il consigliare al Governo
Toscano di ristabilire la costituzione del 1848, e ai liberali di con-
tentarsi, per allora, di quel prowedimento ; dovevano pur tuttavia
bastare quel consiglio, quella istessa missione segreta a fare accorti
i. quella . . . compressa: il 30 giugno del 1857, a Livorno, era scoppiata una
insurrezione mazziniana, diretta da Maurizio Quadrio (1800-1876). La som-
mossa, contemporanea al moto di Genova e alia spedizione di Sapri, fu ra-
pidamente domata. 2. Filippo Antonio Gualterio (1818-1874), di Orvieto,
uomo politico, collaborator del Cavour, preparatore dei moti umbri del
1860, fu poi deputato, senatore, ministro delPinterno (1867-1868) e mmistro
della Real Casa. Si occupd anche di studi storici.
69
IOQO FERDINANDO MARTINI
il Baldasseroni e i colleghi che le cose non stavano precisamente
come a loro piaceva di immaginarle, e che qualche novita si prepa-
rava o si maturava.
Ma non intesero e non si persuasero ; neanche le famose parole
di Napoleone III alFambasciatore austriaco1 li smossero. Al solito,
pensarono, bellissime< chiacchiere, ma chiacchiere. I rivoluzionari
si confortassero pure con gli articoli delle gazzette: il Governo
non per nulla manteneva legazioni nei principali Stati di Europa;
aveva notizie sicure. Infatti il Tanay de' Nerli ministro di Toscana a
Parigi assicurava che guerra la Francia non ne farebbe, tutt'al piu
si sarebbe andati a finire in un congresso; e da un congresso il
Granduca non aveva nulla a temere. II Provenzali, ministro di
Toscana a Torino, nelle note ufficiali ripeteva le affermaziom me-
desime; e per quella miopia della passione, la quale non scorge
oltre il desiderio, pronosticava, in privati carteggi, che la cupida
irrequietezza del Piemonte, anzivche aiutata, sarebbe infrenata una
volta per sempre.
Turbo finalmente quella placida confidenza il discorso di Vit-
torio Emanuele, inaugurante il 10 gennaio 1859 la nuova sessione
parlamentare. II « grido di dolore »2 intron6 li per li quelle orecchie
e subito si giudicb opportune dare un po' di tinta liberate al Go
verno; ma, ripensandoci meglio e poich6 timori non se ne avevano
e nulla urgeva, fecero le cose senza fretta e con pace. Soltanto due
mesi dopo, il 26 di marzo, un decreto del granduca nomin6 Sera-
fino Lucchesi ministro degli affari ecclesiastici, Giulio Martini3
ministro dell'istruzione pubblica.
Ho detto « tinta liberale)). Intendiamoci. II Lucchesi da giovine,
una trentina d'anni prima, s'era dimostrato « inchinevole a novitk »,
e, nel '53, procuratore generale alia Corte Regia, eletto a far parte
della Consulta cui fu commessa la revisione del codice penale,
si adoper6, come scrive un suo biografo, «nel temperare le asprezze
della legge». II Martini, dal '48 al '52 ministro di Toscana presso
Carlo Alberto, lo aveva seguito sui campi di Lombardia e ottenuta,
dopo Novara, la benevolenza del nuovo Re, s'era legato in stretta
amicizia con insigni uomini del Piemonte, col d'Azeglio segnata-
mente.
In ci6 consisteva il liberalismo dei nuovi ministri; ambedue di-
I. le famose . . . austriaco: vedi p. 373 e la nota 3. 2. « grido di dolors »:
vedi p. 373 e la nota 4. 3. Giulio Martini: vedi la nota i a p. 1057.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE)
sposti, se si provassero necessarie, a larghe riforme amministra-
tive, ma per lo sperimento di died anni innanzi poco favorevoli a
innovazioni nell'ordine politico dello Stato; ambedue, per ultimo,
persuasi che il mutar dinastia sarebbe stato alia Toscana danno
gravissimo, il rimanere « Toscana » benefizio inestimabile ; con-
cordi in ci6 con molti fra i liberali, dei maggiori per condizione
sociale, per ingegno, per autorita.
Giulio Martini era mio zio. Sebbene avesse di poco varcato la
cinquantina, molti acciacchi lo tormentavano. <c Spiritus promptus
caro autem infirma)).1 Una oftalmia sopraggiuntagli verso la meta
delPaprile lo costrinse in casa: e dove il consiglio de' Ministri,
adunarsi in un palazzo de' Mozzi nella via de' Bardi presso di lui.
Mio padre era anch'egli malato in que' giorni; e ogni sera mi
mandava in via de' Bardi per dare di se e aver notizie del fratello.
Gli avvenimenti incalzavano, la guerra era ormai certa; alle in-
giunzioni dell' Austria che imponeva il disarmo, il Conte di Cavour
rispondeva con sdegnosa ripulsa. II 26 d'aprile, passeggiando sul-
rimbrunire nella piazza di San Marco con Enrico Nencioni, ci im-
battemmo nella piii singolare delle « dimostrazioni ». Precedeva il
generale Ferrari Da Grado,2 di nome italiano, austriaco di nascita,
dall'esercito austriaco passato a comandare il piccolo esercito
toscano; e al quale per 1'alterigia onde trattava i subalterni, i fio-
rentini avevano affibbiato il nome di « Generale Tacete». Lo se-
guiva a distanza di qualche diecina di metri una moltitudine silen-
ziosa, e appunto per quel silenzio, terribile. Chi disse piu chi meno:
ma anche oggi ripensando allo spazio che quella gente, ordinata
quasi militarmente in colonna occupava, io calcolo fossero circa
tremila persone. Seguirono il Generale, sempre in quel cupo silen
zio, per buon tratto della citta e fino alia Piazza de' Giudici,
Lung'Arno delle Grazie, ove aveva sede il Comando e ov'egli di-
morava.
Le dimostrazioni non sogliono farsi in silenzio, e quella, a chi non
la vide e non sa quali ne fossero il movente e lo scopo, pu6 parere
oggi curiosa e sto per dire ridicola. Bisogna spiegare. In primo
luogo i non molti che la pensarono e la iniziarono raccolsero die-
i . « L'animo e pronto, ma il corpo e debole » (Marc., 14, 38). 2. Ferrari da
Grado: vedi p. 423 e la nota.
1092 FERDINANDO MARTINI
tro a se quelle migliaia di persone non chiamate, ne informate, per-
che tutte capirono subito di che si trattasse, e manifestarono cosi
altrettanto salda quanto spontanea la concordia degli animi. Inol-
tre, si faceva cosa palesemente ostile al soldato austriaco, arma
corta1 della reazione, senza pur offenderlo ; e ci6 significava volere
il popolo che alia guerra contro P Austria la Toscana partecipasse ;
ma ammoniva con le buone, prima di ricorrere alle cattive. Final-
mente si ingiungeva al governo di pensare ai casi suoi ; pochi giorni
innanzi quella dimostrazione si sarebbe potuto facilmente impe-
dirla o disperderla, ordinando a un battaglione di uscire dalla ca-
serma; ora no, perche la guarnigione di Firenze aveva gia fatto causa
comune col popolo.
Scioltosi il muto e minaccioso corteo, me ne andai al solito alle
case de' Mozzi; il cammino era brevissimo, e vi fui, per cosi dire,
in un salto.
II consiglio de' Ministri era adunato; poiche si costumava in
Toscana di fare le cose alia buona, la presenza del Governo non
aveva nulla mutato alle consuetudini della famiglia del Martini,
la quale soleva accogliere ogni sera parenti ed amici; si che nella
stanza precedente a quella, ove a porte chiuse si discuteva forse
intorno alle sorti del Granducato, certamente intorno a quelle del
Ministero, erano amici e parenti, che la speranza di attingere noti-
zie a limpida fonte vi aveva condotti in numero maggiore del con-
sueto. Raccontai quanto mi era occorso; dall'altra stanza si udirono
alcune delle mie parole, e la voce dello zio chiamo: — Ferdinando.
Entrai, come si capisce, molto timidamente. La stanza era a mala
pena illuminata da due lucerne, sino a meta delle quali scendeva una
tendina di drappo verde. Nulla di solenne; i Ministri sedevano
Puno qua Taltro la; piuttosto che a consiglio si sarebbe detto fos-
sero a crocchio. II solo guardasigilli poggiati i gomiti sul tavolino
che gli stava dinnanzi e il capo sulla palma delle mani, pareva spro-
fondato in pensieri gravissimi. Sopra il canap6, eretto il torso ed
alta come sempre la testa, che s'incorniciava nelle volute d'un gran
ciuifo bianco, il presidente Baldasseroni. Mi interrogb:
— Che cosa diceva di la? Che cosa ha visto?
Ripetei il racconto per filo e per segno.
— E quando e successo tutto questo ?
— Mezz'ora fa, Eccellenza.
i. arma corta: pugnale.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1093
Segui un silenzio. II ministro deirinterno interrogo a sua volta:
— E quante persone ci saranno state, secondo lei ?
— Non saprei precisamente . . . circa tremila.
II ministro enfio lievemente le guance e Iasci6 andare un « bum »
incredulo e dispregiativo.
lo, che pensavo essermi tenuto nel giusto, mi accinsi a provare
esatto il mio calcolo.
— Eccellenza . . .
Mio zio mj inter ruppe :
— Bene, bene, va' va'.
Ero andato timido, me ne venni risentito. A diciassette anni,
non ancora temprato contro alle impudenze de' linguaggi partigia-
neschi, mi sarei lasciato confutare senza rammarico da una di quelle
sentenze di Seneca che il Landucci aveva care; ma quel bum
mi offese; e augurai di tutto cuore le dimissioni del Ministero.
Le quali furono appunto deliberate in queirultimo Consiglio
dei Ministri del Granducato di Toscana, cui posso dire, in certo
modo, d'essere stato presente.
Di li a poco i Ministri uscirono, primo il Baldasseroni ; rammento
che volgendosi ai colleghi con certa intonazione ironica esclam6 :
« Vedremo, vedremo».
Ci6 ch'egli attendesse e sperasse non so; so ci6 che tutti videro
il giorno dopo e lo racconter6 in un altro capitolo.
VENTISETTE APRILE1
Mio padre era malato ed io dormivo nella stessa sua camera per
assisterlo, se di assistenza avesse bisogno.
Alle quattro della mattina il vecchio servitore Pasquale mi desto.
- C'e di la il signor Tellini.*
— A quest'ora? Che vuole?
— Parlarle per cosa urgentissima,
— Stamani — mi disse — facciamo la rivoluzione. £ gia pronto
un Governo provvisorio. Ubaldino Peruzzi, Vincenzo Malenchini
i. Ed. cit., cap. xvi, pp. 251-60. 2. Tellini: vedi la nota sap. 1037.
1094 FERDINANDO MARTINI
e un altro che si trovera. Prefetto di Firenze, Tommaso Corsi, il
Bartolommei1 gonfaloniere.
E, leggendomi in viso che non capivo il perche venisse a dare a
me quelle notizie, riprese:
— II Comitato vuole si avvertano i Ministri che non vadano a
Palazzo Vecchio. Sarebbero un impiccio. L'awocato Cempini av-
vertira il Baldasseroni, il dottor Somigli pensera al Landucci che
e suo casigliano. Dal Lenzoni e da tuo zio Martini non si sa chi
mandare. Ho pensato di mandarci te.
— Ma come posso fare io ? . . ,.
Non mi Iasci6 seguitare e soggiunse :
— Via, via, che non ho tempo da perdere. Lo zio e lo zio, il Len
zoni lo conosci benissimo, non facciamo chiacchiere. Va* e fa' presto.
Volt6 le spalle e se ne and6.
Avevo fatto finta di obiettare ma in fondo ero lietissimo che il
Tellini mi avesse troncato la parola in bocca ; il mandato commes-
somi non soltanto non mi dispiaceva, mi lusingava. Non mi sono
mai dato in vita mia «aria d'importanza », ed ho avuto ed ho
in uggia chi se la da ; ma quel giorno la tentazione fu grande. Andar
io ad annunziare ai Ministri la rivoluzione! Mi parve, lo confesso,
di diventare un personaggio storico tutto ad un tratto.
Ottenuto il permesso di mio padre, mi avviai. Abitavo in via de'
Rustici e mi era prossimo il palazzo de' Lenzoni in piazza Santa
Croce. Cominciai dunque dal «Signor Ottavianow, come allora
nel bel mondo fiorentino chiamavano il ministro degli afFari esteri.
Albeggiava appena e la piazza era deserta. Dopo molte scam-
panellate, venne ad aprirmi un cameriere tedesco che il ministro
aveva portato seco dalla Legazione di Vienna e poco o punto masti-
cava d'italiano. Ci voile del buono e del bello per indurlo a sve-
gliare il padrone a quell'ora. Mi conosceva; s'arrese alia fine, e
annunziatomi, m'introdusse nella camera di Sua Eccellenza.
II Ministro, al quale il messo della rivoluzione interrompeva i
sonni tranquilli, postosi sul letto a sedere, si stropicci6 gli occhi e
sbarrandomeli in faccia domand6:
i. Ubaldino Peruzzi (1822-1891), capo del governo provvisorio, successiva-
mente ministro dei lavori pubblici nei minister! Cavour, Ricasoli e Min-
ghetti; Tommaso Corsi (1814-1891), di Livorno, liberale, col quale il Cavour
intess6 accordi nel 1859. Dopo il 27 aprile prefetto di Firenze. Fu deputato,
ministro col Cavour, senatore dal 1873 ; per Vincenzo Malenchini e Barto
lommei vedi rispettivamente le note yap. 183 63 ap. 421.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1095
— Che diavolo'c'e?
Riferii tale e quale il discorso del Tellini. II « signer Ottaviano»
mi stette a sentire, poi come seccato e scrollando le spalle:
— Ma non sono piu ministro, non ci sono piu ministri, ci siamo
dimessi ieri sera.
E dopo una pausa:
— E suo zio che cosa dice ?
— Non lo so, non ci sono ancora stato.
— E allora vada, lo senta e ritorni. Faro quel che fa lui.
Si stropicci6 gli occhi una seconda volta e stesa la mano sopra la
tavola da notte ne prese un libro di piccolo formato che dalla rile-
gatura (dorso di pergamena, piatti di color marrone) mi accorsi ap-
partcnere al gabinetto Vieusseux. Lo apri e si pose a leggerlo. Uscii.
Strada facendo mi domandavo quale potesse mai essere il libro
che il ministro degli affari esteri leggeva, nel momento in cui stava
per scoppiare la rivoluzione; e la domanda riconduceva il pen-
siero alia battaglia della quale io era, in certo modo, uno degli
araldi. «Stamani» aveva detto il Tellini; e in piazza Santa Croce,
nel bel centro di Firenze, all'alba, non c'erano che tre o quattro
persone, le quali se ne andavano pacatamente pei fatti loro. Fresco
della lettura della Histoire de dix ans del Blanc,1 sulla quale moltis-
simi in Italia fecero la loro educazione politica - io non sapevo
immaginare una rivoluzione senza cannoni, barricate e moltitudini
in armi. Invece, nulla di tutto ci6. Presso al Ponte alle Grazie vidi
venirmi da lontano incontro un vecchietto frettoloso, il quale alle
acque d'Arno che lo ascoltavano sole gridava: «£ finita la cucca-
gna». Nel passarmi accanto e ripetendo quel grido, da un fagotto
che aveva in mano trasse uno stampato e me lo porse : il manifesto
che il Comitato de' popolari2 mandava fuori in quel giorno ; anche
questo conserve:
«Toscani!
L'ora e sonata. La guerra della Indipendenza gia si combatte.
Voi siete italiani ; non potete mancare a queste battaglie. E italiani
i. Louis Blanc (1811-1882), sostenitore di una economia collettivistica,
autore dell' Histoire de dix ans (1830-1840), in cinque volumi, apparsa
nel 1841-1844. Molta fama ebbe anche la sua Histoire de la Re'vo-
lution franpaise (1847-1862). 2. Comitato de' popolari: due erano i comi-
tati rivoluzionari : quello del liberali moderati, che faceva capo a Ridolfi,
Peruzzi ecc., e quello liberale avanzato o popolare, guidato dal Dolfi (vedi
la nota sap. 420) e dal Bartolommei.
1096 FERDINANDO MARTINI
siete anche voi, prodi soldati dell'esercito toscaho, e voi aspetta
1'esercito italiano sui campi di Lombardia. Gli ostacoli che impe-
discono 1'adempimento de' vostri doveri verso la patria devono
togliersi; siate con noi e questi ostacoli spariranno come la neb-
bia. Fratellanza della milizia col popolo. Viva 1' Italia! guerra al-
T Austria!
Viva Vittorio Emanuele, primo soldato della indipendenza ita-
liana! »
In quel manifesto si esprimevano desideri, si davano eccitamenti;
ma non v'era punto detto che i desideri fossero appagati e accolti
gli eccitamenti. E allora perche il vecchietto gridava: «6 finita la
cuccagna»? Che cosa potevano significare quelle parole se non
che la rivoluzione era fatta? Ma come fatta, se non si vedeva nes-
suno ? Travolto nel mare delle dubbiezze, vi naufragavo.
Mio zio ando sulle furie e mi fece tale una risciacquata, che
sciup6 alia prima la mia figura di personaggio storico.
((Come, io, suo nipote, accettavo di fare il procaccino de' Co-
mitati? Come osavo di venirgli a proporre una vigliaccheria ? Si-
euro, una vigliaccheria. Appunto perche "quei signori" volevano
che non s'andasse in Palazzo Vecchio, appunto per questo si do-
veva andarci. E le dimissioni date la sera innanzi non bastavano
ad esimere, perche non si sapeva che il Granduca avesse nominato
altri ministri. Bisognava andare, e se ci andava lui, mezzo cieco, ci
poteva e doveva andare chi era sano e ben portante. » Questa era
la sua risposta.
Dalla inviolabile dignita di araldo sceso aH'ufficio di procaccino
strapazzato, mal volentieri sarei tornato in piazza Santa Croce,
se non m' avesse spinto la curiosita di sapere che libro il ministro
leggesse. Poiche al mio entrare nella camera, il volume era tornato
alia prima sede sulla tavola da notte, nel riferire al Lenzoni le pa
role del collega, figurando di gingillarmi distrattamente, presi il
libro e vi lessi sulla costola: Madame Gilblas.
Era un romanzo di Paolo Feval.1 Cominciai a capire che, quando
i. Paul Henri Corentin Fdval (1817-1887), autore di romanzi popolari
come Les mysteres de Londres (1844), Lesfils du didble (1846), ecc.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) IOQ7
i ministri, a quell'ora, si pigliavano di quei passatempi, la rivolu-
zione poteva risparmiarsi le barricate.
*
Ma se non le barricate, almeno qualche altra cosa che preparasse
una sommossa, un tumulto, un trambusto, magari un tafferuglio.
Niente. In quelle prime ore della mattina vagai per le strade tepide
e luminose del sole di primavera, senza nulla awertire di mutato
o di nuovo nelle consuetudini cittadine. Nel Gaffe Vitali, in Mer-
cato Nuovo, dove ogni sera intorno a Raffaello Foresi,1 dottissimo e
argutissimo direttore del «Piovano Arlotto», s'adunava un mani-
polo di liberali ipercritici, che non stavano ne co' moderati ne co'
popolari, alcuni di loro parlavano accalorati e sommessi. Stando in
orecchio, mi parve intendere qualcosa si macchinasse nella piazza di
Barbano, che il popolo non s'adatt6 mai a chiamare col nome borbo-
nico di Maria Antonia, e fu, per quel 27 d'aprile, battezzata dipoi
«deirindipendenza». La abitava il ministro dell'interno, la forse
succedeva qualche scompiglio. Vi corsi. Erano le sette; gente sulla
piazza ce n'era, ma poca e quieta; presso alia casa del ministro due
carrozze, nelle quali la numerosa famiglia del Landucci si stipava
sparuta e spaurita, fra la silenziosa curiosita e forse la commisera-
zione dej presenti.
Impersuaso tornai sui miei passi. Da un secondo piano di via
della Robbia (oggi via Nazionale) una voce mi chiam6 a nome; la
voce di un amico, Giulio Cavaciocchi, colto giovane che dava nelle
lettere liete speranze di s6, dagli amici tenuto in gran conto anche
perche" Giosue Carducci gli aveva intitolato una delle proprie odi.2
Ebbi da lui tutte le notizie lungamente e inutilmente cercate.
Non c'era bisogno ne di tumulti ne d'armi: la « fratellanza della mili-
zia col popolo » era un fatto compiuto. Alle nove una gran dimostra-
zione, movendo dalla vicina piazza Barbano, andrebbe sino a' Pitti
a manifestarvi non desideri ma volonta.
Scendemmo insieme, e subito fuori dell'uscio c'imbattemmo in
un giovinotto che saluto il Cavaciocchi e prese a parlare con 1m.
Di mediocre statura, bruno, non bello, ma con certa fierezza nel-
raspetto; i cui piccoli occhi parevano, nel discorso ch'egli teneva
i. Raffaello Foresi (1820-1876), di Portoferraio ,^on^' ^J?rf
(cPassatempo)) e poi nel «Piovano Arlotto». 2. L'ode dal Carducci dedi-
cata al Cavaciocchi e la xxxiv del libro II del Juvenilia.
1098 FERDINANDO MARTINI
concitato con Famico, alternativamente sorridere d'allegrezza e sfa-
villare d'orgoglio. L'amico ci presento. Martini: Carducci. Questi
mi salut6 con un « buon giorno a lei » secco e brusco.
II Carducci io lo ammiravo di gia; e parecchi dei versi editi a
San Miniato nel '57 li sapevo a memoria; ma ora sapevo a memoria
anche versi dell'Hugo e del Lamartine, che mi parevano non meno
belli de* suoi: leggevo i romanzi della Sand; Sand, Hugo, Lamar
tine, tutti quanti sbertati nella Diceria degli amid pedant? pubbli-
cata sotto il patrocinio di lui ; qualche anno prima in certo giorna-
letto2 avevo canzonato il Gargani e la su' diceria, e delle morbose
condizioni cerebrali delPautore di quella, davo in altro giornaletto3
un bollettino settimanale. Cosi stando le cose, fu grazia dal Car
ducci d'allora ottenere un «buon giorno a lei» per secco e brusco
che fosse: da meravigliarsi anzi che, in quelFincontro, non mi
buscassi il secondo rabbuffo della giornata.
Facemmo insieme pochi passi ; poi ci perdemmo di vista tra la
gente che in mezz'ora, venuta da ogni parte della citta, aveva gre-
mito la piazza.
Accordatasi col popolo la milizia e tolto cosi al Granduca il
mezzo efficace della repressione e della difesa, tutto si riduceva or-
mai nel conoscere quanto egli fosse disposto a concedere per conser-
vare il trono a se* o alia sua Casa; il resto un di piu; infatti la «di-
mostrazione » non fu che una passeggiata. Alle nove migliaia di per-
sone mossero ordinatamente da Barbano, capitanate da Giuseppe
Dolfi e da Enrico Lawley,4 precedute da una bandiera bianca rossa
e verde e da una fanfara che suonava Finno del '48.
O giovani ardenti
d'italico amore,
serbate il valore
pei di del pugnar.
Nel tragitto per le vie di Sant'Apollonia e via Larga (oggi via
27 Aprile e Cavour) i «Viva F Italia » si avvicendavano coi « Viva la
i. Diceria . . . pedanti: vedi la nota 2 a p. 1048. 2. in certo giornaletto:
con molta probabilita nel giornale « La Lente », fondato da Cesare Tellini.
3. in altro giornaletto : lo « Scaramuccia » (e cfr. p. 1050). 4. Enrico Lawley :
vedi la nota i a p. 421.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) 1099
guerra», seguiti gli uni e gli altri da battimani. Presso al convento
degli Scolopi a San Giovannino, replicati «Viva Pesercito» provo-
carono applausi piu fragorosi e piu caldi. Salutava i « dimostranti »
ritto sul montatoio d'una carrozza da nolo, un tenente Saint- Seigne
che, awolto il dorso in un drappo tricolore, copriva cosi la montura
de' Cacciatori, piu invisa d'ogni altra, perche di tinta e di foggia si
mile a quella dei Tirolesi^ delle cui prepotenze durava iroso il
ricordo.
Per la piazza del Duomo e la via dej Calzaioli e Vacchereccia
s' arrive sino allo sbocco di via Lambertesca, ove fermatisi coloro
che le erano a capo e la guidavano, la folia fu trattenuta. Intanto
che alcimi tra la calca impazienti gridavano «avanti, avanti!, aj
Pitti », sopra un tavolino tratto dal prossimo Cafjb Panone, monto
quell'abate Stefano Fioretti,1 istoriografo della chiesa di San Giu
seppe e direttore di balli al teatro Pagliano; del quale ho gia detto
altrove. Brandito un bastone di canna d'India col porno d'avorio
(mi par di vederlo) e mulinandolo come un capotamburo, arringo :
« Cittadini, il principe delibera, lasciamolo deliberare in pace ».
La gente obbedi; non alPesortazione dell'abate, ma all'ordine
che s'indovin6 del Comitato; parte andarono in Borgo Pinti a
plaudire sotto le finestre della Legazione di Sardegna, i piu ad
attendere ansiosamente notizie sulla piazza per poco ancora, ma
tuttavia «del Granduca». lo fra questi: e insieme col conte En
rico Fossombroni,2 poi deputato per Arezzo e senatore del Regno,
sotto la Loggia de' Pisani che fronteggiava il vecchio palazzo della
Signoria, udimmo, se m'6 lecita Pimmagine, descritti i sussulti nei
quali agonizzava una dinastia, che aveva retto la Toscana per oltre
cento anni.
Passo primo in carrozza il Ferrigni ( Yorick)3 e band! : licenziati
i vecchi ministri, chiamato Don Neri Corsini marchese di Laiatico
a for mare il nuovo Ministero, alleanza della Toscana col Piemonte
nella guerra contro all' Austria; a guerra finita, costituzione del
1848. La folia applaudl, ma non si mosse h6 si scosse, quasi incre-
dula aspettasse conferma di quelle notizie o notizie diverse. E di
verse le port6 di li a poco, anche lui in carrozza, il mio amico
Tellini. Guerra subito, costituzione piu tardi ; ma Leopoldo abdi-
i. Stefano Fioretti: vedi la nota z a p. 410. 2. Enrico Fossombroni (1825-
1893) fu deputato di Arezzo dal 1865 al 1880, senatore dai 1886. 3. Fer
rigni: vedi la nota 2 a p. 424.
IIOO FERDINANDO MARTINI
cava: si proclamava Ferdinando IV granduca di Toscana. E la folia
applaudi. Venue ultimo Pawocato Puccioni.1 Tutto a monte, il
Granduca partiva. E la folia applaudi.
Come si sa, tutte quelle notizie furono vere nella fugacita d'un
momento. Leopoldo, disposto a consentire alleanza, guerra, fran-
chigie, financo ad abdicare, quando Fabdicazione gli fu imposta si
risenti : e stimando meglio tutelare il decoro delPuomo e del prin-
cipe, preferi lasciare lo Stato; non accorgendosi che il patto gli si
imponeva indovinando il rifiuto, e per cacciare non lui solo ma i
suoi dalla Toscana, dov'egli invece si riprometteva tornare come
dieci anni prima.
Consigliatosi co' Ministri circa il luogo piu conveniente alia
nuova dimora, suggerirono Bruxelles ed egli assenti: ma, perche
gli spropositi sono come le ciliege, che una tira Paltra, dimentico
per istrada suggerimenti ed assensi e fece rotta per Vienna.
L'Arciduca ereditario2 nel congedarsi da Giulio Martini e strin-
gendogli la mano : — Lei — disse — che ha tanti amici in Pie-
monte, faccia sapere cola ch'ioinon ho voluto salire al trono pas-
sando sul corpo di mio padre.
Dalla fortezza di Belvedere ove s'era condotto abbandonando la
reggia, e donde per la bugiarda accusa di un paltoniere, fu creduto
ordinasse di bombardare Firenze,3 il Granduca usci con la fami-
glia in carrozza verso le sei del pomeriggio, e costeggiate le mura
dalla Porta Romana alia Porta San Gallo, si diresse alle Filigare.
Lo scortavano ufficiali e uno de' membri piu operosi del Comitato
Bartolommei : Stefano Siccoli,4 fiorentino di nascita, maggiore nel-
Tesercito peruviano, che ferito nella guerra col Cile e amputate,
cavalcava con una gamba di legno.
Al passare del vecchio sovrano, parecchi si levavano il cap-
pello, come se quelle carrozze lo conducessero alia solita trottata
delle Cascine. Quel giorno mi domandai : e compassione o rispetto ?
Oggi penso: riconoscenza. Negando 1'abdicazione, ostinato nel
credere alle sicure vittorie delP Austria, la rivoluzione 1'aveva fatta
principalmente egli stesso.
i. Puccioni: vedi la nota i a p. 921. 2. L'Arciduca ereditario: vedi lanota
4 a p. 410. 3. bombardare Firenze'. vedi pp. 1072-3. 4. Stefano Siccoli:
vedi la nota 2 a p. 422.
CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) IIOI
Ma da chiunque e comunque fatta, la rivoluzione toscana del
27 aprile 1859 non avrebbe avuto i meravigliosi effetti che ebbe,
senza le pertinaci intrepidezze e le magnanime audacie di Bettino
Ricasoli. Poco importa egli si convertisse aH'unita un po' prima o
un po* dopo: e importa anche meno che, trascorso mezzo secolo,
ancora le passioni partigiane stentino a rendergli giustizia, quando
non gliela negano addirittura.
Le passioni vaniscono ; a ricompensare secondo i meriti pensa e
provvede la storia.
DA (cCONFESSIONI E RICORDI (1859-1892).)
IN CASA VON WITTELSBACH1
NelPottobre del 1867 scioglievo un voto se non antico, fervido, e
varcavo per la prima volta i confini della Germania. M'ero muni-
to di una quantita portentosa di lettere di raccomandazione per pa-
recchi e letterati e commediografi (pur troppo anche in Germania
gli uni debbono essere distinti dagli altri) i quali io, di facile con-
tentatura a quel tempo, avevo giudicati grandissimi e predetti
immortali. Era quello piuttosto che un viaggio, un pellegrinaggio.
Una cortese e colta, anzi erudita signora, la marchesa Florenzi,2
arnica e traduttrice dello Schelling,3 che aveva lungamente dimorato
a Monaco, e vi aveva maritato la propria figliuola, voile aggiungere
a quel voluminoso epistolario un biglietto; destinato ad aprirmi
le porte del palazzo di Wittelsbach e a condurmi innanzi a S. M.
Luigi I,4 per volonta un po' sua, un po' della nazione, ex re di
Baviera.
Ringraziai a denti stretti : quella gentilezza mi parve un fastidio ;
che avrei potuto dire io al vecchio re, che avrebbe egli potuto
dirmi? Se egli aveva renunziato la corona per non essere seccato
da' sudditi, perche dovevo andare a seccarlo io con un colloquio inu
tile ? Sciupio di tempo e di cravatte bianche. Mi proposi di fer-
marmi a Monaco due giorni soli : al ritorno mi sarei scolpato colla
illustre esibitrice della commendatizia, adducendo in iscusa la man-
canza di tempo sufficiente a domandare e ottenere Pudienza: una
bugia in sostanza, ma da essere provata e dimostrata come una
verita.
Le cose andarono diversamente : a Monaco imparai a conoscere
i. Ed. cit., cap. in, pp. 37-48. 2. La marchesa Marianna Florenzi Baci-
netti (1802-1870), di Perugia, ammiratissima dal re di Baviera Luigi I,
favori i patriotti dell' Italia centrale presso quel re, che li protesse presso il
governo pontificio. 3. Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling (1775-1854),
il filosofo dell'idealismo tedesco, professore all' University di Monaco, trov6
nella Marianna Florenzi un' intelligent e discepola, interprete e traduttrice
italiana (in ispecie del suo dialogo Bruno}. 4. Luigi I di Wittelsbach (1786-
1868) regn6 in Baviera dal 1825 al 1848, anno in cui abdic6, sia per ragio-
ni politiche, che gli si opposero conservatori e radicali, sia per la passione
che Io legava alia ballerina irlandese Lola Montez (vedi anche p. 223 e la
nota 2), invisa al popolo, al clero, alia corte, anche per le sue inframmet-
tenze negli affari politici. Gli successe il figlio Massimiliano II, che regno
fino al 1864, e fu sostituito da Luigi II (1864-1886).
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1103
il Rubens,1 il quale si studia la cosi bene come a Bruxelles e ad
Anversa, e il grande fiammingo tanto mi meravigli6 con la sua foga
varia, potente, feconda; tanto m'innamor6 di se, che io rimasi a
Monaco due settimane: per quel morto dimenticai tutti i vivi; non
recapitai neppur una delle famose lettere, ma dovei domandare
Fudienza: la scusa pensata non valeva piu; bisognava trovarne
un'altra, ed io sono stato sempre povero d'immaginazione.
Inoltre, nella mia breve ma operosa dimora, addentratomi al-
quanto nella storia del paese, quel re il quale, sceso una bella sera
dal palazzo, s'era cacciato tra la folia e il tumulto per offrire il
braccio alia propria amante oltraggiata dal popolo; che nel 1848,
costretto, aveva ieri consentito a mutare gli ordini dello Stato e
abdicate domani, parendogli, dopo ceduto alia violenza, di non
aver piu autorita di principe o stimando che a quel patto non met-
tesse piu conto di rimanere sul trono; quel re mi attraeva. Chi sa?
forse era legge per lui il voto dall'avo Massimiliano I2 fatto inci-
dere sopra una colonna commemorativa di non so quale battaglia :
«Rem, regem, regimen, regionem, religionem Conserva Bavaris,
Virgo Maria, tuis».3
E mi attraeva quel re, che evocata e adunata una legione d'artisti,
s'era piaciuto nell'edificare una citta intera e nelPinsegnare al suo
popolo le meraviglie dell'arte greca e gli splendori del1 rinascimento
italiano. Certamente in me fiorentino non suscitavano grandi en-
tusiasmi n6 la Biblioteca, copia del Palazzo Riccardi, n£ la Feld-
herrnhalle, copia 'della Loggia delFOrcagna, n6 il Koenigsbau,
copia del Palazzo Pitti, anche perche, se le sago me sono le stesse,
non sono le stesse le proporzioni ; e a chi ha presenti gli edifici fio-
rentini, quelli di Monaco rimpiccioliti e ridotti appaiono meschini,
piuttosto enormi giocattoli che monumenti.
Ma palazzi e basiliche e logge e musei, e le statue profuse* ad
ornarli e i freschi che ne istoriano le pareti, compongono a Luigi I
il piu splendido e il piu desiderabile de' monumenti ; attestano della
sua operosita intellettuale, dei suoi nobili fini, degli impulsi fecondi
i. Peter Paul Rubens (1577-1640), molte opere del quale sono nella Pinaco-
teca di Monaco. 2. Massimiliano I, della casa di Wittelsbach, fu duca di
Baviera durante la guerra dei Trent' anni e capitand la lega cattolica. LaBa-
viera, prima ducato, divenne regno nel 1806. 3. « Conserva, o Vergine Ma
ria, ai tuoi Bavari i beni, il re, la forma digoverno, il territorio, la religione. »
1104 FERDINANDO MARTINI
che per lui vennero alParte tedesca, per lui risorta e rinnovata.
Monaco che nel 1808 aveva 42,000 abitanti, quand'egli mori nel
1869, x ne aveva oltre 180,000. L'Overbeck, il Cornelius, lo Schwan-
thaler, il Forster, il Klenze, lo Schnorr, PHess, il Gartner, il Kaul-
bach2 e cento altri formano una legione d'artisti, quale nessuno
altro paese d'Europa vide la simile nella prima meta di questo se-
colo, e che Luigi I suscito, incor6, guido, sostenne. Egli che gia
vecchio sorridendo affermava d'essere stato V ultimo de' re, perche
aveva rinunziato il trono, anzich6 piegarsi alia diminuzione della
potesta reale, fu dawero 1'ultimo dei re che dettero nome ad
un'epoca gloriosa nella storia dello spirito umano : si dira in Baviera
il secolo di Luigi I come si dice in Francia il secolo di Luigi XIV.
*
Consegnai la lettera a un aiutante di campo e chiesi Pudienza, che
mi fu subito conceduta; presso re Luigi, nessun migliore introdut-
tore della signora umbra la quale, un tempo bellissima, aveva desta-
to in lui un affetto cosi profondo, che ne erano durevoli i rimpianti
e dolci i ricordi lontani. Una sera piovigginosa delPottobre entrai
nel palazzo di Wittelsbach, fosco e severo, come tutti gli edifizi
di quello stile che prese nome dai Tudor in Inghilterra; il re, di
mezzana statura, vecchio, ma di una vecchiezza ancora verde ed
arzilla, era in uniforme di generale bavarese: tunica celeste, cal-
zoni bianchi; m'accolse con quell' alterezza principesca che non
esclude Paffabilita e che differisce dalPalterigia tanto, quanto Por-
goglio dalla superbia. Era un poj sordo; forse piu che un po', ma
i. Luigi I mori, piu esattamente, a Nizza il 28 febbraio 1868. 2. Johann
Friedrich Overbeck (1789-1862), pittore tedesco, capo della scuola dci
Nazareni; Peter Cornelius (1783-1867), pittore e disegnatore, dimor6 a
Roma (1811-1819), legato ivi all'Overbeck, insegn6 all'Accademia di Mo
naco, fu amico di Luigi I, per il quale esegui numerosi affreschi ; Ludwig
von Schwanthaler (1802-1848), scultore, insegnd dal 1835 aH'Accademia
di Monaco; Ludwig Forster (1797-1863), architetto classicista, bavarese di
nascita, Viennese e absburgico per attivita, studi6 all'Accademia di Monaco
e insegn6 all'Accademia di Vienna, dove fra Paltro edific6 la sinagoga;
Leo von Klenze (1784-1864), architetto neo-classico, costrui in Monaco
la Pinacoteca, la Gliptoteca, i Propilei; Julius Schnorr von Carolsfeld
(1794-1872), pittore, illustrd, tra 1'altro, scene dell' Orlando furioso nella
villa Massimi a Roma. Fu dal 1827 professore all'Accademia di Monaco;
Peter von Hess (1792-1871), pittore di paesaggi e di quadri di genere;
Friedrich von Gartner (1792-1847), architetto, esegui a Monaco Tedificio
della Biblioteca, la chiesa di San Luigi, PUniversita. Lavor6 anche ad
Atene (Palazzo reale); Wilhelm von Kaulbach (1805-1874), pittore, dal
1848 direttore dell'Accademia di Monaco, citta in cui lavorava gia dal 1826.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1105
alFopposto de' sordi che sogliono parlare a voce bassa, egli stril-
lava, quasi non lui ma 1'interlocutore avesse il timpano offeso.
Mi parlo in italiano (lo parlava correntemente e correttamente) e
delPItalia. — Quanto le debbo! — mi disse. — Quand'ero ragazzo mi
facevano prendere lezioni di disegno tutte le mattine dalle dieci
alle undid. Era un supplizio quello per me. Disegnavo, disegnavo,
ma senza profitto e senza desiderio. Andai finalmente in Italia!
Vede, se fossimo a Firenze, io le mostrerei il luogo precise, nel
quale per la prima volta gli occhi mi si aprirono alia luce, in cui capii
che cosa significasse questa parola «arte», che avevo udito tanto
ripetere, in cui sentii per la prima volta la volutta che si prova mi-
rando un capolavoro. — Mi domandb se ero ancora stato a vedere
la chiesa di San Luigi da lui fatta costruire sui disegni del Gartner
e per la quale parve sentisse un affetto particolare; si dolse ch'io
non potessi visitare non so quale villa perch6 vi soggiornava Tex
regina di Napoli;1 in compenso avrebbe dato ordine mi si mostrasse
il castello di Possenhofen, vietato al pubblico.
— £ la sola delle bellezze — soggiunse sorridendo.
Oggi quella sala e aperta a tutti; allora per vederla ci voleva il
permesso che non si otteneva ne facilmente ne sempre. Contiene
trentasei ritratti di donne bellissime dipinte dallo Stieler:2 la leg-
genda vuole che quelle donne sieno state tutte amanti di re Luigi,
tranne una, la figlia d'un calzolaio di Monaco, la quale avrebbe
resistito a tutte le promesse, a tutte le lusinghe, a tutte le sedu-
zioni reali ; bella cosi, che il diniego ostinato non le tolse di vedere
la propria imagine accolta in quel pantheon della formosita mu-
liebre.
Sara vero o non sara vero; certamente quando il Cornelius nel
gran fresco del giudizio universale dipinto dietro F altar maggiore
della Ludwigskirche3 dette a Luigi un posto fra gli eletti, egli fi-
do o nella misericordia divina o nel pentimento dell'ora estrema;
perch6 pochi uomini al mondo furono tanto quanto quel re, con-
taminati dal terzo peccato mortale. Io inclino a credere alia verita
della leggenda per questo: che nel sorriso onde il vecchio Luigi
accompagn6 la offerta di farmi vedere quella sala, balen6 un com-
1. 1' ex regina di Napoli: Maria Sofia di Baviera, moglie di Francesco II di
Borbone. Mori nel 1925. 2. Joseph Karl Stieler (1781-1858). £ di lui il
ritratto della marchesa Florenzi nel palazzo della Residenza, a Monaco.
3. Ludwigskirche: la chiesa di San Luigi, di cui fu architetto il Gartner.
II06 FERDINANDO MARTINI
piacimento memore, velato poi da un'intima malinconia; non gli
pass6 per la testa, ne" poteva, il pensiero (Tuna vantazione; gli sfa-
vil!6 nelFanimo un ricordo che si mut6 subito in un rimpianto, o
mi parve.
L'udienza era durata quasi tre quarti d'ora. Alia fine, domanda-
tomi s'io sarei restate ancora qualche tempo a Monaco e saputo che
vi rimanevo quattro o cinque giorni, il re interpose un breve silen-
zio, poi fatto un saluto col capo soggiunse: — Spero di rivederla.
Dove e come ? La cosa mi pareva difficile ; e nondimeno il collo-
quio era stato cosi facile e schietto ; deirargomento unico della con
versazione, 1'arte e la letteratura d'ltalia, il re aveva discorso con
tanto acume, con tanta cognizione di causa, con tanta effusione
d'affetto, che, almanaccando su quelle parole, uscii dal palazzo di
Wittelsbach desiderando di ritornarvi.
La mattina, avanti d'uscire, una lettera dell'aiutante di campo mi
annunziava che sua Maesta m'invitava a pranzo per la sera dopo.
Ahime! non bis in idem. II re m'accolse cortese, al solito, ma con
minore cordialita. Sedemmo a tavola in tre, egli, Faiutante di
campo ed io : il re taceva, tacevamo naturalmente anche noi. Stavo
sorbendo un bicchiere di Jesuitengarten, vino bianco e saporoso del
Palatinato, per il quale nonostante il nome1 e Foccasione in cui lo
gustai per la prima volta, serbo tuttavia il rispetto che merita,
quando il vecchio Luigi, brusco e improvviso, mi domand6 se
avessi notizie delFItalia . . . Risposi «no, sire» e furono quelle le
sole parole che avessi modo di pronunziare in quel pranzo trista-
mente memorando per me.
Che cos'era accaduto ? Nientemeno che questo : alle prime notizie
contradittorie venute dall' Italia in quei giorni, erano succedute
notizie sicure. Era proprio vero. Garibaldi aveva varcato il confine
pontificio e i giornali della sera, ch'io non avevo ancora letti,
annunziavano il combattimento di Bagnorea.2 Re Luigi il quale
amava Roma, ma la voleva del Papa; che amava V Italia di Raffaello
e del Brunelleschi, ma odiava la rivoluzione della quale era vittima,
quella sera, al sentir Roma minacciata da' volontarii, non seppe fre-
i. Jesuitengarten significa «giardino dei gesuiti». 2. Bagnorea'. oggi Ba-
gnoregio, in provincia di Viterbo. Vi awenne uno scontro di esigua im-
portanza durante la spedizione garibaldina del 1867 nell'Agro romano.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1107
narsi. E contro Garibaldi e Rattazzi1 parlo, par!6, par!6, temperato
nella forma, ma cosi severe, cosi assoluto nella sostanza, che io, a
ricordare quella sera e quel pranzo, mi sento ancora rabbrividire.
Pensai a che cosa dovessi e potessi fare; non mi riusci di spic-
cicare parola. Lo so, il discorso era facile: « Vostra Maesta e molto
intelligence ed ha fama d'essere uno dei piu squisiti gentiluomini
d'Europa. Doveva proprio toccare a me il brutto guaio di pranzare
da lei una sera in cui non capisce nulla, e manca ai piu rudimentali
dettami delPeducazione. Vostra Maesta e re, sebbene abdicatario,
ha ottant'anni ed e in casa sua: tre ragioni sufficient! perch6 io non
raccolga tutte le insensatezze e tutte le insolenze che parte appaiono,
parte si nascondono nelle sue parole. Non potendo altro, piglio il
cappello e me ne vado ».
Questo era discorso savio, logico, meritato : Favrei dovuto fare ?
pu6 darsi: fatto sta che non lo.feci; forse perche il re era vecchio,
ed io penso che a' vecchi, a' bambini e alle donne isteriche bisogna
perdonare ogni stranezza; forse per altre ragioni che non seppi e
che non so neppur oggi discernere : fatto sta che non Io feci. E se
questo no, che altro avrei potuto fare? Narrando un aneddoto io
propongo anche un quesito. Ho gia detto che sono povero d'imagi-
nazione : e per mostrare i sentimenti deiranimo mio, per protestare
in un qualsiasi modo, non trovai nulla di meglio che astenermi du-
rante tutto il pranzo dal mettermi in bocca un briciolo di pane o
dal bevere un sorso di vino. Mi pareva che questo bastasse a signi-
ficare: «Ci sono e per forza ci sto».
Forse bast6 difatti: perch£ il re tacque alia fine e stette zitto
finche" non ci alzammo da tavola. Allora mi s'accost6 e battendomi
familiarmente sulla spalla, mi domand6 se mi sarei trattenuto lun-
gamente in Germania.
— Qualche settimana, — risposi — soffro di nostalgia, alia lunga.
— Ha ragione, — soggiunse — ognuno ama il proprio paese.
— E ognuno Tarna a modo suo — interruppi.
Questa frase che in sostanza non significava nulla, mi parve un
poema.
Ma il re capl Tintenzione e conchiuse :
— Naturalmente.
Poi mutando tuono, e col manifesto proposito di mutare discorso :
— Non parta prima di domani Paltro; danno al teatro di Corte il
i. Rattazzi: vedi la nota i a p. 501.
II08 FERDINANDO MARTINI
Tannhduser del Wagner. La rappresentazione si fa a spese del re
mio nipote.1 Le procurer6 un invito. Ci verr6 anch'io ; e uno spet-
tacolo, creda, il quale merita che vi s'assista.
lo, con quelPaltra idea fissa nella testa, risposi impicciato :
— Se anche Vostra Maesta v'interviene, ella che e cosi compe-
tente nelle cose d'arte . . .
— Ah! io, — esclamo sogghignando — io ci vengo perche son
sordo.
Aveva detto male degritaliani, e ora mi sacrificava un tedesco.
Forse a lui parve d'esser pari; a me no; e uscii da quella cupa ma-
gione di Wittelsbach arrabbiato, vergognoso, digiuno, maledicendo
alia mia pusillanimita, imprecando contro i re, i cortigiani e le corti.
Se mi fossi imbattuto neirAlfieri gli avrei buttato le braccia al
collo.2
*
fi vero ci6 che il Brillat-Savarin3 assevera, che anche lo stomaco
ha la memoria sua: il mio, dopo tanti anni, sente ancora grave il
peso di un pranzo che non mangiai. Forse per questo, quando, in
occasione delle feste centenarie di Luigi I, lessi telegrammi studio-
samente sibillini di borgomastri tedeschi e articoli mendaci di gior-
nalisti italiani, a dar retta ai quali quel re sarebbe stato sviscerato
amatore della nostra unita, io non potei non provare un senso di
dispetto e non ripetere anch'io la frase abusata di quel personag-
gio di Scribe:4 «Ecco come si scrive la storia! »
LA MIA CARRIERA D'INSEGNANTES
Nel novembre 1869, Pasquale Villari,6 segretario generale del
Ministero dell'Istruzione Pubblica, mi mand6 a Vercelli a insegnar
i. La rappresentazione . . . mio nipote: Luigi II di Baviera fu entusiastico
protettore di Wagner, e per la rappresentazione delle sue opere fece costrui-
re un apposite teatro a Bayreuth, il Festspielhaus, inaugurate ncl 1876.
Come e noto, Luigi fu una strana e discussa figura di sovrano, impazzl
e fu deposto: mori annegato, sembra suicida, nel 1886. 2. Se . . . al collo:
e noto che VAlfieri fu fieramente avverso ad ogni autorita regia. 3. An-
thelme Brillat-Savarin (1755-1826), magistrato francese, scrittore. Cele-
bre il suo libro La physiologie dugout (1825), ricco di osservazioni briose e
di ricette culinarie. 4. Eugene Scribe (1791-1861), notissimo autore dram-
matico francese. 5. Ed. cit., cap. iv, pp. 51-77. 6. Pasquale Villari
(1827-1917), il noto storico, era allora segretario generale (oggi si direbbe
sottosegretario) al ministero della pubblica istruzione.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1109
lettere nella scuola normale femminile.1 Sebbene di quei giorni e
di quelle mie alunne io serbi memoria carissima, e nelPanimo grato
viva il ricordo di cortesie singolari, non posso in coscienza affer-
mare che Vercelli, cinquanta e piii anni fa, offrisse soggiorno desi-
derabile a me, che venivo da Firenze, tuttavia capitale del Regno.
Chi non s'intendesse di risaie e di riso ; chi non facesse commer-
cio «di questo oltre 1'Occaso addotto seme» (per dir come disse
Gian Battista Spolverini,3 buona anima sua, che lo cant6 in piu che
cinquemila endecasillabi) di rado trovava occasione e argomento al
conversare. Al conversare, intendiamoci, non ho detto al discorrere.
Gli insegnanti dei diversi istituti, quasi tutti piemontesi, e ammo-
gliati quasi tutti, facevano ognuno vita da se; unici conforti del-
rintelletto, dunque, qualche non frequente discussione col conte
Mella intorno alle pitture di Gaudenzio Ferrari,3 o alParchitettura
gotica nella quale era intendentissimo ; qualche visita di quando in
quando al vecchio Levi, libraio, altrettanto erudito ed arguto
quanto acerrimo nemico delPacqua fresca; il quale, vaticinate si-
cure nel 1870 le vittorie della Francia, piangeva 1'anno dipoi la-
crime variamente colorate per la caduta dell'Impero napoleonico;
unico divertimento la tombola, giocata la sera in silenziosa gravita
nel caffe Barberis, sotto i portici della piazza (se ben rammento)
Cavour.
Cio nondimeno, a Vercelli, io stetti sin da principio assai volen-
tieri: della mancanza di distrazioni e di passatempi non m'accor-
gevo neppure: il passatempo me 1'ero trovato da me, prendendo a
scrivere un racconto (Peccato e Penitenza)* che ebbe poi troppo
maggior fortuna di quanto meritasse, e al quale davo tutte le ore
che mi lasciavano libere le lezioni di letteratura, di storia e di
geografia.
i. mi mando . . .femminile: dopo la morte del padre, il Martini aveva avuto
un rovescio di fortuna (vedi la nota tap. 1023), ele condizioni economiche
lo avevano indotto a chiedere un posto d'insegnante. Ampia e interessante
traccia di questo periodo della sua vita si trova in lettere da lui dirette a Pie-
ro Puccioni (vedi Lettere, cit., pp. 7-3 1). 2. Gian Battista Spolverini (1695-
1763), di Verona, autore del poema didascalico La coltivazione del riso.
3. II conte Edoardo Arborio Mella, di Vercelli (1808-1884), fu apprezzato
architetto specie nel nativo Piemonte, dove costrui, o ricostrui e restaur6,
varie chiese insigni, specialmente a Casale e ad Alessandria; Gaudenzio
Ferrari (1484-1550), il pittore piemontese, che Iavor6 anche in Lombardia.
4. II racconto Peccato e Penitenza apparve dapprima in appendice sul quo-
tidiano « La Nazione », a Firenze ; poi in volumetto per i tipi del Le Monnier
(1873); infine fu inserito nel volume Racconti (vedi la bibliografia).
IIIO FERDINANDO MARTINI
Anche di storia e geografia; che alia fine furono commessi a me
anche quelli insegnamenti. Dico « alia fine » perocche ci6 non si ot-
tenne senza vincere curiose difficolta; non indignae referri.
Titolare di quella cattedra, quando io giunsi a Vercelli, nella
scuola normale non c'era; la storia e la geografia qualcuno doveva
pure insegnarle. Chi? II provveditore che stava a Novara, ed era
malato, se ne rimesse al sottopref etto ; e questi interrog6 il presi-
dente del Consiglio direttivo che, per gli ordinamenti di allora,
sopraintendeva alia scuola. II presidente, dott. Carlo Pisani, molto
autorevole e colta e simpatica persona, propose me; e si cred6
che la proposta sarebbe mandata al Ministero e approvata in
quattro e quattr'otto. Invece, s'and6 per le lunghe, le settimane
passarono, sino a che il presidente, che di quelle tardanze non sa-
peva capacitarsi, scopri che il sottoprefetto traccheggiava, tratte-
nendo sulla propria scrivania il relativo « incartamento ».
II dottor Pisani possedeva tutte le belle qualita che ho detto ; ma,
oltreche aveva grande amore alia scuola, e lo seccavano quegli indugi
de* quali gia si lagnavano le alunne, non era il piu sofferente degli
uomini; sicche" un giorno, piu che mai infastidito, and6 a scuotere
le accidie delFautorita circondariale ;J e dalPegregio cavaliere (mi
rincresce non ricordarne i cognomi, ch'erano due o tre) il quale si
scusava dimostrandosi perplesso, udi, tra le altre, queste parole:
«I1 signor Martini sara un bravissimo giovine; io per6 non Pho
ancora veduto».
Quel perb fu il filo d' Arianna, guida attraverso i traccheggiamenti
sottoprefettizii ; e si convenne che il giorno dopo, insieme con lo
stesso dottor Pisani, sarei andato a riverire il rappresentante del
regio Governo.
Lo trovammo che stava per uscire, vestito di nero da capo a piedi,
coperta la testa dal piu torreggiante e lucido dei cappelli a cilindro.
Non s'aspettava quella visita e ne parve piu che meravigliato, scom-
bussolato. Forse, perch6 essa succedeva cosi sollecita alle sue la-
gnanze, indovin6 che io conoscevo la ragione del suo procrastinare ;
pens6 che non avrebbe potuto giustificarlo, accusandomi di aver
violato canoni di etichetta inventati da lui. Tanto per rompere il
ghiaccio, mi domand6 se avessi nulla stampato : risposi che avevo
scritto articoli nei giornali e nelle riviste, qualche commedia, una
i. circondariale: le province erano allora divise in circondari, a capo dei
quali stava un sottoprefetto.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) IIII
delle quali premiata nel concorso governativo di Firenze. Delle
fischiate o quasi, naturalmente, tacqui compunto.1
Cosi, via via discorrendo dell'una e dell'altra cosa, m'accorsi che
egli cercava il modo di arrendersi con dignita : non per i meriti miei,
ma per non dispiacere al Pisani che m' aveva proposto e che comin-
ciava visibilmente a perdere la poca pazienza della quale era do-
tato. II modo lo trov6 da ultimo e fu questo : aver 1'aria di darmi un
esame; superato il quale, si potesse tranquillamente incaricarmi di
insegnare la storia e la geografia.
Socchiusi gli occhi, corrugata la fronte e, dopo un attimo di medi-
tazione, levandola con una tal quale alterezza, mi domand6 : — Che
cosa pensa lei del bello?
A quella domanda bizzarra, per non dir altro, vedendomi in-
nanzi queH'ometto basso, paffuto e panciuto, col cilindro tenuto
in testa, forse simbolo d'autorita, forse simbolo di cattiva educa-
zione, pensai avrei potuto ragionevolmente rispondere : « II bello e
Popposto di Vossignoria». Non lo dissi, s'intende; e, capito con chi
avevo da fare, dato Taire allo scilinguagnolo, in una chiacchierata
senza capo ne coda, citai subito Platone e il Gioberti: in seguito,
perch6 uscivo fresco dalla lettura di scrittori francesi e tedeschi, ci
feci entrare il Cousin, il Goethe, il Wieland, PHegel e Gianpaolo.2
NelPudire quella filastrocca di nomi esotici le labbra del Pi
sani s'increspavano in un leve mal dissimulato sorriso, gli occhi
del sottoprefetto si spalancavano di sbalordimento.
M'accorgevo che la mia erudizione lo soggiogava: e ormai avrei
potuto citare il Burchiello,3 e descrivere il Marrobbio che men di
Barberia e le mucchia del mar di Laterina, che ei m'avrebbe lasciato
dire, giudicando tra se e se soverchiamente1 modesta la propria
cultura.
i. una . . . compunto: nel 1863 era stata premiata a Firenze la commedia del
Martini / nuovi ricchi. Nel 1865, veramente, aveva anche ottenuto un pre-
mio il suo lavoro teatrale Fede, ma poi egli aveva voluto ritirarne il copio-
ne, sebbene la commedia fosse stata gi& replicata nove volte con successo.
La farsa in tre atti L'elezione di un deputato era stata fischiata a Firenze
nel 1867. 2. Victor Cousin (1792-1867), filosofo francese, tradusse i dia-
loghi di Platone, e teorizz6 un'estetica eclettico-spiritualista ; Christoph
Martin Wieland (1733-1813), detto «il Voltaire della Germania», tra le cui
opere ebbe fama il poema Oberon\ Gianpaolo Richter (1763-1825), lette-
rato e pedagogista tedesco. Tra le sue opere e famoso il volume Levana oder
Erziehungslehre. 3. il Burchiello'. Domenico di Giovanni (1404-1449), di
Firenze, barbiere e poeta; celebri i suoi sonetti con accoppiamenti di
espressioni senza senso, di cui sono-qui due esempi tipici.
III2 FERDINANDO MARTINI
Finalmente addirittura intontito, interrompendomi, sentenzio
che nessuno poteva meglio di me impartire alle alunne della scuola
normale i due insegnamenti. A dir vero la relazione fra Gianpaolo
e la geografia non era patente e la illazione non procedeva a fil di
logica: ma la logica avrebbe aspettato il suo turno: quel giorno
1'egregio uomo 1'aveva ormai consacrato all'estetica.
lo m'ero dunque a Vercelli amicate le autorita politiche e ammi-
nistrative; e dej cittadini i piu ragguardevoli che usarono meco
(mi piace ripeterlo, a soddisfacimento deiranimo grato) ogni ma-
niera di cortesie. Ci stavo perci6 volentierissimo. A un tratto e
quando meno c'era da aspettarselo, eccoti un telegramma del Mi-
nistero ad annunziare decretato il mio trasferimento nella scuola
normale di Pisa e ad impormi di « raggiungere la nuova residenza »
con la sollecitudine maggiore.
Un trasferimento a anno rotto e con tanta furia ? Che diavolo era
mai successo nella citta di San Ranieri1 e di Galileo ?
Era accaduto un fatto difficile a credersi e pur vero : e che mette
il conto di raccontare anche perche" prova che antiche doglianze e
replicati richiami degli insegnanti delle scuole medie non furono
senza fondamento di ragione ; e che se piu tardi, con leggi farragi-
nose ed oscure, troppo si tolse al Ministero delFIstruzione delle sue
facolta, tutto e meglio che il governo delFarbitrio e del privilegio.
Un insegnante di aritmetica nella scuola tecnica di Treviglio
chiese di essere mandato in Toscana. Gli risposero che non si po
teva; e non si poteva veramente, le scuole tecniche in Toscana per
gli ordinamenti d'allora essendo municipali. Non si sgoment6:
fatti meglio i suoi calcoli, si rivolse al proprio deputato che era uno
dej pezzi grossi delFopposizione. Si sa che ne' governi parlamentari
non c'e ministro che aunpezzo grosso della opposizione osi negare
favore qualsiasi: difatti, bast6 una parola e il ripiego fu subito tro-
vato: il maestro d'aritmetica della scuola tecnica di Treviglio fu
mandato a insegnar lingua e letteratura italiana nella scuola nor
male maschile di Pisa.
Finche si tratt6 di prendere il treno, Tuomo and6 di gamba lesta:
quando poi di far apprendere ad altri ci6 che non sapeva egli stesso,
fece dura fatica per reggersi in piedi, intanto che degli ardui giochi
i . San Ranieri e il protettore di Pisa.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1113
d'equilibrio gli scolari un po' sogghignavano, un po' si stizzivano.
II gran padre Alighieri gli dette al ruzzolone Pultima spinta.
I programmi prescrivevano la lettura e la illustrazione di alcuni
canti della Comedia\ 1'infelice, che non aveva mai aperto quel libro
in vita sua, tento dapprima rimandare di giorno in giorno quel risico ;
ma gli scolari pregando, chiedendo, insistendo, dove fmalmente af-
frontare il cimento e sfidare il destino. Lesse e illustr6 il canto di
Ugolino: ahime! giunto al verso:
muovansi la Capraia e la Gorgona
commento: ache, come sanno, sono due affluenti delPArno».
Non sto a dire ci6 che successe, e il baccano degli alunni i quali a
Pisa sapevano tutt'altro. Poiche ormai non era comportabile che lo
sciagurato chiosatore risalisse la cattedra in quella scuola, il Mini-
stero escogito un nuovo ingegnoso provvedimento : mando me a
prendere il posto che quegli lasciava, e lui a Vercelli che mi surro-
gasse, anche nelPinsegnamento della geografia, senza neppure in-
comodare Fadiposo sottoprefetto a conferirgli un certificate d'ido-
neita.
L'ufficio di insegnante, fra i non pochi tenuti in vita mia, e
quello che esercitai con affetto piu confidente e piu caldo. Con tutto
ci6 non ebbi fortuna: segretario generale e ministro dell'Istruzione
Pubblica, non mi sono mai dato cura di rovistare negli archivi
per conoscere ci6 che di me pensassero e riferissero ai loro superiori
i miei superiori di una volta; temo che pur attestando (ne avreb-
bero potuto altrimenti senza mentire) del mio zelo efficace, non
abbondassero nelle lodi; e nelle «note caratteristiche » qualche
punto nero ci sia. La mia disdetta fu di imbattermi in tre prowedi-
tori agli studi, bravissime, egregie persone, tutti tre letterati, dei
quali stimavo mediocremente gli scritti e avevo per eresia le dot-
trine. II primo scriveva versi, e me li mandava con lettere umilis-
sime nelle quali li diceva brutti da se, affinche io, nel ringraziarlo,
glieli dicessi stupendi; io nel ringraziarlo non glielo dicevo, egli
ebbe ragione di pensare che pigliavo sul serio la sua simulata mo-
destia e non mi annover6 fra i santi del suo calendario.
II secondo era un guerrazziano sfegatato, che intorno al Guerrazzi
aveva scritto un libro, e del Guerrazzi tutto ammirava, principal-
III4 FERDINANDO MARTINI
mente Panimo e lo stile, le due cose per Tappunto ch'io nel Guer-
razzi non ammiravo. Discussone una prima volta, avrebbe dovuto
bastare; ma no: sempre, quando mi vedeva, tornava cocciuto a
battere sullo stesso argomento, per persuadermi che ero dalla parte
del torto, che il Guerrazzi era la bonta fatta persona, anima di fan-
ciullo lattante, il primo degli scrittori italiani dal Machiavelli in
poi. lo tenevo duro nel non credere ne all'una cosa ne all'altra;
e ne seguivano discussioni cosi accalorate da sembrare alterchi,
le quali 'finivano poi sempre ad un modo ; ci lasciavamo cioe sorri-
denti, con parole cordiali che suonavano rispetto alia liberta delle
opinioni, ed erano, invece, una reciproca mancanza di rispetto:
nascondevano il convincimento — io per lo meno ero convintissimo
- che Tinterlocutore non capiva nulla ne degli uomini, n6 dello stile.
Fu mandate altrove e cosi quelle dispute ebbero termine. Ma si
casc6 nel peggio: quegli che subentr6 nell'ufficio, uomo d'inge-
gno,1 aveva qualita di scrittore ma era un esageratore accanito
delle teoriche manzoniane, la vera personificazione di quel « man-
zonismo degli stenterelli »2 che dava tanto sui nervi al Carducci.
Ogni tre parole un ribobolo ;3 e di riboboli poi infarciva traduzioni
dei comici latini, e certe novelle faticose a leggere, e incomprensi-
bili a chi non fosse nato e domiciliato a Firenze fra le trecche4 di
via deUJAriento. Anche lui sentiva il bisogno di far con me opera
d'apostolo e convertirmi alia intollerante adozione dei modi popo-
lari e del vernacolo; piu temperato, bensl, del suo predecessore
avremmo finito a vivere non in concordia ma in pace, se il suo apo-
stolato si restringesse alia materia della lingua; ma quel benedetto
uomo s'era fatta una religione che aveva anch'essa la sua trinita:
ribobolo, tressette e programma ministeriale, tutti tre venerati
con reverenza amorosa del pari. Con i professori che non andavano
ogni tanto a far la partita con lui metteva broncio, e se n'aveva per
male come d'una sgarbatezza; i programmi poi Dio guardi a toe-
carglieli. Io alPutilita de' programmi scolastici troppo particolareg-
giati non ci credevo allora e nemmeno oggi ci credo. Credo che
quando avete detto a un insegnante, mettiamo di storia: — Voi
i. quegli . . . d'ingegno : Temistocle Gradi (1824-1887), di Siena, autore di rac-
conti e di traduzioni da Terenzio e da Plauto. 2. « manzonismo degli sten
terelli » : e una punta polemica del Carducci, in Davanti San Guido, v. 84.
Stenterello e una maschera fiorentina. 3 . ribobolo : parola, frase, espressio-
ne della parlata popolare fiorentina. 4. trecche: vedi la nota i a p. 926.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) III5
dovete insegnare agli alunni la storia d' Italia — non ci sia bisogno
di aggiungere: racconterete questo, esporrete quest* altro. Se Pin-
segnante sa e vuole, camminera e fara camminare, senza che lo
guidino per mano a ogni passo. Cosi pensando, usavo nelle mie le-
zioni di una tal quale liberta: il proweditore lo riseppe, mi chiam6
al redde rationem, e mi fece una strapazzata numero uno.
Ribattei : gli scolari studiavano e profittavano ; non v'era dunque
argomento a lagnanze o a rimproveri.
Ma il proweditore (mi pare ancora di sentirlo) col suo eloquio
prediletto :
— Stia al chiodo : — rincalzc- — non pretenda di vendermi gatta
in sacco. Stia al chiodo, faccia il dover suo, che e di osservare scru-
polosamente i programmi ministeriali : che altrimenti le daranno
1'erba cassia e sara peggio per lei.
Dar 1'erba cassia significava licenziare: si che io, sentendomi
punto e volendo essere impertinente, risposi :
— Che posso farci? i programmi non mi vanno a fagiolo, e mi
sono accorto che con Posservarli scrupolosamente non si da ne
in tinche ne in ceci.1
O s'accorgesse di quel tanto che nella forma della risposta era di
canzonatorio per lui, o si adirasse per il mio giudizio sulle prescri-
zioni governative, fatto sta che, pur tacendo, col guardarmi in una
certa maniera, mi dimostr6 tutto il suo malumore meglio che se
m'avesse scaraventato addosso una dozzina di modi proverbiali:
e dopo breve silenzio, mi congedb con un «va bene, va bene»,
per il quale intesi che si andava malissimo.
Era un brav'uomo; e mi piace dir subito che anni dopo, non es-
sendo io piu suo dipendente, fummo in relazioni quasi amichevoli;
ma allora quella sua ccerba cassia » mi rest6 sullo stomaco, e sin da
quel giorno capii che I'insegnamento pubblico non era affare per
me. Non me ne andai li per li, forse perche, saturo di proverbi, mi
rammentai di quello che insegna «a lasciare c'e sempre tempo »;
ma Toccasione a risolversi non tard6 lungamente.
Una delle finestre della Scuola normale di Pisa, a Sant' Antonio,
dava verso un orticello nel quale avevo visto piu volte, in mattine
i. non si da. . . in ceci: vedi la nota i a p. 621.
IIl6 FERDINANDO MARTINI
assolate, passeggiare lentamente un vecchietto di mediocre statura.
Fortuna voile che una sera delPinverno 1872 uscissi dalla scuola,
dove nel pomeriggio non avevo occasione di andar quasi mai,
mentre passava per quella strada accompagnato da un servo il
vecchietto medesimo. Non lo conoscevo, e per conseguenza era non
pisano : che a Pisa, dopo un paio di mesi di soggiorno, la gente della
propria condizione si conosce tutta, ed io ci stavo da un anno
ormai ...
Nonostante la cera malaticcia, il viso macilento e non bello, c'era
nella bella fisionomia di queH'uomo tanto di pensosa gravita malin-
conica, che mi fece impressione ; e, improvvisati fra me e me i rudi-
menti di una biografia, dedussi che quegli era certamente un fore-
stiere o francese o inglese; forse uno scienziato venuto in Pisa per
salute. Volt6 in via della Maddalena, ed entro nella casa di n. 38. Chi
stava in quella casa ? Non lo sapevo, e li per li incuriosito, mi propo-
si di informarmene : ma come sempre avviene di cosiffatti proponi-
menti subitanei, trascorso quel momento, non me ne detti piu cura.
Qualche settimana dopo, nel ripassare per la stessa strada, m'im-
battei nel medico Rossini1 che stava appunto uscendo da quella
casa.
— Oh! giusto lei, dottore: chi ci sta al n. 38?
— I signori Rosselli.
— Ci vidi tempo fa entrare un signore smunto, bassotto; deve
essere un forestiere.
— £ il mio malato. Lo lascio ora: il signor Brown.2
— Ah! un inglese! Ci ho indovinato.
— Eh! no. Anch'io dal cognome credei cosi da principio: ma poi,
praticandolo, «come pu6 essere inglese » pensai «se parla 1'ita-
liano meglio di me ? . . . » Difatti, accortosi della mia incredulita,
fu lui a dirmi, senza che io mi permettessi di domandarglielo, che
abita da quarant'anni in Inghilterra, ma e italiano, di Genova.
— Lo avevo preso per un inglese e per uno scienziato.
— No, no : e un negoziante, ma ne sa piu di molti scienziati ; e
quando comincia a parlare, si starebbe tutta la giornata a sentirlo.
— E che male ha ?
1. II medico Giovanni Rossini scrisse un resoconto della malattia del Maz-
zini, pubblicato in parte da F. Falco in « Giornale d' Italia », 31 luglio 1923.
2. II Mazzini nel 1872 si trasferi a Pisa, accettando 1'ospitalita di Pellegri-
no Giuseppe Rosselli e di sua moglie Giannetta Nathan, e ivi si ce!6 sotto
il nome di dottor Giorgio Brown.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) IlIJ
— Ha sofferto nei giorni scorsi di uno spasmo esofageo, doloroso,
di cui e quasi guarito ; ma ha avuto in Svizzera, nel dicembre ul
timo, una bronchite capillare ed e giu di forze: a po' per volta le
ripigliera, spero : non so che cosa darei per vederlo presto rimesso,
perche e proprio una brava e simpatica persona.
E parlammo d'altro.
*
Una mattina del marzo successivo me ne stavo tranquillamente a
casa in piazza San Niccola, leggendo una prosa del Giordani1 (i
menomi particolari di fatti solenni si conglutinano alia mente e non
se ne distaccano piu), quando un facchino trafelato mi recapito
un biglietto del direttore della scuola, il buon Ulisse Tacchi;
conteneva queste sole parole : « C'e bisogno di te : vieni senza per-
dere un minuto ». Non lo perdei, scesi, traghettai P Arno nella barca
del navalestro (il nuovo ponte non era ancora costruito e si usava
quel modo per abbreviare il cammino) e in due salti fui a Sant'An-
tonio.
Mi avvidi subito al brusio che si trattava di cosa seria. Gli alunni,
disertate le aule, s'erano radunati nel cortile, per gruppi: e in quel
gruppo si mormorava, in questo si vociava, in tutti si gesticolava.
NelFipotesi che avessero commesso qualche molto riprovevole atto
d'indisciplina, non mi fermai a interrogarli, e salite in fretta le
scale, trovai i colleghi nella maggiore delle costernazioni.
— Che cos'e stato?
— Come? non lo sai?
— lo ? Non so nulla.
— 6 morto Mazzini.
— Dove? Quando?
— Poche ore fa, a due passi di qui, in casa Rosselli in via della
Maddalena.
— Ah! — gridai battendomi la mano sulla fronte — che mi dite?
I colleghi verisimilmente crederono io manifestassi cosi il mio
dolore; ma, per essere sinceri, codesta mimica della quale Fuomo
si serve il piu spesso per dare a se medesimo deirimbecille, man-
tenne quella volta il suo usuale significato. Un genovese che si chia-
mava Brown, vissuto quarant'anni in Inghilterra, accolto in casa de*
Rosselli, stretti parenti dei Nathan,3 che ne sapeva piu d'uno scien-
i. Giordani: vedi la nota 4 a p. 901. 2. Nathan-, vedi la nota sap. 1122.
Hl8 FERDINANDO MARTINI
ziato, e si stava a sentire per incanto, come non avevo capito alia
prima che non poteva essere altri che Mazzini ? - Non ci fu bensi
tempo a spiegarsi; sicch6, diviso mentalmente col dottor Rossini
Fepiteto del quale una parte spettava anche a lui, ascoltai i colleghi
che tutti mi s'erano fatti d'attorno.
Ho detto che erano costernati; non vorrei che i lettori s'ingannas-
sero sul conto loro, com'essi s'ingannarono verosimilmente sul
conto mio. Ottimi cittadini, la morte del gran ligure li addolorava;
ma la cagione deU'abbattimento era un'altra.
Gli studenti universitarii, piantati in asso i professori e batta-
gliando contro guardie e delegati, erano riusciti a chiudere in segno
di lutto le porte della Sapienza; i nostri alunni chiedevano nella
Scuola normale si facesse altrettanto.
Tutto sarebbe andato per le lisce, se il Direttore avesse potuto
accomodare le cose da s6; era disposto a concedere, ma non os6
e domand6 istruzioni al Prefetto; il quale, stizzito per lo scacco
sofferto da* suoi agenti aH'Universita, intim6, secco, che gli inse-
gnanti facessero il loro dovere e tenessero a dovere gli alunni.
Presto detto : ma perch6 i predicozzi non avevano prodotto fin al-
lora effetto veruno e sarebbe stato peggio che vano il replicarli,
il Direttore preg6 mandassero un delegate, qualche guardia al-
meno per mostra, a passeggiare su e giu innanzi al cortile ; forse in
presenza dei questurini qualcosa si sarebbe ottenuto : forse : a ogni
modo, provare. II Prefetto, piu stizzito che mai, rispose meravi-
gliando si dovesse ricorrere ai delegati e alle guardie, che in quel
giorno avevano altro da fare, per tenere a freno quattro ragazzi.
Ma gli alunni non erano n6 ragazzi n6 quattro: oltre settanta, e i
piu giovanotti dai sedici in la; i quali, appena capito che guardie
non ne verrebbero, o fingessero o dicessero per dawero, minac-
ciarono, ove non si appagasse il loro desiderio, di fare addirittura
subbuglio.
Bisogna awertire che alia scuola era unito il convitto : vi soprin-
tendeva il maestro di calligrafia; beU'uomo sulla sessantina, alto
dritto, baffi e pizzo bianchi: alia sua figura di colonnello in ritiro,
toglieva alcun che della simulata severita e dell'ostentato sussiego
una papalina riccamente ricamata con tanto di nappa, della quale la
calvizie lo costringeva a tener coperta la testa dalla mattina alia
sera: papalina, argomento continue ai ftizzi della scolaresca. Aveva
scarsa autorita e lo sentiva - e pensando che alia fine sarebbe stato
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892)
lui a trovarsi nelle peste per quei sessanta indiavolati capaci di
metter tutto a soqquadro, invocava da ogni parte sostegni e soccorsi.
In que' frangenti, mandarono a chiamare me per rinforzo.
E si tenne consiglio per tentare, se vi fosse, una via di accomoda-
mento.
Per Fappunto chi doveva primo, a regola d'orario, salir sulla cat-
tedra in quel giorno era il prete Cardella insegnante di storia sacra,
il quale gia aveva annunziato parlerebbe di Giuditta; e fu anche il
primo a riconoscere che a metter pace Pargomento in bocca sua
non si prestava, e che la sua lezione meglio sarebbe saltarla; ma gli
alunni, che lui non avrebbero di sicuro ascoltato, soggiunse cortese-
mente, avrebbero ascoltato me: e perche pare gli stesse molto a
cuore di dar loro notizia dei casi di Oloferne, propose che la lezione
la facessi io e leggessi la Betulia Liber at a1 del Metastasio ; cosi, di-
ceva, non si deroga troppo ai programmi, si ottempera agli ordini
e tra la lettura, le dichiarazioni, i raflronti, il sonetto dello Zappi2
e via via, si arriva a mezzogiorno, cioe al termine normale delle le-
zioni mattutine.
La Candida proposta non ottenne favore; e intanto che noi al
primo piano scartavamo Giuditta, in cortile gridavano «Abbasso
Nabucodonosor! » Nessuna offesa al vecchio testamento, nessun
odio per TAssiria: quello era il soprannome dai pisani imposto al
Prefetto Lanza, non ho mai saputo a quale proposito : certo e che
non gli s'addiceva, poich6 il pover'uomo tutt'altro aveva che terri-
bilita nelFaspetto; e quando compariva in Lungarno cavalcante un
maggiorenne bucefalo bianco-sporco, tutt'altri ricordava che il
Mucro doming la spada di Jehova, acclamata dalle credule speranze
di Geremia.
Misi innanzi io una proposta. Que' giovanotti, in sostanza, si
preparavano a far baccano per onorare la memoria di Mazzini.
E che ne sapevano del Mazzini ? La maggior parte quel tanto che ne
lessero di quando in quando ne' giornali. Dico la maggior parte per
ch^ uno o due, andati piu a fondo, s'erano fin d'allora fatta legge e
norma delle sue dottrine e le professano da vecchi tuttora. Ma del
Mazzini letterato, dej suoi saggi su Dante, sul Goethe, su Carlo
Bini, su Zaccaria Werner,3 quanto avevano letto ? Nulla. Persuadia-
1. Betulia Liberata: e un'opera sacra del Metastasio, composta nel 1734.
2. Zappi: vedi la nota 2 a p. 1079. 3. Carlo Bini: vedi la nota 2 a p. 613 ;
Zaccaria Werner (1788-1823) fu poeta drammatico caro ai giovanili entu-
1120 FERDINANDO MARTINI
moli, conchiusi, che il miglior modo di onorare la memoria del
Genovese e 1'imparare a conoscerlo pienamente : riuniamo le classi,
parlero loro degli Scritti d'un italiano vivente.1 Que' volumi la
piccola biblioteca della scuola non li possiede: non importa: li
so, sto per dire, a memoria.
Qui mi sia lecita una parentesi. Sino allora non avevo frequentato
che monarchici e de' piu smoderatamente moderati. Ora al Maz
zini si erigono monumenti a spese dello Stato e per desiderio del re ;
ma sessant'anni fa! In que' crocchi di rado il suo nome si pronun-
ziava, se non preceduto da un aggettivo ingiurioso o seguito da un
improperio ; e a furia di udir ripetere quei giudizi oltraggiosamente
sintetici, forse non avrei serbata serenita di giudizio intorno a lui
e agli atti suoi, se non lo avessi amato fin da ragazzo, appunto in
grazia di quegli Scritti d'un italiano vivente che, stampati a Lugano
nel 1847, Enrico Nencioni,* guida amorevole a' miei nuovi studi,
mi regald molti anni dopo, e dopo avermeli fatti assaporare in al-
cune delle nostre peripatetiche conversazioni : tre volumi dai quali
imparai parecchie cose, e questa sopra ogni altra utilissima: che
a scuola m'avevano insegnate parecchie castronerie.
Torniamo a Sant' Antonio.
Si seguitava a discutere e a cercare una via di uscita inutilmente.
II maestro di calligrafia, terrorizzato dalle reprimende prefettizie,
sognava sospensioni, licenziamenti, perdita della pensione che era
prossimo a conseguire. Non trovava, come suol dirsi, basto che
gli entrasse.3 Via via che Tuno o Taltro de' colleghi suggeriva questo
o quello spediente egli, per non compromettersi, non diceva ne
si ne no : a esprimere la propria trepidazione ora mandava la papa-
lina sin verso la nuca ora la respingeva fin sopra gli occhi, e la
nappa con le sue oscillazioni simboleggiava le disperate perplessita
di queH'animo angosciato.
Intanto nel cortile il baccano s'era fatto piu confuso e piu alto.
Alunni d'altre scuole eran venuti ad accrescere lo scompiglio: le
siasmi romantici del Mazzini. i. Scritti letter ari d'un italiano vivente e
il titolo dei tre volumi in cui Mazzini raccolse le proprie pagine anteriori
all'apostolato strettamente politico. 2. Enrico Nencioni: vedi la nota 2, a
p. 913. 3. basto . . . entrasse: soluzione che gli andasse bene.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) II2I
nostre irresolutezze invogliavano a perturbazioni maggiori. Ri-
petei la proposta . . .
— SI ... ma . . . Mazzini . . . Che dira il Prefetto ?
— Nulla — soggiunsi. — Se non e riuscito a lui con tutti i suoi
delegati e le sue guardie di piegare alia propria volonta gli studenti,
non potra rimproverare a noi di avere, senza n6 guardie ne delegati,
ricondotto nella scuola 1'ordine e la tranquillita.
E senza attendere obiezioni o sollecitare consensi, riunii nella
piu ampia aula delPIstituto tutte le classi: parlai loro per un'ora e
mezza del Mazzini letterato: la lezione fini tra gli applausi.
Li avevo meritati.
Ero stato tutto quel tempo sui carboni ardenti; e con 1'inchio-
darmi sulla cattedra per sei quarti d'ora avevo fatto il maggiore de'
sacrifizi al mio dovere d'insegnante. Pensate: da un anno scri-
vevo nel ((Fanfulk)):1 a que' giorni non usava spedire articoli per
telegrafo; i reporters e i telefoni di la da venire; a Pisa ne quello,
n£ altri fogli della capitale avevano corrispondenti ; la salma del
Mazzini era 11 a due passi, potevo essere io il primo a raccogliere e
mandare ragguagli che il pubblico indubbiamente attendeva con
ansieta, e il tempo fuggiva . . . Fuggii anch'io.
Volai in casa Rosselli; ordine era dato che non si lasciasse pas-
sare nessuno, sino a che non giungessero il Bertani ed il Mario ;a
n<§ parvero da principio propensi a revocarlo, specie per un giornale
di salda fede monarchica, e per6 avverso alle dottrine mazziniane;
ma tanto pregai, tanto insistei che potei entrare nella camera e
inginocchiarmi presso al letto ove il gran morto giaceva.
Qui, chi volesse e sapesse, potrebbe incastrare una bella e com-
mossa pagina di prosa, ch6 innanzi al cadavere del Mazzini c'era
veramente da commuoversi; tanto piu mirando le lacrime che scen-
i « Fanfulla » : vedi la nota i a p. 504. 2, Agostino Bertani (1812-1886), di
Milano medico, patriotta. Aveva combattuto nelle Cinque giornate, par-
tecipato alia difesa di Roma nel 1849, alia guerra del 1859 come medico
dei Cacciatori delle Alpi, alia spedizione dei Mille come organizzatore, alle
azioni di Garibaldi nel Trentino durante la campagna del 1866. Mazzi-
niano, fu nella Camera a capo dell'estrema sinistra, ma avyers6 il trastor-
mismo del Depretis; Alberto Mario (1825-1883), di Lendmara, combatt*
nelle campagne del Risorgimento ; dapprima mazziniano, successivamente
aderl alle idee del Cattaneo: scrittore repubblicano, oper6 assiduamente
per i suoi ideali.
1122 FERDINANDO MARTINI
devano dagli occhi spent! di Enrico Mayer1 venuto a dar Fultimo
bacio alPamico, al compagno ne* pericoli di sfortunate sante con-
giure; ma io dovrei lavorar di maniera e mentire: la commozione
la provai anch'io, si, ma piii tardi ripensando 1'altezza di quell'ani-
mo e di quelFintelletto, la perseveranza intrepida di quella fede
meravigliosa ad ogni cor sicuro;2
li per li, in quella camera ove non m'era lecito rimanere che pochi
minuti, sia pur detto a mia vergogna, io pensai principalmente al-
ljarticolo: a notare, cioe, la coperta di lana a quadrellini bianchi e
neri, donata a Mazzini da Sara Nathan3 e che gli stava ora distesa
sul letto ; e la camicia di tela a righe sottili alternativamente bianche
e violette che copri il petto affannoso del moribondo, e su cui aveva
appuntato un nastro tricolore quella stessa mano femminile che
depose sul guanciale una fronda d'alloro.
E dalla casa Rosselli in un attimo alia prossima casa dove il Maz
zini aveva precedentemente abitato. Seppi la che le signore Cassoli
le quali Io ospitavano, per certi discorsi e certe vigilanze della poli-
zia, ebbero qualche sospetto che colui il quale si dava per Brown,
negoziante israelita, fosse invece tutt'altri: e glie Io dissero.
— Mazzini? — rispose sorridendo — Dio volesse! Chi sa dov'e a
quest'ora, certamente non tormentato come me dalla tosse.
Cosl I'articolo buttato giu rapidamente e perci6 scritto alia peg-
gio, spedito quel giorno medesimo, fu primo a fornire gli aspettati
ragguagli; e perch6 fu primo, anche ristampato in moltissimi gior-
nali e d'Europa e d' America.
1. Enrico Mayer (1802-1877), di Livorno, di padre tedesco e madre fran-
cese. Educatore e patriotta, collaborator dell'« Antologia » del Vieusseux,
promosse 1'educazione popolare in Toscana, fu in intimi rapporti col Lam-
bruschini, il Vieusseux, il Capponi, cur6 Pedizione delle opere del Foscolo.
Volontario nella guerra del 1848, amicissimo del Mazzini anche quando non
ne condivise le idee, fu dei patriotti piu ammirati del nostro Risorgimento.
2. Dante, Inf., xvi, 132. 3. Sara Levi (1819-1882), parente dei Rosselli
di Livorno, sposa e poi (1859) vedova Nathan, aveva protetto il Mazzini
esule a Londra, e successivamente aveva ospitato e favorito patriotti a Fi-
renze, a Milano, a Lugano, dove, nella sua villa della Tanzina, accolse e
cur6 il Mazzini. A Pisa il grande genovese ebbe appoggio ed affetto dalla
figlia di Sara, Giannetta Nathan maritata Rosselli. Quando il Mazzini fu
vicino a morte, Sara Nathan accorse al suo capezzale.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1123
Avevo parlato nel «Fanfulla» del Mazzini con ammirata vene-
razione: mi stavano traducendo in svedese e in rumeno, potevo
esser contento. Ahime! vennero a turbare gli intimi compiacimenti
una chiamata e i riboboleschi rimproveri del Proweditore.
— S'accomodi, risponda e non pretenda di farmi vedere la luna
nel pozzo, perche" so tutto. Lei prese parte al consiglio dei professori
il giorno della morte di Mazzini: lei conosceva gli ordini e fu lei
a proporre che si trasgredissero . . .
— Ma non e'er a mo do di eseguirli . . .
— Sicche" lei e innocente come Pacqua fresca?
— No. Ho anch'io la mia brava parte di responsabilita e metta
pure la maggiore; ma che cosa c'era da fare ? Gli alunni non ci da-
vano retta e non potevamo prenderli per il collo . . . E se mai non
toccava a noi . . .
— Ecco fatto : oh! non c'e pericolo che la parola le muoia in boc-
ca: ma ha da sapere che quando il suo diavolo nacque, il mio an-
dava a scuola . . .
— Ma scusi . . .
- L'elogio di Mazzini! ... Una bella trovata. Senta, lei vuol
far di testa sua, e io non posso lasciarla fare. L'ho gia awertita al-
tre volte, ma e stato come dare 1'incenso ai morti. Ora il Ministero
vorra sapere . . . e s'io scrivo come sono andate le cose per filo e
per segno, lei non ci guadagnera. S'e anche messo a scrivere nel
«Fanfulla», e ogni tanto punzecchia . . . Io glielo dico per suo
bene. Si ricordi che tanto va la gatta al lardo ...
- Che ci lascia Io zampino . . . Faccia conto che ce Io lasci fin
d'ora.
E cosl la fine d'un proverbio segn6 la fine della 1012. camera di
pubblico insegnante: fermo e annunziato quel giorno il proponi-
mento di andarmene, sui primi del nuovo anno presi commiato, e
ripresi - non senza rammarico - la mia liberta.
Ho detto carrier a: ma la parola di cattivo conio male s'adatta ai
miei casi. In tre anni e mesi avevo fatto il cammino del gambera e,
anzich6 vantaggiarmi, scapitato negli assegnamenti ;' ch6 a Pisa
perdei 1'incarico della storia e della geografia, in grazia del Wieland
e dell'Hegel, conferitomi da un sottoprefetto ; col quale mcanco il
Ministero gratific6 il mio successore nella scuola di Vercelli, per
ricompensarlo dell'incomodo sofferto negli sconvolgimenti tellu-
i.assegnamenti; assegni, emolument!, stipendi.
1124 FERDINANDO MARTINI
rici, onde si mutavano per lui in affluenti dell'Arno le isole del mar
toscano.
IL ((FANFULLA))1
S'era nel 1868: Francesco De Renzis,2 capitano di State Mag-
giore, aitante ed elegante ufEciale di ordinanza del re Vittorio Ema-
nuele, abitava a Firenze, da poco e per poco capitale del regno.
Abitava nel Lungarno Corsini, al piano terreno di un palazzo, il
quale una gentildonna di antichissima famiglia fiorentina, Aurora
Guadagni, maritata a un belga, il barone D'Hogwoorst, aveva com-
prato dagli eredi di Ranieri Lamporecchi, awocato famoso nel f6ro
toscano, de' piu pronti e abbondanti parlatori che mai venissero al
mondo; men che mediocre, ma pertinace verseggiatore a tempo
avanzato. Caldo ancora de' recenti felici successi del suo piu ap-
plaudito proverbio : « Un bacio dato non e mai perduto », il De Ren
zis scriveva con operosita infaticata nuovi proverbi e commedie,
cullandosi anch'egli - e quanti allora ci cullammo con lui! - nella
fiducia di contribuire al risorgimento del teatro italiano; e a udir
la lettura de' propri lavori invitava di quando in quando alcuni
amici, rifocillandoli poi di colazioni modeste ma squisite, per di-
mostrare forse che se non tutte le lezioni del Moliere gli erano
state profittevoli, aveva tutti a memoria i precetti del Grimod de
La Reyniere e del Brillat-Savarin.3
A me gradiva assai 1'essere di frequente suo commensale; anche
perche* alia mensa non di rado sedeva Amata Desclee,4 attrice della
compagnia Meynadier, che recitava al Niccolini: attrice sin d'allora
grandissima, e cui gli applausi del pubblico italiano promettevano
i sicuri trionfi che ella ottenne sulle scene parigine poco dipoi.
Quanti disegni si vagheggirono, in quel pianterreno, per venire
in soccorso al derelitto teatro nazionale! Disegni uno piu bello del-
Paltro, ma dei quali non uno appro d6. Una sola cosa riuscimmo a
i. Ed. cit., cap. v, pp. 81-108. 2. Francesco De Renzis: vedi la nota 6 a
p. 525. 3. Autori di famosi trattati di gastronomia. Per il Brillat-Sava
rin, vedi la nota 3 a p. 1108. 4. Amata Desclee: Aim6e Olympia Desclee
(1836-1874), acclamatissima attrice, nel carnevale 1868-1869 rappresentd
al Teatro delle Logge, in Firenze, La lettre de Bellerophon di Francesco De
Renzis. La Desclee, condotta in Italia dalla compagnia di Eugene Meyna
dier, che ne aveva scoperte le qualita, torn6 poi in Francia dove ebbe grande
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) II2S
fare, e fu buona: a serbare sulla scena Claudio Leigheb,1 che
avrebbe dovuto lasciarla per andare soldato, egli il quale nell'arte
propria dava gia di se ottime prove.
II De Renzis, Francesco D'Arcais2 ed io tanto almanaccammo,
tanto importunammo il prossimo nostro, da giungere a mettere
insieme, come suol dirsi, una serata al teatro delle Loggie, Tincasso
della quale bast6 a pagare il cambio (allora consentito dalla legge)
al Leigheb, che sarebbe stato un cattivo bersagliere, e pote cosi,
perseverando nello studio, divenire queirattore che fu, de' piu
compostamente e schiettamente comici, fra quanti nella seconda
meta del secolo scorso ebbe il nostro teatro. A quell'opera buona
la Descl6e voile anch'essa partecipare, recitando un proverbio
francese dello stesso De Renzis (il men noto e forse il piu garbato
de' suoi) : La lettre de BelUrophon.
Dopo una di quelle colazioni, durante il chilo, proprio/nz un si-
garo e Valtro? il De Renzis, che pareva essersi fatta legge, come
Emilio De Girardin,4 di metter fuori ogni giorno una nuova idea,
m'espose, molto raccomandandomi di custodire il segreto, il suo
piu fresco disegno.
Bisognava fare un giornale : scritto con brio, scritto tutto da cima
a fondo, senza aiuto di forbici, signorile, arguto, vivace, di piace-
vole lettura; non legato a partiti, anzi libero da ogni impaccio,
per poter dire a tutti il fatto suo, con temperanza si, ma con pari
franchezza, e senza portare barbazzale5 per nessuno.
Idea magnifica: danari non ce n'erano e collaborator! neanche;
ma tanto per cominciare, il De Renzis offriva a me, generosamente,
la direzione.
II disegno fu esaminato, discusso piu giorni; proposti per il nasci-
i. Claudio Leigheb (1848-1903), figlio del piu celebre Giovanni, fu indi-
menticabile comico (La zia di Carlo, Narciso il parrucchiere, ecc.) ed anche
estroso e vivace disegnatore di macchiette e pupazzetti. 2. Francesco
D'Arcais: vedi la nota i a p. 532. 3. fra un . . . e I'altro: e il titolo di un
volume dello stesso Martini, in cui sono raccolti articoli da lui scritti per
vari giornali e riviste (vedi la bibliografia). 4. Emilio De Girardin (1806-
1881), famoso giornalista e uomo politico francese, piu volte deputato.
Fond6 e diresse «La Presse» (1836-1856), « La Libert6» (dal 1866), «Le
petit journal)), «La France » (dal 1874). A lui attribuisce il motto «una
nuova idea ogni giorno » lo stesso Martini, in un capitolo (A Parigi)
del volume da cui e tolto questo brano. 5. barbazzale: freno, pastoia.
1126 FERDINANDO MARTINI
turo una ventina di titoli, de* quali non uno ci persuadeva; ma il
giornale sarebbe a ogni modo uscito alia luce, se Vittorio Ema-
nuele (e fu il solo e inconsapevole oltraggio che il gran re facesse
alia liberta della stampa) non lo avesse impedito.
Fra i tanti lavori drammatici ai quali il De Renzis aveva dato
mano in quel tempo, uno singolarmente gli era caro e parevagli
destinato a singolari fortune. Intitolato dapprima La figlia del
Serpente, comparve sulla scena del Niccolini, n6 so perche", con ti-
tolo diverso : II medico del cuore.1 II primo atto and6 bene, e 1'au-
tore fu chiamato al cosiddetto «onore della ribalta»; il secondo
cosi cosi, al terzo si udl sibilare nella platea, anche piii forte di
quanto avrebbe potuto il serpente padre della protagonista.
L'autore era, come ho detto, ufficiale d'ordinanza di Vittorio
Emanuele ; il quale, opinando che a chi gli stava vicino non fosse
lecito di farsi fischiare, condann6 il povero De Renzis a due mesi di
arresto nella fortezza di Alessandria. Forse chi sa? il re pens6 che
anche quello di chiudere in fortezza gli autori di commedie cattive
era un mezzo violento, si, ma efficace di provvedere alle sorti del
teatro nazioriale.
Badiamo : che il motivo delle collere auguste fosse quello che ho
detto si asseri allora e cred6; cronisti maliziosi2 sostengono bensi,
che non d'una commedia fischiata, ma si tratt6 di un'attrice, se
non applaudita, bellissima e dilettissima a Vittorio Emanuele: la
quale, affinch6 nessuno osasse penetrarle nel cuore giurato a lui,
ci aveva messo di guardia un capitano di Stato Maggiore.
Chi fu scottato dalPacqua calda teme la fredda; e quando PufH-
ciale d'ordinanza usci dalla cittadella, per riprendere, oramai ri-
benedetto, il suo servizio a palazzo Pitti, di arte e di letteratura
si astenne fin dal parlare, del giornale non fece piu verbo. Ne* avrei
ad ogni modo potuto dirigerlo io, che gi& m'ero avviato sui flo-
ridi sentieri del pubblico insegnamento, donde mi ritrassi fortuna-
tamente a tempo.
i. Intitolato . . . cuore: Ugo Pesci (Firenze capitals, Firenze, Bemporad,
1904, p. 252) scrive, ma dubitando dell'esattezza, che si intitolava 11 Dio
milione. Ma il Pesci inverte anche 1'ordine cronologico tra questa comme
dia e la piii celebre Un bacio dato non & mai perduto, che secondo lui sareb
be stata composta dopo 1'arresto. 2. cronisti maliziosi: tra gli altri il Pesci,
che narra (op. cit., pp. 251-2) un episodic comico di questa relazione a tre.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) II2J
Con tutto ci6 il De Renzis, sebbene non osasse manifestarlo,
non aveva dismesso 1'antico proposito. Alia fine, non potendo piu
stare alle mosse, se ne apri con due giornalisti provetti, che da To
rino avevano seguito a Firenze la vagante capitale del regno:
Giovanni Piacentini e Giuseppe Augusto Cesana.1 II disegno stra-
piacque: bisognava non perder tempo e mandarlo subito ad effetto.
Se non che, altre cose bisognavano: danari prima di tutto; poi,
un titolo che dicesse Pindole del giornale, finalmente un direttore;
che* dei tre, chi per una ragione, chi per un'altra, nessuno era in
grado di assumere queirufficio : al De Renzis non conveniva mettersi
in mostra; il Piacentini era occupato nella compilazione della « Gaz-
zetta Ufficiale » ; il Cesana dirigeva il «Corriere italiano».
II titolo lo trov6 il Cesana: danari ne lui ne altri fu buono a tro-
varne; sicch6, messa con prodiga spensieratezza mano alia tasca,
sborsarono in tre la cospicua somma di novecento lire, quante ce
ne volevano a pagare per tre mesi la pigione di alcune povere
stanze in via Ricasoli e a comprare una tavola, qualche seggiola e un
calamaio.
Non mancava oramai che il direttore. Poco innanzi era uscito in
luce a Firenze un giornaletto umoristico: «I1 Barbiere», ch'ebbe
vita brevissima, e nel quale aveva pubblicato articoli graziosamente
arguti un giovinotto genovese, - Baldassarre Avanziniz - segreta-
rio particolare del prefetto conte Cantelli.3 II Piacentini che lo
conosceva si rivolse a lui; e il giovinotto, ch'era facoltoso e teneva
TufScio unicamente per aver qualcosa da fare, piant6 la prefettura
e si pose a capo della gioconda brigata.
Cosl, assestate le faccende, il 16 giugno 1870 si stampb il primo
numero del «Fanfulla». Non soltanto
seguitaron gli effetti alle speranze^
i. Giovanni Piacentini: awocato, giornalista, direttore della «Gazzetta Uf
ficiale »; Giuseppe Augusto Cesana (1821-1903), di Milano, patriotta (Cin
que giornate). Fondatore di vari giornali (l'« Espero », 1853; il «Fischiet-
to», satirico; il «Pasquino», 1856; «La Gazzetta di Torino »; il «Corriere
italiano», 1860, ecc.). Nel 1870, a Firenze, con altri, cre6 il « Fanfulla »,
che poi segul a Roma. Ha lasciato due volumi di memorie: Ricordi di
giornalista, 1890-1892. 2. Baldassarre Avanzinv. vedi la nota i a p. 505.
3. Girolamo Cantelli (1815-1884), di Parma, della quale agevo!6 1'annessio-
ne al Piemonte. Deputato nel 1860, prefetto poi di Firenze, fu successi-
vamente ministro dei lavori pubblici e ministro dell'interno col Menabrea
e col Minghetti. 4. Riecheggia un verso del Tasso : « seguiteran gli effetti
a le speranze» (Ger. lib., iv, 24).
1128 FERDINANDO MARTINI
ma awenne quanto sarebbe stato follia lo sperare. Alia fine del mese
i proprietari depositavano alia Banca Nazionale dodicimila lire,
guadagno assicurato del primo semestre : che gli abbonamenti dilu-
viavano, e la minuta vendita sopperiva di per se alle spese del nuovo
e awenturato giornale.
Al Piacentini (Silmus), al Cesana (Tom.0 Canelld), al De Renzis
(F. Scapoli), all'Avanzini (E. Caro\ si aggiunsero, via via, altri
scrittori: Carlo Lorenzini (Collodi), Pietro Ferrigni (Yarick), Ugo
Pesci (Ugo), Oreste Baratieri1 (Fudle)\ del quale ultimo gli articoli
intorno alia guerra scoppiata in quei giorni tra la Francia e la Ger-
mania, che dotti e sagaci, presagirono sin dal principio la vittoria
delle armi tedesche, molto giovarono alia fortuna del giornale:
per modo che quando il « Fanfulla » pose di li a poco le proprie tende
a Roma, pot6 vantarsi, fra i giornali d'allora, d'esser quello che
aveva il maggior numero di lettori.
E quali lettori! De' piu assidui, Papa Pio nono, che dalle facezie
del giornale traeva non di rado occasione ad altre, e ahim&! non
felici facezie, pur citate e divulgate ad attestare sempre vivace la
mente, sempre sereno 1'animo suo. II Pesci che, come ho detto,
firmava col nome di Ugo, suo battesimale, i propri articoli, uno ne
scrisse pigliando in ischerzo non so quale delle tante proteste vati-
canesche. Al Monsignore, che sdegnato gli mostr6 quelParticolo,
Pio IX rispose: — Di che vi meravigliate ? Costui e un Ugo notoz
(Ugonotto).
Una mattina d'estate, nel 1871, sulla rotonda del Pancaldi a
Livorno m'imbattei nel De Renzis, non riveduto da anni. Aveva
abbandonato il servizio militare, preparava la conquista di un col-
legio elettorale, intanto si compiaceva delPottimo successo del gior
nale ideato da lui. Mi domandc- ci6 che ne pensassi: io glie ne dissi,
naturalmente, tutto il bene che meritava; ma perche* tanto pensavo
allora a divenir deputato, quanto a fare una spedizione al polo
antartico, e avevo la politica in uggia (m'accorgo ora - un po' tardi
a dir vero - di non averla amata mai), soggiunsi che il « Fanfulla »
non era per6 il giornale vagheggiato al pianterreno del palazzo
i. Carlo Lorenzini: vedi la nota i a p. 919; Pietro Ferrigni: vedi la nota 2
ap.424; Oreste Baratieri: vedi la nota i ap.sos. 2. Ugo noto : vedi anche
p. 418 e la nota 2.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) II2<)
d'Hogwoorst a Firenze; giornale che, cosi come lo avevamo allora
immaginato, doveva, si, trattare di politica; ma non darle come il
«Fanfulla» tanto posto, che non ce ne rimanesse un po' piu per la
letteratura e per 1'arte. E mentre io cominciavo a esporre quanto
facevano i giornali francesi ed inglesi della stessa indole, 1'amico
m'interruppe e:
— Non ti perdere in chiacchiere inutili ; — soggiunse a sua volta
— scrivi tu quel che ti piace, manda tu quello che vuoi, e noi sa-
remo lietissimi di pubblicare.
Cosi cominci6 - due giorni dopo quel colloquio - la mia colla-
borazione al «Fanfulla», continuata poi lunga, frequente, talora
quotidiana. Trascorsi oramai quaranta anni, pu6 esser lecito a me,
unico superstite de' suoi redattori, considerare se veramente meri-
tasse il favore che ottenne, la fama che tuttavia ne dura come di
giornale che segni un'epoca nella storia della stampa periodica ita-
liana. E credo di si; la corretta spigliatezza della scrittura, fra le
pesanti o sciatte gazzette d'allora; il brio di buona lega, lontano
dalle triviali arguzie e dalle sconcezze anfibologiche1 alle quali siam
ritornati, e pare con delizia del pubblico ; il combattere nelle scher-
maglie con quelle armi cortesi che sfiorano, o pungono tutt'al piu,
non lacerano mai; il buon senso tenuto guida suprema; lo assegna-
re a ogni manifestazione della vita pubblica la parte che le spetta:
oggi il primo posto alia esposizione finanziaria, o al dibattito par-
lamentare, il primo posto domani al libro, al quadro, alia statua;
queste le giuste ragioni della fortuna che al «Fanfulla» tocc6, la
maggiore che, dati i tempi, toccasse a giornale italiano.
Quanto cammino abbiamo percorso in cinquanta anni! se verso
meta piu degna, non so ; a ogni modo chi vorrebbe oggi d'un gior
nale da leggersi da capo a fondo, che (awertite) non dava notizie e
potrebbe tutto esser contenuto in una pagina della «Tribuna»?
Io solo, forse, riapro ogni tanto quelle ingiallite pagine evocatrici,
con un senso di tenerezza ineffabile riveggo, leggendole, passarmi
dinanzi le imagini ancor sorridenti dei compagni perduti, riascolto
suonarmi nelPanima gli echi lontani della gioventu.
i. anfibologiche: a doppio senso.
1130 FERDINANDO MARTINI
II titolo non era nuovo : con grande rammarico del Cesana che si
gloriava d'averlo trovato lui, ce ne awerti Girolamo Amati,1
frugatore e raccoglitore di carte vecchie, tornando un giorno da
Campo di Fieri, dove, tra un mucchio di fogliacci, aveva scovato il
numero di un « Fanfulla» escito a Roma nel '46 : cosi poco noto, del
rimanente, che egli stesso, PAmati, il quale nel '46 era gia uomo
fatto, non ricordava che a Roma si pubblicasse un giornale cosi
intitolato.
L'Amati, da giovanissimo, segretario di Pellegrino Rossi,2 era
un di quegli eruditi dei quali si va perdendo la stampa; ed e pec-
cato che della erudizione abbia lasciato scarsissimi saggi : il piii noto
certe Letter e romane da lui date fuori come « esperimento del frutto
che si pu6 avere razzolando per i nostri archivi». Veniva tutti i
giorni, nel pomeriggio, al « Fanfulla» e li, quando se ne offriva Pop-
portunita, senza pompeggiarsi, quasi parlando tra s6 e s,e, dava la
stura alle notiziole piu curiose e recondite, I miei quaderni d'ap-
punti son pieni di aneddoti cosi imparati e notati. Qualcheduno,
mettiamo, si doleva che i deputati perdessero il tempo in una di-
scussione vana e ciarliera e PAmati subito :
— Ci vuol pazienza: aleggia ancora in quelle aule lo spirito di
Pier Soderini che nel 1511 abit6 a Santo Biagio di Montecitorio,
proprio la dove ora e la Camera.
Una volta raccontavo io come un signore fiorentino, il quale
ebbe anche uffici nel Comune, dedito ai lavori manuali, si divertisse
tra Paltro a fare la ceralacca: e come in certa solennita nella quale
i parenti s'erano raccolti a pranzo in casa sua, mostrasse a figli e
nipoti, presi subito da superstizioso terrore, parecchi chilogrammi
di ceralacca da lutto . . . E diceva compiacendosi : — Ce n'ho per
tutta la vita!
Ed ecco PAmati raccontare a sua volta la storia della cera da let-
tere ; e che i Duchi di Fiorenza la usavano di color rosso, di color
verde i Duchi di Urbino, bianco quei di Ferrara ai quali Ottone I
imperatore conced6 si servissero di cera bianca nel suggellare le let-
tere, in segno della sincerita delPanimo loro.
1. Girolamo Amati, nipote deiromonimo erudito ed epigrafista di Savigna-
no in Romagna, e continuatore delle tradizioni letterarie della famiglia.
2. Pellegrino Rossi, ( 178?- 1848), gia economista e insegnante a Ginevra e a
Parigi sotto la Monarchia di Luglio (che lo cre6 Pari di Francia), quindi,
perduti posto e onori con Pawento della Seconda repubblica, ministro
di Pio IX dal settembre del '48 al suo assassinio il successive 25 novembre.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1131
Un'altra volta il discorso cadde sulla Nona dello Zola, pubbli-
cata di fresco:1
— Messere Emilio ha letto gli Ecatonmiti2 del Giraldi; e dalla
novella di Saulo e Nana, non soltanto ha tratto il nome della prota-
gonista, ma parecchie coserelle delle quali s'e giovato per il suo
romanzo.
II giudizio sara stato giusto o no ; ma quei rawicinamenti erano
occasione e spinta a controversie piacevolissime. Perche io credo
che, per lo meno a quel tempo, nessuna redazione di giornale
udisse conversazioni piu colte o piu amene; e non per merito dei
redattori, badiamo, che tutfal piu vi incastravano di tanto in tanto
qualche po' di gaiezza ; bensi per merito di coloro che piu o meno
assidui frequentarono il « Fanjfulla », negli anni delle sue maggiori
fortune.
Giuseppe Massari,3 sebbene fornisse al giornale le informazioni,
sicure sempre perch'egli era in grado di attingerle ad alta e pura
sorgente, vi capitava di rado e il piu delle volte per borbottare.
II « Fanfulla», quantunque Baldassarre Avanzini che lo dirigeva fosse
il moderatissimo fra gli uomini di parte moderata, non si peritava,
quando occorresse, nel dir la sua anche al Sella e al Minghetti ;4 e
il Massari fedele ai ministri con fedelta schifiltosa ed ombrosa,
quando si trattava di loro, non tollerava censure, per garbate che
fossero, scherzi neanche; e se dava di sfuggita una capatina al
giornale, ce la dava per mugolare lagnanze, e mugolatele se ne par-
tiva. N<§ egli era solo a lagnarsi: mentre da' giornali di opposta opi-
nione il « Fanfulla» era accusato di servilita al governo e alia destra
parlamentare, governo e destra si dolevano spesso del contegno suo.
Ci6 che dimostra come avesse ragione quell5 acutissimo osservatore
che fu il cardinale de Retz:5 «L'on a plus de peine dans les partis
a vivre avec ceux qui en sont, qu'a agir contre ceux qui y sont
opposes ».
i. II romanzo Nana di fimile Zola (1840-1902) apparve nel 1880. 2. Eca
tonmiti: raccolta di novelle, pubblicata nel 1565, del ferrarese G. B. Giraldi
Cinzio (1504-1573), famoso anche per una tragedia, VOrbecche (1541).
3. Giuseppe Massari: vedi la nota i a p. 515. 4. Per Sella e Minghetti,
vedi rispettivamente le note 2 a p. 456 e 3 a p, 445. 5. Jean-Fran9ois Paul
de Gondi, cardinal de Retz (1614-1679), il celebre autore dei Mdmoires.
1132 FERDINANDO MARTINI
Piu spesso, anzi molto spesso, vi veniva Giovan Battista Gior-
gini1 e vi rimaneva ore intere. Che cosa non sapeva quelPuomo ?
e chi mai lo vinse nella perspicua semplicita onde esponeva, par-
lando, il proprio pensiero ? Era la cronaca vivente degli anni vis-
suti ; la sua ferrea memoria un archivio di preziosi document! della
nostra storia recente ; ed ei via via ne traeva, in apparenza con fati-
cata pigrizia, episodi, biografie, testimonianze del valore morale e
intellettuale di questo o quel letterato, di questo o quel personaggio
politico. Quale conversatore! Ho conosciuto in vita mia tre uomini
che non mi sarei mai stancato d'ascoltare, e che sempre lasciai col
rammaricato desiderio di nuovi e piu lunghi colloqui: Girolamo
Bonaparte, Enrico Cialdini2 e Giambattista Giorgini. II Giorgini
aveva maggior numero di corde al proprio arco: e al «Fanfulla»,
se di parlare non avesse voglia, tanto facevamo che alia fine s'indu-
ceva a recitare qualche suo felice epigramma, o altri versi3 di sua
fattura, italiani, francesi, latini, stampati allora in quattro o cin
que esemplari da distribuirsi agli amici e non piu ristampati da
allora in poi . . .
Parlatore forbito e festivo a' suoi bei tempi fu anche Giu
seppe Revere;4 ma nell'invecchiare s'era, a dir cosi, inacidito; e al
«Fanfulla», dove capitava di quando in quando, faceva il paio col
Massari : questi brontolava per le licenze del giornale, quegli per la
sconoscenza degli italiani. Non gia che invidiasse la fama degli emu-
li, dell'Aleardi, del Prati, del Carducci, dei quali e delle opere loro
si manifestava pur tuttavia temperato estimatore; non lo avrebbe
afHitto Tesser loro posposto ; lo sdegnava Fesser dimenticato, come
diceva, da tutti: dimenticato poi in un bugigattolo del Ministero
degli Affari Esteri, ad accozzarvi in odio alle muse un « Bollettino
consolare» che nessuno leggeva; - forse nemmeno il suo stesso
accozzatore.
i. Giovan Battista Giorgini (1818-1906), di Lucca, professore di diritto
nell'Universita di Siena (1840) e di Pisa (1843), ebbe attiva influenza nella
vita politica del granducato, specie nel 1859, quando, ormai convertito al-
Tidea unitaria, ne favorl la realizzazione. Fu deputato e, dal 1872, senatore.
Genero del Manzoni, ne condivise e divulgd le idee sulla lingua (prefa-
zione al Novo vocabolario, 1870-1897, redatto insieme ad E. Broglio); fu at-
tivissimo cultore di studi letterari e storico-politici. 2. Girolamo Bonaparte :
vedi la nota 4 a p. ion ; Enrico Cialdini: vedi la nota i a p. 432. 3. epi
gramma . . . versi: sulla produzione del Giorgini, vedi V. CIAN, Giovan
Battista Giorgini, in « Nuova Antologia », i° luglio 1908. 4. Giuseppe Re
vere (vedi la nota 2 a p. 300) era allora impiegato al ministero degli esteri,
a rivedere il bollettino consolare.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1133
Volevamo bene al Revere; quelle amarezze ci amareggiavano e
facevamo di tutto per addolcirgliele ; e chi ricordava / Piagnoni
e gli Arrabbiati o il Sampler o da Bastelica1 o alcun altro del drammi
di lui lontanamente famosi; chi il diletto provato nella lettura dei
Bozzetti alpini'? chi (tanto per mutare) recitava enfaticamente il
sonetto a Fanny Sadowski,3 atroce, forse troppo atroce, vendetta di
poeta e d'amante.
E allora, d'un subito, la faccia del Revere si rasserenava, si illu-
minava, gli spuntava sulle labbra un sorriso, e gli occhi si inumidi-
vano di lacrime liete.
Perche* fra tante buone qualita, in tanta altezza d'ingegno, il buon
Revere aveva anche lui il suo difetto; era nato a dimostrare la
verita della sentenza di Carlo Quinto; che, cioe, I'uomo di tutto
si sazia, si disgusta alia lunga, fuorche della lode. E gli si procurava
il compiacimento medesimo sia lodando il Lorenzino de' Medici
e i versi delYOsiride,4 sia il candore de' capelli e il taglio dej panta-
loni. Girolamo Alessandro Biaggi,5 che, non so bene se precettore
od amico, accompagnb Emilio ed Enrico Dandolo nel viaggio in Pa-
lestina, e fu poi e sino alia morte professore di estetica nelPIstituto
Musicale di Firenze, mi raccont6 questo aneddoto : una notte del
'45 o '46, salvo il vero, il Revere con alcuni amici s'attardarono in
un caffe di Milano, discorrendo del piu e del meno e centellinando
il ponce o la birra. Gli amici che sapevano di quel difetto colsero
Toccasione per divertirsene ; uno cominci6 a lodare al poeta la for-
tezza del bicipite, un altro 1'ampiezza del torace, un terzo la linea
del femore, ognuno invitandolo a mostrare libera da indumenti la
parte magnificata; cosi che, il Revere consentendo, riuscirono a
farlo salire sopra un biliardo e mostrarvisi nudo come Dio Paveva
fatto.
II Biaggi, che si affermava testimone di quella scena, era tal
uomo da non dire una cosa per un'altra: nondimeno chi racconta
i . I Piagnoni . . . da Bastelica : due drammi del Revere, il primo dei quali,
lunghissimo, diviso in tredici parti, e solo parzialmente rappresentato, fu
pubblicato nel 1858. 2. Bozzetti alpini: pubblicati nel 1857, hanno toni
umoristici e arguti. 3. Fanny Sadowski, di Mantova, nata nel 1827,
fu attrice drammatica e direttrice di varie compagnie. II sonetto che le di-
resse il Revere, durissimo, finiva col verso : « Molti paghi farai, nessun fe-
lice». 4. Lorenzino de' Medici: il dramma, uscito alia luce del 1839, lun
ghissimo, fu recitato una sola volta, ridotto, nel 1850; Osiride e il titolo di
una raccolta di sonetti, apparsa nel 1879. 5. Girolamo Alessandro Biaggi
(1819-1897), di Milano.
1134 FERDINANDO MARTINI
spesso abbellisce ; ed io pensando che in quel racconto qualche fran-
gia il Biaggi ce Favesse messa di suo, passeggiando un giorno col
Revere m'arrischiai a domandargli se proprio le cose fossero andate
come quegli le riferiva. Non neg6 ; scrol!6 sorridendo le spalle ed
esclam.6 : delicta iuventutis.
Arnaldo Vassallo1 descrisse la stanza di Bino (cosi chiamavano
il lor compaesano Baldassarre Avanzini i genovesi amici di lui),
e disse dej molti uomini politici, deputati ed ex ministri ne' quali
vi s'imbatte: e il Sella e il Minghetti e lo Spaventa, e il Bonghi2 e
non so quanti altri mai : ma tutti costoro entrarono in quella stanza
come tanti, condotti da particolari necessita, entrano nella stanza
di un direttore di giornale; di deputati, oltre al Giorgini, uno solo -
ed ex ministro - v'entrb e vi si ferm6 : Emilio Broglio,3 non pure
frequente, ma quotidiano visitatore, la cui dimestichezza con PA-
vanzini nocque, anzi, alle sorti delFavventurato giornale.
*
Brutto come pochi furono, Emilio Broglio a malgrado della faccia
di fauno arrabbiato, era un bravo e cortese uomo. Segretario del
governo prowisorio di Milano nel '48, esule in Piemonte nel de-
cennio della preparazione, deputato al Parlamento subalpino prima,
poi alPitaliano, fu nel 1861 fra i sottoscrittori dell'ordine del giorno
che afferm6 Roma capitale. II Menabrea,4 quando, nel '67 durante
la campagna garibaldina nelFAgro romano, ebbe a comporre li
per 11 un Gabinetto con gente sicura, gli affido il portafogli della
pubblica Istruzione.
Aveva una passione terribile: il gioco; la quale cacci6 una volta
la polizia in tale impaccio, da cui le fu poi molto difficile il distri-
carsi. La capitale era a Firenze, e il Broglio, come ho detto, mi
nistro. Si giocava forte in una bisca in via Maggio e, quando non
c'era Consiglio, non passava sera che quegli non vi corresse. II
Menabrea al quale era, e s'intende, sgradevole ammonire il collega,
pens6 uno spediente: mandare il Broglio altrove e, nel frattempo, i
delegati di pubblica sicurezza nella bisca di via Maggio. Quel fatto
avrebbe ammonito meglio d'ogni parola. Se non che il Broglio,
i. Luigi Arnaldo Vassallo: vedi la nota i a p. 532. 2. Per Spaventa e
Bonghi vedi rispettivamente le note 2 a p. 496 e 2 a p. 483. 3. Emilio Bro
glio: vedi la nota a p. 552. 4. Menabrea: vedi la nota sap. 457.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) H35
che doveva prendere il treno la sera, per non mancare alia partita,
rimise la gita alia mattina dipoi; e quando i delegati irruppero nella
bisca, il primo che, a loro sconosciuto, acciuffarono fu il supremo
reggitore degli studi, che teneva banco di lansquenet.1
II Manzoni se non lo guari, lo distrasse; non precisamente
Don Alessandro, ma le sue teoriche intorno alia lingua fiorentina.
II Broglio se ne infatub, e il libro dalle cinquantadue carte fu di-
menticato per un altro libro: un Nuovo vocabolario della lingua ita-
liana. Decretatane la compilazione (il Giorgini se ne occup6 da
principio e vi prepose la stupenda lettera al Sella),2 il ministro,
dalla propria sede ch'era nell'antico convento di San Firenze,
Tannunzi6 con una pubblica lettera agli italiani.
Non era quella faccenda per lui; la lettera, prova manifesta della
sua incompetenza, sollev6 clamori tutt'altro che benevoli e provoc6
un epigramma di Giuseppe Rigutini;3 feroce, ma i linguaioli sono
senza pieta:
Fior di trifoglio,
da San Firenze s'e sentito un raglio,
era un sospiro del ministro Broglio.
Ma Yomo, per dir come diceva lui, non si sgoment6 : « tengo duro
contro il fato», scriveva: e da quel giorno, affaticato come il Conte
della Secchia rapita
. . . nel trovar voci elette
di quelle che i Toscani chiaman prette*
le bische lo videro meno, le botteghe, i mercati, i Camaldoli di
Firenze assai piu. Trasferitosi il governo a Roma, e con esso il
« Fanfulla», prese a venirvi ogni giorno, quando gli saltb in mente di
scrivere una Vita di Federigo secondo: e vi veniva sperando di tro-
varvi me ed Ugo Pesci, toscani, anzi fiorentini ambedue. E ogm
giorno si cavava di tasca un foglietto cui aveva gia confidato le pro-
prie dubbiezze, e interrogava: «come si dice a Firenze cisoie o ce-
sole, parrochi o parroci, ginocchi o ginocduai ... e la midolla del
pane come la chiamano mbllica o molllca ? . . . »
i. lansquenet: vedi la nota 3 a p. 664. 2. La prefazione al Now Vocabolario
(1870-1897) ha appunto la forma di una lettera diretta a Quintmo Sella,
ed e tra lemigliori pagine di prosa del Giorgini. 3- GlU^rRl^^a
1903), di Lucignano, lessicografo, note soprattutto per ilVocabolario della
lingua ,'tofifliifl, eseguito in collaborazione con Retro Fanfam. 4: H Conte
dTculagna e tra le figure piu bizzarre e comiche della Secchia rapita (1622)
di Alessandro Tassoni. I versi citati sono nel canto x, ottava o.
1136 FERDINANDO MARTINI
La Vita di Federigo si accrebbe piu tardi con // Regno di Fede-
rigo secondo, detto ilgrande, Re di Prussia: in tutto quattro volumi,
che pochi ban letto, oggi non legge nessuno, e pur sono sotto certi
aspetti divertentissimi, e istruttivi per questo: che dimostrano a
quali termini ridurrebbe la dignita del discorso storico il parlor
fiorentino, usato senza criterio e fuor d'ogni misura. E appunto
perche nessuno li legge, mette conto che un brevissimo saggio di
quelle scritture lo dia qui io che li ho letti.
A non andar per le lunghe e dare un senso qualsiasi al discorso
Iavorer6 di mosaico sottolineando le frasi testuali del Broglio.
Federiguccio era, pare, bellino: una bocchina stretta, il nasino volto
alVinsu. II re che si levava all'alba dey passerotti, e non curava di
vigilare la educazione del figliolo, lo affido ad un aio, rottimo
Duhan. La fu un'ottima scelta. II re vietava a Federiguccio di stu-
diare il latino, e lui lo studiava di contrabbando dicendo sproposlti da
can barboni. Una volta il re lo rimprover6. E Federigo? Acqua in
bocca e zitto come un olio. Eppure Dio sa quante risposte col pepe e
col sale gli saranno venute sulla lingua.
Bastera mi pare: quando io abbia aggiunto che una di coteste
supposte peregrinita toscane fummo il Pesci ed io a risparmiargliela.
Ci voile un giorno leggere la descrizione, se la memoria non mi
tradisce, di un combattimento : e detto che i Prussiani stavano per
avere la peggio, soggiungeva: « Federigo arriv6 a buco per riafferrar
la vittoria ». Gli esponemmo le ragioni anche d'indole delicata, per
le quali la frase, tutto che fiorentina, non era conveniente a una
biografia fedele di Federigo II; e a malincuore la tolse.
Fra gritaliani d'una sessantina d'anni e piu si trova anche oggi
chi del «Fanfulla» rammenta facezie, articoli ne' quali, da giovane,
si delizi6 : de' giornali ci6 non awiene sovente, ed e memoria della
fortuna che quello ebbe e dell'autoritk che esercit6 sulla generazione
fra cui nacque. La fortuna dove" al brio, alia scioltezza singolare fra i
plumbei giornali nostri d'allora; Pautorita al non portare, come
dissi, barbazzale per nessuno, all'ascoltare, sopra ogni altra voce,
quella del buon senso: quando da tali che furono sin da principio
le norme sue tralign6, fortuna e autorita si perderono insieme.
Per quella che fu detta rivoluzione parlamentare del 18 mar-
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1137
zo 1876, la sinistra assunse il potere, Agostino Depretis presi-
dente del Consiglio, Giovanni Nicotera ministro dell'Interno, Giu
seppe Zanardelli dei Lavori pubblici, Pasquale Stanislao Mancini
della Grazia e Giustizia.1 II Gabinetto era composto da pochi
giorni, quando, il primo d'aprile, il «Fanfulla» pubblico questa
inaspettata dichiar axiom:
« II mutamento awenuto nelle cose politiche non ha trovato tutti
i proprietari e i redattori del giornale d'accordo nella linea di con-
dotta che il "Fanfulla" dovrebbe seguire. La maggioranza avendo
per6 deciso che 1'indirizzo attuale abbia ad essere mutato, la Dire-
zione avverte i suoi lettori che si ritirano E. Caro (Avanzini),
Silvius (Piacentini), Tomaso Canella (Cesana), Ugo (Pesci)».
In sostanza si lasciava intendere che il giornale, da giudice alle-
gramente imparziale nelle contese delle parti politiche, diveniva
ora, ad un tratto, ossequiente difensore del nuovo governo. Apriti
cielo! Lo scandalo fu tale, che la sera stessa Antonio Labriola,2
a quel tempo conservatore e battagliero come sempre fu, con af-
fetto deferente amicissimo di Silvio Spaventa, uno dei ministri
caduti, salito sopra una sedia del Gaffe Guardabassi a Montecitorio,
prima imprec6 alia codardia de' redattori che se ne andavano e alia
impudenza, forse venale, di coloro che rimanevano : poi strappate
a un rivenditore quante copie del « Fanfulla » aveva in mano, ne
fece tutto un fa!6.
Se non che, in quei subiti furori nessuno pens6 che correva il
primo d'aprile ; il giorno dipoi, la imagine di un gran pesce occupo
buona parte della prima parte del giornale; e il « Fanfulla » rintuzz6
i pronti denigratori, colti al laccio di quello scherzo, asseverando
che i partiti potevano bene alternarsi al governo della cosa pubblica,
esso si serbava quale fu per lo innanzi, awezzo e risoluto a pen-
sare con la testa propria: che perci6 sbagliava tanto chi lo suppo-
neva capace di voltafaccia, quanto chi lo voleva in tutto servil-
mente devoto agli uomini della destra parlamentare : esso che
aveva censurato gli arresti di Villa Ruffi,3 gli ordinamenti militari
del ministro Ricotti,4 i prowedimenti scolastici del ministro Bon-
i. rivoluzione . . . Giustizia: per 1'awento della Sinistra ed i ministri qui
ricordati, vedi pp. 496-505 e le relative note. 2. Antonio Labriola (1843-
1904), il filosofo e sociologo meridionale, professore airUniversita di Ro
ma, fu poi noto studioso delle dottrine di Carlo Marx. 3. gli arresti . . .
Ruffi: arresti di uomini e fautori della Sinistra repubblicana awenuti il 2
agosto 1874. 4- Ricotti: vedi la nota 4 a p. 894.
1138 FERDINANDO MARTINI
ghi; e conchiuse: «I1 partito parlamentare il quale pu6 asserire
che noi siamo suo organo si faccia avanti».
Ahime! di li a non molto non avrebbe potuto dire altrettanto.
Fra gli scrittori del « Fanfulla » erano alcuni di principii stretta-
mente conservator!, altri persuasi della necessita di rinnovamenti
amministrativi e politici. Per la grande liberta conceduta ad ognu-
no, il giornale si mantenne un pezzo in un equilibrio che gli era caro
vantare. Ma I'equilibrio, perfetto fino alle elezioni generali del
'74, divenne bilico arduo a sostenere dopo di quelle. La destra che
fu quel grande e glorioso partito che fu, s'era fatto a lungo andare
un corpo chiuso; e chi lo tacci6 di consorteria non si pu6 dire lo
calunniasse; oppugnava con acerbita candidature politiche di uo-
mini temperati, quasi petrolieri e comunardi,1 sol perche" non bat-
tezzati e cresimati da lei.
Nel '74 un de' proprietari, il De Renzis, in seguito alcun altro
fra gli scrittori del « Fanfulla », entrarono, a malgrado del Minghetti,
nel Parlamento. Contrastati da lui si disponevano a contrastargli :
nondimeno, merce" la liberta consentita, poterono ancora dar 1'opera
loro al giornale, che per TAvanzini mantenevasi amico, al solito
franco e sereno amico, del Ministero. Ma costoro, trattenuti da
cure diverse, vi lavoravano di rado ed a stento : e via via se ne disco-
stavano, altri prendeva il loro posto, altri consigli prevalevano:
un po' alia volta, manc6 il contrappeso e fmalmente le elezioni del
1876 vennero a dare il tracollo.
II Broglio che, deputato per sette legislature, fu, nel collegio di
Lonato, vinto dal competitore ; il Massari che vide, in un impeto di
follia, elettori italiani cacciare dalla Camera il Minghetti, il Bonghi,
10 Spaventa, onore del parlamento e del paese, ruppero i freni e im-
posero : o di qua o di la. « E' bisogna deciders! », sfringuellava il Bro
glio crogiolandosi ne' pleonasmi fiorentineschi. « Gli e un errore il
tentennare. » D'altra parte, la enorme maggioranza nicoterina, tra
non molti valentuomini, accogliendo generali fedifraghi, borbonici
riverniciati,e uomini privi d'ogni men che modesta coltura, prestava
11 fianco. « Fanfulla », nato sagittario, tinse di acri umori le f recce sue ;
e ceduto a funesti suggerimenti, sacrific6 ad una delle parti politi
che la stessa ragione del proprio essere : la equanime giocondita.
i. petrolieri: neologismo politico venuto allora in voga per allusione al pe-
trolio degli anarchici e pifr ancora agli incendi e distruzioni nella Parigi
della Commune (donde comunardi) il marzo-maggio 1871.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1139
Fors'anche nell'Avanzini, ottimo d'animo e generoso, molto
pot<§ ilplacuit caussa victa Catoni,1 e nella difesa de' vinti lo inaspri
la strapotenza dei vincitori. Comunque, il decadimento comincib
sin d'allora.
Danno altrettanto grave venne al «Fanfulla» dalla sua stessa
fortuna; perch6 - anche ci6 e da dire - fu quello in Italia il primo
giornale la cui proprieta valesse danaro. II De Renzis, che fu il piu
sollecito a vendere la propria quota, ne trasse parecchie decine di
migliaia di lire; gli altri, naturalmente, seguirono, si che pote
impadronirsi del giornale chi doveva volerlo e lo voile governato
da altri spiriti, strumento di proprie Industrie, e lo ebbe da ultimo
travolto con esse a miserrima fine.
Ma nonostante la fine miserrima, cosi dissimile dai prosperi inizi,
il «Fanfulla)) segna un'epoca nella storia del giornalismo italiano,
ed io mi glorio dell'avergli dato, quale che fosse, 1'opera mia.
Bei tempi, fausti vigori! quando m'era possibile, come nell'autunno
del '73, tutti i colleghi in villeggiatura, scrivere io solo, chiuso nella
stanzetta di via San Basilio, io solo da cima a fondo piu numeri del
giornale. Bei tempi! e quando alcuno dei vecchi ai quali accennai
poc'anzi mi si rivolge con un « Caro Fantasio »2 mi compensa del
fastidio che altri mi da apostrofandomi : «Eccellenza».,
PARLAMENTUM INDOCTUM3
Firenze era tuttavia capitate del regno. I deputati legiferavano
nel salone del Savonarola.4 Quel giorno discutendosi di lavori pub-
blici, il rappresentante di un collegio del mezzogiorno continentale
prese a dimostrare insufficienti al traffico le vie di comunicazione
fra la sua e le province limiitrofe. Descriveva minutamente il terri-
torio. Dopo una breve pausa, soggiunse:
i. placuit . . . Catoni: riecheggia il celebre verso di Lucano, Phars., I, 128:
« Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni » : agli dei piacque la causa del
vincitore (Cesare), ma a Catone quella del vinto (Pompeo). 2. Fantasio:
lo pseudonimo usato dal Martini nel «Fanfulla». 3. Ed. cit, cap. vi,
pp. ni-21. 4. II salone al primo piano del palazzo della Signoria fu co-
struito dal Cronaca, secondo una proposta del Savonarola, come sede del
Consiglio maggiore della repubblica. Inaugurate il 26 aprile 1496, nella
prima adunanza (20 agosto) il Savonarola vi tenne una memorabile orazio-
ne. Divenuta Firenze capitale d' Italia, il salone assunse il nome di « salo
ne dei Cinquecento », perche" ospit6 la Camera dei deputati, che erano in
numero di cinquecento.
1140 FERDINANDO MARTINI
— Qui la strada si forbisce . . .
Omeriche risate lo interruppero. Fra un generate confuso mor-
morio qualche voce si Iev6 non alta abbastanza:
— Biforca, biforca.
L'oratore, meravigliato, si guard6 attorno, protese il capo, come
offrendo 1'orecchio a un invocato interprete di quel brusio : ma ora
tutti tacendo, riprese.
— Come ho detto . . .
Ricordandosi d'essere a Firenze, la citta delle supposte continue
pedanterie linguaiole : « fra i negozianti di nominativi », come il col-
lega suo Sambiase duca di San Donato1 chiamava i fiorentini, ima-
gin6 fosse Finterruzione cagionata da parole non comprese o mal
comprese: e, trovata alFoscurita del testo primitive variante di si-
cura evidenza, sorridente continu6 :
— Come ho detto, qui la strada si forbisce ; o se per meglio in-
tendersi si vuole ch'io mi esprima altrimenti, dir6 che la strada qui
si « desvia ».
Un'altra volta, esaminandosi un progetto di nuovi ordinamenti
militari, Ponorevole Mellana3 deputato per Casale propose si man-
dasse un saluto all'esercito. — - Onoriamo, onorevoli colleghi, il
soldato italiano che, stretto nel pugno il vessillo della patria, con
in mano il fucile pronto a difenderla, quando una sciagura lo chiami
stende la mano pietosa . . .
Qui fu il Presidente a interrompere :
— Onorevole Mellana, il soldato italiano, per valoroso che sia,
non ha anche lui che due mani sole.
La Camera sorrise, ma della spiritosa prontezza del Presidente :
agli scerpelloni del rappresentante di Casal Monferrato c'era assue-
fatta. Un giorno, agli albori del nuovo regno, quando si attendeva
ansiosamente di sapere se la Russia riconosceva o no il ccfatto
compiuto», egli annunziando 1'arrivo a Genova dello zar Niccol6:
— Rallegriamoci — esclam6 — che la Russia ci invia intanto sua
madre — ; un altro, al finir d'un discorso e preparandosi a confuta-
re un collega che sedeva al banco superiore al suo, e del quale ave-
va dimenticato il cognome, soggiunse: — E ora la Camera mi
i. Gennaro Sambiase, duca di San Donato (1823-1902), awerso ai Borboni,
nel 1847 esule in Francia e in Piemonte, colonnello dei Cacciatori delle
Alpi nel 1859, fu poi deputato e sindaco di Napoli. 2, L'awocato pie-
montese Filippo Mellana (1810-1874).
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 114!
conceda cinque minuti per rispondere al mio onorevole di dietro.
E notiamo. II Mellana era un uomo di buon consiglio : e tra quel
fraseggiare trasandato come il suo abbigliamento, quei periodi arnif-
fati come la sua capigliatura, un suggerimento savib, una proposta
opportuna, scaturivano di quando in quando; tanto e vero che in
un certo momento ebbe anche lui il suo «gruppo» e lo capitano
e lo condusse a combattere contro ai «consorti» toscani e lombardi,
bersagliato di fianco dalle frecce di Giovan Battista Giorgini:
Spropositando a iosa
lo scapigliato e truce
Mellana in grigia cappa,
portabandiera e duce,
seco di tappa in tappa
mena le sue reclute
ubbidienti e mute.
Quando nelPaprile . . . ahime! del 1876, entrai per la prima volta
nelPaula di Montecitorio, questi aneddoti li conoscevo per averli
uditi raccontare le tante volte da testimoni auricolari. Pur tuttavia
appena seduto al posto, che fu poi mio per quarantacinque anni di
seguito, ebbi data un'occhiata in giro, mi sentii preso da un grande
sgomento. Era presidente del Consiglio il Depretis; sedevano a
destra il Ricasoli, il Lamarmora, il Minghetti, lo Spaventa, il Sella,
il Lanza, il Pisanelli, il Peruzzi, il Bonghi, il Visconti Venosta; a
sinistra il Crispi, lo Zanardelli, Giuseppe Ferrari, il Cairoli, il
Fabrizi, il Bertani, il Cavallotti, il Farini.1 Che cosa ero venuto a
fare, o meglio (che per verita non vi entrai volentieri) che cosa mi
avevano mandato a far li gli elettori del collegio di Pescia? Mai
e poi mai non avrei osato di aprir bocca innanzi a cosi alto e solenne
consesso. Per piii giorni ascoltai i principi della parola con reveren-
za, i men felici parlatori con deferenza, fermo ognor piu in quel
mai e poi mai, che la naturale modestia consigliava ai miei inesperti
pudori. Quegli aneddoti, ripeto, li conoscevo, ma erano corsi ormai
i. Ricasoli: vedi la nota 2 a p. 429; Lamarmora: vedi la nota 5 a p. 446;
Lanza : vedi la nota 4 a p. 457 ; Giuseppe Pisanelli (1812-1879), esule dopo
il 1848, deputato dal 1860 per collegi del Mezzogiorno, ministro di grazia
e giustizia con Farini e Minghetti, provvide alia prima redazione organica
del codice civile e di procedura civile; Peruzzi: vedi la nota zap. 1094;
Visconti Venosta: vedi la nota 3 a p. 293 ; Crispi: vedi la nota 2 a p. 503;
Giuseppe Ferrari: vedi la nota I a p. 1 144; Cairoli: vedi la nota 4 a p. 503 ;
Fabrizi: vedi la nota 4 a p. 505 ; Cavallotti: vedi la nota a p. 916; Fari
ni: vedi la nota 2 a p. 438.
1142 FERDINANDO MARTINI
i dieci e i quindici anni, la Camera s'era rinnovata piu volte, e a
ogni modo non era da meravigliarsi che un'assemblea di cinque-
cento persone accogliesse due parlatori spropositati. Una rondine
non fa primavera e due neppure.
Solo un punto fu quel che mi vinse e mi snebbio. Quando dal
banco del Governo udii un Ministro dell'Agricoltura rispondere a
un interpellate, che dei fatti narrati da lui il Ministero non aveva
notizia, sebbene si fossero sovvertiti gli archivi e compulsati tutti i
capi di divisione.
Fu una delusione e, perche" non dirlo?, un conforto. Potevo
discorrere anch'io.
Le delusioni si susseguirono rapidamente. Fu presentata in quei
medesimi giorni alia Camera una relazione rimasta lungamente fa-
mosa, circa un disegno di legge inteso a disciplinare la pesca nelle
nostre acque marine e fluviali. Diceva: « I nostri mari fiumi e laghi
tanto ricchi un giorno di ogni specie di pesci, ora da tutti se ne sente
la scarsezza ». Era lecito supporre eleganza di anacoluti alia Benve-
nuto;1 ma disgraziatamente la relazione continuava awertendo che
le nostre barche pescarecce, frequentavano da tempo immemorabile
«le coste dell' Africa e dell' Algeria », e lamentando «la deficienza
di uomini adatti al mestiere del corallo».
Agostino Bertani si Iev6, e dal suo seggio delPestrema sinistra
propose la nomina d'una Giunta che esaminasse ed emendasse le
relazioni parlamentari, prima della loro divulgazione : si che non ne
ricevesse offesa la dignita della Camera.
Peggio forse il rimedio del male: comunque, la proposta non
trov6 favor e e il male si aggrav6: di li a poco in un'altra relazione
sulla legge provinciale e comunale si lesse, non sto a dire con quanta
giocondita, che una pianta trasportata da uno in un altro continente
pub divenire esotica.
II troppo stroppia e soverchio rompe coperchio. Ogni giorno ce
n'era una. Guido Baccelli3 parla di iperemia cerebrale. S'alzano da
sinistra sdegnosi richiami e il Presidente prega, costretto, il depu-
tato di Roma, clinico illustre, a usare parole che sieno alia portata di
tutti. Soverchio rompe coperchio : degli spropositi e delPignoranza
dei parlamentari si sorride ne' giornali, ne' crocchi si sghignazza.
Parlamentum indoctum. Chi fu che primo propugn6 Pamara sen-
i . Benvenuto Cellini, la cui autobiografia e ricca di anacoluti, spesso artisti-
camente efficaci. 2. Guido Baccelli: vedi la nota 6 a p. 548.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1143
tenza? Alia opinione pubblica non parve ingiusta. Parlamentum
indoctum. Bollata con quel motto latino pass6 ingloriosamente alia
storia quella xma legislatura, la prima, occorre notarlo, dopo 1'as-
sunzione della Sinistra al potere.
*
Certo il primo trionfo della Sinistra, nelle elezioni del 1876,
non fu un trionfo della coltura nazionale. Rimasero tuttavia nella
Camera tutti gli illustri superstiti della rivoluzione, il senno e
la dottrina che avevano instaurato il nuovo regno. Vi entrarono si,
in schiera numerosissima, gli spropositanti : ma una cosa era da
considerare : che a costoro il seggio in Parlamento era premio lun-
gamente agognato e duramente conquistato. Gli autori di quelle
relazioni e di quelle sentenze irretiti da giovani nelle congiure,
combattenti in Lombardia, sugli spalti di Marghera1 e sulle mura di
Roma, condannati alPesilio o alia prigionia, erano tornati in patria
o usciti dal carcere, in eta nella quale a studiare di rado si prosegue,
ma non s'incomincia.
Se duravo fatica nel seguire a balzelloni il farraginoso discorso di
Benedetto Musolino,2 se mi spiaceva, anzi mi disgustava la volgarita
dell'abbondante retoricume nelle vacue invettive di Luigi Mirelli,
m'era pur sempre presente al pensiero Fopera loro valorosa di citta-
dini e di soldati. Potevano, e vero, astenersi dallo scrivere e dal par-
lare; ma nessuno a questo mondo e perfetto; e forse a farsi in-
nanzi, a mettersi in mostra li sollecitava, li istigava la fortuna del-
Tuomo che fu, come oggi direbbesi, Vesponente della loro coorte:
Giovanni Nicotera.3
*
6 un dimenticato : e fu oggetto di amori e di odii, gli uni e gli altri
indomati.4 Capitoli di storia : ma io nella storia non raccolgo : raci-
molo nella cronaca.
Ricordo: il Depretis durante quel suo primo ministero soleva
ogni tanto trastullare la sua maggioranza, adunandola alia Minerva5
nella sala che udl la voce di Galileo : per « coronare Pedifizio », di-
ceva lui con frase pomposa: in realta per rintonacarne le crepe.
i. Marghera: il forte divenuto celebre nella difesa di Venezia del 1849.
Z.Benedetto Musolino: vedi la nota i a p. 936. 3. Giovanni Nicotera:
vedi la nota i a p. 439 e il brano del Barboni, qui a pp. 930-52. 4. amo
ri ... indomati: riecheggia il Manzoni, II cinque maggio, w. 59-60. 5. Mi
nerva: il palazzo dove, nel 1632, fu interrogato e processato il Galilei,
poi sede del ministero dell'istruzione.
1144 FERDINANDO MARTINI
Una sera il Nicotera, Ministro delFinterno, vi prese a parlare;
incominci6 : — Sebbene un ministro deirinterno abbia poco tempo
da dare ai libri, ho voluto leggere in questi giorni la storia di Napo-
leone.
Da un angolo della sala lo interruppe con voce stentorea Giu
seppe Ferrari1 che, per molti anni professore nella Universita di
Strasburgo, usciva spesso inawertito2 a esprimersi in francese :
— C'est un peu tard, mon ami!
Ricordo un episodio piu significante e piu grave, del quale gli atti
parlamentari non conservano traccia : mani tutrici della dignita mi-
nisteriale ve la cancellarono.
II partito di sinistra, compatto e concorde finch<§ dur6 a combat-
tere, in Parlamento, partito di opposizione, salito al potere si sgre-
tolo. Come sempre awiene i «rimasti fuori)) bofonchiavano ; tra gli
altri uno dej suoi migliori, il generate Clemente Corte,3 il quale,
secondo dicevasi, desiderava Pufficio di segretario generate al Mi-
nistero della guerra e, vero o no che fosse, della propria esclusione
accagionava una ingiunzione del Nicotera ; e perche" era parlatore fa
cile e arguto, si divertiva o si sfogava nel punzecchiarlo di continue.
Gli aveva rivolto una interpellanza circa, se non erro, un comizio
da tenersi nel Veneto, e dal Nicotera vietato. II segretario partico-
lare del Ministro, Gennaro Minervini,4 allora giovane e che, sin
d'allora aweduto e colto, divenne poi prefetto e senatore, provvide
armi per la battaglia: e poiche il Corte che visse i lunghi anni del-
Tesilio in Inghilterra usava ne' suoi discorsi riferirsi spesso alle
leggi e alle consuetudini inglesi, in quelle pesco e trov6 ci6 che fa-
ceva al suo caso.
Awenne quanto aveva preveduto. II Corte accenn6 ripetuta-
mente all' Inghilterra, paragon6 leggi con leggi, costumanze con
costumanze, e del confronto fece argomento di censura al Ministro.
Intanto ch'egli svolgeva la sua interpellanza, il segretario dalla
tribuna dove stava in ascolto, mand6 al Nicotera alcune righe scritte
con la matita, ove era citata una legge dei Tudor, dalle cui prescri-
i. Giuseppe Ferrari (1811-1876), di Milano, filosofo e uomo politico notis-
simo. Esule in Francia nel 1838. Entr6 nella vita parlamentare nel 1860,
prepare 1'awento della Sinistra, senatore nel 1876. Tra le sue opere, ap-
prezzatissime : Filosofia della rivoluzione (1851); Histoire des revolutions d'l-
talie (1856-1858) ; Corso sugli scrittori politici d* Italia (1862). Vedi, in que-
sta collezione, Romagnosi, Cattaneoy Ferrari, a cura di E. Sestan. 2. inav-
vertito: senza accorgersene. 3. Clemente Corte: vedi la nota 2 a p. 505.
4. Gennaro Minervini (1847-1916), di Trani, senatore dal 1911.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1145
zioni si sarebbe detto ispirato il Ministro italiano nel decretar quel
divieto. II Nicotera stim6, ragionevolmente, avere in quegli ap-
punti armi formidabili: si alz6, rettific6, addusse ragioni d'ordine
pubblico e serb6 per ultimo la recente erudizione - strumento di
sterminio delle forze awersarie. Se non che egli, che dei Tudor
non aveva mai sentito parlare in vita sua, lesse male : e innanzi alia
Camera attonita sfodero un re Teodoro non mai daun episodic grot-
tesco della Storia di Corsica* e dai melodrammi giocosi dell'abate
Casti2 passato a sedere sul trono di Enrico VIII. E non si content6 di
nominarlo di volo, ma se mi e lecita la parola, ci si sdraio. Re Teo
doro aveva detto, re Teodoro aveva fatto, e chiunque sappia quale
autorita aveva re Teodoro . . . e via di questo passo parecchi minuti.
Ne" basta : al Corte che, interrompendolo con ironica compunzio-
ne, confessava di non aver trovato notizia di questo re nelle storie
lette, rispose con convinta baldanza: — Le rilegga meglio.
La Camera stupefatta non fiat6 ; un solo deputato - Silvio Spa-
venta - fece un atto di sdegno ed usci dalPaula. II Nicotera rimase
al suo posto di Ministro e non perde delFautorita sua. Perch6, nono-
stante quelle ed altre troppe e troppo palesi prove d'ogni difetto
di coltura, fu un buon ministro delPinterno : esperto con accorgi-
mento, accorto con energia: senza la «fame canina della popolarita»
che il Jefferson rimproverava al Lafayette,3 e che fu la debolezza e
il danno di molti Ministri in Italia - e fuori d' Italia.
UN PRESIDENTE4
Una sera del luglio 1885, Agostino Depretis,5 Presidente del Con-
siglio e Ministro delPInterno, awolto nelPampia veste da camera a
scacchi rossi e neri, ordinava nella propria stanza di studio le pro-
i. un episodic , . . Corsica: nel 1736 la Corsica, ribellatasi a Geneva, trovo
per breve tempo un capo in Teodoro di Neuhoft, e lo proclam6 re. 2. Giam-
battista Casti (1724-1803), noto letterato (Poema tartaro, 1787; Gli animali
parlanti, 1802), compose un Teodoro in Venezia, dramma eroicomico in
due atti, che gli era stato richiesto dal Paisiello giunto a Vienna nel 1784,
quando vi era il Casti. 3. Thomas Jefferson (1743-1826), terzo presidente
degli Stati Uniti d' America (1801-1805 ; 1805-1809); Jean Marie Gilbert,
marchese di Lafayette (1756-1834), comand6 da giovanissimo i volontari
combattenti per Tindipendenza degli Stati Uniti d' America. 4. Ed. cit.,
cap. xi, pp. 191-205. 5. Sul Depretis vedi la nota Sap. 496, e G. CA-
ROCCI, Agostino Depretis e la politica interna italiana dal i8j6 al
Torino, Einaudi, 1956.
1146 FERDINANDO MARTINI
prie carte, preparando cosl la prossima partenza per restive sog-
giorno di Stradella; riposato soggiorno che gli facevano piu deside
rate e piu caro le piu lunghe fatiche della sessione parlamentare
chiusa da poco, e la dura battaglia sostenuta nel difendere contro agli
assalti di una opposizione forte, ardimentosa, implacabile le con-
venzioni ferroviarie.1
GH amici soliti passar la sera da lui se n'erano andati, awicinan-
dosi la mezzanotte, ed egli me aveva trattenuto, affinche lo aiutassi
a rinvenire questa o quella carta, tral confuse ammassamento
ond'erano ingombrati la scrivania, le sedie e perfino rimpiantito.
Interruppero il noioso lavoro alcune lettere del Mazzini che gli
vennero sotto mane ; intanto ch'ei le scorreva con rapide occhiate,
m'incominci6 a raccontare delle sue relazioni col gran Genovese;
e come, seguace un tempo delle dottrine di lui, frequentasse conci-
liaboli, prendesse parte a congiure di repubblicani ; e come piu
tardi e perch£ si riconciliasse con la monarchia.
Que' frammenti autobiografici mi attraevano, mi incuriosivano ;
con qualche discreta domanda procurai Pautobiografia continuasse;
e il Depretis, che probabilmente aveva voglia quella sera non di
raccontare a me, ma di rammentare a se stesso, continu6. II rac-
conto proced£ a sbalzi, sospinto ora da un nome, ora da una data,
ora da una associazione d'idee; cangiando di volta in volta insieme
col tone della voce la fisionomia del raccontatore ; gioconda nel
riandare le scappate dello studente del collegio Ghislieri, cupa nel
rammemorare la sconfitta di Lissa, awenuta quand'egli era Mi-
nistro della marina.
E cosl via via; da ultimo il racconto si mut6 in uno sfogo. I nove
anni durante i quali, tranne brevi inter valli, maggioranze a tutta
prova fedeli lo avevano mantenuto alia Presidenza, non gli lascia-
vano che tristi ricordi: ricordi di amarezze, di difficolta tentate e
non vinte, di cure faticose in opere vane. Dove aveva sperato aiuti,
trov6 pretese prepotenti e irrequiete; i maggiori uomini di parte
i.le convenzioni ferroviarie: conforme alle conclusion! della commissione
parlamentare d'inchiesta, presieduta dall'on. Brioschi, il ministro dei la-
vori pubblici nel gabinetto Depretis, on. Francesco Genala, stipulava le
convenzioni ferroviarie, divenute legge dello Stato italiano il 27 aprile 1885.
Ai termini delle convenzioni stesse, la rete ferroviaria italiana era pratica-
mente ripartita in tre settori dati rispettivamente in appalto e in gestione
alia Societa strade ferrate meridionali (Rete adriatica), alia Societa strade
ferrate del Mediterraneo, di nuova costituzione (Rete mediterranea), e alia
Societa strade ferrate della Sicilia, pure di nuova costituzione (Rete sicula).
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1147
sua ora gli erano awersi; e intanto la finanza in dissesto, il paese
malcontento . . .
— Ah!— disse alzandosi — caro Martini, Iascer6 ai miei suc-
cessori una brutta eredita.
Tacqui. Scorsi alcuni secondi, soggiunse malinconico : — E poi ?
Strettami la mano, mi conged6.
Forse nel pronunciare quell'cc E poi ? » egli mir6 con occhio si-
euro nell'awenire, ed espresse insieme il presagio e il rammarico
dei solleciti oblii. Vivono ancora nella memoria degli Italiani il
Minghetti, il Rattazzi, il Lanza, il Sella, il Crispi; ma chi pensa piu
ad Agostino Depretis, che pur tenne onnipotente nelle proprie
mani per un decennio il governo dello Stato ? E perch6 cosi presto
dimenticato il Depretis, quando Paver durato nella presidenza del
Consiglio per tratto di tempo cosi lungo e « nel bello italo regno »x
inconsueto, e prova manifesta che non difettarono in lui doni e
qualita d'uomo di Governo?
Corsi oramai piu che venti anni, da che egli scomparve dalla
scena politica e da quella del mondo, e lecito anche a me che gli fui
sinceramente affezionato, il giudizio che di se medesimo e dell'opera
sua egli forse pens6 in quella sera.
Carlo Nodier2 narro che in un giorno del 1815, nota a Parigi la
catastrofe di Waterloo, mentre il Fouche"3 macchinava tradimenti,
le Camere dei deputati e dei pari preparavano le vergogne e le
codardie, e il popolo acclamava con aselvaggio entusiasmo» Fim-
peratore sotto le finestre delPEliseo, Rouget de Lisle4 entr6 in casa
d'amici, trafelato, ansante, in faccia sconvolto. Chiestogli il per-
ch6 del suo turbamento e come andassero le cose, — Male perdio! —
replic6 — cantano la Marsigliesel
L'aneddoto mi torna alia mente ogni qualvolta ripenso ad Ago
stino Depretis. Eletto, dopo la morte del Rattazzi,5 a capitanare la
sinistra parlamentare, port6 seco al Governo i concetti e i disegni
1. « nel bello . . . regno » : e riecheggiato un verso del Foscolo, Sepolcri, v. 143.
2. Carlo Nodier (1783-1844), scrittore francese, direttore della Bibliotheque
de V Arsenal, autore del romanzo Les proscrits, e di vari altri romanzi e
novelle. 3. Joseph Foucht (1754-1820), dopo essere stato ministro di Na-
poleone I, fu ministro di Luigi XVIII. 4. Claude Joseph Rouget de Lisle
(1760-1836), ufficiale francese, aveva musicato i versi di quell'inno che fu
poi chiamato la Marsigliese. 5. Rattazzi: vedi la nota i a p. 501.
1148 FERDINANDO MARTINI
del proprio partito ; primo, fra questi, la riforma della legge elet-
torale.1 La voile, la propose, la ottenne; ma ottenutola (lo sa chi lo
udi da lui stesso) si spavent6 degli effetti ; tem6 che la partecipa-
zione del « nuovi strati sociali » alia vita pubblica avesse per logica
conseguenza profondi sowertimenti negli ordini dello Stato; ed
egli pose d'allora in poi ogni cura maggiore nel prowedere ai ri-
pari, nelFopporre argini robusti alle paventate fiumane.
Cosi, stimando se necessario alia salute del paese, anche stim6
dover suo il raccogliere maggioranze comunque composte;2 Iasci6
gli amici tepidi o reputati mal fidi, e chiese aiuti ad uomini parla-
mentari dej quali fu per lo innanzi accanito awersario, per poi
tornare sui proprii passi e ricercare sostegno la donde prima era
uscito con abbandoni che parvero apostasie. Tra i continui ondeg-
giamenti, le trepide sollecitudini e in quel tutto e sempre sacrifi-
care alia custodia delle maggioranze, non e meraviglia il Depretis
smarrisse alcuni dej requisiti delPuomo di Stato. Badiamo: non
soltanto le faticose e sterili abilita giornaliere; ma dal mirare alto e
lontano, dal considerare la parte che alia terza Italia spetta fra i
nuovi elementi di civilta, lo faceva alieno la sua stessa natura essen-
zialmente borghese, nel significato che i francesi danno a questa
parola. La politica estera, per esempio, lo seccava; «Dopo i pro-
fessori, » soleva dire « la gente che odio di piu sono i diplomatici » ;
- e odiava la diplomazia probabilmente per la stessa ragione per la
quale io da giovane odiai il ballo : perch6 ballavo male.
Quando ventiquattro anni or sono, per improvviso sollevamento
di popolo, la Rumelia orientale si uni con la Bulgaria,3 il Depretis
che reggeva interinalmente il Ministero degli affari esteri, era a
Stradella. II Direttore generale degli affari politici, sorpreso da un
awenimento impreveduto e tale che I'Europa poteva andare a
fuoco e fiamma, gli telegraf6 per avere istruzioni. II Depretis non
rispose; Paltro daccapo, e il Depretis zitto. Per una settimana alia
Consulta, dove Ministri ed ambasciatori andavano di continue a
domandare e proporre, non si seppe che replicare. Capit6 finalmente
a Stradella il conte di Robilant4 venuto da Vienna e col quale si
i. la riforma . . . elettorale: il 20 dicembre 1882 fu approvata la nuova
legge elettorale che quadruplic6 il numero degli elettori. 2. maggioranze
. . . composte: il Depretis inizi6 queH'indirizzo politico che si chiam6
« trasformismo ». 3. la Rumelia . . . Bulgaria: Tunione awenne nel 1885.
4. Carlo Felice Nicolis, conte di Robilant (1826-1888), di Torino, generale e
uomo politico. Nel maggio 1871 era stato inviato a Vienna come ministro
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1149
facevano appunto uffici affinche egli si addossasse la direzione della
politica estera.
Riferisco il dialogo tale e quale a me lo ridisse lo stesso conte di
Robilant, ed io fedelmente lo scrissi, appena terminata una conver
sazione con lui.
— Senta, conte, — incominci6 il Depretis — parleremo poi del
resto : ma intanto mi faccia il piacere di dirmi die cosa posso ri-
spondere a Roma circa questa noiosa faccenda della Bulgaria.
— Ma, Eccellenza, io sono venuto qui appunto per dirle che sono
grato delPofferta fattami, ma che per molte ragioni non sono dispo-
sto ad accoglierla.
— Di questo, ripeto, parleremo poi, ma intanto La prego di
dirmi . . .
— Ma, Eccellenza, ella intende che delle risposte se ne possono
dare piu e diverse. Dal prendere una strada o un'altra dipendera
poi il contegno delPItalia nelle cose d'Oriente, ed io non posso ne
suggerire risposte, n<§ dare consigli che violino la liberta del futuro
Ministro degli affari esteri . . . Non ho veste per farlo e . . .
— Non importa, sono responsabile io.
— In primo luogo, bisognerebbe sapere molte cose che io non so ...
— Ma basta una risposta . . . cosi . . . sulle generali.
— Che cosa posso dire ? F Italia & in buone relazioni con T Au
stria e con la Germania;1 P Austria pu6 avere in questa questione
desideri e interessi diversi dai nostri ; la Germania invece non desi-
dera se non il mantenimento della pace. Si potrebbe, per non com-
promettere nulla, dare istruzioni affinche i rappresentanti del-
Pltalia procedano d'accordo con quelli della Germania.
— Benissimo; ed ora mi faccia un altro piacere. Scriva Lei: io
poi mander6 a Roma.
E il conte di Robilant si sed6, prese carta e penna e butt6 giu la
nota che, sottoscritta dal Depretis, fu poi pubblicata nel Libra
Verde.2
plenipotenziario, e nel 1876 vi era stato accreditato come ambasciatore,
rimanendo in tale carica fino al 1885. II 6 ottobre 1886 fu chiamato al mi-
nistero degli esteri dal Depretis. Negli ultimi mesi di vita fu ambasciatore
a Londra, dove morl. i. /' Italia , . . Germania: nel 1882 era stata stipu-
lata la Triplice alleanza. 2. Libro Verde: in Italia si chiamano libri verdi,
dal colore della copertina, i rapporti politici e le relazioni diplomatiche che
il Governo presenta al Parlamento. In altri Stati il nome di simili libri cor-
risponde al diverso colore tradizionale delle copertine (azzurro in Inghil-
terra, 'bianco in Francia, ecc.).
1150 FERDINANDO MARTINI
Inoltre il Depretis appartenne a quella schiera di uomini parla-
mentari, numerosa troppo in Italia a' suoi tempi e dipoi, i quali una
volta datisi alia politica, non han piii pensiero che non sia suo, che
di essa vivo no trecentosessantacinque giorni delPanno e diciotto ore
almeno di ciascun giorno, a tutto che di politica non sia, chiudendo
gli occhi e gli orecchi. Egli stesso confessava di essere stato al tea-
tro in trent'anni tre volte: una, spontaneo, per sentire Ferravilla,1
due costretto perche" , ministro, dove accompagnare il re a « spetta-
coli di gala». lo non sto ad esaminare se abbiano ragione coloro i
quali affermano che la varieta della coltura nuoce anziche" giovare
airuomo di governo; come quella che, ponendogli innanzi i di-
versi aspetti delle cose, lo fa piu incline al considerare, al parago-
nare che al risolvere, e ingenera dubbiezze e titubanze che sono in
chi governa un difetto e un pericolo. Sara : io penso bensi che non si
possa bene, cioe con alti intendimenti, governare un paese, se non
si abbia nozione certa delle forze intellettuali delle quali dispone.
Orbene: mi ricordo che nelPSo o nelPSi, salvo il vero, men-
tre andavo girando per POberland, mi pervenne un telegramma di
Teodorico Bonacci,2 allora segretario generale del Depretis, col
quale mi si pregava di non indugiar troppo il mio ritorno a Roma.
Tornai ; si doveva comporre la giunta giudicatrice nel concorso per
il monumento a Vittorio Emanuele, e il Depretis desiderava che io
gli indicassi architetti, scultori, pittori da eleggere a far parte della
giunta medesima. Gli proposi tra gli scultori il Dupre".3 Egli mi
guard6 di sopra gli occhiali e domandb:
— Quale Dupre" ?
— Non ce n'e che uno. Quello dell'Abele.
— Buono?
— Ma! . . . per quel che fa la piazza . . .
— Dupre . . . Dupr6 . . . aspettate un momento . . . quello che ha
fatto il monumento a Cavour a Torino?
— Precisamente lui.
— Allora va bene.
i. Edoardo Ferravilla. (1846-1915), attore e auto re del teatro dialettale
milanese, creatore felicissimo di tipi e macchiette. 2. L'onorevole Teo
dorico Bonacci (1838-1905), di Jesi, fu poi ministro di grazia e giustizia
(1892-1893 e 1898). 3. Dupre: vedi p. 920 e la nota 3. La morte di Abele
fu eseguita nel 1842.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1151
E scrisse il nome del Dupre, del quale non conosceva se non una
delle opere meno felici ... Si pass6 ai pittori:
— Domenico Morelli,1
-ChiMorelli?
— Morelli . . . non saprei dir altro. Morelli.
— Mai sentito nominare.
— Me ne dispiace.
-Didov'e?
— Di Napoli.
— Uhm! questo andrebbe bene, perch6 qualche napoletano biso- •
gna metterlo ; ma non bisogna, caro Martini, lasciarsi guidare dalle
'simpatie. Qui ci vuol gente conosciuta. Basta, m'informero.
Inutile dire che, per suggerimento di quanti egli interrog6, il
Moreili fu chiamato a far parte di quella Giunta; deve invece ram-
mentarsi che piii tardi entr6 nella Camera vitalizia per proposta
dello stesso Depretis; ma il fatto £ che questi nell'So e nelPSi igno-
rava che fossero al mondo il Morelli e il Dupr6; e 1'ignorarlo era
tanto piu grave, quanto maggiore la estimazione in cui italiani e
stranieri tenevano i due valentissimi artisti nostri.
Non dico, intendiamoci, che un Presidente del Consiglio dei mi-
nistri abbia 1'obbligo d'intendersi di quadri e di statue; ma deve
sapere che c'e nel proprio paese uno scultore famoso, un pittore
famoso, un fisiologo famoso, un astronomo famoso e via dicendo:
se no egli non sa quanto il proprio paese valga, quanto possa, in
qual conto meriti di esser tenuto.
Ma egli non d'altro si curava che della Camera. La Camera,
la Camera! Quando sapeva o sentiva d' aver la in pugno, il resto
non aveva importanza per lui. Per dime una: di quanti Con-
sigli di ministri si tennero sotto la sua presidenza, non si fece
se non raramente processo verbale. Nel salotto di via Nazionale,
dove, specie sugli ultimi, il Consiglio si adun6, non c'era che un
piccolo tavolinetto tondo, spesso senza carta n6 calamaio. Una
volta, entrandovi subito dopo che i ministri vi erano usciti, vi tro-
vai un solo pacco di buste messe li per figura, con due delle quali
qualcheduno s'era divertito a fare delle oche. Non potei, vedendole,
trattenere un sorriso. II Depretis se ne accorse e sorridendo anche
lui:
i. Domenico Morelli: vedi la nota i a p. 442.
1152 FERDINANDO MARTINI
— Veramente le oche dipendono dal Ministro dell'istruzione,
ma quelle le ha fatte il Ministro delPagricoltura.
Questa noncuranza per tutto ci6 che non si attenesse alia poli-
tica parlamentare traluceva dai suoi stessi discorsi. Nel Depretis
lo stile fu veramente Tuomo. Tral monotone succedersi delle pa
role, mai non scatt6 un pensiero o una frase originate . Si disse e
crede" egli fosse lettore e lettore assiduo, quanto le cure del governo
lo permettevano, di classici italiani e latini. Novelle! Le citazioni
oraziane e dantesche ch'egli intercalava ne' suoi discorsi non erano
fresche di letture recenti, bensi vizze reminiscenze di scuola.
Non gi£ ch'egli non si fosse nutrito da giovane di coltura classica ;
ma Pesagerazione di quello che chiamano «spirito pratico» lo
aveva fatto sdegnoso degli ornamenti della parola. Ogni frase alta
e potente era inutile fronda per lui ; e a furia di odiare le fronde, era
arrivato a recidere il ramo. Presidente del Consiglio avrebbe vo-
luto, se possibile, non parlare nemmeno. Suo studio precipuo e
costante era ingaggiar la battaglia con una legione di aderenti nu-
mericamente maggiore della falange avversaria; poi disposte le
schiere, Farringarle gli pareva un di piu. Parlava perch6 gli era ob-
bligo, perche" parlamento viene da parlare; che altrimenti, udite le
concioni altrui, avrebbe crollato le spalle e compendiato il dibat-
tito in questo imperativo: Votiamo.
E Peloquio modesto ebbe anzi vanto di sobria semplicita, ed egli
pote* sembrare oratore efficace, sin tanto si rivolse a maggioranze le
quali non desideravano che di essere persuase, e per un certo tempo
e in particolari circostanze disposte a seguirlo, anche se non per
suase. Ma quello trascorso, e queste mutate, quante scaltrezze,
quante lusinghe, quanto travagliarsi in affannosi armeggii per riac-
cozzare le torme, che non strette da comunanza di principii e d'in-
tendimenti, si sbandavano in cerca di miglior capitano! Quante
astute promesse per addolcire gli oppositori! Nel novembre delP86,
tornando a Roma, lessi in ferrovia che il Depretis aveva giorni
innanzi promesso a Ruggero Bonghi e a Guido Baccelli di proporre
un disegno di legge per la passeggiata archeologica che questi idea-
va e vagheggiava da tempo. Appena arrivato, andai, come solevo, a
salutare il Presidente : lo trovai che stava per montare in carrozza.
— Avete qualcosa da dirmi ?
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1153
— No. Venivo per salutarla.
— Vado al Senate. Accompagnatemi.
Strada facendo:
— £ vero — domandai — che ha promesso la passeggiata archeo-
logica P1
-Si.
— I giornali dicono che costera venticinque milioni.
— Cosi pare.
— Ma e allora? Come si puo, nelle condizioni present! della fi-
nanza, spendere venticinque milioni per un'opera bella, non c'e
che dire, ma non urgente?
— Se il bilancio non lo permette, non si fara.
— Ma lei ha promesso.
— Sicuro: e se avessi promesso di fare una cosa che costasse
centomila lire, mi troverei impicciato ; ma per una spesa di venticin
que milioni, eh! lasciate stare, ci sara chi proweda, nonostante le
mie promesse. lo ho promesso, sicuro: ma se non ci sono denari,
capirete bene, ad impossibilia nemo tenetur.z
Lusinghe furbesche, condiscendenze costrette, tutte debolezze
delPuomo di governo, furono in gran parte a lui forza e fortuna
parlamentare ; il resto gli venne dagli eccessi de' suoi awersari;
ragguardevoli e stimati uomini, uno per uno, ma tutti insieme in
sospetto di troppo intime relazioni co* partiti estremi. Bast6 che
uno di quegli uomini, il piu vigoroso e pronto, si staccasse dagli
altri ; baste- che il Crispi si facesse innanzi, e dimostrasse voler spez-
zare i vincoli che, vero o no, si credeva lo stringessero aj radicali,
perche la borghesia egoista e paurosa, cosi bene rappresentata nella
Camera (la Camera d'allora, s'intende), buttasse tra' ferri vecchi il
Depretis venuto a noia, e si prostrasse alPidolo nuovo.
*
E oggi chi si ricorda piu di Agostino Depretis? Eppure Tho gia
awertito ed e chiaro ; non si tiene per dieci anni nelle proprie mani
il Governo, senza aver doti e qualita d'uomo di Governo. Senza dire
della rettitudine incontrastata, del profondo e vivo amore della pa-
tria, il Depretis doni e qualita ebbe difatti. Quali? Fine accorgi-
i. passeggiata archeologica: il viale alberato che dalle pendici del Celio, del
Palatino e deH'Aventino, e dalla zona del Circo Massimo, conduce ai ru-
deri delle Terme di Caracalla e all'imboccatura della via Appia. 2. « Nes-
suno e tenuto a far ci6 che e impossible. »
73
1154 FERDINANDO MARTINI
mento, animo pacato, operosita infaticabile, contezza ampla, lim-
pida di ogni congegno della pubblica amministrazione, conoscenza
altrettanto ampia e certa di quella che chiamano la scacchiera par-
lamentare, ossia, senza metafora, delle passioncelle, delle ambizioni,
delle rivalita, dei rancori vicendevoli e delle reciproche gelosie;
abili artifizi nel barcamenarsi, prontezza di trovate nei momenti
pericolosi, fecondita di giornalieri espedienti. Ottimi requisiti anche
questi: preservativi eccellenti per la conservazione de' portafogli,
sbarre con le quali si chiudono piu o men lungamente ad altri le
porte dej Ministeri, ahime! non chiavi per aprire a se stessi quelle
della posterita e della storia!
GUERRA DI SUCCESSIONE1
11 cardinale Bellarmino2 nel libro De romano pontifice sentenzi6 :
« Se il papa cadesse in tanto errore da prescrivere i vizi e proscri-
vere la virtu, la Chiesa dovrebbe credere che i vizi sono meritevoli
e le virtu da fuggire». Una sommissione cosi docile, come quella
che secondo il teologo di Montepulciano e imposta ai fedeli, fu
legge a una schiera parlamentare, in gran parte composta di pie-
montesi, la quale, eletto a proprio capo Agostino Depretis, per
dieci anni con ogni sforzo lo sostenne e lo mantenne al potere.
Non gia ch'essi fossero tanti da formare maggioranza, ma senza di
loro maggioranza non si formava.
Schiera tetragona a ogni argomento, a ogni seduzione, a ogni
insidia, per la costante ubbidienza sua il Depretis usci spesso vitto-
rioso da terribili conflitti; e, vinto, pot6 quanto nessuno aveva
prima potuto - neanche il Cavour - offrire cioe via via le dimissioni
del Ministero sapendo sempre d'essere chiamato a ricomporlo se
condo il proprio capriccio : e dopo un voto della Camera che bol-
lava, mettiamo, il Ministro degli affari esteri, ripresentarsele,
avendo licenziato invece e soltanto il Ministro dei lavori pubblici
o quello della marina.
Dibattimenti poderosi, assalti memorabili: talora tutti i maggiori
uomini della Sinistra contro di lui. Ci6 nonostante egli ebbe nel
i. Ed. cit., cap. xn, pp. 209-24. 2. Roberto Bellarmino (1542-1621), ge-
suita, cardinale, legato di Sisto V in Francia, autore del Catechismo ro
mano. Beatificato il 29 giugno 1930.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1155
parlamento awersari, nemici no, tanta cur a poneva nello smussare
gli angoli, nel levigare le asperita : a cattivarsi Panimo dell'assemblea
non era ingegnoso spediente ch'ei non usasse; e il suo discorso,
umile nella forma, talora quasi pedestre, era per6 opera d'artista,
non soltanto per certa bonarieta condita di malizia che conquistava
le simpatie, ma principalmente per il modo onde era detto, per gli
atteggiamenti di colui che lo profferiva.
Perfino la gotta, che lo tormentava assai di frequente, gli era
valido aiuto. Subito che, fiutando il vento, presagiva si sarebbe
mutato in bufera, egli mutava a sua volta le scarpe di cuoio in am-
plissime scarpe di panno, e entrava nell'aula incurvato a passi lenti
e dolenti. Si sedeva con ostentato disagio al banco dei Ministri, si
alzava con apparente disagio maggiore, e cosi fioco che i piu vi-
cini lo udivano a malapena, incominciava : « Onorevoli colleghi ». -
«Piu forte, piu forte » si gridava da ogni lato: ed egli postesi le
mani al petto e volgendo intorno gli occhi imploranti misericordia,
col gesto faceva intendere ch'era ammalato e come non potesse
piu di quanto faceva e le sue forze gli permettevano. A discorso
finito, i commenti fioccavano, faceti, aspri, secondo gli umori : co-
munque, gli oppositori potevano strillare a lor piacimento : la cen-
sura dei meno non toglieva forza al suffragio dei piu, che gli con-
fermavano la propria fiducia per la centesima volta. aPovero vec-
chio! Tanti servigi ha resi allo State! Perch6 funestargli di amarezze
i pochi anni che gli rimangono da vivere ? » E da ultimo la solita
domanda: «Se mancasse lui, chi verrebbe?»
O fragilita delle amicizie politiche! Quando il Depretis nel giu-
gno dell'ottantasette parti da Roma per Stradella, era facile per-
suadersi che non piu tornerebbe. Poca gente alia stazione, pochis-
simi i deputati accorsi, piu per curiosita che per aitro. Non era,
del rimanente, piu lui sin d'allora: ed io tuttavia mi domando se
rawisasse coloro che come me andarono a stringergli Fultima volta
la mano nel vagone-salone in cui lo avevano a fatica deposto, ed
egli stava immobile, muto, cerea la faccia, gli occhi insonnoliti
e semichiuse le palpebre.
Moriva - dissero i medici - per Patonia dello stomaco. Tale il
fenomeno. Ma la verita e che la piazza che a Roma intitolammo dei
1156 FERDINANDO MARTINI
Cinquecento caduti a Dogali1 poteva esser detta del Cinquecentuno.
Fra le vittime di quell'eccidio fu anche Agostino Depretis.
Alia spedizione di Massaua,2 impostagli da vario ordine di casi,
si rassegno: non la ide6 ne la voile, come non voile malaugurata-
mente piu tardi la occupazione dell'Harrar, che il Bismarck3 sugge-
riva, appunto perche questi la suggeriva. Breve : alia impresa affri-
cana il Depretis si Iasci6 piuttosto trascinare che condurre: nella
conquista delle maggioranze attraverso Tarcipelago dei gruppi e dei
gruppetti parlamentari, si sentiva esperto e si compiaceva; la con
quista di territorii in continente ignoto lo tormentava fra paurose
perplessita. Inoltre, quando la impresa stava per essere preparata
e iniziata, dov6 di ci6 lasciare la cura ad alcuni dei suoi colleghi,
perche una grave bronchite lo colse : ed io lo rivedo dopo tanti anni
come se mi fosse davanti. Perche la lunga Candida barba gli era
d'impaccio a sorbire i medicamenti prescrittigli, se Pera fatta as-
settare in trecciole. Silenzioso, cogitabondo, poggiando sui cuscini
or Puno or 1'altro gomito e con Tuna o 1'altra mano sorreggendo la
testa, faceva venire in mente Pallegoria di un Arno o di un Tevere
immaginata da uno scultore barocco e disegnata da un princi-
piante. Ordine era dato che di Affrica non gli si parlasse.
Dogali fu un triste episodic: ma non tale da meravigliarne : la
storia delle imprese coloniali ne novera di simili a centinaia. II
Depretis ne fu sbalordito, sbigottito, atterrito. « Disastro irrepara-
bile», disse al Nicotera cui primo dette notizia di quella strage:
ed io, che il Depretis vedevo quotidianamente, anche questo ricor-
do : non tocc6 cibo in quel giorno ; a sera tar da, affranto, invecchiato
di dieci anni ad un tratto, cedendo a replicate preghiere di congiunti
e di amici, consent! a mangiare in un angolo del salotto poche fette
i. Dogali: la battaglia awenuta in Eritrea il 26 gennaio 1887, in cui un
nostro reparto di cinquecentododici uomini, comandato dal tenente co-
lonnello Tommaso De Cristoforis, fu circondato dagli abissini di ras Alula,
venti volte superiori di numero e favoriti dall'imboscata. 2. La spedizione
di Massaua awenne nel 1885, e fu 1'inizio della formazione della colonia
Eritrea. 3. Bismarck: vedi la nota i a p. 673. II Martini (Cose affricane,
Milano, Treves, 1896, pp. 145-6) riferisce dal diario di un amico queste
parole del Depretis: « Bismarck e un grand'uomo e un prezioso alleato, ma
e anche un egoista, e i consigli suoi bisogna meditarli e vagliarli. Se per fare
comodo a se gli e necessario mettere nell'impiccio noi, sono persuaso che
non esita un minuto ».
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1,157
di prosciutto, fra un boccone e Taltro chiedendo ansioso una carta
dell'Affrica invano cercata in tutte le librerie della capitale: e da
ultimo in un vecchio atlante, non so da chi ne come portato, inda-
gando affannosamente dove Dogali stesse; Dogali non c'era: e
non c'era perche non esiste mai nelPEritrea un luogo chiamato cosi,
prima che Ponorevole Raffaele Cappelli1 gl'imponesse quel nome.
Era infatti il Cappelli segretario generale del Ministro degli affari
esteri, conte di Robilant. Tocco a lui decifrare il telegramma che
recava i primi affrettati ragguagli. Tutto v'era chiaro, tranne la
indicazione del luogo ove lo sterminio avvenne. La gravita del-
Tevento non tollerava annunzi indugiati : d'altra parte la determina-
zione del luogo non aveva essenziale importanza: se incorresse
errore, c'era tempo a correggere. Parve al Cappelli che con le let-
tere denotate dalle cifre un nome potesse comporsi : Dogali, e Do
gali scrisse; e con quel nome 1'infausta collina fu consegnata alia
storia.
Da quella scossa il Depretis non si riebbe: si senti fiaccato
1'animo e il corpo, quando ad affrontare gravi prossimi aweni-
menti era necessita di animo risoluto e di forze maggiori, Per
serbare il potere e lasciarlo poi in mani fidate, chiamo a far parte, del
Gabinetto il Crispi che gli era stato, come a me disse piu volte,
«buono e docile compagno» nel Ministero del 1878:* e lo chiamb
sperando di dominarlo ancora. Sowengono le parole delFApocalis-
se : « Aperuit puteum abyssi et ascendit fumus putei et obscuratus
est sol».3 Subito che il Crispi fu Ministro, nessuno bad6 piu al
Depretis : tutti capirono che autorita e vigoria non erano piu in lui,
che chiamava in soccorso Pavversario d'ieri, ma nell'awersario che
degnava di venirgli in aiuto. Assuefatto a reputarsi indispensable, il
vecchio Presidente s'accorse poco mancava non lo reputassero
inutile addirittura. Fu un nuovo colpo : e tanto piu gravemente lo
percosse, quanto men preveduto. II fisico se ne risenti: i settanta-
quattro anni fecero il resto.
i. II marchese Raffaele Cappelli, nato nel 1848, fu deputato e ministro,
e nel 1905 Ieg6 per testamento alia biblioteca dell'Istituto nazionale d'agri-
coltura un'importante raccolta di libri e testi, soprattutto sulla storia del-
Pindustria e dell'agricoltura in Italia. Fu presidente della Societa geogra-
fica italiana. 2. chiamd . . . 1878 : il Crispi era stato nel ministero De
pretis dal 27 dicembre 1877 al 7 marzo 1878. Ora il Depretis lo chiamava
di nuovo al dicastero degli interni. 3. « Apri il pozzo dell'abisso e si sollevd
il furno del pozzo e il sole ne fu oscurato » (Apoc.t 9, 2). Ma la citazione ab-
brevia 1'originale togliendo alcune parole dopo putei.
1158 FERDINANDO MARTINI
Estremi, tristissimi giorni amareggiati dalla delusione e dal ram-
marico, facile a indovinarsi nella caparbieta con cui egli, allettato,
nonostante le insinuazioni della stampa, le preghiere del senatore
Saracco,1 amico e consigliere fino allora ascoltato, e i mal celati desi-
deri augusti, si ostin6 nel non cedere ad altri il portafoglio degli
Affari esteri, quando per le sommosse cretesi, le condizioni della
Bulgaria,2 la convenzione anglo-turca, volevasi al Ministero degli
esteri vigile, quotidiana prontezza di esame e di risoluzione.
Poco innanzi la sua partenza da Roma, fummo a fargli visita An
tonio Mordini3 ed io. Ci accolse con mesta affabilita, e in voce la-
mentevole disse come Carlo II ai suoi cortigiani : — Abbiate pazien-
za se metto troppo tempo ad andarmene.
Al Mordini parve quello stato d'animo propizio alle amich^voli
esortazioni.
— No, no; tutti si curano della tua salute, il solo che non se ne
curi sei tu. Va* a Stradella, riposati e tornerai guarito a presiedere
il Consiglio: per ora il meglio 6 che tu lasci il portafoglio degli
Esteri, che cosl malato come sei, e peso soverchio per te.
II Depretis probabilmente suppose che in quelle parole suonasse
1'eco delle altrui impazienze: e, sdegnoso, alzando con palese sforzo
la voce:
— Ma che vogliono insomma — domand6 — che mi impicchi ?
— No, amico mio . . .
— E dunque s'impicchino loro.
E furono quelle le ultime parole che udii dalle labbra sue.
Correva il luglio 1887.
Non c'erano oramai piu speranze. I medici avevano accertata
imminente la fine: non si attendeva oramai che un'ultima lugubre
notizia; e giunse infatti a me il ventinove nelle prime ore della mat-
tina. Agostino Depretis, il vecchio vinattiere di Stradella* come lo
chiam6 il Carducci, destatosi la sera innanzi da un lunghissimo
i. Saracco; vedi la nota i a p. 903, 2. le condizioni della Bulgaria: la
Bulgaria, eretta in principato nel 1878 col trattato di Berlino, ebbe nel
1886 una grave crisi per 1'abdicazione del suo principe, Alessandro di
Battenberg, voluta dalla Russia. Solo nel giugno 1887 fu eletto principe
Ferdinando di Sassonia Coburgo-Gotha. 3. Antonio Mordini; vedi la
nota 7 a p. 445. 4. Riecheggia il verso « irto, spettrale vinattier di Stra
della » delTelegia Roma (nelle Odibarbare).
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1159
assopimento per chiedere «un po' di vino», s'era poi, appena be-
vutolo, riaddormentato placidamente e per sempre. Mi era stato
molto e per molti anni benevolo: anche quando avevo pubblica-
mente con la parola o col voto disapprovato alcun suo prowedi-
mento, anziche tenermi broncio, s'era contentato di rimproverarmi
con paterna bonarieta. Quello ch'ei giudicava il mio grande difetto :
Tindisciplina; difetto del quale nonostante le sue ammonizioni non
sono mai pur troppo riuscito a correggermi : a volte, anzi, mi vien
voglia di vantarmene. La memoria di tale parzialissima indulgenza
- rara negli uomini politici - e Paffetto bastavano a suggerirmi ci6
che d'altra parte mi imponeva in quella occorrenza il dovere. Corsi
senza indugio a Stradella. Verano gia, o vi arrivarono poco dopo,
altri deputati: grintimi. Gran parte della giornata pass6 nello atten-
dere la risposta del Vescovo di Tortona, cui spettava permettere o
inibire al clero di prender parte al trasporto funebre. E aspettammo
seduti intorno al fico leggendario, alPombra del quale, secondo i
giornali di allora, il Depretis in vacanza sbrigava le faccende di
Stato : in quell'orto ch'egli si compiaceva nel chiamare molto im-
propriamente giardino, andando bensi sulle furie ogni volta che
alcuno tentasse di sostituire ai meli e alle pergole tigli o mimose.
Con quale veemenza aggredi una volta il botanico Briosi del-
TUniversita di Pavia che os6 consigliargli di svellere la siepe di
bossoli onde Porto era cinto:
— Mi avete distrutta la spalliera di sparagi, ora volete svellere i
bossoli, sciocchissimi devastatori.
Perche" quel capo e duce dei « progressisti » il quale ardiva di
scompaginare i tributi con Pabolizione della tassa di macinato, e
ardiva ancor piu con lo imporre nuovi gravami affmch6 Perario
non soffrisse dissesto; e sfidando le ire della Destra, proponeva
e otteneva Pestensione del suffragio elettorale, era poi, quando si
trattava delle proprie abitudini o di usanze domestiche, il piu coc-
ciuto dei conservatori. Che non ci voile per fargli mutare un vestito
che mostrava le corde ? Gridava che non era un « darner ino », non
voleva abiti nuovi, e quando stanco alia fine ced6, fu un lungo
sbraitare contro la «moda imbecille». E il nuovo vestito era dello
stesso panno, dello stesso taglio, dello stesso colore di quello che
gli avevano levato.
Il6o FERDINANDO MARTINI
La risposta del Vescovo pervenne la sera a ora tarda. II prelato
non aveva voluto da se ne permettere ne proibire. Telegrafato a
Roma, Roma rispose vietando al clero le esequie : inibizione della
quale non si riusci a sapere il perche e fu cagione di meraviglia
anche per questo : die il deputato Valsecchi,1 il quale era nato e vil-
leggiava da quelle parti, ottenne di li a qualche giorno che i sacer-
doti di un villaggio vicino vi celebrassero in suffragio del Depretis
un funerale; e non di soppiatto, ma palesemente: tanto che scrissi
io, per desiderio del Valsecchi stesso, Pepigrafe da apporsi sulla
facciata della povera chiesa.
Accompagnamento funebre non fu mai meno solenne e men
triste : ai pochi amici per i quali la morte del Depretis era sincero
cordoglio, esso parve triste per ci6 solo, che ogni segno di tristezza
mancava. Non preghiere perche vietate, non parole di rimpianto
perch6 guidava il corteo il duca d'Aosta rappresentante re Um-
berto, e Tetichetta, che impone anch'essa divieti, non tollera-
dissero - si rimpiangano morti in presenza di sovrani o di prin-
cipi. I soli vigneti avevano aspetto di malinconia : i pampini macu-
lati e corrosi dalla peronospera cadevano a ogni alitare di vento.
«Lamentano la perdita dell'enologo » qualcuno osserv6. Facezia
disdicevole in quel luogo, a quelFora. Non raccoglimento, neanche
una simulata mestizia: ma un andare frettoloso e distratto, in ciar-
lio non abbastanza sommesso, di gente che profittava dell'occasione
per discorrere degli interessi propri ed altrui: al morto, insomma,
non pensava nessuno; i piu, invece, all'erede.
L'erede, il Depretis lo aveva gia designate piu mesi innanzi con
1'affidare, come ho detto, al Crispi il portafoglio dell'interno ; ma
non tutti erano disposti a tenere valido il testamento. Padrone,
pensarono e dissero, padrone il Depretis di indicare il successore,
ma padroni anch'essi, il Re e il Parlamento, di scegliere chi meglio
loro convenga. E poi il Crispi! II Crispi e un mongibello,2 il Crispi
e pericolosissimo : radicaleggiante, metterebbe tutto a soqquadro.
Lo averlo designate successore, basta a provare che il povero De
pretis non stava piu li con la testa.
Queste e altre cose furono dette: con prudenza minore e con
i. Pasquale Valsecchi (1828-1900), ingegnere, deputato dal 1876, senatore
dal 1885. Si occup6 di problemi ferroviari. Era stato sottosegretario ai la-
vori pubblici. 2. un mongibello : un vulcano : Mongibello e il nome usato
per indicare 1'Etna. II Crispi era stato mazziniano attivo e vivace fino al
1865, ma aveva poi accettato la monarchia.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) Il6l
maggiore sincerita un tale si Iasci6 strappare di bocca che, insom-
ma, a capo del governo, doveva starci un settentrionale.
Quello infatti era il punto. Quello il movente delle macchina-
zioni che si andavano preparando dalla falange di cui era in quel
giorno oratore e duce il senatore Pissavini,1 prefetto di Novara.
Costui andava afFannosamente da questo a quello, sbracciandosi
a dimostrare che per la morte del Depretis, una questione era
proposta la quale non poteva costituzionalmente risolversi che in
un modo solo: «I1 Ministero ha per se le maggioranze, non pu6
dunque essere licenziato; rimanga qual'e; ognuno al suo posto.
Gli manca il presidente ? Si trovi. Fuori del Ministero medesimo » ;
egli, il Pissavini, ne offriva uno : Giacomo Durando2 piemontese di
Mondovi.
II generale Durando ebbe parte notevole negli awenimenti del
1848, e fece onorevolmente la sua parte di cittadino e di soldato,
nel i862.3
Urbano Rattazzi gli affid6 il portafoglio degli Esteri: il Durando
era zoppo, del Rattazzi dicevasi che fmgesse co' suoi di volere e
preparare la conquista di Roma, pur sapendo quanto vano fosse
allora il tentarla e quanto il proporsela. Onde Pepigramma di
Giovan Battista Giorgini:
Quaerebat comitem properans Urbanus ad urbem.
Et claudum inveniens: hie meus, inquit, homo est.
Da lui stesso tradotto :
Posto a Roma Urbano brama
un compagno aver con sd.
Vede un zoppo e lieto esclama:
questo e Vuom che fa per me.
1. Luigi Pissavini (1817-1898), awocato, deputato di Mortara dal 1865
al 1878, senatore dal 1879, prefetto di Novara dal 1880. Decadde dalla ca-
rica di senatore per sentenza dell'Alta Corte di giustizia, del 21 aprile 1888,
dalla quale fu condannato a sette mesi di carcere. Oltre che di incitamento
alia corruzione, il Pissavini era accusato di appropriazione indebita.
2. Giacomo Durando (1807-1894), esiliato dal Piemonte, nel 1831, come
cospiratore, visse a lungo a Parigi. Nel '48 comando un corpo di volontari.
Dal 1856 al 1861 fu ambasciatore in Turchia; nel 1862 resse il ministero
degli esteri; dal 1884 al 1887 ebbe la presidenza del Senato. 3. nel 1862:
cioe, ad Aspromonte.
Il62 FERDINANDO MARTINI
Ora vecchio e acciaccato, trascorso un quarto di secolo senza che si
parlasse di lui, non era davvero il Durando 1'uomo di quei fran-
genti, e la trovata del Pissavini parve ai suoi stessi congregati infeli-
cissima. Egli allora, disfacendosi conrapida sveltezza delle sue teori-
che costituzionali, si volse a istigare il Brin,1 Ministro della marina
e il Saracco, Ministro dei lavori pubblici, affinche Puno o Paltro
ponesse innanzi la propria candidatura. II Brin (lo seppi da lui) ri-
spose: « tempo perso»: due parole le quali significavano piu che un
rifiuto ; ci6 che rispondesse il Saracco non so : comunque non sfug-
gi ad alcuno che mentre la massima parte dei senatori e deputati
convenuti al funerale, solleciti della partenza, s'awiavano alia sta-
zione, quei tre datosi appuntamento nelPorto di casa Depretis,
si adunavano alPombra del solito fico, destinato ad avere piu di una
pagina nella storia politica del regno d' Italia.
Giunti a Pavia dovevamo mutare di treno e scendemmo. Anche
il Crispi scese e parecchi con me gli si accostarono : tra gli altri il
deputato Maggio che subito gli domand6:
— E ora che cosa succede ?
— Non lo so — rispose brusco — ne me ne euro. E dopo un breve
silenzio, soggiunse anche piu brusco : — Quei signori lassu congiu-
rano, non sanno chi e Francesco Crispi. Ma c'e a Roma chi lo
sa . . . Non oseranno.
E ci volte- sdegnoso le spalle.
Era il 30 luglio. II sette di agosto il Crispi assunse la presidenza del
Consiglio. Di quanti o volenti ebbero, o nolenti furono creduti aver
parte in quella congiura di un giorno, il Brin e il Saracco rimasero
Puno Ministro della marina, Paltro dei lavori pubblici; i minori
si affrettarono a fare omaggio al nuovo Presidente, sebbene mongi-
bello, sebbene pericoloso, sebbene radicaleggiante. II Pissavini fini
male. Deputato per piu legislature, s'era fatto alia Camera il pa-
trocinatore de' maestri. Di 11 a qualche tempo PAlta Corte di Giu-
stizia lo condann6 per le troppe tenerezze usate con gli scolari.
Alcuni giorni dipoi si bisbigli6 di casi di colera a Napoli; ed io,
che a Napoli avevo la famiglia andai dal Crispi per attingere notizie
i. Benedetto Brin (1833-1898), economista, ingegnere navale, rinnovatore
della nostra marina militate, fu per quattro volte ministro della marina c
nel 1892-1893 tenne il dicastero degli esteri.
CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892) 1163
a pura e fresca sorgente. Avutele, mentre stavo per congedarmi
da lui:
— Ve Pavevo detto — esclam6 — che non oserebbero ? ~ e se-
guit6 con parole che, subito notate, fedelmente trascrivo.
— II tentative fu fatto, ma Re Umberto non voile saperne^ 6
un uomo che ascolta molto, pondera molto, e risolve bene. Lo
escludere me che pur ero designate alia Presidenza, sol perche me-
ridionale, sarebbe stato un errore. Bisogna finirla coi regionalismi.
Dalle Alpi al mare non ci sono che italiani. E poi, via, c'e egli qual-
cheduno che possa vantarsi piu unitario di me ? Per me, tutta la mia
vita lo attesta, tanto e Palermo, tanto e Torino. Sono qui a lavo-
rare per il paese, a dargli tutto il mio tempo, tutta Tenergia che mi
rimane. Spero che qualcosa di buono far6. Sono tutto dell'Italia,
credetelo; mi pare di essere tornato al 1860.
E gli occhi gli luccicavano di lagrime trattenute.
NOTA AI TESTI
FILIPPO PANANTI
I due titoli tradizionalmente usati per 1'opera del Pananti (Avventure e os-
servazioni sopra le costs di Barberia, e Relazione di un viaggio in Algeria)
non indicano «una cosa stessa», con «nome mutato)), come appare dalla
tradizione critica (vedi A. D'ANCONA e O. BACCI, Manuale della letteratura
italiana, v, Firenze, Barbera, 1928, p. 116, e le bibliografie, gia citate, di
P. Gori e di L. Andreani). Le Avventure apparvero, per la prima volta, a
Firenze, nel 1817, presso L. Ciardetti, in 2 volumi. Questa edizione e
molto scorretta, sia per la irregolarissima interpunzione, che a volte travisa
il senso del periodo, sia per le deformazioni frequenti di vocaboli e per
I'uso insistente di forme dialettali toscane: ma e la base cui si rifece il Pa
nanti nelle successive edizioni delle Avventure, e gia in essa figurano, in
fondo al secondo volume, quelle amplissime note che sono una miniera per
chi volesse ricostruire alcuni episodi della vita delPautore e le molteplici
fonti della sua cultura. Attentamente riveduta e corretta, ma sostanzial-
mente immutata, e la seconda edizione delle Avventure, apparsa a Mi-
lano, presso A. F. Stella, nello stesso anno 1817, in 3 volumi, coi tipi
di G. Pirotta, In essa le note, anziche raccolte in fondo, figurano intercalate
via via nel testo. La tradizione (vedi le bibliografie di P. Gori e di L. An
dreani) cita una successiva edizione delle Avventure, pubblicata a Milano,
nel 1822, presso G. Pirotta, in un volume, in 16°; ma nessuno degli stu-
diosi che la nominano e riuscito a vederla, ne io sono stato piu fortunato,
per quante ricerche abbia compiuto. Vi sono, del resto, motivi che fanno
dubitare delPesistenza di questa edizione: ma non e qui il luogo per tale
problema. Nel 1829, a Milano, presso Teditore L. Sonzogno, e sempre con
i tipi di G. Pirotta, apparve una nuova edizione delle Avventure, in 2 vo
lumi, che fanno parte della « Raccolta dei viaggi piu interessanti eseguiti
nelle varie parti del mondo ». In questa edizione non figurano le note del
Pananti; il testo e identico a quello delP edizione milanese del 1817; e
1' edizione e indicata come « quarta». Ultima, tra le edizioni delle Avventure
eseguite durante la vita del Pananti, e certamente la napoletana (Napoli,
R. Marotta e Vanspandoch, 1830, in 3 volumi, con figure miniate), che
fa parte della « Raccolta delle storie dei viaggi » ed e indicata come « prima
edizione napolitana ». II testo di questa edizione riproduce quello dato nel
1817 da A. F. Stella.
Per quanto si riferisce alia Relazione, essa consiste in un testo notevol-
mente ridotto, specialmente per la parte che narra il viaggio, la cattura, la
prigionia e la liberazione. Questo testo, col titolo Relazione di un viaggio in
Algeria, apparve primieramente nella gia citata edizione delle Opere in versi
einprosa, Firenze, Piatti, 1824-1825, dove occupa il in volume, pubblicato
nel 1825.
L'opera fu poi riprodotta, senza mutamenti, ma col titolo Relazione di un
viaggio in Algeri, a Genova, coi tipi di A. Pendola, 1830, in 3 volumi, ed
Il66 NOTA AI TESTI
e indicata col nome di «quinta edizione corretta dall'autore », senza che
sia tenuto conto, percid, della differenza tra questo testo e quello delle
Avventure. Da un confronto tra questa e 1'edizione Piatti, appare evidente
la minore cura usata in quella genovese, dove appaiono saltate o aggiunte
vane parole, in modo da rendere incomprensibili alcuni luoghi. E quindi
legittimo dubitare che Tautore abbia curato e corretto questa ristampa.
Per la nostra scelta, in base all'esame dei vari testi sopra indicati, c'e
parso consigliabile riprodurre le pagine delle Avventure anziche" della Rela-
zione: e ci siamo serviti dell'edizione milanese del 1817, che e certamente la
piu corretta ed e Tunica in cui risulta evidente un'attenta revisione del-
1'autore. In quanto alle note, raramente ci siamo serviti di quelle del Pa-
nanti, che esse non giovano n6 a chiarire il testo n6 a identificarne le ci-
tazioni e le allusioni, tanto diverse e il loro carattere: sono sfoghi autobio-
grafici, aggiunte di aneddoti, ampie divagazioni. Ne" sempre e stato possi-
bile individuare le fonti da cui il Pananti ha tratto alcuni versi e aneddoti,
se pur essi non sono stati, come a volte e sospettabile, creati di volta in volta
dalla fantasia dello stesso autore.
GIUSEPPE PECCHIO
Per le Osservazioni semi-serie di un esule sulV Inghilterra abbiamo seguito il
testo della seconda edizione, pubblicato dal Ruggia, a Lugano, nel 1833.
Esso e risultato, al nostro esame, molto piii attentamente curato in con
fronto alia prima edizione (Lugano, Ruggia, 1831), Ma un confronto tra i
due testi e riuscito utilissimo, per correggere errori, che appaiono in vari
luoghi della seconda edizione. II testo dato dal Prezzolini (Lanciano, Ca-
rabba, 1913) riproduce Tedizione Lugano 1833, ma conserva vari errori,
dovuti, in parte, al mancato confronto con la prima edizione. £ inoltre da
correggere, nell' edizione Prezzolini, 1'errato titolo (le edizioni Ruggia
scrivono sulV Inghilterra; 1'edizione Prezzolini in Inghilterra).
II testo del Pecchio presenta varie imperfezioni, che non e dato cor
reggere. Esse in parte nascono dal linguaggio stesso del Pecchio, guasto
da inglesismi e francesismi, ma in qualche caso, forse, derivano da errori
tipografici, che 1'autore stesso probabilmente avrebbe corretto, se avesse
potuto seguire personalmente la stampa: il che sospettiamo non sia av-
venuto. Vari nomi propri, ad esempio, hanno subito evidenti deforma-
zioni (Thompson per Thomson, Ramuzzini per Ramazzini, Moura per
De Mora, ecc.), come di volta in volta abbiamo corretto nelle note, lasciando
intatto il testo, sul quale siamo intervenuti solo per alcune consonanti dop-
pie (carrozza per carozza, capelli per cappelli ecc.) e per alcuni errori eviden-
temente dovuti alia starnpa.
LEONETTO CIPRIANI
Per le Adventure della mia vita abbiamo seguito 1* edizione in 2 volumi che
ne ha curato L. Mordini nel 1934 presso lo Zanichelli di Bologna. £ questa
la prima e unica edizione delle Avventure, ed e merito del Mordini averle
tratte dalPautografo del Cipriani, corredate dinote, di un'appendice di do-
cumenti e fatte conoscere agli studiosi italiani.
NOTA AI TESTI 1167
Le Avventure furono scritte dal Cipriani a Centuri negli anni dal 1869
al 1876, su fogli staccati, raccolti in 6 volumi. Nel rivolgersi Al lettorey
airinizio del suo lavoro, il Cipriani si proponeva di narrare quello che
aveva « osservato, ascoltato, veduto, toccato con mano nel lungo periodo
di quarant'anni dal 1830 al 1870)), ma in realta egli distese in ordinata
narrazione solo gli eventi fmo al 1853. Per il periodo posteriore le memorie
risultano discontinue e spezzate in appunti, diari e narrazioni di momenti
isolati. Anche nella stesura della prima parte, fino al 1853, il Cipriani si
giovo certamente di sue precedent! parziali memorie: egli stesso ricorda
nel capitolo xxi (vedi ed. cit., vol. II, p. 21) di avere occupato Testate del
1849, a Piombino, nello scrivere « una parte di questi racconti, e particolar-
mente i fatti piu recenti del 1848 e 18495), e gia aveva stampato nel 1848
(Firenze, Le Monnier) una Narrazione della sua missione a Livorno (vedi
la nota 2 a p. 221 del presente volume), di cui si servl poi evidentemente
nella redazione delle sue Avventure.
II manoscritto, secondo le notizie che ne fornisce il Mordini, non era pre-
parato per la stampa: alcune parti vi figurano scritte a matita, altre in fran-
cese, e molti luoghi infme risultano alquanto trascurati nella forma, tanto
che il Mordini, nel pubblicarlo, ha sentito la necessita di intervenire con
una revisione. L'autografo cui il Mordini ha fatto capo e conservato
nelTarchivio della famiglia Cipriani.
Delle Avventure, prima dell'edizione Mordini, era noto un solo epi-
sodio, e cioe il racconto della prigionia del Cipriani a Mantova nel 1848,
perche pubblicato, dallo stesso Mordini, nella « Rassegna storica del Ri-
sorgimento », vi (1917).
ANTONIO GHISLANZONI
Per la Storia di Milano dal 1836 al 1848 abbiamo avuto presente il testo
che apparve nel secondo volumetto dei Capricci letter -an, Bergamo, Sta-
bilimento tipografico Cattaneo, 1886-1889, e che e I'ultimo curato dal-
1'autore. La Storia di Milano era gia nel volume Racconti politici, Milano,
Sonzogno, 1876, ed e stata varie volte ristampata anche isolatamente : Mi
lano, Rosa e Ballo, 1945, e Lecco, E. Bartolozzi, 1954.
GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
Per i Ricordi di gioventii abbiamo seguito la terza edizione non illustrata,
pubblicata a Milano, presso Cogliati, nel 1906. II titolo complete dell'opera
e: Ricordi di gioventii. Cose vedute o sapute. 1847-1860.
Lievissimi interventi abbiamo compiuti nella punteggiatura.
UGO PESCI
Per Firenze capitale (1865-18^0). Dagli appunti di un ex-cronista, abbiamo
seguito 1'edizione Firenze, Bemporad, 1904; per / primi anni di Roma
capitale (1870-1878), V edizione Firenze, Bemporad, 1907.
Il68 NOTA AI TESTI
ETTORE SOCCI
Per la scelta dal volume Da Firenze a Digione. Impressioni di un reduce ga-
ribaldino, abbiamo seguito 1'edizione di Pitigliano, Tip. ed. «della Lente»
di O. Poggi, 1898. L'edizione precedente, che e la prima, fu stampata a
Prato, Tip. sociale, nel 1871.
II testo delle due edizioni appare quasi identico, « se ne togli », come disse
il Socci nella prefazione all'edizione di Pitigliano, « Taver soppresso alcune
lungaggini che avrebbero stancato il lettore».
Abbiamo compiuto qualche lieve intervento nella grafia e nella pun-
teggiatura, per ragioni di uniformita e di chiarezza: ma abbiamo lasciati
immutati i nomi di luoghi, anche se a volte nelle note essi sono stati ri-
condotti alia grafia piu regolare.
GUGLIELMO MASSAJA
Le pagine del Massaja sono riprodotte dalla seguente edizione: G. MASSAJA,
I miei trentacinque anni di missione nelVAlta Etiopia, in 12 volumi, Roma,
Tip. Poliglotta, e Milano, Tip. S. Giuseppe, 1885-1895. Ricordiamo inol-
tre 1'edizione Roma, Coop. tip. Manuzio, 1921-1923, che appare come
appendice a « II Massaja », bollettino dei cappuccini. Questa seconda edi
zione, assai piu accessibile, riproduce, senza mutamenti, salvo qualche
errore di stampa, la precedente edizione. Questa, di grande formato, e fornita
di interessanti incisioni e di carte geografiche disegnate dal geografo ed
esploratore francese Antoine D'Abbadie.
Da quanto scrive Carmelo da Sessano nell: ' Enciclopedia Cattolica, alia
voce « Massaja », risulta che il manoscritto originale delP opera e conser-
vato nell' Archivio segreto vaticano : ed e interamente « vergato di propria
mano» dal Massaja, che lo scrisse negli anni 1880-1885, e non gia, nep-
pure parzialmente, da padre Giacinto da Trojna, come si era creduto. Piu
importante e la notizia, data sempre dal Sessano, di un grande divario
esistente fra il testo del manoscritto e quello della stampa, in cui sarebbero
intervenute trasformazioni notevoli, con 1'intento di dare all'opera una for
ma romanzata e divulgativa. Allo stato attuale, comunque, non si pu6 che
rifarsi alia stampa. Nel testo siamo intervenuti riducendo Puso eccessivo
delle maiuscole.
GAETANO CASATI
Abbiamo seguito 1'unica edizione: Died anni in Equatoria e ritorno con
Emin Pascia, in 2 volumi, con 50 illustrazioni e 4 carte geografiche, Mila
no, Fratelli Dumolard, e Bamberga, Libr. editrice di C. C. Buchner, 1891.
LEOPOLDO BARBONI
Per le pagine scelte da Geni e capi ameni delVQttocento. Ricerche e ricordi
intimi, abbiamo seguito T edizione Firenze, R. Bemporad e figlio, 1911,
NOTA AI TESTI 1169
che e Tunica esistente, almeno a nostra conoscenza. I nostri interventi si
limitano ad alcuni segni d'interpunzione, consigliati dal desiderio di una
piu agile lettura. I capitoli sono stati riprodotti nella loro integrita, fuorche
il secondo da cui abbiamo soppresso un brano che al nostro gusto e sem-
brato banalmente irreligioso.
FERDINANDO MARTINI
Per il testo di NeWAffrica italiana. Impressioni e ricordi y che ebbe nel 1891
due edizioni presso il Treves di Milano, ci siamo serviti della quarta
edizione, Milano, Treves, 1895. Per Confessioni e ricordi (Firenze grandu-
cale) abbiamo seguito 1'edizione Firenze, Bemporad, 1922. In quello stesso
anno e presso lo stesso editore il volume ebbe tre edizioni, che in realta
potrebbero considerarsi ristampe. Nel 1929 Fopera fu nuovamente edita
dal Treves a Milano. Per Confessioni e ricordi (1859-1892) abbiamo avuto
presente 1'edizione Milano, Treves, 1928.
INDICE
INTRODUZIONE ix
FILIPPO PANANTI
Profilo biografico 3
DALLE « AVVENTURE E OSSERVAZIONI SOPRA LE COSTE DI
BARBERIA »
Ammutinamento 1 1
Le navi sospette 12
Sbarco alia prima terra d' Italia 13
L'isola di San Pietro 14
Imprudente uscita dal porto 15
I neri presentimenti 17
L'orrida apparizione della squadra algerina 18
Caduta in man dei pirati 20
Comparsa alia presenza del Rais 20
La prima notte fra i barbari 21
II secondo giorno 22
La tempest a - 23
Battaglie marine 24
Riunione coi compagni dell'infortunio 26
La dura vita sulle navi dei Barbereschi 27
Addolcimento 29
Le speranze 32
II Rais Hamida 34
Vista d'Algeri 36
Sbarco in Algeri 37
Comparsa avanti ai capi del governo africano 37
La prigione degli schiavi 38
II primo giorno di schiavith 39
L'impiego 40
Le ore del riposo 42
I lavori pubblici 43
Liberazione 44
I cristiani schiavi nei regni di Barberia 45
GIUSEPPE PECCHIO
Profilo biografico 53
DALLE (( OSSERVAZIONI SEMI-SERIE DI UN ESULE
SULL'INGHILTERRA ))
Case di Londra 63
Giardini del te (Tea-gardens) 69
1174 INDICE
GAETANO CASATI
Profile biografico 845
DA «DIECI ANNI IN EQUATORIA E RITORNO CON
EMIN PASClA))
[Alia corte di re Ciua] 849
[Ostilita del re Ciua] 852
[Cerimonie mostruose] 854
[Organizzazione e attivita del regno dell'Unioro] 858
[Minacciose pressioni su Casati] 865
[Casati sfugge alia prigionia e alia rnorte] 867
LEOPOLDO BARBONI
Profile biografico 887
DA «GENI E CAPI AMENI DELL'OTTOCENTO -
RICERCHE E RICORDI INTIMD)
In villa da F. D. Guerrazzi 893
Figure, figurini e figuri di Firenze capitale 912
L'anima eroica di Giovanni Nicotera 930
FERDINANDO MARTINI
Profile biografico 955
DA « NELL'AFFRICA ITALIANA »
Massaua 965
II campo della fame 973
[Scuole e incivilimento] 978
[Tribunali e giustizia] 982
Bata Agos 986
Agordat 997
Nei Maria Neri 1000
DA ((CONFESSIONI E RICORDI (FIRENZE GRANDUCALE) ))
Tommaso Cogo 1007
Fra tonache e gonnelle 1021
Gente illustre 1030
[Ricordo di Braccio Bracci] 1041
[Improvvisatori seri e faceti] 1053
A Palazzo 1062
Le mie prigioni io?4
Un granducato in extremis 1085
Ventisette aprile 1093
INDICE 1175
DA (( CONFESSIONI E RICORDI (1859-1892)))
In casa von Wittelsbach 1102
La mia camera d'insegnante 1108
Il«Fanfulla» 1124
Parlamentum indoctum I3C39
Un presidente I][45
Guerra di successione i*54
NOTA AI TESTI Il65
IMPRESSO NEL MESE DI MAGGIO MCMLVIII
DALLA STAMPERIA VALDONEGA
DI VERONA
102 930
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5m
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