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SERIE II. — TOM. XXXIX
SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICHE.
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ERMANNO LOESCHER
Libraio della R. Accademia delle Scienze
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LA VITA SCIENTIFICA
DI
GIORGIO CURTIUS
MEMORIA
DEL SOCIO
DOMENICO PEZZI
Approvata nell'adunanza del 27 giugno 1886
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Non solo coll’intento di compiere un dovere accademico, commemorando un uomo
la scienza e fu uno di quei non molti invidiabili lavoratori a cui la più bella delle
lodi è la verità.
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Giovanni Flechia, l'ufficio di rendere al dotto tedesco l'estremo onore che dall'Accademia sogliono ricevere
1 socî, ricordando la nobilissima operosità scientifica di lui, sì utilmente feconda.
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al | LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
blichiamo (2). Perciò da parecchi altri intorno al medesimo argomento esso è stato
preceduto, fra i quali dobbiamo qui menzionare in particolar guisa, per la loro non
comune importanza, quelli di Costantino Angermann (3), d’ Ernesto Curtius (4) e d’Er-
nesto Windisch (5). Ne abbiamo tratto buon numero di notizie e parecchie conside-
razioni, delle quali con grato animo ci dichiariamo loro debitori. Ma non v'ha nem-
meno fra gli scritti minori di G. CurtIUs alcuno di cui si discorra in questa Memoria
senza che prima ne abbiamo fatto, quanto ci era possibile, accurato e libero esame.
Ci pare opportuno narrare, in primo luogo, la vita scientifica dell’insigne glot-
tologo e filologo, trattando, giusta l’ordine del tempo, degli studî, degl’insegnamenti, degli
scritti in cui essa in varia guisa si manifesta (6): indi assorgeremo ad alcune consi-
derazioni sintetiche intorno ai caratteri del suo ingegno, della sua operosità intellet-
tuale, dell’azione da lui esercitata sulla scienza e sulla scuola.
I
Nella famiglia in cui nacque, il di 16 aprile 1820 a Lubecca, non era punto
nuovo l’amore dello studio, come non era nuovo il culto d’ogni alto pensiero e d’ogni.
affetto gentile. Il padre, Carlo Giorgio, non era soltanto un uomo di molto valore pra-
tico: egli amava l’arte e l’antichità classica, leggeva poeti latini in certe ore serali coi
figli crescenti e si studiava di volgere a profitto della loro istruzione anche le piccole
feste di famiglia. Com'egli di forza, così fu ai figli modello di gentilezza la madre,
Dorotea Plessing, delicata e colta donna. Fra i tre fratelli di GiorGIo, a lui maggiori
d’età, degni di lui per intelligenza, basti qui ricordare Ernesto, uno degl’investigatori
che non solo per dottrina, ma eziandio per altezza d'ingegno più si segnalarono nello .
studio della civiltà greca. Concorreva a promuovere l'istruzione di GrorGIO e de’ suoi
fratelli anche qualche amico della buona e pregiata famiglia: vi concorreva l’antica città |
libera in cui erano nati, che, per lo stato in cui trovavasi allora, li distraeva dal-
(2) A questa Memoria, di cui le parti essenziali furono , in forma compendiosa, lette ed approvate
nell'adunanza del 27 giugno 1886, non ci fu possibile dare l’ultima mano se non nell’inverno e nella pri-
mavera del corrente 1888.
(3) Georg Curtius, nei Beitrige zur kunde der indogerm. sprachen, X, 1886, pp. 3825-40.
(4) Vorwort alla prima parte delle eine sehriften del fratello Giorgio, pubblicate dal Windisch a
Lipsia nel 1886. In questo nostro scritto le citeremo colle iniziali X. S.
(5) Georg Curtius. Eine charakteristik, Berlin, 1887: estr. dal Biograph. gahrbuch..... (pp. 715-128)
che trovasi nel vol. XLV del Jahresbericht ib. die forischritte der class. alterthumswissenschaft.
Potremmo citare anche lo scritto di Gustavo Meyer nella Neue freie presse del 23 agosto 1885 e
quello di Pietro Merlo nella Rivista di filologia e d'istruzione classica, XIV, 1886, pp. 218-283. —
Fra coloro che prima della morte di G. Curmius ne discorsero in opere di varia natura ricorderemo
qui soltanto Corrado Bursian, Geschichte der klassischen philologie in Deutschland....., Minchen-Leipzig,
1883, pag. 975 e segg. )
(6) Fra i lavori più brevi e di minore importanza non accenneremo se non quelli che più ci sembrano
utili a mettere in rilievo l’individualità scientifica dell’autore. Dopo non poche ricerche ci siamo convinti
che non ci è possibile dare anche degli altri un elenco non incompleto.
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI ò
‘agitazione della vita moderna e li volgeva allo studio del passato (7), studio che ren-
deva loro meno difficile anche coll’opera di qualche maestro di non comune valore.
li per Gioraio nel ginnasio furono Federico Jacob e Giovanni Classen, al quale, nei
ù splendidi giorni della sua fama, egli dedicava con affettuosa reverenza e gratitu-
dine il secondo volume dell’opera intorno al verbo greco (1876): sagaci ed esperti,
‘non tardarono a scoprire nel delicato fanciullo un'attitudine rara e precoce agli studî,
specialmente di lingue, e gli furono larghi di quelle cure di cui egli era sì degno, Poco
po d’avere, a diciotto anni, compiuto gli studî che qui si chiamano secondarî, egli
equentava l'università di Bonn e poi quella di Berlino, nella prima delle quali udiva
Welcker, il Ritschl, A. G&. Schlegel, il Lassen ed Emmanuele Ermanno Fichte, nella
conda il Bockh, il Lachmann, il Bopp e Leopoldo di Ranke. Dai nomi degl'insigni
maestri citati e dai quaderni delle loro lezioni rinvenuti nella biblioteca di lui (8)
hene si scorge com’egli estendesse i proprî studî anche alla storia moderna ed alla filo-
sofia, attendendo per altro in particolar guisa alla filologia classica ed alla glottologia,
che già congiungeva fra loro in quella giovanile preparazione alla sua vita d’investi-
gatore, di scrittore e d’insegnante, come nell’intiero corso di essa ci appariranno unite
sd. unite .già le troviamo nel primo saggio de’ suoi studî, nella dissertazione De nominum
uecorum formatione linguarum cognatarum ratione habita (Berol., 1842), scritta
conseguire il grado di dottore e dedicata a Francesco Bopp, l’immortale fonda-
to
e della morfologia ariana e suo venerato maestro (9).
In questo lavoro egli si vale, con non poca saggezza e non senza lodevole
pendenza di giudizio (virtù non guari comuni nell’età in cui era allora), con
forma esatta, ordinata e chiara, di quanto da glottologi, da indianisti aveva appreso
illustrare una serie di fenomeni dell’ellenismo che non erano stati ancora studiati
modo conveniente. Più che la trattazione dei suoni che « nominum thematis non
utata significatione adduntur » (pp. 5-16), nella quale troviamo, senz’avere il diritto
di meravigliarcene, parecchie asserzioni che il progresso dell’indagine glottologica di-
trò affatto erronee (10), merita attenzione quanto s’insegna « de consonis inter
stirpes et suffixa insertis » (pp. 16-20), ove l’autore adduce esempî di o e di 6 ag-
giunti a certe radici non come ‘ copulativi’ nè per formare nuove radici, ma per accre-
lebens entriickt, auf die iiberlieferungen der versangenheit horchend, haben wir ungestoòrt alles, was uns
| geistiger nahrung in schule und haus dargeboten wurde, um so begieriger ergriffen, um so fester und
efer ‘uns angeeignet > (Ern. Curtius, X. S., I, p. vw).
(8) Windisch, scr. cit., p. 3, nota 2: v. anche il catalogo 487° dell'‘Antiquarium’ del Kohler a
Lipsia, p. 54.
_ (9) Quando il fratello Ernesto, già ritornato da Atene, nella primavera del 1841 rivedeva Grorero,
po parecchi anni di lontananza, e gli diventava compagno di studî a Berlino, ebbe a scorgere in lui an
ane dotto che « schon seine eigene richtung hatte. Von Ritschl in die historische grammatik der ita-
. lischen sprachen, von Lassen in die sanskritgrammatik eingefihrt, war er beschàftigt, das von den indischen
_grammatikern erlernte fiir griechische wortbildung zu verwerthen; eine anwendung, auf die er durch
selbstindiges nachdenken gekommen war » (V. I. S., I, pp. x-x1).
(10) Citiamo ad es. la spiegazione proposta del d di eradtos come suono aggiunto per evitare l'iato
p. 7 e segg.: v. p. 10 e segg. intorno a 7, cui s'attribuisce simile ufficio).
Ei) LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTJUS
scere ciascuna di quelle soltanto in alcuni derivati (11). Degno di nota è anche qualche tf
cenno ch'egli diede intorno alla varia qualità della vocale radicale in forme varie ove i
ci appare la medesima radice (12). Ma più merita osservazione quanto vi troviamo già
insegnato intorno al primitivo valore poco determinato dei suffissi tematici (pp. 23-62
———_
i quali « a personis designandis incepisse videntur. Inde una cum gene
etiam in rerum nomina et abstracta translata sunt ». Nella determinazione dell’us
CUI te momenti est generum differentia » (p. 25). Appena occorre avvartir
come con tali insegnamenti G. CurtIUS precorresse la recente glottologia. sebbene
ordine all’origine dei suffissi indicati egli non si fosse ancora scostato dalla dottrina,
più tardi caduta in discredito, di A. G. Schlegel ed essi pertanto gli paressero uscir
fuori della radice per creativa virtù del linguaggio (p. 24). cd
Chiamato al ginnasio di Vitzthum a Dresda vi stette dal 1842 al 1845, inse
gnando prima nelle classi inferiori e nelle medie, poi anche nella superiore. Più
faticoso, inglorioso lavoro, da cui per altro dovette certamente trarre gran parte è
quella sapienza pedagogica che s’ammira nella Griechische schulgrammatil e dal qu
non si lasciò togliere nè il tempo nè la forza che occorrono allo studio scientifico,
è prova lo scritto De verbi latini futuro ecacto et perfecti coniumetivo (13) con qualche
altro lavoro, soprattutto poi quello ch’egli pubblicava nel 1845 a Berlino col titol
Die sprachvergleichung in ihrem verhiiltniss zur classischen philologie (14). Da que
scritto, quanto breve altrettanto importante per lo studio: dello svolgimento intelli i
tuale dell’autore, appare manifesto com'’egli, a venticinque anni, già avesse chiaro cc
fra loro la filologia dassica, ricca ed altera d’un nobile passato, e la nuova. scie
comparativa e storica delle lingue, per tal guisa che e la prima e la seconda cons
ed una Pi e mostra come quest’ultima, sebbene s’estenda a ben più vasto i
CIRO che non ia do cento) aa per DE De Do d'una parte important
todo (p. 8), siva s’accosti all’ do disciplina testè ina come il filologo ab:
della 5° ediz.).
(12) V. pp. 20-3 e specialmente p. 22, ove s'osserva essere possibile « similem inter a et n, 0 et ®,
v et ev, ‘ et o vel e. rationem atque inter e et o intercedere, eam nimirum ut o s litteram pon
superet ».
(13) Philologis Germaniae congressis Dresdae commentarios vari argumenti tres obtulerunt G
Bezzenberger, A. Schaefer, G. Curtius, Dresdae, 1844. Intorno all'argomento della dissertazione del Cur
v. del medesimo autore î Sprachvergleichende bettroge, I, di cui presto ci occuperemo, p. 339 e sgg.
(14) Programma del ginnasio di Dresda al quale l’autore apparteneva ancora. Ne apparì nel 1848
seconda edizione berlinese, accresciuta di note in fine. Qui citiamo la prima, la sola che possediamo.
(15) V. principalmente quanto si legge a p. 4 intorno alle grammatiche greche ed alle latine che
pubblicavano allora.
sio
e
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 7
molto ad imparare dal glottologo, soprattutto in ciò che attiensi alla fonologia ed- al-
l'etimologia, e questo da quello in quanto spetta alla più particolareggiata, minuta
| trattazione delle due lingue classiche (16). L'autore ammette con un grande maestro
. dalle cui opere molto aveva appreso, Giacomo Grimm, esservi un grave divario di ten-
denze fra l’investigazione comparativa e la filologica delle lingue: non v'ha qui per
altro, egli osserva, un contrasto che non si possa vincere. L'analisi del glottologo non
— îspegne il senso vivo e fine che il filologo deve avere della vita d'una lingua, come
| l'artista studiando anatomia non cessa punto d’ammirare la bellezza del corpo umano.
E come sarebbe possibile un adeguato concetto dell’individualità d’una lingua senza
la comparazione (v. p. 25 e segg.)? Resta solo a trovare il modo veramente utile di
— collegare fra loro le due scienze. Non l’indagine comparativa con tutta la mole del
500 apparato, ma soltanto i più certi risultamenti di essa voglionsi usare nella trat-
— tazione delle singole favelle ed usare per guisa che questa ne venga non sopraccari-
cata d'elementi stranieri, ma perfezionata nella sua intima natura (17). E dopo avere,
con quella saggia moderazione che fu la sua forza, indicati i limiti fra i quali doveva
o uscire proficuo allo studio filologico delle lingue classiche valersi dei frutti della com-
Iran, l’autore esprime la sua profonda fiducia nella vittoria della causa da luì
propugnata VB).
A potere più efficacemente concorrere al trionfo di essa occorrevagli maggior tempo
ed autorità che non potesse dargli il suo ufficio d’insegnante ginnasiale. Perciò, rinun-
| ziandovi dopo tre anni, si recò nel 1846 a Berlino e nell’insigne università ove aveva com-
Ù piuto i suoi studî si fece abilitare all’ insegnamento superiore. Nelle sue lezioni. pubbliche
intorno a poeti greci, nelle sue private di grammatica greca non tardò a dare tal
‘saggio di serietà d’ingegno, di vera dottrina e di non comune attitudine a chiara ed
(16) « Aus der verschwisterung beider wissenschaften kann... beiden nur gewinn entstehen und wird es
auch immer eine sprachvergleichung geben miissen, die von der philologie getrennt, ihre allgemeine aufgabe
SL zu lisen sucht, wird es cine philologische grammatik geben miissen, die auf ihr gebiet zunchst ange-
| wiesen, nur die friichte jener sich zu nutzen zieht, so werden wir doch so viel mit reclit behaupten
konnen, dass die zukunft beider wissenschaften auf ihrer richtigen und lebenskràftigen verbindung beruht »
lp. 22-83).
(ci (17) « Man darf offenbar nicht beide wissenschaften vermischen; die grammatiken der alten sprachen
cdr nicht sammlungen von vergleichenden untersuchungen werden. Es darf nicht das ohnehin schon
| starke material der einzelnen sprachen durch eine masse fremder elemente iberladen werden. Wenn nach
Mic seite hin gefehlt worden ist, so ist das ein zeichen, dass man den stoff noch nicht gehòrig beherrschte.
Die durchdringung des materials muss eine innerliche sein. Es ist mehr werth, das durch die vergleichende
N grammatik erkannte auf die besondere sprache anzuwenden, als fremde wòrter und formen anzubàufen. Die
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frichte jener wissenschaft sollen der grammatik der einzelnen sprachen zu gute kommen; nur das
feststehende verdient bericksichtigung. Die saure arbeit des zusammentragens gehòrt nicht dahin. Noch
| Wichtiger aber ist es, dass die darstellung in einer allgemein verstindlichen weise geschieht » (pp. 45-6).
E qui lo scrittore si dichiara contrario all'uso di termini tratti dalla grammatica sanserita in quelle
d'altre lingue.
(18) « Es wird auf diese weise das jetzt noch vielfach verbreitete vorurtheil der philologen gegen die
| vergleichende grammatik vollig schwinden und die zeit wird kommen, in der es nur eine einzige, auf der
| sprachvergleichung beruhende behandlung der alten sprachen geben wird. Dann wird erst die jetzt so oft
| Verkannte grammatik als wiirdiges glied in das grosse ganze der alterthumswissenschaft eintreten. Dann
| endlich wird auch eine wahrhaft zweckmàAssige anwendung auf den praktischen unterricht mòglich, ja un-
: erlàsslich sein und namentlich wird nur auf diesem wege dem vielfach geàusserten wunsche nach engerer
verbindung der grammatik beider classischen sprachen unter einander und mit der deutschen gentigent
i abgeholfen werden kònnen » (p. 49).
8 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
efficace esposizione che il suo insegnamento ebbe accoglienze assai più liete delle spe-
rate. Continuò i proprî studî, attendendo non solo alla filologia classica ed alla gram-
matica comparativa del greco e del latino, ma anche alla filosofia del linguaggio, nella.
quale gli furono guide le opere di Guglielmo di Humboldt. Valendosi anche di quanto
aveva appreso da quest’insigne pensatore compose e pubblicò nell’anno testè indicato, |
come prima parte d’un lavoro che non venne continuato, il suo libro intorno alla for-
mazione dei tempi e dei modi nelle due lingue classiche (19). Nella prefazione e
sì fa di nuovo, come parecchie volte più tardi, a mettere in rilievo la necessità |
congiungere strettamente lo studio comparativo e storico delle lingue col filologico 20)
ed espone le norme da lui seguite nelle ricerche di cui è frutto il suo libro (21). L
troduzione (pp. 1-16) consta d’una serie di considerazioni intorno all’indagine sti
‘rica ed alla comparativa dello svolgimento delle lingue (22). Premesse molte e non
brevi osservazioni (pp. 17-123) sopra le desinenze personali, sulle vocali dette *
pulative’, sui rinforzi dei temi, sulle varie classi dei verbi greci e dei latini, sui
derivati, con altre che qui passiamo sotto silenzio, l’autore procede a trattare dei te
e dei modi semplici (pp. 124-276) e poi dei tempi e dei modi composti (p. 277-8
infine, rivolgendo lo sguardo alla lunga e non facile via percorsa, nota la grande seni
plicità e regolarità di mezzi con cui gli appariscono formati tempi e modi; re
l’ipotesi che fra tali mezzi sia ad annoverare anche inserzione di pronomi; mette
risalto il divario fra forme costituite da mere aggiunte di suffissi temporali o moda
temi verbali e forme composte con alcune di verbi ausiliari; chiude il suo libro ponen
.i rilievo la iii di duo liae Sruele SioI ci SI il no greco ed Do
tanto venerato, aggiungendo ad esse utili avvertenze intorno alle funzioni di parecch
(19) Sprachvergleîchende beitrioge zur griech. und latein. grammatik, I, Berlin, 1846: Die ©
der tempora und modi im griech. und lateim. sprachvergleichend dargestellt. Il libro è dedicato
grandi maestri, Cristiano Lassen e Federico Ritschl, all’uno dei quali egli doveva il primo Sec ei to
studî glottologici, all’altro in notevole parte la sua severa educazione filologica.
(20) « Ich wiederhole... hier nur meine grundansicht, dass nur durch die engste verbindung de
rischen sprachvergleichung mit der besonderen grammatik der einzelnen sprachen eine griindliche
befriedigende einsicht in den bau derselben zu erreichen ist. Ich war also auch bei der untersuchun
der gegenstand dieses buches ist, bemiht, das allgemeinere studium mit dem besonderen mòglichs
vereinigen » (p. vil).
(21) Merita qui particolare menzione quant'egli, sì giovane ancora e sì fervido ammiratore della
nuova della parola, insegna circa la necessità d’esaminare accuratamente il valore dei risultamenti
ricerche comparative in ordine al greco ed al latino e di separare con diligenza il certo dall’incerto: «
ist auf dem gebiete der vergleichenden grammatik leichter, als irgend eine neue vermuthung aufzustell
nichts schwerer, als zur gewissheit zu gelangen. Diese wissenschaft wird das vorurtheil, das noch imi
gegen sie verbreitet ist, nicht cher besiegen, als bis ihre methode in dieser hinsicht scharfer gewo!
ist » (p. xi). Ed in questo bisogno di rigore scorgiamo in notevole parte un effetto di quella severa e
zione scientifica che da insigni filologi aveva ricevuta. i
(22) Per brevità ci limitiamo a notare le osservazioni che leggonsi a pp. 8-9 intorno alla gr
varietà di suoni e di forme che l’autore attribuisce all’età antichissima delle lingue ariane ed alle differ
in certi casi solo assai più tardi stabilitesi nelle funzioni di quei numerosi elementi.
Wi MEMORIA DI DOMENICO PEZZI ()
NI
| forme tematiche .e con tali pregî accoppiando quello d’un’ordinata, esatta e chiara espo-
| sizione, la quale insieme colla dottrina e colla temperanza nelle opinioni concorse a
rendere il libro di cui discorriamo uno dei più atti a vincere i pregiudizi che fra filo-
logi esistevano ancora. contro la nuova glottologia e ad allontanar questa da impro-
vidi ardimenti. Dei Bertroge zur griech. etymologie pubblicati anch’ essi nel 1846 (23)
si fa qui menzione solo per notare come il giovane autore professasse già allora in
materia di metodo glottologico principî assai più severi che non fossero i boppiani (24).
fi Non solo per questi ed alcuni altri lavori (25) e per l'esito, lieto oltre ad ogni
sua speranza, ch’ebbe il suo insegnamento libero nell’universià di Berlino dovette cer-
Ì tamente serbare grata memoria della sua dimora nella grande città. Col fratello Er-
nesto, a cui, già chiamato ad insegnare nell’insigne ateneo, era stato commesso anche
‘essi presedeva (26), conobbe Alessandro di Humboldt, che ai due dotti giovani fu largo
dA . . . . .
della sua benevolenza. Da questa sì varia e sì nobile vita di pensiero (27) soprag-
(23) Rhesnisches museum fiir philologie..., neue folge, IV, pp. 242-59.
(24) Meritano qui d’essere citate, soprattutto a cagione del dissidio ch'ebbe luogo, come vedremo, fra
r. Curtis negli ultimi anni della sua vita e la così detta scuola neogrammatica, le parole seguenti: « Es
t schon immer an und fiir sich unwahrscheinlich, dass eine form in derselben mundart zwei verschiedene
estalten annimmt. Denn nach festen, nothwendigen gesetzen entwickeln sich die laute; jede form hat also
ur eine bestimmte gestalt , die sie in jeder sprache annimmt, diese kann sich zwar im laufe der zeit
eràndern oder mundartlich zerspalten und sich verzweigen. Wenn das aber innerhalb desselben dialekts
geschieht, so ist eine starke anomalie, es waltet dann willkiihr und laune statt der gesetze. Kinnen nun
‘zwar einzelne erscheinungen der art nicht geleugnet werden — denn es hat auch unstreitig bei der bildung
der sprachen bisweilen ein neckischer geist der laune sein wesen getrieben — so diirfen wir doch derglei-
n hen nur da annehmen, wo uns form und bedeutung eines wortes sicher darauf hinfihren » (pp. 249-50).
(25) Homer. studien (Philologus, III, 1848, pp. 1-21): osservazioni intorno a singole parole in con-
ferma d’opinioni del Lachmann. — Die neueste litteratur der sprachvergleichung, s0 weit die classischen
prachen berihrt (ibid., pp. 727-48).
(26) A Lei, diventata regina di Prussia ed imperatrice di Germania, è stata dedicata, in segno di
grato ricordo, l’edizione già mentovata degli scritti minori di G. Curmus.
i (27) « Wir hatten den wohlthuenden eindruck einer freien, vielseitig angeregten, den edelsten inte-
essen warm zugewendeten geistesrichtung, welche in den hòchsten gesellschaftskreisen herrschte » (Ern.
urtius, X. S., I, p. xt).
SERIE II. Tom. XXXIX. ; 2
10 : LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
riforma nell'istruzione; chiamava nel 1849 all’università di Vienna un insigne allievo di
tre grandi maestri tedeschi di filologia classica, Ermanno Bonitz, all'università di Praga
Giorgio CuriIUs e poco dopo anche Augusto Schleicher. Il giovane privato insegnante
dell’ateneo berlinese già vi aveva dato tali prove del proprio valore che ad egregi no-
mini e particolarmente a Leopoldo di Ranke assai rincresceva vederlo partire: non si
trovò per altro alcun mezzo di ritenerlo e così la grande università perdeva per sempre
l’opera d'un uomo da cui avrebbe tratto non lieve forza ed onore. de
L'insegnamento ch’egli diede di filologia classica nell’università di Praga, prin I
come professore straordinario, poi, dal 1851, con grado d’ordinario, venne iniziato
il di 26 ottobre 1849 con un discorso Uber die bedeutung des studiums der cli %
sîschen literatur (28), in cui coi più validi argomenti, esposti nella forma più c
veniente ad un’adunanza di persone tutte assai colte, non tutte dedite a studî sev
mostrò l’importanza della filologia greca e latina in ordine alla scienza ed all’edu
zione. Descritto con potente brevità lo svolgimento, per varie ragioni sì ammirabil
della letteratura greca (29), dati pochi cenni intorno a quello della romana, il g
ISAIA EST RENATO VAIAAA
scientifico e per mezzo delle lezioni e poi in particolar guisa colle esercitazioni del
minario filologico, il più antico in Austria, del quale il CurtIvs ebbe anche la dir
zione e che diede ad alcuni egregi alunni occasione di farsi più vicini al loro ma
(28) E. S., I, pp. 89-109. ;
(29) « .....eben in den eigenthimlichen bedingungen, unter denen sie entstand, liegt ihre grosse;
diese bedingungen kehren nirgends wieder. Oder wo wire eine literatur, die sich so ganz ungestòrt dw
innere und aussere hindernisse, so vòllig eigenthiimlich und doch so reich und mannigfaltig nach
seiten hin entwickelt hatte? » (pp. 98-9).
(30) Al noto argomento che gli avversarî dell'istruzione classica secondaria sogliono trarre |
affermato bisogno d’un’istruzione più conforme alle esigenze della vita pratica il Curmus oppone con
razioni (p. 107) che anche presentemente, dopo circa quarant'anni, a non pochi sarebbe assai utile m i
tare. Nè più nuovi nè più validi nè meno potentemente confutati sono parecchi altri argomenti speci
che s'adducono contro l’importanza pedagogica degli studî classici, come si può scorgere dall’introduzion
all'Anleitung zum studium der griech. und rom. classilker... del Ficker (Wien, 1821 e 1832 — vers. ita
di Vine. de Castro, Milano, 1844. pp. 6-29) e dagli scritti ivi citati. i
(31) Verso la fine del proprio insegnamento a Praga G. Curtivs ebbe dagli ottanta ai cento udito
fra i quali parecchi insegnanti ginnasiali. ;
(32) Ricordiamo fra essi il Wanicek, che divenne poi ben noto principalmente per la sua grammat
latina (1856 e 1873) e pel suo dizionario etimologico delle lingue classiche (1877).
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI ll
sua consorte (33), grato ritrovo d’uomini insigni, fra i quali non menzioneremo qui
se non Augusto Schleicher (34), a cui G. CurtIUS si fece compagno di studî e si mo-
strò in tristi giorni sincero e coraggioso amico.
È Degli scritti pubblicati dal CurtIvs durante il suo soggiorno a Praga nessuno
merita maggiore attenzione che la Griech. schulgrammatilk, da lui data alla luce nel
1852 coll’intento di promuovere anche nell’insegnamento ginnasiale della lingua greca
- quella riforma a cui concorreva colla dotta e calda parola nell’istruzione superiore,
B. di rendere utili anche alle scuole classiche secondarie i risultamenti dell'indagine
comparativa e storica. Egli non poteva non iscorgere quanto gli errori del metodo gram-
‘maticale seguito nei ginnasî fossero degni di biasimo come affatto contrarî non solo ai
| progressi della scienza della parola, ma eziandio ad ogni sano concetto dell’arte di
educare le menti giovanili (35) e come del tutto inconciliabili colle tendenze intellet-
tuali del nostro secolo. Egli non poteva aver dubbî intorno alla necessità d’accostare,
i quanto fosse possibile, anche l'insegnamento ginnasiale del greco alla scienza (36). È
ad una riforma razionale doveva parergli più preparato lo studio elementare del greco
che non quello del latino, sì per la natura della lingua che per varietà di dialetti e
i per caratteri di primitività spesso mirabilmente conservati rende più necessaria e meno
difficile l’investigazione analitica, sì per gl’intendimenti men pratici con cui s'insegna e
5 impara, sì per la maggiore età ed intelligenza dei discenti già istrutti di latino, sì
infine perchè dotti tedeschi già da lungo tempo avevano incominciato ad introdurre
razionalità nella trattazione della lingua greca più che in quella del latino (37). Alle
precedenti considerazioni s'aggiunga che, a cagione del deplorabile stato in cui tro-
vavasi lo studio del greco nei ginnasî della Boemia, era necessaria una radicale ri-
forma, e non solo la nuova glottologia, ma anche la varietà d’idiomi propria di quella
contrada induceva a valersi dei risultati della comparazione. Se v'era ingegno atto
per natura e per educazione a tentare con buon successo l’indicata trasformazione della
‘ammatica greca nell’istruzione ginnasiale, esso era quello di G. CuRtIUS: un ingegno
a cui si congiungevano mirabilmente fra loro ardire e moderazione, amore del nuovo
rispetto del passato, inclinazione all’indagine e vivo bisogno d’esattezza, di chia-
ezza, d'ordine, fervida ammirazione dei progressi della scienza e non comune atti-
udine a misurarne il vario valore, dottrina glottologica e filologica ed esperienza della
ola. Onde ben si comprende come e nel disegno e nell’esecuzione del lavoro di cui
| (83) Amalia Reichhelm, ch'egli sposò nel 1850: matrimonio che non fu lieto di prole, ma da cui egli
rasse non lievi conforti fra i continui lavori a cui fu intenta la sua vita ed i patimenti di corpo dai quali
travagliato già negli anni della sua dimora a Praga e più nei seguenti.
(54) Intorno alla vita di quest’eminente glottologo v. la nostra Introduzione allo studio della scienza
Log (35) Un’ pain urca di sì fatti errori il lettore troverà nello scritto del Gòbel Uber werth
"oder unwerth der griech. grammatiken alten schlages im vergleich zu der behandlung der griech. for-
menlehre auf grund der histor. sprachforschung (Zettschr. fi das gymmas-wesen, 1864, pp. 440-583).
(86) Circa quest’argomento, che qui possiamo appena toccare di volo, giù manifestammo più volta la
ostra opinione in altri scritti e particolarmente nelle Considerazioni sull'istruzione, soprattutto classica,
in Itala... (Rivista di filologia e d'istruzione classica, I, 1872-3, pp. 310-29).
®w (37) Stier, Uber recht und unrecht der « traditionnellen schulgrammatil » gegeniiber der sprach-
a vergleichenden richtung, besonders fiir das griech. (Zeitschr. fin das gymnas-wesen, 1869, pp. 97-134).
tI
4
(A
12 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
qui dobbiamo discorrere &. CURTIUS sia stato guidato dai più retti principî metodici (38).
A buon diritto egli giudicava, con tutti gli uomini più competenti, compito principa-
lissimo dell'istruzione classica che noi diremmo secondaria l’insegnamento della lette -
ratura latina e della greca, nè mai pensò che ad esso dovesse sostituirsi lo studio scien-
tifico delle due lingue classiche: reputava certo per altro che l’apprendimento di esse,
particolarmente poi della greca, non dovesse consistere in una mera preparazione pra-
tica alla lettura degli scrittori, ma essere tale che ne venisse eccitato e reso più fine
e più forte l'ingegno dei giovani. Ciò non poteva parergli possibile se non a condi-.
zione che l'insegnamento s’accostasse alla scienza, valendosi dei risultamenti delle
investigazioni comparative e delle dialettologiche. Ma di quanto già potevasi appren-
dere dalla nuova glottologia solo una parte gli sembrò adoperabile in una gramma-
tica elementare: ciò ch’era stato, per quanto parevagli, dimostrato in guisa superiore.
ad ogni dubbio, che offriva mezzo d'’innovare con notevole profitto e di cui potevasi
far uso senza ricorrere a lingue ignote ai discenti. Tutto il resto deliberò d’eseludere
dalla sua grammatica e parimente della mirabile varietà dialettale quanto non trovasi.
negli autori che soglionsi leggere nelle scuole secondarie. Ideata e scritta con sì me-|
raviglioso accordo di tendenze intellettuali che di rado si conciliano insieme in tal guisa,
la Griech. schulgrammatili di G. CuRrtIUS riuscì, come ormai basta accennare di volo,
un libro veramente insigne in cui la trattazione della grecità attica, che n'è il prin-.
cipalissimo argomento, è accompagnata da notizie a piè di pagina intorno ai dialetti
di maggiore importanza per lo studio letterario e diretta, giusta i criterî testè accen-
nati, da un pensiero eminentemente scientifico. La nuova glottologia non v'appare in
un ingombro inopportuno di comparazioni, ma vi è spirito che invisibile pervade, go-
verna, avviva la materia. In nessun altro libro di tal genere erano state messe sì feli- ;
cemente in rilievo le lessi della parola greca e le eccezioni ridotte a più stretti Sai ei
miti: in nessun altro le singole parti apparivano più congiunte fra loro, la dottrina
dei suoni con quella delle forme, questa colla sintassi. Merita un cenno speciale la fo-
nologia per la trattazione dei mutamenti dei suoni, della quale ben si fa manifesta f J
l’importanza nella parte morfologica del libro. In questa attrae la nostra attenzione.
l’uso che l’autore seppe fare del concetto di tema; gli elementi, i caratteri comuni a.
forme in apparenza assai diverse fra loro vengono acconciamente notati, per guisa che
spesso nel vario si scorge l’uno; la dottrina della flessione verbale divisa per tempi
potè forse non senza qualche ragione venir giudicata men commoda per lo studio pra-
tico della coniugazione delle varie categorie dei verbi, ma vuolsi annoverare fra le in-
novazioni fornite di maggior valore teoretico, come la divisione dei verbi in classi giusta
la varia relazione fra il tema del presente ed il tema generale. Minore è nella sin-
tassi il profitto che venne tratto dai nuovi studî comparativi e storici, di cui parvero
al Currius non abbastanza certi i risultamenti in ordine alle funzioni delle forme per
potersene valere nella Schulgrammatik ed in ciò procedette forse con soverchia pru-
denza, come fu osservato, ad esempio, d’alcune parti della dottrina dei casi: parve
anche non estesa a sufficienza in parecchi luoghi nelle prime edizioni la descrizione
(38) Egli stesso si fece ad esporli nell’introduzione alle sue ErZiuterungen eu meiner griech. schul
grammatik, libro di cui si dovrà fare menzione più tardi.
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 13
i preoccupazione di sistema filosofico, la considerazione dei rapporti esistenti fra
l’intima natura delle funzioni e quella delle forme (89), l'esatta, concisa e chiara
‘esposizione sono pregi tali che ne trae non comune importanza anche questa parte
della Schulgrammatik. Così l’azione sì potentemente benefica della nuova glottologia
comparativa e storica s’estendeva a tutto il campo della grammatica greca ginnasiale,
in varia misura ed in varia guisa, non varcando mai un limite a cui vi fosse
fi qualche ragione, anche non gravissima, d’arrestarsi e procedendo, con mirabile armonia
qualità che sembrano escludersi a vicenda, ardita e cautissima. In ciò consiste il
attere essenzialissimo del libro di G. CurtIus (40) e la causa del suo trionfo in
stria, in Germania ed in parecchie altre fra le più colte nazioni: trionfo non con-
uito, nemmeno nelle scuole tedesche, se non dopo lotta non breve con tutte le forze
sogliono opporsi ad ogni vero progresso (41). Non poca discordia d’opinioni ci
appare nei giudizî dei dotti tedeschi sì intorno al modo che a G. CuRTIUS parve più
ortuno d’attuare l'innovazione propostasi, sì circa il valore pedagogico di sì fatta
innovazione in genere (42). Ed avrebbe torto chi credesse che la Schulgrammatil:
f
(39) Ne sia esempio la dottrina dei valori sintattici proprî dei singoli temi temporali, ossia la tratta-
one della varia ‘qualità’ del tempo ben distinta dal ‘grado’ di esso: la prima è carattere sostanziale
omune a tutte le forme d'un tema temporale e consiste nel venire un'azione rappresentata come ‘ pro-
ungantesi nel tempo’ o come ‘compiuta’ o come avente luogo in guisa diversa dalle due accennate; il
ndo è ‘differenza fra passato, presente e futuro’ in ordine al momento in cui si parla. V. le Erlàu-
lerumgen, capo Xx.
| (40) Carattere per cui esso si distingue non solo, com'è affatto naturale, dalle grammatiche composte
sta altri principî, ma eziandio da parecchie i cui autori si proposero scopo non diverso da quello del
rofessore di Praga. Citiamo qui ad esempio un libro pubblicato anch'esso nel 1852, a Gottinga, la Grsech.
nenlehre des homer. und attischen dialelites, zum gebrauche bei dem elementar-unterrichte, aber auch
rundlage fiir cine historisch-wissenschaftl. behandlung der griech. grammatil (2* ediz., ibid., 1869):
‘o în cui il tentativo di riforma è, come ben si scorge anche dal titolo, limitato alla parte morfologica
“procede, in modo conforme alla scienza, ma contrario alla dottrina pedagogica generalmente professata,
e forme omeriche alle attiche.
(41) Intorno a quest’argomento, circa il quale non possiamo dar qui se non pochi cenni, il lettore
ti î libri seguenti: Clemm, Uber aufgabe und stellung der class. philologie..., Giessen, 1872,
5-7; Jolly, Schulgrammatik und sprachwissenschaft..., Minchen, 1874, pp. 49-56; Eckstein, Latein.
und griech. unterricht...., Leipzig, 1887, pp. 399-405; Windisch, ser. cit., pp. 39-41.
(42) Sarebbe strano errore il credere che tutti i critici tedeschi abbiano fatto al libro del CurmIvs le
accoglienze oneste e liete ch'esso ebbe dal Bonitz, il quale in una serie d'osservazioni pratiche pubblicate
la Zeitschr. fim die bsterreich. gymnasien (1852, p. 1 e segg., 768 e seggi), poi ristampate altrove (anche
le appendice alle Er/Guterungen e tradotte nelle versioni italiane che di queste ci diedero il Fumi, v.
05-25, e Gius. Miiller, v. pp. xxi-xxx1x) indicava, con grande saggezza pedagogica, l’uso che parevagli
‘conveniente della nuova grammatica nei varî gradi dell’insegnamento ginnasiale del greco. Anche altri
iudicarono egregiamente compiuto dal Curmtius il lavoro a cui erasi accinto con tanta attitudine. Ma non
mancarono sentenze atfatto contrarie, quali furono quella dello Schneider in un programma di Coburgo
dell’anno 1860 (v. Eckstein, libro cit., p. 403) e quella del Kriger, di cui sono anche troppo note le invettive
contro il libro del CurmIvs e contro ti protezione ch'egli affermò concessa alla nuova grammatica (v. Vade-
mecum fiir... G. Herold... u. G. Curtius..., Berlin, 1866; Uber herrn G. Curtius griech. formenlehre,
Berlin, 1867; Uber griéch. schulgrammatiken..., Neu-Ruppin u. Berlin, 1869; Griech. sprachlehre...,
II, 11°, Berlin, 1871, epz/og, pp. 202-14): invettive a cui l’animo nobilissimo del Cortivs non volle opporre
x e îl silenzio. Amara, ma in parte utile al libro di lui fu anche la critica che della nona edizione di esso
fece il La Roche (Zeitschr. fim die vsterreich. gymnasien, 1872, pp. 33-48, 1153-28; v. a pp. 256-67 la
| risposta del Cormus e la Charakteristik cit. del Windisch, p. 40). Lo stesso Feder. Hultsch, in genere
14 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
siasi presto e facilmente potuta diffondere per i ginnasî germanici, incontrandovi tosto
quel favore che generalmente trovò nella poliglotta Austria (43). Ma un libro come
quello di cui discorriamo doveva superare gli ostacoli che gli opponevano il soverchio
ossequio al passato, il timore del nuovo, l’inerzia e l’interesse. E come gli abbia su-
perati ben si scorge dal numero delle edizioni, che, con costante accuratezza rivedute
e migliorate dall’autore e poscia da qualche altro filologo (soprattutto nella parte sin-
tattica), tennero dietro alla prima con non comune rapidità e fra le quali dobbiamo
qui in ispecial guisa notare la decima e le seguenti (44). Nè la vittoria riportata |
assai favorevole alla nuova grammatica, ancora nella sesta edizione di essa notava difetto di svolgimento |
nella parte sintattica, difetto ch'egli riconobbe essere stato corretto nelle edizioni seguenti (Neve dahr= | 4
biicher f. philologie u. pidagogil, LXXXIX, 1864, pp. 433-48; CIX, 1874, pp. 7-18). ‘TORE |
Non minore discrepanza di pareri, anzi più grave dissensione vi fu intorno all'utilità del nuovo metodo —
in genere. Ne difese strenuamente la causa il Gobel, mostrando in uno scritto pubblicato nel 1864 e già
da: noi citato (v. sopra, nota 35) quanto numerosi e gravi fossero i difetti, non solo scientifici ma eziandio
pedagogici, delle grammatiche composte giusta il vecchio sistema. In favore di questo scese in campo lo
Herzog (Das recht der traditionnellen schulgrammatil: gegeniiber den resultaten der vergleich. sprach-
forsch., Stuttgart, 1867), ma senz'un adeguato e chiaro concetto del vantaggio che dai nuovi studî sl
tologici poteva trarre l'insegnamento. Fra gli amici e gli avversarî della ‘riforma tentata dal Curmius Ù 4
stette l'Aken (UD. die krisis in der griech. schulgrammatik, nella Zeitschrift f. das gymnasialavesen, —
1867, pp. 657-883). Per lo contrario si manifestò affatto favorevole al metodo nuovo lo Stier nello scritto
già citato nella nota 37, scritto in cui, rispondendo allo Herzog, dimostrò che il Curtivs innovando come
fece continuò un lavoro di riforma razionale già da non breve tempo iniziato e l’opera sua si distingue da
quella d'altri grammatici soprattutto per molto maggiore costanza nella preaccennata riforma e per l’uso
dei più recenti risultati delle investigazioni glottologiche. V. le osservazioni dell’Alken nel medesimo volume
della Zestschyr. citata nella nota 27, pp. 435-9; la risposta e la conclusione dello Stier, ibid., pp. 4389-44;
la correzione e l'aggiunta a pp. 579-80. Strano parve il giudizio del Reuter (Yin referat ùb. Curtius” schulgram-
matik, Kiel, 1870; circa esso v. Wilhelm, N. gaArbicher f. philol. u. pidag., CII, 1870, pp. 511-2): dopo
essersi mostrato, principalmente per ragioni pedagogiche, poco inclinato ad approvare il libro del CormUS.
ed in genere il nuovo sistema, egli conchiude così: « weit entfernt, die neue grammatik unbedingt aus der
schule wegzuweisen, vindiciere ich ihr vielmehr innerhalb derselben einen der ehrenplàtze, nemlich in der
sphàre der freiheit eines mit geist und liebe erfaszten berufs, an welche keine instruction reicht » (p. 58).
Da tale parere, dato al consiglio scolastico provinciale di Kiel, intorno alla morfologia del Curmius è ben |
diverso quello che tale consiglio riceveva dal Berch intorno alla sintassi della Schulgrammatil, parere in.
massima parte favorevolissimo che si legge nella Zedtschw. f. das gymnasial-wesen, 1870, pp. 401-12.
nuovo metodo, concepito in guisa indipendente dalla forma particolare in cui ci si presenta nel libro del
CurtIUs, ebbe un valente propugnatore nel Lattmann, il quale mostrò come l’azione educativa di sì fatto
metodo s'estenda a maggior numero di facoltà intellettuali che non quella del vecchio sistema d’insegna-
mento: v. il suo programma Die durch die neuere sprachwissenschaft herbeigefuhrte reform des elemen- >
tarunterrichis in den alten sprachen, Clausthal, 1871, e Gottingen; 1873. Il Jolly nell’opuscolo già da | i à
noi menzionato \v. nota 41) non solo difese l’uso del nuovo metodo entro i limiti segnatigli dal Curtius |
(di cui loda grandemente la Schu/igrammatik), ma volle dimostrare la necessità di procedere al di là di tali |
confini anche nell’insegnamento secondario (v. p. 56 e segg.): in ciò noi, come i più fra quanti s' cccu pa
di sì fatto argomento, non ci sentiamo guari disposti a seguirlo.
(43) Non vogliamo ripetere quanto intorno a ciò scrissero il Jolly e l’Eckstein (scritti citati nella”
nota 41): diremo soltanto che dal 1857 in varie adunanze di direttori di scuole tedesche si disputò intorno
all’opportunità di sostituire la nuova grammatica a quelle che si solevano adoperare (fra cui notiamo le
scolastiche di Filippo Buttmann); che i risultamenti delle discussioni si vennero facendo a poco a poco,
non senza viva opposizione, favorevoli alla Schulgrammatik del CurtIvs, proponendosi che fosse permesso
l’uso di essa (come fu fatto, per la prima volta, se non erriamo, in Prussia, nel ginnasio di Colberg diretto
dallo Stier, nel 1862) e che si raccomandasse di trarre profitto dalla scienza glottologica anche per l'inse-
gnamento ginnasiale del greco.
(44) La decima edizione accennata (Praga, 1873) merita particolare attenzione perchè all’opera di G
Curmus s’aggiunse per la prima volta quella d'un valente antico allievo, Bern. Gerth, il quale tenne
conto della dottrina delle funzioni delle forme modali esposta dall’Aken nel notissimo scritto Die grund-
ziige der lehre von tempus und modus im griech... (Rostock, 1861): v., oltre alla seconda delle due
Ds
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 15
dalla Schulgrammatik si limitò alla Germania: varcati i confini di essa in pochi anni
diffuse, tradotta in parecchie lingue od imitata in varia guisa, non solo nella mag-
i or parte dell'Europa, ma anche in America (45). Dotti tedeschi e d'altre nazioni
puri fecero con varia fortuna emulatori del Curtius nella riforma dell’ insegnamento se-
‘condario del greco giusta i risultamenti degli studî comparativi e storici di glottologia
‘ariana (46): la concorrenza giovò a far anche meglio apparire il valore del libro del
professore di Praga. Egli trovò imitatori eziandio fra gli autori di grammatiche latine
r l’insegnamento ginnasiale (47). Ben si può affermare che non v' ha scuola di qualche
lore, nè tedesca nè d'altra nazione, che della Schulgrammatil: non abbia sentito
zione classica, II, p. 329 è segg. Toca alla 15 itato (Lipsia, 188911 v. la Danno critica del
eg nella Zectsehr. fi das gymmnasial-wesen, XXXVII, pp. 81-4): egli deplora che, mentre le forme
iche sono esposte (per quanto è possibile in una grammatica seplaguiza) in BRA atta a mostrarne lo
Hi lliaione ci si presenta un compendio fatto dal Gerth nel 1884. — Già è stata A la 182 (bear-
dei et von Wilh. v. Hartel, Leipzig, 1888, con importanti modificazioni).
. Dallo scritto del Clemm citato nella nota 41, l. c., apprendiamo che nel 1866, quando fu pubblicata
® elizione, erano state stampate in tutto 52000 copie; della 82 si tirarono 10000, della 9? (1870)
000. Apprendiamo inoltre dal Clemm che la Schulgrammatil nel 1866 già era stata introdotta in 97
i pubblici d'istruzione in 92 città e che cinque anni più tardi veniva adoperata anche in altre
imo Lòscher, dal 1868 al 1886); quella del Ionio (Napoli, to di cui vuolsi qui adi anche
olo intitolato L'insegnamento del greco in Italia e la grammatica di G. Curtius (Napoli, 1869);
tta del Donà (Milano, 1865 — Padova, 1876) che il Fumi menziona come tratta in gran parte dalla
rammatik. Se ne pubblicarono versioni per la Norvegia (per cura del Voss, Cristiania, dal 1859 al
15); per l° Ungheria (per opera di Kiss Lajos, Pest, dal 1862 al 1866); per l’ Inghilterra (dallo Smith
dra, 1863), con due edizioni a Nuova York, una delle quali è un compendio e colla Gr. grammar for
chools and colleges dello Hadley (ibid., 1860), che seguì con una certa libertà il Curmivs ed il cui lavoro
l poi in parte rifatto dal de Forest Allen (ibid., 1884); per la Boemia (dal Vanicek, Praga, 1863);
la Polonia (dallo Sternal e dal Samolewiez, Lemberg, 1872; 32 ediz., ibid., 1881); per.la Russia (tre
mi, fra cui menzioneremo qui quella del Kremer, della quale la parte prima fu pubblicata a Mosca
86 per la quinta volta); per la Francia (dal Clairin, Parigi, 1884); per la Spagna (dal Solms y
im, I, Madrid, 1886). La sintassi venne volta con modificazioni in greco moderno dal Miconio
te, 1859) ed ebbe anche una traduzione olandese per opera del Mehler (Gorinchem, 1860); la morfo-
venne imitata in lingua svedese da Hialmar Siive (Stoccolma, 1866). Nel già citato catalogo 437°
‘Antiquarium’ del Kohler vediamo menzionate versioni anche negl’idiomi della Rumenia, della Da-
arca e della Serbia.
46) Ricorderemo qui le grammatiche greche di E. D. Miller e Giulio Lattmann (Gottinga, 1863;
ediz., ibid., 1886-7), del Koch (Lipsia, 1869; 12? ediz., ibid., 1887); del Kaegi (Berlino, 1884); del
Uy Giligi, 1872); del Chassang (ibid., 1872; 10° ediz., ibid., 1885); dell’ Inama (Milano, 1869-70;
scritti gl’insegnamenti, anche quando questi non sono più conformi ai progressi della scienza. I veri
uatori sono quegli altri, più fedeli allo spirito che alla lettera, che, giusta gl’intendimenti dello
igne maestro, si valgono d’ogni nuova conquista della scienza che possa riuscire utile alla causa propu-
ta, anche scostandosi non di rado dalle dottrine dell’uomo di cui con reverenza e gratitudine, ma eziandio
la necessaria indipendenza di pensiero proseguono il lavoro.
47) Ci si permetta di ricordare almeno i lavori del Vanicek (1856 e 1873) e dello Schweizer-Sidler
69). Intorno a questi e ad altri simili tentativi v. Eckstein, libro cit. nella nota 41, pp. 152-4.
16 ; LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
in qualche modo l’azione benefica, come non vi fu fra gli avversarî del metodo nuovo
chi non sia stato costretto ad accorgersi qual colpo abbia dato alla vecchia scuola l’autore
d’un libro in cui tanto coraggio si congiungeva a tanta moderazione.
Di gran lunga più breve potrà essere il nostro discorso intorno agli altri saggi
che il professore di Praga dava della propria attività nell'anno 1852 e nei due se-
guenti. Passando sotto silenzio le poche pagine da lui scritte intorno a Carlo Lachmann (48),
faremo appena menzione di quelle in cui egli trattò brevemente dell’aoristo primo del |
passivo (49) e delle aspirate ariane (50), nè occorrerà più che un cenno delle sue ri- |
cerche intorno alla labiale sorda greca d'origine gutturale (51). In uno scritto di Magi
giore estensione intorno alla questione omerica (52), scritto in cui bene appariscono
quelle virtù intellettuali che resero sì utile l'insegnamento del CurrIvs, egli espose le
più importanti dottrine professate dalla fine del secolo scorso alla metà del nostro
intorno alla formazione dei poemi omerici, notando le somiglianze e le differenze esistenti |
fra esse, accostandosi a quella del Lachmann (53), indicando le cause per cui l’Iliade le J
divenne a grado a grado quale dovette apparire ai Greci dopo Pisistrato e le norme | |
che voglionsi seguire nello studio critico della poesia omerica (54). si]
A uomo sì benemerito dell’insegnamento superiore qual era GiorGIO CuRmIUS
non potevano certamente mancare a Praga nè reyverenza e gratitudine d’allievi, nè stima |
ed affetto di colleghi. Tuttavia il desiderio di trovarsi di nuovo fra gente della ii |
nazione e della sua fede religiosa, di partecipare alla vita tedesca universitaria e ci-
vile, soprattutto poi quello d’accostarsi alla patria ed alla famiglia l’indussero ad ao
wi
Ù
(48) Zeùtschr. f. Gsterreich. gymmasial-wesen, 1852, p. 242 e segg., = X. S., I, pp. 52-6. In es di iI
loda il carattere scientifico e morale dell’insigne tedesco e ne discorre come d’un maestro di critica ale |
gica sul campo delle letterature greca, latina e germanica.
(49) Vermischte etymologien. I. Verbalformen (nella Zeîtschr. f. vergl. sprachforsch., I, 1852, pp. 2b- 6)
Vi vediamo già respinta la spiegazione del -@nv dall’ aoristo secondo attivo di xp: l'origine di quello
elemento è, secondo il Curmus, ‘analogica’ e vuolsi cercare in forme, per lo più solo omeriche, in Bo,
-0oy. È notevole che si trovi già in questo scritto l’equazione éoye0ov: éoyéBnv = dypagov: Eyedonv. Ma.
trae ancora l’-uy dell’aor. 2° passivo «da una radice £= ant. ind. ja ed ancora si ricorre ad altre ipotesi | î
di non maggior valore. o; 4
(50) Die aspiraten der indogerm. sprachen (nella Zeztsch». citata, II, 1858, pp. 321-837). Vi si
discorre della primitività delle medie aspirate e si dividono le lingue indogermaniche in cinque clas:
giusta il vario modo con cui v’appariscono rappresentate le aspirate originarie. Lu JE
(51) Die labiale tenuis als vertreterin einer Cn im gue nella Zestschr. | indicata, II, f
provenuto da un h O in 90 il x da un p, ed addotto 17 esempî di x da %, conchiude così: « Die }
aus % entstandenen p verhalten sich also zu den primitiven wie 17:90. d. i. ungefàhbr wie 1:5, die ino i
n verwandelten % zu den unverwandelten wie 17:104, also ungefihr wie 1:6 > (v. pp. 417-8 e la trat-. di
tazione di quest’argomento nei Grundziige der griech. etymologie, di cui presto avremo a dicon db
Pp. Du 72 della 5° ediz.).
sten, 1854, p. 1 e segg, Lig S., II, ppi 176- 299).
(53 Ossia alla così detta « liedertheorie > (IX. S., II, p. 225).
(54) È degno d’osservazione che qui si mette in rilievo la necessità d’un serio esame dell’ ‘Odissea (op. ;|
cit., p. 229), prenunziandosi quasi così la serie d’indagini intorno ad essa che presto dovevano diventar.)
note ai dotti e nelle quali tanto si segnalò il Kirchhoff (1859-69).
A hen conoscere l’intima natura dell'ingegno del Curtius non sarebbe inutile paragonare la preaccen-.| i
nata trattazione con quelle che del medesimo argomento fecero poscia il Bonitz (Uber den ursprung deri.
homer. gedichte, Wien, 1860 — 5* ediz., 1881) ed altri, fra cui menzioneremo il Jebb (omer=.., Glasgow,
1887, pp. 103-74). |
RD Ia ATEO a TESE
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI sd
gliere con molto favore nel 1854 l’invito che gli venne fatto di recarsi all’ uni-
ersità di Kiel. Anche ivi ebbe cari amici fra i suoi colleghi: ebbe inoltre non rare
‘occasioni di trovarsi di nuovo, come ne’ begli anni vissuti a Berlino, col più caro degli
ba mici suoi e de’ suoi compagni di lavoro, vogliamo dire col fratello Ernesto, e d’avere
di nuovo più comune con lui la vita di pensiero. Nella piccola università assai mi-
‘nore era il numero degli alunni, maggiore il tempo di cui gl’insegnanti potevano di-
porre per i proprî studî. Di essi G. Curmus doveva dare durante la sua dimora a
{iel il saggio più insigne, preceduto da parecchi lavori di molto minore importanza,
\ na non tali che non giovi qui farne cenno. V’appartiene un breve scritto intorno
e relazioni speciali fra il greco ed il latino (55), scritto in cui l’autore, chiarito
concetto di ‘grecoitalico , mostra come i caratteri particolari comuni agl'idiomi
ani della Grecia e dell’Italia e stranieri agli altri del medesimo stipite consistano
ttosto in proprietà fonetiche, tematiche, flessionali, ed in determinazioni di sensi che
i singole parole (56). Ci si presenta fra gli scritti minori pubblicati nei primi tempi
lla dimora a Kiel anche il discorso che, come professore di filologia e d’eloquenza,
CurtIUs dovette pronunziare nel giorno natalizio del re Federico VII (6 ottobre
5) ed in cui, messa in rilievo l’unità che vi è e che deve esservi nella grande
tà degli studî universitarî (57), mostra come la nuova glottologia valga a con-
iungere le scienze fisiche (nel più largo senso della parola) colle storiche (non appar-
endo essa esclusivamente nè alle prime nè alle seconde per l’intima natura del pro-
oggetto (58) ) ed anche colle filosofiche. Nel medesimo anno e nei due seguenti
55) Andeutungen ib. das verhàaliniss der lat. sprache zur griech. (Hamburger philologenver-
sammlung, 1855, =K. S., pp. 1-12).
56) Fra le proprietà fonetiche nota il variarsi dell’a protoariano in 4, e, 0 (che giusta l'odierna glot-
a sono tutti e tre primitivi) e la limitazione dell’accento principale alle tre ultime sillabe anche delle
i della più grande estensione (v. pp. 9-10). Fra i caratteri flessionali mette in rilievo le somiglianze
le due lingue classiche nella declinazione, somiglianze alle quali s’oppongono differenze assai gravi
‘a coniugazione (p. 8 e segg.). Il numero delle parole esclusivamente greche ed italiche è da lui giudi-
auffallend klein « (solo 30 in più di 500 fra temi e vocaboli esaminati). Anche chi scrive queste
me fece ricerche intorno a quest'ultimo argomento nel Wortschatz der griech-ital. spracheinheit del
k (Vergl. worterbuch der indogerm. sprachen?, Gòttingen, 1874, II, pp. 2-288) e non trovò se non
circa fra radici e temi che per qualche carattere (più o men grave) di suono, di derivazione o di
ificato possano addursi come indizî, d’assai vario valore, della pretesa unità grecoitalica. Intorno a
già esprimemmo la, nostra opinione nel libro recentemente pubblicato col titolo La lingua greca
a (Torino-Firenze-Roma, 1888, p. 304), dopo avere rapidamente esposto la storia degli studî circa tale
ento (v. p. 298 e segg. e le opere ivi citate), storia dalla quale s'apprende che già lo Schleicher
Lottner si scostavano dal Curmivs, cui poscia s'univa il Fick, e che, soprattutto dopo lo scritto
imo di Giov. Schmidt intorno alle relazioni speciali fra le lingue ariane (1872) e le nuove investiga-
ioni intorno alle vocali primitive di esse, divenne sempre minore la fede nell'unità grecoitalica. A conservare
‘fede dovette, come bene osserva il Windisch (scr. cit., p. 12), concorrere in G. Curmivs la sua qualità
ltore non solo della glottologia comparativa, ma eziandio della filologia classica.
7) < Nam ut tum cum multo minus ampla ab hominibus eruditis spatia perlustrarentur longe
s fuerit, diversa litterarum genera mente complecti, quam his nostris diebus, quibus singulae artes
i hominis vitam requirunt, manet tamen semperque manebit unum inter omnes quicunque litteris
im navant vinculum. Omnibus enim hoc propositum est, ut aliis rebus neglectis id unum, quid in
e re verum sit, investigent. Haec est ipsa litterarum et unitas et sanctitas, quae diversas vias euntes
git, haec efficit, ut litterarum sedes longe majoris in republica momenti sint, quam quae ad vitae
atem vel commoditatem instituta sunt » (p. 4).
58) Era naturale che il Curmus non solo glottologo, ma anche filologo, il Curmus che aveva studiato
«grande amore filosofia del linguaggio nelle opere di Gugl. di Humboldt, non s’accostasse all'amico
i Serie II Tom. XXXIX. } 3
18 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
il Curtius pubblicava parecchi altri opuscoli (59), fra i quali attraggono la nostra atten-
zione in particolar guisa quello in cui si tratta di parecchie forme verbali latine arcaiche
di carattere aoristico, giusta il CurtIvS, e nella loro struttura e nel loro valore (60), e
l’orazione in cui si ragiona, con non comune altezza di pensiero, dell'ufficio che alle uni-
versità spetta compiere, l’ufficio di destare e d’appagare, quanto più è possibile, l’amore
del vero pel vero (61). Meritano qui menzione anche le osservazioni intorno alla gramma- i
tica lituana dello Schleicher (62), le quali dimostrano come gli studî glottologici di |
G. CurrIUS s’estendessero a più vasto campo che comunemente non si pensi. i
Ma di gran lunga maggiore di tutti i lavori preaccennati, maggiore anche di |
quelli che avremo più tardi a menzionare è l’opera di cui è ora compito nostro di- »
scorrere, come quella in cui più che in altra qualsiasi potentemente si manifesta l’in-
dividualità scientifica di G. CurrIvs ed a cui dovette e dovrà in massima parte lai
sua fama. Appena occorre dire che parliamo dei Grundzige der griech. etymologie, |
pubblicati a Lipsia la prima volta nel 1858 (parte prima) e nel 1862 (parte seconda)
nel 1879 in quinta edizione, di cui s’avrà a fare nuovo cenno ed a cui in particolar —
modo si riferiranno le considerazioni seguenti. Dopo che Aug. Feder. Pott colle sue im-
mortali Etymolog. forschungen..... (1833-6) aveva fondata la fonologia e L'etimie 0
delle lingue ariane in genere, dopo che la grande opera, mirabile nel suo tutto, non
‘esente (chè tale non poteva essere) da notevoli imperfezioni specialmente nelle singole
fi
Schleicher nell’annoverare la scienza della parola umana fra quelle della natura. Delle dispute a cui diede | il
luogo assai più tardi sì fatta questione non è qui opportuno discorrere. È
(59) Soprattutto nelle frequenti occasioni che offre a ciò la vita accademica tedesca. Ad esse dobbiamo
.gli scritti De quibusdam Antigonae sophocleae locis, Kiliae, 1855; De nomine Homeri commentatio
accadem., ibid., 1855 (con un Corollarium, 1856); Quaestiones etymologicae, ibid., 1856; De anomaliae
-cujusdam graecae analogia, ibid., 1857; De aoristi latini religuiis, ibid. , 1857 (ristampato negli |
Studien zur griech. u. lat. grammatik, V, pp. 429 42); Ub. den beruf des nina stan ibid., 1857
(E. S., I, pp. 74-88). Nella Zettschr. f. vergl. sprachforsch., VI, 1857, pp. 80-94, trovansi le Lesefruchte
aus Schleichers litawischer grammatilt ed a pp. 230-8 una lunga critica della Grammatik der griech.
vulgarsprache (Berlin, 1856) del Mullach. ll: ME
(60) Tali sono fagît, attigat, accanto a tango: tali fuam ece., attulat ed anche parens (i rendi) | Ad
accanto a pariens (i tixtovoa). L'autore tenta dimostrare esservi un divario di senso in varî esempî fra le Ji
forme ch'egli giudica aoristiche e quelle del presente: gl'indizî di sì fatta differenza non ci sembrano Lo
‘altro nè molti nè di grande valore, sebbene non privi d’una certa importanza.
(61) Ove le università non siano altro che scuole erudite od istituti di preparazione a certe profe o
l’esperienza prova, afferma il CurmIvs, che l’insegnamento superiore degenera in arida pedanteria « Wahr- at
hafter segen entspringt nur bei freier entfaltung der mannigfaltigsten wissenschaftlichen bestrebungen, —
bei denen die frage nach dem unmittelbaren nutzen, nach der augenblicklichen anwendung eine durchaus
untergeordnete bleiben muss » (X. S., I, pp. 78-9). Indi appare l'importanza della facoltà filosofica « com
mune artium vinculum », facoltà il cui stato è supremo indizio dello spirito scientifico d’ un? università |
(ibid.). Indi appare come glie superiori spetti non solo tener dietro allo svolgimento della scienza
ed anche concorrere ad esso, ma eziandio educare i giovani a questo lavoro (p. 81). Indi appare, infine, ici È
grande valore delle università non solo per la gioventù che le frequenta, ma per l’intiera regione cui |
ciascuna di esse appartiene, valore che consiste, come osserva egregiamente l’autore, nell'azione educatrice
che ogni alto studio scientifico esercita non pure sulla mente, ma anche sul carattere morale di chi vi
attende, inclinandolo al culto d'ogni nobile idea (onde troppo spesso la vita pratica ci allontana), mante-
nendo nello spirito una costante attività, avvezzandolo al rispetto delle altrui opinioni ed a considerare,
più che l'apparenza, la realtà delle cose.
(62) Hsse sì riferiscono ad » eine reihe von incidenzpunkten..., welche zwischen io spracher-
scheinungen und àhnlichen in den beiden classischen sprachen stattfinden (pp. 81-2). Vi si paragona, ad
esempio, il -X%- dell'imperativo lituano col -xa greco dei perfetti e dei tre notissimi aoristi dell’attivo, col
c (E) lat. in ja-c-t0, fa-c-i0 ecc. (p. 94).
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 19
dl parti, era stata seguita da nuove investigazioni, doveva nascere e farsi sempre più vivo
în un glottologo, che, come il CurtIUS, era eziandio un cultore della filologia classica
‘e le due scienze voleva congiunte l'una coll’altra, il desiderio di mostrare, anche ai
. dotti meno favorevoli al metodo comparativo, qual prova potesse fare di sè questo me-
todo sul campo dell’etimologia greca, su quello ove sì deplorevole saggio del proprio
valore avevano dato le vecchie scuole. L'impresa, certamente non facile, già era stata
tentata da Teodoro Benfey nel suo Griech. wurzellexicon (63), ma ben si può dire,
| senza venir meno alla reverenza dovuta alla memoria dell’illustre professore di Got-
nga, che, per non sufficiente severità di metodo, quel lavoro non ebbe nè poteva
‘avere il successo sperato e che al Benfey investigatore d’etimi greci è di gran lunga
superiore il Benfey maestro di glottologia e filologia indiana. L'esito poco felice di tale
tentativo non isgomentò il CurtIts, non lo distolse dal rinnovarlo con criterî assai
‘più rigorosi e corrispondenti ai progressi della fonologia comparativa. E non valsero
‘a distoglierlo dal malagevole lavoro nè la necessità d’una lunga preparazione, nè le
cure dell’insegnamento, nè quelle che richiesero da lui altri scritti di minore impor-
tanza, nè infine i patimenti non lievi di corpo dai quali fu travagliato per guisa che
uno de’ suoi biografi notò ben convenire al libro di cui qui si tratta il nome di « figlio
del dolore ». Dopo quasi dieci anni di lavoro l’opera insigne venne data alla luce. 11
primo dei tre libri di cui essa consta è un’importante introduzione, in cui si descrivono
h fevemente e si giudicano con molta imparzialità e finezza di critica i tentativi etimo-
logici degli antichi e dei moderni e s’espongono le norme che l’autore crede doversi
seguire in sì fatte indagini (64). Principî metodici di supremo valore sono per lui
|uesti: doversi procedere dal lessico d’ognuna delle singole lingue per cercarvi quanto
indubbiamente comune ad essa colle favelle affini, senz’immatura indagine degli ele-
nti più semplici; doversi in tale lavoro comparativo usare sicuri criterî sì per quanto
ncerne i suoni sì in ordine al senso. Delle leggi fonetiche il CuRTIUS mostra qui di
avere un concetto severissimo, ed è cosa che molto importa notare anche per ciò che
intorno a tale argomento dovremo osservare più tardi (65). Assai pregevoli sono le sue
(63) Berlino, 1839-42: pubblicato come prima parte, che non ebbe continuazione, d'una grande gram-
‘matica greca.
(64) Non possiamo qui astenerci dal ricordare la lealtà con cui, nell’ Etnleztung di cui discorriamo
(n° 2), riconobbe i meriti di Fil. Buttmann, che rimase straniero al nuovo metodo comparativo, e di Crist.
Aug. Lobeck, che ad esso si mostrò acremente avverso ancora nel 1853 (v. Pathologiae gr. sermonis
elementa, I, p. vin). Nè ci è permesso passare affatto sotto silenzio le osservazioni critiche del Cugrius
intorno agli effetti d'un uso non sufficientemente razionale fatto in varia guisa dell’antico indiano. Notiamo
oprattutto la confutazione della dottrina pottiana di radici secondarie formate con aggiunta di pre-
mutilati (v. il n° 6 dell'Ein/estung e la nostra Glottologia aria recentissima..., Roma-Torino-Firenze,
7, p. 50, nota 2) e di quella che principalmente il Benfey e Leone Meyer professarono intorno all'identità
tiva di non pochi suffissi tematici forniti di simili funzioni, ma diversi fra loro per più o men gravi
erenze fonetiche (v. l’Enleit. citata, n° 9).
pi (65) « Gerade in dem leben der laute lassen sich am sichersten feste gesetze erkennen, die sich
beinahe mit der consequenz von naturkriften geltend machen. Lautgesetze sind die einzige sichere grundlage
alles verstindigen etymologisirens > (v. il n° 11 della citata Zinleit. e specialmente le pp. 80-1 della 5°
edizione dell'opera di cui discorriamo: avvertasi che nella 12 ediz. (I, p. 68) manca il « beinahe » che
tempera l'ardita affermazione). E qui il lettore non dimentichi che G. CurmIus aveva avuto a Praga
ega ed amico quello Schleicher cui la natura del suo ingegno e la dottrina che professava intorno al
guaggio inclinavano a concepire in modo rigoroso le leggi fonetiche. V. per altro le pp. 427-8 della
nta edizione dei Grundziige...
20 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
considerazioni intorno alla storia dei significati (66): vi si trovano i concetti più fon-
damentali d'una ‘dottrina del senso’ (‘ bedeutungslehre ’, com’egli l’appella, 0, come
ora suol dirsi, ‘ semasiologia ’). Bene egli avverte come il linguaggio, studiato con me-
todo storico, ci apparisca procedere non da poche idee indeterminate ed astratte a
molte determinate e concrete, ma da queste a quelle (67): bene egli mette in rilievo
l’importanza del verbo come mezzo per risalire alla più antica significazione d’una |
radice e quella che vuolsi attribuire alla metafora naturale, popolare, nella trasfor-
mazione dei sensi. All’introduzione storica, critica, metodologica, contenuta nel primo.
a
libro dei Grundziige..... tien dietro nel secondo, di carattere etimologico e lessicale,
l'esposizione d'una lunghissima serie d'esempî dei suoni greci corrispondenti regolar-
SIE
mente ai suoni protoariani (68). In questo libro come nel seguente i singoli gruppi |
di parole greche vengono illustrati per mezzo della comparazione colle più importanti |
fra le lingue affini e d’un breve commento critico e bibliografico: illustrati nei loro ele- |
menti fonetici e nei loro valori ideologici. Il libro terzo, di natura soprattutto Lol
logica, è una diffusa e minuta trattazione dei continuatori greci irregolari (0, come | ]
‘assai meglio nelle singole parti di essa li denomina l’autore, « sporadici ») dei suoni Di 19
ariani primitivi e fondamentali. Di molta importanza per chi si fa ad investigare il È |
carattere scientifico di G. CurtIUS sono le considerazioni generali ch’ egli premette 2
studio delle varie rappresentanze sporadiche. V’appare nella più chiara guisa il con- |
cetto soverchiamente esteso ch'egli aveva degl’ ‘ indebolimenti fonetici’ (69): soverchia- 3
mente esteso, abbiam detto, perchè non lievi nè poche alterazioni di suoni le quali sì
sottraggono alla teorica del CuRrTIUS si possono addurre ed in parte furono addotte. ®
a prova di tale giudizio. Fra le varie serie di fenomeni di cui si discorre con trat-
tazione particolareggiata nel libro terzo meritano speciale menzione i mutamenti Sposi
radici dei suoni esplosivi e quelli dei suoni spiranti. Parecchi indici accrescono pregio
all’opera, della quale ben si può affermare che poche altre sono state composte da uomini
sì atti per natura ed educazione d’ingegno e per potenza di volontà ed in guisa sì acconcia |
a conseguire il loro fine. La materia sì grande e sì varia che occorreva ci appare raccolta in
gran copia con mirabile diligenza e sagacia :'si trae profitto e da antichi e da moderni e degli —
uni e degli altri si fa menzione con cura. Nè forse d’altra opera di cotal genere potrebbe bg
dirsi con maggior ragione che « Spiritus intus alit, totamque infusa per artus Mens
agitat molem et magno se corpore miscet ». È una mente che si vale, con costante. |
(66) V. il n° 12 ed i seguenti dell’EznZeitung. i
(67) Egli si giova, com'è affatto naturale, di quest’importante verità nell’investigazione del risi
valore delle parole corrispondenti ai più alti concetti, ma con molta moderazione e prudenza. « Denn das.
steht fest, es gibt unter den wurzeln der indogerm. sprachen solche, die — ob vom ersten anfang an,
mag dahin gestellt bleiben — aber die jedenfalls schon vor der on recht eigentlich geistige.
thatigkeiten bedeuten » (v. pp. 102-3 della 52 ediz. dei Grundzige...)
(68) Tali esempî sono in numero di 1179, tratti da 671 fra SL e famiglie di parole e soltanto da
sillabe radicali, non compresi quelli che si riferiscono alle vocali. V. le pp. 407-8 della 5° ediz. Nella 1*
abbiamo 1123 in luogo di 1179, 619 in vece di 671.
(69) « Schwiàchung... ist das hauptprincip fiir allen weder durch die berihrung der laute unter
einander, noch durch die zwecke des sprachbaues... bedingten lautwandel » (v. p. 410 della 5° ediz).
« Auch fir die unregelmissige oder sporadische lautvertretung muss uns der grundsatz als richtschnur
dienen, dass nur ein ibergang des stàrkeren lautes in den schwicheren, nicht umgekehrt zu erwarten
ist » (p. 437 dell’ediz. cit.).
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MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 21
studio della continuità scientifica e con riconoscimento d'ogni vero merito, del lavoro
dei predecessori, anche di ben altra scuola, ma non mai senza severo e libero esame,
È non mai rinunziando, ove per qualche cagione le sembri necessario od almeno utile,
i cercare vie nuove. È una mente che procede con fine cautela e circospezione, con
A rigore di metodo che parrà ben degno d’ammirazione ogni volta che si paragoni,
‘come vuole giustizia, non solo con quello che gli tenne dietro e ne trasse vantaggio
superandolo, ma eziandio, anzi soprattutto, con quello che lo precedette (70). È una
mente che, fornita d’attitudini mirabilmente varie, non trascura l’analisi minuta dei
si goli fatti per amore delle idee generali nè queste per quella, non le parti pel tutto
nè il tutto per le parti, ed indaga con pari amore le alterazioni dei suoni e quelle
sensi, intenta sempre alla doppia serie di fenomeni nella quale consiste la doppia
rita del linguaggio, il carattere essenziale di esso e della scienza di cui è oggetto (71).
infine, una mente che mostra il proprio valore, il lungo e profondo studio dello
omento intorno a cui si travaglia ed il grande amore di esso nella razionale sem-
plicità del disegno dell’opera, nella forma esatta, chiara, attraente dell’ esposizione,
pregi per cui ben può affermarsi che i Grumdziige. ....sono fra i libri meglio ideati
eglio scritti che ci offra la scienza germanica ed il più atto a destare ed a man-
ere negli studiosi l’amore delle indagini per cui fu composto. Degni del lavoro
furono i risultamenti di esso. L'etimologia greca venne fondata sulla solida base di
v fonologia il cui metodo ci appare, come già s’ è avvertito, assai più severo che
ma non fosse e così sottratta ad ogn’insano ardimento; bene avviata l'indagine
nasiologica ; unito indissolubilmente lo studio degli elementi radicali della lingua
eca coll’investigazione comparativa di quelli che le altre favelle ariane ci porgono
congiunte con nuovo vincolo la filologia classica e la glottologia (72). Che l’opera
gne sia stata accolta con quel favore di cui era degna, non solo in Germania, ma
presso ogni altra colta nazione, facilmente si scorge e dalle cinque edizioni pubblicate
70) V. quanto fu notato sopra intorno al Benfey ed a L. Meyer e circa il concetto che il Curmius
estò delle leggi fonetiche. Fu costante sua cura distinguere il certo dall’incerto, dando così agli stu-
i occasione e stimolo a nuove ricerche, e si mostrò inclinato piuttosto a tenere prudentemente disgiunti
ad unire fra loro elementi di cui gli paresse dubbia per qualsiasi ragione l’ identità d'origine. Non
te il suo severo concetto delle leggi fonetiche egli reputò aver avuto luogo certe alterazioni di suoni
lierna fonologia, attenendosi a più rigorosi criterì, non può più ammettere nè come certe nè come
bili. Si paragoni, ad esempio, la dottrina dell’ aspirazione sporadica d’ esplosive nei Grundziige...
libro 8°, A), 3, pp. 500-283 della 52 ediz.) con quanto si legge intorno a tale argomento nella Gréech.
rammatik® di Gust. Meyer (Leipzig, 1886, pp. 207-15), soprattutto poi la teorica del mutamento sporadico
lle spiranti esposta dal Curtius (Grundzige..., libro 3°, D), pp. 558-682 dell’ediz. cit.) col capo 6°
pera del Meyer (p. 216 e segg. della 2* ediz.): qui merita speciale menzione il fatto che G. CurtIos
verò nel giudicare lo % delle terminazioni verbali -dto, -{w, provenuto da un jod che, in condizioni
che, sarebbe andato perduto in -%© ecc. (v. Grumdziige?..., p. 627 e segg.; Das verbum der griech.
he..., 11°, 1880, p. 339 e segg.); cfr. Gust. Meyer, op. cit., pp. 217.8.
(71) Il lettore non può avere dimenticato che il Curmus assegnava alla glottologia un posto inter-
dio fra le scienze della natura e quelle dello spirito (v. la nota 58).
(72) L’azione benefica esercitata dai Grundetge... sugli studî fonologici e sugli etimologici non solo
ppare in opere di carattere scientifico (come, ad esempio, nella parte del Compendium... dello Schleicher
a quale si tratta dei suoni greci e nel Griech.-latein. etymolog. worterbuch pubblicato a Lipsia nel
7 dal Vanicek, uno dei più valenti allievi del Curtivs), anche in lavori di glottologi d’altra scuola,
iandio ci si manifesta in libri scolastici composti per rendere più razionale e più agevole l’apprendi-
mento delle parole greche nei ginnasî e nei licei.
P
fi
aÙ
22 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
in venti anni e dai giudizî di critici autorevolissimi e dalle versioni in inglese ed in
russo (73). Principalmente per quest’opera il nome di G. CurtIUs vivrà nella storia
della scienza come quello d’uno fra gl’insigni uomini che, dopo i supremi maestri della
glottologia comparativa e storica, più si resero benemeriti di essa e più concorsero a
procacciarle il favore dei filologi e ad estenderne lo studio ben oltre ai confini deli
Germania.
Poco abbiamo a dire intorno ad altri scritti pubblicati dal CurtIvs durante la 4 I
sua dimora a Kiel. D’alcuno di essi appena occorre far cenno; tale è quello in cui.
si discorre, con affettuosa reverenza, delle lettere di Guglielmo di Humboldt a Feder.
Welcker (74). Nè guari men brevi dobbiamo essere qui per ciò che concerne l’ora-.
(78) Le quattro edizioni che tennero dietro alla prima (negli anni 1866, 1869, 1873, 1879) ci mostrano J
con quanta cura l’autore si valesse d'ogni utile risultamento e delle proprie e delle altrui ricerche per. dA
accrescere valore a’ suoi libri, fra i quali nessuno poteva essergli più caro che quello di cui qui si discorte,
Fra i nuovi etimologi a cui dovette non poco ricorderemo qui Aug. Fick: fra i dotti alla cui opera ricorse È
basti qui menzionare il suo antico allievo, poscia collega ed amico Ern. Windisch. Per cura di esso nella |
4a ediz. (1873) vennero aggiunte comparazioni con voci celtiche: anche maggiori sono ì suoi meriti verso | ti
la 5? ediz., che l’autore pubblicò come « unter mitwirkung von Ernst Windisch wmgearbertete » (v. Lo)
prefazione di essa, p. IX). ;
Fra i critici di cui dobbiamo accennare i giudizî intorno ai Grundzùge... ricorderemo qui in primo
luogo lo Schweizer-Sidler (v. Zettschr. f. vergl. sprachforsch., VIII, 1859, pp. 437-538; XII, 1868, |
pp. 299-313). Il libro del CurmIvs è da lui giudicato frutto « ernsten fleisses, wiederholten nachdenkens
und allseitiger durcharbeitung »: in esso « das gefundene im ganzen klar und mit der einfachheit dar- | i
gestellt wird, wie sie die reife der forschung bekundet ». Il dotto critico mette in rilievo i pregi delli
singole parti dei Grundzige...., pur notando come i principî glottologici del Curtivs non siano forse inti
ramente così solidi come l’autore dell’insigne opera mostrò di reputarli, profondamente convinto, ed oppo-
nendo qua e là qualche osservazione a singoli risultamenti degli studî del Currius. Nuove lodi ebbe questi.
dallo Schweizer-Sidler per la 2° edizione dei Grundzige... (v. la Zeztschr. citata, XV, 1886, pp. 812-7)
— Assai favorevole riuscì al Curmius anche il giudizio d’un glottologo d’altra scuola, Leone Meyer
(Gòotting. gel. anzeigen, 1859, pp. 459-70; 1863, pp. 224-56). Il valente seguace del Benfey non dissimula. î
punto le gravi differenze esistenti fra le opinioni glottologiche da lui professate e quelle del Curmus;. ih
manifesta il suo avviso che non si possa nello studio delle parole procedere con criterì affatto rigorosi e ii
che le rappresentanze sporadiche apparirebbero nei Grundzùge... assai più numerose ove si fosse estesa i
l’indagine all’intiero lessico greco: conchiude per altro affermando ch’essi « unter den werken, die die ver- de
gleichende sprachforschung bis jetzt hervorgebracht hat, unbedingt eine der ersten stellen annehmen ». CLARA
Ugo Weber (Zettschr. f. das gymmasial-wesen, 1859, pp. 613-24, e 1864, pp. 122-31) espose diffusamente, |.
approvando, i concetti fondamentali contenuti nel primo libro dei Grundedge...; sottopose ad esame, il cui
risultato fu in parecchi casi non favorevole al Curmus, singole asserzioni di lui che leggonsi nel terzo
libro; pose termine al suo scritto con grandi lodi. Un'altra più estesa recensione della 2° parte dei Grund |
ziige... fatta dal medesimo autore leggiamo nei Neue gahrbitcher f. philologie und pidagogik, LXXXVII, EC
1863, pp. 585-616. — Lo scritto di Lodov. Lange nella Zeitschr. f. die dsterreich. gymnasien (1860, |
pp. 103-20, e 1863, pp. 203-15) non potè essere da noi consultato. — Fra i critici che assai encomiarono | Ù
i Grundzige... siamo lieti di poter qui annoverare anche lo Steinthal, che nella sua Zeztsehr. f. vblher- Ù li
psychologie u. sprachwiss. (I, 1860, pp. 416-382, e IMI, 1865, pp. 249-56) ne trasse occasione d° esporre |
considerazioni sue intorno ai sensi delle parole ed al compito dell’ etimologia, considerazioni le quali lo.)
inducono ad affermare che l’opera del Curmus ha importanza maggiore di quella che l’autore stesso giusta
le sue opinioni può attribuirle. — Un giudizio non guari favorevole intorno ai Grundetige.., considerati |
in relazione coi risultati degli studî fonologici più recenti, venne dato da E. A. Wharton nell’ Academy î
(n° 739), discorrendo dell’ultima edizione della versione inglese dell’opera insigne, come apprendiamo dalla
Berl. philolog. wochenschr., 1886, col. 1038.
Daremo termine a questa nota menzionando i traduttori inglesi dei Grundezge..., A. S. Wilkins ed ill
E. B. England (la cui versione fa pubblicata a Londra la prima volta negli anni 1875-6 ed in quinta |
edizione nel 1886). L’opera del Curmivs fu tradotta anche in russo con aggiunte dal Lugebil (Pietrob., 1882). sli
{74) Wilhelm von Humboldt (Gotting. gel. anzeigen, 1859, n° 168, =K. S., I, pp. 47-51).
MEMORIA DI DOMENICO ‘PEZZI 28
one letta nell’anniversario della nascita del re Federico VII (6 ottobre 1859) (78).
Vi s'esamina l’idea di ‘regno ’, di ‘potere regale’, per mezzo dell’analisi etimologica,
‘investigando con essa come tale idea siasi formata presso i più insigni popoli ariani (76):
si mostra come delle varie denominazioni date alla dignità regia le une non abbiano,
altre abbiano significato sino da principio tale dignità (77). Maggiore importanza ha
la glottologia lo scritto sulla legge del trisillabismo nell’accentuazione delle due lingue
ssiche (78). In esso l’autore sì propose di dimostrare che la limitazione dell’accento
le tre ultime sillabe delle parole è d'origine grecoitalica e per rimuovere obbiezioni
| lievi ricorse a spiegazioni tratte dallo studio dell’ ‘ analogia ’, di cui mise in ri-
ro con grande efficacia l’azione nella vita del linguaggio (79). Non parendoci qui
ecessario occuparci del discorso Uber die pietéit (80), nel quale si fa la storia del-
nportante concetto indicato, veniamo tosto alla lezione ch'egli fece innanzi ad uditori
gran parte piuttosto colti che dotti, intorno alla storia ed al compito della filo-
ia, il di 22 febbraio 1862 a Kiel (81). Nella forma più adatta all’occasione, accen-
nata la necessità d’indagini molto minute, ma cospiranti a scopi di ben maggiore
ensione (82), si cerca la natura della filologia nella storia di essa. Notevole soprat-
bo è la parte in cui si descrive lo svolgersi del concetto veramente scientifico della
(75) Uber den kinig (K. S., I, pp. 56-73).
(76) Degno d'osservazione è quanto insegna l’autore circa il valore di sì fatto metodo. « Die sprache...
der unmittelbare, nur halbbewusste ausdruck des mit ihr zugleich heranwachsenden sinnens und
\kens der wéòlker... Die sprache ist mithin das zeugniss von einem geisteslebens, das weit iiber alle
orische uiberlieferung, weit iber das erste erwachen der philosophie hinausreicht. Die sprachen verrathen
ch ihre wérter, wie sich die welt, wie sich die erscheinungen des àussern und des inneren lebens in der
chauung der voòlker abspiegelten. » E bene s’aggiunge che « auf verschiedenen wegen gelangten die
elnen volker von verschiedenen vorstellungen und anschauungen aus zu den allen gemeinsamen be-
fen » (pp. 59-60).
(77) Fra le seconde nota l’autore come parecchie contengano il concetto di ‘duce d’esercito’: « mit
ironie », osserva il fratello Ernesto (XK. S., I, p. xvi), « betonte er in seiner rede tiber den kònig,
‘wohl der herzogsname einem landesfiirsten anstehe ».
18) Das dreisilbengesete der griech. u. lat. betonung (Zettschr. f. vergl. sprachforsch., IX, 1860,
21 e sego., =Z. S., II, pp. 115-382). Di tale argomento discorremmo, seguendo principalmente il
ssen, nella nostra Grammatica storico-comparativa della lingua latina (Roma-Torino-Firenze, 1872,
| e segg.) e ne trattò recentemente lo Stolz nella sua Lat. grammatili (Muller Iw., Handbuch der
altertums-wiss., II, 1885, pp. 194-5).
9) « Vor allem durchdringt das ganze sprachleben die macht der analogie. Die sprache hat ein
fir die zusammengehòrigkeit der verwandten formen; eine jede von diesen wirkt auf die andre ein
hgeschichte immer lebendiger, es wirkt dahin, dass die anomalien immer mehr schwinden und im laufe
° zeit eine immer monotonere analogie herrschend wird » (X. S., II, p. 124). Il lettore vedrà meglio
ù tardi quanta sia l’importanza che le parole testè citate hanno nella storia del pensiero del Curmvs.
id che spetta all'uso da lui fatto del principio d'analogia vuolsi qui osservare che non riuscì a ren-
Tagione se non d’una parte dei fenomeni onde si poteva da’ suoi avversarî trarre obbiezioni contro
sua dottrina. V. Stolz, libro cit., 1. c.
ita del re, a cui esprime con molta nobiltà l’ossequio e gli augurî del corpo accademico (X. S., I,
-14).
(81) Ùb. die geschichte u. aufgabe der philologie (E. S., I, pp. 110-381).
(82) « Ist... bei allem wissenschaftlichen streben immer dies doppelte wahrzunehmen, genaue erforschung
einzelnen auf der einen seite und auf der andern das bemiihen, das einzelne zu einem ganzen zu ver-
en, durch den hinblick auf grosse zwecke, auf umfassende in einander greifende aufgaben die einzelne
zu beleben und zu erwéàrmen » (op. cit., p. 111).
24 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
filologia dalle investigazioni omeriche di quel grande maestro che fu Feder. Aug. Wolf
e gli splendidi effetti di esse (83), si mette in rilievo l’unità dello studio filologico
nello scopo e nel metodo ed il divario fra filologia e storia (84).
Colla stampa di questo discorso G. CuRrTtIUS prendeva commiato da Kiel, il cui
clima non gli era favorevole e la piccola università non poteva essere campo abba-
stanza esteso all’attività d’un professore che aveva già dato sì splendide prove d’in-
gegno e di sapere. Chiamato a Lipsia verso la fine dell’anno 1861 come successore
di Greg. Gugl. Nitzsch, sì noto per i suoi studî omerici, morto nell’anno testè indi-
cato (85), G. CurtIUs accettò, dopo qualche mese d'esitazione, la cattedra offertagli,
su cui doveva risplendere della più viva luce il suo ingegno. Diede principio al suo
insegnamento, il dì 30 aprile 1862, con una prelezione intorno alle relazioni fra la
filologia e la scienza del linguaggio (86): discorso assai commendevole per copia di
concetti, per efficacia e dignità di forma, nel quale, ritornando ad un argomento di
cui già aveva diffusamente ragionato nei più bei giorni della sua giovinezza (87),
«mostrò con nuova forza la necessità in cui sono filologi e glottologi di valersi gli uni
dell’opera degli altri e di valersene con cognizione critica dei metodi seguiti, sebbene
non negasse esservi notevole divario fra i compiti della glottologia e della filologia (88).
Scopo proposto alla sua vita scientifica affermò essere l’unire in viva reciprocità d’a-
zione le due scienze ed a sì fatta unione sperare di poter concorrere anche coll’in-
segnamento a cui dava principio (89). Nè le sue speranze furono vane : anzi esse vennero,
(83) Il nuovo studio filologico della civiltà grecolatina e d’altre, anche non ariane, nota il CurmivS
come potesse aver luogo soltanto « ...seitdlem Wolf gezeigt hatte, wie man jedes schriftwerk aus seiner
eigenen zeit und nach seiner eigenen weise zu deuten habe » (pp. 125-6). ;
(84) Bene si conchiude con Massimil. Miller: « das ziel der philologie in ihrem hòchsten sinne ist nur
eins, zu lernen was der mensch ist, indem sie lernt was er gewesen ist » (p. 131). Come nel modo parti-
colare con cui tende a conseguire tal fine la filologia si distingua dalla storia, nel senso in cui dai più
suolsi usare tale parola, è detto a p. 129.
(85) Intorno all'onorevolissimo invito il fratello Ernesto ci dà la seguente notizia: « Kénig Johann
war durch einen akademischen vortrag, welcher ihm durch unsere jetzige kaiserin » (l'imperatrice Augusta,
v. sopra, nota 26) « mitgetheilt war, auf meinen bruder aufmerksam geworden. So wurde minister Fal-
kenstein veranlasst, sich mit der leipziger Facultàt in verbindung zu setzen und der ministerialrath Gilbert;
nach Kiel zu schicken, um mit meinem bruder zu verhandeln » (X. S., I, pp. xvin-x1x).. È un esempio,
che giova ricordare anche presentemente, d'ossequio reso alla scienza non solo con parole, ma con fatti.
(86) Prilologie u. sprachwissenschaft, Leipzig, 1862 (=X. S., I, pp. 132-50). Una versione libera
di questa prelezione venne aggiunta dal Fumi alla sua traduzione delle Erluterungen... del Curmos |
pp. 227-483).
(87) V. sopra, nota 14 ecc.
(88) « Das gebiet des allgemeinen sprachforschers ist die naturseite, das des philologischen, so zu
sagen, die culturseite der sprache. Weil aber eine jede sprache ein gewordenes ganzes bildet, ist die
eine seite von der andern unmòglich ganz zu trennen. Der philologische sprachforscher liuft sefahr die
anfànge und ersten grundlagen der sprache zu verkennen, der allgemeine die spàtere entwicklung und feinere
ausbildung zu unterschàùtzen... (X. S., I, p. 147). Intorno alle relazioni fra le due scienze v. anche i discorsi del
Clemm (U0. aufgabe und stellung der class. philologie, insbesondere ihr verhaltniss zur vergleichenden
sprachwissenschaft, Giessen, 1872), dello Schenkl (Werth der spruchwissenschaft fim die class. philologie, f (
Gràz, 1864), del Kerbaker (La filologia comparata e la filologia classica, Napoli, 1875), soprattutto poi
quello del Brugmann (Sprachwissenschaft u. philologie, nel libro Zum heutigen stand der sprachwis-
senschaft, Strassburg, 1885, pp. 1-41), ove si sottopongono ad esame le opinioni di G. Curmius e d'altri
dotti e la dottrina comparativa delle lingue indogermaniche viene giudicata parte della filologia indo-
germanica, f
(89) « Indem ich von der verbindung der philologie und sprachforschung redete, habe ich... damit das
St Free at 4 ni
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 25
| come più tardi vedremo, assai superate dall’esito felicissimo delle lezioni. Il suo inse-
| gnamento s'estese dapprima a campo assai vasto, ma poscia si venne restringendo :
b le materie nelle quali segnalavasi in particolar guisa erano l’introduzione alla glotto-
logia, la grammatica delle due lingue classiche e la critica omerica. Come la fama
di dotto insigne e di professore abilissimo traesse a lui sempre maggior numero di
udiosi, non solo dalle varie parti della Germania, ma da contrade straniere ed anche
a terre molto lontane, più opportunamente si dirà quando s’avrà a discorrere degli
ri a lui resi dalla reverente gratitudine di non pochi valenti discepoli. Ora l'ordine
della nostra trattazione esige che si faccia menzione di varî scritti da lui pubblicati
nei primi anni della sua dimora a Lipsia.
Ricorderemo innanzi tratto le Bemerkbungen eur griech. dialektologie (90), nelle
li il CurtIUS tentò dimostrare non doversi restringere, come aveva fatto E. L. Ahrens,
il campo dell’eolismo ai dialetti dell’ Asia minore eolica e di Lesbo, della Beozia e
a Tessaglia, ma estendere per guisa da aggiungere ad essi quelli dell'Arcadia e
Cipro, ricostruendo così un eolismo collettivo di maggiore ampiezza, del quale gli
ve essere principale carattere « un’assai più grande mutabilità », ossia « una meno
determinata intonazione della vocale » che negli altri dialetti. Posteriori indagini, fra
cui giova menzionare quelle dello Schrader, dimostrarono essere assai minore di quello
che al Curmius pareva il valore degl’indizî di speciale affinità fra i dialetti accennati:
i, soprattutto per opera dello Hinrichs e del Fiihrer, il nome d’eolico fu limitato
idioma delle colonie greche dell’Asia minore nella parte settentrionale della costa
ccidente ed a quello delle isole vicine, fra cui notissima è Lesbo. Ma, dopo che
pubblicazione d’un importante documento epigrafico nel 1882 fece conoscere assai
neglio che prima non fosse possibile il dialetto della Tessaglia settentrionale, non
sti, in un’ adunanza di filologi a Meissen, nel 1863 opponeva a coloro che per
, loro dottrina circa le primitive funzioni dei casi vennero appellati ‘localisti ’ (92).
è occorrerà, dopo quanto abbiam detto intorno ai principî seguiti dal CukTIUS nel
nporre la Griech. schulgrammatik, discorrere a lungo del libro con cui l’autore
ndere ziel bezeichnet, das ich mir zur wissenschaftlichen aufgabe meines lebens gesetzt habe, die classische
ologie, welche zu lehren und zu fordern mir obliegt, mit der allgemeineren sprachforschung in lebendige
selwirkung zu setzen. Auch in meinem lehramt an der hiesigen universitàt... hoffe ich mir fir diese
ere richtung einen platz zu griinden... (K. S., I, pp. 149-50).
(90) Gotting. nachrichten, 1862, pp. 483-98 (=. S., II, pp. 150-63). Di questo scritto e d'altri di
mile argomento, dovuti ad altri investigatori, già toccammo altrove (La lingua greca antica, pp. 389-938
ll: ivi il lettore troverà i necessarî cenni storici e critici intorno agli studî dei quali fu oggetto la
a unità eolica).
(91) V. intorno all'unità eolica anche le osservazioni del Windisch, Georg Curtius, pp. 12:3.
(92) Ub. die localistische casustheorie mit besonderer riichsicht auf das griech. u. lat. (Zeitschr. f.
terreich. gymmnasien, 1863, p. 803 e segg., =. S., II, pp. 164-75). Di questa materia si discorre
vrmUs anche nel cap. xvi delle Erliuterungen..., di cui tosto ci occuperemo. Intorno ad essa si
nsulti in ispecial guisa la prima parte del libro dello Hiibschmann Zur casuslerre (Minchen, 1875),
lo dello Holzweissig circa la Wahrheit u. inrthum der localist. casustheorie (Leipzig , 1877) eco. (v.
lingua greca antica, pp. 193-5).
Serie II. Tom. XXXIX. 4
26 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
stesso la commentò in modo veramente degno di lui e dell’opera sua (93). A con-
siderazioni generali circa il nuovo metodo nell’insegnamento elementare del greco ten-
gono dietro avvertenze, di varia estensione, sempre dotte e chiare, intorno a tutti quei
paragrafi della Schulgrammatik in ordine ai quali l’autore giudicava necessario od
almeno assai utile rendere manifesti i motivi che l’avevano indotto a scegliere un
metodo di trattazione fra i varî possibili. E la scelta ci appare effetto di sì lungo e
cauto lavoro intellettuale, di tanta riflessione intorno alle esigenze della teorica. ed a
quelle della pratica, che mal si comprende come questo libro non abbia distolto qualche
cieco ammiratore dei vecchi metodi da temerarie censure del nuovo, nè alcuni inesperti.
fautori d’ogni novità dal varcare i limiti innanzi a cui s’arrestava un uomo qual era.
G. Currius. Oltre all’indicato valore pedagogico le Erliuterungen..... hanno quello
che loro proviene da parecchi notevoli tentativi d’illustrazione di varî fenomeni gram-
seen TIT ESSI LOI MSA PRIORE pere
maticali (94): onde si scorge come il buon successo. ottenuto da questo commento
alla Schulgrammatik si debba giudicare per più ragioni ben meritato (95). Assai più
breve, ma di molto maggiore importanza scientifica è la dissertazione data alla luce
dal CurmIUS nell’anno 1864 Ub. die spaltung des A-lautes im griech. u. lat. mit
vergleichung der ibrigen europ. glieder des indogerm. sprachstammes (96). È noto.
rie —
come fra i glottologi regnasse l’opinione che l’@ protoariano, conservatosi inalterato
nell’indoeranico, si scindesse in e, o, @ in singole parti del campo europeo (cui qui
conviene aggiungere l’armeno). L'esame comparativo delle vocali che appariscono nelle
sillabe radicali di 368 parole (97) fece scorgere al CurTIUS una conformità noteyo-
lissima, per numero e valore d'esempî, nella qualità della vocale fra il greco ed il |
latino ed anche, principalmente per quanto concerne l'a e l’e, fra questi due linguaggi,
il tedesco ed il lituslavo (98). Sì fatta conformità non poteva parer tale al valente.
investigatore che fosse permesso attribuirla a mero caso o ad azione di consonanti È
vicine sulle vocali di cui qui si discorre. Egli propose modestamente, come « possi- JE
bile », un’altra spiegazione: in un’età posteriore alla separazione dell’indoeranico dalla
primitiva unità ariana, ma anteriore allo svolgimento delle singole lingue fondamentali
(93) Le Erliuterungen zu meiner griech. schulgrammatili (Prag, 1863), di cui qui si tratta, ebbero.
origine da una serie d’osservazioni pubblicate dal CurtIvs intorno alle singole parti della sua grammatica |
nella Zeitschr. f. die vsterreich. gymnasien, 1853-6, per esporre le ragioni che lo guidarono nella scelta.
e nell'ordinamento della materia, nella spiegazione di certi fatti, nell'uso d’alcuni termini, soprattutto a }
profitto di quegl’insegnanti che non avevano fatto studî glottologici comparativi.
(94) Ciò è notato anche da Leone Meyer nel giudizio che diede di questo libro (Gòtting. gel. anzeigen,
1864, pp. 521-832). RI
(95) Una seconda edizione di esso fu pubblicata nel 1870: una terza nel 1875. Fu tradotto in lingua y
italiana dal Fumi con proemio ed appendici (Napoli, 1868) e da Gius. Miller (Torino, 1868): in inglese. 4
dall’Abbott (1870). ; {
(96) Berichte vb. die verhandlungen der K. stichs. Gesellschaft der wissenschaften eu Leipzig,
philolog.-histor. el., XVI, 1864, p. 9-42 (=X. S., II, pp. 18-49, edizione che qui citeremo). Per ciò che
spetta alla storia degli studî intorno a quest'argomento vedansi le notizie bibliografiche di cui è corredata
la brevissima trattazione da noi fatta: di esso nel libro La Zngua greca antica, pp. 91-5 e 477.
(97) V. i cinque elenchi di esse dati a pp. 38-49 dello scritto di cui discorriamo.
(98) L'autore non credette di poter estendere le sue ricerche al celtico, ma notò com’esso non gli sem:
brasse scostarsi nei proprî suoni vocali dagli altri linguaggi ariani d'Europa.
V. a pp. 18-28 i risultamenti delle comparazioni fatte nei cinque elenchi preaccennati. Notiamo qui,
soltanto che di 368 parole 271 ci presentano comune la qualità della vocale alle due lingue classiche, 97
ci offrono un divario fra esse: le prime stanno alle seconde pressappoco come 3:1.
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 27
ariane d'Europa, ossia in un'età « che vogliamo appellare europea », l'a si sarebbe
tenuato avvicinandosi ad e in una gran parte dei temi, mentre in un’altra, almeno
egualmente grande, s'è mantenuto senza mutamento ; l’offuscarsi poi dell'a in o do-
— wrebb’essere giudicato fenomeno assai meno antico ed avvenuto in singole famiglie di
lingue, ma, nell'Europa meridionale, già in tempi anteriori alla separazione degli Elleni
dagl’'Itali (99). Il valore di questa dissertazione, uno degli scritti in cui 6. CurtIvs
| meglio ci si manifesta come investigatore, apparirà nella sua pienezza a chi consideri
l’azione esercitata da essa sulla formazione della dottrina fickiana dell'unità glottica
iana d'Europa (unità fra i cui caratteri più rilevanti è annoverata la frequente alte-
ione d'un preteso a primitivo in e) e sullo svolgimento della fonologia compara-
tiva, la quale è giunta ad affermare, com'è noto, l’antichità protoariana dell’ e.
Ai lavori dei quali abbiamo testè dato notizia parecchi altri d’assai minor mo-
‘mento potremmo aggiungere condotti a termine dal professore di Lipsia nell’anno a
è pervenuta questa nostra narrazione (100). Ma qui giova soprattutto osservare
com'egli non meno che nell’investigazione scientifica si mostrasse operoso nell’inse-
gnamento. Già nel semestre invernale 1863-4 aveva dato principio ad esercitazioni
g mmaticali per gli allievi meglio preparati. Poco più tardi (1865-6) istituiva una
‘ Società grammaticale’, a cui erano ammessi gli studenti che avevano udito le lezioni
s e di grammatica greca e latina od altre simili. In principio del semestre il pro-
ore proponeva buon numero di temi (101) ed accoglieva con vivo piacere quelli
| venivano opportunamente proposti da allievi: ciascuno di questi sceglieva fra essi
nello che reputava meglio convenirgli. Nelle seguenti adunanze si leggevano i lavori,
disputava intorno ad essi, infine il professore manifestava il proprio parere, con seve-
à temperata da squisita cortesia. Da tali esercitazioni ebbero origine, come si vedrà
meglio fra poco, parecchie utili dissertazioni e ne fu ottimo effetto anche l’accostarsi
non pochi giovani valenti all’insigne maestro, dalla cui particolare benevolenza non
potevano non trarre notevole profitto.
Da
(99) Indizio di prolungata convivenza dei primi coi secondi, già divisi dagli altri Arii e d'Asia e
d'Europa, parve al Curmivs il comune possesso dell'o in 56 esempî. Anche qualche altro segno d’un’unità
eu ropea e d’un'unità grecoitalica viene accennato. V. per l’indicata spiegazione le pp. 24-6. Nelle seguenti
27-36 s'esaminano comparativamente varî elementi formali del nome e del verbo e notansi altre concor-
danze nella qualità delle vocali fra le due lingue classiche. « Auch hier », osserva egregiamente l'autore
.37), « zeigt sich wie iberall in der sprachforschung, dass der sichere boden selbst fiir die individuellsten
finge einer einzelnen sprache erst durch die weiteste umschau im kreise des sprachstammes zu ge-
nen ist. »
(100) Tali sono i seguenti: Ùb. die spuren einer lat. O-conjugation (Symbola philologorum bon-
sium in honorem Frider. Ritschelii collecta, Lips., 1864-7, p. 271 e segg, =X. S., II, pp. 1832-49);
ie sprachliche ausbeute der neu entdeckten delphischen inschriften (Berichte della Società scien-
ica di Lipsia, cl. filolog.-stor., XVI, 1864, pp. 216-37). Nel primo di essi notansi alcune tracce d'una
abichissima coniugazione latina in -o-ere, che cedette il campo alla flessione in -Gre: fra quelli che il
Curmus giudicava avanzi sporadici di quella coniugazione citiamo qui solamente aegratus (cf. ino-ro-g,
to-s) da *aegroere od *aegrore. Nel secondo dei due scritti indicati si mostra qual profitto la fonologia,
morfologia e la lessiologia greca possano trarre dalle epigrafi delfiche, appartenenti al 2° secolo av. e. v.,
e quali ivi si tratta, e come il dialetto di esse offra tutti i caratteri del “dorismo mite settentrionale’
sta la denominazione ahrensiana), ma non in modo costante, e v’apparisca l’azione della xowù e quella
‘eolismo. Di tale dialetto toccammo altrove, colle necessarie notizie bibliografiche (La lingua greca
ica, pp. 364-5).
(101) Non pochi di essi ci sono resi noti dal Windisch (G. Curtis, p. 30).
[i]
0
LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
Ma anche più delle esortazioni, dei consigli, dei giudizî di lui doveva valere ad
eccitarli a buoni studî ed a dirigerli in essi l'esempio ch'egli dava loro di costante
e veramente utile attività scientifica. Troppo lunga riuscirebbe questa nostra esposi-
zione se noi volessimo ricordare, anche soltanto con un cenno, tutte le prove che
della sua operosità intellettuale diede il CurtIvs a Lipsia nell’anno 1866, a cui è giunta
la presente narrazione, e nei seguenti. Siamo pertanto costretti a non trattare se non
degli scritti in cui meglio si manifesta la sua vita di pensiero, non aggiungendo a
tale trattazione se non rapidi cenni intorno ad alcuni fra i lavori di minore impor-
tanza. Perciò, passando quasi sotto silenzio le poche pagine da lui pubblicate per.
illustrare i significati delle parole Xcyoypagos e Urozpitis (102), veniamo ad uno
scritto che dell’individualità scientifica di &. Curmvs ci fa scorgere un aspetto nuovo, |
ossia alla dissertazione, data alla luce nel 1867, Zur chronologie der indogerman.
sprachforsehung (103). Regnava allora nelle scuole di glottologia comparativa, soprat-
tutto per la potente azione esercitata dalla morfologia boppiana, la dottrina dell’o-
rigine della flessione dall’agglutinazione, la quale non si poteva concepire se non come
preceduta dalla struttura che fu detta ‘isolante’. Tale dottrina aveva, per tacere
d’altri, un noto autorevolissimo propugnatore in Augusto Schleicher. Conseguenza
logica di sì fatta teorica era l’ammettere una lenta formazione del linguaggio pro-
toariano, divisa almeno in tre periodi: nè era difficile il giungere, suddividendo, ad |
un numero assai maggiore d'età preistoriche. Unica guida in quest'arditissimo lavoro |
di ricostruzione scientifica poteva essere una fine ed accurata analisi della parola |
ariana, un'analisi che facesse risalire dalle forme più composte agli elementi più sem-
plici onde quelle pressochè tutti reputavano provenute. L'esplorazione del gran campo |
glottico ariano già aveva reso manifesto doversi distinguere in esso più strati, come
ora suol dirsi, d’assai varia antichità (104): parecchie scoperte qua e là erano state |
fatte, parecchie opinioni espresse intorno a singole parti del difficile argomento. Sce- .
glierlo ad oggetto d’una speciale investigazione, estenderla all’intiera materia, anche
limitandosi ai fatti di maggiore importanza, era impresa che doveva avere non minori
degli allettamenti le difficoltà ed i pericoli: essa esigeva pari attitudine all’analisi dei
fatti glottici ed all’ordinamento dei risultati di essa, pari ardire e prudenza. Per la
(102) Ub. 2wei kunstausdriicke der griech. literaturgesch. (Berichte della Società scientifica di A
Lipsia, cl. filolog.-stor., 1866, p. 141-53, =. S., II, pp. 2389-54). UD. die bedeutung des wortes drorerie
(Rhein. mus..., nuova serie, XXIII, p. 255-61, =. S., II, pp. 255-64). Noteremo qui solo i risultati di
sì fatte ricerche. Da esse apprendiamo che « ‘A0jofpegos? nur eine dreifache bedeutung hat “ prosaiker,
redenschreiber, geschichtschreiber® und das es zu keiner zeit des classischen alterthums mit ausschliess:
lichkeit von den àltesten geschichtschreibern gebraucht ist... » (X. S., II, p. 244): « bmoxpirais » poi è, in
genere, « chi spiega, chi risponde » (« ...bei dem dramatischen drexetris ist... nur an die fortsetzung der
auffihrung, an die ablòsung des chors durch'den im aufnehmenden schauspieler zu denken » (libro cit,,
p. 258), onde i sensi di ‘rappresentatore, attore, simulatore? (pp. 263-4).
(103) Adhandlungen der philoloy.-Nist. cl. der K. sîichs. Gesellschaft der wissenschaften, Leipzig,
V, pp. 185-261). Ne fece un accurato compendio il Giussani nella recensione che ne pubblicò e che presto
citeremo. N’esponemmo anche noi i principali concetti nella GZottologia aria recentissima, S 17 (pp. 106
e seggi).
(104) Notevoli indizî di ciò troviamo già nel capolavoro del Bopp e nelle opere dei glottologi che ten-
nero dietro al grande maestro, sì della scuola dello Schleicher e di G. Curmus, sì di quella del Benfey
(del quale giova qui col CurtIvs stesso ricordare lo scritto pubblicato nella Zeitschr. f. vergl. sprachforseh.,
TX, 1860, pp. 81-182).
a MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 29
natura del proprio ingegno, in cui già notammo come mirabilmente s’unissero fra
loro qualità che di rado trovansi congiunte in notevole grado, e per seria prepara-
zione G. Curtis era fra i più atti al malagevole lavoro. Valendosi del metodo sopra
indicato, traendo profitto dalle indagini altrui non meno che dalle proprie, egli giunse
a dividere lo svolgimento del linguaggio protoariano in sette periodi, a ciascuno det
quali attribuì un carattere ben determinato (105). Quanto sia stato vivo l'interesse
che destarono queste ricerche del nostro autore, interesse onde appare la loro oppor-
tunità nelle condizioni in cui trovavasi allora la glottologia comparativa, bene si scorge
dall’esame che parecchi dotti fecero, come suolsi dei lavori più ragguardevoli, della
issertazione di cui discorriamo (106). Ai pregî di essa venne resa la lode dovuta:
ono per altro, com'era affatto naturale in una discussione di tal genere, impugnate
varî critici parecchie dottrine del CurmIus, fra le quali basti qui menzionare quella
della tarda origine della flessione nominale, nè parve a tutti che vi fossero sufficienti
ragioni per dividere la preistoria dell’ario in più di tre periodi (della struttura iso-
lante, dell’ agglutinante e della flessiva). Di questa stessa divisione venne messo in
dubbio ed anche negato il valore da glottologi poco favorevoli od affatto avversi alla
dottrina dell'origine della forma fessionale dall’ agglutinazione e di questa dalla
struttura isolante. La fede nelle varie soluzioni proposte, anzi nella stessa possibilità
d’una soluzione veramente scientifica del problema glottogonico divenne sempre minore,
facendosi sempre più manifesto come i fatti su cui erasi tentato di fondare le varie
teoriche dello svolgimento del linguaggio protoariano potessero essere intesi, spiegati
‘in modi assai diversi da quelli onde avevano tratto origine ed apparenza di valore le
teoriche accennate (107). Noi reputiamo col Windisch che non senza profitto si diano
pensiero di simili questioni uomini che sanno, come G, CurrIvs, nello studio di esse
tenersi lontani da certe fantasticherie in cui sogliono compiacersi ingegni troppo meno
serì. Non solo alcuni fatti appariscono irradiati di nuova luce, ma si rende sempre
i (105) I. Periodo delle radici nella loro forma più semplice, usate come parole. II. Periodo dei “deter-
‘minativi’, elementi che s'aggiunsero alle radici primitive, dando così origine a numerose radici ampliate,
corrisposero sensi meglio determinati. III. Periodo verbale primario: in esso a radici verbali s'unirono
ttamente radici pronominali ; indi provennero le forme verbali più semplici. IV. Periodo dei temi: da
radici derivarono, per mezzo di suffissi, temi nominali in buon numero; alcuni di essi vennero adoperati
come temi verbali (origine di varie forme temporali, modali). V. Periodo delle forme verbali composte
(divise in due classi). VI. Periodo della formazione dei casi, nei quali il Curmus distingue due strati. VII
Periodo avverbiale: origine d’avverbî e di preposizioni da voci irrigidite nelle forme ora d'un caso ora
d'un altro.
1 (106) Citiamo qui le recensioni del Justi (Revue crit. d'hist. et de litterat., anno 2°, sem. 2°,
P . 273-8), dello Schweizer-Sidler (Zeztsehr. f. vergl. sprachforsch., XVII, pp. 292-9), dello Steinthal
(Zettschr. f. volkerpsychologie..., V, pp. 840-58), del Giussani (Rivista orientale, vol. unico, pp. 1160-72,
5-84), del Dintzer (Die urspriingl. casus im griech. u. lat., nella Zeitschr. f. vergl. sprachforsch.,
» pp. 33-58), di M. Miiller (Chips from a german workshop, IV, London, 1875, pp. 117-44): intorno
esse v. la nostra G/ottologia aria recentissima, 1. c., e vi s'aggiungano le osservazioni del Windisch
Curtius, pp. 25-7). Di parecchi altri lavori intorno al problema glottogonico discorremmo nel libro
citato ($$ 14-7) e poscia ne trattò il Delbriick nella sua notissima Etnleitung in das sprachstudium...,
ig, 1880 e 1884 (cap. 5°): v. inoltre Paul, Principien der sprachgeschichte?, Halle 1886, pp. 274-98.
La dissertazione di G. Curtivs venne tradotta in francese dal Bergaigne (La chronologie dans la
formation des langues indo-german., nella Biblivth. de V école des hautes études, I, Paris, 1869,
pp. 37-117). Una seconda edizione tedesca con qualche aggiunta fu pubblicata nel 1873.
(107) Di ciò s'avrà a toccare di nuovo quando si tratterà dell'ultimo libro del CurtIUs.
30 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
più manifesto il valore di certi concetti e di certi metodi e ne traggono nuovi inci-
tamenti ad indagini altri investigatori.
Nell’anno 1867 il professore di Lipsia commemorava in poche, ma belle pagine
un grande maestro, Francesco Bopp (108). L’anno seguente, assai più che per qualche
breve lavoro di non molta importanza (109), è notevole nella vita scientifica del
Curmus per l’iniziata pubblicazione degli Studien zur griech. u. lat. grammatik, colla
quale egli si propose soprattutto di preservare le dissertazioni di laurea dei più valenti
allievi dalla dimenticanza in cui sogliono cadere simili scritti di poca estensione (110).
Dell’ azione esercitata dagli Studien..... sul progresso dell’ investigazione storica e
comparativa delle lingue classiche e delle ricerche di dialettologia greca sarà più oppor-.
tuno fare parola più tardi (111). Passando sotto silenzio parecchi scritti brevissimi (112)
veniamo tosto a quello ove il nostro autore espose le opinioni a cui dopo i lunghi
studî descritti era giunto intorno al vario valore delle leggi fonetiche (113). Egli
aveva indubbiamente soventi volte dovuto chiedere a sè stesso se e come potesse con- î
ciliarsi il suo severo concetto delle accennate leggi (114) colle alterazioni fonetiche |
irregolari (0, meglio, ‘sporadiche ’) delle quali non pochi nè lievi esempî egli aveva rae-
colti, come vedemmo, nel terzo libro dei Grundziige... Parve a lui potersi sciogliere
il problema dividendo i fenomeni fonetici in due grandi classi, alla prima delle quali
assegnava quelli che in una data età d'un linguaggio s’estendono a vasto campo con
(108) Nei Grenzboten, IV, pp. 285-91 (=. S., I, pp. 15-23). Giudicasi dal Curmus sommo merito | il
del Bopp l’avere scelto la forma grammaticale a criterio dell'affinità glottica. Notansi i benefici effetti
dell’opera del Bopp in ordine alla scienza del linguaggio ed a quella dell’antichità. Lodasi la sua rara mo- |
destia ed affabilità. “Me
(109) Menzioniamo qui il discorso intitolato Sprache, sprachen u. vòlker (Bielef., 1868, —X. S, I, |
pp. 151-783), pronunziato a Lipsia il di 21 febbr. dell'anno indicato, per iscopo di beneficenza. Im questo | di
discorso, in cui una certa serietà filosofica s' unisce mirabilmente a chiarezza ed eleganza, il Curmivs ;
esponeva, in forma accessibile all'intelligenza d’ogni persona colta, i principalissimi fra i risultamenti degli | |
studî glottologici comparativi, considerati anche nelle loro relazioni colle scienze della natura e colla storia, |
particolarmente poi coll’etnografia. A
(110) Nella prefazione del Cortivs al 1° volume degli .Studzen... (maggio, 1868) leggiamo: « Seit h sd
zwei jahren fordert auch die leipziger philosophische Facultàt von den doctoranden die drucklegung ihre |
dissertationen » (che molto deploriamo non sia prescritta presentemente anche in Italia). « So entstand
eine anzahl von arbeiten, die ich vor dem schicksal bewahrt zu sehen wiinschte, das kleineren schriften
droht, entweder ganz ibersehn oder doch bald véllig vergessen zu werden. » A tali lavori promette d’ag-
giungere altri di simile natura, fra i quali alcuni brevissimi scritti suoi , richiesti dal benemerito editore
di Lipsia ed amico suo dott. S. Hirzel, a cui molto dobbiamo essere grati per la pubblicazione degli
Studien... Fra i parecchi saggi delle proprie ricerche dal nostro autore dati alla luce nei dieci volumi |.
dell'opera di cui si parla, dal 1868 al 1878, ben pochi saranno quelli di cui avremo occasione di far cenno
in questa nostra narrazione.
(111) Qui ricorderemo soltanto come ad osservazioni non del tutto favorevoli intorno alle due prime.
parti del primo volume (Neue Jahrbucher f. philologie u. pidagogik , XCIX, 1869, pp. 289-304) il
Curtius opponesse (ibid., pp. 659-62) considerazioni intorno a singoli lavori ed in genere al metodo seguito
da’ suoi allievi, mostrando di nuovo la necessità di congiungere lo studio filologico col glottologico.
(112) Non menzioneremo se non i tre seguenti: UD. seta u. delta als vertreter eines urspringl.
iod im griech. (Studien..., II, 1869, pp. 180-90; v. Grundzige der griech. etymol.>, p. 627 e seggi);
Die neue lokrische inschrift (ibid., II, p. 441 e segg.); Zur geschichte der griech. zusammengezogenen
verbalformen (ibid., III, 1870, pp. 377-401). |
(113) Ud. die tragweite der lautgesetze, insbesondere im griech. u. lat. (nei Berichte della Società
scientifica di Lipsia, cl. filolog.-stor., XXII, 1870, pp. 1-39, = X. S., II, pp. 50-94; noi citeremo questa
ultima edizione).
(114) V. sopra, note 24 e 65.
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 31
un potere simile a quello delle forze della natura e costituiscono caratteri impor-
tanti (115), alla seconda quegli altri che si presentano non già come necessarî, ma
| solamente come possibili. Chi ammette eccezioni in ordine ai primi, senz’ addurre par-
. ticolari motivi, s’allontana dal metodo scientifico. Ciò non puossi per altro affermare
er quanto concerne i secondi: qui vuolsi porre mente non solo alla varia frequenza,
lla direzione, all’età dei singoli mutamenti fonetici, ma anche alla sede di ciascuno
di essi, ossia alle classi di parole, alle classi di sillabe in cui li vediamo avvenire.
lella lotta che ha luogo fra la tendenza alla più commoda pronunzia, all’ indeboli-
dalla chiarezza, la prima di esse deve prevalere nelle parole, nelle sillabe non molto
importanti pel significato, la seconda nelle altre, in guisa indipendente, come appena
naggiore nei suffissi dei casi ed in quelli delle persone che negli altri elementi di
; maggiore nelle altre classi di parole che nelle particelle e nei
dottrina, ma, come fu poscia dimostrato, dei fatti fonetici su cui essa si fonda pa-
recchi possono essere spiegati in guisa ben diversa da quella che piacque al CurtIvs,
nessuno sembra potersi giudicare prova certissima di tale dottrina. Ed è naturale che
ion le abbiano fatto liete accoglienze quanti professano con rigore di logica l'opinione
he le alterazioni fonetiche abbiano luogo affatto inconsciamente (118).
i Vedremo più tardi come la questione della costanza delle leggi fonetiche sia stata
una delle cause principalissime del dissidio, di cui s’avrà a discorrere, fra l’insigne
aestro e la più recente scuola glottologica. Qui vogliamo avvertire come lo studio
comparativo e storico delle lingue ariane e specialmente delle due classiche non lo di-
iesse da ricerche filologiche: ne sono prove e parecchi fra gli scritti sopra men-
vati e le Amnotationes criticae pubblicate a Lipsia nel 1871 (119). Ben si com-
(115) « Die durchgreifende lautbewesung erfasst in bestimmten perioden grosse gebiete der laute mit
er art von naturgewalt. Dahin gehòren jene lautverschiebungen, welche den einzelnen sprachfamilien,
achen und sprachperioden ihr unterscheidendes gepràge geben... » (p. 53).
| (116) V. le considerazioni esposte a pp. 55-6. « In bezug auf die sporadische lautiiberginge kommen
on solchen erwicungen aus, wie ich glaube, weiter, als mit der doch immer nur bis zu einem ge-
n grade richtigen vergleichung der lautgesetze mit den naturgesetzen » (p. 56). Si paragonino queste
e con quelle che vennero da noi citate nella nota 65.
(117) « Die mòglichkeit durchaus singularer lautverànderungen wird, sobald diese dem allgemeinen
der lautschwàchung entsprechen, nicht absolut geleugnet werden kònnen » (p. 92).
M 118) V. Delbrick, Einlestung®..., pp. 106-7; Curtius G., Zur kritik der neuesten sprachforschung,
Leipzig, 1885, pp. 70-2; Brugmann, Zum heutigen stand der sprachwissenschaft, Strassburg, 1885,
(119) Sono argomenti di quest’opuscolo il frammento xvm d'Alceo (Bergk®); il verso 15 dell’Ifigenia
in Tauride; Tucid., I, 33. i
32 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
prende com'’egli dovesse parlare con fervida ammirazione e con gratitudine di Giacomo
Grimm, di cui mal potrebbe dirsi, come rettamente notava il nostro autore (120), se
sia stato più benemerito della scienza del linguaggio o della filologia tedesca. Fra i
supremi maestri della glottologia comparativa e storica G. Grimm era stato quello a
cui per l’intima natura del suo ingegno G. CurmIUSs s'era dovuto sentire più attratto. In
un discorso pronunziato il di 10 febbraio 1871 a Lipsia, per iscopo di beneficenza (121),
egli esponeva, con grande chiarezza ed eleganza non disgiunte da serietà di pensiero,
la vita intellettuale del grande autore della Deutsche grammatil, da pochi anni sceso
nella tomba: ricercava nella storia intellettuale della Germania i fatti che avevano
esercitato notevole azione sullo svolgimento dell’attività scientifica di lui e ne giudicava.
merito principale l’avere investigato e descritto, con grande amore di patria, le opere
dell’ancora inconscia vita dello spirito tedesco e soprattutto la lingua (122); metteva.
in rilievo i pregî non comuni di G. Grimm come scrittore (123). ;
Gli onori di cui G. CurtIUs aveva dato largo tributo a grandi maestri della glot- |
tologia e della filologia classica vennero resi a lui non solo da allievi reverenti e grati,
ma eziandio da colleghi che avevano in gran pregio le sue qualità intellettuali e mo- |
rali. Noi siamo giunti ai più splendidi giorni della vita di lui, della vita dello scienziato
come di quella del professore. Alle opere per cùi già aveva conseguito tanta e sì me-
ritata rinomanza erasi aggiunto nel 1873 il primo volume d’una fra le maggiori che |
di lui ci rimangano, di quella in cui si descrive la struttura del verbo greco e della ®
quale discorreremo assai presto. L'autorità ottenuta per mezzo de’ suoi scritti, la fama A i
a cui era giunto d’insegnante valentissimo, in pari grado per sapere e per non comune |
attitudine all’esporre in forma esatta, chiara, elegante i proprî concetti ed al dirigere | J
gli studî altrui, erano tali che non solo da ogni parte della Germania, ma anche dalle ; i
più lontane regioni straniere accorrevano a lui studiosi in numero sempre maggiore |.
ed a lui si stringevano con ammirazione, fiducia ed affetto sempre crescenti (124). gi |
(120) Phelologie u. sprachwissenschaft, in K. S., I, pp. 148-49.
(121) Jacob Grimm (K. S., I, pp. 24-46). i
(122) « Festzustellen, was friher war, und daraus zu erkennen, wie das, was ist, geworden ist, war.
sein ziel » (p. 37). « Ihm verdanken wir die bestimmte einsicht in die art, wie sprachen értlich und O
zeitlich sich gliedern. Was mundarten oder dialekte sind, hatte vor ihm niemand klar erkannt » (p. 38):
Mirabili sono le sue scoperte fonologiche (pp. 40-2): quasi più mirabile l'attitudine di lui a rintracciare ,
la poesia latente nella lingna ed a mostrarne le relazioni col mito (p. 42 e seggi). 4
(123) Altri lavori assai brevi del Currius che trovansi nei volumi IV (1871) e V (1872) degli.
Studien... potremmo qui ricordare. Fra essi non menzioneremo se non gli scritti seguenti: Zur erk/&rung |
der personalendungen (IV, p. 209 e segg., in cui adduce argomenti in favore della morfologia boppiana che
giudica anteriori le desinenze denominate primarie, -mé, -st, -t? ecc., alle così dette secondarie, -n2, -5, -f ece.; —
Homerisches (brief an herrn prof. dr. Hartel in Wien, ibid., pp. 471-91, contenente osservazioni critiche |.
fatte in forma molto cortese all’insigne autore degli Homer. DI ; Fortwuchernde analogie (ibid., V, |
p. 239 e segg.; ne dà ad esempî le forme latine velamini, vehemini, fatte ad immagine di velimini, vero |
participio corrispondente ai greci in -pevo-, -peva-). Degli scritti di breve estensione pubblicati nel 1873 uno |
solo ricorderemo qui, quello che s'intitola Néoros e che apparì primamente nella Rivista di filologia e d'istru- |
zione classica (II, 1873-4, pp. 1-12), poscia, in ben altra forma e con aggiunte, nei Lexpsiger studien.... di cui (|
avremo presto a far cenno (I, 1878, pp. 141-56), a vantaggio della Germania, ove, scriveva il CurmIos, la (|
Rivista... « nicht sehr verbreitet ist ». Nooros è, giusta il nostro autore, parola provenuta da radice signi-
ficante « kommen » (cfr. voi): da tale senso si svolse, con altri, quello di ‘ritornare.
(124) Gli allievi di grammatica greca, ch’erano tre quand’egli era libero insegnante a Berlino, 49 a |
Lipsia nel semestre invernale 1862-3, giungevano ivi in quello degli anni 1874-5 al numero di 273. V.
Windisch, G. Curtius, pp. 30-1.
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 35
Nell’insigne università che tanto gli doveva (125) e che tanto egli amava (126) venne
| celebrato, il dì 26 ottobre 1874, venticinque anni dopo la prima lezione da lui fatta
ell’università di Praga, il suo giubileo cattedratico (127). In quel giorno, uno dei
più memorabili della sua vita, a buon diritto egli avrebbe potuto far suo il verso
ovidiano « Utque ego maiores, sic me coluere minores »: ai minori s’ aggiungevano
ogregi colleghi nell’ insegnamento, egregi compagni di studio. Due deputazioni, l'una
lel Seminario filologico, l'altra della Società grammaticale, gli offrirono volumi pub-
blicati in onore di lui (128): un’altra rappresentava i fondatori della ‘Curtius-sti-
di) pine” istituita per mezzo d’oblazioni d’ammiratori e tedeschi e stranieri collo scopo
di promuovere l'investigazione della lingua greca e di quelle dell’Italia antica col me-
Lio comparativo (129). L’illustre uomo ebbe la gioia, e n’era ben degno, di vedere
pera sua rimunerata con sì splendido successo che forse non verano giunte mai
mmemmeno le più ardite speranze della sua giovinezza e certamente non senza profonda
commozione rendeva grazie affermando aver trovato a Lipsia il miglior campo alla
‘propria attività.
| Insigne prova di essa sono i due volumi intorno alla struttura del verbo greco,
quali il primo egli dava alla luce, come già abbiamo detto, nel 1873, il secondo nel
6 (130). Della massima parte di questa molto importante trattazione è argomento
formazione dei singoli tempi considerati nei varî modi ed anche nei nomi verbali,
rticolarmente poi quella sì varia del presente: non mancano per altro in principio
primo volume nè considerazioni generali intorno all’origine delle forme verbali greche,
una particolareggiata esposizione delle desinenze personali, nè accurate notizie circa
ento; il secondo volume poi ci presenta in fine quanto più giova sapere d’alcune
(125) Vuolsi qui ricordare, almeno con un cenno, che all'incremento degli studî classici col Curmus
soncorse, dal 1865 al 1876, quel grande maestro che si chiamò Feder. Ritschl.
(126) Apprendiamo dall'Angermann (G. Curtius, p. 338) che, proposto ad unanimità dai colleghi di
anc. Bopp come successore al primo dei glottologi nell'università di Berlino, G. Curmius non accettò
Vito onorevolissimo per rimanere in quella di Lipsia. i
(127) Intorno ad esso v. Hultsch, Bericht vb. das funfundzwanzigjihrige jubilium des prof.
In. G. Curtius in Leipzig (Neue jahrbiicher f. philologie..., CKII, 1875, pp. 257-69). Vi si trovano cenni
ntorno agli argomenti degli scritti che vennero in tale occasione presentati al Curmivs. V. anche Win-
h, scritto cit., pp. 38-4, e la Rivista di filologia..., III, 1874-5, pp. 1-vui.
(128) Commentationes phalologae. Scripserunt Seminarii philolog. regii Uipsiensis qui sunt ei qui
per fuerunt sodales, Lipsiae, 1874. — Sprachwissenschaftliche abhandlungen hervorgegangen aus G.
us’ grammat. Gesellschaft zu Leipzig, Leipzig, 1874: fra gli autori di esse notiamo Carlo Brugmann.
con altri scritti venne festeggiato quel giorno: uno di essi era la prima parte d'un lavoro d'Er-
imo Osthoff. Verano pertanto fra coloro che all’insisne professore porgevano congratulazioni ed augurî
he ivalenti giovani che poscia, fattisi iniziatori d'una nuova scuola glottologica, egli credette di dovere,
le avversario, combattere sul campo della scienza.
129) Di tale istituzione, che ci richiama alla memoria la ‘Bopp-stiftung’ con cni nel 1866 erasi
nore all’immortale autore della Verg!. grammatiX. ., in particolar modo fu benemerito come valente
Motore quel Gugl. Clemm che fu tra i migliori seguaci ed amici del Curmivs e di cui, sì presto rapito
scienza, l’insigne maestro conservò sempre cara memoria. La ‘Curtius-stiftung’ possedeva allora,
la notizia che ne dava lo Hultsch (scritto cit.), 2430 talleri: nello scorso 1887 essa aveva, giusta
o apprendiamo dal Windisch, un capitale di circa 9000 marchi. Già 3224 marchi d'interessi in 18
nni erano stati spesi in favore di giovani autori di pregiati lavori.
(130) Das verbum der griech. sprache seinem baue nach dargestellt, Leipzig. Intorno alla ragione di
St'opera, alle relazioni di essa col lavoro siovanile pubblicato nel 1846 (Die bildung der tempora u.
odi im griech. u. lat..., v. sopra, nota 19) si consulti la prefazione al 1° volume.
Serie II. Tom. XXXIX. i 5
34 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
classi di verbi greci e delle anomalie della coniugazione in genere (131). Con questo . |
libro G. CurrIUs mostrava agli studiosi con quanta varietà di mezzi egli a buon di-
ritto giudicasse doversi rifare le singole parti della glottologia greca, valendosi, in modo
conforme al disegno dell’opera sua ed alla sua fede scientifica, dei documenti letterarî
propriamente detti e degli epigrafici, delle notizie fornite da grammatici e da lessico-
grafi greci, dei risultamenti delle ricerche glottologiche comparative e storiche, traendo
profitto dalle investigazioni, anche di non grande momento, fatte intorno alle varie |
specie indicate di fonti, aggiungendovi indagini nuove e sue e di qualche suo ‘antico
allievo (132). Scopo principalissimo di questo lungo e non facile lavoro fu lo studio Ù i
dello svolgimento delle :forme verbali greche: esso per altro venne fatto in tal guisa Î
da riuscire utile non solo per la storia, ma eziandio, come ora si direbbe, per la sta-
tistica di tali forme. Non vuolsi con tutto ciò negare che in quella l’autore siasi mo-
strato assai più inclinato che non avremmo voluto a tenersi lontano da certe nuoye |
dottrine (133) ed in questa non sempre le notizie da lui date furono tali da non lasciar
desiderare uno studio più originale e più filologicamente esatto di parecchie forme. Per. I
«quanto attiensi all’arte dell’esporre, arte che già abbiamo veduto quale e quanta fosse È
in G. CurrIus, non potremmo se non ripetere quanto già altrove s'è notato intorno : j
ai pregî che e nella disposizione e nell’elocuzione ci presentano le opere sue precedenti.
Non tutti i giudizî dati di questo libro gli furono così favorevoli come quelli di Grust.
Meyer (134): è noto quanto severo sia stato l'esame fattone da Aug. Nauck ed in È
qual forma il valente filologo ne abbia espressi i risultati (135). Ma ciò non tolse È |
(131) Minute indicazioni delle materie trattate in questi due volumi, giusta l’ordine seguito dall’autore,
trovansi nella recensione che ne diede l’Oliva (vista di filologia..., III, 1874-5, pp. 107-44; VI, 1387 78,
pp. 233-56).
(132) Nella già citata prefazione (p. iv) egli menziona con particolare gratitudine il fe. del
Lobeck (1846), i Greek verbs... del Weitch (1871), la 2* edizione dell’ Ausfiihr!. grammatik der griech,
spr. del Kihner (1869-72). Per la grecità omerica egli si giovò non solo del noto Index... del Seber
(1604), ma anche d'una collezione di tutte le forme verbali che, giusta suo consiglio, era stata fatta
uno de’ suoi passati uditori. Per quanto spetta ad Erodiano potè ricorrere alla grande opera del Lentz |
(1867-70): scorrendo egli stesso l'intiero lessico esichiano ne trasse parecchie forme degne di nota. i i
(133) Citiamo ad esempio le pp. 42 e 43 del 1° volume nelle quali egli tenta poco felicemente,
-coll’ipotesi d'un dileguo di y finale dopo ©, di confutare lo Scherer che aveva negato la provenienza delli
forme in -w della 12 pers. singol. dell’attivo da forme in -opi (Zur geschichte der deutschen sprache, Berlin
1868, p. 173 e segg... Della storia di sì fatta questione toccammo altrove (La lingua greca antica...
249). 3 4
1 (134) In uno di essi (Philolog. anzeiger, V, 1873, pp. 641-5) egli affermava che « das buch des me I)
sters... legt auf jeder seite von neuem zeugniss ab von all den glinzenden eigenschaften, die wir alle | i
lingst an G. Cormvs kennen ». & È Di
(155) Bemerkungen zu G. Curtius < Das verbum der griech. spr... .. (Bulletin de lAca- | pi
démie imper. des sciences de St. —Pétersbourg, XX, 1875, coll. 481 520). tigli riconosce per uomo di meritati
meno tratto dall'opera del dilicculo. inglese tutto il profitto che se ne poteva ricavare. Egli dubita per: 5
tanto se il libro del Curmus « denjenigen, welche sich mit der griech. sprache speciell beschàftigen, |
wesentliche dienste zu leisten vermag » e pensa di poter affermare che l’autore « als sprachvergleicher |
fiir sprachvergleicher schreibt » (coll. 483-4). Seguono numerose osservazioni minute e dotte intorno a fatti |
della coniugazione greca circa i quali il Nauck propone correzioni al 1° vol. dell’opera del Curnivs (v. iù
soprattutto le coll. 495-8), correzioni di cui in parte questi sì valse, com'egli stesso ci fa noto, nel 2° vol. (y. | ‘
È; MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 35
all'opera del professore di Lipsia l'onore d’una seconda edizione, che tenne dietro assai
| presto alla prima, nè quello d’una versione inglese che fu già anch'essa ristampata (186).
Mentre conduceva a termine il secondo volume intorno al verbo greco e poscia
— mentre preparava le correzioni, le aggiunte occorrenti per ripresentare agli studiosi la
a bella trattazione, con cura degna dell'argomento, del libro e dell'autore, egli non
rascurava î suoi Studien....... nè come direttore nè come serittore. Non pochi sono i
oi lavori glottologici che nei quattro ultimi volumi di quell'opera (vit-x) noi tro-
viamo (137). Nella pubblicazione del nono (1876) e del decimo (1878) vediamo ag-
n)
.
giunto a G. Curmus in qualità di direttore Carlo Brugmann: non tardò guari per
ltro a farsi sempre maggiore e più manifesta fra l’antico maestro e Vantico allievo
diversità d’opinioni glottologiche la quale sembra essere stata fra le cause prin-
palissime per cui il decimo volume fu l’ultimo della serie (188). Per quanto attiensi
valore, all’utilità scientifica degli Studien....... , intorno a cui fu pronunziato anche
1alche men favorevole giudizio, non vuolsi negare che una critica severa possa tro-
satirica, il Cormius negli Studien... (VIII, 1875, pp. 316-34), avvertendo non essere stati ben compresi
dal critico petropolitano nè lo scopo dell’opera (che è soprattutto lo studio storico delle forme verbali) nè
parecchi concetti in essa contenuti, difendendo il metodo seguito nel comporla e parecchie fra le asserzioni
impugnate dal Nauek (v. specialmente pp. 327-34). Acre fu la replica che questi gli oppose (U0. die
| evuwiderung des herrn G. Curtius, nel cit. Bulletin..., XXI, 1876, coll. 148-69); basti come saggio di
CS ssa l'affermazione che il primo volume del libro di cui trattasi « zeigt... eine staunenswerthe unkenntniss
der griech. verbalformen, vielfache spuren grosser fliichtigkeit und einen bis zum extrem gehenden mangel
an kritik » (coll. 165-6). G. Curmus non volle continuare sì fatta polemica: gli bastarono poche e digni-
‘tose parole (v. Das verdum..., Il', p. 402; Studien..., IX, 1876, p. 462).
(136) Nel ripubblicare il suo libro (1877-80) il Currivs si valse delle non poche osservazioni ricevute
da varie persone ed in varia guisa circa singole asserzioni sue, ma non credette necessarî nè utili grandi
mutamenti. Espresse per altro in un notevole Excurs db. esmige neuere erkltirungen des vocalismus im
themat. aorist (11°, pp. 35-44) il suo parere intorno a nuove dottrine concernenti i suoni vocali ariani,
limitandosi ad esaminarle in quanto riferivansi al greco. Delle sue opinioni circa tali dottrine avremo ben
presto muova e migliore occasione di far cenno. Qui diremo soltanto come giù allora, soprattutto pel men-
zionato Excurs..., gli sia stato mosso rimprovero di non accogliere degnamente i risultati delle nuove
estigazioni fonologiche: v. quanto scrisse intorno alla 2° edizione di cui qui parlasi.il Collitz nella
tsche literaturzeitung, 1880, coll. 445-7.
. La già accennata versione inglese è dovuta ad A. Wilkins e ad E. England: fu data alla luce a
] outra la prima volta nel 1880, la seconda nel 1884.
° (137) Non citeremo se non i seguenti: Griech. 7 u. skr. K (VII, 1875, pp. 265-72; ne toccammo
ne Ma nostra Glottologia aria recentissima, p. 12); Seltsame griech. perfectformen (ibid., pp. 390-4); Der
conjunctiv des imperfects (VIII, 1875, p. 460 e segg.); Der tempusgebrauch bei Hesychius (IX,
,, pp. 463-8); Zu den auslautsgesetzen des griech. (X, 1878, pp. 203-23, =X. S., II, pp. 95-119).
i quali scritti è particolarmente degno di considerazione l’ultimo, in cui l’autore studia certe altera-
fonetiche com’effetti della posizione della parola nella proposizione. Egli conchiude notando che, a
fer suo, « die herrschende auslautsform » (di voci terminate in consonante) « ist vielfach nur die ver- +
gemeinerung einer oder mehrerer besonders iblicher auslautsformen, die sich urspriinglich unter den
alligen einfliissen benachbarter consonanten gebildet hatten. Die wahl war theils durch das princip der
lichkeit, theils durch die analogie bedeutungsaàhnlicher andrer formen beeinflusst, bis schliesslich bei
fficasen bewusstsein von der selbstàndigkeit der wòrter, gewiss nicht ohne einfluss der schule und
grammatischen studien, der jetzt fir einzig normal geltende durch seine einfachheit imponirende
uch obsiegte... Es ist... an sich wahrscheinlich, dass auch der vocalische auslaut nicht frei von ahn-
n einflissen gewesen ist » (X. S., II, p. 112).
| (138) Nel Nachwort con cui dà termine alla pubblicazione degli Studien... di cui discorriamo (X,
p. 488 G. Curmius rende noto che vi rinunzia « aus verschiedenen griinden », manifesta la sua gratitu-
din a tutti coloro che gli furono cortesi della loro opera nel decenne lavoro e si propone di continuarlo in
altra guisa per mezzo dei Leipziger studien..., dei quali tosto parleremo.
36 9 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
vare qua e là parti deboli in dissertazioni di giovani che in essi facevano le loro. prime
prove: ma sarebbe ingiusto il contendere a quei dieci volumi il merito d’avere con-
corso in notevole misura al progresso d’una parte assai importante della scienza glot-
tologica. Essi promossero in ispecial guisa lo studio comparativo e storico della lingua
greca considerata nella mirabile varietà dei dialetti: essi furono a giovani valenti, dei
quali vennero alcuni poscia meritamente in fama, nuova occasione e stimolo nuovo a
dar prove di scientifica operosità. Tennero dietro agli Studien zur griech. u. lat. gram-
matik, estendendosi a più vasto campo, i Leipziger studien zur classischen philologie, |»
che il CurtIUs prese a pubblicare già nell’anno 1878 con tre egregi colleghi (139),
Egli era giunto al più alto grado che gli fosse dato conseguire d’autorità nella
scienza e nella scuola. La rinomanza del dotto era cresciuta con quella del profes-
sore. Colla Germania gareggiavano nel rendergli onore altre coltissime nazioni: insigni
accademie si pregiavano d’averlo fra i loro socî (140); fra i dotti che facevano gran
conto della sua amicizia basterà qui menzionare l'Ascoli in Italia, il Bréal in Francia,
il Miklosich in Austria, M. Miller in Inghilterra, il Whitney in America. Nell’uni-
versità di cui era fra i più efficaci e rinomati maestri non sapremmo dire se maggiori
prove di stima, di fiducia, d’ammirazione abbia ricevute da colleghi o da discepoli (141).
(139) Lodov. Lange, Ott. Ribbeck, Erm. Lipsius. — Intorno ad uno scritto del nostro autore nel
primo volume di questa nuova collezione di dissertazioni v. sopra, nota 123. Fra i lavori di lui che tro-
vansi in altri volumi dei Lezpe. studien... ricorderemo qui soltanto due : Zerdehnung (ILL, 1880, pp. 192-200);
Amnastrophe (ibid., pp. 321-6). Nel primo di essi difende strenuamente dalle obbiezioni del Wackernagel!
la dottrina giusta cui la così detta ‘diectasi’ o ‘distrazione’ omerica non sarebbe altro che un fenomeno
d’assimilazione (argomento di cui demmo altrove una breve trattazione con cenni bibliografici, y. La Zingua
greca antica, pp. 408-10). Nel secondo degli scritti citati il CurtIvs, seguendo il Benfey e qualche altro
dotto, si propone di dimostrare che nell’ ‘anastrofe’ appare l’accentuazione primitiva delle preposizioni
bisillabe (v. il nostro libro testè citato, p. 140).
Nello Schlusswort che si legge nel volume VIII (1885) degli Studien... di cui discorriamo (p. 390)
si nota come parecchi fra gli scritti che in essi vennero pubblicati siano dovuti all’azione benefica che |
G. Curtivs esercitava sui giovani. « Noch die letzte sròssere abhandlung, welche dieses heft bringt, ist
aus einer preisaufgabe hervorgegangen, welche Curtivs gestellt hatte ».
(140) Fra le Società scientifiche cui appartenne con vario grado, oltre a quella di Lipsia di cui era
membro residente, notiamo qui l'Accademia delle scienze di Berlino. Circa la sua elezione a membro di
quella di Torino v. la nota 1. L° Accademia viennese delle scienze gli diede, poco prima della morte, il
posto già gloriosamente occupato da Ricc. Lepsius, annoverandolo fra gli otto suoi socî onorarî non na-
zionali. ;
(141) Fu decano e procancelliere: fu più volte invitato ad assumere l’ ufficio di rettore, ma non |
l'accettò mai per la mal ferma salute. A lui venne commesso l’onorevole incarico di comporre il discorso
con cui l'università di Lipsia doveva salutare nel re Guglielmo di Prussia il nuovo imperatore della Ger-
mania. Tal era il numero degli studiosi accorsi ad udire l'illustre professore che alle sue lezioni intorno
ad Omero erano inscritte nell'inverno 1879-80 269 persone (Windisch, G. Curtius, p. 31). Da notizie che
dobbiamo alla cortesia del prof. Luigi Cerrato, ch’era allora fra gli uditori del Currivs, apprendiamo che
questi nelle indicate lezioni faceva un minuto commento glottologico di versi dell'Iliade, seguito da una
elegantissima interpretazione in versi tedeschi: commento udito con religioso silenzio e per lo più scritto
dagli allievi con grande accuratezza ; versione accolta con entusiastici applausi. In 47 semestri, nota il
Windisch (1. c.), ebbe nelle ‘lezioni private 7592 allievi, non per altro persone tutte diverse fra loro,
essendo affatto naturale che molte di esse assistessero per più semestri a quelle lezioni. In 83 semestri
alla ‘Società grammaticale’, di cui già abbiamo fatto cenno, appartennero 340 studiosi, parecchi fra i
quali vi rimasero più semestri: 60 di essi incirca erano stranieri; alcuni avevano, per desiderio della
parola di G. Curmus, attraversato l'Atlantico. V. Windisch, 1. c., ed in genere per quanto concerne gli
onori resi al Curmius si consulti lo scritto citato dell'Angermann che ne diede notizia particolareggiata
(pp. 336 e 338).
e ee ra ZZZ LELE DEE IAT FORI
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 37
La vita dell’uomo egregio era stata ed era tale che ben doveva parere del tutto si-
mile a splendido giorno che fa presagire un tramonto pienamente sereno. Eppure ac-
"cadde che alle promesse della giovinezza e della virilità non corrispondessero intera-
mente le vicende degli ultimi anni e che ad essi qualche non lieve turbamento provenisse
da quei medesimi studî in cui egli aveva trovato un esercizio, sì degno e sì nobilmente
ocondo, della propria attività, le gioie severe del lavoro e pari al merito la fama.
oi siamo giunti alla lotta che fu l'avvenimento più ragguardevole degli ultimi anni
li G. Curnius: lotta di cui è qui compito nostro brevemente discorrere.
I _ Già più volte abbiamo avuto occasione d’avvertire com’egli sia stato fra coloro
che più efficacemente concorsero a rendere più severo il metodo dell’investigazione glotto-
logica, attribuendo assai maggior valore che prima non si solesse al concetto di legge
alle vicende dei suoni; azione esercitata sulla glottologia dalle scienze della natura e
le tendenze generali del pensiero scientifico nello scorcio del nostro secolo. E quanto
“meno appariva lecito, per ispiegare buon numero di fatti glottici, ricorrere, come prima
faceva, alla commoda ipotesi d’eccezioni alle leggi fonetiche, altrettanto più vivo si
iva, per logica necessità, il bisogno di mettere in rilievo l’azione d'altre forze
nella produzione dei fenomeni del linguaggio: onde bene si scorge perchè al ‘momento
iologico”, come fu appellato il complesso delle cause consistenti nei nostri organi
lî, siasi con tanta energia contrapposto il ‘momento psicologico’, sintesi delle
cause di natura intellettuale alle quali noi dobbiamo gran copia e varietà di trasfor-
oni e di formazioni per analogia (143). Nè solo per i due indicati concetti e per
loro conseguenze etimologiche e morfologiche parecchi giovani glottologi si separa-
no dai loro predecessori e maestri, ma anche per nuove teoriche circa i suoni vocali
otoariani (144) e per la sempre maggiore diffidenza con cui per lo più accoglievano
isultamenti delle investigazioni intorno alle origini delle forme anche non contrarî
leggi fonetiche. Ben potevansi i principî metodici testè accennati e le nuove dottrine
concernenti le vocali primitive del nostro stipite glottico esporre in guisa che appa-
risse in piena luce lo svolgimento dei più o men nuovi concetti dagli studî anteriori,
gimento che non solo non venne negato, ma fu con parole non dubbie ammesso
più tardi da insigni maestri della nuova scuola. Prevalse, per lo contrario, in prin-
cipio la tendenza a dare il più vivo risalto ai caratteri per cui sì fatta scuola si pro-
P oneva di discernersi da quella che l’aveva preceduta (145). G. CuRTIUS era, come
n sappiamo, uno dei glottologi ai quali la scienza delle lingue ariane doveva una
| (142) V. sopra, note 24, 65, 69, 70, 115, 116, 117.
(143) Cenni storici e soprattutto bibliografici intorno a tale argomento vennero già dati da noi altrove
a lingua greca antica, pp. 73-8; v. particolarmente la nota 4 a p. 73, colle aggiunte a p. 476).
(144) V. il nostro libro testè citato, p. 92 e segg., 105 e segg.
(145) Appena occorre qui ricordare la notissima prefazione alle Morphologische untersuchungen auf
( em gebiete der indogerm. sprachen dell’Osthoîî e del Brugmann (I, Leipzig, 1878) e le considerazioni
critiche ivi fatte sulla solidità dell’edifizio scientifico costrutto dai glottologi anteriori. E, per quanto
a alle nuove dottrine intorno alle vocali protoariane, il lettore non avrà, crediamo, dimenticato le
nose parole pronunziate da Giov. Schmidt nel suo discorso d'accoglimento all'Accademia berlinese delle
enze, il dì 3 luglio 1884: « Soll die katastrophe, welche wir in den letzten jahren erlebt haben, nicht
38 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
più severa fonologia: all’azione di cause psichiche nei fenomeni del linguaggio aveva
chiesto anch'egli talvolta la ragione di certi fatti che non reputava potersi spiegare
altramente (146). Ma gli parve che i limiti innanzi a cui giudicava conveniente
arrestarsi fossero stati con imprudente ardire varcati da giovani investigatori, in cui
l'ingegno tendente a rigore di sistema ed a novità di teorie era congiunto a non co-
mune energia di carattere. Tal era la natura di lui che si sentiva, anche più di non. |
pochi altri dotti d'età non molto lontana dalla vecchiezza, potentemente inclinato piut=_ sE
tosto a conservare, perfezionandole a poco a poco con grande circospezione, le dottrine |
apprese nella giovinezza da grandi maestri o dovute alla sua vita di pensiero, profes- |
sate per molti anni con fede ed amore, che a farsi promotore d’ardite innovazioni odi
a seguire chi le tentasse. Sì importante gli pareva la continuità del lavoro scientifico
che molto ingrato doveva riuscirgli tutto ciò da cui essa gli sembrasse poter essere.
rotta. Di parecchi de’ suoi predecessori nello studio dell’etimologia greca dai quali i il
separava grave divario di metodo egli aveva riconosciuto i meriti con sì nobile e n
sizione d’animo (147) che ben si comprende quanto potesse contristarlo il vedere con
tesa alla scuola cui egli apparteneva e di cui era fra i più valenti maestri notevole
parte della lode che ad essa giusta il suo giudizio era dovuta. Da un lungo e ci È
agevole lavoro egli confidava essere provenuto un certo numero di concetti glottologiei
di tal valore che non avessero a temere alcun dubbio e come sicuri risultamenti dl
studio comparativo e storico delle lingue ariane gli aveva comunicati ai cultori della!
filologia classica, nè senza molti e gravi sforzi era riuscito a far sì che da essi quei |
nuovi concetti fossero accolti per lo più con vero favore. Facilmente si scorge come
e quanto dovesse affliggerlo l’udire affermare che anche nelle parti fondamentali del
nuovo edifizio glottologico verano parecchi elementi non saldi; come e quanto do-
vesse temere che ciò potesse recare non lieve danno a quell’armonia fra lo studio coi
tologico ed il filologico delle lingue classiche alla quale egli aveva sì efficacemente coo-
perato (148). Il suo ingegno, assai più inclinato a cauta moderazione che a rigore
sistematico, si sentiva ben poco disposto a seguire i novatori nella loro dottrina in- PA
flessibilmente severa delle leggi fonetiche: l'ammirazione che destava in lui lo studit i
della struttura del linguaggio lo rendeva poco favorevole a certe ipotesi. frequenti nella È
nuova scuola, di gravissime alterazioni di forme sotto l’azione della forza dell’ana-
logia (149). All’antico allievo di Franc. Bopp, all'amico d’Aug. Schleicher riusci î
vano non gradite anche le nuove opinioni circa i suoni vocali: all'autore dello scritto, |
di cui sopra abbiamo discorso, Zur ehronologie der indogerm. sprachforschung erano È
cd
i)
noch ein mal hereinbrechen, so muss vor allen dingen ein neues system des vocalismus so sicher begriindet
werden, dass es den bau der vergleichenden grammatik, dessen nothwendige grundlage es ist, tragen
kann » (v. i Stteungsberichte della menzionata Accademia, 1884, p. 741, e la risposta d'Ern. Curtius i
allo Schmidt, pp. 748-4). ‘ =
(146) Circa il concetto ch’ebbe il Curmos del potere dell'analogia v. sopra, nota 79 : si consulti anche Lil
la nota 123. A
(147) V. sopra, nota 64.
(148) V. soprattutto le note 16 e 89. :
(149) Intorno a questa ed alle preaccennate cagioni della discordia d’opinioni sorta fra il Cori il
ed i propugnatori delle nuove dottrine glottologiche v. Windisch, scritto cit., pp. 14-6, 41 e segg., dalle (|
quali abbiamo tratto profitto nelle precedenti considerazioni. i
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 39
“naturalmente incresciosi i dubbî, fattisi sempre più comuni e più gravi, intorno al
valore delle investigazioni glottogoniche. Pareva, com'è agevole il comprendere, all'in-
ne maestro ormai vecchio che i giovani novatori si spingessero troppo avanti e con
‘ragione a mezza via, come uomo che più non iscorge bene la meta od a cui vengono
«meno le forze. Di tale dissidio abbiamo indizî già nelle ultime edizioni delle due più
mportanti opere del CurmIus (150) ed un solenne documento nel libro ch'egli pub-
va, pochi mesi prima dell’inattesa sua morte, col titolo Zur &ritiX der neuesten
chforschung (Leipzig, 1885). È un esame assai esteso, non di rado assai parti-
lareggiato, di tutte le più importanti questioni intorno alle quali la nuova scuola
ttologica professa dottrine o fa uso di metodi per cui si distingue dai precedenti
vestigatori. Nella prima delle quattro parti in cui il libro è diviso (pp. 6-32) l’au-
to re tenta dimostrare, contro i ‘neogrammatici’, la tesi già propugnata in uno scritto
‘sopra menzionato (151), esservi più specie di mutamenti fonetici assai diverse fra loro
per costanza (152). Nella parte seconda (pp. 33-80) tratta delle alterazioni morfo-
logiche per analogia: l’autore vi mette in rilievo i molti e varî pericoli che nelle ipo-
tesi fondate su esse corre l'indagine glottologica; nota che, se v'ha una tendenza a
modificare le forme per assimilare le une alle altre nelle singole classi, v' ha pure
indubbiamente un’altra tendenza assai più comune ed opposta alla prima, ossia un'in-
nazione a conservarle inalterate; nota esigersi non poche condizioni per la proba-
bilità d'una spiegazione tratta dall’analogia; nota come l’azione di essa ci apparisca
ù frequente nelle età meno antiche che nelle altre della vita d’un linguaggio ; nota
ine l’esistenza di certi fatti glottici che non si possono riferire nè a vere leggi fone-
e, nè all’analogia, e nemmeno annoverare fra i così detti fenomeni ‘sporadici’
mutamento di suoni; essi richiedono nuovi studî. A sì fatte considerazioni circa i
pî supremi della nuova scuola glottologica tengono dietro osservazioni critiche con-
rnenti la sua dottrina dei suoni vocali protoariani (parte terza, pp. 90-129). L’in-
gne maestro non nega punto alle nuove ricerche intorno ad essi il merito di grande
me ed ammette inoltre che non mancarono risultamenti in varia guisa proficui, ma
sì manifesta in gran parte avverso alle più recenti teoriche (153). A lui, dopo lunghe
considerazioni, sembra ancora più probabile la vecchia ipotesi dello svolgimento d'’e,
o da un @, protoariano ed indoeranico, che la primitività delle tre vocali nel nostro
ite glottico (154) e fra le forme delle radici che presentano fenomeni di ‘grada-
zione’ gli pare ancor meglio derivare le più ricche di suoni dalle altre, come solevasi,
(150) V. Grundziuge der griech. etymologie?, 1879, pp. 93-4, 427-8; Das verbum der griech. spra-
che..., IL?, 1880, pp. 35-44.
(151) V. la nota 113.
di (152) V. specialmente p. 22 e segg. del libro Zur kritik..., di cui qui si discorre.
(153) V. pp. 90-1: « ...muss ich mir freilich in bezug auf die systematik und den eigentlichen
kernpuokt. der neuen lehren meine zweifel und zum theil mein bestimmt abweichendes urtheil vor-
b ehalten ».
24 (154) V. intorno a ciò quanto narra l’Ascoli nella seconda delle Due recenti lettere glottologiche...
(Roma, Torino, Firenze, 1886), sì importante per la storia critica degli studî onde qui ci occupiamo
(p. 47, nota). ‘
40 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
che queste da quelle, giusta la più recente fonologia (155). La quarta ed ultima parte
(pp. 130-583) consiste in una serie di considerazioni intorno all'importanza delle ri-.
cerche glottogoniche, di cui il CuRTIUS giudica non potersi negare la necessità (156).
Egli mette in rilievo il probabile valore dei più notevoli risultamenti di esse in genere,
per quanto spetta al campo ariano, pur ammettendo che non sempre ed in tutto siasi
proceduto con quella grande circospezione che occorre in simili investigazioni. L'autore
termina il suo libro esprimendo, come già nella prefazione, il vivo desiderio di con.
ciliare la nuova scuola glottologica colla precedente, di concorrere a ristabilire una
certa concordia d’opinioni circa le più rilevanti questioni glottologiche, concordia che
reputa necessaria a sì difficile scienza com'è quella del linguaggio (157). Questo no-
bile intendimento, lo schietto amore del vero, l’alto concetto ch'egli aveva sempre avuto
della dignità della scienza e la bontà dell’animo suo lo tennero lontano da ogn’in-
temperanza nella forma della polemica, anche là ove vi appare più manifesta l'ironia.
Il rispetto ch’egli è conscio di dovere a’ suoi avversarî si palesa eziandio nella cura.
con cui si fa ad esaminare non solo i principî fondamentali e le generali tendenze,
ma tutte le più importanti fra le singole teoriche della nuova scuola, considerandone
i varî aspetti, investigandone le conseguenze, tenendo conto dei giudizî dati intorno ad
esse da altri uomini di studio, nè solo dai più autorevoli. È l’esame più esteso e più
particolareggiato che siasi fatto della più recente glottologia e ben possono avere ra-
gione coloro i quali credono che l’insigne maestro abbia qua e là dato nel segno, so-
prattutto nel disapprovare certe ipotesi poco fondate di formazioni analogiche. Ma, per
dire con piena sincerità quale sia stata l'impressione fatta nella mente nostra da un’at-
tenta lettura del libro di cui ragioniamo, ci parve e ci pare ancora che G. CurmIUs
abbia, certamente colla massima lealtà, notato assai più i difetti delle dottrine e degli
argomenti de’ suoi avversarî che non quelli delle teoriche da lui difese e dei mezzi
con cui credette di poterne dimostrare il valore scientifico. Onde si scorge come alcuni
fra i più formidabili campioni della nuova glottologia abbiamo potuto accusarlo di non |
avere ben compreso l’intima natura del divario d’opinioni fra esso ed i novatori,
Quest’accusa ha notevole forza in particolar guisa per quanto concerne gli studî fatti.
negli ultimi dodici anni intorno ai rapporti fra i varî gradi in cui ci appariscono gli
elementi vocali di tante radici. È l’accusa che troviamo nelle prime e nelle ultime : È
pagine della risposta che al libro del CurtIvs, dopo Giov. Schmidt (158), fece n;
Brugmann, con molta copia e vigore d’argomenti e con forma a cui nessuno potrebbe
(155) Ossia, per citare le varie forme preaccennate di radici quali ci appariscono in greco, il Curmws
si mostra ben più disposto ad ascendere da ur, gu], cat, a Ae, gevy, c&7, che a discendere dalle tre ultime
forme alle prime.
V. anche gli scritti citati nelle note 150 e 144.
(156) « Ohne eingehen in solche fragen ist eine klarheit iber den entwickelungsgang der sprache und
ber die richtigen ausgangspunkte fiir zahlreiche specialfragen nicht zu erreichen, und es ist besser, hei
solchen versuchen zu irren als gar nicht dariiber nachzudenken » (p. 145).
(157) « Sollten diese blitter etwas zur klàrung der meinungen und zur ausgleichung der gegensitze
beitragen, wiirde ich das nach mehr als vierzigjahriger bemihung auf diesem gebiete als den schénsten
ohn betrachten » (p. 155). Nella prefazione aveva scritto: « Auch glaube ich, dass die gegensatze zum
theil mehr auf schein und auf missverstàndniss, als auf wirklichkeit beruhen » (p. 5),
(158) Deutsche lteraturzettung, 1885, coll. 3839-44.
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 4]
certamente rimproverare difetto d'energia (159). Notevole per istudio di conciliazione
è lo scritto che intorno al libro del Curmius pubblicava B. Delbrick (160). Fra i
| più ragguardevoli effetti di questa polemica reputiamo degne di particolarissima con-
siderazione le dichiarazioni che i più autorevoli propugnatori delle nuove dottrine fe-
cero intorno alle relazioni fra queste e le ricerche, gl'insegnamenti dei loro predeces-
ori, per guisa che la più recente glottologia ci si presenta come il risultato naturale
ello svolgimento di quella che la precedette (161).
Contristato da questi dissidî, che lo separavano da investigatori stati già fra i più
valenti suoi allievi, ma fermo ne’ suoi propositi, G. Curmus continuò, anche negli ul-
i mesi della sua vita, ad adempiere i suoi doveri di professore e ad attendere alle
prie ricerche, come si scorge dallo scritto postumo intorno al perfetto latino in
—vi ed: —ui (162). E qui dobbiam dire che alle sue tristezze di scienziato si
fa:
ie
(159) Zum heutigen stand der sprachwissenschaft, Strassburg, 1885, pp. 483-128: v. pp. 46 è
. « Vielleicht » (scrive Gust. Meyer nei cenni necrologici citati sopra, nota 5) « ist es zu hart, wenn
r seiner gegner sagt, Curtius habe noch nicht gesehen, wo der kernpunkt der ganzen meinungsver-
edenheit liegt. Aber in der that vermisst man in dieser letzten schrift » (Zur Kritik...) « das scharfe
erfassen und beleuchten der grundlagen und voraussetzungen, aus denen die differenzen erwachsen sind
id in denen sie schliesslich ihre ausgleichung finden werden » (p. 3).
(160) Die neueste sprachforschung..., Leipzig, 1885.
Soprattutto al Brugmann s’accosta l’Osthoff nella Ber?. philolog. wochenschrift, V, 1885, coll. 1605-14.
Per lo contrario P. Merlo, professore nell’ Università di Pavia, ne’ suoi Cenni sullo stato presente della
rammatica ariana... (Rivista di filologia..., XIV, 1886, pp. 145-78) afferma di procedere oltre al Curtivs
nel disapprovare il teorema della « necessaria costanza negli effetti delle alterazioni fonetiche » (p. 157).
i Intorno alle opinioni del Windisch, che non ini tutte le questioni di cui qui abbiamo toccato era d'accordo
coll’insigne maestro, v. G. Curtius, p. 41 e segg.
(161) Giov. Schmidt dava principio alle sue considerazioni critiche, testè citate, circa il libro del
Curmus attribuendo allo Schleicher il merito dei due concetti fondamentali della nuova scuola. Della
‘polemica cui ciò diede luogo non è qui opportuno toccare (v. La lingua greca antica, p. 476, ove trovansi
zie bibliografiche). Il Brugmann (scr. cit., p. 125) affermava: « Ich fiir meine person habe die neueren
havungen immer nur fiir die organische und folgerechte fortentwicklung der alteren bestrebungen
alten, und diese ansicht hat sich mir von jahr zu jahr mehr befestigt. >» Il Delbriick (ser. cit., p. 6}
va assolutamente il preteso difetto di continuità fra la meno recente e la nuova glottologia ed asseriva
ìl dimostrare sì fatta continuità era stato lo scopo principale propostosi nello scrivere l'Eznlestung
das sprachstudium (1880, 1884). Gust. Meyer notava che « in wirklichkeit war es nichts absolut neues,
Curmus sich gegentiber sah; es war nur cin consequentes fortschreiten auf den bahnen, die er selbst
lesen hatte » (scr. cit., p. 8). Anche l’Osthoff, nei cenni critici testè menzionati (col. 1605), esprimeva
intorno a tale argomento la propria opinione coll’asserire che « es CurmIvs’ tragisches geschick gewesen sei, am
abende seines daseins die zeichen der zeit nicht mehr verstanden und zerstòrungsversuche in dem gesehen
haben, was in wahrheit weiterbau und naturgemîsse fortentwickelung der baugedanken der ersten
Ster War », pur insistendo circa il non doversi dissimulare nè troppo diminuire con miti parole il
rio fra il metodo del Cvrtius e dello Schleicher e quello della nuova scuola (col. 1614). E tali dichia-
zioni furono un vero atto di giustizia resa ai predecessori. VW. Ascoli, Una lettera gloitologica, Torino,
1881 (p. 5 e segg.) e la seconda delle Due recenti lettere glottologiche, già testò citate (v. nota 154).
(162) Uber das latein. perfect auf vi und vi (nei Berichte della Società scientifica di Lipsia, cl.
olog.-stor., XXXVII, 1885, pp. 421-38). All’autore, non pago delle ipotesi da altri dotti proposte e da lui
saminate, sembra doversi cercare l'origine di tale perfetto in una formazione perifrastica, nella quale
‘ge un participio in -ves- ed il verbo sum (ommesso in qualche forma). Delle alterazioni che il Curmivs
me avvenute in sì fatta perifrasi non possiamo qui far cenno. Notiamo soltanto che nell'ipotesi del-
Signe maestro ha parte importantissima, anzi tale che ne siamo rimasti un po'sorpresi, l’ azione
È analogia. V. le osservazioni del Windisch (scritto cit., p. 54), col quale siamo affatto d’ accordo nello
pprezzare il valore di quest'ultimo lavoro del Currivs e che già notava, giudicandola fortuita, la somi-
nza fra la spiegazione proposta dal professore di Lipsia e quella che delle medesime forme dava Gugl.
ulze (Das lat. v-perfectum, 1885, nella Zeztschr. fiir vergi. sprachforsch., XXVIII, 1887).
Serie II. Tom. XXXIX. 6
42 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
erano, soprattutto negli ultimi quattro anni, aggiunti assai gravi patimenti di corpo,
che nel 1884 l’assalirono con insolita violenza e lo costrinsero a limitare la sua atti-
vità accademica a men largo campo. Pareva nell’estate dell’anno seguente che la sua
salute rifiorisse con liete promesse di nuovo vigore e di nuova operosità. Posto ter-
mine all’insegnamento nei primi giorni d’agosto, si recò, insieme colla consorte, a Herms-
dorf ai piedi del Kynast, per chiedere, come soleva nelle vacanze allorquando non
viaggiava, nuove forze alla natura in luoghi freschi e salubri. Ma il giorno che tenne
dietro all’arrivo un vero insulto d’apoplessia lo ridusse al più deplorabile stato. Visse
ancora quattro giorni privo di consapevolezza e dapprima anche della favella, che riebhe
poscia e di cui si valse per pronunziare parole di scienza ch'egli credeva rivolgere al
suoi allievi od al fratello Ernesto. Bene osservò questi con nobile pensiero (163) come
anche negli ultimi momenti G. CurtIUS vivesse per gli altri. i i
Così, il giorno 12 agosto 1885, moriva l’uomo egregio di cui abbiamo narrato, |
colla maggior cura che ci è stata possibile, la feconda vita intellettuale. Sulla tomba
che l’accolse a Lipsia, tomba vicina a quelle di Federico Ritschl e d'altri insigni mae-
stri, sonò sincera la parola dell’ammirazione e dell’affetto: la parola del Baur, che
ne lodava la profonda religiosità; la parola del Windisch e quella dello Zarncke, i
quali gli diedero l’ultimo addio in nome degli allievi riconoscenti, dei colleghi e degli
amici. Gli scritti di cui la sua nobile vita fu fatta argomento, con pari perizia ed
affetto, già vennero menzionati da noi (164): non ci resta qui a ricordare se non la
dedica che, con animo pieno di reverenza e di gratitudine, alla memoria di G. CuRTIUS.
faceva d’un suo lavoro Giovanni Baunack (165).
Il
Già nelle precedenti considerazioni abbiamo avuto parecchie . volte occasione di
porre in rilievo i caratteri dell’ingegno dell’insigne tedesco e di notare quanto ai doni
della benigna natura abbia aggiunto una saggia educazione che in parte egli ebbe da
grandi maestri, in parte diede a sè stesso, traendo ricchezza e forza d’intelletto da
varie maniere di studî severi, che solo a grado a grado venne restringendo e non prima
del tempo opportuno (166). Era un ingegno in cui non potevasi non ammirare buon
numero d’attitudini, di cui nessuna forse fra le più splendide e rare appariva in quel
grado altissimo di potenza a cui le vedemmo e le vediamo mirabilmente giunte in altri .
(163) X. S., I, pp. xx.
(164) V. sopra, note 3, 4, 5.
(165) Studien auf dem gebiete des griech. u. der arischen sprachen, I, 1, Leipzig, 1886. « Was er
war », scrive del Curmius nella mentovata dedica l’autore con ammirazione ed affetto di discepolo, « ist
allerwàrts bekannt ; wie er es war, steht in den herzen seiner schùler unauslòschlich geschrieben... Uber dem
grossen gelehrten soll und wird nie der grosse mensch vergessen werden. Have pia et candida anima.»
(166) In questa larga e lenta preparazione assolutamente necessaria ai grandi lavori vorremmo ch'egli
trovasse assai maggior numero che non abbia d'imitatori fra i giovani studiosi, di cui pur troppo da essa
distolgono la maggior parte, soprattutto presentemente, l’impazienza e l’imperizia loro ed altrui: improvida
educazione che, in certi casi, ben potrebbe riuscire a non lasciar produrre se non quelli che un notissimo
scrittore italiano chiamava frutti immaturi d'ingegni abortiti.
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 45
cienziati, ma che trovavansi insieme nella mente di G. CurtIUs in un equilibrio sì
difficile ad ottenersi e le une colle altre s’accordavano in sì meravigliosa armonia e
er tal guisa cospiravano al medesimo lavoro che da sì fatto intreccio di virtù intel-
ettuali risultava un’individualità scientifica come non molte altre nobilmente feconda
ragguardevole, In essa, sotto l’azione potente d’un puro, sereno, costante amore del
ero e per una non comune moderazione di mente e d'animo, si congiungevano fra
o la tendenza al nuovo ed ilrispetto del passato ; la viva ammirazione d'ogni progresso
dell'indagine ed il severo, fine e libero esame del valore d’ogni nuova dottrina; la
ermezza nel propugnare qualsiasi teorica di cui egli fosse convinto e la costante di-
sposizione ricredersi, a riconoscere lealmente il proprio errore, ogni volta che il far
ciò gli paresse dovere; la minuta investigazione storica e comparativa dei fatti e la
considerazione filosofica ed estetica di essi. Egli era, per l’intima natura del suo in-
egno e per l'educazione di esso, uno di quei dotti nei quali non di rado nè diffi-
cilmente puoi scorgere un pensatore ed un artista: uno di quei dotti che, immuni da
oncetti volgari della scienza, si ricordano sempre che questa non può avere origine
non a condizione che il pensiero penetri, ordini, avvivi la mole indigesta ed inerte
È
resta nella scienza come dottrina comunemente professata. Ed è agevole comprendere
> di sommo pregio una certa uniformità d’opinioni intorno alle più importanti ma-
le d'una scienza; come gli riuscisse naturalmente sgradito e gli sembrasse non lieve
ricolo quanto potesse turbare sì fatta uniformità, non conseguita per lo più se non
dopo lungo e difficile lavoro.
| Ben presto egli si sentì chiamato potentemente dalla natura del proprio ingegno
studio di lingue, soprattutto delle due classiche. Questa vocazione lo salvò da ten-
mamenti in cui avrebbe sciupato tempo e forza, non lo trasse mai a quella misera
ttezza di coltura e di pensiero la quale troppo spesso ci appare come deplorabile
tito di studî specialissimi negli anni più giovanili. Iniziato da grandi maestri
la filologia classica ed alla glottologia comparativa e storica, procedenti allora
tto disgiunte fra loro con notevole danno dell'una e dell’altra, non tardò ad av-
(167) « Wie sein bruder, hat er von den Griechen das schénste gelernt, was man von ihnen lernen
T die sophrosyne, das edle mass in allem und jedem, auch in wort und schrift » Gust. Meyer, scr. -
in. TALI
44 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
vedersi della necessità di stabilire fra esse una reciproca comunicazione di mezzi e
risultamenti d’indagini, pur conservando ciascuna la propria individualità. Congiungere
in tal guisa fra loro le due scienze mentovate era, per varie cause, difficile impresa:
G. CuRTIUS, assai giovane ancora, se la propose, come vedemmo, a compito della sua
vita scientifica; l’esatto concetto che egli ben presto si fece degli ostacoli, la natura
del suo ingegno, la sua educazione intellettuale e la fama presto conseguita di sapere
glottologico e filologico, l’ardire, la temperanza e la fermezza mirabilmente uniti nel
suo carattere lo resero vincitore nella lotta, lotta in cui egli ci appare non solo come |
dotto ed investigatore insigne, ma eziandio come scrittore ed insegnante di non comune
efticacia (168). Nè i benefici effetti dell'innovatrice opera sua volle ristretti ai più
alti gradi della scienza e dell’insegnamento, ma riuscì ad estendere l’azione di essa
anche all'istruzione classica secondaria, concorrendo più di qualsiasi altra persona a |
rendere più razionale lo studio delle lingue nei ginnasî, senza varcare i limiti segnati È
dalla saggezza pedagogica, innanzi ai quali solo un uomo di grande moderazione ed +
esperto come lui poteva in simile tentativo arrestarsi. Lo scopo proposto alla propria
attività fu certamente a G. CurtIUS ragione gravissima di restringere i suoi studî a |
men largo campo che parecchi altri glottologi: la sua coltura era tuttavia, come nella |
precedente narrazione avemmo occasioni di notare, estesa ad un numero di lingue ariane
CRE A,
maggiore che per lo più non si pensi. Nè bastarono alla sua attività intellettuale gli
studî comparativi e storici, nello stretto senso di questa parola, intorno alle lingue
verra
classiche: appena occorre qui ricordare come e quanto siasi dato pensiero dei due più |
ardui problemi che ci presenti la.-vita preistorica della parola ariana, ossia delle spe- {
ciali relazioni di parentela che abbiansi ad ammettere fra varie famiglie d'idiomi di
tale stipite e delle età in cui convenga dividere lo svolgimento del linguaggio pro- hi
toariano. Ed oltracciò ben possiamo affermare non essere mai venuto meno in G. Cur-
mIivs quell’amore di studî generali e filosofici intorno alla favella dal quale egli si sentì
tratto nella sua giovinezza a lunga meditazione delle dottrine di Gugl. di Humboldt: |
non di rado si scorse questa tendenza nelle considerazioni del CuRTIUS intorno alle il
leggi ed alle cause delle alterazioni dei suoni e di quelle dei sensi delle radici e delle ‘
forme. Giova qui mettere in rilievo il fatto che lo svolgimento di concetti nella vita |
del linguaggio non attraeva la sua attenzione con minori allettamenti di quanti po- È
tesse avere per lui l'indagine fonologica: era degno della non comune nobiltà d’un 4
intelletto. come il suo non lasciarsi trarre ad esagerazioni intorno all'importanza della
dottrina dei fenomeni fonetici fra le varie parti della scienza glottologica, com'era degno
di lui attribuire a quella dottrina tutto quel valore che veramente le spetta. E fu
merito principalissimo di lui, come investigatore del linguaggio, l’avere potentemente |
cooperato a rendere più severo il concetto di ‘legge fonetica’: severo era il suo |
ingegno, severa l’educazione scientifica che da grandi maestri di filologia classica aveva
ricevuta. Egli fu pertanto uno dei pochi che più concorsero colla parola e coll’esempio
ad introdurre nuovo rigore nell’investigazione glottologica, accrescendo in tal guisa il |
(168) Ben a ragione Gust. Meyer dava principio alla citata necrologia colle seguenti parole: « Wer den
grabhiigel von Grore Curmus mit einer reliefplatte schmiicken wollte, der miisste darstellen, wie die
beiden wissenschaften der classischen philologie und der vergleichenden sprachforschung hand in hand
daher schreiten, den manen des hingeschiedenen ein todtenopfer zu bringen ».
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 45
yalore e l’autorità dei risultamenti di essa (169). E di ciò dobbiamo ricordarci con
| viva gratitudine, sebbene verso la fine della sua vita egli non abbia creduto dover am-
la nuova scuola glottologica (170).
Le maggiori prove delle proprie forze egli diede nello studio delle lingue clas-
che e di gran lunga più in quello della greca che nell’altro, cui pure attese con un
erto amore, delle antiche favelle italiche. Oltre alla causa già testè accennata di sì
itta limitazione, vogliam dire il compito sino dalla sua giovinezza propostosi d’unire
loro in istretta alleanza filologia classica e glottologia, dovette esercitare potente
azione su lui l'esempio di Giacomo Grimm, al quale più forse che ad ogni altro fra
i maestri supremi della nuova scienza del linguaggio egli si sentiva inclinato ad ac-
starsi. Studiò con costante amore tutti i caratteri, tutte le tendenze del linguaggio
egli Elleni, considerato nelle sue relazioni colle altre favelle ariane e collo svolgimento
della letteratura greca. L’opera sua fu di grande efficacia soprattutto nella parte eti-
mologica e nella fonologica; di non poco valore in ordine allo studio delle forme ver-
i; assai meno importante per ciò che concerne la sintassi, a cui per altro ben poterono
ovare certe sue osservazioni sparse in varî scritti e principalmente nelle Erliuterungen...
ari, di non molta estensione nè di gran momento sono i suoi lavori di dialettologia
greca, ma da altri scritti suoi ed in particolar guisa dalla sua trattazione del verbo
Li eco bene si scorge quanto egli abbia appreso intorno alla varietà dialettale dell’el-
lenismo da iscrizioni, da Omero, da Esichio e da altri scrittori: ben sappiamo poi
im'egli sia stato co’ suoi consigli causa principalissima per cui da parecchi allievi suoi
nero scelti ad argomenti d'’utili dissertazioni dialetti greci. L'importanza, la fama
i scritti glottologici del CurTIUS fecero quasi cadere in dimenticanza i pochi e brevi
fori filologici da lui pubblicati. Dobbiamo peraltro ricordarci che non solo fu ini-
o allo studio scientifico dell’antichità classica da grandi maestri, non solo si valse
suo noto sapere letterario, della sua riputazione filologica in favore della nuova
nza del linguaggio, ma tenne dietro con costante amore alle ricerche di critica
nerica ed usò fare anche a Lipsia lezioni d’argomento filologico. E quanto gl’impor-
sse potersi valere d’ogni utile risultamento delle indagini intorno all’antichità clas-
, anche delle più minute, bene si scorgeva dalla sua biblioteca, ricca, come poche
filologi, e d’edizioni di scrittori greci e latini e di scritti intorno ad essi e ad ogni
a parte dell’antica civiltà ellenica e dell’italica.
Ma, se vogliamo comprendere pienamente l’azione esercitata da G. CuRTIUS sulla
nza e sulla scuola, dobbiamo, oltre alle testè indicate virtù intellettuali, tener conto
della singolare attitudine ch’ egli aveva ad esporre i proprî concetti, come scrittore e
ome insegnante. Vi s'accingeva con alti intendimenti, nè mai senza lunga prepara-
; (169) Perciò a ragione dal fratello Ernesto fu detto « ein erzieher der sprachwissenschaft » (4. ,S.,I, p.xxu1)
« indimenticabile moderatore della nostra disciplina » dall'Ascoli (Due recenti lettere glottologiche...,
7). « Ohne Grore Curmivs », afferma il Windisch (scritto cit., pagina ultima) « ist die geschichte der
‘achwissenschaft nicht zu denken. »
(170) Notiamo qui le parole con cui l'Osthofî poneva termine alle sue osservazioni intorno al libro
krîtik...: « Wir scheiden hiermit von der letzten litterarischen arbeit G. Curmivs’, dessen andenken
t wegen derselben, jedoch trotz derselben, in der geschichte der sprachwissenschaft im segen bleiben
d » (v. la citata Ber? philolog. wochenschr., 1885, col. 1610).
46 LA VITA SCIENTIFICA DI GIORGIO CURTIUS
zione (171). La potenza e l’amore con cui G. CurtIUS autore, professore, trattava
dello scelto argomento facilmente apparivano ai lettori, agli uditori, fortemente attraen-
doli, nella razionalità dell’ordine, nella forma esatta, varia, chiara, elegante nella pro-
pria semplicità ed efficacissima con cui sapeva e scrivendo e parlando esprimere i suoi
pensieri. Egli non appartenne mai a quella classe di scrittori e d’insegnanti a cui il
riuscire noiosi, oscuri e pressochè barbari nel dire sembra lievissimo difetto, se pure
alcuni non isperano di trarne fama di singolare profondità. A lui parve sempre che la
parola dovesse ritrarre con ogni cura il pensiero ‘e corrispondere in nobiltà alla ma-
teria di cui ragionava, nè pertanto gli sarebbe sembrato tollerabile esporre in forma.
negletta la scienza cui aveva dato la miglior parte della propria vita intellettuale od.
il discorrere in cotal guisa della letteratura di quel gran popolo che la natura chiamò
più d'ogni altro a culto d’arte, a vita di pensiero. Già notammo come G. CuRTIUS.
sia stato fra gli scienziati tedeschi uno dei più valenti nel comporre un libro: notiamo |
qui com’egli siasi mostrato, per mitezza e dignità d'animo, fra gli scrittori della sua. il
nazione uno dei più moderati e cortesi in ogni polemica, non lasciandosi trarre a scon=
venienti giudizî o parole nemmeno dalle offese, senza rinunziare a difendere valorosa- |
mente le proprie opinioni finchè nobile gli pareva la lotta (172). L’operosità dell’in-
vestigatore e dello scrittore non noceva punto a quella del professore. Egli compiva
con zelo il suo ufficio d’insegnante per l’alto concetto ch'egli aveva de’ suoi doveri,
della scienza, delle università, e per amore dè’ suoi allievi. Non limitava, per proprio |
comodo, l’insegnamento alle materie ch’erano argomento a’ suoi studî più speciali, mal «È
l’estendeva, soprattutto ne’ suoi anni migliori, ben oltre ai limiti accennati, nè traeva |
i giovani con danno d’altri studî a quelli ch'egli prediligeva. Non risparmiava fac i
nè tempo per indurre i più valenti allievi a ricerche intorno ad argomenti che cor-
rispondessero alle loro attitudini e per dirigerli in quei primi lavori d'investigazione il
scientifica, con successo che già sappiamo quale e quanto sia stato: non trascurava | |
per altro, uomo di retto giudizio e veramente dotto ed esperto qual era, di mostrare | È
la necessità d’ una larga coltura e per le indagini più minute e per l’ insegnamento | 7
secondario. Non nascondeva ai giovani il suo pensiero intorno alla difficoltà di giun- |
gere a vera scienza e circa il valore dei primi saggi della loro operosità, nè era Giusi i
dice troppo indulgente negli esami, pur mostrandosi sempre moderato e squisitamente |
cortese e largo a studiosi, ove occorresse, d’ogni maniera d’aiuto. E quando si pensi i
che ai pregi dello scienziato, dello scrittore, del professore s’univano virtù che ono- |
rano in alto grado l’uomo ed il cittadino (173), ben si comprenderà perchè tanta sia.
(171) « Alles, was er schrieb und sprach, hatte keinen andern zweck, als den ausgereiften gedanken
so klar und vollstindis wie mòglich zum ausdruck zu bringen. Allem, was glinzen sollte, war er abhold, |
Darum war sein unterricht auch eine sittliche bildungsschule... » Ern. Curtius, X. S., I, p. xIx. Di
(172) « Prof. Curtivs îs one of the few scholars with whom it is pleasant to differ. He has shown
again and again that what he cares for is truth, not victory, and when he has defended his position
against attacks not always courteous, he has invariably done so, not with hard words, but with hard.
arguments » M. Miller, Cheps from a german workshop, IV, London, 1875, p. 125. — « Seine polemik
ist zu aller zeit eine ruhige, leidenschaftslose, versohnliche gewesen, selbst weniger geschmackvollen an-.
griffen gegeniiber..... Er war eine im bestem sinne des wortes vornehme natur » Gust. Meyer, scr. cit., p. 2
(173) L’Angermann dava termine alla sua necrologia col definire G. CurtIvs un uomo in cui « das
hochste wissenschaftliche streben in wunderbarer harmonie vereinigt war mit den edelsten und lautersten
charaktereigenschaften ».
,
MEMORIA DI DOMENICO PEZZI 47
ata la fiducia in lui, tanta l'autorità sua nelle università cui appartenne e soprat-
tutto in quella di Lipsia ove diede le più splendide prove del suo valore nell’inse-
| gnamento ed ebbe onori degni di lui.
; Un dotto di sì fatto carattere intellettuale doveva non solo esercitare un'azione
| potentemente benefica sugli studî nella sua patria, ma essere fra i più atti a far co-
‘noscere, a far pregiare, a far amare la scienza tedesca ben oltre i confini della Ger-
mania. Già sappiamo quanta parte degli scritti suoi sia stata volta in lingue straniere
come di pochi libri siansi fatte in sì breve tempo tante versioni quante vennero
ubblicate della Griech. schulgrammatik: già sappiamo come fra i suoi uditori non
ancasse buon numero di stranieri accorsi a lui anche da lontanissime contrade. 11}
nome non tardò a divenire più largamente noto che quelli di più insigni mae-
. Certo a nessun altro ingegno tedesco poteva nello studio delle lingue classiche
accostarsi con minore difficoltà l’ingegno italiano, avvezzandosi così a trarre profitto
lai metodi e dalle dottrine germaniche, pur conservando la propria individualità. Ad un
imile commercio intellettuale nessun italiano che avesse qualche valore scientifico, qualche
orità in tale argomento e fosse degno d’averla, poteva non essere favorevolissimo,
mancarono alla felice innovazione arditi e costanti propugnatori nè ai maestri i di-
poli. Ma non era agevole impresa: vi opponevano non lievi ostacoli la difficoltà di
ti nuovi studî, la forza di vecchi pregiudizî, l’usurpata autorità di retori (174). Se tali
acoli vennero superati, se anche negli studî dei quali qui discorriamo la scienza ita-
procede amica e compagna alla scienza germanica, se certi giudizî intorno alla
ologia ed a glottologi non sono ormai più che rari sfoghi d’una critica impotente,
dalla scienza comparativa e storica delle lingue ariane la filologia classica trae anche
fra noi quel vantaggio che le spetta trarne, ciò vuolsi attribuire ad un complesso di
ise fra cui sarebbe ingiusto non annoverare l’opera scientifica e pedagogica di @.
iurtius. Non può la nuova Italia fare la storia dei proprî studî senza ricordarsi del
tto tedesco, com'’egli non dimenticò mai quanto pensò, quanto senti nel visitare la
ria nostra.
Ù (179 Intorno al grave danno che costoro cagionarono in varia guisa all'istruzione classica in Italia
esprimemmo da lungo tempo chiaramente le nostre opinioni nelle Considerazioni... pubblicate nel 1°
ella Rivista di filologia... (1872-3, v. specialmente pp. 225-46, 310-29, 443-56).
Me TRASCRIZIONE
CON
TRADUZIONE ITALIANA DI DUE SERMONI ATTRIBUITI
il primo a
S. ATANASIO
ARCIVESCOVO DI ALESSANDRIA
il secondo a
s GIOVANNI GRISOSTOMO
ARCIVESCOVO DI COSTANTINOPOLI
dai testi copti, appartenenti alla Collezione Egizia del Museo d'Antichità di Torino
Memoria approvata nell'adunanza del 24 Giugno 1888
Incomincio colla pubblicazione di questi due sermoni il secondo volume dei pa-
| piri copti della celebre collezione Drovetti. E sebbene io lo venga formando coi testi
la conoscenza della storia religiosa dell’Egitto al tempo dei grandi patriarchi Sant'Ata-
| nasio, San Giovanni Grisostomo, San Cirillo.
Questi testi facevano parte, nella classificazione dell’ab. Peyron, del papyrus sextus
taurinensis, che egli così descrisse: tenet sermones morales, tum martyrium S. Pto-
È lomacì ad diem XI Choiak; passus hic est anno 10 Dioclesiani. Ma, come già
‘indicai, in un mio precedente lavoro, di questo martirio non possediamo ora più, che
quattro fogli di papiro, che oltre ad essere fra loro sconnessi, trovavansi confusi con
quelli dei testi morali del sovraccennato papiro sesto, il cui numero di fogli, omesso
| dal Peyron, non doveva essere minore di cento, poichè ascendono alla cifra di no-
vanta quelli, che oggi ancora mi è dato di pubblicare.
Sgraziatamente di questi fogli non uno è giunto intatto a Torino, mentre i meno
£ lanneggiati sono quelli che in principio od in fine di pagina presentano solo una lacuna
di due o tre linee. Arrogi, che furono in modo tanto strano insieme accozzati, che
; il Peyron, spaventato certo dall’indicibile confusione e dall’improbo lavoro occorrente
a dipanare così intricata matassa, ma pur desideroso’ di giovarsi d'un materiale, che
veva riconosciuto di somma importanza per la compilazione del suo non mai abba-
anza lodato lessico, s’indusse a registrarli ed a studiarli in quel disordine in cui
ano giunti a Torino. Infatti questi fogli portano ancora oggi un numero progres-
vo, fatto a lapis, dal Peyron senza dubbio, perchè ciascuno d’ essi corrisponde a quello
2 lui usato nel suo vocabolario a segnalare le. parole tolte da questi papiri (1).
(1) Quanto attentamente abbia il Peyron studiato questi fogli di papiro risulta dalle citazioni che
gli fa di questo prezioso documento nel suo lessico, le quali ascendone a ben ottantasette.
SERIE II. Tom. XXXIX. 7
50 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
Ora uno studio minuto e paziente di questo codice mi ha dimostrato, che tutte
queste disordinate pagine si riferiscono a due principali testi, dei quali è indicato nelle
pagine stesse il titolo e l’intestazione. Imperocchè il foglio, segnato a lapis col nu-
mero 50, e che riproduco nella prima tavola in calce a questa memoria, dice: (discorso)
pronunziato dal beato Apa Atanasio, Arcivescovo di Alessandria, al suo ritorno
dal secondo esilio, sulla Vergine santa, ostello di Dio, Maria Deipara, e su
Elisabetta madre di Giovanni, confutando e redarguendo Ario; e su quelli che
sono l'abominazione delle genti. Il titolo è qui interrotto da una breve lacuna, che i
doveva probabilmente contenere nomi o fatti tolti dalla Bibbia, poichè le prime pa-
role che seguono, se ben mi appongo , ricordano Manasse re di Giuda. Termina.
questo lungo titolo celle parole: e sull’ebrietà e sulla fornicazione.
L'argomento del secondo discorso si trova al foglio segnato col n. 51 che ripro- —
duco nella seconda tavola, ed è del seguente tenore: (Discorso del beato Apa Gio- |
VANNI), Arcivescovo di Costantinopoli (1), sulla invidia dei sacerdoti e dei farisei
verso il nostro Signore Gesù Cristo. |
Guidato quindi da questi due titoli ho tentato di riordinare, come meglio ho |
potuto, questi sparsi fogli, in cui lo scrittore copto avrà cercato di riprodurre se non
le parole, certo i pensieri di questi due grandi patriarchi della chiesa orientale. Ma
nella speranza di trovare eziandio un filo col quale io potessi dirigermi nella dispo-
sizione di questi fogli; io ho passato inutilmente in rassegna tutte le opere, che sono
giunte sino a noi di questi due sommi Padri della Chiesa. Onde sono indotto a con-
siderare, massime il discorso di S. Atanasio, a causa delle disparate materie in esso
riunite, come lavoro di qualche pio monaco, che nel silenzio della sua cella si eser-
citava a ricomporre i discorsi pronunziati dal grande arcivescovo, uno dei quali potè
benissimo essere stato da lui recitato al ritorno dal suo secondo esilio, ‘se pure non
havvi in questo uno di quegli artifizi, a cui non di rado ricorrevano, come ben osserva
il sig. Amelinau, gli autori copti, i quali per vieppiù avvalorare la fede nei lettori si
facevano a presentare le loro opere come lavori di testimoni oculari od auricolari (2).
Ad ogni modo lasciando a giudici più competenti risolvere la questione, ic non mi
propongo in questa pubblicazione altro scopo che quello di salvare dall’azione distrug-
gitrice del tempo questi preziosi testi, affidati a fragilissimi fogli di papiro già tanto
danneggiati dalla mano dell’uomo.
Ad eccezione quindi delle poche pagine del TCA di S. Ptolomeo, comprenderà
questo fascicolo (il sesto delle mie pubblicazioni copte) tutti i testi che furono dall
Peyron riuniti nel sesto codice del suo catalogo, e che io, per maggiore chiarezza ,
ho diviso in tre parti. i
La prima si compone di quei fogli, che mi parvero avere qualche riferimento al.
discorso di S. Atanasio; la seconda di quelli attinenti al sermone dell’arcivescovo di
Costantinopoli ; nella terza infine ho posto i rimanenti fogli, che, a mio giudizio,
non avevano relazione coi due suddetti discorsi.
(1) Sul nome di quest’Arcivescovo vedi quanto dissi nella mia precedente Memoria: I martiriî di
Gioore, ecc., pag. 7.
(2) V. AmeLINaU, Memoires publiés par les Membres de la Mission Archeologique Franguise au
Caire, tome quatrieme, p. XXVI, 1885-1886.
TRASCRITTI E TRADOTTI DA F. ROSSI
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(4) Qui vi sono due linee in
parte raschiate e probabilmente
nell’incollare il papiro sulla carta
fu alterata la loro disposizione.
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(4) Questa e la precedente linea
furono pell’originale raschiate e
ridotte alle poche lettere come
nella mia trascrizione.
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(1) Aggiungo questi pochi fogli, riuniti dal Peyron nel sesto codice della sua classificazione, perchè
il loro contenuto, quand’anche non facesse parte dei precedenti sermoni, ha con essi tuttavia non pic-
colo rapporto.
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TRASCRITTI E TRADOTTI DA F. ROSSI 128
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VERSIONE DEI SERMONI ®
Foglio 1. — Discorso, che pronunziò il santo Apa Atanasio, Arcivescovo di Ales-
sandria, al suo ritorno dal secondo esilio, sulla Vergine Santa, l’ostello di Dio (2),
Maria Deipara, e su Elisabetta, la madre di Giovanni, confutando e redarguendo Ario ;
e su quelli che fanno l’abominazione delle genti...
Manasse (3), re di Giuda. E sull’ebrietà e sulla fornicazione.
Conviene anche a noi oggi ripetere le parole del profeta e salmista Davide .
nelle afflizioni mi vivificherai. Hai stesa la tua mano contro l’ira de’ tuoi nemici, e
la tua destra mi ha vivificato; il Signore abbia misericordia di me!
Questo pure avvenne a me oggi, o miei fratelli diletti. Imperocchè avete udito
tutti i mali che furono fatti a me per causa del maledetto Ario. I pericoli del mare,
le tempeste, l’esilio, i freddi e le caverne piene di fumo, le prigioni ed il modo con
cui ci hanno gettato nei gorghi del mare. Ma in tutte queste cose
Foglio 2. — Disse all’angelo: Come avverrà questo a me? Io non ho conosciuto
uomo mai. Non è possibile che questo avvenga. Ma l’angelo rispose e disse a lei:
perchè fai meraviglia di ciò che ti ho detto? Se tu non credi a me, ecco tua cugina
Elisabetta, essa pure ha concepito un figliuolo nella sua vecchiezza, e questo è il
suo sesto mese. Costei, che è chiamata la sterile, ha concepito... È
Mana Mpomwayrendo udito a. ent i ie dt Dio. Ma Pali è è vera-
mente il figlio di Dio. Disse Maria, come avverrà questo a me, che non ho mai
conosciuto porno MOTestoRche tu N21 de tt MIR O e
(4) Da quanto dissi dello stato miserando di questi papiri, il lettore comprenderà di leggieri che
la mia traduzione, anzichè un testo continuato, non presenterà che tanti brani, quanti sono a un di
presso i fogli assegnati a questi sermoni. Alle tante lacune arrogi ancora la scorrettezza del testo,
che mi ha impedito, in alcuni punti, di ben comprenderne il senso.
(2) EEOZOROC (deodoyos) significa letteralmente Deum suscipiens, e si dice specialmente del
corpo della Beata Vergine. (Thesaurus graecae linguae ab Hen. Stephano constructus, vol. IV, p. 293).
(8) Nel testo copto invece di srdIm(Acce) leggasi srasm(aCcH).
124 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
L'angelo rispose: perchè ti meravigli di ciò che ti ho detto? Ma Maria avendo ascol-
tato, si meravigliava, e seco stessa pensava dicendo, in qual modo? Se la sterile con-
cepì nella sua vecchiaia, ad ogni modo partorirò io pure. Ed avendo . . . .
Foglio 3. — (Disse Maria) all’angelo: Ecco io sono l’ancella del Signore, suc-
ceda secondo la tua parola. E l’angelo del Signore si allontanò.
Infine essa concepì nell’udito delle sue orecchie. Essendo l’angelo partito da lei,
essa meditò seco stessa e disse: Io voglio andare alla montagna e vedere se vera è
la cosa o no. Sorse adunque in fretta, ed andò alla montagna, alla città di Giuda,
entrò nella casa di Zaccaria, trovò la congrua prova (1), trovò Elisabetta gravida,
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le mammelle inaridite, riempientisi di latte; trovò colei che non aveva gustato mai
la dolcezza della maternità (2), portante il feto nel suo utero. Infine meditò
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torirà, io pure partorirò senza maschio. Queste cose poi pensando e volendo conoscere,
Dio la persuase, poichè non solo genererai, ma hai concepito.
Essa abbracciò Elisabetta, la madre del Signore abbracciò la serva, la madre
del re abbracciò (Foglio 4) la madre del soldato; la madre di Dio abbracciò Sr
madre dell’uomo; la vergine abbracciò la maritata; Maria abbracciò Elisabetta nel-
l’abbracciamento esteriore . . A I e EVA SAITTA
Lo Spirito Santo che è in (0 eccitò quello che è in Plisabetta al modo di
uno che ecciti il suo compagno dicendo: affrettati, sorgi; così quegli, che è in Eli-
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dicendogli: vieni, rendi rette le mie vie, acciocchè io compia l’economia a me
stabilita. 9
Essendosi poi Maria ed Elisabetta abbracciate, Cristo pure abbracciò Giovanni
nell’utero della madre sua, secondo quello che è detto nel Vangelo. Avvenne poi che
all’abbraccio di Elisabetta con Maria, il bambino sussultò di giubilo nel seno di lei.
Vieni ora, o Ario impuro, ascolta Colui, che è nell’utero di Maria . .
Foglio 5. — . . Pica ‘vicendevolmente ; fi dl figlinolo della sterile
predica al mondo intero: Ei il figlio di Dio nell’utero della Vergine Santa, Maria.
Ma, dirai, in qual modo? Ascolta, io te lo dirò. Giovanni avendo udito la voce del
suo Signore, lo salutò colla bocca della madre sua; gioì infine e volle uscire incontro
al suo Signore. Ma non trovando più modo di reggere alla gioia, gridò colla bocca
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verso la Vergine: Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del ventre tuo. lo
chi sono, perchè la madre del mio Signore venga a me?
(4) Traduco congetturalmente per prova la radice gesqreToOpe. Questa radice con lo stesso ag-
gettivo verbale EcjCsgormm si trova al foglio 34 scritto asenTwpe. Il Peyron nel suo Lessico a
pag. 202, per dare a questo aggettivo EYCLLOSNT il valore di congruus, cita il nostro papiro, ma
non menziona affatto la radice QELLETOPE od SIL MTWPE.
(2) medA06 fiwHpe, letteralm. la dolcezza figliale.
TRASCRITTI E TRADOTTI DA F. ROSSI 125
Non pensare, o miei cari, che Giovanni sia l'organo, ma Elisabetta è l’organo.
Giovanni parlò per la bocca di lei; imperocchè al modo che (Giovanni è l’organo del
Salvatore nel saluto di Elisabetta . 7 IC DR) 1 QI CANTI VOR
ha salutato Giovanni nella bocca della madre sua. Se tu non doi, vieni, io l’in-
terrogherò con te n alpi a). * JR URP. 0,
Foglio 6. — Un angelo dala con lei didnt ecco la madre del Signore
viene a te. Forse conviene che Elisabetta sorga ed esca incontro a lei e la riceva
în casa? No, ma Maria stessa entrò da lei e l’abbracciò, secondo quello che è scritto.
Entrò nella casa di Zaccaria ed abbracciò Elisabetta.
Avvenne poi che Elisabetta avendo udito il saluto di Maria / CAIO:
P Urra Giovanni sussultò nel suo utero e tutte le sue
ia sino alla sua Fal esultarono di gioia, secondo quello che è scritto. Pli-
sabetta fu ripiena dello Spirito Santo, e da lui ispirata gridò ad alta voce: Bene-
detta tu fra le donne, e benedetto il frutto del ventre tuo. Io chi sono, perchè la
madre del mio Signore venga a me?
Maria poi disse ad Elisabetta: Chi è costui che ho veduto? e disse: In qual
modo sono io gravida? Ora tu mi chiami la madre :
Foglio #7. — . . . . . . . vedendo qual segno del iaia fiato del
mio utero. Forse che il mio ventre non s’agitò? o le mie mammelle non si riem-
pirono di latte? od il mio volto perdette il colore della verginità? No, mia signora,
questo non ayviene; ma io dirò a te la verità. Avvenne poi che essendo . .
SWUTSOSI NI colpì le mie orecchie. Il bambino sussultò di
gioia nel mio seno, e o colei, che ha creduto, poichè si compieranno da Dio
le cose, che furono dette a lei.
Avete saputo che Giovanni, colui che parlò per la bocca .
D’onde Elisabetta conobbe che Dio ha parlato in Maria? Forse un uomo lo
annunziò? (1) o non è forse l’angelo che si palesò ad Elisabetta ele disse: Io sono
venuto e parlo con Maria? o per contro l’evangelista disse queste cose, perchè sono
accadute? Ma lo Spirito profetico, che è nel suo utero, è quello che parlò queste cose
per la sua bocca. Imperocchè al modo, di una donna, che cerca una sposa al figliuol
suo, essa va ed entra in casa dei genitori di lei .
Foglio 8. Mares TI LOABORIAITO TINA 4
parlò con lui ed annunziò la nascita di civanai Ma bada: Che cosa gli disco? Fu
esaudita la tua preghiera, e la tua donna Elisabetta partorirà a te un figlio e tu
lo chiamerai col nome di Giovanni. Quando l’angelo parlò alla Vergine, le disse:
gioisci, tu hai trovato grazia, il Signore è teco. Io sono colui che si fa mallevadore
a te di aiuto, il Signore è teco, nessun male si accosterà a te, nè alcuna calamità
entrerà nella tua casa, il Signore . SMIL I Spe Bert
Ecco tu concepirai e genererai un figlio. Quando annunziando la nascita di
Giovanni, parlò col padre suo, perchè una nascita d’uomo fu quella di Giovanni. Per
questo egli parlò col suo padre: ecco genereranno a te un figlio
(1) Nel testo copto (f. 7, lin. 51) invece di @rrtort leggasi 2Imorw.
126 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
Annunziando Gesù disse a Maria: Ecco tu concepirai e partorirai un figlio, e
lo chiamerai col nome suo Emmanuele, ciò che s’interpreta: Dio con noi, o piuttosto
Dio proveniente da Dio. Disse: si meravigliò la Vergine...
. . . . . ° . » . . . . . . . . . . . . . . . . .
Foglio 9. — . . . . . . . . a ricevere il comando si rallegrano e
gioiscono, così è di Maria. Essa venne da Elisabetta per comandare a Giovanni, che
fosse il profeta ed il prodromo di Gesù.
Giovanni fu primo, e palesò la sua parola dicendo: io preparo il mio Signore
. . ° . . ° ° . . Ò ° . ° . . . . . . . . . . . .
dicendo la voce del tuo invito colpì le mie orecchie, il bambino sussultò di giubilo
nel mio seno. Maria poi udendo queste parole e tutti questi presagi e buoni annunzi,
conobbesinfinerne nt sie aio Taio ani ener dia va
col cuore ricolmo di gioia recitò un inno, che rimarrà stabile fra le nazioni tutte e
la onorerà sopra tutte le donne. Disse: l’anima mia fu elevata nel Signore vera-
IMCBLE XA) I TI ONE ea TAR RR O
O Vergine gloriosa più di tutte iù aio Imperocchè che cosa è paragonabile alla
tua altezza, ostello di Dio Verbo? Che cosa io paragonerò a te, o Vergine, in tutta
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Foglio 10. — . . . ...... + ove è l’urna d’oro, contenente
(1) La continuazione di quest’inno si trova al foglio segnata dal Peyron col n° 36, che qui tra-
scrivo e traduco:
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THpor stTKag . ewc fme6oÀ GI TITICTIC: (perchè ha fatto a me) grandi cose Quegli il
cui nome è santo ed è potente; la sua misericordia di generazione in generazione sopra coloro che
lo temono; fece opere di potenza col suo braccio e disperse i superbi nel pensiero dei loro cuori
con te dicendo che è una creatura il figliuolo di Dio. Esaltò gli umili sulla terra, che siamo noi che
fummo umiliati, reggendo a tutti i patimenti per la confessione del figliuolo di Dio. Saziò di beni gli
affamati. 6 ò : 7 ò Questi che ci saziò ora colla parola sua vivente e dolce.
Rallegriamoci e godiamo in compenso dei giorni in cui fummo umiliati. Accolse Israele suo servo,
che siamo noi, il popolo dei cristiani . Ò . . . -
nello Spirito, al modo che giurò ai padri nostri, ad Afp ed al suo seme in oc CLoE il patto
che stabilì con essi. Benediranno te tutte le tribù della terra, cosicchè fuori della fede . —.. .
. . . ° . . . è è . . . e
TRASCRITTI E TRADOTTI DA N. ROSSI 127
veramente la manna, cioè la carne in cuì è la divinità. Io ti farò simile alla terra
tu porti i piedi ed il corpo ed il capo di Dio perfetto nel tuo seno. Quando dico
il cielo eccelso, ma esso non è a paragonarsi con te, È scritto che il cielo è il mio
trono, ma tu sel. +... “iis : È è audi
Quando diciamo eccelsi gli siii di Dio e gli tg Ma i tu sei più eccelsa di
tutti loro. Imperocchè gli angeli e'gli arcangeli servono con timore Colui che abita
nel tuo seno, e non possono ardire di parlare, ma tu parli con Lui liberamente.
Quando diciamo, i cherubini eccelsi, tu sei più eccelsa di tutti loro; imperocchè i
cherubini sostengono il trono di Dio, ma tu sostieni Dio nelle tue mani. Quando
Foglio 11. — MRO RON E AC diciamo i of li in: sei it
prestante di tutti loro, imperocchè i serafini coprono il suo volto colle loro ali, perchè
non possono guardare la gloria perfetta. Ma tu non solo guardi il suo volto, ma ti
fai soave in Lui x i
Veramente l’anima tua si i Di rana e lo Gsilon tuo giubila i in Dio, mio Sal-
vatore, che guardò l'umiltà di Eva, e per te ebbe pietà di lei. Imperocchè tu sei la
madre dei viventi . CUT ; È È è
della vita di tutto il mondo. liva poi è detta 1 dada dei n pan tutti mMuo-
iono in Adamo, e tutti vivranno in Cristo. Eva prese dall’albero (il pomo), lo mangiò,
e ne fece mangiare al marito. Ora Dio disse loro: se mangerete dei frutti di questo
albero, morrete. Eva ne prese e ne mangiò, e ne diede anche al marito, che ne
mangiò con lei, e morì. In te, o Vergine saggia, abitò il figliuolo di Dio
Foglio 12. — Questo è veramente il legno della vita. (Cristo) diede a noi il
suo corpo, noi ne mangiammo, e la vita si diffuse in tutti. Tutti poi vissero per la
misericordia di Dio, tuo figliuolo diletto.
Per questo il tuo spirito si rallegrò in Dio tuo salvatore . } È
al sibilo del serpente l’inganno penetrò negli uomini. Ma tu hai aperte le tue Dieci,
hai ascoltato l’invito di Gabriele. Il pentimento germogliò nei figliuoli degli uomini.
Eva parlò col serpente, ed il genere umano fu contaminato dal veleno di lui
la maldicenza e la golosità.
Maria stessa poi disse all'angelo Gabriele: Come partorirò ?
Le labbra di tutto il genere umano furono purificate nella verità, nel penti-
mento e nella giustificazione. Eva guardò l’albero con invidia, e la voluttà e la pro-
stituzione si moltiplicarono sulla terra, e furono tutti come quei cavalli libidinosi,
ciascuno dei quali nitrisce per la femmina che gli sta presso.
Maria pure guardò Gabriele, che parlava a lei con soavità. La purificazione
mE DATE
Foglio 13. die E . + + il genere umano e la continenza e la
purità e la nEoR A (0) Se darlo del cielo, del quale l’uomo ha approfittato per
te, o Vergine veramente. Vieni adunque ora, o discepolo di verità, entra in tutta la
contrada d’Egitto, e nella nostra città di Alessandria, che ama Cristo, e vedi la
purità in qual modo germoglia.
128 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
Alcuni portano la purità, si fanno simili agli angeli nella bontà, non gustano
il banchetto nuziale, ma conservano la verginità sin dalla loro nascita
altri si fanno eunuchi da se stessi per il regno de’ cieli, e conservano la continenza
perfettamente ; avendo le loro donne, stanno al. modo di quelli. che non le hanno.
Altri si spargono nei deserti e pei monti, e nelle caverne ANTI LIE
AUDILNI LUARISI CRANE col digiuno, e la maniera con cui lecito gi
‘ogni e da ogni riposo, fino l’acqua, che i loro cani bevono, essi non la
bevono; fanno ora queste cose, emulando il loro modo, volendo conservare la purità.
O Vergine SAMO LOT
Foglio 14. — Purificati dei o corpo e nel loro rita: e, trovarono
questo dono eletto per te. O Colei, che ha penetrato l’abisso della morte, che regnava
e signoreggiava AI) LRAMIBIBRE RI a AU MLA
Imperocchè la o è la veste ol di ala corona dei cherubini, la collana
dei serafini. D’onde i figliuoli delle donne ottennero questo siffatto dono se non per
Colei, che porta la purità
DI
Questa grande grazia è accordata a noi per te, o madre della vita. Veramente
la tua anima è eccelsa nel Signore, il tuo spirito gioisce in Dio, tuo Salvatore, da
‘ora e per tutte le generazioni sino alla fine dei secoli. I santi tutti benedicono te
sin dal principio in tutte le generazioni della terra. Adamo giustifica te sin dal prin-
cipio della Genesi, chiamandoti la madre dei viventi tutti. Mosè giustifica te
‘Foglio 15. — . BAR ESA E Ta guri Li Gna ecco la
Vergine concepirà e ia un figlio. Parimenti ancora. Isaia dice: si accostò alla
profetessa ed essa concepì (1). Ed ancora Isaia dice: senza che tu provi i dolori
del parto, partorirai. Ezechiele ti giustifica dicendo: la mia sorella, la mia compagna,
la mia colomba perfetta. Davide predica la tua giustificazione dicendo: la città del
grande re DEA E O RR RE e ARA, ARI RARE Ce
Imperocchè all’ora in cui tu sei andata da. Elisabetta e ti sei incontrata con essa,
Davide venne nel mezzo colla sua cetra della pietà, e cantò dicendo: la pietà e la
verità si incontrarono tra loro. La pietà adunque è la figlia i
sopra la creazione tutta.
La verità è ancora Giovanni che ha attestato la verità, dicendo: Ecco l’eletto
figlio di Dio! La verità e la pace si baciarono a vicenda. La verità germogliò
Foglio 16. — . . Ei PARA a o per lei, perchè era
giusta innanzi a Dio. La pace pure è Maria, questa che col frutto del suo seno
tolse l’inimicizia che era sorta con Dio 8
dal suo corpo.
La verità, che germogliò sulla terra, è Giovanni, questi, che nacque da un
(4) V. Isaia, VIII, 3.
TRASCRITTI E TRADOTTI DA F. ROSSI 129
padre terreno e da una madre, che fu formata di terra. Per questo disse: la verità
germogliò . . . . mas, LOTO PRATI! DN ISPA,
(facendo) testimonianza della verità per lui, atontioi Reco l'agnello di Dio, che
toglierà il peccato dal mondo.
Becco, questo dicemmo, che i santi attestano fin da principio la tua giustifica-
ZIODONINOA ORD POI
ogni ipotesi.
Ritorniamo del resto sopra l’esposto. — Imperocchè fin d’ora le generazioni
tutte degli uomini giustificheranno me. Perchè giustificheranno te le donne tutte
BOSIO TRA] LIA OO DAI 1080 imoni ha divino
adiutore.
All’ora poi che fu generato Giovanni, gli uomini si rallegrarono , ed il suo
stesso padre profetizzò di lui. Poscia ton NR CRI MA :
Quando fu generato il Salvatore, gli angeli si SATO con le legioni calotta
ed il profeta Simeone profetizzò di lui con Anna, la figlia di Fanoel, la forte
vedova SR A IE VALI e RESA EN E LI EIA VAL DIREI IO USI
Abramo; tutti i credenti in Dio pel figliuol suo, essi sono il seme di Abramo,
Maria poi rimase presso di Elisabetta tre mesi, poscia ritornò alla sua casa medi-
tando e meravigliandosi di . ER, :
Ora essendo compito il termine per Plisabetta di DE essa generò ian suo ; figlio.
T vicini suoi, ed i congiunti udirono, che il Signore aveva moltiplicata la sua miseri-
cordia con lei. Ma bada che SR SAC 3 SORA TASSO. :
Foglio 18. — . . REALI iatesta poi Mosè, diGeAaoi trovò grazia
alla mia presenza, perchè è un servo fedele. Enoch, del quale fu detto: è un giusto,
perfetto nella sua stirpe. Giobbe era un uomo veramente semplice, servitore di
Dio, abborrente dal male 5
Daniele del quale fu detto: MEPRRONROI CN ETICI ARRE TORRES = DRSGIHATR NOCI NNT RR RITA TO
tu sei un uomo desiderando. Di Davide è detto : io ho trovato Davide figlio di
Tesse, veniente nel mio cuore. Questi farà tutte le mie volontà. Ecco questi tutti
sono a noi capi della Scrittura, ma non troviamo uno di essi nella Scrittura (che
dica di lui: Questi è mio figlio) fuori del Verbo vero di Dio. Costui col quale parla
fin dal principio, dicendo: facciamo un uomo a nostra immagine e similitudine.
E se vuoi assicurarti della verità, ascolta: Imperocchè all’ora che Dio parlò
ad Abramo, gli disse: sii buono al mio cospetto (1) e senza peccato, ed io stabilirò
la mia alleanza con te. Certamente non può dire : se sei buono io ti chiamerò mio
figlio. 0 quando avendo parlato con lui, disse: io ho giurato meco stesso
Foglio 19. — è senza padre, è senza madre, non parlarono della sua stirpe,
che non ha principio di giorno, non ha fine di vita.
Se tu dici è Melchisedech, egli pure è generato al modo di tutti gli uomini
(4) V. Genesi, XVII, 1. È
Serie II. Tom. XXXIX. EN 7
130 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
altrimenti in qual modo avrebbe regnato nella città di Salem. Imperocchè non
udimmo mai nella scrittura, che alcuno fosse generato senza padre e senza madre,
altro che l’Unigenito solo, il Verbo generato dal padre senza
Ha mai detto Dio ad uno (1) degli angeli: facciamo un uomo?
Se dunque questo non dice, la cosa è manifesta. Egli prende consiglio da Colui,
che è nel suo cuore in una sostanza sola, che è il figliuolo. Questi, che fu mandato
prima dei giorni, prese carne senza seme nell’utero di Maria. Ma se la testimonianza
non è innanzi a te, sì! dimmi, chi è quegli che SET POLIA
Foglio 20. — . . . . . . .. sulla tua parola certa sì! annunzia
a me, ed io tacerò. 0 per contro tu credi a me, tieni il silenzio, Se tu conosci
il mistero, spiegalo a me ed io tacerò. Dimmi: chi è quegli che parlò con lui
nè uno fra gli angeli, nè (2) uno dei cherubini o dei serafini. Nè alcuno evidente»
mente dirà: a quale degli angeli Iddio disse: vieni con me, facciamo un uomo;
DOLCIEÀ N NEAR RO IERI AO RA
parlerà ad uno dei cherubini, o ad uno dei serafini, formiamo un uomo. Imperocchè
quando si manifestò ad Abramo presso l’albero di Mambre, seduto sulla porta del
suo padiglione, all'ora di sera INTRA PAESE RICO PARLATA SI E
tre uomini camminanti IRPI RARI TARE O MELO SR RI O TECO TE PENE OST, ; f
Dio è co’ suoi angeli, al modo che è scritto. L'angelo venne sopra Sodoma. Parlava
con gli angeli, o con uno delle legioni, che up tes
Foglio 21. — . . . . . . + io benedicendo, henedirò te, e molti-
plicando, moltiplicherò te col seme tuo a guisa delle stelle del cielo nella’ loro
moltitudine, e benediranno il tuo seme le nazioni tutte. Certamente non può dire :
io farò che tutte le nazioni si sottomettano a te, o che ti chiamino figliuol mio
All’ora che parla con Aronne e con Maria a riguardo di Mosè, dicendo (3): se un
profeta sorge fra voi od un sognator di sogni, io mi paleserò a lui in sogno, e par-
lerò con lui in visione. Questa è ‘ancora la maniera di Mosè, mio servo, io con
lui parlo bocca a bocca.
Può forse dire: questa è la maniera di Mosè, mio figlio? Ma egli dice; questa
è la maniera di Mosè, mio servo. Poichè sua non è la figliuolanza, egli si palesò
un servo. Dimmi, adunque, o Ario, tu, che sei marcito prima della tua ora, chi è
Costui, che grida per la bocca del più grande fra i profeti, Isaia, che ha contem-
plato i serafini, che ha veduto il Signore Sabaoth, seduto sul suo trono .
° © ° ° . . . . . . . ® . . ° è . O
Foglio 22. — Scritto: senerarono me prima di tutti i monti. Ed io era con
Lui, che stese il suo trono sui venti.
To era con Lui preparandolo.
(1) Nel testo copto (f. 19, lin. 44) invece di oT48 MiiartedOc leggasi Ora gm martedoc.
(2) Il testo copto ha XIMova gui mexceporgin.
(3) Num. XII, 6.
TRASCRITTI E TRADOTTI DA F. ROSSI 181
Egli è ancora Colui, che è senza padre nella sua carne sulla (terra)
Chi oserà dire: io sono il padre di questo fanciullo? Ma il suo padre è al di sopra
d’ogni principio, Quegli che grida apertamente: questi è il mio figliuolo diletto,
COLUI, AGNOLNi A CRTIR de aio 0) HR SEA RIA TI) iaia AM a,
tu non accetti la prima testimonianza; ecco la seconda. E di nuovo: tu non accetti la
seconda, vieni con me verso la terza.
Tu dimmi: Chi è quegli, di cui Isaia gridò 97 OI
Figliuol mio diletto, quello che io amai, quello in cui ho posto l’anima mia. Io
porrò in lui il mio spirito, e sarà giudice delle genti. Chi dunque in tutta la crea-
DANS) LISI ONE TIA MOIO O CAS ATORI SAI CRANE TOTO IAMILZOO SONE IAA LU USE PRA CAS ALSO GR AO PRE I I
Foglio 23. — Imperocchè l’uomo in tutta la creazione non fu elevato mag-
giormente di Abramo, di Mosè, di Elia, di Giobbe, di Noè e di Daniele, e non
attesta uno di essi così dicendo: Questi è mio figlio
piacque alla sua presenza.
Abramo piacque a Dio avendo creduto a Lui, e gli fu imputato a giustizia.
Di Mosè poi disse; tu hai trovato grazia innanzi a me, ed io ti ho riconosciuto
SCOPI SI NOOO ECO (IMA CAGMIBNCTSS OI VORNSGI CI REI IPO RIEN OUIFUTSIRO RS ILA Ae CI CENA
piacque a Dio, e fu attestato di lui dicendo: è un giusto, che serve al modo di un
servo, o d’un ispettore, o d’un amministratore, amministrante la sostanza del Signore,
curando le sostanze, le possessioni, i campi, gli armenti, amministrando bene, tenendo
conto dei frutti, essendo sani i suoi buoi, si rallegra dell’amministrazione del servo,
poichè è una cura che trova grazia al suo cospetto, e lo colloca sopra tutti i suoi
governatori. Questa è la maniera 6 dito
Foglio 24. — Isaia, profeta, parlò del tasto della vergine e i’Aiide Ecco, la
vergine concepirà e partorirà un figlio.
Attendi, ed ‘ascolta: in qualimodo ® vu. 000.0.
Egli non disse da principio: la vergine concepì, acciocche tu non pensi sicsrr
da una vergine, ma annunziò la cosa così: Ecco, la vergine concepirà e partorirà
un figlio, Egli è il Verbo. Nessun altro è stato senerato prima di Costui da un’altra
vergine senza seme NOA, 3 5
quest'altra testimonianza per te non è fedele.
Ecco io farò che l’angelo Gabriele parli colla Vergine e ti persuada, dicendo;
ecco, tu concepirai, e partorirai un figlio, e lo chiamerai col nome di Emmanuele,
ciò che vuol dire, Dio con noi.
Hai ascoltato la testimonianza fedele, il tuo cuore si persuase. Ora se tu hai
prestato fede, non indagare il fatto della generazione, non scrutare l’atto del parto,
ma dici ; SRO EMIRATI OIBAMI BRIO CRT OR ER
Foglio 25. — . . . . . il grande mistero, che è il carbone nella mano
del serafino, il tipo del corpo della nostra vita, Gesù Cristo. Chi è questi che grida
di lui: ecco il mio figlio, Quegli in cui mi sono compiaciuto, il mio diletto, Quegli
in cui la mia anima . . . SIE a o SR MI
Se tu non sai, ricevi la mia VERA sta in silenzio. Imperocchè se tu sai, non
opporti a me. Se tu neghi e mi dici: io non conosco, io ti dirò anche con Paolo
132 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
Ma io ti istruirò, se tu mi ascolterai. Quella voce altissima, che traversò i cieli, pe-
netri nel tuo cuore; ascolta tu pure, acciocchè, se tu conosci, che stai presso Gio-
Vanni A Non e RO A TA EMI RARA ARCA TERE PORRO AVERLA UL
il Padre gridante: Questi è il mio figliuolo diletto, Quegli che compie la mia volontà.
Ecco la seconda testimonianza. Se il tuo cuore è convinto, se tu hai prestato fede,
se 3 . è è o . . . . . a EU) . . « n . . . . . è . °
Foglio 26. — Accadde poi che in quei giorni uscisse un decreto di Cesare
Augusto ordinante di registrare tutti i villaggi della terra. Questo è il primo registro
di censo che fu fatto, essendo Cirino governatore della Siria, e
stessa città.
Venne pure Giuseppe dalla Galilea alla città della Giudea, alla città di Davide,
chiamata Betlemme, perchè egli era della famiglia di Davide
accetta a lui, essendo gravida.
Questo grande prodigio cammina con lui per nove mansioni, da Nazaret sino
a Betlemme; la vede gravida, il ventre di lei è gonfio, essa cammina a lento, ed
egli non l’interroga. Dopo questi grandi deserti
gli uomini loro vicini, dicendo: d’onde sono ?
Nè simile pensiero sorge nel suo cuore. Ed andarono a Betlemme, trovarono il
registro del censo e quelli che facevano il registro. Egli pure diede il suo nome
Foglio 27. — . . . . . della casa di Davide, e Maria sua moglie, e
Colui di cui è gravida. i
Avendo Dio stabilito che si facesse il censo, la vergine essendo gravida, essendo
IlWsegretario edi mana tato RR Re e
di tutte le provincie d’Israele attesteranno la tumidezza (1) del suo utero, la vergine
santa, gestante il bambino, ma piuttosto l’(autore dell’)universo scriverà a servitù .
(Dio), quella che lo genererà , confessando le scritture: Questi è il figlio di Dio.
Essendo compiti i giorni, essa partorì e generò il suo figlio ; il suo primogenito fu
posto in un presepio, non essendo luogo a loro nell’albergo . . . . . RS
Disse: non era luogo loro nell’albergo. Oh! questa grande molestia (?) che ebbe il
figlio di Dio, lo molestò e venne sino a noi. Quegli, che è rivestito di luce
Foglio 28. — . . . . . fascie. Colui, che siede sui cherubini, lo posero
in un presepio; Quegli cui è la terra tutta, disse: e non è luogo a loro nel-
l’albergo.
Il Signore dei mari e dei fiumi disse: è in un albergo, Ma non pensarlo, o
caro, al modo di .
è in un albergo.
Imperocchè è il Signore dei mari e di tutta la terra. Vedi la stella, che
apparve, annunziando la sua signoria, eccitando i magi sin dall’Oriente a venire al
presepio . i
CORNI
(1) Considero il testo copto TTIITOMTOC, come una forma errata, invece di TTOT'ROC, dal greco
dyx0s,
TRASCRITTI E TRADOTTI DA F., ROSSI 1339
la sua signoria, prostrandosi a lui, portandogli dei doni come a Dio e come a re.
Disse: vennero a Gerusalemme e chiesero: dov'è il re dei (Giudei, che è stato
generato ?
Imperocchè noi vedemmo la sua stella nell’Oriente, e siamo venuti per adorarlo
saper dove? poichè è una stella regia. Ascolta : non sì è inteso d’uomo, nè si è detto
che egli sia stato annunziato a noi per lettere, ma vedemmo la sua stella, e siamo
venuti ad adorarlo.
O magi, d’onde avete saputo che è una stella regia? nai RRSI SEORISUIA
Foglio 29. — . . . . . dai numeri di Mosè. Balaham, figlio di Beor,
disse : Benedetto Israele, perchè una stella si eleverà su Giacobbe, sorgerà un uomo
che farà miracoli, che atterrerà i governanti di Edom e gli arconti di Moah
Volgiamo la nostra attenzione a quest'uomo che farà prodigi.
Del resto, avendo noi veduto la sua stella all’Oriente, siamo venuti ad adorarlo.
Noi abbiamo appreso, che fu generato quest'uomo, che opererà miracoli. D’onde ap-
TORCIA IERTIE) La e AR I ACEA I e RC ALLE Sio Mi
Noi abbiamo udito che Egli viene, e prende le spoglie del Toei Noi primi siamo
venuti ad adorarlo ed a portargli i nostri doni.
Avendo Erode udito queste cose, si conturbò molto, e con lui Gerosolima tutta
udendo IGURA ERMANNO ORI TI A CA Ia), Dad: Olrtiaiiati dae, o aloni)
dicendo : fu generato Cristo. E la fama si diffuse per tutta quella provincia della
Giudea, dicendo : fu generato Cristo. Eccitarono quindi il re a cercare con diligenza,
per tema che dopo un tempo insorgessero contro di lui, e lo cacciassero da i;
Foglio 30. — . . . . . del popolo; e domandò loro: dove fu gene-
rato Cristo ?
Ma essi non lo sapevano con certezza, ed avendo pensato a ciò, che è detto
nella scrittura, dissero a lui: in Betlemme della Giudea.
RL ESERa A ON 0 IMA ARRE, ISDII Ari ct et Mafie. AL, cea 49), AO
al governatore della Giudea; imperocchè uscirà da essa un Capo, che pascerà il mio
popolo d’Israele. Avendo udito queste cose dai sacerdoti, mandò a chiamare i magi
_ 2 Betlemme, e cercate con diligenza il bambino, se lo trovate, annunziatelo anche a
me, acciocchè io vada e l’adori; ma volendo piuttosto ucciderlo }
Sapendo che questa non è una stella al modo di tutte le stelle, ma una virtù sul
l’Altissimo, che prese la forma di una stella, ed illuminò l’intero mondo, confer-
mando il fatto ; a EROI ARIE AEREE UP ATEI ION VE CIRO USI I RUENIIIOE, cr
Foglio 31. — . . . . . . la giustizia sotto le sue ali. Disse: essendo
stati uditi dal re, se ne andarono. Ed ecco la stella, che avevano veduto all’Oriente,
andò innanzi a loro, finchè pervenne e si fermò al luogo, ove era il bambino
dell’altezza, che prese la forma di stella. Essi pure presero fiducia nel prodigio che
avevano veduto. Avendo poi contemplato il bambino nel presepio, non dubitarono
affatto, al modo
134 | PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
non pensarono al tuo modo, 0 Ario, dicendo che è una creatura. Non osservarono le
fascie, in cui era avvolto, non pensarono al corpo che portava, ma pensando alla
divinità perfetta si prostrarono . SUNT Ò ; ; N
videro il bambino nel presepio, e non mae affatto, al La a o Ario insano!
Videro il bambino nel presepio, si prostrarono e l’adorarono. Apersero i loro tesori
Foglio 32. — ... .. |. . . oro come .re, incenso come Dio, mira
come uomo. Confessarono col loro dono Cristo perfetto, dicendo: il re è Dio e uomo
ad un tempo. Vedi tu pure la sua signoria; gli angeli predicano
le fascie, il presepio ed i pastori e l’albergo, annunziante a noi con diligenza i loro
compagni, annunziante a noi così: sono pastori in quel luogo di ricovero
del Signore si palesò ad essi, e loro splendette la gloria del Signore.
Temettero i pastori di un grande timore. Poscia videro un angelo secondo il
loro costume, parlante con essi. Disse SA E A A A
(non) temete: Ecco io vi annunzio una grande gioia, che toccherà al popolo tutto,
poichè è stato generato a voi il Salvatore, Colui che è il Signore nella città di Davide
Foglio 33. — . . . . . . +. la siepe dell’inimicizia, questa che il
diavolo fin dal principio pose nel mezzo. Collocò il Cherubino con la spada di fuoco
a guardare l’albero della vita, acciocchè l’uomo non si accostasse ad esso
apersero a tutti gli uomini la via all’albero della vita, perchè noi ci potessimo con-
durre ad esso, e vivere mentre mangiamo di esso, che questo è il corpo ed il sangue
del nostro Signore, Gesù Cristo, il grande albero della vita .
5 Sio EMRIRSIOARA ROTA GINPICIMIRAGAS AT ME avvolto nelle
fascie, Dna nel presepio. Ta poi e tra loro, AS siamo noi forse fatti
degni di questa grande grazia, che Cristo sia generato nella nostra schiatta? Impe-
FOcchemDionyolle ee E
perchè fu generato Cristo.
Ma repente fu coll’angelo una moltitudine degli eserciti del cielo, benedicendo
a Dio, gridando: gloria a Dio nell’alto de’ cieli, e pace sulla terra
Foglio 84. — . . . . tutti quelli che pongono il loro cuore in Lui.
La gloria di Dio è nell’alto de’ cieli, e la pace sulla terra con gli uomini della sua
volontà, imperocchè la divinità è perfetta sin. dal principio. La pace sulla terra fra
AIRONE RNSI OEERI SATA QOGATRATSNE ISGAIIGIOO 0 O
.
si fece uomo. Disse: accadde che l’angelo venisse a loro, ed i pastori
dissero vicendevolmente: la cosa è manifesta da questo fatto; fecero grande mera-
VICARI Ai: TO ce
fai . è . . . . ° . . . O
sorgiamo, ed andiamo a Betlemme a vedere questa cosa, che ci è toccata, che il
Signore sia comparso fra noi. Si affrettarono, dissero, vennero e trovarono Maria con
Giuseppe e col Bambino nel presepio. Si affrettarono .
TRASCRITTI E TRADOTTI DA F. ROSSI 155
SHIN corrono adunque finchè giungono (al luogo), vedono il segnale, trovano
la congrua prova.
Ammirarono le cose che furono loro dette, e se ne ritornarono, dando gloria
2 Dio e benedicendolo.
Foglio 35. MONNIER DIDO VARBEL. PERE Ti
Oggi abbiamo avuto l’avviso maggiore di quello degli ingenti ed abbiamo avuto il
prodigio sotto i nostri occhi. Meditiamolo, esso è più grande di quello dei magi,
imperocchè i magi videro una stella che li condusse ; CORI
essi li trovarono inneggianti, e danti gloria ed annunzianti loro nati gr fido gioia che
era toccata al popolo tutto. Noi pure cristiani, speranti nella venuta del figliuol di
VO E RI REA RI ASI ADDIO, VORO TI, (te LI
ed i convincimenti fermi. Gettiamo da noi i pensieri tutti del diavolo, degli eretici,
procacciamoci la fede al modo dei magi e dei pastori retti: questi che non .
ma adorarono il bambino nel presepio, credenti che Egli era il Fine perfetto. Quando
tu dici, che gli angeli apparvero ad essi, e questi videro la gloria di lui, e medi-
tarono un grande . GORE i ict
Foglio 36. — . . . . ARTROTA i figlio suo SO Gia! è i
mio figliuolo diletto, che compie la mia volontà. I magi ancora ed i pastori essendo
andati alla capanna, videro il bambino giacente nel presepio. Noi pure
posto sulla mensa, al luogo di quel presepio. Imperocchè io ricordo che questo è il
presepio di cui ha parlato Isaia, e del quale ha teorizzato dicendo: un bue
erranti, essendo al modo di giumenti irragionevoli. Noi non conosciamo il Dio che ci
ha creati, essendo noi servi di quelli che dèi non sono. Ora poi non solo noi abbiamo
conosciuto Dio . A to SETE alari ia A
l’apostolo esclama dicendo: a questo tempo voi non conoscete Dio. Vi siete fatti
servi di coloro che déi non sono. Ma ora Dio ha conosciuto voi, imperocchè il Verbo
di Dio Mi aL STR ATI a TI e o SAD deo
Foglio 3r. . +. +. + + la divinità del Verbo, che prese carne da
Maria Vergine. Poli 1 poi è Dio veramente prima dell’incominciamento del mondo. Ora
dove sei tu, o Ario impuro? Perchè NT: a diro ria Aci dr
da Colui, che tu hai bestemmiato, Cristo. Vieni ora, io do la tua stoltezza.
In qual modo, o stolto veramente! tu dici colla tua bocca impura, che una creatura
è il figliuol di Dio? E che non era prima che A dette:
da colui, che ci ha amato, Cristo, il quale ha dato il suo prezioso sangue per noi.
Ecco i flutti del mare stettero calmi, e furono liberati dalla pietra ferma che è Cristo.
Ario poi colla sua moltitudine fu disperso, e disperse furono le sue impure parole.
La predicazione del Vangelo diffuse i suoi raggi a guisa della luce che illumina
tutto il mondo, ed abbevera tutti quelli Ciad ah
Foglio 38. PI . +» ‘accostarsi ai demoni abitanti ate da ed
a quelli che sic culto al tolà ed alla luna ed alle forze tutte del cielo. Queste
cose adunque essendo a noi manifeste, non facciamo, miei diletti, che noi stessi ci
rendiamo stranieri al regno de’ cieli
7)
136 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
Fin da principio Dio si irritò contro la terra, e mandò su essa. il. cataclisma,
che distrusse tutto ciò che aveva creato in essa, ad eccezione solo di Noè, e di quelli
che erano con lui nell’arca. Ed avendo ancora avuto pietà. /./././..0..
Ma come continuarono ancora a fare prevaricazioni, mandò una pioggia di fuoco
sopra Sodoma e Gomorra, che le distrusse, lasciando segni a coloro che oseranno
commettere queste empietà. Egli distrusse sette...
della legge. Di nuovo ancora avendo i figli d'Israele operato in tal modo, li discacciò
dal suo volto, e li punì colla morte, colla famina, colla cattività e colla spada, dan-
doli nelle ima nisi del che fra piron oe A O
Foglio 39. — e stettero alle loro porte finchè le donne fecero cuocere i loro
stessi figliuoli, e li mangiarono, secondo quello che è scritto nei treni di Geremia :
le madri non ebbero misericordia a porre colle proprie mani i loro figli a cuocere,
perp,farsene cibo; IE n i Ra gl Or LI IONSII IONE
il re li condusse in servitù a Babilonia.
Queste cose accaddero a noi per causa dei nostri peccati. Ascoltatemi io ve lo
dirò: Fu un re di Giuda, il cui nome è Manasse. Di lui fu scritto così: . .
. o ° . . . ° . ° 0 . (e ° °. ° . . °
a confronto di tutti i re, che furono prima di lui; servi gli idoli, ed adorò tutta la
milizia del cielo; pose una selva nella casa del Signore, e collocò l’oracolo degl’in-
doymis@lofaneran die Avilicondussegi so iO RON
il re Manasse, che compì tutte queste cose (1). Dopo di lui ancora fu un altro re
(1) Con questo passo, parmi possa connettersi il foglio segnato dal Peyron col n° 20, ed un
altro senza numero dello stesso codice, che qui entrambi trascrivo e traduco:
Foglio 1. — . . . +. . 2IMOPRWgT Musso” egorm srmesttTo ehBod
ILITMONTE . QORLOIWC OM 0gd ÎTTEPEYCOOTTII e&0) NTEYCIX EdRMd4O TE ÎITRI-
GWTOC SAMmoOrTE Xe Me d merace MOwycq eG0AgM TEGIH ERA. . . . .
DIRE RIPA A 8 TILHTE IMA AOC XeMme Adarn erre . H ETOÀSMA
exwa eTRIGWTOC. senzoeie eB0Aggt ITÀdOC IMApa Ieyatnua . GOLLONWC OST
OZIAC mMppo' a‘ToAsta efwk egorm empire strzoerc eTade wuorgaAne eepai
CR AR O MA EI OO EER OR
MTEY9e . AONNON ÎNiTepe meregcnar rgwg encigroore MOTWT d IMOTTE
IATACCE ARRLOY QUIWY d‘yLLOT XENMIME SMALEQUOLLITT RWS, EMEGOIOOTE MYTARO
IMFENS CA i ITEPEYNAR ACUTI O ANA ICE
ERISRROO O VO) PEOV I RT PARE (T)gHT NTOTAAC RH. ETPeyTAAY Moderdp
XE ÎIMEgroT ÎT10E ÎTMEYCMHT . ATW OT IE ÎITA METIAMAT day dYRATA-
NWPIZE dter0y SM oTcgdÌ erpmusseere wyd emeg ze fime Adar p TeICIn-
2.09 XKR IXITApaM0 .
Foglio 2. — . . . . . om mist. sine mmorte fco epoy ze fine
REOTA TOASRA SLITCW ef meyoroî egormi ema eTOTAdE Mapa neysnwyd .
rale ci”
io *
TRASCRITTI E TRADOTTI DA F. ROSSI 137
chiamato Iosia, il quale fu uomo retto innanzi al Signore, e compì ogni giustizia.
Egli distrusse le selve ed i luogi del culto . . . . i va dl
Foglio 40. NAPO dat a ae OgDÌ ono e pa il Signore con
tutto il suo cuore. si tuo queste cose disse: il Signore non cessa dallo sdegno
della sua ira, a causa dei peccati, con cui Manasse lo irritò. Egli disse: io darò
l’altra Gerusalemme . /./.°/.°... RRTISITO ; Der CAT
. + «+ Dio, che riversa le colpe dei padri sopra i pet figli sino alla terza
e quarta generazione di quelli che lo odiano (1). Imperocchè questo egli fece qui dopo
cinque generazioni, finchè Manasse ammalò e morì, e fu compito lo sdegno .
ARE AR, (RES ON ITA qualimnodbmocamminiamo!?
SI RR Ga . «+ + Noi camminiamo come pecore; noi siamo fedeli
esteriormente, ma, deboli interiormente per tentazione, o per malattia corporale, o
per dolore, cosicchè ci trovano che siamo nelle abbominazioni di Manasse, al modo
è DI » . . . . . . . . . . . . . .
aTeTmeisce Ge td masrepate Xe memmofe nenTATTPE Imesmage CEOK. se AprimwT
IV La Le ME TTT
ETERÀHPomnosgIia ÎTMemeroTE RAi t'Ap agRUrcHO MMOLKOG0ETHC QWI ETOOTOT
NiyHpe SriHÀ EqQu #00 Xe ÎMerge, EpegsrorTeE SMEHTTATTA . OT2E
PEFICONTENOMNPEYCIPSOOMEN O e I N N.
E O ITA TICOQUE (CAP) IA NOI NOCONOE
Mai EeTepe MZOEIC MAYITOT EB0À BATETIOH . ATW MRAQ dyZWELL SHLOOT .
AU d MRAQ L.ECTWOY &Mperpe CE RATAPOOT . ATOM QUWIT . . ..
. ° . . . ° 0 ° . . . O n O . . . ° » . ° .
fnaToAsCA ÎTAXOOC fiterge ze puwsse mise eqei frmeyuyHpe Kovi epator
MMpeygrorTe Neyoke Adar ds EITETITPOCENEnTE $RILOOP MM2AIRLWI . emera
ne etper 7% fimerwyHpe epa aio : SESTA vado
Foglio 4.'— . . . . introdusse un fuoco ART, alla presenza di Dio. Patimetti ancora
Oza avendo steso la sua mano per tenere l’arca di Dio, perchè i buoi avevano disviato dalla strada
(il testo biblico, ZZ Re, VI, 6, dice: dre reprioracev adthv d poogos) . . +. +. mel mezzo del
popolo aGGIGechò nessuno fra il popolo osasse toccare l’arca del Se non ostante la sua dignità.
Parimenti ancora Ozia re volle entrare nel tempio del Signore per porre l’incenso sopra .
Del resto avendo il secondo seguito -queste stesse vie, Dio lo percosse e lo fece morire, decidechè
il terzo non seguisse le sue vie, e come lui perisse. ASSO poi veduto ;
il cuore di Giuda fu restio a darlo (il figlio Sela) a Thamar per tema che morisse come i suoi fee
telli. E quello che egli fece è notato in una scrittura a perpetua memoria, acciocchè nessuno facesse
questa morte ca Vo TO
Foglio 2: — . . . . . Dio non l’ha risparmiato, acciocchè nessun altro osasse dopo di lui
accostarsi al luogo santo, non ostante la sua dignità. Avete dunque conosciuto, o miei cari, che sono
ì nostri peccati, che hanno abbreviata la nostra vita. Fuggiamo . . . -Mfie] WNODNCI
rendiamo stranieri all’eredità dei nostri padri. Imperocchè il legislatore Mosò Conan ai figli di
israele dicendo: non si trovino tra voi nè indovini, nè maliardi . . . . . . . Imperocchè
le nazioni che camminano per queste vie; Dio torrà dalla vostra presenza, e la terra le riterrà pro-
fanate, e la terra le odierà. Non fare adunque secondo esse. Noi pure -
oserò e dirò così: ogni uomo, che porta i suoi bambini agli incantatori, non si incon in zialla na
colui che li offre ai demoni; ma in luogo di
(1) fimeterocTE s*e00Ì, letteralm. di quelli che odiano me.
SERIE II. Tom. XXXIX. 18
138 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
delle opere (?) dei demoni. Queste stabilirono fin da principio con frode, ingannando
gli uomini, spacciandole come farmaco. Queste ancora confermando per sempre nei figli
dell’incredulità. Si dandosi a SENATO. RO i CINA ERNIA
Foglio 41. COMI DIRE MPT icon di voi, dicano noi siamo
cristiani, e ci RI del gregge di Cristo, faremo opere più malvagie di quelle
di Manasse, ed ingiustizie eguali alle sue. Alcuni nocciono ai loro figliuoli condu-
condolisfuorività SMR LE lena SIAT. Tao, ere Bo deine cato SIE AA
Fin da principio dice: hanno costrutto l’altare di Zapheth nella valle del figlio
di Ennom, perchè l’uomo conducesse il suo figlio e la sua figlia ad un fuoco mal-
vagio (1). Per questo il Signore . . È È sula BRNO
non sarà più valle di Zapheth, ma sarà Moti imata cale di uccisione, e si e
ranno in Zapheth. Per questa grande ingiustizia molti muoiono dopo breve ro,
fanciulli succhianti il latte dal seno delle loro madri, alcuni
percotendosi essi stessi colle loro mani. Imperocchè commettono questa ingiustizia, e
cose maggiori ancora al modo, che dissero a noi i fratelli vescovi, che vennero con
noi in esilio, essendo stati grandemente tormentati .
‘ Foglio 40. SEGRE SL RED loscirncno e ni di Cristo,
costui, del DI fu sparso il sangue nella nostra città, finchè fu essa liberata dalla
grande rovina, dal diavolo e da’ suoi demoni. Ma ancor di più il grande e glorioso
lo trassero nelle piazze della nostra città, finchè la sua carne fu fatta a pezzi. Queste
cose poi egli fa infliggendo tutti questi tormenti, finchè ci conduce nella servitù del
NEMICO! i N I O OE
da Dio. Dio ci ha abbandonati, ci ha allontanati da lui, e lasciò che i demoni
signoreggiassero sui nostri piccoli figli, e sui mostri vecchi caduti nelle piazze della
città ue uo È SI . . MAIO
sopra di noi, est il SI ne SL i forti. Ha ano un o sopra di
noi (?). Il profeta Mosè ci comanda fin da principio dicendo: io vi percoterò
Foglio 43. — . . . .... + 1 martiri, e cesserà. Tu non ascolti
l’apostolo Giacomo che dice: quegli che è ammalato fra voi, venga alla chiesa, e si
pregherà per lui. Ed ungendolo con olio nel nome del Signore
se avrà commessi peccati, gli saranno rimessi. Avete veduto che grande è l’aiuto per
quelli che vanno alla chiesa. Nè la chiesa cura solo i corpi materiali, ma anche
respingendo da sè l’aiuto di Dio. Imperocchè mentre l’aiuto di Dio è allontanato
dall'uomo, non può far nulla. L'aiuto di Dio prepara le città
e l’altare della chiesa.
(1) V. Geremia, VII, 31.
TRASCRITTI E TRADOTTI DA F. ROSSI 199
Maggiormente poi . . . LA ARIDI . +. i santi di Dio, i martiri,
che sono in luogo di pastori, e le Bini di tutti i giusti che stanno innanzi a noi,
SEI LACIE MEO) RI RO PONT RA APRE DIP RA n, VIA A ST Sid
Foglio 44. — .‘<. . . Dio . . . . l’elmo della salute. Unite i
vostri piedi alla preparazione del Vangelo ; noi ci vestiamo nel vestibolo (orpwn)
della fede, e la spada dello Spirito che è . . . . . . Agire
nella fede, ardente nell'amore, non suscitiamo scismi (1), nè eresie della chia al modo
di Ario e di quelli simili a lui. Ma. . . . . .
non siamo per questa sollecitudine pigri, siamo ferventi nello Spirito, seit noi al
Signore, siamo pronti a riparare ogni disubbidienza. Esaminiamo quanto il sole este-
TION SAM N LI CAI TRI LIAN TOO E CE TI
Io dico questo: non fare che la nostra vita si spenga, prima che ci siamo pen-
titi, acciocchè non ci gettino fuori del regno di Dio, e le forze terribili, queste, che
sono più selvaggie delle fiere, signoreggino . /./.°/././.0.0.0.
Foglio 49. — . . . . . . mangiare e bere. Non siano poste le nostre
mani ed i nostri piedi nell’impotenza dell’ebrietà, non sia la nostra mente ottene-
brata (?) dall’offuscamento dell’ebrietà e dalla moltitudine di parole o... .
degiunilciealezpio (ompAmapre), mat Wai. e en,
Paolo gridante in ogni luogo ed in ogni tempo: leviamo le mani libere ed i
piedi . . . fate strade diritte coi vostri piedi (2). Ed ancora il Signore
sono i suoi occhi inclinati verso i suoi compagni giacenti, sono essi pure inclinati verso
di lui, e non possono pregare per lui. Affliggiamoci anche un poco, acciocchè non sia
Fe malo ERA Elan, AO ESM e E e i:
«+ « «+». ricevere corona, se non si combatte bene. Combattiamo bene
per ricevere la corona.
Non fare che noi esciamo dall’agone, e cadiamo, acciocchè non ridano di noi
tutti quelli che assistono all’agone. Camminiamo |...
Foglio 46. — —. . . . . . il diavolo in mezzo a loro accendendo
il loro cuore. Quando uno cade per debolezza .. . . . . RIF,
l'orgoglio ancora che viene dall’ebrietà. Imperocchè l’uomo che si da all' ebrietà, co-
mincia imporsi (3) alle taverne, mostra orgogli nel mezzo de’ poveri che
l'ira parimenti e l’orgoglio che vengono dall’ebrietà. Imperocchè quando uno beve e
si innebria, pronunzia ogni parola a metà. Quando parla contro uno, allora s’esalta
. . 0 . O 0 O . È . . . . . . . . .
le contese prodotte dall’ebrietà.
(1) Nel testo copto è scritto CYIKKA pel greco aysopa,
(2) S. Paolo agli Ebrei, XII, 13.
(3) Tradussi {rwwy esce. SMCW secondo il significato dato dal Peyron al verbo {Tww,
praecipere iubere (Lexicon, p. 259). -
140 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
Imperocchè si porta il nome di tutti gli uomini in mezzo (?) dell’ebrietà nelle
taverne parlando contro gli eletti, calunniando i compagni ed i vicini . . ì
ROLTIORA RO RN N CAT lA IE e le cure della
vita di quel giorno vennero su di voi a guisa di un laccio. Uditemi ancora. Israele
‘ passò nel mezzo del mar rosso, e non fu sommerso SANI A I APT
imperocchè vogliamo mangiar carne; ed ancora erano le carni nelle loro bocche, che
l’ira di Dio venne su di essi, e perirono in un giorno solo ventitrè mila (persone).
E questa grande uccisione avvenne in tal modo |... 0.0...
e Re aeree) eAsiidilatò; lripudidi#DioxXcheWbha
creato.
Avete veduto quanta vergogna sia mangiare oltre il necessario. Parimenti guar-
datevi dall’ebrietà. L’ebrietà =. . . . D MAREA
acconsentire con me. in ciò che dico, IR, la siffatto cose, dicendo: on!
quelli che s’inebriano col vino; ed ancora il loro vino è l’ira del drago .
Foglio 48. — . +... + «+ Imperocchè i suoi figli e le sue figlie
morirono in un sol giorno, perchè bevevano vino nella casa del loro fratello maggiore.
Disse: un vento venne dal deserto, colpì i quattro angoli della casa, che cadde sopra
GI 39) Gi MOGIARONO eo di SARO NAST PO ARIAS] OISEATVROZIO IDRO
Il re dei Caldei s’inebriò, e lido disse che portassero i vasi Lori e d’ar-
gento, che il padre suo aveva tolto dal tempio del Signore. Bevette in essi colle sue
TAVOFICORTO COSÌ 1000 ALIENO N O IE Re IRA IRVINE, PAN I
co’ suoi occhi la sua sentenza, il braccio umano la scrive: ma non è una mano
umana, è una mano divina, che scrisse così: Dio ti ha tolto il tuo regno, e lo ha
TIVO PErSIAnI CONI AA I OA O
. +. « «++ ignorarono dove lo collocò.
Egualmente Oloferne essendosi inebriato, Giuditta ne approfittò per tagliargli la
testa. A questo sì grande potente sono sottomessi cento ventisette Satrapi, che lo
temono; fin: datti CO) O AT RR NOLO RR E RAR DR
Foglio 49. —. . . . . . . +... li cercano. Piuttosto quelli
che li fanno pubblici, creano taverne nei luoghi delle adunanze ( ID arrossiscono dei
poveri e di quelli che vanno alla chiesa (2) per celebrare la festa. .
‘À
° . ° O . 0 . . ° . n . . . ° . « °
dicendo: non avete voi casa per mangiare o per bere? O piuttosto disprezzate la
chiesa di Dio, ed arrossite per quelli che non l’hanno (?). Imperocchè il vostro vino
ll brncierds . fran: DInopt ht ATI ONERE I ERRATI RIN A
il loro vino e le loro cetre, non spade alle cose del Signore. Paolo ci comandò
dicendo: o che mangiate, o che beviate, o tutto quello che siate per fare, fatelo dando
sloria: ‘aiDiot rt) VALE RO RA I DOTI
Salomone ancora dice: non inebriatevi con vino... .°..°.
(1) Considero la parola Mropa come una forma errata per Marnopa.
(2) EMTOINOC MALRLRAPTTPOC, letteralm. ai luoghi dei martiri.
A REIT FRA ta,
TRASCRITTI E TRADOTTI DA F. ROSSI 141
ed ancora: un operaio che s’inebria, non si farà ricco, ed ancora, se tu dai i tuoi
occhi ai fiaschi ed a SITO TRE CON, TS A RENT a
Foglio 50. 3 Mt È RO NATO di l'ebrieta, pre è la
maniera, con cui i demoni domino sopra colui che catturano.
Fuggiamo adunque dall’ebrietà, o miei cari, noi sappiamo non essere possibile
sostenerla. Noi non siamo più fermi degli antichi, che sono stati innanzi di noi, questi
coi quali Dio ha stabilito il patto MD MR DR, SITR
nudo nella sua casa. Imperocchè Dio lo attesta: io lo vidi giusto alla mia presenza.
A Lot parimenti si palesarono gli angeli di Dio sotto l’aspetto d’uomini, e furono da
IIS OS PILA VI I RIO ARES TNT DR RE O Me i ar ofttor aitgh ves
Sodoma e (Gomorra) le ridusse in una tomba. Se non vitupero le cose pure (?),
o miei cari, ma dico queste cose volendo premunirvi contro l’ebrietà. Imperocchè non
è il vino per se solo che mena all’ebrietà Mir npu: .
Il vino con misura è un rimedio; ed ogni passione viene dall ebrietà. tal men-
zogna è un’ebrietà, la collera ‘è un’ebrietà, la lussuria è un’ebrietà, la golosità è
un'ebrietà, la vanità è un’ebrietà
Foglio bl. si DIP CR a nitvagine di paola che
viene dall’ebrietà; ciascuno dice ci SH gli accade, gridando senza riguardo, non
si o tranquillamente; i prudenti sono come . . .
È i dall’ rai cà spons le collentadi
che vengono dall'ebziotài scono quando parlano a vicenda tra loro, disputano
gli uni innanzi agli altri I ROLO DR LIV SONO i DEI
al modo di un albero, che piantato in un terreno inaffiato cresce rigoglioso; così è
dei desideri, se trovano l’ebrietà nell’uomo, germogliano e crescono .
Imperocchè gli ebri parlano di una moltitudine di cose dicendo: che e quale
cosa faremo?
Ma quando s’abbandonano all’ebrietà, non ricordano i giuramenti, e se uno li
interroga, dicono: noi non sappiamo SUNIANRE E,
Foglio 52. — Imperocchè Isaia grida fin * principio, sdiocidea guai a quelli,
‘cche sorgono al mattino, e visitano le taverne, continuando le bibite inebrianti sino
alla sera. Imperocchè il loro vino AMSA ASPALLICELITURE A ARTS
Imperocchè non è possibile, che alcuna fornicazione, o Dollusione VARE
dell’uomo, se non per l’ebrietà; imperocchè la via della fornicazione è l’ebrietà; poichè
al modo dei carboni . :
il serpente. Fuggiamo dall’ Sbeictai tibia l'ebrietà è fui maggior pera L ebrietà del
vino è una grande vergogna, non è una medicina, ma una lussuria ed una cosa
vergognosa imita: e te ona 3 : ;
i suoi piedi sono on le sue mani sono ae) è NI suo capo PAR la sua
mente offuscata, la sua bocca aperta, e la sua lingua implicata, è la sua parola
Foglio 53. — Imperocchè l’apostolo ci annunzia che l’anima non solo è quella,
che sarà punita a causa della fornicazione, ma giudicheranno
il corpo stesso. Ci annunzia poi questo . . +. . . +. ogni inganno, ogni
142 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
desiderio, ogni mormorazione, ogni ira, ogni bestemmia, ogni violenza .. /. . .
la iattanza è un’ebrietà, l’invidia è un’ebrietà, la superbia è un’ebrietà, l’ipocrisia è
un'ebrietà,«l’ironia;è uniebretà ato Sio, Mr er O ERANO OTO SCI IR ONORATO
la fornicazione del pari, mon faccia che alcuno l’ami, acciocchè questa non lo faccia
straniero a Dio, e lo tolga dalla terra. Imperocchè l’ebrietà e la fornicazione sono
tra; loro; sorelle; in EI i CORIO ORIGINA RIO CATA IAU UR
Foglio 54. — . . . . . se cade in fornicazione una prima ed una
seconda volta, lavi la sua macchia. Poi col sale della parola di Dio la stia cancel-
lando ogni giorno nell’afflizione e nelle lacrime, al modo della madre |...
su lui. Gioverà senza dubbio al suo Signore altra volta (?).
Se adunque non cessa dalla sua fornicazione dopo avere ascoltata la parola di
Dio, e non si pente de’ suoi peccati, non giova...
lo punisce col fuoco dell'inferno; imperocchè un fiume di fuoco è innanzi a lui, ove
è provato. Per questo il profeta Zaccaria grida (1): Egli siederà fondendo ed affi
nando come il sole e l'oro . . . . . . . . . dicendo della città che ha
fornicato: tu sei la caldaia sulla quale sta la ruggine. Io scenderò su di lei, e le
porrò sopra dei carboni di fuoco, e soffierò su di essi perchè ardano, acciocchè l’acqua
che è in essa, sia consumata, e segga sopr& /. ././..0.. lait
Foglio 55. — Ed ancora il Salvatore disse a’ suoi apostoli : 0, sopra i
vostri dodici troni, e giudicherete le dodici tribù di Israele... ...0..
dicendo così secondo quello che io dico: I santi apostoli giudicheranno tutte le iniquità,
tutti gli errori, e le cose tutte, che i figliuoli degli uomini diranno |... .°.
Pertanto il profanatore del suo corpo non pecca contro l’uomo, ma profana il suo
corpo, e profana il tempio di Dio. Ed è questo che volle dire Paolo, quando
esclamò: MONO SIA MORA LMtom pio (OD RR Re e
gloria a Dio nel nostro corpo.
Questa cosa mi colpisce maggiormente, e l’anima mia è conturbata per questo.
Non adunque colui che tiene il corpo suo puro dalla fornicazione, dando gloria
a Dio e conservando l’opera . . . . . SIRIA Ga DIAL O CIRO
Foglio 56. — Di questo foglio è i un solo frammento con due co—
lonne di testo, una mel diritto, l’altra nel rovescio, e queste ancora con lacune,
come si vede dalla trascrizione, în quasi tutte le linee, cosicchè non sono leggi-
bili che queste poche parole:
Salomone dice . . . sazierà la sua anima famelica . . . di mali e
di rovine è causa la fornicazione . . . il suo peccato . . . comandò ai
figli d'Israele . . .nei figli d’Israele, il seme santo non si profani, imperocchè
una profanazione è la fornicazione.
(1) Qui l’autore copto attribuisce a Zaccaria le parole, che sono di Malachia. Infatti questo pro-
feta nella sua profezia, capo III, v. 3, dico: xe0reîtar yuvevov xat xabapitoy dis tÒ Apyupiov, è dis tÒ ypuvotov. .
Nel testo copto inoltre è scritto AYRAOAPIZE, mentre per essere d’accordo col testo greco O
scriversi E|RAOdpIge.
TRASCRITTI E TRADOTTI DA F, ROSSI 143
Foglio d7. — . . . . . . l'inferno di fuoco. Imperocchè questa è la
maniera di procedere degli avventati, col corpo forte in battaglia, combattonsi vicen-
devolmente tra loro. Se poi il cavallo è valente alla pugna salverà
l'anima ed il corpo. Imperocchè quando il corpo è forte può trarre l’anima dalla
battaglia della fornicazione. L'anima è l'onore del corpo stesso. a ‘
Questa è anche la maniera di procedere del corpo, quando cade nella toi sì
brucia l’anima, e si brucia con essa anche il corpo.
Per questo il saggio Paolo grida a noi in un'istruzione
disse ancora l’apostolo: Il talamo sia rispettato in ogni cosa; i dissolati e , gli pia
teri Dio giudicherà. Dicendo così secondo quello che dico. Imperocchè i santi
Foglio 58. — . . . . ci esorta dicendo: Disponete i vostri corpi ad un
sacrifizio vivo, santo e gradito a Dio. Iddio poi dice: Non sacrificherai cosa alcuna
su cui sia macchia. Consideriamo adunque per ogni lato g ;
sull’altare del sacerdote, ci gettino. Fuggiamo dal fuoco mentre (1) è i tempo della
rugiada.
Non mai la rugiada si produce a noi senza che noi troviamo refrigerio.
Fuggiamo da questo grande e grave peccato, che ci stacca da Dio . . . ;
e grideremo (?) contro quelli che hanno fornicato; perchè il loro fuoco non si
estinguerà.
Salomone dice: Un fuoco divora dovunque il fornicatore.
Mosè lo comanda ai figli d'Israele in un grande precetto: Se la figlia . . . .
che è contaminata, sarà bruciata viva. Avete adunque udito tutti questi precetti, che
ci sono stati comandati. Fuggiamo adunque la fornicazione, acciocchè non bruciamo
noi stessi nel fuoco dell’inferno. Imperocchè non siamo noi del Signore È
Foglio 59. — . . . . . . . e non entrò nella terra che aveva low
promesso.
Vedete la fornicazione degli uomini di Gabaa, per cui perirono venticinque mila
uomini di Beniamin. Sappiate adunque quanta rovina tien dietro alla fornicazione.
Fuggiamo adunque la fornicazione.
L’apostolo Giuda ci comanda di odiare la veste -
di notte, rimarrà fuori degli alloggiamenti (2) e non entrerà in essi NE all ora della
sera, e si torrà (3) le sue vesti, si laverà con acqua e si purificherà al sole che
tramonta. Imperocchè Dio gradisce i talami casti . 0... +... +0.
come contaminato; ma per la pulitezza del corpo solamente.
Se sarà nel luogo assegnato al suo riposo, comanda per questo che rimanga
fuori degli alloggiamenti, lavandosi con acqua, essendo polluto, sino all’ora della sera
; Conviene a lui rimanere fuori dell’ovile di Dio, purificandosi
col pianto e con l’afflizione, lavandosi nell'ora della sera, che questa è la scancel-
(1) Considero EMgOCOn del testo copto come la trascrizione della forma greca év 304,
(2) V. Deuter., capo XXIII, v. 10 e 4141.
(3) Ho considerato la radice yWsk (eqeuwse) come una forma errata, od una variante di LWHI,
removere ecc.
144 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
lazione de’ suoi peccati (1), colle sue lacrime sino all'ultima ora della sua vita,
nè cessare di far penitenza, piangendo sopra quello che ha fatto .
Foglio 60. — .. . +. anima, fanno dae cose in lui. Per questo
non è il corpo che sarà La ma è l’anima. Per la fornicazione poi il corpo sarà
bruciato, poichè non è possibile che la fornicazione compia. . . +...
tutti quelli, che sono nelle tombe, udranno la voce del figliuolo dell’uomo, ed
usciranno fuori; quelli che hanno operato bene, ad una risurrezione di vita,
ma quelli che hanno operato male SIATE SOMA LE RATRE.
Compariremo tutti al tribunale di Dio , acciocchè ognuno riceva sand lillo che da
fatto; o bene o male. Se il corpo è puro, ed è vergine, ed ha sofferto con la
andrà in paradiso nel seno di Abramo, l’anima riprenderà il suo corpo, gli
angeli di Dio inneggieranno innanzi a lui dando lode a Dio. Ma se il corpo
è polluto. di fornicazione, edilinvolto N: MdA O RA
Foglio 61. — . . . . che sommerge ogni nave, che naviga, piccola
o grande, quando viene su essa. Questa è pure la maniera della passione della
fornicazione.
Io non vi odio, dicendovi queste cose, nè vi tengo in dispregio, ma io vi
amo maggiormente, ed anche voglio parlare con voi. . . ./...0.°.
Ma avete veduto in qual modo io abbia dilatato la parola; io temo che forse una
delle mie pecore abbia la rogna o scabbia STORICI SONS SRI I
Io vi ho veduto salvati altra volta dalle preghiere venerate del vecchio due
volte. Santo, Apa Antonio e SINAIMIDE int «Copa BIOnC
Gesù Cristo, nostro Signore sin da ora iù in ogni ialo sino sE ine dei secoli.
Amen.
SERMONE DI S. GIOVANNI
Foglio 1. — (Discorso pronunziato dal beato Apa Giovanni arci)vescovo di
Costantinopoli sulla grande invidia dei Sacerdoti e dei Farisei verso il nostro Signore
Gesù Cristo. i
Tutti quelli che sono discepoli del profeta Elia . REL
la povera mensa della vedova. Venite, mangiate presso di noi oggi. I siffatta
piccola mensa del Verbo è preparata anche a noi; un solo pane è posto su essa.
Questo pane non UE Ca RRIO Lr o o
Foglio 2. — I Bino non potranno dire tutti i Si, dell invidia, Tae
al modo che il compimento della legge è la carità , così il compimento dei mali è
la mania dell’invidia. Oh! invidia, nave spalmata della pece dell’oscurità, navigante
(4) Tradussi piuttosto secondo il senso, che secondo il valore letterale delle parole, il gruppo copto
TOTNTERAIA (cuvte)eta) Mmexmofe.
iied Sela i fano TR La rio ae Gessi tassi ttias 6 i nocasi
L SSA RITI TZ I LINE SIA ARI MISA AIA IE rn cela, e 3
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TRASCRITTI E TRADOTTI DA F. ROSSI 145
nelle profondità dell’abisso IE LIO Meana phi È 3
è il diavolo, ed il tuo timoniere (WotEData) è il serpente , gi il tuo marinaio di
poppa è Caino. Poscia a causa di te, o invidia, quegli fu che primo insegnò l’omi-
cidio; l'invidia (1) fu il principio della disubbidienza .
che è nel paradiso, di mangiare del frutto dell’ albero.
Le tue funi sono le catene dei peccati, e delle polluzioni varie e molte di forma.
La tua vela piena di vento è la superbia, la tua estremità (prua?) è l'ipocrisia,
i tuoi remi sono le frodi, i tuoi marinai (?)
o nave carica d’ogni male !
Imperocchè qual male cercherai tu, che non trovi in essa? Vi è l’omicidio, la
contesa, la calunnia, la discordia, la maldicenza, la bestemmia, la frode, la mormo-
razione, le contumelie, le testimonianze false... ... Ir ate
Foglio 3. — ... , . . . èl'invidia; ed i mali tutti che dicemmo,
e quelli che non troviamo a dire, tutti sostiene questa stessa nave appartenente
all’oscurità.
Il cataclisma adunque non può ingoiarla Stante Toto ieeuttio
il luogo santo. Ha questa nave àncore di ferro. Ma furono più prestanti (?) dei
chiodi di Cristo.
Ha questa nave anche l’albero, al modo che abbiamo avanti detto, ma il
diavolo lo tolse e lo segò . . . . . . $ SR ISS, ge
Su questa siffatta nave salirono adunque i giudei 5 ENT con pietre e la
immersero nell’ incredulità. Per questo sino ad oggi vanno errando sul pelago
dell’ignoranza. Tuttavia ; SA ae Re pot
di Cristo saranno salvi, e tutto il sisn perirà nei flutti amari dell’ incredulità. fa
voglia Iddio, che dopo d’essere stato immerso nella voragine del mare, accada a te
di entrare nel ventre della balena, ove entrò Giona |... ...0. .
Foglio 4. — . . . . . presero consiglio per sapere in qual maniera farlo
morire, se con pietra o con spada, o nel fuoco o nell’acqua. Il loro consigliatore ,
il diavolo, ricordò loro il primo legno (albero), per cui morì Adamo, e fece che
ricorressero a quello. Simboleggiò . . se > suore
lo stolto, da questo legno, che è la croce, Seidel la Mao (della Fiora per
l’antica trasgressione, e fece anche grazia della vita agli uomini. Ma i Farisei usci-
rono e presero consiglio per porlo a morte. Oh! . .. ..0.0. 0.
dal diavolo, e fu da lui compito.
Ma piuttosto oh! sconsideratezza ed insipienza dei Farisei! non hanno cono-
sciuto che Dio è immortale; l’armatura poi di terra, che è il suo corpo, si sciolse
ma non poterono estinguere la lampada inestinguibile della divinità. I Farisei pre-
sero poscia consiglio per farlo morire. Oh! grande ed inenarrabile temerità !
E questa cosa incredibile, il Signore venne a cercare e vivificare quello
(1) Considero qui la radice RO,TE, coll’articolo TTER@TE, come la forma corrispondente copta del
vocabolo greco g0ovos.
SerIE II. Tom. XXXIX. 19
146 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
Foglio 5. — . . . . . . il misterio di Cristo, acciocchè fossero gettati
con lui viventi nel lido di Ninive, che è la fede. Ma essi chiusero gli occhi del loro
cuore, nè vollero vedere la fede splendente del ladrone, che fu fatto cittadino del
paradiso! peri la; SUA; a AMET O SENI ATO TALIA MIRA
Ma . . . . +... presero consiglio per far morire Cristo. D’onde u-
scirono ? Uscirono dalla legge che dice: l’innocente ed il giusto tu non farai morire.
Uscirono i Farisei. D’onde uscirono ? Uscirono dal precetto che dice :
al suo fratello. Uscirono i Farisei. D’onde uscirono ? Uscirono dal precetto che dice:
non odierai ne’ tuoi pensieri tuo fratello. Donde sono usciti? Sono usciti dalla legge
che dice : tu non ucciderai i tuoi testimoni SB ME DIDO VE ANAS ORD ICAO
una testimonianza falsa. Uscirono i Farisei, e presero consiglio. Non disse l’evange-
lista da chi presero consiglio. Ma la cosa è chiara; essi presero consiglio dal diavolo,
l’uccisore degli uomini fin dal principio. Uscirono i Farisei.
Foglio 6. — Le
abbandonino noi che li imitiamo.
Ma noi siamo rei (1) di questa stessa loro colpa. Io parlo di quelli che ab-
bandonano la Chiesa per andare al teatro, di quelli che amano i comedianti, le
danzatrici ed i discorsi osceni, e fuggono dagli insegnamenti della salute, e dalla lode
della saviezza PET ae eat RR EEA AE
studiano discorsi vani tratti da desideri impuri (?). Ma le dottrine della divinità, che
additano la via del cielo, sono obliate.
Se un bene non è a noi, che insegniamo la parola di Dio cha
piuttosto che apprendere le parole dei pagani e le dottrine dei demoni. Non fare
dunque che noi rifuggiamo dai dogmi della salute; non fare che noi impazziamo
nella loro pazzia, acciocchè non dicano anche a noi, che abbiamo stabilito un’insania
nella casa di Dio.
Se poi i Farisei hanno detto queste cose innanzi a Pilato |... ..
per non scrivere le parole di verità.
Imperocchè chi è pagano non le ascolta. Ma disse: quello che io scrissi, scrissi.
Questa siffatta apologia conviene anche a noi. Se gli eretici vogliono discutere e con-
tendere con noi, diciamo loro: quello che io scrissi, scrissi, che questo è
Foglio ". — . . . . . . . il loro cuore con saette per gli onori.
Imperocchè gli onori degl’invidiosi sono saette e piaghe dell’invidia. Si fecero incontro
a Gesù, dicendo: Ascolta; che cosa dicono questi? Oh! invidia, piena di mali!
testa di serpe! potenza del diavolo! energia: . ._...°. AMS E
di tutti i diavoli, il lottatore con Dio veramente. Ma rispose loro: ciò che disse il
Salvatore non intendeste ? Egli disse: fu compita la profezia che fu detta di me;
per la bocca dei fanciulli e dei lattanti hai preparato una lode; o
° . . . 0 ° . . ° . CI ° . O ° . 0 O . °
(4) Nel testo copto (f. 6, lin. 5) invece di GHite meretRAHeera leggasi GHIT EITErET'RAH®LA.
del rari i ERA a
TRASCRITTI E TRADOTTI DA F. ROSSI 147
Farisei. Quando poi Iezabele presentò scritti menzogneri per fare uccidere Naboth,
voi avete accolta la cosa con gioia. Anche quando Pilato volle scrivere il titolo di
Cristo, vi siete lamentati, e lo impediste di scrivere. Imperocchè che cosa dissero ?
INONWSCLIVEre; PELCHO GUEST te e I Sal e ERRO RO, SOTA SIR,
che questo è; non scrivere la verità; non fare che sia alcuna salute, non fare che
sia alcun bene. Imperocchè vollero strascinare tutti con loro in questa stessa fossa
dell’invidia.
Ecco queste cose noi abbiamo detto, della stoltezza di questi giudei e della
loro cecità. Ma noi pure, o miei cari, fortifichiamoci A NORE,
Foglio 8. — Questi poi hanno cercato di uccidere il acne di id impe-
rocchè hanno crocifisso il Signore della gloria veramente.
Ditemi, o giudei ingrati ed ingiusti; qual è la colpa per cui voleste la morte
del Signore ? Ma essi arrossirono a dirla. Noi però
della loro impudenza.
Perchè ? perchè egli ha risuscitato i morti. Perchè? perchè ha sanato gl’infermi.
Perchè ? perchè ha aperto gli occhi ai ciechi, ed ha ridato l’udito ai sordi. Perchè?
perchè ha guarito i lebbrosi, e quelli che erano travagliati da convulsioni
chi era posseduto da spirito immondo, ha sanato. Perchè ? perchè ha fatto opere
buone e meravigliose, ed ha insegnato alle moltitudini la via della salute. Ecco sono
tutte queste le accuse, per cui deliberarono la morte del Signore. Imperocchè quando
i fanciulli con le palme andarono incontro a lui, che entrava in Gerusalemme, fu-
rono eccitati dallo Spirito Santo a cantare l’inno della vittoria, dicendo : Oh! Osanna
nell’alto de’ cieli, benedetto Colui che viene nel nome del Signore.
Avendo ciò udito i Farisei fecero come se a
Foglio 9. — . . . . . purificato, ma si arrovellarono . . . . .
perchè il nostro Signore fece guarigioni, curando le anime ed i corpi degli uomini
nel giorno di sabbato. E dell’inoperosità poi nel sabbato si vendicavano. Ma le opere
prodigiose * NE A TREE PSE AM IRIIPEITARN ORA A IPRETAE
stranieri a loro. Da Lilo o Farisei, non vi affliggete, nè meditate siffatte
cose contro Manasse, quando fece che si allontanassero anche dal profeta Isaia ?
quando sacrificarono i loro figli e le loro figlie a . Trtagteg: #15 NItiont
la sua mano diviene arida nel giorno di sabbato, avendo fatto che la mano parali-
tica, che era inerte, si stendesse ad operare in un giorno, in cui non si lavora. Oh!
indifferenza dei giudei, questi che non conobbero . . . . . è necessario che
la mano... RA LIAN
fosse fatta nuova di CRA IL a
la formò fin dal principio, e fu necessario sito la mano del diavolo
spargimento (?) del sangue al culto degli idoli, acciocchè arrossisse Pitt
Foglio 10. — . . . . . nè mutarono nel loro cattivo animo, videro la
donna, su cui era il sangue, avendo lasciato che si esicasse la fonte del sangue. Ma
essi stessi ebbero i loro occhi pieni di sangue per la passione dell’invidia. Quelli,
che sono demoni, si fecero prudenti SUPE PRO PIC TRI TESTETE a da
quelli che sono demoni per l’invidia. Quelli che sono ciechi, essi, che non hanno
148 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
occhi, vedono, e le orecchie dei sordi furono aperte, al modo che fu letto a noi
ora: Essi: ste8sh pol: fOCerOniR ist GU DER Rat Ve IS SE ORSI CS ARA EN SINO.
le anime . . . . .. «+ + +. della giustizia, ed ascoltiamo gli inse-
gnamenti pieni di vita.
Il mare calmò i suoi flutti, mentre il Signore camminava su di esso.
Ma il cuore di costoro produce flutti omicidi degli intelletti .
questo verme che rode. Imperocchè al modo di un chiodo acuto, penetra nel cuore
che lo riceve.
Quale malattia può Rizzo la bellezza del corpo così, come l’invidia distrugge
la bellezza dell'anima? e... . . E VALI SOIA TN RI IO
Foglio 11. — Oh! questa nazione piena di n e questa legge piena di
iniquità, che fu scritta dai demoni, e sancita dal diavolo, e conservata dai giudei
sino al giorno d’oggi! Questa è la legge, che volle salvare l’omicida . . . . .
chiesero poi di crocifiggere Gesù stesso, il datore di vita ai morti.
I Farisei, è detto, uscirono e presero consiglio da lui (demonio) per farlo mo-
rire. Oh! questa decisione AE AIR
contro il Signore. La fonte di tutti i beni si essicò . . . . . .. . .
che fa ogni bene al modo di un’acqua scorrente. Ma i loro cuori emisero dei
TOLONE 0 OOO O o
tutti quelli che sono infermi . SVI A ST VIRA O STI I GENI ANO VAIO AIA OT
pieni di trafitture furono sanati, avendo fugato (?) i dolori. Ma essi stessi si dan-
neggiarono coll’ invidia, pungente mortalmente i loro cuori. Gli affamati di pane si
saturarono nel deserto. Essi stessi poi si perdettero per la fame della . .
Foglio 12. — . . . . .... . + dell’ebrietà dell’affizione e del
lutto che li prese . . . . . . +. . Farisei ciechi veramente nel loro cuore
e nella loro mente.
Avete tollerato loro questi mali, non avete pronunziato alcuna parola
poscia avete pensato pensieri varii del vostro operare opere anche diverse, omicidi e
rei di morte. I giusti e gli innocenti avete dato ai tormenti. La legge dice: gl’in-
nocenti, ‘ed 1 giusti. vili ite E PAR ARTE E RS OTRS 7 (FM
Ti fanciulla E e E eee ei hanno! respinte coniliviolenzazit(2)
chiamando (?) le lacrime dei pastori (?) che sono i loro padri, che li hanno generato
nell’ora che gli occhi dei padri si consumavano dal pianto, essendo
dellewmadrieonturbato Ka ali RENI A AI I MOLA EAT) ODINO
essendo simili a fonti d’acqua colanti dalla sorgente delle lacrime (3), scendenti giù
sulle loro guancie, e l’ondeggiare delle chiome... /./. 0.0...
(1) Il testo copto dice @eMyoxie ersteg ITOWTE, che significa letteralmente consigli
pieni di strage.
(2) Le lacune da cui è interrotta questa seconda pagina del 12° foglio e la mutilata e forse er-
ronea citazione della parola greca, rendono il testo del tutto oscuro.
(3) Il gruppo (8I)T*® ra(p)u(rm) miaper(eroore), se sono state da me ben riempiute
le lacune, significa letteralmente dalla lente delle lacrime.
TRASCRITTI E TRADOTTI DA P. ROSSI 149
Foglio 13. — . . . . . ... +. a guisa di una grande gragnuola
in quel tempo; imperocchè sarà un grande pianto e lamento di uomini e di donne
le donne, colle chiome disciolte sulle spalle, gridando ad un tempo mandano gemiti
e lamenti sul seno pieno di ferite dei loro bambini
servendo agli idoli dei demoni.
Ditemi ancora, o Farisei ciechi ed insensati, perchè non avete pensato a questa
siffatta cosa contro Erode, il giorno in cui decretò ingiustamente, che fossero uccisi
tutti i vostri bambini? i (9 PRIA MIRETARINIO
ma nutrendoli coll’alimento leggiero del latte delle dnantinielte È )
Foglio 14. — . . . . . sopra la mia povera mensa. lo volli fegliaro
l'organo della mia lingua dal silenzio. Ma la frode piena di invidia e di ogni sorta
d'’insidie, che i giudei, lottatori con Dio, pensarono contro Cristo, potrà eccitare le
pietre a parlare. Imperocchè qual cosa HE RIA AT Po I VETRO DR
i Farisei uscirono , e presero da lui (demonio) consiglio per farlo morire. Quale
dunque è la colpa? o qual è la cosa ) invi Daft 5
nè sono mani umane, che l'hanno formato, nè fu omnia dal Strato. ma uno stesso
terreno vergine lo germogliò senza travaglio (1) e senza seme, e la croce, che lo
manifestò, ed il padre che lo compì . . SIRIOTNSI REED IN ni BR
questo siffatto pane . II MPS TE NITRO IT BRE
Maria, colei che l’ha generato, la Chiesa santa l'ha accolto in sè, e noi lo man-
giamo ogni giorno, e non si consuma, ma rimane come esso perenne. Questo
ODE, Ot E ia RES iP IRENE (ARI ARSA Le CRA
Foglio 15. — . . . il fiore della carità. Il fuoco si estingue coll’acqua ,
ma le fonti abbondanti della dottrina non possono essere distrutte dall’invidia. Il
ferro per la cote abbandona la sua ruggine.
Per contro il cuore dei Farisei non ha abbandonato le tenebre del
il profeta. Giustamente con verità disse Geremia di loro: se l’etiope potesse cangiare
il colore del suo corpo, o la pantera potesse mutare le sue macchie s
la dottrina dei malvagi . . . . .è chiamata lucertola (cavpa) perchè è niollo
verde; ma il volto degli invidiosi è più verde di essa.
Come il verme che rodendo nell’ interno del legno, lo viene poco a poco con-
sumando, così l'invidia corrode e consuma l’anima. Chi l’accoglie in sè, perderà l’a-
nima in segreto, senza che essa sappia.
E qualunque cosa noi saremo per dire dell’invidia, non diremo ancora tutto il
suo male (?). Imperocchè le lingue dei rettori, i discorsi dei filosofi. . . . . . .
Foglio 16. - . . . . . luoghi di salute, che prepararono a noi i padri
nostri, gli inspirati maestri della Chiesa.
I Farisei adunque uscirono, e consultarono il diavolo, per porre Gesù a morte.
Ma Gesù conoscendo ciò, si allontanò da ‘quel luogo. Non lo seppe da altri, ma
(4) exn aHée significa letteralmente senza lutto. 9
150 i PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
dal cuor suo stesso cia SRL MARIA PIREO NS OIAON oa VITO L
questi, che conosce il cuore di tutti, al Linde che disse l’evangelista S. a
non bisogna che uno testimonii per l’uomo. Imperocchè sa egli che cosa è nell’uomo?
Ma Gesù avendo saputo, si allontanò da quel luogo o 1
non temeva la morte, ma non era il tempo. Imperocchè era necessario i Pgli
prima risuscitasse i morti, sanasse gli ammalati, saziasse gli affamati, e facesse tutti
gli altri prodigi, per confermare la fede nel cuore del fedele. Allora infine si fa in-
contro al compimento . . . . |, 4 PEN SI LIA ANA TONIO
alla sua morte, questi, che ha dato per noi n vita. Imperocchè veramente col sa-
lire sulla croce, prese il bacio della morte, e risuscitò dai morti. Ma noi, che siamo
sulla terra, risuscitò dalla morte del peccato, avendoci favorito ae
Foglio 1". Sai ia . +. risurrezione. Quelli poi, che erano nel-
l'Amenti, egli liberò, e li trasse i tenebre, e dalle ombre di morte, al modo che
fu scritto: atterrò le porte di bronzo, ed infranse i chiavistelli di ferro. Poni diligente
attenzione a questa parola. Avendo Gesù conosciuto la frode e l’invidia . È
s’allontanò da quel luogo. Hai veduto, che dal luogo, dove è la frode, Gesù s’al-
lontana; dal luogo in cui è l'invidia e . . . . . Cristo si allontana, ma il
luogo in cui la carità . . . , 4
in cui abita il Padre, il Fgliuolo e Jalo Spirito di
Procacciamoci adunque, o miei diletti, una carità, non una carità solo in parole,
ma una carità vera, che venga dal cuore.
Imperocchè il compimento di quello che è stato dato a noi è la carità prove-
niente da un cuore puro, acciocchè ci aggiunga . . . 0... ARE
è interpretato: Dio è con noi; e diciamo grazie e gloria al Dane e al Fi
gliuolo ed allo Spirito Santo. A lui si conviene la gloria, la lode e la potenza sino
alla fine dei secoli. Amen.
TRADUZIONE DEI FRAMMENTI
Foglio 1 — . . . . . ogni peccato dispregiante Dio e distruggente
l’opera delle sue mani,
Imperocchè al modo di un uomo, che riceva un oggetto prezioso, e lavorato dalla
mano d’un artista, maestro nella sua arte, lo prende, lo colloca sopra ; .
quella l’opera d'artista non è, ma propria è della stoltezza di colui, che ave
ricevuto l’oggetto, non l’ha saputo conservare bene, e l’ha rovinato non ostante il suo
merito Sn N OA AR I TS RAEE OT o
grazia innanzi quelli de no ricevuto. Questa è la maniera di Dio, che nella
sua sapienza ha abbellito l’universo. Ed ha creato l’uomo a guisa di un oggetto |
prezioso, e dlo pose sullaliterra Mel rn0 CR
TRASCRITTI E TRADOTTI DA F, ROSSI 151
fermò inferiormente. Belle gambe, piedi ad arco e pieghevoli (articolati), lombi
pieni di venustà, le parti genitali (1) con bell’ordine disposte, fianchi
Foglio 2. — un umbilico bello, scolpito e tornito come un artista poteva così
farlo ; interiora aggroppate a cerchio; un petto ben disposto‘ mammelle arrotondate
a guisa di fiale, un collo ritto sopra Da RENI A MINNA;
il fiore del campo; sovracciglia (2) mobili sono ornamento nel tolta occhi lucenti
sotto le sovracciglia; un naso bello elevantesi fra gli occhi; una bocca acconcia
i capelli sono corona che incorona il volto; denti con eccellenza scolpiti (?) e splen-
denti; dita ornate di unghie rosee e candide. In una parola, ornò bene l’uomo, e
nel fango della fornicazione. Nè giova di nuovo al suo Signore se non è purificato.
‘Imperocchè al modo dell'oggetto di rame o di argento, che non lascia la sua ruggine
se non viene i ORpursatoral\efuoco I aerei vo e e
Foglio 5. SA PAL A co +. + +. sorge e chiude la dora
a noi. Noi sappiamo, che, se chitde a noi 1 porta, nessuno pregherà per noi.
Se noi travagliamo andando incontro ad altre correzioni ala TRITATE
dopo averci ricevuti anche contro il nostro merito, lo sposo ci rigetterà. Imperocchè
egli non sopporterà vedendo noi, la cui veste marcisce in mezzo ai reietti
‘o miei cari, acciocchè vegga ancora la superiorità di chi è meritevole di superiorità,
o di chi è meritevole d’inferiorità, o di chi è degno di essere posto nel mezzo. Ma
guai! a colui la cui veste CERRO FORSE IP DI LOIRA TATA
la veste (?) nuziale che è in te. La sua porta è tosto chiusa, e sarà dato ai tormenti
e gettato nelle tenebre esteriori, e vi sarà pianto ANTE TARRA TALI AREA SARO DIAL iL
Foglio 4. — —. . . . . . . . a moi così dal profeta rinfaccianteci
i nostri peccati, dicendo: forse è la mia mano impotente a salvare? 0 si sono le
mie orecchie aggravate per non ascoltare ?
Ma i-vostri peccati stanno innanzi a Dio tone db Smactia cetariiuat art:
misericordia di noi. Se dunque Dio rivolge il suo volto da noi, a chi rifuggivemo!? 2
Chi avrà misericordia di noi? Imperocchè. non avremo bene da questo momento.
Istruiamoci, facciamo una buona scelta . .
.
(1) gemeraMpertH' eTBHIT, significa letteralmente luoghi dell'urina, occulti.
(2) La radice eno, nel senso di sovracciglia, non data dal Peyron, nè da alcun lessico, sì può
facilmente spiegare dal geroglifico Ì i ì S ra anhu e nh nel demotico. Questa radice ho
trovato ancora in un altro nostro Fim Enuo di un’omelia pure di S. Giovanni sopra il patriarca
Giuseppe, ove si legge questo passo: Epe Meqofge OTOBU” SISOTO EnTEpwTE . epe
MEYoroCE TPeWypwwy . epe meyemo mopy e&oà st MecHT fiTeyTegmeE eTo’
MATAN MEpIMmOn: sono i suoi denti bianchi più del latte, sono le sue guancie rosee, le ciglia gli
guerniscono la fronte che è del colore del giglio (letteralmente: le sue ciglia stendonsi giù dalla sua
fronte, che è del colore del giglio).
152 PAPIRI COPTI DEL MUSEO TORINESE
Se camminate verso di me, non sarete dispregiati. Io pure camminerò verso di
voi con fermezza (?).
L'autore dei proverbi dice : cercando querela sin da principio
Ed ancora vedendo la nostra cecità di cuore grida a noi: Ob! quelli ché affido.
nano le vie dritte ed elette per le vie oblique ARIE ; A
ROgliOro MIRINO dI . liberi dal pescata e na so
Egli distrusse la lettera del peccato e la Srhianit dell'errore, strappò le CONERO
del giogo; mentre ci rivolgiamo 3 7
ingiustizia. Noi scriviamo la lettera della, (DE e dell i e della CI
e dell’inganno e dell'odio e della vanità e Gelli invidia e della voluttà e della mal-
dicenza NILE nei aan e) ee A
la sollecitudine RI e lamle del cibo e delle bevande, ghia le frodi e So false
scritture ed il furto e l'omicidio e l'adulterio e la lascivia . S ;
e l’avarizia, che questa è, di cui parla l’apostolo, il culto degli idoli, e la cone
scenza come il più grande e grave tiranno.
Queste cose tutte adunque RIE A E AA E At
Foglio 66 — . . . . . . . . . + l’ottava parte della loro durata
di vita.
Noi abbiamo così mostrato che le nostre nequizie sono maggiori di quelle
dei figli dei giganti. Imperocchè la nostra durata di vita diminuì a confronto
di quelli.
Coloro poi dei quali ho parlato IO NOE an siepi fan
ha vissuto dieci anni; ve ne ha alcuno che visse venti o trenta, altri che vissero (2)
quaranta o cinquanta, quegli che li ha superato affatto visse sessanta o settanta.
Nessuno nei nostri tempi ha compiuto i cento anni, eccetto che . are
i nostri peccati che hanno abbreviata la nostra durata di vita. Imperocchè Dio Sa,
che se egli ci abbandona, noi non ci emenderemo o. . . . . Imperocchè
Ezechiello grida dicendo : non voglio la morte del peccatore, ma che si converta
non fa tagliare l’albero di fico, ma lo prova ancora un altro anno, se dia frutto o
no. Come mai l’uomo tollererà di perderlo inutilmente prima del suo tempo, se non
conosce, Chews.e di ila Se CT SIRENA TE
Foglio ". Se SI È .. + + + i suoi discorsi osceni ed
i suoi canti vani, ed il Do ns di il movere de’ suoi occhi, e le sue he-
stemmie ed il suo camminare nel lusso e con mollezza.
Se alcuno degli insensati lo vede in questo modo, ed invidia le sue vie
Fin da principio prese a comandare a noi, dicendo le parole tutte dette dai
saggi: non dare il tuo cuore ai piaceri. E dice ancora nei proverbi: non invidiare
la gloria del peccatore c
2 causa dei peccatori. Essi riposarono Po nell’ i
L’Ecelesiaste dice: per la loquela dei figliuoli degli uomini Dio giudicherà. E
dimostrano che sono giumenti, ed ancora la fanciullezza ERRE Coda
Ma se desideri conoscere perchè Dio toglie il peccatore repentinamente, acciocchè
TRASCRITTI E TRADOTTI DA F. ROSSI 152 dis
gli altri non si perdano nello stesso modo, io ti farò persuaso. Giuda, figlio di (Gia-
cobbe, diede moglie ad Her, suo primogenito. Ma Her fu uomo perverso innanzi a
TO MA IE ARR EPA E I LR TN
Foglio 8. — . . . piccoli figli, s'adira e li percote. Alcuni non muoiono (?);
lo spirito di Dio si allontana da loro, e li dà nelle mani di spiriti maligni, perchè
li tormentino dicendo: se il mio spirito abita in È
la grande durata di vita di novecento anni. Abbreviò Io) 0; data di vita diodo
loro giorni sono di cento e venti anni. Noi poi non comprendiamo ora perchè la
nostra durata di vita siasi abbreviata per le nostre nequizie, pei desideri tutti .
dicendo: alcuni si votano (?) coi loro figli alle acque micidiali (?), alle acque del-
l’agone del teatro, e versano anche su essi acque magiche, distruggono
di fango, dicendo: noi rigettiamo SONO.
figli formati per l’arte degli uomini, questi che sono llafilazione dei demoni. ARA
si ungono d’olii malefici, ed incantesimi ed altri oggetti legano alle loro teste ed ai
loro colli.
Per questo mentre l’angelo rt È MIO. NT [MAO
Foglio 9. — Imperocchè i medici saggi, drtao dedono alcuno gravemente am-
malato del corpo, si affrettano a togliergli il male con tagli e con rimedi violenti,
e proteggono (?) i luoghi sani nel corpo con acconci rimedi
il peccatore, nessun timore che egli si rivolga a Dio. Dio s’affretta e lo oo via,
acciocchè non continui nel male, ed altri si perdano con lui. Ma piuttosto la mi-
sericordia di Dio RIA Mater, AZIO . RO -
Imperocchè un agricoltore quando SI nella vite la propagine, che to ne foglie
che non danno frutto, le svelle, acciocchè le troppe foglie non facciano ombra sopra
Questa è anche la maniera di Dio. Quando vede il peccatore baldanzoso, si affretta
a levarlo via, acciocchè il suo vicino ed i suoi compagni, non lo emulino e cammi:
nino nelle sue vie, ed alla maniera di lui si perdano
Serie II. Tom. XXXIX. 19*
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LA
SCIENZA ECONOMICA
IN ITALIA
DALLA SECONDA METÀ DEL SECOLO XVI
ALLA PRIMA DEL XVII
STUDI
DI
CAMMILLO SUPINO
Memoria approvata nell'adunanza dell’8 Luglio 1888
PREFAZIONE
La memoria che ho l’onore di presentare al vostro giudizio, Illustris-
simi Accademici, è un contributo alla storia dell'Economia politica in Italia
e un modesto complemento alle bellissime opere di Cusumano, Fornari,
Gobbi, Ricca-Salerno e Toniolo, pubblicate sotto gli auspici del Prof. Luigi
Cossa (1). i |
Il periodo di tempo, di cui si occupano questi miei studi, è senza
dubbio importantissimo, perchè da esso gli argomenti economici comin-
ciano ad esser trattati con una certa ampiezza, e si preparano e si accu-
mulano i materiali, che poi riuniti nel secolo xv in compilazioni più 0
meno sintetiche daranno origine alla Economia politica come scienza au-
tonoma. Le ideè qui raccolte ho ricavate da opere scritte dalla seconda
metà del cinquecento alla prima del seicento, basandomi principalmente
sugli scrittori politici, che in generale trattano più di proposito certe teorie
da altri appena accennate, e sulla legislazione, da cui ho potuto ricavare
(4) Questa Memoria era destinata ad un concorso Cossa, ma non fu potuta presentare per un
cambiamento avvenuto nella scadenza del concorso stesso.
SerIiE II. Tom. XXXIX. ; 20
154 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
documenti importanti per la storia della politica economica di questo tempo.
Anzi questo credo sia il primo tentativo fatto per trar partito in propor-
zioni più vaste dalle raccolte di leggi e dagli statuti delle varie parti d’Italia,
affine di meglio conoscere le idee prevalenti in un’epoca sopra molti ar-
gomenti economici. E qualora questo mio primo saggio trovasse degli imi-
tatori più valenti di me, io non dubito che ci si potrebbe fare un concetto
più chiaro di molte istituzioni nazionali, traendo partito specialmente dai
moltissimi manoscritti esistenti negli Archivi e dalla ricchissima collezione
di statuti posseduta dal Senato del Regno.
Questo mio lavoro è diviso in sedici capitoli, che si succedono in or-
dine logico; ma preso nel suo complesso si può dire miri a due scopi:
esporre, sulla scorta degli autori dell’epoca, le teorie dell'Economia sociale
da essi conosciute, e presentare un quadro dei criteri allora prevalenti sulla
politica economica. Quanto alle teorie, i materiali raccolti sono in parte
frammenti che però possono offrire un grande interesse a chi voglia se-
guire la storia di certe idee; in parte sono concetti profondi, che rivelano
nei loro autori una chiara percezione di certi fenomeni, il cui studio ha
dato poi origine a dottrine importantissime; in parte, in fine, rappresen-
tano un' esposizione scientificamente esatta di teorie già formate. Quanto
alla politica economica, le leggi e gli statuti dànno modo di formarsi un
criterio dei principî di governo dominanti in quest’ epoca; principî non
informati a concetti logici e razionali, ma basati sopra un empirismo senza
esempio, che intendendo di provvedere con rimedi diretti e parziali in
ogni singolo caso, cadeva in assurde e continue contraddizioni. E così gli
stati italiani di allora adottavano il protezionismo per dare incremento alle
industrie, ma proclamavano il libero scambio, quando si trattava di ven-
dere all’estero o bisognava provvedersi di grani per rimediare ad una ca-
restia; ponevano un limite al prezzo dei cambi, ma lo abolivano, quando
avevano bisogno di fare grandi rimesse di danaro fuori di stato; proibi-
vano con leggi severe il lusso, ma poi lasciavano liberi i cittadini di fare
le spese più pazze, quando ricorrevano certi avvenimenti principeschi. È
nonostante, ad onta che lo stato non avesse allora una chiara idea di ciò
che voleva e di ciò che non voleva, interveniva nella vita più intima dei
cittadini, vincolando le loro opinioni religiose, sorvegliando la loro condotta
DI, CAMMILLO SUPINO 155
privata di fronte alla famiglia e prescrivendo con norme minute e ben
definite ogni loro azione. Ma se lo studio della legislazione serve a farci
conoscere tutto un sistema di governo condannato oramai dalla scienza e
dalla pratica, ci offre anche il modo di apprezzare le istituzioni economi-
che di allora, alcune delle quali hanno un’ indiscutibile somiglianza con
certe altre prevalenti ai nostri giorni: ne sieno d’esempio i ginochi che
in quel tempo si facevano sui cambi, molto simili alle moderne operazioni
di borsa, e i metodi per ridurre l'interesse sui debiti, poco diversi dalle
attuali conversioni delle rendite.
So benissimo che per un lavoro di questo genere occorrerebbe mag-
giore studio, preparazione più estesa e profonda, e soprattutto ingegno più
elevato di quello che io non abbia. Nonostante non credo saranno per
riuscire del tutto inutili queste mie ricerche; giacchè qualunque ramo
dello scibile si vantaggia sempre, risalendo alle origini delle sue teorie,
o studiando ciò che è stato fatto di bene o di male in altri tempi. E se
è vero, come dice lo Scialoia, che la scienza ha per patria il mondo, è
vero altresì che essa assume, secondo i vari paesi, impronta diversa; invece
1 trattatisti dell’ Economia politica in Italia, quando volevano criticare le
istituzioni di altri tempi, le studiavano nelle loro manifestazioni in Francia
e in Inghilterra, senza accorgersi che, ad esempio, le corporazioni di arti
e mestieri, su cui dirigevano 1 loro attacchi per meglio dimostrare i van-
taggi della libertà di lavoro, non hanno mai avuta da noi quella forma
esclusivista come nella patria di Étienne Boileau; senza accorgersi che per
criticare la tassazione legale dei prezzi, il sistema annonario o le \leggi
suntuarie non c'era bisogno di andare a cercar gli esempi tanto lontani
fuori di casa. Oltre a ciò, studiando le idee e le istituzioni economiche
del nostro paese si raggiunge un doppio scopo: sì trova in esse una con-
ferma e un’illustrazione di molte teorie dell'Economia politica, mentre nello
stesso tempo, colla scorta dei principî di questa scienza, si possono meglio
indagare le condizioni dell’ Italia in altri tempi e spiegare certi avveni-
menti importantissimi della storia nazionale.
Ho messo a raffronto spesso le opinioni dei nostri autori con quelle
dei loro contemporanei di altri paesi, ma nella critica comparativa ho fatto
di tutto per tenermi lontano da giudizi esagerati e parziali, mirando a fare
156 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
un lavoro scientifico più che un’opera apologetica ed evitando, per quanto
mi fu possibile, che il patriottismo facesse velo alla verità. Che se queste
mie ricerche potranno dar risalto ai meriti reali di qualche italiano, se
esse contribuiranno, anche in minima parte, a far meglio conoscere il
lato economico della storia del nostro paese, crederò di aver compiuta
un’ azione, oltre che da modesto investigatore del vero, anche da buon
patriota.
Genova, Aprile 1888.
——— 6—= Pr er-©rssaragcia—__-
DI CAMILLO SUPINO 157
CAPITOLO |.
Scienza Economica e Ricchezza.
Gli scrittori che trattarono argomenti economici dalla seconda metà del secolo xvi
alla prima del xvi, se pur svolsero molte parti della Economia Politica con chiarezza
e profondità, non ebbero un concetto preciso e ben determinato della scienza stessa,
nè pensarono mai a darne un’esatta definizione. E quei pochi che si occuparono di
un tale compito, non fecero che ripetere quanto aveva detto Aristotile nella sua
Politica.
Il necessario alimento, dice Viro DI Gozzi, si può acquistare in tre modi: senza
lavoro, come i pastori, i quali si nutrono di latte, carne, ecc.; con la rapina ; e col
lavoro, coll’onesta fatica (1). La scienza d’acquistare le cose necessarie per la vita
nostra è naturale e il loro possesso e l’uso altresì, quantunque alcuno acquisto sia
alle volte ingiusto come è quello della rapina, del furto, ecc. E poichè per lo governo
tanto domestico, quanto civile è necessario di provvedere sempre di quei beni che sono
utili tanto per lo sostentamento della vita nostra, quanto ancora per l’utile della
città stessa, quella scienza che c’insegna a provvedere le dette cose dovrà essere parte
ministrativa della Iconomica e Politica, molto più che senza l’acquisto di questi beni
nè città nè casa alcuna si può governare, nè conservare lungamente (2). La scienza
di acquistar denaro (che è differente, ma prossima all’altra, che c’insegna ad acquistare
i cibi) si divide in due parti: l’una commutativa, che noi baratto chiamiamo, l’altra
nummularia. La prima n'insegna come il denaro possiamo nelle cose necessarie com-
mutare; l’altra come il denaro per lo denaro possiamo commutare 0 per via di cambi
o per via di censo, La prima è naturale, essendo stato sempre in uso di cambiare
i frutti e gli animali nelle altre cose necessarie, l’altra no, perchè il denaro non viene
di natura, ma dall’ingegno umano; l’una è finita, perchè quando il denaro si è per-
mutato nelle cose necessarie termina, l’altra è infinita, perchè il desiderio di accu-
mulare non ha limiti (3).
La scienza economica non è dunque, secondo queste idee, che un complemento
necessario della politica e dell'economia domestica, il qual concetto è di Aristotile (4),
come pure di Aristotile è la distinzione, elegantemente esposta dal FieLIvccI, fra i due
(4) Nicorò Vito pi Gozzi, Dello stato delle republiche secondo la mente di Aristotile con essempi
moderni, in Venetia 1591, pag. 37.
(2) Vito pi Gozzi, Op. cit., pag. 38-39.
(3) Id., Op. cit., pag. 39 e 44.
(4) ArIstoTILE, Trattato de' Governi, tradotto da B. Segni, Milano 1864, pag. 25, 28, 32-34 e 31.
158 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
processi, che Hermann chiama economia di acquisto ed economia di consumo (1). La
scienza di acquistar robe, secondo il FieLIucci, non è la stessa della scienza della
cura famigliare. Imperocchè la prima attende solo ad acquistare e guadagnare, la
seconda si serve delle robe acquistate e quelle usa e adopera in utile e conserva-
zione della famiglia. Se l’una usa e l’altra procura le robe, segno è evidente che sono
due scienze differenti. E siccome i denari e le robe sono come strumenti al governa-
tore della casa con li quali possa custodirla e conservarla, così la scienza dell’acquisto
è ministra della scienza famigliare (2).
Come si vede da queste citazioni, l’idea di una Economia Politica come s’inten-
derebbe ora non è che lontanamente adombrata, e quel pallido barlume che ne intra-
vedono questi scrittori seguaci fedeli di Aristotile, si riferisce più ad un’arte che ad
una scienza propriamente detta. Il concetto astratto di una Economia Politica, che
tratta una categoria speciale di questioni, che espone una serie particolare d'idee e
di fatti, manca. negli scrittori di questo periodo, ed è naturale, perchè la definizione
di una scienza non comincia a determinarsi che quando questa scienza è giunta ad
uno stadio di sviluppo assai avanzato. Ma se gli autori di quest’epoca, non ci dànno
e non ci possono dare una definizione dell'Economia Politica, ci offrono però delle
bellissime considerazioni sull’oggetto di cui essa si occupa, cioè a dire della ricchezza.
Che cos’ è la ricchezza? Le vere ricchezze, secondo il FIieLIUCcI, solo consistono
in possedere le cose necessarie e utili; nè è vero, che la possessione di esse o la loro
abbondanza proceda in infinito; anzi è necessario che subito che uno ne è abbondante,
quanto al suo bisogno richiede, fermi il desiderio, nè più oltre proceda, altrimenti
non sarìa mai ricco sempre desiderando; perciocchè quello è ricco, che si appaga e
si contenta di quello che ha, nè più cerca di avere. E come nelle arti sono neces-
sari certi strumenti e sarebbe inutile l’averne di più, come aver molti martelli, incu-
dini, ecc., così per la famiglia è solo necessario quanto è strumento al suo vivere e
nulla più (3). Seguendo queste idee aristoteliche (4), Viro DI Gozzi combatte l’opi-
nione di quelli che fanno equivalere la ricchezza al denaro. I denari non sono vere
ricchezze, perchè per loro natura non possono giovare ‘ai bisogni; io non so che ric-
chezze possano essere quelle, dinnanzi a cui l’uomo avendole potrebbe morir di fame.
Ma ricchezze sono da stimarsi quelle che in ogni tempo senz'altro mezzo sono possenti
a soccorrere alle necessità nostre (5). E il PaRUTA: le ricchezze vere e naturali sono
quelle alla vita più necessarie come il cibo, le vesti, ecc.; l’oro e l’argento non ci
servono che come strumento per acquistare queste cose, ma, essi non hanno per loro
stessi alcuna virtù (6). Sorge quindi spontanea la distinzione, che, sulle tracce al
solito di Aristotile (7), fanno CHIARAMONTI e Celso Mancini fra le ricchezze naturali
(1) F. B. W. Hermann, Staatswirthschaftliche Untersuchungen, Minchen 1870, pag. 31.
(2) FeLice Fieuiveci, Della Politica overo scienza civile secondo la dottrina d’ Aristotile, in Venetia
1583, pag. 18.
(3) Id., Op. cît., pag. 22.
(4) ARISTOTILE, Op. cit., pag. 27.
(5) Viro pi Gozzi, Op. cîit., pag. 41.
(6) PaoLo Paruta, Della perfettione della vita politica, libri tre, in Venetia 1650, pag. 219.
(7) ArIsTOTILE, Op. cit., pag. 28.
SEA IAA “nat nni
LETALI
DI CAMMILLO SUPINO 159
e quelle artificiali. Sono artificiali il danaro, naturali gli alimenti principalmente, e
tutte le cose in generale che sono utili alla vita (1).
Ma il concetto di ricchezza stabilito da questi scrittori è un concetto parziale,
che non prende in considerazione che uno solo degli elementi che la caratterizzano,
cioè a dire l'utilità, lasciando la permutabilità completamente in disparte. È) il mede-
simo principio sviluppato da Senofonte, secondo il quale non è ricco chi più ha, ma
chi può soddisfare perfettamente i suoi bisogni, per quanto essi sieno molto limi-
tati (2). È un concetto morale non economico, di cui potremo meglio darci ragione,
quando esamineremo i giudizi, che questi stessi scrittori esprimono sull'importanza della
ricchezza.
Quanto alla distinzione fra ricchezze naturali e ricchezze artificiali, non si deve
confonderla con quella: uguale, che si trova nei trattatisti moderni. Secondo questi la
ricchezza è naturale quando viene offerta dalla natura già pronta per il consumo; è
artificiale quando a produrla è indispensabile l’intervento del lavoro umano (3). Qui
invece si considera come naturale ogni specie di ricchezza, che direttamente serva a
soddisfare i nostri bisogni, e come artificiale solo il denaro, perchè è un mezzo in-
diretto per raggiungere lo stesso scopo. La quale distinzione, così formulata, se teori-
camente è criticabile, ha però il vantaggio di far schivare agli scrittori che l’hanno
adottata l'errore dei Mercantilisti di annettere una troppo grande importanza al denaro,
errore di cui non sembra fosse immune l’AmmIRATO, colla preminenza che da all’in-
dustria mineraria per l’acquisto della ricchezza e colle restrizioni che vorrebbe poste
al soverchio consumo dell’oro e dell’argento (4).
Abbiamo detto che il concetto di ricchezza espresso dagli scrittori di questa
epoca è più morale che ‘economico; esaminiamo infatti quali sono le loro idee sull’im-
portanza, sui vantaggi e sui danni della ricchezza. Essa è un bene o un male? A
questa domanda molto saggiamente rispondono Giordano BRUNO (5), AMMIRATO (6)
e ParutA che « le ricchezze, per dirla con questo ultimo, sono da annoverarsi fra
quelle cose che per loro propria natura nè buone nè cattive sono, ma secondo l’uso
che se ne fa, secondo la persona che se ne serve, l’uno o l’altro diventano (7) >».
È vero, dice Giordano Bruno, che la ricchezza va anteposta alla verità, alla prudenza,
alla sofia, alla legge e al giudizio, perchè è quella per cui la verità si stima, la
prudenza si dispone, la sofia è pregiata, la legge regna e il giudizio dispone, ma
d’altro lato questa stessa ricchezza è causa che il giudizio zoppichi, la legge stia in
silenzio, la sofia sia calpestata, la prudenza incarcerata e la verità depressa. La ric-
chezza è compagna di bugiardi ed ignoranti, accende e cattiva gli animi ai piaceri,
resiste alla giustizia, apporta a chi la possiede più noie che allegria e non dà fine ai
(4) Screrone CHraraMoNTI, Della ragione di Stato, ìn Fiorenza 1635, pag. 274. — CeLso MANCINI,
De juribus principatum, Romae 1596, pag. 159.
(2) SenoFonTE, L’Economico, trad. da I. VeseNTINI, Torino 1872, $ II, pag. 10-13.
(3) L. Cossa, Primi Elementi di Economia Politica, Milano 1888, pag. 32.
(4) Scipione AMMIRATO, Discorsi sopra Cornelio Tacito, in Fiorenza 1598, pag. 113 e 116.
(5) Grorpano Bruno, Spaccio della bestia trionfante, Milano 1863, pag. 105.
(6) Ammrato, Discorsi, pag. 1417.
(7) ParuTA, Perfettione ece., pag. 213.
160 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
fastidi e alle miserie, ma li muta, cambiandoli in altra specie (1). Nessuno può
gustare che cosa sia tranquillità di spirito se non è povero o simile al povero. È
grande colui che nella povertà è ricco perchè si contenta, è vile e servo colui che
nelle ricchezze è povero perchè non è sazio (2). Lilliberalità , il brutto guadagno e
la tenacità sono le compagne della ricchezza (8).
Guidato dagli stessi principî, ispirato allo stesso ideale etico, l’AmmiRATO pone
le ricchezze in terzo luogo dopo la sanità e la bellezza. Dopo aver pensato all’anima
e al corpo, l’uomo può occuparsi del denaro, quantunque molti l’antepongono a tutto.
Ma nonostante che alla ricchezza spetti un posto anche inferiore, è un fatto però
che chiunque accomoda il fatto della’ roba, accomoda in gran parte tutte le altre
occorrenze della vita. E l’AmmirATO aggiunge, che con questo accomodare il fatto della
roba, egli intende una ricchezza moderata, lontana dalla necessità come dalla soverchia
abbondanza (4).
A queste considerazioni inspirate agli autori classici antichi, risponde molto op-
portunamente Ansaldo CEeBÀ, il quale, pure ammettendo che Aristide, Focione e Curio
operarono grandi cose senza ricchezze, asserisce tuttavia « che la diversità della sta-
gione e dell’opinioni non consente sì gran luogo alla povertà eroica nelle repubbliche
moderne come le fu conceduto nelle antiche (5) ».
Ma per veder giudicata la ricchezza dal punto di vista veramente economico,
dobbiamo esaminare quanto dice il PARUTA, il quale tratta questo argomento con
eleganza, precisione e profondità, esponendo principî scientificamente così giusti da
esser degni di un economista moderno. Le ricchezze, egli dice, sono quelle che ci
prestano i cibi, le vesti e le case in modo, che per queste cose non pur sostentiamo
la vita, e ci ripariamo dal freddo e dalle pioggie, ma dalle stesse nostre necessità
facciamo nascere certo diletto e splendore per lo quale più questa vita ne aggrada.
Le ricchezze reggono le famiglie, le città, favoriscono le arti, fomentano l’ industria
essendo necessario per acquistarle lavoro e fatica, e non sono disprezzate che da quelli
che non sanno bene usarle (6). Qui l’idea di ricchezza diventa più giusta e più con-
forme ai principii economici odierni, non è più l’idea gretta del FreLiucci e di Viro
di Gozzi, i quali nella ricchezza non vedono che il mezzo per soddisfare alle più ur-
genti necessità; per il ParuTA invece essa diventa un mezzo per ottenere la comodità
e il lusso, per raggiungere ideali più elevati con le arti, ed acquista maggiore im-
portanza, traendo la sua origine da un principio essenzialmente economico, dal lavoro
Nonostante anche il PARUTA esamina il lato morale della ricchezza, critica il troppo
desiderio di essa, deplora i bisogni sempre crescenti e nuovi che ci andiamo procu-
rando ed esamina i perigli a cui tanti vanno continuamente incontro per procacciarsi
(1) G. Bruno, Op. cit., pag. 103-5.
(2) Id., Op. cit., pag. 1412-13.
(3) Id., Op. ciît., pag. 1417-18.
(4) Ammirato, Discorsi, pag. 385-860.
(5) AnsaLpo CEBÀ, Il Cittadino di republica, Genova 1617, pag. 115.
(6) Paruta, Op. cit., pag. 215. — Anche Vincenzo GramiGnA fa notare l’importanza che ha la
ricchezza per un principe e narra che Giacomo da Triulzio, domandato da Francesco I che volesse per
la guerra d'Italia, rispose: denaro, denaro e denaro. Del Governo tirannico, e regio, Napoli 4615,
pag. 203--4. i
DI CAMMILLO SUPINO 161
l'oro. « Nulladimeno, conclude, così si vivono i poveri, come i ricchi; così si muoiono
i ricchi, come i poveri » (1).
Ma ad onta di queste considerazioni morali, il PARUTA comprende il lato eco-
nomico della ricchezza, mentre gli altri scrittori della stessa epoca o la esaminano
solo analizzando il bene e il male che arreca, come quelli che abbiamo già citati, o
peggio ancora, non tengono conto che del solo male, come quelli che ora studieremo.
Niuno, dice il SANsovINO, è più degno o vicino a Dio di colui che si fa beffe delle
ricchezze, e per possederle intrepidamente è necessario di persuadersi di poter vivere
senza di esse e di riguardarle come se avessero sempre a mancare (2). Tutti quelli
per lo più che a ricchezza o a gran potenza pervengono, o con fraude o con forza
vi pervengono, e quelle cose poi che essi hanno o con inganno o con violenza usur-
pato, per celare la bruttezza dell’acquisto quelle sotto falso titolo di guadagno ado-
nestano (3).
Nè minore disprezzo per la ricchezza ha il DonI. Anassagora, egli dice, dopo aver
studiato trent'anni si accorse che tutto ciò che si possiede è una baia e lasciò tutte
le ricchezze che aveva, per girare il mondo allo scopo d’imparare (4). Nessuno cer-
tamente è felice, anzi coloro che sono riputati miseri son felici: perchè la felicità non
consiste nella ricchezza e negli onori, ma nel contento dell’animo. I ricchi non han
mai un’ora di riposo, il povero quando ha soddisfatto alle necessità della natura si
quieta (5). Uguali considerazioni ci offre pure il PALAZZO, il quale avverte che la
beatitudine non consiste nel possedere ricchezze, perchè quelle sono beni apparenti che
sogliono apportare irreparabili rovine e rendono sospettosa e addolorata la vita di chi
le possiede (6).
Ma queste idee, nell’epoca che studiamo, sono un ‘ultimo strascico lasciato dalla
Scolastica, sono gli avanzi di principî che dovranno cadere per sempre, travolti dal
progresso economico; sono una ripetizione di quanto dicono S. Tommaso (7) e Ago-
stino Nifo (8) sull'importanza della ricchezza, sul posto che le compete, sullo smo-
dato desiderio di essa e sugli ideali etici e religiosi che debbono essere a lei anteposti.
Questi principî però, nel cinquecento e nel seicento, non erano più nella coscienza dei
pensatori; i dotti continuavano ad esporli, riferendosi a vecchi ideali, ispirandosi a
criterì dei maestri antichi, ma tutto ciò non aveva più ragione d’essere nel mondo
reale. Tant'è vero, che ad onta di quello che dicono gli scrittori sulla poca impor-
tanza delle ricchezze e sul disprezzo che si deve avere per esse, i loro contemporanei
per acquistarle andavano nelle più lontane regioni ed erano rinomati per il loro com-
mercio attivissimo ed esteso.
(4) ParuTA, Op. cit., pag. 216.
(2) Francesco Sansovino, Concetti politici raccolti dagli scritti. di diversi Auttori greci, latini e
volgari, in Venetia 1578, pag. 30-31.
(3) Id., Concetti ecc., pag. 1418.
(4) Anton Francesco Doni, Mondi celesti, terrestri, et infernali de gli academici pellegrini, in
Vinegia 1567, pag. 113.
(5) Id., Op. cit., pag. 114.
(6) Gro. Antonio PaLazzo, Discorso del governo e della ragion vera di Stato, in Venetia 1606,
pag. 167-68.
(7) S. Tommaso, De Regimine Principum, Lib. I, Cap. 8 e 41.
(8) Agostino Niro, De vera vivendi libertate, Neapoli 1530, pag, 24 e 36.
Serie II. Tom. XXXIX. 21
162 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
Idee più giuste si trovano, negli scrittori di quest’epoca, sul modo col quale gli
averi dovrebbero trovarsi distribuiti fra i cittadini. Scipione AMMIRATO considera come
dannose tanto le grandi ricchezze come l’estrema povertà. Le molte ricchezze gene-
rano morbidezza , infingardia, scandali e desiderio di cose nuove; la povertà, oltre
il medesimo desiderio, genera mille opere disoneste e scellerate (1). Domandatosi
a Scipione Emiliano quale dei due consoli, Sergio Galba o Aurelio, manderebbe contro
Viriato, rispose: « Nessuno, perchè l’uno non ha nulla e all’altro nulla basta » (2). E
quanto stesse a cuore all’AmmiraTo che non si formassero troppo grandi ricchezze, lo
prova dove dice: che i ricchi diano al principe e il principe ai poveri, e se i ricchi
non vogliono piaggiare i principi donino ai poveri, fondino chiese e spedali, ricono—
scano i virtuosi, gettino ponti sui fiumi per comodezza dei viandanti e acquisterannosi
vera gloria presso Dio e gli uomini (3). Ma se il nostro autore consiglia d’ impie-
gare le grandi ricchezze per il bene pubblico, perchè non si accumulino in eccessive
proporzioni, d’altro lato però non vuole che spariscano le fortune mediocri. Onde loda
le leggi contro la soverchia spesa della gola, del vestire, della quantità dei servitori,
contro i giuochi sul credito, e le leggi che vietano di prestare ai figli di famiglia,
le quali tutte sono state fatte perchè non diminuiscano le ricchezze e perchè i vas-
salli non impoveriscano. Come al contrario egli vuole che si restringano le usure, si
vieti il comprar beni in altra città, si pongano prezzi alle cose, si neghi far incetta
di mercanzie, si invalidino le vendite oltre la metà del giusto prezzo, acciocchè alcuni
con danno altrui non si arricchiscano più del dovere (4). Le quali considerazioni
abbiamo voluto citare per esteso, oltre che per provare come l’AmmiRATO desiderasse
l'equilibrio maggiore possibile nella divisione degli averi, auche per dare una idea
delle istituzioni di politica economica che in quel secolo prevalevano e che il nostro
autore vede di buon occhio adoprate per raggiungere il suo ideale. È vero però, a
voler essere imparziali, che ad onta di tutto quello che ha detto, l’AmmirATO non
‘crede tanto facile « questo compenso di ricchezza e povertà », e conclude con l’os-
servazione giustissima che questi regolamenti per equilibrare le fortune lusingano
spesso l’ infingardaggine e aspreggiano l’ industria (5): il che ci prova che in mezzo
a tante idee che ora noi riguardiamo come errori economici, delle verità importanti
non erano sfuggite all’osservazione di questo dotto scrittore.
La troppo grande quantità di tesoro, secondo il CEBÀ, è pericolosa, perchè tiene
il possessore incatenato, per cui saviamente farà, chi rammentandosi la parola imposta
dai Greci ai denari, che significa uso, si servirà di essi adoprandoli mano a mano
per il fine perchè furono ritrovati. Il che deve farsi non gettando, nè scialacquando,
ma donando e spendendo nelle occasioni, le quali spesso capitano a chi non le fugge (6).
Anche il ParuTA è favorevole alle ricchezze mediocri: ricco è veramente colui il cui
.(1) Ammrrato, Op. cît., pag. 386. — La stessa idea si trova in Gio. Francesco LoTTINI , Avvedi-
menti Civili, Milano 1880, Avv. 60 e 228, vol. I, pag. 50 e 155.
(2) Id., Discorsi, pag. 387.
(3) Id., Op. cit., pag. 388.
(4) Id., Op. cit., pag. 389.
(5) Id., Op. cit., pag: 389.
(6) CeBà, Op. cit., pag. 120.
tri o là deri
VENIRCI
DI CAMMILLO SUPINO 168
avere è tanto che possa fare ufficio di buon padre di famiglia e di buon cittadino,
una ricchezza dunque moderata e non quella piena di comodi e delicatezze senza virtù,
una facoltà mediocre, perocchè le grandi facoltà nelle delizie e nella vanità, e le
tenui nella viltà e nei disagi sogliono facilmente condurci (1). Viro pi Gozzi al con-
trario non si preoccupa tanto dello squilibrio nelle fortune, gli basta che queste sieno
fatte giustamente. Non si deve metter tanta cura, egli dice, per fare che i cittadini
non possano diventare oltre modo ricchi; ma sì bene che non diventino tali contro
- la ragione e contro le leggi umane e divine (2).
Ed ora ci rimane a dire quali fossero le opinioni degli scrittori di quest'epoca
sulla tendenza dell’uomo ad acquistar sempre maggior copia di beni, su quello che
Senior chiama generale desiderio della ricchezza (3). È facile immaginarsi dal già
esposto che anche qui i pareri saranno divisi fra quelli che criticano questo desiderio
della ricchezza e quelli invece che lo giustificano e lo trovano naturale. Fra i primi,
il DonI fa una vivace descrizione degli affaristi sempre intenti al guadagno: « Conosco
certi, detti mercanti, ma il loro vero nome starebbe bene a dirgli travaglini o trap-
polini, barattano denari con oro, con argento, con monete e trappolando gli fanno
moltiplicare ed in quello che eglino si travagliano, stanno tutta la vita loro in un
botteghino di due braccia e qui sono destinati dal Cielo onde sono come in carcere,
assetati di rapire a questo o a quello, si rompono il cervello nel moltiplicare, par-
tire, sommare e: sottrarre e alla fine tutto si fa per vivere e vestire, perciocchè ad
altro non ci servono le cose del mondo che per questo, se bene il tesoro fosse alto
come le montagne, e dal mangiare e vestirsi in fuori tu sei depositario per un tempo
del resto e distributore a. questo e a quello eontro alla tua volontà. (4) » E il
PaLazzo dice che è tanto cresciuta l’ingorda intemperanza e questa fame dell’oro, che
per conseguirlo tiene assediata la natura umana, privandola degli alimenti necessari
e costringendola con mille necessità (5).
Ma d'altronde questi autori sono gli stessi che abbiamo già citati per il loro
disprezzo per le ricchezze, sono dunque logici e conseguenti se criticano quelli che
bramano possederle. Il Sansovino invece, mentre anche egli dice che l’avidità di gua-
dagno nasce da un animo basso e mal composto, riconosce però che essendo corrotto
il vivere del mondo, chi desidera riputazione è necessitato a desiderare la ricchezza,
perchè con essa rilucono le virtù e sono in prezzo, mentre in un povero sono poco
conosciute e meno stimate (6).
Ma quello che anche in questo riguardo ci dà la nota scientificamente giusta è
al solito il ParuTA. Molti filosofi, egli dice, disprezzarono le ricchezze dichiarandole
impedimento alla vita virtuosa; ma siccome tutti siamo comunemente pronti a deside-
rarle onde è molto facile trascorrere in ciò nell’estremo, credo che i filosofi, imitando
(4) Paruta, Up. cit., pag. 220-21.
() Nicorò- Viro pi Gozzi, Avvertimenti Civili, aggiunti all’opera: Dello stato delle republiche ecc.,
in Venetia 1591, pag. 412.
(3) N. W. Senior, Principii di Economia politica, pag. 523-25, nella Bibl. dell’Econ., Ser. I, vol. 5°.
(4) Doni, Mondi, pag. 38.
(5) PaLazzo, Discorso ecc., pag. 351.
(6) Sansovino, Concetti politici, pag. 49.
164 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
in ciò quei maestri che per drizzar le tavole torte le piegano alla parte contraria (1),
col biasimare le ricchezze cercassero di levar l’uomo dal soverchio desiderio di esse.
Perchè il desiderio di arricchire in noi è altrettanto naturale, quanto il desiderio
stesso di vivere: perocchè la natura agli animali bruti provvide le cose alla lor vita
pertinenti: ma nell’uomo che fece povero e nudo e a molte bisogne soggetto, inserì
questo desiderio delle ricchezze, e a lui diede ingegno e industria per acquistarle:
acciocchè con questo unico stromento potesse tutte quelle cose procacciare che gli
fussero necessarie, non pur al vivere come gli altri animali fanno, ma al vivere uma-
namente, cioè a dire con certa eleganza e dignità che si richiede alla vita civile
propria degli uomini (2).
Il desiderio della ricchezza, in queste bellissime osservazioni del PaRUTA, non è
più confuso col desiderio sfrenato di accumulare denari, non è più criticato partendo
da preconcetti di morale ascetica e purista ereditati dai canonisti e dagli scolastici.
Qui la ricchezza è considerata dal suo vero punto di vista, come quella che non
solo ci dà il mezzo di soddisfare i bisogni più urgenti e necessari, ma che quando
è posseduta in maggiori proporzioni ci dà adito a procacciarci quanto occorre per la.
vita civile, a soddisfare bisogni più nobili ed elevati. Il desiderio della ricchezza diventa
allora un desiderio giusto, diventa il desiderio istintivo nell’uomo di vivere e di miglio-
rare la propria posizione sociale; quello che per gli altri scrittori era condannabile,
diventa per il PARUTA umano e morale. Tanto umano e morale, che egli, con una
chiara percezione di quello che i Tedeschi chiamano momento etico, riconosce l’in-
fluenza che esercita l’amore della famiglia sul desiderio della ricchezza, su questo
istinto che gli altri scrittori non considerano che come egoistico. « La famiglia, dice
Parura, è uno stimolo ad accumulare ricchezze; però vedonsi molti che del continuo si
faticano per acquistarne ai loro figliuoli stimando, quantunque mancasse loro tempo
a doverle per sè medesimi usare, assai però averne goduto col pensare, che dappoi
di sè possono i figliuoli di tali sue fatiche riceverne utile e onore; onde la prole è
desiderabile anche come perfezione della nostra umanità. (3) »
Ed ora, concludendo questo capitolo, possiamo asserire, che se gli scrittori di
quest'epoca non ebbero un’ idea chiara sulla definizione della scienza economica, si
occuparono però con interesse del concetto della ricchezza, della sua importanza, della
migliore sua distribuzione e dell’istinto che spinge l’uomo a desiderarla, facendo delle
osservazioni ora in un senso e ora nell’altro, ma che in ogni caso, sia per gli errori
come per le verità economiche che contengono, sono degne di essere registrate ed
offrono un certo interesse per la scienza.
(1) Questo paragone è quasi uguale a quello che fa Malthus per giustificare ciò che ci potrebbe
essere di esagerato nella sua teoria della popolazione. T. R. MaLrHUS, An Essay on the principle of
population, London 1872, pag. 526.
(2) ParuTA, Op. cit., pag. 244-145.
(3) Id., Op. cit., pag. 224.
DI CAMMILLO SUPINO 165
CAPITOLO II.
Il lavoro e la divisione del lavoro.
La produzione della ricchezza non è studiata in quest'epoca come la trattano gli
economisti moderni, cioè a dire, nelle sue forme, nei suoi elementi, nel suo progresso,
nei suoi limiti e nel suo organismo. Gli scrittori del tempo che noi consideriamo non
ci offrono che alcune osservazioni, anche di una certa entità, sul lavoro, qualche ac-
cenno sui vantaggi della divisione delle occupazioni e alcuni studi sull’importanza
delle varie industrie. Essi non parlano affatto del capitale, perchè allora non aveva
che una minima importanza produttiva, e non considerano la natura, come forza aiu-
tatrice della produzione, limitandosi a studiarla in un modo molto indiretto là dove
discorrono dell’agricoltura; onde le loro osservazioni su questo punto troveranno miglior
luogo nel capitolo seguente che tratta delle industrie. Quanto agli altri argomenti, di
cui si è venuta arricchendo la teoria della produzione, non ne possiamo trovar traccia
in quest'epoca, perchè essi sono la manifestazione e la conseguenza di fatti sviluppatisi
modernamente, di trasformazioni profonde avvenute nel mondo economico.
Venendo ora a determinare le opinioni degli scrittori di questo periodo sul lavoro,
«dobbiamo premettere che alcuni di essi non considerano il lavoro che dal solo punto
di vista morale, mentre altri dal concetto morale fanno sorgere il concetto economico,
giungendo perfino a studiare la funzione che compie nell’economia sociale questo impor -
tantissimo elemento della produzione.
Il primo fra questi due gruppi di scrittori mira soltanto a nobilitare il lavoro
e a porre in dileggio l’ozio, allora troppo tenuto in pregio, specialmente nelle classi
più elevate. Le quali credevano, a quanto dice il LortInI, che alla nobiltà convenga
di star colle mani in cintola, allegando che questo gli ha fatto differenti dalla plebe;
come non ci si fosse potuto far differenza con tante onorate virtù che si ricercano ai
nobili, senza che, brutta cosa, si fossero veduti quelli che non son nobili, faticare del
continuo ed industriarsi, ed i nobili a guisa di femmine starsi pigrissimi a sedere,
e, quel che è peggio, buona parte del tempo nella piuma (1). Di questo Traiano
Boccaini dà colpa ai principi, i quali banno fatto bandire come infame il lavorare
.e mercantare, che pure era tenuto per onoratissimo in tante repubbliche, acciocchè
i vassalli, divenuti scioperati e oziosi e non ritenuti da negozi, odiando la vita, andas-
sero volentieri a farsi ammazzare nelle guerre (2). E CAMPANELLA dice che nella Città
del Sole hanno un gran disprezzo di noi, che chiamiamo ignobili gli artefici e nobili
quelli che, non sapendo far cosa alcuna, vivono nell’ozio, sacrificando tanti uomini, che
chiamati servi, sono strumenti di ogni pigrizia e lussuria (3).
(1) Gro. Francesco LotTINI, Avvedimenti civili, Milano 41830, Avv. 248, vol. II, pag, 10
(2) Trarano Boccatini, Commentarii sopra Cornelio Tacito, in Cosmopoli 1677, pag. 324.
(3) Tommaso CampaneLLA, La Città del Sole, nelle Opere edite da A. D'Ancona, Torino 1854,
«vol. II, pag. 246-47.
166 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
Ma se queste non sono che considerazioni staccate di poca importanza, troviamo
però in Giordano Bruno delle bellissime osservazioni sul lavoro dal punto di vista
morale, nelle quali già comincia a mostrarsi un poco qualche concetto economico. La
diligenza, la fatica, egli dice, è quella per cui si supera ogni vigilanza, si tronca ogni
avversa occasione, si facilita ogni cammino ed accesso, s'acquista ogni tesoro, si doma
ogni forza, si toglie ogni cattività, s'ottiene ogni desio, si difende ogni possessione, si
giunge ad ogni posto, si deprimono tutti avversari, si esaltano tutti amici, si vendi-
cano tutte ingiurie e finalmente si viene ad ogni disegno (1). Il lavoro monta, supera
e passa ogni sassosa e ruvida montagna e s’infervora tanto nell’opra, che non solo
resiste e vince sè stesso, ma perde anche il senso della difficoltà e il sentimento del
suo esser fatica, perchè infatti la somma perfezione è non sentir fatica e dolore, quando
si sopporta fatica e dolore (2). Il lavoro è virtù, onde non deve occuparsi di cose
basse, di cose frivole, di cose vane. Esso scaccia la disavventura: e prende la fortuna
pei capelli, affrettando quanto meglio gli pare il corso della sua ruota; compagno
della sanità, della robustezza e della incolumità, il lavoro procura l’acquisto dei beni
del corpo, dell'animo e della fortuna, e ama fra tutti questi a preferenza quelli che
da sè stesso ha acquistati, non quelli che riceve dagli altri, non altrimenti che una
madre ama più li figli come colei che più li conosce per suoi (3).
Quantunque queste considerazioni, e specialmente quelle che abbiamo più sopra
citate, s’inspirino in gran parte a sentimenti quasi esclusivamente morali, pure esse
non si possono chiamare anti-economiche, come quelle, ad esempio, dei santi Padri,
a cui sembrava più lodevole d’impiegare tutta l’attività soltanto alla cura della salute
della propria anima e di rimaner poveri, invece di cercar di guadagnare mediante il
lavoro (4). Le idee dei nostri autori trovano piuttosto un riscontro in alcuni scrittori
della Germania verso. la fine del secolo xv e il principio del xvi, come Erasmo di
Rotterdam, che raccomanda anche ai benestanti d’imparare un mestiere, Martino Lutero,
il quale dice che come l’uccello è nato per volare, l’uomo è nato per lavorare, basta,
però che lavori senza affanno e senza avidità, e Ulrico Zuinglio, che vanta il lavoro
come un hene, come una cosa divina, la quale preserva dalla malvagità e dai vizi, dà
buoni frutti, di cui l’uomo può nutrirsi senza paura e senza rimorso, rende il corpo
sveglio e forte, e distrugge le malattie originate dall’ozio (5).
Ma se gli autori da noi finora citati considerano il lavoro principalmente da un
punto di vista morale, esprimendo solo per incidenza dei concetti economici, non man-
cano però altri scrittori, ed in numero molto maggiore, che studiano il lavoro come
elemento fondamentale della produzione. Il Doni distingue nell’uomo due epoche, l’una
in cui consuma soltanto, l’altra in cui col suo lavoro produce, e trova questo ordine
molto giusto, acciocchè chi nasce e non sa lavorare abbia il necessario già pronto da
(4) Grorpano Bruno, Spaccio della bestia ecc., pag. 143.
(2) Id., Op. cît., pag. 144. i
(3) Id., Op. cit., pag. 145. — Alcune considerazioni sulla solerzia e sulla pigrizia si trovano
anche in BernarDINo Tetuesio, De rerum natura justa propria principia, Neapoli 1587, pag. 370.
(4) W. Enpemann, Die nationalòhonomischen Grundstze der canonistischen Lehre, Jena 1863,
pag. 164.
(5) W. RoscHer, Geschichte der National-Ochonomik in Deutschland, Munchen 4874, pag. 40,
58-59 e 73.
DI CAMMILLO SUPINO 167
servirsene poi per aumentarlo e rendere ciò che ha consumato. Di fronte a molti che
consumano e non guadagnano, vi sono molti altri che guadagnano più di quello che
consumano, ma gli oziosi non dovrebbero esistere, e il nostro autore vorrebbe « che
ogni persona mangiasse il pane del suo sudore e facesse utile a l’altro uomo come quel-
l’altro fa utile a lui. (1) » Dalle quali considerazioni si vede che il lavoro viene riguar-
dato qui, non più come una virtù raccomandabile agli individui, ma come una fun-
. zione sociale. Più esplicitamente parla l’Ammiraro della potenza economica del lavoro.
Essendo Caio Furio Cresmo stato accusato per maliardo perchè faceva rendere più ad
un suo poderetto ben piccolo, che i vicini suoi non facevano ai loro ben grandi, pro-
dusse dinanzi ai giudici i suoi ferri da lavorare, i quali erano gravi, ben fatti e puliti
che parevan d’argento, dicendo non esercitare altre malìe che quelli strumenti e una
continua fatica, che egli metteva di giorno e di notte insieme colla sua famiglia in
coltivar quei suoi campi (2). Secondo l’Ammrato, della copia degli uomini quella
sarà al suo principe più fruttuosa di cui più sarà commendata l'industria; onde si
dovrebbe cercare che tutti i sudditi, ciascuno secondo il suo grado, s'impiegassero in
qualche esercizio, mandando via gli uomini oziosi, i quali come calabroni non son
buoni ad altro che a succiar le fatiche delle sollecite api (3). Ed è il nostro autore
tanto avverso all’ozio, perchè rende gli uomini mendici e ladroni, che vede di buon
occhio e loda i grandi lavori fatti dai principi, come strade, ponti, fabbriche, dissec-
camenti di paludi, per il solo fatto che occupano tanta gente (4).
Usuali considerazioni si trovano negli Avvedimenti del LortINI, il quale trova
utile che nelle città sieno molti che si occupano nelle varie industrie e loda gli Ana-
tatei, che premiavano chi accresceva le sue facoltà e castigavano chi le scemava (5).
D'altronde il lavoro è, secondo il PaLAzzo, una legge inesorabile per l'uomo, il quale
caduto in estrema miseria dopo l’antico fallo, ebbe da Dio il privilegio di esercitarsi
col mezzo delle fatiche e del sudore per acquistare quanto fosse necessario 2 prov-
vedere e riparare le sue grandissime rovine, onde furono trovate le arti meccaniche
per soddisfare alla necessità e ai bisogni del corpo (6).
Ma idee più avanzate e più complete sull’importanza del lavoro e sul fenomeno
della produzione in generale si trovano in Antonio SERRA, il quale divide in quattro
specie principali gli accidenti comuni che contribuiscono all’aumento della ricchezza,
cioè « quantità di artificî, qualità di genti, traffico grande di negozi, e provvisione
di quel che governa. (7) » Tralasciando per ora gli altri, parleremo dell’accidente
comune della qualità delle genti, come quello che si riferisce all'argomento di questo
(1) Doni, Mondi, pag. 39-40.
(2) Ammirato, Discorsi, pag. 53. i
(3) Id., Op. cit., pag. 112. — Anche Giurio Cesare Capaccio , e con lui molti altri politici suoi
contemporanei , sostiene l’idea di espellere dallo stato gli oziosi. IZ Principe, in Venetia 1620,
pag. 1954-55.
(4) Id., Op. cit., pag. 145.
(5) LottINI, Op. cit., Avv. 248, vol. II, pag. 10.
(6) Gio. Antonio Pavazzo, Discorso del governo e della ragion vera di Stato , in Venetia 1606,
pag. 105.
(7) Antonio SERRA, Breve trattato delle cause che possono fare abbondare li regni d’oro e d’ar-
gento dove non sono miniere, nella Raccolta Custopi, Parte Antica, t. I. pag. 23.
168 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
nostro capitolo. La qualità delle genti, secondo il SERRA, ha molta influenza sull’ac-
crescimento della ricchezza, perchè quando gli abitanti di un paese sono industriosi,
diligenti e d’invenzione e pensano dove e in che modo possano applicare la loro industria,
la città potrà abbondare di oro e di argento. I Napoletani sono poveri perchè non
solo non trafficano fuori del loro paese, ma neanche in quello esercitano le loro in-
dustrie, e vengono a farle gli abitatori di altri luoghi; mentre i Genovesi non con-
tenti delle industrie che si possono esercitare nella loro provincia, non risparmiano
fatica o pericolo peregrinando per tutta l’Europa e fino in America per lavorare e
trafficare. « E nell’effetto si conosce quanto sia importante questo accidente della
qualità delle genti, che li predetti con essere il loro paese sterilissimo abbondano di
tanti denari, e li cittadini del Regno, con essere il paese tanto abbondante, sono tanto
poveri » (1).
Esaminando le idee degli autori che abbiamo citati, ci possiamo accorgere come
essi avessero una nozione chiara dell'importanza economica del lavoro e soprattutto
della sua potenza produttiva, ma dobbiamo anche confessare a voler essere imparziali,
che essi ci offrono solo delle bellissime osservazioni slegate, dei concetti isolati, senza
riannodarli ad un sistema complesso e più completo, senza accorgersi che queste
primissimo fra gli elementi produttivi è il fondamento su cui posa e da cui trae la
sua origine l’intera economia sociale. Il lavoro è fonte di ricchezza, questa è l’idea
importantissima che, più o meno esplicitamente espressa, predomina nelle citazioni da
noi fatte e che rappresenta lo stadio di progresso a cui era giunta su questo argo-
mento la scienza economica nell'epoca che noi studiamo; tant'è vero che idee presso
a poco simili si trovano anche in alcuni scrittori stranieri dello stesso periodo di tempo.
Si deve cercare, dice Montchrétien, che nessuna parte dello stato resti oziosa e svi-
luppare le facoltà naturali degli uomini che ci vivono, rendendoli utili alla conser-
vazione del corpo universale di cui sono membri (2). E altrove: cacciate la pigrizia
dalle botteghe a colpi di martello e vedrete il ferro tramutarsi in oro fra le mani
dei vostri uomini (3); poichè non v'è arte per meschina che sia che non doni il
nutrimento e il vestito a chi se ne occupa (4). Uguali concetti si riscontrano anche
in alcuni scrittori tedeschi, come ad esempio, per citarne uno, in Adamo Contzen,
che loda l'industria e raccomanda di aiutarla (5), e in alcuni autori inglesi, fra i
quali, in epoca un poco posteriore, occupa un posto importante Guglielmo Petty, il
quale afferma che il lavoro è il padre e la terra la madre della ricchezza (6).
Nonostante però, paragonando le idee dei nostri autori con quelle dei loro contem-
poranei di altri paesi, dobbiamo riconoscere la decisiva superiorità degli scrittori ita-
liani, non certo per avere essi formulata una teoria completa degli elementi della
produzione, ma per aver rettamente intesa l’importanza economica del lavoro.
(1) SERRA, Op. cit., pag. 27-29.
(2) J. Duvar, Memoire sur Antoine de Montchretien sieur de Vateville, auteur du premier Traité
d’liconomie politique, Paris 1869, pag. 47.
(3) Id., Op. cit., pag. 54.
(4) Id., Op. cit., pag. 48.
(5) RoscHER, Geschichte ecc., pag. 206.
(6) W. Petty, Zreatise on tazes and contributions, London 1667, pag. 47.
DI CAMMILLO SUPINO 169
Ed ora passando all’altro argomento di questo capitolo, diremo che dei mezzi
per accrescere l'efficacia dell'umano lavoro, gli scrittori italiani di questo periodo di
tempo non tengono conto che della divisione delle occupazioni; ma su questo essi ci
offrono delle osservazioni degne di essere ricordate. La divisione del lavoro nasce dalle
diverse attitudini dell'uomo, come la diversità delle colture nasce dalle differenti qua-
lità di terreni, e questi due fatti costituiscono l’origine dello scambio : un tale con-
cetto è svolto con giustezza da diversi scrittori. L'uomo, dice il DAVANZATI, nasce con
un'infinità di bisogni; « ma perchè non ogni uomo nasce atto ad ogni esercizio, ma
ciaschedun ad uno, nè ogni clima produce ogni frutto della terra, perchè il sole e
le stelle con diversi angoli ed aspetti la percuotono in diversi siti; quinci è che l’un
uomo lavora e s’affatica non per sè solo, ma per gli altri ancora, e gli altri per lui;
e l’una l’altra città, e l’uno l’altro regno condisce del suo soverchio, ed è fornito del
suo bisogno; e così tutti i beni di natura e d’arte sono accomunati e goduti per lo
commerzio umano » (1). Il Doni, seguito in ciò anche dal CniaramonTI, si diffonde
più sulla divisione delle culture secondo la qualità dei terreni, e trova giusto che
dove fanno bene le viti, il frumento o le legna, non si coltivi che una sola di queste
cose, facendo fruttare ogni terreno secondo la natura sua. E così pure chi fa il vino
non deve attendere che alle vigne, piantarle, coltivarle, accrescerle e governarle e in
tal modo in pochi anni saprà la natura della pianta e, approfittando dell’esperienza
continua, farà a quella far miracoli. Questo è il modo per diventar perfetti in una cosa.
E quello che si dice per l’agricoltura può ripetersi per le arti, perchè anche qui per
diventare esperto, ognuno deve esercitarne una, non facendo altra cosa. che quella (2)
Il LorrINI consiglia il principe a cavare da ogni provincia soggetta, quello di cui
essa per natura o per industria è più abbondante, perchè gli uomini non s’aggravano
di dar parte di quello che abbondano, nè d’esercitarsi in quello ove son pratici (83).
Il qual sistema, a quanto ci dice CAMPANELLA, era seguito dai Romani, che non traevano
i tributi dalle provincie in danaro, ma in quelle cose delle quali ciascuna più ab-
bondava, e così lo stato veniva ad ottenere un benefizio molto maggiore del sacrifizio
che le provincie stesse sopportavano (4).
Anche Gabriele Zinano, partendo dall'idea che i cittadini non hanno virtù uguali,
vorrebbe vedere in uno stato distribuiti gli uffici e gli onori secondo le virtù di cia-
scuno, dando a chi ha virtù da soldato uffici di guerra, al prudente ufficio conveniente
alla sua prudenza; e così si farà in modo che ognuno, limitandosi ad esercitare la sua
arte, vi avrà però speciale attitudine. Per meglio raggiungere questo scopo molti legisla-
tori disposero che ogni cittadino ereditasse dal padre la sua professione: ma siccome
il figlio può essere diverso dal padre, in una buona repubblica si debbono distribuire
gli uffici a ciascuno secondo la sua virtù, non secondo quella del suo genitore, e non
(1) BernarDo Davanzati, Lezione delle monete, nella Raccolta Custopi, Parte Antica, tomo II,
pag. 22-23.
(2) Doni, Mondi, pag. 174. — Scipione CaiarazoniI, Della ragione di Stato, in Fiorenza 1635,
pag. 272.
(3) LorTINI, Avvedimenti, Avv. 149, vol. I, pag. 88-89.
(4) Tommaso CampaneLta, Arbitrio o Discorso primo sopra l'aumento delle entrate del regno di
Napoli, nelle Opere, vol. II, pag. 331.
SeRIE II. Tom. XXXIX. ; 22
170 LA SCIENZA ECONOMICA IN. ITALIA
far confidente in senato il figlio sciocco di un senatore o costringere ad esercitare
l’agricoltura o un'arte chi meglio riuscirebbe nell’eloquenza o nelle armi (1).
Delle diversità delle attitudini e delle occupazioni discorre a lungo anche L’Am-
mirato. Ciascuno, egli dice, deve fare ciò che sa e riportarsi ad altri per ciò che non
sa; e per provarlo, il nostro autore cita fra gli altri degli esempi di divisione del
lavoro mentale. Platone, a chi gli domandava consiglio sul modo di fabbricare l'ara
sacra, rispose che andasse da Euclide il geometra che molto meglio s’intendeva di
queste cose; e Q. Scevola, chiarissimo giureconsulto, ogni volta che era domandato
dai clienti intorno a casi della ragione pretoria, li mandava da Furio in quella eser-
citatissimo. Ora se in una medesima professione, chi tanto ne sa cede in un parti-
colare a chi di una specialità ha alcuna eccellenza, quanto maggiormente deve, ad
esempio, il legista, trattandosi di teologia, cedere al teologo, e il teologo nelle cose
di stato, riportarsi all’intendente di esse. D'altronde le inclinazioni degli uomini non
sono uguali; come dice Omero:
A tal Dio diè saper l’opre di Marte
A tal temprar la cetra a balli e canti,
è naturale dunque che anche le occupazioni siano differenti (2).
Ma oltre queste considerazioni generali sull’importanza della divisione del lavoro,
troviamo negli scrittori di questo periodo anche delle osservazioni più precise sul primo
dei vantaggi che, secondo Smith, essa arreca. L’AMmmMIRATO stesso che abbiamo citato
poc'anzi, dice che colui si può chiamare in qualunque mestiere eccellente artefice, il
quale abbia fatto per molto tempo sempre la medesima a cosa, onde divenuto spe-
rimentatissimo in quella operazione vi procede dentro con sicurezza e facilità (3).
Anche la maggiore o minore disposizione ha, secondo il LorTINI, una grande influenza
sull’agevolezza nell’operare; perchè chi la possiede apprende subito e facilmente, ed
oltre a ciò ha i membri del corpo disposti ad eseguire ciò che l’animo intende. Se
fosse dato a ciascuno di fare quell’esercizio del quale ei fosse capace, verrebbero ad
essere tutti gli esercizi della città ben fatti (4). CAMPANELLA accenna ad un altro
dei vantaggi della divisione del lavoro, quello di utilizzare ogni genere di forze, del
qual vantaggio hanno poi fatto un'esposizione scientifica Gioia (5) e Babbage (6):
nella Città del Sole nessun difetto vale a ritenere gli uomini nell’ozio; chi zoppica
serve nelle vedette, impiegando gli occhi che ha sani, chi è cieco cardeggia con le
mani la lana e prepara piume per empire letti e capezzali, chi è privo di occhi e
di mani serve la repubblica impiegando le orecchie e la voce, finalmente se uno non
ha che un membro solo, serve con quello nel miglior modo possibile (7).
Se le idee che abbiamo citate non formano una teoria della divisione del lavoro,
costituiscono però un complesso di osservazioni importanti su questo. fenomeno, sulle
(1) GarIELE Ziano, Della ragione de gli Stati, in Venetia 1626, pag. 399-400.
(2) AmmiraTo, Discorsi, pag. 337-38.
(3) Id., Op. cit., pag. 73.
(4) LorTINI, Op. cit., Avv. 294, vol. II, pag. 36.
(5) M. Giora, Nuovo prospetto delle scienze economiche, Milano 1815, tomo I, pag. 100.
(6) Cn. Bagpage, On the economy of machinery and manufactures, London 1833, pag. 4175-76.
(7) CampanELLA, Città del Sole, pag. 258.
ras
aiar e SEA tr;
DI CAMMILLO SUPINO 171
sue manifestazioni e sui suoi vantaggi, da meritare l’attenzione anche dell'economista.
Infatti abbiamo visto che gli scrittori di quest'epoca hanno un concetto chiaro della
diversità delle attitudini negli uomini e delle qualità nei terreni, da cui deducono l’uti-
lità di affidare ogni lavoro a quello che è più adatto, e di dividere le culture secondo
la natura della terra. Al DAVANZATI non è sfuggito che dalla divisione del lavoro nasce il
cambio; l’AmmiraTo apprezza la repartizione delle occupazioni anche in ciò che concerne
l'intelligenza e molti notano chiaramente alcuni dei vantaggi di questo mezzo per aumen-
tare l'efficacia del lavoro. Con ciò non vogliamo dire che si debba dare tutto il merito
per queste osservazioni agli scrittori italiani di quest'epoca, perchè anzi una critica im-
parziale deve riconoscere quanto era già stato trovato ed esposto in epoche anteriori.
Senofonte, nell’Economico, nota l’importanza della separazione di occupazioni nella
famiglia (1), e nella Ciropedia dimostra l'utilità che ognuno eserciti una sola arte (2),
accennando all’eccellenza che si acquista nel non distrarre in più oggetti la mente (83);
mentre nel descrivere il porre ed il levare degli accampamenti, parla dei vantaggi del
lavoro simultaneo di molti nella stessa operazione (4). Platone vorrebbe che si punisse
chi esercita due arti nello stesso tempo, perchè niuna arriverebbe ad esercitar bene (5) ;
e altrove spiega l’origine delle città colla separazione dei mestieri e coll’ainto reciproco
che ciascuno presta all’altro (6). Aristotile parla della divisione degli uffici nella fa-
miglia e nella città secondo l’età, le inclinazioni e le attitudini dei cittadini (7), e
descrive la repartizione dei mestieri, la loro suddivisione in tante professioni distinte
e i differenti strumenti che adoprano (8). San Tommaso, in epoca posteriore, seguendo i
Greci, dimostra l'importanza della divisione delle professioni e la necessità che ognuno
si occupi di una sola cosa (9); e come lui, molti altri scrittori di politica seguaci di Ari-
stotile, ci offrono delle osservazioni più o meno importanti sulla divisione del lavoro. Ma non
è nostro scopo l’indagare tutto quanto è stato scritto su questo argomento; bastino queste
citazioni per dare un’idea di quello che ne sapevano i grandi capiscuola dell’antichità
e per giudicare che in essi si trova molto di quanto hanno poi esposto gli scrittori
dell’epoca che noi studiamo. A questi rimane però sempre il merito di aver comple-
tato le idee trovate, di averle svolte con criteri più moderni e di averci aggiunto
nuove osservazioni. Le quali sono, il’ preludio dei progressi che il concetto della divi-
‘ sione del lavoro farà poi in Inghilterra con Petty (10), Mandeville (11), Ferguson (12)
e tanti altri; finchè verrà Adamo Smith a trasformarla in una teoria scientifica vera
e propria negli splendidi primi tre capitoli della Ricchezza delle Nazioni.
(4) SenorontE, Economico, $ III in fine, pag. 20.
(2) Id., Ciropedia, trad. da F. Regis, Milano 1873, VIII, 2, vol. II, pag. 178-79.
(3) Id., Gropedia, II, 1, vol. I, pag. 107.
(4) Id., Op. ca., VIII, 5, vol. II, pag. 212.
(5) PLatonE, Le Leggi, trad. ital., Milano 1852, Lib. VIII, vol. II, pag. 103-4.
(6) Id, L'État ou la republique, ‘trad. da A. Bastien, Paris, Garnier, Il, 5, pag. 63-71.
(7) AristoTILE, ‘Trattato dei Governi, IV, 9, pag. 163.
(8) Id., Op. cit., I, 1 e 7, pag. 10-11 e 33-35.
(9) S. Tommaso, Trattato del governo de principi, in Fiorenza 1577, I, 4, pag. 3.
(10) W. Petty, Political Arithmetick, nei Several Essays in Political Arithmetick, London 1699,
pag. 175-80.
(14) ManpeviLLE, The Fable of the Bees, London 1732, vol. I, pag. 4412-13.
(12) A. Ferauson, An Essay of the history of civil society, London 1768, pag. 299 e seg.
172 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
CAPITOLO Ill.
Le Industrie.
Esaminando quanto ci fu dato rintracciare negli scrittori di quest'epoca relati-
vamente alle industrie, cominceremo dal citare la classificazione che di queste fanno
il CavaLcAntTI e il FreLIUCCI.
Essi distinguono gli uomini che guardano gli armenti e si nutriscono con poca
fatica di latte e di carne, limitandosi a cambiare paese secondo che si cambiano le:
stagioni o i pascoli si consumano; quelli che vivono di preda, per via di cacciagioni
o pescando, e quelli infine, e sono la maggior parte, i quali si nutrono delle cose che
produce la terra e dei frutti domestici. A seconda dunque dei diversi istinti e delle
diverse attitudini degli uomini vi sono tanti modi diversi di vivere naturale (1). Le
quali idee i due autori espongono in forma quasi esattamente uguale, perchè tanto
l’uno che l’altro non fanno che tradurre la Politica di Aristotile (2). E sempre su
queste traccie, il FigLiUccI distingue tre modi di guadagno artificiale: la mercanzia,
l’usura e le arti meccaniche (3); mentre il CEBÀ annovera fra i mezzi onorevoli per
arrivare alla ricchezza primo di ogni altro la coltivazione della terra, e appresso a
questa quei traffichi di mercanzie e quelle permutazioni di monete che sono più usate
dai nobili nelle città libere, e che possono essere esercitate senza indegnità di mini-
sterio (4).
Sull’importanza delle singole industrie parlano a lungo gli scrittori di quest’e-
poca, e molto bene dice il BoccaLinI che Za coltura e la mercanzia sono le due mam-
melle donde si nutriscono tutti gli stati (5); la qual frase ha forse inspirato quella
celebre di Sully: Zabourage et paturage sont les deux mamelles dont la France est
alimentée (6); giàcchè i Commentari su Tacito, conosciuti presso le nazioni più ci-
vili, erano già stati tradotti due volte in francese, quando l’illustre ministro di Enrico IV
scriveva le sue Économies royales. Ed anzi noi troviamo l’espressione di Sully infe-
riore, perchè vi predomina già lo spirito esclusivista dei Fisiocrati, mentre in quella
dell’arguto politico di Loreto sono ugualmente apprezzate le varie industrie come fonti
di ricchezza.
Prendendo a base delle nostre ricerche la triplice classificazione delle industrie
adottata dai trattatisti dell'Economia Politica, cominceremo dall’esporre le idee degli
autori di quest’epoca sopra l’agricoltura; la quale è in generale molto apprezzata e
lodata, specialmente dagli scrittori che s’ispirano ai grandi maestri dell’antichità e da
(1) BartoLomzo CavaLcanTI,, Trattati o vero Discorsi sopra gli ottimi reggimenti delle republiche
antiche et moderne, in Venetia 1571, pag. 66-67. — FieLiucci, Politica ecc., pag. 20-21.
(2) ArISTOTILE, Op. cit., pag. 25-26.
(3) FiaLivcci, Op. cit., pag. 28-29. — ARISTOTILE, Op. cit., pag. 34.
(4) CeBà, Il Cittadino di republica, pag. 116.
(5) Tnarano Boccacini, Commentarii sopra Cornelio Tacito, in Cosmopoli 1677, pag. 6.
(6) E. BonnaL, L’Économie politique au XVI siècle. — Sully économiste, Paris 1872, pag. 15.
reno de URTI TI
DI CAMMILLO SUPINO 173
quelli che, sotto l'impulso di preconcetti protezionisti, vogliono che uno stato trovi in
Sè stesso quanto è necessario al sostentamento dei suoi abitanti.
Il GarzonI, nel suo libro stranissimo ma originale e interessante sulle professioni,
dice che a render celebre e famosa l’agricoltura, quand’anche essa non avesse altri
pregi, basterebbe la sola sua antichità. Essa fu infatti la prima occupazione del
primo uomo. Tutti gli autori la lodano e Aristotile a buon diritto la chiama pro-
fessione principalissima secondo la natura. L'agricoltura rende forti e sani, « oltra di
questo, essendo il guadagno de’ mercanti pericoloso, e infelice, quello degli usurari ver-
gognoso, e infame, quello de gli artefici assai sporco, e immondo, la sola agricoltura
par che sia quella, onde si cava un guadagno stabilissimo, honestissimo e niente invi-
dioso a chi lo scorge» (1).
Borero definisce l’agricoltura : ogni industria che si maneggia intorno al terreno
e si prevale in qualunque modo di lui. La chiama il nervo delle repubbliche e con-
siglia il principe a favorirla e promuoverla, tenendo gran conto della gente che intende
migliorare e fecondare i terreni, e pensando a condurre corsi d’acqua, a spiantare e
ridurre a coltura boschi inutili , a far venire nél suo stato piante e semenze nuove,
ad asciugar paludi, ecc. (2). Ed altrove l'illustre segretario di San. Carlo Borromeo
afferma che la cagione principale della grandezza di una città è la fertilità del paese ;
poichè l’uomo ha bisogno di vitto e di vestito, e l’uno e l’altro si cavano dalle
cose che la terra produce. La fertilità di essa è maggiormente vantaggiosa ad uno stato,
sevil terreno, oltre nutrire i propri abitanti, potrà servire ai popoli vicini, e quanto
più una terra produrrà un maggior numero di cose, tanto più essa sarà idonea a dare
origine ad una grande città, perchè meno avrà bisogno dell’altrui e più avrà da dare
agli altri (3).
Anche l’Ammirato fa grandi elogi dell’agricoltura, la quale, a quanto egli dice,
deve essere riguardata come il fondamento sul quale sta appoggiata tutta la macchina
grande della repubblica. Tant'è vero che gl’Indiani avevano stabilito che i popoli amici
o nemici fra loro non potessero dar noia o far ingiuria ai lavoratori della terra; e
i Romani li esentavano, durante le loro occupazioni, di comparire all’ufficio. Favori-
scansi dunque i contadini, conclude il nostro autore, se non per altro perchè son quelli
che danno mangiare ai nobili (4); sulla quale conclusione, non troppo consona alle
premesse del discorso, oggi molti troverebbero a ridire, e non senza ragione.
Gabriele Zinano fa delle bellissime considerazioni sulla misera sorte dei conta-
dini, e consiglia il principe a non affliggerli con soverchi pesi, pensando che i loro
lavori faticosi ridondano a benefizio pubblico. Intorno a questo, aggiunge lo Zimano,
sono costretto a dire che veggo cose degne ad un tempo di riso, di compassione e
d’ira: bramare accrescimento di stato e poi vedere le fertili campagne andar diserte. .
L’accrescimento degli stati non istà solo nella loro ampiezza; anche gli stati si pos-
(4) Taomaso GarzonI, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, in Venetia 1589,
pag. 501-3.
(2) Giovanni Borero, Della ragion di Stato, libri dieci, Venezia 1589, pag. 198-201.
(3) Id., Delle cause della grandezza e magnificenza delle città, libri tre, Venezia, 1589, pag. 307.
(4) AmmiraTo, Discorsi, pag. 247.
174 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
sono far grandi in piccolo spazio (1). Osservazione giusta e profonda che non sarebbe
male fosse meditata dagli uomini di stato dei nostri tempi.
Come si vede da questi estratti, gli scrittori italiani di quest’epoca ci danno sul-
l'agricoltura dei giudizi molto esatti ed imparziali, e, meno forse qualcuno, tutti gli
altri, pur lodandola, non ne esagerano l’importanza fino ad assegnarle un posto esclu-
sivo nella produzione della ricchezza. Anzi in quest'epoca le preferenze dei politici erano
piuttosto, come vedremo fra poco, per l’industria manifattrice; ma siccome l’agricol-
tura costituiva sempre la fonte principale di guadagno per .i privati e quella da cui
i principi più facilmente potevano levare i tributi, così è naturale che essa fosse tanto
lodata dagli scrittori e tenuta in gran conto da quei governanti, che sapevano di poter
fare assegnamento sui proprietari e sui contadini per rimediare alle finanze continua-
mente esauste degli stati,
Difatti le opinioni degli autori da noi citati trovano un largo riscontro in mol-
tissimi scrittori stranieri. Già Lutero, in epoca un poco anteriore, aveva chiamato l’agri-
coltura un nutrimento divino, goduto anche dai patriarchi, e che ci viene diritto dal
Cielo (2). Ma per parlare di autori contemporanei a quelli italiani dell’epoca che noi
studiamo, basta nominare l’Obrecht, che chiama l’agricoltura aliarum rerum parentem
et nutricem (3); Hippolytus, che la esalta dicendo di lei: nulla ars locupletandae
reipublicae utilior et honestior (4); Klock, che raccomanda la più estesa fertiliz-
zazione del suolo (5); Sully, che è già abbastanza conosciuto per quanto ha scritto
e fatto in vantaggio dell’agricoltura (6), e finalmente, per non andar troppo in lungo
con le citazioni, Montchrétien, il quale chiama i contadini i nutritori di tutto lo stato
e raccomanda al re di proteggerli e di favorirli (7).
Abbiamo detto che l’agricoltura era tenuta in gran pregio in Italia anche dai
principi; si guardino, infatti, per convincersene, le tante leggi emanate in quest’epoca
dai Medici, regnanti in Toscana, per stabilire delle ferie per i debiti civili in bene-
fizio dei poveri contadini che lavorano la terra, danneggiati da annate cattive (8);
per proibire la macellazione delle bestie vaccine atte a lavorare i campi, delle quali
si scarseggiava dopo una tremenda epizoozia (9); per impedire di diboscare i monti,
i quali spogliati così del loro naturale vestimento, lasciano passaggio all’acqua delle
pioggie, che, non trovando ritegno, scende, devastando le terre e i colli sottostanti (10).
Si guardino anche nelle leggi municipali di Pistoia le prescrizioni sui contratti delle
bestie da lavoro, dette socezte (11), e le severe proibizioni imposte ai comuni, alle
(4) GasrIELE Zinano, Della ragione de gli Stati, in Venetia 1626, pag. 376.
(2) W. RoscHeRr, Geschichte ecc., pag. 59.
(3) Id., Op. cit., pag. 153.
(4) Id., Die deutsche Nationalokonomik an der Grinascheide des XVI und XVII Jahrhunderts,
Leipzig 1862, pag. 299. È
(5) Id., Geschichte ecc., pag. 213.
(6) Boxnac, Op. cit., pag. 15-25.
(7) Duvan, Mémoire ecc., pag. 39-42.
(8) Legislazione Toscana, raccolta ed illustrata dal dott. Lorenzo CantINI, Firenze 1800-8, vo-
lume II, pag. 347-51 e vol. IV, pag. 4413-18.
(9) CantINI, Op. cit., vol. III, pag. 239-40.
(10) Id., Op. cit., vol. III, pag. 328-30.
(11) Leges municipales Pistoriensium nuper mandante Serenissimo Ferdinando II magno duce
Etruriae, Florentiao 1647, pag. 55.
Sei AREE Sn MILE AMT RE IAREELIRO DPI MELIA
TOSI
DI CAMMILLO SUPINO 175
università e ai privati di far ordini, statuti o composizioni per le quali venga impe-
dita la coltivazione della terra (1). Che più? Una legge della Corsica stabilisce in
quell’isola una istituzione, che assomiglia moltissimo a quello che oggi si chiamerebbe
credito agrario. Questa legge dice che la Camera fa dei prestiti per promuovere la coltiva-
zione della terra: chi vorrà avere un prestito dovrà entro quindici giorni dalla data del
decreto far scrivere il suo nome sopra un registro; saranno preferiti quelli stimati più solvi-
bili e puntuali ed attendenti alla coltivazione dei terreni propri, ma più di tutto quelli
che vorranno far piantagioni d’alberi e inserti d’olivastri (2).
Ma ad onta del favore che accordano i principi all’agricoltura, ad onta delle lodi
che le tributano gli scrittori di quest'epoca, non è, lo ripetiamo, un concetto esclusivista
che predomina in loro; e di ciò abbiamo una conferma non dubbia nelle considera—-
zioni che essi fanno sull'industria manifattrice. Lo stesso BorERo, che, come abbiamo
visto, tanto stima la fertilità del terreno e vorrebbe che ogni stato traesse da quello
quanto è necessario a soddisfare la maggior parte dei bisogni dei suoi abitanti, lo
stesso Borrro dice non esser cosa che più importi per accrescere una città e per
renderla numerosa di abitanti e doviziosa di ogni bene che l’industria degli uomini e
la moltitudine delle arti. Le quali, egli continua, sono di diverse specie: alcune sono
necessarie, altre comode alla vita civile; alcune si desiderano per pompa e per orna-
mento, altre per delicatezza o per trattenimento delle persone oziose; ma da tutte segue
concorso di denaro e di gente che o lavora, o traffica il lavorato, o somministra ma-
teria ai lavoranti, compra, vende, trasporta da un luogo ad un altro gli artificiosi
parti dell’ingegno e della mano dell’uomo (8).
Le arti meccaniche, secondo il PataAzzo, nascono dalla necessità che ha l’uomo
di provvedere ai suoi bisogni, onde sono antiche come il primo uomo; da cui si vede
quanto sieno deboli i fondamenti della nobiltà che non sulla virtù, ma sul tempo sol-
tanto si appoggia, « poichè l’ignobilità dell’arte è di gran lunga più antiqua di tutte
le nobiltà del mondo ». Il nostro autore ha detto che la necessità fa nascere le arti,
ed infatti l’esperienza ci dimostra che esse sono seguite solo dagli uomini poveri, i
quali, appena acquistate alcune ricchezze, subito lasciano l’arte in' abbandono (4).
Come il Borero, Lelio ZEccHI distingue le arti secondo che sono necessarie alla
vita umana, o proficue alla società, secondo che servono alla pompa, all’ornamento e
ai piaceri, secondo la materia in cui si esercitano, o nella lana o nella seta o nel
ferro da cui vengono fabbricati strumenti agricoli, ecc. Il prudente principe, soggiunge,
deve cercare d’introdurre nel suo stato ogni genere di artifici, facendo venir di fuori
abili operai e dando loro premi e immunità, e nello stesso tempo proibendo l’espor-
tazione delle materie prime non fabbricate e l’emigrazione di quelli che conoscono bene
un'arte. (5).
(1) Leges mumicipales etc., pag. 1410-11.
(2) Statuti civili e criminali di Corsica, pubblicati, con addizioni inedite e con una introduzione,
da Gio. CarLo GreGoRrI, Lione 1843, vol. II, pag. 14-15.
(3) Borero, Ragion di Stato, pag. 201-2.
(4) Gio. Antonio PaLazzo, Discorso del governo e della ragion veru di Stato, in Venetia 1606,
pag. 107-9,
(©) LeLio ZeccHni, Politicorum , sive de Principe, et principatum administratione, libri tres, Ve-
ronae 1601, pag. 223.
176 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
Paolo BrusANTINI dice essere utile che un paese possieda molte industrie, le quali
fanno vivere migliaia di poveri e fanno avere le merci a meno prezzo. Onde il prin-
cipe deve conservare le arti ed accrescerle dando immunità, privilegi, ecc., a chi viene
ad esercitare un’arte nel suo stato (1). E che queste fossero allora le idee domi-
nanti, lo prova il fatto che molti governi seguivano questo consiglio. Vogliamo citare
ad esempio un editto emanato nel 25 novembre 1623 da Carlo Emanuele I di Sa-
voia, col quale si concedono privilegi speciali agli introduttori di nuove fabbriche di
panni di lana. « Siccome l’introduttione de negotii e l’esercitio delle arti nelli stati
apporta grandissima utilità a gli habitanti in essi, e particolarmente a i poveri, e alla
gioventù, che con simili occupationi fuggono l’otio, e cavano guadagno per sovvenire
alle loro necessità. Così deve il prencipe non tralasciare occasione alcuna di favorire
con particolari gratie, e privilegi non solo li sudditi suoi, ma anco li forestieri, li quali
con loro spese, e fatiche vengono ad introdurre in essi negotii, arti, inventioni, fabriche
e altre opere, che prima non erano in uso ne praticate. Essendoci dunque da molti
stato rappresentato come nelli Stati nostri per l’opportunità del loro sito, e concor-
renza de’ trafichi benissimo vi riuscirebbe l’arte, o sii fabrica de panni d’ogni sorta
di lana fina della medesima perfettione di quelli di Francia, Fiandra, Allemagna e
altre parti, ecc. », per favorire chi voglia attendere a quest’impresa, stabiliamo: i
forestieri che vengono ad impiantar fabbriche diventeranno nostri sudditi; saranno esenti
dall’obbligo della milizia; saranno liberi da ogni imposta, tanto per i denari come per
le cose e luoghi destinati a fabbrica; potranno prender legna da ardere dai nostri
boschi; potranno portare armi; saranno esenti loro e i loro operai dal prender la ma-
tricola e la licenza stabilita dagli ordini nostri; avranno le loro cause decise dai nostri
delegati prontamente, i quali privilegi dureranno per 25 anni (2). Questo editto è
importantissimo, oltre che per il proemio, da noi riportato testualmente, il quale può
stare a paro con le altre nostre citazioni di autori che parlano dei vantaggi dell’in-
dustria, anche per il testo generale della legge, che ci prova quanto stesse a cuore
allora ai governanti lo sviluppo delle arti manifatturiere.
Alcuni scrittori di questo periodo non si limitano soltanto a vantare i pregi del-
l’industria, ma facendo un parallelo fra questa e l’agricoltura, concludono dando la
preminenza alla prima sulla seconda. Borero si domanda: fra la fecondità del terreno
e l’industria dell’uomo qual’è più importante? E la sua risposta è: l’industria senza
dubbio, perchè le cose prodotte dalla mano dell’uomo sono molte più e di maggior
prezzo che le cose generate dalla natura; questa dà la materia e il soggetto, ma la
sottigliezza e l’arte dell’uomo danno l’inenarrabile varietà delle forme. Paragoniamo
la lana con ciò che sa farne l’industria, la seta, il ferro, e vedremo quanto l’indu-
stria avanzi di gran lunga la natura. E il nostro autore continua: è tanta la forza
dell’industria che non è miniera d’argento o d’oro che le debba essere pareggiata; e
più vale il dazio della mercatanzia di Milano al re Cattolico che le miniere del Po-
tosi o di Salizco. L'Italia non ha miniere d'importanza e nonostante è abbondantis-
(1) Conte PaoLo BrusantINI, Dialoghi de’ Governi, Modena 1614, pag. 42.
(2) Editti antichi, e nuovi dei sovrani prencipi della real casa di Savoia, delle loro tutrici e de*
Magistrati di qua da? Monti, raccolti dal Senatore Gro. Barr. BoreLLI, Torino 1684, pag. 1002-3.
DI CAMMILLO SUPINO 177
sima di denari e di tesori mercò l'industria, La natura induce nella materia le sue
forme e l’industria umana fabbrica sopra il composito naturale forme artificiali senza
fine; perchè la natura è all’artefice quel che la materia prima è all'agente naturale (1).
Anche secondo il SERRA è più utile per un paese l'industria che l'agricoltura e
ciò per quattro ragioni; prima, perchè l'artefice è sempre sicuro di guadagnare quando
esercita il suo mestiere, mentre il contadino è subordinato alle varie stagioni ed il suo
lavoro non giova se il tempo non gli è favorevole; seconda, gli artifici si possono moltipli-
care a volontà, moltiplicando il guadagno e diminuendo proporzionalmente la spesa, il
che non si può fare per la roba, essendo il territorio limitato e non potendosi fare in modo
di seminare centocinquanta tomoli di frumento dove non se ne può seminare che cento;
terza, negli artifici è più sicuro l’esito e il guadagno, perchè si possono conservare
quanto si vuole senza che si guastino e trasportare da un emisfero all'altro; quarta, si
‘ottiene più dall’artificio che dalla roba, specialmente nei panni fini, nelle sete, nelle
pitture, ecc., che servono a far entrar nel regno molto oro (2). Le quali ragioni ci
sembrano molto giuste e di grande importanza, e in particolar modo la seconda, che
accenna assai chiaramente alla legge limitatrice che predomina nella produzione agricola.
Da queste citazioni possiamo accorgerci che gli scrittori italiani del periodo che
noi studiamo annettono una grandissima importanza all’industria e alcuni anche le
assegnano un posto superiore a quello concesso all’agricoltura. Di questo fatto diverse
sono le cause. La prima delle quali è, senza dubbio, che gli scrittori italiani in ge-
nerale hanno la caratteristica distintiva di trattare le materie economiche, partendo
da un punto di vista morale e considerando sopra tutto l’uomo. Non dobbiamo me-
ravigliarci dunque, se fra tutti i rami in cui si dirige l’attività umana, questi serit-
tori dieno la preferenza all’industria, nella quale il lavoro esercita maggiormente la
sua influenza, e di cui i resultati hanno l'impronta visibile dell’opera dell’uomo.
Oltre a. ciò, a far tanto stimare le arti meccaniche, contribuiva anche il sorgere
delle idee mercantiliste. Il disordine che allora esisteva nelle monete, la scarsità di
esse che talvolta si manifestava in qualche stato e le conseguenti scosse che subivano
il commercio, i cambi e le contrattazioni di ogni specie avevano già fatto nascere il
pregiudizio che il vero ideale di politica economica fosse di fare affluire in uno stato
la maggior quantità possibile di oro e di argento. Per ottenere questo scopo, era necessario
favorire l'esportazione dei prodotti, e siccome quelli dell’industria si conservano meglio,
sono più facilmente trasportabili ed hanno spesso un valore elevato in proporzione della
loro massa, il lavoro centuplicando talvolta il prezzo della materia, così è naturale che
verso le industrie si dirigesse la preferenza di quelli autori che scrivevano sotto l’im-
pulso di preconcetti mercantilisti.
Ma un’altra ragione più decisiva che faceva vantare l'industria agli autori di
quest'epoca, è perchè essa in alcuni stati d’Italia già fioriva e dava splendidi resul-
tati e in altri cominciava a sorgere sotto lietissimi auspici. A Firenze, per esempio,
secondo quanto narra Andrea Gussoni, che vi era come ambasciatore di Venezia nel
1576, gli abitanti diventano ricchi per i traffici e per l’industria, essendo quella città
(1) BorERo, Ragion di Stato, pag. 202-5.
(2) Serra, Delle cause ecc., pag. 23-27.
SerIE II. Tom. XXXIX. i 23
178 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
piena di artefici di ogni sorta e dei più nobili e principali esercizi, fabbricandosi in
essa con molta diligenza buona quantità di tesserie di ogni maniera di lane, di seta
e d’oro che non han punto da invidiare a quelle di Fiandra. Si lavora ivi medesi-
mamente panni d’oro con molta vaghezza, ma principalmente vi si esercitano l’arte
della seta e della lana, le quali sono usate dai più nobili e ricchi (1). Milano, da
quello che dice Lodovico GuIccIARDINI, mandava in Fiandra oro e argento filato, drappi
di seta e d’oro e tessuti di ogni genere (2), e la prosperità della sua industria era
tale, che le fabbriche di lana producevano annualmente per un valore di quasi due
milioni e quelle di seta tre milioni (3); tantochè ci vollero molti anni di mal go-
verno degli Spagnoli per affievolire e distruggere questa straordinaria prosperità eco-
nomica. Anche in altre parti d'Italia l'industria. fioriva, per essa i governi facevano
leggi speciali di favore, ad essa si consacravano con zelo perfino i nobili, ed un breve
di Urbano VIII del 29 aprile 1633 decretava che l’esercizio dell’arte della lana e
della seta non pregiudica ai gradi di nobiltà di quei patrizi che vi si dedicano; se
tali erano le condizioni e le idee di quest’epoca, è naturale che gli scrittori ne sen-
tissero l’influenza e vantassero così altamente l’industria.
Del resto però, ‘se per le ragioni che abbiamo esposte alcuni scrittori dell’epoca
che noi studiamo giudicano con una certa parzialità e preferenza le arti manifattrici,
in generale predomina in tutti un giusto concetto sulla loro importanza, sulle loro
applicazioni e sulla potente e indiscutibile influenza che esse hanno sull'aumento della
ricchezza nazionale. Che se il SERRA, nel parallelo che fa tra l’agricoltura e l’industria
da il primato a quest’ultima, principalmente perchè essa è un mezzo più facile per
attirare l’oro in uno stato, non dobbiamo dimenticare però che quelle cominciavano
allora ad essere le idee predominanti; tant'è vero che in Germania Bornitz e Besold,
contemporanei dell’illustre e infelice Cosentino, guidati dalli stessi preconcetti, affer-
mano che alla ricchezza di un paese contribuisce più l'industria degli uomini che la
fertilità della terra (4). E se Montchrétien in Francia, considerando che « tutte le
arti sono tante particelle e frammenti di quella saggezza divina che Dio ci comunica
per mezzo della ragione, » non disconosce l’importanza delle varie specie d’industrie (5),
anche gli altri scrittori italiani che abbiamo citati apprezzano al loro giusto valore
tutti i rami dell'attività umana, e BorERo stesso, che dà la preferenza alle arti, fa,
come abbiamo visto, un elogio grandissimo dell’agricoltura.
Per finir di parlare delle industrie, dobbiamo ora esporre le idee di quest’epoca
sul commercio.
« La mercatura, dice il DAvanzaTI, si è un'arte trovata dagli uomini per sup-
plire a quello che non ha potuto far la natura, di produrre in ogni paese ogni cosa
necessaria e comoda al vivere umano. Coloro dunque che le cose cavano ond’elle ab-
(1) Relazioni degli Ambasciatori Veneti al Senato, raccolte, annotate ed edite da EUGENIO ALBERI,
Firenze 1839-61, serie II, vol. 2, pag. 358-59.
(2) Lopovico GuicciarDINI, Descrizione di tutti i Paesi Bassi altrimenti detti Germania inferiore,
Anversa 1567, pag. 120.
(3) Pierro Verri, Memorie storiche sulla Economia Pubblicatdello Stato di Milano, nelle Opere
filosofiche e di Economia Politica, Milano 1818, vol. IV, pag. 54-58.
(4) RoscHER, Geschichte ecc., pag. 192 e 202,
(5) Duva, Memoire ecc., pag. 28.
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DI CAMMILLO SUPINO 179
bondano, e le conducono ov’elle mancano sono mercatanti; e quelle cose in quest’atto
mercanzie. Mercatare o contrattare si è dare tanto di una o più cose, per averne
tanto d’un'altra o d’altre. Le cose mercatabili sono o robe o danari: queste contrattar
si possono l’una con l’altra in tre modi: robe con robe, robe con danari e danari
con danari. Onde tutto il traffico mercantile è di tre sorte: baratto, vendita e cambio.
Il primo insegnò agli uomini la natura, che per fornirsi di quelle cose che lor man-
cavano davano di quelle che avanzavano; il secondo fu trovato per agevolar il primo,
il terzo per agevolar il secondo » (1).
Anche il GarzonI parla, dell'origine del commercio e descrive le qualità necessarie
a formare un buon negoziante. Il commercio, egli dice, fu ritrovato dagli Africani, e
Gioseffo ebreo testifica l’uso del vendere e del comprare essere stato fino dal tempo
di Noè. Esso è da molte parti commendato perchè necessario agli stati. Entrando
poi a parlare della professione dei mercanti, il Garzoni la chiama una professione
accorta, scaltrita, sottile, ingegnevole, laboriosa e a cui bisogna grandissima memoria,
intelletto e cognizione di varie e diverse cose, delle monete, dei cambi, delle merci,
dove si trovano e dove si possano meglio vendere. E dopo aver descritto da quali
paesi si traggono le singole merci, il Garzoni continua dicendo che il mercante deve
tutte conoscerle e saper come hanno da essere quando son buone; con la cognizione
di tutte queste cose, esso potrà guadagnare assai, se avrà la fortuna propizia. Il
nostro autore conclude descrivendo le operazioni che fa un negoziante, il di cui uf-
ficio è: « mercantare, o in grosso o a minuto, far compagnie, far viaggi, far soccide,
affittare, tor affitto, tener mercato delle cose, accordarsi, dar l’arra, barattare, in-
vestire, vendere, o. caro o a buon mercato, o a contanti o a tempo, e così comprare
o sborsando il denaro, o a credenza, far scritti, dar sicurtà, tor sentenze volontarie,
pagare, haver crediti, far scommesse, guadagnare, arricchire e simili altre cose » (2).
Secondo Filippo SAssETTI, l’utilità è il fine dell’una e dell’altra parte di coloro
che per negoziare convengono insieme. Acciocchè il commercio fiorisca in un paese è
necessario che i mercatanti vi trovino utile, sicurezza e comodo. La sicurezza e il
comodo consistono nel venire, nella stanza e nel tornare. Il viaggio deve essere si-
curo, chè dove si scorge il pericolo manifesto di perdere il capitale, non è discorso
di mercatante il mettervisi, cercando essi di fare quello che non è, e non di perdere
il proprio loro avere. Nella stanza si conviene assicurarli maggiormente nel trafficare,
sì perchè non sia fatto ‘agli stranieri aggravio nel contrattare, come coll’ordinar la
giustizia in modo che le divergenze siano appianate prontamente. A tal uopo sarebbe
utile l'istituzione di consolati per proteggere gli stranieri (3). Il SassETtI continua e
propone di fabbricare dei palazzi, come esistono ad Anversa, divisi in due piani, sotto
per le mercanzie e sopra con tante camere per i mercanti, e vorrebbe, per favorire
sempre più il commercio, togliere o diminuir molto i dazi d’entrata. Con queste pro-
poste, l’illustre negoziante fiorentino spera di poter attirare i Levantini a Livorno,
producendo due vantaggi per la Toscana, l’uno di avere le merci dall'Oriente in mag-
(1) BernarDo Davanzati, Notizia de” Cambi, nella raccolta Custopi, P. Ant., tomo II, pag. 54-52.
(2) GarzonI, Piazza universale ecc., pag. 5942-48.
(3) Fimppo SasseTTI, Ragionamento sopra il commercio fra i Toscani e è Levantini, nelle Lettere,
Milano 1876, pag. 97-100.
180 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
gior quantità e a più buon mercato, l’altro di poter dare in cambio prodotti toscani,
favorendo l’industria del paese (1); le quali proposte dimostrano la larghezza di
vedute economiche del SassettI, da lui acquistate con lunga pratica mercantile e per
pagate ro tini
ri ar AE
i continui viaggi nelle più lontane regioni.
Borero parla molto elegantemente dei vantaggi del commercio, facendolo derivare i
non tanto dall’utile, quanto da un concetto più elevato di morale. Volendo Dio che Si
gli uomini si abbracciassero scambievolmente insieme, come membra di un medesimo Î
corpo, divise in tal maniera i suoi beni che a nessun paese diede ogni cosa, affinchè
avendo questi bisogno dei beni di quelli e all’incontro quelli di questi, ne nascesse di
comunicazione e dalla comunicazione amore e dall'amore unione; onde si può dire che ii
quel che nasce in un luogo nasce da per tutto (2). E il nostro autore continua |
parlando dei mezzi di comunicazione, che egli distingue secondo che vengon dati dalla Di
terra o dall’acqua. Sulla terra, se è piana, si trasportano le merci con carri, cavalli, î|
muli, ecc., e gli uomini vi possono viaggiare in carrozza o in altra maniera. L'acqua i
però, quando è navigabile, dà un mezzo di comunicazione più comodo, facile e meno î|
dispendioso. L'acqua navigabile è di mare, di fiume o di lago, di canali o di stagni. il
Il mare è il mezzo migliore, ma per servirsene occorrono buoni porti; i laghi sono
utili soltanto per le terre che li attorniano ed i fiumi recano grandissimi vantaggi, Ci
quando sono di lungo corso e traversano paesi diversi e ricchi. E il BorEro dà tanta i il
importanza alla facilità delle comunicazioni, che conclude questa bellissima esposizione
dei mezzi di trasporto, affermando che le città situate in luoghi aspri e difficili non ti
possono mai diventar grandi, perchè occorre troppa fatica per trasportarvi le cose utili È
e necessarie alla vita (3). si
Il SERRA manifesta sul commercio idee molto differenti da quelle degli autori già Do,
citati, preferendo egli sopra ogni altro il commercio internazionale di transito; perchè
il traffico delle merci che sovrabbondano in un paese non può esser molto e l’utile
che dà si deve alla sovrabbondanza e non al traffico, mentre quello delle merci che
s'importano per bisogno fa impoverire. Sicchè il commercio che più rende ricca una
nazione è quello fatto con robe di altri paesi per altri paesi, essendo quello che ap-
porta grandissima quantità di moneta. Venezia è ricchissima per la sua posizione, ri-
cevendo tutto quanto viene dall'Asia e distribuendolo a tutta l'Europa, Napoli invece
non commercia che per sè , il che gli cagiona penuria grande di denaro (4). Il
mercantilismo offusca qui la mente del SERRA, facendogli dire degli errori economici,
tanto più gravi, perchè scritti dopo le belle considerazioni di Davanzati e di Botero
sopra lo scambio reciproco dei prodotti fra stato e stato.
Poco altro abbiamo da aggiungere per. completare l’esposizione delle idee di
quest'epoca sul commercio. Il CHIARAMONTI dice che esso si occupa d’introdurre nella
città quello che ivi non nasce, pigliandolo dai luoghi nei quali copiosamente nasca,
o da piazza dove sia da quei luoghi portato. E, seguendo Aristotile, distingue i mer-
canti in esportatori, importatori e rivenditori al minuto, i quali ultimi sono gli in-
(4) SassettiI, Op. cit., pag. 104-5.
(2) Borero, Grandezza delle città, pag. 309-410.
(3) Id., Op. cit., pag. 308-416.
(4) SerRA, Delle cause ecc., pag. 30-33.
DI CAMMILLO SUPINO 181
termediari fra quelli che producono e quelli che consumano, facendo essi incetta di
merci per conservarle e rivenderle di tempo in tempo a quei della città a misura che
ne hanno bisogno; ed è bene che questi rivenditori sieno numerosi per evitare il
monopolio (1).
Anche CAMPANELLA parla del commercio, ma è colle sue idee in opposizione al
suo tempo, poichè chiama con Aristotile l'arte di comprare per rivendere contro na-
tura, non venendo fatta per il bisogno proprio, ma per il guadagno superfluo, e
approva quanto dice S. Grisostomo: Mercator non potest placere Deo, et ideo nullus
Christianus debet esse mercator, dicente propheta: quoniam non cognovi negotia-
tionem introibo in domo domini (2).
Riassumendo le idee degli autori da noi citati, vediamo che essi si erano for-
mati un giusto concetto del commercio, delle cause che gli dànno origine, delle diverse
forme che assume nell’evoluzione economica e dei mezzi per favorirlo ed accrescerlo.
È degna di nota la classificazione delle vie di trasporto fatta dal Boero, offre un
certo interesse di curiosità la descrizione di tutte le operazioni che fanno i mercanti
dataci dal GARZONI, ci sembrano molto esatte ed eleganti le definizioni del DAVANZATI,
e molto utili e pratiche le proposte del SassertI. In generale dobbiamo ammettere che
salvo poche eccezioni, gli autori di quest'epoca fanno sul commercio delle osservazioni
‘chiare, precise, profonde e tali da poter sembrare talvolta scritte da un nostro contem-
poraneo. E non era da aspettarsi di meno in un secolo, in cui l’Italia era forse la
prima nazione commerciale del mondo e i di lei abitanti viaggiavano ed avevano rela-
zioni di affari fino in Asia e in America. Certo il SERRA considera troppo esclusivamente
il commercio come un mezzo per attirare l’oro in uno stato, e il CAMPANELLA lo trova
condannabile per un sentimento di morale ascetica; ma l'uno, per l’ambiente in cui
viveva e per le idee che allora cominciavano a dominare, non poteva far a meno di
seguire i concetti mercantilisti; e l’altro, scrivendo in carcere, appartato dal mondo, non
rappresentava il pensiero del suo tempo e scriveva secondo le idee di autori antichi,
che egli avea studiati e che gli fornivano i soli esempi a cui potesse ispirarsi.
Ma del resto se si vuole apprezzare giustamente gli scrittori italiani di questa
‘epoca e conoscere il loro vero merito, basta vedere quali nozioni confuse e spesso
erronee sul commercio si trovano negli autori tedeschi dello stesso tempo, come Bor-
nitz, Contzen, Klock (3), o negli olandesi Grozio, Salmasio e Boxhorn (4), e come
‘ si abbia solo qualche cosa di meglio in Montchrétien (5); basta dire che nello
stesso secolo Montaigne parlando del commercio, diceva che Ze proufict de l’un est
le dommage de l’aultre, e Bacone affermava: quidquid alicubi adjicitur, alibî de-
trahitur.
(4) Scierone CuiaramontTI, Della ragione di Stato, in Fiorenza 1635, pag. 276-78.
(2) Tommaso CamPANELLA, Arbitrio v discorso primo sopra l'aumento delle entrate del regno di
Napoli, pag. 330.
(8) Roscuer, Geschichte ece., pag. 190-91, 206 e 245.
(4) Id., Op. cit., pag. 224-25.
(5) DuvaL, Mémotre ecc., pag. 64-69.
182 TA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
CAPITOLO IV.
Politica industriale. — Le corporazioni di arti e mestieri.
A completare la teoria della produzione, ci rimane a dire della politica econo-
mica di quest’epoca relativa all'industria e al commercio. E cominciando dall’indu-
stria, in questo capitolo esamineremo l’organizzazione interna delle corporazioni di arti
e mestieri e i loro regolamenti in rapporto alla produzione, traendo il materiale da
Statuti composti od emanati durante la seconda metà del secolo XVI e la prima del
XVII.
È soltanto al principio del cinquecento che sorgono e prendono un grande svi-
luppo le compagnie delle arti con principî economici, con lo scopo di favorire e regolare
le industrie; perchè quelle che. troviamo nei tempi antichi e principalmente dopo il
secolo XIII hanno un carattere più politico che economico. A Firenze, per esempio,
dopo che i Guelfi crebbero in gran potenza per l’aiuto da essi prestato a Carlo di
Angiò contro Manfredi, la città fu organizzata a forma democratica e venne divisa
in Arti, ciascuna delle quali aveva un magistrato che rendeva giustizia ai sottoposti
a quelle, ed una bandiera, sotto la quale ogni uomo conveniva armato quando la
città ne aveva bisogno (1). Chi voleva concorrere alle cariche dello Stato non oc-
correva che esercitasse un'arte, ma doveva però essere ascritto in una di esse (2) n
ed è noto a tutti che Dante si era aggregato all'arte dei medici e speziali. Si trat-
tava dunque qui di una forma di governo, di un modo per amministrare la giustizia,
di un metodo speciale per reclutare l’esercito in tempo di guerra, cosicchè queste
compagnie costituivano una divisione politica della città, ma senza che esse avessero
uno scopo economico, se non forse in minima parte e come accessorio. Tant'è vero
che un’organizzazione simile dello stato non si riscontra nello stesso periodo di tempo
‘ nelle altre parti d’Italia, dove prevaleva la forma monarchica, e le corporazioni di
arti e mestieri che si trovano fin quasi alla fine del secolo XV sono libere, non hanno
principio alcuno di privilegio o monopolio e costituiscono più che altro delle associa-
zioni di mutuo soccorso.
Ma verso il principio del secolo XVI, o poco prima, cominciano a costituirsi
in Italia quelle corporazioni, le quali prescrivono obblighi particolari per avere il
diritto di esercitare un’arte, vincolano la produzione dando le norme precise da se-
guirsi per l’esercizio di ogni industria e assegnano per legge perfino il prezzo a cui .
ciascuno deve vendere i suoi prodotti e il suo lavoro. E infatti circa in quest'epoca che
vengono composti i primi statuti di corporazioni in Toscana. Quanto a quelli del Milanese,
il Verri asserisce di averne esaminati la maggior parte e di aver ritrovato che quasi
(1) N. MacuHiaveLLi, Le istorie Fiorentine, Firenze 1857, II, $ 8, pag. 74.
(2) P. pi Santa Rosa, Il tumulto dei Ciompi avvenuto in Firenze l’anno 1378, Torino 1843,
pag. 241-49.
DI CAMMILLO SUPINO 183
tutti sono del secolo XVI (1); ed anzi le leggi antiche di Milano anteriori a quel
secolo proibivano alle arti di fare regolamenti, che vincolassero la libertà d'industria
e davano ampia facoltà ai forestieri di stabilirsi nello Stato ad esercitarvi liberamente
qualunque mestiere; il qual diritto era concesso alle donne, agli uomini, ai cittadini,
agli estranei, a chiunque (2). Gli Statuti di Ferrara riformati nell'anno 1567 con-
tengono una legge, nella quale viene per la prima volta ordinato che tutte le arti
o collegi sieno tenute e debbano avere in iscritto gli ordinamenti spettanti e perti-
nenti all’arte stessa, e che gli artefici e gli esercenti qualunque magistero, debbano
farlo senza dolo o frode, con ogni sincerità e buona fede (3). Negli Statuti di Roma
del secolo XVI si trova un ordine, con cui vien prescritto ad ogni arte di eleggere
due consoli, che abbiano piena potestà di conoscere e terminare ogni questione di cause
civili vertenti fra i componenti l’arte e di decidere sopra ogni cosa relativa ad essa (4);
e che questa fosse una istituzione da poco stabilita, ce lo prova il modo con cui ne
parlava nel 1595 Paolo Paruta, davanti al Senato veneto, al suo ritorno dell’ am-
basciata di Roma (5).
In Piemonte la data della costituzione delle corporazioni di arti e mestieri si
può stabilire con più precisione, perchè un editto di Carlo Emanuele I del 7 Gen-
naio 1582 contiene queste testuali parole: « Per il presente nostro editto perpetuo
e irrevocabile ordiniamo, stabiliamo e comandiamo, che in tutti li luoghi delli Stati
nostri di qua da’monti, li artisti e mercanti ogni uno secondo la sua arte fra due
mesi dopo la pubblicazione delle presenti habbino tutti a consegnarsi, e loro Lavo-
ranti e garzoni, luogo per luogo, e eleggere tra loro di ciascun’ arte tre delli più
sufficienti, de quali due saranno chiamati Massarii , e il terzo Priore ai quali sarà
dato il giuramento e haveranno possanza da Noi, succedendo errore, di castigare co-
loro che falliranno (6). » Un altro decreto del 22 Gennaio 1619 comanda a tutti
i mercanti, artegiani, rivenditori, bottegai, tenenti banco e altri di molte altre pro-
fessioni, escludendo però i garzoni e servitori e quelli che non son capi di bottega, di
costituirsi in corporazioni (7). E perchè pare che questi ordini non fossero ovunque
seguiti, un editto del 28 Febbraio 1634, mentre perdona a quelli che non si erano
‘ancora formati in corporazione, prescrive a tutti di farlo, per rimediare. agl’inconve-
nienti che resultavano dall’avidità di smodato guadagno e dall’insufficienza degli ar-
tisti (8).
Se dunque le compagnie delle arti, come istituzione politica e come associazioni
di mutuo soccorso, esistevano nei tempi antichi e nel medio evo, come istituzione
economica rappresentante l'organismo della produzione e la legislazione industriale ,
esse hanno la loro origine nel secolo XVI. La prima di queste due forme di corpo-
(4) P. VeRrRI, Memorie storiche ecc., pag. 69.
(2) Id., Op. cit., pag. 43-44,
(3) Statuta urbis Ferrariae reformata A. D. 1567, Ferrarie 1624, pag. 218.
(4) Statuta almae urbis Romae, authoritate Gregorii pp. XIII a Senatu populog. romano edita et
reformata, cum Glossis L. Galganeiti, Romae 1611, pag. 783.
(5) Relazioni degli Ambasciatori Veneti, serie II, voli IV, pag. 418.
(6) BorELLI, Editti antichi e nuovi di Savoia, pag. 936.
(7) Id., Op. cit., pag. 936-37.
(8) Id., Op. cit., pag. 937-38.
184 A LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
razione sorge a tutela dell’individuo del terzo stato, il quale non essendo nulla per
sè stesso e non avendo mezzo di far valere i suoi diritti in un’ epoca di barbarie e
di violenza, acquista forza a causa della compagnia di cui è membro, si onora dello
splendore di essa e diventa indipendente solo per la di lei potenza. La seconda forma
di corporazione nasce coll’estendersi dell’industria ; l’appartenervi non è più facoltativo
per gli esercenti un dato mestiere, ma è reso obbligatorio dallo stato, il quale in-
tende per tal modo reprimere gli abusi derivanti dalla mala fede, dall’avidità e dal-
l’imperizia degli artigiani e garantire ai sudditi la bontà delle merci e la modicità
dei prezzi. È questa seconda forma che, come abbiamo detto, prevale nell’epoca che
noi consideriamo; è dessa che noi ora studieremo nella sua organizzazione, nei suoi
scopi, nei suoi effetti, nei suoi vantaggi e nei suoi inconvenienti dal punto di vista
economico.
Nessuno può esercitare un mestiere senza essere iscritto nei ruoli della corpora-
zione di quel mestiere stesso; ed ogni anno i componenti l’arte si riuniscono nella
loro residenza per eleggere le cariche (1). In alcuni luoghi è il consiglio della corte
dei Mercanti che elegge le persone destinate a dirigere le corporazioni, sciegliendole:
fra mercanti buoni, leali ed esperti esercitanti l’arte (2); ed in altri, gli uffici du-
rano solo quattro mesi e gl’individui che devono ricoprirli sono estratti dalle borse
dell'Arte, esistenti presso la corte della Mercanzia (3).
La direzione dell’università è affidata a consoli, i quali sono in maggiore o mi-
nor numero secondo le corporazioni, ed hanno la giurisdizione sopra tutto quanto
accade nell’arte, con autorità amplissima e poteri assoluti (4); tanto assoluti, da
mettere alla corda, bandire e mandare in galera chi trasgredisce agli ordini della
compagnia (5). Oltre i consoli, vi sono i conservatori dell’arte, che pensano a fare
gli stanziamenti di spesa per quella, propongono tutto quanto è necessario per farla
prosperare e giudicano se i prodotti dell’industria o i lavori degli artefici sono ese-
guiti a dovere e secondo la legge (6). In alcune corporazioni vi è l'avvocato o savio
dell’arte, che è il consulente legale, ed un cancelliere, il quale deve essere stato notaro,
ed attende alle cause civili e criminali (7). Vi è poi un tesoriere, il quale deve
essere un uomo dabbene, per tenere i denari e le robe della compagnia (8), un
provveditore che pensa all’esazione delle tasse, alla tenuta dei libri e che in alcune
corporazioni ha anche l’incarico di provvedere la materia prima dell’arte (9); e infine
degli stimatori, sensali, ecc. i
(1) Ordini, Statuti, immunità e privilegi dell’arte e università delli Orefici, 1623, BoreLLI, Editti,
pag. 1035.
(2) Li Statuti de la Corte de Mercadanti dell’Ecc. Repub. di Lucca, in Lucca 1610, pag. 35.
(8) Statuti dell’arte de Quoiai e Vaiai di Firenze del 1585, CantINI, Legislazione Toscana, vol. XI,
pag. 7-10.
(4) Statuti o sia riforma dell’arte dei Linaiuoli di Firenze del 1578, CantINI, vol. FX, pag. 28
e seg. — Statuti dell’arte di Por S. Maria del 1580, Cantini, vol. X, pag. 7 e seg. — Statuta nobilis
artis agriculturae Urbis, Romae 1595, pag. 1-3.
(5) Relazioni Venete, serie II, vol. II, pag. 439.
(6) Statuti Mercanti di Lucca, pag. 38-39.
(7) Id. dei Quotai ecc., pag. 17-24.
(8) Ordini, ecc. delli Orefici, pag. 1035.
(9) Statuti dei Quoiai, pag. 24-28 — Statuti Mercanti di Lucca, pag. 40-41.
DI CAMMILLO SUPINO 185
Tutti i componenti la corporazione, che sono capi maestri, vengono convocati
di tanto in tanto in adunanza per discutere riforme relative all'arte (1); ed in al-
cune corporazioni, chi non interviene quando è invitato ad una congregazione è soggetto
ad una multa, che può essere anche raddoppiata se l'affare da discutersi è di molta
importanza (2). Quando i consoli vogliono per bisogni urgenti imporre tasse ai com-
ponenti un’'Arte, devono convocare tutti gl'iscritti ad essa, esporre la causa, e mettere
ai voti la tassa, che deve venire approvata dai due terzi dei presenti (3).
Nessuno può diventare maestro o capo bottega in un’arte, se prima non è stato
per un certo tempo discepolo presso un esercente già matricolato. Ogni lavorante che
va da un maestro per imparare un'arte, acciocchè non succeda che se ne vada ap-
pena imparatala, deve fare una scrittura davanti al cancelliere dell'università, in cui
vien determinato il salario e il tempo della convenzione. E perchè potrebbe accadere
che un maestro, fatta la scritta e per ciò sapendo di avere obbligato il discepolo,
o non lo paghi, o lo tratti male, o non gl’insegni, questo può ricorrere dai consoli
ad esporre i fatti e, dopo udite le parti, può essere prosciolto da ogni convenzione (4).
È proibito al discepolo, fattore, lavoratore, garzone o ministro che stia in salario con
un matricolato di aprire bottega per conto suo dentro due anni dacchè sarà uscito
dal suo maestro (5). Nessun matricolato può prender lavoranti stati da altri maestri,
se non hanno soddisfatto il debito presso di quelli lasciato, sotto pena di dover pa-
gare lui; nè dovrà accettare lavoranti o garzoni, quali si sappia non sieno cattolici
© vivano da eretici. Quelli che entrano come apprendisti devono entro un mese farsi
iscrivere nel libro dell’università pagando una tassa. Nessun lavorante che sia convinto
di furto o di frode fatta nei lavori o per opera sua, o per consiglio, o per aiuto
dato ad altri può essere mai più accettato come maestro (6). Per potere essere
ammesso a tal grado e tener bottega, il garzone deve aver un attestato di fedel ser-
vitù e sufficienza firmato dai maestri presso i quali avrà servito (7), e presentare
un’opera compita, la quale sia stata vista, approvata e lodata dai consiglieri, dopo
di che, pagando la tassa e prestando giuramento, avrà la matricola (8).
La formula del giuramento, quantunque diversa nella forma a seconda dei luoghi
e delle corporazioni, è però quasi sempre uguale nel concetto; il matricolato giura
di esercitare giustamente e fedelmente la professione sua, senza fare nè consentire
frodi o inganno alcuno, con promessa di osservare gli statuti (9). Oppure secondo
la formula dell’arte della seta di Firenze: Il tal dei tali, come quello che intende
esercitarsi nelli membri dell’arte di Por S. Maria di Firenze e poter godere tutti
gli offici, benefizi, prerogative e comodi competenti e che competere si possono o sì
(1) Statuti Mercanti di Lucca, pag. 38-40.
(2) Ordini delli Orefici, pag. 1036.
(3) Statuta almae urbis Romae, pag. 784-836.
(4) Statuti dei Quoiaîi, pag. 90-92.
(5) Id., pag. 87-88.
(6) Ordini delli Orefici, pag. 1039-41.
(7) Concessioni e regole per la compagnia dei Sarti, 1642, BoreLLi, Editti, pag. 1084.
(8) Ordini delli Orefici, pag. 1039.
(9) Id., pag. 1039. — Statuti dell'arte de’ fabbri di Pisa, Rubr. 4, MS. del R. Archivio di Stato
in Pisa, Arch. del Comune, Sez. Stat., N. 8.
Serie II. Tom. XXXIX. ; 24
186 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
potranno alle persone matricolate nella detta arte, giura alli Santi Evangeli di Dio
sopra l’anima sua toccando le scritture corporalmente e con tal giuramento promette
non andar mai per alcun tempo per alcuna altra arte, e non esercitare alcuno of-
fizio di qual si voglia altra arte, e osservare e adempire a quanto sarà tenuto secondo
li Statuti della detta arte e realmente fare tutto quello che tratterà e farà nelle
cose e per le cose appartenenti a quella; e osservare e obbedire precisamente tutti
li comandamenti e ordini delli signori consoli della detta arte che per li tempi sa-
ranno e successivamente delli signori conservatori e provveditori di quella e osservare
in tutto e per tutto gli statuti e ordini (1).
Le tasse per l’ ammissione a maestro. sono piuttosto elevate e variano anche
queste secondo le professioni (2); gli orefici, oltre la tassa, devono dare una cau-
zione per poter esercitare il loro mestiere (3). Chi ha avuto il padre, l’avolo, il
bisavolo o il fratello matricolato in un’ arte non paga che un piccolissimo diritto ,
riconoscendo da loro il benefizio (4). Non si può esercitare un’ arte senza essere
matricolato, sotto pena di multe più o meno forti secondo i casi (5); e la matri-
cola non vien data che a persone, le quali meritino per le loro qualità di essere
ammesse nell’arte, che sieno, cioè, del paese, nate legittime, di costumi lodevoli e
senza macchie (6). Le quali disposizioni, per quanto forse un po’ strane, provano
come una parte importantissima dei regolamenti di queste compagnie fosse ispirata a
sentimenti profondi di moralità. Tant’ è vero che uno statuto dei Fabbri di Pisa
proibisce ad essi di comprare roba rubata (7), e un regolamento dell’arte della lana
di Firenze ordina ai tessitori di pannilani di non andare all’osteria in tali termini:
la prima volta che un maestro o figlio di maestro o altro tessitore sia trovato o si
sappia che sia andato a bere e mangiare all’osteria sia assentato dalla compagnia per
anni cinque e non possa essere eletto negli offici in questo tempo, nè goda benefizi
eccetto che quelli delle doti alle figlie e i benefizi delle donne di parto da darsi
però direttamente e non a tale assentato per tal conto; la seconda volta deve es-
sere cancellato dalla compagnia (8).
Ogni corporazione ha il suo santo protettore e il giorno che ne ricorre la festa
tutti gl’iscritti ad un’ arte vanno insieme ai consoli in chiesa e poi si riuniscono a
banchetto, pagando ognuno una tassa apposita fissata dai regolamenti (9); alcune
(1) Statuto dell’arte di Por S. Maria del 1580, Cantini, Legisl., vol. X, pag. 61.
(2) Statuti dell’arte della lana di Pisa del 1558, MS. del R. Archivio di Stato in Pisa, Arch. del
Comune, dez. Stat., N. 27. — Statuli dei Linaiuoli, pag. 28 e seg.
(3) Ordini delli Orefici, pag. 1039.
(4) Statuti dei Linaiuoli, pag. 42. 3
(5) Pragmaticae, Edicta, Decreta, Interdicta, Regiaeque Sanctiones regni Neapolitani, Neapoli 1772,
vol. III, pag. 619 e 619=20, vol. IV, pag. 85-87. — CantINI, Zegis)., vol. VIII, pag. 2145-17. — BoRELLI,
Editti, pag. 1082. — Statuti dell'Università de” Mercanti, e della corte de gl’offiziali della mercanzia
della città di Siena, in Siena 4619, pag. 138.
(6) Statuti dell’arte de? Mercatanti di Firenze del 1592, CANTINI, Legisl., vol. XIII, pag. 351.
(7) Id. MSS. dei fabbri di Pisa, Rub. 17.
8) Riforma delle cose dell’arte della lana del 1589, CantINI, Legisl., vol. XII, pag. 365.
(9) Statuti e Ordini dell’arte della seta e Offitio d’ honestà della città di Pisa riformati nel 1576,
Do del R. Archivio di Stato in Pisa, Arch. del Com., Sez. Stat., N. 26..— Statuti dei fabbri,
ubr. 22.
DI CAMMILLO SUPINO 187
università , che non fanno il banchetto, dànno invece il giorno della festa del santo
a tutti gli incorporati un pinocchiato di zucchero e delle frutta (1).
Quando muore qualcuno appartenente ad un’ arte, tutti gl’iscritti si riuniscono
in un luogo designato, accompagnano il defunto, con i consoli, al cimitero e riaccom-
pagnano poi i di lui eredi fino a casa. Per quel giorno i componenti l’arte, pur
vendendo e lavorando, non mettono in mostra fuori della bottega alcuna mercanzia (2).
Ma senza estenderci più oltre a parlare dell’organizzazione interna delle corpo-
razioni, ci faremo ora ad esaminare i loro regolamenti vincolanti la produzione, che
costituiscono un codice complicatissimo di legislazione industriale, avente per iscopo di
conservare e favorire tutte le arti e d’impedire che decadano per l’imperizia o per la
malafede di chi le esercita. In molti luoghi, dice un ordine dell’arte della lana di
Firenze, si è cominciato a fabbricare dei panni di cattiva qualità, cosicchè alcuni man-
dati fuori sono stati respinti. E manifestamente si vede, che se non si provvede a
tali disordini, tale esercizio andrà declinando in tal guisa, che non solamente tornerà
in danno e del pubblico e del privato, ma al tutto si spegnerà Ansine tica reputa-
zione che con tanta fatica e spesa di questa. università lungo tempo si è acquistata (3).
E un decreto di Carlo Emanuele I di Savoia così incomincia: « Fu sempre mente
e desiderio nostro, come conviene a buon governo pubblico, che li negotii e commerci,
principal decoro , e fondamento dello stato, non solo si mantenghino, ma prendino
augumento, e insieme sì preservino con quella realtà, e sincerità che richiede la giu -
stizia e il beneficio universale, e essendo informati, che contro tal nostra mente covino
molti abusi, e frodi intorno alle robbe, e mercantie, sì di lino, che di lana, seta e
oro, che si fabbricano nelli nostri stati, e che questo procede principalmente dalla
troppa avidità delli trafficanti, li quali non solo non si contentano di venderli a prezzo
di gran lunga maggiore di quello si vendevano già qualch’ anni antecedenti, ma li
fabbricano di bontà, peso e misura molto inferiore », al che per provvedere ordi-
niamo ecc. (4).
E che cosa viene ordinato per rimediare a questi inconvenienti e per favorire
le industrie? I conservatori dell’arte della lana prescrivono le lane che devono essere
adoprate, la larghezza del panno, la misura dei pettini, il modo di bagnare le rascie
e di cimare i panni (5); e perchè le filatrici, annaspando a molte fila alla volta,
nell’incannare fanno molto strazio, viene ordinato di non annaspare a più di due fila
alla volta, imponendo anche il peso dei mazzi di lana e il prezzo a cui i lanaiuoli
devono pagare il filo alli stamaiuoli (6). I tessitori sono obbligati a mettere in te-
laio le tele che avranno avuto dai lanaiuoli, nè possono gettarle in terra sotto pena
di due tratti di corda da darsi pubblicamente avanti la porta dell’arte; devono esser
(1) Statuti dei Quoiai ecc., pag. 61.
(2) Id. dei Fabbri, Rubr.Al.
(3) Deliberazione fatta per li spettabili signori conservadori dell’arte della lana nel 1550, CANTINI,
Legislaz., vol. Il, pag. 160.
(4) BoreLLI, Editti, pag. 998-1000.
(5) Cantini, Legislazione, vol. II, pag. 160-65, vol. IV, pag. 136-39 e 380-90.
(6) Cantini, Legisl., vol. III, pag. 2414-17, vol. VI, pag. 299-300. — Leges municipales Pistoriensium
nuper mandante serenissimo Ferdinando II magno duce Etruriae, Florentiae 1647, pag. 186
188 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
pagati in contanti, e non in grascie o merci, e ai prezzi stabiliti dalla: legge (1).
E affinchè questi ordini sieno eseguiti puntualmente, veditori nominati appositamente
hanno obbligo d’andar rivedendo se le tele sono tessute con quei pettini, licci, fila e
misure che si conviene, e secondo gli ordini dell’arte (2).
Ancor più complicate sono le prescrizioni nell'industria della seta. È proibito di
mettere in qualsivoglia drappo d’oro o di seta filaticcio o filugello, eccettuato che per
i paramenti da chiesa ed in altri nominati dalla legge, la quale prescrive anche il
modo di ordire e tramare le tele (3). I tintori sono obbligati a fare buoni colori e
a rendere i drappi, in tempo ragionevole, asciutti come richiederà la cosa tinta, dando
buon conto del peso e misura. La legge stabilisce anche il modo di fare i damaschi,
i velluti e di non dare il mangano ai drappi, e prescrive al tessitore che ha avuto
la tela e l’ha messa sul telaio di lavorarci di seguito, con la pena di scudi tre se
starà più di tre giorni senza occuparsi intorno ad essa (4). E di quanta utilità fos-
sero allora stimati tutti questi ordinamenti, ce lo prova una deliberazione dell’arte
della seta di Firenze, la quale dice che, consideràndo i buoni effetti partoriti dalla
legge sul modo di filare, addoppiare e incannare le sete, la proroga per altri tre anni (5).
Un decreto granducale, sentito che si conduce e smaltisce in Firenze cuoio non
ben concio con grave danno dei sudditi, ordina a chi esercita l’arte di tenere il cuoio
otto mesi nel mortaio, o, come si dice, in concia (6); e un editto del Piemonte
descrive il metodo da seguirsi nella conceria e comanda ai consoli dell’arte di visi-
tare i cuoi prima che sieno finiti per vedere se sono ben lavorati (7). Ai fabbri-
canti di carta si ordina di farla bianca e pulita, con colla sufficiente, e forte in
modo da poterci scrivere da ambe le parti (8). Ai candelari si prescrive la mi-
sura, la forma e il peso delle torcie a vento, dei ceri, delle candele da morti ecc.,
che dovranno fabbricare (9). Gli orefici non possono lavorare oro e argento a meno
di una data finezza, e non devono legare in oro gioie false senza metterci un F per
segno della falsità (10). Gli speziali non possono fabbricare medicinali se non colla
norma di un ricettario stabilito da medici a ciò delegati, essendo necessario alla vita
umana che i medicamenti sieno di quella bontà e qualità che la medicina richiede (11).
Alcuni editti annonari urbani di Napoli sono degni di nota. I consoli dei pa-
nattieri devono avere ogni mattina nota delle forna di pane che si cuoce in città;
quelli dei pescivendoli ricevono il pesce colla dichiarazione di provenienza, e quelli
dei vermicellai devono portare ogni sabato al governatore la mostra dei maccheroni
(4) CantINI, Op. cit., vol. IV, pag. 78-83.
(2) Id., Op. cît., vol. XII, pag. 355.
(83) Id., Op. cit., vol. IV, pag. 354-66, vol. VII, pag. 176-79, vol. XI, pag. 356-58. — BoreLLi, Editti,
pag. 1085.
(4) Statuti Mercanti di Lucca, pag. 228, 235, 255, 256, 259 e 260.
(0) CantINI, Op. cîit., vol. VI, pag. 323.
(6) Id., Op. cit., vol. VII, pag. 62-64.
(7) BoreLLI, Editti, pag. 940-43.
(8) Td., Op. cil., pag. 956-57.
(9) CantINI, Op. cit., vol. III, pag. 95-100.
(10) Statuti Mercanti di Siena, pag. 134-358. — Leges municipales Pistoriensium, pag. 186.
(11) Cantini, Op. cit., vol. Il, pag. 292-94 e vol. IV, pag. 192-99. — Leges municipales Pisto-
riensium, pag. 185.
DI CAMMILLO SUPINO 189
‘che si fanno (1). I fornai sono obbligati a fabbricare il pane di farina buona e non
possono vendere questa, ma devono fare tanto pane per quanta farina hanno nella
loro bottega sotto pena di morte. Di più essi sono tenuti a fare due qualità di pane,
l’uno bianco e l’altro senza levarci il fiore di farina, di peso e del prezzo determi-
nato dalla legge (2).
Questo desiderio di tutto regolare, senza lasciar mai liberamente agire la con-
correnza, si estende anche ai salari, i quali sono dovunque determinati con decreti
speciali, ed anzi, a quanto pare, è calcolato come un delitto che i lavoratori della
campagna esigano un prezzo maggiore per la loro opera a tempo della raccolta, quando
il lavoro è più necessario ed urgente. Tant'è vero che diversi decreti nel Piemonte
proibiscono ai padroni di pagare un salario superiore a quello fissato dalla legge e
puniscono gli operai, che « per ingordigia di guadagno » esigono di più, quando
più c’è bisogno di loro (3). E così pure nelli statuti di Ferrara si trova determi-
nato il prezzo per i servigi di tutti i mestieri, coll’obbligo imposto ad ognuno di non
prender nulla di più di quanto è stato stabilito (4). Ma quello che è più strano,
e nello stesso tempo più ingiusto, si è che, mentre la legge fissa il massimo dei sa-
lari, non pone un limite al minimo da darsi agli operai, anzi dice che « potendosi
convenire con essi a minor prezzo, potrà farsi, essendo solo di obbligatione alli me-
desimi di non pretender di più (5). »
Per compiere quest’imperfetto abbozzo di legislazione industriale, dobbiamo dire
che una delle prescrizioni principali delle corporazioni è che nessuno possa esercitare
più di un'arte, nè invadere il campo di un’altra, a meno che non voglia pagare la
matricola per le industrie che anche indirettamente esercita. Gli speziali, per esempio,
non possono tener ferro, acciaio, ecc.; i setaiuoli non devono vendere panni di lino
e di lana; quelli che fanno i pannilini non possono tenere panni colorati nè bianchi;
i pizzicagnoli non devono vendere carne di porco se non salata; i calzettai non pos-
sono ritagliare pannilini se non per far calze nella loro bottega (6). E perfino nella
stessa arte ‘non è lecito di fare più di una singola operazione. Negli Statuti della
Mercanzia di Lucca si legge: considerando quanti disordini seguono e possono seguire
nell'arte della seta per la mescolanza e confusione degli esercizi di quella, ordiniamo
che nessun mercadante, filatore, cuocitore, tintore, tessitore o bagnatore possa o voglia
per. modo alcuno esercitare altro che una delle dette arti (7). E l’esagerazione
arriva a tal punto, che a Ferrara è proibito alle donne che vendono frutte, erbe
e formaggi di filare vendendo, sotto pena di 2 marchi (8).
Ma tutto questo non ci deve recar meraviglia, se si pensa che ciò era fatto col-
l'intenzione di favorire le arti, e se si considera quanto esse fossero allora tenute in
pregio e custodite gelosamente dai principi. Tanto gelosamente che a Lucca nessuna
(1) Pragmaticae, Edicta, Decreta, ecc., vol. I, pag. 205-6.
(2) Za., ecc., vol. III, pag. 618-19
(3) BoreLLI, Editti, pag. 963, 964 e 965.
(4) Statuta urbis Ferrariae, pag. 219-26 e 228.
(5) BorsLLI, Op. cit., pag. 926-27.
(6) Statuti Merc. di Siena, pag. 4147-53.
(7) Id. di Lucca, pag. 245.
(8) Statuta Ferrariae, pag. 230.
190 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
persona abilitata all’esercizio della seta poteva tenere in casa o in bottega un fore-
stiero a imparare l’arte sotto pena di scudi 500 e del bando perpetuo dalla città (1);
ed a Milano era severamente proibito di condurre o far condurre fuori dello stato
alcun maestro, lavorante o garzone solito a lavorare o ad esercitarsi nell’arte della lana
e nella tingitura dei panni (2).
Ma troppo a lungo saremmo tratti se dovessimo citare tutte le disposizioni e tutti
i regolamenti delle corporazioni di arti e mestieri, e se dovessimo esaminare minuta-
mente i numerosi statuti che esse ci hanno lasciati (3); basti il già detto per avere
un'idea del carattere e degli scopi di queste università, specialmente in Italia e nel-
l’epoca che noi studiamo, e per avere il mezzo ora, dando uno sguardo retrospettivo,
di giudicare imparzialmente questa importantissima istituzione economica. La quale, a
dire il vero, è considerata in modo troppo esclusivo dagli autori che scrissero nel se-
colo XVIII, quando le corporazioni erano già in gran decadenza e cominciavano a spa-
rire. Vasco, Mengotti, Beccaria, Verri e Filangeri în Italia e lo stesso Adamo Smith
in Inghilterra vivevano al primo sorgere di una nuova èra economica, in cui l’indu-
stria e il commercio si trasformavano completamente ed assumevano proporzioni mai
fino allora raggiunte, e nelle compagnie delle arti non vedevano che un ostacolo a
questa trasformazione, un impedimento alla libertà del lavoro. La loro critica è giusta,
ma non è completa; essi dovevano combattere contro pregiudizi inveterati, dovevano
demolire una forma vecchia per lasciar posto ad una forma muova e, trascinati dal
loro apostolato, del vecchio non potevano vedere che il male. Ma noi, venuti tanto
tempo dopo, in un’epoca in cui nessuno penserebbe più a far rivivere un'istituzione,
che non ha ora più ragion d'essere, noi dobbiamo giudicare altrimenti, dobbiamo con-
fessare che se essa ha esistito per diversi secoli, è segno evidente che quando fioriva
apportava più vantaggi che danni. Anche il cavaliere del medio evo si sentiva forte
e sicuro dentro la sua armatura di ferro; eppure se oggi ritornasse in vita, la get-
terebbe via come un peso divenuto inutile davanti ai cannoni e alle mitragliatrici. Che
se le corporazioni vincolavano l’industria, si deve osservare che la legge racchiude sempre
in un certo limite la libertà personale, ma gl’individui, nell’epoca in cui sorge quella
data legislazione, non si sentono oppressi ma difesi da lei. Quando poi le condizioni
sociali mutano, questo limite diventa troppo ristretto e riesce insopportabile, tantochè,
o per lenta evoluzione o per mezzo di una rivoluzione, esso deve allargarsi e adat-
tarsi ai nuovi bisogni. E così, con un tale processo, la libertà individuale è andata
sempre aumentando, fino a giungere al grado in cui è ai nostri tempi, nei quali non
sarebbe più possibile vincolare l’industria con tante prescrizioni e restrizioni come nei
secoli XVI e XVII. Ma che perciò ? Se una istituzione non è ora più utile, ed anzi
sarebbe dannosa, dobbiamo forse, giudicandola con criteri moderni, condannarla incon-
(4) Stat. Mere. Lucca, pag. 253. i
(2) Ordines ac Decreta, constitutionumqg. Declaratinnes ab ewcellentissimo Senatu Mediolani editae,
Mediolani 1617, pag. 50.
i (3) Per una estesa bibliografia sugli Statuti delle corporazioni vedi il Saggio di uma bibliografia
di statuti d'arti, mestieri ecc., pag. 1 a 78, e le Aggiunte al Saggio ece., pag. 445 a 467, nella Biblio-
grafia statutaria e storica italiana compilata da Lurei Manzoni, vol. I, Leygi Mumicipali (Parte seconda),
Bologna 1879,
I
DI CAMMILLO SUPINO 191
dizionatamente, senza riferirsi nell’apprezzarla all'ambiente che la fece sorgere? Non
è assurdo il voler considerare una legislazione passata, basandosi sopra l’odierno di-
ritto? Non è questa una mancanza assoluta di senso storico ?
Le corporazioni di arti e mestieri hanno portato, nell'epoca che noi studiamo,
grandissimi vantaggi all’industria e a quelli che la esercitavano. Sorte e sviluppatesi
in un tempo in cui il lavoro era vilipeso ed il terzo stato non era nulla, esse hanno
nobilitato il primo e reso potente il secondo. La produzione e l’esercizio dell'industria
erano allora assunte come un còmpito dalle corporazioni, le quali pensavano a fornire
la società di tutti gl’infiniti prodotti necessari, nella quantità richiesta, nella qualità
più confacente allo scopo e ad un prezzo rimuneratore per l’artista. La concorrenza,
come l’intendiamo noi, non esisteva allora e non poteva neanche esistere, perchè non
era possibile estendere la fabbricazione, non essendo permesso ad un maestro di tenere
più di un dato numero di lavoranti e perchè non si poteva abbassare i prezzi, dovendo
ognuno vendere al limite imposto dalla corporazione. Ma se una tale specie di concorrenza
non esisteva allora, esisteva invece una nobile emulazione fra gli artefici non per far molto,
ma per far bene, non in vista del buon prezzo, ma per la sempre maggior perfezione del
prodotto, e così quella che ora si chiama industria allora era veramente arte. D'altronde a
che cosa avrebbe servito la concorrenza negl’inizi di tutte le industrie? Si trattava più che
altro allora di dare impulso alle arti manifattrici, a tale scopo più che la lotta era necessaria
la protezione; e questa era loro data dalle corporazioni, le quali, prescrivendo un lungo
tirocinio per far bene imparare un'industria e obbligando ognuno ad esercitarla secondo
certe date norme tradizionali, miravano a tener alto il prestigio dell’arte, a perfezio-
narla, ad acquistarle decoro e fama. E così la produzione non era allora una fonte
di acquisto che ognuno sfruttava per suo conto, cercando di diventar ricco a costo di
un altro, ma una larga sorgente di cui tutti potevano godere in egual misura; giac-
chè gli ostacoli posti al raggiungimento del grado di maestro, mentre costituivano un
limite al soverchio aumento della popolazione, assicuravano agli industriali una posi-
zione comoda e dignitosa. Certo noi non crediamo che fosse necessario l’intervento dello
Stato per garantire ai consumatori la bontà e la perfezione delle merci; certo tutte
quelle minute prescrizioni sul modo di fabbricare e vendere i prodotti dovevano vin-
colare l’iniziativa e impedire i perfezionamenti; ma di tutto questo le arti allora non
risentivano tanto danno, perchè esse erano ancora nella loro infanzia e si servivano
di strumenti e di processi così semplici, che potevano benissimo essere resi obbliga-
torî per tutti.
E se l’industria non era danneggiata ma protetta dalle corporazioni, molto più
chi la esercitava traeva vantaggio da esse. Perchè gli artefici trovavano nella com-
pagnia il modo di difendere le loro persone, le loro famiglie e le loro proprietà contro
le altrui ingiustizie; nel suo seno imparavano l’arte i giovani, avevano onori gli adulti,
trovavano un'esistenza assicurata i vecchi, soccorsi i poveri e gli ammalati. Un vin-
colo fraterno avvinceva tutti gli iscritti ad una stessa corporazione ; la solidarietà, l’o-
nore dell’arte, la religione li univa tutti in un sentimento comune, in uno stesso ideale.
Non ugualmente stretto però era l'accordo che esisteva fra compagnia e compa-
gnia, e frequentissimi erano allora i litigi, specialmente fra quelle esercitanti mestieri
affini, perchè ciascuna accusava l’altra d’invadere il proprio campo. Nell'Archivio di
192 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
Pisa abbiamo visto fra gli altri un documento manoscritto del 22 Novembre 1585,
nel quale il governo toscano risolveva una questione sorta fra i sarti e i rigattieri.
I primi dicevano che questi dovevano pagare la matricola all’arte dei sarti, perchè te-
nevano vestiti nella loro bottega; ma il consiglio maggiore di Firenze rispondeva che
non constando che i rigattieri della città di Pisa « habbino fatto l’uffitio del sarto,
ma solamente il mero uffitio del rigattiere, secondo l’uso di Pisa, senza far lavori a
posta, che è il proprio offitio del sarto », non devono pagare la matricola richiesta
loro dai sarti. « Con dichiaratione, che volendo in l’advenire detti rigattieri tagliare,
et fare lavori a posta, che è il proprio offitio del sarto, allhora, et in tal caso vol-
sano che chi. tal offitio vorrà fare sia tenuto, et obligato pagare anchora la matricola.
alla detta arte de’ sarti, et non altrimenti, nè in altro modo (1). »
E tali questioni vanno moltiplicandosi a misura che l’industria progredisce, si di-
vide in nuovi rami, si esercita con nuovi metodi; le corporazioni non proteggono più |
ma opprimono la produzione, e volendo continuare a vivere quando più non hanno
ragion d’essere, si trasformano in associazioni privilegiate a benefizio di pochi, che
hanno il monopolio dell'industria con gran danno dei consumatori.
A misura che ci avanziamo verso i nostri tempi, questo sistema industriale ba-
sato sulle compagnie d’arti diventa sempre più insufficiente a provvedere ai bisogni della
popolazione aumentata, si trova in contraddizione con le nuove condizioni di popolo-
sità (2); mentre d’altro lato, lo scoprimento di nuove vie di commercio e lo sviluppo
dei mezzi di trasporto fanno in modo che l’esito dei prodotti non sia più limitato nella
cerchia ristretta del luogo di produzione. Di fronte a questi fatti, l'industria non può:
rimanere immobile, essa sente il bisogno di espandersi, di prendere un novello slancio,
e subisce una profonda rivoluzione per mezzo del progresso delle scienze, della migliore
utilizzazione delle forze naturali e dell’invenzione di nuovi strumenti e macchine. Al-
lora cominciano le critiche, e critiche giustificate, contro un'istituzione che non risponde
più al suo scopo; allora in Francia Colbert rappresenta al re i danni delle corpora-
zioni e molto dopo Turgot le abolisce con quel celebre decreto che proclama la li-
bertà del lavoro; allora gli attacchi contro di esse sono benefici, perchè schiudono la
via ad una nuova éra di prosperità industriale. i
CAPITOLO V.
Politica commerciale. — Protezionismo e libero scambio.
Il prof. Cossa ha provato con molta dottrina, come non sia vera l’asserzione di
quasi tutti i trattatisti dell'Economia politica, che nel secolo XVII prevalesse univer-
salmente e senza contrasto nella teoria e nella pratica il così detto sistema mercan-
tile (3): quest’assunto dell’illustre professore di Pavia trova la sua conferma in Italia
(1) Documento MS. del R. Archivio di Stato in Pisa, Arch. Com., Sez. Stat., N. d4.
(2) A. Loria, La legge di popolazione ed il sistema sociale, Siena 1882, ‘pag. 8.
(3) L. Cossa, La teoria del libero scambio nel secolo XVII, nei Saggi di Economia Politica, Mi.
lano 1878, pag. 44.
DI CAMMILLO SUPINO 198
e nell’epoca che noi studiamo, perchè, quantunque predominino in questo tempo idee
protezioniste e restrittive, non mancano, tanto negli scrittori come nella legislazione,
alcune difese della libertà del commercio.
Il sistema mercantile si manifesta con diverse tendenze: col proibire l’esporta-
zione e col favorire l’importazione dell'oro, col cercar che uno stato non sia tributario
di altri paesi per i prodotti a lui necessari, e colle disposizioni dirette a proteggere
l’industria nazionale.
La bilancia del commercio è la preoccupazione costante di molti scrittori della
seconda metà del cinquecento e della prima del seicento. Persuasi che la moneta è
la principale e la più importante ricchezza di uno stato, essi considerano il commercio
secondo che procura un’entrata o un'uscita di denaro alla nazione che lo esercita, e
non sanno che suggerire espedienti, acciocchè in essa circoli la maggior quantità pos-
sibile di oro. I denari fanno e sostengono la guerra, dice Ascanio PICCOLUOMINI, sicchè
ogni principe deve adoprarsi che nel suo stato ne entri più e ne esca meno che sia
possibile; a questo scopo è necessario, fra le altre cose, di temprare la vanità delle
donne, che bramano gioie ed altri. ornamenti stranieri (1). Anche CHiaraMonTI è d’o-
pinione che si debba moderare per legge il consumo delle materie atte a far moneta.
È ottimo proposito, egli dice, il proibire che l’oro e l’argento si consumi vanamente,
come copiosamente si consuma nei drappi, nelle armi, nelle fabbriche ecc., per or-
namenti che non si dovrebbero tollerare che in chiesa o nelle reggie, perchè l’oro così
adoprato fa carestia per la moneta e per il commercio (2). Per l’AmmirATO, fra le
industrie è da preferirsi quella « che avendo poco bisogno delle merci di fuori ab-
bonda di quelle di dentro, con le quali conducendo in casa la moneta del forestiere,
tu non abbia a portare la tua altrove. » Molti uomini dunque che lavorino in casa
senza portar di fuori fanno la copia dei denari (3). Perchè, secondo anche quanto
dice TurBoLo, chi deve assai non può abbondare di contanti, essendogli forza di pa-
gare (4).
E inspirata agli stessi concetti è pure la legislazione del tempo; ne sieno prova
la legge emanata in Toscana nel 1558 che proibisce di vendere o far vendere oro e
argento filato a chi ne fa traffico o lo manda fuori mercantilmente (5); gli editti del
Piemonte che proibiscono l’estrazione dei metalli preziosi sia in moneta che in verghe (6),
e quelli del Napoletano che estendono la proibizione, oltre che alle monete di ogni
specie, anche ai vasi lavorati (7).
Alcuni scrittori sono contrari alla libertà di commercio, perchè vorrebbero che
ogni paese trovasse in sè quanto gli occorre, senza bisogno di rivolgersi ad altri. Il
(1) Ascanio PiccoLuoMINI, Avvertimenti civili, estratti dai sei primi libri degli Annali di Tacito, in
Fiorenza 1609, pag. 63.
(2) CHIARAMONTI, Ragion di Stato, pag. 283.
(3) Ammirato, Discorsi, pag. 112-413.
(4) Gran Donato TurgoLo, Due discorsi sopra la prammatica de? cambi e la valutazione delle
monete forastiere, nella Raccolta Custopi, Parte Antica, tomo I, pag. 243.
(5) CANTINI, Legislazione, vol. .IIl, pag. 260-62.
(6) BorELLI, Editti antichi e nuovi, pag. 343.
(7) Pragmaticae, Edicta, Decreta, Interdicta, Regiaeque Sanctiones regni Neapolitani, Neapoli 4772,
vol. I, pag. 540-41.
Serie II. Tom. XXXIX. i 25
194 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
LortINI, per esempio, dice che il principe deve mirare quanto può che tutto quello
di che ha bisogno lo stato si tragga dallo stato stesso. Il che se non si può, e pur
gli è bisogno valersi dei paesi forestieri, dee in maniera ordinarsi con loro, che o con
qualche comodo, che essi all’incontro ritraggono da lui, o per altri rispetti non ab-
biano i forestieri minore necessità di sovvenirlo, che esso abbia di essere sovvenuto
da loro, facendo diligenza d’aver almeno per due anni riposto in casa quello di che
ha bisogno dalle case altrui (1). La quale idea è sostenuta anche dal PicnI, che,
riferendo come nelle città dell’Alemagna usino di tenere da mangiare, da bere e da
ardere per un anno, afferma esser necessario avere almeno per un tal periodo di tempo
dei viveri di riserva (2).
Ma in generale però il concetto che dirige gli scrittori e la legislazione di questa
epoca nel propugnare il sistema restrittivo o proibitivo è l’intenzione di favorire e
promuovere l’industria nazionale. Il principe, dice BorER0o, non deve permettere che
si cavino fuori dal suo stato le materie crude: non lane, non sete, non legnami,
non metalli, non altra cosa tale, perchè con le materie vanno via anche gli artefici
e le entrate dei priacipi sono più grandi per l’estrazione delle opere che delle ma-
terie, come per esempio dei velluti che delle sete, delle tele che dei lini, ecc. Onde
i re di Francia e d'Inghilterra proibirono il cavar fuori dei loro stati le lane, essendo
maggiore il dazio che ricavavan dai panni di lana che dalla lana rozza (3). Il che
ci prova che l'illustre politico piemontese era tratto a sostenere le idee protezioniste
anche da ragioni fiscali.
Sulle traccie del BorEro, il già citato CRIARAMONTI vorrebbe proibita l’espor-
tazione delle materie gregge, per conservare nel paese le industrie. In Modena e nel
Modanese si raccolgono lane di gran finezza, le quali se fossero nella stessa maniera
estratte poco denaro frutterebbero; perchè una libbra di lana vale un giulio, mentre
un braccio di panno ne vale sedici. Onde in universale è vero che potendo la roba;
lavorata avere intero spaccio, è meglio venderla in tal modo piuttosto che rozza (4).
E Giovanni CoRRER, che era ambasciatore di Venezia presso Emanuele Filiberto nel
1566, racconta che questo principe, vedendo che il suo paese restava povero anzi
spogliato di ogni denaro, solo per negligenza e dappoccaggine dei popoli, i quali privi
in tutto di ogni industria, per cosa minima che fosse erano costretti a passar per le
mani di mercanti forestieri, cercava con tutti i mezzi d’introdurre nei suoi Stati le
arti più necessarie, promettendo molte esenzioni a coloro che le avessero esercitate.
Ed aveva anche proibito di vendere lane e sete greggie ai forestieri, ordinando ai
suoi sudditi di non indossare panni di seta lavorati fuori dello stato (5).
Proibire l'esportazione di materie e di strumenti necessari all’industria nazionale
e l'importazione di merci estere che si fabbricano anche nello stato (6), tale è la
politica dominante nella legislazione commerciale di quest'epoca. Talvolta la proibizione
(4) LortINI, Avvedimenti, Avv. 124, vol. I, pag. 89-90.
(2) Gio. MarIA Picni, Avvertimenti politici, in Fiorenza 1641, pag. 19 e 126.
(3) BoreRo, Ragion di Stato, pag. 205.
(4) CHIARAMONTI, Op. cit., pag. 275-76.
(5) Relazioni degli Ambasciatori Veneti ecc., serie II, vol. V, pag. 19.
(6) Come prova di una tale asserzione si può vedere anche lo Statuto della dogana di Firenze,
Cantini, Op. cîit., vol. IX, pag. 193-274.
DI CAMMILLO SUPINO 195
di estrarre materie era assoluta, talvolta se ne concedeva il permesso mediante il pa-
gamento di una forte tassa. Moltissimi sono gli esempi del primo caso: in una legge
toscana del 1560, il Granduca, considerando la carestia e la penuria della seta e
desiderando che si lavori e si aumenti più che si può e si conservino i lavoranti che
con tale esercizio si nutriscono, decreta che sia proibito l’estrarre seta greggia e doppi
per venderli ai forestieri, sotto pena di multa, confisca e corda (1). Uguale proibi-
zione relativamente alla stessa materia si trova anche in uno Statuto di Ferrara (2).
Due altri decreti toscani del 1574 e del 1628 proibiscono di cavar fuori dallo stato
cenci per carta, e ciò statuisce il principe « avendo l’occhio al benefitio universale
dei cittadini suoi e conoscendo che maggiormente vengono beneficati quando nei suoi
felicissimi Stati si augumentano gli esercitii e traffichi (3). » Altre volte invece è
imposta una tassa all'esportazione della materia, come, ad esempio, nella legge per
l’arte di Por S. Maria di Firenze del 1565, colla quale per far restare nello stato
« gli stracci, bozzoli, pelature e sirighelle di seta », vien posta una gabella sopra
ciascuno di questi generi, « affinchè chi fosse consueto e inclinato a portar tali cose
e mercantie fuori abbia causa di astenersene rispetto al pagamento di essa gabella,
e le possa portare col pagamento predetto quando se ne contenti (4). »
Ma oltre che delle materie greggie, abbiamo detto, è proibita molte volte l’espor-
tazione degli strumenti. Nel Piemonte il Consolato dei Mercanti ha l’obbligo d’invi-
gilare che non si trasportino fuori degli stati gli ordegni necessari per qualsivoglia
manifattura. « E chiunque, tanto suddito che forestiere, da se o per interposta per-
sona estraesse o facesse estrarre, o prestasse il consenso, o aiuto per estrarre qual-
sivoglia ordegno, tanto fabbricato ne’ stati nostri, che introdotto d’altrove, il quale
sia proprio o necessario alla manifattura delle sete e stoffe provenienti da esse, di
calzetti di seta, ori, ed argenti filati e Tret incorrerà la pena di scudi 100 d’oro
od altra corporale secondo che le circostanze ed il caso persuaderanno (5). » E per
evitare ogni frode, non era neanche permesso trasportare strumenti da un luogo al-
l’altro nell'interno dello stato, senza averne regolare licenza (6).
Molte altre leggi, sempre per favorire l'industria nazionale , proibiscono l’intro-
duzione di merci che si fabbricano anche in paese. In Toscana specialmente si trovano
molti decreti emanati a questo scopo : un editto del 1559 proibisce d'introdurre cuoio
lavorato, acciocchè i sudditi possano esercitare una tale industria senza ricorrere ai
forestieri (7); un altro del 1565 inibisce l'importazione delle saie all’Ascot tessute
in Frandra o altrove, volendo il principe che l’arte del fare e condurre a perfezione
questi tessuti, con ogni aiuto e favore si vada accrescendo e per tale esercizio con-
tinuamente si riempia lo stato di tessitori, maestri e lavoranti (8), e un bando del
(4) CantINI, Op. cit., vol. IV, pag. 9-11.
(2) Statuta urbis Ferrariae, Appendix, pag. 9.
(3) CantINI, Op. cit., vol. VIII, pag. 124-25 e vol. XVI, pag. 43-46.
(4) [d., Op. cit., vol. V, pag. 207-8.
(5) Leggi e Costituzioni di Sua Maestà (testo in francese e in italiano), Torino 4729, vol. I,
pag. 204-5.
(6) Leggi cit., pag. 205.
(7) Cantini, Op. cit., vol. III, pag. 363-64.
(8) [d., Op. cit., vol. V, pag. 217-419.
196 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
1578 proibisce l'importazione del ferro greggio, per mantenere e far prosperare una
tale industria esercitata nel Senese (1).
Ma per non andare troppo in lungo, bastino questi esempi per dare un’ idea
delle tendenze dominanti nella legislazione commerciale di quest'epoca, condivise dagli
scrittori dello stesso tempo, non soltanto in Italia, come abbiamo visto, ma anche
nelle altre nazioni. In Germania, Latherus condanna il consumo ed il lusso di merci
straniere che fanno andar via tanto denaro, e fra le industrie dà la preferenza a
quelle che attirano oro nel paese (2). Anche Bornitz e Besold sostengono la stessa
opinione e vorrebbero inoltre proibita l’esportazione del denaro, stabilendo un’accurata
sorveglianza sopra ogni uscita di merci perchè non vi se ne nasconda (3). Klock pro-
pone di proibire l’esportazione di oro e di argento, delle materie greggie nella cui
lavorazione il paese può guadagnare, dei generi di prima recessità e delle armi, e
vorrebbe impedita l'importazione di merci di lusso che impoveriscono lo stato (4).
In Inghilterra Tommaso Mun scrive esclusivamente preoccupato dalla falsa idea della
bilancia commerciale e propone come ideale di politica mercantile o sell more to
strangers yearly than we consume of theirs in value (5). E Montchrétien in Francia
mentre trova giusto lo scambio fra nazione e nazione dei prodotti naturali, vuole la
proibizione d’importare merci fabbricate, trovando equo che i cittadini abbiano un
trattamento di favore rispetto ai forestieri (6).
Le idee mercantiliste erano dunque sparse dappertutto nell’epoca di cui ci occu-
piamo, ma non costituivano un sistema completo e ben determinato di politica com-
merciale, come si venne formando in seguito specialmente al tempo di Colbert. Nel
secolo XVI e al principio del XVII, queste idee erano la conseguenza dei concetti
meschini e delle corte vedute che prevalevano nella legislazione, la quale, badando
alla manifestazione esterna di certi fenomeni, occupandosi più degli effetti visibili che
delle cause prime e recondite, procedeva a forza di mezzucci e di ripieghi, provve-
dendo con rimedi speciali e diretti ogni qualvolta credeva che certi fatti fossero dannosi
allo stato. Un paese ha bisogno di una certa quantità di moneta come mezzo di
scambio; essa costituisce una merce sui generis superiore alle altre, e si crede utile
di averne in grande abbondanza nello stato. Come fare per raggiungere questo scopo?
La legislazione va ai mezzi più diretti: proibisce l'esportazione dell’oro, e ne favorisce
l'importazione, cercando che i sudditi comprino poco e vendano molto all’estero. Le
materie e gli strumenti sono necessari anzi indispensabili per l’industria? Scrittori e
legislazione si trovano perfettamente d’accordo che le une e gli altri non debbano esser
tratti fuori dallo stato. In un paese si potrebbero stabilire delle fabbriche di certi
prodotti, che forse si ottengono migliori e più a buon mercato dall’estero; ma le in-
dustrie sono vantaggiose per un paese, la concorrenza che ad esse farebbero i prodotti
più perfezionati e a meno prezzo le danneggerebbe, la legislazione allora sopprime la
concorrenza e proibisce l’importazione delle merci estere.
(4) CanTINI, Op. cit., vol. IX, pag. 7-8.
(2) Roscaer, Geschichte der National-Ochonomik, pag. 167.
(3) Id., Op. cit., pag. 191 e 202.
(4) Id., Op. cit., pag. 215.
(5) T. Mun, Treausure by foreign trade, London 1664, pag. 11.
(6) DuvaL, Memoire ecc., pag. 64 e 57-59.
DI CAMMILLO SUPINO 197
Non è dunque qui il caso di fare una critica del sistema mercantile, di provare
che l’oro va sempre e da sè dove ce n'è bisogno, di dimostrare i vantaggi dello scambio
internazionale di tutti i prodotti e di vantare la libertà come la norma più sicura
di politica commerciale; le idee di quest'epoca trovano da loro stesse la loro critica,
per i criteri meschini e spesso contraddittori che le informano, più che per esser quelle
parti di un sistema, che la teoria e la pratica hanno riconosciuto per falso.
Ma non tutti gli scrittori di quest'epoca sostengono, come abbiamo già detto,
le idee restrittive in fatto di commercio, e perfino alcuni di essi, che pur non si sono
potuti sottrarre al pregiudizio dominante, hanno riconosciuto ed esposti i vantaggi del
libero scambio.
Borero, che abbiamo visto esser propugnatore di una politica protezionista, vor-
rebbe abolire le dogane per facilitare il commercio, perchè i popoli sono tanto gravati
dai prìncipi che corrono subito là dove hanno una minima speranza d'immunità. Le
fiere sono così frequentate dai mercanti, perchè sono libere e franche di gabelle e di
gravezze, e per tal ragione prosperava il commercio nelle città di Fiandra, dove la
mercanzia entrava ed usciva pagando quasi nulla. E i Veneziani si sono più di una
volta liberati da estrema necessità di vettovaglie col promettere franchezza a chi ve
ne portasse (1).
Antonio SERRA, che discorre a lungo della bilancia del commercio, concludendo
che uno stato non può abbondare di oro quando spende all’estero più di quanto ne
ritrae, fa delle bellissime considerazioni sul movimento internazionale delle monete e
sui cambi fra nazione e nazione, partendo dal principio che la proibizione di estrarre
il denaro è dannosa ad uno stato e non è mai un mezzo sufficiente per farvi ab-
bondare l’oro. Infatti la moneta non si manda via senza scopo e se va fuori ritorna
con vantaggio, essendo estratta o per comprar merci estere o per essere inviata dove
è più cara e farla quindi tornare col cambio. Non è danno estrarre la moneta per
comprar merci, perchè se queste abbisognano è necessario pagarle in denaro, oppure
in cambi e commutazione di roba, il che equivale, giacchè per il cambio bisogna o
prima o poi mandar contanti, e nella commutazione si compensano i denari ricavati
con quelli estratti. E se la merce che entra non abbisogna nel regno, che cosa se
ne farà ? Si venderà ad altri per maggior prezzo e così ritornerà più denaro di quello
‘che ne era uscito, e se si comprasse col ricavato altra merce, ne verrebbe maggior
quantità. Così pure non è dannoso se si estrae la moneta per farla tornare per cambi,
ritornando essa nello stato sempre con vantaggio. Oltre di che la libertà di estrazione
è causa di maggior traffico, essendo talvolta utile ai mercanti di mandar via denari,
e ritraendosi essi da quel dato affare se si proibisce loro di estrarre moneta (2).
Crediamo sia difficile di trovare in altri scrittori antichi delle nozioni così chiare
ed esatte come queste del SERRA sui pagamenti internazionali, sulle cause che li fanno
nascere e sugli effetti che producono nel commercio; eppure il SERRA stesso che da
queste considerazioni dovrebbe esser tratto a pronunziarsi completamente per il libero
scambio, conclude il capitolo che abbiamo ora riassunto, dicendo che per Napoli l’estra-
(4) Borero, Grandezza delle città, pag. 333-395.
(2) Antonio SERRA, Breve trattato ecc., pag. 132-35
198 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
zione della moneta è dannosa, perchè avendo tutte le industrie i forestieri, il denaro
va via senza ritorno, ed è per conseguenza raccomandabile ed utile, per impedire
maggiori disordini, la proibizione (1).
Deciso partigiano del libero scambio è Filippo SAssETTI, il quale trova tanto utile
il commercio, che vorrebbe fosse reso più facile possibile, abolendo o almeno dimi-
nuendo molto i dazi. Perchè, come egli dice, questo vale assai per allettare l’animo
dei negozianti: però che quando e’ si veggono bene trattati in questa parte, incon-
tanente scorgono il manifesto guadagno, non si trovando il più sicuro nè il migliore
avanzo di quello che non si spende (2).
Anche Vettorio LuneTTI troverebbe vantaggioso di levare ogni dazio all’esporta-
zione e all'importazione delle merci: « Farà gran maraviglia il sentire questa proposta
di levare le dogane che anticamente vi sono state poste, che mai non si dovevano mettere
in parte alcuna, perchè con la libertà del traffico le genti si fanno ricche e possono
ricevere aggravio per altro verso, senza toccare la negoziazione. È per questo ottimo
ordine che il commercio si è diretto a Livorno, perchè i dazi danno difficoltà alle
spedizioni, ed essendo i forestieri obbligati a pagare, un’altra volta non vi tornano ma
portano la loro mercanzia dove è meglio trattato e così il regno ne soffre ed il po-
polo si trova con mancamento delle robe forestiere e paga a caro prezzo le poche
che trova (3). » E altrove il nostro autore continua : « il commercio deve esser
sempre lasciato libero e non impedire chi viene a portar o levar roba nel suo stato,
perchè questa libertà non è di danno, ma di molto utile, poichè viene la roba senza
timore che causa abbondanza e mancando. vien carestia (4). »
Come si vede, l’importanza del libero scambio è chiaramente tratteggiata da
questi autori; e veramente quando, come il SERRA, si dimostra che le merci estere
si pagano in fin dei conti con le merci nazionali, o quando si asserisce, come il BoTERO,
il SasseTTI e il LunETTI, che i dazi sono dannosi perchè allontanano i mercanti e
impediscono il commercio , si viene implicitamente ad affermare che il protezionismo
è un sistema erroneo che conduce a rovina gli Stati. Certo le idee di questi autori
non reggono al confronto con quanto hanno scritto qualche tempo dopo el’ Inglesi
Child, Petty e Dudley North; ma esse possono però paragonarsi con onore a ciò che
era stato già detto dal Bodin che, cioè, il commercio deve esser franco e libero per.
la ricchezza e lo splendore di un regno, perchè quello che entra in un paese in cambio
di quello che ne esce cagiona il buon mercato delle merci che vi mancavano (5).
A maggior ragione poi le idee degli autori italiani da noi citati possono star benis-
simo a paro con quelle di Emerico di Lacroix, il quale nel 1623 affermava che
non si deve fare distinzione fra mercanti nazionali e stranieri, e che le condizioni del
traffico devono essere ovunque uguali (6). E se nel BorrRo e nel SERRA troviamo
(4) SERRA, Op. cit, pag. 136.
(2) F. SassETTI, Ragionamento sopra il commercio ecc., pag. 102.
(3) Verrorio LuneTTI, Politica Mercantile, in Napoli 1630, pag. 114-415.
(4) LunETTI, Op. cit, pag. 124.
(5) H. BaupRILLART, J. Bodin et son temps. Tableau des théories politiques et des idees économiques
au seizièéme siècle, Paris 1853, pag. 179. È
(6) Ca. CoqueLIN, Dictionnaire de l’Economie Politique, Bruxelles 1854, vol. Il, pag. 15.
DI CAMMILLO SUPINO 199
qualche contraddizione, perchè in certi casi essi sono favorevoli alla libertà e in altri
propugnano il protezionismo, ciò non ci deve recar maraviglia in un'epoca, in cui si
avevano delle idee staccate sopra argomenti economici, ma non si sapevano riannodare
per farne un sistema scientifico completo. Tant'è vero che anche il Bodin, che vanta
il libero scambio, vorrebbe vincolato il commercio dei grani e proibita l'importazione
di certe merci di lusso (1).
Ma se dagli autori passiamo a considerare la legislazione, le contraddizioni ci
appariranno in modo più spiccato, e vedremo la libertà di commercio applicata con
un sistema tutto speciale e talvolta molto strano, considerandola come un’ eccezione
accolta in qualche singolo caso per qualche scopo particolare.
E sono infatti un’eccezione le fiere franche che si facevano in molte parti d’ Italia,
nel tempo delle quali « è lecito a chiunque di qualunque nazione, dominio, lingua
o condizione di portare per terra o per mare, da qualunque parte del mondo , con
qualunque mezzo ogni sorta di mercanzie e robbe ancorchè incognite, le quali sieno
franche da ogni gabella tanto all'entrata che all’uscita (2) »; ed erano tanto una
eccezione, che vennero diversi anni dopo abolite in Toscana, considerando che porta-
vano danno alle arti e non erano di benefizio e di utilità che per le nazioni estere (3).
L'esenzione dai dazi era pure concessa nei porti franchi, di cui ci fornisce un esempio
in quest'epoca Nizza nel Piemonte (4); ed i mercanti di Ferrara, in un’istanza fatta
al duca domandavano che le merci che passano o si trattengono nel ducato per essere
vendute fuori paghino soltanto il dazio di transito, ma sieno esenti da quella di en-
trata, pagandolo solo nel caso che sieno vendute nello Stato (5).
Nasceva una carestia ed era necessario per qualunque altra ragione di provve-
dersi di merci estere? Subito la legislazione proclamava la libertà del commercio.
Nelle Prammatiche di Napoli, un decreto del 1633 così comincia: Essendosi conosciuto
che per le guerre, calamità e contagio che hanno travagliato l’Italia si sia ristretto
il commercio dei negozianti in questa città con notabile mancamento d’abbondanza di
mercanzie, per ovviare quanto sia possibile ai detti impedimenti e facilitare il traffico
ai mercanti e negozianti, acciocchè più volentieri si conducano in questa città da qual-
sivoglia parte del mondo mercanzie in maggior quantità del passato, si concede porto
franco ai vascelli che porteranno merci con l’esenzione da ogni dazio, con franchigia
del pagamento d’ancoraggio per i vascelli, con facoltà di provvedersi di viveri per il
ritorno senza pagamento, ecc. (6).
‘Un decreto del 1572, considerando che in Toscana quello che più mancava
era il pesce, concedeva facoltà di portarlo a vendere a chiunque anche fuori dello
Stato e a qualunque prezzo (7); uno Statuto di Roveredo ordina 'che qualunqne
persona possa sicuramente e liberamente condurre, trattenere, estrarre e asportare
(4) BauprILLART, Op. cil., pag. 174 e 179.
; (2) CantINI, Legist., vol. IV, pag. 376-79. — BoreLLI, Editti, pag. 960-62.
(3) Id., Op. cit., vol. VIII, pag. 166-67.
(4) BoreLLI, Op. cit., pag. 1053-55, 1055-59 e 1061-78.
(5) Statuta, Provisiones et Decreta Gabellarum civitatis Ferrariae, A. D. 1624, pag. 113-416.
(6) Pragmaticae, Edicta, ecc., vol. IV, pag. 135-37.
(7) CantINI, Op. cit., vol. VIII, pag. 22-23.
200 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
vettovaglie e qualunque altra specie di merci (1), ed una legge di Verona comanda
che non si debba limitare « pretio alcuno delle biave, che si habbino a vendere in
quella città, ma lasciarle vendere al pretio che correranno di tempo in tempo » (2).
Ma se tutti questi esempi non fossero sufficienti a provare l’assoluta mancanza
di principî ben determinati nella legislazione di questo tempo, basterebbe citare un
bando emanato in Toscana nel 1572, in cui, mentre è concessa libera facoltà di
condurre grani fra gli Stati di Firenze e di Siena, desiderando il duca che essi sieno
in ogni tempo abbondanti di ogni sorte di grascie e viveri, e « conoscendo che il
libero commercio e transito dall’ uno all’altro stato facilissimamente apporterà e del
continuo conserverà reciproca abbondantia e utilità all’universale », d’altro lato però
perchè i due Stati si mantengano provvisti di bestiame, se ne proibisce l’esporta-
zione (3). Ora non viene spontaneo di domandare come mai per mantenere l’abbon-
danza si accetta la teoria proibitiva, mentre si asserisce che il libero commercio ar-
reca l’abbondanza negli stati? Non è assurdo il proclamare due principî così opposti
in uno stesso editto probabilmente composto dalla stessa persona?
Eppure la legislazione commerciale di questo tempo è piena di tali contraddi-
zioni, perchè non s’ispira a norme direttive fisse, ma ai bisogni e alle esigenze tran-
sitorie del momento. Lo stato, per favorire l'industria voleva allontanare i prodotti
che le potevano far concorrenza, o conservarle le materie gregge, e allora emanava
leggi improntate ad assoluto protezionismo; voleva facilitare l’esito dei prodotti na-
zionali oppure aveva bisogno di merci straniere, e la legislazione diventava liberista,
esaltando i vantaggi del libero scambio. Si aveva allora un concetto molto strano del
commercio; e nello stesso modo che per conservare l’oro nel paese si stabiliva come
ideale di politica di vendere molto all’estero, cercando di comprar meno possibile,
così per mantenere l’abbondanza dei prodotti si voleva proibirne l’esportazione, spe-
cialmente in tempo di carestia, favorendo con ogni mezzo la libera importazione delle
merci che più abbisognavano e che solo le nazioni estere potevano fornire.
Ma questo non si chiama essere protezionisti nè liberisti, non si chiama seguire:
un sistema, è fare dell’empirismo.
CAPITOLO VI.
Valore e prezzo.
Nelle teorie del valore e del prezzo predominano in quest'epoca due tendenze
differenti, anzi opposte: l’una che potrebbe propriamente chiamarsi economica, con-
sidera il valore ed il prezzo come determinati dal bisogno, dalla domanda e dalla
rarità; l’altra, che s’ispira al diritto canonico, esclude la concorrenza, ammette un
(4) Statuti della città di Rovereto, 1425-1610, con una introduzione di T. Gar, Trento 1859,
pag. 29,
(2) Ad magnificae civitatis Veronae Statutorum libros quinque Decreta serenissimi Ven. Dominii,
Tomus alter, Venetiis 1747, pag. 62.
(3) Cantini, Op. cit., vol. VIII, pag. 38-40.
DI CAMMILLO SUPINO 201
prezzo invariabile basato sopra un principio di giustizia e propugna la tassazione le-
gale di tutte le merci per parte dello stato.
Fra gli scrittori che seguono la prima di queste due tendenze, occupa un
posto importantissimo Bernardo Davanzati. Egli comincia dal porre molto bene il
problema, domandandosi: « da che radice dipende, che una cosa vaglia tanto più
dell’altra, più tosto che tanto, o tant’ oro piuttosto che cotanto? » E risponde: Gli
uomini travagliano per essere felici, a tal uopo desiderano le cose che soddisfano ai
loro bisogni, e siccome quelle valgono tutto l’oro che esiste, gli uomini bramano l'oro
per comprare tutte le cose, per appagare tutti i bisogni, per essere felici. Ora quanta
parte di tutta la felicità d'un regno, d’una città, d’un uomo alcuna cosa opera e
cagiona, tanta parte vale di tutto il suo oro o lavoro; tanta ne cagiona quant'è la
sua voglia o il bisogno: perocchè si gode tanto del bere quant’è grande la sete.
La voglia dall’appetito e dal gusto, il bisogno dalla natura, stagione, grado, luogo,
eccellenza, rarità e abbondanza prendono misura con perpetuo variare; onde per deter-
minare la proporzione che con l’oro hanno le cose, bisognerebbe poterle veder tutte
da un luogo elevato e dire tant’oro ci ha in terra, tante cose, tanti uomini, tanti
bisogni, tanti ciascheduna cosa ne appaga, tante altre cose vale, tant’oro vale. Ma
giacchè noi non possiamo veder tutto, pregiamo quello che vediamo esser maggior-
mente richiesto in ciascun luogo e tempo. L’acqua è ottima, ma perchè è tanto ab-
bondante non ha prezzo alcuno; schifissima cosa è il topo, ma nell'assedio di Casilino
uno ne fu venduto 200 fiorini per lo gran caro, e non fu caro, poichè colui che ’1
vendè morio di fame e l’altro scampò; l’ottimo strumento vale ogni danaro all'ottimo
artefice, altri che nol conosca non lo stima. Vasi, pietre e statue furono molto pagate,
perchè alcuni trovarono in questi oggetti la loro beatitudine che valeva tant'oro; si-
milmente al Perù gli uomini barattavano specchi e sonagli con oro, piacendo loro più
quelli che questo (1).
L'utilità e la rarità sono dunque per il Davanzati i due elementi che danno,
origine al valore, la domanda è quella che ne determina le variazioni; quanto al
prezzo, esso è dato dalla proporzione che esiste in un paese fra la moneta e i pro-
dotti desiderati dagli uomini per soddisfare ai loro bisogni. E qui dobbiamo notare
un errore in cui è caduto l'illustre scrittore fiorentino, ed è che quand’anche fosse
possibile determinare il prezzo con quella proporzione quasi matematica, i due termini
moneta e prodotti non potrebbero mai da soli costituire gli elementi di una tal for-
mula, la quale è assurda se non si tien calcolo della rapidità della circolazione.
Perchè è noto come una moneta, anche durante il periodo brevissimo di un giorno
può servire a rappresentare un numero grandissimo di contrattazioni.
Anche per il LortIni la causa e la misura del valore è il bisogno: e « perchè
il bisogno induceva gli uomini a permutar fra loro quelle robe che all’uno manca-
vano e all’altro abbondavano, presero quel medesimo bisogno per dar misura e fare
stima alle robe che si dovevano cambiare, perciocchè secondo che ne avevan più o meno
bisogno stimavanlo più o meno, e così davano minor e maggiore ricompensa tanto che
(1) BernarDo Davanzati, Lezione delle Monete, nella Raccolta Cusropi, P. Ant., t. Il, pag. 32-35.
Serie II. Tom. XXXIX. ; 26
202 - LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
sì pareggiasse con questa proporzione il ricevuto col dato, e per maggior agevolezza
di far questa misura e pareggiamento ritrovossi il denaro » (1).
Secondo l’AmMIRATO, una cosa non si pregia per la qualità e per la ricchezza,
ma per la stima che se ne fa. Un cavaliere romano preferì un dono d’argento dato
come ricompensa dal generale, ad un oggetto d'oro di molto maggior valore, ma che
non rappresentava altro che la ricchezza. Anche ai giovani nostri sarebbe certo pre-
posto un pennacchio di dieci soldi a qualunque ricca collana d’oro, se questa altro
non fosse che argomento di ricchezza e quella piuma altro non fosse che argomento
di virtù (2).
Il Fiersucci considera il valore nel cambio e nell’importanza relativa che ogni
oggetto ha per ciascuno dei due contraenti. Nei paesi più barbari, egli dice, si co-
stuma di dar le cose di cui sono abbondanti per avere quelle che non hanno: si
come non è tropp’anni, quando prima fu scoperto il Perù e altre isole nuovamente
ritrovate, avveniva, che se uno avesse portato alcune cose artifiziose, che qua facil-
mente si lavorano come dire specchi, coltelli e simili strumenti, ne avrebbe riportato
in quel cambio oro e argento delle quali cose è quel paese abbondantissimo. È ben
vero che non sogliono quei popoli dare il loro, quantunque poca stima ne faccino, se
qualche contraccambio non ricevono (83).
Delle idee profonde e piene di acume sul valore e sul prezzo si trovano nel
napoletano Fabrizio BiBLIA, il quale, dopo aver definito il valore come la stima della
proporzione della quantità e qualità delle cose, soggiunge che quella stima o si fa
assolutamente in sè medesima, come negli oggetti di piccola valuta che non possono
essere comparati ad altri; o si fa rispetto alla perfezione di un’altra cosa, « la quale
D
o è semplicemente cosa, come nella permutatione, et all’hora l’attione è imperfetta,
per haversi dell’un e dell’altra uguale cognitione, o è in moneta, il valore della
quale conoscendo per mezzo della pubblica forma, quasi per fede autentica, è certo;
e però è prezzo, e tal’attione, perchè viene regolata da una certa, e determinata mi-
sura è più perfetta della permutatione » (4).
Volendo giudicare con imparzialità e senza farci soverchie illusioni queste citazioni
che trattano della teoria del valore dobbiamo confessare che esse hanno senza dubbio
una certa importanza e sono, se non altro, degne di esser prese in considerazione dallo
studioso delle origini della Economia politica. D'altronde dobbiamo notare che la teoria
del valore si fonda sull’osservazione di fenomeni così complessi, vien formata risa-
lendo a principî psicologici tanto difficili a precisarsi, ed è la conseguenza di dedu-
zioni e di astrazioni così ardue, che essa può solo svilupparsi definitivamente quando
la scienza è giunta ad uno stadio molto avanzato di progresso. Tenendo conto di
queste. circostanze, tanto più dobbiamo apprezzare i frammenti che sopra una tale
teoria ci hanno lasciati gli scrittori del periodo che noi studiamo; e non possiamo a
meno di lodare l’analisi profonda data dal Davanzati dell’utilità e della rarità come
(4) LortINnI, Avvedimenti Civili, avv. 229, vol. I, pag. 156.
(2) Ammirato, Discorsi, pag. 48.
(8) FieLivcci, Della politica ecc., pag. 23.
(4) FaBRrIZIO Bigcia, Discorso sopra l’aggiustamento della moneta e cambi nel regno di Napoli,
in Napoli 1621, pag. 37.
DI CAMMILLO SUPINO 203
elementi del valore, l’accenno del LortINI al bisogno come causa e misura del valore
e la bellissima distinzione del BiBuia del valore d'uso, valore di cambio e prezzo.
Ma abbiamo detto che altri autori della medesima epoca seguono principî ben
differenti nel trattare la stessa materia. I Canonisti infatti non considerano lo scambio
che in relazione alle merci col denaro e non ammettono altra manifestazione del va-
lore che quella che viene rappresentata da una certa quantità di moneta, assumendo
la denominazione di prezzo. E nella determinazione di esso il diritto canonico non am-
mette la libertà giuridica dei contraenti, badando solo che sia mantenuta la giustizia
obbiettiva come condizione essenziale del contratto di compra, mediante certe date
norme di giurisprudenza. Questa dottrina era la conseguenza necessaria del modo di
vedere dei canonisti sull’usura e come non era lecito, secondo loro, di trar guadagno
da un prestito, così non poteva essere permesso di prender di più in una vendita.
Per cui tanto la legislazione di questo tempo, quanto la scienza canonica si prefig-
gevano come còmpito di conservare una perfetta uguaglianza nelle condizioni fra com-
pratore e venditore, stabilendo un prezzo che doveva essere il vero, l’unico, il giusto
e che chiamavano justum pretium. Ma non sempre era possibile trovare il vero prezzo
che soddisfacesse ai postulati della giustizia, da qui questioni e controversie senza
fine per trovare questa novella quadratura del circolo, per determinare perfino che
cosa si dovesse intendere con questo pretium justum. Il quale non potendo esser dato
dalla libera contrattazione dei partecipanti immediatamente interessati, doveva esser
fissato dalla legge, diventando così pretium legitimum (1).
Questa teoria contenuta nel Corpus juris canonici e che ha prevalso fino a tutto
il secolo XVII è propugnata nell’epoca che noi studiamo da alcuni scrittori che la
considerano più specialmente dal punto di vista economico e da altri che ne trattano
guidati da criteri puramente giuridici. Fra i primi, il BuonINsEGNI dice che il prezzo
non si deve formare secondo l’umore e per l’utilità di alcuni, ma per l’utilità di tutti.
Perciocchè se senza frode, cessando ogni inganno e ogni violenza, contrattano fra loro
liberamente compratori e venditori, per natura del fatto viene ad essere costituito un
prezzo giusto, perchè se il venditore vuol vendere la sua merce giudicherà il suo
prezzo tanto moderatamente da trovare compratori. Onde tanto val la cosa quanto si
può vendere comunemente, cioè quanto convengono insieme compratore e venditore,
tolta via ogni frode e presupposta cognizione comune della cosa (2).
Ma da che cosa sono determinate le oscillazioni mei prezzi ?. A questo quesito
il BUONINSEGNI risponde con ragioni puramente economiche e con criteri giusti, di-
cendo che i prezzi crescono e calano secondo la mancanza o abbondanza delle cose,
o secondo la moltitudine o la pochezza dei venditori o dei compratori. Quando vi è
copia di compratori cresce il prezzo e cala nel caso contrario. Un mercante non può
vendere dunque a seconda delle spese sopportate, ma al prezzo che trova; onde se
(4) W. Enpemann, Studien in der Romanisch-Canonistischen Wirthschafts-und Rechtslehre bis gegen
Ende des XVII Jahrhunderts, Berlin 1874-83, vol. ll, pag. 30-39; e Die nationalòkonomischen Grund-
sétze der canonistischen Lehre, Jena 1863, pag. 92-102.
(2) Tommaso BuoniNsEGNI, Trattato dei traffichi giusti et ordinari, cioè della vendita a credenza,
della diminutione del prezzo per l’antecipato pagamento, dei cambi, dei censi, dei giuochi e dei monti,
Venezia 1591. Della vendita a tempo, pag. 415.
204 : LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
esiste una gran copia di merci non potrà neanche rifarsi dalle spese, mentre se la
merce manca potrà vendere più caro del costo anche nello stesso giorno e luogo. Il
prezzo in tal modo formato dicesi naturale e può essere infimo, mezzano e supremo,
perchè non si può precisare come una unità matematica (1). Ma l’idea canonica nella
determinazione del prezzo si ritrova in BuoninsEGnI là dove dice che non è lecito ad
un negoziante di vendere la stessa cosa ad uno a contanti per 28 ducati e ad un
altro a tempo di un anno per 30, in quanto che quest’ultima vendita sarebbe usu-
x
‘raria. Perchè è usura il vendere più caro per distanza di tempo, perchè uno solo
deve essere il prezzo di una stessa cosa, e perchè infine se il giusto prezzo era quello
richiesto a contanti, diventa ingiusto coll’aumento (2).
Secondo Romualdo Cori tre sono i prezzi di una merce: pio, moderato e rigo-
roso ovvero infimo, mezzano e supremo; e tre sono i modi di vendere: a contanti, a
credenza, pagando anticipatamente. Siccome la vendita a contanti costituisce la regola,
le altre specie devono subire la norma di quella. Chi vende la merce più di quello
che vale fa cosa ingiusta, colui che vende sopra il rigoroso prezzo dei contanti vende
DI
più di quello che vale, dunque fa cosa ingiusta; a niuno è lecito di vendere se non
DI
al giusto prezzo, il giusto prezzo è quello che ha la merce per contanti secondo il
x
corso della piazza, dunque non è lecito per far credenza vendere a più (3).
Fra i giureconsulti che hanno trattato lo stesso argomento guidati dai medesimi
principî, il più conosciuto e il più celebre in quest’epoca è il romano Sigismondo
Scaccia. Per diritto divino, egli dice, è proibito l’inganno nel prezzo, perchè il prezzo
e il denaro sono la misura delle cose (4); onde il principe non solo può, ma deve
imporre il prezzo alle cose venali (5). Per conoscere la giustizia nel prezzo secondo
il diritto e secondo la coscienza, due modi abbiamo: il primo è d’informarsi se il
prezzo di cui si tratta è tassato per legge o statuto, perchè se è tassato, per questa
ragione si chiama giusto, e non è lecito prender di più. Il secondo modo è differente
nelle cose mobili e in quelle immobili. Nelle prime, si chiama prezzo giusto quello per
il quale comunemente si possono avere cose simili, e così la cosa tanto vale per quanto
si può vendere a quelli che se ne intendono e che hanno piena età e giudizio, te-
nendo però anche conto del prezzo del luogo in cui si tratta, giacchè sappiamo quanto
diversi sono i prezzi secondo le città. Nelle seconde, non esiste dottrina certa per co-
noscere il giusto prezzo onde si deve solo ricorrere all’uso del tempo. Il prezzo giusto
può essere sommo, medio e infimo (6) e deve corrispondere alla bontà intrinseca
della cosa, all’abbondanza e alla scarsità di essa, alla spesa e al lavoro necessario per
trasportarla da un luogo all’altro e per conservarla, ai pericoli inerenti alla vendita
e al trasporto (7).
(1) BuoninseenI, Op. cit., pag. 15-17.
(2) Id., Op. cît., pag. 2.
(3) FRA RomuaLpo Corr, Trattati del vendere a tempo e del comperare con la paga antecipata ,
Firenze 1619, pag. 3-6.
(4) Siismwonpo Scaccia, Tractatus de Commerciis et cambio, Coloniae 1738, pag. 227.
(5) Id., Op. cit., pag. 327.
(6) Id., Op. cit., pag. 231.
(7) Id., Op. cit., pag. 74.
DI CAMMILLO SUPINO 205
Quantunque i Canonisti siano guidati nelle loro disquisizioni sul prezzo da criteri
morali più che da criteri economici, quantunque essi, secondo il precetto del Vangelo,
cerchino innanzi tutto la giustizia, pure anche l’economista trova in loro delle con-
siderazioni di molta importanza, specialmente sul costo di produzione e sulla domanda
ed offerta. E su questo punto merita lode più di ogni altro il BuonInsEGNI, il quale
ha dimostrato come in certe circostanze il prezzo possa essere talvolta superiore e tal-
volta inferiore al costo, e ciò secondo che una merce scarseggia o abbonda. Solo ci
deve recar meraviglia che questi scrittori, mentre ammettono che il prezzo è deter-
minato da varie cause e che per conseguenza per ogni merce, secondo i tempi e i
luoghi, esistono diversi prezzi, d’altro lato discutono di un prezzo unico e giusto e ne
propugnano la tassazione legale da parte dello stato. E questa contraddizione si può
spiegare solo col fatto che i Canonisti, se non ignoravano le innegabili verità econo-
miche, non volevano nello stesso tempo allontanarsi dai dogmi del diritto divino, nè
dai principî di legislazione allora dominanti.
‘E infatti la legislazione dell’epoca che noi studiamo non lasciava quasi mai che
i prezzi si formassero liberamente fra i contraenti. A Napoli una prammatica del 1560,
confermata nel 1576, ordina che nessuno possa comprare commestibili a prezzo più
elevato dell’assisa, nè i bottegai vendere, se non conforme ad essa sotto pena della
frusta (1); a Roveredo gli statuti fissano il prezzo del pane, del cuoio e determi-
nano la misura delle mercedi secondo i tempi e i luoghi (2), e a Mantova nume-
rosi sono gli ordini per limitare i salari e i prezzi delle merci (3). In Sicilia, se-
condo il sistema della legislazione di questo tempo di cambiare politica a norma dei
bisogni del momento, mentre era prescritto il tasso a cui si doveva vender la carne,
in epoca di carestia era concesso a quelli che portavano bestiame di fuori di venderlo
senza meta a quanto loro piacesse (4). Ma per intendere quali idee si avessero al-
lora sulla formazione del prezzo, vogliamo citare testualmente un brano di una pram-
matica del regno di Sicilia, il quale così si esprime: « Avendo visto che in quella
stagione in cui i buoi sono magri nessuno li vuol vendere, e così manca la carne, ci
è parso conveniente di regolare i prezzi della carne secondo le stagioni, talchè alli
tempi che gli animali sogliono essere men grassi il prezzo habbia di alterare un poco
più, e che alli tempi che sogliono esser magri habbiano li prezzi a crescere un altro
poco » (5).
Noi, che dopo una lunga esperienza ci siamo accorti, che in moltissimi casi la
miglior politica economica da seguirsi è la libertà, noi dico consideriamo certamente
come inutili e ridicole tutte queste prescrizioni, le quali dovevano essere senza dubbio
un grave ostacolo per l’industria e per il commercio. Ma pare che così la pensassero
anche quelli che erano obbligati a mettere in pratica gli ordini della legislazione, perchè,
(4) Pragmaticae, Edicta, Decreta, ecc., vol. I, pag. .
(2) Statuti della città di Rovereto, Trento 1859, pag. 278-81.
(3) Ordini, dichiarationi et lmitationi in soggetto de? Rustici et delle loro mercedi, salarii e spese,
Mantova, 1634. — Tassa delle mercedi di artisti ed operai, Mantova, 1634. — Limitazione dei pressi
di diverse robbe mercantili, ecc., Mantova 1650.
(4) Pragmaticarum regni Siciliae novissima collectio, Panormi 1636-58, vol. I, pag. 313-414.
(5) /d., ecc., vol. I, pag. 324.
.206 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
a quanto ci dice il Parazzo, la limitazione dei prezzi era tenuta scritta sulle porte a
guisa del silenzio nei monasteri (1); il che prova che si può scrivere, sostenendo degli
errori economici, ma che non è ugualmente facile il poterli applicare.
CAPITOLO VII.
La moneta.
Molto giustamente osserva il Ganilh, che l’Italia ha avuto sempre i sistemi mo-
netari più .viziosi e le migliori opere sulla moneta (2). Ed infatti in quest'epoca gran-
dissimo era il disordine che regnava nella circolazione in ogni parte del nostro paese,
ma nello stesso tempo numerosi e profondi sono gli scritti che trattano di un tale ar-
gomento; una nuova prova, direbbe il Roscher, della vecchia esperienza che ogni se-
colo è solito di acquistare, prima delle altre, le nozioni scientifiche necessarie per i
suoi bisogni pratici più urgenti (3).
Il Tessuro chiama questa materia molto gioconda, in quanto che il nome del-
l’oro e dell’argento suona grato all’orecchio di tutti, e questi metalli per il loro splen-
dore e suono riempiono gli occhi e le orecchie di dolcezza e sogliono allegrare a me-
raviglia il cuore degli uomini, onde non senza ragione il denaro è chiamato da Orazio
il re di tutte le cose (4). Noi però, contro l’opinione del giureconsulto piemontese,
non troviamo tanto lieto l’argomento e dobbiamo confessare essere un còmpito molto
arduo dl fare un esame storico-critico delle idee di quest’epoca sulla moneta.
Perchè fu ritrovato il denaro? In principio il commercio, dice DavanzatI, era ha-
ratto semplice di cose con cose; « ma era malagevol sapere a cui la cosa a te sover-
chia mancasse, o la mancante a te lui soverchiasse, o trasportar si potesse, o serbare,
o sì spezzare che ambi accomodasse »; la necessità, dei modi ritrovatrice, prima in-
segnò di eleggere un luogo dove si trovassero i commercianti (mercato), poi una cosa
che valesse per tutte le altre, quasi mezzana o fonte del valore universale delle cose (5).
E Bernardino PratISUOLI che fa identiche considerazioni sull’utilità del denaro e sugli
inconvenienti del semplice baratto, aggiunge: Un padre che volesse del panno per ve-
stire i suoi figli e non avesse che gioie da dare in cambio ed il mercante non le volesse,
non saprebbe come fare; ma col denaro la cosa procede altrimenti, perchè tutti sono
disposti ad accettarlo (6). Esso è, secondo il MancINI, il Proteo decantato dal poeta,
che sempre cambia forma, perchè la moneta rappresenta il prezzo di tutte le cose che
ci sono necessarie e si può sempre trasformare in quello che si desidera (7).
(1) PaLazzo, Ragione di Stato, pag. 182.
(2) Cu. GaniLa, Des systòmes d’'Économie politique, IDaiok 1809, tome I, pag. 74-75.
(3) RoscHER, Cardia: ecc., pag. 189.
(4) Gaspar Antonius Taesauro, Tractatus de augmento monetarum, nei De Monetarum augmento,
variatione et diminutione tractatus vari, Augustae Taurinorum 1609, pag. 617.
(5) Davanzati, Lezione delle monete, pag. 23-24.
(6) BernarpINo PratisuoLI, Considerazioni sopra l’ Alitinonfo del signor G. Scaruffi, nelle quali
con chiarissime ragioni si tratta delle cose delle monete, nell’ArGELATI, De monetis Italiae variorum
illustrivum virorum dissertationes, Mediolani 1752, Pars IV, pag. 252-583.
(7) CeLsus Mancini, De juribus principatuum, Romae 1596, pag. 160. — Anche: CHIARAMONTI,,
Ragione di Stato, pag. 2814-82.
DI CAMMILLO SUPINO 207
La moneta è dunque, secondo la definizione datane dal DAVANZATI, « oro, ariento,
o rame coniato dal pubblico a piacimento, fatto dalle genti pregio e misura delle cose
per contrattarle agevolmente » (1). Fu detta dagli antichi pecunia, sia perchè le prime
monete furono coniate sulla pelle della pecora (2), sia perchè in esse venne da Servio
Tullio messo come impronta questo animale, imitando Teseo che vi aveva posto un
bove per incitare gli Ateniesi all’agricoltura (3), o sia, come pare più probabile, perchè
le pecore erano in antico la ricchezza fondamentale dei popoli e più facilmente po-
tevano servire come mezzo di scambio (4). Moneta poi fu chiamata dal latino moneo,
perchè il suo segno ci ammonisce del suo nome, pregio e bontà (5).
L'origine della moneta è antichissima, ma non si sa quando e dove s’incomin-
ciasse a coniarla: Erodoto dice in Lidia, altri in Nasso, Strabone in Egina, chi in
Attica, chi in Licia dal re Erittono, Lucano in Tessaglia dal re Iono; nella Bibbia
sì trova spesso menzione di monete e anche dai tempi dei primi patriarchi (6). Vari
furono i metalli adoprati per coniarle; le prime vennero fatte di rame, perchè essendo
allora i bisogni limitati, bastava, come dice il BorGHINI, una moneta di poco valore.
D'altronde quella di rame è più necessaria, in quanto che, oltre servire, per le piccole
contrattazioni, può essere adoprata, raddoppiando le poste quanto bisogna, a condurre
ogni gran mercato, quand’anche si dovesse fare il pagamento a sacca o a carrate (7).
Poi, per avere un maggior valore in minor volume furono adoprati l’oro e l'argento (8),
i quali sono detti metalli nobili perchè resistono al fuoco e perchè la quantità che
di essi si trova è sempre della stessa purezza (9).
Vi sono due specie di monete, dice il Corazzario: l’una detta reale e effettiva
di oro o di altra materia, l’altra chiamata generica o immaginaria, come ad esempio
lo scudo e le libbre di Genova, che non sono battute in alcun metallo e rappresen-
tano tutte le specie di monete (10). È molto utile, aggiunge TESAURO, questa moneta
immaginaria per prenderla a norma delle variazioni di valore che succedono in quella
reale (11). Oltre di queste due specie di denaro, ne esiste una terza che potrebbe chia-
marsi moneta rappresentativa; perchè può esser fatta di qualunque materia, anche di
niun valore, ed è, secondo il DAVANZATI, un contrassegno, « una polizza di mano del
principe lui obbligante a rendere al presentatore tanta moneta vera » (12).
(1) Davanzati, Op. cit., pag. 28.
(2) Antonio Sora, Tractatus de monetis, nei De monetarum augmento ecc., pag. 534.
(3) Taomaso Garzoni, Za piazza universale di tutte le professioni del mondo, in Venetia 1589,
pag. 504.-
(4) Vincenzo BoreHINI, Della moneta fiorentina, nei Discorsi, recati a luce da’ Deputati per suo
testamento, Fiorenza 1584-85, Parte Seconda, pag. 128. — Mancini, De juribus ecc., pag. 159-60. —
Sora, Op. cit., pag. 531.
(5) Davanzati, Op. cit., pag. 27. — THesauro, Op. cit., pag. 620.
(6) BoraHINI, Op. cit., pag. 128. — Davanzati, Op. cît., pag. 25-26.
(7) Id., Op. cit., pag. 174.
(8) Davanzati, Op. cit., pag. 25.
(9) Gasparo ScarurFI, Discorso sopra le monete e della vera proporzione tra l'oro e l’argento
(L’Alitinonfo ece.), nella Raccolta Cusropi, P. Ant., tomo II, pag. 81-82.
(10) Jo. BaprIsta Corazzario, Tractatus de augmento monetae, Romae 1641, pag. 13.
(14) TaesauRro, Op. cit., pag. 630.
(12) Davanzati, Op. cit., pag. 29.
208 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
In principio il denaro veniva dato per quantità e peso semplicemente, poi vi fu
impresso un segno in diverso modo, secondo i luoghi e i tempi (1). Anche oggi però
può venire speso, come dice il Sora, in senso stretto a pecunia numerata, in largo
secondo il peso, numero e misura, e in larghissimo come ogni cosa materiale (2). L’im-
pronta, dice TesauRO, fu ritrovata per conoscere le monete e distinguerle tanto secondo
le provincie come secondo il valore, con l’immagine del principe per suo onore e per
distogliere i malvagi dal falsificarla (3). Ed è in facoltà del principe, così il DAavan-
zati, di dare alla moneta la forma che vuole, basta però che esso non tocchi la so-
stanza, ove non ha potere, cioè non faccia moneta che dei tre metalli e non le dia
mentito pregio (4). Lo ScAruFFI vorrebbe che nel conio fossero notate tre cose: il vero
e real valore, la lega e la finezza, e la quantità di monete necessaria per fare una
libbra; e crede utile che l’impressione sia differente a seconda del valore, acciocchè
i meno pratici non abbiano a scambiare una moneta con l’altra (5).
I valore del denaro, secondo Scaccia e Sora, è in proporzione della bontà in-
trinseca della materia con cui è fatto (6); ma siccome tutti i paesi, aggiunge TuR-
BoLo, hanno traffici e comunicazioni fra loro, così la moneta viene ragguagliata al prezzo
dei cambi, i quali la fanno valere ora più e ora meno (7). Tant'è vero che la fiera
di Piacenza, che si fa ogni tre mesi e che dà norma per i cambi di tutta Europa,
è quella che determina il prezzo dell’oro e dell’argento ovunque (8). Le monete d’ar-
gento con quelle d’oro hanno stabilita proporzione e giusta convenienza fra esse, da
antichissimo tempo ordinata ed osservata (9). E lo ScARUFFI in modo più assoluto dice
che la proporzione fra i due metalli è sempre da 12 a 1, perchè data così dalla
natura. (10).
Ed ora prima di procedere oltre, gettiamo uno sguardo retrospettivo su queste
nozioni generali della moneta, dateci dagli scrittori di quest’epoca, per giudicare il
merito che essi hanno nel determinare lo scopo, l’origine e la definizione del danaro,
i metalli con cui viene abitualmente fabbricato, la forma e il conio che più gli con-
vengono, il suo valore ed. insieme il valore della materia. È un fatto innegabile che
le nostre citazioni provano chiaramente, come gli scrittori di questo periodo conosces-
sero a fondo l'argomento, giacchè nel trattarlo si tengono lontani dagli errori econo-
mici dei secoli precedenti, ed espongono le loro idee in modo che potrebbero far
buonissima figura anche in un moderno manuale di Economia politica. Gl’inconvenienti
del baratto semplice di cosa con cosa, la necessità dell’uso della moneta e le diverse
trasformazioni che ha subite per sempre meglio raggiungere il suo scopo sono benis-
{1) Corazzarto, Op. cîit., pag. 12. — Davanzati, Op. cit., pag. 25.
(2) SoLa, Op. cit., pag. 532. 5
(3) Tesauro, Op. cit., pag. 622.
(4) Davanzati, Op. cit., pag. 84.
(5) Scarurri, Op. cit., pag. 120 e 129.
(6; Siaismwonpo Scaccia, Tractatus de Commerciis et Cambio, pag. 324. — Sora, Op. cit., p. 54I.
(7) Gian Donato TursoLo, Discorso sulla rinnovazione della lega delle monete del regno di Na-
poli, nella Raccolta Cusropi, P. Ant., tomo I, pag. 4193-94.
(8) TurBoLo, Discorso a’ signori della Giunta de’ Banchi e della Zecca sopra le monete del
regno, cambio d’extra regno ed altri particolari, pag. 272.
(9) TursoLo, Discorso sulla rinnovazione ece., pag. 191.
(10) ScarurFI, Op. cit., pag. 84-85.
DI CAMMILLO SUPINO 209
simo spiegate da parecchi fra i nostri autori. Esatte sono le distinzioni del Corazzario
fra moneta effettiva e moneta immaginaria e del Davanzati fra moneta reale e rap-
presentativa. Non ugualmente esatta però è l’affermazione dello ScarurFI che la pro-
porzione di 1 a 12 fra l’oro e l’argento sia naturale ed immutabile, affermazione che
rileva in lui mancanza di senso storico e che i fatti successivi si sono presi l’incarico
di dichiarare erronea.
Ma quantunque riconosciamo i meriti degli scrittori da noi citati relativamente
alle nozioni fondamentali sulla moneta, dobbiamo però confessare che molto era già
stato fatto da autori di epoche antecedenti. Dell’importanza del denaro come mezzo
di scambio parla Aristotile nella sua Politica (1); il giureconsulto Paolo descrive
esattamente gl’inconvenienti del semplice baratto, facendo risaltare la necessità dell’uso
della moneta (2); i Canonisti discutono sulle diverse specie di essa, sulla materia
con cui deve esser fatta, sul valore che ha e sul diritto di coniarla (3). Nicola Oresme
incomincia la sua opera col dire che gli uomini con i lorv beni furono da Dio sparsi
e divisi, e siccome ognuno mancava di qualche cosa e abbondava di qualche altra,
nacque lo scambio sotto forma di baratto. « Mais, comme en ceste manière de per-
mutacion et changement des choses, moult de difficultez et controversies aveinssent entre
eulx, les hommes subtilz trouvèrent ung usaige plus legier, c'est assavoir, de faire mon-
noie, laquelle fust instrument de preuver et marchander les ungs aux autres leurs na—
turelles richesses. » In principio, seguita Oresme, la moneta venne data a peso, poi
per evitare la noia del pesare e saggiare, fu inventato il conio (4). Copernico fa
uguali considerazioni su questo argomento e definisce la moneta: oro e argento coniato
che serve a determinare il prezzo delle cose che si comprano e che si vendono (5).
Gabriele Biel enumera i caratteri distintivi della moneta, dicendo che essa deve essere
facilmente trasportabile, di valofe poco variabile, di peso certo, di materia preziosa,
« ut multus valor posset in parvo loco reponi » e divisibile in parti anche minute (6).
Press'a poco ugualmente scrive Giorgio Agricola (7) e così pure, più tardi, Bornitz,
citato anche dal Davanzati, si diffonde a parlare sull’uso e l'origine della moneta e
sui metalli coi quali viene coniata (8).
Ma per non andare troppo in lungo con le citazioni di altri tempi e di altri
paesi, bastino queste per dimostrare, che, se gli scrittori italiani dalla seconda metà
del cinquecento alla prima del seicento svolsero con chiarezza e profondità le nozioni
fondamentali sulla teoria della moneta, non sono però del tutto originali, perchè ave-
vano davanti a loro un ricchissimo materiale, di cui si sono largamente serviti.
Maggiore originalità spiegano gli scrittori italiani di questo periodo nel trattare
delle falsificazioni e del disordine delle monete, e dei mezzi per porvi rimedio.
(4) AristoTILE, Trattato de” Governi, I, 6, pag. 29.
(2) Digesto, Lib. XVIII, tit. I, 4.
(3) Enpemann, Canonistische Lehre, pag. 73-78.
(4) NicoLe ORESME, Petit traictie de la premidre invention des monnoiss, publié par L. WoLowsRI,
Paris 1864, pag. vili=ix e XVII.
(5) Copernico, Monete cudende ratio, ed. cit. del WoLowSsEI, pag. 48-50.
(6) RoscHER, Geschichle ecc., pag. 25.
(7) Id., Op. cit., pag. 50-54. .
(8) Id., Op. cit, pag. 188-90. — Davanzati, Op. cit., pag. 25»
Serie II. Tom. XXXIX. ; 27
210 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
Era invalso l’uso già da parecchio tempo che i principi, quando si trovavano in
ristrettezze finanziarie, diminuivano il peso delle monete, pur conservandone il conio
e la denominazione, coll’idea che i sudditi le avrebbero accettate ugualmente e al prezzo
arbitrario indicato sull’impronta. In Francia, secondo quanto dice Roscher, lo sper-
pero delle finanze, trasformato in male cronico per le prodigalità della Corte e per i
disastri della guerra, aveva spinto ad alterare la circolazione, facendo ora diminuire,
ora accrescere il titolo delle monete, secondo che la Corona aveva in vista la spesa o
l’entrata. Durante il solo anno 1348 non si contarono meno di undici variazioni nel
tasso monetario, l’anno seguente nove, nel 1351 diciotto, nel 1353 tredici, nel 1355
di nuovo diciotto (1). Ma per parlare dell’epoca che noi studiamo, Giacomo Soranzo,
ambasciatore veneto in Inghilterra nel 1554, racconta che Enrico VIII per ritrovare
denari abbassò le monete di un quarto del loro valore e che dopo la di lui morte
i consiglieri le. abbassarono sempre più. E come se questo non fosse abbastanza, i si-
gnori del regno si accordarono fra loro e si misero a coniar monete deteriorate in gran
quantità a loro benefizio, facendo nascere così una confusione straordinaria nei prezzi (2).
E pare che allora la falsificazione della moneta formasse ovunque soggetto di studi e
di ricerche, perchè Michele Soriano, nella sua relazione di Spagna, racconta che un
certo Della Rocca aveva trovata un’industria, messa in opera poi da un Tedesco di
Malines, che consisteva nel fare 6 once-di argento con un’oncia di certa sua polvere
e sei di argento vivo (3).
Questo morbus numericus, come lo chiama argutamente il Pecchio, invadeva allora
tuttii paesi dell'Europa, rendendo difficili le contrattazioni, portando continui spostamenti
nella ricchezza dei privati e danneggiando enormemente il commercio; era naturale
dunque che gli scrittori se ne preoccupassero, studiando a fondo l’argomento, era natu-
rale che questa parte della teoria della moneta fosse la più ampiamente trattata in
quest'epoca.
Il denaro, dice il DAvANZATI, assomiglia al sangue, ed è necessario che in ogni
stato ne giri una certa quantità e di qualità buonissima. Invece, per la cupidigia dei
principi, la moneta va sempre peggiorando : si leva un grano dal peso, pensando che nes-
suno se ne accorgerà; le zecche vicine fanno altrettanto; dopo un certo tempo sì dimi-
nuisce di nuovo il peso e così fino al punto che si arriva ad avere una moneta che ha per-
duto più del terzo del suo valore. Il danno è manifesto, perchè quando la moneta peggiora,
di tanto diminuiscono le entrate pubbliche; chi meno metallo ha meno cose può com-
prare e così tutto rincara; giacchè vendo vuol dire verga e do, onde chi vende vuole
avere quel dato peso di oro o di argento e non meno. Il principe deve dunque far
coniare monete buone, e non tema, come credono alcuni, che peggiorando i vicini le
loro, le sue spariscano, perchè la buona moneta a chi fuori la porta non si dona,
ma gli costa per buona; ed il paese non potrà mai essere vuotato d’oro, perchè il
cambio livella e ragguaglia le monete di tutti i paesi. La zecca dunque dovrebbe ren-
dere la stessa quantità di metallo che riceve per monetare, levando solo la piccola
(1) RoscHER, Ein grosser Nationalòhonom. des XIV Jahrhunderts, pag. 318, nella Zeitschrift fr
die gesammte Staatswissenschaft, XIX Jahrgang.
(2) Relazioni delli Ambasciatori Veneti, Serie I, vol. Ill, pag. 64.
(3) Za. Venete, Serie I, vol. II, pag. 367.
DI CAMMILLO SUPINO 211
spesa del conio e facendo tutte le operazioni davanti al pubblico, acciocchè il popolo
vedesse il fatto suo, altrimenti s'impedirà talmente il commercio, che diventerà forse
meglio spendere l’oro a peso come nei tempi antichi (1).
Ma idee più profonde e più nuove su questo argomento sono svolte dal reggiano
Gasparo ScarurrIi. Ogni disordine nelle monete, egli dice, potrà correggersi quando
sì ordinerà che invece di pagare i debiti a conto si calcoli solo la quantità e pu-
rezza dell'oro; e così pure si faccia dalli zecchieri un assaggio delle monete già esistenti
e se ne stabilisca la tariffa in proporzione delle nuove. Dal peso non deve esser levata
la fattura; ciascuno deve spendere del proprio per far coniare e avrà così interesse
di presentare oro finissimo per aver più valore in meno massa. Si otterranno in tal
modo quattro vantaggi: non si prenderà mercede per il conio; si toglierà la diversità
delle leghe e delle finezze; non si avrà più instabilità nei pesi e nei prezzi da una
provincia all’altra, e si potrà conteggiare giusto colle monete di tutti i paesi (2).
L'oro e l'argento, finchè non sono monetati, sono una mercanzia come ogni altra,
poi no, perchè diventano base e misura di tutti i contratti. Ora i metalli sono stati
fino a qui coniati in ogni città con ordini diversi, ma quando se ne faranno monete
nuove, indicandovi sopra il valore, la lega o finezza e il peso, quelle si potranno allora
chiamare e saranno davvero misura unica, giusta, reale, comune a tutte le genti,
servibile in ogni luogo, per ogni specie di contratti. Ciascuno potrà cedere le monete
al valore reale, facendosi pagare in più la spesa di zecca; e così, mantenendo il peso
sempre uguale, si faciliteranno gli scambi, senza che i mercanti abbiano bisogno di
pesare per fare i pagamenti. Oltre di che si potranno mandar le monete da un luogo
ad un altro, perchè avranno ovunque valore secondo il peso e il fino e non secondo
una rata convenzionale. Siccome poi l’oro e l’argento, tanto monetati che no, avranno
lo stesso valore, nessuno serberà le monete nella speranza che aumentino di prezzo,
nè le porterà in altro luogo per spenderle con più vantaggio , e così non succederà
più che un paese rimanga sprovvisto del suo mezzo di circolazione.
Esisterà dunque in tal modo una sola moneta imperiale, colla quale verranno
regolati i pagamenti fatti anche con altre monete, perchè in ogni città sarà osservato
l’ordine descritto, cioè una stessa forma, una stessa lega, uno stesso peso, uno stesso
numero, ed uno stesso titolo di valore (3). I principi non dovranno permettere che
si coniino monete altro che secondo gli ordini universali, cioè sotto una regola sola,
e ordineranno che le loro entrate e il pagamento dei dazi sieno riscossi in monete
d’oro e d’argento puro. Perchè essendo .i metalli preziosi coniati per uso generale, è
cosa molto necessaria e di grandissima importanza che per essi vi sia un solo peso
e un sol prezzo generalmente, come se il mondo fosse una sola città o monarchia,
nella stessa guisa che si fa per i numeri, i quali sotto una regola sola servono per
tutto il mondo (4). i
Lo ScarurrI conclude quindi il suo lungo e prolisso discorso , che noi abbiamo
brevemente riassunto, coll’esporre i vantaggi che risulteranno dalle sue proposte, i
(41) Davanzati, Op. cît., pag. 36-49.
(2) ScaruFrI, Op. cît., pag. 4100-11.
(3) Id., Op. cit., pag. 136-62.
(4) Id., Op. cit., pag. 239-42.
12 È LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
quali sono dodici: 1° si leverà ogni ragione di disputa per la varietà dei valori dati
alle monete sotto diversi titoli; 2° non si guasteranno le monete, sapendosi che si
getterebbe via la fattura ; 3° sarà impossibile falsificarle a causa della loro bellezza ;
4° non si toseranno, dovendosi esse pagare a peso; 5° non nasceranno differenze nel
dare o ricevere denari; 6° i contratti, quanto a debiti e crediti, saranno chiari, no-
minandosi in essi l’oro; 7° si potrà sempre sapere quanto oro uno deve avere per
un credito vecchio ; 8° non si rifiuteranno monete di luogo alcuno e ciascuno le pren-
derà senza sospetto; 9° chi riceve oro monetato saprà facilmente la sua finezza;
10° si conosceranno i disordini che nascono nel far pagamenti con le monete già
coniate; 11° non si fonderanno più monete vecchie, ma si conierà solo oro in verghe ;
e 12° tutte le monete saranno conosciute da qualunque persona (1).
Queste idee dello ScARUFFI, e in particolare la sua proposta di stabilire una zecca
universale con una moneta uniforme per tutti i paesi d'Europa, hanno una grandissima
importanza e rivelano nell’illustre Reggiano una intelligenza elevata e davvero superiore
al suo tempo. Se si pensa infatti all’ ambizione dominante allora in tutti i piccoli
stati di volere ognuno avere una moneta propria, con la propria impronta, deve recar
meraviglia e ammirazione uno scrittore che propone di unificare gl’infiniti sistemi mo-
netari, dimostrando con profondi criteri scientifici i vantaggi di una tal proposta, che
aveva per iscopo di togliere i disordini della circolazione, di facilitare gli scambi e
di promuovere il commercio. E se è vero che il precorrere i tempi è un privilegio
riserbato solo alle menti elette, mente elettissima doveva essere quella di Gasparo
SCARUFFI, che ideava nel cinquecento un progetto che è stato messo in gran parte
in pratica nel nostro secolo con l’unione monetaria latina.
Bernardino PRATISUOLI, contemporaneo e concittadino dello ScARUFFI, ci ha lasciato
un commentario della di lui opera sulle monete, per illustrare le idee in essa conte-
nute e per rispondere alle obbiezioni che quelle potrebbero far sollevare. Se le monete
fossero regolate sotto uno stesso ordine come vorrebbe ScARUPFI, così si esprime il
commentatore, non esisterebbe più l'incertezza che c’è ora sul valore di ciò che si dà
o si riceve; tantochè ora i contraenti sono a guisa di due ciechi che fauno alle ba-
stonate. Perchè v'è chi crede che sia in facoltà del principe di porre il valore delle
monete; e così molti rimangono ingannati, credendo di pigliare o ricevere sotto il
valore della moneta la quantità di peso della intrinseca bontà, e ricevono parole invece
di fatti. Alcuni affermano che, essendo il mondo diviso in tante parti, sottoposte a tanti
e diversi principi, è impossibile fare osservare un ordine solo rispetto ai denari. A
ciò si risponde: se i principi della cristianità convocassero una dieta sopra le cose
delle monete facendo diligenti esami, esse si negozierebbero altrimenti nei regni cristiani
e nei paesi stranieri ; giacchè ora è a tutti manifesto che lo stato delle monete si
trova nella maggior combustione e rovina che giammai si trovasse. E quando in essa
dieta fosse concluso quanto si deve osservare, perchè i popoli non dovrebbero accettare
queste conclusioni? poichè tutte le monete si potrebbero spendere senza perdita in tutti
gli stati ? e quali popoli, vedendo i principi seguire con onore questa giustizia, con-
travverrebbero ad una legge tanto utile ? E così pure nessun principe violerebbe certo
(1) ScarurrI, Op. cit., pag. 242-58.
DI CAMMILLO SUPINO 213
la convenzione, perchè i mercanti essendone danneggiati rifiuterebbero le di lui mo-
nete; e il denaro potrebbe essere speso ovunque all’estero per il medesimo valore che
ha in patria, togliendo gl’impedimenti e i danni che oggidì, per causa della diversità
delle monete, si patiscono; dei quali danni può essere testimonio chi fa viaggi per
il mondo (1).
Il SERRA, discutendo i mezzi per far che la moneta si conservi ed entri in uno
stato, ammette che solo le industrie possono far raggiungere questo scopo, e critica
i rimedi che intendono influire direttamente sulla circolazione. È assurdo il crescere
il valore della propria moneta per attrarre la forestiera, giacchè questa o verrà per
comprar robe e poi estrarle e cagionerà penuria, non abbondanza, perchè otterrà
uguale quantità di merci :con meno quantità di moneta; o i mercanti l’adopreranno
per stabilire nuovi negozi nel regno e aggraveranno il male mandando via Je loro
entrate. Nè miglior sistema sarebbe quello di sbassare il peso o la lega della moneta
propria; perchè ciò contraddirebbe alla giustizia, essendo la moneta utile non per la
forma, ma per la materia; perchè potrebbe più facilmente falsificarsi; e perchè, por-
tandola fuori, non si potrebbe spendere che per il valore intrinseco. Oltre a ciò, con
tal mezzo, viene ad essere alterato il prezzo di tutte le cose, tanto del regno come
di fuori, poichè apprezzandosi ogni cosa per la moneta, si altera di altrettanto in
senso inverso il prezzo della roba. E se è vero che abbassando il peso della moneta
se ne impedisce l’esportazione, è vero altresì che in tal modo si danneggia il traffico
che deve esser fatto con l’invio di contanti (2).
Mentre tutti gli scrittori, per rimediare al disordine delle monete, vorrebbero che
esse fossero migliorate, il TuRBOLO propone invece di coniarle con una lega di 5 per
cento, acciocchè non sieno estratte dal regno. Non si deve perdere nel conio, perchè
l’oro e l'argento sono mercanzie come ogni altra, e se si comprano cari e si vendono a
poco mai resteranno nello stato; oltre di che è anche ingiusto che si spenda del proprio
per somministrare comodità al commercio (3). Noi, continua il TURBOLO, siamo cir-
condati da paesi che hanno continuamente alterato il valore della loro moneta, per
cui, continuando a batterla buona, si è causato danno al regno ed utile a chi ha
estratto extra-regno le sue entrate. È utile dunque di coniar moneta con lega, perchè,
mentre questa piccola alterazione non porterà cambiamento nel prezzo delle merci,
assicurerà allo stato la sua circolazione, impedendo l’esportazione dell’oro e dell’ar-
gento (4).
Il BiBLIA espone un suo progetto per fare in modo che la moneta non sia ri-
tagliata. Egli vorrebbe che si coniassero monete con due cerchi, uno dalla parte esterna
col prezzo notato in arabo del suo giusto valore, e un altro più dentro, che inchiuda
più della metà dell’argento, ma vi sia notato meno della metà del prezzo che vale
la moneta intera. Quando essa fosse stata ritagliata, allora non dovrebbe più accet-
tarsi per il valore completo, ma solo per quello segnato nel cerchio più interno. Con
(4) PratIsuoLi, Considerazioni ecc., pag. 253-301.
(2) SERRA, Delle cause ecc., pag. 4137-58.
(3) TurBoLo, Due discorsi sopra la prammatica de’ cambi e valutazione delle monete forastiere,
Raccolta Cusropl, P. Ant., tomo I, pag. 259-66.
(4) TurBoLo, Discorsi a’ signori della Giunta ecc., pag. 274-75 e 298-99,
214 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
ciò si avranno due vantaggi: che si leverà il delitto di tagliar le monete, perchè avendo
il secondo cerchie più argento del prezzo in esso notato, chi le taglierà danneggerà
se stesso; e che la moneta tagliata sarà di miglior condizione che la sana, perchè
la sana contiene solamente il suo giusto valore, la tagliata più (1).
L'’alterazione delle monete è studiata in quest'epoca anche dai giureconsulti, che
investigano in special modo l'influenza che essa esercita nei pagamenti e nei contratti
a lunga scadenza. L’augmentum monetarum, come vien chiamato dai giuristi, è definito
dal TesAuro: l’accrescimento per il quale il valore della moneta una volta stabilito
da pubblica autorità è alterato (2). Il cambiamento, secondo il CoRAZzaRIO e il TEsAURO
stesso, può essere: nella materia, perchè se ne aggiunga o se ne tolga, o perchè la
moneta venga coniata con metallo peggiore, mantenendo uguale il prezzo; nella forma,
quando sì aumenta o si diminuisce il prezzo, mantenendo la materia uguale; nella
materia e nella forma contemporaneamente, quando si cambia il metallo e il prezzo (3).
Ora quando in un contratto sono chiaramente indicate la specie e il numero delle
monete con cui deve essere effettuato il pagamento, questo deve farsi sempre nella,
stessa specie, anche se non sia di ugual peso e bontà (4). Al contrario, quando nel
contratto non si specifica la moneta, il debito può esser pagato per il valore con
qualunque specie di denaro, o in tanto peso d’oro equivalente (5). Se dopo concluso
il patto, la moneta non è più in uso o ha perduta la sua bontà intrinseca diven-
tando più vile, o per aumento diventando migliore, si deve pagare coll’estimazione
della moneta a tempo del contratto, cioè tanta moneta per quanta paghi il debito
stipulato (6).
Ma crederemmo di uscir fuori dal nostro argomento, se volessimo anche solo accen-
nare alle numerose e complicate questioni che si pongono i giureconsulti di quest'epoca
sull’alterazione delle monete; termineremo piuttosto, dando un brevissimo cenno delle
idee che prevalevano in questo tempo nella legislazione monetaria.
Le leggi principali su questa materia nella Toscana (7) e nel Piemonte (8) sono
dirette a fissare il valore delle monete in corso; quelle del Napoletano si prefiggono
per iscopo di rimediare al disordine della circolazione, sia ritirando le monete calanti (9),
sia proibendo l’ esportazione della moneta buona e la ricettazione di quella deterio-
rata (10), sia vigilando su quelli che lavorano oro e argento per toglier la possibilità
di fabbricar monete false (11), sia infine coniando monete di giusto peso per somme
piuttosto rilevanti (12). Severissime sono poi in tutte le parti d’Italia le leggi contro
(1) BrsLia, Discorso sopra l’aggiustamento ecc., pag. 6-9.
(2) Tesauro, Op. cît., pag. 618.
(3) Corazzario, Op. cit.,. pag. 14. — Tesauro, Op. cit., pag. 620.
(4) ld., Op. cît., pag. 1.
(5) Id., Op. cit., pag. 3. — Tesauro, Op. cit., pag. 638.
(6) Id. Op. cit., pag. 2. — Scaccia, Op. cit., pag. 328.
(7) Cantini, Legislazione, vol. II, pag. 274-76, 384-85 e 385-89; vol. III, pag. 93 e 4134 35;
vol. IV, pag. 32-33; vol. V, pag. 60-61. i
(8) BoreLLI, Editti, pag. 317 a 383.
(9) Praymaticae, Edicta, Dacreta ecc., vol. I, pag. 324-25.
(10) Za, ecc., vol. I, pag. 547-48 e vol. II, pag. 510-143.
(11) Op. cît., vol. II, pag. 5418-49.
(12) Op. cît., vol. II, pag. 520.
DI CAMMILLO SUPINO 215
i falsi monetari, i quali sono puniti in Piemonte con dieci anni di galera (1), nel
Trentino colla decapitazione per i nobili e il rogo per i popolani (2), nelli Stati pon-
tifici colla pena dell'ultimo supplizio (8) e con condanne press'apoco uguali nel Na-
poletano (4) e nella Sicilia (5).
Ed ora dovendo formulare un giudizio sulle idee degli economisti italiani di quest’e-
poca relativamente alla moneta, possiamo asserire che esse sono di una grandissima
importanza, e dimostrano negli scrittori che le sostenevano una decisa superiorità ri-
spetto ai loro contemporanei di altri paesi, che hanno trattato lo stesso argomento.
Per convincersi della verità di quest’asserzione, basta leggere le teorie erronee sulla
moneta sostenute da Sully (6), o quelle confuse e poco esatte di Bodin (7), che
pure era il più grande politico della sua epoca, o la leggera e breve disgressione sulle
monete che per incidenza fa il Montchrètien (8). Certo Tilemann Friesen ci da delle
nozioni generali esatte ed una buonissima definizione della moneta, ma il suo libro
| è scritto dal punto di vista numismatico più che da quello economico (9); il Budelius
tratta la questione giuridica del mutamento delle monete, ma dopo che l'avevano trat-
tata tanti altri scrittori (10), ed il Bornitz è dotto, ma poco originale (11). Così pure
gli autori olandesi di questa epoca, alcuni dei quali occupano un posto importantis-
simo nella storia economica, hanno la mente troppo offuscata dalle idee mercantiliste,
e Mieris, Salmasius, Wassenaer, Pestel, ecc., trattano talvolta bene della moneta, ma
sostenendo spesso teorie erronee e dimostrandosi, a quel che ce ne dice il Laspeyres,
poco penetrati dell'argomento su cui scrivono (12).
Non possiamo dunque convenire col Ferrara, che anche nella teoria della moneta
trova superiori gli scrittori stranieri. Certo egli ha ragione quando si scaglia contro
il Bianchini, che chiama Genovesi fondatore della scienza economica e gli dà la prio-
rità su Smith (18); ma non ha ugualmente ragione, almeno a nostro vedere, quando
dà la preferenza a Budelius e a Bodin sopra ScaruFrFI e DAvANZATI (14). Perfino gli
scrittori stranieri di cose economiche non mettono in dubbio la superiorità degli Ita-
liani di quest’ epoca sull’argomento delle monete. E se il patriotismo non deve mai
far velo nelle discussioni scientifiche, d’altro lato dobbiamo evitare di diventare ingiusti
per far mostra d’imparzialità.
Non neghiamo, e l’abbiamo già detto, che, per quanto riguarda le nozioni gene-
rali della moneta, molto era già stato fatto da scrittori di altri tempi e di altri paesi,
(1) Leggi e Costituzioni di S. M., Torino 1729, vol. II, pag. 185-90.
(2) Statuti di Rovereto, pag.10-11 e 327.
(3) Statuta almae urbis Romae; pag. 625-26.
(4) Pragmaticae ecc., vol. II, pag. 5410-32.
(5) Pragmaticarum regni Siciliae ecc., vol. 1, pag. 401-9.
(6) Bonwat, Sul économiste, pag. 68-75.
(7) BaupRILLART, J. Bodin et son temps, pag. 494-503.
(8) Duvar, Memoire ecc., pag. 79-80.
(9) RoscHER, Geschichte ecc., pag. 149. i
(10) RenERI BupELIUS, De monetis et re nummaria (1591), nella Raccolta già citata del Tesauro.
(11) RoscHER, Op. cît., pag. 187.
(12) E. Lasperres, Geschichte der volkswirthschafflichen Anschauungen der Niederlinder und
threr Litteratur zur Zeit der Republik, Leipzig 1863, pag. 285-90.
(13) FerRARA, Prefazione alla Biblioteca dell’Economista, Serie I, vol. 1II, pag. 33.
(14) Pref. cit., pag. 58-59.
216 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
cosicchè se si vuole contestare l’originalità degli Italiani, si può risalire fino ad Ari-
stotele. Ma per quanto si riferisce alla funzione della moneta, alle qualità che la fanno
essere il miglior mezzo di scambio e agli inconvenienti risultanti dalle sue alterazioni,
lo storico dell'Economia politica deve tenere in gran conto diverse delle opere da noi
citate, le quali chiaramente dimostrano la superiorità degli scrittori italiani di questa.
epoca, nel trattare questa parte importantissima della circolazione della ricchezza.
CAPITOLO VIII,
Il cambio.
« Cambiare, così incomincia il suo trattato Romualdo CoL1, è commutare una
cosa per un’altra da quella differente: onde ne segue che il cambio sia una commuta .
d'una cosa per un'altra da quella differente, ma di uguale valore, parlando del cambio
in comune e in generale. Cominciò il cambio nel principio del mondo; quando uno
aveva bisogno d’una cosa per poterla possedere ne dava un'altra. Dava una casa per
un campo, grano per olio, un mantello per un vitello e insomma dava quello che gli
sopravanzava per quello che gli mancava. Or perchè questo cambio non era sufficiente
ai bisogni umani, imperciocchè non potevano serbar le loro merci come grano e vino
ne meno portarle in luoghi lontani ove si potessero cambiare con altre cose a loro
necessarie fu trovata la moneta acciò fosse la misura e il prezzo delle cose che si
dovevano commutare e fu improntata con l’impronta del principe, o della repubblica
acciò non si potesse adulterare. Ora colla moneta si fece il secondo cambio il quale
fu poi chiamato compra e vendita. E perchè le monete erano tra loro differenti, quale
era d’oro, quale era d’argento e chi di bronzo; altre erano maggiori altre minori;
altre ricevute altre riprovate s’incominciò a cambiare le monete, quella d’oro per
quella d' argento, la maggiore per la minore. E quindi ebbe origine il terzo genere
del cambio d’ una impronta per un’ altra. Occorse poi a caso che uno portò danari
(come scudo d’oro) dalla sua patria in un’altra. E vedendo che quivi valevano più,
incominciò a portarne assai e guadagnare e per questa via s’introdusse il cambio da
un luogo all’altro. Il primo cambio ha mantenuto il suo antico nome di commuta o
permuta. Il secondo di compra e di vendita. Il terzo (quando si commuta una mo-
neta per un’altra) si domanda cambio e di quello abbiamo a ragionare (1). »
Ma il cambio non si limita alla sola permuta delle monete; esso, come dice il
BuoNINSEGNI, è stato ritrovato per comodità delle merci e dei negozi, affinchè colui
che porta le merci in altra provincia possa cambiare il suo denaro e commutarlo con
quello che dal medesimo luogo cava merci (2). Se devo riscuotere mille scudi in Pa-
lermo, così il GIUSTINIANO, darò ordine che sieno pagati a Sempronio che è un nego-
ziante in detta città di cui io mi fido e scriverò a lui che egli riscuota; e perchè
pervenga tal somma nelle mie mani, gli dirò che la rimetta in Piacenza al mio pro-
(1) Fra Romuatvo Corr, Trattati dei cambi e dell'usura, Firenze 1623, pag. 8-10.
(2) Tommaso BuoninsaGnI, Trattato dei traffichi giusti et ordinari ecc. Delli Cambi, pag. 51.
DI CAMMILLO SUPINO 217
curatore, il quale la riscuoterà per me al tempo della Fiera (1). Il cambio dunque,
secondo anche il Davanzati, non è altro che dare tanta moneta quì a uno perchè è
te ne dia tanta altrove o la faccia dare dal commesso suo al tuo. Cominciossi a fare
alla pari, poi venne l’uso di pagar un interesse per l’intervallo di tempo fra un pa-
gamento e l’altro, onde ne nacque un'arte apposta, dando alcuni denaro a cambio
non per averli altrove, ma per riaverli con utile, il che però rese più facile il trovar
cambio per fuori (2). Quest'ultima specie di cambio vien chiamata dai giureconsulti
seguaci del diritto canonico cambio secco, cioè tutto arido, perchè i denari dati in
un luogo dopo lungo giro vi ritornano e si riscuotono nella stessa moneta, mancando
così le ragioni che giustificano il cambio reale (3), e in tal modo la distanza fra il
dare e ricevere denari si riduce a distanza non di luogo, ma di tempo (4).
Il cambio dunque, riassumendoci colle parole del Corr, si fa per diversità nei
denari (cambio minuto), per diversità di luoghi (cambio per lettere) e per diversità
di tempo (cambio secco) (5).
Il cambio per lettere è la forma più importante, perchè in tal modo si trasporta
virtualmente da luogo a luogo con sicurezza e si commuta una moneta presente per
un’altra moneta di luogo assente veramente lontana. Il cambio si può pagare a vista,
in fiera, o a termine di tanto tempo, e si può fare in quattro modi: da luogo alla
fiera, dalla fiera a luogo, da fiera a fiera e da luogo a luogo (6). In ogni cambio
reale devono ‘essere otto parti: due pagamenti, due luoghi e quattro persone. In Fi-
renze, per esempio, À paga B, in Lione C a D; A rimette la lettera di cambio
a D, B trae per la valuta di A su C (7).
Le formole usate in quest’epoca per le lettere di cambio sono moltissime e svariate,
tantochè nel libro dello Scaccia si trovano più di dieci pagine in quarto di citazioni
di modelli (8). Noi, per darne un’idea, prenderemo la forma più semplice e più co-
mune, che contiene gli elementi fondamentali necessari a costituire la lettera di cambio :
Al magnifico Giacopo dal Castello
a Piacenza fiera de’ Santi.
1621, a 8 di novembre in Genova Sc. 4730. 10.2 di Marche.
In pagamenti della prossima fiera dei Santi pagate per questa prima di cambio
a Tiberio Gracco, scudi quattromila settecentotrenta, soldi dieci, e danari due di Mar-
che per la valuta havuta qui nel Cartulario d’oro, da Pietro dal Forno e ponete a
conto mio, a Dio
Vostro Angelo da Todi (9).
(1) Don BrrnarDo GiustINIaNO, Breve trattato delle continuationi dei cambi, in cui si esaminano
alcune moderne foggie di cambiare, si mette la pratica e si dichiarano i termini de’ cambisti, Mon-
dovì 1624, pag. 5.
(2) Davanzati, Breve notizia dei Cambi, nella Raccolta Cusropi, P. Ant., tomo Il, pag. 54-55.
(3) BuowninseenI, Op. cît., p. 58-59. — Davanzati, Op. cit., p. 67. — Giustiniano, Op. cit., p. 47.
(4) Cori, Op. cit., pag. 82. — Scaccia, Op. cit., pag. 111.
(5) Id., Op. cit., pag. 11.
(6) Id., Op. cit., pag. 15-21.
(7) Davanzati, Op. cit., pag. 63-64.
(8) Scaccia, Op. cit., pag. 113-26.
(9) Giustiniano, Op. cit., pag. 8.
SeRrIE II. Tom. XXXIX. È 28
.
218 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
Il Cartulario d’oro, come ci spiegano il Giustiniano e lo ScAccIA, era un registro
tenuto in una sala del banco di S. Giorgio dove si contrattavano i cambi e si con-
servavano i documenti a garanzia del pagamento della tassa relativa e per cautela dei
cambiatori (1). Le fiere poi erano quei luoghi, per il solito liberi da ogni dazio,
dove convenivano in uno stesso tempo da ogni parte mercanti per vendere e com-
prare e dove si facevano i saldi dei cambi. In Italia le fiere erano quattro: « la
prima dopo la Risurrezione, la seconda ai primi di agosto, la terza dopo l'ottava di
tutti i Santi, la quarta dopo l’ottava dell'Epifania detta dai mercanti la fiera dell’ap-
parizione (2). »
Da che cosa è determinato il prezzo di una lettera di cambio? Il contante, dice il
DAVANZATI, corre come acqua nei luoghi più bassi e viene e va secondo che una piazza
ne diviene asciutta o traboccante, per ciò il cambio non si può stabilmente discostare
dalla pari come meta. I prezzi del cambio però vanno in su e in giù secondo le stret-
tezze e le larghezze e secondo che richiede l’utile che dee porgere il cambio (3). Se
in un luogo dunque, aggiunge il BuoNINSEGNI, vi sono molti che bramano trasportare
il loro denaro in quei luoghi per dove si fanno cambi, la marca è stimata meno; dove
molti vogliono trarre, i denari sono più cari e se ne danno meno per comprare una;
marca. E in quanto che nello stesso giorno vi sono quelli che trasportano e che trag-
gono, e i primi meno stimano e i secondi cercano di accrescere il prezzo, così esso
si stabilisce a quel punto in cui gli uni e gli altri si accordano (4). Siccome poi fra i
diversi luoghi non v'è uguaglianza di monete, nè restando sempre queste dello stesso
valore, siccome a trasportare il denaro vi sono pericoli e spese, così è giusto che il
prezzo del cambio sia tale da dare per tutto ciò un compenso a quello che s’incarica
di fornire le lettere (5). D'altronde quando si baratta olio per vino, per esser l’olio
di maggior valore, si dà tanto di più di vino, così è naturale che cento scudi posti
in Roma debbano valere più che cento posti in Siviglia (6).
Ma mentre gli scrittori di quest'epoca avevano idee così giuste sul cambio, fa
meraviglia il leggere una prammatica di Napoli, emanata il 30 Giugno 1607, in cui
deplorandosi i prezzi eccessivi ai quali erano saliti i cambi, con grave danno del com-
mercio, si stabiliva quanto dovesse essere pagato il cambio con le principali città
d’Italia (7). Ma più meraviglia ancora fa il leggere un’altra prammatica dell’8 No-
vembre dello stesso anno, in cui si afferma, che essendo stato necessario far grosse
provviste di grano per mantenere l’abbondanza nel regno e dovendosi fare grandi pa-
gamenti all’estero, si sospende per un anno la prammatica precedente che sarebbe
stata d’impedimento e di difficoltà ai negozi (8). Anche qui, come nella determina-
zione dei prezzi, mentre gli scrittori dimostrano che il cambio è soggetto a variare
(1) Giustiniano, Op. cit., pag. 9. — Scaccra, Op. cit., pag. 460.
(2) Cori, Op. cit., pag. 20.
(3) Davanzati, Op. cit., pag. 69.
(4) BuoninsEGnI, Op. cit., pag. 66-73.
(5) Id., Op. cit., pag. 52.
(6) Corr, Op. cit., pag. 43.
(7) Pragmaticae, Edita, Decreta ecc., vol. JI, pag. 433-34.
(8) Id., ecc., vol. II, pag. 434-35.
DI CAMMILLO SUPINO 219
per diverse cause, lo stato vuole stabilirne il corso per legge; anche qui, come nella
legislazione commerciale, prevalgono gli stessi criteri di opportunismo, secondo i quali
si accetta come base di politica economica ora un sistema ed ora un altro totalmente
opposto.
Le contrattazioni dei cambi si facevano in luoghi stabiliti, a somiglianza delle
attuali borse di commercio; e come oggi, delegati appositi erano incaricati di for-
mulare il listino ufficiale, colla differenza però che ora esso si deduce dagli affari
fatti, ed allora invece si stabiliva in precedenza come norma degli affari da farsi. Ecco
infatti come regola le contrattazioni dei cambi la stessa prammatica di Napoli già ci-
tata: Ogni giovedì si riuniranno i sei negozianti deputati nel luogo solito e la mattina,
dopo aver veduto le lettere d’avviso di tutte le piazze d’Italia e considerato i prezzi
e lo stato di questa piazza e delle altre e gli accidenti che possono offerirsi secondo
lo stato e i bisogni dei negozi, e consultati anche altri negozianti, stabiliranno il prezzo
del cambio che dovrà durare per una settimana fino al Mercoledì seguente. Niuno
potrà contrattar cambi prima che sia fatto questo conto. È proibito cambiare a prezzi
maggiori da quelli stabiliti. Non è permesso girare lettere di cambio più di una volta.
Nessun negoziante potrà dire che possiede moneta a tal prezzo, nè lettere a tal prezzo,
prima che sia dichiarato il conto dei deputati (1).
Se si esclude la determinazione del prezzo fissato legalmente con l’obbligo di
tenerlo a norma nelle contrattazioni, tutto il resto di questo ordinamento per i cambi
ha, come abbiamo già detto, una grande somiglianza con gli affari di borsa che si
fanno oggi sui valori. E a rendere più marcata la somiglianza, sappiamo che sui
cambi si facevano delle contrattazioni a termine punto differente dai moderni giuochi
di borsa; tantochè nello statuto dei Mercanti di Lucca si proibisce questo genere di
scommesse con tali parole: « Ordiniamo che nessuna persona di che stato, grado,
sesso, o conditione si sia possa far scommesse, o alcun partito sopra i cambi per il
ritorno di Lione, Piacenza, o di qualsivoglia altro luogo sotto qualunque modo, forma
o quesito colore sotto pena di multa, e che questi partiti sieno di nullo valore e di
quelli non se ne possa render ragione in alcune corte della città (2). » Ed anche
questo come ai nostri tempi, in cui la legge non interviene per garantire o far ri-
spettare i contratti di borsa.
Ma la questione che maggiormente occupa gli scrittori di quest'epoca, nell’ar-
gomento che trattiamo in questo capitolo, è quella della legittimità del cambio. È
noto che il diritto canonico riprovava qualunque contratto che avesse per oggetto il
puro denaro; il cambio è certo fra i contratti di questa natura, ma come proibirlo,
mentre tutti riconoscevano la sua grande importanza e i vantaggi immensi che ap-
portava al commercio ? Si ricorse ai sofismi e ai cavilli curialeschi; e i giuristi e gli
ecclesiastici che scrissero sul cambio si sforzarono di dimostrare che esso non è una
permuta di denaro contro denaro, ma un contratto di compra dello scudo di marca (3).
Il cambio, dice il BuoNINSEGNI, non è prestito nè locazione di opere, ma compra e
(1) Pragmaticae ecc., vol. II, pag. 4935-36.
(2) Li Statuti de la Corte de’ Mercanti dell’Ecc. Repub. di Lucca, in Lucca 1640, pag. 274.
(3) Enpemann, Canonistische Lehre, pag. 40.
220 3 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
vendita, perocchè chi dà, compra tante marche per riceverle in Lione dal ricevente
che le vende. E se il cambio è compra e vendita, è facile riconoscerne la giustizia;
perchè, come le merci lontane si comprano per minor prezzo a causa delle spese ,
degl’incomodi e dei pericoli del trasporto, così ugualmente si possono dare 58 scudi
a Firenze per averne 59 a Lione (1).
Con molto acume parla dell’utilità del cambio il Giustiniano. Molti dottori di
grande autorità, egli dice, condannano i cambi come usurari e contrari alla morale;
ma secondo me essi sono invece fra i contratti più utili e giusti. Perchè trasportando
i mercanti le loro merci da diverse parti del mondo in quelle provincie che di tali
merci sono prive, non essendo tutti i luoghi ugualmente abbondanti di tutte le cose,
ed essendo pure mestiere dei mercanti il trasportare oro, argento e spezierie dal mondo
‘ nuovo ai nostri lidi e riportare agl’Indiani le mercanzie dell’Africa e dell’Europa, ne
nasce che abbiano bisogno di denari in diverse parti di mondo, e per ricchi che sieno
sono bisognosi in Spagna di quel denaro che loro sopravanza in Italia e bramano
avere in Fiandra quel contante che in Sicilia non serve loro; e dove a trasportarlo
ci vorrebbe e tempo, e pericolo, e fatica provvedono ai loro bisogni con prestezza e
facilità grande per via del cambio. In molti regni poi le leggi proibiscono di estrarre
l’oro; col cambio si rimedia senza contravvenire alla legge. Il cambio serve inoltre
a far pervenire i denari con sicurezza a chi ha le entrate in paesi lontani. Il re dei
Turchi risiede a Costantinopoli e guerreggia contro il' Persiano in Asia, contro il re
di Spagna in Africa e contro l’imperatore Ferdinando in Ungheria; per provvedere
ai suoi stati, ai suoi eserciti e alle sue fortezze non ha mezzo più facile, più spedito,
più sicuro del cambio. Stimo pertanto che con ragione alcuni altri dottori salvino e
giustifichino i cambi reali, essendo le fiere di denari lecite e necessarie quanto quelle
delle mercanzie. D'altronde il cambio reale è giusto, se si considera che per ordinario
il cambista dà il denaro presente, contante e libero da ogni spesa e pericolo, e lo
riceve assente, nelle altrui mani, soggetto a molti disastri e alle spese che si richieg-
gono per condurlo a casa (2).
Ma se il cambio come trasporto di denaro da luogo a luogo per mezzo di lettere
era ammesso dal diritto canonico, non lo era del pari quando comprendeva anche
una ricompensa per la distanza di tempo dal pagamento. Il cambio secco, come veniva
chiamato in questo caso, è, secondo il BuOoNINSEGNI, « una prestanza coperta col
mantello del cambio, ma non per questo cessa di essere un’usura (3). >» Il male
del cambio, come dice lo Scaccia, non risiede nella natura di esso, ma nella prava
intenzione di quelli che lo esercitano, non per vantaggio del commercio, ma per ot-
tenere un interesse dal loro denaro (4). Onde il papa Pio V, nella sua costituzione
del 1575, distingue nettamente il cambio reale dal cambio secco, approvando inte-
ramente il primo, e condannando il secondo come contrario alla legge divina (5).
Infatti come si manifesta il cambio secco ? Molti che hanno bisogno di denari li
(4) BuonInsEGnI, Op. cit., pag. 64-65.
(2) GrustINIANo, Op. cit., pag. 28-46.
(3) BuoninseGNI, Op. cil., pag. 70.
(4) Scaccia, Op. cit., pag. 157.
(5) EnpeManN, Op. cit., pag. 42. — Scaccia, Op. cit., pag. 504.
DI CAMMILLO SUPINO 221
domandano ad un cambista, dicendogli di continuarglieli sopra i cambi di Piacenza,
e, rinnovando il credito e il debito, seguitano a tenere i denari, pagando l'interesse (1).
Ma qui, come osserva lo Scaccia, non esiste la ragione del cambio, perchè quello
che manda la lettera sa che colui al quale è inviata non è debitore e glie la re-
stituirà; e così questa lettera continuerà ad andare vacuas et inanes da una città
all'altra, finchè non si vorrà estinguere il debito (2).
Alcuni dicono che questo è cambio e non usura. « Ad essi, ben dice il Giu-
STINIANO, si potrebbe rispondere come quel corsaro, di cui raccontano (Cicerone e
S. Agostino, il quale preso con una fusta con la quale andava corseggiando da Ales-
«sandro Magno che col suo esercito andava in Egitto, fu interrogato per qual ragione
andass'egli inquietando il mare. A cui con gran libertà rispose il corsaro e tu perchè
vai inquietando il mondo? io perchè vado rubando con picciol legno sono appellato
ladro, tu perchè vai facendo lo stesso con un grosso esercito sei detto imperatore.
Ora al proposito, se andasse un Leccese da un altro perchè gli prestasse 100 ducati
per un anno all’8 per cento sarebbe costui un usuraio, ma se va da un altro che
manda innanzi e indietro una lettera da Lecce a Napoli e viceversa e ne prenda in
tal modo 30 e 34 per cento si chiamerà cambista e negoziante. Sarà un contratto
lecito, ma io non la intendo così » (8).
Essendo dunque il cambio pieno di tanti pericoli, conclude il Coni, è meglio
che i negozianti impieghino i loro denari in altri negozi più utili al bene pubblico
e del cambio si servano quanto è necessario e non più. E quando pure alcuni per
privato comodo della loro famiglia vogliono attendere a questo negozio, lo facciano
con ogni verità, sincerità e lealtà, mettendosi innanzi Dio e la sua giustizia (4).
Ma non tutti gli scrittori di quest'epoca trattano l'argomento di cui ora ci oc-
cupiamo dal punto di vista del diritto canonico ; ve ne sono alcuni, che senza entrare
in controversie sulla legittimità del cambio, ne studiano con predilezione gli effetti
economici. E questo studio vien fatto in particolar modo dagli scrittori napoletani,
i quali vivendo in un periodo di tempo in cui la questione più ardente era il disordine
«delle monete nel loro paese, investigano l’ influenza che l’altezza e la bassezza del
cambio esercitano sulla circolazione. Primo fra questi scrittori è senza dubbio il SERRA,
che fa una bellissima analisi del movimento dei metalli preziosi fra le varie nazioni.
De Santis, egli dice, fa originare la mancanza di monete in Napoli dall’altezza
«del cambio; perchè chi avrà da portar denari nel regno, li porterà per cambio e non
per contanti. Ma questa conclusione suppone o che i denari sieno venuti nel regno
prima del cambio o che vi debbano venire, perchè il cambio può girare per un poco,
ma poi deve esser risolto in contanti; ed anche il cambio derivato da un credito 0
da un conto si risolve ugualmente in moneta, perchè questo credito non durerà eterno
e dovrà essere o prima o poi pagato in denari. E se uno ha già questi presso di sè,
« perchè tiene entrate in regno o guadagna con le industrie, a quelle si deve attri-
{4) Grustiniano, Op. cît., pag. 53.
(2) Scaccra, Op. cit., pag. 157.
(3) GrustinIaNno, Op. cit., pag. 69.
(4) CoLi, Op. cit., pag. 9.
222 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
buire perchè non vengono denari in regno, e alla poca diligenza degli abitatori come
si è detto nella prima parte, e non al cambio alto, poichè con quelle entrate e gua-
dagno d’industrie può estrarre le robe senza farvi venire danari nè con cambio nè in
contanti. » Nè si dica che l’altezza del cambio fa uscire la moneta dal regno per
farla tornare con utile per mezzo del cambio, perchè, come abbiamo visto, questo non
può esistere se non si fanno venire i denari (1). Il cambio basso non impedisce che
la moneta esca per le merci che vengono nel regno, e se anche per guadagnare nel
cambio entrassero denari, non vi rimarrebbero, dovendo in ultimo ritornare d’onde sono
usciti con il vantaggio del guadagno (2); e d'altro lato il cambio alto non è affatto
dannoso, onde esso deve essere lasciato completamente libero, come liberi sono tutti
i contratti stipulati volontariamente dalle persone (3).
Ugualmente favorevole alla libertà dei cambi è Gian Donato Tursoto, il quale
chiama questo negozio gelosissimo a segno che non può patir freno anche leggiero non
che grave; onde egli combatte la prammatica emanata in Napoli per ridurre i prezzi
dei cambi, i quali si erano, è vero, alterati in modo straordinario, ma per ragioni
giustissime e ineluttabili (4). D'altronde non è certo, come crede il governo, che
l'altezza del cambio sia dannosa al paese; perchè se fa svantaggio a chi deve ricevere
denari, lo compensa col maggior reddito che ritrae dai suoi beni (5). E se questa
altezza del cambio ha spogliato il regno di tutte le monete buone, questo male è
irrimediabile, perchè chi deve assai non può abbondare di contanti, essendogli forza
di pagare (6). Per far calare il cambio bisognerebbe estinguere il debito che si ha
con gli stranieri, il che è impossibile mancando i denari; o ritirare la moneta cattiva
cambiandola con buona, il che è molto difficile, Meglio è adunque lasciare che il
cambio sia elevato, perchè così chi riceve merce di fuori, invece di pagarla in denari,
preferirà estrarre altre merci dal regno, facendo in tal modo profittare le dogane più
che se il cambio fosse basso (7).
Tdee meno chiare su questo argomento ha Vettorio LuNETTI. L’esportazione e
importazione della moneta, egli dice, si regola secondo l’altezza del cambio, perchè
quando uno ha da pagare, se il cambio è al di sopra della pari, preferirà pagare
con carta di cambio, mentre nel caso contrario pagherà in contanti. Col cambio alto
si ottengono due vantaggi: che chi vorrà merci dal regno le pagherà in moneta, ed
oltre a ciò le merci forestiere saranno pagate col cambio da noi, essendoci più con-
venienza. Per cui si dovrebbe stabilire che le lettere di cambio si facciano a rag-
guaglio della moneta nostra, con differenza del 5 per 100 a nostro benefizio; e in
tal modo si lascierebbe libertà al cambio del regno, vincolando quello dei forestieri e
non permettendoli di pretendere quello che vogliono della loro moneta (8).
(1) SERRA, Breve trattato ecc., pag. 74-80.
(2) Id., Op. cit., pag. 103-4.
(3) Id., Op. cit., pag. 1183-20.
(4) TurBoLo, Due discorsi sopra la prammatica de’ Cambi ecc., pag. 236.
(5) Id., Discorso sulla rinnovazione della lega delle monete del regno di Napoli, pag. 202.
(6) Id., Due discorsi ecc., pag. 242-453.
(7) Id., Op. cit., pag. 255-506.
(8) VerroRrIo LunETTI, Politica Mercantile, in Napoli 1630, pag. 10-20.
DI CAMMILLO SUPINO 223
Dovendo noi ora esaminare le idee degli autori che abbiamo citati in questo
capitolo, giudicheremo separatamente prima quanto si riferisce alle nozioni generali
sul cambio, poi la teoria canonica della sua legittimità e infine le dottrine che stu-
diano l’influenza del cambio sulla circolazione.
E quanto alla prima parte, è un fatto che DAvAnzaTI, BuoninsEGNI, Cori, Giu-
stIiniano e Scaccia ci danno una descrizione del modo con cui si compiono i cambi
chiara, esatta ed elegante. Ma se non discutiamo il merito grandissimo che da questo
.lato hanno tali scrittori, non dobbiamo dimenticare però che essi non fanno che esporci
ciò che vedevano giornalmente sotto i loro occhi, giacchè il cambio esisteva fino dal
secolo xI1 e forse anche prima. Esso, come ben dice il CANTINI, deve essere antichis-
simo come il commercio, perchè essendovi stato il caso che alcuni d’un paese abbiano
avuto debiti e crediti con alcuni d’un altro paese, facilmente hanno pensato di com-
pensare con i loro crediti i debiti a favore dei loro rispettivi creditori (1). Forse
in principio il cambio sorse senza che si potesse osservare, senza che si potesse di-
stinguere da altre forme già esistenti, ma soddisfacendo esso a un vero bisogno del
commercio, crebbe poi organicamente, separandosi dalle altre manifestazioni e sorgendo
a vita indipendente (2).
Ma non soltanto il fatto, anche l’osservazione del fatto non incomincia dall’epoca
che noi studiamo. La triplice classificazione della permuta in baratto, compra e ven-
dita e cambio, così elegantemente esposta dal Coti, si trova accennata da S. Tom-
maso (3). Laurentius de Rudolfis, che scriveva nel 1404, distingue già il cambium
per literas e il cambium siccum; Alessandro Tartagno (1424-77) trova che i cambi
sono leciti, ratione periculi; Ambrogio da Vignate, nel 1460, parla dei cambi e dei
ricambi e distingue un cambio reale ed uno artificiale; S. Antonino arcivescovo di
Firenze (1389-1455) classifica il cambio in minuto, per lettera ed illecito, e Tomaso
da Vio, detto cardinal Gaetano (1499) distingue il cambium justum, injustum e du-
bium, concludendo che anche il denaro è vendibile, ed il cambio è una compra di
denaro (4). E venendo in tempi più prossimi a quelli di cui noi ci occupiamo, po-
tremmo citare un gran numero di altri autori, che espongono più o meno largamente
le nozioni generali sul cambio o che ci dànno la descrizione dei vari modi con cui
si manifesta; ma per non dilungarci troppo rimandiamo il lettore ai trattati di Giu-
STINIANO (5) e di Scaccia (6), che hanno un'estesa bibliografia delle opere su questo
argomento.
Se gli autori di quest’epoca potevano con facilità descriverci il cambio, che
esisteva già da alcuni secoli, se avevano davanti a loro un esteso materiale scienti-
fico, di cui si sono serviti specialmente nelle definizioni e nelle classificazioni, hanno
però il gran merito di avere svolto il soggetto con maggior chiarezza e precisione dei
(4) CANTINI, Legislazione Toscana, Illustrazione al Bando 27 Agosto 1563, vol. V, pag. 44-45.
(2) EnpEMaNN, Studien in der Romanisch-Canonistischen Wirthschafts- und Rechtslehre, vol. I,
pag. 76.
(3) S. Tommaso, Summa Theologica, Patavii 1698, Secunda Secundae, q. 77, a. 4, pag. 494.
(4) Enpemann, Op. cit, vol. I, pag. 138-51.
(5) GiustINIANo, Op. cit., pag. 173 a 236.
(6) Scaccra, Op. cit., pag. 99-102.
224 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
loro predecessori, di avere descritto il cambio nelle nuove forme che via via veniva
assumendo, e soprattutto di avere esposto le cause che determinano il prezzo dei cambi.
E su quest’ultimo punto ci sembrano degni di speciale elogio il DAvanzATI e il Buo-
NINSEGNI per aver con tanta giustezza fatto notare come le oscillazioni nel prezzo dei
cambi dipendano dal rapporto fra la domanda e l’offerta di lettere di cambio per un
dato paese.
Quanto alla teoria canonica, gli scrittori che vi si ispirano difendono, come ab-
biamo visto, la legittimità del cambio e sanno giustamente apprezzare i vantaggi di
questa istituzione commerciale. Il GiustINIANO specialmente descrive con molto acume'
l'utile grandissimo che arreca questo metodo di pagamento nelle più differenti cir-
costanze. Certo a noi deve parere strano, il sentir sostenere che una lettera di cambio
a lunga scadenza debba valere ugualmente di un’altra pagabile a vista; ma dobbiamo
rammentarci, che gli scrittori canonisti non discutono certi argomenti come teoremi
scientifici, ma li accettano incondizionatamente come dogmi religiosi. E siccome quelli
che volevano impiegare i loro capitali e non potevano darli a interesse, perchè la
legge lo proibiva, avevano preso l’abitudine di darli a cambio, facendoli andare in su
e in giù da una città all’altra e togliendo l'interesse sotto forma di provvisione ; così
è naturale che il diritto canonico prendesse molta cura di distinguere questa forma
di cambio dall’ altra, e proibisse una specie di contratto che era un usura vera e
propria. i
Relativamente agli scrittori che considerano il cambio in rapporto alla circola-
zione, dobbiamo far risaltare una cosa assai strana. Ed è che il SERRA, protezionista,
ha un'idea chiarissima dei pagamenti internazionali, e ne spiega benissimo il mecca-
nismo, mettendosi così in contraddizione colla sua dottrina della bilancia del com-
mercio; mentre il LunetTI, favorevole al libero scambio, come abbiamo visto in altro
capitolo, fa la proposta assurda di lasciare libertà per il cambio del regno, vincolando
quello dei forestieri. Ciò dipende dal non esservi allora una scienza economica vera
e propria, formante un nesso di teorie concatenate logicamente; cosicchè ciascuno
scrittore spiegava ogni singolo fatto con criteri speciali o subendo l’influenza di un
“ ambiente particolare e ristretto. Ma se questa eonsiderazione non può essere trascu-
rata dalla critica imparziale, d’altro lato dobbiamo confessare, che gli autori napo-
letani da noi citati espongono delle idee importantissime rapporto alla circolazione
internazionale dei metalli preziosi, dimostrandosi conoscitori profondi, quantunque non
logici e conseguenti, di questa difficilissima teoria economica.
CAPITOLO IX.
Interesse e usura.
La proibizione dell’interesse e dell’usura costituiscono i concetti della teoria eco-
nomica fondamentale del diritto canonico, ma a differenza delle altre tesi sostenute dai
Canonisti, questa ha un largo predominio nell’epoca che noi studiamo ed è accettata
anche da scrittori che non s’ispirano al Corpus Juris Canonici.
DI CAMMILLO SUPINO 225
Il principe, dice Giovanni BotERO, deve guardare d’impedire nel suo stato l’usura,
perchè questa non è altro che un ladroneccio, anzi cosa assai peggiore, che ha rovinato
le città antiche. Che giova al principe il non gravare immoderatamente i vassalli, se
si lasciano consumare dall’avarizia degli usurai, che senza travagliare, nè far cosa onde
ne resulti utilità alla repubblica, consumano le facoltà dei particolari? E non solo dei
particolari, rovinano anche le entrate pubbliche, le quali aumentano per i dazi e i tributi
che pagano le merci. Ora gli usurai vogliono guadagnare sul danaro, vendendo parte
il tempo, parte l’uso della moneta e abbandonano il commercio, ingrassandosi oziosa-
mente dell’altrui. E siccome ad ognuno piace il guadagno senza travaglio, si abban-
donano le piazze, si lasciano le arti, s’ intermettono le mercanzie. La ricchezza del
principe dipende dalle facoltà dei particolari e queste consistono nella roba e nel traf-
fico reale dei frutti della terra e dell'industria, entrate e uscite, trasporti da un luogo
ad un altro. L’usuraio non solo non fa nulla di tutto questo, ma tirando a sè frau-
dolentemente il denaro, toglie agli altri il modo di mercanteggiare (1).
L'usura, così Vito DI Gozzi, ripugna alla natura, perchè con essa un denaro ge-
nera un altro denaro col tempo solo, senza pericolo e fatica, e perchè è contro il
giusto il non osservare una certa egualità nelle cose, come veramente non lo fa l’u-
suraio, il quale manco dà e più riceve (2). L’usura, più efficacemente dice il LoTTINI,
non ha altro fine che di acquistare denari per via dei medesimi denari, il che è
contro la loro natura, essendo essi stati trovati per facilitare gli scambi; onde non
si deve cambiare se non denari a robe e robe a denari, e non mai denari a denari.
Oltre a ciò quelli che li pigliano per fine vogliono che crescano sempre, e così ne
succedono due errori, l’uno di contraffare la natura, che ha voluto che le robe sieno
naturali e terminate come strumenti della vita e non vadino più oltre del bisogno;
l’altro, che avendo l’animo di accrescere il denaro all’infinito, s’'inducono a procurarne
l'aumento con tutti i modi e per tutte le vie, di maniera che conviene che abbiano
quanto a sè l’intenzione di spogliare e impoverire ognuno (3).
Ed il GARZONI così si esprime: presso i Romani i banchieri erano disprezzati
perchè davano ad usura, e Catone, interrogato sulla sua opinione rispetto agli usurai,
rispose che non faceva differenze tra il dare ad usura ed uccidere un uomo. Dicono
i sacri dottori per maggiore detestazione dell’usura, che l’usuraio offende comunemente
tutte le creature, imperocchè egli vende il tempo, che è una cosa comune a tutte
loro (4).
Ma se questi scrittori si limitano a condannare l’usura, ispirandosi a principî
economici e morali e seguendo le tracce di Aristotile, l’impronta. speciale a questa
teoria è data da quelli autori che combattono ad oltranza qualunque contratto che
porti il benchè minimo interesse, dichiarandolo peccato mortale, secondo i dogmi reli-
giosi del vecchio e del nuovo Testamento, e considerandolo come un'azione delittuosa,
secondo i principî della natura e del diritto.
(4) Bormro, Ragione di Stato, pag. 29-31.
(2) Viro pi Gozzi, Dello stato delle republiche ecc., pag. 47.
(3) LortINnI, Avvedimenti Civili, Avv. 556, vol. II, pag. 494.
(4) GarzonI, Piazza universale di tutte le professioni, pag. 548 e 550.
Serie II. Tom. XXXIX. Î 29
226 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
In tali termini, infatti, parla dell’usura il BUONINSEGNI, il quale si lamenta che
ai suoi tempi l’avarizia e la cupidigia del guadagno appresso agli uomini erano tal-
mente aumentate, che le usure delle usure crescevano sempre all'infinito, finchè si
rendeva la somma principale del denaro. E il nostro autore continua: S. Ambrogio
disse di togliere ad usura da colui al quale si desidera nuocere; onde siccome tu non
devi bramare di nuocere ad alcuno, così non devi ad alcuno domandar usura. Ma
non solo secondo la legge, anche secondo la natura, l’usura è vizio disonestissimo,
perchè con lei la stessa cosa si vende due volte, ovvero si vende quello che non può
esser venduto come l’uso della cosa che con l’uso si consuma (1).
Chi vende a termine un poco più che a contanti non fa usura, se si mantiene
nei limiti del prezzo giusto. Ma colui, che potendo vendere a contanti, preferisce aspet-
tare per guadagnare di più, fa cosa ingiusta. E quelli che guadagnano ricevendo
l’altrui danaro sotto interesse, fanno per lo più penitenza della loro temeraria cupi-
digia e spesso spesso con gran vergogna e ruina consumano il loro. Non è lecito au-
mentare il prezzo in proporzione dell’aumento del tempo del pagamento, nè dimi-
nuirlo per un’anticipazione di esso, perchè la vendita si suppone al prezzo giusto,
onde aumentandolo o diminuendolo non sarebbe più tale (2). Molti credono di poter
salvare questa vendita a tempo, a causa del guadagno che cessa per colui che vende,
il quale aspettando il pagamento alcun tempo, frattanto non può guadagnare. Ma il
guadagno cessante è una cosa futura e non può essere calcolata. Quando però si tratta
di danno emergente l’interesse è giustamente richiesto, perchè chi per prestare altrui
leva i denari dal suo negozio soffre un danno reale. E così pure nel caso che si
creda che le merci ora vendute possano all’atto del pagamento valer di più, si potrà
pretendere un prezzo maggiore (3).
Gli stessi principî che condannano l'interesse valgono per quello che oggi si chia-
merebbe sconto. Infatti così ragiona il medesimo BUONINSEGNI in un altro suo trattato:
È uso dei negozianti di togliere un otto per cento a chi anticipa il pagamento, o
di vendere il loro credito ad un altro, levando ugual somma; questo si chiama tagliar
la detta ed è cosa ingiusta e peccaminosa. Se il denaro futuro non vale tanto quanto
quello che subito si paga, verrà ad esser tolta l’eguaglianza dei prezzi e qualcuno
venderà così più o meno del prezzo corrente, il che non si deve. Quando chi ha un
credito suppone possa esser da altri messo in dubbio, o sottoposto a pericoli e spese
nel riscuoterlo, o se egli ha intenzione di comprar subito qualche cosa di utile, allora
può riscuotere il credito levando un tanto; non però quando si tratta solo di anti-
cipazione nel tempo, chè questo sarebbe usura. È vero che molti dicono è meglio aver
la cosa che sperar di averla, ma ciò vale soltanto quando la speranza è dubbiosa,
non quando è certa. Guardi dunque chi compra i crediti per guadagnare di non ca-
dere nel bruttissimo vizio dell’usura, contrario alle leggi divine e umane (4).
Più scientifico nella sua trattazione è Romualdo Coi, che sostiene le stesse idee
(1) BuoninsEGnI, Della vendita a tempo, pag. 4-8.
(2) Id., Op. cit., pag. 20-30.
(3) Id., Op. cit., pag. 9-11.
(4) Id., Della diminutione del prezzo che per l’anticipato pagamento si vol fare nel comprare
è crediti a tempo, pag. 36-49.
DI CAMMILLO SUPINO 227
con argomenti talvolta più profondi, quantunque non meno paradossali. Il nome di
usura, così egli incomincia, significa più cose. Talora significa l’uso di ciascheduna
cosa, altre volte il frutto che se ne riceve, e presso i legisti denota il giusto inte-
resse che deve pagare il debitore quando è in mora. Ma nelle sacre lettere e ap-
presso i Dottori, sì teologi come canonisti, significa un guadagno iniquo, il quale si
riceve per virtù della prestanza di denaro o d’altra cosa che si consumi con l’uso.
L’usura, chiamata fenus quasi fetus o parto dai Latini, Z'ochos o parto pure dai
Greci, dagli Ebrei morso, è proibita dalla legge divina ed anche da quella naturale,
perchè è contro natura che l’uomo riceva il prezzo di ciò che non è suo. Ora la cosa
prestata non è più di chi l’ha prestata, ma di chi l’ha; dunque il prestatore non può
ricevere un prezzo, ma solo l’equivalente della cosa prestata. Il denaro è sterile, non
partorisce danaro. Vendere il tempo è contro natura, perchè il tempo è di tutti, ora
chi presta a usura vende il tempo. È contro natura vendere una cosa due volte, una
per il dominio, l’altra per l’uso. « Quando tu mi prestasti cento scudi mi desti due
cose: una fu il denaro prestatomi, l’altra fu il benefizio che tu mi facesti per ami-
cizia e per benevolenza. Il prezzo dei tuoi cento scudi sono cento altri scudi equiva-
lenti a quelli; il prezzo del benefizio fattomi per amicizia è ch'io ti sia grato, amico
e benevolo; nè altro puoi giustamente volere da me (1). »
Dopo questa distinzione, se vogliamo abbastanza ingenua, l’autore continua: la
usura può essere mentale o reale. La prima è quando si ha l’intenzione e il desi-
derio di guadagnar col prestito; la seconda è un guadagno fatto per virtù della
prestanza manifesta di cosa che val denaro, intervenendovi il patto espresso o tacito.
L’usura palliata poi è un guadagno fatto per virtù della prestanza coperta o ma-
scherata sotto il mantello o maschera d’un altro contratto o di vendita, o di compra,
o di cambio, o di deposito, o di compagnia o d’altro (2).
Esposte ‘queste definizioni, il Coni considera il prestito da parte di chi lo riceve,
accennando ai casi in cui è permesso di pagare un interesse: quando uno muoia di
fame potrà indursi a prendere a usura; è lecito domandar danari all’ usuraio senza
far menzione d’usura, ma quando egli non voglia prestar senza di questa, si può ac-
cettare una tale condizione. Però chi prende ad usura non per necessità, ma per mal
fine, come per attendere alle lascivie, commette peccato mortale. L'usuraio riconosciuto
non può essere assolto nella penitenza, non può essere ammesso all’altare, non può
testare e facendolo il testamento non sarà valido, è privato della sepoltura ecelesia-
stica, è scomunicato, è infamato; non si può ricevere le sue oblazioni e, se forestiero,
può esser mandato via (3).
Anche il Cori, come il BuoninseenI, fa la distinzione del lucro cessante e del
danno emergente, ammettendo però che si prenda un interesse nel primo caso, ma non
nel secondo. Colui che vende più caro a credenza per rispetto al guadagno cessante
non fa male, perchè se peccasse, o sarebbe peccato d’usura o di prezzo ingiusto. Non
è peccato d’usura, perchè nell’imprestito è lecito pigliare la ricompensa del guadagno
(1) Romuarno Coi, Trattati de’ cambi e dell'usura, Firenze 1623, pag. 1-9.
(2) Id., Op. cit., pag. 15-53.
(3) Id., Op. cit., pag. 4135-42.
228 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
veramente cessante. Non peccato di prezzo ingiusto, perchè chi vende più caro per
il lucro cessante, non piglia il di più come prezzo della merce, ma come ricompensa
del guadagno che cessa. Affinchè questo sia vero, è necessario che il compratore trovi
uno che veramente voglia vendere a contanti, avendo alle mari qualche negozio lecito
e utile in cui voleva impiegare il suo denaro e che non possieda altri denari oziosi
in cassa (1). Il medesimo ‘principio, secondo il Cori, non vale quando si tratta di
danno emergente, perchè è vero che chi vende a credenza si espone a molti pericoli,
come di non esser pagato per la morte del debitore o perchè si fugga; o se pur paga,
paga dopo molto tempo e con molte fatiche, liti e spese del venditore; ma quello
che si piglia per ricompensa del danno, si può pigliare quando il danno è seguìto;
ora quando si vende a credenza non è seguito verun danno, adunque non si può
vendere la merce più del giusto prezzo per compensarsene. E se il venditore teme
di non esser pagato da uno, piuttosto non gli venda, o può far patto che gli sieno
rimborsate le spese che incorrerà per colpa e negligenza del compratore (2). Il cre-
dito che si ha da riscuotere in futuro per tre ragioni può valere meno: o per i pe-
ricoli a cui fosse soggetto, o per l'interesse del danno emergente e lucro cessante ,
o per pagarlo con denari anticipatamente. Quando le due prime condizioni mancano,
se il credito si calcola meno per il pagamento antecipato, ciò è usura (3).
Ma a tutto questo ragionamento del Coi qualcheduno potrebbe, fra le altre cose,
obbiettare che a un negoziante non può essere indifferente di ricevere una data somma
subito o dopo un certo tempo. Questa obbiezione è preveduta dal nostro autore, e vi
risponde col suo solito metodo delle distinzioni. Il denaro, egli dice, si può considerare
‘o nella sua natura o nelle mani di un uomo industrioso; secondo la sua natura, ogni
denaro è sterile ed infruttuoso, il denaro invece applicato ai negozi val più subito
che quando si ha da riscuotere dopo un anno (4).
Potremmo citare altri autori che sostengono le stesse idee, potremmo fra le altre
raccogliere le opinioni dello Scaccia e di Raffaele DELLA ToRRE (5); ma non lo fac-
ciamo per non dilungarci troppo e per non ripetere più volte le stesse teorie, giacchè i
Canonisti sono in queste talmente d’accordo, che si copiano l’uno con l’altro. Inten-
diamo piuttosto dare un rapido sguardo sulla legislazione italiana, per meglio com-
pletare il quadro delle idee dominanti in quest’epoca sull’usura.
La prima proibizione dell’usura ha luogo con Bolle per parte di alcuni papi e
risale fino a Leone (443); approvata dai padri della Chiesa, viene introdotta definitiva-
mente nella legislazione ecclesiastica da Alessandro III (1179). La condanna dell’usura
viene poi confermata da tutti i papi successivi e specialmente, per parlare di quelli del-
l’epoca che studiamo, da Paolo IV (1555), Pio IV (1560) e Pio V (1569 e 1575) (6).
(1) Cori, Trattati del vendere a tempo e del comperare con la paga anticipata, Firenze 1619,
pag. 3-13.
(2) Id., Op. cit., pag. 49-59.
(3) Id., Op, cit., pag. 9%.
(4) Id., Op. cit., pag. 99-100,
(5) Scaccia, Op. cit., pag. 93, 137, 225, 286 ecc. — R. De Turri, Tractatus de cambtis, Genuae, 4641,
(6) EnpeMANN, Canonistische Lehre, pag. 8-44. — F. X. Funk, Geschichte des Kirchlichen Zinsver-
botes, Tùbingen 1876, pag. 53 e seg. — Scaccia, Op. cit., pag. 498-504. — BorELLI, Editti antichi
e nuovi, pag. 1134-36.
DI CAMMILLO SUPINO 229
La legislazione civile in alcune parti d’Italia s’inspira completamente a quella
ecclesiastica, in altre riconosce la necessità dell’ interesse e si limita a stabilirne il
massimo. Negli Statuti di Ferrara si legge: Per ovviare ancora all'abuso degli stocchi,
cambi secchi e contratti usurari che si fanno per necessità di trovar denari e il più
delle volte per poter giuocare, proibiamo il far contratti usurari sotto la pena ai
contraenti, sensali e notari che è imposta dalle costituzioni Egidiano contro gli usurai,
e, quanto ai cambi secchi, da quella di Pio IV contra mercatores exercentes cambia
sieca (1).
Una legge in Corsica così si esprime: « Statuiamo che qualsivoglia persona non
ardisca fare per sè o per altri usura o contratti usurari, sotto pena di pagar la
terza parte di quanto si contiene nel contratto. Dichiarando che il debitore non sia
tenuto che per il capitale e non per l'interesse. Non sia lecito dare o prestare denari
e merci in cambio di grani, orzi, ecc. prima che detti grani, orzi, ecc. sieno raccolti e
non sia lecito che darli a prezzi correnti, ogni contratto contro la forma del presente
decreto essendo nullo e di niun valore (2). » Questo sistema di comprare i frumenti
prima che fossero maturi esisteva anche in Sicilia come una forma particolare di usura,
ed una prammatica del 1559 proibisce espressamente questo genere di contrattazioni,
perchè quando il raccolto non era sufficiente per adempiere all’obbligazione, il ven-
ditore rimaneva in debito e doveva pagare tanti interessi e danni che raddoppiavano
la somma che aveva avuta in anticipazione (3).
A Venezia l’usura non era punita che dietro il reclamo della parte interessata.
Se alcuno, dice un decreto del 1553, sarà debitore d’un altro per causa di robe o
beni di qualunque sorta comprati a tempo e etiam di denari semplici e vorrà dolersi
esservi intervenuto usura, potrà fare querela al suo creditore presentando i documenti,
testimoni, ecc. e facendo intervenire il reo per discolparsi (4). Ma era però asso-
lutamente proibito il prestare ai minori di età: molti sensali vendono a minori robe,
gioie, ecc. a tempo a prezzi eccessivi con la speranza di esser pagati alla morte del
padre, e così si fanno dai giovani spese disoneste con danno della città e rovina di
molte famiglie; onde si proibisce che chiunque sia sotto tutela possa: comprare a tempo
o prendere denari, sotto pena, ecc. (5).
Ma in altre parti d'Italia, la legislazione, pur inspirandosi alle bolle dei pon-
tefici, riconosce i contratti portanti un interesse, purchè questo non ecceda un dato
limite. Un editto del Piemonte del 1623, dopo aver descritto i mali derivanti dalle
usure, stabilisce che tutto quanto è stato pagato nei censi al di sopra dell’ 8 per
cento sia computato come diminuzione del debito; che così pure si faccia per i prestiti
per quella somma che eccede il 4 per cento, e che per l’avvenire sia proibito di
prender censi a più di 6 per cento sotto pena di confisca. Chi avrà preso merci, in
luogo di denari, a prezzo eccessivo dovrà ridurle al prezzo corrente al tempo dei
(4) Statuta urbis Ferrariae, Appendix, pag. 68-69.
(2) Statuti civili e criminali di Corsica, pag. 166-68.
(8) Pragmaticarum regni Siciliae novissima collectio, Panormi 1636-58, vol. I, pag. 363-64.
(4) Novissimum Statutorum ac Venetarum Legum volumen, duabus in partibus divisum, Ve-
metiis 1729, pag. 159.
(5) Stat. cit., pag. 162.
230 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
contratti, e i creditori e i debitori dovranno dar nota dei loro crediti e debiti ai Se-
gretari del Tribunale del luogo (1).
A Roveredo si faceva seguire la pubblicazione della bolla di Pio V contro l’usura
da un decreto che proibiva « di costituire affitti o annui redditi in ragione di più del
7 per cento (2). » Mentre a Napoli, dove si facevano prestiti a 15, 18 e 20 per
cento, una prammatica stabiliva che nessuna persona potesse dare o ricevere denari
a più del 14 per cento (8),
Se dunque la legislazione era costretta ad ammettere l'interesse, se in questa
epoca giornalmente avvenivano contratti di mutui non gratuiti, come si spiega il fatto
che la condanna dell'usura era così esplicitamente e generalmente ammessa da tutti
gli scrittori nelle loro teorie? L’unica spiegazione possibile di questo fatto per se stesso
molto strano è che la legislazione si doveva in gran parte adattare alle necessità
della vita pratica e ai bisogni del commercio, il quale, col moltiplicarsi degli affari,
era costretto a tener sempre più conto nei pagamenti dell’elemento #empo; mentre
che i teologi e i giuristi trattavano la teoria dell’usura, facendo astrazione completa.
dalla realtà e inspirandosi tutti alle stesse fonti, ad Aristotile e alle Sacre Scritture.
Aristotile aveva detto che l’arte che si esercita sui denari è contro natura, perchè
baratta, non per servire ai bisogni, ma per acquistare ricchezza ; la moneta, in questo
caso, è principio e fine della permuta e questo modo di guadagnare non trova mai
termine (4). Nel Pentateuco s'incontra in più luoghi espressa la proibizione di dare
e prendere ad usura (5); S. Matteo si scaglia contro quelli che mietono dove non
hanno seminato e raccolgono dove non hanno sparso (6), e S. Luca dice: amate
i vostri nemici, e fate bene, e prestate non isperandone nulla e il vostro premio sarà
grande (7). Ora, siccome le teorie di Aristotile costituivano la base scientifica delle
dottrine scolastiche e teologiche, siccome le parole delle Sacre Carte erano per i Ca-
nonisti, oltre che dogmi di fede, principî indiscutibili di scienza, così è naturale che
gli scrittori di quest'epoca si trovassero concordi nel riprovare il mutuo ad interesse.
Però i teologi e i giuristi non si limitano a condannarlo perchè così vuole il Vangelo,
ma pretendono dimostrare con criteri scientifici che il denaro non può dar frutto;
da qui una serie interminabile di discussioni, di cavilli, di contraddizioni; da qui una
lotta continua contro la logica e contro certe manifestazioni della vita reale.
Gli argomenti principali su cui si basa la teoria canonica dell’usura sono: che
il denaro non partorisce denaro ; che non si può attribuire due valori alla stessa
cosa, uno per il dominio l’altro per l’uso, e che vendere il tempo è contro natura
(1) BorELLI, Editti, pag. 1136-37.
(2) Statuti di Roveredo, pag. 288-92.
(3) Pragmaticae, Edicta, Decreta ece., vol. I, pag. 392-93. e
(4) AriIsTOTILE, Politica, ], 6.
(©) Pentateuco, Lib. II, Cap. XXII, 25; Lib. III, Cap. XXV, 35-37, e Lib. V, Cap. XXIII, 19-20.
(6) Evangelo di S. MattEO, Cap. XXV, 26.
(7) Id. di S. Luca, Cap. VI, 35. — Questa frase, tanto spesso citata per dimostrare che il Van-
gelo condannaya l’ usura, ci sembra provi tutto il contrario; perchè non è ammissibile, come ar-
gutamente osserva Francesco Huet, che si stabilisca un gran premio a chi agisce solo secondo la
stretta giustizia. Bisogna dungne convenire che Cristo non ha proibito il prestito a interesse, di cui
anzi ha riconosciuto implicitamente la legittimità, facendo del prestito senza interesse un’ opera
ci misericordia. F. Huer, Ze règne social du christianisme, Bruxelles 1853, pag. 338
DI CAMMILLO SUPINO 231
perchè il tempo è di tutti. Il primo argomento, espresso con la frase ben nota di
Aristotile, non regge neanche per un istante alla critica e solo può giustificarsi, pen-
sando che nel dichiarare il capitale infruttifero lo si considerava nella sua forma di
moneta e non nei molteplici aspetti produttivi che esso può assumere. La distinzione
poi fra il dominio e l’uso non può dar luogo alla formazione di due valori per la
stessa cosa, perchè il proprietario di essa vi rinunzia temporaneamente quando ne cede
ad un altro il godimento, e sopporta un sacrifizio, una perdita di cui deve essere
indennizzato, ottenendo un compenso per il non-uso. Quanto al tempo, è vero che è
di tutti, ma quello che lo passa, traendo vantaggio di una cosa non sua, ha un
benefizio di cui è privato colui che l’ha ceduta; il quale, oltre a ciò, va spesso in-
contro al rischio di non riavere la somma prestata. Nè vale il dire che egli debba
chiedere un compenso per il danno, soltanto quando questo sia avvenuto, perchè se
il debitore fugge, il creditore perde capitale ed interesse, e perchè anche il timore
di un danno futuro è una pena, un sacrifizio a cui non ci si sottomette gratuitamente.
E poi chi si priva per un certo tempo di una somma di denaro, la distoglie
spesso dai suoi affari, nei quali avrebbe potuto farla fruttare; perchè dunque non
deve avere un compenso? À questa obbiezione gravissima, i Canonisti rispondono di-
stinguendo il denaro in sè da quello impiegato da un uomo industrioso, ammettendo
solo in quest’ultimo caso la legittimità dell'interesse come compenso del lucro ces-
sante. Ma a ciò si può replicare che dove esiste la possibilità d’impiegare con utile
i propri denari, è giusto che chi si priva di essi, anche momentaneamente, ottenga
un interesse come premio della perdita che subisce; onde non può esser condannato
‘chi dà denari o cede robe, anche col solo scopo di guadagnare un interesse per il
protratto pagamento.
Ma se queste idee non reggono alla critica, se esse ci sembrano financo ridicole,
dobbiamo rammentarci, per giustificare in parte gli autori che le sostenevano, che essi,
mentre partivano dal punto di vista delle dottrine evangeliche dell’amor del prossimo,
della rinunzia ai beni terreni e dell’aspirazione ad una vita migliore, si trovavano di
fronte a mutui fatti solo per iscopo improduttivo, di consumo, che arricchivano i pochi
già ricchi a danno della moltitudine dei poveri. Partendo da quei criteri e vedendo
questi fatti, i giudizi non potevano essere diversi. Tanto che quando il denaro co-
mincia a poter esser convertito in mezzi di produzione, quando il capitale comincia
a sorgere come elemento a sè, per necessità si moltiplicano negli scrittori le distin-
zioni fra 1 casi in cui l’interesse è permesso e quelli in cui è proibito; perchè le
idee scientifiche si trovano sempre più in contraddizione con i fatti della vita reale
e le teorie vecchie vengono in lotta con i bisogni e le esigenze nuove.
A confermare quest’asserzione, meglio di qualunque ragionamento, può servire la
tanto dibattuta questione sui monti di pietà. Sorti per aiutare nella miseria i poveri,
con prestiti a modico interesse, non erano forse in opposizione alle teorie e alla le-
gislazione inspirate al diritto canonico? Eppure in quella stessa Roma dove erano state
‘emanate tante bolle per condannare qualunque interesse del danaro, così sì vantavano
i benefizi dei Monti di Pietà: « Ogni intelletto ragionevole facilmente comprende e
la prova stessa apertamente manifesta quanto sia non pur utile, ma necessario il
monte della pietà in ciascuna città, e maggiormente in Roma, patria universale, rifugio
232 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
de’ bisognosi, per sovvenire alle loro necessità, senza che sieno astretti a darsi in
preda agli ingordi Hebrei, che con gravissime usure consumano, e assorbiscono le fa-
coltà de’poveri Christiani (1). » Ed anche il BuonInsEGNI, che ha scritto diversi trat-
tati contro l'usura, giustifica l’interesse che pagano i poveri nei monti di pietà, perchè
il denaro di questi è dei poveri stessi, ed è equo che essi paghino, mediante l’inte-
resse, le spese necessarie per mantenere questa istituzione. Mentre poi coloro, che de-
positano denari al monte per ottenere un interesse annuo, possono considerarsi come
soci d’industria, che ricevono sotto forma di premio fisso una parte di quanto il monte
guadagna, impegnando i denari in negozi e in cambi (2).
Anche in questo esempio speciale scorgiamo i soliti cavilli e le solite distinzioni
sottili per violare in alcuni casi particolari il principio generale che a quelli non si
adattava. E così si faceva ogni dì più manifesta la contraddizione fra la teoria e la
pratica: a misura che il progresso economico dava origine ad istituzioni che poggia-
vano sull’interesse del denaro, a misura che esse erano riconosciute utili al commercio
e all’industria, gli scienziati e i governanti si sentivano in dovere di ammetterle e di
favorirle, facendo un’eccezione alla legge. Ed è in tal modo, che di eccezione in ec-
cezione cadde col tempo l’intero edificio della legislazione contro l’usura.
CAPITOLO X.
Proprietà privata e comunismo.
Siccome la legislazione positiva fissava i prezzi, determinava i salari e limitava
l’interesse e il profitto, siccome i vari elementi della produzione erano rimunerati se-
condo certe norme stabilite di diritto e non secondo le leggi naturali economiche, così
non ci deve recar meraviglia se in quest'epoca poco o punto troviamo negli scrittori,
che si riferisca alla teoria scientifica della distribuzione della ricchezza. L'unico argo-
mento di questa parte dell’ Economia politica che troviamo trattato con una certa
ampiezza è il concetto della ripartizione, i principî cui deve informarsi; ed infatti i
“varî modi da seguirsi nel compierla sono esposti da alcuni scrittori, i quali discutono
sulla preferenza da darsi alla proprietà privata o al comunismo. i
L’Awmrato fa derivare la proprietà privata da una convenzione, giustificandola
con la teoria della sanzione legale. Non è alcun dubbio, egli dice, che essendo tutti
noi di una massa di carne creati, niuna differenza di gradi o di nobiltà per legge di
natura esser tra mortali, e per questo tutti nascer liberi e tutte le cose dalla natura
prodotte a tutti distintamente esser largite. Ma richiamati gli uomini delle selve e
delle loro primitive abitazioni e fatte di esse ragunanze nelle città, fu necessario che
per lo mantenimento di cotal comunione si pigliassero altri stabilimenti; quindi fu in-
trodotto che non in comune si vivesse, ma in particolare riconoscendo ciascuno il suo.
Da qui è derivata tutta la materia delle compre, delle vendite, degli affitti, dei prestiti
(1) Statuti nuovi del Sacro Monte della Pietà di Roma, in Rama 1617, pag. 1-2.
(2) BuonivsEGNI, Trattato dei Monti e della loro giustizia, pag. 1440-52. — Cfr. Funk, Op. cit.
pag. 48-53.
DI CAMMILLO SUPINO 233
e di altri simili contratti. La legge naturale è stata dunque ristretta da quella civile,
e chi volesse oggi servirsi dei beni altrui, come la natura primieramente aveva ordi-
nato, commetterebbe fallo e sarebbe punito (1).
La legge civile dunque è, secondo l’Ammrraro, quella che dà origine alla pro-
prietà; ma il BoccALINI invece, con un processo inverso, afferma che è la proprietà,
che fa nascere il bisogno delle leggi e dei governi. Come prima, egli dice, ebbe luogo
nella generazione umana il meum e il tuum, e che gli uomini con la loro industria
cominciarono con le facoltà che accumulavano ad avanzarsi sopra gli altri, si gene-
rarono, per la disuguaglianza dei beni, anche le disuguaglianze delle persone. Percioc-
chè non fu possibile rimediare che colui che aveva maggiori facoltà, non dovesse essere
in ogni cosa maggiore degli altri e non volesse per forza comandare a colui che di
buona voglia non voleva sottometterglisi. Onde poi alla fine nacque che volendo il
pesce grosso mangiare il pesce piccolo, cominciarono a sorgere le violenze, le offese,
il bisogno delle leggi e da queste la necessità dei principî (2). Ma, si potrebbe ri-
spondere al BoccaLinI, se la proprietà privata ha dato origine alla superiorità di alcuni
e ai governi civili, come ha potuto sorgere non sostenuta nè dalla forza, nè dal diritto?
In tutti i modi però tanto l’AmmiraTo che il BoccALINI ammettono la proprietà
privata come un'istituzione indispensabile per la società e favorevole al progresso eco-
nomico. Non la pensa così il Doni, il quale dice: bell'animo è di colui che giudica
nessuna cosa che gli sia intorno esser sua; ma le tiene come in prestanza, e come
peregrino viandante che alloggia una sera le usa (3). Giove dovrebbe tener per tutti
la bilancia pari e non dar a tanti ogni cosa, ad altri nulla; alcuni sempre vivano
in travagli, pene, sospetto, paura e povertà, altri con piaceri, canti, feste, ben vestiti
e pasciuti, temuti e rispettati (4). E il Doni, per mostrare quanto meglio potrebbe
prosperare un paese in cui prevalesse l'uguaglianza, ci descrive uno stato immaginario,
in cui ogni strada aveva due arti; due o tre strade erano di osterie, dove ognuno
andava a mangiare; gli ostieri non avevano altro da fare che dar da mangiare agli
uomini assegnati a ciascuno di loro, indi potevano chiudere, e se avevano bisogno di
calze se ne andavano dal sarto e se le facevano fare, e così tutte le altre cose per
loro uso. I vestiti erano tutti uguali fuori che nei colori che variavano secondo le
età; e giacchè il nascere e il morire va tutto sopra una stessa linea, così deve essere
anche del vivere. Tutti erano nella stessa posizione. Chi si ammalava andava nella
strada dello spedale. In un’altra strada stavano le donne e andava in comune la
cosa, senza che si sapesse di chi uno fosse figlio; ma veniva allevato in comune
e, giunto in età, doveva studiare, o imparare un’arte secondo la sua inclinazione.
Furti non esistevano, perchè ognuno, avendo il necessario per vivere, non avrebbe sa-
puto che fare delle cose tolte. Tutto era in comune e i contadini vestivano come quei
della città, perchè ciascuno portava giù il frutto della sua fatica, e pigliava ciò che
gli faceva bisogno. I vecchi stavano raccolti in un ospedale; i mostri, i gobbi, ecc.,
che nascevano erano gettati subito in un pozzo. Denari non esistevano, chi provvedeva
(1) AmmiraTo, Discorsi, pag. 224.
(2) BoccaLini, Commentari, pag. 190.
(3) Anton Francesco Doni, Mondi celesti, terrestri, et infernali, in Vinegia 1567, pag. 65.
(4) Doni, Op. cit., pag. 95.
SerIE II. Tom. XXXIX. - 30
234 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
il mangiare andava a prender la carne ai beccai, il vino alle canove, le legna alle
cataste, ecc. Chi non voleva lavorare per poltroneria, dopo sopportatolo un poco, si
ordinava che non mangiasse se non fatto il suo lavoro, cosicchè chi non lavorava non
mangiava. Chi commetteva delitti era portato davanti al principe della terra, il quale
gli dava una presa di manna fatta d’arsenico (1).
Di questa che il Don: chiama descrizione d’una nuova lite dell’arte del vivere
e del vestire tutta d’invenzione non più udita, noi non abbiamo citata che la parte
che ha attinenza diretta o indiretta con l'Economia politica, e che parla del comu—
nismo nella produzione e nel consumo. Riserbandoci a più tardi la critica, daremo
ora, con gli stessi criteri, un sunto della parte economica del libro celebre di Campa-
NELLA la Città del Sole, dove combatte la proprietà privata e difende il comunismo.
Gli abitanti della Città del Sole, come ci dice il sommo filosofo calabrese, de-
cisero d’incominciare una vita filosofica ponendo ogni cosa in comune; e quantunque
nel loro paese nativo non usasse la comunità delle donne, l’adottarono pel principio
stabilito che nulla dovesse esser posseduto individualmente, e che solo la decisione del
magistrato dovesse regolare l’equa distribuzione della ricchezza. Le scienze, le dignità
e i piaceri sono comuni e nessuno può appropriarsene la parte che spetta agli altri.
Essi dicono che ogni sorta di proprietà trae origine e forza dal separato e indivi-
duale possesso di case, di figli, di mogli. Questo poi produce l’amor proprio e cia-
scuno ama arricchire ed ingrandire l’erede; e quindi, se potente e temuto, defrauda
la cosa pubblica; se debole, di nascita oscura e mancante di ricchezze, diviene avaro
intrigante ed ipocrita. Al contrario perduto l'amor proprio, rimane sempre l’amore.
della comunità. Ma si potrà obbiettare, come fece Aristotele a Platone, che nessuno
avrà voglia di lavorare, stando in aspettazione che gli altri lavorino per la di lui
sussistenza. A questo risponde CampPaneELLA che gli abitanti della Città del Sole sono
come gli antichi Romani, che spontaneamente si davano in olocausto per la comune
salvezza; e così doveva essere, perchè l’amore alla cosa pubblica aumenta secondo che
più o meno si è fatta rinunzia all’interesse particolare. E se i monaci e i chierici
non fossero viziati da una soverchia benevolenza verso i congiunti e gli amici, o meno
rosi dall’ambizione di sempre più elevati onori, avrebbero con una minore affezione
alla proprietà acquistata lode di santità più bella, e simili agli Apostoli e a molti
dei tempi presenti, sarebbero comparsi al mondo esempi di carità sublime (2).
Senza dilungarci a descrivere come questo popolo elegge i magistrati, come veste,
mangia e dorme, senza narrare il modo strano con cui nella Città del Sole si prov-
vede all’unione dei sessi e alla procreazione, diremo piuttosto che, in questo stato
descrittoci dal CAMPANELLA, tutti lavorano con gran vantaggio della comunità. Napoli,
così egli dice, è popolata da settantamila persone, e solo dieci o quindici mila tra-
vagliando prestamente vengono distrutti dalla soverchia fatica; il rimanente è rovinato
dall’ozio, dalla pigrizia, ecc. I campi, la milizia, le arti o sono negligentemente o
pessimamente coltivati con dolorosi sacrifizi di alcuni pochi; ma nella città del Sole,
essendovi uguale distribuzione di ministeri, d’arti, d’impieghi, di fatiche, ogni indi-
(4) Dont, Op. cit., pag. 174-841.
(2) CampaneLLA, Città del Sole, pag. 244-45.
DI CAMMILLO SUPINO 235
viduo non lavora più di quattro ore per giornata, consacrandone il rimanente allo
studio, allo sviluppo della mente e del corpo. Se la povertà rende gli uomini vili,
furbi, fraudolenti, ecc., se la ricchezza produce insolenti, superbi, ignoranti, ecc., la
comunità al contrario colloca gli uomini in una condizione simultaneamente ricca e
povera: sono ricchi, perchè godono di ogni necessario, sono poveri perchè nulla pos-
siedono e nello stesso tempo non servono alle cose, ma le cose ad essi (1).
Il comunismo rappresenta per CAMPANELLA un ideale verso cui devono indiriz-
zarsi le istituzioni sociali, ed egli non si limita a proporlo nella sua repubblica im-
maginaria, ma in un altro suo scritto lo difende con ragioni storiche e scientifiche,
cercando di confutare le obbiezioni che si muovono contro questo modo di organiz-
zazione economica.
Che il comunismo sia possibile, dice il nostro autore, lo mostra la vita dei primi
cristiani, presso i quali la comunanza fu stabilita sotto gli Apostoli, secondo testifi-
cano S. Luca e S. Clemente; in Alessandria si è osservato lo stesso modo di vivere
sotto S. Marco; tale fu la vita del clero fino ad Urbano I, e tale è ora quella dei
monaci, che S. Grisostomo desidera, come possibile, introdotta in Costantinopoli e che
io spero doversi in futuro generalizzare. Chi nega, aristotelizzando, la possibilità del
comunismo, è costretto a dichiararlo possibile nello stato d’innocenza; ma i Padri lo
suppongono realizzabile anche ora, perchè Cristo ci ha ridotti a quel primo stato. Ecco
perchè Luciano, gentile e ateo, deride Platone per la sua repubblica, mentre S. Cle-
mente, Ambrogio e Crisostomo lo lodano (2).
Contro il comunismo, continua CAMPANELLA, si obbietta.: 1° I campi sarebbero
propri e i frutti comuni, o viceversa, o sì gli uni che gli altri comuni; nel primo
caso chi avesse più suolo dovrebbe più lavorare, ottenendo ugual parte di frutti, nel
secondo caso nessuno sarebbe stimolato al lavoro, poichè ognuno pensa più a sè che
alle cose comuni. 2° Sarebbe impossibile distribuire gl’impieghi, perchè ciascuno yor-
rebbe sciegliere quello che più gli accomoda. 3° Sarebbero distrutte la liberalità e
l'ospitalità, perchè chi nulla ha nulla può dare. 4° La divisione dei beni è approvata
dai Padri e da Cristo, ed è un’eresia il negarne la giustizia (3). —
A queste obbiezioni risponde l'illustre politico prima in generale, dimostrando
come il comunismo sia da tutti dichiarato superiore alla proprietà privata. Ed infatti
S. Clemente disse che l’uso di. tutte le cose di questo mondo doveva esser comune,
ma per iniquità, l’uno dichiarò esser sua questa cosa, l’altro quell’altra. E così dicono
i Padri commentando la Genesi, dove si vede che Dio non distribuì nulla e lasciò
tutto in comune agli uomini perchè crescessero, moltiplicassero e riempissero la terra.
È un’eresia il condannare la vita in comune o il dirla contro natura; anzi S. Ago-
stino pensa che il togliere la proprietà è cagione di maggiore splendore; quindi sì per
la presente che per la futura vita è da preferirsi la comunanza dei beni. S. Griso-
stomo insegna e adotta questo genere di vita, asserendo che nessuno è padrone ma
dispensatore del suo, e S. Tommaso aggiunge che nell’estremo bisogno tutte le cose
(4) CAMPANELLA; Op. cit., pag. 256-57.
(2) Id., Questioni sull’ottima republica, pag. 290-91.
(3) Id., Questioni ecc., pag. 293-94.
3Ò
236 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
son comuni, S. Luca dice: mendaci verba sunt meum et tuum, Socrate e S. Ago-
stino lodano la vita in comune e Ovidio pone in essa il secolo d’oro. S. Ambrogio
dimostra che la proprietà esiste solo per usurpazione, e mentre essa, come dice S. Tom-
maso, è la conseguenza del diritto positivo, l’uso comune di tutti i beni è di diritto
naturale (1).
Rispondendo ora in particolare alle obbiezioni contro il comunismo, CAMPANELLA
dice: 1° Siccome non sono comuni solo i fondi o i frutti, ma anche le fatiche, e
queste sono distribuite dai magistrati delle arti secondo la capacità e la forza di
ognuno, non c'è caso che alcuno faccia danno all’altro, molto più che tutti si nutrono
alla tavola comune. 2° Ciascuno viene dall’infanzia applicato alle varie arti secondo
le sue disposizioni e chiunque per esperienza e per dottrina riesce ottimo si prepone
all'arte per cui è idoneo. Quindi il soldato non potrebbe essere capitano, nè l’agri-
coltore sacerdote, dandosi gl’incarichi per meriti e non per protezione. 3° La liberalità
non consiste nel dare ciò che si è usurpato, ma nel porre tutto in comune. 4° La
divisione dei beni è tollerata, non voluta dalla natura; ora come si può chiamare
eretico chi segue la natura (2)?
Esaminando ora le idee comuni del Doni e del CAMPANELLA, diremo che
essi, descrivendoci questo nuovo ordinamento sociale, non fanno che imitare quasi
esattamente Platone fra gli antichi e Tommaso Moro che aveva fin dal 1516
scritta la sua Utopia. Anzi quest'ultimo, se dobbiamo dire il vero, ci sembra supe-
riore ai due Italiani, perchè prendendo a modello il filosofo greco non l’ha seguìto
nella proposta assurda e troppo radicale di mettere in comune le donne, e perchè si
serve dell’Utopia per mettere in rilievo i mali che allora afflisgevano l’Inghilterra e,
per fare una critica severa, ma spesso giusta delle istituzioni economiche e sociali di
quel paese (3). Nei Mondi e nella Città del Sole manca quel soffio di modernità,
che rende così interessante il libro del cancelliere inglese, e noi ci associamo com-
pletamente al Ferrari, il quale, dopo aver affermato che CAMPANELLA trasforma gli
uomini in altrettanti monaci, stigmatizza con eloquenti parole la posizione poco ono-
revole e dignitosa che il filosofo calabrese, nella sua repubblica immaginaria, assegna
alla donna (4).
Maggior importanza dal punto di vista economico hanno le considerazioni del
CAMPANELLA sul comunismo ; ma la difesa che ne fa non regge affatto alla critica.
Le numerose citazioni, che egli presenta in sostegno della sua tesi, sono tutte di autori
ecclesiastici, i quali, ispirandosi nei loro ragionamenti a criteri religiosi più che econo-
mici, avendo in vista ideali elevati, raccomandano la rinunzia ai beni terreni, per meglio
consacrarsi al raggiungimento dei beni celesti. Ma questi argomenti non banno impor-
tanza per la generalità degli uomini. E quando si accetta il comunismo, pure ammet-
tendo che esso non è favorevole all’aumento della ricchezza nazionale, si viene con ciò
a rinunziare a difendere con ragioni economiche questa forma di organizzazione sociale.
(1) CAMPANELLA, Op. cit., pag. 294-98.
(2) Id., Op. cit., pag. 298-300.
(3) THomas Morus, Utopia, Deutsch von H. Kothe, Leipzig (Universal-Bibliotek), pag. 3-54. —
Vedi anche: A. Supre, Histoire du Communisme, Paris 1856, pag. 148-69.
(4) G. FERRARI, Corso sugli scrittori politici italiani, Milano 1862, pag. 545-47.
DI CAMMILLO SUPINO 237
Quanto alla Città del Sole, se nella difesa del comunismo, non ha e non poteva
avere base scientifica, non cessa per questo di essere una importantissima ed elevata
concezione filosofica. E mentre non possiamo consentire nel disprezzo con cui super-
ficialmente ne parla il Sudre (1), dobbiamo, col D'Ancona, considerarla come una
delle tante manifestazioni, che si hanno in tutti i tempi e in tutte le letterature,
dell’aspirazione continua dell’umanità verso un’età migliore, verso la perfezione, verso
il bene supremo (2).
Del resto non sapremmo come meglio fare la critica del comunismo in genere che
con le parole di uno scrittore dell'epoca, del PARUTA, che anche su questo argomento
discorre magistralmente e con acume. Parrebbe a molti, egli dice, vedendo ad alcuno
soprabbondare tutte le cose e ad altri mancare anco le necessarie, che il legislatore
dovesse cercare di uguagliare tutte le facoltà. Ma ciò non è cosa possibile nè desi-
derabile, perchè si distruggerebbe la liberalità e la magnificenza; gli uomini divente-
rebbero pigri e si darebbero all’ozio, non essendo tutti capaci delle arti più nobili;
possederebbero ugualmente i vili e i benemeriti e valorosi; e benchè anche oggi ciò
si veda, si sopporta, stimandosi, come è in effetto, che il caso e la fortuna, non
alcun giudizio degli uomini, nè certo ordine delle città, dia e tolga le ricchezze. Ed
anche se l’uguaglianza fosse un bene è difficile capire come si potrebbe introdurre, e
quando introdotta conservare, giacchè bisognerebbe trovare un luogo senza abitanti nè
padroni del paese, mentre poi la diversità nel numero dei figli farebbe di nuovo ritornare
alla disuguaglianza. Più difficile sarebbe il dividersi gli strumenti, i denari, il suolo,
gli animali, talchè bisognerebbe ricorrere alla comunità di beni e di figli descritta
da Platone, Per rimediare dunque agli inconvenienti della inuguaglianza sarebbe molto
meglio una legge che limitasse le facoltà troppo grandi, e quello studio che il legis-
latore impiegherebbe invano nel pareggiar le facoltà, può esser meglio impiegato nel
levare, con l’educazione dei cittadini, l’immoderato desiderio delle ricchezze, introdu-
cendo una vita più modesta e lontana dalle vane pompe, togliendo i giuochi, le usure
e le arti inutili (3). E in un altro luogo lo stesso autore continua: Niuna cosa per
certo, come diceva quel savio, è più disuguale che la stessa egualità; la quale ma-
lamente, tra persone degne e indegne, senza differenza usata, divien cagione di molte
ingiustizie. Si toglierebbe ogni ordine se a tanta parità la nostra specie si riducesse ;
non potremmo navigare, nè combattere, nè studiare, perciocchè troppo chiaro si vede
che dovendosi tali nostre operazioni condurre a buon fine, è mestieri che i più esperti
comandino e tutti gli altri seguano il loro imperio. La città assomiglia al nostro corpo,
nel quale sono molte. membra ciascuna a uno scopo ordinata; anche là devono essere
molti cittadini differenti di grado e di ufficio, che tutti però attendano ad uno stesso
fine, cioè al bene pubblico (4).
Le quali osservazioni del PARUTA, se in alcune parti sono poco originali, in altre ci
sembrano profonde e degne di un grande pensatore; e nell’insieme possono dirsi una
giusta confutazione di quelli autori che alla proprietà privata preferiscono il comunismo.
(4) SuprE, Op. cit., pag. 175.
(2) A. D'Ancona, Della vita e delle dottrine di Tommaso Campanella, Prefazione alle Opere,
Torino 1854, pag. 250-300.
(8) PaoLo ParuTa, Della perfettione della vita politica, in Venetia 1650, pag. 2214-23.
{41 Paruta, Op, cit., pag. 239-40.
N
238 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
CAPITOLO XI.
Teoria della popolazione.
Gli scrittori di quest’epoca, nel trattare della popolazione, si dividono in due
campi, che noi dovremo considerare ciascuno separatamente: per gli uni il problema
della popolazione si limita solo alla ricerca dei mezzi per farla aumentare il più pos-
sibile; per gli altri invece la quistione non è così semplice e si trasforma in una
teoria scientifica importante, che indaga il rapporto tra l'aumento degli uomini e quello
dei mezzi d’esistenza.
L'idea sostenuta dai primi è quella stessa che si trova propugnata dai filosofi e
dai legislatori dell’antichità, i quali nell’aumento della popolazione non consideravano
che la possibilità di avere un maggior numero di soldati e per conseguenza una mag-
gior forza disponibile tanto per difendersi come per offendere. E gli stessi criteri, più
politici che economici, seguono alcuni scrittori di quest'epoca, che inspirandosi agli
esempi e agli scritti dei popoli antichi, desiderano che lo stato cerchi, colle leggi e
con tutti i mezzi che stanno in suo potere, di dare incremento alla popolazione, pro-
muovendo i matrimoni e ricompensando chi ha un maggior numero di figli.
Prima di ogni altra cosa, dice il BorERO, è necessario avere in una città molta
gente, perchè la moltitudine dei cittadini è indispensabile a chi aspira ad imprese grandi.
I romani, gli arabi, i saraceni, i tartari, hanno fatto imprese grandissime più colla
moltitudine degli uomini che col valore. Oltre di che dov'è molto popolo il terreno
è ben coltivato, e dal terreno si cavano le vettovaglie e la materia delle arti, arric-
chendo il particolare ed il pubblico coll’abbondanza della roba e la varietà degli ar-
tifici (1). La gente si aumenta in due modi, col propagare il suo e col tirare a sè
l'altrui. Si propaga il suo con l’agricoltura, con le arti, col favorire l'educazione della
prole, con le colonie; si tira a sè l’altrui con l’aggregare i nemici, col rovinare le
città vicine, con la comunicazione della cittadinanza, con l’amicizia, le leghe, ecc. (2).
I romani promuovevano l’aumento della popolazione, favorendo i matrimoni; però non
è il solo congiungimento fra l’uomo e la donna che moltiplica i figli, ma la cura
nell’allevarli e la comodità di sostentarli, senza le quali o muoiono innanzi tempo v
nascono inutili e di poco giovamento alla patria. I popoli orientali sono meno casti
ed hanno più mogli, e nonostante non aumentano perchè non si curano di educare i
figli, e perchè le pestilenze, i disagi e il sudiciume distruggono molta gente (3).
Il Borero è dunque favorevole all’ aumento della popolazione, ma ha il merito
di avere qui accennato alle cause che vi pongono ostacolo, preludendo così alla sua
teoria: della popolazione, che esporremo fra poco e che è, a parer nostro, il maggior
titolo di gloria che abbia l'illustre politico piemontese per la scienza economica.
(1) G. Borero, Della ragion di Stato, Venezia 1589, pag. 192-9%.
(2) Id., Op. cit., pag. 197.
(3) Id., Op. cit., pag. 207-8.
DI CAMMILLO SUPINO 239
Anche l’Ammmirato trova utile l'aumento della popolazione, ma egli si limita ad
esporre le idee degli antichi su questo proposito, proponendoci di seguirle. Per i ro-
mani, egli dice, era un merito l’aver molti figli, e non è da meravigliarsene perchè
fin dalle origini del mondo l'unione del maschio con la femmina per fine della gene-
razione è comandata da Dio. Presso gli antichi era disprezzata la sterilità, ma perchè
l'essere sterili o fecondi è opera di Dio, in processo di tempo fu costituita pena ai
non ammogliati, i quali non vogliono figli, e non agli sterili nei quali pecca l’impo-
tenza e non la volontà. Platone vuole si punisca chi dopo 35 anni non ha preso moglie.
I censori Camillo e Postumio imposero una tassa ai celibi; perchè la natura come
del nascere ci ha scritto anche la legge del generare. Cicerone vuole che i non am-
mogliati sieno cacciati via e Cesare propose premi a chi aveva molti figli, essen—
dosi accorto che la città era scemata di popolo dalle guerre civili. Ai nostri giorni,
pur troppo a queste cose non si ha riguardo e non v'è rimasto che la franchigia
delle gravezze a chi ha 12 figli. Con tutto ciò non sono di opinione che si abbiano
a rinnovare tutte le leggi antiche, ma fare come fecero i Fiorentini: « Non vuoi tu
alla legittima età pervenuto tòr moglie, non impedito da religione, non da povertà,
non da studi, non da poca sanità, sii libero a tuo piacimento, vivi a te medesimo,
godi questa tua libertà, e per ciò poter fare più agevolmente non ti sia grave, se agli
onori della repubblica non sarai ricevuto, perchè la republica tenera de’ tuoi riposi
non vuole impedirgliti, e per ampio privilegio per hora, e per sempre libero te ne fa (1). »
Ed il BoccatINI così dice: grandissima cura deve avere il principe sopra la ge-
nerazione, principalissimo ornamento, riîchezza e fortezza di uno stato. Il turco per
aver figliuoli ammette bastardi; noi abbiamo la primogenitura, e perchè non è bene
comandare i matrimoni, devono i principi allettare gli uomini alla procreazione col
mostrare agli ammogliati particolare inclinazione ed aiutarli e favorirli in ogni occa-
sione, dando ad essi anche onorevoli titoli (2).
CAMPANELLA invece più che della quantità si preoccupa della qualità della popo-
lazione, e nella sua Città del Sole pone come uno dei triumviri l'Amore, il quale ha
l’ufficio di sorvegliare la generazione, procurando che l’unione amorosa accada fra in-
dividui talmente organizzati che possano produrre un eccellente prole. E il CAMPANELLA
aggiunge che gli abitanti di questa repubblica si fanno beffe di noi, che affaticandoci
pel miglioramento delle razze dei cani e dei cavalli, totalmente trasandiamo quella
degli uomini (3). Alcuna donna prima del decimonono anno non può consacrarsi alla
generazione e gli uomini devono aver passato il ventesimo primo, ed anche più se
gracili di complessione (4). Nella Città del Sole si nega esser naturale all'uomo, onde
educhi con vantaggio la prole, il possesso d'una moglie, d’una casa, di figli e dicono
con S. Tommaso, che scopo alla generazione è il mantenimento della specie e non
dell'individuo. Il filosofo non può approvare ciò che le nostre leggi hanno stabilito ,
cioè che un uomo debba rimanere sempre colla stessa donna ancorchè sterile (5).
(1) AMMIRATO, Discorsi, pag. 84, 85 e 86.
(2) BoccaLini, Commentari sopra Cornelio Tacito, pag. 202.
(3) CampaneLLa, Città del Sole, pag. 243.
(4) Id., Op. cît., pag. 252.
(5) Id., Op. cit., pag. 255 e Questioni sull’ottima republica, pag. 304.
240 È LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
Ma sia che si propugni la maggior possibile moltiplicazione degli uomini, sia che
si ricerchi piuttosto il miglioramento della loro specie, ciò non significa esporre una
teoria della popolazione, come viene intesa dagli economisti. Il vero principio di po-
polazione consiste nello stabilire il rapporto fra la generazione e i mezzi di esistenza,
e desso, appena accennato dal CAmPANELLA e da CHIARAMONTI, viene esposto mirabil-
mente da Botero.
« La natura, dice il CAMPANELLA, produce tanta gente quanto cibo ha per nu-
trirla e perchè non hasta altri muoiono, altri nascono e quando è la nascita sover-
chia li trasporta altrove e fa colonie (1). » E meglio il CHIARAMONTI: « Se a noi
stesse l’eleggere il territorio si dovrebbe elegger grande e ferace di tutte le cose;
sicchè fosse bastevole non solo ad alimentare il presente numero di cittadini, ma molto
maggiore per l’augumento della generazione; quando non s’interponga mortalità, o guerra,
che tale accrescimento restringa; con ciò sia che computando gli sterili coi fecondi
più di duoi figli avrà ciascun matrimonio; sì che per lo meno i generati avanzeranno i
genitori per metà di numero. Laonde in poche generazioni crescerà di gran vantaggio
la moltitudine de’ cittadini che bisogna del suo territorio si nutrisca, altrimenti in-
convenienti grandi nascerebbono (2). »
Ma ecco come BoreRo si pone il problema della popolazione e come magistral-
mente lo spiega: da che cosa dipende, egli dice, che le città non crescono indefinita-
mente? Perchè Roma da tremila e trecento uomini di guerra che aveva sotto Romolo
arrivò fino 450,000 e poi non passò oltre? Perchè Milano e Venezia da quattrocento
anni a questa parte hanno la stessa popolazione? Molti dicono ciò dipendere dalle
pesti, carestie, guerre e altre simili cagioni. Ma tutte queste cause sono sempre
esistite, e con esse le città principiate con poca gente arrivarono ad un numero
grande di abitanti; ora perchè non vanno proporzionatamente crescendo ? Perchè l’uman
genere trova un limite alla sua moltiplicazione? (3).
Due sono gli elementi della questione, continua l'illustre politico: la virtù ge-
nerativa degli uomini e la virtù nutritiva delle città; la virtù generatrice senza dubbio
è sempre uguale, onde se non vi fosse altro impedimento, la propagazione degli uomini
crescerebbe senza fine e l’aumento delle città senza termine. L’impedimento deve
dunque consistere nel difetto di alimentazione. Il nutrimento si cava o dal contado
circonvicino o dai paesi altrui. Ma per trasportare da’ luoghi lontani il nutrimento è
necessario superare moltissimi ostacoli, tanto grandi talvolta da vincere ogni diligenza
e industria umana. E poi non è possibile affidarsi per una cosa così importante a
mezzi lontani, che possono facilmente venir meno o per guerre o per chiusura di passi
o per mancanza di sicurezza nelle strade. E così il genere umano, cresciuto fino ad
una certa moltitudine, non è passato innanzi, e sono tremila anni che il mondo era
così pieno come è al presente, perchè i frutti della terra e la copia del vitto non
comportano maggior numero di genti. Cominciarono gli uomini a propagarsi nella Me-
sopotamia , e crescendo, di mano in mano si allargarono di qua e di là; e avendo
(1) CAMPANELLA, Arbitrio 0 discorso primo sopra l'aumento delle entrate del regno di Napoli,
pag. 336.
(2) CaiaRAMONTI, Ragione di Stato, pag. 274.
(3) Borero, Delle cause della grandezza e magnificenza delle città, pag. 361-62.
DI CAMMILLO SUPINO 241
riempito la terra ferma traghettarono nelle isole del mare e dai paesi nostri arri-
varono a poco a poco alle terre che noi chiamiamo mondo nuovo: e non è cosa
per la quale si combatta con più crudeltà, che il terreno, il cibo e la comodità
dell’abitazione. Nel mondo nuovo diversi popoli si nutrono dei loro simili; e le
genti peruviane vendono per poco i loro figli per impossibilità di allevarli e di nu-
trirli. È cosa nota poi quante volte i Galli, Teutoni, Goti, Unni, Avari e Tartari, non
potendo per l’infinita loro moltitudine vivere nelle patrie loro, sieno usciti fuori dai
loro confini, occupando il paese altrui con sterminio degli abitanti.
I fossi, le siepi, i ripari delle proprietà, continua il BorERO, non significano forse
che il mondo è stretto per gli uomini che vi sono? E oltre a ciò se si pensa a tutti
i mali che affliggono l'umanità, le guerre, le carestie, le pestilenze, le inondazioni e
tanti altri accidenti che distruggono ora una città ed ora un’altra, si vedrà che non
è possibile che il numero degli uomini cresca indefinitamente (1).
Per rimediare all’eccesso di popolazione gli scrittori di quest'epoca trovano molto
utili le colonie; il cui nome, da quanto dice il BoreHINI, ci dà un'idea della vera
natura della cosa, perchè ci mostra che il principio e l’origine di esse viene dal col-
tivare e lavorare i terreni, e coloni erano veramente quelli che noi diciamo coltiva-
tori. In principio infatti quando avanzava terreno nel contado e popolo nelle città ,
come le api fanno, chi n’avea l’autorità inviava e quasi gettava uno sciame, dando
loro i terreni per lavorare e un luogo proprio per abitare, e fortificandolo secondo
la qualità e il numero delle persone (2).
Lo stesso concetto manifesta il BoreRo: come le piante moltiplicano fuori dei
vivai dove furono seminate più che se si lasciassero sempre dentro, e come le api si
moltiplicano con la cavata degli sciami fuori dei copili, che se vi restassero morireb-
bero o di disagio o di contagione, così molti che rimanendo nella patria, per man-
canza di aiuto, perirebbero e, per povertà, non si accaserebbero nè lascierebbero prole,
mandati nelle colonie e provvisti di case e terreni fanno l’uno e l’altro. E le colonie
si possono dire utili quando servono a dare sfogo alla parte superflua della popolazione,
quando tolgono il sangue soverchio e corrotto, non quando prendono la parte sana (3).
CamPANELLA così ci descrive le norme da seguirsi nel fondare le colonie: esse
possono essere dei propri cittadini, del capo dell’imperio o dei convicini, e devono esser
poste in tante città, quante bastano a mantenere la provincia occupata. Le città nelle
colonie di repubblica stanno meglio sul monte, se di monarchia nel piano ; se la mo-
narchia è in mare sui lidi, se nel continente in luogo opportuno per mandar soccorsi.
Per crescere assai le colonie stanno bene sui fiumi, nei piani e nei lidi per il tra-
sporto delle vettovaglie. Gli abitanti devono essere quanti bastino alla difesa e quanti
la terra può nutrire (4).
Ma ad onta delle colonie, in uno stato rimangono sempre delle persone che non
trovano lavoro e che vivono in miseria; essi devono essere soccorsi, dicono i politici
(4) Borero, Op. cît., pag. 362-67.
@) Vincenzo BoreHINI, Dei Municipi e Colonie romane, nei Discorsi, Parte I, Fiorenza 1584,
pag. 367-69.
(3) Borero, Ragion di Stato, pag. 2140-41.
(4) CAMPANELLA, Aforismi politici, pag. 19.
Serie II. Tom. XXXIX. À 81
242 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
di quest'epoca, ma lo devono essere in modo intelligente. Non è dubbio, così si esprime
il LortINi, che tutti i sovvenimenti fatti a’ poveri per pietà cristiana siano buoni, ma
conviensi nondimeno avere gran considerazione di non dar materia alla pigrizia di molti,
i quali confidando del tutto nelle altrui speranze, se ne stanno a man giunte, ed oltra
che vengono a tòrsi da quella industria che dovrebbero per comodo loro e del pub-
blico esercitare, privano ancora del sovvenimento, che loro si dovrebbe maggiore, gli
altri che sono veramente poveri (1). E la precisa idea sostiene il PIccoLUOMINI, con-
sigliando di non aiutare « in maniera i cittadini poveri che senza sperare, o temere
di sè stessi cangino l'industria in pigrizia e fatti sicuri dell’ altrui continuo sussidio
si rendino negligenti o vili a lor medesimi , gravi, et importuni a regnatori (2). »
Ed ora dopo avere esposto in ordine logico e storico le idee, che sulla popola-
zione e sulle questioni affini ci fu dato di rintracciare negli autori di quest’epoca,
sottoporremo le loro teorie ad un esame critico, per giudicare dell’importanza che esse
hanno per la storia dell’Economia politica. E prima di tutto cominceremo dal dire
che quegli autori, i quali, come l’AmmrraTo e il BoccaLInI, si sono limitati a descri-
vere i vantaggi che uno Stato trae dall'aumento dei suoi abitanti, non ci pare che
abbiano detto una cosa molto nuova nè troppo giusta. Non nuova, perchè questa è
un’idea comune agli scrittori di tutte le epoche; non giusta, perchè non hasta desi-
derare e promuovere l’aumento della popolazione, ma bisogna studiare come essa tro-
verà nel paese i mezzi per sussistere e prosperare. Ed è questa parte del problema
cui accenna CAMPANELLA, quando dice che la natura produce tanta gente quanto cibo
ha per nutrirla; è questa parte del problema che fa dire al CHIARAMONTI che la po-
polazione che si nutrisce dal territorio di un paese, se trova alimenti, si può molti-
plicare all’infinito; è questa parte del problema che Borero ha profondamente inve-
stigato. Il Borero, oltre aver posta nelle sue vere basi la questione, ha il merito
grandissimo di avere per il primo indicato che l’ aumento della popolazione dipende
da due elementi: dalla virtù generativa degli uomini e dalla virtù nutritiva delle città,
e che essendo la prima illimitata, l’ostacolo all’aumento non può venire che dalla se-
conda. Non è che leggendo il famoso primo capitolo del libro di Malthus, scritto più
di due secoli dopo, che si può capire l’importanza che ha per la storia delle idee
economiche il concetto da cui parte l'illustre politico piemontese. Il quale, come Mal-
thus, descrive certe abitudini prevalenti in paesi barbari, dimostrando come esse sieno
la conseguenza del principio di popolazione, e collo stesso criterio spiega benissimo le
cause che davano luogo alle emigrazioni dei popoli antichi, preceduto in ciò, a dire
il vero, da Nicolò Machiavelli. (3). Importantissima pure ci sembra 1’ osservazione
del Borero che l’esistenza della proprietà privata è un segno della limitazione della
terra rispetto agli abitanti; perchè, come direbbe un trattatista moderno di scienza
economica, nessuno sente il bisogno di appropriarsi ciò che si trova in quantità illi-
mitata.
(1) LortINI, Avvedimenti civili, Avv. 241, vol. II, pag. 7.
(2) Ascanio PiccoLuomini, Avvertimenti Civili , estratti dai sei primi libri degli Annali di Tacito,
in Fiorenza 1609, pag. 35.
(3) MacHiaveLti, Istorie Fiorentine, libro I, $ 4.
DI CAMMILLO SUPINO 2483
Esaminando attentamente queste idee e considerando come esse non abbiano pre-
cedenti negli scrittori italiani e stranieri, non esitiamo a dichiarare il Borero un valente
precursore di Malthus. Noi non sappiamo se Malthus conoscesse il libro Sulla gran-
dezza delle città, anzi non lo crediamo, perchè in tal caso, egli avrebbe messo il
nome del suo autore accanto a quelli di Montesquieu, Franklin, Joung e Townsend,
che egli cita come primi espositori del principio di popolazione (1). Ma ciò non toglie
al BorEro il merito di avere svolto due secoli prima le stesse idee, che Malthus dopo
elevò all’altezza di un sistema completo di filosofia sociale. E perchè non ci si creda
acciecati da patriotismo in quest’asserzione, citiamo a valida conferma di essa l’'illu-
stre e competentissimo Roscher che grandemente elogia « Botero’s klare FRinsicht in
die Naturgesetze der Bevéòlkerung, worin er Malthus zum Theil sogar @bertrifft, und
in die Bedingungen der grossen Stidte insbesondere (2). »
Dopo la teoria del BorEro, poco altro abbiamo da notare d’importante nelle idee
sostenute dagli autori citati in questo capitolo; e solo accenniamo ai savi principî di
politica sul pauperismo, sostenuti dal LotTINI e dal PiccoLvomINI, che sono gli stessi
che potrebbe difendere uno scrittore del nostro secolo, appoggiandosi ai criteri della
scienza moderna.
CAPITOLO XII.
Carestia e annona.
In epoche in cui il commercio ed i mezzi di trasporto sono poco sviluppati, è
molto difficile rimediare agl’inconvenienti che resultano dalla mancanza del raccolto
di generi alimentari che si manifesti in un paese; e la carestia, che ne è la conse-
guenza, fa strage specialmente nella parte più povera della popolazione, dà origine a
malattie e contagi, provoca sommosse e rivoluzioni, senza che la libera azione degli
interessi economici possa dar luogo a rimedi o a compensi. In tali epoche l’ovviare a
questi inconvenienti costituisce uno dei problemi più ardui attorno a cui si affaticano
legislazione e scrittori; onde non deve recarci meraviglia se sulla carestia e sui mezzi
di porvi riparo tanti materiali si trovino nei libri e nelle leggi dalla seconda metà
del cinquecento alla prima del seicento.
Noi non possiamo avere un’idea del modo violento con cui si manifestavano allora
le carestie. Ecco, per esempio, come descrive le condizioni di Napoli nel 1621, l’a-
gente del Granduca di Toscana: « Qui si sta senza pane e senza vino, con imposi-
zioni di nuove gabelle, che piaccia a Dio che questo popolaccio non faccia qualche
sollevamento. La città ha fatto il partito dei grani a 26 Carlini il tomolo, mentre
per il passato lo faceva a 18, e se non lo fa subito ne voglion 30 » (3). « Qui si
(1) T. R. MaLtBUS, An Essay on the principle of population, London 1872, pag. vi.
(2) RoscHer, Geschichte ecc., pag. 166. — Il BauDRILLART invece che, a quanto pare, conosce del
Botero solo la Ragion di Stato, afferma che il principio di popolazione è accennato dal politico pie-
montese, ma non svolto nè dimostrato. Bodin et son temps, pag. 108.
(8) Documenti sulla storia economica e civile del Regno, cavati dal carteggio degli agenti del
Granduca di Toscana in Napoli (1582-1648), nell'Archivio Storico Italiano, 4® Serie, tomo IX, Fi-
renze 1846, pag. 264.
i 244 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
contano li homeni per quartieri e per le case e si sta in tanta necessità che danno
5 tornesi di pane per bocca, che sono 10 quattrini lo dì. Qui è penuria di ogni cosa
per lo vitto umano » (1). « La carestia è per lo Regno tanto grande che vengono
le comunità insieme in Napoli e vanno gridando per la città, pane, pane. Ed è ca-
lata tanta poveraglia, che piaccia al Signore che questa città non si appesti; perchè
le genti muoiono per le strade, e non ci si piglia niuno espediente; e siamo inquietati
e di di e di notte, che oramai non si può più vivere » (2). E in un’altra lettera
l’agente stesso scrive: « qui spiritiamo dalla fame (3). »
L’ambasciatore veneto Francesco Vendramin nella sua relazione sulla Savoia rac-
conta che,-al tempo della sua dimora, quello stato patì una tal carestia che morirono
300,000 persone in due anni per mancanza di viveri, e la gente si trovava morta
per: la strada con l’erba in bocca (4).
Nè meno raccapricciante è la descrizione dataci dal Padre G. B. SEGNI, della fame
che devastava gran parte d’Italia nel 1602. La carestia è così grande, egli dice, che
quel che soleva essere cibo d’animali immondi, è cibo degli uomini e ve ne fusse pure.
Neppure le fave ‘e gli altri legumi si mescolano per farne il pane, ma le radici del-
l’erba e la gramigna. Chi vuol vedere la miseria di questa presente carestia, continua
il nostro autore, dovrebbe andare in certe città, « sentirebbe tutto il popolo gridare;
la plebe vedria con ragione tumultuare; i poveretti stridere all’aria; i contadini di
fuora isclamare a più potere; li spedali empirsi; le porte de’ ricchi intonarsi di mi-
serabili voci; la piazza ripiena di furori; i fondachi, e caselli attorniati da gente ca-
lamitosa, e infelice; gridando la terra, e sospirando l’aria, gemendo il cielo per ca-
gione di tanta penuria, e d’una sì insopportabile carestia (5). »
Quali sono le cause che danno origine a così terribili flagelli? Secondo il SEGNI
medesimo la fame può essere punitiva mandata da Dio; conseguenza di assedi; causata
da soverchio caldo, secco, freddo o umido; da mancamento di pioggie; da soverchia
pioggia; da grandine o tempesta; da mancamento di agricoltori, e peste; da celesti
influssi; da invasione di rughe, locuste o grilli; causata dall’ avarizia umana, o dal
malo governo, da mancamento di venti, da venti cattivi e infine dall’altrui golosità (6).
E per parlare fra tutte queste cause solo di quella che si riferisce a principî
economici, diremo che il SEGNI, come in generale tutti gli scrittori del suo tempo,
attribuendo la carestia all’avarizia umana, intende alludere ai negozianti di grano,
questi monopolisti, come egli li chiama, i quali hanno intendimento fra di loro, sono
uniti tutti insiome con la mercanzia, e la sostentano, acciò tutti vadino a comprare
da loro, e quanto caro essi vogliono. Dio ci dona,della sua grazia, esclama il nostro
autore, e questi avaroni ce la guastano, o ce la tolgono! (7) E più oltre: Contra
questi mostri infernali, divoratori della povera famiglia di Cristo, devono i Prelati,
(1) Documenti ecc., pag. 265.
(2) Zd., pag. 266.
(3) Id., pag. 288.
(4) Relazioni degli Ambasciatori Veneti al Senato, raccolte da E. ALBERI, Ser. II, vol. V, pag. 167.
(5) Gio. BarTIstA SEGNI, Trattato sopra la carestia e fame, sue cause, accidenti, provvisioni, reg-
sgimenti ecc., Bologna 1602, pag. 54.
(6) Secni, Op. cit., pag. 10-43.
(7) Id., Op. cit., pag. 29.
DI CAMMILLO SUPINO 245
@ Vescovi con impeto di santo zelo fulminare senza rispetto, e senza ritegno scomu-
niche tremendissime e adoperare tutta la lor’ autorità spirituale (1). »
Anche CAMPANELLA si scaglia, quantunque con molta più moderazione, contro i
mercanti di grano. La carestia, egli dice, nasce dall’arte negoziatoria, chè i mercanti
comprano tutti i frumenti e li tengono finchè fanno affamare la gente e li vendono
a prezzo triplicato e quadruplicato; e quando non trovano sufficiente guadagno, aspet-
tano quattro o cinque anni e li vendono poi puzzolenti o mischiati con altro grano
e fanno venire oltre la fame la pestilenza (2). E così pure Carlo di Tapia dice che
la mancanza di frumento « si cagiona primieramente da quelli, li quali comprano il
grano, e l’occultano o nelle fosse o in altri luoghi, per riservarlo poi al tempo del
mancamento del grano, acciocchè si venda a prezzi maggiori (3). »
Come mai questi scrittori pongono il commercio dei grani fra le cause precipue
della carestia? È ciò la manifestazione di un pregiudizio popolare o la conseguenza
di condizioni speciali di quell’epoca? Nella carestia dobbiamo distinguere quello che
costituisce l'essenza del male daî suoi sintomi; l’essenza consiste nella mancanza di
frumento, il sintomo principale è l’altezza nel prezzo dei grani. Questa dunque non
è la causa, ma l’effetto della mancanza di generi alimentari, e effetto benefico perchè
da un Jato limita il consumo e dall’altro alletta i venditori a portare al mercato
quanto hanno nei loro magazzini e provoca l'importazione, arrecando così doppiamente
rimedio al male (4). L'interesse degli speculatori di grano non si trova dunque, come
vuole il pregiudizio popolare, in opposizione con l’interesse bene inteso dei consuma-
tori, molto più che se gli speculatori volessero farsi pagare troppo caro il seryizio che
rendono alla società, comprando nell’abbondanza per vendere in epoche! di scarsità,
troverebbero nella concorrenza mondiale un limite alle loro pretese esagerate. Ma se
questo è vero pei nostri tempi, poteva esserlo ugualmente nell’epoca in cui scrivevano
gli autori da noi citati? No, perchè la navigazione e i mezzi di trasporto per terra
erano incerti e lenti, il commercio dei grani mon aveva assunto la forma rego-
lare che ha oggi, ed era anzi vincolato o proibito dalla legislazione. Cosicchè quando
gli speculatori arrivavano a raccogliere una forte provvista di grano, potevano eser-
citare un vero monopolio; e se gli scrittori si lasciavano trasportare dal pregiudizio
popolare quando attribuivano le carestie ai negozianti di grano, erano in parte giu-
stificabili però quando condannavano quelli speculatori, i quali, valendosi della loro con-
dizione speciale guadagnavano quanto volevano a danno del popolo. Oltre di che, come
la proibizione dell’usura ha fatto sempre aumentare l'interesse, per il rischio inerente
all’infrazione della legge, così i vincoli posti al commercio dei grani, già per sè stesso
così difficile in quel tempo, dovevano provocare guadagni esorbitanti per quelli che
vi si consacravano. Da quì una nuova causa di attacchi contro di essi da parte deg
(4) SEGNI, Op. cit., pag. 32.
(2) CamPanELLA , Arbitrio o Discorso primo sopra l'aumento delle entrate del regno di Napoli
pag. 3259-26.
(2) CarLo DI Tapia, Trattato dell'abbondanza, nel quale si mostrano le cause, dalle quali procede
il mancamento delle vittovaglie, et i rimedi, che a ciascuno si possono dare, acciò non succeda, 0
succeduto, non si senta il danno di esso, in Napoli 1638, pag. 33.
(4) W. Roscarr, Nationalòhonomik des Acherbaues und der verwandten Urproductionen,
Stuttgart 1860, pag. 411.
246 È LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
scrittori, i quali non si accorgevano di aggirarsi in un circolo vizioso, quando deside-
ravano fosse impedito il traffico dei generi alimentari, mentre poi si lamentavano se
queste derrate per una tal ragione, aumentavano tanto di prezzo.
Quali sono i rimedi contro la carestia, proposti dagli scrittori o adottati dalla
legislazione di quest’ epoca? Essi sono molti e di diversa specie, e noi li esporremo
seguendo il Segni, che ha una monografia completa sull’argomento, e aggiungendo via
via tutto quanto ci fu dato rintracciare sulla stessa materia in altri autori o nelle leggi.
Il principale rimedio contro la carestia è, secondo il SEGNI, che i ricchi facciano
elemosine ai poveri; perchè come vediamo per esperienza, che stando male un membro
del corpo tutti gli altri per naturale affezione ad aiutarlo si rivolgano, così non essendo
tutti gli uomini se non un sol corpo, stando male i poveri devono i ricchi porgerli
aiuto con le elemosine (1). « Di più, continua il nostro autore, se l’estrema neces-
sità fa communi le cose proprie al vivere necessarie; se per legge di giustitia noi
siamo obbligati impiegare ad uso pio quello che n’avanza, considerata dello stato nostro
la qualità; se non è lecito a’ religiosi di negotiare, ed all’avaritie attendere; se quello,
che appetisce l’huomo più dell’onesto è guadagno brutto e illecito; se la sollecitudine
in conservare quelle cose, quantunque nostre, che potrieno servire in sostegno di molti
per farsene, oltre all’uso conveniente, abbondanza e delicie, viene biasimato grande-
mente: può molto chiaro conoscere ogni prelato, e religioso ricco, quanto sia tenuto
di fare in questi frangenti di carestia, e per gloria di esso Dio, e per edificazione
del popolo (2). »
Anche l’AmmiraATO consiglia i predicatori a confortare i poveri alla pazienza, i
mediocri all’astinenza e i ricchi alla liberalità ed aggiunge: utile consiglio sarebbe di
fare due libri ad eterna memoria del fatto, in uno dei quali fossero scritti i nomi
di quelli che hanno giovato ai poveri e nell’altro quelli che hanno tenuto in serbo
il grano per avarizia, avendo dimostrato quanto poca sia in loro la carità e quanto
dell’oro abbian reputato più vile la vita umana (3).
Per mantenere più che sia possibile l'abbondanza nelle città, il SEGNI propone
ai legislatori d’imitare quanto aveva fatto in Bologna il vice-legato Spinola, il quale
aveva proibito con bandi severissimi l'esportazione e l’incetta di derrate alimentari (4).
Le stesse proibizioni sono raccomandate dal Caputo, che così si esprime: si deve
assolutamente inibire l’uscita dallo stato del frumento, ed impedire che ricettatori
spinti da avarizia, lo facciano; non lasciando andar via grano, se prima non si è
provveduto completamente il luogo dove esso è cresciuto, poichè prima caritas incipit
a se ipso (5). Bisogna badare, dice l’AmmrrATO, che non si mandi via il grano dallo
stato, perchè ciò sarebbe come se un fattore avendo usata diligenza squisitissima nel
far la ricolta e rimessala in casa con ogni industria possibile, abbia poi lasciato ciò che
v'è spalancato per esser preda dei ladri (6). Il BruSANTINI invece vuole che l’espor-
(1) SeGnI, Op. cit., pag. 89.
(2) Id., Op. cit., pag. 83.
(3) Ammirato, Discorsi, pag. 249-50.
(4) SEGNI, Op. cit., pag. 90-93.
(9) Agostino Caputo, De regimine reipublicae, Neapoli 1624, pag. 263.
(6) Ammirato, Op. cît., pag. 243-44. — DI Tapia, Op. cit., pag. 47.
DI CAMMILLO SUPINO 247
tazione sia proibita solo nel caso che il raccolto non basti per il consumo del paese,
e propone che non si permetta di estrarre biade dallo stato prima di averle descritte
e numerate, dopo di che, se se ne troverà assai più del bisogno, si concederà ad
ognuno graziosa licenza di far del rimanente quel che vorrà, Ma se nel paese non
ci sarà abbastanza grano, chi ne ha di soverchio dovrà esser costretto a darlo allo
stato per servizio del popolo al prezzo corrente, ed il principe, fatta la descrizione
delle bocche, farà venire il resto di fuori (1). Il BoccaLini, sempre pronto a dir male
del governo pontificio, critica i papi perchè davano ai loro parenti anche l'industria
di cavare dallo stato grani in quella quantità che essi volevano con tanta rovina,
ingiuria e danno del popolo. Mentre il principe, continua l’arguto politico, deve fare
in modo che non solo il grano che nasce nel suo stato non si porti fuori per qual-
sivoglia cagione e da qualsivoglia persona, ma deve anche cercare che se ne conduca
dagli altri paesi (2).
Per impedire l’esportazione dei grani, numerosi sono gli editti emanati in que-
st'epoca nella Toscana (3), nel Piemonte (4), nel Napoletano (5), nella Sicilia (6),
e nel Trentino (7); mentre l'importazione di generi alimentari è favorita con ogni
mezzo. Nella Corsica chi portava grascie o vettovaglie per un valore di 100 lire non
poteva esser molestato dai creditori, nè nella persona nè nei beni, per un mese dal
giorno che aveva sbarcato le predette cose nell'isola (8). Gli Statuti di Roma ordi-
nano si lasci libero passaggio ad ogni merce destinata per l’annona e proibiscono di
imporre tributi per qualunque causa ai mercanti che portano animali o grascie (9).
E gli Statuti di Trento, severissimi nell’impedire l’estrazione dei grani, stabiliscono
che ognuno possa liberamente e sicuramente condurre nello stato ogni sorta di vet-
tovaglie (10).
Ma oltre che a impedire l’esportazione e a favorire l’importazione dei grani, la
politica economica di questi tempi, come abbiamo detto, era diretta a proibire
l’incetta delle derrate alimentari, la quale, secondo il SEGNI, « causa alteratione di
prezzo (11) »; onde la libertà di comprare per rivendere, a quel che dice il LuNnETTI non
solo deve essere ristretta, ma proibita e castigata (12). Un editto del Granduca di
Toscana impone severissime pene « per estirpare quest’abbominevole traffico », con-
siderando che molte volte occorre che l’arte di quelli che attendono a sì detestabile
mancanza d'incettar grani, e biade, è quella che fa star i prezzi in gran parte mag-
giori di quello che naturalmente, e ragionevolmente non dovrebbono, e che gli uomini
(4) PaoLo BrusanTINI, Dialoghi de’ Governi, Modena 1611, pag. 4.
(2) BoccaLini, Commentari, pag. 309.
(3) CANTINI, Legislazione Toscana, vol. III, pag. 205-7 e 287-92; vol. VI, pag. 290-95; vol. VII,
pag. 90-91, 91-93, 93-95 ece.
(4) BoreLLI, Editti, pag. 614, 6014-16 e 6417-30.
(5) Pragmaticae, Edicta, Decreta ecc., vol. I, pag. 4128-30 e 546,
(6) Pragmaticarum regni Siciliae ecc., vol. II, pag. 277-79-80.
(7) Statuti di Trento, pag. 192.
(8) Statuti civili e criminali di Corsica, pag. 79.
(9) Statuta almae Urbis ecc., pag. 804-5.
(10) Statuti di Trento, pag. 193.
(41) SeanI, Op. cit., pag 92.
(42) VertorIo LuNETTI, Politica mercantile, in Napoli 1630, pag. 57.
248 : LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
acciecati dal guadagno cercano il sangue dei poveri (1). Un decreto di Carlo Ema-
nuele I di Savoia stabilisce certe norme speciali « per rimediare alle ingordigie di
molti che, anteponendo l’utile particolare al beneficio comune, potrebbero con diversi
modi causare una nuova carestia (2). » Moltissime sono poi le prammatiche ema-
nate in Napoli contro quelli che comprano derrate alimentari al di là dei loro bi-
sogni (3), « per rivenderle ai tempi che ad essi piace, a prezzi eccessivi în danno
del pubblico (4) », immagazzinandole e infossandole per poi « nutrirsi di sangue
umano (5) », o approfittandosi del raccolto abbondante per far incetta di grani (6).
Contro chi fa questo, le prammatiche comminano pene di confisca, multe e fin anche
galera a vita o morte (7), ordinando nello stesso tempo che chi ha grani debba
tenere le fosse aperte, vendendoli a chi ne ha bisogno ai prezzi correnti (8). Ed anche
negli Statuti di Trento si ordina che nessun rivenditore possa comprar grani, « se-
gnatamente i mugnai, ai quali è pure proibito avvicinarsi ai sacchi (9). »
Continuando ad esaminare i rimedi contro le carestie, il SEGNI, affinchè i panat-
tieri non marichino di farina, propone che essi comprino direttamente il grano da chi
l’ha, senza l’intermediario di sensali, in giorni stabiliti di mercato e ai prezzi notati
e descritti da valere fino alla raccolta prossima (10). Ed il CaPUTO, che è della stessa
opinione, consiglia di punire chi vende a prezzi più alti di quelli fissati per legge,
e vorrebbe anche che si stabilisse ogni giorno quanto pane cotto deve esser venduto
ad ogni cittadino (11). Che più? Si arriva a proporre perfino di proibire che si fac-
ciano ciambelle, schiacciate ed altri pani fini, che si fabbrichi farina d’amido, e che
si venda il pane caldo (12); e a Firenze troviamo tale idea messa in pratica fin dal
1590 in un decreto che proibisce ai fornai di fare « pan ducale e altri pani e paste
di più sorte », permettendo loro di far solo il pane ordinario (13).
Nel capitolo provisione per li contadini, il SEGNI consiglia di sorvegliare i lavo-
ratori dei campi, perchè nel seminare il grano non ne rubino, e a questo scopo vor-
rebbe vedere adottato uno strumento speciale per seminare, che impedirebbe i furti.
Ma nello stesso tempo però per vantaggiare i contadini che hanno debiti o affitti da
pagare in derrate, lo stesso autore propone, che in tempo di carestia, essi possano:
pagarli « a ragione ordinaria del buon tempo (14). »
Una proposta che si trova in molti scrittori, e che era anche largamente ap-
plicata dai governi, era quella di fare ogni anno la statistica esatta delle derrate
(1) CanTINI, Op. cit., vol. III, pag. 56-59. Vedi pure: vol. V, pag. 28-34 e vol. VI, pag. 83-89.
(2) BorELLI, Editti, pag. 6414-45.
(3) Pragmaticae ecc., vol. I, pag. 1341-32.
| (4) Vol. cit., pag. 132-34.
(5) Vol. cit., pag. 135 e 4137-38.
(6) Vol. cit., pag. 139.
(7) Vol. cîit., pag. 138.
(8) Pragmaticae ecc., vol. I, pag. 140.
(9) Statuti di Trento, pag. 165. ’
(10) Segni, Op. cit, pag. 93-96.
(11) Caputo, Op. cit., pag. 263.
(12) SEGNI, Op. cit., pag. 96-98.
(13) CantINI, Legislazione, vol. XIII, pag. 4175-76
(44) SEGNI, Op. cit., pag. 98-99.
DI CAMMILLO SUPINO 249
alimentari esistenti nel paese, esigendo da ognuno la denunzia delle biade possedute,
con indicazioni precise dei luoghi dove si trovavano (1). In una prammatica di Na-
poli si trova scritto, che per provvedere all’abbondanza del Regno « non solo è con-
veniente, ma è necessario ogni anno avere la vera e particolare notizia dei grani ché
in quell’anno sono raccolti, acciocchè non segua, che essendo quantità assai di grani
in Regno, e credendo chi governa, che sia minore, si faccia renitente a concedere la
detta tratta, e causi danno a quei sudditi, che concedendosi si valerebbero del prezzo
de’ loro grani, e per contrario credendosi, che vi sia quantità soverchia concedesse la
detta estrazione, e non essendovi tal quantità, si causasse penuria al Regno; i quali
inconvenienti cesserebbero, avendosi la detta vera, e particolare notizia (2). »
Un altro espediente da adottarsi in tempo di carestia, secondo il Sereni, è di
mandare via dalla città i forestieri che non vi abitano da più di dieci anni, licen-
ziandoli ogni giorno quartiere per quartiere, tenendo sempre indietro e con speranza
i più ricchi e dichiarando con molta tenerezza la necessità che forza il principe a far
ciò (3). Lo stesso fece nel 1590 il Granduca di Toscana, non impiegando però troppa
tenerezza nel Bando che dava un tal ordine, il quale, considerando che i forestieri
si sfamano e mangiano quei grani che hanno da servire per servizio dei sudditi, ordina
« che tutti i forestieri che non sono sudditi originari dell'A. S., per qualunque scopo
siano venuti in questo Stato dal mese di marzo esclusive, devino fra sei giorni dalla
pubblicazione di questo bando andar via, ecc. (4). »
Ma l’idea, in cui generalmente si trovano concordi tutti gli scrittori di politica,
è che al principe spetti il mantenere l'abbondanza nei suoi stati, affidandone l’inca-
rico ad un magistrato e ad un ufficio appositi. Il re, secondo Aristotele, così dice il
MaANcINI, deve comportarsi col suo popolo come il padre verso i figli e i pastori verso
le pecore: il padre alimenta i figli, e i pastori fanno pascere il greggie, il re deve
nutrire il popolo suo e per questo infatti fu chiamato col nome di pastore fin dal-
l’antichità (5). Ed è questa un’azione tanto propria dei principi, aggiunge il PALAZZO,
che non solo essi debbono conservare i frutti che i campi del paese producono, ma,
divenendo talora infertile la terra per la stagione, debbono da lontanissime parti pro-
curare che vi sieno portati (6). La stessa opinione è sostenuta da Francesco ImPE-
RATO, il quale dice di più che il principe deve rimediare alla carestia colla propria
borsa senza gravare i sudditi (7), perchè, come sentenzia il FREZZA, non reca manco
gloria al principe la cura dell'abbondanza del vivere al popolo che il trionfar dei ne-
mici (8). L’AmmIrATO consiglia perfino al principe di occuparsi del traffico dei grani
anche personalmente (9); ed il PAcIanI, considerando i pericoli derivanti dalla man-
(4) SEGNI, Op. cit., pag. 102-3.
(2) Pragmaticae ecc, vol. I, pag. 4129-30.
(3) Seni, Op. cit., pag. 103-5.
(4) CantINI, Op. cit., vol. XIII, pag. 1472-73.
(5) CeLso Mancini, De juribus principatuum, Romae 1596, pag. 158.
(6) Gio. Antonio PaLazzo, Discorso del Governo e della ragion vera di Stato, in Venetia 1606,
pag. 180.
(7) Francesco ImPERATO, Discorso politico intorno al regimento delle piazze della città di Napoli,
in Napoli 1604, pag. 28-32.
(8) Fagio Frezza, Massime, regole, et precetti di stato e di guerra, in Venetia 1614, pag. 326.
(9) Ammirato, Op. cit., pag. 115. :
SERIE II. Tom. XXXIX. - 32
250 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
canza di alimenti, vuole che chi è capo dello stato procuri che la vettovaglia non
manchi, facendo quanto più può coltivare i campi sterili e bene coltivare i fertili,
facendo venir di fuori quanto occorre, e procurando di esser sempre fornito almeno
per tre anni, per difender lo stato dall’ avversa fortuna, senza sottoporlo all’ altrui
discrezione (1). Se nelle navi tutti i passeggeri dormono, giuocano e mangiano, dice
il CaPAccIO, il nocchiero però deve osservare tempeste future, venti che spirano, scogli
ove non urti; il popolo vive spensierato, ma il principe deve provvedere ad ogni fu-
turo male, rammentandosi che la plebe voleva lapidare un giorno Antonino Pio perchè
mancò il vitto (2).
. L’ufficio cui spetta mantenere l’ abbondanza nello stato è quello dell’ Annona.
Annona, come dice il Caputo, è la fertilità o sterilità di un anno, traendo dall’anno
il suo nome, e si chiama così la razione annua di cibo necessaria al popolo. La giu-
risdizione degli ufficiali dell’Annona si estende principalmente sul frumento, sul vino,
sull’olio e anche sulla carne (3). Essi devono, secondo l’AmmiraTo, badare a tre cose:
la compra, la conduttura del grano e la dispensazione del pane, imperocchè conviene
comprar presto, condurre con cautela e dispensare con avvedimento mirabile. Devesi
dunque calcolare il consumo medio di grano al mese per ognuno e moltiplicarlo per
il numero di abitanti del paese. Questa cura dell’abbondanza deve essere affidata ad
uomini molto abili (4). E come i principi, aggiunge il SEGNI, devono essere Grioseffi
negli anni fertili provvedendo per gli sterili, così anco devono essere Faraoni in com-
mettere i loro governi, e massime questa ‘cura dell’abbondanza, a persone di raro in-
gegno, industriose, pratiche e di santa mente, scacciando quelle, che per aver tale
ufficio e arricchirsi per mezzo dell’ira di Dio, implorano il flagello ‘della fame (5).
Il SEGNI si domanda poi se è più utile avere un solo ufficiale per l'abbondanza o
parecchi e conclude che è meglio averne uno, perchè quando sono molti la città ne
soffre danno, ciascuno volendo rubare per sè, e per li padroni, e amici, e famigliari (6).
Per mantenere l’abbondanza è necessario, secondo i politici di questo tempo, che
il principe abbia l'esclusivo monopolio del commercio dei grani. Il CAMPANELLA con-
siglia al re di Napoli di comprare tutto il grano del regno e rivenderlo con buona
coscienza alle provincie, ordinando che faccia ognuno magazzino comune e guadagnando
un carlino solo per tomolo. Similmente deve fare con le navi di grano che vengono:
comprarlo prima che lo prendano i negozianti per far magazzini privati e affamare
il popolo vendendolo il doppio, e darlo alle città che ne abbisognano con un carlino
di aumento. Così il Regno abbonderà sempre di grani, mentre hon si nascondano, e
varranno a vil prezzo; il benefizio che riceve il re, lo ha per la provvidenza che
mette in questo affare e per riscattare i popoli dalla tirannia degli usurai. I piccoli
possidenti, che hanno necessità di vendere il grano subito per comprarsi quello di cui
hanno bisogno, saranno ben lieti di trovarlo a vendere al governo, non potendo essi
(1) FuLvio PacianI, Dell’arte di governare bene i popoli, Siena 1607, pag. 353.
(2) Giunio Cesare Capaccio, Il Principe, in Venetia 1620, pag. 375.
(3) Caputo, Op. cit., pag. 261-62.
(4) AmmiraTo, Discorsi, pag. 243.
(5) Seni, Op. cit., pag. 105.
(6) Id., Op. cit., pag. 143.
DI CAMMILLO SUPINO 251
fare la speculazione di aspettare la carestia (1). Anche il LUNETTI propugna lo stesso
sistema e vi trova tre vantaggi: i massari, sapendo potere vendere il grano con cer-
tezza, ne coltiveranno anche in maggior quantità; la città non dipende più per l’ab-
bondanza che da sè stessa, e il governo guadagna mezzo milione e forse uno di du-
cati l’anno (2). Lo stato viene nutrito in tal modo come il corpo umano, e come
dallo stomaco i cibi vengono diffusi in tutte le membra, così i mezzi di nutrimento
accumulati nei magazzini pubblici vanno dove la necessità richiede a sollevare l’indi-
genza dei popoli (3).
Infiniti sono i vantaggi politici di questo sistema, perchè l’annona, come dice il
Capaccio, dà la pace ai popoli, e sebbene dal cielo dipenda l'abbondanza, tuttavia
la prudenza di chi governa ha da essere diligente in maniera che nel molto conservi
e nel poco non lasci perire (4). L’abbondanza, esclama il SeonI, è il nerbo della
guerra, e il trionfo della pace; è la disperazione dei nemici, la sicurezza delle cit-
tadi, il presidio e il sussidio delle ròcche, la grandezza del principe, la pompa dei
signori e l’allegrezza del popolo (5).
Tutti gli stati d’Italia avevano in questo tempo l’ ufficio dell’ abbondanza; in
Firenze per esempio, era stato istituito un magistrato composto di otto cittadini de-
nominati prima Officiales de Blado Platee Orti S. Michaelis, e poi semplicemente
Ufficiali dell’abbondanza, i quali compravano biade dove le trovavano a meno, e do-
vevano anche giudicare le cause che riguardavano trasgressioni delle leggi annonarie.
In antico questi ufficiali andavano ogni anno il 3 febbraio sulla torre d'Or S. Mi-
chele per visitar la campagna e dal suo verdeggiar più o meno regolavano le loro
compre di grano (6). I grani comprati erano riposti in ciascun comune in magaz-
zini con tre chiavi, delle quali una ne teneva il capo dei rappresentanti del luogo,
un’altra il camarlingo e la terza il cancelliere; e ogni quindici giorni andavano a
vedere se il grano pativa. Quando veniva l’ordine di farne la vendita, gli ufficiali ne
mettevano in piazza quella quantità che giudicavano potersi esitare, facendo il conto
ripartitamente, in modo da poter durare fino alla raccolta, vendendo al prezzo cor-
rente (7). Se il grano raccolto nei magazzini in previsione di una carestia non era
venduto tutto, se ne faceva, dopo un certo tempo e perchè non si guastasse, distri-
buzione ai cittadini, assegnandone ad ognuno una certa quantità, che doveva esser
subito ritirata, pagandola poi in due rate (8). Oltre togliere la provvista, passato
il pericolo, si aboliva il magistrato dell’abbondanza (9).
Poco altro ci rimane a dire relativamente ai rimedi contro la carestia. Le con-
siderazioni del SEGNI sul modo di distribuire le elemosine, di combattere le cavallette,
(4) CampaNELLA, Arbitrio ecc., pag. 326-35.
(2) LunetTI, Politica mercantile, pag. 65-66.
(3) Mancini, Op. cit., pag. 158. — CampaneLta, Arbitrio ecc., pag. 334.
(4) Capaccio, 12 Principe, pag. 373.
(5) SEGNI, Op. cit., pag. 116.
(6) CantINI, Op. cit., Illustrazione alla deliberazione contro gl’incettatori ecc., vol. 1I1, pag. 60.
(7) Instruzione a’ cancellieri de” comuni e università del dominio fiorentino. Raccolta delle leggi,
e ordini del Magistrato de’ SS.ri Nove, in Fiorenza 1635, pag. 74-75.
(8) CANTINI, Legislazione, vol. VIII, pag. 56-57.
(9) Id., Op. cit., vol. Ill, pag. 108.
SÒ
252 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
di ristorare gli affamati, sulle varie maniere di fabbricare il pane e sui diversi ali-
menti che possono sostituirlo (1), non ci sembrano di troppo grande importanza da
meritare il conto di fermarcisi sopra. L’AmmiRATO propone all'esempio quello che, du-
rante una grande carestia, fecesi in Lidia, dove si stabili dei giuochi per distrarre
dal pensiero della fame, e la metà delle genti che un di mangiavano, l’altro giuo-
cavano, e quella che quel dì aveva giuocato, l’altro mangiava; in tal modo si aveva
da dare il pane a 50 mila persone invece che a 100 mila. Ma il sistema, aggiunge
l’Amwrato, non resse per molto tempo, perchè dopo diversi anni la metà della po-
polazione dovette emigrare (2). Un tal BELLARINI scrive un opusculo, dove insegna
dieci modi coi quali si può patir meno nelle carestie (3); ma siccome questi modi
consistono in pratiche religiose, così essi non hanno importanza per l’economista. Con-
cluderemo dunque questo capitolo, esaminando piuttosto quanto abbiamo esposto finora
sulla carestia e sui rimedi proposti contro di essa.
I quali costituiscono le diverse parti di un sistema complesso e coordinato che
viene caratterizzato col nome di sistema annonario, e che sembra a prima vista quanto
di più logico e di più opportuno si possa ideare per combattere le carestie. Qual
mezzo più sicuro, infatti, per impedirle che proibire l’esportazione, favorire l’impor-
tazione, limitare il consumo e tenere approvvigionato il paese dei grani che esso ab-
bisogna? Eppure quello che a prima vista pare logico e opportuno è invece inutile,
dannoso e assurdo.
La mancanza di frumento, com’è noto, ne fa aumentare il prezzo; ora questo
aumento di prezzo fa in modo che il grano raccolto nel paese trovi in esso un esito
con vantaggio senza bisogno di cercare altri sbocchi all’estero; fa in modo che molti
negozianti o produttori di fuori, allettati dal prezzo alto, portino in paese grandi
quantità di frumento; limita spontaneamente il consumo, perchè col prezzo più ele-
vato tutti si riducono a comprare soltanto le derrate indispensabili per i bisogni più
urgenti; e come conseguenza di tutto questo, il mercato deve sempre trovarsi approv-
vigionato completamente senza bisogno che lo stato se ne incarichi.
Ma se i provvedimenti proposti dagli scrittori e adottati dalla legislazione si
fossero limitati ad essere inutili, la critica poco avrebbe da censurarli: non ci sarà
difficile però di dimostrare come essi fossero più che inutili dannosi, e costituissero
la causa principale delle carestie che intendevano rimuovere. E se è vero, come ab-
biamo già detto, che in quest'epoca non potevano sorgere certi compensi spontanei,
perchè il commercio dei grani non era sviluppato ed i mezzi di trasporto erano im-
perfetti, è vero altresì che il sistema annonario, anche da questo lato, aggravava il
male, impedendo il libero svolgersi degli interessi individuali, che dovevano provocare
i rimedi al male stesso. 3
Infatti col proibire l’esportazione, si veniva ad impedire l’esito dei grani nazio-
nali all’estero, ponendo in tal modo un grave ostacolo all’estendersi della coltivazione,
con grande svantaggio dell’industria agricola e, nello stesso tempo, dei consumatori.
L’agricoltore, trovandosi di fronte ad un mercato necessariamente ristretto, non po-
(1) Segni, Op. cit., pag. 123-62.
(2) Ammirato, Op. cit., pag. 245.
(3) P. Gio. BeLLARINI, Istruttione spirituale per pigliar frutto dalla carestia ecc., in Roma 1591.
DI CAMMILLO SUPINO 12583
tendo esser sicuro di vendere i suoi prodotti ad un prezzo rimuneratore, non si sen-
tiva certo stimolato a dare un maggiore sviluppo alla sua industria; la quale, oltre
a ciò, era fortemente danneggiata per i favori speciali accordati all'importazione di
grano, che costituivano uno scoraggiamento alla produzione nazionale, senza recare
utile colla concorrenza ai consumatori, perchè l'importazione sarebbe sorta spontanea
quando il mercato interno si fosse trovato sprovvisto.
Ma lo stato faceva anche maggior danno al paese coll’assumersi l’incarico di
approvvigionarlo di grani. Gli scrittori politici di quest'epoca, come abbiamo visto,
sono concordi tutti nell’asserire che il principe deve aver cura dell'abbondanza. Ora,
noi invece crediamo che, anche dal punto di vista politico, non sia opportuno nè con-
veniente che il principe assuma quell’ufficio; imperocchè la mancanza occasionale di
mezzi di nutrimento, che può essere l’effetto di cause naturali o sociali, cade sotto
la responsabilità del governo, quando questo dichiara di prendere sopra di sè l’incarico
di rimediarvi. E se la plebe un giorno, come racconta il Capaccio, voleva lapidare
Antonino Pio perchè mancò il vitto, ciò era la conseguenza delle frequenti distribuzioni
di grano che largivano allora gl’imperatori, facendo nascere l'opinione nel popolo che
ad essi spettasse il nutrirlo. Dal punto di vista politico dunque non è certo un buon
consiglio quello che danno al principe gli scrittori da noi citati.
Esaminiamo ora gli effetti economici di questo provvedimento annonario. Lo stato,
che non accumulava il grano nei magazzini per speculazione, lo comprava, in previ-
sione di una carestia, a qualunque prezzo lo trovasse, pur di averne al più presto
la quantità che credeva sufficiente. Nella compra dunque lo stato faceva una con-
correnza insormontabile agli speculatori privati, che, pagando del proprio e mirando
al guadagno, cercavano di ottenere le derrate alimentari al minimo prezzo possibile.
Ma ammettiamo pure che alcuni commercianti fossero riusciti a comprare una certa
quantità di grano, per farvi sopra un guadagno in una futura epoca di scarsità ; ve-
nuta questa, il governo comincia a vendere le sue provvisioni, senza occuparsi del
prezzo di costo, sollecito solo di sbarazzarsi completamente prima del nuovo raccolto
di una merce rischiosa a conservare. Ed anche in questo caso, i negozianti si trova-
vano delusi nella loro speculazione e schiacciati dalla concorrenza dello Stato, che
poteva vendere a rimessa, facendosi forte col denaro dei contribuenti.
Ma si dirà: il commercio dei grani esercitato dai privati non era abbastanza
attivo, i mezzi di comunicazione erano scarsi ed imperfetti, era dunque necessario che
lo stato intervenisse. È verissimo, rispondiamo noi, le condizioni di allora erano di-
verse dalle nostre; ma lo stato avrebbe potuto unirsi all’attività privata, comprando
e vendendo i grani alle stesse condizioni dei negozianti particolari, intervenendo come
un concorrente indispensabile, in un’epoca in cui questo ramo di commercio era
ancora nei suoi primi stadi, ma non distruggendo l'iniziativa dei privati. I quali
naturalmente si trovavano colpiti da leggi speciali e dall’opinione pubblica, che li
chiamava usurai e sfruttatori del popolo, anche perchè essi non potevano vendere il
frumento alle stesse condizioni dello stato, cioè rimettendoci un tanto. Ì
In conclusione, mentre il sistema annonario intendeva di provvedere all’abbondanza
del paese, non faceva invece che danneggiare la produzione interna del grano e impe-
dirne assolutamente il commercio. Questo sistema conduceva dunque all’assurdo, perchè
per ovviare alle carestie distruggeva le fonti dalle quali sole scaturisce l'abbondanza.
254 - LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
CAPITOLO XIII.
Lusso e leggi suntuarie.
Fra i tanti uffici che si arrogava lo stato, nell’epoca che noi studiamo, non ul-
timo in importanza era quello di moderare le spese dei privati, impedendo con leggi
severe il lusso.
Ciò che si toglie alla gola, alle pompe, alle immoderate spese delle doti, così
dice l’Ammirato, tutto è utile della repubblica e per conseguenza del principe, il quale
è preposto al governo di essa: perciocchè siccome stando grassa la pecora tutto torna
a utile del pastore, così del benestare dei sudditi sempre risulta beneficio al principe.
Il quale avendo mantenuto con l'amor della parsimonia sempre abbondante il patri-
monio dei popoli, può nelle occorrenze necessarie, trattandosi del comune beneficio,
ricorrere all’erario particolare di ciascuno (1). Il BoccaLInI invece approva ogni spesa
fatta in addobbi di case, in argenterie, in gioie e in palazzi, perchè se si spende il
denaro, se ne ha però il valsente sotto altra forma; ma egli è contrario a quanto
vien consumato nei pasti e nei conviti, perchè tali consumi distruggono le case e ar-
recano poca reputazione ai ricchi e molta vergogna ai gentiluomini di tenue patri-
monio (2).
Anche il PacianI consiglia il principe a moderare il lusso dei privati, che
reca grandissimo detrimento alla repubblica e ai buoni costumi, ed aggiunge delle
savie considerazioni per combattere l’opinione di quelli, che sostengono essere i con-
sumi improduttivi favorevoli all’industria e al popolo in generale. Alcuni, dice il Pa-
CIANI, biasimano le, leggi suntuarie, asserendo non esser tanta l’utilità che esse por-
tano ai ricchi, quanto il danno che arrecano alle arti e ai poveri, i quali sono parte
tanto sostanziale della repubblica, che senza essi non può stare alcun potentato in
piedi. E, a conferma di quest’asserzione, citano l’esempio delle grandi città, dove la
sontuosità delle pompe giova all’introduzione di nuove arti e al sostentamento di tante
famiglie, le quali vivono coi lavori d’oro e di seta e non vivrebbero se questi ces-
sassero. Inoltre, dicono altri, ciò che esce da una borsa entra in un’altra e la mol-
tiplicità delle arti rende splendida una città. Alle quali ragioni si può rispondere,
continua il nostro autore, che ufficio del buon principe è d’introdurre nel suo stato
le arti utili, non quelle che corrompono i buoni costumi; e il dire che cessando queste
arti andrebbero in rovina molte famiglie può esser vero, quando nella città non re-
stassero altre arti nelle quali impiegare lavoranti, ma restandovi l’agricoltura e tutte
le altre occupazioni utili e necessarie al commercio delle genti, quella necessità che
(1) Ammirato, Discorsi ecc., pag. 117.
(2) BoccaLinI, Commentari ecc., pag. 247.
DI CAMMILLO SUPINO 255
li costrinse ad imparare un mestiere vano, li costringerà medesimamente ad imparare
un altro esercizio più laudabile e a riparar con quello ai loro bisogni (1).
Queste osservazioni del PACIANI ci sembrano, come abbiamo detto, di una grande
importanza, perchè mirano a combattere il pregiudizio popolare, esistente anche ai
nostri giorni, che le spese dei prodighi e degli scialacquatori non distruggono la ric-
chezza, ma la fanno passare nelle mani del popolo, pregiudizio che gli economisti
moderni hanno cercato pure di abbattere, senza però credere necessario 1’ intervento
dello stato per reprimere il lusso. Invece gli scrittori politici di quest'epoca, per ra-
gioni morali, economiche e finanziarie, sono tutti favorevoli alle leggi suntuarie, le
quali, del resto, erano adottate allora nelle varie parti d’Italia.
Diversi sono i decreti contro il lusso emanati nel Piemonte. Un editto del 1°
aprile 1565 proibisce a tutti i vassalli di portare panni o tele d’oro o argento, ri-
cami, passamani e cordoni. I nobili non possono portare sopra le vesti cappe di vel-
luto, damasco, ermesino; le berrette non devono avere alcun ricamo, nè è lecito met-
tere nei cosciali delle calze bambagia, feltro o altra cosa per gonfiarle o farle tener
più larghe; sono proibite pure le lettighe e i cocchi dorati. Gli uomini non nobili de-
vono vestire di lana, possono avere delle guarnizioni di velluto, purchè non cremisino,
ma non berrette di velluto. Alle donne nobili sono proibiti i ricami d’oro, di perle, ecc. ;
è proibito di foderare gli abiti di seta, « perchè non vogliamo, come dice testual-
mente il decreto, che possino portare una sorte di seta sopra l’altra. » Alle donne
non nobili sono proibite le vesti di velluto, ed è concesso solo di portar le sottane
di velluto semplice a quelle i di cui mariti avranno 500 scudi d'entrata, le quali
possono anche portare una cintola d’oro purchè non costi più di 50 scudi, ed un’altra
al collo purchè non costi più di 20. Nei conviti si deve dare non più di un piatto
per ogni dieci persone e non più di tre portate, cioè due di carne e una di frutte
in tempo di grasso, altrimenti due di pesce e una di frutte. È proibito pure a chi
ha casa aperta di andare alle taverne a spendere. Nei trasporti funebri non si può
portare più di dodici torcie da 5 lire l’una, ecc. ecc., (2). Questo regolamento contro
il lusso è stato confermato, con nuove aggiunte, nel 1635 e nel ‘1679 (3).
Negli Statuti di Venezia si trova un ordine che proibisce di dare alle ragazze
più di 5000 ducati per dote, e ciò « per levare quella mala e dannosa usanza che
era introdotta tra i nobili e cittadini nostri di spendere profusamente il denaro nel
maritar le figliole, il che alli padri apportava danno grande e all’universale mala sa-
tisfattione (4). »
In quasi tutte le città della Toscana furono emanate provvisioni speciali contro
il lusso. Nel 1558 la città di Pistoia pubblicò il seguente regolamento sul vestire delle
donne: « Considerando che la città nostra per molti e vari accidenti e diverse occa-
sioni si vede l’un dì più che l’altro andare mancando di sostanze e di facoltà e che
una delle principali cause è le superflue spese e strabocchevoli senza considerazione e
distruzione quali si fanno nell’ambizioso e superbo vestire e ornare delle donne, onde
(1) FuLvio Paciani, Dell’arte di governare bene i popoli, Siena 1607, pag. 81-89.
(2) BoRELLI, Editti antichi e nuovi, pag. 685-941.
(3) Id., Op. cit., pag. 691-94.
(4) Novissimum statutorum ac Venetarum legum volumen, pag. 248-50.
x
256 | LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
avviene che assai giovani ricusano ammogliarsi se già eccessiva dote e denaro non sì
danno, tale che bene spesso le doti superano la sostanza e patrimonio dei mariti e li padri
o fratelli delle fanciulle ne diventano poveri e nudi, e ponendo onesta regola al vestire
secondo il grado di ciascuno sarà d’opportuno rimedio a tali disordini e le doti si
andranno moderando o almanco si perseveranno maggiormente. » Per cui si proibisce
alle donne di portar perle, se non legate in anello o in vezzo, berretti di velluto,
trine d’argento o d’oro, guanti ricamati, ghirlande, medaglie, cammei, orecchini o qua--
lunque altro lavoro d'oro. Non possono portare vesti turche, zimarre, ecc. Non pos-
sono aver per loro uso più di due vesti, delle quali una sola può esser di velluto,
con drappo per guarnizione, purchè non sia stampato o ricamato. Più estese sono poi
le proibizioni per le fanciulle, le contadine e le meretrici. Ai calzolai e ai sarti è
proibito far pianelle o vesti non permesse, sotto pena di forti multe (1).
Se a Pistoia la legge limitava il lusso per favorire i matrimoni, a Firenze un
regolamento più minuto era emanato per impedire le spese superflue, considerando
che « tra le altre cose che ricerca la vita civile è molto conveniente e necessaria la
modestia, la quale tempera le ationi umane e mette regola e misura alle cose pub-
bliche e private. » Il decreto fiorentino proibisce agli uomini e alle donne di portar
perle, gioie, pellicce, profumi, ecc. Le donne maritate possono portare fino a tre anelli
d’oro montati come vogliono, purchè il loro valore non superi scudi 250. Per la vesta,
se si adopra seta, non se ne può mettere più di 25 braccia in una sottana. È per-
messo portar un cappello di velluto, purchè non costi più di 4 scudi. Non si può por-
tare calze di seta. I doni, negli sponsali, devono essere del 10 per cento sulla dote
e non superare 300 scudi. Il mantellino del battesimo può esser di velluto, ma gli
sciugatoi e gli altri fornimenti non devono aver ricami, nè altro ornamento d’oro o
argento. Alle fanciulle è proibito di portar vesti di velluto, raso, ecc. Le contadine
non possono mettere drappi, e le loro gioie non devono superare il valore di lire 12.
Anche gli uomini non possono adoprare stoffe di lusso o solo in quantità limitata e
non possono mettere nel tabarro più di tre bottoni d’argento. Nei cortei di parenti
è proibito di dare più di una colazione, il pinocchiato non può essere di maggiore
peso d’una libbra e ciascuna ghirlanda confetta di due libbre, ecc. (2).
Un decreto consimile fu emanato a Pisa nel 1563, estendendosi in maggiori
particolari rispetto ai trattamenti da darsi negli sponsali. « Nel tempo che lo sposo
va a toccar la mano alla sposa sia solo permesso porgere una sola volta confettioni or-
dinarie nostrane che non sieno pinocchiati e di più una sol volta di pastumi, che non
sieno pieni di zucchero, e la sposa stando in casa del padre non possa in modo al-
cuno dare o far dare, porgere o far porgere colatione di alcuna sorte alle persone,
che la visitano, o le faccino il corteo, se non quel giorno del corteo dopo lo sposa-
litio nel modo che di sopra nel toccar la mano s’è detto (3). >»
La legge suntuaria che ebbe maggior durata in Lucca fu quella del 1587, che
fu stampata tre anni dopo nello ‘Statuto del fondaco di Lucca, e che proibiva tutti
(1) CantiINI, Legislazione ecc., vol. III, pag. 249-56.
(2) Id., Op. cit., vol. IV, pag. 402-410.
(3) Id., Op. cît., vol. V, pag. 67-74.
DI CAMMILLO SUPINO 257
i lavori stranieri sì di metalli preziosi che di seta e di lana. Bandite le perle, le
gemme, i ricami, le vesti di colore, i fiori, i capelli finti, i pendenti alle orecchie,
i lunghi strascichi, determinava quali cose erano permesse. Cappelli e abiti neri a uo-
mini e a donne; alle spose, per un anno solo dal matrimonio, vesti di tela colorate;
ogni cosa semplice, senza trine, senza lavori d’intaglio, passamani e frangie. Alle fan-
ciulle, impedito vestir di seta, concedevansi di seta le maniche e i grembiuli; ma a
tutte si proibivano i ricami d’oro e d’argento. I forestieri erano soggetti dopo un anno
alla legge. I magistrati potevano usar piume finchè erano in ufficio. Ma perchè in
Lucca lavoravasi d’oro e d’argento, la legge permetteva qualche filza di bottoncini
d’argento, qualche collana, smaniglio, ecc., purchè di valor limitato. Gioie e perle qual-
cuna appena, profumi e paste odorifere nulla eccetto che nei guanti, sotto pena di
carcere e multa ai maschi, e di multa e confine in casa alle donne. E ad impegnar
queste a fuggire quello che innanzi appetivano, la legge permetteva alle meretrici ciò
che proibiva alle donne oneste (1).
Anche nel Napoletano esisteva una complicata legislazione suntuaria. Una pram-
matica del 1569, confermata nel 1603, considerando che molte famiglie vanno in
rovina per le troppe spese, stabilisce che non si possano fare paramenti di case con
niuna sorte di tela d’oro o d’argento, nè di broccato, nè di tela ricamata; che gli
uomini e le donne non possano portare vestiti di queste stoffe; che non si facciano
ricami nei vestiti di larghezza maggiore di mezzo palmo. Ma nello stesso tempo si per-
mettono robe stampate e guarnizioni di velluto e raso; gioie, bottoni, rosette con
perle e pietre si possono portare, ma le donne solo nei busti, nelle maniche e nel-
l’apertura davanti delle vesti, e gli uomini innanzi al saio o colletto e nella cappiglia,
e non in altri posti. I servi non possono portare abiti di seta; i fornimenti da ca-
valli non possono essere che di cuoio o velluto senza guernimenti. Chi avrà para-
menti d’oro, ecc., potrà tenerli fino che sieno consumati, e così pure farà chi ha ve-
stiti, avendo tempo 6 mesi gli uomini e 8 le donne prima di smetterli (2). Un'altra
prammatica del 1625 proibisce di portar con sè più di due staffieri sotto pena di
ducati 1000 (3), ed altri editti successivi rinnuovano le pene e le proibizioni, perchè
le spese di lusso « cagionano la povertà nelle famiglie, l'alterazione nei cambi, l’e-
strazione della moneta, e il discredito delle arti (4). » Pare però che in occasione
di feste pubbliche questi ordini cessassero di avere effetto, come vediamo in una pram-
matica, la quale sospende certe proibizioni nella imminenza delle nozze reali, « per
le quali conveniva, anche con esterne dimostrazioni, palesare le interne allegrezze (5). »
Chiuderemo queste citazioni di leggi suntuarie con una prammatica emanata in
Sicilia nel 1640, la quale ordina: che nessun ardisca di portar fuori di casa uscendo
in carrozza o a cavallo, nè in piedi, nè in seggio, così dinnanzi come di dietro, più
di due staffieri, tanto se nobile o occupante alte cariche. Le mogli dei titolati o pre-
(4) Documenti alla Storia di Lucca, scelti da GCarLo MinutoLI, nell'Archivio Storico Italiano, Prima
serie, tomo X, Firenze 1847, pag. 130-31.
(2) Pragmaticae, Edicta, Decreta, ecc., vol. II, pag. 444-47,
(3) Vol. cit., pag. 447.
(4) Op. cit., vol. II, pag. 447-48 e vol. IV, pag. 334-935.
(5) Op. cit., vol. IV, pag. 335.
SerIE II. Tom. XXXIX. i 33
N
258 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
sidenti non si possono servire di più di tre braccieri per ognuna. Nessuno deve tenere
al suo servizio più di due paggi, comprendendo li schiavi. È proibito ad ognuno di
attaccare alla sua carrozza più di due cavalli e facendo un viaggio lungo, attacchi,
se gli occorrono, altri due cavalli fuori delle porte. Non si può andare in carrozza e portare
appresso una seggetta o viceversa. È proibito di dorare l'argento o di argentare i
metalli, nascendone grandissimo dispendio e la total rovina dell’oro. Non si può in-
dorare roba di cuoio, stanze, legnami, carta, ecc. È proibito anche di vendere pan-
nelle d’oro e argento a libretto. « E poichè impiegandosi il denaro e artificio delli
regnicoli a cosa di per sè infruttuosa, inutile, d’interesse intolerabile, si lasciano li
commercî, e negotii proficui al privato, e publico patrimonio, e acciocchè ogni sud-
dito di S. M. stii con comodità e arichito », si proibisce l’uso di drappi d’oro, di
portarli fuori e in casa, di ricamare stoffe in oro, di tenerle, ecc. Le suppellettili e
gli ornamenti fatti prima della legge si possono portare fino a che si consumino (1).
Non ci dilungheremo più oltre con citazioni di altre leggi sullo stesso argomento,
perchè non vogliamo fare una storia completa della legislazione suntuaria italiana di
quest'epoca, ma ci siamo voluti limitare a dare alcuni esempi di essa per fornire
una idea del modo di vedere degli scrittori e dei governanti su questa parte di poli-
tica economica. Ed abbiamo scelto le nostre citazioni dalle principali regioni d’Italia
per dimostrare come, ad onta di differenze caratteristiche locali di poca importanza,
ovunque prevalessero gli stessi fondamentali concetti. Anzi, rispetto agli scrittori, pos-
siamo asserire che questo accordo nel propugnare leggi apposite contro il lusso, non
si trova solo negli italiani, ma si estende anche al di fuori della nostra patria. Bodin,
in Francia, si esprime con indignazione sullo sperpero di cose utili, mostrandosi con-
trario alle spese eccessive nel vestito e negli ornamenti (2). In Germania, Geitzkofler
propugna la proibizione del lusso per impedire l’esportazione dell’oro, Besold difende
le leggi suntuarie, oltre che per tal ragione, anche per mantener ricchi i sudditi,
mentre Seckendorff e Conring vorrebbero imporre delle tasse speciali e molto forti
sulle spese voluttuarie (3).
Una così generale concordanza d'idee su questo argomento dipende da varie cause
ovunque prevalenti in quest'epoca. È in essa giusto appunto che l’industria comincia
ad assumere un certo sviluppo e che i bisogni, come conseguenza di ciò, aumentano
e si raffinano; per cui, mentre da un lato il consumo di certi prodotti si estende,
dall’altro questo fatto vien considerato come un rammollimento di costumi dai vecchi
che si riferiscono alle abitudini di tempi passati. Oltre a ciò, in questo periodo di
tempo, la borghesia assume a poco a poco una certa importanza, e trovandosi ricca
coi guadagni fatti nelle industrie e nei commerci, può largamente spendere e spie-
gare un gran lusso. Ora siccome questa possibilità viene via via a mancare ai nobili
che decadono e si trovano senza mezzi pecuniari, così essi, essendo al governo, sono
inclinati a proibire per invidia quelle spese che non possono permettersi. E in far ciò
trovavano allora un terreno favorevole, per la tendenza prevalente nel governo d’in-
tervenire nelle faccende particolari dei privati, vincolando in ogni modo la loro libertà.
(1) Pragmaticarum regni Siciliae, ecc., vol. III, pag. 42-54.
(2) BauDRILLART, Bodin et son temps ecc., pag. 175.
(3) Roscuer, Geschichte ecc., pag. 176, 202, 248 e 262.
DI CAMMILLO SUPINO 259
‘È un fatto che il lusso, specialmente quando eccessivo, è dannoso non tanto ai
privati, i quali possono tenerlo in perfetta corrispondenza colle loro entrate, quanto
all’economia sociale, perchè provocando la domanda di certi prodotti, dà all'industria
una direzione contraria all’aumento della ricchezza nazionale, indirizza la produzione
verso quelle industrie che Cherbuliez chiama assorbenti, distogliendo i capitali dalle
industrie accumulanti. Ma se questo è vero, è vero altresì che la legge non deve in-
tervenire per proibire certe spese private, e quand’anche lo voglia, riesce sempre im-
potente a farlo, perchè in tutto quanto ha rapporto colla vita intima dei cittadini
è sempre facile eludere la legge; e che questo accadesse anche nell’ epoca che noi
studiamo, ce lo prova il fatto della continua rinnovazione dei decreti contro il lusso
mai completamente osservati.
E poi nel perpetuo perfezionamento delle industrie, nell’incessante progresso eco-
nomico, quello che per una generazione era una spesa superflua diventa per un’altra
una spesa necessaria ed anche indispensabile; perchè certi prodotti, prima molto co-
stosi, diventano poi accessibili ad ogni classe di persone, e perchè d’altro lato i bi-
sogni aumentano colla civiltà e si manifestano in modo sempre più raffinato. Come è
allora possibile distinguere ciò che è superfluo da ciò che non è più tale? Come può
la legge determinare fino a che punto è permesso il consumo di certi prodotti? « Contro
il lusso, dice molto bene il Laspeyres, si è in tutti i tempi sempre predicato e sì
predicherà sempre. Se per lusso s’intende il superfluo, questo zelo è giustificato, ma
se per lusso si calcolano le comodità della vita, il combatterlo diventa un’ esagerata
pedanteria morale. Il difficile è soltanto di determinare dove incomincia il superfluo
in ogni popolo, in ogni classe sociale, in ogni individuo, in ogni paese (1). »
CAPITOLO XIV.
Lo stato e l’amministrazione.
Quantunque l’autorità governativa si trovasse, nelle varie parti d’Italia, concen-
trata nelle mani d’un solo, principe o governatore che fosse, pure in tutti gli stati
si riscontrano in quest'epoca, oltre a corpi consulenti, numerosissimi magistrati e uf-
fici per l'adempimento dei vari scopi dell’amministrazione. Perchè il principe, come
dice FRACHETTA, non può, per molto savio che sia, abbracciare colla sua scienza tutte
le cose, nè può sapere tutto quello che gli convenga fare, senza l’ aiuto altrui (2).
Onde egli deve avere, secondo il BoccaLini, molti ministri per dare a ciascuno il suo
carico e sopraintendere a tutti, e, come anima infusa nelle sue membra, vivificare
tutto il corpo del suo stato e dar la vita alle operazioni di esso (3).
Importanti nella Savoia erano il Consiglio di stato, composto di cavalieri dell’An-
nunziata, di alcuni nobili e di diversi dottori; la Camera fiscale, dove si trattavano
(1) E. Lasperres, Geschichte der voliswirthschaftlichen Anschauungen der Niederliinder, Leipzig
1863, pag. 143-44. | 4
(2) GrroLamo Fracuetta, Il seminario dei governi di stato e di guerra, in Venetia 1624, pag. 258.
(3) BoccaLini, Commentari, pag. 68.
260 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
le cause appartenenti alle entrate e alle uscite dello stato (1), e la Camera dei conti
composta di un presidente e di quattro maestri auditori. Il presidente di questa Ca-
mera, che assomigliava moltissimo alla nostra Corte dei conti, doveva esser dottore in
legge, persona di esperienza, di acutezza d’ingegno e di molta integrità; i maestri
auditori dovevan essere persone di buon giudizio, esperienza, integrità, pronti aritme-
tici e calcolatori. L’ufficio di questa Camera era di ricevere e verificare tutti i conti
dei tesorieri, ricevitori, pagatori e di chiunque avesse denari da pagare o riscuotere,
o beni del principe da amministrare; di badare nella revisione che fossero stati 0s-
servati dai tesorieri gli ordini impartiti dalla Camera stessa; di esaminare tutti i
contratti di qualunque genere prima che fossero stipulati; di correggere gli errori
commessi dagl’impiegati; di confermare gli ordini d’infeudazione, di concessioni e pri-
vilegi; di fare i patti per gli affitti dei censi, dazi e pedaggi, ecc. ecc. (2).
Il governo di Milano aveva, oltre che un governatore e un capitano generale,
il Senato composto di circa trenta fra cavalieri e dottori, i quali trattavano in ap-
pello e con grande autorità le cause di tutto lo stato. Il governatore aveva un con-
siglio segreto composto dal generale, dal presidente del senato, dal gran cancelliere, dal
presidente della camera e talora anche dal capitano di giustizia. E il generale aveva
un consiglio di guerra, di cui facevano parte i generali della fanteria spagnola e ita-
liana e dell’artiglieria, il commissario delle vettovaglie e il tesoriere dell’esercito (3).
A Venezia innumerevoli erano gli uffici attinenti all’amministrazione della giustizia,
e moltissimi quelli relativi all’amministrazione economica e finanziaria. Fra questi si
notavano: i signori alle biade e i signori alla grascia, il consiglio dei mercatanti, le
camere dei monti, i governatori delle entrate e delle uscite delle merci, i signori al
sale, l’uffizio del dazio del vino, i signori sopra i conti, gli avogadori fiscali, ecc. (4).
E così pure per ogni altra parte dell’amministrazione esistevano tanti uffici appositi
e in sì grande quantità, che troppo a lungo dovremmo andare solo a citarli tutti.
A Genova, oltre il doge, era un consiglio maggiore di 400 cittadini nobili, dai
quali erano eletti otto governatori, che aiutavano il doge e formavano con lui la Si-
gnoria. Oltre a questi vi erano i procuratori delle entrate, il podestà per l’ammini-
‘strazione della giustizia, i sette straordinari che rappresentavano il principe in certe
occasioni, i cinque supremi, che avevano l’autorità di sindacare gli atti del doge e
dei governatori quando cessavano l’ufficio, la ruota per le cause civili, i censori delle
arti, i quaranta capitani e il generale (5).
Da questi poco differivano gli uffici amministrativi nella Toscana (6); ci sem-
brano però degni di nota i cancellieri, i quali erano ministri assistenti nei principali
luoghi dello stato, dove dovevano attendere a fare osservare le leggi emanate dal
granduca e gli statuti municipali. Dovevano procurare inoltre di aumentare le en -
(1) Relazioni Venete, serie Il, vol. II, pag. 1427-29
(2) BoreLLI, Editti antichi e nuovi, pag. 459-62 e Leggi e Costituzioni di S. M., Torino 4729,
vo). II, pag. 391-414. i
(3) Relazioni Venete, serie I, vol. III, pag. 283.
(4) Francesco Sansovino, Del governo de i regni e delle republiche così antiche come moderne,
in Venetia 1561, pag. 92-401.
(5) Ieelazioni Venete, serie II, vol. II, pag. 433-39.
(6) CantINI, Legislazione, vol. IV, pag. 116-30.
DI CAMMILLO SUPINO 261
trate comuni, siechè, per quanto possibile, non si dovesse ricorrere a imporre gra-
vezze, e quando ciò fosse necessario, dovevano fare in modo che esse venissero giu-
stamente ripartite. I cancellieri erano principalmente tenuti ad ovviare, con ogni rimedio
opportuno, alle frodi macchinate dagli amministratori per appropriarsi o prevalersi del
denaro pubblico, a difendere e proteggere i poveri, le vedove e i pupilli e a dare
ogni giorno ragguaglio ai superiori di ogni particolare concernente l'interesse pub-
blico (1).
A Roma, dove il pontefice era sovrano assoluto, per provvedere agli affari ordi-
nari dello stato esisteva un consiglio, chiamato col nome comune di Consulta, il quale
aveva la cura di ciò che spetta all’abbondanza del vivere, alle gabelle, ai giudizi
criminali, alla creazione e nomina di alcuni magistrati. A questo consiglio indirizza-
vano le loro lettere i presidenti delle provincie e i governatori delle città. Roma aveva
un governatore, dodici conservatori del popolo, e 126 capi-rioni, eletti tre per cia-
scuno dei 42 rioni, in cui era divisa la città. Il governo delle provincie lontane era
affidato a legati (2). i
Il regno di Napoli era amministrato per mezzo di tre consigli: il consiglio col-
laterale, che era a capo di tutto e consigliava e deliberava col vice-re sulle cose dello
stato; il consiglio di S. Chiara chiamato sacro, che trattava le cose di giustizia ed
‘a cui era annessa la gran corte della Vicaria; il terzo era la camera della sommaria,
dove si rivedevano i conti del patrimonio del re e si trattavano le cause relative al-
l’amministrazione finanziaria (3).
Accennate appena le principali istituzioni dell'ordinamento amministrativo di questa
epoca, diamo ora un rapido sguardo alle materie di cui l’amministrazione stessa si
occupava, considerando l’ingerenza dello stato nei rapporti economici e sociali.
Molte prescrizioni troviamo in questo tempo relative alla sicurezza pubblica. In-
finiti sono nelle varie legislazioni i bandi contro coloro che portano armi indosso. Leggi
severissime impediscono che per mezzo della stampa si diffondano libri scandalosi e
immorali, e mettono l'obbligo della revisione e della licenza, non solo per i libri che
si stampano in paese (4), ma anche per quelli che vengono già stampati di fuori (5)
Le prammatiche di Napoli proibiscono pure il giuoco delle carte, dei dadi ed
altri ancora, « essendo essi cagione che coloro che hanno qualche comodità di vivere
vengano in povertà, e quelli che vivono alla giornata, tutto quello che il dì faticando
guadagnano, in cambio di sostener loro e la famiglia se ’1 giuocano; dacchè succe-
dono furti e si bestemmia il nome di N. S. Dio, di sua santissima madre, e santi (6). »
Per l'igiene pubblica in vari modi era provveduto. In quasi tutti gli stati esi-
steva il magistrato della sanità per ordinare quanto fosse necessario per la salute
pubblica e per allontanare ogni infezione; esso aveva facoltà di corrispondere su questo
argomento con gli stati vicini, anche in caso di guerra, e poteva stabilire le spese
(4) Instruzione a’ cancellieri de' comuni ecc., pag. 1-2.
(2) Relazioni Venete, serie II, vol. IV, pag. 415-19.
(3) Relazioni Venete, serie I, vol. III, pag. 277-78 e serie II, vol. II, pag. 276-79.
(4) Pragmaticae, Edicta, Decreta ecc., vol. II, pag. 353.
(5) Vol. cit., pag. 353-54 e 354-56.
(6) Op. cît., vol. I, pag. 105.
262 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
gli aggravi da imporsi sulle persone e le merci che andavano al lazzeretto (1).
Anche allora, come si usa fare ai nostri giorni, si stabilivano visite ai confini per le
persone provenienti da luoghi infetti, si esigevano certificati, si proibivano certi com-
merci speciali e si sospendeva perfino ogni relazione commerciale col paese attaccato
dal morbo. Un decreto toscano del 1564, per risparmiare allo stato i danni della
peste, prescrive che chi viene o sia passato dalle città indicate nel decreto non possa
entrare nello stato, senza mostrar fede di sanità del console della nazione fiorentina
o degli ufficiali di sanità del luogo per dove fosse passato; proibisce inoltre ai ciur-
matori di vendere oli e polveri, e agli albergatori di accogliere gente che venga da
luoghi infetti (2). Una prammatica di Napoli, facendo la peste progressi in Sarde-
gna, ordina di sospendere il commercio e le contrattazioni con quell’isola, ingiungendo
a tutti gli ufficiali, che comparendo robe, animali o lettere che venissero dall’ isola
stessa, non li debbano ammettere, nè dar loro libera pratica, abbruciando anzi quanto
sarà già entrato nel regno da quella provenienza (3). E un mese dopo un’altra
prammatica dà le stesse disposizioni rispetto alla Francia. (4). Oltre queste provvi-
sioni speciali, lo stato in ogni tempo esercitava la sua sorveglianza sui medici e sugli
speziali, e su questi specialmente, facendo esaminare da’ periti le medicine, per giu-
dicare se erano buone e preparate come si richiede (5).
Più complicate e più numerose sono in quest'epoca le leggi amministrative che
riguardano la prosperità economica e che hanno attinenza con l’economia nazionale.
La caccia e la pesca sono vincolate con leggi speciali per impedire la troppo grande
distruzione di animali utili all'uomo (6); i boschi sono soggetti a regolamenti ed è
favorito dai governi il rimboschimento (7). Anzi a questo proposito ci sembra degno
di essere testualmente citato il proemio di un decreto veneto, il quale così descrive i
mali derivanti dal soverchio diboscare: « principalissima causa della subita escre-
scenza de’ fiumi da certo tempo in qua, delle molte inondationi, e delle importanti, e
più frequenti rotte di quello, che per innanzi in diverse parti dello stato nostro di
terra ferma succedeva con l’innalzamento, e atterratione degli alvei delli medesimi
fiumi, e insieme anco di questa nostra Laguna, senza alcun dubio è il continuo di-
‘sboscar con la disvegratione, e riduttione a coltura delli terreni boschivi, essendo
quella terra mossa portata a basso con furia dalle acque piovane, e dalle nevi
liquefatte, oltre la perdita de’ pascoli per gli animali, e distrutione de’ legnami da
opera, e da fuoco (8). » i
Quanto all’ agricoltura, abbiamo già citate nel capitolo sulle industrie, diverse
leggi che intendevano favorirla; qui aggiungiamo che il governo ordinava perfino il
modo di lavorare la terra, il tempo di vendemmiare e la scelta delle coltivazioni. A
Ferrara troviamo una serie di statuti, che stabiliscono come devono essere eseguite le
(1) Leggi e Costituzioni di S. M., vol. I, pag. 1941-98,
(2) CantINI, Op. cit., vol. V, pag. 4128-30.
(3) Pragmaticae ecc., vol. III. pag. 508.
(4) Id., vol. III, pag. 508-9.
(5) Cantini, Op. cit., vol. III, pag. 386-87.
(6) BoreLLI, Editti, pag. 288-305.
(7) CantInI, Op. cit., vol, III, pag. 328-30.
(8) Stat. Ven. Vol., pag. 274.
DI CAMMILLO SUPINO 263
varie operazioni agricole; ne citiamo solo i titoli: de modo et forma arandi et co-
lendi terras per laboratores et colonos partiarios; de herpegandis terris; de fos-
satis facendis et fodiendis a laboratoribus; de poena laborantis vineas ad partem,
et non zappantis, vel non arantis cas temporibus debitis ; de poena laboratoris la-
borantis ad medium non metentis, vel non executientis grana, vel non conducentis
laetamina super terras, ecc.. (1). A Roveredo i provveditori, insieme ai signori della
decima, devono decidere quando ha da incominciare la vendemmia (2), e la stessa
cosa è determinata a Pistoia dagli operai di S. Jacopo con intervento del gonfalo-
niere, distinguendo però i comuni, e stabilendo quali possano vendemmiare prima e
quali dopo (3). In tutte le circostanze più minute il governo si sentiva in obbligo
d’intervenire, vincolando la libertà dei cittadini; perfino per introdurre il gelso in
Toscana si ricorre alla legge, ed un decreto del 1576 ordina a chi ha terreni di
piantare entro due anni quattro piante di gelso per ogni paio di bovi che lavorino
detti terreni, sotto pena di lire una e soldi dieci per ogni pianta non messa (4).
Abbiamo già visto come il governo s’ingerisse per far prosperare le arti mani-
fattrici. Le materie da adoperarsi, il metodo di fabbricazione, gli strumenti per fa-
cilitare il lavoro, i prodotti che dovevano esser eseguiti, tutto era preveduto, tutto
era stabilito con decreti e regolamenti. L'industria era poi protetta inoltre impedendo
l'importazione dei prodotti esteri, che potevano essere fabbricati dagli artisti nazio-
nali; cosicchè per questa ragione anche il commercio era vincolato, lasciandolo libero,
come abbiamo già avuto occasione di osservare, solo quando lo stato voleva vendere
all’estero i prodotti delle suè industrie o quando voleva ritirare dall’estero le materie
greggie e gli strumenti necessari per la fabbricazione. Questi criteri empirici e con-
traddittori abbiano visto prevalere anche nel commercio dei grani, che lo stato sco-
raggiava per mantenere l'abbondanza nel paese, nello stesso modo che danneggiava
ogni specie di commercio, stabilendo per legge i prezzi di tutti i prodotti.
Fra le poche istituzioni di quest'epoca relative alla prosperità economica meri-
tevoli di non esser criticate, troviamo la sorveglianza da parte dello stato sui pesi
e sulle misure. Uno Statuto di Ferrara così si esprime: « Chi terrà in bottega pesi
e misure d’ogni sorte che non siano bollate o segillate secondo il solito, o se ne ser-
virà per vendere, o in Qual si voglia modo, caschi nella pena di 5 scudi per volta,
e non essendo giuste di 25 e di tre tratti di corda oltre la refazione del danno a
gl’interessati (5). »
Ma la parte di legislazione amministrativa, che più differisce dalle idee domi-
nanti nei nostri tempi e che è maggiormente caratteristica per l’epoca’ che noi stu-
diamo, è quella che si riferisce alla pubblica morale. Nel capitolo precedente abbiamo
visto come il governo s’ingerisse nella vita privata dei cittadini per giudicarne la
condotta e per limitare le loro spese. Ora quì aggiungeremo che lo stato obbligava
per legge i sudditi all’osservanza della religione. Nelle varie legislazioni troviamo in-
(4) Statuta urbis Ferrariae, Ferrarie 1624, pag. 205-6.
(2) Statuti della città di Rovereto, Trento 1859, pag. 296-97.
(3) Leges municipales Pistoriensium ecc., pag. 194.
(4) CantinI, Op. cit., vol, VIII, pag. 305-6.
(5) Appendix» ad Stalula Ferrariae, pag. 92.
264 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
fatti moltissimi decreti che proibiscono di aprire le botteghe nei giorni di festa, nella
ricorrenza di certi santi, nelle ore in cui si fanno certe funzioni religiose (1); o che
indicano come debbano esser osservate la quaresima e la pasqua, il modo con cui si
deve stare in chiesa, la professione di fede, ecc., (2). Anche la bestemmia è con-
dannata dalle leggi civili nelle varie regioni d'Italia; e un editto di Corsica deter-
mina una tariffa di multe, a seconda dell'importanza dell’ente a cui le parole ingiu-
riose sono rivolte. « Quelli che bestemmieranno Iddio, o la Vergine Maria, siano
condannati per la prima volta in lire 6, applicate alla Camera, e chi bestemmierà
altri santi in lire 3 e per la seconda volta in lire 20; la terza volta sieno frustati,
ovvero sia loro passata la lingua in arbitrio del magistrato (3). »
Quello però che ci sembra costituisca il massimo dell'intervento governativo nelle
azioni dei privati è il seguente decreto piemontese che proibisce ai sudditi di fre-
quentare le osterie in tali termini: « Perchè siamo informati, che in molte terre dei
nostri stati vi sono molti, li quali lasciando la moglie, e famiglia loro, vanno man-
giare alle taverne, e bettole, e di quello spendendo in pasto sostenterebbero il com-
panatico di tutta la famiglia loro una settimana, da che ne nascono molti inconve-
nienti. Ordiniamo che chiunque haverà fuoco, luogo e catena non possi mangiare alle
taverne, o sia bettole nel luogo, o terra dove sarà sua residenza, eccetto una voltà
al mese per il più, e ciò sotto pena alli tavernieri, che daranno da mangiare contro
questo nostro ordine, di sei scuti per volta, overo di due tratti di corda (4). »
Quando lo stato si assume fin questi còmpiti, non può esistere più limite alcuno
alla sua ingerenza negli affari dei privati. Infatti in quest’ epoca il governo non si
| contentava di rivolgere la sua azione verso quegli scopi eminentemente sociali, i quali
devono essere raggiunti solo dalla legittima rappresentanza della società, non si con-
tentava di sostituirsi ai privati, quando questi non erano in grado di ottener da soli
la soddisfazione di bisogni comuni a tutti i cittadini; ma faceva valere la sua influ-
enza e la sua autorità per impedire ai sudditi di fare certe cose, o di farle senza
la sua autorizzazione, oppure per prescrivere certe azioni o il modo speciale con cui
dovevano essere compiute.
Per questa moltiplicità di scopi che si prefiggeva, lo stato aveva bisogno di un
numero straordinario d’'impiegati di varia specie, i quali non potevano fare a meno
di rendere più complicata, più lenta e più costosa l’amministrazione. E poi questi
impiegati erano sempre le persone più capaci, quelle che potessero intendere certi affari
meglio dei cittadini direttamente interessati? No probabilmente, ed in tutti i modi
dobbiamo rammentarci, come ben dice Stuart Mill, che anche se un governo fosse
superiore in intelligenza e sapere ad ogni singolo individuo di una nazione, dovrebbe
sempre essere inferiore a tutti gl’individui della nazione presi insieme (5). L’ infe-
(4) CantINI, Op. cit., vol. III, pag. 226-34; vol. IV, pag. 20; vol. V, pag. 284; vol. IV, pag. 336.
— Statuta Ferrariae, pag. 2414-45.
(2) BorELLI, Editti, pag. 195-205. — Leggi di S. M., vol. I, pag. 13-28.
(3) Statuti civili e criminali di Corsica, Lione 41843, pag. 94.
(4) BorELLI, Editti, pag. 689. ;
(5) J. S. Mint, Principles of Political Economy, London 4876, pag. 574.
DI CAMMILLO SUPINO 265
riorità dell’azione governativa è incontrastabile quando specialmente essa si riferisce
a materie economiche, perchè i privati, essendo guidati dal loro interesse, sono in
grado di sapere, meglio dello stato, qual’è la linea di condotta che essi devono tenere.
Essi sopportano individualmente il danno quando comprano dei prodotti mal fabbricati,
quando li pagano troppo, o quando spendono al disopra dei loro mezzi. Per quanto
oculato sia il governo, è impossibile che sappia scegliere quali sono le merci più adat-
tate per i diversi usi, dove possono essere ottenute a migliori condizioni e che giu-
dichi fino a che punto un privato può estendersi nelle sue spese. In tali casi l’inte-
resse individuale è il miglior giudice, e la pena che ognuno sopporta per un errore
commesso è il miglior mezzo per farlo evitare.
Ma l'intervento dello stato in certe circostanze non è solo inutile, è anche dan-
noso tanto agli individui, quanto al governo. È dannoso agl’individui , perchè negli
affari della vita non basta Ta sola istruzione per giudicare gli uomini nella loro con-
dotta, ma è necessario un esercizio vigoroso delle energie attive, un lavoro assiduo,
un'attenzione continua, un'intelligenza sveglia per lottare contro le difficoltà che si
presentano, per trovare dei mezzi sempre più adattati per superarle. Ora un popolo
che non ha l’abitudine di quest'attività spontanea, che aspetta dal governo gli or-
dini per regolarsi nella sua condotta o per sapere come deve agire in ciascuna
circostanza è un popolo, che non ha le sue facoltà completamente sviluppate, che
si trova in una condizione inferiore, che non potrà mai fare grandi progressi verso la
civiltà. È dannoso allo stato, e abbiamo già avuto occasione di notarlo, perchè quando
i sudditi sono abituati ad aspettarsi tutto dal governo, si abituano anche ad attri-
buire a lui tutto quanto succede di male nel paese, anche se questo male è la con-
seguenza di cause assolutamente indipendenti da ogni ingerenza governativa. Nasce allora
nei cittadini una diffidenza verso ogni azione dello stato, che paralizza o rende dif-
ficile l’esplicarsi di ogni legittima influenza di esso, anche nei casi in cui l'intervento
legislativo è benefico, necessario, indispensabile.
In generale dunque è quasi sempre inutile e dannosa la soverchia ingerenza dello
stato nell’amministrazione; che diremo poi quando questa ingerenza si estende fino
alle azioni più intime dei cittadini, quando arriva fino a vincolare la loro coscienza
o a sorvegliare la loro condotta morale? In qualunque epoca, sotto qualunque governo,
vi è una parte delle azioni umane, sulle quali esso non deve intervenire, sulle quali
deve esser lasciata piena ed intera libertà di condotta all'individuo, indipendentemente
da ogni controllo sociale, e queste azioni sono quelle che concernono la vita perso-
nale del cittadino che non portano danno agli altri membri della società (1). Il
governo non ha dunque diritto d’interveriire, come faceva in quest’epoca, per obbli-
gare i sudditi all'osservanza della religione, intromettendosi nel più intimo della loro
coscienza, o per costringerli ad essere buoni padri di famiglia, intromettendosi nella
loro condotta privata. Questa è una sfera di azioni che riguarda la morale, ma che
non deve mai cadere sotto la sanzione del legislatore, il quale, mettendosi su questa
via, diventando il giudice supremo di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto, so-
(1) Stuart Miu, On Liberty, London 1859, pag. 134-40 e Principles ecc. pag. 569.
Serie II. Tom. XXXIX. : 34
206 : LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
stituisce la sua volontà al libero arbitrio dell’individuo, facendolo agire secondo i cri-
teri di morale prevalenti nelle sfere ufficiali. Ma questi criteri sono forse assoluti ?
Esiste un concetto sempre uguale nelle diverse persone e nei vari tempi di ciò che
s'intende per giusto? Ora sanzionate con la legge ciò che è la conseguenza del modo
di vedere di una classe di persone o di un’epoca, e voi avrete in religione l’intolle-
ranza e le persecuzioni, e in morale dei delitti in luogo di mancanze.
Ma se in tutto quanto si riferisce alla vita privata dei cittadini lo stato non
ha diritto d’intervenire, gli rimane sempre un campo assai vasto d'attività, quando
si tratti di regolare quelle azioni degli individui che possono esser dannose alla so-
cietà, quando si tratti di far prevalere l'interesse sociale di fronte agl’interessi par-
ticolari fra loro cozzanti. Ma anche in questa parte d’ingerenza governativa, che ai
* nostri giorni va assumendo sempre maggiore importanza, mancava allora la giusta mi-
sura, perchè non si sapeva conoscere quale fosse il vero interesse sociale e in quale
relazione con esso si trovassero gli interessi individuali. Quando lo stato, come ab-
biamo visto, ammetteva in certi casi il protezionismo ed in altri il libero scambio,
quando stabiliva con leggi il prezzo del lavoro e di tutte le derrate, quando proibiva
gl’incettatori di grano e provvedeva direttamente il frumento necessario al paese, aveva
intenzione di favorire l’interesse sociale, combattendo gl’interessi privati e particolari,
e invece danneggiava nello stesso tempo questi e quello.
Salvo dunque poche eccezioni che si riferiscono alla semplice amministrazione,
l’'ingerenza governativa in quest'epoca, specialmente nelle materie economiche, era più
di danno che di vantaggio all’organismo sociale. Nè ciò deve recarci maraviglia, quando
si pensi all’isnoranza dei popoli e alla mancanza dei criteri certi e di principî di-
rettivi da parte dei governanti, sempre pronti a seguire l’impulso dei pregiudizi po-
polari; quando si pensi come in tutti i tempi costituisca uno dei problemi più ardui
il determinare il vero campo d’azione dello stato, in modo che esso, senza danneg-
giare la libertà dei cittadini, eserciti un’influenza benefica sul retto funzionamento
delle istituzioni sociali.
CAPITOLO XV.
Le spese e le entrate pubbliche.
In tutto quanto ha riguardo alla finanza, troviamo la stessa contraddizione tra
i fatti e le teorie, che abbiamo già riscontrata relativamente alle monete; l’ammini-
strazione del patrimonio pubblico è pessima nei principali stati d’Italia, i quali si
trovano sempre in ristrettezze, nello stesso tempo che i sudditi sono oppressi da gra-
vezze enormi; al contrario le teorie finanziarie esposte dagli scrittori di quest’ epoca
sono quanto di più giusto e di scientificamente esatto essi ci abbiano lasciato sopra»
materie economiche. Riserbandoci di parlare del tesoro e dei prestiti nel prossimo ca-
pitolo, esamineremo in questo ciò che ci fu dato rintracciare d’importante relativa-
| mente alle spese e alle entrate pubbliche.
DI CAMMILLO SUPINO 267
Rispetto alle spese, è necessario anzitutto, secondo Vito DI Gozzi, di avere una
esatta cognizione di quelle occorrenti per uno stato (1); perchè il re possa spendere,
come aggiunge il Capuro, quanto è indispensabile alla conservazione di quello (2).
Due, secondo il PACIANI, sono i consigli da darsi su questo argomento: l’uno di re-
secare le spese superflue per piccole che sieno, perchè chi le moltiplica in capo del-
l’anno si accorge, che molti pochi uniti insiome fanno una grandissima somma ; l’altro
è di usare diligenza per aumentare lecitamente le entrate del principe, cavando frutto
dal paese in tutte le parti che si possono coltivare, e regolando in modo le spese che
non scemi il capitale, ma sempre delle entrate ordinarie avanzi qualche cosa da por-
tare nel tesoro (3). Giacchè, come osserva il LoTTINI, non è solo nel governo della
casa, ma anche in quello delle entrate pubbliche, che bisogna guardare di togliere
le spese superflue e di ottenere il massimo reddito possibile (4).
La moderazione nelle spese è raccomandata da tutti i politici di questo tempo.
ll FrEZZA consiglia il principe di spendere le ricchezze dell’imperio, come se avesse
sempre a darne conto (5), « per non si mettere con lo spendere soyerchio in neces-
sità d’imporre dazii o di riscuotere severamente gli imposti (6). » Se l’erario pub-
blico, dice il PiecoLUOMINI, si vuota ambiziosamente, si riempie scelleratamente (7);
ed è, come aggiunge il CAPACCIO, azione tirannica del principe spendere alla larga per
suo capriccio, imprender guerre senza ragione, ed esaurire così l’erario. Ciò fomenta
sedizioni ed il. principe si rende odioso, perchè rare volte accade che il. fisco cresca
e la privata utilità non senta danno. Onde ben diceva Costante imperatore :
esser meglio che le ricchezze pubbliche da più privati si possedessero, che se in un
chiostro del ‘principe si conservassero (8). Finalmente conclude l’AmmirATO, di tutte
le rendite, gabelle o tributi niuna è più lodevole della parsimonia, con la quale gli
antichi nella loro povertà ebbero animo di fare cose maggiori, che senza l’aiuto di
essa non fecero i successori nel colmo delle loro smisurate ricchezze (9).
Ma i principi non parevano disposti a seguire questi consigli, e le entrate non
bastavano mai per le spese, quantunque le imposte fossero ovunque molto gravose.
In Piemonte, Emanuele Filiberto, trovandosi sempre scarso di denari, faceva aspettare
i pagamenti ai suoi creditori fino un anno o due (10). A Milano le entrate non
erano sufficienti a supplire alle spese per il governatore, i consiglieri, il Senato, i
capitani, i soldati, le fortificazioni e le pensioni (11). A Roma la massima parte delle rendite
patrimoniali erano alienate per pagamento degli interessi sui debiti (12). A_ Napoli i
redditi fiscali servivano metà a pagare rendite vitalizie o perpetue, e l’altra metà
(4) Viro pi Gozzi, Dello stato delle repubbliche ecc., pag. 248.
(2) Caputo, De regimine reipublicae, pag. 305.
(3) Paciani, Dell’arte di governare ecc., pag. 282-883.
(4) LoTINI, Avvertimenti, vol. II, pag. 73-74,
(5) Frezza, Massime, regole ecc., pag. 323-24.
(6) Id., Op. cit., pag. 339.
(7) PiccoLuominIi, Avvertimenti Civili, pag. 35.
(8) Capaccio, Il principe, pag. 298.
(9) AmmiraTo, Discorsi, pag. 115.
(10) Relazioni Venete, serie II, vol. II, pag. 148.
(11) 2d., serie I, vol. III, pag. 282.
(12) Id. serie II, vol. IV, pag. 87 e 406.
268 ) LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
per l’ esercito. Per provvedere poi agli altri bisogni pubblici, 5° imponevano: tasse
speciali; così per esempio, per pagare le guardie marine, il re esigeva 7 grana per
fuoco dalle terre situate sul mare, 5 grana per pagare i bargelli nelle campagne dove
erano molti fuorusciti, e 9 grana per accomodare le strade (1). In Sicilia nel 1563
le entrate erano 636000 ducati e le uscite 660000; il bilancio era dunque in deficit (2).
In generale le spese pubbliche si raggruppavano in quest'epoca in pochissimi capi,
essendo esse limitate, rispetto alla loro estensione, a quanto era necessario per pagare
i principi, gl’'impiegati, l’esercito e gl’interessi sui debiti; ma le spese militari erano
enormi per tenere i popoli sotto la dominazione straniera e gl’interessi dei debiti, per
la mala amministrazione, assumevano spesso delle proporzioni rilevantissime nel bilancio
degli stati italiani (3). ;
Come si faceva fronte a queste spese? O, per limitarci al nostro soggetto, quali
erano le idee degli scrittori di quest'epoca sulle entrate pubbliche? Esse, secondo il
Borero, sono di due sorti: ordinarie e straordinarie; le prime si cavano dai frutti
dei fondi o dagli effetti dell'industria umana. Dalla terra si cavano in due maniere,
perchè alcuni fondi sono del principe, altri dei sudditi. I terreni patrimoniali no
amministrati dal principe come da un padre di famiglia. I fondi dei sudditi pagano
allo stato le imposizioni, che nei bisogni della repubblica sono lecite e giuste, perchè
i beni particolari devono servire al bene pubblico, senza il quale non si potrebbero
mantenere. Le entrate straordinarie sono ottenute part dai popoli, parte dagli stra-
nieri. Dai popoli loro i principi hanno le caducità, le confiscazioni, le condanne, i
donativi; dagli stranieri i tributi, le pensioni, le onoranze, e simili altre cose (4).
Il Gozzi, traducendo quasi letteralmente il Bodin, enumera sette maniere per costi-
tuire i fondi all’erario: 1° il patrimonio pubblico; 2° le cose acquistate dai nemici;
3° i doni degli amici; 4° pensioni o tributi dei confederati; 5° la mercanzia esercitata
dal principe per mezzo dei suoi fattori; 6° dazi sull’entrata e sull’uscita delle merci;
7° taglie e imposte sui sudditi, il' qual modo è pda adoperarsi solo se tutti gli altri
mezzi MAnGEsIRA (5). i “
Anche il PRACHETTA distingue le rendite che il principe ricava dai suoi beni e
, quelle che trae È beni dei particolari. Le prime sono costituite da poderi, case,
miniere, pesche di corallo, di perle, ecc. ; le seconde sono quella porzione delle entrate
o di altri beni dei particolari che cava il principe per via di tributo, dazio o donativo,
ordinario o straordinario, dai suoi sudditi o da stranieri, la qual sorte di entrata fu
al
(1) Relazioni Venete, serie II, vol. II, pag. 283-84.
(2) Zd., serie I, vol. V, pag. 15.
(3) Nel 1563 ecco come erano ripartite le spese nel Napoletano :
Esenzioni, donazioni e vendite , È È È ; x Duc. 800000
Guardie di Gaeta, Toscana e Goletta. Ò 5 ; ù 7 » 130000
Fanteria spagnola . Ò 6 o E 2 ; 3 » 200000
Gente d’arme e galee ù ò ; È A a - i » 250000
Provvisioni al vicerà e agli ufficiali . 2 " n È n » 140000
Fabbriche, munizioni, pensioni, ambasciatori . h o ò » 150000
i 4 Totale Ducati 1670000
(Relazioni Venete, serie I, vol. V, pag. 12).
(4) Botrro, Ragione di Stato, pag. 184-85 e 189.
(5) Vito DI Gozzi, Op. cit., pag. 2419-20.
DI CAMMILLO SUPINO 269
inventata dove la prima non bastava. I tributi e i donativi si levano solo dai sud-
diti; i dazi anco dagli stranieri per le merci che entrano o escono. La prima specie
di entrate, ricavate cioè dal patrimonio del principe, è giusta sempre quando i beni
sono giustamente posseduti; l’altra non sempre, perchè talvolta s'impone più del neces-
sario o s'impiega il denaro malamente (1).
Non tutti gli scrittori di quest'epoca sono però favorevoli all'esistenza del demanio
fiscale, come mezzo per coprire le spese pubbliche. L’AmmirATO non vuole che il prin-
cipe eserciti alcuna industria, perchè se gode le città, i laghi, gli eserciti, l’ubbidienza
e l'adorazione di tutti, è ragionevole che lasci alcuna cosa godere unche ai cittadini ;
oltre di che verrebbe egli a privarsi dei diritti e delle gabelle che conseguirebbe non
avendo possessi (2). Per produrre le ricchezze artificiali, dice il MANCINI, sono neces-
sari la navigazione, il commercio e il lavoro, tutte cose che non convengono ad un
principe, onde egli, per ottenere queste ricchezze, deve ricorrere al censo e al tri-
buto (3). Ed il CHIARAMONTI: il principe non si deve curare di avere in suo possesso
ricchezze naturali, perchè sarebbe aggiungere nuovi pensieri a quelli che già ha di
ica; il paese sia pure dei privati, ed essi somministrino al principe quanto ha
bisogno, per mezzo dei tributi (4). In generale si può dire che gli scrittori italiani
di quest'epoca o mettono il demanio in una posizione secondaria rispetto ai tributi,
o vorrebbero vederlo assolutamente escluso dai cespiti di entrata pubblica; ciò che
prova, come ci sarà facile di dimostrare in seguito, che un soffio di vita moderna
attraversava già le teorie finanziarie dei politici del nostro paese.
Venendo ora a parlare in special modo dei tributi, cominceremo dall’esporre le
idee del BoreRo, il quale dice che essi devono essere non personali, ma reali, cioè
non sulle teste, ma sui beni, altrimenti tutto il carico cadrebbe sui poveri. I beni
dei sudditi sono certi o incerti, chiamando certi gli stabili, incerti i mobili. Non si
«devono gravare che gli stabili e solo per eccezione i mobili, rimettendosi, per la valuta-
zione del reddito, alla coscienza e. al giuramento delle persone. I tributi si levano,
oltre che sui fondi, anche sugli effetti dell'industria umana (abbracciando con tal nome
ogni sorta di traffico e di mercanzia), col gravare l’entrata o luis merci. Non
può esistere per lo stato reddito più giusto, perchè è cosa ragionevole che chi gua-
dagna sul nostro e del nostro ce ne dia qualche emolumento. I fofesbieri dovrebbero
. pagare il doppio dei nazionali (5).
Il MancINI, dopo confutate le classificazioni e le definizioni dei tributi date da
Silvestro, afferma che il censo o imposizione può essere Basto o ingiusto; se ingiusto
è coazione, compulsione indebita fatta dal principe al popolo per aver denaro, se
giusto è pagamento in proporzione del reddito, o della testa, o della persona, o del
suolo, o delle merci, o delle vie, ed è il prezzo che vien pagato in proporzione delle
facoltà possedute. Il nome di censo viene da censire, perchè si deve enumerare le ric-
chezze private e secondo la loro ragione far pagare l’imposta. Il tributo, dal verbo
(1) Grroramo FracHETTA, Il seminario dei governi di stato e di guerra, in Venetia 1624, pag. 246.
(2) Ammrato, Op. cit., pag. 1414-15. 4 i
(3) Mancini, De juribus principatuum, pag. 165.
(4) CaiaramonTI, Ragione di Stato, pag. 331.
(5) Borero, Op. cit., pag. 185-86.
270 : LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
tribuere, differisce dal censo, perchè questo si paga per testa e quello in proporzione
del reddito, e secondo le varie forme che assume prende i nomi di dazio, colletta e
decima (1). Anche Lelio ZeccHi considera e classifica le varie specie di tributi, ac-
cennando ai vari cespiti d’ entrata dello stato (2), ed ammette che quattro condi-
zioni sono necessarie perchè i tributi sieno giusti: 1° che quello che impone non abbia
alcun superiore; 2° che sieno messi per una giusta causa, o per sostentare il principe,
o per spese necessarie, o per guerra sopravveniente, e appena cessata la causa deve
cessare il tributo ; 8% che non sieno imposte nuove gabelle senza necessità e senza
licenza di chi sta al disopra nel governo; 4° che i tributi sieno in proporzione delle
facoltà dei contribuenti (3). La prima proposizione e una parte della terza trovano
una spiegazione e una conferma nell’assioma di Francesco ImPeRATO: che le città che
riconoscono un superiore non possono imporre tributi senza il consenso del principe
loro superiore (4); le altre due proposizioni, la seconda e la quarta, riguardano la
legittimità e la legalità dell'imposta e ci sembrano molto giuste e di grande impor-
tanza.
Dazi e gabelle, secondo il FracHETTA, si dicono quei pagamenti che s’impon-
gono sopra la vita o la roba dei sudditi, o stabile o mobile, o sopra le merci e la
vita degli stranieri che entrano o passano nello stato; tributi sono esazioni da popoli
non soggetti; donativi sono quei pesi, che s’'ingiungono da per loro i popoli di pa-
gare straordinariamente o per certe occasioni, e se si riscuotono ordinariamente di-
ventano tributi. Non si può imporre senza il consenso dei sudditi, perciocchè il principe
è tutore della loro roba, ma non può disporne a suo piacere ; oltre di che i dazi.
non s'impongono che per necessità dello stato e questa è conosciuta tanto dai popoli
come dai principi. Se dunque nell’imperio signorile il principe non ha difficoltà d’im-
porre aggravi senza consenso, nei governi regi deve invece domandarlo liberamente e
senza inganni. Chi non lo fa pecca, ed abusa dell’autorità che ha sul popolo (5).
Queste stesse idee sono quasi contemporaneamente sostenute dal CAPUTO, il quale:
distingue il diritto d’imporre gravezze, secondo il modo con cui il regno è stato acqui—:
stato. Nei regni presi per conquista vale il diritto di guerra ed è lecito imporre quanto
‘si vuole; limitato è invece il modo di tassare negli stati, dove il re acquistò il do-
minio per elezione del suo popolo (6). Il Caputo divide poi i tributi in reali, per-
sonali e misti, secondo il criterio che si assume nell’imporli. Egli vorrebbe esonerati
dalle imposte quelli che vivono delle loro fatiche e che non hanno possessi, ed esclu-
dere dalla tassazione tutto quanto è necessario al vitto e al vestire delle famiglie (7);
la quale proposta è ispirata allo stesso concetto che ha fatto adottare ai nostri giorni
da molti stati l’esenzione dei redditi minimi. CHIARAMONTI invece propone, che per non
gravar troppo le classi inferiori, si renda più generale 1’ obbligo di pagare le im-
(4) Mancini, Op. cit., pag. 168.69. :
(2) LeLio Zeccai, Politicorum, sive de principe et principatus adminisiratione, Veronae 1601 ,
pag. 224-29.
(3) Id., Op. cit., pag. 61.
(4) ImpeRATO, Discorso politico ecc., pag. 2 :
(5) FracHertA, Op. cit., pag. 247-48.
(6) Caputo, Op. cit., pag. 304.
(7) Id., Op. cil., pag. 30947.
DI CAMMILLO SUPINO 271
poste: « la ragione dei pesi reali, egli dice, de’proporzionarsi all’havere dei gravati,
e però debbono i principi e le repubbliche esser molto parche in dar l’'esentioni dei
pesi reali ai grandi, perchè si guasta la proportione della giustitia e la portione loro
s’addossa ai poveri (1). » Per pesi reali s'intende, secondo il CHIARAMONTI stesso,
quelli messi in proporzione delle ricchezze private, i quali prima si pagavano per
fuoco ; ma Griovanni de’ Medici introdusse poi in Firenze l’estimo, detestando il modo
passato, secondo il quale tanto pagavano i poveri che i ricchi (2).
La stessa politica finanziaria democratica è consigliata da CAMPANELLA, il quale,
dopo aver parlato dei tributi reali e personali copiando alla lettera il BoreRro, dice
che le gabelle si devono mettere tanto sulle cose comunissime come sulle superflue ;
ma nelle comuni, come pane, olio, vino, ecc., si deve far pagar poco e nelle superflue
assai. Si osservi questa regola in tutto: quanto più è necessaria la cosa manco si
paghi, e quanto manco più (3). Nè ci deve recar meraviglia questa concordanza di
opinioni degli scrittori citati, perchè la stessa idea troviamo già nelle Leggi di Platone,
il quale afferma che in una città ben costituita non deve esistere alcuna gabella sopra
le cose necessarie che ad essa si portano, nè sopra le non necessarie che da quella
si portano altrove (4).
L’AmmiraTO invece propone di preferire quei tributi, che ciascuno può pagare a
suo piacere, perchè colpiscono azioni volontarie. Egli dice, che qualunque principe
desidera per i bisogni che possono occorrere avere gran copia di denari, deve inge-
gnarsi di aver molta copia di uomini, perciocchè, siccome i campi non possono ren-
dere senza le fatiche degli uomini, così nè le gabelle si possono riscuotere senza i
frutti dei campi. E quindi il nostro autore aggiunge: le gabelle sono un male neces-
sario, onde il principe deve cercare di agevolarle più che può, e metter di quelle
che non colpiscono tutti o colpiscono come pena o non forzano altrui, oltre il suo
volere, a pagare, come ad esempio sulle meretrici, sul porto d’armi, sugli strumenti
da giuoco. (5).
Ma oltre che sulle cose da gravare, ferveva in questo tempo la questione sulle
persone tenute a pagare i tributi, specialmente perchè gli ecclesiastici credevano di
doverne essere esenti. Con molto acume e profonda dottrina tratta la questione Fra
Paolo SARPI, combatteudo l’ esenzione. Presso i popoli antichi, egli dice, nessuno si
reputò mai esente dal contribuire ai pesi pubblici, e Cristo stesso, domandatone, disse
che erano esclusi soltanto quelli che avevano rinunziato ad ogni mondana possessione.
Ed infatti gli ecclesiastici soggetti a principi pagani pagarono sempre i tributi, dando
a Cesare quello che gli era dovuto. Ma col tempo alcuni papi misero delle restri-
zioni al pagamento per parte dei prelati e Bonifazio VIII arrivò fino a scomunicare
chi di loro pagasse collette, taglie ed altre contribuzioni; e la stessa scomunica era
lanciata, con la bolla 4» coena Domini, a chi tassava i preti senza il consenso del
papa. I gesuiti e i frati sostenevano che gli ecclesiastici non erano tenuti a pagare,
(4) CrnaraMonTI, Op. cit., pag. 133.
(2) Id., Op. cit., pag. 132.
(8) CampaneLLa, Della Monarchia di Spagna, nelle Opere, vol. II, pag. 145-46.
() PLatone, Delle leggi, VIII, 5.
(5) Ammirato, Op. cit., pag. 112 e 1413-14.
x
272 5 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
mentre dottori famosi, specialmente francesi, ammettevano che per pubblica necessità
si potesse costringere anche i preti al pagamento delle imposte. E ciò per quattro
ragioni: 1° Il principe ha sempre facoltà di valersi di tutti i beni che sono nel suo
stato e che sono necessari a difenderlo, ed il papa pure si serve di questa facoltà
nel suo stato temporale. 2 Se è lecito per difesa di una città far della chiesa un
bastione, tanto più sarà lecito valersi dei beni non consacrati, quando la pubblica
necessità lo richiedo. 3° Vi sono quattro canoni che obbligano la Chiesa a vendere
anco i vasi sacri per riscattar prigioni; ora non è meglio prevenire questo fatto, con-
tribuendo alla difesa? 4% Un altro canone obbliga gli ecclesiastici, in una città as=
salita, a far la guardia, tanto più saranno essi tenuti a contribuire colle loro facoltà.
Per il che è da concludersi che, nonostante qualsivoglia tergiversazione, il clero debba
pagare la porzione spettantegli per coprire le spese pubbliche (1).
Questo è quanto abbiamo trovato d’importante sulla teoria dei tributi; relati-
vamente al modo di applicarli, gli scrittori di quest’epoca consigliano al principe mo-
derazione, perchè, a quanto pare, i sudditi erano allora fin troppo eccessivamente
gravati. « Oggidì i principi, così dice il GARZONI, hanno tanto estese le gabelle che
una puina portata da un villano non è sicura dalla gabella, e una povera vecchia-
rella che non abbia altro che la rocca e il fuso bisogna che paghi un tanto. Nè
basta il dazio dal pane, dal vino, dal sale, dal fieno, dall’orzo, dalle bestie, dalle
speciarie, dai panni vendibili, da tutte le specie di mercantie, che un di su l’ urina
guasta si porrà una gabella, acciò che ’1 mal della renella venga per forza a tutti (2). »
Per pagare i tributi, dice il PICcOLUOMINI, si conducono i popoli a vendere il he-
stiame e i campi, e a dare i corpi delle mogli e dei figliuoli prezzolatamente, ridu-
cendoli alla disperazione e incitandoli a ribellarsi (3). Ed il FREZZA: se è vero che
gl’imperi non si possono sostenere senza le gabelle, è vero altresì che queste non de-
vono imporsi dai principi, se non per le necessità delle stato (4), cioè per confer-
mare i popoli in pace, perciocchè con le armi si guardano, e le armi non si possono
mantenere senza stipendi, senza tributi (5). Ma questi non devono essere oppressivi,
perchè i gravi tributi e i dazi smoderati muovono a ribellione i popoli e ad abban-
donare i paesi (6).
Della stessa opinione è il Boccatini, il quale racconta che quando Sisto V mise
il dazio sul vino, lo appaltò ad uno, il quale fece un subappalto con le provincie,
e queste con le città, e le città con i castelli; e tutta questa serie di appaltatori e
subappaltatori empirono lo stato ecclesiastico di tanta confusione, che un padre di fami-
glia, accusato da un agente di aver venduto un fiasco di vino, mentre lo aveva donato,
s'informò dove abitavano i Turchi, e, saputo che stavano oltre mare, piangendo disse:
stanno troppo lontani perchè io abbia in mia vita l’allegrezza di vederli venire a li-
(1) PaoLo Sarpi, Discorso sopra le contribuzioni de’ Chierici, nelle Opere, Helmstat 4763, vol. IV,
pag. 4177-83.
(2) GaRrzoNI, Piazza universale ecc., pag. 852-53.
(3) PiccoLuomini, Op. cît., pag. 91 e 60. i
(4) Frezza, Op. cit., pag. 175 e 176. st
(5) Id., Op. cit., pag. 290. VI
(6) Id., Op. cit., pag. 129.
DI CAMMILLO SUPINO 273
berarci da tante oppressioni! Parole degne di esser risapute dal principe per correg-
gere i disordini del suo stato, esclama il Boccarini. Ed in Piemonte, egli continua,
avendo il duca bisogno di denari, mandò un suo consigliere a raccorre certi dazi nuo-
vamente imposti; molta maggiore spesa faceva il consigliere portando la famiglia in
carrozza d'albergo in albergo, di quello che i popoli pagassero al duea. Deve dunque
il principe provvedere, conclude il nostro autore, a riscuotere il denaro, ma procu-
rando che ciò si faccia senza rapacità (1); 0, come argutamente dice il GirAMIGNA:
uffizio del buon principe è tosare non scorticare il gregge (2).
Ed ora non vogliamo terminare la rassegna delle idee finanziarie di quest'epoca,
senza dare un breve cenno delle principali imposizioni stabilite dai vari governi d’I-
talia. Fra le imposte dirette figuravano: il testatico e il fuocatico (3), tributi per-
sonali, quello pagato per individui e questo per famiglie; l'imposta sui terreni, che
a Milano si chiamava perticato, perchè si riscuoteva a un tanto per pertica senza
guardare alla qualità dei campi (4); quella sui fabbricati, riscossa a Napoli, se-
condo il sistema oggi prevalente in Francia, a un tanto per finestra (5), con l’ag-
giunta, a Firenze, della sovraimposta di un soldo per ogni lira pagata (6), formando
quelli che oggi si chiamerebbero centesimi addizionali; l'imposta sulla ricchezza mo-
bile, calcolata a un tanto per cento sull’estimo dei beni privati (7), o anche solo
sui capitali impiegati nel commercio (8); finalmente le decime, pagate in parte al
clero (9) e i sussidi e i donativi numerosissimi, alcuni ordinari, altri messi per oc-
casioni speciali (10).
Infinite e più complicate erano le imposte indirette. Fra queste, avevano un posto
importantissimo i dazi di consumo e quelli di dogana al confine. La carne, il vino,
il frumento e il pane erano gravati in mille modi; il dazio sulla farina era pagato
in Firenze per mezzo dei mugnai, in ragione del grano macinato (11); qualunque merce
era gravata all’entrata e all’uscita della città (12) e quelle provenienti dall’estero
pagavano anche al confine, o all’atto di sbarcarle se arrivate per via di mare (13).
In alcuni porti, come per esempio a Nizza e a Genova, esisteva un diritto speciale,
per cui le navi che passavano in vista di quelle città dovevano pagare il 2%, sul
valore delle mercanzie che portavano, sotto pena di perder nave e carico (14). Sui
(1) BoccaLini, Commentari ecc., pag. 340.
(2) Vincenzo Gramigna, Del governo tirannico, e regio, in Napoli 1615, pag. 461.
(3) Relazioni Venete , serie I, vol. V, pag. 12. — Statuti di Corsica, pag. 72. — Instruzione a’
cancellieri ecc., pag. 40. 4
(4) Relazioni Venete, serie II, vol. II, pag. 474.
(0) Documenti sulla storia economica e civile del Regno ecc., nell' Arch. Stor. It., prima serie,
tomo IX, pag. 259.
(6) CantINI, Legislazione, vol. IV, pag. 201.
(7) Relazioni Venete, serie II, vol. I, pag. 344.
(8) P. VerRI, Memorie storiche sulla Economia Pubblica dello Stato di Milano, nelle Opere filo-
sofiche ecc., vol. IV, pag. 62-64.
(9) Ieelazioni Venete, serie I, vol. V, pag. 12. — A Firenze oltre le decime pagate dai proprie-
tari, vi erano le decimine pagate dai coltivatori dei campi. Vedi: Instruzione a’ cancellieri ece., pag. 39.
(10) Relazioni Venete, serie II, vol. II, pag. 283 e vol. IV, pag. 87, 336 e 407.
(11) CantINI, Op. cit., vol. II, pag. 297-305.
(12) Relazioni Venete, serie II, vol. I, pag. 343.
(13) Pragmaticae, Edicta ece., vol. I, pag. 567-69.
(14) Relazioni Venete, serio II, vol. II, pag. 1445-46.
Serie IL. Tom. XXXIX. 35
274 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
trasferimenti di proprietà e sui contratti in genere esistevano imposte speciali, riscosse,
come ai nostri giorni, col mezzo indiretto della carta da bollo (1); e col bollo si
riscuoteva pure un tributo sulle carte da giuoco (2). Tanto a Napoli che a Firenze
era stabilita l'imposta sul valore locativo, computata al 10 per cento sulle pigioni
pagate (3).
Numerosissime erano poi le privative fiscali: quella del sale era conosciuta e
adottata in tutti gli stati italiani, ma la compra di questo prodotto non era lasciata
alla volontà dei consumatori; in Toscana, per esempio, si faceva la distribuzione del
sale, dandone 10 libbre per bocca, mezza libra per ogni capo di bestiame, e asse-
gnandone agli osti una quantità in proporzione della loro clientela (4). Il mono-
polio del tabacco era stabilito nel Napoletano e in Toscana (5); in quest’ ultimo
stato anzi esisteva anche il lotto come mezzo di entrata pubblica (6), e la privativa
per la vendita dell’acquavite (7). In Ferrara il monopolio di vendita si estendeva
perfino al sapone, alla farina e al pane, che non potevano esser venduti se non dal
gabelliere del Duca (8). Ma troppo a lungo saremmo tratti, se volessimo anche solo
accennare tutti i mezzi escogitati in quel tempo per trar denari dai contribuenti ; basti
il già detto per avere un’ idea del sistema fiscale di quest'epoca, e per poterlo met-
tere a riscontro con le teorie finanziarie esposte dagli scrittori da noi già citati.
E da un tale riscontro risulta chiaramente la contraddizione, cui già abbiamo
accennato, fra le teorie degli autori e la pratica dei governi. Gli scrittori raccomandano
moderazione nelle spese e prudenza nell’imporre tributi, e i governi spendono senza
riguardo, distruggendo con imposte gravosissime le fonti della ricchezza nazionale. Gli
scrittori consigliano ai principi di lasciare ai privati l’esercizio delle industrie, e in
Toscana e in Piemonte i Duchi fanno il contrabbando del grano, emanano editti contro
gl’incettatori e intanto comprano tutto il raccolto, per rivenderlo poi carissimo e con
gran guadagno (9). Gli scrittori affermano che tutti devono indistintamente sopportare
i pesi dello stato, che i tributi devono esser posti sulle cose e non sulle persone, e a
preferenza sulle cose superflue, e invece ovunque i nobili e il clero sono i meno gravati,
le imposte personali sono preferite e tutti i generi di prima necessità pagano balzelli
sopra balzelli.
E forse questo fatto, forse l’avere continuamente sotto gli occhi gli effetti di
una insana politica finanziaria, faceva in modo che gli scrittori meglio intravedessero
i giusti principî economici da seguirsi nell’amministrazione del patrimonio pubblico.
Quello che in tutti i modi è certo, si è che la parte più importante e più originale
delle teorie finanziarie di quest’epoca è data dalle idee che significano critica diretta
(1) CantINI, Op. cit., vol V, pag. 195-205; vol. VI, pag. 214-114; vol. XV, pag. 4127-30 e
vol. XVII, pag. 228-35. — Pragmaticae, Edicta, ece., vol. IV, pag. 138-47 e 4148-51. — 44 magni-
ficae civitatis Veronae Statutorum ecc., vol. II, pag. 73-74.
(2) CANTINI, Op. cit., vol. XVI, pag. 328-29.
(3) Pragmaticae, ecc., vol. IV, pag. 4156-58. — Relazioni Venete, serie II, vol. I, pag. 343.
(4) Instruzione a’ cancellieri ecc., pag. 70-73.
(0) Pragmaticae, ecc., vol. IV, pag. 180-81. — Cantini, Op. cit., vol. XVII, pag. 203-5.
(6) CantINI, Op. cit., vol III, pag. 4180-85 e vol. IV, pag. 190-941.
(7) Id., Op. cît., vol. XVII, pag. 207-9.
(8) Relazioni Venete, serie II, vol. II, pag. 4412.
(9) Id. serie II, vol. II, pag. 72 e 116.
DI CAMMILLO SUPINO 275
o indiretta alle istituzioni di allora. Esse danno ai libri di quel tempo la caratteristica
italiana, esse costituiscono la forma particolare che presso di noi avevano assunto le
teorie del Bodin, a cui largamente s’ispirano gli scrittori del nostro paese. Per giudi-
care di loro con imparzialità e retto criterio, ci è dunque necessario di esaminare
prima brevemente le idee fmanziarie del sommo politico francese.
Egli distingue sette modi con cui si può supplire alle spese pubbliche, e questi
sono gli stessi che abbiamo visti citati letteralmente da Vito di Gozzi; il Bodin da
fra tutti la preferenza al demanio, che fornisce l’entrata più onesta e più sicura; e
non si mostra contrario a che il principe eserciti la mercatura, trovando « plus séant
au prince d'ètre marchand que tyran, et au gentilhomme de trafiquer que de voler (1).»
Bodin trova giusto di far pagare un tributo ai negozianti, che esportano e importano
merci, perchè chi vuol guadagnare sui sudditi altrui deve pagare un diritto al prin-
cipe; è contrario ai tributi diretti, che non dovrebbero esser messi che in caso di
necessità e non sulle persone ma sui beni; consiglia l'uguaglianza delle gravezze senza
esentare alcune classi dal pagamento di esse; preferisce le imposte sugli oggetti di
lusso o sulle cose che solo servono a corrompere e a guastare i sudditi; loda le tasse
giudiziarie perchè reprimono i processi (2).
Le idee del Bodin hanno esercitata un’ influenza indiscutibile sugli scrittori delle
principali nazioni di Europa; ce lo dimostrano chiaramente le dottrine degli italiani
da noi citati; ce lo dimostrano le teorie di Obrecht, di Latherus, di Bornitz, di
Besold e di Contzen in Germania (3); ce lo dimostrano pure gli scritti degli
olandesi Boxhorn e De la Court (4). Ma mentre gli autori tedeschi ed olandesi
sostengono nel complesso il medesimo sistema finanziario propugnato dal Bodin, colla
preminenza accordata al demanio sui tributi, gl’italiani invece, pure ispirandosi alle
dottrine del politico francese, le modificano, rendendole più consone ai nuovi ideali
scientifici, e le adattano all’ambiente, applicandole alla critica della nostra situazione
economica di allora.
Certo in molte idee del BorEro, dell’AmumiraTo, del MancINI, del CHIARAMONTI
e di Viro DI Gozzi si vede marcatamente l’impronta del Bodin, ed anzi alcuni di questi
autori lo citano , sia per appropriarsene le teorie , sia per confutarle. Ma intanto,
mentre il Bodin è favorevole al sistema finanziario medio-evale, i nostri politici in-
vece, meglio comprendendo i tempi, sono contrari al demanio fiscale, o se lo am-
mettono, gli assegnano un posto secondario accanto ai tributi, che devono costituire
il cespite principale di entrata pubblica. E rispetto ai tributi, mentre il Bodin ha
maggior predilezione per quelli indiretti e per le dogane in particolare, i nostri po-
litici già cominciano a comprendere l’importanza delle imposizioni dirette, gravanti
specialmente la ricchezza stabile, ossia i terreni e i fabbricati. Importanti ci sembrano
pure le considerazioni del FracHETTA e del Capuro sulla legittimità delle imposte dal
punto di vista politico, sulla necessità di domandare, prima di stabilirle, il consenso
dei contribuenti ; considerazioni che dovevano sorgere spontanee a scrittori che vive-
(1) BAUDRILLART, Bodin et son temps, pag. 480-81.
(2) Id., Op. cit., pag. 482-89.
(3) RoscHeRr, Geschichte ecc., pag. 154, 166, 193, 204 e 206.
(4) LaspeyREs, Geschichte ecc,, pag. 239-43.
276 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
vano in paesi, dove il popolo era aggravato da tributi messi arbitrariamente. Tl Bodin
consiglia di gravare gli oggetti di lusso e i consumi voluttuari, e queste idee sono
adottate dall’Ammiraro e dal CampanELLA; ma il CaPuTO va più in là, quando pro-
pone di esentare dall'imposta quella porzione della ricchezza di ognuno, che è indi-
spensabile per la soddisfazione dei bisogni più urgenti. E così pure l’affermazione del
Bodin, che tutte le classi di persone devono pagare le imposte, ci sembra riceva,
più che una conferma, una dimostrazione efficace e superiore a quei tempi, dalla
disgressione del SarPI sull’obbligo che hanno gli ecclesiastici di contribuire ai pesi
dello stato. Se dunque molto spesso le teorie del sommo politico francese costitui-
scono la base, su cui si fondano le idee degli scrittori italiani di quest'epoca, dobbiamo
però confessare, che essi non si limitano a copiare il loro maestro, ma contribuiscono
in certo modo a far pure progredire le dottrine finanziarie, rivestendole di una forma
più moderna e adattandole alle nostre condizioni politiche di quel tempo.
Le quali non erano troppo belle davvero, perchè gli stati d’Italia, salvo poche
eccezioni, o si trovavano governati da principi tiranni, o erano sotto la dominazione
straniera. E se è vero, come dice il LortINI, che « buon governo s' intende esser
quello che è fatto a beneficio di coloro che sono governati, e il cattivo a benefizio
di coloro che governano (1) », non c' è dubbio che allora i governi erano pessimi,
perchè non consideravano i sudditi altro che come mezzi per ottenere denari. Basta
infatti leggere gli storici contemporanei, per accorgersi in quali condizioni miserande
e compassionevoli si trovassero in quel tempo i cittadini dei vari stati d’Italia, op-
pressi e derubati di tanto in tanto dalle soldatesche spagnuole di passaggio, angariati
periodicamente dai governi sempre in guerra e sempre bisognosi di mezzi per soppe-
rirvi. Sono queste condizioni che fanno alzar grida di protesta ai nostri politici, i quali
ci descrivono il numero infinito di tributi imposti ed il modo inumano ed anti-eco-
nomico con cui erano riscossi; sono queste condizioni, che, facendo meglio risaltare
le ineguaglianze sociali, spingono i nostri autori a consigliare una politica finanziaria
democratica o a discutere sulle influenze determinanti la legittimità dell’imposta.
Nell'insieme dunque le idee sulle spese e sulle entrate pubbliche, esposte dagli
scrittori da noi citati, ci sembrano di una certa importanza, perchè, ispirate alle teorie
prevalenti in altri paesi, le modificano, le fanno progredire e le danno un’ impronta
nazionale. Per cui se i politici italiani non ci hanno lasciato un perfetto sistema scien-
tifico di finanza, occupano però degnamente una posizione elevata di fronte al passato ;
e le loro teorie, come critica delle istituzioni allora dominanti, si mostrano superiori
ai tempi e preparano il terreno a sistemi migliori per l'avvenire.
(1) LortINI, Avvedimenti, Avv. 10, vol. I, pag. 13.
DI CAMMILLO SUPINO 277
CAPITOLO XVI.
Tesoro e Prestiti.
Quando le entrate ordinarie non sono sufficienti, quando si devono sostenere spese
imprevedute e rilevanti per circostanze speciali, è necessario ricorrere a mezzi straor-
dinari per provvedervi, e questi sono costituiti, nell'epoca che noi studiamo, dal tesoro
.e dai prestiti.
Il tesoro serve specialmente in caso di guerra, e in tali occasioni anzi molti
politici lo trovano assolutamente indispensabile. È vero, dice il BorERo, che esso si
forma aggravando di troppo i sudditi e che la sua esistenza spinge talvolta a guerre
non necessarie nè utili; ma nondimeno il principe deve avere in certe circostanze de-
nari disponibili, essendo difficile trovarne in tempo di guerra, quando l’agricoltura e
l'industria, e per conseguenza i dazi, diminuiscono o cessano. Nè è consigliabile prender
somme ad interesse, perchè per pagar questi s’impegnano le entrate ordinarie, onde
bisogna poi trovarne delle straordinarie, le quali, continuando ad esser percepite ,
«diventano in seguito ordinarie, aggravando per sempre il male e rovinando lo stato.
Senza farne dunque professione, deve però il principe mettere insieme denari, tenendo
vive le entrate e astenendosi da soverchie spese (1).
L'Ammrrato dice che, se coi suoi discorsi potesse convincere i principi e le re-
pubbliche a fondare un erario militare, crederebbe di avere ottimamente impiegata la
.sua fatica; perchè non è da principe savio non aver posto denari insieme per gli
estremi casi che possono avvenire. Ed a conferma di ciò, il politico di Lecce afferma
che in Roma si è, con tutti i governi, mantenuta l’abitudine di accumulare un te-
soro: Tiberio lasciò sessantasette milioni e mezzo di scudi, il pontefice Giovanni XXII
ne lasciò, quando morì, venticinque milioni, e Sisto V, oltre aver armate galee e fatte
spese grandissime, ne fece trovare alla sua morte poco meno di cinque milioni (2).
È necessario, dice il CAMPANELLA, che il re abbia sempre in pronto buona somma
di denari contanti, perchè l’aspettare a metterli insieme quando lo richiede il bisogno,
massime nella guerra, è cosa difficile e pericolosa. Bisogna dunque che il denaro sia
apparecchiato, acciò che non s’abbia da radunar altro che gente, altrimenti mentre si
consulterà delle maniere di far denari e genti, si avanzerà il nemico. Dopo di che,
l'illustre filosofo cita molti esempi storici per provare l’utilità che trassero parecchi
stati dal tesoro, e conclude dimostrando la necessità di esso, specialmente per evitare
di restar soggetti a molti debiti ed interessi (3).
Se questa istituzione non è più conforme ai nostri tempi, se la maggior parte
degli scrittori moderni di Finanza trovano in essa più inconvenienti che vantaggi, noi
(4) Borero, Ragion di Stato, pag. 179-83.
(2) AmmiraTO, Discorsi ecc., pag. 32-35.
(3) CampaneLLA, Monarchia di Spagna, nelle Opere, vol. II, pag. 139-43.
278 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
non possiamo però criticarla, se ci mettiamo dal punto di vista degli autori sopra
citati che la difendono. Ai nostri giorni i capitali trovano impiego con molta faci-
lità e gli stati più civili, in caso di bisogno, ottengono credito a miti condizioni;
eppure il Wagner dimostra, con argomenti tutt'altro che speciosi, l’utilità del tesoro
di guerra (1), e Bismarck confessò che senza di esso difficilmente avrebbe potuto di-
fendere la riva sinistra del Reno da un’ invasione francese (2). A maggior ragione
dunque doveva essere apprezzato il tesoro in un’epoca, in cui i capitali erano scarsi
e poco circolanti e in cui non era tanto facile ottenere prestiti di somme elevate.
Per cui le considerazioni degli autori citati, e in particolar modo quelle del BorEro,
ci sembrano giustissime, specialmente dove accennano che in caso di guerra, nel mo-
mento in cui i bisogni sono più urgenti e le spese tanto maggiori, le entrate ordi-
narie diminuiscono, per il danno che risentono le industrie dalla mancanza di tran-
quillità in un paese.
Ma il tesoro non costituiva l’unico modo per provvedere alle spese straordinarie.
Quando l’entrate non suppliscorio alle spese, dice il BorERo, potrà il principe pigliare
a prestito da sudditi pecuniosi, o ad interesse (il che però non si deve fare che in
casi estremi) o senza interesse, la qual cosa non sarà difficile ad ottenere, se il prin-
cipe manterrà la sua parola e pagherà sempre i suoi debiti. Ma in generale il Bo-
TERO non è favorevole ai prestiti, perchè, pigliando denari a interesse, si rovinano le
entrate e si perde il credito (3).
E questo sistema, anche secondo il BoccALINI, è perniciosissimo agli stati, giacchè
il principe impegna nella vita sua quei prodotti che, liberi come li aveva ricevuti,
doveva trasmettere ai suoi successori. Così le rendite si sperperano e gli stati vanno
in rovina; e se nei tempi presenti si vedono i dazi tanto accresciuti, ciò dipende
dall’avere i principi trovate le rendite impegnate dai loro predecessori, per cui, per
provvedere alle urgenti necessità del paese , sono stati obbligati a inventare nuove
gabelle e ad aggravare i sudditi, già stanchi e afflitti, con odiose imposizioni. E
quando queste avranno raggiunto il massimo, quando i principi non potranno più
caricare i popoli con nuove angarie, saranno forzati a tirarsi la berretta sopra gli
occhi e dar di mano alle rendite impegnate, colorendo la rapacità con il pretesto che
gli antecessori non avevano il diritto d’impegnarle, a pregiudizio dello stato e di chi
doveva succedere in esso (4).
Ma nonostante queste giustissime considerazioni, tutti i governi di allora face-
vano prestiti sopra prestiti. Giovanni SoRANZO, nella sua relazione di Spagna del 1565,
dice che il debito che ha l’imperatore passa i 60 milioni di ducati, somma che mette
spavento ad udirla. Ha obbligati sul conto dell’entrata di Spagna ducati 2,600,000
all’anno, su quella di Fiandra ne ha impegnati 900,000, in Sicilia 300,000, in Na-
poli 800,000, in Milano 450,000, i quali denari non paga per conto di capitale,
ma per interessi che sono dal 5 al 10 per cento. S. M. sborsa dunque ogni anno
(1) A. WaanER, Finansawissenschaft, Leipzig 1883, vol. I, $ 64 e seg.
(2) W. Roscarr, System der Finanzwissenschaft, Stuttgart 1886, pag. 520,
(3) Borero, Op. cit., pag. 186-87.
(4) T. BoccaLini, Pietra del paragone politico, Milano 1863, pag. 137-38.
DI CAMMILLO SUPINO 279
5,050,000 ducati, i quali ridotti alla dote di 8 per cento rispondono a più di 63
milioni di ducati di capitale (1). E in Piemonte, da quanto riferisce il ConTARINI,
non è comunità, che oltre aver dato al principe tutto ciò che dai suoi sudditi po-
teva cavare per le estreme contribuzioni di guerra, non si trovi indebitata qual di
trenta e qual di venti mila scudi, in modo che, calcolato questo debito fra tutte, si
porta alla somma dì due milioni e più di scudi (2).
Il modo più comune di contrarre prestiti allora era di stabilire dei Monti; cioè
a dire, si determinava la somma da prendersi a credito, si divideva in tante parti che
costituivano il minimo da sottoscriversi per persona e si indicava l’interesse annuo da
corrispondersi, assegnando per il pagamento una parte delle entrate pubbliche» (3).
Le particelle di sottoscrizione si chiamavano luoghi del Monte , e monte era detto
l’ufficio di amministrazione di quella gabella, che doveva servire al pagamento
degli interessi, Spesso, per maggiore attrattiva dei possessori di capitali, si concede-
vano privilegi particolari per le somme date a prestito, garantendo che « i frutti del
Monte saranno liberi da qualsivoglia caso fortuito, come di guerre, pesti e qualsivoglia
diminutione di entrate », che «il capitale e i frutti non potranno essere sequestrati
per nessuna ragione » e che « i montisti possono lasciare in eredità la loro por-
zione (4). » I prestiti potevano essere redimibili e irredimibili, o, per parlare col
linguaggio allora usato, i Monti erano vacabili e non vacabili (5).
L'organizzazione più perfetta e completa di queste operazioni di prestito si trova
nel famoso Banco di S. Giorgio di Genova. Esso fu ordinato nel 1407 ; prima di
quest'epoca coloro che governavano le cose pubbliche prendevano denari dai privati
al 10, 9, 8 e 7 per cento, dando in cauzione una parte delle entrate pubbliche ,
vendendo, cioè, ad alcuni creditori le ragioni del Comune sul pedaggio di un fiume,
ad alcuni altri la gabella del vino, ad altri la gabella del grano, ecc., e questi con-
tratti si chiamavano compere, quasi che i privati avessero comprate le ragioni del
Comune. Chiunque aveva sborsato 100 lire si diceva aver un luogo su la compera,
chi ne sborsava 200 due e così via; dimodochè col tempo crebbero assai queste com-
pere, prendendo ognuna nome diverso, come compera del Capitolo,: di S. Paolo, del
Sale, ecc., ed essendo ognuna particolarmente governata da più cittadini, i quali ave-
vano cura di pagare il provento e gli utili ai Luogatari e computare tra loro e il
Comune. Ma col continuo aumentare dei debiti dello stato, si moltiplicarono gran-
demente le compere, arrecando confusione nell’amministrazione pubblica; onde nell’anno
1408 esse furono riunite tutte in una sola compera detta di S. Giorgio, a cui si
assegnarono in cumulo tutte le gabelle, che prima separatamente garantivano ogni
compera, riformando nello stesso tempo il consiglio di direzione. Con un tale cam-
biamento, il credito e la fama del banco crebbero moltissimo e i luoghi aumentarono
sempre più; per cui, alienando il Comune a poco a poco tutte le sue entrate, il
(4) Relazioni Venete, serie I, vol. V, pag. 88.
(2) 4., serie II, vol. V, pag. 266.
(3) BuonimseGnI, Dei Monti, pag. 137.
(4) GanTINI, Legislazione, vol. XIII, pag. 255-59.
(5) Id., Op. cit., vol. XVI, pag. 49.
280 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
banco di S. Giorgio ingrandì sempre più i suoi affari ed estese la sua giurisdizione
sopra terre © comunità diverse, diventando in tal modo uno stato dentro lo stato (1).
Non è nostro scopo l’esporre l’organizzazione interna di questo istituto, il par-
lare della elezione dei magistrati, della loro composizione e dei loro uffici; ma, esa-
minando piuttosto le funzioni finanziarie del Monte, diremo che esso aveva assunto,
nell’epoca che noi studiamo, l’intera amministrazione del patrimonio pubblico della
repubblica di Genova. Il banco aveva per suo conto tutte le gabelle del Comune ,
le quali appaltava, ritraendone un reddito annuo rilevantissimo; di fronte a ciò pa-
gava tutte le spese pubbliche, come stipendi degl’ impiegati , mantenimento delle
milizie, ecc., e quanto avanzava distribuiva poi come interessi e utili annui ai Luo-
gatari delle compere (2). Come si vede dunque S. Giorgio faceva un ufficio simile
a quello che ha sempre fatto la Banca d'Inghilterra.
Per mezzo della potente e ordinata organizzazione di questo banco, la repubblica
di Genova poteva far prestiti con più facilità e prontezza di tutti gli altri stati
italiani; perchè, mentre questi per ogni occorrenza dovevano stabilire un Monte ap-
posito garantito con un dazio speciale, Genova invece trovava nel Banco di S. Giorgio
il mezzo di aver qualanque somma, senza far altro che aumentare una gabella per
il pagamento degl’interessi. Il governo voleva rafforzare le mura della città, o pre-
pararsi in previsione di guerre , o voleva mandare un ambasciatore con doni alla
Porta, o si apparecchiava a ricevere la regina di Spagna, in tutte queste occasioni
ricorreva al banco per chieder prestiti, e questo, facendo qualche cosa di simile delle
moderne sottoscrizioni pubbliche , emetteva tanti luoghi quanti erano necessari per
formare la somma richiesta dal governo, ed aumentava nello stesso tempo un dazio
per corrispondere gl’interessi (3).
I luoghi erano scritti in testa e a credito di chiese, conventi, monasteri, ospedali,
famiglie, alberghi, persone particolari, tanto cittadini che forestieri. Gl’interessi, per
i quali, come abbiamo detto, erano assegnate tutte le entrate pubbliche meno le
spese occorrenti per lo stato, venivano pagati ogni anno al primo di Luglio, facendo
ai luogatari per loro comodo un’antecipazione , giacchè, secondo le regole del banco,
gli utili avrebbero dovuto essere pagati alla fine di ogni quinquennio. I luoghi erano
privilegiati, non potevano interdirsi, sequestrarsi, e solo per causa di dote, legati e
successioni passavano in credito di altri; potevano esser venduti, facendo il ‘passaggio
di registrazione nel Cartulario (4).
In principio il debito che aveva lo stato verso le compere di S. Giorgio era
redimibile, ma nascendo spesso questioni sull’estinzione dei vari prestiti, venne nel-
l’anno 1539 trasformato in perpetuo, col celebre contratto detto contractus magnus
consolidationis (5). Esso fu molto vantaggioso al banco, di cui rafforzò immensa-
(1) Sansovino, Del governo de i regni ecc., pag. 137-38. — G. Boccarpo, Dizionario universale
di Economia politica e di Commercio, Milano 1875, vol. I, pag. 235-36.
(2) Leggi delle compere di S. Giorgio dell’'eccellentissima republica di Genova, riformate Vanno
1568, in Genova 1602, pag. 1437-65. La nota delle riscossioni e dei pagamenti di S. Giorgio l’abbiamo
trovata in un Manoscritto del sec. XVII.
(3) A. Losero, Memorie storiche della banca di S. Giorgio, Genova 1832, pag. 99-A421.
(4) Id., Op. cit., pag. 159-61.
(0) Id., Op. cit., pag. 93.
DI CAMMILLO SUPINO 281
mente il credito, ma non lo fu per lo stato, che si precluse così la via a successive
riduzioni d’interesse, la qual cosa era invece praticata con facilità in quei paesi che
avevano un Monte speciale per ogni debito particolare. Infatti in quest’ epoca non
mancano esempi di quello che oggi si chiama conversione della rendita.
Essa, com’ è noto, ha per iscopo di ridurre l’interesse e può essere forzata, e
per conseguenza illegale, o volontaria, quando il capitale viene del tutto rimborsato.
A. Napoli, nel 1611, si ha un esempio della prima specie di conversione. L'agente del
Duca d’Urbino, in una lettera, racconta che il vicerè aveva deciso di ridurre le rendite
perpetue al 7 per cento e quelle a vista a 10, e che la città aveva firmato le lettere
da mandarsi al re, protestando di farlo perchè S. E. lo comandava, non perchè le
paresse bene. L'agente aggiunge che questa riduzione danneggia anche i Genovesi, ma
più ancora i cavalieri napoletani, che hanno quasi tutte le loro facoltà in tali rendite,
e previene il duca d’Urbino che i Genovesi si querelano alla corte, e lo consiglia di
fare altrettanto (1).
Invece la conversione operata in Toscana nel 1629 è perfettamente legale. In
‘un momento di grande bisogno si era stabilito un Monte vacabile, con l'interesse
dell’8 !/, per cento, pagabile coi proventi della tassa sul sale. Dopo parecchi anni,
venuti tempi migliori, per ridurre l’interesse che era troppo elevato, il governo emanò
questa disposizione: Essendo il Monte del sale eretto con facoltà di poterlo estinguere,
si dichiara che col prossimo Agosto (il decreto ha la data del 27 luglio 1629) ces-
seranno i frutti di esso Monte e ai montisti sarà restituita la valuta di scudi 100 per
luogo. Chi poi non vorrà la restituzione del denaro, potrà avere in cambio tanti luoghi
del Monte non vacabile al frutto del 5 per cento e con le condizioni e garanzie solite,
mettendo le entrate del Monte estinto a hbenefizio di questo nuovo esteso. Si dichiara
che in caso si dovesse estinguere anche questo Monte, sarà ad ognuno restituito quanto
aveva depositato (2). Però le conversioni allora non erano la conseguenza di un miglio-
ramento stabile nelle condizioni finanziarie dello stato; tant'è vero che quattordici
anni dopo fu eretto, nella stessa Toscana, un altro Monte al 9 per cento, con paga-
mento dei frutti ogni tre mesi e con dichiarazione che su di essi non sarebbe mai messa
alcuna imposta (3).
Ma la forma di conversione più perfettamente simile a quella praticata ai nostri
giorni, ci viene descritta in una lettera dell’agente di Toscana a Napoli, che dice
come in quella città si stesse trattando con banchieri genovesi per ridurre tutte le
rendite dal 7 al 5 per cento; « e detti negozianti genovesi a chi non vorrà sponta-
neamente abbassare detto interesse, renderan la sua moneta che a detta corte avesse
dato a censo o in altro modo (4). »
Quantunque, come abbiamo visto, gli stati italiani di quest’ epoca facessero un
largo uso dei prestiti e conoscessero i mezzi migliori per contrarli o per ridurne gl’in-
(1) Documenti che riguardano in ispecie la storia economica e finanziaria del Regno, levati dal
carteggio degli agenti del duca d’Urbino in Napoli (1522-1622), nell'Archivio Storico Italiano, prima
serie, t. IX, pag. 223-24.
(2) Cantini, Op. cit., vol. XVI, pag. 49-51.
(3) IU., Op. cit., vol. XVI, pag. 360-67.
(4) Documenti ecc. cavati dal carteggio degli agenti del Granduca di Toscana in Napoli, nell’Arch.
Stor. It., prima serie, t. IX, pag: 267.
Serie II. Tom. XXXIX. - 36
282 LA SCIENZA ECONOMICA IN ITALIA
teressi, pure negli scrittori non abbiamo potuto trovar traccie di una teoria scientifica
su questo argomento, limitandosi essi a criticare il sistema d’impegnare le entrate per
contrarre debiti. E la critica, dobbiamo confessarlo, ci sembra giusta, come giustissime
sono senza dubbio le considerazioni del BoccALINI, quando cita gl’inconvenienti eco-
nomici e politici risultanti da questo ipotecare il futuro. Ma se gli scrittori hanno
ragione, gli stati d’altra parte si trovavano nell’impossibilità di fare altrimenti; perchè,
date le condizioni di allora, o essi dovevano rinunziare a contrarre prestiti, o volen-
doli contrarre, erano costretti a impegnare le rendite, nessuno fidandosi della moralità
dei governi nel mantenere gl’impegni, quando disgiunta da una garanzia materiale.
PREFAZIONE
Capit. I.
> II
» XII.
» XIII.
» XIV.
» XV.
» XVI.
DI CAMMILLO SUPINO
INDICE
Scienza economica e ricchezza
Il lavoro e la divisione del lavoro
Le industrie ; FASTER
Politica industriale: le corporazioni di arti e mestieri
Politica commerciale: protezionismo e libero scambio
Valore e prezzo .
La moneta.
Il cambio
Interesse e usura
Proprietà privata e comunismo
Teoria della popolazione
Carestia e annona
Lusso e leggi suntuarie
Lo stato e l’amministrazione
Le spese e le entrate pubbliche
Tesoro e prestiti.
283
LE XI SIÈCLE
DANS LES ALPES MARITIMES.
ETUDES GENEALOGIQUES
PAR
E. CAIS DE PIERLAS
Mémoire approuvé dans la séance du 8 juillet 1888
L
Les premiers Comtes de Provence.
Les descendants de Charlemagne avaient finalement réussi à rétablir la paix entre”
.eux, en 843, par le traité de Verdun.
Lothaire en 855 se retira dans un monastère et ses enfants se partagèrent ses
états le 22 septembre de l’année suivante. Les états cédés à Charles prirent dès lors
le nom de royaume de Provence et ce prince prit le titre de roi de Provence, sous
lequel il est connu dans l’histoire (1). Il mourut très jeune en 863, sans laisser
d’enfants. Ses frères, l’empereur Ludovic et le roi Lothaire, se partagèrent ses états.
Le premier retint la Provence proprement dite, qu'on appelait aussi le duché
«d’Arles (2) en la laissant sous le gouvernement de Gérard, dit de Roussillon, comte
de Vienne et marquis de Provence.
L’ambition de Charles le Chauve mit bientòt en feu tout le midi. Vienne fut
assiégée et quoique vaillamment défendue par la comtesse Berthe, femme de Gérard,
celui-ci dut céder la ville et se retirer en Bourgogne, tandis que le roi investissait
du comté de Vienne Boson son beau-frère en 871. Le reste de la Provence
.demeura au pouvoir de Ludovic et fut probablement gouverné par Adalbert et
Berard, comtes et marquis de Toscane, jusqu'à la mort de Ludovic en 875.
C'est à cette époque que commence à se dessiner dans notre contrée la rivalité
entre ces deux familles, qui s’en disputèrent le gouvernement en s’appuyant à l’am-
bition des souverains.
L’origine de Boson n'est pas certaine; quant à Adalbert, il était fils du comte
Boniface de Toscane et neveu de Berehald, qui en 829 avait vaincu les Maures en
«Corse (3). Nous trouvons d’abord son nom en Provence dans une charte du x° siècle faisant
(41) Recueil des historiens des Gaules, vol. IX, p. 214. « Carolus Provinciae rex; » (Ann. BeRTIN. |
ad ann. 858).
(2) « Dutatus Arelatensis... ducatus provinciae; » (Recucil des historiens des Gaules, t. VIII, p. 185).
(3) Cars DI PieRLAS, I conti di Ventimiglia, pag. 7 et suiv.
286 E. CAIS DE PIERLAS
partie du cartulaire de Saint-Victor de Marseille, dans laquelle une description des
droits de l’abbaye à Marciana (1) est faite, au nom du comte Eldebert, par Nortald (2).
Un autre document du méme cartulaire, portant la date du 2 juillet 845, con-
tient un jugement rendu à Cadarosc (3), au sujet des droits du monastère à Liga-
gnau (4), par Robert, au nom du comte Adalbert (5), avec l’assistance des échevins
et des juges Saliques et Romains.
Sa juridiction comtale nous est prouvée par la lettre du pape Jean VIII en 879 (6),
écrivant à Boson roi de Provence pour qu'il lui remît les comtés qui appartenaient
depuis longtemps è sa famille. Cette lettre resta, paraît-il, sans effet.
Adalbert avait un frère qui, comme leur oncle, portait le nom de Berard (7).
C'est lui qu'on trouve plus tard en Provence où il combat en faveur de Charles le
Gros, animé d’un acharnemnt personnel contre Boson (8).
Nous avons dit ailleurs qu'il est probable que Boniface, un des fils d’Adalbert,
soit la tige des comtes de Vintimille (9), nous verrons aussi quelles sont les fa-
milles qui pourraient dériver en Provence de cette mème souche.
Cette famille doit avoir perdu son pouvoir en Provence à cette époque, à mesure
que Boson croissait en importance et parvenait presqu'è l’empire. À la mort de
Ludovic en 875, Charles le Chauve, protégé par le pape Jean, marche sur l’Italie
-accompagné de Boson; il est sacré empereur à Rome, puis regoit de la diète de
Pavie la couronne d’Italie (10). Le nouvel empereur, obligé de retourner en France,
crée Boson duc de Lombardie et régent du royaume et lui donne ensuite le comté
d’Arles avec le titre de roi (11).
Boson, dont la sceur Richilde en 870 avait épousé Charles le Chauve, se:
marie à son tour en 877 avec Hermengarde, fille unique de l’empereur Ludovic ;
l’année suivante il réussit à fiancer sa fille à Carloman, second fils de Louis
le Bègue (12). Il avait accueilli en Provence le pape Jean, lorsque celui-ci avait
dù quitter Rome, chassé par la faction d’Adalbert de Toscane et de Lambert de:
(4) Entre la Lèze et la Durance, d’après le titre de la charte.
(2) « Que facta est temporibus vir illustri Eldeberto comite, per suo misso Nortaldo vice domino»
“ (Cart. de S. Victor, 291).
(3) Berre.
(4) Ancien port détruit près de Fos.
(5) « In mallo publico ante Rothbertum vicarium de viro illustri Adalberto comite » (Cart. de:
S. Victor, 26). )
(6) Recueil des historiens des Gaules, vol. IX, p. 180. « De parte quoque Adalberto gloriosi mar-
« chionis seu Rotildae comitissae coniugis eius cognoscat nobilitas vestra quod vobis in omnibus fideles
«et devotos amicos eos esse cognoscimus. Ideo rogamus ut eorum comitata in Provincia posita, sicut
« iam tempore lungo tenuerunt, ita deinceps pro nostro amore securiter habeant ».
(7) « Berardus comes, Bonifacii filius » (Collect. concil., t. XI, col. 164).
(8) « Berardus quidam ab Italia veniens Bosonem tyrannum non sinebat quietum esse » (Recueil
des historiens des Gaules, t. VIII, p. 82).
(9) Cars DI PieRLAS, I conti di Ventimiglia, p.9 et suiv.
(10) Ann. BeRrTIN ad ann.876; Recueil des historiens des Gaules, t. IX.
(14) « Carolus imperator...... Bosoni germano suo Richildis reginae filio, Irmingardam filiam
« Ludovici imperatoris........ uxoravit, deditque ei Provinciam et corona capiti eius imposita, eum:
« regem appellari iussit » (Ex Chronica Centulensi ad ann. 877), Recueil des historiens des Gaules,
* t. VII, pag. 243.
(42) Recueil des historiens |des Gaules, t. IX (Ann. BerTIN. ad ann, 878. — Elle épousa plus tard:
Guillaume, le Pieux duc d’Aquitaine.
LE XI SIRCLE DANS LES ALPES MARITIMES 287
Spoleto son beau-frère (1); trait6 de fils adoptif par le mème pape (2), qui voyait en lui
le défenseur de ses droits et qui le prédestinait & la couronne d'Italio et è
celle de l’empire, il souscrivait au milieu de ses triomphes une charte qui com-
mengait par les mots: Ego Boso Dei gratia, id quod sum (8).
L’objet de ses rèves allait bientot s’effectuer: le synode de Mantaille du 15
octobre 879, lui donna la couronne du royaume de Bourgogne (4).
Ce document est très important pour nous, car il peut servir à indiquer l’étendue
du royaume de Bosoni; parmi les nombreux seigneurs qui prennent part au conseil se
trouvent 23 prélats, mais il est notable qu'on n'y voit ni l’archevéque d’Embrun, ni
aucun des six suffragants qui dépendaient de lui, savoir les evèques de Digne, (rasse,
Senez, Vence, Glandèves et Nice. Ne serait-ce pas la preuve que le comte Adalbert avait
conservé son autorité comtale sur cette partie de la Provence? Son influence n’empéchat-
elle pas ces prélats d’aller consacrer à Mantaille la royauté de son ennemi ?
Dès ce moment l’étoile de Boson parut pàlir. Le pape Jean avait ét6 mécontent
.de cette élection; d’autre còté il avait fait la paix avec Adalbert de Toscane et
l’avait délié des censures ecclésiastiques. Il avait écrit è Boson pour le lui recom-
mander, comme nous l’avons dit plus haut; mais ce dernier ne devait tenir aucun
compte de ces lettres. Il allait donc traverser une lutte terrible. Le roi Charles le
Gros, protégé par le pape, qui en espérait des secours contre les Sarrasins, fut re-
.connu roi d’Italie et couronné empereur en 881.
Boson perdit Vienne défendue par le comte Teutbert son plus fidèle capitaine;
sa femme Hermengarde et sa fille Engelberge se réfugièrent en Savoie. En 885 Boson
reprit Vienne et put y établir le comte Teutbert. Vers 886 celui-ci donne à l’église
de Vienne la ville de Mantaille pour le repos des àmes des rois Boson et Ludovic (5).
En 896 il paraît avoir regu le comté d’Apt; un diplome de Ludovic fils de Boson
le qualifie de fidelis noster Teutbertus illustris comes ..... ipsius comitatus (6). En
904 il devait ètre comte d’Arles, car nous le trouvons nommé avec Rostaing, arche-
véèque de cette ville dans un diplome de l’empereur Ludovic donné à Arles et regardant
«certains droits de pèche, de ports et de salines dans le comté de Marseille concédés
à l’abbaye de S. Victor (7).
Charles le Gros, par la mort de son frère Ludovic et par celle d'un neveu de
Charles le Chauve, avait pu se rendre maître de tous les pays qui avaient constitué
l’empire de Charlemagne, sauf la Bourgogne; mais cette puissance trop étendue, n’eut
pas de durée. Les Normands l’assaillirent; ils furent, il est vrai, détournés contre la
Bourgogne, mais cette idée funeste n’eut pas le résultat qu’on espérait. L’empereur
mourut en 888, tandis que son empire tombait en pleine dissolution. Arnulphe avait
(1) « Lantbertus Witonis filius et Albertus Bonifacii filius Romam cum manu valida ingressi sunt ».
Recueil des historiens des Gaules, t. VIII. Ex annalibus Fuldensibus, p. 38.
(2) « Bosonem gloriosum principem per adoptionis gratiam filium meum effeci ». (Recueil des Ristoriens
«des Gaules, t. IX, p.173).
(3) DucHESsNE, Hist. de Vergy, p. 12.
(4) Coll. concil., t. XI, p.503 et suiv.
(5) AcHeRru, Spicilegia, vol. III, p.362.
(6) Cart. Aptense, fol. 4, Bibl. Nat. de Paris et Recucil des historiens des Gaules, t. IX, p. 876.
(7) GugrarD, Cart. de S. Victor, n. 10,
288 È E. CAIS DE PIERLAS
été nommé en Allemagne l’année précédente, l’Aquitaine se rangea sous Eude, l’Italie:
sous Bérenger marquis du Frioul, la Haute Bourgogne sous Rodolphe, la Basse Bour-
gogne sous Ludovic fils de Boson. Ce dernier était mort laissant son fils, tout jeune
encore, sous la régence d’Hermengarde.
Selon les idées de l’époque, l’empereur était réputé suzerain naturel des royaumes-
eonstitués dans les limites de l’empire d’occident. Aussi nous voyons Hermengarde,
à la mort du roi, allant présenter son fils Louis à Charles le Gros, alors en Alsace;
puis de nouveau, à la mort de cet empereur, elle retourne en Souabe pour faire:
hommage de son royaume à Arnulphe. Ce précédent établissait dès lors les préten-
tions de l’empire Germanique aux droits de haute souveraineté sur la Provence (1);
mais par cet acte le roi Louis réussit à conserver non seulement sa couronne, mais
à se faire proclamer roi d’Italie en 900 et empereur en 901. C'est à cette époque
que, traversant la Toscane, il était recu avec la plus grande magnificence par le
marquis Adalbert, dont le père avait été le plus grand ennemi du sien. i
Cette famille de Toscane était alors assez solidement établie pour pouvoir ou-
blier les anciennes rivalités. Adalbert avait épousé Berthe, parente des Bosonides, car
elle était fille de Lothaire roi d’Austrasie et veuve de Thibaud comte d’Arles. La
famille avait par ce moyen obtenu le recouvrement des domaines qu'elle possédait
anciennement en Provence (2); elle dut dès lors y reprendre une grande influence et.
etablir dans les différents comtés ses parents et ses adhérents. Parmi les autres Hugues,
fils de Thibaud (3), regut le comté de Vienne.
La lutte entre les deux familles reprit à cette époque plus terrible que jamais.
Adalbert s’allia à Bérenger; puis de nouveau avec Louis qui finit par tomber dans.
les mains de Bérenger, qui l’aveugla et le chassa pour toujours en Provence. Bé-
renger en 915 ceignit la couronne impériale à Rome. Les Italiens appelèrent Rodolphe,
qui fut couronné Roi à Pavie en 922 et deux ans plus tard Bérenger mourut assassiné.
Hugues réussit ‘è persuader Rodolphe à retourner en Bourgogne, tandis qu'il.
allait lui-mème prendre la couronne d’Italie en 926.
L'’année suivante l’empereur Louis étant mort, Hugues retourna à Vienne et réussit
‘à carter Charles son fils (4).
En 9833 les Italiens se révoltèrent nouvellement contre leur roi et se tournèrent
vers Rodolphe de Bourgogne. Hugues alors céda à ‘ce dernier toute la Provence ‘en
ne s’y réservant que les grandes propriétés allodiales qui lui appartenaient (5), et
en compensation il obtint que Rodolphe renoncàt à toute ingérence en Italie. Ses
. alliances le rendirent plus puissant; il épousa Berthe veuve de Rodolphe, sa sogur
Hermengarde épousa le marquis Adalbert d’Ivrée, plus tard son fils Lothaire épousa
Adeélaide fille de Berthe. En 946, après avoir laissé la couronne d’Italie à son fils,.
il se retira en Provence et y mourut l’année suivante.
(4) CaruTTI, Il conte Umberto Biancamano, pag. 8.
(2) Ginauns-La-SakRra, Mémoires pour servir à l’histoire de Bourgogne, vol. II, p. 76.
(3) Hugo comes et marchio, D. Bouquer, t. IX, p. 684, et suiv.
(4) Les historiens l’ont appelé Charles Constantin, sans qu’on'trouve ce second nom: dans aucun
document.
(5) Vera 960 Conrad roi de, Bourgogne et. de Provence, transporta sa résidence è Vienne (Gingins-
La-SaARRA, vol. II, p. 42.
LE XI SIÈECLE DANS LES ALPES MARITIMES 289
Il.
Les Sarrasins.
C’était l’époque de la grande lutte contre les Sarrasins. Ces barbares au com-
mencement du siècle, en 906, avaient dévasté les Alpes Maritimes, ensuite pénétrant
en Italie par le col de Tende, ils avaient détruit la grande abbaye bénédictine de
Pédone, les chàteaux d’Auriate et de Bredulo, siéges comitaux, puis étaient passés en
Ligurie. En 916 ce fut le tour de l’abbaye de la Novalèse, de la Maurienne, de la
Savoie. En 939 l’abbaye de Saint-Maurice, le Vallais, la Bourgogne furent ravagés.
Il était temps d’arréter ce terrible fiéau. Vers la moitié du x siècle, le roi
Hugues (1) se prépara à les déloger du Fraissinet (2), aidé dans cette noble entreprise
par l’empereur Constantin, auquel il avait donné sa propre fille en mariage, par Ar-
doin Glabrion marquis de Turin et de la vallée de Suse, et par un comte Rotbald
Provengal (3).
L’ancienne chronique de la Novalèse ne parle de ce dernier qu'à ce seul propos.
Les historiens ne sont pas d’accord sur son compte et sur l'époque de ce grand
événement. Le baron Carutti, dans son savant ouvrage sur les origines de la maison
de Savoie (4), dit avec raison que Robald ne doit pas ètre de la famille d’Auriate,
comme l’a cru le professeur G. B. Adriani (5); pourtant il commet un grave ana-
chronisme en le qualifiant le comte de Forcalquier, car ce comté, démembré de celui
de Provence, n’a été institué que presque un siècle et demi plus tard. En 1044 et
vers 1060 Forcalquier n’était qu'un simple castellum, situé dans le comte de Sisteron (6).
L'origine de l’expression érronée de comté de Forcalquier dans le xI siècle, dérive
principalement d’un document donné par Bouche (7) avec la date de 1027, et par
Gioffredo (8), d’après un manuscrit de l’histoire d'Embrun par le P. Fournier; on y
voit une charte débutant par les paroles; Ego Bertrandus comes Forcalquerti et
Ebredunensis, et Gaufredus et Guillelmus fratres mei, cum consilio Alayris matris
comitissae Diensis, ete.
Cette charte est apocryphe.
(1) « Rex Hugo Saracenos de Fraxinedo, eorum munitione, disperdere conabatur » (Chronicon
Frodoardì).
(2) Le Fraissinet du golfe Grimaud, près des Monts Maures en Provence, parait avoir été la prin-
cipale forteresse des Sarrasins. Du reste il nous semble que c’est è tort qu'on a eru devoir relier è
la légende Sarrasine toutes les localités portant ce nom de Frawinetum, qui dans le fond ne devaient
etre que des bois de frénes.
(8) « Comitem Robaldum Provinciae finibus » (M. H. P., vol.II; Chronicon Novalicense, coll. 105.
(4) CarutTI, Il conte Umberto Biancamano, p.20 et 173.
(5) ApRIANI, Degli antichi Signori di Sarmatorio, p. 3.
(6) GuérarD, Cartulaire de l’abbaye de S. Virtor, n. 659, 660, 662, 658, ete.
(7) Bouc®e, Histoire de Provence, vol. I, p.842.
(8) GiorrreDo, Storia delle Alpi marittime, vol. I, p. 606.
Serie II. Tom. XXXIX. ) 37
290 E. CAIS DE PIERLAS
Pourtant dès le commencement du xi siècle, une charte des archives de Mar-
seille (1) attribuait déjà fautivement la qualification de Forcalquier & ces. seigneurs
du xi siècle. C'est l’acte d’accord passé en 1242 entre Guillaume comte de Forcal-
quier et Raimond de Boulbon abbé de Montmajour, où on trove le passage suivant:
dictus comes respondebat..... se esse heredem comitis Willelmi avunculi sui et
Willelmum et Arsendem uxorem suam et Willelmum et Rainaldum et Laugo-
fredum fratres et Bosum et Robaldum et Ermengardam uxorem suam fuisse comites
et comitissas comitatus Forcalquerii.
Nous avions aussi eu un grave doute; car l’inventaire de ces mémes archives (2),
dans les chartes de 977 à 1076, parlait d'un serment prété à Guillaume Bertrand
comte de Forcalquier par Pons de Lancon et Raymond Roustan. Nous avons voulu
‘en avoir le coeur net, et gràce a l’extrème amabilité de M. Louis Blancard, le très
‘savant archiviste des Bouches du Rhòne, nous pouvons donner cette charte intéressante (3).
On verra que le nom du comte de Forcalquier n'y est pas indiqué; on pourrait done
plutòt supposer qu'il s’agisse ici de Guillaume, fils d'Ermengaud d’Urgel (4) et d’Adé-
laide, celle-ci fille de Guillaume Bertrand, car le nom de Pons d’Alangon se trouve
de 1097 à 1116 (5), celui de Poncius Marselles vers 1101 (6), celui de Hugues de
Rians de 1079 à 1103 (7). i
Quant à l’époque de ce grand fait d’armes, Carutti le fixe d’abord en 943 (8):
Di Arduino ci è noto che nel 942 cacciò i barbari dalla valle di Susa e l'oc-
cupò.. ..... Nel 943 Ugo prese Frassineto. Ensuite il dit, en citant la chronique
de la Novalèse, qu’un certain Aymon aida Robald et Ardoin à s’emparer du Fraissinet
et à deélivrer la Province, qu'il croit ètre la Maurienne cu la vallée de Fenestrelle:
la cronaca non reca la data del fatto, ma vuolsi credere avvenuta tra il 965 e
il 972 e probabilmente in questo ultimo anno perchè si parla di Ardoino (9). Il ne
croit donc pas que la chronique parle ici de la défaite finale des Sarrasins en Provence,
mais il laisse la chronologie et les événements dans la mème incertitude.
Le comte Albert de Sonnaz, dans son intéressant étude sur le comté de Savoie (10),
est porté à fixer la première attaque du Fraissinet à l’année 945, et met la défaite
finale des Sarrasins à l’année 975; il dit que le marquis Ardoin y prit part. Reynaud
donne la date de 945 (11); le cardinal Baronio de 944.
Au milieu de l’incertitude que d’aussi respectables autorités ont encore laissé
subsister, il serait téméraire de notre part de vouloir trancher la question: nous
nous permettrons cependant d’établir qu'on pourrait fixer vers 945 le premier fait
(1) Arch. des B. du Rh6ne, Série B, 335. — Baron du Roure, Notice historique sur une branche de
la famille de Sabran, p. 55. — Boucke, vol. II, p. 246.
(2) Arch. des B. du Rhb6ne, Série B, p.89, n. 276.
(3) Document n, ].
(4) Mort en 1102.
(5) Cart. de S. Victor, 619, 805. — « Henri Moris et Edmond Blanc » Cart. de Lérins, p. 286.
(6) Cart. de S. Victor, 1082.
(7) Id., 326.
(8) CaruTTI, loc. cit, p. 18.
(9) Id., p. 20.
(10) Sonnaz, Studi storici sul contado di Savoia, vol. I, p. 79-84.
(41) RernAUD, Invasion des Sarrasins en France, p. 182.
LE XI SIÈECLE DANS LES ALPES MARITIMES 291
d'armes au Fraissinet de Provence, auquel prirent part le marquis Ardoin et Rotbald
de Provence, aidé par Aymon; vers 975 aurait eu lieu la seconde campagne dirigée par
Guillaume, fils ou frère de Boson (1), celui-ci fils de Rotbold I°". Dès 965, d'après l’an-
notation des éditeurs du cartulaire de S. Victor à la charte ci-dessus, Rotbold le
vieux était déjà mort; car le plaid est tenu dans la ville d’Arles en présence du
comte Boson fils de Rothold (2). D'autre part Ardoin Glabrion ne devait plus étre en
vie en 975 (8). La vaillance démontrée par Rotbold dans la première campagne aura
valu à Boson le comté de Provence, et Guillaume aura eu la direction de la dernière
guerre qui eut un résultat définitif.
La première campagne n’avait pas réussi entièrement, puisque le roi Hugues ayant
appris que Bérenger s’avangait vers lui, avait pactisé avec les Sarrasins en les langant
contre son adversaire. Il fallut la captivité de Mayeul, le saint abbé de Cluny, dont
vers 962 les Sarrasins s'étaient emparés près d’Orcières dans le Gapengois, pour que
toute la Provence fùt en armes: on devait se ressouvenir du noble cri de notre comte
Rotbald qui quelques années avant leur avait dit; o fratres, pugnate pro animabus
vestris, quia in terra estis Saracenorum (4). Les Sarrasins furent complètement dis-
persés par le comte de Provence et ses grands vassaux: dn codem Fraxineto ab
exercitu Guillelmi ducis Arelatensis omnes ad internecionem deleti sunt (5).
La première croisade religieuse s’était terminée glorieusement.
Les seigneurs chrétiens commengaient ainsi à se réunir, à se connaître, à unir
dans leur pensée Dieu et les armes; c’était l’aurore du second millième, de ce siècle peu
connu, dans le cours duquel l’étendard du Christ devait flotter sur les murs de Jérusalem.
Les principaux guerriers du comte de Provence qui s’étaient distingués dans la
guerre regurent du comte Guillaume les hommes, les chàteaux, les terres, digne récom-
pense de leur valeur; les évèques regurent eux aussi de notables juridictions, souvent
de moitié avec celle des vicomtes; les abbayes, plus éprouvées par les barbares, furent
nouvellement dotées; les églises furent reconstruites.
Les grands vassaux suivirent l’exemple de leur comte. Les cartulaires de S. Victor
de Lérins, de S. Marie de Nice, de S. Pons en font foi pour notre région.
C'est gràce à ces cartulaires que nous pouvons dès le commencement du xI siècle
établir la filiation et les possessions des grandes familles des Alpes Maritimes.
Tandis que les descendants du comte Rotbald étendaient leurs rameaux sur Arles,
Toulouse, Nice, Forcalquier, nous voyons surgir à còté d’eux et sous leur dépendance
les vicomtes de Marseille, d’Avignon, de Sisteron, de Gap, de Nice, les puissantes familles
de Fos, de Baux, de Castellane, d’Apt, de Thorame, de Glandèves, de Reillane, etc.
(1) Cart. de S. Victor, 29. D’après cette charte on pourrait effectivement croire que Boson fils de
Rotbald avait un frère du nom de Guillaume, car on y trouve les expressions: consentiente eius filio,
Rothboldo, et fratre eius, Willelmo comite. Si on suppose que Guillaume soit frère cadet de Rotbald,
comment porte-t-il le titre de comte que n’a pas son frère? Pourquoi dans la signature du plaid, après
celle du comte Boson et celle du juge Lambert, nous trouvons, comes Willelmus firmavit, tandis que
Rotbald ne parait mème pas?
(2) In conspectu Bosoni comitis, filiù Rothboldi quondam, loc. cit.
(3) CaruTTI, Op. cît., p. 22.
(4) Chronic. Novalic., loc. cit.
(0) Rodulphus GLABER, lib. III.
292 E. CAIS DE PIERLAS
II,
La famille de Fos.
Lorsque les Sarrasins eurent été chassés de notre contrée, un profond sentiment
de sécurité dut se manifester parmi les populations; mais d’autre part les grands
seigneurs, dont la vaillance avait procuré la victoire, en profitèrent pour s’emparer des
domaines qui pouvaient mieux leur convenir et surtout de ceux qui faisaient partie
de la dotation des monastères (1).
Parmi les familles qui agirent ainsi et qui étaient les plus puissantes se trou-
vèrent celle des vicomtes de Marseille et celle de Fos (2).
C’était vers 992 que le vicomte Guillaume et Pons de Fos s’étaient emparés
de la Cadière (3), possédée par l’abbaye de Saint-Victor. Celle-ci eut recours au comte
Guillaume de Provence qui leur fit rendre ce qui appartenait è l’église.
Nous ne parlerons pas ici de la famille vicomtale de Marseille, quoique nous
l’ayons trouvé alliée à celle de Nice; mais celle de Fos mérite bien que nous nous
arrétions à elle.
Disons d’abord que, malgré qu’@on ne puisse en trouver aucune preuve explicite,
elle doit ètre une branche des Baux; les deux familles ont part à plusieurs des mèmes
terres dès l’époque la plus reculée.
Les expressions du cartulaire que nous avons cité, nous disent sa puissance. Elle
s'étendait sur tout le litoral, depuis le Rhòne jusqu’au delà de Toulon, avec une
espèce de souveraineté, entre autres sur Aix et sur la ville et les îles d’Hyères; ce
dernier domaine était très important, à cause des salines qui se trouvaient dans ces
parages et qui fournissaient de sel la Bourgogne, la Provence, la Ligurie elle-méme.
, La famille de Fos pendant plusieurs siécles a conservé ce nom à cause de la
terre de Fos, soit de Fossis (4), située près d’Arles, où au commencement du xi siècle
elle avait fondé le monastère de S. Gervais (5). Après Pons de Fos, dont nous avons
parlé plus haut à propos de la Cadière, nous trouvons en 1019 le nom de Pons, fils
d’Amelius, qui est témoin dans la donation de la huitième partie de cette mème terre,
faite par Foulque vicomte de Marseille (6). On ne dit pas, il est vrai, qu'il s'agisse
(1) « Quoniam terram Sancti Victoris videbamus membratim carpere et seu a beluis particulatim
« dilaniare » (Cart. de S. Victor, 77).
(2) « Cum gens pagana fuisset ex finibus suis, videlicet de Fraxineto, expulsa, et terra Tolonensis
« cepisset vestiri et a cultoribus coli, unusquisque secundum propriam virtutem rapiebat terram, trans-
« grediens terminos, ad suam pessessionem. Quapropter illi qui potentiores videbantur esse, altercatione
« faeta, impingebant se ad invicem, rapientes terram ad posse, videlicet Willelmus vicecomes et
« Pontius de Fossis » (Id, id.).
(3) CatzEDRA, La Cadière, Arr. de Toulon, Canton de Bausset.
(4) Canton d'’ Istres. i
(5) Gallia Christ., vol. I, p. 343 et instr. 64.
(6) Cart. de S. Victor, 75.
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 293
.de la famille de Fos, mais l’objet de la donation, le nom de Pons, d’Amel et de
Gui, s’alternant avec une grande régularité dans cette famille, ne laisse point de doute
sur ce point; on pourrait mème supposer qu’Amel I, soit père de Pons I.
Vers cette mème époque nous trouvons aussi ce prénom d'Amel uni au nom
de Baux (1). Il s’agit de certains droits concédés 4 l’abbaye de Saint-Victor par Pons
de Marignane archeveque d’Arles, sur les pècheries de Marignane: ce village était
près de Fos, un prétre de ce lieu louait une partie de ces pècheries; aprés la signature
des chanoines d’Arles se trouvent celles de Hugues (2), de Pons de Rians (3) fils
de Guillaume, puis, après plusieurs autres, celle de Amel de Baux: ne serait-il pas
possible que ce dernier fùt un fils de Pons?
Pons de Fos a deux fils Pons et Gui; ce dernier se trouve en 1038 et 1057 &
le suite de Geoffroi comte de Provence (4). Il signe avec les archevèques et évèques
d’Arles, d’Aix, d’Apt, de Cavaillon, de Glandèves; parmi les seigneurs se trouve aussi
.Gieoffroi de Rians (5).
AMELIUS
Pons de Fos
992-1019
IAT e NOA bra
| |
Pons de Fos Gui de Fos
et d’Hyères 1038-1056
1056 = Austrudis
i I
Guillaume | |
1071 Rostaing Amelius Gui
archevèque d'Aix d’Esparron 1071
1075 = Garsia
Hugues Î
= Valburge
1120 | |
| Pons Geoffroi ©. Bertrand
î —= Belieldis 1094 1094
. Gui 109%
C'est à cette mème époque que les seigneurs de Fos doivent avoir été dépossedés
des seigneuries d’Hyères et de Fos qui appartenaient è leur père; Gui de Fos
occupa le cloître et les tours d’Aix au nom de Geoffroi comte de Provence, et de
sa femme Etiennette, les vicomtes de Marseille Geoffroi et Aicard, fils d’Accelena ,
prétèrent hommage au comte et lui promirent de l’aider à recouvrer les seigneuries
d’Hyères et de Fos qui lui avaient été enlevées (6).
Nous trouvons alors ces deux frères Gui et Pons de Fos dans nos parages: car
(4) Amelius de Balcio Cart. de S. Victor, 219.
(2) « Hugues de Baux », tige de la famille de Baux.
(3) Frère de Hugues de Baux.
(4) Cart. de S. Victor, 447 et 184.
(5) Frère de Hugues de Baux.
(6) Arch. de Marseille, B, 276, v. document n. II.
294 . E. CAIS DE PIERLAS
ils signent en 1056 à une donation de Guillaume Jausserand d’Antibes (1). En 1047
ce dernier frère, avec la qualification de Pons d’Hyères, est témoin è Grasse è la
donation faite par le mème Guillaume Jausserand (2).
Ce n'est pas les seules relations entre ces deux familles, car en 1035 un Guil-
laume d’Hyères est témoin de l’acte de sauvegarde concédée au monastère de Lé-
rins par les deux seigneurs d’Antibes, Hedelbert evèque et son frère Guillaume Jaus-
serand, que nous venons de citer (3).
Ce Guillaume d’Hyères, peut-ètre fils de Pons de Fos, participait aux droits.
sur Arluc avec les seigneurs d’Antibes et les abbés de Lérins, gràce à sa mère Adila
de la famille d’Antibes (4).
Arluc faîsait partie de la seigneurie d’Antibes, comme on le voit par la charte
de 1038, où Guillaume d’Hyères est témoin (5); et par celle où Guillaume d’An-
tibes, se faisant moine, cède au monastère le quart :d’Arluc (6).
Guillaume d’Hyères dut prèter serment de fidélité à l’abbé Adalbert: il s’agis-
sait evidemment de la quatrième partie d’Arluc qui appartenait au monastère (7).
En 1070 il cède à l’abbé de Lérins la quatrième partie du chàteau d’Arluc,
dont il reconnaît de s’ètre emparé par violence; Hugues son fils est absent, mais il
fait faire cette mème reconnaissance par Gui son petit fils, au lieu et place de son
‘ père (8). Quelques années après Hugues recevait de l’abbé Adalbert l’investiture de’
cette part d’Arluc, à la présence de deux comtes de Vintimille (9).
Les concessions de la famille d’Hyères è Lérins ne se limitérent pas à leurs
domaines près de Nice, mais Hugues et sa femme Galburge (1102-1120) donnérent
au monastère toutes les dîmes sur le sel qui leur appartenaient à Hyères (10).
Nous avons vu Guillaume d’Hyères intervenir souvent dans les actes de l’évèque
d’Antibes et. de son frère fils de Jausserand et de Belieldis. À ce propos nous avons
rencontré encore son nom, Willelmus de Areas, parmi les témoins d’une charte de
1050 regardant des biens à Salernes (11) donnés à l’abbaye de S. Victor par Bellieldis
elle mème, mère des deux seigneurs d’Antibes, alors veuve de Jausserand d’Antibes
et remariée à Atanulphe (12). Cette charte est incomplète, mais la rubrique qui la
‘précède nous dit que Bellieldis était fille d’un autre seigneur portant le nom d’Ata-
nulphe. C’était un grand seigneur auquel, à propos de Villecrose (13) et de Salernes on:
(1) Cart. de Lérins, p. 90.
(2) Id, p.109.
(6) 14. p.72.
@ Id. p.75.
(5) Id., p.118.
(6) Id., p.74. « Totam quartam partem Arluci tam in castello seu villa quam in portu ». Les:
édit. du Cart. ont cru de fixer la date de cette charte au x siècle; mais nous pensons que c’est vers
1026 à cause d’Heldebert évéque d’Antibes.
(7) « Aus tu Aldebertus abbas, ego Guillelmus, filius Adila, non tolrai lo castel de Auroluco, ne.
« la civitate, ne la vila, ne illo tenemento: que tenet a Sancto Honorato ». Id., p.75.
(8) « Ego Guillelmus de Eiras, etc. ». Id., p.74.
(9) « Guirpido de quarta parte castelli Arluci, quam fecit Ugo Guillelmus cum uxore sua ». Id. p.75.-
(10) Id., 288.
(14) Arr. de Draguignan, canton de Salernes.
(42) Cart. de S. Victor, 496.
(13) Arr. de Draguignan, canton de Salernes.
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 295
«donne en 1007 le titre de vero 2Ulustrissimo; c'est la qualification que deux siècles
plus tòt Charlemagne portait dans ses diplòmes (1).
Nous avons dans cette donation d'Atanulphe, mort 4 son retour d’un pélérinage
à Rome, le nom de sa mère, de sa femme, de ses enfants. Les noms de ses petits
enfants sont fournis par une troisibme charte de 1033 (2).
Il s’'agit de domaines à la Mure ou à Moriès. Parmi les fils de Jonas, fils
d’Atanulphe, se trouve un Atanulphe; serait-ce lui qui aurait épousé sa tante Bellieldis?
C'est ce qu'on ne pourrait assurer. La seule assertion indiscutable est celle de son
mariage avec un Atanulphe dès 1050, comme c'est prouvé par une troisième charte
qui regarde cette famille, où sont nommés son second mari, elle méme, les fils du
premier lit, Aldebert évèque et Guillaume Jausserand (3).
Revenons maintenant à la famille d’Hyères qui retenait le nom de Fos.
Gui de Fos eut pour femme Austrudis, d’après un document de l’église d’Avignon,
«que ce seigneur avait bénéficié (4). Ils eurent trois fils, Rostaing archevéque d’ Aix,
Amel et Gui de Fos. ;
En 1079 l’archevèque et ses deux frères donnent à l’abbaye de Saint Victor des
salines et des possessions à Hyères (5).
Amel de Fos (6) est seigneur d’Esparron: il intervient en 1059 avec Garcia sa
femme à une donation de biens situés en ce lieu faite par Geoffroi de Rians et sa
femme Scocia, Hugue de Baux et sa femme Inauris, Guillaume le jeune vicomte de
Marseille et sa femme Aldegarde, neveu des premiers.
On voit ici un autre rapport avec la famille de Baux.
De la mème manière que Gui de Fos (7) possède des biens à Baux (8) et au chà-
teau de Collongue (9), la famille de Rians, en personne de Pons, à la méème époque
possède le quart de Collongue (10).
Les richesses de cette famille étaient très grandes, leurs possessions très étendues.
Aussi lorsque le 28 juillet de l’ année 1094 le comte de Provence céda è
l’abbaye de Marseille tous les revenus qu'il avait pour la navigation du Rhòne et
de la Durance, en exemptant de tout droit les navires et les radeaux du monastère,
«d’autres srands personnages de la province prirent part à ces largesses, parmi les
quels Garcia et ses fils Pons, Bertrand et Geoffroi de Fos, en ce qui les regardait
pour la navigation des navires du monastère sur les còtes et sur les étangs qui leur
appartenaient (11). Les moines de Lérins avaient demandé et obtenu de semblables
priviléges par la mère et ses trois fils, en leur faisant remise de tout droit è per-
(1) Care. de S. Victor, 486.
(2) Id., 631.
(3) Id., 511.
(4) Gallia C., I, p. 65, instrum.
(5) Cart. de S. Victor, 479.
(6) « Amelius Fossanus » Id., 267.
(7) Id., 257 « Guido de Fosso filius alterius Guidonis.
(8) Aujourd’hui Albertas, canton de Gardanne.
(9) Ou Simiane, canton de Gardanne,
(10) Cart. de S. Victor, 256.
(41) Id., 686.
296 E. CAIS DE PIERLAS
cevoir, comme taxe d’abordage, lorsque leurs gens ou leurs navires seraient venus
charger le sel (1).
La généalogie de la maison de Fos, d’après les documents que nous avons pu
trouver, reste ici interrompue. Elle reprend peu d'années après, lorsque nous trouvons
en 1131 Pons Isnard de Fos (2) qui signe à la charte de franchise concédée par
le comte de Provence au chàteau de Cannes, qui jadis c’était appelé chàteau Marcellin
et depuis s’appellera le chàteau Franc (3). 7
Pons Isnard de Fos est sans doute l’identique personnage que Pons Isnard de
Flayos qui avec son frère Isnard (4), en 1125, donne à Lérins certains vassaux qu'’ils
avaient è PFlayos.
Nous voyons aussi dans le cartulaire de Saint Victor Pons Isnard de Flayos
et son frèére Raimond, possédant des salines à Bormes (5), nommés dans la méme charte
à còté de Gui et d’Amel de Fos.
Ce Pons Isnardi seigneur de Fos et de Flayos, comme son double prénom l’in-
dique, était fils d’Isnard et on peut facilement reconnaître pour son père cet Isnard
de Flayos (6), auquel le comte Bérenger, vers 1126, donna en partie les chàteaux de:
S, Jurs, d’Aiguières et de Salettes, qu'il venait de confisquer sur la veuve et les
fils de Guillaume de Moustiers, seigneur de Riez (7), qui s’etait insurgé contre lui.
Un demi siècle plus tard nous trouvons encore les noms de Gui e d’Amelius
de Fos. Le premièr des deux frères avait vendu, avec le consentement de l’autre,
sa part de la seigneurie de Fos à la famille de Porcellet (8); en 1150 il est investi
d’Hyères par le comte de Provence, auquel il préète serment de fidelité, avec la pro-
messe de lui en remettre le chàteau à toute réquisition et de lui payer avant 10
ans la somme de dix mille sous melgoriens comme indemnité de guerre (9).
Son frère Amelius garda sa part de seigneurie de Fos, car vers 1196 il prète
hommage et serment de fidélité au roi Idelphonse pour le }4 de Fos e d’Hyères, une
partie du chàteau et de la ville d’Aix et pour ceux de Bormes, de Pierrefeu et de
la Garde (10).
On voit par ce rapide exposé de la généalogie de cette famille, les relations
* qu'elle a eu avec notre région et la grande importance de ces possessions dans le
XI et XII siècle.
Mais le comte d’Anjou, dont l’ambition a été si étendue, finit par deétruire
cette puissance presque souveraine.
En 1262 Hyères passait en son pouvoir par la cession que Bertrand de Fos lui en
(1) Cart. de Lérins, p.287.
(2) « Poncius Isnardi de Fos » probablement tous fils: d’Isnardi. (Cart. de Lerins, 88).
(3) « Castellum quod olim dicebatur Marcellini..... propter quam libertatem, volo ut deinceps
« appelletur Francum » (Cart. de Lerins, p.87 et 459.
i (4) « Isnardus de Flayosco et frater meus Porcius Isnardì ». (Cart. de Leérins, p.44). C'est sans
doute par faute d’impression que la date indiquée par cet acte est celle de 1025.
(5) Cart. de S. Victor, 474.
(6) Arch. de Marseille, série B, 278.
(7) « Princeps terre Regensis ». (Cart. de S. V., 617.
(8) Abbé Briancon, vol. 3, p. 35.
(9) Arch. de Marseille, série B, 281.
(10) Za., 298.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 297
faisait, en ne recevant en échange que la terre du Cannet (1): puis bientòt après,
en 1273, Guillaume de Fos fils de Roger de Fos, un de ceux qui avait traité de
pair à pair avec la république de Géènes en 1229, ètait obbligé à son tour de lui
rendre la ville d’Aix (2). La demi souveraineté de cette illustre maison avait cessé.
IV.
Les comtes Aldebert et Apollon, leur frère Rostaing
. et leurs sceurs Isingarde et Valburge.
Nous allons maintenant exposer les origines et le développement dans ses diff&-
rentes branches d’une famille des Alpes maritimes tout aussi puissante que la pré-
cédente, en nous servant principalement des sources les plus stìres, telles que les
cartulaires de Lérins, de Saint-Victor et de l’église d’Apt (3). Nous eroyons pouvoir
démontrer l’unité d'origine de plusieurs familles, dont on n'avait ni reconnu, ni
suffisamment étudié l’importance, les possessions territoriales, les relations avec notre
pays. Quelques points, il est vrai, resteront encore dans l’ombre, mais la résolution
de plusieurs problèmes qui s'y rattachent pourra conduire ensuite A d’autres dé-
couvertes.
Il s’agit de la maison de Castellane qui, selon nos études, n’en ferait qu’une
avec celle de Thorame et de Glandèyes, peut-ètre mème avec celle de Beuil.
Au commencement du x1° siècle on trouve près de Nice un grand seigneur,
senior Aldebertus, portant la qualification de Comte (4). Vers la mème époque on
trouve pareillement aux environs d’Apt un autre seigneur, Abellon ou Apollon, qua-
lifié de Comte (5).
L’examen de quelques chartes, en partie inédites, démontrera que ces deux comtes
étaient frères; un troisime portait le nom de Rostaing; la famille possédait de
grands biens au diocèse d’Apt, à Castellane, à Thorame, dans le comté de Glan-
dèves, dans celui de Nice.
Il se présente d’abord une question préliminaire: celle de savoir si le titre
comtal dérivait à la famille gràce à une de ces différentes juridictions, ou par droit
personnel. Leur part dans les comtés d’Apt et de Glandèves était certainement assez
notable; d’un autre còté ni Castellane, ni Thorame ne constituaient un comté, malgré
leur importance.
(1) BLancarD, Sceaua de Provence, p. 61.
(2) NostraDAMUS, Mistoires et chroniques de Provence, p. 266.
(3) C'est è l’extràme obligeance de notre savant ami M. le vicomte de Poli que nous devons la
copie des chartes du Cartularium Aptense, qui existe è la Bibl. Nation., ms. latin 17.778, copie du
xvi siècle, 57 feuillets.
(4) « Aldebertus comes » (Cart. de Lerins, p.314).
(5) « Apollonio comite » (Cart. Aptense, £° 52).
Serie II. Tom. XXXIX. > 38
298 E. CAIS DE PIERLAS
Toutefois nous serions portés à croire que c’'était de Thorame seulement ou de
leur position personnelle que dérivait la qualification comtale.
La vallée du Verdon paraît leur avoir appartenu entièrement: Thorame, Cas-
tellane, Barrème, Alos, Colmars, etc. Elle paraît avoir été le partage commun des trois
frères et d'où partait la mouvance de leur juridiction féodale, quoique dans la suite
les circonstances politiques et les alliances aient donné plus de prestige et augmenté
encore la puissance de la branche de Castellane, et au x11° siècle l’aient presque mise
en possession de la couronne de Provence.
Cette suprématie féodale de la vallée du Verdon aurait une explication dans
la répartition primitive des civitates dans les Alpes Maritimes. Sur le Verdon se
trouvaient les deux cités Salinensium et Rigomagensium. Si on remonte au v° siècle
on voit disparaître l’ancienne Civitas Salinae Castellanae (1); sa juridiction doit
s'ètre alors partagée entre Sénez et Glandèves, dont elle était presque une enclave.
Pareillement la Civitas Rigomagensium paraît s’ètre établie à Thorame. C'est
ce qui résulterait par un savant mémoire de l’abbé Duchesne: un manuscrit du
v° siècle découvert dans la bibliothèque capitulaire de Cologne par le professeur
Manassen de Vienne, contient le texte du Concile de Vaison en 442; on Y trouve,
parmi les évèques signataires, le suivant: ex provincia Alpium Maritimarum Ci-
vitatis Eturamine, Severianus Episcopus (2). Cette Civitas doit s’identifier avec la
Civitas Rigomagensium, la seule dont la position soit encore indéterminée: le nom
d’Eturamine transformì en Turamina, Thorame, le prouverait. Ce serait là un fort
indice de l’importance de la vallée et des seigneurs qui la possédaient avec juridiction
presque comtale et souveraine.
L’origine de la famille pourrait aussi donner l’explication du titre comtal sous
l’aspect personnel.
Nous avons exposé dans le premier chapitre que la famille des marquis de
Toscane avait eu, pendant plus d’un siècle, une très grande influence dans les luttes
de la Provence; nous avons vu qu'elle y possédait des comtés et que, selon beau-
coup de probabilité, les comtes de Vintimille en dérivaient.
} Les trois frères Adalbert, Apollon et Rostaing descendaient-ils des Adalberts et
des Bonifaces de Toscane? On a plusieurs motifs de le croire.
Dans notre contrée et à cette époque, à part les comtes de Provence et ceux de
Vintimille, dont le territoire était traversé par la Roya, il ne' se trouvait aucune
autre famille comtale, ou du moins portant ce titre.
L’abbé Gioffredo et les autres écrivains Nigois et Provengaux ont parlé des
comtes de Nice, mais, comme on le verra, ce titre ne leur a jamais appartenu. Si Adal-
bert et Apollon avaient le titre comtal (3) sans vraie juridiction suzeraine, celle-ci ap-
(1) DessarDINS, Geographie de la Gaule Romaine, vol. III, p. 341.
(2) DucnEsnE, Mémoîres des Antiquaires de France, vol. XLIII, p. 36.
(3) De la mème famille doit ètre un Grifo comes qui, en 950, avec Rostaing son neveu, probablemeni
6véque d’Apt, donnait au monastère, construit dans la ville d'’Apt et dépendant de celui de Montmajour,
« villam vocabulo Vallem et Campos, nec non S. Albani ecclesiam in eadem villa, Aptense comitatu »
Sa mòère Ermengarde signa è l’acte, (Gallia C., vol. I, p.353). Le cartulaire d’Apt parle aussi des pos-
sessions de Grifo en 949: elles sont à Pratelone, terre dépendante de la famille de Rotbert et Varaco
(Cart Aptense, f, 367).
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 299
partenant au comte de Provence, c'est qu'il s'agissait d'un titre ad honorem, rap-
pelant l’origine comtale de la famille; peut-étre aussi ils le portaient par la raison
de leur proche parenté avec les comtes de Vintimille. On peut en effet établir A ce
sujet un parallèle entre les deux familles.
On trouvera parmi les seigneurs, dont nous nous occupons ici, le nom de Rai-
nardus au X1° siècle et parmi leurs possessions le Castrum Rainardi (1); de mème
les historiens ont fait la supposition qu’un comte de Vintimille du nom de Rainardus
ait bàti le Podium Rainaldi (2). Gioffredo cite à ce propos la donation faite A
Lérins de certains biens à Carnolès par un Ranaldo (3). Girolamo Rossi (4) lui donne
le titre de comte et le dit parent du comte Conrad et de la comtesse Armelline en
1064 (ailleurs il dit en 1041).
On pourrait encore donner comme preuve les noms de Guillaume Pierre et de
Pierre Balb qui se trouvent répétés dans les deux familles.
Si les trois frères susdits ne sont pas les descendants des marquis de Toscane
et alliés des comtes de Vintimille, descendent-ils de Milone praenomine Montano,
comite nobilissimo Aptensis Civitatis cum illius comitatu et Glannicensis ac Sena-
ciensis comitatuum, qui en 835 donnait l’église de Saint-Martin è l’evéché d’Apt? (5).
Teutbertus, qui signe à cette charte, serait-il le fils de Milo Montanus ? Serait-il le
Teutbertus illustri comes. ... ipsius comitatus, qui paraît dans un diplome du roi
Ludovic en 896 et le Teubertus comes du diplome d’Arles en 904 ? (6).
Les documents qui ont été respectés par le temps et par les hommes nous ont
permis de remonter_à une génération au-delà des trois frères, mais ils nous laissent
complètement incertains pour la filiation antérieure.
À la fin du x° siècle on trouve dans le comté d’Apt deux seigneurs très puis-
sants, les frères Rotbertus et Varaco (7), dont nous allons étudier les rapports avec
nos comtes. |
Quelques observations préliminaires seront utiles. D’abord l’identité des noms
de Varacus et Garacus est évidente; car dans les chartes des différents cartulaires
qui parlent du fils d’Aldebert qui porta ce nom, on les voit employés indistinete-
ment. On pourrait mème supposer la mème chose pour Varacus et Faraldus, d’après
une charte du cartulaire d’Apt, où Furaldus seu Varaco et l’évèéque Teuderic ac-
cordent à un certain Tintenno la dîme de la tour épiscopale (8); comme dans la
suite du document nous ne trouvons plus les deux noms, séparés par le sew, mais
seulement le prénom de Fara/dus, nous en déduisons que la particule seu indiquait
que les deux noms s’appliquaient au mème individu.
(1) Entre Aspremont et Nice sur le flanc méridional du Mont Chauve.
(2) Maintenant Perinaldo.
(3) «Egli era senza dubbio del ceppo dei soprannominati conti di Ventimiglia e se non m’inganna
« la congettura, egli è quello di cui tolse il nome il luogo di Perinaldo, nelle vecchie carte Castrum
+w Rainaldi ». (GrorrrEDo, Storia A. M., vol.I, p. 655).
(4) Girolamo Rossi, Storia di Ventimiglia e tavola genealogica, p. 48, et p. 104.
(5) Cart. Aptense, f. A, r. et Gallia C. Papon croit suspecte cette charte, vol. I, p. 225.
(6) Id., f. 4, r, et Cart. de S. Victor, 10.
(7) En 852 on trouve un Rotbertus, qui avec Dadilo donne son consentement è l’échange de certains
biens entre l’évèque Bonus de Sisteron et Paul d’Apt. (Cart. Aptense, f. 17, v.
(8) Id., f. 16, r, et document III.
300 E. CAIS DE PIERLAS
Comme preuve de l’évolution du nom de Garacus, on peut citer la forme de
Vuaraldus du mème cartulaire (1).
Cette remarque est assez importante, car le fils du comte Aldebert porte le
prénom de Garacus, et le nom de Faraldus devient patronymique dans la famille
de Rostaing.
En 967 Rotbert et son frère Vuaraco, que Nartold évéque d’Apt appelle ses
fideles, regoivent én praestaria le chàteau de Saignon avec ses dépendances, ainsi
que plusieurs autres droits, dîmes, terres, dans les villages de Prataleone, Torri-
zello, Petrolas, Inscontra, Calvisas, Casanova, Rius, Domonova, Juncarias ; è
leur tour les deux frères donnent è l’évèque ce qu’ils possèdent par héritage de leurs
parents à Lausnava, Clavajano et Baxo, en conservant SOL la jouissance pour
eux-mèmes et un de leurs héritiers (2).
Un demi siècle plus tard ce chàteau de Saignon appartient encore à la famille
du comte Aldebert. Il y aurait donc tout lieu de croire que Guaraco est le père
des comtes Apollon, Aldebert et de Rostaing; mais d’autres rapprochements nous le
confirmeront.
En laissant là tous les détails généalogiques, très intéressants pour Apt, que
nous fournit le cartulaire (3), nous dirons que l’inféodation de Saignon faite en 967
a Rotbert et è Vuaraco concorde avec trois documents conservés dans le Gallia. En
1004 Rotbert et sa femme Mogla (?), Vuaraco et sa femme Aramberta fondèrent l’ab-
baye de Saint-Eusèbe à Saignon (4).
En 1032 Eldebert et sa femme Ermengarde, leurs fils Eldebert et Garache
donnèrent à l’abbaye de Saint-Gilles aligquid de alode nostro qui est in comitatu
Aptensi in terminum de castro quod vocant Sanione, hoc est abbatiam S. Eusebîi
cum suis cellis (5).
Plus tard cette donation était confirmèe par Raimbald de Nice et Bertrand son
frère, fils de Laugier le Roux de Nice e d’Amantia, celle-ci fille du comte Eldebert,
d’après les paroles suivantes du Gallia: Anno c. 1048 Raimbaldus et Bertrandus
fratres confirmaverunt cessionem Aptensis Abbatiae S. Eusebt factae ab è avo Suo
Eldeberto monasterio S. Egidi (6).
(4) Id., f. 49. En 898 un Vuaraldus donne in loco ubi dicitur sub petra (Cart. Apt. f. 48 v.°); un
siècle plus tard Apollonius possède des biens Subtus roca.
(2) Cart. Aptense, f. 5, r° et v° et doc. IX.
(3) En 980 les deux frères cédent è Odolric leur fidèle, des biens situés è Cicadio, leurs femmes
Aramberta et Ailburga signent, la première donne expressement son autorisation (f, 10 et f. 25). —
En 982 Guaracho cède è Humbert (tige des d’Agout) ses droits dans les villages de Casanova, Calvisias,
Argallo, Gargasio, Gurgis, Clavagiana, Baxo, Lausnava, Bonilis, Ursianicus; Rotbert, Bermond, Rainard
et d’autres seigneurs signent (f. 10 et 14), — En 983 Robert, sa femme Ailburga, leur fils Raynardus
font donation è l’évèque Nartold des droits è Carcopiano (f. 51). — Ce Raynard épouse Béatrix et
possède è Claromonte (f. 20). — En 1041 ses enfants s’appellent Pierre, Rostaing, Eldebert, Bermond,
Aicelena et possèdent Tourrette et Clermont d’Apt (f. 21 et 22). — Rainard pourrait bien avoir pour
soeurs Jausberga, Maura, Domedia, Poncia, filles de Robert et de Bonosa; Maura pourrait ètre
la femme d’Humbert d’Agout (f. 29).»
(4) Gallia C., vol. I, p.377. Le nom de Vuaraco est écrit Maraco et Imaraco, par erreur de
transcription ou d’impression.
(5) Id., vol. VI, instr. p. 176.
(6) Id., vol. I, p. 356.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 301
Eldebert était, par Amantia, l’aieul paternel des deux seigneurs de Nice.
Dans un cartulaire de notre région il est aussi fait mention de ce monastère
.de Saint-Eusèbe, qui appartint pendant quelque temps à l’abbaye de Lérins, par la
cession qui lui en avait 6t6 faite par Laugier, sa femme Amantia et Garache, frère
de celle-ci (1).
Après avoir ainsi établi quel serait, selon nous, le père des comtes Apollon, Aldebert
et Rostaing, nous allons étudier la position qu’ils occupaient dans les Alpes Maritimes.
Une charte du cartulaire de Lérins, nous apprend que le comte Aldebert ainsi
que sa femme Ermengarde ont fait largesse au monastère de Lérins de nombreux
droits fsodaux dans les villages de Massoins, Bairol et Entrevaux (2) au comté de
Glandèves; après la signature des donateurs se trouve celle de l’éyèque Durand, jadis
abbé de Saint Eusèbe (3), puis celle d’Aldebert et Garache. Ces derniers étaient les
enfants des donateurs (4). Si on met en regard le cartulaire de Lérins et celui de
S. Victor, on trouvera dans ce dernier, en l’année 1043, le mème Aldebert, sa femme
Ermengarde, leurs fils Aldebert et Garache, leurs filles Fides et Amantia, qui donnent
à l’abbaye de Marseille des biens au comté de Glandèves, l’église de Saint-Cassien
d’Amirat (5)..
Des filles du comte Aldebert, une Amantia épousera Laugier le Roux de Nice;
l'autre Fides sera peut-éètre la femme de Guillaume d’Antibes fils de Jausserand.
Ensuite c’est à Castellane mème qu’on retrouve Aldebert, sa femme Ermengarde
et leurs enfants Aldebert et Garache; un frère Rostaing; les neveux de ces deux sei-
gneurs (6). C'est la grande charte de Castellane.
Les bénédictins de Marseille prétendaient la restitution de leurs droits sur Cas-
tellane, tels que jadis il les avaient possédés; les deux frères et leurs neveux, ainsi que
l’évèque de Senez (dont Castellane dépendait), rendaient à l’abbaye ce lieu avec toutes
ses dépendances, églises, paroisses, terres, hommes (7).
Castellane avait été en effet une terre allodiale de l’abbaye, comme le dit l’é-
veque de Senez dans un acte de 1038 (8).
(1) Cart. de Leérins, p. 194. Il y a fautivoment carta de ecclesia S. Eugenii.
(2) GiorrREDO, Storia A. M., vol. I, p, 599, écrit et in terrivis de Bairolo; la transcription du
cartulaire que nous croyons plus exacte, dit Inter-Rivos et Bairolo.
(3) Cart. de Lerins, p. 133.
(4) « Haec omnia laudavit et firmavit Aldebertus comes et Ermengarda, laudavit et firmavit
« Durantus episcopus Nicensis (1. Vincensis); Aldebertus et Garachus firmaverunt » (Cart. de Lérins,
pag. 314.
(5) « Ego Aldebertus et uxor Ermengarda et filiù nostri Aldebertus et Varaco et filie Fides et
« Amantia donamus.... in comitatu Glannicense subtus castrum que nominant Amirat, id est ecclesiam
« St. Cassiani » (Cart. de S. Victor, 781).
(6) « Ego Heldebertus et uxor mea Hermengarda, simulque domnus Amelius episcopus Senecensis
« et frater meus Rostagnus, nec non et nepotes nostri Dodo Abillonius et Pontius Gualo, Rostagnus,
« Herbaldus et Isnardus............ . filii Ardeberti firmaverunt, idest Heldebertus, Waracus ». (Cart. de
S. Victor, 768).
(7) « Monachi,..conquirentes a nobis locum quemdam, qui antiquitus vocabatur Cimira, asserentes
« hoc ex testimoniis cartularium vetustissimis... quod tamdiu tenuimus incaute. ... reddimus ecelesiam
« S, Marie, que est in territorio Petre Castellane... cum parrochia et cum hominibus in eadem villa
« commorantibus...» (Id.).
(8) « Audiens Petram Castellanam castrum sive villam, que antiquitus vocata est Cimiramis,
«x alodem esse monasteri Massiliensis,..» (Id., 773).
302 E. CAIS DE PIERLAS
La confrontation de ces trois chartes fournit la preuve irréfutable que le comte
Aldebert était seigneur de Castellane avec son frère Rostaing et un autre frère absent
ou probablement décédé.
Ce troisième frère, d’après le nom mème de son fils Dodo Abillonius, devait s’ap-
peler Abellonius soit Apollonius: or la famille dont nous nous occupons avait aussi,
comme nous l’avons vu, de grandes possessions dans le comté d’Apt: c’est précisément
là qu'à la fin du dixième siècle nous trouvons, par une chance heureuse, le nom du
Comite Apollonio, comme possesseur d’une terre subtus Roca (1) attenante à celle que
Garibaldi donne à l’église d’Apt (2). C'est probablement l’Abellonius qui de 993 à 1002
signe comme témoin avec Rostaing de Sabran, Guillaume vicomte de Marseille et autres:
hauts personnages dans un acte de donation de biens dans le comté d’Orange faite
par le marquis Rotbald, sa femme EFimildis, la comtesse Adélaide et son fils Guil-
laume (3). Les preuves que le comte Apollon s'identifie avec le frère du comte Aldebert
et de Rostaing sont les suivantes.
1° Le nom méme de Dodon auquel est ajouté le prénom paternel, Dodo
Abellonius, comme distinctif soit de Dodon son oncle, mari de Galburgis et père de:
Pontius Pulverellus, soit de Dodo Pulverellus, fils de ce dernier (4).
2° Pons, deuxième fils du comte Apollon, porte le nom de Pontrus Abello-
nius (5) dans la donation de Colmars, faite par Eldebert, Ermengarde et Garache,
et il signe après ce dernier, qui est son cousin germain (6): or par l’acte de do-
nation de l’église de S. Pierre d’Aiglun (7), faite en 1039, il résulte que les trois
frères Ripert, Pons Pulverel et Laugier sont cousins germains de Pons, fils du défunt
Abellon (8).
8° Nous verrons que c’est dans la branche du comte Apollon et peut-ètre
aussi dans celle du comte Aldebert que se sont conservés les droits appartenant d’abord
à toute la famille sur Castellane: et cela contrairement aux opinions admises par plu-
sieurs savants généalogistes, qui font descendre les Castellane de Pons Pulverel, ou
qui leur donnent d’autres origines (9).
Les trois frères Aldebert, Rostaing et Apollon paraissent avoir eu deux soeurs,
Isingardis et Valburgis: on peut faire cette induction en voyant leurs enfants avoir
part aux mémes possessions que leurs oncles et porter dans les deux lignes femmi-
nines les mèmes prénoms. Isingardis a épousé Constantin et a six enfants, Ripertus,
Dodo, Lambertus, Poncius, Hugo, Abillonius (10). Ces prénoms, è part celui de Lambert,
(14) Probablement le village de la Roche au midi d’Apt.
(2) Cart. Aptense, f. 51, v°, et document V.
(3) Cart. de Cluny, vol. III, n. 1987.
(4) Cart. de S. Victor, 429, 770. h
(5) La grande charte de Castellane porte Pontius Gualo, mais il est possible que la virgule dut
originairement séparer ces deux noms.
(6) Cart. de S. Victor, 765.
(7) S. Petri de Clusellas. È
(8) « Ego Ripertus filius Vualpurge, simul cum Pontio, filio Abellonii, mei quondam avunculi...
« et pro anima prenominati Abellonii et pro anima 'Leodegarii fratris mei........... . » (Cart. de
S. Victor, 782).
(9) BoreL D’HaurERIVE, Ann. de la noblesse, a. 1886, p. 141. Vicomte Dr Por, La Terre Sainte;..
a. 1886, p.641. ete.
(10) Cart. de Lerins, p. 193 et préface, p. x, -
LE XI SIÈECLE DANS LES ALPES MARITIMES 303
«sont ceux des autres neveux d’Adalbert et de Rostaing dans la donation de Castellane
et ceux de leurs descendants. Constantin et ses enfants, en 1022 (1), donnent &
l’abbaye de Lérins l’église de S. Saturnin de Briangonnet et ses dépendances, au comfté
de Glandèves: prennent part A cette largesse Aldebert, sa femme Ermengarde et leur
fils Aldebert (2).
Le cartulaire de Lérins contient quelques autres chartes relatives aux confirmations
accordées à l’abbaye par les fils de Constantin; nous voyons en 1081 Hugues seigneur
de la quatrième partie de Brianconnet et de la cinquième de Mujoulx: cette dernière
possession conduit à observer qu’'Aldebert fils de Garache portait le titre de Mugulo (3)
ou dal Mugolt (4); il est témoin en 1092 è la confirmation des donations pater-
nelles par Abellon fils de Constantin (5); en 1125 A l’acte de transaction entre l’abbaye
et les milites Briancionenses (6).
On voit ainsi les relations entre les deux familles, d’Isingarde et d’Aldebert se
continuer pendant un siècle.
De la mème manière Valburge a épousé Dodon, fils d'un seigneur d’Apt, Pons
ou Arbald; leurs enfants portent les prénoms de Hugo, qui devint évèque de Senez,
Ripertus, Leodegarius, Poncius Pulverellus, Bonifacius, Arbaldus (7). Ce sont les pré-
noms de leurs cousins.
On observera encore les circonstances suivantes. Dans la notice des biens possédés
par l’abbaye de Saint-Victor à Castellane et dans ses environs, après la mention des
donations d’Aldebert et d’Ermengarde, il y a tout de suite le nom de Galburge et
la mention de ses enfants, tandis que son mari n’y est pas nommé ; ce qui prouverait
que c'est par elle que cette famille (dite de Pulverel pas les généalogistes) a eu les
biens qu'elle possédait en commun avec les sires de Castellane (8). En 1043 l’evéque
Hugues et ses frères prennent part à la confirmation de la grande donation de Castel-
lane avec les fils d’Eldebert leur oncle, les fils d’Arbald et ceux de Pons leurs cousins (9).
Trois des fils de Dodon, soit Ripert, Pons Pulverel et Laugier, ont pour cousin germain
Pons fils d’Abellon (10). Dansune autre charte nous trouvons Dodor, sa femme Valburge
‘et tous leurs enfants, ainsi que Dodon Pulverel, faisant donation à S. Victor de biens
allodiaux dans le comtéè d'Apt, parmi lesquels l’église de S. Jean in Campanias (11).
Le père de Dodon, mari de Valburge, devait s’appeler Pons; car en 1053 Pontius
(1) La date se trouve seulement dans l’original; l'année n°y concorde pas avec l’indiction indiquée
il faut done la fixer è l’année 1017, car en 1032, Odilon abbé de Lérins, à qui la donation est faite,
avait cessé de vivre.
(2) « Ego videlicet Aldebertus et uxor mea Ermengardis filiusque noster. Eldebertus, eodem modo,
« quidquid habemus divisione huius terre... concedimus. .. Signum Aldeberti participis huius elemosine;
.«« signum Aldeberti ipsius filii ». (Cart. de Lerins, p. 195).
(3) Id., p. 199.
(4) Cart. Aptense, f.9.
(5) Cart. de Leérins, p.193.
(6) Id., p. 199.
(7) Cort. de S. Victor, 429, 768, 782
(8) Id., 776.
(9) Id., 768.
(10) Id., 782.
(41) Id., 429. Dans le mème document, mais avec la date précisée, le 9 avril 1069, Garache et sa
femme Dilecta, donnent l’église de S. Donat.
304 E. CAIS DE PIERLAS
Pulverellus et l’eévèéque d’Apt Alfante confirmèrent la convention quam avus meus
Pontius fecit cum episcopo Nartoldo ; il donnait è l’évèque une vigne sise à ,S#volas
et il recevait en échange la praestaria des dîmes in villa Sancti Saturnini et in villa
Agnana et în Antinianicos (1); la première convention s’était passée dans les mèmes
termes en 978 entre Pons mari d’Ermengarde et l'evéque (2).
Nous devons faire à ce sujet une remarque importante; Pons-Arbald ne peut
pas étre le frère d’Aldebert et de Rostaing; car dans la grande charte de Castellane,
le seul Dodon qui soit nommé n'est pas le mari de Galburge, mais le fils d’ Apollon
(Dodo Abellonius); si dans la seconde partie de la charte (qui en est la confirmation,
faite par les descendants des premiers donateurs), on trouve en téte des firmataires
les fils de Dodon mari de Galburge, la raison peut en ètre dans le fait que Hugues
son fils jouissait de la dignité épiscopale du siége de Senez, dont Castellane dépen-
dait; en second lieu, parceque, gràce au. mariage de Dodon avec Valburge de Castel-
lane, leurs enfants avaient, eux aussi, des droits sur ce territoire. i
Dans une charte de la mème époque, nous voyons d’abord Amelius évèque de
Senez, puis Hugues qui se dit son successeur, accorder au monastère de S. Marie con-
struit à Castellane, les droits sur cette église qui dépendaient de son évèché; signent
en premier lieu Aldebert, sa femme et ses enfants, puis Pons de Saint Martin, Pons
Pulverel, son fils Dodon et ses frères Boniface et Arbald ainsi que plusieurs autres
seigneurs (3).
Ma
Les seigneurs de Castellane.
3 Nous avons dit que c'est dans la descendance des comtes Apollon et Aldebert
que doit s’ètre consolidé le domaine de Castellane. Nous avons également remarqué:
que la grande charte de Castellane est composée de deux parties. La première est
une notice de la reconnaissance des anciens droits de l’abbaye faite par Aldebert,
Rostaing et les fils d’Apollon; la seconde partie (date 1043), est un acte de
confirmation de cette reconnaissance passée en faveur de l’abbaye par les descendants
des dits seigneurs. Ceux ci sont les suivants: 1° les fils de Dodon, Hugo episcopus
Senecensis, Poncius Pulverellus, Ripertus, Leodegarius, Bonefatius, Arbaldus, Pe-
trus; 2° les fils d’Arbaud (fils du comte Apollon). Petrus Gauciolenus, Pontius,
Datilus, Guigo ; 3° les fils du comte Aldebert, Eldedertus, Waracus; 4° les fils de Pons:
(1) Cart. Aptense, f. 24, r° et v°, document VII.
(2) Id., f. 33 et 34. Un acte à peu pròs de la méme teneur est passé le mème jour entre un Arbald
et sa femme Ermengarde et l’évèque, On ne saurait reconnaître s’il 8°y agit du mème individu ow
d’un frère de Pons. f. 31 et 32, document VI. 1
(3) Cart. de S. Victor, 770
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 305
(fils du comte Apollon), dominus Pontius Glanniciensis episcopus et fratres cius, idest
Hugo, Guirenus, Bermundus, Rodulphus, Pontius, Iunanus (1).
Les branches qui sont representées ici doivent ètre celles dont les descendants
ont eu en partage les droits sur Castellane, et c'est parmi elles que nous devons
chercher la filiation de la famille de Castellane. Malheureusement il se trouve ici
solution de continuité. Une charte conservée dans deux collections importantes (2)
aurait pu apporter une grande lumière sur cette question, si la transcription impar-
faite de la charte, en ce qui a trait aux noms, ne laissait le problème & peu près
insolvable. La charte parait ètre de l'année 1095. Elle rappelle que Pons, évéque de
Glandèves, après s'ètre fait moine à S. Victor, avait donné A l’abbé Ricard (8) les
biens et droits allodiaux qui lui venaient de ses parents à Castellane, Thorame, Alons,
Castano, Bagaro, Roca Rufa, Talario (4), Veresone (5): le mème abbé restituait aux
neveux de l’évèque une partie de ces droits, ne ommnino essent sine hereditate avuneuli
sui, et ceux-ci lui prètaient serment de fidélité, en promettant qu’ils tiendraient è
l’avenir ces droits de l’abbaye elle mème. Les neveux dont il est question ici, ne sont
pas tous nommés. Martène dit seulement Pontius autem.....fratres sui, le Gallia dit
Pontius autem Aicardì etc. fratres sui. Plus loin il est question d’un Boniface qui
pourrait ètre un autre frère ou un cousin.
L’éveque de Glandèves, dont il s’agit est certainement Pons, qui parait dans la
charte de Castellane, mais comme dans ce document aucun frère de Pons ne porte le
prénom d’Aicard, on pourrait lire Pontivs Aicardus, mais de qui seraient-ils fils?
Là se trouve le point culminant du problème proposé. Nous serions pourtant portés
à croire ce Pons neveu de l’évèque fils de Pons; quant à Boniface peut-@tre était-il son
cousin, soit Bonzface fils d’Aldebert Varache qualifié seigneur de Saignon et des Mujoulx,
dont nous parlerons. Cette croyance serait appuyée sur ce que l’acte se passe è Callian
et que parmi les témoins se trouvent Hugo Ferus (6) et Fulco Dodo (7); Bomiface
de Castellane (8), se trouve aussi en 1089 avec Hugo Ferus et Fulco Dodo, arbitre
pour les contestations entre les abbayes de Saint Victor et de Lérins. En 1125, dans
l’acte de transaction entre Lérins et les m4lites de Briangonnet, au sujet de l’hé-
ritage du fils de Constantin, ont signé comme témoins, A/debertus de Mugulo père de
Boniface ainsi que Raimond Dodon et Geoffroi son frère, des seigneurs de Callian (9).
Les fils d’Aldebert de Mujoulx devaient avoir de grands rapports avec Callian, è
cause du voisinage du fief de Mujoulx que possédait l’autre branche des fils de Cons-
(1) Cart. de S. Victor, 768.
(2) De MARTÈNE, Amplissima collectio, vol. I, p. 549 et Gall. -C., vol. III, p. 195.
(3) L’abbé Ricard parait avoir siòge du 1079 à 1121. (Cart. de S. Victor, Préface, p. xxv
(4) Alias Taladoria.
(5) Alias Vereione, p. e. Verayon, près de Puget Théniers ou Vergon pròs d’Annot.
(6) Aldebertus Ferus en 1158 signe à la conveation passée entre les milites de Briangon et l’abbé
de Lérins pour l’héritage des fils de Constantin. (Cart. de Lérins, p.202.
(7) Cart. de Lerins, p. 59. Foulque fils de ce Dodon qui est appelé Princeps Callianensis, soit
principal seigneur de Callian et non seigneur souverain comme plusieurs autorités généalogiques le
prétendent. Ce Dodon parait ètre de la famille des seigneurs de ChAteau-Renard, près d’Avignon, qui
possédaient plusieurs terres dans notre région, entre autres celle de Roquebrune, Roccabaronis.
(8) Cart. de Lerins, p. 327. « Bonifacius de Petra Castellana ».
(9) Id., p. 200.
Serie II. Tom. XXXIX. - 39
306 E. CAIS DE PIERLAS
tantin. Nous ajouterons encore qu’en 1310 parmi les seigneuries de Boniface de
Glandèves se trouve celle de Mujoulx (1), provenant probablement è cette famille
‘par la fusion de sa race avec celle des Castellane.
La généalogie des seigneurs de Castellane, è partir de Boniface, ne présente plus
de difficult. En 1122 nous trouvons Boniface de Castellane et ses trois frères Dodon,
Raymond et Hugues qui signent en qualité de témoins à la transaction entre l’évèque
de Senez, et l’abbé de Saint-Victor pour leurs droits respectifs à Castellane, Thorame
‘et Alons (2).
Il est est essentiel de remarquer que le cartulaire de S. Victor contient deux
‘copies identiques de cette transaction, avec cette seule différence que dans la seconde,
aprés les signatures des quatre Castellane, se trouvent celles de Raimundus Feraldi,
Ugo Feraldi, Fulco Feraldi; ces trois personnages doivent ètre les fils de Feraldi,
fils de Rostaing Rainardi dont nous parlerons et par conséquent cousins des Castellane ;
‘ils signent donc ici comme représentants de la branche de Rostaing. En 1174 un
‘autre Boniface de Castellane se rendait caution pour la somme de mille sous en faveur
«de Guillaume Feraldi seigneur de Thorame, lequel transigeait avec S. Victor pour
les droits féodaux sur ce lieu (3).
La famille était alors tellement puissante qu@en 1189 elle osa tenir téte è
Tdelphonse d’Aragon; mais ils eurent le mème sort que le comte de Forcalquier, et
tous devinrent vassaux de celui avec lequel ils traitaient auparavant d’égal à égal (4).
Boniface de Castellane portait le surnom de Rufus en 1205 (5). Il avait pro-
bablement épousé Spata de Riez (6). Un de ses fils prit le nom de Boniface de Riez
et l’autre celui de Boniface de Galbert, d’après un document de 1124 (7). Le 29 jan-
vier 1226 Boniface de Castellane fils de Boniface recevait à Riez de Raimond Béranger
l’investiture de plus de 30 fiefs situés principalement dans les évéchés de Senez, Vence,
Fréjus. En 1225 il cédait au comte de Provence Barrème et Thorame basse (qui en
1067 faisait l’apanage de Rostaing frère du comte Aldebert) et recevait en échange
Thorame haute et Tartone (8). La maison de Castellane depuis dix siteles tient
dans notre pays un rang particulièrement éminent; sa belle devise hereditaire resume
admirablement sa très noble histoire: « May d’ounour que d’ounours » (9).
(1) Arch. de Marseille, Série B, 1099,
(2) Cart. de S. Victor, 772 e 972.
(3) Arch. de Marseille, 762, Série B.
(4) BoreL D’HaurERIvE, Ann. de la noblesse, ed. 1845, p.195
(5) BLancarp, Sceaua de Provence.
(6) Abbé Briangon, Genegalogies.
(7) Cart. de S. Victor, 1031.
(8) Arch. de Marseille, Sério B, 326.
(9) Vicomte pe PoLi, La Terre Sainte, p. 644.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 307
VI.
Le comte Aldebert et ses descendants, seigneurs è Thorame,
Castellane et Saignon.
On a vu Aldebert prenant part A la grande restitution de Castellane à l’abbaye
de S. Victor avec son frère Rostaing et ses neveux (1); mais un acte plus ancien le
regarde, car il prend aussi part à la donation faite en 1009 par Rostaing d'un manse
A Thorame en faveur de l’église de Sainte Marie de Moustiers (2). À la fin de l’acte
se trouvent les signatures de Pontius, Valo, Rostagnus, Dodo, Abillonius, Isnardus,
Arbaldus. Ce sont les noms des personnages indiqués comme leurs neveux dans la
grande charte de Castellane (3).
Les documents que nous avons déjà cités, apprennent que de sa femme Ermen-
garde il a eu quatre enfants, Eldebert, Varac, Fides et Amantia. Ils ont des posses-
sions dans notre contrée, dans la haute vallée du Verdon. Son fils ainé et Ermengarde
sa femme font donation à S. Victor de la dîme sur les poissons de l’étang de Lévi-
don (4), ainsi que sur les fromages de Colmars et d’Alos (5). Dans la signature son
nom est formulé Aldedertus de Costa (6); suivent les signatures de Garac (son frère),
de Pontius Abellonii (son cousin germain), de Rostagnus Rainardus (autre cousin, petit
fils de Rostaing).
Varac, deuxième fils du comte Aldebert a épousé Dilecta (7) peut-étre fille de
Truand d’Ampus (8).
Varac et Dilecta n’auraient eu qu’un seul fils connu, Aldebertus Varaco qui
prend parfois le titre d’Aldebertus de Mugol, il a une grande position dans le comté
d’Apt et plusieurs chartes se rapportent à lui. Par héritage de. son ancétre, Varaco
(4) Cart. de S. Victor., 768.
(2) « Signus Rostagnus qui cartula elemosinaria... Heldebertus donavit et firmavit ». (Cart. de
S. Victor, 772).
(3) ly a vraiment la différence de la virgule qui partage {ici le nom de Dodo Abillonius,
mais on doit certainement l’attribuer è un erreur du copiste; du reste ces personnages pourraient
difficilement ètre frèves des donateurs, puisque il y aurait deux frères Rostaing, chose assez rare et
qui dans notre cas n'est appuyé par aucun autre document.
(4) Un étang de ce nom se trouvait è còté de celui du Scamandre près de l’abbaye de S. Gille.
(Gallia C., VI, Instr., p. 194).
(5) Cart. de S. Victor, 765. Decimum et formaticos de Alpibus que pertinent ad collo Martio et
ad Alodes. Le mot Alpibus doit indiquer les chalets des alpes, qui sont ainsi appelés dans ces mon-
tagnes; collo Martio doit ètre Colmars, et Alodes, Alos, sur le Verdon,
(6) Costa est un village du comté d’Apt, appartenant à cette église (Cart. Aptense, p.27 et 28). En
1293 un B. de Costa vend è Charles d’Anjou des biens situésà Thorame (Arch. de Marseille, Série B,
n. 396).
(7) Cart. de S. Victor, 249.
(8) Truand et sa femme Amalsendis donnent deux églises è Lérins, sont témoins Rainardus
(prob. père de Rostaing seigneur de Val de Bloure) et Bernard (prob. Bernardus Cainus, témoin è
Val de Bloure vers 1050), car dans les deux documents nous trouvons les mèmes témoins Adelardus
et Bernardus. (Cart. de Lérins, p. 54).
308 E. CAIS DE PIERLAS
du dixième siècle, il possédait la chàtellénie de Saignon (1); il la donne en fief &
Rostaing d’Agout fils de Rostaing et d’Adelaide, et à ses frères Humbert, Raimbald ,
Raimond, Laugier, qui lui en prétent serment (2). C'est bien lui car il est qualifié
de Aldebertus filius Dilectae. Cette investiture accordée par Aldebert aux d’Agout
est rappelée en 1130, lorsque l’évèque Laugier concéda à ses neveux Guiran et
Bertrand en fief, ad fidelitatem et servitium.... quantum Aldebertus de Mugol,
Rostagno de Agolt dedit (3).
En 1113 l’évèque Laugier achète Crugère pour le prix de 1300 sous de Mel-
gueil de ce mème Aldebert et de son fils Guillaume en obtenant le consentement de
tous les m4ltes du chateau (4). Une autre charte du cartulaire d’Apt nous donne
l’acte mème de vente (5); nous y voyons que He/debertus Garac a eu son fils Guil-
laume de Derbucis, sa première femme, et trois autres fils Bertrand, Raymond et
Boniface (6) de Sansa sa seconde femme. Parmi les témoins on remarque Leodega-
rius de Petra Castellana, Geoffroi de Briangonnet (7), Geoffroi Aicardi, Bertrand
de Saignon, ete., le prix d’achat est de 1100 sous de Melgueil. Nous trouvons une
seconde donation du chàteau de Saignon qui s’appelle Crugère, qui selon la date
exprimée en toutes lettres dans la charte, aurait eu lieu en 1122 (8); mais il doit
ètre question ici d’un autre chàteau, le principal de Saignon, car il est qualifié vers
la fin du document de castro mazorî. Aldebert et ses fils déclarent qu'ils seront vassaux
ide l’église. Le mème évèéque Laugier, comme nous l’avons dit, donnait aussi en 1130
le chàteau de Crugère à ses neveux, qui lui en prétaient serment de fidélité (9).
\ONC
Rostaing et ses descendants, seigneurs è Thorame,
Castellane, Val de Bloure, etc.
Rostaing a fait en 1009 donation à l’église de S. Marie de Moustiers de cer-
tains biens à Thorame, le comte Aldebert son frère a concouru à cette donation, les
fils du comte Apollon, son autre frère, ont signé (10). i
Quelques années après il participe à la grande donation de Castellane (11).
(4) Saignon s’appelait anciennement Obaga d'après une charte du 910. (Cart. Aptense, f. 47 vo).
(2) Avant 1103, è cause que Laugier n’est pas encore. qualifié d’éveque (Cari. Aptense, f 8. v°),
Sacramentum Aldeberti de Sagnone, Document VIII.
(3) Cart. Aptense, f. 9; Donatio de la Crugeria, Document IX.
(4) Cart. Aptense. f. 6 v° et 7 r° Donatio de Sagnione a Leodegario, Document IX
(5) Id., f. 7 vo, Venditio Aldeberti de Crugeria, Document X.
(6) C'est celui que nous pensons pourrait étre Boniface de Castellano.
(7) Petit fils de Constantin et d’Isingarde. (Cart. de Lérins, p. 199).
(8) Cart. Aptense, f. 8 r° et v° Feudum Aldeberti super Crugeria, Document XI
(9) Id., f. 35 v°; Sacramentum de Crugeria.
(10) Cart. de S. Victor, 772.
(14) Id., 768.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 309
Nous ignorons le nom de sa femme, mais elle était probablement des vicomtes de Nice,
peut-ètre sceur de Odila, puisque son petit fils possède le village d’Aspremont et que
son fils y a fait construire un chàteau qui porte son propre nom. Son fils s'appelle
en effet Rainard, nom de famille que nous avons vu étre celui du fils de Rotbert
du dixième siécle. Rainard parait peu dans les chartes, nous le voyons signer dans
une donation d’Aldebert son oncle pour Castillon (1). Avant 1048 il signe à un acte
de Truand d’Ampus, probablement père de Dilecta marie à Varac, son cousin ger-
main (2). En 1028 il signe à la donation faite è Saint-Pons par Laugier de Nice et
sa femme Odila (3). Ce doit ètre lui dont il est question dans un fragment de charte
du cartulaire de Lérins qui porte pour titre Carta de Z'enias, où Rainaldus, entre
les années 1028-1046, donne a l’abbé Amalric des biens situés à la Roque Esteron (4).
La meilleure preuve de la filiation nous est pourtant fournie par une charte de Saint-
Victor très importante pour le comté de Nice; car la concordance des noms avec une
charte de la cathédrale de Nice (5), nous démontre les relations de Rostaing et de
son petit fils Rostaing Rainard avec notre ville.
En 1056 Rostagnus filius Rainardi (6), sa femme Adélaide, leurs enfants Férald,
Guillaume et Pierre donnent à l’abbaye de Marseille trois Gglises sises au Puy, én
Podio, avec les terres qui les entourent. Le Podium, dont il est question, s'identifie
avec le chàteau de Puy Agut situé à Thorame basse (7), aussi par la raison que cette
charte se trouve parmi celles de Thorame (8).
| Rostaing est seigneur de Thorame, car plusieurs vassaux prennent part à la do-
nation pour les biens qu'il tiennent, per eundem seniorem suum Rostagnum. Une
autre phrase indique le nom de son aîeul; il restitue un manse, quem dedit avus
meus Rostagnus. C'est le manse dont il est question plus haut en 1009.
Ce méème Rostaing, Kostagnus filius Rainardi, est un des plus grands seigneurs
dans le comté de Nice, comme le prouve la charte de la Cathédrale à laquelle nous
venons de faire allusion, ainsi qu’une charte inédite dont copie authentique se trouve
dans les manuscrits de la Bibliothèque Royale de Turin.
Gioffredo le premier a cité ce document, mais sans le donner. Dans le Nicea Civitas
il dit, en parlant de Raymond évéque de notre ville: Anno sequenti 1067 a Rostagno
Rainardi et Adalaixi uxore eius recuperavit decimas de Venatione, etc. (9). Dans son
histoire des Alpes Maritimes il parle de ces dîmes, restituite da Rostagno Rainardi ed
Adelasia sua moglie, î quali dovevano essere signori principali in quel paese (10).
(1) Cart. de S. Victor, 775.
(2) Cart. de Lérins, p. 54.
(3) GiorrrEDo, Storia A. M., vol.I, p. 613.
(4) Cart. de Lerins, p.202.
(5) Cart. de la cath. de Nice, n. 9.
(6) Cart. de S. Victor, 764.
(7) BoucHe, Chorographie.
(8) Les descendants d’Adalbert ou de Rostaing continuèrent à le posséder. En 1361 Foulque de
Podio préte hommage è la reine Jeanne pour la seigneurie de Thorame basse. En 1386 Geoffroi Feraud
fait hommage pour sa part de Colmars et de Beauvezer et pour tout ce qu’il a hérité è Thorame de
Feraud de Puy Agut. (Arch. de Marseille, 553, 768).
(9) JorreDI, Nic. Civ., p. 162.
(10) GrorFrREDO, St. A. M., p. 615.
310 E. CAIS DE PIERLAS
Notre charte dit en toutes lettres qu'il s’agit de Rostaing fils de Rainard, Ro-
stagnus filius Rainardi, que sa femme s’appelle Adelaide, que leurs enfants sont
Ferald, Guillaume, Pierre. On le voit, c'est la famille de Castellane-Thorame du
cartulaire de Saint-Victor (1). Rostaing restitue à l’église de Notre Dame de Cimiez
et de Nice ce qu’il lui a enlevé injustement, ipsam decimam quod est in castro
Venatione et in suo territorio et în Andobio et in sancto Dalmacio in Valle Blora
et in castrum quod dicitur Pedastas et in Rege placito et in ommibus territortis
ad illos pertinentibus; et in castrum quod nominant Rorà, et în loco qui dicitur
Falcario et castrum quod nominant Leudola, et sancti Stephani Tiniensis, et eccle-
siam Beati Dalmacti, in his supradictis locis cum omnibus suis apenditiis ipsas
decimas cum ipsas ecclesias. Il s’agit donc non seulement des dîmes, mais des églises
elles-mèmes et de toutes leurs dépendances. L’évèéque à son tour lui accorde la jouissance:
de la moitié de ces dîmes, à la condition qu'il en usera pour le service de Dieu
et à la place de l’évèque et qu'il sauvegardera en faveur de celui-ci la possession de
l’autre moitié de ces droits.
L'acte se passe aux 17" calendes d’avril en l’année 1067. Anno millesimo
trubeationis domini sexagesimo septimo. Après la signature de tous les donateurs se
trouve celle de Miron et de Kostaing, les fils de Odila, que Gioffredo qualifie de
comtes de Nice.
La seconde charte que nous avons indiquée, est un document bien précieux pour
l’histoire de Nice, car il jette. un nouveau jour sur les possession de cette famille.
C'est une donation faite à l’église de S. Dalmas de Val de Bloure, vers 1060, par
Rostaing et sa femme Adélaide, qui en étaient les seigneurs, comme nous venons de
le voir (2).
La pièce originale, qui dans la seconde moitié du siécle passé appartenait è
Etienne Curlando (3), s'est perdue; mais il en reste une transcription authentique et
présentant toute garantie de précision, car elle a été faite sur l’original méème par
Xavier Nasi archiviste à la Cour des comptes, et a été collationnée par le comte
Prosper Balbo, savant historien et diplomate Piémontais. Une annotation autographe
du\comte Balbo fixe la date de la charte au xI siècle (4).
Cette date, le nom du donateur et celui de sa femme, l’église en faveur de
laquelle est faite la donation, nous assurent qu'il s’agit encore ici de Rostaing fils
de Rainard.
Nous allons en voir une autre preuve.
La donation est faite avec les formules de garantie qui devaient la rendre ir-
révocable et selon le style de l’époque. C'est d'abord unum sedimen cum horto de
hereditate nostra, que Rostaing et sa femme donnent et vendent, donamus et ven-
dimus... accepto pretio solidos quinque; ensuite c'est une prairie tenue par Addal-
dus avec le correspectif d’un cheval, accepto prescio uno caballo, ainsi que la troi-
(1) Cart. S. Victor, 7604.
(2) Bibl. Royale, Mss., Miscellanea di Storia Patria, vol. 57 et Document XI.
(3) Archiviste è la Cour des Comptes de 1766 è 1786.
(4) « Presens autem charta ex caracteris forma atque intrinseca structura queis archetypum constat-
« ad xI saeculum referenda videtur ».
LE XI SIÈECLE DANS LES ALPES MARITIMES 311
:sième partie des paturages du chàteau d’'Aspremont et des brebis seigneuriales de
Saint-Dalmas et des hommes, et terciam partem de pascherio de castro que vocatur
Aspermunt, cum appendictis cius de fedas dominizas de Sancto Dalmacio et de
homines... Ici le manuscrit, copie exacte du parchemin, a laissé6 un malheureux vide;
il continue avec les paroles: accepto pretio uno mulo.
Après les noms des témoins Wido et Bernardus testis, Adelardus testis (1),
Vidobaldus testis, on trouve Alemannus monachus seripsit et manu sua firmavit.
‘C’était sans doute le prieur bénédictin de Saint-Dalmas de Val de Bloure, car contrai-
rement à ce que dit Gioffredo, Saint-Dalmas ne doit pas avoir appartenu aux tem-
pliers (2). Son église, superbe monument d’architecture romane, avec sa erypte, ses
colonnes, ses chaàpiteaux, rappelle tout A fait l'église du: prieuré de Saint-Michel de
Vintimille, dépendance des Bénédictins de Lérins. Le prieuré de, Saint-Dalmas avait
un monastère cloîtré, résidence de plusieurs moines bénédictins, et dépendait de la
grande abbaye de Saint-Dalmas de Pédone. Les prieurs de Val de Bloure étaient
‘seigneurs féodaux de Saint-Dalmas, la Roche, Boline et Saint-Martin Lantosque,
dont ils partageaient la juridiction avec les seigneurs séculiers descendants de Rostaing.
On le voit, une partie de la juridiction seigneuriale doit remonter & cette charte de
-donation.
1 Les témoins qui signent à la seconde partie du document sont Aimus testis,
Bernardus Caixus testis, Mainfredus testis, Milo de Cagna firmat (3).
Ce qu'il y a de très important dans cette charte est la notion que Rostaing,
fils de Rainard, était aussi seigneur d’Aspremont. Ce fait nous prouve que Rostaing
de Val de Bloure était bien réellement le fils de Rainard, car au midi du village
d’Aspremont se voient encore les ruines d’un chàteau d’une certaine importance assis
‘sur une superbe position qui domine le chemin allant de Nice à ce village et qui
porte précisément le nom de ChaAteau-Rainard.
Nous verrons plus tard, à la moitié du x1m° siècle, les seigneurs de Val de Bloure
posséder encore Aspremont.
Maintenant on se fera naturellement la demande: comment Rainard a-t-il pu
avoir la seigneurie d’Aspremont, presque une dépendance de Nice, un point straté-
gique, que les vicomtes ne devaient guère aimer de laisser à quelqu’un qui ne fùt pas
des leurs? On ne saurait comment répondre A cette question; on doit se limiter è
supposer qu’une sceur des vicomtes de Nice eîìt apporté comme dote cette seigneurie
‘A Rainard. Nous ajouterons pourtant qu’un descendant de Rainard, Raimond Feraud
(1) Cet Adelardus se trouve aussi comme témoin à une donation de Lambert seigneur de Vence
.en 1042 (Cart. de S_V.. 787). Il signe aussi vers 1048 avec Rainardus et Bernard à la donation de
Truand d’Ampus (Cart. de Leérins, 54.
(2) « S. Dalmatii de plano, castrum a S. Dalmacio martyre sub Decio, Niciensis tractus illustra-
« tore dictum, eius nomini sacram, ac ut fertur, templariorum equitum iuri quondam subditam habet
« ecclesiam. Bolina et Rocha, cum superiore S. Dalmatio, vallis Blorae sunt pagi, ac pareciam unicam
« quae S. Jacobi ecclesia est, constituunt ». (JoFREDI, Nicea Civitas, p. 45).
(3) Ce Milon ou Miron de Cagnes, qui non seulement est témoin, mais firmat, doit ètre Miron,
fils d’Amic, seigneur de Vence, frère de Lambert, qui en 1041 fait une donation. Dans le mème acte
-se trouve comme témoin P. de Caigna. (Cart. de S. V., 791).
312 E. CAIS DE PIERLAS
d’Ilonsa, moine bénédictin et troubadour, dans sa vie de Saint-Honorat parle (1)
d'un guerrier de Charlemagne du nom de
Raynaut lo princes de Bellanda
De Cimiers et d’aquella banda (2).
Il serait fort possible que la tradition de Rainard se soit conservée pendant trois
sicles dans la famille et que le troubadour ait voulu faire allusion à son aieul.
Nous avons vu plus haut Rainard faisant donation à Lérins de biens à Roque
Esteron. Un prieuré bénédictin s’y élevait et Raymond Féraud parle de cette demeure
qu'il habitait comme prieur, ainsi qu'il le dit, et qui avait sans doute été édifié par
la piété de ses ancètres (3).
Guillaume, GuilMlelmus Rostagni, second fils de Rostaing est le mari d’'Advenia.
Il a deux fils, Bertrand et Hugues. Ce dernier vers 1109 entre dans l’ordre des cha-
noines de Nice et en cette occasion, avec son frère, il cède au chapitre la quatrième
partie du chàteau de Venanson et de leurs vassaux à Saint-Dalmas et à Pedastas (4).
A signé comme témoin, parmi d’autres, Richerius (5).
Comme pour la branche de Castellane, à la fin du x1° siècle nous ne trouvons
pas pour celle de Thorame la continuité dans la filiation. Nous avons pourtant vu
plus haut trois seigneurs portant, après leurs prénoms, le nom de Feraldi; on peut;
supposer qu’ils soient fils de Ferald, l’aîné des enfants de Rostaing (6).
Un demi siècle plus tard, en 1174, Guillaume Ferald transige avec l’abbaye
de Saint-Victor pour les droits féodaux et les possessions qu'il avait à Thorame (7).
C'est lui qui en 1218, se voyant à la fin de ses jours, se faisait moine de Saint-
Victor, en faisant une donation et en élisant Raymond de Beaujeu comme tuteur de
ses possessions et de ses filles (8). Il est très possible, d’après ce document, qu'il n’eùt:
pas de fils et que ses biens de Thorame soient passés par mariage à d’autres branches.
Ce qui nous prouve son entière juridiction féodale sur Thorame sont les pa-
roles suivantes qui se trouvent dans la charte et qui indiquent l’autorité judiciaire :
sed ut fortior esset donatio, dominus I. Episcopus (9), iudex moster ordinariuss
ad Toraminam accessit, ad quem totum testamentum declaravi.
N
(1) Selon un ancien manuscrit du x1tr siéele des Archives de Marseille, Nice aurait jadis porté le
nom de Bellanda. « Civitas Nicie posita in capite Provincie in rupe supra mare ab antiquis antiquitatum
« Bellanda vocata, est in dominio comitis Provincie cum toto suo episcopatu ».:
(2) La vida de S. Honorat, par Raymond FeraUD, publiée par la Société de leltres, sciences et
arts des Alpes maritimes. Notes de A. C. Sarpou, V, p. 134, 136 et 192.
(3) Hom l’appella Raymon Feraud
En la Roqua tene sa mayzon
Priols en la val d’Estaron.
La vida de S. Honorat, p_208.
(4) Cart. eccl. cath. Nicensis, 23.
_ (9) C’est le mème qui a signé en 1109 è la donation de Villevieille par les fils de Pierre Isnardi.
(Cart. eccl. cath. Nicensis, 3).
(6) Cart. de S. Victor, 972.
(7) « Ego Guillelmus Feraldi... exactiones quas ab hominibus sub dominio ecclesie Sanete Marie
« de Toramina de prediis et honoribus casatis faciebam, scilicet corroatas, asinarias, clausuram castelli
« et excubias ad custodiam castelli et omnes iniustas exactiones relinquo. .... in manu sacra domini
« Poncii, Senecensis episcopi ». (Cart. de S. V., 1018 et 1022).
(8) « cum, ex iniquitate devenirem ad morbum incurabilem...». (Cart. de S. V., 1019).
9) La charte a J. episcopus, évéque; mais il doit étre question ici du nom de famille Ep:scopus.
I
4
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LE XI SIÈECLE DANS LES ALPES MARITIMES 313
VATI,
Les Thorame - Glandèves.
Les fils de Rostaing sont done les ancétres de la famille de Thorame et des
seigneurs de la haute vallée de la Tinée. Ils le sont probablement aussi des seigneurs
de Glandèves, de Saint-Alban et de Beuil.
Les généalogistes de Nice et de Provence n’ont pas eu le soupgon de cette ori-
gine; ils ignoraient mème les détails de cette filiation que nous venons d’exposer.
Ils font généralement descendre les seigneurs de Glandèves de certains frères Pierre
Balb et Milon dit Lagit, qui en 1066 donnèrent A l’église de Nice (1) des dîmes,
des terres, des hommes, à Clans, au Puget (2), à Maria.
Ces méèmes personnages sont nommés dans un document du cartulaire de Lérins,
par lequel plusieurs seigneurs de cette région, se rappelant que les églises de Sainte-
Marie et de Saint-Martin, qui sont sub Poteto castro iuata littore fluvii Vari, étaient
jadis sujettes à ce monastère, en font la restitution (3); les deux frères dans cet
acte ne donnent rien au Puget, mais à Verrayon; ensuite tous les donateurs ensemble,
omnes nos suprascripti donatores, donnent les églises de Saint-Martin ad Maxilinas (4)
et celle de Saint-Thomas.
Seulement les généalogistes n’ont pas remarqué un fait assez notable, que des
quatre fiefs ci-dessus Clans n’appartenait pas au comté de Glandèves, d’après les
expressions de l’acte lui-mème; Maria pas davantage, étant sur la rive gauche de la
Tinée; quant au Puget, s'il s’agit de Puget Théniers, il n’appartenait pas non plus
anciennement au comté de Glandèves, mais bien à celui de Tinée, puisque, tout en
étant sur le bord du Var, on l'appelait Podietum Thenearum; quant à Verrayon,
c’était un simple hameau de Puget Théniers.
Nous avons au contraire remarqué que la famille d’Aldebert possédait les terres
de Briangonnet, de Saint-Cassien, d’Amirat, d’Entrevaux, toutes du comté de Glan-
dèves. Son beau-frère Constantin et ses descendants possédèrent la plus grande partie
(1) Cars pe PrerLas, Cart. eccl. cath. Nicensis, 24. GrorrREDO dans la Nic. Civitas, p. 164; ne donne
pas cet acte complet.
(2) GrorrrEDo, Storia A. M., vol. I, p. 664 dit qu'il s’agit de Puget Garnier: Pogetto Garnier,
luogo ora distrutto.
(3) Cart. de Lérins, 186. Une note au Cartulaire édit. Flamare, p. 228 dit ques ces églises sont:
Notre Dame de la Roudoule et St. Martin, qui devinrent le siège d’un prieuré.
(4) Raymond Feraud dans la chanson intitulée A Chaudol de Thenias dit qu'un homme de
Chaudol passait è còté de la montagne de Dina, qui est près du Poget de Rostagn, au-dessus du Poget
de Theniers, ou a gleysa lo monestiers...
Hugo l’appellan siey vesin,
Al Toet vay per lo camin
E passava per Maysellinas.
(Za vida, p. 163).
SERIE II. Tom. XXXIX. i 40
914 E. CAIS DE PIERLAS
de la juridiction féodale de Briangonnet, de Mujouls, de Gars (1), ainsi que l’église
de la Cluse à Aiglun, terres du comt6 de Glandèves.
La raison principale qui a engagé les généalogistes è donner Pierre Balb comme
ancétre aux Glandèves est ce mèéme nom, qui dans la suite se retrouvera souvent parmi
ces seigneurs. On peut objecter à cela que précisément en 1164 nous trouvons Pierre |
Balb et Guillaume de Saint-Alban son frère, qui renoncent à tous les droits qui
pouvaient leur appartenir sur le chàteau de Drap comme héritage de leurs ancètres;
‘or, le fief de Saint-Alban que possède le frère de Pierre Balb est précisément près
de Briangonnet et d'Amirat, qui étaient les possessions d’Aldebert et de ses parents.
Du reste, les comtes de Vintimille-Lascaris ont continuellement ce nom de Pierre
Balb, sans ‘qu’ils descendent aucunement de Miron Lagit ou de son frère.
La famille d’Aldebert, d’Apollon et de Rostaing s’étant étendue, ses. différentes
branches ont pris le nom du fief principal de leur seigneurie; nous avons donc d’un
.còt6 les barons de Castellane, de l’autre les domini baroniae de Glaneses et les do-
mini baroniae de Bolio.
Le premier document où se trouve le titre de Glandèves est cité par Gioffredo,
«qui l’a vu dans les archives de la famille des barons de Glandèves; il porte la date
de 1232 (2). Anselme (3) et Jean de Glandèves, fils de Pierre seigneur de Glandèves,
se partagent les fiefs paternéels. L’ensemble de ces fiefs comprend à peu près tout le
diocèse de Glandèves; il est donc tout naturel qu’un de leurs ascendants les ait pos-
:sédé complessivement.
Parmi les terres qui échurent en partage à Anselme se trouvait la Seign. d’En-
trevaux, le Villar, Saint-Cassien, Montblanc; nous avons justement vu, dans un acte
souvent cité, que le comte Aldebert seigneur de Castellane et Thorame possédait aussi
les seigneuries d’Entrevaux, le Villar, Saint-Cassien d’Amirat, Briangonnet à còté de
Momblanc. Quant a Jean, il a dù éètre dépossédé bientòt de ses fiefs, d’après l’acte
d’échange de 1257 entre le comte de Provence et Guillaume de Vintimille (4).
On pourrait donc avec toute raison supposer qu’Anselme et Jean de Glan-
dèves descendent de la famille de Rostaing ou d’Aldebert. Peut-ètre Pierre leur père
était fils de ce Feraud de Thorame qui en 1227 signait à la cession des droits de
consulat faite par la ville de Grasse au comte de Provence (5).
Le premier seigneur qu’on retrouve après Anselme est Guillaume de Glandèves; .
en 1310 son fils Guillaume Féraud porte le titre de seigneur de Thorame, il est
neveu de Boniface de Glandèves; il dirige une lettre au trésorier de Provence au
sujet des cavalcades à fournir par lui, son père et son oncle. Celui-ci en effet deman-
dait aussi un délai en sa faveur et en celle de l’évèéque de Glandèves et de tous
les membres de sa famille et de celle de Beuil, jusqu’à ce qu’il et regu une réponse
(1) Cart. de Lerins, p. 196 et suiv.
(2) GrorrREDO, St. A. M., vol. II, p.324.
(3) Dans un acte d’arbitrage de 1213 entre l’évèque de Glandèves et le prieur de la Penne, par
l’évéque de Senez et l’abbé de St. Dalmas du Bourg, les deux fideiussores sont Anselmus de Glans e
Bertrandus de Alosio. On a vu plus haut que Alos était fief d’Aldebert de Thorame.
(4) Fait è Aix è la présence de G. Olivarti et J. Chaissii admirallorum Nicie. Arch, Mars, et Turin.
(5) Papon, Hist. de Prov., p. 52. Carlone dans son étude sur le troubadour Raymond Féraud
(Annalzs de la Société des lettres de Nice, vol. II, pag. 33) le dit ecelésiastique, mais sans le prouver.
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 315
de son frère Elzear et de Guillaume son neveu, qui s'étaient rendus auprès du roi à
ce sujet (1).
Ces documents donnent lieu à plusieurs inductions. D'abord le fait de trouver
chez les Glandèves-Thorame le nom de Guillaume Féraud ferait supposer qu'ils dé
rivent de Guillaume Féraud de Thorame qui s’est fait moine en 1218, puisque le
nom de Féraud est devenu presque patronymique dans la famille. Pn second lieu
on voit que les seigneurs de Glandèves-Thorame, à& propos des cavalcades, parais-
sent avoir les m@èmes intéréts que ceux de Beuil; ce qui ferait croire A l’unité d’o-
rigine de ces deux familles.
Maintenant si on rapproche de nouveau à la donation des dîmes à l'évéque de
Nice, faite par Rostaing seigneur de Castellane, ‘Thorame, Aspremont, Venanson,
Rimplas, Isola, Rorà, Val de Blore, etc., d'autres documents plus modernes, on trou-
vera que les fiefs de Rorà, Isola, Rimplas, Venanson sont possédés en 1291 par
Beatrice fille de Jacques Gantelmi et veuve de Raymond de Beuil. Ses filles Del-
phine (morte en 1285) mariée à Romée de Villeneuve et Beatrice mariée A Boniface
de Glandèves vers 1282, ont dù soutenir un procès contre leur oncle Guillaume
Rostaing de Beuil (marié dès 1268 avec Béatrice Feraud de Glandèves), dont la
fille Astrugue porta la seigneurie de Beuil dans la maison des Grimaldi.
Les sujets des contestations étaient les fiefs ci-dessus, parmi lesquels Rimplas
est commun aux deux familles. Ils les obtinrent, ainsi que Maria, Thierry, Rigaud,
Pierlas, Roubion.
Pareillement en 1290 Guillaume Rostaing seigneur de Beuil est seigneur de Rorà,
Illonsa et Roubion (2).
Rorà est commun aux deux familles de Glandèves et de Beuil.
Illonsa l’est aussi; en 1332 les habitants de ce lieu firent hommage & Isnard
de Glandèves qualifit d’Isnardo de Glanestii, dominus de Iloncia, de Coreis, de
baronie de Glanesis.
Nous avons vu en 1067 Rostaing, seigneur de l'Isola, S.t-Etienne, S.t-Dalmas
le sauvage ; plus tard une des branches de la famille porte le titre de seigneur de
Faucon, et en 1315 Pierre de Falcono est qualifié de domicello S. Stephani (3). En
1325 Pierre de Falcono, fils de Rostaing, et sa femme Raybaude, fille de Bérenger
Ambrosii notaire de Nice, vendent aux Grimaldi leurs biens et juridictions féodales (4)
à l'Isola et à Saint Etienne. En 1338 nobilis domicellus Petrus de Falcono do-
minus in parte castri Sancti Stephani Thenearum et Sancti Dalmacii Silvestri
fait son testament. Il veut ètre enseveli dans le cimetière de Saint Etienne, videli-
cet in sepulchro sito ante capella seu altari saneti Michaelis in quo iacet mater
sua Johanna et uzxor sua Beatrix (5).
En 1385 Louis de Glandèves est seigneur de Faucon (6).
(1) Arch. de Marseille, 1099.
(2) Arch. de Turin, et de Marseille.
(3) Arch. Capit. de Nice.
(4) Arch. de Turin.
(5) Arch. Capit. de Nice.
(6) Arch. de Marseille.
316 E. CAIS DE PIERLAS
En 1400 Isnardus de Glanesis alias de Falcono nobilis et magnificus vir,
beau-frère de Raymond d’Agout seigneur de Mison, meurt à Nice (1). En 1448
Hélion de Glandèves, de Faucon regoit l’investiture de Lieucia, Rimplas, Scros, Ro-
questeron, Pierrefeu. En 1457 il vend ses fiefs à Pierre Grimaldi (2).
La dernière preuve que nous donnerons pour établir la descendance des seigneurs
de Thorame-Glandèves, de Rostaing Rainard, est le double fait suivant.
En 1256 et 1298 Raymond Rostaing fils de Guillaume Pierre, son propre fils
Audebert de Galbert et ses frères Pierre Balb prévòt de Glandèves, Paris et _Ma-
nuel, sont coseigneurs de Saint Dalmas, Pedastas, Rimplas, Saint Sauveur et Clans:
il est prouvé par un autre document que le mème seigneur Raymond Rostaing et sa
femme Aicarde possèdent la troisième partie d’Aspremont, qu’ils vendent à Raymond
Chabaud (3). i
On le voit, après deux siècles Saint Dalmas et Aspremont appartiennent encore
à la méme famille.
IX.
Les vicorates de Nice.
Nous avons étudié jusqu’ici les familles qui étendirent leurs ramifications dans
les Alpes Maritimes après avoir eu leur origine et leur premier développement dans
les comtés qui s’'approchent de celui de Nice dans sa partie septentrionale. Il est
très particulier que ces familles s’étendirent toujours en marchant vers l’orient, vers
Nice; ainsi la famille de Fos du delta du Rhòne, s’avanca à Hyères, à Flayos, è
Arluc, à Nice. La famille de Castellane-Thorame s’avanca d’Apt sur toute la ligne
du Verdon, de Colmars à Barrème, puis du comté de Glandèves à celui de Tinée, qu'elle
posseda en entier. Nous allons maintenant étudier les famille qui d’ Orange, de Si-
steron, de Vence s’étendirent vers le comté de Nice, où après y avoir eu la juri-
diction vicomtale et y avoir joui d’importantes possessions allodiales et de droits féo-
daux, elles déchîrent tout à coup de la grande position qu’elles occupaient, débordées
par la naissance et le développement d’une nouvelle autorité, la liberté communale.
La plus grande figure que nous trouvons à Nice à l’aurore du xI siècle est
sans contredit Odila. Sa famille aura dù la haute position qu’elle y occupait è de
nobles actions de valeur dans la lutte contre les Sarrasins, car les premiers documents
qui la regardent nous apprennent qu'elle avait 6t6 bénéficiée par le comte Guillaume
de Provence.
C'est de son double mariage. que descendent deux branches de seigneurs aux-
quels Gioffredo a donné bien erronément le titre de comtes de Nice: erreur qu’ ont
(1) Gior., St. A. M., vol. IV, p.
(2) Arch. de Turin.
(3) Arch. de Turin et Marseille.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 317
-suivi jusqu'à ces jours les écrivains provengaux et étrangers. Notre grand historien
.commence en effet par donner ce titre au père de Odila qu'il nomme Miron, Mai-
rone, et qui aurait vécu en 980 (1); il le donne ensuite spécialement aux enfants
«de Laugier second mari de Odila.
Les comtes de Nice n’ont existé qu'à l’avènement de la maison de Savoie, car
les prédécesseurs de ces princes n’ont porté d'autre titre que celui de comtes de Pro-
vence et de Forcalquier.
Nice était un comté dans le sens de diocèse. À l’époque où existaient les deux
siéges épiscopaux de Cimiez et de Nice, on trouve aussi les expressions de comitatus
Cimelensis et de comitatus Nicensis; plusieurs siècles mème après la concentration
.de la juridiction é&piscopale A Nice on trouve encore la formule comitatus Cime-
lensis sive Niciensis (2). La juridiction civile à Nice a dut y ètre exercée par les vi-
comtes, représentants de l'autorité des comtes de Provence. Comme l’a très bien dit
le savant historien Génois Desimoni (3), la présence d’un vicomte dans un comté im-
plique le fait que ce comté faisait partie d’un corps administratif et politique plus
étendu, dont le chef suprème était comte de chaque comté qui en dépendait et
qui se faisait représenter dans chaque subdivision par un vicomte. C'est ainsi que
nous trouverons les vicomtes d’Avignon, de Sisteron, de Gap; si nous ne rencontrons
pas à Nice la formule explicite de vwicecomes Nicensis, nous voyons cependant que
ses plus grands seigneurs, y possédant des droits féodaux, des priviléges, des vastes
domaines allodiaux et sont qualifiés de rectores, de vwicecomites, de potestates.
Le comté de Nice, proprement dit, comprenait le territoire ayant à l’owest les
comtés d’Antibes, de Vence, de Tinée; au nord les Alpes; à l’est le comté de Vin-
timille; il s’étendait sur la rive gauche du Var, puis passait è la rive gauche de la
Tinée, et s’enfongait dans les deux vallées de la Vésubie et du Paillon. Tous les
comtés grands et petits, qui sont du còté de la Provence autour de celui de Nice,
ont le siége épiscopal: exception faite du comté de Tinée. Nous avons au nord la
mème exception, car les anciens comtés d’Auriate et de Bredulo n’étaient pas juri-
«dictions épiscopales et avaient été établis là comme barrière du royaume d’Italie.
L’ancien comté-évèché de Cimiez se confondait avec celui de Nice. Le Barralis
rapporte dans la vie de Saint-Siacre (4), tirée d’une vieille chronique de Saint-Pons, que
Charlemagne aurait donné à cette abbaye le Comitatum Cimelense. Les premiers
vicomtes de Nice doivent s'’ètre emparés des possessions de l’ancien monastère après
la défaite des Sarrasins; c’est pour cela que dans le commencement du xI siècle nous
voyons ses seigneurs, sous forme de donation, restituer peu à peu les biens usurpés
.et rendre de nouveau très puissants les bénédictins de Saint-Pons.
(4) GirorrreDo, St. A. M., p. 588 et table généalogique.
(2) Cart. de S. Victor, 773.
(3) Cornelio Desimoni, Sulle marche dell'Alta Italia, p.83.
(4) Vincent BarRALIS, Chronologia sanctorum sacrae insulae Lirinensis, p. 133.
318 E. CAIS DE PIERLAS
X.
Miron et Odila.
La donation de 999 est la charte princeps des Alpes Maritimes, et c’est la.
seule où il suit question de Nice au x siècle (1).
Miron et Odila ainsi que leurs enfants paraissent pour la première fois. Miron doit avoir
vecu jusqu’en 1002, car une charte de cette année le nomme encore, sans que son
nom soit précédé de quondam, comme celui du comte Guillaume de Provence nommé
avec lui (2). Miron disparaît; sa femme au contraire a fait de grandes largesses aux
églises, aux monastères; et son nom, s’illuminant du grand éclat de ses enfants, de-
vient la plus imposante individualité des Alpes Maritimes.
Qui était-elle?
Bouche, dans son histoire de Provence, a donné comme père de Odila Guillaume,.
le grand marquis de Provence, en s'appuyant aux paroles de trois chartes du Nicea
Civitas, qui disent que certaines possessions sont parvenues à Odila ex marchione
Guillelmo et Attalis comitissa. Gioffredo, lui, n’est pas de cet avis; ces expresions
n’indiqueraient nullement la paternité ; celle-ci serait déterminée par la charte de
donation d’une terre, prope civitate Cimela, faite à Saint-Pons par Odila et ses trois
fils, Pons, Bermond, Miron, pour le repos des àmes de Willelmo magnifico comite
et Mironi genitori nostro et Lodegerio rectore nostro. Malgré le jugement presque:
toujours si sùr de notre historien, on remarquera que les paroles genitori nostro,
strictement interprétées, se rapportent plutòt aux enfants de Odila, qu'’à celle-ci. Par
conséquent le nom du père de Odila est encore à trouver.
Une semblable difficulté se rencontre pour les familles de Miron et de Laugier,
ses deux maris. En examinant avec attention les documents qui regardent Odila et
ceux qui on trait aux enfants de son double mariage, on s’apergoit que c’est bien par
elle que dérivèrent les principaux droits et les nombreuses possessions dont ses descen-
dants jouirent dans le comté de Nice; car les enfants des deux lits paraissent avoir
part égale à ces droits; on s’apercoit pareillement que les premiers ont les possessions
de Sisteron et les seconds ont seuls la seigneurie du comté de Vence, qu’ils parta-
gent avec une autre branche de la famille, dont sont les deux frères Lambert et Amic:
finalement on s’apergoit qu’après Odila la juridiction administrative et territoriale se
dessine mieux et qu'on la trouve à.'Sisteron au pouvoir des fils de Miron, qui n’au-
(1) Le savant historien piémontais Jacopo Durandi è la fin du siècle dernier a publié, dans son
superbe ouvrage Il Piemonte Cispadano antico, p. 48, deux fragments de chartes, regardant l’ancien
comté de Nice, ayant les dates de 811 et 981. Un fameux falsificateur de son temps, le Meyranesio, l’avait
indignement trompé. V. à ce propos le mémoire du chev. C. Prowis, Attî della R. Accad. delle Scienze
di Torino, t. \II, p. 43.
(2) Cart. eccl. cath. Nicensis, 18.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 319
raient conservé à Nice que les possessions allodiales, tandis que l’autorité vicomtale
et les droits féodaux de Nice paraissent le partage exclusif des fils de Laugier, dont
les descendants en disposent jusqu'àè l’avènement du régime communal.
La donation contenue dans la première charte que nous avons indiquée, a pour
objet le quart de la Roche de Saint André (1), fraction de Tourrette. L'acte est fait
au chàteau de Lurs (2), à la présence de Frodon éyèque. Les trois fils du donateur
y assistent; ce sont Pons, Bernard, Miron. Le premier deviendra évèque de Nice,
Miron sera vicomte de Sisteron, Bernard ou Bermond (3) restera inconnu.
XI.
Laugier et Odila.
Cinq ans après cette donation, en 1004 d’après Gioffredo, Miron mari de Odila
«étant mort, celle-ci, seule avec ses trois enfants, fait donation à Saint-Pons de
biens à Cimiez (4). On voit dès lors paraître Laugier, qui est qualifié de rector. Giof-
fredo a traduit cette expression par tuteur, mais dans aucun document de cette époque
la parole rector n’a eu cette signification: elle est au contraire employée dans le sens
de gouverneur de Province ou de comté, de vicomte, de recteur administratif. On
la trouve en 726 avec la signification de gouverneur, dans l’acte de fondation de
l’abbaye de Novalèse en val de Suse par le patrice Abbon; celui-ci en parlant des
villes de Saint-Jean de Maurienne et de Suse dit: 1 quibus nos dicitur esse re-
ctorem (5). Dans les lois saliques elle avait la méme valeur (6). A Montpellier le
recteur gouvernait les vassaux du roi et défendait leurs privilèges (7). Un autre exemple
s'en trouve dans le cartulaire de Marseille, où il indique en 1218 les consuls de
la ville (8). Au commencement du xI siècle, il ne pouvait s’agir d’autorité “consulaire,
c'était donc l’autorité comtale que Laugier représentait ici. Notre idée est confirmée
par d’autres documents qui prouvent que les enfants de Laugier eurent l’autorité vi-
comtale: Raimbald porte la qualification de Nicia, Rostaing celle de vicecomes, le
(1) « Hoc est quarta pars de villa quae nominant Rocha. Et est ipsa villa in comitatu Nicensi
« subtus castro antiquo qui dicitur Revello » (Jorr., Nicea civitas, p.158).
(2) Dépendance de l’évéque de Sisteron depuis la donation faite en 967 par l’empereur Conrad.
(Gallia C., 1, p. 89). — GiorrrEDo dans le Nicea Civitas avait gerit Iuris au lieu de Luris.
(3) GiorrREDO a écrit Bernard dans le Nicea Civitas et Bermond dans son second ouvrage; il le
qualifie de prétre dans sa table généalogique, ce qui ne doit pas @tre, car dans ce mème acte figure
aussi un Bermond prétre.
(4) JorR., Nicea Civitas, p. 159. Storia A. M., vol. I, p.588.
(5) Mon. Hisl. Patr., Chartarium, |, coll. 16.
(6) « Rector in prologo pactus legis Salicae idem qui dux, comesve, sive provinciae rector, aut
« iudex » (DucanGE, Gloss.).
(7) « Rector, apud Montem pesulanum..... qui burgensibus regiis gubernandis, eorumque privi-
« legia conservandis a rege praepositus erat » (DUCANGE, Gloss.).
(8) Cart. de S. Victor, 940.
320 E. CAIS DE PIERLAS
fils de ce dernier Laugier Rostaing possède les droits de castellania sur la ville;
les petit-fils de Raimbald portent le titre de potestates.
La seconde mention qu’on a de Laugier se trouve dans une charte de notre:
cartulaire (1). Elle porte la date du 30 novembre 1011. Laugier, sa femme Odila,
Pons évéque et Miron donnent à l’eévèéque de Nice le quart de la dîme du pain et.
du vin, pour le repos de l’àme de Miron qui fuit quondam. Laugier doit intervenir ici,
non seulement pour l’autorisation maritale, mais comme ayant des droits personnels (2).
En 1028 Laugier et sa femme Odila donnent à S. Pons Kevest qui nominatur Madal-
berti (3), ainsi que le Revest de Jona; Pons évèque signe et approuve; Miron signe.
Au mois de février de l’année 1032 Laugier et Odila, leur fils Raimbald, l’é-
vèque Pierre et le jeune Rostaing donnent au monastère de S. Veran une terre située:
A Cagnes, comté de Vence, très vaste, sicut terminata est ad exemplum visus hominis.
Prennent aussi part à la donation Accelena, femme de Raimbald, et ses enfants Laugier,
qui prendra plus tard le surnom de Eufus, Rostaing et Raimbald (4).
Laugier et Odila doivent ètre morts en cette mème année, car ce n'est plus eux,
mais Raimbald, qui prend part è un acte important, la cession du monastère de-
S. Veran à l’abbaye de Lérins (5).
XII.
Pons évéque.
Nous avons vu que Pons était déjà qualifié d’évèque en 1011. Au mois de mars
de l’an 1018 il donne A l’église de Nice la terre de Fonte Calida (6), région de-
Nice qui porte encore ce nom, près de S. Barthélemi. Il mentionne dans cet acte son:
père Miron, sa mère Odila, son frère Miron et un autre frère du nom de Guillaume..
Dominus Laugerius signe avant Odila. De nouveau en 1030, le premier juin, Pons
donne è l’abbaye de Saint-Pons le village de Chateauneuf, avec les hameaux de Ben-
déjun et de Sassaframarico (7).
Gioffredo corrige dans l’histoire des Alpes Maritimes (8) l’erreur faite dans le Nicea
Civitas de supposer deux évèéques du nom de Pons, erreur suggérée par un document,
cité par Bouche, de Bertrand comte de Forcalquier, où parait Geoffroi évéque de Nice -
(1) Cart. eccl. cath. Nicensis, 8.
(2) GiorFREDO n’avait fait qu’indiquer cette charte et il se trompait pour la date, en la fixant au:
21 novembre 1018. Vol. I, p. 603.
(3) GIoFFREDO, Storza A. M., I, p. 614. Ce serait d’après lui le chAteau de St. Blaise, entre Aspremont'
et le Var.
(4) Cari. de Lérins, p. 136.
(5) 1d., p.143.
(6) Cart. eccl. cath. Nicensis, 14. GiorFREDO donne erronément le 1025 comme date de cet acte. —-
Nic. Civ., p. 159. — Storia A. M., p. 605.
(7) GioreR., Storia A. M., p. 615.
(8) Id., p. 612.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 321
en 1027 (1). Dans son second ouvrage il tourne la difficulté en supposant que Pons
s'appelait aussi Geoffroi. La solution de la question était fort simple. La charte de
Bouche est fausse. En 1032 Pons était mort, nous trouvons sur le siége épiscopal
de notre ville André.
XIII.
Miron .vicomte.
Le premier document où Miron comparait sans sa mère est de 1042; avec sa
femme Leotgarde il donne à l’abbaye de Saint-Victor un manse situé in villa Trigantio,
comitatu Vinciensi (2). Ces biens, se trouvant dans le comté de Vence, étaient sans
doute un apport dotal de sa femme.
Miron porte le titre de vicomte, vers 1057, dans une charte qui contient l’acte
de restauration de l’église de Saint-Promas de Forcalquier, comté de. Sisteron, faite en
l'année 1044 par Bertrand comte et marquis de Provence (3). À cette donation, par
laquelle débute la charte, suit la confirmation donnée, multis post dictam donationem
expletis annis, par Gerald évèque de Sisteron, ainsi vers 1057 (4); c’est A cette
approbation, in concilio apud Barbaras (5), que se trouvent signés: Berengarius vice-
comes, Miro vicecomes, Raiambaldus de Nica, Rostagnus vicecomes, Wantelmus
de Oppeda, Rostagnus Sigistericensis, Isnardus de Nuazelas et Guillelmus frater
eius, Cotaronus de Forcalcherio, Rodulphus Cotaronus, Aicardus de Sadula. On
voit aussi dans ce document les trois frères signer dans le mème ordre d’àge, ainsi
il n'y a point de doute sur l’identité de Miron. Un troisième alinéa de la charte con-
tient encore l’approbation de Guillaume et Geoffroi fils de Bertrand, comte de Pro-
vence, puis celle de Bérenger fils du vicomte Bérenger, qui donavit et firmavit. En
1057, le 27 avril, Miro vicecomes Sistericensis frater Raimbaldi, donne è S. Victor
l'église de S. Martin sise au territoire de Contes, Contenes in comitatu Cimelensi
sive Nicensi; signent Raimbaldus frater Mironis, Poncius de Lucerammo, Dilecta
uxor eius, Rainaldus, Petrus, Poncius, Guillelmus, Raimundus, Aldebertus filiique
corum firmaverunt. Guido firmat, Adalais uxor eius firmavit. Miro, Guillelmus, Gaue-
fredus, Petrus Autrigus firmaverunt... Isnardus de Niozelas firmat (6). Nous trou-
vons son nom en 1062 dans la donation du monastère de S. Véran faite par Raim-
(1) IorreDI, Nic. Civitas, p. 160. Ce document se trouve dans l’histoire des A. M. du P. Fournier.
(2) Cart. de S. Victor, 800. Trigance se composait de trois hamaux de St. Jeannet, Castrum
de Balma S. Johannis, de la Gaude, et d'un chAteau maintenant ruiné qui porte le nom de Trigance
V. Dict, géogr. du Cart. de Lérins.
(3) « Locum in comitatu Sisterico situm territorio castelli quod, nominatur Forcalcherium in
« honore Sancti Promasii consacratum » (Cart. S. Victor, n. 659).
(4) Gerard a été élevé au siége de Sisteron par le pape Nicolas au Conseil d’Avignon en 1055.
Cfr. Cart. de S. Victor, n. 680.
(5) Barbara, en face de Courthezon.
(6) Cart. de S. Victor, 793.
Serie II Tom. XXXIX. 41
322 E. CAIS DE PIERLAS
bald et ses fils, pour la part qui le regarde; après leur signature se trouve celle de
Miron; Milo frater ejus firmavit (1). Il ne porte pas ici la qualification de vicomte.
Finalement en 1067, époque où Miron devait ètre très vieux, il signe avec son
frère Rostaing à la donation des dîmes de Val de Bloure et des autres villages de la
Tinée par Rostaing fils de Rainard (2).
Depuis cette époque il ne se retrouve plus à Nice, où onn’a pas de trace de
sa descendence, mais il y aurait toute raison de supposer qu’après avoir exercé l’au-
torité vicomtale à Sisteron, où il devait aussi posséder de grands biens allodiaux, il
ait cédé le pouvoir à ses enfants qui auraient fini par s POmpenai de toute l’autorité
comtale et féodale au détriment de An
En effet, vers 1075, on trouve à Sisteron, Pierre, Pons, Rostaing, fratres et .
domini Sistarici, lesquels après avoir do de leur pouvoir contre l’évéque, lui en
firent amende honorable: recognoscentes mala et facinora quae fecimus contra Deum
et sanctam ecclesiam matrem nostram sedem Sistaricensem. . .. . et contra episcopum
et canonicos.. ... recepimus terram nostram et honorem quem habemus vel habere
debemus in Sistarico per manu Gerardi episcopî et ecclesiae, et iuramus illi vitam
et membra sua in castellum quod habemus in Sextiron. Item autem episcopus red-
didit eis vicem de sacramento quod non tollat eis castellum, neque homo, neque
femina, per suum consilium vel per suum consentimentum (3).
Le premier de ces seigneurs de Sisteron (si le document est sùr) peut s’identifier
avec le Petrus Milo qui signe, vers 1040, une donation à S. Victor avec Pontius
Milo (4). Son nom est précisément précédé par celui d’un personnage qui porte le nom
de Aostagnus de Stisterone, qui serait le troisième frère (5). Ce dernier en 1030 signe
Rostagnus de Sestaro dans les mèmes actes avec Rostagnus fils de Laugier, qui serait
dès lors son cousin germain (6); en 1036 il signe Rostagnus de Sistaro au Fraxinet
avec les vicomtes de Marseille (7); puis vers 1050 une dernière fois (8).
XIV.
Les fils de Laugier et les autres seigneurs de Vence.
Les fils de Laugier, qui furent Raimbald, l’evéque Pierre et Rostaing possé-
dèrent le comté de Vence, avec deux autres frères Lambert et Amic, que nous voyons
nommés dans des actes ayant la date fire de 1012 et 1016 (9). Les droits qu'ils
(1) Cart. de Lérins, 142 et 347.
(2) Cart. eccl. cath. Nicensis, 9.
(3) Ex libro viridi. (Gallia C., vol. I, p. 89).
(4) Cart. de S. Victor, 41.
(5) Id., 4413.
(6) Td., 455, 659.
(7) Id., 592.
(8) Id., 675.
(9) Cart. de Lérins, p. 146 et 151.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 328
paraissent posséder en commun, soit à Vence, soit dans les principales terres du comté,
prouvent que c'était deux branches d’une m@me famille. Les chartes qui les regardent
et qu'on trouve au cartulaire de Lérins commencent par une notice écrite par le moine
Guillaume Truand, sur l’ordre de l’abbé du monastère. D'après la narration qui s’y
trouve, ce serait en 1044 que Durand, abbé de S. Eusèbe d’Apt, ayant ét6 appelé
au siège épiscopal de Vence, amena avec lui un de ses moines du nom de Pons. Ils
trouvèrent sur les bords du Loup l’église de Notre-Dame de la Dorée, ancien mona-
stère édifié et doté par Charlemagne, réduit en ruine et abandonné, ainsi que l’ora-
toire de S. Véran, auquel ils n’arrivèrent qu’en se frayant un passage au milieu de
la forèt. Ils rétablirent cet ancien monastère et le mirent sous l'égide des seigneurs
de la région, Raimbald et Lambert (1). Cette notice composte en 1055, si elle n'est
pas apocryphe, doit contenir des erreurs de date dues au copiste.
Etienne évéque d’Apt dont on parle, n’a siégé qu'après l’année 1010 (2); l’abbé
Durand n’a été élu au siège de Vence que vers 1034 (3). Il faut donc fixer A cette
dernière époque le rétablissement du monastère de Saint Véran, ce qui concorderait
pleinement avec les données des autres chartes de Lérins. Cependant on serait tenté
d’ admettre la date du 1005, par la raison qu’un autre document parle vers 990
d’un Amic seigneur de Palaison. Les deux éditions du cartulaire fixent cette date, parce
que c'est alors que Garnerius mentionné dans l’acte (4) aurait été, selon Barralis, abbé de
Lérins. C'est ce point que nous serions très disposés à mettre en doute ; en effet il
est question de ce mèéme abbé Garnier à propos de la monacation d'un Guillaume (5)
d’Antibes qui donne à Lérins des biens à Arluc et à Mougins (6); aussi ici les deux
éditeurs établissent la date de 990, à cause de cet abbé de Lérins, mais comme
on trouve parmi les signataires de cet acte Pierre fils de Guillaume d’Antibes et Alde-
bert évèque de cette ville, il ne s’agit pas du dixième siécle, mais d’une époque posté-
rieure à l’année 1022, où siégeait Bernard prédécesseur d’Aldebert. L’abbé Garnier aurait
donc été abbé de Lérins après Amalric, soit de 1040 à 1046; c’est à tort que la
note des abbés de Lérins rédigée par les éditeurs du cartulaire fait siéger Amalric
jusqu’en 1046, la dernière charte qui le regarde est de l’année 1040. Le Guillaume
qui déposa le cingulum militiae sub abbate Garnerio, est le Guillelmus miles inclitus,
qui en 1040 signe à une donation d’Aldebert évèque d’Antibes (7). C'est donc aussi
à cette époque qu'il faut mettre Amic seigneur de Palaison, qui est évidemment le
frèére de Lambert.
Les événements qu'on racconte dans la première charte du rétablissement de
(4) « Principes illius regionis... proceres terrae...(Cart. de Lérins, p. 134.
(2) Gallia C., vol. I, p. 378 et vol. III, p. 1217 — Jules TerRY, Les evéques d’Apt, p. 27, cite un
travail spécial sur Etienne par Collin de Plancy et l’abbé Daras. Grunde vie des Saints, tome XXI.
(8) L’édition du Cartulaire de Lérins par Flamare tàche d'arranger la difficulté en corrigeant la
date de la charte: millesimo quinto; mais, on le voit, la correction n’est pas suffisante et outre que
l’indication ne correspond pas, on rencontrerait encore d’autres difficultés.
(4) Cart. de Lérins, p. 415.
(5) D’après une annotation maginale faite au cartulaire au xvi siècle il s’agirait de Guillaume
Gruéta, seigneur d’Antibes, fils de Rodoard: hic est Guillelmus Grueta, filius Rodoardi comitis Anti-
politani. Cette appréciation manuscrite serait done aussi inexacte,
(6) Cart. de Lérins, p. 74.
(7) Curt. de. S. Victor, 801.
324 E. CAIS DE PIERLAS
9. Véran ce seraient passés vers 1030-1034 :on peut mème prendre la date de 1030
qui est régie par les paroles, Roc actum est; c'est dans ce temps là que les prin-
cipaux seigneurs du comté de Vence portaient les noms de Raimbald et de Lambert.
Cette digression était necessaire, car Raimbald un des seigneurs de la contrée, peut
ainsi sans difficulté s’identifier avec Raimbald de Nice, fils de Laugier et de Odila.
Ceux-ci en 1032 avec tous leurs enfants avaient donné à S. Véran de grands biens
qu'elle possédait dans le comté de Vence, sur les bords du Loup (1). Dans une do-
nation faite par Lambert en 1033 les biens qu'il donne, touchent ceux de Raimbald,
filius Hodilae (2). C'est par le conseil de Raimbald, de Lambert et d’Amic qu’en 1050
Pons abbé de S. Véran réunit son monastère à celui de Lérins (3).
De mème en 1062 Raimbald confirma à S. Véran les précédentes donations, et
il exigea que ses enfants Laugier, Raimbald et Bertrand en fissent autant. Miron son
frère a signé (4).
Seigneurs de Vence
|
| | |
Amicus Odila Lambertus
1° — Ermengarde = Foulque = Austrudis
1033 vicomte de
2° =Jauceara de Marseille
1036 Marseille
|
| (66: | | |
Pierre Guillaume Bertrand Hugues Gui Milon Foulque Guillaume Hugues Guillaume
maior
Une autre donation du 1032 regarde ces mèmes seigneurs et cette mème église.
Elle est faite par Lambert et sa femme Austrudis, Amic et sa femme. Hermengarde,
Raimbald et sa femme Gisla soit Accelena; l’acte se passe à Vence et il est contre-
signé de la manière suivante: Lambertus, Amicus, germani fratres, Raimbaldus et
Rostagnus simul fratres et uxores illorum, domnus Petrus episcopus Sistaricensis
voluit et consensit et firmavit: suit la signature de l’évéque d’Antibes, puis celle d’Ac-
celena femme de Raimbald et de ses enfants Laugier, Rostaing, Raimbald, Odila;
parmi les témoins Aicard de Saignon et Alphante, vassaux de l’église d’Apt (5). Un
autre point de contact entre les deux familles se retrouve dans la sanction que donnent
Amic et Rostaing, qualifiés de senzores, à la donation de leurs vassaux Etienne,
Guillaume, Enguerrand, qui cèdent à S. Victor l’église de S. Marie & Gréolières,
une autre église au Mas avec la juridiction, potestatem, puis l’église de S. Pierre
(1) Cart. de Lérins, p. 136.
(2) Cart. de Lérins, p. 143. Les deux fils de Lambert sont Foulque et Guillaume; deux autres sont
encore nommés à propos de St. Véran après la mort de leurs parents: ce sont Guillaume et Hugues
v. p. 154. Deux de leurs enfants portaient le mème prénom de Guillaume,
(3) Id., p. 135.
(4) « Milo fratres eius firmavit » (Cart. de Lérins. p. AU et 347).
(5) Cart. de Lérins, p. 146.
.
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 325,
«dans la vallée de Touranne près de (Gréolières (1). Nous verrons plus tard les de-
‘scendants de Rostaing, frère de Raimbald, portant le titre de G@réolières.
Raimbald et Amic possèdent encore la coseigneurie de la Salette de Saraman
sur les bords du Var; ce dernier avec sa seconde femme Hiauceara (2) en donne le
quart A S. Victor en 1041 (3). Outre les biens que les deux familles de Nice et de
Vence possèdent en commun, celle-ci a encore part avec d’autres familles au fief de
Palaison (4); en 1028 c'est Amic, sa femme Hermengardo et leurs enfants Pierre et
Guillaume (5); de 1033 a 1042 c'est Lambert et sa femme Austrudis (6). Pareille-
ment en 1037 Lambert et Amic possèdent d Gattières sur les bords du Var (7).
Lambert possède pour son propre compte d'importantes seigneuries qu'il a eu par
-sa femme, qui, nous le verrons, était fille de Guillaume vicomte de Marseille.
Nous devons maintenant faire remarquer une singulière coîncidence de noms qui
.s’observe à cette époque: ce sont ceux de Lambert et d’Austrudis qui sont portés
dans deux familles différentes, celle de Vence et celle de Cucurron. Les documents
qui parlent de cette seconde famille remontent à l'année 1017, où nous trouvons
Lambert et sa femme Austrus qui donnent à S. Victor un manse dans le territoire
de Cucurron (8). Deux années après Lambert ne vivait plus, puisqu'en 1019 ce sont,
le fils Guillelmus de Cucurrone et sa femme Prodeeta, qui prennent part è la do-
nation faite par Pons archevèque d’Aix des églises situées à Touryves et à la Gayole (9).
Ce Lambert avait eu la haute dignité de juge, d’après la qualification portée par son
fils Guillaume de filius quondam Lamberti iudicis, dans une charte regardant Tour-
ves (10). Guillaume n’était pas fils d’Austrudis, mais de Léogarde (11). Il possédait
dans les environs de Brignolle des domaines en commun avec les familles de Baux et de
Rians (12); il est seigneur de la 4 de Gayole (13), dont les comtes de Provence Ber-
trand et Geoffroi possèdent le }4 (14). Austrudis a deux fils: 1° Gerin, soit Gelenus
Adaltrudis quondam filius, lequel donne des manses à Cadenet et à Tourves; Waillelmus
frater ejus firmavit, Prodecta firmavit (15): 2° Dominus Leufredus ‘et dominus
Gelenus frater eius (16).
Cette famille de Cucurron qui a pour tige Lambert, se dessine assez nettement
(4) Cart. de S. Victor, 788.
(2) Le double mariage est prouvé par la donation faite en 1036 à St. Véran du manse de Uscla,
Veneris par Amic et sa femme Janceara pro redemptione anime uxoris mee Ermengarde. (Cart. de
Lérins, p. 148).
(3) Cart. de S. V., 791. Le vicomte Bérenger d’Avignon possède l’autre quart qu'il a par sa femme
«sceur de Raimbald, Id. 790.
(4) Ancien chAteau près de Roquebrune, canton de Fréjus,
(5) Cart. de S. Victor, 561.
(6) Cart. de S. Victor, 556, 558 et Cart. de Lérins, p. 15.
(7) Id., 789.
(8) Canton de Cadenet, arr. d’Apt. (Cart. de S. Victor, 313).
(9) Cart. de S. Victor, 325.
(10) Id., 324.
(44) Id., 320, 324, 322, 323.
(12) Id., 368.
(13) Id., 354,
(44) Id., 354 et 333.
(45) Id., 323.
(16) Id., 312.
326 E. CAIS DE PIERLAS
par les chartes que nous avons indiquées, mais le doute renait en examinant d’autres
documents qui contiennent les noms de Lambert et d’Austrudis. Ainsi en 1004 on
trouve Lambert qui est témoin à la donation de Guillaume I vicomte de Marseille
pour des biens situés à Campagnes (1); parmi les signataires se trouvent deux filles
du vicomte, Austrus (2) et Léogarde. A quelle des deux-familles appartient ce témoin?
On ne saurait trouver une réponse satisfaisante. Pareillement on sait que vers 993 la
terre de Cadière a ét6 usurpée sur l’abbaye par les vicomtes de Marseille (3); or
nous trouvons en 1048 Lambert et Austrudis qui donnent le % de cette terre en
gage aux moines de S. Victor, les autres %, leur appartenaient pour la somme de
180 sous que l’abbé Isarn leur avait prété (4). A quelle des deux familles doit-on
attribuer ce seigneur de Cadière? Dans ce second cas la réponse n’est pas douteuse :
c'est aux seigneurs de Vence, car Lambert de Cucurron ne parait plus dès 1019 et
en 1038 on parle de lui comme déjà décéde.
Ce fait ainsi établi, on en deduit des corollaires très importants : 1° Austrudis
femme de Lambert de Vence était de la famille vicomtale de Marseille, puisqu’elle
possédait la quatrième partie du fief de Cadière; 2° Lambert de Vence était frère de
Odila, mariée à Foulque vicomte de Marseille; il est question d’eux dans une belle
charte des archives des Bouches-du-Rhòne, par laquelle Foulque et Odila de Marseille
confirment et donnent, ad fidelem nostrum Lambertum fratrem nostrum, les droits
qu’ils possédaient à Mazaugue , à Tourves et à Sclans (5); ce document ne porte
pas de date, mais on peut le fixer vers 1040, par les noms des témoins, Poncius de
Garda et frater Esdras, Bermundus de Mirollo, Landebertus Adalbertus, Guillelmus
vicecomes et uxor Stephana, Guillelmus Juvenis (6). De la mème manière une charte
du cartulaire de S. Victor (7) énumère les villages donnés par Odila de Marseille
et lui appartenant iure hereditatis paterne: !|, de Rougiers (8), l’autre quart ap-
partiendra, vie durant, à son mari, !/, de Za Gayole (9), le meilleur manse de Fe-
lines (10), 3); de Maussane (11), deux manses à Mazaugue (12): est signé Lam-
bertus frater Odila et, comme on voit, ces biens paternels comprennent des villages
dépendant des biens héréditaires de la famille de Vence; quant à la date du docu-
ment, contrairement à l’opinion des éditeurs du cartulaire qui la fixent à 1060, c'est
à vingt ans en arrière qu'il faut la supposer, à cause de Pontius de Garda et Esdras
frater cius (13). Nous ajouterons encore à propos de Lambert qu'il ne devait pas
(1) Cart. de S. Victor, 71.
(2) Id., 69. Astrude filia sua, a. 1001.
(3) Id., 77.
(4) Id., 78. ;
(5) Nous devons aussi la transeription de cette charte è l’obligeance de Mr. Louis Blancard archi-
viste des B. du Rh6ne. Document XIII.
(6) Cart. de S. Victor, 109, 368, 447, 623, 534, 1065.
(7) Cart. de S. Victor, 109. Jure hereditatis paterne.
(8) Arr. de Brignolle, canton de S. Maximin.
(9) Canton de Brignolles, com. de Tourves,
(10) Arr. d’Aix, canton de Peyrolles, com. de Puy S. Réparade.
(11) Arr. d’Arles, canton de St. Remi.
(12) Arr. de Brignolles, canton de la Roquebrussane.
(13) Cart. de S. Victor, 447, 109.
LE XI SIÈECLE DANS LES ALPES MARITIMES 927
avoir la seule juridiction féodale sur Vence, mais la vicomtale: en 1038 il est nommé
comme Lambertus Vinciensis dans un acte des comtes de Provence (1).
En finissant ce chapitre nous devons émettre deux ipothèses, la première qu'il
serait possible que Austrudis de Marseille eut épousé successivement les deux seigneurs
portant le mème prénom de Lambert, Lambert de Vence ne se trouvant marié avec
elle qu’en 1030 (2); ensuite que Lambert de Cucurron, qualifi6 de juge, pourrait bien
étre le frère de Boniface de Reillane, qui en 1012 restituait Pertuis A l'abbaye de
Mont Majour, et par conséquent fils d'autre Lambert et de Galburge (8); celui-ci
serait le Lambertus iudex nommé vers 965 dans une charte de S. Victor (4). Nous
croyons cela, en voyant les seigneurs de Cucurron posseder ce village et celui de Ca-
denet au nord de la Durance non loin de Pertuis, et aussi en trouvant en 1062,
dans un acte relatif aux monastères de S. Véran et de Lérins (5) la signature d'un
Gerenus de Reilana, qui sera probablement le Gelenus de Cucurron, et celle d’Isnardus
de Relana: l'objet de la donation, le donateur, les noms des témoins, sont un autre
point de rapprochement entre les seigneurs de Vence, de Cucurron et de Reillane. Il
nous semble qu'on puisse en déduire, comme assez probable, la communauté de race.
XV.
Raimbald de Nice.
Nous avons examiné dans le chapitre précédent Raimbald seigneur de Vence,
nous allons maintenant parler de ses relations avec des régions plus éloignées.
En 1046 Raimbald réside è Courthezon, près d'Orange, avec sa femme Accelena
et leurs enfants Laugier, Pierre, Rostaing, Raimbald; il donne à l’abbaye de S. Pons
«deux manses au Revest, in villa quae Revestis dicitur. Nous trouvons de nouveau
parmi les témoins Aicard et Alphante et en sus le nom d’Arnulphe d’Èze et de Guil-
laume d’Orange (6).
Gioffredo suppose avec raison que ce Raimbald soit le fils de Odila, à cause que
tout en se trouvant dans le comté d'Orange il fait largesse A l’abbaye de S. Pons de
possessions dans le comté de Nice; nous remarquerons de notre còté, pour donner plus
de poid è cette assertion, que les deux témoins Aicard et Alphante ont déjà signé
(41) Cart. S. Victor, 447.
(2) Id:, 599.
(3) Gallia C., vol. I, p. 509.
(4) Cart. de S. V., 29.
(5) Cart. de Lérins, p. 347. Les éditeurs ont fautivement derit Railana. D’autres erreurs ce sont
glissés dans cette charte, ainsi il faut lire Raimbaldo ac Laugerio, il faut ajouter Aicardus firmavit,
séparer les deux noms Raimundus et Guislabertus par firmavit, réunir Rolannus Truannus qu'on a
séparé par firmavit.
(6) GrorrreDo, Storia A. M., p. 635.
328 E. CAIS DE PIERLAS
deux fois à Vence, d'abord pour un acte de Laugier, ensuite pour un acte de ses
enfants; ensuite nous observerons le nom d’Arnulphe d’Èze, celui de sa femme et des
‘enfants, qui, à l’exeption de Pierre, sont les mèmes que dans les chartes de Vence.
Les enfants de son premier mariage sont Laugier qui aura le surnom de Roux,
Pierre qui deviendra évéque de Saignon, Rostaing Raimbaldi et peut-ètre Raimbald.
Raimbald après 1046 devient veuf et se remarie avec Belieldis; il donne avec
son ‘concours la moitié de Saraman son aleu, en ajoutant: sed meam medietatem de
ista ‘medietate debeo deliberare de sororio meo, si possumj; si vero non potuero, va-
lentem illum dabo in alio loco; il donne encore un manse à Cagnes avec le con-
cours de son frère l’évèque, Petrus episcopus frater eius firmavit, et de Rostaing son
autre frère, Rostagnus frater eius firmat (1). Le beau-frère dont il s’agit dans cette
‘donation de Saraman est Bérenger, d’abord vicomte de Sisteron, puis, à ce qu'il paraît,
d’Avignon; il avait en effet épousé Gerberge et du chef de sa femme il possédait un
quart de Saraman, d’après l’acte passé à Avignon en 1040, par lequel il donne cette
partie du fief: et obvenit nobis ex progenie parentum uxoris meae praescriptae (2).
On voit dans ce document la signature de leurs fils Bérenger et Rostaing. Ce dernier
devient évèque d’Avignon, Rostagnus episcopus filius Berengarti vicecomitis, et vers
1075 il donne à Saint Victor une condamine, apud Fornicalcarium castrum... ..
quam Miro quondam avunculus meus dederat, pro qua et equum et ensem precio LX
solidorum acceperat a monachis prescripti martiris, quam iterum iniuste possessam,
Berengarius frater meus reddidit pro salute animae suae. Ego vero metuens post
mortem fratris mei Berengarii possidere dictam condaminam, etc. Signent la com-
tesse de Provence, Gerberge mère de l’évéque et ses fils Guillaume, Raimond, Lau-
gier, Rostaing; Bérenger l’aîné, comme on le dit dans la charte, était déjà mort (3).
Une charte du Gallia nous répète les noms de Bérenger, de sa femme Gerberge, de:
leurs enfants, Rostaing évèque d’Avignon, Bérenger et les autres frères, dans un acte
passé en 1063 à Avignon. Sont témoin Rostaing, Guillaume, Laugier vicomtes, ainsi
que Rostaing et Raimond fils du vicomte Guillaume (4). Tous ces vicomtes devaient
avoir cette charge pour le comte de Provence et pour l’évèéque d’Avignon et ils doivent
avoir reussi à s'emparer des droits de l’église, car en 1101 nous trouvons Rostaing
Bérenger, sa femme Hermengarde, leurs fils Bérenger évéque de Frejus, Geoffroi vi-
comte, Bertrand, Raimond et Pierre Bérenger (5); puis en 1116 Bérenger fils de
Bérenger vicomte d’Avignon qui préte hommage à la comtesse Adélaide veuve d’Er-.
mengaud d’Urgel pour trois quarts des chàteaux de Forcalquier' et d’Avignon; l’autre
quart appartenant è Bertrand comte de Toulouse et du Venaissin fils de Raimond
de S. Gilles (6). Ces différents vicomtes devaient représenter l’autorité comtale des diffé -
rents comtes qui s’étaient partagé la suzeraineté de la Provence.
(1) Cart. de S. Victor, 799. L'annotation du cartulaire fixe la date de ce doc. vers 1040, mais il
faut la transporter après 1046, car à cette dernière date sa femme était encore Accelena, d'apròs le
document de Gioffredo que nous avons cité plus haut.
(2) Cart. de S. V., 790.
(3) Cart. de S. V., 664.
(4) Gallia C., vol. I, p. 120
(5) Gallia C., vol. I, p. 140.
(6) Arch. de Marseille, 2717.
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 329
Nous retournerons maintenant à Raimbald, en disant que les documents que nous
venons de citer prouvent que Gerberge vicomtesse de Sisteron était soenr de Miron et
de Raimbald. Ce dernier effectuait plus tard la promesse qu'il avait faite de racheter
le quart de Saraman possédé par son beau-frère ou d'en compenser le monastère, en
donnant (après 1047) (1), avec sa troisiàème femme Adélaide plusieurs possessions, pro
. alia quarta parte supradictae villae, quam non potui deliberare; ce sont un manse
et une vigne à Cagnes, un autre manse à Nice cultivé par Pierre Colomb, un manse
des meilleurs qu'il possède dans le comté de Sisteron à Consonave (2), finalement après
sa mort le castrum quod vocatur Lac in comitatu Nicensi, avec toutes ses dépen-
dances (3). Ce chàteau, qui dans la rubrique de la charte est intitulé de Laceto in
comitatu Nicensi, est celui dont il est fait mention dans notre cartulaire (4); il se
trouvait à còté de la Turbie, près de la località où a été édifié le sanctuaire de Laguet.
1010-1032 BERENGER vicomte
= Gaberge
Rostaing Bérenger Guillaume Raymond Laugier
éveque 1055 vicomte de Sisteron vicomte
d’Avignon = Accelena
1101-1106 Rostaing Bérenger | |
= Ermesinde ;
Î Rostaing Raymond
Bérenger Geoffroi Bertrand P. Bérenger
éveque de Fréjus
S'il est donc de toute évidence que Gerberge fille de Odila a épousé un vicomte
de Sisteron de la famille de Bérenger, il est aussi très croyable, àè cause du mème
fief de Saraman, dont en 1041 Amic possédait le quart avec sa femme Hiauceara,
que celle-ci soit la sceur de Gerberge (5). C'est dans cette charte de 1041 que nous
trouvons parmi les tèmoins un Leodegarius de Nicia qui doit ètre Leodegarius Rufus,
fils aîné de Raimbald. De son deuxième mariage avec Belieldis Raimbald doit avoir
eu deux enfants dont nous trouvons les noms dans la charte de donation, faite vers
1070 par Laugier,. le fils aîné, de la moitié d’Albasagne et de Sainte-Marguerite à
l’évéque de Nice (6): ce sont Amicus frater et Willelmus frater, qui se trouvent
(4) Le Cart. de S. V. dit en 1045, maia il s’agit d’une époque postérieure à 1045 à cause qu’Adé-
Jaîde est la troisiòme épouse.
(2) Mallefougasse.
(3) Cart. de S. Victor, 792.
(4) Cart. eccl. cath. Nicensis, 37, 38, 58, 100.
(5) Cart. de S. Victor, 791.
(6) Cart. eccl. cath. Nicensis, 5.
SerIE II. Tom. XXXIX. = 42
390 E. CAIS DE PIERLAS
nommés après Rostaing et Pierre évéèque, fils du premier lit. Raimbald, de son troi-
sième mariage a eu un seul enfant, Bertrand, qui effectivement se trouve nommé en 1062,
dans la confirmation faite par Raimbald de ses donations à Saint Véran (1); puis en
1073 dans la ‘donation de Drap (2).
XVI.
Les comtes d'Orange. — Opinion des historiens.
Une grande importance historique s’attache à Raimbald de Nice, car nous al-
lons essayer de démontrer qu'il est la tige directe de la famille d’Orange.
Gioffredo n’a qu’en partie cette opinion; il fait dériver les seigneurs d’Orange
d’une fille de Raimbald et d’Accelena, qui se serait appelée Tiburge et aurait épousé
un Guillaume comte d'Orange, descendant de Guillaume au Cornet premier comte
d’Orange. Ce gendre de Raimbald serait le GwiMlelmus Aurasiae, témoin dans la
donation faite en 1046 à Courthezon par Raimbald (8). Il ne cite aucun document
où il s’agisse de cette Tiburge; c'est évidemment une confusion chronologique qu'il a
commis, en mettant à la moitié du xi° siècle Tiburge, fille de Raimbald le croisé
de 1096, qui épousa un Guillaume de Montpellier, lequel devint ainsi seigneur d'Orange.
Quant à Guillaume d’Orange, nous croyons qu'il s’agisse ici simplement d’un Guil-
laume habitant d'Orange, cette ville et Courthezon étant à còté l’une de l’autre.
Guillaume au Cornet, cu au Court-nez, a été considéré tantòt comme un héros
légendaire, tantòt comme un vrai personnage historique, qu'on transportait de siècle
en siècle. Un roman a été composé sur lui par Eshenbach vers 1217 (4). Pour plu-
sieurs écrivains le Guillaume d’Orange des chroniqueurs et des trouvères du xIm° siècle
n'est autre que Guillaume fils de Boson.
Ne serait-il pas plus simple de voir en lui Guillaume de Baux, seigneur d’0-
tange, ayant effectivement porté le surnom Del Cornas, guerrier et troubadour
lui-mème ?
Les historiens Provengaux établissent généralement la filiation de la manière
suivante :
Raimbald I — Bertrand — Raimbald II.
On leur donne le nom d’Adhémar.
Quelques uns les font descendre du marquis Hugon ou du comte Rorgon au
IX° siècle.
(1) Cart. de Lérins, p. 441, 347. La transcription des éditeurs du cartulaire est fautive; au lieu
de simulque et filiis suis ac Laugerio, Raimbaldo scilicet et Bertranno, il faut lire simulque et filiis suis,
Raimbaldo ac Laugerio scilicet.. . et Bertranno.
(2) Cart. ecol. cath. Nic., 82.
(3) Gior., St. A. M., vol. I, p. 635.
(4) Revue archéologique, 1852, p. 336.
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 3831
Les Sainte-Marthe donnent pour père à Raimbald I un Géraud Adhémar, qu'ils
qualifient de premier comte propriétaire d’Orange.
L'important ouvrage de Hubner, Gencalogie historique des roîs, ducs et comtes de
Bourgogne, fait descendre les comtes d'Orange d’un Guillaume au Cornet duc de
Toulouse au 1x° siècle, qui aurait enlev6 Orange à Thibaud chef des Sarrasins et fondé
ensuite l'abbaye de Saint-Guillaume le désert: un Géraud Adhémar aurait 6t6 père
de Raimbald I.
Le nom d’Adhémar, qui est généralement donné à ces premiers seigneurs d’0-
range, se trouve, il est vrai, dans un document du Gallia (1). C'est le consentement
prèté vers 1107, par Geraldo Adhemario Aurasiae principis, cum totius populi
Aurasicensis concione, è l'élection de Bérenger chanoine de Saint-Ruph au siège
d'Orange, qu'on rendait ainsi indépendant du diocèse de Saint-Paul-trois-chàteaux, sur
la demande que venaient d’en faire les délégués du clergé d’Orange au pape Pascal II.
Qu’on nous permette ici d’exprimer un doute sur l’authenticité de ce document,
doute qui se présente à l’esprit en voyant ce titre de Princeps donné à Giraud
Adhémar vers une époque où Orange n’était certes pas principaute et ol ce mot ne
se rencontrait déjà plus pour indiquer la personne tenant le premier rang dans une
ville ou dans un village; du reste, le style de toute la charte ne correspond pas è
l’époque indiquée. Les chartes fausses paraissent une spécialité de la famille Adhémar
de Monteil; ainsi dans le cartulaire de Montélimar (2), on en trouve plusieures dont
les principales portent les dates de 790, 830, 833, 1198, 1201, 1226, 1228, 1237;
dès le 1x siècle on y trouve un Giraud Adhémar de Monteil portant les titres de
duc de Gènes, de vicomte de Marseille et de baron de Monteil. La première charte
sùre qu'on rencontre contient le diplòme du 12 avril 1164 de l’empereur Frédéric
Barberousse à Giraud Adhémar de Grignan, par lequel il lui accorde le privilège de
relever directement de l’empire pour les terres dont il lui fait hommage et qui appar-
. tenaient à son père et à son aieul (3).
Selon Dom Martène (4) ce Géraud Adhémar aurait pris part aux querelles reli-
gieuses qui eurent lieu dans ce temps-là entre le pape Pascal II et l’empereur Henri;
Bérenger évèéque d’Orange très attaché au Saint-Siége aurait éprouvé la vengeance de
Géraud Adhémar favorable à l’empereur.
Il cite une lettre adressée vers 1115 par Athon archevéque d’Arles à ce sei-
gneur; il se réjouit avec lui de ce qu’après avoir subi de grands revers il a finale-
ment remporté une victoire sur ses adversaires, il déplore pourtant d’avoir appris
qu’à la téte de ses soldats il a envahi les églises d’Orange, les a détruites de fond
en comble, a maltraité le clergé, s'est emparé de leurs biens (5).
Ce document nous paraît prouver que ce Gérald Adhémar n’était pas le seigneur
d'Orange, puisqu’il envahit et détruit ses églises; c’est un épisode sanglant d’une
(4) Gallia Christiana, I, p.772 et instr., p. 431.
(2) CarvaLier, Cartulaire Municipal de la ville de Montélimar, de pag. 6 è 18, ete.
(3) Id., pag. 19.
(4) MartÈèNE, Amplissima collectio, vol. I, praef., p. xLv.
(5) « Homines enim tui omnes ecclesias fere civitatis invaserunt, inter quos sacrilegos particeps
« imo caput et princeps exhibisti » (Id., p.634).
332 E. CAIS DE PIERLAS
guerre de religion qui s’accomplit là, peut-ètre c'est en mème temps une vengeance per-
sonnelle contre ses ennemis. En effet, avant l’invasion de Gérald Adhémar, si ce
personnage a réellement existé, Orange appartenait à une comtesse Adelaide:
nous le prouvons par le diplome d’Idelphonse de Toulouse (1), qui en 1126,
sur la demande que lui a adressé l’évèéque Bérenger avec le consentement de
Raimbald fils de Tiburge, assensu Tiburgae filii, Raimbaldi, a restitué è l’église
d’Orange certaines possessions, quas dpse tenuerat ante guerram et destructionem
prefatae ecclesiae.
Ces possessions avaient été données par la comtesse Adelaide mère de Raim-
bald è l’evéeque Udalric ; son successeur l’évéque. Bérenger présente au comte de Tou-
louse plusieurs témoins, parmi lesquels le fils méme d’Udalric, et le testament de la
:comtesse Adelaide :
Ostendit etiam testamentum praefatae comitissae Raimbaldi matris, multis te-
stibus corroboratum, in quo continebatur de demissione episcopalis domus..... et de
condamina quam prenominata Atalaix comitissa, assensu Raimbaldi fili sui do-
navit B. Florentio et domino episcopo.
Nous croyons donc apocryphe la première charte où paraît Adhemar prince
d’Orange.
Nous ajouterons encore que lorsque les historiens de Provence parlent des trois
seigneurs d’Orange, Raimbald I — Bertrand — Raimbald II, et qu’ils leur donnent
le nom d’Adhémar, on est en droit de s’en étonner; puisque dans aucune pièce qui
regarde un de ces trois personnages on ne trouve ce dernier nom de famille.
C'est plutòt dans la famille des seisneurs de Monteil, vassaux de la famille de
Poitiers comtes de Valentinois, peut-ètre mème issus d’une tige commune, qu'il faut
chercher le destructeur d'Orange, car c’est précisément dans cette famille de Monteil
que, postérieurement, se retrouve le nom d'Adhémar et de Gérald Adhémar tellement
répété, qu'il en devient nom patronymique (2).
Le voisinage de Monteil et d’Orange peut très bien avoir engagé les seigneurs
de Monteil à s’emparer de cette seconde ville (3); les querelles religieuses, les rivalités
de famille peuvent les y avoir poussé.
Du reste, aprés l’invasion d’Orange, au retour de la paix, nous y avons vu la
«comtesse Adélaide et son fils Raimbald; de mème plus tard aucun Adhémar n'a des
droits sur Orange, tandis qu’en 1150 Guillaume et Raimbald seigneurs d'Orange et
de Courthezon, fils de Guillaume de Montpellier-Omelas se partagent en parties
égales le comté d’Orange et les possessions dans les comtés de Nice, Sisteron et
Apt, d’après le testament de leur mère Tiburge, fille de Raimbald le croisé de
1096 (4).
(1) Gallia C., vol. I, p. 132.
(2) En 1210 Gerald Adhémar de Monteil vicomte de Marseille, vend è Adhémar de Poitiers le
‘chateau de Cliouscat, son fils Giraudet Adhémar donne son consentement. (CarvaLIER, Cartulaire de
S. Chaffre, p.38).
(3) Le 30 juillet 1178 on trouve un diplome de l’empereur Frédéric qui concède è Guillaume de
Poitiers comte de Valence et au comte Dauphin le péage quod in ea strata quae est a Valentia usque
Montilium exigitur. CamvaLIER, Inventaire des archives des Dauphins à S. André de Grenoble, p. 27.
(4) GiorrREDO, Storia A. M., vol. II, p. 72.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 393
XVII.
Les comtes d'Orange
descendent directement des vicomtes de Nice.
Après avoir examiné ce qui a été dit sur la première race des seigneurs d'Orange
nous allons exposer une série de documents, qui nous fixent les points historiques
suivants :
1° Cette seigneurie s'est maintenue dans la famille de Raimbald de Nice, fils
de Laugier, jusqu’è son petit fils direct Raimbald, comte d'Orange, croisé en 1096.
2° La femme de Bertrand, fils de Raimbald I, était Adélaide comtesse, mère
.de Raimbald II.
8° Après la croisade, Orange est passé dans la famille de Montpellier, par
Tiburge fille de Raimbald II.
4° Par Tiburge de Montpellier, Orange est parvenu à la famille de Baux.
La filiation des seigneurs d’Orange serait donc aussi selon nous Raimbald I —
Bertrand — Raimbald II.
Un des fils de Laugier et de Odila est Raimbald, dont nous avons dejà parlé.
On le trouve séjournant à Courthezon, très puissant à Nice et A Vence, très in-
influent par ses relations de famille et par les siéges épiscopaux concédés a ses parents.
Courthezon, à còté d'Orange, devait ètre une résidance féodale très importante,
la demeure habituelle des seigneurs d’Orange, car les petit-fils de Raimbald, comte
d'Orange en 1096, sont qualifiés de Courthezon et y résident.
Dans la donation de Drap faite par l’évèque Pierre, fils de Raimbald, on trouye
parmi les témoins un Hugues de Caderousse, village près d’Orange.
Gioffredo avait déjà fait la remarque des relations qui devaient exister entre les
seigneurs de Nice et d’Orange. i
Trois documents nous apprennent que Raimbald de Nice a pour fils Bertrand;
la confirmation de Raimbald pour Saint-Véran en 1062 (1); la donation de Drap
en 1073 (2); la donation de diverses terres faite vers 1078 par Bertrandus filius
Raimbaldi (3).
D’autre part nous trouvons vers 1061 un Bertrandus Aurasicensis filius Raim-
baldi; ce seigneur désirant donner plus d'importance à la ville d'Orange faisait son
possible pour obtenir du souverain pontife la restitution du siége épiscopal dont elle
avait été privée depuis longtemps.
Le pape Alexandre adresse dà Bertrando filio Raimbaldi une lettre pour l’en-
gager à cesser toute l’agitation qu'il essayait de soulever dans ce but; il lui dit qu'il
(1) Cart. de Lérins, p. 141, 347.
(2) Cart. de la cath. de Nice, 82.
(3) Id., 17.
334 E. CAIS DE PIERLAS
sait que die noctuque inde evellere studeas et separare et il lui intime de laisser
en paix Gérald évéque des deux villes: quod si non feceris, scias te et omnes
in hac causa tibi comsentientes, ex parte beati Petri et nostra excommunicatos
esse (1).
Le peuple d’Orange ne tint pas compte de l’ordre pontifical, mais réuni en as-
semblée il choisit pour évéque Guillaume. Le pape Urbain en 1095 se résigna è cette:
élection populaire, mais avec la réserve expresse que, mortuo Guillelmo episcopo
Aurasicano, nullus în eius locus eligatur, sed ecclesia ab episcopo Tricastino
regatur (2).
Cet evéque Guillaume est celui qui prit part à la croisade et mourut en Pa-
lestine en 1098 (3). i
La femme de Bertrand, qui ne porta pas le nom d’Orange mais qui en était
seigneur, fut Adélaide (4); c’est elle qui est qualifiée de comtesse.
Nous en avons aussi la preuve par la charte d’Idelphonse comte de Toulouse
de 1126, dont nous avons parlé plus haut, mais qu'il est utile d’avoir de nouveau
sous les yeux.
Bérenger évéque d’Orange, avec le consentement de Raimbald fils de Tiburge,
assensu Tiburgae filiù Rambaldi (5), avait demandé la restitution des possessions
jadis données à son église par la comtesse Adélaide mère de Raimbald, pour prouver
ces anciens droits, ostendit etiam testamentum prefatae comitissae Raimbaldi matris,
multis testibus corroboratum, in quo eontinebatur de demissione episcopalis do-
mus quam ipsa abstulerat mortuo Udelrico episcopo et de donatione condaminae
quam prenominata Atalaix comitissa, assensu Raimbaldi fili sui donavit B. Flo-
rentio et domno episcopo (6). Notre assertion paraît donc bien confirmée; mais
nous ajouterons encore une autre preuve. Adélaide est qualifiée de comtesse, tandis
que ni Raimbald I, ni Bertrand son mari ne portent ce titre féodal. S'il est attri-
bué è son fils Raimbald, c’est du chef de sa mère qu'il le tenait. Adélaide devait
donc appartenir à une famille comtale, très probablement è celle des seigneurs de
Poitiers, comtes de Valentinois, dont un membre en 1163 est qualifié de Willelmus:
Pictaviensis cognomine, officio vero Valentinus comes (11).
L'origine de cette famille remonte au comte Lambert, à la fin du x siècle,
fils de Gontard et d’Ermengarde (8); nous nous contenterons de faire observer que
ces comtes de Valentinois avaient dans leur juridiction Valence et Monteil à còté
d’Orange et qu’ils portaient dans leurs armoiries cette étoile à seize rayons devenue
(1) Recueil des historiens des Gaules, vol. XIV, p. 526.
(2) Gallia C., vol. I, p. 119. )
(3) Recueil des historiens des croisades. Historiens Occidentaua. Guillaume de Tyr, vol. I, p. 96,
291 et 365.
(4) Gallia C., vol. I, p. 132.
(5) Ce Raimbald est Raimbald d'Orange, fils de Guillaume de Montpellier-Omelas et de Tiburge,
fille de Rambald le croisé de 1096. Plusieurs historiens ont transcrit ce document du Gallia en mettant
assensu Tiburgiae filiae Raimbaldi, en faisant ainsi de Raimbald le père de Tiburge, tandis qu'il s’agit.
ici de son fils. Du reste cela ne changerait en rien notre ipothèse.
(6) Gallia C., vol. I, p. 132.
(7) CHEVALIER, Cart. de Die., p. 35.
(8) Cart. de Cluny, n. 4745 et Cart. de S. Chaffre, p.1 et 8.
LE XI SIÉCLE DANS LES ALPES MARITIMES 395
légendaire et qu'ont ensuite porté la plupart des seigneurs de Baux, après que
Bertrand de Baux au commencement du x11° siècle eut épousé Tiburge petite-fille
de Bertrand et d’ Adelaide dont nous venons de parler.
Adhémar comte de Valentinois en 1210 a un sceau avec la légende: sigillum
Adhemari comiti Valentinensis; le revers offre une étoile à seize rayons et ces mots
à l’entour: Comitis Valentinensis; il s'agit de la vente du chàteau de Cliouscat
que lui font Giraldus Ademari dominus Montiliù vicecomes Massilie et Giral-
detus Ademari son fils, neveu d’Adhémar de Poitiers; le sceau de Géraud Adhémar
a un guerrier à. cheval, la lance au poing; l’acte se passe A Monteil, in fornello
Giraldi Ademari, à la présence du comte de Toulouse (1).
Une autre pièce de 1267, regardant la mème famille, est intitul6: instrumentum
quo comes Valentini tradit in excambium Guigoni Dalphino castrum Clayraci.
Il s’y trouve un sceau avec les légendes: sigillum Aymari Pictaviensis et co-
mitis Valentinensis et Diensis; sur une face l’étoile à seize rayons, de l’autre sur
le caparagon du cheval les six besants, qui sont les armes spéciales de la famille des
comtes de Poitiers (2).
En 1215 Hugues de Baux, vicomte de Marseille, fils de Tiburge d’Orange,
porte sur le sceau d’un còté l’étoile à seize rayons, de l’autre sur le caparagon du
cheval une étoile à huit rayons (3).
En 1220 Raymond de Baux, vicomte de Marseille, porte l’étoile à seize rayons,
sur un coin on voit le cor de chasse (4).
En 1256 Guillaume de Baux, prince d’Orange, porte le cor de chasse lié, sur-
monté de l’étoile, la légende est: sigillum W. de Baucio principis Aurasie.
Vers la mème époque Bertrand de Baux, comte d’Avellino, fils de Barral de
Baux, porte sur le caparagon les armes de Toulouse et Forcalquier, mais au revers
on trouve l’étoile à seize rayons.
En 1351 Frangois de Baux, duc d’Andria, porte la méème étoile.
On voit, par ce qui précède, que toutes les branches de la maison de Baux
conservèrent cette étoile légendaire que généalogistes et pottes déclarent ètre l’étoile
des rois Mages, ancètres de la famille. i
On remarquera pareillement la possibilité que cette étoile leur soit parvenue par
le mariage de Bertrand de Baux avec Tiburge d’Orange: serait-ce donc téméraire
d’en déduire qu'elle est passé è la famille d’Orange par la famille de Poitiers?
Retournons à Bertrand fils de Raimbald de Nice.
Il doit étre mort vers 1078, car il ne figure pas dans la grande donation faite
A cette époque à l’abbaye de Saint-Pons par ses frères et ses cousins, qui par cet
acte cédèrent plus de vingt églises ou villages (5); ou bien, étant à Orange, il ne sera
pas intervenu à l’acte passé à Nice.
(4) CaevaLIER, Cart. de S. Chaffre, p. 39.
(2) VaLsonnars, Hist. du Dauphiné, p. 380.
(8) BLancarp, Zconographie des sceaua et bulles de Provence, p. 48-54.
(4) BLaNcARD; loc. cit.
(5) JorREDI, Nic. Civ., p. 164.
396 E. CAIS DE PIERLAS
Son fils Raimbald II est qualifié de comte d’Orange; il se croisa en 1095:
avec Adhémar évèque du Puy, Guillaume évèque d’Orange, Raymond de Saint-Gilles,
Guillaume de Montpellier, Isoard comte de Die (1); il eut un commandement & la
sixigme division de l’armée (2); il entra à Jérusalem en 1099 (3).
En 1108 Raimbald d’Orange, Raimbaldus Aurasicensis, vivait encore; il est
à Nice.
Lui et trois de ses cousins germains, qualifiés de Potestates Nicie, c'est-A-dire
vicomtes, accordent des priviléges à l’église de Nice sur la vente et les donations que
leurs vassaux pourront faire en sa faveur (4). Raimbald d’Orange n'était donc pas
consul de Nice, comme l’avait dit Gioffredo (5), mais seigneur de notre ville, comme
l’étaient avec lui Franco (fils de Rostaing Raimbald et d'Accelena de Fréjus), Raim-
baldus Laugerti (fils de Laugier le Roux et d’Amantia de Castellane) et Guillelmus
Assalit (probablement fils de Raimbald, frère des précédents). Raimbald comte d’0-
range et seigneur de Nice mourut vers 1121.
Nous ignorons le nom de sa femme. Tiburge sa fille épousa d’abord Geoffroi
de Mornas, ensuite Guillaume de Montpellier-Omelas, frère de Gui Guerreiat.
Ce mariage nous est prouvé par la promesse que fit en 1191 Adhémar de Mur-
vieil (6) è Guillaume de Montpellier de donner à Guillaume fils de ce dernier sa
petite-fille Tiburge (7), en lui accordant comme apport dotal tout ce que Raim-
baldus de Aurenga, vel pater eius Guillelmus de Omelacio avait possédé en
certaines régions, soit Omelas, Murvieil, Saint-Pons, etc.; si Tiburge meurt Guillaume
épousera Sibille sa sceur cadette (8).
Tiburge d'Orange eut de son mariage avec Guillaume de Montpellier-Omelas-
deux fils Guillaume et Raimbald et deux filles Tiburge et Tiburgette (9).
Guillaume l’aîné fut seigneur d’Orange et mourut en 1160.
‘ Son fils Raimbald en 1190 donnait aux chevaliers de Saint-Jean de Jérusalem
le quart d'Orange et en 1215 les chàteaux de Lardins, Gault, etc. (10). Sa fille Ti-
burge en 1180 faisait cession au mème ordre de l’autre quart d’Orange.
Raimbald fils cadet de Tiburge porta pareillement le titre d’Orange et résida èà-
(1) « Isuardus comes Diensis, Raimbaldus comes Aurasicensis, Willelmus de Montepesulano, etc. »
Recueil des historiens des croisades. Historiens occidentaux. — Guillaume de Tyr, vol. I, p. 45 et 96.
(2) « Sextae aciei..... praefecti sunt Raimbaldus comes de Oringis etc. ». Id., vol. I, p 265.
(3) « Comes Raimbaldus de Oringia ». Id., p. 352.
(4) Cars pE PrerLAS, Cart. eccl. cath. Nic., 48 et praef., p. xiv.
(5) GrorrREDO, Sf. A. M., vol. II, p. 2. Outre cette erreur de titre, notre grand historien' a fauti-
vement transcrit les deux noms en écrivant Franco Raimbaldo et Laugiero.
(6) Ademarus de Murovetere. — Il avait épousé Tiburgette sceur cadette de Tiburge, mariée à
Bertrand de Baux. :
(7) Elle était fille de Raymond Athon, son fils ainé.
(8) AcHERII, Spicilegia, vol. INI, p. 555. En 1199 Tiburge renonce à son mariage avec Guillaume:
témoin Bertrand d’Espagnet, De Hispania, etc. Id. p. 556.
(9) Dans son testament, fait en 1150, Tiburge donne è Bertrand de Baux mari de sa fille Tiburge
une condamine et divers domaines aux environs d’Orange et ‘/, de Courthezon ; elle lègue à Raimbald
son fils la ‘/, d’Orange et de Courthezon, ainsi que 1/3 de Jonquières et d’autres fiefs et de tout ce
qu'elle possède dans les comtés de Gap, Sisteron, Nice, Usez. Les deux autres tiers appartiendront è
son autre fils Guillaume et è Adhémar de Marseille mari de Tiburgette. (BartA&LEMI, Cartulaire de
la famille de Bauz, p. 10).
(10) BLancaRD, Iconographie des sceauo de Provence, p. 64.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 397
Courthezon; en 1168 il céda le chàteau d’Omelas à Guillaume de Montpellier; en
1171 il céda Murvieil aux seigneurs de ce nom; en 1178 il fit héritière sa soeur
Tiburge mariée à Bertrand de Baux. C'est un des plus anciens troubadours de Pro-
vence. Tiburgette, soeur cadette, avait 6pousé Adhémar de Murvieil.
C'est donc par 'Tiburge de Montpellier (descendante par sa mère des vicomtes
de Nice) que le comté d’Orange, à l’exception d’une partie cédée à l’ordre de
Saint-Jean, passa à cette grande famille de Baux, qui faillit réussir A enlever A la
maison de Barcelone la suzeraineté de la Provence,
XVIII.
Famille de Baux.
Les historiens Provencaux et les généalogistes qui ont parlé de l'illustre maison
de Baux, sans recourir aux divagations poétiques, ont établi comme premier person-
nage historique un Pons Iuvenis dont les vassaux, Silvius et ses fils, donnèrent en
981 certains biens à l’abbaye de Montmajor; ex donatione semioris nostri domini
Pontii Juvenis et uxoris cius Profecte et ipsorum filiù domino Ugone..... et etiam
illud im comitatu Arelatense secus castrum qui vocatur Balcius (1). Ce document,
qui a toutes les apparences de la sincérité, indique assez clairement qu'il s’agit bien
ici des ancétres de la famille de Baux. Ce Pontius Iuvenis devait éètre un bien puis-
sant personnage, car il signe avec les comtes de Provence, tellement que certains
auteurs ont cru qu'il s’agissait de leur frère.
Au milieu de l’incertitude qui règne sur les commencements de cette famille
nous allons chercher la vérité dans ce grand cartulaire de Saint-Victor, dont on ne
saurait jamais assez étudier les richesses historiques qu'il renferme.
Nous commencerons par indiquer une charte de l’année 1059 (2).
Il s'agit de la concession faite à l’abbaye de Marseille d’une église et de ses
dépendances, située au territoire d’Esparron; les donateurs y sont qualifiés de cohe-
redes, ce sont Geoffroi et sa femme Scocia et leurs enfants Guillaume et Pons; Hu-
gues et sa femme Inauris et leurs enfants Guillaume, Hugues, Pons; ensuite viennent
Guillaume le jeune, qualifié de neveu des premiers seigneurs, sa femme Aldegarde et
leurs enfants; finalement Amelius Fossanus et sa femme Garsia.
Geoffroî, nommé en premier lieu, est la tige de la famille de Rians, car nous le
trouvons qualifié de Geoffroi de Rians en 1057 dans une donation du comte de Pro-
vence (3) et dans des chartes relatives à Marignane, où nous trouvons le nom de sa
(4) Papon, Histoire de Provence, vol. II, doc, 2.
(2) Cart. de S. Victor, 267.
(3) Id., 184.
SerIE II. Tom. XXXIX. S 43
398 E. CAIS DE PIERLAS
femme Scocia (1), ceux de ses fils Guillaume et Pons et de Garsenia femme de son
fils aîné (2).
Quant à Hugues, le nom de sa femme Inauris, fille de Guillaume d’Apt et d’A-
délaide (3) de Reillane, nous prouve qu'il s'agit de Hugues de Baux père de Guil-
laume, que les documents rapportés par d’autres historiens ont déjà fait connaître.
Un breve du xi1° siècle faisant partie du méme cartulaire nous dit aussi bien clai-
rement qu'une certaine donation au Trebon, quartier d’Arles, était faite en présence
de domni Ugonis de Balcio et sue mulieris Inauris (4). Plusieurs autres chartes nous
parlent de lui (5).
N. DE RIEZ
= Adalgarde 1004
ita ia AR
| |
Heldebertus 1011 Guigo Gerenus princeps Regensis
= Stephaneta = Gualdrada = Richildis
| | |
| | | | | | | ei
Guigo Gerenus Isnardus Scocia Prodecta Dodo Isnard. Guilll Petrus’ Raym.
= Gauzfredus = Guill. de
de Rians de Cucurrone Monasterio
1019 princeps
terrae Regensis
1°= Ecila 1035 2° = Balda
|
| | | | | |
Guillelmus Rostagnus Petrus Isnardus Petrus Helena
c. 1090
Guillaume le jeune, troisitme personnage de la charte en question, est un vi-
comte de Marseille, fils de Guillaume et d’Etiennette (6); celle-ci était donc la seeur
des deux premiers seigneurs; la qualification de <uveris, le nom de sa femme et’ de
ses enfants concordent trop avec la famille de Marseille pour qu'il puisse y avoir le
moindre doute à cet égard (7). Aldegarde sa femme devait ètre soeur de Franco, vi-
comte de Fréjus (8). Amelius Fossanus est Amelius de Fos, seigneur d’Hyères.
Nous avons donc deux branches parallèles : celle des Rians et celle des Baux.
Les deux frères Geoffroi et Hugues avaient cependant un troisième frère portant
(1) Scocia était de la famille de Riez, sa soeur Prodecta était mariée à Guillaume de Cucurron
(S. V., 354,). Leur père était Guigo, mari de Gualdrade (S. V., 334. 367, 368) et frère de Gerenus,
Princeps Regensis (5. V., 613, 586 et Papon, vol. II, doc. 3; Cart. de Cluny, vol. III, 228), mari de
Richilde, et de Heldebert mari d’Etiennette (S. V., 613). Ces trois frères avaient pour mère Aldegarde
très-puissante dame qui en 100% fondait è Marseille un monastère de femmes (S. V., 1053).
(2) Carî. de S. Victor, 242.
(3) Id., 425, 657.
(4) Id., 185.
(5) Id., 174, 244, 213.
(6) Id,, 20.
(7) Id., 537, 542, 553.
(8) ld., 567.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 339
le nom de Pons. C'est ce qui résulte d'une donation faite au chàteau d’Esparron
par ces trois seigneurs, qui sont compris à trois reprises dans la mème formule, soit
dans la donation, soit dans la signature, Gauefredus et Ugo et Pontius cum uxo-
ribus swis ct filiorum suorum qui hoc donum etc., tandis qu'à la suite nous trou-
vons dans une formule séparée Franco Foroiuliense filio Francone donavit et fir-
mavit; un lien de famille plus étroit liait done les trois premiers seigneurs, ils étaient
frores (1).
L'existence prouvée de ce troisiéme frère a une très haute importance pour nous,
car nous allons la comparer avec le fragment d’une autre charte dont la rubrique
authentique du cartulaire est la suivante : Charta qua Pontius, filius Guillelmi ,
fratris Gosfredi et Hugonis, abbatiae S. Victoris largitur mansum unum in co-
_mitatu Arclatensi, in villa Marignana situm (2). Ceci en 1045. C'est le Pontius de
Rians filius Willelmi qui, en 1038, signe comme témoin à la donation des droits
de pèche faite à Marignane par Pons évèque d’Arles (3).
Deux autres chartes de 1030-1039, relatives è des biens donnés A Vances et
à Esparron, nous répètent que Pons est fils de Guillaume (4), Pontius filius Willelmi.
Il s'est marié fort tard avec Aldegarde fille de Dodon, avec laquelle il fait des dona-
tions en 1059 et 1070 (5). Pontius de Rianis Guilielmi quondam filius et mulier
mea Adalgarda. Ces deux documents nous donnent une idée de ces vastes domaines
à Septème, à Campagne, à Simiane, à Albertas, à Rians, etc,
Les chartes relatives à Pons que nous venons de citer ne prouvent pas seule-
ment que Pons était frère de Geoffroi de Rians et de Hugues de Baux, mais elles
nous disent que leur père s’appelait Guillaume.
Il paraît donc probable que les généalogistes (6) ont été dans l’erreur en croyant
que Hugues, fils de Pons Iuvenis, était le mari d’Inauris ; il faut ajouter un Guil-
laume entre les deux Hugues.
Le cartulaire de Lérins nous répète le nom de Guillaume II, fils de Hugues de
Baux, dans une notice qui nous apprend que Bermond, prieur de la Cappe, et Rai-
nald, prieur d’Adau, en 1110 donnèrent è cens à.certains habitants d’Arles les
maisons de Fracte, que GuiMlelmus Hugonis et son fils Raymond de Baux avaient
jadis concédées à l’abbaye. Sa femme s’appelle Vierna (7). D'autres documents de
Lérins ont trait à Raymond de Baux pour l’investiture faite en 1113, par le comte
de Toulouse, des hommes et des droits féodaux situés dans la Camargue (8).
Raymond de Baux, comme les principaux seigneurs de Provence, avait été en
Palestine; nous le trouvons en 1106 à Mont Pellegrin présent à une donation
faite a l’église du Saint-Sépulchre de Jerusalem par Guillaume Jourdain comte de
(4) Cart. de S. Victor, 268.
(2) Id., 240.
(3) Id., 219.
(4) Id., 1063, 277.
(5) Id., 1077, 256.
(6) Le Baron du Roure dans sa docte monographie de la famille de Sabran, pag. 75, dit aussi
que Geoffroi de Rians, mari de Scocia, est fils de Pons Juvenis.
(7) Cart. de Lérins, p. 267.
(8) Id., p. 253.
340 E. CAIS DE PIERLAS
Toulouse (1). Nous trouvons aussi en 1116 Raymond de Bale témoin à un acte d’ar-
bitrage passé è la présence de Raymond Bérenger, comte de Barcelone et marquis
de Provence, entre l’abbaye de Saint-Victor et les vicomtes de Marseille (2).
Famille de Baux
981 Pontius Juvenis (3)
981 Hugues
+ ce. 1016 Filo,
1017 Geoffroi de Rians Hugues de Baux 1031 Pons de Rians 1031 Etiennette
1059 =Scocia de Riez Inauris d’Apt 1045 = Adalgarde 1070 = Guillaume
vic. de Marseille
1042 Guillaume 1058 Pons Guillaume Hugues Hugues Pons Guill, le jeune
= Garsenia = Etiennette 1110 = Aldegarde
| 1070 = Vierna
4 1106 Raymond 1121
Pons Guillaume Hugues 4150 = Etiennette de Provence
1113-1116 1079-1103
Guillaume ;
1156 Hugues Guillaume Bertrand Gilbert
Sutil
= Tiburge
de Montpellier-Omelas
d’ Orange
|
|
N | |
Adelmodis Tiburge Guillaume del Cornas Bertrand 1182 Hugues
Rostaing 1° — Lambert Troubadour. Prince d’Orange Seig. de Berre vicomte de Marseille
de Sabran Adhemar de Monteil 1193 + 1218 duc d’Andria = Barrale de Marseille
2° = Giraud Amie = Ermengarde de Sabran ‘1193-1220
Seig. de Thor.
et ChAteauneuf 1198-1212 |
Guillaume Raymond Bertrand Raimbaud Frangois Barral Raymond
(1) BruenoT, Assises de Jerusalem, p. 480.
(2) Cart. de S. Victor, 805.
(3) Une charte de Montmajour de l’année 974, publiée par D. Chantelou et dernièrement par
M. Blancard (Mém. de l’Académie de Marseille, juillet 1887), a pour premiers témoins Pontius
Juvenis firmavit, frater Lambertus firmavit ; ce dernier pourrait ètre Lambert, tige de la famille de
Reillane et de celle de Cucurron dont nous avons parlé (V. supra, pag. 43); il est qualifié de nobilis-
simus vir, judex videlicet Lambertus, dans un document du charrier d’Arles publigé par M, Blancard
(Mém. de l’Académie de Marseille, mars 1887).
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 341
L’importance de la famille à cette époque était telle, que Raymond épousa
Etiennette, fille de Gilbert comte de Provence et de Gerberge (1), qui, selon nos
historiens les plus sùrs, serait la sceur mème de Douce, mariée à Raymond Bérenger,
comte de Barcelone.
En 1145 l’empereur accorda à Raymond de Baux et à Etiennette le droit de
battre monnaie et leur donna l’investiture de ce que possédait leur père Guillaume
Hugues (2).
Par le mariage avec Etiennette dérivèrent les droits de la maison de Baux sur
le comté méme de Provence et la guerre qui en fut la conséquence, d’abord avec
Bérenger Raimond, puis, à la mort de celui-ci, avec Raimond Bérenger II. Les sei-
gneuws de Provence se partagèrent en deux camps. Les seigneurs de Rians, très
puissants, aidèrent leurs cousins de Baux; nous en trouvons mention dans une charte
de Saint-Victor de 1156 où il est dit: usque dum ipse Guillelmus de Rians et
alii nobiles moverunt guerram contra comitem Berengarium Raimundum (3).
La paix allait se conclure en 1150, lorsque Raymond de Baux mourut à Barce-
lone. Etiennette et ses fils Hugues, Guillaume, Bertrand et Gilbert essayèrent de recom-
mencer la lutte; mais ils durent bientòt se rendre A la merci de leur adyersairé et
se constituer prisonniers. Ils durent renoncer à leurs prétentions d’'héritage au comté
de Provence, en reconnaître la suzeraineté sur Arles et Portaldose et se déclarer ses
vassaux pour le chàteau de Trinquetaille d’Arles; ils remirent entre ses mains plu-
sieurs chàteaux, parmi lesquels celui de Trans (4), et délivrèrent de leur serment tous
les seigneurs de leur parti. De nouveau en 1156 (5) la guerre recommenga, mais les
Baux eurent le dessous et un traité de paix fut conclu par la médiation du comte
de Toulouse, de la vicomtesse de Narbonne, de l’archevèque d’Arles et de plusieurs
autres seigneurs. Les conditions furent encore plus rigoureuses pour les yaincus, qui
durent, depuis lors, se considérer définitivement comme vassaux de la couronne de
Provence (6).
En 1162 les comtes de Provence recevaient l’investiture de l’empereur Frédéric,
qui annullait les deux diplòmes d’inféodation de la Provence, accordée jadis par Con-
rad et Frédéric lui-mème à Hugues de Baux (7).
Bertrand, fils d’Etiennette de Provence, épousa Tiburge d’Orange, descendante
des comtes de Montpellier et des yicomtes de Nice, seigneurs d’Orange et de Sis-
teron; c’est ainsi que passèrent dans la famille de Baux soit le comté d’Orange,
qui prit peu après le titre de principauté, soit les possessions dans le comté de Nice,
comme nous en avons la preuve dans un article du polyptyque des comtes de Provence,
où nous trouvons que le chàteau de Contes: fuit dominorum de Baucio et illud
castrum cum quibusdam aliis fuit obligatum dominis de Castronovo ut continetur
(4) Arch. de Marseille, 279.
(2) Papon, vol. ]l doc. p. 14.
(3) Cart. de S. Victor, 950.
(4) Arch. de Marseille, 279, 280.
(5) Loc. cit., 278, 282.
(6) Loe. cit., 289.
(7) Loc. cit., 285.
942 E. CAIS DE PIERLAS
in notula Raymundi Teri (1) pro V" VII° solidos; postmodum, transacto magno
tempore, venit. Gruillelmus de Baucio, qui ivit in Sardeniam nomine suorum et
aliorum dominorum de Baucio et recuperavit castrum de Comptos et ilud vendidit
Bertrando Richerio; qui Bertrandus Richerius fuit bannitus domini Comitis per
sententiam latam a Petro Bota iudice (2) et ciusdem bona confiscavit; et tune,
elapso uno anno vel circa, dominus Raymundus Berengarius cepit. castrum de
Comptos et tenuit ct habwit bene per III annos, postmodum habwit Milo et alii
domini dè Castronovo, et mescitur ex qua causa (3).
Les fils de Bertrand de Baux et de Tiburge de Montpellier-d’Orange furent
Hugues et Guillaume et deux filles, Adalmos, mariée à Rostaing de Sabran, et Ti-
burge, à Lambert Adhémar de Monteil (4).
XIX.
Laugier le Roux fils de Raimbald de Nice.
Nous avons dit que Bertrand, fils de Raimbald, doit avoir pris possession du
comté d’Orange après son mariage avec Adélaide; en effet nous le trouvons deux
seules fois à Nice, tandis que Laugier, son frère, se retrouve souvent, soit comme
principal personnage, soit comme témoin à des actes importants.
Nous le trouvons portant le nom de Zeodegarius de Nica, en 1062, témoin
à la donation de la Salette de Saraman par Lambert (5).
Un peu plus tard, vers 1075, il porte le surnom de Rufus, lorsque , avec
son frère Pierre, &vèque, et avec ses cousins Raimbald et Laugier Rostaing, il fait
une très grande donation è Saint-Pons (6). Le breve de cet acte nous apprend qu'ils
donnent le village de Matos, ancienne dépendance de Saint-Pons, la moitié de Co -
(4) Notaire à Nice en 1210.
(2) En 1229.
(3) Arch. de Marseille. Le Dr. Barthelemi croit que Guillaume de Baux, dont il est question ici,
est le petit fils de Guillaume d’Orange, assassiné en 1218. Le der juin 4248 il légua par testament, au
fils qui naîtra de sa fille Galburge de Mévouillon, tous les biens qu'il possède en Sardaigne, p. 658.
(4) Nous avions déjà composé cet article, lorsque nous avons trouvé le remarquable ouvrage du
Dr. L. Barthélemi de Marseille intitulé: Inventaire chronologique et analytique des chartes de la maison
de Baux. On verra par ce qui précède que nous ne sommes pas d’'accord avec lui sur plusieurs points
qui regardent le siècle dont nous nous occupons. Il suppose en effet que Hugues de Baux soit fils de
Pons le jeune et de Profecta, il dit aussi que Hugues est mort vers 1060; on a vu qu’il prend part
en 981 è la donation de son père; la chronologie ne s’en' arrange guère. Il dit aussi que Inaurs était
fille d’Artaud vicomte de Cavaillon, il ne cite aucun document è l’appui de son assertion, ainsi jusqu'à
preuve contraire notre opinion, quelle soit de la famille d’Apt, nous paraît préférable. Il donne le titre
de Clerc è Pons frère de Hugues de Baux; nous n’avons pas trouvé cette qualification dans le car-
tulaire de Saint-Vietor; nous le croyons mari d’Adalgarde, Le mème auteur parle des ancétres de Pons
et de ceux de la famille de Reillane, d’après les études du savant archiviste de Marseille M. Blancard:
espérons que ce dernier publiera bient6t les travaux qu'il prépare sur la Provence et qui seront un
véritable événement pour l’histoire du midi de la France.
(5) Cart. de S. Victor, 791.
(6) JorREDI, Nicea Civitas, p. 164.
LE XI SIÈECLE DANS LES ALPES MARITIMES 348
lomas (1), le monastère de Sainte-Marie de la Gaude avec son village (2), le village
de Saint-Blaise, Sainte-Marie de Levens et son village, Saint-Pierre de l'Escarène
et son village, l’église de Saint-Martin et son village, Sainte-Marie de Gordolon et
son village, ainsi que le manse de Gordolon, celui de Gast (3), Saint-Siméon d’On-
gran, le manse de Oira (4), les églises de Sainte-Dévote (5), de Saint-Laurent (6),
de Saint-Hospice, de Sainte-Réparate, de Cimiez, de Saint-Michel de Barbelate (7),
de Sainte-Tècle (8), de Sainte-Marguerite avec son manse, quem emerunt monachi
Sancti Ponti (9), enfin tous les droits et honneurs qui appartiennent à Saint-Pons.
Plus qu'une donation, cet acte est une reconnaissance, un diplòme de sauve-
garde; on voit que c'est presque tout ce qui constituait l’ancien comté de Cimiez
et qui avait été donné par Charlemagne à l’abbaye de Saint-Pons, comme le dit
la chronique de Lérins; c’était done une restitution, dont nous avons la preuve en
voyant les deux branches de la famille de Laugier y prendre part solidairement.
Vers 1070 Laugier, qualifié de fils de Raimbald, cédait a la cathédrale de
Nice la moitié du chàteau et territoire d’Albasagne ainsi que la moitié des villas
de Sainte-Marguerite et de Colomas. Son fils et ses frères signent à cet acte (10).
Vers 1073 en déclarant que, quondam infirmitate correptus, timore mortis, dedu-
ctus ab episcopo Raimundo in monasterio Lyrinensi, ubi tune devovi me esse
monacum, il cède à l'’abbaye de Lérins tout ce qu'il possède au chàteau de Cagnes
et dans ses dépendances, terres, moulins, port; Bertrand, son fils, prend part è la
donation (11). Une autre charte contient la notice de la mème donation; on voit
par elle que le donateur portait le surnom de Rufus, que sa part de Cagnes con-
sistait dans la moitié de ce village, medietatem castelli Canee sive de villa (12) ;
l’autre moitié appartenait peut-ètre à la famille de Lambert et Amic. Ces deux
chartes sont bien la répétition l’une de l’autre, car nous trouvons dans chacune le
fils du donateur, Bertrand, et trois t&moins identiquement mentionnés.
(1) Gioffredo croit que Collomaris, dont il est question ici, soit Colomars, au diocèse de Senez, sur
le Verdon, mais ce doit ètre Colomas de Nice, près de Bellet (v. Cart. eccl. cath: Nicensis, 5, 38 et
préf., p. XXXI).
(2) Le texte a villa; è ce propos il est essentiel d’observer que ce mot c’est transformé en village,
comme dans notre région le mot mansum est devenu massage ou masage, hameau,
(3) À Roquebillàre.
(4) Aura, Auria, Oria, près de Peille. Cfr. Cart. eccl. cath. Nicensis, 30, 39, 40, 47 et préf., p. xxx.
(9) À Monaco, qui n’existait pas à cette époque et dont le territoive Portus Monachi, appartenait
à la Turbie. V. les Documents inedits sur les Grimaldi et Monaco par E. Cars pe PrerLas.
(6) À Ere.
(7) A Falicon.
(8) Entre Drap et Peillon.
(9) Sainte-Marguerite d’Albasagne, peut-étre pròs des Sagnes du Var. V. Cart. ecel. cath. Nicensis,
2, 5, 38 et pref., p. XXxI.
(10) Cart. eccel. cath. Nicensis, 5.
(11) Cart. de Lerins, p. 153. Les éditeurs du cartulaire fixent la date de 1158 è 1199 en se basant sans
doute sur ce que l’évèque Raymond serait celui de Grasse; mais il nous paraît plus exacte d’y voir
celui de Nice vers 1073; il est du reste indiqué comme tel dans la seconde charte qui a pour objet
cette mème donation ; l’abbé Adalbert est un des deux ayant siégé de 1016 à 1101; en dernier lieu
P. de Episcopo est le témoin ordinaire des actes passes à Nice vers 1070.
(42) Cart. de Lérins, p.A41. Les éditeurs du cartulaire supposent que cette charte soit du xu sidele,
Cfr. la note précédente,
944 E. CAIS DE PIERLAS
On trouve une autre fois dans le méme recueil le nom de Laugerius Rufus;
il donne ce qu'il possède sur le territoire de l’église de Saint-Jean, situé entre
Roquesteron et Cuebris. Il a alors ‘pour fils non-seulement Bertrand, dont nous a-
vons vu le nom dans les deux chartes précédentes, mais aussi Raimbald (1).
Le nom des fils de Laugier nous met sur la bonne voie pour connaître
celui de sa femme. En effet, le cartulaire d’Apt nous apprend que Raiambaldus fi-
lius Amanciae donne à l’evèéque Laugier le chàteau de Tortamollis qui se trouve ai
milieu de Saignon, pour le repos de l’àme de ses parents et fratris mei Bertranni.
Parmi les témoins de cet acte on trouve un Guigo de Lantosca (2).
Aussi le Gallia nous a conservé le nom de ces deux frères Bertrand et Raim-
bald, qui, en suivant le conseil de l’evèéque Alphante, confirmèrent à l’abbaye de
Saint-Gilles la donation du monastère de Saint-Eusèbe situé sur le territoire de
Saignon, comté d’Apt, laquelle avait été faite jadis par Aldebert leur grand-père (3).
Nous avons vu que c’était Aldebert de Thorame-Glandèves, qui, en 1032, avec ses
fils Aldebert et Garache, faisait cette donation (4); nous savons d’autre part qu’une
des filles d’Aldebert s’appelait Amantia. Or, précisément une charte du cartulaire de
Lérins (5), qui a trait à ce mème monastère, nous apprend que Laugier et sa femme
Amantia concédèrent à Lérins certains droits qu’ils avaient sur le monastère de Saint-
EKusèbe; le doute n’est pas permis; Laugier de Nice a eu pour femme Amantia
de Thorame. ‘
XX.
Pierre, évèque de Sisteron, et son neveu Pierre, évèque de Vaison,
fils de Raimbald de Nice.
Gioffredo confond ces deux évéèques, car, en supposant le premier évéque de
Vence, il croit que le second a été d’abord évèque de Sisteron, puis de Vaison (6).
Les deux Pierre, oncle et neveu, ont eu contemporainement la dignité d’évèque,
puisque dans l’acte de consacration de la nouvelle église de Saint-Victor de Marseille,
en 1040, on trouve deux évèques du mème nom, un de Sisteron, l’autre de Vaison (7).
(4) Cart. de Lerins, p. 181. Dans le cartulaire les éditeurs fixent la date de cette charte de 1028 à 1046
à cause de la mention de l’abbé Amalric, ils n’ont pas remargqué que le nom de cet abbé a été ajouté
postérieurement ; on doit done fixer la date par l’évèque Archimbald, c’est è dire vers 1074, époque
à laquelle il siégeait, d’après une charte du m@me cartulaire, p. 156. Bernon n’a pas siégé à Nice
en 1075, comme le dit la note au cartulaire, mais Seno du comte Guillaume de Provence, d'après
la charte du Cartulaire de la cathédrale, n. 15.
(2) Cart. Aptense, f. 6, Caria Raiambaldi de Sagnone et doc. XV.
(3) Gallia C., vol. I, p. 356.
(4) Id., vol. VI instr., p. 176. ..... aliguid de alode nostro qui est in comitatu Aptensi, in terminium
de castro quae vocant Sanione, hoc est abbatiola S. Eusebii cum suis cellis,
(5) Cart. de Lérins, p. 194. L'’intitulation de cette charte: Carta de ecclesia S. Eugenii, est évi-
demment incorrecte.
(6) GrorFR., Storia A. M., p. 616 et table généalogique des comtes de Nice, Pierre éveque de Vence
a siége de 1093 à 1109.
(7) Cart. de S. Victor, 14.
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 345
On trouve déjà en 1030 Pierre I, évéque de Sisteron, donnant & Saint-Victor
le village d’Orbazac, près de Nice, qu'il possède iure ereditario parentum; Raimbald
est un des témoins (1). Un peu plus tard, Pierre, avec la seule qualification
d'éveque, prend part à la donation de la Salette de Saraman (2); il est qualifié
de frère de Raimbald et de Rostaing. C'est done toujours le méme éyéque, Quant
à la date de ce document les éditeurs du cartulaire l’ont fixée vers 1040; mais
comme Raimbald a ici pour femme Belieldis et que nous savons par un autre
document (3) que jusqu'àè l’année 1046 sa femme était Accelena, l’'époque è la-
quelle Pierre I occupait encore le siége de Sisteron doit étre postérieure A cette
dernière date. È
Cette remarque a une certaine importance historique , parce qu'elle détruirait ce
que Gioffredo, Bouche, les Sainte-Marthe, le père Colombi ont écrit au sujet de cet
évèque de Sisteron} en se fondant sur la narration du Zvre vert de l'église de Sis-
teron (4). Cette ancienne chronique raconte que Raimbald aurait youlu établir sur
le siége épiscopal de Sisteron son fils, encore jeune, à la mort de Pierre son oncle,
Ragobaldus miles valde dives emit episcopatum Sistaricensem filio suo parvulo, qui
postea factum est Episcopus Vasionensis . . . .. . cum militibus suis cet
cum comitissa Forcalqueriensi invasit. omnem honorem episcopalem et sie de-
struzerunt episcopatum ut vix episcopus in co possit requiescere vel una mocte.
Puisque Pierre I, évèéque de Sisteron, occupait encore ce siége en 1046 et que
dès 1040 Pierre II était évéque de Vaison, on voit que l’opinion de ces différents
historiens n'est pas soutenable. Il est pourtant possible qu'après 1046 Raimbald se
soit emparé non-seulement des possessions de l’évèché de Sisteron, mais que Miron,
son frère, se soit rendu maître de la juridiction épiscopale, qu'il aura ensuite trans-
mise à ses enfants. Ceux-ci peuvent ètre les trois seigneurs de Sisteron, qui, vers
1080, transigèrent avec l’évéque, d’après cette méème chronique de Sisteron.
C'est effectivement en 1055 que le pape Nicolas II dans le concile d’Avyignon
nomma Gerard II Caprerius (5) au siége de Sisteron; mais il ne paraît pas avoir pu re-
prendre dès lors les anciennes possessions épiscopales, car, lorsqu’en 1055 se trouyant
dans les cloîtres du prieuré de Saint-Promas de Forcalquier, il faisait donation de
Fontelane à' l’abbaye de Saint-Victor, à la présence du comte de Provence et de Bé-
renger, fils de Bérenger, vicomte de Sisteron, il se sert des expressions suivantes :
si possessiones, terras terrenas, locaque sacra mihi commissa, potero fideliter pro-
curare usibus fidelium.....(6); dans un autre acte de la mème époque il répète
encore: si loca sacra possessionesque terrenas , fidelium usibus a Deo placitae
orationis quietem singulariter ascriptas, fideliter procurare potuero et episcopulem
exercere videor dignitatum..... (17).
(4) Cart. de S. Victor, 7%.
(2) Id., 799.
(3) GrorrREDO, Storia A. M., p. 635.
(4) Le Livre vert de Sisteron paraît avoir été éerit vers 1500 par Laurent Barelli évèque de cette
ville.
(5) Cart. de S. Victor, 659.
(6) Id., 680.
(7) Id., 660.
Serie II. Tom. XXXIX. . ì 44
346 3 E. CAIS DE PIERLAS
D'après ce qui précède, d’aprés l’expression méème de comtesse de Forcalquier,
évident anachronisme, on comprend que la narration du livre vert est inexacte.
Pierre, évéque de Vaison, fils de Raimbald, occupe le siége de cette ville dès 1040,
comme nous l’avons dit; en 1044 il signe à la restauration de l’église et bourg
de Saint-Promas ; vers 1051 il intervient au concile de Saint-Gilles. En 1073 il
donne à l’évéque de Nice le chàteau de Drap, avec tous ses droits et dépendances,
terres, moulins, eaux, etc. (1).
Cette importante largesse donne un certain prestige à l’évèque de Nice. En 1156
celui-ci y tient un lieutenant avec le titre de vicaire et de chaàtelain; c’est Pierre
Laugier, prétre de Drap (2). De nos jours encore l’éveque de Nice porte le titre
fsodal de comte de Drap, qu'il n’eut qu'à une époque relativement moderne.
Vers 1092 le comte Ermengaud d’Urgel, mari d’Adélaide de Provence, nommait
l’evéque de Vaison tuteur de son fils Guillaume (3). Il doit ètre mort bientòt après.
Sur son tombeau à Vaison était gravée l’inscription suivante: Die Kal. sep. obit
P. episcopus. M. KE. B. (4).
XXI.
Rostaing vicomte.
Le plus jeune fils de Laugier porte le nom de Rostaing: il est appelé Kostaynus
iuvenis dans la donation de 1032 à Saint-Véran (5) L’année suivante, 1033, on
trouve son nom dans la donation faite par Lambert, Amic, Raimbald et Pierre
évéque de Sisteron (6). Puis, en 1040, dans l’acte de cession d’un manse à Cagnes
par Raimbald, on trouve parmi les témoins Petrus episcopus frater eius, Rostagnus
frater cius (7). Pareillement à la donation de Trigance par Raimbald, vers 1042,
ont signé Pierre son frère, Rostaing son frère.
C'est vers cette époque que Rostaing donna pour son propre compte à Nitard,
vèéque de Nice, les églises de Sainte-Marie et de Saint-Jean de Olivo (8), comme
il résulte par l’acte de restitution qu’en fit dans la suite son propre fils Laugier
Rostaing (9). L’évèeque Archimbald en 1078 céda à l’abbaye de Saint-Pons une des
églises que est sita in territorio que nominatur Olivum, iuata portum que nomi-
nant Fossas de Astingo (10).
(4) Cart. eccl. cath. Nicensis, 82. La transcription qu'on en mame par Jorr. Nic. Civ., p. 162 et
Giorrr. Storia A. M., p. 667 n’est pas complète.
(2) Cart. eccl. cath. Nicensis, 98.
(3) Giorrr. Storia A. M., p. 683.
(4) Id., p. 687
(9) Cart. de Lerins, p. 137.
(6) Id., p. 148.
(7) Cart. de S. Victor, 799.
(8) Maintenant Gta paroissiales è Beaulieu et au port de Saint-Jean près de SR
(9) Cart. eccl. cath. Nicensis, 6.
(10) Jorr. Nic. Civ., p. 163. C'est probablement la petite anse Les /osses, au sud du port de Saint-
Jean, qui devait appartenir è la famille Astengo. V. Cart. eccl. cath. Nicensis, 13, %.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 4 347
Rostaing paraît ensuite, vers 1057, dans la confirmation de la restauration de
Saint-Promas de Forcalquier; après Bérenger vicomte, Miron vicomte, Raimbald de
Nice, il y a Rostagnus vicecomes ; l’ordre de ces signatures ne laisse aucun doute que le
vicomte Rostaing ne soit le frère des deux précédents (1). Outre ce Rostaing, on trouve
dans la mème charte un personnage portant le nom de Rostagnus Sigisteriscensis. Les
éditeurs du cartulaire de Saint-Victor disent que le premier était vicomte de Sisteron ;
mais comme il se trouve dans cette charte deux vicomtes qui, d’après d'autres titres,
le sont de Sisteron, il ne paraît pas probable que Rostaing soit un troisidme vicomte
de cette ville; il pourrait. l’ètre de Gap, où en 1057 nous trouvons un vicomte
Pierre de Mison de la famille des seigneurs de Dromon, alliés d’Isnard et de Guil-
laume de Niozelle, qui signent dans cette mème confirmation; nous savons que la
moitié de la juridiction de Gap appartenait à l’évéque; il ne serait donc pas éton-
nant qu'un des vicomtes représentàt l’autorité des comtes de Provence, l’autre la
Juridiction épiscopale. On peut cependant faire une seconde supposition, qui nous
paraît étre plus exacte, c'est que Rostaing fùt vicomte de Nice, puisque nous
verrons son fils y avoir les droits de Castellania, qui correspondaient à l’autorité
vicomtale.
En 1067 il signe encore avec Miron à la donation de Rostaing de Val de
Bloure (2).
XXII.
Les descendants du vicomte Rostaing
et de son fils Laugier Rostaing cèdent è l’évèéque de Nice
leurs droits sur la ville.
Nous avons vu en 1047 Rostaing seigueur de Gréolières (3); nous avons dit qu'on
doit l’identifier avec le vicomte Rostaing de 1057, troisiéme fils de Laugier; exa-
minons maintenant comment ce fief de Gréolières s’est conservé dans sa descendance
et comment parallèlement la juridiction vicomtale se retrouve aussi en leur possession.
Rostaing a eu un fils qui a porté le nom de l’aieul; c’est Leodegarius Ro-
stagni. Celui-ci, époux de Calamitta, avec ses enfants Aldebert et Bertrand, vers
1070, donne à Saint-Pons les biens et les hommes libres de Mérindol (4). C'est
ensuite, vers 1075, que, de nouveau avec ses enfants Aldebert, Bertrand et un
troisiime du nom de Rostaing, il restitue à l’évéque Archimbald le manse que le
comte Guillaume de Provence avait jadis donné à l’évèéque Bernus (5). Il est encore
(1) Cart. de S. Victor, 659.
(2) Cart. eccl. cath. Nicensis, 9.
(3) V. pag. 324. i ;
(4) GiorrrEDo, Storia A. M., p. 644. La parole carlans du texte doit probablement s’interprèter pour
caslans, hommes libres. Gioffredo donne cette charte sous l’année 1028, mais il faut la transporter à
l'époque que nous indiquons à cause des témoins Pons Ausan et Pierre de Episcopo.
(5) Cart. eccl. cath. Nicensis, 15.
348 N E. CAIS DE PIERLAS
fait mention de tous ces personnages dans une charte de 1081 qui se rapporte au
consentement qu'ils avaient prèté à une vente faite aux chanoines de Ste-Marie (1).
Laugier Rostaing se remarie avec Hermengarde; avec elle il cède à l’évéque
Archimbald les dîmes, les paroisses, les vassaux, de Levens, du Villar, de la Roquette,
de Mérindol (2). Nous trouvons parmi les témoins un Isnard de Reillane; aucun en-
fant n'est mentionné dans cet acte.
Gioffredo a cru que les fils de ce second mariage étaient Fredolus, Rodolphe,
Aldebert, Isnard et Isoard, indiqués comme fils d’une Hermengarde dans le serment
qu'ils prétent è Raymond évèéque de Nice (8).
En effet, dans notre cartulaire de la cathédrale on remarque une suite de trois
serments successivement prétés aux évéques de Nice Raymond, Isnard et Pierre (4).
Le premier de ces actes, que Gioffredo indique seulement, est la base de son
assertion; assertion erronée, car il n'a pas considéré que les enfants d’Hermengarde
prétant un serment de fidélité, leur père devait ètre déjà mort sous l’évèque Ray-
mond, tandis que Laugier Rostaing, mari d’une autre Hermengarde, vivait encore
sous l’évéque Archimbald qui a siégé après Raymond. Calamitta aussi, sa première
femme, vivait encore sous l’évèeque Archimbald; par conséquent Hermengarde, dont
les fils prètent serment à Raymond, ne peut pas étre la veuve de Laugier Rostaing;
ses cinq fils ne sont pas les fils de Laugier Rostaing.
Cette Hermengarde doit ètre la veuve d’Amic ou de Guillaume, frères consan-
guins de Pierre évèque de Vaison, qui signent à la donation faite par Laugier leur
frère aîné, fils de Raimbald, de la moitié d’Albasagne, Sainte-Marguerite et Colo-
mas, dans l’ordre suivant: Signum Leodegariî qui hanc donacione fecit et firmare
rogavit. Signum Bertrannus filius eius. Signum Rostagnus frater cius. Petrus epi-
scopus frater, Amicus frater, Willelmus frater (5).
Nous sommes portés à faire cette supposition, parce que si l’evèéque de Nice
demandait un serment de sauvegarde et presque de désistement à certains seigneurs,
c'est par la raison que ceux-ci pouvaient y revendiquer des droits; il faut donc les
chercher parmi les plus proches parents du donateur de Drap. Or, dans l’acte de
cette donation (6) on voit précisément les signataires suivants: Laugier (le Roux),
Rostaing et Bertrand, frères de l’évèque; puis autre Bertrand, peut-ètre fils aîné de
de Laugier; puis Francus, sans doute le fils de Rostaing; ensuite, après Hugues de
Caderousse, vient le nom d’Amicus, suivi immédiatement par Fredulus firmavit,
Isoardus frater firmavit, Aldebertus firmavit, Rodukfus firmavit; les noms que por-
tent ces quatre seigneurs sont ceux des fils d'Mermengarde ; le nom d’Amicus, qui
précède le leur, est celui de leur père. Des arrangements de famille, survenus à la
mort de Raimbald, auront probablement donné les droits sur Drap à Pierre et Amic;
de là la nécessité pour les enfants de ce dernier de renoncer è toute prétention é-
ventuelle sur un fief passé à l'église.
(1) Cart. eccl. cath. Nicensis, 20.
(2) CIANI
(3) GrorrREDO, Storia A. M., vol. I, p. 700.
(4) Cart. eccl. cath. Nicensis, 83, 84, 85.
(ay) Gp Eb
(6) Id., 82.
LE XI SIÉCLE DANS LES ALPES MARITIMES 349
Deux Hermengardes auraient donc existé contemporainement.
Laugier Rostaing, par son second mariage avec Hermengarde, doit avoir eu un
fils du nom de Jausserand, tige des seigneurs qui portèrent le titre de (Gréolières.
Nous verrons, en effet, qu’un Gaucerandus Laugerii a vendu en 1117 ses
droits syr Nice è l'’évèque (1); on remarquera, d’autre part, dans notre cartulaire
une charte de cette époque relative aux dîmes de Levens, qui débute par les pa-
roles: Bertrandus Laugerti et Gaucecramnus frater cius reddiderunt. . . + . (2).
Bertrand, fils de Laugier, a donc un frère Jausserand: Bertrandus Laugerii et
Gaucerandus Laugerti sont donc deux frères ex patre, le premier fils de Calamitta,
le second fils d’Hermengarde.
La famille de Gréolières, qui a formé une branche & part, depuis Jausserand,
a transmis à l’église ses droits sur Nice.
Gioffredo nous avait indiqué une transaction à ce sujet, passée en 1152 entre
Laugier de Gréolières, fils de Jausserand Laugier (3); mais ils paraissait ignorer les
aboutissants de cette famille. Le cartulaire de l’église de Nice, que nous venons de
publier, et les chartes originales des archives capitulaires, tracent nettement l’histoire
de cette transmission et, en donnant un grand jour sur le régime féodal de Nice,
ne laissent point de doute à cet égard: Laugier Rostaing, par son fils Jausserand,
est la tige de la famille de Gréolières.
La première charte (4) qu'il convient d’étudier a les apparences d'un vidimus
destiné à la production judiciaire ou à étre conservé comme mémorial des droits de
l’église qui s'y trouvent énumérés, droits féodaux, pàturage, mouture, port, lesde,
chàtellénie, tenanciers et services, que Laugier de Gréolières possédait à Nice au nom
de l’évèque. Le titre primordial de ces droits s’y trouve, pareillement enregistré.
La charte est dépourvue de toute indication chronologique , mais par ses ca-
racteres paléographiques elle paraît écrite à la moitié du xn° siècle, à l'époque de la
transaction pour ces mémes droits. Les divers éléments que contient le v/dimus sont
les suivants :
1° Une note des tenanciers;
2° Cette mème note de noms, moins 18 qui manquent, identiquement ré-
pétés, mais ayant è la suite de chaque nom l’indication des services en argent et en
nature que paie le tenancier;
3° Une autre note de tenanciers et des services qu'ils paient;
4° Entre la seconde et la troisibme note la légende suivante: Laugerius de
Graoleriis habet in Nicia hec suprascripta omnia pro ecelesia, habet etiam et hec
subsequentia (5);
5° Entre la première et la seconde note, et comme suite aux noms des te-
nanciers, les paroles suivantes: mansionem ubi stat Bona de Arbaudo; medietatem
(1) Cart. eccl. cath. Nicensis, 29, 30, 94, et doc. XVI, XVII
(2) Id., 44.
(3) GiorrREDO, Storia A. M., vol. lI, p. 77.
(4) Cart. ecel. cath. Nic., 94 et doc. XVII.
(5) D’autres notes de tenanciers et des différents services et rentes de l'église de Nice se trouvent
aux numéros 35, 36, 37,38, 39 du cartulaire.
350 E. CAIS DE PIERLAS
de pascherio et de letda de civitate de porcione Laugerii Rostagni de Niza ; me-
dietatem de condamina de la Bufa et de la condamina de Olivo, mansionem de
Gundrada et duobus menses octuber et november dedit. Laugerius Rostagni ad
Conradus comes cum filia sua in castellania de Niza, per partem et per he-
reditatem ;
6° La transcription de l’acte de cession de Gaucerandus Laugerii à V'é-
veque Pierre de tout ce qu'il possède à Nice: quicquid in civitate Nicie et în ap-
pendiciis suis ex hereditate patris mei mihi pertinet ; la cession a ét6 faite 4n
presentia Raymundi Berengarii comitis Barchinonensis; en bas du vidimus se trouve:
Signum Raimundi comes.
Tels sont les éléments de cette charte précieuse.
Les expressions que nous avons citées ci-dessus à l’article 5, quoique un peu
confuses, prouvent cependant plusieurs faits essentiels.
D’abord que ce Laugier, père de Jausserand , est bien Laugier Rostaing de
Nice, puisque c’est la part des différents droits qu'il possédait à Nice, qui est passée
à l’eglise de Nice.
Ensuite, puisqu’il est ici fait mention des droits que Laugier Rostaing avait
laissés è sa fille comtesse de Vintimille (1), pour indiguer qu'il faut les déduire de
ce qui est cédé à l’évéque, il est essentiel de remarquer que Odila avait part aux
droits de chàtellénie sur Nice; or, comme Laugier a cédé la moitié de ses droits de
pàturage, port et autres, c'est aussi la moitié des droits de chàtellénie dont il s’agit,
c'est à dire six mois, sous la déduction des deux mois d’octobre et de novembre ,
dote de sa fille.
Le second document relatif à la famille de Gréolières est l’acte de cession de
Jausserand, fils de Laugier.
ll se présente ici un problème à résoudre, car il existe trois versions de cet acte,
ayant entre elles de notables differences (2).
Ce sont: la copie insérée dans le vid2us, une seconde copie faisant partie du
cartulaire et une charte des archives capitulaires qui paraît ètre l’original (3).
Ce dernier document a la date de 1117, qui manque aux deux copies.
Les principales variantes qui s'y trouvent consistent en ce que dans la copie
du vidimus Jausserand donne temporairement en gage à l’évèque, pour le prix dé-
boursé de 550 sous, quicquid in civitate Nicie et in appendiciis cius ex hereditate
patris mei mihi pertinet, mais en cas de mort avant d’avoir remboursé l’èvéque, l’église
gardera ces droits in perpetuum; au contraire, dans la copie du cartulaire et dans
l’original, Jausserand donne à l’évèque, ut cam perpetuo iure possideat et pour le
méme prix de 550 sous, la moitié de ses droits sur Nice, il ne remet l’autre moitié
qu’à titre de gage, jusqu'àè ce qu'il ait délivré de toute charge et de tous liens la
moitié donnée; après sa mort, pourtant, l’église aura le tout; post obitum quoque
meum hec omnia cidem ecclesie supradicte ad integrum dono pro anima mea.
x
(1) En 1082: nos Conradus comes, filius quondam Conradi comitis et Odila iugalis filia Laugerit.
(Cart. de Lérins, p. 164).
(2) Cart. ecel. cath. Nicensis, 9, 29 et doc. XVI.
(3) Dans l’ancien inventaire de la cathédrale cette pièce portait le n. 86.
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 351
La somme fournie par l’évèque, qui dans une charte a la qualità de prét, dans
l’autre est le prix des droits cédés.
Si le fonds dans ces deux chartes est le mème, la forme en est un peu diffé-
rente; ainsi aucun témoin n'est signé dans la copie du cartulaire, tandis que dans
celle de l’original et du v/dimus il y a des témoins identiques. Ce qui frappe da-
vantage, c’est que le seul original manque du signum Raimundi comitis, qui est
explicitement annoté dans les deux copies,
Les variantes s’entrecroisent donc de telle manière que la solution du problème
paraît impossible, et on comprend parfaitement qu'en 1150 des difficultés puissent
s'èétre produites à ce sujet entre le fils de Jausserand et l’éyéque de Nice.
Pourtant, d’après l’exposé de la question qui se trouve dans l’acte de transac-
tion, il est établi que Jausserand avait cédé ses droits en partie comme vente, en
partie comme gage: partim iure vendicionis concessit, partim pignori supposwuit.
L’original et la copie du cartulaire paraissent donc mieux s’approcher de ces ex-
pressions.
Le troisième document relatif è la famille de Gréolières est l’acte de transac-
tion dont nous avons dèjà parlé à plusieurs reprises. ll est transcrit dans le cartulaire
et les archives du chapitre en conservent l’original (1). C'est une charte partie, &
laquelle on voit encore les traces du cordon qui soutenait le sceau. Laugier de Gréo-
lières transige avec l’éveque Arnald et lui cède les droits, honores, sur Nice que son
père Jausserand, fils de Laugier, avait jadis donnés à l’éveque Pierre: totwm èllum
honorem quem pater eius Gaucerandus Laugerii Petro episcopo . .. partim iure
vendicionis concessit, partim pignori supposutt.
Laugier préte serment è l’évèque de Nice en promettant aussi de respecter les
droits de l’église sur Drap et de les défendre au besoin; celui-ci en donne l’inves-
titure, hac virga laudando cum investimur. La transaction a lieu au port de Cagnes,
en présence des évéques d’Antibes et de Vence, de Raimbald homme de loi, legifero,
de Nice, et de plusieurs autres personnages. Ils s'en vinrent à Nice, et le lendemain,
veille de Noèl, devant le portail de la cathédrale, Laugier renouvela le serment en
présence des consuls Raymond Sérène, Foulque Badat, Franc Raimbald, Foulque
Ugoleni, ainsi que de plusieurs personnages, tant ecclésiastiques que séculiers, d'Arnald
bailli de l’évéque et d’Iterius son écuyer. Fait suite la liste des vassaux que Laugier
tiendra au nom de l’église: dst. sunt homines quos Laugerius de Graoleriis habet
pro ecclesia et episcopo Nicensi . . . + . Plus de soixante sont nommés.
Cette liste des vassaux de la famille de Gréolières et de l’église, ainsi que celle
des tenanciers de l’autre charte, présente un notable intérèt historique, car, parmi
les noms qui s'y trouvent, plusieurs appartiennent aux premières familles consulaires
de Nice.
On trouve dans l’une les noms de Paul Raimbaldi, consul en 1146, et de
Guillaume Raimbaldi, consul en 1151; dans l’autre charte ce sont Jourdan Ri-
quieri dont la famille peu d’années après possèdera le fief d’Eze (2), lui-mème est
(1) Cart. eccl. cath. Nicensis, 30 et doc. XVIII.
(2) V. Cars DE PrerLas, Testament de Jourdan Riquieri au xu siécle.
352 E. CAIS DE PIERLAS
consul de Nice; Guillaume son frère, consul en 1164; leur neveu Pierre, consul en
1189; Foulque Badat et Raymond Serena, consuls de Nice dans l’acte mème de
transaction et en 1164; Guillaume Ricardi en 1146; Bertrand Cebaldi en 1164;
Pierre Aldebrandi et Pierre Ricardi, consuls en 1157 (1); Pons Gisberni, consul en
1158; Foulque Travache, d’une famille de Roquebrune, dont nons trouverons Guil-
laume, consul de Nice en 1184.
On voit, par l’importance personnelle des vassaux, quelle devait ètre celle
des seigneurs. Laugier de Gréolières devait bien étre de la famille vicomtale de Nice.
Un corollaire important dérive du document que nous venons d’examiner: les
droits de castellania (2) que Laugier, fils de Rostaing, avait jadis possédés, correspon-
dent à l’autorité vicomtale dont devait ètre investi Rostaing son père, qui portait le
titre de vicomte, et à celle du rectorat, de Laugier son aieul, dont nous nous som-
mes occupés.
En résumé, par toutes les chartes relatives aux droits de l’église de Nice on
établit distinctement la filiation de la famille:
1° Rostaing, vicomte, père de Laugier, Leodegarius Rostagni ;
2° Laugier, Leodegarius Rostagni, père de Odila, comtesse de Vintimille et
de Jausserand, Gaucerandus Laugerti;
8° Jausserand, Gaucerandus Laugert, père de Laugier;
4° Laugier, Laugerius de Graolertis .. . pater cius Gaucerandus Laugertìi,
qui en 1152 transige avec l’évèque.
XXHI.
Raimbald de Nice fils de Laugier le Roux
et les seigneurs d’Apt.
x On a vu, il y a quelques pages, que les fils de Laugier le Roux étaient Ber-
trand et Raimbald. Ce dernier doit etre le Raimbaldus Niciae , mari de Rixende
d’Apt, dont parlent deux chartes du cartulaire d’Apt (3), très importantes pour
l’histoire de Nice, que nous examinerons ; elles nous indiquent les ‘relations que les
puissants seigneurs d'Apt et d’Agout avaient dès lors avec notre contrée.
Nous ne sommes pas éloignés de croire qu'à l’instar de plusieurs autres comtés
de Provence, la seigneurie d’Apt fut partagée entre l’evèque et les seigneurs séculiers.
Parmi les raisons de cette croyance nous citerons un document de ce beau car-
tulaire où vers 1050 Pons Bot, avec Pierre son fils, donne certaines possessions qu'il
a acquis partim ex successione parentum et propinquorum, partim ex compara-
(4) Cart. eccl. cath. Nicensis, praef. p. XVIII.
(2) Vicecomes interdum, idem qui Castellanus. DucancE, p. 88 et 200. Le Chatellenage etait Val
ternative de la Vicomté. BrusseL, De l’usage general des fiefs, p. 742.
(3) Cart. Aptense, f. 6 r.° et 7 v.° doc. XIV et XIX.
LE XI SIÈECLE DANS LES ALPES MARITIMES 353
tione quam adquisivi proprio labore, soit les manses qui appartenaient A son frère
Geboin, per voluntatem seniorum meorum, idest Alfanti episcopi et Rostagni et
Guillelmi fratris eius (1).
Nous citerons encore la concession faite en 907 par l’évèque Nartold à Rotbert
et Varaco, fidelibus suis, de plusieurs terres très importantes qui appartenaient è
son église, sises à Prataleoni, Torrizello, Petrolas, Calvisas, Casanova, Rius,
Juncarias, et surtout le chàteau de ,Sa:gnon, très proche d’Apt et le plus im-
portant du comté (2).
Finalement sous l’évèéque Teudric (989-1010) une tour d’Apt portait le nom
de Turris episcopalis (3).
Après la famille de Rotbert et de Varaco, dont nous avons parlé au sujet des
sires de Castellane, la famille plus considérable d’Apt est celle qui remonte à Hum-
bert; il est déjà question de lui vers 978; Garaco lui concède divers droits à Ca-
sanova, Calvisias, Argallo, Gargatio, Gurgis, Clavasiana, Baxo, Lausnava, Ur-
stanicus et Bonilis (4); on lui donne le titre de très noble dans une charte de
1006, par.laquelle un prètre Arnaldi donne à l’église un manse qui lui vient ex
parte seniori meo Imberto viro nobilissimo (5). En 1005 Humbert fait à son église
des donations à Interrivis, Gutilone, Sarriana, Sarpalianicis, Pineto, Vegnis (6).
En 1008 il fait d’autres donations à Interrivis, Campanias, Sardonicis, Celeirana,
Vuttilone, Serriana, Sarpalianicis, Pineto, Vegno; ont signé à cet acte: ego Mau-
ris (7) et filius meus Wllelmus, mandante Umberto (8). Nous apprenons ainsi les
noms de la femme d’Humbert et de son fils Guillaume. C'est le Willelmus filius Hum-
berti, senior meus. dont parle Rodulphus Grammaticus (9); c'est le Willelmus filius
Umberti, témoin en 1018 dans le cartulaire de Saint-Victor (10); c'est lui qui, vers
1031, avec sa femme Adélaide, fait donation de certaines possessions sises dans les comtés
d’Apt, de Cavaillon et au chàteau d’Agout, avec le concours de sa mère, Inauris
mater Willelmi. Adélaide est fille du quondam Bonifatii de Rellana (11). Les enfants
de Guillaume sont: Rostaing, Guillaume, Constance, Inauris (12). L’acte se passe au
chàteau de Simiane, qui donnera plus tard le titre ‘è une branche de la famille (13).
Une autre donation de Guillaume, où sont signés son fils Rostaing et Gisla,
femme de ce dernier, se passe au chàteau méme d’Agout (14).
(1) Cart. Aptense, f. 34 v°, De fraternitate Poncii Boti.
(2) Id. f. 5 r.°, Carta Sagnonis de praestaria, et doc. IX.
(3) Id. f. 16, Carta de decimo Lautardi et de turre episcopali, et doc. Ill,
(4) Id. f. 10 r°, Carta de Garaco quam fecit Umberto pro honore quem dedit pro forifacto, et doc, IV.
(5) Id. f. 36 v°, Carta de manso Arnaldi sacerdotis.
(6) Id. f. 22 vo, Carta de honore S. Saturnini et Vegnis,
(7) Le nom est ainsi écrit, mais il y a tout lieu de croire qu'il s’agit d’une incorreetion du Car-
tulaire et qu'il faut lire Inauris, comme nous le voyons dans le cartulaire de Saint-Vietor.
(8) Id. f. 32 v, De Interrivis et Vegnis.
(9) Id, f. 13, v°, Honor Rodulphi Grammatici.
(10) Cart. de Saint-Victor, 226.
(11) Id. 657.
(42) Inauris épousera Hugues de Baux.
(13) Guirandus de Simiana en 1156 (Cart. de S. Victor, 967).
(14) Id., 428.
Serie II. Tom. XXXIX, i 45
54 E. CAIS DE PIERLAS
Vers 1055 autre donation de Rostaing, de sa femme Gisla et de leurs. nom-
breux enfants; l’acte se passe cette fois in civitate Aptensi (1).
Rostaing et Guillaume ont peut-étre obtenu à cette époque une partie de la
juridiction comtale sur la ville par l’evéque; dans la donation que fait en 1056
l’evèque Alphante du manse de David à Tourrette (2), territoire de Saint-Pierre (3),
il parle: duorum fratrum meae civitatis principum, scilicet Rostagni et Guillelmi (4).
Ils étaient donc, en ce moment, considérés comme principaux seigneurs d’Apt.
On peut se faire maintenant la demande: Qui est cette Gisla, femme de Ros-
taing d'Apt?
Les généalogistes qui nous ont précédé avaient déjà indiqué Raimbald de Nice
comme son pere, en s’appuyant sans doute à un document rapporté dans le Gal-
lia (5). C°est celui que nous avons trouvé dans le cartulaire d’Apt, où, en 1041:
Ego Rostagnus filius Adalais et uxor mea Gisla una per voluntatem mnostrorum
filiorum qui vocantur Umbertus, Raiambaldus, Raimundus, Laugerius, Guillelmus,
Bertrannus, donamus... unum mansum in quodam castello quod dicitur Barretum,
quod est in comitatu Guapincensi, et dedit illud mihi Raiambaldus socer meus
cum filia sua Gilla (6).
Ce qui n’avait pas été remarqué jusqu’'àè présent, c'est que la seigneurie de
Tourrette de Nice appartenait à Rostaing d’Apt par la méme origine dotale, comme
le prouvent deux autres documents. D’abord une charte du cartulaire de Lérins, in-
titulée: De Torretas que est in episcopatu Nicensis (7). Rostaing (vers 1060) donne
à Saint-Honoré, à l’abbé Adalbert, à son fils Bertrand, le quart du chàteau et village
de Tourrette, toutes les églises qui en dépendent, Bermond et ses manses, ainsi que
la meditaria (8) que Raimbald lui a donné avec sa fille. Alphante, episcopus Ap-
tensis, est témoin à la donation; ce qui vient à l’appui de notre assertion. Quant è
Bertrand, fils du donateur, il devait déjà étre moine de Lérins; il y vivait peut-étre
encore en 1109, à un àge très avancé, et portait le nom de Bertrannus d’Agolt (9).
Le second document (10) est une charte, déjà citée, que nous avons trouvée
dans un vieux manuscrit de la fin du xvn° siècle et qui fait aussi partie du cartulaire
d’Apt (11): vers 1113, Laugier évéque d’Apt (12) faisant éclange de plusieurs fiefs
qui lui appartenaient, donne aussi medietatem cuiusdam castri, quod est situm in
Niciensi episcopatu quod vocatur Turritas, quod contigit mihi ex parte matris
meae..... et hoc dono uxori Raibaldi et filio suo Leodegario et filiae, umori. Wil-
(1) Cart. de S. Victor, 427.
(2) Probablement Zes Tourrettes, Vaucluse, com. d’Apt.
(3) L’abbaye de S. Pierre dans le comté d’Apt.
(4) Cart. Aptense, f. 31 r° et v°, De manso Davidis in Turrita.
(5) Gallia €., vol. I, iostr. p. 73.
(6) Cart. Aptense, f. 15 r., Carta de manso Barreti.
(7) Cart. de Lérins, p. 157.
(8) Le cartulaire a fautivement medicaria.
(9) Cart. de Lérins, p. 100.
(40) Doc. n. XIX.
(14) Cart. Aptense, f. 6 r°. et v°, Carta permutationis Turritarum et Sagnionis.
(12) Fils de Rostaing et de Gigla.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 355
lelmi Talonis..... (1). Les différents rapprochements que nous indiquons ne laissent
aucun doute à notre assertion que Tourrette de Nice appartenait, dès la moitié du
x1° siècle A la puissante famille des seigneurs d’Apt.
Laugier, fils de Rostaing, devenu évéque d’Apt a ét6 un des plus insignes bien-
faiteurs de son église, en rachetant les terres qui jadis lui appartenaient.
C'est Tortamolle, un des chàteaux de Saignon, qui faisait partie de la dote de
Rixende (2) femme de Raimbald de Nice (3) et de leurs enfants; il leur a donné
en paiement la moitié de Tourrette, son héritage allodial, et 400 sous de Melgueil:
uzori Rarambaldi Niciae, Ricsen, et filio suo Leodegario et filiae suae Ponciae
et Willelmo Talun suo genero, medietatem Turritarum, meam quidem hereditatem
et allodium dedi (4). C'est ce qu'on lit dans un des documents du manuserit dont
nous avons parlé et qui fait aussi partie du cartulaire d’Apt'( 5). Pour Crugeria (6), il
donne à Aldebert Geraco et à son fils Guillaume (7) 1300 sous de Melgueil: il obtient
pour cet échange le consentement de tous les milites de Saignon, Aicard et son
frère Geoffroi, Datil et ses frères, Austan de la Tour, les fils de Pons Buzot, lesquels,
quia concesserunt, magnam partem meae pecuniae habuerunt.
Cette restitution des biens qu'il fait à l’église obtient la sanction de sa belle-sceur
Sanche et de ses fils Guirand (8) et Bertrand: il leur donne la moitié du chàteau
de Gordes et la grande tour d’Apt qui lui vient par son père (9); ensuite il leur
donne le } du mème chàteau pro medietate Turritarum..... cuius medietatis usque
nunc possessores fuerunt Raimundus Aicardi (10) et frater cius Gaufredus (11). À
ces deux derniers frères il donne le chàteau de Saignon en compensation: ego Leode-
garius episcopus Aptensis cambio castellum Mejanum totum Sagnonis et illam ter-
tiam partem quae pertinet illi castro..... dono istud castrum Raimundo et Gofredo
fratri suo..... pro cambitione feudi quod. habebant in Turritis (12). Nous trouyons
ce Raimundus Aicardus et son frère Gaufredus, ainsi que Ripertus de Bonilis (13)
signant comme témoins à une charte de Saint-Victor (14) où Pontius Faraldi donne
l’église de Saint-Symphorien de Clermont; è la fin de l’acte on trouve l’annotation:
(1) Gwuilelmus Talona fils de Pierre Isnardi seigneur de Villevieille de ChAteauneuf au comté de
Nico. (Cart. eccl. cath. Nicensis, 3, 23).
(2) Rixende fille de Rostaing d’Agout et de Gisla de Nice.
(3) Gioffredo commet une grande erreur en confondant Raimbald de Nice avec Raimbald d' Orange
et en donnant è ce dernier Rixende pour femme. Il s’agissait de deux cousins. Un demi-siècle plus
tard, en 1163, on trouve encore à Marseille un Raimbaldus de Nicea. (Gallia C. vol. I, p. 113).
(4) V. Doc. n. XIV.
(5) Cart. Aptense, f. 6 v° et 7 r°, Donatio de Sagnione a Leodegario
(6) Probablement La Roujère, hameau en Saignon.
(7) V. chapitre VI, p. 25.
(8) Tige de Simiane. Cfr. Cart. de S, Victor, 967 et Gallia C. chartes de l’eglise de Vaison en 1173.
Le fils de Guirand de Simiane porte en 1184 le nom de Raymond d’Agout.
(9) Cart. Aptense, f.9, r° et v°. Permutatio Gordae et Turritarum. Donatio castri Gordae
(10) En 1033 un Aicardus de Sagnone avait été témoin è la donation de S. Véran par Lambert et
Raimbald de Nice. (Cart. de Lérins, p. 128).
(11) Cart. Aptense, f. 9 et doc, XIX et XXI.
(12) Ce chateau de Tourrette ne paraît pas ètre celui de Nice, mais celui d’Apt, v. doc. XXII.
(43) Il signe comme témoin è une donation de Laugier II è Ricard abbé de S. Victor pour certaines
églises de Bonils (Cart. S. Victor, 434).
(14) Cart. de S. Victor, 482.
356 E. CAIS DE PIERLAS
Facta carta huius donationis anno millesimo xLuI vivente Laugerio Aptensi episcopo.
C'est évidemment une erreur du copiste, car il s’agit ici de Laugier II à cause des
témoins (1).
Il n’oublie pas cependant sa famille; il cède à ses neveux, fils de Raimbald
et de Sancia, quantum Bonifacius de Rellana in villa quae vocatur Torrita in
feudum habuit..... il leur donne en sus les honneurs qu'il tient de Rostaing son
père à Gordes, Sorgues, Gargaie, Caseneuve, Chatillon et sa part de la ville d’Apt (2).
En 1130 il leur cède en fief le chàteau de Crugeria, comme son frère Rostaing
l’avait recu d’Aldebert de Mujoul (3). L’acte de cette cession nous est fourni par le
cartulaire: Aldebert, fils de Dilecte, concède è Rostaing d’Agout, fils d’Adélaide, la
quaslania du chàteau de Saignon; celui-ci et ses frères Humbert, Raimbald, Raymond
et Laugier lui prétent serment de fidélité (4). Cet acte nous démontre que Rostaing
devait avoir épousé en premières noces une Adélaide. Nous citerons encore une charte
assez interessante: celle où l'on trouve le serment que ses neveux lui prétent pour
le chàteau de Clermont (5).
HUMBERT
c. 978-1008
nobilissimus vir
|
Humbert Guillaume
1019-1026 1018-1031
= Adélaide de Reillane
i
Rostaing Guillaume Constance ._ Inauris
= 1° Adélaide = 2° Gisla de Nice = Boniface de Reillane? = Hugues de Baux
| | |
Rostaing Humbert Raimbald Raymond Laugier Bertrand Rixende
d’Agout de Viens = Sanche © evéque d’Agout = Raimbald
1094 d’ Apt moine de Nice
| 1113 de Lérins
| |
fam. de —fam.de Guirand Bertrand Rostaing
Viens Apta de Simiane d'Agout
Le cartulaire de S. Victor contient de nombreuses chartes relatives à ces seigneurs.
Nous en avons indiqué les principales, comme nous l’avons fait pour celles du car-
tulaire d’Apt. Nous croyons d’avoir ainsi tracé d'une manière précise la filiation de
cette famille pendant un siècle et demi et d’avoir démontré ses alliances avec les
vicomtes de Nice et leurs possessions sur notre territoire.
(1) M. de TerRIS, dans son Mistoîre des évéques d’Apt, p. 30, n'a pas relevé cette erreur; c'est
cependant le seul document qu’il cite pour prouver l’existence de cet évéque, qui pourtant a siégé
vers cette Epoque. Cfr. Carl. Aptense, f.36. Honor de Jocas.
(2) Cart. Aplense, f. 9 v°. Donatio caslaniae Crugeriae.
(3) Id., f. 9 ro. Donatio de la Crugera.
(4) Id., £. 8, doc. VIII. Sacramentum Aldeberti de Sagnone.
(5) Id., f. 10 r. et doc. XXIII. Sacramentum Claris montis.
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 357
XXIV.
Les seigneurs de Reillane à Nice.
Cette famille vassale des seigneurs d’Apt, était alliée elle aussi aux vicomtes de
Nice et souvent on les rencontre comme témoins dans les chartes qui regardent notre
contrée.
Ces seigneurs remontent à Lambert, juge du comté de Provence en 977. Sa
femme s’appelle Galburge. C'est ce que nous apprenons par une charte de Cluny rap-
portée dans le Gallia : en 1013 Boniface, fils de Lambert et de Galburge, donne
certains biens à Pertuis (1). Sa femme est Constance. Ils ont eu plusieurs fils: Raim-
bald, archevéque d’Arles, Boniface, Boson, Atanulphe, Foulque, Laugier, Adélaide (2).
Boniface est marié avec Mathilde (3); Boson, mari de Constance, est déjà mort
en 1042; il a deux fils: Boniface de Ceyreste, marié à Odila, probablement fille
de Raimbald de Nice, et Boson, mari d’Ermengarde (4); Atanulphe, déjà mort en
1045, a un fils qui porte le nom de son grand-père, Boniface (5), ce dernier, marié
à Guandalmois, est le père de Atanulphe, Guillaume, Rostaing, Pierre, Boniface et
Guide (6); Foulque a deux fils: Arnulphe et Aicard (7); Adélaide a épousé (Guil-
laume, dont elle a Inaurs (8); Boniface de Reillane, fils d’Atanulphe, est probable-
ment celui qui avait recu de l’église d’Apt le fief de Tourrette que Laugier, évèque
de cette ville, concéda ensuite à Guirand de Simiane et Bertrand d’Agout (9).
977 LAMBERT juge
= Galburge
1013 Boniface maior
= Constance
Raimbald Atanulphe Boniface minor —Boson’Laugier’Foulque Adélaide
1033-1054 + 1033 di Reillane + 1042 __ =0G.d’Agout
Arch. d’Arles = Mathilde = Constance
Isnard ee Raana gaia |
= dalmoi
: peo Bonìface 1042-1063 Boson Arnulphe Aicard
È de Ceyreste = Ermeng. 1071
| = Odila
Guillaume Geoffroi
1128-1144
Atanulphe Guillaume Rostaing Pierre ’’Boniface
pese
(1) Gallia C. vol. I, p. 509 et Bouche, vol. II, p. 57.
(2) Cart. de S. Victor, 404, 417, 418.
(3) Id., 424, 57, 59, 405.
(4) Id., 63, 413, 1074. Cart. de Lérins, p.148.
(5) Ia., 58.
(6) Id., 444, 1071.
(12) MASO
(8) Id., 657.
(9) Cart. Aptense, f.9, r°. Donatio caslaniae Crugueriae.
358 i E. CAIS DE PIERLAS
Plusieurs chartes des cartulaires de Lérins et de Nice nous démontrent les re-
lations de la famille de Reillane avec notre ville: En 1062 Isnard et Gérin de
Reillane sont témoins à la donation de Raimbald de Nice (1): c'est le mème que
Isnardus Reilania, qui assiste à la donation des dîmes de Levens faite vers 1075
A l’église de Nice par Laugier Rostaing (2). Par leurs alliances avec les familles
seigneuriales de Nice ils ont acquis des droits dans notre contrée; ainsi en 1128
Guillaume et Geoffroi de Reillane sont qualifiés petits-fils. de Guillaume Jausserand
seigneur d’Antibes: ils s’accordent avec l’abbé de Lérins au sujet du chàteau de
Mougins que leur grand-père avait cédé à l’abbaye, et renoncent aux usurpations et.
aux violences qu'ils y commettaient. Raymond Bérenger comte de Provence assiste en
personne è cette convention (3). Ce mème Guillaume de Reillane est témoin dans une
autre convention entre Lérins et les seigneurs de Briangonnet parents des Castellane-
Thorame (4). Il est aussi question de lui en 1139 dans la charte qui contient la
bulle du pape Innocent II, qui partage certaines églises et redevances entre l’évèque
d’Antibes et l’abbé de Lérins. Il devra veiller avec d’autres seigneurs à l’exécution de
ces dispositions (5). Nous avons dit dans les chapitres précédents que Raimbald de
Nice est témoin à une donation d’Adélaide fille de Boniface de Reillane (6). Boniface,
nous l'avons vu plus haut, a pour femme Constance ; elle serait probablement la fille
de Guillaume d’Agout (7). Sa sceur Imauris, dont il est question dans les mèmes
chartes, avait épousé Hugues de Baux comme nous’ l’avons prouvé en parlant de cette
famille; l’autre Constance de Reillane, femme de Boson, était peut-étre de la famille
vicomtale de Marseille, à cause du titre de Ceyreste que portent ses enfants, ce fief
étant une dépendance de ces vicomtes (8).
XXV,
Les seigneurs de Dromon et les vicomtes de Gap.
La généalogie des seigneurs de Dromon peut se suivre pendant tout le x1 siècle
d’aprés une vingtaine de chartes du cartulaire de Saint-Victor, qui nous en tracent
d’une facon indiscutable les ramifications. Ils sont avant tout seigneurs de Dromon
Saint-Geniez, village è còté de Sisteron, mais à cette époque appartenant au comté
(1) Cart. de Lérins, p. 142, 347.
. (2) Cart. eccl. cath. Nicensis, 7.
(3) Cart. de Lerins, p. 96.
(4) Id., p. 200.
(5) Id., p. 298 et introd., p. xiv. La charte originale ne contient pourtant pas ce passage.
(6) Cart. de S. Victor, 657.
(7) Id. 425, 428.
(8) Id., 98, 100.
LE XI SIÈECLE DANS LES ALPES MARITIMES 359
de Gap (1); ils portent la qualification de seniores (2), titro fort important dans
ce siècle; ils deviennent vicomtes de Gap, peut ètre méme sont-ils la tige des comtes
de Die; ils possèdent les fiefs de Fos-Amphoux, de Niozelle, de Volone, de Mison,
de Chorges, de Gigors, de Thoard, de Faucon, de l’Escale, de Beaudun; les comtes
de Provence interviennent dans leurs actes; ils signent eux-mèmes dans plusieurs
chartes des vicomtes de Sisteron et de Nice; ils les accompagnent dans nos Alpes
et sy établissent.
La juridiction de Dromon, fief principal de la famille, devait se partager entre
ces seigneurs, relevant directement des comtes de Provence et l'évèque de Gap.
Ce dernier, comme la plus part des évèques de la région, avait une grande part
à la seigneurie de son diocèse. L'ancien bréviaire de Gap contient les paroles sui-
vantes: Cum Vapincensis civitas et terrae circumpositae a Sarracenis detinerentur,
quidam Guillelmus nomine, Deo adiuvante, devicit Sarracenos predictos; qui quidem
comes medietatem civitatis Vapincensis predictae Deo et B. Mariae ipse et alii
cius consortes, pro animabus ipsorum, dederunt (3). En effet nous trouvons Ferald
érèéque de Gap concédant, vers 1010-1040, à Guillaume de Dromon 10 neuvains
de la juridiction, 2n feudo de Dromo, quas tenuerat et possederat. Praeterea con-
cessi ci decimam carnium ct vini et receptionem feudi, quamdiu dictus Willelmus (4)
de feudo collecto Vapicensi episcopo sufficienter respondebit (5). Cette première
charte relative à Dromon se trouve parmi celle de l’abbaye, parceque en 1030
l’église de Saint-Geniez de Dromon, avec tous les droits qui en dépendaient, passa
en sa possession par donation de ce méme évéque (6). Ce qui prouve encore que
l’evèque partageait la coseigneurie de Dromon est le fait de trouver dans cette charte,
après la signature des chanoines de Gap, celle des principaux seigneurs de Dromon
et parmi eux Feraud de Vallavoire, Isnard de Volone, Isoard de Mison et Waldemar
son frère, Hugues de Dromon et Bernard son frère.
Ce fut le commencement d’une longue suite de largesses faites par ces seigneurs
qui enrichirent successivement l’abbaye de Saint-Victor soit à Dromon, soit dans les
differentes terres sur les quelles s’étendait leur juridiction.
En effet vers 1030 l’abbaye obtient le pascuum ct potuum per o territo
rium de Dromone, ainsi que les mèmes droits sur les territoires de la Pène, Valla-
voire et Chàteaufort (7).
Les seigneurs de Dromon qui sont nommés les premiers dans la charte portent
(1) C’était probablemant 1’ ancienne cité de Theopolis d’après l’inscription qui s'y trouvait. V. La
PLANE, Histoire de Sisteron et Bouche.
(2) Cari. de S. Victor, 744, 718.
(3) Faucat-PRUNELLE, Essai sur les anciennes institutions autonomes ou populaires des Alpes Cot-
tiennes-Briangonnaises, vol I, p. 240.
(4) Ce Guillaume de Droinon ne serait-il pas Guillaume fils de Miron et d’ Odila, mentionné dans
une charte du cartulaire de la cathédrale de Nico en 1018? De mème Bermond de Dromon tige d’une
autre branche des seigneurs de Dromon ne serait-il pas l’autre Bermond fils de Odila? Dodo qui est
témoin dans cet acte ne serait-il pas Dodon le père de Waldemar de Fos et de Tavernes, coseigneur
de Dromon? (Cart. cath. Nic., n. 11).
(5) Cart. de S. Victor, 981.
QUI 712.
(7) Id. p. 744.
360 - E. CAIS DE PIERLAS
les noms de Galtemarus, Ysoardus frater eius et Ugo: ce sont trois frères. Les deux
premiers ne peuvent ètre confondus avec les seigneurs de Mison qui portent le mème
prénom dans la charte précédente, car dans celle-ci Waldemar est l’aîné, dans l’autre
c'est Isoard; quant à Ugo, ce doit étre Hugues de Dromon frère de Bernard,
dont il est question dans la charte deja citée; Hugo Dromonensis firmavit, Bernardus
frater cius firmavit (1); nous avons donc ici quatre frères, Hugues de Dromon,
Bernard, Waldemar et Isoard. i
Ces deux derniers sont encore qualifiés de frères et de nouveau nommés en téte
de l’acte de donation d’un territoire très étendu allant de Saint-Geniez de Dromon
à Chardavon et de deux manses dans ce méème lieu (2). Dans la première partie
de la charte on les trouve indiqués comme Waldemarus Forsanus et frater suus
Isoardus; la seconde partie, où il est question des manses, débute par les paroles
Galdemarus supradicti, sans la qualification de Forsanus; tandis qu'au prénom
d’Isoardus se trouve ajouté le nom de Cazs. Ils sont qualifiés de seniores.
Le nom de Forsanus, que porte le frère aîné Waldemar, n'est pas un surnom,
mais le nom du fief, soit de Fors (Foz-Amphoux), près de Tavernes, arrondissement
de Brignolle, anciennement du diocèse de Senez (3). On pourrait facilement l’iden-
tifier avec Waldemar, qui, avec Dodon son père, se trouve aussi à Tavernes en 1033
comme témoin à la donation de Belieldis d’Antibes (4). Un demi-siècle plus tard,
en 1097, on trouve encore à Tavernes Hugues de Fors et Guillaume son frère (5).
Peu d’années après, en 1115, Guillaume de Fors regoit du comte de Provence l’ordre
formel de restituer à Saint-Victor les biens de Tavernes qu'il a empiété (6).
Quant à Isoard Cais, frère cadet de Waldemar Forsan, quels peuvent ètre ses
descendants ?
Nous avons vu plus haut qu'il avait un frère portant le nom de Bernard; or,
vers 1050 on connaît précisément l’existence d’un Bernard Cais, Bernardus Caixus,
témoin à la donation de Rostaing, seigneur de Val de Bloure (7). On pourrait donc
supposer qu’Isoard ait été la tige des Cais de Sisteron (8), dont une branche, main-
tenant éteinte, aussi venue de Sisteron (9), a eu le vicomté de Demonte en Piemont
vers la moitié du xvi siècle (10).
(1) Cart. de S. Victor, 742.
(2) Id., 748.
(3) De la mème manière dans une charte de S.Victor (267) Amelius de Fossis est appelé Fossanus,
(4) Cart. de S. Victor, 631, 634, cfr. 496, 511 et Cart. de Lérins, p. 49.
(5) Id., 619.
(6) Id., 806.
(7) Cf. p.28 et doc. XI.
(8) En 1368 Frangois Cais conseiller de la ville de Sisteron (Arch. de Sisteron), En 1562 Bernard
Cais juge royal de Sisteron (Arch. de Sisteron). En 1666 Claire de Cais, veuve de M. de Gaubert
coseigneur de Dromon (id.\. En 1748 Joseph de Cais seigneur de Claret (Arch. de Marseille), En 1770
Joseph de Cais est seigneur de Claret, Villar, Sigoyer et autres lieux (Arch. de Gap).
(9) Lettres de naturalisation aux deux soeurs Anne et Isabelle Cays de Sisteron qui habitent De-
monte depuis plus de 25 ans. (Archives de la cour des comptes de Turin, contròle).
(10) Par le mariage de Charles Cays, fermier des rentes du marquisat de Centallo, de Demonte et
de Roquesparvière, avec Eléonore de Roux de Sigoyer, dont la mòre était héritière des Bolleri, vicomtes
de Demonte (Turin, Arch. de Za Cour des comptes).
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 361
Bernard son frère serait la tige des Cais dans les Alpes Maritimes (1).
Une seconde famille portant le titre de Dromon est celle des Bermond; nous
voyons Hebermonus, qualifit dans la suite du méme document comme Bermonus de
Dromone ; il a pour femme Aialmos (2). Dans un autre document il est nommé
Bremondus Montanus, sa femme est Agelmois, leurs enfants sont: Isnard, Bermond,
Pierre (3). Ensuite, une autre charte nomme Bermondus filius quondam Aialmus
de Dromone (4).
Une autre branche de ces seigneurs est celle de Feraldus et EHramerius de
Toard, que nous trouvons ailleurs sous le nom de Faraldus de Toardo (5).
Une quatrième branche qui a eu de notables relations avec Nice est celle de
Volone. Isnard de Volone prend part à la grande donation de Dromon en 1030;
sa femme s’appelle Dalmatia (6). Dans une autre donation, où paraît le comte
Bertrand de Provence, on trouve ce méme Isnard de Volone et ses fils Geoffroi et
Isnard (7). Une autre charte nous donne encore Autrigus et Isnardus de Volona (8).
Cet Autrigus pourrait ètre le père de Pierre Autrigus, qui en 1057 signe ayec
Isnard de Niozelle, des seigneurs de Dromon, à la donation de Contes près de Nice,
faite par Miron vicomte de Sisteron (9).
En 1060 Pierre de Volone, fils d'Isnard et de Dalmacia, donne à Saint-Victor
son corps, son ame, l’aleu qu'il possède à l’Escale et à Beaudun (10). Par une autre
charte, ayant la date du 16 mars 1064, il donne des biens à Dromon, à Volone,
à Mandamnus: ego Petrus de Volona cuius pater Isnardus dictus est, mater vero
Dalmacia vocabatur ; à la fin de l’acte il signe Petrus Isnardi (11).
Or, nous trouvons en 1108 les seigneurs de Villevieille de Chàteauneuf Isnard,
(1) De Bernard Cais descond Gauffridus Caysus qui en 1256 est représentant de Val de Bloure
dans la transaction entre les seigneurs et le prieur bénédictin de S. Dalmas qui dépendait de l’abbaye
de Pédone; c’est è lui que remonte la généalogie de la famille Cais de Pierlas. La famille Cays de
Gilette, d’apràs les généalogies publiées, aurait une origine différente; sa filiation est prouvée depuis
les 4 frères Bertrand, Pons, Bérenger et Raymond, qui les premiers eurent la basse juridiction de
Peillon è la fin du xiv siècle. Les géncalogistes leur donnent pour père Jacques Cays, amiral d’abord
de Nice, puis du comte de Provence (le plus ancien document est celui où le comte de Vintimille en
41257 cède ses droits è la maison d’Anjou è la présence de Jacobi Chaissii (Arch. de Marseille). D'après
l’Audiffredi, géndalogiste Nicois, ils seraient fils de Raymond (Bibl. Mun. de Nice, ms. de D. Boniface).
Ce R. probablement frère de l’Amiral était notaire à Nice et ensuite secrétaire du comte de Provence
(Arch. de Turin, ms. de Gioffredo).
(2) Cart. de S. Victor, 718.
(3) Id. 744 Nous observons aussi le surnom de Montanus que porte ce Bermond; ne serait-ce pas une
tradition de Milo Montanus comte d’Apt et de Glandéves; Miron ou Odila ne seraient-ils pas les descen-
dants de ce puissant seigneur ?
(4) Id., 722.
(5) Id., 748.
(6) Ia., 744. On trouve trois Dolmatia mariges contemporainement è trois seigneurs de Dromon.
Elles étaient prob. de la famille de Gosfredus Dalmacii et de Pons Dalmacii (Cartul. de S. V., 1077
et 917), tige probable de la famille de Dalmas, dont il y a eu en 1246-1256 un Gosf. Dalmacii évèque
d’Apt. (JuLes pe TrRRIS, Les évéques d’Apt, p. 52).
(7) Id., 713.
(8) Id., 718.
(9) Id., 793.
(10) Id., ‘704.
{11) Id., 703.
SeRIE II. Tom. XXXIX. Ì 46
362 E. CAIS DE PIERLAS
Guillaume Talona, Pierre Autrigus, Raimond, faisant donation de cette église à
l’evéque de Nice, qui sont fils du quorndam Petri Isnardi (1).
Ce Guillaume Talon, d’après une charte du cartulaire de la cathédrale de Nice,
assiste à la donation faite par Hugues et Bertrand, fils de Guillaume Rostaing sei-
gneur de Val de Bloure (2). Les chartes de l'église d’Apt nous apprennent qu'il
avait épousé Pontia, fille de Raimbald de Nice et de Rixende d’Agout.
La chronologie, les prénoms, les relations des Volone avec Miron, dont le frère
l’evèeque Pons possédait Chateauneuf, nous font croire que les seigneurs de Villevieille
‘ viennent. de Dromon.
Les autres frères de Pierre sont: Boson, Taxil, Guillaume; vers 1060 ils s'ap-
prétent à reconquérir les chàteaux de l’Escale et de Beaudun qu'on avait enlevé aux
moines de Marseille, mais ils font serment à l’abbé Durand de ne pas les retenir (3).
Près d’un siècle plus tard, en 1171, nous trouvons ce mèéme chàteau de l'Escale
qui excite les convoitises de la famille de Volone, car les abbés de Saint-Victor font
intervenir Foulque de Volone au serment que préte Bertrand Raimbaldi de ne pas
Oter ce chàteau è l’abbaye; Rostaing de Beaudun, Torcatus de Castronovo, prennent
part à cet acte (4).
En 1180 Aldebert de Volone signe avee Jean de Dromon et Bertrand d’'Hyères
à la convention qui a lieu à propos des églises de Cornillon, l’Escale et Beaudun entre
l’abbaye de Saint-Victor et le chapitre de Chardavon (5).
Autre branche des seisneurs de Dromon est celle de Niozelle. Isnardus de
Nuacellas prend part à la grande donation de Dromon que nous avons citée (6).
En 1031 il donne aussi à l’abbaye de Saint-Victor l’église de Saint-Marcellin,
sise sur le territoire de Niozelle; sa femme s’appelle Dalmatia, ses fils Isnard, Guil-
laume, Rostaing, Isoard.
Isnard de Niozelle et son frère William interviennent, vers 1055, à la donation
faite à Saint-Victor par le comte de Provence de l’église de Forcalquier, donation
à laquelle signent aussi Raimbald de Nice et ses frères les deux vicomtes Miron et
Rostaing (7). Ensuite, en 1057 Isnard est témoin, avec Pierre Autrigus, à la donation
de Contes, village près de Nice, faite par Miron, vicomte de Sisteron (8).
La branche plus illustre, parmi celles qui sont sorties de Dromon, est, sans
contredit, celle de Mison.
Nous trouvons d’abord les deux premiers personnages de cette famille nommés
dans la donation de l’évéque de Gap, en 1030, Ysoardus de Misso et uxor eius
Dalmatia, Gualdemarus frater eius et uror eius Agnes firmaverunt (9). La méme
année ils prennent part avec leurs femmes à la donation faite à Saint-Victor par le
(1) Cart. eccl. cath. Nicensis, 3.
(2) Id. 23. Parmi les témoins nous cbservons Richerius.
(3) Cart. de S. Victor, 709.
(4) Id., 1109.
(5) Id., 870.
(6) Id., 713.
(7) Id., 659.
(8) Id., 793. Cfr. le nom de Pierre Autrigus avec celui de Villevieille.
(9) Id., 742. i
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 363
Volone, les Niozelle et les autres seigneurs de Dromon; interviennent aussi Pierre,
fils d’Isoard, et Ysoard, fils de Waldemar.
Pierre de Mison devient vicomte de Gap.
Dans une charte de 1045 il dit: ego Petrus vicecomes Guapincensis una
cum matre mea Dalmacia ac filio meo Isoardo et uzxore Inguilberga (1). Il donne
à l’abbaye de Marseille trois églises A Gigors (2), avec les terres qui en dépendent,
la moitié des dîmes et des marchés; ces églises, y est-il dit, ont appartenu un cer-
tain temps injustement à l’abbaye de Brème (3).
Le vicomte Pierre est nommé, vers 1050, par Pierre de Rosseto, vassal et
miles des seigneurs d’Apt, dans une donation qu'il fait de certains biens qui lui ont
eté donnés par Senzor meus Misonensis vicecomes Petrus et avec le conseil de son
fils, domini mei Isoardi (4).
Cet Isoard, fils de Pierre, devient à son tour vicomte de Gap.
En 1058 nous trouvons Isoardus et domina Dalmacia, sa grand’mère, qui
donnent des biens à Faucon (5); signe comme témoin Isnard de Mison (6). Son
identité nous est démontrée par une autre charte de 1062: Ego Isoardus vicecomes
Guapincensis et urzor mea nomine Petronilla et frater meus Bertrannus et avia
mea domina Dalmacia; ils donnent la moitié d’une condamine, leur héritage au
chàteau de Faucon, territoire d’Embrun, pour le bénéfice des moines de Saint-Vietor
qui habitent le prieuré de Gigors, quam videlicet cella pater meus Petrus vicecomes,
dedit sepe iam dicto momasterio (7). Parmi les témoins on trouve Ismido Broca.
Peu après, vers 1080, Isoard de Gap est qualifié de comte (8). Guillaume,
moine de Saint-Victor et prieur de Chorges, fait des réclamations à Ysoardo co-
miti et à l’archevéque d’Embrun à propos des droits de son église; ensuite Isoard a
quitte la Provence et combat en Espagne les Maures. Ses hommes d'armes, m7/zfes, ne
l’ont pas tous suivi; ils ont, au contraire, profité de son absence pour opprimer les
moines bénédictins; videntes quod terra remanserat sine potestate oppresserunt valde
monachos. Le prieur de Chorges, se dirige à la comtesse de Gap qui réside è
Gigors; il adresse à l’archevèéque d’Embrun et au comte de Provence les griefs
qu'il a contre le comte Isoard et contre ses vassaux, Pons de la Tour, Pierre de
Rosset et autres, qui empiètent à Chorges sur les droits du monastère. Le comte
d’Urgel en personne vient à Chorges pour une enquéte. Les milites Raoul Broca,
Pierre Rosset, Pons de la Tour, Maynfroid de l’Etoile, Arnaud de Flotte sont in-
terrogés et prétent serment. Les différents incidents qui sont rapportés dans cette
charte constituent un vrai tableau et présentent le plus grand intérèt au point de yue
juridique du moyen-àge.
Ici finissent les documents que nous avons sur les vicomtes de Gap.
(1) Cart. de S. Victor, 691.
(2) Gigors, canton de Turriers, arr. de Sisteron.
(3) Abbaye bénédictine dans le Novarais.
(4) Cart. de S. Victor, 695.
(5) Le Faucon du Caire arr. de Sisteron.
(6) Cart. de S. Victor, 694.
(7) Id., 692.
(8) Id., 1089.
3604 » E. CAIS DE PIERLAS
On pourrait hasarder sur ce point une ipothèse. Cet Isoard vicomte de Gap,
auquel, dans la dernière charte citée, on donne le titre de comte, ne serait-il pas
Isoard comte de Die, qui prit part à la croisade de 1095? Son fils, dans ce cas,
serait le Jausserand, dont le fils Isoard II, comte de Die, le 13 janvier 1168
prètait serment à Pierre, évèéque de Die, en promettant de respecter et défendre la
ville, ainsi que les chàteaux, possessions et priviléges dont jouissait l’église (1).
Nous savons qu’Isoard de Mison, vicomte de Gap et comte, avait un frère,
Bertrand de Mison (2); selon notre conjecture, la famille se serait divisée en deux
branches, l’aînée ayant acquis le comté de Die, la cadette ayant conservé le nom et
les fiefs paternels et ensuite celui de Mévouillon, transmis peut-ètre aux d’Agout.
Nous osons d’autant plus faire une conjecture sur ce point historique, que
les généalogistes ne sont absolument pas d’accord sur le père et le grand-père
d'Isoard II.
La Chenaye a cru que le premier de la race des comtes de Die a été Aimar
en 1189; il parle de Guillaume de Die, père ou grand-père d’Aimar. Guy Allard (3)
donne pour père à Isoard II un autre Isoard (4); Chorier dit que le comté de Die
passa aux comtes de Valentinois en 1189, mais que leur race n'était pas éteinte,
Alix aurait été comtesse de Die; l’abbé Ulysse Chevalier, avec beaucoup de raison,
croit que le petit-fils et l’aieul portèrent le mème nom (5). Nous nous rangerons
à cette opinion et nous ajouterons les motifs qui nous ont fait établir l’ipothèse ci-
dessus relativement à l’origine des comtes de Die.
La juridiction comtale sur la ville méme et le comté appartient à l’évéque à la
moitié du xn° siècle; ce sera ou par usurpation ou par concession qu’un Isoard,
puissant seigneur de la contrée, en aura eu, dès la fin du siècle précédent, une
partie assez notable pour que les chroniqueurs de la croisade lui donnent le titre
de comte (6). Par la mème raison la charte de Saint-Victor donne A Isoard de
Mison, vicomte de Gap, le titre de comte à la méme époque.
En effet, vers 1088-1089 il a dù exister dans la région un comte Hugues,
qui fut dépossédé de sa juridiction par excommunication du pape Urbain II (7).
Déjà en 1074 le pape Grégoire VII avait écrit un épître de menace à Guillaume,
comte de Die: clericos et cives urbis depredatus es (8). Rien d’étonnant qu’Isoard
de Mison, vicomte de Gap, à l’époque de la croisade, soit devenu comte de Die,
de moitié avec l’évéque. )
(1) « Ego Isoardus filius Jaucerandi et Beatricis » CuevaLIER, Cart. de léglise de Die, p. 28.
(2) Cart. de S. Victor, 692, 747.
(3) Guy ALLarD, Dictionnaire historique du Dauphiné.
(4) CHorIER, Hist. gen. du Dauphiné, p. 75. i
(9) CHEVALIER, loc. cit. n.
(6) « Isoardus comes Diensis ». Recueil des historiens des Croisades, Historiens Occidentaue ,
GuiLLauMmE DE Tyr, vol. p. 45, 265, 352..
(7) « Juratos milites Hugoni comiti ne ipsi quamdiu excomunicatus est serviant prohibeto. Qui
« sì sacramenta pretenderint, moneantur, oportare Deo magis servire quam hominibus. Fidelitatem enim
« quam christiano principi iurarunt, Deo eiusque sanctis adversanti et eorum precepta calcanti, nulla
« cohibentur auctoritate persolvere. Ebredumensi, Vapincensi et Diensi. episcopis ». Decretum magistri
Gratiani, edit. Lipsiae, p. 756. V. Jargg, Regest. Pontif., n° 4294, p. 695.
(8) Jarré, Bibl. Rerum Germanic. vol. II, p. 87.
LE XI SIÈECLE DANS LES ALPES MARITIMES 965
L'Isoard que nous croyons son petit-fils et lequel, à la moitié du xn° siècle,
porte le titre de comes Diensis, n’avait pas non plus la vraie juridiction comtale; les
droits qu'il paraît avoir sur le Diois semblent n’ètre parvenus A la famille que par
acquisition et depuis peu de temps, car dans le serment qu'il préte le 18 janvier
1168 à l’évéque Pierre il promet de respecter ses droits sur la ville de Die, de lui
rendre le chàteau de Luc sur simple requisition; il déclare de tenir en fief de 1'6-
glise dans la ville de Die et dans son mandement: quicquid in civitate Diensi vel
in mandamento eius habeo vel alius nomine meo et castrum de Luco (1) cum manda-
mento suo (2). Ce fief de Luc avait ét6 l’objet de longues contestations, div agitata,
avec l’évèque; en 1159 Raymond (3), comte de Toulouse et marquis de Provence,
avait prononcé jugement à cet effet entre l’évèque Hugues et Ysoardum comitem
Diensem; sont présents plusieurs évéques et séculiers, parmi lesquels le connétable
Guillaume de Sabran et Hugues de Baux; le comte Isoard prètera serment de fidé-
lité à l’évéque (4).
Quelques années après, Robert, successeur de Hugues et de Pierre au siége
épiscopal de Die, profite de la présence de l’empereur Frédéric à Arles pour obtenir
la confirmation de ces droits régaliens; ce sont: la ville, les chàteaux, le droit de
battre monnaie, les droits de marché, place, fours, moulins, ete. L’empereur concède
à l’evéque ces droits: quos antecessores tui habuerunt; la ville de Die ne devra
jamais avoir d’autre seigneur que l’évéque, statuimus ut prefata Diensis civitas et
ecclesia . . . nullo unquam tempore aliquem, excepto suo pontifice, dominum ha-
beat et possessorem, praeter Romanorum imperatorem; et ut nulla alia laicalis per-
sona ad ipsius civitatis dominium aspiret vel erigatur, in perpetuum imperiali edicto
interdicimus. Le 30 juillet 1178 (5).
Successivement l’empereur Frédéric II, le 23 novembre 1214 confirma ces
priviléges à l’évèque Didier; dans ce diplòme il est fait mention des droits que
nobilis mulier Isoarda tenait dans son évèché et dont elle avait passé reconnais-
sance 'à l’évèéque Humbert (6), comme ses enfants l’avaient fait a lui-mème (7).
Selon Guy Allard (8), Isoarde, fille d’Isoard II, comte de Die, aurait épousé Ray-
mond d’Agout, dont Isnard, Raymond, Bertrand. Chorier, au contraire (9), prétend
qu’Isoarde ait épousé Isnard d’Agout, et qu'elle porta dans cette famille les terres
de Mison, la Baume des Arnauds, le Luc, Volone, etc. Cette opinion de Chorier,
quoique inexacte sous quelque rapport, confirme cependant notre idée sur l'identità
de famille des vicomtes de Gap et des comtes de Die, puisque l’héritière des comtes
de Die avait les fiefs appartenant aux anciens seigneurs de Dromon.
(1) Luc, Arr. de Die, canton de Luc.
(2) CuavaLIER, loc. cit., p. 28 et CoLumBi Jon., De rebus gestis Valentinorum et Diensium episco-
porum, p. 23.
(8) Raymond V, fils d'Alphonse Jourdain comte de Toulouse.
(4) CHEVALIER, loc. cit.,'p. 44.
(5) Id., loc. cit. p. 4.
(6) Humbert évéque de Die 1197-4203.
(7) CHEVALIER, loc. cit., p. 8.
(8) Guy ALLarp, Mist. gen. du Dauphiné, p.89, 90, 208.
(0) Cuorier, Estat politique du Dauphiné, vol. Ill, p. 38.
966 E. CAIS DE PIERLAS
Les différents titres que nous venons de citer paraissent prouver que les évéques
de Die depuis plus d’un siècle avaient juridiction comtale sur la ville et le territoire
de Die, et le comte Isoard de Mison pouvait bien s’en étre.approprié une partie de
1089 a 1095. D’autre part on observe de nombreux traits-d’union entre les seigneurs
de Mison, vicomtes de Gap et le comté de Die.
Dès 1146 on trouve Bertrand de Mison qui préte hommage au comte Ray-
mond Bérenger à Tarascon avec Boniface de Castellane, Raimbald de Beaujeu, Férald
de Thoar, Raymond Laugier (1). En 1150 il signe à Lambesc l’acte d’arbitrage entre
Guillaume de Signe et l’abbaye de Saint-Victor (2).
En 1220 on trouve un Bertrand de Mison qui regoit en fief de l’évéque de
Die le chaàteau de Recoudbeau (3), situé dans ce mème canton de Luc qui avait
fait le sujet de longues contestations entre l’évéque et le comte Isoard de Die.
Ce Bertrand de Mison porte aussi le titre de Mevowillon.' L'importance de
ces seisneurs résulte manifeste par un diplòme de l’empereur Frédéric du 8 aoùt
1178, par lequel il permet à Raymond de Meévouillon de tenir en souveraineté ses
états présents ou ceux qu'il pourra acquérir dans la suite (4).
Un autre représentant de la famille de Mévouillon est Raymond le hossu, g7-
bosus, fils d’autre Raymond, dont la fille Galburge le 2 juin 1247 épousa Lambert,
seigneur de Monteil, fils de Hugues Adhémar; elle regut en dote plusieurs villages,
parmi lesquels Jarjayes, Curel et. Montfroc, dans la vallée du Jabron et près de
Sisteron, berceau de la famille de Mison, Vers, dans la vallé de Meauges et Revest
du Bion, près de Sault (5).
Raymond de Méyouillon a une seur, Azalmos, qui possède les chàteaux de
Gensac et de Barnave, au canton de Luc, et en 1227 elle les vend.à l’évéque
de Die; elle s’allie aux Sabran, son fils s'appelle Rostaing de Sabran (6).
Les descendants des seigneurs de Mison vers la moitié du xt° siècle ne possé-
daient pas seulement des terres dans le comté de Sisteron et dans celui de Die, mais
aussi dans celui de Gap, dont Isoard était anciennement vicomte; lorsque, en 1239,
Bertrand de Mévouillon donna sa fille Galburge en mariage à Guillaume de Baux, il
lui assigna toutes ces possessions dans ce dernier diocèse, chàteaux, villes, seigneuries,
vassaux, en se réservant seulement l’usufruit; sa femme Béatrix aura aussi la jouissance
du chàteau de Mison (7). En l’année 1248, le 1° juin, Guillaume de Baux fait
son testament et nomme bhéritier universel le fils è naître de sa femme Galburse
pour tous ses biens, y compris ceux de Sardaigne. Il meurt; Béatrix (8), mère de
Galburge, vend au comte de Provence ses droits sur Mison (9); Galburge, l’année
(1) Papon, Histoire de Provence, vol. II, p. 230.
(2) Cart. de S. Victor, n. 966.
(3) CpevaLiER, loc. cit., p. 62.
(4) ld., Ordonnances des rois de France et autres princes souverains relatives au Dauphine,
prin
(5) Id., Cart. de la ville de Montelimar, p. 29.
(6) Id., Cart. de l’eglise de Die, p. 65 et 67.
(7) Arch. de Marseille, série B, n. 364, et A. BartAHLeMI, Cart. de la famille de Baua, n. 284.
(8) Beatrix épousa en secondes noces Philippe de Lavena dominus de Certo. Du Roure, Notice
historique sur une branche de la famille de Sabran, p. 37.
(9) Arch. de Marseille, loc. cît., n. 362.
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 307
suivante, en fait autant pour le prix de deux-mille livres tournois, dont 50 seront
réservés pour Decan, abbé de Saint-Michel de la Cluse (1), comme haut seigneur de ce
chàteau (2). Mison passa ainsi des seigneurs de Dromon aux comtes de Provence, qui le
cédèrent ensuite à d’autres familles.
Avant de finir ce chapitre nous tenons à faire une remarque essentielle sur la
comtesse de Die, amoureuse du troubadour Raimbald d'Orange et poéitesse elle-mème.
Son nom paraît avoir 6t6 Béatrix. Selon plusieurs auteurs elle serait fille de Guigue
d’Albon et aurait épousé Guillaume de Poitiers (1142-1162) en portant dans sa
famille le Diois (3). On nous permettra de faire, aussi pour ce point historique, une
nouvelle ipothèse: la comtesse de Die, à laquelle Raimbald d'Orange a dédié plusieurs
poésies, ne serait autre que la femme de Jausserand, comte de Die; la chronologie
n’y contredit pas, son nom est aussi Béatrix, le titre de comtesse de Die n’aurait
pas été porté par l’héritière du comté de Die en devenant la femme du comte de
Poitiers.
Les documents que nous connaissons ne nous permettent pas d'établir si ces
seigneurs de Mison et de Mévouillon déscendaient directement ou par les femmes des
seigneurs de Dromon, mais il nous paraît assez prouvé que ces derniers soient les au-
teurs des comtes de Die.
XXVI.
L’autorité vicomtale à Nice au commencement du XII° siècle.
Avant de finir cette étude sur le xI° siècle dans les Alpes Maritimes, il est in-
téressant de s’arrèter sur l’importante évolution qui eut lieu à Nice, pour ses insti-
tutions politiques, dans les premières années du siècle suivant.
Gioffredo a cru que le régime consulaire était établi è Nice dès l'année 1108
et que Raimbald, le croisé de 1095, était en cette année premier consul de notre
ville. I primi ch'io trovi aver portato i titoli di consoli della città di Nizza mi
si presentano sotto l’anno 1108 e sono: Raimbaldo d'Orange, Franco Raimbaldo,
Laugero e Guglielmo Assalit (4). Ensuite dans sa table généalogique on trouve :
Raimbaldo cognominato d'Orange dopo aver militato in Soria fu console di Nizza
nel 1108 — Risenda d’Apt, sa femme.
(1) L’abbaye de S. Michele della Chiusa en val de Suse. Cfr. pour l’abbé Decan, AvoGADRO DI
VaLpenco, Storia dell’Ab. di S. M., p. 53 et G. CrarETTA, Storia diplom. dell’antica Ab. di S, M., p. 46,
213, 233.
(2) Arch. de Marseille, loc. cit., n. 494, 495. ò
(3) V. MicLor, Hist. des troubadours, vol. I, p.170. — Recueil des historiens des Gaules, vol. XIV s
p. 428 et vol. XVII, p.70.— A. Tzomas, Francesco da Barberino et la littérature Provencale en Italie,
p.124. — Cet auteur dit que le seul texte qui assure que la comtesse de Die, était femme de Guil-
laume de Poitiers est discutable. La viello chronique des troubadours s’exprime ainsì: La comtessa
de Dia si fo moiller d'en Guillelm de Peitieus, bella dompna e bona; et enamoret se d’en Raembaut
d’Aurenga e fetz de lui mains bons vers. Et aqui sont escriutas de las soas chansos. Rarmonp, Choia
des poésies des troubadours, vol. V, p. 123.
(4) GiorrREDO, Storia A. M., vol. II, p. 2.
368 E. CAIS DE PIERLAS
Tous les écrivains, postérieurs A Gioffredo, qui se sont occupés de l’histoire de
Nice ou du droit communal en Italie, ont fixé la date de 1108 comme épeque où
Nice possédait les institutions communales.
Quant A Durante (1), il parle de municipe dès l'année 1011; ensuite, après
avoir parlé d’une prétendue guerre civile en 1066 entre deux factions dirigées par
deux familles rivales, Cais et Badat, l’une dévouée au souverain, la seconde cher-
chant un gouvernement républicain, il nous dit, avec son assurance ordinaire, qu'il
a trouve que des Vannée 1108 Nice portait le titre de Municipalité . . . . (2).
Raimbald d'Orange, seigneur de Castillon, un des cadets de l'illustre famille de
ce nom, qui a donne dans la suite des souverains à l'Europe, épousa, au com-
mencement du onzième siècle, Guillelmine Cais de Nice, laquelle lui apporta en
dote plusieurs fiefs dans le comté. Ce seigneur ayant ainsi acquis le droit de cite,
obtint la première magistrature du gouvernement municipal ; on lui adjoignit trois
autres collègues: Frangois (/) Raimbaud, Pierre Laugiero et Guillaume Assalit,
lesquels recurent le titre de consuls (3).
Datta (4), l’écrivain sur Nice le plus sérieux après Gioffredo, cite naturellement
les consuls dont parle ce dernier, mais il a soin d’ajouter que celui-ci non giustifica
la narrazione con documenti. La preziosa fonte a cui attinse Gioffredo andò
perduta; et en parlant des assertions de Durante sur l’origine des institutions com-
munales dans notre ville, il observe que celui-ci non indica documento a sostegno
del suo dire.
Tel était, il y a neu de mois encore, l’état de la question. Il était grandement
déplorable que Gioffredo , qui nous a conservé un trésor inépuisable de documents
regardant Nice, eut négligé de transcrire une pièce si importante pour l’histoire de la
ville et pour celle du droit communal; d’autre part il était difficile d’admettre que
Raimbald, comte d’Orange, descendant des vicomtes de Nice, ayant une très vaste
puissance féodale dans plusieurs comtés de Provence, ayant commandé une division de
l’armée chrétienne au siége de Jérusalem, dont la fille avait épousé un des comtes
de Montpellier, en un mot, un des plus puissants personnages de Provence , etit
accepté le ròle, relativement secondaire, de magistrat communal de notre ville.
C'est ce que nous disions dans ce mème Mémoire lorsque, il y a quelques mois,
nous le présentàmes à l’Académie des Sciences. Bientòt après, la découverte que nous
fîmes du Cartulaire de l’ancienne cathédrale de Nice nous donnait raison et tranchait
la question. Nous avons publié ce cartulaire précieux (5). On y verra la charte en
question (6), que nous avons donné en fac-simile, dans le but, qu'on nous pardonne
(4) DURANTE, Histoire de Nice, vol. I, p. 161, 164.
(2) Durante donne l’annotation suivante: Arch. Lerin. et Mon. S. Pont.; ms. delle cose di Nizza,
bibliot. Ardisson !
(3) Id. Arch. antig. Civit. Nie.; ms. delle cose di Nizza, bibl. Ardisson!
(4) Dara, Delle libertà del Comune di Nizza, p. 7.
(5) Deux feuilles du Cartulaire existaient depuis près de deux sièeles dans les archives d’ État
de Turin. Nous sommes heureux d’annoncer que sur notre demande, le Ministère Italien, par ordon-
nance en date du 8 fev. vient ‘de restituer au chapitre de Nice ce petit fragment. C'est un acte de
générosité et de justice dont nous nous permettons de témoigner ici les plus vifs sentiments de
reconnaissance.
(6) Cart. eccl. cath. Nicensis, 48.
LE XI SIÈECLE DANS LES ALPES MARITIMES 369
de dire cela, de réparer complètement à& la faute de Gioffredo. On verra dans cette
charte qu'il n’est pas question® de consules, mais de potestates Nicie Civitatis. Les
quatre personnages qui portent ce titre sont: Raimbaldus Awrasicensis, Franco,
Raimbaldus Laugerii, Guillelmus Assalit. Sur ce point Gioffredo avait aussi commis
une très grave faute de transcription en lisant Franco Raimbaldo et Laugerio, car
en écrivant correctement le nom de ces personnages on remarquera que les trois
premiers, peut-ètre mème le quatriòme, sont des cousins germains et petit-fils de
Raimbaldus de Nicia, frère de Rostagnus vicecomes, ceux-ci fils de Laugerius
rector, soit vicomte de Nice.
En effet, Raimbald de Nice a eu pour fils: 1° Bertrand, que nous avons prouyé
ètre le père du comte Raimbald d'Orange; 2° Rostaing, soit Rostagnus Raimbaldi
(marié en 1057 avec Accelena (1), fille de Franco, vicomte de Fréjus), qui est le père
de Franco; 3° Laugier le Roux, qui, nous l’avons vu, a pour fils un Raimbald,
c'est le Radmbaldus Laugerii de notre charte; 4° Raimbald; on peut faire, au
sujet de la descendance de ce dernier, deux suppositions: la fille unique de Raimbald
aurait épousé Guillaume Assalit, en lui portant sa part des droits sur Nice, ou
‘plutòt le fils de Raimbald serait le Guzllelmus Raimbaldi, temoin en 1109 (2), qui
porterait aussi le surnom provengal d’Assalit (3).
Nous ne trouvons pas représentés ici les descendants du vicomte Rostaing, frère
de Raimbald de Nice; la charte de leur consentement se sera perdue, mais leurs
droits féodaux sur Nice sont prouvés par les chartes relatives à la transaction de 1152
entre Laugier de Gréolières, arrière petit-fils du vicomte Rostaing, et l’érèque de
Nice (4). Le titre qu'ils portent dans cette charte, de Potestates, n’avait évidemment
aucun rapport avec la charge de magistrat judiciaire qui fut établie dans les répu-
bliques italiennes bien plus tard, ce titre équivalait & celui d’autorites de la ville,
soit de vicomtes. Ce n’était pas l’autorité consulaire ou judiciaire, mais la vicomtale,
comprenant le pouvoir civil et judiciaire, délégation du comte suzerain, qui peu è
peu s'était rendue héréditaire et presque féodale.
En effet, dans notre charte les quatre potestates exercent la juridiction féodale,
car par cet acte ils reconnaissent et autorisent les donations ou les ventes que leurs
vassaux ,- honores suorum hominum, ont fait ou pourront faire à l’église de Nice;
c'est donc la suprématie juridictionnelle, le lien féodal sanctionnant l’acte des vassaux
et le rendant valide et légal; l’autorité consulaire ou judiciaire n’aurait pas pu ar-
river jusque là (3).
Le titre de potestas se trouve usité dans ce sens dans une autre charte de notre
(1) L'autre sceur Aldegarde avait épousé Guillaume le jeune, vicomte de Marseille. (Cart. de S. V.
565, 577). Une charte du cart. de Lérins (p. 324) de 1174 ferait supposer qu’è la génération suivante
le nom de Rostagnus Raimbaldus et de Franco s'est répété; nous trouvons ces deux seigneurs pos-
sédant Trans.
(2) Cart. eccl. cath. Nicensis, 23.
(2) Cfr. les annotations sur Assalit è notre cartulaire, préf. p. XV.
(&) V. chapitre XX du présent Mémoire, p. 65 et suiv.
(5) On remarque encore les expressions de la charte, surtout les paroles: donant, concedunt,
celles de honores suorum hominum, et la rubrique de la charte: quod liceat canonicis habere dono
potestatum honores, sive dono vel emptione.
Serie II. Tom. XXXIX. 47
370 E. CAIS DE PIERLAS
cartulaire (1), & propos de la donation faite en 1022 par Thiband et sa femme
Hélène de certains biens qui leur étaient parvenus par les comtes Guillaume et
Rotbald et par Miron. Thibaud ajoute: et sî est nullus episcopus qui ista cartula
donacione frangere voluerit ad potesta de illo loco revertat; il s’agissait évidemment
de Miron méme, mari de Odila, qui avait concédé cette possession à Thibaud, ou
de Laugier, appelé rector bientòt après.
Parcillement en 1041 on trouve, dans une charte du cartulaire de St-Victor (2),
que certains seigneurs donnent et restituent 4 l’abbaye, feus quos tenuerunt patres
nostri ct nos usque ad presens per seniores et potestates Massilie.
Un diplome de Raymond Bérenger de l'année 1153 (3) fait allusion aux pri-
viléges concédés dans notre charte de 1108 par les potestates ou vicomtes: donum
quod potestates Nicie ecclesie tibi commisse concessisse noscuntur, ut videlicet cuique
civium licentia pateat de rebus suis et possessionibus quamlibet absque impedi—-
mento partem offerre.
XXVII.
Le droit communal succède au droit féodal des vicomtes.
L'établissement du régime communal A Nice eut done lieu aprés l’époque qu'on
avait fixé jusqu'è présent, mais aucune des chartes que nous avons dernièrement dé-
couvertes ne peut en établir la date précise, ou les circonstances qui amenèrent cet évé-
nement. Nous y apprenons pourtant que dès 1144 il existait un consul à Nice en la
personne de Guillaume Badat, dont le témoignage 4 la cession du Campum Martis
par le comte Guillaume de Vintimille et par Rostaing Raimbaldi, son beau-frère, est
suivi par les paroles: qui tune consul cram (4). C'est le plus ancien consul que nous
ayons retrouvé. Deux ans après, en 1146, le cartulaire nous fournit les noms des
consuls, Paulus Raimbaldi, Roimundus Serene, Guilletmus Richardi, Raimundus
Foroiuliensis , Petrus Bermundi, Guillelmus Goubaldi; comme on voit, ils sont
au nombre de six (5). Gioffredo de nouveau ici est fautif; car, sans citer aucun do-
cument, il donne en cette année quatre consuls seulement, en éliminant les deux
derniers
Sans pouvoir entrer, dans ce Mémoire, à discuter la grave question de l’établis-
sement du consulat è Nice, nous devons cependant exprimer l’idée que c’est vers
1145 que le régime municipal a été institué à Nice. Aucun document ne vient, pow
le moment, explicitement è notre secours, mais il est utile de remarquer les coinci-
dences suivantes.
(4) Cort. eccl. cath. Nicensis, 18.
(2) Cart. de 8. Victor, 4107.
(3) Cart. eccl. cath. Nicensis, BA.
(4) Sd., 47,
(5) Id., 24 et 25.
LE XI SIÈECLE DANS LES ALPES MARITIMES 371
Nous trouvons en 1146 six consuls, tandis que peu d'années après, vers 1147,
vers 1150 et en 1151, il n’y en a plus que quatre (1); c'est justement à l’exorde
des institutions que leur forme varie plus facilement.
Ensuite, il faut se rapporter à l'état politique de la Provence à cette époque.
D'abord la révolte des seigneurs de Baux, en 1140 la prise de Vintimille par les
Génois, en 1143 la mort de Raymond Bérenger laissant un seul fils, encore enfant.
sous la tutelle de Raymond Bérenger, comte d’Aragon, la venue de ce prince à Nice
en 1146.
Les villes de Provence, Nice surtout, durent recevoir le contre-coup de ces trois
événements. La famille de Baux combattait A outrance et avec elle bien des seigneurs
des Alpes Maritimes; les familles vicomtales elles-mèmes, par raison de leur proche
alliance, devaient s'ètre rangées contre le suzerain. Rien, par conséquent, de plus
naturel chez le comte de Provence que de permettre l’institution des municipes
pour détruire l’influence et l’autorité des grands vassaux et des anciens vicomtes;
aussi, à part quelques exceptions, les familles consulaires ne paraissent pas descendre
des familles vicomtales, qui à cette époque ne conservèrent que le pouvoir féodal
dans le comté. C'est, au contraire, les anciens vassaux de ces seigneurs et de l’église,
leurs homines, qui tiennent le consulat, ainsi que nous l’avons remarqué dans le
chapitre précédent; c’était le pouvoir du suzerain qui s’établissait plus fortement,
à l’aide de l'élément populaire, en renversant l’organisation féodale pour fonder la
municipalité.
L’église, de son còté, en désaccord constant avec les familles vicomtales, soit
à Nice pour l’administration de la justice, dépendance des droits qu'elle y avait
acquis en 1117, soit dans le comté où elle possédait tant de droits et de do-
maines, ses intéréts se trouvaient aux prises avec ceux des grands vassaux; elle
était done portée à favoriser l’élément nouveau et l’organisation naissante qu'elle
pensait de pouvoir mieux dominer.
Déjà vers 1115 l’évèque de Nice devait avoir une position éminente et ju-
ridictionnelle, puisque c’est à lui que s’adressent l’archevèque, les consuls et les
vicomtes de Pise pour présenter les excuses du peuple Pisan, dont les galères avaient
causé des dommages aux armateurs Nigois (2).
En 1117 l’évèque acquérait de Jausserand Laugier les droits féodaux sur Nice
qui lui appartenaient.
En 1152 il faisait reconnaître ses droits féodaux sur Nice et en donnait l’in-
vestiture personnelle à Laugier de Gréolières.
En 11583 il plagait son église sous la sauvegarde de Raymond Bérenger, comte
de Barcelone; le diplòme nous démontre que l’église devait avoir à Nice mème de
redoutables adversaires, car il y est dit: ut ecclesiam sibî commissam ... a pra-
vorum hominum inquietudine tueremur, humiliter postulavit (3).
L’église obtenait des priviléges d’immunité en matière judiciaire et financière.
(1) Cart. eccl. cath. Nicensis, 62, 51, 26.
(2) GiorrrEDO, Storia A. M., vol. 2° p. 11.
(3) Cart. eccl. cath. Nicensis, 84, et Jorr., Nicea Civitas, p. 173.
372 E. CAIS DE PIERLAS — LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES
Le régime consulaire, paraît-il, ne lui fut pas plus favorable que le régime
féodal, car de nouvelles querelles surgissaient entre l’église et la commune; mais en
1157 (1) elle réussissait à transiger convenablement. Depuis lors elle paraît avoir
généralement maîtrisé l’autorité communale ou marché de pair avec elle.
Dans le synode tenu à Embrun en 1159 l’évèque Arnald mentionne encore
ommem honorem Nicensis civitatis vel territoriù ad ecclesiam pertinentem (2).
Le changement de régime à Nice peut aussi avoir été déterminé par l’approche
de la république de Gènes, qui ayant des convoitises sur notre ville, pouvait plus
facilement arriver à ses fins par le renversement de l’autorité féodale et par l’ins-
tallation d’un régime plus populaire, plus indépendant, plus assimilable. Aussi voyons
nous dans les premières familles consulaires celle des Riquieri, vassaux de l’église et
très favorables aux Génois (3).
En troisièéme lieu, la minorité du comte de Provence peut avoir décidé les Ni-
cois à demander le régime communal que le prince d’Aragon aura accordé comme
moyen plus sùr d’obtenir la fidélité de cette extrème partie de la Provence, plus
exposée à défectionner si on n’était pas généreux avec elle.
Les chartes de liberté n’étaient pas autant une sauvegarde contre l’arbitre des
suzerains, qu’une assurance en faveur des deux contractants contre l’autorité des an-
ciens vicomtes, qui, du haut de leurs nombreux chàteaux, faisaient encore trembler
les comtes de Provence eux-mèmes.
Trop de motifs faisaient donc, à cette époque de 1143, une nécessité de l’ins-
titution du Municipe, pour que cette année-là ne soit pas précisément la vraie date
de son établissement.
(4) Cart. eccl. cath. Nicensis, 87 et Jorr. Nicea Civitas, 175. Gioffredo a fixé è l’année 1159 la date
de cette charte, mais les éléments chronologiques se rapportent è l’ année que nous indiquons, ainsi
que nous en avons fait l’observation dans la préface du cartulaire, p. XVIII.
(2) Cart. eccl. cath. Nicensis, 86 et Jofredi Nicea Civitas, p. 175. Dans la transcription de cette
charte Gioffredo a laissé, parmi d’autres, aussi la parole honorem, très importante, comme on le voit.
(3) Cfr. Cars pe PierLas, Testament de Jourdan Riquieri au x1 siècle.
DOCUMENTS INEDITS
Breve rememorationis de placito quem fec[erunt] Poncius de Alanzone et Rai-
mundus Rostagnus cum Comite Furcalcheriensi. Juraverunt ei suam vitam et sua membra
et sua castella et suas civitates, quod illi non li on tolguessan, ni om ni femina per
lur consel ni per lur consentiment, ni non lo guerreian ni guerreiar nol fazan et ad-
jutorium contra omnes homines, excepto contra Comitem de Barcilona, et si el o sui
homines prennian aver de la terra del Conte, dedit ei obsides quod intra xL dies
qu’en comonria unum de illis, aut homo per suum mandamentum, l’ayers fos renduz
cabaniament e si non o era, li ostage tornarian in Manuasca pos o sabrian, e non
s'en deslurarian sans consel del conte, si in anz l'aver non avian rendut; e quals que
doves la dezena part fos deslures et istar in ipsa conveniencia quantum Poncius de
Alanzone viveret. Isti sunt obsides Vilelmus Raimundus, Bertrannus de Vinone, Ugo
de Gresols, Petrus Ugo, Vilelmus de Gresols, Poncius Marselles, Petrus de Sancto
Juliano, Guigo de Montebruso, Gaufredus de Genascervias, Ugo de Rianz.
(Archives de Marseille, série B, n° 276).
II.
Audi tu Gauzfre, filius Girberga, et tu Stefania, uxor eius. Ego Aicardus et
Joffredus filii Accelena, non te decebremus te, Gauzfrede comes suprascripte, et uxor
tua Stefania, ne filios masculos que de ista muliere abueris de vestras vitas ne de
vestris menbris que ad corporibus vestris juncti sunt, nec nos nec homo nec femina
per nostrum consilium ne consentimentum, ne vos decebremus vos suprascriptos de ipsa
claustra de Aquis de ipsas fabricas ne de illas turres que Vuido tenet per te Gauz-
frede et que juratas tibi abet, ne de ipsas dominicaturas, quem pater tuus Vuilelmus
ibi abebat uno anno antequam mortem accepisset, exceptis tantum quantum Pontius
hen tenet de ipso archiepiscopato ad sua vita, que tu Gauzfrede illi datum abes, et
adjutores tibi erimus ego Aicardus et Josfredus fili Accelena ad recuperare et tenere
illa dominicatura de Heras et de Fossis quem Vuilelmus comes tenebat uno anno ante-
quam morte accepisset, apud fidem et sine henganno, et si homo aut femina tibi
Gauzfrede, tulerit fidem nec societatem ab illas non abuerimus nisi per ipsa honore
adrecuperare. (Archives de Marscille, série B, n° 276).
374 FE. CAIS DE PIERLAS
III.
Carta de decimo Lautardi et de turre Episcopali.
Notum sit vobis omnes homines qualiter Teudricus sedis Aptensis Episcopus et
Faraldus seu Waraco et eorum sequentes hic constituerunt in parabolis Lautardo pres-
bytero in podio quae vocant Tintenno de decimum torre Episcopale ad ecclesiam sive
ad Fpiscopum pertinentem, hoc est tantum quantum ibi procedit quae Leutardus plures
annos tempore praeterito tenebat ad usum necessaria, ad fidelitatem Sancti Petri sive
Episcopi. Et Faraldus volens triginta solidos dare Episcopo pro decimo et non recepit
hoc, sed semper Leutardus pulsat et petiit petitio recta quod juste tenere debet et
Faraldus quod injuste quaerit dimisit eum totum coram cunctis ipsum decimum, ut
dum ipse viverit teneat sicut tenere solet per talem conventum, ut nullum servitium
impendat, nullum hominem, nisi Sancto Petro, in eodem loco constituto, unde Leu-
tardus ordinatus fuerit presbyter. Valete super petrata in Christo per tempus et tempora.
(Cart. Aptense, fol. 16).
IV.
Carta de Garaco quam fecit Imberto pro honore
quem dedit pro fori facto.
Magnus est titulus donationis atque cessionis quem nullus inrumpere posset actuum
largitatis. Idcirco Ego Guaracho tibi cedo Umberte aliquid de haereditate mea per foras
factum quod tibi feci, ut cum te finem habeam. Sunt ipsas res in comitatu Aptense
in castro Casanova et in terminium suum, una medietatem de decimis et in villa
Calvisias et in suum terminium, quantum mihi pax obvenit, hoc est tertiam partem
in Argallo quantum mihi pax obvenit; subtus Gargatio quantum mihi pax obvenit
et in Gurgis vinea et campis quantum mihi pax obvenit; in Clavagiana et in Baxo
et in Lausnava quantum mihi pax obvenit; hoc et duas partes subtus castro Bonilis,
in villa Ersianicus de vineis modiatas duas, et facias tu Umberte de ipsas res quidquid
volueris, habendi, vendendi, dandi et commutandi sive possidendi tuisque haeredibus
derelinquendi. Sane si quis ego aut ullus homo vel de propinquis meis parentibus aut
ulla apposita vel subrogata persona qui contra hane donationem venire inquietare aut
irrumpere voluerit non valeat vindicare quod repetit, sed componat in vinculo auri
libras decem et in antea haec donatio firma et stabilis permaneat, pro omni firmitate
subnixa. Facta donatione ista idus Novembris, regnante Chuonrado rege indictione sexta.
Signum Guaraco qui hanc donationem scribere fecit et testes firmare rogavit, manus
sua firma Teudericus Episcopus, qui voluit et consensit et firmavit. Pontius firmavit,
alius Poncius firmavit, Rodbertus firmavit, Bermundus firmavit, Rainardus firmavit,
Petrus presbyter rogatus scripsit.
(Cart. Aptense, fol. 10 et 11).
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 375
V.
Donatio Garibaldi de vinea subtus Roca.
In nomine Sanctae et Individuae Trinitatis et in amore divini eloquii, sicut Do-
minus dicit in Evangelio: in primis Deum diligere ex toto corde et ex tota anima et
ex omnibus viribus et proximum sicut te ipsum. Igitur ego Garibaldus in Dei nomine
subsequens altitonantis potentiam considero casum mortis et ut Dominus me eripere
-dignetur de manibus inimicorum meorum et de faucibus inferni, propterea cedo, ces-
sumque in perpetuum esse volo et de meo jure, in potestate sanctae et intemeratae Dei
Genitricis Mariae, videlicet Aptensis ecclesiae et Sancti Castoris Confessoris Christi,
qui ibidem humatus quiescit in illorum trado jure et dominatione perpetualiter, in
Dei nomine ad possidendum, vel rectoribus Sanctae supradictae ecclesiae ad regendum;
haec sunt res proprietatis meae in pago Aptense, in loco nuncupante subtus Roca, quae
mihi ex alode parentorum meorum obvenit in supradicto loco, cedimus Sanctae Mariae
et Sancto Castori de vinea culta quartariatam et de terra culta modiatam unam,
cum ipso casale qui desuper aspicere videtur totum et ad integrum quantum ibi habeo
Sanctae Mariae et Sancto Castori concedo pro remedio animae meae: ut me Dominus
adjuvare dignetur de manibus inimicorum meorum. Et habent ipsas res consortes de
subteriore parte terra supra nominatae ecclesiae, de superiore fronte ipsa roca et de alio
fronte Apollonio comite vel suos haeredes, ita ut ab hac die et deinceps in antea in
potestate Sanctae Mariae et Sancti Castoris et rectoribus ipsius permaneat. Et si est
aliquis qui abstrahere cupiat, non valeat revindicare quod repetit, sed insuper iram
Dei incurrat et cum Dathan et Abiron particeps sit in infernum et insuper libram
auri coactus obsolvat. Signum Grimaldo teste, signum Teudardo teste, signum Abone
teste, sienum Poncione teste, siegnum Griselmo teste.
(Cart. Aptense, fol. 51).
VI.
De praestaria decimarum Sancti Saturnini.
Sacro Sanctae Dei ecclesiae quae constructa esse videtur in honore Dei genitricis
Mariae Sanctique Castoris confessoris Christi in civitate Aptense, ubi praeesse videtur
Domnus Nartoldus humilis Episcopus, ego in Christi nomine Poncius et conjux mea
Hermengardis cedimus ad supradictas casas Dei, sive ad Dominum Episcopum, vel ad
clericos ibidem servientes, in Comitatu Aptense in territorio de Castro Rossilione in
loco qui dicitur Silvolas subteriores vineas et terram ad ipsam vineam pertinentem
quamtum ibi ex parte genitricis meae legibus obvenit vel obvenire debet totum et ab
integro dono atque transfundo, a die praesenti et in antea, propter praestariam de
decimis quam mihi et uxori meae Hermengardi et uni haeredì nostro filio cui nos ipsam
praestariam .dimiserimus praenominatus Episcopus facit, hoc est de Sancto Saturnino
376 E. CAIS DE PIERLAS
et de villa Agnana et Antignanicus ubi sunt ecclesia videlicet Sancti Stephani et.
ecclesia Sancti Sulpitii et Sancti Filaberti, ita ut dum ego Poncius et conjux mea
Hermengardis vixerimus teneamus et possideamus, post nostrum vero obitum ad unum
filium nostrum, cui nos dimiserimus, perveniat; post illius vero decessum ad Sanctam
Mariam et Sanctum Castorem vel ad Episcopum, qui in eodem loco praefuerit, rever-
tantur ipsae decimae; eo autem tenore donat nobis praedictus Episcopus ipsas decimas
ut omnes presbyteri qui in illis ecclesiis sive in aliis in eodem Episcopatu Aptense
in nostris villis extiterint per manum Episcopi teneant altaria et cum consilio et vo-
luntate Episcopi ingrediantur et donum quem in parrochiis nostris donaverint tertiam
partem Episcopus habeat, et in mense Madio unusquisque arietem optimum persolvat
et in Octobrio poreum censualem donet et in fidelitate Episcopi permaneant, sicut re-
ctum est; et donec ipse Poncius et uxor ejus pro ipsis decimis omni anno in censum,
sive filius illorum, qui istam praestariam tenuerit, in mense Majo arietem cum agno
optimo et ad festivitatem Sancti Castoris modium unum inter panem et vinum et.
porcum valentem solidos duos, et pro luminariis ecclesiae nostrae denairatas sex.
Et faciat praenominatus Episcopus de ipsa haereditate quidquid facere voluerit in Dei
nomine liberam ac firmissimam habeat potestatem sine contradictione ; et si Episcopus,
illis viventibus, migraverit et alius in loco illius introierit quindecim solidos ad introi-
tum illius persolvant. Sane si quis nos aut haeredes nostri aut ulla obposita persona,
qui hanc donationem contrariare temptaverit, non vindicet quod male inquiret, sed
componat in vinculo auri obtimi libram unam, et in antea haec donatio inviolabilem
obtineat vigorem. Facta donatio ista in civitate Aptense, secundo kalendas Maii, anno
quadragesimo primo regnante Chuonrado rege in Christi nomine feliciter. Signum
Poncii et uxoris sua Hermengardis qui hanc donationem scribere et firmare rogavit,
manu sua firma. Nartoldus Episcopus relegit et subscripsit.
(Cart. Aptense, fol. 33).
VII.
3 De decimis Sancti Saturnini et ejus villarum.
Breve memoratorium de convenientia facta inter Alphantum episcopum et Pon-
tium Pulverullum tali tenore digesto. Ego in Christi nomine Pontius Pulverullus sequens.
praestariam cum domino Episcopo Aptensi Alfanto quam avus meus Pontius fecit cum
Nartoldo episcopo praedictae sedis, confirmo donum de vinea quae est in Silvolas
subteriores cum omni terra ad ipsam vineam pertinente, propter praestariam praedictam
de decimis quae sunt in villa S. Saturnini et in villa Agnana et in Antinianicos ubi
sunt ecclesiae S. Stephani et S. Sulpicii et S. Filaberti ut habeat Episcopus ex ipsa
vinea et ex ipsa terra potestatem ad faciendam suam voluntatem omni tempore. Et
ego Pontius habeam potestatem habendi praedictas decimas, salvo censu qui scriptus.
est in ista praestaria quam diu ipse Episcopus vivet; eo tenore donat mihi praedictus
Episcopus ipsas decimas et omnes presbyteri qui in illis ecclesiis sive in aliis quae in
istis villis per nos cantaverint, per manum Episcopi teneant altaria et cum consilio
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 377
et voluntate Episcopi ingrediantur. Et ex dono quod in parrochiis nostri donaverint
tertiam partem Episcopus habeat et in mense maio unusquisque presbyter arietem opti-
mum solvat et in Octobrio porcum censualem et in fidelitate Episcopi permaneant sicut
decet. Et ego Pontius pro ipsis decimis commendavi me Episcopo qui tunc praeerat
Alfanto. Et per unumquemque annum in mense Majo arietem cum agno optimo donabo
Episcopo praedictae sedis Aptensis et ad festivitatem S. Castoris modium unum inter vinum
et panem et porcum valentem solidos duos. Et pro luminarii S. Sedis solvant eccle-
siae nostrae denariatas sex. Si quis autem exinde extiterit volens subvertere istam
nostram conventionem, ego contradico hoc illi et convictus judicio componat auri libram
unam. Et ego Alfantus episcopus, in quantum mihi data potestas obtinet, veto et
contradico ne ullus sit ausus contra ire huic nostrae conscriptioni. Actum est hoc în
Apta civitate anno a verbo carnem sumente millesimo quinquagesimo tertio regnante
domino Jesu per omnia saecula. Amen.
(Cart. Aptense, fol. 24 r°, ct v°).
VII.
Sacramentum Aldeberti de Sagnone.
Aldebertus filius Dilectae dona a fedauta et a servicio la quaslania del castel
de Sagno a Rostang d’Agolt et ego Rostagnus, filius Adalaiae, non te decipiam, nec
ego Imbertus, nec ego Raimbaldus, nec ego Raimondus, nec ego Leodegarius non te
decebrem de tua vita, nec de tuis membris quae tuo corpori juncta sunt, neque te
decipiemus de castello de Sagnone de la Crugeria, nec homo nec foemina per nostrum
consilium nec per nostrum consentimentum; et si homo erat aut foemina qui illud
castellum tibi tolleret, nos ab illo vel ab illis finem non haberemus ne placitum quod
finem valeret, si per illud castellum a recobrar non o avia, et el castello recuperato
in ista convenientia stare, et ego Rostagnus reddam illud tibi, et ego Imbertus post
mortem Rostagni, et ego Raimbaldus post mortem Imberti et Rostagni, et ego Rai-
mondus post mortem Raimbaldi et Imberti et Rostagni, et ego Laugerius post mortem
Raimondi et Raimbaldi et Imberti et Rostagni, per quantas vices tu Aldeberte illud
nobis requires, aut requirere nobis facies, per te aut per tuos missos, de hac Epi-
phania prima et duos annos adenant, ad te et ad illos tuos filios quos de muliere
habueris qui istas convenientias mihi facient quae tu mihi facis aut garnis los m’aura
de far sine inganno et sic tenebimus et attendebimus sine inganno ; sic Deus me adiuvet
et sui sancti.
(Cart. Aptense, fol. 8).
Serie II. Tom. XXXIX. 48
378 E. CAIS DE PIERLAS
IX.
Carta Sagnonis de praestaria.
In nomine Dei aeterni ac Salvatoris nostri Jesu Christi notum sit omnibus sanctae
Dei ecclesiae fidelibus presentibus perpetuis atque futuris, qualiter venerabilis gratia
Dei Episcopus Aptensis ecclesiae nomine Nartoldus ex rebus ecclesiae Sanctae Marie
sive Sancti Castoris, sicut in canonis est constitutum, pro adcrescendis ecclesiae rebus
quibusdam hominibus suis fidelibus his nominibus Rothberto et Waraconi more canonico
in praestaria eis concedit, hoc est castello, quem nominant Sagnone, cum ipsis suis
appenditiis extra ecclesiam Sancte Mariae, cum ipso cymiterio, ut in eadem ecclesia
per donum Episcopi ingrediatur presbyter et in fidelitate Episcopi permaneat omni
tempore et in Prataleone vineas cum decimo et in Torrizello vineas cum decimo et
in Petrolas vineas cam decimo et decimam ex vinea de Juscontra. Caetera autem omnia,
quae ad istum castrum pertinent, et in villa quam vocant Calvisas et in Casa nova et
et in Rius, quantum in illis villis Sancta Maria et Sanctus Castor et Episcopus habere
debet, totum eisdem hominibus Rothberto et Waraconi cedo in praestaria et in Domo
nova et in Juncarias vineas dono. Quapropter donat Rothbertus et frater ejus Waraco
ad Sanctam Mariam et ad Sanctum Castorem vel ad ipsum Episcopum sive succes-
soribus ejus de haereditate illorum quae eis ex progenie parentum legibus obvenit in
Comitatu Aptense in loco qui dicitur Laus nava et Clavajano et in Baxo, quantum
in ipsis locis denominatis eis pax obvenit, vel obvenire debet, tali tenore, ut dum ipse
Rothbertus et frater ejus Waraco vixerint, teneant atque possideant; post obitum vero
illorum ad unum haeredem ipsorum permaneat et teneat ipse dum vixerit atque pos-
sideat; post obitum vero ejus ad Sanctam Mariam et ad Sanctum Castorem vel ad
ipsum Episcopum qui in eadem ecclesia fuerit, perveniat sine contradictione. Tenor
autem istius praestariae iste est, ut Rothbertus et ipse Waraco vel haeres eorum pro
istis rebus ad Sanctam Mariam vel Sanctum Castorem sive ad Episcopum vel ad
clericos ejusdem ecclesiae inter censum et vestituram omni quoque anno ad festivi-
tatem Sancti Castoris inter panem et vinum modium unum persolvant et in mense
Majo pro synodo multonem unum cum agno optimo et in mense Octobris porcum unum,
et teneant atque possideant sine contradictione, salvo censu et vestitura, sicut supra
insertum est. Et si Episcopus ex eadem ecclesia migraverit et alter in eodem loco
introierit, ad ingressum ejus, pro confirmatione, solidos decem persolvant; sane si quis
ego vel successores nostri qui hanc praestariam contrariare voluerit non valeat vindicare
quod injuste repetit, sed componat in vinculo auri optimi libram unam et in antea
haec praestaria firma et stabilis permaneat sine contradictione. Acta carta praestariae
istius quinto kalendas octobris, anno trigesimo regnante Chonrado Rege in Christi
nomine feliciter. Signum Nartoldi Episcopi qui hanc praestariam scripsit et firmare
rogavit manu sua firmatam.
(Cart. Aptense, fol. 5).
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 379
X.
Donatio de la Crugera.
In nomine domini nostri Jhesu Christi. Ego Leodegarius Aptensis Episcopus vobis
Guiranno et Bertranno, filiis Raimbaldi, castrum de Sagnone dono, id est castrum
de la Crugera totum in integrum quantum Aldebertus del Mugol Rostagno de Agolt
dedit, et hoc ad fidelitatem at servitium vobis dono et laudo et insuper totam do-
minicaturam quae ad castrum supradictum pertinet. Ita sicut Aldebertus del Mugol et
Rostagnus de Agolt per dominicaturam habuerunt et tenuerunt, ego Leodegarius A ptensis
Episcopus vobis Guiranno et Bertranno integram dono et laudo ad servitium et fide-
litatem. Antea enim quam Leodegarius praedictus Episcopus Aptensis castrum praedi-
ctum de la Crugeria ab Aldeberto praedicto emeret vel adquireret, Rostagnus prae-
dictus de Agolt filiique sui ab Aldeberto praedicto ad fidelitatem et servitium sibi
adquisierunt, anno ab incarnacione Domini Nostri Ihesu Christi millesimo centesimo
vicesimo, indictione tertia, decimo sexto Kalendas Julii. Testes harum donationum sunt
hi testes, Otto, Bertrannus de Sagnone, Bertrannus de Castellione, Poncius Vuillelmus,
Poncius Pulverullus. Signum manus Episcopi Leodegarii Aptensis, qui hane cartam fieri
rogavit. Ego Addefonsus scripsi hanc donationum cartulam et post traditam complevi
et dedi. (Cart. Aptense, fol. 9).
XI,
Auctoritas etenim iubet ecclesiastica et lex consistit Romana, ut qui rem suam
in qualicumque potestate homno infundere voluerit, testamenta per paginam eam in-
fundat ut prolixis temporibus soluta et quieta permaneat. Quapropter ego Rostagnus
et uxor mea Adalaxia et filiis meis et filias nos pariter cogitamus de Dei misericordia
et remedium animarum nostrarum sive parentum nostrorum, ut sanctus Petrus nos
absolvat ab omni vinculo peccatorum nostrorum et mereamur illam benignam vocem
audire quam Dominus dicturus est: venite benedicti patris mei, percipite regnum quod
vobis paratum est ab origine mundi. Pro ipso amore donamus et vendimus aliquid de
hereditate nostra ad ecclesiam sancti Dalmacii; donamus et vendimus sedimen unum
cum orto, accepto pretio solidos quinque. Sane si quis nos vel heredes nostri aut ullus
homo vel subrogata persona qui contra cartulam donationis iste ire inquietare voluerit
vel inrumpere voluerit, non valeat vindicare quod iniuste requirit, sed componat tantum
et alium tantum, et insuper ira et malectio (sic) Dei super eum incurrat, insuper erit
excomunicatus et anathemizatus sicut fuit Datan et Abiron et Juda traditor in saecula
saeculorum amen.
Sienum Rostagni et uxor sua et filiis suis qui cartulas donationis iste scribere
iusserunt et testes firmare rogaverunt; manus illorum firmaverunt Wido et Bernardus
testes. Adelardus testis. Vidobaldus testis. .... Alemannus monachus scripsit et manu
sua firmavit.
380 E. CAIS DE PIERLAS
Ego Rostagnus cum uxor mea et filiis meis dono a Sancto Dalmacio per reme-
dium animas nostras quartam partem de prato quod Addaldus tenet, accepto prescio
uno caballo et terciam partem de pascherio de castro que vocatur Aspermunt, cum
appendiciis eius de fedas dominizas de sancto Dalmacio et de homines ..... accepto
pretio uno mulo. Aimus testis. Bernardus Caixus testis. Mainfredus testis. Milo de
Cagna firmat.
(Bibl. Royale à Turin, mss. vol. 51).
XII.
Feudum Aldeberti super Crugeria.
In nomine Domini Nostri Jhesu Christi. Ego Leodegarius Aptensis Episcopus dono
tibi Aldeberto Garaco et uxori tuae et filio ac filiabus tuis atque illis qui ex vobis
exierint dono castrum Sagnonis quod dicitur Crugeria et quidquid pertinet ad ipsum
castrum in villam, in homines, in foeminas, in terras ermas et cultas, in vineas et ar-
bores, in pratis et pascuis, in aquis et rupibus, ad fidelitatem Dei et Sanctae Mariae
et Sancti Castoris et Episcopi et successorum meorum et Canonicorum et successorum
eorum. Et ego Leodegarius Episcopus et Rodulphus prepositus suscipimus te Alberte
et successores tuos in fide; ut si aliqua rancura propter haec omnia vel ex his omnibus
aliquando vobis acciderit adjuvemus vos per fidem et sine inganno; et ‘hoc propter
quod suscipimus te in fide; videlicet ut te in hoc adjuvemus et tuos; per nostrum
hoc mandamentum juraverunt Guillelmus Gontranni et Gaufredus Raimondi, et hanc
convenientiam ego Episcopus et Canonici tibi et tuis facimus ut istud feudum quod
tibi donamus non poterimus dare, vendere, vel impignorare, vel aliquo modo alienare;
propter quae tu Aldeberte et successores hic aliquid ex isto feudo perdatis neque nos
neque successores nostri, et quod in isto castro Crugeria et suis pertinentiis non mit-
tamus super senioratum praeter Sanctam Mariam et Sanctum Castorem et Episcopum
Aptensis ecclesiae, nec auferemus tibi vel tuis nisi pro forfacto quod nec esdire nec
emendare possitis aut velitis. Et ego Aldebertus et filii mei propter illud castrum
homines Episcopi sumus et successoribus ejus vel nos vel successores nostri homines
erimus, et jurabimus istud castellum Episcopo et successoribus ejus sicuti domino. Et
iterum ego Aldebertus Garaco et filii mei istam facimus convenientiam, ut neque nos
neque successores nostri possimus castrum istud aut aliquid ex ipsius castri pertinentiis
donare, vendere, impignorare, aut aliquo modo alienare, nisi Sanctae Mariae et Sancto
Castori et Episcopo atque Canonicis Aptensis ecclesiae ad fidelitatem Sanctae Mariae.
Quamdiu vero non fuerit episcopus in Aptensi ecclesia, respondebimus de castro
majori Canonico Aptensis ecclesiae Sanctae Mariae et Sancti Castoris. Actum anno
ab incarnatione Domini millesimo centesimo vigesimo secundo, imperante Karolo. Si-
gnum Leodegarii Episcopi, signum Bermundi Sacristae, Signum Guillelmi de Rubianz,
Signum Gigonis Canonici, Signum Aldeberti Garaconis, Signum Guillelmi Raimondi,
Signum Rostagni de Turre, Signum Datilonis.
(Cart. Aptense, fol. 8).
LE XI SIÈECLE DANS LES ALPES MARITIMES 381
XIII.
Ante tempus legis istius donacio nequaquam valere potest si gestibus non fuerit
alligata. Postquam vero leges esse ceperunt, sancti institutores sanxerunt ut donacio
legitima non fieret sine titulo conscriptionis cause. Et ita constitutum est per legem
et sanctos institutores ut donacio firma fieret et recta si dominus qui hane donacione
donaverit, eo percipiente (sic) conscripta fuerit.
Dilecto atque fidelissimo nostro Lanberto sive uxore sua Austrudis necenon et
filiis et filiabus eorum qui de te nunc sunt et creati fuerint, ego dominus Fulco, vi-
cecomitis Massiliensis, necnon et uxor mea vicecomitissa Odila, donamus ad fidelem
nostrum Lambertum fratrem nostrum et ad uxore sua et ad proles eorum qui de illo
creati sunt et creati fuerunt, pro amore et bona voluntate et obtimo corde et propter
servicium quod nobis fecit vel inantea cupit facere, donamus atque confirmamus, in
comitatu Aquensi, in castro quod nuncupant Turribus, et in quantum nos habemus
in villa et in castro supradicto quod ad nos pertinet cum omnibus appendiciis suis,
dabimus eis pro omni firmitate subnixa; et in comitatu Forojuliense, in castro quod
nuncupant Ascolancii, in castro et in villa similiter dabimus eis; et in castro quod
nuncupant Matalicas; in castro et in villa hoc quod ad nos pertinet et nos donare
possimus cum omnibus appendiciis suis, idest in pratis, et in silvis, in vineis, in terris
cultis necnon incultis, in campis, in ortis, et in arboribus pomiferis et impomiferis ,
dabimus vobis sine interpellatione de nullo homine viventi. Im Dei nomen habeatis
integram licentiam et potestatem, in ejus tenore ut faciatis de illa donatione quiequit
facere volueritis, id est habendi, tenendi, possidendi, vendendi, donandi, commutandi,
heredibus que tuis derelinquendi, in omnibus habeatis plenissimam potestatem.
Sane si quis ego Fulco vicecomitis aut uxor mea Odila vicecomitissa vel ulla
opposita persona sive illus homo de propinquis parentibus meis qui contra donacione
ista ire, agere, vel inquietare voluerit, non valeat vindicare quod reppetit, set com-
ponat in vinculo auri obtimo libras X et insuper ista donacio firma et stabilis permaneat
cum stipulatione interposita pro omni firmitate subnixa, et incurrat ira Dei super eum
et omnium sanetorum; qui ista donacione disrumpere voluerit fiat maledictus et habeat
partem..... cum Datan et Abiron qui terra obsorbuit et cum Juda traditore qui
Dominum vendidit, et vivat anathematizatus in secula seculorum.
Facta donacione ista in ‘civitate Tolonense, 11° nonas kalendas januarii, regnante
Domino nostro Ihesu Christo.
Signum ego Fulco et uxor mea Odila qui hane donacionem istam fieri jussimus
et testibus firmare rogavimus, manus nostre firmat.
Signum Poncius firmat. Esdras, frater suus, firmat. Bertrannus, suus frater, firmat.
Umbertus, filius Teuberti, firmat. L[a]ndebertus Adalbertus firmat. Poncius Eldebinndus
firmat. Rainaldus de Massilia firmat. Esdras juvenis firmat. Archimbertus Gunterius
firmat. Raf[icot]us firmat. Petrus Aicardus firmat. Alannus Cannonicus firmat. Ste-
phanus Radaldus firmat. Aldebertus d’Aiguina firmat. Artaldus de Corsegulas firmat.
382 i; E. CAIS DE PIERLAS
Guillelmus vicecomes et uxor sua Stefana firmat. Stephanus firmat. Bertrannus firmat.
Petrus Fulco de Petrafoco firmat. Quiquirannus firmat. Bermundus de Mirollo firmat.
Lambertus de Sallone firmat. Autrannus et Umbertus de Gardana firmat. Poncius de
Bracio firmat. Petrus de Rocafolio firmat. Guilelmus Juvenis firmat.
(Archives de Marseille, série B, n° 276).
XIV.
Donatio de Sagnione a Leodegario.
Ego Leodegarius Dei gratia Aptensis episcopus, ut et ipse cum propheta beate
psallam: dilexi domine decorem domus tuae et locum habitationis gloriae tuae. Et ut
fructum huius beatitudinis, beati misericordes quoniam misericordiam consequentur ,
cum sanctis in templo Dei feliciter colligerem, meae sedis ecclesiae, nequitia malorum
hominum suis honoribus spoliatae et opibus valde nudatae, studui subvenire et sic
meum concilium fuit ut ecclesia et iuste habeat et firmiter possideat quod meo censu
et proprio allode sibi acquirerem, possessiones quas iniuste amittebat, redimere et ei
reddere. Quapropter castrum Sagnionis, quia meae ecclesiae hereditas et eidem per utile
in hominibus et aliis pluribus erat Crugeriam et medium castrum scilicet Tortam
mollam specialiter emi; et pro Tortamolla uxori Raiambaldi Niciae Ricsen et filio suo
Leodegario et filiae suae Ponciae et Willelmo Talun suo genero, medietatem Turri-
tarum, meam quidem hereditatem et allodium dedi et cccc solidos, et pro Crugeria
mille et ccc solidos Melgoriensium Aldeberto et filio suo Wuillelmo dedi, cum laude
eiusdem castri omnium militum, qui quia concesserunt magnam partem meae pecuniae
habuerunt. Et ego Leodegarius hoc castrum scilicet Sagnionem pro animae meae sal-
vatione et peccatorum meorum remissione in presentia et testimonio meorum cano-
nicorum et omnium mei episcopatus fere clericorum do et concedo Deo et S. Mariae
et Sancto Auspicio et S. Castori et omnibus episcopis in eadem sede meis subsequen-
tibus. Et hanc donationem laudaverunt milites istius castri Raimundus Aicardus et
frater suus Gaufredus et Bertrannus Raimundus et sui fratres, Raimundus Guido et
sui fratres et Datil et sui fratres Faraldus et Bertrannus et Petrus Guido cum suis
fratribus et Willelmus Guntran cum suis fratribus et Rustannus de Turre cum suis
nepotibus, Willelmus Mala causa cum suo fratre et filii Poncii Buzot et Sancia uxor
Raimbaldi de Agolt cum omnibus filiis suis laudavit et concessit. Facta est autem
haec donatio anno millesimo centesimo tertio decimo, indictione quarta.
Testes huius donationis sunt, Rainaldus abbas S. Eusebii, Rodulphus praepositus,
Bermundus sacrista, etc.
(Cart. Aptense, fol. 6, v° et 7 1°).
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 383
XV.
Carta Rajambaldi de Sagnone.
Notum sit omnibus hominibus quod quicumque rem suam in alienum dominium
transferre desiderat, eam tradendo jure legitimo in illius potestatem cui traditur per-
veniat. Quapropter ego Rajambaldus, filius Amanciae, dono et derelinguo Domino Deo
et Sanctae Mariae et Sancto Castori et Leodegario Aptensi Episcopo et ejus succes-
soribus Episcopis et Rodulpho praeposito et Bermundo Sacristae et Canonicis Aldeberto,
Gilberto et Petro Stefani et Rostagno et Vuillelmo et subsequacibus eorum, pro re-
demptione animae meae et parentum meorum et fratris mei Bertranni, castrum quod
est in medio Sagnionis quod vocatur Tortamollis, quocumque modo ego vel parentes
mei habuimus, juste vel injuste, cum cultis et hermis, et cum omnibus ad praedictum
castrum pertinentibus; et ego Leodegarius Aptensis Episcopus tibi supradicto Rajam-
baldo, salva fide Sanctae Mariae et Sancti Castoris et mea et Episcoporum successo-
rum, praedictum castrum integre tibi laudo et filio tuo vel filiae cui volueris. Testes
autem hujus donationis sunt Bertrannus Raimondi, et frater ejus Raimondus, et Rai-
mondus Duranti, et Poncius Aicardi, et Vuillelmus Amati, et Guigo de Lantosca, et
uxor Boniparis Garsia.
(Cart. Aptense, fol. 6).
XVI.
In nomine domini ego Gaucerandus Laugerii dono Deo et ecclesiae beate Marie
de Nicea et Petro episcopo et omnibus successoribus suis et omnibus canonicis suis,
quicquid in civitate Nicie et in appendicis suis videlicet in vineis cultis et incultis, in
pratis, in aquis aquarumque decursibus, in garriciis, in pascuis et in omnibus que
mihi ex hereditate patris mei pervenerunt in Nicea et in omnibus finibus eius medie-
tatem, ut eam perpetuo iure possideant. Alia vero medietatem, quam mihi retinui, ha-
beant in vadimonio usquequo supradictam mediedatem integram et liberam eis ab omni
inquietudine reddam. Post obitum quoque meum hec omnia eidem ecclesie supradicte
ad intesrum dono pro anima mea. Ego Gaucerannus accepi pro hac causa quingentos
quinquaginta solidos de rebus ecclesie Nicensis ab episcopo eiusdem civitatis et a ca-
nonicis. Actum est hoc in presencia Raimundi Berengarii comitis. Anno ab incarnato
domino m.c.xvl et in presentia Antipolitani episcopi et Fulconis de Grassa et Guillelmi
de Mosterio et Raimundi de Sancto Paulo et Reiamballi de Andaon et Girleni Ber-
trandi et Guillelmi Ermenaldi et isti omnes sunt testes.
Et ego Gauscerandus iuravi in manu Nicensis episcopi me hec omnia tenere
sicut scriptum est.
(Arch. Capit. de Nice, n° ancien invent. 86).
984 E. CAIS DE PIERLAS
XVII.
Poncius Aldigerius. Lanbertus Durandus. Guillelmus Cabaza. Allo de Medezo.
Astengo. Andreas Nazera. Adam Todolaius. Allo Aimo. Bernardus Raimun. Bonofilio
Farfaillola. Lautaudus de la Porta. Raimbaldus.... Gatamusa. Gauterius. [Andreas]
Grammaticus. Iohannes Barcella. [Iohannes] Murator. Nadal Pulsafangus. Rotbaldus
Labra. D[ominicus] Mellari[nus]. Ebrardus. Iohannes Blanco presbiter ..... Maurelli. .
Petrus Maior. Lanterius. Maurengus Zaufardus. Berta Faisellara. Iohannes Friconis,
Rainerius de la Porta. Petrus Gombrannus. Bermundus Dominicus presbiter. Engille-
rius Flavius. Ungula Vedozsa. Desiderius. Iohannes Caligerius. Rollandus Capus pro
uno. Iohannes Adalguda. Adalsenda monaca. Mansionem ubi stat Bona de Arbaudo.
Medietatem de pascherio et de porto et de ribagio et de letdas, et decimas de piscibus,
et de lesda de civitate, de porcione Laugerii Kostagni de Niza. Medietatem de orto.
Medietatem de condamina de la Bufa et de la condamina de Olivo. Mansionem de
Gundrada, et duobus menses Octuber et November dedit Laugerius Rostagni ad Con-
radus comes cum filia sua in castellania de Niza, per partem et per hereditatem.
Manso de Cabaza dat 11 sextarios de garbage et duas espallas, I sextarium de
civada et duos panes. Allo 1 eminam de garbage. Andreas Nazera Il sextarios de gar-
bage, 1 emina de civada, 1 espalla, 1 de[narium]. Tohannes Todolaigus 11 sextarios de
garbage, I espalla, 1 emina de [civada] et 1 panem. Bernart Raimon lr sextarios de
garbage et 1 emina [de] civada, 1 espalla et 1 panem. Bonosfilius Farfallola 11 sextarios
de garbage, 1 emina de civada, 1 espalla et 1 pajnem]. Vatamusa nur sextarios de
garbage, I sextarium ordei, 11 espallas, Ir panes. Andreas Grammaticus 11 sextarios de
garbage. Iohannes Barcella II sextarios de garbage, et 1 emina ordei, 1 espalla et 1 panem.
Ioannes Murator 11 sextarios de garbage, 1 espalla, 1 emina ordei, 1 panem. Nadal
Pulsafangum 1 sextarium de garbage, 11 denarios de ublias. Rotbaldus Labra I sex-
tarios de garbage, 1 sextarium de ordei, 1 espalla et 1 pa[nem]. Durandus Faber un
sextarios de garbage, 1 sextarium de ordei, 1 espalla et 1 pa[nem]. Dominicus Mella-
rinus 1 sextarium de garbage, 1 emina de ordei, 1 espalla et 1 panem. Ebrart 11 sex-
tarios de garbage, 1 emina ordei, 1 espalla et 1 panem. Iohannes Blancus 1 denarium.
Petrus Maior 1 sextarium de garbage, 1 denarium de ublia. Lanterius II sextarios de
garbage, 1 emina ordei, 1 espalla et 1 panem. Maurenc 1 sextarium de garbage, 1
eminam ordei, 1 denarium de ublia et 1 panem. Berta Faxillera 1 denarium, die omni
sabbati faxum de iunco. Iohannes Frico 1 sextarium de garbage, 1 emina ordei, 1 de-
rium et 1 panem. Petrus Gonbran mn sextarios de garbage, 1 emina ordei et I espalla
et 1 panem. Ungula Vedosa ili sextarios de garbage, 1 sextarium ordei, 11 espallas
et 11 panes. Iohannes Galier 1 sextarium de garbage, 1 emina ordei, 1 espalla et 1
pa|nem]. Bermundus Malum nomen 1 sextarium de garbage, 1 eminam ordei, I espalla
et I panem. Gauterius ii sextarios de garbage, 1 sextarium ordei, 11 espallas et
II panes.
Laugerius de Graoleriis habet in Nicia hec supradicta omnia pro ecclesia et epi-
scopo, habet etiam et hec subsequentia. Petrus Bruni dat pro servitio xIl denarios et
Il sextarios de ficiis et cartonem de Billeira. Raimbaldus Caliger vi denarios et me-
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 385
«distatem cartonis de vinea erosi. Lambertus Francigena ... denarios. Aubertus Ricaus ...
denaries. Poncius Pastel unum denarium et medietatem cartoni de vinea de Caldairolas.
Petrus Tudulaic x1 denarios et duos sextarios annone et duas saumadas de vino, de
annona, atque duas partes tercii et 11 partes unius sextarii ordei et 11 partes duorum
panum. Willelmus Pellizzana 1 sextarium de annona. Wilelmus Aimi vii denarios et
I sextarium de annona et unam eminam ordei et unum panem. Raimundus Barcellw
I eminam de annona. Petrus Maiembertus 1 eminam de annona. Raiembaldus Ermen-
trus ir «sextarios de annona. Rostagnus Pelatus cartonem de Rocabillera et 111 nummos.
Isnardus Feltrers cartonem de Rocabillera et 111 denarios: Bonus Tohannes cartonem de
Roeabillera et v denarios. Willelmus Gallina cartonem de Rocabillera et 111 medallas.
Ermengaus cartonem' et 111 medallas. Willelmus Raembaldus cartonem de Rocabellera
et ur .denarios. Poncius Esparro cartonem vinee de Pallo de Cabaza et 11 denarios.
Tohanna .Amalvina 11 denarios. Stephanus Pastel medietatem cartonis de Calvairolas.
Durandus .Pastel medietatem cartonis. Petrus Bambardus medietatem cartonis vinee de
la Colla et 1 denarium. Guntardus Rex cartonem et 1 medallam. Paulus Raembaldus
cartonem winee de Caldairolas et vi denarios. Poncius Bernardus cartonem vinee de
la Colla ret iI denarios.
In nomine Domini ego Gaucerandus Laugerii dono Domino Deo et ecclesie beate
Marie de iNicia et Petro episcopo et omnibus successoribus suis quicquid in civitate
Nicie et in :apendiciis suis ex hereditate patris mei mihi pertinet et sub pignore pono
quingentorum quinquaginta solidorum, tali tenore ut nec ego ipse nec aliquis per me
de aliquo se intromittat nisi primitus supra dicti numi redditi fuerint. Si ante redem-
ptionem huius pignoris mortuus fuero, in perpetuum ecclesia Nicensis pro anima mea
habeat. Actum est hoc in presentia Raimundi Berengarii comitis Barchinonensis et in
presentia Antipolitani episcopi Matfredi et Fulconis de Grassa et Guillelmi de Mosterio
et Raimundi de sancto Paulo et Raimbaldi de Andaone et. Guillelmi Bertrandi et
Guillelmi Ermenaldi et isti omnes sunt testes. Et ipse Gaucerandus iuravit in manu
Nicensis episcopi quod sicut scriptum est, ipsa ita teneret. Huius rei est, fideiussor Fulco
de Grassa pro trecentis solidis et Raimbaldus de Andao per c. L.
Signum + Raimundi comes.
(Arch. Capiît. de Nice, n° ancien invent. 74)
XVIII.
In nomine domini nostri Ihesu Christi summi regis et eterni, presentibus et se-
quentibus omnibus notum fiat hominibus, quoniam ego Arnaldus Nicensis ecclesie dictus
episcopus et canonici nostri eiusdem ecclesie filii, de illa grandi querela que inter nos
et Laugerius de Graoleriis versabatur, mediantibus Petro Antipolitano et Lamberto
Venciensi episcopis, talem pacem et talem concordiam fecimus. Nos quippe totum illum
honorem, quem pater eius Gaucerandus Laugerii Petro episcopo bone memorie prede-
cessori nostro et canonicis suis pro quingentis solidis partim iure vendicionis concessit,
partim pignori supposuit, requirentes, in manu nostra totum et ex integro dimisit
et nos et ecclesiam nostram se ipsum expoliando investivit. Hac igitur dimissione et
Serie II. Tom. XXXIX. 49
8.86 E. CAIS DE PIERLAS
restitutione facta ad servitium et fidelitatem nostram et omnium successorum nostrorum
hane ecclesiam usque in finem seculi gubernancium, totum predictum honorem nos
ubicunque habeat vel habere debeat, tam in civitate quam in omnibus finibus eius,
sibi et legalibus heredibus suis concedendo laudamus ed hac virga laudando eum rein+
vestimus. Ceterum inter nos pariter certa convencione constringimus ut de predicto
honore nichil omnino, nec totum nec partem, alicui hominum valeat vel audeat vendere,
impignorare vel quolibet titulo alienare, nisi episcopo vel ecclesie. Quicquid autem ab
eo hactenus impignoratum est, nos et ecclesia nostri redimendi et possidendi, donec
ipse redimere eodem precio» possit, facultatem liberam habeamus.‘De decima vero pi-
scium quam in hominibus suis requirebamus et de questione Campi Marcii sic ordi-
nabimus, ut per illam iustitiam quam in heredes suos dictabimus, per eandem ab ipso
et a suis recuperare possimus. Sacramentum quippe et hominium, pro iam dicto honore,
Laugerius et heredes sui nobis et successoribus nostris in hunc modum facit. Vitam
et membra nostra et honorem ecclesie iurabit; castellum insuper de Drappo et totum
alium honorem, quem. ecclesia habet in presenti vel iuste acquirere poterit in sequenti,
Laugerius non tollet, nec tollere faciet et si quis tollere presumeret, cum a nobis
vel yero nostro nuncio commonitus fuerit, pro posse suo ad recuperandum iuvabit.
Facta sunt hec, in portu Canee, presentibus episcopis Petro videlicet Antipolitano
et Lamberto Venciensi, magistro quoque Duranto et istis astantibus clericis Guillelmo de
Sartovolis, Stephano de Andaone, Viviano de Sancto Paulo, Ugone presbitero de Ala-
gauda, Rembaldo legifero de Nicia; militibus videntibus Gaufredo de Canea, Petro
de Canea filio eius, Sicardo de Turretis, Petro de Andaone, Pontio de Cipperis et
Guillelmo filio eius. Ipsa die Niciam venientes, in crastinum iam dictus Laugerius, in
presencia clericorum et laicorum multorum, hominium et sacramentum nobis fecit
Raimundus Ugoleni, Ugo Ademari, Stephanus, Raimundus Boza, canonici presbiteri
Nicensis ecclesie, Rostannus diaconus, Guillelmus sanceti Martini, clerici presentes fue-
runt. Iordanus quoque Richerii, Milo Badati, Fulco filio eius, Guillelmus Badati, Rai-
mundus Serene, Fulco Ugoleni, Franco Raimbaldi, Petrus Raimbaldi, Raimundus
Raimbaldi, Guillelmus Raimbaldi, Guillelmus Ricardi et Petrus frater eius, Bernardus
Ausan, Guillelmus Anrichi, Petrus Lamberti, Guigo Fatunerii, Ugo Fatunerii, Sicardus
et Milo frater eius, Petrus Gersso, Guillelmus Sotta, Arnaldus episcopi baiulus et
Iterius eius scutarius. i
Facta dimissione ista a memorato Laugerio ante ianua beate Marie in vigilia
nativitatis dominice, consulibus Raimundo Serene, Fulco Badati, Francone Raimbaldi,
Fulcone Ugoleni, presidente preside Provincie Raimundo Berengarii Barchinonensi co-
mite, mense decembrio, feria n, luna xx.11, anno millesimo centesimo L. 11,
Isti sunt homines quos Laugerius de Graoleriis. habet pro ecclesia et episcopo
Nicensi: Iordanus et frater eius Guillelmus Richerii et nepotes eorum Bertrandus et
Petrus. Guillelmus Cebaldi et frater eius Raimundus et Bertrandus et Ysoardus. Pe-
trus Aldebrandi et nepotes eius. Guillelmus Richardi et fratres eius Petrus, Bertrandus,
Raimundus. Guillelmus Pellizana et nepos eius Laugerius et Petrus Rostagni et Io-
hannes Milonis. Raimundus de Laura, Isnardus Lamberti, Guillelmus Iabram. Guil-
lelmus Ysnardi. Pauletus Gallina. Bonpar Gallina. Ermengau. Richelmus Totolai. Ro-
stagnus Dodo et Mercader et nepotes eorum, Iohannes presbiter et Guillelmus Taparel
LE XI SIÈCLE DANS LES ALPES MARITIMES 387
et Paulus Taparel. Raimundus Pallioli et Raimbaldus Ermentrui. Ioncaz. Padern. Fulco
Badati. Guillelmus Pelat et Rostagnus Pelat. Michel Brun. Raimundus Barcelle. Petrus
Mamberti. Iohannes Laiet et frater eius. Iohannes de Albasagna. Fulco Travacha et
nepotes eius. Bermundus Legarre, Guillelmus Zota. Petrus Faber. Poncius de Cara-
magna. Guillelmus Gras. Milo frater Sicardi. Gaucerandus de Porta. Iohannes Martini.
German et frater eius Iohannes. Petrus da Laura et Anselmus frater eius. Poncius
Gisberni. Raimundus Serena. Iohannes Milo et Petrus Rostagni. Durandus Pastel.
Guillelmus Trasudat. Martinus Aldebrandi et nepotes eius. Guillelmus Amalvina. To-
hannes de Solario..Raimundus de Laura. Bonus Iohannes. Aimerudis filia Willelmi.
Guillelmus Silvii et Garrienses femine.
(Arch. Capit. de Nice, n° amcien invent. 132).
XIX.
Carta permutationis Turritarum et Sagnionis.
Ego Leodegarius, episcopus Aptensis cambio castellum Mejanum totum Sagnionis
et illam tertiam partem quae pertinet illi castro, cum omnibus sibi pertinentibus. Bt
dono medietatem cuiusdam castri quod est situm in Nicensi episcopatu quod vocatur
Turritas, quod contigit mihi ex parte matris meae, et ducentos solidos Melgoriensis
monetae, et hoc dono uxori Raibaldi et filio suo Leodegario et filiae, uxori Wilelmi
Talonis, cui mater et frater suus supradictum castrum Sagnonis in dote dederunt. Et
ego Leodegarius Aptensis episcopus dono istum supradictum castrum Raimundo Aicardi
et Gofredo fratri suo et filiis et filiabus, quos habent vel adhuc legaliter habebunt et
ceterae progeniei quae ex eis legaliter nascitura est, cum omnibus sibi pertinentibus
cultis et incultis et masculis et foeminis, pro cambitione feudi quod habebant in
Turritis et hoc facio donum salva fide Sanctae Mariae et S. Castoris et mea et ca-
nonicorum et episcoporum subsequentium et ipsi debent eum mihi iurare et aliis epi-
scopis sicut dominis. Et ego nec alii episcopi non eis auferemus illud castrum, nisi pro
forifacto illius castri quod nollent vel non possent emendare, et hoc fit sub sacramento
duorum militum legalium.
(Cart. Aptense, fol. 6, r° et 0°).
XX.
Venditio Aldeberti de Crugeria.
Ego Heldebertus Garac et filii mei Villelmus filius Derbucis et uxor mea Sansa
et filii ejus Bertrannus, Raimondus et Bonefacius damus, tradimus atque concedimus
et in perpetuo concessum dimittimus Deo et Sancta Mariae, Sanctoque Castori et Leo-
degario Episcopo et subsequacibus ejus Episcopis atque Canonicis praesentibus atque
futuris ibidem deo servientibus castrum Crogeriae cum hominibus et terra culta et
888 i E: CAIS DE PIERLAS
inculta et cum arboribus fructiferis et infructiferis, pratis et aquis et cum omnibus ipsi
castro pertinentibus; et pro hoc castro atque supra dictis sibi pertinentibus dedit nobis
Leodegarius Episcopus de suo proprio mille et centum solidos Mergoliensis monetae
et ducentas valentes solidatas. Testes hujus venditionis sunt Leodegarius de Petra Ca-
stellana, Gaufredus de Brientione, Gaufredus Aicardi, Bertrannus de Sannione, Vil-
lelmus Bonpar, Rodulphus Sacrista. Si quis autem hujus venditionis contrarius esse
voluerit Dei iram incurrat et maledictionem quam incurrit Judas et Datan atque
Abiron.
(Cart. Aptense, fol. 7).
XXI.
: Permutatio Gordae et Turritarum.
Imperialibus edictis et legibus Romanis constitutum est quod aliquis per muta-
tionem vel venditionem vel quamlibet rem certam faciens per paginam testibus firmatam
hoc faciat. Quapropter Ego Leodegarius dei gratia Aptensis Episcopus volens cum co-
gnata mea Sancia et cum nepotibus meis scilicet Guiranno et Bertranno et coeteris
fratribus, consilio nostrorum fidelium, permutationem facere, morem priscorum patrum
sequens, hac conscriptione confirmo; quae autem sit permutatio praesens descriptio de-
clarat. Est namque situm quoddam nobile castrum in Episcopatu Cabellionensi quod
vocatur Gorda, cujus quartam partem cum omnibus sibi pertinentibus pro medietate
Turritarum tibi et filiis tuis, remota omni fraude, trado; cujus medietatis usque modo
possessores fuerunt Raimundus Aicardi et frater eius Gaufredus.
(Cart. Aptense, fol. 9).
XXI.
Carta de terra in Turrita.
In legibus Romanis praeceptum est ut si quis rem suam in alterius vult potestatem
mutare, per testamentum scripturae fiat commutatio, ut fiat firma. Ideo ego Beatrix
et filîi mei Petrus et Rostagnus, Eldebertus et Bermundus et filia mea Accelena fa-
ciamus hanc conscriptionem notitiae habendae, consentiamus aliquid ex meo alode qui-
busdam vicino meo nostro Presbytero Aldranno et accepi ab illo pretium in venditione
solidatas sex et eo amplius et nihil ex pretio remansit. Est autem terra ista in Co-
mitatu Aptensi in territorio Abbatiae Sancti Petri, quae dicitur Turrita, in loco qui
vocatur Lausa et est inter consortes ab uno latere de superiori via veteri, ab oriente
terra de Sancta Maria, de manso Spera in Deo, de inferiore parte via publica, de
alia parte via quae descendit de Castro Claromonte, et si qui sunt consortes; quem
alodem, si quis interpellaverit, ego contradico illi, sed habeas potestatem quicquid
facere volueris, habendi, vendendi, tenendi, dandi vel commutandi, tuisque heredibus
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 389
derelinquendi. Sane si quis ego aut ullus homo qui hoc frangere voluerit, non valeat
vindicare quod repetit, sed componat in duplam rem illis qui sunt emptores. Actum
est hoc in Apta civitate tertio idus martii. Rege Christo Domino. Signum Beatrix et
fili ejus qui hoc scribi fecerunt et testibus firmaverunt.
(Cart. Aptense, fol. 21).
XXIII.
Sacramentum Clarismontis.
Aus tu Lauger filius de Gisla, eu Guiranz et eu Bertranz, filii de Sancia, non
vos decebrai de vostra vida, ni de vostra membra, que a vostre cors juncta est, eu
ni homo ni femini per lo me consel, ni per lo me consentiment lo castel de Clar-
mont no vos tolrem, ni homo ni femina per lo nostre consel, ni per lo nostro con-
sentiment et qui lo vos tollia ad ajutorii vos enseriam et aquez tres menses novembris,
decembris, januarii, nos lo vos rendrem si nos l’avem; ni homo, niì femina per nos
de la maiso los tres menses maji, junii, julii, aisi o tenrem a ti Lauger et Episcopis
sine enganno, sic Deus nos adjuvet et Sancti sui.
(Cart. Aptense, fol. 10).
XXIV.
Prieurs Bénédictins du monastère de Val de Bloure
et prieurs commandeurs.
1. 1050. Alemannus monachus; il n'est pas qualifié de prieur, mais c'est très-
possible qu'il le fàt, puisqu'il écrit et il signe mamu sua firmavit, à la donation de
Rostaing à l’Eglise de Val de Bloure. i
2.. 1256. Dominus Jacobus prior. Acte de transaction entre les seigneurs, le
prieur, et Gauffridus Caysus: c’était probablement le Jacobus de Brayda (d'une des
plus puissantes familles d’Albe) en 1258 prieur du monastère de Saint Dalmas de
Pédone (Ms. Rolfi, Bibl. Royale à Turin).
3. 1271-1291. Dominus Gauffridus Chayssius prior. Il prèéte hommage è Charles
d’Anjou pour Saint Dalmas, Roche, Bollene et Saint Martin Lantosque. En 1291 il
intervient avec les seigneurs de Saint Dalmas pour les droits de four qui appartenaient
aux hommes de Saint Dalmas. Il est fils de Gauffridus Caysus.
4. 1302. Doninus Olivarius de Sancto Benedicto prior. Ordonnance faite à Saint
Dalmas par le juge du comté di Vintimille, Pons Cayssius, pour que les seigneurs de
Saint Dalmas, Rimplas et Saint Sauveur s’abstiennent de conférer aux cleres des
charges publiques. Sont témoins Raymond et Jacques Chayssii.
5. 1320. Frater Fridericus Faramie prior. Protestation pour les droits seigneu-
riaux du prieuré et des autres seigneurs de Saint Dalmas, faite en son nom devant
390 E. CAIS DE PIERLAS
Pierre de Marculfo juge du comté de Vintimille, par Hugues Faramie. Ce dernier est
probablement Dominus Hugo Faramie, témoin en 1305 a la capitulation de Demonte
au sénéchau de Provence. i
6. 1340. Dominus Robertus Olivari prior. Il intervient à Saint Dalmas-le-
Sauvage dans un acte avec le noble Jean Olivari juge de Puget-Theniers.
7. 1346. Dominus Guillelmus Andree monachus de Burgo, prior Saneti Dal-
maci de plano. Il signe à Saint-Martin l’acte d’arbitrage entre Astruga de Beuil
et la commune d’Illonsa.
8. 1360. Raymundus Chayssti monachus et prior Sancti Dalmactii. Il échange
avec Pierre Balb une vigne sise à Rimplas, dépendance du prieuré.
9. 1392. Dominus Egidius Henrici prior. Il concède en emphytiose au noble
Laurent Cayssii la condamine attenante au monastère: actum in sancto Dalmacio de
Plano in domum supradicti Laurencii, à la présence de deux autres moines de l’abbaye
de Saint-Dalmas du Bourg. En 1363 nous trouvons le noble Henricus Henrici de Grao-.
leriis qui signe è l’acte de vente faite au baron de Vence par le sénéchal de Pro-
vence des droits sur cette ville.
10. 1411-1414. Dominus Raymundus Alegre prior. Il regoit sa part des
droits féodaux devant le noble Antoine de Draconibus juge du comté de Vintimille.
En 1428 la maison abbatiale est intitulée domus claustralem. En 1452 un Frangois
Alègre seigneur d’Oisery épouse Madeleine de Miolans.
11. 1456. Nobilis vir Petrus de Falcono monachus prior. Il est prieur du prieuré
de Saint-Dalmas et recteur de l’Eglise de Saint-Jacques de la Roche et Bolina, il
donne sa procuration au noble Pierre de Falcono docteur en droit de Puget-Theniers
et à discretum iuvenem Antomum Monthanerii clere dudit lieu de Saint-Dalmas,
pour qu’ils puissent exiger tous les tributs, censes, services et autres droits qui appar-
tiennent au dit prieuré partout où ils se trouveront, et il étend cette procuration à
M° Guillaume Floandi notaire de Roquebillère et à Milan Constantin et Pierre Bonfils,
ces deux derniers notaires de Nice, ainsi qu'au vénérable Jean Bellomays recteur de
Saint-Antoine de Nice. Cet acte se passe 27 dicto loco Sancti Dalmacti infra monaste-
rium videlicet infra chamera magna. Ce prieur est probablement Dominus Petrus
de Falcono de Sauserio prieur bénédictin de Notre-Dame de Molanesio (Miolans),
qui en 1425 est nommé prieur du prieuré de Saint-Laurent de Bergesio, par la renon-
ciation faite par Dominus Jacques Morerii et en prend possession à'la présence de
Dominus Urbanus Guiramandi prieur de Notre-Dame de Faucon. Il était parent de
Pierre de Faucon capitaine ducal en 1466 et de Philippe de Faucon de Jausier
coseigneur de Salicis (Sauze).
1485. À cette 6poque l’évéché de Mondovi fut définitivement investi de l’abbaye
de Saint-Dalmas du Bourg qui lui avait 6t6 remise, en 1438, 28 nov., par Bulle du
pape Eugène. Son évéque Champion est qualifit de Administrator perpetuus Abba-
tiae Sancti Dalmacitù de Pedona ordinis sameti Benedicti. Le prieuré de Val de
Bloure prend le titre de commanderie, et ses prieurs, qualifiés de commandeurs, sont
nommés directement par le Saint-Siége. i
12. 1502. Dominus Claudius de Grimaldis de Beuil prior commendatarius
prioratus sancti Dalmacii, protonotaire apostolique, comte palatin, vicaire général de
LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES 391
l’évèché de Nice et prieur de Saint-Veran d’Utelle: il regoit les reconnaissances des
services dùs au prieur in aula magna domus claustralis. D'après Gioffredo il serait
fils de Ludovic Grimaldi de Levens.
13. 1512. Dominus Jacobus Grimaldis prior commendatarius Sancti Dal-
macîi et annerarum, par la renonciation faite en sa faveur par Ulaude son onele,
14. 1522. Claude Grimaldi prieur Commendeur par Bulle du PP. Adrien VI
de collation en sa faveur des prieurés de Saint-Dalmas et Saint-Veran d’Utelle.
15. 1529. Jean Baptiste Grimaldi de Beuil, prieur commandeur. Il était frère
de René Grimaldi pardonné par le duc de Savoie après la paix de Cambray; les bé-
néfices de Saint-Dalmas et de Saint-Veran d’Utelle lui ayant aussi ét6 sequestrés,
il adressa une petition au duc de Savoie qui les lui restitua le 5 février 1529.
16. 1536. Honoré Grimaldi clericus. Neveu de Jean-Baptiste Grimaldi. Son
onele renonce en sa faveur et le pape Paul IIl par la bulle du 30 juin 1586 lui
confère les bénéfices du prieuré de Saint-Dalmas du Plan avec l’église de Saint-Jac-
ques et celle de Saint-Veran d’Utelle avec la rente de 230 écus d’or, quoiqu'il n'ait
que 15 ans; il entrera en possession et jouira de tous ces droits à sa 18° année.
17. 1546. Ludovie Grimaldi. Fils de René Grimaldi et de Thomassine Lascaris
de la Briga. Il est encore qualifié de clericus dans une dispense du 7 septembre 1545
que lui accorde le vicaire général de Nice, Frangois Galleani pour le faire ordonner
prétre où bon lui semblera. L’année suivante le 31 mars il obtient le bénéfice par
bulle du pape Paul III Il fut dans la suite comblé d’honneurs par la Sayoie et la
France. Nous le trouvons évèque de Vence, protonotaire apostolique, chevalier Au-
reato, grand chancellier de l’ordre de l’Annonciade, aumònier du duc de Savoie, am-
bassadeur du roi de France au concile de Trente et abbé de Saint-Pons.
Le 13 mars 1559 il obtenait par le pape Pie IV confirmation du bénéfice de
Saint-Dalmas, parrochialem ecclesiam, prioratum nuncupatum, per monachos ordinis
Sancti Benedicti Niciensis Diocesis obtineri solitam, sancti Dalmacii de Plano, ainsi
que de l’église de Bolina et des fruits et rentes qui en dépendaient et qui montaient
a la somme de 24 ducats auri de camera.
18. 1565. Jean André de Salicis. Le pape Pie V le 30 avril 1565 lui con-
fèere en commanderie le prieuré de Saint-Dalmas et l’église de Saint-Jacques de
Bolina, par cession qui lui en avait faite le titulaire monseigneur Grimaldi évèque
de Vence. Ce Jean André de Salicis (de Sauze) était de la famille des seignenrs de
Faucon et probablement fils de Joseph seisneur de Faucon et de Sauze vivant en 1530.
Nous avons déjà trouvé un prieur de cette famille en 1458.
19. 1691. Don André Ribotti prieur et commandeur de Val de Bloure.
20. 1728. Don Ludovic Ingigliardi prieur et commandeur de Val de Bloure.
(Documents Authentiques).
392 E. CAIS DE PIERLAS - LE XI SIECLE DANS LES ALPES MARITIMES
TABLE DES MATIBRES
I. — Les premiers Comtes de Provence. . . . . . . +... . +. + + Pag. 285
MIRI TO SSA SOA A OE Oc ee AO ORA 0)
II. — La famille de Fos . . . . 0 pid SONATA REMI MS ROIO
IV. — Les comtes Aldebert et Apollo, ina nre Rostaing et [cure sceurs Isingarde et
IVialb uo: EEE AR e n I I AR ORI
V. — Les seigneurs de Castellano MR TESMIN e I RITROTÀ 5 ae
VI. — Le comte Aldebert et ses descendants, seigneurs à tin RA et Saignon » 307
VII — Rostaing et ses descendants, seigneurs à Thorame, Castellane, Val de Bloure, etc. » 308
VITRO TE SESRI ORAMAI ANTE VE SIR O OO O IO
TNGRSEO SEVICOMIE SITO NICE IAS ON STINO AN TIRO NERO
WES MIRON ELOGIO. aria a A RE LR RIDI SE, MRO
NITEC ORIANA E ER IR 19
SIE SVEN OR RSI RARI Foro Oto VIDI a told, DIO
XII. — Miron vicomte , . . . . RO Da ME OG go
XIV. — Les fils de Laugier et les ARA SI da va RESO IO RI TEU EROE,
vara mha Ade NT MA STRATI TESI ACTA REIT COR VAS NIRO
XVI. — Les comtes d’Orange. — Ogni c ei Anto IRA ORVIETO MORSO),
XVII. — Les comtes d’Orange descendants directement des Inn ho Nicc Mei 95
XVII. — Famille de Baux . . . SABA, vi Si A ERA ZORRO TIS M1937
XIX. — Laugier le Roux fils de Raimbald de Nice PRAIA » 342
XX. — Pierre, évéque de Sisteron, et son neveu Pierre, évéque de Vaison, fils 7 Raimbald
CO lei A
XXI. — Rostaing vicomte . . . . TCMERT AID O
XXII. — Les descendants du SI Hosiding È n° son fils agio Rottime cédent à
l’èeveque de Nice leurs droits sur la ville . . . . SI VELUSGOE ROOT
XXII— Raimbald de Nice fils de Laugier le Roux et les seigneurs dApt GIUSTE, A NI
XXIV. — Les seigneurs de Reillane à Nice . MC SONIO CLIN ERANO ol i SIG
XXV. — Les seigneurs de Dromon et les vicomtes de Gap... 0.0. + > 358
XXVI. — L'autoritè vicomtale à Nice au commencement du XII siécle . . . ... . » 367
XXVII. — Le droit communal succède au droit féodal des vicomtes. . . ....... » 370
DOCUMENTS ANEDITS Nat SVI LARE IO SN 373
PAMICSE DE HTORRAMECNSTRECANEGLANDEVES,
Pl. I.
GRIFO Comes 950
ROTBERTUS VARAGUS seu FARALDUS
967-100% SUE
= Ailburga = Aramberta
Ramsdos ISINGARDIS GALBURGIS ROSTAGNUS ELDEBERTUS Comes APOLLONIUS ou ABELLONIUS comes
= Rava — Constantin = Dodo fils de 1009 1009-1043 c. 1002
1044. 1022 Pons-Arbald = Ermengarde
l | | | | |. | be |
Bione Rostaing Eldebert Bermond Accelena Ripert Lambert Pons Hugues Abellon Hugues Ripert Laugier Pons Boniface Arbald Rainard Eldebert Varaco Fides Amantia Dodo Pontius Gualo Rostagnus Herbaldus Isnardus
éveque Pulverel 1028 1043 1043-1069 = Laugier Abillonius Abillonius
de Senez = Ermengarde = Dilecta de Nice
et
de Riez
FS 5 |
Guillaume Raymond Geofiroi Dodo Rostaing Aldebert Pons Hugues Gerin Bermond Rodolphe Pons Jonas Pierre Pons Datil Guigues
Dodon Pulverel Rainardi Varaco evéque Tausselin
H 1006-1057 del Mugol de
= Adélaide 1092-1125 Glandèves
1° = Derbucis —2°= Sancia
Pons Farald Guillaume Pierre Guillaume Bertrand Raymond Boniface Boniface de Castellane 1080
Pulverel i = Advenia È
i | |
| Boniface Dodon Raymond Hugues
Raymond Hugues Foulque Hugues c. 1109 Bertrand de Castellane
Feraldi Feraldi —Feraldi Chanoine
de Nice
1122-1146
Bonifacè Rufus
4174-1205
*
SERIE II. Tom. XXXIX.
Boniface Boniface
de Riez de Galbdert
1226
1° = MIRON
999
Pons Miron Bermond
1011-1030 1042-1067
éveque Vicomte
de Nice de
Sisteron
Pierre Pons Rostaing
Milo Milo de Sistaro
c. 1075, Seigneurs
de Sisteron
** SERIE II. Tom.
Guillaume
|
Odila
= Boniface
de
Reillane
XXXIX.
Hieucvara Gerberge
1042 = Bérenger
= Amic Vicomte
Coseigneur de Sisteron
de Vence
Gisla Laugier Rufus Pierre
—= Rostaing de Nicia éeveque de Vaison
d’Apt @ 1046-1074 1040-1092
= Amantia
de Thorame Glandèves
Bertrand Raimbald Laugerzi
de Nicia
Potestas Niciae
1108
= Rixende d’Apt
Laugier Poncia
1113 = Guillaume Talon
Seigneur
de Chateaunev 77
Franco Raimbaldi
consul Nicensis
1152-1156
Potestas Niciae
VIEGCONEbE: i DEETINERGA:
2° = LAUGIER vector
Pl. II.
1002-1032
Raimbald Pierre Rostaing duvenis
de Nicia 1030-1046 de Greolières
1030-1046 cveque Vicomte
Coscigneur de Vence de Sisteron 1047-1067
ol css ___r__—————— Gee o rg
1° = Accelena
Rostaing Raimbald
Raimbaldi 1046
1046-1055 -
= Accelena
de Fréjus
Francus Guillaume Raimbaldi Frédol
Guillaume Assalit
Potestas Niciae
1108
i 1108
Raimbaldus
Paul Raimbaldi
consul Nicensis
1146
Tiburge
= Raimbaud Guiran
1180-1216
2° = Belieldis
3° = Adélaide
rr u———rr d (d0_10 14ÒÀ1_ INNI
1° = Calamite
Amie Guillaume Bertrand Raimbald
= Ermengarde 1062-1073
= Adélaide Comtesse
| |
Rodolphe Aldebert Isoard Isnard Raimbald Tiburge Rostaing Odila
1096 1144 Raimbaldi 1082
Comte d'Orange = Guillaume = Conrad
1108 Comte de Comte de
Potestas Niciae Vintimille Vintimille
Guillaume d'Orange
Raimbald
d'Orange
1175-1215
Tiburge
1126
= Guillaume
Comte de Montpellier
Omelas
Tiburge
= Bertrand de Baua
Raimbald d'Orange
Troubadour
1145-1173
—______________________________________ T.-TT,,T T®Y®ÈPPÈ*SP®È®ÈfYÈÈÈÈÈ®ÈÉÈÉTÉÈY“È
|
Tiburge
Adelmodis Guillaume del Cornas Bertrand de Baux Hugues
= Rostaing Prince d'Orange Seigneur d’ Andria = Barrale = Lambert Adhemar
de Sabran Troubadour Berre, de Marseille de Murvicil
1182-1218 Puy Ricard
Laugier Rostaîng
de Niza
(n e nno
2° = Ermengarde
Bertrand
|
Aldebert Jausserand Bertrand
Laugerii
Bertrand
Laugerti
Rostaing
Laugier
de Gréolières
1152
e ETTTTITT nnn91"9t9 0 ____—1_—_—_————111#1112112zx1111———11_____—_—_----—----+- —_+{_€TT__————————212#—124À224=@#@— —rTr@—@—@—@’@'c'um
Tiburgette
= Adhemar
de Murvieil
Raymond Athon
Tiburge
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INDICE
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CLASSE DI SCIENZE MORALI, STORICHE E FILOLOGICRE
La vita scientifica di Giorgio Curtius; Memoria del socio Domenico
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Trascrizione con traduzione italiana di due sermoni attribuiti, il
primo a S. Atanasio, Arcivescovo d’ Alessandria, il secondo a
S. Giovanni Grisostomo, Arcivescovo di Costantinopoli; da testi
copti appartenenti alla collezione egizia del Museo d’ Antichità
di Tonno daWSocio Prof Rrancesco Rossi... |... +.» 49
La scienza economica in Italia dalla seconda metà del secolo XVI
alla prima del XVII; Studi di Camillo Supimo . . . . ..» 453
Le XI° siècle dans les Alpes maritimes; Etudes généalogiques par E.
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Serie II. Tom. XXXIX. 50
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